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di MaxB
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40 ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43 ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44 ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45 ***
Capitolo 46: *** Capitolo 46 ***
Capitolo 47: *** Capitolo 47 ***
Capitolo 48: *** Capitolo 48 ***
Capitolo 49: *** Capitolo 49 ***
Capitolo 50: *** Capitolo 50 ***
Capitolo 51: *** Capitolo 51 ***
Capitolo 52: *** Capitolo 52 ***
Capitolo 53: *** Capitolo 53 ***
Capitolo 54: *** Capitolo 54 ***
Capitolo 55: *** Capitolo 55 ***
Capitolo 56: *** Capitolo 56 ***
Capitolo 57: *** Capitolo 57 ***
Capitolo 58: *** Capitolo 58 ***
Capitolo 59: *** Capitolo 59 ***
Capitolo 60: *** Capitolo 60 ***
Capitolo 61: *** Capitolo 61 ***
Capitolo 62: *** Capitolo 62 ***
Capitolo 63: *** Capitolo 63 ***
Capitolo 64: *** Capitolo 64 ***
Capitolo 65: *** Capitolo 65 ***
Capitolo 66: *** Capitolo 66 ***
Capitolo 67: *** Capitolo 67 ***
Capitolo 68: *** Capitolo 68 ***
Capitolo 69: *** Capitolo 69 ***
Capitolo 70: *** Capitolo 70 ***
Capitolo 71: *** Capitolo 71 ***
Capitolo 72: *** Capitolo 72 ***
Capitolo 73: *** Capitolo 73 ***
Capitolo 74: *** Capitolo 74 ***
Capitolo 75: *** Capitolo 75 ***
Capitolo 76: *** Capitolo 76 ***
Capitolo 77: *** Capitolo 77 ***
Capitolo 78: *** Capitolo 78 ***
Capitolo 79: *** Capitolo 79 - Epilogo ***
Capitolo 80: *** Capitolo 80 - Il Sogno di una Vita ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Buongiorno a tutti e grazie per essere qui^^
Volevo fare alcune premesse prima di lasciarvi leggere questa... malsana cosa che ho partorito. Come anticipato, i fatti si svolgono dopo il secondo libro e prima del terzo, ma in realtà non tiene conto del terzo. Né di alcuni particolari della storia originale. Quindi:
- SPOILER per il terzo libro: Thorn non porta nessuna armatura alla gamba. Sta bene, come se non fosse mai stato ferito. Tecnicamente potremmo dire che in prigione non ha mai incontrato Dio.
- Deviando dalla storia della Dabos, Thorn è stato riabilitato come Intendente, non ha più la marchiatura di bastardo, ed è dunque un rispettabile e importante cittadino del Polo, grazie a ciò che Ofelia ha rivelato a Faruk.
- La storia è una descrizione di vita coniugale, dunque nessuno cerca di svelare i misteri legati all'esistenza di Dio o altre cose strane. Thorn è Intendente, Ofelia ha il suo studio di lettura, la zia Roseline è con lei al Polo, Berenilde e Vittoria vivono nel loro castello, separati dai coniugi e da Roseline.
Non credo di dover aggiungere altro, se avete domande basta chiedere^^
Grazie a tutti e buona lettura (spero).


Capitolo 1

Ofelia salutò Berenilde, già pronta per tornare a casa, ma la piccola Vittoria non voleva proprio saperne di lasciare la madrina, nonché cugina, che tanto la faceva ridere con la sua goffaggine e la capacità di animare i piccoli giocattoli.
- Lasciatemela per questa notte, madama – propose Ofelia, - sapete che per me è un piacere poterla tenere.
Berenilde la guardò con una certa apprensione, cercando poi la zia Roseline con lo sguardo. Tra le due donne si era instaurato un rapporto di fiducia tale da rasentare un’intima amicizia, tanto che le due signore si parlavano apertamente senza usare forme di cortesia, dandosi direttamente del tu. La vedova non l’avrebbe mai ammesso apertamente, ma era chiaro che uno dei motivi principali per cui aveva deciso di rimanere al Polo, oltre che per amore di Ofelia stessa, fosse l’affetto crescente nei confronti di Berenilde e Vittoria. Prendersi cura delle tre signore era ormai la sua missione, la sua occupazione, il suo lavoro e il suo diletto.
Per quanto Berenilde non avrebbe potuto scegliere madrina migliore per la piccola Vittoria, che ormai aveva già compiuto due anni da un bel pezzo, era ancora restia a lasciarla in affidamento a Ofelia. La zia Roseline era sempre presente, certo, ma erano state troppe le volte in cui Ofelia aveva rischiato di cadere con la piccola in braccio per permettere a Berenilde di dormire sonni tranquilli lontani dalla figlia. E, consapevole degli errori commessi con i precedenti figli, sentiva un profondo, viscerale senso di colpa ogni volta che si allontanava dalla piccola senza motivi imprescindibili, come ricevimenti o convocazioni improrogabili.
- Magari un’altra volta, cara Ofelia – decise alla fine, irremovibile. – Tra qualche giorno dovrei avere un ricevimento privato con Faruk, e non sono sicura che sia richiesta anche la presenza di Vittoria. Però gradirei la presenza di Roseline questa sera, se non è troppo chiedere.
La zia, indaffarata con i giochi che la piccola e vivacissima bambina aveva seminato per la casa, alzò lo sguardo interdetta. – La mia presenza?
A disagio, Berenilde sembrava un’anguilla che cerca di sgusciare via, agitandosi nervosamente. Ofelia notò gli sguardi che la dama lanciava alla zia, ma non avrebbe saputo come interpretarli. Alla fine, quando si chinò per prendere in braccio la figlioccia che le tirava le sottane in cerca di attenzione, dedusse che il messaggio di Berenilde aveva raggiunto il destinatario, perché la zia le sfilò davanti, in imbarazzo, per raggiungere la signora dei Draghi.
- Certo, mia cara, sarò ben lieta di farti compagnia fino a domani. Andiamo, piccola Vittoria.
La bambina, rabbonita dal tono dolce della zia, che era innamorata di lei tanto quanto lo era Ofelia, passò da un grembo all’altro senza lamentarsi, per poi allungare le braccia grassocce verso la madre, e cambiare nuovamente seno.
Ofelia, spaesata, provò a protestare, ma i saluti di congedo delle dame non le permisero di indagare sul loro strano comportamento, e nel giro di un attimo si ritrovò sola nella grande stanza.
- Sono uscite?
Ofelia per poco non sobbalzò sentendo la voce di Renard alle sue spalle. Il suo consigliere sembrava avere un sesto senso che gli permetteva di entrare in scena proprio quando lei rimaneva sola. Probabilmente stava sviluppando un dono a sé stante, che non aveva a che fare con quelli delle altre famiglie di nobili del Polo.
- Sì – rispose Ofelia, riscuotendosi.
La sua voce era rimasta un sussurro che Renard aveva imparato a conoscere bene quasi quanto suo marito, che ormai era in grado di capire i suoi stati d’animo appena varcava la soglia di casa.
- Vi aiuto a sistemare. La piccola Vittoria è tanto adorabile quanto pretenziosa in fatto di giochi. Inutile dire che diventerà bella e viziata quanto la madama.
Ofelia si limitò a sorridere e dargli una mano in silenzio mentre la sciarpa, rilassata dopo la dipartita delle due signore e mezzo, si adagiava languidamente attorno a collo e spalle della padrona.
Dopo aver finito di riordinare, Renard si ritirò e Ofelia rimase da sola nel grande salotto del castello che Thorn le aveva donato come regalo di nozze. Il marito sarebbe dovuto rientrare a breve, ma una strana inquietudine la pervase. Non era un sentimento angoscioso che riguardava il marito, quanto… una malinconia indescrivibile che era andata crescendo dal momento in cui Berenilde e la zia Roseline se n’erano andate portando via Vittoria. Capitava spesso che la zia passasse la notte dalla signora di Faruk, ma non era la prima volta che le sembrava di essere esclusa da qualche… cospirazione tra le due.
Avrebbe dovuto indagare al riguardo, ma per il momento si limitò ad aspettare l’arrivo di Thorn per cenare.
 
Nei giorni successivi, l’irrequietezza di Ofelia andò aumentando, e la mancata comprensione dell’origine di quel sentimento la rendeva anche nervosa. Esaminando se stessa oltre alla zia Roseline e Berenilde, che vedeva confabulare discretamente quando pensavano che lei fosse distratta, notò che la presenza di Vittoria era l’unica in grado di calmarla.
In quel periodo, tra il censimento annuale e le pratiche di fine anno, Thorn lavorava spesso fino a tardi, nonostante la sollecitudine di Ofelia nel costringerlo a riposare un numero ragionevole di ore la notte, e il tempo passato da sola non l’aiutava certo a distendere i nervi. Anche il suo studio di lettura era chiuso per lavori di manutenzione, e l’inattività professionale a cui non era abituata la faceva sentire inutile e vuota.
Finché un giorno il suo fedele consigliere Renard le aprì gli occhi sulle macchinazioni delle sue signore più care.
Ofelia stava sistemando il soggiorno per tenersi occupata, borbottando con irritazione per non aver capito l’ennesima conversazione muta tra Berenilde e Roseline. La zia si era ritirata nelle sue stanze, declinando l’invito di Berenilde a stare da lei per la notte, ma qualcosa bolliva in pentola e Ofelia non riusciva ad identificare l’odore della pietanza che quelle due stavano cucinando.
- Credo sia inutile sprimacciare i cuscini nel tuo stato, ragazzo – la ammonì Renard, divertito.
Il nervosismo di Ofelia, in effetti, agitava il mobilio, e di conseguenza risultava ridicolo sistemare dei cuscini che nel giro di pochi secondi iniziavano a scontrarsi tra loro e accartocciarsi.
- Sono giorni che i tappeti mi fanno lo sgambetto e gli orologi segnano ore improbabili o rintoccano quando li aggrada. Volete dirmi cosa vi passa per la testa?
Ofelia si sedette sul divano, massaggiandosi le tempie, per poi alzarsi poco dopo, quando i cuscini ingaggiarono una battaglia con la sua fedele sciarpa.
- Penso che madama Berenilde e la zia Roseline stiano… confabulando, o architettando qualcosa alle mie spalle, ma non saprei direi cosa…
- Oh, quello… - la interruppe Renard con l’aria di uno che la sa lunga. La sua espressione divertita non prometteva nulla di buono.
Ofelia assottigliò gli occhi, esasperata: - Sputate il rospo, Renold.
Renard non poté fare a meno di ridacchiare prima di rispondere. – Stanno solo cercando di… ecco… come dire… creare l’atmosfera, la circostanza, chiamatela come volete, per lasciarvi sola con il signor intendente e… be’, darvi da fare per proseguire la discendenza.
Gli occhiali di Ofelia divennero rossi come non lo erano mai stati e la sciarpa si agitò convulsamente, fendendo l’aria come alla ricerca di fuga.
- Non agitarti così, io ho solo riferito i piani delle due madame, ragazzo.
- Gr-grazie, Renold – balbettò Ofelia, prima di allontanarsi lasciando alle spalle un salotto sul piede di guerra.
Che gli altri si aspettassero dei figli da loro era normale, ma questo non rendeva la questione meno imbarazzante. Scivolando a sedere per terra, contro il muro, Ofelia si nascose il viso tra le mani e aspettò che le passasse il batticuore.
Avere dei figli con Thorn…
Una nuova vampata di calore l’assalì, costringendola a togliersi sciarpa e occhiali per farli calmare.
Persa com’era nelle sue elucubrazioni, si accorse dell’ombra che la sovrastava solo quando questa le oscurò la luce.
Thorn torreggiava su di lei con sguardo impassibile come sempre, che però tradiva una certa perplessità.
- Ofelia?
Sentire il suo nome pronunciato con così tanto scioltezza la fece rabbrividire, e Ofelia si alzò con foga inciampando nelle frange del tappeto che stavano ballando in maniera convulsa.
Le braccia di Thorn la afferrarono immediatamente, ormai abituate e reggerla per evitarle cadute accidentali dovute alla sua poca coordinazione.
A disagio, quando Ofelia capì che il marito non aveva intenzione di lasciarla, indietreggiò di un passo per poterlo guardare negli occhi. Lui la scrutava, inflessibile, con il suo metallico sguardo da rapace e le sopracciglia aggrottate. Nonostante l’addolcimento dei tratti che Ofelia aveva notato in lui durante quei due anni di matrimonio, il viso spigoloso e gli occhi gelidi non erano cambiati ed erano ancora capaci di terrorizzare la maggior parte degli abitanti del Polo. Ma il viso che mostrava alla moglie, quando erano insieme, era più vicino al rilassamento di quanto Ofelia si sarebbe mai aspettata.
- Stai bene?
C’era voluto un anno perché riuscissero a mettere da parte le formalità e darsi del tu, su espressa richiesta di Thorn. Era successo di fronte ad un piatto di minestra, in pieno inverno; Ofelia lo stava rimproverando per la sua mancanza di “adeguato riposo” con più fervore del solito.
Thorn, impassibile come sempre di fronte ai rimbrotti della moglie, aveva posato il cucchiaio e giunto le mani di fronte a sé, sul tavolo. Poi l’aveva scrutata con tanta intensità da metterla a disagio.
- Possiamo evitare di darci ancora del voi, Ofelia? Lo trovo inadeguato alla nostra situazione.
Interdetta, Ofelia lo aveva fissato senza battere ciglio. Dopo un silenzio interminabile, allo sgomento era succeduta l’irritazione. – Questa è la vostra risposta al mio monologo sul vostro fabbisogno di dormire?
Il viso di Thorn era stato attraversato da un unico, impercettibile movimento all’angolo della bocca, che Ofelia aveva catalogato come un divertito tentativo di sorridere. Forse. Nemmeno gli occhi e la fronte perennemente aggrottata aveva smosso. – Sì, perché siete mia moglie, condividiamo il letto coniugale da mesi e mi fate perenni raccomandazioni e ramanzine come una madre ad un figlio, e ci diamo ancora del voi. Non trovi la questione un poco insensata, Ofelia?
Erano poche le volte in cui il marito usava il suo nome, e quelle volte era sempre in grado di farla arrossire e appannarle gli occhiali di un tenue e romantico rosa. Dopo aver rovesciato la saliera e il bicchiere, fortunatamente vuoto, Ofelia si era ricomposta e aveva convenuto che forse sì, era il caso di abbandonare certe formalità non più richieste. Ci era voluta una settimana per abituarsi a dargli del tu, e tra balbettii confusi e gote rosse d’imbarazzo, Ofelia avrebbe giurato di aver visto più volte una luce divertita negli occhi del marito.
Una leggera scossa alle braccia da parte di quest’ultimo la riportò alla realtà, facendole assumere un’aria ancora più smarrita.
- S-sì – balbettò in risposta alla sua domanda, raddrizzandosi e rassettandosi i vestiti. – Sei tornato presto – cambiò argomento, dicendo la prima cosa che le venne in mente.
Thorn, senza staccarle gli occhi di dosso, tirò fuori l’orologio che faceva parte di lui come la sciarpa e gli occhiali appartenevano a lei, e glielo mise di fronte al naso. – Sono in perfetto orario. Com’è possibile che tu sia così turbata da non notare il mio rientro?
Ofelia incespicò sui suoi stessi piedi. Di solito aspettava Thorn in sala da pranzo, di fronte alla cena già pronta e servita, e si accomodava con lui al rintocco della campana, un rituale che gli aveva imposto per controllare che mangiasse a sufficienza e successivamente si coricasse ad un orario decente. La rivelazione di Renard doveva averla destabilizzata più del previsto.
- Non sei turbato. Cioè, io non sono turbata – farfugliò a mezza voce, saltellando da un piede all’altro. – Stavo per… accompagnarti in sala da pranzo.
Girandosi sui tacchi, Ofelia si incamminò verso il salone, consapevole dello sguardo indagatore e poco convinto che le perforava la schiena. Sarebbe stata una cena difficile, e per una volta Ofelia rimpianse che quella sera Thorn non avesse faccende urgenti da sbrigare.
 
Ofelia resse per quasi un mese. Resistette alle lettere allusive di madre e sorella, che le chiedevano quando avrebbero potuto salutare il nuovo nipotino, incitandola così a darsi da fare in quel senso; ignorò le macchinazioni di Berenilde e della zia Roseline, finse di non vedere le occhiate divertite di Renard e mise a dura prova la pazienza di Thorn, ma alla fine riuscì a non dare importanza a quei messaggi insinuatori.
O così diede a vedere.
Più di ogni altro commento, occhiata, piano o lettera, fu Vittoria a fare la maggior parte del lavoro sporco. Quel mese Ofelia dovette tenerla con sé per due o tre notti, a causa di alcuni impegni improrogabili di Berenilde, e la dolcezza della bimba le penetrò dentro come se Ofelia fosse stata uno specchio e Vittoria l’animista in grado di attraversarlo. Il suo bisogno di guida, cure e attenzioni la intenerivano e la facevano sentire utile, amata e apprezzata. I sentimenti di affetto della bambina erano reali, sinceri e puri, così lontani dagli artifici e dalle illusioni di corte. Vittoria chiedeva senza pretendere, senza ricatti né minacce, nel più naturale dei modi. Anche Thorn le si era affezionato, sebbene lo desse a vedere a stento e i domestici si irrigidissero ogni volta che la bambina lo disturbava, temendo magari qualche spazientito colpo di artigli. Ma mai Thorn si era rivolto alla piccola con mancanza di delicatezza o con modi bruschi, nemmeno quando Vittoria gli tirava i pantaloni mentre lui leggeva sul divano, o quando chiacchierava senza freno nel momento in cui a lui serviva silenzio, o quando era costretto a schivare i suoi giochi sparsi disordinatamente per tutto il salone. Lui era per la quiete, per l’ordine, per la routine, non per i marmocchi.
Thorn aveva già detto a Ofelia di non volerne, molto tempo prima, quando erano ancora due sconosciuti l’uno per l’altra, e lei aveva rivelato di non voler condividere nemmeno il talamo nuziale con lui.
Quella seconda affermazione era stata ormai infranta. Ofelia sperava che Thorn ritrattasse la prima.
Perché le altre donne avevano capito la natura della sua insoddisfazione prima di lei: Ofelia desiderava un figlio.
Ma non avrebbe mai trovato il coraggio di sottoporre la questione al marito.
 
Poco tempo dopo, una sera, Thorn si sdraiò come di consueto a letto di fianco ad Ofelia, che si svegliò a causa del sonno leggero. Bastavano il movimento del marito per la stanza e il fruscio degli indumenti che si sfilava con cura per farle aprire gli occhi, ma Ofelia gli dava le spalle e fece finta di continuare a dormire. Sapeva che era molto tardi, anche se non aveva la vista così buona da poterlo appurare leggendo la pendola di fronte a sé, però non avrebbe potuto sgridare il marito se non rivelando che si era svegliata. Thorn odiava trascinarla fuori dal sonno senza un buon motivo, e cercava sempre di fare più piano che poteva.
Le ci volle tutta la buona forza di volontà di cui era capace per non muoversi e tradirsi quando lui si coricò, facendo muovere tutto il letto adattato per poter ospitare la sua smisurata altezza. Aspettò che si sistemasse per poter riprendere a respirare, temendo che il suo fiato potesse tradirla, ma le cose non andarono come previsto.
Quando Thorn la cinse con il braccio freddo e la trascinò contro il suo petto caldo, i polmoni le si svuotarono rumorosamente. Sentiva il contrasto tra la mano gelida premuta contro il suo addome, quella frescura che nemmeno la vestaglia riusciva ad isolare, e il suo corpo bollente. Thorn aveva sempre gli arti freddi e il corpo caldo, e dormiva a petto nudo per non dover sopportare anche di notte la costrizione degli indumenti; la divisa da intendente era già abbastanza scomoda da dover portare per la maggior parte della giornata.
Nonostante Ofelia fosse ormai abituata ai loro contatti fisici, quell’improvvisa vicinanza la fece arrossire fino alla punta dei capelli, e sentì le coperte iniziare a tremare leggermente, mentre le venivano in mente, passo dopo passo, i progressi che avevano fatto sotto quell’aspetto…

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Ecco il secondo capitolo. Una specie di flashback legato al capitolo 1, quando Ofelia ricorda in che modo lei e Thorn sono riusciti a diventare più intimi...
Grazie mille a chiunque leggerà, spero che il capitolo vi piaccia^^


Capitolo 2

Avevano imparato a condividere le loro notti molto prima che a darsi del tu. Ofelia trovava quasi più intimo sentirlo rivolgersi a lei con informalità, da pari a pari, che dormire con lui. O toccarlo…
Si erano concessi del tempo. Della calma. Thorn era una persona paziente, con Ofelia. Dava a chiunque poca rilevanza, era impassibile con tutti, non aveva preferenze o idiosincrasie troppo radicate, semplicemente non si fidava di nessuno, ma Ofelia esercitava su di lui un’ascendente che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Si aggiornava sui suoi pareri, su ciò che faceva durante il giorno o allo studio di lettura, su come stesse, e l’ascoltava davvero, sinceramente interessato. Non lo dimostrava con le espressioni, ad un occhio esterno sarebbero potute apparire domande di prassi di poco conto, ma Ofelia sapeva che non avrebbe mai rivolto quelle attenzioni ad una persona qualsiasi, a qualcuno di cui non gli importasse. E questo la lusingava. Aveva imparato a metterlo a parte dei suoi dubbi e tormenti e sapeva, sentiva che lui teneva in gran considerazione tutto ciò che diceva. Ogni tanto le faceva addirittura visita al suo studio, dicendo che era di passaggio e voleva assicurarsi che tutto fosse condotto in regola. Come se non avesse provveduto lui stesso a regolarizzare ogni postilla o comma della sua attività.
Il primo gesto romantico, del tutto inatteso, si verificò dopo due mesi dal ritorno di Thorn. Era passato diverso tempo dal loro matrimonio, ma dal momento che erano stati insieme solo poche ore dopo la funzione, e fino al suo ritorno, era come se fossero passati due mesi dallo stesso matrimonio. Ofelia aveva distrattamente accennato ai fiori di Anima, un pomeriggio trascorso con la zia Roseline, Berenilde e Thorn, e la zia aveva narrato di come fossero belli, colorati e profumati, mentre al Polo non ne crescevano di decenti nemmeno sotto le migliori illusioni. Ofelia aveva sentito gli occhi di Thorn su di sé, ma quando aveva incrociato il suo sguardo, lui si era alzato e congedato. Aveva dato poca importanza alla cosa, del resto era disinteressato alle chiacchiere da salotto. Ma poche sere dopo si era presentato a cena con un mazzo di fiori variopinti e freschi. Veri.
Li aveva posati sul tavolo da pranzo, mentre Ofelia li fissava interdetta, e alla fine Thorn aveva fulminato con lo sguardo la domestica che, a bocca aperta, li fissava e non accennava ad andarsene.
- Vi ho… - aveva mormorato lui, schiarendosi poi la voce per ricominciare. – Ho pensato di portarvi un piccolo dono. Non abbiamo avuto un matrimonio convenzionale e pensavo di…
La sua voce si spense. Ofelia non accennava ad alzare gli occhi. Quando riuscì a guardarlo, lo trovò profondamente a disagio, intento a fissarla, immobile, frugando nella sua espressione sbalordita.
- Ad ogni modo sono per voi.
Ofelia non era riuscita a dirgli nulla. Non un ringraziamento, non un complimento, non un convenevole. Aveva spostato delicatamente i fiori, con la paura di rovinarli, e avevano mangiato in silenzio, mentre la domestica li serviva fissandoli come se avesse scorto per la prima volta la loro indole innaturale, e si fosse resa conto di dover servire due bestie polari piuttosto che due coniugi.
Divorata dal senso di colpa, dopo la cena Ofelia aveva preso i fiori, li aveva annusati e si era commossa nel profondo per la loro presenza lì. Per il gesto e l’attenzione di quell’algido e impenetrabile marito.
Aveva raggiunto di corsa la camera degli ospiti dove dormiva, separato da lei, e dopo aver sbattuto contro vari mobili era arrivata di fronte a lui proprio mentre questi stava per aprire la porta e sparire al suo interno. Aveva perso l’equilibro, e con i fiori in mano sarebbe caduta lunga distesa, schiacciandoli, se Thorn non l’avesse afferrata per le braccia e aiutata. Quando aveva riacquistato l’equilibrio, si era affrettato a togliere le mani.
Ofelia lo aveva osservato con il fiatone, e lui aveva aspettato in silenzio, senza battere nemmeno le palpebre. Senza respirare.
- Grazie – gli aveva detto di slancio, senza preamboli.
Dietro l’angolo, nascosto, Renard si sarebbe voluto pizzicare una guancia dall’insoddisfazione. Se il suo compito era quello di consigliare e fornire opinioni, per quale motivo Ofelia non lo consultava nel momento del bisogno?
- Per i fiori, intendo – aveva precisato dopo alcuni attimi di rigida quiete. – Il vostro è stato davvero un gesto inaspettato e… molto gradito. Mi sento in dovere di ricambiare, ma non so come potrei…
Le labbra di Thorn, che si era chinato senza che lei se ne accorgesse, con un interminabile piegamento di colonna vertebrale per raggiungere lei, così piccola, avevano coperto le sue con delicatezza e trepidazione.
Ofelia non aveva avuto il tempo di reagire, non aveva capito se il gesto di Thorn fosse un tentativo di zittirla, di prendersi la sua ricompensa per il gesto, o solo un ghiribizzo, una voglia da togliersi.
Ricordava ancora il primo bacio che si erano scambiati. O meglio, il bacio che lui aveva tentato di prendersi, e lei aveva brutalmente rifiutato. Aveva compreso dal tocco leggero delle labbra di Thorn che anche lui ricordava l’evento, e per questo le stava dando il tempo di rifiutarlo senza ricorrere alla violenza. Non voleva scottarsi di nuovo. Ma Ofelia non aveva rifiutato. Aveva cercato di ricambiare il bacio, con timidezza, aiutata dal fatto che anche Thorn non era un esperto baciatore. L’inesperienza li aveva resi impacciati, ma questo non era bastato a spegnere la fiammella che ardeva nei loro cuori duri e ostinati, ognuno a modo proprio.
Thorn si era staccato silenziosamente e improvvisamente come si era chinato e, dopo essersi raddrizzato, si era schiarito la voce e le aveva augurato la buonanotte senza incrociare il suo sguardo. Ofelia era rimasta a lungo davanti alla sua porta chiusa, in silenzio, con in mano i fiori schiacciati dai loro corpi, a chiedersi cosa fosse successo. Alla fine era andata a dormire meccanicamente, sognando Thorn e un altro bacio.
La sera successiva, a tavola, Ofelia non era riuscita a proferire nemmeno una parola. Cosa avrebbe potuto dire ad un marito che non toccava, che non vedeva da più di due anni, però le aveva regalato dei fiori e poi l’aveva baciata? Ofelia avrebbe voluto un manuale di istruzioni che le spiegasse come comportarsi. Aveva pensato di sfruttare il vissuto della zia Roseline al riguardo, ma la cosa sarebbe stata imbarazzante. E Berenilde le avrebbe detto di portarselo in camera e rimanere impegnati fino al mattino successivo.
Persa nelle sue elucubrazioni, Ofelia era giunta di fronte a camera sua un po’ torturandosi le mani e un po’ cercando di calmare la sciarpa, e non si era resa conto della presenza di Thorn finché non ci aveva praticamente sbattuto contro.
- Vi ha dato fastidio ciò che è accaduto ieri? – le aveva chiesto senza mezzi termini, inchiodandola con il suo sguardo d’acciaio.
Ofelia, imbarazzata, aveva mormorato che no, non le era dispiaciuto.
- Ho il permesso di rifarlo, allora?
A corto di parole, e di fiato, lei aveva solamente annuito e chiuso gli occhi in attesa del bacio.
Da quella volta, Thorn l’aveva sempre aspettata di fronte alla porta della sua camera, per darle la buonanotte con un bacio che, in silenzio, diventava sempre più lungo e disinvolto, naturale e caldo.
Le sue mani avevano imparato a poco a poco a circondarle il volto o la vita per tenerla stretta a sé, come lei si aggrappava alla sua camicia o passava le mani tra i capelli chiarissimi.
Alla fine si staccavano, le prime volte senza guardarsi, con la fretta di tornare in camera, le volte successive con calma, condividendo i respiri prima di separarsi, guardandosi con una nuova luce negli occhi.
Una volta la zia Roseline, passando furtivamente per il corridoio, li aveva sorpresi, ed era rimasta ad osservarli sbalordita per alcuni attimi. Quando si era schiarita la voce per annunciare la sua presenza, i due si erano staccati così brutalmente che Ofelia aveva rischiato di perdere l’equilibrio. Thorn l’aveva afferrata saldamente per il braccio, e poi l’aveva lasciata subito, come se si fosse bruciato.
- Miei cari, se qualcuno mi avesse detto che vi avrei riferito le parole che ora sto per dirvi, prima che vi sposaste, avrei fatto rinchiudere questo qualcuno in una clinica, sotto l’attenzione di rinomati psicanalisti. Ma, per l’amor del cielo, siete sposati, e il mio ruolo di chaperon è terminato, quindi… prendetevi una stanza, per tutti i dizionari!
 
E la stanza se l’erano presa.
Per dormire…
Tre giorni dopo il caustico commento della zia Roseline, Ofelia aveva sentito per caso i domestici pettegolare sulla loro vita privata. I coniugi dormivano in camere separate, tutti lo sapevano, persino le alte sfere della corte lo sapevano, a causa del chiacchiericcio e dei muri con le orecchie, e qualcuno vociferava che addirittura il matrimonio non fosse stato consumato.
Deduzione corretta.
Quando aveva sentito un altro commento era con Renard, che aveva fatto finta di nulla e non aveva proferito parola. Anzi, si era zittito nel bel mezzo del discorso che stava facendo.
Quando, quella sera, Ofelia aveva raggiunto la soglia di camera sua, trovando Thorn in attesa come una statua, si era ritratta quando lui si era chinato per baciarla.
Con le sopracciglia aggrottate, leggermente confuso, era rimasto in attesa di spiegazioni, che sapeva Ofelia gli avrebbe fornito con i suoi tempi.
Stringendo i pugni, e guardando tutto fuorché i suoi occhi, gli aveva proposto di dormire con lei.
Se Thorn non fosse stato tanto bravo a nascondere reazioni e sentimenti, Ofelia avrebbe giurato di averlo visto vacillare leggermente.
- Dormire con voi?
- Sì – aveva sussurrato lei con un filo di voce. – In camera con me. In camera nostra, insomma. La corte rende la nostra vita privata troppo oggetto di pettegolezzo. Se cominciassimo a dormire insieme, probabilmente si placherebbero. Nessuno, oltre a noi due, saprà mai cosa succederà dentro questa camera.
- E cosa succederà dentro questa camera?
Ofelia era avvampata e aveva dovuto prendere dei respiri profondi prima di rispondere. – Dormiremo.
In silenzio, Thorn aveva girato i tacchi e si era allontanato, chiudendosi in camera sua.
Ancora preda dei tremiti di ansia per la proposta indecorosa che aveva avanzato, nonostante fossero sposati, Ofelia lo aveva imitato e si era buttata a letto, raggomitolandosi. Non avrebbe saputo dire se la morsa che le opprimeva il petto fosse causata dal calo di tensione o… dalla delusione. Dal senso di rifiuto.
Era ancora sdraiata quando, pochi minuti dopo, aveva sentito bussare alla porta.
Thorn era sulla soglia, con alcuni indumenti accuratamente piegati in mano.
La sua presenza aveva colto Ofelia così di sorpresa da lasciarla senza parole.
Thorn si era dovuto schiarire la voce per chiederle se l’invito era ancora aperto, dato che lei non lo invitava ad entrare.
Si erano mossi per la stanza come automi in procinto di esaurire la carica, muovendosi a scatti e con movimenti prima lenti e subito dopo rapidi e agitati. O così si era mossa Ofelia, almeno.
Thorn era andato a cambiarsi in bagno senza imbarazzo o tentennamenti, e ne era uscito con la divisa da intendente in mano, ben piegata. L’aveva poi posata fuori dalla porta.
Ofelia non sapeva se essere più confusa dal suo gesto o dalla vista di Thorn a petto nudo. Indossava solo un paio di pantaloni larghi, troppo corti per lui, di morbido cotone. Senza curarsi di lei, era andato sotto le coperte e si era sdraiato, non prima di aver guardato l’orologio da taschino, che aveva poi posato sul comodino. Aveva regolato la sveglia e non si era più mosso.
Destabilizzata, Ofelia era andata a lavarsi i denti in modo meccanico, per poi prendere posto accanto a lui. Tra di loro, nel letto, ci sarebbe potuto passare un dirigibile. Entrambi erano consapevoli del fatto che l’altro non dormiva. Impercettibili movimenti e i respiri irregolari erano come piccole conversazioni sussurrate. Lei voleva chiedergli per quale motivo avesse posato l’uniforme fuori dalla porta, e perché ce ne fosse una identica sulla sedia, stirata e profumata di bucato. Ma non aveva avuto il coraggio di dar voce a quelle domande. Era passato un tempo che a loro era parso interminabile quando si addormentarono. E quando Ofelia si era svegliata aveva trovato il letto vuoto.
La sera successiva aveva trovato il coraggio di chiedergli dell’uniforme. Lui si era già coricato, di nuovo a petto nudo.
- Quella fuori deve essere lavata e stirata. La domestica me la farà trovare domani pomeriggio in camera. Quella sulla sedia è l’uniforme che devo indossare domani mattina – aveva spiegato semplicemente, senza nemmeno girarsi a guardarla.
Lei era in piedi di fianco al letto, con la vestaglia lunga e gli occhiali storti sul naso, in attesa di essere tolti.
- E… come mai dormite a petto nudo?
Per calmare l’agitazione aveva bevuto due bicchieri di vino a tavola, che le avevano sciolto la lingua.
Sempre senza girarsi, Thorn aveva risposto: - Perché anche la maglia del pigiama mi è piccola. E sono costretto a portare indumenti scomodi tutto il giorno, quando dormo non desidero costrizioni. Buonanotte.
Chiusa la conversazione, Ofelia si era tolta gli occhiali e la sciarpa e si era sdraiata per dormire. Al contrario di Thorn, si era addormentata subito.
La notte seguente, Thorn si era avvicinato a lei, che era ancora in piedi dalla sua parte di letto, e l’aveva baciata dopo essersi sollevato sulle lunghe braccia. Senza riflettere, Ofelia gli aveva messo le mani sul torso, com’era abituata, ma le aveva subito ritratte quando si era resa conto che non poteva afferrare i bordi della giacca da intendente.
Quel bacio era durato più del previsto e, quando si erano separati, Ofelia aveva visto i suoi occhi brillare. Sdraiatisi a letto, questa volta l’uno verso l’altra, avevano allungato le mani per intrecciarle, e si erano addormentati subito.
Qualche giorno dopo, invece, Ofelia si era destata con la testa premuta sul suo petto e un braccio e una gamba avvinghiati a lui. Si era svegliata confusa e disorientata, e quando la sciarpa le aveva allungato gli occhiali, aveva spostato la testa e incontrato gli occhi metallici di Thorn, diventato una scultura di marmo contro il suo corpo. Ofelia si era resa conto della situazione equivoca e, paonazza e agitata come non mai, si era affrettata ad allontanarsi, dandogli anche un calcio nella foga di mettere distanza tra di loro. Ma Thorn l’aveva fermata per il braccio e, piegandosi, l’aveva baciata e le aveva accarezzato i capelli con delle dita leggere come piume.
- Cos’è successo? – aveva chiesto Ofelia quando si erano separati.
- Avete avuto un incubo. Vi siete dimenata e mi avete svegliato. Vi ho scossa leggermente per farvi riavere, ma voi vi siete girata e… vi siete raggomitolata. Contro di me. Poi vi siete un po’… - si era zittito, alla ricerca della parola giusta, - …allargata.
Non le aveva detto che quel contatto non lo aveva disturbato, anzi, o che era rimasto sveglio per godersi il tepore del suo corpo.
- Po-potevate svegliarmi e allontanarmi – aveva balbettato lei, che non sapeva dove guardare.
- Non mi avete dato fastidio. Penso che abbiate avuto freddo ad un certo punto, dunque avete cercato involontariamente una fonte di calore – l’aveva giustificata con una voce che di caldo aveva ben poco.
Ma Ofelia aveva capito che non era arrabbiato. La stava ancora trattenendo gentilmente per il braccio, contro di lui.
- Avete dormito bene lo stesso?
Thorn l’aveva squadrata in silenzio, fissandole prima l’attaccatura dei capelli scarmigliati, poi le sopracciglia, il nasino, le labbra, le guance, il mento e infine gli occhi.
- Poche volte ho dormito bene come questa notte – aveva ammesso senza vergogna.
Poi era uscito dal letto ed era andato in bagno, uscendone alcuni istanti dopo vestito e sbarbato di tutto punto. Ofelia era rimasta immobile, lusingata e confusa, e lo aveva guardato mentre la osservava in silenzio prima di uscire.
 
Dopo due sere passate a non guardarlo nemmeno per la vergogna, e per il disagio di non sapere come comportarsi, Thorn si era girato dalla sua parte non appena lei si era coricata, e l’aveva tirata a sé, abbracciandola. Le ci erano voluti due minuti per calmare il respiro e smetterla di restare in apnea, ma il cuore le batteva talmente forte che lei aveva temuto che Thorn potesse sentirlo.
Lui aveva il naso seppellito nei suoi capelli e l’aveva tenuta stretta, senza muoversi.
Quando Ofelia lo aveva chiamato con una vocina minuscola, lui non aveva risposto, si era solo staccato per allontanarla un po’ e baciarla.
Ofelia, a distanza di mesi, non sapeva ancora spiegare come lui le fosse finito sopra, o come lei avesse trovato il coraggio e la spudoratezza di allacciargli le gambe in vita, di ansimare e stringersi a lui, di baciarlo, accarezzarlo e lasciargli fare lo stesso a lei.
C’era voluta una settimana per riuscire a consumare interamente il matrimonio, e un mese perché Ofelia smettesse di arrossire vistosamente e balbettare in sua presenza. Thorn, da parte sua, non era sembrato minimamente turbato. Forse meno rigido, più rilassato, più presente in casa. I suoi ritardi avevano iniziato a diminuire, come i suoi modi bruschi, e aveva cominciato a scambiare più di due parole d’obbligo con la zia Roseline.
Non si poteva certo dire che fosse un tipo romantico, affettuoso, socievole o simpatico, ma persino Renard si era accorto del lieve cambiamento.
- Sembra che il matrimonio giovi fortemente alla tempra del signor intendente – aveva esordito un giorno con Ofelia, che stava cercando di effettuare una perizia particolarmente ostica nel suo studio.
Lei aveva mormorato un assenso senza curarsi di ciò che il suo consigliere e amico le stava dicendo.
- Pare che abbia trovato come… uno sfogo. È più sereno, non ha i nervi a fior di pelle come una volta. Voi gli fate bene al cuore.
Ancora, Ofelia non lo aveva ascoltato, ed era andata avanti con la lettura, concentrandosi sul passato di un piccolo anello intoccato da anni.
Alla fine Renard, divertito, le aveva bisbigliato all’orecchio: - Allora, ragazzo, è bravo a letto?
Ofelia era caduta dalla sedia, lanciando in aria l’anello, che era atterrato nessuno sapeva dove.
Balbettante, erubescente e più goffa del solito, aveva ordinato a Renard di ritrovarle subito l’anello, e se n’era andata fuori, nell’aria pungente del Polo, per raffreddare la temperatura delle sue guance, ormai prossime alla combustione come il resto del suo corpo.
Il suo “consigliere” aveva sghignazzato nonostante l’ardua impresa di ritrovare l’anello, che aveva portato a termine mezz’ora dopo. Ofelia gli aveva tenuto il muso tutta la serata, innervosita, e non aveva rivelato nemmeno a Thorn, a cena, il motivo del suo turbamento.
Renard però aveva comunque ottenuto risposta al suo quesito quando, quella notte, era passato casualmente in modo involontario davanti alla porta della camera da letto di Ofelia, che era diventata la camera di entrambi ormai ufficialmente.
I suoni attutiti che aveva intercettato al di là della porta e l’espressione serena della sua padrona il giorno dopo gli avevano confermato che il signor intendente era bravo nel suo lavoro quanto nel matrimonio. O per lo meno nella parte riguardante i doveri coniugali.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ecco il capitolo terzo! Si ritorna al presente dopo la digressione in flashback del capitolo 2.
Spero che vi piaccia, anche se so che non sarà mai una scena realistica (mi trattengo dall'aggiungere altro per non spoilerare chi-come-cosa-quando). Però avevo bisogno di scriverla e muoio dalla voglia di vedere Thorn in versione papà. Secondo me sarebbe bravo, si ammorbidirebbe un sacco.
Grazie a chi legge e a chi mi farà sapere cosa ne pensa^^


Capitolo 3

- Ofelia? – la richiamò Thorn, strappandola alle sue reminiscenze.
- Mh? Cosa? – mormorò lei, rannicchiandosi contro di lui. Nessuno dei due era tipo da coccole, ma il corpo del marito era sempre caldo e lei non poteva che sentirsene attratta.
- Ho chiesto due volte cosa ti turba. Lo so che non stavi dormendo.
Il suo sussurro profondo e cavernoso le riverberò contro la schiena, solleticandola.
- Non sono…
- Non dire che non sei turbata. È da giorni che inciampo in tappeti irrequieti, che le posate tintinnano innervosite e che i cuscini tremano. Per non parlare delle coperte che mi scoprono senza motivo. So che c’è qualcosa che non hai il coraggio di dirmi.
Ofelia aveva la bocca secca. Cosa poteva rispondergli? Che voleva un figlio? Era una richiesta troppo audace, e sapeva che lui avrebbe risposto di no. Odiava i bambini. Nei confronti di Vittoria era tollerante, ma solo perché era sua cugina ed era incredibilmente tranquilla. Però vedeva che si sentiva disturbato quando era immerso nelle sue faccende e la bambina reclamava la sua attenzione.
- Prima o poi dovrai parlarmene. Spero quanto prima, perché rischio di essere seriamente danneggiato dall’arredamento.
Ofelia sapeva che stava cercando di smorzare la tensione e spronarla ad aprirsi, ma la voce non voleva saperne di uscire e la sciarpa, appallottolata ai suoi piedi, la distraeva col suo dimenarsi furioso. Sospirando impercettibilmente, con un movimento repentino e quasi aggraziato, Thorn si mise seduto, prese la sciarpa e la lanciò sulla sedia dall’altra parte della stanza, dove atterrò appallottolata e oltraggiata. Ofelia scattò a sedere con lui. Era lei quella che avrebbe dovuto sopportare il suo malumore il giorno dopo.
- Ma cosa ti…
Non riuscì a concludere la domanda espressa con tono irritato nonostante il filo di voce, che si ritrovò sdraiata supina con Thorn a torreggiare su di lei, appoggiato ai gomiti. I loro toraci si sfioravano mentre respiravano, e Ofelia, che tratteneva il fiato, cercò per lo meno di inspirare quando lui espirava, per non doverlo toccare più del dovuto. Anche se avrebbe voluto farlo, era arrabbiata, e doveva limitarsi e farglielo capire.
- Perché non mi parli? – le chiese.
Lei distolse lo sguardo dal contorno fin troppo poco sfocato del suo viso. Era così vicino da riuscire a vederlo anche senza occhiali, ma non sopportava la pressione di quegli occhi argentei nella penombra della stanza. Thorn le baciò la fronte, il mento, il collo e la parte superiore del petto, facendola ricadere nell’apnea. Non se l’aspettava. Di solito non era così diretto. Sebbene si… intrattenessero più di una volta la settimana, di solito, Thorn non era un gran elargitore di baci o di carezze. Di abbracci sì, però. Era come se durante i loro amplessi non riuscisse a sentirla abbastanza vicina, come se volesse stringerla per farla entrare dentro di sé. Ofelia amava quei momenti, in cui era protetta e al riparo da qualsiasi cosa, amata e scaldata dentro. Il bisogno di Thorn di sentirla accanto dipendeva dalla sua algida infanzia, e Ofelia aveva ben presto capito che quelli che aveva scambiato con lei erano stati i primi e unici contatti fisici da quando era nato.
Con un rapido movimento le sfilò la camicia da notte dalla testa, senza incontrare resistenza a causa del muto stupore della moglie, lasciandola scoperta e indifesa.
- Allora? – la incalzò. - Tu mi torturi con il silenzio. Io ti faccio sentire cosa provo.
Confusa, Ofelia batté le palpebre. – Non pensavo che il silenzio avesse un effetto afrodisiaco.
La bocca di Thorn ebbe un leggerissimo guizzo laterale, cosa che lei notò: era divertito, nonostante gli occhi da sparviero fossero gelidi.
- Non in quel senso. Intendo dire che tu mi torturi con il tuo silenzio, e io ti torturo in un’altra maniera.
Nei minuti, o nelle ore, Ofelia non avrebbe saputo dirlo, che seguirono, Thorn non le rese facile parlare, e lei ricambiò con la stessa moneta.
 
La mattina successiva, quando si svegliò, Thorn le diede un lievissimo bacio sulle labbra prima di andare al lavoro.
Ofelia fece colazione in silenzio, imbarazzata con se stessa, e persino la sciarpa sembrava aver scordato l’offesa della sera prima. Oppure, respirando l’umore della padrona, era appagata e non più sul piede di guerra.
Quando la zia la salutò, avvampò di vergogna e le andò di traverso il tè. Corse in bagno a darsi una sistemata, e a rinfrescarsi, sotto lo sguardo perplesso e leggermente divertito della zia.
 
Thorn le riservò lo stesso trattamento per tre giorni, e alla mattina del quarto Ofelia era ormai sicura che tutti sapessero cosa accadeva nella loro stanza e avessero sentito qualcosa in qualche modo. Sobbalzava sempre quando Renard arrivava alle sue spalle, che in realtà era l’unico ad aver capito e non mancava mai di ammiccare maliziosamente.
Era normale che tra due persone sposate quelle cose avvenissero, si ripeteva per calmarsi. Non c’era da vergognarsene. Ma le cose che le faceva Thorn… desiderava che non smettesse mai e che non le facesse più allo stesso tempo. Alla fine, arrossendo, preferiva sempre la prima tra le due cose.
La quarta notte addirittura urlò, e Thorn fu costretto a tapparle la bocca. Quando Ofelia lo vide tremare si preoccupò di aver fatto qualcosa di male in qualche modo, ma poi si rese conto che stava ridacchiando, divertito come non lo aveva mai visto, e sempre con la mano sulla sua bocca. Gli occhi luccicavano di piacere e vita, e Ofelia lo amò e lo odiò al tempo stesso.
Fu lui ad aprire la porta quando la zia Roseline bussò, rimanendo di fronte a lei con i pantaloni del pigiama infilati in fretta al contrario, rassicurando la zia a monosillabi che Ofelia aveva urlato nel sonno a causa di un brutto sogno e poteva tornare tranquillamente nella sua camera.
Quando chiuse la porta e si accasciò contro il muro travolto da un’ondata di risa Ofelia pensò di morire e si rintanò nell’angolo più estremo del letto, affrettandosi a vestirsi e seppellendo il volto nel cuscino. Thorn la tirò di nuovo verso di sé, però, quando tornò a letto, e non la lasciò andare nonostante le sue proteste.
Alla fine Ofelia sbuffò, più irritata che mai: - Mi stai ferendo. Avevi detto che non mi avresti mai fatto del male.
Attraverso la schiena, sentì il suo cuore battere più forte. – Io non ti sto facendo male. E se te lo stessi facendo, sappi che hai un modo alquanto insolito di dimostrarlo. Più che dolore, mi sembra… godimento?
Ofelia voleva tapparsi le orecchie, e lo sentì di nuovo tremare contro di sé nel tentativo di trattenere l’ilarità. Non l’aveva mai visto o sentito così, e la cosa le sarebbe piaciuta molto se quelle reazioni non fossero state scatenate da… be’, da lei.
- E sei tu che mi stai torturando, anche se ora i tappeti mi accarezzano le caviglie invece di farmi inciampare – le ricordò.
Ofelia ancora non aveva parlato di ciò che la tormentava, e tenne la bocca ben chiusa per ripicca.
Almeno fino alla sera successiva.
 
Thorn giocherellava con i suoi capelli appoggiato al gomito, steso di fianco a lei, mentre Ofelia cercava di capire dove fosse finito il suo respiro. Ogni notte che passava si sbalordiva di quante cose nuove scoprisse, e quante sensazioni intense provasse. Thorn l’avrebbe fatta impazzire.
- A me non piace il tuo silenzio. Il fatto che non mi dici cosa ti angoscia. Lo sai, ti ho detto che è una tortura. Io ho voluto ripagarti con la stessa moneta, ma temo di aver fatto male i conti perché quella che ti ho inflitto non ha mai voluto essere una tortura dolorosa e… subdola come la tua. Anzi, forse ha avuto l’effetto contrario. Non puoi guardarmi negli occhi e dirmi che come punizione non sia stata piacevole.
Ofelia ormai viveva in uno stato di costante imbarazzo e non si rendeva nemmeno più conto di quando arrossiva.
Le ci volle coraggio e una buona dose di finzione per dire: - Puoi anche smetterla se lo ritieni necessario.
Thorn non cambiò espressione di una virgola, Ofelia lo capì senza bisogno di guardarlo. – Se smettessi forse ti costringerei a parlare. Perché non ti darei più nulla di ciò che ti ho dato nelle ultime notti fino a che tu non ti aprirai. Ma ho detto che non ti avrei mai ferita, e comportarmi così sarebbe farti una violenza, quindi non smetterò. A meno che tu non me lo chieda apertamente. Vuoi che smetta?
No. Non voleva assolutamente, ma non si azzardava a dirglielo sul serio.
Thorn le posò un dito freddo sulla guancia bollente.
- Cosa c’è Ofelia? Perché me lo nascondi?
Per degli istanti interminabili dentro di lei infuriò una lotta caotica e disomogenea tra i suoi sentimenti, i suoi desideri e le sue paure e inibizioni. Quello stato di ansia si propagò e il suo animismo contagiò le coperte, che iniziarono a tremare, e le pantofole, che saltellarono per la camera.
Thorn, serio come non mai, le fece correre la mano sull’addome e si fermò sul ventre, tamburellando impaziente con le dita: - Se hai bisogno di rilassarti, basta chiedere. Sono propenso alle concessioni questa sera.
- Voglio un bambino – buttò fuori di getto, a voce a malapena udibile, senza riflettere su ciò che stava dicendo. La mano di Thorn l’aveva mandata in cortocircuito e nella massa inestricabile dei suoi pensieri un solo filo, tirato, aveva sciolto il nodo: il suo desiderio più forte in quel momento.
Avrebbe voluto rimangiarsi tutto o non essere costretta a ripetere, ma nel silenzio e nella pace della camera, in cui ogni oggetto si era calmato dopo il suo exploit, l’uomo di fianco a lei aveva distinto e udito benissimo le tre parole che lo avevano reso una statua di ghiaccio.
Ofelia non si azzardò a guardarlo, chiuse gli occhi e desiderò essere inghiottita dal materasso. Avrebbe persino aperto una delle famose clessidre blu pur di non rimanere lì. Le sembrava che Thorn avesse smesso di respirare, e ne ebbe la conferma quando, dopo un minuto abbondante di fissa immobilità, sentì il fiato del marito tornare a solleticarle leggermente i capelli.
Sentì persino il leggero sfregamento delle sue labbra quando le separò per parlare: - Puoi ripetere?
- Hai capito benissimo – rispose repentinamente, aprendo gli occhi e fissandolo.
- Temo di essere confuso.
- Insisti per sapere cosa mi turba. Nutro il desiderio di portare in grembo un figlio e crescerlo – nostro figlio, avrebbe voluto aggiungere. – Ora sai cosa mi angoscia. Non puoi più accusarmi di torturarti, e possiamo tornare alla nostra vita normale.
Thorn sembrava impallidito, come se la vita fosse defluita da lui. Ofelia si ricordava di quando le aveva detto, in modo molto velato, di essere stato attratto da lei per la sua imprevedibilità in un mondo regolato da decreti inflessibili. Quella richiesta di sicuro non poteva essere prevedibile o anticipabile, di questo doveva essere fiera. Solo lei riusciva ad alterare il suo costante stato di intendente meticoloso, metodico, pragmatico e pignolo.
Thorn si schiarì leggermente la voce prima di parlare, lasciando la mano dov’era rimasta, sul ventre della moglie.
- Prendo atto di questo tuo… desiderio. Io mi sono sacrificato per te da subito, Ofelia. Mi sono rassegnato al pensiero che non avresti mai condiviso con me il talamo nuziale, mi sono adeguato all’idea che non mi avresti mai amato, che forse mi avresti anzi disprezzato tutta la vita. E ti ho concesso tutto ciò che mi hai chiesto. Tutto.
Fu il turno di Ofelia di perdere il respiro. Sentiva dei piccolissimi aghi di gelo pungerle la pancia, proprio sotto la mano di Thorn, ma sapeva che non erano i suoi artigli a causarle quel fastidio. Thorn non le avrebbe mai nuociuto, non lo aveva mai fatto in passato e mai le aveva dato motivo di dubitare di quelle parole.
No, gli spilli nelle viscere erano paura solidificata, selvaggia e fredda come l’arca in cui abitava.
- Ora sei tu che devi accettare l’idea che io non voglio marmocchi in giro per casa. Non voglio figli.
Le sembrò di sentire il rimbombo del suo cuore nelle orecchie, prima di essere rinchiuso in gabbia. Che cosa si aspettava?
Non si rese conto di aver sperato di poter realizzare quel desiderio fino a che Thorn glielo infranse. Si era illusa davvero. Sperò che il leggero scricchiolio che avvertiva non fossero le lenti degli occhiali, posati sul comodino. Avrebbe preferito che la sua delusione spaccasse una finestra piuttosto che gli occhiali. Poi capì che in realtà a produrre quel rumore era solo la mascella contratta di Thorn.
-Te ne farai una ragione, come ho fatto io – continuò lui, quasi sputando le parole. - E io romperò la mia promessa come tu hai infranto tutte le tue convinzioni.
Ofelia spalancò e poi assottigliò gli occhi nel tentativo di metterlo meglio a fuoco.
- Mi hai concesso tutto anche tu, quindi non vedo perché non dovrei accondiscendere anche a questa ulteriore richiesta. Solo che io non ti dirò di no, come te, per poi fare l’opposto. Sono un uomo di parola. Dimmi che cosa vuoi, di nuovo.
Vedendo che lei non parlava, Thorn le circondò il viso con una mano gigantesca, accarezzandole la guancia col pollice.
- Cosa vuoi, Ofelia?
- Un figlio - bisbigliò, letteralmente, lei. – Con te – aggiunse questa volta, sentendo la voce incrinarsi per l’emozione.
Thorn non sorrise. – Concesso.
 
- Vedo che stai meglio, cara – esordì Berenilde il giorno dopo, a cena, scambiandosi un’occhiata con la zia Roseline.
Ofelia non sollevò lo sguardo, concentrata com’era sulla sua zuppa e sulla compostezza di Vittoria, che a quasi quattro anni era l’immagine della nobile eleganza. Non si sporcava quando mangiava o beveva, sapeva qual era il suo posto e fissava già le persone con quella leggera aria di superiorità e consapevolezza che erano tipiche della madama sua madre. Ma era anche silenziosa come il padre, da cui aveva ereditato gran parte del patrimonio genetico e caratteriale.
- Ofelia? – la richiamò la zia.
La ragazza si riscosse, incontrando per primo lo sguardo rapace di Thorn, attratto da lei come un magnete dalla calamita. Era da parecchio che non celava più il suo sguardo possessivo di fronte ad altre persone, e anche se la cosa l’aveva messa a disagio all’inizio, quando si era accorta di essere costantemente osservata, non poteva negare che la cosa la lusingasse al tempo stesso. Non avrebbe mai creduto di poter destare tanto interesse in qualcuno. Thorn l’amava profondamente, forse più di quanto lo amasse lei stessa.
- Sì, zia Roseline? – rispose a scoppio ritardato.
- Io e Berenilde ti vediamo particolarmente rilassata. Ci fa piacere – insinuò la zia, continuando placidamente a sorbire la zuppa.
Berenilde la scandagliava come un critico d’arte di fronte ad una nuova opera.
- E… ehm… - farfugliò lei in risposta. – A me fa piacere che… vi faccia piacere?
La sua affermazione aveva assunto una nota interrogativa alla fine della frase, dato che non sapeva come effettivamente replicare agli strani meccanismi delle chiacchiere di corte.
Erano ingranaggi a lei sconosciuti e, come ogni cosa, Ofelia si sentiva solo brava a romperli.
Continuarono a mangiare in silenzio per alcuni istanti, ma qualcosa in Thorn la metteva sotto pressione ogni minuto di più. Il marito non stava più mangiando, intento com’era a scrutare i volti delle due donne all’altro capo del tavolo. Ad un certo punto aggrottò le sopracciglia e ripose il cucchiaio, in attesa.
Non dovette aspettare molto.
- Sai, Ofelia cara, io ero esattamente come te appena sono rimasta incinta della mia adorata Vittoria. Serena dopo un lungo periodo di angoscia, rilassata e con gli occhi raggianti come i tuoi. Devi dormire proprio bene la notte per essere così…
Con la zuppa incastrata in gola, Ofelia tossì e si coprì la bocca col tovagliolo per evitare di sputare ovunque la cena. Con le lacrime agli occhi, si alzò della sedia e fece per allontanarsi e riprendersi, ma sbatté contro Thorn. Silenzioso come un’ombra, le era comparso alle spalle e le aveva afferrato le braccia per tenerla ferma, mentre lei continuava a tossire. L’aveva poi bloccata passandole un braccio attorno alla vita e, toltole il tovagliolo dalla bocca, l’aveva delicatamente guidata affinché allungasse il collo e reclinasse la testa.
Il sollievo, nel sentire la trachea libera, fu quasi immediato, e se non avesse avuto gli occhi appannati dalle lacrime Ofelia avrebbe potuto vedere il viso furente e preoccupato di Thorn, che svettava parecchi centimetri più in alto di lei. In quel momento, del tutto fuori luogo, capì perché sua madre le aveva sempre detto di guardare gli uccellini quando era piccola e le andava di traverso la saliva.
- Oh cielo, ho forse detto qualcosa di equivoco? – si schermì madama Berenilde, fissando la scena senza alzare un dito. Nel bel mezzo di un naufragio, quella donna sarebbe stata capace di continuare a bere il tè imperturbabile, senza lasciarsi coinvolgere dalla trivialità degli avvenimenti che le accadevano intorno. Anche i disastri naturali si sarebbero arrestati di fronte alla sua fermezza, probabilmente. – Stavo solo riflettendo ad alta voce che Ofelia potrebbe magari trovarsi in stato interessante. Non siete sposati da due giorni, insomma!
Thorn attese che la moglie tornasse a respirare e la aiutò a risedersi. Avrebbe voluto stringerla finché anche il tremore non si fosse placato, e le guance si fossero raffreddate, ma sapeva che un protratto contatto fisico in pubblico avrebbe solo messo Ofelia ancora più a disagio e fomentato le fantasia dei domestici che si affollavano intorno a loro con malcelata noncuranza. Formiche frenetiche vicino ad una briciola di torta.
Thorn non si fece scrupoli a scoccare a tutti loro un’occhiata gelida e bruciante allo stesso tempo, che li mise in fuga, prima di rivolgersi alla madama sua zia. Solo Renard, alle spalle di Ofelia, era rimasto con loro, un guizzo divertito della bocca a rovinare la sua espressione da perfetto valletto. – Le vostre speculazioni sullo stato di Ofelia dovrebbero rimanere vostre, zia.
Berenilde non si turbò minimamente, e continuò a mangiare come se nulla fosse. – Oh, suvvia, nipote, non stavo mica chiacchierando in qualche salotto mondano. La povera Ofelia è pur sempre una donna, ha bisogno di parlare di certe cose con altre donne. Con chi altri potrebbe parlarne? Con te? Non ho forse ragione, Roseline?
La zia di Ofelia le scoccò un’occhiata di miserevole compassione. Non aveva peli sulla lingua, ma trovava che affrontare un argomento del genere a tavola fosse leggermente fuori luogo. Attorno al fuoco del salotto durante un tè pomeridiano sarebbe stato più appropriato.
- Sono suo marito e tutore, sono il più indicato a cui rivolgersi in qualsiasi caso e occasione. Ofelia sta bene e non è in gravidanza, zia, vi prego di tenere per voi le vostre congetture.
La minestra che scese nello stomaco di Ofelia era fredda come il ghiaccio. O come le parole di Thorn, almeno questo le pareva.
Non alzò nemmeno lo sguardo quando lui si allontanò, lasciando che le signore finissero il pasto in silenzio. Ofelia poteva sentire la lieve pressione degli artigli di Berenilde aleggiare attorno alla sua mente, a causa della sua irritazione contro il nipote. Per lo meno ebbe il tempo di ripensare alla notte precedete, interrogandosi su ciò che era davvero accaduto.
Perché dubitava, a giudicare dalla reazione del marito, che la sera prima le avesse davvero detto di volere un figlio con lei. Quello che aveva vissuto era stato probabilmente un sogno, tanto dolce quanto la serata era amara.
 
Thorn era irrequieto. Ofelia si era già coricata quando lui l’aveva raggiunta. Si era chiuso in bagno senza fiatare, si era lavato e cambiato, e si era steso accanto a lei, dandole le spalle.
Ofelia non voleva andare a dormire lasciando la questione, qualunque fosse, in sospeso, ma non voleva nemmeno essere la prima a rompere il silenzio. Dopo un po’ Thorn si girò verso di lei e l’afferrò e tirò a sé bruscamente, facendola letteralmente sbattere contro il suo corpo marmoreo e ossuto.
- Scusami – borbottò con la bocca nei suoi capelli quando la sentì gemere per lo spavento e i modi poco aggraziati.
- Che ti prende? – incalzò lei, senza mezzi termini, cercando di allontanarsi.
Ma le braccia di Thorn glielo impedirono e lui in risposta la baciò con forza e urgenza, vincendo la sua resistenza e le sue proteste fino a che anche lei si sciolse il quel bacio ardente e poco, davvero poco, romantico.
- Thorn! – esclamò bisbigliando, cercando di riprendere fiato, quando lui la lasciò. Non voleva guardarla in volto. – Mi dici cosa ti è preso questa sera a cena?! – sibilò, cercando di dare al suo tono di voce quel timbro autoritario che era prerogativa del marito.
Lui si girò sulla schiena e fissò il soffitto, pensieroso.
- Ora sei tu a tenere il silenzio e non dirmi cosa ti angoscia? – lo rimbeccò, imperterrita.
- Pensavo che avessi parlato con mia zia di questa nostra… intenzione. E mi ha infastidito. Sono questioni nostre, queste, faccende private che non vorrei venissero sbandierate ai quattro venti.
Perplessa, Ofelia impiegò più del dovuto per capire le implicazioni di quelle confessioni. – Stai insinuando che io parli della nostra vita coniugale con tua zia? Come una donna da salotto che blatera di cose amene e frivole?
- Non ho detto questo.
- E cos’hai detto, allora?
Thorn sospirò impercettibilmente, il suo corpo talmente rigido da creare tensione nei muscoli, Ofelia lo percepiva benissimo. – Ho detto che… non riesco a spiegarmi. Al di là di ciò che tu possa o non possa aver detto, mi hanno irritato le congetture di mia zia. Solo a noi deve importare di ciò che accade qui dentro, o di quello che abbiamo intenzione di fare.
- Io non ho detto nulla, e mi delude il fatto che tu possa anche solo pensare una cosa del genere. In secondo luogo, mia zia e tua zia sono parte integrante della nostra famiglia. In una famiglia è normale che certe cose si chiedano o… se ne parli, ecco.
Il silenzio di Thorn sottintendeva moltissime questioni lasciate in sospeso, e domande senza risposta.
- So che non devi essere abituato a certe cose, ma in famiglia si discute apertamente. So anche che non hai mai avuto una famiglia, e quindi per te è tutto nuovo…
Il marito si girò repentinamente, dandole la schiena, non prima di averle scoccato un’occhiata di pietra, furente d’ira.
- Buonanotte, Ofelia.
Irrequieta, lei non era ancora pronta ad andare a dormire. Non si lasciava un argomento del genere in sospeso di notte, non ci si poteva dormire sopra.
Allungando timidamente la piccola mano, facendo appello a tutto il suo coraggio, afferrò la spalla di Thorn e lo indusse a girarsi nuovamente, facendolo stendere supino. Lei, con la sua sola forza, non sarebbe mai riuscita a spostarlo di una virgola, quindi prese come un buon auspicio quel suo accondiscendere alla sua volontà, seguendo i suoi gesti.
Sotto il suo sguardo indagatore e burbero, inflessibile e insondabile come sempre, Ofelia si sollevò e, facendosi largo nell’intrico di coperte e camicia da notte, che le si arrotolava attorno al corpo rendendole difficili i movimenti, riuscì sgraziatamente a sdraiarsi su di lui. Ma non poté guardarlo in volto.
Non era mai stata così audace con lui, mai si era presa certe libertà fisiche.
Fissò la sua pelle bianca sentendo il suo sguardo addosso, e si concentrò su una piccola cicatrice a forma di mezzaluna a livello dell’addome.
- Non è che questo livore è causato da un ripensamento? – bisbigliò.
- Puoi ripetere?
Ofelia questa volta lo guardò, cercando di scrutarlo e capirlo.
- Non ho capito la domanda, puoi ripeterla? Stai parlando piano come quando ci siamo conosciuti – chiarì lui, che non aveva davvero distinto la domanda della moglie.
- Ho chiesto se magari tu non sia in realtà arrabbiato perché hai avuto un ripensamento. E temi che possa già essere rimasta incinta.
Thorn fece leva sulle braccia, abbandonate lungo il corpo, per mettersi seduto, tirando su con sé anche Ofelia. Costretta ad aprire le gambe per assecondare quel movimento improvviso, lei si sentì ribollire dentro per la posizione in cui era. Seduta a cavalcioni di Thorn, i loro petti premuti insieme, mentre la testa di lui svettava comunque al di sopra della sua. Le sue braccia le si attorcigliarono addosso come lunghi e caldi serpenti che la intrappolarono, stringendosela contro, impedendole di guardarlo.
- Io non ho mai ripensamenti – sancì lapidario.
Ofelia trattenne un sospiro e si mosse su di lui per cercare una posizione più comoda e meno sconveniente, ma lui sembrava tutt’altro che a disagio con i loro corpi così uniti.
- Quindi vuoi ancora… quello di cui avevamo parlato ieri è…
Thorn si chinò per baciarla, arcuandosi per raggiungere le sue labbra.
- Sei già incinta, Ofelia? – le sussurrò sulla bocca, l’alito freddo che la fece rabbrividire nonostante il suo corpo bollente. Le girava la testa.
- Non credo… - rispose lei, allungando timidamente le braccia per circondargli il collo.
Con uno scatto di coraggio si alzò sulle ginocchia e si sistemò meglio in braccio a lui, sentendolo irrigidirsi sotto il suo peso, e rilassarsi allo stesso tempo.
La inebriava il potere che aveva scoperto di poter esercitare su di lui. Il fatto che l’amasse così tanto, e che il suo corpo reagisse a lei come un falò, un fuoco che scoppia senza preavviso, violentemente e accaloratamente. Era la forza del desiderio, quasi irresistibile, come una magia, che scaturiva solo da due cuori che si cercavano con la stessa intensità.
- Bisogna rimediare – annunciò allora, riprendendo il bacio.
Ofelia sorrise contro di lui, lo strinse a sé e poi lo lasciò andare, spingendogli il petto affinché tornasse a sdraiarsi sotto di lei.
Lo osservò dall’alto, trionfante di fronte al suo sguardo vulnerabile, come un falco che si avventa sulla sua preda.
Se non avesse avuto la testa impegnata a pensare ad altro, si sarebbe resa conto dell’ironia di quella situazione, di fronte all’inversione di ruoli.
Il rapace era sempre stato Thorn.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Avete ragione, le cose tra Ofelia e Thorn stanno proseguendo a rilento, ma io ho bisogno di tanti momenti sdolcinatamente fluff tra questi due. Spero che ne abbiate bisogno anche voi, perché sono quello che avrete^^"
Grazie a chi leggerà!♥


Capitolo 4

Ofelia tirò lo sciacquone, si pulì viso e bocca, cercando di scacciare il saporaccio che l’invadeva, e uscì dal gabinetto della camera da letto. Barcollando si avvicinò alla porta, fuori dalla quale l’aspettava Renard, camminando avanti e indietro, in apprensione.
- Ofelia! – esclamò appena aprì la porta. – State bene? Il vostro pallore non ha fatto che aumentare durante la giornata.
No che non stava bene. – Non è niente Renold, grazie. Solo una leggera indisposizione. Potreste portarmi il misuratore di calore e una pastiglia per il mal di testa, per favore? Molto probabilmente la rigetterò, ma devo cercare di placare questo… dolore martellante.
Renard la guardò, indeciso sul da farsi. Sul suo viso le emozioni erano tanto lampanti quanto erano assenti su quello di Thorn.
- Mi avete assunto per essere il vostro consigliere, madama. Sbaglio?
- Non sbagliate. Ma non chiamatemi madama, ve l’ho già detto – disse Ofelia con una smorfia, di dolore e fastidio insieme.
- Posso allora consigliarvi di chiamare il dottore per verificare il vostro… stato?
Ofelia lo guardò senza capire. Renard non era mai stato così a disagio. Quell’uomo massiccio, dai capelli rossi come il fuoco, si agitava talmente che la sua imponente figura copriva e scopriva la luce alle sue spalle, prima lasciando che illuminasse e poi mettendo in ombra il viso di Ofelia.
- Io… io capisco, ehm… percepisco che… il signor intendente e voi stiate cercando… com’è consono e naturale, di… ehm…
- Parlatemi direttamente come avete sempre fatto, Renold.
Lui sospirò, prima di dire d’un fiato: - La nausea è spesso un effetto collaterale della gravidanza. Volete consultare un medico per appurare se…
- Non sono incinta, Renold. Vi ringrazio, ma basta la pastiglia per il mal di testa. Ora, se volete scusarmi, mi riposo un po’.
Senza attendere risposta o dare spiegazioni, chiuse la porta e si avvicinò al letto, infilandosi la vestaglia e poi mettendosi a dormire. Prese sonno così in fretta che non si accorse che Renard era entrato per lasciarle sul comodino un bicchiere d’acqua con una pastiglia e il misuratore di calore corporeo, depositandole una carezza piena di affetto sulla testa riccia.
 
Ofelia si svegliò dalla sua letargia sentendo due voci discutere fuori dalla camera. O meglio, sentendo la voce di Thorn che chiedeva a Renard il motivo della sua presenza lì.
Riuscì a distinguere solo le ultime parole del discorso, quando Thorn aprì la porta per entrare.
- Non sono richiesti i vostri servigi. Sarà mia cura occuparmi di mia moglie.
La porta si chiuse e un peso nuovo fece sprofondare il letto vicino all’addome di Ofelia. Ancora mezzo addormentata, si fece un pochino indietro per lasciare posto a Thorn, ma dovette subito correre in bagno. Sembrava che con lei si fosse svegliato anche il suo corpo malato, ricordandosi che il suo compito in quel momento era quello di farle fare una pessima figura di fronte al marito, così meticoloso e padrone dei suoi batteri.
Ofelia fece per chiudere la porta, ma Thorn era già alle sue spalle per impedirglielo, così non poté fare altro che dirigersi verso il gabinetto e svuotare lo stomaco da quel poco che vi era rimasto. Thorn la raggiunse, inginocchiandosi accanto a lei, e le raccolse maldestramente i capelli, per poi accarezzarle la schiena con delicatezza. Ofelia si rese conto che doveva essere la seconda volta che Thorn cercava di rassicurare qualcuno, a giudicare dai suoi movimenti impacciati. La prima era stata quando lei aveva perso il controllo e gli aveva impregnato la camicia di lacrime dopo aver rischiato di morire per mano del barone Melchior. In qualche modo, c’era sempre lui al suo fianco quando perdeva il controllo.
Quand’ebbe finito si alzò ansimando e tirò nuovamente lo sciacquone, per poi lavarsi viso e bocca con mani tremanti. Thorn la seguiva come un’ombra, arcigno e silenzioso, con la fronte talmente aggrottata che Ofelia si chiese se non gli facesse male tirare la pelle in quel modo.
Fece per andare di nuovo a letto quando lui la fermò per il braccio. Accendendo la luce grande in bagno le prese il mento tra le dita e le scrutò gli occhi, le sentì il calore della fronte e misurò i battiti del cuore sulla sua gola prima di riaccompagnarla a letto facendo attenzione che non mettesse i piedi dove non doveva. Era un miracolo che, senza occhiali, non fosse inciampata da nessuna parte nella foga di correre in bagno.
Dopo averla aiutata a stendersi di nuovo riprese posto accanto a lei. La sciarpa, docilmente appoggiata sul cuscino, le allungò gli occhiali, così che potesse scrutare il volto accigliato di Thorn, il cui sguardo era freddo quanto lei era accalorata.
Fu lui a rompere il silenzio dopo quelle che sembrarono ore di immobilità. – Gradirei un avviso da parte tua la prossima volta che stai male. Arrivare a casa e trovare la tavola imbandita solo per me, perché la signora Roseline è con mia zia e mia moglie è indisposta a letto da tutta la giornata, sotto la cura del suo consigliere personale, non credo rientri nel comportamento classico da adottare tra due persone sposate.
Il modo in cui, più di tutto, Thorn aveva caricato il suo fastidio sulla presenza di Renard al posto suo, le fece quasi venire voglia di sorridere. Non aveva mai avuto sentimenti romantici o gesti dolci, ma Thorn era geloso e possessivo come qualsiasi altro uomo. Anche qualcosa di più. E lei era una sua proprietà, che si era momentaneamente danneggiata e della qual cosa lui non era al corrente. La questione doveva averlo infastidito oltremodo.
- Scusami, non è una cosa grave, non ho voluto farti preoccupare.
- Credo sia un virus intestinale o un’intossicazione alimentare, ma dal momento che mangiamo le stesse cose e io sono in ottima salute, propenderei per la prima alternativa. A meno che tu…
Thorn si schiarì la voce, incerto su come continuare la frase.
- La nausea è un sintomo di…
Ofelia aveva imparato che quando Thorn era a corto di parole o faceva fatica ad esprimersi, la tensione che provava era a limiti estremi. Per uno che aveva sempre tutto sotto controllo all’esterno, nonostante il tumulto interiore, che Thorn aveva eccome, il fatto stesso che quelle emozioni intaccassero la sua facciata dava di che preoccuparsi.
- Non sono incinta, Thorn, se è questo che cerchi di chiedere – lo interruppe, mettendo fine al suo calvario grammaticale.
Lui rilassò impercettibilmente le sopracciglia, per poi aggrottarle ancora di più. – Ne sei sicura?
- Sì.
- Non credi sia il caso vedere lo stesso un medico per…?
Ofelia gli mise la piccola mano sulla bocca. O almeno tentò. Ma con lui seduto e lei sdraiata la distanza fra loro era tale che Ofelia riuscì solo a muovere la mano di fronte al suo collo, penosamente.
Con un gesto gentile, fu Thorn a chinarsi per avvicinarsi al suo viso, riducendo la distanza tra loro.
- Thorn, ho la certezza di non essere incinta.
Avvampò come non era avvampata nemmeno la prima notte in cui si era legata a lui, nonostante la cosa di cui stessero parlando fosse del tutto naturale.
Le labbra del marito si strinsero in una sottilissima linea di comprensione, e lui annuì come per prenderne atto.
Senza aggiungere altro si alzò e si spogliò. Si coricò immediatamente, per una volta boicottando tutti i rituali e le abluzioni che compiva prima di dormire per pulire completamente il suo corpo, e si avvicinò ad Ofelia. Premette il suo petto contro la sua schiena, accarezzandole il ventre e stringendola quasi al punto di mozzarle il respiro.
- Dovresti mangiare – sussurrò lei quando si fu ripresa dalla sorpresa, e dopo aver notato che Thorn non accingeva a muoversi.
- Mangerò domani.
- Ma Thorn…
- Non è una questione che ti riguarda.
- Sei troppo magro per poterti permettere di saltare un pasto. A volte mi chiedo se il tuo corpo si regga in piedi solo per via della tensione nervosa che ti scorre sotto la pelle.
Non voleva dirlo ad alta voce, se ne rese conto solo dopo averlo sentito irrigidirsi contro di lei. Credeva che lo avrebbe allontanato in quel modo, ma Thorn sembrava essere diventato davvero una statua di ghiaccio.
- Non trovo confortevole mangiare da solo – biascicò così piano che Ofelia dubitò di averlo davvero sentito parlare.
Ma il pugno chiuso e premuto contro il suo ventre le fece intendere che aveva sentito benissimo. Capì a livello inconscio, come suo solito, che forse il motivo per cui Thorn non traeva alcun godimento dal cibo era che il momento del pasto era legato a ricordi dolorosi. Aveva più volte visto le numerose cicatrici sul suo corpo, le aveva toccate, le aveva baciate, per cercare di trasmettere dentro di loro un po’ di amore e cancellare il dolore di cui erano portatrici. Thorn non era mai stato amato. Era un figlio bastardo. Un fratellastro. Un disonore. Un essere infetto e ripugnante. Così era sempre stato trattato, e così aveva finito per vedersi. Su Anima, ogni colazione, pranzo e cena era una festa: risate, cicaleccio interminabile, confusione e punzecchiature erano all’ordine del giorno, tanto che quando aveva mal di testa si asteneva dal prendervi parte per non aumentare l’emicrania. Ma Thorn non aveva mai avuto nulla di tutto quello. Mangiare era necessario perché il suo corpo non cedesse, e lo nutriva tanto quanto bastava.
Ofelia si voltò verso di lui e lo abbracciò forte, premendo la testa contro il suo petto, rilassandosi quando sentì il suo mento posarsi sulla sommità della sua testa, come un cuscino.
- Non sono nella condizione di prendermi cura di te nel caso ti ammalassi. Quindi non trascurarti.
- Devo prendermi io cura di te, non il contrario.
La inglobò nel suo abbraccio per farle capire ciò che intendeva: lui era il doppio di lei, abbastanza forte da caricarsi sulle spalle il peso delle loro due famiglie, come aveva fatto fin dal principio. Doveva, voleva essere lui quello in grado di affrontare tutto, gestire tutto. Ofelia però era abbastanza forte da condividere quel peso con lui, soprattutto perché lei, che aveva ricevuto molto, aveva tanto da dare. Thorn non aveva ricevuto mai nulla, e toccava a lui, per una volta, essere trattato come un oggetto prezioso.
Lo sentiva ogni notte in cui si abbandonavano l’uno all’altra che Thorn aveva un vuoto dentro. Lei lo colmava in parte, ogni giorno di più, con i suoi contatti e i suoi tocchi, le sue attenzioni. Thorn non era mai stato toccato se non per essere attaccato. Ogni volta che, in camera loro, le si avvicinava per stringerla o la cercava per un qualsiasi futile motivo, agognando quel contatto, Ofelia ne gioiva, sicura di averlo aiutato ad aprirsi un po’ di più. E aveva scoperto che Thorn era affettuoso. Aveva bisogno del calore che lei gli offriva, che gli era mancato per tutta una vita. Il modo in cui si aggrappava a lei era simile a quello di un naufrago con la scialuppa di salvataggio.
Ed era sicura che un figlio avrebbe definitivamente tappato il buco di quello spazio che un tempo era vuoto.
Si liberò dall’abbraccio e uscì dalla stanza senza dare ascolto alle sue proteste. Tornò alcuni minuti dopo con una zuppa bollente, che aveva gentilmente chiesto alla domestica di appoggiarle sul comodino, per evitare di rovesciarla nel tragitto.
Inginocchiata tra le gambe di Thorn, lo imboccò, a dispetto delle sue proteste iniziali, come sua mamma aveva fatto molte volte con lei quando era malata. E ricambiò testardamente lo sguardo accigliato di Thorn, in grado di gelare il Polo, ma di scaldarle l’anima.
 
Ofelia non avrebbe mai al mondo dimenticato la sera in cui avevano concepito il loro primo figlio, alcune sere dopo quella.
Ci aveva messo due o tre giorni per guarire del tutto, e Thorn tornava sempre prima dal lavoro, per accertarsi delle condizioni di sua moglie.
Dopo giorni passati a letto a sonnecchiare, Ofelia si era concessa una doccia bollente, per sciacquare via il torpore e quell’aria febbrile che sembrava le aleggiasse intorno e le aderisse addosso come una seconda, malsana pelle.
Si stava riempiendo i capelli di schiuma per la seconda volta, cercando di domare i ricci aggrovigliati, quando Thorn entrò in bagno, per assicurarsi che stesse bene. Non l’aveva trovata da nessuna parte e nessuno l’aveva vista uscire; per quanto ne sapeva, poteva essere collassata sul pavimento senza che nessuno se ne fosse accorto. Avvamparono entrambi quando si videro, e lui si affrettò a darle le spalle.
- Chiedo perdono, non sapevo che fossi… che non fossi…
- Non importa, è tutto a posto – lo rassicurò lei. – Sto bene. Sei tornato presto da… ah!
Cercò di soffocare il rantolo di dolore causato dallo shampoo, che le era colato negli occhi, ma fallì miseramente e annaspò alla ricerca della manopola dell’acqua. Trovarla però non le fu di nessuna utilità: il suo animismo ne aveva attivato il regolatore che, contagiato dalla frenesia e dall’impazienza di Ofelia, si era messo a girare a vuoto, impazzito come l’orologio da taschino di Thorn quando le era stato affidato.
A nulla valsero i borbottii irritati di Ofelia, anche se l’acqua riprese regolarmente a scorrere senza che lei facesse nulla. Solo quand’ebbe finito di pulirsi gli occhi miopi e brucianti si rese conto dell’altissima ombra che incombeva su di lei.
Thorn era fradicio, con i capelli incollati al viso e la camicia bianca ormai diventata trasparente, mezzo dentro e mezzo fuori dalla vasca. Aveva riaperto lui l’acqua, ottenendo come ricompensa una bella doccia. I due rimasero a fissarsi a pochi centimetri di distanza, sorpresi entrambi dalla situazione bizzarra, mentre l’acqua scorreva inesorabile su di loro come una cascata irrisoria.
Fu Thorn, come sempre, a baciarla per primo. Fu Ofelia a tirarlo dentro la doccia completamente vestito. Per sua fortuna non aveva le scarpe, che Thorn si toglieva diligentemente appena metteva piede nella camera, ogni giorno. Sbatté la testa contro il doccione quando si raddrizzò, e Ofelia si aggrappò ai suoi vestiti per non cadere quando scivolò sui suoi stessi piedi. L’acqua elettrizzava la loro pelle come un conduttore di corrente elettrica, e Thorn fu brusco quando la prese in braccio per farle raggiungere la sua altezza, stanco di stare piegato in quello spazio angusto. Ofelia si teneva stretta alla sua nuca, premendo le labbra contro di lui, senza nemmeno sforzarsi di spogliarlo. Lui conosceva la strada, e non ci mise molto a trovarla, placando quell’irrefrenabile frenesia che si era impossessata di lei.
Quand’ebbero finito rimasero immobili, ansimanti sotto l’acqua ubbidiente che scaldava i loro corpi già bollenti, avvolgendoli in una nebbia di vapore accogliente. Thorn continuò a tenerla in braccio, premuta contro di lui, ancora dentro di lei, come se non la sentisse abbastanza vicino.
- Ti prego… - mormorò, la voce flebile e incrinata, come vulnerabile.
Ofelia gli accarezzò dolcemente la testa, in attesa.
- Ti prego, non smettere mai di guardarmi in quel modo.
 - In che modo? – chiese lei di rimando, la voce appena udibile in quella conversazione di sospiri.
- Come se valessi qualcosa.
L’acqua lavò via le lacrime dal viso Ofelia, che desiderò non muoversi mai più da quella posizione: protetta dalle braccia del marito, in quel luogo etereo e fuori dal tempo, la testa di Thorn posata sulla sua spalla e le sue braccia avviluppate addosso.
- Tu non vali qualcosa – mormorò dopo un’eternità. Gli posò un bacio sulla testa. – Tu vali tutto per me.
 
Mangiarono insieme quella sera, Ofelia, Thorn, la zia Roseline e Berenilde, insieme a Vittoria.
Ma i due coniugi erano distratti, chi per un motivo e chi per un altro. Ofelia, da parte sua, non riusciva a cancellare le parole di Thorn, artigli che le laceravano il cuore. Nonostante tutto quello che stavano passando insieme, lui ancora non capiva quanto lei lo amasse. Pensava di non essere abbastanza, di non meritare il suo amore e la sua devozione. Come se fosse tutto destinato a scomparire come la nebbia del bagno dopo la doccia.
Ofelia non aveva ancora finito con lui.
Quando Berenilde e Vittoria se ne furono andate, la zia Roseline scrutò insistentemente Ofelia, che dal canto suo ne evitò lo sguardo. La vecchia zia sapeva che qualcosa non andava, e in quanto madrina era suo compito aiutare l’adorata nipote a stare meglio. Ma nulla di quello che avrebbe potuto dire sarebbe servito. Quando furono rimasti solo lei e Thorn in soggiorno, lei intenta a studiarlo e lui a leggere diversi giornali contemporaneamente, Ofelia sentì una profonda tristezza insinuarsi come una larva nel suo ventre.
Thorn non aveva bisogno di essere amato. Quello lo era già, da lei in primis, e poi da Berenilde e Vittoria, anche dalla zia Roseline, seppur in piccola parte. Quello di cui aveva davvero bisogno era di amare se stesso. Se stesso e la sua vita.
- Ti aspetto in camera – gli sussurrò sfiorandogli la mano, mentre lui muoveva unicamente le pupille per seguirla fuori dalla stanza.
Era così immobile che la cameriera si prese paura quando entrò per rassettare e si rese conto che quella sul divano non era una statua.
Quanto a Ofelia, il suo consigliere la intercettò nel corridoio.
- Ragazzo – la fermò Renard a bassa voce, appena fuori dalla stanza. – Hai bisogno di un consiglio?
Ofelia lo guardò con perplessità. – Un consiglio?
Renard le strizzò affettuosamente un braccio. – Sì, sono il vostro consigliere, no? Be’, lasciate che vi dica una cosa. Nulla rende un uomo più felice che vedere la propria donna prendere l’iniziativa e…
Ofelia s’imporporò, così come i suoi occhiali, e il tappeto la fece inciampare.
Renard trattenne a stento una risatina mentre l’aiutava ad alzarsi. – Suvvia, non siete più una ragazzina innocente, Ofelia.
Lei non accettò la mano per alzarsi, lo fece da sola e gli diede le spalle.
- Datemi retta, mia signora. Alle donne bastano fiori e belle parole, ma un uomo ha bisogno di certezze e calore fisico. Siamo fatti di carne, ed è quella che vogliamo. E il signor vostro marito non ne ha avuto l’assaggio per tutta la vita, né di parole dolci, né di carezze materne né di apprezzamenti. Solo voi potete aiutarlo.
Renard se ne andò senza fiatare, soddisfatto del proprio consiglio, borbottando poi qualcosa a metà corridoio riguardo a Gaela e un’iniziativa non specificata.
Ofelia si diresse verso la camera come un automa di Lazarus, confusa e allo stesso tempo sicura riguardo a ciò che doveva fare. Era vero che non si era mai tirata indietro riguardo ai doveri coniugali, anzi, ma di sicuro non aveva mai preso l’iniziativa. Era sempre Thorn a trovare il coraggio di farsi avanti, con il costante timore di essere respinto come era accaduto da quando era nato.
Finse di dormire quando il marito entrò in camera, finse di dormire quando lui si coricò di fianco a lei e finse di dormire quando si avvicinò prudentemente a lei, attento a non svegliarla, posando il mento sulla sommità della sua testa come piaceva a lei. Renard aveva ragione.
Thorn aveva fisicamente bisogno di lei. Un costante e impellente bisogno che gli veniva negato da troppi anni. Quando si girò verso di lui, lo sentì immobilizzarsi dietro di lei, sorpreso che fosse sveglia. E lo vide inarcare al massimo le sopracciglia quando lei lo baciò, allargando gli occhi come mai gli aveva visto fare, quando gli salì sopra, troneggiando su di lui per una volta.
A ruoli invertiti.
Si vergognava talmente che le coperte vibravano, irrequiete, ma era sicura di ciò che voleva fare.
- Ofelia… - la chiamò lui, prima di essere zittito da un altro bacio.
Non era mai stata eloquente, le parole scivolavano spesso via dal suo controllo, specialmente quando doveva cercare di esternare emozioni intense. Ma quella volta la sua dialettica non avrebbe fallito, ne era certa.
- Thorn, mi hai sempre concesso tutto, e hai mantenuto tutte le tue promesse. Ora promettimi che ti sforzerai di vederti come ti vedo io. Un marito adorato, premuroso, attento e presente. Come intendente conosci già il tuo valore, ma il tuo valore da uomo non è da meno. Puoi fidarti di tua moglie. Ma se a livello inconscio, tra il turbine di pensieri che ti divorano il cervello, non riesci a rendertene conto, allora ascolta…
Deglutì, chinandosi ancora per baciarlo di nuovo. – Ascolta il mio corpo.
Thorn chiuse gli occhi, come addormentato, e le lasciò fare quello che voleva. Ofelia si sentì forte e padrona, si sentì capace e desiderata. Non provava più una briciola di imbarazzo, perché quello che stavano compiendo era un rito ancestrale che risaliva agli albori del mondo, sia quello vecchio che quello nuovo, ed era un gesto che, anche se a volte compiuto con leggerezza o frivolezza, valeva più di mille parole.
Quando Thorn la abbracciò improvvisamente e soffocò un gemito che sembrava sgorgare direttamente dal suo cuore, Ofelia seppe di essere arrivata dentro di lui, nella sua anima, e lo strinse forte accarezzandogli i capelli biondo-argento con gesti materni. Abbarbicata su di lui, gli passò le mani su braccia e schiena, scaldandolo, sapendo che non era morto solo perché lo sentiva respirare contro la pelle del suo torace.
Solo quando un brivido di freddo le corse lungo la spina dorsale si rese conto che Thorn si era addormentato. Nudo, con la testa contro il suo petto, aveva l’espressione più serena che gli avesse mai visto da quando si erano conosciuti. La fronte distesa, gli zigomi rilassati, la mascella dischiusa e non serrata come al solito. Ofelia sorrise mentre lo adagiava sul letto, spostandogli i ciuffi ribelli dalla fronte, ammirando nella penombra quel viso sereno. E pensò che fosse bello.
 Thorn era spigoloso, era rigido, algido e in costante tensione, ma sotto quella facciata si nascondeva un bell’uomo che le apparteneva e l’amava. Lo coprì per bene e, dopo aver indossato una vestaglia e la sciarpa, si diresse verso le cucine per prendere un bicchier d’acqua.
Trovò Renard, abbattuto, chinato su un bicchiere di vino.
- Qualcosa non va, Renold? – chiese Ofelia discretamente, cercando di non far cadere i bicchieri dalla credenza.
- Non trovo Gaela – borbottò lui, di pessimo umore. Poi alzò lo sguardo e le fissò il collo. La sua aura depressa si fece immediatamente maliziosa. – Vedo però che a uno dei due le cose sono andate meglio. Vi sono stati utili i miei consigli, no?
Ofelia si portò una mano sulla clavicola e si ricordò che quello era il punto in cui Thorn, lasciatosi trasportare, le aveva lasciato un segno tanto piacevole quanto visibile. La sciarpa, che pendeva languidamente sulle sue spalle, scivolando ogni volta come se non avesse forza nelle maglie, si accinse a coprirle la zona incriminata.
Ofelia rovesciò il bicchiere con l’acqua, che non si ruppe ma schizzò il liquido ovunque, e cercò subito uno straccio con cui asciugare, mentre Renard rideva di gusto.
- Me ne occupo io, non vi preoccupate. Tornate dall’intendente vostro marito prima che si svegli e venga a cercarvi, strozzandomi per il solo fatto che sto parlando con voi. Quell’uomo è tanto geloso quanto inespressivo.
Ofelia non disse nulla, ancora imbarazzata per i commenti di Renard, e si avviò verso la porta.
- Avrò cura di avvisare l’intendenza che a causa di un malessere domani il signor Thorn non potrà espletare i suoi doveri.
- Perché? – fu costretta a chiedere lei, girandosi sui tacchi, perplessa. – Thorn non sta male.
- No, ma fidatevi che domani non si sveglierà tanto facilmente.
Ofelia gli lanciò un’ultima occhiata interrogativa prima di uscire, mente Renard ridacchiava ancora.
- Avrà altri doveri cui tener fede domani. Povera Ofelia, spero che abbia una buona resistenza, data la stazza da orso del marito. E io non sono da meno, quindi, Gaela, vi troverò di sicuro, preparatevi.
 
Ofelia si sorprese quando, rimettendosi a letto, vide che Thorn non si muoveva di una virgola. Aveva il sonno leggerissimo e, a dire il vero, dormiva anche poco. Si riposava tre o quattro per notte, mentre per la restante parte del tempo stava sdraiato a letto e la osservava, abbracciandola. Ofelia l’aveva capito quando, una notte, aveva dormito male, e svegliandosi a più riprese lo aveva trovato lì, ad occhi aperti, a scrutarla. Pensava fosse un caso isolato, ma poi si era resa conto che quando erano fidanzati Thorn dormiva all’Intendenza, e quando lei andava a trovarlo di notte, qualunque fosse l’ora, lo trovava spesso sveglio. I pettegolezzi degli abitanti del Polo glielo avevano inoltre confermato.
Quella notte però non si mosse, non la sentì arrivare così come non l’aveva sentita andarsene, e Ofelia si chiese se non avrebbe dovuto dare ragione a Renard l’indomani mattina. Si strinse a lui e si addormentò sorridendo, appagata e soddisfatta di quel che aveva fatto.
Era ora che Thorn cedesse anche un po’ a lei il peso che portava costantemente sulle spalle.
 
La mattina trovò Renard in cucina che flirtava con la giovane cuoca, la governante e la cameriera.
Le donne si misero subito sull’attenti quando la videro, ma Ofelia, particolarmente di buon umore, le invitò a rilassarsi.
- Non sono loro le uniche rilassate…
- Vi prego di tenere i vostri commenti per voi, Renard – lo zittì Ofelia, lanciando un’occhiata alle tre signore che, seppur buone e indaffarate, erano delle gran pettegole.
- Vogliate scusarmi – si ricompose lui, che sapeva fin dove poteva spingersi. – A cosa devo la vostra presenza qui alle… per tutte le clessidre blu! Il vostro studio dovrebbe aprire tra venti minuti e voi non siete pronta! Volete che intanto mi avvii io?
Ofelia sorrise, leggermente imbarazzata, cercando di apparire disinvolta mentre la sciarpa oscillava dolcemente sulla sua schiena. – Non ce n’è bisogno, prendetevi la giornata libera. Ma prima, per cortesia, disdite i miei appuntamenti e rimandateli a domani e dopo domani in base ai buchi liberi nell’agenda.
Renard la guardò basito. – Pardon? Disdire e rimandare? Vi sentite ancora indisposta?
Ofelia scosse la testa. – No, non preoccupatevi.
E non aggiunse altro, lasciando le tre dalle orecchie lunghe sulle spine.
Si avvicinò a Renard lentamente, abbassando il viso per coprire il rossore, e bisbigliò: - Avete detto che avreste avvisato l’Intendenza… l’avete fatto?
Il sorriso del consigliere si allungò da un orecchio all’altro, brillando di luce propria. Renard batté le mani, soddisfatto e orgoglioso. – Ma certo! Ho già provveduto, ma ero pronto a ritirare l’avviso in qualsiasi momento. Lieto di non essermi smentito.
Ofelia non aggiunse altro, sperava solo di sgattaiolare via prima possibile. Aveva fatto due passi quando Renard la fermò per la spalla.
- Ottimo lavoro ragazzo. Ne aveva bisogno – bisbigliò al suo orecchio prima di lasciarla andare.
 
Thorn si svegliò così di soprassalto che Ofelia quasi urlò. Con lui non c’erano mezze misure: o movimenti lenti e interminabili, o scatti così improvvisi da far dubitare che in realtà Thorn non avesse un terzo potere familiare che lo rendeva estremamente veloce.
- Mi hai spaventata! – lo sgridò Ofelia, col batticuore, come se la cosa non fosse evidente.
Ignorandola, lui scappò fuori dal letto, mezzo nudo, correndo per la stanza alla ricerca dei vestiti e strabuzzando gli occhi quando l’orologio si mise a reclamare la sua attenzione con impazienza. Si passò una mano tra i capelli spettinati, al limite dello sconvolgimento.
Ofelia rise di gusto nel vederlo di fronte a lei, stravolto e seminudo, a prendere coscienza di cosa stesse accadendo. Era la prima volta che non lo vedeva impassibile e padrone di ogni singolo secondo.
Quando il suo sguardo si posò finalmente su di lei, non era molto scherzoso.
Non che lo fosse mai stato.
- Perché non mi hai svegliato? Anche l’orologio…
Lo fissò con freddezza, come se quello subìto dal suo fedele orologio da taschino fosse il più terribile dei tradimenti.
- Devo correre all’Intendenza! No, prima devo vestirmi… forse lo specchio può…
I suoi balbettii confusi si spensero quando Ofelia lo abbracciò da dietro. Arrivava a mala pena alle sue scapole sporgenti e ossute.
- Perché non mi hai svegliato, Ofelia? È quasi mezzogiorno.
- Ho avvisato l’Intendenza che stavi male. Anzi, ha avvisato Renold ieri sera. Il Polo funziona anche se non lavori per un giorno. Un giorno solo.
- Perché? – le chiese, l’accento del nord più forte che mai. Tendeva a diventare particolarmente marcato quando si innervosiva.
- Da quanto non dormivi così tanto? – rispose lei con un’altra domanda. – Da quando non staccavi, prendendoti una pausa?
Thorn si girò, torreggiando su di lei tanto che l’unica cosa che riusciva a vedere erano il pomo d’Adamo e l’accenno della barba ispida sul mento.
Ofelia prese il suo silenzio come una confessione.
- Oggi non faremo nulla. Ci riposeremo. Dedicheremo del tempo a noi due. Non l’abbiamo mai fatto. Ora torna a letto, faccio portare la colazione in camera.
- È quasi mezzogiorno – ribadì lui, che aveva ripreso il controllo di se stesso.
- Colazione salata – concesse Ofelia, come se il tipo di colazione potesse mettere fine alla questione.
Stava per uscire quando Thorn l’afferrò per il polso. – Perché fai tutto questo?
Ofelia lo fronteggiò con coraggio, e per una volta non si sentì la più bassa dei due, anche se l’evidenza diceva tutto il contrario. – Non voglio rimanere vedova prima del previsto, e tu tieni un ritmo lavorativo troppo serrato. Dormi per un tempo insufficiente al tuo corpo, e prima o poi ti ammalerai. Devo prendermi io cura di te in quanto tua… moglie.
La voce le si spense verso le ultime parole, rendendosi conto che Thorn, che anteponeva qualsiasi infima questione alla sua salute, non avrebbe accettato quelle scuse di buon grado, per quanto fossero innegabilmente vere.
Quando però, invece di rispondere, Thorn la rapì in un abbraccio impacciato e reclamò la sua bocca per uno scopo che non erano le chiacchiere, Ofelia capì di aver vinto.
E che il marito quella mattina aveva un altro tipo di fame, più impellente.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Ok sì.
Ok. Sì.
Lo ammetto. Thorn non è molto Thornoso in questo capitolo. Ma ormai mi sono rassegnata: questa fic sarà non proprio canon. Anche perché una situazione del genere non potrà mai verificarsi MA COMUNQUE. Abbiamo tutti bisogno di momenti dolci tra Ofelia e Thorn, quindi mi incarico io di darveli. Perché io per prima ne ho bisogno.
E niente, buon miele^^


Capitolo 5

Ofelia sentiva su di sé lo sguardo intenso di Thorn, che reclamava la sua attenzione con la forza di una morsa d’acciaio, mentre lei imburrava un panino. Ma non voleva mostrargli il viso imbarazzato, non quella mattina. Nel giro di un giorno avevano dato libero sfogo ai loro impulsi come…
Era così pudica da non riuscire nemmeno ad articolare dei pensieri di imbarazzo coerenti. Soprattutto perché in lei prevaleva un senso di appagamento e serenità che superava qualsiasi altro disagio. Inoltre, si rendeva conto che era ciò di cui Thorn aveva bisogno, non tanto perché era un uomo che non era stato toccato per anni da una donna, quanto perché era un essere umano che non era stato considerato nemmeno tale dai suoi simili, dai suoi stessi familiari, per anni. Doveva recuperare quel tempo, in qualche modo.
Giustappunto, fu strappata alle sue elucubrazioni quando il mento del marito, ricoperto da una leggera barbetta pruriginosa, le solleticò il collo, respirando contro il suo orecchio.
Ofelia si affrettò ad allungargli il pane imburrato, che Thorn morse direttamente dalla sua mano, senza allontanare lo sguardo da lei.
- Promettimi che cercherai di mangiare di più e prendere peso – impose lei di punto in bianco, rompendo il silenzio.
Thorn si irrigidì impercettibilmente, allontanandosi un poco, di colpo consapevole di tutti i punti in cui i loro corpi si toccavano. O meglio, le sue ossa premevano contro la sua carne. Interpretò la frase come una critica alla sua fisionomia, un contatto sgradevole.
Ofelia lo comprese subito, ormai avvezza ai comportamenti inintelligibili di Thorn: ogni minimo movimento era un intero discorso, e lei sapeva tradurre la sua lingua. Si riavvicinò a lui facendo aderire ancora di più i loro corpi, per rassicurarlo. Poi gli fece strappare un altro morso dal pane.
- Lo dico per una questione pratica, Thorn. Io ho perso peso in questi giorni di degenza, ma posso permettermelo. Se dovesse capitare a te di ammalarti, non avresti riserve a cui attingere per prendere forza. E se non riuscissi ad assimilare il cibo il tuo corpo di cosa si nutrirebbe? Di ossa?
Thorn non rispose, finì in silenzio il suo pane e poi baciò Ofelia, che sospirò e rispose, cercando di trattenere un sospiro.
- Ho il vassoio sulle gambe… – lo ammonì quando si spinse troppo in là nei gesti.
Si ritrasse fulmineamente, come scottato, passandosi una mano tra i capelli. Si rese conto di essere estremamente in disordine ma, con grande stupore di Ofelia, non fuggì in bagno per rassettarsi. Rimase immobile a fissarsi le mani, e poi le cicatrici sulle braccia e sul torso nudo.
- Scusami – biascicò dopo poco. – Mi sembra ancora così irreale… questo momento. Io non…
La sua voce si spense, ma Ofelia non lo aiutò a concludere. Lei capiva senza bisogno di parole. Prese dei quadratini di frutta già tagliata (la cuoca aveva capito che era meglio tagliarle già tutto quando Ofelia era andata da lei con le mani piene di ferite per via del coltello che le scappava dalle mani) e li immerse nello yogurt con qualche scaglia di cioccolato e del miele, voltandosi di nuovo verso Thorn.
 - Posso mangiare da solo – bofonchiò, allungando la mano per sottrarle tazza e cucchiaio.
Mangiarono in silenzio per alcuni minuti, Ofelia dividendo le porzioni e assemblando piccoli dolci tra la varietà di panini, quadratini di burro, marmellate, cioccolate, uova e affettati, Thorn accettando di buon grado tutto ciò che lei gli porgeva, anche quando superò di gran lunga la normale dose di cibo di cui aveva necessità.
Ofelia si sentiva piena e felice, leggermente intontita dalla dormita eccessivamente lunga e dalla lauta colazione, che li avrebbe di sicuro saziati fino a cena. Si sdraiò tra i guanciali dopo essersi tolta i guanti e dopo che Thorn le ebbe tolto il vassoio dalle gambe, in modo tale che non rovesciasse nulla o riempisse di briciole il loro letto. Aveva provato fin dall’inizio ad opporsi all’idea di mangiare sullo stesso luogo in cui dormivano, una cosa inconcepibili per lui, come se avesse associato musica e matematica. Ma Ofelia non aveva voluto sentire storie e alla fine l’aveva avuta vinta, come sempre.
La volontà di tuo marito si infrangerà contro la tua. Quella del prozio sembrava essere una vera e propria profezia, ormai adempiuta.
Thorn la imitò, sdraiandosi di schiena accanto a lei, fissando il soffitto, la fronte corrucciata.
Ofelia sospirò e gli si avvicinò, abbracciandolo. – Che c’è che non va?
Thorn era talmente immobile che Ofelia dubitava che sbattesse le palpebre. Nessuno aveva la capacità di rimanere fermo come lui, senza lasciar trasparire la benché minima emozione sul suo volto. La cosa aveva del miracoloso, considerando quanti pensieri affollassero la mente di Thorn, che, come aveva avuto modo di appurare una volta attraverso una lettura, non era altro che un falso calmo.
- Non c’è qualcosa che non va – mormorò lui quando Ofelia stava ormai per assopirsi. – Non mi era mai capitato di non aver nulla da fare.
Ofelia si alzò sul gomito, fissandolo dall’alto. – Mai? Nemmeno un giorno?
Thorn scosse la testa con un gesto secco.
- Cosa ti andrebbe di fare? Rimanere a casa? Oppure possiamo andare a fare una passeggiata, o a visitare un po’ il Polo. Tu di sicuro giri per la tua arca solo per sbrigare le tue incombenze da intendente, mentre io sono riuscita a fare un giro solo appena arrivata qui, sgattaiolando via di nascosto.
Thorn si irrigidì al ricordo, e Ofelia si pentì di aver tirato fuori l’argomento.
- Non possiamo uscire. Io dovrei essere malato. È già grave il fatto che sia qui con le mani in mano.
Aveva ragione. Comunicare all’Intendenza che il funzionario era malato e poi trovarlo in giro per il Polo a passeggio con la moglie non sarebbe solo stato oggetto di gossip spietati, ma avrebbe rovinato la carriera e la reputazione già dubbia di Thorn.
- Quindi stiamo in camera tutto il giorno?
Thorn scrollò le spalle e chiuse gli occhi, per una volta non teso come una corda di violino.
Ofelia scoprì che due minuti dopo si era già riaddormentato.
 
Passarono la giornata in camera, a leggere e giocare a dama, scacchi o carte. Ofelia voleva imparare alcuni giochi di carte del Polo, ma Thorn non ne conosceva nemmeno uno, così fu lei ad insegnare i suoi a lui. Dopo aver sonnecchiato tutto il giorno, temeva che la sera Thorn non sarebbe riuscito a prendere sonno, ma dopo essersi uniti per l’ennesima volta quella sera, le si addormentò letteralmente addosso.
Ofelia sorrise e gli accarezzò i capelli dolcemente, intenerita. Chissà quanto sonno aveva da recuperare. Il suo corpo sembrava aver eliminato tutta la carica nervosa da cui era costantemente elettrizzato. Sgusciando fuori da sotto il suo corpo, Ofelia aprì la finestra per cambiare aria, dopo essersi assicurata di aver coperto per bene Thorn, e riportò il vassoio in cucina. Sperò di non incrociare Renard, ma non fu così fortunata. Lui la guardò, senza dire una parola, ma bastò la sua presenza a farla arrossire come una fiammella, sbattendo contro tre mobili. Renard le prese il vassoio dalle mani e le fece l’occhiolino, prima di darle le spalle e portare il vassoio al suo posto.
Ofelia tornò in camera, si lavò, chiuse la finestra e tornò a letto. Le braccia di Thorn la ingabbiarono immediatamente, e lei rimase a vegliarlo per tutta la notte, dal momento che non aveva sonno arretrato come lui. Se lo tenne stretto al petto e sperò che scaldarlo in quel modo bastasse a renderlo più sereno, non per un giorno solo, ma per il resto dei loro giorni.
 
Nonostante fosse abbastanza impossibile capire quando di preciso, durante quella notte e il giorno che era seguito, lei e Thorn fossero riusciti a concepire un bambino, Ofelia era certa che fosse successo in doccia. Thorn, invece, che fosse successo dopo cena.
La nausea quella volta non fu colpa dell’influenza, e non arrivò nulla a smentire il presentimento di Ofelia.
Quando, un mese e mezzo dopo, era ormai certa della cosa, chiese a Renard di mandarle Thorn in camera appena fosse rientrato dall’Intendenza, prima della cena.
Thorn entrò senza nemmeno bussare, con la fronte aggrottata. Ofelia capì che era preoccupato. Non l’aveva mai fatto convocare, era normale pensare che fosse per un motivo spiacevole.
- Stai bene? Ti è successo qualcosa?
Ofelia aprì la bocca, ma le parole le morirono in gola.
- Ofelia? – la incalzò lui, avvicinandosi per scrutarla negli occhi come un medico, prendendole la temperatura e attendendo. – Cosa succede?
Aveva paura della sua reazione. Tutto ad un tratto, Ofelia aveva paura della reazione del marito nell’apprendere quella notizia.
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia, facendo rattrappire la cicatrice. Stava per intimarle di parlare quando ci pensò il suo stato a palesarsi.
Ofelia corse in bagno a vomitare, mentre Thorn la seguiva in fretta per tenerle i capelli lontani dal viso e rinfrescarle la fronte con le mani fredde.
- Hai contratto ancora un virus? Ma non hai la febbre.
Ofelia, imbarazzata, scosse la testa e andò a sciacquarsi nel lavandino. Incapace di guardarsi allo specchio, e di guardare lui, si affrettò fuori dalla porta.
- C’è tua zia a cena. Con Vittoria – disse per cambiare argomento.
La fronte di Thorn era corrugata al massimo, ma Ofelia non gli diede la possibilità di fare domande. Uscì dalla camera sperando che la seguisse in fretta.
 
A tavola Berenilde chiacchierava come una matta in merito alle nuove coppie di Chiardiluna, e ai matrimoni sfasciati. La zia Roseline, ormai avvezza a quei pettegolezzi, le dava corda, mentre Thorn non smetteva di fissare Ofelia, che cercava di mascherare il disgusto che provava per il pezzo di pregiata carne che aveva nel piatto. Aveva sempre amato la carne, ma in quel momento avrebbe voluto solo una torta al cioccolato.
Vittoria, in braccio a lei, stava implorando con gli occhi la cugina di farsi animare il disegno di una bambina tagliuzzato con la carta, ma nel suo stato d’animo Ofelia riuscì solo ad irritare il foglio, che si mosse sul tavolo come un vermiciattolo in agonia. Vittoria ne fu oltremodo delusa all’inizio, ma alla fine rise e scappò via con il suo nuovo gioco.
Berenilde smise di lanciarle occhiate furtive e le si rivolse apertamente. – Va tutto bene, cara Ofelia? Non avete quasi toccato cibo, eppure non avete mai rifiutato un pasto.
Ofelia giocherellò con le posate, intimorita all’idea di incrociare il suo sguardo. Berenilde aveva occhio per certe cose, tanto più quando le bramava da mesi. Se avesse risposto che aveva la nausea sarebbe stata la fine.
- Non ho molto appetito – mentì. – Cosa c’è per dessert?
Doveva avere una fetta di torta al cioccolato, e l’avrebbe avuta, fosse stata costretta ad attraversare tutti gli specchi del Polo. Con la coda dell’occhio vide che Thorn non tagliava più la carne, ma la fissava con il suo sguardo metallico e penetrante.
- Credo ci sia la torta di mele – intervenne la zia Roseline, che sapeva che Ofelia l’adorava.
La sola idea delle mele cotte fece storcere il naso alla nipote, invece, che mise da parte la carne e si servì le verdure per riempirsi lo stomaco. Fece l’errore di sollevare lo sguardo e incrociare gli occhi intensi di Berenilde, che la bruciavano viva, curiosi come non mai. Consapevoli.
La madama però non chiese nulla, buttò un occhio su Vittoria, sorbì un goccio di vino e riprese a conversare amenamente con Roseline.
L’essere calcolatori e strateghi, però, non era un’esclusiva di Thorn. Non a caso lui e Berenilde erano parenti…
- Sono felice che Vittoria abbia la possibilità di crescere con un cuginetto della sua età. Possiamo crescerli come si deve e riportare in auge il clan dei Draghi, cancellando tutto l’odio, la cattiveria e la competizione che c’erano prima. E poi, potreste avere un secondo figlio a poca distanza dal primo. Giusto, Ofelia?
Ofelia stava svogliatamente scomponendo la torta di mele, che ormai era solo una torta dato che aveva ammonticchiato di lato il frutto cotto, così rispose automaticamente, senza riflettere. – Io attenderei un po’ prima del secondo, per vedere come andrà questa gravidanza e come crescerà il bam… bino.
Gli occhi le si erano spalancati per la sorpresa sulle ultime sillabe, la voce le era mancata. Tutti, persino i mobili, la stavano fissando. Sentiva gli occhi di Renard, alle sue spalle, sulla schiena, fissava quelli vittoriosi e luminosi di Berenilde, percepiva quelli della zia sulla nuca. Ma più di tutti, quelli di Thorn le stava scavando un buco nell’anima, profondo e poco piacevole.
- Sei incinta cara? – chiese la zia Roseline, ponendo la domanda di cui tutti ormai immaginavano la risposta.
Ofelia voleva provare a negare, tentare, ma sapeva di essere una pessima bugiarda. E poi, lo avrebbero scoperto presto tutti quanti, quindi…
- Presumo di sì – bisbigliò, fissando i pezzi la mela cotta nel piatto, d’un tratto molto interessante.
Le due donne si misero ad urlare e parlare insieme, le posate e i piatti a sbatacchiare, e nella cacofonia generale Ofelia ebbe un colpo di vertigini e non capì più nulla. Colse qua e là le parole “ricevimento”, “evento”, “matrimonio” e “parto dell’anno”, ma non ne comprese il significato. Non avrebbe capito nulla finché non avesse guardato Thorn, cosa che lei non voleva assolutamente fare.
Si azzardò a sbirciarlo solo quando Berenilde si avvicinò a lui saltando, con Vittoria in braccio, per abbracciarlo e congratularsi. La zia Roseline era commossa e agitata e stava cercando la carta per inviare subito un telegramma alla famiglia. Vittoria correva in giro, i domestici si affrettavano a sparecchiare per evitare che nella foga venisse rotta qualche porcellana, Renard vagava inquieto per la stanza, raggiante. E Thorn, immobile come una statua, bianco come un cadavere, la fissava con gli occhi da sparviero spalancati e freddi, la cicatrice allungata e le sopracciglia sollevate. La massima espressione di stupore che Ofelia gli avesse mai visto in volto. Non esattamente felice.
Era come se qualche Miraggio fosse intervenuto per creare il caos, o come se nella famiglia, su Anima, si fossero concentrati in un sol giorno un anniversario, un matrimonio, un compleanno, una nascita e una Festa della Radiotrasmissione. Ofelia ne approfittò per alzarsi e scappare in camera, senza essere seguita da nessuno.
Chiusasi la porta della stanza alle spalle, le sembrò di essere finita su un’altra arca, tanto era il contrasto che regnava tra il salotto affollato e cacofonico e quella stanza buia e silenziosa. Si sedette sul letto e si prese la testa tra le mani.
Non sapeva quanto tempo fosse passato quando sentì la porta della stanza aprirsi e illuminare momentaneamente l’interno, per poi chiudersi. L’alta figura austera di Thorn sarebbe risultata invisibile se gli occhi di Ofelia non si fossero abituati al buio in quei minuti. Accese la luce e si alzò per affrontarlo. Ne aveva passate di peggio, poteva permettersi di fronteggiare il marito in quella situazione, qualsiasi fosse la sua reazione.
Sospirò. – Thorn, io…
Lo slancio dell’abbraccio le mozzò le parole in gola e il fiato nei polmoni, facendola risprofondare nell’oscurità. Il marito occupava sempre tutto il suo campo visivo, rendendola cieca ogni volta che la stringeva a sé. Quando fu evidente che non intendeva lasciarla andare, Ofelia si rilassò e lo abbracciò a sua volta, lasciandosi cullare dal battito accelerato del marito, il cui cuore sembrava volesse scappargli dalla gabbia toracica. Se non fosse stata sicura che era cosciente, si sarebbe chiesta se in realtà Thorn non fosse svenuto.
- Thorn… - sussurrò dopo alcuni interminabili minuti. Era l’abbraccio più lungo della sua vita.
- Perché non mi hai avvisato subito? Perché hai dovuto dirlo agli altri, prima?
La sua voce cavernosa le riverberò nel petto e le fece vibrare l’anima. Lui non accingeva a muoversi di un millimetro, intrappolando anche Ofelia, che percepì nelle sue braccia come nel tono della sua voce tutta la possessività di Thorn. Lei era sua, voleva metterlo in chiaro con quella stretta.
- Non è che ho avvisato prima gli altri… - bisbigliò lei, sperando che la sentisse nonostante la voce bassa. – Tua zia ha occhio per queste cose, non serve farne una questione.
Thorn l’allontanò quel tanto che bastava per guardarla negli occhi, dall’alto.
- Mi fai venire il torcicollo – brontolò lei che invece non lo vedeva, con suo costante disappunto.
Thorn si sedette sul bordo del letto e lei gli si avvicinò, in piedi, per essere alla sua stessa altezza. Più o meno…
- Non mi hai dato subito la notizia, appena sono arrivato a casa, anche se mi avevi fatto convocare qui. Avremo potuto decidere insieme come e quando comunicarlo agli altri, e intanto tenere la notizia per noi. Visto che è una cosa che più che mai riguarda noi.
A Ofelia il cuore partì come un motore a scoppio. Era così insolito e dolce sentirlo parlare di loro due usando il “noi”. Avevano sempre avuto una relazione in cui ognuno cercava la propria indipendenza e la imponeva all’altro, invece in quel momento erano in due, uniti, in procinto di affrontare un viaggio che da soli non avrebbero potuto sostenere. Si è genitori in due, sempre.
A Ofelia si inumidirono gli occhi, mentre quelli di Thorn si spalancarono. Lo vide passarsi nervosamente una mano tra i capelli ordinatissimi e grattarsi la gola, a disagio, incerto su cosa dire o su quale fosse il motivo che aveva scatenato quello stato d’animo.
- Avevo paura della tua reazione – balbettò tra le lacrime, che sgorgavano dagli occhi come gocce di pioggia su una finestra. Silenziose. Limpide. – Tutto è successo così in fretta.
Thorn distolse lo sguardo, impacciato. – Era normale che succedesse. Stavamo… agendo in modo che accadesse. E poi la tua famiglia è… molto feconda e…
Quelle frasi spezzettate e confuse si persero nella notte. L’eloquenza di Thorn era buona in campo lavorativo quanto pessima in ambito sentimentale. Voleva farsi capire ma non ne era in grado.
Alla fine optò per toglierle i guanti con delicatezza e prendere le sue minuscole mani nelle sue ossute e lunghissime dita: riusciva ad inglobarle tutte insieme, e quella differenza di dimensioni tra loro lo aveva terrorizzato, all’inizio. Lei era così piccola in confronto a lui. Sarebbe stata indifesa anche se lui non avesse avuto gli artigli con cui fare i conti, da cui proteggerla.
Guardandola bene negli occhi, umidi e luminosi, strinse ancora di più le sue mani. – Volevo solo che fosse un momento nostro. All’inizio. Invece già ora lo sanno metà Polo e metà Anima.
Ofelia sorrise, sollevata. Voleva asciugarsi le lacrime e soffiarsi il naso, ma non osava togliere le dita da quelle gelide di Thorn. – Sei felice, quindi?
Lui sollevò le sopracciglia, lasciandole cadere le mani. – Temevi che non lo fossi?
Fu il turno di Ofelia di distogliere lo sguardo, pulendosi il viso con la manica del vestito. – Non lo so… forse volevi aspettare. Una parte di me non riesce a smettere di pensare al fatto che i bambini non ti piacciono per niente.
Thorn la tirò verso di sé per la vita e la baciò per zittirla. Sul mento aveva già un piccolo accenno di barba che si sarebbe rasato l’indomani mattina. Odorava di inchiostro e tabacco da pipa, ma anche un odore particolare che era la sua essenza. Odore di freddo e di vento.
Ofelia si staccò troppo presto da quel bacio, per i suoi gusti, ma voleva una risposta sincera e concreta, ufficiale. – Sei felice?
I tratti del viso di Thorn si rilassarono, come di rado accadeva, e Ofelia avrebbe giurato di aver visto un angolo della sua bocca sollevarsi in un sorriso sfuggevole, ma fu solo un attimo. – Sono felice – rispose con voce atona, che fece quasi ridere Ofelia. Non si smentiva mai. - Anche qualcosa di più.
Le lacrime ricominciarono a scendere sul suo viso, lacrime di gioia questa volta, e Thorn cercò di asciugargliele con i pollici come meglio poteva. – Perché piangi ora? – le chiese, con una scintilla di curiosità come unica testimone delle emozioni che stava provando in quel momento.
Lei rise, contenta, si sollevò la gonna e si sedette in braccio al marito, prendendolo così alla sprovvista che gli mozzò il respiro. Seppellì il volto nel suo petto e sentì il suo cuore battere come un forsennato, manifestando con il suo ritmo irrequieto che Thorn non era così calmo come mostrava all’esterno.
- Piango perché sono tanto felice. Grazie, Thorn.
Mai si sarebbe aspettata una scena del genere nel suo futuro. Così come mai Thorn si sarebbe aspettato di essere felice, nella sua vita. Se poi ripensavano alle circostanze del loro fidanzamento, il loro abbraccio in quel momento sembrava un miracolo.
Thorn la strinse forte e nascose il volto nella sua spalla, commosso. Versò una lacrima di cui Ofelia non sarebbe mai venuta a conoscenza, sentendosi realizzato. Se il suo scopo nella vita fosse stato quello, quel momento, vedere Ofelia felice grazie a lui e morirne, avrebbe accettato il suo destino migliaia di volte. Invece avevano ancora un lungo cammina davanti a loro, e Thorn sperò che potessero essere tutti così i restanti giorni delle loro vite.
Alla fine, stremata dalla lunga giornata e dalla tensione che le era albergata nel petto per tutta la serata, Ofelia si addormentò in braccio a Thorn. Lui la prese delicatamente e la mise a letto, togliendole di dosso tutto a parte la sottoveste, senza nemmeno arrossire. Però le fece indossare di nuovo i guanti, perché non toccasse le coperte e dormisse sogni agitati. La contemplò alla luce della luna per alcuni instanti prima di coprirla, il volto sereno e i capelli scarmigliati sul cuscino, il respiro lento e regolare. Sembrava così piccola… e così bella, anche se non lo avrebbe mai detto ad alta voce. Quando si allontanò sentì una morsa stringerli il cuore, a dimostrazione del fatto che ne aveva uno, e funzionava anche bene.
Appena si chiuse la porta alle spalle, però, sentì un dolore alla bocca dello stomaco, un riflusso di acidità. Fece una smorfia: doveva andare a zittire le due zie che stavano facendo un baccano d’inferno nel suo soggiorno.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Eeeee ormai sta diventando una ff vietata ai diabetici. E mi sa che Thorn è un po' fuori fase ma, oh, ne ho bisogno ahahaha. Per un Thorn IC c'è Into the Deep, qui Thorn è un po' più morbidino.
Non troppo però, dai. Solo un po'.
Grazie mille a tutti voi che leggete^^


Capitolo 6

A nulla valsero le raccomandazioni di Thorn circa il mantenere un basso profilo e il non dare spettacolo. Un mese dopo la notizia le zie avevano organizzato in casa dei due futuri genitori un ricevimento cui avrebbero preso parte gli amici di Berenilde, tra cui i membri della Rete, Archibald e sorelle, e ventuno Animisti, parenti stretti di Ofelia.
- Come possono essere tutti e ventuno parenti stretti?! – aveva borbottato Thorn quando era arrivato un telegramma di autoinvito al Polo per festeggiare la lieta novella.
Ofelia lo aveva guardato in tralice, risentita. Non li vedeva da una vita. – Ti ricordo che siamo tutti parenti, su Anima, un’unica famiglia. Ventuno sono anche pochi se consideriamo il fatto che abbiamo ignorato i cugini di secondo e terzo grado e i loro figli.
Thorn non aveva ribattuto, ma Ofelia era sicura di averlo visto con un’espressione terrorizzata per un secondo, prima di riprendere il controllo del suo volto.
La serata in onore del nascituro sarebbe potuta andare peggio, a conti fatti. Archibald aveva salutato la padrona di casa baciandole entrambe le guance e massaggiandole la pancia appena arrotondata, quasi invisibile, davanti a tutti. O meglio, davanti al marito, che in risposta gli aveva fatto sanguinare il naso con un solo battito di ciglia, con gran divertimento del diretto interessato. Le reazioni di Archibald erano imprevedibili quanto quelle di Thorn inesistenti. Agata, sua sorella, aveva cercato con ogni pretesto di rimanere sola con Ofelia per farsi raccontare i dettagli del concepimento, con qualche informazione piccante su come fosse Thorn sotto quell’ambito. Ofelia, imporporata come non mai, era stata salvata Renard che, vedendola accaldata e in difficoltà, aveva pensato che fosse stanca e l’aveva portata via dalla sorella per farla riposare in un luogo fresco. Berenilde aveva tenuto banco promettendo a vari nobili che Ofelia non aveva mai visto che il bambino si sarebbe chiamato come quella duchessa o quel conte, in base al legame di amicizia che provava con quelle persone in quel momento. Il prozio le aveva girato intorno per tutta la serata, scrutandola, per poi chiederle come nascondesse i lividi che Thorn sicuramente le procurava. Confusa, Ofelia gli disse che il marito si prendeva cura di lei e non le avrebbe mai nuociuto.
- Ah! – lo aveva sentito borbottare tra sé mentre si allontanava. – Allora hai ceduto, eh, figliola? E sì che mi avevi detto che non avresti mai condiviso nulla con lui…
Era stata una delle serate più imbarazzanti della sua vita, e il suo disagio si era tramutato in due bicchieri rotti, un tappeto frenetico che faceva inciampare gli ospiti e bottiglie di champagne in costante ebollizione di schiuma. Un conto era conoscere i pettegolezzi diffusi in merito alla loro vita coniugale, un altro era vedersi rivolgere occhiate ammiccanti e incoraggiamenti a darci ancora più dentro la volta seguente.
Quando la casa fu di nuovo silenziosa era quasi l’alba. Ofelia era così stanca che voleva piangere e andare a letto senza nemmeno guardarsi allo specchio. La sciarpa le si arrotolava tra i capelli per consolarla, rendendoli ancora più indomabili e voluminosi.
Fu Thorn a spogliarla senza dire una parola, intuendo la sua stanchezza, togliendole delicatamente i vestiti e lasciandola mezza nuda a letto, pronto a rimboccarle le coperte. Quando la coprì per bene, come un papà con la propria bambina malata, le accarezzò il viso e la fissò intensamente come solo lui sapeva fare, destabilizzandola. Sembrava in procinto di dire qualcosa, senza però riuscire a farlo. Ofelia attese pazientemente, cercando di spronarlo con lo sguardo, leggermente umido e stanco.
Thorn alla fine si chinò su di lei e appoggiò la fronte contro la sua. – Sono orgoglioso che tu sia mia moglie.
Poi si chiuse in bagno e Ofelia sentì l’acqua della doccia scorrere, senza però riuscire ad afferrarne il suono. Tra tutte le cose che Thorn aveva ammesso, comprese le poche volte in cui le aveva detto “ti amo”, quella era di gran lunga la cosa più dolce che le avesse mai confessato. Se ripensava ai loro primissimi giorni insieme, quando lui si vergognava di lei e la nascondeva, o la osservava con disprezzo misto a sdegno, quello era decisamente un passo avanti.
Del tutto sveglia, Ofelia sgusciò via dal letto e perse quel poco di abbigliamento che le rimaneva addosso nel tragitto verso il bagno. Thorn non si chiudeva mai dentro, fortunatamente. Voleva fargli una sorpresa, anche se non era proprio il tipo di uomo a cui avrebbe fatto piacere. Oltretutto, avrebbe rischiato di beccarsi un’artigliata non richiesta, quindi l’effetto sorpresa era decisamente sconsigliabile.
- Thorn? – lo chiamò lei con una vocina piccola.
- Stai male? – rispose subito lui, aprendo uno spiraglio delle porte di vetro opacizzato della vasca. Avevano dovuto chiamare degli idraulici per riuscire ad adeguare il vano doccia all’altezza spropositata di Thorn, altrimenti costretto a ripiegarsi su se stesso per poter stare sotto il getto d’acqua.
Le sopracciglia schizzarono verso l’alto quando la vide di fronte a sé, rossa in volto, senza occhiali e soprattutto senza nulla indosso. Voleva, per una volta, fare un’entrata a effetto, trionfale, ma inciampò nello scalino della porta e crollò addosso a Thorn, che si appoggiò di peso alla parete gelida alle sue spalle. La presenza di Ofelia, però, nuda tra le sue braccia, sembrava averlo destabilizzato più della quasi caduta.
- Anche io sono orgogliosa che tu sia mio marito – gli disse a mezza voce prima di chiudere la conversazione.
Quando tornarono a letto Ofelia ne era ormai certa: il loro bambino lo avevano concepito in doccia. Massaggiandosi l’accenno di rigonfiamento sul ventre, si sdraiò accanto a Thorn, che le cinse i fianchi come a voler proteggere sia lei che la vita che portava in grembo.
 
Ci volle un’immane opera persuasiva per ricacciare su Anima i parenti. Sei mesi erano lunghi da passare tutti insieme. La mamma e la sorella di Ofelia le promisero che sarebbero state presenti ben un mese prima della nascita, per godersi ogni istante insieme.
- Mi chiedo come tu possa essere quella che sei oggi nonostante l’infanzia trascorsa in un nido del genere – le disse Thorn, senza inflessioni, quando se ne furono andati, sorbendo il caffè e leggendo il giornale durante la colazione, senza nemmeno alzare gli occhi. Aprì e chiuse l’orologio senza quasi guardarlo, come suo solito.
Ofelia increspò la fronte, confusa, ma non volle indagare oltre.
La gravidanza procedette lenta e piena di aspettative, tra i consigli di Berenilde e della zia Roseline, che ogni tanto bisticciavano su chi avesse ragione tra le due. L’unica da cui traeva un vero conforto era Vittoria, che le regalava bellissimi disegni di lei e una bambina che giocavano insieme in diverse situazioni.
- Potrebbe essere anche un maschio, Vittoria – le fece notare un giorno Ofelia, di fronte all’evidenza che nei disegni della piccola c’erano sempre e solo due bambine.
Ma Vittoria scosse la testa e Ofelia non insistette oltre.
- Ho il presentimento che sarà femmina – disse una sera a Thorn, prima di addormentarsi. La pancia aveva ormai le dimensioni di un melone e lei ne andava fiera, accarezzandosela come una palla di cristallo prezioso.
Thorn aveva avuto una giornata pesante, testimone il suo ritardo a cena e la sua scarsa loquacità, più scarsa del solito, a dire il vero, così Ofelia pensò di tirargli su il morale con una notizia diversa dal solito. Lui si voltò a guardarla, inespressivo come sempre, mentre dalle palpebre socchiuse filtrava il bagliore metallico degli occhi.
- Come fai a dirlo?
- Mi fido del sesto senso di Vittoria.
Thorn tornò a fissare il soffitto, senza ribattere. Dopo poco Ofelia percepì il suo petto vibrare e udì un suono strozzato e cavernoso riempire ogni angolo della stanza. Si alzò sui gomiti, facendosi ricadere i folti ricci sul volto, per cercare di sondare l’espressione di Thorn attraverso la miopia, ma era tutto avvolto nella nebbia. Dopo che si fu rimessa gli occhiali, non prima di aver rovesciato un bicchiere d’acqua con un fracasso di vetri rotti, vide che sul volto del marito capeggiava una strana smorfia. Ci mise alcuni istanti per rendersi conto che voleva essere un’espressione divertita.
- Che succede? – gli chiese, confusa.
Thorn scosse la testa, respirò e chiuse gli occhi, mentre i tratti del suo volto tornavano leggermente accigliati, come sempre. – Niente di grave. Mi stavo solo interrogando sulla piega che ha preso la mia quotidianità.
Ofelia aspettò che un seguito che non arrivò. – Cosa intendi dire?
I suoi occhi affilati si riaprirono di scatto e la fissarono con intensità, con un movimento così repentino che Ofelia ebbe le vertigini al posto suo.
- I numeri e la logica, l’algebra e le probabilità matematiche sono state la mia unica certezza. Affidabili, certi, calcolabili, prevedibili. Poi sei arrivata tu, che infrangi qualsiasi calcolo probatorio con la stessa frequenza con cui infrangi la stoviglieria, e tutto quello che mi mancava era proprio una cugina di tre anni che sa anticipare il sesso del nascituro che porti in grembo. Del tutto irragionevole, illogico, irrazionale…
Ofelia gli tappò la bocca con un bacio, e quando si staccarono da quel contatto avevano entrambi il fiato corto.
- …imprevedibile. – continuò Thorn, imperterrito, come se Ofelia non l’avesse interrotto. – Il cuore. Un organo la cui funzione è quella di pompare il sangue nel corpo, compito che assolve in maniera egregia, senza un crollo, una pausa o un’interruzione. È il miglior lavoratore, dovremmo tutti prenderne esempio. Instancabile. Addirittura aumenta il ritmo lavorativo quando il corpo glielo richiede, in un momento di sforzo fisico. E tu sei riuscita ad ingarbugliarmi pure quello, Ofelia. Ora accelera quando non dovrebbe, salta alcuni battiti che non dovrebbe mancare, si ingrossa, si stringe, mi duole e…
Il discorso si perse, la voce si spense, e Thorn non fu più in grado di continuare. Era il pensiero più lungo che Ofelia gli avesse mai sentito esprimere a voce. Con la testa posata sul suo petto nudo, sentì il suo cuore battere furiosamente. Aveva effettivamente mancato un battito quando gli si era accostata, ma poi aveva ripreso a ritmo doppio. Quando sollevò il viso, notò che Thorn era leggermente imbarazzato.
Ofelia rise di fronte a quel marito che sapeva essere più imprevedibile di lei, duro come una statua di ghiaccio e fedele solo alle certezze algebriche. Granitico. Eppure da qualche tempo stava facendo filtrare un po’ di sé dalla breccia che lei aveva inferto alla sua armatura, e di questo era fiera.
- Amo che tu sia così logico e impassibile. Sei sempre sicuro e certo di ciò che fai.
- Mai – la contraddisse, stentoreo, lui.
- Ma lo fai apparire come tale. È come se per te nulla fosse impossibile, come se avessi sempre tutto sotto controllo.
Thorn le accarezzò la gota e le ravviò all’indietro i capelli, per vederla bene in volto. Era bello essere più basso di lei, una volta ogni tanto, e notare su quel viso che tanto amava dei dettagli che dall’alto non riusciva a cogliere.
- E io amo che tu riesca sempre a demolire queste mie presunte certezze. Se c’è una probabilità minima che una cosa accada, tu la rendi una sicurezza, e viceversa.
Ofelia era contenta come se le avesse rivolto un complimento sublime. – Mi piace destabilizzarti.
- Ho notato che hai preso gusto nel farlo – borbottò lui, di umore indefinibile nonostante avesse riso pochi minuti prima.
Una cosa più imprevedibile delle azioni di Ofelia, però, erano i baci di Thorn. Arrivavano sempre all’improvviso, senza avvertimento, nei modi e tempi più disparati. Quando usciva dalla doccia, ancora bagnato, prima di andare ad asciugarsi, o quando si ritrovavano in casa in un angolo morto, e lui l’afferrava per il braccio e le dava un bacio rapido prima di andarsene, prima di addormentarsi, o quando cenavano da soli e i domestici non si facevano vedere, e anche sul divano, quando leggevano, e lei si trovava letteralmente inghiottita dalla sua ombra.
O come in quel momento, dopo aver appena concluso un discorso. Era lui il padrone della sua bocca, e ne approfittava a piacimento. Lei, dal canto suo, sceglieva come e quando concedersi, dietro suo sommo stupore. Divisione dei compiti.
- Sì, ci ho preso gusto – mormorò quando si staccarono, fissandolo sorridendo. – Anche qualcosa di più – aggiunse, citando la frase che il marito diceva spesso.
Lui increspò la fronte. – Quindi dobbiamo cercare un nome da femmina.
A quello Ofelia non aveva pensato.
- Siamo terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia – continuò, completamente dimentico del discorso quasi romantico di poco prima. – Ci sono oggetti da comprare, esami a cui sottoporti, pratiche da sbrigare e…
- Thorn – lo interruppe lei, posandogli una mano sul petto. – Mancano ancora dei mesi, non deve nascere domani.
Lui non aggiunse altro, ma si capiva che le sue parole non lo avevano calmato del tutto. Ofelia sospettava che nel giro di tre giorni sarebbe tornato a casa con il kit completo “prima infanzia” e “cura del neonato”. Era fatto così.
- Che ne dici di chiamarla come tua nonna?
Thorn inorridì. Ofelia sgranò gli occhi di fronte alla sua espressione schifata, la più eloquente che gli avesse mai visto in volto. Poi scoppiò a ridere, facendolo tornare alla sua solita facciata corrucciata, e non parlarono più, anche se Ofelia ogni tanto ridacchiava a intermittenza.
 
- Senti come scalcia! – esclamò Berenilde, euforica, seduta sul divano del soggiorno con Ofelia e la zia Roseline, che fissava la pancia della nipote come se fosse un premio di cui essere orgogliosi.
Berenilde palpeggiava in tutti i modi il ventre della nipote acquisita, dimentica del tè che avrebbe dovuto bere già da diversi minuti. La bimba aveva iniziato a farsi sentire quel pomeriggio, scalciando una o due volte, ma quella sera si era proprio svegliata.
- Un Drago fatto e finito, ha già voglia di combattere. Non sei contenta, Vittoria? – tubò Berenilde, staccandosi momentaneamente dalla pancia di Ofelia per accarezzare la figlia, che sorrise e annuì in silenzio.
Dall’altro capo del soggiorno, seduto rigidamente su una poltrona, Thorn fissava con sguardo glaciale la zia e la moglie, passando dall’una all’altra con malcelato fastidio. Ofelia lo guardava con insistenza e preoccupazione, cercando di capire cosa non andasse, ma non riusciva a venire a capo del malcontento del marito.
Berenilde stava parlando alla pancia di Ofelia, infastidendo anche quest’ultima, quando suonarono alla porta.
Archibald fece il suo ingresso scortato da Renard, che aveva gli occhi sbarrati e fissi su Thorn, il quale tollerava a mala pena la presenza del consigliere, figuriamoci quella di Archibald.
- Sono venuto a trovare la giovine madre moglie di Thorn! – esclamò con gioia eccessiva e non richiesta.
Quando si rese conto che Berenilde, raggiante, stava letteralmente coccolando la pancia ingrossata di Ofelia, si inginocchiò di fronte alla stessa e allungò una mano.
- Sta già scalciando? Ma che piccolo bambino esagitato. Sarà uno spasso vederlo crescere con una madre come voi e un padre come l’intendente. Davvero divertente. Dove posso appoggiare la mano per sentir…
Ad Ofelia non irritava la presenza di Archibald. Per quanto a volte non lo capisse, sapeva che non era cattivo, che l’aveva aiutata tanto quanto le aveva avanzato proposte indecenti, cioè molto, e che in fondo teneva a loro, sia come amico che come padrino di Vittoria. Ma per Thorn era un altro paio di maniche.
- Fareste meglio a tenere le vostre mani lontane da mia moglie se volete rientrare a casa con tutte le dita – sibilò Thorn con voce granitica e scricchiolante, impregnata dal suo marcato accento ed esplosiva come un tuono nel soggiorno improvvisamente silenzioso.
Archibald si voltò a fissarlo, sorridendo beato. – Stavo solo porgendo i miei omaggi alla splendida creatura che avete contribuito a creare e alla sua splendida madre, caro intendente.
Thorn si alzò, con un movimento che parve chiedere diversi minuti per essere portato a termine, e si avvicinò al trio appollaiato sul divano porgendo una mano alla moglie. La zia Roseline seguiva il teatrino dal divanetto accanto come se fosse la più interessante scena cui avesse assistito in vita sua.
Ofelia aggrottò le sopracciglia, senza capire. Thorn le porgeva la mano per portarla via, Archibald aveva la sua sospesa sopra la sua pancia, mentre quella di Berenilde continuava ad accarezzarla, anche se ormai era ferma su un punto, assorbita dai movimenti del nipote. Troppe mani.
- Desidero parlarti in privato, Ofelia – sibilò Thorn con durezza, fissando le sue stesse dita per incoraggiare la moglie ad afferrarle.
Ofelia lo assecondò e si ritrovò subito in piedi, scortata verso la sua stanza.
- Io e mia moglie dobbiamo discutere di alcune faccende, prendetevi pure il tempo che vi serve – disse come congedo alle due signore e ad Archibald.
Ofelia sbottò appena Thorn chiuse la porta di camera loro.
- Cosa ti prende? Perché quella scenata?
In risposta Thorn le sbottonò il vestito. Ofelia era così sconvolta da aver perso l’uso della parola. Quando si ritrovò di fronte a lui in vestaglia rabbrividì di freddo.
- Thorn, se volevi fare…  - farfugliò, rapita dal suo sguardo intenso, vivo come non mai. – Non potevi aspettare? Con Archibald…
- Quell’individuo non deve permettersi di sentire mia figlia scalciare nel tuo ventre prima di me.
Ofelia ondeggiò. – Come?
Thorn si immobilizzò, trattenendo anche il respiro.
- Sei geloso perché Archibald stava per sentire la bambina scalciare prima di te?
- Anche di mia zia, se è per questo – confermò lui, impassibile. – Hai questa abitudine di farti condividere da tutti.
Ofelia era indignata. – Io non mi faccio condividere! Cosa vorresti insinuare con una frase del genere? Sei irragionevole.
Thorn dardeggiò su di lei uno sguardo furente. – Sei troppo indulgente. Sai cosa avrebbe fatto Archibald dopo aver posato quella mano sudicia sulla tua pancia? L’avrebbe casualmente fatta scivolare verso l’alto, verso il tuo…
Le parole gli morirono in bocca e Thorn arrossì, distogliendo lo sguardo da Ofelia.
Seminuda di fronte a lui, si rese conto che il suo seno, che si era ingrandito per via della gravidanza, effettivamente reclamava l’attenzione. Non le era mancato nemmeno prima di rimanere incinta, ma in quella situazione era un dettaglio che saltava all’occhio senza possibilità di occultarlo.
- Non avrebbe mai… un gesto così spudorato…
Thorn emise un suono a metà tra un ringhio e una risata densa di sarcasmo pungente. – Gliel’ho già visto fare diverse volte. Di fronte ai mariti delle povere donne incinte. Adduce la scusa di sentire il bambino scalciare per poi sfiorare accidentalmente il seno delle ingravidate. Queste ultime si limitano ad arrossire, a ridere anche in certi casi, con sguardi lascivi, mentre i mariti lo guardano impotenti, senza possibilità di poterlo attaccare; per via della sua posizione e dell’intera Rete che osserva la scena attraverso i suoi occhi. Sarebbe un suicidio per loro. Lui invece si diverte.
Ofelia non disse nulla. Effettivamente non le risultava difficile credere che Archibald fosse capace di arrivare a tanto. All’improvviso si sentì estremamente nuda di fronte a Thorn, con la pancia che sporgeva e il seno a mala pena nascosto dalla sottoveste leggera.
- Non gli avrei permesso di toccarti. O di toccare mia figlia.
Ofelia si abbracciò il ventre, in qualche modo scaldata dalla possessività che sentiva nella voce di Thorn.
- Vuoi sentirla? – chiese con voce bassissima.
Fu Thorn a chinarsi per ascoltarla meglio, dal momento che alto com’era non aveva distinto il suo sussurro.
- Vuoi sentirla che scalcia? – chiese di nuovo, dopo che si fu ripiegato per poterla osservare in volto.
In silenzio, annuì una volta sola.
Ofelia si sedette contro i guanciali e attese che Thorn si sistemasse accanto a lei, sul bordo del letto. Quando chiuse gli occhi per concentrarsi e capire dove la bambina si sarebbe mossa, Thorn la fissò con sguardo possessivo, bevendosi ogni curva di lei, da quella della mascella al collo, il seno, il ventre rigonfio sotto il quale si agitava una creatura che lui aveva contribuito a creare. Era tutto suo, e ringraziò che Ofelia non potesse vedere i suoi occhi in quel momento, leggermente umidi.
- Ecco – la sentì sussurrare, mentre apriva gli occhi per prendergli la mano. Rise sommessamente quando se la posò sul lato della pancia, scuotendo la testa. – La tua mano è così grande che me la copri tutta. Non avresti faticato a sentirla nemmeno se l’avessi appoggiata dal lato oppo…
Ofelia si bloccò, stupefatta. Sulla guancia di Thorn luccicava una lacrima argentea come i suoi capelli, che gli tagliava a metà la cicatrice sulla guancia. Non staccava gli occhi dalla sua pancia, e muoveva la mano delicatamente per sentire meglio il piedino della bambina. Di sua figlia.
Non doveva essersi nemmeno accorto di quella lacrima solitaria che stava facendo venire ad Ofelia voglia di piangere di commozione.
- Si muove molto – mormorò, sorpreso, aggrottando le sopracciglia. – Ti fa male?
Quando alzò gli occhi su di lei, fu Thorn a stupirsi. Lacrime silenziose le bagnavano le guance a intervalli regolari, come il principio di un acquazzone, quando le gocce cadono lentamente ma con forza.
- Ofelia! – esclamò preoccupato, spostando la mano per accarezzarle le guance e asciugargliele.
- Scusa, non è niente – balbettò lei.
- Sicura che non ti faccia male? Potremmo vedere un dottore.
Ofelia scosse la testa, sorridendo, il viso ancora protetto dalle sue mani. – Sono lacrime di gioia, Thorn. Va tutto bene.
Lui batté le palpebre due volte per esprimere il suo stupore, poi attirò a sé il suo viso e la baciò con una dolcezza che non aveva mai avuto. Se l’amore avesse potuto prendere forma in un gesto, Ofelia era sicura che sarebbe stato quel bacio. Lo ricambiò con tutta se stessa, muovendosi e raddrizzandosi per avvicinarsi al marito e tirarlo ancora di più verso di sé, la pancia come unico ostacolo.
Poi Ofelia si staccò all’improvviso e rise, massaggiandosi il ventre. Alzò la vestaglia, stupendo Thorn, e accese il lume sul comodino. Si scrutò la pancia nuda, inducendolo a fare lo stesso.
- Guarda – lo chiamò, indicandogli un punto con il dito. – La piccola non gradisce molto queste effusioni, a quanto pare.
Nel punto indicato si intravedeva, con distacchi di alcuni secondi, la forma appena abbozzata di un piedino. Thorn era stupefatto, per quanto poco lo dimostrasse. Coprì la zona con la mano, di nuovo, e fissò Ofelia negli occhi, destabilizzandola con l’intensità del suo sguardo.
- Per essere minuscola ha davvero forza – commentò ammirato. – Non pensavo fosse possibile.
- Sì, e direi che sa già come farsi capire – ridacchiò.
Quando il feto si fu apparentemente calmato, dopo alcuni minuti di silenzio incantato, Thorn fece scivolare la mano verso l’alto, come forse avrebbe fatto Archibald se lui non l’avesse fermato.
Ofelia trasalì e arrossì.
- Dovremmo dare ascolto a nostra figlia non ancora nata?
Le parole “nostra figlia” le fecero scoppiare nel ventre un calore che non riguardava i calci della piccola. Si tolse la vestaglia e rimase nuda di fronte a lui, rispondendogli in quel modo.
Quando si ritrovarono sdraiati faccia a faccia, un po’ di tempo dopo, Thorn riprese la parola. - Ha calciato?
Ofelia lottava contro il sonno, un occhio aperto e uno chiuso, ma trovò la forza di farfugliare: - No, si è calmata. Ha capito che sono i suoi genitori a dover decidere e che lei deve ubbidire.
Thorn la coprì meglio con le lenzuola e l’abbracciò più stretta. – Di sicuro non ha preso dalla madre.
- Sono… troppo stanca per ribattere, ma… ne riparliamo… domani, puoi starne…
Si addormentò a metà frase, perdendosi il bacio di Thorn sulla sua fronte e il minuscolo sorriso che gli aleggiava sulle labbra.
Uno dei primi veri sorrisi della sua vita.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


*sospira* Quanto vorrei leggere delle scene così nel libro ç.ç Per questo conto i giorni che mancano all'uscita *-* Per fortuna non ho gli artigli...
Grazie a tutti in anticipo, vi lascio con una sana dose di dolcezza^^


Capitolo 7

Ofelia aveva delle strane voglie per via della gravidanza. Al di là degli spuntini nel cuore della notte, in cui spesso coinvolgeva anche Thorn, che non tentava nemmeno più di protestare, le era esplosa una tempesta ormonale che lui non sapeva nemmeno lontanamente come affrontare. Aveva imparato a gestire il matrimonio a piccoli passi incerti, prendendo poi confidenza e raggiungendo un buon equilibrio con Ofelia, ma verso i suoi sbalzi umorali non sapeva cosa fare.
Una sera Ofelia uscì dalla loro stanza senza dire una parola e tornò dopo alcuni minuti piangendo senza motivo, rintanandosi tra le sue braccia come una bimba spaventata che si rifugia tra le braccia forti del papà. Alcune mattine dopo, invece, lo svegliò di soprassalto salendogli sopra, mangiandoselo con gli occhi e facendogli prendere una certa paura di fronte a quello slancio quasi selvaggio.
Quel giorno invece era così imbronciata da aver indotto l’arredamento a fare gli sgambetti a tutti. Renard le stava a distanza di sicurezza, pronto a portarle tutto ciò di cui avesse bisogno, Salame litigava con le tende offese e la servitù per lo più gravitava lontano dalla zona affetta dall’animismo di Ofelia, zitta e corrucciata sul divano.
- Qual è il problema? – chiese Berenilde quella sera, mentre Ofelia si intratteneva con Vittoria, che le toccava la pancia e rideva.
La zia Roseline borbottò una risposta inintelligibile, a corto di risposte. Fu Renard, accanto a loro, a svelare l’arcano.
- Il marito le ha vietato di continuare ad esercitare per via della gravidanza. Da ieri lo studio è ufficialmente chiuso, cosa che ha lasciato la padrona molto contrariata. Hanno avuto un diverbio in merito proprio ieri sera.
- Finalmente hai chiuso baracca e burattini, mia cara! – esclamò Berenilde in modo del tutto fuori luogo.
Sia Ofelia che Vittoria alzarono la testa, la prima fulminando la madama, la seconda con aria incuriosita.
- Burattini? – chiese fiduciosa.
Berenilde ignorò la figlia, continuando con i suoi appassionati commenti liberatori. – Una donna del tuo rango non dovrebbe lavorare, Ofelia, non so proprio per quale motivo Thorn ti abbia lasciato carta bianca in merito. Lavorare… pff. Non ne hai bisogno! Hai altri sei castelli, un marito che ricopre un ruolo di prestigio ed è stato insignito alla sua carica da Faruk in persona! È talmente volgare parlarne che ho difficoltà a credere a ciò che sto per dire, ma i soldi non vi mancano, cara Ofelia. Avresti dovuto smettere di lavorare tempo fa! Anzi, non avresti mai dovuto cominciare!
L’impeto di Berenilde le causò una leggera emicrania, ma Ofelia sapeva che non era voluta. In quel caso, almeno. La madama era così appassionata che spesso i suoi artigli reagivano involontariamente al suo ardore.
- Non lavoro per una questione pecuniaria, dovreste saperlo. Credo solo che una donna dovrebbe avere aspirazioni e interessi che trascendano le mura domestiche e la cura dei propri figli. Non credo che la nostra realizzazione avvenga a casa, badando per tutta la vita ad una florida prole.
Berenilde sbuffò e si appoggiò più comodamente sul divano, del tutto in disaccordo. La zia Roseline era di un altro avviso, appoggiando la nipote, e borbottava assensi sottovoce mentre sorseggiava il tè.
- Mi fate sentire vecchia a parlare di queste cose, cambiamo argomento. Tutta questa emancipazione non c’era ai miei tempi, si sottostava al marito, al capofamiglia, e ciò che lui diceva era legge. Fatico a credere che mio nipote sia così malleabile e cedevole con voi.
Un’ombra e un urletto estasiato di Berenilde fecero capire ad Ofelia, ancor più di malumore dopo la conversazione, che il nipote in questione era alle sue spalle.
- Thorn caro, bentornato, stavamo proprio parlando di te. Non ti sembra di dover essere più intransigente su certi argomenti domestici?
- Non credo – fu la secca risposta.
Ofelia non lo vedeva perché Thorn era alle sue spalle, ma percepì chiaramente l’incrinatura nel suo tono di voce: fastidio. Nulla le impedì comunque di sorridere timidamente a Berenilde, immusonita all’improvviso, di fronte alla laconica affermazione del marito.
Mangiarono in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, ma appena si chiusero in camera Ofelia partì all’attacco.
- Non credi di essere troppo intransigente su certi argomenti domestici? A me pare che tu lo sia stato eccome!
- Ne abbiamo già parlato, il tuo studio chiuderà fino a data da definirsi. Ne abbiamo convenuto, il discorso era chiuso.
- Tu ne hai convenuto da solo, io non ho chiuso proprio niente.
- Ofelia, ho sempre caldeggiato l’assoluto riposo anche a mia zia durante le gravidanze, spesso impedendole di andare a corte. Secondo te non dovrei fare lo stesso con mia moglie?
- Non sono sfrenata come tua zia, Thorn! Il mio lavoro non mi costa nessuna fatica, solo una passeggiata benefica per raggiungere lo studio. Oltretutto, sono sempre seduta e Renold è con me tutto il tempo, facilitandomi il compito e assistendomi.
Thon borbottò qualcosa riguardo all’assistenza dell’assistente, ma Ofelia lo ignorò.
- E dopo? Lascerai nostra figlia in balìa di qualche tata e riprenderai a lavorare subito? So cosa vuol dire crescere senza i genitori al proprio fianco, Ofelia, e vorrei risparmiarlo a mia figlia.
Ofelia sussultò, presa in contropiede. Non si aspettava di certo che Thorn tirasse fuori la sua famiglia e la sua infanzia, né il dolore che doveva aver provato crescendo solo con la zia. A giudicare dalla sua mascella serrata e dal suo tono duro come l’acciaio, nemmeno lui se lo aspettava da se stesso. L’argomento rimase sospeso sopra di loro come una nube temporalesca, pronta a scaricare fulmini e saette.
- Inoltre, mi sono documentato e… molte donne desiderano avere subito un altro figlio, dopo il primo. Resterai a casa in congedo di maternità per quanto? Tre, sei mesi? Poi tornerai al lavoro e lo lascerai nuovamente per avere un altro figlio? Io sostengo che sia più controproducente che altro, i calcoli delle finanze e delle tempistiche me lo confermano.
Ofelia era sbigottita. Thorn pensava davvero, davvero troppo. Aveva impiegato pochi giorni per aprire il suo studio e sbrigare tutte le faccende burocratiche del caso, e nel giro di altrettanti giorni voleva chiuderlo definitivamente? D’altronde, non è che avesse poi così torto. Non poteva lasciare la piccola da sola e non voleva appiopparla alla domestica del caso. Lei era cresciuta in famiglia, circondata da amore; anche da tanta confusione, ma soprattutto da vincoli familiari indissolubili, persone su cui fare affidamento. Non era mai stata sola. Thorn sì. E lei non voleva che sua figlia vivesse come lui.
Poi boccheggiò, rendendosi conto di un particolare: - Un altro figlio? Pensi che voglia subito un altro figlio?
Thorn si strinse nelle spalle, rigido e imperscrutabile. – Non lo so. Ne hai voluto uno intensamente, cosa potrebbe trattenerti dal volerne un altro?
- E tu saresti d’accordo? – chiese avvicinandosi alla sua figura, ma non troppo per via del pancione prominente e della sua ridicola altezza. Voleva guardarlo in faccia senza farsi venire il torcicollo.
Thorn si sistemò il colletto della camicia e i capelli, già perfettamente in ordine, prendendo tempo o cercando di riordinare le idee come faceva con il suo aspetto. – Non lo so, non ne abbiamo ancora avuto uno. Però non sarò io a negarti un secondo figlio. – La sua voce scemò mentre lui distoglieva lo sguardo e borbottava: - Non ti nego mai nulla.
Ofelia era davvero stupita. Dal non volere nemmeno un figlio a pensare di farne un altro subito dopo il primo. Quello non era un passo avanti per Thorn, era un completo cambio di mentalità.
- E se ti dicessi che ne voglio un altro subito?
- Ne faremmo un… provvederemmo… ehm… te lo concederei.
Thorn sembrava alquanto in difficoltà, ma Ofelia gli lasciò il suo tempo senza incalzarlo.
- Sono più propenso ad avere due figli che uno solo. O niente o più di uno, ma non uno solo. Non è…
La sua voce si spense del tutto mentre lui si sedeva sul letto passandosi le mani sulla fronte. – Non è conveniente che nostra figlia cresca da sola.
Ofelia si rese conto solo in quel momento che Thorn era figlio unico. Un figlio bastardo oltretutto, emarginato e maltrattato dai fratellastri. Si ricordò dei dadi che aveva letto, anni addietro, che serbavano i ricordi della sua infanzia, di come fosse stato felice da piccolo, giocando con Godefroy e Freya, ma di come quella gioia gli fosse stata strappata in seguito, quando erano cresciuti e si erano resi conto che Thorn non era il loro fratellino, bensì un individuo da disprezzare. Nonostante tutto, i suoi due fratellastri erano rimasti uniti, e a lui quello era sempre mancato.
La commosse sapere che Thorn non voleva che la loro figlia stesse da sola. Lei si rendeva conto di quanto potesse essere scomodo crescere in una famiglia numerosa (una sorella maggiore, un fratello minore, tre gemelle più piccole, Ofelia non era mai stata sola, in senso negativo però), ma capì anche che senza Hector, senza Domitilla, Beatrice ed Eleonora e senza Agata sarebbe stata persa. Erano gli individui con cui più di tutti condivideva il patrimonio genetico, e li amava davvero. Era giusto che anche la loro bambina non crescesse da sola.
- E se volessi sei figli? – chiese d’impulso, per il gusto di stuzzicarlo un po’.
Sbalzi umorali. Era arrabbiata fino a tre minuti prima…
Thorn impallidì e si bloccò, rigido come il marmo. Ofelia rise senza lasciargli il tempo di rispondere, avvinandosi a lui per guardarlo negli occhi, finalmente alla stessa altezza.
- Sto scherzando, non ho intenzione di avere sei figli. Non sono una madre ovaiola.
Si rannuvolò di nuovo pensando a quando Berenilde, ancora all’inizio della loro convivenza, quando Ofelia non sapeva nulla dei piani che avevano in serbo per lei, aveva insinuato che il suo scopo fosse proprio quello.
Thorn non rispose, rimase solo a scrutarla senza quasi respirare, messo in difficoltà da quella discussione.
- Stavamo discorrendo sulle mie rimostranze circa la tua decisione di chiudere il mio studio di lettura, come siamo finiti a parlare del numero di figli che avremo? – chiese Ofelia, in parte divertita e in parte infastidita, ripensando al suo lavoro.
Thorn però non si mosse, non fece nulla per rispondere. Semplicemente si chinò e premette le labbra contro quelle della moglie, che rischiò di cadergli addosso essendo stata presa in contropiede. Lui però la stabilizzò, proteggendole il ventre, abituato alla sua perdita di equilibrio.
Sentirla parlare di loro in quel modo, dei loro figli, del loro futuro, lo aveva momentaneamente mandato in cortocircuito. Voleva solo stringerla a sé e baciarla, perché lei era sua e lei desiderava essere sua. La cosa lo aveva spiazzato al punto di lasciarlo senza parole.
- Thorn? – ansimò lei, staccandosi. – Cosa succede?
Com’era possibile che gli leggesse dentro in quel modo? Lui, che era tanto ermetico e criptico appunto perché le persone si tenessero alla larga e non lo rendessero vulnerabile? – Non voglio che ti succeda nulla, a te e alla… a nostra figlia. Voglio evitare qualsiasi situazione che potrebbe mettervi in pericolo. So quanto ci tieni al tuo lavoro, ma allo stesso tempo non voglio che tu sia incustodita o che ti affatichi.
Ofelia lo abbracciò, accarezzandogli i capelli, percependo d’un tratto quando teso e stremato fosse Thorn, combattuto. Gli diede un bacio sulla testa, allontanandosi per guardarlo in volto. Gli passò il pollice sulla cicatrice sulla guancia.
- Un mese. Lasciami un mese per concludere le disamine e portare a termine gli incarichi già accettati. Non prenderò nuovi appuntamenti, lasciami solo quest’ultimo mese per finire come si deve. Dopodiché potrai chiuderlo definitivamente.
Thorn aggrottò la fronte. – Chiuderlo definitivamente? Non vuoi tornare ad esercitare?
La rendeva felice sapere che lui dava così importanza al suo lavoro, che tenesse in considerazione lei, con le sue preferenze e i suoi desideri.
Le si inumidirono gli occhi. Dannati ormoni. – Vorrei, ma avrò una bambina da crescere. Con il tuo aiuto, ovviamente.
Thorn, se possibile, increspò ancora di più le sopracciglia. – Credo di non sapere come si faccia. Devo leggere qualche manuale, c’è qualche enciclopedia che tratta il tema?
Ofelia rise, rendendolo ancora più scontroso. – Non c’è nulla da studiare. È una cosa naturale, Thorn.
- Temo di non sapere nemmeno da dove partire. Bisogna prepararsi in anticipo, non ci si può affidare a istinto e sensazioni come fai tu.
Ofelia lo ignorò e si sedette sulle sue ginocchia, abbracciandolo.
- Non ci si prepara ad una cosa del genere, Thorn. Per questo i genitori sono due. Ci sono cose che possono essere fatte solo in coppia.
 
La conversazione che avevano avuto l’aveva turbato, Ofelia se ne rese conto la sera successiva: Thorn tardò a tornare a casa. Non succedeva da tempo immemore.
Il giorno dopo rincasò puntualmente, facendo credere ad Ofelia di aver solo preso un abbaglio, ma quando tardò per due cena di fila e per tre notti non la toccò, lei capì che qualcosa non andava. Successe per una settimana, giorni d’inferno in cui né la presenza di Vittoria né i tentativi di Renard di tirarle su il morale servirono a risollevarla.
Dopo che Thorn ebbe dormito all’Intendenza, come sua vecchia abitudine, per ben tre notti di fila, Ofelia prese provvedimenti. Renard era sicuro che sarebbe finito in guai grossi, ma il suo capo era Ofelia, non poteva rifiutarsi. Così l’accompagnò nell’ufficio del marito, in pieno giorno, senza aver fissato un appuntamento.
Il segretario che aveva incontrato la prima volta nei panni di Mime storse il naso quando vide quelle due persone che chiedevano un incontro con l’intendente senza essere segnate sulla sua agenda, tanto più che una delle due era una donna incinta: non portavano mai buone notizie, le donne in dolce attesa. Ofelia non voleva ricorrere a tanta meschinità, ma non poteva perdere altro tempo. Diede di gomito a Renard, che si rimboccò le maniche.
- Sono l’avvocato della moglie dell’intendente, la qui presente graziosa fanciulla in evidente stato di gravidanza. Ora, o voi ci fate entrare quanto prima nell’ufficio dell’esimio Thorn, oppure mi adopererò affinché quest’ultimo venga a sapere di questa nostra spiacevole vicenda quanto prima. E fidatevi, desidererete di non essere mai nato dopo che io e l’intendente vi avremo sistemato come si conviene ad un criminale incallito.
Il povero segretario sbiancò e si affrettò a farli accomodare in una saletta d’attesa pressoché vuota. Renard le strizzò l’occhio e Ofelia non poté fare a meno di sorridere. Tutto sommato le faceva pena quel povero ometto: non doveva essere facile stare agli ordini di un uomo meticoloso e minuzioso come Thorn.
Venne convocata dopo due minuti.
- Alla faccia degli impegni – borbottò Renard. – Vi aspetto qui, ovviamente.
Ofelia gli sorrise nuovamente prima di avventurarsi all’interno dell’ufficio di Thorn e chiudersi la porta alle spalle.
Lo trovò seduto dietro l’enorme scrivania, i gomiti sul piano e il mento appoggiato alle mani intrecciate. Era immobile, l’unico segno di vita erano gli occhi, che la fissavano implacabili mentre si avvicinava per sedersi su quella sedia troppo alta, su cui non toccava nemmeno terra con i piedi. Più impacciata del solito a causa della pancia voluminosa, ci mise più del previsto a sedersi, e arrossì sapendo di essere preda dello sguardo fisso e penetrante di Thorn.
Si era preparata un discorso lineare e conciso, ma dalla sua bocca non uscì niente del genere quando vide la macchia d’inchiostro sul legno pregiato. L’inchiostro che aveva rovesciato lei in una lontana notte di molti anni prima, quando erano un’altra Ofelia e un altro Thorn. – Non l’hai fatta cambiare?
Lui aggrottò la fronte: - Come?
- La scrivania. È davvero un peccato per questa macchia che deturpa la bellezza del legno levigato. Dovresti cambiarla.
Thorn non batté ciglio. – Sei venuta per suggerirmi di cambiare la scrivania?
- No, a dire il vero no.
- Allora spiegami il motivo della tua presenza qui. Non cambierò la scrivania. Sono… affezionato a quella macchia d’inchiostro, e nel complesso come arredamento tornerà utile ancora per qualche anno. Odio gli sprechi.
Quella macchia l’aveva fatta lei. Non avrebbe mai creduto possibile che Thorn si affezionasse addirittura ad uno sfregio del genere su un mobile di incredibile valore.
- Sono qui per vedere mio marito, visto che a casa non si degna più di venire.
Thorn sussultò appena udendo quelle parole dure. – Ho avuto da fare.
- Come dimostra la sala d’attesa vuota. Mi sono informata, questo è il periodo dell’anno più tranquillo per l’intendenza. Non ci sono scadenze particolari né incombenze di alcun tipo. Il che mi ha portato a chiedermi per quale motivo mio marito trascorra qui giorno e notte quando a casa ha una moglie incinta che aspetta la sera per vederlo.
Inaspettatamente, Thorn si infilò le mani tra i capelli, chinando la testa. Poi strinse i pugni, facendo sbiancare le nocche. Rimase immobile per un tempo abbastanza lungo da far preoccupare Ofelia, che allungò una mano per toccargli il braccio.
- Thorn? Mi stai facendo preoccupare, guardami per favore.
Era preparata a tutto, ma non a quegli occhi rossi dentro cui galleggiavano le iridi d’acciaio. Non aveva mai visto il marito così sconvolto, nemmeno nella prigione in cui si erano sposati.
- Thorn – lo implorò, la voce incrinata, senza aggiungere altro.
- Ho paura – mormorò lui, con difficoltà. – Ho sbagliato. Tutto. Non so come si faccia ad essere padre. Rovinerò il bambino. Hai detto che è una cosa naturale, istintiva, ma la mia stessa esistenza non è naturale, Ofelia.
Lei lo fissò con gli occhi sbarrati. – Non sei venuto a casa perché pensi che non sarai un bravo padre?
Thorn riabbassò il capo senza rispondere.
– Ti aspetto a casa. Non è una cosa di cui voglio discutere qui. Sbriga le tue pratiche e chiudi il tuo ufficio appena possibile. Non è una richiesta, Thorn.
Ofelia lo lasciò e se ne andò, tallonata da Renard, che capì che non era proprio il caso di fare domande.
Le veniva da piangere, ma strinse i denti e, una volta arrivata a casa, si chiuse in camera, in attesa del marito.
 
Thorn rientrò due ore dopo, molto prima dell’orario di cena, e trovò Ofelia ad aspettarlo con le braccia incrociate sopra il pancione, lo sguardo duro. Lui sembrava angustiato e il corpo era attraversato da una tensione nervosa quasi palpabile che cercava di mascherare al meglio, ma all’occhio di Ofelia non sfuggiva nulla.
Lasciò che si togliesse la giacca da intendente per rimanere in camicia prima di partire all’attacco. Ma richiuse la bocca, incapace di articolare una frase di senso compiuto. Era ferita. Suo marito, nel momento del bisogno, si era chiuso. Letteralmente, si era chiuso nel suo ufficio.
Lo vide avanzare lentamente verso di lei, lasciarsi scivolare sulle ginocchia e chinare la testa. Poi seppellì il volto nella sua gonna.
La rabbia evaporò come una pozzanghera estiva mentre le sue mani scivolavano ad accarezzargli dolcemente i capelli. Gli sentiva i nervi del collo contratti dalla tensione.
- Thorn – supplicò. – Perché non sei venuto da me? Hai idea di quanto mi sia preoccupata?
Lui non rispose, strinse solo un pezzo della sua gonna nel pugno, teso.
- Tutti gli uomini hanno paura di non essere dei bravi genitori. Anche le donne. Io ho paura. Ma il fatto stesso che ci preoccupiamo di questo vuol dire che saremo una madre e un padre presenti e coscienziosi. Non si impara ad essere genitori, come non si impara ad essere figli. O ad amare. È insito in noi.
Finalmente Thorn sollevò la testa, la mascella contratta e gli occhi da sparviero fissi e spalancati, le sopracciglia inarcate. – Sono cose che sfuggono alla mia comprensione, Ofelia. Fuori dalla mia portata. Mia figlia finirà con l’odiarmi come tutti, in questa società. Sarà figlia di un bastardo. Ho finto di non vederla, ma quando la realtà mi ha colpito in faccia non ho potuto fare altro che voler evitarla.
- Scappare non impedirà a tua figlia di amarti o odiarti. Ti precluderà però di provarci. Dalle la possibilità di scegliere, essendo un padre presente, fai solo del tuo meglio. Lei lo capirà. Sarà sempre meglio che essere abbandonata, non credi?
- Se dovessi fallire?
Ofelia non lo aveva mai visto così sfinito. Aveva bisogno di un’altra giornata lontano dal lavoro, ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a tenerlo lontano dall’ufficio una seconda volta. L’opinione che Thorn aveva di sé era talmente scarsa da rasentare l’indifferenza, ecco perché aveva gettato anima e corpo nel suo lavoro per anni. Ora paventava di deludere lei e persino la figlia, e per quella ragione era ricaduto nella solitudine. Thorn non si piangeva addosso, trovava sempre una soluzione. Soluzione che in quel caso poteva offrirgli solo Ofelia, dalla quale era fuggito.
- Almeno avrai fatto il possibile per tentare. Non ricordi cosa ti ho detto? Certe cose possono essere affrontate solo in due.
- Tu non hai paura?
Ofelia sorrise. – Certo che ne ho. Fa parte dell’essere genitori. Vivremo sempre nella paura che possa accadere qualcosa di brutto, ma anche questo fa parte della vita. E credo che l’amore che un figlio ti dà ricompensi abbondantemente ogni timore. In più, ho te al mio fianco, giusto? Ne abbiamo passate troppe per scoraggiarci per un esserino che non pesa nemmeno tre chili e deve ancora nascere.
La risatina di Ofelia servì a stemperare l’atmosfera e Thorn si raddrizzò, ma la tensione non l’aveva abbandonato del tutto. Lei lo abbracciò, seppellendo il viso nella sua spalla.
- Non sarai mai più solo, Thorn, vedi di non dimenticarlo.
Rispondendo all’abbraccio, lui si chiese come fosse possibile che una donna, un altro essere umano, potesse avere le risposte a tutto e farlo sentire così vivo e sereno. E per quale strano e fortuito motivo l’avesse avuta in sposa con un matrimonio combinato.
Decise di non interrogarsi oltre, del resto quelle erano cose che non sapeva spiegarsi. Meglio affidarsi a matematica e leggi certe e calcolabili, ai numeri. Come quelli che mancavano al parto: quarantacinque.
Avrebbe avuto quarantacinque giorni per abituarsi all’idea ed escogitare un modo per essere un padre, solo un padre, nonostante non ne avesse mai avuto uno.
In qualche modo l’abbraccio di Ofelia gli fece credere che non solo era possibile, ma che era già una certezza.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Ed ecco svelato il nome della bambina!!
Non mi trattengo oltre, volevo solo far presente che c'è un easter egg (o spoiler ahahahahha): una frase che Thorn rivolge ad Ofelia, una delle più "carine" è tratta dal quarto libro, ma non vi dirò qual è ;)
Grazie a tutti^^ buona lettura (spero non ci siano troppi errori di battitura: l'ho corretto velocemente e distrattamente purtroppo -.-)


Capitolo 8

- Come hai deciso di chiamare la bambina?
Ofelia alzò gli occhiali dal libro che stava leggendo, comoda sul divano dopo cena, per scrutare Thorn. La zia Roseline era già andata a dormire, quindi avevano il salotto tutto per loro. Seduti uno di fronte all’altra sui divani, Thorn leggeva la corrispondenza e Ofelia un manuale sul parto che Berenilde aveva trovato chissà dove. Fu contenta di chiuderlo quando Thorn la interruppe con quella domanda, perché l’idea di ciò che avrebbe patito di lì a trenta giorni la terrorizzava.
- Io? Come ho deciso di chiamarla, io? – ribatté, presa in contropiede.
- Di chi altri dovrebbe essere la scelta?
Il tono di Thorn le sembrò leggermente intriso di veleno, come quando si erano conosciuti da poco: ad Ofelia era spesso sembrato che lui la considerasse un po’ tocca.
- Nostra, non mia. Perché questa domanda di punto in bianco?
Thorn fece una smorfia appena accennata mostrando quattro fogli appena estratti da una busta: - Tua madre qui ci ha fatto un elenco completo dei nomi disponibili per nostra figlia.
Ofelia sentì lo stomaco scaldarsi come ogni volta quando lo sentiva dire “nostra figlia”. Ancora non le pareva vero, che lei e Thorn stessero per generare un altro piccolo essere umano nato dall’incrocio dei loro geni. Le girava la testa quando ci pensava, quindi la maggior parte del tempo evitava di farlo.
- Ha anche aggiunto che saranno qui due settimane prima della data prevista per la nascita. Il che significa che ci rimangono due settimane di pace.
- Thorn! – lo redarguì lei, ben sapendo quanto poco il marito tollerasse gli schiamazzi della sua famiglia.
- Non puoi certo dire che i tuoi familiari portino silenzio e ordine quando arrivano. Sono in trenta questa volta, si sono aggiunti nove parenti di importanza fondamentale a quanto pare. Un biscugino, due prozie e qualche altro avo molto prossimo, a quanto pare. Possibile che siate così prolifici su Anima? Farei mettere all’istante un controllo sulle nascite, se fosse per me.
Ofelia ascoltò le rimostranze del marito con aria divertita, mentre lui borbottava come una caffettiera piena.
- A volte mi chiedo da dove sei saltata fuori tu. Hai mai preso in seria considerazione l’idea di essere stata adottata?
Ofelia rise sul serio. – Thorn, è ridicolo, non sono stata adottata.
- Inizio a pensare che non avere avuto una famiglia sia stato un vantaggio, a questo punto.
Lo sguardo di Ofelia si ammorbidì. – Una cosa del genere può dirla solo chi non sa, appunto, cosa significhi averne una.
Alzandosi dal divano, Ofelia gli si sistemò di fianco, appoggiando la testa alla sua spalla. O meglio, al suo braccio, dato che la spalla era troppo in alto. – Ora sono io la tua famiglia. Io e la piccola che nascerà tra poco. Cosa faresti se di punto in bianco ce ne andassimo, lasciandoti solo di nuovo?
Thorn strinse le dita sul foglio in risposta, senza guardarla né muoversi. Il pensiero gli era insopportabile.
- Non voglio che accada – mormorò alla fine. – Ma sistemare trenta Animisti e badare alle loro necessità per un mese non sarà un’impresa da poco, Ofelia. Volevo… volevo solo che la nascita di nostra figlia rimanesse intima.
- So cosa intendi, Thorn. A volte avere una famiglia numerosa e presente comporta dei sacrifici, ma noi abbiamo una vita intera per goderci nostra figlia -. Con un moto di stizza scosse la testa: - Ne convengo, dobbiamo assolutamente trovarle un nome, sono stanca di chiamarla in mille modi diversi. Ma getta via l’elenco di mia madre, te ne prego. Non ho alcuna intenzione di farmi suggerire da lei un nome. Ha dei gusti orribili e pomposi, la scelta per noi figli è stata una prerogativa di mio padre.
L’unica cosa su cui si sia impuntato e l’abbia spuntata con mia madre, avrebbe voluto aggiungere.
- Hai qualche idea per il nome?
- No – ribadì lui, secco.
- Preferenze? Niente?
Thorn scosse leggermente la testa, appoggiando il mento sulle mani intrecciate, la sua posa preferita per riflettere. – Non puoi sceglierlo tu? Quello di Vittoria è stato azzeccato.
Fu il turno di Ofelia di scuotere la testa. – Meglio dormirci su, sono stanca.
Sdraiati a letto, con i volti rivolti l’uno verso l’altro, Ofelia gli accarezzava il viso dolcemente mentre lui la imitava con le mani sulla sua pancia, un po’ incerte e a loro modo tenere.
- Mettimi a parte dei tuoi pensieri – sussurrò Ofelia.
Thorn strinse le labbra, aggrottando le sopracciglia come suo solito quando c’era qualcosa che non capiva o un argomento spinoso da trattare. Chiuse gli occhi, incerto su come esprimersi. – Come hai deciso il nome per Vittoria?
- Era un brutto periodo – mormorò lei, rabbrividendo per il ricordo spiacevole e nostalgico. – Mi sentivo svuotata. Tu eri sparito, io dovevo separarmi da Berenilde e tornare su Anima, Dio era comparso e ci aveva minacciati, la situazione si era complicata così tanto da farmi perdere ogni speranza circa la nostra riuscita. Ero… una novella sposa senza marito, che ancora non si rendeva conto della profondità dei propri sentimenti eppure sentiva che qualcosa era cambiato in lei. Che era vuota. Avevamo tutti bisogno di una buona notizia. Di una promessa. Di una vittoria su ogni avversità. Quale nome migliore per una nuova vita, innocente e fragile, così meravigliosa, se non Vittoria? Un rammemoratore, un baluardo, un faro. Una certezza che ci avrebbe scaldato nei giorni bui.
Thorn riaprì gli occhi per specchiarli in quelli di Ofelia, neri come la notte nella penombra della camera, brillanti di lacrime non versate e ricordi dolceamari.
Serio come sempre, inflessibile e rigido, Thorn si avvicinò di più a lei per baciarla sulle labbra, un contatto così leggero da essere impalpabile, evanescente come il crepuscolo. O l’alba.
- Per le tue stesse argomentazioni vorrei chiamarla Serena – farfugliò quando interruppe quel bacio lento e ammaliante.
- Come dici?
- Serena. Vorrei che anche questo fosse un proposito. Per la bambina. Che sia serena per tutta la sua esistenza. Non ha scelto lei di nascere, non sempre la vita sarà magnanima, quasi mai sarà giusta o meritocratica, ma vorrei che conservasse la serenità nei momenti difficili.
Ofelia capì che Thorn voleva darle ciò che lui non aveva mai avuto. Per il semplice fatto che non aveva chiesto lui quell’esistenza, l’infanzia e l’adolescenza da bastardo, il dolore. E voleva che sua figlia ne fosse risparmiata.
Ofelia gli prese le mani e se le avvicinò alle labbra, baciando una nocca ruvida e scorticata alla volta. Lo osservò attentamente nel mentre, ma i suoi occhi freddi e metallici rimanevano insondabili, quasi restii a far entrare persino lei.
- Serena. Mi piace. Credo che sia un’ottima scelta.
Il sorriso che gli rivolse fu fulgido come una stella, ogni secondo più brillante man mano che la scelta di Thorn si sedimentava nel suo cuore e lo avvolgeva. Ofelia, Thorn e Serena.
- Sì, mi piace proprio. Serena…
Con le palpebre pesanti come se d’un tratto fosse stato levato loro un peso di dosso, Ofelia si addormentò in fretta con le mani che ancora stringevano quelle di Thorn.
Un attimo prima di scivolare nell’incoscienza, però, lo vide. Quel tremolio all’angolo della sua bocca.
Quel minuscolo sorriso che aveva implorato ogni giorni di poter vedere.
 
- Mia cara sei enorme. Irresistibilmente enorme! – ripeté Berenilde per la settima volta, accarezzando la pancia di Ofelia, così prominente da renderle difficile qualsiasi movimento.
Doveva ancora capire se la bambina in arrivo fosse più grossa del normale, o se fosse semplicemente la sua corporatura minuta a renderla spropositatamente grossa. Senza ammetterlo ad alta voce, sapeva che la seconda deduzione era quella corretta. Thorn era scheletrico e lei non era mai stata grassa, ergo la bambina non poteva essere enorme, ma c’era anche la possibilità che nascesse una piccola mamma-di-Ofelia, tonda e leggermente ingombrante. Rabbrividì al solo pensiero.
Berenilde andava in giro per il salotto chiocciando ed emettendo risatine stridule e versetti di gioia incontenibile, mentre la zia Roseline, al limite della sopportazione, sorseggiava il tè e faceva vibrare tutte le tazzine sul tavolino basso.
- Manca così poco, non vedo l’ora di poter tenere in braccio la nuova piccola con il sangue di Drago che ci riporterà in auge. Sarà splendida come la zia, eccome! Del resto, Thorn condivide il mio sangue, anche. Vi immaginate come sarebbe bello se assomigliasse a Vittoria? Passerebbero per due sorelline, le più belle e invidiate di tutto il Polo. Non vedo l’ora che facciano il loro ingresso in società, il loro debutto. Due stelle che Faruk amerà immensamente.
Ofelia aveva la nausea, più per gli sproloqui che per il futuro dipinto da Berenilde. Occhieggiando la bottiglia di superalcolico posata sul tavolino, si chiese se la madama non avesse corretto eccessivamente il suo caffè. Temeva che lo avesse addirittura versato nel tè, ma non aveva alcuna intenzione di alzarsi per verificarle la tazza. Berenilde era abbastanza adulta da non aver bisogno delle premure di una giovane e inesperta donna come lei. L’idea di affidarle sia la sua piccola Serena che Vittoria le parve atroce, in quel momento. Le avrebbe tenute a casa con sé il più possibile.
Roteando per la stanza, Berenilde andò in contro a Thorn, che era appena entrato nella stanza con un fascio di fogli sotto braccio. Tentennò leggermente quando vide il tavolino ingombrò di tazze da tè e bicchierini di brandy, come se d’un tratto l’idea di lavorare in soggiorno non fosse più così allettante. Si recava in ufficio un giorno sì e uno no, in attesa della nascita della figlia, per accertarsi che Ofelia non commettesse qualche sciocchezza o, peggio, perdesse l’equilibrio schiacciando il feto da qualche parte.
- Nipote caro, che gioia vederti! A giudicare dalla bellezza che la tua sposa irradia in questa cupa e disadorna stanza, direi che hai svolto proprio bene il tuo ruolo nell’antica e nobile danza dell’accoppiamento.
Ofelia avvampò, emettendo un gemito strozzato di cui non capì la provenienza, e si sarebbe alzata in piedi di scatto se Vittoria non fosse stata mezza sdraiata sulle sue gambe, a giocare con la cuginetta che ancora doveva nascere. Se Berenilde fosse stata docile e silenziosa la metà di quanto lo era sua figlia, avrebbero avuto decisamente dei grattacapi in meno. La sciarpa le batteva sulla schiena per farla riprendere. La zia Roseline era come la nipote, a disagio, mentre Thorn lanciò un’occhiata gelida alla propria zia, che canticchiava allegramente.
Decisamente aveva corretto troppo il tè, il caffè o quello che era.
Convinto da quella scena, Thorn lanciò uno sguardo indecifrabile a Ofelia e girò sui tacchi, allontanandosi verso il suo studio. Di certo non sarebbe riuscito a lavorare, lì con loro. O meglio, lì con la ciarliera dama di corte.
- Che mascalzone! – si lamentò Berenilde, per nulla rattristata. – Speravo che il suo temperamento intransigente sarebbe migliorato con la presenza di una moglie al fianco, ma non si può certo dire che voi siate la quintessenza della giovialità e vitalità mondana. Nemmeno dell’intrattenimento, in effetti. Peccato, peccato…
La zia Roseline, ormai esausta da quelle ciance quasi offensive ai danni della nipote, si alzò e trascinò Berenilde in camera, dietro sue sonore proteste. Ofelia capì che quella notte avrebbero avuto come ospiti lei e Vittoria; la cosa non le avrebbe dato nessun fastidio, se solo Berenilde fosse stata sobria. Il giorno dopo essersi ubriacata solitamente era intrattabile e irascibile come gli orsi e le Bestie che un tempo aveva cacciato, in qualità di Drago.
Sospirando, diede un’occhiata al soggiorno disordinato, lieta di non dover essere lei a sistemare tutto. Ogni tanto i domestici, inesistenti su Anima, tornavano comodi.
Renard fece capolino da dietro la porta con un sorriso enigmatico ed entusiasta. Si sedette accanto ad Ofelia e fece per allungare la mano sulla bottiglia di brandy ancora posata sul tavolino, canticchiando. Lei lo lasciò fare, sperando che non fosse così di buon umore da diventare ebbro come Berenilde. Vittoria si spostò dalle gambe di Ofelia a quelle di Renard, cominciando a giocare con i suoi baffoni e la sua barbona fulvi.
- Uomo tutto rosso – mormorò divertita, facendo stringere gli occhi e strizzare il naso a quell’uomo mastodontico che si faceva tirare i peli del viso senza emettere un suono.
Doveva proprio essere una buona serata.
- Non vedo più Salame da qualche tempo. Che ne è stato di lui?
- Oh, lieto che ve ne siate accorta dopo tutti questi mesi! Siete un’ottima lettrice, ma in quanto ad osservatrice, mi dispiace, ma ho molto ancora da insegnarvi. È con Gaela, il pelo degli animali potrebbe nuocere alle donne in gravidanza. Lo riporterò qui quando la bambina sarà più grandicella. Come avete intenzione di chiamarla, alla fine?
Ofelia ignorò la domanda. – Quindi siete stato da Gaela…
Spirito di osservazione o no, era sicura che solo Gaela potesse far venire un buonumore del genere al suo consigliere.
Renard gongolò, sorridendo mentre Vittoria gli strizzava le sopracciglia cespugliose. – Oh sì, altro che clessidre blu, lei…
- Renold – lo ammonì Ofelia, arrossendo. – C’è una bambina, non mi sembra il caso che tiriate in ballo certi argomento. Anzi, non dovreste tirarli fuori nemmeno con me!
- Ma cos’hai capito, ragazzo? – sghignazzò Renard, facendo il solletico a Vittoria. – Non stavo facendo commenti allusivi, so bene di essere in presenza di una signora. Potente ed influente, e come se non bastasse è anche il mio capo. Stavo per dire che potrei barattare tutte le clessidre del mondo, persino la famosa e utopica clessidra dorata, per avere solo cinque minuti con lei.
Lo sguardo di Renard era estatico. Ofelia si ritrovò a sorridere con lui, dimenticandosi della gaffe che aveva fatto, e augurandogli di cuore il meglio. Tra tutte le persone che aveva conosciuto, Renard era uno dei pochi che aveva sempre esibito se stesso senza timori, senza mutare mai. Persino Thorn non era ciò che lei si era aspettata all’inizio. Aveva impiegato dei mesi a capirlo, e anche dopo sposati, dopo anni, le sembrava che qualcosa di lui le sfuggisse. Renard invece le aveva offerto aiuto in cambio di clessidre, e successivamente lei gli aveva offerto un lavoro in cambio di consigli, ma non era mai cambiato. Il loro affiatamento, la sua bontà d’animo, la fedeltà incondizionata, la positività e l’allegria…
Ofelia gli posò la testa sulla spalla, felice di averlo al fianco. – Perché non le chiedete di sposarvi? Mi pare che le cose vadano meglio tra di voi.
Quelle poche volte che si erano visti, troppo poche secondo Ofelia, le era sembrato che la meccanica Nichilista fosse diventata più morbida nei confronti di Renard, più malleabile. Sapeva che la scomparsa di Madre Ildegarda era stata un duro colpo per lei, e sapeva anche che lui non l’aveva mai abbandonata, offrendole sempre una spalla su cui piangere o, per meglio adattarsi allo stile di Gaela, un braccio da prendere a pugni in caso di bisogno. Era naturale che lei si fosse avvicinata a lui, che si era mostrato presente nel momento di vera necessità. Un po’ come lei e Thorn.
Vittoria sbadigliò e si accoccolò tra di loro, facendoli sorridere entrambi.
- Ho paura – rispose lui dopo un lungo silenzio. – Non sono certo che lei mi tolleri al punto da sposarmi. Non abbiamo mai nemmeno… cioè, non siamo nemmeno andati oltre a… mi sento sempre un pochino respinto, ecco.
Vedere quella montagna d’uomo torcersi le mani nervosamente e sfuggire il suo sguardo, scoprirlo vulnerabile quando si trattava di sentimenti seri, le strinse il cuore in una morsa di tenerezza. Fu lei a sporgersi per passargli un altro bicchierino di brandy, che lui buttò giù d’un fiato.
- Io credo che Gaela non sia una persona così paziente da tollerare chi le reca fastidio o le fa perdere tempo solo per non essere scortese. È una persona onesta, diretta e franca, e credo che il solo fatto che non vi abbia già cacciato significhi che per lei voi siete importante.
- Rinfrescatemi la memoria, sono io assunto per darvi consigli, o voi mi pagate per darmeli?
Ofelia rise. – Avete ragione, non sono proprio pratica di queste cose. Ma contante molto entrambi per me, e vorrei vedervi felici.
Renard le scompigliò giocosamente i capelli. – A chi lo dici, ragazzo. Ma tornando a parlare di cose serie, avete scelto un nome? E chi saranno il padrino e la madrina?
Un colpo di tosse li fece sussultare sul divano, neanche stessero contrabbandando merce vietata o commettendo qualche peccato. Thorn, silenzioso come sempre, si era avvicinato senza farsi vedere né sentire, e li scrutava accigliato. Aveva decisamente uno sguardo più torvo del solito.
Renard scattò in piedi. Per quanto niente e nessuno potessero spaventarlo, non lo avrebbe mai ammesso, ma il marito della sua datrice di lavoro lo intimidiva. – Stavo giusto per andarmene, signor intendente. Non era mia intenzione importunare…
- Vittoria dorme – lo interruppe Thorn, pungente, come se lo stato catatonico della cuginetta fosse di prioritaria importanza.
Ofelia le accarezzò il viso sereno. – Bisogna che la porti a letto, prima che si svegli e ricominci a giocare.
Fece per alzarsi, ma Renard la fermò. – Ci penso io, non vi preoccupate. Buonanotte.
Prendendo in braccio la piccola come se fosse un fuscello, Renard si allontanò in silenzio. Non prima di aver scoccato un’occhiata maliziosa a Ofelia. Non si smentiva mai.
Thorn rimase in piedi di fronte a lei, guardando con malcelato fastidio il tavolino da tè ingombro di tazze sporche, caffettiera, teiera e bicchierini di brandy.
Seduta, con la testa del tutto reclinata e appoggiata alla testiera del divano per poterlo guardare in volto, Ofelia non riusciva a decifrare la sua espressione. Aspettò che fosse Thorn a parlare perché, a giudicare dalla posa tesa e dalla mascella contratta, aveva qualcosa da dire ma non sapeva come tirarla fuori. Questo, dopo mesi di matrimonio, almeno lo aveva capito.
- Sei molto… intima con il tuo consigliere.
Ofelia non seppe interpretare il tono distante e apatico della sua voce. Avrebbe potuto essere rabbia, divertimento o indifferenza e non sarebbe cambiato nulla.
- Sì, certo. Lo conosco da molto tempo e mi ha aiutata in circostanze estreme. È un ottimo consigliere, un buon amico e un brav’uomo.
- Vorrei essere anche io un buon amico.
Quella confessione la spiazzò. – Una volta mi hai detto che non sei e non vuoi esserlo, mio amico.
- Ci ho ripensato – rispose prontamente lui sedendosi sul divano accanto a lei, troppo rigido per permetterle di essere a suo agio. – Sono già tuo marito, fra tre settimane e due giorni sarò il padre di tua figlia, vorrei essere anche tuo amico. Non credo che un domestico dovrebbe avere l’esclusiva.
Ofelia ridacchiò, sorpresa. Thorn era decisamente geloso. – Innanzitutto è il mio consigliere, non il mio domestico. Come seconda cosa, Thorn, tu sei già mio amico. Sei la persona su cui faccio affidamento, che c’è sempre. È insito nel matrimonio che i coniugi siano amici.
Meditabondo, lui si prese un attimo di tempo per rispondere. Sembrava che stesse facendo osservazioni sul tempo invece che chiederle specifiche sulla loro relazione. – Non capisco la differenza. Tu fai affidamento anche su di lui, non esclusivamente su di me. Allora qual è la linea di separazione tra il mio ruolo e il suo?
Ofelia trovava ridicola quella conversazione, ma si rendeva conto che Thorn non aveva mai avuto un amico in vita sua. Per quanto surreale e impossibile fosse quel dialogo, per lui era un argomento serio e di difficile comprensione. – Tu sei mio marito, Thorn. Sugli amici si fa affidamento, certo, ma non quanto ci si appoggia al marito. Il marito… lo si ama – aggiunse arrossendo, e cominciando a balbettare. – Un marito conosce tutto di te, in ogni ambito. Un amico è una persona con cui si sta bene, si scambiano opinioni e si condividono interessi comuni. Io non provo per Renard quello che provo per te. E di cose importanti e personali parlo con te, non con lui.
- Anche mia zia è tua amica, giusto?
Ofelia si trovò presa in contropiede. Era amica di Berenilde? Di certo non si confidava con lei, e a volte faceva fatica a capirla, ma la zia influente di Thorn c’era sempre stata per lei. L’aveva accolta quando mezzo Polo voleva ucciderla, l’aveva resa la madrina di sua figlia, concedendole addirittura l’onore di sceglierne il nome, e l’aveva più volte supplicata di stare vicino al nipote, non abbandonandolo, affidandoglielo. Le aveva dato fiducia come solo le amiche potevano concedersene.
- Sì, anche madama Berenilde è mia amica.
Thorn annuì, secco, una volta.
- Tu però hai tanti amici. Io non ne ho mai sentito il bisogno. Credo che tu sia la mia prima e unica amica.
Ofelia sorrise e gli prese la mano, stringendosela in grembo. – Devi ammettere che riesce meglio a me essere socievole e approcciabile, Thorn. Tu sei irraggiungibile. E distaccato. Le persone non riuscirebbero a diventare tue amiche nemmeno tentandoci al massimo delle loro potenzialità.
- Non credo valga la pena di tentarci, non ho granché da offrire. Sinceramente non trovo nemmeno un’utilità in un ruolo del genere.
- Basta un solo buon amico piuttosto che una moltitudine di falsi. Tu ne hai una, non dovresti angustiarti.
Thorn annuì, anche se Ofelia non era certa che avesse colto il succo di ciò che lei voleva dirgli. A dire il vero, l’intera conversazione la stava mandando in confusione. Quelli non erano argomenti da Thorn…
- Allora quando l’amicizia diventa qualcosa di più? Potrebbe succedere anche con Renold.
- Thorn, non capisco dove tu voglia andare a parare, ma non credo sia il caso che tu ti ingelosisca del mio consigliere. Sia io che lui amiamo già qualcuno, andiamo d’accordo ma non succederà mai nulla tra noi. Il solo fatto che ci troviamo bene insieme non significa che quel sentimento continuerà a crescere fino ad eclissare gli altri. Capisci cosa intendo?
- No – rispose lui, facendo abbassare di qualche grado la temperatura nella stanza. La sua mano tremò tra le dita di Ofelia. – Però ho fiducia in te.
- Tu sei possessivo, Thorn. Una volta mi hai detto che volevi essermi indispensabile. E lo sei, tu, non qualcun altro. Mi sei indispensabile come nessun altro. Quindi dimentica questa gelosia, perché io sono tua. Hai l’esclusiva.
Sperava che le sue parole lo raggiungessero e lo tranquillizzassero, perché non si era resa conto che la sua gelosia minasse la sua fiducia in loro a tal punto. Di solito produceva in lui irritazione, mai tristezza. Spinta dal bisogno di vederlo sereno, liberò la mano che teneva sulle gambe e lo costrinse ad abbassarsi, posandogli un delicato bacio sulla guancia squadrata. Poi gli baciò la cicatrice e il punto morbido sotto il lobo dell’orecchio.
Thorn sussultò e si voltò verso di lei, sorpreso, trovandola felice, con gli occhi luminosi. Rassicurato più dai suoi gesti che dalle parole, si abbandonò ai cuscini, come se le sue ossa d’acciaio si fossero fuse, costringendolo ad accartocciarsi su se stesso.
- Mancano circa ventidue giorni al parto, giusto?
Ofelia rise, di ottimo umore. – Non è detto, Thorn. Non si può mai sapere con precisione quando nascerà il bambino. Potrebbero essere di nove mesi e mezzo, potrebbe nascere prima di nove mesi. Teoricamente sì, fra poco più di tre settimane, ma non ti aspettare che fra ventidue giorni precisi io partorisca.
I suoi nervi si tesero di nuovo. – Dovrebbe esserci una certa puntualità in queste cose, non si può restare in bilico aspettando che la natura faccia il suo corso. Programmazione, ecco cosa ci vorrebbe.
Ofelia lo lasciò bofonchiare, cercando di trattenersi per non scoppiargli a ridere in faccia. Potevano dire che Thorn non avesse senso dell’umorismo, che fosse distaccato e serioso, ma lei si divertiva all’inverosimile con lui. C’erano così tante sfaccettature che le persone non coglievano perché non volevano nemmeno fermarsi a cercare.
Thorn si rizzò nuovamente a sedere all’improvviso, la schiena rigida. – La tua famiglia arriverà fra otto giorni e sei ore, due settimane prima dello scoccare dei nove mesi previsti. Andranno via dopo altri quattordici giorni, per un totale di quattro settimane di permanenza. Ma se tu partorirai dopo due settimane dalla data ipotetica di parto, loro andranno via senza nemmeno aver visto la nascitura?
Ofelia non ci aveva pensato, effettivamente. – Vorrà dire che dovranno ritardare la partenza e fermarsi qualche giorno in più.
Thorn sbiancò sotto le luci soffuse del salotto, serrando la mascella e distogliendo lo sguardo.
- La mia famiglia non è così male, se solo ti dessi la briga di conoscerla. Sono diversi da te, da tutti voi, ma lo sono anche io, eppure mi hai sposata.
Thorn grugnì qualcosa che Ofelia non distinse, ma non aveva voglia di discutere in quel momento. Avrebbero affrontato l’argomento più avanti. Thorn però non era della stessa idea.
- Non mi dà fastidio la loro presenza, ho sopportato ben di peggio.
Ofelia non era sicura che fosse un complimento, ma lasciò perdere.
- Ti ho già detto, però, che vorrei che fosse un momento tranquillo. In casa ci sarà così poca disciplina che la neonata non chiuderà mai occhio e io non capirò nemmeno se il vagito che ne indica la nascita sarà il suo o un semplice strepito di qualcuno altro dei tuoi trenta parenti più prossimi.
Aveva la voce strozzata. Ad Ofelia fece una gran tenerezza, in quel momento, quel gigante buono che non sapeva come affrontare la nascita della prima figlia e non aveva il controllo della situazione, una condizione imprescindibile per il suo carattere. Lo destabilizzava non poter esercitare alcuna autorità sull’evento.
- La sera, nella nostra camera, con me e la neonata, chi ci sarà? La mia famiglia o te?
Thorn la guardò, imperturbabile come sempre, senza rispondere.
- Ovviamente ci sarai tu, nella nostra camera matrimoniale, con me e nostra figlia. Non ti accorgerai nemmeno di avere trenta Animisti in casa.
Thorn inarcò le sopracciglia per un attimo, come se non l’avesse sentita, poi spalancò gli occhi mentre la gravità della rivelazione lo faceva fremere di un terrore che non era del tutto riuscito a nascondere. Trenta Animisti in casa… che infondevano vita a tutto ciò che toccavano. Scaramucce, giochi dei bambini, esternazioni di affetto… la casa ne sarebbe stata impregnata. Sentì il bisogno di andare fuori nella notte fredda per calmarsi, ma non voleva lasciare Ofelia, che lo guardava con apprensione.
Intuendo i suoi pensieri, cercò di cambiare argomento: - Chi scegliamo come madrina e padrino?
Le rispose solo il silenzio, così intensificò l’attacco. – Che ne dici di Archibald?
Questa volta l’occhiata che le lanciò era di odio puro, a stento trattenuto, che traspariva solo dalla luce metallica degli occhi così espressivi. Il resto del volto non si era mosso di una virgola.
Ofelia rise. – Non voglio Archibald come padrino, rilassati. Pensavo a Renold.
Thorn aggrottò la fronte. – Renold. Il consigliere. E come madrina?
Non era un consenso, ma nemmeno un rifiuto, e Ofelia non si fece abbattere. – Gaela.
- Renold e Gaela, un consigliere e una meccanica Nichilista decaduta.
- Sei stato etichettato tutta la vita, pensavo che non volessi assumere lo stesso atteggiamento con gli altri.
Ma Thorn non era contrariato, solo perplesso. – Non sto giudicando, mi chiedevo solo la motivazione.
- Mi sono stati utili e vicini in più di un’occasione. Posso fidarmi ciecamente di loro, e credo che sarebbero un’ottima madrina e padrino.
E sperava di fare un favore a Renard, avvicinandolo di più a Gaela, ma quel piccolo dettaglio lo omise.
Thorn irrigidì le spalle e si alzò. – Io ho suggerito il nome, è giusto che tu compia questa scelta.
- Tu devi essere d’accordo, però – ribatté lei, prendendo la mano che le veniva offerta per alzarsi dal divano. Thorn non gliela lasciò andare nemmeno quando fu eretta davanti a lui.
- Concesso. Mi va bene qualunque scelta, io non avevo nemmeno proposte in mente.
In un lampo le venne in mente quando, in occasione della visita della sua famiglia, gli aveva chiesto se sarebbe stato in grado di sorridere. – Non guarderai trucemente Renold per tutta la durata del parto e delle funzioni, vero?
Thorn aggrottò la fronte. – Non sarebbe realistico nemmeno aspettarsi che sorrida tutto il tempo.
- Non sarebbe realistico aspettarsi che tu sorrida neanche per un minuto, a dire il vero – borbottò Ofelia, seguendolo in camera da letto.
Il marito finse di non averla sentita.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ahah! Ci siamo! Più o meno...
Volevo solo precisare una cosa: non penso le cose che ho scritto circa il parto, solo che l'ambientazione dell'Attraversaspecchi, oltre che Steampunk e tutto quello che volete mi sembra anche otto-novecentesca. I personaggi li immagino un po' chiusi di menti e facili da scandalizzare, quindi ho cercato di caratterizzare la levatrice in questo modo. In realtà non credo proprio che un padre si senta... va be' non faccio spoiler. Concludo il discorso con un piccolo * sotto il capitolo.
Grazie a tutti e buona lettura^^


Capitolo 9

Il mattino seguente la colazione fu a dir poco insolita.
Berenilde cercava di smaltire i postumi della sbornia alternando infusi di tè e caffè forte, facendo smorfie a causa del miscuglio di gusti non proprio nelle sue corde. Il mal di testa la rendeva suscettibile e irritabile, quindi nessuno, nemmeno la zia Roseline, si azzardava a fare qualche commento o anche solo a rivolgerle la parola. Soprattutto perché, cercando di badare alla donna ebbra, aveva a mala pena chiuso occhio lei stessa. Ofelia sentì che Berenilde non era l’unica di pessimo umore, a giudicare da come tovaglioli e posate si allontanavano terrorizzati dalla zia, mentre altri si mettevano a bisticciare per un nonnulla.
Vittoria era ancora a letto, dopo aver passato la notte a gironzolare per il castello dei cugini, ignari di tutto.
Gli unici di buon umore, ossia silenziosi come se si stesse tenendo una celebrazione funebre e non una colazione in famiglia, erano Ofelia e Thorn. Dopo aver brontolato ancora un po’, i due si erano coricati subito, ognuno dalla sua parte di letto. Thorn non la toccava più da quasi tre settimane, perché Ofelia era diventata davvero enorme e lui temeva di far male al feto. Intimamente Ofelia credeva che in realtà il marito non fosse più attratto da lei a causa della sua mole imponente. Thorn nascondeva a malapena la sua contrarietà nei confronti degli uomini panciuti, che reputava incapaci di autocontrollo e così oziosi da non aver nulla da fare tutto il giorno se non ingozzarsi come maiali. E lei era grossa. Cercava di consolarsi rammentando che Thorn l’aveva vista con il viso sporco di sangue, tumefatto, con lividi ovunque. L’aveva vista quando era più vulnerabile, nuda, o quando aveva indossato i suoi cappotti giganteschi, e ancora, quando era con e senza occhiali, impolverata e con occhiaie così profonde da rivaleggiare con le sue. Eppure la cosa non lo aveva mai turbato, minimamente. Si era un po’ rassicurata la notte prima quando, dopo un impercettibile sospiro, lui si era girato verso di lei e l’aveva abbracciata, facendo aderire il suo petto caldo e solido alla sua schiena, passando le sue lunghe e ossute braccia sul suo ventre tondo. Le aveva posato un leggero bacio sulla testa quando ormai era scivolata nel mondo dei sogni, ma quel lieve contatto aveva scongiurato gli incubi e l’aveva aiutata a riposare.
Forse il problema era che voleva essere toccata. Ma non sapeva come farglielo capire. Si sforzò con grande impegno per non arrossire, data la natura ardita dei suoi pensieri. Erano gli ormoni, tutta colpa degli ormoni.
Animato dal fastidio e dall’imbarazzo di Ofelia, il cucchiaino da tè rotolò via, andando a sbattere contro la mano ossuta del soggetto di quelle elucubrazione, che scoccò ad Ofelia un’occhiata intensa e inquisitoria. Lei non rispose e continuò ad imburrare una fetta di pane tostato, come se nulla fosse. Ma Thorn non la mollava.
- Hai già informato il consigliere?
Ofelia ci mise alcuni secondi a capire che parlava con lei. Se ne accorse a causa del silenzio che si venne a creare. A dire il vero, silenzio c’era anche prima, ma nessuno, nemmeno le posate, facevano più alcun rumore.
Guardò Thorn addentando la fetta di pane, percependo gli occhi bramosi delle due zie, una sua e una di Thorn, addosso. Scosse leggermente la testa e non si arrischiò per nulla al mondo a guardare le due signore. Fortunatamente in quel momento entrò Vittoria, con il pigiamino e i capelli che le spiovevano sul viso, arruffati dal sonno, e si arrampicò in braccio alla mamma che si illuminò. Ofelia dovette riconoscerlo: per quanti difetti quella donna mondana avesse, era nata per essere madre. Nutriva un amore smisurato e incondizionato nei confronti delle sue creature, e Ofelia si augurava di poter imparare qualcosa da lei. Non tutto, di sicuro non voleva crescere tante piccole Berenildi, ma di sicuro la dama aveva dei buoni consigli da darle.
- Sarebbe il caso di informarlo quanto prima. Manca poco alla nascita – la pressò Thorn, strappandola dalle riflessioni e riportandola a tavola.
Ofelia provò a prendere del miele con il cucchiaino, senza ricordarsi che si era dato alla fuga per rifugiarsi accanto alla mano del marito. Più osservatore di quanto la gente si sarebbe potuta aspettare, Thorn glielo allungò prontamente, cercando di stabilire un contatto visivo che lei invece eluse. Non gli sfuggiva mai nulla. Un altro paio di occhietti che le stavano scavando un buco negli occhiali erano quelli di Vittoria, che la fissava con insistenza.
- Mancano ancora tre settimane come minimo, non angosciarti troppo. Ho tempo per parlargli. Volevo chiamare anche Gaela.
Le due signore erano fortunatamente troppo impegnate a coccolare e vezzeggiare la piccola Vittoria per dare retta ai due, così il dialogo si concluse con la risposta di Ofelia e un sopracciglio alzato di Thorn. Ma la bambina non era dello stesso avviso.
Quando Thorn si fu congedato per raggiungere l’intendenza e Berenilde e Roseline si furono alzate per andare a preparare il bagnetto per Vittoria, quest’ultima si avvicinò a Ofelia, seduta sul divano, che meditava sul modo migliore per chiedere a Renard di essere il padrino della figlia. La piccola si arrampicò accanto alla cugina e le toccò la pancia, come di consueto, ma Ofelia la vide chiudere gli occhi e concentrarsi, stranamente.
Poi la bambina, che con il viso pallido e lucente come porcellana e i capelli bianchi e sottili sembrava più eterea di quanto lo fosse il suo stesso padre, si aprì in un sorriso candido e disarmante. – Non vedo l’ora di conoscere la cuginetta – annunciò con un’adorabile vocina stridula, che se fosse stata una persona sarebbe stata una bambina paffuta e piena di fossette.
Ofelia rise all’idea di vedere una voce personificata, e disse: - Mi dispiace, ma dovrai aspettare ancora un po’ di tempo per poterla conoscere.
Vittoria scosse la testa, enigmatica, e scese dal divano. – Lo so. Ma fino a domani posso aspettare.
Ofelia le accarezzò la testa. – Dovrai aspettare più di un giorno, però, purtroppo.
Vittoria negò di nuovo. – Domani.
Berenilde andò a prenderla in quel momento, abbracciandola e portandola via, ma gli occhi delle due donne, una giovane e incinta e l’altra piccola e prematura, non si lasciarono mai.
Quel “domani” di Vittoria suonava più come una profezia che come un’aspettativa o un desiderio.
Ofelia ebbe un brivido e si avvicinò al fuoco del camino, mentre la sciarpa frustava l’aria, irrequieta, per poi allentarsi fino alla pancia della padrona per accarezzarne la creatura all’interno.
Possibile che…?
Ofelia scacciò il pensiero e si alzò.
Vittoria era solo una bambina di quattro anni. Una vocina dentro di sé però non voleva saperne di stare zitta e continuava a pungolarla, lasciandola irrequieta.
Possibile?
 
Ofelia si aggirò per casa come un fantasma tutto il giorno. Il lavoro le mancava, in esso trovava uno scopo e una valida scusa per evadere dal castello, in cui non aveva nulla da fare a causa dei “domestici”. Sperava che la sua famiglia non rimanesse troppo sconvolta da quella novità. Su Anima tutti partecipavano alla gestione della casa, dalla cucina alla pulizia fino alla restaurazione. C’era manodopera a volontà dal momento che erano tutti parenti e i vicini era come se fossero di famiglia, se non lo erano letteralmente.
Però il suo malessere emotivo non dipendeva da niente di tutto ciò, né dalla famiglia in arrivo né dalla mancanza di un’occupazione. E nemmeno dal fatto che faticava a trovare il coraggio per chiedere a Renard di fare da padrino a Serena. Si sentiva strana. Qualcosa non andava.
La zia Roseline aveva cercato di minimizzare, rassicurandola circa il fatto che si trattava di ansia preparto e cercando di distrarla facendole fare esercizi respiratori in vista del grande momento. Ofelia si era chiesta come facesse la zia a sapere quelle cose, dal momento che non aveva avuto figli. E non era mai nemmeno rimasta incinta, per quanto ricordasse.
Quella notte continuò a girarsi e rigirarsi nel letto, senza requie, resa ancora più insonne dal fatto che sapeva che Thorn non dormiva a causa sua. Se ne stava zitto, con gli occhi a tratti aperti, la fronte perennemente aggrottata, preoccupato. Aveva sciolto l’abbraccio in cui di solito la ingabbiava quando aveva iniziato a sentirla muoversi convulsamente come di solito faceva la sua sciarpa, ed era rimasto accanto a lei ma a distanza.
Ofelia allora andò in bagno per lavarsi il viso e cercare di calmarsi; l’acqua fredda agiva spesso come un infuso su di lei, tranquillizzandola e aiutandola a mettere ogni cosa nella giusta prospettiva. In quel caso non servì e quando tornò a letto trovò Thorn seduto, con i capelli spettinati, che la seguiva con il suo sguardo da sparviero.
- Vado a prenderti un calmante, o a chiedere che ti servano una camomilla.
- No, non serve – lo trattenne Ofelia prima che avesse il tempo di muoversi dalla sua posizione, arroccato su se stesso. – Sono solo un po’ scomoda, tutto qui. E ingombrante.
- Non sei ingombrante – mormorò lui, con un tono che avrebbe potuto intendere tutto il contrario, sdraiandosi nuovamente con lei. Le posò una mano fredda sulla pancia, facendola rabbrividire. – Si muove?
Ofelia scosse la testa. – Penso stia dormendo anche lei, ormai non ha più molto spazio di movimento. Non sono così spaziosa.
Thorn rimase in silenzio e cercò di addormentarsi, sperando che Ofelia facesse lo stesso.
Uscì dal dormiveglia poco dopo, pensando che in realtà fossero passate ore, quando Ofelia tornò in bagno. Invece era trascorsa a mala pena mezz’ora. Aveva intuito che l’incontinenza fosse un effetto collaterale della gravidanza, ma quale essere umano poteva vivere andando in bagno ogni mezz’ora?
Quando non la vide tornare si preoccupò. Scattò a sedere e uscì dal letto, avvicinandosi alla porta chiusa del bagno.
- Ofelia? Stai bene?
Da dentro giunse solo un mormorio. Bussò piano alla porta, pressandola. Cosa stava succedendo?
Alla fine Ofelia ne aprì uno spiraglio, rossa in viso e scarmigliata. – Potresti svegliare mia zia, per favore?
- Cosa succede? – per quando fredda, nella sua voce c’era innegabilmente paura.
- Non lo so, mi scappa continuamente la pipì. Credo che… forse mi si siano rotte le acque.
Thorn si voltò così velocemente che Ofelia fece fatica a seguirne il movimento con gli occhi, e si precipitò fuori dalla stanza con la vestaglia in mano. Lei si rese conto con sgomento che, più del parto in sé, era in apprensione per il comportamento del marito.
Come avrebbe fatto a tenerlo lontano da quella stanza?
 
Ofelia stava passeggiando nervosamente per la camera, quando Thorn arrivò con la zia. Lui era calmo e distaccato, mentre la zia Roseline trafelata e spettinata per via della corsa che aveva dovuto fare per cercare di tenere il passo sostenuto di Thorn. Ma Ofelia non si fece ingannare dal volto imperturbato del marito: gli occhi mandavano lampi d’acciaio ogni volta che il suo sguardo cambiava direzione, cioè molto spesso. Stava registrando ogni singolo particolare della stanza, dal letto sfatto alla sciarpa che era strisciata al collo di Ofelia e cercava di attorcigliarsi attorno alla sua testa, fino alla luce accesa del bagno e agli asciugamani che c’erano per terra.
Thorn si diresse verso il comodino e afferrò l’orologio da taschino come se solo quello potesse calmarlo. Erano le tre e sedici del mattino.
- Ofelia, come ti senti? Sii dettagliata come un libro di contabilità, ho bisogno di sapere a che punto sei – disse la zia Roseline afferrandole le mani, costringendola a guardarla negli occhi.
Ofelia si rendeva conto che la zia non aveva mai partorito, non mai avuto figli, ma nemmeno per un secondo dubitò della sua competenza, che la stretta stessa delle sue mani ruvide e calde le trasmetteva. Aveva aiutato Berenilde a partorire, ed era stata accanto a sua mamma con ogni singolo figlio. Se c’era qualcuno con delle competenze da levatrice, per quanto non ufficialmente riconosciute, quella era la zia Roseline.
- Mi si sono rotte le acque e…
- Quando?
- Non lo so con precisione…
- Circa quarantatre minuti fa – intervenne Thorn, posando una mano sulla spalla di Ofelia, in un gesto che lei non capì e interpretò come un semplice bisogno di toccarla per accertarsi che fosse tutto vero, che stavano per diventare genitori.
Che la loro primogenita stava per nascere.
- Cos’è successo? Come te ne sei accorta?
- Non è riuscita a chiudere occhio, se non a tratti – intervenne Thorn, pragmatico. - Il polso era leggermente accelerato ed è andata in bagno prima di coricarsi e verso mezzanotte. Poi alle due e trentacinque circa vi si è recata di nuovo ed è tornata a letto, per poi rialzarsi trentasette minuti dopo e rimanerci per sei minuti circa. È stato allora che se n’è accorta.
- Posso parlare anche da sola – bofonchiò Ofelia, irritata dalle continue interruzioni.
- Più preciso di voi ci sono solo il medico legale e la morte, figliolo, ma di sicuro non è il caso di discuterne qui. Le acque si sono rotte del tutto o è solo uno sgocciolio, Ofelia?
- Sgocciolio – affermò lei con sicurezza, imbarazzata dalla presenza del marito. – Abbondante ma non travolgente.
- Bene, sarà una cosa lunga, ma prima organizziamo il tutto e prima potrai rilassarti e goderti il parto.
Ofelia la fissò con occhi sgranati, stentando a credere a ciò che aveva appena sentito. Rilassarsi? Godersi il parto? Quella era sua sorella Agata, che aveva conversato con le levatrici e mangiato cioccolatini quando aveva partorito.
Lei invece sentiva già la tachicardia bussare alle porte del suo cuore, non tanto per il timore del parto come esperienza, quanto per le conseguenze che quel gesto avrebbero comportato. La responsabilità di essere madre, di crescere una creatura, la colpì in pieno, nonostante avesse riflettuto intensamente sull’argomento negli otto mesi e mezzo precedenti. L’assalirono i dubbi, i timori di non essere all’altezza, di sbagliare, di non essere abbastanza.
E poi sparì tutto. In un istante. Thorn si era chinato su di lei, posandole un leggero bacio tra i capelli prima di uscire dalla camera per andare a chiamare due domestiche, una delle quali aveva svolto il compito di levatrice prima di essere assunta da loro come governante. La zia Roseline gli aveva dato l’incarico senza che Ofelia se ne accorgesse, e lui era uscito in silenzio, efficiente come un automa, pratico come solo un funzionario poteva essere. Ma ad Ofelia era bastato il contatto impalpabile delle sue labbra sulla nuca per rassicurarla, gesto che la zia Roseline non aveva notato e che lei stessa temeva di essersi immaginata.
Non le importava. Non era da sola in quella situazione, come non era mai stata sola, né durante le serate in cui si era esibita per Faruk come vicenarratrice, con Renard al fianco, né quando aveva svolto l’indagine relativa agli scomparsi di Chiardiluna, con Thorn sempre accanto a lei.
Il marito era lì, si sarebbero divisi compiti e responsabilità. Sarebbe andato tutto bene.
Strinse i pugni mentre una prima lieve doglia le attraversava il ventre come una scarica di artigli, leggeri e quasi rassicuranti.
Stava arrivando. Serena stava arrivando. Il frutto dell’amore suo e di Thorn. Gli occhiali si tinsero di una leggera nota di indaco, malinconia e commozione mischiate fino ad essere indistinguibili.
Ofelia si estraniò dal suo corpo, senza rendersi conto che la zia Roseline le accarezzava i capelli maldestramente, poco propensa ai contatti fisici, mormorandole parole d’incoraggiamento che avevano a che fare con caffettiere, mantici e pezzi di vetro.
Quando si riebbe fu come mettere la testa fuori dall’acqua dopo una profonda immersione. I suoni la colpirono; le voci concitate, la presenza torreggiante di Thorn, seppur silenziosa, quelle mani che la toccavano. Istintivamente si ritrasse, sbattendo contro il petto del marito alle sue spalle. Le donne, le due domestiche e la zia, si zittirono quando videro le mani dell’intendente posarsi con possessività sulle spalle della futura puerpera.
- Cosa fa un uomo qui? – chiese la governante che, avendo già preso il comando e impartito le prime direttive, era senz’ombra di dubbio la domestica che aveva precedentemente operato come levatrice. – Fuori. E chiudete la porta.
La presa di Thorn sulle spalle della moglie si rinsaldò, come se trattenendola contro di sé con più forza quelle donne in procinto di far nascere un bambino potessero chiudere un occhio. La forza che le animava suggeriva ad Ofelia che in quel momento non si sarebbero fermate davanti a nulla, che fosse una Bestia, un anziano in difficoltà o l’intendente del Polo, ergo uno degli uomini che incuteva più timore sull’intera arca.
Non venne smentita. La levatrice si avvicinò a lei, che era posta come uno scudo tra la donna tonda e bassina, più bassina persino di lei, e lo spilungone dai tratti affilati alle sue spalle. Opposti come il sale e lo zucchero. Aveva un’aria minacciosa e Ofelia si ritrovò per la prima volta a temere una donna.
- Non mi muovo. Mia moglie sta per partorire – sancì Thorn, lapidario, come se stesse annunciando le previsioni del tempo.
- Proprio perché vostra moglie sta per partorire dovete muovervi.
- Sono il padre. Nessuna legge mi vieta di rimanere in questo momento.
Pragmatico come sempre, la sua scelta poteva in effetti essere limitata o inibita niente meno che dalla legislatura. Per Thorn non c’era zone d’ombra come la consuetudine non scritta ma osservata tacitamente da tutti, quegli usi quotidiani insiti nella natura stessa degli avvenimenti.
Nessun articolo normativo impediva a Thorn di assistere. Ma la consuetudine e la buona creanza sì.
- Nessun padre assiste al parto da anni. Decadi! E sapete perché, signor intendente? Per salvaguardare il matrimonio e la pace mentale della partoriente. I mariti pieni di buona volontà ed emozionati per questo momento spesso svengono, caricano ansia eccessiva sulle spalle della moglie perché non riescono a controllare il loro stato emotivo, o peggio, provano disgusto per lo stesso travaglio, per non parlare della fase finale, quella espulsiva.
Ofelia storse il naso al suono di quella parola. Espulsivo. Rabbrividì da capo a piedi, e Thorn se ne accorse, perché si fece ancora più vicino.
- Se proprio volete che ve la racconti fino in fondo, signor intendente – continuò imperterrita la levatrice, infervorata e disinibita nel linguaggio, - nella maggior parte dei casi i mariti che assistono al parto poi non riescono più a guardare la moglie con gli stessi occhi. Rimangono scioccati e scandalizzati, e cercano rifugio sotto le gonne di qualche altra donna che non sia stata sottoposta all’esperienza trascendentale e unica del parto. Non voglio essere responsabile della rottura del sacro vincolo del vostro matrimonio, quindi uscite di qui. Non permetterò che commettiate sciocchezze o puntiate i piedi, salvaguarderò questo matrimonio e la dignità della madama vostra moglie. Con permesso.
Concludendo la sua arringa come un avvocato impettito e sicuro di vincere la causa, la levatrice si accinse a stendere un mucchio di asciugamani sul letto e per terra, ordinando poi alla collega di riempire due secchi di acqua calda nella vasca del bagno padronale. La zia Roseline si era immobilizzata, fissando la scena sbigottita: nessuno, nemmeno lei stessa, aveva mai osato parlare così a Thorn. Quella donna non era minimamente intimidita dalla minaccia di quell’uomo: artigli, altezza, sguardo gelido, mascella contratta. Non l’aveva scalfita nulla.
- Be’, cara Ofelia, se non è in grado lei di far nascere la piccola, non vedo chi potrebbe farlo! È più agguerrita di un coltello durante la Festa del Tacchino.
Suo malgrado, Ofelia sorrise, grata per la sua presenza lì. Non era sicura che la levatrice la tranquillizzasse, ma vederla così efficiente e sicura di ciò che faceva, così esperta, le fece capire che era in buone mani. Sempre che non la sgridasse perché magari non faceva qualcosa di giusto. Sarebbe stata in grado di sbagliare anche la respirazione, figuriamoci le spinte e quelle altre cose legate al parto.
Con una mano inguantata accarezzò le lunghe dita di Thorn, ancora ferme sulle sue spalle. La sciarpa la imitò, anche se non smetteva di muoversi e tremare per l’agitazione.
- Penso ti convenga fare come ha detto – mormorò a bassa voce, conscia che lui l’avrebbe sentita.
La levatrice era uscita e stava sbraitando ordini in corridoio, ma sapevano entrambi che non avrebbe tardato a rientrare.
Thorn la fece voltare verso di sé e si chinò per essere alla sua altezza. Ofelia lesse un tormento vivido e inquietante nel suo sguardo, una paura che non gli aveva mai notato addosso, e che traspariva solo dall’acciaio dei suoi occhi. –  E se ti succedesse qualcosa?
- Sono in buone mani.
- Voglio assistere. Davvero. È anche una mia responsabilità questa situazione.
Ofelia avrebbe voluto ridere di fronte alla formalità di Thorn. Non voleva chiamarlo distacco, sapeva che era sinceramente emozionato per ciò che stava accadendo. – Il parto non è una situazione, Thorn, e non si parla di responsabilità. Non è un’incombenza che possiamo dividerci, devo partorire io.
- Come se non lo sapessi – bofonchiò, quasi irritato. – Se però assisto e sto vicino ho la possibilità di partecipare. Mia zia non ha emesso un lamento quando ha partorito Vittoria, l’hai sentita, ma lei è l’unico caso che mi è capitato. Ho avuto la spiacevole occasione di svolgere alcune indagini sulla veridicità di certe pratiche in un istituto per donne all’ultimo stadio di gravidanza, all’inizio del mio impiego come funzionario, e sembrava di essere in un mattatoio. Urla ovunque, che riecheggiavano e infestavano quel posto come se fosse un luogo di tortura. Mi chiedo perché le donne si infliggano una sofferenza del genere, e mi sono trovato spesso a riflettere sui motivi che le spingono a desiderare più di un figlio. O i loro mariti non sono in grado di… controllarsi, o qualcosa nel processo procreativo mi sfugge. Se mi sarà permesso assistere almeno potrai contare su di me se vorrai prendere a pugni qualcuno. Potrai rompere piatti sulla mia testa. O maledirmi. Io…
- Per questo avevi così paura all’inizio? – lo interruppe Ofelia. – Un po’ di tempo fa, e ancora agli albori, quando ti ho messo a parte del mio desiderio. Paventavi il momento del parto?
Thorn si raddrizzò, e si passò una mano tra i capelli spettinati. Era così agitato da non aver fatto caso al suo stato “disordinato”. Ofelia lesse anche una profonda stanchezza nei suoi occhi, come se quel momento gli stesse risucchiando la vita poco a poco.
- Non è una facezia il parto. L’idea che ti abbia messo io in questo ginepraio non mi permette di rasserenarmi. Non ho mai tollerato che tu soffrissi, né in passato, né ora, né in futuro. Lo ammetto, è un desiderio egoistico. Assistere al parto mi farà sentire meno inutile, in qualche modo partecipe della tua agonia. Andarmene fuori, lasciarti sola, mi sembra un venir meno alle mie responsabilità.
- Parole come agonia, urla e mattatoio non dovrebbero essere usate con una donna in procinto di partorire, Thorn – lo redarguì Ofelia in risposta, per stemperare l’atmosfera. Anche se quel commento non era del tutto ironico…
Lui infatti non apprezzò e le scoccò un’occhiata glaciale dalla fessura visibile dei suoi occhi strizzati.
- Le cose stanno così, Thorn. Io ho accettato tutte le conseguenze del mio desiderio nel momento stesso in cui te ne ho messo a parte. Non è una mancanza da parte tua, è un mio compito. Il tuo è quello di vegliarmi, da fuori.
- Spero che tu non abbia dato peso alle parole della levatrice – la incalzò lui, ignorando la sua velata richiesta di uscire. – Credi che mi scandalizzerei nel vederti partorire? Sai bene qual è il numero delle cicatrici che solcano la mia pelle. Le conosci quasi meglio di me per forma e ubicazione. Tu convivi con esse, per quanto siano raccapriccianti, io posso decisamente sopravvivere alla tua vista nel momento dell’espulsione.
Ofelia si chiedeva sempre, a distanza di anni, come potesse Thorn parlare di argomenti delicati in maniera così seria e imperturbata.
Arrossì da sola immaginando se stessa mentre si accingeva a mettere al mondo la loro figlia. La visione, nella sua immaginazione, era intollerabile già solo con Thorn alle sue spalle; con lui di fronte a lei ad osservare tutto sarebbe stato così umiliante da costringerla ad affrontare un parto d’inferno.
Scosse la testa. Era sicura che Thorn non si sarebbe schifato, ma lei non era pronta perché lui assistesse. – Lo so che non fuggiresti e non rimarresti traumatizzato, ma credo davvero che tu debba uscire. Sarai il primo ad entrare quando Serena verrà al mondo, il primo a vederla e tenerla.
Thorn capì di aver perso la battaglia e si irrigidì ulteriormente. – Ma non la vedrò entrare letteralmente nel mondo.
Ofelia storse il naso. – Non credo sia un bello spettacolo quello.
- Ancora qui voi? – berciò la levatrice entrando a passo di marcia, uno sguardo assassino negli occhi, nonostante si accingesse a far nascere una nuova vita. – Andate fuori subito signor intendente, a meno che non vogliate che maledica il giorno in cui vi ho fatto nascere.
Ofelia ci mise qualche secondo per registrare le parole della donna. Lei aveva fatto nascere Thorn?
Intuendo il suo sgomento, lei bloccò le sue domande sul nascere. – Non è il momento per chiacchierare di questo, madama, avete un bambino da far nascere. Sedetevi sul bordo del letto. Dove sono i cuscini che ho chiesto? Non può stare con la schiena ad un’angolatura sbagliata, volete che soffra anche di male alle giunture oltre che per il resto? Chiudete quella porta!
Ofelia accarezzò il viso di Thorn e gli sorrise, dispiaciuta, mentre si allontanava per obbedire ai comandi abbaiati dalla levatrice. Temeva quasi per la sua incolumità, con quel sergente in camera.
Lui abbandonò in silenzio la stanza, senza badare a nessuno, o notare l’occhiata di sincero rammarico della zia Roseline.
La porta si chiuse alle sue spalle senza quasi aspettare che lui fosse uscito del tutto.
Prendendosi la testa tra le lunghe dita ossute, con indosso ancora la vestaglia, si preparò ad udire e sopportare sulla pelle le urla di Ofelia.
 
Quando rimasero solo loro quattro, Ofelia, le due domestiche e la zia Roseline, il clima divenne decisamente meno teso. Senza le altre serve che portavano asciugamani, cuscini e infusi e senza Thorn, che agitava la levatrice, nella stanza piombò il silenzio per qualche istante.
E poi la levatrice le sorrise dolcemente. – Bene, cara, ora cerchiamo di rendere la cosa più facile e comoda possibile. Ora vi spiego…
La donna la cullò con la sua voce d’un tratto ammaliante, trattandola come una bambina, in modo rassicurante, affinché potesse calmarsi. Le tenne le mani, l’aiutò a spogliarsi, la confortò. Ofelia dubitava che fosse la stessa signora piccola e grassottella che aveva tenuto testa al marito pochi minuti prima.
Senza farsi udire, l’altra domestica riuscì a spiegare ad Ofelia il perché della sua reazione alla richiesta di Thorn di poter assistere: all’epoca in cui era stata la governante a partorire, molti, molti anni prima, il suo stesso marito aveva voluto assistere. Non era finita bene. Non aveva fatto altro che vomitare per tutta la durata del travaglio, chiedendo supporto alla moglie invece di darglielo. Alla fine si era allontanato perché non reggeva più la tensione, proprio all’ultimo momento, quando la donna stava dando alla luce suo figlio, il loro figlio.
Il neonato era morto poco tempo dopo la nascita per un problema ai polmoni. Il padre si era dato al bere, lasciando sua moglie ad occuparsi da sola del funerale e del suo dolore. Alla fine, dopo un paio di settimane, aveva smesso di gozzovigliare, ma non era più tornato a casa per la notte. Se n’era andato definitivamente dopo sei mesi, in seguito a pesanti litigi e confessioni abominevoli. Lei sapeva che lui l’aveva tradita molteplici volte. E lui, al momento di andarsene, aveva dichiarato di non volere mai più figli, perché era disgustoso e aberrante ciò che accadeva al corpo di una donna durante il parto.
La levatrice si era dedicata a far nascere i bambini altrui. Non aveva più voluto né figli né un uomo. Il disprezzo per i maschi non l’aveva mai più abbandonata.
Ofelia non poteva nemmeno capire cosa quella donna potesse provare nei confronti degli uomini. Ma capì perché aveva reagito così alla richiesta di Thorn di poter partecipare: temeva che potesse succedere lo stesso alle partorienti che assisteva. Che il loro marito le vedesse sotto una luce diversa, come una specie di mucca da latte, dandole meno rispetto e cercando consolazione altrove. Era una visione brutale, la sua, che poteva avere solamente chi dalla vita era stato trattato altrettanto brutalmente.
Oltre a distrarsi dal fastidio delle contrazioni, Ofelia si chiese se in realtà la levatrice e Thorn non avessero in comune più di quanto loro stessi avrebbero voluto ammettere.
- Vi ringrazio per essere qui e per l’assistenza che mi state dando – mormorò alla donna dopo un paio d’ore, ammirando la sua pazienza e instancabilità.
Aveva allestito nella camera da letto una vera e propria sala parto. La zia Roseline era dietro di lei, sorreggendole la schiena e accarezzandole i capelli aggrovigliati. Per una volta non parlava, le cullava semplicemente la testa, e Ofelia fu più che mai grata della sua presenza nella sua vita.
- Non datevi troppe noie, madama. Accetto i ringraziamenti e mi farò scudo con quelli quando, tra qualche ora, inizierete a maledire me, vostra zia, vostra madre e vostro marito. Soprattutto vostro marito.
Ofelia non voleva pensarci, così chiuse gli occhi e cercò di godersi la quiete temporanea. Per quanto possa essere quieta una stanza con due donne indaffarate, una che poteva mettersi a chiacchierare ininterrottamente per ore e lei stessa, attraversata dalle contrazioni e con le doglie da un’ora abbondante.
Poco dopo entrò Berenilde, che urlò di gioia ancora prima di mettere piede nella stanza.
Ofelia seppe allora con certezza che la pace era finita.



*...non credo proprio che un padre si senta schifato alla vista della moglie che partorisce, così come non si sente ripugnato da lei in seguito. Ma cercate di capire la brutta esperienza della levatrice e il fatto che non voglia rischiare ahahaha. Mi fa tenerezza quella donna. E poi Thorn che assiste proprio non me lo vedo, scusate xD

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Ed ecco un raro esemplare di Thorn alle prese con il parto, signori e signore!
Buona lettura e grazie mille in anticipo^^


Capitolo 10

Sbattuto fuori dalla sua stessa camera, Thorn aveva trascinato una sedia di fianco alla porta e vi si era seduto, scarmigliato, in vestaglia, come una guardia, come aveva fatto durante la nascita di Vittoria. Questa volta però era una situazione del tutto diversa. Diametralmente opposta. Al di là del muro c’era sua moglie, che stava per dare alla luce sua figlia. Mai al mondo avrebbe immaginato che una circostanza simile potesse verificarsi.
Per anni aveva vissuto nella convinzione che sarebbe morto solo, che non avrebbe mai avuto una moglie, e si era abituato al pensiero. Provando repulsione per la quasi totalità degli esseri umani, uomini o donne che fossero, l’idea di non avere nessuno accanto non lo aveva spaventato, semmai il contrario. Quando poi aveva ceduto alle insistenti richieste di sua zia, aveva deciso che il matrimonio si sarebbe celebrato alle sue condizioni e per i suoi scopi. E lui uno scopo ce l’aveva.
Era stato per interesse che aveva cercato un’Animista, oltre al fatto che nessuna al Polo sarebbe stata disposta a prenderlo come marito. Una moglie per convenienza, ecco cosa gli serviva. Avrebbero magari condiviso le notti, una volta che lui si fosse abituato alla presenza di quest’ultima; avrebbe potuto trarre qualche vantaggio dagli obblighi coniugali, per quanto fosse cinico all’idea, inizialmente. Ma i figli erano fuori discussione, anche se non lo avrebbe mai ammesso apertamente con sua zia, che non desiderava altro che vederlo mettere al mondo una nidiata di pargoli urlanti e disturbanti.
Invece era lì, dopo anni era seduto fuori dalla camera della donna che amava più di qualsiasi altra cosa, per cui avrebbe venduto tutto, barattato la sua stessa vita. Che non solo gli aveva proposto di avere un figlio insieme, una piccola creatura nata dall’incrocio scientifico dei loro geni e delle loro caratteristiche, ma che lo aveva convinto del fatto che sarebbe stato bello. Che lui sarebbe stato un bravo padre.
Scattò in piedi sulla sedia e cominciò a passeggiare avanti e indietro di fronte alla porta, e poco dopo arrivò sua zia Berenilde, eccitata, con il volto roseo e Vittoria al seguito, sorridente.
- Caro nipote, in quale stato ti trovi? È pur vero che ci troviamo alle prime ore dell’alba, ma non mi sembra così consono che tu giri in vestaglia.
Senza attendere risposta affidò Vittoria alla domestica che le aveva seguite, ordinandole di metterla ancora un po’ a letto e poi di provvedere alle sue necessità. Mentre le due si allontanavano, appena prima di entrare nella stanza, Berenilde sorrise a Thorn, entusiasta.
- Dovrai ammetterlo prima o poi, Thorn. Ci ho visto molto bene, molto molto bene, quando ti ho scelto la sposa. Non avrei mai immaginato di vederti ammogliato. A dire il vero, ti ho sempre figurato come un marito, era naturale, ma mai come un uomo innamorato. Ora sei un uomo innamorato e quasi padre. Vai a vestirti, sciò, renditi presentabile! Vorranno tutti l’esclusiva sulla foto della famiglia dell’intendente! Che emozione.
Urlò di gioia prima di entrare nella stanza, ma Thorn non riuscì a rubare nemmeno una fugace visione di ciò che accadeva al suo interno. Cercando di non pensare troppo alle parole della zia, si avventurò verso la stanza degli ospiti che occupava prima che Ofelia gli consentisse di dormire insieme. Si concesse una doccia veloce, si rasò e pettinò, indosso una camicia e un paio di pantaloni puliti e tornò a fare la posta davanti alla porta della sua camera. Per due ore.
 
- Signor intendente!
Thorn alzò la testa con una smorfia. Era rimasto così immobile che la schiena aveva cominciato a dolergli ed era sicuro di avere qualche articolazione addormentata. Si era lasciato rapire dai suoni ovattati che giungevano all’interno della camera: gridolini, per lo più di sua zia, rimproveri, della signora Roseline, ordini, della levatrice. Ofelia invece non fiatava. Era in travaglio da più di cinque ore ormai, avrebbe già dovuto urlare e maledirlo? Avrebbe dovuto essere lì dentro con lei, non su quella sedia in mezzo al corridoio del loro castello. Era ridicolo.
E poi quella voce che lo chiamava. Del consigliere di Ofelia, Renold. Si stava avvicinando velocemente, perciò Thorn non vedeva la necessità di urlare la sua presenza come stava facendo lui. Era bastato quel richiamo ad infastidirlo: Ofelia aveva bisogno di pace, non di strepiti.
- Signor intendente! – lo chiamò di nuovo, esaltato.
A Thorn non andava particolarmente a genio quell’uomo, non perché avesse fatto qualcosa di sbagliato, quanto per ciò che rappresentava: una fonte di pettegolezzi. A corte si era scoperto che Ofelia conosceva Renard da prima che lo assumesse. E lo aveva adoperato come consigliere personale. Che bisogno può avere una donna maritata di un consigliere? Per quelle cose c’è il coniuge, soprattutto visto che, nella mentalità ristretta degli arroganti aristocratici, le donne non sono tenute ad avere opinioni personali. Oltretutto, Ofelia e Renard lavoravano insieme al suo studio, con molto tempo libero e da soli, lontano da sguardi indiscreti.
Thorn non dubitava della fedeltà di Ofelia, la sua gelosia non intaccava la sua fiducia, ma le voci che circolavano erano di tutt’altro avviso. Alcuni mormorii addirittura mettevano in dubbio la legalità del matrimonio o l’identità del padre. Thorn non avrebbe mai messo a tacere quelle voci per il solo fatto che erano foriere di calunnie, ma questo non impediva loro di urtare sensibilmente i suoi nervi.
E l’uomo imponente che si stava avvicinando a lui urlando e con il viso rosso come il pelo che lo ricopriva era la causa di tutto quel chiacchiericcio. E stava molto tempo con sua moglie.
Thorn cercò di dominare il nervosismo meglio che poté.
- Signor intendente, allora è vero? Ofelia sta… cioè, la vostra signora sta partorendo?
Era difficile non badare alla facilità con cui Renard si era lasciato sfuggire il nome della moglie, come due intimi amici con un rapporto stretto e aperto, ma Thorn si consolò con il fatto che evidentemente quell’uomo così vicino a sua moglie non sapeva nemmeno a che punto fosse il travaglio.
- Sì – rispose laconicamente.
Sul volto dell’uomo passarono in un istante gioia e timore, vergogna per la reazione esagerata e poi esultanza. Possibile che non fosse in grado di controllare le sue emozioni? Thorn fece una smorfia e aggrottò le sopracciglia, già increspate al massimo.
- Congratulazioni signor intendente, congratulazioni! Desiderate che avverta qualcuno? I genitori di vostra moglie, il padrino e la madrina…? È in anticipo rispetto alla scadenza, chiamo un medico? Oppure devo…?
- Fate silenzio – borbottò Thorn, con una voce così bassa eppure stentorea che Renard ammutolì e valutò addirittura se fosse il caso di fare una riverenza.
Non è che l’intendente gli ispirasse antipatia, ma nemmeno simpatia. Il problema era che la maggior parte del tempo non riusciva a decifrarlo, e si chiedeva spesso come riuscisse a farlo Ofelia. Li aveva visti, ogni tanto, per errore, quando erano in soggiorno da soli. Il modo in cui l’intendente la guardava o la toccava lo aveva impressionato: quell’uomo non aveva mai contatti con nessuno, non si interessava al parere altrui e rifuggiva la compagnia di chiunque. Ofelia invece lo teneva in pugno. Se fosse stata più arrivista e manipolatrice avrebbe potuto renderlo il suo burattino personale. Invece lo rispettava quanto lui la ammirava. Il loro era un legame così intenso e misterioso che Renard non avrebbe mai potuto capirlo, lo percepiva, ed era felice che finalmente quell’uomo burbero e solitario avesse trovato qualcuno con cui dividere gioie e dolori dell’esistenza.
- In effetti, non sarebbe una cattiva idea quella di avvertire i genitori di Ofelia. Il piano era quello che arrivassero due settimane prima del parto e si trattenessero per le due successive, ma ora c’è la possibilità che ripartano dopo essere stati qui per soli quattordici giorni. La bambina sarà già nata, del resto, e la loro presenza non sarà più indispensabile.
Quando Thorn si zittì, dopo quei borbottii da monologo, Renard rimase in silenzio, senza capire cosa dovesse fare.
Alla fine si schiarì la voce, a disagio. – Dunque contatto la famiglia della signora?
- Sì, contattateli e metteteli a parte del fatto che Ofelia sta partorendo. Chiedete loro come intendono procedere.
- Agisco, signor intendente. Scusi se ho l’ardire di chiedere nuovamente, ma volete che contatti anche la madrina e il padrino? Di norma loro dovrebbero essere presenti al parto. A meno che non siano entrambi stati scelti tra i membri della famiglia della signora. In tal caso…
Era sempre così chiacchierone quel consigliere, o era solo l’eccitazione del momento a renderlo tanto loquace?
Thorn lo zittì con un gesto, rendendosi conto che Ofelia non aveva fatto in tempo ad avvisarlo che sarebbe stato lui a ricoprire quell’incarico. Toccava a lui sbrigare quell’incombenza, allora.
- Sarà necessario chiamare solo la madrina. Si tratta di Gaela, la vostra conoscente, la meccanica sotto la protezione di madre Ildegarda.
Sconvolto, Renard lo guardò con gli occhi spalancati. – Gaela?! Ma… non per mettere in discussione le vostre scelte, però siete sicuri della scelta di Gaela? Si solleverà un polverone quando i giornali diffonderanno in ogni angolo la notizia che la madrina della figlia del più importante funzionario del Polo non è niente meno che una meccanica.
Thorn non mostrò alcuna reazione. – Così ha deciso Ofelia. So bene quanto l’aristocrazia ambisca a questo ruolo, abbiamo ricevuto duecentotrentadue lettere da parte di nobili che chiedevano di poter assumere quella carica, in cambio di favori o altri generi di compensi. Ofelia non ne ha voluta aprire nemmeno una, io ne ho lette due e ho bruciato il resto senza aprirlo. Le quisquilie di corte non ci riguardano, chiamate la meccanica. Assicuratevi solo che non si presenti con una tuta coperta di morchia.
Renard deglutì. Gaela gli avrebbe fatto una scenata, ne era sicuro.
- Il padrino siete voi, quindi vedete di arrivare puntuali, non so quanto ancora ci vorrà prima che la bambina nasca.
Renard si sentì mancare. Il padrino? Lui? Sapeva che Ofelia era una pazza che non prestava attenzione ai codici di comportamento e alla gerarchia del Polo. Aveva visto in che ambiente era cresciuta, un ambiente sano, dove regnavano equità e legami famigliari, dove nessuno era più importante di un altro e i domestici non sapevano nemmeno cosa fossero. Ma non credeva che Ofelia volesse onorare le tradizioni Animiste, scegliendo le persone che amava tra coloro che potevano ricoprire l’incarico, a dispetto del lignaggio.
Aveva gli occhi lucidi quando annuì e rispose: - Vi ringrazio per la fiducia, signor intendente. Vi ringrazio davvero per questo onore.
Thorn grugnì, incapace di ammorbidirsi, e lo liquidò con un gesto secco.
Renard si allontanò barcollando, mentre una gioia incontrollabile gli esplodeva in petto. Ofelia aveva coraggio da vendere. E suo marito era una bella persona. Per quanto fosse austero e inflessibile, per quanto lo desse costantemente a vedere a tutti, si era reso conto in quel momento che era solo una facciata. Appena prima di girarsi per andarsene infatti, aveva visto il lampo di sollievo e gratitudine che aveva attraversato quegli occhi metallici e gelidi.
E Thorn si era reso conto che Renard era un brav’uomo, perché Ofelia non si sarebbe mai circondata di persone che non fossero sincere e d’animo puro. Se gliene avesse data l’occasione, forse sarebbe riuscita a sovvertire completamente le leggi del Polo.
Divertito all’idea, venne attraversato da una scarica di fastidio quando arrivò Archibald.
 
Era passato da poco mezzogiorno e davanti alla porta della camera da letto padronale si era radunato un gruppetto di persone che sembravano pronte a litigare da un momento all’altro: Archibald canticchiava e danzava da solo urtando i nervi di Thorn, che se ne stava seduto immobile sulla stessa sedia da troppe ore, mentre il consigliere cercava di fare il galante con la meccanica che, da parte sua, non lo considerava nemmeno, presa com’era dall’angoscia.
Infatti stava borbottando da sola da quando era arrivata lì, mezz’ora scarsa prima. – Cosa le salta in mente! Le avevo detto non lasciarsi infettare dall’ipocrisia di quest’arca, ma, per tutti i motori scassati e fumanti, non volevo che sovvertisse le leggi implicite della buona creanza!
Smadonnò un po’ prima di dirigersi al bagno per la terza volta, cercando di lavarsi via dalle dita le macchie nerastre che ormai sembravano essere diventate il colore naturale della sua pelle. Per l’occasione aveva indossato l’unico vestito che aveva, regalatole anni prima da Madre Ildegarda, con la promessa che un giorno le sarebbe servito. La vecchia signora era stata lungimirante, e aveva fortunatamente pregato Gaela di non buttarlo e di tenere da conto quel pezzo di stoffa. Alla meccanica erano serviti pazienza e una buona dose di imprecazioni che avevano fatto arrossire persino Renard e Salame, che viveva con lei ormai stabilmente, per poter riesumare quel vecchio regalo abbastanza sgradito.
Renard si era messo in ghingheri di tutto punto per essere presentabile, non solo alla nascita della figlioccia, ma anche per convocare la sua bella meccanica. Si era preparato agli insulti di circostanza e alle smorfie di disappunto che Gaela avrebbe sicuramente fatto vedendolo, ma non si era aspettato che lei andasse nel pallone. Cercava di mascherare l’emozione e la gratitudine dietro il turpiloquio e l’agitazione della ricerca dell’abito, ma Renard la conosceva troppo bene: Ofelia, con la sua richiesta inusitata ed eccentrica, aveva commosso quella donna con gli ingranaggi al posto del cuore. Quando l’aveva vista asciugarsi una lacrima di nascosto aveva sorriso sotto i baffi, fingendo di non aver notato nulla. Quella meccanica così ostica lo sorprendeva sempre.
Aveva trattenuto il fiato quando, dopo averlo cacciato dalla sua stanza, lo aveva raggiunto, nervosa e irrequieta, vestita come una signora e con i ricci capelli neri acconciati alla bell’e meglio in un morbido chignon. Aveva tentato di sperticarsi in complimenti, ma lei gli aveva subito tarpato le ali.
- Risparmia il fiato, pelo fulvo. Questa è l’ultima volta che mi vedi così – lo aveva apostrofato, precedendolo.
Renard aveva faticato a trattenersi dal ridere quando aveva notato gli stivali malconci da lavoro che spuntavano da sotto la gonna ad ogni passo.
Amava quella donna.
- Ma è regolamentare questa roba? – chiese Gaela tornando dal bagno, asciugandosi selvaticamente le mani sul vestito, rivolgendosi a Thorn come ad un suo pari.
- Vi ho fatto la cortesia di rispondervi tre volte quando ne bastava una. Gradirei un po’ silenzio, se non vi dispiace. E questa è una richiesta rivolta a tutti – rispose Thorn, senza guardare in faccia nessuno, concentrandosi sulle linee geometriche del tessuto del tappeto.
Archibald ridacchiò e interruppe il suo balletto improvvisato di fronte a Gaela. – Meravigliosa signorina meccanica al servizio della compianta e defunta Madre Ildegarda, certo che è regolamentare. I genitori del nascituro sono liberi di scegliere la madrina e il padrino anche tra i nullatenenti e i topi di fogna, se lo desiderano. Non mi guardate in questo modo così violento, vi prego, mi fate battere forte il cuore. Non mi stavo mica riferendo a voi!
Infastidito, Renard si frappose tra Archibald e Gaela, alla quale l’ambasciatore aveva tentato di prendere la mano. – Ciò che il signor ambasciatore cerca di dire con tanti giri di parole, Gaela, è che non c’è nessuna legge che vieta ai genitori di scegliere qualcuno che non sia di nobile lignaggio. Solitamente non accade perché gli aristocratici fanno carte false per accaparrarsi un posto di preminenza in vista delle nascite importanti. Ma ovviamente Ofelia non è una donna corruttibile o alla ricerca di introiti.
- Ripeto: è la terza volta che ve lo dico – intervenne Thorn.
L’allegra compagnia sul piede di guerra si zittì quando si aprì la porta e ne uscì madama Berenilde, accaldata e raggiante. Il nipote scattò in piedi come una molla, come se la comparsa della donna avesse attivato un qualche meccanismo di eiezione sulla sedia su cui si era abbarbicato.
- Sta bene, sta bene, procede tutto per il meglio – lo anticipò Berenilde notando la reazione del quasi padre. – Che piacere Archibald, non pensavo foste arrivato. Qualcosa vi lega inesorabilmente alla nostra famiglia, a quanto pare.
Archibald ammiccò, ma non poté ribattere nulla perché Thorn non gliene diede il tempo. – Come procede? Ofelia sta male? Se potessi entrare per un solo istante…
- Mi dispiace caro nipote, sai bene che non è possibile. Ofelia se la sta cavando bene, è più forte di quanto potessi immaginare. Fisicamente intendo. Mingherlina e bassina com’è pensavo che il suo fisico fosse più fragile del suo spirito, invece ti ho trovato una moglie più tosta del previsto. Del resto, per poter passare la vita con te…
- Ha male?
- Ma certo che ha male, Thorn! È un parto, non un bagno rilassante o uno spettacolo teatrale. Ma tiene duro. Tu non potresti fare nulla per alleviare il suo dolore. Con permesso, vado a vedere come sta la mia adorata Vittoria e a prendere un po’ di respiro. Ho faticato così tanto lì dentro…
La madama si allontanò in un fruscio di gonne vaporose, lasciando Thorn impietrito in mezzo al corridoio. Non si era mai sentito così inutile in vita sua, e il reso conto della zia non lo aveva aiutato a placare l’ansia che gli aveva attanagliato il petto come un’artigliata.
Fu Archibald a rompere il silenzio. – Se non fossimo in una situazione così delicata, mia cara signorina meccanica, sappia che la corteggerei profusamente. Non mi è mai capitato di trovarmi in presenza di due donne così piene di grazia e bellezza e non di non averne sedotta nemmeno una. Spero che in futuro la cara signora Thorn mi cerchi di persona, ma voi, mia adorata, prevedo che cederete molto prima.
Gaela alzò la mano con il chiaro intento di tirargli un manrovescio o un pugno, ma Renard la bloccò afferrandole il polso e allontanandola di qualche passo, mentre lei si dimenava. Archibald ridacchiava impunemente, lanciandole un languido bacio con la mano.
- Non accetto di essere trattata come una sciacquetta da sottobordo! – sbraitò lei, infuriata come poche volte.
Renard non faticava a trattenerla grazie alla sua mole imponente e atletica, ma i calci che riceveva come effetto collaterale non erano molto piacevoli. Se avesse potuto, avrebbe rifilato lui stesso uno schiaffo all’ambasciatore: erano anni che si lavorava Gaela, non avrebbe permesso a nessuno di vanificare i suoi sforzi.
- Tratta tutte le donne in questo modo, non datevi pena – la informò Thorn con voce scricchiolante come ghiaccio in procinto di rompersi. – Spero solo che voi, come Ofelia, non cediate alle sue avances come le altre centinaia.
Gaela sputò ai piedi di Archibald. – Ci puoi contare, intendente. Ho bisogno di una sigaretta per calmarmi, altrimenti picchio il nobilastro.
Thorn, in circostanze normali, avrebbe perso la pazienza mezz’ora prima. Ma quella non era una situazione normale, e la preoccupazione per Ofelia prevaleva su tutto. La sua attenzione, per una volta nella vita, non operava su più fronti, rendendolo terribilmente acuto e percettivo, ma gli rodeva il cervello con un unico pensiero: il logorio dell’attesa.
Si risedette, sconsolato, irrigidendosi. E subito dopo udirono tutti chiaramente un gemito provenire dalla stanza dietro di loro e un vocio concitato.
Persino Archibald se ne rimase zitto per un po’, capendo che Ofelia era entrata nella fase finale del parto, quella peggiore.
Fu Renard a rompere il silenzio quando il tempo passò e non accadde nulla di eclatante o diverso rispetto a prima. – Scusate l’ardire, signor intendente, ma dovrei scegliere un nome per la nascitura? Spetta al padrino solitamente questo compito, se non erro.
- Se per voi fa lo stesso, avremmo già deciso. Spetterà a voi annunciarlo, però.
- Ohibò, che sollievo. Ammetto di non essere pratico di queste cerimonie, mi avete sgravato di un peso. Come si chiamerà dunque la piccola Thorn?
- Serena – rispose laconicamente lui. E spero che non sia una piccola Thorn, avrebbe voluto aggiungere.
Poco più tardi Renard portò Gaela in cucina per farle mangiare qualcosa, con il pretesto di aiutarla a calmarsi con un goccio di vino e l’intento di provarci spudoratamente. Archibald invece, trovando l’attesa monotona e invariabile, si allontanò alla ricerca della figlioccia, Vittoria, che aveva un debole per lui. La cosa non lo sorprendeva per nulla.
Thorn rimase fermo immobile, contando secondi, minuti, un’ora, cercando di carpire gemiti o urla, maledizioni, imprecazioni, qualsiasi cosa.
Ma dalla camera da letto non giungeva nessun rumore insolito. E la cosa lo metteva in uno stato di agitazione mai sperimentata prima. Era normale quel silenzio?
Quando, all’una e un quarto, si decise che avrebbe sfondato la porta pur di sapere cosa stava succedendo, gli comparve di fronte la levatrice, che si stava pulendo le mani sul grembiule.
C’erano tracce di sangue e la donna aveva il viso pallido, stremato.
- Signor intendente… - annunciò con voce stanca e spezzata.
Thorn non attese oltre e la scansò, varcando la soglia della camera.
 
Udì il primo vagito quando mise un piede oltre la porta.
Ofelia era sdraiata a letto, con la schiena appoggiata ad un mucchio di cuscini, il petto che si alzava e abbassava ritmicamente, i capelli scarmigliati. Era affannata, ma era contenta. Sul volto esangue faceva capolino un sorriso timido ma orgoglioso, trionfante. La zia Roseline era accanto al letto e osservava con commozione un piccolo essere roseo maculato, a chiazze rosse di sangue e bianchicce di residui uterini, souvenir della dimora che aveva abitato per quasi nove mesi e che era stata pronta a lasciare prematuramente, desiderosa di conoscere il mondo e i genitori. La neonata gemeva piano, come se stesse soffocando, e la cosa avrebbe preoccupato Thorn se non avesse visto sorrisi spuntare sul volto di tutte le donne in quella stanza: sua moglie in primis, la domestica più giovane che teneva sua figlia in braccio e la stava ripulendo come poteva, la zia Roseline, persino Berenilde, che annuiva contenta e stava, stranamente in silenzio. Erano tutte protese verso quel minuscolo miracolo della natura che si dimenava con movimenti rallentati, come se fosse immerso nell’acqua. Sembravano tutte in procinto di ascoltarla come se avesse qualcosa di importante da dire.
Thorn si sarebbe voluto avvicinare ad Ofelia e stringerle la mano, abbracciarla, inglobarla con la sua altezza fino a farla sparire dentro di sé. Faticava a rendersi conto che era tutto finito, che Ofelia lo aveva sorpreso ancora una volta: non solo non lo aveva maledetto e non aveva urlato come un’ossessa, ma non sembrava nemmeno stanca. Diceva a lui di essere alimentato da una corrente elettrica di nervosismo che lo teneva sempre all’erta, ma lei, vigile e arzilla dopo quasi dieci ore di travaglio, non era da meno.
La levatrice, di fianco a Thorn, stava osservando meticolosamente la reazione del suo padrone, soddisfatta di ciò che vedeva: lui non parlava, quasi non respirava, non piangeva, non si muoveva. Eppure i suoi occhi, che svettavano lì in alto come lampi di metallo, esprimevano una piacevole sorpresa, ammirazione, e una paura autentica che solo i genitori responsabili dimostravano alla nascita. Il parto era un momento magnifico, ma la levatrice ne aveva viste troppe in vita sua per lasciarsi incantare dalle illusioni che provocava l’eccitazione del momento: diffidava di coloro che avevano reazioni parossistiche, apprezzava invece chi mostrava timore reverenziale verso quel piccolo atto creazionistico e unico, e chi dava prova di portare sulle spalle un nuovo peso. Il peso della responsabilità genitoriale.
In pace con se stessa, si avvicinò alla neonata e alla domestica più giovane, che avrebbe sicuramente addestrato come levatrice dato il sangue freddo e l’utilità che aveva dimostrato, e diede delle piccole pacche alla bambina, facendola scoppiare in un pianto a dirotto.
Thorn sussultò e si avvicinò alle donne, sentendosi trainato da un impulso sconosciuto che lo induceva a voler a tutti i costi proteggere quel piccolo esserino rumoroso. Il suo sguardo freddo e minaccioso era stato intercettato da Ofelia, e tradotto in parole: come si permettevano quelle donne di schiaffeggiare la nascitura? Sua figlia?
- Va tutto bene, Thorn, è una cosa che va fatta per far piangere la bambina, così che possa iniziare a far funzionare bene i polmoni e il cuore stesso.
Thorn si bloccò così in mezzo alla stanza, chiedendosi come facesse la moglie a sapere quelle cose, e rendendosi conto che in dieci ore di attesa gli argomenti relativi al parto di cui parlare potevano essere trattati minuziosamente e in modo esaustivo.
- La prima poppata – annunciò la levatrice, porgendo la bambina alla legittima madre. – Vi lasciamo un po’ soli, signora. Torneremo tra circa mezz’ora per pulire bene la neonata e la stanza. Dovremo far uscire un attimo anche vostro marito per assicurarci che nel vostro utero non sia rimasto nulla, e poi riposerete meritatamente. Congratulazioni, è una sana e meravigliosa femminuccia.
Ofelia cercò di mettersi seduta per poter guardare e prendere bene la piccola meraviglia avvolta in un asciugamanino morbido che le veniva porta. Piangeva come una disperata, reclamando il cibo di cui aveva bisogno, sperimentando per la prima volta, senza saperlo, cosa fosse la fame. Ofelia si sentiva sporca e sudata, ma non badò minimamente a quelle impressioni quando guardò in faccia la piccola per la prima volta, tenendo tra le braccia il frutto dell’amore suo e di Thorn, che aveva portato in grembo per lunghi mesi.
Non avrebbe mai immaginato, quando le avevano annunciato il matrimonio combinato con un abitante del Polo, che sarebbe arrivata lì, in quel momento, in quel luogo, tenendo in braccio sua figlia, con Thorn ancora fermo in mezzo alla camera. Ofelia alzò lo sguardo su di lui, rendendosi conto di essere stata così presa dalla piccola urlatrice da non essersi nemmeno accorta che la levatrice aveva spintonato fuori dalla camera zie e domestiche, chiudendo la porta con modi bruschi dietro di sé, affinché padrini, madrine, ambasciatori e domestici curiosi non sbirciassero dentro la stanza.
- Cosa fai lì impalato? – chiese Ofelia a Thorn, con aria divertita. – Vieni a vedere tua figlia. Ora smetterà anche di piangere.
Come un automa, Thorn si avvicinò al lato del letto dove c’era Ofelia, contornata da asciugamani e sepolta sotto una camicia da notte bianca e un’ampia coperta che le arrivava oltre i piedi, per mantenere il decoro. Si sedette su una sedia lì accanto e allungò l’interminabile colonna vertebrale per sbirciare quella piccola creatura che più che piangere borbottava, stizzita. Aveva un bel caratterino…
Ofelia ridacchiò. – Vieni più vicino, non ti morde mica.
Obbediente, muto e arcigno, Thorn si alzò goffamente e mise la sedia attaccata al letto, in modo da sfiorare con il braccio quello di Ofelia. E vide sua figlia per la prima volta.
La piccola aveva dei minuscoli pugni che si agitavano nell’aria, la pelle rosea e il volto paonazzo, abbastanza corrucciato e indispettito. Aveva dei caldi occhi marroni, grandi come bottoni, che sembravano sproporzionati per il viso paffuto, e una delicata peluria chiara come l’alba sulla sommità della testina.
Thorn se ne innamorò a prima vista, in modo ancora più violento e immediato di quando si era reso conto di essersi innamorato della moglie. Quel piccolo miracolo era sua figlia, la loro figlia, sua e di Ofelia, generata da loro. Da lui.
Lui, un bastardo, un reietto, un’aberrazione che non sarebbe dovuta nascere, un errore, una macchinazione di una mente ambiziosa e calcolatrice, sua madre, nato dall’inganno e dalla seduzione, lui che era marchiato, che non aveva mai avuto contatti con le persone, che si era tenuto alla larga dai legami affettivi, che era sempre stato solo, aveva generato una figlia.
Thorn non era un tipo di molte parole, spesso non sapeva usare formule di cortesia elementari o capire come intrattenere dei rapporti sociali, ma non era mai stato così a corto di parole. Qualsiasi suono che non fosse il vagito della piccola o la voce rassicurante di Ofelia gli sembrava superfluo, e niente valeva la pena di essere guardato se non lei.
Le sue paure non si erano dissolte come neve al sole, erano decuplicate come se fosse arrivata una tempesta di neve. Amava quella neonata, in modo viscerale, non sapeva spiegarsi come, e il timore di sbagliare divenne terrore assoluto. Non sarebbe stato all’altezza…
- Ora l’allatto – annunciò Ofelia, reggendo la bambina mentre cercava un’apertura nella camicia da notte per poterla attaccare al seno.
Il problema era che la stoffa della vestaglia era tirata e schiacciata sotto il suo corpo e Ofelia non poteva né levarla, né abbassarla.
- Devo sollevarmi un secondo per sistemare questa veste, che è più rigida di una camicia durante un giorno di festa. Puoi reggerla tu per un istante?
Thorn si bloccò, non respirò, non batté ciglio, eppure sembrò rimpicciolirsi sulla sedia.
Tenerla in braccio?
- Non credo di…
- Prendila così come faccio io, vedi? – lo incitò Ofelia senza nemmeno lasciargli il tempo di ribattere. – Non lamentarti, è tua figlia – gli disse sorridendo, - dobbiamo dividerci il carico. E non voglio sentirti dire che non ti piacciono i bambini, perché non è più una scusa utilizzabile, questa.
Senza sapere come, Thorn si ritrovò Serena tra le braccia. E come una magia, come se il tempo si fosse fermato, fedele al suo nome la neonata si rasserenò, smettendo di piangere. Incastrò gli occhi in quelli del papà, cioccolato contro metallo, e sembrò scavargli dentro.
Sono arrivata, vedi di non commettere sciocchezze e di essere un bravo padre, sembrava intimargli.
Era così piccola che riusciva a reggerla con un braccio e con la mano libera, con il polpastrello del mignolo, le sfiorò la guancia morbida e rosea.
Era la seconda eccezione alla sua repulsione per i contatti fisici. Con Ofelia se n’era reso conto poco a poco, del suo desiderio, del suo bisogno di toccarla, ma con la piccola era stato istintivo. Lei gli apparteneva come nessuno gli era mai appartenuto, neanche Ofelia stessa. Era una possessività di tipo diverso quella che sentiva dentro, ma imperversava già con forza. E il suo cuore freddo sembrava essersi ingrandito per ospitare quella nuova arrivata da cui si sentiva attratto, anziché respinto, come era sempre successo con qualsiasi marmocchio.
Serena allungò un pugnetto e gli afferrò il mignolo con forza inaudita, scoprendo le gengive rosse in una smorfia che poteva essere un sorriso. Le sue piccole dita grassocce erano così minuscole da non poter contenere nemmeno metà della lunghezza del mignolo di Thorn. Una morsa di tenerezza gli straziò il cuore e, sebbene dentro fosse commosso, stupito, ammaliato, felice, all’esterno non batteva ciglio, aveva la fronte corrugata e i tratti del viso tesi, e fissava la figlia come se stesse fissando il suo orologio da taschino.
Ad Ofelia però non sfuggì lo sguardo di Thorn, specchio della sua anima, da cui traspariva solo struggimento. Serena aveva già conquistato il papà.
- Dopo te la restituisco Thorn, concedimela solo il tempo di allattarla.
La voce pacata della mamma fece tornare in mente alla bimba che effettivamente aveva fame, così lasciò il dito del padre e agitò i pugni, scontenta.
Thorn bofonchiò qualcosa di incomprensibile e ridiede la neonata ad Ofelia, che aveva sistemato la camicia da notte in modo tale da poterla abbassare sul seno per allattarla.
Serena si attaccò avidamente al petto della madre, succhiando con forza e ingordigia, placando finalmente il suo pianto disperato. Thorn osservò la scena con curiosità e sorpresa. Non aveva mai assistito a nulla del genere e per la prima volta da quando aveva varcato la soglia di rese conto che ora erano in tre. Era stato solo per quasi ventiquattro anni. Poi aveva sposato Ofelia e l’idea di rimanere solo di nuovo, dopo aver scoperto cosa lei fosse in grado di dargli, era un tipo di terrore che non aveva mai provato e che ogni tanto lo teneva sveglio di notte. E in quel momento erano in tre, lui, sua moglie e sua figlia, e capì che la sua folle e oscura paura sarebbe raddoppiata. Ma l’amore che provava per Ofelia si era moltiplicato, se possibile, mentre nel suo cuore era entrato un altro piccolo essere umano, che gli ispirava un diverso seppur innegabilmente profondo tipo di amore: l’amore di un padre, responsabile della propria famiglia, dei propri figli, la roccia su cui appoggiarsi, la torre di vedetta. Non sapeva se sarebbe stato all’altezza di quel compito, ma guardare il viso calmo ed estatico di Ofelia e gli occhi pieni di sonno di Serena gli dava la forza di provarci, quantomeno.
Avrebbe dato quello che non aveva, per loro.
Thorn allungò una mano e con il lungo dito accarezzò delicatamente la guancia morbida della piccola, attirandosi da Ofelia un’occhiata che non avrebbe saputo interpretare. Orgoglio? Soddisfazione? La neonata invece continuò a poppare, un po’ meno avidamente, ma girò gli occhi verso di lui, scrutandolo. Quegli occhi gli sembravano fin troppo intelligenti, e dietro la maschera impassibile Thorn si augurò che la piccola non fosse battagliera quanto la madre. Per lui sarebbe stato un grosso problema.
Per quale motivo, nonostante fosse insofferente nei confronti dei bambini, esseri che proprio non capiva e non aveva né il tempo né la voglia di capire, quella minuscola bambina lo intrigava tanto? Forse perché era parte di sé? Non sapeva spiegarselo, purtroppo, lui che voleva sempre il controllo di ogni cosa, ma ne fu grato: sarebbe stato un problema odiare la propria figlia, o aspettare che diventasse adulta per tentare di instaurare un rapporto con lei.
Ofelia appoggiò la testa sulla sua spalla, distogliendolo dalle sue elucubrazioni. – Sono un po’ stanca.
Dal canto suo, il cuore di Ofelia scoppiava di gioia. Vedere Thorn con quell’espressione rapita in volto ripagava di ogni singola spinta e ogni ora di dolore che aveva dovuto patire. Per non parlare del fatto che stringeva fra le braccia sua figlia, la loro figlia, che aveva i suoi stessi occhi e i capelli del padre, a quanto poteva giudicare. Più volte si era immaginata la faccia che avrebbe fatto Thorn alla vista della neonata, oppure la reazione che avrebbe avuto durante il parto, ma ciò che era accaduto, il modo in cui le cose erano state condotte, aveva superato le sue più rosee aspettative. Era orgogliosa che Thorn fosse il padre dei suoi figli. Be’, di quella prima figlia, intanto.
Si era aspettata di peggio dal parto, ad essere sincera, e la presenza tranquillante della zia Roseline l’aveva rassicurata tanto quanto quella di Berenilde l’aveva distratta dal lungo periodo di travaglio.
Thorn e Ofelia si osservarono a vicenda, scrutandosi, finché Thorn annullò la distanza fra loro e la baciò languidamente, in un modo morbido a cui poche volte aveva fatto ricorso. Lui non era dolce di natura, non aveva mai avuto gesti gentili o parole e azioni romantici, ma del resto non erano nemmeno ciò a cui Ofelia anelava o di cui sentiva il bisogno. Quando però Thorn imprimeva quella dolcezza alle carezze che le faceva nei loro momenti intimi o nei suoi abbracci, Ofelia si abbandonava a lui con trasporto, grata al destino che l’aveva condotta fino a lui, tra le sue braccia, a ricevere quell’amore che Thorn non le aveva mai negato.
Di solito i baci di Thorn erano esigenti e pieni di urgenza, quasi una necessità piuttosto che un’effusione amena, addirittura bruschi e autoritari ogni tanto. Ma in quel bacio Ofelia desiderò perdersi, addormentarsi, e quando sentì la grande mano fredda di lui accarezzarle leggermente il collo capì che se non fosse stata così stanca, provata, sporca e impegnata a reggere la piccola, si sarebbe concessa senza pudore o limitazioni. Magari non proprio in quel momento, visto il leggero fastidio che ancora provava in seguito al parto.
Fu Thorn il primo ad allontanarsi, distogliendo lo sguardo. Ofelia, come sempre, non sarebbe stata in grado di interpretarne i pensieri, così ben trattenuti dietro il volto rigido, ma capì dalla tensione che gli faceva stringere la mascella che anche lui desiderava qualcosa in più di un bacio. Era da così tanto che non stavano insieme in quel senso...
Thorn interruppe il filone dei suoi desideri alzandosi in piedi di scatto e dirigendosi verso la porta. - Sarebbe il caso che riposassi, ora. Chiamo la levatrice perché si occupi dell’infa... della piccola.
- Di nostra figlia – accorse in aiuto Ofelia, aiutandolo a trovare le parole.
Thorn annuì laconicamente, ma Ofelia lo trattenne prima che potesse uscire.
- Dovresti prima chiamare Renold e Gaela, sono il padrino e la madrina e dovrebbero vedere la piccola. Anche madama Berenilde e la zia Roseline sono impazienti di poterla vedere.
Thorn pensò che anche Archibald stava bighellonando fuori dalla camera, ma non aveva alcuna voglia che anche lui entrasse a prendere visione della nascitura.
- Devi riposare – le intimò, ordinandoglielo più che suggerendoglielo.
Ofelia alzò il mento; negli occhi aveva la tipica espressione risoluta che adottava quando non aveva intenzione di seguire i consigli o le raccomandazioni imposte. - Dopo riposerò, ora falli entrare per cortesia. Sarebbe un’immane scortesia negar loro di poter vedere Serena.
Thorn strinse i denti e si accinse ad obbedire, ma non era disposto a cedere su tutti i fronti. Sapeva che Ofelia sarebbe stata pronta addirittura ad alzarsi dal letto per andare loro incontro di persona, se lui si fosse rifiutato di farli entrare, e non voleva assolutamente che uno scenario del genere si verificasse. Così pose un limite: - Quindici minuti, non uno di più.
- Venti - patteggiò Ofelia, combattiva.
Thorn trattenne una smorfia e prese l’orologio da taschino. Venti minuti, non un attimo di più. Non si prese nemmeno la briga di risponderle prima di uscire dalla stanza per richiamare i visitatori in paziente attesa fuori dalla camera. Si scostò velocemente prima che lo travolgessero nella foga di entrare. Poi scosse la testa: la sua dimora era diventata caotica e frequentata da una moltitudine di gente sfaccettata con cui non si sarebbe intrattenuto neanche per dieci secondi qualche anno prima. Cercò di non pensare a come la sua vita fosse cambiata in seguito all’entrata in scena di Ofelia, e si accinse a raggiungere la moglie chiudendosi la porta alle spalle.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Ed ecco il nostro intendente alle prese con le prime ore da padre.
Verso l'inizio del capitolo mi sono resa conto di avere un po' pasticciato con i POV, quindi parte con Thorn poi diventa un misto tra lui e Ofelia e poi passa ad Ofelia. Non ho cambiato e sistemato questa cosa... Fatemi sapere se magari vi ha dato fastidio o se, insomma, chissenefrega avete letto lo stesso. Cercherò di stare più attenta, ma temo di stare diventando letterariamente bipolare ahahaha.
Grazie mille a tutti e buona lettura^^


Capitolo 11

Ofelia ebbe a mala pena il tempo di registrare la ricomparsa di Thorn, che si era messo al suo fianco ma in disparte, immobile come una statua, controllando ogni singolo movimento dei presenti con la coda dell’occhio. Non gli piaceva quella situazione, era evidente dalla sua fronte aggrottata e dai lineamenti tesi, o dal fatto stesso che non si fosse seduto, ma Ofelia decise di non badarci. Era doveroso che i loro parenti e amici più stretti vedessero la bambina.
Berenilde si era impossessata della piccola per prima, cullandola e parlandole con una voce calda e amorevole che Ofelia le aveva sentito usare solo con Vittoria, così carezzevole da assomigliare ad una ninna nanna. La zia Roseline invece, pratica come sempre, si prodigò per coprire con uno scialle la nipote, in modo che non apparisse troppo sconveniente di fronte allo sguardo curioso di Archibald, a cui non sfuggiva mai nulla. Quest’ultimo e Renard si trovavano ai fianchi di Berenilde, intenti ad osservare il fagottino che la donna teneva in braccio, uno con timore reverenziale e commozione, l’altro con un sorriso divertito e scintillante. Gaela, invece, si aggrappava spasmodicamente al braccio di Renard, nervosa e trepidante, lanciando occhiate furtive alla neonata e alla madre, che le sorrideva timidamente per incoraggiarla.
- Non c’è che dire, una splendida nascitura! Mi prenoto già per un possibile matrimonio, quando sarà abbastanza grande, ovviamente! Sempre che la cara piccina non si accontenti di un flirt, la qual cosa mi renderebbe in ogni caso soddisfatto – esordì Archibald, lanciando occhiate estasiate ai genitori.
Thorn, da parte sua, si irrigidì ancora di più e chiuse le mani a pugno, un chiaro intento violento nello sguardo. L’ambasciatore, oltre ad essere impudente, non aveva alcun riguardo apparente per la propria vita, dal momento che sfidava apertamente, in continuazione, la pazienza già scarsa di quell’intendente così poco tollerante nei confronti degli scherzi.
La zia Roseline bofonchiava irritata, ma Ofelia decise che il modo migliore per sminuire le parole di Archibald fosse il silenzio, così lo ignorò.
Berenilde aiutò Renard a prendere in braccio la piccola, mettendo in allerta Thorn, che avrebbe tanto voluto storcere il naso di fronte alla vista di sua figlia che veniva passata di mano in mano come un pacchetto o un piatto. Era sua, ed era anche fragile, si stava sforzando più di quanto avesse mai fatto per non cacciare tutti fuori dalla camera, riprendersi la neonata e obbligare Ofelia al riposo.
Quest’ultima, dal canto suo, non condivideva affatto i sentimenti possessivi e angosciati del marito. Vedere Renard, così grande e grosso, impaurito di fronte a quell’esserino minuscolo le strinse il cuore, convincendola del fatto che non avrebbe potuto scegliere padrino migliore per sua figlia. La guardava incantato, non quanto Thorn, ovviamente, ma Ofelia percepì che Renard stava già cominciando a provare affetto per quella piccola creatura quanto aveva imparato a provarne per Ofelia.
E poi Gaela le si avvicinò, in evidente apprensione. – Perché io?
Ofelia sorrise un po’ e la guardò dritta negli occhi. O meglio, nell’occhio, quello libero dal monocolo. -  Perché era giusto così. Volevo avere al fianco persone di cui mi fidassi, a cui avrei potuto affidare la vita stessa di mia figlia. E io già una volta ho riposto la mia vita e quella di mia zia nelle vostre mani. Non mi avete mai tradita, e speravo di farvi cosa gradita con la mia richiesta.
Gaela si strinse nelle spalle, per una volta priva della sua arroganza e sicurezza. – Non sono molto pratica di bambini – ammise, quasi in imbarazzo.
- Nemmeno Renard, eppure non è spaventato. Credevo che non ci fosse nulla in grado di mettervi in difficoltà.
Provocata, Gaela capì l’antifona. – Non ho paura – ribatté sfrontata. – Solo… ah, chi se ne importa. Dammi qua, rosso, fammi reggere la mia figlioccia.
Ofelia capì più che mai di aver fatto la scelta giusta quando vide Renard quasi abbracciare Gaela nel tentativo di passarle delicatamente Serena, che la meccanica prese saldamente e osservò con attenzione. Poi, inaspettatamente, la fissò incantata e sorrise guardandone il volto piccolo con gli occhi grandi, senza scostare il braccio che Renard le teneva sulle spalle. Ofelia avrebbe voluto immortalare quel momento, sperando che fosse un preludio a qualcosa tra quei due cari amici. Renard ci teneva così tanto!
- Ora basta – si intromise la zia Roseline dopo alcuni minuti passati a gironzolare per la stanza rassettando, cosa completamente inutile dal momento che la sua trepidazione innervosiva il mobilio e quanto li circondava. Se Ofelia avesse dovuto descriverla con uno dei paragoni incalzanti della zia stessa, l’avrebbe definita “tesa come una molla”, mentre saltellava di qua e di là con una carica inaudita. – Datemi qua la figlia della mia figlioccia. Sono prozia per la terza volta, dopo i due bambini di Agata.
La zia Roseline sparì nel bagno della camera con la levatrice al seguito, pronte per lavare la piccola che era ancora nuda e sporca. Berenilde invece si adoperò per far sloggiare tutti in modo da lasciare un po’ di pace alla puerpera che era sicuramente sfinita. Archibald, la cui presenza era stata inutile se non per ciarlare a vuoto, presentò i suoi ossequi e si avviò per primo, pronto a rilasciare interviste e spargere ai quattro venti la notizia che si sarebbe presto sposato con la figlia dell’intendente.
Renard invece si avvicinò ad Ofelia, tallonato da Gaela, e si chinò su di lei: - Ottimo lavoro ragazzo. Sono fiero di te – le disse con gli occhi lucidi, e Ofelia provò l’impulso di abbracciarlo e stringerlo forte.
Invece lo lasciò uscire guardandolo con affetto. Rimaneva solo Gaela, che le sfiorò la mano con aria impacciata. – Grazie – mormorò soltanto prima di andarsene, in un soffio d’alito così delicato e dolce che Ofelia temette di essersi immaginata tutto.
Per ultimo, Berenilde fece uscire Thorn, perché dovevano finire di “pulire e sistemare anche Ofelia e il suo ventre”, come disse al nipote senza mezzi termini, facendolo inorridire internamente. Sistemare cosa?
Alla fine gli chiusero nuovamente la porta in faccia, lasciandolo perplesso e disorientato nel corridoio. Decise che i parti non gli piacevano, e si augurò di non doverne affrontare un altro nell’arco di breve tempo. Non era un evento che rientrava nella sua quotidianità, e sperò che la cosa continuasse a funzionare così. Alla fine si allontanò per chiamare l’Intendenza e sbrigare alcuni appuntamenti e faccende, cercando di distrarsi rendendosi utile, sopprimendo il tumulto interiore che si agitava dentro di lui.
 
Thorn tornò nella propria camera alcune ore dopo. Non aveva più visto Ofelia perché la zia Roseline lo aveva raggiunto per informarlo che stava dormendo e non era il caso di disturbarla. Così aveva lavorato ancora, tirandosi avanti e ordinando al suo assistente di spedirgli le nuove pratiche: le avrebbe esaminate il giorno dopo da casa. Non aveva intenzione di allontanarsi da lì.
Nel passare per il salotto si era però immobilizzato, notando con la coda dell’occhio un dettaglio fuori luogo: Gaela e Renard, abbrancati l’uno all’altra accanto a una finestra. Il consigliere con i folti favoriti rossi era chino sulla piccola meccanica, gli occhi chiusi. I due stavano indubbiamente amoreggiando. Gemiti sommessi e schiocchi riempivano l’aria, mentre le loro mani vagavano tra viso, collo, schiena e nuca.
Thorn era rimasto così perplesso di fronte alla scena da impiegare un secondo di troppo per registrarla e lasciare la stanza. Renard lo aveva visto con la coda dell’occhio e si era bloccato, le labbra ancora premute contro la spalla di Gaela. Il suo viso non aveva impiegato molto a diventare dello stesso colore fulvo dei suoi capelli, e Thorn si era affrettato ad uscire senza dire una parola. Quelli non erano affari suoi. Il fatto che quegli affari accadessero sotto il suo tetto lo era un po’ di più, ma qualcosa gli diceva che Ofelia non avrebbe gradito la cacciata del padrino e della madrina della figlia da parte del marito.
Aprì la porta della camera con estrema cautela, trovando Ofelia sdraiata a letto che allattava la piccola. Lei gli rivolse un gran sorriso, seppur stanco, e la cosa non gli sfuggì.
- Non hai riposato?
Ofelia scosse la testa. – Un po’, ma tra la pulizia della piccola e della camera, mi sono riseduta solo ora. E Serena aveva di nuovo fame.
Thorn rimase ad osservarle, in piedi di fronte a loro.
- Sconsiglio caldamente la tua presenza a tavola questa sera.
Ofelia increspò le sopracciglia com’era solito fare lui. – Non sto male. Sono solo stanca. Mangerò e poi dormirò.
Thorn imitò la sua espressione, scrutandola intensamente da sotto le palpebre chiuse a fessura. Sapeva che Ofelia avrebbe fatto di testa propria, così si abbassò a fare l’unica cosa che sarebbe stata in grado di convincerla: girò la questione in modo che risultasse come una proposta, un favore che faceva a lui. – Preferirei davvero che riposassi, farò portare la cena in camera. Non puoi… accogliere questa richiesta? Accondiscendere alla mia volontà?
Ofelia lo guardò in silenzio, soppesando la domanda.
Poi scosse la testa in diniego mentre staccava da sé Serena per farla attaccare all’altro seno. Thorn continuava a scrutarla negli occhi, immobile, i tratti del volto rigidi.
- Mi aiuterà uscire un po’ da questa camera, sono stata qui tutto il giorno, e non certo a divertirmi. Mangerò, saluterò e tornerò qui, davvero – argomentò, nel tentativo di convincerlo.
Cosa che non riuscì a fare. Thorn era quasi infastidito dalla sua caparbietà, sebbene fosse un tratto che lo aveva fatto innamorare: nessuno gli aveva mai tenuto testa come faceva lei, senza timore o ipocrisia. Ofelia si batteva per le sue idee e azioni. Alla fine, accettando di malavoglia quella decisione, o meglio, subendola, andò in bagno a rinfrescarsi e cambiarsi per la serata. Quando uscì vide che Ofelia batteva dei piccoli colpi sulla schiena di Serena, abbarbicata al suo collo.
- Cosa fai? – le chiese, perplesso.
- Deve fare…  - si bloccò, pensando a quanto fosse strano inserire la parola “ruttino” in un discorso con Thorn. – La aiuta a digerire.
Proprio in quel momento Serena fece l’agognato ruttino e Ofelia quasi scoppiò a ridere notando l’espressione impassibile eppure perplessa di Thorn. Compassato com’era, ci sarebbero sicuramente stati un mucchio di atteggiamenti che nel futuro avrebbero suscitato il suo sgomento. Stringendo le labbra in un sorriso, Ofelia si mosse per alzarsi e metterla nella culla che la zia aveva ordinato di portare in camera, di fianco al grande letto matrimoniale, ma Thorn la precedette.
- Posso… prenderla io, se vuoi. Mentre tu ti cambi per la cena.
Impalato di fronte a lei, fissandola dall’alto, Ofelia si sentì come sempre schiacciata dalla sua presenza. Serena no, invece, e lo fissava con gli occhi vispi e ben aperti. Mostrandogli nuovamente come tenere le braccia, intuendo la sua reticenza, Ofelia dovette alzarsi sulle punte per mettere la bimba in braccio al marito. Osservando il modo rigido in cui Thorn la teneva, senza cullarla, camminare, senza nemmeno muoversi a dire il vero, Ofelia sorrise e andò verso il bagno a darsi una rinfrescata veloce. Quando tornò trovò Thorn immobile di fronte alla finestra della loro camera, che scrutava l’esterno scuro nel cui cielo baluginavano le stelle, e si cambiò in fretta.
Alla fine si sedette sul letto, con la testa che girava per la stanchezza, lasciandosi sfuggire un sospiro.
- Devi riposare – le intimò Thorn, con la sua vibrante voce gelida, continuando a darle le spalle.
- Dopo riposerò – ribatté lei, per nulla scalfita dal suo tono secco. – Vuoi darmi Serena, ti pesa?
- Affatto, credo che sia sottopeso. Ho dato un’occhiata alle medie di massa ponderale neonatali, lei è al di sotto del livello considerato ottimale dell’undici percento. E poi tu sei stanca, per non parlare del fatto che l’hai tenuta per otto mesi e…
- Thorn – lo interruppe Ofelia, suo malgrado intenerita dall’atteggiamento del marito. – Ti chiedevo se pesa in senso lato. I bambini non sono proprio il tuo forte.
Lui si girò verso di lei, tenendo Serena con più delicatezza di quanto Ofelia si sarebbe aspettata. – Sono incomprensibili, difatti, e imprevedibili. Ma ho appurato che quando sono così piccoli il loro unico difetto è che dipendono eccessivamente dalle cure altrui. Per il resto non disturbano, sono silenziosi…
Serena scoppiò a piangere proprio in quel momento, bloccando Thorn nel pieno della conversazione e, se possibile, rendendolo più altero e imbalsamato di prima. Ofelia si alzò e le mormorò paroline dolci, ma Thorn si rifiutò di cederle la piccola. Dopo avergli mostrato come cullarla, lui iniziò a muoversi poco fluidamente a destra e a sinistra, ondeggiando e molleggiamento lievemente le gambe, con la fronte così increspata da far credere che stesse decifrando una complessa equazione matematica, non cullando una bambina piangente.
Alla fine Serena si calmò e mosse un pugno nell’aria, agitata.
- Credo che dovrò abituarmi a questi lamenti… - mormorò Thorn, in un farfuglio così basso che Ofelia dubitò di averlo sentito. – Forza, dirigiamoci in sala da pranzo così poi potrai tornare a dormire.
Senza attendere una risposta o far uscire la moglie per prima, aprendole la porta come da buona cortesia, Thorn si affrettò nel corridoio, precedendola nella sala da pranzo accogliente e… rumorosa. Vittoria parlava da sola giocando con il disegno di carta animato che Ofelia le aveva prodotto qualche giorno prima, Renard cercava di tenere una Gaela infuriata lontana da un Archibald colpevolmente divertito, e Berenilde impartiva ordini a destra e a manca ai domestici affaccendati. Persino la sua sciarpa cominciò ad agitarsi, sventolando le frange sulle due estremità.
Insieme a loro arrivò la zia Roseline, alle spalle di Thorn, e si trovò a fissare la sua ampia schiena insieme alla nipote. – Dov’è la piccola, Ofelia? – le chiese mellifluamente.
- In braccio a Thorn.
Il diretto interessato si voltò verso di loro e la zia Roseline lo fissò con tanto d’occhi. – Per tutti gli orologi. Non avrei mai creduto di poter assistere ad una scena del genere. È anacronistica quanto uno dei pizzi di Berenilde nel museo del prozio. Chi l’avrebbe mai detto…
Per nulla infastidito da quell’osservazione, Thorn non disse nulla, si voltò e si diresse verso la tavola, dove venne intercettato dall’altra zia.
- Mio caro nipote, concedimi di tenere la nuova pronipote in braccio. Oh, povera me, già una pronipote. Tu e Ofelia sarete responsabili del mio invecchiamento precoce… prozia…
Thorn le cedette Serena di malavoglia; più che altro, Berenilde si impossessò della neonata, andando a sedersi sul divano di fianco alla figlia, presentando le cuginette per la prima volta. Ormai era prossimo il momento di sedersi a tavola per consumare la cena, ma nell’aria aleggiava un sentore di stranezza che Ofelia non avrebbe saputo definire. Mentre la zia Roseline raggiungeva Vittoria, Serena e Berenilde, e Thorn si teneva in disparte come suo solito, Ofelia osservò il trio che stava facendo più baccano del solito.
Gaela era decisamente infuriata, Archibald doveva aver combinato qualcosa, e Renard, nonostante la stazza da armadio, sembrava quasi impotente di fronte a quella forza della natura dai serici capelli neri e quell’ometto buono solo a corteggiare dame irraggiungibili. O che avrebbero dovuto essere irraggiungibili, ma si facevano raggirare facilmente. Quando Renard incrociò erroneamente il suo sguardo, invece di sorriderle o ammiccare come suo solito, in un gesto cameratesco di affezione, avvampò, e la sua pelle assunse la tonalità infuocata di basette e capelli.
Ofelia pensò che fosse alquanto bizzarro.
Ma mai bizzarro quanto la cena, in cui la presenza di Serena veniva quasi litigata, Archibald sproloquiava a sproposito e Gaela ribolliva di nervosismo, influenzando anche Renard, sensibile ai suoi sbalzi d’umore. L’unico tranquillo era Thorn, che mangiava con poco interesse sia per il cibo che per i commensali, lanciando giusto qualche occhiata protettiva a Serena di tanto in tanto. Se tutti i presenti fossero stati Animisti, Ofelia non si sarebbe sorpresa nel vedere le posate cominciare a saltare impazzite per tutta la tavola, o infilzare le mani di qualcuno. La cosa le fece sorgere dentro un’inattesa malinconia, causata in parte dalla mancanza della famiglia che, per quanto fosse esuberante e antitetica rispetto alla sua famiglia del Polo, aveva rappresentato una parte fondamentale della sua vita. O forse era solo colpa degli ormoni.
Non le sfuggì comunque l’occhiata intensa che Thorn le scoccò, facendole capire che aveva intuito che qualcosa non andava, ma non si azzardava a discuterne a tavola, dove una faccenda privata sarebbe diventata un pettegolezzo da salotto dissezionato da Archibald e Berenilde.
Ofelia però, nonostante la tristezza, si sentiva in qualche modo anche appagata: le persone con cui stava cenando erano le uniche di cui si fidasse veramente, lì al Polo, e non avrebbe esitato a definirli parte integrante della sua famiglia Con qualche remora su Archibald, però… Se ne rese conto con certezza quando Serena, innaturalmente docile per essere una neonata con appena qualche ora di vita, arrivò tra le braccia di Gaela. La meccanica aveva rivelato un lato del tutto nascosto con la piccola: un lato dolce, compassato, ben lontano dalla sua consueta alterigia e impulsività. Le si strinse il cuore quando vide Renard, al suo fianco, chinarsi su di lei e sulla bambina sorridendo, come se i genitori fossero loro, invece di essere solo la madrina e il padrino, ma del resto l’intento di Ofelia era quello: far avvicinare quei due. Non era solita ficcare il naso in faccende che non la riguardavano, ma con tutto quello che Renard aveva fatto, e avrebbe sicuramente continuato a fare, per lei, cercare di creare un’occasione perché quei due potessero stare insieme le sembrava il minimo. Sorrise leggermente, certa di essere passata inosservata, ma con la coda dell’occhio vide Renard alzare o sguardo su di lei. Allora gli sorrise apertamente, sicura di ottenere un occhiolino in cambio, e suscitando invece un’altra esplosione di rossore sulle guance rubiconde dell’amico.
Il sorriso si spense: era interdetta. Renard si era comportato in modo tanto dimesso e sussiegoso solo quando lei lo aveva assunto, e lui si era vergognato all’idea di essersi mostrato nudo di fronte a lei ed essersi preso troppe confidenze. Come mai si stava nuovamente comportando in quel modo?
Fu un sollievo salutare tutti e ritirarsi in camera alla fine della cena. Era davvero spossata e le zie insistettero perché riposasse, mentre Thorn le scoccava un’occhiata gelida e imperiosa. Lei obbedì prontamente, per una volta, sperando che gli ordini e la voglia delle zie di comandare non diventasse un’abitudine: quelle due insieme le facevano una certa paura.
Si buttò a letto stremata, senza quasi la forza di cambiarsi, e si addormentò immediatamente.
Thorn la trovò così un’oretta dopo, quando entrò in camera alle spalle della levatrice, che portava in braccio una Serena disperata e urlante. Una piccola poppata dopo la bambina si calmò, e Thorn la mise, con gesti impacciati e rigidi, nella culla accanto al letto.
Ormai sveglia, Ofelia si raddrizzò gli occhiali storti sul naso. Erano rimasti solo loro due, anche gli ospiti erano tornati a casa loro. O nelle loro stanze, nel caso di Berenilde, che aveva deciso di passare la notte lì. Persino Archibald aveva mezzo tentato di autoinvitarsi, più per fare dispetto a Thorn che per altro, ma quest’ultimo gli aveva chiuso la porta in faccia senza sentire ragioni.
- Se muovi un po’ la culla la fai addormentare – gli suggerì Ofelia dopo un po’, notando che Thorn non accingeva a spostarsi dalla sua posizione e continuava a fissare la piccola, accigliato e con la fronte solcata da rughe.
Allungando quasi timidamente la mano, obbedì, facendo ondeggiare la culla e continuando ad osservare la piccola creatura stanca al suo interno. Ofelia sorrise e si avviò verso la porta della camera.
- Dove vai? – le chiese Thorn, che a quanto pareva non era così assorto da non averla notata.
Ofelia doveva aspettarselo, che non gli sarebbe sfuggito nulla.
- Temo di aver dimenticato una cosa in salotto, sarò di ritorno immediatamente.
Per un istante fugace le sembrò di vedere gli occhi affilati di Thorn saettare da lei alla bambina con preoccupazione, ma fu solo un attimo. Lui non ribatté nulla e lei si affrettò ad uscire.
Trovò quello che cercava proprio nel salotto, stravaccato sul divano con una bottiglia di liquore sul tavolino da tè di fronte a sé, la testa reclinata all’indietro e un’espressione beata in volto. Questa volta il colorito roseo delle gote non era causato da chissà quale fonte di imbarazzo, ma dall’effetto dell’alcol in corpo.
- Renold… - lo chiamò Ofelia, per annunciare il fatto che era lì vicino a lui.
L’uomo scattò in piedi, torreggiando su di lei, non quanto Thorn, ma compensando la differenza d’altezza con la larghezza delle spalle. Ampio, ecco cos’era.
- Sì, madama? Cioè, signora? Ehm… padrona?
Ofelia aggrottò le sopracciglia. – Ho bisogno di un consiglio.
Renard impiegò qualche secondo per metterla a fuoco. O forse stava mettendo a fuoco i suoi stessi pensieri. Doveva aver bevuto davvero più del previsto.
- Comandate, sono al vostro servizio.
- Come dovrei comportarmi nel caso in cui il mio consigliere cominciasse di punto in bianco ad arrossire d’imbarazzo quando gli rivolgo un’innocua occhiata?
Al contrario di ciò che aveva detto, Renard sbiancò. Ofelia lo vide boccheggiare, ma alla fine di quella scena muta il suo consigliere confermò le sue parole: avvampò come il bocchino della pipa di Thorn quando lui lo accendeva e tirava una boccata.
- Perbacco… mi rincresce. Sono terribilmente mortificato, un simile episodio non accadrà più, posso giurarlo sul mio onore di consigliere e sulla gratitudine e il rispetto che nutro nei vostri confronti, mia signora. Tenete solo conto che la carne è debole e io aspettavo da così tanto tempo che non mi sono potuto rifiutare e… oh, per tutte le clessidre dorate, è stato così bello che mi sento rizzare i peli al solo ricor…
- Non vi seguo, Renold – lo interruppe bruscamente Ofelia, confusa. – Che episodio?
Fu il turno di Renard di assumere un’espressione perplessa. – Il signor intendente non vi ha riferito della mia condotta deplorevole?
Ofelia fece mente locale, cercando di ricordare se per caso Thorn le avesse accennato a qualche informazione concernente il suo consigliere e una situazione incresciosa, magari in un momento di eccessiva stanchezza durante quella giornata, ma non ricordava nulla del genere.
- Non mi ha detto nulla, credo. Di cosa si tratta?
Renard era più erubescente di un pomodoro maturo, e con gesti impacciati si versò un altro bicchierino di liquore che mandò giù tutto d’un fiato, come per darsi coraggio.
- Davvero, non credo sia il caso di…
- Renold… - lo ammonì Ofelia, spronandolo a parlare e allo stesso tempo facendogli capire che il silenzio non era un’opzione.
- Oh, va bene! Vedete, il signor intendente mi ha… come dire, ha assistito ad una scena poco professionale, questo pomeriggio. In soggiorno. Io ho tentato di fermarla, ve lo giuro, ma la mia volontà era così debole e lei era così morbida e calda…
- Di cosa stai parlando?
- Ma di Gaela ovviamente! Quella donna così meravigliosa e imprevedibile. Subito dopo aver visto la vostra meravigliosa primogenita, siamo tornati in salotto, e lei era così diversa dal solito… raggiante, credo che si possa definire così. Allora mi ha preso per il bavero della giacca e mi ha trascinato vicino alla finestra, assalendomi.
Fu il turno di Ofelia di arrossire: quei discorsi non erano proprio il suo forte. – Intendete dire che vi ha baciato?
- Baciato? Santi numi, no! Mi è saltata addosso, obbligandomi consenzientemente a ricambiare le sue effusioni e…
- Posso intuire come sia andata, Renold, risparmiate i dettagli per voi.
Per quanto imbarazzata, nulla poté impedire ad Ofelia di sorridere. Il suo piano aveva funzionato.
- Ovviamente è finito tutto lì – continuò Renard, con la lingua sciolta dall’alcol che metteva in risalto che lui era abbastanza contrariato dal fatto che fosse finito tutto lì. – Davvero il signor intendente non vi ha riferito nulla della mia condotta? A dire il vero non ha detto nulla nemmeno quando ci ha colti in flagrante. Dite che devo attendere una lettera di licenziamento da un momento all’altro? O, padrona, come ho potuto cedere alla tentazione e…
Ofelia ridacchiò. Renard era più buffo del solito in quella situazione. – Non penso proprio che vi arriverà alcuna lettera. Il fatto stesso che Thorn abbia taciuto e ignorato la cosa ne è una prova. Piuttosto spero che l’episodio non sia una tantum. Datevi da fare, ora che la strada si è aperta…
Ofelia non credeva che sarebbe mai arrivato il momento in cui avrebbe dato consigli amorosi a qualcuno. Eppure era lì, nel suo salotto, poche ore dopo il parto, a parlare con il suo consigliere di un amoreggiamento avvenuto sotto il suo tetto, e a spronarne la ripetizione. Lei, che non voleva nemmeno sposarsi…
- Dite? Magari dovrei andare a trovarla domani, quando la memoria è ancora fresca e la mia bella conserva sulle labbra il sapore del nostro bacio.
Divertita, Ofelia annuì. – Prendetevi la giornata libera domani, basta che concludiate qualcosa.
Lo sguardo ebbro di Renard si illuminò. – Senz’altro ragazzo. Vedrai che scintille farò domani. Sei un ottimo consigliere, sai?
Ofelia non ribatté, gli augurò la buona notte e si diresse verso la camera, nascondendo un sorriso. Era bello essere lei la dispensatrice di opinioni nei suoi confronti, per una volta.
Tornata in stanza trovò Thorn fermo nella stessa posizione in cui lo aveva lasciato, ancora intento a far ondeggiare la culla. Si avvicinò e vide che Serena era profondamente addormentata, così scosse la testa e tirò la manica della giacca del marito.
- Non credi che sia ora di dormire?
- Dovrei porre io la domanda a te, semmai.
Senza aggiungere altro si spogliarono per infilarsi sotto le coperte. Ofelia prese sonno immediatamente, ma Thorn rimase a fissarla al buio per parecchio tempo dopo che lei ebbe chiuso gli occhi. In un singolo giorno erano cambiate così tante cose. In meno di ventiquattro ore era diventato padre, un altro appellativo che non avrebbe mai pensato di indossare, oltre a quello di marito.
Padre.
Alla fine si addormentò stringendo a sé Ofelia, apprezzando il fatto che non ci fosse più la pancia ad intralciarlo, e sperando che lei potesse dormire serenamente e a lungo.
Quel lungo durò poche ore, perché prima dell’alba Serena ricordò a tutti la sua presenza, costringendo i genitori ad alzarsi per nutrirla.
Era decisamente una cosa a cui Thorn avrebbe dovuto abituarsi.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Oddio, ce l'ho fatta. In ritardo di due giorni. Cavolo, il parto l'ho affrontato io, mica Ofelia. Tre giorni per correggere una bozza minuscola, bah.
Allora, mi devo scusare. 1 per il ritardo, 2 perché la fine del capitolo è proprio triste ahaaha. Ops. Ma lì rimedieranno, dai, capita che i nostri due adorati fidanzati dell'inverno non si capiscano. Capita troppo spesso, anzi.
Invece per il primo "scusatemi"... be', scusatemi. Con Into The Deep sono indietro da morire, nel senso che probabilmente salterò una settimana (la scorsa). Il capitolo è quasi finito (quasi), ma ho ricominciato a lavorare il primo giugno e ho davvero davvero davvero pochissimo tempo rispetto a prima (quando ero a casa, libera dalla mattina alla sera xD La quarantena è stata utile per qualcosa almeno...). Gli aggiornamenti saranno davvero irregolari, scusate. Se vi chiedete perché ci metto così tanto, questa è la ragione, non è che sono sparita/perso la voglia.
Per Ingranaggi state in campana perché ho ancora abbastanza capitoli pronti, quindi per qualche settimana dovrebbe essere regolare. Spero anche dopo, ma non garantisco ç.ç
Detto ciò, mi auguro che il capitolo vi piaccia e vi ringrazio tanto per l'attenzione^^


Capitolo 12

I primi giorni non furono facili. Thorn e Ofelia dormivano a intermittenza, qualche ora per notte, perché Serena non aveva orari e si svegliava nei momenti più impensabili per rendere nota la sua fame a tutto il castello. All’inizio Thorn aveva osservato in silenzio il rituale quasi automatico di Ofelia che si alzava, prendeva in braccio la piccola e la allattava, in piedi, cullandola, per poi rimetterla nel suo piccolo letto. Le teneva compagnia in silenzio, condividendone il sonno perso dato che la figlia era di entrambi, e a lui sembrava un modo per espiare il fatto che non potesse essere più di aiuto. E che di giorno era lontano da casa, lasciandola sola ad occuparsi della piccola.
Per un paio di giorni aveva lavorato nel suo studio lì, cercando di andare in contro alle esigenze di Ofelia e Serena, ma il terzo giorno si era dovuto recare all’intendenza per forza di cose: doveva effettuare alcuni sopralluoghi in città e deliberare ad un processo, non avrebbe potuto delegare. Non che a casa il suo contributo fosse fondamentale, comunque. Le uniche cose di cui aveva bisogno Serena erano un seno da cui poppare e qualcuno che la lavasse e cambiasse; nel primo caso, lui aveva ben poco da offrire, nel secondo caso... non rientrava proprio nelle sue corde l’idea di sostituire un pannolino sporco.
Quando tornò a casa la quarta sera scoprì che la loro camera si era trasformata in una nursery, con tanto di angolo per il fasciatoio e piccolo armadio per bambini. Non che la loro stanza matrimoniale fosse piccola, anzi, ma d’un tratto gli sembrava diventata claustrofobica.
La quinta notte si sentì impotente come non mai. Ofelia correva di qua e di là per la camera, concentrata mentre ripuliva un rigurgito particolarmente esteso di Serena, sbattendo contro qualsiasi mobile trovasse sul suo tragitto come una trottola impazzita. L’aveva allattata, ma la piccola aveva ingerito il latte con troppa foga e in quantità eccessiva, rimettendone buona parte. In piedi al centro della camera, in attesa di coricarsi, Thorn la osservava andare di qua e di là, mentre la zia Roseline accorreva in aiuto. Ben presto si trovò la camera occupata da tre donne: la moglie, la madrina della moglie e la domestica della moglie.
- Prendila un attimo per favore, devo andare a cambiarmi la vestaglia - esordì Ofelia, piazzandogli tra le braccia Serena, tranquilla e contenta, prima si sparire nel bagno per darsi una ripulita.
Insofferente a quel viavai, Thorn uscì e si diresse in soggiorno, dove prese posto sul divano e cercò di leggere il giornale del giorno successivo, che gli veniva sempre recapitato in anticipo rispetto agli altri cittadini.
L’impresa si dimostrò più ardua del previsto, con Serena che non voleva saperne di stare ferma e afferrava e stropicciava tutte le pagine del giornale. Oltretutto non era molto facile tenerla in braccio e reggere il quotidiano allo stesso tempo, persino per uno come lui. Rinunciò ben presto e rimase seduto con la piccola in braccio, osservandola. Aveva un naso piccolo e delicato come quello di Ofelia, dalla quale aveva preso anche gli occhi scuri, mentre i capelli erano pallidi come i suoi, così come le labbra sottili. Rendersi conto che l’esserino che teneva tra le braccia era un miscuglio perfetto di se stesso e Ofelia lo face vacillare un attimo; fu colpito nel profondo dalla vastità di quella rivelazione.
Rimase incantato a squadrare la figlia, mentre lei gli restituiva lo sguardo, e si chiese se non fosse il caso di parlarle come in quella casa sembravano fare tutti, dai domestici a Ofelia. Di sicuro comunque non avrebbe imitato le vocette stridule e insensate che facevano. Era combattuto: da un lato sapeva che intrattenere una conversazione con una bambina così piccola sarebbe stato futile; lei non capiva! Dall’altro, però, se la bambina aveva ereditato la sua memoria probabilmente avrebbe conservato il ricordo di quel momento, e Thorn sentiva il bisogno di imprimere se stesso nella sua memoria.
Alla fine, dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno, mormorò: - Ofelia arriva subito. Tua madre.
Il tono voleva essere consolatorio, tranquillizzante, sebbene la bambina non ne avesse bisogno dal momento che era perfettamente quieta, eppure il timbro vocale di Thorn era gelido e duro come al solito. Ottenne comunque un verso incomprensibile e un sorriso dalla piccola, che in qualche modo gli fece capire che aveva compreso.
- Io sono Thorn. Tuo padre.
Si sentiva terribilmente ridicolo a scambiare quelle chiacchiere inutili con una neonata. Non era una persona che si sprecava in parole superflue e quelle lo erano di certo. Così pensò che avrebbe colto l’occasione per programmare la loro vita: la pianificazione di qualcosa era utile. Tutto doveva essere organizzato.
- Quando crescerai ti insegnerò a fare i calcoli. Il pi greco, l’estrazione di una radice, i logaritmi, i calcoli combinatori, le equazioni, i polinomi, le leggi fondamentali sia algebriche che geometriche, i valori assoluti, i diagrammi, gli algoritmi...
Continuò a snocciolare nomi di funzioni matematiche che non solo erano sconosciuti e incomprensibili per la bambina, ma lo erano anche per la maggior parte degli abitanti del Polo. Si interruppe solo quando sentì qualcuno schiarirsi la voce. Ofelia era in vestaglia, quella pulita, appoggiata allo stipite della porta, e sorrideva.
- Non dirmi che hai già cominciato a darle lezioni – rise scuotendo la testa.
Thorn lesse una certa rassegnazione sul suo volto, ma il sorriso era di autentico affetto.
Lui rimase immobile a guardarla, senza sapere bene cosa dire, con la bambina in braccio silenziosa come non mai.
- Vieni a dormire? - lo spronò allora lei, facendogli cenno di avvicinarsi.
Thorn si alzò con cautela, temendo di far cadere la piccola, e raggiunse la moglie.
- Si è già riaddormentata? Se non altro hai trovato il modo migliore di ricondurla al sonno. In effetti le variabili matematiche sono soporifere per chiunque.
Ofelia rise sommessamente mentre si dirigeva in camera, seguita da Thorn, altero e per nulla divertito.
Ofelia lo osservò mentre rimetteva con cura Serena nella culla, e gli impedì di passare quando lui si voltò per allontanarsi. Lo scrutò a fondo in quegli occhi metallici che la calamitavano e le scavavano dentro, assottigliati sotto le sopracciglia increspate. Gli passò le mani inguantate sul petto e si sollevò sulle punte per cingergli il collo, inducendolo a chinarsi: era sempre troppo, troppo alto. Alla fine lo baciò con delicatezza, sorridendo quando lo sentì approfondire il bacio e stringerla a sé. Gemette sommessamente, senza vergognarsi: dopo settimane di astinenza voleva sentirlo vicino come non mai, fondersi con lui.
Finirono sul letto velocemente, attenti a non fare rumore per non svegliare la piccola, e altrettanto velocemente Thorn si scostò e si diresse in bagno. Perplessa, Ofelia lo attese a letto, senza nemmeno abbassarsi la camicia da notte che ormai copriva ben poco, ma quando Thorn fece capolino dal bagno era pronto per dormire, non per fare altro.
Rubò un bacio casto e quasi inconsistente ad Ofelia e le augurò la buonanotte prima di coricarsi. Lei rimase interdetta, le ci volle un minuto per sistemarsi la vestaglia e raggiungerlo sotto le coperte, imbarazzata. Sentì una strana angoscia ghermirle il petto quando si ritrovò stesa al buio, a fissare la schiena del marito, così ampia e impenetrabile come i suoi pensieri. Allungò timidamente una mano per sfiorargli il braccio, e fu sollevata quando Thorn si voltò e la strinse a sé in muto abbraccio. Alla fine Ofelia si addormentò in fretta, cullata dal battito placido del cuore del marito, ma sapeva che una parte di lei non avrebbe mai dimenticato quel... rifiuto.
E che l’indomani la preoccupazione l’avrebbe divorata lentamente. Ne era una prova il battere ritmico della sciarpa contro il comodino, prossima a dormire eppure inquieta quanto lei. Si addormentò con una domanda in testa, che si ripeteva ancora e ancora.
Perché Thorn non vuole toccarmi?
 
Il giorno dopo, come aveva previsto, vagò inquieta per la casa. Nemmeno le attenzioni da prestare a Serena la distraevano, soprattutto perché per quel giorno la zia Roseline e Berenilde avevano deciso di sequestrarla per lasciare alla neo-mamma un po’ di respiro. Che era esattamente l’ultima cosa di cui avesse bisogno. L’indomani sarebbero arrivati i parenti e Ofelia avrebbe dovuto tenersi impegnata con i preparativi: ordinare ai domestici di spolverare e rassettare le camere, ricordare loro di fare una spesa più grande, cose di quel genere, ma la verità era che il personale era più ferrato e preparato di lei per quelle questioni, e lei aveva la testa altrove per pensarci.
Quel giorno pioveva; Ofelia si ritrovò in piedi davanti alla finestra, a scrutare l’esterno senza vederlo, a chiedersi se per caso avesse lo stesso potere di Berenilde, il cui umore influenzava il meteo fuori dal suo castello. Decise di affrontare i suoi tormenti una volta per tutte, di non respingerli. Doveva vedersela con se stessa se voleva essere in grado di attraversare ancora gli specchi.
Se n’era accorta quella stessa mattina. Ne aveva avuto il presentimento. Aveva provato ad entrare nello specchio della camera per uscire da quello in salotto, ma il vetro l’aveva rimbalzata via: Ofelia non era onesta.
Lasciò che i pensieri sfuggenti e le emozioni latenti fluissero in lei come se fosse un catalizzatore, ripensando alla triste vicenda della levatrice, al muto rifiuto di Thorn la sera prima, alla mancanza di contatto da parte sua. Da settimane.
Thorn non era più attratto da lei. Doveva essere per forza così. Prima di partorire, quando era grossa e affaticata, sicuramente non ispirava quel genere di attrattiva per il marito, e dopo il parto… forse era anche peggio. Magari Thorn non era scappato come il marito della levatrice, però forse tutti gli uomini, dopo il parto, non sono più interessati alle loro moglie in quel senso. Eppure molte persone avevano più di un figlio: la sua stessa madre, sua sorella Agata, Berenilde…
Ma soprattutto, con chi poteva parlare di quell’argomento? Di certo non con la zia di Thorn, troppo propensa al pettegolezzo; l’ultima cosa che le mancava era la possibilità di impicciarsi nella vita privata sua e del nipote. La zia Roseline… no, sarebbe stata a disagio oltre ogni dire a parlare con lei di certi argomenti. E poi non aveva nemmeno avuto figli, non avrebbe potuto fare un confronto. Forse si sarebbe rivolta alla sorella, se fosse stata lì. Agata moriva dalla voglia di chiacchierare di quelle cose, e Ofelia si fidava di lei, ma voleva un riscontro subito, senza dover attendere il suo arrivo. Non avrebbero nemmeno avuto un attimo di tempo per loro due sole, oltretutto, e se anche lo avessero trovato la cosa avrebbe destato sospetti. Parlare con la levatrice era fuori questione. Per quanto le fosse stata utile negli ultimi giorni, con i suoi ottimi consigli e le sue premure, non era una sua confidente e aveva il dente troppo avvelenato con gli uomini. Non avrebbe ottenuto un parere obiettivo.
La sciarpa si mise a sbattere contro il vetro, come avrebbe tanto voluto fare Ofelia con la sua stessa testa. L’accarezzò per consolarla, come se così facendo potesse placare anche l’inquietudine, però la sciarpa non si fermò. Del resto, era l’oggetto che più di tutti rispecchiava l’umore della padrona.
- Avete bisogno di un consiglio? Se volete posso svolgere il mio lavoro.
Ofelia trasalì quando Renard le si accostò, sorridendole gentilmente. Per quanto quell’uomo fosse imponente, era silenzioso quasi quanto il marito. Salame gli stava raggomitolato attorno al collo come una sciarpa, per una volta tranquillo, ma quindi vide che lei stessa portava una sciarpa sulla spalla, per lo più irrequieta, cominciò a muovere la coda a scatti e rizzò le orecchie. Renard lo intuì e fece scendere il gatto, che si sedette ai piedi di Ofelia fissando il movimento che si svolgeva più in alto, ipnotizzato. Renard aveva dovuto riportarlo al castello perché Gaela si lamentava del fatto che si faceva le unghie sul tutto il mobilio. Ad essere sinceri Ofelia non lo aveva mai visto danneggiare alcunché, se non Renard, e sospettava che in realtà il gatto gli mancasse. Era letteralmente cresciuto sulla sua testa, sotto il capello, e lui lo aveva ripreso con sé impegnandosi a tenerlo lontano da Serena finché era così piccola.
Ofelia ricambiò l’interesse di Renard con un sorriso triste, facendolo corrucciare.
– Ohibò, la situazione è più grave del previsto se mi rivolgete quell’espressione. Faccio portare del tè mentre ci sistemiamo sul divano.
Ofelia annuì semplicemente e prese posto sul sofà proprio mentre Salame decideva di arrampicarsi sulla tenda per tendere un agguato alla sua sciarpa. In risposta questa si dimenò beffardamente, e stupidamente, dato che il gatto non la perdeva d’occhio.
Renard tornò con un vassoio con teiera, biscotti e tazze e ne passò una ad Ofelia, che soffiò sul liquido bollente per raffreddarlo.
- Su, padrona, di quale consiglio avete bisogno? – la incalzò lui sedendosi di fianco a lei, a debita distanza nel caso in cui l’intendente fosse tornato a casa a sorpresa e li avesse sorpresi. La possessività di quell’uomo lo terrorizzava.
Ofelia doveva prendere tempo, per cercare di capire come tradurre il suo dilemma in parole senza essere troppo esplicita. Insomma, non poteva certo dirgli che aveva paura che Thorn non fosse più sessualmente attratto da lei! Al solo pensieri le lenti degli occhiali si tinsero di rosa e Ofelia cercò un pretesto per cambiare argomento. Lo sguardo preoccupato e allo stesso tempo brillante di vita del suo consigliere e amico le diede la giusta distrazione.
- Ditemi voi, piuttosto, perché sembra che stiate toccando il cielo con un dito da qualche giorno.
Renard sorrise, deliziato dalla direzione che aveva preso il discorso. – Oh, sapete, l’amore rende tutto più bello, dovreste saperlo.
Ofelia, nonostante tutto, sorrise apertamente. – Gaela?
- Gaela cosa? – chiese misteriosamente Renard, anche se gongolava.
Salame saltò sul divano, pronto a balzare sulla sciarpa, ma Renard lo afferrò al volo: ormai quel gatto era diventato una parte di lui, quindi sapeva bene dove, come e quando prenderlo per la collottola e chiuderlo dentro la giacca. Era decisamente troppo grande per stare sotto il cappello, ormai.
- Ha finalmente ceduto alle vostre avances?
- Ceduto? Ragazzo, quella donna c’è dentro fino al collo ormai. Non è caduta nella trappola, ci è crollata con le scarpe! Ho intenzione di farle la proposta di matrimonio prima che cambi idea e umore, che ne pensi?
Dire che Ofelia era sorpresa era eufemistico. Il suo intento era proprio quello di dare un’imbeccata a quei due nominandoli madrina e padrino di Serena, ma non aveva certo previsto che le cose sarebbero andate così bene.
- Addirittura? Fatico a immaginarmi Gaela avvezza a certe smancerie e proposte con anelli.
Il commento non voleva essere cattivo, però una punta di amarezza si era insinuata nel suo tono, percepibile solo a lei. Thorn stesso non era tipo da gesti romantici o effusioni, tecnicamente Ofelia non aveva nemmeno un anello al dito, e le era sempre andata bene così perché sapeva che lui comunque l’amava. In quei giorni avevano parlato poco, si erano visti ancora meno e si erano a malapena sfiorati… una prova del fatto che lui nutriva ancora affetto per lei non le avrebbe dato fastidio, anzi.
- Smancerie non molte, Gaela è una donna che va dritta al solo, non so se mi spiego.
Di fronte allo sguardo attonito di Ofelia, Renard si aprì in un sorriso malizioso e le fece l’occhiolino, facendola arrossire.
- Una donna di azione, di fatti, ecco cos’è. Le avventure non sono mancate, certo, se mi sovviene qualche bel rapimento che ho vissuto con una clessidra blu ancora rabbrividisco, ma Gaela… mi fa sentire vivo come non mi ero mai sentito. Mi sono sentito quasi un giovanotto con la virtù immacolata da quanto ero nervoso.
Ofelia avrebbe dovuto gioire, essere felice per il successo di Renard, che faceva il filo a Gaela da tanti, troppi anni. Si era guadagnato abbondantemente quella donna e la felicità che provava in quel momento, che sarebbe dovuta durare in eterno. Eppure il tono delle rivelazioni indugiava sempre lì, nel punto più doloroso per Ofelia: l’attrazione fisica. Il contatto.
Renard stava ancora sorridendo quando puntò gli occhi su Ofelia. – Ma torniamo a voi, volete dirmi cosa vi angoscia?
Salame si agitava come un forsennato sotto la stoffa, così Renard lo liberò e il gatto si mise a pulirsi ai suoi piedi, dimentico della sciarpa e dell’esito negativo dell’attacco di poco prima. Dal canto suo, la sciarpa si rilasso sensibilmente e si strinse morbidamente al collo di Ofelia, per rassicurarla.
- Io… - mormorò Ofelia, prima di prendere un sorso di tè, procrastinando la questione. Renard la osservava con pazienza. – Ipoteticamente parlando, secondo voi un marito può perdere interesse per la moglie a seguito del parto?
Renard fu lapidario: – No -. Aggiunse una zolletta di zucchero al proprio tè e si infilò in bocca un biscotto prima di continuare. – No di certo se la coppia è davvero innamorata. Conosco bene la levatrice e le storie che va a raccontare in giro.
Ofelia trattenne il fiato. Renard le leggeva nel pensiero?
Sembrava di sì. - Come faccio a saperlo dato che non era in stanza con voi al momento del parto, vi chiederete. Ripeto, conosco la levatrice, la responsabile del personale di questo castello, chiamatela come volete. È una buona donna, ha tutte le qualità migliori del mondo, ma si ostina a terrorizzare le puerpere con la sua storia finita male solo perché teme che succeda anche a loro. In realtà lei è una delle poche a cui è accaduto. Io conosco sia nobili che poveracci, Ofelia, e nessun marito ha smesso di toccare la moglie per un parto.
- Era una domanda ipotetica, badate bene – bofonchiò Ofelia, i cui occhiali aveva virato verso il grigio-blu come sfumatura.
Renard sorrise leggermente. – Ipoteticamente parlando credo che ci siano pochi mariti devoti come l’intendente. Innamorati, lasciatemelo dire, anche se non credevo che un vocabolo del genere potesse stare nella stessa frase in cui compare la parola ‘intendente’.
Renard rise della battuta, ma Ofelia non era molto in vena di sarcasmo, e non era nemmeno del tutto convinta delle parole dell’amico.
- Datevi tempo. Se c’è una cosa che conosco del signor intendente vostro marito è l’istinto di protezione nei vostri confronti. Avete partorito da meno di una settimana, io credo sinceramente che sia preoccupato per la vostra salute. Gli avete parlato apertamente?
Ofelia si imbronciò. – Parlavamo di una situazione ipotetica, Renold. Ipotetica.
- Certo, certo, e chi lo nega? Ipoteticamente parlando, gli avete parlato? – chiese, nascondendo una risata per il gioco di parole.
Ofelia tacque, ottenendo in risposta un sorrisetto soddisfatto, e finirono il tè in silenzio.
Alla fine Renard si alzò e prese il vassoio per riportarlo in cucina. – Credetemi, penso proprio che di queste situazioni il signor Thorn vostro marito ne capisca meno di voi. Se non gli si parlasse chiaro, di certe faccende, ne rimarrebbe all’oscuro. Spiegategli voi le cose. Questo è il mio consiglio e la mia opinione, che come sapete, voi mi pagate per fornirvi. Sono proprio bravo in queste cose, non c’è che dire.
Conclusa la sua piccola arringa, Renard fece salire il gatto sul vassoio e si allontanò baldanzoso, fischiettando.
Ofelia invece sorrise perché, nonostante il peso che le opprimeva il petto fosse ancora lì, pressante, lo sentiva sensibilmente diminuito. Si alzò per andare alla ricerca di Serena, racimolando il coraggio per parlare chiaramente al marito quella sera.
 
Dopo cena Ofelia non sapeva ancora come introdurre l’argomento con Thorn. Era in camera a cambiare il pannolino a Serena quando lui entrò in stanza, così silenzioso da spaventarla.
- Cosa stai facendo?
Ofelia attese che il battito cardiaco rallentasse prima di rispondere. – Cambio la bambina.
Thorn inarcò le sopracciglia, ma non aggiunse altro.
- Non dovevi lavorare fino a tardi questa sera? – gli chiese allora Ofelia, cercando di mantenere viva la conversazione.
- È così, ma il mio segretario mi ha appena informato che sono stati rivisti i termini di una contrattazione che avrà luogo tra due giorni, dunque la documentazione che ho io in possesso non è più valida. Non credo di aver mai visto mia zia cambiare uno dei suoi figli.
Ofelia lo osservò quando aggiunse quella precisazione su sua zia, quasi fuori luogo in un discorso su un processo rimandato. – Credo che qui se ne occupino i domestici, i nobili raramente desiderano sporcarsi le mani, anche se si tratta della loro stessa prole.
Thorn non negò né confermò la cosa, e Ofelia si sentì in dovere di continuare. – Su Anima tutti sanno cambiare un bambino.
- Non mi è difficile crederlo, vista la quantità di figli che vengono messi al mondo.
Ofelia non trovò nulla da ribattere, incerta su come considerare il suo commento: una specie di accusa o una semplice affermazione? Con il tono spesso monocorde di Thorn era impossibile dirlo.
Sentendo i suoi occhi fissi che osservavano l’intera scena, Ofelia riprese a cambiare la piccola Serena che gorgogliava placidamente, e la lasciò nuda sul fasciatoio, a muovere le gambine grassocce. Un sorriso spontaneo le salì alle labbra e Ofelia accarezzò la guancia paffuta della figlia. Le sembrava quasi di guardare una versione più piccola di se stessa, a parte i capelli biondi: gli occhi che la scrutavano con intelligenza erano gli stessi con cui la fissava lei. La bimba allungò una mano cicciottina e Ofelia gliela baciò, facendo sorridere la piccola.
Il panno sporco venne accuratamente ripiegato e messo da parte, vicino al lato in cui stazionava Thorn, ma lui non si ritrasse disgustato. Sembrava che la vista del prodotto dell’intestino ancora in fase di collaudo di sua figlia non gli facesse né caldo né freddo. Ofelia si ricordò che in effetti Thorn non era una di quelle persone che si schifavano facilmente. L’aveva vista con il viso gonfio e pesto, le occhiaie, ricoperta di ferite fresche e sangue, così indisposta da rimettere l’anima, ma quelle scene non lo avevano mai disturbato. Che dipendesse dal fatto che da piccolo doveva averne viste di tutti i colori, sul proprio corpo? Non poteva essere perché era stato trattato come un bastardo. Berenilde si era adoperata perché lui avesse l’istruzione migliore, e la sua carriera da intendente lo dimostrava: poteva anche avere sangue misto, ma Thorn era un nobile.
Qualunque fosse la ragione di quell’insensibilità di fronte a certe situazioni spiacevoli, Thorn si avvicinò a lei e a Serena invece di andarsene.
- Penso che sarebbe utile imparare a cambiare un neonato. Nel caso in cui un giorno dovessi farlo io e non ci fosse nessuno a cui passare l’incombenza. Puoi mostrarmi come si fa?
Ad Ofelia si mozzò rumorosamente il respiro, e si ritrovò a tossire per la violenza del gesto. Thorn la osservava dall’alto, senza traccia di preoccupazione sul viso, abituato com’era agli attacchi di tosse ingiustificati della moglie.
- Vuoi imparare a cambiarle il pannolino? – gli chiese, basita e certa di non aver capito bene.
- Sì – confermò, impassibile. – Non mi pare che la mia sia una richiesta irragionevole.
- No, certo che no, ma… - balbettò Ofelia, con la voce che si affievoliva parola dopo parola. Certo che no, ma… tu che vuoi cambiare un pannolino? Tu che chiedi a me di insegnarti qualcosa?
Thorn scosse la mano davanti il viso della moglie, cercando di ottenerne qualche reazione che non fosse apnea o assoluta immobilità. Solo quando posò le labbra sulla sua fronte per verificarne la temperatura Ofelia si riscosse.
- Sto bene. Vuoi davvero che ti insegni?
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia. – Quante volte ancora devo chiedertelo? Fino a poco fa mi pareva che parlassimo la stessa lingua.
Ignorando l’acido sarcasmo delle sue parole, Ofelia fece ciò che le era stato chiesto: mostrò a Thorn come cambiare un pannolino. Quando stava per concludere l’operazione lui la fermò, le fece capire che doveva spostarsi e ripeté ogni singola mossa. Alla fine aveva cambiato un pannolino con maestria.
- Ogni quanto va cambiato? – domandò Thorn, senza chiedere conferma circa la buona riuscita del proprio lavoro. Era palese che avesse svolto il compito alla perfezione.
- Ogni volta che Serena espleta i suoi bisogni fisiologici – rispose lei, prendendo in braccio la bambina. Dire “ogni volta che fa la cacca e senti puzza” le sembrava una cosa che Thorn non avrebbe potuto capire. -  Ora la metto a letto e poi porto il panno sporco alle domestiche perché lo lavino.
- Posso tenerla io se vuoi, fintanto che vai da loro.
Sempre più perplessa, Ofelia gli passò la bambina con la sensazione di avere la mente separata dal corpo. Si era figurata diverse volte una versione paterna di Thorn, sapendo che sarebbe stato scostante e imperturbabile come suo solito. Non avrebbe mai immaginato, nemmeno nelle sue visioni più rosee, che avrebbe preso con così tanta solerzia e presenza il suo ruolo da padre. Per quanto ricordasse, suo papà non aveva mai cambiato il pannolino a lei, Hector, o una delle gemelle. Forse però la cosa non avrebbe dovuto sorprenderla: Thorn dava il meglio in ogni cosa che faceva, non lasciava nulla di irrisolto e portava a termine ogni questione. Quella di essere genitori era una sfida lunga che abbracciava ogni aspetto della vita di una persona, e lui l’aveva accettata nel momento stesso in cui aveva detto ad Ofelia che sì, avrebbero avuto un figlio. Insieme, in ogni ambito della crescita del piccolo, intendeva lui. Ofelia se ne rese conto solo in quel momento.
Commossa, non gli rispose. Lo vide dirigersi verso il letto, dove si sedette spiegando diversi giornali. Cullava Serena mentre leggeva, perfettamente a suo agio in quel nuovo ruolo. Ofelia avrebbe voluto baciarlo, toccarlo, fargli capire quanto amasse lui, la loro figlia, quella vita, ma ancora una volta lui le era sfuggito.
Raccolse il pannolino sporco e lo portò alla levatrice, che era tornata ormai a svolgere il ruolo di governante. Scambiò due chiacchiere con lei sulla propria salute e quella di Serena, e vide gli occhi della donna animarsi di vita quando ne parlò. Ofelia intuì che non aveva del tutto superato il lutto per il proprio figlio, a distanza di quei numerosi anni.
Quando tornò in camera, trovò Thorn immobile nella stessa posizione di prima, mentre Serena ridacchiava da sola e gorgogliava felice. Ancora una volta il cuore di Ofelia si strinse in una morsa d’affetto, e rimase ferma, in piedi nella stanza, a bearsi di quei due che rappresentavano ognuno la metà del suo cuore.
- Che fai? – le chiese Thorn diverso tempo dopo. Concentrato com’era nella lettura, non aveva fatto caso al suo rientro, se non quando aveva finito i giornali.
Ofelia scosse la testa e si avvicinò per prendergli Serena dalle braccia: si era addormentata nell’arco di quei pochi minuti.
La mise nella culla facendo attenzione a non sballottarla troppo, perché non si svegliasse, e pregò che dormisse almeno quattro o cinque ore prima di reclamare la sua poppata. Ofelia aveva proprio bisogno di dormire un po’ di tempo di filato, in vista dell’incontro con i parenti, che sarebbero arrivati dopo poche ore. La conversazione con Renard però le tornò in mente, e si ritrovò a pensare che avrebbe dormito volentieri quattro ore e mezza invece di cinque: sperava che una mezz’ora abbondante del suo sonno potesse esserle portato via da Thorn.
Quando si voltò verso di lui con trepidazione, però, lo trovò già sotto le coperte. Le dava la schiena, non la stava certo aspettando con impazienza.
Ofelia sentì la trepidazione scemare via come un liquido da una tazzina rotta. Come poteva trovare il coraggio di affrontare quell’argomento? Cosa avrebbe fatto nel caso in cui Thorn le avesse confermato che in effetti non si sentiva più molto attratto da lei dopo il modo in cui il parto le aveva cambiato il corpo?
Si sdraiò a sua volta, lasciando la sciarpa ai piedi di Serena: la sua fedele compagna si era ben adattata al ruolo di badante, ed era molto utile quando vegliava la bambina e la avvertiva se qualcosa non andava nel suo sonno. Eppure in quel momento desiderò averla con sé nel letto, a rassicurarla con la sua presenza, ad accarezzarla per farla sentire meno… sola. Si tolse gli occhiali e rimase immobile, ad ascoltare i respiri sommessi di Serena; quelli di Thorn erano troppo leggeri per essere udibili. Poco dopo, però, se li trovò proprio accanto all’orecchio. Ancora una volta Thorn le si era avvicinato e l’aveva stretta a sé, avvinghiando le gambe alle sue.
Se avesse potuto, si sarebbe girata e lo avrebbe baciato. Sperava che lo facesse lui, ma la sua barba leggera rimaneva ostinatamente premuta contro la sommità della sua testa, non scendeva a solleticarle il collo o le spalle.
Se avesse potuto, si sarebbe girata e gli sarebbe salita sopra, assumendo la posizione dominante, guardando lui dall’alto e permettendogli di osservarla dal basso, in quel modo che piaceva tanto a tutti e due. Sperava che lo facesse lui, che la lasciasse andare per salirle sopra, tracciandole una scia di baci dalla gola fino in basso…
Ma Thorn le impediva di muoversi, e qualcosa le suggeriva che era proprio ciò che lui voleva. Lei, invece, voleva solo lui, disperatamente. Non sapeva se quei desideri fossero dettati dalla tempesta ormonale che seguiva il parto, dal fatto che non si erano più toccati per settimane o da qualche causa sconosciuta che le sfuggiva, però la sensazione le dava il tormento e le faceva venire voglia di piangere. Ancora una volta, quando c’era bisogno di parlare, quando doveva fare lei il primo passo, le parole e il coraggio le mancavano, e loro si stavano allontanando.
Se solo avesse saputo che Thorn, dietro di lei, stringeva gli occhi con forza, tentando di resistere all’idea di andare oltre; cercando di stare fermo, di non costringerla a fare qualcosa che lei stessa gli avrebbe sicuramente chiesto, se avesse voluto farlo…
Si erano armonizzati bene in quegli anni di matrimonio, ma le vecchie abitudini erano dure a morire; ancora una volta si trovarono punto e a capo.
Dormirono cinque ore spaccate prima che Serena si agitasse, ma nessuno dei due si sentiva riposato al risveglio. Piuttosto, avevano la sensazione di non aver mai chiuso occhio. Erano rimasti rigidi nella stessa posizione per tutta la notte, incapaci di spostarsi: temevano entrambi che l’altro alla fine avrebbe ceduto, allontanandosi, ed era l’ultima cosa che volevano.
Thorn invidiò Serena quando Ofelia se l’attaccò al seno, non in modo malizioso o perverso: invidiava la semplicità con cui la bambina si faceva capire, con cui parlava alla madre senza esprimere una parola, il modo in cui Ofelia non la rifiutava mai, sempre pronta e solerte verso di lei.
Avrebbe trattato così anche lui, se si fosse avvicinato e le avesse fatto capire cosa voleva? Che alla fine era lei, quello che voleva? O si sarebbe schifata di lui e dei suoi desideri così primitivi? Non era anche quello un modo per mostrare amore?
Thorn preferiva rifiutarsi da solo che farsi rifiutare da lei. Non avrebbe mai potuto accettarlo, il suo rifiuto. Non si sentiva nemmeno trascurato, come invece doveva essersi sentito il marito di Berenilde alla nascita dei loro figli. La zia era costantemente interessata a loro, dedicava ai pargoli ogni minuto del giorno e della notte, e Thorn, in quanto padre e marito, riuscì finalmente a dare un senso allo sguardo divertito ma malinconico del marito della zia: rassegnazione all’idea che era passato in secondo piano, e che se Berenilde avesse avuto bisogno di lui lo avrebbe cercato.
Thorn non era così ingiusto da pensare le stesse cose di Ofelia. Lei era più equilibrata. Era perfetta, non c’era nulla che non andasse in lei. Ancora si chiedeva per quale fortuito motivo la zia avesse scelto proprio lei, tra tutte…
Alla fine voltò le spalle alle sue due donne, tornando a sdraiarsi, incapace di guardare il volto di colei che amava e della quale temeva il giudizio.
Se solo avesse potuto vedere l’espressione triste del suo volto…
Nemmeno Ofelia chiuse più occhio, nell’attesa del nuovo giorno, ma nessuno dei due tornò nella posizione di prima: alle loro spalle, rivolte le une verso le altre, i loro sentimenti incompresi scavavano una voragine troppo ampia.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


E allora sono stata brava ad aggiornare così puntualmente (circa)? Il capitolo è pure lunghetto, mi sta venendo l'ansia perché sto esaurendo quelli che avevo da parte ç.ç Ansia da scrittura lenta per mancanza di tempo, scusatemi.
Però continuo. Continuo. Conta questo, no?
Allora, credo che alzerò il rating della storia perché... ahem... mi faccio perdonare per il capitolo triste, diciamo, quello precedente. Anche quello successivo sarà...
Be' va be', amatevi ragazzi, Ofelia e Thorn già lo fanno, buona lettura a tutti.
 
Capitolo 13
 
Quando arrivarono i parenti, Thorn era già andato al lavoro.
La sciarpa di Ofelia, non più avvezza a tutto quel trambusto, come la stessa padrona, si ritrasse spaventata quando Ofelia venne passata di braccia in braccia, abbracciando e baciando uno per uno tutti e trenta i famigliari. Fu una giornata lunga ed estenuante. Ne impiegarono mezza solo per osservare Serena, passandosela di grembo in grembo come un cimelio, mentre l’altra metà fu dedicata a fare un giro del castello, che con le sue innumerevoli camere e anfratti bui e sconosciuti persino ad Ofelia sembrava più un labirinto che una dimora. Agata era la più entusiasta di tutte.
- Davvero hai altri dodici castelli oltre a questo? È una cosa in-cre-di-bi-le – osservò a più riprese, aumentando di volta in volta il numero delle proprietà della sorella, che erano nove in totale.
Ofelia la correggeva con pazienza, subissata di domande. Ringraziava Serena di tutto cuore quando piangeva e reclamava il suo cibo, perché almeno poteva avere un attimo di respiro. Si era scordata quanto potessero essere rumorosi tutti quegli Animisti. Desiderava tanto parlare con il suo prozio, di cui sentiva gli occhi addosso da parecchie ore, ma non ce n’era mai occasione.
Aveva concesso a Renard la giornata libera per risparmiargli la frenesia dell’arrivo dei parenti, e a giudicare dal suo sguardo entusiasta era facile intuire dove fosse diretto, con Salame al seguito. Sperava che Gaela non avesse cambiato idea su di lui, era sempre stata molto simile a Thorn sotto certi aspetti; statura, turpiloquio e trasandatezza a parte.
Tutti erano rimasti incantati da Serena, comunque, e nonna Sophie si era commossa versando lacrime e lanciando gridolini a tutti, neanche fosse la prima nipote. Agata appioppava ogni volta che poteva la sua secondogenita, Berenilde, in onore della dama che tanto ammirava, al marito, e la bambina poco più piccola di Vittoria scalciava e si dimenava in un modo che fece incupire Ofelia: sperava proprio che Serena rimanesse calma per sempre; non avevano scelto il suo nome a caso… La zia Roseline doveva pensarla come lei, perché spesso le si era accostata mormorando che rimpiangeva già la quiete della loro vita quotidiana e che se le fosse venuto il mal di testa si sarebbe trasferita da Berenilde nel suo palazzo. Nonostante le minacce e i borbottii, Ofelia sapeva che era felice di rivedere i parenti, e non la vide stare zitta nemmeno un minuto.
Hector invece si era dimostrato particolarmente interessato a Tom, il nipotino più piccolo che ormai però aveva quasi sei anni, con pochi mesi di differenza da Vittoria. Per una volta il fratello era passato dall’altra parte: doveva rispondere a tutte le domande di Tom, ai suoi perché, come un circolo vizioso. Era ormai un uomo, sebbene il viso fosse ancora quello di un bambino e agli occhi di Ofelia rimanesse sempre il fratellino minore, ma il modo in cui si occupava del nipote le stringeva il cuore. Era vero che i suoi parenti erano dei gran confusionari, che urlavano ed entravano in contatto fisico più di quanto al Polo si facesse in un anno intero, però ad Ofelia erano mancati, se n’era resa conto solo alla fine della giornata. Non aveva visto crescere le sue sorelline, Beatrice, Eleonora e Domitilla, che erano delle belle ragazze civettuole e le ricordavano sia Agata che le sorelle di Archibald, e non avrebbe mai visto crescere Tom e la piccola Berenilde. Il rovescio della medaglia le suggeriva che nemmeno loro avrebbero visto Serena in ogni fase della crescita, così si premurò di lasciare la figlia con la madre quanto più tempo possibile: la nonna doveva fare il pieno della nipote prima di tornare su Anima.
Le cose si complicarono verso l’ora di cena, quando Thorn rincasò. A giudicare dalla sua espressione appena varcò la soglia, Ofelia intuì che era dibattuto se fare dietrofront e tornare all’intendenza o lasciarsi fagocitare da quella marea umana. Solo lo sguardo implorante della moglie lo trattenne dal darsela a gambe. Voleva almeno prendere in braccio Serena come faceva sempre quando rientrava, perché tenerla in qualche modo lo rilassava e gli dava l’idea di dimostrare che non aveva intenzione di abbandonarla come avevano fatto i suoi genitori, ma Sophie fu irremovibile. Ofelia avrebbe voluto credere che fosse stato il suo ricorso alla diplomazia a fermarli, ma sapeva di non avere alcun ascendente sulla madre, nemmeno ora che era una madre lei stessa: fu l’entrata in scena di Berenilde e scongiurare la battaglia.
Vittoria incantò subito tutti, soprattutto il piccolo Tom, e le conversazioni si diressero verso acque più tranquille e navigabili. La cena fu affrontabile solo e unicamente grazie alla presenza di Berenilde che teneva banco, perché Thorn lanciava occhiate torve al piatto e sporadicamente alla figlia in braccio al parente di turno, senza far nulla per mostrarsi un buon padrone di casa. Agata invece era così incantata dalla zia di Thorn che rischiava di farsi uscire il cibo di bocca per quanto spalancava la mascella in ammirazione.
Quella scena rammentava ad Ofelia un pranzo di tanti anni prima, quando si era innamorata di Thorn, quando l’atmosfera a tavola non era così gioviale e il marito, all’epoca fidanzato, aveva fatto ricorso al numero dei suoi possedimenti per ingraziarsi la sua famiglia. Quei tempi erano così distanti e irreali che le scappò da ridere, e il marito le lanciò un’occhiata in tralice.
Fortunatamente il viaggio aveva stremato tutti, così andarono a coricarsi presto. Ofelia avrebbe voluto seguirli e buttarsi a letto, o tentare di parlare con Thorn, grazie al coraggio che sentiva scorrere in corpo in seguito all’abbondante bicchiere di vino, però un’occhiata del prozio la fece desistere. Mentre Thorn si dirigeva in camera con Serena, stringendo finalmente la figlia tra le braccia come a marcarne il possesso, Ofelia lo avvisò che avrebbe tardato un po’.
Rimasta sola in salotto con il prozio, non esitò a gettarglisi tra le braccia.
- Per tutti i musei, allora non ti sei dimenticata di questo vecchio curatore. Pensavo che ormai questa vita agiata ti avesse cambiata fino al midollo, ma sei sempre tu, o sbaglio?
Ofelia non gli rispose, cercò solo di asciugarsi gli occhi senza farsi vedere troppo. Prese un liquore da una credenza insieme ad un bicchierino, e lo fece assaggiare allo zio. Era forte e speziato, lo sapeva bene perché una sera ne aveva bevuto mezzo e, astemia com’era, le era girata subito la testa. In compenso aveva attaccato Thorn al letto come una bestia inferocita, ed era capitato più di una volta che il marito le proponesse di berne un altro bicchierino, facendola arrossire fino agli occhiali nonostante il suo tono non fosse neanche lontanamente malizioso. Non serviva che lo fosse: il messaggio arrivava forte e chiaro.
Quel ricordo solleticò la preoccupazione che l’assillava da giorni riguardo a Thorn, e il suo viso si adombrò. La sciarpa pendeva inerte dalle sue spalle, palesando al prozio che qualcosa non andava. A rimarcarne il fatto, Ofelia ruppe il bicchierino, fortunatamente vuoto.
- Ahi ahi ragazza mia, siamo messi proprio male, eh. Vuoi parlarne?
Quella domanda commosse Ofelia, ma riuscì a trattenere le lacrime e si sedette sul divano accanto al prozio, desiderando tornare indietro nel tempo a quando aveva dieci anni e lui le faceva visitare il museo, o a quando ne aveva quindici e parlavano di storia mentre mangiavano caramelle. Con lui aveva un’affinità che non aveva mai provato con nessun altro se non… Thorn. Provò nostalgia anche quando aggiustò il bicchierino con un dito, rammentandole la loro conversazione quando lei gli aveva detto che sarebbe andata in sposa ad un uomo del Polo.
Riuscì a reprimere sia le lacrime che un sospiro. – Non è niente, davvero. Forse un po’ di effetti collaterali del parto.
- Sicura che non c’entri tuo marito?
Ofelia sussultò. – No, Thorn non c’en… non ho nulla, sono solo un po’ stanca, non dovete tediarvi inutilmente.
- L’ultima volta che eri in questo stato hai rotto quasi tutte le stoviglie della mia povera cucina – le fece notare, riesumando dal passato ricordi a cui Ofelia non pensava ormai da troppo tempo.
- Non è questo il caso, anche se devo ammettere che la vostra capacità di riaggiustare gli oggetti mi tornerebbe davvero utile ogni tanto.
- Solo ogni tanto? – la prese in giro il prozio, ridandole il bicchierino, sorridendo sotto i baffi a manubrio.
- Mi siete mancato – ammise Ofelia, sinceramente, desiderando stringersi a lui.
- Anche tu, più di quanto avrei mai immaginato. Ma basta perderci in sentimentalismi e dimmi, tuo marito ti maltratta? Ogni volta che vengo a trovarti non mi sembrate proprio… affiatati.
Ofelia avrebbe voluto smentirlo, si sentiva ipocrita a mentirgli: tra lei e Thorn andava tutto bene come sempre, a parte un piccolo dettaglio… di cui non aveva alcuna intenzione di discutere con il prozio.
- Stiamo bene insieme, davvero. Non ho nulla di cui lamentarmi – affermò, sincera. – Parlatemi di voi e del museo. Le dispotiche Decane hanno censurato qualcos’altro?
Gli occhi del prozio si illuminarono di gioia mista a sdegno. – Che liberazione poterne parlare così apertamente e chiamarle con il nome che meritano! Sono solo delle mistificatrici ma hanno orecchie ovunque, su Anima, e mi tocca tenere i miei commenti per me.
Passarono un’ora abbondante a chiacchierare e smascherare quelle impostore che facevano credere di sorvegliare la comunità per il bene cittadino ma in realtà erano solo delle limitatrici della libertà altrui. Ofelia fu contenta di ascoltare il prozio, si lasciò cullare dalla voce profonda e calda che conosceva sin da quando era bambina, avida di notizie sull’arca in cui era nata. Il prozio era parco di pettegolezzi e ad Ofelia andava bene così, la madre gliene avrebbe propinati sin troppi nei giorni a venire. Invece il suo padrino le raccontava proprio quello che Ofelia voleva sentirsi dire. Alla fine si interruppe, inducendola ad alzare la testa dalla sua spalla, dove l’aveva appoggiata in un gesto affettuoso.
Il prozio le diede dei colpetti leggeri alla mano inguantata e la sciarpa si riscosse, come svegliandosi da un lungo sonno. – Credo sia ora di dormire, figliola. Anche perché tra poco ti sveglierà la tua bambina. Sono proprio un vecchio, proprozio!
Ofelia sorrise e si raddrizzò, aiutando poi il prozio ad alzarsi. – Saggio, non vecchio.
Tornando lo scorbutico ometto di sempre, borbottò qualcosa di inintelligibile, ma Ofelia vide dal suo sguardo che era lusingato dal complimento.
Si augurarono la buonanotte e Ofelia dovette accompagnarlo in camera, dato che il pover’uomo temeva di confondere le stanze ed entrare in quella di qualcun altro. Si sentiva leggera, serena dopo tanto tempo. Chiacchierare con lo zio l’aveva riportata ad un’altra epoca, priva di preoccupazioni genitoriali o matrimoniali, quando ancora non era adulta. Le era piaciuta, e si era resa conto di quanto effettivamente non fosse mai stata pronta a dire addio al suo padrino.
Quando raggiunse la sua, di stanza, Ofelia trovò Thorn seduto sul bordo del letto, proteso verso la culla di Serena con quella sua lunga e incurvata colonna vertebrale, che la osservava. Il bagliore metallico dei suoi occhi a fessura però le fece capire che ora stava guardando lei, non la figlia.
- Ancora sveglio?
- Mi chiedevo che fine avessi fatto.
Ad Ofelia parve di percepire una specie di accusa nel suo tono, ma la sua voce era così sommessa e cavernosa che forse si era immaginata tutto. Si sedette accanto a lui.
- Dorme – sussurrò, sorpresa.
- Certo. Si è addormentata poco fa, dopo che l’ho cambiata, puoi concederti un po’ di sonno prima che si svegli di nuovo. Ho calcolato che i suoi cicli di sonno in media durano…
Ofelia alzò la testa e gli baciò il collo, mozzandogli le parole nei polmoni. Thorn si irrigidì, mentre Ofelia gli tracciava una scia di baci da sotto il colletto della camicia alla mascella ruvida per via della barba corta, sulla punta finale della cicatrice sulla gota e all’angolo della bocca. Quando aprì gli occhi vide che gli occhi di Thorn ardevano, metallici e infuocati, e fu lui a catturare le sue labbra, ad approfondire quel bacio prima casto, poi umido e languido.
Ofelia sospirò e fece per sedersi sulle sue gambe, finalmente in pace con se stessa grazie alle mani che Thorn le faceva correre sul corpo, ma non fece in tempo: lui si alzò, bloccandola nel suo slancio.
- Dovremmo dormire. Domani mattina ho un appuntamento di prima mattina all’intendenza e tu hai avuto una giornata sfiancante.
Ofelia rimase lì, con le mani in mano, letteralmente, a chiedersi cos’avesse sbagliato. Le era sembrato che Thorn apprezzasse… allora perché l’aveva nuovamente respinta? Quando Thorn si sdraiò a letto, lei si alzò e si coricò con la mente confusa. La stanchezza le piombò addosso come un sudario, impedendole di pensare lucidamente, e si addormentò subito, per fortuna.
Non abbastanza in fretta però, per non rendersi conto che Thorn quella sera non l’aveva stretta a sé.
 
Il giorno successivo fece la sua comparsa il buon vecchio Renard, che alcuni parenti ebbero l’occasione di conoscere meglio e altri da zero. Grazie alla sua innata gentilezza e giovialità, fu presto preso in simpatia da tutti, tanto che una zia commentò che sarebbe stato meglio se Ofelia avesse sposato lui invece di quell’orso che aveva per marito. Renard si offrì di far fare un giro turistico della città a chi lo avesse desiderato, e a metà mattina in casa si ritrovarono solo la zia Roseline, Agata con il piccolo Tom, che era diventato il miglior amico di Vittoria, Berenilde che era tornata in visita per dare man forte ad Ofelia e Ofelia stessa. Insieme alla madre ciarliera che faceva da sola baccano per venti. Pranzarono in intimità e nel pomeriggio si ritrovarono in salotto a sorseggiare te, osservando divertite Tom e Vittoria mentre Agata e Berenilde già progettavano il matrimonio.
- Vi immaginate, Ofelia? Vostro nipote e vostra cugina? – cantilenò Berenilde.
- Ofelia, posso lasciarti Tom se vuoi, per qualche settimana! Si divertirà tantissimo con la sua amichetta!
Ofelia rabbrividì all’idea. Serena stava poppando tranquillamente e, anche quando non era intenta a mangiare, era innaturalmente quieta per una neonata. Buona e silenziosa come suggeriva il suo nome. Ofelia dubitava di essere in grado di prendersi cura di un bimbo vivace e curioso come Tomas, invece. Era cresciuta con Hector, una sfida non da poco, ma non lo aveva dovuto crescere, era ben diverso.
Fortunatamente intervenne la mamma, che le risparmiò una risposta scomoda. – Oh, ma Agata, non credi ci sia il rischio che Tom prenda l’accento del Polo? È così duro! Senza offesa, madama Berenilde!
La madama sorrise mentre Agata scuoteva la testa. – Ma madre, l’accento di Berenilde è così af-fa-sci-nan-te! Le sue erre sono raffinate, io non avrei nulla in contrario se Tom prendesse la stessa intonazione!
Ofelia pensò a come l’accento del Nord suonasse invece duro sulle labbra di Thorn, scricchiolante e gelido. Eppure, nonostante fosse forte, quando sussurrava diventava quasi una lingua sconosciuta, che la ammaliava e la faceva rabbrividire. Ofelia sapeva anche quando Thorn usava quel tono sommesso, e rischiò di arrossire e deprimersi al tempo stesso.
Doveva parlargli, per forza.
- Piuttosto che discutere di accenti, parliamo di bambini! Dov’è tua figlia, cara Agata? – chiese la madre, aggiungendo lo zucchero al tè.
- Sta dormendo nella camera. Ho chiesto ad uno degli amici di Ofelia di darle un’occhiata e di riportarla qui nel caso in cui si fosse svegliata e avesse perso l’orientamento. Questo castello è davvero gi-gan-tes-co!
Agata non riusciva proprio a capire cosa fossero i domestici, o la questione delle gerarchie, come anche il resto dei parenti a parte la zia Roseline e il prozio. Come biasimarli, dal momento che lei stessa non aveva capito subito che ruolo svolgessero quando era arrivata presso il palazzo di Berenilde? Agata aveva capito che non erano parenti, allora li considerava amici molto volenterosi. Sostanzialmente credeva che il Polo fosse abitato da persone di buon cuore, altruiste e generose. Non poteva essere più lontana di così dalla verità…
- Pensi di avere subito un altro pargoletto? – chiese ancora la madre, come se stesse commentando la qualità del tè invece di ficcare il naso nella vita privata della figlia.
Berenilde era silenziosa, come la zia Roseline, ma seguiva lo scambio di battute con grande interesse.
- Io e Charles volevamo aspettare un attimo, forse sei mesi o un anno prima di riprovare. In fondo sono ancora giovane, potrei averne altri quattro prima di fermarmi. A Charles piacciono così tanto i bambini!
Ofelia avrebbe voluto farle notare che il fatto che lei glieli affidasse sempre non significava che gli piacessero. Diverse volte Ofelia lo aveva visto in difficoltà a dover gestire un Tom capriccioso e una Berenilde piagnucolona. Era tanto buono, quell’uomo.
Sophie ridacchiò. – Chissà se sarà vero, Charles è un po’ una piovra.
- Madre! – esclamò Agata, per nulla imbarazzata.
Più che imbarazzata, la zia Roseline era scandalizzata, Berenilde alquanto interessata e Ofelia… le andò di traverso il tè. La sciarpa iniziò a muoversi convulsamente e batterle sulla schiena. Quando si riebbe, Ofelia si rese conto di aver gli occhi di tutti le signore puntanti addosso. Fortunatamente Serena non si era scomposta, gorgogliava felice, stanca di poppare.
- Su Ofelia, non fare così, questi sono normali discorsi da signore sposate. Non ci avevi mai sentite discuterne perché eri ancora illibata all’epoca. Ora hai una figlia, quindi sei sicuramente pratica di queste cose – disse la madre, tranquilla nonostante l’argomento.
Pratica di quali cose?!
- Piuttosto, Ofelia, non credi che il parto sia stato un toccasana? Mi meraviglio che Berenilde abbia impiegato così tanto tempo prima di arrivare. È tutto così mi-glio-re dopo il parto.
Cosa? Di cosa stavano parlando?
- Oh sì – rincarò la madre, - superato lo scoglio del primo figlio il resto sono bazzecole!
- In effetti – intervenne Berenilde, che d’altronde era stata madre di più figli, - non posso darvi torto. Un parto fa bene alla vita di coppia, è risaputo. E voi Animiste siete famose per le famiglie numerose, un po’ vi invidio. Io ho fatto così fatica ad avere i miei figli.
Il sorriso di Agata vacillò un momento. – Figli? Non avete solo Vittoria?
Berenilde sorrise tristemente. – Sì e no, cara ragazza. Tenetevi cari Tom e la mia piccola omonima, perderli sarebbe devastante, ve lo assicuro.
L’atmosfera pesante indusse le donne a parlare di altro, e presto il loro cicaleccio tornò allegro e ameno, ma Ofelia non le ascoltava più. Di cosa stavano parlando? Un parto faceva bene alla vita di coppia? Tutto era migliore dopo il parto?
In che senso? Non le sembrava certo che la sua vita di coppia con Thorn stesse andando per il meglio.
Il resto dei famigliari tornò un paio d’ore dopo, e nessuna delle signore nel salotto chiese più un intervento di Ofelia. Solo la zia Roseline la scrutava, preoccupata, estranea a quei discorsi sui figli. Lei non ne aveva mai avuti, del resto.
La cena fu tranquilla e anche Serena fece meno capricci del solito, come se tutto quel tramestio la spaventasse e la inducesse a starsene placida per non attirare troppo l’attenzione. Renard sembrava ubriaco, all’altro capo del lungo tavolo, e lanciò in più di un’occasione occhiate disperate a Ofelia, che rideva sommessamente e lo compativa al tempo stesso. Essere preso in simpatia da una trentina di Animisti non era facile, specialmente a tavola, quando ti si assiepavano intorno forchette, coltelli, cucchiai, bicchieri e zuppiere. Forse avrebbe dovuto dargli un altro giorno libero per aiutarlo a riprendersi, però in un certo senso le sembrava anche felice. Rideva e teneva banco come non aveva mai potuto fare a Chiardiluna, e Ofelia era certa che due cugine in età da marito lo avessero adocchiato. Era alto e atletico, imponente, non passava certo inosservato; in più aveva un sorriso gioviale e gentile. Peccato che non ci sarebbe stata nessuna speranza, a meno che le sue cugine non fossero delle meccaniche un po’ rozze con i ricci neri e i modi scorbutici.
Quando si ritrovò in camera dopo la cena, Ofelia si chiese se in realtà non fosse ubriaca. Aveva offerto al prozio un altro goccetto, di nascosto, chiacchierando con lui per alcuni minuti, fin quando Thorn non le aveva posato una mano sulla spalla, tenendo Serena in braccio. Le aveva detto che l’avrebbe aspettata in camera, nel frattempo avrebbe cambiato la piccola, ma Ofelia gli aveva chiesto di attendere: doveva farle il bagnetto, prima.
Aveva accettato un goccetto di liquore anche lei, ma non poteva davvero essere già ubriaca. Probabilmente era un misto di stanchezza, confusione e mal di testa da conversazioni eccessive.
Thorn le cedette Serena senza fiatare, e lei decise di allattarla prima di lavarla, in modo tale da non vanificare gli effetti del bagnetto: la piccola tendeva a sbrodolarsi quando mangiava, ingorda com’era. Ofelia si sedette sul letto e si attaccò la piccola al seno, arrischiando un’occhiata verso Thorn quando Serena iniziò a succhiare ritmicamente. Il marito la fissava immobile, in mezzo alla stanza, puntando lo sguardo prima sulla figlia e poi sulla moglie, alternativamente.
- Ti preparo la doccia o la vasca, intanto? – chiese dopo un po’, stanco di stare con le mani in mano.
Ofelia scosse la testa: - No, il lavandino andrà bene. L’acqua non deve essere bollente.
Thorn inarcò le sopracciglia ma non pose domande, si avviò verso il bagno e fece come gli era stato richiesto. Si arrotolò le maniche della camicia, valutò la temperatura dell’acqua e chiuse lo scarico del lavandino, osservandolo mentre si riempiva.
Ofelia lo raggiunse proprio quando lui chiuse il rubinetto. Gli porse la piccola.
- Vuoi farlo tu?
Thorn prese Serena senza fiatare, mentre Ofelia lo aiutava a spogliarla. Quando la neonata fu nuda in braccio al papà, Ofelia gli mostrò come immergerla nel lavabo, fortunatamente ampio e largo.
- Così, tienile sempre una mano sulla schiena perché non si sdrai, rischierebbe di annegare anche in questa poca acqua.
Thorn resse la bambina, che iniziò subito a sgambettare nell’acqua calda, schizzando tutto.
Ofelia rise. – Chissà che si addormenti subito dopo tutto questo movimento.
Prese poi una saponetta più delicata, diversa da quella che usavano loro, e iniziò a sfregare morbidamente ma accuratamente il corpo di Serena, producendo bolle e schiuma. Spiegò a Thorn, o forse alla bambina, chi avrebbe potuto saperlo?, che la saponetta era apposta per la pelle sensibile dei neonati.
Thorn era ammirato, ma fissava sia la moglie che la figlia con sguardo impenetrabile, né affezionato, né divertito. – Come fai a sapere tutte queste cose?
Ofelia sorrise. – Allo stesso modo in cui tu le sai adesso. Me le hanno spiegate.
- Chi?
- La zia Roseline soprattutto – rispose Ofelia, come se la cosa fosse ovvia. – Non ha avuto figli, ma tanti nipoti sì. In parte anche mia madre e mia sorella Agata.
Thorn annuì, cominciando a capire come funzionavano quelle cose. Le più adulte spiegavano alle più giovani, una specie di Memoria tramandata con consigli, parole e racconti. La trovò una cosa molto… intima. E fu grato che Ofelia lo stesse mettendo a parte di quegli insegnamenti. Non voleva in alcun modo essere un padre… assente.
Dopo poco tempo Ofelia tolse il tappo al lavabo e lasciò scorrere via schiuma e acqua, aiutando Thorn a sciacquare la piccola. Gli passò un asciugamano morbido e Thorn ve la avvolse, mentre Serena scalpitava e ciucciava il tessuto.
- Perché fa così? – chiese, la fronte tutta solchi e rughe.
Ofelia ridacchiò. – E chi lo sa, non c’è sempre un motivo specifico dietro ai comportamenti dei bambini.
Thorn si rabbuiò. Come avrebbe potuto interagire con delle creature così irrazionali e illogiche come dei bambini? Avrebbe mai potuto capire sua figlia? Ofelia la faceva sembrare tanto facile, ma lui non si sentiva proprio portato per quelle cose. Mentre rimuginava su questi foschi e labirintici pensieri, la asciugò, le mise il pannolino pulito e la vestì. La cullò per qualche attimo, ma era evidente che Serena stava già scivolando nel mondo dei sogni, e pochi minuti dopo la depose nella culla.
Quando si voltò, Thorn trovò Ofelia di fronte a lui, in vestaglia. Doveva essersi cambiata mentre lui finiva di preparare Serena. Ofelia aveva gli occhi lucidi e brillanti, ma Thorn scorse una certa malinconia sul suo viso.
- Ho pulito il bagno dal lago che Serena ci aveva lasciato, adoperalo pure – gli disse soltanto, abbassando lo sguardo.
Thorn vi si diresse e ne uscì poco dopo, pronto per dormire, con il solito paio di vecchi pantaloni di cotone a fungergli da pigiama.
Ofelia era seduta a gambe incrociate sul letto, dalla parte di Thorn. Teneva la sciarpa in grembo, accarezzandola come un gatto. Lui, basito, aggrottò le sopracciglia. Perché Ofelia era sulla sua metà?
- Sai… - esordì lei, senza incrociare il suo sguardo. L’ansia le attanagliava il petto, non riusciva a guardarlo in volto per paura di leggervi sentimenti che non avrebbe saputo gestire, come l’indifferenza. – Sei davvero bravo con Serena. Più di quanto mi sarei aspettata. Sei… molto presente.
Thorn decise di sedersi davanti a lei, sul bordo del letto.
- Dovere – disse semplicemente.
Ofelia alzò la testa, punta da quell’ammissione. – No, non è dovere. Non tutti i padri si dedicano ai figli in questo modo. Tu hai anche un lavoro impegnativo e stressante, ma trovi sempre un po’ di tempo per lei. Sei bravo, credimi. Non devi farlo solo perché lo senti come un obbligo, però.
- Non è un obbligo. È quello che va fatto.
Vedendo che Ofelia stava per ribattere ancora, non soddisfatta della sua risposta, la anticipò: - Quello che mi sento di fare, allora. È anche una mia responsabilità, sai bene che non mi sottraggo ai miei doveri.
- Responsabilità, doveri… - sbuffò Ofelia.
- Occuparmi di lei è piacevole – ammise infine Thorn, guardando altrove. – Appagante. Non lo avrei ritenuto possibile. Non mi pesa.
Ofelia chiuse la bocca di fronte a quella risposta. Sentiva un bisogno di abbracciarlo che era quasi doloroso.
- Resto dell’idea comunque che i mocciosi siano una scocciatura. Tollero a malapena il figlio e la figlia di tua sorella maggiore. Serena è mia figlia. Detesto i marmocchi, ma non se sono miei figli, credo.
- Ehi, Tom e Berenilde sono anche tuoi nipoti.
- Ho difatti detto che li tollero.
Ofelia sorrise appena. Thorn non cambiava mai, ma a lei andava bene così. – A malapena.
Thorn bofonchiò qualcosa in risposta, ma la conversazione morì lì. Rimasero a guardarsi negli occhi nella penombra della bassa luce soffusa, eppure Ofelia si sentiva esposta come se fosse stata in pieno giorno. Fece correre lo sguardo sulle sue labbra, sulle sue mani affusolate posate sul letto, sulle sue spalle larghe e ossute, sul corpo magro, asciutto e appena muscoloso, sull’accenno di barba sul mento.
Deglutì. Doveva distrarsi. – Comunque non sta andando troppo male con la mia famiglia. Come avevo promesso abbiamo ancora… i nostri spazi.
Non era un ottimo tentativo di distrazione, se tornava puntualmente sul discorso che aveva paura di affrontare.
- Direi di sì – ammise lui. – Anche se alla fine rimarranno qui tutto il mese lo stesso.
Ofelia si strinse nelle spalle. – Il viaggio è stato lungo, sarebbe solo una perdita di tempo andare a casa subito.
- Suppongo di sì. E del resto, loro sono tutti in vacanza, no?
- Precisamente.
Thorn aggrottò la fronte, gli occhi in ombra. – Mi chiedo proprio come facciano a funzionare burocrazia ed economia su Anima, se metà degli abitanti prende ferie e va a spasso in questo modo.
- Al contrario, mi chiedo come nessuno finisca in qualche clinica a causa dell’esaurimento, qui al Polo, compreso il funzionario delle finanze – rilanciò lei, sarcastica.
Thorn non rispose, e rimasero ancora una volta a fissarsi in silenzio. Percepivano entrambi che nell’altro c’era… qualcosa, che premeva per venire a galla, ma veniva ostinatamente ributtato sul fondo.
Alla fine fu Ofelia a cedere. Senza perdere il contatto visivo con Thorn, cercando di coglierne ogni minima increspatura di fronte o guizzo degli occhi, si sbottonò la camicia da notte lentamente. Il suo intento non era proprio quello di impiegarci così tanto tempo, ma l’ansia dell’ennesimo rifiuto rendeva le sue dita più maldestre del solito. La sciarpa si adeguò al suo stato d’animo e cominciò a frustare l’aria con una delle due estremità, mentre strisciava silenziosamente verso l’altra parte del letto, acciambellandosi sul cuscino. Più tardi Ofelia l’avrebbe messa nella culla di Serena, come sempre. Quando si fosse liberata di quel fardello.
Thorn non batté ciglio quando Ofelia si lasciò cadere dalle spalle l’indumento, rimanendo pressoché nuda di fronte a lui. Volente o nolente, si era cambiata in fretta anche per quel motivo: aveva indossato il minimo indispensabile sotto la vestaglia, sperando che…
Raccogliendo quel poco coraggio che le rimaneva, si avvicinò a Thorn, cercando di non cadere di faccia sul letto, cosa di cui sarebbe stata più che capace, e si sedette sulle sue gambe, a cavalcioni su di lui, premendosi contro il suo petto, ad un soffio dal suo viso. I suoi occhi erano spalancati, vibranti di emozione e allo stesso tempo tormentati.
Fu lui a baciarla, finalmente, mentre le sue mani le correvano avide e possessive sul corpo, preda di un bisogno impellente. La mancanza che aveva provato per lei in quelle ultime settimane risalì come una marea dentro Thorn, che se avesse avuto un briciolo di controllo in meno l’avrebbe presa lì, sul bordo del letto, ancora vestito. Invece le diede un ultimo languido bacio e si staccò, evitando di guardarla negli occhi, temendo quello che avrebbe potuto trovarvi annidato.
Ofelia strinse i pugni, serrò le palpebre. Non gli permise di muoversi. – Perché?
Thorn era una statua di marmo contro di lei, il respiro a malapena udibile, il cuore un tamburo rumoroso. – Cosa?
- Perché mi respingi, Thorn? Perché mi respingi ancora? Non sono più… adatta, ora che ho partorito?
L’aveva detto. Alla fine l’aveva detto. Aveva dato voce alla sua più grande paura: quella che lui fosse ripugnato, che non la volesse più, che non fosse più attratto da quel corpo che una settimana prima era stato lacerato dal parto, anche se non ne recava la benché minima ferita. Eppure Thorn sapeva come nascevano i bambini, e forse era proprio quell’immagine, anche se non vista di persona, a disgustarlo di più.
I suoi occhi però, invece che colpevoli e rassegnati, dardeggiarono minacciosi quando si posarono di nuovo su di lei. La mascella contratta, il solco tra le sopracciglia, le mani che le artigliavano le braccia in una morsa ferrea. E quello sguardo così gelido. Ofelia rabbrividì. Non si era aspettata tutta quell’ira.
- Cos’hai detto? – mormorò causticamente, la voce rauca e l’indignazione a stento trattenuta.
Ofelia deglutì: non lo aveva mai visto reagire così. – Hai capito cos’ho detto.
- Ho sentito, ma non capito. Come puoi anche solo insinuare una cosa del genere? È ridicolo. La cosa più ridicola, assurda e incomprensibile che tu abbia mai detto.
Ofelia alzò il mento, tutt’altro che spaventata. Con quale diritto lui osava arrabbiarsi? – Ridicola? Cosa dovrei capire io, allora, dal tuo comportamento? Non mi hai toccata per quasi un mese prima che Serena nascesse, per paura di nuocerle. Questo lo capisco. Ma ora? Ora che scusa hai per non… per…
Le parole le morirono sulle labbra, come spesso accadeva quando dentro di lei si affannavano troppe emozioni, troppi pensieri, incapaci di sgorgarle dal cuore come avrebbe voluto. Le si bloccavano in gola, come un tappo, e ammutoliva sempre mentre dentro infuriava una battaglia nota solo a lei.
Thorn, se possibile, indurì ancora di più lo sguardo.
La strinse a sé con tanta forza da mozzarle il respiro. Ofelia sentì che, nonostante le sue remore, il corpo di Thorn reagiva al suo come al solito; non era immune al contatto della moglie praticamente nuda su di sé.
- Pensi che non sia più attratto da te? – sibilò Thorn, con una cattiveria che fece quasi allontanare Ofelia.
Però lui non la lasciò muovere, le azzannò letteralmente le labbra, baciandola con una violenza inaudita. Thorn era quasi brutale, la barba le graffiava ogni centimetro di pelle del viso, labbra comprese, ma Ofelia non sentiva dolore; tutt’altro. Sentiva che era proprio di quello che aveva bisogno in quel momento. Si sfilò i guanti senza esitazione, senza goffaggine, gli artigliò i capelli facendolo gemere, si mosse su di lui per avvicinarglisi ancora di più, di più, di più, per entrargli dentro, fondersi, vivere in lui.
Ma Thorn si staccò, posandole una mano sul collo senza cattiveria, accarezzandoglielo col pollice, senza smettere di guardarla e al tempo stesso incenerendola con la sua ira. Avevano i respiri affannati, ad Ofelia brillavano gli occhi dietro gli occhiali sbilenchi, i ricci più spettinati del solito. Chissà come, ci era anche finita l’altra mano di Thorn dentro.
- Mi stavo trattenendo per non ferirti, Ofelia. Se potessi ti prenderei seduta stante, senza nemmeno curarmi degli ospiti, del tuo stato o di Serena accanto al letto – ringhiò, per nulla calmo nonostante le emozioni trattenute e il tono quasi distaccato. Sotto le dita della moglie, però, il suo corpo tremava. La mano che le teneva tra i capelli scese sulla sua vita, leggera come una piuma e bollente. – Hai partorito da una settimana, diamine. Avrei potuto chiederti questo, secondo te, subito dopo un parto? Un po’ di fiducia, dannazione.
Erano rare le volte in cui Thorn perdeva la calma in modo così incontrollato da ricorrere anche alle imprecazioni. Ofelia si sentì una stupida; poi, si sentì avvampare di irritazione.
- Un po’ di fiducia? – sussurrò, la voce roca ma udibile. – Hai fatto tutto da solo, Thorn. Potevi dirmelo, parlarmene, invece mi hai solo rifiutata quando io mi avvicinavo. Io mi avvicinavo, Thorn. Pensi che potrei mai comportarmi in quel modo per poi andarmene senza… senza…
Di nuovo, le parole le vennero meno.
Thorn allentò la presa sul suo collo, sostituendo la mano con la propria fronte. Si appoggiò alla sua spalla, svuotato. Non disse nulla. Non aveva nulla da dire.
Ofelia lo abbracciò e lo cullò, sperando che non si addormentasse così: la questione non era ancora chiusa. – Ho partorito, Thorn, non mi hanno dovuta operare da qualche parte. Non mi hanno nemmeno dovuto dare dei punti. Serena era piccolina. Io sto bene. Anche qualcosa di più, per citarti. Vorrei solo… sentire che tu mi vuoi quanto ti voglio io.
La voce le si spezzò sulle ultime parole, e Ofelia si ritrovò a versare lacrime silenziose di sollievo, ansia, paura e tristezza, emozioni accumulate in quei giorni e ancora prima, prima che nascesse Serena, e se ne liberò.
Thorn sollevò la testa e gliele asciugò come aveva già fatto numerose volte in passato, a cominciare dalla notte all’Immaginatoio, quando aveva potuto stringerla a sé per la prima volta. La rabbia era defluita lasciandolo senza forze, e invece di possederla all’istante voleva solo abbrancarla a sé, amarla lentamente, come se la notte fosse loro, senza tempo.
Le accarezzò le guance, le baciò collo, spalla e clavicola, prima di tornare alle sue labbra salate di pianto e scusarsi con la bocca, lenendo le ferite causate da gesti e parole. Per quanto Ofelia temesse che il giorno dopo le sarebbero rimaste le labbra gonfie, non rimpiangeva quel bacio irruento che a modo sua era stato dolce, sicuramente appassionato. Accarezzò le cicatrici sulla schiena di Thorn e rispose al bacio sollecitando velocemente un contatto più profondo, un ritorno alla voracità di prima. Ma Thorn non aveva fretta, non più. Non correva più contro il tempo.
Si staccò un istante solo, per sussurrarle: - Io non ti voglio quanto tu vuoi me. Io ti voglio molto più di quanto tu vuoi me, è un dato di fatto. Non spiegabile a parole, numeri o azioni, ma da prendere come un assioma, una certezza. Sarà sempre così. Sei diventata l’unica cosa indispensabile e importante nella mia vita. Non potrai mai volermi quanto io voglio te.
Poi sentì il respiro di Serena alle sue spalle, e si corresse: - Quasi l’unica indispensabile.
Avrebbe voluto aggiungere altro, chiederle se davvero era convinta, se non stavano affrettando le cose. Dirle che per lui era ormai più necessaria dell’aria, che quando lei gli si donava con anima, corpo, cuore, mente e ogni parte di sé lui pensava che fosse l’unica sua ragione di vita, il suo scopo, la sola cosa che valesse la pena vivere e provare. Un bacio rubato, un respiro condiviso, le dita sulla pelle, un gemito inebriato. Soppresse un moto d’ira quando la domanda che Ofelia aveva posto poco prima riaffiorò.
Non sono più… adatta, ora che ho partorito?
Stupida di una donna, moglie e madre.
- Io…
Thorn la baciò ancora, interrompendola, stanco delle parole. Voleva qualcosa di fisico e tangibile che non fossero parole.
Fecero l’amore lentamente, a lungo, cercando di fare piano per non svegliare Serena, anche se sembrava impossibile limitarsi. I loro sussurri spesso sconclusionati si persero nel calore dei loro corpi, nella dolcezza di quella notte. Poche ore dopo, quando Serena si svegliò piagnucolando, nessuno dei due stava realmente dormendo. Ofelia era sdraiata su di lui e gli auscultava il cuore, che aveva preso a battere regolarmente da poco tempo, mentre Thorn la osservava da una fessura tra le palpebre semichiuse, contando i suoi respiri.
Thorn la trattenne per il polso mentre sgusciava da sotto di lei e si infilava la biancheria minima, prima di prendere in braccio Serena. La tenne stretta, cullandola quasi impercettibilmente, mentre Ofelia li osservava dal letto, sdraiata sul fianco, coperta solo dalle lenzuola calde che profumavano di loro.
Per quanto fosse bravo Thorn, per quanto si sforzasse, certe cose proprio non erano da lui, come il cullare la bambina facendo ondeggiare il corpo o parlarle di cose stupide con una voce stridula e sommessa. A Serena andava bene lo stesso, quelle grandi braccia la calmavano a prescindere, e non ci volle molto perché si facesse vincere di nuovo dal sonno.
Ofelia la allattò poco, giusto prima che si addormentasse di nuovo, per evitare che si svegliasse dopo due ore, affamata.
Quando Thorn la rimise nella culla e si sdraiò accanto a lei, stringendola a sé, Ofelia seppe che si sarebbe lasciata andare subito all’incoscienza. Prima di scivolare via però sentì le labbra di Thorn tra i capelli, e sorrise impercettibilmente.
Thorn non era un tipo da baci e abbracci, con due eccezioni. I baci sulle labbra non contavano, perché di quelli era avido e se li prendeva quasi con prepotenza in certi casi. La prima riguardava un leggero bacio sulla testa prima di dormire, che non mancava mai e lui credeva che Ofelia non percepisse, già addormentata. La seconda era relativa al modo in cui dormivano. Più che un abbraccio, era un nucleo.
Thorn non la lasciava mai andare.

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Allora scusate il ritardo (come sempre, ops), il capitolo non è nemmeno lunghissimo ma devo centellinare quello che ho perché non ho proprio più tempo per scrivere e ho due storie in piedi e vorrei flagellarmi. Cercherò entro oggi di finire il capitolo di Into the Deep, cercherò. So già che non ci riuscirò ma spero di portarmi a buon punto.
Detto ciò, ci sono un po' di porcherie, di quelle belle, spero, e dal prossimo capitolo varie situazioni Thorn-Famiglia di Ofelia che spero vi facciano sorridere. Da quello dopo ancora vedremo Thorn 100% versione padre attivo ed efficiente. Il POV cambia di nuovo, cavolo, passa da Thorn e Ofelia e resta su Ofelia, spero non disturbi. E' Animato pure lui, va da chi gli pare.
Grazie mille, qualsiasi cosa vogliate dirmi non esitate, e a presto presto!!

...E MANCANO SOLO 5 GIORNI *imprecazioni varie e scleri non indentificabili*


Capitolo 14

La mattina successiva, nonostante le poche ore di sonno, Thorn si svegliò presto. Del resto, non era mai stato un dormiglione, e la maggior parte delle volte giaceva vigile solo per stare accanto alla moglie addormentata. Ofelia era prona, aveva la testa appoggiata sul suo braccio, i capelli spettinati che le cadevano sugli occhi impedendogli di vederne il volto. Dormiva. Serena ronfava placidamente e la sciarpa faceva ondeggiare una coda fuori dalla culla, quieta e sonnecchiante.
Thorn cercò di ritrarre il braccio da sotto il viso di Ofelia, tentando di non svegliarla. Andò in bagno silenziosamente e quando tornò vide il profilo della moglie stagliarsi contro la debole luce del sole che filtrava dalle tende tirate. Aveva girato la testa dall’altra parte, le lenzuola erano scivolate fino a mostrarne la schiena nuda e liscia. Probabilmente aveva caldo, visto che i loro corpi uniti sotto le lenzuola spesso fungevano da stufa.
Al ricordo di quel calore, del contatto di quel corpo, della sensazione della sua pelle sotto le dita e delle sue labbra ovunque, Thorn si irrigidì. Reminiscenze della sera prima gli invasero la mente, bloccandolo sul posto con la salivazione azzerata. Poteva indubbiamente annoverarla tra le notti migliori della sua vita, quello era certo. Erano stati così… Ofelia era stata così… lui poi…
Thorn strinse la mascella, combattuto. Dai discorsi della sera prima si evinceva che Ofelia desiderasse essere toccata da lui, solitamente. Lui lo sapeva ormai da tempo, ma le reazioni della notte precedente e i suoi sussurri glielo avevano confermato, cosa che non stroppiava mai. Lui, l’intendente del Polo, l’uomo che era cresciuto come un bastardo, insultato e disprezzato da tutti, che non si curava di nessuno e non si faceva corrompere, non chiedeva consigli e non agiva se non in base a certezze e ragioni, era insicuro sotto l’aspetto matrimoniale. Anzi, sotto un certo aspetto matrimoniale. Precisamente, era incerto prima, ma di sicuro non durante. Una vita di anaffettività e violenza creano qualche vuoto, alla fine dei conti; la costante paura di essere allontanato, di perdere tutto. Voleva che con Ofelia non succedesse mai.
Capì all’istante di voler essere egoista, per una volta. E lo fece, senza vergogna o rimorsi. Qualcosa gli diceva che Ofelia non lo avrebbe considerato un gesto individualistico e che forse avrebbe addirittura apprezzato.
Thorn si liberò dell’unico indumento che indossava mentre si avvicinava. Salì risolutamente sul letto, intuendo che Ofelia fosse ormai prossima a svegliarsi dai suoi gesti leggeri: le dita che si muovevano, un braccio che si spostava, un respiro un po’ più irregolare. Meglio così, tanto nel giro di pochi minuti lui l’avrebbe completamente tirata fuori dal sonno. Spostò del tutto le coperte, esponendola all’aria frizzante e fresca del mattino, e lei mugolò in protesta.
Si inginocchiò tra le sue gambe e le afferrò i fianchi, tirandosela addosso finché i loro bacini non si scontrarono. Rapido nei movimenti, come sempre, aveva compiuto quei pochi gesti con metodo e precisione, cogliendo del tutto di sorpresa Ofelia, ormai sveglia.
Il mugolio che gli giunse alle orecchie però non era di fastidio. Tutt’altro. Anche qualcosa di più.
Se Ofelia si fosse girata a guardarlo in quel momento avrebbe visto la vera natura di Thorn, quella che lui seppelliva nel profondo di sé, come gli artigli, e che odiava: quella di predatore. Le labbra erano serrate nel tentativo di non lasciar uscire nessun suono o smorfia simile ad un ghigno, i suoi occhi stretti a fessura erano attraversati da lampi di bramosia e ardimento. Il corpo era scattante, i riflessi pronti, i muscoli contratti e tesi. Fece scorrere le mani sul corpo di Ofelia, carpendo il suo calore, la sua morbidezza, la levigatura della sua pelle. Era impensabile che riuscisse a toccare così un altro essere umano, lui che aborriva qualsiasi contatto fisico. Era impensabile che riuscisse a resistere, tanto era il bisogno di lei e di ciò che poteva offrirgli. Ofelia non si era mossa, aveva solo stretto le braccia contro il petto, sotto di sé, e si era puntellata sui gomiti per trovare una posizione più comoda, per quanto possibile. Aveva il viso per metà sepolto nel cuscino, dava le spalle e la nuca a Thorn. Lui la stava solo accarezzando, nemmeno in punti sensibili, e lei già ansimava.
La sua anima predatoria ghignò, ma lui non sorrise e non cambiò espressione. Ofelia era già pronta. Niente preliminari, agì e basta.
Nonostante l’avesse presa al limite della brutalità, le sue mani furono gentili. Non l’avevano mai fatto in quel modo quasi selvaggio. C’erano state diverse volte in cui si erano lasciati andare più del solito, ma non così. Piacque ad entrambi. Ofelia dovette mordere il cuscino per trattenere i gemiti e non fare troppo rumore, Thorn ansimava come un mantice, unica perdita di controllo che si concedeva. La coda della sciarpa di Ofelia aveva ritratto l’estremità penzolante fuori dalla culla e si era appallottolata accanto alla bambina, agitata. Gli occhiali vibravano sul comodino, la vestaglia ai piedi del letto si contorceva.
Le mani amorevoli di Thorn fecero la differenza tra un atto senz’anima e cuore e uno degli amplessi più belli della loro vita, diverso ma coerente con loro, pieno di un amore sconfinato e un bisogno struggente e spassionato; Ofelia per una volta sottomessa in tutto e per tutto e Thorn che lasciava venire a galla e tracimare il Drago famelico che era in lui.
Thorn si chinò a baciarle le spalle e la spina dorsale quando sentì che erano entrambi al limite, ringraziando per una volta la sua altezza che permetteva alla sua colonna vertebrale di allungarsi fino a sommergere la moglie. E poi, finalmente…
La porta si spalancò alle loro spalle, mentre una voce allegra e birichina si fiondava nella stanza e si dirigeva alla culla.
Thorn ringraziò i suoi riflessi acuti e Ofelia il suo fisico scattante, sempre all’erta, sempre pronto a difendersi, per quanto fosse crudele da pensare: era sempre preparato ad un attacco, memore di tutti quelli che aveva subito. In un attimo si sdraiò accanto alla moglie, più lontano del solito, e coprì entrambi con le lenzuola. La camicia da notte, contagiata dal terrore della padrona, strisciò convulsamente verso il bagno portandosi dietro anche la biancheria di Thorn.
Non poterono fare nulla per il respiro accelerato, cercando solo di trattenerlo quanto possibile.
Tom era accanto alla culla, pronto a svegliare Serena, quando alla porta si palesarono i fautori di tutto il trambusto che c’era nel corridoio: Agata in vestaglia, suo marito in vestaglia, la zia Roseline in vestaglia. Com’è che avevano tutti il tempo di indossare qualcosa prima di uscire dalla propria stanza mentre Ofelia e Thorn erano completamente nudi sotto le coperte?
Arrivarono comunque troppo tardi: Tom ormai aveva svegliato Serena, che si mise a piangere rischiando di svegliare tutto il castello.
Charles prese il figlio in braccio senza spiccicare parola e uscì in fretta dalla camera, pronto per sgridare il figlio monello.
- Ma Vittoria ha detto che oggi vuole giocare con lei – piagnucolò il bimbo, ancora assonnato.
- Dopo ci giocherete, ora è troppo, troppo presto, Tom. Vittoria è a casa sua ora! – gli rispose il padre, felice di essersi allontanato in fretta e di non aver subito l’ira del padrone di casa.
Padrone di casa che, furente più che sbigottito o frustrato per l’interruzione, si tirò su a sedere come se si fosse appena svegliato, affrettandosi ad estrarre dal comodino una vestaglia per coprire alla bell’e meglio le braccia e il torso pieno di cicatrici. Agata gli rubò comunque uno sguardo prima che lui si coprisse, per nulla imbarazzata dal suo torso nudo.
- Scusaci sorellina, scusateci cognato, ci è sgusciato via prima che potessimo fermarlo. È una tale anguilla! E l’adorabile Vittoria ha un enorme ascendente su di lui! Il mio Tom farebbe qualsiasi cosa, se fosse lei a chiederglielo, qua-lun-que!
La zia Roseline la zittì con un’occhiataccia e prese Serena, cercando di calmarla. – Sua madre dovrebbe insegnargli ad obbedire prima di tutto ai genitori, è troppo piccolo per andare già dietro alle ragazze!
- Cosa posso farci, anche Charles era così! Oh Ofelia, come sei accaldata! Ti ha spaventato così tanto?
Ofelia era senza occhiali, non si era nemmeno premurata di allungarsi sul letto per afferrarli e indossarli dal momento che temeva di esporre troppo il proprio corpo nudo. Rimase raggomitolata su se stessa, sperando che il fiato corto potesse essere spacciato per una conseguenza dello spavento e del brusco risveglio.
- No, cioè, sì… ora passa – balbettò lei, la voce rotta e rauca dal sonno. E dai versi che aveva emesso fino a pochi secondi prima.
- Povera cara, togliamo su-bi-to il disturbo, torna pure a dormire, stanca come sei. Scusateci ancora, signor cognato, non accadrà più, no no.
Come si poteva essere così briosi alle prime luci dell’alba?
La zia Roseline sospirò; almeno era riuscita a placare le urla di Serena, causate dallo spavento. – Ofelia, la tengo un po’ con me, vuoi? Hai delle occhiaie che sembrano delle bustine di tè nero, sotto agli occhi. Dormi tranquillamente. La bambina ha bisogno di mangiare?
La voce di Thorn tuonò come un boato nella stanza ormai silenziosa. – No, non prima di tre o quattro ore almeno.
La zia Roseline annuì, per nulla sorpresa dal fatto che Thorn conoscesse così bene i ritmi della figlia. – Te la porto intorno alle dieci, allora, nel caso in cui tu non sia ancora arrivata per la colazione, d’accordo?
Ofelia annuì, grata di cuore alla zia.
- Dormi, per tutti i dizionari, che sei proprio smunta come le mucche del cugino Guglielmo. Povere bestie.
- Come siete solerte zia, davvero ammirevole questo gesto magnanimo – cantilenò Agata mentre le due donne si allontanavano.
- Zitta, nipote, ora insegnerò a te e tuo marito come si educa un figlio. Dubito che tua madre lo abbia fatto correttamente con te, visto come sei cresciuta. Perdere un bambino e piombare nella camera padronale a quel modo, vergognoso come l’insalata nella zuppiera.
Agata chiuse la porta subito dopo, ma nulla poté impedire a Ofelia e Thorn di udire l’ulteriore scambio di battute.
- Zia, avete visto che Thorn era seminudo? Dite che abbiamo interrotto qualcosa? Sarebbe una tale tra-ge-dia! – mormorò Agata con voce civettuola e insinuante.
La zia sbuffò: - Sciocchezze, non fare la maliziosa. Thorn è solito dormire in quel modo, non farti strane idee, nipote. Sei proprio senza pudore certe volte.
La lontananza si portò via il resto della conversazione e permise a Thorn e Ofelia di tirare un sospiro di sollievo.
Poi Thorn grugnì, per nulla calmo e divertito. – Hai detto tu che avremmo comunque avuto i nostri spazi, o sbaglio?
La situazione incresciosa aveva messo a dura prova i nervi di Ofelia, che come ultima cosa aveva bisogno del sarcasmo. Si voltò ad affrontare Thorn, avvicinandosi per metterlo a fuoco tra la miopia e la nebbia del sonno.
- Tu non volevi nemmeno averli questi spazi, fino a ieri sera!
Ci vedeva poco, ma sapeva ancora interpretare i lampi negli occhi di Thorn, specie quando erano d’irritazione. – Il discorso era chiuso. Perché solo io evito di riesumare vecchi argomenti su cui ormai abbiamo convenuto entrambi?
Ofelia batté le palpebre, perplessa. – Vecchi? Ne abbiamo discusso solo ieri notte! Sei tu che hai tirato in ballo una frase che ho detto diversi giorni fa!
- Frase che le attuali circostanze hanno smentito. Se quel marmocchio fosse entrato dieci secondi dopo sarebbe stato un grosso problema, Ofelia.
- Me ne rendo conto, ma non è successo, e ora abbiamo la camera vuota e libera. Credo che questo possa ben essere considerato uno spazio per noi.
Thorn era interdetto. Aggrottò le sopracciglia. – Come?
Ofelia si risistemò a sorpresa tra le sue gambe, dandogli le spalle. Era più facile parlargli quando non doveva guardarlo in faccia, o non doveva dialogare con la sua schiena immensa. - Non abbiamo concluso, mi pare. E ora abbiamo lo spazio che vogliamo. La zia Roseline terrà Serena per quasi quattro ore.
Thorn non era certo di voler finire il discorso in quel modo, però era impaziente di riprendere da dove avevano interrotto. Era talmente ridicolo il tempismo di quel bambino! Se solo fosse entrato due o tre minuti dopo... Borbottò qualcosa che ad Ofelia sembrò un’imprecazione, e poi la tirò a sé, accartocciandosi attorno a lei, inglobandola con il proprio lungo corpo.
Ofelia sospirò. Intuì la sua esitazione. - Vuoi ancora parlarne? Non era chiuso, per te, l’argomento?
In risposta alla sua sfacciataggine e al suo sarcasmo pungente, Thorn le morse una spalla, accigliato. La cosa non dispiacque affatto ad Ofelia.
- Sarà così per tutto il tempo che resteranno qui?
- Non penso - lo tranquillizzò lei. - Questa era una tantum. Capita a tutti, prima o poi.
- Credi che abbiano capito che...
Ofelia scosse la testa. - Non credo se lo immaginerebbero, da uno come te.
Thorn si irrigidì alle sue spalle, staccandosi appena. - Cosa intendi dire?
- Immagino solo che per qualcuno di esterno sarebbe difficile credere... insomma, hai presente... -. La voce di Ofelia, prima sicura di sé, cominciò a scemare ad ogni parola. Non sapeva come spiegarsi senza essere fraintesa. - Credo che sia difficile per gli altri immaginare noi in una situazione come questa. Non so se te ne sei mai accorto, ma non sei un gran dispensatore di effusioni o sorrisi.
Thorn fece una smorfia minuscola, tornando ad attaccarsi alla schiena della moglie. - Meglio così, non nutro alcun desiderio che chicchessia ci immagini in certe situazioni.
Ofelia ridacchiò. - Sì, ma hai capito cosa intendo?
Thorn non la stava più ascoltando: aveva deciso che avevano parlato abbastanza. Il modo in cui chiudeva un discorso era ancora difficile da capire per Ofelia, così come il meccanismo che lo spingeva ad archiviare ogni questione e non riprenderla più. Quando una cosa era chiusa, lo era definitivamente.
Non fu delusa, comunque, dalla piega presa dalla conversazione, che si risolse in una serie di suoni gutturali e incontrollati, in strette feroci eppure non abbastanza forti, in baci umidi ma non profondi come desideravano.
Finirono in fretta, troppo in fretta, dal momento che in realtà il loro atto era più una conclusione che un principio, e di comune accordo decisero di iniziare una seconda volta, adducendo come scusa quella di doverlo fare come si doveva, senza interruzioni, come prima.
La scusa suonava banale alle orecchie di entrambi, sebbene l’avessero proposta insieme, ma alla fine se ne disinteressarono entrambi, tornando ad attorcigliarsi tra le coperte, mentre la sciarpa si raggomitolava imbarazzata nella culla e i tappeti calpestavano il terreno.
Un paio d’ore dopo erano ancora sdraiati a letto, bisognosi di una doccia, completamente svegli. Thorn era sdraiato tra le gambe di Ofelia, la testa contro il suo petto e la schiena contro il suo ventre, mentre lei se ne stava semisdraiata contro i guanciali, scaldata dal corpo del marito più che dalle coperte. Thorn teneva gli occhi chiusi, era immobile, mentre Ofelia gli accarezzava il viso e ogni tanto il petto, facendolo suo malgrado irrigidire. Era fin troppo sensibile, poco avvezzo com’era ai contatti, nonostante quelli che condivideva sempre con Ofelia.
A lei, invece, sembrava un sogno poter rimanere lì con lui, tranquilli, senza problemi di lavoro, tempo o prima infanzia. Per quanto sarebbe stato difficile nascondere l’evidenza di quella situazione a qualcuno, se fosse entrato, nessuno dei due sembrava curarsene minimamente. L’unica preoccupazione di Thorn era che sua moglie potesse essere vista nuda, e il suo corpo la copriva interamente, quindi non si poneva nessun problema.
Ofelia si era schiarita la voce diverse volte nel corso degli ultimi minuti, e Thorn la conosceva abbastanza bene da sapere che in casi come quelli le serviva un’imbeccata per vuotare il sacco.
- Parla.
Più che uno sprone o un invito, era un ordine, come al solito. Non si smentiva mai.
- Non capisco - farfugliò lei, ma dal tono di voce era evidente che invece capiva benissimo.
- Sì che capisci. Se hai qualcosa da dire, dillo, che sia una buona notizia o una cattiva. Me ne hai date di pessime, in passato, penso di poter affrontare tutto, se me lo permetti.
Ofelia avrebbe voluto sorridere, ma era paralizzata dalla vergogna. Come si poteva parlare in quel modo freddo e distaccato dopo quello che avevano fatto la sera precedente e pochi minuti prima, oltretutto? Thorn era completamente privo di qualsivoglia dolcezza e tatto.
- Non sono cattive notizie. Forse imbarazzanti.
Thorn aprì gli occhi solo per aggrottare le sopracciglia, e reclinò il collo per osservare Ofelia dal basso. Lei guardava da tutt’altra parte. Attese che riprendesse.
- Vedi, ieri ho ascoltato un discorso strano da parte di mia madre, mia sorella e persino Berenilde. Dicevano che... come dire...
I balbettii le impedirono di parlare, così Thorn incrociò le braccia al petto, sopra le sue, e gliele accarezzò. - Come dire?
Dopo lo sprone, Ofelia deglutì e prese coraggio. - Dicevano che dopo il parto è migliore. Non ho capito cosa intendessero fino a ieri sera. E questa mattina...
Thorn non aveva bisogno di osservarla per sapere che era arrossita, e non riuscì a trattenersi. Allungò il braccio per spingere la sua nuca verso il basso, dolcemente, e le diede un lungo e lascivo bacio al contrario. I suoi ricci gli solleticarono il volto.
Ofelia strinse le labbra quando Thorn la lasciò andare, ma non si allontanò dal suo viso. - Hai capito cosa intendo?
Thorn strinse gli occhi a fessura, solo un bagliore metallico infuocato filtrava da sotto le palpebre abbassate. - Capisco. Credo sia quello che ho pensato io ieri notte, ma avevo dato la colpa, anzi, il merito, al... lungo periodo di... lontananza. Se vogliamo chiamarlo così. Questa mattina però è stato lo stesso quindi la mia teoria è stata confutata. La causa è dunque da attribuirsi al parto?
Ofelia era paonazza. Thorn era scientifico e metodico persino quando analizzavano un amplesso fuori dal comune, robe da pazzi. Le veniva da ridere e sbuffare al tempo stesso.
- Forse sì, a questo punto. È come se mi fossi... ammorbidita.
Allontanò la testa di scatto dopo quell’ammissione, certa che Thorn avesse capito benissimo cosa intendeva dire. Era paonazza, mentre lui era calmo e padrone come sempre, sebbene i suoi occhi, di nuovo aperti, più del solito, anzi, non si perdessero la minima espressione.
- Ne convengo – ammise, come se stessero discutendo della stoffa del divano.
Ofelia annuì e fece per allontanarsi, desiderosa di fuggire da quella conversazione imbarazzante. Thorn non sembrava troppo felice del suo tentativo di allontanarsi. Attribuendone la causa alla sua scarsa loquacità, cercò di rimediare.
- Credo che il parto ti abbia... cambiata sotto certi aspetti. Sicuramente in meglio, comunque.
Ofelia si bloccò, ancora mezza seduta sotto di lui, nell’udire quelle parole. - Davvero?
Thorn, a disagio, increspò la fronte. - Non è forse quello che vado dicendo da prima?
- Sì, ma non in maniera così schietta.
Se avesse avuto meno controllo, avrebbe sbuffato.
- Ora va bene come ammissione? Sei soddisfatta?
Ofelia sorrise timidamente, prima di lasciargli un bacio tra i capelli. - Sì, ora possiamo archiviare il discorso.
- Ottima idea - mormorò lui, piombando sul materasso dopo che Ofelia si fu spostata.
Per prima cosa Ofelia infilò i guanti che nel corso della notte aveva più volte messo e tolto. Se si fossero danneggiati non sarebbe stato certo per la sua brutta abitudine di mordere le cuciture, per una volta. Poi camminò per la stanza raccogliendo gli indumenti sparsi e prendendone di puliti da indossare per la giornata, ma prima di tutto inforcò gli occhiali e si avvolse nella sciarpa, come per scusarsi di averla trascurata. Rischiò di incespicare nei suoi stessi piedi, ma in qualche modo riuscì a mantenere l’equilibrio.
Thorn seguiva i suoi movimenti con sguardo da rapace, senza muoversi minimamente, immobile e fisso come un monumento. Stranamente, per una volta Ofelia non si vergognava di avere il suo sguardo addosso. Che guardasse ciò che voleva, lei non aveva più nulla da nascondere ormai da tempo, e i loro affaccendamenti delle ultime ore le avevano chiarito una volta per tutte che a Thorn lei era tutt’altro che indifferente e sgradita.
Si chiuse in bagno, senza però girare la chiave, e quando sentì che l’acqua della doccia era calda abbastanza si abbandonò al getto vaporoso, lavando via sudore, saliva, ansia, tristezza, dubbi. Dopo pochi secondi le sembrava già di indossare una nuova pelle, pulita e arrossata, che qua e là era stata colpevolmente marchiata da Thorn. Ofelia era sicura di non aver mai conosciuto un uomo più possessivo di lui, e la cosa la lusingava. Non si considerava certo una bellezza, anzi, eppure a Thorn… non dispiaceva. Eccome, se non gli dispiaceva.
Si stava insaponando quando lui si insinuò sotto l’acqua con lei, senza proferire parola. Si sciacquò in fretta e cominciò a sfregarsi la pelle come lei, cospargendosi di sapone. Ofelia era interdetta e, premuta contro il muro nello spazio angusto, cercava in tutti i modi di non mettere un piede in fallo.
Si aspettava almeno una spiegazione da Thorn, anche se lui non sembrava intenzionato a fornirgliene alcuna. Adocchiando fugacemente uno dei ricordi che aveva lasciato sul corpo della moglie, pensò bene di donargliene un altro sulla spalla, in silenzio, senza permessi o preavvisi.
Poi uscì dalla doccia così com’era entrato.
Ofelia lo seguì poco dopo, perplessa, e si infilò in fretta un accappatoio e un turbante per asciugare i capelli. Si affacciò in camera e lo vide in piedi, stagliato contro la luce della mattina, a sistemarsi i gemelli e indossare la giacca.
- Rischio di fare tardi al lavoro – disse con il solito tono da intendente.
Era tornato quello di sempre, non era cambiato proprio nulla. Ofelia si sentì sollevata: era quello l’uomo di cui, faticosamente e dopo lungo tempo, si era innamorata completamente.
- Ci vediamo a cena?
Thorn annuì e afferrò la borsa, posata simmetricamente accanto alla porta d’entrata. Con una mano sulla maniglia, però, esitò. Si grattò la gola, si pettinò i capelli rigorosamente ordinati e afferrò l’orologio da taschino, aprendolo e chiudendolo così velocemente che Ofelia dubitò che avesse fatto in tempo a leggere l’ora.
- Grazie – bofonchiò infine, prima di varcare la soglia senza nemmeno guardarla, allungando il sicuro e imperterrito passo lungo il corridoio.
Ofelia faticò a trattenere un sorriso. Tipico di Thorn, quello di parlare per enigmi, lasciando che fossero gli altri a concludere il pensiero per lui. Era parco di parole, odiava parlare di cose superflue e non necessarie, e una spiegazione a quel “grazie” sarebbe stato un affronto al suo modo di agire. Grazie per cosa?
Grazie per tutto, per ogni singolo istante, per questa notte, quelle che ci sono state e quelle a venire, per il tuo amore e la tua collera, per il solo fatto che mi stai a fianco.
La zia Roseline varcò la porta quasi senza bussare.
- Bontà divina, è pieno di uomini qui fuori, cosa fai mezza nuda con l’uscio spalancato? Hai perso completamente il senso del decoro? Aspetta, non vestirti, Serena ha fame. Sa essere chiara quando vuole qualcosa, addirittura dispotica. Mi ricorda un po’ tuo nipote Tom, cara, la fortuna non voglia! Sarebbe proprio una disdetta.
Ofelia prese la piccola e scostò l’accappatoio per allattarla.
La giornata passò in un lampo e Ofelia, a cena, accanto a Thorn, non avrebbe saputo dire di cosa avesse parlato, con chi, cosa avesse fatto o perché la sua sciarpa fosse così irrequieta alla vista di Salame. A momenti non si era nemmeno accorta degli agguati che il gatto le tendeva, e come risultato la sciarpa aveva un diavolo per maglia e la stritolava come un boa.
Riacquistò coscienza di sé solo quando, stanchissima, si addormentò tra le braccia di Thorn, stretta a lui, a casa. Da parte sua, lui percepì nel profondo che in nessun altro luogo sarebbe stato così accettato com’era lì, nel suo letto, con sua moglie e sua figlia a pochi passi di distanza.
In mezzo alla famiglia che lo amava.
 
La visita degli Animisti passò al tempo stesso velocemente e lentamente in modo straziante. La zia Roseline era felice di rivedere tutti, eppure non vedeva l’ora che se andassero e spesso passava le notti da Berenilde in cerca di pace, il che era tutto dire. Le cose evidenti erano due: Renard era il nuovo cugino acquisito di tutti, e Tom era definitivamente e perdutamente cotto di Vittoria. Avevano del resto poca differenza d’età, Vittoria con i suoi cinque anni era già sveglia e intelligente al di sopra della norma, mentre Tom con i suoi sei si faceva già sottomettere come uno zerbino dalle richieste imperiose dell’amata. Un po’ come Charles, il suo papà, e il nonno, il papà di Agata e Ofelia.
Le tre gemelle, Eleonora, Beatrice e Domitilla diventarono amicone delle sorelle di Archibald, a causa di una sua malaugurata incursione al castello di Thorn per “porgere i suoi omaggi diplomatici ad un’intera nobile casta di Animisti”, parole sue. Gli Animisti in questione capirono gran poco della “nobile casta”, però Archibald piacque a tutti, soprattutto alle signore, e Ofelia sbuffò insieme alla zia quando scoprì che nessuno, ma proprio nessuno, era immune al suo fascino. Padrona di casa esclusa, ovviamente. Speravano solo che l’ambasciatore non seducesse e alzasse le gonne di una delle zie o cugine: quello sì sarebbe stato problematico.
Ofelia trascorse più tempo che poté con il prozio e ogni tanto anche col padre, da cui aveva preso più di quanto entrambi fossero in grado di ammettere: i silenzi impacciati, la capacità di parlare con gli occhi, il sentirsi leggermente a disagio in qualsiasi ambiente. Su una cosa, però, differivano: la forza di volontà di Ofelia era impareggiabile, in confronto a quella sbiadita ed esausta del padre. Non gliene faceva una colpa: chiunque si sarebbe visto costretto a cedere su tutto con una moglie come Sophie.
Il prozio le parlò del museo, degli archivi, degli alberi genealogici aggiornati e in cambio Ofelia gli spiegò come funzionassero economia, politica e gerarchie al Polo. Il prozio ci mise parecchio a capire quella cosa delle classi sociali, del fatto che al Polo non fossero tutti parenti, tutti uguali, e che alcuni addirittura non avessero poteri. Anche dopo aver afferrato i concetti base, Ofelia non credeva che avesse capito nel profondo le implicazioni di quelle rivelazioni. Renard gliene parlò nello specifico un pomeriggio, mentre sorseggiavano il tè solo loro tre, anzi, loro quattro: Serena stava in braccio al prozio come se fosse il nonno, e quella vista intenerì tanto Ofelia quanto il vecchio un po’ scorbutico. Quando Renard gli raccontò della sua infanzia, del suo lavoro da valletto a Chiardiluna, degli orari di lavoro improponibili e dello schiavismo, il prozio iniziò ad imprecare ed agitarsi così tanto che Ofelia dovette riprendere Serena e allontanarla da lui. L’ometto passò il resto della giornata con Renard, impegnati in un’accesa e accorata discussione, e Ofelia giurò di aver visto il fumo uscire da orecchie e naso del prozio come un vecchio bollitore.
Alcune sere dopo Thorn rimase all’entrata del salotto, in piedi e immobile, per trentatre minuti esatti prima che Ofelia e il prozio notassero la sua presenza. Dopo aver dato la buonanotte al suo padrino e aver raggiunto la camera da letto, Thorn chiuse la porta e la squadrò. Ofelia non seppe interpretare il suo sguardo, che pure gli sembrava… incuriosito, forse?
- Vai davvero molto d’accordo con il tuo prozio – asserì semplicemente lui, spogliandosi per andare a letto.
Lo sguardo di Ofelia si ammorbidì: - Sì, nutro davvero un grande affetto per lui. Devo quasi tutto quello che sono oggi a lui, è stata una presenza ben radicata nella mia infanzia e adolescenza.
Thorn le si avvicinò e la baciò senza preavviso, sollevandola e prendendosela in braccio a tradimento. La sciarpa si avvolse attorno al collo di entrambi, legandoli in modo bizzarro, mentre dalla culla veniva il sommesso borbottare di Serena, ancora sveglia ma placida, tranquilla. Cominciavano entrambi a credere che il suo carattere rispecchiasse appieno il suo nome. Thorn continuò a baciarla senza motivo o intenzione di fermarsi.
- Devo ringraziare lui allora, per ciò che sei?
Ofelia pensò che fossero tra le più belle parole che il marito le avesse mai rivolto, e riprese a baciarlo con foga. – Ringrazia me come si deve, a lui penserò io – riuscì a dire.
Thorn obbedì generosamente.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Ok, ok non è lungo, ma sono puntuale no? La verità è che è da TROPPO tempo che non scrivo il seguito quindi le pagine già pronte a disposizione diminuiscono sempre di più e mi viene l'ansia al pensiero di non avere più capitoli pronti. Cielo, che ansia, davvero. Mi sento la zia Roseline per non so quale motivo...
Comunque, spero vi piaccia questo Thorn alle prese con gli Animisti. Povero. Lo compatisco.
Grazie mille a tutti e... BUON 1 LUGLIO. Dovremmo ribattezzarlo la Festa delle Pubblicazioni.
Del quarto libro.
Sto male.


Capitolo 15

Alcune sere dopo Hector, invece, raggiunse Thorn nel suo studio. Era una delle giornate in cui si era portato il lavoro da casa. Entrò senza invito e si mise ad osservare la miriade di libri ordinatamente riposti sugli scaffali, per nulla turbato dallo sguardo gelido del cognato.
- Perché avete tutti questi libri di algebra, finanza, legge, fisica, calcoli combinatori applicati e… ma che roba è? La teoria delle probabilità inverse?
Thorn era rigido come uno spaventapasseri, il braccio sospeso sopra il foglio e l’altra mano a tenere il segno su un tomo grosso quanto un dizionario. Le probabilità inverse lo fecero pensare ad Ofelia, ma solo per un attimo fugace. Come faceva ad interagire con un bambino?
Tecnicamente era poco lusinghiero definire Hector bambino, dato che era poco più grande di Ofelia quando l’aveva rapita da Anima. Ormai era un uomo fatto e finito, anche se l’indole rimaneva quella ingenua e pacata di un adolescente curioso. Decise di rispondergli, se non altro per questo.
- Sono le materie in cui mi sono specializzato.
- Perché?
Thorn aggrottò la fronte. – In che senso ‘perché’?
- Perché vi siete specializzato in queste materie? A cosa servono?
Nessuno gli aveva mai posto una domanda simile.
- Servono per espletare le mie funzioni da intendente.
Hector si rese conto che i “perché” erano troppo riduttivi in quella situazione. Oltretutto, essendo cresciuto aveva perfezionato il vocabolario di formule interrogative.
- Cosa vuol dire?
Thorn era seriamente in difficoltà. – Cosa vuol dire cosa?
- Espletare le funzioni da intendente.
Thorn si pentì di aver risposto alla prima domanda. –Vuol dire… che sono competenze necessarie per fare il mio lavoro. L’intendente sarebbe il ministro delle finanze. Non so come funzioni sulla vostra Arca.
- Non ne ho idea. Vado a chiederlo a mio padre. O forse al prozio, lui lo sa di sicuro.
Hector e i suoi capelli a caschetto si allontanarono, permettendo a Thorn, seppur un po’ sbigottito, di riprendere da dove si era interrotto.
Poco dopo arrivò la zia Roseline, che si mise su un divano a sferruzzare, brontolando qualcosa riguardo alla confusione di quel circo di matti. Thorn si chiese se avesse almeno notato la sua presenza, ma decise che non sarebbe stato lui a rendergliela nota. Quanto meno la zia rimaneva in silenzio e tranquilla, a parte qualche scoppio di borbottii irritati.
La pace durò molto poco. Hector tornò con il prozio al seguito e altri due uomini che Thorn non aveva ancora capito se fossero cugini o fratelli e di chi lo fossero.
- Perché qui vi chiamate intendente? Su Anima chi fa il vostro lavoro è il contabile – esordì Hector, calmo nonostante la domanda prepotente.
Thorn si sistemò l’impeccabile colletto della camicia, posando la penna e giungendo le mani sul tavolo come faceva sempre con i funzionari di comprendonio duro. – Io sono a capo dei contabili, se così la si può mettere, ma non sono un contabile. Mi devo destreggiare anche con la legislatura e diverse altre nozioni che non rientrano nella sfera d’azione di un contabile.
- Te l’ho detto, Hector, che non poteva essere un contabile – bofonchiò il prozio. – Hai la testa di tua madre, è dura ficcarci dentro qualcosa. Non è nemmeno un ministro delle finanze, è qualcosa di più. Su Anima c’era una figura simile alla sua che però è stata sostituita cinquantaquattro anni fa, mese più mese meno.
Quell’uomo dai baffi a manubrio sapeva il fatto suo, Thorn glielo doveva riconoscere.
- Perché? – continuò Hector.
Quella che ne seguì fu una tediosa discussione su cariche e poteri politici, cui presero parte anche i due uomini, che si scoprirono essere fratelli tra di loro, figli del fratello della mamma di Ofelia e Hector. I loro cugini insomma. Due, dei loro cugini. Uno era abbastanza tonto, l’altro invece era versato in quegli argomenti, ma quando sembrava che finalmente la discussione fosse chiusa Hector se ne saltava con qualche altro “perché” o “cosa vuol dire”. Quando se ne andarono erano passati cinquantacinque minuti, ne mancavano dieci alla cena.
La conversazione in sé non gli era dispiaciuta, erano argomenti che masticava perfettamente e Thorn aveva potuto parlarne per la prima volta con qualcuno di competente; non quanto lui, ma di sicuro non ignorante in materia. Peccato che gli avessero fatto perdere tutto quel tempo.
La soglia di tolleranza nei confronti di Hector invece era sempre al minimo. Il ragazzo assorbiva come una spugna, ma non dava un contributo specifico, e non esibiva nemmeno le conoscenze eclettiche che già possedeva. Decise comunque di portare pazienza.
Quando si trovò ancora a dover lavorare da casa, Hector si ripresentò, bersagliandolo di domande sul perché avesse sposato Ofelia.
A quelle domande non aveva alcuna intenzione di rispondere. Rammentandogli quella volta che si erano incontrati al circo, raccattò le sue cose e se ne andò in camera. Avrebbe lavorato da lì.
Hector non si offese, aveva capito: nemmeno Thorn stesso sapeva perché avesse dovuto sposare sua sorella.
 
Sophie invece importunava i padroni di casa, in particolare Thorn. Si profondeva in consigli non richiesti e si impossessava di Serena non appena il padre la teneva in braccio, di ritorno da lavoro, come se non avesse avuto la possibilità di trascorrere l’intero giorno con la nipote.
- Suvvia, caro genero, voi l’avrete per tutta la vita, noi abitiamo talmente lontano che un giorno dopo la partenza la mia nipotina sarà già cresciuta e il mio ricordo di lei sbiadirà.
Ofelia, a giudicare dallo sguardo fisso e gelido del marito, sapeva che se Thorn avesse ereditato il suo animismo non si sarebbe trattenuto dall’armare coltelli e oggetti contundenti, che si sarebbero sentiti minacciati quanto lui dall’intrusione della suocera.
All’inizio era stata abbastanza distaccata con Thorn, memore di tutti i brutti tiri che aveva giocato alla famiglia, in particolare alla sua “adorabile e svampita figlia bisognosa delle attenzioni materne”, parole sue: aveva rotto il contratto matrimoniale, rifiutandosi di sposare Ofelia, che lo aveva poi costretto a celebrare il rito con la forza; aveva addotto al numero dei suoi possedimenti per ingraziarseli, neanche la sua “cara bambina” fosse un capo di bestiame; non si faceva mai prendere dall’estati di fronte a discorsi importanti come il luogo di soggiorno delle successive vacanze, i pettegolezzi sugli ultimi matrimoni, i nomi impronunciabili dei figli del nipote del cugino di un vecchio zio, totalmente ridicoli, o le sontuose cene che consumavano ogni sera; e non sorrideva.
Quello, soprattutto, era un affronto.
- Ofelia, dimmi una cosa – esordì una sera, a voce bassa, ma non abbastanza bassa da non essere sentita da Thorn,
Erano in soggiorno, e il cicaleccio che aleggiava nella grande stanza avrebbe dovuto fare due cose: coprire le chiacchiere altrui così che nessuno sentisse i discorsi degli altri, ad esempio Thorn, e spingere proprio quest’ultimo a imboccare la porta e dileguarsi, infastidito dal disordine poco simmetrico. Invece non aveva fatto nessuna delle due cose, perché Thorn era ancora lì e udiva le parole della suocera. Che aveva bevuto un po’ troppo. Dannato dolce innaffiato di rum.
- Sì, mamma? – chiese lei, con quella voce piccola e sottile che Thorn ricordava dai loro primi incontri. Era come se la presenza di Sophie soffocasse Ofelia, comprese le sue corde vocali.
- Ma tuo marito ha mai sorriso?
Ofelia cercò di controllare la sua espressione, imparando un po’ da Thorn, ma non ci riuscì. Provò ad essere impassibile, ma le scappava da ridere. E da piangere.
- Sì.
Poche volte, molto poche, a dire il vero. Giusto un paio.
- Oh. E come hai fatto? Ha uno sguardo così severo che se volesse potrebbe ferire con gli occhi.
La madre non era molto lontana dalla verità, ma gli artigli non avevano nulla a che fare con le sue occhiate affilate. Era una capacità mentale, anzi, del sistema nervoso, non oculare.
- Ehm… - mormorò Ofelia, pensando precipitosamente alle circostanze in cui Thorn aveva sorriso.
Le venne in mente solo la prima, anni addietro, quando avevano da poco assistito alla morte di madre Ildegarda. Anzi, al suicidio. Thorn l’aveva guardata sorridendo prima che lei svenisse, dicendole che sarebbe bastato togliere lei dall’equazione, anche se non ricordava di preciso le parole o la motivazione. Il passo successivo era stato l’annullamento del matrimonio.
- La matematica – mormorò. – Gli piacciono le equazioni.
Sophie rimase interdetta, che tradotto significa che rimase immobile, con le mani teatralmente posate sulla bocca aperta, gli occhi spalancati. Ofelia sperò che non si lasciasse cadere platealmente sul divano, fingendo di essersi sentita male alla notizia. Chi sorrideva per la matematica?
- Quindi è un difetto congenito, una patologia, non uno stato d’animo.
- Come? – chiese Ofelia, sorpresa a sua volta.
- Non è che sia sempre imbronciato perché gli stiamo antipatici o perché è insoddisfatto. Ha quella malattia che aveva anche il cugino acquisito di tua zia, come si chiamava?, la zia del prozio a dire il vero, Esculapia.
Ofelia non la seguiva più. Arrischiò uno sguardo verso Thorn, poco distante da loro, immobile come uno spaventapasseri. Sembrava intento a sfogliare un libro di finanza, da solo in poltrona, ma con la coda dell’occhio non perdeva di vista lei e la madre.
- Madre, Thorn non ha una malattia.
- Ma Esculapia, vedi, lei aveva una caratteristica simile. Un raro… difetto, ecco. Insomma, lei piangeva solo ai funerali. Anche Thorn sorride solo con la matematica, no? Le cose devono essere interconnesse. Credo anche che la patologia di tuo marito, però, sia più grave. Insomma, si parla di sorridere di fronte a problemi di matematica. Non è una cosa normale, è proprio fuori dal comune. La matematica! A chi serve?
Ofelia cercò di non sgranare troppo gli occhi, così come di non guardare Thorn. La situazione le stava sfuggendo di mano.
- Credo sia del tutto normale piangere ai funerali, mamma – disse, alzando un pochino la voce per imprimerle più forza.
Sophie scosse la testa con forza, muovendo tutto il corpo. Ofelia cercò aiuto in suo padre che però era lontano e per nulla intenzionato ad intervenire. Non stava origliando, ma a giudicare dall’occhiata spaventata che lanciò ad Ofelia, intuiva che sua madre stesse per farne una delle sue.
- Non si può piangere solo ai funerali! È come dire che si può ridere solo ai matrimoni! Non è realistico! Non è vero, buon Renard?
Il consigliere, che chiacchierava animatamente con due cugini del prozio o del padre, Ofelia non ricordava, aveva avuto uno sfortunato tempismo nel passare accanto a loro.
Si fermò sorridendo, illuminando il viso rosso come i capelli e la barba incolta con un lampo di denti bianchi, e strizzò l’occhio ad Ofelia. – Come dice, signora madre della mia padrona?
Ofelia voleva scappare.
- Non crede che sia del tutto fuori luogo piangere solo ai funerali e ridere solo ai matrimoni?
Renard non perse il sorriso. Ofelia lo vide entrare automaticamente in modalità valletto, abituato da anni di esperienza alle eccentriche richieste di dame e nobili di corte.
- Assolutamente, molto fuori luogo. Concorderei con qualunque cosa uscisse dalla vostra bocca, incantevole madama dispensatrice di verità innegabili.
Ofelia cercò di guardarlo male, ma Renard rifuggiva il suo sguardo. Era bravo ad adulare quasi quanto Archibald. L’accento duro e marcato del Nord, però, in bocca sua sembrava più una simpatica cantilena che una rottura di iceberg, come invece accadeva con Thorn.
Lo vide allontanarsi dopo aver fiutato il pericolo, e si promise di conciarlo per le feste in seguito.
- Visto Ofelia? Il tuo amico è più saggio di te. Guarda e impara, non c’è persona che io non riesca a conquistare. Agata ha preso da me, sai?
Senza nemmeno la forza di protestare, Ofelia guardò la madre allontanarsi per raggiungere Thorn, che non cercò neanche di mascherare il fatto che avesse origliato l’intera conversazione. Sophie sembrò non accorgersene, ma se lo fece non glielo sbatté sotto il naso. Cosa c’era da rimproverare? Origliare era del tutto normale!
Ofelia si morsicò le cuciture del guanto mentre la sciarpa si agitava come quando Salame era nei paraggi, contagiata dall’irrequietezza della padrona.
Sophie si fermò proprio di fronte al genero. Ofelia era la più bassa della famiglia, persino le sue sorelle minori erano più alte di lei, ma di fronte a Thorn non la scampava nessuno. Sebbene fosse seduto sulla poltrona, Sophie lo sovrastava di molto poco.
- Allora, caro genero. La serata si concluderà in quattro e quattr’otto, che ne dite? Siamo tutti un po’ stanchi dopo la sfacchinata di ieri, faticosa come…
Fu a quel punto che Sophie si rese conto di non sapere quasi nulla di matematica.
- Faticosa come…? – la incalzò Thorn.
La cosa sorprese Ofelia. Il marito non si era mai sforzato di conversare con chicchessia, specialmente con sua madre. Il fatto che la spronasse a continuare il discorso era lodevole. O terrificante.
Sophie si impettì come un pavone, per nulla intimorita. La conquista con le chiacchiere era il suo campo. Spesso diventava uno sfinimento, più che una conquista, e con lei si cedeva per esasperazione, ma nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di ammetterlo apertamente.
- Faticosa come una di quelle equazioni impossibili il cui risultato è sempre incerto.
Thorn aggrottò leggermente le sopracciglia, ma non lasciò cadere il discorso. Non fece nulla di quello che Ofelia si aspettava. Negli occhi gli passò un lampo che lei non avrebbe saputo interpretare.
- Quali sono queste equazioni? Non mi sono mai imbattuto in risultati incerti.
Sophie non vacillò nemmeno. Aveva del coraggio, andava riconosciuto. O era incoscienza?
- Quelle, sapete, con le radici e le potenti, le frammentazioni e i… numeri con tante virgole.
Thorn chiuse il manuale che aveva cercato di leggere fino a poco prima. Ofelia sbirciò il titolo, assottigliando gli occhi per vedere meglio nonostante gli occhiali. Le sembrò che anche loro le dessero una mano, schiarendosi il più possibile.
La finanza minuziosa applicata alla politica nella regolamentazione delle tasse interarcali vol. II.
Il primo pensiero di Ofelia fu che, per essere immerso nella lettura del volume due, Thorn doveva aver per forza già finito il primo libro. Il secondo pensiero fu che solo leggendo il titolo le era venuto mal di testa. In quale ginepraio si stava cacciando la sua sprovveduta madre?
- Intendete dire radicali, potenze, frazioni e numeri decimali?
- Proprio così! Ah, lo sapevo che sotto il vostro imperterrito silenzio c’era una persona in grado di comprendermi al volo! Siamo sulla stessa lunghezza d’onda caro Thorn, come due radio sintonizzate sulla medesima frequenza, o due orologi che segnano la stessa ora con precisione. Non trovate?
Thorn non si scompose minimamente. – Immagino di sì, anche se tutti gli orologi dovrebbero segnare l’ora con precisione.
- Difatti, sarebbe un tale scempio il contrario! Credo che vi trovereste molto a vostro agio alla nostra Festa dei Rintocchi.
Thorn lanciò ad Ofelia un’occhiata rapidissima, che però lei non riuscì ad interpretare.
- Non dubito della vostra parola. Ora, se volete scusarmi, vado a finire la mia lettura, mi è fondamentale per alcune questioni di lavoro.
Congedatosi in questo modo, Thorn si alzò, sovrastando la suocera.
- Certo, quando il dovere chiama non ci si può certo tirare indietro! Devo rivalutarvi Thorn, siete un uomo... ehm... senz’altro, siete senz’altro un uomo, sì. E masticate questioni matematiche, su questo non ho nulla da eccepire.
Udendo quelle parole Thorn si bloccò con il tomo in mano. Di nuovo, lanciò una rapidissima occhiata ad Ofelia e poi... un angolo della sua bocca si sollevò lentamente e impercettibilmente, per poche frazioni di secondo.
Ofelia spalancò gli occhi, mentre la madre quasi non lo notò. Sulla scia di Thorn, che uscì dalla stanza, si riavvicinò alla figlia.
- Visto, figliola? Il tuo caro marito è rimasto abbagliato dalla mia cultura algebratica!
Ofelia fu tentata di correggerla, ma desistette. Con la madre era solo fiato sprecato.
- Ad essere del tutto onesti, in ogni caso, non credo che lo capirò mai, però lui mi adora. Come potrebbe essere altrimenti? Vado a narrare a Renard la mia vittoria, quel tuo amico è proprio un burlone. E anche lui mi adora, ovviamente!
La madre se ne andò in tanti fruscii di gonna vaporosa, lasciando Ofelia impalata e completamente presa alla sprovvista. Thorn aveva davvero... sorriso a sua madre?
Come in trance, recuperò Serena dalle braccia di qualche parente e si chiuse in camera, cullandola e trascorrendo un po’ di tempo in pace con lei. Era nata da pochi giorni e già le veniva tolta come se lei non fosse la sua legittima proprietaria. Almeno finché non fosse cresciuta, ovvio. Aveva odiato per tutti i suoi anni di vita sentirsi una proprietà altrui: prima della madre, in balia delle sue assurde decisioni, e poi data in sposa ad uno sconosciuto da cui avrebbe dovuto dipendere.
Thorn entrò diverso tempo dopo, proprio quando Ofelia era finalmente riuscita a far addormentare la piccola.
- Dorme? - chiese lui, sbottonandosi la camicia.
Ofelia aveva impiegato del tempo per capire che il gesto di aprirsi quell’indumento rigido, scomodo e quasi piccolo per la sua stazza era un vero e proprio rituale per Thorn. Significava che era pronto per rilassarsi. Ossia, faceva sparire le crepe sulla fronte e l’arcata sopraccigliare riassumeva la sua legittima posizione.
- Sì, credo che passare di braccia in braccia la stanchi. Tu, piuttosto...
Thorn si fermò sulla porta del bagno, con la camicia aperta e lo sguardo torvo. Non più e non meno del solito, comunque.
- Sì?
- Tu hai... intrattenuto una conversazione con mia madre?
Il cipiglio ricomparve. - Lei ha intrattenuto una conversazione con me, oserei precisare.
- Hai capito cosa intendo. Non le avevi mai parlato se non per... non lo so, beccarti con lei, esprimere decisioni sul mio conto o... Thorn, tu non hai mai sprecato tempo a parlare con chi non ti sta nemmeno simpatico! O non brilla per intelletto!
- Non sei molto indulgente con tua madre – ebbe il coraggio di farle notare lui. - Non è una donna spinta da intenzioni malevole, ha solo poco chiara la lista delle priorità. Di matematica è già tanto se ma maneggia le addizioni, a quanto ho visto, ed è un po’ frivola. Tende a mettersi in ridicolo, ma nessuno glielo fa mai notare. È un potere familiare anche questo?
Ofelia sgranò gli occhi. - Io sarei poco indulgente con mia madre? Hai appena detto che è ridicola!
- Ho detto che tende a mettersi in ridicolo.
Odiava quando si metteva a puntualizzare in quel modo. Era proprio arrogante certe volte.
- In ogni caso le hai sorriso! Non negarlo, ho visto quel leggero movimento all’angolo delle tue labbra!
La sciarpa si agitò convulsamente, stringendo una delle due code, come se si stesse preparando per una lotta imminente.
Thorn non confermò né smentì, rimase impalato sulla porta del bagno come se facesse parte integrante dello stipite.
- Credo che questo in parte risponda alla tua domanda.
Ofelia era confusa. Fece fatica a trovare le parole per chiedergli: - Quale domanda?
- Se sono almeno in grado di sorridere.
Per una volta fu lei ad aggrottare le sopracciglia. - Quando ti ho rivolto una simile domanda?
- Al circo di Sabbie d’Opale, il primo agosto, ad Asgard. Ci saremmo dovuti sposare il tre e ci siamo trovati al circo. Tu eri con tuo fratello minore e il tuo consigliere. Mi hai invitato per il pranzo e mi hai chiesto se ero almeno in...
- Va bene, ho capito – lo interruppe lei.
A volte, anzi, spesso la sua portentosa Memoria era una spina nel fianco. Non si rendeva conto che riesumare conversazioni vecchie di anni non era propriamente un fatto comune? Riflettendo sulla cosa, però, la situazione le provocò un’immensa ondata di... tenerezza.
Thorn si era ricordato una conversazione vecchissima, colpa del dono di famiglia, certo, ma se l’era ricordata, e aveva deciso di rispondere con un’azione concreta. Aveva dato retta alla madre, per un po’, e alle sue ciance senza capo né coda nonostante dovesse lavorare. Era stato interrotto mentre leggeva e... aveva addirittura tentato di sorridere.
In un attimo si ritrovò Thorn di fronte, chinato per essere allo stesso livello del suo volto. Era talmente fulmineo nelle azioni che Ofelia si chiedeva come facesse a muovere così in fretta il lungo corpo.
- Ho risposto alla tua domanda. Spero tu non ti aspetti che io lo faccia ancora, né che mi metta a conversare amenamente con tua madre ogni giorno. Temo di non riuscire a farlo.
Ofelia quasi sospirò di sollievo. Quello era il Thorn che conosceva, che non si piegava di fronte a nulla e rimaneva fedele a se stesso. L’idea che si mettesse a “conversare amenamente” con sua madre ogni giorno era talmente incongrua con la sua immagine da essere impensabile. E non voleva nemmeno che sorridesse, sebbene quello di poco prima fosse l’ombra sbiadita di un sorriso minuscolo e poco convinto.
Lei non aveva sposato quel tipo di uomo. Aveva sposato quello che le stava di fronte.
- Non me lo aspetto e non te lo chiederò.
Soddisfatto dalla risposta, Thorn si chiuse in bagno. Quando riemerse, Ofelia lo stava già aspettando a letto, mezza addormentata. Dal modo in cui Thorn la strinse a sé quando si coricò, capì che era stremato anche lui.
Prima di scivolare nel sonno, però, Ofelia si tolse l’ultimo sassolino dalla scarpa. - Come hai fatto a reggere per così tanto tempo un dialogo? Non è da te.
Il silenzio di Thorn le fece dubitare che fosse ancora sveglio. Quando stava per chiamarlo, però, ottenne risposta.
- La sua ignoranza era... divertente. Tragicamente irritante, in parte l’ho considerata un insulto alla conoscenza e al buon senso, ma a piccole dosi, anzi, minime, è stata divertente.
Ofelia avrebbe dovuto sentirsi offesa per quei giudizi sulla madre, freddi e calcolatori, completamente privi di affetto o clemenza.
Invece sorrise nel buio. Thorn che considerava divertente qualcosa era una novità assoluta.
In futuro non avrebbe più temuto un’interazione tra sua madre e Thorn. Non vedeva l’ora che se ne presentasse un’altra.
 
Il momento della partenza fu pieno di lacrime sul versante femminile, risate sul fronte maschile, grazie a Renard, e commenti fuori luogo da parte di Archibald, che non aveva voluto perdersi la visita dei suoi nuovi amici, come aveva ribattezzato tutto il gruppo di Animisti.
Tom trovò il coraggio di dare un bacetto sulla guancia a Vittoria, che in risposta si pulì la gota con aria un pochino schifata, Agata fece le feste a Berenilde, non la figlia ma la madama, e le strappò la promessa di andare a farle visita su Anima appena possibile.
- Siete una di famiglia ormai, elegantissima madama – le fece notare Agata, entusiastica.
Il sorriso che Ofelia vide di sfuggita sul viso di Berenilde era uno dei più sinceri che avesse mai visto fare alla zia di Thorn.
Ofelia abbracciò a lungo il prozio, almeno finché la madre non la reclamò e la seppellì sotto un mare di stoffa, morbida carne, raccomandazioni e consigli, come se non gliene avesse dati abbastanza nelle settimane precedenti. Il padre le restituì Serena e, imbarazzato, la strinse in un goffo abbraccio facendosi promettere che si sarebbe riguardata. Alla fine convennero, tutti quanti, che sarebbe stato meglio per gli abitanti del Polo far visita ai parenti su Anima che non il contrario, dato il numero di persone che dovevano spostarsi. Erano tutti d’accordo e Ofelia sorrise all’idea che Thorn avrebbe a stento nascosto il sollievo di fronte a quel nuovo proposito. La convivenza aveva messo a dura prova i suoi nervi, Ofelia lo aveva percepito sul suo corpo ogni volta che lo aiutava a sfogarsi. Ovvero spesso, davvero molto spesso. Sperò di non arrossire a quel pensiero.
Alla fine le carrozze partirono e Ofelia si ritrovò con Archibald, Berenilde, Vittoria, la zia Roseline e Renard, sorridente per il suo successo.
- Credo di piacere molto alla vostra famiglia, padrona. È davvero una bella sensazione, devo ammetterlo, mi sono sentito così utile e apprezzato! – ammise quest’ultimo dopo la partenza, raggiante. Più che un caminetto, con quella luce gioiosa negli occhi pareva un fuocherello scoppiettante.
- Anche io! – si aggiunse Archibald, giulivo, del tutto fuori luogo. – Sicuramente più di quanto sia piaciuto il vostro caro marito, signora Thorn. L’intendente ha dato ancora una volta prova di avere delle ottime capacità relazionali.
Archibald sghignazzò spudoratamente, mentre la zia Roseline gli dava ragione bofonchiando. Ofelia non gli prestò attenzione. La permanenza di quelle decine di Animisti non era andata male quanto si era aspettata, e Thorn aveva più o meno ammesso la stessa cosa la sera prima. A grandi linee, a dire il vero. E il suo non era di certo stato uno sprone affinché tornassero. Sì, sarebbe stato proprio felice di non vederli per un bel po’.
E lei? Ofelia era sia triste che sollevata. Serena le stava in braccio comoda, fissandola con i grandi occhi specchio dei suoi. In quell’ultimo mese i capelli le erano cresciuti, rivelandosi effettivamente di un biondo pallido come quelli di Thorn. La carnagione chiara e le sopracciglia quasi bianche facevano sembrare neri quegli occhioni, ma non meno buoni e vispi.
I suoi parenti le sarebbero mancati, specialmente Hector, che era quasi in età da moglie, e le sue sorelle, che già la sorpassavano in altezza e stavano pian piano imparando a conoscere il mondo e a ritagliarsi un posto in esso. Però sentiva come di non essere più una di loro. Per tutta la vita aveva desiderato non appartenere a nessuno se non a se stessa, sfuggire dall’oppressione di un destino già segnato come moglie di qualche cugino e madre di una nidiata di pargoli. Guardando al passato, vagliando il suo percorso, si rese conto che non gli era sfuggita del tutto. Però non avrebbe cambiato nulla di tutto quello che aveva.
Lei apparteneva a Thorn, e a Serena. In quale Arca fossero, con chi, non aveva importanza, finché fossero stati loro tre insieme.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Ed ecco un capitolo super dolcioso per farmi perdonare del ritardooo! Ormai non mi scuso nemmeno più. Diciamo che il ritardo è il mio dono di famiglia, sono una discendente di... non so... Morfeo, lo spirito di famiglia dei dormiglioni perditempo. Anche se mi sa che Morfeo è davvero uno spirito di famiglia... mmm... poi controllo.
In ogni caso, spero come sempre che vi piaccia il capitolo, e buona lettura.


Capitolo 16

La sera, in camera, Thorn accolse la decisione presa di comune accordo dagli Animisti con più gioia del solito: gli brillarono gli occhi e la fronte si rilassò.
- Vedremo se sarà davvero così – commentò dopo un po’, togliendo Serena dalle braccia di Ofelia e sedendosi a letto a leggere i giornali.
La bambina sembrava interessata quanto a lui a quei pezzi di carta, e Ofelia ebbe uno strano presentimento. Visti di spalle, padre e figlia avevano gli stessi capelli, e lei non poté che provare un moto di orgoglio per la scena che vedeva di fronte a sé: suo marito e sua figlia, insieme. Era felice. Salì sul letto e si avvicinò alla schiena di Thorn, poggiando una guancia su di essa.
- In che senso? – chiese.
- Le testate giornalistiche di domani parlano tutte della dipartita dei tuoi parenti. Pare che si siano fatti conoscere.
- Come sarebbe a dire che i giornali parlano di loro?
Sorpresa, Ofelia si scostò e si alzò sulle ginocchia per sbirciare oltre la spalla di Thorn. In effetti i titoli che riusciva a leggere avevano gran poco a che fare con il Polo.
Animisti in partenza: liberazione o perdita?
Salutiamo gli Animisti: si calmeranno anche gli oggetti, ora che se sono andati?
Angolo notizie tristi: gli Animisti tornano a casa, auguriamo loro buon viaggio e un futuro ritorno!
Leggendo velocemente, Ofelia scoprì che Eleonora, Beatrice e Domitilla avevano incantato qualche ragazzetto del Polo, e venivano descritte come le tre Sorelle Fatali. Il prozio era quasi venuto alle mani con un bibliotecario “incompetente”, come citava il trafiletto, e in risposta al malumore dell’uomo tutte le sedie della biblioteca si erano ribellate, impedendo a chiunque di sedersi. Agata aveva saccheggiato i negozi di abbigliamento, donando vita a quasi tutti i manichini, e Sophie aveva stretto amicizia con tutti i proprietari delle pasticcerie della zona.
- Perbacco – bofonchiò Ofelia, - Renard non li ha di certo tenuti nell’ombra.
Thorn ripiegò i giornali e li impilò simmetricamente e minuziosamente sul comodino, in modo che ogni lato e angolo combaciassero. Il tutto con Serena placida in braccio, che agitava le manine e dava degli innocui schiaffi al lungo braccio del papà. Stava anche sbavando come una lumaca, facendo le bolle con la bocca, ma Thorn non sembrava farci molto caso. L’immagine di un uomo così meticoloso in ogni aspetto della propria vita che non si turbava di fronte ai pasticci di una neonata era così incongrua che Ofelia non poté non sorridere.
- Direi di no. Si sono ambientati talmente bene che pensavo non sarebbero più tornati a casa.
Ofelia gli prese Serena dalle braccia per metterla nella culla, sperando che si addormentasse presto: lei era esausta.
- Non capisco questa idiosincrasia nei confronti della mia famiglia – borbottò mentre muoveva la culla per fare assopire la piccola.
Thorn aggrottò la fronte. – Non è idiosincrasia, è divergenza di culture. Inoltre, mi bastano due Animiste in casa. Con una trentina di parenti il mobilio mi ha più volte colpito con cassetti e ante, le forchette hanno rischiato di infilzarmi un dito, i tappeti se ne andavano a zonzo e le tende si arrotolavano e stropicciavano. Una casa fuori controllo non è ciò che io definisco normalità, avrei dovuto far varare delle leggi in proposito se si fossero trattenuti oltre.
Ofelia si immaginò Thorn che presentava delle bozze legislative relative a battaglie di cuscini non autorizzate, lenzuola fuggitive e rubinetti indisciplinati. Decisamente, trenta Animisti per Thorn erano proprio troppi.
Serena si addormentò poco dopo, e Ofelia contò di avere circa cinque ore di sonno prima di essere svegliata dai suoi borbottii affamati. Quando però alzò lo sguardo, salendo sul letto, si rese conto che Thorn la fissava con i tipici occhi da predatore affamato che non aveva nemmeno a tavola, di fronte ad un succulento piatto di carne.
Si sforzò più del solito per animare le lenzuola, che seguendo i suoi desideri si allontanarono da Thorn, lasciandolo scoperto. La sciarpa era già nella culla con Serena, e si affrettò ad appallottolarsi. Ofelia si tolse i guanti con facilità, per una volta, e Thorn la guardò con aria imperturbabile, come se ad avvicinarglisi fosse Archibald. Forse non proprio Archibald… con lui il suo sguardo sarebbe stato decisamente più astioso. Ofelia gli posò le mani sul petto e lo spinse giù, in modo da torreggiare su di lui. Gli bloccò le mani, che stavano già risalendo le sue cosce per toglierle di dosso la camicia da notte.
- Guarda – gli sussurrò.
Strinse gli occhi dietro le lenti, concentrandosi al massimo, e si rilassò solo quando la veste si sbottonò da sola e la lasciò scoperta, sopra di lui. Thorn non dimostrava il suo stupore, ma i suoi occhi luccicavano, le mani ancora posate sui suoi fianchi la strinsero con più forza.
- Pensi ancora che il nostro animismo sia un fastidio?
Thorn deglutì. Si stava già concentrando su altro, quel discorso poteva decisamente essere rimandato.
- Non trovo che sia un fastidio, sarebbe come dire che gli artigli sono un fastidio. Anche se lo sono, in questo caso, sono un dono di famiglia. Bisogna ammettere che in certe circostanze, in determinati ambiti, tutto può diventare… irritante. Non è il caso di paragonare i dispetti dell’arredamento ai vestiti che si tolgono da soli.
Ofelia aveva già perso la voglia di stuzzicarlo, impegnata com’era a bearsi delle sue mani, per una volta calde, sulla pelle.
- Tutto può essere vantaggioso, se usato in modo proprio – aggiunse Thorn, in difficoltà.
Ofelia voleva parlare o voleva fare altro? Le lenzuola gli si attorcigliarono alle caviglie mentre lui cercava di pensare. Sicuramente un vantaggio dell’animismo era che gli oggetti parlavano al posto del proprio padrone: che fosse felice, triste, innervosita o tranquilla, il mobilio avvertiva sempre Thorn dell’aria che tirava in casa, dell’umore di Ofelia.
Le lenzuola, in quel caso, erano più che eloquenti.
- L’uso che io faccio del mio animismo è proprio, signor intendente? Lo utilizzo in modo consono?
Thorn non sapeva cosa fosse successo ad Ofelia, in quel periodo. Più disinibita e lasciva del solito, più appagata e contenta… se la paragonava alla fidanzata che era stata nei primi mesi di conoscenza, scelta a forza e per caso dalla zia Berenilde, rischiava di non riconoscerla nemmeno, tanto era cambiato il suo atteggiamento nei suoi confronti. Ma di sicuro la cosa non gli dispiaceva.
Si mise a sedere repentinamente, infilandole una mano tra i capelli mentre l’altra la tirava ancora di più verso di sé. Non era uno di quelli che perdeva tempo a giocare, a girare intorno alle cose, a sedurre o provocare. Quindi non le rispose, non era bravo con le parole, ma la baciò, ponendo fine al discorso.
Se Ofelia gli avesse rivolto la domanda una seconda volta, un po’ di tempo dopo, Thorn le avrebbe risposto che aveva fatto ottimo uso del suo dono di famiglia.
Proprio un ottimo uso.
 
Cominciarono le coliche per Serena, una bella notte pacifica e senza problemi.
La piccola cominciò a piangere a dirotto poco dopo che i suoi genitori si erano messi a dormire, urlando più del solito, letteralmente agonizzando. La zia Roseline, Berenilde, persino la levatrice l’avevano avvisata che sarebbero arrivate, e che avrebbe dovuto portare molta, molta pazienza, perché non c’era un modo comprovato per fargliele passare, e non si sapeva nemmeno quanto sarebbero durate.
Ofelia capì immediatamente che il pianto di Serena non era quello classico che indicava che la piccola aveva fame. No, era proprio un pianto di dolore. Si alzò dal letto e inforcò gli occhiali, accarezzando prima la sciarpa che sua figlia: agitandosi come un’anguilla la sua fedele compagna di lana non faceva che innervosire ancora di più la bambina. Mentre la tirava su dalla culla, la sciarpa si avvolse al corpo di Serena, cercando anch’essa di calmarla.
Thorn le fissava immobile, nel letto, ma si mise seduto quando si rese conto che Ofelia non la allattava.
Aggrottò le sopracciglia. – Non le dai da mangiare?
Ofelia scosse il capo. – Non ha bisogno di mangiare, credo abbia le coliche.
Thorn non sopportava di non sapere le cose. Lui era l’intendente del Polo, il funzionario più qualificato e in assoluto il più competente in una decina di materie diverse.
Cosa diavolo erano le coliche?
Ofelia gli lanciò un’occhiata attraverso gli occhiali, nella penombra della camera, e gli rispose senza che lui dovesse formulare la domanda. La sua perplessità era palese.
- Le coliche sono dei dolori addominali che colpiscono i neonati nei primi mesi di vita – spiegò Ofelia a bassa voce, per non disturbare la bambina. D’un tratto le sembrò che i ruoli suo e di Thorn si fossero invertiti. Era lui, di solito, quello che elargiva spiegazioni scientifiche. – Non si sa con precisione la causa scatenante, né quanto durino, è una cosa soggettiva. In ogni caso, il bambino ha male.
- Non si possono calmare in qualche modo, questi dolori?
- Di solito si tenta di far rilassare il piccolo, magari cullandolo e sussurrandogli qualcosa, massaggiandolo di tanto in tanto.
Thorn rimase in silenzio ad osservare la scena: Ofelia passeggiava lentamente per la stanza, ondeggiando con Serena e mormorandole suoni sommessi all’orecchio. Sarebbe stata un’immagine bellissima, quella di sua moglie che reggeva un piccolo fagottino biondo con amore, se non fosse stato per le urla parossistiche di Serena, che si dimenava come se volesse prendere a calci l’aria.
- Posso fare qualcosa? – chiese Thorn dopo un po’, quando si rese conto che gli strepiti della piccola non accennavano a scemare.
- No, al massimo potresti fare quello che faccio io, ma l’ho sto appunto già facendo. Non riesci a riaddormentarti?
Thorn non rispose, rimase immobile. Dopo venti minuti stava per alzarsi per dare quanto meno il cambio ad Ofelia, ma lei lo trattenne.
- Non serve che ti alzi, davvero. Posso occuparmene io, tu cerca di dormire che domani devi lavorare. Posso cambiare stanza, se vuoi.
- Non è necessario.
Thorn si passò una mano tra i capelli. L’ultima cosa che voleva era cacciare moglie e figlia dalla stanza.
Serena si calmò dopo altri quindici minuti, iniziando a mugolare piano finché il pianto non si spense del tutto. Ofelia la rimise nella culla, la sciarpa si svolse e le tenne compagnia, accarezzandola piano sulle gambe, continuando a rassicurarla. Aveva sviluppato un vero e proprio affetto protettivo per quella piccola creatura, impregnata com’era dell’amore stesso di Ofelia per la figlia.
Thorn la aspettò prima di sdraiarsi con lei, ma non prese sonno subito, al contrario della moglie. Rimase a vegliarla come lei aveva vegliato Serena, ammirandola per le sue capacità. Non aveva avuto una vera madre, che si prendesse cura di lui come si conveniva, e non sapeva nemmeno se tutte le madri fossero come Ofelia. Se tutte facessero ciò che faceva lei. In ogni caso, gli sembrava che lei fosse davvero portata per quel ruolo, che sapesse il fatto suo e fosse capace di muoversi con scioltezza.
Quando stava con Serena irradiava una forza di portata maggiore dei suoi stessi artigli da Drago, e la sua goffaggine spariva come un sogno appena svegliati.
 
La notte successiva non ci furono problemi, anche se Ofelia dormì un sonno inquieto, destandosi ad ogni minimo gemito o mugolio di Serena. Le due notti successive invece gli strepiti si protrassero per mezz’ora. Ofelia, solerte, non mostrava il minimo segno di fastidio o stanchezza, mentre Thorn le osservava in silenzio, sentendosi impotente e inutile come poche volte gli era capitato. Lui era un risolvitore di problemi, un contabile, faceva quadrare ogni singolo conto, riportava ogni virgola nei verbali, niente sfuggiva al suo controllo. Quella situazione, quelle coliche, erano un affronto personale. Voleva trovare un rimedio, non solo per permettere ad Ofelia di dormire e a Serena di non soffrire, ma anche, in minima parte, per curare il suo ego offeso.
Quando accadde la quinta volta, Thorn non indugiò. Si alzò dal letto per primo, trattenendo Ofelia e incoraggiandola a rimanere giù. Prese Serena dalla culla, avvolta come sempre nella sciarpa che le faceva quasi da pigiama, e iniziò a mormorarle “sh… sh…”.
Di blaterare stupidaggini con la vocina stridula non se ne parlava, quei suoni erano l’unica cosa che gli fosse venuta in mente. Anche Ofelia lo faceva, spesso, e lui cercava di imitarla al meglio. Voleva dare il suo contributo, dimostrare alle sue donne che anche lui poteva essere adoperato in quelle mansioni. Che sapeva fare il padre.
Thorn, più che cullare la bambina, ondeggiava piano, copiando Ofelia come poteva. Sapeva che Serena spesso si addormentava e tranquillizzava, quando iniziava a lamentarsi, nel momento in cui lui le parlava con voce sommessa di nozioni matematiche, o delle pratiche che stava trattando all’intendenza. Cadeva quasi in catalessi, ma continuava ad osservarlo con gli occhi vivaci, incuriositi, attenti. Era rapita da quei racconti emozionanti: funzioni, parabole, determinazione delle condizioni di esistenza, oppure gli articoli del codice civile, le leggi sulla regolamentazione dell’agricoltura, i metodi per la verifica della veridicità delle informazioni. Però Thorn si vergognava a parlare di quelle cose davanti ad Ofelia.
A dire il vero, nemmeno lui sapeva interpretare bene ciò che provava. Non era vergogna, quanto… gelosia. Era geloso di quei momenti, che appartenevano solo a lui e a Serena. Gli sembrava, in quegli attimi, che la piccola lo comprendesse meglio di chiunque altro al mondo. Come se parlandole le potesse trasmettere molto più di qualche insegnamento trigonometrico o economico. Era uno scambio di memorie in piena regole, anche se era troppo presto per dire quale fosse il dono familiare ereditato dalla piccola. O i doni. Ed eventualmente se la Memoria rientrava tra essi.
Dopo alcuni minuti di “sh…” sommessi e ondeggiamenti discutibili, fu Ofelia a proporglielo.
- Perché non le parli? Di solito si calma, quando lo fai. Credo che sentire rimbombare la tua voce la calmi, un po’ come quando era dentro la pancia. Doveva sentirli così, attutiti e cavernosi, i rumori.
Thorn aggrottò le sopracciglia, incerto se considerare quell’invito come un complimento. Però decise di fare un tentativo, sentendosi sciocco per aver provato gelosia per quel momento. Serena stava male, era suo dovere provvedere affinché si rimettesse. Non era una contesa genitoriale per la propria figlia.
Cominciò a parlare a voce talmente bassa che Ofelia non distinse una parola. Però, come aveva immaginato, la voce di Thorn le giungeva sommessa e quasi rilassante. Quando bisbigliava le sue erre scricchiolanti e incrinate perdevano la consueta durezza, diventando quasi melodiose, sibilanti. Cullata da quella nenia, rischiava lei stessa di addormentarsi.
Dopo poco il pianto di Serena perse di intensità, le grida diventarono un piagnucolio lamentoso, ma quanto meno il tono di voce si era abbassato. Thorn cercò di cambiarle posizione senza peggiorare la situazione, e alla fine riuscì a sistemarla come voleva: distesa supina contro il suo braccio. La piccola aveva la testa appoggiata sul palmo del papà, come un cuscino naturale, il piccolo collo sul suo polso, il corpo adagiato sull’avambraccio, e le gambe e le braccia, agitate da piccoli spasmi, che pendevano verso il basso. Thorn meditò sul fatto che, se Serena aveva dolori addominali, metterla a pancia in giù contro qualcosa di caldo doveva essere la soluzione ottimale. Continuò lo stesso a mormorarle leggi e calcoli, talvolta anche vecchi ricordi, muovendosi di tanto in tanto, ma era chiaro che ormai il peggio era passato.
Serena impiegò dieci minuti in meno rispetto al solito per addormentarsi. Ofelia si svegliò di soprassalto quando sentì Thorn passarle accanto per rimettere la piccola, beata, nella culla. Si era persa tutto.
 - Cosa… come hai fatto? – biascicò, mezza addormentata, quando Thorn si risistemò accanto a lei.
- Come hai fatto tu – le rispose lui, passandole una mano sul fianco.
La paura di non essere in grado di calmarla, anzi, di fare urlare Serena ancora di più lo aveva stremato, e il giorno successivo lo attendeva una di quelle orribili e inutili assemblee legislative zeppe di corruzione, bustarelle e stupidaggini burocratiche senza capo né coda.
- Io non ci metto così poco a farle calmare.
- Forse con me si annoia di più.
Sorpresa, Ofelia non ribatté. Era una battuta? Da parte di Thorn? Poco dopo lui si era già riaddormentato, sfiancato, lasciandola sola, al buio, a chiedersi se il suo fosse stato un vero e sincero tentativo di umorismo. In ogni caso, era riuscito a strapparle un sorriso.
Forse, semplicemente, Serena lo ammirava già più di quanto ammirasse lei. Invece che riempirla di amarezza, Ofelia si crogiolò in quella fantasia. Avrebbe tanto voluto che Serena aiutasse Thorn a guarire del tutto da quel pozzo di solitudine in cui ogni tanto, nonostante il tempo passato con lei, precipitava.
Forse, l’amore incondizionato e puro di una figlia era proprio quello che gli mancava per riuscire finalmente a considerarsi un uomo amabile, pieno di ottime caratteristiche. Buono. E bravo.
 
Qualche notte dopo Thorn era sopra di lei, le impediva di vedere, le impediva di sentire. La circondava, trascinandola dentro quella bolla fatta di pelle e respiri condivisi.
I loro fiati corti e i gemiti sommessi riempivano l’aria della stanza, immersa nel buio della notte. L’unica cosa di cui si rammaricava Ofelia era proprio la mancanza di luce, che le precludeva la vista di Thorn torreggiante su di lei, i suoi occhi vigili e pieni di vita. Amava guardarlo quando facevano l’amore, si sentiva privilegiata ad essere l’unica a cui fosse concesso vederlo in quei momenti. Un lato unico e nascosto che apparteneva solo a lei. Così come le sue cicatrici, che quasi conosceva meglio di lui.
Gli artigliò la schiena proprio in prossimità di due dei tagli più grossi che si erano rimarginati anni prima, cercando di non fare troppo rumore per non svegliare Serena e insieme far capire a Thorn quanto lo amava e desiderava. Aveva avuto una settimana pesante al lavoro, tanto che non era tornato a casa per cena per quattro sere di fila. Ofelia lo aveva sempre aspettato da sveglia, certa che sarebbe arrivato, anche solo per stare a casa e dormire accanto a lei tre o quattro ore. Non si era più azzardato a chiudersi all’Intendenza dopo che lei, incinta, era andata a prenderlo per sgridarlo.
Quella sera, in particolare, Ofelia aveva capito che Thorn aveva bisogno di un po’ di conforto nonostante l’enorme stanchezza, aveva bisogno di ricordare che lei c’era, che era lì per lui, che lo sosteneva. Aveva compreso che anche per Thorn era una necessità quando lui non aveva protestato: aveva preso il comando nel momento stesso in cui lei gli si era avvicinata nel buio.
 Per quanto si fossero trattenuti, Serena cominciò a piangere di dolore proprio nel momento in cui finirono. Thorn si risollevò da lei in un attimo, con il cuore ancora a mille e il respiro erratico, lasciandola al freddo, più nuda e sola che mai.
Si vestì in fretta, più velocemente di quanto Ofelia avrebbe mai potuto fare, e si affrettò a prendere in braccio Serena. Come ogni notte, quasi, si apprestò a consolarla e calmarla, con il volto nascosto nel buio. Ad Ofelia pareva però di riuscire ad intravedere il lampo metallico degli occhi sotto le palpebre mezze chiuse, unica luce nell’oscurità.
- Thorn, dalla a me – lo pregò, cercando di alzarsi e rimettersi i guanti senza toccare nulla. – Tra poco devi tornare al lavoro, lascia che sia io a occuparmi di lei per una volta.
Era stato irremovibile, da quando Serena aveva cominciato con le coliche. Ofelia si occupava di lei sempre, lui poteva espletare le sue mansioni da padre solo di notte, e non si voleva tirare indietro di fronte alle incombenze. Ofelia aveva provato a fargli capire che occuparsi di un bambino non era “un’incombenza” e che poteva “espletare le sue mansioni” anche senza alzarsi ogni notte per farla smettere di piangere, ma Thorn non aveva voluto sentire ragioni.
- Con me si calma prima – mormorò, secco.
Sembrava più una minaccia di morte che una constatazione; Ofelia non aveva voglia di discutere.
Un secondo dopo, anche se gli occhi di Ofelia vedevano gran poco, le sue orecchie udirono chiaramente Thorn annusare.
- La cambio – annunciò allora, inflessibile.
Dai suoi movimenti Ofelia intuì che si era diretto verso il fasciatoio, mettendosi a cambiarla addirittura al buio. Quello era troppo. Thorn non era decisamente un tipo paziente, e Ofelia voleva evitare che si innervosisse con Serena: piangeva, doveva essere cambiata, e sgambettava impazzita. Qualunque genitore avrebbe alzato gli occhi al cielo e sbuffato, specialmente se era in piena notte, interrotto durante un momento romantico, esausto e con poche ore di sonno a disposizione prima di recarsi nuovamente al lavoro.
- Resta lì, non serve che tu venga.
Le parole di Thorn la bloccarono sul posto, con un guanto ancora non infilato. Aveva sentito che stava per alzarsi, e l’aveva preceduta: poteva cavarsela da solo. Ofelia, però, non si sentiva tranquilla. Avrebbe quanto meno voluto accendere la luce per vedere l’espressione sul viso di Thorn, interpretarne l’umore.
- Tieni – disse poco dopo, nell’ombra, con la voce cavernosa sommessa, le sillabe scricchiolanti ed estremamente tuonanti nel silenzio della notte. Strepiti di Serena a parte.
Ofelia non capì cosa Thorn le avesse appoggiato sul letto, ma stupidamente si protese per afferrarla, con la mano senza guanto.
- Il pigiama è macchiato, me ne serve uno pulito…
Le parole di Thorn furono spazzate via nell’istante in cui Ofelia lesse il pigiama di Serena. Entrò immediatamente nella mente del marito, in procinto di cambiare la piccola. Tra il turbine di pensieri che gli attraversava il cervello, uno sopra tutti spiccava: il senso di urgenza. Thorn voleva cambiarla in fretta per poi poterla cullare e calmare. Sentì le proprie mani, che però erano quelle grandi e ossute di lui, muoversi sul pannolone con precisione e metodo, per nulla schifato, solo… accorato. Premuroso. Il tempo per Ofelia era dilatato, e i sentimenti che percepiva con così tanta lentezza erano in realtà stati recepiti da lei in meno di una frazione di secondo.
Gli attimi si riavvolsero, ed ecco Thorn che cullava Serena nell’ombra, intimando alla moglie, a lei, Ofelia, di starsene a letto. Impotenza, un senso di impotenza la pervase, facendole stringere i denti. Voleva calmare la figlia, voleva che smettesse non di piangere, ma di provare dolore, e voleva essere lui il fautore della sua serenità. Non era in competizione con lei, con Ofelia, voleva solo sentirsi utile e dimostrare a se stesso che poteva farcela, che poteva fare del bene a quella piccola creatura. Percepiva il calore del suo corpicino fragile contro il braccio, il piccolo cuore battere contro la sua pelle, e desiderava così tanto che si rilassasse, che stesse bene. Aveva bisogno che Serena si calmasse per poter tornare a respirare, a stare bene lui stesso.
Il tempo si riavvolse ancora, elastico, in pochi istanti, ed ecco lei stessa, o Thorn, o lei tramite lui, che prendeva in braccio Serena, la sottraeva alla culla. Ofelia fu investita in pieno dalla vorticosità delle emozioni di Thorn. Era ancora su di giri per quello che aveva appena concluso con la moglie, appagato, eppure vagamente insoddisfatto: avrebbe voluto stare ancora un po’ sopra di lei, dentro di lei, attorno a lei, ovunque ci fosse lei, almeno il tempo di recuperare il fiato. Eppure non era disturbato dagli strepiti di Serena, sebbene li avesse interrotti. Non era innervosito, nonostante fosse così stanco che Ofelia sentì un logoramento indicibile piombarle addosso e farle venire un sonno assoluto e non ignorabile. Thorn era esausto, era stato strappato dal calore delle lenzuola, dal corpo della moglie, ma quando aveva preso in braccio Serena queste sensazioni erano passate in secondo piano. Ofelia fu di nuovo investita da un sentimento che spiccava su tutti gli altri, così intenso da farla vacillare: amore, amore nella sua forma più pura. Più ancora dell’amore che Thorn provava per lei, del suo desiderio di tornare a letto, da lei, si ergeva l’affetto viscerale per Serena, che stava male, e che lui voleva far stare meglio.
Quando l’aveva presa in braccio, ogni pensiero superfluo nella mente di Thorn, e ce n’erano parecchi, era stato spazzato via. C’era solo attenzione per la figlia, il bisogno che lei stesse bene, che non piangesse più, e non perché lo infastidivano le sue urla.
Ancora più indietro, Ofelia percepì altre emozioni, di altre persone, come quelle della zia Roseline che aveva cambiato Serena quella mattina, togliendole il pigiama, o della domestica che aveva lavato l’indumento, ma i loro pensieri e le loro sensazioni erano così sbiaditi in confronto alla violenza e alla forza di quelli di Thorn che Ofelia non li percepì quasi, nonostante avesse ancora in mano il pezzo di stoffa.
Alla fine riuscì ad aprire le dita, e il capogiro che provò la costrinse ad appoggiarsi al materasso, fortunatamente, questa volta, con la mano inguantata.
Non riusciva a mettere a fuoco la sagoma alta di Thorn, che stava rivestendo Serena, né gli strilli leggermente meno acuti della piccola, che stava già cominciando a calmarsi. Guardò senza vedere Thorn che sistemava tutto e prendeva di nuovo in braccio Serena, parlandole a bassa voce e accarezzandole la schiena. Era stordita, più ancora di quando aveva letto la lettera che era stata inviata dalla sua famiglia al Polo, il primo oggetto che avesse letto che Thorn stesso aveva toccato; la prima volta che aveva letto lui, attraverso quella carta, scoprendo che sotto la superficie di perfetto controllo si agitavano pensieri febbrili e rapidi come anguille, quasi inafferrabili, ed emozioni che ribollivano come geyser pronti a schizzare.
Si era rifiutata di leggere persino l’orologio da taschino di Thorn, all’epoca, quando lui glielo aveva affidato come pegno di fiducia. Lo conosceva meglio di chiunque altro, ma grazie ai discorsi che avevano fatto, ai pensieri che avevano condiviso e alle attenzioni che gli aveva rivolto. Non lo aveva mai voluto leggere. Non avrebbe mai voluto farlo.
Ma era così immensamente grata per aver toccato sbadatamente il pigiama di Serena che si commosse.
Non aveva mai avuto bisogno di leggere Thorn per capirlo, però si rese conto in quel momento di aver avuto la necessità di capire i sentimenti che provava per Serena. Thorn era meraviglioso.
Si asciugò in fretta una lacrima, prima che lui la vedesse, e si sentì estremamente nuda lì, sola, sul letto, senza la sciarpa che era rimasta nella culla, senza Thorn che stava tranquillizzando Serena.
Quel “con me si calma prima” che le aveva detto pochi minuti addietro non significava “con me smette di piangere prima così non disturba più”, quanto “con me smette di avere male prima, così non soffre più, e può tornare a riposare placidamente”. Con Thorn c’era un intero mondo dietro poche e semplici parole, Ofelia avrebbe dovuto ricordarlo. Fu certa che non se ne sarebbe più dimenticata.
Si sentì leggermente in colpa per aver violato la mente di Thorn, la sua intimità, la sua sfera emotiva, ma era così felice di ciò che aveva scoperto! Era completamente, incondizionatamente innamorato di sua figlia, al punto che tutto passava in secondo piano quando si trattava di lei: i suoi stessi bisogni, le sue priorità, i suoi desideri. Ogni cosa era finalizzata alla buona salute di Serena. E questo perché, come Ofelia aveva ben potuto leggere poco prima, nella vita nessuno aveva mai messo Thorn al primo posto. Non aveva mai avuto nemmeno dei veri genitori.
In ogni gesto che compiva c’era la volontà di scongiurare la stessa sorte per la figlia. Thorn voleva che fosse amata, protetta, e voleva amarla e proteggerla, perché non sapesse mai cosa significava crescere senza affetto e persone fidate di cui circondarsi. Quella devozione e quello struggimento li aveva provati solo per Ofelia prima di allora, e ora si trovava a doverli provare per due persone: lei e la figlia.
Ofelia cercò di respirare profondamente per calmarsi, ancora scossa dalla lettura: non aveva mai percepito tanto chiaramente la mentalità di qualcuno con un contatto così blando e fulmineo. Aveva scoperto un sacco di cose su Thorn, ma non erano che la sommità di un iceberg gigantesco immerso nell’acqua gelida. C’era così tanto che si agitava e vorticava sotto il pelo dell’oceano, che affiorava poco a poco, e che forse Ofelia non avrebbe mai potuto carpire del tutto.
In ogni caso, quello che Thorn pensava era chiaro, così com’erano chiare le sue priorità: Ofelia e Serena. Lui non era nemmeno contemplato. Non voleva che Serena soffrisse, non voleva che Ofelia si stressasse, voleva il meglio per entrambe. Ofelia si sentì terribilmente ingiusta ripensando a tutte le volte in cui lo aveva definito o solo considerato egoista. Thorn era la persona più buona e abnegante che conoscesse, bastava dargli la possibilità di dimostrarlo. Con un contatto di una frazione di secondi aveva capito che impedire a Thorn di fare era una tortura, per lui. Non gli avrebbe più precluso di fare ciò che lui sentiva di voler fare, come consolare Serena la notte o cambiarla. Era un bravo padre.
Poco più tardi Serena si calmò del tutto e Thorn si avvicinò alla culla per rimetterla a dormire. Ofelia rimase ad osservare la cura con cui il marito trattava la piccola, attento ad ogni gesto, come se fosse fatta di fragile e delicata porcellana. Lei, in confronto, sembrava un elefante, sempre sul punto di cadere o sbattere da qualche parte.
Quando Thorn si rimise a letto, Ofelia non aveva bisogno di leggere nulla per capire che era davvero, davvero stremato, al limite. Le occhiaie nere che gli circondavano gli occhi erano più scure delle ombre della notte, visibili persino al buio.
Ofelia gli baciò una delle tante cicatrici che gli solcavano il petto e lo abbracciò, stringendosi a lui. Thorn non disse nulla, non chiese nulla, rimase fermo e rigido contro di lei. Le passò un braccio sulla schiena, e quando Ofelia sentì il suo corpo che si rilassava comprese che si era finalmente addormentato. Chiuse gli occhi anche lei, cullata dal battito del suo cuore e dal respiro sommesso e regolare di Serena, pensando che erano i suoni più belli che avesse mai udito.
Si sentì fortunata, accarezzata da una buona sorte sfacciata e immeritata che non aveva mai nemmeno visto da lontano in vita sua. Si augurò che durasse il più a lungo possibile, perché Thorn provava gli stessi sentimenti, e lui più di tutti aveva bisogno di amore e fortuna.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Ho due cose da dire: il capitolo è un po' sporcaccione (ma lascia spazio alla fantasia, non sono proprio una che entra nei dettagli, bleah) e dal prossimo si inizia a vedere la crescita di Serena passo passo.
Devo anche comunicarvi che dopo questo ho finito i capitoli di scorta quindi comincerò ad essere in ritardo anche qui ç.ç Scusatemi. Però la storia sarà ancora lungaaaa perché, insomma, sta povera bambina dovrà pur crescere no? E cosa diventerà da grande? E che poteri avrà? *-* E Renard e Gaela si sposeranno? Spero che abbiate la voglia e la pazienza di continuare a leggere♥
Grazie di tutto e buona lettura.


Capitolo 17

Serena era un angelo. La bambina ideale, un po’ come lo era stata Vittoria a suo tempo. Non si lamentava, dormiva tutta la notte, non faceva i capricci. Semplicemente, se ne stava assorta tutto il tempo, in contemplazione del mondo, osservando ciò che la circondava, giocando con la cuginetta che la intratteneva sempre, divertendosi un mondo. Le sue uniche dimostrazioni di nervosismo erano i pugni che ogni tanto si stringevano, e le gambe tozze e cicciottine che scalciavano l’aria irrequiete, ma nemmeno troppo spesso.
Una sera a cena con la zia Roseline e Berenilde, che era totalmente innamorata della pro-nipote, ma un po’ meno entusiasta di essere già prozia, Ofelia diede voce alle sue preoccupazioni.
- Credete sia normale che Serena sia… così tranquilla?
Thorn smise immediatamente di sorbire la zuppa, inchiodando i suoi occhi da sparviero alla figlia e poi alla moglie, che fece di tutto per non guardarlo.
La zia Roseline fece schioccare la lingua, per poi mostrare i denti cavallini in un sorriso tirato. – Ogni bambino è diverso, cara nipote. Tu eri così silenziosa che più volte tua madre è stata costretta a mollarti uno scapaccione per farti agitare un pochino e verificare che fossi cosciente.
Ofelia non batté ciglio di fronte a quella confessione, ma strinse di più Serena al petto, in un gesto protettivo, come ad impedire a chicchessia di picchiare sua figlia. Erano seduti a tavola, con la piccola in braccio suo, in silenzio, ferma. L’unica azione che compiva era quella di girare la testa di qua e di là, osservando i presenti. Si soffermava spesso su Thorn. A quattro mesi era ormai in grado di riconoscere anche i volti, oltre che le voci, e i suoi occhi venivano sempre calamitati dal papà.
Quest’ultimo sembrò pensarla allo stesso medo, e lanciò un’occhiata in tralice alla zia Roseline e alla sua affermazione. Lei non ne fu minimamente turbata.
- Agata urlava e strepitava finché non otteneva ciò che voleva, è sempre stata così, abituata fin da piccola a farsi ascoltare e obbedire. Hector era abbastanza tranquillo, ma quando ha cominciato a parlare è diventato la più grande fonte di disturbo della quiete, non stava zitto un secondo. Quanto alle tre gemelle, loro facevano baccano che metà bastava. Se non erano occupate a litigare tra di loro, tirando giù i muri con le loro urla, si volevano talmente tanto bene da urlare lo stesso la loro gioia. Ah, quanta pazienza…
Ofelia, nonostante il terribile resoconto dell’infanzia dei suoi fratelli, quasi si commosse nel sentire tutto l’affetto che trapelava dal tono di voce della zia. Non sapeva se la mancanza di figli fosse dovuta a cause fisiche, se suo marito fosse morto troppo presto, o cosa le avesse impedito di averne, ma dubitava che non ne avesse voluti. Se la ricordava sempre presente durante la sua crescita, burbera e astiosa qualche volta, eppure capace di elargire una parola di conforto o un gesto gentile, talvolta andando contro alle sgridate della sorella, la loro mamma. Ancora una volta, Ofelia fu grata a quella donna che portava sempre lo chignon, riempito di forcine come un puntaspilli, per la sua preziosa presenza.
Thorn era leggermente meno contento, a giudicare dal solco tra le sopracciglia e dalla fissità da spaventapasseri. Ofelia sperò solo che il resoconto di quell’infanzia confusionaria non gli facesse passare la voglia di avere altri bambini. Non che lei ne avesse voglia, in quel momento, a dire il vero, ma in futuro…
Berenilde ridacchiò, in modo elegante. – Perché non avete mai assistito ad un’infanzia tra Draghi. Soprattutto quando gli artigli iniziavano a manifestarsi. Urla e strepiti ovunque, qualche volta anche sangue. I dispetti erano all’ordine del giorno, ma ci divertivamo così tanto!
Ofelia cercò di trattenere una smorfia di orrore di fronte a quell’immagine macabra, immaginandosi qualche mutilazione perpetrata da un bambino con il dono di famiglia fuori controllo. Thorn, che ci era sicuramente abituato, non batté ciglio, mentre la zia inorridì.
- Per tutte le pagine rotte, eravate dei piccoli selvaggi!
Berenilde ridacchiò ancora. – Ma no Roseline, selvaggi no di certo. Ci divertivamo, ecco tutto. Ma del resto, anche Vittoria è una bambina tranquillissima, al contrario di sua madre. Non ci vedo nulla di male nella tranquillità di Serena.
- Non l’abbiamo chiamata Serena proprio per questo motivo? – intervenne Thorn, del tutto disinteressato alla cena, facendo però scendere il silenzio a tavola.
Aveva sempre quella capacità innata di mettere tutti a… disagio.
- Be’, ci auguravamo che fosse serena, ma non… così serena!
Vittoria, di poche parole, sorrise accanto alle due cugine, Ofelia e Serena, e allungò una mano perché la piccola le afferrasse il dito. La neonata fu lesta ad afferrarglielo, regalandole anche un minuscolo sorriso, cosa che non sfuggì a nessuno.
- Vedete, cara Ofelia? – riprese Berenilde. – Serena sta benissimo, è solo tranquilla. Ringraziate che sia così, fidatevi di me! L’infanzia di un bambino può essere mooolto stancante per un genitore.
- A chi lo dite, madama! Avete ragione come sempre, i vostri commenti sono ineccepibili e così… pieni di saggia consapevolezza.
Archibald fece il suo ingresso come se fosse lui il padrone di casa. Thorn si irrigidì e assottigliò gli occhi, per nulla contento di quell’intrusione. Alle spalle dell’ambasciatore, Renard si agitava con uno sguardo terrorizzato in volto. Cercò di far capire ad Ofelia che non era colpa sua, aveva cercato di trattenerlo, ma Archibald non dava retta a nessuno, men che meno ad un uomo.
Si avvicinò a Berenilde e le fece il baciamano, facendo sorridere la madama, mentre diede uno spudoratissimo bacio sulla guancia alla zia Roseline, che arrossì come una ragazzina di fronte alla propria cotta e fece cadere saliere, pepiere, posate e bicchieri con il suo animismo, chiaro segno di come fosse in stato di shock. Archibad fece per avvicinarsi anche a Ofelia e Serena, ma uno sguardo più truce del solito di Thorn sembrò trattenerlo. O forse non fu solo lo sguardo…
- Ahi, ma che modi, signor intendente, mi avete pizzicato con troppa foga. Tenete a bada gli artigli, non sono una minaccia, volevo porgere i miei omaggi alla padrona di casa. La maternità vi ha giovato alquanto, cara signora Thorn, siete splendida, irradiate una luce vostra.
Ofelia, con i ricci scomposti che non sapeva più come legare e gli occhiali che scivolavano sempre sul naso, dubitava di essere tutto quel grande spettacolo. Non lo era mai stata, figuriamoci in quel momento, a cena, con la figlia in braccio che continuava a fare le bave e appiccicargliele al vestito.
- Il mio invito è sempre aperto, per voi, a qualsiasi ora del giorno e della notte, potrei farvi sentire ancora più meravigliosa, sapete?
Thorn si irrigidì di fronte a quello spudorato invito, mandando con un semplice sguardo un messaggio funesto: se si fosse avvicinato alla moglie, Archibald sarebbe finito molto, molto male. Ofelia fu sollevata al pensiero di non essere lei a ricevere un’occhiata talmente impregnata di odio. Non aveva mai avuto paura di Thorn, ma nessuno sapeva fare gli occhi cattivi quanto lui. Era un dono familiare tutto suo.
Archibald prese posto accanto alla zia Roseline, all’altro capo del tavolo rispetto ad Ofelia.
- Chi vi ha fatto entrare? – chiese Thorn, per nulla intenzionato a riprendere a mangiare.
Una cameriera sollecita, probabilmente già caduta vittima del fascino di Archibald, nonostante il cappello sbrindellato, la camicia fuori dai pantaloni e la giacca malamente rattoppata, portò all’ambasciatore un piatto fumante di zuppa, perché potesse mangiare con gli altri.
- Grazie dell’ospitalità, intendente, è stato un piacere per me aver risposto al vostro invito – rispose sarcasticamente. – Certo, se mi invitaste di più…
Ofelia guardò la porta d’entrata del soggiorno, dove Renard si agitava, incerto se entrare e confessare o darsela a gambe prima che Thorn rivolgesse a lui il suo sguardo omicida. Ofelia cercò di non sorridere di fronte alla sua espressione terrorizzata, e gli fece cenno col capo di andarsene finché era in tempo. Renard non si fece pregare e si dileguò, anche se Thorn la fissava con le sopracciglia aggrottate, consapevole che stava accadendo qualcosa.
- Archibald, potevate almeno avvertirmi! Vi avevo detto che avrei cenato da mio nipote, ma il mio non era un invito! – civettò Berenilde, divertita.
- Lieto di aver frainteso allora, cara madama!
La zia Roseline, incuneata tra i due nobili, era talmente a disagio che le posate e le suppellettili le si erano avvicinate come a proteggerla, lasciando un enorme quadrato di tovaglia completamente vuoto.
- Comunque, parlando di infanzia, argomento che stavate trattando al mio arrivo, vi sfido a crescere in una famiglia in cui non esiste privacy! Noi membri della rete condividiamo tutto, e quando due delle mie sorelle adorate litigavano, ahimé, non ce n’era per nessuno, partecipavamo tutti alla discussione e la pace era finita! E di sorelle non ne ho due, cari commensali.
Ofelia rabbrividì al solo pensiero. Così tante sorelle, che litigavano, e un collegamento diretto che faceva sembrare che l’alterco avvenisse proprio nella sua mente… non sarebbe stata in grado di tollerarlo. In più, Archibald non era collegato mentalmente solo alle sue sorelle, ma a tutti i membri della Rete. Le vennero in mente le due valchirie silenziose che all’epoca del suo soggiorno a Chiardiluna avevano vegliato su lei e Berenilde, e attraverso le quali Archibald le aveva addirittura spiate…
Al confronto la sua infanzia era un idillio, e ringraziò anche che Thorn non avesse simili doni di famiglia. Serena non sarebbe cresciuta in una gabbia di matti, per loro fortuna, ma con la presenza di Berenilde non si poteva mai dire.
- Non vi dico quanti imbarazzi con i primi bollori adolescenziali e tante sorelle pure e ingenue da preservare. Ah, la gioventù.
In seguito a quel commento poco consono di Archibald, lui fu l’unico a parlare per il resto della cena, appoggiato da qualche commento non esattamente brioso di Berenilde. Nonostante la risposta eufemisticamente tiepida ai suoi sproloqui, Archibald non fu affatto turbato, e tenne banco senza lamentarsi. Anzi, sembrò divertirsi un mondo. Dal canto suo, Thorn digrignava i denti talmente forte che Ofelia temeva che gli si spezzassero tutti.
Fortunatamente Vittoria salvò la situazione quando, giunti al dessert, si diresse con la sua fetta di torta da Archibald e si fece prendere in braccio, reclamando la sua attenzione. La bambina aveva un debole per il padrino, e sembrava essere l’unica capace di tollerarlo sul serio.
Quando si ritirarono nel salotto per una grappa, un caffè, un tè o un biscotto, nel caso di Vittoria, Ofelia ne approfittò per sgattaiolare in camera con Serena. Thorn era talmente teso che sentiva quasi i suoi artigli pungerle la pelle, e non riusciva più a reggere la tensione. La zia Roseline sembrava in procinto di scoppiare, anche se lei stessa non ne aveva capito bene il motivo.
Renard la intercettò di fronte alla porta della camera.
- Scusatemi, scusatemi, scusatemi, mille volte scusatemi, l’ambasciatore mi aveva detto di essere stato invitato personalmente!
Con il corpo atletico accartocciato e ingobbito, le folte sopracciglia rosse abbassate per la tristezza e le mani nei capelli, Renard aveva un po’ l’aria da pazzo. Però era sincero, e Ofelia non era arrabbiata con lui.
- Non preoccupatevi, Renold, non è successo nulla. L’ambasciatore avrebbe trovato il modo di invitarsi a cena anche se voi non l’aveste portato da noi.
Renard parve rilassarsi, ma non era ancora del tutto tranquillo. Allungò le braccia per prendere Serena, che allungò le sue in risposta. La bambina non accettava volentieri di essere tenuta da tutti, però Renard era l’eccezione. Gli tirava i capelli ogni volta che poteva, o gli schiacciava il naso a patata, divertendosi un mondo ed esibendosi in sorrisi tutti gengive. Il padrino le stava proprio simpatico, più ancora della madrina, a cui tirava spesso i capelli ricci, facendola bestemmiare come un… un meccanico, appunto. In quel caso rideva, ma Ofelia aveva il terrore che la prima parola che avrebbe detto fosse una parolaccia. Sarebbe stato un bel problema.
- Andiamo a fare un giro, signorina bella e di nobile portamento? – chiese Renard, con voce melliflua.
Era nato per intrattenere le persone, che fossero uomini o donne, vecchi o giovani, aveva un talento naturale. Serena non era immune al suo fascino, del tutto diverso da quello di Archibald, meno provocante e più gioviale. Renard sapeva trasformarsi in ciò di cui avevi bisogno, che fosse una guida turistica, un consigliere, un segretario o un amico. Anche un baby-sitter, quando serviva. Era la terza persona che interagiva più spesso con Serena, subito dopo Ofelia e Thorn, più ancora della zia Roseline, di Berenilde o di Vittoria. Scherzosamente si era definito il nuovo consigliere infantile, visto che passava le giornate con Ofelia e Serena, ben poco a lavorare a distanza per lo studio di lettura e molto, invece, a giocare con la piccola.
Serena batté silenziosamente le mani sulle guance di Renard in quello che poteva essere interpretato come un consenso. L’omone ammiccò ad Ofelia.
- Ve la riporterò ad un’ora decente e baderò che non faccia amicizia con ragazzi poco raccomandabili, mia padrona. Rispetteremo il coprifuoco.
Ofelia non riuscì a trattenere un sorriso vedendoli allontanarsi, con Renard che saltellava felice. Sperava proprio che lui e Gaela si dessero una mossa a sposarsi, ora che la meccanica sembrava essersi lasciata andare di più.
Felice di poter avere un inaspettato momento tutto per sé, Ofelia entrò in camera lasciando la porta aperta per Renard, nel caso in cui fosse tornato, o Thorn. Il suo momento di pace personale consisté nel sistemare l’angolo di camera di Serena, partendo dal fasciatoio ingombro di vestitini, rigorosamente regalati da Berenilde, bavaglini o giocattoli vari che alla figlia nemmeno piacevano.
- La porta aperta era un invito per me, signora Thorn?
Ofelia trasalì talmente tanto che rischiò di inciampare da ferma, e dovette reggersi all’armadio per non cadere lunga distesa. In mezzo alla camera c’era Archibald, con i capelli biondi che gli formavano un’aureola sulla testa; peccato che di angelico ci fosse ben poco nel suo sguardo malizioso. Era abbassato in un inchino divertito, con il solito cilindro malconcio appoggiato al cuore. La sciarpa si arrotolò più strettamente al collo di Ofelia, quasi avesse paura di fare la stessa fina di quel povero copricapo maltenuto.
- Cosa ci fate in camera mia?
- Camera vostra? E il povero marito dove lo mettete, la notte? – insinuò Archibald, raddrizzandosi e sedendosi senza permesso sul bordo ai piedi del letto.
Ofelia, suo malgrado, arrossì leggermente. – Camera nostra – si corresse, anche se non ce n’era bisogno. Decisamente non erano fatti di Archibald dove lei dormisse, come e con chi. – Siete venuto a fare qualche domanda insinuante e fuori luogo?
Il tono di voce le sarebbe uscito abbastanza minaccioso e pungente, se solo non avesse avuto un volume così basso. A volte le sembrava di tornare indietro nel tempo, a quando nemmeno Thorn era in grado di udirla da quanto piano parlava.
- Oh, assolutamente no, così mi ferite, mia cara. Ho pur detto, tempo fa, che presto o tardi sareste venuta voi da me. Non badate al vostro grado di usura, sono stato anche con donne vedove di molteplici mariti.
Ofelia sbiancò, e poi si imporporò. La sciarpa fu l’unica a reagire con stizza al commento, sebbene Ofelia stesse ribollendo dentro. Usura?! Che razza di commento era, quello? Non era certo un piattino di porcellana sbreccato! Le sovvenne il ricordo del suo primo incontro con Archibald, quando aveva addirittura avuto il coraggio di palesare i suoi intenti immorali: la deflorazione della fidanzata dell’intendente.
A tratti Archibald diventava anche una persona rispettabile, talvolta utile, e ci sapeva fare davvero con Vittoria e i bambini in generale, ma la maggior parte del tempo era impudente, irriverente e indecoroso nel modo di parlare. Non era un caso che fosse l’ambasciatore, così come non era un caso che proprio lui non venisse scalzato dal suo ruolo: ci volevano fascino e carisma per mantenere quel compito, senza essere soppiantato. Archibald teneva in pugno tutti.
Ma non lei.
Ofelia decise che il modo migliore per colpire Archibald era ignorare i suoi attacchi, come se fosse un bulletto: non c’era gusto nel prendere in giro qualcuno se quel qualcuno non si dimostrava ferito o colpito dagli attacchi.
- Cosa siete venuto a fare, allora? Io non ho nessuna richiesta da avanzare, mi dispiace.
- Mh… interessante – mormorò lui, prendendosi addirittura la libertà di sdraiarsi sul letto.
Thorn lo avrebbe ucciso, se fosse entrato in quel momento, e Ofelia lanciò un’occhiata veloce alla porta. Doveva ancora decidere se l’assassinio di Archibald sarebbe stato un bene o un male. La sciarpa, che le si attorcigliava alla vita, era preda dello stesso dubbio.
- La vostra risposta sottende forse che siete già appagata e soddisfatta dei… modi di vostro marito, l’illustre intendente? Non a caso, per fare una figlia, splendida, per giunta, dovete esservi dati un certo da fare. Chi l’avrebbe mai detto…
Archibald ridacchiò per qualcosa che sapeva solo lui, ma Ofelia decise che forse non le sarebbe dispiaciuto l’uso di un po’ di violenza, in via eccezionale, da parte di Thorn.
- Un tale spreco, è stato proprio uno spreco non avervi prima di lui. Chissà che faccia avrebbe fatto!
Decisamente, non le sarebbe dispiaciuta una qualche azione da parte di Thorn. Archibald aveva il viso sognante, in memoria di qualche avventura passata. O forse, ma Ofelia non voleva nemmeno pensarci, stava contemplando lo scenario in cui lei gli si fosse concessa prima del matrimonio con Thorn. L’immagine, anche solo l’idea, la fece rabbrividire. Non voleva condividere il letto nemmeno con lui, il suo legittimo fidanzato e marito, all’inizio, figuriamoci con un uomo promiscuo come Archibald.
- Ambasciatore, devo chiedervi di lasciare la stanza. Non è consono che voi stiate qui.
- Paura delle malelingue? Se solo sapeste cosa dicono di voi a corte. Thorn vi deve tenere ben protetta. Ringraziate solo che la piccola non abbia i capelli rossi come il vostro consigliere, quello sì avrebbe fatto scoppiare una bomba.
Ofelia non era molto avvezza a quella situazione. In qualità di moglie dell’intendente del Polo, ricopriva un ruolo di illustre importanza, ma rimaneva ben lontana dai riflettori, così come il marito. Questo però non serviva ad evitare certi pettegolezzi. In quel momento rimpianse Anima e la sua tranquillità, la sua arca natia in cui ogni vicino di casa era un parente, lontano o vicino che fosse, e certe dispute o divisioni sociali non esistevano nemmeno nel vocabolario.
- No, paura di ciò che Thorn potrebbe farvi.
- Oh, io non temo per nulla il vostro caro marito. È già successo che mi abbia attaccato, in passato, lo sapete, e ciò che ha dovuto subire in seguito lo farà desistere per l’eternità dal riprovarci.
- Ma in passato non aveva i diritti che ha ora, quale membro ufficiale e riconosciuto del clan dei Draghi, uno dei clan al vertice.
Archibald si rimise seduto, sorridendo come se Ofelia avesse appena fatto una battuta, non insinuato l’implicito pericolo che correva.
- Touché, signora Thorn, touché. L’intendente dev’essere proprio un tipo geloso, su questo non ci piove. Volevo solo ammirare la camera padronale! Adoro i castelli, sapete, sono così diversi da Chiardiluna.
Ofelia, grata del cambio di discorso, che non toccava più argomenti intimi, cercò di tenere la conversazione ben lontana da quei binari. Ricominciò a piegare i vestitini di Serena, ma c’era poco da sistemare, ad essere sinceri. La sciarpa si era calmata a sua volta, anche se le fungeva più da cintura: si era attorcigliata alla sua vita invece che al suo collo.
- Non avete intenzione di sistemarvi, ambasciatore?
Non era un argomento che le stava particolarmente a cuore, e lei stessa in principio non aveva desiderato sistemarsi, per così dire, ma si scoprì realmente interessata alla risposta. Archibald rimaneva in gran parte un mistero, impossibile da prevedere, difficile da leggere. Faceva esattamente il contrario di ciò che era lecito e morigerato, seguendo solo l’impulso del momento. In fondo, però, credeva che fosse un brav’uomo… un uomo solo.
- Oh, che domanda indiscreta e personale!
Ofelia inarcò le sopracciglia. Quella era una domanda indiscreta? Non quelle che le aveva rivolto fino a pochi istanti prima?
- Comunque – continuò, sorridente come sempre, facendole l’occhiolino, - amo troppo le donne per sceglierne una sola. Un po’ come i dolci, non credete? Non è proprio possibile scegliere cosa si preferisce tra bignè, cestini di frutta, brioche alla crema, biscotti alla cannella, budini al cioccolato, caramelle gommose e così via. La vita è breve, mia cara, e bisogna viverla sino in fondo.
Ofelia non era sicura che paragonare una donna ad un dolce fosse un gran complimento, e sinceramente non capiva nemmeno fino in fondo cosa intendesse Archibald. L’idea di amare così tanti uomini la ripugnava, e mangiare così tanti dolci tutti insieme alla fine stancava. O nauseava.
- Non vi fa sentire… vuoto, questo vostro atteggiamento?
- Assolutamente no, è la migliore sensazione del mondo, la libertà assoluta. Potrei darvene una dimostrazione concreta, se volete.
Ofelia gli lanciò un’occhiataccia, cosa che lo fece aprire in un ghigno furbesco e accattivante.
- Inoltre è davvero divertente attirarsi le ire di mariti e fidanzati, sapete? Non c’è nulla di meglio per dare un po’ di brio alla propria giornata.
- Credevo che teneste alle vostre sorelle minori. I vostri pensieri sono collegati, pensavo che faceste di tutto per proteggerle. Con la vostra mentalità rischiate di influenzarle. Avreste piacere che vivessero la vostra stessa vita?
Archibald si incupì leggermente, ma non perse il sorriso, che risultava però più simile ad una smorfia. – Noi membri della Rete non condividiamo sempre ogni singolo pensiero. La maggior parte del tempo, sì, ma per un po’ di tempo possiamo anche… isolarci, schermarci, in qualche modo. Non a lungo, comunque. Non temete, le mie sorelle sono ben protette dai miei traffici.
Ofelia non ne era molto convinta, ma qualcosa nell’espressione di Archibald la fece desistere dal continuare con quell’argomento. Per un attimo le sembrò incredibilmente triste, l’ambasciatore. Nonostante fosse circondato dalla famiglia, letteralmente circondato, costantemente, sembrava che fosse anche terribilmente solo. Ofelia immaginò che non dovesse essere facile essere nei suoi panni. L’idea di avere sua madre e sua sorella costantemente in collegamento mentale… rabbrividì al solo pensiero. Era un dono potente, e i doni potenti portavano con sé anche potenti svantaggi.
Archibald riacquistò il suo sorriso strafottente come se qualcuno gli avesse attivato un meccanismo interno. – Se non altro, cara signora Thorn, questa visita mi ha tolto un dubbio atroce. Il signor intendente dorme, a quanto pare, a giudicare dal letto spropositatamente grande. Ammetto di avere avuto dei dubbi al riguardo, dato che un tempo lo potevo reperire all’Intendenza a qualsiasi ora del giorno e della notte. In alcuni casi mi sono divertito a chiamarlo alle prime ore della mattina, solo per il gusto di vedere se era sveglio. Mi rispondeva sempre entro il terzo squillo, era un divertimento unico. Quando si rendeva conto che non avevo nulla di urgente da comunicargli, chiudeva la telefonata, come se nulla fosse.
Ofelia non faticava ad immaginarsi la scena. Lei stessa aveva trovato numerose volte Thorn all’Intendenza nel cuore della notte, quando erano fidanzati. Anche se gli aveva fatto visita prima ancora che l’alba sorgesse, in alcuni casi, non lo aveva mai trovato addormentato. Era sempre vigile, pronto. Però Thorn dormiva eccome; ogni tanto, quando era particolarmente stanco, russava sommessamente persino. Di una cosa era certa: le occhiaie che portava costantemente sotto agli occhi come due cicatrici nere si erano decisamente attenuate da quando dormiva a casa, con lei.
- Non credo che Thorn sia il tipo da stare al gioco, quando si tratta di scherzi telefonici.
Archibald si illuminò. – Uh, mi state dicendo che anche voi siete versata in questa sottile arte che risale agli albori della civiltà?
Ofelia increspò la fronte, sentendosi molto simile al marito. – Versata non direi, ma avevo dei cugini abbastanza scalmanati che mi trascinavano in mezzo alle loro bravate solo per usarmi come scudo alla fine. Su Anima non funzionavano bene gli scherzi telefonici, comunque. Spesso i telefoni, contagiati dal nostro animismo, ci smascheravano rovinandoci il gioco o si bloccavano, influenzati dal nostro nervosismo.
- Alquanto interessante, devo ammettere che la vostra arca mi affascina parecchio. Forse potreste portarmi con voi nella vostra prossima visita ai parenti. Sarebbe un viaggio incredibilmente… piacevole, ve lo garantisco.
Ofelia fece per ribattere, non molto certa del significato delle parole di Archibald, quando rientrò Renard Era scarmigliato, più rosso del solito, il che era tutto dire, con una luce euforica negli occhi.
- Tutto bene? – chiese Ofelia, già pronta per prendere Serena in braccio.
Renard era talmente agitato che Ofelia non si sarebbe stranita se il suo consigliere si fosse dimenticato di averla tra le braccia. Sperava solo che non facesse gesti inconsulti. La sciarpa sembrò pensarla come lei, perché quasi la strozzò, spaventata com’era per la sorte della piccola.
- Gaela. È qui. È venuta, capisci, ragazzo? Per uscire, e io non l’avevo nemmeno invitata! Perbacco, altro che clessidre dorate, questo è un miracolo. Devo andare. Mi prendo la serata libera.
Ofelia avrebbe sorriso se la vista di Serena agitata di qua e di là non l’avesse fatta impallidire, calamitando tutta la sua attenzione. Sembrava che Renard stesse facendo una danza, o un gioco in cui la povera Serena fungeva da palla. Ofelia sperava solo che non la tirasse.
Archibald non era tanto contento, anche se non la smetteva di sorridere, tormentando il cappello distrutto.
- Ce ne avete messo di tempo, fossi stato in voi la questione non mi avrebbe richiesto più di due settimane – commentò acidamente.
Ofelia avrebbe capito che era geloso, se avesse prestato attenzione, così come gli avrebbe lanciato un’occhiataccia, facendogli notare che con lei non aveva impiegato due settimane, anzi, non avrebbe mai risolto nulla. E quasi sicuramente pure con Gaela.
Concentrata com’era sulla figlia, ora stretta tra corpi dei due uomini presenti nella stanza, uno atletico, rosso, alto e indeciso se essere gioioso o irritato e l’altro biondo, affascinante e decisamente dispettoso, Ofelia non prestò attenzione a se stessa. Inciampò su non si sa bene cosa e non si sa bene come, ma si ritrovò per terra, schiacciando i piedi di Renard e Archibald.
L’ambasciatore la fissò per un attimo con aria perplessa, poco abituato alle sue rovinose cadute, mentre Renard, decisamente più avvezzo a quelle scene quasi quotidiane, non scosse nemmeno la testa. I due allungarono le braccia, Renard solo uno fortunatamente, mentre con l’altro reggeva una Serena decisamente divertita, per aiutarla ad alzarsi.
Ofelia si sistemò gli occhiali sul naso una volta in piedi, senza far caso alle mani estranee ancora posate sui suoi arti. Sembrava che i due accanto a lei temessero che potesse cadere di nuovo, da ferma. Non dava loro torto, anche se avrebbe voluto.
Si accorse che qualcosa non andava solo quando vide Renard impallidire e perdere la scintilla che scoppiettava nei suoi occhi. Archibald, invece, si aprì in un sorriso decisamente non rassicurante.
Renard mollò il braccio di Ofelia e si precipitò alle sue spalle, verso la porta. Ofelia si voltò appena in tempo per vedere Thorn in piedi contro lo stipite, altero, statuario, accigliato, rigido. Mascella contratta, fronte increspata, occhi socchiusi… non era allegro, poco ma sicuro. Renard allungò le braccia, offrendo Serena come un’offerta sacrificale, o forse utilizzandola come scudo. Ofelia non fu sicura di apprezzare quel gesto.
- Ecco a voi, signor intendente, la vostra meravigliosa figlia. Io mi permetto di togliere il disturbo, vi auguro una piacevole serata.
Ofelia alla fine decise che non avrebbe biasimato Renard per il suo tentativo di placare Thorn mettendogli in braccio la figlia: era davvero spaventoso con il viso in ombra, mentre svettava su tutti, di umore pessimo. Non poté nemmeno augurargli buona serata, però, e questo le dispiacque. Sperava davvero che con Gaela andasse tutto bene.
Reggendo Serena, Thorn lanciò occhiate taglienti e foriere di minacce all’unico intruso rimasto: Archibald. Lo sfacciato ambasciatore senza riguardi per il decoro teneva ancora una mano posata sul braccio di Ofelia, in atteggiamento più carezzevole di quanto servisse per aiutare una persona ad alzarsi.
- Domando scusa, signor intendente, stavo solo aiutando la vostra graziosa mogliettina a rialzarsi. Le sono cedute le ginocchia, cosa alquanto comprensibile quando si è accanto a me. Ma non vi preoccupate, l’ho trattenuta – disse toccandosi il cilindro in un gesto che sottendeva ben altro. – Avremo tempo per noi in un altro momento, cara signora Thorn. Intanto vi auguro una piacevole serata!
Archibald si dileguò, tronfio e soddisfatto. Ofelia ebbe il presentimento che a quell’uomo importasse ben poco di sedurla. Faceva il teatrino per infastidire Thorn, solo e unicamente per quello. Non mirava davvero a spingere lei all’adulterio.
Thorn, però, era di tutt’altro avviso. Dardeggiò su di lei uno sguardo inferocito, che mise Ofelia in apprensione, suo malgrado. Non era colpa sua, quella situazione! Thorn non proferì parola, si occupò di Serena sotto gli occhi di Ofelia, cambiandola per la notte. Ad un certo punto si fermò, con la piccola ancora sdraiata sul fasciatoio che sgambettava, contenta di essere senza pannolino per una volta. Thorn espirò rumorosamente e si appoggiò al tavolo con i pugni, la mascella serrata, le spalle rigide e i muscoli contratti. Erano poche le volte in cui lo aveva visto così teso, così livido di rabbia, e il fatto che quei sentimenti violenti fossero rivolti a lei la metteva in ansia.
Alla fine si riprese, ricomponendosi e finendo di cambiare la bambina, che chiacchierava da sola tra gorgogli e grugniti. La prese in braccio e la sistemò in modo che avesse la testa appoggiata al suo ampio petto. Per quanto duro, Serena non protestò, felice di accasciarsi contro il papà. Thorn aveva letto un libro sulla gestione dei neonati e i comportamenti da adottare in ogni fase della crescita, il cui titolo era proprio quello, “gestione dei neonati e comportamenti da adottare in ogni fase della crescita”, in cui si diceva che l’infante si rilassava e addormentava velocemente quando auscultava il battito di un cuore. Essendo stato abituato a vivere per nove mesi nel grembo materno, il cui battito cardiaco era onnipresente e surclassava ogni altro suono, il bambino lo recepiva come un anestetico, un ritorno a casa. Thorn glielo aveva spiegato due notti prima, quando Ofelia si era sdraiata su di lui e aveva posato la testa proprio dove in quel momento l’aveva appoggiata Serena.
Thorn si era letto quasi una decina di libri su quell’argomento, come se fosse in procinto di prepararsi per un esame. Ofelia non sapeva che iter avesse dovuto seguire per diventare intendente, responsabile delle finanze e dall’amministrazione giudiziaria, ma quando lo aveva scorto, nel suo studio, assorto a leggere un libro sulla prima infanzia con tanto di pipa in bocca e taccuino degli appunti, non le era stato difficile immaginarlo come un accademico. Era sicura che avrebbe preso il punteggio massimo, tanto nella teoria quanto era bravo nella pratica. L’intelligenza di Thorn era innegabile, compensava persino la mancanza di capacità dal punto di vista dell’interazione sociale.
Gli studi diedero i loro frutti, perché Serena si addormentò più velocemente del solito. Thorn la mise nella culla senza incrociare lo sguardo di Ofelia, ma le sopracciglia erano sempre aggrottate, i denti sempre digrignati. Se non fosse stata preoccupata da quei segnali, Ofelia avrebbe amato la vista di Thorn che addormentava e depositava Serena nella culla. Era un balsamo per il suo cuore e, a dire il vero, anche un afrodisiaco.
Thorn quella sera non la pensava allo stesso modo, perché si diresse in bagno lasciando una scia di gelo dietro di sé. Ofelia rimase immobile al suo posto, mordicchiandosi la cucitura dei guanti, mentre la sciarpa da un lato tirava per andare nella culla con Serena e dall’altro le si avvolgeva sul busto come un serpente.
Quando Thorn uscì, non la degnò di un’occhiata, cosa che fece ancora più male ad Ofelia. Al suo sguardo truce era abituata, ma non all’essere ignorata.
Alla fine, Thorn parlò. In piedi dalla sua parte di letto, immobile come uno spaventapasseri, alto e imbalsamato. Una delle tante cose che Ofelia amava di lui era la capacità di parlare di ciò che lo turbava. Non stava mai zitto, talvolta era completamente privo di tatto quando comunicava qualcosa, eppure Ofelia lo ammirava per il poco riguardo che aveva verso il buon costume. Era diretto, limpido.
- Hai spesso l’abitudine di far entrare uomini in camera nostra quando non ci sono io?
Il tono era tagliente, le erre ricordavano il rumore del ghiaccio che si spacca, si crepa. Un enorme iceberg. Ad Ofelia mancò il fiato. Poi subentrò la stizza. La sciarpa la strinse più forte.
- Non ho l’abitudine di far entrare uomini in camera. Archibald si è infiltrato e Renold mi ha solo riportato Serena.
Thorn non batté nemmeno le palpebre. – Ti stavano mettendo le mani addosso.
- Ero caduta, loro stavano solo cercando di rialzarmi.
- Quanto in là si sono spinti?
- Mi stai ascoltando? – ribatté lei, leggermente esasperata. Dire che le stavano mettendo le mani addosso era eccessivo. – Archibald voleva proprio ottenere questo, sai quando gli piaccia provocarti.
Thorn si avvicinò a lei repentinamente, in due falcate, sommergendola con la sua ombra. Gli occhi mandavano lampi di rabbia poco rassicuranti. – Non mi interessa se provoca me, ma non deve permettersi di toccare te.
Ofelia, colpita dalla sua voce roca e incrinata, sorda, indietreggiò fino a trovarsi spalle al muro. Thorn la seguì, posando entrambe le mani ai lati del suo viso, sulla parete, chinandosi per poterla guardare negli occhi a distanza ravvicinata.
Nessuno dei due disse nulla, ma Ofelia deglutì e rabbrividì. Thorn le aveva detto, le aveva giurato che non le avrebbe mai fatto del male. In quel momento ne sembrava capace, e le fece paura.
Thorn se ne accorse, e notarlo lo rattristò. Aggrottò ancora di più le sopracciglia, chiudendo gli occhi a fessura.
- Devono starti lontani. Tu sei mia. Non ho intenzione di condividerti in alcun modo.
Ofelia avrebbe dovuto sentirsi infastidita dalle sue parole, ma l’unica cosa che provò fu il bisogno di gettargli le braccia al collo. Quando gli aveva rivolto quelle stesse parole, anni prima, aveva usato una sottile perifrasi per non essere troppo diretto, per non dirle direttamente “tu sei mia”. Ed era arrossito. In quel momento invece sembrava più sicuro di sé di quanto non lo fosse mai stato. La sua possessività, la sua gelosia, la scaldavano sempre dentro, facendole sentire le farfalle nello stomaco. Se n’era accorta dopo parecchio tempo, come si era accorta tardi di ciò che provava per Thorn, però questo non faceva che aumentare la sua consapevolezza al riguardo.
Lei era sua. Era l’unica persona che lui amasse davvero, e lei era la persona che lo amava di più al mondo. C’era stata anche sua zia Berenilde, ma il suo affetto era stato diviso fra molti: i figli, i nipoti, il marito, Faruk. Thorn voleva l’esclusiva per una volta nella vita, voleva essere il primo pensiero di qualcuno, il batticuore, il destinatario di un amore profondo. Cose che solo Ofelia poteva dargli.
Non c’era da stupirsi che temesse il fascino accattivante di Archibald, o l’amicizia innocua di Renard.
- Se non ti calmi rischi di mozzarmi un orecchio o un naso – lo avvertì, con voce sommessa.
Thorn non si allontanò, però alzò un po’ le sopracciglia, distendendo la fronte.
- Non ho fiducia nell’ambasciatore. È infido come una serpe, velenoso uguale. Voglio che tu te ne tenga alla larga.
- Io non lo cerco in alcun modo, Thorn. Sei tu l’unico di cui mi fidi.
Prendendo coraggio, gli cinse il viso con le mani inguantate, accarezzandogli i capelli.
- Sei tu l’unico che voglio.
Con urgenza, Thorn la assecondò quando Ofelia annullò la distanza tra le loro labbra. Lo baciò stringendogli i capelli nel pugno, mentre lui l’afferrava per le braccia, stringendola, come a voler imprimere sulla sua pelle il suo tocco, cancellando quello di Renard e Archibald. Ofelia valutò se sarebbe riuscita a togliersi i guanti in modo fluido e passando inosservata, ma quando Thorn si appiccicò a lei spingendola contro il muro, costringendola ad appoggiarsi ad esso per non cadere, capì che forse i guanti le sarebbero serviti.
Thorn non era delicato come al solito nei movimenti, era arrabbiato. Era agitato. Innervosito perché quei due uomini avevano toccato sua moglie. Ofelia comprese che, in qualche modo, Thorn si stava prendendo una rivincita su Renard e Archibald possedendo lei, dimostrando a se stesso che lei era effettivamente sua, e di nessun altro.
Ofelia lo accontentò volentieri. Lo lasciò fare, senza nemmeno provare ad aiutarlo ad alzarle o slacciarle il vestito, o a spogliare lui. Sarebbe stata inutile, nient’altro che un impiccio. Ma non era necessario che lei collaborasse, perché Thorn era efficiente per due. Forse anche per tre.
La sollevò, prendendosela in braccio, schiacciandola tra lui e la parete. Ofelia cercò di non muoversi troppo, temendo di tirare calci da qualche parte o di riceverne lei, in qualche strana maniera. Era troppo abituata a farsi male quando non c’era nulla di pericoloso nei paraggi, figuriamoci in quella situazione. Decise solo di abbandonarsi a lui, baciandolo per soffocare i mormorii di piacere che le sgorgavano dalla gola, facendo piano per non svegliare Serena. Thorn, deciso, implacabile, preciso, le fece perdere il controllo due volte, la spinse al limite, tappandole la bocca con la mano quando serviva. Eppure non fu brutale, non fu un atto senz’anima, dettato dall’ira o da uno sfogo.
Thorn tremava sotto le sue mani. Ofelia avrebbe voluto sollevargli il capo, appoggiato alla sua spalla, per vedergli gli occhi, ma il fatto che lui si rifiutasse di assecondarla significava che non voleva mostrarsi in alcun modo. Era come se fosse spaventato. La stava prendendo con struggimento, con dolore e tristezza, non con cattiveria.
Ofelia lo tenne stretto quando finalmente anche lui la raggiunse il quel luogo fatto solo di sensi, suoni ovattati e obnubilazione. Lo accarezzò con dolcezza, sperando di scacciare il tormento che lo aveva attanagliato. Thorn era tutto troppo. Faceva tutto troppo. Pensava troppo, lavorava troppo, prendeva tutto troppo sul serio, soffriva troppo. Amava troppo. Si faceva divorare troppo dalla gelosia.
Ofelia gli depositò un bacio sui capelli quando lui finalmente la guardò in volto, con delle leggere occhiaie, gli occhi spiritati e fissi nella luce soffusa della camera. Era ancora avvinghiata a lui, e non era sicura di sapere come scendere. O di volerlo fare.
- Stai un po’ meglio? – gli chiese, e per una volta la sua voce sottile fu perfetta per la situazione.
Thorn si accigliò, riaccendendo un lampo di frustrazione nei suoi occhi. – Non l’ho fatto per stare meglio.
Ofelia aveva gli occhiali storti sul naso, ma non provò nemmeno a risistemarseli. Se avesse tolto una mano dal suo corpo, temeva che lui si sarebbe ritratto, credendo che lei volesse fare altrettanto. Decise di aggrottare le sopracciglia, imitandolo.
Se non l’aveva fatto per stare meglio… - …Allora perché…?
Thorn la fece scendere, sistemandosi i pantaloni e allontanandosi. – Per dimostrare che tu vuoi stare con me. Che io posso fare questo, nessun’altro.
Ofelia si sentì leggermente ferita da quelle parole. Era come se l’avesse usata, in un certo senso. E lui aveva giurato di non ferirla mai. – Per dimostrarlo a chi, che ci siamo solo noi, qui?
Thorn si diresse verso il bagno, senza guardarla.
Lei non lo seguì, si sedette sul letto, ancora scarmigliata, con gli occhiali storti e il vestito stropicciato. La sciarpa, specchio dei suoi sentimenti tumultuosi, si agitava nella culla. Ofelia cercò di calmarla con degli “shh” silenziosi, perché non svegliasse la bambina. Aveva un tale tormento dentro… eppure non riusciva ad essere arrabbiata con Thorn, non le aveva fatto nulla di male. Aveva solo cercato di dimostrare a se stesso che lei lo desiderava. Le faceva male però sapere che lui ancora ne dubitava, talvolta. Credeva davvero che fosse interessata in qualche modo ad Archibald? O a Renard?!
Scattò in piedi quando Thorn uscì dal bagno, a petto nudo, con indosso solo i pantaloni del pigiama. La guardò, e Ofelia lesse nei suoi occhi stanchi un’enorme tristezza, come se fosse solo al mondo e la cosa non potesse in alcun modo essere cambiata. Ofelia sentì gli occhi inumidirsi a quella vista perché Thorn, nonostante tutto, le faceva tenerezza.
Allungando una mano, lo tirò a sé, facendolo sedere sul bordo del letto. Lui si lasciò guidare, senza però incrociare il suo sguardo nuovamente. Fissava tutto tranne lei, cercava di concentrarsi su Serena. Notando un rossore appena accennato sulle sue guance pallide, Ofelia capì che si vergognava.
- Scusa – mormorò, flebile, come se facesse fatica a pronunciare quella parola. Del resto, Thorn non era un individuo che si scusava spesso, e se lo faceva solitamente girava intorno alla questione, usando complicate frasi che non potevano essere proprio considerate delle contrizioni. – Ho perso il controllo, non succederà più. Sono stato deplorevole.
Ofelia avrebbe voluto dirgli che poteva perdere il controllo quando voleva, se quelli erano gli effetti, ma capì che non sarebbe stato opportuno dirlo. Anzi, sarebbe stato solo imbarazzante. In compenso, cercò di sedersi in braccio a lui come meglio poté, accarezzandogli la testa e spingendola contro il suo petto, contro il cuore che le batteva velocemente.
- Non scusarti. Non hai fatto nulla di male.
- Non posso usarti come sfogo quando mi faccio sottomettere dalle emozioni. Dalla gelosia – ammise. – Posso controllarmi, posso essere migliore di così.
Ofelia non sapeva come fare per confortarlo. La voce che le riverberava contro il petto le giungeva tesa, rotta, e quando Thorn perdeva il controllo delle proprie corde vocali la situazione era grave.
Decise di provare in un altro modo. Si alzò in piedi, lasciandolo andare, e si inginocchiò tra le sue gambe. Lui la guardò dall’alto, con tormento, ma anche con perplessità.
- Cosa stai facendo?
- Ti faccio vedere che non sei l’unico che può perdere il controllo. E che anche io voglio dimostrare che tu vuoi stare con me. E nessun’altra. Dico bene?
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Quest’affermazione è ovvia, non c’è bisogno di dimostrare nulla.
- Nemmeno prima ce n’era bisogno, eppure tu l’hai fatto. Ora, vedi di non fare troppo rumore.
Thorn non capì cosa Ofelia intendesse dire fin quando non fece una cosa talmente inaspettata da lasciarlo senza fiato. Nei minuti successivi capì benissimo cosa voleva dire, e la amò e detestò al tempo stesso, per ciò che gli stava facendo, per il controllo che gli fece perdere su tutto, persino sulle sue percezioni. Strinse i denti fino a farsi dolore la mascella, per non fare rumore.
Quando tutto finì, si ritrovò sdraiato con le gambe penzoloni, il respiro erratico e gli occhi umidi di piacere. Ofelia gli si sdraiò accanto, accarezzandolo con affetto, come per ammansirlo.
- Non… non era necessario... – disse a singhiozzi, ancora incapace di parlare senza affannarsi.
- Lo era – lo corresse lei. – Per ricordarti a vita che io certe cose le faccio solo a te e con te. E spero che una scenata di gelosia del genere non si ripeta più, Thorn, perché odio la mancanza di fiducia.
- Te lo concedo – promise lui, tornando padrone di sé quel tanto che bastava ad avere la mente lucida. – Cercherò di controllarmi la prossima volta.
- E se dovessi ingelosirti di nuovo in questo modo, ricordati questa notte.
- Come se fosse possibile dimenticarla – mormorò lui, a voce talmente bassa che Ofelia nemmeno lo sentì.
Thorn si sistemò a letto mentre Ofelia andava in bagno a darsi una ripulita, cambiandosi per la notte. Si sciacquò il viso con l’acqua gelida, per raffreddarlo dal rossore che lo aveva invaso, a scoppio ritardato. Non era mai stato tanto audace, e le era piaciuto. Thorn era stato talmente indifeso e ammaliato da ciò che lei faceva, che l’aveva fatta sentire potente, incredibilmente forte e capace.
Suo marito era geloso come nessun altro, e per quanto la cosa, a piccole dosi, con il tempo avesse iniziato a farle piacere, certe volte era eccessiva. Era una dimostrazione di interesse anche quella, perché lui la voleva tutta per sé, ma doveva avere dei limiti. Lei non voleva guardarsi le spalle ogni volta che interagiva con qualche uomo, voleva la sua libertà, soprattutto perché Thorn non aveva motivo alcuno di dubitare di lei e dei suoi sentimenti. Sapeva anche, però, che sarebbe stato difficile cancellare quel tratto della sua personalità, perché Thorn era stato tradito e deluso troppe volte. Per una volta che credeva in qualcosa, in qualcuno, non voleva assolutamente che gli fosse portata via.
Quando tornò in camera, lo trovò già steso supino. Thorn girò la testa verso di lei e la seguì con lo sguardo finché non si sdraiò accanto a lui. Ofelia si sentì avvampare sotto il sguardo fisso da rapace, ma in quel momento amava tutto di lui.
E non solo in quel momento, per quanti difetti e manie ossessive Thorn avesse.
Si fecce intrappolare dalle sue lunghe e solide braccia, perdendosi nel suo abbraccio, conscia del fatto che la gelosia di Thorn era uno specchio del suo sconfinato amore per lei. Com’era esagerato nella possessività, lo era anche nei sentimenti. Dormì beatamente quella notte, appagata emotivamente e sotto ogni altro aspetto della sfera sentimentale, fisica e psichica.
Prima di addormentarsi, comunque, con la mente già annebbiata, si disse che in effetti non sarebbe stato male se Thorn si fosse fatto prendere da quegli attacchi di gelosia anche in futuro, ogni tanto.
Era stato tutt’altro che sgradevole.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Thorn mi fa proprio ridere nei panni di genitore. Sarà OC, fuori personaggio, quello che volete, ma per me sarebbe davvero bravissimo.
(Sorvola sul fatto che non posta da più di un mese, come se nulla fosse...).
Avevo perso un po' di voglia di continuare questa storia, anche perché avevo un sacco di idee e quindi minacciava di durare ancora parecchio (e minaccia ancora di durare parecchio), ma ho fatto una scaletta e cercherò di darmi una mossa. Ci tenevo a far vedere le reazioni genitoriali di Ofelia e Thorn nei primi mesi di vita della bimba, quando tutto è una novità, ma passato questo intramezzo velocizzerò le cose (spero).
Detto ciò spero che il capitolo vi piaccia (grazie ancora e come sempre a SaphiraLupin che è sempre presente e mi tira sempre su il morale) e mi auguro di postare il prossimo senza lasciar passae un altro mese perché finalmente sto ingranando di nuovo (non a caso si chiama Ingranaggi la storia e... ok, pessima, scusate) Comunque la parte di Serena che *spoiler* chiama i genitori con i nomi personali è ispirato ad una storia che mi ha raccontato mia nonna: dal momento che con mio nonno si cjoamava per nome, mio papà li chiamava per nome invece di "mamma" e "papà". Di conseguenza hanno dovuto cominciare a chiamarsi tra di loro mamma e papà. E niente mi faceva ridere anche se è una cosa logica.


Capitolo 18

A sei mesi precisi a Serena cominciarono a spuntare i primi dentini.
Il processo fu evidente in tutta la sua esplosiva novità non perché le gengive gonfie e arrossate della bimba lasciavano intravedere delle piccole protuberanze bianche, ma perché Serena sbavava ovunque, piangeva istericamente per il fastidio, e cercava di mordere qualsiasi cosa, possibilmente fredda, per lenire il dolore.
Spesso le vittime delle sue masticazioni bagnaticce erano le dita del malcapitato di turno: la mamma, il papà, il padrino, o la zia Roseline, che però si era rifiutata di tenerla ancora in braccio dopo la prima volta che era capitato.
- Non posso farmi mordere le dita come se fossero dei biscotti appetitosi, Ofelia! Mi verrà l’artrite! – si era giustificata con scarsa convinzione.
Renard, invece, abituato a portare un gatto dagli artigli affilati sulla testa, non si accorgeva quasi del fatto che Serena gli mordeva voracemente le dita. Della bava si accorgeva eccome, però, specialmente quando aveva qualche incontro galante con Gaela. Quest’ultima si faceva vedere più spesso al castello, con gioia di Ofelia, per la quale la meccanica era, in fondo, una vera amica, forse la prima che si fosse mai fatta. Non che scambiassero chiacchiere da salotto, Gaela non era proprio il tipo, ma Ofelia sapeva che ci sarebbe stata in caso di bisogno. Per quanto fosse carina con Serena, a suo modo, cioè molto blandamente, la bimba non si azzardava a morderla. La piccola aveva capito con chi aveva a che fare, così allungava le braccia corte per afferrarle la chiave inglese o il cacciavite di turno, invece di provarci con le dita. Dopo che Serena era riuscita, per puro caso, a prendere davvero un attrezzo dalla cintura onnipresente di Gaela, Ofelia si era rifiutata di lasciargliela ancora in braccio finché avesse avuto tutta l’oggettistica da lavoro addosso. La questione si era risolta in modo confacente per tutti: Renard teneva la bambina e Gaela la intratteneva, seduta di fianco a loro.
Ofelia si tratteneva a stento dal sorridere quando li vedeva. Sembravano loro la famigliola felice.
Inutile dire che la persona con le dita più fredde e sgranocchiabili era il papà. Thorn aveva sempre le mani ossute gelide, e Serena provava un immenso sollievo a masticargliele. Sembrava che entrambe le donne dell’intendente fossero inaspettatamente e imprescindibilmente attratte dalle sue mani, con le dita lunghe e le ossa del polso sporgenti, così abili e rapide, precise come poche. Al contrario di quelle di Ofelia, piccole e maldestre. Lei aveva una specie di vera e propria ossessione per le mani del marito, ma lui non sembrava essersene accorto.
La prima volta che Serena si appropriò dell’indice del papà successe in soggiorno, dopo cena. La zia Roseline lavorava in camera con la sua macchina da cucire, che in qualche modo i parenti erano riusciti a portarle da Anima. Dopo che la sua era andata distrutta durante il primissimo viaggio da Anima al Polo, la zia non aveva più avuto il tempo di procurarsene una. Ofelia invece stava rispondendo all’ultima lettera ricevuta dai familiari, impegnandosi soprattutto nella parte di risposta che riguardava il suo caro prozio. Thorn, seduto rigidamente sul divano con Serena in braccio, tentava di leggere uno di quei manuali che trattavano argomenti fondamentali per svolgere il suo lavoro; quei tomi inutilmente grandi di cui venivano aggiornate due o tre righe ogni mese, costringendo l’intendente a rileggerseli da capo per adeguarsi alle nuove direttive. Ofelia lo considerava un compito ingrato, lei sarebbe morta di noia, lo sapeva, ma Thorn non si lamentava mai. L’unica nota positiva era che quei volumi erano spesso rilegati e facevano una bella figura nello studio del marito; e potevano essere utilizzati come armi all’occasione.
Serena, silenziosa a parte qualche gorgoglio tranquillo, era tutta accartocciata con la schiena premuta contro la pancia del papà. Lanciandole occhiate intenerite di tanto in tanto, Ofelia si chiedeva quanto il ventre del marito potesse essere comodo, piatto e ossuto com’era. Eppure, alla figlia non sembrava dispiacere tanto quanto non dispiaceva a lei. Serena si mise ad osservare, ad un certo punto, le mani del papà che giravano le pagine di quel codice civile soporifero ad una velocità sorprendente, se si teneva conto del fatto che lo stava leggendo. Ofelia mise giù il calamaio e guardò la figlia, incuriosita. Fulminea come il padre, Serena afferrò con le tozze e cortissime dita, non per questo deboli, l’indice destro del papà, portandoselo alla bocca.
L’espressione di Thorn fu talmente imprevedibile che Ofelia scoppiò a ridere: rigido dalla testa ai piedi, sgranò gli occhi e si guardò attorno come se qualcuno gli avesse dato una scossa. Nel giro di poco la mano si riempì di bava e Serena si mise a ridacchiare, sollevata, ma Thorn non fece nemmeno il tentativo di togliere il dito dalla bocca bagnata della figlia.
Rimase lì, fermo come uno spaventapasseri, con lo sguardo affilato, a farsi mangiucchiare le falangi. Alcuni minuti dopo, con il braccio libero si risistemò meglio la figlia in grembo e riprese a leggere, tenendo in equilibrio il tomo voluminoso con una sola mano e molta maestria.
Ofelia si commosse vedendo quanto Thorn fosse cambiato per lei e per la loro figlia. Ossessivo, maniacale, fissato con la pulizia e l’igiene, si stava sottoponendo senza un lamento ai capricci di Serena, accettando di tenere un dito dentro la cavità orale bagnata e sdentata della figlia. In quel momento Ofelia avrebbe tanto desiderato avere la macchina fotografica di Hector, per immortalare il momento, ma si limitò ad osservarli rapita.
Alla fine Serena si addormentò addosso a Thorn, che estrasse delicatamente il dito dalla bocca della piccola e se lo asciugò senza nemmeno una smorfia di disgusto su un fazzoletto, estratto dalla giacca. L’unico segno di corrucciamento che ebbe fu un aggrottamento delle sopracciglia quando si rese conto che la bava era finita un po’ ovunque, e sarebbe stato difficile pulire con un solo fazzolettino.
Accorrendo in suo aiuto, impietosita dalla scena, Ofelia cercò di asciugare la bimba e il marito come poté. L’enciclopedia gigantesca, o qualunque cosa fosse quel mattone che Thorn stava leggendo, era bagnato di bava sui bordi, così Ofelia si affrettò a pulirlo per evitare che le pagine sottili si increspassero.
Ne ruppe qualcuna, ma non se ne preoccupò molto: la zia Roseline avrebbe potuto aggiustarle senza fatica.
Sentendosi osservata, Ofelia alzò la testa e si ritrovò incatenata nella morsa degli occhi di Thorn, affilati e insistenti.
Fraintendendo, lo rassicurò: - La zia può aggiustare la carta senza problemi, domani sarà come nuovo.
Invece di rispondere, Thorn si sporse quel tanto che bastava per baciarla. Un bacio di quelli seri, intensi, affannosi. Ofelia gli avrebbe infilato le dita tra i capelli se non fossero state coperte di saliva e se Serena non fosse stata addormentata in mezzo a loro. Avrebbe dovuto dare una bella pulita ai guanti…
Thorn si staccò e aspettò che Ofelia indietreggiasse per alzarsi, portando con sé Serena. Per quanto fosse stato repentino, la piccola continuò a dormire placidamente, ignara dei movimenti bruschi del padre. O forse così protetta da non essersene accorta.
Andarono in camera in silenzio e, mentre Ofelia finiva di pulirsi in bagno, Thorn mise Serena nella culla. Non fece nemmeno in tempo a finire di asciugarsi le mani che il marito la placcò contro l’ampio mobile, facendovela sedere. Reclamò la sua bocca riprendendo da dove si erano interrotti in salotto.
- Che ti prende? – chiese Ofelia poco dopo, con il fiato corto, mentre Thorn le accarezzava le gambe sotto il vestito, facendole venire caldo. Più caldo.
Lui le lanciò un’occhiata di ferro senza rispondere. E senza fermarsi o indugiare. Solitamente Thorn era così irruente quando era particolarmente stressato o quando, per un motivo o per un altro, non condividevano l’intimità per un periodo troppo prolungato, ma la loro ultima volta era stata quella mattina… frettolosa, certo, ma c’era stata.
Rassegnata a non ottenere risposta, Ofelia lo attirò comunque a sé, desiderando sentirlo più vicino, quando lui le mormorò sul collo: - Mi è venuta in mente una cosa.
Perplessa, Ofelia ci mise qualche istante a capire che Thorn stava rispondendo alla sua domanda. Il fatto che le stesse torturando la pelle sensibile della gola, inoltre, non l’aiutava certo ad essere ricettiva…
- Mh? – lo spronò. O forse era solo un gemito inarticolato.
- Mi sono ricordato della nostra settecentoquarantunesima volta, trentotto giorni fa.
Di colpo presente, Ofelia si staccò da lui e lo guardò con gli occhi spalancati dietro gli occhiali storti. Settecentoquar… cosa?
- Di cosa stai parlando?
- Del nostro amplesso di trentotto giorni fa.
Thorn era serio come se stesse dicendo ad Ofelia a quanto ammontavano le tasse che pagavano. E impaziente. Più impaziente, rispetto al pagamento delle tasse.
Ofelia impiegò più del previsto a capire bene le implicazioni di ciò che Thorn le stava dicendo. – E trentotto giorni fa abbiamo fatto… siamo stati insieme per la settecentoquarantesima volta?
- Settecentoquarantunesima. La quarantesima è stata quella stessa mattina. Alle due del mattino, a dire il vero, quando Serena si è svegliata e tu non sei più riuscita a prendere sonno.
Ofelia vide tutto rosso all’improvviso, e sentì anche le guance scaldarsi per l’imbarazzo. – Tu le conti tutte?
Thorn sembrava irritato. Sbuffò leggerissimamente. – Io non dimentico mai nulla.
- Certo, lo so, ma anche il numero di…
Ofelia si ritrovò a balbettare. Se ricordava il numero di volte in cui lo avevano fatto, ricordava con precisione anche cosa avevano fatto? Tutto, per ogni singola volta?
Thorn sembrò leggerle nel pensiero. – Sì, anche il numero di. E come. Non è volontaria questa cosa, nel caso in cui te lo stessi chiedendo.
Ofelia si rese conto che anche Thorn era un po’ a disagio: aveva le orecchie rosse e guardava da un’altra parte. Si sentì un po’ meschina: non era colpa del marito se la sua memoria così formidabile gli faceva ricordare ogni particolare di ogni conversazione ed evento. Allo stesso tempo era affascinata dal sistema di catalogazione del suo cervello. Era incredibile che riuscisse a ricordare ogni singola volta, a numerarla, porla in ordine cronologico e addirittura dire cosa avessero fatto. D’un tratto fu più curiosa che attonita.
- E cosa abbiamo fatto la settecentoquarant…, insomma cosa ti è venuto in mente?
Thorn, sempre più rosso in volto, le lanciò un’occhiata di sottecchi. Si schiarì la gola. – Posso rinfrescarti la memoria, se vuoi.
Ofelia sorrise, annuì e lo assecondò, in modo che aiutasse anche lei a ricordare cosa avevano combinato quel giorno.
Prima di addormentarsi rifletté sul fatto che Thorn era una specie di diario umano, una raccolta vivente di ricordi, dialoghi, avvenimenti e fatti quotidiani. Si sentì al sicuro, perché non avrebbe mai scordato nulla, e nel caso in cui la sua memoria fallibile fosse venuta meno, Thorn sarebbe sempre stato pronto ad andare in suo aiuto.
E anche a ricordarle le altre settecentoquaranta volte in cui si erano amati. Sì, quello era davvero utile. Anche un po’ di più.
 
- Credo sia ora di smettere di allattarla – disse la zia Roseline, solenne.
- Un po’ alla volta, magari – si intromise Berenilde, diplomatica.
Serena aveva ormai quasi otto mesi, e con due dentini ben formati e altri due spuntati per metà, Ofelia soffriva un vero e proprio calvario ogni volta che Serena reclamava il suo pasto. Aveva sottoposto la questione alle due zie, certa che avrebbero avuto ottimi consigli da darle.
- E come dovrei fare? Ha ancora bisogno di latte – fece notare Ofelia.
Cercò di fare mente locale circa lo svezzamento delle sue tre sorelline più piccole, ma all’epoca non era stata molto interessata alle fasi di crescita delle gemelle. Come poteva, visto che non voleva nemmeno sposarsi? Figurarsi poi diventare madre…
- Basterà ricorrere al buon vecchio biberon – fece notare Berenilde, le cui erre scricchiolanti calcarono per bene la parola “biberon”. Ofelia si sorprendeva sempre di come l’accento del Polo fosse melodioso in bocca alla madama e duro sulle labbra di Thorn. – Inoltre potremmo cominciare ad affiancare il latte ad un po’ di frutta grattugiata, per variare la dieta e introdurre delle vitamine, oltre al calcio. A Vittoria piacevano tantissimo. Vero, tesoro?
La bambina, sentendosi presa in causa, alzò la testa facendo ondeggiare i lunghi capelli bianchi. Si distrasse dal suo disegno quel tanto che bastava per annuire e poi continuò a colorare. Sbirciando l’opera della cuginetta, Ofelia si augurò che il bambino che aveva raffigurato insieme a lei e Salame non fosse Tom. Era davvero troppo presto per le questioni amorose, a sei anni.
- Mi è capitato di parlarne con la governante, quella donna sa veramente il fatto suo. Un’enciclopedia per bambini – si intromise la zia Roseline, che ci teneva ad esprimere la propria opinione.
La governante era la levatrice che l’aveva aiutata a partorire e veniva spesso interpellata per alcuni consigli sulla crescita di Serena. Talvolta, anzi spesso, li offriva anche senza che le venissero chiesti.
- Va… va bene, allora. Comincerò ad integrare la sua dieta con la frutta e proverò a darle il biberon.
Ofelia non era restia all’idea, a quel cambiamento. Allattarla aveva cominciato ad essere davvero doloroso, però… rendersi conto che Serena stava già crescendo a vista d’occhio le fece crescere dentro una strana malinconia. Scacciando quei pensieri irragionevoli si diresse verso la cucina, dove sapeva che avrebbe trovato la governante. Era ora che Serena provasse a mangiare qualche pappetta.
 
- Non ne vuole sapere del biberon, è inutile – sbuffò Ofelia, contrariata, mentre Serena faceva i capricci sdraiata sul letto matrimoniale.
Con il biberon caldo in mano, fissava la figlia come a volerla sgridare con lo sguardo. Non poteva certo cominciare a farla combattere a nemmeno un anno, giusto? Serena piagnucolava e, ogni volta che la mamma provava ad avvicinarle la tettarella alle labbra, lei voltava la testa categoricamente e si metteva a frignare: più eloquente di così c’erano solo gli sguardi di Thorn.
Quest’ultimo osservava la scena in piedi accanto al letto, imbronciato.
Alla fine, cedendo, Ofelia la prese in braccio e se l’attaccò al seno, facendola calmare. Mentre l’allattava aggrottò le sopracciglia: la componente cocciuta in famiglia non mancava, tra Berenilde, sua mamma Sophie, lei stessa, doveva ammettere, e persino Thorn; anche la zia Roseline… ma insomma, Serena non aveva neanche un anno! Era troppo presto per impuntarsi in quella maniera.
Thorn si schiarì la voce accanto a lei. – Potrebbe dipendere dal fatto che con te è abituata all’allattamento al seno?
Ofelia lo guardò dal basso, adagiandosi sui cuscini per riuscire a vederlo bene in volto. Rendendosi conto del suo sforzo, Thorn si sedette sul bordo del letto, accanto a lei, per essere più vicino alla sua altezza.
- Cosa?
Thorn si schiarì ancora la gola, come sempre, aveva imparato Ofelia, quando era a disagio. – Ho letto un manuale sullo svezzamento e… sulla crescita, insomma. Alcuni esperti dicono che il bambino, quando è così piccolo, fa delle associazioni da cui è difficile distaccarsi in seguito. Forse associa te all’allattamento al seno, e fatica a comprendere cosa sia il biberon. Magari, se provassi a darglielo io…
- Nel senso che quando ha fame reclama solo il latte nella modalità classica?
- Sì, si potrebbe dire così – concesse Thorn, aggrottando le sopracciglia ancora di più.
- Proviamo, allora. Inizia ad essere davvero fastidioso, specialmente con i dentini.
Thorn accartocciò tutto il viso, un po’ per il commento e un po’ per quello che si accingeva a fare, e prese Serena dalle braccia di Ofelia. La bambina si ribellò leggermente dal momento che non aveva ancora finito, ma quando il papà la guardò con il suo solito cipiglio si acquietò subito. Serena, si rese conto Ofelia, non aveva paura del papà, ma solo lui riusciva a trasmetterle un senso di pace così profondo da contagiarla. Thorn non era mai nervoso quando la prendeva in braccio, e appena la toccava sembrava che anche le sue onnipresenti occhiaie sbiadissero. La presenza di Serena era catartica per lui, in un modo che Ofelia ancora faticava a comprendere.
- Cosa devo fare? – chiese lui dopo un po’, quando la piccola ricominciò ad agitarsi.
- Prima di tutto devi versarti una o due gocce di latte sul dorso della mano o sul polso, per saggiare la temperatura del latte. Se è troppo caldo si brucia la bocca, se è troppo freddo non lo vuole. Non è scaldato naturalmente come quello mio.
Ancora una volta, Thorn si imbronciò di fronte a quel commento. Di Ofelia aveva visto tutto, in tutti i momenti, buoni o cattivi che fossero, conosceva il suo corpo quasi meglio di quanto conoscesse il suo, eppure… certe frasi proprio lo mettevano a disagio. In ogni caso obbedì, decretando che il latte tiepido doveva essere… corretto, insomma.
- Poi? – la incalzò, come se Ofelia l’avesse costretto e lui non si fosse offerto volontariamente.
- Poi basta, le avvicini il biberon alla bocca e lei dovrebbe bere. In teoria.
Con le sopracciglia più che mai aggrottate, come se quella di dare il biberon alla figlia fosse una sfida, Thorn le appoggiò piano la tettarella alle labbra. All’inizio Serena parve confusa quanto il padre, e Ofelia quasi trasalì quando la vide accigliarsi: ci mancava solo che prendesse anche le espressioni facciali, da Thorn. Eppure era una bamba sorridente…
Quando poi Serena si sentì le labbra umide, ci passò sopra la piccola lingua rossastra, e capì quello che il papà stava cercando di fare. Pochi istanti dopo succhiava avidamente il biberon, guardando Thorn, ancora un po’ perplessa davanti a quello scambio di ruoli, eppure contenta di mangiare.
Ofelia sorrise di fronte alla scena, e tirò un sospiro di sollievo. Non voleva proprio più saperne di allattare, almeno per qualche anno.
Sorrise ancora di più nei giorni successivi, comunque, quando Thorn si autoproclamò allattatore ufficiale, anche se detta così suonava strano. Si occupava lui, quando era a casa, di dare il biberon alla piccola, ordinando alla levatrice di preparaglielo. Nulla poteva competere con le espressioni sbigottite di Berenilde e della zia Roseline. Quest’ultima, in particolare, ogni volta che lo vedeva seduto sul divano intento a leggere con un braccio che sorreggeva Serena e le dava il biberon, mugugnava che la scena era paradossale quanto un libro sedicente ad una riunione delle Decane. Ofelia non poteva darle torto, ma le piaceva guardare Thorn immerso nelle sue letture e allo stesso tempo presente ad ogni minimo cambiamento umorale di Serena.
Aveva fatto tesoro di tutto ciò che non aveva ricevuto lui durante la sua infanzia e lo stava riversando sulla figlia così che non dovesse patire lo stesso trattamento. Ofelia si vergognò di aver dubitato delle capacità di Thorn come padre. Quando si applicava era inarrestabile, forse avrebbe addirittura potuto crescere Serena da solo.
Quando però alzò lo sguardo brevemente per incontrare il suo, in un lampo di metallo affilato, Ofelia si sentì rabbrividire piacevolmente. No, lui non avrebbe potuto crescere Serena da solo come lei non avrebbe potuto farlo. Erano una squadra, un insieme, e Thorn non sarebbe mai più stato solo.
Prima erano in due, ora in tre. Ed erano perfetti, così insieme.
 
La cosa più divertente delle giornate di Ofelia, che sentiva terribilmente la mancanza del suo lavoro, certi giorni, era Renard. Badare a Serena le piaceva, era appagante, si sentiva utile e adorava la figlia, ma era consapevole di non essere nata per fare la donna di casa e madre di famiglia. Thorn lo sapeva, e l’aveva accettata per questo, con la sua indipendenza, ma allo stesso tempo Ofelia non poteva né abbandonare Serena né portarla al lavoro con sé. La piccola aveva ormai undici mesi, e il tempo era volato mentre lei cresceva a vista d’occhio. I capelli biondi fini come le piume di un pulcino si erano ispessiti ed erano cresciuti, creando uno strano ma piacevole contrasto con i grandi occhi scuri. Era vivace e allegra, ma silenziosa, tranquilla. Raramente strepitava e urlava o si comportava in modo riprovevole. In ogni caso, niente e nessuno era in grado di far ridere la piccola, e la madre, come il padrino e consigliere Renard.
L’ex valletto di Chiardiluna, decisamente sprecato e maltrattato nel suo vecchio ruolo, sembrava aver guadagnato nuova vita da quando era nata la figlioccia, che adorava. Ofelia sapeva che parte del merito andava anche, e soprattutto, ad una certa madrina-meccanica, però Renard stravedeva per Serena.
Ogni giorno salutava prima lei di tutti gli altri, che nella stanza ci fossero Thorn, Ofelia, la zia Roseline o Berenilde. L’unica eccezione era Gaela, ma era concepibile, dal momento che Renard sembrava prendere fuoco quando la vedeva. La ragazza dai modi rozzi e diretti passava spesso per casa di Ofelia, ufficialmente per salutare la figlioccia, ufficiosamente per pomiciare di nascosto con Renard. Serena si divertiva sempre a giocare con la sua cintura degli attrezzi, e spesso le prendeva la sigaretta che Gaela teneva perennemente all’angolo della bocca. Ogni volta che accadeva Ofelia si augurava che Serena non la masticasse o ciucciasse, ma fortunatamente Gaela, per quanto menefreghista delle regole e delle convenzioni, la riacchiappava sempre in tempo e, sorridendo alla bambina, la metteva via. Quando la vedeva sorridere così dolcemente Ofelia capiva come mai Renard si fosse innamorato perdutamente di lei.
In ogni caso, quest’ultimo era di gran lunga il più chiamato in casa. Berenilde lo chiamava per farsi fare qualche favore, come chiedere un goccetto di brandy o farsi portare qualcosa dalla cucina; la zia Roseline lo utilizzava come scala umana per farsi prendere qualche volume rovinato dalla biblioteca di casa nei momenti di nostalgia estrema in cui si metteva a riparare ogni pezzo di carta che trovava; Ofelia lo chiamava per chiacchierare la maggior parte delle volte, o per farsi ridare Serena; Vittoria per giocare, perché l’Omone tutto Rosso, come lo chiamava lei ogni tanto, la sollevava e faceva volare come se fosse una piuma. L’unico a non chiamarlo era Thorn, ma lui non chiamava mai nessuno.
Non fu quindi una sorpresa quando, durante una cena con Berenilde, la piccola Serena, di punto in bianco, disse: - Enad.
Cinque paia di occhi si voltarono verso di lei, mentre la zia Roseline e Berenilde, che tenevano sempre banco, si zittirono.
- Cos’ha detto? – chiese Vittoria, interessata.
Come se avesse capito di essere stata interpellata, la piccola ripeté: - Enad!
Alzò le braccia grassottelle verso il padrino, che stava passando di là in quel momento, facendolo bloccare nella camminata. Il suo volto prese fuoco come i suoi capelli, mentre gli occhi gli si inumidivano.
- Mi hai chiamato, piccola signorina? – chiese con la voce spezzata.
Una volta l’aveva chiamata figliola, ma si era attirato un’occhiata talmente incattivita da parte di Thorn che aveva fatto marcia indietro immediatamente. Piccola padroncina aveva fatto storcere il naso ad Ofelia, invece; già non tollerava che chiamasse lei padrona, figuriamoci sua figlia, che era la figlioccia di Renard. Alla fine aveva optato per piccola signorina, che aveva quietato tutti quanti.
- Enad! Enad! – canticchiò lei, aprendosi in un sorriso.
Thorn ripose la forchetta con una calma talmente ponderata che avrebbe zittito persino l’audace Archibald. Era una quiete di facciata che in realtà nascondeva una furia malcelata e pronta ad esplodere. Renard se ne accorse e, invece di prendere in braccio Serena, avvampò ancora di più, le accarezzò brevemente il viso e si allontanò, facendo imbronciare Serena,
- Con il vostro permesso, signore e signor intendente, mi accingo ad uscire. Vi auguro una piacevole serata e… una buona notte! – disse in fretta imboccando l’entrata.
Ofelia guardò il marito con aria quasi delusa mentre Serena scoppiava a piangere. La zia Roseline e Berenilde si misero a discutere di dialoghi infantili e prime parole, mentre Ofelia cercava di placare il pianto della figlia. Thorn, alzandosi in silenzio e muovendosi in fretta come sempre, gliela prese dalle braccia e si dileguò.
Ofelia sospirò, ma decise di non indagare.
Più tardi, quella sera, trovò Thorn seduto a letto con la figlia sulle gambe, evidentemente esausta, mentre cercava di insegnarle a pronunciare il suo nome.
Entrò in camera proprio mentre lui scandiva: - Thorn… - con le sue r scricchiolanti e arrotolate, e la bambina esplodeva in un: - Enad! – stizzito.
Ofelia non sapeva se ridere o essere esasperata; il cipiglio tra le sopracciglia di Thorn le fece capire che la lezione di nomi andava avanti ormai da parecchio. Si avvicinò tentando di non cadere e depositò la sciarpa sul letto. Prese Serena dalle mani del padre e la lavò e cambiò.
Era passata quasi mezz’ora quando si sedette accanto a lui sul letto, con Serena ormai pronta ad addormentarsi in braccio suo. Thorn non si era mosso di un millimetro da quando gli aveva tolto la figlia di dosso.
Non sapendo cosa dire, lo chiamò con voce sommessa: - Thorn?
Lui si incurvò, evidentemente scoraggiato. – Non sono un buon padre.
- Lo dici perché la prima parola di tua figlia è il nome del padrino? Lo chiamiamo ogni secondo, Thorn, è il nome che Serena sente pronunciare di più in assoluto.
- Enad… - biascicò Serena in risposta, il secondo prima di cedere definitivamente al sonno.
Ofelia provò a metterla in braccio al marito, ma lui rifiutò.
- Thorn, Serena ti adora. Vedrai che nel giro di due giorni imparerà a pronunciare anche il tuo, di nome.
Thorn non sembrava convinto, e alla fine si alzò per cambiarsi, in silenzio. Ofelia sospirò piano mentre depositava Serena nella culla, notando all’improvviso quanto fosse diventata pesante. Ormai la sua piccola aveva quasi un anno, e oltre a crescere di stazza stava iniziando anche a parlare. La cosa la commosse. Voleva che Thorn vedesse quella prima parola come un traguardo, non come una sconfitta. Si sentì terribilmente malinconica e si diresse verso il marito, che si stava levando la camicia.
Lo abbracciò da dietro, accarezzandogli il petto. Thorn si irrigidì contro di lei, ma non rispose alla carezza. Era troppo scoraggiato per prestarle attenzione.
- Thorn – mormorò lei, depositandogli un bacio sulla schiena. – La nostra bambina sta crescendo. Non puoi gioire di questo invece di soffermarti sulle quisquilie?
Thorn si voltò guardandola dall’alto, facendola sentire più piccola di quanto già non fosse. – E una volta cresciuta? Cosa diventerà? Cosa le impedirà di allontanarsi?
Ofelia comprese che dietro la momentanea a apparente gelosia di Thorn si celava un problema ben più radicato e profondo. La paura dell’abbandono, quella paura che ancora lo ghermiva e lo rendeva schiavo, nonostante gli anni d’amore e lealtà che lei gli aveva donato a cuore aperto. Thorn amava sia lei che Serena ma, mentre era certo che avrebbe avuto Ofelia sempre al fianco, non poteva essere del tutto sicuro che la figlia un giorno non si sarebbe scelta la sua strada; avrebbe amato qualcuno più di quanto amava loro.
- Thorn, è ovvio che un giorno si allontanerà. Si sposerà, avrà dei figli, anteporrà loro a noi. Ma questo non vuol dire che ci dimenticherà, che si scorderà di noi, o che proverà meno affetto per noi.
Thorn la fissava con occhi da rapace, fissi, affilati, metallo brillante nella penombra della camera. Tutto fuorché convinto.
- Avere Serena ha fatto diminuire il tuo affetto per me? – gli chiese allora Ofelia, sperando che il marito non si ritraesse di fronte a quella conversazione sentimentale. Non era decisamente il suo campo.
- No – sancì lui, lapidario, senza mutare espressione.
- Lei crescerà e non starà per sempre con noi, Thorn. Il fatto stesso che oggi abbia detto la sua prima parola ne è una dimostrazione. Ospiterà più persone nel suo cuore, farà nuove conoscenze, ma ci sarà sempre uno spazio per noi. Il fatto che abbia imparato a pronunciare prima il nome di Renard non significa che ami più lui di me o te. Semplicemente, forse non sa nemmeno come chiamarti. Non vedi come allunga le braccia verso di te appena ti vede? Non importa chi la tenga, se io, Renard o le zie, quando vede te vuole te, ed è testarda come qualcuno di mia conoscenza.
Ofelia vide le sue narici fremere, forse nel tentativo di trattenere uno sbuffo, o un sospiro. Non era pienamente d’accordo con quel discorso, probabilmente non lo sarebbe mai stato, ma quanto meno lo sentì meno rigido tra le sue braccia. Si alzò sulle punte dei piedi, disposta a tutto pur di fargli cambiare atteggiamento. Non le piaceva vederlo così teso, e lei aveva la capacità di distrarlo.
Ormai non si faceva più nessuna remora ad utilizzarla.
- Thorn – bisbigliò al suo orecchio. O almeno, ci provò, dato che rimaneva più bassa di lui di una testa e mezzo, nonostante si fosse alzata sulle punte. – Ripeterò il tuo nome così tanto che lo pronuncerà anche nel sonno.
Le lunghe braccia di Thorn si chiusero su di lei senza preavviso, come una gabbia, e un secondo dopo Ofelia sentì il materasso sotto di sé.
- Comincia ora – le ordinò lui, chinandosi su di lei.
- Thorn… - mormorò ancora, posandogli un bacio sul collo.
Quella notte ripeté il suo nome così tanto da fargli perdere significato, fino a renderlo un ammasso di lettere senza senso, che avevano il solo scopo di far rabbrividire di piacere il proprietario.
Il giorno dopo Ofelia passò più tempo possibile con Serena, sentendosi a volte stupida, e altre volte temendo che persino la bambina si sentisse stupida, a ripetere sempre “io sono la mamma” e “Thorn è il tuo papà”.
La sera Serena era ormai stufa di sentirla, ma aveva imparato una nuova parola: Thorn.
Peccato che, quando Thorn rincasò e la bambina lo vide, urlò di nuovo: - Enad! – allungando le braccia grassottelle.
Thorn si accigliò e, ancora vestito con la giacca da intendente e con una voluminosa pila di fascicoli sotto braccio, si avvicinò a Ofelia e alla figlia senza intenzione di prenderla in braccio. La bambina si agitò, desiderosa di sfuggire alla mamma che ripeteva da troppe ore sempre le stesse cose.
Ofelia si raddrizzò gli occhiali sul naso mentre la sciarpa, anch’essa esasperata, le stringeva troppo il collo.
- Serena, lui è papà Thorn.
- Thon! – urlò la bambina, stizzita.
- Papà Thorn! – esclamò anche Ofelia, sentendosi ancora più sciocca. Non faceva per lei quel ruolo…
- Thon!
La sciarpa strinse ancora più forte Ofelia, costringendola a distrarsi per allentarsela e non morire soffocata. Lanciò comunque un’occhiata a Thorn. Invece di trovarlo deluso, con la bocca ridotta ad una riga sottile e la mascella contratta, notò che aveva una luce diversa negli occhi.
Lui allungò il braccio libero, facendo intendere ad Ofelia che doveva mettergli Serena in braccio, e quando la piccola urlò di nuovo il suo nome, notò un’altra scintilla impossessarsi del suo sguardo. Vederlo così le fece esplodere il petto di amore e orgoglio, e gli avrebbe dato un bacio se lui non fosse stato troppo in alto e troppo impegnato per riuscirci.
Quella sera, fortunatamente, a cena erano soli, dato che Berenilde e Vittoria si erano prese il raffreddore e la zia Roseline aveva deciso di stare con loro per accudirle. Quando Ofelia chiese a Thorn il sale, Serena si agitò, esclamando: - Thon!
Questa volta Thon si accigliò. – Non può continuare a chiamarmi Thorn.
- Lo so – mormorò Ofelia, prendendola in braccia, stanca. Poi ebbe un’idea. – Papà – disse, facendo inarcare un sopracciglio a Thorn, - mi passi anche il pepe, per favore?
- Papà! – urlò Serena, battendo le mani.
Quello che Ofelia scorse sul viso di Thorn fu un lampo di pura gioia, innegabile, anche se il suo volto rimase inespressivo come suo solito. Solo un occhio allenato come il suo era in grado di cogliere le più piccole sfumature di emozione che gli modificavano il volto. Continuarono così per tutta la durata della cena, con Thorn che chiamava Ofelia “mamma” e lei che si rivolgeva a lui come “papà”. Serena finalmente capì, e quando fu ora di andare a letto si rivolse ai genitori con i giusti appellativi senza bisogno di aiuti.
Thorn la mise a letto e rimase accanto a lei, in piedi, finché si addormentò. Poi si diresse in fretta, silenziosamente, verso la moglie, tanto da coglierla di sorpresa.
La sua alta e dinoccolata figura si richiuse su di lei senza preavviso. Ofelia rispose al bacio in ritardo, faticando a capire cosa stesse succedendo.
- Stai bene? – gli chiese quando si separarono per riprendere fiato.
- Sì. Anche un po’ di più, mamma.
Quella notte Ofelia scoprì che chiamare Thorn “papà” aveva su di lui un effetto afrodisiaco, e ne approfittò senza freni. Thorn aveva finalmente realizzato che erano un nucleo, una famiglia, composta da padre, madre e figlia, e in cui lui ricopriva il ruolo più importante in assoluto.
Quando, più tardi, si ritrovò schiacciata piacevolmente dal peso di Thorn, le cui ossa premevano contro di lei senza darle fastidio, Ofelia si spostò i riccioli dalla fronte e mise via gli occhiali. Accarezzò la nuca del marito, abbandonato contro di lei, e pensò che la felicità poteva ridursi a quello: il corpo di Thorn contro il suo e la piccola che dormiva accanto a loro.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Ehilà... ahem...
Non è il capitolo più lungo che abbia mai scritto... anzi... E non è nemmeno il migliore... anzi...
A dire il vero non era nemmeno preventivato ma è uscita questa cosa e l'ho lasciata. Non ho potuto allegare altre pagine perché quelle successive iniziano una specie di nuovo filone e non volevo interromperle a metà. Insomma, mi sono capita io, sappiate che spero di aggiornare la prossima volta. E in settimana spero anche di riuscire a pubblicare la prima parte del finale di Echi per come me lo immagino io. Poi dovrei anche iniziare a scrivere il prossimo capitolo di Into the deep... oh signore mi viene l'ansia.
Scusate davvero il ritardo, in tutte le storie. Però ci sono, farò del mio meglio scrivendo ogni volta che ho un minuto libero (che proprio scarseggiano ultimamente). Scusate ancora e grazie♥


Capitolo 19

Serena cominciò a chiacchierare a ruota libera dopo aver imparato a pronunciare i nomi dei genitori e del padrino. Fu poi il turno delle zie e della cuginetta, della madrina, dell’ambasciatore, con sommo fastidio di Thorn, e infine delle formule matematiche.
Quando cominciò a pronunciare i nomi di “Pitagoa”, “Lap-as” e “Lagiange”, la zia Roseline sputò il tè dalla tazzina.
- Per tutti i dizionari, ma sta parlando un’altra lingua?
Erano seduti in salotto, con Serena che guardava il papà con aria innocente, e la zia Roseline, Renard e Ofelia che li fissavano con gli occhi sgranati. Renard bevve un bicchierino di grappa senza che nessuno lo vedesse.
Thorn scoccò un’occhiata tagliente alla zia Roseline. – Sono i teoremi geometrici e aritmetici basilari, i nomi di alcuni matematici e qualche assioma.
Serena, nel silenzio che seguì la risposta di Thorn, snocciolò con voce da bimba e grande coraggio un dogma breve e incomprensibile che nessuno, tranne Thorn, distinse. Anzi, quest’ultimo la corresse quando sbagliò una parola, increspando la fronte.
La bimba batté le mani da sola e tornò a stropicciare innocentemente il giornale che Thorn aveva accanto, come se fosse tutto normale.
Ci mancava poco che la zia Roseline spalancasse la bocca. – I bambini a quest’età iniziano a ripetere parole, in effetti, a volte frasi, essendo ancora incapaci di formularne di proprie. Ma per tutte le teiere bollenti, ripetere a memoria intere teorie incomprensibili è fuori dal comune.
- Thorn gliele sciorina come se fossero ninne nanne da quando era neonata, zia – le spiegò Ofelia, come se la questione potesse essere spiegata in quel modo.
La zia scosse la testa, sorbendo il tè. – Vi ho visti crescere uno ad uno, te e i tuoi fratelli e sorelle, e nessuno ha mai ripetuto nulla. Non credo che foste più ottusi del normale, anche Vittoria non ha mai fatto nulla del genere.
La zia continuò a borbottare come una caffettiera piena, mentre Ofelia guardò il marito. Quando i loro occhi si incontrarono, capì che avevano pensato la stessa cosa.
- La tua memoria – disse infatti Ofelia.
- La mia memoria – ripeté contemporaneamente lui, arcigno.
- Cosa c’entra in questo momento? – bofonchiò la zia, che odiava non venire a capo di una questione.
- Il dono di Serena. Ha ereditato la memoria degli Storiografi – chiarì Ofelia, senza mai distogliere lo sguardo da Thorn.
Renard, che stava cercando di ricondurre all’ordine Salame, che se la prendeva con l’orlo dei suoi pantaloni, sgranò gli occhi. Era una strana novità che la figlia legittima dell’intendente del Polo avesse il dono del clan caduto ormai in rovina da decenni. Era curioso di vedere come si sarebbe evoluta la faccenda.
- Ma è troppo presto perché il potere familiare si manifesti! – esclamò la zia. – Non può essere così precoce, la bambina!
- La memoria degli Storiografi funziona diversamente – spiegò Thorn con voce gelida, più per chiarire la questione a sua moglie che alla zia Roseline. – Noi che ne siamo dotati ricordiamo ogni parola, ogni cosa che leggiamo, ogni singolo evento della nostra esistenza, fin da quando siamo in fasce. Io stesso ho ricordi di prima che il cervello di un bambino possa riuscire ad immagazzinare ricordi. Non è inusuale che Serena ripeta le frasi che io le ho spesso riferito.
Come per dimostrarlo, Serena alzò lo sguardo sulla mamma ed enunciò: - La lege di Kepelo pemette di caccoae…
- Santissimi spiriti di famiglia, la cosa è sbalorditiva! – esclamò la zia Roseline, mentre la sua mascella sembrava voler cadere dentro la tazza. Denti cavallini e lingua inclusa.
Ofelia sorrise, quasi con malinconia. – Per lo meno sai chi potrà prendere il tuo posto come intendente.
Thorn aggrottò le sopracciglia ma, invece di incassare il commento come una battuta a cui dare poca importanza o ribattere esponendo le varie leggi e procedure burocratiche secondo le quali non sarebbe mai stato possibile un simile scenario, restituì ad Ofelia uno sguardo serio.
- Date le circostanze, effettivamente Serena potrebbe essere designata come mio successore. In ogni caso, la carica di intendente non è ereditaria, bisogna studiare economia, finanza, matematica, tutti i tipi di diritto, politico, civile, penale, priv…
Ofelia ebbe un giramento di testa. – Ci credo che serve la tua memoria per svolgere il tuo incarico – lo interruppe, in parte ammirata e in parte terrorizzata.
- Aiuta – ammise Thorn con una piccola smorfia. – In ogni caso, non c’è mai stata una donna, nella storia del Polo, che abbia ricoperto una carica di questo tipo. Alle donne è precluso l’accesso a…
La faccia sbigottita e oltraggiata di Ofelia e della zia Roseline bloccò Thorn. La zia era diventata rossa dall’indignazione.
- Cosa c’è? – le incalzò, dopo un silenzio troppo lungo.
- In vita mia non ho mai sentito un discorso così misogino – esordì la zia, paonazza e scandalizzata. – Mi state dicendo che qui al Polo non ci sono donne che ricoprono ruoli d’importanza? In nessun ambito?
Thorn la guardò accigliandosi appena. – Sto dicendo che al Polo non ci sono donne che ricoprono qualsiasi tipo di ruolo. Svolgono lavori in casa, sono governanti, levatrici, massaie, o come dame di compagnia per qualche signora nobile e benestante. Ma sono solo le donne più povere e senza poteri a lavorare. La vostra amica Gaela è un’eccezione, ma alla fine anche lei era sotto la protezione di Madre Ildegarda, quindi al suo servizio.
Ofelia si sentì punta nell’orgoglio da quelle asserzioni, come se fossero attacchi diretti alla sua figura di donna invece che realistiche constatazioni.
- Quest’Arca è più matta della cugina Benedetta, che andava in giro millantando di essere una sirena e si buttava in qualsiasi fonte d’acqua trovasse. Una volta si è gettata anche nella mangiatoia degli asini, ricordi, Ofelia?
Ofelia non era sicura che la vicenda della strampalata zia di terzo grado Benedetta fosse pertinente in quel contesto, ma non poteva che dirsi d’accordo con la prima parte della frase della zia. Ormai viveva al Polo da parecchio tempo, abbastanza per non stupirsi più di fronte alle minacce di corte, agli intrighi politici e all’offerta di favori mai disinteressata, eppure non aveva ancora prestato attenzione al fatto che le donne non potessero assurgere a ruoli d’importanza politica o a lavori di un certo rilievo. Oltre a rendersi conto di quanto fosse ingiusta la cosa, capì anche quanto Thorn fosse andato controcorrente solo per accontentarla, permettendole, anzi, aprendo per lei lo studio di lettura.
- Ti piacerebbe se Serena prendesse il tuo posto all’intendenza? – domandò Ofelia di punto in bianco, scrutando il marito con insistenza.
Non riuscì ad interpretare il fremito che fece tremare le labbra di Thorn, i suoi occhi erano duri e l’espressione impassibile come se stessero discutendo del tempo.
- Non ha importanza ciò che piacerebbe a me, Serena sarà libera di scegliere cosa vuole fare.
- Ma se hai appena detto che nessuna donna… - intervenne la zia Roseline, prima di essere nuovamente interrotta da Thorn.
- Il fatto che questa sia la realtà dei fatti non significa che non possa essere cambiata. Ofelia ha il suo studio, o sbaglio? Uno studio di perizie e autenticazione, non un negozietto di verdura come quelli che ci sono nei quartieri più poveri della città, dove le donne sono costrette a lavorare perché i mariti sono degli ubriaconi che spendono tutto il salario in alcol. Anzi, alcuni non ce l’hanno nemmeno, un salario – disse Thorn con stizza malcelata. – Se mia figlia vorrà fare la mantenuta sarà libera di farlo. Per quanto io sia nato bastardo, ora sono stato riabilitato e Serena non dovrebbe faticare a trovare un partito benestante. Se invece vorrà fare carriera potrà rimboccarsi le maniche di sua spontanea volontà e cercare di ambire a qualche lavoro prestigioso. Con la sua memoria le sarà facile studiare e nessuna porta le sarà preclusa. I concorsi sono aperti e, per quanto nessuna donna ci provi, a partecipare, non c’è nessuna legge che lo vieti.
La zia Roseline era sorpresa dal lungo discorso di Thorn, Ofelia glielo vedeva in faccia. Solitamente con la zia Thorn scambiava solo qualche parola di circostanza a tavola, e solo se costretto. Era Ofelia quella con cui Thorn parlava sul serio, con cui scambiava idee, la cui opinione era importante e tenuta in considerazione. A giudicare dallo sguardo affilato del marito e dal modo in cui stava ripiegando il giornale accartocciato dalla figlia per alzarsi, infatti, dedusse che affrontare un discorso del genere con la zia come interlocutrice e Renard come ascoltatore non gli piacesse granché.
Thorn andò in camera per mettere a letto Serena e la zia Roseline si avviò verso la biblioteca per fare ricerche storiche circa l’emancipazione femminile lì al Polo. Ofelia sperò solo che non si addormentasse su un libro: l’indomani sarebbe stata dura sopportare le sue lamentele, se le si fosse bloccata la schiena. Lei diede una mano a sparecchiare, ma la domestica accorse subito per fermarla. Le vecchie abitudini erano dure a morire, e Ofelia era vissuta in una casa in cui i domestici erano animali, non persone che lavoravano per te dietro compenso. Una famiglia numerosa, oltretutto, in cui tutti dovevano dare il proprio contributo.
In ogni caso, decise di lasciar fare alla cameriera quando questa la guardò con occhi imploranti e terrorizzati insieme: temeva che Thorn tornasse e la vedesse con le mani in mano. Ofelia si accostò a Renard sospirando.
- Faccio ancora fatica ad abituarmi a questa gerarchia imposta.
- Io faccio fatica ad immaginarmi la vita che conducevate su Anima, invece. Dove tutti sono parenti, tutti hanno un lavoro, non ci sono distinzioni e si è tutti uguali e amici, pronti ad andare in soccorso del proprio vicino. Mi farebbe piacere farci un salto un giorno.
Ofelia gli sorrise. – Mi farebbe piacere portarvi con me, un giorno.
- Dite che il signor intendente vi permetterà di tornarci?
Ofelia aggrottò le sopracciglia. – Certo che me lo permetterà. Thorn non è dispotico, credo che se glielo chiedessi mi lascerebbe andare molto più spesso. L’importante è che torni – disse ridacchiando. In realtà, Thorn non le avrebbe mai e poi mai imposto qualcosa. Si ricordava bene di quando le aveva detto che sarebbe stata libera di tornare definitivamente su Anima, se avesse voluto. Ma la verità era che, anche se all’epoca l’idea di vivere al Polo non le piacesse per nulla, in quel momento allontanarsi dal fianco di Thorn era impensabile. Casa era ovunque loro due e Serena potessero rimanere insieme, e la cosa sarebbe andata avanti così ancora per lungo tempo. Almeno, era ciò che si augurava. Rise nuovamente. – Anzi, credo che Thorn coadiuverebbe volentieri un mio viaggio su Anima, se questo potesse risparmiargli la visita di qualche decina dei miei parenti qui.
Renard non poté non unirsi alla sua risata, convenendo che in effetti l’intendente era più lugubre del solito quando riceveva le visite degli Animisti. Poi diventò serio, per quanto la sua faccia buona e i suoi occhi gentili potessero apparire seri.
- Secondo voi l’intendente diceva sul serio? Non ci sono leggi che limitano il lavoro femminile al Polo?
Ofelia lo fissò per un lungo istante prima di rispondere, cercando di immaginare dove volesse andare a parare Renard con una simile domanda. – Thorn non è un bugiardo, e conosce tutte le più piccole e nascoste postille legislative. Sono fermamente convinta che abbia detto la verità. Come mai me lo chiedete?
Renard sembrava a disagio, il che, data la sua mole muscolosa e il fisico imponente, gli dava l’aria di un gigante goffo. – Vedi, ragazzo, vorrei tanto fare qualcosa per Gaela. So che il suo più grande desiderio sarebbe quello di affrancarsi da Chiardiluna e mettere su un’attività in proprio. Non lo dico perché sono di parte, ma lei è proprio brava nel suo lavoro. Non c’è macchinario che non sappia riparare. Solo che… una donna che fa il meccanico, con una propria attività…
Ofelia comprese la reticenza di Renard e, empatica com’era, sentì subito il desiderio di attivarsi per fare qualcosa.
- Ne parlerò con Thorn per vedere cosa si può fare, ti farò sapere il prima possibile, Renard.
Notando che il suo amico non sembrava comunque sollevato, anzi, era più imbarazzato di prima, gli posò una mano guantata sul braccio. – Grazie per avermene parlato. Gaela sarebbe perfetta per gestire un’officina.
Renard sembrò rilassarsi un pochino, ma poi fece una smorfia perché Salame gli era risalito su per il pantalone, ficcandogli le unghie nella carne.
Ofelia gli augurò la buonanotte mentre lui ancora sgridava il gatto. Quando entrò in camera, trovò Thorn che si divertiva con Serena, per quanto Thorn potesse essere associato al sostantivo “divertimento”. Stava facendo ripetere alla figlia formule matematiche di cui Ofelia non capiva nemmeno una parola, mentre Serena sembrava comprendere benissimo. La piccola sorrideva e batteva le mani alla fine di ogni frase, e quando si distraeva il papà la riportava gentilmente all’ordine. Negli occhi aveva una luce orgogliosa che lo faceva tendere ancora di più in quel lungo corpo da spaventapasseri.
Ofelia non poté che scoppiare a ridere, rompendo il loro incantesimo e facendo ridere anche Serena.
Thorn aveva la solita espressione truce stampata in volto, ma stranamente gli occhi d’acciaio erano ingentiliti da una strana morbidezza, come se stare vicino alla figlia e immaginarsela come suo successore lo rendesse felice.
E a proposito di successore…
- Pensi davvero quello che hai detto prima? – chiese Ofelia infilandosi sotto le coperte, dopo che Serena si fu addormentata.
Thorn stava posizionando l’orologio da taschino sul comodino, in modo tale che occupasse il centro perfetto del mobile. La osservò mentre si sistemava al suo fianco, con le sopracciglia aggrottate, perplesso. Stava evidentemente ripercorrendo tutta la conversazione della serata, parola per parola.
- Ho detto molte cose, prima.
- Sulle donne. Qui al Polo abbiamo davvero la possibilità di fare carriera? Serena sarebbe libera di succederti, se lo volesse? Perché nessuna donna allora ambisce a certe cariche?
Il cipiglio sulla fronte di Thorn si accentuò ancora di più, mentre lui fissava il soffitto.
- Al Polo non abbiamo una grande tradizione di donne emancipate. Quello che conta, qui, è far parte dei clan favoriti, quelli più potenti, e le donne sono ambiziose come in qualsiasi altra arca, solo in modo diverso. Non provano a fare carriera perché sarebbero ostacolate, non lo nego, ma dai propri familiari e dai mariti.
- Non ci sono mai state donne che hanno provato a sovvertire queste… tradizioni?
- Sì, ma non sono state imprese concluse positivamente. Alcune sono state mutilate, altre ripudiate, una è addirittura scomparsa e all’intendenza abbiamo ancora un fascicolo di ricerca aperto a suo nome.
Ofelia vide all’improvviso tutto nero nella penombra, e capì che mentre lei era impallidita, le sue lenti si erano scurite.
- Questo è quello che succede alle donne che vogliono un lavoro diverso dal fare la cameriera? – domandò con più acredine di quanta volesse.
Sapeva che Thorn non avrebbe mai fatto a lei una cosa del genere. Come aveva lui stesso ribadito, aveva aperto lui, per lei, uno studio di lettura. Ma aveva fatto qualcosa di concreto per cambiare la situazione delle donne al Polo? Forse non era nel suo interesse, e poteva capirlo, ma le sembrava comunque ingiusto.
Thorn si voltò verso di lei, scrutandola per cercare di capire cosa le passasse per la testa.
- Questo è quello che succede alle donne che non hanno appoggio da parte dei familiari. Tu stessa sei stata obbligata dalla tua famiglia e da intrallazzi politici a sposarmi.
Ofelia quasi sussultò a quelle parole, perché non si era mai resa conto di quella realtà di fatti prima che lui la mettesse in evidenza. Le donne su Anima lavoravano, era vero, ma che differenza faceva se erano costrette dalla famiglia a sposarsi con chi sceglievano loro? Lei aveva rifiutato ben due pretendenti e aveva recato un’offesa non da poco alle famiglie interessate. Gli uomini invece avevano più libertà.
Ovunque andasse, da qualsiasi prospettiva la si vedesse, le donne godevano sempre di meno opportunità rispetto agli uomini, e non era giusto.
Notando il suo turbamento, Thorn corrugò talmente la fronte che le due cicatrici quasi si toccarono. – Cosa ti disturba così tanto?
- Tu assumeresti mai una donna all’intendenza?
La sciarpa, nella culla con Serena, si agitò, adirata da quell’argomento. In fondo, era femmina anche lei. Ofelia non sapeva come mai, ma la questione era diventata personale. Che tipo di uomo aveva sposato, lei?
Thorn non esitò un istante. – Sì, se dimostrasse di avere le qualità necessarie a svolgere il lavoro che richiedo. Quando ho dovuto scegliere il mio segretario ho indetto un concorso. Non si è presentata nemmeno una donna, ma la selezione non aveva limiti di età o sesso.
Ofelia si rilassò impercettibilmente, sollevata nell’udire quella risposta. Temeva che Thorn avesse fatto un’eccezione aprendo lo studio per lei solo perché, appunto, si trattava di lei. Ma sapere che si sarebbe comportato imparzialmente con tutte le donne la faceva sentire meglio. All’improvviso si sentì in colpa per aver dubitato del marito che, nonostante l’aspetto burbero e la poca socialità, era e rimaneva la persona più incorruttibile e di aperte vedute del Polo. Anche lui sembrò notarlo.
- Pensavi che mi opponessi all’ascesa lavorativa femminile?
La sua voce roca e scricchiolante sembrava venata di tensione, come se si fosse offeso.
Ofelia tacque, facendogli irrigidire la mascella.
- Ho fatto pressioni io affinché venissero eliminate le distinzioni di genere nei concorsi pubblici. Ho lavorato in modo che le leggi venissero cambiate. Ci sono donne che sono più intelligenti e laboriose di molti degli uomini che abbiamo al governo ora, ma io non posso prenderle per mano perché si facciano avanti dopo aver aperto loro le porte. Ho spianato la strada, devono percorrerla loro.
Ofelia si vergognò e, in parte cercando di farsi perdonare e in parte perché non aveva mai amato Thorn come in quel momento, si avvicinò a lui e lo baciò, passandogli una gamba sui fianchi. Lui, anche se reticente all’inizio, non poteva rimanere arrabbiato a lungo con Ofelia, specialmente se lo baciava e toccava in quel modo. Così le afferrò la coscia, risalendo fino alla sua vita, trascinandosela sopra senza sforzo.
- Thorn?
Lui la guardò, con il lungo naso che ancora sfiorava il suo, incoraggiandola a parlare.
- Ti amo.
Non se lo dicevano spesso, e in quel momento ad Ofelia parve sbagliato. Come a dimostrare quel pensiero, Thorn prese un respiro profondo, chiuse gli occhi metallici e rimase immobile, sospeso in quell’attimo. Non le disse che anche lui l’amava, non ce n’era bisogno. A dire il vero, ad Ofelia avrebbe fatto piacere sentire quelle due parole, ma Thorn con uno scatto la sormontò e le impedì di parlare ancora, dimostrandole ampiamente quanto l’amasse.
Quando Thorn le si fu addormentato addosso, diverso tempo dopo, Ofelia si ricordò che non gli aveva parlato della situazione di Gaela. Si fece un appunto mentale di sottoporgli la questione il giorno dopo e, soddisfatta della discussione e della giornata, si lasciò scivolare nel sonno con le dita attorcigliate ai capelli spettinati di Thorn.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Eccomiiiiii! Allora, questo capitlolo segna un pochino una svolta nel senso che spero di poter procedere più speditamente dopo questa parte... più speditamente in senso di temporalità della storia, non che io andrò più spedita. Magarii!
Ho voluto lasciare in sospeso la parte finale perché sono malvagia e volevo tenervi sulle spine, ma in realtà, se quando avrete finito il capitolo vi rileggerete le prime due frasi, capirete benissimo cosa succederà ahahahaha.
Sto procedendo anche con Into the deep, che sarà al prossima storia che aggiornerò (finalmente), anche se sta deviando del tutto dal progetto originale. Non a caso, la vicenda di svolge all'interno dell'osservatorio delle Deviazioni xD Ora vedo quanto lungo viene (lo è già troppo e devo ancora arrivare alla parte che mi interessava davvero), perché se supera le 20 pagine mi toccherà spezzarlo uff. Va be' dai, a questo punto me lo auguro così avrò due capitoli pronti *-*
(Non accenno minimamente al fatto che devo ancora cominciare a scrivere il secondo capitolo di Contropartite).
Grazie mille a tutti per la pazienza e buona lettura, spero^^


Capitolo 20

Poco dopo il compimento di un anno da parte di Serena ci furono due eventi eclatanti: la piccola iniziò a camminare e Renard chiese finalmente a Gaela di sposarlo. I fatti, in un certo senso, erano strettamente legati.
Ma questo lo vedremo dopo.
Ofelia provò a far camminare la bambina su insistenza di Berenilde e della zia Roseline. Serena ormai si rotolava dappertutto e, quando la si lasciava un attimo libera, andava carponi ovunque. Diverse volte Ofelia aveva visto Renard massaggiarsi la testa o la schiena: nel tentativo di seguire gattonando la figlioccia, il gigantesco consigliere sbatteva un po’ su tutto il mobilio, e si stava anche rovinando le ginocchia.
Per quanto tranquilla, Serena sprigionava energia da tutti i pori, com’era giusto che una bambina facesse, e di conseguenza Ofelia aveva ceduto alle pressioni delle zie. Però non le aveva coinvolte nei tentativi di far camminare la figlia: le mettevano ansia, quelle due signore navigate, una di figli e l’altra di nipoti, che la osservavano scrutando ogni suo movimento. Era lei la madre, era giusto che imparasse qualcosa anche da sola.
Quindi chiese chiesto aiuto a Vittoria e Renard, un pomeriggio. La verità era che lei avrebbe voluto aspettare Thorn per provare a far camminare Serena, visto quanto il marito ci teneva ad essere presente quando provava o faceva qualcosa di nuovo. Però quel giorno la piccola si era aggrappata al divano senza preavviso, in seguito ad una delle sue gattonate sfrenate, mettendosi in piedi da sola. Poi aveva mosso dei passetti esitanti ma sostenuti lungo il bordo del grande divano, sempre appoggiata ai cuscini con una mano. Era arrivata a metà prima di cadere.
Gaela, che era arrivata per pranzo con la scusa di sistemare qualche marchingegno in cucina che non funzionava, e in attesa in realtà di portarsi a casa Renard per la serata, che sarebbe sicuramente diventata notte, aveva fischiato.
- Questa non me la voglio proprio perdere – aveva commentato, stravaccandosi sul divano cercando di non calpestare Salame, che come al solito amava fare lo slalom tra i suoi polpacci.
Renard si accovacciò accanto a Serena, una montagna d’uomo raggomitolato su se stesso per essere faccia a faccia con una bimba minuscola, e batté le mani, subito imitato da una ridente Serena che non capiva cosa stesse succedendo ma nel dubbio si divertiva. Vittoria si sedette accanto a loro, silenziosa come suo solito.
Ofelia si sentì pervadere da un misto di orgoglio e impazienza. – Proviamo a farla camminare –esordì, avvicinandosi al trio.
A turno tennero le braccia di Serena per aiutarla a stabilizzarsi mentre muoveva i primi incerti passi su due gambe. Poi, quando la bambina diede prova di essere in grado di gestire il proprio equilibrio, la tennero solo per una mano. Ofelia aveva sempre paura quando era Vittoria, volenterosa, a volerla accompagnare. In fondo, la cugina non aveva più di sette anni, e Serena cominciava ad essere pesantina. Però la presenza di Renard alle loro spalle, in grado di evitare che cadessero entrambe in caso di necessità, la rassicurava.
Dopo un’ora abbondante trascorsa con Gaela che imprecava perché Salame tagliava la strada a Serena e Renard che incitava la piccola come se stesse per tagliare un traguardo sportivo, Ofelia, Vittoria e Renard si inginocchiarono per terra formando un triangolo, con Serena al centro. A turno battevano le mani per attirare l’attenzione della piccola, incoraggiandola a raggiungerli. Non ci volle molto perché Serena cominciasse a camminare da sola senza quasi più cadere, e senza bisogno che i grandi la tenessero per stabilizzarla non appena andava da loro. Quando la zia Roseline arrivò nel salone decretando che la sua fame era talmente “profonda da non poter nemmeno essere saziata da un piatto di quel bisbetico ricettario segreto della sua vecchia cugina inacidita” Ofelia lasciò che Serena la raggiungesse caracollando sulle gambette tozze, facendo spalancare gli occhi alla zia che, colta alla sprovvista, non seppe cosa fare. Quando accennò a chinarsi per prendere in braccio Serena entrò a sorpresa Thorn, che si bloccò alla vista della figlia in piedi, da sola, nemmeno aggrappata alla gonna della zia. Sfuggendo alle braccia di quest’ultima, si diresse senza esitazione verso il papà, mentre tutti la fissavano orgogliosi, azzardando anche qualche passetto di corsa. Essendo ancora presto per accelerare l’andatura, Serena rischiò di cadere nell’ultimo tratto, ma le lunghe braccia di Thorn la sollevarono prima che toccasse terra col naso.
- Papà – esclamò la piccola, felice. O forse intendeva dire pappa, dato che si mise a ciucciare uno dei nastri delle spalline della giacca da intendente di Thorn, facendoglielo sbrilluccicare di saliva.
Thorn guardò con aria scettica Ofelia, poi Renard, Gaela, la zia Roseline, Vittoria e infine Salame, come se fossero complici di un terribile misfatto.
Ofelia si strinse nelle spalle: - Volevamo provare a farla camminare un pochino accompagnata, ma ci ha preso talmente gusto che ha deciso di fare tutto da sola. Le piace l’indipendenza.
- Mi ricorda qualcuno – bofonchiò Thorn, talmente piano che nessuno lo udì.
In quel momento entrarono nel soggiorno Berenilde e Archibald, che nessuno aveva invitato e nessuno sapeva fosse lì, con aria visibilmente insonnolita, come se avessero schiacciato entrambi un pisolino.
- Che bella dormita – mormorò Berenilde, sorniona, accarezzando i capelli di Vittoria.
- Può ben dirlo, madama – rincarò Archibald, facendosi scrocchiare la schiena.
Tutte le persone nella stanza, e pure la sciarpa e il gatto, si voltarono a fissarli. Berenilde ci mise alcuni secondi ad accorgersi dell’equivoco. – Oh, no, non abbiamo dormito insieme. Sarebbe sconveniente, non trovate?
Archibald ridacchiò: - Ne valeva la pena, però, dovreste vedere le vostre facce.
Ofelia pensò che niente valeva la pena quando in cambio si otteneva quello sguardo inferocito da parte di Thorn, a stento controllato. I suoi occhi d’acciaio brillavano minacciosi, e la cosa sembrava divertire l’ambasciatore ancora di più. Come se non bastasse, Serena si divincolò per essere messa a terra e sgattaiolò corricchiando come un’ubriaca verso Archibald, aprendo e chiudendo le manine per farsi prendere in braccio.
- Papà! – gridò di nuovo, imperiosa, mentre l’ambasciatore la prendeva in braccio tenendola sotto le ascelle come un sacco di patate.
Decisamente, non stava gridando “papà” ma “pappa”. Dal momento che la tolleranza di Thorn aveva un limite molto sottile che sembrava essere stato ampiamente varcato, e se ne resero conto tutti, si affrettarono a prendere posto a tavola. Gaela accettò di restare a cena, con qualche impropero che nel suo gergo voleva essere fatto passare per un ringraziamento, e quindi anche Renard per una sera cenò insieme a loro, invece di seguire l’amata fuori casa.
Non fu una delle cene migliori, con Archibald che faceva battute allusive impunemente, irritando ora Renard ora Thorn, talvolta anche la zia Roseline, che per la maggior parte delle volte però arrossiva e guardava l’ambasciatore di sottecchi. Berenilde sorbiva con tranquillità il pasto, come se fosse tutto normale, e Serena, stranamente agitata, si sbrodolò con il purè più del solito e scagliò pezzi di pane in giro per la tavola ridendo. Per lo meno Ofelia, impegnata com’era a ripulire Serena, non dovette preoccuparsi di tenere viva la conversazione: Archibald parlava per cinque, Gaela imprecava per dieci, mentre la zia Roseline cercava di riportarli all’ordine.
Nonostante il caos, quando finalmente Serena si quietò e mangiò più o meno educatamente, Ofelia prese un lungo respiro e guardò uno per uno i commensali. All’improvviso l’assalì la nostalgia di casa, insieme ad uno strano senso di rimpiazzo. Per la prima volta erano tutti seduti insieme a mangiare come una vera famiglia, non come quelle di Anima, in cui per davvero erano un’unica grande famiglia, ma un nucleo variegato e spumeggiante, divertente ed energico. Inclusi Archibald, Gaela e Renard, che Ofelia in qualche modo considerava degli amici, per quanto l’ambasciatore potesse essere insondabile. Ofelia ringraziò anche che a quel tavolo, a parte lei e la zia Roseline, non ci fossero animisti: sarebbe stato impossibile cenare con piatti, bicchieri, stoviglie e spezie che davano di matto per via delle diatribe e offese in corso. Con la coda dell’occhio notò, però, che tra le mani impacciate di Serena il cucchiaino tremolava leggermente.
Ofelia si augurò di aver visto male e, cercando di non pensarci, distolse lo sguardo. Una cosa alla volta, quel giorno bastava il progresso della camminata. Si sarebbe preoccupata in un secondo momento dello sviluppo dei poteri familiari della piccola.
Finito di cenare, Thorn si dileguò senza proferire parola. Ofelia si augurò che il suo atteggiamento distaccato dipendesse dalla presenza di Archibald, ma una piccola parte della sua coscienza le mormorava, malefica, che non era tutta causa dell’ambasciatore.
Un paio di ore dopo, con Serena addormentata in braccio, esausta per la giornata produttiva, Ofelia varcò la porta della camera. Thorn era seduto sul bordo del letto, come un ragno, con le gambe piegate e i gomiti su di esse, il mento appoggiato alle mani intrecciate. Era tutto curvo e sembrava pronto a rotolare via con un soffio di vento. Peccato che fosse molto più forte di quanto dava a vedere.
- Oh, sei qui – mormorò Ofelia, depositando Serena nella culla con la sciarpa. – Avevi da fare? – indagò, cercando di venire a capo del suo comportamento.
- Lavorerò da casa da ora in poi. Tre giorni la settimana su sei.
Ofelia, già diretta verso il bagno, si bloccò, rischiando di cadere.
- Lavori da casa?
Thorn non fece nemmeno lo sforzo di alzare lo sguardo, fissamente puntato su un angolo del tappeto che non era perfettamente allineato all’asse del parquet.
Non ottenendo risposta, Ofelia continuò: - Perché?
Questa volta, forse cogliendo la nota incalzante nel tono della moglie, Thorn rispose tra i denti: - Perché non sono abbastanza presente.
Intuendo che la faccenda si stava facendo seria, Ofelia tornò indietro e, cercando di non cadere addosso a Thorn, si accovacciò ai suoi piedi.
Stava per porgli un’altra domanda affinché continuasse, ma non ce ne fu bisogno. Le parole fluirono dalla bocca di Thorn con la solita eloquenza impeccabile.
- Serena sta crescendo e deve avere al fianco una figura paterna chiaramente identificabile. Non voglio che mi scambi con il tuo consigliere o l’ambasciatore, prendendo più confidenza con loro che con il suo legittimo padre. Io… non ne ho avuto uno. Non voglio che per Serena sia lo stesso.
La gravità, il dolore dietro le parole di Thorn la colpirono come un pugno nello stomaco, quasi che fossero state animate o che gli artigli di Thorn fossero entrati in azione. A volte tendeva a dimenticare che, al di là della compostezza impassibile e austera, delle poche frasi d’affetto e dei modi da tagliacarte, della mentalità logica e calcolatrice, Thorn era sensibile. Era umano. E soffriva ancora per la sua infanzia, o la sua non infanzia. Nella vita di ogni bambino dovrebbero esserci due figure portanti, due genitori su cui fare sempre affidamento. Lei li aveva avuti, anche troppo a dire il vero, mentre Thorn no.
Per Serena quelle due figure erano lei e Thorn, ed era giusto che lui si prendesse il tempo necessario per stare con la bambina. Perché, quanto meno, lei si rendesse conto di avere un padre che non anteponeva il lavoro a tutto il resto. Ofelia sapeva che, nonostante la prima impressione potesse essere proprio quella, in realtà Thorn avrebbe sempre mostrato il meglio di sé con loro, e non al lavoro.
Ofelia si rialzò e lo baciò dolcemente sulla guancia, prendendolo alla sprovvista.
- Ne sono felice – mormorò, cercando di trattenere il sorriso intenerito che voleva piegarle gli angoli della bocca.
Ofelia confermò quell’asserzione quando, due giorni dopo, e nei giorni a venire, Serena si fece a capire a gesti, parole e sgambettate: voleva andare dove lavorava papà, e solo giunta nel suo studio si calmava, si acciambellava per terra e giocava in silenzio. Non emetteva un suono se non era Thorn a farlo per primo, e bisbigliava con i suoi pupazzi quando lui prendeva una telefonata o ne effettuava una. Il modo in cui emulava Thorn riempiva Ofelia di tenerezza, così come il modo in cui Thorn rimaneva estremamente concentrato sul lavoro ma senza mai perdere di vista la figlia, pronto ad intervenire in caso di bisogno. Allo stesso tempo, le faceva un po’ paura quella somiglianza.
Una figlia con gli stessi modi, gli stessi interessi e abitudini di Thorn…
Quando ne parlò con Renard, lui aprì il mobile del soggiorno e versò un abbondante bicchierino di liquore a entrambi. Finirono per ridere come dei matti con la gola in fiamme.
E un sano timore che scorreva nelle loro vene mischiato all’alcol.
 
Come accennato, i primi passi autonomi di Serena furono anche il preambolo alla domanda di matrimonio da parte di Renard per Gaela.
Poche settimane dopo la sua prima camminata, infatti, Serena era diventata talmente sicura che prendeva e andava in giro da sola, senza avvertire nessuno. Il fatto che fosse estremamente silenziosa non contribuiva ad aiutare Ofelia a tenerla d’occhio quando era occupata. Bastava che si girasse un attimo e Serena era sgusciata via caracollando sulle gambette cicciottine, in esplorazione, indipendente. Renard era diventato ufficialmente una balia, ma più di una volta la piccola era scappata pure a lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso con Ofelia. Il fatto che Serena fosse intraprendente e sicura di sé le metteva una certa ansia, perché se la immaginava già grande, inarrestabile, a battersi per quello che voleva. Con pacatezza mista a profonda determinazione. Il pensiero aveva un retrogusto dolceamaro: forse Serena sarebbe riuscita ad imporsi come lei non era mai riuscita a fare con sua madre. Per quanto la amasse, non poteva negare che il carattere della madre fosse opprimente, e Ofelia aveva sempre odiato le leggi imposte dai costumi di Anima e da Sophie.
Gli sporadici episodi in cui Serena era riuscita a sfuggire all’attenzione di Renard, be’… solo una cosa, o meglio, una persona era capace di distrarlo al punto di fargli dimenticare i propri doveri. Un giorno, però, Ofelia se ne accorse.
Era in cucina alla ricerca di una mela, approfittando della mancanza della cuoca per potersela mangiare a morsi e non tagliata e sbucciata come la domestica gliela preparava sempre, quando Serena entrò in cucina. Fu il tonfo che fece quando atterrò sul sedere che annunciò ad Ofelia la presenza della figlia. La prese in braccio con la mela ancora in bocca, aggrottando la fronte. Era stato Renard ad insistere per poter passare un po’ di tempo con Serena, come mai allora lei era da sola?
La piccola la aiutò a scoprirne il motivo.
- Mamma! – chiamò, scandendolo perfettamente. Poi con le manine davanti alla bocca mimò il gesto di un bacio, ripetendolo. – Enad!
Nonostante ancora facesse fatica a pronunciare il nome del padrino, Ofelia capì che si riferiva a lui, e anche che era impegnato a dare baci. Sempre più perplessa, andò verso il salotto con la figlia in braccio, bloccandosi in mezzo al soggiorno: Renard e Gaela erano sdraiati a metà tra divano e tappeto. Mugugni soddisfatti e schiocchi di baci riempivano l’aria.
Ofelia si sistemò Serena in modo che desse le spalle alla scena, mentre il fiato le rimaneva bloccato in gola rumorosamente. Resisi conto di non essere più soli, Renard e Gaela si fermarono, lei con le mani tra i capelli di lui, spettinati e ribelli come il fuoco vivo, e lui con il viso seppellito nel suo collo. Entrambi divennero erubescenti come i favoriti fulvi di Renard.
Quest’ultimo scattò in piedi, mortificato, nel più completo imbarazzo. – Perdonatemi padrona, non so cosa mi sia preso. È stato un atteggiamento deplorevole e… ho mancato di professionalità, trascurando il mio compito. Io vi chiedo umilmente perdono e…
Renard continuò a balbettare confusamente parole di sconforto e redenzione mentre Gaela, serafica come se fosse stata intenta a prendere il tè e non in procinto di copulare sulla tappezzeria, si rialzò spolverandosi e sistemandosi le bretelle della salopette.
- Smettila con questi paroloni. Non hai mica ucciso qualcuno.
Ofelia voleva dirle che un pochino la decenza l’aveva uccisa, dato che la sua cintura era già palesemente slacciata, ma si trattenne per affetto verso Renard. Si vergognava talmente tanto da non riuscire a guardare in faccia Gaela, tantomeno Ofelia.
Fu Serena a trarli fuori dall’impaccio.
- Enad! – esclamò, agitandosi in braccio alla mamma per girarsi verso il padrino. Continuò a mandare baci ridendo, come per incitarlo a riprendere da dove si era interrotto.
Se possibile, il consigliere avvampò ancora di più e si dileguò. Salame sbucò fuori da dietro le gambe di Gaela, sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, e prese a fare le fusa contro le caviglie della meccanica. Dal canto suo, imperturbabile, lei si rimise la sigaretta spenta tra i denti. Con lo sguardo sembrava quasi voler sfidare Ofelia a dirle qualcosa, ma la padrona di casa la conosceva abbastanza bene da sapere che era dispiaciuta anche lei. Non tanto per lo slancio di passione incontrollata, quanto per la perdita di vista di Serena, che si sarebbe potuta fare davvero male senza supervisione.
- Mi sa che devo tornare al lavoro – disse congedandosi, avviandosi verso la porta. Poi si fermò e, contrariamente a tutte le sue abitudini, si scusò: - Non succederà più. Renard però è più libero rispetto a me e questo è l’unico posto in cui riusciamo a vederci in pace.
Ofelia sapeva che Gaela viveva ancora a Chiardiluna, in cui la mancanza di privacy era totale e la riservatezza non esisteva. Per un attimo provò pena per Renard e Gaela, che sembravano sempre in difficoltà: la loro storia non era di sicuro facile. Le ricordava un po’ la sua…
Sorrise leggermente, attirando l’attenzione di Serena. – Dì ciao alla madrina. Dille che vuoi che torni presto.
- Ciao maina! Tonna pesto! – ripeté la piccola, per nulla turbata.
Gaela si voltò senza aggiungere altro, imboccando la porta, ma Ofelia aveva visto il sorriso che le aveva incurvato gli angoli delle labbra.
Possibile che Renard, per una volta, avesse bisogno dei suoi consigli?
 
- Come posso fare una cosa del genere, ragazzo?
Renard si era dato alla macchia in modo decisamente codardo da quando Ofelia lo aveva colto in flagrante con Gaela. Aveva smesso di cercarlo giusto il tempo di pranzare e alla fine era stato Thorn a scovarlo per lei, nel pomeriggio. Era rientrato prima per lavorare da casa, e nel momento in cui aveva messo piede nel suo studio con Serena in braccio, accigliato, Renard ne era sgusciato fuori profondendosi in molteplici scuse. L’imbarazzo e il disagio lo rendevano goffo quasi quanto Ofelia, che non poté impedirsi di sorridere.
Lo trascinò in salotto per parlargli, e lo vide torturarsi le mani, agitando la chioma rossa, irrequieto. Sembrava una montagna in procinto di franare. Ofelia lo aveva fatto accomodare sul divanetto e aveva preso posto sulla poltrona di fronte a lui. La zia Roseline era andata a schiacciare un pisolino e Berenilde li avrebbe raggiunti a cena.
- Mi dispiace, davvero, prometto che…
- Non è successo nulla di grave, Renard… - disse Ofelia contemporaneamente.
Nessuno dei due capì cosa l’altro avesse detto, e alla fine si misero a ridere.
Ofelia intervenne per prima, senza dargli la possibilità di parlare ancora. – Renard, non è successo nulla di male. Sarebbe potuto accadere, a dire il vero…
Renard avvampò.
- Ascolta, questo palazzo, castello, villa, chiamalo come vuoi, ha un sacco di stanze. Io… posso capire la tua impazienza… - mormorò arrossendo a sua volta. Non era e non sarebbe mai stata a suo agio con certi argomenti. – Evita il soggiorno, per favore. Ci sono tante camere libere, lì è più improbabile che Serena vi veda. Non dimenticare che ha la memoria degli storiografi, non sarei molto tranquilla sapendo che, girando per casa, potrebbe trovarsi di fronte certe scene.
- Avete perfettamente ragione, il mio atteggiamento è stato deplorevole. Chiunque altro mi avrebbe portato di fronte al plotone di esecuzione.
Ofelia scosse la testa, disgustata a quell’idea.
Rimasero in silenzio per alcuni istanti, mentre Ofelia attendeva che Renard tirasse fuori tutto quello che voleva dire.
- Il fatto è, ragazzo, che come dice sempre Gaela questo è l’unico posto in cui possiamo vederci in libertà. Non sto dicendo che sia il sordido covo di tresche amorose clandestine, sia chiaro, ma Gaela vive ancora a Chiardiluna e io, non lavorando più lì, rischio guai grossi se vengo trovato nei suoi alloggi senza autorizzazione. Lei invece non è sotto alle direttive di nessuno, anche se tecnicamente lavora per Archibald, però può andare e venire a piacimento. Non abbiamo altro posto.
Ofelia rifletté sulla questione. In un certo senso, quel muscoloso uomo buono come il pane le faceva tenerezza, tutto incurvato sul divano, affranto. Renard era caloroso, qualche volte impertinente, divertente e positivo. Vederlo abbattuto la metteva a disagio.
- Non vi sto impedendo di vedervi, Renold. Vi ho detto anche che potete prendervi la camera che volete. Ma non hai pensato di chiederle di sposarti?
Renard trasalì.
- Sì – ammise dopo un po’. – Io vorrei sposarla dal primo momento che ho messo gli occhi su di lei. Però non è così facile. Io non… non possiedo nulla, ragazzo. Cosa potrei mai offrirle? Non potrei mai andare a vivere lì, lei odia quel posto, ma temo di non avere i mezzi necessari a comprare una casa.
Ofelia si rese conto che non sapeva nulla dello stipendio di Renard, nonostante tecnicamente fosse un suo dipendente. – Non vieni pagato abbastanza?
Non voleva essere un’accusa, quanto una semplice domanda, ma Renard si mise subito sulla difensiva, raddrizzandosi. – Oh, no, non volevo dire questo. Il mio salario è più che equo, anzi, forse addirittura troppo elevato per le mansioni che svolgo. È proprio una questione di burocrazia. Nessun istituto in questo sistema darebbe credito ad un consigliere, o a chiunque non abbia una garanzia solida alle spalle, a meno che io non compri una di quelle catapecchie nei bassifondi. Il mio orgoglio, lo ammetto, me lo impedisce.
Ofelia si rese conto ancora una volta di quanto fosse stata fortunata. Il suo era un matrimonio combinato, certo, ma oltre ad essere andato bene, fortunatamente, sotto il profilo coniugale, anche da quello finanziario non poteva lamentarsi. Non sapeva a quanto ammontasse il patrimonio di Thorn, se non per il suo possesso di un numero di castelli che nemmeno ricordava, ma sapeva per certo che non doveva essere poco. Non si era mai dovuta preoccupare di cose come la dote o la casa.
All’improvviso spalancò gli occhi, colta da un’illuminazione, ma Renard non parve notarla. Aveva preso il via, ormai, e tutte le sue angosce strabordarono come acqua da una coppa già piena. – Per caso avete chiesto al signor intendente la faccenda dell’officina? Vedete, in quel caso potremmo chiedere all’ambasciatore, per quanto l’idea non mi alletti, di mettere una buona parola sull’operato di Gaela, e probabilmente ci permetterebbero di aprire una nostra attività. Anche in quel caso, però, rimarrebbe la questione della dimora. E io personalmente non vorrei essere troppo distante da qui. Potremmo prendere uno stabile che abbia anche un piccolo appartamento sopra l’officina, ma temo che sarebbe un po’… squallido. Mi rincresce, ma pare che questa volta sia io quello che necessita consigli, ragazzo.
Ofelia sorrise a quello che, prima di tutto, era un suo intimo amico.
- Non ho chiesto a Thorn, mi dispiace, lo ammetto. Ma potrei avere un’altra soluzione, lasciatemi solo porre la questione a mio marito. Voi intanto vedete di procurarvi un anello.
Renard parve ancora più abbattuto. – Ce l’ho già, l’anello, da diversi mesi. Non ho mai trovato il momento adatto per darglielo.
Ofelia gli lanciò un’occhiata significativa, al che Renard distolse lo sguardo.
- Il coraggio, va bene, il coraggio. Non ho mai trovato il coraggio di darglielo. Anzi, – esclamò, rovistando nelle tasche, - potrei chiedervi l’immenso favore di conservarlo in attesa dell’attimo perfetto? Gaela ha l’abitudine di afferrarmi per le tasche per bac… cioè…
Ofelia si trattenne a stento dal ridere quando lo vide arrossire e farfugliare, come se non fosse già di per sé abbastanza scarlatto. Accettò la scatolina.
- Posso? – chiese quasi timidamente.
Renard parve intimorito, ma annuì.
L’anello che Renard aveva preso per Gaela era semplice, d’oro bianco, senza fronzoli, una classica fascia con una piccolissima pietra azzurra incastonata nella banda. Nulla di eclatante, ma proprio per questo Ofelia era certa che sarebbe piaciuto a Gaela. Non se la immaginava proprio ad indossare brillanti, e anche solo un anello era un azzardo.
- Che… che ne pensi, ragazzo? – mormorò Renard, che si era curvato come se sulle spalle portasse un peso più grande di lui.
Ofelia distolse lo sguardo dall’anello e lo fissò su di lui con affetto. – Ne penso che le piacerà tanto, davvero tanto. È perfetto per lei.
Renard parve illuminarsi di una luce interiore. – Dite sul serio?
- Assolutamente.
Era come se i suoi stessi capelli avessero ripreso vita, più rossi del solito. – Vi sono così grato per il vostro parere. Dovrei davvero smetterla, però, perché si dà il caso che io sia pagato per dare consigli a voi, e non viceversa.
Ofelia rise di gusto.
- L’ho notato solo ora. Voi non portate anelli.
Ofelia osservò le sue disadorne dita guantate, che utilizzò subito dopo per accarezzare Salame e spostare la sciarpa in modo che non bisticciassero come sempre.
- No, difatti. Diventa abbastanza complicato portarne quando si indossano quasi costantemente dei guanti. E Thorn non è proprio tagliato per qualsiasi tipo di orpello.
Renard annuì gravemente. Da un lato a Ofelia dispiaceva di non poter esibire la prova della sua unione con Thorn, la vera nuziale, ma dall’altro, maldestra com’era, sapeva che l’avrebbe persa subito o, peggio, rotta. Si immaginò l’anulare di Thorn cinto dalla fede, che sarebbe stata davvero bene sulla sua mano grande e affusolata.
Un brivido le corse giù per la schiena e si affrettò a far cambiare rotta ai suoi pensieri. Pensare alle mani di Thorn era come accostare un fiammifero alla brace: prendeva fuoco subito. Aveva un debole per quelle mani, e si vergognava ad ammetterlo, come se fosse una cosa sbagliata.
- Lasciatemi parlare con Thorn. Vedrete che troveremo una soluzione. Voi, piuttosto, cercate di convincervi a farle la proposta quanto prima.
Renard fece una smorfia. – Ci penserò, ragazzo, ci penserò.
Ofelia si alzò, subito seguita dal consigliere, ed entrambi allungarono un braccio: una per recuperare la sciarpa che cercava di scappare dal gatto, l’altro per recuperare il gatto in questione. Si augurarono la buonanotte con un sorriso e Ofelia puntò dritta verso lo studio di Thorn.
Si bloccò sulla soglia quando vide la scena che le si prospettava di fronte: stanca di giocare, Serena di era appisolata contro la spalla del papà, che con un braccio se la teneva stretta al corpo e con l’altro scriveva con precisione e velocità alcuni appunti. Aveva l’attenzione puntata su tre diversi manuali di chissà cosa e un mucchietto di documenti, ma sollevò lo sguardo su Ofelia appena entrò. Non distolse gli occhi da lei, continuando nel frattempo a scrivere senza una sbavatura o una deviazione, finché non prese posto di fronte a lui.
- Di quali questioni così urgenti dovevi parlare con il tuo consigliere?
Ofelia trattenne a stento un sospiro. La gelosia di Thorn era proprio inguaribile, ma alla fine, in fondo, era una prova del suo interesse. Non era mai diventata così patologica da crearle preoccupazione.
- Del suo matrimonio con Gaela.
Thorn ripose la penna nel calamaio. Aveva la sua completa attenzione.
- Si sposano?
- Dovrebbero. Lui ha intenzione di chiederglielo, ma non è facile nella loro situazione.
- Quale situazione? – domandò Thorn, glaciale come se stessero parlando di qualche catastrofe causata da Ofelia.
- Non hanno i mezzi necessari ad acquistare una dimora… consona. In più Renard vorrebbe che Gaela mettesse su la propria officina meccanica per affrancarsi dal bugigattolo in cui vive, a Chiardiluna, ma non è facile senza una garanzia. Gli istituti di credito non concedono somme di denaro a chi non ha grandi patrimoni di copertura.
Thorn aggrottò le sopracciglia e si mosse rigidamente sulla sedia. Ofelia sapeva che, se non avesse avuto Serena in braccio, avrebbe posato i gomiti sulla scrivania e il mento sulle mani giunte. Lo conosceva quasi quanto se stessa, ormai. Invece mise la bimba in una posizione più comoda, affinché gli stesse sdraiata in grembo e non seduta appoggiata alla sua spalla.
- Posso pensarci io, a quello. A fare da garante per l’officina, intendo. È questo che sei venuta a chiedermi, no?
Ofelia venne trasportata indietro nel tempo, a quella fredda notte in cui era andata di nascosto a trovare Thorn all’intendenza, quando lui era stato attaccato. Rammentava tutte le concessioni che lui aveva fatto senza battere ciglio, solo per, ora se ne rendeva conto, cercare di apparire positivamente ai suoi occhi. Non pensava di essere una moglie che richiedeva grandi cose, ma ricordare di quando non amava Thorn e gli aveva fatto tutte quelle richieste la metteva a disagio.
Lasciò vagare lo sguardo su Serena e poi, come calamitato, sulle mani di Thorn, e si affrettò a distoglierlo prima di arrossire. No, non era andata da lui solo per chiedergli quello. Non solo, insomma…
- Veramente… volevo chiederti anche se potremmo dargli uno dei nostri castelli in prestito…
Thorn questa volta spalancò gli occhi, prima di tornare ad accigliarsi.
La richiesta non le era sembrata così grande quando l’aveva formulata nella sua mente. Una garanzia per l’officina e un castello come residenza. Erano regali nuziali adeguati, no? Del resto, però, erano decisamente impegnativi, molto più onerosi di una paga per un consigliere.
Si aspettava un rifiuto, che come al solito non arrivò. – I miei… i nostri castelli non sono esattamente qui vicino, Ofelia. Se gliene diamo uno dovremmo costringerli ad allontanarsi e ad aprire un’officina in una zona che non conoscono. Il più prossimo dista quattro ore di carrozza.
Gli occhiali di Ofelia impallidirono e la sua sciarpa si agitò nervosamente.
Più di tutto, però, si rese conto che come al solito Thorn non le aveva negato quella strampalata richiesta.
In ogni caso, proporla a Renard e vederlo accettare avrebbe comportato separarsi da lui. Non avrebbe potuto lavorare ancora per lei, distando così tanto. Deglutì a fatica e riportò gli occhi su Thorn.
- Saresti davvero disposto a cedergli uno dei nostri castelli?
Thorn si strinse appena nelle spalle. – Non è una richiesta impossibile. Sono dimore che comportano ugualmente spese dal punto di vista elettrico, di mantenimento e pulizia. Il fatto che qualcuno ci abiti non aggrava minimamente l’onere che comporta.
Ofelia parlò prima di riuscire a trattenersi: - Mi negherai mai qualcosa?
Thorn la fissò con intensità, con quel suo sguardo metallico, da predatore, che le rimescolava l’intestino e le faceva venire voglia di andargli più vicino, come un uccello nelle grinfie di un ipnotico serpente.
- Dipende dalla richiesta – bofonchiò lui, per nulla consapevole dell’atmosfera che aveva creato. Elettrica.  – Per ora mi hai sempre domandato cose alla mia portata, concedibili.
Ofelia si alzò dalla sedia e si sporse sulla scrivania, avvicinandosi a Thorn così tanto che a separarli c’erano solo i loro respiri. E i documenti. Lui non parve far caso al fatto che lei glieli aveva spiegazzati e spostati tutti.
- Al di là del tipo di richiesta, ormai sono sicura che non ci sia nulla che non tu non faresti per me.
Thorn, a tradimento, si allungò per posarle un bacio delicato sul collo, che lasciava intendere ben altre intenzioni. – Pensavo che la cosa fosse ormai palese da tempo. Se te ne sei resa conto solo ora significa che non sono stato abbastanza trasparente e chiaro.
Ofelia raggiunse la sua bocca e lo baciò con passione, sorridendo appena quando lo sentì rispondere con la stessa intensità. Cercò di infilargli una mano tra i capelli per tirarselo ancora più vicino, ma com’era prevedibile perse l’equilibrio. Thorn si scostò per proteggere Serena e allo stesso tempo allontanò il calamaio, memore di cos’era successo l’ultima volta che Ofelia si era trovata in prossimità di una boccetta di inchiostro.
- Forse è meglio se andiamo in camera – mormorò, vergognandosi della sua solita goffaggine.
Gli occhi di Thorn ardevano di un sentimento represso con tanto vigore da fargli ignorare il caos che regnava sulla sua scrivania.
- Sono d’accordo – concordò, come se stessero commentando il tempo o la cena.
Più tardi, mentre entrambi cercavano di non fare troppo rumore per non svegliare Serena che, come al solito, dormiva profondamente, Thorn si bloccò sul più bello. Ofelia gemette di impazienza.
- Se hai altre richieste da farmi, questo è il momento giusto. Sono incline alle concessioni, ora.
Ofelia non poté evitare di scoppiare a ridere.
- Voglio che ci trasferiamo su Anima e che Archibald venga a vivere con noi.
Thorn perse quello che lei aveva catalogato come buonumore, sebbene per uno come Thorn fosse quasi impossibile riconoscerlo. Parve quasi spaventato.
- Parli sul serio? – chiese, con voce roca, un po’ per la paura e un po’ per la situazione.
Ofelia sorrise scuotendo la testa. – Baciami come si deve, Thorn.
Come al solito, lui l’accontentò di buon grado.
 
- No, ragazzo, non posso proprio!
- Ma perché, Renold? Ne ho già parlato con Thorn, ci fareste un favore addirittura!
- Voi non… ah! Mettetevi nei miei panni! Vivrei con la costante consapevolezza di non essere riuscito a mettere con le mie mani un tetto sopra la testa della mia signora! Sarebbe una dimora in prestito, non potremmo mai sentirla come nostra, per quante concessioni possiate farci e quanto sia grande la vostra generosità! E poi, il lavoro? So che come consigliere non è che sia proprio utile, ultimamente, e volevo parlarvi anche di questo, ma come farei se andassi ad abitare a quattro ore da qui? Dovrei licenziarmi e cercare un altro lavoro, che non sarebbe mai retribuito quanto questo, scusate il commento materialista, e con quali prospettive? Non so fare altro che il valletto, ed è una carriera ingrata che non mi sento più di voler intraprendere.
Ofelia si accarezzò la sciarpa, rattristata. Le argomentazioni di Renard non erano affatto campate in aria, ed era quello a metterla ancora più in difficoltà. Aveva agito con le migliori intenzioni, e Renard lo sapeva, ma questo non toglieva che le sue proposte lo umiliassero dal punto di vista di capofamiglia.
- L’unica è crearci un piccolo spazio all’interno dell’officina. Il signor intendente ha avallato questa decisione, giusto?
Ofelia annuì. Almeno l’officina sarebbero stati in grado di aprirla.
Renard si alzò, scompigliandosi i folti capelli rossi con un moto di frustrazione. – Bene, almeno questo è fattibile. Io ti… vi sono davvero grato, Ofelia, permettetemi di dirlo, mia padrona, per la vostra solerzia. Nessuno, ve lo posso assicurare, ha mai fatto tanto per me. Nessuno.
 L’oscurità si abbatté su di lei nel momento in cui Renard, repentinamente quasi quanto Thorn, si chinò su di lei per abbracciarla. La stretta non era possessiva quanto quella del marito, non le trasmetteva la stessa sensazione elettrizzante e rilassante allo stesso tempo, la consapevolezza di essere esattamente dove avrebbe dovuto, e voluto, essere. Non sentiva quell’abbraccio come un ritorno a casa.
Ma fu lo stesso piacevole, una breve interazione tra due persone che si rispettavano a vicenda e volevano il meglio l’uno per l’altra. Ofelia gli accarezzò il viso teneramente quando si scostarono.
Un raschiare di gola li colse quando non si erano ancora separati.
Gaela se ne stava all’entrata del salotto, sigaretta in bocca e occhi infiammati da un misto di collera, sdegno e gelosia cocente.
- Ho interrotto qualcosa? – domandò con i suoi soliti modi bruschi.
Ofelia si affrettò ad alzarsi, rischiando di inciampare su Salame che le si era giustamente attorcigliato ai piedi. Renard le afferrò il braccio per impedirle di cadere, ma la mollò subito, come se ne fosse rimasto scottato.
- Gaela, sono lieta di vedervi… - cominciò Ofelia, lievemente a disagio, ma Renard la interruppe.
- Andate pure, ci penso io qui. Devo discutere alcune cose in privato.
Ofelia per una volta fu lesta ad obbedire, e si diresse in camera dove la zia Roseline giocava con Serena. O meglio, Serena giocava con la zia, dato che non faceva che correre da una parte all’altra della camera per non farsi prendere.
- Per tutti i vocabolari del vecchio mondo, come fa ad avere tutta questa energia una bimba così piccola? Ofelia, ti prego, lasciami andare a prendere un bicchier d’acqua, ho la schiena a pezzi.
La zia se ne andò senza darsi il disturbo di chiudere la porta, e Ofelia ridacchiò. Serena le corse incontro per farsi prendere in braccio, ridendo da sola, e la mamma la depositò sul letto. Si sedette con lei per dedicarle un po’ di tempo, però la sua attenzione fu catturata dalla scatolina contenente l’anello di fidanzamento di Renard per Gaela. Lo aveva posato sul comodino in attesa di trovargli una sistemazione più adeguata, ma ancora non aveva idea di dove lo avrebbe messo.
Oltretutto, pensò, se l’anello era lì con lei come avrebbe potuto Renard consegnarlo a Gaela?
Più che un consiglio, le sembrava che al suo consigliere servisse un miracolo.
Rimise il gioiello al suo posto e riportò l’attenzione sulla figlia, che le si arrampicò addosso.
- Mamma chiudi occhi! – esclamò, posandole le manine sulle lenti degli occhiali.
Questi di scurirono di paura nella stretta delle piccole dita, estremamente forti, della bambina.
Ofelia le sorrise. – Va bene, chiudo gli occhi e poi?
Con gli occhi serrati, per accontentarla, Ofelia sentì la figlia battere le mani. – Cecca bimbo!
- Devo cercarti? – le chiese, mentre la sentiva scendere dal letto. Allungò un braccio per aiutarla ad arrivare a terra senza che si facesse male, ma Serena le intimò di non aprire gli occhi.
Ofelia sorrise rendendosi conto di quanto la piccola fosse già imperiosa; del resto, nelle sue vene ribolliva il sangue di Thorn e Sophie. Fu pervasa da un’ondata di affetto per la figlia che la riscaldò dentro, facendole anche sentire la mancanza del marito, che non sarebbe rientrato che nel pomeriggio.
Quando si riebbe dai suoi pensieri e aprì gli occhi, si rese conto che Serena era sparita.
Insieme alla scatolina con l’anello.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


In questo capitolo finalmente ho accelerato un po' le tempistiche (era da tipo 15 capitoli che ristagnavamo lì, devo darmi una mossa) e quindi ci sono un SACCO di cose.
Non dico altro per non spoilerare, lascio un commento alla fine xD
Contropartite lo aggionerò questa sera, devo ancora rifinirlo...
Buon divertimento (spero) ;)


Capitolo 21

Ofelia scattò in piedi così repentinamente da rischiare di cadere. Inciampò infatti sui suoi stessi piedi e il tappeto, contagiato dalla sua esplosione di ansia, iniziò ad ondeggiare come un piccolo mare in tempesta. Si precipitò fuori dalla stanza, certa di trovare la figlia appena oltre lo stipite, ma rimase stupita quando invece la vide quasi a metà corridoio, mentre correva ridendo caracollando sulle gambe corte e grassocce. Con la scatolina di velluto in mano.
Ofelia aggrottò la fronte. Com'era possibile che fosse così veloce? Sua figlia cominciava a ricordarle in modo fin troppo inquietante Thorn. Chissà se avrebbe preso da lui anche l'altezza smisurata e la fisionomia allampanata. Per quanto amasse tutto del marito, si augurava proprio di no.
Corse dietro a Serena senza pensarci ma questa volta la sua goffaggine non gliela fece scampare. Ofelia cadde lunga distesa nel corridoio, perdendo anche gli occhiali. Dopo un primo istante di smarrimento si mise a cercarli con frenesia, e fu la sciarpa, come spesso accadeva, a rimetterglieli sul naso.
Ofelia si rialzò e cercò nuovamente di prendere la piccola prima che combinasse qualche guaio o si facesse male.
Ti prego prosegui dritta, ti prego prosegui dritta, implorò mentalmente la figlia, che giustamente girò a destra senza un'esitazione. Direttamente dentro il salotto. Sperò che la scatolina le cadesse e finisse sotto il divano prima che Gaela la vedesse, e si augurò anche che lei e Renard non fossero in procinto di... nel suo salotto, poi!
Entrò nel salone con il fiato corto, terrorizzata. La prima cosa che registrò fu che Gaela e Renard stavano discutendo sul divano più o meno compostamente; quindi Gaela berciava con la sigaretta spenta in bocca e Renard la guardava in adorazione.
Si girarono entrambi nello stesso momento quando Serena gridò: - Enad e ma-ina!
Mandò loro un bacio con entrambe le mani, facendo cadere la scatolina proprio di fronte ai loro occhi. Era dunque abbastanza impossibile non notarla. O fraintendere quale potesse essere il contenuto.
Gaela aggrottò le sopracciglia. - Cos'hai fatto cadere, macchietta di morchia?
A Serena quel nomignolo faceva ridere tantissimo, e ogni tanto Ofelia la sentiva ripetere "maietta di moia" come se fosse una canzoncina. L'attimo dopo decantava formule matematiche incomprensibili e la cosa faceva parecchio divertire Ofelia. Thorn solitamente la guardava con un sopracciglio aggrottato e un angolo della bocca impercettibilmente incurvato, la massima dimostrazione di ilarità che ci si potesse aspettare da uno come lui.
Serena raccolse la scatolina con gesti impacciati e corse a porgerla alla madrina.
- Egalo! - esclamò contenta.
Renard sbiancò e cercò lo sguardo di Ofelia, che si stava già mordendo le cuciture del guanto.
- Aspetta, Serena! - esclamò correndo in contro alla piccola e prendendola in braccio, scatola compresa. - Non bisogna prendere le cose degli altri, e questa non è tua...
Serena si imbronciò appena. - Egalo! Ma-ina!
- Ma non è un regalo tuo - si lasciò sfuggire Ofelia.
Gaela li fissò trucemente e, per rendere ancora più evidente la cosa, si tolse il monocolo che copriva l'occhio cattivo, come lo definiva lei. - Che sta succedendo qui? - domandò senza mezzi termini, subodorando qualcosa.
Renard e Ofelia si guardarono terrorizzati, ma c'era gran poco che potessero fare per salvare la situazione. Alla fine Renard cedette.
Sospirando, più spaventato di un rifiuto che irritato per essere costretto a farlo in quel modo, e senza preavviso, si inginocchiò ai piedi di Gaela. Ofelia notò che anche la meccanica, sebbene fosse più alta di lei, arrivava allo stesso livello di Renard solo quando era seduta. Si chiese se guardare lei e Thorn affiancati facesse lo stesso effetto. Probabilmente era ancora più accentuato, dato che Thorn era l'uomo più alto che avesse mai conosciuto, spiriti di famiglia a parte.
Renard guardò Gaela negli occhi con intensità, mentre ogni traccia di irritazione, timore e ansia sbiadivano come un disegno al sole. C'era solo determinazione nel suo sguardo tenero. Determinazione e amore.
Al contrario, Gaela si contrasse in tutto il corpo.
Renard allungò la gigantesca mano e Serena, in tacito accordo, vi depose sopra la scatolina di velluto. - Gaela, ho desiderato porti questa domanda dal primo momento in cui ti ho vista, e non mi sono mai rassegnato. Desidero un futuro con te, ora e per sempre. Vuoi sposarmi?
Gaela contrasse le labbra mentre Renard, Ofelia e persino Serena attendevano in silenzio la risposta della meccanica. Alla fine lei si rilassò e sbuffò, impegnandosi affinché ogni suoi gesto venisse percepito come un favore che stava facendo all'uomo che le stava inginocchiato di fronte, cuore e anello in mano. - Bastava che mi avvisassi, non serviva fare tutto questo bordello.
Dietro i modi bruschi e la facciata coriacea, dietro il disinteresse malcelato, Gaela faticava a trattenere il sorriso. Si rimise il monocolo per nascondere la commozione. Ofelia sorrise intenerita quando i due fidanzati si abbracciarono e Renard le mostrò anello; un po' meno intenerita fu quando si avvicinarono troppo, decisamente troppo.
- Non qui! - sbottò prima di potersi trattenere, sistemandosi Serena in braccio in modo eloquente. - Avete una camera che ho fatto sistemare apposta.
Renard avvampò come i suoi capelli. - Oh, no, non attenterei mai alla virtù della mia signora prima di essere uniti dal sacro vincolo...
Gaela lo baciò un po' troppo platealmente, costringendo Ofelia a distogliere lo sguardo. - A questa signora invece non frega proprio nulla della virtù e compagnia bella. E non chiamarmi signora.
Renard le rivolse un sorriso un po' pazzo e Ofelia capì che era proprio il momento di togliersi di torno prima che la situazione degenerasse.
- Bodello!! - esclamò Serena battendo le mani.
Ecco, appunto.
 
Nei mesi che seguirono ferverono i preparativi per il matrimonio di Renard e Gaela, cui parteciparono tutti, persino Archibald. In realtà sapevano che la sua era solo una scusa per bazzicare il castello di Ofelia e Thorn, seminare zizzania e far indispettire ora la sposina, ora il suo fidanzato.
Fortunatamente, dal momento che nessuno dei due richiedeva grandi cose, fecero presto a sistemare ogni dettaglio.
Quando però, a distanza di poche settimane dalla cerimonia, Renard si confidò con Ofelia, gli imprevisti di percorso rischiarono di minare la felicità della coppia.
- Non vi danno l'abitabilità? - chiese Ofelia, sorpresa.
Serena, che ormai aveva più di due anni, giocava sul tappeto con la sciarpa che si era immolata come giocattolo, preda dello stesso affetto di Ofelia per sua figlia, e Salame. Ofelia aveva il presentimento che Salame volesse più che altro litigare con la sciarpa, ma finché se ne stavano quieti tutti e tre lei non aveva nulla in contrario.
- No - mormorò Renard, mogio come le braci morenti di un caminetto. - L'officina è davvero bella e ampia, lo spazio che volevamo ricavarne come piccola abitazione era confortevole e modesto, ma chi ha effettuato le perizie lo ha giudicato un luogo inadatto per vivere proprio perché situato dentro un'officina meccanica.
- Gaela che cos'ha detto?
Renard arrossì. - Non sarebbe consono ripetere quello che ha detto, ragazzo.
Ofelia era così preoccupata che non le venne neanche da ridere di fronte all'evidenza che Gaela, nonostante il matrimonio e il resto, non si smentiva mai.
- Ne avete parlato con Thorn?
Renard si torturò le mani. Così incurvato ed irrequieto sembrava una montagna scossa da un terremoto. - Sì...
- E? - lo incalzò Ofelia.
Renard si afflosciò ulteriormente. - Gli ho mostrato le planimetrie e i progetti, perché aveva solo stanziato i fondi per mettere su l'attività senza informarsi sul resto. Ci ha dato completamente carta bianca. Vi sono così grato per il vostro aiuto Ofelia, vostro e di vostro marito. Sono ancora dell'idea che pagare metà dell'officina sia stato troppo persino come regalo nuziale, vi saremo debitori a vita e...
- Rendold - lo interruppe Ofelia con educazione. - Non abbiamo fatto nulla di che, solo quello che dovevamo.
A dire il vero aveva fatto tutto Thorn. Non solo si era offerto come garante in caso di insoluto, ma aveva saldato metà del dovuto lasciando a Renard una cifra irrisoria da versare. Quando Ofelia gli aveva chiesto perché avesse deciso di pagare metà esercizio, Thorn l'aveva guardata di sbieco.
- Perché il tuo consigliere non mi avrebbe mai permesso di pagare tutto. La metà è un buon compromesso, oltre quello non mi avrebbe lasciato intervenire. Orgoglio di capo famiglia.
Solo quando avevano concluso la conversazione Ofelia si era resa conto che Thorn aveva frainteso la sua domanda. Aveva pensato che lei lo stesse interrogando sul perché non avesse pagato l'intera somma, invece di chiedergli con sgomento per quale motivo ne avesse versato addirittura il cinquanta percento. Il motivo lo aveva capito in un attimo. Al di là del fatto che Thorn non era attaccato ai soldi, e in ogni caso ne aveva in abbondanza, sapeva che a lei avrebbe fatto piacere aiutare Renard. Di conseguenza lui aveva agito per farle cosa gradita. Quella notte Ofelia era stata più che solerte nel ringraziarlo a dovere. Sì, le era proprio piaciuto ringraziarlo.
Tornando presente a se stessa, Ofelia continuò: - Ancora non mi hai riferito cosa Thorn ha detto a proposito del mancato rilascio del certificato di abitabilità.
- Ha detto che avrebbe chiuso un occhio e, per farci un favore, non avrebbe mai condotto verifiche sul nostro esercizio se non dal punto di vista fiscale, perché c'erano talmente tante cose che non sarebbero state da autorizzare che l'officina avrebbe rischiato di essere chiusa ancora prima di partire. Ha aggiunto anche che se il nostro perito avesse autorizzato l'abitabilità lo avrebbe in qualche modo fatto cacciare e radiato dall'albo. Infine ha concluso che gli dispiaceva per noi. Mi rendo conto che, data la sua meticolosità, gli sia costato molto decidere di non effettuare ispezioni.
Ofelia non poté che trovarsi d'accordo, con suo sommo stupore. Thorn che non faceva le cose a norma, o che soprassedeva quando le cose non erano a norma, era proprio un paradosso. Non poté impedirsi di provare un impetuoso moto d'affetto per quel marito che era cambiato così tanto per lei.
- C'è un'altra questione di cui vorrei discorrere con voi – mormorò Renard quasi timidamente.
- Spero non ci siano di mezzo delle dimissioni – lo redarguì Ofelia, preoccupata.
Il sorriso che spuntò sulle labbra di Renard lo rese quasi quello di sempre. Quasi.
- Non riguarda le mie dimissioni, ma le mie mansioni sì. Vedete, voi mi avete assunto inizialmente come consigliere, ma sappiamo entrambi che questo ruolo non ha mai avuto ragione di esistere prima che voi me lo affidaste. È stato un escamotage per tirarmi fuori da Chiardiluna, e di questo vi sarò eternamente grato. Se prima, dal momento che ancora non eravate sposata, poteva anche tornare utile qualche mio consiglio sull'atteggiamento da tenere o il funzionamento del Polo, ora appare evidente che la mia mansione è solo di facciata. In sostanza, ragazzo, mi paghi per oziare, passare del tempo con la mia figlioccia e mangiare a sbafo. In qualità di uomo onesto e di lavoratore, non mi sembra di meritarmi il compenso che mi viene elargito.
Ofelia lo osservò in silenzio intuendo che Renard dovesse ancora finire. Lei non aveva mai pensato alla loro situazione in quel senso, ma ciò che diceva Renard era vero. Gli aveva assegnato quel lavoro perché all'epoca aveva avuto bisogno di qualcuno che la guidasse in quel ginepraio che era la vita di corte al Polo, ma ora aveva Thorn. Se lei fosse stata nei suoi panni, come si sarebbe sentita ad essere pagata per vivere una vita agiata, alla fin fine? Si sarebbe sentita terribilmente a disagio, con la costante sensazione di rubare qualcosa che non le spettava. Era proprio quello il motivo per cui aveva voluto aprire il suo studio di lettura inizialmente: non voleva vivere dietro le sottane di Berenilde e la ricchezza di Thorn, voleva contribuire anche lei al proprio sostentamento.
Capiva Renard, e lo ammirava per il discorso appena pronunciato.
L'inquietudine, però, non l'abbandonava.
- Io so che voi avete intenzione di riprendere a lavorare nel vostro studio, un giorno, e sarei ben lieto di farvi da segretario, ma sappiamo bene che prima o poi, più presto che tardi, avrete altri figli. E ne saremo tutti assolutamente lieti, solo che non sarà possibile per voi riprendere celermente le vostre mansioni. Io, d'altra parte, non sono lettore nemmeno per un ventesimo. Ho riflettuto molto, tra le altre cose, anche su questa questione. Allontanarmi da voi e da Serena sarebbe davvero penoso, soprattutto per quello che avete fatto per me, per cui non potrò mai ripagarvi. Ma proprio perché vi sono così riconoscente non posso permettermi in tutta coscienza di continuare così. La soluzione mi ha fulminato quando Serena ha cominciato a recitare le formule matematiche udite dal padre. Presto anche io, mi auguro, avrò una prole, e voi altrettanto, e i nostri figli avranno assolutamente bisogno di una cosa: istruzione. Io potrei essere l'insegnante.
Ofelia sgranò gli occhi. Come aveva potuto non pensare a quello scenario? Sapeva per sentito dire che i figli dei clan più influenti del Polo venivano istruiti privatamente, a casa, per poter apprendere nozioni delle materie più svariate e nel frattempo imparare anche ad utilizzare meglio i poteri, il retaggio lasciato loro dagli antenati. Su Anima avevano delle piccole scuole perché non c'era bisogno che qualcuno avesse più conoscenze di altri, ma anche lì ad una certa età i figli venivano educati a casa per sfruttare meglio le loro abilità e usarle al servizio della loro grande famiglia animista.
L'idea che Renard potesse essere l'insegnante di Serena e dei figli che avrebbero potuto avere in seguito le pareva ottima. Non avrebbe affidato l'istruzione dei suoi figli a nessun altro, se non forse a Thorn. O magari no.
E a proposito di figli... l'idea di averne un altro la solleticava da un po', ma non si era mai soffermata troppo sull'argomento. Thorn, del resto, non ne aveva nemmeno più parlato. Serena aveva già più di due anni... Sarebbe stata già grandicella quando fosse nato il prossimo.
Quel pensiero, insieme alla proposta di Renard, la elettrizzò.
- Credo che sia davvero un'ottima soluzione, Renold - commentò Ofelia con la voce bassa e inudibile come la prima volta che aveva messo piede al Polo. Poi prese coraggio e gli sorrise, cercando di contenere l'emozione. - Il vostro ultimo suggerimento in veste da consigliere è stato uno dei migliori che mi abbiate mai dato.
Renard sembrò illuminarsi di luce propria. - Grazie, grazie davvero, non smetterò mai di essere in debito con te, ragazzo. Mi sono anche già informato su dove poter frequentare i corsi di formazione, e grazie all'aiuto che mi avete fornito con l'officina la retta non sarà nemmeno troppo dispendiosa. L'unica cosa...
Ofelia lo interruppe alzando una mano guantata. Non aveva alcuna intenzione di far pagare alcunché a Renard, ma voleva prima parlare con Thorn di alcune questioni. Lei si sarebbe imposta subito circa la necessità che fosse lei a pagare le sue spese di formazione, ma non sapeva l’ammontare né di quelle né del patrimonio di Thorn. Quella condizione di ignoranza cominciava a pesarle, ma si vergognava di chiedere al marito quanto fosse facoltoso. Era un argomento che aveva sempre volutamente evitato, anche se sapeva che Thorn non le avrebbe mai nascosto nulla.
- Permettetemi di sottoporre prima la questione anche a Thorn.
Più che il suo permesso, voleva renderlo partecipe. Aveva sempre odiato essere oggetto delle decisioni altrui, non sarebbe stato corretto imporre le sue Thorn.
- Oh, ma certo, assolutamente.
- Però voi continuate ad essere il mio consigliere finché non vi do una risposta, va bene?
Renard le sorrise teneramente. - Se me lo chiedi così, ragazzo, non posso che accettare.
 
Ofelia ebbe l'opportunità di parlare con Thorn solo prima di andare a letto. Era stato talmente tempestato di telefonate, nel pomeriggio, che ogni volta che Ofelia era andata a trovarlo in quella che era sia la biblioteca che il suo ufficio lo aveva sempre trovato con la cornetta tra spalla e collo.
Non a caso quella sera, seduto sul bordo del letto, lo vide più rigido del solito. Serena se ne stava placida a dormire nel suo lettino accanto al loro. Si rendeva conto che presto avrebbe dovuto abituarla a stare nella sua stanza, pronta ormai da mesi, soprattutto se avevano intenzione di concepire un altro figlio. Non potevano tenerli entrambi in camera e Serena era diventata abbastanza grande da non rischiare più di soffocare nel sonno.
Ofelia si avvicinò a Thorn da dietro, mentre lui sistemava il suo orologio al centro esatto del comodino e si accingeva a coricarsi. Lo abbracciò, posandogli un bacio sulla spalla.
Thorn si irrigidì ulteriormente prima di rilassarsi tra le sue braccia.
- Lo vuoi un massaggio? Mi sembri troppo teso - gli sussurrò prima di cominciare senza nemmeno attendere una risposta.
Ad ogni modo, Thorn non obiettò. Non subito almeno.
- A cosa devo tutto questo?
Ofelia sapeva senza bisogno di vederlo che aveva un'espressione corrucciata.
- A nulla. Perché?
Thorn mormorò una risposta inintelligibile.
- A dire il vero ci sono delle cose di cui vorrei parlarti, ma non sono il motivo per cui sto facendo tutto questo.
- E perché lo fai, allora?
Ofelia continuò il suo massaggio, solo con meno trasporto. Sospirò. - Perché oggi mi sei sembrato particolarmente frustrato e volevo fare qualcosa per te.
Thorn si girò così repentinamente che Ofelia non si rese conto di essere caduta finché non si trovò sdraiata, con Thorn sopra di lei.
- Scusa... - mormorò lui, arrossendo leggermente.
Si chinò su di lei con l'intento di baciarla, forse, ma alla fine si ritrasse e le si sdraiò accanto per non pesarle addosso. La strinse a sé avvicinandosela quanto più possibile.
Ofelia era talmente stupita che Thorn le avesse chiesto scusa per essere stato brusco che ci mise alcuni istanti prima di ricambiare l'abbraccio del marito. La sua pelle era bollente a contatto con la sua, e Ofelia adorava crogiolarsi in quel calore, tra le sue braccia forti. Districandosi a fatica dall’intreccio dei loro arti si tolse gli occhiali, allungandosi per posarli sul comodino. Poi seppellì il viso nel petto di Thorn, sospirando di piacere questa volta.
- Problemi all'intendenza? - indagò a voce bassa, per non rovinare la quiete del momento.
- Non è una novità. Il periodo è quello peggiore, ci sono scadenze che si accumulano e sopralluoghi da fare. Da casa sono un po' rallentato.
Ofelia strofinò i capelli contro la sua pelle. - Se ti è così difficile portarti il lavoro a casa potresti venirci meno. Mi dispiacerebbe non averti vicino, ma anche così non è che ci vediamo molto.
- Difatti, ma almeno posso stare con Serena. No, non è un costo eccessivo lavorare a casa. Posso sopportarne il prezzo.
Ofelia gli depositò un bacio leggero sull'addome, commossa da quella devozione per lei e Serena.
- Basta che non ti prosciughi.
Ofelia sentì le sue labbra sottili nei capelli per un breve istante. Poi Thorn si ritrasse di nuovo, ma senza lasciarla.
- Di cosa volevi parlarmi?
La domanda la colse alla sprovvista. Non si era preparata un vero e proprio discorso, non sapeva nemmeno come porre la questione.
Thorn si irrigidì sotto la sua stretta. - È una questione così grave? - domandò laconicamente.
- No - rispose Ofelia scuotendo la testa. - Renold stava solo pensando di abbandonare i panni da assistente per vestire quelli da insegnante. Ha detto che si sente in colpa a lavorare in questo modo quando per lui è evidente che non ho bisogno di consigli.
Aveva spiegato la storia in quel modo per mostrare Renard sotto una luce positiva affinché Thorn non si sentisse geloso. In risposta ottenne solo un grugnito che non le diede modo di capire se ci fosse riuscita.
- Non ha tutti i torti. Presumo che sia... apprezzabile, questa sua consapevolezza.
Ofelia sorrise. Sì, c'era riuscita.
- Insegnante di chi, ad ogni modo?
- Dei nostri figli.
Anche senza vederlo, Ofelia sentì i suoi occhi penetranti fissi addosso. Non voleva incontrarne lo sguardo.
- Dei nostri... figli?
Ofelia si schiarì la voce, manierismo che aveva preso da Thorn: lo faceva sempre prima di dire qualcosa che a suo parere poteva essere imbarazzante o creare disagio. - Sì, di quelli che avremo... e dei suoi. Così potrà lavorare qui e non allontanarsi troppo. A questo proposito mi era venuta un'altra idea. Gli è stata negata l'abitabilità dell'officina, ed è evidente che vivere a Chiardiluna è impossibile. Hanno negato l'offerta del nostro castello, ma in questo abbiamo un'intera ala isolata, no? Quella dove abbiamo ospitato i miei familiari.
Quando si interruppe per lasciare che quella proposta silenziosa prendesse possesso di Thorn, lui rispose solo: - Continua.
- Potremmo fare un piccolo lavoretto di restauro e creare una zona privata per loro, magari anche con una cucina, perché possano sentirla proprio come casa loro. In questo modo Renard sarebbe letteralmente a due passi da qui, anzi, vivrebbe qui, ma senza sentirsi un ospite. Lo stesso vale per Gaela.
- Facendo il punto della situazione, tu vorresti che il tuo consigliere diventasse l'insegnante dei nostri figli -, riassunse con voce tenebrosa, calcando particolarmente sul plurale, - e che privatizzassi un'ala del palazzo perché possa fungere da dimora a lui, sua moglie e la sua prole?
Ofelia non era più tanto sicura che Thorn avrebbe accondisceso a tutte le sue richieste. Di sicuro, in ogni caso, non aveva paura di suo marito. - Dovresti anche pagare le spese di formazione come insegnante.
Thorn, questa volta, non rispose.
- Lui vuole pagarsele. Abbiamo parlato solo della possibilità che lui diventi l'insegnante di Serena e, in futuro, anche di… Insomma, lui vuole pagarsi le spese, ma non mi sembra corretto dal momento che la formazione deve farla per poter lavorare per noi.
- Solitamente le spese di formazione di un dipendente non esistono, qui al Polo, ma immagino che tu abbia ragione, dovrebbero essere a carico del datore di lavoro.
Ofelia lo strinse più forte. – Dici davvero?
Thorn sospirò impercettibilmente. – Sì.
- Quindi accetti sia che Renold e Gaela vivano qui sia che lui faccia da insegnante e anche di pagare le spese?
Thorn si voltò sulla schiena, trascinando Ofelia sopra di sé. – Concesso – mormorò baciandole la fronte. – Concesso – aggiunse passando alla guancia. L’ultimo fu un sussurro mezzo interrotto da un bacio in piena regola.
Ofelia sorrise mentre si abbandonava a lui, concedendogli a sua volta quello che voleva. In realtà, che volevano entrambi.
Thorn però la bloccò quando le sue mani si spinsero un po’ troppo in là e lei stava per raddrizzarsi sopra di lui.
- Di quanti figli stiamo parlando?
Distratta da altro, Ofelia impiegò alcuni secondi per processare la domanda. Strinse gli occhi per mettere a fuoco il suo viso, che gli sembrava fin troppo offuscato senza gli occhiali. Intuendo la sua fatica, Thorn si mise seduto a sua volta, stringendola nuovamente a sé. Si chinò verso il suo collo, ma fu il turno di Ofelia di fermarlo: non si sarebbe concentrata per niente se lui si fosse messo a baciarle clavicola e spalla, come suo solito.
- Cosa intendi?
- Dell’insegnamento di quanti figli dovrà occuparsi Renold?
Ofelia corrugò la fronte. – Non so quanti figli avranno.
- Parlo dei nostri.
- Oh. Non lo so, non ci ho pensato. Ma non hai detto che anche tu ne volevi più d’uno?
Thorn grugnì qualcosa che Ofelia non capì, e non riuscì più a trattenerlo quando finalmente raggiunse il suo collo. O forse non riuscì a trattenere se stessa. In ogni caso, la loro intenzione di provare ad avere un altro figlio fu palese anche se muta.
 
Alla fine Renard e Gaela accettarono le concessioni di Thorn e Ofelia, che per spronarli ad accettare usarono la scusa dei regali di nozze: non potevano rifiutare.
Nel giro di un mese Thorn ingaggiò qualcuno per dare una sistemata ad una parte dell'ala del castello destinata agli ospiti. Ne isolarono metà per costruire ai novelli sposi una dimora confortevole e dotata di ogni comodità: cucina, salottino, bagni privati, e un discreto numero di stanze.
Quando Thorn chiese di quante camere avessero bisogno, Renard esclamò: - Tante! -, incassando con orgoglio la gomitata sdegnata di Gaela.
Terminati i lavori, Renard si prodigò incessantemente per arredare la casa e renderla abitabile. Ofelia gli portò dei rinfreschi un pomeriggio, con Vittoria e Serena al seguito, e cercò di non ridere osservando Gaela che fumava sul divano, con i piedi sul tavolino, mangiandosi con gli occhi il fidanzato che correva di qua e di là mettendo in mostra il fisico muscoloso. Inoltre, se avesse riso avrebbe fatto cadere il vassoio, macchiando il tappeto nuovo della coppia, che di certo non avrebbe gradito.
Thorn fece costruire un'entrata secondaria per loro, così che non dovessero farsi il giro del castello per poter entrare a casa. Lasciò comunque una porta che dava sulle altre camere per gli ospiti, ma ne fece montare una apribile solo dalla loro parte: Renard avrebbe potuto usarla quando avesse cominciato ad insegnare, come porta di servizio, in modo tale da non dover uscire da casa sua e attraversare il giardino gelido solo per entrare dalla porta principale.
I corsi che avrebbe dovuto frequentare per prendere l'abilitazione erano fissati due settimane dopo il matrimonio, al ritorno dal viaggio di nozze, e Renard sembrava entusiasta come Serena quando Berenilde le offriva un dolcetto all'idea di iniziare quel percorso. Nessuno glielo disse esplicitamente, ma Ofelia capì che il desiderio di Renard di rendersi più utile era solo parzialmente il motivo della sua scelta di cambiare professione; Renard si sentiva inadeguato e ignorante, gli pesava la sua mancanza di istruzione. Quello di fare l'insegnante era un espediente di duplice utilità: lavorare in casa di Thorn e Ofelia ed elevarsi culturalmente. Voleva buttarsi alle spalle la vita da valletto con ogni fibra del suo essere, e Ofelia fu più felice che mai all'idea di aver pagato i suoi corsi.
Renard la ringraziava giornalmente per la generosità sua e di Thorn. Lei non faceva che ripetergli che non serviva che la ringraziasse così tanto, ma Renard era sordo alle sue parole e Ofelia sapeva che sarebbe rimasto loro fedele finché avesse avuto respiro in corpo.
Due giorni prima del matrimonio passò di fronte alla loro porta, che era rimasta aperta. Renard si stava asciugando le lacrime mentre Gaela, avvezza alle consolazioni tanto quanto Thorn, gli dava delle deboli ed esitanti pacche sulla spalla. Quando Renard si chinò su di lei per baciarla, Ofelia sorrise e proseguì dritta senza farsi vedere, grata di aver potuto incontrare quel caro amico, seppur in circostanze decisamente anomale.
La funzione fu celebrata da Archibald, che per l'occasione non si cambiò il vestito; in compenso, si presentò con un nuovo buco nella manica dentro cui infilava con evidente soddisfazione il dito. La cerimonia fu intima e spartana, con pochi invitati: Ofelia, Thorn e Serena, la zia Roseline, Berenilde e Vittoria, i domestici.
Ofelia sapeva che l'unica famiglia di Gaela era stata Madre Ildegarda, ma non si aspettava che anche Renard non avesse nessuno. Gli chiese con discrezione se non avesse voluto qualche invitato in più, ma lui le rispose che le persone che contavano davvero per lui erano tutte lì, e non aveva bisogno di altro. Poi aggiunse che invitare i parenti di Ofelia non gli sarebbe dispiaciuto, ma che sapeva che il tragitto era lungo e non ne valeva la pena. Inoltre, il suo viaggio di nozze era previsto proprio su Anima, dalla famiglia di Ofelia che era stata subito disposta a far loro da guida turistica, e se fossero andati al matrimonio le cose si sarebbero complicate troppo.
Serena portò loro gli anelli, correndo contenta con Salame al seguito, e Ofelia non seppe se essere più preoccupata per l'eventualità che la figlia cadesse addosso al gatto o che il gatto facesse inciampare la figlia e volare via gli anelli. Poi si rese conto che quegli scenari si sarebbero potuti verificare solo se fosse stata lei la paggetta, e tirò un sospiro di sollievo quando Serena si rintanò nuovamente tra le sue braccia. Poi la tradì e si accomodò in grembo al padre, che continuava a fissare il suo orologio con fare accigliato, come se la cerimonia gli stesse portando via troppo tempo.
Ofelia aveva previsto le lacrime di quel gigante buono di Renard. Quello che non aveva previsto era il fulgido sorriso di Gaela che, lungi dal piangere, si era comunque lasciata andare e aveva persino tolto la sigaretta dalla bocca. Almeno fino al ricevimento.
Un'altra cosa che Ofelia non aveva previsto era la solitudine che avrebbe seguito quel giorno.
I novelli sposi partirono il giorno dopo la celebrazione, seguiti da Berenilde e Vittoria, che si presero una piccola vacanza come loro per poter viaggiare insieme nello stesso periodo. Ovviamente la zia Roseline li seguì.
Ofelia si godette due giorni di tranquillità, ma quando Thorn le annunciò che sarebbe dovuto stare via una settimana per alcuni impegni che aveva posticipato troppo a lungo, si sentì sprofondare nello sconforto. Non le dispiaceva stare sola, non era quello il problema. Era abituata alle famiglie numerose, sia su Anima che lì al Polo, dove si era costruita la sua con parenti e amici, quindi quando poteva avere un po' di pace e isolamento l'accoglieva con piacere. Non avere nemmeno Thorn al suo fianco, però, rendeva la cosa un po' più triste.
Quella sensazione si aggravò quando, dopo aver passato cinque giorni lontano da casa, Thorn la chiamò per dirle che doveva trattenersi in ufficio altri quattro giorni. Lavorare da casa aveva comportato l'inevitabile accumulo di alcune pratiche che doveva sbrigare, e il viaggio per il Polo per il censimento si era allungato per il maltempo.
Quando Ofelia rimise giù la cornetta si sentì svuotata. Non si era resa conto di essere diventata così legata al marito finché lui era rimasto costantemente accanto a lei.
Buffo, per una persona che aveva sempre cercato l'indipendenza e i propri spazi, ritrovarsi senza bussola nel momento in cui Thorn stava lontano per qualche giorno in più. Ofelia si rese conto però che non dipendeva tanto da un cambiamento insito in lei; non era lei che non riusciva più a stare da sola, a godersi la solitudine. Era Thorn il problema.
Thorn le aveva dato tutto quello che lei potesse desiderare. Anche un po' di più. L'aveva legata a sé anima e corpo, rendendosi indispensabile per lei con la sua presenza, con la sua calma e solidità, immutabilità, certezza; con il suo amore e la sua devozione, con il desiderio che nutriva nei suoi confronti sempre, instancabilmente, appassionatamente; per il modo in cui la metteva sempre al centro di tutto, la considerava, teneva conto dei suoi pensieri e delle sue opinioni, si sacrificava per lei e le concedeva qualsiasi cosa.
Ofelia sentì una tale ondata di amore impadronirsi di lei che non seppe più distinguere tra le forme in cui si manifestò: romantico, affettivo, platonico, erotico.
Voleva Thorn lì.
La tempesta ormonale che ne scaturì l'accompagnò per giorni, seguendola come facevano Salame e la sua sciarpa. Era talmente tanto scombussolata che si chiese se in realtà quello stato d'animo non derivasse da una possibile gravidanza. Ipotesi che escluse subito. Dopo essere stati insieme aveva... E poi era passato troppo tempo dall'ultima volta che loro...
Scosse la testa al pensiero. Non si riconosceva più. Se pensava al tempo in cui aveva detto a Thorn che non avrebbe mai condiviso il letto con lui si sentiva avvampare. Altro che rifiutarglisi, talvolta era fin troppo intraprendente. Non che Thorn si fosse lamentato...
Dopo un'altra giornata passata a struggersi inutilmente, decise di smetterla di tormentarsi.
Attese che Serena si addormentasse dopo pranzo, indossò il minimo indispensabile e si coprì con un cappotto di Thorn. Si accertò che Serena dormisse profondamente e si osservò nel grande specchio a muro che aveva fatto montare per comodità. Era paonazza di vergogna, si sentiva un po' sciocca e faticava a riconoscersi. Il suo corpo sembrava incerto tra tuffarsi nella superficie riflettente o fare marcia indietro e rivestirsi come si conveniva, e nel dubbio restava immobile.
Ofelia allungò una mano e... toccò lo specchio. Ritrasse subito il braccio, come se il vetro fosse stato bollente e non freddo. Lo toccò di nuovo, titubante, e non riuscì ad attraversarlo.
Si impose di stare calma, di riflettere sulla situazione. Aveva attraversato di recente un altro specchio, e c'era riuscita senza difficoltà. Non era cambiato nulla nel frattempo. Se non...
Ofelia chiuse gli occhi. Doveva fronteggiare se stessa, rendersi conto di chi era, accettare i cambiamenti e affrontare i suoi dubbi. Serviva onestà per essere un'attraversaspecchi.
Ofelia lasciò che il pensiero di Thorn la soverchiasse, permise all'ondata dei suoi sentimenti di crescere, senza più frenarli. Il viso assunse il normale colorito, come le lenti dei suoi occhiali, e Ofelia si fissò con serietà.
Aveva bisogno di Thorn. Lo voleva. E non si vergognava ad ammetterlo. Non più.
Si immerse nello specchio.
 
Come al solito, trovò la porta dell'armadio di Thorn, all'intendenza, socchiusa. Lui la lasciava sempre così nel caso in cui a casa ci fosse stata un'emergenza: Ofelia sarebbe potuta andare da lui comodamente, senza rischiare di trovarsi la strada sbarrata da un'anta chiusa.
Attese qualche istante al buio, stipata tra i giacconi pesanti, e quando non udì alcun rumore si arrischiò a mettere la testa fuori: Thorn stava scrivendo velocemente alcuni appunti, ma con la coda dell'occhio stava fissando lei. Trucemente come sempre.
- Puoi uscire, non c'è nessuno - le confermò. Poi aprì e chiuse di scatto il suo orologio con la mano libera, mentre l'altra continuava a scrivere come animata di vita propria. - Almeno per i prossimi ventitré minuti.
Ofelia cercò di non mutare espressione mentre pensava che, in fin dei conti, ventitré minuti erano parecchi. In alcune occasioni erano stati costretti a impiegarci molto meno... con ottimi risultati.
Uscì dal suo nascondiglio e gli si avvicinò lentamente, grata che la porta del suo ufficio fosse chiusa. Sarebbe stato ambiguo comparire dal nulla dove suo marito lavorava, con indosso un cappotto palesemente di taglia sbagliata.
Thorn rimise la penna nel calamaio e si concentrò su di lei, anche se le sue mani continuavano freneticamente a sistemare fogli e incartamenti vari. In effetti, dire che si concentrò su di lei era un'iperbole.
- Qualcosa non va? Serena sta bene? - la interrogò laconicamente, nel pieno delle sue funzioni da intendente.
Ofelia trattenne a stento un sospiro, d'un tratto consapevole dell'avventatezza del suo piano.
- No, è tutto a posto.
Thorn scartabellò per sei secondi prima di bloccarsi come un macchinario senza più carica e voltarsi verso di lei con tutto il suo lungo corpo.
- Come mai sei qui?
Ofelia si torse le mani, prendendo coraggio, prima di cominciare ad aprire il cappotto.
Thorn sgranò gli occhi come Ofelia non l'aveva mai visto fare, perdendo il controllo di sé e lasciando trapelare tutto il suo sgomento. Era immobilizzato, ipnotizzato, come una mosca nella tela del ragno.
Poi scattò, bloccando un braccio di Ofelia, che si fermò. Mantenendola nel suo campo visivo sollevò la cornetta del telefono e compose un numero.
- Non voglio essere disturbato fino al prossimo appuntamento. Per nessun motivo.
Riattaccò, e Ofelia dedusse che aveva dato l'ordine al suo segretario. Lo vide deglutire a vuoto e schiarirsi la voce prima di parlare.
- Cosa stai facendo?
Ofelia sentì che la morsa della sua mano sul braccio si stava allentando, così ne approfittò per lasciar cadere a terra il cappotto prima di perdere la volontà di farlo. Un brivido di freddo e di aspettativa la percorse. Si avvicinò a Thorn, che prese le distanze dalla scrivania rimanendo sempre seduto. Lanciò un'occhiata furtiva ai documenti, come ad intimare loro di non muoversi; sarebbero sicuramente stati fermi, ma Ofelia non poteva garantire di non combinare un disastro.
In effetti, mentre prendeva confidenza di fronte allo sguardo famelico di Thorn, inciampò, rovinandogli addosso come una valanga. Molto poco provocante.
Lui la aiutò a ritrovare l'equilibrio e, quando si sollevò, Ofelia si trovò ad un soffio dal suo viso. Quel viso allungato, spigoloso, su cui campeggiava un pizzetto curato a forma di ancora che lei ancora non aveva visto, dati i giorni di lontananza, ma la riportava indietro nel tempo, ai loro primi incontri; quel viso che amava.
Non seppe dire chi dei due cominciò il bacio, ma la frenesia che li colse fu la medesima. Ofelia gli salì sopra, scalandolo a fatica come una montagna. Adorava sentirsi così piccola al suo cospetto, e così protetta al tempo stesso. Le sue mani grandi e fredde la fecero sussultare al contatto, e Thorn le mormorò delle scuse sulle labbra. La aiutò ad issarsi comodamente su di lui, attento a non lasciarla cadere, e poi le afferrò la nuca con dolcezza e fermezza al tempo stesso. I capelli coprivano la freddezza delle sue dita e gli permettevano di scaldarsele in fretta.
Ben presto la stanza silenziosa si riempì del rumore attutito dei loro respiri affannati, e dello schiocco dei baci che si scambiavano per soffocare i gemiti. Le mani di entrambi presero a vagare sul corpo dell’altro, ma Ofelia non spogliò Thorn se non per alcuni bottoni della camicia. Il tempo che avevano a disposizione era poco per riuscire a fare tutto come si doveva. Thorn non avrebbe avuto abbastanza minuti per rivestirsi, e Ofelia gli fece la cortesia di non denudarlo troppo. Lui non ebbe la stessa accortezza con lei, che si ritrovò sempre più esposta all’aria gelida.
- Mi sei mancato – gli sussurrò all’orecchio, stringendosi ancora di più contro il suo solido corpo caldo. Accogliente.
Thorn grugnì e si lasciò sfuggire un mezzo sospiro. – Mancavano due giorni e mezzo al mio rientro.
Prendendola come un’accusa, Ofelia si accigliò, ma non smise di muoversi. – Mi pare che anche tu non sia molto dispiaciuto all’idea di vedermi.
Fu il turno di Thorn di increspare la fronte e, bloccando a stento un ringhio, la strinse più forte.
Ofelia rimase accoccolata contro di lui per un tempo abbastanza lungo da indurla a credere che Thorn avesse perso di vista le sue funzioni, quando lo sentì aprire e chiudere l’orologio. Il suono la indusse a spostarsi, pensando che avessero esaurito il loro tempo, ma Thorn la trattenne.
La sua voce sommessa e scricchiolante la fece rabbrividire, mentre le sue labbra le accarezzavano i capelli. – Abbiamo ancora tre minuti e quattordici secondi prima che tu debba andare.
Ofelia annuì contro di lui, chiudendo gli occhi e godendosi il tepore del marito, che contrariamente a quanto aveva appena detto era chiaramente riluttante a lasciarla andare.
- Ci vediamo fra due giorni e mezzo, allora – lo salutò alla fine, recuperando i suoi vestiti.
Thorn non la perse di vista un secondo, con quel suo penetrante sguardo da sparviero, le iridi metalliche che scintillavano nella fessura tra le palpebre. Ofelia era troppo abituata a lui, a loro, per vergognarsi delle sue occhiate, e quella consapevolezza le infuse forza.
Thorn annuì con un secco cenno del capo, ma prima che lei sparisse nello specchio le disse, schiarendosi la voce: - In ogni caso l’armadio rimane sempre socchiuso…
Ofelia lo osservò con un fulgido sorriso mentre lui si pettinava i capelli con pochi e abili gesti e si riabbottonava la camicia fino al colletto. Si toccò i gemelli per verificare che fossero al loro posto, si sistemò i pantaloni, e prese posto alla scrivania come se nulla fosse accaduto.
Le occhiate furtive che le lanciava però non mentivano, e Ofelia continuò a sorridere quando attraversò lo specchio e ad accoglierla trovò Serena addormentata.
Ancora non lo sapeva, ma grazie a quella visita non premeditata al marito avrebbe presto accolto in casa qualcun altro oltre a Renard e Gaela.
Balder. Il loro secondogenito.



Nota
Oh là!!! Finalmente è di nuovo incinta!
La precisazione che volevo fare, dato che salterò ovviamente tutta o quasi la parte della gravidanza altrimenti qui mi tocca scrivere la storia finché non invecchiamo pure noi, riguarda il nome del bimbo. Certo, non aspettatevi che nel prossimo capitolo lui sia già nato... forse nascerà a fine capitolo? Non so nemmeno cosa scrivere, cavolo... va be', ci penserò.
Quello che volevo dire è che per Serena ho scritto come i genitori siano arrivati a scegliere il nome e bla bla, per questo piccolino invece, che è maschio come dice il nome, ho pensato di ricorrere alla mitologia norrena che AMO. Non a caso il Polo sarebbe un'arca che potremo collegare alle regioni scandinave, come ha detto la stessa Dabos. Faruk in realtà si chiama Odino (padre degli dei), Thorn senza n diventa Thor, figlio di Odino (anche se non è una cosa voluta, credo, e non penso che la Dabos pensasse a Thor quando ha dato a Thorn il suo nome), la sorellastra di Thorn è Freya, altra figura mitologica, ecc.
Quindi ho fatto una ricerchina e ho già scelto altri due nomi xD Balder è il dio della luce, del sole e della benevolenza. Ora, non c'entra nulla con la storia, ma appena ho letto il nome ho pensato: "MIO, LO VOGLIO, E' LUI!!!!".
In effetti il nome Balder mi piace tanto e sto anche riascoltanto gli audiolibri di Eragon quando corro, e nella storia c'è Baldor, e va be', non c'entra nemmeno questo ma era ovvio che avrei dovuto chiamarlo così.
Ci vediamo alla prossima spiegazione smozzicata di nomi e personaggio divini vichinghi xD

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Ho messo il turboooo. Non nel senso che sto andando veloce (ahahaha sono indietro da morire *si dispera*), ma nel senso che mi sembrava che la storia stesse ristagnando sempre lì.
Thorn nelle varie fasi della prima infanzia di un figlio lo abbiamo visto, sappiamo come si comporta e quanto dolce è, ora andiamo avanti. Velocità x2.
Non significa che nel prossimo capitolo saremo 10 anni avanti, però, insomma, si parlerà di vari mesi. Un po' alla volta. Va be', non so se mi sono fatta capire, però il bello inizierà ora con colpi di scena, avvenimenti tristi e felici, disastri, sorprese, TUTTO.
Portate solo pazienza per via degli aggiornamenti sporadici. Grazie♥


Capitolo 22

Quando Renard, Gaela, Berenilde, Vittoria e la zia Roseline tornarono al Polo cominciò un periodo di serenità ineguagliabile a casa di Ofelia e Thorn.
Renard seguiva i corsi per prendere il certificato di idoneità da insegnante la mattina, e il pomeriggio passava il tempo con la figlioccia e Ofelia. Gaela attraversava sempre la casa la mattina quando usciva e il pomeriggio quando rientrava, salutando tutti con i grugniti tipici di chi ancora non si è svegliato o di chi era provato dal lavoro, a seconda del momento.
Quando la zia Roseline le fece notare che aveva anche un'entrata riservata, Gaela si tolse il monocolo per guardare l'austera signora bene in faccia.
- Secondo voi io dovrei circumnavigare il giardino solo per usare la mia porta d'ingresso?  Fa un freddo da spaccare i bulloni, un'entrata vale l'altra.
Ofelia era invece felice di poter vedere l'amica così spesso, e di solito Gaela si fermava per passare un po' di tempo con Serena prima di dirigersi verso i suoi alloggi. E sovente mangiavano insieme, visto che lei tornava tardi mentre la tavola di Ofelia era puntualmente apparecchiata.
Insomma, aver creato un appartamento privato per la coppia di sposi tornava utile solo per isolarli e garantire loro un po' di intimità insieme alla tranquillità per il resto degli occupanti. In effetti, non è che Renard e Gaela fossero proprio silenziosi. Una volta, nel corridoio, Ofelia aveva visto Renard correre letteralmente incontro alla moglie appena rincasata dall'officina e, senza darle il tempo di togliersi gli abiti da lavoro anneriti e sporchi di grasso se l'era presa in braccio e l'aveva portata in camera.
Ofelia ne era stata talmente imbarazzata che da quel giorno aveva evitato di bazzicare nei pressi dell'appartamento dei due quando Gaela era prossima a rincasare.
La sua attività era subito partita, ben avviata sia grazie alla pubblicità che Renard aveva fatto che per merito della fama di Gaela, ben nota già dal suo periodo a Chiardiluna. Ofelia sospettava che ci fosse di mezzo anche la lingua di Archibald, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo. In ogni caso, il giro di clienti divenne subito così folto da renderle necessaria l'assunzione di un assistente, e persino Renard le diede una mano come segretario, nel tempo libero.
Renard le parlava solo del successo di Gaela, non dei profitti, così fu realmente sorpresa quando una sera, in camera, dopo due mesi dal ritorno dei due, Thorn le allungò una busta.
- Dentro c'è la somma stanziata per sostenere i corsi del vostro consigliere.
Ofelia prese la voluminosa busta fissandola con perplessità. - Cosa dovrei farmene? - gli chiese quando sentì lo sguardo di Thorn diventare particolarmente insistente. Thorn non le aveva mai dato dei soldi, quel gesto l'aveva sinceramente destabilizzata.
- Ridarli al tuo consigliere. Me li ha messi sulla scrivania dello studio, un gesto azzardato oserei dire, vista la quantità di domestici che bazzicano per casa, ma non erano questi gli accordi.
Ofelia ci mise un po' a capire che Renard stava facendo riavere a Thorn i soldi che aveva stanziato per lui. Da lì cominciò un tira e molla tra i due, con Ofelia che usava gli specchi di casa per lasciare la busta negli appartamenti di Renard e lui che glieli lasciava sotto la porta della camera o in altri punti strategici.
Il quarto giorno Ofelia gli era andata incontro infuriata.
- Non li vogliamo, Renard! Era un regalo, e i regali non si restituiscono.
- Questo è un mio regalo, allora, ragazzo, non una restituzione.
- Ma non ne abbiamo bisogno!
- Non sempre abbiamo bisogno dei regali che ci vengono fatti.
Ofelia si batté la busta sul palmo, abbastanza in alto perché Serena, che le trotterellava vicino, non gliela rubasse. Aveva preso l'abitudine di appropriarsi gli oggetti altrui per poi scappare e dare inizio al gioco dell'acchiapparella, vizio che Ofelia stava cercando in tutti i modi di farle perdere.
- Thorn ha categoricamente rifiutato di accettarli.
Non era proprio vero, ma le aveva detto di ridarli a Renard, quindi era come se avesse negato di volerli.
- E allora cosa ce ne facciamo? - chiese il consigliere spaparanzandosi sul divano.
Si scompigliò i capelli rossi e Salame gli saltò in grembo, reclamando la sua attenzione come se non gli fosse appicciato addosso per la maggior parte della giornata.
Ofelia gli tese nuovamente la busta. - Potete considerarlo un regalo per i vostri futuri figli da parte nostra?
Renard parve soppesare la richiesta, e alla fine sospirò. - Gaela è molto orgogliosa al riguardo, non le piace accettare denaro. E da voi ne abbiamo accettato anche troppo. Non so come reagirebbe se le dicessi che è un regalo per i nostri figli.
Nonostante il tono titubante, Ofelia vide che gli scintillavano gli occhi a parlare di una possibile gravidanza della moglie. Ofelia sorrise e si trattenne dal toccarsi il ventre ancora piatto, ma che si sarebbe gonfiato ben presto, lo sapeva. Non vedeva l'ora di dare la notizia a Thorn. Aveva avuto il sospetto di essere incinta da un paio di settimane, ma non volendo diffondere falsi allarmi aveva aspettato. Ora non temeva più di dare una notizia fasulla, quanto di non riuscire a dirlo a Thorn prima che gli altri lo scoprissero.
Si schiarì la voce. - Consideratelo pure un tentativo di coercizione. Mi sto comprando il diritto di essere madrina del vostro primogenito.
Renard si aprì in un ghigno che lo fece assomigliare ad una volpe, tra il pelo rosso e l'espressione furba. In linea con il suo soprannome.
Accettò la busta. - Questa è l'ultima volta, però.
Ofelia gli sorrise e si sedette accanto a lui, mentre entrambi intrattenevano Serena.

Quella notte, quando Thorn si chiuse la porta alle spalle dopo essere stato in ufficio fino a tardi, Ofelia lo inchiodò al muro; per quanto una donna bassa come lei potesse attaccare al muro un gigante come Thorn...
Lo baciò con dolcezza, allungandosi verso di lui così come lui si abbassava verso di lei, incontrandosi a metà strada.
Un mormorio di piacere gli rimbombò nel petto e Thorn la spinse verso il letto. Ofelia lo sentì chiaramente esitare, percepì una lotta interiore che non riuscì ad identificare, però poi Thorn si abbandonò a lei così decise di non soffermarsi su quella sensazione.
Solo quando ebbero finito, con il fiato ancora corto, la esortò: - Devi dirmi qualcosa.
E non era una domanda.
Ofelia gli sorrise abbracciandolo nuovamente, restia a separarsi da lui. - Sono incinta.
Thorn non disse nulla. Seppellì il volto nel suo collo e la strinse a sua volta. Per tutta la notte.
 
 
Vittoria informò con nonchalance i cugini che il nuovo nascituro sarebbe stato maschio quando disse che era contenta di poter avere anche un cugino piccolo, oltre ad una cugina.
Thorn e Ofelia incassarono la notizia senza stupirsi, date le doti inspiegabili della bambina, ma mentre Ofelia sorrise all'idea di avere una coppia, lo sguardo di Thorn si rabbuiò. Molto lievemente, eppure abbastanza perché Ofelia se ne accorgesse.
Quando gli chiese se fosse contento di avere un maschio, Thorn si strinse impercettibilmente nelle spalle. - Uno vale l'altro.
Ofelia si accigliò. Nemmeno lei aveva particolari preferenze, ma visto che una bambina già ce l'aveva non le sarebbe dispiaciuto un maschietto.
- Certo, ovviamente, ma te lo auguravi o speravi in un'altra figlia?
Thorn sollevò lo sguardo dal fascicolo che stava studiando, nel suo ufficio in biblioteca. Con gesti abili e precisi prese la pipa che teneva nel cassetto della scrivania e che fumava solo quando voleva rilassarsi. L'accese e aspirò una lunga boccata, evitando lo sguardo di Ofelia.
- Non mi riesce facile relazionarmi con individui del mio stesso sesso.
Ofelia non poté fare a meno di inarcare le sopracciglia, sorpresa. A dire il vero, a Thorn non riusciva facile relazionarsi con nessuno. Dati i trascorsi con la sua famiglia, comunque, insieme alla naturale rivalità con Archibald e alla velata gelosia per Renard, non c'era da stupirsi che gli uomini in generale non gli piacessero.
Almeno era riuscito a farsi amare da una moglie, aveva una zia che ci teneva a lui, una cugina che lo rispettava come un padre e una figlia che lo adorava. In effetti, Thorn aveva più successo, se così si poteva dire, con le donne che con gli uomini.
- Di solito i conflitti si hanno tra madre e figlia, Thorn - fece notare Ofelia, ripensando ai propri trascorsi con la madre.
Lei era sempre andata più d'accordo con il padre, ma forse solo perché era troppo buono per poter litigare, con chiunque. Sapeva che la sua esperienza da sola non bastava a formulare una legge assoluta, però voleva fare qualcosa per tirare su l'umore di Thorn.
Gli sorrise dolcemente mentre lui increspava la fronte, nascondendo ancora di più i suoi occhi da rapace; nella penombra della camera, rischiarata solo da una debole lampada, brillavano come due stelle nel firmamento.
- Sarai il suo punto di riferimento, Thorn. Ogni bambino ammira il proprio padre e lo emula. Sono certa che sarà così.
- Lo dici perché ti basi sui comportamenti di Serena, ma lei è una marmocchia particolarmente buona, me ne rendo conto persino io. Sono certo che questo nuovo bambino ci darà parecchi grattacapi.
Il sorriso di Ofelia si spense lentamente, mentre la sua mano correva ad accarezzarsi il ventre non ancora esageratamente tondo. In risposta, Thorn si irrigidì e distolse lo sguardo.
Ofelia non si offese e non si demoralizzò: lo conosceva abbastanza bene da sapere che non pensava davvero ciò che aveva detto, ma era stato il timore di qualcosa che non poteva prevedere a parlare per lui.
- Avevi questi dubbi anche quando aspettavamo Serena, ricordi?
Thorn non rispose e continuò a non guardarla. Ofelia allora gli si avvicinò, sedendosi di fronte a lui sull'alta sedia all’altro capo della scrivania. Odiava doversi arrampicare sul sedile a misura di Thorn, tanto quanto era contenta che a casa lui avesse dei mobili che si adattavano alla sua statura, e non viceversa. Non l'aiutò a sistemarsi, ma Ofelia sapeva che stava analizzando ogni suo movimento, teso e pronto ad aiutarla se avesse vacillato.
Ofelia sospirò quando si fu messa comoda. Le sembrava sempre di essere lei stessa la bambina al cospetto del marito.
- Thorn, andrà tutto bene. Eri spav... - provò a dire Ofelia, bloccandosi a metà parola. Non era il caso di dire a Thorn che era spaventato, e infatti i suoi occhi corsero a lei con implacabile durezza. - Eri in apprensione anche quando ero incinta di Serena. Non sapevi, anzi nessuno di noi due sapeva cosa aspettarsi, era normale. Ma ora vediamo quanto lei sia felice, circondata da tutto ciò che un bambino potrebbe mai necessitare e desiderare, e con due genitori presenti. Entrambi presenti. Andrà bene anche con un maschio. Per quel che vale, nella mia esperienza sono state più che altro le mie sorelle a dare qualche grattacapo ai miei, che non Hector. Mio fratello era proprio pacifico.
Ofelia si chiese se non fosse stata colpa di Agata, sempre così esuberante da terrorizzare persino lei, talvolta. Serena era la bambina più tranquilla del mondo, tutta sorrisi e silenzi intervallati qua e là da brevi conversazioni sussurrate tra sé e sé. Solo Vittoria era equiparabile a lei per calma e placidità. Però Ofelia non aveva dubbi circa il fatto che sarebbe stata in grado di rimettere al proprio posto qualsiasi bambino troppo vivace o indiscreto. Bastava vedere le occhiate profondamente intelligenti e riprovevoli che lanciava a chi faceva troppo baccano, ogni tanto. Persino Renard, incrociando il suo sguardo maturo aveva abbassato gli occhi, qualche giorno prima di partire.
Ofelia aveva riso di fronte alla scena, ma si era chiesta se sua figlia non avesse preso davvero troppo dal marito.
Sorrise al ricordo. - Tu eri un ragazzino scalmanato e indisciplinato?
Thorn le lanciò un'altra occhiata tagliente come un rasoio, che non fece minimamente vacillare Ofelia.
- Immaginavo. Quindi vedi che non tutti i maschi sono così terribili?
Thorn grugnì una risposta inintelligibile e si accinse a ricominciare a lavorare, chiaro segno che la conversazione era chiusa. Ofelia scese dalla sedia e fece il giro della scrivania per lasciargli un bacio sulla guancia prima di congedarsi, ma Thorn a tradimento girò il capo per baciarla.
Fu inaspettato e irruente come il primo bacio che si erano scambiati sulla muraglia di Asgard, anni prima, e Ofelia sentì la sua corta barba solleticarle piacevolmente la pelle. Poi Thorn si allontanò e riprese a lavorare senza aggiungere altro. In ogni caso, Ofelia sapeva che le sue parole avevano sortito il giusto effetto su di lui, perché le spalle erano leggermente meno rigide e il suo sguardo severo era più limpido, come se in parte gli fosse stato rimosso un peso di dosso.
Stava per uscire dallo studio quando si bloccò.
- Dovremmo scegliere un nome - gli fece presente senza preamboli.
La scelta del nome la condizionava un po' troppo, a dire il vero, ma non sapeva proprio come avrebbe voluto chiamare il bambino. Dire che confidava nell'aiuto di Thorn era un eufemismo. Del resto, aveva scelto un nome bellissimo per Serena, e sperava che potesse proporne un altro azzeccato alla stessa maniera.
Sorprendentemente, lui non smise di lavorare ma disse solo: - Balder.
Ofelia dovette chiedergli di ripetere perché non era sicura di aver capito.
- Balder - ribadì allora, alzando a malapena gli occhi.
- Perché? - domandò Ofelia, presa in contropiede.
Thorn strinse le labbra rifuggendo il suo sguardo. - Credo che sia un nome appropriato. Avevi in mente qualcos'altro?
Ofelia scosse brevemente la testa, cercando di nascondere lo sgomento. Balder. - Mi piace.
Thorn le lanciò una breve occhiata e tornò alle sue carte. - Allora è deciso. C'è altro di cui volevi parlarmi? - le chiese né più né meno bruscamente del solito, ma Ofelia capì che, anche se ovviamente le avrebbe dato retta in qualsiasi circostanza, Thorn era impegnato con dei documenti urgenti.
- No - mormorò Ofelia, allontanandosi.
Appena uscì dallo studio del marito si appoggiò al muro e si accarezzò il ventre con affetto, sorridendo in modo sciocco. Thorn poteva anche essere preoccupato, poteva essere calcolatore e distaccato, poteva essere tutto quello che gli altri volevano, ma non era privo della capacità di amare.
Era solo incredibilmente abile nel camuffarla. Perché nessuno dava con tanta decisione un nome a qualcosa, o a qualcuno, a cui non aveva intenzione di affezionarsi.
Serena e Balder, figli di Ofelia e Thorn.
Sorrise di nuovo dirigendosi verso dove sapeva che avrebbe trovato Serena e Renard. Per un breve momento si immaginò Thorn circondato da bambini, in difficoltà nel districarsi tra la cacofonia delle loro voci, con le loro richieste e i loro capricci. Era un pensiero un po' sadico nei confronti del marito sempre così preciso e metodico, ma la fece sorridere ancora di più.
E le fece capire anche che, sebbene mancasse ancora parecchio alla nascita del nuovo figlio, anzi, di Balder, ne avrebbe sicuramente voluto un altro.
Mentre camminava si rese conto di essere davvero diventata la madre ovaiola che tutti volevano che lei diventasse, ma quando vide il sorriso di Serena accoglierla con affetto decise che non le sarebbe importato, dato che era una decisione che avevano preso lei e Thorn.
E una famiglia, una vera famiglia, era proprio quello di cui Thorn aveva bisogno.
 
Ofelia visse lo scorrere delle settimane in uno stato di completa e appagante gioia. Più del figlio in sé, era soprattutto contenta di poter dare un fratello a Serena. Era troppo abituata a stare con gli adulti, un po' di compagnia infantile le avrebbe fatto bene. Vittoria a parte, ovviamente, che era già una signorina nonostante non avesse nemmeno otto anni.
Persino la levatrice fece i complimenti ad Ofelia, e lanciò un'occhiata non più così accigliata a Thorn. Forse lo scoprire che non se l'era data a gambe ma, anzi, Ofelia era di nuovo incinta, le aveva fatto cambiare opinione su di lui.
Forse...
Ofelia passò i mesi di gestazione ad arredare con Thorn la cameretta di Serena, in cui lei si ambientò subito. Ormai era evidente che la piccola aveva un'intelligenza fuori dal comune, e assunse un'espressione solenne quando Thorn le spiegò che stava per arrivare un altro bambino. Serena si allungò per farsi prendere in braccio e mise le mani sulle guance del genitore.
- Papà mio - mormorò.
Thorn fece una cosa che non aveva mai fatto prima, sbalordendo Ofelia. Posò un bacio sulla fronte di Serena.
- Papà tuo e papà suo. Papà di tutti e due - disse, parlando in modo talmente poco da Thorn che Ofelia sgranò gli occhi e persino la sciarpa si agitò convulsamente.
Padre e figlia si guardarono a lungo, prima che Serena gli facesse capire che voleva scendere. Andò a giocare con dei pupazzi come se nulla fosse successo, di nuovo pacifica e... serena.
Ofelia si avvicinò a Thorn, che la osservò con la coda dell'occhio e poi distolse lo sguardo, le orecchie in fiamme. Gli tirò la manica della camicia e si strinse a lui, sentendolo rigido e teso come se avesse appena fatto del male a qualcuno. Ofelia gli prese la grande mano tra le sue, con tenerezza.
- Non voglio che sia gelosa - bofonchiò Thorn, dandole una spiegazione che Ofelia non aveva chiesto. - La gelosia è marciume, lo so bene, e non voglio che ne sia contaminata. Per il suo bene. Per suo fratello, invece, voglio che sia una brava sorella maggiore, che non lo maltratti.
Ofelia si rese conto che l'infanzia travagliata di Thorn l'avrebbe sempre seguito come uno spettro, senza mai abbandonarlo. In qualità di fratello minore sapeva bene cosa si provasse ad essere bistrattati, feriti e non considerati da chi doveva invece proteggerti. Ofelia ricordava ancora quanto aveva considerato un'eroina sua sorella Agata, almeno fino all'adolescenza. Ma Thorn sapeva anche cosa significasse essere divorati dalla gelosia, e voleva proteggere Serena anche da quello.
- Andrà tutto bene - gli sussurrò. Poi sorrise. - Guarda io quanti fratelli ho.
Thorn si tese ancora di più e Ofelia scoppiò a ridere, facendo voltare Serena, quando vide l'espressione di panico dipinta sul volto del marito.
 
Ofelia dedicò buona parte del suo tempo a cercare di spiegare a Serena cosa significasse l'arrivo di un fratellino. Provò a farle capire che sarebbe stato bellissimo avere qualcuno con cui giocare, e che avrebbe dovuto insegnargli tante cose. Si ricordava bene la gelosia di Hector quando erano nate le gemelle. Suo fratello reclamava l'attenzione dei genitori, totalmente assorbiti dalle tre neonate, ponendo una moltitudine di domande su qualsiasi cosa nel vano tentativo di ricevere un po' di considerazione.
Erano state Agata e Ofelia, le più grandi, ad includerlo per non farlo sentire solo.
Ofelia temeva che Serena, seppur piccola, si ingelosisse. Avrebbe avuto tre anni quando fosse nato il fratellino, abbastanza per rendersi conto che le cure dei genitori e di qualsiasi altro adulto nella casa non erano più rivolte solo e unicamente e lei. Sperava che la presenza di Vittoria mitigasse quella transizione, con la indole serafica. Ma forse si stava fasciando la testa prima del previsto, dato il carattere pacifico di Serena. E anche lei, che era cresciuta in una casa decisamente sovraffollata, non aveva avuto una brutta infanzia. Erano stati proprio i suoi fratelli a riempirle la vita e tenerle compagnia.
Ebbe un improvviso moto d'affetto per Agata, Hector e le sue sorelline, così si mise a scrivere una lettera per salutarli. Poteva benissimo essere colpa degli ormoni della gravidanza se provava quella nostalgia, ma alla fine non c'era niente di male nel farsi sentire un po' più spesso.
La notte ci pensava Thorn a farle passare ogni inquietudine, quando si sdraiava accanto a lei e l'abbracciava stretta, accarezzandole il ventre tondo. Balder scalciava piano, come se volesse farsi sentire ma al tempo stesso avesse capito qual era il suo posto, obbediente.
 
I mesi passarono in un lampo, pacificamente, talmente tanto che Ofelia non si rese conto di essere arrivata al nono mese finché non la colsero le doglie. Al contrario della prima volta le acque non si ruppero nemmeno, cominciarono direttamente le contrazioni, a cena.
Ofelia si mise una mano sul ventre prominente, attirandosi un’occhiata in tralice di Thorn, che non si perdeva mai nemmeno un suo gesto. Dopo poco la fitta passò e Ofelia si distrasse pulendo la bocca di Serena, che mangiava del purè su una specie di appoggio di fianco a loro, pasticciandosi tutta. Aveva quasi finito di mangiare quando un altro dolore la colse, ma lei si limitò a stringere con più forza le posate: non voleva allarmare nessuno. La terza l’avviluppò quando lei e Thorn stavano mettendo a letto Serena, che non aveva nemmeno fatto un pisolino pomeridiano ed era così stanca da piangere istericamente per un nonnulla. Thorn era riuscito a farla addormentare subito, ma Ofelia era voluta rimanere con loro perché sapeva che quella era l’ultima sera in cui avrebbe avuto Serena come unica figlia. Stava per diventare la maggiore, e la cosa la colmava di trepidazione.
La contrazione fu talmente violenta che Thorn dovette sostenerla per evitare che cadesse: non era un dolore così atroce, ma il suo scarso equilibrio la tradì.
- Cosa succede? – sibilò Thorn, scortandola fuori dalla stanza. – Ho notato che qualcosa non va, non credere di potermi ingannare. Hai dolori?
Ofelia gli accarezzò il viso, un po’ per calmare lui mentre il male passava e un po’ per trarre forza. – Sta arrivando.
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Il bambino?
Ofelia annuì, raddrizzandosi e prendendo un respiro profondo. – Mi serve la governante.
Come al solito, con il suo sangue freddo Thorn non si fece prendere dal panico, ma Ofelia sentì che rinsaldava la presa sul suo braccio. – Sarà anche la levatrice, ma io sono il padre. Voglio poter assistere almeno alla nascita del mio secondogenito, checché ne pensi la nostra domestica.
Ofelia lo guardò con occhi imploranti. – Sbrigatevela tra di voi, a me basta che qualcuno mi aiuti a tirarlo fuori.
 
Quasi un’ora dopo la camera dei due genitori era stata ritrasformata in una perfetta zona parto, con le porte chiuse, i catini, gli asciugamani e il resto dell’occorrente, le zie che trafficavano attorno ad Ofelia, la levatrice che berciava ordini e l’altra domestica che l’assisteva, imparando il mestiere. Thorn, come al solito, passeggiava di fronte alla camera, al di là delle pareti, come un animale in gabbia. La levatrice si era imposta nuovamente, ma i due si erano scontrati così duramente che era risultato subito chiaro che nessuno dei due avrebbe ceduto. Alla fine erano giunti ad un compromesso, cioè che se Thorn si fosse comportato bene anche quella volta, lei gli avrebbe permesso di assistere alla nascita del terzo.
Thorn aveva esitato, restio a cedere, soprattutto con una condizione tanto aleatoria: chi aveva parlato di un terzo bambino? Alla fine però l’aiutante-levatrice era corsa a chiamarla urlando che Ofelia era già dilatata di cinque centimetri, cosa che fece correre via imprecando la donna, stringere i pugni a Thorn, insoddisfatto, e ridere maliziosamente Archibald, che compariva sempre nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
Thorn era terribilmente insofferente alla sua presenza, e si chiedeva sempre per quale motivo l’ambasciatore bazzicasse continuamente per casa sua, ma temeva che arrabbiandosi in proposito e cacciandolo apertamente avrebbe solo ottenuto ancora più visite. Quell’uomo tendeva a fare l’esatto contrario di ciò che gli altri si aspettavano o volevano che facesse. Quindi lo ignorava, ma la sua tolleranza vacillò ulteriormente quando arrivarono anche Renard e Gaela, che per una volta non avevano cenato con loro: erano rientrati in quel momento dopo aver finito un lavoro lungo all’officina che avrebbe fruttato un sacco di soldi, a detta della meccanica, anche se a Thorn non sfuggì la macchia sul collo di Renard. Che non era di morchia.
In ogni caso, per quanto Thorn si contraesse ad ogni rumore insolito che sentiva provenire da dietro la porta, non udì mai un urlo, come la prima volta. Desiderava più di ogni altra cosa spalancare l’uscio, magari allontanando prima Archibald, ed avvicinarsi ad Ofelia, stare al suo fianco, aiutarla in qualsiasi modo lei avesse voluto. Sentirsi così inutile e farsi divorare dall’attesa lo irritavano al punto che sentiva gli artigli rischiare di sfuggire al suo controllo. Li avrebbe volentieri scagliati su Archibald, ma non aveva un valido pretesto, e anche in quel caso le ripercussioni sarebbero state gravi.
Fortunatamente il parto richiese meno tempo dell’altra volta, un po’ perché Ofelia sapeva già cosa fare e in parte anche perché il suo corpo era pronto. Serena aveva spianato la strada.
Quando l’urlo ruppe l’innaturale silenzio che si era creato nel corridoio, e Thorn sospettava anche in tutta la casa, come una cappa d’umidità, sentì ogni giuntura del suo corpo tendersi dolorosamente, forse a causa dello spasmodico bisogno di condividere le sofferenze di Ofelia. Rimase sbigottito, ma non lo diede a vedere, quando si rese conto che il vagito era quello di suo figlio, non di sua moglie.
Balder era nato, annunciando al mondo il suo arrivo con molta più presenza di spirito rispetto alla sorella.
 
Ofelia osservò stancamente la levatrice e la sua aiutante, che era stata molto più utile e brava della prima volta, uscire dalla stanza con le bacinelle piene di stracci insanguinati. Attraverso lo spiraglio aperto della porta intravide Archibald che faceva una piccola smorfia a quella vista, ma poi occhieggiò la giovane domestica che si allontanava e seguì la sua scia. Ofelia sperava che la levatrice anziana lo mettesse in fuga, perché non voleva proprio che Archibald seducesse una delle sue lavoratrici più fidate e care. Provava nei confronti di quella ragazza poco più grande di lei la simpatia che aveva avuto per Pistacchia all’inizio, la domestica di Berenilde.
Ogni altro pensiero venne però spazzato via quando Thorn varcò la soglia sbattendosi quasi la porta alle spalle. Non si rese nemmeno conto che le due zie, anch’esse provate, erano uscite per lasciare loro un po’ di intimità.
Ofelia gli sorrise con affetto, lasciandogli spazio sul bordo del letto perché potesse sedersi, ma Thorn rimase in piedi, rigido come al solito. Sembrava un animale in procinto di analizzare qualcosa di sconosciuto per capire se fosse o meno una minaccia.
- Lui è Balder – disse pacatamente, come per indurlo ad accettare il neonato dicendogli a voce che era suo figlio.
- Non ci sono dubbi che sia tuo figlio.
La gioia di Ofelia vacillò, e si strinse nuovamente il piccolo al petto. Mugugnava piano, agitandosi, come se fosse prossimo al pianto. E forse lo era: aveva fame, e presto avrebbe reclamato il pasto se Ofelia non glielo avesse dato immediatamente.
- Cosa intendi dire?
Lo sguardo di Thorn sembrò ammorbidirsi un poco, o forse fu solo la luce che gli schiarì il volto, facendolo sembrare meno cupo. – Ha i tuoi stessi capelli e occhi.
Ofelia non poté contraddirlo. Balder aveva una leggera peluria scura sulla sommità del cranio tondo e morbido, e gli occhi di un innegabile color nocciola che difficilmente sarebbe cambiato, come quelli di Serena. E i suoi. Per i capelli era un po’ presto per dirlo, dato che molto probabilmente sarebbero caduti per lasciar spazio a quelli nuovi, ma Ofelia dubitava che gli sarebbero ricresciuti biondi, se erano quasi neri.
Si adombrò leggermente. – È anche tuo figlio. Vuoi prenderlo, o lo allatto? Tra poco inizierà a piangere.
Thorn finalmente si sedette, lentamente, come se temesse che dei gesti bruschi potessero dare il via ad un pianto a dirotto. Tese le braccia, ormai avvezzo a cullare dei neonati, grazie alla pratica fatta con Serena, e si fece passare Balder.
- È un pochino sporco, devono ancora lavarlo, ma prima deve mangiare.
Thorn quasi non udì le sue parole, preso com’era dalla contemplazione del fagottino che stringeva a sé come un tesoro. Il bambino lo guardava con gli occhi sgranati, improvvisamente silenzioso e fermo. A tratti il labbro inferiore gli tremava come se volesse iniziare a piagnucolare, ma quando Thorn inclinava il viso, quasi a volergli intimare di non farlo, lui reprimeva le lacrime.
Ofelia sorrise quando capì che finalmente Thorn aveva vinto la sua titubanza e si era innamorato del bambino. I due maschi di casa si squadravano senza diffidenza, come due amici che intrattengono una relazione epistolare e si vedono per la prima volta, cercando di riconoscere nell’altro quella penna amica con cui avevano condiviso tanto.
- Parlagli, conosce la tua voce.
Thorn si schiarì la gola, a disagio nel conversare con un neonato, ma non si tirò indietro. – Sono tuo padre. So che tu non puoi capire ma… siamo entrambi maschi e…
Ofelia rise, attirandosi addosso gli occhi di entrambi i suoi uomini. Il bambino parve riscuotersi e iniziò a frignare per avere il latte. Ofelia lo prese e se lo attaccò al seno prima che potesse cominciare a urlare seriamente. Thorn rimase ad osservare la scena in silenzio. Poi, senza preavviso, accarezzò con un dito la guancia del piccolo, che continuò a poppare ma girò lo sguardo verso di lui, estremamente consapevole. Thorn si chinò per baciare Ofelia, intensamente, così tanto da farla gemere sommessamente. Dentro di lui ribolliva un amore sconfinato per quella donna forte che era tanto fortunato da avere come madre dei suoi figli.
Fu lei a staccarsi, attenta a non schiacciare Balder.
Lo guardò seriamente, quasi a volerlo sgridare. – Vedi di non farmi aspettare come la volta scorsa dopo questo parto.
Thorn ricambiò il suo sguardo autoritario. – Concesso.
 
Renard e Gaela accolsero Balder con lo stesso entusiasmo e affetto che avevano riservato a Serena.
- La tua sorellina è la mia figlioccia, ma tu sei il maschio di casa – mormorò Renard al piccolo una volta che Ofelia e Thorn li ebbero fatti entrare in camera.
Gaela gli tirò un orecchio. – Cosa sarebbe questo discorso maschilista? – berciò, facendo sussultare il bambino che poi si mise a piangere.
Thorn lo rubò dalla stretta di Renard per cercare di calmarlo, lanciando un’occhiataccia a Gaela, che non parve minimamente scalfita. In ogni caso, guardò Ofelia come a volersi scusare, il massimo che si potesse ottenere da lei.
Archibald ridacchiò. – Come donna non state facendo una buona impressione al mio nuovo compagno di conquiste. Vedrete, figlio dell’intendente, le fanciulle non sono tutte come questa qui. Vi farà molto piacere scoprirlo.
Thorn sembrava in procinto di scatenare gli artigli, così Ofelia gesticolò affinché almeno le ridesse Balder. Sapeva che Thorn ricorreva alla violenza solo quando era strettamente necessario, e anche in quel caso si faceva delle remore. Era certa quindi che, per quanto Archibald lo infastidisse, non gli avrebbe mai nuociuto fisicamente, memore anche del putiferio che si era scatenato l’unica volta in cui l’aveva fatto. E ne sembrava consapevole anche Archibal, che continuava a sorridere impenitente.
- Voi non corromperete mio figlio – lo ammonì Thorn, glaciale.
- Vedremo, vedremo… lo zio Archibald sa essere molto persuasivo.
- Voi non… - cominciò Thorn, con gli occhi fiammeggianti, ma Ofelia lo tirò per la manica.
Si sentiva improvvisamente svuotata di ogni forza, ed era certa di non avere un gran bell’aspetto.
Renard parve cogliere al volo l’antifona, e prese sua moglie a braccetto. Gaela provò a divincolarsi, ma lui non la mollò. – Complimenti ai genitori, ottimo lavoro davvero, i vostri figli sono i più adorabili che abbia mai visto.
- Sono gli unici che tu abbia mai visto – bofonchiò Gaela.
- Vedrò di dare il mio meglio per poterli istruire nel modo più appropriato ed eclettico. Ora però credo che abbiate bisogno di riposo, e l’ora è più adatta ad un profondo sonno che ai festeggiamenti, quindi li rimandiamo a domani. O tra qualche ora, visto che è già domani.
Ofelia sorrise a Renard, sempre più impasticciato con quello che stava dicendo, per fargli capire che aveva compreso. – Grazie, Renold. Vi auguro una buona notte.
Gaela grugnì e annuì seccamente con la testa prima di uscire, dando un’altra gomitata a Renard, che in risposta rise con aria innamorata. Ofelia scosse la testa e riportò lo sguardo su Thorn, che tutto aveva fuorché uno sguardo innamorato. Stava fissando in cagnesco Archibald, cercando di farlo uscire, ma in risposta lui si era seduto sul bordo del letto.
- Bene, ora che facciamo? – chiese come se fossero le otto di mattina di un giorno di sole, e non le due di notte. Pioveva, per giunta.
Per fortuna arrivò la zia Roseline in soccorso della nipote. – Noi ora laviamo il piccolo, voi potete andare a dormire.
Archibald assunse un’espressione fintamente imbronciata. – Mi cacciate in questo modo?
La zia Roseline si fece passare Balder da Ofelia e non lo degnò di una risposta.
Ofelia sospirò, togliendosi dalla fronte i capelli sudati e aggrovigliati. – Non ha detto che dovete tornare a casa vostra. Prendetevi una stanza.
Archibald sorrise di nuovo, come se non si fosse aspettato di essere invitato a restare. Come se fosse un accadimento occasionale, non regolare. E di solito non chiedeva nemmeno se poteva restare, se lo trovavano la mattina al tavolo della colazione con addosso un pigiama ancora più sbrindellato del suo vestito.
Thorn non sembrava molto contento, e svettava sulla moglie con fare protettivo, ma non poté dire nulla perché in quel momento entrò caracollando Serena, che si stropicciava gli occhietti assonnati.
- Mamma! – gracchiò. – Paua!
Ecco, Balder era nato da neanche un’ora e già due figli cominciavano ad essere troppi. Ofelia provò a tirarsi su per poter accogliere la piccola, ma Archibald la intercettò prima che potesse avvicinarsi alla madre.
- Figlia di Thorn, torniamo a dormire. La mamma è stanca. Che ne dite se vi faccio io compagnia?
Thorn si era già avvicinato alle sue spalle per allontanarlo da Serena, ma la piccola nascose il viso nella spalla dell’ambasciatore, troppo stanca per rendersi anche solo conto di essersi alzata dal letto. Archibald rivolse uno sguardo trionfante al padre. – Ecco chi è il preferito.
Ofelia sapeva che questa volta solo la presenza di Serena in braccio ad Archibald avrebbe impedito a Thorn di snudare le zanne, e lo richiamò stancamente. – Thorn, lascia che faccia, deve solo metterla a letto. Tu aiuta la zia Roseline, Balder si sta lamentando.
- Posso fare entrambe le cose.
- No, non puoi – mormorò Ofelia, restia a discutere di fronte ad Archibald, più che interessato. Si rivolse direttamente e lui. – Mettetela a letto, si riaddormenterà subito. Niente stravaganze – lo ammonì.
Archibald le rivolse un sorriso fulgido e niente affatto rassicurante. – Io? Mi offendete in questo modo, mia cara.
Thorn, che si era diretto verso il bagno, si girò e lo apostrofò in malo modo: - Non è la vostra cara. Non è la vostra niente. Gradirei che abbandonaste camera nostra.
Archibald, tutto fuorché offeso, se ne andò saltellando con Serena in braccio. Ofelia sperò solo che non la svegliasse troppo.
Era così stanca che non si rese nemmeno conto di essersi assopita, e si ridestò solo quando la zia Roseline la risvegliò con una carezza sui capelli.
- Ofelia, so che sei esausta, ma credo che un bel bagno ti aiuterebbe a riposare meglio.
Ofelia si sentiva appiccicosa e sporca e le sembrava di essere stata travolta da un carro in corsa. Però sua zia aveva ragione, così scostò le coperte per alzarsi.
- Ti do una mano io – la rassicurò, per una volta piena di tatto, comprensione e dolcezza di modi.
Ofelia le rivolse uno sguardo grato, contenta che la zia fosse rimasta a vivere con lei. Era un ponte tra lei e la sua famiglia, così lontana, e ne apprezzava la praticità e la presenza, per quanto a volte potesse avere dei modi troppo affettati.
La zia la fissò con affetto, ma prima che Ofelia si alzasse Thorn le mise una mano sulla spalla, perché restasse seduta. – Posso occuparmene io, siete stanca anche voi signora Roseline. Permettete almeno che mi renda utile in questo modo.
Thorn reggeva Balder con un solo braccio, e i due maschi di casa sembravano già aver trovato un loro equilibrio. Il piccolo era in procinto di addormentarsi, con le palpebre pesanti che ci mettevano sempre più tempo ad aprirsi dopo essersi chiuse.
Sorprendendo persino se stessa, la zia Roseline accettò di buon grado, e andò in cerca di Berenilde che aveva lasciato addormentata sul divano con Vittoria.
Thorn si sedette con Ofelia e le mostrò il piccolo che, finalmente pulito, muoveva a scatti le minuscole dita, troppo stanco per fare altro. I radi e sottili capelli scuri erano spettinati e gli stavano ritti sulla nuca, così Thorn provò a sistemarglieli come poté, delicatamente. Ad Ofelia fece ridere che, fra tutto quello che poteva turbarlo, Thorn fosse preoccupato per l’aspetto di un neonato. Si appoggiò contro il suo fianco, chiudendo gli occhi.
Si riscosse dopo pochi secondi, o così credeva, dato che la pendola indicava che in realtà erano trascorsi ben dodici minuti. Thorn si era alzato e aveva posato Balder nella culla che prima di lui aveva usato Serena, accertandosi che fosse comodo e al caldo. Lo contemplò per alcuni istanti, impassibile, prima di riportare lo sguardo su Ofelia. Cercò di nascondere l’emozione che vi albergava, ma non ci riuscì del tutto, e Ofelia gli sorrise teneramente.
Si fece aiutare per alzarsi, si lasciò spogliare, trattenendo un sospiro quando le mani di Thorn, per una volta calde grazie al bagnetto che aveva fatto a Balder, le volarono leggere sul corpo, delicate. Era così stanca da far fatica a reggersi in piedi, eppure sentiva le mani di suo marito come una presenza sottopelle, quasi un balsamo. Amava quelle mani, pensò fiaccamente mentre il vapore dell’acqua calda l’avvolgeva, sciogliendole il corpo e rendendola ancora più instabile.
Thorn dovette sorreggerla doppiamente mentre la aiutava a rivestirsi, anzi, la rivestiva lui, con fatica per giunta, dato che Ofelia sembrava esserglisi addormentata addosso.
- Come mai sei così stanca? L’altra volta eri più… reattiva.
- L’altra volta ero riuscita a dormire un po’ prima che si rompessero le acque. Questa notte non ho avuto il tempo di riposare.
Dato che erano le tre e quarantotto del mattino, in effetti, Thorn ammise che per Ofelia doveva essere stata una lunga e impegnativa giornata, un parto più impegnativo della prima volta, sebbene sapesse cosa aspettarsi.
Quando finalmente riuscì a sistemarla sotto le coperte, si lavò velocemente e si sdraiò accanto a lei. Se fosse andato in ufficio avrebbe dormito due ore, ma decise che avrebbe lavorato da casa l’indomani, per non allontanarsi da Ofelia e dal nascituro, quindi aveva a disposizione un po’ di tempo in più. E ne fu intimamente grato quando Ofelia si avvicinò a lui nel sonno, attratta dal suo calore.
Thorn le depose un bacio impercettibile sui capelli puliti e si abbandonò al sonno, chiedendosi come fosse possibilmente amare una persona in modo così travolgente e trovare anche il posto per non uno, ma due figli, per cui provava un affetto di poco meno intenso. Persino per Balder, che era nato da un’ora e sedici minuti.
Si addormentò con la consapevolezza di non avere una risposta, ma invece di dargli fastidio, la questione in sospeso calmò la sua inquietudine. Proprio perché non riusciva a localizzarne l’origine significava che quei sentimenti erano puri e incondizionati. Non doveva porsi domande, solo viverli.
Era un marito e un padre, e trovava estremamente appagante esserlo.
Anche un po’ di più.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Mi è venuto il diabete a rileggere questo capitolo ma va be', ogni tanto ci sta (spero).
E rido da sola all'idea (malsana e insensata) che mi è venuta per il prossimo capitolo ahahahahah. Ho problemi seri.
Amo Thorn e Ofelia, troppo. Basta.
Spero che vi piaccia il capitolo xD


Capitolo 23

Fu da subito evidente che Balder, seppur tranquillo, era di una pasta diversa da Serena.
La piccola si era praticamente adeguata ai bisogni dei genitori, dormendo quasi tutta la notte e svegliandosi solo per reclamare la sua poppata. Balder invece sembrava dormire di giorno apposta per poter rimanere alzato di notte. L'unica fortuna di Ofelia e Thorn era che il neonato aveva la stessa indole mite della sorella, quindi quando si metteva ad urlare alle due del mattino era solo per far capire che aveva fame. Una volta nutrito da una provata Ofelia, rimaneva in silenzio, a parte qualche gargarismo e verso tipico dei bambini appena nati. Le prime notti, rinunciando all'idea di farlo riaddormentare, dato che Balder sembrava sprizzare energia da tutti i pori, Thorn aveva provato a rimetterlo nella culla. I risultati non erano stati dei migliori, dato che il piccolo sembrava riscuotersi non appena il padre lo metteva giù e si allontanava per riposare.
Dopo una settimana dalla sua nascita, stremata, Ofelia decise di portarlo a letto con sé e Thorn. Sperava che il piccolo rimanesse buono e in silenzio sentendo i genitori accanto a sé. Aveva notato infatti che Balder iniziava ad urlare quando si rendeva conto di essere solo.
Thorn la guardò con perplessità quando Ofelia depose quel fagottino che era il loro figlio in mezzo a loro, perché gli facessero da barriera con il corpo e lui non cadesse. Ofelia gli restituì un’occhiata sfinita e si sdraiò, pronta per tornare a dormire. Si riaddormentò subito, al contrario di Thorn, che rimase a fissare suo figlio. Il piccolo non faceva che girare la testa mugolando, in modo sempre più agitato, finché non riuscì a vedere il padre.
Allora si bloccò, zitto, e poi si aprì in un sorriso sdentato. Allungò una manina e Thorn gli porse un dito, che Balder strinse prontamente, con una forza impensabile per un bambino di pochi giorni. Tornò a gorgogliare e brontolare piano, placidamente, permettendo sia ad Ofelia che a Thorn di dormire.
La mattina successiva Ofelia era decisamente più riposata, e sorrise teneramente alla vista di padre e figlio che, svegli, si scrutavano a vicenda come la prima volta che si erano visti. Un minuto dopo entrò caracollando anche Serena, che aveva imparato ad aprire le porte e grazie alla sua memoria si ricordava che quella di fronte alla propria camera apparteneva ai genitori. Si arrampicò sul letto di fianco a Ofelia e si sporse per osservare il fratellino, che la guardò con diffidenza. Poi incrociò gli occhi metallici del padre, così chiari rispetto ai suoi, e si rabbuiò un po’.
- Anche io domme qui! Come ieli!
Serena non aveva ben chiaro il concetto del tempo, e confondeva oggi, domani e ieri, che per lei erano interscambiabili. In ogni caso, Ofelia capì che si ricordava di aver dormito anche lei in quella stanza, prima che arrivasse Balder.
- Ma tu sei grande adesso, Serena – mormorò Ofelia cercando di spostarle i lunghi capelli dal viso. Erano sottili e biondi come quelli di Thorn, morbidi. Sperava che non si scurissero crescendo, perché le piaceva che sua figlia avesse sia qualcosa di suo, come gli occhi, che di Thorn. – Il tuo fratellino è piccolo invece. Vedi? Ha bisogno di noi.
Serena pareva in procinto di mettersi a piangere. Thorn la fissava, impassibile, ma allargò un braccio per invitarla ad avvicinarglisi. La bambina parve capirlo e scavalcò la madre, circumnavigando il neonato che non smetteva di guardarla, incuriosito, e si accoccolò vicino al padre. Thorn fissò con aria truce i suoi capelli spettinati, come se fossero una questione di primaria importanza in quel momento, e glieli sistemò con pochi e abili gesti. Ofelia alzò gli occhi al cielo: lui e quel suo costante bisogno di ordine!
Quell’opera però sembrò calmare Serena, che almeno non stava più per mettersi a piangere. Balder bastava e avanza per quello.
- Anche lui avrà una camera sua quando crescerà – le spiegò Thorn con voce più ruvida del solito. Erano le prime parole che pronunciava quel mattino. – Adesso però gli servono gli adulti, perché non è in grado di badare a se stesso.
Ofelia era sempre spiazzata dal modo in cui Thorn si rivolgeva a Serena, parlandole come ad un pari, e non ad una bambina di tre anni. E rimaneva ancora più sconvolta dal fatto che la piccola sembrava sempre capire tutto, e prendeva le parole del padre come se fossero un discorso solenne.
Infatti annuì, guardando il fratellino sotto una luce nuova.
Ci pensò lei a farle un discorso che fosse più nelle corde di una bimba. – Ci aiuterai a prenderci cura di lui, Serena? Tu sei sua sorella maggiore. Sei il suo esempio. Dovrai essere una brava bambina per insegnare anche a lui ad esserlo.
Serena spalancò gli occhioni nocciola, fissando a turno lei e Thorn. Quest’ultimo annuì lievemente, come a spronarla ad accettare quella proposta, e Serena assunse un’espressione determinata.
- Sì mamma. Io bava.
Ofelia le sorrise e le accarezzò il viso. – Certo che sei brava.
Ancora vicina a Thorn, che fissava Ofelia intensamente, Serena si sporse su Balder e gli toccò una guancia.
- Io sono Selena. Anche tu devi fae il bavo!
Serena aveva qualche problema con le erre, e Ofelia sospettava che le sarebbe venuta quella scricchiolante tipica del Polo. Sperava anche che fosse delicata come quella di Berenilde invece che dura come quella del marito. La sua parlata infantile rese però le sue parole ancora più commoventi.
In risposta a quel comando, Balder si aprì in un sorriso sdentato e agitò un pugnetto. Serena glielo afferrò e il bambino le strinse il dito, facendola ridere.
- Guada, mamma! – esclamò, colpita.
Ofelia le sorrise. – Significa che ti vuole già bene.
Serena assunse subito un’espressione seriosa, colpita. – Anche io.
Ofelia increspò un sopracciglio quando si rese conto che Thorn ancora la fissava. Lui continuò ad osservarla per alcuni attimi prima di alzarsi, trascinando con sé anche Serena, che rise.
- Andiamo a cambiarci – la informò, indossando la vestaglia e uscendo con la bambina ancora in braccio.
Ofelia lo osservò sentendo una familiare e troppo a lungo ignorata fitta di desiderio prendere fuoco nel suo stomaco. Si girò verso suo figlio, imbarazzata come non era stata nemmeno all’inizio del loro matrimonio.
- Hai un papà proprio bravo, lo sai Balder?
Il bambino sorrise e agitò ancora il pugno, gorgogliando.
Nonostante quell’aria beata e angelica, il neonato la fece combattere tutto il giorno, e quando Thorn andò a letto la sera la trovò già addormentata.
Fu lui ad alzarsi per prendere Balder quando il piccolo si svegliò urlando nel cuore della notte, e come la volta prima lo sistemarono fra di loro mentre tornavano a riposare. Esausta, Ofelia dormì finché non la svegliò la roca voce di Thorn. Stava sorgendo l’alba, era molto presto, ma Thorn stava cullando il bambino, in piedi, ondeggiando goffamente e rigidamente per la stanza. Ofelia dovette attendere solo due minuti prima di vederlo riporlo nella culla, profondamente addormentato. Finse di dormire quando Thorn si risistemò accanto a lei, ma appena le si fu avvicinato abbastanza gli salì sopra, torreggiando su di lui per una volta.
Sorpreso, Thorn la guardò con le sopracciglia inarcate e la fronte spianata.
Senza una parola Ofelia si chinò per baciarlo sulle labbra, prima timidamente e poi facendogli inequivocabilmente capire cosa volesse. Sospirò platealmente quando sentì le mani calde del marito scorrerle sulle cosce e afferrarla per la vita, sotto la camicia da notte, percependo distintamente quelle ultime settimane di astinenza, e desiderosa di porvi una fine.
Non erano nemmeno riusciti a cominciare quando sentirono dei gridolini inconfondibili fuori dalla porta.
- Papà, mama! – li chiamò Serena, aprendo la porta e fiondandosi dentro, del tutto sveglia nonostante fosse presto. Molto presto. Troppo presto.
Ofelia ebbe giusto il tempo di ributtarsi sgraziatamente a letto prima che la bambina li vedesse, e nessuno dei due riuscì ad impedire alla bambina di dirigersi verso la culla del fratellino.
- Badde gioca! Io e Badde gioca!
Thorn scattò in piedi, indossando la vestaglia ancora prima di essere uscito dal letto, e si fiondò verso la figlia. Troppo tardi.
Serena aveva decisamente svegliato Balder che, appena addormentato, era poco entusiasta di essere stato destato con così poco riguardo. Lo rese noto a tutti piangendo e urlando il suo disappunto.
Thorn scostò Serena con meno delicatezza del solito e, sebbene non fosse stato brusco, per i suoi canoni, la bambina ci rimase male. Osservò con occhi pieni di lacrime il papà che prendeva in braccio Balder e cercava di zittirlo e farlo riaddormentare.
Ofelia la chiamò a sé e Serena si rifugiò tra le braccia della madre piangendo silenziosamente. Thorn le guardò rivolgendo alla moglie una velata occhiata di scuse.
- Io e Badde giochiamo – piagnucolò alla fine, seppellendo il volto nel petto della madre, aggiungendo i suoi lamenti a quelli di Balder.
- Più tardi, Serena. Balder non è grande come te, deve dormire di più. Tu non devi svegliarlo quando dorme, capito?
- Io cattiva?
- No, tesoro – mormorò Ofelia, abbracciandola. – Non sei cattiva.
- Papà dice che io cattiva.
Ofelia si rabbuiò. – Papà non…
- Serena – la richiamò Thorn, né più né meno duramente del solito. Quando la bambina si fu voltata verso di lui abbastanza da riuscire a vederlo almeno con un occhio, Thorn la incalzò: - Ho mai detto che sei cattiva?
Il labbro inferiore di Serena sporse pericolosamente in fuori, chiaro segno che una nuova ondata di lacrime era in arrivo.
- Serena – bisbigliò pacatamente Ofelia. – Rispondi a papà.
- Ho mai detto che Serena è cattiva? – ripeté lui.
La bambina scosse la testa.
- Perché non sei cattiva. Va bene che tu voglia giocare con Balder, ma non quando dorme. Siamo intesi?
Serena annuì debolmente. Ofelia le asciugò le lacrime, continuando a stringerla.
Poco tempo dopo Thorn rimise Balder, che si era fortunatamente riaddormentato in fretta, nella culla. Si avvicinò al bozzolo formato da Serena e Ofelia e piegò la lunga colonna vertebrale fino a far assumere al suo corpo la fisionomia di un angolo retto. – La mamma si stanca quando Balder è sveglio. Capisci?
- Sì – bofonchiò Serena, intimorita.
Thorn le accarezzò brevemente il viso, un contatto fugace che voleva essere confortante. – Brava.
La piccola parve rianimarsi con quel complimento; per lo meno si raddrizzò un poco, abbandonando la postura ingobbita.
- Perché non vai a svegliare la zia Roseline e Vittoria? Così potrai giocare con loro.
Thorn le lanciò un’occhiata confusa e aiutò Serena, già dimentica delle sue preoccupazioni, a scendere dal letto. La bambina corse fuori e Thorn richiuse la porta. Quando tornò ad osservare la moglie, la trovò sdraiata tra i cuscini, provata dal brusco risveglio.
Thorn inarcò un sopracciglio. – Ritengo che sia un po’ presto per svegliare tutti.
Ofelia parve riscuotersi e si inginocchiò sul letto, sporgendosi verso di lui. – Sì, lo è, ma era l’unico modo per tenerla impegnata. Vieni qui prima che torni.
Cogliendo l’antifona, Thorn si affrettò ad assecondare la moglie, cercando in tutti i modi di zittirne i mugolii di piacere per non svegliare nuovamente Balder. Non che lui fosse più silenzioso…
Ofelia si godette appieno quel momento di intimità dopo tanti giorni passati senza condividerla, grata anche del fatto che Thorn non fosse spaventato come dopo il primo parto. Era stato più che partecipe e si era fatto ben poche remore circa il poco tempo trascorso dalla nascita di Balder. Ofelia percepì quanto anche lui sentisse il bisogno di riunirsi a lei, forse anche più intensamente del suo.
Avevano appena finito quando sentirono avvicinarsi nel corridoio la zia Roseline, che faceva baccano quasi quanto Balder. Far svegliare la zia non era stata un’ottima mossa, si rese conto Ofelia, ma ne era valsa la pena.
- Quello di oggi è stato il nostro miglior tempo – le sussurrò Thorn all’orecchio prima di scostarsi da lei più del necessario, prevedendo l’arrivo della zia.
Ofelia, nonostante tutto, scoppiò a ridere. Avrebbe desiderato stringersi a Thorn ancora un po’ dopo il loro amplesso, riprendere fiato con calma e godere della sua presenza, tornando ad essere solo lei e lui, due coniugi senza le preoccupazioni legate ai figli. Ma si sarebbe accontentata.
- Ci è andata bene. Mi sa che dovremo imparare a migliorare le tempistiche.
Thorn annuì seccamente. – Terrò sotto controllo questo andamento temporale, dobbiamo ridurre il margine almeno del diciotto percento.
Era orribile sentirlo parlare così del tempo che impiegavano per fare l’amore, ma Ofelia non poté fare a meno di ridere quando vide quanto Thorn era serio, esasperato e concentrato insieme.
Riuscì a rubargli un bacio proprio prima che la zia Roseline entrasse, infuriata.
Solo lui poteva parlare di marginalità, indici di miglioramento e statistica in riferimento all’intimità che condividevano.
Accolse i rimbrotti della zia facendo fatica a trattenere l’ilarità.
 
Le coliche di Balder cominciarono dopo un paio di mesi, molto più dolorose e lunghe di quelle di Serena. Nemmeno Thorn, con i suoi metodi comprovati per calmare la figlia, servirono a tranquillizzare il piccolo. Si alzava sempre lui per cercare di rassicurarlo, nonostante le proteste di Ofelia.
La quarta notte, quando finalmente Balder aveva smesso di piangere perché le fitte si erano affievolite, Thorn lo rimise nella culla e tornò, con le occhiaie visibili anche nella penombra, a letto. L’unica nota positiva di quegli attacchi era che il povero Balder rimaneva scosso e sfibrato quanto i genitori, e invece di restare sveglio fino alle prime luci dell’alba si riaddormentava subito, permettendo loro di rimettersi a riposare, per quanto possibile.
Thorn si sdraiò e spense la luce senza dire una parola, riavvicinandosi ad Ofelia per abbracciarla. Lei sapeva che Thorn avrebbe voluto che lei si rimettesse a dormire quando lui cullava Balder, ma proprio non ci riusciva. Non solo perché i lamenti del neonato erano troppo penetranti per permetterle di riassopirsi, ma anche perché la vista di Thorn con uno qualsiasi dei loro figli in braccio la scaldava dentro, in modo tenero e non solo. Si sentiva pervadere da un calore intenso e familiare quando guardava il marito cullare, a modo suo, i loro piccoli. Lui, che le aveva sempre espresso la sua reticenza ad avere figli, o la diffidenza che provava verso quelli che lui definiva solo come “marmocchi”, era premuroso quasi quanto una madre. Non ci avrebbe mai creduto se non lo avesse visto con i suoi occhi, eppure il ruolo di padre calzava a pennello a Thorn. Per una volta non era lui che aveva bisogno di sentirsi indispensabile per qualcuno, ma erano gli altri ad aver bisogno di lui, a renderlo indispensabile. Non solo lei.
Serena e Balder per lui erano una cura e, per quanto lo esaurissero e reclamassero costantemente la sua attenzione, Thorn sembrava più rilassato, appagato e… realizzato da quando erano arrivati.
Ofelia lo aveva sempre sospettato, ma era comunque un sollievo vedere di persona che le sue congetture erano fondate: non avendo mai avuto una vera famiglia, solo formarne una propria avrebbe potuto guarirlo dalle ferite del passato. Una famiglia numerosa, con veri legami d’affetto.
Ofelia lo sentì rigirarsi nel letto per alcuni minuti, insonne. Si era allontanato da lei, forse temendo di disturbare il suo sonno. Lei gli si riavvicinò, invece, abbracciandolo da dietro. Gli passò una mano sul braccio magro fino al fianco, e si sporse nel buio per baciarlo teneramente. Incontrò la sua spalla, così baciò quella e poi passò al suo collo.
Thorn si irrigidì un attimo prima di voltarsi fulmineamente verso di lei e inchiodarla contro il materasso. Nonostante fosse buio pesto e l’unica cosa che riusciva a vedere fosse il bagliore metallico degli occhi di Thorn, sotto le palpebre strette a fessura, Ofelia chiuse i suoi per godersi la sensazione della pelle di Thorn sulla propria quando lui allungò la mano e gliela posò sulla coscia, sotto la camicia da notte. Emise un basso mormorio, quasi una vibrazione più che un suono, beandosi della carezza calda di Thorn. Erano ormai lontani i primi, impacciati tentativi di intimità che avevano condiviso una volta. Non dovevano più andare per tentativi, cercare di interpretare le reazioni dell’altro o chiedere scusa quando si sentivano in imbarazzo. Sapevano esattamente cosa l’altro volesse e come lo volesse, c’era una sicurezza che Ofelia non avrebbe mai immaginato nei loro tocchi, nei loro baci, nelle loro sperimentazioni.
Thorn si muoveva sempre con precisione, perché finalmente Ofelia era riuscita, in quegli anni, a fargli capire che non lo avrebbe mai rifiutato, che non si sarebbe stancata di lui, perché era una parte fondamentale e irrinunciabile di lei.
Cercò con avidità la sua bocca nel buio, aiutandolo a tirarle su la camicia da notte perché non fosse d’intralcio. Gli aveva appena allacciato le gambe in vita quando la porta della camera si aprì scricchiolando. Thorn si voltò fulmineamente, scostandosi da Ofelia. Lei si sporse da dietro la sua mole per cercare di capire cosa stesse succedendo, e fu sorpresa di vedere Serena avanzare verso di loro stropicciandosi gli occhi assonnati. Per fortuna non si era svestita…
- Cosa fai qui? – le chiese sommessamente Ofelia quando la piccola raggiunse il suo lato di letto.
- Io domme.
Solo quando Serena allungò le braccia per essere tirata su Ofelia capì che aveva intenzione di dormire con loro. La piccola non disse altro, si sistemò al centro del letto e si raggomitolò, riaddormentandosi subito. Thorn lanciò un’occhiata perplessa, o forse no, dato che era troppo buio per constatarlo, ad Ofelia. Lentamente, come un automa che veniva ricaricato, si sdraiò al suo posto in silenzio.
Ofelia trattenne a stento un sospiro. Si sentiva ancora accaldata per quello che lei e Thorn stavano... per quello che avevano tentato di fare. Non osava immaginare come dovesse stare lui, che le si era avvicinato con più trasporto del solito.
Alla fine, capendo che Thorn non avrebbe provato a riavvicinarsi, intuizione che fu sottolineata dal leggero russare di Serena, si riabbassò la camicia da notte. Si rimise poi a letto, insoddisfatta.
Posò una mano sulla pancia di Serena, tirandole giù la camiciola che le aveva lasciato scoperta la pancia. Ofelia rimase a contemplare la piccola nella penombra, abbastanza abituata all'oscurità da riuscire a vederla bene. Con gli occhi scuri come i suoi chiusi assomigliava più che mai al papà. Bionda. Labbra sottili. Persino le sopracciglia aggrottate aveva, forse era contrariata da qualcosa.
Ofelia sorrise e incrociò lo sguardo di Thorn, che la fissava come uno sparviero dall’altra parte del letto.
Provò un’altra ondata di calore pervaderla, ma accantonò l’insoddisfazione e si sdraiò circondando la figlia con un braccio, arrivando a toccare con la mano quello di Thorn. Lui le strinse le dita di rimando, spostando la mano per poterla toccare. Era un contatto fugace, di certo non quello di cui avevano bisogno in quel momento, ma si accontentarono.
Erano entrambi felici di ascoltare il respiro sommesso dei loro figli nella stanza, generati dal loro amore e sempre disposti a restituirlo in egual misura.
Ofelia si addormentò pensando di essere comunque riuscita a raggiungere un livello di soddisfazione che non aveva nulla a che fare con la sfera ormonale. Era l’appagamento di una madre e moglie amata, circondata dalla propria famiglia e tenuta in alta considerazione. E consapevole dell’effetto che aveva sul marito.
Cercò di nascondere un sorriso quando sentì che Thorn ancora la guardava.
 
Nei mesi successivi diventò sempre più difficile ritagliarsi un po’ di spazio per stare da sola con suo marito. Più che parlare di tempi record e momenti rubati, Ofelia e Thorn dovettero letteralmente fare i salti mortali per riuscire a ritagliarsi del tempo per loro.
Ofelia pensava che non sarebbero riusciti a stare insieme meno di così nemmeno se fossero andati a trovarli i parenti di Anima. A proposito della sua famiglia, stavano prorogando il viaggio per andare a trovarli per via di alcuni impedimenti, come la quarta gravidanza di Agata, che invece sembrava sempre trovare il tempo per il suo consorte, alcuni matrimoni di parenti stretti, ossia cugini di quarto grado, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, e alcune festività irrinunciabili, come la Festa dei Cappelli a tesa larga e la Celebrazione dei Prati Verdi, che durava quasi un mese.
Thorn era sempre più perplesso di fronte alla quantità di festività che gli animisti osservavano, e alquanto contrariato dalla mole di lavoro che doveva sicuramente accumularsi in seguito alla chiusura delle attività.
- Ma c’è qualcuno che lavora in modo regolare e continuativo su Anima? – le chiese Thorn un pomeriggio, dopo che Ofelia ebbe finito di leggere nel suo studio a casa l’ultima lettera arrivatale.
Lei lo guardò in tralice. – Anima funziona benissimo, non dubitarne, intendente. E ci si vive anche più in pace che al Polo.
Thorn rimase in silenzio per non darle la soddisfazione di ammettere che su quel punto aveva ragione.
- Se loro non possono venire, comunque, credo che toccherà a noi andare a trovarli.
Thorn rimase zitto un altro minuto prima di mettere la penna dentro il calamaio. Come al solito quando rifletteva, appoggiò i gomiti sul tavolo e, intrecciando le dita, vi pose il mento appuntito. – Presumo che sia necessario.
Ofelia cercò di non alzare gli occhi al cielo. – Non vedo la mia famiglia da prima di rimanere incinta di Balder, Thorn. Preferisci che vengano qui loro?
Thorn le lanciò un’occhiata penetrante, come se in qualche modo il commento di Ofelia l’avesse offeso. – Sai bene che accetterò la tua decisione, qualunque sia.
- Di malavoglia – puntualizzò lei.
Thorn fece una smorfia. – La accetterò.
Ofelia sapeva di fargli un torto a dubitare della sua buona volontà, ma in qualche modo la feriva il fatto che Thorn fosse sempre così restio a voler incontrare i suoi parenti. D’altro canto comprendeva anche quanto per lui fosse difficile capire il suo bisogno di rivederli regolarmente. Thorn non aveva mai pensato che fosse il momento di rivedere Freya o Godefroy, per quanto a lungo non si fossero visti. Anzi, semmai il contrario.
Dopo aver riflettuto, Ofelia esordì: - Per Balder sarebbe difficile un viaggio ora. Così come lo sarebbe per Agata, dato che è incinta. Io proporrei di aspettare qualche mese per poi essere noi ad andare su Anima. Mi manca la mia arca – aggiunse sommessamente.
Thorn la guardò senza mutare espressione, partecipe ed empatico quanto un blocco di ghiaccio.
- Inoltre vorrei che i bambini la vedessero. Sono sempre circondati da freddo, ghiaccio e pioggia. E illusioni. Non che su Anima piova di meno, a dire il vero, ma quando spunta il sole l’aria si scalda. E non devono temere nessuna rappresaglia perché lì si è tutti imparentati. Anche loro sono parte della famiglia…
- Va bene – concesse Thorn a denti stretti. – Penso che sia una buona idea. In aggiunta ci eviterà di avere la casa invasa da bambini e adulti caotici. Non saprei davvero dire chi sarebbe il più rumoroso, tra le due categorie.
Ofelia glissò su quel commento. – Però, dato che il viaggio è lungo, pensavo che sarebbe doveroso passare lì come minimo due settimane. Tre sarebbe perfetto.
Thorn era così immobile da sembrare imbalsamato. – Perché non un mese?
Ofelia spalancò gli occhi, ma riacquistò subito il controllo della sua espressione. Thorn che le proponeva di passare un mese su Anima? Le pareva alquanto improbabile che lui avesse voglia di passare con i suoi parenti più di tre giorni. A meno che...
- Tu non verrai con noi, vero? - chiese in tono accusatorio.
Thorn non fece nemmeno lo sforzo di apparire dispiaciuto. – No. Non posso abbandonare l’intendenza per un mese, e non posso nemmeno portarmi via il lavoro per un periodo di tempo così lungo.
Ofelia lo guardò stupita. Possibile che non fosse minimamente rattristato all’idea di lasciar andare via sua moglie e i suoi figli per un mese?
- Vuoi sbarazzarti di noi? – gli chiese con diffidenza prima di riuscire a trattenersi.
Ea ingiusta, lo sapeva, ma per una volta avrebbe voluto vedere una qualche espressione sul suo viso, un segno che non prendeva quella decisione a cuor leggero.
Thorn spalancò gli occhi per un attimo, facendo schizzare le sopracciglia verso l’alto e allungando di conseguenza le cicatrici. Quella era una reazione, anche se durò un secondo e poi Thorn riprese il consueto controllo di sé. Gli occhi, però, non celarono del tutto il sentimento che albergava nella sua anima, un misto di malinconia, tristezza e… timore.
- Se fosse per me non vi permetterei nemmeno di andare fino a casa di Berenilde, da soli. Ma so quali battaglie combattere e quali sono perse in partenza e questa, Ofelia, non è nemmeno una battaglia. Potrei mai trattenerti?
Ofelia lo guardò con aria di sfida.
- No, non potrei – concluse Thorn. – Sarebbe del tutto insensato cercare di farlo. Quindi vai pure su Anima con i nostri figli. Mi auguro solo che tu dopo voglia ritornare.
Ofelia lasciò cadere le braccia che teneva incrociate sul petto. Thorn era ingiusto. Non poteva irritarla e un attimo dopo capovolgere la questione passando dalla parte della vittima. Sapeva che non la faceva sentire in colpa volontariamente, ma se lui faceva passare quella visita ai parenti come un abbandono del tetto coniugale un minimo la coscienza le rimordeva.
Scuotendo la testa, rassegnata, si avvicinò a lui dal suo lato di scrivania. Thorn scostò la sedia per poterla guardare negli occhi, e la lasciò fare quando lei tentò di tirarsi su la gonna per sedersi in braccio a lui. Tentativo che le sarebbe costato una caduta se Thorn non l’avesse afferrata tempestivamente. Imbarazzata, Ofelia optò per sedersi instabilmente sulle ginocchia del marito, un po’ come se dovesse cavalcare all’amazzone. Almeno non rischiava di rompersi l’osso del collo con tutti quegli strati di gonne, e le lunghe braccia di Thorn le circondarono subito la vita per darle stabilità, come delle corde. Si sentiva quasi una bambina seduta in quel modo di fronte alla mole imponente di Thorn; però si sentiva anche protetta, come ogni volta che stava vicino al marito.
Gli posò una mano sul viso, guardandolo bene negli occhi. – Io vorrò tornare ancora prima di partire, Thorn. Il mio posto, il nostro posto, anzi, è dove sei tu.
Con un movimento così repentino da essere quasi invisibile, come al solito, Thorn si chinò su di lei stringendole le mani sui fianchi possessivamente. Erano passati alcuni giorni dall’ultima volta che erano stati insieme, solo loro due, e Ofelia sentì quanto Thorn sentisse la sua mancanza dal contatto irruente della sua bocca. Le divorò le labbra pizzicandole la pelle con la barba, scese lungo il collo e Ofelia non poté fare a meno di esalare un sospiro tremante. Gli strinse la nuca con dolcezza, afferrandogli i capelli, e gli si avvicinò quanto possibile.
Alla fine Thorn sembrò placarsi e la baciò con più dolcezza, accarezzandole il viso con una delle sue grandi mani. Ofelia si scostò per appoggiarvi la guancia come su un cuscino.
Gli sorrise debolmente, contenta di quel piccolo momento rubato, cercando di non pensare al fatto che ne avrebbe voluto ancora. Non lo avrebbe mai creduto possibile la prima volta che aveva visto Thorn su Anima, o ancora prima di essere data in fidanzamento, e nemmeno dopo il matrimonio, ma il contatto con la pelle di Thorn l’accendeva, la faceva sentire desiderata e potente. Aveva un’ascendente su Thorn che non pensava una donna potesse avere su un uomo, di sicuro non lei, e sapeva anche che Thorn sarebbe stato disposto a concederle tutto quello che avesse voluto, se lei avesse giocato le carte giuste.
Thorn la guardava con una luce famelica negli occhi da sparviero che la fece sentire nuda ed esposta, come se le stesse scrutando l’anima. In maniera tutt’altro che sgradevole.
- Perché non vieni con noi? - chiese Ofelia sussurrandogli all'orecchio.
Thorn, a dispetto del suo perfetto autocontrollo, rabbrividì, rafforzando la presa sui fianchi di Ofelia.
Lo vide assottigliare gli occhi, pensieroso, sicuramente riflettendo su quanto tempo e lavoro gli sarebbe costato un allontanamento dal Polo per qualche giorno. Poi, come in risposta ad un impulso insopprimibile quanto un prurito, afferrò l'orologio da taschino e lo consultò, come se potesse dargli l'indicazione giusta per prendere una decisione.
- Posso...
- Moglie di Thooorn! - cantilenò Archibald entrando senza preavviso nella biblioteca adibita a studio. - Ma dove vi siete nas...
Le parole gli morirono sulle labbra quando vide Ofelia in braccio al marito, dietro la scrivania posizionata al centro perfetto della stanza. Per quanto non stessero facendo nulla di sconveniente, anche se entrambi lo avrebbero voluto, Ofelia si affrettò a scendere dalle ginocchia di Thorn con le guance in fiamme.
Questa volta nemmeno la prontezza di riflessi di Thorn, che ancora reggeva l'orologio, la salvò dalla caduta. Ofelia inciampò e batté il ginocchio sulla maniglia di un cassetto, e nel rialzarsi la scarpa si impigliò nella gonna, facendola crollare nuovamente. La sciarpa invece, contagiata dalla sua repentina agitazione, le si arrotolò attorno alla faccia. Fortunatamente Thorn la intercettò prima che strappasse il vestito o si ritrovasse lunga distesa, e la rimise in piedi con impazienza. Le abbassò anche la sciarpa dagli occhi.
Fulminò Archibald con uno sguardo più tagliente degli artigli, in netto contrasto con l'espressione gaudente dell'ambasciatore. Averli colti in atteggiamenti pressoché intimi sembrava averlo riempito di divertimento.
- Bene, bene, è così che svolgete le vostre mansioni, intendente? Non mi meraviglia che siate così dedito al lavoro. Ora che tutti i membri della Rete lo sanno - ridacchiò Archibald picchiettandosi con un dito la fronte dove capeggiava il simbolo di appartenenza al suo clan, - sarà dura difendervi dalle accuse.
Ofelia lo guardò inorridita e colpevole. - Voi non...
- Se anche denunciaste un simile comportamento – sputò Thorn tra i denti, a dir poco contrariato e padrone delle sue azioni - non avrebbe ripercussioni sulla mia reputazione lavorativa, perché da un esame delle scadenze e degli impegni emergerà in modo ineccepibile che i miei compiti vengono portati a termine puntualmente se non in anticipo. Non ho la macchia di un ritardo nel curriculum.
Archibald agitò la mano ridendo. - Suvvia, intendente, siete così poco divertente. Non denuncerò nulla, ma sarà una bella distrazione per me diffondere la voce che sul luogo di lavoro vi occupate anche di studi anatomici.
Thorn non ribatté nulla, al contrario di Ofelia che stava cercando di intervenire a difesa di se stessa, quantomeno, ma Archibald non glielo permise.
- Comunque - disse cambiando argomento, - ero venuto a chiedervi il permesso di portare con me Serena a Chiardiluna. Con Vittoria. Hanno espresso il desiderio di vedere la corte e le sue meraviglie.
Ofelia lo guardò con tanto d'occhi.
Thorn l'anticipò togliendole nuovamente la parola. - No.
Archibald alzò gli occhi al cielo ma non smise di sorridere. - Immaginavo, caro intendente. Io volevo portarmele via senza dire nulla, ma la cara madama Berenilde ha insistito tanto perché chiedessi il permesso. Diceva che il suo adorato nipote mi avrebbe staccato la testa se gli avessi rubato la figlia. Che noioso che siete.
Thorn aggrottò le sopracciglia. - Di solito non è un mio diniego a fermarvi. Volete davvero desistere dal portare Serena con voi?
- No, a dire il vero no. Sono consapevole di non avere una grande considerazione per le regole, ma sono al corrente delle pene in cui si incorre infrangendone alcune. In particolare, non ho interesse nell’essere imprigionato con l'accusa di rapimento di un minore e magari qualche aggiunta sordida come una tentata violenza.
Poco convinto, Thorn continuò a fissarlo astiosamente con il corpo contratto. Ofelia si risistemò gli occhiali storti sul naso, senza perdersi una virgola di quello che veniva detto. Le sembrava di assistere ad una tentata carneficina da parte di due bestie feroci.
- A dire il vero volevo solo disturbarvi - ammise poi l'ambasciatore, senza pudore. - Ogni volta che siete a casa vostra moglie sparisce, e Serena reclamava l'attenzione della mamma dopo aver sbattuto la testa su un mobile.
Thorn scattò in piedi, pronto a precipitarsi dalla figlia, imitato da Ofelia.
Archibald rise. - No, scherzavo, sta bene e non ha sbattuto da nessuna parte. Buona notte! E vedete di lavorare un pochino, anche, intendente, o nel prossimo censimento dovrà aggiungere una nascita in più.
Thorn fissò la porta da cui Archibald era scappato con i pugni contratti sulla scrivania, rigido come un ciocco di legno. Ofelia gli posò una mano sulla schiena nel vano tentativo di rassicurarlo e, anche se non sortì nessun effetto, Thorn dopo poco si risedette.
- Posso raggiungervi per tre giorni - sancì laconicamente, prendendola in contropiede mentre metteva mano alle carte, come se il commento di Archibald gli avesse fatto ricordare che doveva lavorare.
- Raggiungermi?
Ofelia sembrava essersi completamente dimenticata della conversazione di poco prima, e dei connessi tentativi di seduzione per convincerlo ad andare con loro dalla sua famiglia.
- Su Anima. Se pernotto lì per tre giorni e due notti, calcolando un giorno di viaggio all'andata e al ritorno starò lontano solo cinque giorni. In caso di maltempo in entrambi i viaggi i giorni saranno sette, e posso permettermi di stare lontano sette giorni, ma non uno di più. Quello che dicevo sulla mia fedina lavorativa è vero, e non ho intenzione di accumulare ritardi.
Ofelia lo fissò spiazzata mentre Thorn si rimetteva a lavorare come se nulla fosse. A quanto pare gli aveva davvero portato via troppo tempo. Quel pensiero la irritò, non le piaceva essere considerata o considerarsi un fastidio. Poi però si rese conto che Thorn non pensava che fosse un disturbo, ma era lì per lavorare ed era quello che doveva fare. Dandole retta come faceva di solito, per uno stacanovista come lui, era la più grande espressione di considerazione, alla fine.
- Quindi io vado con la zia Roseline e torniamo con te tutti insieme?
- Sì.
- Forse potrei chiedere anche a Berenilde di accompagnarci. Anima le era piaciuta moltissimo quando è andata insieme a Renard e Gaela per il loro viaggio di nozze. Potrei invitare anche loro, in effetti. E Vittoria parla in continuazione di Thomas, sarebbe felice di rivederlo.
Thorn si accigliò, ma dato che era già accigliato quasi non si notò il mutamento della sua espressione.
- Fai come vuoi, mi basta che non ti porti appresso l'ambasciatore quando io non ci sono - le disse scoccandole un'occhiata penetrante.
Ofelia alzò gli occhi al cielo e si allontanò senza nemmeno rispondergli. Mentre andava da sua figlia sorrise al pensiero di rivedere la sua famiglia dopo tutto quel tempo, portandosi dietro anche i "nuovi parenti". Ed era felice che anche Thorn andasse con loro, seppur per tre giorni. Dubitava che fosse in grado di godersi una vacanza, ma stare lontano dal Polo gli avrebbe sicuramente fatto bene e l'ultima volta che era stato su Anima, per portare via lei in veste di fidanzato, avevano fatto una toccata e fuga.
Renard l'accolse con il sorriso quando giunse in soggiorno, dove Balder se ne stava mezzo seduto un po' sbilenco sul divano e lui giocava con Serena, che includeva il fratellino mentre si cimentava in un rompicapo di legno. Il padrino di Serena coglieva ogni occasione per stare con i figliocci, e dato che il corso da insegnante gli portava via quasi tutto il giorno sfruttava i riposi per rapirli e lasciare ad Ofelia un po' di respiro.
- Spero che presto possano avere un altro amichetto con cui giocare, da parte nostra - le diceva sempre Renard ammiccando, ma fino a quel momento non aveva ancora sentito nulla di ufficiale circa una possibile gravidanza di Gaela. Una volta aveva anche provato ad intavolare con lei una conversazione pacata in merito, ma aveva solo ottenuto grugniti in cambio e un'occhiataccia da parte dell'occhio cattivo che l'aveva fatta desistere.
- Vedo che qualcuno è felice - notò Renard, fingendo di perdere contro Serena, che si applaudì da sola.
Renard rise e si sporse per lasciare un bacio sulla guancia paffuta della piccola, che fece una smorfia e scacciò il visone rosso e peloso del padrino. Lui mise il broncio fingendo di essersi fatto male, senza nemmeno badare al gatto che invece si stava rifacendo le unghie sul suo polpaccio.
- No le botte, Serena - la ammonì Ofelia, al che la bimba mise il broncio.
Non le piaceva essere sgridata o contrariata, così come non le piacevano baci e abbracci, per quanto strano potesse sembrare per una bimba di quasi quattro anni. Ad Ofelia ricordava tremendamente qualcuno di sua conoscenza...
- Buone nuove? – la incalzò Renard.
Ofelia annuì. – Quando Balder sarà un po’ più grande andremo a fare visita alla mia famiglia su Anima. Vi andrebbe di accompagnarci?
Gli occhi dell’uomo si illuminarono. – Senza se e senza ma, ragazzo. Quando sarebbe la partenza?
Ofelia sospirò. – Questo non lo so, non abbiamo fissato una data né con Thorn né con i miei parenti o Berenilde, che avrei piacere venisse.
- Mh… - mormorò Renard, pensieroso, senza nemmeno far caso a Serena che gli tirava i favoriti. – Al momento la madama ha moltissimi impegni a corte, non credo sia un buon periodo per lei.
- Difatti la partenza non sarebbe nell’immediato. Anche su Anima non è il momento ottimale per delle visite, e neanche la stagione. Poi Balder è così piccolo… secondo me potrebbero passare dei mesi prima di questo viaggio, ma si sa come vola il tempo.
- Non posso che darvi ragione, mi sembra ieri quando lavoravo a Chiardiluna come valletto, e ora sono un aspirante insegnante. Non vedo l’ora di insegnarti a leggere e scrivere, signorina – aggiunse affettuosamente poi, rivolgendosi a Serena.
La bambina lo guardò con i suoi grandi occhi intelligenti e gli rispose con la definizione matematica di cosa fosse un essiano orlato. O forse aveva detto persiano dorato?
Ofelia scosse la testa di fronte a quella memoria portentosa. Prese in braccio Balder, che si stava agitando parlottando da solo ma era evidentemente contrariato dall’essere ignorato. Come sempre, quando dedicava un po’ di attenzioni al piccolo, Serena le si avvicinò per essere partecipe di qualsiasi cosa stessero facendo.
- Vado ad allattarlo, vuoi venire con noi? – le domandò Ofelia.
Serena annuì e le fece strada, consapevole del fatto che la mamma non era abbastanza alta e forte da prendere in braccio entrambi. Con il papà non esitava ad allungare le braccia per farsi prendere, che avesse o meno Balder in braccio.
- Io allora mi dirigo verso i miei appartamenti – si congedò Renard. – Questa sera ho intenzione di preparare una cena luculliana per la mia signora.
- Non mangiate con noi, ne deduco.
- No, ho già avvisato Betty che prepari per due persone in meno. Ogni tanto la voglio viziare pure io, sapete com’è.
Ofelia rise di fronte allo sguardo ammiccante di Renard. Thorn fece il suo ingresso in quel momento, con Serena in braccio. L’aveva trovata a metà corridoio e se l’era caricata, chiedendole dove fosse la mamma.
Rivolse un cenno di saluto quasi impercettibile a Renard, che si defilò augurando loro sommessamente una buona serata, seguito da Salame.
- Devi smetterla di terrorizzarlo – lo sgridò Ofelia, sempre ridendo.
- Non ho mai fatto nulla del genere. Se ha paura è perché ha la coscienza sporca – rispose Thorn impassibile.
Prese Balder dalle braccia della moglie, reggendo entrambi i bambini, e si diresse in camera.
- Devo allattarlo – lo informò Ofelia. – Si metterà a piangere tra poco.
- Lo so, volevo solo cambiarlo.
Thorn era consapevole dei ritmi di Balder molto più di Ofelia, al punto che di notte quando aveva avuto le coliche si alzava addirittura prima che iniziasse ad urlare.
Quando Ofelia entrò in camera vide che Thorn, con la sua consueta precisione metodica, aveva già quasi finito di cambiare Balder, che sgambettava felice. Rimase sulla porta ad osservare con affetto la scena, lanciando un’occhiata anche a Serena che cercava di sbirciare cosa stesse facendo il suo papà a suo fratello su quello strano tavolo. Poi arricciò il naso quando l’odore del panno sporco la raggiunse, facendole perdere interesse per la questione.
Ofelia si chiese se in realtà le voci che giravano circa il non chiudere occhio la notte con dei bambini piccoli, o sul fatto che fossero tremendamente irrequieti e ingestibili non fossero che dicerie fasulle di madri molto poco pazienti. Al di là dei pianti notturni di Balder che, sì, si svegliava spesso, ma non per questo impediva ai genitori di dormire, i suoi figli erano davvero tranquilli. Non riusciva a capire se fossero loro troppo buoni o quelli delle altre donne troppo vivaci, ma le sembrava strano che due bambini su due fossero così innaturalmente placidi. Eppure sia Berenilde che la zia Roseline le avevano confermato che in effetti entrambi i bambini erano meno capricciosi e rumorosi di quelli che avevano visto o allevato loro.
In ogni caso, Ofelia ne era felice. Forse avevano preso l’indole pacata di Thorn, sempre padrone della situazione, difficilmente avvinto da forti passioni al punto da manifestarle.
Ofelia gli si avvicinò da dietro e lo abbracciò, posandogli il capo sulla schiena ampia e solida. Lo sentì irrigidirsi e fermarsi per un momento, prima di riprendere a muoversi. Percepiva i suoi muscoli e i tendini muoversi sotto la sua guancia, una perfetta macchina in funzione.
- Oggi sei particolarmente… espansiva.
- Ti dà fastidio?
Silenzio.
Solo quando Thorn si fermò, a lavoro completato, le giunse all’orecchio il suo no sussurrato.
Con Balder in braccio, Thorn si voltò e si chinò, arcuandosi come un fuscello, per baciare la moglie sulle labbra, in modo lento e casto.
- Peché fate così? – li interrogò subito Serena incuneandosi tra le loro gambe.
Ofelia prese Balder per allattarlo e Thorn prese Serena, coordinandosi senza nemmeno parlare.
- Perché ci vogliamo bene – le rispose Ofelia sedendosi a letto.
Serena parve riflettere. – Anche paino Enad e Gaea si vogliono bene.
- Sì, esatto.
- Noi no peò.
Ofelia rimaneva sempre sorpresa dall’acume di Serena, che a nemmeno quattro anni faceva dei collegamenti decisamente al di fuori dell’ordinario per una bambina della sua età. Thorn la mise accanto alla madre, incerto su come gestire la faccenda, e andò a lavarsi le mani con cura. Poteva non storcere il naso di fronte alle… produzioni di suo figlio, ma non avrebbe mai contravvenuto ai suoi canoni di igiene personale. Probabilmente si sarebbe strofinato le mani per tre minuti.
- Sì che ci vogliamo bene, anche se non ci diamo i baci sulla bocca. Quelli sono per i grandi che sono sposati.
Serena parve riflettere. Ofelia non era sicura che avesse capito, ma ogni tanto la sorprendeva. Poi la piccola annuì.
- Lo zio vuole bene a tuuuuutti – concluse alla fine abbracciando il mondo intero con le braccia.
Thorn si sporse dal bagno lanciando occhiate di fuoco in giro, mentre Ofelia fissava la figlia sbigottita.
Lo zio in questione era Archibald, che aveva insegnato a Serena a chiamarlo così invece che “Achiball”, nonostante Thorn fosse stato e fosse tuttora parecchio contrariato. Anche più che contrariato. Non gradiva affatto, ma Serena continuava a chiamarlo zio e non c’era verso di farla smettere.
Il fatto che Serena avesse detto che voleva bene a tutti, dopo i discorsi fatti, poteva significare solo che la bambina lo aveva colto sul fatto mentre amoreggiava impunemente con la donna di turno. Dove Serena lo avesse visto, e come, era un mistero, ma Archibald avrebbe sicuramente mangiato con loro quella sera e a giudicare dallo sguardo carico d’odio di Thorn ne avrebbero viste delle belle.
Ofelia sospirò. Sperava solo che Balder non si agitasse così tanto da non dormire la notte. Ci avrebbe già pensato Thorn a stare sveglio per il nervoso.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Saphira_lupin sperava in un regalino di Natale, ma ve lo posto un pochino prima.
La cattiva notizia (forse cattiva) è che è un po' cortino forse, ma quella buona è che ho dovuto farlo corto perché ho già iniziato la scena successiva e sarebbe venuta troppo lunga per pubblicare tutto insieme QUINDI metà del prossimo capitolo è già pronto. E forse ci avviciniamo alla partenza per Anima!!
Il capitolo prossimo sarà un po' piccantino, come questo del resto, ma perdonatemi, ho troppo bisogno di dolcezza tra questi due teneroni ç.ç Poi insomma, piccantini, lievemente. Niente di sconvolgente. No no.
Quanto li amo *si dispera*
Spero non ci siano troppi errori perché l'ho corretto posseduta dal sonno.
Grazie a tutti!


Capitolo 24

Thorn fu di malumore e inavvicinabile per circa un mese. Berenilde cercò di chiedere spiegazioni ad Ofelia, mentre la zia Roseline dava la colpa alla pioggia e al freddo che avrebbero intristito e fatto imbronciare persino un santo.
Solo Ofelia sapeva quale fosse il problema. Che era anche un problema suo.
Quando avevano iniziato a baciarsi, quattro settimane prima, nel cuore della notte, Serena era entrata in camera per mettersi a letto con loro. Dopo vari giorni e discorsi, persino qualche ricatto da parte di un’Ofelia disperata, la bambina aveva capito che doveva dormire nel suo letto. Ofelia aveva persino usato la scusa che se non avesse dormito da sola non sarebbe mai arrivato un nuovo fratellino o una sorellina, e dato che Serena ne voleva perché sentirsi più grande di qualcuno le piaceva, andava a dire ai quattro venti che lei era così “bava” che sarebbero arrivati quintordici fratellini. Thorn aveva inarcato le sopracciglia di fronte a quella dichiarazione, lanciando un’occhiataccia ad Ofelia, anche se lei non avrebbe saputo dire se il suo disappunto fosse per il numero inesistente o per la prospettiva di avere “quintordici” figli. Fortunatamente gli altri non avevano capito cosa la bambina volesse dire.
Liberatisi del terzo incomodo notturno, Ofelia e Thorn si erano scoperti troppo esausti per fare alcunché, almeno di notte. Ci avevano provato di giorno, senza grandi risultati dato che venivano interrotti ora dalla cameriera, ora dalla figlia o da Balder che si metteva a piangere per un qualsivoglia motivo, ora da qualche altro parente. Thorn pensava che non avrebbe potuto stare così poco da solo con la moglie nemmeno se avesse avuto tutta la sua famiglia animista ospitata a casa. Anzi, forse in quel caso sarebbe andato meglio, perché i parenti si sarebbero intrattenuti tra di loro invece di cercare costantemente i padroni di casa e disturbarli.
Certo, erano comunque riusciti ad avere qualche momento di intimità, ma erano stati così pochi e frettolosi che persino Ofelia, senza l’ausilio della memoria di Thorn, ne ricordava il numero. E servivano meno di due mani per tenerne il conto.
La prima mattina del nuovo mese, mentre Ofelia si stava sistemando i capelli in bagno, o cercava di sistemarli, dato che erano sempre scarmigliati e per natura indomabili, Thorn le si avvicinò da dietro con passo felino. Ofelia non lo vide nemmeno incedere alle sue spalle, sentì solo il suo petto ampio premuto contro la schiena e il momento dopo si ritrovò seduta sullo stretto mobiletto del bagno, aggrappata a lui per non cadere. Thorn fu brusco quando la baciò, Ofelia poté percepire nell’impazienza di quel contatto tutto il bisogno che aveva di lei, la voglia di tornare ad essere per un momento solo marito e moglie, senza preoccupazioni di sorta.
Era ciò che voleva anche lei.
Lo aiutò a tirarle su la gonna, anche se era così impacciata che se non gli avesse dato una mano lui avrebbe sicuramente fatto prima. Non persero nemmeno tempo a spogliarsi, abituati com’erano ad avere pochi attimi a disposizione.
E infatti Thorn aveva appena cominciato a slacciarsi i pantaloni quando sentì la voce della zia farsi largo nel corridoio brontolando.
Thorn ringhiò, letteralmente, appoggiandosi con i pugni al ripiano del bagno mentre Ofelia si sistemava la gonna e, sgusciando via dal bozzolo composto dal corpo di Thorn, si precipitava in camera dove Balder ancora sgambettava sul letto sfatto. Peccato che Ofelia e il precipitarsi da qualche parte non andassero d’accordo, e infatti la ragazza si trovò lunga distesa quando la zia Roseline entrò in camera.
- Tirati su, figliola, sei madre di due figli e ancora ti rotoli per terra?
Ofelia non ribatté nulla mentre la sciarpa le passava gli occhiali che stavano cercando di fuggire come un granchio, oltraggiati.
- La domestica, o come si chiamano le persone che qui fanno i lavori di casa, pensa di saperne più di me su come si lucida l’argenteria. Ti pregherei se potessi confermarle che su Anima ero la miglior lucidatrice di utensili nel raggio di… be’, ero la miglior lucidatrice di tutti, e venivano a chiedermi consiglio persino le Decane. Mi accusa di non sapere nemmeno cosa significhi lucidare qualcosa!
Ofelia avrebbe voluto dirle che in effetti nemmeno lei l’aveva mai vista lucidare l’argenteria, che non sapeva che avesse quella nomea o che probabilmente la domestica non voleva essere insolente ma pensava solo che fosse la zia di una nobile e quindi non avesse mai pulito nulla in vita sua. Voleva anche dirle che non le sembrava il caso di irrompere in camera sua alle sette del mattino per simili sciocchezze, ma la zia stava invecchiando e, come tutti gli anziani, dormiva meno.
Per amore della pace le confermò che avrebbe parlato con la domestica, anche se la zia non si prese la briga di dirle chi fosse, e non ne aveva una soltanto. Se ne andò con il mento in alto e lo chignon puntaspilli che sembrava in procinto di voler pungere qualcuno. Ofelia sperava che non fosse così turbata da contagiare le sue forcine con l’animismo, altrimenti sarebbero davvero potute partire come proiettili e ferire qualcuno.
Qualcuno le mise una mano sulla spalla. Ofelia sussultò, ma era solo Thorn, silenzioso come sempre.
- Puoi… possiamo…?
- Torniamo in bagno – mormorò Ofelia, già stanca di prima mattina.
Thorn fece per seguirla, ma l’arrivo di Vittoria e Serena glielo impedì.
- Tu gioca con Badde!
- Noi giochiamo con Balder – la corresse affettuosamente Vittoria, che si avvicinò pericolosamente al cuginetto.
Era grande abbastanza da poterlo reggere in braccio, ma aveva troppo sangue di Faruk nelle vene e talvolta si dimenticava cosa stesse facendo. Cosa le avrebbe impedito di lasciare Balder in un angolo e distrarsi con qualcos’altro?
Sospirando, Ofelia accorse in aiuto del figlio mentre Thorn grugniva e imboccava la porta per andare al lavoro. Ofelia guardò la sua figura allontanarsi quasi con rammarico.
 
Passarono altre due settimane prima che Ofelia trovasse la soluzione al loro problema.
Appioppò Balder a Renard, insieme a Serena, con loro c’erano anche Berenilde e Vittoria e la zia Roseline stava intrattenendo tutti con aneddoti su Anima.
Ofelia si allontanò senza destare attenzione, facendo cenno a Salame di lasciarla stare e tornare dal suo padrone. Prese dal corridoio uno dei numerosi specchi appesi al muro, quello che reputò della misura più corretta per il suo piano, e lo portò in camera. Chiuse la porta, si cambiò frettolosamente rimanendo in sottoveste, facilmente spogliabile. Si slegò i capelli perché sapeva che a Thorn piaceva passarci le dita in mezzo, anche se spesso rimanevano incastrate, e si diresse verso il grande specchio a muro della camera. Infilò dentro solo un braccio e la testa, sbucando nell’armadio dell’intendenza. Bussò piano e attese.
Thorn le aprì l’anta dopo pochi secondi, increspando le sopracciglia.
- È successo qualcosa?
Ovviamente Ofelia non poteva averlo disturbato per qualcosa di superficiale come una tazza di tè o qualche altra domanda amena, doveva per forza essere successo qualcosa.
- Sei da solo? – gli chiese di rimando lei.
- Sì, ma ho un appuntamento tra dieci minuti.
Ofelia lo fissò con quello che sperava fosse uno sguardo penetrante.
- Hai un appuntamento tra mezz’ora, vorrai dire.
Thorn strinse le labbra, sicuramente calcolando tutte le variazioni di orario che avrebbero seguito quella pausa imprevista di venti minuti in più. Tornò alla scrivania dove aprì l’agenda, che serviva più al suo segretario che a lui, dato che aveva già a memoria gli impegni dei prossimi quattro mesi, e la scorse con il dito mentre usava il telefono.
Ofelia uscì con calma dall’armadio, rabbrividendo quando la temperatura glaciale dell’ufficio di Thorn le pizzicò la pelle. Quel posto era gelido anche in estate. Quando arrivò alla scrivania lui aveva già chiuso la telefonata e spostato gli appuntamenti.
Thorn la scrutò con il suo solito cipiglio mentre lei gli si avvicinava. Lo abbracciò sospirando, affatto intimidita dal suo sguardo da rapace.
- Mi sei mancato.
Thorn si irrigidì. - Ci siamo visti questa mattina.
Ofelia sbuffò. - Sai cosa intendo dire. Da quanto tempo non stiamo insieme da soli, senza essere interrotti ogni cinque minuti?
- La media di interruzioni è di una ogni sei minuti e tredici secondi. Comunque dodici giorni.
Ofelia cercò di non sgranare gli occhi di fronte a quell'informazione. Davvero erano dodici e giorni che lei e Thorn non...? Non avevano mai fatto caso al numero di volte che stavano insieme, anche se Thorn, volente o nolente, le contava tutte, ma dodici giorni erano davvero troppi.
Lo strinse più forte per cercare di trasmettergli quell’amore che non aveva potuto adeguatamente dargli nei giorni passati. Ofelia era la prima a sostenere che quello non fosse tutto in una relazione, ma sapeva bene quanto Thorn alle volte ancora soffrisse ripensando al proprio passato. Era un uomo che guardava ai fatti e alla logica, aveva bisogno di concretezza, di contatto, di un affetto fisico che gli era mancato per tutta la vita.
Lui si chinò fino a posarle le labbra sui capelli, dandole un bacio lieve ma tenero. Fu naturale come respirare, per Thorn, sgomberare la scrivania con metodo e precisione e farci sedere Ofelia, come fu facile per lei spogliarsi di quel poco che le rimaneva indosso. L’unica cosa che non gradì fu che Thorn rimase vestito, sebbene lei fosse riuscita a slacciargli qualche bottone della camicia inamidata, ma non era come sentire la sua pelle a contatto con la propria.
- Sei venuta qui solo per questo? – le chiese sommessamente alcuni minuti dopo, mentre ancora cercava di riprendere fiato. Ofelia lo guardò in tralice, al che lui si affrettò a rettificare: - Non che ne sia contrariato.
Ofelia scese dalla scrivania e cercò di non ridere notando come Thorn, ancora spettinato e mezzo svestito, si stesse già dando da fare per sistemare i documenti che aveva spostato. Si rimise addosso la sottoveste con cui era andata a trovarlo e si diresse verso il guardaroba da cui era sbucata.
- Te ne vai di già? – le domandò Thorn.
Era difficile decifrare i mutamenti sul suo volto, ma Ofelia era sicura che il suo tono fosse perplesso. Forse pensava che se ne stesse andando senza nemmeno salutare. Lo vide infatti prendere l’orologio da taschino e consultarlo.
- Mancano ancora sedici minuti e quarantasette prima del prossimo appuntamento.
- Torno subito – rispose enigmaticamente lei.
Tornata in camera, afferrò lo specchio che aveva messo da parte e andò nuovamente da Thorn con lo specchio in mano.
Non aveva fatto i conti con la sua goffaggine, ovviamente. Rimase incastrata tra i cappotti, l’intendenza e la camera da letto.
- Mi daresti una mano per favore? – implorò Thorn, certa che nel giro di pochi secondi avrebbe fatto cadere lo specchio, rompendone il vetro.
Fortunatamente Thorn era sempre rapido ed efficiente, e prese il pesante carico mettendo anche la mano libera sul braccio di Ofelia, per non farle sbattere la testa sul pavimento del suo ufficio.
In quel caso non fu difficile interpretare i pensieri di Thorn, perché era palesemente sbigottito, con le sopracciglia corrugate e tutte quelle rughe sulla fronte. – Cosa hai intenzione di fare?
Ofelia non aprì bocca e si accucciò sotto la sua scrivania. Il piano di lavoro di Thorn era chiuso con un doppiofondo che rendeva impossibile a chi entrava nella stanza vedergli le gambe, perché coperte da una parete di legno che le nascondeva. La misura doveva essere giusta per contenere lo specchio.
- Controlla se lo specchio ci sta, lì sotto – gli ordinò senza mezzi termini.
Sempre più accigliato, Thorn posò lo specchio di fianco alla scrivania, prendendone le misure con lo sguardo, e poi si chinò come uno di quegli animali dal collo lungo per calcolare le dimensioni del fondo del tavolo.
Quando si rialzò, con le labbra strette, Ofelia lo fissò in trepidante attesa.
- Allora? – lo incalzò.
- Avanzano due centimetri e tre per lato.
- Quindi ci sta?
- Sì, ci sta. Posso avere l’ardire di chiederti che scopo ha tutto ciò?
Ofelia sorrise trionfante. – Sistema lo specchio sotto la tua scrivania, poi te lo mostro.
Thorn non avrebbe mai, mai obbedito ciecamente e illogicamente alle richieste di qualcuno. Ma sapeva che con Ofelia certe volte era inutile discutere, testarda com’era, così l’assecondò. Con alcune manovre alquanto scomode per una persona così alta e magra, prese lo specchio e lo posizionò come Ofelia aveva chiesto. Lei si diresse verso il guardaroba sorridendo. – Poi siediti come se dovessi lavorare, arrivo subito!
- Io dovrei lavorare – borbottò lui, ma Ofelia non lo sentì.
Esaltata come una bambina, tornò in camera e, dopo aver atteso un tempo che secondo lei era ragionevole affinché Thorn finisse di sistemarsi, si mise carponi e riattraversò lo specchio. Non decise di emergere, però, nel guardaroba, ma dallo specchio che aveva portato lei stessa all'intendenza.
Silenziosamente uscì dalla superficie riflettente e si ritrovò faccia a faccia con le ginocchia e i piedi di Thorn. Gli diede un leggero colpetto alla gamba e lui, come se fosse stato punto da un insetto, si allontanò di scatto.
- Sarebbe questo lo scopo dello specchio? - le chiese con voce di ghiaccio ma sguardo stupito quando lei riemerse da sotto la scrivania.
Ofelia gli si sedette in braccio, soddisfatta dal perfetto funzionamento di quella nuova via d'accesso.
- Così non devo sempre temere di piombare qui quando c'è qualcuno - si giustificò lei. - Sarebbe proprio strano se ad imprecisate ore della giornata si sentissero provenire suoni strani dall'armadio, o se si vedesse sbucare fuori qualcuno. Invece in questo modo potrò attraversare quello specchio quando vorrò, e senza timore di essere vista.
Thorn appariva alquanto scettico. - Quindi io dovrei aspettarmi di sentirti uscire da sotto la scrivania quando magari sono impegnato in riunioni o appuntamenti?
- In quel caso ti toccherei la gamba per farti sapere che ci sono. Magari poi possiamo concordare dei segni manuali che mi puoi fare per capire se ti libererai in fretta o meno.
Thorn era sempre più accigliato e stranito, per quanto il suo viso fosse come al solito una maschera di imperturbabilità.
- Perché invece non prendi direttamente un appuntamento, così che io possa organizzare le tue visite? E quale sarebbe lo scopo di tutto questo, comunque? Non me l'hai ancora spiegato.
Ofelia lo guardò con serietà. - L'idea di prendere un appuntamento per passare un po' di tempo con mio marito mi sembra alquanto ridicola, al limite del disdicevole. Come se dovessimo programmare una cosa simile, che idea di cattivo gusto.
Thorn la fissò con intensità, rigido come uno spaventapasseri. Era impossibile dire se fosse arrabbiato o meno.
- Lo scopo, dato che ancora non l'hai capito, è proprio quello di riuscire a vederci senza essere disturbati. Tempo per parlare ne abbiamo anche a casa, le interruzioni non sono un problema. Il problema sorge quando irrompono nella camera in cui siamo o ci chiamano a squarciagola quando facciamo altro, qualcosa che non si limita alle chiacchiere. Qui nessuno ci urla dietro.
Thorn parve rifletterci, o forse stava solo pensando alla relazione che avrebbe dovuto redigere sette minuti prima, con lui era impossibile saperlo.
Infatti baciò imprevedibilmente Ofelia con ardore, catturandola e imprigionandola con le sue braccia. Simultaneamente consultò l'orologio e, scostandosi appena, mentre lei gli lasciava una scia di baci lungo tutta la mascella e il collo, prese il telefono.
- Prolunga l'attesa di altri cinque minuti e mezzo. Il conte è sempre in ritardo, ho tenuto traccia degli orari d'arrivo agli appuntamenti, la media è di quindici minuti e due secondi.
Ofelia lo vide stringere con più forza la cornetta quando disse al suo segretario a quanto ammontava il ritardo medio del conte in questione, come se il solo parlare della non puntualità lo irritasse. Il che era molto probabile. Oppure gli aveva solo baciato un punto particolarmente sensibile del collo.
In ogni caso sorrise e subito dopo Thorn sbatté con forza la cornetta nel suo appoggio e rivolse a lei tutta la sua attenzione.
Quando Ofelia tornò in camera loro, sospirando, si diede una lavata veloce e tornò ai suoi doveri di madre con più trasporto del solito.
 
L'escamotage che Ofelia aveva ideato per poter trascorrere del tempo da sola con Thorn le piaceva sempre di più. Intimamente, a dire il vero, godeva nel mettere in difficoltà il marito, per quanto potesse essere di cattivo gusto.
Un giorno sbucò dallo specchio e, senza farsi sentire, gli accarezzò le cosce per tutta la loro smisurata lunghezza, facendolo sussultare. Dovette rinfilare la testa nello specchio per ridere senza farsi sentire, in camera, quando udì Thorn che perdeva la sua perfetta padronanza e alterigia per giustificare il motivo del suo turbamento.
Una volta invece sbatté, com'era prevedibile, la testa sul ripiano sopra di lei, producendo un tonfo del tutto riconoscibile. Rimase zitta, tappandosi la bocca con una mano, in attesa della reazione di Thorn. Nell'ufficio era calato il silenzio.
Thorn le diede un leggero colpetto di rimprovero con il piede. Poi si schiarì la voce: - Ho sbattuto il ginocchio - si giustificò glacialmente con i suoi interlocutori.
Bevutisi la scusa, Ofelia sentì le voci concitate di quattro o cinque uomini ricominciare ad inveire l'uno contro l'altro e contro Thorn e qualche legge. Ofelia dovette attendere parecchio prima di poter sgusciare fuori, tempo che impiegò verificando che in camera non passasse nessuno e che in casa nessuno la chiamasse.
Quando sentì una mano sulla schiena, mentre aveva la testa immersa nello specchio, capì che Thorn era libero. Di fronte alla sua faccia scura non poté fare a meno di scusarsi, anche se trattenere il sorriso fu difficile.
- Di cosa ti scusi? - le domandò bruscamente lui. - Andavano avanti così da un'ora e trentasette secondi, la tua interruzione almeno è riuscita a zittirli per qualche attimo.
A dire il vero Ofelia non andava a trovarlo così spesso all'intendenza, usava lo specchio sotto alla scrivania solo come ultima spiaggia quando era evidente che per più di tre o quattro giorni non sarebbero riusciti a stare insieme.
Fatalmente, però, ogni volta che andava da lui correva il rischio di farsi beccare.
In un’occasione infatti sbucò dallo specchio, spettinata e con gli occhiali tinti di un imbarazzato rosa che sarebbe rimasto a lungo, e si scontrò con la zia Roseline. Era mezzo svestita e i suoi occhiali divennero ancora più rossi.
- Eccoti! Ti sto chiamando da quaranta minuti buoni! Ma cosa ci fai così nuda?
Ofelia era stata via meno di venti minuti, la precisione non era la più grande qualità della zia Roseline. Gli occhi, in compenso, funzionavano fin troppo.
- Io… - mormorò Ofelia, provando la strana sensazione di essere tornata la bambina che si prendeva le sgridate dalla mamma, dalla zia e poi di nuovo dalla mamma, perché doveva avere sempre Sophie l’ultima parola. Vide la porta del bagno chiusa e la sua mente fece il resto. – Io mi ero chiusa dentro il bagno e sono uscita usando lo specchio.
La zia parve poco convinta. – Ho controllato due volte in bagno, la porta non era chiusa a chiave.
- Ero agitata – pigolò debolmente. – Forse il mio animismo l’ha contagiata.
La zia Roseline la squadrò dall’alto in basso, come a volerle carpire i pensieri dalla mente.
- Hai litigato con Thorn?
Ofelia rimase zitta, spostando a disagio il peso da una gamba all’altra. La zia interpretò quel silenzio come una conferma.
- Sono cose che capitano, non serve agitarsi tanto. Non mi pare che tu abbia una grande paura di quell’orso di tuo marito. Ad ogni modo rivestiti che Berenilde vuole presentarti una sua amica di non ho capito dove e nemmeno di che rango. Più che sua amica, mi pare che si odino. Sembra che entrambe siano in procinto di strapparsi i capelli. Ti ricordi di quella volta che la cugina Clara ha morso sua cognata e le due si sono azzuffate talmente scompostamente che sono dovuti intervenire tre uomini per separarle? Che vergogna!
Detto ciò la zia si allontanò borbottando quanto fosse inappropriato che due parenti ricorressero alle mani, specialmente se le parti coinvolte erano scarse. Quando si passava alle mani, bisognava darsele di santa ragione, non tirarsi i capelli come donnette.
Ofelia la guardò andare via registrando quei commenti ma senza farci troppo caso, sollevata solo di essere scampata al peggio.
Un’altra volta la colse alla sprovvista Renard. Quando Ofelia uscì dallo specchio, per fortuna vestita, lo trovò in difficoltò con Vittoria e Serena ai fianchi, quest’ultima che si allungava sulle punte dei piedi per guardare, e Balder che sgambettava allegramente sul fasciatoio.
- Che cosa succede? – domandò allarmata.
Renard teneva in mano un panno pulito che posizionava sul bambino cercando di capire come metterlo. Nello sguardo aveva una luce disperata che Ofelia non gli aveva visto nemmeno quando aveva scoperto di essersi spogliato di fronte a lei.
- Il signorino ha bisogno di essere cambiato, ma… insomma, ragazzo, io ero il valletto di vecchie dame capricciose, non so nemmeno come sia fatto un bambino!
Ofelia, interdetta di fronte a quell’accoglienza, ci mise alcuni secondi per capire cosa stesse succedendo. E non poté fare a meno di scoppiare a ridere.
Renard le lanciò un’occhiataccia.
- Non ridete di me, non è colpa mia se la madre non si fa trovare nella sua stessa casa. Se non foste così fedele giurerei che avete un amante.
Ofelia si sentì avvampare suo malgrado, e cercò di nascondere il viso accaldato, e gli occhiali, dietro la cortina di ricci. Salame non l’aiutò di certo intralciandole il cammino, ma fortunatamente Ofelia raggiunse indenne il fasciatoio. Non aveva nulla da nascondere… o meglio, era il caso di nascondere, sì, le scappatelle col marito, ma effettivamente sarebbe stato di cattivo gusto se si fosse diffuso il pettegolezzo che lei aveva un amante. Ancora più sconvolgente sarebbe stato scoprire che l’amante era il marito.
Ofelia gli mostrò gentilmente come cambiare un bambino, ma si scambiarono poche parole e Ofelia se ne andò subito dopo aver portato a termine il compito.
Diversi giorni dopo accadde più o meno la stessa cosa.
Uscita dallo specchio si trovò Renard in camera, con Serena seduta sul letto che sfogliava un libro illustrato borbottando da sola, e Balder che sgambettava allegramente. Agitava in aria i piedini e le manine grassocce, felice di essere tutto nudo e libero, per una volta. Sua madre, fortunatamente, non era svestita quanto lui. Erano ormai rare le volte in cui Ofelia si recava da Thorn vestita in modo non adeguato: il rischio che qualcosa andasse storto nell’entrare o nell’uscire dallo specchio era elevato, e né lei né lui gradivano l’idea che qualcuno la vedesse in negligé.
Lo stupore lasciò spazio alla diffidenza sul volto di Renard. – Ragazzo, inizio seriamente a preoccuparmi per queste tue…
Balder pensò bene di mettersi a ridere e fare la pipì in aria. Renard era talmente confuso da non riuscire nemmeno a capire che doveva spostarsi da… be’, dalla pioggia improvvisa, ma Salame fece un salto all’indietro e soffiò verso il povero bambino. Ofelia accorse e coprì il figlio con un asciugamano, uscendone asciutta.
Renard era sconvolto. Ofelia sperava che quel piccolo incidente potesse dirottare l’attenzione dall’argomento precedente.
- I bambini, soprattutto i maschi, Renold, apprezzano quando vengono lasciati liberi. Ecco perché bisogna essere rapidi nel cambiarli. Se si rendono conto di essere senza costrizioni è finita, e i maschietti, lo sai meglio di me, sono i più pericolosi.
Renard apparve d’un tratto avvilito. – Non so nulla di queste cose, e non sono nemmeno bravo a cambiare un pannolino. Come farò quando diventerò padre?
Ofelia alzò la testa per guardarlo: - Gaela è incinta?
Renard parve esitare, poi storse il naso. – No. Non credo almeno. Lei dice di no, ma non lo so.
Ofelia gli posò la mano sul braccio: - C’è qualche problema?
Renard sospirò. – Fino a che non avrò completato il corso di studi dovrei essere ancora io il vostro consigliere, non viceversa.
Ofelia gli sorrise teneramente. – Ma io non sto offendo consigli, sto porgendo un orecchio a qualcuno che ha bisogno di parlare.
Renard parve incurvarsi, assumendo la forma di una montagna tondeggiante. – Non c’è nulla che non vada, davvero. Finalmente sono sposato con Gaela, i nostri lavori vanno bene, stiamo facendo entrambi ciò che ci piace, anzi, oso dire melensamente che abbiamo coronato i nostri sogni. Lei è felice. Non che me l’abbia detto, quello no. La mia signora non ammetterebbe mai così apertamente i propri stati d’animo, ma l’ho corteggiata per quasi vent’anni, Ofelia. So com’era prima e so com’è adesso, vederla così mi riempie di orgoglio. Però i bambini tardano ad arrivare.
Ofelia prese Balder in braccio, che sembrava alquanto scontento di essere stato nuovamente infilato dentro quel pannolone scomodo e fastidioso. Porse il figlio a Renard.
- Arriveranno, ne sono certa. Anche Serena non è venuta subito. Io ho imparato che angosciarsi e sbattere la testa su questo argomento non serve a nulla. Arrivano quando si smette di cercarli. E poi, non ti bastano già questi due a cui badare?
Lo sguardo di Renard si riempì di calore, una fiammella che riprende vigore, quando voltò il capo verso Serena, acciambellata sul letto. E poi accarezzò gentilmente la guancia paffuta di Balder, che gli afferrò il dito e lo ciucciò.
- Mi danno da fare anche loro, non c’è dubbio. Specialmente questa peste qui, che ha gli stessi capelli scuri e ricci come la madre, e i suoi occhi. E mi fa dannare come lei.
Ofelia sorrise di fronte al suo sguardo ammiccante, e non le sarebbe importato se qualcuno, passando, avesse frainteso. Quella che aveva con Renard era un’amicizia bellissima, e non avrebbe permesso alla malizia di incrinarla.
- A proposito di madre che mi dà da fare, non ho dimenticato di avervi vista sparire nuovamente. Comincio a nutrire dei seri dubbi circa la vostra fedeltà. Non ti tradirei mai, ragazzo, ma le scappatelle sono per i nubili, non per gli sposati come noi.
Ofelia gli passò Balder, odiando gli occhiali che assunsero una sfumatura rosata come al solito. Persino la sciarpa si agitò. – Non dubita mio marito della mia fedeltà e ne dubitate voi?
- Come mai allora non riesco a reperirvi proprio quando lui è all’intendenza, e non nel suo ufficio qui a casa?
Intuendo che Renard non gliel’avrebbe fatta passare liscia, Ofelia sospirò. – Perché a casa non abbiamo un attimo di pace, quando lui è nel suo altro ufficio, invece, sì.
Renard la fissò senza capire, in silenzio. Ofelia poteva quasi vedere il fumo uscirgli dalle orecchie a forza di arrovellarsi sulla questione.
- Confido nella vostra riservatezza, Renold. Sono certa che non diffonderete in giro il pettegolezzo che la moglie dell’intendente è costretta a prendere appuntamenti con il marito nel suo ufficio, per avere un po’ di pace.
- Oh – rispose subito Renard. Poi si aprì in un ghigno furbesco e le fece l’occhiolino. – Bastava chiedere, sono bravo ad intrattenere i vostri pargoletti, mia signora. Signorina Serena, vogliamo dirigerci verso il salotto per giocare a dama?
- Sì! – esclamò subito la bambina scattando come una molla. Raccolse aggraziatamente il suo libriccino e, obbediente, precedette il padrino in corridoio.
Renard ammiccò di nuovo. – Visto? Basta farmi un fischio e ci penso io.
Ofelia scosse la testa. – Non nutro il desiderio di farvi sapere ogni volta quando io e Thorn intendiamo… ehm…
- Intrattenervi – le andò in aiuto Renard.
- Sì, intrattenerci. Per… per…
- Discutere di affari di famiglia.
- Proprio così. Intrattenerci per discutere di affari. Di famiglia. Personali.
- Molto personali. Intimi direi.
- Renold!
- Non serve che mi ringrazi, ragazzo, sono pur sempre il tuo consigliere.
Ofelia era paonazza mentre Renard, imitato dal piccolo che si era nuovamente impossessato del suo dito, se la rideva.
Dal corridoio giunsero i borbottii esagitati della zia Roseline, seguiti a ruota da quelli furiosi di Berenilde, la cui r scricchiolava quasi quanto quella di Thorn quando era arrabbiata.
- Ofelia! – strepitarono contemporaneamente.
Lei guardò lo specchio quasi con rimpianto. – Potete capire anche da solo, comunque, che voi non siete il solo di cui mi dovrei sbarazzare per discutere di affari di famiglia con Thorn.
- Intrattenervi in affari di famiglia, mia signora – la corresse lui ancora scherzando. – Ma in effetti no, non sono l’unico, però sono il più facile di cui sbarazzarsi. Vi lascio alle vostre altre questioni familiari, senza invidiarvi. Arrivo dolce Serena!
Salame pensò bene di precederlo: se c’era qualcuno da cui quel gatto stava lontano, erano le due signore che piombarono in camera di Ofelia pronte a lamentarsi di qualcosa.
Se almeno Balder l’avesse sporcata avrebbe potuto avere la scusa di doversi andare a cambiare.
La prossima volta gli avrebbe fatto fare la pipì quanto voleva.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Ma quanto li amo? Quanto? *sospira* Ofelia e Thorn sono perfetti ç.ç
Il capitolo non è lunghissimissimo, ma se avesi postato anche il resto sarebbe diventato troppo lungo quindi facciamo una via di mezzo. Almeno ho già cominciato e quasi finito il resto, e da domani dovrei cominciare a scrivere un capitolo di Into the Deep (finalmente).
E basta, c'è una scenetta romantichina tra i genitori frustrati e nel prossimo tornerà anche Thorn geloso ahahahha.


Capitolo 25

Ofelia decise che era il caso di diminuire le visite a sorpresa a Thorn quando ebbe l'infausta idea di fargli uno scherzo. Sapeva che Thorn proprio non era il tipo goliardico che avrebbe apprezzato, o anche solo capito, uno scherzo, ma la sua era più una provocazione che un dispetto.
Che oltretutto Thorn apprezzò enormemente.
Ofelia trovò in un armadio la sua vecchia pelliccia di orso, quella che aveva indossato la prima volta che si erano visti su Anima. Nonostante non l'avesse mai toccata in quell'occasione, accarezzare il morbido pelo del cappotto le riportò alla mente ricordi sepolti da anni: la figura di Thorn, alta e sottile come un lampione, che si stagliava sotto la pioggia, la famiglia che la spingeva verso quella montagna imponente irta di peli ispidi e bagnati, la voce gelida e la presenza ancora più gelida del fidanzato, il viaggio in carrozza, la permanenza su Anima e tutto quello che era conseguito.
Ofelia sentì le lacrime pungerle gli occhi quando si rese conto di tutto quello che aveva guadagnato con quel matrimonio combinato che aveva considerato una sciagura. L'inizio poteva non essere stato dei migliori, anzi, erano partiti con entrambi i piedi sbagliati, ma la situazione si era risolta in un modo che non avrebbe mai creduto possibile. Non solo si era innamorata senza ombra di dubbio di Thorn, ma insieme avevano messo al mondo due figli e lui si era dimostrato un papà incredibilmente presente e premuroso nonostante il passato anaffettivo e d’isolamento. O forse proprio in virtù di quello. Con sua sorpresa inoltre realizzò che la pelliccia, per quanto potesse sembrare ruvida e crespa, era in realtà folta, morbida e persino profumata di un leggero sentore di pini e neve.
Senza pensarci due volte, preda di un misto di desiderio, malinconia, amore e gratitudine, chiuse la porta della camera, si spogliò e indossò la pelliccia di Thorn. Le era così grande da costringerla a rimboccarsi le maniche e tirare su lo strascico che le si arrotolava sui piedi, ed era pesante, ma non fu certo quello a fermarla. Si chinò sulla culla di Balder che si era appena addormentato dopo averla impegnata tutto il giorno nel vano tentativo di dire qualche parola comprensibile, depositando la sciarpa accanto a lui perché lo vegliasse. Si sarebbe volentieri riposata anche lei, ma l’idea di avere qualche istante da sola con Thorn le fece passare la stanchezza. L’ultima volta che erano stati insieme, fisicamente, era stata la settimana prima…
Così si immerse nello specchio a carponi e riemerse tra le gambe di Thorn. Dopo avergli tamburellato le dita sul polpaccio così che lui sapesse che era lì, aveva faticato non poco a tirare tutta la pelliccia da quella parte dello specchio. Aveva sentito che Thorn era impegnato a scrivere e la stanza era immersa nel silenzio, per cui dedusse che fosse solo e si lasciò sfuggire un grugnito di frustrazione quando, nel tentativo di muoversi, inciampò con le ginocchia sulla pelliccia.
Thorn allontanò la sedia con uno stridio fastidioso, curvandosi per osservarla. Sgranò per un istante gli occhi quando vide il viso pallido di Ofelia stagliarsi in mezzo a quella massa di peli e capelli, perché i suoi ricci non erano affatto più ordinati del cappotto.
Poi tornò padrone di sé, strinse le labbra quasi con contrarietà e sfogliò velocemente alcune pagine della sua agenda mentre con l’altra mano apriva e chiudeva l’orologio. Chiamò il suo assistente per farsi concedere mezz’ora proprio mentre Ofelia si rimetteva in piedi. In realtà inciampò di nuovo, ma la mano di Thorn scattò come sempre a sorreggerla.
Dopo che ebbe abbassato la cornetta, la guardò accigliato. – Mi hai più volte detto che qui fa freddo, secondo il tuo parere, ma la pelliccia mi sembra eccessiva.
Tutta la mescolanza di sentimenti passionali che Ofelia aveva provato fino a pochi istanti prima svanì, in quel momento era solo irritata. In ogni caso, anche la rabbia talvolta alimenta il desiderio.
Ignorando le parole bieche di Thorn, cercò di alzare l’orlo della pelliccia e gli si sedette in grembo, non senza un aiuto da parte sua.
In un moto di coraggio, gli sussurrò all’orecchio: - Questa pelliccia è così calda che non mi serve indossare altro.
Thorn capì del tutto il significato delle sue parole quando Ofelia gli afferrò le mani e, aprendo il cappotto che teneva stretto contro di sé, gliele fece posare sul suo corpo. In effetti la pelliccia teneva così caldo che le mani gelide di Thorn la scottarono quando si posarono sulla sua pelle bollente. Ofelia non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un gemito quando le dita glaciali di Thorn l’artigliarono, ma non avrebbe saputo dire se per il disagio o il piacere. Così come per il brivido che l’attraversò. Lo sguardo di Thorn invece lasciava indubbiamente trapelare quanto lui apprezzasse tutta la situazione, soprattutto la pelle bollente di Ofelia.
Si chinò lentamente, curvo come un vecchio, per seppellire il volto nei suoi capelli, e inspirò a fondo. Poi le baciò la mascella, proprio di fianco all’orecchio e fino al mento. Ofelia si strinse a lui e il nuovo mugolio che le scappò fu inequivocabile.
- Andiamo sul divano? – le chiese Thorn, inutilmente dato che si era già alzato e le aveva depositato gli occhiali sulla scrivania. I guanti, purtroppo, avrebbe dovuto tenerli.
Dopo settimane di sfruttamento dello specchio sotto la scrivania, si erano resi conto entrambi che forse sarebbe stato utile un altro piano di appoggio oltre alla scrivania ingombra di carte e alla sedia perennemente occupata da Thorn. Così lui aveva fatto arrivare un nuovo divano che aveva sostituito quello vecchio e logoro sotto la finestra ovale che dava sul mondo esterno. Inutile dire che entrambi avevano gradito e apprezzato il nuovo acquisto fin da subito, decisamente più ampio e confortevole del vecchio.
Ofelia avrebbe voluto sentirsi dire qualcosa di carino o adatto alla circostanza, per esempio che Thorn avrebbe sempre voluto vederla con quella pelliccia indosso, e nient’altro che quella, o che stava meglio a lei che a lui, o ancora che era d’intralcio perché lei lo teneva al caldo più di quanto avrebbe mai potuto fare un qualsiasi cappotto, ma nessuna di quelle frasi sarebbe stata coerente sulle labbra di Thorn.
Lo fu molto di più il silenzio, perché Ofelia poté sentire chiaramente il suo respiro farsi erratico e pesante. E qualsiasi parola avrebbe perso significato di fronte allo sguardo predatorio di Thorn, che se la mangiò con gli occhi nel momento stesso in cui le sue mani corsero a toglierle di dosso tutto quel pelo, lasciandola esposta al freddo. Nessuna dichiarazione avrebbe potuto farla sciogliere più dei baci che le diede sulle braccia ricoperte di pelle d’oca, sia per il freddo che per il bisogno che aveva di lui. E nessuna promessa, nulla al mondo, avrebbe potuto farla sentire più amata e desiderata della vista di Thorn che si spogliava del tutto per poi sdraiarsi su di lei e coprire entrambi con la pelliccia.
Nel suo ufficio Thorn non si spogliava mai, ed era un grosso punto a sfavore di quelle incursioni, ma tra l’avere il marito vestito e il non averlo affatto, Ofelia preferiva la prima opzione. Il fatto che si fosse tolto persino i calzini le fece capire quanto in realtà avesse gradito la sua incursione a sorpresa, e il furto della pelliccia dall’armadio.
Immersi nel buio caldo e avvolgente del cappotto e dei loro respiri, si lasciarono guidare solo dai sensi. La bocca di Thorn non mancò mai il bersaglio, per quanto fosse impossibile vedere dove fossero Ofelia o le sue labbra, anche se lei avrebbe potuto giurare di essere riuscita a intravedere la luce metallica degli occhi del marito persino là sotto.
Le loro mani si cercarono a vicenda, esplorandosi come se fosse la prima volta, impacciate ma allo stesso tempo estremamente decise. Ofelia chiudeva inutilmente gli occhi ogni volta che Thorn afferrava qualche punto particolarmente morbido del suo corpo, e traeva quasi più piacere dal sentirlo trattenere gemiti profondi che da ciò che le stava facendo.
Quando le crollò addosso, ansimando contro il suo orecchio, Ofelia armeggiò con la pelliccia per abbassarla verso i loro piedi e permettere alla luce di filtrare. Thorn, contorto come un rampicante, la teneva ancora avvinghiata a sé mentre cercava di recuperare il fiato con la testa premuta contro il suo seno. Teneva gli occhi chiusi e, se non fosse stato per le labbra che si muovevano silenziosamente e il respiro irregolare, si sarebbe potuto dire che dormisse.
Ofelia gli baciò la cicatrice sulla tempia e gli accarezzò la schiena, indugiando con le dita sulle cicatrici più profonde in quel modo che sapeva piacergli tanto.
- Il tuo cuore batte centoventisette volte al minuto – esordì lui dopo un paio di minuti.
E quelle affermazioni erano delle vere e proprie poesie, per lei.
Ofelia ridacchiò. Era l’ultima cosa che pensava le avrebbe detto, ma era in linea con lui. – Quindi?
- Nella norma direi, anche se forse come frequenza di battiti sotto sforzo siamo un po’ al limite. Bisognerebbe cercare di rafforzare e allenare il cuore.
Ofelia scosse la testa e gli accarezzò una guancia. – Grazie per il consulto cardiologico.
Thorn, com’era prevedibile, non rispose. Stava insegnando l’educazione a Serena e persino a Balder, ma era come se lui fosse dispensato dall’usare quelle forme di cortesia basilari.
Senza preavviso rotolò sul fianco portando con sé sia la pelliccia che Ofelia, solo che la prima finì sotto di loro mentre la seconda sopra. Ofelia rabbrividì al contatto dell’aria fredda con la sua pelle, ma Thorn la baciò per distrarla, quasi giocando con le sue labbra e la sua lingua. Decisamente la pelliccia era stata un’ottima trovata.
Fece correre disinibitamente le mani sul suo corpo ancora un po’, facendola sussultare e arrossire alcune volte mentre la scrutava intensamente con quello sguardo penetrante da sparviero.
Possibile che non fosse in grado di sorridere nemmeno in quella circostanza? Ofelia lo accettava così com’era, però ogni tanto avrebbe gradito una smentita ai suoi soliti atteggiamenti.
In risposta a quei pensieri, la punta delle orecchie di Thorn si tinse di rosso e lui si voltò dall’altra parte per non doverla più guardare. – Temo di essermi lasciato andare eccessivamente oggi. Ti chiedo scusa se ti sono… apparso brutale. Ho tutto sotto controllo di solito. Non volevo…
Ofelia sorrise e lo baciò ancora per zittirlo, sporgendosi per incontrare la sua bocca.
A cosa le servivano i sorrisi quando Thorn le regalava quei piccoli momenti di vulnerabilità che solo lei, e nessun altro, avrebbe mai visto? Perché solo in lei riponeva abbastanza fiducia da lasciarsi andare e mostrare la sua vera interiorità.
Il sorriso si allargò quando lo sentì reagire nuovamente alla sua vicinanza, come un fuocherello accostato alla paglia.
- Quanto manca? – chiese però. L’ultima cosa che voleva era un’irruzione nella stanza da parte di qualcuno.
A Ofelia parve di sentirlo sospirare, ma non ebbe il coraggio di verificare.
- Poco – rispose lui, mettendosi a sedere e trascinando Ofelia con sé come fosse una bambola.
Thorn la fece gentilmente scostare e raccolse i suoi vestiti, che indossò in fretta dandole le spalle. Poi fece un salto nel piccolo bagno che Ofelia non aveva mai notato finché non aveva visto Thorn sparire lì dentro per la prima volta, nascosto da una porta quasi invisibile, e nel frattempo lei ne approfittò per indossare di nuovo la pelliccia e gli occhiali.
Quando Thorn uscì dal bagno si stava abbottonando i gemelli ed era di nuovo impeccabilmente pettinato e ripulito. Guardò l’orologio e solo dopo averlo riposto in tasca si arrischiò a guardare Ofelia, come se si vergognasse. Si schiarì infatti la voce.
- Abbiamo già concepito Balder qui, spero che non accada anche con il terzo.
Ofelia increspò la fronte. Era quello che intendeva quando le aveva detto di essersi lasciato andare? Lei pensava che avesse voluto dire che era stato forse troppo possessivo quando la toccava, ma quello non le era affatto dispiaciuto.
Poi il senso delle sue parole la colpì. Non voleva un terzo figlio in quel momento, però… - Stai dicendo che sarebbe un problema se ne arrivasse un altro?
Thorn la fissò come se lo avesse appena accusato di tradirla. Ossia con impassibilità, ma c’era un’incrinatura nella sua alterigia apparente. – Non ho mai detto nulla di simile. Intendo solo dire che c’è questa possibilità e che sarebbe il secondo figlio che nasce da un incontro nel mio ufficio di lavoro. Non disdegno… insomma, apprezzo molto… gradisco le tue… le tue visite. Però deontologicamente parlando la considererei un’onta avere due figli nati per via di un… colloquio qui. Preferirei succedesse a casa, dove un bambino dovrebbe essere… concepito.
Era evidentemente imbarazzato, ma Ofelia capì cosa volesse dire e, per quanto trovasse divertente la sua espressione, rispettò il suo timore. Thorn era dedito al lavoro, un uomo integerrimo, e il fatto che usasse il suo ufficio per fare cose che decisamente esulavano dalle sue competenze lo turbava, per quanto amasse le sue sorprese. Ma c’era un limite a ciò che poteva tollerare, e quel limite non comprendeva un altro bambino venuto al mondo per un rapporto avuto nel suo ufficio. Uno poteva accettarlo, ma non due.
- Non credo che sarà un problema, Thorn – cercò di rassicurarlo lei, più per dire qualcosa che per ragioni valide o scientifiche.
Infatti lo vide assottigliare gli occhi e indurire lo sguardo. – Ci vediamo questa sera – la congedò, privo del calore che aveva mostrato fino a pochi minuti prima.
Però Thorn era fatto così, e non sarebbe stato giusto da parte di Ofelia cercare di cambiarlo. Non avendo nulla da dire, si avviò in silenzio verso l’anta dell’armadio che di solito usava per uscire. Una stretta ferrea e repentina, però, la bloccò, e Ofelia si ritrovò di nuovo preda della bocca di Thorn, che aveva persino dovuto piegare le ginocchia per riuscire ad abbracciarla.
La lasciò bruscamente come l’aveva presa, e si schiarì la gola dandole le spalle. – La pelliccia ti sta bene, nonostante le misure eccessivamente abbondanti.
Imbambolata e del tutto impreparata a quel commento, Ofelia ringraziò la pazienza di Thorn perché rimase immobile con una mano sull’anta dell’armadio a lungo, prima di decidersi a voltarsi e immergervisi. E lui non le mise fretta.
Sbucò in camera sua con un sorriso sciocco stampato in volto e i capelli più scarmigliati del solito, sul naso gli occhiali storti che non ne volevano sapere di abbandonare la tinta rosata.
- Per tutti i dizionari! Ma che ti è successo? Sei andata ad un ritrovo di senzatetto, per caso? Cosa ti sei messa addosso?
Ecco come far sì che le lenti degli occhiali tornassero limpide. O si scurissero.
La zia Roseline se ne stava al centro della stanza, mano nella mano con Serena che teneva il pollice fieramente in alto.
- Troppo spesso ti vedo sbucare da quello specchio in uno stato indecoroso, e non venirmi a dire che sei uscita dal bagno! – la incalzò la zia.
Stupita di fronte alle sgridate della vecchia zia, Serena guardava la mamma come se fosse una criminale. – Mamma ha fatto la cattiva?
Ofelia scosse la testa. – No, tesoro, la zia è solo un po’ arrabbiata – la rassicurò Ofelia, cercando di nascosto di tenere ben chiusa la pelliccia.
Prima che la zia potesse tornare alla carica Balder pensò bene di salvarla e mettersi a piangere. Salvarla per modo di dire, visto che sarebbe stato di pessimo umore tutto il pomeriggio dato il brusco risveglio.
Ofelia sospirò. – Potete dargli un po’ di mela grattugiata zia, per favore? – chiese Ofelia. – Il tempo di rivestirmi – si lasciò sfuggire.
La zia la guardò con un misto di rabbia e preoccupazione mentre prendeva Balder per dagli da mangiare. Vicino ormai al compimento di un anno, Ofelia aveva smesso di allattarlo ed era passata a biberon e pappette semiliquide che di solito era prerogativa di Thorn somministrargli. La presenza così radicata del marito nelle abitudini dei bambini aveva spinto più volte Ofelia a chiedersi se non fosse anche quella una sorta di possessività da parte di Thorn, com’era geloso di lei. Non si sarebbe affatto lamentata, però, dato che quel sentimento lo rendeva estremamente accorto e consapevole dei bisogni dei loro figli, spingendolo ad attivarsi in prima persona.
- La bambina si è fatta male ad un dito, le ho medicato il taglio ma voleva te, per questo ti stavamo cercando. Anche se mi chiedo co…
La voce le morì sulle labbra quando vide Ofelia cercare di ricoprirsi senza risultati la spalla nuda. Con il piccolo in braccio che ancora piangeva, lo sguardo della zia si fece non meno trafiggente di quello di Thorn.
- Non so quali traffici tu abbia in corso, Ofelia, ma mi auguro che non sia nulla di disdicevole, o te la vedrai con me.
Ofelia strinse le labbra. Non le andava a genio l’essere sgridata come una bambina, ma non voleva nemmeno mentire. Era un pochino disdicevole andare mezza nuda a trovare il proprio marito per poter… stare un po’ insieme, no?
La zia sospirò di fronte al suo silenzio. – Mi auguro almeno che tuo marito lo sappia. Non sarò certo io a fare la spia, ma spero tu sia consapevole di quello che fai.
Ofelia sgranò gli occhi. La zia pensava che lei… andasse in giro? Tradendo Thorn, magari?
Non sapeva se mettersi a ridere per l’assurdità di quell’insinuazione o sentirsi offesa.
- Mio marito sa più di chiunque altro quali siano i miei spostamenti, zia – si lasciò infatti sfuggire, arrabbiata. – Fidati, lo sa meglio di chiunque altro.
La zia non si lasciò abbattere dallo sguardo intenso della nipote, che cercava di comunicarle e nasconderle qualcosa al tempo stesso. Alla fine strinse le labbra e assottigliò gli occhi, cullando Balder che si era appena calmato. Aveva capito.  – Questo non vuol dire che sia una cosa virtuosa, Ofelia.
- Non c’è nulla di virtuoso, zia, quando hai due figli piccoli che ti tengono sveglia tutta la notte o ti piombano in camera senza preavviso, imitati da chiunque in questa casa. La riservatezza dove la mettiamo quando mi ritrovo voi o Berenilde qui senza che nemmeno bussiate?
La zia incassò il colpo con dignità. Ofelia non aveva parlato con acredine, ma questo non ammorbidiva la durezza delle sue parole.
Lungi dallo scusarsi, orgogliosa com’era, la zia le diede le spalle, incamminandosi per andare verso la cucina. L’orgoglio e la testardaggine erano di famiglia, a quanto pareva. – Almeno avvisa prima di sparire, così Serena non si metterà a piangere pensando che tu sia sparita. E sta attenta ai pettegolezzi di corte.
Mentre usciva Ofelia la sentì borbottare qualcosa sull’essere più effervescenti delle bollicine di champagne, ma la ignorò, imbarazzata. Perché non faceva quei commenti su sua sorella Agata, che di figli ne aveva già quattro?
Solo allora Ofelia si rese conto che Serena, di fronte a lei, aveva gli occhi rossi. E teneva ancora il pollice sollevato. Per quanto la discussione con la zia l’avesse ferita nell’orgoglio, perché essere ripresa come un’adolescente sconsiderata o scoperta non le piaceva per niente, trovò la forza di sorridere.
- Che hai combinato, tesoro? – chiese alla figlia prendendola in braccio e mettendosi a sedere con lei a letto. Non si sarebbe potuta cambiare fintanto che la bambina fosse rimasta con lei, così cercò di coprirsi più possibile.
Serena si strinse a lei tenendo sempre il pollice sollevato, sul quale Ofelia notò che era stato avvolto un pezzettino di stoffa legato con lo spago per tenerlo fermo. – Io fatta bua – piagnucolò. Poi seppellì il volto nella pelliccia. – Mamma e zia non si vogliono più bene?
Ofelia l’abbracciò forte. Se Serena si era già distratta dal suo dito la cosa non doveva essere poi così grave. Era grave il fatto che la sua bimba stesse crescendo così in fretta. A parte il fatto Renard e Thorn le avevano già insegnato a leggere nonostante non sapesse parlare ancora benissimo, la sua bimba era perspicace. Non era il caso di fare un confronto con Vittoria, che nelle vene aveva troppo sangue di Faruk per essere considerata affidabile, però talvolta Serena era più sveglia di lei.
- A volte si litiga, ma ci si vuole sempre bene.
Serena annuì, come se quella frase fosse bastata per scacciare il turbamento che provava.
- Badde mangia?
- Sì, la zia gli sta dando da mangiare. Vuoi andare ad aiutarla?
Serena annuì, fiera di poter nutrire il fratellino più piccolo come se lei fosse molto più grande. Era strano pensare che avessero solo tre anni di differenza.
Ofelia riuscì finalmente a finire di cambiarsi e raggiunse i figli, già dimenticata della discussione con la zia che le infilò in bocca uno spicchio di mela a mo’ di scusa.
 
L’atteggiamento di Serena nei confronti di Balder era quasi materno. Lo controllava sempre, a volte lo sgridava, per esempio quando lanciava qualche schiaffo del tutto innocuo a Renard. Quando Thorn gli dava il biberon nella loro camera da letto, soprattutto di sera, Serena raggiungeva i suoi uomini e si arrampicava da sola sulla gamba libera del papà, che lasciava che fosse lei a nutrirlo mentre leggeva il giornale o si fumava la pipa.
Ofelia si aggirava per la stanza sistemando il disordine inesistente, dato che vivere con Thorn era il modo migliore perché tutto fosse al proprio posto. In realtà, si godeva la scena con sguardo intenerito e un profondo senso di appagamento.
L’influsso serafico di Serena aiutò Balder a calmarsi: cominciò a dormire più ore per notte, permettendo così ai genitori di riposarsi come dovevano, e non piangeva più se rimaneva nella culla da solo, cosa che dava modo ad Ofelia e Thorn di non dover sempre ricorrere allo specchio sotto la scrivania dell’intendenza.
Balder non dormiva il pomeriggio se Serena non si metteva accanto a lui, e il piccolo spesso si addormentava con una mano sul suo viso, come se il contatto con la sorellina fosse narcotico per lui. Serena era estremamente paziente. Gli leggeva delle storie, anzi, le recitava a memoria, dal momento che non sapeva leggere così bene tutte le parole ma la memoria le funzionava anche troppo; giocava con i suoi “giochi da piccolo” come li definiva lei; aiutava la mamma a cambiarlo, lavarlo e pettinarlo, gli faceva il solletico, lo consolava se si faceva male.
Per Ofelia era una gioia vederli così affiatati, anche se accresceva in lei la malinconia e la nostalgia che provava per Hector. Il suo fratellino era ormai un uomo, e quando fosse andata su Anima avrebbe anche conosciuto sua moglie. Le sembrava impossibile, che lei fosse una madre e Hector un marito. Il tempo passava così in fretta. Ma era tutto un circolo, e quello che aveva vissuto lei con il fratello lo stava vivendo anche Serena, con quel suo fare protettivo e indulgente, la sua pazienza e l’affetto. Non aveva quel rapporto nemmeno con Vittoria, ma probabilmente quello dipendeva dal fatto che la cuginetta si addormentava dopo pochi minuti che cominciavano un’attività, qualunque fosse. Le piaceva disegnare, però non era insolito trovarla addormentata anche sui fogli. Berenilde era troppo innamorata della figlia per preoccuparsi di alcunché, e Ofelia sperava solo che non avesse preso da Faruk anche la scarsa memoria. La zia Roseline invece la guardava scuotendo la testa, asserendo che se avesse cucinato avrebbe incendiato la casa e se avesse cucito si sarebbe infilata sotto l’ago al posto della stoffa.
Nessuno si sorprese, comunque, quando una sera, in salotto, Balder esclamò: - E-ena!
E lo ripeté ancora, di fronte allo sbigottimento generale. Erano tutti in soggiorno per prendere il tè, persino Archibald che si era autoinvitato come sempre.
- Il marmocchio ha parlato – fece notare causticamente Gaela, che stava bevendo una tazza di grappa anziché di tè.
Renard aveva le guance più rosse del solito per lo stesso motivo.
- Mamma, ha pallato!
Balder si applaudì da solo come per confermare le sue parole.
Ofelia e Thorn gli furono subito addosso per poterlo sentire meglio. Anzi, Thorn si protese leggermente verso di lui, pipa in una mano e orologio nell’altra, piegando l’interminabile colonna vertebrale fino a formare una specie di tenda sopra il figlio, che se ne stava appoggiato con la schiena alla sua gamba. Ofelia invece si inginocchiò accanto al divano, con la sciarpa che si allungava per accarezza il bambino, vittima del trasporto affettivo della padrona.
- Hai detto Serena, Balder? – gli chiese quest’ultima, attirando l’attenzione del piccolo.
Balder batté ancora le mani, un po’ scompostamente. – E-ena!
- Io non mi chiamo così! – si imbronciò Serena in risposta.
- Sempre meglio di come ti chiamava Hector! – esclamò la zia di punto in bianco. – Ti ricordi, Ofelia?
Ofelia non aveva bisogno della memoria di Thorn per ricordare il nomignolo che l’aveva perseguitata fino alla fine della sua adolescenza. “Fefia”, così la chiamava Hector quando non sapeva pronunciare che poche parole. “E-ena” era decisamente più accettabile.
- Sta ancora imparando, Serena – le fece notare Thorn, con una voce più adatta a riprendere che a incoraggiare. Ma la bambina ci era abituata e sapeva che il padre non era davvero arrabbiato. – Tu stessa non sai ancora pronunciare la erre.
Ofelia cercò di soffocare senza risultati una risata, attirandosi un’occhiata in tralice di Thorn. Nemmeno lui riusciva a pronunciare una erre molto normale, secondo i canoni animisti, ma non le sembrava il caso di farglielo notare.
- Che scena dolce – canticchiò Archibald, visibilmente ubriaco. – Perché non gli facciamo dire anche zio Archibald? – propose poi, avvicinandosi pericolosamente al divano dove Serena, Ofelia, Thorn e Balder se ne stavano raggomitolati. – Su, piccoletto, dì “zio Archibald”.
Thorn ringhiò il suo dissenso proprio mentre Balder esclamava: - Io!
Quello che seguì fu una seria sconnessa di suoni inarticolati che Archibald giurò essere il suo nome, mentre Thorn negava con veemenza e analizzava ogni sillaba pronunciata dal figlio. I due adulti, che assomigliavano più che altro a due bambini, se ne stavano lì a battibeccare. Thorn stava persino citando a memoria un dizionario di analisi grammaticale, sintattica e semantica, con il solo risultato di far ridere Archibald di fronte a quei paroloni e ragionamenti incomprensibili.
Sospirando, Ofelia si augurò solo che Thorn non ricorresse agli artigli per ottenere la resa del rivale. Si concentrò su Balder, cercando di sorridergli in modo rassicurante. Gaela e Renard, incuriositi, si avvicinarono a loro per ascoltare, mentre la zia Roseline cercava di mettersi tra i due uomini che continuavano a litigare per un nonnulla. Sembrava un nano al cospetto di due giganti, e i suoi rimbrotti non facevano che aggiungere cacofonia al caos acustico che già regnava in salotto. Berenilde invece se ne stava placidamente sdraiata sul divano a pettinare la figlia, altrettanto ignara. Vittoria aveva un effetto estremamente narcotizzante sulla madre, e Ofelia ogni tanto si chiedeva se in realtà non fosse una nuova branca derivante dai poteri di Faruk.
- Su, piccolino, dì “mamma” – lo incoraggiò Renard, tutto accucciato accanto al divano a formare una palla rossa come Salame, acciambellato sul bracciolo del divano.
Gaela osservava la scena alle sue spalle, in silenzio, celando la curiosità dietro alla maschera di indifferenza. Serena invece scavalcò il fratellino, beccandosi un rimprovero da parte della mamma, per andare a rifugiarsi tra le braccia del padrino.
- Mamma… - ripeté Ofelia, cercando di farsi chiamare dal figlio.
A disagio, preda di tutti quegli sguardi inquisitori, Balder aveva perso il sorriso. Di fronte ai ripetuti incoraggiamenti di Ofelia, inoltre, una ruga gli spuntò tra le sopracciglia.
Renard scoppiò a ridere così fragorosamente da azzittire persino Archibald e Thorn. Quest’ultimo rivolse l’attenzione alla combriccola con sguardo geloso, sicuramente chiedendosi cosa ci facesse tutta quella gente accanto al figlio e alla moglie. Non si era accorto dell’avvicinamento dei coniugi, e ignorava anche il gatto che sonnecchiava accanto a lui.
- Non ci sono proprio dubbi circa il fatto che l’intendente sia il padre dei bambini – spiegò Renard, ancora ridendo, indicando il cipiglio di Balder.
Ofelia, se avesse avuto la mente analitica di Thorn, avrebbe potuto dire con certezza che il settanta percento delle parole pronunciate da Renold erano un effetto della quantità di alcol assunto. Però non gliene importava granché, e rise insieme a lui, contagiando persino Gaela che si affrettò a nascondere un sorriso minuscolo.
- Perché, nutrivate dei dubbi in merito? – lo interrogò Thorn, facendo calare di qualche grado la temperatura dell’ambiente.
Renard si ritrovò paonazzo, più del solito, e deglutì a vuoto. – Nossignore. Stavo solo notando quanto in realtà i bambini vi assomiglino. Un’ottima cosa senza dubbio. Affatto divertente, aggiungerei. Voi… straripate di ottime virtù e belle qualità, ed è davvero posit…
Ofelia non riuscì a mascherare una risatina di fronte agli sproloqui terrorizzati di Renard. Era più basso di Thorn, non eccessivamente più basso, ma lo era, anche se la sua stazza da armadio e i muscoli compensavano abbondantemente quella differenza d’altezza, eppure ogni volta che si trovava al cospetto di Thorn si sentiva intimorito come un bambino dispettoso che attende la punizione. Eppure sapeva che era innocuo…
Gaela gli diede una pacca sulla schiena abbastanza forte perché lui si riscuotesse. – Smettila di blaterare. Muoviti, andiamo a farne uno anche noi, questi cosini sono adorabili.
Sotto agli sguardi attoniti dei presenti, compreso quello di suo marito, Gaela trascinò via Renard. Ofelia sperò solo che riuscissero ad arrivare in camera loro prima di… insomma, prima di provare a…
Gli occhiali le si tinsero di rosa e non poté nemmeno sfuggire all’occhiata glaciale e interrogativa di Thorn.
Nel mentre, Serena si era trovata senza un punto di appoggio, così allungò le braccia per farsi prendere in braccio dal papà, mentre Balder fissava tutti con estrema perplessità.
- Dì “mamma e papà”, Balder – lo invitò Thorn con una voce tutt’altro che suadente. Sembrava più un ordine che un incoraggiamento.
Archibald intanto gironzolava attorno al divano con un sorriso sciocco stampato in volto e la bottiglia di liquore in mano. Lanciò uno sguardo alla famigliola felice e poi si mise a canticchiare: - Zio Archibald, zio Archibald, zio Archi, zietto Archi…
Serena rise, reazione diametralmente opposta a quella del papà, che se avesse potuto avrebbe tirato il collo a quell’infiltrato sgradito.
Gli occhi di Balder, invece, erano calamitati da quell’individuo buffo che agitava la bottiglia e cantava sopra di lui. Si aprì in un sorrisone e allungò le braccia aprendo e chiudendo i pugni.
- Io! Io! – esclamò contento.
Thorn si adombrò. – Sono certo che stia dicendo il pronome personale e non “zio”. Ne sono certo.
- Io Achi!
Archibald si bloccò a metà balletto e, lentamente, si voltò verso Thorn dedicandogli un sorriso abbacinante e stranamente sincero, come se il sentire il proprio nome dalla bocca di un neonato fosse la sua più grande ricompensa nella vita.
- Zio Archibald? – chiese al bambino, sporgendosi sul divano affinché lo vedesse.
- Io Achi! – fece eco Balder, applaudendosi da solo.
Ofelia cercò di scongiurare una catastrofe. Con la coda dell’occhio vide la zia Roseline svignarsela borbottando. Avrebbe tanto voluto imitarla… - E mamma e papà?
- E-ena!
Thorn scoccò ad Archibald un’occhiata che valeva quanto un’artigliata, prese il figlio e uscì dal salotto, lasciando Serena e Ofelia in balia di un ambasciatore entusiasta e alticcio. Berenilde e Vittoria, perse nel loro mondo, quasi non si rendevano conto di cosa stesse accadendo.
Ofelia sospirò. – Serena, vai da papà a consolarlo?
Serena apparve confusa. – Papà ha fatto bua?
- No, ma sono sicura che voglia un abbraccio dalla sua figlia femmina preferita.
Serena annuì gravemente, come se la sua fosse una missione di importanza vitale. Quando fu uscita caracollando, Ofelia scoccò un’occhiata di riprovazione ad Archibald, tutt’altro che spaventato.
Infatti bevve un goccetto di liquore direttamente dalla bottiglia. L’occhiata arrabbiata di Ofelia non lo scalfì minimamente.
- Ambasciatore, non mi dà fastidio avervi intorno e vedervi costantemente invadere casa nostra, ma c’è un limite a quello che Thorn può sopportare.
Archibald ammiccò e si inchinò, togliendosi il cappello sbrindellato. Il sorriso birichino che le rivolse avrebbe benissimo potuto far arrossire qualche giovane dama, ma Ofelia era del tutto immune al suo fascino.
- Sono certo che non vi dispiaccia avermi intorno, cara moglie di Thorn.
Ofelia si alzò. Era già difficile discutere seriamente con Archibald quando era sobrio, con la mente affumicata dall’alcol era praticamente impossibile.
- Voi avete tutto l’amore che volete dalla vostra famiglia e dalle dame che corteggiate e seducente, per quanto questo sia deplorevole. Non azzardatevi a togliere a Thorn la gioia di poter vedere i suoi figli crescere considerandolo una guida e un punto di riferimento. Finalmente ha una famiglia come si deve, sarebbe il caso che ve ne facciate una anche voi.
Era stata più dura del previsto, ma non aveva potuto trattenersi. Stava lavorando da anni con Thorn affinché cominciasse a vedersi in modo diverso, sotto una luce positiva, e i bambini lo stavano aiutando più di quanto lei sarebbe mai riuscita a fare da sola. Più di quanto si sarebbe mai aspettata. Thorn si sentiva finalmente parte di qualcosa, di qualcosa di duraturo, sincero e caldo, un nucleo familiare con veri legami basati sull’affetto. Non avrebbe permesso a nessuno di minare quel rifugio.
Archibald non perse il sorriso nemmeno quando Ofelia gli diede le spalle per tornare dal marito, ma non appena ebbe svoltato l’angolo Archibald non riuscì a trattenere una smorfia. Tracannò un altro sorso di liquore, maledicendo e benedicendo il fuoco che gli scendeva in gola.
- Dovrebbe essere lui a dar meno sfoggio della sua vita perfetta con i poveri infelici che non potranno mai averla – borbottò stizzito, permettendo all’alcol di far salire in superficie tutta l’acredine che la sua infelicità gli faceva traboccare dal cuore.
Come riscuotendosi da un lungo torpore, Berenilde si accorse che stava parlando da solo. – Come avete detto?
Archibald le sorrise in modo impertinente, mascherando con maestria il suo stato d’animo. Come sempre.
- Penso che schiaccerò un pisolino. Dolce Vittoria, perché non dormite con lo zietto?
Berenilde sospirò e prese la figlia per mano, alzandosi per andare in camera. – Io potrò anche aver ceduto alle vostre avances in un momento di debolezza, ma non azzardatevi a tessere le vostre trame attorno a mia figlia. Buonanotte ambasciatore.
Ad Archibald non rimase altra scelta che buttarsi sul divano e seppellire il volto sotto il cappello.
Non desiderava una donna accanto al suo fianco, in quel momento stranamente l’idea di un corpo morbido e caldo accanto a sé lo disgustava. Ma stringere tra le braccia Vittoria, o Serena… una figlia…
Sì, avrebbe davvero voluto una figlioletta adorabile come loro due.
Avrebbe davvero voluto una famiglia come quella di Thorn.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Ed eccoci con la scena di Thorn geloso e una scena tutta zucchero ahahahaha. va be' dai, mi piacciono troppo in veste di famigliola felice (con Thorn sempre allegro quanto un albero).
Dovrei essere a buon punto (dovrei) anche con Into the deep (finalmente), ma anche se lo finirò a breve non lo posterò prestissimo. Altrimenti mi ritroverei da capo senza capitoli. Va be', è un ragionamento scemo che capisco solo io, ma era giusto per non pubblicare una valanga di roba tutta insieme e poi sparire per giorni e giorni.
Però penso di poter incrementare la produzione. Spero. Vedremo dai.
Grazie mille a tutti, spero non ci siano troppi errori perché ne ho trovati parecchi e ho provato a correggerli tutti, forse qualcuno si è animato ed è fuggito. E la scena della gelosia avrei dovuto metterla nell'altro capitolo perché qui effettivamente non c'entra nulla ma... ormai è andata così.
Grazie come sempre a chi legge♥ E non mi maledice.
E aspetto il capitolo di Sofy ;)♥


Capitolo 26

Come Ofelia aveva immaginato, Thorn era in camera. Con il broncio. Non che si notasse il suo malumore, la sua espressione impassibile era la stessa di sempre, ma teneva Balder rigidamente tra le braccia e prestava poca attenzione a Serena che, nascosta sotto il suo braccio, gli raccontava del libro illustrato che aveva letto quel pomeriggio. Anzi, lo recitava a memoria.
Thorn stava dando a Balder il biberon, ma il piccolo era irrequieto e continuava a girare la testa per sottrarsi al pasto.
Ofelia sospirò. – Thorn, sai che ai bambini trasmettiamo i nostri stati d’animo? Sei troppo agitato per dargli il biberon.
Sembrava uno scherzo, dal momento che Thorn appariva completamente padrone di sé.
Ofelia si sedette accanto a Thorn e Serena, e prese Balder dalle braccia del marito per nutrirlo lei stessa. Era troppo presto per smettere di allattarlo, ma la boccuccia vorace di Balder le faceva male sempre più spesso, così alternava il seno al biberon. Come previsto, Balder si calmò subito e si mise a succhiare con tranquillità, lanciando qualche occhiata al papà.
- Vai a mettere a letto Serena?
Sentendosi presa in causa, la piccola guardò la mamma sgranando gli occhioni scuri. – E zio Achiball?
Thorn si irrigidì impercettibilmente.
- Vuoi che ti metta a letto io o Archibald? – le chiese Thorn con voce atona.
Solo Ofelia, che lo conosceva perfettamente, captò la vena di durezza nel suo tono, l’impercettibile frustrazione che covava sotto la superficie.
Serena, nel suo candore infantile ed ignaro, parve rifletterci. – Tutti e due? – chiese, come se fosse davvero una proposta da valutare.
Thorn la prese in braccio senza tante cerimonie. – No, ti metto a letto io.
- Sì! – esclamò allora la bambina, ugualmente contenta.
Forse era troppo stanca per rendersi conto di cosa effettivamente le avessero chiesto.
Ofelia riuscì ad allattare Balder, fargli fare il ruttino, cullarlo per la stanza mormorandogli paroline di conforto e metterlo a dormire prima di veder tornare Thorn. Adombrato, stanco e scoraggiato, il tutto ben nascosto dietro la solita imperturbabilità. Solo i suoi occhi lampeggiavano di sentimenti repressi, affilati come rasoi.
Ofelia sospirò. In quei casi c’era poco da fare, perché con Thorn parlare funzionava solo fino ad un certo punto. Aveva bisogno di concretezza, di certezze tangibili e calcolabili, così si sfilò in fretta la vestaglia che aveva appena finito di indossare e si strinse al marito, alzandosi sulla punta dei piedi per riuscire a raggiungerlo.
Ovviamente Thorn dovette chinarsi a sua volta, altrimenti Ofelia, per quanto si sforzasse, non sarebbe riuscita ad arrivare al suo volto. Fortunatamente l’iniziale apatia venne vinta nel giro di pochi secondi, e Thorn rispose al bacio con urgenza. Ofelia lo fece sedere sul letto e Thorn l’afferrò con forza, come a voler riversare in quella stretta tutto il suo tormento.
Alla fine giacquero tra le coperte, entrambi proni, con Thorn sdraiato su un’Ofelia semiseduta che gli accarezzava capelli e petto. Thorn stese il lungo braccio per afferrare dal cassetto del comodino la pipa, talmente sicuro di come gestire gli spazi che non dovette nemmeno muovere il corpo o anche solo gli occhi.
Solo quando l’ebbe accesa ed ebbe aspirato tre boccate Ofelia si decise a parlare. Thorn le teneva una mano sulla gamba piegata, come a volerla fermare. Peccato che lei non avesse intenzione di andare da nessuna parte.
- Thorn, i bambini fanno presto ad affezionarsi agli adulti che vedono come punti fissi nella loro vita – esordì.
Lui continuò a fumare, e Ofelia attese pazientemente continuando ad accarezzargli pigramente nuca, collo e petto.
- Thorn… - lo incalzò quando mise giù la pipa.
Lui si girò e la baciò con dolcezza e impazienza, le lunghe gambe ripiegate sotto di sé e le braccia appoggiate al muro dietro di lei. L’aveva fatta sprofondare nell’oscurità. Il suo intento non era chiaramente quello di parlare, la sua bocca era già, di nuovo, sul suo collo. Ofelia dovette farsi forza per mettergli le mani sulle spalle e allontanarlo.
- Thorn, dobbiamo parlare – gli disse, a metà tra una supplica e un ordine.
Lui distolse lo sguardo e strinse la mascella, le sopracciglia increspate e la fronte corrugata, chiaramente in tensione.
- Per favore, poi farò tutto ciò che vuoi, ma prima dimmi cosa…
- Sono rimpiazzabile.
- Cosa? – domandò Ofelia, spiazzata.
- Sono rimpiazzabile – ribatté lui flemmaticamente, come se stesse annunciando che aveva iniziato a piovere.
- Non sei rimpiazzabile, Thorn! Cosa stai…
- Mia figlia preferisce quel cascamorto dell’ambasciatore a suo padre. Ovviamente. Chi al mondo non preferirebbe lui a me? Persino mia zia e mia…
Infervorato, Thorn strinse il pugno e Ofelia vide le nocche sbiancare. Non aveva paura che Thorn la picchiasse, sapeva che non sarebbe mai e poi mai successo; era spaventata perché Thorn non lasciava mai intravedere in modo così palese cosa provava dentro di sé. E tutta quella rabbia era come sempre rivolta a se stesso.
- Thorn, non puoi dire sul serio.
- Probabilmente anche tu preferiresti lui a me, se solo gli dessi…
Ofelia gli afferrò il viso con entrambe le mani, con forza. Ora era lei ad essere arrabbiata. – Non permetterti di dubitare di me solo perché dubiti di te stesso, Thorn. Non ho bisogno di dargli una possibilità per sapere che sceglierei comunque te.
Gli occhi di Thorn la trafissero come lance incandescenti.
- Archibald non è migliore di te in tutto come tu vuoi credere, Thorn. Non mi interessa chi in passato ha accantonato te per lui, siamo qui, ora, e io voglio e vorrò sempre te. E anche Serena. Non vedi quanto tua figlia straveda per te, Thorn? Pende dalle tue labbra. Ti cerca sempre. Sai cosa mi dice quando le chiedo di leggermi un libro? Che non può, perché vuole che ci sia anche tu, perché sei contento quando lei legge. E non mi chiede, quando sei all’intendenza, dove sia Archibald. Mi chiede dov’è papà, e quando torna. Se poi arriva Archibald considera lui, ovvio, ma lo fa anche con Vittoria e Berenilde o Renard e la zia Roseline. Dopo poco però si stufa e torna a giocare o leggere da sola, isolandosi come te. Ma solo quando torni a casa tu accantona completamente quello che sta facendo per stare con te e attirare la tua attenzione. Non dubitare di me e nemmeno di tua figlia. Non farci questo torto.
Thorn distolse lo sguardo, punto sul vivo. Aveva ancora la mascella contratta, ma gli occhi erano inquieti, due piccole lame di luce sotto le palpebre. Ofelia ne approfittò per baciargli la cicatrice sulla tempia, poi la guancia, la mascella e l’angolo della bocca.
- Non voglio che la gelosia distrugga mio marito.
Thorn si accasciò contro il suo petto, svuotato. Ofelia lo cullò teneramente come aveva fatto con Balder, come se tra le braccia avesse un altro neonato e non un uomo adulto, più alto di chiunque altro, spiriti di famiglia a parte, forte e intransigente. Continuò ad accarezzargli quei capelli morbidi, rassicurando sia lui che se stessa.
Non gliel’aveva mai detto, ma adorava spettinarlo e poi rimanere a guardarlo mentre si sistemava le ciocche disordinate con pochi, abili e metodici gesti. Era affascinante…
- Archibald è sempre stato… il pupillo di tutti. Io non voglio essere il beniamino del Polo, non voglio essere in vista come lui, vorrei solo che non mi togliesse l’unica cosa buona che ho avuto nella vita. Voi.
Ofelia sentì gli occhi pizzicarle e gli baciò la nuca. – Non ci toglierà mai da te, Thorn. Il fatto che giri sempre in casa nostra denota quanto in realtà anche lui senta la mancanza di quello che tu invece hai. A me fa un po’ pena.
Thorn si raddrizzò e Ofelia riuscì a vedere una smorfia svanire sul suo viso. – Ce l’ha, una famiglia.
- Non so te, ma io non gliela invidio. E non sono sicura che la sua possa essere definita una vera famiglia, Thorn. Hanno persino reciso il legame che avevano con lui. Archibald è completamente solo. Lasciando che bazzichi qui in casa ti dimostrerai migliore di lui, e oltretutto non gli darai la soddisfazione di mostrare il tuo disappunto. Renderai vani i suoi sforzi per irritarti.
Thorn la guardò per una frazione di secondo prima di girarsi nuovamente.
- Davvero Serena chiede di me?
Ofelia sorrise. – Certo che sì. Sei il suo preferito.
Thorn parve rilassarsi un poco, ma non abbastanza secondo Ofelia.
- Siamo la tua famiglia, Thorn, e siamo abbastanza buoni da permettere anche ad Archibald, seppur in minima parte, di farvi parte. Siamo migliori.
Per quanto fosse palesemente in disaccordo, Thorn parve accettare la cosa. Le rassicurazioni verbali di Ofelia avevano sortito il loro effetto. Dopo quelle fisiche.
Poi Thorn si schiarì la voce e la punta delle sue orecchie prese fuoco. Ofelia avrebbe voluto ridere di fronte a quel suo palese disagio.
- Avevi detto che poi avresti fatto tutto ciò che io avessi voluto, giusto?
Il solo fatto che ponesse la questione come se non ne fosse sicuro, lui che ovviamente ricordava a memoria anche le conversazioni di tre anni prima, fece capire ad Ofelia quanto fosse in imbarazzo. Sorridendo ancora, in modo però più accattivante, o così sperò dato che non era mai stata brava in quelle cose, baciò Thorn in fronte. Poi sul naso, sulle labbra, ritraendosi prima che lui potesse approfondire il contatto, sul mento, sul pomo d’Adamo, un contatto lieve che lo fece ugualmente sussultare, e ancora sul petto. E giù, e giù. E giù.
Quando strinse a sé Ofelia, prima di addormentarsi, Thorn si ritrovò a provare pena per Archibald: non aveva la pelle morbida e calda della donna che amava incollata alla sua, né il profumo dei suoi capelli sul cuscino, così come non sentiva il respiro del suo bambino riempire il silenzio della stanza.
E non aveva quell’amore che Ofelia non si stancava mai di dargli, in qualsiasi forma.
Poi l’empatia svanì e Thorn si rese conto che probabilmente era ancora a casa sua a gozzovigliare. Strinse Ofelia più forte contro di sé, come a volerla proteggere.
Forse, se avesse visto come Archibald era stravaccato sul suo divano, con la bottiglia mezza vuota di liquore ancora in mano, palesemente infelice, si sarebbe sentito anche meschino per la gelosia che aveva provato.
E forse avrebbe capito perché Ofelia lo compativa e gli offriva una famiglia che lui, per qualche motivo, non poteva o non voleva avere.
Archibald era più solo di quanto lo fosse mai stato lui.
 
Ofelia capì che era giunto il momento di portare i figli su Anima quando, un pomeriggio, entrò nella biblioteca di casa dove Thorn aveva il proprio studio. Era quasi ora di cena e lei era andata ad avvisarlo, e distrarlo un po’ dato che non si concedeva una pausa neanche quando il suo corpo cominciava a scricchiolare.
In braccio a lei, Balder si ciucciava le dita e mordeva pure le sue, cercando di alleviare il fastidio alle gengive per via della nascita dei dentini. Ormai il piccolo aveva un anno, era più che in grado di affrontare un viaggio.
Appena si accorse del padre, Balder allungò le braccia mugugnando, aprendo i piccoli pugni e chiudendoli ritmicamente. Ofelia sospirò e Thorn la guardò con la coda dell'occhio. Se ne stava tutto ingobbito sulla scrivania e sembrava più che mai sconnesso dal suo corpo. Serena, infatti, era seduta a cavalcioni della sua gamba destra, e "lavorava" come il papà, cioè sfogliava un libriccino di favole e lo leggeva a Thorn. Lui, invece, era tutto piegato verso sinistra, per poter lavorare senza rischiare di schiacciare la bambina contro la scrivania. Il risultato era che gambe e busto di Thorn sembravano parti di due corpi diversi.
Thorn allungò le braccia per prendere Balder proprio quando Serena sbagliò la pronuncia di una parola. Non fece in tempo a concluderla che già Thorn l'aveva corretta. Serena annuì e la rilesse con attenzione, continuando poi imperterrita con le frasi. Non sapeva ancora esprimersi con una perfetta proprietà di linguaggio, com'era normale a quattro anni, ma già sapeva leggere e recitare un libro a memoria dopo una singola lettura.
- Fra qualche tempo, quando avrà imparato a leggere davvero bene, le basterà guardare la pagina per saperla riferire interamente - le aveva rivelato Thorn la prima volta che Serena aveva letto loro qualcosa, esternando parte del potenziale che le apparteneva in quanto Storiografa.
Ofelia si era sentita orgogliosa in quel momento: la sua, la loro bambina cresceva sana e forte, e anche bella, educata, intelligente e capace. Si rendeva conto di non essere molto obiettiva, come ogni madre, ma Serena era una spanna sopra gli altri bambini, compresa lei alla sua età. Sicuramente gli insegnamenti di Renard, che era il principale responsabile della sua abilità di lettura precoce, dato che il consigliere la usava per impratichirsi nell'insegnamento, contribuivano a renderla più consapevole degli altri, ma Ofelia sapeva che quella maturità così insolita a quattro anni dipendeva anche dal retaggio di Thorn, dalla sua infanzia spiacevole. Serena non ne aveva ereditato i ricordi o le emozioni provate, fortunatamente, ed era una bambina sorridente e buona che voleva bene a tutti, però da Thorn aveva preso anche la seriosità, la compostezza, come se la sua rigidità l'avesse influenzata. Finché non fosse stata scostante e refrattaria, comunque, non c'era motivo di preoccuparsi.
Ofelia sorrise guardando il terzetto seduto dietro la scrivania. Serena continuava a leggere, imperturbabile, Balder ora mordeva le dita ossute di Thorn, che si lasciava riempire la mano di bava senza fiatare mentre teneva il figlio stretto a sé affinché non cadesse, e con il braccio libero continuava a scrivere, accartocciato scompostamente sul tavolo per non mettere in disordine nulla e al tempo stesso tenere fogli e calamaio lontani dai piccoli.
Aveva una ruga di tensione talmente profonda sulla fronte che Ofelia non poté evitare di scoppiare a ridere, attirandosi un'occhiata breve e infastidita da parte del marito.
- Hai bisogno di qualcosa? - le chiese laconicamente, cercando di finire di scrivere quella che aveva tutta l'aria di essere una relazione di un centinaio di pagine.
- No, volevamo solo dirti che tra poco si cena. Dovresti fare una pausa - lo incoraggiò Ofelia, ancora divertita e intenerita dalla scena.
Il braccio di Thorn corse a trattenere Serena che stava scivolando giù dalla gamba, raddrizzandola nuovamente. La bambina non si era quasi accorta di nulla, compresa la presenza della madre. Thorn invece la guardò come se quello che aveva detto non avesse senso.
Ofelia sospirò. - Balder, dì a papà che è pronta la pappa.
- Pappà! - esclamò lui, con una bella scia di bava sul mento, rendendo impossibile capire se avesse chiamato il padre o incoraggiato la cena.
- Devo finire questo report - mormorò lui, rimettendosi al lavoro.
Serena si interruppe bruscamente, attirandosi un'occhiata da parte di entrambi i genitori. - Qui è chitto che Odino aveva venti...ventiuno fatelli e soelle. Anche io vuole ventité fatelli. Femmine!
Ofelia cercò di non scoppiare a ridere per non offendere la figlia, e usò la scusa di pulirsi gli occhiali per tirarsi i capelli di fronte al viso e nascondere il sorriso. Thorn invece sembrava impallidito, più del solito, alla prospettiva di avere altri ventitré figli.
Fu Ofelia, ovviamente, a risponderle. Ma che razza di libro stava leggendo, oltretutto?
- Serena, ventitré sono troppi. Poi non potremmo più giocare con te e Balder.
La bambina parve rivalutare la sua richiesta.
- Me ne compi un alto, peò! Un fatello femmina. Lo compiamo!
Thorn aveva un'aria esasperatamente scettica di fronte a quei discorsi infantili. - I bambini non si comprano. E i fratelli femmine si chiamano sorelle. Tu sei la sorella di Balder.
- Io soella! - concordò Serena, corrucciata. - Ma non ha compato Badde?
Ofelia questa volta non riuscì a trattenersi e ridacchiò. - No Serena, non lo abbiamo comprato, e non abbiamo comprato nemmeno te. Balder era nella mia pancia, ricordi?
Serena parve rifletterci. Poi mise giù il libro e spalancò le braccia. - Pancia goooossa! Badde ela lì?
Thorn aveva le sopracciglia corrugate al punto che Ofelia era certa che gli si sarebbero incastrate le palpebre, o una cosa simile. - Sì, era qui, poi è nato e quindi è uscito. Anche tu eri qui prima di nascere - spiegò pazientemente Ofelia, toccandosi la pancia.
- Ofelia... - l'ammonì Thorn, temendo che la conversazione prendesse una brutta piega.
In effetti erano discorsi troppo seri per la bambina, ma Ofelia proprio non riusciva a tollerare l'idea che Serena andasse in giro a dire che voleva comprare un fratello o una sorella. Che dicesse qualsiasi altra cosa, ma non quella.
- Anche io ho un bimbo qui? - domandò poi Serena, toccando la sua, di pancia. Piatta come quella del papà, per giunta, senza quasi più rotolini di ciccia sparsi per il corpo. Ofelia temeva il momento in cui le sue guance pacioccone avrebbero perso lo strato superfluo di morbidezza.
Scacciò il pensiero ridendo un'altra volta, avvicinandosi per prendere in braccio la bambina e riempirla di baci sul visetto paffuto. Intanto poteva baciarsela come voleva, al resto avrebbe pensato dopo. Serena però non parve apprezzare troppo, perché allontanò il viso della mamma con espressione arcigna quasi quanto quella del padre. Sì, davvero troppo simili erano...
Un braccio di Thorn scattò ad afferrare la vita di Ofelia, che si ritrovò seduta sulla sua gamba dove fino a poco prima era appollaiata la figlia.
- Mamma, anche io ho un fatellino qui? - la incalzò ancora Serena, toccandosi la pancia.
- No, Serena, sei troppo piccola.
Thorn borbottò qualcosa di indistinguibile mentre si sistemava meglio Balder tra le braccia, asciugando la bava con delle salviette che aveva sempre a portata di mano. Ofelia ammirava moltissimo l’impassibilità di Thorn quando si puliva da qualsiasi sostanza Balder avesse secreto. Era molto più composto di lei.
- Come ci enta un fatellino qui? - domandò ancora Serena, la cui curiosità invece apparteneva decisamente ad Ofelia, toccando questa volta la pancia della mamma.
- Ecco, lo sapevo... - bofonchiò nuovamente Thorn, lanciandole un'occhiata torva.
Ma Ofelia era brava a svicolare quanto lui, e gli restituì uno sguardo di sfida. Intercettò uno dei tanti dadi di Thorn, nascosti nei cassetti e nei cappotti per la maggior parte, ma che ogni tanto affioravano anche tra le carte perfettamente impilate sulla scrivania.
Lo agguantò e si sistemò meglio Serena sulle gambe. - Lo facciamo girare, Serena?
- Sì! - esclamò la bambina battendo le mani. - Guadda Badde, guadda! - invitò poi il fratellino, che sentendosi chiamare la osservò e si aprì in un sorriso adorante.
Ofelia allora sfruttò il dado per distrarre Serena. Si concentrò su di esso, infondendogli la propria volontà di animarlo, e lo prese tra le dita. Gli diede poi la spinta per farlo roteare come una trottola e il dado rimase perfettamente in equilibrio mentre girava su se stesso più di quanto avrebbe potuto fare un normalissimo dado.
Balder ne fu totalmente ipnotizzato, con tanto di boccuccia aperta da cui colava un filo di saliva. Thorn gliela asciugò di nuovo meccanicamente, senza nemmeno farci caso, anche lui preso dal suo dado. Aveva le sopracciglia increspate, ma in qualche modo Ofelia riuscì a scorgere dell'ammirazione nel suo sguardo, cosa che la inorgoglì. Thorn era parco di complimenti quasi quanto di sorrisi, non si aspettava di certo una lode o una frase che esprimesse stupore, ma a lei bastava la sua occhiata rapita. Serena invece era più estroversa, e batteva le mani emettendo versi di stupore.
- Anche io! - esclamò dopo un po' agguantando il dado.
Lo fece girare come aveva visto fare ad Ofelia, ma non fu una trottola molto efficace e non roteò a lungo. Anzi, quasi non roteò. Accigliata, così tanto che Ofelia intravide in tutto e per tutto Thorn nei suoi tratti, Serena ci riprovò con lo stesso risultato scadente.
- Peché io non può? - chiese, delusa.
- Perché la mamma è un'animista - le spiegò Thorn, come se quella spiegazione fosse comprensibile ad una bambina. - Tu hai una buona memoria, la mamma fa diventare gli oggetti... vivi.
Thorn non precisò quali fossero i suoi poteri, né quale altro potere avesse Ofelia, forse per rendere il concetto il più comprensibile possibile alla figlia. La cosa colpì Ofelia, perché denotava un'attenzione particolare da parte di Thorn, che non attendeva nessuno e si aspettava che gli altri capissero cosa voleva dire a priori. Più di una volta Ofelia aveva provato compassione pensando all'infausto compito che spettava al suo segretario. Invece con Serena si sforzava di andare oltre le sue abitudini, per metterla nella condizione di comprendere al meglio.
Infatti la bambina annuì con aria solenne, consapevole. - Anche io fa giale dado - si smentì poi, mostrando come il discorso fosse troppo complicato per una bambina di appena quattro anni.
Ofelia le sorrise: - Se me lo dai, te lo faccio girare io.
- No - si accanì la bimba stringendo il dado nel pugno, con un cipiglio determinato che fece intuire ad Ofelia quanto caratterialmente forte fosse Serena.
Non capricciosa, ma determinata. Era un mostruoso connubio di lei e Thorn. Era conscia che il marito non fosse l'unico responsabile del suo carattere deciso, ma prima di quel momento non si era mai resa conto di come gli altri potessero aver percepito il suo desiderio di autonomia. Solo il prozio aveva riconosciuto che la volontà di suo marito si sarebbe infranta contro la sua, e pensare a quella frase ancora la faceva sorridere per la sua verità profetica. Thorn era fin troppo arrendevole con lei, ed era certa che anche Serena avrebbe avuto le sue vittorie contro le posizioni altrui.
Si sentì orgogliosa e anche impaurita, perché capì di dover guidare Serena affinché quella determinazione diventasse una virtù e non un atteggiamento dispotico. Buona com'era, però, era sicura che sua figlia avrebbe ottenuto ancora più successi di lei. E toccava ad Ofelia porsi in modo da essere compresa e non forzarla, perché il loro rapporto non diventasse come quello che avevano lei e sua mamma. Serena doveva crescere con la certezza di essere accettata per quella che era, di potersi esprimere senza timore, e lei e Thorn l'avrebbero rassicurata in tal senso.
Strappandola alle sue riflessioni, Serena le picchiettò il braccio che Ofelia le teneva in vita, attirando la sua attenzione.
- Guadda, mamma. Salta!
Ofelia non capì a cosa Serena si riferisse finché lei non le mise la mano aperta sotto il viso. Il dado di Thorn stava saltellando sulla mano della bambina, estremamente gioioso. Serena rise e, girandosi verso Thorn, Ofelia giurò di aver visto persino la sua espressione addolcirsi di fronte al giubilo della figlia.
- Brava, tesoro - la lodò Ofelia baciandole la nuca.
Non si era resa conto di quanto fosse inebriante passare qualcosa di sé agli altri finché non aveva avuto Serena. Il modo in cui i figli rispecchiavano questa caratteristica del padre o quella qualità della madre era emozionante. Serena e Balder erano il frutto dell'amore suo e di Thorn, e crescendo avrebbero dimostrato in centinaia di modi diversi cosa avessero preso e da chi, non solo fisicamente.
Orgogliosa di sé, Serena prese il dado tra le dita e lo lanciò come aveva fatto la mamma, facendolo roteare perpetuamente. La bambina era talmente felice che il dado prese a saltellare e capovolgersi in giro per tutta la scrivania, facendo incrociare gli occhi a Thorn. Balder invece rideva al culmine della gioia, divertito da quell'allegra confusione. Poi allungò il braccio grassoccio e aprì e chiuse il pugno, facendosi intendere anche senza parole: voleva il dado.
Serena glielo mise sul palmo prima che Ofelia potesse bloccarla, ma vide con sollievo che Thorn era già pronto per fermarlo nel caso in cui se lo fosse infilato in bocca. Invece Balder lo guardò sorridendo e poi lo lanciò sul tavolo, dove il dado ricominciò a saltellare frenetico.
- Brava, Serena! Hai visto? Gli hai insufflato il tuo animismo e ora è come se il dado avesse vita propria.
Serena non aveva capito proprio tutto quello che la mamma le aveva detto, ma il succo lo aveva recepito e, tronfia e orgogliosa, guardava il dado impazzito come se fosse un trofeo.
L’unico a non sembrarne molto convinto era Thorn. Prese infatti il dado in mano e, quasi fosse spaventato, questo rimase immobile. Inanimato.
Ofelia era perplessa e guardava Thorn in cerca di spiegazioni circa il suo comportamento.
- In base alle mie osservazioni e deduzioni, quando si anima un oggetto questo rimane… attivo, se così si può dire, solo quando l’animista lo stimola, e reagisce in base ai suoi stati d’animo.
- Sì – confermò Ofelia, che non capiva dove volesse andare a parare.
Thorn parve rifletterci ancora, con la fronte aggrottata e le sopracciglia socchiuse. Balder ne approfittò per rubargli il dado di mano e scagliarlo di nuovo sulla scrivania, dove cominciò a muoversi convulsamente. Eppure sembrava quasi stanco, privo di energie.
- Certi oggetti però possono rimanere animati perpetuamente. Come la tua sciarpa.
- Esatto – assentì Ofelia accarezzandosi la sciarpa in questione, che si mosse languidamente. – La mia sciarpa è stata il mio primo golem. Ciò significa che sono stata io stesso ad instillarle l’animismo in modo continuativo mentre la cucivo, maglia dopo maglia. Solo gli oggetti a noi più cari possono prendere vita davvero, il resto, come le posate in un momento di particolare stress, o il dado di oggi, si animano momentaneamente quando l’animista è preda di emozioni particolarmente forti. Ci mettono poco tempo a perdere la loro energia e tornare inanimati.
Thorn fece un piccolo cenno con il capo. – Difatti, quando ho preso in mano il dado questo si è quietato. Se fosse stato un… golem, come la tua sciarpa, sarebbe rimasto vivo anche sul mio palmo.
- Non capisco il tuo ragionamento, Thorn – ammise alla fine Ofelia, confusa.
Serena riprese il dado e lo fece saltellare per tutta la scrivania, giocoso e vitale. In risposta al commento della moglie, Thorn riprese il dado, che si fermò nuovamente in mano sua. Poi lo diede a Balder, che sorrise allegramente e lo lanciò di nuovo via. Sul ripiano di legno, il dado ricominciò a gironzolare.
Ofelia aprì la bocca, sconvolta. Se Serena era l’animista in grado di animare quel dado, era normale che il piccolo cubo si fermasse una volta entrato in contatto con un non animista. Non era normale che si riattivasse in mano a Balder. Ofelia si chinò appena per prendere da un cassetto della scrivania altri due dadi. Era ben conscia della collezione che suo marito custodiva gelosamente nei vari anfratti delle sue scrivanie. Un’ossessione, più che una collezione. Thorn non fece una piega quando vide i suoi dadi passare da Ofelia ai figli; o quanto meno, se era contrariato, non lo diede a vedere.
- Serena, lancia il dado – la incoraggiò Ofelia.
La bambina, obbedendo senza fiatare, fece roteare il dado come una trottola. Non si fermò, chiaramente contagiato dall’animismo. Senza nemmeno aspettare l’ordine, Balder rise e lanciò il dado goffamente. Il suo non si mise a girare, ma a saltare agitandosi allegramente.
- Hanno entrambi l’animismo… - mormorò Ofelia, esterrefatta.
Non era insolito che, verso i quattro anni, si verificasse quel fenomeno per i piccoli animisti. Erano per lo più eventi sporadici e occasionali, che con il tempo diventavano sempre più frequenti e intensi. I genitori o i fratelli, a quel punto, insegnavano al più piccolo come controllarlo e usarlo. Era stato il suo prozio a mostrarle come agiva l’animismo, ed era stata lei ad insegnare alle gemelle ad animare i propri giocattoli.
Quello di Balder poteva anche essere un evento occasionale, ma era decisamente precoce, secondo tutti i canoni.
Ofelia si chinò su di lui sorridendo con orgoglio, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia paffuta. – Sarai in grado di smuovere una casa tu, se sei così capace già adesso.
Thorn si mosse leggermente, a disagio di fronte a quell’idea. – Credo che sia abbastanza avere due animiste adulte a casa, di cui una particolarmente nevrotica che non fa altro che aizzare le posate e indispettire tappeti e cuscini, e l’altra che fa tremare le coperte.
Ofelia sorrise ancora di più, troppo felice per farsi smontare dal poco entusiasmo di Thorn. – Ma a te piace quando le lenzuola tremano.
Thorn stava per ribattere che gli piaceva più che altro quello che le faceva per indurla ad animare le coperte, ma un’occhiata a Serena, ricettiva come un’antenna, gli rammentò che la figlia era dotata della sua memoria e di certo non voleva che ricordasse a vita un commento tanto triviale.
Non era da lui.
Distolse lo sguardo perché Ofelia non capisse cosa aveva pensato. Fortunatamente, lei non ci fece caso.
- Anche io è capace, mamma! – esclamò Serena, distogliendola dai suoi pensieri.
- Certo che sei capace, tesoro. Ma per diventare ancora più capace andremo a trovare i miei parenti su Anima, così imparerai cosa vuol dire essere animista e vedrai come si fa.
- Cos’è animista?
- Tu. E io. E Balder. Diamo vita agli oggetti. Come la mia sciarpa. Le altre sciarpe non si muovono, vero?
La sciarpa in risposta fece il solletico alla piccola, che ridacchiò.
- Papà no?
- Papà no. Il papà è nato qui, al Polo, io sono nata su Anima.
Serena aggrottò le sopracciglia come Thorn, cosa che fece ridere Ofelia e corrucciare lui, contrariato. Si sentiva preso in giro quando commentavano il fatto che Serena avesse la sua stessa espressione. Ne era segretamente contento, ma non l’avrebbe mai ammesso nemmeno a se stesso.
- Cosa sono quette cose? Papà è divesso?
- In un certo senso sì… - mormorò Ofelia, che non sapeva come spiegare quei concetti a Serena. Era troppo piccola per capirli? Poteva memorizzare tutto, ma memorizzare e comprendere erano cose distinti, ed era fin troppo facile imparare a memoria senza assimilare il concetto di base. – Ma siamo tutti diversi…
Thorn del Polo era diverso da Ofelia di Anima sotto molti aspetti, non per ultimo quello relativo ai poteri familiari, ma Serena e Balder erano ancora più diversi dato che avevano mischiate in loro tutte le caratteristiche dei genitori.
Serena non appariva molto convinta.
Thorn si chinò su Ofelia e Serena, facendole sprofondare nella penombra. Era magro, ma decisamente imponente. – Prossimamente ti insegnerò la geografia, d’accordo Serena?
 Serena batté le mani. – Geogafia! Bello!
Poi si bloccò, e il dado che ancora roteava per i fatti suoi si immobilizzò, in equilibrio su un angolo. – Cos’è gigafia?
Sulla porta apparve Renard, che negli occhi aveva una luce non meno intensa del colore dei suoi capelli. Gaela lo tallonava a breve distanza, il volto una maschera di severità in netto contrasto con la gioia del marito.
- Scusate l’irruzione, ma volevo comunicarvi senza altri indugi che io e la mia signora siamo in dolce attesa! – esclamò senza preamboli, piantandosi nel mezzo della stanza con il fiato corto e gli occhi lucidi.
Non sembrava minimamente sconvolto dall’ammucchiata di corpi dietro alla scrivania, tutti in braccio all’intendente.
Gaela gli diede una gomitata che lo fece sorridere ancora di più. – Io sono in dolce attesa, non tu. E non chiamarla dolce, mi sono già rotta di dover aspettare.
- Ma, mia adorata, si dice così. In tutte le arche. Giusto, ragaz… padrona? – domandò Renard, aggiustando il tiro all’ultimo.
Ofelia glissò sull’appellativo padrona, che detestava. – Sì, anche su Anima si parla di dolce attesa quando una donna è incinta. Congratulazioni vivissime, il vostro attestato da insegnante vi sarà ancora più utile ora, Renold.
Ofelia avrebbe voluto abbracciarlo e partecipare con più calore alla bella notizia, ma la possessiva mano di Thorn era ancora ferma sulla sua vita, un chiaro invito a non muoversi da lì.
- Congratulazioni – disse infatti Thorn, come se stesse salutando prima di uscire, o chiedendo la firma su una pratica, o comunicando il meteo.
Ofelia gli batté le dita, di nascosto, sulla stessa mano ferma sulla sua vita, per incoraggiarlo ad essere un po’ meno… Thorn.
Si schiarì la voce, facendo uno sforzo evidente. – Sarà… nuovo, avere un altro bambino per casa.
Ofelia avrebbe voluto scuotere la testa, ma Renard era così contento che non parve fare nemmeno caso alle felicitazioni di Thorn.
Gaela invece grugnì. – Andiamo, Renard, preparami del gelato.
- Hai già le voglie, mia cara? Preparerò tutto quello che vuoi, basta solo che tu me lo dica. E dovresti anche smettere di andare…
- Non se ne parla, io lavorerò finché il marmocchio non deciderà che vuole uscirsene. Se proprio ci tieni potrai farmi da assistente, ma non pensare di avanzare qualche pretesa su…
- Serena, perché non vai anche tu ad aiutare Renard a preparare il gelato? – li interruppe Ofelia, parlando a sua figlia ad alta voce.
Le venne in mente in un lampo di quando aveva conosciuto Thorn. Aveva una voce talmente sottile, all’epoca, che sarebbe stato impossibile pensare di poter parlare in quel modo, zittendo addirittura qualcuno. Ma a mali estremi… di sicuro non era il caso che Serena, con la sua memoria assorbente come una spugna, ascoltasse i battibecchi di quei due. Avrebbe anche voluto aggiungere che era presto per le voglie, ma non avrebbe mai contraddetto Gaela. E aveva il sospetto che Renard l’avrebbe accontentata a prescindere, quindi…
- Ma certo! Venite, deliziosa fanciulla, andiamo a preparare il gelato! Lo mangeremo dopo cena. Avrete presto un nuovo amichetto in giro per casa, sapete? Vi divertirete proprio tan…
La voce di Renard si spense mentre l’omone, tutto ingobbito per riuscire a tenere Serena per mano, si allontanava nel corridoio. Ofelia presentiva che avrebbe parlato per tutta la serata. Gaela invece se ne stava ancora in mezzo al tappeto. Ofelia non pensava che avrebbe mai usato quel termine per definire l’amica, ma Gaela sembrava… a disagio.
- Sono davvero contenta per voi – aggiunse allora, rompendo il silenzio. – Sarete degli ottimi genitori.
Gaela annuì, e Ofelia riuscì ad intravedere per un attimo sia paura che gioia nel suo sguardo, prima che mascherasse nuovamente le sue emozioni. – Grazie. Posso prendere Balder per fare un po’ di pratica? Gli do il biberon.
Sorpresa da quella richiesta, Ofelia non riuscì nemmeno a risponderle. Fu Thorn ad anticiparla, allungando le braccia per passare Balder a Gaela. – Se avete bisogno di aiuto in cucina trovate la levatrice, lei sa come fare. Fategli fare il ruttino dopo averlo nutrito.
Gaela annuì seriamente e se ne andò, scrutando Balder come se avesse nascoste sul volto le risposte a tutte le sue domande inespresse.
- Come mai hai…? – cominciò a chiedere Ofelia quando furono rimasti soli, prima di essere interrotta dalla bocca di Thorn sul collo.
La mano che le teneva sul fianco si era allungata, e il marito l’aveva tirata ancor più verso di sé, abbracciandole tutta la vita con il braccio.
- A chi piace di più quando le coperte tremano? – le alitò sul collo, facendola rabbrividire.
Ofelia si agitò al punto che uno dei dadi, che erano rimasti congelati finché Serena non se n’era andata, e poi erano caduti, palesemente inanimati, riprese a muoversi a scatti.
- A te – rispose Ofelia, che involontariamente riprese a far muovere anche un altro dado.
Thorn sbuffò contro la sua pelle, e solo quando lo sentì tremare leggermente Ofelia si rese conto che stava ridacchiando. Thorn, che ridacchiava. Se non fosse stata attenta o se non l’avesse conosciuto bene come solo lei poteva conoscerlo, non se ne sarebbe nemmeno accorta.
- L’evidenza indica te, non me – replicò lui, mentre la sua mano si faceva audace e saliva verso l’alto.
Ofelia mormorò qualcosa di incomprensibile, non abbastanza concentrata per poter sostenere una discussione con il marito. Si girò con il busto per distogliere la sua bocca dal suo collo e convincerla invece a indirizzarsi verso le sue labbra, quando nel corridoio risuonò il richiamo della zia Roseline.
Ofelia fu lesta ad alzarsi, lisciandosi il vestito che fortunatamente non era stropicciato. Thorn non aveva avuto modo di metterla in disordine… non ancora, almeno. Mise due passi di distanza tra loro, implorando gli occhiali di schiarirsi e ottenendo l’effetto contrario. Maledetto animismo…
- Zia Roseline, siamo qui! – la chiamò Ofelia quando la sentì mormorare qualche invettiva circa il numero spropositato di stanze.
- Su Anima hai diviso la camera prima con tua sorella e poi con Hector, invece qui avresti una stanza apposita anche per gli animali da compagnia. Bah, chi lo capisce come gira il mondo.
- Di cosa hai bisogno, zia?
- Balder e Serena hanno manifestato il loro animismo, a quanto ho capito.
Certo che le notizie circolavano più in fretta che ad una festa di Anima, in quella casa con più camere del necessario. E sì che la maggior parte era vuota…
- Credo che dovremmo portarli su Anima – continuò la zia senza attendere una conferma da parte di Ofelia. – Lo sai che se lo esercitano in modo inconscio rischiano di combinare danni. Come il prozio Bernardo, te lo ricordi? Era mezzo matto e quando gli è morta la moglie ha fatto saltellare ovunque la bara sigillata. Si sono presi tutti un tale spavento! Hanno anche riaperto la bara, pensando che la poveretta fosse tornata in vita. Be’, se lo fosse stata, di certo dopo aver sbattuto il capo contro il legno per tutte quelle volte non c’erano dubbi circa il fatto che fosse morta. Oppure quando Iolanda, la sorella del cognato dello zio Vincenzo, ha mandato a fuoco la casa perché nessuno le ha insegnato a controllarlo. E sì che lo sapevano che era una mezza piromane. E ti ricor…
- Credo di aver capito, zia, grazie – la interruppe Ofelia, resasi conto di come Thorn lanciava occhiate assassine al camino. – Siamo d’accordo circa il fatto che sia necessario andare su Anima, ma Balder è ancora piccolo per poterlo dominare.
- In effetti è inusitato che un bimbo così piccolo lo sappia già esercitare. Di sicuro mio zio saprà come trattarlo, nel suo museo ha tante di quelle cianfrusaglie che secondo me si dimentica persino a cosa servano.
Ofelia non poté evitare di sorridere. – Intendo il prozio?
- Sì, sì, certo, il tuo prozio, e chi se no? Quel vecchio potrebbe diventare un pezzo stesso del suo museo. Ci morirà, lì dentro.
Quanta voglia aveva di rivederlo… - Sono certa che ci sarà di grande aiuto. Se vuoi scrivere a mia madre che arriveremo quanto prima hai carta bianca, da domani cominceremo ad organizzare il viaggio.
- Va bene, va bene, vado a scrivere e avvertire chi di dovere. Ah, quanto indispensabile sono qui, altro che su Anima, con quell’ingrata di mia sorella che…
I rimbrotti della zia Roseline, rivolti a tutti e nessuno in particolare, si persero nel corridoio.
- Da domani cominciamo ad organizzare il viaggio? – le chiese Thorn, facendola tornare con i piedi per terra.
Il sorriso di Ofelia si spense. – Eravamo d’accordo, no? Abbiamo aspettato abbastanza, ormai Serena ha più di quattro anni e Balder poco di più di uno, saranno sicuramente in grado di affrontare questo viaggio.
Thorn annuì seccamente. – Il periodo però non è dei migliori. Ho alcune ispezioni che…
- Thorn, me l’avevi promesso – lo interruppe Ofelia, che cominciava a disperare. Non si era resa conto di quanto le mancassero i suoi parenti finché non avevano tirato fuori l’argomento. – Avevi detto che ti sar…
- So cosa ho detto. Non dimentico mai nulla – aggiunse come suo solito, come se invece gli altri potessero scordarlo. – Sto solo dicendo che, se vuoi che vi raggiunga, bisognerà aspettare due mesi. Se vuoi che venga anche io – ribadì.
- Certo che voglio che venga anche tu. Posso aspettare anche tre mesi, l’importante è che mi permetti di partire per almeno quattro settimane.
Thorn le scoccò un’occhiata tagliente. – Non ti ho mai trattenuta, e lo sai. Per quanto mi riguarda puoi anche prendere e partire domani, non ti tratterrei mai dove non vorresti stare.
Ofelia sospirò. – Non voglio andarmene domani, e non voglio andarmene definitivamente. Non voglio nemmeno andarmene senza di te. Non essere ingiusto. Lascio fare tutto a te, organizza come meglio credi e quando ti è più comodo, l’importante è che il viaggio di ritorno lo facciamo insieme.
Thorn fece un minuscolo cenno con il capo, assentendo. L’ilarità di poco prima era completamente svanita dal suo volto. Ofelia se ne dispiacque. Così si chinò su di lui, quasi senza pensare. O meglio, si avvicinò a lui, perché quando era seduto arrivavano a malapena alla stessa altezza, e se lei si fosse chinata in realtà avrebbe parlato al suo torso.
Gli depositò un casto bacio sulle labbra, ma quando lui si mosse per approfondire il contatto lei si ritrasse, sorridendogli maliziosamente. – Non metterci troppo. Ti aspetto in camera prima di cena, se vuoi, visto che i bambini con Renard.
Thorn aveva gli occhi che ardevano di irritazione e desiderio quando lei si allontanò, lasciandolo piantato nel suo studio da solo.
- Stai attenta a non agitare troppo le coperte da sola mentre aspetti che io arrivi.
Ofelia scoppiò a ridere, e continuò a farlo lungo tutto il percorso fino a camera sua, attirandosi un’occhiata perplessa da parte di una domestica. Non era la battuta in sé a farla ridere, quanto il maldestro tentativo di Thorn di fare dell’umorismo. In ogni caso, non poteva ignorare il significato implicito di quelle parole, e quando diede un’occhiata al letto vide che i lembi delle lenzuola già ondeggiavano sotto il soffio di un vento invisibile.
Decise di andare in cucina dagli altri, onde evitare che al rientro di Thorn le lenzuola si avvinghiassero autonomamente alle sue caviglie vanificando i suoi tentativi di apparire indifferente.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Che vergognaaaaa non posto da quasi un mese! Scusatemi! Che pessima che sono ç.ç Scusatemi tantissimissimo.
Cercherò di rimediare, davvero.
Un grazie a Sofy_m, in ritardo, per avermi fatto venire in mente la scena che ho descritto in questo capitolo. Se non te la ricordi neanche dopo aver letto te la rammento io xD
Di recente ho riflettuto anche sulla lunghezza di questa ff, perché sono al capitolo 27, ho scritto 200 pagine e ancora credo di non essere nemmeno a metà... o forse un po' più della metà. Non lo so. In ogni caso, spero che non vi prendiate paura e non vi stanchiate. Ci tengo davvero tanto a questa long e ho tante cose ancora da scrivere e colpi di scena da buttare in piazza.
Mi auguro che vogliate continuare a seguirla♥


Capitolo 27

I preparativi iniziarono quasi subito. In realtà non richiesero molto tempo, ma la partenza non sarebbe stata immediata a causa della stagione polare pessima per viaggiare in aeronave.
Un pomeriggio in cui Ofelia stava preparano le valigie Serena le si avvicinò, impaziente di rendersi utile. Le allungò il suo pellicciotto preferito. – Potta questo mamma!
Ofelia scosse la testa. – Tesoro, su Anima non servirà avere un cappottino così pesante. Lì fa più caldo di qua.
In quel momento entrò in camera Renard, che se ne stava tutto curvo e teneva per le manine Balder. Lo stavano aiutando a camminare tenendolo sempre affinché non cadesse, e il piccolo passava intere giornate a caracollare per casa divertendosi un mondo. Per lo più lo portavano a spasso Renard, Ofelia e Serena, perché Thorn di giorno lavorava, all’intendenza o a casa, e la sera Balder era troppo stanco per scorrazzare in giro. Ogni tanto Serena si dimenticava che il fratellino non poteva camminare da solo, e lo mollava per correre incontro a qualcuno. Ofelia attribuiva quegli episodi alla distrazione della figlia più che ad una vera e propria dimenticanza: Serena aveva la memoria di Thorn, non si sarebbe dimenticata nemmeno i particolari più insignificanti della sua vita. Comunque, se Balder era fortunato cadeva sul sedere imbottito di panni e si dava al gattonamento, se era più sfortunato cadeva di faccia. Ofelia lo aveva visto più volte rimettersi a sedere con impaccio, guardarsi intorno spaesato e poi sorridere e riprendere a gattonare come se nulla fosse.
Non si poteva dire che avesse una soglia di sopportazione del dolore bassa, tanto più quando gli spuntavano in fronte dei lividi nerastri senza che lui versasse una lacrima.
Anche se non aveva la memoria di Serena riusciva lo stesso a trovare la via per la sua stanza preferita: lo studio del papà. Ofelia aveva perso il conto delle volte in cui Serena lo aveva abbandonato a sé stesso e lui, gattonando, si era fatto strada fino a Thorn. Quando lui era a casa, Ofelia li trovava assorti nella contemplazione dei libri contabili, con Balder quasi più corrucciato e concentrato del padre. Se invece Thorn era all’intendenza, lo beccava seduto in mezzo alla stanza, spaesato. Allungava le manine verso di lei e si lamentava: - Papà!
Ad Ofelia toccava sempre il cuore vedere quanto amore incondizionato i bambini nutrissero per Thorn. Da parte di quest’ultimo, l’affetto nei confronti dei figli non era mai dimostrato platealmente, ma i gesti di Thorn non lasciavano spazio ai dubbi. Aveva detto di detestare i marmocchi, lo aveva quasi giurato con convinzione, quando erano ancora due fidanzati costretti a sposarsi, ma chi avrebbe mai potuto immaginarlo quando, nel pieno del lavoro, si dedicava ai passatempi di Serena o dava il biberon a Balder? Quando Serena si metteva a giocare seduta sulle sue gambe facendo trottare dadi, gomme e fogli mentre lui non batteva ciglio? E non storceva nemmeno il naso quando era il momento di cambiare il pannolino a Balder, o quando urlava nel cuore della notte o interrompeva lui e Ofelia mentre cercavano di ricavarsi un po’ di tempo per loro?
I bambini sono più ricettivi e intelligenti di qualsiasi adulto, più sensibili ai loro cambi di umore, più empatici e pronti ad assorbire qualsiasi emozione passasse nell’aria. Thorn era un uomo freddo, calcolatore, distante quasi, ma anche incredibilmente leale, capace di grande tatto e delicatezza, e questo i bambini lo percepivano. Non avevano la malizia di farsi spaventare dal suo aspetto. Non avevano la cattiveria che spingeva gli adulti ad etichettare qualcuno in base alla posizione sociale o alla nascita più o meno nobile.
Thorn era il papà di Serena e Balder, si prendeva cura di loro con amore, dedicava loro più attenzioni di quanta ne dedicasse persino alla moglie, talvolta, ed era sempre pronto a sopperire ai loro bisogni. Li educava, era avvicinabile. Non sorrideva, ovviamente, ma questo non li allontanava. Loro percepivano che Thorn era tutt’altro che ostile. E sebbene fosse un concentrato di energia elettrica, manierismi, tic e nervosismo, con loro riusciva sempre a padroneggiarsi. I suoi figli lo calmavano, erano catartici, lavano via tutta quell’ansia che covava in corpo.
Lo adoravano. E quell’affetto era abbondantemente ricambiato.
- Ragazzo? – chiamò Renard, riscuotendola dai suoi pensieri.
- Scusate, cosa stavate dicendo?
Renard le sorrise. Il suo amico era ancora più incline ai sorrisi da quando Gaela era rimasta incinta. In pratica, non smetteva mai di sorridere, nemmeno quando Thorn gli lanciava qualche occhiataccia perché reputava che fosse sempre troppo goliardico.
- Volete che dia qualche lezioncina di geografia ai signorini? A Serena più che altro, perché dubito che il signorino Balder, senza la memoria del padre, ricorderà alcunché di ciò che gli diciamo.
Com’era subito apparso chiaro che Balder aveva ereditato l’animismo di Ofelia, era anche risultato evidente che non aveva la memoria di Serena. Non lo avevano presunto a causa del linguaggio di Balder. Serena era più grandicella quando aveva cominciato a ripetere a memoria i teoremi che Thorn enunciava per farla dormire come se fossero delle ninne nanne. Più che altro sembrava meno… ricettivo.
Un po’ più tonto, ecco.
Thorn non aveva altri termini di paragone se non sé stesso e la figlia, ma era sicuro che il piccolo non avesse ereditato quel dono. – Anche un po’ di più - aveva detto.
Ofelia sorrise. – Fate pratica per quando potrete esercitare? Quanto manca ormai?
L’altro motivo per cui Renard era così felice era che il corso da insegnante stava per finire, e lui aveva passato ormai quasi tutti gli esami a pieni voti. L’idea di poter essere anche il maestro di suo figlio o sua figlia lo riempiva di orgoglio. Non avrebbero avuto un padre valletto, ma un uomo di cultura che potesse insegnare loro i misteri di ogni materia.
Anche Ofelia era fiera di lui.
- Conseguirò il titolo due settimane prima della partenza. Sono felice che il viaggio sia imminente e che possiamo concederci questa vacanza. Sapete, poi potrebbe diventare difficoltoso visto lo stato di Gaela.
Ofelia represse una risata. – Se vi sentisse tirerebbe fuori la chiave inglese minacciandovi di violenza.
- Lo so, ragazzo, ma almeno lasciami sfogare con te. Non è più una giovinetta come voi, voglio solo che prenda tutto con calma e si goda questo periodo, ma è irruente e testarda e fa quello che vuole.
- Non la amate anche per questo?
Il sorriso di Renard si allargò ancora. – Certamente. Però mi preoccupo per lei. E per il bambino. Uno dei due dovrà pur farlo, no?
- Lasciate che faccia come si sente. Non è un’incosciente, e sono certa che tenga a portare a termine la gravidanza quanto voi.
Renard annuì, ammiccando poi a Serena che se ne stava ancora impalata con il cappottino in mano.
- Allora, signorina, vogliamo imparare un po’ che differenze ci sono tra il Polo e Anima?
- Sì! – esclamò Serena, sempre entusiasta di fare qualsiasi cosa.
Ofelia li guardò allontanarsi e continuò a fare le valigie sorridendo.
Erano passate quasi due ore quando si stiracchiò e si rese conto che la casa era fin troppo silenziosa. In salotto non trovò nessuno, se non la zia Roseline intenta a lucidare la sua macchina da cucire, così assorta da non aver nemmeno notato la sua presenza. Tre o quattro stracci stavano pulendo insieme a lei, di propria iniziativa, accapigliandosi di tanto in tanto. Ofelia preferì andarsene senza farsi sentire prima che la zia le chiedesse di aiutarla a smontare la macchina per togliere ogni granello di polvere. Era già successo due o tre volte, e non era mai finita bene. La zia diventava particolarmente puntigliosa quando ne andava del suo cucito. Ofelia rischiava sempre di irritarsi e qualche pezzo della macchina, contagiato dalla sua stizza, prendeva e se ne andava. Era un calvario poi dover cercare viti piccole come dei ditali, e la zia si imbestialiva ancora di più.
Alla fine si ritrovò a dover guardare dentro ogni stanza della casa. Stava per andare verso la porta della dimora di Renard quando gli giunse la voce di Thorn. Colse distrattamente le parole “Heliopolis”, “folgori” e “bagliori”, segno evidente che non stava parlando di lavoro.
Ma allora cosa…?
Quando varcò la soglia della biblioteca adibita a studio, rimase spiazzata da ciò che vide.
Thorn se ne stava di fronte ad una cartina geografica riportante la posizione di tutte le arche, collegate da linee sottili e ingarbugliate. Anzi, una Mappa delle Rose dei venti e delle loro destinazioni. Ecco cosa si era studiato Thorn per muoversi con tanta agilità tra le varie Rose dei venti…
In quel preciso momento aveva un lungo braccio teso in alto a destra ad indicare Heliopolis. Serena se ne stava seduta buona buona sullo spesso tappeto, gli occhi incollati alla cartina. Vittoria, di fianco a lei, era sdraiata con in mano una matita, assorta in un disegno che sembrava voler raffigurare la mappa. Non stava venendo molto bene… Renard invece se ne stava acciambellato, evidentemente a disagio, per terra, con Balder in braccio. Il bambino non era meno concentrato della sorella, anche se ogni tanto si distraeva facendo le bolle di saliva. In un angolo, Berenilde si stava specchiando canticchiando, provando nuove acconciature. Probabilmente aveva seguito la figlia fin lì, ma quando aveva visto che si era dedicata ad un’attività innocua si era distratta.
Renard si voltò lentamente, lanciandole un’occhiata a dir poco disperata. Ofelia gli andò vicino e cercò di sedersi senza fare danni. La sciarpa cambiò posizione quando Salame, acciambellato di fronte a Renard, aprì un occhio e iniziò a muovere la coda, pronto a balzare.
- Ma cosa sta succedendo? – domandò, anche se già immaginava cosa stese facendo Thorn. Sperava solo che Renard la smentisse.
- Sta facendo una lezione di geografia – sibilò, con la voce così potente che anche un sussurro era udibile fino all’altro capo della stanza. Thorn lanciò loro un’occhiata di ammonimento, ma non si interruppe.
- Il terreno di Heliopolis è per lo più brullo. Per questo motivo sono costretti ad importare la maggior parte del…
- Io ero venuto qui con il semplice intento di mostrare a Serena quanto distano Anima e il Polo, che effettivamente sono tra le arche più vicine rispetto alla distanza che intercorre tra le altre. Ho detto a vostro marito che non lo avrei disturbato, volevo solo insegnare qualcosa ai bambini e fare anche un po’ di pratica, come si conviene a chi sta per prendere la licenza. L’intendente è tornato subito ai suoi registri, ma dopo poco si è alzato e mi si è affiancato. Ha cominciato ad aggiungere qualche dettaglio a quello che dicevo, a completare ciò che io tralasciavo, finché i ruoli non si sono invertiti e ci siamo ritrovati così. Sta spiegando l’intera struttura giuridica di ogni singola arca! Insieme alla sua conformazione geografica, ai principali prodotti importati ed esportati e ai poteri familiari che caratterizzano ognuna.
Renard non l’aveva smentita: aveva esacerbato la sua ipotesi, peggiorandola se possibile. Toccò lievemente il braccio di Renard in segno di compatimento.
- Quante arche ha trattato finora?
- Sei, in linea retta. Anima, Polo, Cyclope, Flore, Pharos, La Serenissima e ora siamo ad Heliopolis. Ragazzo, io non so tutte le cose che sta spiegando lui! È forse mediocre la qualità degli insegnamenti che mi hanno impartito?
Ofelia scosse la testa. – Non preoccupatevi, Renold. Tutto quello che sta dicendo Thorn è fondamentale?
- Non direi, no… Anzi, credo che potrebbe tornare utile solo la metà delle cose che ha detto.
Ofelia gli sorrise e ammiccò: - Allora insegnategliene un quarto.
Renard non parve molto tranquillizzato da quel tentativo di consolazione.
- Renold, analizzate la situazione con obiettività. Thorn queste cose le sa perché è l'intendente, è abituato a barcamenarsi tra le politiche e la burocrazia di tutte le arche. Non sarà fondamentale per i bambini sapere cosa si coltiva su Plombor, vi pare?
Renard parve riacquisire un po' di vigore. - Forse avete ragione. Le lezioni che mi hanno impartito mi sembravano... esaustive e complete.
- E allora fidatevi del vostro istinto. Sarete un ottimo istruttore. Ve lo dice chi ha già beneficiato dei vostri insegnamenti.
Finalmente Renard le sorrise, complice, ripensando al periodo in cui aveva fatto da guida al valletto Mime.
Thorn si schiarì la gola bruscamente. - Gradirei un po' di silenzio se non vi dispiace.
Renard raddrizzò la schiena, mettendosi militarmente sull'attenti, mentre Ofelia stringeva le labbra per non ridere. Quando incrociò lo sguardo dell'amico però non resistette più, e scoppiarono a ridere un istante, prima di coprirsi la bocca con le mani. Thorn li fulminò con un'occhiata delle sue solite, dure e penetranti, ma i due non poterono fare a meno di continuare a sghignazzare. Ofelia si rese conto che, se lei e Renard avessero avuto la stessa età e avessero frequentato la stessa classe, nella scuola di Anima, probabilmente sarebbero finiti nei guai diverse volte. Troppe volte.
- Sh! - li sgridò anche Serena, disturbata da quella distrazione.
Figlia di suo padre, era, altroché!
- Però non vi aspettate che io insegni loro l'algebra e la geometria. Se il signor intendente dovesse mai assistere ad una di quelle lezioni, credo che mi licenzierebbe.
- Sono d'accordo - assentì Thorn, interrompendo un secondo la spiegazione per rispondere a Renard, che aveva cercato di parlare ad Ofelia con il sussurro più basso che riusciva a bisbigliare.
Non era andata molto bene. I due continuarono a ridere impunemente, facendo del loro meglio per disturbare Thorn. Purtroppo, lui non diede loro la soddisfazione di reagire, nonostante la sua mascella fosse più contratta del solito.
Dopo un'altra mezz'ora di spiegazioni, quando anche Balder e Serena iniziavano a dare segni di cedimento e Renard si era addormentato con la testa appoggiata al pugno, Ofelia decise che ne aveva abbastanza. Ma poi Thorn non doveva lavorare?
- Chi vuole fare merenda? - domandò alzandosi, le gambe anchilosante dopo averle tenute immobili per un tempo prolungato. Le sentiva formicolare e sapeva che sarebbe stato meglio non muoversi per un po'.
Renard si alzò stiracchiandosi, con Balder in braccio che gli tirava i favoriti. L'omone lo sgridò bonariamente e, dopo avergli pizzicato una gota, lo mise per terra affinché si muovesse un po'. Era stato fin troppo immobile in quelle ore, assopendosi raramente. Salame invece gli saltò sulla schiena e si sistemò in equilibrio sulla sua spalla.
- Io! - saltellò gioiosamente Serena, facendo involontariamente agitare le code dorate dei tappeti. Balder applaudì, imitandola, e le frange dei tappeti vibrarono ancora di più.
Era proprio il caso di portarli ad Anima. Vittoria si riscosse dal suo torpore con più calma, alzandosi e lasciando per terra colori e fogli. Lei e Serena, di comune accordo, presero per mano Balder, aiutandolo ad alzarsi. Lo condussero fuori dalla porta in autonomia, come una combriccola di piccoli e allegri nani. Ofelia sorrise di fronte alla scena, e rimase sorpresa di vedere che anche Berenilde stava sorridendo. Annoiata, la signora si era scrutata le unghie per tutto il tempo, borbottando di tanto in tanto che la corte era molto più divertente. Di fianco a lei, il set da ricamo era rimasto intoccato. Ofelia sapeva che il suo era solo un distaccamento di facciata, dato che non partecipava più a feste e balli così spesso come in passato. Ci andava giusto per trovare Faruk, ma la verità era che in quella casa piena di bambini si trovava molto più a suo agio.
- Sarà meglio che li segua, prima che quelle dolci fanciulle abbandonino il povero ometto da qualche parte – si congedò Renard.
Berenilde lo seguì in silenzio, e Ofelia rimase sola con Thorn, instabile sulle gambe formicolanti. Lui la guardava intensamente. Sperava proprio che non avesse un attacco di gelosia dei suoi...
- Non devo essere granché come insegnante se i miei figli hanno preferito andare a fare merenda che ascoltarmi.
Oh santissima sciarpa! Che si agitò, stupita quanto Ofelia.
- Thorn, sono dei bambini! Mi meraviglio invece che ti abbiano ascoltato per così tanto tempo senza annoiarsi o distrarsi!
Rigido come uno spaventapasseri sulle lunghe gambe da trampoliere, Thorn non sembrava molto convinto.
- Thorn, Balder non ha nemmeno un anno e mezzo e Serena ne ha meno di cinque! Sono dei bambini piccoli. Se Salame fosse stato sveglio, invece che starsene immobile a sonnecchiare, i bambini si sarebbero distratti costantemente!
Notando che le sue parole non sembravano sortire il minimo effetto sull'atteggiamento del marito, Ofelia sospirò.
- Thorn, diciamo che sei un po'... rigido. Impostato, ecco. Non che ci sia nulla di male - aggiunse, quando il marito le lanciò un'occhiata tagliente. - Però devi tenere conto di chi è il tuo interlocutore. So che non sei abituato ad adattarti a... agli altri, ma non puoi parlare ai tuoi figli come parli ai governatori, con gergo tecnico e scientifico. I burocrati parlano il legislativese, Serena è ancora piccola. Non sa nemmeno cosa sia l'agricoltura, non puoi pretendere che capisca quali sono i metodi di coltivazione più all'avanguardia?
Thorn grugnì. - Pensavo che i membri della corte non capissero ciò che dicevo perché sono ignoranti, non perché io mi spiego male.
Ofelia sorrise leggermente. In effetti, loro avevano il dovere di conoscere i vari codici civili e penali, i commi, le leggi e le modifiche. - Forse hai ragione tu, credo che siano ignoranti in materia. Dovrebbero conoscere il gergo tecnico del mestiere che svolgono, loro.
Thorn si accigliò. - A tal proposito, cosa facciamo con il tuo studio?
Ofelia non si era dimenticata del suo lavoro. Spesso ci pensava. Le dispiaceva non poter fare ciò per cui era più portata, per cui si era impegnata così profondamente e che la dava tanta soddisfazione. Era brava nel suo lavoro, e ne andava orgogliosa. Non aveva mai aspirato ad essere una madre onnipresente e dedita solo e unicamente a figli e famiglia. Ad essere sinceri, fino a qualche anno prima non era nemmeno consapevole di voler essere una madre. Ma finché Balder e Serena erano così piccoli le dispiaceva perdersi qualche particolare della loro crescita, qualche nuova tappa. Diventavano grandi troppo, troppo in fretta. Nel giro di poco Serena avrebbe avuto cinque anni.
Non avrebbe mai pensato di sentirsi così.
- Io vorrei tornare ad esercitare, lo sai. Solo... non ora. Balder è piccolo. Magari quando comincerà ad essere un po' più autonomo e andranno entrambi a fare lezione con Renard, che li terrà impegnati tutta la mattina, potrò riaprirlo. Ora però non voglio perdermi le loro prime conquiste.
Ofelia si rese conto che era proprio quello il motivo per cui Thorn si prodigava tanto per riuscire a lavorare da casa, portandosi avanti all’intendenza quanto più possibile. Doveva essere orribile tornare a casa dopo una giornata di lavoro e scoprire che tuo figlio aveva cominciato a parlare senza di te, o a camminare, o aveva manifestato un potere senza riuscire a vederlo.
Thorn fece un brusco cenno col capo. - Concordo. Specialmente quando sono così piccoli, credo che... abbiano bisogno della presenza costante di un genitore. Di una madre - aggiunse sommessamente, sempre in tono impassibile.
Da fuori non era visibile nessuna incrinatura nella sua corazza, ma Ofelia lo conosceva. Lo conosceva bene, forse meglio di quanto lui conoscesse lei. E proprio per questo sapeva che le sue parole, per quanto inflessibili, fossero in realtà venate di amarezza.
Ofelia gli si avvicinò con l'intento di abbracciarlo, ma fu lui ad aprire le braccia quando lei fu a pochi passi. Si strinse a lui, grata di essere così piccola da poter posare l'orecchio direttamente sul suo petto. Lei e Thorn sembravano del tutto sproporzionati, ma la verità era che si incastravano perfettamente.
- Avranno un'infanzia felice, Thorn. Migliore della mia e della tua. Migliore di quella di chiunque altro.
La sua infanzia era stata gioiosa, tutto sommato. Tranquilla, per quanto il percorso di crescita di un animista, circondato da parenti considerati affini fino al quarto grado, possa esserlo. Famiglie sempre numerose, familiari sempre troppo presenti. Nulla di cui lamentarsi in confronto a quella di Thorn, comunque. Si era inclusa per quello, per non dover rimarcare la sofferenza del passato, l'infamia da bastardo che aveva dovuto subire. Che aveva assaggiato sulla pelle.
Thorn si irrigidì contro di lei, e subito dopo la strinse più forte.
- Devo tornare al lavoro.
Ofelia si rese conto che Thorn aveva sprecato due ore per andare dietro ai bambini. Una gravissima contravvenzione alle sue regole.
- Hai usato il tempo dedicato al tuo lavoro per stare dietro ai bambini? - gli chiese sorpresa.
Thorn la guardò come se avesse parlato in un'altra lingua. Ossia con imperturbabilità, ma le sopracciglia erano aggrottate. - Certo che no. Un'ora e cinquantasette minuti ho parlato loro di geografia, continuando però a redigere tre relazioni che dovevo assolutamente concludere entro oggi. Ho corretto una bozza legislativa, anche. Solo negli ultimi minuti, dato che ero in anticipo, mi sono permesso di alzarmi per illustrare sulla cartina dove si trovassero le arche e le zone che stavo descrivendo. Ma era lavoro anche quello: devo valutare l'attualità e la precisione delle cartine in dotazione alle strutture burocratiche e istruttive del Polo. Ci sono stati degli aggiornamenti nei confini e nella morfologia del territorio. Alcuni crolli hanno inciso profondamente sull'occupazione dello spazio circostante. Quindi, mentre spiegavo, confrontavo le varie cartine che abbiamo noi con quelle nuove che mi hanno fatto pervenire, per esaminare l'eventu...
Ofelia si mise a ridere e, preso Thorn per la giacca, lo tirò verso di sé, schioccandogli un bacio rumoroso sulle labbra.
Thorn si raddrizzò non appena l'ebbe lasciato andare, schiarendosi la gola e rassettandosi le spalline della divisa. Era a disagio. - Perché? - le chiese.
Ofelia scosse la testa. - Per farti stare zitto. Perché mi fai ridere. E perché mi andava. Ci vediamo a cena, vado dai bambini - si congedò, lasciandolo lì impalato a riflettere sulle sue parole.
Quella notte, non appena ebbero messo a letto Balder, che non si era voluto addormentare fino all'ultimo, Ofelia si rese conto che qualcosa non andava in Thorn. Era stato taciturno... più taciturno del solito durante la cena e la serata. Era evidente che qualcosa lo angustiava.
- Che c'è? - gli chiese infatti mentre Thorn riponeva con cura i gemelli sul comodino, di fianco all'orologio da taschino.
Ofelia fece lo stesso con gli occhiali ma, lungi dall'essere precisi e obbedienti come gli effetti personali di Thorn, si misero subito di sghimbescio senza apparente motivo. La sciarpa invece si dimenò per andare con Balder, rischiando di strozzarla o farla cadere per la forza con cui tirava. Dopo essersi liberata di ogni orpello, eccetto gli immancabili guanti, si voltò verso Thorn. Immobile, rigido, con lo sguardo fisso, sembrava più che mai un rapace. O una statua.
- Allora? - lo incalzò Ofelia, perplessa di fronte al suo atteggiamento.
Thorn scosse la testa, senza emettere un suono, e si sdraiò. Spense la lampada non appena l'ebbe fatto anche Ofelia, anche se era del tutto inutile dato che, senza occhiali, poteva anche essere sotto il sole di mezzogiorno: non avrebbe visto nulla lo stesso.
Ofelia si fece largo nell'ampio letto per avvicinarglisi e abbracciarlo, posando la testa sul suo petto. Percepiva l'inquietudine di Thorn meglio della propria, ma se lui era deciso a non volerla mettere a parte, non avrebbe insistito.
Stava per scivolare nel sonno quando lui la riscosse dal suo torpore.
- Cosa vuol dire che ti faccio ridere?
- Mh? - mugugnò Ofelia, abbastanza stizzita, cercando di comprendere le sue parole.
- In che senso ti faccio ridere?
- Non capisco - farfugliò. Non la stava facendo ridere, la stava facendo addormentare con il tepore del suo corpo.
- Prima, quando mi hai... baciato per zittirmi, hai detto anche ti faccio ridere. In che senso ti faccio ridere? Appaio ridicolo?
Ofelia sbatté freneticamente le palpebre al buio, e successivamente si rimise a ridere sommessamente.
Thorn trattenne a stento uno sbuffo. - Che ho detto ora?
- Non ti è mai capitato di far ridere qualcuno per via del tuo atteggiamento? Sai quante volte io ho fatto ridere mio fratello perché non mi accorgevo di qualche dispetto della sciarpa o di aver invertito le scarpe o perché cercavo gli occhiali che avevo sulla punta del naso?
Thorn rimase zitto per un po', indeciso. Poi chiese: - Come hai fatto a non renderti conto di avere gli occhiali sul naso?
Ofelia ridacchiò di nuovo. – Avevo la vista appannata e pensavo di non averli perché ci vedevo male.
Thorn si azzittì di nuovo, così Ofelia riprese la parola. – Non significa essere ridicoli, non ti pare?
- No – mormorò Thorn. – Ti faccio spesso ridere? Per quello che faccio?
Ofelia rise di nuovo, a bassa voce, e Thorn sentì vibrare la vibrazione del suo corpo contro il petto. – Abbastanza, sì.
- Quando?
- Ah, non lo so. Dipende.
- Tipo? – insisté lui, insoddisfatto.
Ofelia sbuffò, per nulla infastidita. – Vediamo… quando cambi il pannolino a Balder. Non fai una smorfia di fronte all’odore, all’idea di toccare lo sporco, lo lavi e fai tutto quello che devi fare senza una piega, e poi quando devi mandare in lavanderia il pannolino lo prendi con la punta delle dita e lo guardi come se rischiasse di esploderti in faccia. Lo tieni il più distante possibile da te. Oppure quando ti fai la barba la mattina. Non te ne rendi nemmeno conto, ma spalanchi gli occhi mentre ti radi, sembri un po’ un pesce. Ogni tanto borbotti nel sonno. Quando i mobili o i tappeti sono particolarmente vivaci li guardi malissimo, come a volerli intimidire con la forza del pensiero. Quando riponi gli oggetti sul comodino prima di dormire rimani alcuni istanti immobile, credo per contemplare il loro ordine e la simmetria perfetta, e annuisci soddisfatto. Parli a Balder e Serena come se fossero degli adulti, e la fai sembrare una cosa perfettamente normale. Ma sembri disorientato quando loro fanno cose infantili come sporcarsi con i colori o mettere in disordine. Ti irrigidisci e inarchi le sopracciglia, come se temessi di essere contagiato dal caos e volessi ritrarti. E quando prepari la vasca, prima di immergerti saggi sempre l’acqua con un dito del piede, in equilibrio precario. Se è troppo fredda grugnisci. Questi sono i casi che preferisco. Devo continuare?
Thorn ci mise un po’ a rispondere. – Sì.
- Vediamo… Quella volta che ti si è appiccicata una gomma da masticare alla scarpa. Eri così inferocito con la scarpa che sei rimasto fermo al tuo posto cercando di toglierla per dieci minuti. E quando ci sei riuscito hai fatto una faccia soddisfatta che era esilarante, come se il mondo fosse tornato al suo posto. Poi ne hai pestata un’altra – raccontò Ofelia, concitata, cominciando a ridere. Alla fine rideva così tanto che dovette tapparsi la bocca per non svegliare Balder. – Eri così divertente. Sembrava una sfida personale tra la tua determinazione a liberarti della gomma e la sua a rimanerti attaccata alla scarpa.
Ofelia cercò di recuperare il respiro prima di parlare nuovamente. – Non ti piacciono i finocchi. Quando li servono li accantoni sempre in un angolo del piatto fissandoli con disgusto, come se potessero farti del male. Hai la stessa espressione schifata di un bambino cocciuto in quei casi. Quando Renold racconta qualche barzelletta tu ti soffermi sempre su qualche dettaglio banale e insignificante che non ha alcuna pertinenza con la parte ilare dello scherzo, perché fai fatica a capirne il senso. Ogni volta che c’è una piega sul divano la sistemi. Una sera ti ho visto farlo per una ventina di volte, quando tua zia ti si era seduta accanto ma si era alzata a più riprese per mimare i balli di alcuni conti imbranati.
- Dodici volte – la corresse Thorn.
Ofelia dovette calmare un altro accesso di risate. – Quando senti un odore sgradevole arricci il naso come un coniglio. Ogni volta che Serena ti è in braccio e ti infila le mani tra i capelli tu te li ripettini quasi in automatico. Lei spettina, tu pettini, lei spettina, tu pettini. E non sembri neanche renderti conto che lei spesso crede che sia un gioco.
- Non sopporto il disordine – si schermì lui.
Ofelia ridacchiò ancora. – Ma anche io spesso ti spettino, eppure tu non ti risistemi fino al mattino dopo.
Thorn non rispose, e per un po’ regnò il silenzio. Sentiva il cuore di Ofelia battergli contro il fianco.
- Posso dormire ora? – domandò Ofelia.
- Sì.
- Come mai tutte queste domande?
Ofelia lo sentì stringersi impercettibilmente nelle spalle. – Ti vedo sempre ridere per qualcosa che dice Renold, talvolta anche l’ambasciatore. Io non sono… spiritoso. Con loro ridi e sorridi molto più che con me. Mi chiedevo quindi se in qualche modo anche io ti… facessi venire il buonumore.
L’ilarità di Ofelia era sparita. Si strinse a lui. – Certo che mi fai venire il buonumore. E mi fai ridere più spesso di quanto tu creda, anche se magari involontariamente. Non importa quanto mi facciano ridere gli altri, Thorn.
- Quindi… - mormorò Thorn, prima di zittirsi. Ci mise un po’ a riprendere la frase. – Quindi dovrei preoccuparmi di Faruk?
- In che senso?
- Se non devo temere chi ti fa ridere, forse hai un debole per gli uomini seriosi. Faruk ne è l’esempio per antonomasia. Dovrò cercare di essere più… come lui. Magari potrei far finta di dimenticarmi qualcosa. Chi sei, per esempio.
- Sei serio?
- No.
- Era una battuta?
Ofelia intuì la smorfia che doveva aver dipinta sul volto. – Un tentativo.
Sbalordita, Ofelia esclamò a mezza voce: - Ma era pessima!
- Non sono bravo in queste cose.
Ofelia ormai stava ridendo sul serio. – Era talmente pessima che non ho nemmeno capito che fosse una battuta!
Risentito, Thorn brontolò e si girò sul fianco per dormire.
Ofelia continuò a ridacchiare. Alla fine lo abbracciò da dietro, strofinando la faccia contro la sua schiena calda. – Non è necessario far ridere una persona per metterla di buonumore.
- E cosa serve, allora?
- La presenza. Ogni volta che ti vedo con i bambini sono felice. Non mi serve altro. Davvero.
Ofelia scivolò lentamente nel sonno, finalmente. Non si perse, però, l’abbraccio di Thorn, che si voltò verso di lei e la strinse a sé pensando che stesse già dormendo.
- Per lo meno non devo fare il buffone per farti felice. Avrei dovuto comprare una parrucca, credo.
Ofelia si addormentò col sorriso.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Sono in ritardo, chiedo scusa a tutti, ma è davvero un periodo di fuoco e mi sto davvero tirando avanti solo con questa storia a discapito di Into the deep, quindi vi prego siate pazienti.
Gli aggiornamenti arriveranno ;)
Grazie mille a tutti come sempre, mi scalda il cuore e mi dà una spinta vedere quanti siete♥


Capitolo 28

Partirono quasi due settimane dopo, di pomeriggio.
La mattinata fu un caotico susseguirsi di preparativi, entusiastici gridolini, pulizie e promemoria della zia Roseline.
- Hai preso la sciarpa, Ofelia? E i calzini bucati per lo zio Gilberto?
- Sì che ho preso la sciarpa, zia – borbottò Ofelia, la cui sciarpa la stava quasi strangolando dalla gioia di tornare alla sua terra natia. – E non ho preso i calzini bucati! Chi mai vorrebbe dei calzini bucati?
- Testarda che sei! Lo sai che lo zio Gilberto fa il sarto! Oltre a ripararci i calzini bucati gratuitamente, dato che siamo i suoi parenti più prossimi, si diverte da matti ad aggiustare la stoffa strappata, e lo sai bene!
Ofelia avrebbe voluto farle notare che essere parenti di terzo grado per via del prozio non significava proprio essere “i parenti più prossimi”, ma Berenilde la precedette.
- Mi state dicendo, mie dame, che su Anima c’è un sarto così bravo da saper rammendare anche pizzi e merletti?
Com’erano finiti ai merletti, parlando di calzini bucati?
- Sì, certo. Zio Gilberto è un vero esperto nel riparare i tessuti. Li fa come nuovi. Avete qualche orlo da rifare?
Lo sguardo di Berenilde scintillò. – Aspettatemi, torno a casa a prendere cinque vestiti che non indosso più da troppo tempo. I sarti del Polo sono dei furfanti che rabberciano la seta solo tramite illusioni. Tu li paghi e loro ti confezionano l’illusione di un vestito nuovo, che si rivela fasullo non appena lo indossi per andare a corte. Vittoria, resta qui!
La bambina rimase ferma in mezzo al soggiorno, con la sua valigetta in mano, unico faro di serenità in mezzo alla tempesta.
La zia Roseline prese ad insultare i sarti del Polo, riempiendo una valigia di calzini spaiati, mutandoni che fecero arrossire Ofelia e avrebbero fatto rabbrividire Thorn, cuscini integri e tovaglioli. Senza rendersene conto la zia ci infilò dentro pure Salame. Non appena lasciò la stanza, Ofelia sospirò di sollievo. Si chinò per aprire la valigia e tirò fuori sia il gatto che i cuscini, che non erano rotti e la ringraziarono sprimacciandosi tutti e riprendendo il loro posto sul divano. Tremavano di paura, poveri.
- Vittoia! – esclamò Serena, emozionata dalla partenza. – Pattiamo!
La bambina le rivolse un sorriso candido quanto i suoi capelli, mise giù la valigia e si fece trascinare dalla cuginetta in giro per casa. Ofelia aveva già preparato le cose di Balder e Serena, ma la bambina insisteva nel voler fare le valigie anche lei, così ne stava riempiendo una con tutto quello che pensava le sarebbe servito: il ciucco di quando era piccola, che non usava da anni, i dadi che aveva rubato al papà, un asciugamano, perché aveva senso pratico, i libriccini di storie che preferiva, anche se li conosceva a memoria, un pannolone per Balder, come se Ofelia potesse scordarli, e un regalo per i suoi cugini di Anima: una palla di vetro che conteneva un’illusione. Era molto sofisticata, cambiava atmosfera ogni tot ore, passando dalla neve al sole, dal temporale al vento autunnale. Quello sarebbe stato un regalo molto gradito. Anche se Ofelia sospettava che il più grande regalo per Tom sarebbe stato rivedere Vittoria. Ogni volta che ricevevano una lettera da Anima, Agata riferiva i calorosi saluti del figlio, che la sua amica ricambiava sempre con gioia. Gioia contenuta. Vittoria non era mai troppo espansiva.
Per curiosità Ofelia sbirciò nella sua valigetta, dentro cui trovò solo matite colorate, fogli e gomme, il tutto gettato alla rinfusa. Se non altro, Serena era precisa come Thorn quando sistemava le cose.
- Buongiorno a tutte le mie eleganti signore! – esclamò Renard quando entrò nel soggiorno. Poi vide che c’era solo Ofelia. – Oh, be’, allora buongiorno a te, ragazzo – si corresse ammiccando. – Dove sono tutti gli altri?
Ofelia sospirò. – In giro per casa. Su Anima odiavo partire per le vacanze. Organizzare il viaggio per una carovana di persone era un’impresa, per non parlare dell’agitazione che si trasmetteva al mobilio. Dopo qualche ora le porte erano talmente isteriche che si chiudevano quando qualcuno entrava o usciva. Non sai quante botte sul naso e sul fondoschiena abbiamo preso.
Renard sembrò illuminarsi ancora di più di fronte a quell’immagine. – Non vedo l’ora di respirare nuovamente l’aria di casa vostra. Anima è… rinvigorente. Così vera, così genuina.
- Mh – grugnì Gaela alle sue spalle. – Pittoresca.
- Anche, molto pittoresca. Come sei intelligente, mia adorata.
Gaela parve non notare nemmeno il complimento. Aveva abbandonato la salopette da meccanica per indossare un sobrio vestito che metteva in risalto la pancia. La lunga organizzazione del viaggio le aveva dato modo di spostare gli appuntamenti e chiudere l’officina. Non l’avrebbe mai ammesso, ma Anima le piaceva. A parte per l’obbligo di portare la gonna. Non che a Gaela interessasse qualcosa dei commenti altrui, ma i genitori di Ofelia avrebbero passato dei guai se le Decane avessero scoperto che una donna portava i pantaloni, e Gaela aveva ceduto solo per non mettere in difficoltà quelle brave persone.
Renard invece aveva appena preso la licenza da insegnante e non vedeva l’ora di festeggiare con quel liquore al ginepro di cui si era innamorato durante il viaggio di nozze.
- Bucolica – rincarò Gaela, che non lo dava a vedere ma apprezzava i complimenti. – Ci sono pastori e animali ovunque vai. Per non parlare degli spaventapasseri che ti salutano quando passi. E piove.
Ofelia storse il naso. Sì, su Anima pioveva spesso, ma trovava l'umidità più confortante del freddo e delle illusioni del Polo.
Renard pendeva dalle labbra di Gaela. Era incinta di appena tre mesi, era ancora presto per vedere la pancia, ma Ofelia la sorprendeva spesso mentre si passava una mano sul ventre.
Gaela sbuffò. - Ho fame, portami un filone di pane alle olive.
- Subito - obbedì Renard, sparendo verso la cucina.
Gaela le lanciò un'occhiata indefinibile, inchiodandola con gli occhi eterocromi. - Hai qualche rimedio contro la nausea?
Ofelia rimase spiazzata da quella domanda. Gaela e lei erano... amiche, supponeva, ma non quel genere di amiche che si scambiano confidenze e parlano di sciocchezze. Il fatto che le chiedesse consiglio una persona orgogliosa come Gaela le dava da pensare.
Sorrise, sperando che la cosa non la infastidisse o mettesse di cattivo umore. - A dire il vero no. Con Serena non ho avuto molta nausea, con Balder sì, è stato terribile. Ma purtroppo non ho trovato un vero e proprio rimedio. La levatrice mi aveva suggerito mi mangiare alimenti secchi. Un filone di pane andrebbe benissimo, per esempio. Se proprio era una nausea ingestibile mi dava acqua calda col miele.
Gaela storse il naso. - Ma non fa vomitare quella?
- Sì, infatti. Piuttosto che soffrire rimettevo, poi stavo subito meglio. Renard...?
- Lui teniamolo fuori. È troppo apprensivo.
- Oh - mormorò Ofelia. Poi ridacchiò sommessamente. - Scommetto che se potesse partorirebbe al posto vostro.
- Gli cederei volentieri quest'incombenza. Penso che sarà un padre migliore di quanto potrei mai essere io come madre.
Ofelia aprì la bocca, ma la richiuse subito. Non era sicura di come gestire un'eventuale insicurezza da parte di Gaela. Non era nemmeno sicura che volesse conforto.
Alla fine ci provò lo stesso. - Anche Thorn pensava che non sarebbe stato minimamente in grado di fare il genitore. Non a torto, visto la sua infanzia... poco ortodossa. Però si impara a fare i genitori col tempo, non c'è una formula univoca. E i genitori sono due proprio perché uno sopperisca alle mancanze dell'altro. Thorn non è espansivo, i bambini vengono da me se vogliono un abbraccio. Però si rivolgono a lui per qualsiasi altra cosa. Magari il vostro bambino vedrà Renold come un confidente, però non dimenticherà che voi siete la madre, e sono certa che si appellerà a voi nel momento di maggior bisogno. Avete un'aria... molto solida. Non sembrate... una persona che crolla facilmente.
Ofelia si era un po' incartata. Non sapeva come Gaela avrebbe recepito quelle parole. Sperava che le intendesse del modo giusto. Sembrava pensierosa.
- Tu sai il fatto tuo - ribatté, con un tono quasi provocatorio. Ofelia non si fece ingannare: più che provocatorio, era titubante. - Se mi dici che si impara con il tempo a fare i genitori, tu come hai imparato?
- Con l'aiuto di chi mi stava accanto. La levatrice, che altri non è che la governante, è molto pratica e informata circa le malattie dei neonati e i loro trattamenti, le varie fasi dello sviluppo. Ogni volta che avevo un dubbio o bisogno di un consiglio chiedevo a lei. Era ed è tuttora disponibile. I bambini le piacciono molto. E poi ci sono state Berenilde e mia zia. Berenilde è stata madre più volte, una madre attenta e amorevole. Mia zia, per quanto non abbia mai avuto figli, ha aiutato mia madre a crescere me e le mie sorelle e mio fratello. Sei in totale, di cui tre gemelle.
Gaela rabbrividì, cosa che la fece sorridere: - Mia zia forse sa meglio di chiunque altro come educarli.
- Sei figli… vi date da fare su Anima, eh. Neanche i conigli…
Ofelia avvampò. In effetti Agata aveva già quattro figli.
Fortunatamente tornò Renard, togliendole dall’impaccio. Gaela afferrò la baguette senza nemmeno guardarla, o ringraziare. Dopo due morsi strinse gli occhi e risputò il boccone sulla mano di Renard. Ofelia, neanche troppo sconvolta visto che Gaela era solita sputacchiare in giro per casa, si immaginò che faccia avrebbe fatto Thorn se lei gli avesse mollato sulla mano un bolo appiccicoso e bavoso. I bambini gli avevano più volte sporcato i vestiti e lo avevano spesso usato come bavaglino, ma erano bambini. Con lei, probabilmente non si sarebbe scomposto, avrebbe estratto un fazzoletto e rimosso il cibo masticato dalla sua mano. Poi si sarebbe lavato come se nulla fosse. Probabilmente.
Si chiese anche cos’avrebbe fatto se fosse stato Archibald a compiere un gesto simile. Probabilmente lo avrebbe tramortito con gli artigli e glielo avrebbe fatto rimangiare.
Si mise una mano sulla bocca per coprire le risate, perdendosi il battibecco tra gli sposi.
- Alle olive! Queste non sono olive nere, è uvetta, René!
- Lo so, mia adorata, ma non c’era pane alle olive.
- Potevi dirmelo invece di infilarmi in bocca della schifosissima uvetta.
Renard increspò le sopracciglia, facendole danzare, rosse come il fuoco crepitante. – Non ti ho infilato in bocca nulla, sei tu che hai dato un morso prima che io potessi avvisarti. E poi l’uvetta ti piace!
- Non più. Vado a vomitare.
Ofelia decise di portarsi via qualche galletta per il viaggio. Sarebbe stato difficile contenere i bambini, non aveva granché voglia di gestire anche i malumori di Gaela. O le sue nausee. Ora capiva come si fosse sentito Thorn nel viaggio da Anima al Polo, chiuso in un dirigibile con una donna che non faceva altro che rimettere i pasti.
Mentre Renard correva dietro alla moglie, Salame capì che aria tirava e decise saggiamente di acciambellarsi sulla valigia del padrone per evitare che lo dimenticassero a casa. Ofelia diede qualche pacca alla sciarpa che, pigra come sempre, si risistemò in una posizione più comoda per entrambe.
- Vacanza vacanza vacanza! Da quanto tempo non mi prendo una vacanza! Signora Thorn, il fatto che la faremo insieme sarà ancora più stimolante! – esclamò Archibald ammiccando, entrando nel salotto accompagnato da una valigia minuscola.
Visto l’abbigliamento trasandato, la cosa non la sorprendeva. Sperava solo che almeno avesse portato lo spazzolino.
L’arrivo di Archibald era l’ultima cosa che si aspettava, ma la comparsa di Thorn avrebbe reso tutto molto più difficile. Soprattutto perché aveva sentito l’insinuazione dell’ex ambasciatore.
- Voi partite con gli altri?
- Ma certo, intendente illustrissimo. Ormai sono stato adottato come membro della famiglia, no? Alla mia, ora che sono stato… allontanato, diciamo, non interessa più granché di me.
Thorn si accigliò. Ofelia poteva quasi vedere le linee di tensione sul suo viso farsi elettriche. Pericolose. – Io non sono a conoscenza di nessuna adozione. Non sono stati firmati contratti né se n’è discusso. E in ogni caso la risposta sarebbe no. Siete troppo grande per essere adottato, e qui nessuno vi proporrebbe una simile soluzione.
Archibald sghignazzò. – Ma ovvio, ma ovvio che l’adozione non sia stata formalizzata. Sono ben consapevole della mia età, intendente, che alla fine corrisponde quasi alla vostra – rispose facendogli l’occhiolino. – Ma l’adozione di cui parlo è molto più… intima. Sentimentale. Non c’è bisogno di formalizzarla, qui ci amiamo tutti!
Thorn avrebbe avuto non solo qualcosa, ma tutto da ridire, però fu interrotto dal rientro di Berenilde.
- Eccomi, Roseline! Ho i vestiti con me! – urlò a pieni polmoni, per quanto il fiato corto glielo permettesse. Cercò di darsi un tono da signora di corte quando si accorse del pubblico. – Buongiorno Archibald. In partenza con noi?
- Vedo che non ero l’unico ad esserne all’oscuro – tornò alla carica Thorn, che non si sarebbe mai dimenticato una conversazione in sospeso come quella.
Archibald era sempre più felice. – Io davo per scontato di essere ben gradito. Infatti, se notate, voi siete l’unico a porgere delle rimostranze circa la mia partenza. Sia la splendida madama Berenilde che la vostra fedelissima moglie stanno accettando il fatto come se fosse programmato dal principio. Sarà così bello approfondire ancora di più la nostra conoscenza, moglie di Thorn.
Ofelia passava sempre sopra alle provocazioni di Archibald. Sapeva che il modo migliore per renderlo innocuo era non badargli. Lo sapeva anche Thorn, ma la gelosia era prepotente quanto i suoi artigli: lo spingeva a comportarsi da sciocco, cosa che lui proprio non era.
- Non approfondirete proprio in bel niente, invece. Con tutti i parenti di Ofelia presenti, vedrete mia moglie anche meno di me.
Archibald era proprio compiaciuto.
Furono nuovamente interrotti quando arrivò il resto della masnada a completare il quadretto.
- Tenete vostro figlio, che pesa. Anche Ofelia era in sovrappeso da piccola – li informò la zia Roseline, scaricando letteralmente Balder tra le braccia di Thorn.
- Pattiamo mamma? – domandò Serena, estatica, tenendo per mano Vittoria. Poi vide il padre e corse ad abbracciargli una gamba.
Thorn però stava ancora guardando in cagnesco Archibald. Accorgendosi di ciò, la bambina mollò la gamba del papà e corse verso il padrino di Vittoria. Archibald, sempre più gongolante, si chinò per prenderla in braccio. Le accarezzò i capelli biondi e pallidi e le diede un sonoro bacio sulla guancia. Se lo sguardo di Thorn avesse potuto ferire sarebbe stato più letale dei suoi artigli.
- Pronti per partire anche noi! – esclamò Renard, che piombò nella stanza come un tornado rosso, reggendo un’ultima valigetta.
Rendendosi conto di quanto fosse affollato il salotto si ricompose subito, soprattutto percependo che aria tirava tra intendente ed ex ambasciatore. Discretamente fece infilare Salame nel cappello che poi si calcò in testa, e rimase buono in attesa. Balder sembrava interessatissimo alla magia del cappello del padrino: spuntavano due zampette pelose ai lati, che si mescolavano ai folti capelli rossi, con cui litigavano.
Renard diede una pacca al cappello per fare star fermo il gatto.
- Andiamo prima che vomiti di nuovo – berciò Gaela, rompendo il silenzio. E sgranocchiando un cracker.
Alle sue spalle, la levatrice le diede un pacchetto di gallette, rivolgendo poi un piccolo sorriso a Ofelia. Quest’ultima chinò la testa come ringraziamento. La sua domestica era davvero preziosissima.
- Quindi viene anche lui? – domandò Thorn come conferma, rivolgendo un piccolo cenno col capo in direzione di Archibald. La domanda era stata indirizzata a tutti e a nessuno.
Renard si grattò la nuca, mancando però il bersaglio e infastidendo la coda di Salame, che fece scattare una zampa ad allontanarlo. La zia Roseline borbottò qualcosa riguardo al buon costume e al suo ruolo di chaperon con tutte le povere fanciulle ingenue di Anima, mentre Berenilde si chinò per sistemare la veste di Vittoria, cieca al resto del mondo.
Baldanzoso, Archibald fece saltare Serena, che rise contenta. – Nessuno ha obiezioni, noto, quindi procediamo. Non vorrà mica farci fare tardi, intendente.
Thorn fu l’ultimo ad uscire di casa, con Balder ancora in braccio. Visibilmente scontento, per quanto potesse dimostrarlo.
Servirono ben quattro carrozze per trasportare tutti verso le mura del Polo, da cui poi presero le slitte per andare fino nel folto del bosco esterno, verso il dirigibile. Come nel primo viaggio di Ofelia e della zia verso Città-cielo. Anche in quel caso, per via dell’inverno inoltrato, non avrebbero potuto attendere alcuna navetta che li scortasse fino alla terra sottostante. I bambini si divertirono tantissimo, anche se Ofelia dovette più volte prendere Serena per il braccio perché si sporgeva troppo. Ad un certo punto Archibald li affiancò, trasportando Berenilde e Vittoria, mentre Renard li seguiva più lentamente, cercando di non far vomitare Gaela. La zia Roseline stava sciorinando consigli di tutti i tipi, ma il volto verde di Gaela parlava chiaro circa l’inefficacia di quegli sproloqui.
Scambiandosi un’occhiata competitiva, Archibald accelerò, cercando di distanziare Thorn.
- Tenetevi – ordinò lui, calmo, mentre spingeva i cani enormi affinché corressero ancora di più.
Thorn riguadagnò la testa del gruppo, ma Ofelia dovette aggrapparsi con quanta forza aveva ai sostegni della slitta, cosa non facile con un bambino piccolo tra le braccia e una bambina spericolata che non stava ferma un attimo.
Fu proprio lei, però, che riuscì a far rallentare il padre.
Prima che Ofelia potesse bloccarla, infatti, si aggrappò alla gamba di Thorn. – Anche io guida!
Thorn lanciò un’ultima occhiata severa ad Archibald, che rideva come un matto, prima di rallentare. Con un solo braccio prese Serena, che gli agganciò le braccia al collo e le gambine al busto.
- Tieniti forte – le intimò, facendole assumere un’aria solenne e seria.
Procedettero con calma, affiancati a Renard, incuranti del fatto che molto davanti a loro Archibald urlava la sua vittoria come un galletto nel pollaio.
- Neanche durante la recita degli animali selvatici della scuola elementare fanno questi versi – borbottò la zia Roseline, distogliendo per un attimo l’attenzione da Gaela e smettendo di urlare. Come la prima volta, quei viaggi in slitta non le si confacevano affatto. – E sì che quello scalmanato insolente di Bruno ha anche simulato un accoppiamento tra tori, ti ricordi, Ofelia? Non so se fu più grave la scenata, o la sua convinzione che i tori potessero accoppiarsi.
Thorn si girò brevemente per lanciare un’occhiata impenetrabile ad Ofelia, ma lei lo conosceva abbastanza bene da sapere che si stava chiedendo in che razza di ambiente stesse portando i loro figli.
Quando parcheggiarono, aiutati dal guardacaccia che aveva condotto per la prima volta Ofelia e la zia Roseline al Polo, Thorn ignorò completamente i movimenti euforici e scomposti di Archibald, tutto impettito per la vittoria. Renard no, invece.
- Complimenti, ex ambasciatore. Mi sarebbe piaciuto gareggiare come si deve, ma sapete, con due signore a bordo…
Gaela gli sputò in mezzo ai piedi e gli diede una gomitata. – Ora è colpa mia se sei lento? E non chiamarmi signora. Non sono una signora.
Renard si accarezzò distrattamente il braccio mentre Archibald ghignava. – Ci sarà tempo per una rivincita, signor Gaela – ribatté ammiccando.
Renard non parve offendersi per quel nomignolo, che voleva mettere in risalto chi comandasse nella coppia. Anzi, parve quasi fiero di essere diventato il signor Gaela.
Thorn grugnì il suo disappunto non specificato, e si affrettò a caricare le valigie sull’aeronave che li attendeva, ormeggiata al freddo. Quasi non guardò Ofelia durante tutto il procedimento. Berenilde, Renard e Archibald cicalavano allegramente mentre la zia Roseline andava dietro a Vittoria e Serena, che in poco tempo si erano riempite di neve e stavano congelando.
- Se non la smettete subito diventerete più bagnate dello zio Arnoldo quando è caduto in un acquitrino in pieno dicembre.
- Che cos’è un acchitino? – chiese seraficamente Serena.
- Una cosa molto brutta e viscida che mangia i bambini che non si comportano bene.
Ofelia era certa che quella non fosse assolutamente la definizione corretta di acquitrino, ma Balder si mise a ridere quando un fiocco di neve gli atterrò sul naso e la distrasse. Era quasi primavera al Polo, ma la neve era d’obbligo quasi tutto l’anno.
- Tutti a bordo. Su, moglie di Thorn, venite a divertirvi qui al calduccio! – si mise ad urlare Archibald, fissando però Thorn invece che la moglie.
Ofelia sospirò, sconsolata, e guardò la sua nuova e raffazzonata famiglia salire sul dirigibile che li avrebbe portati dalla vecchia famiglia. Era un gruppo più eterogeneo di quanto non fossero mai stati su Anima, ma le piacevano tutti. Anche Archibald.
- Ehi, ex ambasciatore, se non chiudete la bocca vi ci infilo una scarpa. E credo di aver pestato la cacca di uno di quei cani giganteschi.
Con sommo stupore di tutti, Archibald ammutolì, anche se non perse il sorriso. In quel momento Ofelia volle decisamente bene a Gaela, che era magari rude e sgraziata, ma colpiva sempre perfettamente.
- Arrivederci nipote caro! – salutò Berenilde. – Sbriga in fretta le tue faccende e vieni a trovarci presto su Anima, mi raccomando!
Ofelia attese che fossero tutti spariti nella pancia di quel gigantesco piroscafo per fronteggiare Thorn. Non era facile dedurre il suo umore semplicemente avvalendosi delle espressioni facciali, ma gli sembrava più lugubre del solito. Il riflesso metallico dei suoi occhi brillava nella luce soffusa del tardo pomeriggio, ed era fisso su di lei.
- Balder, Serena, salutate papà.
Serena parve cadere dalle nuvole. Ofelia le aveva detto più volte che per quasi un mese non avrebbero rivisto il papà, ed era certa che la bambina lo ricordasse perché, oltre alla memoria, aveva passato un intero pomeriggio ad elencare le persone che sarebbero andate su Anima con loro, ma forse comprese solo in quel momento cosa ciò significasse.
Si mise a piangere in silenzio, senza fare scenate. – Papà non viene?
Thorn la prese in braccio e la guardò duramente. Che stesse per sgridarla o dirle che le voleva bene era indifferente, l’espressione era sempre la stessa, neutra e affilata. – Ne abbiamo già parlato. Devo lavorare. Ci vedremo tra ventiquattro giorni.
Serena chiuse la bocca per cercare di smettere di piangere, ma cominciò a tremarle il labbro inferiore. Allora Thorn fece una cosa del tutto inaspettata: la strinse forte e poi le posò un bacio sulla guancia. Quel gesto lasciò di stucco persino Ofelia. Raramente Thorn le aveva dato dei simili baci, a lei che era sua moglie. Non era proprio un uomo avvezzo alle tenerezze. O la baciava con impeto e urgenza, per arrivare ad altro, oppure non la baciava proprio. Il massimo delle effusioni che concedeva alla moglie era un bacio in fronte o sui capelli, ma erano rari quanto i suoi abbracci. Forse anche più rari, perché in realtà Thorn l’abbracciava spesso nell’intimità della loro camera. Non era particolarmente a suo agio con le dimostrazioni d’affetto, tanto più se erano in pubblico. Da quel punto di vista, Thorn era persino più riservato di lei.
A rompere quel quadretto quasi malinconico ci pensò Balder, che allungò le braccia per farsi prendere in braccio a sua volta. Thorn lo afferrò con il braccio libero e, sullo slancio di poco prima, diede un bacio anche a lui.
- Fate i bravi. Obbedite alla mamma. Non fatevi irretire dai suoi parenti. E badate che non faccia qualche incidente. Lo sapete che si caccia sempre nei guai, e si fa male.
- Sì! – lo interruppe Serena, accondiscendente. – Nemmeno Baldel si fa così tanto male.
In risposta a quelle osservazioni taglienti, Ofelia sentì pulsare nei guanti le due dita che si era schiacciata nel comodino quella mattina.
- Mi raccomando – disse Thorn alla fine, con la sua voce profonda e cavernosa, che faceva risuonare quello sprone più che altro come una minaccia.
- Noi bavi! – applaudì Balder, che del discorso aveva capito poco niente.
Soddisfatto, probabilmente, Thorn rimise a terra Serena e passò Balder a Ofelia, che lo fissava corrucciata. – Non puoi chiedere ai tuoi figli di badare alla loro madre – sibilò, alzando la testa il più possibile per riuscire a guardarlo, lassù dove stava. La sciarpa si agitò in protesta, sciogliendosi dal suo collo per attorcigliarsi attorno alla testa di Balder, che rise.
Thorn la guardò trucemente, immobile e fisso come uno sparviero. Non le rispose.
Ofelia sospirò. – Dobbiamo per forza lasciarci così? Ci rivedremo tra qualche giorno. Quando eravamo fidanzati siamo stati più di un mese senza vederci. A Chiardiluna, quando…
Thorn la interruppe chinandosi, arcuando la sua lunga colonna vertebrale, e posando le sue labbra sulle sue. Fu un bacio… dolce, a suo modo. Lento, senza alcuna fretta. Ofelia sapeva che nessuno li stava guardando, altrimenti Thorn non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
Poi si allontanò repentinamente, schiarendosi la gola e guardando altrove. – Io starò qui – le disse, come se lei non lo sapesse. – Ma se… se dovesse succedere qualcosa… se i bambini stessero male e…
- Thorn – bisbigliò Ofelia, stringendogli la grande mano ossuta, così calda nonostante la temperatura bassa. Così forte, così delicata quando la toccava… - Andrà tutto bene. Ci rivedremo prima di quanto immaginiamo.
Vedendo che stava per aprire la bocca, lo anticipò: - Non mi interessa sapere quanti minuti mancano perché tu parta per raggiungerci – ridacchiò. Poi notò la sua espressione quasi seccata. – Lo so che stavi per dirmi quello. Vedi di mangiare in questi giorni, piuttosto. Non voglio trovarti ancora più magro quando ti riabbraccerò.
Quella frase parve quasi… risollevarlo. Come se in qualche modo Thorn dubitasse del fatto che si sarebbero rivisti. Poi la strinse in un abbraccio impacciato e respirò a fondo, prima di lasciarla andare.
- Sei in ritardo. Sta arrivando una tempesta, è il caso che tu parta.
Ofelia sorrise leggermente. Aveva il cuore gonfio di mille emozioni, non ultima la nostalgia che già sentiva per lui, ma come al solito la sua testa era vuota, incapace di articolare quello che provava. – Mi mancherai anche tu.
- Ciao papà! – esclamò Serena, elettrizzata all’idea di partire.
- Cia-cia papà! – la imitò Balder, che si agitava, ansioso di essere messo a terra.
- Si prenderà il raffreddore se non si toglie subito quei vestiti bagnati. Vai al caldo, Serena – le intimò Thorn, il suo modo da orso per dirle di stare attenta, che le voleva bene, sentiva già la nostalgia e non vedeva l’ora di rivederla.
Ofelia si trattenne a stento dal roteare gli occhi. Prese la bambina per mano, si incamminò verso il dirigibile, ben consapevole dello sguardo di Thorn sulla schiena.
Renard comparve sulla soglia giusto in tempo per prendere Balder prima che Ofelia cadesse su un cumulo di neve, facendo ridere Serena. Renard sospirò, riacciuffando giusto in tempo anche Salame che era sgusciato fuori dalla sua giacca e si era messo a giocare con le luci riflesse nella neve.
- Non vi preoccupate, signor intendente, starò attento io che non si faccia troppo male! – gridò alla figura alta e spigolosa che si ergeva nel buio ormai fitto.
Thorn non rispose, e Ofelia rimase ad osservare dall’oblò il punto in cui doveva trovarsi fino a diversi minuti dopo la partenza.
- Come cambiano le cose, eh, figliola? – la incalzò la zia Roseline, facendola sobbalzare.
Immersa nel buio, sospesa nel mare di nuvole, Ofelia aveva del tutto perso la cognizione del tempo. – Devo… devo asciugare e scaldare Serena…
- Ah, se fosse stato per te ora la bambina sarebbe un cubetto di ghiaccio che nemmeno l’alito del cugino Teodoro riuscirebbe a sciogliere.
Ofelia cercò di non arricciare il naso di fronte a quell’immagine.
- Ci ha pensato Renold a sistemarla. Sta già dormendo, il freddo le ha messo sonnolenza. Vittoria è nel letto con lei. E Renold sta anche facendo il bagnetto a Balder prima di metterlo a letto. Credo stia facendo pratica, ma fare esercizi con i bambini degli altri è come indossare le mutande di qualcun altro: la taglia non è mai quella giusta e ti si incastrano in posti in cui non dovrebbero.
Ofelia questa volta il naso lo arricciò davvero, anche perché non riusciva a non immaginarsi delle mutande sporche. – Cosa intendete dire?
- Che con i propri figli è diverso. Si può leggere della maternità, si può fare pratica, ma niente prepara davvero a diventare genitori. È ammirabile che lui ci provi, comunque. Anche se dovrei fargli una ramanzina su certi atteggiamenti pubblici che ha con la consorte.
- In che senso?
- Serena ha chiesto perché tu e Thorn vi siete baciati… insomma, vi siete baciati. Non guardarmi così, non sono più la tua chaperon, non mi illudo certo che tu sia ancora pura e illibata. In ogni caso, le ho detto che sono cose che fanno marito e moglie per farsi capire che si amano. In risposta, lei mi ha chiesto se anche mettere una mano sul didietro di qualcuno significa far capire che lo si ama. Ha visto Renold e consorte fuori dalla porta della loro camera.
Ofelia scosse la testa. Renard aveva ormai superato la soglia dei quarant’anni, com’era possibile che fosse ancora così energico?
- Un puledrino nella stagione degli amori, ecco cos’è. Se Serena crescerà traviata sapremo a chi addossare la colpa – rincarò la zia Roseline.
In quel momento passò Archibald ridendo e cantando, con una bottiglia mezza vuota in mano. E non di succo. – Niente donne libere su questa nave – si lamentò con un broncio su cui capeggiava un sorriso impertinente. – Dubito che la bella moglie di Thorn mi concederà la sua compagnia… per ora. Ma per voi l’invito è sempre aperto, madama Roseline – concluse Archibald facendo l’occhiolino all’integerrima zia.
Che arrossì come una giovane innamorata.
Ofelia ancora non capiva come Archibald potesse esercitare un tale ascendente sulle donne, persino su sua zia, che era romantica quanto Thorn. Anche meno a dire il vero. Thorn era romantico qualche volta. A modo suo. Raramente. Almeno però era… fisico. Era difficile immaginarsi la zia in una qualsiasi situazione amorosa e…
Ofelia scosse la testa per scacciare quel pensiero.
Rimasero in silenzio fianco a fianco per un po’.
- La prima volta che sei salita su questo dirigibile per andare in contro alla tua vita da sposata sembrava che fossi sul patibolo. Neanche quando ti abbiamo costretta ad indossare il vestitino di tulle per il battesimo delle gemelle eri così scoraggiata. Forse perché ti sei rotolata nel fango, con quel vestito, per ripicca. E ora che ti stai allontanando dalle braccia di tuo marito sei più avvizzita di una foglia in autunno. Più triste di una porta senza maniglia. O del tappeto di zio Svevo senza tutti i peli di gatto attaccati. Se mai un giorno dovesse pulirlo come si deve, scoprirebbe che di lana ne è rimasta ben poca.
Ofelia non era sicura che il paragone calzasse, ma la veduta allegorica della zia era molto più sviluppata della sua. Così sviluppata che non credeva che qualcuno l’avrebbe mai compresa appieno.
- Hai trovato il tuo posto, cara nipote. È così che deve andare la vita. Buonanotte.
Ofelia non era nemmeno sicura delle doti da consolatrice della zia. I suoi commenti le avevano fatto venire ancora più nostalgia di Thorn. Si sentiva veramente come una porta senza maniglia. Una finestra senza vetro. Un libro senza parole.
Sì, era vero: aveva trovato, nel modo meno prevedibile e partendo con il piede sbagliato, il suo posto. Accanto a Thorn. E si rese conto che non stava tornando a casa, ma se ne stava allontanando.
Sapeva che invece per Thorn era il contrario: era la sua casa che si stava distanziando da lui.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Il fatto non è che io stia scrivendo poco, perché vi assicuro che lo sto facendo e, anzi, con Ingranaggi sono stata parecchio produttiva nelle ultime settimane.
Il problema è che per correggere la bozza del capitolo mi servono tempo e calma, insieme, per poter controllare bene tutto. E quelli ce li ho poco xD
Quindi scusatemi il ritardo ma non preoccupatevi che la storia non si sta arenando e continua!!
Grazie a chi mi attende sempre pazientemente♥


Capitolo 29

Ofelia fu soddisfatta quando finalmente atterrarono su Anima: rispetto al primo viaggio in dirigibile, aveva rigettato i pasti la metà delle volte. Gaela non aveva mancato di farle notare elegantemente che nemmeno lei, da incinta, aveva vomitato così tanto.
Ad accoglierli trovarono la pioggia. E un nutrito gruppo di parenti, da quelli più prossimi fino a quelli di quarto o quinto grado. Sembrava che l'intera famiglia, ossia tutta l'arca, si fosse radunata sulla banchina d'attracco per riceverli.
Ofelia si sentì più incerta che mai sulle gambe mentre scendeva le ripide scale che dal dirigibile la portavano al suolo. Era troppo tardi per fare marcia indietro e tornare al Polo? A casa? Poi però nella fiumana di corpi intravide dei baffi bianchi a manubri e sentì la calma pervaderla. Renard stava tenendo già banco, salutando per nome tutti i parenti che conosceva, cioè tanti, davvero tanti, e presentandosi agli altri come "l'onorato precettore del palazzo della signora Ofelia moglie dell'intendente". Quel titolo altisonante faceva schizzare in alto diverse sopracciglia, e come se non bastasse Ofelia si sentiva addosso più che mai gli sguardi indagatori di cugini sorpresi e zie quasi invidiose. La faceva sembrare un'aristocratica ricca e presuntuosa con quel nome, quando in realtà Renard stava solo cercando di dire che era l'insegnante privato dei suoi figli e che era un mestiere molto rispettabile. Ofelia non ebbe il coraggio di sminuire quel suo ardore. Per di più, oltre ad averle portato le valigie giù dall'aeronave senza nemmeno bisogno che lei glielo chiedesse, con il suo modo amichevole di intrattenersi stava distogliendo l'attenzione da lei.
Ofelia si rendeva conto di essere diventata quasi una figura mitologica agli occhi di quei familiari che non la vedevano dal giorno in cui era stata prelevata da Anima per essere portata al Polo, anni prima. Aveva rifiutato due pretendenti, all’epoca, solo per poi essere accalappiata da un barbaro delle terre fredde. Erano andati a trovarla una ventina di animisti in due o tre occasioni, quelli più prossimi, ma nell'arco di quasi sette anni si erano visti davvero sporadicamente. Sembrava passata un'intera vita dall'ultima volta.
- Oh, figlia mia, ma come sei splendida! Che guance rosee, e finalmente hai messo su un po' di forme! Parola mia, la gravidanza ti ha giovato! Dovevamo mandarti in capo al mondo perché tu diventassi una donna, allora. Le Decane sono state provvidenziali, davvero. Non trovi anche tu, caro?
Un mare rosa di gonne a balze, morbidezza e rotondità e pettinati capelli rossi l'avvolse. Ofelia non aveva mai avuto un rapporto idilliaco con la madre. Era sempre stata Agata la prediletta, non tanto per una questione di preferenze, quanto di affinità: la sorella era lo specchio della madre, le loro vite erano permeate sulla socialità, sull'apparenza, sull'ottenimento di ciò che volevano e l'imposizione sui mariti. Erano madri di famiglia, erano soddisfatte di quel ruolo e riusciva loro difficile concepire che qualcuno potesse voler vivere una vita diversa. O anche solo che qualcuno se l'immaginasse diversa.
Lei non si era sentita realizzata quando si era sposata. Aveva impiegato parecchio tempo, molto più di quello previsto per il fidanzamento, e affrontato varie peripezie prima di innamorarsi indiscutibilmente e profondamente di Thorn. Aveva sentito il bisogno di avere dei figli non solo per un improvviso risveglio dell'istinto materno, ma anche perché sapeva che solo l'affetto incondizionato di un bambino avrebbe potuto aiutare Thorn ad uscire dai suoi preconcetti, a liberarsi del suo passato di figlio bastardo indesiderato, sfruttato e abbandonato, mai indispensabile.
Ofelia si sentiva appagata, certo, era felice, ma in cuor suo non vedeva l'ora di poter ricominciare a lavorare nel suo studio di lettura. Senza lavoro, senza la possibilità di esercitare il dono che aveva spinto Thorn e sua zia a sceglierla tra tutte le giovani di Anima, le sembrava di avere le gambe ma non poter camminare. Le mancava qualcosa.
Così come le mancava il suo museo, il suo ruolo, e lo zio. Sentì quasi un groppo in gola quando, dopo aver fatto il giro di abbracci, barcollando dalle braccia della madre a quelle del padre, che le sorrise quasi timidamente, da quelle della sorella maggiore a quelle delle sorelle minori, passando per Hector e la giovane moglie, approdò finalmente contro il ventre arrotondato della persona che le era mancata più di tutte.
Perse la cognizione di ciò che accadeva attorno a lei, della zia Roseline che salutava tutti calorosamente ma si teneva stretta a Berenilde, presentandola con un'affezione che voleva essere velata ma era invece palesemente evidente; dimenticò che teneva per mano Serena, che era letteralmente sommersa dalle gonne e dalle attenzioni della nonna e della zia Agata, e ne era pure spaventata, giustamente; si scordò che Renard stava tenendo in braccio Balder, mostrandolo a tutti come se fosse un trofeo, e che con più orgoglio ancora presentava a tutti la moglie e il suo ventre appena arrotondato, beccandosi gomitate ed epiteti coloriti della diretta interessata; perse di vista Salame che, dopo aver rischiato di essere schiacciato da quattro piedi diversi, si era arrampicato sulla schiena di Renard ed era rimasto aggrappato lì, terrorizzato.
Sentì solo le mani grandi e rugose dello zio stringerle le braccia in un impacciato tentativo di abbraccio. Poi si guardarono negli occhi, e Ofelia vide riflessa sul suo viso anziano la stessa commozione che sapeva essere evidente anche sul suo.
- Potrai ingannare gli altri facendo loro credere di essere cambiata, figlia mia, ma io ti conosco meglio della tua stessa madre. Solo una donna forte avrebbe potuto resistere a quell'algido e brutale mondo e tornarne non solo più felice di prima, ma addirittura nostalgica.
Ofelia gli gettò le braccia al collo, ricordando come se fosse impressa a fuoco sulla sua pelle la previsione che le aveva fatto il prozio prima di partire: che la volontà di suo marito si sarebbe infranta contro la sua. Lo zio aveva avuto ragione fin dal principio. Thorn le aveva fatto così tante concessioni, lui che di norma non ne faceva nessuna a nessuno; che non si abbassava al livello di nessuno, che non si adattava a nessuno, fedele solo a se stesso. Le aveva dato tutto ciò che lei aveva voluto. Anche un po' di più. Ma quello che Ofelia amava di più in lui era il suo essere rimasto coerente, l'essersi svelato poco a poco, in seguito al peggiore degli inizi, e l'averla accettata fin da subito per ciò che era. Forse era stato proprio quello a farla innamorare contro ogni previsione. Aveva passato la sua intera esistenza a non essere compresa, ad essere considerata un po' eccentrica, un po' stramba solo perché non desiderava matrimonio, abiti di pizzo e una sfornata di bambini. Thorn aveva preso atto della sua volontà ferrea, anche testardaggine la si poteva chiamare, del suo voler andare contro al futuro predisposto per lei, della sua goffaggine e incapacità di relazionarsi con gli intrighi di corte. Della sua sincerità. Aveva preso il meglio, ma soprattutto il peggio di lei, e lo aveva amato. Senza nemmeno pretendere nulla in cambio, all'inizio. Anteponendo sempre il suo bene a qualsiasi altra cosa.
Era vero, la volontà di Thorn si era infranta contro la sua, ma non era diventato il suo burattino come Charles o suo padre erano agli ordini delle rispettive mogli. Non avrebbe potuto accettarlo, quello.
- Mi siete mancato, zio - sussurrò, con la voce che tornava ad essere quella sommessa, da uccellino, che aveva avuto prima di andare sul Polo. Una voce soffocata da anni che aveva trovato la liberazione grazie all'affermazione della sua personalità. Grazie a Thorn.
Il prozio le diede delle pacche impacciate sulla schiena, poco propenso ai contatti. Le ricordava qualcuno. - Su, su, figliola. Sei una madre ora, non puoi piagnucolare così.
Ofelia sollevò il naso per guardare il vecchio archivista, che per lei era stato ben più di un prozio: era stato un confidente, un amico, un collega, un padre.
D'indole un po' scorbutica, tentò di sorriderle. Poi bofonchiò: - Anche tu mi sei mancata tanto. Anche se devo ammettere che senza di te ho avuto molto meno lavoro. Non c'era più nessuno a rompere oggetti a destra e a manca.
Ofelia sorrise. A casa sua le sarebbe davvero servita la presenza del prozio: nessuno poteva riparare quello che lei rompeva, e ciclicamente doveva radunare i cocci di piatti e tazze per cercare di rimetterli in sesto. Non potevano comprare nuovi set di stoviglie ogni mese!
- Presentami il mio nuovo pro-pronipote, forza. Prima che quel signore rosso come il fuoco finisca di intrattenere tua madre. In circostanze normali saremmo riusciti a scambiarci sì e no due parole prima che venisse a reclamare la tua attenzione. È plateale quanto un candeliere in oro. Tu sei più… pacata. Un tappetino da bagno.
Ofelia si fece discretamente passare Balder, cercando di non prestare troppa attenzione al paragone del prozio, ma ovviamente Sophie la intercettò e cominciò a porle una quantità di domande tale che ci sarebbero voluti tutto il viaggio di ritorno e la cena per poter rispondere. Il prozio alzò gli occhi al cielo.
Quella sera Ofelia riuscì a scambiare solo poche parole con lui, di sicuro non quante avrebbe voluto. Tutti i parenti si passarono Balder di mano in mano come se fosse una reliquia, e quando alla fine il bambino approdò nuovamente in braccio alla mamma piangeva disperatamente.
Ofelia si congedò in fretta dalla festicciola, portando in camera con sé i figli e Vittoria. Sophie aveva organizzato nuovamente la cena di benvenuto che aveva imbastito in onore di Thorn quando era andata a prelevare Ofelia in qualità di fidanzato. La prima era stata un totale fiasco, ma la seconda era decisamente riuscita. Merito anche degli ospiti d’onore.
Gaela aveva chiacchierato appassionatamente con alcuni cugini meccanici che le avevano spiegato come lavoravano loro, sconvolti nell’apprendere che Gaela, al Polo, doveva fare tutto a mano.
- Siete fortunata a non avere a che fare con i motori arrabbiati. Ti riempiono di fumo persino le orecchie.
- Davvero le chiavi inglesi non vi aiutano? Le… impugnate? In questo modo? Dovete fare tutto voi?
- Dovete spostare voi i macchinari attraverso le pulegge? Non si mettono nella giusta posizione solo con la persuasione?
Renard invece aveva intrattenuto gli ospiti, la maggior parte, con aneddoti sulle pretenziose dame di corte, lo sfruttamento, i capricci dei nobili e le differenze sociali. Come sempre quell’argomento suscitava molto scalpore e interesse nei suoi parenti, che non avevano idea né di cosa fosse un valletto né di cosa significasse essere divisi in classi sociali. Il prozio, soprattutto, partecipava con passione alla discussione, e Renard si trovava benissimo con lui. Ofelia non se l’era presa, sapeva che sarebbe stato impossibile parlare da sola con il prozio in quella bolgia. E lo stesso valeva per Hector, che domandava il perché di ogni cosa Renard dicesse, il che dava motivo a quest’ultimo di parlare a ruota libera.
Berenilde invece affascinava le signore, che pendevano dalle sue labbra come lampadari dal soffitto. Agata era la più interessata, aveva gli occhi grandi come piattini mentre si beveva i pettegolezzi di corte e gli aneddoti su Faruk. Era ormai dall'albore dei tempi che Artemide non generava una discendenza diretta, per cui Vittoria suscitava un misto di scalpore e ammirazione: una figlia di uno spirito di famiglia! Una figlia diretta, generata da un rapporto diretto, con sangue puro! Ofelia era stata celere a portarla via anche per quello. Vittoria era una bambina calmissima, di corporatura già grande per la sua età, estremamente timida. Parlava poco persino a casa, non voleva immaginare a quale stress sarebbe stata sottoposta nell'essere messa al centro dell'attenzione. In un certo senso le ricordava lei. E il fatto che fosse la sua madrina la rendeva estremamente sensibile ai bisogni della bambina.
Per quanto riguardava Archibald... Se ne stava in panciolle sul divano, intervenendo nella conversazione di Renard di tanto in tanto. I maschi lo guardavano con un misto di diffidenza e ammirazione per il ruolo di importanza che ricopriva al Polo. E per il suo potere familiare.
- Ma davvero tutti i suoi parenti ci stanno spiando?
- E la riservatezza dove la si mette? Il senso del pudore?
- E può entrarti nella testa? Se lo si fa arrabbiare rischia di ciarlarti nella mente fino a farti impazzire. Come la radiolina di nonno Arnoldo. Ha cominciato a parlare da solo e le porte di casa sbattevano in protesta.
Archibald rideva sommessamente a quei commenti sussurrati a voce troppo alta. La discrezione scorreva nelle vene degli animisti quanto l'egualitarismo al Polo. In realtà non poteva condividere più nulla con la sua famiglia, anzi, con i suoi parenti, perché non considerava più le sue sorelle una famiglia da molto tempo, ma non lo avrebbe mai rivelato ai padroni di casa. Si divertiva troppo a vedere come si agitavano in sua presenza, pensando che stesse trasmettendo informazioni a chissà chi.
Le donne, invece, specialmente quelle giovani, non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso. Avvampavano di fronte ad un semplice sguardo, a cui Archibald rispondeva con un tocco del cilindro e un occhiolino. Ofelia lo aveva già messo in guardia, durante il viaggio, circa il fatto che avrebbe dovuto cercare di dare un freno alle sue abitudini libertine. Anima non era il Polo, ma anche se una fuga amorosa non sarebbe stata considerata passibile di una delle punizioni corporali del Polo, o del carcere o della mutilazione, avrebbe avuto lo stesso effetti devastanti sulla famiglia: vergogna, senso di ripudio, perdita della credibilità. Potevano sembrare castighi di poco conto in confronto alle barbarie della terra di provenienza di Archibald, ma su un'arca in cui erano tutti un'unica famiglia e tutti imparentati, era abbastanza per convincere qualcuno a riflettere bene prima di commettere una sciocchezza. L'esilio era la più grande punizione cui poteva essere sottoposto un animista.
- Moglie di Thorn, mi pareva di aver già messo in chiaro che io non faccio assolutamente nulla che le donne non vogliano. Non sono io a cercarle, sono loro a venire da me. Per non essere più sole, per qualche istante. Sono un’anima caritatevole io, come potrei negare un po’ di conforto a delle donne tristi e abbandonate? – le aveva risposto Archibald.
Ofelia non aveva ritenuto conveniente proseguire oltre la conversazione, copia di quella che avevano avuto molto tempo prima, nel suo ufficio di Chiardiluna, quando lei era andata a richiedergli la scarcerazione di Renard. All’epoca era troppo distratta per far caso alle sue parole con la dovuta accortezza, preoccupata per Renard e arrabbiata con Thorn, ma più ci rifletteva a mente fredda e più si rendeva conto che in realtà Archibald cercava un rimedio alla solitudine tanto quanto quelle donne facili. Ammantava solo le sue azioni di cortesia e generosità, quando erano la chiara ricerca di uno spirito affine, con cui sentirsi solo insieme per un po’ di tempo. Meglio essere soli in compagnia, che dimenticati.
Ofelia fece lavare i denti a Serena e Vittoria e cambiò Balder, a cui diede un biberon che le bambine lo aiutarono a bere. Le faceva uno strano effetto stare nella sua vecchia camera, che in quel momento non le apparteneva più, come il museo. I tappeti erano sempre quelli, ma da quanto Hector si era sposato avevano sostituito il letto a castello con un letto matrimoniale per gli ospiti, in cui solitamente dormivano però a turno le gemelle, che grandi com’erano diventate rischiavano di non starci più nella loro stanzetta. Berenilde avrebbe dormito da Agata con la figlia, mentre Renard, Gaela e Archibald nella casa della zia Roseline, che non aveva avuto il coraggio di venderla sostenendo che sarebbe sempre potuta tornare utile.
Messi a letto i bambini, in attesa che Berenilde passasse a prendere Vittoria per portarla da Agata, Ofelia si disse che si sarebbe sentita meno estraniata il giorno successivo. Il viaggio era stato lungo, la camera era diversa, il clima era molto più mite anche se uggioso, e i bambini erano una novità in quella casa che aveva rappresentato la sua infanzia.
Però i tappeti erano gli stessi, gli scricchiolii del legno erano immutati, lo specchio grazie al quale aveva utilizzato per la prima volta il suo potere era il medesimo, forse solo con qualche graffio in più. La sua lampada. Il suo armadio. La sua finestra che dava sul giardino. Fondamentalmente era tutto uguale.
Accarezzò le guance morbide di Serena, profondamente addormentata di fianco a lei. Si concentrò sul respiro regolare di Balder. E capì.
Non erano la sua arca, la sua casa o la sua camera a farla sentire fuori posto. Non era il letto, la nuova parte della famiglia o i bambini, un’aggiunta, a farla sentire così a disagio.
Era la mancanza di qualcosa.
La mancanza di Thorn. Ofelia si addormentò conscia del fatto che, finché lui non fosse arrivato, non avrebbe potuto considerare casa sua i luoghi della sua infanzia.
Non più, perché non era mai appartenuta a loro quanto apparteneva a lui. E sapeva che, qualunque cosa stesse facendo, anche lui la stava pensando.
 
La mattina fu più composta della sera precedente. Per quanto possibile. La maggior parte degli invitati era sparita, per fortuna. Erano scorsi talmente tanti litri di bevande inebrianti, a tavola, che Ofelia aveva avuto il terrore che ci fosse ancora qualcuno accampato in casa, mentre scendeva le scale. Invece approdò in cucina, riscaldata dai fumi di caffettiere e bollitori, in un silenzio anormale per la dimora in cui era cresciuta. Per quanto potesse essere silenziosa la cucina in cui sua madre Sophie si destreggiava ai fornelli.
- Oh, sei scesa, figliola. Non hai perso la brutta abitudine di svegliarti tardi – sbuffò come buongiorno sua mamma. – Per fortuna Serena è più saggia di te, e sta facendo colazione con noi già da diverso tempo.
Ofelia avrebbe voluto dirle che sua figlia non si era alzata prima di lei, semmai il contrario, ma Serena non doveva cambiare il pannolino ad un neonato e dargli una rinfrescata dopo il lungo viaggio.
Renard le rivolse un sorriso di buongiorno e Gaela grugnì nella sua direzione, seppellendo una fetta di pane imburrata sotto una cucchiaiata di marmellata. Sembrava piacerle parecchio. Il prozio le fece un cenno con la testa da dietro il giornale, invece la zia Roseline nascose il naso nella tazza. Il papà invece, con Serena in braccio, le rivolse una smorfia di scuse, sapendo che sua moglie sarebbe partita subito per la tangente.
- Berenilde è ancora a casa di Agata?
- Sì, le tue sorelle sono andate con loro a fare un giro per negozi. La madama ci teneva moltissimo a rivedere le boutique, come le ha chiamate lei, in cui aveva trovato così tanti vestiti estroversi. Il cugino Paolino era tronfio come una poltrona imbottita.
Renard sorrise di fronte a quel commento. Ofelia sapeva che non lo aveva capito del tutto. Ogni tanto i paragoni animisti erano incomprensibili persino per lei.
- Comunque, non potevano fare altro oggi, visto come piove. Avevamo programmato una visita all’orto pubblico per i bambini, ma con quest’acqua che cade dal cielo come se ci fosse un rubinetto aperto sarebbe una visita alle pozzanghere, più che altro. E tu sai come i lampioni diventino irascibili, con la pioggia.
Dopo aver ceduto Balder a Renard, Ofelia prese posto, cercando di concentrarsi sullo scroscio dell’acqua piuttosto che sulla voce di sua madre.
Addentò un pezzo di pane con il miele prima di parlare. – Visto che le cose stanno così, potrei portare i bambini a visitare il museo oggi, zio?
I baffoni del prozio nascosero il suo sorriso compiaciuto.
- Potremmo aggregarci anche noi? Come ho spiegato ieri durante la prelibata e luculliana cena che la vostra generosità ci ha offerto, ora sono un insegnante. Se apprendessi di più sui costumi e la storia di Anima potrei insegnare ai vostri nipoti con molta più precisione le meraviglie di quest’arca.
Sophie si impettì tutta, più per il complimento sulla cena che sulle lusinghe alla sua patria. Quei piccoli commenti di apprezzamento non le erano mai stati rivolti da Thorn, il suo genero legale.
Gaela bofonchiò, e per fortuna il forte accento del Polo rese le sue parole inintelligibili agli animisti. Non nutriva grande interesse per un vecchio museo.
Ofelia si sporse verso di lei. – C’è un’intera sezione dedicata al progresso meccanico. Molti oggetti sono ancora animati.
Gaela non le diede la soddisfazione di mostrarsi interessata, ma si zittì. I suoi occhi eterocromi diventarono più brillanti.
- Vedo che cambiare aria, così come la vita di corte, non ti hanno aiutata a rinsavire. Arrivi qui e cosa vuoi fare? Andare a vedere il tuo museo!
- Nipote cara – la interruppe il prozio, con la solita voce burbera, - la ragazza ce l’ha nel sangue. Il ramo della nostra famiglia si occupa di conservazione del patrimonio storico, no? Sarebbe peggio se non le interessassero le sue origini.
- Serena, andiamo a vedere il museo di cui ti ho parlato?
- Sììì il museo! – esclamò Serena, saltellando sulle gambe del nonno.
L’irritazione di Sophie non sbiadì minimamente, ma Ofelia fece un largo sorriso allo zio. Poi fece cadere una tazzina da caffè vuota. Si commosse quando il prozio ne raccolse i cocci e li rinsaldò insieme, facendola tornare come nuova.
Le era mancata quella parte della sua vita.
 
Gaela trascinò Renard nella sezione che il prozio e Ofelia le indicarono contemporaneamente.
Serena tirò la gonna alla mamma: - Non andiamo con lolo?
- No, lo zio ti farà vedere gli archivi, tesoro. Funzionano come la tua memoria: raccolgono tutta la storia, i documenti, i ricordi, e li conservano. Lo zio è bravissimo in questo.
L’espressione burbera dell’archivista non mutò, ma Ofelia vide il suo sguardo compiaciuto. Balder lo scrutava con interesse ossessivo, un po’ impaurito ma decisamente attratto. Alla fine trovò la forza di allungare le braccia verso di lui. Il prozio era ormai anziano, era da anni che Ofelia non lo vedeva prendere in braccio qualcuno dei suoi tanti nipoti e pronipoti, eppure lei non fece in tempo ad obiettare che lui aveva preso Balder. Che, come c’era da immaginarsi, cominciò subito a tirargli i baffi.
Ofelia cercò di non ridere mentre il vecchio borbottava: - Sempre così finisce, sempre così. Tutti i bambini arrivano sempre lì con le mani. Mi chiedo che cos’abbiano di tanto attraente i miei baffi.
Ofelia scortò Serena lungo i corridoi del museo, in tutte le sue sezioni preferite, spiegandole che lei un tempo lavorava lì, che amava quel posto e lo aveva considerato casa sua più di quanto avesse considerato tale il tetto dei suoi genitori. Serena si beveva ogni sua parola, guardandosi attorno con gli occhi spalancati e la boccuccia aperta, curiosa e intelligente. Ofelia sentì una profonda nostalgia quando si rese conto di aver già fatto fare un giro turistico di quel tipo, in passato, a suo fratello. Hector l’aveva subissata di domande a cui lei era stata ben felice di rispondere. Serena invece stava in silenzio, non aveva bisogno di porre quesiti: si sarebbe ricordata a vita quel momento, tutto ciò che vedeva e leggeva.
Dopo un paio d’ore di esplorazione piazzarono i bambini di fronte ad un vecchio grammofono che si azionò su ordine del prozio: conteneva una vecchia favola che Serena si mise ad ascoltare attentamente. Balder, troppo piccolo per capire, cominciò a gattonare in giro, e Ofelia lo lasciò fare senza però perderlo d’occhio. Non solo per la sua incolumità, ma anche per quella dei reperti esposti.
- Serena assomiglia sempre più a suo papà, d’aspetto. Spero non diventi alta come lui, ma almeno ho la speranza che non sia bassa come te, figliola.
Ofelia, di fianco al prozio, scrutò Serena. I lunghi capelli biondo pallido le scendevano lisci sulla schiena, ordinatissimi. La sua figura più alta e magra delle sue coetanee la faceva sembrare più grande, nonostante non avesse ancora cinque anni. Il naso però era suo, non di Thorn, fortunatamente, e anche gli occhi.
Si strinse nelle spalle. – A me piace.
- Tua figlia o tuo marito? – la incalzò il prozio, brusco. Poi si corresse: - Non ho detto che è brutta. È una bambina molto graziosa. Solo… ancora stento a credere che alla fine sia uscito qualcosa di buono da questo intrigo matrimoniale.
La sciarpa di Ofelia si agitò, avvertendola che Balder si stava allontanando troppo. Ofelia lo acchiappò e lo rimise vicino alla sorella, prima di riposizionarsi accanto al prozio.
- Sei felice, figliola?
Solo lui poteva permettersi di porle domande tanto dirette e prive di tatto senza rischiare di farla arrabbiare o indispettire. Se fosse stata sua mamma a chiederle una cosa simile, innanzitutto avrebbe ciarlato mezz’ora e poi l’avrebbe incalzata per conoscere dettagli di cui proprio non avrebbe dovuto interessarsi. Il prozio invece… Ofelia sapeva che lo faceva solo per affetto nei suoi confronti. Non per tornaconto personale o per rendere i suoi sentimenti, la sua vita, oggetto di pettegolezzo. Era stato l’unico ad opporsi ostinatamente a quell’unione, l’unico che l’aveva consolata, che l’aveva raggiunta in camera il giorno della partenza, che l’aveva ascoltata. Una volta Berenilde le aveva detto che si sarebbe potuta rivolgere a lei per dirle qualsiasi cosa avesse voluto confidare a sua madre, ma Ofelia non si era mai aperta con sua mamma. E mai lo avrebbe fatto. Era il suo prozio il suo confidente. Poi era diventato Thorn. Suo marito, che la conosceva intimamente, che si rendeva subito conto se qualcosa non andava, che l’ascoltava e teneva in considerazione ciò che aveva da dire. E non parlava a sproposito, sempre, ascoltando ripetitivamente il suono della propria voce come se fosse l’unica cosa degna di ascoltare.
Quando una lacrima le scivolò su una guancia, frettolosamente asciugata dalla sciarpa, si rese conto di quanto rancore portasse a Sophie. Per averla allontanata dalla famiglia, offerta al miglior richiedente, pavoneggiandosi di un matrimonio di lustro. Senza mai interessarsi realmente a lei, anzi criticandola per quello che indossava, per non essere uguale ad Agata, per questo o quel modo di parlare e comportarsi.
E la perdonò. Perché era fatta così, e come Thorn aveva accettato lei per ciò che era, toccava a lei accettare sua madre per com’era fatta. Non doveva per forza essere la sua confidente.
Aveva Thorn. Aveva la zia Roseline, Renard. E aveva il suo prozio, sempre solerte nei suoi confronti.
Ofelia sorrise leggermente. – Sì, zio. Sono felice.
Il prozio borbottò qualcosa di incomprensibile circa i diari del loro avo, spirito di adattamento e stranezze coniugali.
- Spero almeno che non ti abbia presa con la forza – bofonchiò, chiaramente udibile questa volta.
Ofelia avvampò, ma si sentì in dovere di difendere Thorn. – Assolutamente no, mai. Thorn è… diverso da come appare. Credetemi.
- Lo ami.
Non era una domanda. E non necessitava una risposta.
Il prozio sospirò. – Bene, almeno non devo preoccuparmi che tu stia male o che piangi ogni notte o chissà che altro. Non mi sembri nemmeno troppo magra. Anche i bambini mi sembrano sereni. Non dove essere così male, allora, tutto sommato.
- No, ve lo garantisco.
- I figli di Agata sono dei selvaggi. Tu eri decisamente una combina guai. I tuoi bambini devono per forza di cose aver preso da tuo marito, allora.
Uno schianto li fece voltare verso Balder, che aveva rovesciato una teca di vetro, rompendola in minuscoli frammenti. Aveva un’aria innocente che sfidava chiunque ad incolparlo. Era così convincente che si sarebbe potuto credere che la teca fosse caduta da sola.
Il prozio sbuffò. – Per lo meno, Serena è tranquilla. Quello lì è decisamente figlio tuo.
Ofelia si diresse verso Balder prima che mettesse una mano curiosa su qualche vetro.
Ancora, il prozio sospirò, prendendo la mano che Serena gli tendeva. La storia era finita e la bambina voleva vedere qualcos’altro. – Anche tu, Ofelia, hai rotto quella teca quando eri piccola. Il sangue non mente. Il tuo rimpiazzo qui non è niente di che, lo ammetto, ma ti assicuro che le rotture e i danneggiamenti dei reperti sono notevolmente diminuiti dalla tua dipartita.
Ofelia sorrise mentre seguiva il prozio in un’altra sezione. Qualcuno si stava già occupando dei frammenti di vetro, con aria corrucciata. Probabilmente il sostituto niente di che.
Del suo prozio amava anche quello: niente peli sulla lingua.
 
I giorni trascorsero velocemente e Ofelia si ritrovò a desiderare di avere un altro mese da passare con i suoi parenti. Non si era resa conto di quanto le fossero mancati finché non era tornata tra loro, tra oggetti arrabbiati o eccessivamente gioiosi, burberi o accomodanti, affettuosi o schivi, ma vivi. Casa sua, il suo enorme maniero pieno di stanze disoccupate e sale inutilizzate, le sembrò incredibilmente austero e... vuoto.
Riuscì a ricavarsi un po' di tempo con suo fratello una sera, dopo cena. Mangiarono con una cerchia ristretta di persone, solo parenti stretti, il che portava comunque il numero di partecipanti a più di venti: loro, gli ospiti del Polo, suo fratello e consorte, le sue sorelle, sua sorella maggiore e famiglia. Tom coglieva ogni occasione per stare insieme a Vittoria, tanto che due sere dopo il loro arrivo su Anima, visto che Berenilde e figlia erano ospiti di Agata, si era intrufolato nel suo letto e la mattina dopo avevano trovato i due bambini addormentati placidamente, abbracciati.
La conversazione a tavola riguardava proprio quello, e Ofelia aveva presupposto che avrebbe occupato tutta la serata.
- Sono stata lo chaperon di Ofelia e non mi è mai capitato di doverla redarguire per simili comportamenti incresciosi! Torno qui e guarda cosa mi tocca venire a scoprire! Non permetterò a nessuno di minare il buon nome e la virtù di Vittoria, nemmeno al mio pronipote!
Ofelia si astenne dal rivelarle che in realtà lei e Thorn si erano incontrati in segreto, da soli, da fidanzati, più volte di quante fossero state le loro apparizioni in pubblico. Tutte caste, ovviamente, ma la zia non avrebbe voluto sentire ragioni. E soprattutto non avrebbe accettato di scoprire che la sua protetta era sfuggita al suo sguardo vigile.
- Zia, suvvia, Vittoria e Tom non hanno nemmeno otto anni! Non sanno neanche cosa sia la virtù. E poi il mio Tom è un tale gen-ti-luo-mo!  - si intromise Agata, che già sognava un matrimonio in grande stile.
Ofelia si aspettava che suo fratello, seduto accanto a lei, le desse di gomito e le chiedesse di nascosto cos'era la virtù. Quando non accadde, si rese conto che Hector era ormai troppo grande per non conoscere quel genere di cose. Soprattutto considerando che era sposato. Sua moglie era una giovane fanciulla delicata, timida e silenziosa quanto Hector era curioso ed espansivo. Le piaceva molto, ma la sua presenza la rendeva dolorosamente consapevole di quanto suo fratello ormai fosse un uomo fatto.
- Oh, non è romantico che già a quest'età si amino così profondamente? Ro-man-ti-cis-si-mo!! - rincarò Agata, mentre Berenilde sorrideva con condiscendenza.
Ofelia immaginava che l'idea di dare già in sposa la sua bambina non la entusiasmasse, soprattutto perché aveva centinaia di richieste di matrimonio, al Polo. In risposta a quei discorsi su di loro, Vittoria fregò placidamente un carciofo dal piatto di Tom, lasciandolo interdetto.
- Quanta permissività! Nemmeno i caminetti sono così indomabili! - borbottò la zia Roseline.
Il prozio se ne stava zitto, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata esasperata alla pronipote, che ricambiava.
Al termine della serata, quando Archibald e Renard si misero come sempre a tenere banco e organizzare giochi, soprattutto Renard, Ofelia prese posto sul divanetto che nessuno occupava. Vittoria, Serena, Tom e Balder giocavano tutti insieme sul tappeto, controllati dalle tre gemelle che non la smettevano di coccolare i nipotini più piccoli. Domitilla, Eleonora e Beatrice erano sempre state affettuose, avevano pregato la loro madre più volte di concedere loro un altro fratellino o sorellina. Ma Sophie aveva già avuto sei figli, era stanca e nemmeno più così giovane. Così le tre gemelle si rifacevano sui figli di Agata e Ofelia.
Quando il posto di fianco a lei venne occupato, Ofelia si aspettava per qualche motivo che fosse Archibald a cercare la sua compagnia per importunarla, o perché si era stancato di tutte quelle chiacchiere e si annoiava. Ma la verità era che il sorriso dell'ex ambasciatore sembrava un pochino più sincero su Anima, le sue chiacchiere più sentimentali e le sue proposte indecenti più rare. Anche se si divertiva da morire a far arrossire la zia Roseline; Ofelia temeva che prima o poi le forcine del suo chignon-puntaspilli si sarebbero innervosite e gli sarebbero finite in un occhio.
Invece era Hector.
- Perché finito di mangiare non stai mai a tavola con noi?
Ofelia sorrise leggermente.
- Perché non mi piace prendere parte alle discussioni, lo sai.
- Perché hai rifiutato due matrimoni qui solo per finire incastrata in un altro matrimonio, così lontana?
Hector e i suoi perché. Le erano mancati terribilmente. Si riconosceva molto nel fratello. Quella domanda gliel'aveva già posta, una volta, proprio prima che Thorn arrivasse a prelevarla. La risposta che gli aveva dato in quell'occasione era la stessa che gli avrebbe dato in quel momento, basata su motivazioni oggettive, ma erano i suoi sentimenti ad essere cambiati.
- Lo sai perché. Non volevo sposarmi. Volevo gestire il mio museo in pace. Il matrimonio con Thorn è stato deciso dalle Decane, non potevo rifiutare.
- Perché non torni qui?
Quello, Hector non gliel'aveva mai chiesto.
Ofelia abbracciò la stanza stipata con uno sguardo. Il prozio si era lanciato in un'animata discussione storica con Renard, che si sarebbe messo a prendere appunti se avesse avuto sotto mano un quadernino. Berenilde sorrideva a tutti e lanciava lunghe occhiate a Vittoria, sorseggiando del vino, ascoltando Sophie che non la smetteva di parlare. Gli altri se ne stavano sparsi per il tavolo, formando capannelli, alcuni dando dimostrazioni ad Archibald di quanto fossero appassionanti le lotte tra posate. Quando qualcuno ruppe un bicchiere la zia Roseline sbottò, rimproverando tutti, ma il prozio aggiustò i cocci rotti senza nemmeno scomporsi o smettere di parlare della Lacerazione e di quello che ne era conseguito.
Anima era... caotica, esuberante come i suoi abitanti, ed era l'arca su cui era cresciuta, ma non era più la sua arca. La sua casa. Quella era dovunque fosse Thorn. E lì Thorn non c'era, e non ci sarebbe stato posto per un lavoratore del suo calibro.
- Sono sposata con Thorn, Hector. E lui abita al Polo.
- Potrebbe trasferirsi qui come tu sei dovuta andare lì.
Ofelia lo guardò, in attesa del resto. Hector la guardò con grande serietà.
- Perché non venite qui?
- Il suo lavoro è lì, Hector - rispose lei.
Il suo lavoro era lì, non la sua famiglia o il luogo in cui avrebbe preferito abitare. Il suo lavoro, l'occupazione in cui eccelleva e grazie alla quale si sentiva utile, l'aspetto sotto cui era in assoluto il migliore di tutti. Quando anche la sua famiglia l'aveva ripudiato e maltrattato, il suo lavoro gli aveva dato uno scopo. Ofelia non avrebbe mai avuto l'ardire di chiedergli di trasferirsi su Anima, dove lui non sarebbe stato odiato da tutti, dove nessuno gli avrebbe affibbiato etichette o lo avrebbe punito corporalmente. Perché lì non avrebbe avuto il suo lavoro, che rendeva Thorn ciò che era: l'Intendente.
E poi, ad essere sincera, l'idea di tornare a vivere all'ombra di sua madre la faceva rabbrividire. Al Polo era libera, nonostante quell'arca gelida e altera fosse ben più restrittiva.
- Non potrei mai chiedergli di lasciare un incarico così importante. Amministra Città-cielo e tutte le città maggiori e le province minori.
- Cos'è Città-cielo?
Ofelia trascorse la serata a raccontare al fratello come si svolgeva la sua vita al Polo, parlando così tanto che bevve quattro bicchieri d'acqua per non farsi seccare la gola.
Perché ci sono così tante faide tra famiglie? Perché non tappano i buchi invece di coprirli con le illusioni? Perché delle persone servono altre persone? Perché si chiamano domestici, se non sono animali? Perché rischi di prenderti il raffreddore anche se l'illusione ti dice che fa caldo e c'è il sole?
Serena e Balder le dormivano addosso da parecchio tempo quando finì di parlare. La maggior parte dei parenti era rincasata, nella sala rimanevano solo lei con i bambini, Hector e il prozio, che li ascoltava in silenzio. La giovane moglie di Hector aveva aiutato a sparecchiare e successivamente si era addormentata accanto al marito, con la testa sulla sua spalla. Ofelia si era aspettata che suo fratello non notasse nemmeno la presenza della moglie, invece le aveva preso gentilmente la mano tra le sue, senza smettere di parlare con lei, e l’aveva tenuta stretta tutta la serata. Un’altra prova di quanto le cose fossero cambiate in sua assenza, e quanto Ofelia si fosse persa.
- Mi sei mancato – sussurrò infatti a Hector dopo alcuni, lunghi secondi di silenzio.
Sophie si era congedata da tempo per andare a letto, seguita a ruota da suo papà. I mobili sembravano essersi addormentati anch’essi, e ogni tanto scricchiolavano o tremavano leggermente come chi è immerso in un sonno profondo, in preda ai sogni.
Hector la guardò con i suoi occhi chiari, così familiari eppure così estranei.
- Anche tu mi sei mancata. Vorrei che potessimo vederci più spesso.
- Pure io. Non è facile, però, con questa distanza. Thorn è molto preso dal lavoro e…
- Non potresti venire senza di lui, come hai fatto ora? Per esempio un mese sì e un mese no?
Ofelia scosse la testa. Andare su Anima per un mese a mesi alterni era impensabile. Uno stress incredibile, soprattutto per i bambini. Per non parlare del fatto che sarebbero stati lontani da Thorn troppo a lungo. Ofelia si sentiva così completa con lui… il distacco avrebbe fatto male ad entrambi, non solo a Thorn, che aveva appena cominciato a nutrire fiducia in se stesso, nelle sue capacità di padre e di uomo e si era costruito una vera famiglia. Era stato solo tutta la vita, non poteva permettere che si sentisse abbandonato nuovamente. E lei… anche lei non voleva andarsene. Voleva stare con Thorn, non importava quanto le mancassero la sua famiglia e le sue abitudini. Avrebbe sempre scelto lui, se glielo avessero chiesto.
- La mia vita ormai è lì, Hector – cercò di fargli capire Ofelia. – Non posso stravolgere la vita a Thorn solo perché voglio vivere qui. E poi lì sto bene.
- Perché continui a dire che lì stai bene? Quando sei andata via per sposarti avresti fatto di tutto per rimanere, me lo ricordo. Non mi hai nemmeno salutato quando sei partita.
Hector, il bambino calmo e curioso che Ofelia aveva sempre associato alla gentilezza e alla pacatezza, si stava agitando. E la cosa, senza motivo apparente, la faceva sentire colpevole.
- Figliolo – si intromise il prozio. – Calmati. È successo che tua sorella si è innamorata. E per esserci riuscito, quel mascalzone di suo marito deve essere davvero una persona eccezionale, non credi?
Per Ofelia, Thorn era davvero eccezionale, ma era sicura che agli occhi degli altri apparisse come un soggetto ambiguo, talvolta maniacale, stacanovista, misantropo e distaccato.
- Quando sono partita le circostanze erano molto diverse, Hector - cercò di rabbonirlo Ofelia. - La situazione era parecchio complicata e... pericolosa - si lasciò sfuggire ripensando a come Thorn aveva dovuto affrettare il ritorno a causa dell’omicidio che aveva commesso.
- Perché dici così?
Ofelia sospirò. Ma decretò anche che non c’erano più pericoli, che la loro vita e la loro posizione era molto diversa da quella in cui si erano ritrovati in origine. Così per la prima volta raccontò tutto, davvero tutto, al suo prozio e a suo fratello: l’arrivo al Polo, il lavoro di Thorn, la gravidanza di Berenilde, la sua scappatella, Chiardiluna, il suo aver impersonato un valletto, il tentato omicidio da parte di una vecchia apparentemente innocua, fino all’indagine, al salvataggio di Archibald e al matrimonio.
Erano le prime ore del mattino quando Ofelia finì di raccontare. Il prozio non si lamentava nemmeno più del dolore alla schiena, ma Ofelia sapeva che ne avrebbe pagato le conseguenze per tutto il giorno, e loro con lui.
- Posso venire anche io al Polo? La vita lì mi sembra molto più divertente di qui.
Ofelia si risistemò meglio Balder e Serena in braccio. Era così stanca che all’idea di doverli prendere e portare di sopra, probabilmente svegliandoli, fu colta dal desiderio di lasciarli lì. Pessima idea, dato che probabilmente sarebbero rotolati giù dal divano facendosi male.
- Non lo è, Hector, fidati non lo è. Quando tutto è ammantato di illusioni e non riesci più a distinguere la realtà da ciò che è fasullo, rischi di perdere la ragione e di non comprendere cosa ti circonda. In più, in base a quello che ti ho raccontato dovresti aver capito che luogo infausto e inospitale sia. Rovina le persone.
Hector la fissò al di sotto dei capelli rossicci, con i suoi grandi occhi buoni e ancora ingenui. - Allora torna qui.
Il prozio sospirò, seccato. - Hector, a volte mi chiedo se non rimarrai per sempre un bambino - lo rimproverò. - Quello che tua sorella vuole dire è che solo le persone più forti possono sopravvivere a quell’ambiente.
- E io non sono forte?
Il prozio si alzò dalla sedia brontolando per il male alle ginocchia. - Non quanto tua sorella – riuscì a dire tra un lamento e l’altro.
Stranamente, Hector non ribatté nulla.
Ofelia e il prozio guardarono lui e sua moglie uscire per andare a casa loro, che fortunatamente era lì accanto. Hector aveva il volto talmente stravolto dal sonno che, nonostante reggesse il corpo addormentato di sua moglie, Ofelia si chiese se il mattino li avrebbero trovati a dormire in giardino. Era un’eventualità molto probabile. Thorn le avrebbe anche detto di quanto in percentuale, se fosse stato lì con lei.
Il prozio, udendo il suo sospiro, le si avvicinò. - Raccontami qualcosa che possa farmi apprezzare di più tuo marito - le chiese. - O, per lo meno, farmi dimenticare perché lo odio così tanto per averti portata via da me.
Ofelia ci rifletté alcuni istanti. Poi le tornò in mente una frase che Thorn le aveva rivolto in biblioteca, nel suo studio, ancora agli albori della loro relazione, quando non erano che estranei diffidenti.
- Una volta mi ha detto che avere paura non era da me.
Il prozio sbuffò. - In che contesto?
- Eravamo all’inizio di... tutta questa storia. Ero sotto sorveglianza perché mi ero azzardata ad uscire di notte da sola, e per tenermi d’occhio lui e Berenilde facevano a turno per controllarmi.
Ofelia immaginò che il prozio avesse storto il naso, perché vide fremere i suoi baffoni.
- Che gli hai risposto?
- Che non poteva sapere cosa fosse o non fosse da me, dato che non si era preso la briga di conoscermi
Ofelia vide di nuovo i baffi dello zio sussultare, ma questa volta era innegabilmente un sorriso.
- Lo sapevo io. Te lo avevo detto - bofonchiò, in parte compiaciuto e in parte indignato. - Qui tutti pensano che ormai sia troppo vecchio per vedere al di là del mio naso, ma si sbagliano di grosso, figliola. Guarda quanto lontano ho visto con te. Chi vuoi che possa resistere contro di te, cocciuta e ostinata come sei? Neanche le carriole arrugginite oppongono così resistenza. Ah!
Ofelia sorrise e strinse il braccio al prozio, in un sobrio tentativo di abbraccio. Sapeva che non gli piacevano le effusioni, e sotto quell'aspetto le ricordava qualcuno, ma la sua visita ad Anima era troppo breve per potersi permettere di perdere tempo in simili sciocchezze. Entrambi avrebbero fatto tesoro di quei contatti quando fossero stati lontani.
- Sapete che sarei ben felice di accogliervi un pochino al Polo. A casa nostra. Ho sempre detto a Thorn che è troppo grande quel maniero, ma è il più piccolo di cui dispone.
Lo zio emise un fischio. - Chissà, prima o poi accetterò la tua offerta. Sarebbe molto istruttivo vivere in quell'arca anomala per qualche tempo, non come turista ma come vero cittadino.
Ofelia non aggiunse altro. Sapeva che con il prozio non bisognava insistere troppo.
Poi però lui sospirò. - Solo che, bambina, come posso lasciare il museo nelle mani di chicchessia? La persona scelta per sostituirti non ha la metà delle tue competenze. Non posso proprio vedere quel luogo andare a catafascio.
- Perché non istruite Hector al riguardo? Con tutte le domande che fa, nel giro di poche settimane potrebbe avere più conoscenza di me e di voi insieme.
- Non esagerare - borbottò lo zio. - Però potrei considerare l'idea, e dare qualche lezioncina anche a quella statuina di sua moglie. In realtà la giovane ha parecchio sale in zucca, è solo timida.
Ofelia, che non aveva capito se fosse un complimento o meno quello fatto ai pronipoti, rispose solo: - Bene. Ora vado a dormire, altrimenti tra poco i bambini si sveglieranno e io non riuscirò a star loro dietro.
Il prozio rimase ad osservarla mentre si caricava Balder in braccio e svegliava Serena perché salisse le scale. Era già un azzardo andare al piano di sopra con un bambino addosso, data la sua scarsa capacità di coordinazione, con due avrebbe davvero firmato la sua condanna.
Il prozio, che soffriva di insonnia da qualche tempo, soprattutto per via dell'età avanzata, si accontentò di sedersi sul divano e leggere mentre fumava la pipa, in attesa che il sonno sopraggiungesse. Forse era davvero giunto il momento di staccarsi un po' dalla propria terra natia e andare a vedere un'altra arca, un'altra cultura, un altro stile di vita. Non era quello che aveva sempre voluto fare con suo fratello, il nonno di Ofelia? Essere dei ricettacoli di novità, esploratori, avventurieri, portatori del vessillo di Anima nel mondo e recipienti di nuove idee da riversare a casa.
Ma quei giorni erano ormai lontani, suo fratello era morto da tempo e lui ormai era vecchio. Era diventato l'Archivista, il custode del museo; aveva conservato le memorie del passato invece di trasmetterne di nuove attraverso l'esperienza. Ma forse non era troppo tardi, no?
Borbottò sotto i baffi come un caminetto imbronciato.
Alla fine, sapeva che con Ofelia si sarebbe trovato bene. Era l'unica che ormai lo capiva davvero, e si fidava di lui, dei suoi consigli e della sua saggezza, senza mai giudicarlo sorpassato. Stare in sua compagnia, lontano dalla presenza opprimente di sua nipote Sophie e del resto dei parenti, gli avrebbe sicuramente giovato.
Così sonnecchiò placidamente, dormendo bene e più del previsto per la prima volta da settimane.
- Zio, avete dormito sul divano?!
Una voce stridula e penetrante lo svegliò di soprassalto. Sophie, già sistemata come se dovesse andare a bere il tè delle cinque, lo guardava con apprensione e disapprovazione.
- Non avete più l'età per fare certe cose, zio! O siete diventato smemorato e avete dimenticato in che casa vi trovate?
Il prozio lanciò alla nipote un'occhiataccia che venne palesemente ignorata. Borbottò qualcosa circa l'essere più sottovalutato di un rubinetto o di un buco nei vestiti, che secondo lui aveva non solo fascino ma anche utilità. Ma nessuno stava mai a sentirlo! Solo Ofelia che, per sua sfortuna, veniva considerata da tutti un po' svampita e poco affidabile.
Sospirò, facendo vibrare i suoi baffi ben curati. Nessuno riusciva mai a vedere oltre il proprio naso. Tranne lui, nonostante il suo, di naso, fosse imponente. Ma tra simili ci si capiva e l'importante era che Ofelia fosse felice e non lo considerasse un vecchio rimbambito e noioso con cui non si poteva più parlare.
La sua pronipote era rimasta l'unico affetto davvero sincero che avesse nella vita, al diavolo la famiglia. Non capivano nulla. Finché avesse avuto lei sarebbe stato soddisfatto.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


TERRIBILE. IMPERDONABILE. Passato quasi un mese, che vergogna.
Chiedo perdono, imploro.
Cercherò di postare più in fretta. Non di scrivere, perché bene o male tempo per quello ce l'ho, un po' qui e un po' lì, è proprio il postare che mi crea problemi :(
Grazie a tutti per la pazienza, davvero♥


Capitolo 30

I giorni passarono in fretta, e in neanche due settimane Serena imparò a pronunciare la r, nonostante fosse una r tutta personale. Era una via di mezzo tra quella di Thorn, dura e scricchiolante come il ghiaccio, quella "normale" di Anima e quella arrotolata e sensuale di Berenilde. Il risultato era una dolcissima r moscia che aveva fatto ridere i suoi cuginetti per diverse ore dopo che Serena era riuscita a pronunciare la prima. Le risate non l’avevano minimamente scomposta, e lei aveva continuato imperterrita a pronunciare la sua nobile r con una certa soddisfazione. Balder invece, portato in giro da tutti, aveva imparato persino a correre e Ofelia faticava non poco a stargli dietro.
Ogni giornata era piena di attività, così tanto che Ofelia dovette ricredersi sulla semantica della parola vacanza. In famiglia, nella stagione calda, erano soliti affittare un grande appartamento più vicino alle montagne, per godersi aria fresca e natura. Ofelia riusciva sempre a svicolare dalle richieste di unirsi a qualche gruppetto per delle energiche camminate, preferendo starsene comoda in casa con un libro od occupata in qualche esplorazione in solitaria. Almeno riusciva a riposarsi, visto che la madre allentava la morsa del controllo e non verificava ogni due secondi cosa la figlia stesse facendo e se lo stesse facendo bene.
Invece in casa, tra i figli vivaci e pieni di rinnovata energia grazie alle nuove amicizie con i cuginetti di tutti i gradi e la scoperta stessa di altri bambini, con i quali al Polo non avevano alcuna occasione di incontrarsi e giocare, a malapena riusciva a dormire. Soprattutto perché Serena pretendeva di dormire con lei fintanto che il papà non c’era, e Balder, seppur piccolo, aveva già capito come funzionavano le cose e imitava la sorella in tutto. Ofelia dormiva quindi con i due bambini, ma tra la paura che Balder cadesse dal letto e il sonno talvolta agitato di Serena, si ritrovava lividi in parti del corpo del tutto inspiegate.
Riusciva a trarre una boccata di respiro solo quando faceva visitare il museo ai figli. La loro curiosità e il loro desiderio di apprendere erano particolarmente inusitati in confronto alle abitudini degli altri bambini della loro età, che preferivano giocare all’aria aperta e sporcarsi tutti. Serena partecipava con pacatezza e riserbo ai giochi più scalmanati, mantenendo la compostezza al punto di attirarsi le lodi e i complimenti sia di Berenilde che di Agata, che la consideravano una piccola e raffinata dama di corte. Ad Ofelia quella descrizione non garbava molto, riconosceva nella figlia l’atteggiamento schivo, un po’ solitario e timido che aveva avuto anche lei da piccola, e solo il prozio riusciva a comprenderla per bene.
In ogni caso, le gite al museo erano le preferite dei piccoli, e quando il prozio gentilmente si offriva di mostrare loro qualcosa di speciale e riservato, concedendo del tempo da sola ad Ofelia, lei si rimboccava subito le mani e controllava i registri. Voleva assicurarsi che le mani che avevano preso in carico il museo dopo di lei fossero state accurate, ma talvolta trovava incongruenze ed errori grossolani di disattenzione o, peggio, negligenza e indolenza che le facevano salire il sangue alla testa. O il grigio alle lenti.
Per lei quei registri erano come i libri contabili di Thorn: le bastava uno sguardo poco approfondito per scovare subito sbavature e imprecisioni. Capì che il prozio apprezzava il suo lavoro di verifica e aggiustamento quando cominciò a sottrarle i bambini sempre più spesso. Suo malgrado, Ofelia dovette riconoscere che qualche ora di pace e isolamento le faceva bene, e che oltretutto il lavoro le mancava. Non vedeva l’ora che Renard iniziasse ad insegnare a Balder e Serena, così sarebbe potuta andare mezza giornata al suo studio e riprendere le letture.
Agata e Berenilde, che sembravano più sorelle di Agata e Ofelia, si comprendevano come poche. Inutile dire che alla madama aristocratica del Polo facevano più piacere del lecito le adulazioni di quella graziosa e prolifica donna provinciale, che trovava simpatica oltre che piena di fascino, buon gusto e maniere impeccabili. Ofelia avrebbe voluto raccontarle quanti dispetti le aveva fatto Agata, come tenerla per i piedi quando lei cercava di scappare in qualche specchio, o costringerla ad andare dal parrucchiere, nasconderle i vestiti a sua detta più vetusti e insignificanti, trascinarla a qualche evento mondano in cui Ofelia finiva sempre per fare la terza incomoda, ma era sicura che Berenilde avrebbe apprezzato quei tentativi di Agata di trasformarla in una vera donna di mondo. La verità era che quelle due insieme la spaventavano a morte.
Ed ebbe conferma dei suoi timori quando un pomeriggio irruppero in casa, facendo volare di mano ad Ofelia il libro che stava leggendo e svegliando Balder che, addormentatosi da poco, stava schiacciando un pisolino sulle gambe della mamma. Si era seduta da appena dieci minuti e già la quiete era terminata. Il libro finito a qualche passo di distanza cominciò a voltare da solo le pagine, agitato e imbufalito.
- Sorellina, abbiamo una sorpresa MOZ-ZA-FIA-TO! Non sai quanto vorrei aver pensato prima a questa trovata, ma Berenilde è così GE-NIA-LE che l’idea non poteva che provenire da lei!
Berenilde appariva compiaciuta ma al tempo stesso al di sopra dei fatti mentre si sventagliava con eleganza. Per lei, il clima tiepido di Anima era quasi tropicale.
- Suvvia, Agata, l’idea è stata soprattutto di vostra zia. Roseline ha fatto il commento giusto al momento giusto.
Alle spalle delle due donne, oscurata dalla loro presenza preminente, la zia lanciò ad Ofelia uno sguardo di scuse, che poco le si addiceva. I denti cavallini erano ben serrati, lo si intuiva dalla mascella rigida, e gli occhi esprimevano contrarietà.
- Io non ho avuto alcuna idea, non me ne prendo la responsabilità e non voglio averci nulla a che fare. È più ridicola di un asciugamano da bagno usato come sella!
Agata fece per ribattere, ma la zia la prevenne: - Non citarmi l’episodio del prozio Albert, era matto come un cavallo lui!
Berenilde non si soffermò nemmeno sulla questione, poco propensa a voler approfondire un episodio di bucolica vita vissuta di un prozio mandriano di qualcuno.
- Mia cara Ofelia, con la vostra adorabile sorella si stava disquisendo la possibilità di…
- …comprarti un vestito da sposa! – esclamò Agata, muovendosi come un bambino iperattivo.
Tom aveva decisamente, e fortunatamente, il carattere di Charles.
- Che? – esclamò Ofelia, con la voce di nuovo sommessa e recalcitrante come quando era ancora la fidanzata di Thorn.
- Vedete, mia cara – riprese il discorso Berenilde, - stavamo parlando di matrimoni, raccontandoci amenamente in che modo si sono svolti i nostri, e Roseline ha giustappunto commentato che la vostra cerimonia è stata di gran lunga la più inusuale e anticonvenzionale di tutte.
- Sorellina, ti sei sposata in pri-gio-ne! Con un braccio rotto e un vestito più che ordinario, del tutto fuori moda. Niente fiori, niente buffet, niente pubblico.
Ofelia aveva gli occhi spalancati dal terrore dietro le lenti, che pure si erano tinte di blu. Balder non piangeva nemmeno per il brusco risveglio, guardava la zia incantato, come sempre. Agata gli piaceva, in qualche modo, ma Ofelia aveva più il presentimento che fosse attratto dai suoi abiti sgargianti e dai nastrini svolazzanti. Li osservava come un gatto con un gomitolo di lana. Non a caso Salame le si attaccava ai vestiti più volte al giorno.
- Quindi, andiamo a comprare un vestito da sposa come si deve! Accoglierai Thorn in pompa magna, faremo un minuscolo ricevimento per celebrare sia il suo arrivo che il vostro matrimonio, anche se in ritardo, e sarà tutto per-fet-to! Io penserò ai fiori e agli inviti.
- Che idea meravigliosa Agata! E voi, madama eccelsa, avete sempre delle idee così argute, si vede che siete proprio su tutt’altro livello rispetto a noi! – si aggiunse al coro Sophie, che ovviamente aveva sentito tutto da qualunque camera fosse.
Anima non giovava allo spirito indipendentistico di Ofelia, alla sua volontà. Di nuovo si trovava preda dei capricci altrui, di organizzazioni che la riguardavano ma in cui non veniva coinvolta. Avrebbe voluto dire che trovava ridicola l’idea e, sebbene il suo matrimonio fosse stato tutto fuorché pianificato e consueto, le era piaciuto, perché lei e Thorn erano stati così vicini in quel momento… e lui le aveva confessato di amarla. Erano malmessi, doloranti, scarmigliati e disordinati, ma era stata una cerimonia intima, vera. Inoltre, Thorn odiava essere al centro dell’attenzione, odiava le feste, i ricevimenti, qualsiasi intrattenimento che coinvolgesse più di cinque persone, e odiava le sorprese. Non dava alcuna importanza a vestiti o manifestazioni d’affetto in pubblico. Da parte sua, anche lei odiava attirare gli sguardi, odiava i vestiti e gli eventi sfarzosi, il dover parlare. Aveva difficoltà anche in quel momento, di fronte alla prospettiva di dire di no alla sua famiglia, di dire loro che non sarebbe stato in alcun modo di loro gradimento una festa di matrimonio a posteriori.
E che sia lei che Thorn avrebbero odiato tutto. Ad Ofelia non piacevano le emozioni negative, ma quell’idiosincrasia nei confronti di celebrazioni e messe in mostra era particolarmente acuta.
Mentre sua sorella, la zia di suo marito, sua madre e sua zia, che cercava di remar loro contro, discutevano, Ofelia si alzò dal divano cercando di non attirare troppo l’attenzione e si avvicinò allo specchio a muro del salotto. Lo avevano posizionato lì proprio per permetterle di usarlo come porta d’ingresso tra il museo e casa, anche se sua madre era stata contraria all’inizio, perché una buona camminata favoriva la socializzazione con i parenti vicini di casa. Ottimo motivo, per Ofelia, per usare solo e unicamente lo specchio.
Dopo essersi assicurata che Balder fosse al sicuro sul divano, e dopo aver lanciato un’occhiata a Serena, che giocava a pochi passi con Vittoria e Tom, persi nel loro mondo, Ofelia immerse una mano nello specchio. Non sarebbe andata molto lontana, anzi, per nulla. Si sarebbe solo recata in camera sua. Nessuno avrebbe pensato di cercarla lì, era ridicolo usare lo specchio solo per non fare le scale. Ma l’idea di depistarli e ottenere un po’ di silenzio era troppo allettante.
Serena alzò in quel momento gli occhi su di lei, sgranandoli. Erano rare le volte in cui l’aveva vista fare uso del suo potere.
- Mamma? – la chiamò, facendo l’unica cosa che Ofelia sperava non accadesse: attirò l’attenzione su di lei.
- Vieni qui subito signorinella, dove pensi di scappare?! – esclamò sua madre, paonazza come quando Ofelia era più piccola e subiva una lavata di capo per aver involontariamente arrecato danno a qualcuno con la sua goffaggine.
- Oh – sospirò Berenilde, - ho sempre cercato di farle notare che usare gli specchi come via di fuga non è degno di una signora del suo rango.
La sciarpa si agitò vedendo la madre di Ofelia incedere verso di loro. Sorda ai richiami, Ofelia si tuffò con sollievo nello specchio.
Appena mise un piede sul tappeto di camera sua tirò un sospiro di beatitudine. Le voci concitate delle donne al piano di sotto le arrivavano ovattate, decisamente mento fastidiose. Si sarebbe nascosta sotto il naso di tutti per un po’, in attesa che le acque si calmassero.
Solo quando si voltò si rese conto di non essere sola: Serena, con gli occhi ancora sgranati, le tirava un lembo della gonna.
 
I progetti di tranquillità di Ofelia svanirono come fumo. Si inginocchiò di fronte alla figlia, in parte spaventata e in parte confusa.
Aprì la bocca per farle una domanda, ma si rese conto di non sapere quale. La bambina si era aggrappata a lei durante l’attraversamento, finendo risucchiata a sua volta? Era possibile una cosa simile? Oppure aveva ella stessa il dono di Attraversaspecchi? Come poteva spiegarle le implicazioni di quel potere in modo che lei capisse?
Si schiarì la voce, un po’ come faceva Thorn quando era in imbarazzo. – Serena, hai attraversato uno specchio.
La bambina annuì solennemente, confermando.
- Il papà ti aveva già detto che ogni persona ha un potere familiare, che gli permette di fare cose speciali, no?
Serena annuì nuovamente.
- Al Polo, l’arca del papà, le persone ne hanno solo uno. Ma il papà è speciale e…
- … ne ha due, la memoria degli Storiografi e gli artigli dei Draghi – la interruppe Serena, citando per filo e per segno ciò che Thorn e Ofelia le avevano insegnato, qualche mese addietro. - Tu, mamma, hai il potere della lettura, hai l’animismo e sei un’Attraversaspecchi. Su Anima siete tutti paenti quindi i doni si sono mischiati, le persone ne hanno più di uno e sono legati agli oggetti, mentre al Polo sono legati alla mente, perché Fauk – continuò, perdendo qualche r che ogni tanto le sfuggiva, - che è il papà di Vittoria, è il signore della mente. Il papà e la mamma di papà, che sono i miei nonni ma sono morti, avevano due poteri divessi e quindi papà ha due poteri. Io ho la memoria di papà e l’animismo come te, ma potrei anche…
- …sviluppare con il tempo altri poteri che si manifesteranno quando sarai più grande – concluse Ofelia, che si sentiva una madre un po’ inutile. Era un po’ scombussolante avere una figlia che si ricordava ogni singola parola pronunciata dai genitori. Sì, non si sarebbe mai dimenticata un insegnamento o una sgridata, ma avrebbe anche potuto ritorcere contro di loro le loro stesse parole. Orgogliosa di lei, però, Ofelia era fiera della figlia così intelligente.
- Ora sono più grande? Sono un’Attraversaspecchi?
- Non lo so, Serena – rispose sinceramente Ofelia. – È un potere che si mostra con l’adolescenza, e spesso dura poco perché quando non si è più in grado di essere onesti con se stessi lo si perde, ma…
- Cosa significa essere onesti con se stessi?
Ofelia si impose di ricordare che Serena doveva ancora compiere cinque anni. Le sembrava di parlare con una pari, a volte.
- Significa che sai chi sei. Sai cosa ti piace, cosa non ti piace, cosa vuoi e cosa non vuoi, di cosa hai paura e sai anche quali errori hai commesso. E li accetti, li capisci.
Serena parve rifletterci. – Io ho fatto errori, mamma?
Ofelia trattenne un sorriso. – No, non hai fatto nessun errore. Ecco perché quando si è piccoli è più facile attraversare gli specchi, affrontare se stessi. Ma tu sei davvero troppo, troppo piccola, per riuscirci.
Serena era ancora leggermente spaesata. – Ho fatto qualcosa di male?
Ofelia la strinse in un abbraccio, desiderando immensamente che Thorn fosse lì con lei. – No, tesoro. Vuol dire che sei ancora più speciale di quanto immaginavamo. Riproviamoci, va bene?
Serena annuì, sollevata e compiaciuta, nonostante il tentativo di nasconderlo.
- Io ora vado al museo dal prozio, va bene? Tu conta fino a cinque e seguimi, d’accordo?
- Come faccio mamma? Ho paùa!
- Non ti succederà nulla di male. Hai presente lo specchio enorme che c’è all’entrata del museo? Specchiati qui, e poi immagina di comparire in quello specchio lì, va bene? Io sarò già sul posto ad attenderti.
- Va bene, mamma.
Ofelia le scoccò un bacio sulla guancia prima di lasciarla, alzarsi e immergersi con un braccio nello specchio. – Visto? Il mio braccio è già dentro il museo.
- Ma è staccato?
- No, è ancora attaccato – rispose Ofelia, estraendolo per mostrarglielo, integro. – Lo specchio è una porta aperta. Il tuo corpo entra in un’altra stanza, l’unica differenza è che con gli specchi non vedi la camera in cui stai arrivando, ma il tuo riflesso mentre ci entri.
Serena non pareva molto convinta, eppure non si tirò indietro, forse timorosa di deludere la mamma.
- Ci vediamo tra cinque secondi.
Dentro al museo, comparsa così all’improvviso che una famigliola rubiconda sobbalzò alla sua vista, guardandola con sorpresa, Ofelia attese cinque secondi. Poi dieci. Infine mezzo minuto. Concesse a Serena un minuto intero prima di infilare la testa nello specchio, la sciarpa che si agitava convulsamente per l’ansia verso la figlioletta.
Serena la fissò con gli occhi grandi come piattini da tè. Le si velarono di lacrime.
- Mamma, sei senza testa! – piagnucolò, spaventata.
Ofelia riattraversò interamente lo specchio, ripiombando nella camera. – Va tutto bene, non fa male. Non ci sei riuscita?
 Serena scosse la testa, abbracciando stretto il collo della mamma quando questa la prese in braccio. – Avevo paùa.
- Non piangere Serena, non piangere. Non è successo nulla, non serve che ci riprovi.
- Mi canti la canzone dei numeri come fa papà?
Ofelia si bloccò, smettendo di cullarla. Inciampò sull’orlo del tappeto, o forse sui suoi stessi piedi, e cadde sul letto con Serena addosso, che rise.
- Papà canta?
- No! – esclamò Serena ridendo, già dimentica dell’ansia di pochi istanti prima. L’idea che Thorn cantasse era bizzarra persino agli occhi della bimba. – Però tu puoi cantarla.
- Ma non so come fa la canzone.
Serena si strinse nelle piccole spalle, cosa che fece aggrottare le sopracciglia di Ofelia. Quel gesto era tremendamente simile a quello di Thorn. La bambina cominciò a raccontarle la filastrocca che Thorn le mormorava, che Ofelia scoprì essere nient’altro che l’elenco dei numeri primi, dall’uno al tre al cinque, sette, undici, tredici, diciassette, diciannove, ventitré, ventinove, trentuno… al centonove Ofelia la bloccò.
- Capito mamma? Dimmela tu.
Ofelia dubitava di poter andare oltre il numero tredici. Il dodici era un numero primo?
- Ma io non la so!
Serena si accigliò, e se avesse avuto gli occhi argentati come quelli di Thorn Ofelia avrebbe saputo com’era stato da bambino, in versione femminile. La somiglianza la coglieva sempre alla sprovvista. E sì che aveva fatto fatica lei per metterla al mondo!
- Mamma, te l’ho appena detta!
- Non ho la memoria tua e di papà. Anche se me la ripetessi cento volte non riuscirei ad impararla.
Serena la guardò stupita. – Cento volte sono tante, mamma!
- Sono tantissime. Ma io non ho il potere tuo e di papà, vedi?
- Quindi tu non ricordi nulla?
- Ricordo tante cose, ma non tutto, e non subito.
Serena parve rifletterci.
- Ricordi quando papà ha detto che su Plombol gli animali più comuni sono gli alpaca, che sono come dei lama ma con una massa corporea più…?
- No – la interruppe Ofelia, che sentiva già il mal di testa premerle ai lati delle tempie. Tra il trambusto al piano di sotto e la trattazione di geografia… - Ricordo quando lo ha detto, ma non nei dettagli cosa ha detto.
- Oh. E quando…?
- Ascolta, Serena, aspettami qui. Vado dal prozio a vedere se mi sa dire qualcosa circa il tuo attraversamento di specchi, va bene?
Serena aggrottò di nuovo la fronte. Ofelia sentì una fitta intensa di nostalgia.
- Ma mamma, poi non ti ricorderai più cosa dice il prozio! Devo venire anche io.
Ofelia ridacchiò nonostante la mancanza di fiducia della figlia. – Questa volta mi ricorderò, vedrai. Non tutto, ma in termini generali sì.
- Papà dice che i dettagli sono sempre importanti. Non si possono tenere solo due ciffe decimalsi se il calcolo ne include sette.
Ofelia rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe potuta diventare Serena. – Si dice ‘cifre decimali’, tesoro. E quello che mi dirà il prozio non riguarda i numeri, quindi stai tranquilla.
Serena parve rassicurata da quel commento, e lasciò andare Ofelia con la promessa che le avrebbe raccontato tutto al ritorno.
- I dettagli mamma! I decimali! – le urlò prima che Ofelia si tuffasse nello specchio, ridendo in faccia a una coppia che le lanciò un’occhiataccia.
Si diresse a passo spedito verso il prozio.
 
Il prozio fu molto incisivo e lapidario nel darle informazioni, chiaro segno del suo pessimo umore, nonostante ciò che era successo a Serena lo avesse incuriosito.
Ofelia non gli chiese come mai fosse così stizzito, non era una buona idea con il prozio. Avrebbe parlato quando fosse stato il momento, o non avrebbe parlato affatto. Ma intuì che il suo livore era in parte specchio del suo quando lo sentì borbottare: - Vestirla come una bomboniera, bah! Non è nemmeno la Festa dei Ghingheri, e quell'orso di suo marito non si accorgerà di nulla! Ridicolo... robe da donne... pf, bah.
Il prozio continuò a sbuffare come una locomotiva a motore e a raschiarsi la gola come un gatto per tutto il tempo che Ofelia passò lì, prendendosela anche con lei che stava ostacolando l'esercizio delle sue funzioni. Si chiese se il prozio in qualche modo la ritenesse responsabile della bislacca idea delle parenti per il solo fatto di essere la moglie di Thorn.
In ogni caso, il vecchio archivista si dimostrò molto sorpreso dal racconto di Ofelia, anche se lo nascose meglio che poté. Quando si diventa anziani si tende a diventare suscettibili su tutto, e il prozio godeva nel mantenere la facciata di burbero custode di museo e uomo indignato e offeso anche senza motivo. Ofelia ormai non ci faceva nemmeno più caso.
Il prozio spulciò velocemente ma consapevolmente tre grandi registri: uno sul loro ramo familiare, un compendio di tutte le registrazioni di poter familiari degli ultimi centocinquant'anni e uno su alcune bizzarre manifestazioni di potere.
Ofelia avrebbe voluto dare una mano, ma quando il prozio infilava i baffi in un volume d'archivio era impossibile anche solo attirare la sua attenzione. Inoltre erano manoscritti molto vecchi, andavano maneggiati con cura e solo lui ne era autorizzato. Ofelia avrebbe solo fatto danni toccandone le vecchie pagine, infatti il prozio non le aveva mai permesso di farlo, nonostante la fiducia che nutriva nei suoi confronti. Lei stessa, per quanto attenta, non avrebbe mai voluto sfogliarli. Facevano parte di quei manuali contenuti nella camera fredda dell'archivio, insieme al Libro di Artemide, e alcuni li maneggiava, con molta, molta cautela, ma li maneggiava. Quelli non troppo importanti e fragili, però, come quelli che aveva in mano il prozio.
Stava utilizzando una lente d'ingrandimento luminosa che faceva un pochino i capricci, illuminandosi a intermittenza o spostandosi impercettibilmente facendo perdere il segno al prozio. Il suo occhio destro appariva enorme al di là della lente, e Ofelia avrebbe voluto che Balder e Serena fossero lì a vederlo, per farli ridere un po'.
- Niente di utile - si pronunciò il prozio dopo un'attesa che ad Ofelia parve infinita. - E non toccare gli espositori, sai che sono orgogliosi.
Ofelia ritrasse la mano guantata come una bambina birichina colta in flagrante. Il prozio non la stava nemmeno guardando. Si chiese se anche lei un giorno sarebbe arrivata a conoscere così bene i suoi bambini da anticiparne e intuirne le mosse.
- Qui parla solo, nel compendio delle bizzarrie, del caso di un bambino, un nostro parente di vecchissima data a giudicare dal registro delle genealogie, un cugino di... - il prozio contò a bassa voce, talmente a lungo che Ofelia si meravigliò di come ancora potessero tenere il conto di quante persone fossero nate e di chi fossero parenti, data la grande fertilità degli animisti. - ...ottavo grado da parte del prozio Umberto, il fratello di tuo nonno e mio.
Il prozio si fermò, in attesa di una sua reazione.
Ofelia si sistemò gli occhiali e accarezzò la sciarpa, che si era calmata e, vecchia com'era, le pendeva mollemente dalla spalla.
- Quindi?
- Oh, sì, giusto - riprese il prozio, che si era scordato il motivo della ricerca.
Comprensibile, visto quanto aveva scartabellato. Lei avrebbe perso il filo del ragionamento da un pezzo. Ofelia si rese conto che Thorn sarebbe stato benissimo in quel ruolo. Un archivio vivente, avrebbe ricordato a menadito ogni singolo ramo familiare discendente direttamente da Artemide, dall'albore della prima nascita, con una sola occhiata a quei registri. Forse a lui la veste di animista sarebbe stata meglio di quanto a lei stesse quella di moglie di un Drago. Al contempo, però, Thorn era troppo insofferente e noncurante delle buone maniere per vivere a contatto con vicini che erano anche parenti e si fermavano a scambiarsi salamelecchi ogni volta che si incrociavano. Se lo immaginava ad uscire solo di notte, quando era certo che non avrebbe trovato nessuno in giro. Oppure avrebbe vissuto direttamente negli archivi.
Il pensiero le fece sorgere spontaneo un sorriso che il prozio non notò. Insieme ad una fitta di nostalgia.
- Dunque - bofonchiò, leggendo attentamente. - Qui dice che questo bambino era un prodigio dell'attraversamento degli specchi. Ha iniziato alla giovane età di sei anni, molto prima della pubertà, e riusciva a coprire enormi distanze. Poi, quando è diventato adolescente e ha cominciato a diventare un tronfio e borioso esibizionista orgoglioso e saccente, non è più stato in grado di attraversare un accidenti di nulla. Ah, ben gli sta!
Ofelia dubitava che il registro riportasse tutta quella sfilza di insulti gratuiti ad un povero vanesio, ma non commentò la passione che il prozio profuse nel criticarlo.
- Quindi c'è già stato qualche caso di dimostrazione di attraversamento di specchi precoce?
- Sì, figliola, c'è stato. Ma mi hai detto anche che ora Serena non riesce ad arrivare qui, no?
- Esatto. Non so se magari lei sia riuscita ad attraversare sulla mia scia. Mi teneva per la gonna, è mia figlia, magari lo specchio l'ha lasciata passare per questo motivo.
Il prozio si lisciò i baffi, meditabondo. - Non credo sia possibile. L'attraversamento di specchi permette il passaggio di oggetti a contatto con l'attraversatore, ma non di persone. Ciò che dici non è del tutto errato, ma non ci sono prove che ne attestino la veridicità.
- E se provassimo a rifarlo? Potrei tornare in camera e poi attraversare nuovamente fino a qui facendola tenere alla mia gonna.
- Sarebbe l'unico modo per capire come mai è riuscita ad attraversare. In ogni caso, se fosse una precoce manifestazione del suo potere, non ci sarebbe da sorprendersi, visto che tu, sua madre, sei in grado di farlo nonostante la tua età.
Ofelia ripensò a suo padre, che da giovane era stato un Attraversaspecchi come lei, ma con il raggiungimento dell'età adulta e i conti fatti con se stesso, non era più stato in grado di usufruire di quel dono. Ofelia non voleva che succedesse anche a lei. Non solo perché attraversare gli specchi era comodo, o perché era una parte di lei, ma anche perché avrebbe significato non riuscire più ad essere onesta con se stessa. Essere cambiata senza rendersene conto, essere diventata qualcun altro, un'estranea.
Bisognava essere trasparenti e profondamente consapevoli di chi si era, per potersi riflettere dentro la propria immagine.
- Va bene, zio. Ora torno in camera mia, qualche minuto e sarò di ritorno.
Lo zio grugnì un assenso. - Torna all'ingresso principale, qui non ci sono specchi.
Ofelia annuì e ripercorse i corridoi fino allo specchio da cui era arrivata, con l'intenzione di tornare a casa. Quando emerse, però, si chiese con perplessità se non avesse sbagliato camera. Aveva lasciato la sua vuota, con solo Serena dentro. Invece quella stanza sembrava diventata il ritrovo delle signore benvestite dagli abiti gonfi e i visi accigliati.
Sua madre l'acchiappò per il polso prima che potesse tornare da dov'era venuta, con o senza Serena.
- Tua figlia ha sceso le scale piangendo, impaurita, terrorizzata, inconsolabile e disperata, sostenendo che uno specchio ti aveva mangiata. Come puoi lasciare in apprensione una creaturina simile? Sei una figlia sciagurata, anche da sposata e da madre continui a dirmi grattacapi!!
Ofelia si ritrasse di fronte a quegli strilli melodrammatici, socchiudendo gli occhi come a voler tenere fuori dalla sua vista la madre.
La zia Roseline, Agata, Berenilde e Vittoria erano tutte lì, schiacciate nella sua camera d'infanzia, a guardarla trucemente. Serena le si avvicinò... serenamente, come voleva il suo nome, e un sguardo veloce al suo visino ancora infantilmente morbido confermò ad Ofelia che sua figlia era tutto fuorché preoccupata. Dubitava persino che avesse pianto.
- Cosa ti salta in mente, di prendere e andare via così solo perché vogliamo, per una volta, farti apparire graziosa, femminile e... e...
Sophie si era incartata con le sue stesse parole, tanto era l'ardore con cui le pronunciava. Ofelia pensò che avrebbe dovuto recitare nei teatri disseminati per Anima. Sarebbe stata un'ottima attrice.
- E scin-til-lan-te, mamma! - le diede manforte Agata.
Se c'era una cosa che Ofelia non voleva essere, era scintillante.
Così fece una cosa che mai avrebbe pensato di fare, che trovava meschina e per cui si ripromise di farsi perdonare appena possibile. Dirottò l'attenzione su qualcun altro.
- Serena ha attraversato lo specchio prima.
- Cosa?! - esclamarono tutte le donne nella stanza, esclusa Vittoria.
Serena si rifugiò dietro la gonna della madre, e Ofelia si sentì ancora più in colpa. Se avesse pianto in quel momento, non l'avrebbe biasimata.
Si chiese quanti giorni mancassero al rientro a casa.
Al Polo.
 
Passarono quasi tutto il pomeriggio a fare esperimenti su Serena. A Sophie non era mai interessato granché dell’abilità di Ofelia di attraversare gli specchi, anzi, l’aveva sempre considerata una scocciatura viste le volte in cui la figlia le piombava sotto il naso senza avviso o si dava alla fuga senza possibilità di rincorrerla. Invece Serena non era sua figlia, era sua nipote, e non avrebbe esitato a vantarsi con tutto il vicinato delle capacità precoci e strabilianti della piccola.
- Su, tesoro della nonna, entra nello specchio.
Serena la guardava terrorizzata, in braccio alla mamma, mentre Sophie le si avvinava con uno sguardo che voleva essere elettrizzato ma era solo inquietante. Renard, poco distante, teneva in braccio un Balder prossimo alle lacrime perché pensava che stessero torturando la sorella.
Lui, Gaela e Archibald erano rientrati in casa da poco, solo per assistere a un dramma animista in pieno svolgimento.
- Mamma, non pensate che abbia tentato abbastanza? – le mormorò a bassa voce Ofelia, proteggendo la figlia dalle braccia morbide della nonna.
Sophie si stizzì. Sì, avevano davvero tentato abbastanza, prima provando a far attraversare Ofelia con Serena tra le braccia, poi con la bambina attaccata alla gonna, poi da sola, ma ogni volta lo specchio la respingeva. Ofelia si trovava a metà tra i due specchi, da una parte tenendo in braccio Serena, dall’altra parte con un piede al museo e un prozio che la guardava accigliato.
- Non serve a nulla, vengo a casa per cercare di far rinsavire quella testarda di mia nipote. Non c’è dubbio che tu abbia preso il tuo carattere da tua madre, figliola – aveva borbottato prima di andarsene.
Finalmente, proprio mentre Sophie stava per spingere, letteralmente, Ofelia e Serena nello specchio, il campanello suonò. La voce burbera del prozio risuonò in tutta la casa, facendo tirare un sospiro di sollievo sia ad Ofelia che a Renard.
Quest’ultimo si avvicinò alle due signore con Balder ancora in braccio, che allungò le braccia per essere afferrato dalla mamma. Ofelia mise per terra Serena e fece cambio con suo fratello.
- Siete molto animati, voi animisti.
Ofelia, gli occhiali storti sul naso, non si prese nemmeno la briga di rispondere.
- Scusate se vi abbandono, ma un litigio tra il pacato e saggio signor prozio e vostra madre proprio non me lo voglio perdere.
Ofelia sorrise, chiudendo la porta alle spalle della fiumana di gente che stava abbandonando camera sua. Renard lo diceva ogni volta che c’era qualche scaramuccia, quindi molto, molto spesso.
Dopo qualche minuto, quando Ofelia si sedette a letto con i figli dopo aver cambiato Balder, un pacato bussare alla porta la rimise sull’attenti.
- Sono io – bofonchiò il prozio.
Ofelia si sgonfiò come una cornamusa. – Venite pure, zio.
Il prozio si avvicinò borbottando come un caminetto durante la Festa della Bruciatura delle Immondizie Organiche. Una delle feste più odiate, a dire il vero, perché i caminetti si infuriavano talmente tanto per lo sfruttamento a cui venivano sottoposti che lanciavano fumo e schizzi umidicci di residui biologici per tutti i salotti. Non a caso il giorno successivo era la Festa degli Attrezzi da Pulizia.
Renard aveva passato un'intera cena a chiedere quante feste ci fossero lì, a cosa servissero e come si partecipasse. Ofelia non aveva avuto il tempo di dirgli che non servivano proprio a nulla, perché la maggior parte della sua famiglia le adorava e vi prendeva parte attivamente, sicché lei le aveva sempre subite tutte come una tortura.
- Tutto questo baccano per nulla. Fossero tutti silenziosi come te si vivrebbe molto meglio.
Ofelia gli sorrise con gratitudine. Stava per ribattere, quando il prozio l'anticipò, come leggendole nel pensiero: - Però se fossero tutti maldestri come te, il mio lavoro non sarebbe curare il museo, ma aggiustare gli oggetti rotti. Tutto il giorno, tutti i giorni. E non basterei nemmeno io da solo.
Ofelia continuò a sorridergli. Nel tono burbero e freddo del prozio c'era un affetto innegabile, che veniva raramente espresso a parole. Ma a chi servivano vuote parole quando i gesti lasciavano trasparire molto di più?
Sotto quell'aspetto, il prozio e Thorn erano uguali. E forse era per quello che Ofelia provava un amore smisurato per entrambi.
Fraintendendo il suo silenzio riflessivo, il prozio sospirò, dando un buffetto sulla guancia di Serena. - Non preoccuparti, bambina. Non c'è nulla che non vada in te. Sono sicuro che con il tempo scopriremo se sei o meno un'Attraversaspecchi. O quale stranezza ha scatenato tua madre oggi, visto che attorno a lei accadono sempre cose strane.
Serena sorrise, timida di fronte al quel vecchio pro-prozio che la intimoriva, ma era in realtà sempre gentile. Annuì con decisione, e l'ansia per quel pomeriggio in cui era stata sotto lo sguardo attento di tutti i familiari sparì. Ofelia conosceva bene quella sensazione, perché era la stessa da cui veniva pervasa quando raccontava al prozio le sue preoccupazioni. Ed era la stessa che da qualche anno provava con Thorn, sempre disponibile a tirare fuori una soluzione prima ancora che Ofelia aprisse bocca. Senza mai rimproverarla se rompeva o combinava qualcosa.
Ofelia sorrise leggermente e depositò un bacio sulla testa della figlia. Balder allungò le braccia, lamentandosi, per avere un po' di attenzione a sua volta.
- Bene, vi lascio alle vostre... faccende. Ci vediamo domani al museo?
Ofelia lanciò uno sguardo a Serena, lasciando a lei la scelta. La bambina annuì, regalando un altro sorriso al prozio. Che ricambiò sotto i baffi.
- Allora vado, ci vediamo a cena. E attenta a tua mamma, figliola, che non combini nulla di irreparabile.
Serena ridacchiò, e Ofelia guardò il prozio chiudersi la porta alle spalle con il petto attanagliato dalla nostalgia. Una profonda, lacerante e inspiegabile nostalgia.
- Sei triste, mamma? - le domandò Serena.
Ofelia scosse la testa, cercando di riscuotersi. - Mi manca papà - ammise.
Era vero, pensò, ma era anche riduttivo. Le ultime parole che le aveva rivolto lo zio erano le stesse che Thorn le aveva già detto o le avrebbe detto se fosso stato lì. E le mancava, le mancava davvero tanto. Suo marito, solo al Polo, più solo di quanto fosse mai stato visto che non aveva accanto nemmeno un parente o un rivale, come Archibald.
- Manca poco a rivederlo - aggiunse poi, più per consolare se stessa che i figli. - Mancano solo nove giorni.
Serena annuì e contò in punta di dita i giorni che mancavano. Il calcolo fu giusto a parole, ma con le dita indicò otto giorni, quattro su una mano e quattro sull'altra. Con tanto di dita storte.
Balder la imitò, per poi applaudirsi da solo, e mentre Ofelia rideva Serena gli aggiustò le dita, mettendogliele come le sue. Cioè ancora sbagliate.
- Se il papà fosse qui vi correggerebbe subito, quindi io non vi dirò nulla, lascerò a lui l'onore di insegnarvi.
Serena aggrottò la fronte come lui, gettando sale su una ferita aperta.
- Mancano solo nove giorni, possiamo farcela. Torniamo giù dalla nonna?
Serena impallidì, cosa che fece ridere Ofelia. Ancora una volta, capiva benissimo la situazione.
- Potrai giocare con Vittoria, Tom e le gemelle, però, e le altre cuginette.
Serena parve accettare, seppur con riluttanza, e scese dal letto.
Non lo avrebbe mai ammesso apertamente, con nessuno, ma era grata a Berenilde per aver scelto proprio lei e alle Decane per aver accettato quella proposta. Le loro motivazioni potevano anche essere bieche ed egoistiche, ma avevano permesso a lei di vivere una vita che nemmeno pensava di volere. Non sapeva cosa ci fosse dietro di preciso, ma sembrava tutto magistralmente orchestrato, come se qualcuno ci avesse messo lo zampino e avesse guidato i fili degli avvenimenti per farli accadere al momento giusto.
Così scese al piano di sotto, armandosi di pazienza. Quando vide Hector, suo papà, il prozio e Renard si rilassò. Con loro al suo fianco poteva sopportare i giorni che le restavano dall’arrivo di Thorn.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


E arriva Thoooorn yu-uuuh!! Non nel clima migliore, e non parlo solo della pioggia.
Dunque dunque, ci saranno ancora diversi capitoli (3 o 4) ambientati su Anima, dopodiché i nostri amati torneranno al Polo e io vedrò di dare una bella velocizzata al tutto perché se no non finisco più. Del tipo che prima sono giovani con Serena e Balder e come figli e poi hanno 50 anni, 6 figli e Serena si sposa. Ahahahahha no dai, scherzo. Su tutto. Non vado avanti di 20 anni, ma una bella scosa la devo dare, sono stata fin troppo prolissa fin qui.
Grazie a tutti e portate pazienza♥


Capitolo 31

Passarono finalmente i fatidici nove giorni che mancavano all'arrivo di Thorn.
Lui li aveva informati tramite un telegramma letteralmente telegrafico, parco di saluti, spiegazioni e basilari formule di cortesia, che sarebbe arrivato in anticipo di sedici ore sull'orario convenuto. Non aveva spiegato perché, aveva solo dato disposizioni, come suo solito. Sophie si era lamentata che almeno il genero avrebbe potuto spendersi un po' di più in chiarimenti, o scusarsi, visto che doveva anticipare di una serata la cena prevista in suo onore, ma Ofelia era stata talmente felice di ricevere sue notizie che non le sarebbe importato nemmeno se avesse scritto solo una data e un'ora. Che era un po' quello che aveva fatto, in ogni caso.
E sì, dimentica dell'unica cena preparata in onore di Thorn, a cui lui non si era nemmeno presentato, Sophie voleva sfidare nuovamente la sorte organizzandogli un rinfresco di benvenuto. Non poteva proprio concepire che qualcuno disprezzasse le feste, la socialità, la famiglia e i nuovi incontri, lo sfarzo e il mettersi in mostra. Tutte cose che Thorn, appunto, disprezzava. Non la famiglia in senso lato, comunque, ma ogni volta s'incupiva quando Ofelia gli riferiva qualche avvenimento accaduto ad un cugino di quinto grado da parte del prozio. Ed era difficile far adombrare Thorn, che era corrucciato di natura.
Quando Ofelia si svegliò la mattina per andare a prendere Thorn, non pensò nemmeno a cosa avrebbe significato averlo lì, ai litigi e alle provocazioni da parte di Archibald o di sua madre, al caos creato dall’assembramento di decine di animisti, parenti di vario grado. Non le importava minimamente, non aveva voglia di pensarci, perché fremeva all’idea di rivedere Thorn, di poter stare ancora accanto a lui, e non voleva che qualcosa rovinasse il suo arrivo.
Non sapeva quando, di preciso, fosse diventata così legata a lui, così dipendente, lei che prima di sposarsi aveva desiderato tanto la libertà totale. Ma non le importava nemmeno, perché solo al fianco di Thorn si sentiva… completa, in pace. E quello che provava per lui era talmente forte che non le dava nemmeno fastidio il pensiero che la sua felicità dipendesse totalmente da un’altra persona. Thorn ricambiava ampiamente i suoi sentimenti, e nulla aveva più importanza.
Serena l’aveva pregata di portare anche lei all’imbarco, per accogliere il papà, e Balder si era aggiunto a lei per il solo gusto di emulare la sorella. Ofelia, dietro insistenze che non aveva avuto voglia di affrontare per via di un feroce mal di testa, aveva ceduto. Ma quando il pendolo suonò per svegliarla, con il buio che ancora oscurava la giornata al di fuori, i bambini continuarono a respirare profondamente, totalmente addormentati. Scrutando i loro visini serafici dopo essersi infilata gli occhiali e aver sbattuto contro il comodino, che, offeso, le aveva pure sbattuto il cassetto sullo stinco, Ofelia non ebbe cuore di svegliarli. Sperava che continuassero a dormire finché non fossero tornati: allora li avrebbe svegliati il papà, facendo loro dimenticare la mancata promessa della mamma.
O così si augurava Ofelia. Era talmente tanto presto!
Si decise a lasciarli dormire. Si vestì in fretta, in silenzio, anche se si infilò più di una volta alcuni indumenti al contrario. Furono loro ad avvertirla, strattonandola, indignati per non essere stati posizionati dritti. Erano molto suscettibili gli oggetti di quella casa, dopo aver passato così tanti anni a contatto con Sophie.
Il gruppo ristretto che andò a prendere Thorn all'Interporto fu composto da Ofelia, suo padre e sua madre, Berenilde, Agata e suo marito, Renard, il prozio, Hector, le tre gemelle e due o tre cugini che "erano di strada". Ofelia non aveva capito per quale strada fossero, e cosa interessasse a loro dell'arrivo di Thorn, ma oltre che per la loro fertilità, gli animisti erano famosi anche per la loro curiosità.
Gaela e la zia Roseline sarebbero rimaste a casa per stare dietro ai bambini di Agata e a Vittoria, che non avevano alcun interesse nell’alzarsi alle prime ore del mattino per andare a prendere sotto la pioggia un signore che tanto avrebbero rivisto entro qualche ora, per quasi cinque giorni consecutivi. Ofelia si meravigliava di quanto a volte i bambini fossero più ragionevoli degli adulti.
Il percorso in carrozza fu quasi rilassante, tenendo conto del fatto che solo la pioggia teneva loro compagnia, e persino Sophie stava più in silenzio del solito. Più del solito però non significava totalmente zitta, e infatti la si poteva regolarmente udire sbuffare e brontolare perché quella pioggia rischiava di rovinare i loro piani: un picnic all’aperto per quella giornata, una passeggiata sulle colline animiste il giorno successivo, e una visita alle terme il terzo giorno. I primi due progetti servivano a far prendere un po’ di aria fresca ai bambini dopo una settimana di pioggia e nebbia incessanti, in modo che si sgranchissero le gambe e si stancassero abbastanza da far dormire i genitori. La visita alle terme era stata accuratamente preparata da Sophie per mostrare a Berenilde, Thorn e discendenza di Faruk varia che anche le loro attrazioni erano interessanti e degne di nota.
Ofelia non aveva nemmeno tentato di dirle che a Thorn non importava proprio nulla delle terme. Né tantomeno delle passeggiate. Non credeva neanche, sinceramente, che Thorn conoscesse il significato intrinseco di quella parola, ciò che comportava.
Ofelia provò uno sconquassante senso di dejà-vu quando scesero sul pontile d’imbarco, una marea di ombrelli lucidi di pioggia sotto la luce soffusa dell’alba. L’ultima volta che quella scena si era manifestata erano più prossimi al tramonto che al nascere del giorno, ma quello era l’unico elemento di sostanziale differenza. Certo, mancavano i bambini e avevano tutti qualche anno di più, Renard e Archibald non c’entravano nulla e Sophie era più entusiasta per l’imminente fine del temporale che per l’arrivo del futuro genero, ma il resto era proprio uguale.
Eppure era tutta diverso.
Ofelia non provava ansia, paura, repulsione per la situazione, desiderio di fuga. Era sempre nelle retrovie, troppo piccola e invisibile per poter sgomitare tra gli altri, ma non ne era felice, questa volta. E non era felice nemmeno di trovarsi fradicia, per via degli orli degli ombrelli che le gettavano addosso l’acqua. Voleva trovarsi in prima fila, vedere l’aeronave attraccare, vedere l’alta figura di suo marito stagliarsi nel cielo, il suo severo profilo tagliato col rasoio che scandagliava l’ambiente, gli occhi metallici e penetranti che cercavano minacce, e che cercavano lei, i capelli biondi scompigliati dal vento. E poi…
La pelliccia.
Ofelia fu spinta in avanti, come la prima volta, contro la sua volontà, ma fu grata di quelle mani che le indicavano la via, che la indirizzavano. Le lenti degli occhiali erano bagnate, e non avrebbe visto dove andava.
E poi fu lì. Contro una montagna di pelo. Un orso dalle sembianze umane, granitico, statuario, accigliato, rigido e più alto di tutti. Un pilastro.
Thorn, sotto la pelliccia da orso.
- Nipote caro! – esclamò Berenilde, imitata subito dagli altri che si aggiunsero a lei in una cacofonia di: - Intendente! Thorn! Cugino! Benvenuto! Carissimo! Illustre!
Ma Thorn non aveva occhi per nessuno, se non per la piccola donna bagnata come un pulcino che gli stava di fronte. Ofelia era riuscita a dimenticare nell’arco di pochi giorni quanto fosse alto il marito, e per un attimo, smarrita, si chiese se non si fosse alzato ancora. Provò paura per un secondo.
Una stretta al petto, il terrore che fosse successo qualcosa durante quei giorni di lontananza. Qualcosa tra di loro.
Poi però sentì delle lunghe, ossute e fredde dita sottili cercare la sua mano, toccarla attraverso il guanto, e stringergliela per un attimo talmente breve che Ofelia si chiese se non si fosse immaginata tutto.
- Buongiorno – proclamò la voce lugubre da lassù, dura, monocorde, inflessibile, autoritaria come se avesse appena promulgato un decreto e non esteso un saluto.
E Ofelia sorrise.
Sorrise, e finalmente sentì di essere tornata a casa.
 
Il ricongiungimento fu rapido e caotico. Quasi non ci fu, a dire il vero.
Un attimo prima Ofelia stava stringendo le dita di Thorn, quello dopo erano nuovamente accerchiati da animisti emozionati da una qualsivoglia novità. In questo caso, l'arrivo del funzionario del Polo su Anima, il fantomatico marito della cugina che aveva rifiutato ben due pretendenti.
L'ora poco allettante della mattina aveva fatto sì che poche persone, se poche si potevano definire una quindicina, la seguissero fino al dirigibile, ma sapeva benissimo che tutta Anima parlava dell'arrivo di questo misterioso intendente e marito, avvolto da un alone di misticismo, leggende e pettegolezzi. Era impossibile fermare una diceria su Anima, dove tutti erano una grande famiglia che si arrogava il diritto di sapere tutto su ogni membro di quel nucleo ristretto.
In sostanza, si sarebbero dovuti godere la calma prima della tempesta. Letteralmente, perché all'improvviso smise di piovere, e il picnic che sicuramente si sarebbe svolto di lì a qualche ora avrebbe attirato i parenti come nugoli di mosche in una stalla. Persino le imposte delle case sembravano impazienti, si muovevano a scatti, mentre la carrozza attraversava la città addormentata. I residui di pioggia facevano scintillare le foglie degli alberi, l'erba e i tetti lucidi delle abitazioni, le cassette della posta si scrollavano come cagnolini e i tombini borbottavano, stanchi di ingerire acqua.
Appena Thorn aveva salutato, gli animisti lo avevano accerchiato, forse cercando di contagiarlo con il loro buonumore, cosa che non sarebbe mai accaduta. Erano stati caricati senza tante cerimonie sulla carrozza, perché Sophie era ansiosa di comunicare al panettiere e al macellaio che il picnic si sarebbe tenuto regolarmente e a loro serviva la fornitura richiesta.
Ofelia tentò di dire alla madre che era troppo presto per andare a svegliarli, ma Sophie minimizzò la questione e Thorn, in risposta, le lanciò un'occhiata tagliente che la fece vacillare per un attimo. Ofelia nascose un sorriso nella sciarpa, e il prozio, seduto accanto a Thorn, lo nascose sotto i baffi. Chiunque osasse discutere con Sophie godeva della sua stima, anche se non lo avrebbe mai ammesso apertamente.
Ed ecco un'altra differenza tra i due viaggi. La prima volta che Ofelia era salita in carrozza con Thorn era stata ben attenta a non incrociare il suo sguardo, e lui aveva fatto altrettanto, fingendo addirittura di dormire per non dover ascoltare gli incessanti sproloqui di Sophie. Ofelia lo aveva studiato timidamente, nascondendosi dietro sciarpa e occhiali, cercando di definire i contorni affilati di quell'uomo che l'avrebbe portata via da casa sua, rubandole la vita. Quella volta, invece, Ofelia non si fece alcuna remora nel studiarlo, cercando di cogliere eventuali differenze. Thorn si era fatto crescere il pizzetto, che aveva accuratamente modellato a forma d'ancora. Apposta per lei, intuì Ofelia, perché una volta gli aveva detto quanto le piacesse su di lui quella barbetta precisa. La fronte sembrava ancora più alta, i capelli cominciavano a perdere lentamente terreno. Le cicatrici pallide sembravano raggi di luna opalescenti sulla sua pelle chiara, così in contrasto con gli occhi di un grigio tumultuoso, specchio del turbine che aveva dentro. Le labbra sottili erano serrate, intransigenti. Le mani nervose erano aggrappate alla sua piccola valigia da viaggio, leggermente più grande di quella che si era portato via la prima volta per un viaggio ben più breve. La schiena incurvata per riuscire a stare nella stretta carrozza, le gambe ripiegate come una fisarmonica, le ginocchia che sfioravano quelle di Ofelia.
Quando riportò gli occhi su di lui, dopo aver terminato l'ispezione, Ofelia sentì un crampo allo stomaco notando il suo sguardo intenso, quasi predatorio, fisso su di lei. La stava scandagliando ancora più minuziosamente di quanto lei avesse fatto con lui. Il tepore che l'avvolse inspiegabilmente venne subito dissipato, però, quando si rese conto che Thorn aveva delle terribili occhiaie. Erano migliorate dopo che si erano sposati, dopo, anzi, che avevano cominciato a... dormire insieme. Prima di quello, infatti, Thorn dormiva poche ore per notte, e talvolta non dormiva proprio. Non aveva riguardi per quel corpo che considerava solo uno strumento. Era stato unicamente il suo amore per Ofelia, il suo bisogno di godere del suo calore, di stringerla, di starle accanto, che aveva vinto le sue reticenze e lo aveva costretto a dormire diverse ore per notte. Capitava ancora spesso che Ofelia si svegliasse alle prime ore del mattino con il letto vuoto, perché lui si era rintanato nello studio in biblioteca o in ufficio per tirarsi avanti, ma in media dormiva molte, molte ore di più rispetto a prima. E questo aveva giovato alle sue occhiaie, che erano sbiadite sin quasi a sparire.
Si rese conto con sorpresa che era ricaduto nelle cattive abitudini, e che senza di lei a controllarlo continuamente probabilmente aveva perso anche peso. Oppure no, visto che quello glielo aveva raccomandato. Invece, non gli aveva detto nulla circa le ore di sonno che avrebbe dovuto dormire.
Stava per sospirare e aprire la bocca per chiedergli spiegazioni, quando lui la precedette: - Dove sono Serena e Balder?
Ofelia si sentì scaldare il cuore di fronte a quella domanda. Prima ancora di poter parlare con lei, Thorn voleva sapere dove fossero i loro bambini.
- Volevano venire a prenderti, me lo hanno fatto promettere, ma erano così placidi e addormentati che non me la sono sentita di svegliarli.
Thorn inclinò la testa come un rapace. - Dovresti insegnare loro che le promesse si mantengono. La parola data è importante.
Sophie, che continuava a confabulare con suo marito, che annuiva a tutto quello che lei diceva, si zittì, incredibilmente interessata a qualunque dialogo Thorn volesse intavolare con la moglie.
Ofelia sentì tutta la gioia scemare. Si vedevano dopo quasi un mese e la prima cosa che Thorn faceva era sgridarla?
- Lo so, non sono una millantatrice. Speravo solo che dormissero fino al tuo rientro, così avresti potuto svegliarli tu. Si sarebbero scordati della promessa. E Balder è irascibile quando lo svegli troppo presto.
Rendendosi conto che non aveva nulla di cui giustificarsi, che non aveva fatto niente di male, Ofelia serrò le labbra, restituendogli l'occhiata fredda.
Thorn fece intendere che il discorso era chiuso con un'altra domanda. O meglio, un'insinuazione. - Non mi pare che tu ti sia fatta male.
Il tono era monocorde come sempre, ma Ofelia lo conosceva abbastanza bene da sapere che in realtà era sorpreso. La cosa la offese un po', e cercò in tutti i modi di non muovere le gambe: aveva i polpacci graffiati per via di un'escursione di qualche giorno prima. I bambini si erano divertiti moltissimo, lei no.
Sophie fu subito pronta ad intervenire. - Ha rischiato di slogarsi un polso e una caviglia, qualche giorno fa, ma fortunatamente il suo amico Renard ha fermato la sua caduta. Un po' di ghiaccio ed è tornata come nuova.
Thorn non la degnò di uno sguardo, ma Ofelia vide il muscolo della sua mascella contrarsi.
- E tu? - lo incalzò lei, stanca di essere messa sotto torchio. - Hai dormito?
Thorn non si mosse di un millimetro. - Sì.
Domanda troppo generica. Lo avrebbe velatamente accusato. - Hai dormito poco.
Lui parve stizzirsi, anche se nessuno notò nulla. - Ho dormito il necessario.
- Necessario per il tuo lavoro, non per la tua salute.
Gli occhi di Thorn fiammeggiarono, e per un attimo Ofelia si ricordò del perché una volta, all'intendenza, avesse avuto paura di lui. - Necessario per potermi permettere di essere al passo con il lavoro e venire qui - ribatté lui.
Ofelia fece per ribattere, ma Thorn le intimò di tacere con lo sguardo. - Ne riparleremo dopo. Serena e Balder come si sono comportati?
Sophie, che si stava godendo il battibecco ma al tempo stesso non voleva che venisse rovinato l'umore della giornata, si immischiò nuovamente. - Oh, che bambini adorabili, sono proprio educati, simpatici e brillanti. E così precoci! Ofelia ci ha spiegato della vostra memoria, ma pare che Serena abbia preso anche da noi animisti - aggiunse orgogliosa. - Ora padroneggia con molta maestria il suo animismo, è brava sia a dar vita agli oggetti che a controllare le sue emozioni perché non interferiscano con essi. Sarebbe un tale disagio se ogni volta che un animista è arrabbiato volassero coltelli! E siamo fiduciosi sulla sua capacità di attraversaspecchi, dopo l'episodio che si è verificato diversi giorni orsono.
Thorn inarcò un sopracciglio. Sembrava combattuto tra il bisogno di sapere e la repulsione nel rivolgere la parola alla suocera ficcanaso.
Ci pensò Ofelia a mediare: - C'è stato uno strano episodio. Non sappiamo se Serena abbia attraversato uno specchio con me, se abbia seguito la mia scia, o se sia stata la manifestazione di un futuro potere.
Fortunatamente la carrozza si fermò all'improvviso, chiaro segno che erano arrivati. Ofelia era già stanca, e la giornata si prospettava ancora lunga. Inoltre, non le piaceva affatto passare per la bambina irresponsabile, sgridata dal marito. Non credeva che fosse possibile, ma il loro ricongiungimento era stato più freddo del previsto. Il sollievo provato nel rivederlo era stato come smorzato. Era ancora felice di rivederlo, quello sì, però... avrebbe voluto non avere quella discussione.
Thorn fu l'ultimo ad uscire dalla carrozza, il prozio aiutò Ofelia che prima ancora di mettere il piede sul primo scalino era già quasi scivolata. Le lanciò un'occhiata a metà tra la compassione e l'irritazione per i discorsi che aveva udito, ma non si immischiò, al contrario di Sophie. Le questioni tra coniugi, e genitori, erano private, e tali dovevano restare.
Ofelia cercò rassicurarlo che andava tutto bene. E andò tutto bene, infatti, quando Thorn le mise una mano sulla spalla e si chinò per dirle: - Vorrei vedere i bambini.
Ofelia annuì brevemente, consapevole solo di quella grande mano sulla sua spalla. Thorn era parco di contatti, soprattutto in pubblico. Il fatto che la toccasse, seppur in modo pacato, davanti ad altre persone, le fece capire quanto avesse sofferto la lontananza.
Sophie però aveva le antenne per ogni parola che sarebbe dovuta rimanere inudita: - Non metteteci troppo, signor Thorn, ci aspettano la colazione e una giornata pie-na di attività!
L'occhiata di Thorn ad Ofelia la diceva lunga su quanto condividesse quell'entusiasmo.
In quel momento arrivarono le carrozze con gli altri parenti, al che si affrettarono entrambi ad entrare in casa.
Stavano salendo le scale quando Thorn le chiese: - C'è qualcuno qui, in queste camere?
- No - rispose Ofelia, perplessa. Forse Thorn voleva parlarle senza che nessuno udisse. - Solo i bambini che dormono in camera mia, gli altri sono venuti tutti con noi a prender...
Ofelia non riuscì a terminare la frase che Thorn l’aveva premuta contro il muro con decisione e delicatezza al tempo stesso. Prima che Ofelia potesse anche solo tentare di capire cosa stesse succedendo, con gli occhiali storti sul naso, sentì le braccia di Thorn avvolgerla in un ruvido abbraccio, un po’ teso, come se fosse stato pronto ad allontanarsi non appena avesse presagito l’ombra di un rifiuto. Ma Ofelia si rilassò tra le sue braccia, sentendo finalmente di essere totalmente giunta a casa, e si strinse a lui.
Thorn si scostò lo stesso, ma prima che Ofelia potesse alzare la testa per protestare per quel contatto troppo breve, Thorn riempì di nuovo il vuoto con le sue labbra. Si impossessò della sua bocca come se non avesse atteso altro per tutto il mese, posandole possessivamente una mano sul fianco per attirarla ancora di più a sé. La baciò con urgenza, come se la violenza di quell’unione potesse cancellare i giorni di mancanza e solitudine. Non la baciava con quel bisogno e quella fretta da tanto, troppo tempo. Le guance morbide e ben rasate lenivano il prurito che le causava il pizzetto corto, e Ofelia sentì un fuoco divampare in lei, in barba ai parenti al piano di sotto e ai figli ancora addormentati a letto. Infilò le dita tra i capelli di Thorn, alzandosi sulle punte per riuscire a farlo, e prese un profondo respiro prima di baciarlo ancora, e ancora. Sentì la mano di Thorn posarsi bruscamente sul muro accanto al suo viso quando rischiò di perdere l’equilibrio, e se non fosse stata così presa dal bacio l’avrebbe fatta ridere che per una volta fosse lui quello instabile sulle gambe.
Thorn fece in tempo a lasciarle un bacio quasi timido sul collo prima di scostarsi in fretta: dalla porta d'ingresso erano appena entrati un nugolo di animisti e, nonostante loro fossero ben riparati e invisibili dal di sotto, c'erano tanti, energici bambini che potevano correre su per le scale e coglierli sul fatto.
Thorn si sistemò con pochi movimenti precisi il colletto della camicia, i capelli sparati e la piega dei pantaloni. Poi, senza un altro sguardo per Ofelia, che aveva ancora il respiro accelerato, aprì la porta di camera sua ed entrò con la sicurezza che solo l'intendente del Polo poteva vantare.
Si fermò in mezzo alla stanza, bloccato di fronte alla vista di Serena e Balder addormentati a letto. Esattamente come Ofelia li aveva lasciati, con i cuscini sul bordo per evitare che, girandosi, cadessero a terra.
Thorn rimase fermo tutto il tempo, mentre Ofelia chiudeva la porta e apriva silenziosamente le finestre, lasciando entrare l'aria umida e i primi raggi di sole dopo tanti giorni. Infine gli si avvicinò. - Svegliali.
Thorn deglutì a vuoto. Poi prese il suo orologio, aprendolo e chiudendolo in un secondo, e si schiarì la gola. Non guardò niente e nessuno quando disse: - Mi sei mancata. Mi sono... mancati loro. Molto. Anche un po' di più.
Commossa, consapevole di quanto dovesse essere stato difficile per Thorn pronunciare quelle semplici frasi, Ofelia gli prese la mano. - Anche tu, Thorn. Molto. Molto più di molto.
Thorn tacque di nuovo, ma questa volta Ofelia gli concesse il suo tempo.
- Hanno... hanno chiesto di me?
Ofelia gli strinse la mano più forte. - Tutti i giorni. Più volte al giorno. Serena si è fatta una lista di cose da raccontarti, che sarà bella lunga, dato che si ricorda ogni singola cosa che è successa.
Thorn annuì una sola volta, senza sbuffare di fronte alla prospettiva di ascoltare gli aneddoti di una bambina, senza mostrarsi annoiato o irritato. Anzi, Ofelia avrebbe giurato di vedere qualcosa, come un brillio, nei suoi occhi, ma era troppo in alto rispetto a lei per esserne sicura.
Poi Thorn si scrollò di dosso la veste sensibile e riprese i panni da intendente. - Mi sono perso molto?
- No - lo rassicurò Ofelia. - Balder cammina da solo, cade spesso però. La mia scarsa coordinazione non è una cosa genetica, penso solo che debba ancora capire come muovere bene il corpo lungo che si ritrova.
In effetti, Balder, come Serena, era già piuttosto alto per essere un bimbo di poco meno di due anni.
- Serena, come ha detto mia madre, ha imparato a controllare molto bene il suo animismo. Sa dare vita ai suoi giocattoli, e gli oggetti rispondono al suo umore.
 Questa volta Thorn si irrigidì. - Spero che non diventi scorbutica, con il tempo, perché di animiste ne bastano e avanzano due, senza doverci aggiungere lei.
Ofelia trattenne un sorriso, e non gli disse che se Serena fosse diventata scorbutica almeno avrebbero saputo a chi dare la colpa, tra loro due.
 - Dimentichi Balder.
Thorn fece una smorfia. - Non l'ho dimenticato. Stavo solo evitando di contemplare anche quello scenario.
Questa volta, Ofelia non riuscì a non sbuffare una risata. - È così tanto male avere tutti questi animisti in casa?
Thorn non le rispose.
- Prima non volevo... Sono stato duro. Irragionevolmente. Temevo che Serena e Balder non avessero nemmeno chiesto di vedermi. Pensavo che avessero fatto le ore piccole con Renold o Archibald, e che non volessero venire a prendermi.
Ofelia si pentì nel profondo di non aver tenuto fede alla promessa fatta ai figli. Aveva pensato solo al loro interesse, e al suo, lasciandoli dormire. Non aveva tenuto conto che Thorn era stato solo, completamente solo, per un mese, e che al suo rientro i primi volti che avrebbe sicuramente voluto vedere sarebbero stati quelli della sua famiglia.
Messo da parte, ecco come doveva essersi sentito. Così poco importante da non valere nemmeno lo sforzo di andare ad accoglierlo al suo arrivo.
Ofelia gli lasciò la mano. - Perché non li svegli e guardi le loro reazioni?
Thorn sembrava quasi... spaventato. Come se ancora temesse un rifiuto, dai suoi stessi figli. Un approccio tiepido e distaccato.
Ma per lui il discorso non era ancora chiuso. - Non avrei dovuto prendermela con te se Serena ha mostrato un altro potere familiare quando io non c'ero. O diffidare di te al punto da chiederti se fossi ferita.
Ofelia si irrigidì. - In verità, ho alcuni graffi sulle gambe. Non me la cavo molto bene con le escursioni.
Non lo guardò, ma Ofelia seppe che Thorn la stava scrutando molto intensamente, dall'alto.
- E comunque io non ritiro quello che ti ho detto. Avresti dovuto dormire di più - lo rimbeccò.
La voce profonda, dall'accento duro di Thorn, le vibrò fin nelle ossa: - Mi era sembrato che... ci tenessi ad avermi qui. Quanto prima.
Ofelia, solo per una volta, desiderò essere più alta. Per potersi avvicinare e dargli un bacio senza dover saltellare sulle punte e trascinare giù Thorn. Perché allungarsi il più possibile non bastava, Thorn rimaneva troppo alto.
- Certo che ci tenevo. Ci tengo. E sono felice che tu sia potuto venire prima. Però non dormire non va bene, Thorn.
- Rimedierò. A casa.
Ofelia sorrise. Thorn le faceva ogni genere di concessioni, anche quelle che lei non chiedeva. Non gli aveva chiesto di raggiungerli il prima possibile su Anima, di accelerare il lavoro e stare di più con loro. Ma lui aveva colto il suo desiderio implicito, e lo aveva fatto.
Quell'uomo che non aveva chiesto di sposare, né di incontrare, era tutto quello di cui lei avrebbe mai avuto bisogno, senza nemmeno saperlo.
- Mi devi fare un resoconto dettagliato sui bambini - continuò lui, come se stessero parlando di censimenti e catalogazioni invece che dei loro figli.
Ofelia sorrise. - Te lo farà Serena, non dubitarne. Ora svegliali, prima che arrivino su tutti i parenti che sono di sotto, per verificare perché non scendiamo.
Thorn si mosse molto in fretta nel raggiungere il letto, come se le parole di Ofelia avessero fatto scattare un allarme in lui. In effetti, non era del tutto una minaccia irrealizzabile, il monito che gli aveva rivolto.
Thorn scostò un cuscino, un po' impacciato, e si sedette sul bordo del letto. Guardando quella lunga mano esitante che si avvicinava a Serena, tentennando, Ofelia si rese conto che forse non sapeva bene come svegliare un bambino. Thorn non aveva mai dovuto farlo, di solito era già al lavoro quando si alzavano, oppure ci pensava lei a farlo per lui.
Inoltre, rabbrividendo, si ricordò di quelle volte in cui Thorn aveva svegliato lei, ma in un modo che davvero non avrebbe potuto adoperare con Serena, né con Balder. Né con chiunque altro non fosse lei, a dire il vero.
Le lenti si tinsero di rosa, e mentre Ofelia cercava di pensare ad altro pregò che Thorn non si voltasse verso di lei, notando il suo imbarazzo.
Alla fine Thorn si decise, e scosse piano la spalla di Serena, chiamandola per nome. Dovette fare qualche tentativo per indurre la bambina ad uscire dal sogno in cui era immersa. Serena mugugnò in protesta, ma quando sbatté gli occhi scuri, della stessa tonalità di quelli della mamma, si zittì.
- Papa? – mormorò, confusa.
Poi parve mettere a fuoco non solo la figura di Thorn, ma anche dove fosse, cosa stesse accadendo e perché.
- Papà! – esclamò, contenta, mettendosi subito seduta per agganciare le braccia al collo del padre.
Rendendosi conto che non ci arrivava, si alzò lestamente in piedi, e abbracciò Thorn saltellando sul letto.
- Balder, papà! Balderrrr c’è papà! Sorpresa!
Thorn lanciò un’occhiata a Ofelia, senza ricambiare la piccola, ma nemmeno respingendola nonostante gli stesse praticamente saltando addosso. – Ha imparato a dire la r?
Ofelia si strinse nelle spalle. – Una specie…
- Sì papà, dico la r! Ramarro verde, ranocchia ruvida, arrabbiato, pasta!
Ofelia ridacchiò di fronte a quella sfilza di parole pronunciate a caso solo per esibire a Thorn la sua r moscia Tutte tranne una. – Pasta non contiene la r.
Serena si bloccò, perplessa. – Ma la pasta al ragù sì.
Balder cominciò a mugolare in quel momento, contrariato da tanto baccano.
- Ti piace la mia r papà? È bella? – chiese Serena, fregandosene di Balder.
Thorn aggrottò le sopracciglia. – È una r.
Cosa avrebbe dovuto rispondere ad una tale domanda? Serena, in ogni caso, parve soddisfatta, e finalmente lasciò il collo di Thorn per aiutare Balder ad alzarsi.
Il bambino fu leggermente più contenuto nel dare il bentornato al papà, non per scarso entusiasmo ma per via del risveglio lento. Cominciava ad ingranare dopo mezz’oretta abbondante da quando apriva gli occhi. I suoi però espressero sicuramente gioia quando riconobbe Thorn e gli cadde addosso nel tentativo di abbracciarlo.
Thorn lo tenne fermo prendendolo sotto le braccia. – Ma non avevi detto che stava in piedi da solo? – domandò ad Ofelia, sempre più accigliato, guardando Balder che sgambettava.
- Sì, ma fa ancora fatica, è un po’ scoordinato e i materassi non sono la superficie migliore su cui camminare.
Thorn sembrava scettico, così lasciò perdere il tentativo di Balder di stare in piedi da solo e lo prese in braccio. Serena gli fu addosso nuovamente, abbracciando sia il fratellino che il papà. Thorn era rigido come uno spaventapasseri, incerto su dove mettere le mani o come comportarsi, ma in un certo senso sembrò godersi quelle attenzioni. E in pochi istanti le rughe gli sparirono dalla fronte, davanti all’evidenza che i suoi figli avevano sentito la sua mancanza.
- Che bello che sei qui, papà – mormorò Serena contro la sua spalla.
Ofelia rimase in silenzio a godersi la scena di Thorn avviluppato dalle piccole braccia dei figli, a disagio ma… felice. Sollevato. Lo vide allargare le sue, finalmente, per stringerli a sua volta a sé. E infine si avvicinò anche Ofelia, guardando Thorn negli occhi e inserendosi nell’abbraccio.
 
La pace e il sollievo scaturiti da quell'abbraccio durarono molto, molto poco.
Dagli schiamazzi al piano di sotto Ofelia e Thorn capirono che li stavano chiamando, esigendo la loro presenza. Serena, impaziente di presentarlo a tutti come se non lo conoscessero già, trascinò Thorn al piano di sotto. O per meglio dire, gli tirò i pantaloni senza farlo muovere di un millimetro finché lui non si decise a seguirla, con Balder in braccio.
Ofelia sospirò, armandosi di pazienza, e seguì il marito giù per le scale quando quasi si scontrò contro sua sorella e Berenilde. La prima era decisamente scalpitante, entusiasta, la seconda più composta, ma negli occhi aveva un luccichio furbo e malizioso che ad Ofelia fece tornare in mente il tempo in cui era stata sua ospite e Berenilde si era divertita a farle fare una quantità di cose per far passare la noia.
Ofelia si fermò così di botto da perdere l'equilibrio, e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. Thorn girò solo il capo per lanciarle un'occhiata da sopra la spalla, svettando sulle teste delle due donne.
- Sorellina dobbiamo fare quella co-sa!! - esclamò a bassa voce Agata, rendendosi ancora più sospetta agli occhi di Thorn.
Che infatti aggrottò le sopracciglia.
Ofelia fu lesta a girare i tacchi, ma sua sorella ormai la conosceva bene: gliene aveva fatte troppe sotto il naso per poter sperare di riuscire a fregarla ancora. Così, quando era riuscita ad immergersi nello specchio solo fino al gomito, Agata le afferrò la vita e la tirò indietro con forza, facendo cadere entrambe sullo spesso tappeto.
- Ma insomma, sorellina! Smettila di fare i capricci. La mia piccola Berenilde è molto più educata di te! Sarà tutto ME-RA-VI-GLIO-SO, vedrai!
Ofelia si sentiva come un animale in gabbia, e perse completamente le speranze quando vide Berenilde, quella grande, non la nipote, pararsi davanti allo specchio, nascondendo un'occhiata vittoriosa dietro il ventaglio. Thorn era ancora in corridoio, incerto se intervenire o meno. Optò per il sì quando Agata gli bloccò l'accesso alla camera, che era momentaneamente anche camera sua.
- Mi dispiace cognato, abbiamo una sorpresa in serbo per voi. Aspettateci giù, arriveremo im-me-dia-ta-men-te!
Non gli lasciò nemmeno il tempo di replicare, Agata chiuse la porta e si voltò verso Ofelia con sguardo di riprovazione.
- Sei sempre la solita, sorellina, se la gentil dama illustre che è qui con noi non avesse contribuito a sceglierti come moglie per suo nipote, ora saresti una vecchia zitella sola e scorbutica come... - mormorò Agata, prima con tono concitato e poi abbassando via via la voce fino a bisbigliare, - ...come la cugina Sempronia!
Ofelia avrebbe voluto dirle che Sempronia non era proprio scorbutica, dato che faceva gli occhi dolci persino agli uomini sposati pur di provare ad accalappiare qualcuno. Suo malgrado, si ritrovò a chiedersi se sarebbe diventata come lei, se Berenilde e Thorn non avessero ordito quell'intrallazzo per i loro scopi personali. Rabbrividì al solo pensiero di... trovarsi in certi atteggiamenti insinuanti con degli uomini. Non ci era portata, non ne sarebbe mai stata portata, e non avrebbe nemmeno mai voluto provarci. Ma se pensava che prima di innamorarsi di Thorn aveva addirittura aborrito l'idea di dividere con lui il talamo...
Persa nei suoi pensieri, non si rese quasi conto che Agata le stava slacciando il vestito. Se ne accorse solo quando sentì un leggero freschino al petto, e quando abbassò lo sguardo notò il corsetto che svettava. Si allontanò di scatto, cercando di ricoprirsi, un po' per pudore e un po' per automatismo.
- No, sorellina n-o! Il vestito da sposa! Lascerai Thorn a bocca aperta.
Ofelia aveva rimosso l'esperienza a cui era stata costretta a sottoporsi qualche giorno prima. Si era scordata che nell'armadio era accuratamente imbustato un vestito sfarzoso, bianco e decisamente troppo vistoso. Si era scordata di avere alla fine ceduto alle ripetute insistenze di Agata, più per esasperazione che per magnanimità. E si era scordata che, sempre per lo stesso motivo, aveva accettato di indossarlo per quella colazione.
Lei trovava ridicolo comprare un vestito da sposa tutto pizzi e merletti solo per esibirlo durante una colazione in cui, quasi sicuramente, si sarebbe sporcata di burro e marmellata e, se non lo avesse fatto lei, lo avrebbe fatto Balder. Una spesa inutile, uno spreco. Non migliorava la situazione il fatto che glielo avesse regalato Berenilde, completamente d'accordo con Agata, come se per Ofelia non fosse possibile pagarlo. Tecnicamente era vero... non circolava mai con denaro con sé. A dire il vero non aveva nemmeno idea di quale fosse la valuta in circolazione al Polo. Però di sicuro a Thorn non mancavano le disponibilità per comprare un vestito.
Nulla però eguagliò il fastidio che provò quando Agata riuscì alla fine a spogliarla e farle indossare quel ridicolo vestito vaporoso. Si sentì quasi umiliata quando scese per le scale, mentre dietro di lei Agata strepitava al culmine della gioia e Berenilde le dava man forte più compostamente.
Quando i parenti sotto di lei alzarono lo sguardo, unendosi al coro di esclamazioni di Agata, tra le cui voci spiccava Sophie, Ofelia si sentì andare a fuoco il viso.
Come previsto mancò l'ultimo scalino, ma una mano forte e fredda la prese per il braccio per ristabilizzarla, per poi allontanarsi come se si fosse scottata. Ofelia alzò lo sguardo, riuscendo ad intravedere il viso di Thorn solo in ombra. In ogni caso, non le sembrava stupito, estasiato, rapito come tutti gli altri. Era impassibile come sempre, quasi irritato da tutto quel caos, e Ofelia avrebbe voluto ridere di fronte alla sua espressione corrucciata, così fuori luogo se accostata alle altre.
La cosa la sollevò immensamente, perché era quello l'uomo che aveva sposato, che rimaneva fedele a se stesso sempre e comunque, senza mai uniformarsi. Era anche quella la ragione per cui lo amava.
Quando però fu avvicinata da Renard, così contento da sembrare una fiamma viva, quando ricevette un minuscolo e velato complimento da parte di Gaela, quando Archibald le fece un voluttuoso baciamano con il chiaro intento di far innervosire Thorn e quando anche il prozio dovette ammettere che non stava male con quel vestito, anche se lui non ne capiva nulla e non comprendeva come una donna potesse dare tanto valore ad un oggetto che aveva pochi mesi di vita e ne avrebbe avuti altrettanto pochi, Ofelia fu colta da un leggero disagio. Non era felice all'idea di esibirsi, era ovviamente fuori dal suo ambiente, ma c'era un altro tipo di malessere emotivo che si fece largo dentro di lei senza spiegazione.
Ofelia cercò Thorn nella folla, sperando di riuscire a mangiare, prima o poi, e lo vide impegnato ad ascoltare Serena, dimentico del resto. Subito dopo la mise giù per prendere Balder e avviarsi su per le scale, probabilmente per cambiarlo.
Non rivolse a lei nemmeno uno sguardo fugace.

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Alloraaaa ihihihih. Cosa sta succedendo?
COSA STA SUCCEDENDO?! Sicuramente lo avrete capito tutti, tranne Ofelia, perché si sa, è sveglia come poche, sagace, intelligente, arguta, ingegnosa ecc, ma quando si tratta dei suoi sentimenti non-ci-capisce-niente.
Non aggiungo altro xD
Se non che ho aperto una pagina instagram da nerd quale sono! Non è nulla di che, posto solo le foto dei libri che leggo, tipo cronostoria, lo faccio più per me che per avere seguito, ma mi piacerebbe creare una copertina per questa storia che ormai sta diventando quasi un libro (273 pagine ad oggi... *urlo di Munch*). E niente, se volete sono maxb.reader, giusto a titolo informativo.
Spero che il capitolo vi piaccia e non uccidetemi♥


Capitolo 32

Riuscirono a fare colazione, alla fine, quando era più che altro ora di pranzo.
E Ofelia riuscì anche a togliersi quel vestito, promettendo a se stessa che non si sarebbe mai più prestata a simili sperimentazioni.
Organizzare il picnic e caricare decine, perché di decine si trattava, di animisti sulle carrozze non fu un'impresa facile. Sarebbe stato più semplice convincere una saliera a prestarsi come bicchiere. O un cuscino ad essere utilizzato come... asciugamano! E i cuscini erano molto, molto suscettibili.
Alla fine arrivarono nel parco più bello di Anima poco dopo l'ora di pranzo. L'idea era quella di passare un po' di tempo a godersi il sole, facendo correre e divertire i bambini, scambiare quattro chiacchiere e poi cenare presto e tornare a casa per un bicchierino di un qualunque digestivo.
Sophie non lesinava sui saluti ogni volta che incontrava dei parenti, cioè sempre, dato che la maggior parte degli animisti sembrava aver avuto la geniale idea di approfittare del sole all'aperto, ed essendo più o meno parenti di svariati gradi, si conoscevano praticamente tutti.
- Ma non si lavora mai su Anima? - borbottò Thorn quando, costretto a portare un cestino da picnic che aveva guardato come se fosse un rifiuto sudicio, si fermarono di fronte all'ennesima esclamazione estatica di qualcuno di fronte alla presenza degli stranieri del Polo.
- Vacanze – commentò laconicamente Ofelia, come se quella parola giustificasse tutto.
Thorn trattenne uno sbuffo. – Mi pare che la proporzione debba essere di diversi giorni di lavoro di più rispetto ai giorni di congedo – borbottò. – Non tre giorni di vacanza ogni giorno lavorato. Con svariate festività inspiegabili di mezzo.
Ofelia si strinse nelle spalle. Non aveva alcuna intenzione di mettersi a discutere sull’andamento burocratico e lavorativo di Anima. Le cose funzionavano in quel modo, lì, e funzionavano bene. Un ingranaggio complesso, che in qualche modo produceva tutto ciò di cui avevano bisogno. Tutti avevano un’occupazione, tutti erano utili e soddisfatti. Al Polo, invece, dove lo sfruttamento dei lavoratori era all’ordine del giorno, non sempre le cose si svolgevano come si conveniva. C’era malcontento, c’erano troppe differenze tra persone che avevano gli stessi diritti umani, troppe discrepanze e troppi nullafacenti tra quelli che avrebbero dovuto cambiare le cose. O fare qualcosa, dal momento che erano i favoriti, quelli con il potere, in grado di far sentire la loro voce.
Ma Ofelia si guardò bene dal dirlo. Non voleva dare il via ad un alterco in una giornata dedicata alla convivialità.
Finalmente riuscirono a prendere posto sul prato, la cui rugiada era stata fortunatamente già asciugata dal forte sole. Ovunque cominciarono a vedersi mucchietti di abiti, giacche, scialli e sciarpe che venivano accantonati per poter godere del sole sulla pelle. Agata richiamava all’ordine i suoi bambini meno uno, dato che Tom era tutto impegnato a passeggiare mano nella mano con Vittoria. Se ne stava impettito come un tacchino, rigido come se temesse che un movimento sbagliato potesse far cambiare idea alla sua giovane amica e innamorata, che prestava attenzione a tutto fuorché a lui e lo trascinava ora di qua, ora di là, in base a cosa attirasse la sua attenzione. Berenilde li guardava con un misto di malinconia e affetto, lamentandosi del fatto che crescevano troppo in fretta e prima o poi anche la sua Vittoria l’avrebbe abbandonata per formarsi una famiglia. La zia Roseline rappresentava l’altra faccia della medaglia: li guardava con occhi severi, la mascella contratta, chiaramente disapprovando tutte quelle manifestazioni precoci di affetto.
- Se continuano così, Berenilde, vostra figlia si ritroverà disonorata ben prima di raggiungere l’età in cui è lecito sposarsi.
Agata si finse scandalizzata. – Zia, come potete dire una cosa simile? Il mio Tom non commetterebbe mai un simile gesto av-ven-ta-to! E poi, non c’è nulla che un matrimonio riparatore non possa coprire.
Berenilde le sorrise con indulgenza, come due vecchie amiche che la sapevano lunga, totalmente d’accordo. La zia Roseline si accigliò ancora di più, cosa che indusse Ofelia a chiedersi se in realtà fosse gelosa. E a proposito di gelosia, non poté fare a meno di riportare l’attenzione su Thorn. Suo marito, che non si smentiva mai, se ne stava ritto come un palo nel mezzo del parco, con l’orologio in mano, e osservava come un falco i suoi piccoli che giocavano con nientemeno che l’ex ambasciatore e Renard. L’omone tutto rosso era il preferito dei bambini, perché si prestava a farsi usare da quelle pesti a loro piacimento, e Salame lo aiutava nel compito, arrampicandosi dappertutto e rimanendo in equilibrio sulla sua testa fulva, mentre trovavano buffo Archibald, con il suo cappello aperto come una scatola di fagioli e i buchi dappertutto. Uno dei cugini più piccoli gli aveva chiesto se era povero, un giorno, al che lui aveva riso e gli aveva regalato una moneta. I bambini era ritornati pochi minuti dopo con la bocca sporca di cioccolato e gelato, e da allora Archibald era diventato il paladino di tutti.
In particolare, Thorn osservava Serena e Balder che si mescolavano agli altri bambini, ai loro parenti, come se fossero stati lì sin dalla nascita.
Ofelia provò ad avvicinarsi a lui più volte, ma c’era sempre qualcosa che in un modo o nell’altro li teneva distanti: una prozia che reclamava la sua attenzione, un cugino che faceva domande di tipo politico a Thorn, una delle sue sorelle che le chiedeva ogni genere di dettaglio della sua vita al Polo. Ofelia si prestò volentieri a quelle attenzioni, chiacchierando spensieratamente con Hector e sua moglie tra un panino e l’altro, correndo dietro a Serena perché mangiasse un po’ di frutta, con il solo risultato di ritrovarsi quasi a ruzzolare per terra, o aiutando Gaela a non starsene troppo in disparte, lo sguardo perso dietro quella massa di bambini schiamazzante. Ofelia le vide in volto l’ombra di un sorriso prima che la meccanica si voltasse verso di lei, sorprendendola a guardarla, e le lanciasse un’occhiataccia con l’occhio buono. Ma Ofelia aveva capito che in fondo, dietro a quei timori e alle insicurezze, alla scorza dura e alla morchia nera, Gaela aveva un cuore da madre non meno delle altre.
Era ormai calata la sera, con il buio che si faceva largo nel cielo come una mamma che rimbocca le coperte al figlio, quando Ofelia riprovò ad avvicinarsi a Thorn. Non aveva dovuto preoccuparsi, stranamente, di aiutarlo o spronarlo affinché non si isolasse, perché Thorn aveva parlato con chiunque gli avesse rivolto la parola e si era intromesso in alcune conversazioni. Certo, non aveva guardato benevolmente nessuno e i suoi interventi avevano per lo più avuto lo scopo di precisare e correggere alcuni errori di carattere culturale, ma il prozio aveva fatto in modo che gli altri non si offendessero, e Hector gli aveva posto una quantità di domande tale da tenere impegnati tutti, nel tentativo di stargli dietro.
Ofelia avrebbe voluto ricavarsi un momento sola con lui. La sua curiosità non era meno viva di quella di Hector. Thorn non parlava quasi mai del suo passato, della sua infanzia, dei suoi fratellastri, ma Ofelia aveva visto, letto, quel tanto che bastava per farsi un’idea di che tipo di crescita difficile dovesse essere stata la sua. Avrebbe voluto domandargli se avesse mai giocato in un prato con altri bambini. Se avesse mai riso, da bambino, spensierato. Se qualcuno gli avesse mai curato un ginocchio sbucciato o una mano scorticata. Lei era stata accudita da così tanti parenti, per via delle sue frequenti cadute e perdite di equilibrio, che era più facile contare chi non l’avesse aiutata, piuttosto che il contrario.
Voleva anche chiedergli che effetto gli facesse osservare Serena e Balder, i suoi figli, interagire normalmente con altri bambini, simpatici e intelligenti, non emarginati, derisi, infamati o malvisti, ma parte del tutto. Anzi, Serena ogni tanto aveva anche il cipiglio da capetta, e si faceva seguire con una sola occhiata. Balder era ancora piccolo per essere considerato nei giochi in cui ci si rincorreva o si usavano colori e oggetti, però correva dietro a tutti e veniva sempre aiutato da qualcuno quando cadeva. Si rialzava sempre senza emettere un lamento, e Ofelia non si sorprese quando vide che aveva i pantaloni tutti sporchi d’erba.
Però si rendeva conto anche del fatto che quello non fosse assolutamente il luogo più adatto per simili chiacchiere intime. Sentiva il bisogno quasi fisico di parlargli, di raccontargli come fossero andati quei giorni, i progressi dei loro bambini, la mancanza che aveva sentito di lui, e poi, il suo tocco, i suoi baci riservati solo alla loro intimità, la vicinanza del suo corpo solido nel letto…
Ofelia non era sempre felice di quei pensieri, di quei sentimenti. Era evidente quanto la rendessero dipendente da Thorn, da un uomo, da un’altra persona. Allo stesso tempo, era consapevole del fatto che se avesse provato a sopprimerli, a offuscarli, non sarebbe più stata onesta con se stessa, e non sarebbe più stata in grado di attraversare uno specchio. Inoltre, si diceva, non era solo lei ad essere legata anima e corpo ad un’altra persona: Thorn non era meno coinvolto di lei, e l’idea di essere indispensabile per lui la faceva sentire appagata, utile. Al posto giusto. Al fianco di Thorn.
Approfittò di un momento di quiete per avvicinarlo, quando una risata simile ad un latrato attirò l’attenzione della maggior parte dei presenti.
- Tutti al bar, il cugino Guglielmo offre il primo giro!
Il cugino in questione, rosso per la vergogna di aver perso probabilmente qualche scommessa, si affrettò a precisare: - Solo se volete, mi raccomando, non esitate a tornare a casa se questo è troppo impegnativo per voi.
Renard rise, una risata piena e contagiosa che, come sempre, fece sorridere tutti. Era diventato il cugino adottivo di chiunque, lo riconoscevano per strada e si fermava a chiacchierare con chiunque incontrasse. – Io ci sto, grazie della generosità, Guglielmo. Ci sono ancora diversi liquori che mi mancano da provare.
Archibald sorrise furbescamente, quasi ghignando. – L’ospitalità a casa mia è il mio lavoro, quindi perché non essere dall’altra parte, per una volta? Accetto tutto ciò che vorrete offrirmi, caro cugino!
Guglielmo, da erubescente che era, sbiancò.
La gran parte degli uomini cominciò a cantare e prendere in giro il povero sventurato, trasformandosi poi in una fiumana travolgente che raccoglieva ogni uomo disponibile sul percorso, diretta verso l’osteria più vicina. Solo Agata riuscì a trattenere Charles, che sembrava badare ai bambini più della moglie, e il prozio sbuffò che lui non aveva più l’età per certe cose.
Con suo sommo stupore, Ofelia si rese conto che Thorn era sparito. Vide in lontananza i suoi capelli pallidi svettare sotto le luci dei lampioni, molti dei quali si misero a sfarfallare a festa, animati da tutti quegli uomini che già pregustavano boccaloni di birra.
Stupefatta, ad Ofelia non rimase altro da fare che rincasare con gli altri, portando Balder in braccio e Serena per mano, stremata.
Li mise a letto, dove si addormentarono subito, poi si lavò, si cambiò, e si mise ad attendere Thorn. Dubitava di poter stare con lui come avrebbe voluto, dopo quasi un mese di lontananza, ma si sarebbe fatta bastare la sua presenza calda nel letto, il suo corpo accanto, le sue braccia ad avvilupparla, il suo respiro che si faceva lento e profondo quando dormiva. Non voleva addormentarsi subito rischiando di perdersi il suo rientro.
Così lo attese.
E attese.
E attese tutta la notte.
 
La mattina Ofelia scese per la colazione con il mal di testa, gli occhi gonfi e due profonde occhiaie. Doveva aver preso freddo la sera precedente, inoltre, oppure stando alzata in attesa di Thorn, perché sentiva il naso chiuso e il respiro le usciva in un rantolo.
Serena e Balder sembravano più sani che mai, invece.
- Oh, figliola, ma che aspetto terribile. Cosa mai ti è capitato?
Ofelia si strinse nelle spalle. – Ho dormito male.
Così male che non aveva dormito.
Intuendo il suo tormento, il padre le passò silenziosamente la forma di burro e la cassetta di pane, che Ofelia cominciò subito a riempire di marmellata. Rivolse uno sguardo grato al padre mentre intingeva il pane nel caffè, rinfrancata dal liquido bollente, che le risvegliò i sensi. Balder sgranocchiava un biscotto mentre Serena si imburrava il pane da sola, osservata attentamente dal prozio, pronto ad intervenire in caso di aiuto. La verità era che la bambina svolgeva quel compito meglio di quanto di riuscisse Ofelia, che infatti aveva sempre le dita sporche.
Le gemelle se ne stavano imbronciate in un angolo, masticando in silenzio, tristi per non essere potute andare al bar con Archibald. Ofelia faceva di tutto per tenerle separate da lui, ma la verità era che l’ex ambasciatore suscitava ancora più interesse quando non era presente. Si ammantava di un alone di mistero, che era proprio l’ultima cosa che mancava per renderlo l’uomo in assoluto più interessante da conoscere.
Ofelia sorvolò e bevve ancora caffè. Avrebbe voluto evitare di fare domande, evitare di mostrare la sua preoccupazione, evitare di far sorgere questioni da parte della madre, ma il non sapere dove fosse Thorn, dove avesse dormito, con chi fosse, l’angosciava. Era forse così che si era sentito lui quando lavorava all’intendenza giorno e notte senza mai sapere cosa lei stesse facendo, o chi stesse frequentando?
Stava finalmente per aprire bocca quando la porta di casa si spalancò, e si riversarono all’interno troppe persone in una volta: Gaela e Renard, Archibald, la zia Roseline e… Thorn. E Salame che se la prese subito con l’orlo irrequieto di un tappeto animato da Ofelia. La sciarpa si mosse, sensibile al sollievo della padrona… e alla sua irritazione sepolta sotto pelle.
Renard e Archibald sembravano aver bisogno di caffè, molto caffè, Gaela sembrava stare bene mentre la zia Roseline fumava come una ciminiera. Ofelia non si sarebbe sorpresa se tutti i mobili avessero iniziato a tremare in risposta. La zia sapeva essere più forte di un terremoto.
Thorn invece sembrava… stanco. Le occhiaie non erano migliorate per nulla, chiaro segno che anche quella notte l’aveva trascorsa quasi in bianco, e la barba non rasata del giorno prima, sopra al pizzetto ad ancòra, gli dava un che di selvatico. Incontrò brevemente il suo sguardo, prima che lui lo distogliesse in fretta.
Non ebbe il tempo di chiedere nulla che la zia Roseline sbottò: - Razza di incoscienti. Sophie, la prossima volta te li prendi tu in casa, io non apro più la porta alle quattro di mattina a tre ubriaconi gozzovigliatori.
Ubriaconi gozzovigliatori?
Serena sgranò gli occhi: - Cosa vuol dire ubbiaconi goss… gosz… gozzobinatori?
Sophie schioccò la lingua. – Roseline, non mi sembrano parole da insegnare ad un bambino.
Ricettivo come solo un bambino può essere, Balder rise. – Ubiaconi!
Lo sguardo di Thorn si indurì ulteriormente.
- Si può sapere che è successo? Non fare tanto la melodrammatica, Roseline! – incalzò Sophie.
Ofelia si trattenne a stento dal roteare gli occhi. Da che pulpito.
La zia Roseline sembrava non aspettare altro per esplodere. – Che è successo? È successo che questi tre qui, tra cui un prossimo padre e un padre di famiglia già affermato, si sono dati alle gozzoviglie come dei giovanotti incoscienti. E non possono nemmeno essere sculacciati a dovere perché sarebbe disdicevole, per uomini della loro età.
Renard, che si fingeva pentito quando, palesemente, non lo era, fece un occhiolino a Gaela, come a farle intendere che una bella sculacciata non gli sarebbe dispiaciuta. Gaela lo ignorò bellamente, cosa che indusse Ofelia a chiedersi se non fosse leggermente brilla pure lei, anche se in gravidanza non sarebbe stato proprio il caso di darsi agli alcolici.
Prima che qualcuno potesse ribattere, comunque, intervenne Archibald, che era decisamente il meno pentito di tutti.  - Dolce Roseline, sapete bene che qualunque punizione corporale da voi inflitta sarebbe solo un piacere per me. Vi prego, non lesinate nello sgridarmi.
La zia Roseline avvampò, assumendo la stessa tonalità dei capelli di Renard.
- Inoltre - continuò l'impudente, godendo in maniera evidente del disagio che riusciva a creare, - non siamo poi così vecchi, tranne il buon cosiddetto Renard, che ormai la quarantina l'ha salutata e sorpassata. Io e il caro intendente abbiamo meno di...
Poi si fermò, lanciando un'occhiata maliziosa a tutti gli astanti. - Orsù, non vorrete davvero che riveli la mia età, nevvero? L'età di una signora non si può chiedere ma quella di un uomo sì? Ah, quale ingiustizia, dover rivelare di avere quasi trent'anni. Non pensate dunque che ve lo rivelerò, dovrete convivere con questo segreto.
Ofelia vide con la coda dell'occhio le sue sorelle che bisbigliavano, probabilmente colpite dal fatto che Archibald, che sembrava poco più grande di loro, avesse già quasi trent'anni. E a Thorn, in effetti, non mancavano che pochi mesi per arrivare alla terza decina.
Lo guardò timidamente, cercando di non farsi vedere. E provò una piacevole fitta allo stomaco. Quante volte Thorn si era definito non attraente, sminuendosi, e chiedendo ad Ofelia stessa se fosse sicura di volerlo toccare, lui che era così ripugnante ai suoi stessi occhi? Ma Ofelia non vedeva che la sua lealtà, la sua bontà velata dalle maniere brusche, l'amore incondizionato che donava a chi riusciva ad andare oltre alle apparenze e alle dicerie. E come poteva non piacerle il corpo che racchiudeva la sua stessa essenza?
Si vergognò di quei pensieri. Bastava un mese senza vederlo e si trovava a bramare una sua carezza, anche solo uno sguardo. Era lo stesso per lui, che si era sentito messo da parte per tutta la vita?
La zia Roseline sembrava divenuta incapace di intendere e di volere, cosa che fece sorridere Archibald ancora di più. Probabilmente le avrebbe dato la grazia con un bacio sulla guancia, ma fortunatamente intervenne Sophie, che non tollerava litigi che non avesse iniziato lei.
- Suvvia, non serve farne un dramma, sono uomini coscienziosi e capaci di decidere da sé, non trovi, Roseline? Su, sedetevi e mangiate. Il caffè forte vi aiuterà a tornare lucidi e vi darà energia. Oggi abbiamo un programma molto intenso, una bella camminata ristoratrice nelle famosissime colline animiste, e non vogliamo tardare.
- Sì!! Passeggiata! – gioì Serena, subito imitata da Balder che schizzò marmellata ovunque.
Thorn guardò con velata impassibilità la macchia appiccicosa che si era attaccata alla sua camicia. Tirò fuori un fazzoletto per pulirsi mentre Gaela e Renard prendevano posto al grande tavolo della cucina e Archibald tentava in tutti i modi di farsi notare dalla zia Roseline, che invece guardava chiunque fuorché lui. Thorn si avvicinò poi ad Ofelia, ma invece di rivolgerle un saluto, o anche solo guardarla, pulì Balder dalla marmellata e lo prese in braccio.
La colazione fu abbastanza strana, con Archibald che non la smetteva di tormentare la zia con i suoi invitanti occhi turchesi e solo Sophie e Renard a tenere viva la conversazione. Thorn mangiò a malapena, se Serena non gli avesse messo in meno una fetta di pane perfettamente imburrata forse non avrebbe proprio toccato cibo. In compenso fumò la pipa, lo sguardo perso fuori dalla finestra senza realmente vedere l’esterno.
Quando arrivò il resto della compagnia in giardino, si affrettarono tutti a sparecchiare, e facendo ognuno la sua parte se la sbrigarono in poco tempo. Ofelia più che altro ruppe una tazzina e due piattini, danni a cui il prozio pose rimedio senza fiatare, ma del resto ognuno aveva il proprio compito e quello era il loro.
- Ora capisco perché su Anima non avete bisogno di domestici e valletti – disse Renard, attirandosi un’occhiata curiosa da parte di Hector, che li aveva appena raggiunti.
Thorn continuò a non guardarla quando uscirono, non le parlò in carrozza, e sembrò notare a malapena la sua presenza.
Ofelia si lasciò avvolgere dal cicaleccio dei familiari, dalle risate e dalla gioia altrui, ma non ne venne minimamente intaccata. Per quanto amasse le sue dolci colline e le passeggiate che aveva sempre fatto, nonostante non fosse propriamente portata per l’esercizio fisico, avvertiva uno strano presentimento. Sentiva che qualcosa non andava nel rapporto con Thorn, e il bacio che le aveva letteralmente strappato il giorno prima sembrava non avere senso.
Le pareva di essere tornata agli albori della loro storia, quando erano due sconosciuti, nessuno dei due felice di quell’unione forzata, costretti a tollerare la presenza reciproca. L’unica differenza era che a Ofelia importava di Thorn, questa volta. Non aveva paura di lui o della vita che le avrebbe riservato, non voleva cercare un modo per fuggire da lui e continuare a vivere la sua vita, a lavorare nel suo museo.
E per lui?
Era tornata ad essere la fidanzata scomoda, utile solo per il suo dono da lettrice?
Ofelia cercava di convincersi di no, che non fosse così, che si stesse sbagliando. Ma conosceva Thorn meglio di chiunque altro, e il suo atteggiamento freddo e distaccato era solo una maschera. Di solito.
Ma non in quel caso. Perché lo percepiva sulla pelle: l’espressione tenebrosa di Thorn era il riflesso di ciò che aveva dentro. Ed era in parte rivolto a lei.
Solo che non ne conosceva il motivo.
 
Rispetto al picnic del giorno prima i parenti invitati erano quasi la metà.
- Una cerchia intima e ristretta – l’aveva definita Sophie a colazione, anche se Thorn ebbe da ridire quando contò trentadue persone adulte, bambini esclusi.
- Qui manca completamente la definizione delle quantità, la coscienza di cosa sia una folla e di… - lo sentì borbottare Ofelia.
Il fatto che si lamentasse a mezza voce invece di stare in silenzio a guardare male il mondo la diceva lunga sul suo stato d’animo.
Nonostante tutto, la passeggiata fu piacevole e i bambini si divertirono molto. In qualche modo Thorn, l’intendente, responsabile della burocrazia del Polo, dell’amministrazione e della finanza, uno dei più alti funzionari al cospetto di niente meno che Faruk lo spirito di famiglia, aveva ricavato anche il tempo di studiare dei manuali di botanica durante la sua… preparazione lavorativa.
- Mi sono dovuto occupare della scelta delle colture a cui dare la preferenza di coltivazione – spiegò quando Renard, battendola sul tempo, gli chiese come facesse a sapere il nome di ogni specie di albero e fiore. – Non apprezzo una conoscenza parziale o superficiale, pertanto ho letto il più possibile circa l’agricoltura, i metodi di coltivazione e le varie caratteristiche floristiche delle diverse arche, per prendere spunto e capire quale si adattasse meglio al clima notoriamente difficile del Polo, dove c’è il permafrost per il sessantuno percento dell’anno.
Renard fece una faccia che diceva tutto senza bisogno di parlare, e Ofelia cercò di non ridere. Sicuramente Renard si sarebbe abbattuto nuovamente, chiedendosi ancora cosa insegnasse a fare, quando sotto lo stesso tetto abitava un’enciclopedia ambulante e probabilmente onnisapiente.
Infatti si allontanò con il broncio, guardando in cagnesco ogni arbusto e foglia morta che incontrava per strada.
Ofelia cercò più volte di parlare al marito, ma non trovò nulla da dire. Nulla che potesse essere detto in pubblico, per lo meno, e Thorn non avrebbe mai parlato di argomenti privati di fronte a così tante persone. Era riservato persino con sua zia, e solo di recente Ofelia si era resa conto di quante cose Berenilde non sapesse del nipote, nonostante fosse stata la persona a lui più vicina per molti anni.
Si accontentò di camminargli a fianco, ascoltando i nomi degli alberi che pronunciava, certa che non li avrebbe mai ricordati. Si concentrò invece sul suono cadenzato della sua voce, del suo tono monocorde, della pronuncia scricchiolante così in contrasto con l’accento morbido e musicale di Anima. Si lasciò cullare dal suo modo di fare preciso e sicuro, sorridendo quando Serena ripeteva tutto, memorizzando all’istante i nomi e i tipi di piante che incontrava. Balder cercava di emulare il padre e la sorella come poteva, storpiando le parole in modo bizzarro e facendo ridere tutti, persino Renard, che si dimenticò presto dei suoi crucci. Serena smise di dare retta al padre quando i cugini cominciarono a giocare con Salame, che si gettava nei cespugli e nei mucchi di felci come un cacciatore impazzito, divertendosi nel farsi rincorrere da così tanti piccoli umani.
Sola con Thorn, un po’ in disparte, si scervellò all’idea di qualcosa da dire, o di un modo per sfiorarlo senza farsi notare. Non si era mai sentita così impacciata con suo marito, e quasi si vergognava all’idea di… volerlo corteggiare, come se non fossero sposati, come se non si… amassero, e lui non fosse convinto di voler stare con lei. Notò che i suoi occhiali si erano tinti di rosa e cercò di nascondere il viso. Nel tentativo di aiutarla, la sciarpa si avvolse completamente attorno al suo volto, facendola inciampare.
Quando riuscì a liberarsi era ancora imbarazzata, ma il rossore poteva facilmente essere scambiato con la foga di liberarsi il viso dalla lana infeltrita della sciarpa.
Thorn, di fianco a lei, si era fermato, e la stava osservando dall’alto della sua statura. Ofelia lo vide aprire la bocca per parlare quando il prozio li interruppe. Anzi, li fermò sul nascere, perché non interruppe proprio nulla.
- Quella vecchia sciarpa scorbutica attenta di nuovo alla tua vita – borbottò, guardandola al di sopra del monocolo. Poi sbuffò. – Se un oggetto prova a strozzarmi una volta e a soffocarmi la seconda io me ne libero, figliola, non me la avvolgo certo intorno al collo. Poco importa che sia il tuo primo golem.
Offesa, la sciarpa si avvolse ancora più strettamente attorno al collo della padrona, per rimarcare possessivamente il suo ruolo, quale fosse il suo posto. Azione che non giovò alla sua causa, dato che rischiò nuovamente di strangolare Ofelia.
Quando ebbe riottenuto il controllo della situazione, Thorn non sembrava più intenzionato a voler parlare. Osservava Serena e Balder insieme ai cuginetti, che giocavano divertendosi, inclusi nel gruppo senza pregiudizi o prese in giro. Ofelia si decise a porgli una domanda sulla sua infanzia quando notò con la coda dell’occhio che qualcuno li fissava insistentemente. O meglio, fissava Thorn. E da parecchi anche.
Si trattava di Sempronia, la lontana cugina menzionata giusto qualche giorno prima da Agata. Quella da lei definita zitella e scorbutica. Che non fosse sposata era certo, che fosse scorbutica meno. Anzi, da quanto ne sapeva Ofelia a giudicare dagli ultimi pettegolezzi, appresi involontariamente stando in compagnia di sua madre e delle sue dame da tè, Sempronia aveva un certo successo con gli uomini. Sposati.
Sua mamma aveva ascoltato il racconto della vicina con gli occhi grandi come piattini, scandalizzata in modo plateale. Agata non era stata da meno. A quanto pareva, sembrava che Sempronia non fosse proprio la santa illibata che tutti credevano. Si vociferava che avesse sedotto diversi uomini, quasi tutti sposati, perché erano pochi gli animisti che conducevano una vita di celibato. Le voci però non erano mai state confermate perché gli uomini che avevano approfittato delle sue avances vedevano bene di starsene zitti per timore di attirare lo scandalo e distruggere la famiglia.
Che Sempronia fosse una corteggiatrice spudorata era un fatto assodato, ma Ofelia non capì subito per quale motivo quella cugina con cui aveva parlato così di rado, e con la quale aveva così poco in comune, stesse fissando Thorn.
Invece di cercare di avvicinarlo di nuovo, cominciò a concentrarsi su Sempronia, notando i suoi gesti eleganti, le occhiate che continuava a lanciare nella direzione di suo marito, le risate civettuole e il suo farsi sempre, inavvertitamente, più vicina.
Un terribile presentimento si fece strada in lei, ma cercò di non badarci e andò a controllare Balder che proprio in quel momento era caduto, sbucciandosi un ginocchio.
Il bambino fissò stupito la sua gamba, come se fosse un fatto completamente strabiliante farsi male. E forse era proprio così, visto che non aveva ancora avuto molte occasioni di cadere sul suolo duro e ferirsi. Thorn la trattenne non appena fece un passo, e si occupò lui del bambino.
Ofelia lo guardò mentre prendeva in braccio Balder e con un fazzoletto lo ripuliva dai sassi. Non era nulla di grave, ma Thorn lo trattò con la massima cura possibile e Balder si abbandonò contro il corpo del padre, curioso di capire cosa stesse succedendo al suo ginocchio.
Serena si avvicinò a sua volta, alzandosi sulle punte per sbirciare il fratellino, che era troppo in alto.
- Sì è fatto male, papà?
- Bua! - confermò Balder, alzando le braccia.
Non capendo quel gesto, Thorn aggrottò la fronte.
- Bisogna pulìe, vero?
Thorn si diresse verso una fontana dove, con una sola mano, lavò per bene il fazzoletto, lo strizzò e ripulì accuratamente il ginocchio di Balder. Il bambino strinse le labbra quando il tessuto gli urtò la pelle scoperta, così Thorn cercò di essere più delicato, spiegando sia al figlio che a Serena perché dovesse disinfettare la ferita così che non si infettasse.
Quando cominciò a parlare di setticemia, facendo sgranare gli occhi di Serena, il prozio le si avvicinò.
- Ma fa anche il medico a tempo perso, il tuo marito tuttofare?
Ofelia cercò di non sorridere. In effetti, Thorn aveva curato diverse volte anche lei, con le nausee e i mal di testa, soprattutto con le ossa rotte, qualche volta con i tagli. Si ricordava bene la prima vera volta in cui l'aveva toccata. Quando le aveva chiesto di scoprirsi il braccio dopo che qualcuno l'aveva spinta giù dalla fabbrica di Madre Ildegarda e si era rotta l’arto. Thorn l'aveva tastato per cercare di capire se fosse lussato o rotto o storto o chissà che altro.
Ofelia rifletté di nuovo sulla sua portentosa memoria e sulla sua infanzia. Se aveva imparato così tante cose sulla biologia e l'agricoltura per portare a termine un compito legato all'intendenza, per quale motivo aveva dovuto studiare anatomia, infezioni, tipologie di fratture e relative cure?
Ofelia si rese conto che, in effetti, visto il modo in cui aborriva i contatti fisici e la sua riservatezza, probabilmente era sempre stato lui a curarsi. E sul corpo aveva ben cinquantasei cicatrici. Glielo aveva detto lui, ma lei si era messa a contarle personalmente, una delle loro prime volte insieme, quando avevano preso un po' più di confidenza uno con l'altra.
Il pensiero di Thorn che si curava da solo un taglio infetto la intristì. Era vero che anche lei si era spesso sistemata da sola le sue molteplici contusioni, ma quando era in compagnia c'era sempre qualche parente che accorreva. Quante volte il prozio l'aveva portata in casa sostenendone il peso, mentre lei zoppicava? Quante volte Hector aveva preso per lei garze e disinfettante, ponendole nel frattempo una quantità di domande mediche? E quante volte lei stessa aveva aiutato fratelli, sorelle e cugini, rassicurandoli così che non piangessero?
Thorn aveva mai avuto qualcuno a interessarsi così di lui? Probabilmente Berenilde, ma quante volte lei si era resa conto dei soprusi che suo nipote subiva?
- Ah, ti avverto, ragazzo - intervenne Renard, interrompendo le sue elucubrazioni. - Io di medicina so poco nulla. Se il signor intendente dovesse valutare il mio operato credo che mi licenzierebbe in tronco.
Ofelia scosse la testa, non dando la possibilità al prozio di chiedere chi fosse questo ragazzo a cui Renard si rivolgeva.
- Nessuno ha intenzione di valutare il vostro operato - lo ammansì Ofelia. - E nessuno si aspetta che voi siate onnisciente e sappiate a memoria ogni libro che sia mai stato scritto.
- Ma il signor intendente...
- Thorn - lo interruppe Ofelia, cercando di non farsi distrarre da Salame che si stava arrampicando lungo i pantaloni di Renard, - non è un termine di confronto equilibrato. Ha la memoria degli Storiografi, ricorda non solo tutto quello che viene detto, ma anche tutto quello che viene scritto, ciò che legge e vede. Non potete e non dovete fare confronti, perché sarebbe come confrontare una gara di velocità di un bambino con quella di un adulto.
- Io sarei il bambino, vero? - chiese Renard, ancora imbronciato, ma con l'ombra di un sorriso che tentava di liberarsi dalle sue labbra. Era difficile, per quell'omone grande, grosso, gioviale e gentile, non sorridere.
Ofelia ricambiò. - Siete il bambino più veloce, ma Thorn è l'adulto più veloce. Nessuno farebbe un confronto tra un bambino e un adulto. Non trovate?
Renard ci rifletté alcuni istanti. - Però non è detto che l'adulto non voglia controllare l'operato del bambino, no?
Ofelia sospirò. - Non ne avrebbe motivo, sapendo che il bambino è il più bravo della sua categoria. Non dimenticate che è stato lui ad indirizzarvi verso il miglior corso per insegnanti che viene tenuto al Polo.
Renard aggrottò le sopracciglia cespugliose, che si contrassero come dei bruchi pelosi e rossicci. I suoi occhi però erano tornati allegri come sempre. - Tante grazie, ha pagato tutto lui!
Ofelia questa volta non poté fare a meno di ridacchiare. - State iniziando a parlare come Gaela, sapete?
Renard si aprì in un sorriso candido, nettamente in contrasto con i suoi colori fulvi.
- Mi basta che voi non cominciate a parlare come l'intendente, altrimenti temo che capirei gran poco di ciò che dite.
Si misero a ridere tutti, compreso il prozio che aveva capito a grandi linee il succo del discorso. Il prozio, così piccolo in confronto a Renard, gli diede un'amichevole pacca sulla schiena. - Sapete, giovanotto, ora capisco per quale motivo Ofelia ci tiene così tanto a voi. Sono poche le persone in grado di farla ridere in questo modo.
Arrossirono entrambi, ma si guardarono come solo due amici di lunga data possono guardarsi.
In quel momento Ofelia si voltò, ancora ridendo, verso Thorn. Lo sguardo che le rivolse fu glaciale quanto il clima da cui veniva. Ma Ofelia non perse tanto il sorriso per via di quell'occhiata, quanto per la persona che stava parlando con Thorn. Sempronia stava evidentemente sfoggiando tutto il suo fascino prestando attenzioni materne a Balder ed elogiando Thorn per le sue qualità genitoriali. Serena la guardava in cagnesco, tanto che Ofelia si sorprese di quello sguardo truce. La bambina era sempre cordiale ed educata con tutti, mai corrucciata in quel modo, quasi infastidita; assomigliava più che mai a Thorn. E Ofelia capì che se a sua figlia non andava a genio una persona, c'era di che preoccuparsi. Serena sembrava avere la capacità di guardare dentro gli altri.
Sempronia fece di tutto per non incrociare lo sguardo di Ofelia. Era bella, si rese conto quest'ultima. Bella e ancora giovane, all'incirca dell'età di Thorn. Una volta non avrebbe fatto caso allo stato civile di qualcuno, specialmente di una donna, dato che lei stessa all’inizio non si sarebbe voluta sposare, per scelta. Ognuno era libero di decidere se mettere su famiglia, e con chi. Ma nel caso di Sempronia… il fatto che fosse nubile nonostante i pretendenti lasciava ben poco spazio alle interpretazioni.
Non sarebbe rimasta fedele nel matrimonio, pertanto non si era sposata. E il fatto che ignorasse completamente Archibald, uno scapolo decisamente affascinante e oggettivamente attraente, persino per Ofelia, dimostrava che il suo interesse era rivolto proprio agli uomini già sposati. Ofelia sentì un moto di irritazione e fastidio scaldarle il sangue, e le lenti dei suoi occhiali si tinsero di giallo, un colore che non aveva mai visto. La sciarpa in risposta schiaffeggiò Renard, che pensò fosse uno scherzo e rise. Non che una vecchia sciarpa di lana possa fare male, in effetti.
Senza nemmeno congedarsi, Ofelia si allontanò in direzione della sua famiglia. Thorn si era girato di spalle cercando di sistemarsi meglio Balder in braccio, così non vide Ofelia che si avvicinava. Sempronia invece sì. Tirò Thorn per un braccio, ridendo civettuola, indicando il chioschetto dei gelati di zio Lucio dove si erano radunati tutti gli altri parenti, soprattutto i bambini.
Ofelia vide con sollievo Thorn staccarsi di dosso con un gesto brusco la mano di Sempronia. Poco avvezzo ai contatti com’era, la cosa almeno le fece sentire di avere un vantaggio su quella bella donna procace. Thorn lei la toccava, eccome. Ma la consolazione che provò fu momentanea, perché, a dispetto di tutto, Thorn comunque la seguì. Come un marinaio al cospetto di una sirena, in una di quelle strane storie del vecchio mondo che il prozio era solito leggerle da piccola. Non le sembrava propriamente ammaliato da Sempronia, però… non la stava ignorando. Non stava facendo nulla per partecipare alla conversazione, da quanto poteva vedere, perché parlava solo lei, però le era vicino. Più di quanto si fosse avvicinata Ofelia durante quel giorno e quello precedente. E sembrava… ascoltarla. Sì, non sembrava molto interessato, era vero, anzi, l’insofferenza era palese sul suo volto di solito inespressivo, eppure si ostinava a rimanere lì.
Ofelia non sapeva spiegarsi quel fiume impetuoso di rabbia, possessività, nervoso, struggimento e desiderio di… sbandierare qualunque fosse il tipo di legame che condividevano lei e Thorn. Le era capitato raramente di sentirsi così confusa, e la sensazione non le piaceva per nulla.
Serena la salvò dai suoi pensieri raminghi.
- Mamma – la chiamò. – Non mi piace molto quella signora.
Ofelia avrebbe voluto dirle che pure a lei non piaceva molto, ma non avrebbe dato un buon esempio a sua figlia.
- Non è una cattiva persona, Serena – cercò invece di dire, anche se le parole le uscirono poco convincenti, un po’ strozzate. – Sono un pochino raffreddata – si giustificò con la figlia.
Per distrarre entrambe si riunirono al capannello formato da Renard, il prozio, Gaela, Hector e sua moglie. Finsero tutti di non notare lo strano comportamento di Ofelia, che si lanciava continuamente occhiate in giro. Archibald, dovette però ammettere, aveva dimostrato di essere fedele a ciò che le aveva rivelato molto tempo prima, cioè che non corteggiava le donne non interessate. Offriva una scappatoia dalla vita quotidiana alle signore, giovani o vecchie che fossero, che volevano sentirsi libere e amate per qualche minuto. Il che significava che regalava sorrisi e attenzioni solo alle giovani animiste innamorate di lui che avevano abbastanza coraggio da avvicinarlo per parlare. Ofelia gli aveva strappato la promessa che non avrebbe attentato alla virtù di nessuna di quelle fanciulle, e anche se Archibald aveva fatto un po’ di scena, mostrandosi abbattuto e ingiustamente penalizzato per quello, Ofelia non aveva sentito dire nulla circa un suo possibile atteggiamento libertino.
Avrebbe quasi preferito, però, che distogliesse l’attenzione di Sempronia da suo marito.
I due, con Balder nel mezzo, se ne stavano seduti vicino agli altri parenti, ma abbastanza separati da sembrare un nucleo a parte. Sempronia parlava, si toccava i capelli e si sedeva con la schiena dritta e il petto in fuori, cercando di attirare l’attenzione di Thorn che, invece, era tutto concentrato su Balder. Il cono gelato che gli aveva preso era decisamente troppo grande per lui, che non sapeva come mangiarlo e ne faceva colare la crema in via di scioglimento lungo il cono. Thorn cercava in tutti i modi di asciugarla, onde evitare che lui e Balder si sporcassero. Non gli era venuto in mento di leccare il cono prima che la crema colasse.
Ofelia vide le labbra piene di Sempronia piegarsi in un sorriso voluttuoso, tendere la mano per offrire aiuto e…
Ofelia appioppò Serena a Renard senza nemmeno un avviso, facendo barcollare il gigante quando quasi gli gettò la figlia addosso. Si diresse a grandi passi verso il trio, sperando che per una volta il suo corpo non la tradisse e i suoi piedi la portassero sana e salva fino a suo marito e suo figlio. In fretta. Inciampò solo, recuperando l’equilibrio. Senza guardare nessuno in particolare, si sedette di fianco a Thorn, e prese Balder in braccio.
Il bambino piagnucolò quando la vide, felice di poter tornare tra le sue braccia. Ofelia se lo sistemò in grembo e poi prese dalle mani di Thorn, che si erano salvate dalla scia di gelato appiccicoso, il cono. Con poche leccate mirate lo ripulì, guardando di sottecchi il marito, e poi ridiede il cono a Balder, aiutandolo a mangiarlo. Il bambino rise quando si sporcò il naso, ma quanto meno cominciò a capire il meccanismo e non fece colare più la crema. Probabilmente perché la maggior parte gli finì sulle guance e sulle labbra.
Ofelia sentì per tutto il tempo lo sguardo di Thorn su di sé, insistente, tagliente come una lama di rasoio, ma lei si arrischiò solo a lanciare un’occhiata a Sempronia. La cugina, alla lontana, ci tenne a rammentare a se stessa Ofelia, si guardava in giro come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza emettere una parola. Come se fino a poco prima non avesse chiacchierato a ruota libera di chissà cosa con suo marito. Alla fine si alzò, allontanandosi per andare alle toilette.
Sentendosi addosso anche gli occhi di Berenilde e della zia Roseline, che avevano assistito a tutta la scena qualche passo più in là, Ofelia si sentì sciocca. E si vergognò, anche se non capì bene il motivo. Non appena Balder ebbe finito il gelato, ripassò il figlio a Thorn, sempre senza guardarlo, e si diresse anche lei verso il bagno per darsi una ripulita. Sempronia era già uscita da un pezzo, aveva controllato.
Quello che vide nello specchio del bagno la fece inorridire: aveva del gelato su una guancia, i capelli erano sfuggiti allo chignon e si libravano scompostamente attorno alla testa, gli occhiali erano leggermente storti. Si sentiva… non si sentiva come Sempronia, insomma. Bella, sicura di sé e a suo agio.
Si tolse i guanti per pulirli e lavarsi le mani, aprendo i rubinetti usando gli stessi guanti come delle presine da cucina. A poco valsero i suoi sforzi di darsi una sistemata. Non aveva mai fatto caso alla bellezza, ma in quel momento desiderò avere gli occhi chiari di Agata, i capelli d’oro rosso delle gemelle, una vista buona per non dover portare gli occhiali.
Mai simili pensieri le erano sovvenuti. Mai avrebbe creduto di riflettere su cose di così poco conto.
Avvinta da un terribile presentimento, Ofelia si rimise i guanti e, fronteggiandosi, immerse una mano nello specchio.
E si scontrò con una superficie solida.
Non riusciva più ad attraversare gli specchi.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 ***


Mi complimento da sola per la QUASI puntualità con questo capitolo. Ma vi avviso anche che non credo di riuscire a postare un altro a breve perché vado in ferie e non avrò il PC. Cercherò di scrivere se possibile, in qualche modo, ma dubito fortemente che riuscirò ad aggiornare ç.ç
Però vi lascio con questo capitolo contenente la tanto agognata rappacificazione *-* Questi due sciocchini. E, nota per Alchimia96, a fine capitolo c'è un picolo capitolo che riassume in soldoni quello di cui abbiamo discusso su Sempronia. Sono stata fin troppo buona con lei xD
Va bene, spero tanto che il capitolo vi piaccia, e vi informo che finalmente ho creato una copertina (banale e basilare, però ci tenevo), a questa storia. La trovate su instagram, così sapete quando aggiorno almeno ahahahah (fingersi influencer quando non me ne può fregar di meno xD).
Buona lettura e grazie come sempre a tutti/e, anche se con i commenti all'ultimo capitolo temevo la fustigazione. Mi sono fatta perdonare? xD


Capitolo 33

Il resto della passeggiata pomeridiana non fu un granché. Ofelia amava quei paesaggi bucolici, l'aria frizzante sulla pelle, e avrebbe sorriso costantemente di fronte allo stupore di Gaela e Renard, talvolta anche di Archibald, nel riuscire a stare all'aria aperta con meno di una pelliccia invernale addosso. Anzi, i due uomini erano talmente abituati al freddo che per loro la frescura animista appariva tiepida, e ogni volta che uscivano si risvoltavano le maniche delle camicie, esponendo gli avambracci tonici, per godersi bene quell’aria rinvigorente. Ofelia scoprì così che Renard aveva persino i peli delle braccia rossicci, tanto quanto quelli di Archibald erano biondi.
Si sarebbe davvero divertita, immaginò, se Sempronia non avesse continuato a gironzolare intorno a suo marito come una mosca sul miele. Si sarebbe goduta il sole, le risate dei suoi figli, curiosi di ogni cosa e perfettamente a loro agio nella sua terra natia, integrati e competenti quanto gli altri nell’animare gli oggetti, nonostante avessero iniziato solo di recente a far uso di quel potere. Il pomeriggio infatti fu tutto un susseguirsi di risate da parte dei bambini e strilli preoccupati degli adulti che venivano inseguiti ora da una palla, ora da una macchinina di legno o da una scarpa. Renard sembrava divertirsi più di tutti, e Ofelia riuscì a scambiare qualche parola con Gaela circa il fatto che sarebbe stato un padre straordinario. Vide brillare l’occhio blu elettrico dell’amica, che le rispose però solo con un grugnito. A volte Ofelia pensava che lei e Thorn avessero in comune molto più di quanto non dessero a vedere.
Ma si divertì un decimo di quanto avrebbe potuto. I suoi occhi tornavano sempre su Thorn; doveva ammetterlo, la maggior parte delle volte lo trovava con gli occhi fissi su di lei, ma a poca distanza c’era sempre, inevitabilmente, Sempronia. Una volta la vide anche allungare le braccia per prendere Balder, che Thorn le lasciò senza problemi. Ofelia strinse i pugni, e dovette suo malgrado correggersi: Thorn non le lasciò Balder, lei glielo prese senza dargli la possibilità di reagire. Però le fece male lo stesso.
Le uniche cose che la consolarono furono il pianto del figlio, che si mise a piagnucolare perché non voleva stare con lei, e la mano di Sempronia alla tempia, come se avesse mal di testa.
Ofelia si ricordò all’improvviso di quando, all’inizio, ospite a casa di Berenilde, soffriva continuamente di emicrania a causa dell’umore instabile della padrona di casa, delle sue preoccupazioni e del suo astio per la scappatella di Ofelia.
Che il mal di testa di Sempronia avesse la stessa natura? Eppure, Berenilde era lontana, concentrata su Vittoria e Tom, che stavano intrecciando ghirlande di fiori. Thorn, però, era vicino…
No, non poteva essere lui la causa del dolore di Sempronia. Thorn odiava usare gli artigli, non lo avrebbe mai fatto su un’innocente. In più, dovette ammettere Ofelia con quel fastidio persistente allo stomaco, non faceva nulla per allontanarla. Doveva essere un semplicissimo mal di testa.
Se Ofelia avesse esaminato la questione un po’ più lucidamente, si sarebbe resa conto che Thorn in effetti non faceva nulla per allontanarla, ma nemmeno per avvicinarla. Che non le parlava come invece ogni tanto faceva con qualche altro parente di Ofelia, tra cui Hector e il prozio. Che cercava la compagnia di Archibald, Thorn!, per cercare di far sì che la sua molesta interlocutrice dedicasse le sue attenzioni a qualcuno di più avvenente.
Ma Ofelia vedeva solo Thorn e Sempronia, vicini. Spesso. Troppo spesso.
Arrivarono alle carrozze quando il tramonto cingeva le colline, inondando di arancione, rosso e viola il cielo animista. Tutti si fermarono ad osservare meravigliati quello spettacolo, presagendo pioggia per l’indomani. Sophie avrebbe avuto molto da ridire su un temporale fuori programma in una giornata dedicata alle terme, ma fu talmente rapita dal tramonto da non farci caso.
Circondata dai familiari, Ofelia si sentì terribilmente sola: Charles teneva un braccio attorno alle spalle di Agata, con due figli in braccio e uno attaccato alla sua gamba; Renard abbracciava Gaela con un sorriso ebete sul volto, mentre lei lo ignorava e continuava a mettersi e togliersi il monocolo, sorpresa che delle sfumature simili di colore fossero reali e non opera di una complicata illusione; Archibald era circondato da signore, tutte con l'espressione da pesce lesso; persino Sophie teneva per mano suo marito, trattenendosi a fatica dal vantarsi del loro tramonto con i visitatori del Polo, tronfia e soddisfatta come il gallo del pollaio.
Ofelia si sentì infinitamente triste e... incompleta.
Come in risposta ai suoi pensieri, Serena la prese per mano, sorridendole. Ofelia si chiese se la figlia non avesse un poter simile a quello della Rete, capace però di carpire informazioni dalla mente altrui anziché depositarvele. Si sentì comunque subito meglio, e prese in braccio la bambina stampandole un bacio sulla guancia. Piccola di statura com'era, Ofelia dovette ammettere a malincuore che Serena cominciava a diventare pesantina per la sua schiena, ma strinse a sé quel corpicino magro con un affetto sconfinato.
Silenzioso come un'ombra, Thorn si affiancò a loro con Balder addormentato in braccio. Il piccolo aveva corso e giocato talmente tanto che Ofelia si era sorpresa che non fosse crollato prima. Thorn, con un unico gesto fluido che lei non sarebbe mai stata in grado di compiere senza slogarsi una spalla o far cadere i bambini, le prese Serena, reggendo così entrambi i bambini. Serena allacciò le mani attorno al collo del padre, appoggiando la testa sulla sua spalla, finalmente perdendo l'espressione preoccupata che le aveva solcato il volto per tutta la giornata, nonostante avesse riso e si fosse divertita. Thorn si avvicinò ad Ofelia fino a sfiorarle il braccio, e rimasero lì in silenzio, con il viso arrossato dal sole morente. Quando non ci fu più molto da vedere, il silenzio venne interrotto, i corpi ricominciarono a muoversi come statue di marmo, svegliati da un lungo torpore.
Le voci acute di Sophie e Agata quasi disturbarono Ofelia, che incrociò brevemente lo sguardo intenso di Thorn. Era difficile reclinare il collo così tanto, ma Ofelia sentiva il bisogno di guardarlo, di capire cosa stesse succedendo a lui, cosa stesse succedendo a lei.
E poi arrivò Sempronia, esaltata per il tramonto, che si sperticò in lodi e domande sui paesaggi del Polo ignorando completamente Ofelia. A beneficio di Thorn va detto che lui non degnò di un’occhiata la donna, continuando a fissare invece la moglie, che però non ricambiò lo sguardo.
Quando Sempronia gli toccò il braccio, continuando a ciarlare con voce suadente, Ofelia percepì Thorn irrigidirsi.
- Arrivederci – disse glacialmente, come se fosse più un ordine che un congedo.
Presa in contropiede, Sempronia si zittì. Era perplessa, come se si chiedesse con chi stesse parlando Thorn, perché non poteva di certo avercela con lei…
Invece era così, perché Thorn le diede le spalle e si diresse verso le carrozze, facendo segno a Ofelia di seguirlo. Ofelia gli andò dietro in silenzio, ma non riuscì a trattenersi: da sopra la spalla guardò Sempronia, impalata nel mezzo del ritrovo animista, scandalizzata da un rifiuto così secco. Archibald le si avvicinò facendo roteare il cappello.
- Mi dispiace, signorina, ma il nostro caro intendente non è assolutamente un uomo corruttibile, in alcun modo. Sapeste quanto ci ho provato io.
Sempronia trasalì, rendendosi conto solo in quel momento della presenza di Archibald. Sembrò registrare per la prima volta i suoi lineamenti, il bel viso e gli occhi di quel colore sublime. Gli sorrise.
- Voi siete…?
- Sposato? No, mi spiace deludervi, mademoiselle. E nemmeno voi lo siete, quindi non perdiamo altro tempo, che ne dite? Arrivederci!
Rifiutata da due uomini su due, Sempronia spalancò la bocca. Sembrava disorientata come lo era stata Ofelia la prima volta che aveva osato avventurarsi tra i vicoli bui e maleodoranti del Polo. I suoi occhi notarono Renard in lontananza, ma senza che lui se ne accorgesse Gaela gli si mise di fronte, sulla traiettoria dello sguardo di Sempronia, e si tolse il monocolo per fissarla trucemente con l’occhio cattivo.
Con la coda tra le gambe, finalmente Sempronia si allontanò, e Ofelia non poté fare a meno di trattenere un sorriso. Il viso di Thorn continuava a rimanere adombrato, però, e in qualche modo Ofelia capì che il peggio non era ancora arrivato.
 
Rincasarono in silenzio, perché nella carrozza in cui erano si addormentò la maggior parte dei parenti, stremati. Il gelato pomeridiano si era rivelato più pesante del previsto, così Sophie invitò tutti a casa per un tè. Fortunatamente rifiutarono in molti, e nel salotto dei genitori di Ofelia si ritrovarono solo, per una volta, i parenti più stretti: genitori, sorelle e consorti, Hector e la moglie, prozio, zia Roseline, Berenilde e Vittoria, Gaela, Renard e Archibald. I figli di Agata dormivano, tutti in braccio al povero Charles che aveva la fronte madida di sudore per lo sforzo di doverli portare. Anche Serena e Balder avevano ceduto al sonno, e i divani vennero interamente occupati dai loro corpicini ripiegati. Il resto degli adulti si accomodò a tavola in attesa del tè, anche se Ofelia vide parecchie bottiglie di liquore comparire sulla tovaglia, chiaro segno che il tè non sarebbe stato poi così innocuo. Le chiacchiere si fecero sommesse per cercare di non svegliare i bambini, e Ofelia si chiese quali argomenti ancora potessero trattare, dal momento che avevano parlato ininterrottamente tutto il giorno. L’aria fresca le aveva peggiorato il raffreddore e fatto venire il mal di testa, così biascicò una scusa e si diresse in camera, promettendo di tornare dopo che si fosse data una ripulita.
Le scale furono un’impresa, per lei, così tanto che dovette aggrapparsi al corrimano con tutta la sua forza per reggersi sulle gambe, deboli come gelatine. Stava per chiudersi la porta della camera alle spalle quando Thorn palesò la sua presenza silenziosa. L’aveva seguita fin lì senza dire nulla, senza emettere un suono. Stanca com’era, Ofelia strinse gli occhi, cercando di capire cosa mai potesse volere.
Lui chiuse la porta e si raddrizzò, rimanendo fisso di fronte a lei, guardandola dall’alto, serioso come sempre. La luce della lampada gli metteva in ombra mezzo viso e i suoi tratti spigolosi, il naso tagliato col coltello e gli occhi infossati venivano accentuati ancora di più.
Thorn e Ofelia si fissarono in silenzio, lei accanto al letto e lui dall’altra parte, vicino alla porta, senza dire una parola. Ofelia sapeva che sarebbe stato lui a parlare per primo, e infatti Thorn non ci mise molto a prendere in mano la situazione.
- Mi rincresce di non essere all’altezza.
Ofelia non poté fare altro che sbattere le palpebre, come per cercare di vederci più chiaramente. Ma gli occhiali erano perfettamente puliti.
- Come?
Thorn sbuffò dal naso. – Non cercare di nascondere la cosa, in presenza dei tuoi parenti io sono considerato una delusione.
Ofelia dovette sedersi per non crollare. Cosa stava dicendo, Thorn?
- Io non sono… delusa. Cosa ti ha fatto pensare una cosa simile?
Poi, complice la stanchezza, l’emicrania, lo stato di malessere, Ofelia si innervosì.
- Anzi sì, sono delusa. Per quale motivo un uomo come te, un padre di famiglia, dovrebbe prestare così tante attenzioni ad una donna dissoluta come Sempronia dopo un mese di lontananza dalla propria moglie? A me pare che sia tu quello deluso.
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Dissoluta? E chi sarebbe Sempronia?
Ofelia spalancò la bocca come un forno che non sopportava più il calore.
- Sempronia è la donna con cui hai parlato tutta oggi, senza nemmeno degnare di uno sguardo me! Tutto il tempo con lei, Thorn! È disdicevole, soprattutto di fronte all’evidente corte che lei ti stava facendo.
Thorn si massaggiò una tempia. – Qui ci sono delle incomprensioni.
Ofelia attese che continuasse, ma Thorn probabilmente aspettava la stessa cosa quindi rimasero ancora a fissarsi in silenzio.
- Che incomprensioni ci sono? – lo incalzò alla fine Ofelia.
- Sempronia è una tua parente?
- Sì, certo, mia cugina. Di qualche lontano grado. Terzo o quarto.
- Perché dissoluta?
Ofelia lo guardò come lui tanto tempo aveva guardato lei: come se fosse lento di comprendonio. – Girava voce che fosse una libertina, che seducesse i mariti altrui. Pensavo che fosse un pettegolezzo infondato messo in giro da qualche donna gelosa, ma a giudicare dal suo comportamento di oggi è ormai un fatto certo.
Thorn strinse gli occhi. – Questo cosa c’entra con la nostra reciproca delusione?
Ofelia sbuffò. – Sei stato tutto il giorno con lei, Thorn. Hai persino mangiato il gelato con Balder e lei, come se fosse lei tua moglie. Hai parlato solo con lei, hai fatto tutto solo con lei, hai…
Ofelia si sentiva un fiume in piena. Lei, che aveva tanta difficoltà ad esprimere ciò che serbava nel profondo, aveva rotto la diga; gli argini cedettero e le emozioni negative fluirono fuori come la più terribile delle inondazioni.
Thorn aveva lo sguardo fiammeggiante, chiaramente adirato. Si avvicinò a lei in due falcate, così affrettate da farla indietreggiare leggermente per la paura, e si inginocchiò di fronte a lei per essere alla sua stessa altezza. Azione non poco complicata.
- Io non ho parlato con lei. Lei ha parlato con me. Io cercavo di essere… cortese. Mi hai chiesto tu di essere educato con la tua famiglia, di fare buona impressione. Ho tentato, ma non ne sono capace. Loro parlano di… amenità, piaceri e vacanze, novità sulle nuove nascite e matrimoni, io non ne so nulla. E ad essere onesto non so nemmeno se voglio saperne qualcosa. Così ho parlato dove ho potuto, quando si discuteva di politica.
In effetti, Ofelia lo aveva visto qualche volta aprire bocca in compagnia di Renard e del prozio. Sempre in modo serio e altero, un atteggiamento che non si confaceva ad una chiacchierata di piacere, ma in quei momenti nessuno rideva. Ofelia capì che Thorn si era sforzato di integrarsi per lei. Se non gli avesse chiesto di fare buona impressione, non solo in quell’occasione ma anni prima, quando gli animisti erano andati a trovarli al Polo per la prima volta e Thorn le aveva offerto i castelli di fronte a tutti, lui se ne sarebbe rimasto in disparte. Non avrebbe fatto il minimo tentativo. Per lei, invece…
- A proposito di incomprensioni, non ho parlato con Sempronia. Ha parlato lei, per cinque ore e diciassette minuti in totale. Non essendoci un modo che tu avresti trovato gentile per congedarmi, non ho potuto dirle che la sua presenza mi infastidiva e che avrei preferito che se ne andasse.
Ofelia si sentì una stupida. Thorn, però, non era da meno. – Non ti sei accorto che stava tentando di sedurti?
Lui aggrottò ancora di più la fronte.
- Non l’ha fatto. Che sciocchezza.
Ofelia non riuscì a trattenere una risata, per quanto priva di umorismo. – Sempronia seduce gli uomini sposati, Thorn. Ha cercato per tutto il pomeriggio di indurti in tentazione. Non te ne sei accorto?
Thorn rimase immobile come uno spaventapasseri, visibilmente confuso. Possibile che nessuna donna avesse mai provato a corteggiarlo?
Quasi leggendole nel pensiero, ammise: - Ho visto diversi tentativi di… Il Polo è un ambiente immorale, so chi sono gli amanti e gli amanti degli amanti di quasi tutti i membri della cerchia di Faruk. Io non rientro nelle grazie di nessuno, come ben sai. Mia zia ha dovuto cercare una moglie per me su un’altra arca. Vorrei ricordartelo, nel caso in cui la tua memoria avesse dimenticato questo dettaglio.
Ofelia si imbronciò. – Lo so benissimo, non trattarmi con condiscendenza. Ma si può voler corteggiare qualcuno anche perché se ne è attratti, non solo per ottenere favori politici o un buon matrimonio.
L’espressione di Thorn fece capire ad Ofelia che lui non si sarebbe ritenuto mai e poi mai un uomo abbastanza attraente da attirare l’attenzione di qualsivoglia donna.
- Sei gelosa?
Ofelia sussultò. Aprì la bocca per ribattere, ma le parole le rimasero impigliate in gola. Il naso chiuso le impedì di prendere un respiro profondo.
Attraversare gli specchi significa essere in grado di affrontare se stessi, si ricordò. E finalmente, riuscendo a dare un nome al tumulto di emozioni che l’aveva catturata quel pomeriggio, capì di essere di nuovo in grado di attraversarne uno. Di essere onesta con se stessa.
Era stata gelosa di Sempronia. Gelosa di Thorn, del fatto che la sua attenzione fosse stata dirottata su un’altra donna.
I metallici e intensi occhi di Thorn la fecero avvampare, come una giovane innamorata alle prime armi. Si tolse gli occhiali per cercare di schiarirli, e anche per avere la scusa di non poter vedere nitidamente il viso di Thorn. Peccato che fosse troppo vicino, così tanto che nemmeno la sua miopia glielo faceva apparire sfocato.
- Ofelia? – la incalzò. – Sei gelosa? È questo che ti ha indotta ad essere delusa da me?
- Io non… - balbettò. Stava per dire che non era gelosa, ma la verità era che lo era eccome. La gelosia l’aveva spinta a vedere solo quello che voleva vedere, cioè Sempronia e Thorn sempre vicini, ignorando il fatto che lui non le parlava, non la guardava, anzi, cercava il suo di sguardo, non quello della sua interlocutrice. Probabilmente era responsabile di avergli fatto passare una terribile giornata in compagnia di una donna inopportuna e pesante. Così si corresse. – Io non sono delusa da te. Perché dovrei esserlo? Mi pare piuttosto che sia tu quello deluso.
Le cicatrici di Thorn sembravano vive, si muovevano ad ogni suo cambiamento di espressione, per quanto fosse impercettibile.
   Strinse le labbra, restio a parlare. – Non potresti deludermi nemmeno se lo volessi.
Ofelia si rimise gli occhiali. Si guardarono con un’intensità nuova, una specie di corrente elettrica che crepitava tra di loro. Ofelia voleva toccarlo, ma c’era qualcosa che ancora non si erano detti. Per quanto avesse voluto crogiolarsi in quelle parole così sincere e affettuose, pronunciate da uno come Thorn, sapeva che c’era ancora qualcosa da affrontare.
- Perché allora sei stato così… distante? Appena ci siamo visti mi hai sgridata come una bambina! E poi non mi hai più toccata. Non mi hai più considerata. Non hai… non hai nemmeno dormito a casa la prima notte!
Thorn strinse con forza gli occhi.
- Sono stato deplorevole riguardo a quella vicenda, e me ne dispiaccio. Non mi sono abbandonato all’alcol, se è questo ti preoccupa. Ma… i tuoi amici – disse digrignando i denti, - hanno esagerato. Non erano in grado di fare il tragitto di ritorno a casa da soli, quindi mi hanno costretto a portarli. Tua zia ha perso la calma – continuò, stringendo la mascella al ricordo di come Roseline potesse aver dato di matto. Ofelia capì quanto si fosse impegnato per lei, quanto dura dovesse essere stata per lui aiutare Renold e Archibald, sorbirsi gli strepiti di sua zia e non poter fare come voleva lui. – Ho detto che sarei tornato qui, ma tua zia ha…
Non riuscì nemmeno a continuare. La zia Roseline doveva aver davvero fatto una scenata se Thorn non poteva nemmeno raccontare lucidamente cosa fosse successo.
Ofelia gli baciò la fronte. Sentì i nervi tesi sotto le dita, percepì la rigidità delle sue spalle, e quanto gli costasse starsene inginocchiato, piegato come una fisarmonica sul duro pavimento.
- Non intendevo giudicarti – lo ammansì con voce flebile. – Mi sono solo chiesta il perché del tuo distacco.
Con le labbra ancora premute sulla sua fronte, Ofelia lo sentì deglutire. Voleva guardarlo, ma le sembrava che il contatto con lei lo aiutasse a calmarsi. Gli lasciò i suoi tempi, come sempre. Per lui parlare di sentimenti era difficile quanto lo era per lei.
- Ero geloso anche io – ammise. – Ho avuto una reazione irrazionale e ingiusta. Vederti sorridente, circondata dai parenti, in compagnia di Renold e Archibald mentre io sono stato lontano, mi ha fatto… avevo paura che volessi restare. Che non ti bastassi più. Che ti fossi resa conto di cosa hai lasciato qui. I bambini sono felici. Tu sei felice. E l’idea che…
- Thorn – lo interruppe lei, portando gli occhi all’altezza dei suoi.
Ma lui non si fermò. - …se è quello che tu vuoi non mi opporrò, però vorrei stabilire dei termini per poter…
Ofelia lo baciò per zittirlo. Si sentì sciogliere. Non era famelico e irruente come il bacio di due giorni prima, che Thorn le aveva dato, ora se ne rendeva conto, per scacciare il timore che si era impossessato di lui, come per rivendicarla. Fu un bacio dolce e lento, un timido saluto dopo una lunga mancanza.
Ofelia ci rimase male quando lui si allontanò. Ma non lo lasciò parlare lo stesso.
- Ero felice perché c’eri tu in quel dirigibile. C’eri tu davanti a me. Finalmente. Non voglio vivere qui. Mi va bene venire a trovare i miei parenti ogni tanto, ma non da avere una seconda vita qui.
- Io ti lascerei restare, se lo volessi. Non sarò un intralcio.
Ofelia gli sorrise, dandogli un altro bacio. – Lo so. Ma non lo voglio. Vuoi costringermi a stare qui?
Thorn la inchiodò con il suo sguardo magnetico e Ofelia si sentì fremere dalla radice dei capelli alla punta delle dita. Sospirò.
- Non ci vediamo per un mese e in due giorni riusciamo a non parlarci, imbronciarci e ingelosirci come bambini.
Thorn si adombrò. – Ventisei giorni – la corresse. – E non mi sono imbronciato.
Ofelia sorrise di nuovo. – No, infatti, tu sei sempre imbronciato.
Thorn non si smentì, incupendosi ancora di più.
- Non sei interessato a Sempronia, allora?
Lui la guardò, con una serietà tale da spingerla a chiedersi se avesse capito che stava scherzando, che era un modo per sdrammatizzare, che non era più arrabbiata.
Ma Thorn le baciò il collo, facendole trattenere il respiro.
- È la migliore lettrice in circolazione?
Ofelia piegò la testa per dargli più spazio. – No.
Thorn si alzò quel tanto che bastava per torreggiare su di lei, e farla arretrare sul letto. Le tolse le scarpe. – È ostinata, testarda, caparbia…
Ofelia lo guardò male finché lui non salì sul letto e la baciò. Poco. Troppo poco. – È emancipata, leale, sincera, integerrima…
- No – lo interruppe Ofelia lasciandosi sfuggire un piccolo sospiro quando Thorn le mormorò all’orecchio.
Le sue abili dita le scivolarono sui bottoni del vestito. Ofelia si rese conto di quanto le fosse mancato anche fisicamente, e di quanto poco se ne vergognasse.
- È la madre dei miei figli? – domandò ancora Thorn baciandole la spalla che aveva appena scoperto.
- No – mormorò Ofelia, a corto di fiato.
- È capace di escogitare stratagemmi astrusi, è intelligente, analitica, riflessiva e riservata?
Ofelia quasi rise. – Non credo.
Thorn le alzò la gonna e le tolse il vestito con un solo gesto. Poi si occupò delle sottogonne e delle calze. – È in grado di alterare decenni di statistiche con una sola parola, di sfidare la logica e il buon senso, di trovarsi sempre nel luogo sbagliato al momento sbagliato e…
- Non sei molto lusinghiero – gli fece notare lei, al che lui si dedicò a rimuovere senza indugi la biancheria rimasta.
- È alta quarantasei centimetri meno di me, con i piedi taglia trentasei, fianchi della circonferenza di…
Questa volta Ofelia rise. – Non dirmi che sei capace di calcolare le misure di chiunque e qualunque cosa con un sguardo...
Gli occhi di Thorn fiammeggiarono. La baciò intensamente mentre Ofelia provava maldestramente a sbottonargli la camicia. Era praticamente nuda sotto di lui, ormai.
- È te? – le chiese quando si staccò nuovamente. La guardò con una serietà estrema. Ofelia perse il respiro.
- Stai davvero facendo il paragone tra me e Sempronia in questa situazione?
Thorn fece una smorfia. Probabilmente il nome stesso della donna, il suo evocarla, gli dava fastidio.
- È te? – la incalzò, chinandosi nuovamente su di lei. Le fece correre una mano aperta sulla coscia.
- No – ansimò lei.
Thorn si fermò, cosa che la fece gemere per il disappunto. Non provò il minimo imbarazzo. Thorn condivise il suo respiro. – Non sono interessato allora.
- Sei molto preciso quando si tratta di…
- Io sono sempre preciso – la prevenne lui.
- E non dimentichi mai nulla.
- Non dimentico nulla. Mai. Dov’eravamo rimasti?
Ofelia aggrottò le sopracciglia. Thorn non poteva essere letterale nel chiedere a che punto del discorso fossero rimasti. Ciononostante rispose: - Al confronto tra me e Sempronia.
Thorn aggrottò la fronte. – Al confronto tra te e chi?
Capendo l’antifona, contenta come una bambina, Ofelia si alzò sui gomiti e lo baciò con foga. Lasciò che fosse lui ad occuparsi dei suoi vestiti, come sempre, perché non avevano molto tempo prima che qualcuno andasse a cercarli e se l’avesse spogliato lei ci sarebbe voluta tutta la notte. Thorn esplorò il suo corpo come non aveva fatto nemmeno la prima volta che si erano uniti, come se fosse la prima occasione in cui la vedeva, in cui la toccava. La venerò senza mai smettere di guardarla, appagandola sotto ogni aspetto, toccandola nei modi che preferiva, assecondandola e dicendole con il corpo quello che non era capace di dire a parole.
Mi sei mancata.
Sono felice di essere di nuovo con te.
Non lasciarmi più.
Ti amo.
Ti amo.
Ti amo.
Nonostante l’inizio lento e quasi delicato, bastarono pochi istanti prima che entrambi fossero presi dalla frenesia, concludendo in fretta e in modo un po’ rude, soffocando i gemiti tra i baci. Dovettero rivestirsi in velocità e scendere nuovamente per non destare sospetti. Ofelia annunciò che si sarebbe fatta la doccia per prima e Thorn portò a letto i bambini. Tra il fumo delle sigarette di Berenilde e i liquori che scorrevano, in mezzo alle risate scroscianti di Renard, nessuno quasi fece caso alla scomparsa di Ofelia e Thorn. E dopo che lui ebbe cambiato Balder e messo il pigiama a Serena, si avvicinò silenziosamente alla porta del bagno. Che si aprì per lui, nonostante la sua totale impossibilità di animare gli oggetti. Probabilmente Ofelia stava esercitando un influsso così potente, anche se incosciente, da contagiare tutto l’arredamento nei dintorni.
Dopo aver richiuso la porta, la cui maniglia gli accarezzò la mano, Thorn si spogliò e si infilò in doccia con Ofelia senza che lei se ne accorgesse. La spinse dolcemente contro il muro e lasciarono entrambi che il vapore portasse via i loro respiri. Le loro carezze si fecero liquide, le membra bollenti, e rimasero più a lungo del dovuto sotto il getto caldo, abbrancati l’uno all’altra, ancorati alla propria casa.
Finché il doccino non si stufò, inondandoli con un fiotto di acqua gelida che fece grugnire Thorn e urlare Ofelia. Finirono di asciugarsi in camera, dove poi si infilarono a letto, stringendosi insieme e ascoltando il respiro regolare e rassicurante dei loro figli.
Con la testa premuta contro il petto di Thorn, Ofelia si addormentò immediatamente, riuscendo finalmente a riposare bene. Cullata dal battito del cuore dell’uomo che era diventato tutto il suo mondo.
E quando la notte si svegliò per un colpo di tosse di Serena, notando il viso rilassato di Thorn, così infantile nella penombra notturna, così innocente, capì che lui forse non aveva dormito durante quel mese per lo stesso motivo. Si ripromise quindi di essere per sempre la custode del suo sonno, si strinse ancora di più a lui e si riaddormentò.
 
La mattina dopo sia Ofelia che Thorn erano decisamente di umore migliore. Così tanto che non si sarebbero svegliati se non fossero intervenuti i bambini, che saltarono loro sulla pancia. Ofelia si alzò bruscamente massaggiandosi l’osso del bacino, un’espressione palesemente sofferente sul volto. E la mancanza di occhiali le fece sbattere il naso contro il muro.
Serena scoppiò a ridere, imitata da Balder che si stava ancora strofinando via il sonno dagli occhi, ma emulava la sorella ogni volta che poteva.
- Mamma sei così maldestra.
Thorn guardò severamente la figlia, anche se sarebbe stato difficile distinguere la sua espressione ammonitrice da quella solita.
 - Serena – chiamò la figlia. Qualcosa nel suo tono indusse la bambina a zittirsi e mettersi sull’attenti. – Hai fatto male alla mamma. E non è rispettoso dirle che è maldestra.
Serena perse completamente il sorriso. Chinò la testa, penitente, mentre Ofelia inforcava gli occhiali. – Scusa mamma se ti ho fatto male.
- E poi? – la incalzò Thorn.
A Serena cominciò a tremare il labbro inferiore, ma rispose con voce ferma: - E scusa se non sono stata dispettosa.
Ofelia fece fatica a trattenere una risata.
- Rispettosa – la corresse Thorn. – Non serve piangere, non hai fatto nulla di grave.
- Sei arrabbiato? – domandò la bambina guardando il papà mettere i piedi giù dal letto, piegando le lunghe gambe da ragno. Era terrorizzata all’idea di aver rovinato l’umore della giornata, e prendeva come una sconfitta l’essere sgridata da Thorn.
- No – rispose lui, con una voce che diceva tutto il contrario.
Balder allungò le braccia verso la mamma. – Giochiamo pacco mamma?
- No, oggi niente parco, Balder – gli rispose Ofelia, continuando a massaggiarsi il fianco. – Oggi ter…
Thorn le lanciò un’occhiata penetrante, intimandole silenziosamente di non continuare. Serena la precedette.
- Terme! – gioì. – Con l’acqua calda calda caldissima bollente!
- Quella definizione non esiste, Serena – le disse Thorn. – E l’acqua non sarà bollente, altrimenti il corpo non potrebbe sopportare l’eccessivo calore e finirebbe per…
- Perché non andate a fare colazione? – li esortò Ofelia, aprendo la porta della camera.
I bambini non ci pensarono due volte e andarono di sotto ancora in pigiama, strepitando felici. Thorn socchiuse gli occhi, infastidito, se per il frastuono o per la prospettiva di andare alle terme, non era dato saperlo.
O forse per entrambi. – I bambini sono diventati più rumorosi da quando sono venuti qui. E non ho intenzione di andare alle terme.
Ofelia sospirò, ma Thorn fraintese il suo disappunto.
- Ti ha fatto molto male? – chiese, indicando il punto che Ofelia si stava ancora massaggiando.
Lei lasciò cadere le braccia, dando dei colpetti alla sciarpa perché si svegliasse. Raggomitolata su una sedia, quella si girò letteralmente dall’altra parte.
- No, nulla di grave. E i bambini non sono rumorosi, sono solo contenti. Non puoi dire di no alle terme.
- Potete andarci voi.
- E tu resterai qui a casa da solo?
Thorn indicò con un cenno la piccola valigetta accanto alla porta. Ofelia non l’aveva nemmeno notata all’interporto. – Ho un po’ di lavoro dietro.
Ofelia si infilò una mano tra i capelli con l’intento di pettinarli, ma i ricci le si aggrovigliarono alle dita, facendola desistere. Ogni tanto le sembrava che i suoi stessi capelli fossero animati. E non erano mai di buonumore.
Ricordandosi di una vecchia conversazione, avuta durante un altro soggiorno termale, in un’altra riunione familiare, Ofelia gli sorrise.
- Consideralo un dovere diplomatico, devi essere il portavoce del Polo e intrattenerti con gli animisti.
Thorn corrugò le sopracciglia. – L’ho già sentita questa scusa.
- In che altro modo potrei convincerti a venire, se non parlando di doveri politici?
Thorn l’afferrò per i fianchi, tirandosela addosso. Ofelia dovette tenersi gli occhiali per non farli scivolare, ma invece che spostarsi si sistemò meglio in grembo a Thorn. Le dava un po’ fastidio che anche in quella posizione Thorn fosse più alto.
- Questa è una proposta da parte tua, non una richiesta. Non è detto che io accetti.
Ofelia gli sfiorò il naso con il suo. – Sta a me mostrarmi persuasiva, allora.
Non fece in tempo a baciarlo che sentì subito le sue mani sulle gambe, sui fianchi, sulla schiena sotto la camicia da notte. Thorn era famelico come se dovesse recuperare il mese di distacco, come se rischiasse di soffrirne se non ci fosse riuscito. E a lei non dispiaceva.
Fu decisamente un bene che i bambini, come aveva detto Thorn, fossero diventati più rumorosi, perché presi com’erano da loro stessi, nessuno dei due avrebbe potuto sentire Balder salire le scale diretto in camera.
- Mamma cacca!!
Ofelia si tolse così repentinamente da sopra Thorn che si ritrovò per terra senza nemmeno rendersene conto.
Si stava massaggiando il fondoschiena quando Balder entrò con un biscotto in mano. Thorn era riuscito a sistemarsi per un pelo.
- Cacca mamma, cacca.
Thorn si accigliò. – Chi gli ha insegnato quella parola?
- Qui la dicono tutti – mormorò lei, dolorante, cercando di rialzarsi senza peggiorare la situazione.
Thorn scosse la testa, evidentemente contrariato. – Si dice feci, Balder.
Il bambino parve confuso. – Io fatto cacca!
- Feci – ribadì Thorn con una smorfia, come se la parola stessa lo urtasse.
- Io fatto feci?
- Io feci feci – bisbigliò Ofelia, scoppiando a ridere da sola. – Sarà un bel grattacapo poi insegnargli le coniugazioni del verbo fare.
Thorn le lanciò un’occhiata torva. Prese Balder senza aggiungere altro e lo mise sul fasciatoio, cambiandolo in fretta e in silenzio.
- Puito! – esclamò Balder dopo poco.
- Sì, pulito. Ora torna a mangiare, noi arriviamo.
Caracollando sulle gambette grassocce, Balder si diresse fuori dalla camera. Ofelia sapeva che il tappeto delle scale non lo avrebbe mai lasciato cadere. Era uno dei pochi vantaggi del vivere in una casa apprensiva quanto una madre.
Ofelia tornò a concentrarsi su Thorn. – Sono stata convincente?
Gli occhi metallici di Thorn parvero riaccendersi come braci. – Non del tutto. Un cinquantacinque percento.
- Sei difficile da accontentare, sai?
Le labbra severe di Thorn parvero incurvarsi per un attimo, troppo breve perché Ofelia potesse decidere se era un vero sorriso o no.
- Muoviamoci che tra poco verrà su anche Serena e…
Thorn la zittì baciandola, e quello che accadde dopo fu decisamente veloce, per quanto possibile silenzioso e assolutamente convincente, perché Thorn le chiese un costume dopo averla rimessa per terra.
Frastornata, Ofelia si sistemò gli occhiali sul naso e si mise a cercare nell'armadio. Thorn rimase immobile come l'armadio stesso, impassibile come al solito nonostante il fiato ancora leggermente accelerato. Sembrava più che mai un orso, e Ofelia cercò di non arrossire guardandolo.
- Tieni, spero che ti vada bene. Non è facile trovare indumenti della tua taglia.
Thorn prese in mano il costume aggrottando la fronte. Era un semplice costume intero a righe, che copriva la maggior parte delle gambe e il torso, lasciando libere solo le braccia. Thorn sembrava perplesso.
- Questo non è mio.
- Sì, te l'ho comprato qualche giorno fa, quando mia madre ha annunciato che saremmo andati alle terme.
Evitò di dire che sua madre l'aveva praticamente costretta a comprarlo. Non voleva fargli capire che l'idea di andare alle terme la esaltava quanto esaltava lui. Sarebbe stato facile trovare un pretesto per non andare, ma ai bambini sarebbe piaciuto tanto.
Notando come Thorn scrutava il costume, si fece prendere dal timore che l'indumento non gli piacesse. Thorn indossava praticamente sempre e solo la divisa da intendente, o eventualmente camicie bianche inamidate, tranne a letto, che non indossava quasi nulla. Non sapeva effettivamente quali fossero i suoi gusti in fatto d'abbigliamento. E quel costume non era esattamente alla moda.
- Ho pensato che un costume intero ti avrebbe fatto sentire più... a tuo agio - mormorò Ofelia flebilmente, incartandosi nelle parole come sempre quando era agitata. - Che ti fosse più congeniale nel caso in cui... avessi voluto coprire le cicatrici.
Lo sguardo di Thorn si fece glaciale. - Ti disturbano?
Ofelia cercò di guardarlo in viso, allungando il collo, incontrando i suoi occhi metallici e freddi, taglienti come il ghiaccio. - No, lo sai che non...
La voce le venne meno, e gli occhi indagatori di Thorn di certo non l'aiutarono a rilassarsi.
- Pensavo solo che, mettendole in mostra, i miei parenti avrebbero potuto farti domande...
- Sicuramente mi avrebbero fatto domande - la corresse Thorn laconicamente.
- Ecco, e che tu magari non avessi... voglia di rispondere a domande così personali e un costume intero poteva coprire quelle più evidenti così che...
Thorn cominciò a spogliarsi senza fiatare, piegando accuratamente i vestiti che indossava e infilandosi il costume. Ofelia lo guardò, basita, finché non fu interamente coperto da quel tessuto a righe che lo rendeva ancora più slanciato. Gli andava un po' corto sulle gambe, dove arrivava a metà polpaccio, ma per il resto copriva esattamente quello che Ofelia aveva pensato volesse coprire. Solo le cicatrici sulle braccia svettavano, bianche come la neve sulla sua pelle pallida, ma quelle sarebbero passate inosservate per la maggior parte. Ofelia aveva parlato alla sua famiglia del clan dei Draghi, del fatto che erano combattenti, che procuravano la derrata alimentare di carne annuale all'intero Polo. Sapeva che la sua famiglia avrebbe poi distribuito la notizia a tutti i parenti, pertanto, sapendo che Thorn dava la caccia a Bestie gigantesche nessuno si sarebbe fatto domande sull'origine delle sue cicatrici sulle braccia. Qualche quesito invece se lo sarebbero posto eccome se avessero visto in che stato versava il suo torso, su cui capeggiavano le ferite peggiori. O ne sarebbero stati incuriositi, spingendoli ad avvicinarsi per dare un'occhiata e forse complimentarsi per il suo coraggio e le sue gesta eroiche. Ofelia si era ben guardata dal dire che Thorn era un bastardo che non sarebbe mai stato annoverato tra i Draghi purosangue, e tantomeno che non avrebbe mai e poi mai dato la caccia a gigantesche Bestie irascibili per sfamare un'intera arca.
Per quanto Thorn fosse suo marito, c'erano cose di lui che ancora le sfuggivano, che le teneva nascoste. Ofelia sapeva che gliele avrebbe rivelate quando gli fosse stato più congeniale, a suo agio. Non aveva alcuna intenzione di forzarlo, nonostante la sua curiosità, e più di ogni altra cosa non si sarebbe mai resa la portavoce della sua storia. Era un suo diritto scegliere cosa rivelare e a chi rivelarlo, pertanto non avrebbe violato la sua riservatezza raccontando a tutti chi era Thorn e cosa aveva subito.
Tenendo conto di ciò, aveva pensato che forse suo marito avrebbe gradito di più qualcosa che non attirasse troppo l'attenzione su di sé.
Thorn non si degnò di uno sguardo nel grande specchio a muro, come se non gli interessasse nulla di come appariva. In compenso ci pensò Ofelia a scrutarlo per valutare come gli stesse il costume: gli aderiva perfettamente alle gambe magre da trampoliere, al torace ampio e copriva perfettamente quello che loro volevano che coprisse. Ofelia lo trovò piacevole alla vista, checché lui ne pensasse di sé, se piaceva il genere magro e allampanato. Ma Ofelia non aveva mai fatto caso alla bellezza di una persona come elemento fondamentale. Solo di Archibald le era capitato di pensare che fosse un uomo molto bello, ma l'ex ambasciatore impertinente era oggettivamente bello, non c'erano pareri che tenessero. Anche se non l'avrebbe mai detto a nessuno, specialmente non al diretto interessato e non a Thorn.
Ofelia amava le grandi e calde mani di Thorn e la sua schiena solida così come avrebbe amato qualunque altra parte di lui, se fosse stata diversa.
- Ti sta bene - si ritrovò a dirgli con voce sommessa.
Con sua sorpresa, gli vide arrossire le orecchie, e Thorn si voltò per indossare i vestiti sopra al costume. Si schiarì la voce. - La taglia va bene.
Ofelia sorrise e prese il suo costume intero. Quando si specchiò notò per la prima vera volta come le fosse cresciuto il seno in seguito alle gravidanze. Forse le si erano leggermente allargati i fianchi, ma per il resto era rimasta fisicamente la stessa di quando si era sposata. Nello specchio vide Thorn, alle sue spalle, che la osservava con attenzione, dal collo ai piedi. Quando il suo riflesso incontrò i suoi occhi, sostenendo il suo sguardo, vide Thorn girarsi e rimettersi a sistemare.
Passarono diversi minuti, durante i quali Ofelia preparò i vestiti di ricambio per i bambini e per loro, prima che Thorn riaprisse bocca; schiarendosi la voce, a disagio, prima di parlare. - Pure a te sta... bene. Il costume.
Poi, tirando su con il naso, domandò: - Ci sarà anche Archibald, vero?
Ofelia, stupita dal complimento sul costume, lo scrutò cercando di interpretarne lo stato d'animo e i pensieri. Cosa si agitava nella sua mente?
- Grazie - mormorò in risposta, seppur in ritardo. - Sì, ci saranno tutti.
Thorn annuì seccamente. Però continuò a scrutarle le gambe e... il fondoschiena.
- Qualcosa non va?
Colto in flagrante, Thorn si mosse a scatti come un automa. Alla fine si sedette sul bordo del letto, accasciandosi come un sacco svuotato, come se le sue ossa avessero perso consistenza.
- Archibald sarà molesto.
Ofelia sgranò gli occhi. Si riferiva forse al costume, che lasciava esposta più pelle di quanto effettivamente l'ex ambasciatore avesse mai visto?
Ofelia sbuffò, leggermente divertita. - Dubito che Archibald si interesserà a me, con tutte le giovani donne che ci saranno alle terme, sicuramente più attraenti di me. Tra cui le mie sorelle.
Si accigliò al pensiero. Archibald aveva promesso di non fare nulla di screditante e immorale, e fino a quel momento si era attenuto alla parola data, ma per Ofelia continuava a rimanere un individuo imprevedibile. Un po' come le reazioni di suo marito.
Accostatasi a lui, gli circondò il viso con le mani, dandogli un bacio in fronte come faceva con i bambini. Su di loro aveva sempre un effetto calmante. Anche su Thorn, a quanto pareva, perché sentì la mascella ammorbidirsi sotto le sue dita.
- Anche se guardasse, Thorn, sai bene che non potrebbe mai toccare - gli disse in uno slancio di coraggio.
Thorn incatenò gli occhi ai suoi, freddi come la nebbia da cui sembravano aver preso il colore, affilati come i rasoi di metallo da cui avevano rubato la materia, distaccati come i suoi parenti erano stati con lui.
Ofelia amava quegli occhi. E non seppe chi dei due si avvicinò all'altro per un bacio, probabilmente entrambi. Anche se le mani che le accarezzavano schiena e fianchi erano indubbiamente di Thorn. Ofelia si lasciò condurre fino alle sue gambe, dove si sedette, perdendo il vantaggio dell'altezza. Capì come dovevano sentirsi i bambini in braccio agli adulti, e si strinse ancora di più a Thorn.
Un urlo dal piano inferiore ricordò loro che non potevano perdere tutto il giorno, e lo stomaco di Ofelia brontolò in risposta. Thorn le depositò un bacio sul collo prima di scostarsi.
- Non ci sarà quella tua cugina, vero?
Ofelia capì subito a chi si riferiva. E capì anche che Thorn, la cui memoria non sbagliava una virgola, aveva deciso di non pronunciare il nome di Sempronia di proposito, come se avesse voluto evitare di evocarla tra di loro. Lo apprezzò molto, e gli diede un altro bacio per dimostrarglielo.
- Non lo so, può darsi di sì. Anzi, sicuramente, se c'è qualche possibilità di stare vicino a te.
Thorn trattenne a stento una smorfia. - La tua richiesta di essere cortese con i tuoi parenti si applica anche a lei, o posso evitare di sforzarmi di...
- Lei ne è esclusa - lo interruppe risolutamente Ofelia. Con lei poteva essere il calcolatore freddo e impassibile che si era dimostrato all'inizio, l'intendente inflessibile e privo di calore e buone maniere.
Thorn annuì e la lasciò andare. A sorpresa, però, le diede un pizzicotto sul fianco che le strappò un'esclamazione soffocata. In circostanze normali, forse un altro uomo avrebbe esibito un sorrisetto malizioso, con una luce furba negli occhi. Ma lei era sposata con Thorn, perciò la sua espressione immutata e gli occhi fissi da rapace la fecero quasi dubitare del gesto compiuto.
Finirono di preparare tutto in silenzio, e quando scesero stavano già cominciando ad arrivare Agata e Berenilde con le relative famiglie. Mancavano solo la zia Roseline e i suoi ospiti, pertanto Ofelia ebbe tutto il tempo di fare colazione con calma.
Thorn si limitò a masticare con malcelata indifferenza una fetta di pane che Ofelia gli imburrò abbondantemente e bere un caffè, ma non si oppose quando Ofelia gli mise di fianco anche una fettina di torta, spronandolo silenziosamente a mangiare un po' di più.
Nascondendo l'irritazione, il disgusto, la noia o qualunque altro sentimento provasse, mangiò anche quella, accendendosi la pipa alla fine della colazione.
Quando arrivarono anche Renard, Archibald, la zia Roseline e Gaela, tallonati da Sempronia che nessuno degnava di un'occhiata, Ofelia cercò di non sorridere compiaciuta di fronte alla palese e altera indifferenza di Thorn, che si sforzò di scambiare due parole con il prozio e rivolse un cenno del capo agli altri, il massimo della cortesia che ci si potesse aspettare da lui, ma non salutò la donna.
Quando Sempronia si mosse per occupare il posto libero di fianco a Thorn, Renard la precedette con noncuranza e, fingendosi ignaro della situazione, fece l'occhiolino a Ofelia.
Quest'ultima non poté impedirsi di sorridere, soddisfatta, e cercò di nasconderlo sorseggiando la tazza di caffè ormai vuota quando Sempronia le lanciò un'occhiata altezzosa. Fortunatamente, quando la tazza le cadde, rompendosi, la cugina non notò che per terra non si era sparso nessun liquido. Il prozio raccolse i cocci per lei e li riassemblò continuando a parlare con Renard e Hector.
Prima di uscire di casa Thorn fece indossare le scarpe a Serena e Balder, continuando ad ignorare la presenza di Sempronia. Ofelia si chiese quando, esattamente, la cugina di non si ricordava più nemmeno quale grado fosse diventata così presente nella loro vita, dato che non serbava di lei ricordi poi significativi. Solo qualche cena particolarmente allargata, ma nulla più.
In ogni caso, mentre la guardava cercare di intrufolarsi in una conversazione, le fece incredibilmente pena. Un po' come quella che gli aveva suscitato Archibald, e che continuava a suscitarle. Erano due anime sole, ma per qualche motivo non sembravano capaci di entrare in contatto. Come se riconoscessero loro stessi nell'altro e ciò che vedevano non fosse di loro gradimento. Era plausibile, ma era anche triste. Ofelia si augurò che trovassero qualcuno che potesse mettere pace dentro di loro.
Lei per prima aveva sempre creduto di bastare a se stessa, almeno fino a quando non aveva capito che il suo posto era accanto a Thorn, non per essere una moglie sottomessa e obbediente, ma una complice, una compensazione e insieme un'aggiunta. E non sarebbe tornata indietro, non fintanto che quella condizione le avesse offerto la libertà che agognava e una famiglia legata da un affetto vero e profondo.
Quando salirono sulle carrozze Ofelia si sentiva pervasa da una calma assoluta. Lei e Thorn si guardarono per tutto il viaggio, lui con Serena sulle gambe e lei con Balder assorto in braccio, finalmente sinceri con loro stessi, in pace, e Ofelia pensò che nessuna Sempronia del caso le avrebbe guastato quella giornata.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 ***


Fine vacanze ç.ç
Il capitolo non è nulla di che, non succede niente di eclatante, ma Thorn è in piena veste di padre e spero che ve lo godiate.
Che sexy che è.
Ahahahahhahaah oooooops. Scusa Ofelia.
Spero abbiate ancora voglia di leggere ;)


Capitolo 34

Dire che Archibald non avrebbe guastato quella giornata a Thorn era un azzardo, invece, e infatti Thorn continuava a guardare in cagnesco l'ex ambasciatore.
Quando arrivarono alle terme si diressero tutti verso gli spogliatoi per riporre i vestiti negli armadietti. Thorn si era portato dietro Balder e Ofelia aveva condotto Serena con le altre donne. La capacità di Thorn di provvedere ai bambini come avrebbe fatto lei la stupiva ancora, nonostante lui si fosse ampiamente dimostrato un ottimo padre. A stupirla non era la sua bravura, Thorn si applicava con impegno a tutto quello che faceva, ma il modo in cui lo faceva. Senza mai un lamento, con cura e attenzione per i suoi figli. Ogni gesto per lui, dal cambiare il pannolone a Balder al disinfettare un ginocchio a Serena, era una tacita ammissione d'affetto. I bambini gli dicevano spesso che gli volevano bene, dichiarazioni a cui lui non rispondeva mai se non ricambiando goffamente e brevemente la stretta, nel caso in cui Serena o Balder lo avessero abbracciato, ma tutto quello che faceva era un'ammissione di quell'amore disinteressato e puro.
Di questo Ofelia si straniva: della capacità di Thorn di amare così profondamente, di essere un genitore così competente, più di lei a volte, nonostante non avesse avuto nessun esempio da imitare in proposito. Forse, però, un esempio l'aveva avuto eccome, un esempio talmente negativo che Thorn aveva capito di dover fare tutto il contrario di quello che era stato fatto a lui, per poter essere un bravo genitore. E ci stava riuscendo bene, perché i bambini sapevano che il loro papà li amava, e che potevano parlargli di tutto. Non che Balder avesse grandi conversazioni da fare, ma Serena gli diceva ogni cosa che aveva visto o fatto, senza timore di essere rimproverata o che Thorn le dicesse che era troppo impegnato per starla a sentire.
Quando finirono di cambiarsi e uscirono nel grande giardino assolato (grazie ad Artemide, era una giornata splendida per la terza volta consecutiva) Ofelia cercò subito Thorn. Non la sorprese scoprire che aveva già occupato due sdraio isolate, per stare un po' in pace lontano dal trambusto dei parenti e di altri animisti sconosciuti.
Balder sembrava particolarmente smorto quella mattina, come se non si fosse ancora svegliato del tutto. La vista dell'acqua lo emozionava, si vedeva, ma non tanto quanto si era aspettata Ofelia. Serena, invece, si coprì la bocca con le mani in una vera posa da signora, guardando l'acqua calda con occhi luccicanti.
- Posso andare, mamma? Posso fare il bagno?
- Aspetta, Serena, dobbiamo venire anche io o papà per insegnarti a nuotare. Altrimenti è pericoloso.
Thorn stava finendo di sistemare gli asciugamani sulle sdraio, così meticolosamente da far combaciare gli angoli e calcolare quanto tessuto avanzasse da un lato e dall'altro perché fosse perfettamente simmetrico e allineato da tutte le parti.
Il costume gli stava bene, ma il sole accentuava ancora di più il pallore nordico della sua pelle. Era evidente che al Polo il sole non fosse proprio abituale, e quello che c'era era spesso illusorio. Ofelia fu soddisfatta della sua scelta del posto, comunque. Nemmeno lei aveva voglia di socializzare più di tanto, quel giorno. Voleva insegnare ai bambini a nuotare, o quanto meno a Serena, perché al Polo non avevano molte occasioni per andare alle terme, ma insegnare a Serena e Balder a stare a galla era fondamentale per lei. Agata, lei, Hector, le gemelle, tutti avevano imparato a nuotare in tenera età. Ma Anima era per lo più montagnosa, si incontravano spesso laghetti freddi in cui ci si sfidava a vicenda a tuffarsi. Imparare a nuotare era fondamentale.
Dall’immensa piscina si sollevava il vapore dell’acqua calda, insieme al ribollire dei getti. Più le piscine erano animate e di buon umore, più aria soffiavano sott’acqua e più giochi visivi producevano. Quelle erano particolarmente accomodanti. Erano state ispirate da un viaggio di un qualche lontano parente sull’arca Deserto, pertanto c’era un’area giochi immersa nella sabbia e palme d’importazione che dovevano ricrearne l’ambiente esotico.
Serena guardò la sabbia con gli occhi spalancati.
- Posso andare papà? Posso giocare?
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Aspetta me o la mamma. Non mangiare la sabbia.
Serena imitò la sua espressione e Ofelia dovette trattenersi dal mettersi a ridere: erano due specchi, Thorn versione bambina. – Non mangio la sabbia papà! Io sono gande!
Thorn strinse le labbra, contrariato. – Si tratta di una questione relativa. In senso assoluto sei ancora piccola, in confronto a tuo fratello sei grande.
Serena rimase un po’ male di fronte a quel commento. – Non sono gande?
Di quella parola la r proprio non riusciva a pronunciarla.
Ofelia si chinò di fronte a lei, per guardarla in volto: Serena era così alta e lei così piccola che chinando la schiena arrivava senza problemi alla sua altezza. – Non importa essere grandi, Serena, l’importante è essere bravi.
Serena guardò il papà con gli occhi lucidi, in attesa di una conferma. Ofelia si chiedeva come riuscisse a vedere Thorn in volto: la piccola era così bassa rispetto al papà che doveva piegarsi all’indietro per vederlo. In ogni caso vide il cenno secco di assenso di Thorn, perché si tranquillizzò.
Serena notò allora che Berenilde e Agata si erano già messe a prendere il sole vicino al parco giochi, per controllare Vittoria, che stava toccando la sabbia come se fosse un miraggio, Tom, la piccola Berenilde, gli altri due bambini di Agata e qualche altro cuginetto che si era fiondato senza se e senza ma sulle giostre.
- Thorn – chiamò. – Ci sono tua zia e mia sorella al parco, possiamo lasciarla andare.
Thorn assentì in silenzio di nuovo, ma poi aggiunse a Serena: - Avverti la zia e la prozia che anche tu sei lì.
Serena annuì e si allontanò piano, come temendo di essere richiamata indietro. Quando capì che non sarebbe successo, si mise a correre.
Balder, rimasto con il pancino tondo all’aria e un paio di pantaloncini a coprire il pannolone, scese dalla sdraio su cui Thorn l’aveva messo, con l’intento di seguire Serena.
- No – lo bloccò Thorn, piegando tutto il corpo per afferrare il bambino per il braccio. La mano di Thorn era così grande da inghiottire completamente ben più di un braccio sottile, ma la sua presa non era mai stata rude, e non lo fu nemmeno in quel momento.
- Gioco?
- Sei ancora piccolo per andare da solo.
Balder lo guardò senza battere ciglio. – No gioco?
Anche Ofelia si chinò, sperando vivamente che i suoi figli crescessero in fretta per non doversi sempre abbassare. - Gioco dopo – gli rispose accarezzandogli il volto.
Serafico come sua sorella, Balder si mise tranquillo e in attesa, fermo come una statua. Ofelia si era resa conto che, rispetto agli altri bambini della sua età, Balder e Serena erano decisamente tranquilli. Tempo addietro, quando non aveva termini di paragone se non la sua infanzia, Ofelia aveva pensato che Serena fosse l’eccezione, ma notando come anche Balder si comportasse bene si chiese se in realtà non dipendesse dal tipo di educazione. Non che i suoi cuginetti e nipotini fossero maleducati, però erano animisti, vivaci per natura, e avevano sempre a disposizione qualche parente con cui giocare. Balder e Serena erano per lo più isolati, e il loro unico termine di paragone erano lei e Thorn. Quest’ultimo, soprattutto, non esprimeva esattamente euforia incontenibile e dinamismo. In ogni caso, ora capiva, guardando le altre madri correre dietro ai bambini, come mai la guardavano con malcelata invidia.
Era ancora chinata a scrutare l’ambiente quando Archibald, alle sue spalle, si schiarì la voce: - Oh sì, le terme sono sempre apprezzabili, specialmente per la vista.
Ofelia convenne che in effetti quelle terme specifiche ispirate ai paesaggi del Deserto erano molto gradevoli, ma capì che Archibald si riferiva ad altre viste quando Thorn l’afferrò per il braccio facendola raddrizzare.
Archibald ridacchiò. – Suvvia, intendente, non fate sempre il serio. Stavo facendo solo un complimento alla vostra consorte, da bravo gentiluomo quale sono.
Con la mano che ancora le stringeva il braccio, Thorn disse tra i denti: - Inappropriato.
Ofelia non gradiva, solitamente, le scenate di gelosia di Thorn, ma essere adocchiata maliziosamente da Archibald non faceva piacere nemmeno a lei, così sostenne lo sguardo dell’ex ambasciatore con distacco. Al contrario di Thorn, il costume di quest’ultimo consisteva in un paio di semplici pantaloncini larghi, come quelli di Renard, Hector e qualche altro uomo spavaldo che aveva un fisico abbastanza prestante da essere messo in mostra. Ofelia non fu colpita dalla vista di Sempronia che ronzava intorno al gigante dai capelli fulvi, come non fu colpita di fronte all’occhiataccia di Gaela. Ci mancava poco che si mettesse a ringhiare, ma non era necessario perché Renard non aveva occhi che per lei e la sua pancia lievemente arrotondata. Se ne stava vantando con tutti mentre si avvicinava alla loro postazione.
Archibald sospirò. – Che seriosi che siete, intendente e moglie dell’intendente. Preferivate un insulto? Vorrà dire che rivolgerò le mie attenzione al piccolo intendente. Che ne dici? – domandò poi, rivolto a Balder.
Il bambino allungò le braccia e strinse i pugni ritmicamente, come a volersi aggrappare ad Archibald. Per quanto Thorn non lo apprezzasse, i bambini erano affezionati a quella figura familiare che bazzicava per casa loro così spesso da essersi arredato personalmente una stanza.
- Visto? Qualcuno con un po' di senno che si rende conto che alle terme bisognerebbe avere espressioni di gaudio e rilassata gioia, non cipigli ombrosi. Mi prendo il vostro erede per insegnargli a nuotare. La compagnia in acqua sarà sicuramente più piacevole, anche se non disdegnerei l'accompagnamento della vostra bella moglie.
Solo una mano sul braccio di Thorn permise ad Ofelia di scongiurare un colpo di artigli.
- Vi raggiungerò io fra sette minuti - disse Thorn con voce asciutta e solenne, come una minaccia. Adocchiò l'orologio da taschino che aveva appoggiato sulla sedia a sdraio, ma non si permise di perdere il contatto visivo con Archibald.
L'ex ambasciatore se ne andò ridacchiando, con Balder in braccio, mentre Renard e Gaela prendevano il suo posto.
- Ottimo posto, davvero ottimo. Molto intimo e ben costruito, direi. Le terme asgardiane sono assolutamente piacevoli, nulla da dire, ma l’ambientazione creata in questo posto fa veramente credere di trovarsi nel Deserto.
In effetti, c’erano persino degli alberi finti, intagliati nel legno, che erano stati pazientemente istruiti dai direttori delle terme affinché si muovessero sulla scia di un vento inesistente. Non era raro infatti vederli ondeggiare nella direzione opposta rispetto al soffio dell’aria o notare qualche ramo infastidito che si agitava da tutt’altra parte in confronto agli altri alberelli.
- Quanto meno non c'è nulla di illusorio - commento Thorn asciutto, in un mal riuscito tentativo di apprezzamento.
Con la coda dell'occhio non faceva che fissare Archibald, attorno al quale si stavano già radunando diverse ragazze e signore, tra cui le tre sorelline di Ofelia. Ma più che alle donne, lo sguardo di Thorn era rivolto a Balder: in braccio a quello che familiarmente lui e Serena chiamavano zio nonostante non lo fosse, il bambino schiaffeggiava l'acqua, ridendo divertito. A favore di Archibald andava detto che si stava concentrando più su Balder che sulle donne che aveva intorno, anche se lasciarlo all'improvviso per appurare se riuscisse a galleggiare da solo non era proprio un "concentrarsi" su di lui.
Il cipiglio di Thorn aumentò e, ignorando i complimenti e le dissertazioni di Renard sulla bellezza iconica del luogo, lui si chinò su Ofelia. - Evita di stare troppo vicina ad Archibald - le sussurrò, più come un ordine che come un consiglio. - Non vorrei che allungasse le mani facendolo passare per un gesto erroneo.
Ofelia lo guardò con la sua stessa espressione impassibile. Di Archibald si poteva dire che avesse avanzato le proposte più sordide e fantasiose, decisamente poco caste e conturbanti, ma su di lei non aveva alzato un dito. E niente di ciò che le aveva offerto l'aveva mai allettata.
- Non credo che voglia attirare così tanto l'attenzione su di sé da ricorrere ad un simile gesto - lo rabbonì.
Thorn inarcò lievemente un sopracciglio. - Questo sarebbe nulla per attirare l'attenzione. Fidati, lo so.
Il modo in cui disse che lo sapeva suonava più come un "l'ho visto". Ofelia non indagò oltre, decise solo di fidarsi.
All'ennesimo tentativo di Archibald di far galleggiare Balder, però, Thorn scattò in piedi. Senza una parola si diresse a lunghe falcate verso il bordo della piscina, dove fortunatamente i corpi delle signore che coccolavano il bambino, o più precisamente Archibald, non erano così pressati da costringerlo a scostarle o toccarle.
Persino Renard si era zittito e con Gaela guardava la scena con curiosità.
Thorn si chinò sulle ginocchia senza che Archibald se ne accorgesse, piegando il lungo corpo come un fuscello, e allungò un braccio. Lo passò attorno alla pancia di Balder e con un unico movimento lo issò fuori dall'acqua, sottraendolo alla presa di Archibald. Lo strinse al petto con fare protettivo, sempre con un solo braccio, e il piccolo gli allacciò le mani al collo, spaesato. Poi si mise a ridacchiare, con la testa sul petto del papà.
Ofelia dovette riconoscere che, per essere magro e longilineo, Thorn aveva in corpo una forza inaspettata. Che fosse un retaggio dei Draghi, una conseguenza degli artigli o una fibra particolarmente resistente non avrebbe saputo dirlo, ma almeno zittiva tutti quelli che non lo valutavano in grado di fare certe cose, al contrario di chi era più muscoloso di più.
Renard fischiò. - Al signor intendente non piace attirarsi addosso troppi occhi, no, ragazzo? Eppure mi sa che l'ha appena fatto.
In effetti, lo stavano fissando quasi tutti, comprese le donne di Archibald, e Sempronia. Thorn non ci badò nemmeno, lanciò solo un'occhiataccia all’ex ambasciatore e batté meccanicamente sulla schiena di Balder quando il bambino tossì un po' d'acqua. Voltò le spalle alla piscina per tornare da Ofelia quando Serena gli corse incontro, abbrancandogli una gamba.
- Papà facciamo il bagno? Voglio nuotave! - esclamò, arrotolando la r.
Archibald fu subito pronto a tenderle la mano, un sorriso angelico in volto. - Figlia di Thorn, perché non vieni dallo zio? Ti insegnerò benissimo a nuotare.
Serena emise una risatina timida, con la mano ancora attaccata al ginocchio ossuto di Thorn. La facevano sempre ridere gli appellativi di Archibald. Mosse un passetto esitante verso di lui, facendo ondeggiare le nappe decorate del costumino. Gliel'aveva procurato Agata, un indumento che la piccola Berenilde era ancora troppo piccola per indossare; non per età, ma per statura: Serena era già più alta della cuginetta più grande di qualche mese. Era un costumino intero con una gonna di volant in vita. Con somma soddisfazione di Ofelia, Serena se l'era infilato senza dare nessun segno di apprezzamento. Come lei, e come Thorn, non dava nessuna importanza alla moda o a ciò che indossava. In qualche modo questo la rendeva fiera, non tanto per l'avversione per i vestiti in sé, anche se quanto meno aveva la speranza fondata che non sarebbe diventata come Agata o Berenilde, quanto perché era evidente come la bimba prendesse dai genitori.
Thorn le afferrò il braccio prima che Serena potesse prendere la mano di Archibald. - Le insegno io a nuotare.
La bambina fece rimbalzare gli occhi tra il papà e Archibald, che sorrise furbescamente. - Come volete, intendente. Era solo per lasciarvi godere un po' in pace questa giornata di sole. Dev'essere sfiancante avere due bambini piccoli a cui badare. Del resto, è ciò che succede quando ci si dà da fare.
Rischiando di stringere troppo forte il braccio di Serena, Thorn la lasciò e si abbassò per prenderla in braccio. - Evidentemente voi non ve ne date abbastanza - ribatté secco, ambiguo.
Il sorriso di Archibald vacillò per un istante, prima di tornare fulgido, ma in qualche modo... triste. E maligno. - Sapete, non mi va granché di spargere figli bastardi per il mondo. Dovreste esserne contento.
Thorn incassò la frecciatina con dignità, senza battere ciglio, come se non avesse sentito. Ma Ofelia si alzò. Solo Renard la trattenne dall'andare a dirne quattro ad Archibald. Non avrebbe tollerato simili cattiverie nei confronti del marito. Thorn aveva dovuto sopportarle per tutta una vita, ma non sarebbe più successo con lei al fianco. Non avrebbe permesso a nessuno, tanto meno ad Archibald, di distruggere il lavoro che stava portando avanti da anni con Thorn, di scalfire la sua autostima tanto difficoltosamente assemblata.
- Non ti immischiare, ragazzo. Accetta un consiglio dal tuo ex consigliere. Non faresti fare una bella figura a tuo marito, per quanto siano nobili le tue intenzioni.
Thorn, quasi li avesse sentiti, si girò verso di loro. I suoi occhi saettarono sul polso preda della presa ferrea di Renard, e sul cipiglio di Ofelia, sull'offesa palese sul suo volto. E Thorn perse il suo, di cipiglio. Come se Ofelia lo avesse consolato solo guardandolo. Come se vederla ergersi in sua difesa, pronta a battersi per lui, fosse più di quanto lui avesse mai ricevuto. E forse era così. Qualcuno lo aveva mai difeso, in vita sua? Probabilmente no.
Archibald parve quasi pentirsi, per un istante, di ciò che aveva detto, ma non lasciò svanire il sorriso; la maschera di leggerezza che portava perennemente. Almeno Thorn non fingeva di essere ciò che non era. Allontanava le persone con il suo carattere, ma lo faceva consapevolmente. E non cercava di piacere a tutti i costi, dando sempre agli altri ciò che volevano. Anche se in effetti Archibald, con il suo comportamento libertino, sregolato e anticonformista era odiato da parecchi.
Ofelia si chiese ancora una volta cosa passasse per la testa dell'ex ambasciatore. Cosa lo avesse fatto diventare così poco trasparente, disonesto, prima di tutto con se stesso.
Non voleva pensarci in quel momento.
- Non andrò a difenderlo - disse a Renard, che le lasciò il polso immediatamente. - Vado ad insegnare ai bambini a nuotare, con Thorn.
Tutti i capelli fulvi ondeggiarono sulla testa del gigante quando annuì vigorosamente. Poi si rivolse a sua moglie. - Mia bella, perché non mi permetti di spalmarti addosso la crema solare? Con la tua carnagione chiara sarebbe davvero rischioso esporsi al sole per...
- Spalma e stai zitto - gli intimò Gaela, offrendogli la schiena.
Renard obbedì sorridendo. Per qualche motivo gli piaceva essere maltrattato dalla moglie. Ofeli si chiese di sfuggita se durante... be', se lei lo insultasse durante...
Si allontanò prima di arrossire per quei pensieri inopportuni.
Thorn continuava a dare le spalle ad Archibald, fissava solo Ofelia, che gli fece un cenno col capo per condurlo verso un punto più appartato delle terme. Nonostante il sole che già bruciava l'aria era fredda di pioggia, e il vapore che si levava dall'acqua era decisamente ben accetta.
I due si allontanarono con i figli senza rivolgere uno sguardo ad Archibald, che tornò a concentrarsi sulle donne. Ofelia gli lanciò un'occhiata di sfuggita, e si rese conto che in qualche modo era pentito di ciò che aveva detto. Solo che non lo avrebbe mai ammesso. E non avrebbe mai chiesto scusa.
Ofelia vide la mascella contratta di Thorn e capì che, per quanto dissimulasse, il commento non gli era andato giù. Così, contro ogni aspettativa o abitudine, posò delicatamente, quasi timidamente, una mano sul braccio di Thorn, quello con cui reggeva Balder. Lui la guardò dall’alto, Ofelia si sentì i suoi occhi addosso, ma non alzò lo sguardo per timore di sbilanciarsi o arrossire.
Camminarono fianco a fianco, a braccetto, fino al punto più isolato delle terme, dove l’acqua era troppo bassa per attrarre gli adulti. I bambini invece erano ancora impegnati con la sabbia del parco giochi per interessarsene.
Thorn depositò per terra Serena e Balder, tenendo quest’ultimo per mano affinché non cadesse in acqua: il bambino aveva infatti già allungato il piedino per tastarla.
Ofelia si accucciò per sentire che temperatura avesse.
- Mamma, tu sai nuotae? Nuotave? – chiese, correggendo la r inesistente con una moscia.
- Sì, certo.
- E tu papà?
- No – rispose laconicamente lui.
Ofelia alzò la testa, cercando di guardarlo in volto, ma rinunciò subito: la testa di Thorn era talmente in alto che le sembrava di guardare il sole. Si rese conto che, in effetti, al Polo non dovevano esserci molte occasioni ludiche a che fare con l’acqua. Oltre al clima glaciale, erano poche le famiglie abbastanza nobili e facoltose da potersi permettere delle vacanze alle terme. Dubitava che nel mare del Polo qualcuno avesse mai osato nuotare, probabilmente i laghi lì erano più adatti al pattinaggio su ghiaccio.
Immersa in quei pensieri, non fece caso all’appropinquarsi di Serena, che le arrivò alle spalle.
E la spinse da dietro.
La forza di una bambina non poteva essere in grado di far cadere un adulto, ma Ofelia era seduta sui talloni, in equilibrio precario. E lei, di equilibrio precario, ne aveva fin troppo.
Si sbilanciò in avanti, cadendo in acqua in maniera scomposta. Serena rise mentre Ofelia tornava a galla, fradicia. Lanciò un’occhiata in tralice dove pensava che fosse la figlia, dato che aveva perso gli occhiali, ma l’espressione era bonaria e la bimba si sedette sul bordo della piscina.
- È calda! – esclamò, sgambettando felice.
Imitandola, Balder si mise ad agitare contento le gambe, calciandolo ripetutamente Thorn. Lui parve non farci nemmeno caso. Si chinò per afferrare gli occhiali di Ofelia, che stava tastando nell’acqua alla ricerca delle lenti.
- Mamma, sei bellissima senza occhiali! – esclamò Serena, rendendosi conto solo in quel momento che Ofelia non portava nulla sul viso.
Ofelia sorrise leggermente, grata alla figlia. In effetti, nessuno le aveva mai detto che era bella. Men che meno Thorn. Una volta le aveva rivelato di non capire su quali criteri si basassero le persone per definire bello qualcuno. Non era una valutazione oggettiva, aveva esposto seriamente, le proporzioni e i numeri perdevano di significato perché magari a qualcuno piaceva un braccio di circonferenza otto centimetri e a qualcun altro una gamba di lunghezza settantasette. Aveva snocciolato cifre e misure per due minuti prima che lei lo baciasse per zittirlo, capendo quello che lui voleva dirle tra le righe: che la trovava bella, e non se lo spiegava.
Era vero, Thorn non glielo aveva mai detto, ma ad Ofelia bastava ricordare come la guardava quando pensava che nessuno lo stesse osservando o quando erano soli, nella loro camera, per non avere dubbi circa il fatto che lei piaceva a Thorn. Anche un po’ di più.
Spesso la fissava come se avesse trovato la risposta a tutte le sue domande, la soluzione a tutti i problemi, e talvolta sembrava anche stupito di ciò che stava facendo, come se dubitasse che fosse reale.
Ofelia in quei momenti lo stringeva più forte, lo chiamava per nome, per fargli capire che andava tutto bene e non era solo lei a piacergli: anche lui le piaceva parecchio. Non sapeva se Thorn potesse essere definito bello, era una parola troppo vaga e nebulosa per poterla usare, ma Ofelia era attratta da lui sotto tutti i punti di vista.
La sorprese, pertanto, quando Thorn disse: - Il viso della mamma è lo stesso con o senza occhiali.
Serena divenne subito seria, smise di agitare le gambe e guardò il papà, che aveva appena finito di rimettere le lenti sul naso di Ofelia.
- Quindi la mamma è bella sempre?
Thorn annuì lievemente.
Ofelia si sentì avvampare. Quel commento era la cosa più simile ad un complimento che Thorn le avesse mai fatto. Per non farlo notare allungò le braccia e prese Serena, portandola in acqua. La bambina rise, ma rimase composta, al contrario di poco prima.
- Vieni anche tu, papà?
Thorn, ancora accucciato, si guardò intorno. Stava cercando una scaletta, si rese conto Ofelia. Quando vide quanto lontana era, Thorn aggrottò la fronte. Emise un sospiro quasi impercettibile e, con movimenti rigidi e strane contorsioni, allungò le gambe, si sedette sul bordo, e poi scivolò in acqua. Il suo corpo magro e flessibile quanto un ciocco di legno non era fatto per quei movimenti elastici. Ogni volta che li compiva, ad Ofelia sembrava una sedia da giardino, o un tavolino pieghevole, pronti per essere usati quando se ne presentava l’occasione. Ofelia si rese conto che, se Thorn si fosse accartocciato su se stesso come una fisarmonica, avrebbe occupato molto poco spazio, raggiungendo le dimensioni di un bambino. In un’altra vita avrebbe potuto prendere in considerazione la professione di contorsionista.
Entrò in acqua senza nemmeno uno schizzo, tenendo strettamente Balder che aveva ricominciato a sgambettare e schizzare acqua ovunque. Serena rise, imitata da Ofelia, e imitò il fratellino, ma essendo troppo grande sbilanciò Ofelia e bevve un po’ d’acqua. Spaventata, si ricompose subito, abbracciando il collo della mamma.
- Passamela – ordinò Thorn, che non attese un secondo e prese Serena dalle braccia di Ofelia, dandole Balder in cambio.
Poi, rendendosi conto di non sapere come insegnare alla bambina a nuotare aggrottò la fronte. Lui era così alto che avrebbe rischiato di annegare solo nella piscina alta due metri, e solo per pochi centimetri, oltretutto. Ofelia invece aveva quasi l’acqua alla gola nella piscina da un metro e mezzo.
- Aspetta – gli disse, muovendosi con Balder che scalpitava, per andare a prendere un paio di braccioli abbandonati, messi a disposizione dalle terme. Il vapore caldo le si condensava sul volto, facendo scivolare via goccioline che Balder si divertiva ad acchiappare.
Afferrati i braccioli, tornò da Thorn e lì infilò alle braccia di Serena.
- Ora galleggia - lo informò Ofelia, toccandogli il braccio con cui reggeva la piccola. - Puoi lasciarla.
Guardando con occhio critico i braccioli, come per chiedersi e analizzare le leggi fisiche che permettevano a quelle due sfere di gomma di tenere a galla il peso di una bambina di quasi cinque anni, Thorn allentò la presa su Serena. La piccola si fece serissima e allungò il collo nel tentativo di stare fuori dall'acqua. Quando si rese conto che non serviva faticare perché quelle strane cose sulle sue braccia la facevano stare a galla, si rilassò e si mise a ridere, imitata da Ofelia e Balder.
Thorn aveva la consueta faccia da processo giudiziario, ma Ofelia si sarebbe sorpresa del contrario.
Insieme insegnarono a Serena a nuotare, Thorn sostenendola e Ofelia spiegando cosa dovesse fare. Balder se ne stava tranquillo ad osservare la scena abbarbicato addosso al papà, che se l’era fatto ridare da Ofelia, almeno finché non arrivò Archibald a reclamarlo. Il bambino passò senza fiatare da un paio di bracca ad un altro, ma Archibald e Thorn non si guardarono nemmeno in faccia, e fu Ofelia a spronare Thorn a cedere il piccolo.
Serena era ormai sicura di sé e ben avviata quando arrivarono le sorelline di Ofelia per vedere i progressi della nipotina, e nel giro di poco Serena si tolse i braccioli e cominciò a nuotare da sola, sempre meno sostenuta dalle mani altrui. Arrivarono anche Renard e Gaela, che rimasero sul bordo della piscina a godersi il bagno caldo, per quanto rilassante potesse essere una vasca piena di animisti rumorosi. Gaela sembrava non farci caso però, con Renard che le massaggiava le spalle estasiato.
Quando anche Berenilde arrivò per chiedere a Domitilla, Beatrice ed Eleonora di dare lezioni a Vittoria, fedelmente seguita da Tom che si offrì di fare lui da insegnante, esibendosi in dimostrazioni di nuoto a rana, capriole scomposte e stile libero un po' storto, Thorn si ritrasse, come se quell'assembramento caotico lo respingesse fisicamente.
Lanciando un'ultima occhiata a Balder, vittima delle dimostrazioni di forza di Archibald, che lo lanciava e lo riprendeva come un pallone, uscì dalla piscina servendosi però delle scalette. Sarebbe stato effettivamente troppo complicato per lui arrampicarsi fuori dall'acqua, per quanto curioso da vedere. Ofelia esitò appena guardando Balder, ma il bambino sembrava divertirsi e, con la zia Roseline così vicina ad Archibald dubitava che sarebbe potuto succedere qualcosa al bambino. Semmai, era più probabile che accadesse all'ex ambasciatore: lo chignon-puntaspilli della zia assomigliava in maniera inquietante ad una pinna di squalo.
Rassicurata dalla sua presenza, Ofelia seguì Thorn fuori dall'acqua. Si diresse verso le sdraio per asciugarsi, già con la pelle d'oca sulla pelle esposta all'aria frizzantina, ma Thorn la fermò afferrandola per il braccio. La lasciò non appena lei si fermò.
Stava guardando in lontananza, verso una piccola piscina riscaldata e parzialmente coperta da palme che si trovava sul fianco del complesso. Completamente vuota, isolata e… nascosta. Thorn le rivolse un cenno della testa quasi impercettibile e si diresse lì, tallonato da Ofelia che si diede un’occhiata intorno: Balder e Serena erano in buone mani e nessuno badava a loro, i genitori.
L’acqua di quella piscina era perfetta, meno calda rispetto all’altra. Thorn fece una smorfia quando un getto di bolle gli solleticò la schiena, e Ofelia gli si avvicinò sorridendo. Lui tornò serio e la fissò famelicamente, con cupidigia. La avvicinò a sé rudemente e le baciò il collo, facendola sospirare.
Rimasero per diversi minuti abbracciati nell’acqua. Fare altro sarebbe stato molto sconveniente, oltre che poco igienico, ma a loro non serviva nulla di più. Si erano ricavati un momento solo per loro due, senza i bambini da controllare, senza interruzioni o occhi indiscreti a fissarli. Non andarono oltre i baci, anche se alcuni costrinsero Thorn ad allontanare momentaneamente Ofelia per riprendere fiato e il controllo di sé.
Semplicemente si strinsero l’uno all’altra, cancellando la distanza durata quasi un mese, ritrovandosi e godendo della presenza reciproca in silenzio.
Ofelia si rese conto di essersi appisolata solo quando delle risatine familiari e penetranti le si insinuarono nelle orecchie. Il corpo di Thorn si irrigidì contro il suo, e le sue mani si allontanarono, come se le nuove arrivate potessero vedere che le teneva un po’ troppo in basso rispetto ai fianchi di Ofelia.
Domitilla, Eleonora e Beatrice si zittirono a vicenda, ottenendo invece l’effetto contrario: si rimisero a ridere, svegliando del tutto Ofelia. Lei si rese conto solo in quel momento di essersi addormentata praticamente in braccio a Thorn, con la guancia premuta contro la sua spalla. Per quanto ossuta, doveva ammettere che l’incavo de suo collo era in realtà un ottimo posto da usare come cuscino.
- Quanto ho dormito? – biascicò, strizzando gli occhi.
Solo quando tardò a mettere a fuoco l’ambiente intorno a sé si rese conto che non era causa del sonno, ma della mancanza di occhiali. Thorn glieli rimise prontamente sul naso. Doveva averglieli tolti mentre dormiva. Non doveva essere molto comodo sentire le lenti contro la pelle.
- Trentasei minuti – rispose Thorn, con un tono che avrebbe benissimo potuto raffreddare l’acqua termale.
Le tre gemelle continuarono a ridacchiare, cosa che fece capire a Thorn che era il momento di levarsi di torno. Ofelia si scostò per lasciarlo passare.
- Vado a cambiare Balder.
In effetti, non era proprio la mossa migliore quella di tenere in piscina un bambino piccolo che ancora portava il pannolone.
Non appena se ne fu andato, Domitilla, Beatrice ed Eleonora tornarono a ridere.
- Ma allora ve le fate le coccole! – esclamarono in coro.
Ofelia avvampò e sperò di cuore che Thorn non le avesse sentite.
- In quelle belle terme al Polo eri rimasta zitta zitta senza dirci nulla. Ma Thorn ti teneva tuuuutta stretta – esclamò Beatrice.
Ofelia scosse la testa, cercando di allontanare il disagio.
- Mi sono appisolata, non era… non erano…
Domitilla sorrise e scosse la testa. – Non dire bugie, sorellona.
Ofelia si ricordava bene quella conversazione, avuta a Sabbie d'Opale, su Asgard. All'epoca con Thorn era tutto fuorché intima, al punto che si chiedeva se lui si sarebbe presentato al matrimonio: preso com'era dal lavoro, avrebbe anche potuto dimenticarsene. Sembravano passati decenni da quell'epoca.
Eleonora diede una gomitata a Beatrice. - Per forza si fanno le coccole, hanno due figli! La mamma ha detto che quando due persone vogliono...
Ofelia scattò in piedi. - Vado a controllare Serena.
Le tre gemelle brontolarono e trattennero Ofelia per le braccia.
- Non stai mai con noi!
- Solo con il prozio e con Hector!
-  Queste differenze non stimolano l'affetto fratricida!
Ofelia scoppiò a ridere, zittendole. - Fraterno, non fratricida - corresse.
Le sorelle si guardarono senza capire e all'improvviso ad Ofelia fecero un'incredibile tenerezza. Era vero, era stata poco con loro durante quel mese. Così si riabbassò in acqua in mezzo agli schiamazzi estatici delle sorelline. Tanto c'era già Thorn con Balder, avrebbe sicuramente lanciato un'occhiata anche a Serena. E in fondo, si rese conto, le tre gemelle erano le stesse che aveva lasciato anni addietro. In età da marito, certo, più alte di lei, prossime a sposarsi e non più così ingenue, però Ofelia nei loro tratti vedeva ancora i volti pieni dell'infanzia, i bronci che spuntavano quando litigavano per la sua attenzione, gli abbracci e le occhiate ammirate quando Ofelia parlava loro di cose complicate.
Le strinse tutte tra le braccia, baciandole sulla testa.
- Cosa volete che vi racconti? - chiese, sapendo che non erano meno curiose di Hector.
I loro occhi si illuminarono.
- Quanto freddo fa al Polo?
- Come si vestono?
- Le illusioni del sole danno davvero l'idea che faccia caldo?
- Com'è la neve? Quanta ce n’è?
- Davvero si fanno la guerra tra loro?
- Perché non sono tutti parenti?
Ofelia non si fece scoraggiare dalla mole di domande. Prendendo fiato, si appoggiò alla vasca e cominciò a raccontare di nuovo come fosse la sua vita al Polo, quella strana arca algida così diversa da quella in cui le sue sorelline abitavano, quella in cui lei stessa era cresciuta.
A poco a poco le domande delle gemelle si diradarono, e rimasero in muta contemplazione di Ofelia che parlava, ascoltando rapite. Avevano sempre apprezzato le storie, e rispetto ad Agata provavano per Ofelia una sorta di riverenza, quella che si indirizzava ad un professore o ad una persona più grande verso cui si nutriva un profondo rispetto.
Mentre raccontava, Ofelia si stupì di come talvolta la narrazione cambiasse in base al proprio interlocutore. Aveva spiegato come funzionava il Polo troppe volte per poterle ricordare, aveva risposto a domande simili a quelle poste dalle sue sorelle almeno una decina, a persone diverse, ormai doveva quasi sapere il discorso a memoria, ma la verità era che ogni volta raccontava cose diverse. I fondamentali erano gli stessi, ma i dettagli...
Con il prozio non aveva lesinato sui particolari burocratici e storici, con Hector aveva dato fondo alla minuziosa descrizione di ogni cosa ci fosse di diversa, alle sorelle invece parlava di dettagli che potevano interessarle, come il finto sfarzo delle camere di Chiardiluna, la mancanza di bambini con cui giocare, il funzionamento delle illusioni che nascondevano buchi o mobilio e tappezzeria scadenti.
E ogni volta veniva fuori un racconto nuovo che sorprendeva per prima Ofelia.
Uscì dalla vasca diverso tempo dopo, con la voce roca per il troppo parlare. Si diresse come in trance verso la sdraio sotto cui Thorn stava dando il biberon a Balder. Suo marito fissava in cagnesco Archibald, che se ne stava sdraiato a poca distanza con il cappello calato sugli occhi, fischiettando allegramente. A giudicare dalla vena che pulsava sulla fronte di Thorn, per lui era tutt'altro che un motivetto allegro.
- In futuro ricordati di non lasciare mai i nostri figli da soli con l'ex ambasciatore per più di qualche minuto - la accolse Thorn, senza quasi guardarla.
Archibald sbuffò una risata spensierata. - Come siete severo, intendente. A me pare che il bambino stia benissimo, meglio di quanto sia mai stato.
A conferma del commento, Balder fece il ruttino digestivo.
- Che cos'è successo? - chiese Ofelia, abbassandosi su figlio e marito per sistemare tutto quello che era servito per dar da mangiare a Balder e cambiarlo.
- Niente di che - si schermì Archibald mentre Thorn replicava: - Si è dimenticato di Balder, lasciandolo a galleggiare da solo alla deriva.
- Come siete drammatico, intendente. Non mi ero mai reso conto di questo lato teatrale.
Thorn gli lanciò un'occhiata d'acciaio tagliente come un rasoio, che Archibal nemmeno notò con il cappello sulla faccia.
Sentendo su di sé troppi occhi, però, Archibald sorrise. - Suvvia, moglie di Thorn, non penserete davvero che avrei lasciato solo quel povero bimbo innocente. Aveva i braccioli, mi ero distratto un attimo parlando con delle illustri signore rispettabili. Il piccolo figlio di Thorn si stava divertendo come un matto, ed era circondato da persone. Dubito che un animista possa davvero morire annegato, con tutti i parenti che lo sorvegliando. Siete più presenti e celeri della Rete, oserei dire.
Ofelia sospirò. Discutere con Archibald sarebbe stato controproducente.
- Giochi, mamma, giochi! - esclamò Balder, reclamando la loro attenzione, indicando il parco sabbioso dove alcuni bambini stavano ancora giocando.
- Vado io - annunciò Thorn, alzandosi con Balder in braccio.
- Attento a non scottarti, il sole qui non è finto come quello di Città-cielo.
- Touché - si intromise Archibald, più per disturbare e intromettersi che per commentare. Lo ignorarono entrambi.
Thorn lanciò un'occhiata ad Ofelia, senza però risponderle, e si avviò verso la sabbia. Serena lo intercettò dalla piscina e nuotò fino al bordo. Portava ancora i braccioli, ma lo stile lo aveva assolutamente già assimilato e Ofelia era certa che entro il pomeriggio avrebbe cominciato a galleggiare da sola.
Thorn allungò una mano per aiutarla ad uscire, e quando Serena l'afferrò Thorn la estrasse dall'acqua senza fatica. Magro, sì, debole, no. Mano nella mano con la figlia e con Balder in braccio, Thorn si diresse verso il parco giochi. E lì rimase per tutto il tempo che i figli vollero, osservandoli come uno spaventapasseri, sempre pronto ad intervenire in caso di bisogno.
Ofelia si sentì stringere il cuore in una morsa, anche se non avrebbe saputo dire perché. Aveva voglia di sorridere ma sentiva le lacrime annebbiarle gli occhi.
- Ottimo lavoro, ragazzo - le disse Renard quando era quasi ora di pranzo, facendo un cenno in direzione di Thorn e dei bambini.
Thorn sembrava avere uno scopo. Non era stanco, non era disattento, non era infastidito dal dover badare ai piccoli. E, con sommo stupore di Ofelia, aiutava sia i suoi figli ad utilizzare le giostre che gli altri bambini.
Ofelia capì allora il senso del complimento di Renard. Quanta strada aveva fatto Thorn per diventare un uomo migliore, anzi, per tirare fuori l'uomo incredibile che era. Lei non lo aveva cambiato, gli aveva solo dato quell'amore e quella sicurezza necessari affinché emergesse la sua vera personalità, gentile e disponibile nonostante la facciata imperturbabile e distante che non sarebbe mai cambiata.
- Non ho fatto nulla - rispose lei modestamente.
Renard le fece l'occhiolino. - Lo avete guarito - rispose sibillinamente.
Poi depositò un bacio sulla spalla di Gaela, che si scosse infastidita, facendolo ridere. Disturbata o meno da quel contatto, si avvicinò ancora di più al marito, rivelando quanto la sua reazione fosse stata opposta rispetto a ciò che voleva.
Renard sorrise angelicamente. Nel suo sguardo, Ofelia lesse un amore sconfinato per Gaela.
Si chiese se quando lei guardava Thorn si notasse lo stesso sentimento.

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 ***


Ciao a tuttiiiii! Il capitolo non è molto lungo, lo ammetto, ma credo che concluda degnamente la vacanza su Anima.
Dal prossimo capitolo ci sarà qualche novità e il ritorno alla normalità.
Per coloro che stanno aspettando un altro capitolo di Into the deep non ho molte buone notizie. Non ho scritto nulla di nulla e ultimamente ho poco tempo per continuare questa ff, a cui vorrei dare la piorità per riuscire a finirla, prima o poi xD
Grazie mille a tutti in anticipo, per la vostra costanza, e a presto!


Capitolo 35

Il giorno dopo, la pioggia costrinse gli animisti in casa. Per Ofelia fu un sollievo, perché significava pochi intimi a casa di sua madre. I parenti davvero stretti. Quindi si strinsero nel soggiorno della sua casa d'infanzia tutti i vacanzieri del Polo, la zia Roseline e il prozio, le gemelle, Hector con la moglie e Agata con la famiglia.
I pochi intimi ammontavano a ventitré, cosa che strappò a Thorn un commento borbottante su quanto fosse improprio l'uso del termine “pochi” quando riferito a più di una decina di persone.
Durante quel mese di vacanze avevano fatto davvero tante cose, svolto attività ludiche che avevano divertito e distratto i bambini, aiutandoli a socializzare e a fare nuove esperienze. Ma la giornata preferita di Ofelia in assoluto fu quella, l'ultima prima della partenza. Nell'aria, fin dal mattino, si respirava la malinconia che precedeva la partenza, ma dopo pochi minuti di sguardi bassi e sospiri Renard batté le mani, asserendo che non potevano in alcun modo concludere in quel modo la visita.
Così tirarono fuori tutti i giochi di società possibili e immaginabili, le carte, stuzzichini che Sophie e Agata a testa sfornavano uno dietro l'altro, vecchie foto, cartoline, e disegni di quando erano piccoli. Gli scoppi di risa di Renard spesso interrompevano tutte le altre conversazioni, fragorosi come dei tuoni, ma strappavano un sorriso a tutti. Il prozio sproloquiò con Thorn di politica e differenze sociali del Polo, argomento che stava particolarmente a cuore al primo e che il secondo conosceva a menadito.
Ofelia non poté fare a meno di notare ancora una volta le somiglianze fra Thorn e il prozio, entrambi burberi di primo acchito, ma con una sensibilità unica. Bastava solo prendersi la briga di conoscerli a fondo.
Ofelia parlò soprattutto con Hector e le gemelle, mentre con il prozio si limitò spesso a stare in silenzio, seduta a contatto con lui: bastava quello, si erano già detti tutto e aggiungere altro sarebbe stato superfluo.
Entrambi rimasero sorpresi però quando Thorn si schiarì la voce, chiaro segno che stava per dire qualcosa che non rientrava propriamente nelle sue corde, o che lo metteva a disagio.
- Abbiamo diciassette camere in più nella nostra dimora, al Polo. Sarete il benvenuto ogni qualvolta vogliate venire.
Se l’ospitalità lo sorprese, il prozio non lo diede a vedere. Invece, emise un piccolo sbuffo. - Immagino che l'invito si estenda a tutti i parenti, no?
Thorn non riuscì a trattenere una smorfia, e la sua muta risposta fece sorridere lievemente lo zio. Ofelia invece si coprì con la sciarpa per nascondere l’espressione commossa. L’idea che Thorn e il prozio andassero così d’accordo da indurre suo marito ad invitare il vecchio zio in casa loro a suo piacimento le scaldava il cuore. Era come se finalmente i suoi due mondi di appartenenza si fossero congiunti, e fosse stato costruito un ponte tra le due arche. Con Thorn e il prozio che si incontravano, lei non avrebbe dovuto rinunciare né alle sue origini né al suo avvenire: li avrebbe vissuti insieme.
- Be’, se mi dite che presso il vostro castello c’è meno rumore di quello che c’è in questa casa di festaioli, accetterò volentieri.
Thorn lanciò un’occhiata bieca a Renard, che scoppiò a ridere di gusto proprio in quel momento, e ad Archibald, che si era messo a russare sonoramente stravaccato su una poltrona. Le gemelle lo guardavano ridendo, cercando di non svegliarlo ma al contempo provando a farlo.
- Diciamo che c’è più spazio, è dunque più facile trovare silenzio.
Il prozio annuì seriamente. – Ci conto. E tu, figliola? Non mi vuoi? Mi induce a farmi qualche domanda il fatto che sia stato proprio tuo marito ad invitarmi, al posto tuo. Mi chiedo da dove tu sia venuta fuori, talvolta, con quel tuo carattere che poco si accorda a questa famiglia.
Ofelia scosse la testa. – Pensavo che non vi sareste mai e poi mai separato dal vostro museo. Ma ovviamente siete il benvenuto quando volete, per quanto volete.
- Perché lui lo inviti e me no? – si intromise Hector proprio al momento sbagliato.
In un casuale e del tutto inopportuno momento di silenzio generale, tutti udirono la domanda petulante di Hector. Quello che esplose subito dopo fu un boato risentito di persone che volevano essere invitate a loro volta e inventavano priorità immaginarie basate sulla parentela e la quantità di tempo trascorsa insieme rispetto agli altri. Agata arrivò ad urlare che aveva comprato per Ofelia più vestiti che per chiunque altro, quindi doveva aver la precedenza sull’ospitalità. Beatrice ribatté che Ofelia non si era mai messa nemmeno una calza di quelle che le aveva comprato, e Agata lanciò un’occhiata offesa e drammaticamente sconvolta ad Ofelia.
Sospirando, guardò il prozio: - Ora capite perché non vi ho invitato?
Il prozio si mise a borbottare come una ciminiera.
 
Subito dopo il sonnellino pomeridiano, Sophie si mise a servire il tè. I bambini giocavano placidamente sul grande tappeto al centro del soggiorno, solo cugini stretti per quella giornata: Vittoria, Serena e Balder, i figli di Agata. Un gioco di carte molto semplice di cui Serena cercava di spiegare il funzionamento anche al fratello: coppie di carte. Bisognava cercare le carte uguali all’interno del mazzo, ricordandosi la loro posizione in modo tale da battere gli altri. Inutile dire che Serena surclassava di gran lunga gli altri cugini, che spesso sbuffavano e la accusavano di imbrogliare. Lei da parte sua rimaneva imperturbabile, ma quando si voltava a guardare lei e Thorn ogni volta che vinceva, Ofelia leggeva un certo orgoglio nel suo sguardo, la soddisfazione di aver vinto. In quello era decisamente diversa da Thorn. Balder invece, oltre a non capire il gioco, disturbava tutti tentando di mangiarsi le carte, che avevano lo stesso colore delle caramelle che il nonno ogni tanto gli passava.
Alla fine, stanchi di essere battuti senza possibilità di vittoria, i cugini proposero un altro gioco. Ofelia vedeva già da qualche minuto Serena che strizzava gli occhi e scuoteva la testa, come a voler scacciare qualche pensiero o qualcosa che le dava fastidio. Non diede molta importanza alla cosa, almeno finché la bambina non lasciò cadere i dadi con cui stavano facendo un gioco da tavolo, non per lanciarli, ma come se le avessero scottato la mano. Si porto le dita alle tempie, facendo pressione, poi scosse nuovamente la testa e batté le palpebre per mettere a fuoco.
Un principio di miopia?
- Thorn? - chiamò Ofelia, sporgendosi sul divano dove stavano bevendo il tè, verso il marito.
Thorn non si mosse di un millimetro, spostò solo lo sguardo verso di lei. Alto com'era, Ofelia se ne accorse solo perché le sembrò di notare un bagliore metallico tra le palpebre semichiuse.
Ofelia perse per un istante l'uso della parola. Cosa poteva dirgli che non sembrasse sciocco? Che aveva paura che a Serena stesse peggiorando la vista?
- Può essere che... la vista di Serena...?
Thorn si volse verso la figlia, senza lasciarla concludere. Anche perché Ofelia non sembrava molto in grado di concludere la frase.
- Serena.
Fedele a se stesso, solitamente Thorn non chiamava le persone, ordinava la loro presenza.
Serena si alzò subito, obbediente come sempre. - Sì papà? - chiese candidamente posizionandosi di fronte a lui.
Thorn le prese il viso tra le mani con decisione e delicatezza al tempo stesso. Le controllò gli occhi, le fece fare qualche esercizio che Ofelia conosceva fin troppo bene dato il suo problema, e poi le chiese di leggere o individuare con precisione alcuni oggetti lontani. Data la vista perfetta di Thorn, Ofelia si chiese quando esattamente avesse imparato tutti quei dettagli tipici degli esami oculistici. Suo marito non smetteva mai di sorprenderla. In ogni caso, Ofelia stessa, nonostante l'aiuto degli occhiali, aveva difficoltà a distinguere bene alcuni oggetti. Serena invece lesse e descrisse tutto perfettamente: sembrava che avesse una vista eccellente. Anche un po' di più, avrebbe detto Thorn.
- Perché tutte queste cose? - domandò Serena, perplessa.
- Ti sei messa le mani sulle tempie prima, e strizzavi gli occhi. Hai difficoltà a vederci?
Serena scosse la testa.
- Mal di testa?
Di nuovo, Serena negò. Però parve esitare.
- C'è qualcosa che non va? - le chiese nuovamente Ofelia, per una volta grata del trambusto che li circondava; garantiva loro un po' di intimità, perché ognuno era concentrato sulle proprie questioni.
Ad eccezione del prozio, che era accanto a loro e seguiva il dialogo con malcelato interesse.
Serena aggrottò la fronte. - Ora no, ma prima... ero confusa.
Quando una bambina di quattro anni e mezzo diceva di essere confusa c'era ben poco di comprensibile.
- Eri confusa - ripeté Thorn, come se fosse lui quello confuso. - Definisci questa confusione.
Serena mise una manina sulla gamba del papà, come per sostenersi mentre pensava, e la ritrasse di scatto, spalcando gli occhi. - Ancola! - esclamò.
Ofelia si sporse verso di lei, ma prima che potesse aprire bocca Serena le aveva gettato le braccia al collo e si era avvinghiata a lei. Sotto lo sguardo indagatore di Thorn, Ofelia se la mise in grembo e le accarezzò i capelli fini e morbidi come piume. - Ancora cosa, Serena?
- Ho... sentito delle cose strane, mamma. Nella testa. Sono confusa - ripeté, come se non sapesse spiegarsi meglio.
Al pari di Thorn, anche il prozio aggrottò le sopracciglia.
- Ti senti ancora così ora, Serena? - le domandò, intromettendosi pacatamente.
A Thorn non parve dare fastidio. Serena ci rifletté, poi negò cautamente con la testa.
Il prozio prese dalla tasca della giacca un fazzolettino inamidato e glielo porse. - Prendi questo.
Serena, che era obbediente come poche, lo strinse tra le dita sottili. Subito strinse nuovamente gli occhi, corrugando tutta la fronte.
- Ancora - disse solo, scandendo perfettamente la parola, r compresa.
Il prozio le tolse gentilmente il fazzolettino dalla mano. - Dicci quando passa la confusione.
Serena impiegò quasi un minuto a rilassarsi, secondi durante i quali fu strettamente osservata dai genitori. Ofelia aveva una mezza idea su cosa stesse accadendo, ma le sembrava impossibile. Troppo presto. Troppo... travolgente. Veder crescere una creaturina che era il perfetto miscuglio di lei e Thorn le lasciava una strana, calda sensazione dentro. Serena, e Balder, li avevano generati loro. E Serena, oltre alla memoria del padre, aveva preso...
Lettura - sancì il prozio, dando voce alle sue elucubrazioni. - Serena è una lettrice. Non è addestrata, non sa nemmeno cosa sia in grado di fare, pertanto percepisce gli stati d'animo altrui e i loro pensieri come una sorta di confusione, una traccia che le rimane nella mente ma non riesce ad afferrare.
Voltandosi per guardare Thorn, ad Ofelia parve di scorgere nei suoi occhi un'emozione che non aveva mai colto in lui: fascino, interesse, ammirazione. Molto in profondità, ovviamente, dato che il suo volto era una maschera di ghiaccio come al solito, ma l'attenzione con cui scrutava Serena e ascoltava il prozio era innegabile.
- Cosa bisogna fare perché affini questo potere? - domandò glacialmente, facendo girare alcune teste.
- Aiutarla a capire, spiegarle come meditare ed entrare in contatto con i sentimenti altrui, mostrarle come comprenderli e concentrarsi per discernerli. Soprattutto, però, aiutarla a non rimanerne sopraffatta. Quello che una persona pensa in un dato momento può essere molto intenso e lasciarti dentro una traccia quasi indelebile, se non si impara a vivere l’esperienza con distacco. In questo, nipote mia - mormorò il prozio dando una pacca affettuosa alla mano di Ofelia, - tu sei indubbiamente la migliore insegnante. Io ho solo conoscenze teoriche, tu sei la migliore lettrice di Anima.
Ofelia si sentì in imbarazzo di fronte a quei complimenti. Sapeva bene di essere un’ottima lettrice, Artemide stessa le aveva consegnato un premio per un concorso che aveva vinto a mani basse. Sentirselo dire da una persona severa e meticolosa come il prozio, però, faceva apparire tutto sotto una luce diversa, come se fosse un’abilità incredibilmente ardita e impossibile. Un po’ come se fosse stato Thorn stesso a complimentarsi, cosa che forse era avvenuta una o due volte soltanto da quando lo aveva conosciuto. Erano parole che valevano più di qualsiasi gesto o discorso, e Ofelia cercò di non arrossire.
- Cominceremo appena tornate al Polo. Devo però cercarle dei guanti, lì non ne fabbricano.
Ofelia cominciò a mordicchiare la cucitura dei suoi, di guanti, in preda all’ansia. La sciarpa si allungò nervosamente, attorcigliandosi al braccio sottile di Serena, che pareva non capire, ma stava in educato silenzio. Non potevano partire senza guanti, per un lettore era impossibile arrivare a fine giornata senza impazzire, con le mani nude che leggevano, assorbivano le emozioni altrui in modo vorticoso e disparato. Ma non potevano nemmeno rimandare la partenza, riorganizzare il viaggio sarebbe stato un bel calvario.
Il prozio dovette leggerle la preoccupazione in volto, perché mormorò: - Ne ho un paio io, non crucciarti.
- Come? – replicò lei, sbigottita. – Ha le mani così piccole, vorrei che avesse un paio di guanti comodi dato che dovrà conviverci per…
- Ne ho un paio io – ripeté il prozio, questa volta con più decisione.
Quella durezza la indusse a chiedersi come mai il prozio possedesse un paio di guanti da lettore taglia bambina. Certo, era stato lui a procurarle la sua prima coppia di guanti, di sicuro sapeva dove reperirli, però…
Però, ora che ci pensava, effettivamente i suoi guanti lei non li aveva più trovati. Ofelia non era una persona nostalgica, ma su alcuni possessi non transigeva: la sua sciarpa, ovviamente, gli stivaletti preferiti, un paraorecchie che le aveva cucito Agata da piccola e che era orrendo, pigro e costantemente addormentato, ma era stato il primo dono di Agata e lei se n'era affezionata... e il primo paio di guanti. Aveva pianto quando sua mamma le aveva dato quelli nuovi, anni prima, quando i suoi primi guantini erano diventati troppo stretti per lei. Sophie non era stata tanto paziente al riguardo, e quando Ofelia aveva stretto i pugni per non separarsene glieli aveva quasi strappati di dosso. Si era rassegnata ai guanti nuovi, così poco familiari, ma aveva sperato almeno di poter conservare il paio da cui si era appena separata.
Invece non li aveva più trovati, e insistere con la madre e cercare di far valere la sua posizione non era servito a nulla. Era stato quello, a sette anni, il periodo in cui aveva capito che contro la volontà di sua madre poteva fare ben poco. E l'aveva sempre incolpata di averglieli sottratti nonostante lei avesse più volte ripetuto di non averli.
Sophie era tante cose, molte delle quali non proprio piacevoli, ma l'onestà era il suo pregio più grande. Non mentiva nemmeno quando sarebbe stato educato farlo, era franca nei momenti in cui sarebbe servito forse un po' di tatto in più.
Se lei non aveva i guanti...
- Ce li avete voi, vero?
Il prozio distolse lo sguardo.
- Zio? - lo incalzò pacatamente Ofelia. - I miei primi guanti. Li avete voi, non è vero?
Il prozio sospirò, più mortificato dall'essere stato scoperto che irritato per quelle domande pressanti.
- Sì - borbottò, infastidito.
- Perché? Li ho cercati per anni. Potevate dirmi che li avevate voi, ve li avrei lasciati sicuramente, ma almeno mi sarei messa il cuore in pace.
Il prozio sembrò quasi dispiaciuto. - Volevo... li ho tenuti come ricordo. Sapevo che saresti diventata la più brava lettrice in circolazione, era evidente. Non solo per via della manifestazione così evidente e precoce del tuo potere, ma soprattutto perché io ti avevo già inquadrata.
Thorn era immobile come una statua di fianco a lei, attento come uno sparviero, e Serena, in braccio suo, ascoltava il pro-prozio rapita, memorizzando ogni sospiro, con le mani posate sul collo della mamma per non toccare nessun oggetto.
- Tua madre pensava che fossi una bambina ostinata e difficile, che fossero questi i motivi per cui facevi fatica ad interagire con le altre pesti e stavi sempre da sola. Non si rendeva conto che in realtà eri già indipendente, che non avevi bisogno di nessuno perché stavi bene con te stessa e con quello che ti circondava, e quella che scambiava per ostinazione era in realtà determinazione. Eri sicura di te, eri sicura di ciò che volevi. Bastava essere abbastanza acuti per capirlo, invece che cercare di trasformarti in ciò che volevano gli altri. Era palese che con la tua volontà saresti andata lontano, e che concentrandoti e applicandoti nel coltivare il tuo dono saresti diventata infallibile.
Ofelia sentì le lacrime pungerle gli occhi, le lenti divennero di uno sfumato azzurrino commosso. Era raro sentire parole così affettuose da parte del prozio, ma quello che l'aveva colpita era che lui avesse conservato il suo primo paio di guanti. E ora, dopo esserseli tenuti per tutto quel tempo, voleva cederli a Serena.
A disagio, il prozio borbottò sotto i baffi e annunciò che sarebbe andato a casa a prenderli. Sparì con l'ombrello sotto la pioggia prima che Ofelia potesse aggiungere qualcosa.
Thorn non disse nulla, e tantomeno la figlia, che sembrava preoccupata. Allora, contro ogni previsione, con un lungo e freddo dito lui le accarezzò la guancia morbida. - La mamma ti insegnerà come fare.
Serena annuì, poi sorrise, grata di quelle parole che non erano proprio il massimo del conforto, ma provenendo da Thorn erano preziose quanto un complimento.
Quando il prozio tornò, evitò di guardare in faccia Ofelia. Fece semplicemente indossare i guanti a Serena, spiegandole con quale particolare procedimento erano realizzati, a cosa servivano e che avrebbe dovuto portarli quasi sempre, togliendoli solo quando era strettamente necessario. Aggiunse anche che nessuno meglio di Ofelia poteva spiegarle quelle cose.
Ofelia guardò sua figlia che si rimirava i guanti, aprendo e chiudendo i pugni per saggiarne la pelle, mostrandoli poi con orgoglio a lei e a Thorn. Dubitava che Serena avesse capito con precisione cosa implicava il portare quei guanti, la ragione per cui avrebbe dovuto indossarli sempre. Ofelia ormai ne era abituata, non sentiva più il bisogno di toccare con la pelle nuda ciò che la circondava, ma aveva qualche reminiscenza del periodo iniziale, quando era avvenuto il cambiamento, cosa aveva significato. L'adattamento a toccare il mondo attraverso un'altra pelle.
Guardò Thorn, che fissava le mani della figlia con le sopracciglia aggrottate, e si chiese cosa stesse pensando. In lei si fece lentamente strada la consapevolezza della loro età che avanzava, del percorso che avevano intrapreso, del fatto che i loro figli stavano crescendo, sviluppandosi, acquisendo conoscenze e potenzialità. E loro erano parte di quel processo, elemento fondamentale nell'evoluzione del loro carattere.
Ofelia lasciò che Serena andasse a mostrare i suoi guanti a tutti, la osservò mentre ricominciava a giocare, senza più confusione in volto, prima stando attenta ai gesti che faceva e poi con naturalezza, come se i guanti fossero stati parte di lei da sempre.
Nostalgica, Ofelia accarezzò la sciarpa e allungò timidamente la mano per stringere brevemente quella di Thorn.
Non si sorprese quando lui, senza guardarla, ricambiò.
 
Per cena, l’ultima che avrebbero consumato insieme per quella vacanza, Sophie decise di preparare un pasto luculliano con l’aiuto di tutti. Ofelia era certa di aver preso qualche chilo durante quella vacanza, ma voleva avere la conferma da Thorn: grazie alla sua mente calcolatrice non le serviva alcun tipo di strumento di misurazione o peso. Era comodo avere un metronomo umano come marito, talvolta. A parte quando notava e annotava ogni singolo cambiamento fisico in lei, da un chilo in più ad uno in meno alla crescita mensile dei suoi capelli.
Sophie richiese la partecipazione di tutti nella preparazione del pasto: gli uomini lucidavano l’argenteria e apparecchiavano, le donne impastavano, e Thorn…
Si resero conto della sua utilità quando un misurino, contagiato dall’eccitazione di Sophie, cominciò ad oscillare facendo sempre scendere farina.
- Sciocco, sciocco, sciocco utensile! Questa ricetta richiede pre-ci-sio-ne - lo sgridò Agata, che non contribuiva a creare un clima tranquillo con il suo barcamenarsi a destra e a sinistra con le teglie in mano.
L'unica serafica e per nulla intaccata da quel caos era Berenilde, che osservava tutti come se fosse seduta su un trono. Le mancava solo il bocchino con la sigaretta e sarebbe stata una matrona perfetta.
- Non ci tengo proprio a far sfigurare le mie dote culinarie. O viene come dico io, o possiamo buttare tutto e digiunare!
Archibald alzò il calice di vino in risposta, come a far intendere che era d'accordo. O forse voleva solo dimostrare che, digiuno o no, le bevande non mancavano. Renard invece si fece leggermente pallido. Aveva scoperto di avere un vero e proprio debole per la cucina animista, e l'idea di non mangiare qualcosa di casereccio proprio prima della ripartenza gli causava una grande tristezza.
- Togliti quel broncio, sono io che devo mangiare per due - lo redarguì Gaela tra i denti.
Nel silenzio attonito e preoccupato che venne a crearsi mentre Sophie cercava nuovamente la giusta misura di farina, un'ombra le si avvicinò alle spalle.
- Quanti grammi ve ne servono? - domandò Thorn, glaciale e lapidario.
Sembrava in procinto di cominciare un interrogatorio.
Sophie sussultò, facendo irritare ancora di più il misurino. La bilancia non era utile in quel caso.
- Thorn, non vi avevo visto. Vi pregherei di non aggredirmi più alle spalle in tale maniera sconveniente, mi avete rovinato tutte le misurazioni.
Impassibile, e per nulla impressionato da quei paroloni, Thorn rimarcò: - Quanti grammi vi servono?
Sophie trattenne a stento uno sbuffo, ma rispose: - Ventiquattro, ma...
Thorn allungò la mano per farsi dare il misurino, che Sophie fu costretta a cedergli, attonita. Thorn lo riempì tre volte per intero, travasandolo poi nella ciotola con le uova. Infine lo riempì una quarta volta, ma di poco, e lo aggiunse.
- Ventiquattro - sancì, facendosi da parte.
Sophie boccheggiava.
- Ne siete sicuro? - chiese Agata, sorpresa quanto la madre.
Sentendosi addosso gli occhi di tutti, Thorn si schiarì la voce e si fece ancora più imponente. - Quel misurino può contenere sette grammi di farina o altri cereali macinati se riempito con precisione fino al bordo. Ne ho contati tre, più tre grammi singoli, per un totale di ventiquattro.
Agata spalancò la bocca, ma fu Roseline, che battibeccava con un cucchiaio, ad esprimere il pensiero di tutti: - Com'è che ci avete sempre tenuto nascoste queste vostre doti?
Thorn si strinse nelle spalle, non in un'esibizione di falsa modestia, ma in un tentativo di distogliere da sé l'attenzione. Non rispose.
- Non ci ricordiamo quante melanzane servono per la parmigiana - si lamentarono in coro Beatrice, Domitilla ed Eleonora.
Thorn, senza battere ciglio, elencò come un libro di cucina tutti gli ingredienti che servivano, comprensivi di quantità adattate alla perfezione al numero di commensali e tempi di cottura.
- Ofelia, tuo marito si sente bene? - le chiese a mezza voce la zia Roseline, cercando di essere furtiva e non riuscendoci.
Archibald rise. - Una volta per dispetto ho chiuso l'intendente in uno sgabuzzino usato dalle cuoche di Chiardiluna. Quando l'hanno trovato, tre ore dopo, aveva letto tutti i ricettari.
Ofelia non sapeva se essere più impressionata dalla sempre sconvolgente conoscenza di Thorn in ogni materia o dalla cattiveria gratuita di Archibald. Il fatto che l'avessero trovato non implicava affatto che lui avesse semplificato le ricerche.
Impalato in mezzo al salone, Thorn sembrava più che mai un pezzo del mobilio della casa. Ma non fu così per molto, dato che sfruttarono subito la sua memoria e la sua mente analitica per controllare e supervisionare ogni cottura, ogni singola preparazione.
Nell’arco di pochi minuti Thorn divenne il nuovo chef: girava tra le signore per perfezionarne il lavoro, ripeteva ricette a memoria quando venivano chieste delucidazioni sull’uso di un certo ingrediente, bloccava qualcuno quando le misurazioni erano errate. L’unica cosa che non faceva era assaggiare, ma per il resto dirigeva la cucina come se in tutta la sua vita il suo lavoro fosse stato quello. E la cosa sconvolgente era che persino Sophie gli dava ascolto.
- Ora capisco come fa ad esser l’amministratore di tutte le province del Polo da solo. Un aiutante lo rallenterebbe. La sua memoria è talmente prodigiosa che se esercitasse le mie funzioni sarei considerato un inutile inetto, al suo confronto. Ma che dico, gli archivi stessi sarebbero superflui, con la sua memoria! – borbottò lo zio, infastidito. Non tanto dal dono di Thorn, quanto dal suo possibile essere inferiore a qualcuno nel suo lavoro.
Ofelia evitò di dirgli che la memoria di Thorn poteva addirittura essere passata ad eventuali parenti con lo stesso potere, creando un vero e proprio archivio vivente duraturo nel tempo e pressoché infallibile. Il prozio era già abbastanza abbacchiato.
- Per questo voi siete migliore di lui nel vostro lavoro: lui non fa nessuno sforzo, mentre voi ci mettete passione e impegno. Per Thorn sarebbe troppo facile.
Lo zio bofonchiò ancora, ma sembrava più compiaciuto e meno riottoso di prima. – Secondo il tuo ragionamento, però, chiunque sarebbe migliore di lui come intendente, se basta solo l’impegno.
Ofelia pensò a quanto Thorn dovesse essere paziente e diplomatico con i cortigiani pomposi, viziati e ignoranti, a come viaggiava dappertutto senza mai lamentarsi, facendo le ore piccole e talvolta sacrificando la famiglia per quel lavoro ingrato.
Scosse la testa: - No, in quel caso no. Nessuno sarebbe migliore di Thorn come intendente.
Lo zio le lanciò un’occhiata misteriosa. – E come uomo?
Ofelia sorrise timidamente, senza rispondere.
A cena i complimenti furono tutti rivolti all’intendente, che rimase più in silenzio del solito e rispose solo con monosillabi o grugniti interpretabili a piacimento.
Ofelia poteva percepire il suo disagio, ma capì anche, nel corso della serata, che era un tipo di disagio che non aveva mai sperimentato prima, un disagio piacevole: quello che scaturiva dall’essere al centro dell’attenzione e, per una volta, apprezzato e lodato per qualcosa che era in grado di fare.
Dubitava che al Polo qualcuno gli avesse mai fatto i complimenti per qualcosa, specialmente per come svolgeva il suo lavoro. Di solito chi era incorruttibile e integerrimo come lui, soprattutto nella sua posizione, non godeva di stima da parte di chi era disposto a pagare per avere favori. E se fosse sceso a compromessi avrebbe scontentato tutti gli altri abitanti indifesi, che avrebbero visto governare i ricchi e i nobili solo per una questione di potere e soldi.
Insomma, al Polo qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stata criticata o malvista, tanto più dato il suo retaggio e la sua nascita fuori dal matrimonio. Su Anima invece veniva accolto senza pregiudizi.
Ofelia apprezzò immensamente quella cena, e seppe che anche Thorn lo aveva fatto quando ringraziò a denti stretti Sophie per il pasto. La tavola piombò nel silenzio quando accadde, un silenzio imbarazzato che parve durare per un tempo incalcolabile. Alla fine Sophie annuì, per una volta non tronfia e orgogliosa ma imbarazzata, come se non si sentisse del tutto degna di quel ringraziamento dato il contributo non indifferente di Thorn, e Renard si alzò per prendere dalla credenza una bottiglia di liquore particolarmente forte. L’anta in vetro, rinomatamente scontrosa, non brontolò, anch’essa sorpresa. Renard si versò una dose forse troppo generosa di liquore prima di passarlo al prozio e proporre un brindisi.
- All’intendente e alle sue capacità.
Alzarono tutti il bicchiere, compresa Serena, divertita da quel gioco. Rigido di fronte a tutte quelle occhiate, statuario e altero come un ritratto, Thorn alzò il bicchiere a sua volta e ingollò il goccio di vino che Ofelia gli aveva versato durante la cena. Tutti lo imitarono, ridacchiando e ricominciando a parlare subito dopo. Ofelia invece guardò Thorn con fin troppa insistenza, e quando lui finalmente incrociò il suo sguardo, quasi per sbaglio, capì perché evitava il contatto visivo con lei: nei suoi occhi, seppur per un istante brevissimo, Ofelia notò dell’orgoglio. Orgoglio per se stesso.
Thorn non era fiero di quel che provava, ma Ofelia lo era. Fiera di lui, fiera di ciò che sapeva fare, e anche fiera di aver contribuito a far crescere in lui un minimo accenno di autostima.
Sapendo di essere osservata con la coda dell’occhio da Thorn, alzò nuovamente il bicchiere nella sua direzione e bevve sorridendo.

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 ***


Sono in un ritardo super mega pazzesco e chiedo scusa ma ho avuto dei giorni (e delle notti, purtroppo) esteuanti al lavoro.
In compenso, il capitolo è lungo e succedono un SACCO di cose.
Spero che i riferimenti temporali nel capitolo siano tutti corretti, solo per te, Jeremymarsh xD (li ho controllati praticamente tutti, giuro che sono corretti).
E al solito spero che vi piaccia, buona lettura e al prossimo cap che mi auguro arrivi molto prima♥


Capitolo 36

La ripartenza non fu meno caotica dell’arrivo, anzi. Dopo aver passato un mese insieme, era quasi diventata un’abitudine veder gironzolare per la città e per i parchi tutti quegli abitanti del Polo. Al ponte d’imbarco dell’aerostazione si presentò il triplo della gente che li aveva accolti, con sommo stupore soddisfatto di Renard e Archibald e malcelato fastidio di Thorn.
Insomma, non avevano un lavoro tutte quelle persone?
Nonostante tutto riuscirono a salire sul dirigibile, dopo vari abbracci, lacrime, da entrambe le parti, implorazioni che si sarebbero rivisti presto, solo da parte degli animisti e rassicurazioni che li avrebbero pensati sempre, da parte dei vacanzieri.
Thorn rinnovò il suo invito al prozio, e a bassa voce lo estese anche a Hector. Ora che non era più un bambino, e che sapeva come trattarlo, non gli dispiaceva troppo interloquire con lui. Non che lo apprezzasse, ma almeno non gli dava fastidio.
Berenilde e Vittoria salutarono la folla con un’eleganza e un’ammirazione che le Decane non avrebbero mai ottenuto, e che rivaleggiava persino con il rispetto che veniva solitamente portato ad Artemide stessa. O meglio, Berenilde salutò, agitando un candido fazzolettino; Vittoria era troppo concentrata a disegnare il dirigibile e la pioggia per rendersi conto di cosa stava accadendo. Solo quando alzò lo sguardo e vide un irrequieto e imbarazzato Tom si rese conto che stava per lasciarlo, per tornare a casa, lontano da lui. Così gli si avvicinò e gli diede un bacio sulla guancia. Poi riprese a disegnare e si lasciò condurre da sua madre a bordo, guidata affinché non inciampasse sulla rampa d’imbarco. Tom barcollò prima di essere ristabilizzato dalla mano del padre, che lo guardò con orgoglio misto a pietà: si era fatto irretire già da così piccolo.
Con sommo stupore di entrambi, Serena, che si torturava i guantini nuovi con la solita pacata serietà, abbracciò il proprozio e gli disse che gli voleva bene e sperava di rivederlo presto. Il burbero vecchietto le diede un’impacciata pacca sulla spalla e bofonchiò qualcosa prima di voltarsi per non mostrare la sua commozione.
Superati i saluti e il viaggio, però, l’adattamento alla vita di tutti i giorni fu tranquilla per alcuni, traumatica per altri. Renard subì il colpo peggiore: si era abituato ad essere il cugino carismatico di tutti, su Anima, apprezzato per chi era e non per quello che sapeva fare o per il lavoro che poteva prestare, e il vedersi catapultato nella realtà di tutti i giorni lo fece cadere in una depressione malinconica che durò giusto un paio di giorni. Il terzo giorno infatti Gaela gli sbraitò contro, lo trascinò in camera per un orecchio, dando l'idea di una bambina che tirava un gigante, e il giorno dopo Renard era così ringalluzzito che Ofelia cercò di fare pressione psicologica perché si rideprimesse un pochino, appena appena.
A lei invece sembrò di tirare un sospiro di sollievo. Ritrovare la sua quotidianità le giovò, riprendere i ritmi le restituì il senso di appartenenza e la proprietà del suo castello. Anima e i parenti le mancavano, ma a conti fatti la sua arca natia era opprimente.
Con Thorn andò tutto a meraviglia, talmente tanto che la seconda notte dal loro arrivo, dopo che Thorn ebbe ripreso le sue attività e lei ebbe disfatto tutti i bagagli, la passarono praticamente in bianco. Il giorno dopo Ofelia si sentiva leggera, priva di ossa, ma felice, e la zia Roseline le disse che sembrava un uovo strapazzato nato da una gallina euforica.
Renard cominciò a tenere le lezioni a Serena, badando nel frattempo a Balder, che era troppo piccolo perché potesse seguire alcunché, e nel pomeriggio la bambina si esercitava con Ofelia nell'utilizzo dei poteri da lettrice. Ofelia non ebbe bisogno di molto tempo per rendersi conto di quanto Serena fosse dotata. Incarnava esattamente quello che Thorn avrebbe voluto diventare all'inizio, quando era stato organizzato il matrimonio combinato: l'amplificazione della memoria tramite la lettura. Un miscuglio perfetto, l'unione dei loro poteri familiari in modo coeso e coerente. Quello per cui Thorn aveva sposato Ofelia si era concretizzato nella loro primogenita. E, al contrario di tutto quello che avevano pianificato, dei complotti di corte e dei calcoli statistici, non lo avevano nemmeno previsto, voluto o desiderato.
Archibald girovagava per casa loro come al solito, andando e venendo a piacimento, la zia Roseline borbottava infastidita perché anche quella volta la sua macchina da cucire era andata distrutta durante il viaggio (perché tutti gli abitanti del Polo erano dei primitivi che non distinguevano un cucchiaio di puro argento da un bastoncino di legno), e Vittoria, con sorpresa di tutti, disegnava incessantemente ritratti di Tom. O almeno così pensava Berenilde. Era difficile dirlo, quando la maggior dei suoi disegni sembravano astratti.
Renard dimenticò ben presto la vacanza su Anima, perché il suo nuovo ruolo da insegnante gli piacque così tanto che Ofelia dovette stabilire degli orari precisi per la "scuola", altrimenti Renard avrebbe lambiccato il cervello di Serena di nozioni fino a tarda notte.
Sì, la normalità ritornò come una calda coperta avvolgente, ma non durò granché. Ofelia infatti aveva proposto a Thorn la possibilità di riaprire, solo la mattina, il suo studio di lettura. In fondo, aveva smesso di allattare Balder, di cui potevano occuparsi Renard e la zia Roseline a turno, per qualche ora la mattina, Serena era impegnata con il suo nuovo maestro preferito, anche se Thorn le aveva fatto presente che era pleonastico definire Renard il suo preferito, dato che era l'unico insegnante che avesse mai avuto, ma era solo la gelosia a parlare, e lui lavorava. Non c'era nessun valido motivo per non riaprire lo studio.
Questa proposta Ofelia gliel'aveva fatta dopo un mese dal loro ritorno al Polo, ma invece di concederle la riapertura della sua attività, Thorn aveva liquidato la questione con un laconico: - Mi riservo del tempo per valutare la questione.
Ofelia era ben abituata al suo tono da intendente: le sue domande più basilari erano interrogatori, le richieste diventavano ordini. Non le aveva mai dato fastidio, se non all'inizio, prima di conoscerlo davvero, ma quella risposta l'aveva lasciata interdetta e, a dire il vero, anche un pochino delusa.
Che cosa c'era da valutare? E quanto tempo gli ci voleva per metabolizzare una cosa del genere? Thorn meglio di tutti sapeva quanto fosse controproducente negarle qualcosa, determinata com'era, allora perché procrastinava in quel modo?
Dopo un altro mese senza risposta Ofelia si decise a tirare nuovamente in ballo l'argomento. Thorn non dimenticava mai nulla, dunque perché aveva lasciato passare così tanto tempo senza darle un responso? Cosa c'era in ballo, se lasciava in sospeso la questione per così tanto tempo?
La sera in cui si organizzò per parlare nuovamente della cosa, però, non finì proprio come previsto. Dopo aver messo a letto i bambini (Balder ora dormiva in camera con la sorella, non per mancanza di spazio ma perché Serena aveva chiesto espressamente di poter avere il fratellino in stanza, per farsi compagnia a vicenda), Ofelia stava per aprire bocca, quando Thorn la zittì con un bacio irruente e totalmente imprevisto. A dispetto delle loro prime volte insieme, timide, impacciate, quasi restie da parte di Thorn, lui aveva cominciato ad essere talmente a suo agio con la loro intimità che non si avvicinava più ad Ofelia con quel bagliore da predatore negli occhi, le balzava direttamente addosso, e non si avvicinava a lei cautamente, lasciandole il tempo di ritrarsi, la spingeva direttamente a letto; non parlava, non chiedeva, sapeva bene di cosa lei avesse bisogno, lo capiva dalle reazioni del suo corpo al suo tocco.
E ad Ofelia piaceva. Piaceva più di quanto fosse lecito ammettere. Thorn era brusco, era impulsivo, era rapido, impensabilmente scattante, ma non le faceva mai male. C'era una tale delicatezza nei suoi gesti quando l'adagiava a letto, o quando le stringeva le braccia, quando la bloccava perché lasciasse fare a lui, che era quasi commovente. Non le era dispiaciuto, all'inizio, prendere sempre lei l'iniziativa; l'aveva fatta sentire rispettata, potente. Ma mai quanto si sentiva potente, e amata, quando Thorn dimostrava di desiderarla in modo così appassionato, lui che era l'immagine dell'imperturbabilità e della rigidità. Quando la guardava con quegli occhi taglienti come rasoi, che posati su di lei sembravano infuocati, liquidi, pieni di un bisogno struggente di lei, pieni di amore incondizionato e assoluto, Ofelia gli si donava con tutto quello che aveva. Non parlavano quasi mai, si dicevano tutto quello che serviva con il tocco delle loro mani, che Thorn spesso le baciava teneramente, sorprendendola. Era talmente parco di baci che non fossero sulla bocca; così pochi che Ofelia li poteva contare senza bisogno della memoria portentosa di Thorn. Ma quando si donavano l'uno all'altra capitava che Thorn la baciasse ovunque, prendendosi lunghi minuti per mappare il suo corpo con le labbra, come per assimilare la sua pelle: spalle, braccia, ventre, petto, gambe, nei. In quei momenti ad Ofelia sembrava di dissociarsi dal suo corpo, di perdersi in uno specchio, nel fresco e pacifico interstizio tra i mondi.
Ma quella sera Thorn non si perse in preamboli. Fu solo rapido, e fisico, così tanto che Ofelia si chiese cosa fosse successo dall'ultima volta che erano stati insieme, due giorni prima. Stress? Repressione di qualche tipo? Degli attacchi del genere li avevano entrambi dopo un periodo di distacco prolungato. Archiviò la questione senza porsi ulteriori domande, però, perché in quei frangenti Thorn sapeva toccare tutti i punti giusti, e le bisbigliava il suo nome all'orecchio con una voce gelida che la faceva rabbrividire vergognosamente.
Quando Thorn si sdraiò accanto a lei, a corto di fiato, Ofelia era sicura che nel giro di poco si sarebbero uniti nuovamente. C'era qualcosa che non la convinceva nell'intimità appena condivisa, un non detto che Thorn sembrava portarsi dentro da giorni e forse era la causa di tutta quell'impulsività. Nel momento in cui Thorn la strinse a sé, però, invece di lasciar vagare le sue grandi e calde mani dappertutto, stuzzicandola e sollecitandola nuovamente, le depositò un casto bacio in fronte.
E non le lasciò il tempo di aprire bocca.
- Sei incinta.
Ofelia sobbalzò, mentre ripeteva quelle parole nella sua mente senza trovarvi un senso.
Nella fretta, Thorn non le aveva tolto o fatto togliere né gli occhiali, né i guanti, e tanto meno la camicia da notte a dire il vero. Giusto la biancheria e la sciarpa, ma solo perché quest'ultima diventata terribilmente irrequieta durante i loro rapporti, finendo costantemente per accecare Thorn. Pertanto Ofelia aveva una visuale perfetta, non offuscata dalla miopia, sul volto serio e ancora leggermente arrossato di Thorn. Non era il tipo di uomo che scherzava su certe cose. A malapena scherzava, a dire il vero.
Notando la sua sorpresa, lui si schiarì la voce e distolse lo sguardo, cosa non facile dato che erano a pochi centimetri di distanza. - Su Anima dovresti avere avuto il tuo ciclo mestruale il dieci del mese.
Ofelia cercò di ricordarsi quando le erano arrivate, ed effettivamente ricordava quel giorno perché lei aveva chiesto di anticipare una gita verso una spiaggia lontana. Così annuì, troppo esterrefatta per parlare.
- Hai saltato il mese scorso - continuò lui, sempre con lo sguardo lontano. - E questo mese avresti dovuto finirle due giorni fa.
- Tu come le sai tutte queste cose? - domandò Ofelia.
Tra tutte le domande che poteva fare, forse quella era la più sciocca.
Thorn la inchiodò con gli occhi metallici. - Io tengo conto di tutto.
Erano sposati da così tanto tempo... solo ora si rendeva conto di quanto Thorn si fosse adattato ai suoi ritmi, di quanto fosse consapevole di come funzionava lei, il suo corpo. Ovviamente teneva conto di tutto. Ovviamente. E ovviamente non le si era mai avvicinato con intenti espliciti quando era a ridosso del suo periodo mensile. Lei non aveva mai ritenuto opportuno informarlo, sapeva che lui avrebbe capito, ma solo in quel momento si rese conto di quanto sapesse. Di quanto sapeva ogni volta.
Si ritrovò ad aprire e chiudere la bocca come un pesce. Due mesi erano tanti, non poteva essere un errore di calcolo o un azzardo.
- Quindi...
- Su Anima - la interruppe lui. - Non saprei dire di preciso quando, o dove, anche se propenderei per la prima volta che... ero un po'... temo di essermi lasciato...
Nella camera della sua infanzia.
Così a disagio, Thorn le faceva un'incredibile tenerezza. Sembrava quasi un bambino che non sapeva come scusarsi. Non avevano programmato quella gravidanza, non ne avevano parlato, e in fondo la colpa, se la si poteva definire in quel modo, era sua: non erano le donne ad ingravidare gli uomini.
- Di quanto sono?
- Quarantanove giorni - rispose lui prontamente, sicuro di ciò che diceva quanto era a corto di parole e a disagio quando doveva esprimere dei sentimenti.
- Quasi due mesi... - mormorò Ofelia. - Sono tanti.
Thorn la guardò senza proferire parola, con la fronte aggrottata al punto che gli occhi erano solo due sottili fessure.
- Come ho fatto a non accorgermene prima?
Era più che altro una domanda retorica, ma Thorn rispose: - Eri presa dall'idea della riapertura del tuo studio. Tu non sei consapevole dello scorrere del tempo come me.
Era una frase alla Thorn, una verità espressa con il suo solito tono secco, e Ofelia sapeva che non voleva lanciare un'accusa. Un po' di consapevolezza, però, si fece strada in lei.
- Per questo non mi hai dato subito la risposta per la riapertura! - esclamò sommessamente.
Thorn annuì una sola volta. Come aveva fatto ad essere così cieca? Le nausee mattutine, di cui lei aveva incolpato una cattiva digestione e il difficoltoso riadattamento alla cucina del Polo, il ritardo nel ciclo, gli ormoni che... la portavano sempre da Thorn.
Arrossendo, mormorò: - Sei proprio infallibile, vero?
Thorn non si schermì, ma nemmeno gongolò: - La mia memoria lo è.
Rimasero in silenzio per un po', prima che Ofelia riprendesse la parola. - Va bene, quindi aspettiamo un altro figlio. Il terzo.
Thorn annuì bruscamente. Poi strinse la mascella, come se qualcosa lo avesse irritato. - Sono solo il bastardo dei Draghi, non ho mai fatto davvero parte del clan, ma si può ipotizzare che sarei stato ben accolto, se fossi stato uno di loro, data la mia prole numerosa.
In qualche modo quel discorso fece sentire Ofelia a disagio. Sapeva che Thorn non l'aveva sposata per i figli. Anzi, era un miracolo che ne avessero due, presto tre, visto com'erano partiti con il piede sbagliato. Sapeva che Thorn non voleva insinuare nulla di spiacevole, che non la stava davvero usando come madre ovaiola per riportare in auge il clan del padre, però in effetti le sembrava di essere diventata proprio quello. Serena avrebbe avuto cinque anni quando fosse nato, o nata, il nuovo bambino. Tre figli in cinque anni erano decisamente tanti. Le sembrava di essere diventata una versione più sobria di Agata. Le tornò anche in mente l'entrata in scena del clan dei Draghi al completo, il giorno prima della loro morte; quando erano andati a trovare Berenilde prima dello spettacolo di Chiardiluna, alla vigilia della caccia a cui avrebbero voluto partecipasse anche Berenilde. Anzi, a cui avevano preteso partecipasse anche lei, pena la scomunica, o qualsiasi fosse il termine adatto ad indicare che qualcuno non era più considerato parte del clan. La moglie di Godefroy era stata definita una delusione, data la sua incapacità di portare a termine una gravidanza; Freya, la sorellastra di Thorn, invece, con i suoi tre gemelli era stata esibita come un trofeo dal capostipite. Tre figli maschi, un apporto notevole.
Capì che Thorn stava pensando proprio a quello quando aveva fatto quel commento. Se fosse stato a tutti gli effetti un Drago, padre Vladimir sarebbe stato soddisfatto anche di lui? E se, come sarebbe ovviamente successo, avessero continuato a considerarlo una nullità, un errore, una vergogna, come si sarebbero sentiti di fronte alla sua prolifica famiglia?
Ofelia non aveva avuto vita facile con i Draghi, per quanto poco li avesse conosciuti, ma non ci voleva un genio per capire che non sarebbero stati affatto felici di vederla mettere al mondo tre figli dal bastardo della famiglia. Un sangue impuro, come l'aveva definita la nonna di Thorn, che andava a macchiare quello dei Draghi. Una straniera che non aveva nulla a che fare con loro e le loro consuetudini. Che non aveva artigli, ed era pertanto inutile. Chi non poteva cacciare non era un Drago, e lei non sarebbe mai stata un Drago.
Era brutto da pensare, ma si sentì sollevata all'idea che fossero morti tutti. Chiunque avrebbe aborrito l'idea di vivere con il terrore che qualcuno potesse fargli del male o farne ai propri figli, guardandosi le spalle continuamente, dubitando di tutti e recludendosi per correre meno rischi. Bastava rendersi conto della sorte che era toccata ai figli di Berenilde, che era una donna appartenente ad uno dei clan più influenti del Polo, per capire che a lei sarebbe toccato molto, molto di peggio.
Ofelia riportò la sua attenzione su Thorn, che già la fissava, in attesa di una reazione qualsiasi.
- Non è per questo però che hai voluto Serena e Balder, no? Non è stato per una sorta di ripicca verso il clan di tuo padre.
Thorn si accigliò e storse il naso. - No.
Secco, brutale, non aveva bisogno di altri orpelli verbali. Ma sembrò quasi pentirsi del tono brusco, così aggiunse, seppur con difficoltà: - Non ho voluto diventare padre per un'ipotetica rivalsa su di loro, anche se ammetto che sarebbe stato motivo di rinnovato odio verso di me. Anzi, vista la loro natura violenta, se fossero stati in vita avrei cercato di dissuaderti dal volerne. Tu saresti sempre stata in pericolo, i bambini ancora di più, non importa che io sia stato ristabilito dallo stato di bastardo: ai loro occhi sarei sempre stato tale.
Si interruppe, schiarendosi la voce. Ofelia percepì un non detto che lui forse faticava ad esprimere. Quando capì che però non avrebbe aggiunto altro, gli baciò una clavicola ossuta e si sdraiò su di lui, impacciata dalla camicia da notte. Non sarebbe mai stata seducente, ne prendeva atto, ma Thorn non era mai stato difficile sotto quell'aspetto.
- E allora perché sei voluto diventare padre? Di ben tre figli? - mormorò Ofelia mentre gli baciava spalla, collo e guancia, soffermandosi sulla cicatrice.
Thorn si tese sotto di lei, invece di rilassarsi, compresso come una molla. - Perché lo volevi tu.
Ofelia sorrise sulla sua pelle. Si avvicinò alle sue labbra, ma quando lui allungò il collo per porre fine alla distanza, lei si tirò indietro con un sorrisetto soddisfatto appena accennato. Gli occhi grigi di Thorn sembravano emettere lampi.
- Ti avevo chiesto di essere sincero con me, e di non tacermi nulla. Te lo sei dimenticato? - lo provocò.
Si tolse poi la camicia da notte. Thorn se la mangiò con gli occhi, ma non le permise di togliersi i guanti: ci pensò lui a farlo, baciandole la punta di ogni dito.
Stranamente non le disse che non lui non dimenticava mai nulla, come al solito, come se lei avesse bisogno di ricordarsene. Invece, si alzò a sedere, con lei sopra, superandola nuovamente in altezza, e la baciò con prepotenza.
Ofelia lo bloccò un paio di minuti dopo, quando fu palese che Thorn desiderava concludere la conversazione fisica, ma non quella verbale.
- Allora? Sei felice di diventare padre per la terza volta?
- E tu? Dovrai portare avanti la terza gravidanza.
Ofelia scosse la testa e gli prese il viso tra le mani. - Rispondi - gli intimò, cercando di imitare il tono da gendarme che aveva lui nel porre quesiti.
- Non mi dispiace - bofonchiò vagamente. - Mi...
Si zittì di nuovo. Ofelia trattenne un sospiro. - Ti...? - lo incalzò.
- Mi sono fatto convincere da te. Tu volevi un figlio con me. Pensavi che potessi farcela, che sarei stato all'altezza del ruolo.
Ofelia si scostò per poterlo guardare negli occhi. Sempre troppo in alto rispetto a lei. Thorn distolse i suoi, le orecchie rosse.
- Quando Serena ha cominciato a crescere, e anche lei si affidava a me, mi... mi voleva bene, ho voluto vedere se con un altro figlio sarebbe stato lo stesso. Se voi due eravate un'eccezione, o se anche un altro bambino mi avrebbe... accettato.
- E il terzo? - gli chiese Ofelia, a voce bassa per paura che lui cambiasse argomento. - Ti spaventa?
- Sì - ammise lui. - Non era previsto.
- Ne sei pentito?
- No.
- E allora non hai nulla di che preoccuparti. Previsto o no, un bambino non ti ama in base a quanto tu lo desideri. Balder è arrivato subito eppure ti vuole bene quanto Serena, che abbiamo cercato per diversi mesi.
Thorn riportò gli occhi nei suoi, serio come sempre. - Sei felice?
Ofelia chiuse gli occhi. Aveva due figli meravigliosi, stava aspettando il terzo, suo marito la amava in un modo viscerale che lei faticava anche a comprendere... - Sì. Sì.
E si abbandonò a lui, alla sua più grande fonte di felicità, che era alta, ossuta, calda, seria, taciturna, solida, pallida, forte e stabile. Ma soprattutto presente e profondamente innamorato di lei.
 
Vittoria fu come sempre la veggente del caso, e annunciò che il bambino sarebbe stato nuovamente maschio. Ormai nessuno più si interrogava sui particolari poteri della piccola, che tra l'altro aveva anche informato Galea e Renard che loro invece avrebbero avuto una femmina.
- Puah - aveva sputato Gaela, del tutto in contrasto con l'espressione estatica del marito. - Le femmine causano solo problemi.
- Ma come, mia bella, non puoi mortificare così la mia euforia che...
- Taci René, o comincio con il mettere in castigo te - lo aveva interrotto lei, bloccando il suo slancio.
Ofelia aveva nascosto il sorriso notando come in realtà l'occhio blu elettrico dell'amica scintillasse di soddisfazione, e non certo per aver rimesso a posto il marito.
Pochi giorni dopo comparve nel salotto di casa loro una signora biondissima con la testa piena di ricci disordinati, la tuta di lavoro di Gaela e la sua stazza. Ofelia rimase a bocca aperta alcuni secondi prima di riscuotersi grazie a Serena.
- Mamma, ma chi è quella signora? - chiese innocentemente.
Gaela sbuffò. - Ci sono talmente tante illusioni in quest'arca marcia che non siete capaci di vedere la realtà nemmeno quando vi tira un pugno sul naso.
In quel momento entrò Renard, tutto tronfio. - Non è bellissima la mia signora con i suoi colori naturali addosso? Il biondo le dona. Ah, queste donne bionde, tutte bionde, biondo ovunque...
Ofelia cercò di non arrossire pensando a quanto effettivamente anche Thorn fosse biondo. Ovunque, come ci aveva tenuto a precisare Renard.
- Come mai questo... cambiamento? - domandò per distrarsi.
Gaela scosse le spalle, stravaccata sul divano con la pancia tondeggiante che emergeva.  Ad Ofelia, con il suo terzo mese, ancora passava inosservata, ma Gaela ormai era quasi a otto mesi, la prima cosa che si notava di lei era proprio la pancia.  Eppure, nonostante mancasse così poco al parto, Gaela non aveva voluto sentire ragioni e continuava ad andare al lavoro. Renard non era riuscito a farla desistere, ma fortunatamente le aveva strappato il compromesso che sarebbe andata in officina solo al pomeriggio, quando ci fosse stato anche lui. Finite le lezioni infatti prendeva e accompagnava Gaela al lavoro. Una volta Ofelia era andata a trovarli con i bambini, che desideravano tanto vedere dove lavoravano il maestro e la zietta, come la chiamava Serena. Ofelia si era chiesta se Gaela non l'avesse fatto apposta ad ordire quel complotto: lei se ne stava bella in panciolle su una poltrona e supervisionava il lavoro di Renard, che la maggior parte delle volte si ritrovava infilato sotto qualche macchinario con la tuta da lavoro calata fino alla vita per via del caldo e le braccia muscolose bene in vista. In effetti, il sorriso di Gaela mentre sbraitava ordini e si mangiava il marito con gli occhi era alquanto compiaciuto.
- Non mi va di più di essere quella che non sono - rivelò Gaela. - Mi ero tinta i capelli di nero per mascherare la mia discendenza diretta con Faruk, il fatto che fossi una Nichilista. Ma non voglio crescere i miei figli, anzi, mia figlia, nella menzogna, insegnandole che bisogna nascondersi di fronte alle minacce.
Renard alzò il mento, fiero di sua moglie.
Ofelia sorrise ad entrambi. - State molto bene con il vostro vero colore.
Gaela si tirò un ricciolo biondo, un po' perplessa. - Mah - commentò solo, vagamente.
- Difenderò io la nostra discendenza. Vedrai, li farò tremare dalla paura se solo si azzardano ad avvicinarsi ad Ilda.
Gaela fece una smorfia.
- Ilda la chiamerete? - chiese Ofelia per conferma.
La zia Roseline, che era rimasta china su un vecchio dizionario che Berenilde le aveva chiesto di sistemare per conto di un'amica, tanto silenziosa da mimetizzarsi con la tappezzeria, alzò la testa. - La cugina della moglie di tuo zio si chiamava Ilda. Una donna rispettabile, ma aveva la zeppola. Non si capiva nulla quando parlava, sputacchiava come una fontanella senza rompigetto.
Renard fece una faccia un po' schifata, ma Gaela non si lasciò intimorire. - Non transigo sul nome.
La sua veemenza confermò i sospetti di Ofelia: il nome Ilda era ovviamente un tributo alla protettrice di Gaela, alla persona che le era stata accanto per tutti quegli anni, proteggendola. Ildegarda.
Ofelia sorrise. - Mi piace. Lui invece si chiamerà Tyr* - annunciò toccandosi la pancia.
La zia Roseline bofonchiò qualcosa circa quei nomi terribilmente nordici. Ofelia non poteva darle torto, il nome Tyr era corto e brusco, un po' come tutto quello che Thorn diceva.
Renard le lanciò un'occhiata incuriosita. - Non per mettere in discussione la scelta, ma come mai?
Ofelia si strinse nelle spalle. - Lo ha scelto Thorn. Non l'ha imposto, però mi pareva che gli piacesse particolarmente, per cui non ho intenzione di discutere.
In effetti, Thorn le aveva comunicato che avrebbero chiamato il bambino Tyr senza tanti preamboli. Di fronte alla sua faccia perplessa le aveva chiesto se poteva andarle bene o voleva cambiarlo, ma a lei in fin dei conti non cambiava granché. Non era mai stata brava a dare i nomi, nemmeno ai pesci rossi che aveva da bambina. Se non fosse stato per Agata, che li aveva chiamati Lady Scaglia Brillante e Illustre Coda Aggraziata, lei li avrebbe nominati Pescia e Pesce Piccolo.
- Mi piace - commentò Renard. - Da bambino avevo letto uno o due storielle su Tyr, l'eroe fortissimo acclamato da tutti che portava la pace tra i clan e creava il regime democratico perfetto. Di bell'aspetto, possente, tutti noi bambini volevamo essere come lui. Era una bella collana di libri per bambini.
Ofelia capì come mai Thorn avesse scelto Tyr. Se lo immaginava da bambino, a leggere qualsiasi cosa gli capitasse tra le mani, tra cui la storia di un discendente di Faruk beneamato che portava la pace e rendeva tutti felici. Sentì una stretta al petto a pensare a come dovesse essere stata dura per lui l'infanzia.
Serena invece si illuminò. - Posso leggelli mamma?
Renard scosse la testa. - Hanno bruciato l'intera collana e ucciso lo scrittore temendo una rivolta o un qualche tentativo sobillatore inculcato nei bambini.
Ofelia non riuscì a nascondere l'orrore. Tutto per dei libri per bambini.
Serena si accigliò. - Cosa vuol dire sobillo... sibolla...
Renard le fece l'occhiolino. - Questo, signorina, lo vedremo domani a lezione.
Serena sorrise, tutta contenta, e andò dalla prozia. - Zia Roseline - sussurrò, a voce troppo alta però. La sentirono tutti. - Mi cerchi sul dizionavio la parola sopinnatore?
La zia le sorrise con i denti cavallini in mostra e se la prese sulle ginocchia.
- Tanto domani glielo spiego lo stesso - si congedò Renard.
Ofelia invece quella sera disse a Thorn che il nome Tyr le sembrava perfetto. Lui la guardò accigliato, come se subodorasse che c'era sotto qualcosa, ma non le chiese nulla.
 
Il parto di Gaela fu ciò che Thorn si era sempre aspettato: urla, imprecazioni al padre e insulti a chiunque. Le si erano rotte le acque più o meno a mezzogiorno e Thorn si augurava di poter dormire quella notte. Chiuse di scatto l'orologio da taschino e si sentì stranamente empatico nei confronti di Renold, che se ne stava seduto di fronte alla porta come in attesa di una pièce teatrale. Peccato che avesse le mani tra i capelli. Era talmente provato da non accorgersi nemmeno che Salame gli stava infilando gli artigli nelle dita.
Gaela li deliziò con un'altra serie di promesse circa il fatto che non avrebbe più fatto "quel sesso così appagante con cui si era ritrovata in quella situazione", che avrebbe "evirato suo marito se solo si azzardava a metterla incinta di nuovo" e che avrebbe "passato la vita in astinenza piuttosto che ripetere quell'esperienza". In effetti non si capiva quale delle tre minacce spaventasse di più Renard. Archibald, sempre nel posto sbagliato al momento giusto, se la rideva sotto i baffi, dando pacche amichevoli sulla grossa schiena di Renard.
- Lieto di spargere la voce che c'è un nuovo eunuco al Polo. Vi ricordate quel vostro lontano zio che è stato evirato dalla moglie dopo averlo scoperto a letto con una senza poteri, intendente? Ah, i Draghi e la loro gelida passionalità. E i loro artigli letali, soprattutto. Povera virilità.
Thorn non lo guardò nemmeno, ma Renard si afflosciò ancora di più.
Berenilde, la zia Roseline e Ofelia stavano dando una mano alla partoriente insieme alla levatrice. Non le si sentiva parlare, ma forse era solo perché Gaela urlava così tanto da coprire ogni altra voce in casa.
Pochi attimi dopo ne uscì Ofelia, con gli occhiali storti sul naso, i capelli legati in quello che doveva essere uno chignon ma sembrava più che altro un palla di stoffa masticata da un animale, e la sciarpa che le si attorcigliava alla faccia, terrorizzata dalle urla.
Appena prima che chiudesse la porta sentirono la zia Roseline berciare: - Allora, la vogliamo smettere di fare tutto questo baccano? Peggio che alla Parata delle Pentole! E basta volgarità! Dovrei lavarti la bocca con il sapone acido, altroché! Svergognata.
Sentirono una risata che pareva quella di Gaela, ma la porta si richiuse sigillandola all'interno.
Quando riuscì a togliersi la sciarpa dalla bocca, Ofelia ansimò e disse: - Preferisco partorire che fare da assist...
Renard saltò in piedi e la afferrò per le spalle, facendo scivolare a terra Salame, che gli soffiò contro.
- C'è qualche problema? Gaela sta bene? E la bambina? Sono a rischio? Perché urla così tanto la mia adorata? Ci sono delle complicazioni, vero?
Renard rabbrividì e gemette. Poi si voltò verso Thorn, che lo fissava con uno sguardo omicida. - Mollatela.
Non appena Renard ebbe staccato le mani da Ofelia, come si fosse scottato, la fronte gli si distese. Persino Ofelia aveva sentito la corrente elettrica di Thorn farsi troppo vicino, e urtarle leggermente i nervi.
Premurosa, aiutò Renard a sedersi e lo guardò bene in volto. Cercò anche di sorridere, ma quando si accorse che aveva un po' di sangue su un braccio si bloccò. Renard seguì il suo sguardo e assunse in un attimo un colorito verde poco rassicurante.
- Lasciate che vi consigli io, per una volta - lo blandì Ofelia, calma. - Prendete fiato. Gaela sta bene, il parto a dire il vero è tranquillo. Nessuna complicazione, per essere il primo sta per concludersi in fretta.
Renard aveva gli occhi sgranati. - Ma ma ma... le urla e... il sangue e...
- Il sangue è normale, purtroppo, nulla di cui preoccuparsi - Ofelia cercò di nascondere il braccio macchiato. - Per quanto riguarda le urla, be'... è meno tragico di quanto sembri.
- Ma ha male, sta soffrendo, la mia povera...
- Renold - lo interruppe Ofelia, divertita. - Sta facendo un po' di scena.
Renard la guardò come se avesse appena confessato di essere in realtà davvero Mime, e quella di Ofelia fosse solo una maschera. Non fece nemmeno caso a Salame che, irritato, gli si stava arrampicando su per la gamba, artigli sguainati.
- Scena? Ma... le urla, e il sangue... - ripeté. - E il sesso!
Thorn si irrigidì a sentire quella parola così... disagevole. Ofelia cercò di non arrossire e si mise invece a ridere per sdrammatizzare, mentre Archibald se la rideva sotto i baffi. Lei non aveva mai detto quella parola. Non che fosse volgare, però... non le piaceva. Lei e Thorn non facevano sesso. Quello lo faceva Archibald con la prima malcapitata che trovava. Loro facevano qualcosa di più.
- Gaela si stava bevendo un tè prima che uscissi. Lo sta affrontando meglio di me, fidatevi di quel che vi dico.
- Gaela non beve tè! Lei si fa due pinte e mi guarda con l'aria di sfida di chi potrebbe bersene un'altra!
- Non può bere alcolici in questo momento, anche se si è lamentata per diverso tempo che avrebbe volentieri corretto quell'acquetta calda che stava bevendo, come l'ha definita lei. La zia Roseline l'ha rimbeccata, dicendo che solo le bestie e i criminali non sanno apprezzare un buon tè ristoratore.
Renard sgranò gli occhi. - E Gaela cosa...?
- Ha roteato gli occhi e si è trattenuta dal farle un gestaccio.
Intendiamoci, Gaela non avrebbe avuto problemi ad attaccar briga con chicchessia, ma la zia Roseline riusciva a spaventare pure lei. Anzi, più che spaventarla, la preoccupavano i soliloqui che imbastiva ogni volta che qualcuno cominciava una discussione. Risultava talmente tanto difficile sostenere la propria posizione che quasi tutti gliela davano vinta.
Renard continuava a non capire.
Ofelia trattenne un sospiro. - Mi ha pregato di non dirvelo, ha chiesto a tutte noi di non farlo, ma mi dispiace vedervi in questo stato. Gaela sta cercando di passare il tempo torturando voi. Dice che non è giusto che sia solo lei a soffrire, che è scorretto che lei si porti quindici chili in più addosso per nove mesi mentre voi avete solo... be'... vi lascio immaginare cosa possa aver detto.
Renard ebbe la decenza di diventare dello stesso colore dei suoi capelli. Poteva benissimo figurarsi cosa aveva detto la sua dolce metà circa la volta in cui avevano concepito la loro Ilda. Nulla di spiacevole, decisamente.
- Quindi, per distrarsi dalle ore di travaglio, sta urlando più forte che può per rendervi partecipe del suo calvario.
Thorn inarcò un sopracciglio. - Non è un ragionamento molto logico.
Ofelia si portò le mani alla base della schiena, stirandosi. - Raramente una partoriente è posseduta dal raziocinio, Thorn. E raramente dà ascolto a qualcuno, specialmente se comincia a fare la morale. Soprattutto quando ha male, molto male, però la soglia di sopportazione del dolore di Gaela è ammirevole.
Thorn si accigliò ancora di più.
Renard invece parve rilassarsi. - Quindi sta bene? Lei e la piccola stanno bene?
Ofelia gli sorrise dolcemente. - Sì, va tutto bene, tra poco dovrebbe essere finita e potrete abbracciarle entrambe.
L'espressione di Renard parve diventare un incendio, con il cuore bianco come i suoi denti.
- Non c'è mai da annoiarsi con lei. Che donna! Gli anni di corteggiamento sono valsi tutti!
Archibald sbuffò, divertito. Poi con la sua voce melliflua commentò: - Che spreco.
Mentre i due cominciavano a battibeccare, o meglio, Renard difendeva la sua posizione e Archibald gli si opponeva, Thorn spostò lo sguardo su Ofelia.
- Tè?
Fu lei ad aggrottare la fronte, un gesto tipico del marito. Quando mai le offriva qualcosa da mangiare o da bere? Suonava così strana quella proposta cortese in bocca sua, anche se il tono con cui l'aveva espressa sembrava più l'offerta di un cubetto di ghiaccio che altro.
Annuì semplicemente, e si diressero verso le cucine in silenzio.
L'orario di cena era passato da un po', e a dire il vero quasi nessuno aveva mangiato, dato che erano tutti impegnati con Gaela. Erano riusciti a mettere a letto i bambini solo perché una domestica si era gentilmente offerta di leggere loro una storia, per tenerli buoni. La cucina era deserta, svettavano solo qui e là dei piatti coperti da cloche di metallo lucido: i resti della cena non consumati, per chiunque avesse voluto favorirne al termine del parto di Gaela.
Ofelia cominciò a preparare il tè facendo bollire l'acqua. A metà dell'opera Thorn le si avvicinò da dietro così silenziosamente che Ofelia sussultò quando sentì la sua mano fredda premerle sul ventre. Era ancora prestino perché il bambino calciasse, ma Thorn ormai aveva presto l'abitudine di accarezzarlo attraverso la pelle della madre. La sua mano era talmente grande da coprire quasi tutta la pancia.
Ofelia sapeva che Thorn stava per dire qualcosa, così rimase in paziente attesa, fissando la teiera. La sciarpa si era calmata e si teneva a debita distanza dal fuoco, fortunatamente.
- Al parto voglio essere presente anche io. Non mi importa cosa dice la levatrice. Sono intenzionato a licenziarla se me lo impedirà.
Ofelia si irrigidì. Si era affezionata a quella donnina tonda dai capelli grigi, con l'aria arcigna ma gli occhi pieni di affetto quando guardava i bambini. Sarebbe stato uno scontro tra due personalità incredibilmente forti e testarde. Non voleva perdere la levatrice, ma... voleva davvero che Thorn assistesse al parto? L'aveva vista in circostanze pietose, con il volto pesto e il naso sanguinante, in veste di uomo e con le ossa rotte. A nessuno dei due importava dell'aspetto estetico, ma il parto era...
Thorn le appoggiò il mento sulla sommità della testa, chinandosi per raggiungerla, tanto era alto. La barba corta della sera le si impigliò tra i capelli.
- Sì - concesse di slancio. Nemmeno lei era in grado di negargli qualcosa, specialmente se le stava vicino in quel modo. - Va bene.
Soddisfatto, Thorn si scostò. Ofelia sentì improvvisamente freddo sulla schiena, dove il corpo solido di Thorn non premeva più contro il suo. Non fece in tempo a lamentarsi, però, perché Thorn spense il bollitore ormai caldo e fece sedere lei sul bancone della cucina in un unico gesto. Ofelia si guardò automaticamente intorno, imbarazzata. Com'era possibile che Thorn fosse comunque più alto di lei, anche se di poco?
Non fece nulla di sconveniente comunque, e Ofelia non capì se la cosa la sollevò o la deluse: le prese solo il braccio macchiato di sangue, mettendo in evidenza un taglio di cui lei non si era nemmeno accorta. Thorn le sbottonò con cura la manica, facendole tornare in mente quella volta in cui le aveva chiesto di mostrarle il braccio in seguito alla caduta nella manifattura di Madre Ildegarda. Allora la situazione era stata molto, molto diversa, e lei non aveva saputo spiegare la strana sensazione che le dava la pelle di Thorn contro la sua.
Lui le esaminò il taglio, lo ripulì con gesti abili e precisi e le accarezzò, con sorpresa di Ofelia, la pelle intatta attorno, facendole un leggero solletico.
- Mi stavo chiedendo due cose. La prima è come sia possibile che io senta ancora tutto questo bisogno di te, nonostante siamo sposati da nove anni. La seconda è come sia possibile che tu riesca ancora a sorprendermi.
Ofelia sentì il cuore mancarle un battito dopo la prima domanda. - Sarebbe un problema il contrario, non credi? Se dopo solo nove anni ti fossi già stancato di me. Tua zia dovrebbe cercarti una nuova consorte in qualche altra arca con dei poteri interessanti da trasmettere ai vostri figli.
Thorn la baciò con irruenza come al solito, ormai era il suo marchio di fabbrica. La barba corta le pizzicò mento e guance e ben presto Ofelia si ritrovò a corto di fiato in un attimo.
Quando si staccò ansimava e si stringeva al colletto della camicia di Thorn. Lui si risistemò i capelli con un gesto metodico e collaudato, facendole intendere che sarebbe finita lì. In effetti, erano nella cucina, e Gaela stava ancora cercando di mettere al mondo la figlia.
- Per ora mi accontento.
Ofelia cercò di mascherare un sorriso. Non erano parole dolci, anzi, non erano nemmeno lusinghiere. Dire ad una donna che ci si accontentava di lei era forse l'offesa peggiore. Ma se veniva da Thorn, non poteva che essere una battuta, più che un insulto. E Ofelia apprezzò il suo tentativo di umorismo, per quanto fosse sottile e leggermente sarcastico.
- Fammi sapere quanto ti stufi, potrei accettare la vecchia proposta di Archibald.
Thorn le lanciò un'occhiataccia, ma parve reagire meglio del solito. Quanto meno non sembrò ingelosirsi più di tanto.
- Perché ti ho sorpreso, comunque? - deviò il discorso lei, prima che l'atmosfera si facesse troppo pesante.
Thorn le prese il braccio tagliato, che aveva smetto di stillare plasma. - Chi riesce a procurarsi un taglio di sette centimetri sul braccio in una sala parto?
Non aveva tutti i torti, in effetti.
- Un bisturi - rispose lei, scioccamente.
- Avevo intuito, ma com'è finito nel tuo braccio?
Ofelia ci rifletté un istante prima di gettare la spugna. - Non lo so.
Thorn scosse la testa, ma Ofelia capì che era più divertito che altro. Anche se aveva una faccia da funerale.
L'aiutò a scendere dal bancone e la osservò in silenzio mentre versava il tè. Non la fermò quando ne passò una tazza anche a lui, che la bevve come se fosse stata fresca anziché bollente. Quando le prese di mano il vassoio per portarlo a Berenilde, Roseline e la levatrice, Ofelia sentì l'impulso di trattenerlo. Gli toccò il braccio e si torse i guanti, a disagio. La sciarpa frustò l'aria.
- Sarei... mi farebbe piacere se tu assistessi al parto.
Thorn annuì un cenno secco. - D'accordo allora.
Arrivarono di fronte alla stanza dove Gaela stava ancora strepitando con il cuore più leggero, dimentichi della spossatezza della giornata.
E giusto in tempo per sentire il primo vagito di Ilda.




*Tyr: nome del dio della guerra nella mitologia norrena. Il nome da sé è tutto un programma, vi lascio intuire xD

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 ***


Rieccoci qui! So che il capitolo non è lunghissimo, ma ho dovuto per forza tagliarlo qui perché già dal prossimo daremo il benvenuto a Tyr! E chiedo scusa in anticipo perché confonderò sempre lui e Balder. Casini che verranno fuori -.-
Spero che vi strappi un sorriso questa piccola parentesi di "normale quotidianità" xD
A presto e grazie a tutti, come sempre♥


Capitolo 37

 
La neonata era una cosina minuscola con una leggera peluria ramata sulla testa, un miscuglio perfetto del biondo di Gaela, che tra l'altro le addolciva i tratti del viso, e il fulvo di Renard. Strepitava come la mamma, che quando le chiese educatamente di piangere più piano ottenne urla ancora più forti.
- Mi piace - decise attaccandosela al seno. - Sa già quello che vuole. Brava.
Renard guardava la scena piangendo di gioia, mentre Gaela, riposata come se si fosse appena svegliata da un sonnellino, lo sgridava e lo accusava di essere una femminetta che neanche la loro figlia...
Ofelia sorrise di quella scena, si congratulò con la madre e il padre, che le rivolsero un'occhiata riconoscente e poi tornarono a concentrarsi sulla bimba, e uscì dalla stanza tirando un sospiro di sollievo. Sì, Gaela sembrava piena di energie, ma era sudata, esausta e prossima al tracollo. Si sarebbe addormentata nel giro di poco tempo, e Ofelia sapeva che Renard avrebbe voluto occuparsi di tutto da quel punto in poi. Come per Thorn, la levatrice gli aveva proibito l'accesso alla camera, ma dal momento in cui si era concluso il parto lo aveva lasciato entrare senza proferire parola. Aveva portato via stracci e asciugamani sporchi, bacinelle e garze con la testa bassa, ma Ofelia si era accorta delle occhiate malinconiche eppure soddisfatte che lanciava alla coppia di neo genitori.
Le dispiacque immensamente per la sua sorte, soprattutto perché per lei doveva essere difficile assistere a tre parti conclusisi pacificamente, se non idillicamente: Thorn e Renard erano sempre rimasti al fianco delle mogli, lavorando alacremente quando ce n'era bisogno. Ofelia poteva intuire le domande accusatorie che le rimbalzavano nella mente: perché per me non è stato così? Perché lui se n'è andato? Ho sbagliato qualcosa?
Ofelia non aveva conforto da offrire, non era tagliata per quelle cose; avrebbe solo balbettato qualche frase incoerente se ci avesse provato, e l'indole indipendente della levatrice forse non avrebbe apprezzato quell'intromissione. Ma una cosa poteva farla. La rincorse nel corridoio, rischiando ovviamente d'inciampare.
- State attenta, signora, non ho voglia di ricucire anche voi oltre alla meccanica.
Ofelia nascose il braccio tagliato dietro alla schiena.
- Grazie - le disse semplicemente, con un trasporto che fece sgranare gli occhi all'anziana.
- Grazie? E di cosa?
- Di... per... per quello che fate. Con i bambini e con noi puerpere. Siete un aiuto inestimabile.
La levatrice arrossì, e si voltò di scatto per nascondere l'imbarazzo.
- È il mio lavoro, nulla più.
Se ne andò con la bacinella sotto braccio, ma Ofelia sorrise.
Anche lei, come Thorn, aveva un linguaggio paraverbale e non-verbale esplicito, e non servivano le parole per capire certi concetti.
"Grazie a voi. Grazie", era quello che aveva in realtà risposto.
Ofelia tornò da Thorn, che si era assicurato che i bambini dormissero. Non era tipo da bacio della buonanotte, ma non andava mai a dormire senza prima aver salutato i figli. Il suo gelido commiato era come un abbraccio per chi sapeva cogliervi l'affetto implicito.
Quando si misero a letto e spensero le luci, Thorn la strinse a sé, circondandole la pancia.
- Sono cont... mi fa piacere che...
Emise un verso di frustrazione per la sua mancanza di eloquenza quando in ballo c'erano dei sentimenti.
Ofelia attese.
- Grazie per non aver esagerato come Gaela. Non lo avrei... 
Ofelia si girò verso di lui e lo abbracciò. Sarebbe stato di pessimo gusto, e insensibile da parte sua, scherzare come Gaela. Non che ci fosse qualcosa di male, anzi, visto come aveva affrontato bene il parto, però farlo con Thorn... sarebbe stata una batosta per lui. Si sarebbe colpevolizzato, avrebbe rimuginato sull'episodio per mesi, e lo avrebbe atterrito. Probabilmente avrebbe impedito ad Ofelia di avere il secondo, dato che si sarebbe ritenuto responsabile di tutto il dolore che aveva provato.
Gli accarezzò il viso al buio e non rispose. Non ce n'era bisogno. E per una volta Thorn si addormentò prima di lei.
 
Ofelia aveva una pancia spropositata all'ottavo mese, quando decisero di insegnare a Balder ad usare il vasino per togliergli il pannolone. La levatrice aveva asserito che il bambino sarebbe stato un vero toro, se si faceva il confronto tra la pancia che Ofelia aveva avuto con Balder e Serena e quella che aveva ad un mese dalla dirittura d'arrivo. A lei non facevano proprio tanto piacere quei confronti, tenendo conto del fatto che poi avrebbe dovuto farlo uscire lei, il neonato. Thorn invece, incuriosito dalla cosa, o forse preoccupato, era impossibile dirlo, aveva speso un'intera sera a misurare con gli occhi la pancia nuda di Ofelia, guardandola da ogni angolazione e facendo il paragone mentale con la pancia che aveva con Balder e Serena.
- Mezzo chilo in più sicuramente, la mia stima è di altri due o tre etti entro la fine del mese.
Ofelia aveva starnutito, stanca di starsene mezza nuda in mezzo alla stanza, pancia all'aria. Si era tirata giù la vestaglia con uno sbuffo, che aveva distolto l'attenzione di Thorn dal suo ventre per riportarlo su di lei.
Di fronte al suo sguardo insistente aveva commentato: - Non è che mi conforti sapere che il bambino è enorme. Preferisco ignorare le misure e spingere come ho fatto con gli altri.
Da allora Thorn non aveva più commentato nulla, e distoglieva sempre gli occhi dalla sua pancia quando Ofelia si voltava a guardarlo.
Per questo Ofelia si sentiva abbastanza inutile nel dare una mano a Thorn ad insegnare a Balder a usare il vasino: la pancia le impediva di piegarsi o prendere in braccio il bambino. Quando aveva proposto a Thorn di togliere il pannolone a Balder, visto che era abbastanza grande ormai, aveva anche sostenuto che se la sarebbe potuta cavare lei insieme alla zia Roseline. Ma Thorn non aveva voluto sentire ragioni: erano cose da maschi, e lui era il padre.
Così avevano parlato con Balder, cercando di spiegargli che doveva far loro capire quando gli scappava la pipì. Doveva avvisarli, perché non aveva più il pannolone e bisognava fare le cose come i grandi, sedendosi. Non che i grandi espletassero i loro bisogni su un vasino al centro del salotto, ma erano dettagli su cui si poteva sorvolare. In ogni caso, dopo che Thorn aveva notato quanto fosse affollato il soggiorno, con sua zia che quasi si era trasferita lì, Archibald che girava come gli pareva e Gaela che si sarebbe messa ad allattare di fronte a tutti se Renard non l'avesse pregata di nascondere le sue grazie, avevano spostato il vasino nella biblioteca che Thorn usava come ufficio.
Più di un domestico si era bloccato sulla soglia quando, entrando nello studio per spolverare, aveva adocchiato il vasino posizionato sul tappeto di fronte alla scrivania. In effetti era leggermente comico vedere l'intendente nel pieno del suo lavoro che fronteggiava un vasino vuoto.
E venne finalmente il momento in cui Balder urlò: - Mamma pipì, pipì mamma, pipì!
Serena, che ormai a cinque anni si considerava già grande e superiore a quelle cose, sollevò il naso dal libro che stava leggendo e fece una smorfia. - Odio il vasino.
- Ma non lo usi più, tesoro - le fece notare Ofelia.
La bambina scosse la testa come per scacciare un brutto ricordo. In effetti erano più le volte in cui aveva rovesciato il vasino pieno che quelle in cui era riuscita da sola ad usarlo.
Balder prese la mano che la mamma gli tendeva e si mise a saltellare, strattonandole il braccio.
- Fai la brava Serena, io sono da papà se mi cerchi.
- Sì mamma - rispose lei, affabile, sorridendole.
Accanto a lei sul divano, Vittoria non alzò nemmeno la testa dal quaderno sul quale stava disegnando. Ofelia però vide con la coda dell'occhio che allungava la mano, e Serena in silenzio le porse una matita colorata.
Rimase sorpresa da quello scambio muto: le due cugine non parlavano molto, Vittoria era taciturna di natura, persa nel suo mondo, mentre Serena, per quanto solare e allegra, era pacata come Thorn, a parte qualche momento di euforia sfrenata. Eppure andavano d'accordo, si capivano al volo, e non era raro trovarle accoccolate vicine, intente a leggere e disegnare. Serena aveva anche tentato di insegnarle a giocare a scacchi una volta, ma Vittoria giocava con dei criteri tutti suoi che facevano innervosire Serena: su quello era identica a Thorn, la precisione ereditata non mentiva.
Vittoria non sarebbe mai stata per Serena una confidente, un'amica con cui condividere pensieri o sentimenti, però almeno sua figlia avrebbe avuto un'alleata e una compagna. Erano davvero tenere, sempre vicine eppure distanti, ognuna presa dalla propria realtà.
Balder attraversò il corridoio saltellando, tutto contento all'idea di fare pipì nel vasino.
- Thorn - chiamò Ofelia, bussando prima di entrare.
Il marito era chino sulla grande scrivania, un orso ingobbito che la fissava senza però smettere di scrivere. Riportò l'attenzione sul foglio che aveva di fronte a sé e solo dopo qualche secondo, dopo aver apposto l'ultimo punto, si raddrizzò. Intrecciò le mani sulla superficie di legno liscio e li fissò con gli occhi d'argento che brillavano al buio.
Ofelia sapeva che si aspettava che parlasse lei.
- Balder deve fare pipì.
Thorn aggrottò la fronte. Osservò il vasino con ostilità, poi si alzò e si diresse verso moglie e figlio. Balder si quietò e ammutolì con l'approcciarsi del padre. Non aveva paura, ma lo temeva in quanto autorità. Nutriva un amore immenso per lui, ne parlava sempre e lo includeva in qualunque progetto gli passasse per la mente, come disegnare o fare una passeggiata o imparare a vestirsi da solo (cosa in cui non aveva molto successo). Però quando erano insieme era sempre un pochino in soggezione, preoccupato di deluderlo.
- Da qui me ne occupo io - sancì Thorn, lapidario, come se dovesse emettere una condanna e non assistere suo figlio mentre espletava un bisogno fisiologico.
Ofelia ci rimase un po' male. - Non posso rimanere qui?
Thorn la guardò dall'alto e a lei sembrò di essere tornata indietro nel tempo, a quando non riuscivano a capirsi, a quando lei in realtà non ci provava nemmeno, e Thorn era più un suo nemico che un alleato. L'uomo che l'aveva strappata alla sua famiglia e alla sua vita. Ma erano dalla stessa parte da tanto, tantissimo tempo ormai. Perché non voleva che si intromettesse?
Thorn si schiarì la voce, a disagio. - Sono cose... da uomini.
Ofelia avrebbe voluto fargli notare che la pipì la facevano tutti, ma capì l'antifona, l'ammissione che forse Thorn non voleva fare nemmeno con se stesso: che voleva un momento padre-figlio, quello che lui non aveva mai avuto. Voleva che Balder vedesse anche lui come punto di riferimento. Perché era vero che Balder lo includeva in tutto quello che voleva fare, ma la maggior parte del tempo stava con Ofelia e i permessi, come le domande, li chiedeva a lei.
Thorn non voleva essere il genitore secondario.
Così alla fine cedette e annuì. - Vi aspetto fuori dalla porta.
Thorn non la ringraziò e non mostrò nessuna espressione di cameratismo genitoriale in volto, ma ad Ofelia parve di percepire un certo rilassamento in lui. Le fece un cenno e lei uscì.
- Mi aiuta papà? - sentì Balder chiedere, prima di chiudere la porta.
Porta che si riaprì qualche minuto dopo.
Ofelia sgranò gli occhi. - Già fatto?
- Fatto pipì! - esclamò Balder, contento e soddisfatto.
Serena ci aveva messo giorni per capire il meccanismo.
Thorn non sembrava molto felice invece. Non che di solito lo sembrasse...
Balder si avviò lungo il corridoio per tornare in salotto, gridando la sua euforia in ogni stanza, che ci fosse qualcuno o meno.
Thorn e Ofelia lo guardarono allontanarsi in silenzio.
Fu Thorn a riprendere la parola: - La prossima volta assicurati che non abbia già fatto... quello che doveva fare nel pannolone.
Ofelia riportò lo sguardo su di lui. - Come?
- Ha capito il concetto di avvertire quando gli scappa. Non ha capito che deve aspettare a farla.
- Ah, quindi ha avvisato che l'aveva fatta, non che doveva farla.
Thorn si strinse nelle spalle.
Dopo gli avvertimenti e i consigli che tutti dispensarono a cena, da Renard a Berenilde e persino Archibald, Ofelia dubitava che Balder sarebbe mai riuscito a fare pipì nel vasino. Invece il giorno dopo si aggrappò di nuovo al suo braccio, agitato.
- Mamma pipì! No faccio pipì, papà ha detto. Vasino!
Ofelia si affrettò ad alzarsi. - Ti scappa tanto, sicuro?
Balder annuì così solennemente che ad Ofelia sembrò di avere Thorn di fronte, capelli e occhi scuri a parte.
Si affrettarono nel corridoio, ma poco prima di arrivare inciamparono e Balder ruzzolò per terra. Per una volta non fu colpa di Ofelia: Balder, che stava crescendo così in fretta da far fatica a coordinare i movimenti, aveva quasi trascinato giù lei dopo aver messo male un piede. Solo che, con la pancia che si ritrovava, per Ofelia sarebbe stato grave un colpo al ventre prominente.
Lui scoppiò a ridere, ripetendo: - Cade, mamma, cade! Io e te cade!
Thorn aprì la porta dello studio per sincerarsi della provenienza di quel trambusto, e lanciò un'occhiata in tralice ad entrambi. Fece cenno a Balder di avvicinarglisi e, prima di chiudere fuori Ofelia, mormorò: - L'equilibrio non l'ha preso da me, sfortunatamente. Ti sei fatta male?
Ofelia meditò se irritarsi, ma alla fine negò seccamente e attese. Un gesto cavalleresco da parte di Thorn sarebbe stato come il deserto nel giardino di Berenilde: inconcepibile.
Passato un quarto d'ora decise di infilare la testa nello spiraglio della porta, senza farsi sentire. Thorn era seduto a gambe incrociate sul pavimento di fronte a Balder, come un gigantesco ragno raggomitolato. Il bimbo invece era seduto sul vasino con i pantaloni calati e il visetto corrucciato. La scena era talmente improbabile che Ofelia dovette soffocare una risata nel guanto. Stranamente, Thorn non si accorse di lei.
Balder scosse la testa sospirando. - Non cappa...
Thorn si accigliò. - Hai detto alla mamma che ti scappava tanto.
Balder mise il broncio, evidentemente in disaccordo. - Non cappa più!
Thorn trattenne a stento un sospiro. - Sicuro? - chiese, con un tono che sembrava più una minaccia che una domanda di verifica.
Balder annuì e cercò di alzarsi, impacciato dai pantaloni. Thorn si alzò, e Ofelia si chiese se avrebbe sentito le sue ossa scricchiolare se fosse stata più vicina. Aiutò Balder, dicendogli: - Avvisa me o la mamma ancora quando ti scappa. Bisogna togliere il pannolone.
Balder incrociò le braccia sul petto mentre Thorn gli tirava su i pantaloni e li chiudeva. - Il pannolone è per i bambini piccoli.
- Io piccolo!
- Non così piccolo. L'età adatta a toglierlo è dai due anni in su, tu hai ormai due anni, tre mesi e venti giorni. Le statistiche parlano chiaro.
Balder aveva l'aria alquanto confusa. - Io gande?
Thorn gli lisciò i pantaloni e si allontanò appena, per guardarlo bene in volto, piegato come un trampolino. - Non sei grande, ma non sei nemmeno piccolo. Avvisa me o la mamma la prossima volta, quando ti scappa veramente. Fai il bravo.
Questo, Balder lo capì. - Io bavo!
Ofelia si allontanò in tutta fretta dalla porta, cercando di mascherare il sorriso: sarebbe stato difficile mentire circa il motivo per cui se ne stava da sola in corridoio sorridendo al vuoto. Si morse le cuciture dei guanti.
Thorn e Balder uscirono dallo studio poco dopo.
- Fatto? - chiese Ofelia.
- No cappa più! - esclamò Balder aprendo le mani in un gesto sconsolato, come se fosse stata tutta colpa della pipì.
Ofelia non riuscì a trattenere una risatina. - Vedrai che la prossima volta ce la farai.
Balder alzò la testa in cerca dell'approvazione del papà, rischiando di perdere nuovamente l'equilibrio nel fissarlo da laggiù.
- Certo che ce la farai - grugnì Thorn, facendo sorridere Balder, compiaciuto.
Due giorni dopo ottennero un qualche risultato. Anche se Ofelia quasi si mise a litigare con Thorn che si ostinava a volerla tenere fuori.
- Non è una questione di estromissione - brontolò lui, di nuovo. - Si tratta solo di rispetto nei suoi confronti. Ti sentiresti a tuo agio, tu, con una folla?
Ofelia sapeva che si riferiva soprattutto a Serena, che quando aveva dovuto imparare ad usare il vasino diceva sempre: - Mi veggogno -, mandando fuori entrambi e rimanendo sola con la sua incombenza. Più di una volta però l'avevano trovata che girava per la biblioteca guardando le copertine dei libri con le chiappette all'aria, oppure in salotto, che si guardava intorno senza concludere nulla.
- Serena era timida, Balder non mi pare si faccia problemi - ribatté Ofelia.
Infatti, Balder stava facendo le bolle con la saliva, per nulla preoccupato dal battibecco. Anzi, seduto su quel vasino, mezzo svestito, sembrava un re sul trono.
- Cosa te lo fa credere? Magari è proprio questo che inconsciamente lo blocca...
In quel momento entrò Renard, con la piccola Ilda in braccio e Salame che gli si strusciava sulle gambe. La neonata aveva ormai tre mesi, e la peluria ramata che aveva in testa alla nascita era caduta per lasciare definitivamente il posto a dei capelli morbidi e sottili come piume e decisamente rossi. Renard ne andava alquanto fiero. Sorrideva come un bimbo di fronte al regalo più bello del mondo, e cullava Ilda senza mai lasciarla. Ofelia gli aveva gentilmente fatto notare che non era necessario tenerla in braccio tutto il tempo, ma lui aveva ribattuto che una volta diventata adolescente non avrebbe più voluto stare in braccio e doveva godersi ogni singolo momento con lei. Ofelia non aveva replicato, ma non sapeva se preoccuparsi o meno di quel precorrere i tempi da parte dell'amico. Adolescente? Aveva tre mesi!
- Buongiorno a voi, cari padroni, lieta giornata e che sia fruttuosa e piena d'amore. Anche Ilda vi porge i suoi omaggi.
Thorn lanciò un'occhiata a Balder, come temendo che il figlio scappasse via urlando terrorizzato. Non si rendeva proprio conto che i bambini non avevano il senso del pudore di un adulto.
- Non avete una lezione di storia oggi? - gli chiese laconicamente, la fronte aggrottata fino ad unire le sopracciglia.
- Ma certo, ma certo, la signorina mi sta già diligentemente aspettando. Volevo solo chiedervi il permesso di far assistere anche il signorino Balder oggi. Ha dimostrato un certo interesse per i giochi geometrici.
Il gioco a cui si riferiva era una scatoletta di legno per bambini con una figura geometrica in ogni lato, dal cerchio al quadrato al triangolo ecc; lo scopo era inserire dei blocchi di legno di forme diverse nel buco corrispondente. Un gioco semplice che avevano anche su Anima, ma a Balder in effetti piaceva e a Renard piaceva stare con i bambini. Anche se Ofelia sospettava che non fosse del tutto disinteressata la sua richiesta: sembrava intenzionato a studiare con attenzione i progressi e la crescita dei figli di Ofelia e Thorn per capire che tappe avrebbe poi dovuto affrontare Ilda.
Ofelia cercò di rispondere prima che potesse farlo Thorn, perché temeva che sarebbe stato un po' brusco e avrebbe reso la questione vasino un affare di stato.
Invece Balder la precedette. Si alzò, euforico, e corse verso Renard con le braccia aperte. Ofelia faticò a capire cosa stesse succedendo, e ancora di più a rendersi conto che il bambino rischiava di cadere in ogni momento, con i pantaloni e il pannolone abbassati sulle caviglie.
- Io fatto pipì vasino, Enad! Pipì vasino, IO BAVO! Io gioca Idda!
Renard coprì gli occhi a sua figlia, sconvolto. - Giovanotto, non mi pare il caso che tu metta in mostra le tue grazie in questa maniera impudica! Di fronte ad una signorina di tutto rispetto poi? Fermo, Balder, suvvia, è ancora presto, so che è la creatura più bella di tutte le arche, ma sei troppo precoce.
Ofelia scoppiò a ridere per la scena: Renard fuggiva da Balder con Ilda in braccio, coprendole gli occhi e muovendosi con un'andatura ondeggiante; Balder, mezzo nudo, correva dietro a Renard, ridendo per il gioco che stavano facendo; Salame si univa a lui sgusciando tra le gambe di Renard e di Balder, rischiando di far cadere entrambi; Thorn invece era accucciato con il naso affilato quasi dentro il vasino.
- Balder, non si dicono le bugie! Non hai fatto la pipì!
Di fronte al tono perentorio del padre, Balder si bloccò... e inciampò, nudità all'aria.
- Sacrilegio, tolgo il disturbo! Mi trovate in aula se volete! Vestiti, per cortesia, piccolino!
Renard se ne andò di corsa, seguito da Salame che saltava come un grillo, estatico per chissà quale motivo. L'aula in questione era una stanza che avevano riarredato a studio, con una piccola libreria piena di tomi scolastici di varie materie, una lavagna e diverse piccole scrivanie. Sette per la precisione. Quando Ofelia aveva fatto notare che avevano due figli, non sette, Thorn aveva detto che c'era il rischio di non trovare le scrivanie identiche, se le si compravano in momenti diversi, alla nascita di ogni figlio. Tanto valeva comprarle subito, in qualche modo le avrebbero riutilizzate. A costo di fare sette figli, perché l'uso di scrivanie scompagnate non era discutibile. Quando lo aveva detto lo aveva fatto passare per un crimine, ma Ofelia lo aveva messo in guardia circa il fatto che sette figli, lei, non li avrebbe fatti nemmeno se fosse stato il più grande desiderio di Thorn. Poi si erano ricordati che avrebbero potuto contare anche su Renard e Gaela per riempire i banchi.
In ogni caso, Renard si chiuse la porta alle spalle, Balder si dimenticò del gioco e si rialzò, avvicinandosi al padre con circospezione. I tratti di Thorn erano contratti, più duri del solito, e Balder parve rimpicciolire sotto quello sguardo.
- Non si dicono le bugie, Balder.
- Io no bugia, no bugia, no!
- Non hai fatto pipì.
- Io sì fatto pipì!
Thorn lo guardò con un'occhiata che valeva più di mille sgridate. Ofelia si avvicinò a sua volta per capire cosa stesse succedendo.
- Dov'è la pipì? - chiese Thorn, cercando di far capire al figlio che stava effettivamente dicendo una bugia.
Balder si accucciò sui talloni, scrutando dentro il vasino come Thorn.
Vedere padre e figlio tutti intenti a scrutare l'interno di un vasino aveva dell'assurdo. Ofelia dubitava che qualcuno ci avrebbe creduto, e si trattenne a stento dal ridere.
- Lì! - indicò Balder, ostinato, puntando il dito fin quasi dentro il vasino.
Thorn strizzò gli occhi. - Quella è una goccia.
- Pipì!
- Una goccia non può essere considerato fare la pipì, Balder.
- Io fatto goccia pipì!
- Non te ne scappa di più, Balder? Perché solo una goccia? - chiese Ofelia, conciliante.
Balder parve rifletterci. - Io faccio vedere Idda pipì!
Ofelia sorrise. Da quanto Ilda era nata, Balder era diventato la sua ombra. Voleva sempre tenerla in braccio e la guardava per ore mentre si comportava come una neonata di neanche quattro mesi. Ofelia si rendeva conto che sarebbe stato un ottimo fratello maggiore, ed era felice che potesse avere un fratellino a cui badare.
- Non si fa vedere la pipì in giro - lo ammonì Thorn, rialzandosi. - Non è ragionevole e non è una necessità. Capito?
- Io non fa vedee pipì?
- No - ribadì Thorn.
- No Balder, non bisogna - gli andò in aiuto Ofelia, più pacata di Thorn.
Balder parve rimanerci male. - Va bene, no pipì in gilo.
- Vuoi provare a farne un altro po'?
- Io fa pipì?
- Sì, se ti scappa devi farla qui.
Balder si risedette, serafico. - Va bene.
Venti secondi dopo ci riuscì.
Ofelia guardò Thorn con gli occhi sgranati. Tutto lì? Bastava così poco?
- Hai finito?
Balder ci pensò, poi annuì. - Fatto pipì!
- Bravo Balder! - lo lodò Ofelia, incapace di inginocchiarsi per via del pancione. - Facciamo sempre così da oggi, va bene? Quando ti scappa la pipì, la facciamo qui!
Balder si applaudì da solo. - Sì, pipì vasino!
Thorn allungò il braccio magro e gli posò delicatamente e inaspettatamente la mano sulla nuca. Balder lo guardò come se fosse appena accaduta una cosa straordinaria. Thorn lo prendeva in braccio, lo accudiva, soddisfaceva tutte le sue esigenze, ma le coccole erano rare, se non uniche. Invece quella carezza impacciata fece sorridere Balder come se avesse ricevuto il regalo più bello del mondo.
- Bravo - mormorò, prima di rialzarsi e riguadagnare il solito contegno.
Aiutò Balder a svicolarsi dal vasino, questa volta pieno, e lo rivestì.
- Io fa vedee pipì Idda?
- No Balder, la pipì non si fa vedere in giro abbiamo detto - gli ricordò Ofelia.
Balder si mise una manina sulla fronte, costernato: - Hai lllagione mamma, scusa!
Ofelia aggrottò la fronte. - Da chi ha imparato a fare così?
Thorn, che si stava già dirigendo verso la scrivania, rispose da sopra la spalla: - Da Serena. Fa così quando sbaglia un calcolo con i coefficienti.
Calcoli con...
- Andiamo a fare merenda, Balder? Visto che sei stato bravo?
- Melenda! Anche papà melenda?
- No.
- Sì, gli portiamo un po' di frutta, va bene? - lo contraddisse Ofelia. Se non ricordava lei a Thorn di mangiare, non lo faceva nessuno.
Balder batté le mani. - Futta fa bene!
- Bravissimo.
Thorn si era rimesso al lavoro senza degnarli di uno sguardo, pertanto Ofelia non capì se fosse contrariato o rassegnato all'idea di mangiare. Avrebbe chiamato anche qualcuno a sistemare il vasino, perché lei non riusciva proprio a chinarsi con quella pancia.
E si sarebbe occupata della merenda. La merenda, sì. Qualcosa di cui poteva occuparsi abbastanza bene (a parte qualche taglio, ovviamente). Non i calcoli con i coefficienti, qualsiasi cosa fossero. Eseguito da una bambina di cinque anni.
La merenda. Quella poteva gestirla.

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 ***


Sarò sincera, (ritardo a parte) rileggendo quest'ultimo capitolo non mi ero resa conto di quanto veloce fossi andata con le tempistiche, quindi so già che molti di voi storceranno il naso e non saranno d'accordo e forse mi insulteranno (o magari sarete contenti, chi lo sa).
Però c'è una spiegazione dietro a tutto. Potrà non essere bella, anzi, non sarà bella, vi avverto, la cosa che accadrà ma... be', per scoprirlo dovrete leggerlo.
Non flagellatemi per favore.
A presto!

So che non avete capito nulla, nemmeno io che so le cose ho capito, quello che intendevo dire è che ci saranno diversi avvenimenti, quindi portate pazienza e scoprirete.


Capitolo 38

Arrivò finalmente il giorno del parto, il terzo. Ofelia non vedeva l'ora che accadesse perché era convinta che sarebbe esplosa prima di mettere al mondo Tyr. Era enorme, e si sentiva tale.
Le doglie cominciarono la mattina a colazione, ma Ofelia non vi diede importanza, credendo che fossero solo le solite contrazioni preparatorie. Non appena Renard andò a reclutare Balder e Serena per la lezione, con Ilda sempre in braccio, però, Ofelia si rese conto che le si erano rotte le acque.
Calma come solo chi ha già affrontato due parti può essere, Ofelia andò personalmente a chiamare la levatrice e capo-domestica, avvisò la zia Roseline e persino Berenilde. Riuscì anche a chiamare Thorn dal telefono del suo studio per avvisarlo, visto che fortuitamente quella mattina era andato all'intendenza. Quasi non le rispose quando lei lo informò che stava entrando in travaglio. Non dubitava però del fatto che se lo sarebbe trovato in camera nel giro di qualche minuto, grazie ad una Rosa dei venti.
E infatti, mentre stava sprimacciando i cuscini e sistemando il letto perché non si sporcasse, irruppe nella camera come solo il padrone di casa può fare. La zia Roseline trasalì, spaventata, e borbottò qualcosa circa delle imposte nervose durante il temporale, mentre la levatrice sollevò gli occhi e si incupì, ma strinse le labbra e non disse nulla. Avevano raggiunto un accordo che non aveva soddisfatto pienamente né l'anziana donna né Thorn e che quindi per Ofelia aveva rappresentato il miglior compromesso: solo quando entrambe le parti perdevano e ottenevano qualcosa in egual misura significava che il patto avrebbe retto.
Infatti, Thorn aveva ottenuto di poter assistere, ma non accanto alla levatrice; sarebbe stato vicino al letto con Ofelia, avrebbe potuto osservare e stringerle la mano, se avesse voluto, ma non aiutare. Da parte sua, la levatrice aveva contravvenuto alla sua regola ferrea di non accettare uomini in camera durante un parto, ma almeno avrebbe potuto lavorare serenamente senza un inesperto tra i piedi.
Nonostante fosse il più grosso dei tre, Tyr fu quello che arrivò prima, probabilmente perché non era la prima volta che Ofelia partoriva. Fu anche il parto più bello, per lei, non solo per la minor durata dell'agonia, ma soprattutto per la presenza di Thorn. Si sarebbe aspettata di dimenticarsi quasi della sua presenza, con i suoi silenzi vigili e gli occhi che saettavano per tutta la stanza, cercando di carpire ogni informazione. Invece, quasi subito si sedette accanto a lei, stringendole la mano. Non la lasciò andare finché non fu tutto finito, sopportando le strette troppo forti di quella mano piccola ma potente da lettrice, dimostrandole che c'era, fisicamente, che non l'avrebbe abbandonata e che, anche se lui non provava il suo dolore, erano in due ad affrontare la situazione. E Ofelia si sentì più leggera. Si pentì di non aver insistito affinché assistesse anche agli altri parti.
E inoltre chiacchierò. Non amenamente come facevano ogni tanto Berenilde, che se ne stava più che altro seduta a sorseggiare il tè come una vera signora, ma sempre al centro dell'attenzione ovviamente, o come la zia Roseline e la levatrice, che ogni tanto strappavano anche un sorriso ad Ofelia, ma scientificamente. Pose domande su ogni cosa, sulla cadenza delle contrazioni, fornendo anzi un ottimo supporto statistico per capire quando sarebbe arrivata la prossima, sul cordone ombelicale, su cosa fare dopo l'uscita del bambino per pulire l'utero ed evitare emorragie o infezioni, su come gestire il travaglio e alleviare il dolore della partoriente.
Ofelia non lo avrebbe mai ammesso, ma la voce profonda e distaccata di Thorn la cullò per tutto il tempo, portandola via, lontana dal dolore, in ricordi di notti condivise e sussurri complici. Thorn era lì, con lei, e per quanto fosse melenso e romantico e lontano dalle corde di Thorn quanto dalle sue, che a sua volta non brillava per i gesti dolci da innamorati, sapeva che Thorn ci sarebbe sempre stato. Che in quel momento stava aiutando lei ad aggrapparsi a lui, tenendole la mano, ma era da tutta la vita che in realtà lui si aggrappava a lei.
Si sentì profondamente felice quando, dopo che la levatrice ebbe gridato: - Si vede la testa! -, voltandosi verso Thorn gli vide gli occhi umidi.
Non abbastanza da lasciare cadere una lacrima, ma Thorn aveva gli occhi secchi, asciutti, come qualsiasi altra parte del corpo, e vedere quella leggera commozione sotto le palpebre le fece sentire il bisogno di stringere il nuovo bambino al petto e stringere Thorn ancora più forte. E Serena. E Balder.
Al contrario di Serena, che avevano quasi dovuto sculacciare perché piangesse, Tyr annunciò al mondo la sua presenza a pieni polmoni, scuotendo la casa fin nelle fondamenta. Si quietò solo quando Ofelia se lo attaccò al seno, e da fuori provennero le urla di giubilo e le risate di Renard e Archibald. Tutto si poteva dire di Archibald, ma non che non fosse a suo modo fedele. Non si era perso la nascita di nessuno dei figli di Ofelia e Thorn, e nemmeno di Gaela e Renard. Forse, come Berenilde, era calamitato dagli eventi che attiravano l'attenzione; dove c'era una novità c'erano anche persone, compagnia, pettegolezzi. Eppure Ofelia era convinta, nel profondo, che Archibald fosse loro affezionato, e si considerasse parte della famiglia. In modo un po' contradditorio, incostante, non convenzionale e talvolta fastidioso, ma chi non è irritante a volte?
Una volta che Tyr si fu messo a succhiare, quietandosi, e la puerpera fu modestamente coperta, con sommo stupore di Ofelia, e anche della zia Roseline, la levatrice chiese a Thorn di aiutarla. Lui, rendendosi conto di quale immensa fiducia gli fosse stata accordata, indossò una veste di umiltà che Ofelia non gli aveva mai visto.
Prendeva ordini invece di darli, eseguiva compiti non molto piacevoli invece di assegnarli, obbediva alle direttive anziché comandare. Lavorò alacremente, rimboccandosi le maniche (letteralmente, altrimenti si sarebbero sporcate) e senza proferire un lamento o una parola.
Quando Tyr si sentì sazio avevano già finito di ripulire, con l'aiuto provvidenziale di Thorn. La levatrice non lo guardò in volto, forse vergognandosi di quella paura che si portava dentro da troppi anni e che l'aveva vista separare troppi mariti dalle loro mogli in procinto di partorire, ma lo ringraziò. E gli disse che aveva fatto un buon lavoro.
Ofelia cercò di fermarla per ringraziarla a sua volta, ormai si era affezionata a quella signora scorbutica ma incredibilmente competente ed efficiente, ma lei uscì di scena in fretta. Ofelia notò solo all'ultimo le lacrime nei suoi occhi, e non la recriminò per non essere felice in quel momento di gioia. Forse la ferita che si portava dentro non sarebbe mai guarita, avrebbe continuato a dolerle ad ogni parto da lei gestito, ricordandole ciò che aveva perso e ciò che per lei era stato molto diverso, ma Ofelia sperava che rendersi conto che il mondo non era tutto marcio come lei si prefigurava la potesse risollevare un po'. E che gli uomini a volte erano migliori di tante donne. 
Non appena se ne fu andata si riversarono nella stanza i membri della famiglia allargata: Gaela che era appena tornata dal lavoro e reggeva una famelica Ilda, Renard che cercava di impedire alla moglie di allattarla di fronte a tutti, Archibald che si godeva il teatrino. Berenilde uscì di scena sventagliandosi e lamentandosi della mole di lavoro a cui la sottoponevano, e la zia Roseline le fece strada borbottando che aveva lavorato meno di un vestito rosso nella giornata del bianco. Serena e Balder corsero nella stanza sorridendo, invece, superando tutti, e si arrampicarono sul letto per vedere il fratellino.
- Che butto! - esclamò Balder, poco gentile.
Ofelia cercò di ripulire le guance sozze di Tyr. - Deve ancora essere lavato, Balder. Non essere scortese. Già maltratti il tuo fratellino?
In quel momento Ofelia si rese conto di chi era davvero il pargoletto che stringeva: un fagottino con il visino rosso per gli ormoni e bianchiccio per la vernice caseosa, con dei sottilissimi capelli così chiari da sembrare bianchi e due occhi grigio-azzurri simili a ghiaccio. Erano spalcanti e osservavano il mondo con curiosità distaccata, come se fosse un po' schifato da quello che lo circondava. Nonostante il colore degli occhi dei neonati potesse cambiare fino ad un anno dopo la nascita, Ofelia dubitava che quelli di Tyr potessero cambiare di molto.
E capì, come solo una madre può capire, che quel bambino sarebbe stato un Drago in tutto e per tutto. E una vera fonte di guai.
Ma sarebbe stato anche buono e amorevole, e come a conferma di quelle speranze strinse con forza il dito di Balder quando glielo porse. Balder rise dicendo che sentiva solletico, e Tyr emise un versetto di approvazione per l'accoglienza. O forse era un rigurgito da poppata.
Serena invece ci mise un po' più di tempo ad avvicinarsi, mentre studiava la cosina sporca che sua mamma teneva tra le braccia.
- Da dov'è uscito?
Nella stanza calò il silenzio, che si infranse come un vetro quando Archibald, timido e raffinato come al solito, scoppiò a ridere. - Ah, mia splendida giovincella, se avessi quindici anni di più ti mostrerei io come vengono al mondo i bambini.
Un gelo ferale si aggiunse al silenzio, ammantando tutto e tutti di attesa e sgomento.
Thorn aveva le mani strette a pugno, le nocche talmente bianche che Ofelia si chiese se gli stessero facendo male; la mascella era così rigida che quasi si poteva sentirlo digrignare i denti, e gli occhi abbassati erano due lame capaci di tagliare ancora più degli artigli.
Batté le palpebre una sola volta.
Archibald estrasse un fazzoletto pulito, ma bucato, e si asciugò il sangue dal naso ridendo.
- Intendente, siete talmente prevedibile che non c'è nemmeno gusto a stuzzicarvi.
Serena aveva gli occhi sgranati, sia perché non aveva capito cosa Archibald volesse dire, sia perché non aveva mai visto nessuno vittima dell'epistassi.
- Zio Acchi bua? - chiese cristallinamente Balder.
Renard e Gaela si tenevano in disparte in saggio silenzio.
- Non è tuo zio, Balder - lo corresse Thorn. - E stava per andare a passare altrove il suo tempo.
Archibald ridacchiò impunemente, toccandosi il cilindro. - Siete un uomo molto geloso, sapete? La vostra preziosa figlia è al sicuro, è la nipotina che ho sempre desiderato e che ancora le mie sorelle non mi danno. Non che me lo direbbero, in caso contrario, comunque.
Thorn non lo guardò nemmeno.
La tensione palpabile venne mitigata da un commento di Renard: - Be', le doti dell'intendente sono molteplici, non ultima quella di dare alla luce dei figli impressionanti in quanto a bellezza. Guardate questo bignè biondo nuovo di zecca, ha pochi minuti di vita e già vorrei insegnargli mille cose.
Ofelia sorrise riconoscente all'amico, più che insegnante ed ex consigliere.
Thorn fortunatamente decise di lasciarsi distrarre. - Non ho dato io la luce a Tyr, né agli altri due. Il merito è di Ofelia.
- Di aver partorito sì, credo sia lapalissiano, ma questo bimbo qui chiaramente ha ben poco di mio.
Come a voler confermare la cosa, Tyr voltò lo sguardo verso il padre, fissandolo con i suoi occhioni di ghiaccio. Ad Ofelia faceva piacere ricevere certe attenzioni da Thorn, ma non le andava bene che si sminuisse. Se i loro figli erano belli e bravi era grazie ad entrambi, li educavano in due, non faceva tutto lei.
Renard ridacchiò in conferma. Si scambiarono altre due chiacchiere prima che gli ospiti lasciassero riposare Ofelia, e fortunatamente non ci furono altre reazioni sgradevoli o commenti inopportuni.
Ofelia tirò un sospiro di sollievo quando la porta della camera di chiuse.
Contro ogni aspettativa, Thorn perse la calma. - Se solo si azzarda a fare qualcosa a Serena, non avrò alcuna remora nel terminare il lavoro che avevo cominciato quando ha infangato la dignità di mia zia. E ora non c'è nessuno stato di bast... - si bloccò, correggendo il tiro non appena notò che Serena lo fissava ad occhi sgranati, - di figlio illegittimo a trattenermi per timore di un processo iniquo.
Anche Balder alzò la testa, smettendo di giocare con Tyr, o meglio, di studiarlo come se fosse uno strano insetto.
- Non di fronte ai bambini, Thorn - mormorò Ofelia, cercando di distrarli.
Thorn emanava una tale corrente nervosa che Ofelia sentiva quasi il mal di testa fare capolino. O forse era solo la stanchezza.
- Perché non dai una ripulita a Tyr con i bambini? - gli chiese per distrarlo, e anche per avere un attimo di pace per sé. La sciarpa traditrice stava già dormendo della grossa, ma lei non poteva addormentarsi così di fronte a tutti. Anche se avrebbe voluto.
Thorn cercò di rilassare le spalle e obbedì, prendendo delicatamente Tyr dalle sue braccia. Il neonato lo squadrò con diffidenza prima di pensare bene di scoppiare a piangere.
- Possiamo vedere? - chiese Serena, che si era dimenticata della domanda che aveva fatto scattare quella reazione a catena. Per fortuna.
- Sì - rispose Thorn, poco propenso alle chiacchiere.
Ofelia si lasciò cullare dalle loro voci familiari che uscivano dal bagno, ascoltando senza realmente sentire, portata lontano dallo sciaguattìo dell'acqua che scorreva e dei bambini che ridevano mentre ripulivano Tyr. Il neonato smise di piangere dopo diversi minuti, e fu allora che Ofelia si assopì.
Le sembrò di aver chiuso gli occhi solo per un istante quando Thorn andò a riscuoterla. Invece notò subito che fuori dalla finestra cominciava ad imbrunire: quando si era addormentata era primo pomeriggio.
L'aria della stanza era frizzante come se qualcuno avesse soffiato un vento invernale direttamente dalla porta, e sul suo corpo stanco era drappeggiata una pesante coperta. Probabilmente Thorn aveva cambiato aria alla stanza, proteggendola dal freddo con quella premura.
- Che... bambini è? Dove sono le ore? - mormorò, ingarbugliandosi nelle parole.
La faccia lugubre di Thorn si piazzò di fronte al suo viso. Appariva più stanco di quanto si fosse aspettata. Probabilmente assistere lei nel parto aveva prosciugato a lui più energie di quanto fosse disposto ad ammettere.
- Tutto... tutto bene? - chiese ancora, senza aspettare la risposta ai suoi precedenti, sconclusionati quesiti.
Thorn l'aiutò a raddrizzarsi e si alzò in tutta la sua altezza. Se Ofelia avesse voluto guardarlo in volto avrebbe dovuto sdraiarsi nuovamente, e non ne aveva la minima intenzione.
- Hai dormito un'ora e dieci. Ne avevi bisogno - rispose lui, gelido come l'aria che aveva rinfrescato la loro camera. - I bambini sono in salotto per il tè, con Tyr e mia zia, e tua zia. E tutti gli altri.
- Tyr... di là... sta bene? Ha...
In quel momento un urlo acuto di neonato fece quasi riverberare i muri della casa, e dal salotto giunse persino qualche scoppio di risata, probabilmente di Renard.
- Anche un po' di più. Ho come l'impressione che non sarà pacifico quanto suo fratello e sua sorella.
Un altro urletto contrariato, ma meno forte, giunse fino a loro.
- Ha bisogno di qualcosa?
Thorn si sedette sul letto, passandosi una grande mano sul volto tirato. Il colorito pallido riluceva nella penombra.
- No, è solo estremamente determinato a farsi sentire. Mi ricorda sua madre, anche se la sua voce è decisamente meno disturbante.
Ofelia si ritrovò a sorridere suo malgrado.
- Sembra più tardi - mormorò guardando fuori dalla finestra, più a se stessa che a lui.
Se era l'ora del tè, non poteva essere più tardi delle cinque. Al Polo la sera calava sempre troppo presto.
- Ti aiuto a lavarti - propose, o meglio, ordinò Thorn dopo alcuni istanti di silenzio.
Ofelia diede un'occhiata alla stanza, che dopo il passaggio silenzioso del marito sembrava più pulita di prima del parto. Thorn non si dedicava alle pulizie, in genere, giusto al rassettamento di quello che Ofelia o i bambini lasciavano in giro, più per un bisogno patologico di ordine che per fastidio. Eppure Ofelia non aveva alcuna difficoltà a figurarselo con un grembiule troppo piccolo sopra la camicia, straccio in mano e fazzolettino sui capelli per proteggersi dalla polvere.
Cercò di non ridere per quella scena tanto improbabile quanto possibile.
Assecondandolo, si alzò, leggermente malferma sulle gambe, assicurandosi prima di non lasciare tracce di sporcizia in giro. Si era sentita terribilmente in imbarazzo dopo la nascita di Serena, quando si era alzata dal letto senza chiamare la levatrice, che pure le aveva intimato di convocarla immediatamente, e aveva sporcato il pavimento con gli ultimi residui di quello che aveva avuto nell'utero.
Fortunatamente non ripeté più l'esperienza, e si lasciò spogliare da Thorn, in bagno, come se fosse lei la neonata.
- Vado a cambiare il letto. Dopo ti raggiungo.
Congedandosi così, Thorn si chiuse la porta del bagno alle spalle. Stanca come non si era mai sentita, Ofelia si sedette per terra e lasciò che il getto caldo lavasse via quelle ultime ore concitate. Era stato il suo parto più veloce, ma anche quello più sfiancante. E non a caso visto che Tyr pesava tre chili e rotti. Era un piccolo toro. Ofelia sorrise al pensiero e appoggiò la testa al muro.
Solo quando Thorn si chiuse alle spalle la porta del bagno ed ebbe messo da parte le lenzuola per lavarle, Ofelia si rese conto di essersi assopita. Il marito la raggiunse in doccia e, senza proferire parola, si accucciò di fronte a lei. Ofelia sapeva quanto gli costasse raggomitolarsi in quel modo, che lo faceva sembrare un mobile pieghevole ma allo stesso tempo non riusciva a smorzare l'impressione che fosse un gigante. Con estrema premura Thorn la insaponò, accarezzandole gentilmente la pelle, toccandole i punti giusti sulle spalle e indugiando, suo malgrado, sulle curve del suo corpo già più magro. Era sempre tornata com'era prima delle gravidanze dopo gli altri parti, a parte un paio di chili forse, ma nessuno se n'era mai preoccupato. Non le stavano male.
Quando ebbe finito di lavarle e sciacquarle i capelli, si insaponò a sua volta con pochi e precisi gesti e uscì dalla doccia. Ofelia si alzò suo malgrado, desiderosa solo di dormire, e si sentì stringere il petto quando vide che Thorn la stava attendendo con un asciugamano spiegato. Ofelia si lasciò frizionare la pelle, ma in qualche modo quelle attenzioni la misero a disagio. A disagio con se stessa, non con Thorn.
- Meno male che volevo essere indipendente e contare solo su me stessa. Guarda come sono ridotta, a farmi persino asciugare da mio marito.
Thorn, il Thorn che non la baciava mai se non per farle intendere che voleva qualcosa di più, che la abbracciava frettolosamente come se fosse una cosa disdicevole o imbarazzante, che la accarezzava solo quando condividevano l'intimità, le depositò un bacio premuroso tra spalla e collo, facendola rabbrividire.
- Non mi pare che ti dispiaccia.
La sua voce profonda e scricchiolante le riverberò nelle vene, fino al cuore e allo stomaco. Non rispose, ma non ce n’era bisogno. Non le dispiaceva no, maledizione.
Continuarono ad asciugarsi e vestirsi in silenzio, con Thorn che indugiava leggermente più del dovuto nelle parti morbide del corpo di Ofelia. Non appena misero piede fuori dall’aria vaporosa del bagno, Ofelia sentì piombarle addosso una stanchezza indicibile. Forse le nottate difficili dell’ultima settimana, a causa della vivacità di Tyr, avevano aggravato quel senso di debolezza che le rendeva le ossa gelatinose. Una volta rimessasi a letto non ebbe dubbi circa il fatto che si sarebbe addormentata subito.
- Riposati – le intimò Thorn, con i capelli ancora umidi come i suoi. – Penso io al resto – cercò di rassicurarla con i suoi borbottii da orso, più adatti a sgridare qualcuno che a rassicurarlo.
Ofelia non se lo fece ripetere due volte e scivolò nell’oblio in un attimo. Dormì così profondamente che quando le portarono Tyr, due ore dopo, si chiese se in realtà non avesse chiuso gli occhi solo per un minuto.
Il risveglio non fu dei migliori, con il piccolo che urlava la sua fame al mondo. Ofelia se lo attaccò al seno senza quasi riuscire a mettersi seduta. Tyr si acquietò solo quando cominciò a poppare e Ofelia spostò lo sguardo stralunato e confuso su Thorn, dopo aver inforcato gli occhiali: le occhiaie gli si erano aggravate, e Ofelia aveva il terribile sospetto che quello fosse solo l’inizio.
L’espressione di Thorn glielo confermò: Tyr sarebbe stato un bell’osso duro.
 
Forse dire che sarebbe stato un osso duro è un eufemismo.
Ad Ofelia parve di non aver mai dormito così poco come nelle prime due settimane dalla nascita di Tyr. Thorn era stato abituato per tutta la vita a fare giorni di seguito di lavoro con poche ore di sonno, ma lei no, aveva sempre avuto bisogno del giusto riposo per riuscire a carburare correttamente. E infatti fu molto poco attiva nei primi giorni. Si addormentava un po' dappertutto, sul divano, a tavola mentre aspettavano il pasto, una volta persino mentre beveva il tè e se n'era rovesciato qualche goccia sulla gonna. La zia Roseline era sempre stata più che disponibile a darle un po' il cambio per farla riposare, ma alla fine aveva rinunciato quando era risultato evidente che Tyr non ne voleva proprio sapere di stare in braccio a qualcuno che non fosse Ofelia. Nemmeno con Thorn, al contrario dei fratelli, stava volentieri.
Una sera, mentre Ofelia se ne stava sdraiata a letto fissando il soffitto con gli occhi rossi e spalancati mentre Thorn cercava di cullare a modo suo Tyr, disse: - Non funziona nemmeno l'elenco delle potenze.
Sfinita, Ofelia non trovò nemmeno la forza di sorridere a quell'evidenza.
- Io mi meraviglio che abbia funzionato con Balder e Serena.
Thorn aggrottò la fronte già totalmente increspata mentre fissava Tyr come se fosse un enigma da risolvere. Un enigma fastidioso oltretutto, dato che aveva una voce estremamente forte. - Cosa vuoi dire?
Ofelia si mise a sedere, allungando le braccia affinché Thorn le depositasse Tyr in grembo. La sciarpa era già nella culla, in attesa del bambino. - Voglio dire che non è proprio una ninna nanna o una filastrocca che i bambini apprezzano. È inusuale.
Thorn osservò in un silenzio teso Tyr che, molto lentamente, si calmava, cullato dalla mamma. Alla fine si addormentò, e Ofelia lo cedette a Thorn con gli occhi già praticamente chiusi affinché lo mettesse nel suo lettino accanto al letto.
Una volta spente le luci, Thorn mormorò: - Non gli piaccio.
Ofelia biascicò una risposta che sperò fosse intelligibile. Non era in vena di parlare, né di fare alcunché, se non dormire. - Sì che gli piaci.
- No. Balder e Serena si... mi riconoscevano. Qualche volta chiedevano di me. Ma Tyr... vuole stare solo con te.
- Non vuol dire nulla questo, Thorn.
- Sì invece. Un solo termine diverso in un'equazione comporta un risultato totalmente differente.
- Ma i tuoi figli non sono un'equazione, Thorn - brontolò Ofelia, che voleva implicitamente pregarlo di stendersi, abbracciarla e dormire, finché potevano.
Ofelia non lo vide, ma percepì l'occhiata tagliente di Thorn. Non era convinto di quello che aveva detto Ofelia, ma aveva colto l'antifona, e si sdraiò accanto a lei. O meglio, iniziò a muoversi irrequieto accanto a lei. Thorn era statuario di natura, composto, non si muoveva se non era strettamente necessario.
- Thorn - piagnucolò Ofelia. - Possiamo parlarne domani? Dormi finché Tyr è tranquillo.
Thorn rimase immobile, obbedendo per una volta, ma era un'immobilità nervosa che lanciava ad Ofelia ondate di leggere scariche elettriche.
Sbuffando pesantemente, irritata come non mai, complice la stanchezza, Ofelia gli si avvicinò e si sporse su di lui. Il buio e la mancanza di occhiali la rendevano completamente cieca, per cui poteva essere china sul suo naso come sulla sua spalla o sul suo orecchio. - Thorn, non hai fatto nulla per essere detestato da Tyr. Non sa nemmeno cosa significhi detestare qualcuno, ha pochi giorni di vita! Devi tranquillizzarti. Non è lui ad essere strano, erano Serena e Balder quelli troppo calmi. I bambini sono tutti così, chiedi a Renard. Porta ancora le occhiaie dei primi mesi di vita di Ilda, che non dormiva mai. Quando Tyr crescerà, ti vorrà bene come te ne vogliono i fratelli più grandi.
La bocca di Thorn fu sulla sua con ferocia, forse per zittirla, ma più probabilmente per un bisogno di conforto che Thorn non si rendeva nemmeno conto di avere. Era sempre stato un uomo di azione, di fatti, poco propenso alle chiacchiere o alle effusioni non indispensabili. E Ofelia capì che in quel momento non gli servivano frasi o discorsi rassicuranti, ma contatto fisico; un abbraccio, un bacio, qualcosa che lo tenesse ancorato alla realtà, a lei, a loro.
Da dopo il parto non erano più stati insieme fisicamente, non tanto per mancanza di voglia, quanto di tempo. Tyr esauriva tutte le loro energie, e quando Ofelia lo metteva a letto trovava Thorn già addormentato, o viceversa. Quello era il primo vero momento che avevano insieme da tanto, troppo tempo, e Ofelia voleva goderselo, ma era così stanca che temeva di addormentarsi sul più bello.
Quando il bacio di Thorn divenne ancora più insistente, però, si svegliò di colpo, il corpo accaldato e il respiro già affannoso. Voleva Thorn, voleva un momento per loro, voleva condividere con lui quell'atto che aveva dato vita ai loro tre bellissimi, anche se a volte pestiferi, figli.
Così rispose al bacio con lo stesso impeto, contraccambiando il suo bisogno famelico, e riscoprendosi impaziente allo stesso modo. Thorn rallentò dopo aver fatto sdraiare Ofelia sotto di sé, forse temendo di essere stato troppo brusco, ma lei lo incalzò, facendogli capire che non era proprio della calma quello di cui aveva necessità.
E per fortuna, perché non appena ebbero concluso, con il respiro ancora accelerato e i corpi avvinghiati, Tyr si mise a piagnucolare.
Thorn incurvò le spalle, come se un peso insostenibile vi si fosse depositato sopra. Si alzò a fatica, prese Tyr e cominciò a ondeggiare in quel modo rigido che si avvicinava al cullare, ma non lo era. Tyr però continuò a borbottare e mormorare, non davvero piangendo, ma sempre lì lì per farlo.
Dopo dieci minuti di lamenti incessanti, che non potevano nemmeno essere considerate coliche perché era troppo presto, Ofelia si mise a sedere. Dormire con l'ansia che Tyr iniziasse a piangere era impossibile, e non le sembrava nemmeno giusto che Thorn si beccasse la parte peggiore.
- Portalo qui a letto con noi. Tanto non dorme, almeno noi possiamo schiacciare un pisolino e averlo accanto in caso di bisogno.
Thorn si allungò sul letto per mettere Tyr di fianco ad Ofelia, poi si mise al suo posto. Sdraiato supino, Tyr abbassò sempre di più il tono dei suoi mugolii. Cessarono del tutto quando riuscì ad afferrare un dito sia di Ofelia che di Thorn. Non dormì, ma almeno non disturbò nessuno, e i due genitori riuscirono a farsi quattro ore filate di sonno.
La verità era che Tyr voleva l'attenzione di entrambi, e già appena nato sapeva cosa desiderava e come farsi sentire per ottenerlo.
Anche se Thorn non aveva tutti i torti, ma loro non potevano ancora saperlo.
 
Grazie a quella soluzione Ofelia e Thorn riuscirono a gestire un po' meglio le loro notti di sonno. Tyr si addormentava a letto con loro e poi veniva riposto nella culla, dove lasciava i genitori in pace per non più di quattro ore. Ma era meglio di nulla.
Renard continuò a tenere le lezioni a Serena e poi a Balder, che emulava la sorella e, anche se capiva poco di ciò che veniva spiegato, quanto meno disegnava tranquillo. Ofelia assisteva in classe per aiutare Renard con i bambini, anzi, con la bambina, perché Ilda non poteva andare al lavoro con Gaela e Renard non voleva assolutamente interrompere il suo lavoro.
- Non sono un mantenuto, ragazzo - aveva rimarcato quando Ofelia, un giorno in cui sia Ilda che Tyr si erano messi a piangere inconsolabili durante le lezioni, gli aveva suggerito di fare una pausa. - Ho lavorato in condizioni ben peggiori, con orari improbabili e in cui la parola "diritti del lavoratore" e "riposo" non avevano nemmeno un significato. Questo impiego è una vacanza se paragonato a quelli svolti il passato, mi permette di mantenere la mia famiglia e di stare sempre con mia figlia, e ho tutta l'intenzione di svolgerlo con impegno, diligenza...
Ofelia lo aveva interrotto trascinandolo letteralmente in cucina, dove aveva preparato per entrambi un caffè forte corretto con un goccetto di grappa: era evidente che stavano dando entrambi i numeri.
La zia Roseline dava una mano come poteva, ma la maggior parte del tempo la passava a cucire abitini per i piccoli e a borbottare che due neonati erano proprio troppi in casa, e che Sophie aveva quasi dato di matto con l'arrivo delle tre gemelle. Ofelia rabbrividì al solo pensiero di quel periodo: non serviva la memoria di Thorn per ricordare quanto isterica fosse la madre con tre figli ancora piccoli e tre neonate.
Si ripromise di non finire mai come lei.
Eppure...
 
Eppure, capitò.
Un pomeriggio Renard, quando Ilda aveva un anno e quattro mesi e Tyr era appena entrato nel suo primo anno di età, entrò in soggiorno con un'aria da cane bastonato che fece immediatamente preoccupare Ofelia.
Non serviva chiedere nulla, il gigante dai capelli rossi non aveva bisogno che gli si cavassero le confessioni di bocca, come a Thorn: - Gaela e Ilda hanno la varicella.
Ofelia sgranò gli occhi, reazione che fece preoccupare anche Serena.
- Cos'è la varicella, maestro? - chiese ingenuamente.
- Valicella! - ripeté Balder, imitando la sorella.
Tyr invece ruttò. Aveva appena finito il biberon e Ofelia stava cercando con scarsi risultati di farglielo fare. Se avesse saputo che bastava Renard, sarebbe andata da lui venti minuti prima. Non allattava più perché la boccuccia famelica di Tyr aveva cominciato a procurarle parecchio dolore, quindi era passata al latte in biberon e a qualche pappetta, come i suoi fratelli prima di lei.
Renard sospirò sconsolato, accarezzando la testa della sua allieva più grande. Per quanto Ofelia odiasse essere chiamata "padrona" o "signora", Renard apprezzava enormemente il suo titolo. Ogni volta che Serena e Balder lo chiamavano "maestro" si impettiva tutto. Non era servito che qualcuno glielo dicesse perché Ofelia capisse che il ruolo di insegnante era davvero stimato al Polo, una delle mansioni più ambite e difficilmente esercitabili, soprattutto da chi non aveva l'approvazione dei discendenti diretti di Faruk o una qualche raccomandazione. Thorn aveva detto ad Ofelia di aver cercato per anni di rendere la carica aperta a tutti, affinché gli insegnanti migliori venissero scelti in base al merito e non alle conoscenze sociali. Non era ancora riuscito a far entrare in vigore la legge, ma le aveva assicurato che Renard, anche se fatto passare avanti grazie alla referenza di Thorn, era sempre arrivato primo nelle classifiche.
Strappandola ai suoi pensieri, Renard sospirò: - La varicella è una gravissima e bruttissima malattia che dura un paio di settimane e ti fa venire sulla pelle delle orribili pustole pruriginose che non devi assolutamente grattarti.
Serena si coprì la bocca con le mani, sconvolta. Ogni tanto Ofelia dimenticava che aveva già sei anni, dato che sembrava molto più grande, e allo stesso tempo si chiedeva come fossero potuti passare solo sei anni dalla sua nascita. Le sembrava ieri di averla allattata e guardata dormire.
- Non è così grave come pensi, Serena - la tranquillizzò Ofelia.
Il tono di Renard era stato decisamente catastrofista.
Infatti lui sbuffò, contrariato. - La malattia in sé no, ma prova te, ragazzo, a vivere in casa con una pestifera bimba di un anno che desidera grattarsi giorno e notte e la madre che già quando è tranquilla non ha una boccuccia di rosa, figuriamoci con la febbre e le pustole.
In effetti Ofelia non poteva dargli tutti i torti, sotto quell'aspetto. Si ricordava bene com'era stato avere la varicella. L'aveva presa Hector, che poi l'aveva passata a tutti, comprese le gemelle che all'epoca erano piccole. Sei bambini febbricitanti e lamentosi non erano stati una gran gioia per la loro mamma, che aveva contagiato tutta la casa con il suo nervosismo. Anche se alla fine era stato più il loro padre, decisamente paziente, a prendersi cura di loro per la maggior parte e preparare gli impacchi per cercare di dare ai figli un po' di sollievo.
Renard sospirò pesantemente e si passò le dita tra i capelli, spettinando la zazzera più di prima.
Serena aggrottò le sopracciglia. - Perché maestro avete chiamato la mia mamma 'ragazzo'?
Renard assunse un atteggiamento mortificato. - Ancora? Non riesco proprio a levarmi di testa quest'abitudine.
- Vi ho già detto che non mi dispiace, non serve preoccuparsi per questioni del genere.
La domanda di Serena era legittima, non solo perché sua mamma evidentemente non era un ragazzo, ma anche perché con Thorn le stavano insegnando cosa fosse il rispetto. Purtroppo Serena non poteva rimanere piccola a vita e prendersi confidenze con tutti. A malincuore avevano dovuto insegnarle che ai genitori e a coloro che non erano nella cerchia più intima di amici o fratelli bisognava dare del voi. Serena aveva preso molto seriamente la questione, capendo subito cosa doveva fare e iniziando ad usare la forma di cortesia con tutti. La zia Roseline aveva cercato di non farsi vedere mentre si asciugava frettolosamente gli occhi e mormorava che i bambini crescevano più in fretta di una spugna sotto l'acqua e lei presto sarebbe diventata vecchia e inutile quanto la biancheria rotta.
Serena però era ancora perplessa di fronte a quello scambio tra i due adulti, e onde evitare che tirasse fuori la questione con Thorn dando vita ad equivoci risparmiabili, Ofelia le disse: - Ogni tanto Renold si sbaglia, fa un po' di confusione.
- Assolutamente mia egregia Ofelia, sono molto confuso e propenso alle farneticazioni. Voi, piccola Serena, non commetterete mai i miei errori, perspicace e intelligente come siete.
Serena sorrise timidamente, compiaciuta del complimento.
- Voi avete già avuto la varicella? - lo interrogò Ofelia.
- Sì, certo. Qui al Polo la discendenza di Faruk la prende raramente, siamo più noi senza poteri quelli che ne soffrono, soprattutto in giovane età. Viene infatti considerata un pochino la malattia degli umili, anche se i cortigiani non ci fanno la cortesia di chiamarci così. Sono molto più coloriti nel definirci. Gaela deve averla presa da qualcuno al lavoro, e l'ha quindi passata anche a Ilda.
Ofelia si stupì ancora una volta di quanta differenza ci fosse tra il Polo e Anima. Altro che malattia degli umili, nella sua arca natale veniva considerata la malattia dei bambini: se la prendevano da piccoli, quando giocavano tutti insieme, e passarsela era un attimo. Era ridicolo che lì al Polo la considerassero la malattia dei senza-poteri, quando i clan favoriti non la contraevano solo per una questione di minor socializzazione dei loro bambini. Che sciocchezze!
- Tenete i vostri bambini lontani dal nostro appartamento finché la malattia non si sfoga - suggerì gentilmente Renard. - Non vorrei sottoporre pure voi e vostro marito a questo supplizio, specialmente con Tyr così piccolo, che...
Renard si fermò, lasciando la frase in sospeso. Proprio in quel momento Tyr aveva ben pensato di mordere la mamma sulla spalla, infilandole i suoi nuovi dentini incredibilmente funzionanti nella pelle.
Ofelia se lo scostò da lì e lo guardò severamente. - No, Tyr, non si mordono le persone.
In risposta, Tyr la ignorò e si mise a giocare, anzi tirare, un suo ricciolo fuori posto. Legarli non serviva a nulla quando lui era in giro.
Ofelia sospirò. - Sì, decisamente una varicella ora sarebbe l'ultimo dei miei desideri.
Renard si abbacchiò. - A chi lo dite. E a proposito di sfogo della malattia...
In quel momento entrarono nella sala Roseline e Berenilde, con Vittoria al seguito. Le due donne erano impegnate in un’accesa discussione sul perché Vittoria dovesse o non dovesse fare il suo ingresso in società.
- A dieci anni è troppo presto. Non ho ancora capito a cosa serve agghindare la vostra povera figlia come una mucca da mostra e mandarla in pasto a quei dissennati dei vostri amici, o nemici, delle alte gerarchie, ma io non capisco nulla di come funzionano le cose su quest’arca gelida e abbandonata. L’unica cosa che so è che la maggior parte di voi è irragionevole quanto un vaso di fiori in vetro sul balcone!
 Ofelia dubitava che Berenilde avesse compreso l’insulto, lei stessa avrebbe faticato ad interpretarlo se in passato la zia non avesse imbastito una filippica di due ore sul perché sui balconi vadano posizionati vasi di terracotta e non di vetro.
Nella mente della zia, era un commento abbastanza pesante e infamante. Nella mente degli altri, un curioso paragone animista senza senso.
- Roseline, Roseline – mormorò Berenilde, conciliante, accarezzando la mano candida della figlia. Con la crescita, Vittoria dimostrava sempre più di essere decisamente la prole di Faruk: pelle bianca e capelli iridescenti da quanto erano candidi. – Non pretendo certo che voi capiate gli usi e i costumi di noi cosiddetti barbari del Nord, ma almeno fingete di rispettare le mie decisioni.
- No, se questo significa chiudere un occhio su qualcosa di totalmente insensato. Io…
- Signore illustrissime, mie dame, permettetemi di porre fine alla diatriba. Serena e Balder nutrivano il desiderio di giocare con Vittoria, mentre Tyr sembra proprio che stia per dire la sua prima parola, potrebbe essere il vostro nome. Quale onore, non trovate?
Così dicendo, Renard spinse gentilmente i figli maggiori di Ofelia contro le zie, le prese Tyr dalle braccia e lo piazzò dritto tra quelle di Roseline. Il piccolo tentò subito di arpionare lo chignon austero della prozia. Ofelia dubitava che sarebbe riuscito a smuoverle un solo capello, visto la meticolosità con cui la zia li tirava.
La sciarpa le si agitò attorno al collo, sollevata: la presenza di Tyr la rendeva irrequieta da quando il bambino aveva ben pensato di ciucciarne le frange e morderla in più punti, lasciandola offesa e bavosa.
Prima che le donne potessero rifiutarsi di fare da balie alla moltitudine di bambini, o ricominciare a bisticciare, Renard prese Ofelia per il polso e la condusse dritta in cucina. Era vuota a quell’ora del giorno, con i domestici impegnati in altre mansioni, e Renard spalancò le braccia come se le appartenesse. Salame, che fino a quel momento era stato invisibile, attaccato con gli artigli alla schiena del padrone, andò a mangiare, mentre Renard apparecchiò con due bicchierini da grappa e un vasto assortimento di liquori, vini, birre e quant’altro.
- L’ultima sbronza, passatemi il termine, che mi sono preso risale al soggiorno su Anima. Ho bisogno di sfogarmi pure io, altro che malattie.
Prima di riempire il bicchierino di Ofelia, però, si fermò. – Allattate ancora?
Ofelia negò. Non era sicura che la sua voce le sarebbe rimasta fedele. Se Renard voleva ubriacarsi nella sua cucina durante il giorno, doveva proprio essere disperato. Non se la sentì di rifiutare il bicchierino. Si disse che il secondo sarebbe stato l’ultimo.
Al terzo, che fu effettivamente l’ultimo, era già ubriaca.
Lasciò Renard a ronfare sul bancone della cucina, con Salame che si posizionava sulla sua testa per dormire, e si diresse barcollando e ridendo verso lo studio di Thorn.
Lo trovò come sempre intento a lavorare, così concentrato che non alzò nemmeno lo sguardo su Ofelia quando entrò.
Solo quando lei gli si sedette in grembo dovette per forza di cose concederle un po’ di attenzione. O meglio, quando Ofelia tentò di sederglisi in grembo e inciampò nei sui stessi piedi, ridendo. Thorn allungò un braccio per evitarle la caduta, e Ofelia prese quel gesto per un incoraggiamento.
Quando lo baciò, Thorn si scostò dicendo: - Sei vittima dei fumi dell’alcol?
- Io non fumo.
Thorn si accigliò, cosa che fece molto ridere Ofelia. Con le dita guantate gli distese le rughe della fronte, poi gli baciò il naso. Se non fosse stata così annebbiata, avrebbe notato quanto Thorn fosse interdetto e confuso. Come doveva comportarsi in quella circostanza?
- Dove sono i bambini?
- Con le zie – sussurrò Ofelia, come se fosse un segreto, iniziando a sbottonarsi il vestito.
O cercando di farlo.
- Cosa stai facendo? – la interrogò Thorn, tentando di capire se avesse caldo o volesse fare altro.
- Mi spoglio – rispose lei, biascicando le parole. – Spogliati anche tu.
- Non credo che dovrei. E nemmeno tu dovresti.
Ofelia mise il broncio. – Ma io voglio fare un bambino con te.
Thorn si scostò. – Non sei nel pieno delle tue facoltà mentali, Ofelia. È una pessima idea concepire un bambino ora. Anche un po’ di più.
- Perché? – chiese con voce sommessa lei, come Serena quando non capiva la motivazione che stava dietro un divieto. Poi parve scordarsene. – Facciamo finta di fare un bambino, allora.
Thorn si passò una mano sul viso, incapace di gestire la situazione. Non si sarebbe mai aspettato di trovarsi Ofelia seduta su di lui che faceva proposte scandalose in stato di ebbrezza.
- Chi ti ha dato tutto quest’alcol? Non sei il genere di persona che fa bravate del genere. È stato Archibald? Ha per caso provato a…?
Ofelia si raggomitolò contro di lui, all’improvviso stanca. – Io e Renold siamo tristi. Tu devi rendere felice tua moglie, giusto?
Thorn le aveva detto più volte, quando non riusciva ad interpretare i silenzi o gli umori di Ofelia, che doveva sempre essere sincera con lui, e dirgli se c’era qualcosa che faceva o diceva, o che non faceva e diceva, che le dava fastidio. Non era mai facile dar voce a quei pensieri, ma l’idea di non essere in grado di renderla felice, o quanto meno serena e appagata, era un tarlo che gli inibiva le funzioni cerebrali.
Era un colpo basso ricorrere a quello stratagemma.
Eppure, Thorn si ritrovò a sospirare. – Cosa devo fare?
Ofelia lo baciò a sorpresa, cercando nuovamente di spogliare entrambi.
Thorn si stancò ben presto di lottare, e la assecondò, facendole spazio sulla scrivania, che non gli era mai sembrata più utile di così. La frenesia che li colse non era dovuto all’alcol nel corpo di Ofelia, che tra l’altro riacquistò la lucidità quasi subito, quanto alla difficoltà nel ricavarsi un po’ di tempo per loro negli ultimi tempi. Approfittarono quindi di quel momento di isolamento, così tanto che Ofelia si lasciò andare forse un po’ troppo.
Lo dimostrò il mal di testa feroce che la perseguitò il mattino dopo.
E la nausea improvvisa e fin troppo riconoscibile di un mese e mezzo dopo.

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Capitolo 39
*** Capitolo 39 ***


Sono qui!! Non dico altro...
Volevo terminare questo capitolo un pochino prima, così che rimanesse proprio la suspence pura, ma dato che già vi ho fatto aspettare e che sarei stata cattiva a lasciarvi sulle spine, vi lascio più o meno intuire quindi cosa (...purtroppo...) succederà.
E tranquilli, Ofelia non scappa con il maggiordomo che poi si rivela essere il fratello perduto di quacuno, alla Beautiful o che so io.
E me ne sto zitta o faccio solo confusione.
Grazie a tutti, per favore non odiatemi.


Capitolo 39

Thorn trovò Ofelia in camera, che passeggiava avanti e indietro con Tyr in braccio, dopo tre giorni di assenza per via di un sopralluogo che aveva rimandato fin troppo in una provincia poco ligia al dovere.
A prima vista si sarebbe potuto dire che Ofelia fosse così stanca e provata per via di Tyr, ma stranamente il bambino se ne stava tranquillo. Forse anche lui aveva intuito che qualcosa non andava. La sciarpa che si muoveva a scatti sul letto ne era un’ulteriore prova: Ofelia proiettava i suoi sentimenti così intensamente che la sua fedele sciarpa non riusciva a tollerarli.
E Thorn conosceva Ofelia fin troppo bene. Le prese Tyr dalle braccia salutandola con un: - Che c’è?
Ofelia continuò a camminare come prima, senza quasi dar segno di averlo visto.
Dopo un minuto le afferrò la spalla, abbastanza forte da bloccarla ma non abbastanza da farle male. – Ofelia.
- Sono incinta – sbottò lei, prendendosi la testa tra le mani e sedendosi sul bordo del letto.
Thorn non mutò espressione, non mosse nemmeno un muscolo di un millimetro. L’unica cosa di cui fosse consapevole era che non sapeva ancora se Tyr avesse o meno la memoria degli Storiografi, ma era certo di non volerlo includere nella conversazione. Lo portò in salotto, dove lo affidò probabilmente a qualcuno, perché quando tornò e trovò Ofelia immobile nella medesima posizione di prima non aveva più il figlio al seguito. Si sedette accanto a lei sul letto, incapace di articolare un pensiero. O una parola.
Rimasero così, in silenzio, per un tempo talmente dilatato e confuso che Ofelia non avrebbe saputo quantificarlo. Ore? Secondi?
Thorn aspettava che lei parlasse, lei attendeva di abituarsi a quella notizia. Il fatto che Thorn non la smentisse, però, lui che era così preciso circa i ritmi del suo corpo, le diedero la conferma definitiva.
Thorn alla fine prese in mano la situazione, schiarendosi la gola. - Sei... in pensiero per via del numero di figli?
Non avevano mai effettivamente parlato di quanti figli volessero. Dopo Serena era diventato evidente che ne avrebbero voluto più di uno, e infatti avevano più o meno cercato Balder. O meglio, non erano stati attenti, sotto sotto di proposito. Tyr era stato una svista, anche se ovviamente bene accetto.
Ma un quarto figlio non era proprio stato nei loro pensieri, specialmente dopo la nascita di Tyr, che aveva prosciugato loro tutte le energie. Ofelia era ancora giovane, se anche avessero aspettato qualche anno per il quarto non sarebbe successo nulla. Avrebbe avuto sia le forze che la capacità fisica di affrontare un altro parto, magari altri due, se avessero voluto, ma... non con Tyr così piccolo. Non con Tyr così difficile da gestire. Non con Tyr che toglieva il sonno a tutti.
- E se il bambino fosse come Tyr? - mormorò Ofelia, più a se stessa che a Thorn. - Come faremo a controllarne due? Riusciremo ad andare dietro a quattro bambini? Serena e Balder si sentirebbero abbandonati?
Ofelia non si rese conto dei movimenti di Thorn, ma probabilmente in quel momento non si sarebbe accorta di nulla, nemmeno se fosse arrivata la sua intera famiglia a salutarla e schiamazzare. Sentì solo le sue rigide e lunghe braccia avvolgerla, e il suo mento a punta appoggiarsi sulla sua testa.
- Non sono problemi insormontabili, mi sembra. L’ultima cosa che potrebbero sentire Serena e Balder è l'abbandono, visto quanti parenti e affiliati che si prendano cura di loro ci sono. Io...
Thorn si zittì, incapace di continuare. Ofelia si riscosse con un leggero sobbalzo.
Lui non aveva avuto un decimo di tutto quello, voleva probabilmente dirle. Lui era sempre rimasto solo, senza genitori e senza fratelli, solo con una zia del cui amore non era mai stato il protagonista, nonostante gli volesse comunque bene, a modo suo.
Per quanti figli avessero avuto, sarebbero sempre cresciuti meglio di com'era cresciuto Thorn.
Ofelia rispose all'abbraccio accarezzandogli le mani.
- Ti pesa l'idea di una gravidanza? Potrei assumere qualcuno per cercare di darti una mano. L’intendenza non aspetta nessuno e non posso assentarmi più di così, anche se potrei trovare del tempo, se fosse imprescindibile.
Ofelia scosse la testa. - No. Non è un problema quello.
Aveva letto le testate giornalistiche degli ultimi mesi, sempre poco lusinghiere e veritiere, ad essere sincera. Ad intervalli regolari sbucava fuori un articolo in cui si paragonava Thorn ad una casalinga apprensiva, "intendente o badante?", che trascorreva sempre meno tempo al lavoro e sempre di più a casa.
Thorn non era mai intervenuto, dopo anni era ormai abituato a farsi scivolare addosso certe accuse o commenti poco piacevoli. Solo quando era uscito un trafiletto sulla fantomatica moglie dell'intendente, un probabile gendarme che costringeva il marito ad accudire i figli al posto suo per oziare, Thorn aveva preso provvedimenti. Aveva fatto pubblicare nel giornale del giorno successivo, rivolgendosi direttamente al direttore della testata, una trattazione di tre pagine su cosa avesse fatto l'intendenza da inizio anno a quel giorno, completo di saggi, numeri inerenti le ore di lavoro e le persone implicate, che solo a guardarle veniva il mal di testa. Quando lo aveva messo sotto il naso di Ofelia, aspettandosi che lo leggesse, lei aveva scorso velocemente il resto delle pagine dopo aver letto le prime tre righe e compreso che aria tirava. Non aveva capito nulla.
- Quindi? - gli aveva chiesto.
- Quindi si evince palesemente che la produttività dell'intendenza è aumentata, nonostante lo sia anche la mole di lavoro. Ho troncato sul nascere qualsiasi possibile rivalsa su di te e l'onta al tuo onore che poteva derivarne. I numeri non mentono - aveva sancito lui come se stesse emettendo una sentenza di morte. A suo discapito, oltretutto.
Ofelia non aveva ribattuto che a lei non interessava proprio nulla di cosa dicesse uno stupido giornale, non sarebbe stato giusto nei confronti di Thorn dopo tutto quello che aveva fatto per lei. Gli aveva solo stretto la mano con riconoscenza, perché quello di Thorn era stato, a suo modo, un gesto estremamente dolce.
Ofelia sospirò, tornando con i piedi per terra. Thorn aspettò che fosse lei a districarsi dal suo abbraccio. Appena lo fece, Ofelia si rese conto di avere le guance rigate di lacrime; lacrime che erano finite sulla camicia di Thorn.
- Scusami. Credo di avere ancora gli ormoni in disordine dall'ultimo parto. O forse ora sono di nuovo impazziti per via della gravidanza nuova. Un quarto bambino.
Le si spezzò il respiro in gola.
Thorn era rigido come mai l'aveva visto, palesemente alla ricerca di qualcosa di consolatorio da dire, senza però riuscire ad articolarlo.
- Ce l'abbiamo fatta con tre, possiamo farcela anche con quattro - disse alla fine, con poco calore.
Ofelia annuì e si tolse gli occhiali per pulirne le lenti. La sciarpa le si avvicinò strisciando, raggomitolandosi poi sulle sue gambe.
Thorn le diede un'imbarazzata pacca sulla mano guantata. - Colpa dell'alcol.
Ofelia alzò gli occhi su di lui, guardandolo per una volta senza occhiali. -  Alcol? Oh... - esclamò poi quando capì a cosa alludeva Thorn.
Avvampò, e cercò di nasconderlo mettendosi gli occhiali. Una lente però si colorò di grigio triste mentre l'altra di rosa disagio, tradendola.
- Colpa di Renold - bofonchiò poi. - Anzi, colpa mia. Non mi sarei dovuta lasciar tentare da tre bicchieri.
Thorn inarcò il sopracciglio fino a far quasi toccare le due estremità della cicatrice. - Tre bicchieri? Quando pensavi che fossi io quello ubriaco mi pare di aver ricevuto una strigliata come non ne ho mai subite.
Ofelia morse la cucitura di un guanto, sentendosi colpevole quanto Serena quando a colazione prendeva la marmellata con un dito anziché con il coltello.
- Davvero?
- Non ricordi di avermi sgridato?
- Sì, quello sì. Intendevo dire: davvero nessuno ti ha mai sgridato?
Thorn si strinse nelle spalle, poco propenso come al solito nel parlare della sua infanzia. - Genitori di sicuro no. Ero... troppo silenzioso e... no, non mi hanno mai ripreso. Se si escludono le bravate della famiglia di mio padre, ma quelle escludo che possano chiamarsi disciplina.
Ofelia intrecciò le dita con le sue, portandosele poi alla bocca per baciarle. Posò la testa sul suo braccio, sospirando.
- Quattro figli non sono la fine del mondo, no?
Thorn si mosse appena. - In senso letterale no, non credo che i nostri quattro figli possano scatenare la fine del mondo. Anche se, a giudicare dalla madre che hanno, potrebbero anche averne la capacità.
Ofelia impiegò alcuni secondi a recepire le sue parole. Non perché fosse distratta o confusa, ma perché quel tono lievemente più leggero del solito, quell'affermazione, quel...
Si scostò per guardarlo in volto. - Stai facendo dell'ironia per caso?
Thorn resse il suo sguardo, per nulla propenso a ridere. - Sembro uno che fa dell'ironia?
Assolutamente no. Ma allora perché l'angolo della bocca gli si era incurvato quasi impercettibilmente?
Fu Ofelia quella che si ritrovò a sorridere come una bambina, o una sciocca ragazzina innamorata.
Se Thorn arrivava persino a fare una battuta per cercare di tirarle su il morale, doveva avere davvero un aspetto inconsolabile.
- Chissà - lo stuzzicò, - magari rovesceranno il governo del Polo.
Thorn fece una smorfia. - Sarebbe alquanto fastidioso, dal momento che toccherebbe a me risistemare tutto. Ti pregherei di impedire ai tuoi figli delle simili azioni.
Ofelia ridacchiò. - Sono miei quanto tuoi, sai? Impedisciglielo tu, io non ci vedo nulla di male.
Il silenziò che calò, dato che ovviamente Thorn non ricambiò la risata, fu molto più sopportabile e gestibile di quello di pochi minuti prima.
- Grazie - disse Ofelia di getto, alzandosi per prendergli il viso tra le mani a coppa.
Thorn parve irrigidirsi. - Non sono pratico di queste situazioni.
- No, ma sono l'impegno e il tentativo che contano. A me piace come mi consoli tu - mormorò dandogli un bacio leggero. Con il tempo fortunatamente Ofelia era diventata più capace di esprimergli i propri sentimenti, grazie anche al fatto che Thorn l'ascoltava davvero, e non tentava di cambiarla. Gli diede un altro bacio. - Perché sei tu.
E un altro.
Thorn se la tirò addosso, impossessandosi della sua bocca dolcemente ma con decisione, come sempre. La sua barba le grattò le guance in quel modo che le piaceva tanto. Thorn era solido, e amava la sua stazza, il suo torreggiare su tutti, soprattutto su di lei. La faceva sentire protetta, e accanto a lui la sua bassa statura non le pesava.
Quando Ofelia gli baciò il collo portando le mani al primo bottone della sua giacca, Thorn la bloccò.
- Che c'è? - domandò lei. - Tyr è di là, io tanto sono già incinta...
- Appunto. Cerchiamo di non farci scappare anche il quinto.
Ofelia lo guardò senza capire. - Sono già incinta, non posso averne un altro subito. A meno che non siano gemelli.
- Per il futuro, intendo. Balder e Tyr sono capitati ma in un certo senso ce lo aspettavamo, questo no. Il prossimo vediamo di programmarlo o evitarlo.
Ofelia si adombrò. - Balder è stata una tua svista, questo qui è stato mio.
- E Tyr di entrambi - mormorò Thorn, imbronciato, ripensando a quei tre giorni su Anima. Una vacanza che aveva decisamente lasciato un ricordo.
- Va bene, basta gravidanze non preventivate.
- E speriamo che non siano gemelli.
Ofelia ritrovò il buonumore e si sistemò meglio in grembo a Thorn, attirando su di sé il suo famelico sguardo da rapace.
- Sarebbe possibile vista la familiarità sia da parte tua che da parte mia. Anzi, statisticamente parlando risulta anomalo che abbiamo avuto tre figli unici, dato che...
- Mh... - mugugnò Ofelia, continuando a spogliarlo. - Vuoi davvero parlare di statistiche ora?
Thorn ebbe un sussulto, ma probabilmente per via di un leggero morso di Ofelia piuttosto che per il suo commento.
- Ai bambini non dispiace.
Ofelia sorrise contro la sua pelle, continuando ad accarezzarlo. La sciarpa si era già rintanata in un angolo del letto per non intralciare. Si comportava sempre in modo bizzarro in quelle situazioni, e spesso faceva il solletico sotto i piedi di Thorn, facendolo contorcere improvvisamente, talvolta nel momento peggiore.
- Ma io non sono tua figlia, papà.
Thorn la fece sdraiare di schiena, un po' buttandola e un po' aiutandola, facendola ridere prima di sovrastarla con il suo corpo e baciarla. Ofelia si tolse i guanti e gli accarezzò la pelle del torace che era riuscita a scoprire. Il vantaggio di portare i guanti era che aveva sempre le mani calde, cosa che non si poteva dire di Thorn, che infatti la fece gemere, ma di disappunto, quando le risalì la gamba con la mano fredda.
- E di cosa vuoi che parli allora... - bofonchiò schiarendosi la voce, imbarazzato, - mamma?
Ofelia sorrise e lo attirò a sé. La sua preoccupazione si era dissipata come se le avessero tolto un velo dagli occhi. Cosa importava se Tyr era ancora piccolo e più scalmanato dei due figli maggiori? Cosa importava se non avevano previsto quel quarto figlio? Lo avrebbero amato come gli altri, ed era stato generato da un atto d'amore come gli altri.
E con quello che condivisero in quel momento Ofelia si sentì al sicuro, pronta per una nuova sfida.
Poi udì un urlo di Tyr che trapassò i muri e le sue certezze vacillarono, ma solo per un attimo. Thorn la strinse a sé con più forza: nulla l'avrebbe spaventata.
 
Nulla l'avrebbe spaventata... ma qualcosa l'avrebbe debilitata.
La varicella di Ilda e Gaela era passata abbastanza tranquillamente, fortunatamente entrambe avevano contratto una forma leggera. Ma quando Ofelia era quasi al terzo mese Berenilde informò amenamente a cena che in giro c'era un virus influenzale abbastanza persistente e contagioso che si stava diffondendo al Polo. Nulla di grave, nessuno diede importanza alla notizia, finché Thorn non enunciò a tavola, meno di una settimana dopo, che erano morte dieci persone. Erano senza poteri poco abbienti, che facevano fatica a sbarcare il lunario ed erano già di salute cagionevole. Poi però il numero delle vittime aumentò, sempre tra le persone che avevano meno possibilità di curarsi, e la zia Roseline cominciò a preoccuparsi.
Inviò immediatamente un telegramma su Anima, dove però non sembrava ci fossero infezioni in corso e tutto procedeva normalmente.
Thorn ordinò a tutti di stare a casa il più possibile e non intrattenersi più del necessario con chi non faceva parte della loro cerchia ristretta ma, vuoi a causa di Archibald e Berenilde che frequentavano la corte, vuoi per via dei clienti di tutti i ceti sociali di Gaela, vuoi per via dei domestici di casa che avevano le famiglie in altri quartieri, la zia Roseline fu la prima ad ammalarsi, seguita da Berenilde e Vittoria, e infine i bambini di Thorn e Ofelia.
Thorn si mise a lavorare da casa per poter dare una mano in caso di necessità ed evitare di aggravare l'influenza entrando in contatto involontariamente con qualcuno di infetto in ufficio.
La zia Roseline con la sua tempra dura guarì in fretta, due giorni di febbre e un po' di gastrite residua non la indebolirono nemmeno. Berenilde e Vittoria vennero quindi assistite da lei, visto che la loro convalescenza parve durare più del previsto. O forse, avevano solo voglia di ricevere attenzioni.
Serena e Balder rimasero tranquilli a letto, a dormire, intontiti dalla febbre e sfibrati dalle continue corse al bagno per svuotare stomaco e intestino. Avevano montato una brandina in cui dormivano entrambi di fianco al loro letto, per poter essere pronti ad intervenire anche di notte. Ofelia era talmente stanca di portarli di corsa in bagno che aveva lasciato delle bacinelle vicino alla brandina. Era meno faticoso pulire quelle che il pavimento, quando soprattutto Balder vomitava prima di raggiungere il bagno.
Tyr era invece quello che più preoccupava Ofelia. Aveva la febbre altissima, più di quella dei fratelli che già era alta, e teneva pochissimo nello stomaco. Piccolo com'era, Ofelia aveva paura che iniziasse a soffrire di denutrizione. Thorn gli preparava impacchi freschi per fargli scendere la temperatura, cercava di fargli mangiare quanto più possibile nella speranza che tenesse qualcosa nello stomaco, ma quello che il bimbo non vomitava finiva nel pannolone.
La febbre di Balder e Serena durò quattro giorni, il quinto erano già più attivi e appetenti. Thorn ne approfittò subito per far loro un bagno come si doveva, dato che li avevano lavati a pezzi con degli asciugamani umidi nei giorni trascorsi a letto. Ofelia invece continuò a vegliare su Tyr, cercando di imboccarlo, mormorandogli parole rassicuranti nel suo sonno agitato, dandogli cibi calorici che forse non sarebbero stati il massimo per la salute ma almeno potevano dargli un po' più di energia.
Quando Thorn tornò in camera per cambiare le lenzuola dei bambini, Ofelia quasi non si accorse della sua presenza. E non lo fece nemmeno quando rimboccò le coperte a Balder e Serena, a cui diede un po' di brodo e che poi rimise a dormire. Il fatto che avessero chiesto loro di mangiare e che avessero chiacchierato era incoraggiante, ma Ofelia era troppo preoccupata per Tyr per rallegrarsene. Le sembrava che il piccolo avesse cominciato a respirare male, così cercò di soffiargli il naso e lo prese in braccio per tenerlo in posizione più eretta.
Si rese conto di avere le guance bagnate di lacrime solo quando Thorn gliele asciugò delicatamente con le mani. Le tolse gli occhiali, pulì le lenti con un fazzoletto, e glieli rimise sul naso. Poi si chinò di fronte a lei, seduta su letto, dando l'impressione di essere un palo piegato a metà.
- Ofelia - la chiamò con voce ferma, stentorea, dura, come a voler penetrare nella sua mente, far breccia in quella cortina di apprensione che sembrava isolarla dagli altri, da lui. - Ofelia, Tyr non morirà. Gli passerà presto.
Poche parole. Rigide. Avrebbe potuto dirgliele chiunque, gliele aveva effettivamente dette chiunque, ma le erano scivolate addosso senza raggiungerla. Solo Thorn era in grado di darle quella sicurezza, quella serenità, quella cieca fiducia che aiuta a respirare meglio. Ofelia sentì che le lacrime avevano ricominciato a sgorgarle copiose dagli occhi, buttando fuori la tensione accumulata, il sollievo di avere Thorn accanto, e anche la paura per Tyr e la gioia per Serena e Balder che almeno stavano meglio.
Thorn le infilò le dita tra i capelli, sulla nuca, e tirò Ofelia a sé, facendola piangere sulla sua spalla. Lei gli cercò la mano e la strinse, reggendo Tyr con l'altro braccio. Strano a dirsi, ma con quel poco che aveva dormito i giorni scorsi si addormentò contro il corpo di Thorn. Si svegliò solo quando lui si alzò, tenendola perché non cadesse, e le prese Tyr dalle braccia. Lo mise nella culla e gli fece qualche altro impacco, poi provò a fargli bere un composto di erbe preparato dalla levatrice. Quella donna era perfetta come capo domestica, aveva delle conoscenze illimitate sui bambini, sulle malattie e su alcuni metodi di guarigione artigianali ormai dimenticati.
Ofelia si sentiva svuotata, al punto che rimase immobile e imbambolata finché Thorn non la spinse delicatamente a letto, perché dormisse.
Una volta sotto le coperte l'abbracciò stretta. - Io ero... avevo una salute molto cagionevole da piccolo. Costituzione debole. Ero spesso malato. Mia madre non... si prendeva cura di me. Avrebbe voluto un figlio forte. Bello. Qualcuno come Archibald. Solo Berenilde aveva qualche gesto o parola di conforto, quando non era troppo presa dai suoi figli.
Ofelia trattenne il respiro e aspettò che continuasse. Era così raro sentirlo parlare di sé e della sua infanzia.
- I nostri bambini non sono così. Sono forti, Ofelia. Ho letto delle statistiche sulle malattie infantili, come si manifestano e come combatterle, e i nostri sono ben al di sotto della media. Sono tenaci come la madre.
Se Ofelia non fosse stata così stanca e se non avesse già pianto fin troppo, si sarebbe commossa.
- Ora dormi.
Thorn le strappò un sorriso. Forse aveva paura di essere stato troppo dolce con le sue parole di poco prima, perché quell'ultimo incoraggiamento era sembrato più che altro un ordine marziale. Un comando a cui obbedire, pena gravi conseguenze.
In verità, però, funzionò.
 
Ofelia fu svegliata da un trambusto che proveniva dal corridoio, appena fuori dalla camera. Strinse gli occhi come di fronte ad una luce troppo forte prima di rendersi conto che il martellio veniva dalla sua testa. Le pulsava tutto e le sembrava di aver dormito in una posizione contorta.
Le voci si fecero largo nella sua mente, riscuotendola a fatica. Le sembrava di avere dell'ovatta avvolta attorno alle orecchie. Inforcò gli occhiali e la sciarpa le si gettò addosso inferocita, attorcigliandosi al suo busto come un serpente.
No, non inferocita. Il tremore era di terrore.
Ofelia vide che Balder e Serena dormivano ancora, non più sudati dalla febbre, non più con i respiri affaticati. Ma Tyr...
La culla era vuota. Ofelia scattò in piedi, solo per ricadere lunga distesa per terra, atterrando di pancia. Il polso con cui aveva cercato di ammortizzare la caduta cedette, facendola atterrare malamente.
La pancia. Non era ancora così grossa da risultare ingombrante o da vedersi palesemente sotto i vestiti, ma c'era. C'era il loro bambino dentro, o la loro bambina.
Ofelia si mise a sedere abbracciandosi il ventre, augurandosi di cuore che la sua scarsa coordinazione non le fosse costata cara, troppo cara, per una volta.
Thorn aprì la porta in quel momento e la vide in posizione fetale. Fu da lei in due falcate, così rapide e pesanti che Ofelia pensò di sentirsele rimbombare dentro.
- Signora? - la chiamò una voce che Ofelia sapeva essere familiare, ma non avrebbe saputo identificare in quel momento.
Thorn le prese le braccia e le fece raddrizzare la schiena, alzandole il viso. Le scrutò le pupille, le tastò la cute in cerca di eventuali tagli. Non trovando nulla aggrottò ancora di più la fronte, e poi abbassò lo sguardo.
Non appena le toccò il polso una scarica di dolore la fece gemere.
Thorn emise un minuscolo sospiro, come se fosse sollevato all'idea che si fosse rotta il polso. Solo il polso. Nulla di grave.
Lui non aveva visto la sua caduta.
La tastò con dita esperte per cercare di capire se fosse rotta, slogata o chissà che altro, e di nuovo sospirò.
- Hai solo preso una brutta botta, il polso non è rotto né slogato – la informò Thon con voce da referto medico.
- Dov'è la pancia? Sono atterrata su Tyr... - bofonchiò allarmata in risposta, invertendo qualche parola.
Alle spalle del marito finalmente vide chi era la proprietaria della voce: la levatrice. Teneva Tyr in braccio, cullandolo. Il bimbo era sudato e aveva ancora il respiro affannoso. Esanime tra le braccia robuste della domestica, il corpicino di suo figlio le fece talmente pena che sentì di nuovo il bisogno di piangere. Ma era così stanca, così affannata, che non ne ebbe la forza.
- Tyr... - sussurrò Ofelia, battendo le palpebre più volte.
Non aveva gli occhiali? Le pareva di sì. Perché ci vedeva così male?
- Ora sta bene - la rassicurò Thorn ruvidamente, continuando a tastarle il viso con aria sempre più preoccupata.
- Ora?
Thorn strinse le labbra, contrariato. - Ha avuto le convulsioni. Tu dormivi così profondamente che non ho voluto svegliarti. Non era grave, la levatrice è riuscita a calmarle.
Thorn disse tutto tra i denti, come se parlare gli costasse fatica e lo irritasse. Ofelia si rese conto che doveva essere teso allo spasimo pure lui, ma per qualche motivo non riusciva a concentrarsi. I polmoni e la testa le facevano male, si sentiva pesante.
Thorn strinse gli occhi finché non ne fu visibile che una fessura. - Ofelia?
- Può capitare, signora, quando i bambini hanno la febbre alta, che vengano le convulsioni. Ma i polmoni sono liberi, è solo affaticato. E disidratato, ma gli ho dato una soluzione concentrata di sali e vitamine. Speriamo che la tenga. Di stomaco sembra un pochino più...
- Ofelia? - la chiamò di nuovo Thorn, la preoccupazione palese nella sua voce.
La levatrice si zittì e, anche se lanciò un'occhiata infastidita a Thorn, sbiancò non appena vide che qualcosa non andava in Ofelia. E che si teneva la pancia. Si inginocchiò accanto a Thorn, passandogli il bambino senza nemmeno avvertirlo.
- Madama? Signora? Mi sentite?
Ofelia annuì stancamente, o almeno pensò di annuire.
- Vi fa male la pancia?
- La testa - corresse Ofelia, biascicando le parole. Quando aveva bevuto con Renard era più lucida, si ritrovò a pensare. E più in forma, più divertita. Poi si rese conto che in effetti aveva un po' male alla pancia. - Un po'.
- Un po' cosa? - la incalzò la levatrice, impaziente. - Devo capire se va tutto bene con il bambino.
- Sono... caduta.
Non serviva avere i sensi allerta per rendersi conto che sia Thorn che l'anziana si erano irrigiditi.
- Quando? Siete atterrata di pancia?
- Sì - mormorò Ofelia, con le palpebre pesanti. - Sono caduta... prima.
La signora imprecò, senza nemmeno preoccuparsi di scusarsi o coprirsi la bocca. Ofelia aveva sentito solo Gaela imprecare nella sua vita, come donna. Eppure la cosa non la sconvolse.
Ofelia li sentì confabulare, ma non riuscì a capire cosa stesse succedendo. Sentì un tramestio, vide che Thorn si era alzato ed era andato alla culla, e poi sentì le sue braccia forti prenderla in braccio come se fosse Serena. Si ritrovò a letto, ma per quanto fosse stanca sentì che era sbagliato stare lì, che c'era qualcosa che doveva fare. O chiedere.
- Hai la febbre, Ofelia. Scotti. Riposati - le ordinò Thorn, posandole qualcosa di fresco sulla fronte.
Gli occhiali le vennero rimossi. Li aveva avuti, quindi? Che male vedeva!
- I bambini...
- Stanno bene, stanno tutti bene. Non sforzarti - le intimò Thorn. Sotto al tono freddo, Ofelia percepì una preoccupazione palpabile, urgenza. Sentire il tono di Thorn così incrinato l'avrebbe sconvolta se fosse stata più cosciente. - Per favore.
Ofelia sprofondò in un dormiveglia agitato e popolato di sogni strani e febbricitanti, chiedendosi se avesse davvero sentito quell'implorazione uscire dalla bocca del suo algido e rigido marito, o se fosse stata una voce scaturita dal delirio della malattia.
Sognò, o vide, era forse la realtà?, i suoi bambini pallidi e costretti a letto, e poi impegnati a giocare sui prati di Anima. Si specchiò con il pancione, e l'attimo dopo teneva in braccio quattro gemelli. Tutti morti. Thorn abbracciava Sempronia, le teneva il viso tra le mani e sembrava in procinto di baciarla.
Guardava lei con disgusto, come se non l'amasse. Anzi, come se non l'avesse mai amata tanto era il disprezzo nei suoi occhi.
Incubi. Incubi. Incubi su incubi, ma talmente surreali e macabri che Ofelia in un certo senso era tranquilla. Una parte di lei si rendeva conto che, per quanto spiacevoli, non erano altro che produzioni artificiose di una mente sottoposta a stress.
La sua sciarpa che strozzava Tyr nel sonno, con le maglie vecchie e in parte scucite che si trasformavano in denti aguzzi. Salame che graffiava il viso di Serena. Balder che usava gli artigli contro la zia Roseline.
Prima di svenire, accogliendo una tenebra nera ma rassicurante, in confronto a quei sogni troppo vividi, sentì però qualcosa di troppo... realistico per essere un sogno.
Ofelia percepì che qualcuno le cambiava gli impacchi sulla fronte. Dita fredde. Thorn?
Una voce di donna vicino a... Tyr? E un'altra voce di donna, che sentiva fin dalla nascita.
- Non abbiamo certezze. Non possiamo chiederle nulla finché è in quello stato, non possiamo capire se il feto sta bene. Quanto forte sia stata la botta, o se l'ha effettivamente presa. Siamo nella più completa ignoranza - disse la voce vicina a Tyr.
Qualche imprecazione su bizzarri comportamenti degli oggetti fece tornare in mente ad Ofelia un nome: Roseline.
- Ci mancava solo quest'infezione. Siete sicuri che sia caduta?
- Lo avete chiesto cinque volte - latrò Thorn, che aveva evidentemente perso la pazienza. Strano, Thorn mostrava sempre una facciata calma e imperturbabile all'esterno. - Ne siamo abbastanza certi, ma Ofelia sembrava delirare in quel momento.
Il silenzio che si protrasse spinse un angolo della coscienza di Ofelia a chiedersi se il sogno fosse nuovamente cambiato, ma poi sentì le stesse voci.
- Quali potrebbero essere le conseguenze più gravi?
- Il rigetto del bambino - mormorò la seconda donna, addolorata. - Qualche malformazione o difetto del feto, che potrebbe nascere... non in perfetta salute. O la perdita di entrambi, madre e bimbo, ma solo in casi estremi... Il nascituro è ancora molto piccolo...
- Lasciateci soli - ordinò Thorn, facendo precipitare la temperatura nella camera.
Persino Ofelia sentì freddo, nonostante il peso delle coperte e la fronte bruciante.
Rumori soffocati, la porta che si apriva e si chiudeva. Poi più nulla. Si chiese ancora se il sogno fosse finito, ma era troppo cosciente perché fosse cambiato lo scenario.
Infatti poco dopo sentì una mano grande e ossuta, fresca in confronto alla sua, armeggiare con il suo polso, quello che non le faceva male. Le tolse il guanto. Intrecciò le dita alle sue. La figura a cui apparteneva quella mano si chinò su di lei, affranta. E lì rimase.
Molto, molto a lungo.
 
Ofelia entrò e uscì da uno stato di incoscienza febbrile che la debilitò come non mai. Di influenze ne aveva passate, si era rotta diverse ossa, un mese sì e uno no aveva mal di gola o il naso chiuso, ma nulla l'aveva mai prosciugata tanto. Aveva a mala pena la forza di mangiare un po' di brodo e bere. L'unica cosa che la spronava era la vita che portava in grembo, perché non aveva voglia di nulla, era totalmente inappetente. Non trovava conforto nemmeno nella presenza costante di Thorn, che spesso la imboccava, dei bambini che, perfettamente guariti per fortuna, tranne Tyr che si sentiva ancora molto stanco, ma almeno era fuori pericolo, dormivano ogni tanto accanto a lei, o della zia Roseline che la curava come una figlia. Si sentiva distante, insofferente.
E la febbre durò quattro giorni.
 
Il quinto giorno le sembrò di rinascere. C'era una vecchia leggenda appartenente al Vecchio Mondo, quello precedente la Lacerazione, su un uccello di fuoco che risorgeva dalle proprie ceneri. Ofelia si sentiva esattamente così: nata una seconda volta, come se la febbre l'avesse uccisa per qualche giorno. Non che fosse nel pieno delle forze, ma almeno riuscì ad inforcare gli occhiali, a scambiare due parole con Thorn, che la interrogò come un medico legale, e ad andare al bagno da sola. Riuscì persino ad abbracciare i bambini festanti, sui cui visini erano ancora visibili gli strascichi di preoccupazione e sofferenza per lei. E il polso era perfettamente guarito. Ofelia si sentì in colpa per aver causato tanto disagio, ma la zia Roseline la insultò coloritamente dicendo che era la solita sciocca a stare in pena per le cose da poco e infischiarsene di quelle gravi. Si preoccupava per loro quando era stata quasi incosciente per tre giorni abbondanti?
Ofelia sorrise di fronte ai rimproveri della zia, e si sentì quasi a disagio sotto lo sguardo penetrante di Thorn, che non la lasciava un secondo. Entrò anche la governante, che in quei giorni aveva dato una mano con i bambini, e fu visibilmente sollevata nel constatare che Ofelia stava meglio. Thorn le rivolse sottovoce una domanda che Ofelia non riuscì a sentire, e vide l'anziana stringersi nelle spalle, contrariata. Quando però, rimasti soli, Ofelia chiese spiegazioni a Thorn, non ottenne alcun chiarimento.
Rimase a letto tutto il giorno lo stesso, debole com'era, ma sorbì tutto il brodo, riacquistando un po' di forza, e anche un po' di pane e formaggio. Nel pomeriggio Thorn dovette per forza ritirarsi nel suo studio per sbrigare alcune faccende improrogabili, ma a tenerle compagnia ci furono Renard con Ilda e i bambini di Ofelia. Tyr rimase stranamente tranquillo, forse perché non era ancora guarito del tutto, o forse perché intuiva che non andava tutto perfettamente bene, e saggiamente non faceva il monello. Serena mostrò alla mamma tutti i compiti che Renard le faceva fare, le tabelline che aveva imparato (dall'uno al nove, in soli trenta minuti, cosa che aveva sconfortato Renard che ancora dimenticava quella del sette), e la sua scrittura, elegante ma precisa quanto quella di Thorn era spigolosa.
Il pomeriggio in compagnia le giovò, ma un lieve malessere verso sera costrinse tutti ad uscire per lasciarla riposare. Ofelia pensò che fosse fame, e senza dare importanza alla cosa, si fece portare un po' di pane. La levatrice le fece pervenire anche della carne, per rimettersi in forze e perché sicuramente il bambino ne aveva bisogno.
Prima di andare a casa, Berenilde e Vittoria andarono a trovarla, distraendola dai suoi pensieri con le chiacchiere di mondo e diversi disegni, la maggior parte incomprensibili, che Vittoria aveva fatto giusto per lei. La bambina però sembrava più distratta del solito, e con aria preoccupata guardava la pancia di Ofelia. Lei sperava che fosse in procinto di intuire il sesso del feto, del resto era quasi al quarto mese. Anzi, al terzo mese e mezzo.
Ma Vittoria rimase in silenzio, e chiese alla mamma di andare via presto. Quando uscì dalla camera, scortata dalla madre, Ofelia pensò di vedere delle lacrime luccicare sul volto serio della bimba. Poi però si convinse che doveva essere frutto della sua immaginazione, e l'arrivo di Thorn la distrasse.
Balder e Serena le diedero la buonanotte con un bacio, e non fecero storie se per una volta fu la zia Roseline a metterli a dormire. Archibald bussò baldanzoso alla camera da letto mentre Thorn cambiava Tyr, entrò senza permesso e si mise a blaterare di letteratura e sonetti, del tutto fuori luogo, che avevano lo scopo di esprimere profonda gioia per la guarigione di Ofelia.
Thorn lo invitò ad uscire senza tante cerimonie, ma Ofelia almeno riuscì a ringraziarlo, e le scappò anche un sorriso. Che si trasformò in una smorfia quando sentì un crampo al ventre. Sperava di riuscire a tenere dentro il pasto, sia lei che il bambino avevano assoluto bisogno di nutrimento. Una volta messo a letto Tyr, che cominciava a fare i capricci e di dormire non ne voleva sapere, ma almeno non urlava, Thorn si propose di aiutare Ofelia a lavarsi.
Essere assistita in quel modo, come se fosse incapace di compiere dei gesti basilari da sola, irritava un pochino Ofelia, ma si sentiva sporca e sudata e voleva lavare via quegli ultimi giorni. Così accetto l'aiuto di Thorn rendendosi conto che in questo modo gli faceva del bene. Lo faceva sentire utile. Non doveva essere stato facile per lui guardarla delirare per giorni, impotente. Finalmente poteva fare qualcosa di concreto e Ofelia non glielo avrebbe impedito solo per una questione di orgoglio personale.
Il suo sostegno si rivelò fondamentale, soprattutto in doccia: instabile com'era, sarebbe stato impossibile lavarsi da sola senza scivolare. I crampi continuarono a perseguitarla, talvolta leggeri e altre volte pressanti, cosa che fece temere ad Ofelia di aver sbagliato a farsi la doccia. Prendere freddo all'intestino non era proprio un'ottima idea quando si aveva un'infezione in corso.
Sospirò di sollievo quando, dopo che Thorn l'ebbe rivestita, si rimise sotto le coperte pulite, cambiate con precisione e velocità dal marito. Ofelia accarezzò il lungo viso affilato che svettava sopra di lei, con il naso importante e gli occhi in ombra, di cui era intuibile solo la scintilla metallica delle iridi.
- Sono la tua quarta figlia questa sera. E quella più impegnativa - disse sorridendo tristemente.
Thorn le strinse la mano, incapace di trovare le parole per replicare. Riprese in braccio Tyr, che emise un urletto contrariato, e cominciò a cullarlo per farlo addormentare.
Ofelia, ipnotizzata dalla voce da tagliacarte di Thorn e dai suoi movimenti rigidi, batté Tyr sul tempo.
Finché un crampo non ignorabile la svegliò.

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Capitolo 40
*** Capitolo 40 ***


Spero che il capitolo non sia troppo triste, ma allo stesso tempo spero che non sia troppo poco triste.
E spero di aver reso bene i sentimenti che un evento simile può scatenare, sperando che vi piaccia il capitolo.
Insomma, spero un sacco di cose! E vi lascio leggere in pace xD


Capitolo 40

Ofelia sentiva che qualcosa non andava. I crampi erano troppo insistenti, era un miracolo che fosse riuscita a dormire fino a quel momento. In più si sentiva bagnata, come se avesse rotto le acque o qualcuno avesse rovesciato dei liquidi a letto. Inforcò gli occhiali con gesti impacciati, acchiappandoli prima che loro scappassero via, agitati, e accese la luce.
Soffocò a stento un urlo.
Il suo primo pensiero fu che Thorn era morto. C'era sangue, troppo sangue.
Ma lui, con il suo sonno leggero, si riscosse, voltandosi verso di lei senza la minima traccia di sonno negli occhi, all'erta.
Ovviamente non era morto. E non era nemmeno sofferente.
Scattò a sedere quando vide la marea rossa che, Ofelia se ne rese conto solo in quel momento, veniva da lei.
Thorn uscì da letto indossando la vestaglia con un unico gesto. Si chinò poi su di lei, bloccata, incapace di capire cosa stesse succedendo, e le prese il viso tra le mani.
- Ofelia? - la chiamò. - Ofelia?
Lei portò gli occhi nei suoi, facendogli che capire che c'era, era cosciente.
- È il bambino?
Il bambino.
Il loro bambino. Quel sangue poteva significare solo una cosa.
- La levatrice... - sussurrò lei, piano come un respiro.
Thorn indugiò appena, accarezzandole il viso prima di fiondarsi fuori dalla porta.
Ritornò pochi minuti dopo con l'anziana robusta che borbottava improperi per essere stata svegliata così malamente. Si zittì subito, e smise di cercare di coprirsi l'abbondante decolleté con la vestaglia, quando vide lo stato del letto.
- Una bacinella di acqua calda, tutti gli stracci sterilizzati che trovate, presto. E svegliate la zia della signora e la mia allieva.
Thorn non guardò nemmeno la moglie, a lunghe falcate uscì dalla stanza, l'espressione contratta come Ofelia non l'aveva mai vista, se non quando aveva pensato che lei stesse morendo, all'Immaginatoio. Se possibile, la sua faccia in quel momento era ancora più lugubre e disperata.
- Madama, ditemi cosa sentite - la riportò alla realtà la levatrice, il capo così affidabile delle domestiche.
Il suo tono dolce al posto di quello solito, pressante e mordace, le fece venire voglia di piangere.
- Ho i crampi - ammise Ofelia, come quando da bambina era costretta a confessare una malefatta. - E c'è tanto sangue.
La levatrice ebbe la delicatezza di non farle notare che quello era evidente.
- Da quando avete i crampi? Quanto forti sono?
- Da... da prima di cena - ammise Ofelia, sentendosi terribilmente in colpa. - Sono come le prime contrazioni di un parto.
La donna imprecò. Scostò con attenzione le lenzuola insanguinate, fece togliere del tutto la camicia da notte ad Ofelia, perché era inutile scostarla se poi rischiava di sporcare ancora di più, e le fece levare anche la biancheria.
Quasi per miracolo, Tyr continuò a dormire.
Ormai Ofelia aveva perso del tutto il senso del pudore di fronte a quell'anziana che l'aveva vista più o meno approfonditamente quanto suo marito. Che entrò in quel momento reggendo la bacinella, tallonato dalla zia Roseline e dalla giovane domestica allieva della levatrice, che non riuscì ad impedire che l'orrore trapelasse sul suo viso. L'anziana e la giovane si misero a lavorare alacremente, la seconda pulendo come poteva, e facendo impacchi ad Ofelia, la prima tastandole la pancia. Ofelia cercò di trattenere le smorfie il più possibile. La zia Roseline subentrò alla giovane domestica per occuparsi degli impacchi da fare ad Ofelia, che aveva di nuovo la febbre. Thorn invece, tanto veloce e disponibile prima, sembrava essersi spento. Stava a rispettosa distanza dalle donne che lavoravano, immobile come un automa scarico, e fissava Ofelia con i suoi occhi da rapace. Non ciò che le altre facevano, non il sangue che continuava ad uscire, ma il viso di Ofelia, pronto a cogliere qualsiasi segno che potesse fargli capire come si sentisse lei.
Aveva già chiesto se poteva fare qualcosa, ma si rendeva conto che in quella situazione ancora più delicata di un parto era meglio lasciare le cose in mani esperte, tanto che anche la zia Roseline se ne stava al suo posto. Nulla però poteva impedirle di blaterare aneddoti su alcuni oggetti emblematici di Anima, come l'orologio che non sgarrava mai di un secondo, la vasca che intuiva quando i proprietari volevano fare un bagno, il cuscino amorevole che si assottigliava, ammorbidiva o espandeva in base alle preferenze del dormiente, e il tappeto con la mania della pulizia che usava il battipanni da solo, ogni giorno, alle sette in punto della mattina.
Nessuno l'ascoltava, ma la sua cantilena almeno calmava lei stessa, impedendole di dare di matto come solo un'animista sapeva fare.
Thorn, alla fine, si schiarì la gola. - Il bambino è a rischio?
Solo quando la levatrice lo guardò, mettendolo a fuoco per la prima volta quella notte, con gli occhi rossi di stanchezza, fatica e commozione, Ofelia capì. Capì che non era solo sangue suo quello che il suo corpo stava rigettando. Capì che forse, con la sua caduta, aveva dato il colpo di grazia ad una gravidanza già a rischio. Che forse era stata a rischio dal principio, dato il suo stato d'animo preoccupato e la stanchezza. Capì che se fosse stata più previdente e non avesse sottovalutato quell'infezione virale, forse il loro bimbo sarebbe stato ancora dentro di lei, e non...
Un singhiozzo le sfuggì prima di poterlo contenere. Il silenzio parve piombare nella camera, mentre la levatrice continuava a liberarle il ventre per scoraggiare emorragie e batteri. Voleva parlare, voleva dire qualcosa, ma si sentiva la lingua gonfia, incapace di pronunciare un solo suono.
Si estraniò completamente dalla camera, dal suo corpo. Le sembrava di vivere in un incubo da cui desiderava svegliarsi al più presto. Sentì qualcuno che le accarezzava la testa, sentì un bacio tra i capelli, un lamento di Tyr che veniva tolto dalla culla, poi la porta si chiuse. Delle dita le afferrarono dolcemente la spalla, riscuotendola. Thorn la guardava, il volto impassibile, una maschera di ghiaccio senza emozioni.
Aveva almeno capito che il loro bambino non sarebbe mai nato?
- Devo cambiare il letto. Riesci ad alzarti?
- È colpa mia. È tutta colpa mia - mormorò Ofelia. Non sentiva nemmeno il freddo sulla pelle nuda e appiccicosa. - Ho... ucciso nostro figlio.
Thorn la strinse a sé all'improvviso, infischiandosene del letto sporco e della scomodità della posizione.
Ofelia trovò finalmente l'oscurità a cui agognava, popolata dal martellare ritmico e fin troppo veloce del cuore di Thorn.
- Non dirlo. Non dirlo mai. Non è stata colpa tua.
Ofelia cominciò a piangere, gli gettò le braccia al collo senza preavviso e si strinse ancora di più a lui. Thorn seppellì il naso nel suo collo e Ofelia percepì chiaramente le forze che lo abbandonavano. Sentì il suo corpo sussultare a contatto con il suo, scuotendola. 
- Se... se fossi stata più attenta... - balbettò Ofelia, con la voce annacquata come se parlasse sott'acqua. - Se non fossi ca-caduta. Se...
Thorn l'abbracciò così forte da stritolarla, un contatto di cui Ofelia aveva estremo bisogno per non crollare a pezzi. Le sembrava che Thorn fosse la sua rete di salvataggio e, per quanto odiasse ammetterlo, era sollevata all'idea di non essere da sola ad affrontare quel dolore. Thorn non l'aveva provato in prima persona, non aveva sentito la vita del loro figlio abbandonare il suo corpo, ma non sarebbe stato il padre di quel bambino, non l'avrebbe aiutata di nuovo a partorire.
Fu grata che fosse lì, grata che la lasciasse singhiozzare, unendosi a lei in silenzio, grata che non le urlasse contro, che non si arrabbiasse, che non la incolpasse, nonostante lei si sentisse un'assassina.
Perché finché avesse avuto il dubbio che il bambino sarebbe potuto sopravvivere, lei si sarebbe sentita la madre mancante che non aveva fatto tutto il possibile per proteggerlo. E si maledisse per essere stata così preoccupata all'idea di averlo. Lo voleva, lo rivoleva indietro, rivoleva il suo bimbo.
Pianse sino a che non finirono le lacrime, e si addormentò.
 
Quando si svegliò, le sembrò che la sua testa fosse in procinto di esplodere. Sentiva gli occhi gonfi e doloranti, il corpo era un relitto devastato, e la prima cosa che Ofelia percepì fu la desolazione del suo ventre. Vuoto. Il bambino era stato troppo piccolo per calciare, o muoversi, ancora non formato, ma Ofelia lo aveva in qualche modo sentito. Ora si sentiva solo vuota.
Era mezza sdraiata sulla poltrona di camera loro, quella che avevano comprato quando i bambini ci mettevano troppo ad addormentarsi e allora o lei o Thorn si sedevano per non doverli cullare da in piedi. Era vestita, e pulita.
Thorn stava rifacendo il letto, buttando fuori dalla porta il materasso impregnato di sangue e sostituendolo, da solo, con quello nuovo che si era fatto recapitare da qualcuno nel cuore della notte. Almeno, pensava che fosse notte. Poteva far fare tutto ai domestici, come al solito, ma forse il movimento, il non rimanere immobile lo aiutava.
- Che ore sono? – biascicò.
Thorn continuò a lavorare, intimando ad Ofelia di starsene seduta quando la vide muoversi per dare una mano. Anche volendo, non si sarebbe opposta: si sentiva troppo male per essere di alcun aiuto.
- Le quattro del mattino – rispose Thorn con voce ruvida, laconico. – Non hai un bell’aspetto.
Non poteva dargli torto. Non le era mai importato il suo aspetto, non nel senso che intendevano tutte le ragazze, ma tra il viso gonfio di pianto e gli occhi rossi doveva essere dell’aspetto più terribile che avesse mai avuto.
- Quanto tempo ho dormito?
- Sei stata incosciente per due ore.
Incosciente?
Di fronte al suo sguardo spaesato, Thorn rettificò: - Ti ho lavata e cambiata e non te ne sei nemmeno accorta. Io la chiamo incoscienza, non sonno.
Ofelia notò che non incrociava il suo sguardo. Le dava la schiena, e osservarlo mentre lavorava aveva un che di ipnotico. O forse era talmente in balìa dei suoi pensieri che avrebbe considerato ipnotica qualsiasi cosa.
- Tyr…?
- Con Roseline.
- I bambini?
- Dormono. Dormono tutti.
Thorn si sedette sul letto pronto, lasciandosi sfuggire un sonoro sospiro. Si massaggiò la pelle tirata della faccia, sfregandosi la barba corta. I capelli erano in disordine come mai Ofelia li aveva visti, come nemmeno lei era riuscita a spettinarglieli. La cosa più grave, però, era che Thorn non faceva nulla per sistemarli.
Ofelia si alzò a fatica, portandosi subito le mani al grembo. Niente.
Vuoto.
Non avrebbe mai avuto un nome. Né un sesso.
Né una vita.
Sentì gli occhi pizzicarle, ma erano talmente stanchi di piangere che non versarono una lacrima. Gli occhiali erano grigi. La sciarpa abbandonata, come se non fosse stata una fedele compagna, ma una sciarpa qualunque.
Non l’aveva avuta attorno al collo, però, durante la notte…
- Thorn, la sciarpa… non ce l’avevo – mormorò con la voce arrochita da tutto il dolore che portava dentro. Le sembrava di avere il cotone, in gola.
- Ha strisciato verso di te da quando ti ho messa sulla poltrona. Non si è calmata finché non ti ha raggiunta.
Ofelia accarezzò la sua lanosa amica, che però non reagì. Per fortuna gli oggetti non potevano morire, perché la sciarpa sembrava proprio morta. E non sarebbe riuscita ad affrontarne un’altra nel corso della notte.
Crollò ai piedi di Thorn, appoggiando la testa sulle sue ginocchia. Non sapeva nemmeno cosa dirgli. Cosa chiedergli. Come poteva scusarsi per essere stata così… sprovveduta?
Un respiro tremolante le uscì di bocca, accompagnato da parole confuse e rantolate. – Thorn… perdonami… io…
Thorn le posò le mani sulle guance, delicatamente. Le fece alzare il viso.
E Ofelia ebbe voglia di piangere notando quando rossi, iniettati di sangue, fossero i suoi occhi metallici. Era… devastante vedere Thorn in quel modo. Un dolore acuto quanto la perdita che avevano subito.
- Sc-scusam…
Thorn si chinò difficoltosamente, posando la fronte sulla sua.
- Non hai colpe.
- Ma sono caduta e…
- Poteva succedere a chiunque.
- Non sono stata abbastanza atten…
- Lo sei stata.
- Non mi sarei dovuta ammal…
- Non era una cosa che potevi controllare.
- Perché sei così indulgente? - singhiozzò Ofelia. – Perché non urli, perché non mi odii?
Thorn le tolse gli occhiali. – Ofelia, sei sconvolta. Nessuno ha motivo di urlare od odiarti. Non meriti altro dolore. Staresti meglio, se ti maltrattassi?
No.
Sarebbe stata la sua completa fine. Se Thorn l’avesse ritenuta responsabile, si rese conto Ofelia, se anche lui si fosse rivoltato contro di lei, se l’avesse perso… sarebbe stata la fine per lei. Il dolore che provava in quel momento, il senso di vuoto e di smarrimento, sarebbero stati nulla in confronto all’allontanamento di Thorn sommato all’aborto.
Aborto.
Quella parola la faceva tremare.
- Ofelia?
- Non lasciarmi – lo supplicò, d’un tratto spaventata all’idea che Thorn potesse davvero ritenerla responsabile, e accusarla. – Non lasciarmi Thorn.
Lui le accarezzò le guance, con una dolcezza che non aveva mai e poi mai usato con lei. Una tale tenerezza che le fece male.
- Mai.
Ofelia non seppe dire per quanto tempo rimase inginocchiata a terra, confusa, stanca ma incapace di dormire, sul limite della pazzia, tra sonno e veglia, ma le parve un tempo infinito. Thorn si era irrigidito talmente tanto che si sentirono le sue articolazioni scricchiolare quando si raddrizzò.
L’aiutò a mettersi a letto, e mai come in quel momento Ofelia si sentì incapace e inutile.
Sentì Thorn uscire nel corridoio, dire che l’intendenza sarebbe rimasta chiusa quel giorno, di riferirlo al suo segretario. Lo sentì chiedere alla zia Roseline, che aveva una voce talmente pacata da essere irriconoscibile, se poteva occuparsi lei di Tyr per qualche ora. Lo sentì domandare a Renard, per cortesia, se poteva vegliare su Balder e Serena, senza rispondere alle domande del gigante fulvo su cosa fosse successo, e se si fosse fatto male, dati gli occhi rossi. Lo sentì raccomandarsi ai bambini di fare i bravi per quel giorno, perché la mamma non stava bene e doveva riposare, e lui doveva prendersi cura di lei. Lo sentì rassicurare con poche, fredde parole, a modo suo, Serena, che piangeva dalla preoccupazione.
Infine lo sentì chiudersi la porta alle spalle e sdraiarsi accanto a lei, sospirando di fatica, di angoscia, di… di niente e di tutto.
Ofelia voleva il conforto del suo tocco? O voleva stargli lontana? Voleva un momento per sé o voleva condividere il dolore con lui che, come nessun altro, poteva capirlo?
Un aborto.
Solo quando Thorn l’abbracciò, imprigionandola fino quasi a farle male, Ofelia sentì un piccolo nodo di tensione sciogliersi dentro di lei.
E finalmente riuscì a scivolare in un sonno agitato, zeppo di incubi vividi e confusionari, ma che erano così tanto piacevoli in confronto alla realtà.
 
Ofelia si rifiutò di uscire dalla camera per due giorni, adducendo ora la scusa della debolezza, peraltro vera, ora la mancanza della forza necessaria ad affrontare gli altri.
O ad affrontare la verità.
Thorn non obiettò, e i bambini passavano i pomeriggi in camera con lei, ma erano tristi, come se percepissero le emozioni dei genitori, intuendo che qualcosa non andava. Persino Tyr era meno irrequieto del solito, anche se Ofelia dava più che altro la colpa alla grave infezione che aveva contratto. Per un bimbo di un anno era difficile riprendersi dopo una malattia del genere, ma Thorn le aveva più volte assicurato che anche lui era stato di salute cagionevole. Glielo aveva rivelato a spizzichi e bocconi, con poche parole e oltretutto dure, concise, cosa che aveva fatto capire ad Ofelia che era un argomento che lui non voleva approfondire.
Il terzo giorno, quando aveva preso la decisione di presentarsi quanto meno a cena, Serena le diede il colpo di grazia involontario.
- Mamma? - chiese piano, come se temesse una reazione adirata. - Quando potremo sentire il fratellino o la sorellina calciare?
Dall'alto dei suoi sei anni, a Serena era impossibile nascondere le cose. Balder aveva una memoria normalissima, si sarebbe anche potuto dimenticare che una volta mamma e papà avevano accennato all'arrivo di un nuovo fratello o sorella, di cui peraltro era stato il più entusiasta, ma Serena non lo avrebbe mai scordato.
Ofelia si morse le labbra, e poi le cuciture dei guanti, perché le labbra erano già abbastanza screpolate e rovinate. Era disidratata, ma si dimenticava di bere. La domestica e Thorn si sarebbero preoccupati se non avesse finito tutta la caraffa che le avevano fatto avere.
Conoscendo la madre, Serena intuì subito che qualcosa non andava. Si allungò verso di lei, facendosi prendere in braccio e abbracciare.
Ad Ofelia sfuggì un sorriso piccolissimo. Le depositò un bacio tra i capelli. - Tra poco sarai troppo grande per essere presa in braccio - l'ammonì.
In contrapposizione a ciò che aveva detto, però, se la strinse contro, accarezzando poi Balder che la guardava con gli occhi da cucciolo. Tyr pensò bene di sputacchiare.
"Ho ancora loro", si disse Ofelia. "Ho ancora loro. E Thorn".
- Mamma, perché non rispondi?
La memoria di Serena cominciava a diventare irritante.
Thorn aprì la porta della camera proprio in quel momento, di ritorno dal lavoro. Si fermò vedendo l'ammucchiata che c'era sul letto, poi adocchiò la caraffa d'acqua quasi intoccata e aggrottò le sopracciglia. Ofelia avrebbe dovuto quanto meno nasconderla. Non sapeva se quelle premure la confortassero o la opprimessero.
- Ciao papà! - salutò Balder, scendendo impacciatamente dal letto per andare ad abbracciare la gamba di Thorn.
Serena non lo seguì, stranamente, e Thorn si incupì ancora di più. La bambina rimediò lanciando a lui la domanda a cui Ofelia faceva tanta fatica a rispondere.
- Papà, quando diventerà grande la pancia della mamma?
Il viso rimase lo stesso, adombrato come pochi secondi prima, ma ad Ofelia parve di scorgere una scintilla di malinconia nei suoi occhi, una tristezza appena percettibile, eppure presente. Doveva essere enorme, dentro di lui, se Thorn non riusciva del tutto a nasconderla.
- Non diventerà grande. La mamma ha perso il bambino.
Thorn e la sua solita dolcezza. Quelle parole ferirono Ofelia come un'artigliata, ma non perché celavano un'accusa da parte di Thorn. No, la colpì la realtà di quelle parole.
Lei aveva perso il bambino. Thorn non avrebbe mai visto nascere il quarto figlio, non lo avrebbe potuto crescere, ma era lei quella che lo aveva portato in grembo, che lo avrebbe fatto nascere.
Invece, lo aveva espulso. Rigettato.
Le venne la nausea.
Balder si staccò dalla gamba di Thorn, allungando il collo per poter vedere la sua espressione. Thorn lo prese in braccio.
- Dove si è perso? - chiese innocentemente. Al contrario di Serena, pronunciava perfettamente tutte le r. - Bisogna stare vicini!
Ofelia e Thorn gli avevano insegnato a stare sempre vicino a loro o a chi conoscevano quando andavano in giro, e il bambino aveva preso la cosa molto sul serio. Peccato che non potesse applicarsi al feto.
- Significa che non nascerà, Balder. Non... lo vedremo mai.
Non sarebbe nato.
Non sarebbe cresciuto.
Non sarebbe vissuto.
Ofelia sentì una stilettata al cuore, e sbatté le palpebre per mandare via le lacrime.
Thorn notò la sua difficoltà e cercò di rimediare. - Può capitare che i bambini che le donne portano in pancia abbiano dei problemi. E non possano nascere.
- Ma cosa succede? - indagò Serena, suo malgrado curiosa.
Balder e Tyr erano troppo piccoli per capire, ma Serena non si sarebbe accontentata di una spiegazione fantasiosa e un cambio di discorso. Thorn parve capirlo, così prese in braccio Tyr, che si aggrappò ai suoi capelli facendogli fare una smorfia. Il bambino rise contento, facendo ridere anche Balder, che lo imitò.
- Lui è piccolo, Balder, tu no. Non mi sembra il caso che mi tiri i capelli - lo sgridò Thorn.
Il bambino ritrasse subito le mani, contrito, mentre Tyr continuava a ridere e maltrattarlo. Thorn gli lanciò un'occhiataccia che venne subito ignorata. - Con te farò i conti dopo.
Detto ciò uscì, probabilmente per portarli a cena, si immaginò Ofelia.
- Mamma, voglio sapere! Cos'è successo al fratellino? - la pregò, con gli occhi scuri pieni di preoccupazione.
- Il bambino è uscito, Serena - sussurrò Ofelia, a fatica. - Non è più nella mia pancia.
- E dov'è? Se è uscito vuol dire che è nato, no?
- No - deglutì Ofelia, ingoiando le lacrime. – Non… il bambino è morto, Serena.
La piccola sgranò gli occhi. – Morto come quando non vedrai una persona mai più?
Serena, fortunatamente, non aveva ancora subito la perdita di qualche familiare, ma quando l’argomento era venuto fuori per via della morte di un qualche Miraggio, della qual cosa Berenilde si era rallegrata, Serena aveva subito chiesto di cosa stessero parlando.
Thorn aveva anticipato tutti, onde evitare che la zia Roseline spiegasse che un morto era come un armadio inanimato e un camino senza fuoco, o che Berenilde rivelasse che spesso gli omicidi al Polo erano cruenti e un morto era riconoscibile dal sangue e dalle ferite che lo imbrattavano. Il tutto condito di parole eleganti e gesti nobili, come se uno smembramento fosse una composizione floreale di dubbio gusto, ma pur sempre una composizione floreale.
- Sì - confermò Ofelia, con voce soffocata.
Gli occhi di Serena si riempirono di lacrime. - Ma io volevo conoscerlo.
Ofelia l'abbracciò stretta per impedirle di vedere che anche lei era sull'orlo del pianto. - Anche io, Serena. Anche papà. Tutti volevamo conoscerlo, o conoscerla. Ma non potremo.
Serena singhiozzò. - Ora ne farete un altro?
- No - rispose di getto Ofelia, sorprendendo persino se stessa.
L'ultima cosa che voleva in quel momento era rimanere incinta di nuovo. Sarebbe stato un incubo, avrebbe avuto il terrore costante di perdere anche quel bambino, e i sensi di colpa circa il suo essere una madre incapace già la tormentavano.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Serena la strinse ancora più forte. - Sono felice di essere nata, mamma.
Ofelia si morse le labbra per non urlare. - Anche io sono felice che tu sia nata. Non sai quanto.
- Ti voglio tanto bene, mamma.
- Io di più, tesoro. Te ne vorrò sempre.
- Sono contenta che tu sia la mia mamma. E che tu sia il mio papà, papà.
Ofelia alzò la testa, notando l'alta figura che si stagliava contro la porta e che anche Serena aveva visto in quel momento: Thorn era venuto a prendere Serena per la cena.
Si avvicinò, senza però rispondere alla dichiarazione affettuosa della figlia. Stese invece le braccia, silenzioso invito perché Serena vi si rifugiasse. Ofelia cercò di asciugarsi gli occhi di nascosto mentre Serena si stringeva al corpo ossuto di Thorn, ma non poté evitare di tirare su con il naso.
- Vieni a cena? - le chiese Thorn, inchiodandola con il suo sguardo.
Con la marea di lacrime che sentiva arrivare, la poca voglia di mangiare e di fare conversazione, Ofelia decise che non era proprio il caso. Scosse quindi la testa in diniego, ma Thorn non demorse. Controllava tutto quello che mangiava in quel periodo, e quando lei cercava di svicolare ricorreva ad altri metodi per scoprire quello che voleva. Oltre a fare il matematico, il ragioniere, l'amministratore e tutte le altre mansioni che svolgeva, Thorn avrebbe potuto benissimo essere anche un investigatore.
- Ti faccio portare qualcosa da mangiare.
Ofelia gli fece un cenno con il capo, trattenendosi finché non si fu chiuso la porta alle spalle. Dopodiché si lasciò cadere sui cuscini, con le lacrime che già scorrevano.
 
Thorn la riscosse pochi minuti dopo, o così le parve.
- I bambini sono venuti a salutarti - le disse, brusco come sempre.
Balder e Serena, in piedi sulla porta della camera, impauriti nei loro pigiamini, la salutarono timidamente.
Ofelia si sentì scaldare il cuore alla loro vista, e Tyr, in braccio a Thorn, pensò bene di lamentarsi e allungarsi in modo da passare dal papà alla mamma. Ofelia lo prese in braccio e il bambino sorrise felice. In quel periodo aveva perso il solito cipiglio, anche se rimaneva più serioso e scorbutico dei suoi fratelli alla sua età. I bambini si avvicinarono lentamente e salirono sul letto, guardando Ofelia come se fosse fragile. Odiava essere compatita, essere guardata in quel modo pieno di pietà, ma la colpa era solo sua. Si stava deprimendo, e se non si fosse data una mossa la situazione sarebbe peggiorata.
Thorn stava già facendo il genitore senza di lei, sopperendo alla sua mancanza. Non era quello che si era aspettata da se stessa. Aveva sempre pensato di poter essere autonoma, di poter fare da sola le sue scelte e poi perseguirle. Ma aveva deciso da sola di essere la moglie di Thorn e di diventare madre, e in quel momento non stava affatto tenendo fede ai suoi impegni.
Era la prima a vergognarsi di se stessa.
- Hai mangiato, mamma? - le chiese gentilmente Serena. - Le verdure fanno bene e ti tengono sana, così ha detto la plozia Loseline - le riferì, perdendo qualche r per strada. - Devi mangiare tante verdure!
Balder storse il naso. - No verdure!
Solo in quel momento Ofelia si accorse che sul comodino era posato un vassoio con del brodo e delle verdure arrosto. Mentre dormiva non aveva nemmeno sentito la cameriera entrare a posarlo accanto al letto.
Thorn soprassedé sul commento di Balder, ma fece scattare l'orologio per controllare l'ora. La sciarpa, ancora intontita, sobbalzò a quel rumore.
- L'ora di dormire è passata da parecchio. A letto.
- Va bene papà - risposero in coro, docili, Balder e Serena.
Tyr invece sputacchiò.
I due più grandi abbracciarono Ofelia e Thorn li accompagnò a letto.
Sistemandosi Tyr in grembo, pregando che per una volta stesse fermo, Ofelia cercò di prendere il vassoio e mangiare. Al primo calcio di Tyr decise di essere più cauta, al secondo mancato disastro causato dalla presa poco stabile delle sue mani Ofelia decise che avrebbe mangiato più tardi, anche se ormai doveva essere tutto freddo.
Thorn arrivò poco dopo e si riprese Tyr, cambiandogli il pannolone, lavandolo e vestendolo per la notte. Ofelia ne approfittò per spiluccare senza grande appetito, persa nei suoi pensieri. Si accorse che Tyr si era addormentato solo quando Thorn le si sedette a fianco.
- Finisci la cena - le intimò.
- Sono piena, davvero - si schermì lei.
Un gorgoglio chiaro e traditore della sua pancia, però, la smentì.
Thorn represse un sospiro. Riprese il vassoio da dove lei lo aveva posato e glielo mise sulle gambe.
- Non vorrei davvero usarti violenza imboccandoti, ma lo farò se costretto.
Ofelia si arrese e prese in mano il cucchiaio, che si afflosciò come un foglio di carta tra le dita guantate. La sua indolenza stava contagiando le posate. Le ci volle molta volontà per riportarlo ad uno stato solido e utilizzabile.
Thorn rimase silenzio a controllare che mangiasse tutto, e Ofelia increspò le labbra in un piccolo sorriso triste. - Una volta ero io ad intimarti di nutrirti regolarmente.
Thorn si strinse impercettibilmente nelle spalle. - Ora sei tu a doverlo fare, e io ad intimartelo.
Ofelia non voleva piangere. Era stanca di piangersi addosso, di commiserarsi, di dipendere dagli altri e pesare su di loro. Eppure le lacrime premevano, e premevano, inarrestabili, e lei lottava contro di loro. Ma contro di loro, o contro se stessa?
Si sentiva così vuota. Non metaforicamente, ma letteralmente. Sentiva la mancanza di ciò che non era più dentro di lei.
- Hai perso troppo peso perché io posso ignorare la tua alimentazione - continuò Thorn, che forse pensava che Ofelia stesse ancora aspettando una spiegazione circa la sua insistenza. - Io...
Thorn si zittì, distogliendo lo sguardo, schiarendosi la gola, a disagio. Ofelia attese.
- Io sono preoccupato. Nulla potrà compensare la perdita di questo bambino, ne sono consapevole. L'ho visto con mia zia. Ho visto la spirale di disperazione in cui è caduta. All'epoca non la capivo. La reputavo debole. Ora so cosa deve aver provato, soprattutto perché i suoi figli li aveva visti nascere e crescere. Una cosa così...
Thorn sospirò, rigido dalla testa ai piedi, terribilmente a corto di parole, in difficoltà nell'esprimersi. Doveva essergli servito molto coraggio per tirare fuori quelle poche frasi. Ofelia non gli mise fretta per paura che si bloccasse. Voleva lasciargli tempo. Del resto, lui non le aveva sempre concesso tempo, sin da quando l'aveva conosciuta?
- Ora comprendo. Ma non posso ancora capire cosa significhi per una madre, che ha portato il bambino in grembo. Non lo so. Però so che... hai ancora tre figli. E... me. Potrebbe essere abbastanza per continuare a vivere... bene? Con... la vita continua e...
Thorn strinse il pugno involontariamente, e anche la mascella. Ofelia poté quasi sentire i suoi denti stridere. Con tutta la calma di cui era capace, come se si stesse avvicinando ad un animale feroce, Ofelia gli prese delicatamente il viso tra le mani. Glielo strinse piano finché lui non riportò gli occhi nei suoi, e Ofelia, nonostante tutto, nonostante si sentisse debole, e vuota, addirittura sola, sentì le farfalle nello stomaco come le prime volte in cui si erano toccati.
Gli diede un bacio a fior di labbra, tenero, intimo in modo diverso, chiedendogli di smettere di pensare così tanto, rassicurandolo. Un bacio breve, che non avrebbe portato ad altro.
- A me piace la mia vita, Thorn. Io amo la mia vita. Amo i bambini. Amo te. Te lo dico poco, anzi, non ce lo diciamo mai, ma... ti amo.
Si sentì arrossire come se quello di fronte a sé non fosse suo marito da anni, ma un uomo di cui non conosceva i sentimenti e al quale stava confessando alla cieca i propri.
- Questo momento passerà. Però ora fa... tanto, tanto male. Ed è solo grazie a te e ai bambini se non è insopportabile.
Thorn le restituì il bacio e si alzò, come se avesse raggiunto il limite di quello che poteva affrontare. Forse era così. Ofelia lo imitò, dirigendosi in bagno per lavarsi. Rifiutò la mano che Thorn le porgeva, decisa a farcela da sola.
Aveva ragione, lui. Aveva tanto, più di quanto avesse mai potuto immaginare. O voluto. Avrebbe sempre portato in cuore il loro quarto bambino, ma sarebbe stato un dolore sopportabile rispetto a ciò che già aveva. Non gli avrebbe fatto il torto di dimenticarlo, come non lo avrebbe fatto Thorn, ma non avrebbe fatto nemmeno a Serena, Balder e Tyr il torto di non occuparsi come doveva di loro per via di quel dolore.
Quando tornò in camera, sentendosi rivestita di una nuova pelle, e non solo per il bagno, trovò Thorn seduto dalla sua parte di letto, senza maglia. La fissava, immobile, in quel suo modo che molti definivano inquietante ma che lei invece apprezzava.
Ofelia gli si avvicinò e gli si sedette sulle ginocchia come una bambina, gettandogli le braccia al collo. Thorn la imprigionò, facendola sprofondare in un'oscurità calda che la cullava al ritmo del suo battito cardiaco.
- Dovremmo dargli un nome - mormorò Ofelia, con la voce soffocata dalla pelle di Thorn. - Al bambino. Per ricordarlo. Non possiamo ricordarlo come il quarto figlio, o il bambino che non è mai nato o...
Le si spezzò la voce.
Thorn le premette la bocca tra i capelli. - Sì. Credo sia una buona idea. Non ora però.
Ofelia scosse la testa. Non sapevano nemmeno il sesso del bambino. Avrebbero dovuto scegliere un nome neutro?
Quasi non si accorse che Thorn la stava mettendo a letto, facendola sdraiare e rimboccandole le coperte per poi spegnere la luce e abbracciarla.
Rimase con gli occhi spalancati nel buio, rendendosi conto che dare un nome al bambino lo avrebbe reso reale, avrebbe acuito il dolore, ma al contempo lo avrebbe smorzato, perché avrebbe preservato in loro il ricordo di ciò che non sarebbe stato, invece di dimenticarlo. E sarebbe stato come perdere il bambino due volte.
Ofelia capì che nemmeno Thorn riusciva a dormire quando lo sentì alzare la testa di scatto verso la porta. Lei lo imitò, ma meno bruscamente.
La porta si aprì di uno spiraglio, e una testina bionda fece capolino, seguita da una più bassa e mora.
- Papà? - sussurrò Serena. - Sei sveglio?
- Mamma? - chiamò Balder, che però venne zittito da Serena.
- Che c'è? - chiese Thorn.
Serena non perse il coraggio di fronte al tono secco. - Possiamo... possiamo dormire con voi questa notte? Non riusciamo a prendere sonno.
Thorn si allontanò da Ofelia quel tanto che bastava per fare spazio, al centro, a due corpicini minuti.
- Venite - li incoraggiò Ofelia, abbassando le coperte.
Serena e Balder si arrampicarono sul letto, tirando qualche calcio ai genitori per poi infilarsi tra di loro.
- Io ora dorme - promise Balder, strizzando forte gli occhi nel tentativo di indurre il sonno ad arrivare.
Serena invece si strinse contro il braccio della madre, afferrandola con le piccole mani calde. Ofelia le diede un bacio sulla fronte, mentre Thorn risistemava le lenzuola per coprire tutti. Diede un buffetto alla guancia di Balder, che ridacchiò e disse: - Mi hai svegliato papà!
- Parla piano che Tyr dorme - lo pregò Ofelia, e dal movimento convulso del materasso si intuì che il bambino aveva annuito freneticamente.
Guardandosi al di sopra delle teste dei loro figli, nella penombra della camera, Ofelia e Thorn allungarono le braccia per intrecciare una mano.
E finalmente si addormentarono tutti e quattro, insieme.
Almeno finché Tyr non si svegliò urlando e volle andare a letto con gli altri, tirando calci a tutti nel tentativo di mettersi comodo.
Di sicuro non fu uno dei sonni più lunghi di Ofelia, e nemmeno il più ristoratore, ma di certo fu il più caldo.
 
Non fu nemmeno molto comodo, a dire il vero, perché quando la mattina si svegliarono, Ofelia aveva il ginocchio di Serena piantato contro l'anca, e Thorn la testa di Balder incuneata in modo strano nella schiena.
Destati da un battito ritmico, Ofelia non si sorprese di vedere che era Tyr che schiaffeggiava i suoi fratelli maggiori.
- Ahi - borbottò Serena, stringendosi alla mamma.
Thorn allungò una mano per catturare i polsi di Tyr, che si fermò guardandolo male. Quel bambino era una peste in confronto ai maggiori!
- Fame! - esclamò Balder di punto in bianco, alzando la testa di scatto. - Zia detto cioccolata!
- Cosa? - domandò Ofelia, confusa.
- Tua zia gli ha detto che se avesse fatto il bravo in questi giorni oggi gli avrebbe preparato la cioccolata spalmabile. Una specialità di Anima, ha detto. Personalmente non vedo alcuna utilità nello spalmare la cioccolata, ma i bambini sono impazziti.
- Sì la cioccolata spalmabile! La mangi anche tu, mamma? Ti pregooooo - implorò Serena, tirandole il braccio.
Ofelia sorrise, sentendosi un pochino meno triste. Sentì gli occhi di Thorn addosso.
- Sì. Andiamo a fare colazione.

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Capitolo 41
*** Capitolo 41 ***


Bene bene bene, chi è stata meno in ritardo del solito questa volta? :D
Il capitolo è ancora un pochino amaro, per così dire, ma si spiegano diverse cosette. Spero tanto che vi piaccia. Vi chiederei anche gentilmente di guardare le note a fine capitolo: dovete aiutarmi a prendere una decisione ;)
Che la sciarpa sia con voi e con Ofelia soprattutto!


Capitolo 41

Per fortuna Ofelia andò in sala da pranzo di sua spontanea volontà! La zia Roseline e Berenilde si erano ripromesse di trascinarla a tavola per le orecchie, se fosse stato necessario, pur di vederla mangiare e di impedirle di deprimersi ulteriormente. Persino Thorn cedette, per una volta, e si sedette con loro prima di andare all'intendenza. Quel giorno doveva partire per alcuni affari nelle province minori, e sarebbe tornato solo l'indomani sera, pertanto ne approfittò per stare con la famiglia. Non l'aveva detto ad Ofelia, ma se avesse visto che lei non migliorava avrebbe spostato quell'incombenza a discapito dei suoi doveri. Forse il maggior gesto di premura che ci si potesse aspettare da uno come lui.
La zia Roseline l'accolse borbottando e mugugnando qualcosa circa il fatto che l'ozio era il padre dei vizi e che la loro era una famiglia laboriosa, al che Thorn si schiarì la gola con troppa forza, ma lo ignorarono. Quando però la zia le accarezzò il braccio, un gesto d'affetto a cui raramente si lasciava andare, Ofelia capì che la sosteneva, che si rendeva conto della perdita, ma bisognava stringere i denti, andare avanti e ritornare alla normalità. E le sue lamentele erano parte della normalità.
Renard e Galea presero parte alla colazione, mentre Ilda gattonava dappertutto con Tyr. Ofelia si chiedeva come quei due potessero andare d'accordo, dal momento che era evidente che avessero entrambi un carattere forte. Se non erano impegnati a picchiarsi, e la maggior parte delle volte Tyr le prendeva, soprattutto perché Ilda era più grandina, si urlavano contro in un linguaggio conosciuto solo a loro.
Renard le sussurrò un: - Bentornato, ragazzo - che udì solo lei, e che la fece sorridere.
Gaela invece le strizzò l'occhio cattivo e poi, un po' a disagio nel non sapere cosa dire in quella situazione, si sistemò i riccioli biondi.
La zia Roseline riempì personalmente il piatto di Ofelia fino a farlo tracimare.
- Zia, non pensate sia troppo? - la interrogò Ofelia.
- Sciocchezze! Sei sottile come la carta velina, ma almeno quella la so riparare. I cuscini di zio Vincenzo, ecco cosa mi ricordi.
Ofelia fece una smorfia. I cuscini di zio Vincenzo erano la cosa più brutta che tutti gli animisti, nessuno escluso, avesse mai visto: informi, bitorzoluti, troppo grossi da un lato e privi di imbottitura dall'altro; il colore era smorto e puzzavano, anche. Non proprio un paragone gradito, in effetti.
- Sono così felice di rivedervi qui a tavola con noi, Ofelia cara. Voi sapete che noi, la vostra famiglia, vi sosterremo sempre.
Ofelia guardò la madama con la coda dell'occhio, incapace di articolare una parola mentre nella sua mente si avvicendavano tutte le situazioni che Berenilde le aveva fatto vivere in passato. Era certa che le volesse bene, quello sì, ma aveva un modo tutto suo di dimostrarlo.
Per togliersi dall'imbarazzo di rispondere spalmò di cioccolata un panino per Serena, che allo stesso tempo lo stava facendo per Vittoria, con risultati disastrosi: aveva persino il naso sporco di cioccolata. La cugina di Thorn poteva passare per la bambina più altezzosa del Polo, con la sua abitudine a farsi servire e la poca confidenza che concedeva a chiunque. In realtà, era una ragazzina adorabile, timida e silenziosa, persa nel suo mondo, che non si rendeva conto di essere benissimo in grado di fare da sola ciò che gli altri facevano per lei.
In passato Ofelia l'aveva reputata un po' lenta, leggermente strana, ma la verità era che Vittoria percepiva le cose in modo diverso. Andava talmente in profondità con i suoi sguardi che non coglieva le cose superficiali, quelle che tutti reputavano normali.
- La famiglia riunita, ma che meraviglia! - decantò Archibald entrando nella sala, non invitato. Si profuse in una riverenza con il cappello bucherellato che si agitava al vento. - Famiglia e meraviglia sono due rime azzeccate, non trovate? Oh, ne ho fatta un'altra! Ma che gioia essere qui riuniti oggi!
Thorn continuò a masticare, ma con la mascella rigida che aveva era abbastanza complicato. Archibald prese posto salutato da tutti che, volenti o nolenti, sapevano che avrebbero dovuto tenerselo. Intinse un dito nella cioccolata e se lo ciucciò voluttuosamente.
- Oh! - esclamò, portandosi la mano pulita al cuore. - Signora Roseline, mia adorata, voi siete davvero una sorpresa continua! Comincio a pensare che da Anima possano derivare solo e unicamente cose buone e vantaggiose.
La zia cominciò a balbettare, rossa come il sedere di quelle scimmie che abitavano nell'arca di Djinn e che alla zia erano sempre sembrate sconvenienti, per quanto i nipoti avessero provato a farle capire che una scimmia non poteva essere considerata "sconveniente" solo perché aveva il sedere rosso e sporgente.
- Di sicuro il matrimonio con la nostra cara Ofelia ha apportato dei grandi miglioramenti alla nostra vita, per quanto lei risulti tutt'ora essere del tutto inadatta alla vita di corte - lo sostenne Berenilde.
Ofelia capì che le sue parole volevano essere un complimento anche se la formulazione della frase lasciava presagire il contrario. Non aveva mai ammesso che il suo matrimonio con Thorn fosse stato un miglioramento alla vita del nipote, oltre che alla sua, con una vera famiglia a sostenerla, ma per lo meno le era grata per non aver fatto un vanto della sua sfacciata fortuna nell'aver scelto la persona giusta per Thorn.
Ofelia non credeva nel destino, non le piaceva pensare che fosse tutto predestinato, scritto, che qualcuno avesse già scelto la sua vita per lei, però... lei e Thorn... quante possibilità c'erano che si trovassero così bene insieme, con un matrimonio combinato tra due arche diverse, oltretutto? Culture quasi opposte e abitudini agli antipodi, poteri inconciliabili e infanzie disparate... Lei stessa non aveva dato alcuna opportunità a loro due come coppia appena scoperta la raggelante verità sul suo avvenire. Si era preclusa la possibilità di innamorarsi, di provare attrazione per il fidanzato e di conoscerlo, di indagare a fondo sulla verità.
Fortunatamente Thorn era un uomo ostinato, caratteristica che talvolta, anziché un difetto, diventava un pregio, soprattutto se si trattava di non gettare la spugna con la moglie.
- Peccato davvero per l'aborto, ma sono cose che capitano, non dovrebbero minare la nostra consueta quotidianità ora che non siamo più sotto l'occhio oppressivo di padre Vladimir. La moglie di Godefroy non riusciva a portare a termine una gravidanza che fosse una, poverina, e lei sì che doveva patire le umiliazioni più feroci - continuò Berenilde. Per quanto fosse la migliore dei Draghi sotto certi aspetti, il suo retaggio e la sua educazione rimanevano quelli che le erano stati inculcati dai suoi genitori, da sua padre soprattutto, quell'uomo brutale che pareva non avere nessun riguardo per la vita umana.
Ogni tanto anche lei peccava di indelicatezza e mancanza di tatto.
- Oh sì, madama, parole più veritiere non potevano essere proferite! Tra qualche tempo saremo tutti di nuovo felici e soddisfatti, e questo spiacevole contrattempo rimarrà solo un ricordo, triste ma non annichilente! Quanto al miglioramento apportato dalla cara madama Ofelia, ritengo in special modo che abbia giovato alla vita da celibe dell'intendente! Andare in bianco tutta la vita non è divertente, ve lo assicuro io – si intromise inopportunamente Archibald.
La zia Roseline sputò il tè dentro la tazza, alzandosi precipitosamente da tavola per non tossire e soffocare davanti a tutti. Thorn si irrigidì ancora di più, livido dalla testa ai piedi e pallido come la luna. Se i suoi occhi affilati avessero potuto tagliare, Archibald, che prese posto in quel momento, sarebbe stato fatto a fettine sottilissime.
- Devo ammettere che non aver potuto deflorare la vostra all'epoca fidanzata è uno dei miei più grandi rimpianti. La vostra espressione in merito sarebbe stata alquanto divertente.
Prima che Ofelia potesse intervenire per fermare quelle ammissioni del tutto inappropriate per i bambini e per una colazione, Renard cambiò completamente discorso, attirando su di sé l'attenzione di tutti.
Ofelia gli rivolse un'occhiata grata, ma il suo sguardo fu catturato da quello di Archibald che le fece l'occhiolino e un piccolo sorriso triste. I suoi occhi celestiali avevano perso la consueta gaiezza per un attimo, prima che la facciata gagliarda e impudente si riposizionasse sul suo viso.
Che avesse tentato, con i suoi commenti troppo schietti, di deviare il discorso dai tragici e recenti avvenimenti?
La zia Roseline si risedette a tavola, rossa di vergogna e scandalo. - Perdonami Ofelia, ma ad essere diretta e franca per lo meno il tuo bambino non sarà costretto a sorbirsi questa valanga di sciocchezze e volgarità! Una tale vergogna che...
- Bambina.
Nella sala da pranzo piombò il silenzio. Tutti gli occhi si puntarono su Vittoria nel vano tentativo di capire se la figlia di Berenilde stesse parlando da sola, vaneggiando o... informandoli.
- Quale bambina, tesoro? - le chiese dolcemente Berenilde, addolcendosi e zuccherandosi.
- La cuginetta.
- Io? - si interrogò Serena, attenta come gli altri.
- No. La cuginetta che non nascerà.
Ofelia si sentì stringere il cuore. I piccoli bocconi di pane e cioccolata che aveva mangiato cominciarono a bruciarle nello stomaco come bile. Non ebbe il coraggio di incontrare lo sguardo di Thorn, né quello di nessun altro.
- Era una sovellina? - indagò Serena, l'unica che avesse il coraggio di parlare in quella situazione.
Vittoria annuì, leccandosi via la cioccolata da un dito come se non stesse rivelando il sesso del feto abortito, ma che la colazione era buona.
Ofelia deglutì per ricacciare giù il contenuto del suo stomaco. Avrebbero avuto due maschi e due femmine. La loro bimba...
- Sai, lei è morta - le spiegò Serena, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Balder era confuso, non riusciva a capire granché di quei discordi da grandi, mentre Tyr nemmeno ascoltava, impegnato com'era a tirarsi blocchi di legno dalle forme geometriche con Ilda. Avrebbero dovuto inserirli in una casetta, anch'essa di legno, con le aperture della forma corrispondente, ma loro preferivano usarli come armi e nessuno era ancora riuscito a dissuaderli.
- Era malata - ammise Vittoria, bevendo con eleganza un sorso di latte bianco come la sua pelle e i suoi capelli.
Thorn girò la testa di scatto verso la cugina, come un rapace, lo sguardo attento.
- Sì, Ofelia era malata, per questo ha perso la bambina - le spiegò Berenilde, prendendo la parola per tutti.
Vittoria scosse la testa graziosamente.
- Non lei. La bambina.
- La bambina era malata? - sbottò Ofelia, incapace di trattenersi oltre. Le girava la testa, le sembrava di essere distaccata dalla realtà, come se fosse rimasta incastrata in più specchi come da giovane.
Vittoria annuì. La maggior parte delle conversazioni con lei avevano come risposta qualche cenno del capo, che l'interlocutore doveva prendersi la briga di interpretare.
- Cosa vuol dire che era malata, tesoro? - la spronò Berenilde, posando delicatamente la mano sul braccio di Thorn. Non tanto come gesto di conforto, quanto per trattenerlo dal mettere sotto torchio sua figlia.
- Mal... malto...
- Malformata? - suggerì discretamente Renard.
- Sì. Non stava bene.
Ofelia dubitava che avrebbe mai digerito quelle informazioni, come dubitava che sarebbe riuscita a digerire il pasto.
- Scusate - disse alzandosi, la voce smorzata dalla mano che teneva davanti alla bocca. Corse in camera, sbattendo contro lo spigolo del divano quando attraversò il salotto.
Le sarebbe venuto un livido.
Riuscì a raggiungere il bagno appena in tempo. L'attimo dopo, le mani fredde e grandi di Thorn le stavano tirando via i capelli dal viso. Ofelia si chiese come potesse non schifarsi mai di fronte a quelle scene, lui che era un maniaco della pulizia, dell'ordine e che era tanto schizzinoso.
Invece le era sempre accanto, a lei e ai bambini. Tirò lo sciacquone, si inginocchiò con gesti complicati di fianco a lei, e accolse il suo corpo svuotato che si accasciò contro di lui. Il bagno, così ampio, sembrava decisamente più piccolo con Thorn contorto sul pavimento.
- Non è colpa tua. Te lo avevo detto - sbottò senza preavviso, facendola sobbalzare. - Non è colpa tua se hai perso la bambina. Non è stata colpa della tua malattia, né della tua caduta. Avresti probabilmente abortito comunque. La bambina soffriva, ha detto Vittoria.
Ofelia si sentiva gli occhi stranamente asciutti. Non riusciva a dare un senso alle sue emozioni, non capiva se provasse sollievo all'idea di non essere stata lei la causa della perdita del bambi... della bambina, o se invece fosse triste all'idea di sapere che era una femmina, perché rendeva più reale e più grave la perdita, o se ancora fosse addolorata perché la piccola aveva sofferto durante quei suoi pochi mesi di vita.
- La nostra bambina - sussurrò Ofelia, talmente piano che Thorn non l'avrebbe mai udita se non fosse stato così vicino a lei.
- Ora possiamo darle un nome - affermò Thorn, lapidario, come se stessero discutendo di un animale domestico.
Un nome alla bambina che avevano perso.
Un nome per renderla vera, per renderla una persona, un essere vivente, e per ricordarla.
Annuì contro il suo petto, lasciandosi abbracciare in quel modo rigido e un po' impacciato che era tipico di Thorn.
Quando sentì l'orologio da taschino aprirsi e chiudersi di scatto, diversi minuti dopo, si scostò. - Devi andare al lavoro - gli fece notare, come se fosse lui quello che se n'era dimenticato, non lei.
L'impegno che aveva altrove era troppo urgente per poterlo posticipare, pertanto si alzò, costringendo anche lei a muoversi, e andò in camera per prendere quello che gli mancava.
Ofelia si lavò il viso e si sciacquò la bocca, cercando poi di risistemarsi la sciarpa depressa che le scivolava di dosso come un qualsiasi oggetto inanimato.
Quando tornò in camera trovò Thorn ad aspettarla sulla soglia, che la fissava dall'alto della sua statura. Si schiarì la voce.
- Al mio rientro possiamo scegliere un nome. Cerca... cerca di mangiare. E... di rimetterti.
A corto di parole, Thorn si lasciò sfuggire un sospiro. Con la mano sulla maniglia della porta, sembrava incapace di andar via nonostante ne avesse l'urgenza. Sembrò rattrappirsi come se sulle spalle gli fosse caduto un peso insostenibile.
- Ti amo. Non dimenticarlo.
Prima di poter ribattere, contraccambiare, o anche solo assimilare la sua confessione, Thorn imboccò la porta e si volatilizzò nel corridoio.
Quell'uomo...
Quell'uomo la scombussolava talmente tanto che non sapeva se voleva piangere per la tenerezza che le parole di Thorn le avevano suscitato, per le rivelazioni di quella mattina, per la perdita, o perché odiava quello che stava diventando. Stava facendo preoccupare tutti, stava seguendo poco i suoi figli, e stava peccando di trascuratezza anche nei confronti di Thorn, che si era trasformato in una balia in quei lunghi giorni, senza mai lamentarsi, senza mai chiedere nulla in cambio.
Quanto si era sbagliato all'inizio sul suo conto!
Impulsivamente corse fuori dalla camera con l'intento di abbracciarlo un'ultima volta prima della partenza, ma era già andato via.
Tornata dentro, si lasciò cadere sul letto vuoto. Thorn le aveva chiesto di rimettersi, ma lei doveva imporselo. Lei aveva l'obbligo di rialzarsi, di andare avanti, di essere una brava madre e una brava moglie, e non una piagnucolona che non era in grado di affrontare un... aborto. Avrebbe potuto perdere Thorn. Avrebbe potuto perdere Serena, o Balder, o Tyr, o tutti quanti, e sarebbe stato infinitamente peggio perché loro li conosceva, li aveva intorno da anni. Questo non significava che la vita della loro bambina fosse meno importante, ma con l'andare del tempo avrebbe bruciato meno. Le avrebbe permesso di respirare.
Sarebbe rimasta la cicatrice, ma il sangue si sarebbe fermato.
Si rialzò. Si lavò i denti, si pettinò, e poi decise di lasciar perdere i capelli che tanto non sarebbero mai stati in ordine. Li legò in una treccia però, lunga, lunghissima. Non aveva il coraggio di tagliarli, ma forse...
Prese una forbice da un cassetto del bagno troppo alto perché i bambini potessero raggiungerlo. Si tranciò letteralmente i capelli di dieci centimetri abbondanti. Non erano corti, le arrivavano ancora a metà schiena, ma simbolicamente la fecero sentire più leggera.
Era come una linea di confine invisibile, un limite che voleva superare lasciandosi indietro ciò che era stata, la sofferenza di quell'ultimo periodo, per ricominciare e tornare com'era prima.
Si risistemò la treccia, gettando il moncone disordinato nel bidone, e uscì.
Quando entrò in salotto incontrò lo sguardo elegantemente stupito di Berenilde, mentre la zia Roseline fu meno contenuta nel mostrare la sua sorpresa.
- Presumo che tu abbia rigettato quel poco che avevi mangiato. Eri verde come le nostre colline quando sei scappata da tavola.
Ofelia non rispose. - Dove sono i bambini?
- Sono a lezione con Vittoria, l'insegnante e Archibald, come di consueto - rispose Berenilde, proprio mentre la zia Roseline chiedeva: - Ti porto qualcos'altro da mangiare? Di cioccolata ne è avanzata, e ricordo bene quanto ti piacia.
L'idea di chiedere a qualcuno, ai domestici in sostanza, di fare qualcosa che poteva benissimo fare da sola ancora non era entrato nelle sue corde, e Ofelia apprezzava la zia per questo. Nemmeno lei era ancora a suo agio nel dare ordini ad altre persone all'infuori di se stessa, e talvolta non si obbediva da sola. Con la levatrice e capo governante era una cosa diversa: Ofelia si appellava spesso a lei per ricevere consigli o fare qualche domanda, e capitava quasi che fosse più la domestica a dare ordini a lei che viceversa.
- No, vi ringrazio zia - rispose Ofelia alla seconda. - Mangerò a pranzo.
Si congedò senza aggiungere altro, diretta verso la stanza adibita ad aula. Berenilde però le corse dietro e la trattenne per un braccio.
- Aspettate – la supplicò, con una voce fragile che Ofelia non aveva mai sentito. – Perdonatemi, piccola cara, per ciò che ho detto a tavola. Non sono molto avvezza alle parole di conforto o ai complimenti. Dovreste averlo ormai capito che nella nostra famiglia non c’è mai stato nulla del genere. Però so bene cosa significhi perdere un figlio e… mi rincresce davvero di non poter conoscere la pronipote che sarebbe nata. La perdita di un figlio è intollerabile, sotto qualsiasi forma si presenti.
Riprendendo fiato, Berenilde le lasciò il braccio e si erse, come se quel discorso avesse lasciato uscire una versione vulnerabile di sé che non voleva assolutamente mostrare.
- In passato mio nipote vi ha detto di fidarvi unicamente di me. Erano altre circostanze, lo comprendo, ma vorrei che consideraste ancora valido quell’invito. E vi ringrazio per tutto il bene che avete fatto a Thorn.
Ofelia abbracciò la distaccata, altera, signorile Berenilde come se fosse una cosa che faceva quotidianamente. Il corpo rigido della madama si sciolse dopo alcuni attimi, e ricambiò la stretta con fare materno, accarezzandole i capelli stretti nella treccia. Sì, Berenilde aveva davvero un bisogno viscerale di essere la mamma di qualcuno, e per quanto a volte potesse essere inopportuna, dentro era buona e gentile come Thorn. Doveva essere un vizio di famiglia, quello di ricoprirsi di una scorza impenetrabile all’esterno per celare le vere inclinazioni del loro cuore. Ma visto il modo in cui erano cresciuti e la brutalità e l’arrivismo di quell’arca, non poteva di certo farne una colpa a Berenilde.
Si staccarono contemporaneamente, senza dirsi altro. Presero strade diverse, ma in qualche modo ad Ofelia parve di avere una nuova energia in corpo. Si fermò per alcuni istanti di fronte alla porta dell’aula, per raccogliere i pensieri.
Quando l'apri, fu investita da caos: Tyr e Ilda si lanciavano addosso giochi, incitati da Archibald che non si capiva cosa facesse lì, ma di sicuro non aiutava; Renard redarguiva i bambini mentre cercava di spiegare a Serena come svolgere un compito, e Balder fissava inebetito la lavagna con gli occhi strizzati come chi fa fatica a vedere.
Non aveva nemmeno quattro anni, non sapeva leggere, ma si divertiva a riprodurre le immagini e le scritte che vedeva, come un bravo scolaretto desideroso di imparare.
Non appena la videro, i due maggiori corsero ad abbracciarla stretta. Ofelia non volle pensare al fatto che Serena era già alta più della metà di lei, e che sicuramente lei sarebbe ben presto diventata la più bassa della famiglia.
- Mamma! - urlò Balder, imitato da Serena, che però aggiunse: - La zia ha detto che stavi male.
Ofelia tentò di sorridere, rassicurante. - Ora sto bene.
Serena si alzò sulle punte e si mise la mano a coppa sulla bocca perché gli altri non la sentissero. - È per la sorellina che è morta?
Ofelia scosse la testa, accarezzandole i capelli biondissimi. - No, avevo solo mal di pancia.
Non voleva angustiarla con problemi da adulti, e in effetti aveva avuto solo un po' di mal di stomaco.
Renard la sorrise illuminandosi come un caminetto. Le strizzò un occhio verde foresta, mimando con la bocca: - È bello vederti, ragazzo.
Ofelia si stupì quando ricambiò il sorriso spontaneamente.
Poi un urlo di Tyr glielo fece perdere. Prese in braccio il bambino che si era attaccato ai capelli rossicci di Ilda, facendola arrabbiare. Quella bambina piangeva raramente, ma le occhiate rabbiose che lanciava erano abbastanza feroci da incutere terrore in un adulto. Era indubbio da chi dei due genitori avesse preso.
Renard la prese in braccio stampandole un bacio sulla guancia, e la bambina si rasserenò subito, anche se per simpatia continuò a tenere il broncio. Nonostante la giovanissima età aveva già capito come andavano le cose.
- Qual è il vostro ruolo in tutto questo? - chiese Ofelia ad Archibald, che non si prese nemmeno la briga di raddrizzarsi il cilindro storto sulla testa.
Il sorriso indolente di Archibald si allargò a dismisura. - Compagno di giochi, ovviamente!
- Hanno poco più di un anno, andrebbero fermati quando si accapigliano - lo sgridò Ofelia.
Archibald si adombrò, palesemente non pentito. - Uscite dal vostro letargo e mi sgridate, moglie di Thorn? Potreste incanalare quell'energia negativa in altre attività più proficue e... carnali, se capite cosa intendo.
Ofelia lanciò un'occhiata ai bambini, che fortunatamente erano intenti a fissare Tyr che faceva le boccacce a Ilda da lontano.
Non raccolse la provocazione e ignorò Archibald, che ridacchiò, si accasciò sulla sedia e si calò il cilindro sugli occhi.
La mattinata trascorse tranquillamente grazie alla supervisione di Ofelia, che tenne separati e impegnati Tyr e Ilda, premettendo quindi a Serena di svolgere diversi compiti assegnati da Renard. Gli occhi strizzati di Balder non la convincevano, avrebbe dovuto chiedere a Thorn di indagare su una presunta miopia del bambino.
Solo quando fu ora di andare a pranzo Ofelia si rese conto di avere fame.
Di essere... più sollevata.
Di non aver provato il dolore straziante e annichilente da cui si era sentita avviluppata fino al giorno prima.
Aveva voglia di vedere Thorn. Di stare con lui. E di uscire un po' di casa.
Quando passò di fronte ad Archibald, che aveva vergognosamente russato per tutta la mattina, non gli fece nemmeno la cortesia di svegliarlo. Quell'uomo aveva dei ritmi tutti suoi, cercare di rimetterlo in riga sarebbe stato solo uno spreco di fiato finché si ostinava a restare sveglio per sedurre chissà quale aristocratica.
Mi dispiace per la vostra perdita.
Il sussurro le arrivò come una brezza primaverile gentile e premurosa. Ofelia si voltò di scatto, ma dentro la stanza non c'era più nessuno a parte Archibald, il cui viso continuava a rimanere coperto.
- Che c'è, mamma? - le chiese Serena, tirandole la mano.
Ofelia fissò Archibald, ma l'ex ambasciatore rimase immobile.
Troppo immobile.
Serena la tirò per il braccio dicendole che aveva fame, così Ofelia si decise a seguirla.
Si voltò nuovamente giusto prima di uscire, guardando nuovamente Archibald: la sua bocca, da rilassata che era, aveva preso una piega triste.
Ofelia sentì una fitta di compassione per quell'uomo che non voleva comunque essere aiutato. L'unica cosa che poteva offrirgli era casa sua, e il conforto delle persone con cui abitava. Ma per quanto Archibald fosse la persona più schietta e aperta che avesse mai conosciuto, rimaneva anche la più insondabile.
 
La sera Ofelia mise a letto i bambini dopo aver letto loro una favola. Permise loro di dormire con lei, data la mancanza di Thorn. Tyr non la fece combattere per una volta, e dopo il bagnetto si addormentò subito.
Lei si ritirò in bagno.
Si lavò i denti.
Si sciolse la treccia, lasciando liberi i capelli appena tagliati.
Pianse.
E quando si sdraiò per dormire, seppe che quella era l'ultima volta che lo permetteva.




Notaaaa
Vi chiederei un gentile aiuto per la scelta del nome della bambina, visto che ora ne sappiamo il sesso. Vi elenco le opzioni tra cui scegliere ma vi chiedo gentilmente di indicarmi la vostra decisione nei dm o nelle recensioni SOLO se non mi seguite su instagram. Domani infatti, o comunque prossimamente, farò un sondaggio lì così faccio prima a calcolare il numero delle preferenze. C'è una filosofia specifica dietro ai nomi, che verra spiegata più avanti;)
Magdalena
Gabriella
Lisbeth
Vivianne
Marianne
Mirabelle
Il mio preferito è l'ultimo ;)
Grazie a tutti per l'aiuto♡

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Capitolo 42
*** Capitolo 42 ***


Avrei dovuto pubblicare 5 giorni fa, ma tra una cosa e l'altra, tra cui il Lucca Comics, alla fine non sono riuscita, scusate.
Condivido qui comunque il risultato del sondaggio sul nome della bimba:
1. Lisbeth
2. Mirabelle
3. Vivianne
Pertanto il nome della bimba sarà..... va be' è palese quale sarà, lo leggerete in questo capitolo insieme ad un'altra novità che spero apprezzerete.
Grazie a tutti, di cuore, per la vostra pazienza e l'assiduità nel leggere questa storia fin troppo lunga^^"


Capitolo 42

Thorn chiamò il pomeriggio successivo per comunicare che non sarebbe rincasato prima di due giorni rispetto al piano originario.
Il giorno del presunto rientro chiamò per posticipare ancora di un giorno.
Ofelia cominciò a presagire scioccamente che Thorn si fosse stufato di lei e del suo stato comatoso degli ultimi tempi, e che avesse lasciato lei e i bambini.
Poi si sentì in colpa per la cupezza di quei pensieri e l'ingiustizia che contenevano: Thorn più di tutti, dato ciò che aveva passato e gli abbandoni subiti, non se la sarebbe data a gambe al presentarsi del primo problema.
Il quinto giorno Ofelia aveva ormai ripreso colore, grazie anche ad una passeggiata sotto il sole (finto, ma almeno l'aria che avevano respirato era vera) con la zia Roseline e ai pasti regolari che aveva ricominciato piano piano a mangiare.
Voleva tornare ad essere quella di sempre in vista del rientro di Thorn.
Aveva sentito dire che talvolta, quando due coniugi perdevano un figlio, era difficile poi dover affrontare il matrimonio, come se il dolore che provavano provocasse una spaccatura tra i due invece che unirli a filo doppio nella condivisione della sofferenza.
Non le era sembrato che Thorn provasse quei sentimenti, quel bisogno di allontanarsi da lei, di porre fine a quello che avevano costruito solo perché una gravidanza non era andata a buon fine. E di cui lei, per quanto poco fosse di sollievo, non aveva interamente colpa.
Ma forse lui aveva aperto gli occhi in quei pochi giorni di lontananza?
Quando ci pensava sentiva lo stomaco sprofondare, come se stesse precipitando, e il cuore le mancava un battito per poi riprendere freneticamente la sua corsa. Aveva bisogno di vederlo, di parlargli, di sentirlo vicino. Di sapere che tra loro andava tutto bene.
Quando la zia Roseline notò che Ofelia continuava a puntare la porta del salotto da sopra gli occhiali, esclamò: - Allora non stai avendo una ricaduta, sei solo malata d'amore. Chi se lo sarebbe mai aspettato, da una come te?
Ofelia cercò di non imbarazzarsi di fronte a quelle parole, e ringraziò che Berenilde e Archibald fossero impegnati a sparlare di alcuni matrimoni previsti per la settimana successiva per far caso a loro.
- Sono solo preoccupata, è stato via più del previsto.
La zia Roseline sbuffò dal naso. - Quell'uomo sa badare a se stesso, Ofelia. E anche a te. Non è così... distaccato come avevo immaginato all'inizio.
Ofelia non la biasimava per aver avuto un'iniziale impressione sbagliata di Thorn. Lei stessa aveva impiegato diversi mesi a capire con precisione come funzionasse la mente del suo, all'epoca, fidanzato.
Una cosa di cui si era sempre sorpresa sul suo conto, in ogni caso, era la sua franchezza. La prima volta in cui aveva messo le carte in tavola confessando il suo amore per lei non era stato il momento più romantico della sua vita, anzi. Erano entrambi feriti, lei ad un braccio e lui alla gamba, stanchi e spettinati, in una cella di prigione. Thorn non era mai stato una persona a suo agio con l'espressione dei propri sentimenti, contrariamente ad Archibald che parlava con nonchalance del tempo quanto delle sue avventure libertine, eppure le aveva detto chiaramente di amarla senza un tentennamento, senza il minimo dubbio, senza nemmeno un po' di imbarazzo.
Forse aveva aiutato il fatto che pensava di dover morire di lì a poche ore e per quel motivo aveva trovato il coraggio di dirle ogni cosa, ma poco importavano le ragioni: l'amava, e anche se gliel'aveva detto poche, pochissime volte, lo dimostrava sempre abbondantemente.
Lei non aveva ricambiato le sue parole né quella prima volta, né cinque giorni prima, quando era partito. Era sempre stata lenta, sia a comprendere i sentimenti altrui che a trovare la voce per esprimere ciò che sentiva, ma Thorn si meritava di sentire quelle parole dalla sua bocca.
Lanciò un'altra occhiata alla porta, ma non entrò nessuno.
Quando si misero a tavola per la cena, Berenilde le lanciò un sorriso incoraggiante.
- Non preoccupatevi, Ofelia cara. Ora Thorn non viaggia più come prima, sicuramente grazie anche alla vostra presenza dissuasiva e ai bambini, ma una volta partiva per stare via tre giorni e tornava dopo un mese e mezzo! Tutto assolutamente normale, per un intendente.
Ofelia cercò di dissimulare l'orrore aiutando Tyr a mangiare, ma a giudicare dall'occhiata compassionevole di Berenilde non doveva esserci riuscita granché.
La madama stava per dire qualcos'altro di sicuramente rassicurante, quando Thorn entrò. Ofelia evitò di saltare in piedi solo perché la gonna le si era impigliata sotto la sedia, facendola sedere nuovamente. In compenso le posate che si trovavano vicino a lei tentarono di buttarsi giù dal tavolo.
- Tho...
- Abbiamo un ospite - esordì lui, lapidario, a mo' di saluto.
Si diresse verso il suo posto a tavola senza aggiungere altro. Ofelia lo fissò senza però riuscire ad incrociare il suo sguardo. Quando lo riportò verso l'ingresso del salotto, ringraziò di non essersi alzata, perché le ginocchia le avrebbero ceduto.
Sulla soglia, con il suo vecchio cappotto da pioggia, il prozio si scaldava le mani borbottando come una pentola a pressione.
- Mi lamentavo della pioggia su Anima, ma qui il gelo è peggio. Non so se preferire umidità o freddo, ma credo che l'umidità mieta meno vittime.
- Cosa ci fate qui? - chiese la zia Roseline, attonita.
Il prozio strizzò gli occhi, contrariato. - Sei troppo grande perché io ti sgridi per l'educazione, Roseline, ma un benvenuto un po' più accogliente non sarebbe stato male. La mia pronipote è inebetita e i miei pro-pronipoti le fanno seguito! Ah!
Come risvegliati da quella sgridata, Serena e Balder corsero ad abbracciare il pro-pro... insomma, l'archivista, il curatore del museo, il prozio di Ofelia. Era diventato così vecchio e curvo che ormai rasentava l'altezza di Ofelia. Lui finse di essere offeso e arrabbiato per l'accoglienza un po' distaccata, effetto della sorpresa più che della mancanza di gioia, ma sotto i baffi a manubrio era ben visibile un sorriso intenerito.
- Siete cresciuti voi due marmocchi. Tra poco supererete la mamma. Non che ci voglia molto.
Renard rise avvicinandosi. - Benvenuto al Polo, illustrissimo, è davvero un onore e un piacere vedervi nuovamente, e soprattutto vedervi in forma.
Il prozio gli diede una pacca sulla schiena gigantesca, ottenendo un effetto quasi comico. Poco a poco, imitando Renard, gli altri commensali si risvegliarono dal torpore e si avvicinarono per porgere i loro omaggi al nuovo arrivato. Il prozio sgridò Archibald per il modo indecente in cui si ostinava ad andare in giro, fu cordiale con Gaela e Ilda, e si mise subito a battibeccare con la zia Roseline. Ofelia per tutto quel tempo non perse un attimo di vista Thorn, che la fissava ostentatamente.
- Hai tardato per questo? Per andare a prendere il mio prozio? - gli chiese sussurrando, anche se in quel caos di saluti avrebbe potuto urlare e nessuno avrebbe fatto caso a lei.
Thorn fu gelido nella risposta, esponendo i fatti come un giudice in tribunale: - Non sono andato a prenderlo, ho organizzato il suo trasferimento. Ho colto l'occasione per sbrigare alcune pratiche in una provincia fuori mano in cui mi sarei comunque dovuto recare tra diciassette giorni, risparmiandomi l'ulteriore viaggio. In questo modo sono arrivato in tempo per accogliere il tuo prozio e portarlo qui.
Ofelia aveva smesso di ascoltare alla parola "trasferimento". Le sembrava ridicolo chiedere a Thorn cosa intendesse dire con quel vocabolo, o se l'avesse usato impropriamente, dal momento che Thorn selezionava minuziosamente le parole che usava e raramente ne confondeva la semantica. Eppure, dovette per forza chiederlo.
- Trasferimento qui? Nel senso che vivrà qui?
- Trasferimento significa questo, solitamente - ribatté infatti lui, aggrottando le sopracciglia. - Su Anima ha un altro significato?
Ofelia scosse la testa, incapace di parlare. Incrociò lo sguardo del prozio, che le rivolse un'occhiata intensa ma continuò a parlare, anzi, borbottare, con la zia Roseline e Renard.
A cena Ofelia non ebbe nemmeno l'occasione di scambiare con lui due parole dato che, dopo che Archibald ebbe comandato ai loro domestici di servire altri due piatti, tra brindisi e domande lo zio fu completamente fagocitato dalla sua famiglia.
Ofelia non riuscì a parlargli che a tarda notte, dopo che Renard e Gaela furono tornati nelle loro stanze sorreggendosi a vicenda, in dubbio su chi fosse il più alticcio, Archibald si fu addormentato russando di traverso sulla poltrona, Berenilde e Vittoria si furono elegantemente accomiatate e la zia Roseline fu andata in camera sua per sistemare tutte le cose che il prozio le aveva portato, oggetti che lei riteneva indispensabili e che non erano reperibili lì al Polo. Ne erano un esempio le mollette dentate che la zia animava affinché facessero la guardia e mordessero gli sconosciuti, o i piatti in ceramica flessibile, che potevano diventare fondi o piani a seconda del bisogno, anche se Ofelia non aveva mai capito a cosa servissero dato che poteva benissimo prenderne uno di ogni tipo, o ancora le pantofole con la suola dura e i tacchetti retrattili, da usare contro i molestatori. La cosa che aveva sempre messo in guardia Ofelia era il fatto che la zia era una persona molto pacifica, eppure aveva un arsenale di oggetti contundenti e di uso violento che superava quello di tutti, al Polo. In quell’arca era comprensibile, dati gli intrighi di corte che c'erano, che volesse tutelarsi in caso di pericolo, ma quegli oggetti ce li aveva da quando era su Anima.
In ogni caso, finalmente riuscì a stare un po' da sola con il prozio, grazie anche a Thorn che pazientemente si fece portare via dai bambini per metterli a letto e raccontare loro le avventure che aveva vissuto; solitamente quelle conversazioni duravano trenta secondi o meno, poi Balder e Serena parlavano di cose decisamente più divertenti come una gita al parco o la scoperta di un nuovo insetto. Definire avventuroso il lavoro di un intendente era come definire casto Archibald.
- Ti ho portato una lettera dalla famiglia. Ti porgono tutti i loro saluti e... le loro condoglianze.
Ofelia si sentì stringere il cuore, ma annuì stoicamente. - Grazie. Cosa vi ha spinto a trasferirvi qui? E il museo? - domandò, sia per cambiare discorso che per puro interesse.
Lo zio si grattò un baffo. - Sai, figliola, che non sono più un giovincello, vero?
Ofelia, di fianco a lui sul divano, si irrigidì. - State male?
- No, per fortuna no! Sono sano come un pesce e forte come uno di questi vichinghi nordici, più o meno. Ma era giunto il momento di prendermi una pausa. Il museo è in buone mani.
Ofelia sentì una fitta di gelosia per quella persona sconosciuta che aveva preso le redini del museo che aveva rappresentato tutto per lei per la gran parte della sua vita. Ogni tanto smaniava ancora all'idea di poter aprire un museo lì, al Polo. Sarebbe stata in grado di gestirlo da sola, e Thorn avrebbe sicuramente affrontato tutta la parte burocratica senza nemmeno bisogno che lei glielo chiedesse, però Archibald aveva avuto ragione, a suo tempo: al Polo nessuno si sarebbe interessato ad un museo. Il suo studio di lettura le sarebbe bastato, e presto avrebbe chiesto a Thorn di curarne la riapertura, almeno per mezza giornata. Fare la mamma le piaceva, ma al contrario di sua sorella e di sua madre, non era mai stata l'aspirazione della sua vita. A lei piaceva lavorare, mettere a frutto le sue mani forse per l'unica cosa in cui era brava, in cui non rompeva nulla e non combinava danni.
- Non mi chiedi chi lo sta dirigendo? - la incalzò il prozio dopo un silenzio troppo lungo, strappandola dai suoi pensieri.
- Chi lo sta dirigendo?
Il prozio sorrise furbescamente sotto i baffi. - Hector e sua moglie.
Ofelia girò la testa talmente di scatto che il collo le fece male.
- Hector e...?
Il prozio annuì. - Da quando te ne sei andata tuo fratello ha cominciato a passare un sacco di tempo lì dentro, forse per nostalgia, per cercare di capire cosa ci trovassi tu. Non puoi immaginare la quantità di domande che mi ha posto, figliola, non c'è oggetto o manoscritto su cui non abbia indagato, ormai sa le cose meglio di me. Sua moglie è un'appassionata di storia. Puoi immaginare il resto.
Ofelia deglutì a vuoto. C'era un che di commovente nel fatto che la gestione di quello che aveva sempre considerato il suo museo fosse passata al fratello per cui nutriva un tale affetto.
Sorrise quasi timidamente, come se la reazione che ci si aspettava da lei non fosse quella. - Sono bravi?
Il prozio sbuffò una risata: - Figliola, tuo fratello è cialtrone come pochi, lo sai bene. Basta pensare a quando imbrattava la camera di marmellata trafugando i barattoli dalla cucina e mangiandoli direttamente con le mani. Sua moglie è molto precisa, segue lei ora i registri e si occupa degli incartamenti come te. Non dico che sia al tuo livello, ma ci si avvicina. Hector cura il museo e le visite guidate, la catalogazione e il mantenimento dei reperti.
Un silenzio ovattato e confortante cadde su di loro, finché Ofelia non si strinse in se stessa, come per farsi piccola. - Sono felice che sia gestito da loro.
Il prozio non si sbilanciò, ma Ofelia sapeva che per averlo convinto a lasciare casa sua e il suo museo, la bravura di Hector e consorte doveva essere notevole.
- Ora che farete? - gli chiese Ofelia, sinceramente curiosa.
Lo zio bofonchiò qualcosa di incomprensibile prima di mostrarsi più chiaro. - Lì ho fin troppi nipoti e pronipoti, ne esco pazzo. Sinceramente le urla e gli schiamazzi di tua madre e tua sorella mi sono diventati fastidiosi. Vorrei concludere la mia vecchiaia in pace, o relativa pace, visto che qui c'è Roseline. E poi volevo vedere come te la cavavi qui quando non sei accerchiata da parenti esagitati, non so se mi spiego.
Voleva vedere se era felice come aveva proclamato di essere o se aveva mentito per non farli stare male? No, il prozio non era né ficcanaso né meschino. Voleva vedere come se la cavava, sì... ma dopo l'aborto. Sicuramente ne aveva approfittato per lasciare le redini del museo a Hector e prendersi un po' di tempo per sé. Aveva lavorato tanto, tutta la vita praticamente, era ora che si godesse i suoi spazi e si prendesse del meritato riposo. Inoltre aveva visto il vivo interesse che dimostrava quando parlava con Thorn di come fosse strutturato e funzionasse il Polo: sarebbe di sicuro andato ad indagare per conto suo. Non la preoccupava minimamente la possibilità che qualcuno potesse aggredire o rapire il prozio per qualche vendetta contro Thorn o la sua famiglia: nessuno oggetto resisteva alla volontà dello zio, che era in grado di rendere pericoloso persino un batuffolo di cotone.
Ofelia appoggiò la testa sulla sua spalla. - Vi ringrazio per essere venuto.
Il prozio le strinse timidamente la mano. - La tua famiglia sarà anche qui, ma non puoi dimenticare le tue radici animiste.
- Qui c'è anche la zia Roseline.
Il prozio sbuffò dal naso, infastidito. - Voglio sperare che tu non stia davvero facendo il confronto tra me e tua zia, figliola.
- Ai bambini farà bene avervi un po' intorno. Potreste anche aiutare Renard a fare da insegnante. Mi ricordo ancora tutti gli aneddoti storici che avete trasmesso a me.
- Sì, si potrebbe fare. Ma non ti prometto nulla. Per una volta sono libero, soprattutto da tua madre, e tale voglio restare.
Ofelia gli chiese notizie delle nonne, degli altri zii, e senza rendersene conto si addormentò accasciata contro il braccio caldo del prozio. Le sembrò di tornare indietro nel tempo, quando si raggomitolava accanto a lui ad ascoltare le sue storie sempre interessanti. All'epoca non si addormentava mai, ma quella sera, un po' per l'ansia del ritorno di Thorn e un po' per le emozioni dei giorni passati, lo fece.
Fu svegliata da una mano fredda e grande che le tastava la fronte.
- Non ha la febbre, giovanotto, è solo stremata - borbottò il prozio, riportando Ofelia alla realtà, per quanto fosse difficile aprire gli occhi.
- Ofelia - la chiamò allora Thorn, imperioso. - I bambini sono a letto. Devi dormire.
- Sto dormendo - bofonchiò lei.
- In un letto vero.
- Non fare i capricci.
I rimbrotti congiunti del marito e del prozio le fecero aprire gli occhi. Aveva voglia di dare una rispostaccia, facendo notare che era adulta e poteva decidere di dormire dove le pareva e piaceva, ma si rese conto, notando gli sguardi severi dei due uomini, che se lo avesse fatto sarebbe sembrata ancora di più una bambina.
Così si alzò, scansando Thorn, e augurò la buonanotte. Una volta in camera cercò di ignorare il marito il più possibile, nonostante fino al pomeriggio avesse atteso con ansia il suo ritorno. Quando si addormentava sul divano tendeva a diventare nervosa, e sentiva già il mal di testa bussarle alle tempie.
Una volta a letto, in ogni caso, non poté fare a meno di sciogliersi tra le braccia di Thorn. Si strinse a lui, grata che fosse lì con lei, e il malumore le passò completamente.
- Ho pensato al nome per la bambina... - mormorò lui di punto in bianco.
Ma Ofelia già dormiva.
 
La mattina dopo le sembrò di risvegliarsi per la prima volta dopo anni. Si sentiva... discretamente bene. Il corpo caldo di Thorn la proteggeva dal freddo e la inglobava, come se non volesse lasciarla andare. Alzando gli occhi, Ofelia intuì che fosse sveglio dal bagliore metallico che vide filtrare tra le palpebre.
- Buongiorno - farfugliò lei, seppellendo il naso nel suo braccio.
Una cosa che la sorprendeva sempre di Thorn era il suo profumo. O meglio, il suo non-profumo. Thorn sapeva di pulito, ma un pulito asettico, inodore. Aveva quello che non si poteva definire in altro modo se non "pelle pulita", ma non di sapone. Era un odore caldo, piacevole, più una sensazione che un riscontro olfattivo.
- Come ti senti? - le chiese lui, con la voce roca del mattino.
Ofelia si allontanò leggermente per stiracchiarsi. - Bene. Mi sento bene, davvero.
- Sei a tuo agio con il tuo prozio qui?
Con tutto quello che era successo il giorno prima, e la stanchezza che l'aveva colta, Ofelia non aveva nemmeno avuto il tempo di ringraziare Thorn.
- Ti ringrazio per averlo convinto a venire. È il più bel regalo che potessi farmi. E che potessi fare anche a lui, visto quanto poco sopporta la confusione. Ho solo paura che si annoi, senza il suo museo.
- Gli ho fatto presente che al Polo abbiamo una biblioteca, una sola, che però contiene tutti i libri scritti da dopo la Lacerazione ad oggi. O almeno, quelli che non sono stati distrutti dalla censura pubblica per evitare rivolte. Sono certo che troverà del materiale interessante.
Ofelia sorrise leggermente. - Se si parla di rivolte, censura e ricerche, soprattutto legate alla Lacerazione, il prozio ha di che essere felice e impegnato a vita. Non pensavo che il Polo fosse così repressivo nei confronti degli scritti, comunque. Visti gli atteggiamenti fin troppo libertini, gli Immaginatoi che hanno ripreso vita dopo la morte di Madre Ildegarda e gli intrighi di corte, pensavo fossero più tolleranti in merito.
- L'arca di Babel è molto repressiva al riguardo - borbottò Thorn. - Lì la censura è serrata, solo i libri approvati vengono pubblicati e distribuiti e c'è un rigido indice di parole proibite. Noi non abbiamo un vero e proprio organismo di selezione letteraria, che sceglie cosa si può leggere e cosa no. A dire il vero, gli unici casi di libri distrutti e movimenti rivoltosi erano causati da guerre tra clan. Erano le famiglie offese da determinati scritti a volerli bruciare pubblicamente e insorgere. La censura è intervenuta a seguito di alcune battaglie troppo sanguinose che hanno visto coinvolti quattro o più clan, con ingenti danni agli immobili cittadini. Da quel momento, chi si occupa della pubblicazione dei libri ha imposto l'omissione di commenti faziosi o volti ad offendere altri clan, così da avere un po' di pace.
- Ma i giornali sono pieni di commenti faziosi e chiaramente di parte! Basta pensare al direttore del Nibelungen.
Thorn rimase in silenzio, così a lungo da indurre Ofelia a chiedersi se si fosse riaddormentato. Poi si rese conto che semplicemente Thorn non aveva una risposta. Erano tante le cose contraddittorie al Polo.
- In effetti, comunque, un giornale dura un giorno e poi diventa vecchio - commentò Ofelia, come se fosse quella la risposta al suo ragionamento.
- Guerre interne ce ne sono già abbastanza, non era il caso di aggravarle con sfide scritte su libri accessibili a tutti o racconti faceti e intrisi di falsità per esporre qualcuno al pubblico ludibrio.
Ofelia annuì contro il suo torace. La cosa aveva un senso, effettivamente, e conoscendo le tendenze del Polo e soprattutto dei clan al potere, non sarebbe stato inusitato trovare negli scaffali della biblioteca romanzi di satira a scapito di qualcuno.
- Ho pensato al nome per la bambina - disse di punto in bianco Thorn, con una voce da funerale che per una volta non era fuori luogo.
Ofelia deglutì, la gola improvvisamente secca, rendendosi conto che quella frase l'aveva già sentita, in occasione della nascita di Serena.
- Cioè? - sussurrò. Non era sicura di avere il controllo della propria voce.
- Lisbeth.
Ofelia rimase in silenzio a riflettere. I nomi di Serena, Balder e Tyr erano stati scelti di concerto tra loro, ma la verità era che, per quanto a lei piacessero e li approvasse, li aveva proposti Thorn. Talvolta come unica alternativa, anziché mostrarli come una rosa di possibilità tra cui decidere.
Le aveva spiegato le motivazioni dietro alla scelta di Tyr e Serena, e lei era stata sempre d'accordo, ma si chiedeva se in realtà dietro alle preferenze di Thorn non ci fosse un bisogno di controllo di cui nemmeno lui si rendeva conto. Come se selezionare il nome per i figli lo rendesse in qualche modo più vicino a loro, e rendesse i bambini più suoi.
Era sempre stato patologicamente possessivo. Chissà cosa avrebbe fatto una volta che i bambini se ne fossero andati di casa, scegliendo la propria strada.
Ofelia scacciò quei pensieri. Serena era la più grande e non aveva che sei anni, era decisamente troppo presto per pensare a cose del genere.
- Mi piace - ammise, strofinandosi contro il suo petto.
L'idea di condividere con lui un momento tutto loro dopo giorni di tristezza e smarrimento tornò a farsi strada prepotentemente in lei. La sera prima era stata troppo stanca, ma in quel momento niente avrebbe potuto impedire a lei e a Thorn di stare un po' insieme.
Si allungò verso di lui, baciandogli la mascella con studiata lentezza, pungendosi le labbra contro la sua barba così chiara da essere quasi invisibile, eppure sempre presente. Thorn si inclinò in avanti per consentirle di avere maggior accesso al suo viso, qualsiasi cosa avesse in mente di fare. Non l'avrebbe forzata, non avrebbe preso nessuna iniziativa, Ofelia lo capì quando dovette guidare lei stessa le sue mani verso i suoi fianchi. Thorn era consapevole di cosa avesse passato Ofelia, fisicamente oltre che emotivamente, e sebbene avesse sofferto anche lui della perdita della... di Lisbeth, teneva come sempre più in conto i sentimenti di lei.
Voleva che lei facesse ciò che si sentiva, e in quel momento Ofelia aveva bisogno, e voglia, di lui.
Aveva appena raggiunto le sue labbra, e Thorn si era insinuato sotto la camicia da notte, quando la porta della camera si aprì. Se non avesse emesso un piccolo cigolio non se ne sarebbero nemmeno accorti, presi com'erano da loro stessi.
- Mamma? - chiese timidamente Serena. - Possiamo dormire con voi?
La testolina scura e ricciuta di Balder fece capolino dietro quella bionda della sorella, guardandoli attraverso gli occhi strizzati.
- È ora di alzarsi, Serena, io e papà non dormiamo più.
- Oh... - sospirò Serena, dispiaciuta da quella risposta.
- Abbiamo dodici minuti prima di doverci vestire e andare a fare colazione - chiarì Thorn.
Questa volta fu Balder, ancora più timido e discreto della sorella, a bisbigliare una domanda: - Quindi possiamo venire?
Ofelia si riconosceva tanto in lui, non solo per i tratti scuri che aveva preso da lei, ma anche per la voce leggera con cui parlava. A tavola veniva spesso ignorato perché inudito, con il suo timbro basso, ma Ofelia era sempre pronta a parlargli e non farlo sentire inferiore: lei sapeva bene cosa significasse.
Thorn scostò le coperte in risposta.
- Non deve diventare un'abitudine però - li ammonì bonariamente Ofelia.
Lei era piccolina, ma Thorn con la sua stazza occupava quasi tutto il letto. I bambini crescevano a vista d'occhio e se nel giro di qualche anno avessero iniziato tutti e tre a dormire con loro ogni notte avrebbero tutti perso il sonno.
Serena scosse la testa, obbediente. - Solo oggi.
Thorn le accarezzò i capelli scompigliati mentre si sdraiava tra di loro, separandoli a forza. Balder invece pensò bene di prendere Tyr dalla culla, svegliandolo, e darlo alla mamma perché lo mettesse a letto con loro. Ofelia vide la sciarpa, assonnata, allargarsi nella culla, prendendosi il suo spazio. Stranamente Tyr aveva dormito tutta la notte e, anche se Ofelia non si illudeva certo che sarebbe diventata un'abitudine, quanto meno avevano potuto riposare in pace.
Serena si mise a raccontare di un sogno che aveva fatto quella notte, quando ad un certo punto Balder indicò qualcosa vicino alla porta, interrompendo la sorella. - Cos'è quell'animaletto?
Thorn e Ofelia cercarono di capire cosa stesse indicando, ma non videro nulla che potesse assomigliare ad un animale sulla scrivania ordinata di fianco alla porta. Ofelia si mise gli occhiali, altrimenti non avrebbe visto nulla se non ombre sfocate e indistinte. Che avesse avvistato un ragno? Avrebbe però dovuto avere una vista fuori dal comune.
Thorn aggrottò le sopracciglia. - Quella è una lampada - sancì, lapidario.
In effetti, l'unica cosa che vista da lontano potesse anche solo minimamente assomigliare ad un animale era l'abat-jour contorta.
Balder strizzò ancora gli occhi. - Oh - mormorò solo, sdraiandosi nuovamente per riposare.
Ofelia dubitava che, arzilli com'erano, si sarebbero riaddormentati. Invece nell'arco di tre minuti vide le loro palpebre farsi pesanti, e i due fratelli maggiori si assopirono. Tyr borbottava da solo fissando il soffitto.
Thorn la osservava con sguardo penetrante al di là dei bambini, ma Ofelia sapeva che non avrebbero potuto continuare quello che avevano voluto fare poco prima. Piuttosto, si tolse gli occhiali e cercò di capire cosa avesse visto Balder al posto della lampada da tavolo. Senza le sue lenti, la miopia ammantava tutto di uno strato di nebbia che distorceva ogni contorno. A dire il vero, lei non riusciva nemmeno a vederla l'abat-jour, percepiva solo un'ombra scura che sembrava in effetti un animaletto seduto sulle zampe posteriori.
Prima che potesse dare voce ai suoi dubbi, però, Thorn si alzò. - Cercherò di tornare prima questa sera, ma non posso tardare questa mattina, ho un appuntamento importante.
Ofelia non lo seguì quando scomparve in bagno, ma quando ne uscì aveva già indossato la vestaglia ed era pronta per fare colazione con lui. Alla fine anche Tyr aveva ceduto al sonno, stretto tra il fratello e la sorella, e Ofelia si augurava che stesse buono ancora un po'.
Notando il suo sguardo indeciso, nonostante la sua durezza, gli intimò: - Se mangio io, mangi anche tu.
Con sua sorpresa, Thorn non obiettò, le aprì la porta e la seguì verso la sala da pranzo.
Conoscendo gli orari del padrone di casa, i domestici avevano già apparecchiato tutto. La cosa non sorprendeva Ofelia. La lasciò basita invece vedere il prozio e Renard già seduti a tavola. Il primo guardava la tavola imbandita con aria meravigliata, il secondo aveva gli occhi iniettati di sangue.
- Qualcuno ha apparecchiato ieri sera prima di coricarsi, figliola? - domandò il prozio a mo' di buongiorno.
Ofelia prese posto a tavola, litigando con le gambe della sedia e rischiando di rovesciare del succo. - No, ci hanno pensato i domestici questa mattina.
Adocchiando la caffettiera bollente, la teiera fumante, il pane tostato da cui arrivava un allettante profumino, le varie confetture e persino i biscotti, Ofelia sentì la pancia brontolarle per la fame. Cercò di non incrociare lo sguardo di Thorn mentre si serviva una tazza doppia di caffè con panna e si imburrava una fetta di pane. Lui si accontentò del caffè e di qualche biscotto, che masticò con malcelata indifferenza. Si sforzava di mangiare un po' di più per lei, ma questo non significava che gli piacesse.
Vinte le remore iniziali, il prozio si servì il tè, zuccherandolo abbondantemente. - Devo ammettere che ogni tanto questa questione della servitù torna utile, per quanto non la capisca e ne sia anzi contrario.
Renard, che a tavola non era mai stato più debosciato di così, con la testa rossa appoggiata alla mano, prossimo ad addormentarsi, borbottò: - Quando si fa il valletto si maledicono i signoroni che dispongono di noi a loro piacimento, senza offesa, miei magnanimi padroni. Quando invece si è dall'altra parte non si può fare a meno di compiacersi nell'avere sempre tutto pronto. Com'è contraddittoria la natura umana! Ah ma, parola mia, i lavoratori di questo maniero non hanno nulla di cui lamentarsi. Il signor intendente è equo e giusto, pretenzioso, sì, ma mai meschino o dispotico. In giro c'è molto, molto di peggio, qui sono tutti in una botte di ferro, lo dico da ex valletto e...
Renard si zittì, raddrizzandosi sul colpo, quando incrociò lo sguardo affilato di Thorn. Addormentato com'era, Renard si era messo a parlare a ruota libera senza rendersi conto di cosa effettivamente stesse dicendo. E definire "pretenzioso" il padrone e datore di lavoro che gli aveva offerto casa, studi pagati e un'occupazione soddisfacente non era proprio una buona mossa, nonostante fosse stato fatto tutto sotto le veci di un complimento.
- Come mai siete così stanco? - domandò Ofelia per cambiare discorso.
- Oh, Ilda questa notte si è svegliata ventinove volte. Ventinove, le ho contate, posso giurarvelo. Io e Gaela non abbiamo chiuso occhio. Ora sono tutte e due addormentate e, dato che io invece non riuscirei proprio a riprendere sonno, sono venuto a prepararmi per la lezione di oggi.
Ofelia pensò ai figli, ancora addormentati nel loro letto. E pensò a Balder...
- Perché non provate a tornare a letto, se vi va? Oggi preferirei che i bambini saltassero le lezioni. Vorrei far fare loro un giro in città, mostrandola così anche al prozio. Conoscete qualcuno di bravo a fabbricare occhiali?
Renard si concentrò sull'ultima domanda. - Conosco un ottimo ottico, fa delle montature eccezionali, molto resistenti. Pensavo che foste affezionata ai vostri, però, che si riparano anche da soli.
- Sono per Balder - l'anticipò Thorn, sorprendendo persino Ofelia.
Lei lo aveva capito giusto quella mattina, possibile che non fosse sfuggito neanche a lui? Del resto, in effetti, cosa mai sfuggiva a Thorn?
- Basteranno la montatura e le lenti neutre. L'animismo di Balder le adatterà e modellerà sulla base della sua miopia - specificò il prozio, pragmatico.
Renard fischiò, ammirato. - Devo dire che l'animismo presenta molti più vantaggi che svantaggi. Come funziona il potere che esercitate sugli oggetti, quante sfaccettature ha generato?
Il prozio si impettì, i baffi sembrarono quasi raddrizzarsi, allettato dall'idea di lanciarsi in una bella digressione pletorica sulla storia dell'animismo.
Ofelia li ignorò, concentrandosi sul marito. - Ti eri accorto di Balder?
Thorn annuì, secco. - Te ne avrei parlato entro sera. Posso gestire io l'acquisto di lenti e montatura.
Ofelia non dovette pensarci nemmeno un istante. - No, lo farò io. Vorrei uscire, con i bambini.
- Potrebbe essere pericoloso. Sono stato riabilitato con il titolo ricevuto, ma al Polo nessuno dimentica, specialmente una scalata sociale. Ho ancora nemici.
- Vorrà dire che uscirò anche con tua zia e mia zia. E il prozio. E Renard. Non potranno attaccare in massa un nutrito gruppo di persone, non credi?
Thorn la scrutò con sguardo da rapace, quello sguardo intenso che non l'aveva mai spaventata, nemmeno da appena conosciuto. Ma quante volte l'aveva irritata, quando ancora non sapeva chi fosse davvero!
- Non tenterò oltre di dissuaderti, sarebbe inutile, e non mi piace perdere tempo. State attenti però.
Ofelia annuì, chiedendosi per un secondo se il suo imporre la sua volontà non l'avesse trasformata in una versione di Sophie un po' più ragionevole, che imponeva al marito le sue scelte, anzi, gliele faceva subire. Thorn, però, non si sarebbe mai sottomesso a chicchessia come un burattino, nemmeno a sua moglie. Le aveva sempre concesso tutto quello che lei aveva chiesto, e, come in quel momento, non si era mai dato la pena di battersi per una causa persa dato che Ofelia alla fine avrebbe fatto di testa sua, ma... al contrario del padre, Ofelia era sicura che se avesse davvero tentato di fare qualcosa per cui Thorn sarebbe stato in disaccordo, si sarebbero trovati a scontrarsi finché uno dei due non avesse convinto l'altro o non avesse ceduto.
E lei lo apprezzava, perché non aveva sposato Thorn per avere un fantoccio da comandare. Lo aveva sposato perché aveva scoperto, seppur tardi, quanto in realtà fosse altruista e disposto a tutto pur di proteggere quelli che amava. Non l'aveva capito subito perché all'inizio Thorn non aveva nessuno a lui caro, se non la zia, verso la quale si teneva comunque a distanza per il timore di non bastarle e di vedersi sostituito.
Thorn si alzò, rassettandosi la giacca con le spalline già perfettamente ordinata. – A questa sera – salutò genericamente, rivolto a tutti e a nessuno nello specifico.
Ofelia lo guardò andare via e continuò a bere il suo caffè. Quasi per caso si accorse dello sguardo del prozio puntato su di lei. Renard aveva la testa che ciondolava su e giù per la stanchezza.
- Non ti avevo profeticamente detto che la volontà di tuo marito si sarebbe infranta contro la tua? – le disse con un sorrisetto coperto dai baffi.
Ofelia sorrise a quel ricordo, a quando era seduta sul suo letto prima della partenza per il Polo, con il prozio accucciato di fronte a lei per consolarla.
- Parzialmente, zio. Thorn non si piega al volere di nessuno.
L’archivista le strizzò l’occhio: - Nemmeno tu, figliola. Hai trovato pane per i tuoi denti.
Ofelia scosse gentilmente Renard, ridestandolo e invitandolo ad andare a riposare un po’. Lei lo imitò poco dopo, ma prima guidò il prozio verso la biblioteca che fungeva da studio di Thorn, così che potesse studiare i libri lì contenuti. Ofelia lo vide irrigidirsi e quasi ringiovanire quando scorse la quantità di volumi stipati lì dentro. La zia Roseline si emozionava per la carta da riparare, il prozio per il sapere da acquisire.
Lo lasciò lì e tornò dai bambini, che ancora dormivano placidamente, sapendo che la pace avrebbe avuto vita breve: la zia Roseline avrebbe svegliato tutti nel giro di poco.
Ma andava bene così, non era stanca, e se Tyr avesse dormito ancora poi sarebbe stato impossibile farlo riaddormentare nel pomeriggio o di sera. Così si godette a vista dei suoi bimbi, placidi nel sonno, così simili a lei e Thorn da farle girare la testa.
Li amava, amava Thorn, e contro ogni previsione amava anche la sua vita lì.
Si ripeté quel pensiero in mente, più per cercare di ricordarselo che per eccessivo sentimentalismo, quando la zia Roseline si mise a berciare fuori dalla porta che in quella casa erano tutti pigri, più pigri degli aghi da cucito della nonna Antonietta.
Archibald, con la sua voce melliflua, si unì a lei fuori dalla porta e cercò di blandirla, usando probabilmente tutto il suo charm al punto che la zia Roseline si ritrovò a balbettare frasi sconnesse con una voce assai più pacata.
Pochi istanti dopo la testa bionda dell'ex ambasciatore fece capolino dalla porta, accompagnata da un sorriso impertinente. - Potrete ringraziarmi dopo, moglie dell'intendente. Il debito contratto nei miei confronti sembra allungarsi a dismisura.
Ofelia sentì le ciabatte scalpitare di fianco al letto, animate dalla sua voglia di tirargliele addosso, ma saggiamente Archibald si dileguò immediatamente.
Serena, svegliata dal trambusto, si stropicciò gli occhi. - Che ha fatto lo zietto Archi, mamma?
Se Thorn l'avesse sentita chiamarlo in quel modo si sarebbe risentito non poco. Anzi, anche un po' di più, come avrebbe detto lui.
- Lo sciocco come sempre - rispose Ofelia, trattenendo un sorriso quando vide la figlia annuire solennemente, come se sapesse meglio di lei che Archibald era proprio uno sciocco a volte. - Forza, andiamo a fare colazione e poi a comprare un paio di occhiali per Balder.
Serena sgranò gli occhioni scuri come i suoi, due perle nere in confronto ai capelli pallidissimi, e sussurrò: - Fuori?
- Sì, fuori.
Ofelia si sentì stringere il cuore notandola illuminarsi, prodigandosi subito per svegliare i fratellini. Da quando erano stati su Anima chiedeva spesso di poter andare fuori a giocare, con gli altri bambini, e Ofelia non sapeva più cosa inventarsi per spiegarle che lì, a casa loro, non era come su Anima, non erano tutti parenti, non si volevano tutti bene. Lì, uscire comportava un pericolo. Come far capire una cosa del genere a una bambina che voleva solo fare amicizia, del resto? Era in quei momenti che si pentiva di vivere lì e non su Anima, anche se alla fine grazie a Renard o addirittura ad Archibald riusciva a distrarli abbastanza da far dimenticare loro i verdi prati delle sue colline d'infanzia. Talvolta anche Berenilde accorreva in suo aiuto, ma più stuzzicandola quando era particolarmente di cattivo umore perché non vedeva Faruk da molti giorni, tormentando lei e i bambini con i soliti esercizi di dizione a cui Ofelia si sottraeva regolarmente. Non le servivano, dato che non aveva alcuna intenzione di partecipare alla vita di corte come invece faceva lei, e Thorn non poteva che essere più d'accordo.
Balder, innamorato della sorella maggiore come Hector era stato innamorato di Ofelia, partecipò all'entusiasmo di Serena senza aver capito del tutto che il giro fuori casa era colpa sua, se così la si voleva mettere.
Tyr invece si mise ad urlare, stizzito per quel brusco risveglio.
Ofelia lo prese in braccio sospirando. Se qualcuno aveva ereditato il caratteraccio dei Draghi, quello era proprio il figlio minore.

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Capitolo 43
*** Capitolo 43 ***


RITARDO ESTREMO. Miseriaccia il tempo vola fin troppo.
Dunque, per farmi perdonare questo capitolo sarà molto dolcioso e diabetico e spero vi piaccia.
Grazie mille  a tutti che leggete, mi supportate e portate tanta pazienza, come sempre *-*


Capitolo 43

Tornarono a casa la sera, giusto in tempo per la cena, stracarichi di borse. Avevano impiegato pochi minuti per scegliere e farsi confezionare gli occhiali del Balder, aiutati dal fatto che le lenti neutre erano sempre disponibili e facili da reperire, ma invece di andare a casa avevano scelto di farsi un giretto nei dintorni e quando Berenilde aveva adocchiato i negozi di vestiti e merletti era stata la loro rovina. Aveva impiegato tutto il giorno per cercare di convincere Ofelia a comprarsi qualcosa, come un cappotto nuovo dato che quello che Ofelia usava era ancora quello che sua madre le aveva fatto confezionare quando era fidanzata con Thorn; quel capo che, nonostante gli anni passati, era sì ancora irascibile come la donna che glielo aveva cucito, ma anche incredibilmente tenace: si sarebbe detto ancora nuovo.
Alla fine, cedendo alle pressioni congiunte di Berenilde e della zia Roseline, aveva comprato due nuovi vestiti (a detta di Berenilde troppo castigati e "povero Thorn che doveva guardare sua moglie portare robaccia che non esaltava nemmeno la più procace delle signore" e a detta della zia Roseline troppo insignificanti e che sembravano "cuciti da quelle zitelle mezze cieche di cui la cugina Carlotta presidiava il circolo e che non avrebbero fatto apparire carina una signora neanche a farselo pagare in oro, perché troppo bisbetiche ed invidiose”. Era più per questi commenti che Ofelia aveva comprato quei vestiti, che per esasperazione. Non provava gusto nel fare sempre l'opposto di ciò che volevano da lei, ma in qualche modo la faceva sentire padrona, libera di scegliere). E poi, quei vestiti a lei piacevano.
Il prozio aveva ghignato sotto i baffi tutto il tempo, assicurandole che quando Sophie lo trascinava per boutique nel tentativo di rinnovare il suo guardaroba finiva sempre per comprare metri e metri di scampoli per lei, perché: - Insomma, figliola, tua madre non è decisamente una donna contenuta, in tutti i sensi -, e lui doveva sorbirsi ore di prove e di rimbrotti perché era poco partecipe.
Se le due zie erano riuscite a non riempire Serena di vestiti pomposi, imbellettati, pieni di pizzo e fiocchetti inguardabili era solo perché Ofelia era riuscita a sfinirle prima.
- Mi auguro solo che vostra figlia sia più ragionevole di voi, Ofelia cara, o dovrò organizzare il matrimonio anche a lei altrimenti non troverà mai nessuno.
Ignorando la frecciatina, Ofelia aveva continuato a provare i modelli di vestiti a Serena, grata quando la vedeva ignorare completamente i merletti e gli accessori per scegliere timidamente cose più sobrie. Non l'avrebbe costretta, al contrario della sua famiglia, a scegliere vestiti che non le piacessero, pertanto avrebbe accettato qualsiasi decisione di Serena, ma internamente aveva tirato un sospiro di sollievo nel non aver generato una piccola Agata.
Balder aveva girato con gli occhiali senza lenti per tutto il giorno, facendo ridere alcuni passanti. Ofelia aveva cercato di fargli capire che, se prima non adattavano le lenti alla sua miopia, era inutile tenere la montatura vuota sul naso, ma il bambino non aveva nemmeno quattro anni e, come tutti i bambini, quando aveva una cosa nuova che per altro gli piaceva, la indossava ovunque.
Tyr aveva squadrato tutto ora distaccatamente, ora appigliandosi ad ogni pezzo di stoffa che trovava, strillando se lo si costringeva a lasciarlo. Ofelia gliene aveva dovuti comprare tre solo per smettere di farlo strillare, e il bambino aveva perso interesse per il nuovo acquisto nell'arco di pochi secondi.
- Come ha fatto mia madre con sei? - aveva chiesto inorridita alla zia Roseline quando, stanchi, avevano finalmente deciso di rincasare.
- Una come lei, poi - aveva bofonchiato la zia Roseline. - Tua madre ha la pazienza di un cucchiaino da tè se non la si asseconda.
Renard le era stato di enorme supporto, Archibald un po' meno, flirtando con chiunque indossasse una gonna solo per il gusto di vedere la zia Roseline passare da un pallore cadaverico ad un imbarazzato scarlatto e infine ad un nero livore. Ofelia si era chiesta se fosse quello il vero motivo per cui Archibald era così irriverente con le donne: si divertiva con gli oltraggi, e la zia Roseline gli serviva la sua riprovazione su un piatto d'argento.
Una volta rientrati, trovarono Thorn impalato in sala da pranzo che guardava fuori dalla finestra. Si girò appena quando li sentì, più che vederli, entrare.
- Oh, caro nipote, quante belle cose abbiamo comprato! - lo salutò Berenilde facendo cenno a Renard, che era diventato il facchino, di posare le borse.
- E pensare che sono un terzo di quello che avete preso. Non capisco proprio perché non abbiate voluto portare a casa tutto - borbottò il prozio, che era sopravvissuto a quella giornata solo perché Renard lo aveva accompagnato a fare un giro della città mentre loro erano nei negozi. Ofelia non si era fidata a lasciarlo andare da solo, era troppo pericoloso.
- Perché, vi ho già spiegato, gentilissimo, che qui non siamo su Anima dove i vestiti vengono confezionati a casa o in boutique in cui tutti si conoscono. Qui i vestiti più sfarzosi devono essere commissionati, e se tornassi a casa da un negozio con i vestiti già pronti significherebbe che non avevo denaro per pagare le modifiche che servono a rendere unico l'abito.
Ofelia concordava con il prozio nel ritenere tutto quel gioco di apparenze una grandissima sciocchezza, ma non aveva voglia di litigare e sapeva bene che nulla avrebbe fatto cambiare idea a Berenilde, pertanto se ne rimase zitta.
- Qui è tutto un ostentare, zio. Lo imparerete con il tempo. Io stessa devo ancora abituarmici, potete immaginarvi! - borbottò la zia Roseline.
Ofelia pensò che, finché Berenilde non l'avesse sottoposta alle lezioni di portamento e dizione di una volta, avrebbe potuto fare avanti e indietro dai negozi quanto voleva. Senza di lei, ovviamente.
- Mangiamo - ordinò Thorn. - Ho da fare dopo cena.
Renard, stremato, non sapeva più dove appoggiare le borse, che lasciò cadere lì dove si trovavano quando vide entrare sua moglie con Ilda. Si illuminò e le raggiunse, riempiendole di sonori baci. I lamenti di Gaela vennero soffocati dagli schiocchi delle labbra di Renard, che fecero sorridere Ofelia.
- Se le colombine vogliono degnarsi di sedersi invece di regalarci un altro pargolo sul tappeto del soggiorno... - li invitò seraficamente Archibald, che si lasciò cadere sgraziatamente su una sedia. - Ho un certo languorino.
Thorn lanciò un'occhiataccia ad Archibald per la sua volgarità, ammonimento che venne ricambiato da un'irriverente strizzatina d'occhio. La conversazione a tavola languì, stanchi com'erano dopo la giornata di compere. Il prozio aggiornò la zia Roseline sulla salute di ogni cugino e zio che avevano, argomento che non si esaurì nemmeno dopo cena, Renard confabulò con Gaela per carpirle informazioni su come fosse andata la giornata con Ilda, che rispose al papà sputacchiando, mentre Berenilde e Archibald si scambiarono ridacchiando alcuni pettegolezzi e novità su alcune coppie improbabili e scandali appena avvenuti.
Ofelia cercò di chiedere a Thorn cosa dovesse fare dopo cena, visto che era da molto che non lavorava fino a tardi, ma Thorn le diede solo secche risposte evasive tra una cucchiaiata di zuppa e l'altra che Balder si ostinava a spargere per il tavolo e una sgridata a Tyr che lanciava pezzi di cracker a Ilda, la quale non lo notava nemmeno.
Thorn fu il primo a finire di mangiare, e quando si alzò si chinò discretamente verso Ofelia.
- Vieni in camera nostra tra mezz'ora - le intimò.
Nonostante il tono sepolcrale, Ofelia si sentì rabbrividire. Che fosse... quello il lavoro che aveva da fare? Certo, era da... troppo tempo che non ottemperavano ai loro doveri coniugali, ma per un motivo comprensibile. Qualcosa non le tornava.
- Con i bambini - aggiunse Thorn a scanso di equivoci prima di allontanarsi con le sue lunghe falcate da spaventapasseri.
Ofelia rimase intontita per il resto del pasto, mangiando il dolce senza sentirne davvero il gusto, e beccandosi più volte delle rimbeccate dalla zia Roseline perché non si accorgeva di quando Balder, nel tentativo fin troppo cavalleresco di aiutare Tyr a mangiare, si sbrodolava tutto, e sporcava pure il fratello.
Allo scoccare della mezz'ora richiesta da Thorn fu con fin troppo trasporto che Ofelia trascinò i bambini lungo il corridoio, impossibilitata a rispondere alle loro domande perché non aveva risposte.
Trovarono Thorn seduto alla scrivania adiacente alla porta, intento a scrutare delle scatoline ricamate in oro. Quando li vide entrare si alzò, erigendosi di fronte al loro in tutta la sua statura torreggiante.
I bambini ammutolirono percependo che il papà stava per dire qualcosa di importante, in attesa. Ofelia per una volta avrebbe voluto che Thorn fosse più basso, per poterlo guardare negli occhi e capire ogni sfaccettatura della sua espressione, cosa si arrovellasse in quel cervello iperattivo.
E desiderò leggere qualcosa che non le apparteneva. Voleva scoprire a cosa servissero quelle scatoline, e quale fosse lo stato d'animo di Thorn mentre le maneggiava. Notando come le dita di Serena si contraevano nei guanti, immaginò che Serena provasse lo stesso, nonostante fosse ancora ai rudimenti di come si eseguisse una perizia di lettura.
Thorn, probabilmente stanco di osservare la sua minuscola famiglia con il collo tutto reclinato, si sedette nuovamente di fronte alla scrivania e si schiarì la voce. Persino Tyr, sempre ciarliero e disturbatore, rimase zitto in braccio alla mamma.
- Vi ho preso dei regali. Delle cose utili.
Alla parola “regali” il cuore di Ofelia si era stretto in una morsa. Quando aveva aggiunto "utili" si era leggermente sgonfiato. Se c'era una cosa che le mancava di Anima, quella era la Festa dei Regali, un giorno in cui bisognava fare regali a tutti i membri stretti della propria famiglia. C'era anche una gara a fine giornata, durante la quale veniva scelto il regalo più bizzarro e divertente, e il vincitore aveva il diritto di ricevere un regalo tanto ambito con i soldi delle casse comuni di Anima.
Quei regali non erano utili, erano cianfrusaglie esotiche, colorate e spesso prive di utilità, ma era una gioia scartare i pacchi avvolti nella carta e trovarsi di fronte oggetti strani e spesso incomprensibili che diventavano dei veri rompicapo.
Un regalo non doveva essere utile.
Solo in un secondo momento Ofelia si rese conto dell'imbarazzo di Thorn. Fortunatamente intervenne Serena a toglierlo dalla situazione scomoda.
- Possiamo prenderli, papà?
Girandosi rigidamente come un automa, Thorn le allungò una delle due scatoline quadrate, prendendo poi una delle due più lunghe per Balder. I piccoli cercarono di aprirle con un certo ritegno, ma erano bambini di tre e sei anni e rotti che maneggiavano il primo regalo della loro vita, e l'aria si riempì subito di sospiri ed esclamazioni soffocate.
- Una collana tutta d'ovo?
- Cos'è papà, cos'è? - si agitò invece Balder, che non capiva cosa fosse il suo regalo.
- La tua è una collana d'oro con un ciondolo ad orologio, Serena - la informò Thorn, allungando la mano perché la bambina gliela cedesse. Con uno scatto del dito aprì il pendente rotondo appeso alla catenina d'oro, che era sembrata tanto grande tra le manine di Serena quanto era piccola in quelle di Thorn. All'interno del pendente c'era un piccolo orologio riccamente decorato con ingranaggi a vista, abbastanza piccolo da non diventare un gioiello vistoso e pacchiano, ma abbastanza grande da essere letto senza doverselo portare a poca distanza dagli occhi.
- Sapere l'ora è molto importante, Serena. Anche un po' di più. Sai leggere un orologio?
La bambina annuì con orgoglio. - Me l'ha insegnato il maestro Renal. No, Renold, la mamma ha detto che si chiama Renold.
- Allora dimmi che ore sono.
Serena strizzò gli occhi per la concentrazione, muovendo la bocca mentre contava in silenzio ore e minuti.
- Le nove e tre minuti!
- Tre minuti e mezzo - la corresse Thorn, preciso fino all'ossessione.
- Cos'è regalo mio papà? - insisté Balder, fiondandosi tra le gambe di Thorn e agitando la scatolina fin troppo preziosa per le mani di un bambino.
- Il tuo è un orologio da polso, Balder. Una nuova invenzione, presumo sia più comodo di un orologio da taschino. Basta legare il cinturino al polso e il quadrante sarà sempre facilmente consultabile.
La voce di Thorn rimase fredda come sempre, tagliente e scricchiolante come il ghiaccio anche quando spiegava il funzionamento di qualcosa che lo appassionava.
Anche nel caso di Balder, il cinturino era in maglie d'oro e il quadrante in oro e avorio, con degli ingranaggi elaborati visibili sotto il vetro.
Erano due piccole opere d'arte, dei gioielli forse fin troppo preziosi per dei bambini piccoli.
- Sai leggere l'ora, Balder? - lo interrogò Thorn.
Il bambino scosse la testa, mortificato.
- Quando imparerai, dovrai tenere sempre l'orologio al polso, e non rovinarlo mai.
- Non si sbatte in giro!
Thorn aggrottò le sopracciglia. - Non si sbatte nulla in giro, di norma.
Il bambino strinse le labbra come se avesse appena combinato un guaio, tanto che anche Ofelia si chiese cosa mai Balder sbattesse in giro per avere un'aria così colpevole.
Serena continuava a scrutare la sua collana, ripresa dalle mani di Thorn, con sguardo estatico. Era indubbio che le piacesse, sembrava non avere parole per esprimersi. Quando allungò la collana al papà perché gliela allacciasse, con Balder che cercava di prendere il pendente a orologio per confrontare i due regali, Ofelia ne approfittò per guardare da vicino l'orologio da polso.
Era un'opera di incredibile fattura, e Ofelia dubitava che un Miraggio con le sue portentose creazioni illusorie avrebbe potuto fare di meglio. Non sapeva che al Polo ci fossero dei tali maestri artigiani. I piccoli ingranaggi dorati erano lucidi e splendenti, fatti risaltare dall'avorio biancheggiante dov'erano indicati i numeri dorati di minuti e ore. Anche le lancette erano dorate, ma nel complesso, stranamente, tutto quel lucore non dava fastidio. Ofelia non aveva mai amato l'oro, lo aveva sempre considerato un po' pesante e troppo vistoso, ma nella collana e nell'orologio era così finemente lavorato e gestito che non sarebbe stato eccessivo nemmeno aggiungerne ancora, probabilmente grazie anche all'opacità delle maglie dell'orologio che non brillavano troppo.
Ofelia stava per ridarlo a Thorn quando notò una piccola incisione in alto, appena sotto il dodici. Anche con gli occhiali dovette avvicinare il quadrante agli occhi per poter essere sicura di cosa ci fosse scritto.
L'orologio rischiò di caderle di mano.
Lisbeth.
Si sentiva gli occhi di Thorn puntati addosso, ma non aveva il coraggio di guardarlo in volto.
- Mi sta bene, papà? - lo richiamò Serena, accarezzando il pendente che le scendeva sul petto, decisamente lungo per una bambina. 
Crescendo le sarebbe ricaduto sopra il seno, un elegante punto luce che persino Ofelia che non amava orpelli e pizzi avrebbe sfoggiato volentieri.
Thorn distolse lo sguardo da Ofelia e afferrò di nuovo il pendente a orologio di Serena. Invece di rispondere alla domanda della figlia, cosa che non sorprese Ofelia dato che avrebbe dovuto esprimere un parere a cui non era e non sarebbe mai stato avvezzo, aprì il monile e lo avvicinò al viso della figlia.
- C'è il nome di vostra sorella inciso dentro il quadrante - annunciò senza mezza termini, confermando il sospetto di Ofelia. - Per ricordarvi sempre che avreste avuto una sorella e che il tempo sarebbe passato anche per lei.
Ofelia si morse la cucitura del guanto per cercare di fermare il tremore al labbro. Cos'aveva fatto Thorn?
Balder alzò la testa, e solo allora Ofelia si rese conto che portava ancora sul naso gli occhiali senza lenti. Il giorno dopo avrebbe dovuto spiegargli come animarle per adattarle alla sua miopia, quella sera non ne aveva le forze.
- Serena è qui, papà - gli fece notare innocentemente.
Non sapeva ancora leggere, ma Thorn prese il suo orologio dalle mani di Ofelia e glielo mise sotto il naso, indicandogli la scritta in oro senza toccare il quadrante, per non sporcarlo. Meticoloso come sempre.
- Qui, c'è scritto Lisbeht. È il nome della sorella che non è nata, ma che avreste avuto.
Balder parve capire. - Quella che la mamma portava in pancia?
Thorn annuì in risposta, mentre Serena si mordeva le labbra nel tentativo di non raccontare al fratellino tutto quello che sapeva. Giudiziosa com'era, aveva capito che non era il caso di spiegargli cose che non avrebbe ancora potuto comprendere.
- E dov'è? - chiese il bambino, sgranando gli occhioni. - Niente sorellina?
- Niente sorellina - confermò Thorn, sorprendendo Ofelia con il tono condiscendente che usava con Balder. Si era sempre rivolto ai figli come a degli adulti, quella piccola premura la toccò nel profondo. - Non era pronta per nascere e quindi non la vedremo mai.
Balder parve accontentarsi di quella spiegazione, al contrario della sorella. Ma affettuoso com'era non accettò la mancata presenza di una quarta sorella o fratello.
- Altro fratello quando?
Ofelia incontrò lo sguardo di Thorn per un attimo, prima che lui si affrettasse a distoglierlo.
Non avevano parlato di avere altri figli. Non era venuto in mente a nessuno dei due perché sapevano, senza bisogno di dirselo, che non era il caso. Sia di parlarne che di averne, per il momento. Non sarebbe stato giusto nei confronti di... Lisbeth, Ofelia l'avrebbe visto come un rimpiazzo, e li aveva sempre odiati. Era certa che anche Thorn provasse la stessa cosa, soprattutto visto com'era stato sostituito da tutti per tutta la vita, messo da parte persino da sua madre per qualcuno di più congeniale come Archibald, o dalla zia per i propri figli.
- Non si sa - ripose vagamente Thorn, lui che era l'antitesi della vaghezza.
Per qualche motivo Ofelia sentì una sorta di speranza in quelle parole, nonostante la voce di Thorn fosse stata fredda come sempre. Un po' come se... avesse lasciato uno spiraglio. Un giorno, forse, ci avrebbero riprovato. Un giorno, forse, avrebbero visto un nuovo figlio non come un rimpiazzo, ma come una cosa naturale, giusta e... voluta.
Ofelia si sentì in colpa per essersi sentita tanto male alla scoperta di essere nuovamente incinta dopo Tyr. Quel sentimento non era in alcun modo collegato alla perdita di Lisbeth e alla sua iniziale titubanza per la quarta gravidanza, però si sentiva come se le avesse voluto meno bene.
Cercò di distogliere la mente da quei pensieri negativi, che l'avrebbero condotta in una spirale di tristezza in cui non voleva più rimanere incastrata.
Thorn le lanciò un'altra occhiata, e lei cercò di abbozzare un sorriso. Incoraggiato, Thorn non distolse subito lo sguardo, anche se non rilassò le spalle e la postura contratta. Era rigido come un manichino.
Balder si fece nuovamente distrarre dal suo regalo. - Voglio bene alla solellina Lisbeth. Posso mettere l'orogio... oloro...
- Non devi rovinarlo, Balder - gli intimò Thorn con più serietà del solito. - È un regalo importante. Va trattato con cura, pulito ogni sera.
Attento a quelle indicazioni, Balder prese l'orologio per il cinturino cercando di toccarlo il meno possibile.
- Lo metterai domani - lo informò Thorn. - Ora si va a letto.
Tyr, capendo cosa significassero quelle parole, si mise a tirare una ciocca di capelli di Ofelia, brontolando.
Mentre Thorn conduceva i bambini fuori per portarli in camera loro, Ofelia lavò Tyr, lo cambiò e fece quanto poteva per addormentarlo. Con lui avevano subito capito che cullarlo non era efficace, anzi, sembrava più che altro agitarlo. Parlargli lo calmava, ma con voce dura, non con quella gentile e rassicurante che si usava con i bimbi così piccoli: finiva per arrabbiarsi e sputacchiare. Invece con un tono stentoreo si quietava, come riconoscendo inconsciamente che ad una voce seria corrispondeva un rischio, e dunque era meglio starsene buoni. Per Ofelia non era facile addormentarlo nemmeno in quel modo; anche se non aveva più la voce da passerotto di una volta, non si poteva certo dire che avesse un tono autoritario. Era pacata anche quando si arrabbiava, e il suo alzare la voce era sempre meno impressionante di quello degli altri.
Non si oppose quindi quando, tornando in camera, Thorn le prese Tyr dalle braccia e si mise a spiegare al bambino alcune leggi penali con incredibile serietà e durezza. Ofelia ne approfittò per mettersi la camicia da notte, e non si sorprese quando scoprì che Thorn era riuscito a far addormentare Tyr in molto meno tempo di lei. Lo depose nella culla, e Ofelia gli si avvicinò per depositargli la sciarpa accanto. Questa si raggomitolò vicino al bambino che, abituato alla sua presenza, le strinse la coda, come per prenderle la mano.
Ofelia si inteneriva sempre quando il piccolo si aggrappava alla sua sciarpa. Era l'oggetto che più preferiva al mondo, e spesso faceva i capricci se Ofelia non gliela cedeva.
Rimasero fermi ad osservare Tyr addormentato per diverso tempo, in silenzio. Ofelia sentiva che stava per accadere qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire cosa. Quella era stata una serata importante sotto molti punti di vista, e aveva molte domande per Thorn, ma era come se sentisse che non era ancora il momento di porle.
Infatti, poco dopo lui le strinse delicatamente le dita guantate, mettendole sotto il naso una scatolina quadrata come quella che aveva dato a Serena.
- Per me? - domandò stupidamente lei.
Thorn la fissò con quello sguardo ipnotico che non aveva mai perso effetto su di lei, bloccandola come un uccellino spaurito di fronte agli occhi del serpente.
Impaziente, Ofelia aprì subito il regalo, senza neanche preoccuparsi di allontanarsi da Tyr per non svegliarlo.
Per un attimo aveva pensato che nella scatolina ci fosse proprio il regalo del figlio minore, ma vi trovò una collana.
- E Tyr? - chiese di getto.
Thorn increspò la fronte, preso in contropiede dalla domanda. Ofelia lo vide scuotere lievemente la testa, come se fosse contrariato. Non da lei, però, bensì dalla sua incapacità di riuscire a prevederla dopo tutti quegli anni insieme. Per quanto ormai la conoscesse intimamente, Ofelia rimaneva ancora un mistero per Thorn, e le sue domande improvvise accompagnate dalle azioni che a volte intraprendeva lo lasciavano spesso basito.
- Ha un orologio come quello di Balder. Glielo darò quando sarà più grande.
Ofelia approvò con un cenno prima di riportare l'attenzione sulla collana. Era uguale a quella di Serena, una catenina d'oro leggermente più spessa con un pendente dorato. Ofelia la prese in mano e con qualche difficoltà dovuta sia alla goffaggine che all'agitazione riuscì ad aprire il ciondolo. Al contrario di quello di Serena, non conteneva un orologio. Era un semplice sfondo avorio su cui erano incisi a sbalzo dei nomi dorati, come un elenco. Thorn, Ofelia da una parte. Serena, Balder, Tyr, Lisbeth dall'altra.
Per la prima volta da giorni Ofelia sentì il bisogno di piangere non per la tristezza, ma per la gioia, per la commozione e l'amore che provava.
- È… non è bellissimo. Cioè, lo è. Io...
Ingarbugliandosi da sola nelle parole come troppo spesso le accadeva, Ofelia desiderò per una volta riuscire ad esprimersi chiaramente, aprire il suo cuore a Thorn. Ma non ci riuscì.
- Te la metto? - domandò lui, a disagio, forse incerto sull'apprezzamento del regalo da parte di Ofelia.
Annuendo, lei gli passò la collana, chiudendola con cura dopo aver accarezzato con lo sguardo i nomi della sua famiglia, e gli diede le spalle. Spostò i capelli aggrovigliati e gli permise di allacciarle il ciondolo. Quando sentì il peso del monile ricaderle sul petto, lo percepì familiare e confortevole, come se fosse sempre stato quello il suo posto.
Thorn si schiarì la voce e Ofelia percepì la tensione del suo corpo alle sue spalle come se fosse incapace di trattenere gli artigli. Non sentiva dolore o fastidio, ma era come se tutto il suo imbarazzo e il suo essere così poco avvezzo a quelle situazioni la toccassero.
- Non ho mai... pensato di farti dei regali. So che di norma però un uomo dovrebbe farne ad una donna. Quindi...
Thorn prese un respiro particolarmente profondo. Ofelia continuò a dargli le spalle. Voleva guardarlo in volto, voleva vederlo vulnerabile come si sentiva lei, ma sapeva che Thorn avrebbe fatto ancora più fatica a parlare se lei lo avesse distratto. In compenso, senza farsi notare cominciò a slacciarsi i bottoni della camicia da notte. Lui le aveva sempre concesso tutto il tempo del mondo, lei avrebbe fatto altrettanto.
- Un regalo, ecco, per te e per i bambini, e per ricordare Lisbeth. Non perché verrà dimenticata senza un promemoria, solo per... portarla con noi...
Ofelia alzò di scatto la testa. Si girò, calciandosi un piede da sola ma senza perdere l'equilibrio. Cercò sul volto di Thorn una conferma, ma trovò solo le punte rosse delle sue orecchie a tradirne il disagio.
- Hai un orologio anche tu?
Leggendo tra le righe la vera domanda di Ofelia, Thorn prese il suo immancabile orologio da taschino e lo aprì. Il consueto tac-tac fendette l'aria, simile al battito di un cuore metallico. Thorn le indicò con un lungo dito l'interno dello sportellino, quello che andava a chiudere il quadrante dell'orologio: anche lui aveva fatto incidere all'interno dei nomi, quello di Ofelia e dei figli, fino a Lisbeth.
Quando fu sicuro che Ofelia aveva visto la modifica, richiuse con uno scatto l'orologio, sempre lucido e immacolato nonostante gli anni, e lo rimise nella tasca della giacca da intendente che ancora doveva togliersi.
Ofelia continuò a fissarlo, immobile, finché lui non distolse lo sguardo. - Ti piace? Può andare bene? - le domandò, insicuro come non l'aveva mai visto.
In risposta, preda di un intollerabile bisogno di contatto che la fece quasi vergognare, lasciò cadere la camicia da notte, rimanendo esposta di fronte a lui, vestita solo della biancheria e della collana che, già lo sapeva, non si sarebbe mai tolta.
Thorn cercò di non mostrarsi troppo impaziente e avido mentre osservava il flebile luccichio dell'oro contro la pelle di Ofelia e le sue curve. Lei invece non riuscì bene a mascherare il suo desiderio; alzatasi sulle punte, gli fece scorrere le mani sul petto e gliele allacciò dietro al collo, per tirarlo verso di sé. Ci arrivava a malapena nonostante si fosse allungata sulle punte.
- La superficie del retro è uno specchio. È molto piccolo, ci passano difficilmente due dita, però almeno se ti troverai in difficoltà avrai sempre sotto mano qualcosa con cui mandare messaggi o contattarmi. Ne terrò uno anche io sulla scrivania così...
Ofelia lo zittì con un bacio imperioso, stringendosi a lui. Allontanandosi da Tyr, che non era proprio il caso di disturbare finché dormiva, riuscì a spingere Thorn contro il muro. Perdendo finalmente ogni reticenza, lui le permise di spogliarlo, con i suoi ritmi e i suoi ingarbugliamenti di dita, mentre le accarezzava ogni centimetro, ogni millimetro di pelle esposta, liberandola poi di quel poco che la copriva, eccetto i guanti e la collana.
Erano entrambi a corto di fiato e smaniosi quando Ofelia finalmente riuscì a liberargli il torso. Thorn si occupò da solo dei pantaloni e delle scarpe prima di spingere gentilmente Ofelia a letto, seguendola subito dopo. Quando fu sdraiata le tolse anche gli occhiali e i guanti, baciandole il punto del petto su cui si era depositato il ciondolo dorato.
Ofelia allontanò la bocca di lui per un attimo, prendendogli il viso tra le mani e sussurrandogli con voce spezzata: - Ti amo, Thorn.
In risposta, lui si fuse con lei e le depositò un bacio in fronte, respirando contro la sua pelle mentre si muovevano insieme.
- Io anche un po' di più - sussurrò contro il suo collo in un soffio poco dopo, prima di accasciarsi su di lei senza pesarle addosso.
Ofelia si aggrappò alla sua schiena ruvida di cicatrici, accarezzandolo in punta di dita e chiudendo gli occhi, beandosi del contatto con il suo corpo caldo, con il suo petto ampio, del profumo di sapone dei suoi capelli ora spettinati.
In pace con se stessa, finalmente, non sarebbe riuscita a misurare il tempo che era passato nemmeno se dentro al pendente ci fosse stato un orologio, come in quello di Serena. Quando però Thorn si scostò lo trattenne, incurante di che ora fosse, e gli salì sopra baciandogli tutto il viso, la mascella, il collo e il petto con infinita dolcezza. Thorn la fissava tra le palpebre quasi chiuse, il bagliore metallico delle pupille come unica prova del fatto che non stesse dormendo e avesse gli occhi aperti.
Si unirono di nuovo, ma senza fretta, con la calma di chi conosce l'altro meglio di sé e senza alcuna urgenza da soddisfare, solo il bisogno di sentirsi vicini, stretti, fusi insieme.
Ofelia non pianse, nonostante quella punta di dolore che sentiva nel cuore, lenita però da tutto l'amore che provava e riceveva. Aveva troppo di cui essere grata per rattristarsi.
Si addormentò subito dopo, con Thorn che le rimboccava le coperte, ritrovandosi a pensare che finalmente quella notte, stretta tra le sue braccia, aveva finalmente ritrovato se stessa.
Aveva fatto ritorno a casa.
 
La mattina dopo i bambini andarono a svegliarli, facendo di tutto per mettere in mostra i propri regali: Serena se ne stava impettita come un uccello impagliato mentre Balder sventolava ovunque il polso. Ofelia lo vide sbattere l'orologio contro la porta e controllare nel panico che Thorn non se ne fosse accorto. Il bambino tirò un sospiro di sollievo quando vide che il suo papà non aveva visto e che l'orologio non si era rovinato.
Ofelia quella notte aveva capito quanto il viaggio e quegli ultimi giorni avessero distrutto Thorn: quando Tyr si era svegliato, alle prime ore del mattino, non aveva sollevato nemmeno una palpebra, sordo a tutto; era sempre stato lui ad alzarsi ancora prima che i bambini piangessero, con il sonno tanto leggero da svegliarsi anche se qualcuno passava fuori dalla loro camera. Ofelia aveva portato il bimbo in cucina per dargli del latte, ormai non lo allattava più da parecchio, e quando era tornata, con Tyr riaddormentato, Thorn era rimasto fermo nella stessa posizione, anche quando si era rimessa sotto le coperte e lo aveva abbracciato.
Non fu sorpresa quindi quando la informò che quel giorno avrebbe lavorato a casa. Ofelia sospettava che anche far incidere e commissionare i loro regali gli fosse costato parecchio in termini di tempo. L'idea di Thorn che discuteva con qualcuno di una cosa così personale la fece sorridere. Si immaginava il povero artigiano che aveva dovuto realizzare i gioielli, come doveva essersi sentito al cospetto dell'intendente, che altro non era che l'uomo più alto, freddo e spigoloso che Ofelia avesse mai visto.
Mentre Renard faceva lezione a Serena, Ofelia ne approfittò per spiegare a Balder come animare le lenti neutre degli occhiali per farle adattare alla sua miopia. Non fu molto semplice far capire quei concetti ad un bambino piccolo, ma Balder aveva voglia di imparare, e soprattutto di indossare i suoi occhiali, quindi si applicò con impegno. Quando, dopo molti falsi allarmi, nel primo pomeriggio urlò di gioia che ci vedeva "così bene che poteva vedere la pelle grinzosa della zia Roseline anche da lontaniiiissimo" Ofelia aveva capito che ce l'aveva fatta davvero. E che probabilmente era anche più capace di Serena con il suo dono. La zia Roseline non l'aveva presa granché bene, invece, ma era bastato un complimento di Archibald per farla arrossire e dimenticare l'offesa.
A giornata conclusa, Ofelia subissò Thorn di domande quando si furono sdraiati a letto, con Tyr in mezzo a loro nel lettone. Non ne voleva sapere di addormentarsi, ma finché stava tranquillo meglio lasciarlo in pace. Gli chiese di come gli fosse venuta l'idea di andare a prendere, anzi, "far mandare a prendere", come l'aveva corretta Thorn, il prozio; delle ragioni più profonde e nascoste per cui aveva voluto regalare ai bambini collane e orologi; di come li avesse commissionati, e quando; di cosa avesse fatto in quei giorni in cui era stato via, omettendo la parte relativa al suo timore di un abbandono.
Thorn le rispose con poche e stentate parole, senza arricchire il racconto di dettagli, anzi, senza raccontare proprio nulla se non i fatti nudi e crudi, privi di sentimento e di entusiasmo. Ofelia fece così fatica a cavargli i fatti di bocca che finì con l'addormentarsi prima di Tyr, soddisfatta nonostante le risposte parche e monosillabiche perché Thorn non avrebbe tollerato da nessun altro, se non da lei, un terzo grado simile.
E Ofelia aveva iniziato a sottoporglielo appena si erano conosciuti, senza sapere nulla su Thorn e la sua idiosincrasia verso il mondo.
Non le servivano gesti o parole dolci da Thorn quando questi le dimostrava chiaramente quanto lei fosse importante andando contro alla sua stessa natura.
Scivolando nel sonno si chiese come avesse potuto un uomo che non aveva nessuna dote nel raccontare storie addormentare per anni tre bambini, facendoli letteralmente pendere dalle proprie labbra. Poi si rese conto che non servivano doti da narratore per parlare di matematica, la materia più soporifera del mondo. Forse avrebbe dovuto parlarne anche lei ai bambini, per tenerli buoni.
Quando Thorn, più tardi, rimise Tyr nella culla, aggrottò la fronte davanti al sorriso di Ofelia mentre dormiva.

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Capitolo 44
*** Capitolo 44 ***


So che sono fuori tempo massimo, ma per farmi perdonare cercherò di postare entro martedì prossimo il capitolo successivo (che per contro sarà non proprio lunghissimo...).
Questo è un capitolo un po' di passaggio, di stallo alla fin fine, di adattamento, ma dal prossimo e da quelli a venire ci saranno delle altre novità/sorprese ecc.
Grazie mille come sempre per la pazienza che portate!


Capitolo 44

Con il passare del tempo il pensiero fisso della perdita di Lisbeth si affievolì, e divenne solo un dolore di fondo nelle vite di tutti, un dolore che c'era, ma non precludeva la felicità che si respirava quotidianamente e non impediva di vivere appieno la vita che tutti, in vari modi, si erano costruiti.
Tornarono alla normalità, con Renard che insegnava a Serena e Balder che continuava a copiare quello che era scritto alla lavagna, questa volta riuscendo a distinguere parole e figure; Berenilde presentò Vittoria a corte, iniziandola alle chiacchiere e ai salotti mondani, pieni di fumo e gente poco raccomandabile; la zia Roseline faceva spesso da scorta, per controllare che Berenilde non finisse più "ubriaca di un dolcetto di marzapane durante la Festa del vino" o "più incosciente di un vaso da fiori appeso al muro". In realtà, le uniche a doversi preoccupare erano proprio Berenilde e Vittoria; anzi, solo Berenilde. Vittoria più che altro si estraniava, disegnando sui suoi immancabili fogli bianchi ritratti più o meno lusinghieri delle signore imbellettate che inorridivano nel rendersi conto che Vittoria le vedeva per ciò che erano veramente, cosa che riempiva Berenilde di orgoglio. Quando parlava, se la mamma la invitava a farlo, chiacchierava di cose che non interessavano a nessuno perché esulavano dai soliti pettegolezzi, per cui per lo più si isolava, o disegnava, e quando si incontrava con Faruk scambiavano due parole in croce prima di mettersi a scarabocchiare insieme. I due sembravano avere un'intesa tutta loro. La zia Roseline invece, nel tentativo di proteggerle, si metteva a parlare con le persone sbagliate, a guardare dove non doveva, a inalare fumi da cui tutti si tenevano alla larga o a entrare in camere che sarebbe stato meglio lasciare chiuse. Il suo zelo nel voler proteggere Berenilde e la figlia erano ammirevoli, ma sarebbe servito qualcuno che proteggesse lei. Quante volte era toccato a Renard e Archibald riportare a casa la zia semisvenuta o in preda alle visioni perché incapace di camminare da sola!
Il prozio invece aveva trovato un proprio equilibrio: la mattina si riposava in salotto leggendo i giornali che Thorn aveva già letto all'alba fumandosi la sua pipa, oppure teneva un paio d'ore di lezione a Serena sulla storia di Anima, che conosceva meglio di Renard; di pomeriggio si faceva accompagnare in biblioteca da Renard, ansioso di conoscere di più circa la storia che il prozio raccontava a Serena, o sui viaggi che aveva fatto quando era giovane, altrimenti, specialmente quando faceva più freddo, spulciava i volumi della loro biblioteca di casa o giocava a carte con Ofelia, la zia Roseline, con la quale bisticciava sempre, e il primo malcapitato di turno. Abituata a vederlo tutto il giorno rintanato presso la sua casetta limitrofa agli archivi, Ofelia non aveva mai notato il lato avventuriero del prozio. La curiosità che lo aveva spinto a diventare l'Archivista e studiare tutto lo scibile possibile e immaginabile si era concretizzato, in più giovane età, in uno spirito avventuriero che si era recato su almeno una decina di arche diverse per apprendere sul campo le nozioni che aveva studiato sulla carta.
Ogni tanto proponeva qualche gita a Chiardiluna o a Cittàcielo per studiare il funzionamento del Polo, con le sue illusioni e i contributi di Madre Ildegarda all'architettura bizzarra e senza correlazione tra spazio esterno e interno, ma la maggior parte delle volte, per un motivo o per un altro, si concludevano in un nulla di fatto. Ofelia gli aveva mostrato una volta il suo studio di lettura, che attendeva solo che lei lo riaprisse. Quando erano andati Tyr aveva iniziato a gattonare ovunque toccando tutto e rendendo chiaro ad Ofelia che ancora non avrebbe potuto riaprirlo, sicuramente non nell'immediato, ma il fatto che fosse ancora lì, pulito e mantenuto, le permetteva di credere che un giorno avrebbe potuto ricominciare a lavorarci. Il prozio non aveva fatto molti complimenti, aveva osservato tutto attentamente e poi era uscito, facendo capire agli altri che era ora di tornare. Ofelia aveva scambiato il suo silenzio per delusione, ma quando il prozio le aveva detto che si dispiaceva per essersi fatto un'idea così sbagliata di Thorn e che era orgoglioso del progetto di Ofelia, aveva capito che in realtà la sua era solo commozione.
Quanto a lei e Thorn, avevano trovato la routine di sempre, i loro momenti rubati, a volte interrotti, travolgenti e ogni tanto nostalgici. Ofelia era sollevata ogni giorno di più quando si rendeva conto che quello che era successo non aveva allontanato lei e Thorn, anzi, se possibile li aveva avvicinati. Prima di mettersi a letto apriva sempre il ciondolo che portava costantemente al collo, leggendo i nomi che Thorn vi aveva fatto incidere, i nomi delle persone a lei più care. Lui udiva sempre il clic del pendente, e le depositava un bacio di comprensione sui capelli prima di spegnere la luce.
Ofelia capì che, qualsiasi cosa fosse accaduta, se l'affrontavano insieme sarebbe sempre andato tutto bene.
 
Con il passare dei mesi il caratterino di Tyr non migliorò, con rammarico dei genitori. E quello di Ilda non fu da meno. I due sembravano fatti della stessa pasta, agguerriti e pronti a scalpitare finché non ottenevano ciò che volevano. Raramente però l'avevano vinta, con due caratteri forti come quelli di Thorn e Gaela, che si imponevano e non cedevano per dei capricci.
Tra lo spuntare dei primi dentini, l'imparare a camminare da soli e le prime parole, a casa non c'era un attimo di silenzio: o i genitori che cercavano i figli scappati, o i figli che giocavano e urlavano quasi di proposito quando c'era un po' di quiete, o la zia Roseline che borbottava che quattro sculacciate rabbonivano sempre i bambini, da cui partiva poi il battibecco tra lei e il prozio.
Ofelia dormiva ogni volta che poteva, e portava Serena e Balder con sé di pomeriggio, ma Tyr non voleva saperne di dormire quando era il momento e faceva il nottambulo. Ofelia si chiedeva dove trovasse tutta quell'energia, che pareva sottrarre a Thorn stesso a giudicare dalle occhiaie sempre più profonde che aveva.
Stava tranquillo solo in braccio al prozio, stranamente, a cui si divertiva a tirare i baffi, o quando giocava con i fratelli. Come Balder emulava Serena in tutto, così Tyr ammirava Balder, copiando ciò che faceva e cercando sempre la sua attenzione. Ad Ofelia ricordava tantissimo Hector: anche lui da piccolo era dipendente da lei, che però non cercava spesso la compagnia di Agata. Si divertivano sempre però, anche se avevano giocato insieme poco tempo prima che Agata diventasse grande e cominciasse a comportarsi come una donna in cerca di marito.
Balder era dolce e gentile tanto quanto Tyr era prepotente e irrequieto, ma una parola del fratello era legge per lui. Bastava che gli facesse segno di fare silenzio con il dito davanti alla bocca perché le urla di Tyr scemassero fino a spegnersi del tutto. E solo quando Balder gli proponeva di stare insieme sul divano Tyr si addormentava.
- Perché obbedisce più a suo fratello maggiore che a noi? - le chiese una sera Thorn, dopo che Balder ebbe cominciato a sistemare i giochi, imitato da Tyr.
- Perché è un bambino come lui, però più grande. Lo vede come un modello.
Thorn aggrottò la fronte. - Dici che gli faccio paura?
Ofelia si bloccò mentre piegava un vestito e lo riponeva nell'armadio. - Perché dovresti fargli paura?
Thorn si grattò la testa, evitando il suo sguardo. - Si acciglia sempre quando mi vede. Non sembra contento.
In effetti, rispetto ai fratelli che quando lo vedevano tornare dal lavoro correvano ad abbracciargli le gambe, Tyr metteva il broncio. Però non aveva alcun motivo di temerlo, né di sfidarlo.
- Ha solo un carattere più difficile dei suoi fratelli, tutto lì. Io, Hector e Agata siamo agli antipodi.
- Deve aver preso dai Draghi - ipotizzò allora Thorn, chiudendo il discorso e prendendo la pipa, dirigendosi in salotto.
Ofelia abbozzò un sorriso mentre mormorava: - Broncio, scortesia e durezza non li ha presi di certo da me.
- L'abilità di fare confusione e disobbedire sì però - gli giunse la risposta di Thorn dal corridoio.
Ofelia sussultò, stupita che Thorn l'avesse sentita. Poi soffocò una risata nel guanto invece che risentirsi. In fondo, anche quel botta e risposta era un tentativo di Thorn di fare dell'umorismo.
 
Un freddo e piovoso pomeriggio, mentre erano in salotto vicino al fuoco, a parte Berenilde e Vittoria, Archibald, Renard e Gaela, il prozio si avvicinò a Serena e le porse una scatolina di legno.
- Che cos'è? - domandò la bambina con gli occhioni sgranati, prendendola con attenzione.
- Ormai hai quasi sette anni Serena, giusto? - le chiese l'anziano senza risponderle.
Serena annuì in silenzio.
- Tua madre aveva esattamente la tua stessa età quando diede vita al suo primo golem, quella sciarpaccia brutta, vecchia e con un pessimo carattere.
La zia Roseline, intenta a sferruzzare con gli aghi da cucito, aggiunse qualcosa a proposito della sua maleducazione. In risposta, offesa, la sciarpa si mise ad agitare le code in aria, spettinando Ofelia, rischiando di strozzarla e facendole rovesciare il tè. Thorn guardò la scena con un'occhiata di gelida disapprovazione.
- Cos'è un golem, zio? - chiese candidamente Serena.
- Un golem è qualcosa, un oggetto, con caratteristiche e sembianze umane. Nel nostro caso, noi animisti insuffliamo vita e caratteristiche umane un po' a tutto, giusto?
Serena annuì solennemente, imitata da Balder che stava ascoltando con attenzione come la sorella. Tyr si mise sull'attenti in silenzio, più per copiare i fratelli maggiori che per comprensione di ciò che stava accadendo. Infatti si distrasse subito, ma almeno rimase tranquillo.
- Non tutti gli oggetti che prendono vita però sono golem. Se io ora animo una tazzina da tè, quella tazzina prenderà un po' del mio carattere, di quello che provo in questo momento, ma quando mi allontanerò tornerà la solita tazzina inanimata. Un golem, invece, non è qualcosa che animiamo, è qualcosa a cui diamo vita. Qualcosa che costruiamo noi, pezzo per pezzo, e in ogni pezzo c'è un po' di noi stessi. Apri la scatola.
Serena obbedì... e aggrottò la fronte come Thorn. - Che cos'è?
- Sono i pezzi di una nuova invenzione chiamata penna. Al contrario di quelle che usiamo noi, che vanno intinte nel calamaio con l'inchiostro, come fa tuo padre, questa contiene già dentro l'inchiostro. Quando la penna viene premuta esce, permettendoti di scrivere. Quando l'inchiostro finisce lo puoi aggiungere, così non dovrai mai cambiarla.
Serena continuava a fissare quei pezzi sparsi con scetticismo, il naso quasi dentro la scatola. Thorn aveva la stessa identica espressione dipinta in volto, ma quando si chinò in avanti mettendo da parte il giornale e la pipa, con i gomiti sulle gambe, Ofelia notò una certa curiosità brillare nei suoi occhi di metallo.
Serena prese un piccolo pezzo nero lucido con inserti dorati e lo fissò con estrema disapprovazione.
- Come fa a scrivere questa cosa, zio?
- Penna, non cosa - la ripreso il prozio. - Bisogna costruirla, prima.
- Tutte le cose costruite a mano sono golem?
Lo zio si massaggiò i baffi. - Solo se tu lo vuoi. Ad Anima c'è una sarta con un pessimo carattere che confezione abiti e cappotti scorbutici e ben poco collaborativi. Quelli sono stati costruiti, per così dire, ma per essere venduti, dunque non sono i golem della proprietaria. E addosso al nuovo possessore potranno magari rabbonirsi un po', ma non diventeranno mai il suo oggetto speciale. Conserveranno sempre le attitudini della sarta.
Serena annuì, come se finalmente avesse capito.
- Posso aiutarla? - chiese timidamente Balder, allungando una manina per toccare i pezzi di penna.
- No - lo ammonì subito il prozio, alzando un dito nodoso. - Il proprio oggetto personale va costruito senza aiuti esterni. E tu, figliola, faresti bene a toglierti quel broncio dal viso. Quando crei i tuoi golem è consigliabile essere ben disposti, tranquilli e ottimisti, così da insufflare in essi solo caratteristiche e sentimenti positivi. Se costruisci la tua penna quando sei arrabbiata o indispettita, se ne andrà in giro a vita a schizzare inchiostro in faccia alle persone.
- Non sarebbe neanche male, con certi individui... - borbottò la zia Roseline.
Serena invece distese la fronte, regalando un piccolo sorriso al prozio. - Grazie. Ora la costruisco subito.
- Ci vuole pazienza, non affrettare le cose.
Nel raddrizzare la schiena, il prozio si sentì scricchiolare tutte le giunture e venne colto da colpi di tosse terribili. Ofelia fece per andargli in aiuto, ma l'anziano la bloccò. - Nulla che un po' di grappa non possa risolvere.
Il resto del pomeriggio trascorse in silenzio, con Ofelia che leggeva un libro seduta accanto a Thorn, i corpi a contatto, lui che analizzava delle relazioni o si studiava i giornali, la zia che sferruzzava e il prozio appisolato. Balder se ne rimase immobile di fianco a Serena, osservandola da vicino ma senza disturbarla per paura di interferire con tutta quella cosa difficile che il prozio aveva descritto. Tyr invece se ne stufò ben presto e iniziò ad andare in giro barcollando sulle gambe grassocce, senza però infastidire nessuno, per una volta.
Serena impiegò tre giorni a completare la penna. Non era stato facile costruirla pezzo per pezzo, soprattutto in mancanza di istruzioni e dato che era la prima volta che vedeva un oggetto simile. Non si era mai spazientita, e Ofelia aveva sempre notato la cura che impiegava e gli sforzi che faceva per non arrabbiarsi quando non riusciva ad incastrare un pezzo e, nel tentativo, se ne staccavano altri due. Anzi, la vide studiare ogni piccolo meccanismo della penna, valutarlo, accarezzarlo persino, sorridendo di fronte a quella superficie scura, liscia e fredda.
- Non è bellissima, mamma? - le chiese quando era a metà dell'opera e già si potevano vedere gli intarsi dorati che accarezzavano il metallo nero in voluttuosi ricami.
- Molto. Ti piace?
- Sì, è un regalo speciale - ammise Serena, rimettendosi al lavoro.
Quando incastrò l'ultimo pezzo lanciò un urletto di gioia, ridacchiando da sola. Era seduta al tavolo del salotto, in compagnia solo della mamma.
- Hai fini...?
- Cosa accade in questa stanza senza che io lo venga a sapere? Oh! - esclamò Archibald, mentre con la sua esuberanza faceva rimpicciolire Serena. - Sarà mica una penna quella? Una novità assoluta che proviene direttamente da Babel. Chi te l'ha data, adorabile figlia di Thorn?
- Il prozio - mormorò Serena, timida.
- L'hai provata?
- Non ancora, ho appena...
- Aspetta qui - la interruppe lui, dileguandosi.
Ofelia voleva alzarsi per andare ad ammirare l'opera finita, consapevole soprattutto del fatto che le attese che Archibald imponeva potevano durare ore, se non giorni. Invece Archibald tornò subito con diversi fogli di carta. Si sedette accanto a Serena e glieli porse.
- Ecco a te, scrivimi una bella poesia.
Serena abbassò lo sguardo sui fogli. - Va bene signore.
Archibald batté più volte le palpebre, e un sorriso finto quanto il sole del Polo gli sbocciò sulle labbra. - Signore?! Signorinella, nessuno mi ha mai dato del signore. Che fine ha fatto lo zietto?
Serena guardò la mamma, chiedendole con lo sguardo come fare. Con Thorn stava cercando di insegnarle che, ora che era più grandicella, era importante mostrare rispetto alle persone più grandi. A malincuore le stavano facendo capire che doveva dare del voi sia ai suoi genitori che alle zie e a chiunque bazzicasse casa loro.
Ofelia le fece cenno con la testa, verso Archibald, suggerendole di parlare direttamente con lui.
Come sua madre, Serena si morse la cucitura di un guanto prima di rispondere. - Volete che vi chiami ancora zietto?
Per una frazione di secondo Ofelia vide lo sbigottimento dipinto sul volto di Archibald, che però si riprese subito, cominciando a scherzare. - E come altro dovresti chiamarmi? Sono o non sono il tuo zietto?
Serena aprì la bocca per ribattere, poi la richiuse. Si fissò i guanti prima di iniziare a giocherellare con il suo ciondolo. - Veramente il mio zietto è Hector, il fratello della mia mamma. Non siamo davvero parenti noi - aggiunse bisbigliando, come se stesse rivelando un segreto ad Archibald.
Quest'ultimo si toccò il cuore nell'esagerazione di un'offesa. - Così mi ferisci. Be', chiamami come vuoi, figlia di Thorn, basta che non mi chiami signore.
Serena recuperò il sorriso poco a poco, sollevata. - Zietto va bene.
Archibald le scompigliò i capelli biondi e sottili. - Fammi vedere come funziona questa nuova invenzione.
Serena prese con reverenza un foglio, tolse una specie di cappuccio protettivo alla penna e ne posò una punta dorata ed elegante, molto sottile, sul foglio. Esercitò una leggera pressione, e la penna sputò fuori una grossa quantità d'inchiostro che si espanse, nera, macchiando la pagina candida.
Serena aggrottò la fronte. - Devo ancora imparare a dosarla.
- Aiutati con l'animismo. Forse hai trasmesso alla penna un po' delle tue insicurezze. Credi in ciò che sai fare, nella tua costruzione della penna, e nella penna stessa. In fondo, è nata da poco anche lei - la istruì Ofelia dirigendosi verso il tavolo, di fronte a Serena e Archibald.
Serena annuì, concentrata, e ci riprovò.
Al quarto tentativo, dopo aver chiuso gli occhi e tenuto la penna aperta sul suo palmo, riuscì a tracciare una linea pulita, morbida ed elegante sul foglio. L'inchiostro si espandeva ai lati dando al tratto un'area da lettera miniata.
Alla settima prova, Ofelia si rese conto che la mano di Serena tremava leggermente per lo sforzo, ma la penna cominciava a correggere da sola la sua traiettoria. Sorrise di fronte all'ottimo lavoro della figlia.
Come leggendole nel pensiero, Serena sospirò, chiuse la penna con quello che doveva essere il suo tappo, e la posò sul foglio quasi interamente asciutto. Mise la mano aperta sul bordo del tavolo, e attese che la penna, obbediente, le rotolasse sul palmo. Soddisfatta, con gli occhi luccicanti, la incastrò in una tasca che aveva sul petto del vestito che le era già diventato troppo corto. Ofelia si augurava che non diventasse troppo alta, anche se era certa che tutti i suoi figli l'avrebbero superata in altezza.
Archibald si massaggiò le guance, ricoperte da una barba bionda selvatica e irregolare che gli dava un'aria ancora più sciatta e attraente, purtroppo. - Gran bella invenzione questa. Non bisogna portarsi il calamaio ovunque. Figlia dell'intendente, mi attendo che tu diventi un'artista in grado di ritrarmi con precisione pedissequa. La mia bellezza deve essere celebrata negli anni avvenire, non credi?
Serena lo guardò con gli occhioni scuri sgranati. - Non sono capace di fare ritratti.
- Mi accontenterò di un qualsiasi schizzo, anche se astratto. Va molto di moda questa nuova corrente. La chiamano arte, quando sono solo guazzabugli caotici che persino un bambino disegnerebbe meglio. Senza offesa, mia dolce Serena.
Archibald le scoccò un'occhiata furbetta da ragazzino. Con quegli occhi color cielo, quell'aria giovanile nonostante fossero praticamente coetanei e il sorriso accattivante, Archibald era indubbiamente affascinante, forse l'uomo più bello che Ofelia avesse mai visto. Eppure, quel cielo era sbiadito, la giovinezza era spenta, il sorriso era vuoto. Ad Ofelia sembrava che Archibald fosse davvero se stesso solo in compagnia dei suoi figli, bambini che regalavano il più puro e incondizionato tipo di affetto. Un amore e una fiducia che guarivano ogni cosa, bastava vedere l'effetto che avevano avuto su Thorn.
Balder entrò in salotto in quel momento, mano nella mano con Tyr che, appena varcata la soglia, gliela lasciò per scagliarsi contro il divano. Ci rimbalzò contro e cadde, ma con testardaggine e il cipiglio degno del padre continuò a provare ad arrampicarvisi sopra. Ofelia era arrivata al punto che gli lasciava fare qualsiasi cosa volesse, purché non urlasse e non si facesse male. Mobili appuntiti non ce n'erano, quindi che provasse pure a fare lo scalatore.
Balder si avvicinò ad Archibald allungando le braccia, e l'ex ambasciatore lo prese in braccio, facendoselo sedere sulle gambe. Erano un bel quadretto, tutti e tre chini sul foglio ad osservare le varie funzioni della penna e le sue prime mosse, il suo approccio con la padrona. Ofelia si ricordava ancora come all'inizio, nel prendere confidenza con lei, la sciarpa si fosse comportata come un cane o un gatto, prima chiedendo attenzioni e poi standosene per i fatti suoi, finché non erano diventate inseparabili. Più o meno. In quel momento la sciarpa le si era attorcigliata ai piedi, imprigionandola su quella sedia. Ad ogni tentativo di recupero da parte di Ofelia conseguiva uno schiaffo di lana sulla mano, segno inequivocabile che la sciarpa era di cattivo umore e non voleva essere disturbata. O probabilmente, più che arrabbiata, era stanca. Era così vecchia ormai...
Ofelia si rese conto della presenza silenziosa di Thorn sulla porta solo per via del suo sguardo tagliente che faceva a pezzi Archibald. Vederlo con i suoi figli lo rendeva sempre nervoso.
Fortunatamente Serena si accorse di lui e si aprì in un sorriso.
- Papà! Guardate che bella la mia penna! - esclamò, felice.
La penna si spaventò e si affrettò a rifugiarsi nella manica di Serena, facendola ridere.
Rigido, Thorn continuò a fissare trucemente Archibald, che rispose con il solito ghigno impertinente e superiore, ma si avvicinò lo stesso e con movimenti poco pratici, piegando il lungo corpo, si sedette accanto ad Ofelia, di fronte a Serena.
La bambina mostrò al papà come funzionava la penna, come scriveva bene, e quando Thorn chiese se poteva provarla Serena gliela cedette quasi a malincuore. Doveva aver preso anche la gelosia dal padre...
La penna si fece maneggiare agevolmente da Thorn, probabilmente perché riconosceva già i sentimenti di Serena verso di lui, e Thorn prese un foglio bianco. Lo intestò, lo datò, lo scrisse e lo firmò come fosse un documento ufficiale e, arrivato alla fine, fece per riporre la penna nel calamaio, che non c’era. Aggrottò le sopracciglia mentre i bambini, Archibald e Ofelia lo osservavano attoniti.
Thorn si schiarì la voce. – È maneggevole. Anche un po' di più. Invenzione utile.
Continuò a stringerla, come per provare diverse posizioni e capire quale fosse la migliore, ma quando Serena porse la manina per riaverla indietro la penna si agitò, sgusciandogli via dalle lunghe dita per andare da quelle della padrona.
- Mi piace. Mi piace tanto - ammise la bambina. - Posso ringraziare ancora lo zio, mamma?
- Ne sarebbe felice. Penso che sia...
Dalla biblioteca provennero dei colpi di tosse che non potevano che appartenere all'archivista, così Serena scese giù dalla sedia senza che ci fosse bisogno di concludere la frase.
- Venite anche voi, z... - cominciò a chiedere la bambina, interrompendosi quando si accorse che Thorn la fissava. - Archibald?
- Ah! Questi padri protettivi! - si lamentò ironicamente l'ex ambasciatore, lanciando in aria Balder che rise per la sorpresa. - Niente di cui preoccuparsi, intendente, baderò io alla vostra adorabile prole! Per fortuna assomigliano più alla madre che a voi!
- Io assomiglio al papà - lo contraddisse invece Serena, che non vedeva nulla di male nell'essere come Thorn.
Quando uscirono, Ofelia continuò ad osservarlo, con quella fronte increspata mentre pensava e l'aria tormentata. Voleva prendergli la mano, ma quando allungò la propria Tyr urlò e si mise a tirare cuscini alla rinfusa, rischiando di cadere dal divano. Thorn fu da lui in due falcate, impedendogli di farsi male con il tavolino basso.
Ofelia osservò la calligrafia appuntita e spigolosa, precisa come lui, e sentì l'urgenza di fare qualcosa per Thorn. Avvicinandosi silenziosamente alle sue spalle, lui prese il foglio e fece per tornare nel suo studio, anche se in quel momento doveva essere più simile a una camera dei giochi che ad un luogo di lavoro, viste le risate che ne provenivano.
Ofelia sgranò gli occhi. - È veramente una relazione di lavoro quella che hai redatto?
Thorn le lanciò un'occhiata fugace mentre si allontanava con Tyr in braccio che litigava con le spalline della sua giacca. - Io non perdo mai tempo.
Ofelia si mise a ridere e li seguì: aveva bisogno di chiedere alcune informazioni al prozio.
 
Pochi giorni dopo, in piena notte, Ofelia raggiunse lo studio e si appoggiò alla scrivania di fronte a Thorn, intento a correggere, anzi, ricoprire di correzioni una relazione che evidentemente non aveva scritto lui.
- Non vieni a letto?
- Devo concludere qui, è urgente per domani.
Ofelia attese che la guardasse prima di porgergli una scatolina allungata ricoperta di velluto, cosa che Thorn fece dopo diversi secondi.
- Cos'è? - la interrogò, diffidente, senza nemmeno spostare i fogli o allungare la mano.
Trattenendo un sospiro esasperato, Ofelia mise la scatolina sopra la relazione. - Aprila e scoprilo.
Thorn prese l'orologio e lo consultò prima di decidersi a toccarla. - Ho poco tempo...
Assottigliò gli occhi tanto che Ofelia si chiese se non li avesse direttamente chiusi, quando ne vide il contenuto. Thorn continuò a rimanere immobile, senza nemmeno parlare, e Ofelia cominciò a preoccuparsi.
E a confondere le parole. - Un regalo per me. Da me, cioè. Mi ho fatto un regalo.
Sistemandosi gli occhiali sul naso, anche se non ce n'era bisogno, e dopo uno schiaffo amichevole da parte della sciarpa, ci riprovò.
- Con questa puoi lavorare anche a letto. Così non devo sempre preoccuparmi se... non ti vedo.
Thorn finalmente allungò le lunghe braccia magre per prendere tra le dita la penna che Ofelia aveva fatto importare. La girò, osservandola da tutte le parti, togliendole il tappo per esaminarla in ogni dettaglio. Quando la provò, però, non uscì inchiostro.
- Manca la cartuccia, così hanno detto che si chiama - lo avvisò, allungandosi per cercare di togliere il doppio fondo della scatola. - Qui sotto ci sono una decina di ricariche, così... oh, scusami...
Maldestramente, Ofelia aveva sì rivelato lo scomparto delle cartucce d'inchiostro... rovesciandole però tutte per terra.
- Per lo meno non sono come il calamaio, niente macchie. Queste vengono bucate dalla penna, quindi sono innocue finché non...
Thorn, che si era chinato con lei per raccoglierle, la zittì con un bacio. Lasciando perdere tutto quello che c'era per terra, tanto non avrebbe macchiato nulla, le infilò le mani tra i capelli. Ofelia provò a protestare, ma quando percepì l'urgenza di Thorn non poté far altro che arrendersi, cercare di prendere fiato e lasciarsi adagiare sui tappeti della biblioteca.
- Hai preso quella penna per me? - le domandò quando scese a baciarle il collo.
- Sì - ansimò lei, affannata.
- Perché? - domandò Thorn mentre le slacciava la camicia da notte.
Con un grugnito decise che non importava e gliela alzò semplicemente sulle gambe.
- Per farti un regalo. Pensavo ti potesse piacere, mi era parso così quando hai usato quella di Serena. Io...
Ofelia dovette interrompersi, mordendosi le labbra, mentre Thorn la toccava ovunque con quelle mani grandi, calde e...
- Ofelia? - la richiamò Thorn. 
Spalancando gli occhi, Ofelia se lo ritrovò di fronte, impaziente e preoccupato.
- Stavi dormendo?
Ofelia batté le palpebre più volte, come per mettere a fuoco, ma aveva gli occhiali. Che si tinsero di rosa... come poteva dirgli che era andata in estasi solo per le sue carezze? Non avevano nemmeno iniziato a fare sul serio.
- Ho sbagliato? - gli chiese, distraendolo. - Il regalo. Non ti piace?
Thorn rimase fermo sopra di lei, muovendo gli occhi dappertutto e senza riuscire a soffermarsi su qualcosa. Ofelia si chiese cosa gli stesse frullando in testa per essere così confuso.
- Io... grazie. È... la sorpresa più bella che abbia mai ricevuto.
Ofelia si rilassò sotto di lui, commossa da quella risposta. - Più dell'orologio di tua zia?
Thorn se lo tirò fuori dalla tasca, lo osservò come se fosse la prima volta che lo vedeva, e lo mise sulla scrivania di fianco alla penna.
- Sono due cose diverse - spiegò con il solito tono da intendente, così diverso dalla voce roca e sommessa che aveva usato poco prima. - Quello di mia zia è un regalo che non sapevo di volere. Il tuo invece è stato fatto di proposito, in base ad una mia reazione. Tu sapevi che mi sarebbe servita quella penna. No, non servita, piaciuta.
Ofelia sorrise apertamente, baciandogli il mento ispido di barba pallida. Poi passò alle sue labbra e non servì aggiungere nulla, Thorn le fece capire bene quanto avesse apprezzato quel regalo.
Andò a dormire, molto tardi, correggendo un centinaio di pagine inadeguate e riscrivendo appunti sostitutivi.
Però lo fece a letto, con la luce soffusa della lampada da comodino, e con sua moglie placidamente addormentata accanto a lui.

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Capitolo 45
*** Capitolo 45 ***


Il tempo vola signori miei! Di sicuro, almeno, vola in questo capitolo! Eddai che 'sti bambini finalmente crescono, un po' alla volta!
Il prossimo capitolo non penso proprio che erriverà la settimana prossima ma almeno questo è stato veloce dai xD
Grazie a tutti come sempre e buona lettura!


Capitolo 45

Quando Tyr entrò nel secondo anno di età, e quindi Serena e Balder entrarono nel loro settimo e quarto anno, ad Ofelia sembrò di essersi tolta un peso dalle spalle, soprattutto con il più piccolo.
Serena e Balder erano la calma fatta persona, obbedienti e rispettosi come nessun altro bambino, cosa che veniva spesso ribadita sia dalla zia Roseline che da Berenilde, che si vantava con tutti i cortigiani dei suoi pronipoti. In compenso, Tyr era irrequieto come pochi. Persino Ilda sembrava pacifica a confronto. Tyr aveva l'argento vivo nelle vene, dormiva poco e ascoltava ancora meno. Persino Thorn ne era stato esasperato, e con lui aveva dovuto usare toni ancora più duri per farsi rispettare.
Un giorno aveva distrutto i cuscini del divano lanciando piume dappertutto. Balder e Serena si erano messi a giocare con quelle piume così grandi che Ofelia si chiese se le Bestie che i Draghi avevano cacciato in passato potessero essere anche alate, perché piume di quelle dimensione non le aveva mai nemmeno immaginate. Quando Thorn, passato per caso nel salotto, si era accorto del disastro, Serena e Balder avevano subito capito che aria tirava e se l'erano svignata. Tyr invece aveva sfidato il papà con gli occhi, continuando a lanciare piume, finché Thorn non gli aveva strappato il cuscino di mano portandolo in camera da Ofelia, che non aveva fatto domande sul perché marito e figlio avessero i vestiti e i capelli pieni di piume.
A tavola aveva la pessima abitudine di lanciare il cibo che non gli piaceva, che era davvero tanto, troppo. Mangiava per lo più pappine perché, agitato com'era, Ofelia aveva paura che si soffocasse, ma qualcosa di solido sarebbe stato decisamente più facile da lavare via dai vestiti. Soprattutto da quelli di Thorn, che si beccava sempre qualche viscida pappetta informe sull'uniforme lavata e stirata. Il fatto che fosse quasi sempre il padre la vittima dei suoi lanci di cibo dipendeva non tanto da un’antipatia personale, quanto dal fatto che era sempre Thorn che insisteva perché mangiasse tutto, accanendosi particolarmente quando c’era qualche verdura frullata che faceva storcere il naso persino ad Ofelia. Quando gli aveva fatto notare che nemmeno lui era un grande amante dell’alimentazione, Thorn aveva liquidato la questione evidenziando che lui era in grado di capire i principi nutritivi di un cibo rispetto ad un altro mentre Tyr aveva due anni e doveva mangiare.
Quando era ora di dormire diventava particolarmente irascibile e sgattaiolava dappertutto, prima indignato e poi divertito, pensando che il farsi seguire da Thorn fosse un gioco. Quando lo catturava, sempre in corridoio perché Tyr non arrivava mai oltre con quelle gambe corte, Thorn era costretto a bloccargli i polsi perché il bambino gli tirava i capelli o le orecchie. Ofelia non lo avrebbe mai ammesso, ma vedere quel piccolo fagottino grassottello che si arrampicava sulla spalla del papà e gli dava del filo da torcere era un vero spasso. Tyr alla fine si calmava, ma solo quando Thorn gli intimava, digrignando i denti, di stare fermo perché non ci si comportava così. Più che calmarsi, Tyr metteva il broncio, ma non si azzardava a contraddire il papà e alla fine, stancandosi di dover tenere quella posa da duro, si addormentava.
- Ma da chi ha preso? – chiese una notte Ofelia, stremata dopo che Tyr l’aveva tenuta sveglia per un’ora.
Thorn non aveva fatto in tempo ad allungare un dito che Tyr si era messo a strillare il suo rifiuto: voleva la mamma.
- Godefroy era così… irrequieto.
Ofelia lo guardò con le sopracciglia inarcate. Il Godefroy che aveva conosciuto lei era all’apparenza un uomo tranquillo con un’aria simpatica che però si era dimostrato essere ancora più infido di Freya proprio per via della doppia faccia. Sperava che Tyr non diventasse così e allo stesso tempo che si calmasse prima che compisse vent’anni. Decisamente prima.
Presi com’erano da Tyr, Thorn e Ofelia trovavano comunque il modo di stare dietro a Balder e a Serena. Quest’ultima studiava matematica con Thorn nel suo studio quando lui lavorava da casa, e il cuore di Ofelia si stringeva sempre quando entrando in biblioteca li trovava seduti vicini, entrambi chini su un foglio, con una penna in mano, concentrati con la stessa intensità. Avevano anche lo stesso cipiglio e lo stesso modo di muovere la testa.
Avevano inoltre scoperto che Serena era davvero un'Attraversaspecchi quando un pomeriggio, dopo che Ofelia e Thorn avevano chiuso a chiave la porta della camera per concedersi un attimo di intimità, la testolina bionda della figlia era sbucata dallo specchio di camera loro. Fortunatamente ancora vestiti, si erano staccati subito, cercando di rimettersi in ordine. Thorn in mezzo secondo si era pettinato i capelli e aggiustato la giacca con solo due bottoni slacciati, ma Ofelia nel cercare di raddrizzarsi gonne e occhiali era finita gambe all'aria sul letto. Era stata ignorata sia dal marito che dalla figlia.
- Sono incastrata - aveva mugugnato Serena, protendendo un braccio che sbucava solo dal gomito in poi.
Mentre Thorn la tirava per farla uscire come già una volta era successo con Ofelia, quest'ultima le spiegava come cercare di lasciarsi andare, di lasciarsi tirare. Non doveva avere paura, gli specchi obbedivano a lei, la portavano ovunque volesse, doveva solo fidarsi di loro e della sua capacità di andare dove voleva. Tutto questo glielo spiegò con una voce bassa e incerta, spesso ingarbugliandosi. Non le riusciva ancora facile cercare di esprimere dei concetti astratti, o dei sentimenti.
Il prozio venne subito chiamato e, dopo essersi complimentato con la pro-pronipote, la rassicurò che non ci sarebbero stati effetti negativi sul suo corpo per essere rimasta incastrata. Sua mamma, le spiegò, facendo imbarazzare Ofelia al ricordo del suo primo attraversamento, era rimasta bloccata chissà dove per ore, non pochi minuti. Se voleva continuare ad esercitarsi, le consigliò di farlo avvisando qualcuno, così che potessero aiutarla.
Serena iniziò così a sbucare un po' ovunque: nel salotto dove faceva prendere un colpo alla zia Roseline, che sbagliava a mettere i punti con la macchina da cucire oppure rompeva il foglio che aveva in mano, dovendo poi ricorrere al suo potere per sistemarla; nell'aula, in classe, dove Renard ci era cascato i primi tre giorni, prendendosi uno spavento, ma poi aveva capito il giochetto della bambina; oppure nella camera dei genitori, che non sapevano più cosa fare per ricavarsi qualche momento per loro.
Alla fine venne impedito a Serena di usare il suo potere se non per vere necessità, e non per pigrizia, per esempio per non dover attraversare il corridoio. In caso contrario sarebbe stata punita.
Balder invece dimostrò di non avere la memoria di Thorn, al contrario della sorella che alla sua età lo aveva già reso palese, ma in compenso scoprirono che era anche lui un lettore. Stessi sintomi di Serena, stessa fastidiosa sensazione di confusione che spariva quando indossava i guanti. Guanti che il prozio era riuscito a procurargli nel giro di un giorno dopo aver conosciuto alla biblioteca pubblica un altro animista che viveva al Polo da anni a seguito del matrimonio con una nativa del Polo, senzapoteri. Erano i guanti del figlio del cugino di sua cognata, che era poco più grande di Balder, anche se lo stesso animista non si capacitava di come fossero finiti in casa sua. In ogni caso glieli cedette, in attesa che da Anima gliene mandassero qualche paio di scorta, sia per Balder che per Serena. Era incredibile come il prozio fosse riuscito a trovare qualcuno con cui parlare persino al Polo. Ofelia era ormai convinta che dentro al sangue degli animisti ci fosse il bisogno radicato di preservare in qualche modo la storia, e non a caso il prozio aveva incontrato questo nuovo amico nella biblioteca pubblica.
Quanto al prozio, Ofelia aveva chiamato un medico a casa perché lo visitasse. Aveva una tosse che non le piaceva per nulla, ma la questione era stata liquidata come semplice raffreddore, tranquillizzandola.
Mentre le settimane passavano più o meno tranquillamente, con un'influenza qui e là, una gita fuori dalle mura dietro insistenza dei bambini e qualche marachella di Ilda e Tyr, che avevano un rapporto di amore e odio molto intenso, arrivò anche la notizia che la figlia di Renard e Gaela avrebbe presto avuto un fratellino, come confermò Vittoria.
Archibald fece ubriacare talmente tanto il povero Renard, terrorizzato che il figlio potesse essere vivace come Ilda e allo stesso tempo entusiasta di fronte alla prospettiva di diventare padre nuovamente, che Gaela si lamentò per giorni di dover fare da madre non a una figlia solo, ma a due, includendo Renard come bambinone. Archibald invece prese in giro il cosiddetto secondo figlio di Gaela facendo notare che, per via della differenza d'età, più che da madre Gaela avrebbe potuto fargli da balia. Renard si rabbuiò un po' a quell'affermazione, borbottando per giorni che era un vecchietto in confronto alla sua "agile, giovane, energica e vitale mogliettina". Alla fine, stanca di quei mugugni insensati, Gaela una sera lo prese per il bavero e lo portò nel loro appartamento. Li videro solo la mattina successiva, quando Renard si presentò a colazione con Ilda; Gaela era già andata in officina, dato che Renard teneva la bambina e lei era quindi libera di lavorare, per lo meno qualche ora al giorno. L'aria solare e l'atteggiamento ringalluzzito di Renard fecero scuotere la testa ad Ofelia, che si aspettava da un momento all'altro una battutina a scapito di Archibald. Thorn parve non farci nemmeno caso, sollevò solo gli occhi con sguardo gelido quando, all'entrata di Archibald, rigorosamente in pigiama mal abbottonato, Renard disse con nonchalance: - L'età non conta quando hai una bella moglie che ti tiene giovane.
Archibald sogghignò ferinamente, ma non si azzardò a ribattere, e Ofelia provò tanta tristezza di fronte al suo sorriso vuoto.
I mesi trascorsero rapidamente mentre i bambini crescevano sotto gli occhi di tutti. Ilda era parecchio più piccola di Tyr nonostante avesse qualche mese in più, cosa che spinse Ofelia a chiedersi se fosse un caso o se Tyr, già da bambino, avesse preso l'altezza del padre. Ne ebbe la conferma quando notò che Vittoria, che aveva ormai superato di dieci anni, era poco più alta di Serena che ne non ne aveva nemmeno otto. Era felice che i bambini avessero preso l'altezza dal papà, però si augurava che non diventassero davvero alti come lui: si sarebbe sentita lei la bambina della famiglia, e già temeva il momento in cui i suoi figli l'avrebbero guardata dall'alto come Thorn.
Intanto Ofelia parlò a Thorn del suo desiderio di riaprire lo studio di lettura, se non altro perché i bambini, anche Tyr, stavano diventando grandi e non avrebbero sofferto se lei si fosse assentata qualche ora al giorno, almeno di mattina. Altri figli in programma non ne avevano, non dopo Lisbeth, e per distrarsi dalla sofferenza che ogni tanto ancora l'attanagliava, nonostante fosse solo un rumore di fondo, Ofelia pensava che tornare a lavorare fosse un buon diversivo. Sentirsi utile, e non solo una mamma. Essere mamma le piaceva, adorava i suoi bambini, anche Tyr che ogni tanto la faceva impazzire al punto che la sciarpa le si attorcigliava stretta alla caviglia, terrorizzata, senza rendersi conto che così in basso rischiava di essere ancora più preda degli attacchi di Tyr; però non era mai stata la sua ambizione nella vita. Checché ne pensasse Thorn, la sua famiglia aveva sempre lavorato e ancora lavorava, compresa Agata. Non avevano i ritmi serrati di Thorn, che talvolta erano quasi disumani, però non battevano nemmeno la fiacca e su Anima tutti lavoravano. Famiglia e lavoro erano i cardini della sua arca natia.
Il prozio infatti approvò calorosamente la sua idea, e più volte visitò con lei lo studio ormai chiuso. Tutte le volte in cui si recarono ad arieggiarlo e ripulirlo il prozio ebbe degli attacchi di tosse terribili, ma lui diede sempre la colpa alla polvere. Era possibile in effetti, quel luogo non era di certo il più salubre dati tutti gli anni in cui era rimasto sfitto, cosa che convinse Thorn ad ingaggiare dei pulitori. Solo che gli stessi episodi si ripresentarono a casa, mentre mangiavano o quando erano impegnati in altro, e non poteva essere sempre qualcosa che andava di traverso. Il dottore gli prescrisse dei rimedi che la zia Roseline guardò con disgusto e la governante e levatrice cestinò senza tanti riguardi, propinandogli degli intrugli di erbe che erano tanto cattivi quanto efficaci.
Ofelia lo vide sempre più spesso parlare con interesse con l'anziana e, per quanto avessero una bella differenza d'età, il prozio sembrava diverso quando stava con lei. Sollevato... più sereno, soddisfatto, come se un peso gli fosse stato tolto dalle spalle. Anche la governante, abituata da tutta la vita a lavorare, comprendeva il bisogno di Ofelia di affrancarsi dal ruolo di madre a tempo pieno.
Berenilde non condivideva quel suo bisogno; quale dama di corte e favorita di Faruk, spesso si trascinava in casa loro ebbra di fumo e vino, talvolta accompagnata da una rassegnata Roseline e da una serafica Vittoria che, nonostante sembrasse sempre persa nel suo mondo, un po' come il padre, in realtà era più arguta di molti, solo che sembrava troppo intontita perché qualcuno lo sospettasse.
Avviarono così le pratiche per la riapertura dello studio di lettura di Ofelia, fissata dopo due mesi dalla presunta nascita del figlio di Renard e Gaela, quando ormai era giunto il termine per la nascita del piccolo.
Che infatti nacque una settimana dopo.
Gaela promise che quello era l'ultimo, che non ne voleva più sapere di parti e spinte e doglie e tutto quello "viscido schifo che era peggio dell'olio motore e puzzava pure di più". Smise subito di lamentarsi però quando le misero Randolf sul petto, mentre fuori dalla porta Renard si mangiava le mani dall'ansia, ignaro del fatto che Salame sulle sue spalle e Ilda in braccio stavano litigando, strappandogli anche i capelli nella colluttazione.
Il nome lo aveva imposto Renard, perché voleva che il figlio avesse un nome simile al suo ma allo stesso tempo più aristocratico, importante, e Randolf gli era parsa la soluzione migliore. Ofelia aveva la sensazione che Gaela gli avesse lasciato carta bianca solo perché lui non aveva mosso nessuna opposizione quando lei aveva scelto il nome Ilda in onore di Madre Ildegarda, ma alla fine l'importante era che fossero felici entrambi.
Ofelia provò una stretta al cuore nel vedere Renard con Ilda in braccio stringersi a Gaela e baciarle i capelli mentre Randolf afferrava il dito della sorellina stringendoglielo forte. Pensò a Lisbeth, a come avrebbe interagito con i suoi fratelli e con Serena. Pensò a come Balder imitava sua sorella, e a come Tyr obbediva a suo fratello maggiore, emulandolo nonostante il temperamento più scalmanato. Si chiese come si sarebbe comportata Serena, così amorevole e materna con i fratelli minori, con una sorellina, e come avrebbe reagito Tyr, che non sarebbe stato più il minore tra tutti. Si chiese come sarebbe stato vedere Thorn con un'altra bimba in braccio, e i loro tre bambini ai suoi piedi.
Sentì stringersi il ventre in un accesso di malinconia, e se ne andò dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla testolina bionda di Randolf, che piagnucolò in cerca di latte.
Essendo tarda notte, i bambini erano già a letto, compreso Tyr. Trovò Thorn seduto dalla sua parte di letto, di fronte alla culla di Tyr, chiaro segno che aveva appena finito di addormentarlo. Quando entrò le lanciò un'occhiata fugace prima di rimettersi a scribacchiare severamente su alcuni fogli con la sua immancabile penna nuova. Aveva già consumato tre cartucce d'inchiostro.
E se...?
- Thorn?
Lui alzò la testa, scrutandola nella luce fioca. Aveva il viso in ombra, solo il bagliore metallico dei suoi occhi si intravedeva sul suo viso.
- Dimmi - la incalzò lui quando Ofelia rimase con le labbra serrate.
Che pensiero stupido!
- Niente, vado a lavarmi - mormorò.
- Il parto è andato bene?
Ofelia si fermò sulla soglia del bagno. - Sì, stanno tutti bene.
Thorn grugnì qualcosa e Ofelia si chiuse in bagno. Si lavò la faccia con l'acqua gelida prima di rimettersi gli occhiali e spogliarsi.
Quando si sdraiò a letto, Thorn la circondò con le braccia. Ofelia aprì la bocca diverse volte, ma nessuna parola fu pronunciata.
E Thorn non indagò.
 
Il giorno seguente Ofelia si sentì meglio, e liquidò i pensieri della notte prima come sciocchi sentimenti da ex partoriente. Nelle settimane successive però, notando quanto bello fosse Randolf, come i bambini lo adorassero, litigandoselo tra loro al punto che Renard doveva sempre stare in piedi per evitare che i piccoli lo molestassero affettuosamente, e come gli occhi verdi del nascituro scrutassero tutto con intelligenza, il tormento ritornò.
Catalogò quelle emozioni come malinconia per la perdita mista a desiderio, ma cercava di non badarci troppo, dicendo a se stessa che sarebbero passate presto.
Poi si disse che sarebbero passate, prima o poi.
Si convinse infine che ci avrebbe convissuto a vita.
O così credeva.
Una notte Thorn si interruppe mentre le baciava il collo. Ritrasse la mano dalla sua gamba, si allontanò dal suo viso. Ofelia trattenne a stento un gemito di frustrazione.
- Pensavo che mi avresti detto di tua volontà cosa non va.
Se Ofelia avesse avuto i guanti in quel momento, che però si era tolta per sentire il calore della pelle di Thorn sotto le dita, si sarebbe morsa la cucitura nel tentativo di scacciare l'agitazione. Nella culla di Tyr, la sciarpa ebbe un fremito nervoso.
Ofelia infilò le mani tra i capelli di Thorn, premendogli la nuca affinché si avvicinasse per baciarla. Voleva che cancellasse il suo tormento, che annullasse i suoi pensieri come solo lui sapeva fare. Era inconcepibile quanto intensamente provasse emozioni in quel periodo, sembrava tutto esasperato: l'amore, la sofferenza, il desiderio. Si sentiva ridicola.
Thorn oppose resistenza.
- Ofelia - la incalzò con voce tagliente, stentorea.
- Ti prego - lo supplicò lei, stringendo forte gli occhi per non vedere più il suo viso, così vicino al suo da non renderle necessarie gli occhiali.
- Cosa?
Da Thorn trovava sempre consolazione in modi imprevisti. Vedeva quanto era vulnerabile e scossa, eppure non faceva nulla per facilitarle il compito, per coccolarla e aiutarla ad aprirsi. Eppure la osservava attentamente, ascoltava ciò che diceva, senza mai dimenticarlo. Se vedeva che stava male, non l'abbracciava, le chiedeva cosa non andasse. La costringeva a parlare anche quando non aveva parole.
Scese nuovamente sul suo collo, l'accarezzò con le labbra, e si ritrasse.
Thorn emise un strano grugnito che probabilmente aveva lo scopo di spronarla a rispondere. Le sembrava di essere tornata all'inizio, a quando desiderava un figlio ma non riusciva a chiederglielo.
E il problema era identico.
Del resto, però, non aveva sempre fatto fatica a confessargli ciò che provava più intimamente? Anche per ammettere che lo amava, non solo a lui ma anche a se stessa, aveva impiegato mesi. E mesi.
Thorn rotolò giù da lei, le diede le spalle e spense la luce. Così rimase, senza una parola o una spiegazione, senza un commiato.
Ofelia si sentì vuota e fredda senza il corpo del marito a scaldarla.
- Vorrei riprovarci. Ad avere un bambino. L'ultimo.
Era così buio che non vide il volto affilato di Thorn quando si sporse su di lei. - Pensavo non volessi più provarci dopo...
Ofelia intuì una certa esitazione, e sorpresa, nel tono di Thorn. Non ne era sicura però, perché con lui era impossibile essere certi di cosa provasse.
- Lo pensavo anche io ma... vedere la nascita di Randolf, il modo in cui i bambini lo curano... non hanno avuto l'opportunità di farlo con Lisbeth, e non vorrei mai che venisse considerato un rimpiazzo, però...
Thorn non disse nulla, rimase così immobile che Ofelia si chiese se stesse almeno respirando.
- Sei tanto contrario all'idea?
- Contrario no, sorpreso sì. Tutti questi anni e ancora non riesco a prevederti.
Si ributtò a letto, e questa volta lo scatto metallico dell'orologio da taschino risuonò nel buio come un campanello. Era buio pesto, ma Thorn era ormai così abituato a tenerlo in mano in qualsiasi momento che gli veniva in automatico prenderlo per consultarlo in ogni situazione.
Riaccese la lampada, facendo strizzare gli occhi ad Ofelia.
- Potrebbe andare male di nuovo - disse Thorn, tagliente come una mannaia.
Come se non lo sapesse. Era proprio il genere di commento che Ofelia non voleva sentire. Ma Thorn era pragmatico, e probabilmente aveva già calcolato tutti i diversi modi in cui quella gravidanza sarebbe potuta andare per il verso storto.
- In tal caso non ci proveremo più.
- Ma tu come ne uscirai?
Lei, non lui. Sempre pronto a preoccuparsi per lei, tralasciando i propri sentimenti e le proprie intenzioni. Anche in quel modo Thorn le mostrava attenzione, e Ofelia lo apprezzava più di qualsiasi gesto meccanico e scontato.
- Ne uscirò. Ne sono sempre uscita. Sarebbe un duro colpo, ma non sottovalutarmi.
- Solo una volta l'ho fatto. Mi è bastata.
Ofelia sorrise suo malgrado. L'aveva giudicata incapace di reggere l'inverno del Polo, sottintendendo che non sarebbe mai sopravvissuta lì. L'aveva smentito, e lui non aveva più dubitato di lei e della sua tenacia. Non aveva più commesso lo stesso errore.
- Tu cosa vuoi?
- Non me lo sono mai chiesto.
- Lo vorresti?
Thorn si passò una mano tra i capelli, per controllare che fossero in ordine. Era fondamentale in quel momento.
- A me ne sarebbero andati bene anche tre. Lisbeth non era prevista, ma non per questo ho pensato che fosse di troppo. Lo sai che desideravo vederla quanto te.
Ofelia annuì, incapace di articolare parola. Il discorso di Thorn aveva un tono agrodolce, non si capiva dove volesse arrivare con il ragionamento.
- In altre occasioni, se anche ti dicessi di no tu faresti di testa tua lo stesso, ma ora sono io a chiederti di lasciarmi valutare la questione un paio di giorni. A meno che la tua richiesta non sia perentoria, in tal caso accetterei subito, ma sappi che non sarei pienamente convinto di questa scelta.
Ofelia poteva capirlo. Era vero, un figlio poteva capitare, Lisbeth stessa era capitata, ma in quel momento era diverso. Avevano testato sulla loro pelle la perdita che ne conseguiva, e rischiare di nuovo avrebbe richiesto una forza che forse non sarebbero più stati in grado di dimostrare.
Ofelia si sporse su di lui e lo baciò dolcemente, accarezzandogli il viso leggermente ispido.
- Prenditi il tempo che ti serve. Capirò se sarai in disaccordo.
Thorn sbuffò leggermente. - Ti ho mai negato qualcosa?
Ofelia avrebbe voluto ricordargli, ricordare a lui, con la sua memoria infallibile, che non le aveva mai negato delle richieste, ma in passato diverse volte le aveva chiesto di non fare qualcosa a cui lei poi si era ribellata. Non era la stessa cosa, però non era corretto che lui pensasse di dargliela sempre vinta, perché non era uno di quegli uomini che subivano le azioni delle mogli, anzi.
- Se non me lo negherai nemmeno questa volta, perché esiti?
- Vorrei esserne sicuro. Non mi piace prendere decisioni senza un'attenta riflessione e analisi statistica di pro e contro a monte.
Ofelia scosse lentamente la testa. Giusto.
Si ributtò sui cuscini, serrando le palpebre. Thorn bofonchiò qualcosa e spense la luce, concludendo del tutto la giornata.
Ofelia gli prese la mano. - Solo perché devi riflettere non vuol dire che non possiamo... prima noi...
Thorn le fu di nuovo sopra in un attimo, facendola sospirare di sollievo.
E aggiunse un epilogo alla conclusione di quella giornata.
 
Il giorno dopo Ofelia notò come Thorn osservava senza discrezione Randolf, così insistentemente che Renard si sentì a disagio e più volte si allontanò dall'area di azione dell'intendente.
- Tuo marito è strano oggi, ragazzo. Sembra voglia applicare la pena capitale per il mio meraviglioso bimbo. E sì che è così tranquillo!
Randolf si mise a gridare in quel momento, facendo sorridere Ofelia. Nessuno dei due figli di Renard e Gaela era calmo, a dire il vero.
Quella sera Thorn parlò poco, anzi, rivolse a malapena la parola ai commensali e ad Ofelia. Guardò però Gaela, di nuovo in maniera forse troppo diretta, e Ofelia cercò di non ridere di fronte allo sguardo terrorizzato di Renard, che si stava facendo chissà quali idee strane. Continuava a far correre gli occhi tra Ofelia, sua moglie e Thorn, alla ricerca del punto di congiunzione che gli avrebbe svelato cosa stava accadendo.
Quando fu ora di andare a dormire, Ofelia si chiese cosa fosse meglio fare. Doveva parlargli? Doveva ignorarlo, fare finta di nulla? Non voleva che pensasse che lo stava incalzando, ma anche evitare di parlarsi in quel modo...
Alla fine la batté sul tempo.
- Concesso. Proviamo l'ultima volta, quattro sono abbastanza.
La tensione che si era accumulata fino a quel momento nel ventre di Ofelia si sciolse, facendole provare un sollievo insperato. Si accostò a lui, abbracciandolo e seppellendo il viso nella sua schiena calda.
Rimase incinta tre mesi dopo.

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Capitolo 46
*** Capitolo 46 ***


Eeeeee..... sorpresa!!!
Novità!!
Già intuita da qualcuno, ma non potevo confermare o negare.
Spero che vi piaccia il capitolo, perdonatemi...


Capitolo 46

Raggiunto il quarto mese di gravidanza Ofelia cominciò a sentirsi in ansia. Era proprio verso quel periodo che con la precedente gestazione aveva avuto problemi, e la paura rimaneva. Provò a chiedere a Vittoria se... percepisse qualcosa, ma ogni volta la ragazzina alzava un dito come ad invitare all'attesa, poi scuoteva la testa.
Non sapeva dire se fosse maschio o femmina, ma era certa che il feto stesse bene. Questo almeno era quello che Ofelia poteva dedurre dai suoi mormorii spesso incomprensibili. Ci pensava Serena a chiarirglieli. Le due cuginette si capivano al volo, o meglio, Serena capiva Vittoria, dato che la prima non aveva bisogno che venisse interpretato ciò che diceva. Ofelia era contenta che la figlia avesse qualcuno con cui passare il tempo all'infuori dei suoi fratelli, un'amica, per quanto insolita.
Passato il quarto mese, Ofelia tirò un sospiro di sollievo. Non era fuori pericolo, con le gravidanze non lo si era mai, le complicazioni potevano sorgere in qualsiasi momento, ma le sembrava di essere preda di un'ansia inutile. Ne erano andate benissimo quattro, e per un susseguirsi di eventi una sola era andata male... non voleva dire che tutte le altre avrebbero seguito il corso di quell'unica tragedia. Il quinto mese per lei era il traguardo, e finalmente anche la sciarpa si rilassò: contagiata da Ofelia, aveva passato quei mesi nel panico più totale, che nel suo caso si traducevano in attacchi a sorpresa alle gambe altrui, cui si stringeva finché qualcuno non la strappava via.
Sorsero però delle altre difficoltà.
Durante un pranzo particolarmente movimentato, con Tyr e Ilda che si lanciavano cibo e tovaglioli, Balder e Serena che, stranamente, battibeccavano su un argomento di matematica, la zia Roseline che riprendeva Berenilde che aveva passato la notte in bianco a corte, tra le braccia di Faruk, e Renard che cercava di sedare i bambini, passò quasi inosservato un attacco di tosse del prozio. Almeno finché non si alzò dal tavolo, coprendosi la bocca con un fazzoletto e dando la schiena ai commensali.
- Zio! - esclamò Ofelia.
In passato, se qualcuno le avesse detto che sarebbe riuscita a zittire un caos simile con una sola parola, non ci avrebbe creduto, anzi, avrebbe pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto. Lei, con quella voce quasi afona!
E invece fu proprio ciò che ottenne: silenzio.
Lei però provò solo orrore quando vide del sangue sul fazzolettino.
Chiamarono subito la governante, che da lì a pochi mesi avrebbe fatto la levatrice per l'ultima volta. A nulla valsero le proteste dello zio circa il fatto che erano più apprensive dei "guanti da forno di Sophie" e “più isteriche di una frusta dopo la preparazione del tiramisù", esclamazioni che fecero sganasciare Renard.
- Ecco da chi ha preso la signora Roseline, allora!
Il prozio riposò tutto il pomeriggio, con il respiro però erratico e soffocato. Quando Ofelia chiese alla levatrice come stesse, questa fu evasiva, anche se la tranquillizzò che era fuori pericolo.
 Ofelia però non mangiò la foglia, e continuò a gironzolare per la camera finché, come se fosse un uomo durante un parto, la governante non la buttò fuori. Ofelia si rassegnò, ma si fece strappare la promessa che sarebbe stata avvisata non appena il prozio si fosse svegliato.
Diverse ore dopo, quando mancava ormai poco alla cena, Ofelia pensò di farsi fare un brodino da portare in camera al prozio.
La porta di camera sua era socchiusa e, quando stava per bussare, sentì due voci arrivare sino a lei: quella del prozio e quella della governante. Basita, Ofelia pensò di aver visto giusto: tutti quei sorrisi ricambiati, quei ringraziamenti accorati e gli sguardi di chi sembrava condividere un segreto erano chiari segnali di un interesse reciproco. Valutò se usare il piccolo specchio del suo ciondolo per origliare quello che dicevano, ma con il vassoio in mano sarebbe stata una pessima idea, maldestra com'era. Per non parlare del fatto che il suo orecchio non sarebbe mai entrato in quel gingillo minuscolo. Alla fine Ofelia optò per origliare alla classica maniera, sperando che non passasse nessuno.
- ...pochi mesi... dovreste dirglielo... - disse la governante.
- C'è tempo... segreto nostro... - ribatté il prozio, anche se era difficile interpretarne il tono da quella distanza.
Ofelia provò ad avvicinarsi ancora.
- ...pensateci. Non voglio nascondere nulla ai miei padroni, sono stati buoni con me. Potrebbero cacciarmi per un simile sconvolgimento.
- Intercederò io per voi. Vi prego, voi siete l'unica...
Ofelia avrebbe rovesciato tutto il brodo per terra, per colpa di Thorn, se Thorn stesso non le avesse bloccato il vassoio. La sua alta figura le oscurò la visuale, e il suo sguardo di reprimenda, che non vedeva ma sapeva benissimo immaginare, la fece sentire una bambina discola.
- L'origliare non rientra tra le tue virtù - le disse infatti, vocalmente contrariato.
Ofelia stava per ribattere quando la governante aprì la porta, squadrandoli arcigna.
- Stavo per venire a chiamarvi, signora. Il vostro prozio si è appena svegliato.
Ofelia alzò il vassoio, titubante, come se già non fosse evidente cosa reggeva in mano: - Ho portato del brodo.
La governante storse il naso, ma si fece da parte per lasciarla entrare. - Ottima idea. Tra dieci minuti sarà servita la cena.
Congedandosi così, la governante si allontanò in fretta, forse per scappare da eventuali domande a cui non voleva rispondere. La presenza di Thorn le aveva fortuitamente impedito di essere colta sul fatto: sembrava che fossero appena arrivati e non avessero mai origliato nulla.
Thorn la seguì all'interno senza mai perdere di vista il vassoio, preoccupato probabilmente che potesse rovesciarlo addosso al prozio.
Quest'ultimo sbuffò quando Ofelia si sedette sul letto accanto a lui, ciotola in mano.
- Non sono infermo, cara nipote. Sono in grado di mangiare da solo.
Ofelia gli cedette la ciotola e lo guardò sorbire il primo cucchiaio.
- Devo dire che qui al Polo comunque la cucina non è così male come pensavo.
Il commento non riuscì a far sorridere Ofelia, che rimase in silenzio ad osservare il padrino. Alle sue spalle, Thorn fece scattare l'orologio da taschino.
- State meglio?
Sembrava un'accusa più che una domanda, ma il prozio non mostrò fastidio. Non più di quanto ne mostrasse di solito, comunque.
- Molto. Domani sarò come nuovo, non angustiatevi. Sono cose che capitano.
Udendo un botto provenire dal salotto e due distinti urli di Tyr e Ilda, Thorn si girò sui tacchi.
Fedele a se stesso, non augurò la buonanotte o una buona serata come formula di cortesia. Insegnava l'educazione ai figli, ma applicarla a se stesso era un altro discorso. Anche se quel piccolo gesto di interessamento verso il prozio, assicurarsi del suo stato di salute, era già un enorme cambiamento in lui.
Ofelia aspettò che il prozio, accigliato, finisse.
- Sputa il rospo, figliola. Ti conosco da quando sei nata, so quando hai qualche grillo per la testa.
Ofelia esitò. Poi, con voce minuta, come troppo spesso le capitava con il prozio, chiese: - Non mi nascondereste nulla di importante, vero?
Il prozio sospirò. – Quando eri una bambina io ero adulto, e c’erano cose che non potevo dirti. Ora che sei tu adulta, io sono vecchio, e ci sono altre cose che non posso dirti.
- Perché?
- Sembri Hector – borbottò il prozio. Poi, capendo che Ofelia non avrebbe demorso, sospirò. – Perché certe cose vanno rivelate solo al tempo giusto. E sono difficili da digerire. E vorremmo tenerne all’oscuro i nostri cari per non sconvolgere loro la vita.
- Anche con le buone notizie?
Il prozio esitò. – A volte, anche con quelle.
- Allora io aspetterò che siate pronto per dirmelo. Però ditemelo prima o poi, per favore. Non lasciate che lo scopra da altri. È stato il primo motivo di litigio tra me e Thorn, la sua mancanza di trasparenza.
Il prozio le fece cenno di avvicinarsi e le depositò un bacio tra i capelli. Lui, che dimostrava affetto ancora più raramente di Thorn. Ofelia pensò che dovesse sentirsi in colpa nel non dirle che si era invaghito della governante, e provò pena per lui, anche se non ne aveva motivo. Lei sarebbe stata contenta di vederlo con qualcuno, se questo lo rendeva felice.
- Lo sai che nessuno può resistere contro di te. La cocciutaggine è un pregio di famiglia.
Ofelia si unì alla risata sommessa dell’anziano, poi si alzò, rassicurata, e uscì augurandogli la buona notte.
Qualcosa però non la convinceva. Il prozio non aveva motivo di tenerle nascosta una bella notizia.
Ci rimuginò su tutta la sera finché, il giorno dopo, non incontrò per caso la governante.
Ad un cenno di saluto, la donna distolse lo sguardo intimidita. Poco convinta, Ofelia la studiò per tutto il giorno. Il suo comportamento evasivo e l’incapacità di fronteggiarla, però, la mettevano a disagio, e quando la sera stava accompagnando i bambini a letto e la vide passare, chiamò Thorn e gli chiese di dare lui la buonanotte ai figli. Rincorse la governante come meglio poté, limitandosi a camminare in fretta e chiamarla perché si fermasse. La donna, seppur vicina, non accennò a rallentare, e Ofelia cercò di prestare massima attenzione a dove metteva i piedi, per paura di danneggiare la pancia. Una pancia bella grossa nonostante fosse appena al quinto mese.
Alla fine riuscì a raggiungere l’anziana, non perché lei si girò ad ascoltarla, ma perché Ofelia la incastrò in un vicolo cieco di quel castello troppo grande e la governante fu costretta a fronteggiarla.
- So cosa volete, padrona. Io volevo dirvelo, lungi da me tenere dei segreti sotto il vostro tetto, una tale mancanza di rispetto non è nelle mie corde. Vi prego, ho agito in buona fede, non cacciatemi.
Ofelia, con il fiato accelerato, si tenne una mano sulla pancia mentre cercava il respiro perduto. La levatrice le mostrò come respirare, e finalmente Ofelia fu di nuovo in grado di parlare.
- Non serve che vi scusiate, e non ho intenzione di cacciarvi. Ho… sentito parte della conversazione ieri. So che è stato mio zio ha chiedervi di non dire nulla, ma volevo farvi sapere che non vi biasimo per…
Ofelia si ritrovò a corto di parole. Come poteva dire alla donna che aveva messo al mondo i suoi figli che sapeva che aveva una storia con il suo padrino? C’era un modo non disdicevole per dirlo?
- Io… io approvo il vostro legame con il mio prozio. Vorrei solo che non me lo teneste nascosto. Non state facendo nulla di male…
La governante la guardò con gli occhi sgranati, al punto che erano visibili al di sopra delle lenti spesse come fondi di bottiglia.
- Come, scusate? Avete origliato la conversazione di ieri?
- Io… sì. Perdonatemi, stavo per entrare quando vi ho sentiti parlare. So che non è corretto…
- Cosa avete capito da quel che avete sentito?
- Che… - Ofelia si maledisse per essersi cacciata in quella situazione. – Che voi due avete… un interesse reciproco ma per qualche motivo esitate a dircelo. A dirmelo.
- Di che natura sarebbe questo interesse?
Ofelia era confusa. Perché ora era la governante a cercare di scoprire qualcosa da lei?
- Interesse di tipo… sentimentale…
La governante scosse la testa, sconsolata. Eppure, quando parlò il suo tono era tagliente. – Io glielo avevo detto a quel… ah! In questa casa siete tutti talmente testardi! Perdonatemi signora, ma ve lo devo proprio dire, tutti dei muli siete!
- Va bene tutto, tutto bene va… - mormorò Ofelia, ingarbugliandosi nelle parole e cercando di calmarla. – Non sono contraria a…
- Lo so che non siete contraria! Il problema è che lo sarete! E io ho contribuito a questo guazzabuglio!
- Perché dovrei essere…
- Io e il vostro prozio non abbiamo un legame di quel genere. L’unica cosa che condividiamo è il segreto sul suo reale stato di salute.
Ofelia ebbe la sensazione che ci fosse un terremoto in corso. Con le vertigini, si sentì vacillare, il piombo nelle vene, un’artigliata al cuore.
- Il suo… cosa intendete?
Ofelia aveva capito la verità dietro quelle parole sibilline. Come potevano essere fraintese? Una bella notizia non aveva motivo di essere tenuta nascosta.
La governante la guardò con occhi pieni di compassione. – Avrebbe voluto dirvelo lui, ma di questo passo si convincerà a farlo quando ormai sarà troppo tardi. Gli rimane poco da vivere, signora. I polmoni non si riprenderanno più. Ho assistito una persona con lo stesso problema, prima di venire qui.
Il sangue… quella tosse… la vicinanza con la governante, l’unica persona che aveva affrontato lo stesso problema e sapeva quali erano i sintomi, le conseguenze.
- Quanto?
L’anziana la capì al volo, non servivano altre parole per porre quella domanda. – Non lo so. Tre mesi, quattro forse. Al… signore che ho accudito rimasero tre mesi dopo aver avuto l’attacco che ha avuto il vostro prozio. Mi dispiace, signora. Mi dispiace davvero.
Ofelia se ne andò, o forse fu la governante ad andarsene. Si sentiva mille pensieri frullare in testa, confusi, incoerenti e inafferrabili, dolorosi come tante punture di spillo. Si ritrovò di fronte alla porta della camera del vecchio archivista, l’Archivista di Anima, senza rendersi conto che i suoi piedi l’avevano portata lì di loro iniziativa.
Per fortuna non era caduta; in quello stato di shock sarebbe bastato un attimo per fare del male al bambino, o alla bambina.
Spalancò la porta e guardò il prozio, assopito; i folti baffi bianchi, che gli aveva tirato così tante volte da piccola; il pancione tondo, che però, per qualche motivo, non lo aveva mai reso grasso; le sopracciglia con cui tutti i nipoti e pronipoti avevano giocato, da bambini, credendo fossero bianchi lombriconi pasciuti.
Ofelia sentì le lacrime pizzicarle gli occhi, e stava già piangendo in silenzio, incontrollabilmente, quando prese una sedia e si sedette al capezzale del suo padrino. Del suo prozio. Dell’uomo che aveva sempre creduto in lei, e che lo aveva fatto per primo. Del saggio che le aveva insegnato quasi tutto quello che sapeva, che l’aveva resa indirettamente la migliore lettrice in circolazione, che aveva applaudito più forte degli altri quando aveva preso qualche premio, e che era sempre stato pronto a medicarle le sbucciature senza criticare la sua goffaggine ogni volta che cadeva.
- Cosa fai qui? – mormorò lo zio con voce impastata dal sonno, rendendosi conto della sua presenza. Si svegliò del tutto quando vide il suo viso. – Oh, Ofelia. Non volevo che…
Ofelia gli strinse la mano, ci posò la fronte e pianse, senza far rumore, inzuppando le lenzuola. Sentire la grande e callosa mano del suo prozio tra i capelli, quella libera, mentre cercava di consolarla, fu la batosta finale. Nessuna smentita, nessuna consolazione, solo l'ineluttabile verità: il prozio era vecchio, non poteva vivere in eterno.
Ed era malato.
Ogni respiro rantolante che emetteva le sbatteva in faccia quella realtà, così spaventosa che lei stessa si era decisa ad ignorare, illudendosi che il prozio sarebbe sopravvissuto a tutti loro, sarebbe vissuto per sempre.
Ofelia si assopì con gli occhi ancora bagnati, sognando a colori troppo vividi farfalle dalle ali nere, bare che contenevano corpi vivi e scheletri finché non si sentì sollevare da due braccia magre, eppure insospettabilmente forti.
- Abbiate cura di lei - mormorò il prozio prima di tossire.
Ofelia si sentiva gli occhi pesanti; provò ad aprirli e incontrò solo tenebre. E l'odore familiare di Thorn, di inchiostro, disinfettante e sapone.
La mise a letto, intuì Ofelia quando toccò il materasso. E quando Thorn si sdraiò al suo fianco, lo cercò nel buio, si aggrappò al suo pigiama, che non c'era, così artigliò la sua pelle. Non aveva nemmeno la forza o la lucidità necessarie a chiedere scusa, si limitò a piangere sul petto di Thorn.
- Tyr sta dormendo in camera con Serena e Balder - la informò. - Non serve che soffochi i singhiozzi, non fa bene.
A quelle parole sussurrate contro il suo orecchio, Ofelia si lasciò andare come un fiume in piena. Non urlò, ma i gemiti e i lamenti, le parole sconclusionate che pronunciava erano abbastanza per far intendere quanto fosse straziata. Il pianto agonizzante di un animale mortalmente ferito.
Le braccia di Thorn furono sempre attorno a lei, come quando aveva rischiato la vita nell'Immaginatoio, come quando aveva abortito. Thorn era la sua costante, pronto a sostenerla sempre, in qualunque stato lei fosse. A pezzi e piagnucolante come in quel momento, o ricoperta di sangue e ferite come in passato.
In quel momento però il dolore era troppo lacerante per essere soverchiato da quell'amore che talvolta dava per scontato, e niente l'avrebbe consolata. Nemmeno il sonno senza sogni che la fece cadere nell'oblio poco dopo.
Perché il suo adorato prozio stava morendo, e niente, nemmeno la vita che portava in grembo, o l'amore che provava per i suoi figli e suo marito, avrebbero potuto ridarglielo e cancellare quella notizia.
Perché, semplicemente, per quanto si amasse, la morte rimaneva comunque la forza più forte del mondo.
E non guardava in faccia nessuno.
 
La mattina dopo, almeno pensava che fosse mattina, Ofelia si svegliò sentendo Thorn che si alzava dal letto e si aggirava per la stanza. Quando aprì gli occhi, però, vide tutto buio.
- Acc... - gracchiò, con voce roca e spezzata. Si schiarì la voce e ci riprovò: - Accendi la luce Thorn.
Ofelia lo sentì fermarsi, tutto era immobile.
- La luce è già accesa - la informò lui con voce lapidaria, una lama che tagliava il sonno e la coscienza. - Apri gli occhi.
- Sono già aperti.
Agitata, Ofelia si rese conto di non riuscire a vedere nulla. Si mise a sedere goffamente, resa ancora più impedita nei movimenti dal pancione. La sciarpa, contagiata dalla sua ansia, strisciò dal punto in cui era finita fino al suo viso, avvolgendosi sui suoi capelli come un turbante.
- Gli occhiali... non vedo nulla, eppure ho gli occhi aperti...
Le mani fredde di Thorn furono subito sul suo viso, a contenerle il volto per cercare di calmarla.
- Hai gli occhi troppo gonfi. Non fare movimenti bruschi, stai ferma, anche se so che non obbedirai mai. Torno tra poco, tu resta qui e sdraiati.
- Dove vai? - chiese Ofelia, sentendosi Serena quando, da piccola, aveva paura di dormire da sola, prima che arrivasse Balder in camera con lei.
- In cucina.
Ofelia fece per chiedergli cosa, di preciso, andasse a fare in cucina, quando sentì la porta richiudersi. Che gli fosse venuto un attacco di fame, il primo nella sua vita, proprio in quel momento? Attese un tempo che le parve infinito, soprattutto se sola con i suoi pensieri e incapace di vedere fisicamente lo scorrere del tempo sull'orologio della loro camera. Per lo meno non aveva il pensiero di Tyr: era sicura che se si fosse svegliato o avesse fatto i capricci ci avrebbero pensato i suoi fratelli a lui.
Ofelia si rilassò solo quando sentì la porta aprirsi e il passo inconfondibile di Thorn, una marcia militare, avvicinarsi a lei. Le si sedette a fianco, posò qualcosa sul comodino, probabilmente un vassoio, e strizzò qualcosa che emise un rumore liquido.
Quasi gridò quando Thorn le posò qualcosa di tiepido e bagnato sugli occhi.
- Camomilla - la informò lui. - Riduce il gonfiore.
Ofelia rimase immobile, percependo per la prima volta il martellare furioso del mal di testa da pianto eccessivo che si faceva largo in lei. Non era della stessa natura degli artigli di Thorn, quindi era sicura che lui non c'entrasse nulla.
Erano stati due anni a dir poco sfortunati, prima con la perdita di Lisbeth, e ora con la notizia della malattia del prozio. Per non parlare della preoccupazione che attanagliava Ofelia per quella nuova gravidanza: il bambino, o la bambina, era decisamente più grosso degli altri fratelli, a giudicare dalle dimensioni della pancia, ma il fatto che Vittoria non riuscisse ad indentificarne il sesso la lasciava con il fiato sospeso. C'erano problemi? Il bambino stava bene?
Si era ripromessa di essere più forte e di piangere di meno dopo la depressione in cui era caduta a seguito dell'aborto, ma si perdonò quella notte di debolezza perché non sarebbe riuscita ad affrontare i giorni che rimanevano al prozio se non avesse buttato fuori quel dolore.
- Da piccola mi sono fatta un occhio nero. Il pomello di una porta - biascicò Ofelia, allungando una mano finché non trovò la gamba di Thorn, che gli strinse con riconoscenza. - Mi hanno messo del ghiaccio, non della camomilla calda.
- Quel gonfiore scaturiva da un trauma. Qui non ci sono lividi, e non hai dolore, si tratta solo di calmare i dotti lacrimali che hanno lavorato eccessivamente per permetterti di aprire gli occhi.
Non si dissero più nulla. Ofelia sapeva che Thorn aveva già sperimentato la perdita di qualcuno di caro, l'intendente precedente, che lo aveva formato. E si chiese quanto avesse sofferto Thorn, non solo per la morte dell'uomo che considerava un maestro, e che ammirava più di quanto avesse mai ammirato suo padre, ma anche perché quell'uomo che aveva pianto lo aveva considerato una nullità, alla stregua di tutti gli altri.
Per lo meno Ofelia doveva dire addio ad una persona che aveva dimostrato ampiamente quanto l'amasse.
Thorn non cercò di consolarla. Non era il tipo di persona che sprecava parole inutili per cercare di addolcire un fatto irreversibile e oggettivamente traumatico. Non era da lui. Probabilmente avrebbe solo peggiorato la situazione, a dire il vero, ma Ofelia a sua volta non era il tipo di persona disposta a credere alle favole.
Sarebbe stata dura. Lo sapevano. Ma sapevano anche entrambi di poter contare l'uno sull'altra, fisicamente, tangibilmente, e questo valeva più di qualsiasi parola di condoglianza.
Thorn le cambiò l'impacco non appena cominciò a diventare freddo, e glielo tenne per qualche altro minuto.
- Sono ancora gonfi - la informò dopo averle asciugato con una delicatezza inaspettata il viso. - Però dovresti esser in grado di aprirli abbastanza da riuscire a vedere.
Ofelia ci provò, trovandosi a pochi centimetri dal viso il naso affilato di Thorn. Le servivano gli occhiali, ma vedeva decisamente meglio di prima. Almeno vedeva.
Si rimise a sedere e afferrò il ciondolo che le aveva regalato Thorn. Usò lo specchietto che vi era appeso e si prese paura. Come potevano degli occhi essere così gonfi?
- A tua zia verrà un colpo quando mi vedrà così - cercò di sdrammatizzare.
- Non più di quello che verrà alla tua.
Ofelia fece una smorfia. Che scusa si sarebbe potuta inventare per giustificare un simile disastro? Una congiuntivite? No, perché nessun altro l'aveva, e non gonfiava così gli occhi.
Come se si fosse sentita presa in causa, la zia Roseline irruppe nella camera senza quasi bussare.
- Cos'è tutto questo ritardo nella colazione? Che succede qua? Non farmi preoccupare, Ofelia, che tu ne combini una più del nipote Genovio.
Alla vista di Thorn e Ofelia seduti a letto, e degli occhi di Ofelia, soprattutto, la zia Roseline ammutolì.
- Per tutte le pinzette maleducate, che ti è successo a...
- Signora Roseline, vi prego, vostro zio ha chiesto di vedervi subito. Non si è ancora rimesso del tutto, non fatelo aspettare - farneticò la governante, che da dittatrice sembrava essersi trasformata in agnello. Essere l'unica persona a conoscenza delle reali condizioni di salute di qualcuno, e condividere il suo segreto, era un buon modo per ammorbidirsi.
La zia Roseline sbuffò. - Con te farò i conti dopo, cara nipote.
Girando i tacchi, impettita come un tacchino, la zia Roseline uscì con così tanta foga e malcontento che i fogli sulla scrivania di fianco alla porta si arrotolarono tutti, offesi.
Ofelia lanciò un'occhiata di ringraziamento alla governante, prima che chiudesse le porte, anche se non era certa di come dovesse apparire all'esterno.
- Cosa dirai a mia zia e ai bambini? Si sono... legati al tuo prozio, bisognerà... avvisarli che...
Ofelia si rese conto in quel momento che lei non aveva detto nulla a Thorn della salute del prozio, e che le uniche a sapere la verità erano lei e la governante.
- Chi ti ha detto di...?
- La governante è venuta a chiamarmi quando ha visto che, dopo due ore, non eri ancora uscita dalla camera del tuo prozio. Le ho chiesto cosa ci fosse di strano in questo, e mi ha detto la verità.
Ofelia chinò la testa, troppo dolorante per riuscire a sorreggerla.
- Bisognerà far loro capire che non lo vedranno più.
- Come?
Ofelia sospirò. - Dicendo loro la verità. Tra poco Serena avrà otto anni. Tyr non capirà, è il più piccolo e a mala pena dà retta a semplici ordini, figuriamoci a discorsi sulla morte. Ma non voglio che smettano di vederlo da un giorno all'altro.
La voce le si spezzò, impedendole di articolare quello che davvero voleva far capire a Thorn: che non voleva che i loro figli crescessero nella menzogna, pensando che magari il prozio li avesse abbandonati. Né voleva che dessero per scontato il poco tempo che era rimasto loro per passarlo con lui. Le cose più preziose sono quelle che hanno vita breve, perché se ne può godere per un periodo limitato, non si può tornare indietro.
Ed era proprio quello che era rimasto loro: poco, irrecuperabile tempo prezioso.
- Sono in grado di...
La porta si spalancò di nuovo, interrompendo nuovamente Ofelia. Questa volta però entrò qualcuno di decisamente più molesto della zia Roseline.
- Ma cosa succede in questo castello così di prima mattina? - chiese la voce vellutata di Archibald, che entrò a passo lesto con Tyr in braccio e Balder e Serena attaccati al suo collo uno per lato. - Lo sapevo io che dove c'è la moglie di Thorn c'è movimento. Cosa è capitato dunque oggi? Ogni tanto mi sembra che la mia precedente abitazione occupata da dodici sorelle in età da marito fosse più tranquilla.
Thorn lo fulminò con lo sguardo, sia di gelosia per il modo in cui i suoi figli gli stavano attaccati, sia per la poca delicatezza che come al solito mostrava.
- Zio Archi gira! - gridò contento Balder, che rischiava di perdere gli occhiali.
Archibald li accontentò, eseguendo una piroetta che fece ridere i bambini, compreso Tyr, che dimostrò la sua gioia tirandogli un pugno sul cappello.
- Cosa vi è capitato agli occhi, moglie di Thorn? Siete così delusa dal vostro matrimonio con il nostro acclamato intendente da aver pianto tutta la notte? Lo sapete che io sono sempre a disposizione per alleviare le vostre pene.
Serena si staccò, atterrando poco più in basso. Tirò la giacca di Archibald, con un'espressione severa come quella di Thorn: - La mamma non è delusa dal suo matrimonio. Non dovete dire bugie, signor zio Archibald.
Alla fine Serena aveva trovato un compromesso tra il chiamare Archibald zio e la forma di rispetto che le era stata insegnata. Con quel cipiglio da intendente, Ofelia era certa che nessuno avrebbe mai potuto metterle i bastoni tra le ruote.
Archibald scoppiò a ridere mentre Thorn gli prendeva i bambini dalle braccia e lo spingeva fuori dalla camera senza toccarlo. Ofelia dubitava che il suo sguardo tagliente avesse un tale potere su Archibald, di sicuro c'entravano i suoi artigli, di cui aveva già saggiato la sofferenza e che gli stavano pizzicando la pelle.
- Avete ragione, piccola figlia dell'intendente! Io mi faccio vanto di essere il portatore della verità, e ricado nella menzogna solo per il gusto di infastidire il vostro goliardico padre! Oh, ma che gusto...!
Thorn gli sbatté la porta in faccia, cosa che, nonostante il paradosso della situazione, le fece quasi venire da ridere. Il mondo poteva andare a catafascio che Archibald sarebbe sempre rimasto lo stesso, pronto a punzecchiare Thorn, avanzare proposte immorali e... alleggerire la tensione.
- Mamma, perché hai gli occhi gonfi? - chiese Balder arrampicandosi sul letto.
A nemmeno sei anni aveva finalmente imparato a scrivere, anche se faticava a comprendere l'importanza dell'uso del "voi", su cui stava lavorando con Renard.
- Ho... pianto un po' troppo, tesoro.
Serena sgranò gli occhi scuri. - Perché avete pianto, mamma? Cosa c'è che non va?
Sensibile com'era, Balder stava già per mettersi a piangere a sua volta, nonostante Ofelia non avesse detto ancora nulla. Tyr invece si mise a calciare in braccio al papà finché non venne deposto sul letto, dove si placò. Tirò la maglia di Balder per giocare, ma si mise quieto quando vide che il fratello non gli dava corda e sembrava terribilmente serio.
Thorn fece scattare l'orologio da taschino, ma non si sedette. - Ho ancora qualche minuto prima di dover andare.
Con calma, con impaccio, a disagio com'erano stati quando avevano per forza dovuto spiegare a Serena come nascevano i bambini, dopo che per l'ennesima volta la figlia glielo aveva chiesto quando Ofelia era rimasta incinta dell'ultimo, Thorn e Ofelia spiegarono cos'era la morte.
Ofelia usò paragoni e metafore, Thorn fu realistico, scientifico, nello spiegare cosa fosse, quello stato che sembrava sonno e che non lo era, e che precedeva la distruzione del corpo fisico.
Più volte Ofelia disse che non sapeva cosa c'era dopo la morte, o che fine facessero i ricordi delle persone, concetti che Thorn avvalorava con tesi e agnosticismo perché nessuno aveva mai fornito prove al riguardo.
Spiegarono cos'era l'invecchiamento, anche cos'erano i polmoni, perché quelli del prozio non funzionassero più, e quanto fossero fortunati a poter spendere ancora un po' di tempo con lui, per imparare e per amarlo.
- Talvolta, la morte sopraggiunge senza preavviso, e non c'è nemmeno tempo per dire addio. Sfruttate questo periodo che vi rimane.
Balder era un fiume in piena di lacrime, raggomitolato contro la pancia della mamma, così triste da non cercare nemmeno di sentire il fratellino o la sorellina calciare come faceva di solito. Serena era più composta nel suo dolore, più distaccata, come Thorn, ma Ofelia sapeva quanto fosse affezionata al prozio. E quanto intelligente fosse, una bambina che aveva già capito che a volte era inutile cercare di lottare, perché le cose accadevano e basta.
- Bisogna sempre salutare quando si arriva e si va via - ripeté a memoria, parole che tante volte le avevano detto perché imparasse a salutare educatamente.
- Non sempre è possibile - la smentì Thorn.
Serena afferrò la mano del papà e si avvicinò alla mamma, trascinando con sé anche Tyr che non capiva, ma abbracciava la sorella cercando di confortarla. Era stranamente protettivo nei confronti di Serena, nonostante i cinque anni di differenza e la sua spiccata preferenza per Balder. Thorn si chinò su di loro, un'ombra che li ricoprì, due braccia lunghe che li avvolsero, magre ma forti.
Ofelia sorrise, nascosta in quell'abbraccio, grata per ciò che aveva. E anche se stava per perdere qualcosa di importante, dal valore incommensurabile, era grata di averlo avuto per una vita intera. Grata di averlo potuto sfruttare, e di averne goduto.
- Che ne dite, andiamo ad abbracciare anche il prozio?
- Sì!! - scattò subito in piedi Balder, dando una testata a Tyr che rispose dandogli uno spintone.
Sospirando, Thorn lo afferrò per la maglia e lo prese in braccio prima che potesse mettersi a litigare sul serio con il fratello, e lo portò fuori dalla stanza mentre ancora urlava e scalciava.
Ofelia non sentì cosa Thorn disse al bambino, sentì solo la sua voce glaciale di un tono superiore rispetto al solito, dura come l'inverno di quell'arca. Tyr urlò il proprio dissenso e poi si zittì, suo malgrado timorato di quel papà così grande.
Balder si rialzò dal letto massaggiandosi platealmente la spalla. - Tyr è manesco.
Fu il turno di Ofelia di sospirare.
- Sai, mezza famiglia di papà era composta da cacciatori. Draghi si chiamavano, e anche papà e la prozia Berenilde sono dei Draghi... - gli spiegò Serena mentre, mano nella mano, lo accompagnava fuori dalla stanza.
Ofelia si alzò con attenzione, cercando di non far cadere la camomilla e assicurandosi di non essersi bagnata troppo la camicia da notte.
Sì, la famiglia di Thorn era per metà Draghi, e non c'erano dubbi da quale clan Tyr avesse preso il suo retaggio. Almeno, però, aveva momentaneamente distratto i fratelli dalla terribile notizia.
 
I bambini entrarono baldanzosi in camera del prozio, ma si bloccarono subito quando videro la zia Roseline che piangeva con il volto seppellito nella giacca sbrindellata di Archibald. Quest'ultimo alzò lo sguardo su Ofelia, uno sguardo insolitamente triste, che rendeva una smorfia il piccolo sorriso che resisteva, insopprimibile, sulle sue labbra.
Quando Thorn fece un passo verso di lui, ricevendo un calcio sullo stomaco da Tyr, Archibald alzò una mano per fermarlo, pacatamente.
- Giuro che per una volta non sto facendo nulla di sconveniente. Ero di passaggio quando la signora Roseline è uscita come una furia, piangendo disperata.
La zia borbottò qualcosa contro di lui, che per contro le massaggiò la schiena mormorando: - Sh, sh, calmatevi ora.
Balder aveva ricominciato a piangere e si era sdraiato vicino al prozio, attento a non fargli male. Serena gli prese timidamente la mano. Tyr invece scalciò finché Thorn non lo mise sul letto, dove si inginocchiò a fissare intensamente il prozio.
- Ho capito che non puoi fare a meno di andartene, zio, però rimani il più possibile per favore - ruppe il silenzio Balder, stringendosi al corpo del vecchio archivista.
- Sì, resistete più che potete, per favore. Avete ancora tante belle storie da raccontarci, vero? - lo spronò Serena.
Ciò che straziò il cuore di Ofelia non fu il coraggio dei suoi bambini, così piccoli eppure testimoni di uno sconvolgimento sgradito come una morte, ma fu vedere il suo prozio, lo stoico, burbero, severo, impassibile, integerrimo Archivista, custode del Museo di Anima, dei libri più antichi di cui si aveva testimonianza dalla Lacerazione e membro più anziano della famiglia di Ofelia, cercare di trattenere le lacrime.
E non riuscirci.
Thorn le si fece più vicino, un semplice contatto con il suo braccio la rassicurò.
- Farò il possibile per rimanere ancora con voi, ma quando giunge il tempo di una persona non si può fare molto per evitare che la sabbia della clessidra smetta di cadere.
- Nemmeno se si rovescia la clessidra? - chiese Serena.
Il prozio scosse la testa. - La clessidra non si può rovesciare.
- Ecco dove vi eravate cacciati tutti quanti! Vedere il tavolo apparecchiato e intonso a quest'ora è un evento più unico che raro, madama Berenilde stava già pensando ad un presunto attacco ai danni di...
La voce squillante ed energica di Renard, che teneva Ilda per mano e aveva Randolf in braccio, si spense non appena vide la scena che gli si presentava davanti.
Al suo fianco sbucò Berenilde, che perse il sorriso e il colore sulle gote, nonostante il trucco che lo fingeva.
Il prozio scosse le spalle, rassegnato, e all'unisono si avvicinarono tutti al suo capezzale, stringendosi in un muto abbraccio, nella contemplazione di un uomo dalla saggezza, e dalla bontà, straordinarie.
- Su, ora allontanatevi - bofonchiò, scorbutico, dopo un po', asciugandosi con stizza le lacrime. - Questo è l'unico addio che vi concederò. Non sono ancora morto, e se qualcuno si azzarda a deprimersi prima che sia giunto il momento se la vedrà con me. A mangiare, per studiare e mettere qualche informazione in zucca serve cibo, bambini.
Tyr fu il primo a correre via, trascinandosi dietro Ilda al grido di: - Coassione fame, mamma colassione!
La scena strappò una risata triste a tutti, che però parvero riscuotersi, come se fossero rimasti a lungo assopiti.
- Quel birbante ha ragione, e io ieri sera ho mangiato solo un brodino insipido e annacquato. Andatevene da qui, vi raggiungerò non appena mi sarò reso presentabile.
Cacciati fuori dalla stanza, chi cercando di smettere di piangere e chi, come Renard, tentando di non cominciare nemmeno, si avviarono verso la sala da pranzo. Dopo aver preso posto, però, si resero conto in silenzio che la sedia vuota del prozio risaltava sulle altre, come se fosse un errore quel suo non essere occupata. E scambiandosi poche occhiate capirono che un giorno non troppo lontano non sarebbe più stata usata, perché il prozio non avrebbe più potuto raggiungerli. Così attesero il suo arrivo, non importava quanti minuti dovessero attendere; persino Thorn.
E quando il prozio entrò, vestito di tutto punto, un po’ incurvato ma tutto sommato in salute, nessuno si azzardò a versare una lacrima. Iniziarono a mangiare cercando di parlare delle frivolezze di cui discutevano ogni giorno, ogni mattina, domandandosi come potessero essere così leggeri nel parlare di sciocchezze prive di importanza.
Eppure fu loro di aiuto, permise di riacquistare una parvenza di normalità. La zia Roseline si ritrovò persino a battibeccare con il prozio, sebbene non con il consueto trasporto.
E così continuarono a vivere la giornata, a vivere e basta, perché era l'unica cosa che, anche se momentaneamente, poteva allontanare la morte.

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Capitolo 47
*** Capitolo 47 ***


Volevo postarlo ieri ma per un motivo o per l'altro non ce l'ho fatta. Almeno avremmo terminato il 2021 con una nota maliconica, invece così ci iniziamo il 2022 xD
E va be', alla fine è solo un anno in più, un giorno in più, per me non vuol dire granché. Speriamo però di vedere la luce in fondo al tunnel, almeno questo (parlo della situazione generale, non della storia ahahahah).
Vi auguro buona lettura e spero che vi piaccia il capitolo!


Capitolo 47

Le settimane trascorsero più in fretta di quanto chiunque avesse voluto. Nessuno fece più cenno allo stato di salute del prozio, anche se Renard intavolò il discorso con Ofelia una sera, dopo aver alzato un po' troppo il bicchiere. Ofelia invece era sobria; dopo l'incidente con Lisbeth aveva deciso di non toccare più un bicchiere di vino o grappa o qualsiasi altro alcolico.
Ofelia si sorprese di se stessa nel tentare di consolare Renard. Pianse anche lei, era impossibile non commuoversi pensando al destino che aspettava il prozio dietro l'angolo, però riuscì anche a rabbonire Renard, a fargli notare che il prozio non avrebbe voluto quello da loro, e che era giusto onorare la sua volontà e non rattristarlo dato il poco tempo che gli rimaneva. Renard le diede ragione piangendo, calmandosi solo quando tornò Gaela, dopo aver allattato Randolf, che prese il marito per portarlo in camera. Per una volta con dolcezza, certa del fatto che Renard non si sarebbe ricordato nulla il mattino successivo.
Il prozio continuò ad andare in biblioteca e a visitare i luoghi che Ofelia e Renard, e anche Archibald e Berenilde, consigliavano assolutamente. Quelle gite, che di solito si erano sempre svolte in coppia o a piccoli gruppi mentre gli altri rimanevano a casa o partecipavano a qualche evento di corte, diventarono delle vere e proprie gite di famiglia. Tutti volevano godersi gli ultimi momenti del prozio, e tutti volevano che fossero memorabili. Persino Thorn cercava di passare del tempo con lui, nel suo studio dopo cena o in salotto, in cui ascoltava le storie che il prozio narrava, delle testimonianze dirette di vita vissuta, esperienze da cui c'era sempre qualcosa da imparare.
Ofelia ripensò ai Racconti di oggetti e altre storie Animiste che il prozio le aveva spedito anni prima, quando era diventata vicenarratrice. Le storie del prozio erano come quelle racchiuse nel libro, che Serena aveva già letto e imparato a memoria grazie al dono degli Storiografi, e che aveva passato a Balder perché si esercitasse con la lettura.
C'era sempre, sempre, qualcosa da imparare.
Gli attacchi di tosse e di asma del prozio furono sporadici all'inizio, certi giorni era facile dimenticare la sua malattia e la salute precaria. Dopo quasi un mese, però, gli episodi cominciarono ad essere sempre più frequenti e intensi. Quando ne capitarono due di fila, così gravi da lasciare il prozio esanime tra le braccia forti di Renard, decisero di non uscire più.
Nel cuore dell'inverno, il freddo intenso li costrinse a casa lo stesso, per via delle strade gelate e delle temperature così basse che nemmeno le illusioni riuscivano a mascherare.
Il prozio cercò di passare più tempo possibile con tutti, soprattutto singolarmente, quando poteva. Insegnava la storia animista a Serena, aiutava Balder a leggere, cercava di educare Tyr quando combinava qualche marachella, perché stranamente era uno dei pochi a cui il bambino desse retta. Assisteva Renard alle sue lezioni, anche se sempre più frequentemente iniziò ad addormentarsi, allo stremo delle forze nonostante il suo tentativo di nasconderlo. Si informava sullo stato dei lavori di Gaela, che non lo avrebbe mai ammesso ma adorava ascoltare il funzionamento delle macchine su Anima. Niente motori, niente elettricità, niente gas, bastava solo usare la propria volontà per animare enormi carrozze e marchingegni, se si aveva la fortuna di rivolgersi ad un costruttore di buon animo e gentile. Era capitato che carrozze costruite da uomini particolarmente burberi e iracondi si fossero rifiutate di partire, e le più dispettose avevano addirittura cambiato il tragitto in corsa. Da parte sua, il prozio era interessato a capire il funzionamento manuale di tutti quegli aggeggi meccanici, definendo Gaela un'artista e sorprendendosi di quanto gli uomini potessero essere ingegnosi.
La zia Roseline gli portava il tè ogni pomeriggio, aggiungendoci qualche erba che la governante le consigliava. Ofelia l'aveva provato per sbaglio una volta, e aveva tossito per diversi minuti. Era talmente amaro che le era andato di traverso, e il fatto che il prozio non si lamentasse mai di quanto fosse indigesto quel tè le fece capire quanto ci tenesse a non deludere la nipote e i suoi tentativi di alleviargli il male. Ogni tanto li trovava chini su un volume da restaurare, a parlare di carta e riparazioni, e vedere la zia Roseline così docile le riempiva il cuore di tenerezza. Con Berenilde non aveva mai avuto una grande amicizia, eppure trascorreva del tempo anche con lei, e con Vittoria, ammirando con interesse i suoi disegni.
- Quella donna, la zia di tuo marito, ha molto più sale in zucca di quanto tu creda, figliola - sussurrò una sera ad Ofelia, rivolgendo uno sguardo a Berenilde. - Si comporta come una giovanotta incosciente con tutti suoi eventi mondani e le soirées, come le chiama lei, a cui trascina quella povera creatura che è sua figlia, ma è colpa dell'ambiente in cui è cresciuta. Fidati, è più sensibile di quanto si possa immaginare. E saggia.
Ofelia non aveva mai pensato che Berenilde fosse poco intelligente, per quanto le sue avventure e le scappatelle da Faruk lasciassero intuire il contrario, però il commento del prozio le aprì gli occhi su una verità nascosta che lei non aveva colto appieno. Senza tutti quegli intrighi di corte, Berenilde sarebbe stata una persona splendida.
La cosa che più la sorprese però fu udire un litigio tra il prozio e Archibald, dentro una stanza vuota la cui porta non era stata chiusa bene. Ad Ofelia non giunsero le parole che si dissero, e a dirla tutta voleva intervenire per rimettere al suo posto Archibald, perché di certo il prozio non aveva bisogno di qualcuno che lo alterasse, ma il tono dell'ex ambasciatore era remissivo e, quando Ofelia sbirciò dentro la stanza, li vide abbracciati.
E le spalle di Archibald sussultavano, ma non per le risate.
Avrebbe voluto chiedere spiegazioni al prozio, però qualcosa la fece desistere, e poté solo immaginare cosa potesse aver detto ad Archibald per ridurlo a piangere come un bambino. Qualsiasi cosa gli avesse fatto notare, sapeva che poteva solo fare del bene all'ex ambasciatore, e si augurò di cuore che seguisse i suoi consigli.
Con Thorn passava del tempo dopo cena, talvolta rimanevano entrambi immersi nel silenzio a leggere, scambiandosi commenti ogni tanto. Per rispetto, Thorn non fumava nemmeno la pipa in sua vicinanza, temendo di poter aggravare la condizione dei suoi polmoni.
E poi c'era lei, Ofelia. Sembrava essere diventata l'ombra del prozio, gravitava attorno a lui, separandosene solo se strettamente necessario. Spesso non si dicevano nulla, si occupavano ognuno dei propri impegni, ma era la vicinanza a fare la differenza, la consapevolezza che l'altro c'era, che era vicino.
Più di una volta Thorn si era dovuto recare in salotto, a tarda serata, per chiedere al prozio di lasciargli sua moglie almeno la notte. La maggior parte delle volte, invece, aveva dovuto svegliare entrambi, che si erano addormentati leggendo vicini.
Ofelia aveva capito che Thorn andava a chiamarla mosso da un desiderio altruistico nei confronti del prozio, non tanto per una questione di possesso. Ogni volta che si alzava dal divano, infatti, sembrava che il prozio facesse sempre più fatica a trovare le forze. Dormire lì non lo aiutava, ma Ofelia non poteva impedirsi di appisolarsi, stanca com'era dopo una giornata passata a cercare di contenere Tyr e spesso Ilda, con la pancia sempre più grande che iniziava a darle fastidio. Così riaccompagnavano l'anziano archivista in camera, augurandogli la buonanotte, e quando si stendevano a letto Ofelia abbracciava Thorn con la stessa forza con cui cercava di non piangere e di tenere insieme le parti di se stessa, pancione permettendo.
Thorn rispondeva sempre serrando la morsa con cui la tratteneva contro di sé, avviluppandola con le braccia come se temesse che scappasse. O come se temesse di vederla andare in pezzi.
 
A due mesi dal parto erano ormai evidenti due cose: che la pancia di Ofelia era sensibilmente più grande rispetto alle altre gravidanze, e che più la pancia cresceva più il tempo dello zio si accorciava, assottigliandosi come la sabbia residua di una clessidra.
Un'altra evidenza era che Tyr era una piccola peste che a tre anni ne aveva già combinate più di quante ne avessero combinate Serena e Balder messi insieme, che avevano congiuntamente tredici anni di vita. Thorn aveva iniziato a metterlo in castigo, di comune accordo con Ofelia. In realtà alla madre dava ben poco ascolto, ed era inutile dare la colpa alla giovane età perché, quando voleva, quel bambino capiva benissimo. Thorn era l'unico a cui desse un po' di retta, ma solo quando il papà lo guardava davvero, davvero male e la sua voce era così seria e fredda da indurre Ofelia a chiedersi se non si stesse sgretolando un iceberg nella stanza. Allora il bambino metteva il broncio, si tranquillizzava per un po' e guardava male il papà a sua volta. Ilda lo imitava, ma quando appariva Thorn si calmava molto più in fretta di Tyr: la bimba aveva davvero paura di quel gigante altissimo.
Thorn però aveva chiesto a Ofelia di provare a metterlo in castigo e sgridarlo lei, perché Tyr con lui non aveva proprio feeling. Cercava la mamma, con lei talvolta era adorabile e le chiedeva le coccole, ma con Thorn... se non lo guardava male per essere stato sgridato, lo ignorava, e se finiva in braccio suo strillava e si dimenava per essere messo a terra; anzi, ancora peggio: correva a nascondersi tra le gonne della mamma.
Quando Thorn le aveva nuovamente fatto notare che il bambino aveva qualcosa contro di lui, Ofelia non aveva protestato con tanta convinzione quanto avrebbe voluto. Non poteva mentire: Tyr aveva qualcosa contro suo papà. Eppure Thorn non aveva mai alzato un dito contro di lui, e tantomeno la voce, anche se ogni tanto il bambino arrivava fin troppo vicino a fargli perdere del tutto la pazienza.
Continuava però a rimandare il momento in cui avrebbero affrontato l'argomento, perché il prozio peggiorava a vista d'occhio. Attacchi di tosse sempre più lunghi, sempre più ore trascorse a dormire, più occasioni in cui si trovava privo di forze. Invece che in salotto, avevano iniziato a riunirsi in camera sua la sera, per bere un bicchierino di liquore, o un tè, e chiacchierare un po' come ai vecchi tempi, prima che le palpebre dell'anziano diventassero troppo pesanti e le parole troppo biascicate per poter continuare.
Ofelia avrebbe voluto pregarlo di resistere finché non fosse nato il bambino, così che potesse vederlo, ma le sembrava una richiesta sciocca e persino dolorosa: era ovvio che se avesse potuto il prozio avrebbe continuato a vivere. Non era corretto chiedergli una cosa del genere, soprattutto se significava prolungare la sua agonia. Vivere nel malessere non era vera vita, non quella a cui erano tutti abituati.
Un giorno provò a chiedere alla governante quanto gli rimanesse, secondo lei, e le sue labbra serrate come risposta la spinsero a cercare di passare ancora più tempo con il prozio. Il pomeriggio restava in camera sua con i bambini, mentre Serena mostrava le sue doti da Attraversaspecchi e Balder si esercitava in doppia lettura, quella classica e quella ereditata da Ofelia, proprio come la sorella. Tyr giocava con i giochi dei fratelli seduto vicino al prozio, che quando stava bene lo aiutava ad animarli e quando stava male cercava di non appisolarsi.
Aveva insistito per non avvisare i parenti su Anima. Aveva quasi litigato con la zia Roseline per quello, e l’unica cosa che li aveva fatti desistere dal mandare un telegramma era stata la franchezza del prozio. La brutalità della realtà con cui li aveva fatti scontrare.
- Non voglio passare i miei ultimi giorni di vita nel caos più totale. Se lo sapessero, insisterebbero per venire, e per quanto siano la mia famiglia, non li voglio tra i piedi. Morirei soffocato dalle attenzioni e dai lamenti di Sophie prima ancora che per la mia malattia. Inoltre è inutile farli soffrire per tutto questo tempo, diremo che è stata una morte improvvisa. A che pro dir loro che me ne sto andando lentamente? Logorerebbe loro più di quanto stia logorando voi e più di quanto la malattia stia logorando me. In più, con loro ci sono stato per tutti questi ultimi anni, ora basta.
Ofelia non impazziva di gioia all’idea di avere decine di parenti in casa, ad impedirle, egoisticamente, di stare il più possibile con il prozio. D’altro canto, però, se si fosse trovata lei in quella situazione, anche se lontana avrebbe voluto sapere le reali condizioni di salute dei suoi parenti. Era indecisa ogni giorno che passava, e altrettanto la zia Roseline, ma alla fine si convincevano che il prozio aveva ragione.
Si chiese addirittura se lui in realtà non lo sapesse già, che quella sarebbe stata la sua fine. Se non avesse architettato quel viaggio solo per passare più tempo possibile con loro prima di… andarsene. Con i familiari che aveva visto meno negli ultimi anni.
E quelli che gli erano mancati di più.
 
Una gradita distrazione, a seconda dei punti di vista, arrivò quando Ofelia si rese conto che Balder aveva ereditato gli artigli dei Draghi. Se ne accorse quasi per caso quando dopo due giorni di fila di mal di testa intermittenti si era detta che non poteva essere una cosa normale. Non faceva nulla di particolarmente stressante, Berenilde le stava lontana, eppure in base alla stanza in cui andava sentiva un fastidio che talvolta si intensificava e che poi spariva senza lasciare traccia. Il secondo giorno iniziò a preoccuparsi seriamente, ma non poté indagare perché Balder sembrava essere di pessimo umore. Il bambino così pacifico da far risultare Serena un’attaccabrighe al confronto risentiva del clima teso che c’era in casa, delle costanti attenzioni che Tyr gli chiedeva in quanto fratello minore devoto e della mancanza di comprensione. Si sforzava di accettare che il prozio a breve non ci sarebbe più stato, ma non capiva perché, né come, e non si rassegnava all’idea. Ofelia lo aveva sgridato dopo averlo scoperto a fare domande sulla morte al prozio, che anche cercando di non darlo a vedere si era intristito, e il bambino aveva avuto paura di fare domande a chiunque da quel momento.
La morte era difficile da accettare persino per un adulto, cosa si poteva pretendere da un bimbo di cinque anni?
E così, inconsciamente, dava libero sfogo ai suoi nervi infastiditi.
Quando lo capì, Ofelia si sentì una sciocca a fare delle prove avvicinandosi e allontanandosi dal figlio. La zia Roseline pensò che fosse impazzita come la pepiera del vicino Gismondo, che pensava di essere una spazzola e impepava i capelli di qualche malcapitato. Ofelia però non si lasciò scoraggiare e, dato che Thorn era al lavoro, ne parlò con Berenilde.
Quest'ultima si rese immediatamente conto del fondamento delle parole di Ofelia, concordando con lei circa il fatto che Balder aveva ereditato gli artigli dei Draghi. Ofelia cercò ignorare tutto quello che disse poi, i complimenti e gli elogi a Balder, il portatore del sangue puro della loro famiglia, l'erede, colui che era destinato a riportare in auge, ai fasti di un tempo, il loro clan. Da anni i Draghi erano in bilico tra l'essere disconosciuti o rimanere comunque uno dei nuclei favoriti di Faruk grazie alla relazione tra lui e Berenilde, e anche se non lo dava a vedere, alla dama quella situazione risultava molto pesante da gestire. Thorn era intendente, non c'era rischio che venisse declassato, soprattutto dopo essere stato affrancato dal suo stato di bastardo. Sia nel suo maniero, quello ottenuto dal Cavaliere, sia nel castello del nipote avrebbe avuto una vita comoda e agiata, e nessuno l'avrebbe mai estromessa dalla corte, però Berenilde era orgogliosa come solo i Draghi potevano essere, una caratteristica che sembrava essere insita nel loro sangue. Bastava vedere l'atteggiamento di padre Vladimir.
Lei voleva che la sua famiglia avesse un posto d'onore tra i clan, e voleva ottenerlo per merito e capacità, non per i favori del sire che aveva un debole per lei.
In quello era sicuramente da apprezzare, peccato che i suoi discorsi di rivalsa e rinascita includessero il voler buttare suo figlio in mezzo alle Bestie per ucciderle e procurare carne ad un gruppo di cittadini ingrati e arrivisti che avevano bistrattato suo marito per una vita e ancora continuavano a farlo in veste da intendente.
In ogni caso, concordava circa la necessità di insegnare a Balder a sviluppare il suo potenziale: Berenilde per una questione di potere, Ofelia per una questione di sicurezza, del bambino e degli altri.
Balder stava già esercitando gli artigli inconsciamente, e timidamente Serena le rivelò che anche lei aveva avuto mal di testa il giorno prima e aveva pensato che ci fosse un buco nei guanti da lettrice. Insegnare a Balder a controllarsi era fondamentale per evitare che facesse involontariamente male agli altri e, di conseguenza, anche a se stesso. Non voleva che arrivasse ad odiare il suo potere come Thorn; anche se era un dono improntato sulla violenza, poteva fare del bene, e sperava che Balder trovasse il modo di sfruttarlo in quel modo.
Passò così la giornata con la prozia Berenilde, che i bambini però chiamavano semplicemente zia, che non solo gli spiegò a cosa servissero gli artigli e come usarli, ma gli fece anche una lezione sull'albero genealogico di famiglia, narrando le gesta dei suoi antenati possenti e vittoriosi. Alla lezione assistettero anche il prozio, seduto sul divano con un tè caldo e una coperta, la zia Roseline, che sbuffava ogni volta che il tono di Berenilde si faceva appassionato e i temi diventavano particolarmente cruenti, e Serena, che assimilava tutto con la sua memoria infallibile. Persino Renard, che cercava di tenere a bada Ilda, Randolf, Tyr e pure Salame, guardava i bambini con un orecchio teso verso la madama, curioso e pronto ad apprendere. Randolf fortunatamente era più tranquillo della sorella e di Tyr, anche se Ilda doveva ancora capire come comportarsi con quel fagottino che a volte urlava e che non faceva altro che mangiare e dormire.
Ofelia aveva sempre subito passivamente le angherie di Berenilde, quando la tormentava con le emicranie o la costringeva ad esercitarsi in lettura, dizione e postura. Abituata com'era a sopportare sua madre, aveva fatto lo stesso con Berenilde, soprattutto perché ancora all'epoca non l'aveva inquadrata del tutto.
Non tollerò però che venisse fatto del male a Balder, e quando Berenilde, seppur scusandosi per il metodo poco ortodosso, gli procurò dei leggeri tagli sulle braccia per fargli capire in cosa consistessero di preciso gli artigli, anche se sotto diverse forme di manifestazione, Ofelia si frappose tra il figlio e la madama.
- Credo che lo farò esercitare con suo padre - disse, lapidaria.
Solo una volta si era arrabbiata così con Berenilde, quando la zia Roseline stava male, lei era stata picchiata dai gendarmi e Berenilde si ostinava a fare la prima donna e a gozzovigliare nonostante la gravidanza. Alzare la voce e gettarle l'acqua addosso era servito a farla rinsavire quella volta, ma non ci fu bisogno di arrivare nuovamente a tanto.
Berenilde si fermò, una calma serafica dipinta in volto.
- Potranno anche non piacervi i nostri metodi, cara Ofelia, ma fidatevi che per un bambino è l'unico modo di imparare. Senza l'esempio è impossibile capire di cosa è capace un Drago.
- Ne parlerò con Thorn - ribadì Ofelia, di fronte a Balder che si teneva il braccio, gli occhi sgranati di paura dietro agli occhiali.
Berenilde sorrise mestamente, facendosi da parte per lasciarli uscire dal salotto. Ofelia prese Balder per mano e, appena svoltato l'angolo, finì dritta tra le braccia di Archibald.
- Ohoh - rise lui, allontanandosi appena. - Alla fine avete ceduto al mio fascino, moglie dell'intendente? Ma volete davvero che il piccolo assista?
- Chi è caduto, mamma? - chiese ingenuamente Balder, risistemandosi gli occhiali.
Ofelia si risistemò gli occhiali e aggirò bellamente Archibald, senza nemmeno ribattere o rispondere al figlio. Svoltato un altro angolo, però, si scontrò con qualcosa di duro e alto: Thorn. Lui l’afferrò saldamente per un polso per impedirle di cadere sopra Balder. Fortunatamente non erano stati colpi troppo duri, la pancia non aveva subito danni.
- Buonasera – li salutò freddamente Thorn, di ritorno dall’intendenza.
Dato che nulla sfuggiva al suo sguardo, allungò una mano perché Balder vi posasse la sua. Gli tirò il braccio esaminando i tagli sanguinanti che si erano già seccati. Ofelia aveva ragione a definirlo rapace: aveva una vista da aquila, al contrario di lei che senza occhiali non vedeva ad un palmo dal naso, e alto com’era era come se fosse posato su una vetta, scrutando il mondo sottostante.
- Questi sono tagli da artigli – commentò con distacco. Peccato che fosse rigido dalla testa ai piedi, e Ofelia sapeva cosa significasse per lui vedere ferite del genere sulla pelle del figlio. – Perché mia zia lo ha attaccato?
- Balder ha gli artigli dei Draghi. Tua zia cercava di insegnargli a usarli e controllarli, ma ha detto che non è possibile insegnare se non si dà una dimostrazione sulla pelle di qualcuno. Ho interceduto per portarlo via quando mi sono resa conto di quanto fosse ridicolo tutto ciò. Sicuramente tu saprai insegnargli meglio.
- Quello è il metodo – la contraddisse Thorn, lasciandola sgomenta.
Non le sembrava proprio che Thorn stesse facendo dell’ironia per sdrammatizzare, né pensava fosse il momento opportuno. Balder era spaventato, gli occhiali avevano assunto una disgustata sfumatura verdastra. Tra quelli e i capelli ricci e scuri come gli occhi, assomigliava sempre di più ad Ofelia.
- Hai intenzione di applicare lo stesso metodo di tua zia per insegnargli? – chiese finalmente Ofelia, che se non fosse stata così stupita avrebbe tirato via Balder dalla stretta del padre.
- Non tutte le mie cicatrici sono dovute a… giochetti e dispetti, o cattiveria gratuita. Alcune sono solo esercitazioni finite male, da parte di chi ancora non aveva il controllo del proprio potere.
Ofelia quasi non lo riconobbe più. Non per la durezza delle sue parole, o per il tono tagliente, quanto per le intenzioni. Thorn non… non avrebbe mai fatto subire a qualcuno, a suo figlio, ciò di cui era stato vittima.
- Non posso credere che…
- Me ne occupo io.
- No! Thorn!
Balder cominciò a piangere dopo che Ofelia ebbe alzato la voce. Era ancora troppo bassa per poter dire che stava urlando, ma per una come lei era una scenata in piena regola. Però era la prima volta che Balder li vedeva litigare, e Ofelia stessa rimase turbata da quell’alterco.
 Thorn le lanciò un’occhiata tagliente e si chinò lentamente per prendere in braccio il bambino.
- So quello che faccio. Saremo pronti per cena.
Ofelia li guardò dirigersi verso lo studio e chiudersi la porta alle spalle senza realmente vederli. Si sentiva incapace di ragionare, pesante e... incatenata.
Era lo stesso effetto che le aveva fatto per anni vivere in casa con sua madre, che decideva tutto per lei e le imponeva scelte da cui lei tentava di scappare, ma la maggior parte delle volte si trovava a dover rispettare.
Thorn non l'aveva mai fatta sentire così, se non all'inizio, quando non aveva il quadro della situazione, e mai con quella fermezza. Stava per ribellarsi e seguirli in studio, anche attraverso uno specchio pur di raggiungerli, quando Serena la prese per mano. La sua bimba di otto anni che tanto bimba più non era, alta e magra come il papà, e con i suoi stessi occhi scuri che la scrutavano con apprensione. Troppo intelligenti, troppo consapevoli.
A volte ad Ofelia sembrava che lei e Thorn avessero generato un'arma. Cosa sarebbe stata in grado di fare Serena?
- Mamma, il papà ci vuole bene - le ricordò, come se temesse che Ofelia se ne fosse dimenticata. - Non dovete agitarvi - aggiunse, accarezzandole il pancione rotondo che sembrava acquistare ancora più peso sotto la manina affusolata di Serena.
Ofelia le strinse la mano e le permise di ricondurla in soggiorno, dove trovò la zia Roseline che aiutava il prozio a sedersi sul divano, camminando piano, un passetto alla volta. Era dimagrito, del suo pancione di un tempo non rimanevano che pelle e ossa, e non solo perché mangiava poco. Era come se si stesse prosciugando, e ad Ofelia faceva sempre piangere il cuore vederlo ridotto ad avere bisogno di più cure dei suoi bambini.
Il prozio le fece cenno di sedersi accanto a lui e Ofelia lo raggiunse, avvolgendolo nella coperta e poi accomodandoglisi vicino, insieme a Serena che si accasciò contro il suo seno. Non era una bambina molto affettuosa, al contrario di Balder che abbracciava chiunque e dispensava bacini come gli altri bambini chiedevano caramelle, quindi Ofelia approfittava di qualunque momento tenero con la figlia; sapeva che sarebbero diventati sempre più rari man mano che cresceva.
Bastò che il prozio le stringesse la mano guantata e accarezzasse la sua sciarpa intristita perché Ofelia gli parlasse, quasi dimentica che i suoi dubbi e i suoi timori su Thorn potevano non essere il giusto argomento di conversazione con Serena in ascolto, che era sua figlia oltre che una Storiografa per un quarto.
Il prozio tossì prima di dirle solo: - Abbi fede, le cose si sono sempre sistemate, e tuo marito non è né un cattivo uomo né un cattivo padre.
Ofelia lo sapeva, certo, ma cercò di ricordarlo a se stessa così da non dover più dubitare di Thorn. Poco dopo apparve Balder, mogio ma non quanto Ofelia si sarebbe aspettata, che si diresse da loro a capo chino. Si tolse gli occhiali per asciugarsi le lacrime, spaventando Ofelia, e Serena gli fece spazio sul divano tra lei e la mamma.
- Che succede? Hai male? - domandò subito Ofelia, che però non vide altri tagli se non quelli che gli aveva inferto Berenilde e che Thorn aveva fasciato.
- Non mi piace questo potere - singhiozzò Balder, che venne raggiunto in quel momento anche da Tyr e Ilda, che erano andati a prendere colori e fogli in un'altra stanza. Li accompagnava Renard, i cui capelli erano contesi da Salame e Randolf, intenti a fare a gara a chi glieli tirava di più.
- Badde piange! Mamma Badde piange! - urlò Tyr, preoccupato.
Ilda tirò timidamente la manica di Balder, come per farlo riprendere. Quest'ultimo cercò di smettere di piangere per mostrarsi forte di fronte ai più piccoli, ma il risultato lasciava a desiderare.
- Pecché piangi? - chiese Ilda, che con i capelli biondi sembrava una bambolina di porcellana innocente, e non la vivace bimba compagna di malanni di Tyr.
- Non voglio gli artigli - piagnucolò Balder. - Fanno male alle persone e hanno fatto litigare mamma e papà.
Ofelia si sentì in colpa per aver perso la calma di fronte al bambino, che era più sensibile di Serena e odiava i litigi. Sollevata com'era dalla sua incolumità, non si era nemmeno accorta che Thorn non si vedeva. Eppure per la cena non tardava mai, puntuale com'era. Mancavano una manciata di minuti ormai.
- Dov'è papà?
- In biblioteca - mormorò Balder.
Ofelia si scostò per alzarsi, mettendo il bambino in agitazione. - Mamma dove vai?
- Da papà.
- Non litigate vero? Non voglio che litigate - la implorò Balder tra le lacrime.
Ofelia si chinò su di lui, baciandogli i ricci scuri e aggrovigliati come i suoi. - Ogni tanto capita di litigare, non succede nulla di male Balder. Ci vogliamo tutti bene.
- Anche a papà ne vuoi?
- Certo che gliene vuole, Balder. Sono sposati! - intervenne Serena, accarezzando la testa del fratellino, anche se con lo sguardo cercava conferme sul viso di Ofelia. - Vero mamma che gliene volete?
- Certo che gliene voglio. Vostro papà direbbe...
- Anche un po' di più - ridacchiò Serena, dicendolo contemporaneamente ad Ofelia.
Balder parve più rinfrancato da quella risata leggera che da qualunque altra parola di conforto.
- Vado solo a chiamarlo - li rassicurò, sollevando poi sia Ilda che Tyr per metterli sul divano con i bambini grandi. I due piccoletti si sistemarono e rimasero immobili. Non capivano la situazione, ma li metteva a disagio vedere Balder piangere. Ilda gli diede persino un bacino sulla guancia, e Ofelia se ne andò dalla stanza mentre Renard cercava di togliersi Salame di dosso e informava Balder che non avrebbe tollerato comportamenti lascivi con sua figlia.
Lascivo, liscio, viscido, scivolo, ogni bambino capì una cosa diversa, e nel giro di qualche attimo i due monelli si erano messi a scivolare in qualche modo su e giù per il divano, mentre Serena spiegava loro che non aveva detto "scivola" ma "lascivo", e spiegandone il significato.
Ofelia non voleva sapere come facesse, ad otto anni, a sapere cosa volesse dire quella parola. Troppo precoce, decisamente troppo precoce.
Trovò Thorn nel suo studio, come anticipato da Balder, intento a fasciarsi l'avambraccio. Bussò timidamente nonostante la porta fosse aperta, sentendosi quasi in colpa per l'esplosione che aveva avuto in corridoio. La mascella contratta di Thorn e il suo non alzare nemmeno gli occhi la dicevano lunga sul suo stato, invece.
Non era livore, e nemmeno ira. Era furia bella e buona.
Ofelia si avvicinò a lui e gli prese gentilmente dalle dita la fascia che stava arrotolando, per medicarlo lei stessa. Il fatto che lui la lasciasse fare le diede un po' di speranza, anche se si ostinava a non volerla guardare in volto. Il silenzio era tale che le sembrava di sentire il ticchettio del suo orologio da taschino.
Sbirciando, prima di avvolgere la benda, vide diversi tagli superficiali frastagliati e irregolari, e due tagli lineari, uno profondo e uno meno.
- È stato Balder?
Non ottenendo risposta, Ofelia lo incalzò. - Ti sei lasciato attaccare da Balder?
- Mia zia non mentiva, purtroppo, quando ha detto che questo è l'unico metodo - disse Thorn, ogni parola tagliente, una stilettata. Quasi fossero degli artigli, ad Ofelia sembrava di sentire formicolare la pelle. - Non lo condivido, ma sarebbe peggio non padroneggiare questo potere e ferire involontariamente chi ci sta attorno. Le conseguenze sarebbero devastanti, data la natura... tenera di Balder.
Ofelia rimase in silenzio per un po', sia per assimilare le sue parole, purtroppo vere, sia per cercare di non ingarbugliarsi con la fascia. L'odore di disinfettante le dava alla testa.
- Ma Balder non è ferito - gli fece infine notare, parlando quasi più a se stessa.
- Il fatto che un metodo sia l'unico da usare non significa che ne sia interdetta una modifica.
Ofelia si bloccò, capendo dove Thorn voleva andare a parare, perché Balder fosse illeso mentre lui aveva sporcato la sua uniforme e la scrivania di sangue.
- Gli hai fatto esercitare gli artigli su di te?
- Sarebbe stato inutile che io esercitassi i miei su di lui. Sarebbe solo rimasto ferito senza imparare nulla.
Ofelia si fermò, agganciando la fascia perché non si allentasse. Il lavoro era…
Un disastro. Thorn si tolse la medicazione in silenzio, sovrappensiero. Si guardò i tagli nuovamente scoperti e ricominciò ad avvolgere la garza.
- Inoltre… non volevo che mi vedesse… che mi temesse.
Ofelia gli accarezzò la schiena, un tocco leggero, per capire se avrebbe gradito o se si sarebbe scostato. Thorn la lasciò fare.
- Si esercitavano su di te, i tuoi fratellastri?
- All’inizio sì. Ma nel momento in cui fu evidente che padroneggiavano perfettamente il loro potere… non si fermarono. Si esercitarono invece sulla precisione con cui attaccavano, sfidandosi tra di loro per vedere chi fosse il migliore.
La mano di Thorn che maneggiava la fascia era quasi ipnotica. E troppo bianca, candida, per ciò che stava raccontando.
- Freya era molto precisa. Godefroy però penetrava in profondità.
- Avevi paura?
Thorn si prese il suo tempo per risponderle, fissando la fasciatura, un lavoro certosino che non aveva nulla a che fare con il grumo disordinato di Ofelia.
- Non era paura. All’inizio sì, poi ho solo aperto gli occhi sulla loro vera natura. Non voglio che Balder mi veda come io vedevo loro.
Ofelia gli prese il viso tra le mani, costringendo i loro occhi a incontrarsi: duro, temprato acciaio contro due lenti pallide di rabbia.
- Tu non sei come loro, Thorn. Non lo sarai mai, e Balder lo sa.
- Non è spaventato da me? – chiese lui, con una voce talmente bassa che Ofelia si chiese se si fosse solo immaginata quella domanda.
- No. Nel modo più categorico. Ha solo paura del suo potere, dato che è essenzialmente violento.
Thorn sembrò sgonfiarsi, come se la corrente elettrica che lo attraversava si fosse spenta.
- Meglio così che scoprire che gli piace usare la violenza.
Ofelia gli baciò la cicatrice sulla tempia, chiedendosi chi dei suoi fratelli gliel’avesse fatta, e per quale sfida. Era frastagliata, non netta come quelle sul sopracciglio e sulla guancia, che sapeva essere state inferte da Godefroy. Thorn era talmente restio a parlare del suo passato…
- È un bravo bambino, con un bravo papà.
- Tyr non ne sembra convinto.
- Lui è ancora piccolo, gli passerà, non hai fatto nulla perché debba odiarti. Ora andiamo a cena, prima che Balder pensi che stiamo ancora litigando.
Thorn la trattenne posandole le mani sul pancione, allungando la chilometrica colonna vertebrale per darle un bacio inaspettatamente dolce.
- Hai dubitato di me, prima.
Non potendosi mordere le cuciture del guanto, Ofelia si morse un labbro. Stava per scusarsi, quando lui riprese a parlare.
- La gravidanza, il tuo prozio… capisco che tu sia sotto pressione, ma non… dubitare di me. Fidati. Anche un po’ di più.
Ofelia avrebbe voluto dirgli che si fidava, che si fidava da anni, che gli avrebbe affidato la sua stessa vita, che lo amava e amava il padre che era con i loro figli, ma come al solito, le parole che esprimevano quei sentimenti non volevano uscire. Gli ormoni impazziti e lo stress per il prozio non aiutavano, ed era sicura che se avesse aperto bocca ne sarebbe uscito qualcosa di incomprensibile.
Però lo baciò, con calma, con amore, godendosi quel contatto che, come le ricordò il bambino calciando all’inverosimile, non poteva approfondire. Thorn aveva ancora le mani sulla sua pancia, e le spostò lì dove il bambino si dimenava.
- È normale che si agiti così? Con gli altri non erano così forti i colpi.
Ofelia mise le mani sulle sue, guidandolo lungo tutto il percorso di movimento del piccolo. Sembrava che stesse litigando con l’utero di sua mamma, si muoveva dappertutto.
- È più grosso degli altri, può essere che sia stretto lì dentro.
Le sopracciglia aggrottate di Thorn e i suoi occhi a fessura le suggerirono che stava prendendo le misure, facendo calcoli e confronti.
- Il calcolo dei mesi è corretto, però…
- I cari coniugi hanno fatto pace allora, quale lieta notizia! – esclamò Archibald, inducendoli ad allontanarsi. - Ma non preoccupatevi, moglie di Thorn. Io sarò sempre disponibile quando litigherete, o quando sarete semplicemente stanca di vostro marito. Ve lo concedo come favore personale, solo per voi.
Thorn si alzò di scatto, stando però attento a non colpire il pancione di Ofelia. - Cosa siete venuto a fare qui, a parte perdere tempo come vostro solito?
Archibald ridacchiò soavemente. - A chiedervi se verrete a cena, dato che stiamo aspettando solo voi. E anche di consolare il piccolo Balder che è nella disperazione più nera in cui un bambino possa sprofondare.
Chissà cosa doveva aver pensato Balder vedendoli tardare tanto. Ofelia si affrettò verso l'uscita per andare dal figlio, ma Thorn la trattenne per una spalla.
- Entriamo insieme in salotto. Vederci vicini dovrebbe risollevarlo.
Ofelia pensò che fosse una buona idea e ignorò bellamente Archibald quando disse a Thorn che era proprio un romanticone. Commento a cui Thorn rispose con uno sbuffo irritato quasi impercettibile.
Non appena entrarono nella sala da pranzo Balder corse loro incontro, con le guance ancora bagnate. Anche gli altri bambini si radunarono intorno alle lunghe gambe dell'intendente, incuriositi da cosa potesse aver sconvolto tanto il loro amico e fratello.
- Papà hai tanto male? - chiese Balder, allungando le mani per tastargli il braccio.
Thorn scostò il braccio senza quasi accorgersene, vecchia abitudine che aveva da quando era piccolo. Faceva ancora fatica a tollerare i contatti, se erano improvvisi e imprevisti. Balder sembrò restarci male, pensando probabilmente che il padre ce l'avesse con lui, e il labbro ricominciò a tremargli.
- Avete male, non 'hai male' - lo corresse Serena, che cercava di insegnare al fratellino la forma di rispetto.
Thorn notò il rammarico del figlio e, con sorpresa dell'intera sala, si chinò, anzi, si ripiegò fino ad essere ad altezza bambino. Si risvoltò con cura la camicia dell'altro braccio e mostrò a tutti, ma soprattutto a Balder, le cicatrici bianche che gli costellavano la pelle pallida.
- Diventeranno così - gli disse solo, impacciato.
Balder avvicinò timidamente una mano per accarezzargliele, e Thorn lo lasciò fare.
- Ti hanno fatto male tante volte, papà - commentò piano, prima di essere spinto via da Tyr.
- Anche io voglio tutti questi! - esclamò il più piccolo, afferrando il braccio del padre e toccando quei segni bianchi che erano tanto strani ma gli piacevano.
Thorn lo lasciò fare, si lasciò tastare da quelle manine curiose e indelicate, il che per lui era come un'immensa dimostrazione di fiducia e affetto. Quando Tyr si accorse di cosa stava facendo, guardò il padre negli occhi e si imbronciò un po', dirigendosi poi dalla mamma.
- Mamma anche io voio quei segni!
Quando Tyr allungò le braccia per essere preso in braccio, però, Ofelia negò con la testa, indicandosi la pancia troppo ingombrante.
- Uffi, questo fatellino è cattivo! Brutto fatellino! - si lamentò, dando poi una botta leggera alla pancia di Ofelia.
Nel giro di un secondo, così velocemente che Ofelia sentì la sciarpa stringersi a lei per la paura, Thorn era in piedi e aveva preso la mano di Tyr, con uno sguardo di chiaro rimprovero.
- Non si danno le botte a nessuno, e specialmente non alla mamma - lo sgridò.
Serena era paralizzata dal terrore, ancora traumatizzata per quello che era successo con la precedente gravidanza. Si avvicinò ad Ofelia e le mise una mano sul pancione, dove il bambino calciava in protesta per essere stato disturbato.
- State bene, mamma?
Ofelia le sorrise. - Tutto a posto.
Quando però Tyr si liberò dalla stretta del padre e guardò lei in cerca di aiuto, Ofelia assunse un'espressione severa.
- Papà ha ragione, Tyr, non si danno le botte. Nessuno le dà a te.
Sentendosi tradito dall'unica persona che pensava potesse difenderlo, Tyr se ne andò indignato, rincantucciandosi in un angolo del divano da cui poteva guardare male tutti quanti.
- Se i padroni di casa hanno finito con il teatrino, gli ospiti desidererebbero mangiare... - commentò Archibald ridacchiando.
- Qui il cibo si raffredda - li richiamò la zia Roseline dopo aver fatto sedere a tavola il prozio, con alcune difficoltà. Diventava particolarmente indisponente quando aveva fame.
Berenilde si affrettò a mettere via il bocchino da cui fumava; ne approfittava sempre quando la zia era distratta, soddisfatta come una gatta di riuscire a fargliela sotto il naso. Renard invece si sedette cercando di nascondere il sorriso compiaciuto: abituato com'era con i pacifici Serena e Balder, pensava che i figli scapestrati fossero toccati solo a lui. Invece con Tyr si divertiva da morire, perché almeno era normale, anzi, era un criminale certe volte, e faceva apparire come dei santi persino Ilda e Randolf.
Tyr non poté sottrarsi al richiamo del cibo e, facendo intendere a tutti che era ancora arrabbiato prese posto a tavola, tra la mamma e il papà che era capotavola, con la testa china e lo sguardo tagliente. Si dimenticò però del suo rancore quando Ilda gli fece una boccaccia dall'altra parte del tavolo, al che lui rispose, rise e si mise a fare delle palline di mollica di pane che poi tirò ai suoi fratelli.
Ofelia gli tolse il pane, Thorn le palline. Ofelia gli mise il bavaglino che Tyr si strappò, Thorn glielo prese dalle mani con più gentilezza del previsto e glielo rimise. Tyr si imbronciò di nuovo ma non si oppose più; per quanto facesse combattere Thorn, alla fine era sempre lui quello cui obbediva di più.
Poi trovò qualche altra marachella da combinare con i bicchieri e il circolo riprese, con Ofelia che interveniva, Tyr che ci riprovava e Thorn che poneva fine alla questione.
Berenilde fece presente ad Ofelia che era esattamente così che lei si sentiva quando le dava lezioni di postura, dizione ed educazione. Ofelia non ribatté, aveva già abbastanza da litigare con Tyr per mettersi a ribattere alle frecciatine di Berenilde. E di certo non l'aveva fatta dannare come un bambino irrequieto di tre anni!
Chi sorprese tutti fu invece il prozio, che a metà cena, notando l'esasperazione sul viso di Ofelia e persino di Thorn, scoppiò a ridere. Una risata debole che si trasformò presto in tosse, ma sempre una risata.
- Non avrei mai pensato di vedere il giorno in cui i tuoi figli avrebbero fatto ammattire te come tu hai dato filo da torcere a tua madre.
- Avrei proprio voluto vedervi da piccola, cara moglie di Thorn. Mi sarei divertito molto di più sin dall'infanzia - la punzecchiò Archibald.
- Io sarei di sicuro riuscita a correggere la sua attitudine così poco nobile e avvezza alla corte - si intromise Berenilde.
La zia Roseline e il prozio invece si lanciarono in racconti sull'infanzia di Ofelia, su quante ne avesse combinate tra incidenti domestici, brutte figure, oggetti rotti e tentativi malriusciti di ribellione. Risero tutta la serata ai danni di Ofelia, compresi Serena e Balder che erano estasiati all'idea di scoprire come fosse la loro mamma da piccola, e coinvolgendo persino Gaela che era rientrata tardi dal lavoro e non faceva che tentare di nascondere sorrisi divertiti.
Ofelia rimase seriosa, lasciandosi scivolare addosso le risate, anzi, cercando di non scoraggiarle perché era raro vedere la zia Roseline, e soprattutto il prozio, così divertiti. Thorn non si smentì, però Ofelia vide che ascoltava tutto con estrema attenzione, pronto a carpire ogni piccola informazione su di lei.
Quando fu ora di andare a letto, i bambini le fecero un sacco di domande su come fossero anche la zia Agata e lo zio Hector da piccoli, e su come potesse essere così maldestra. Tyr, che invece voleva giocare, fece ammattire i fratelli. Da qualche tempo aveva iniziato a voler dormire in camera con loro, come "un bambino grande grande", e Ofelia aveva acconsentito solo perché Serena le aveva garantito che si sarebbe occupata lei del fratellino. C'erano abbastanza stanze per tutti, ma né lei né Balder avevano chiesto di poterne avere una solo per loro.
Ofelia andò a salutare anche il prozio, che la ringraziò per la serata. Sembrava lucido e in forma come non era da tempo, e Ofelia sperò che fosse un segno che si stava in parte riprendendo, che potesse vivere un po' più a lungo di quanto preventivato. Magari qualche mese, per vedere il nuovo nipotino. Magari un anno.
Quando tornò in camera espresse le sue ipotesi a Thorn, che però partecipò poco al suo entusiasmo. La cosa non la sorprese, Thorn non era mai partecipe in modo festoso a qualsiasi buona notizia.
Ma Ofelia aveva frainteso.
Thorn non partecipava perché sapeva che di solito, poco prima della dipartita di un malato, c'era un breve periodo luminoso in cui la persona pareva miracolosamente riprendersi. Si dimostrava energica e vitale.
Uno specchietto per le allodole, perché era solo l'anticamera della caduta finale. Ma non voleva deluderla, non voleva smorzare la sua gioia, soprattutto dopo il litigio del pomeriggio.
Però Thorn aveva ragione, e quella fu l'ultima bella serata che trascorsero prima che il prozio morisse.

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Capitolo 48
*** Capitolo 48 ***


Dunque, il capitolo doveva essere più corto ma se lo avessi tagliato prima non sarei riuscita ad arrivare alla parte finale e a lasciare tutto in sospeso perché, sì, sono molto sadica.
Quindi godetevelo, spero, e... al prossimo ;)


Capitolo 48

La governante la convocò con urgenza una sera, prima di cena.
La situazione era precipitata all'improvviso, al contrario di quanto pensava Ofelia, e nel giro di pochi giorni il prozio si era aggravato al punto di avere bisogno di un'assistenza continua. Non si alzava più, quasi non mangiava, e passava il tempo a dormire o sotto l'effetto di erbe antidolorifiche che spesso gli toglievano la lucidità.
Ofelia era in salotto, intenta a guardare i bambini giocare, quando l'anziana la raggiunse. Le lacrime che cercava di reprimere le fecero credere che fosse già successo, che fosse troppo tardi. Si mosse quanto più in fretta il suo pancione di otto mesi glielo consentisse per raggiungere il capezzale del prozio.
Era vivo, ma rantolava, il respiro ridotto ad un flebile raschiare simile al rumore che facevano gli ingranaggi arrugginiti su Anima. Un lamento agonizzante privo di parole.
Ofrelia sentì il sangue defluirle dal viso.
- Zio? - lo chiamò, avvicinandosi per prendergli la mano.
Il vecchio Custode non le rispose, ma le strinse le dita: ci sentiva.
- Avete male? Volete qualcosa da bere?
- A... cqua... - biascicò il prozio, visibilmente in difficoltà nel cercare di parlare.
Era atroce vedere qualcuno di solito così pieno di vita e pronto a conversare ridotto all'ombra di se stesso. Ofelia lo aiutò a bere, poche gocce, niente di più, solo per inumidirsi la bocca.
Il prozio si riadagiò sui cuscini, facendo una smorfia per il dolore. - Hai ancora... le storie animiste che ti ho spedito... anni fa?
Racconti di oggetti e altre storie Animiste. Come poteva dimenticarlo? Era stato grazie a quello se era riuscita a sopravvivere all'incarico di vicenarratrice affibbiatole da Faruk. Come sempre, un aiuto del prozio.
- Certo... ogni tanto leggo qualche storia ai bambini.
Non tanto quanto prima, visto che a testa Balder e Serena si erano dati il compito di leggerne una loro a sera, con Tyr che ascoltava ipnotizzato. Ogni tanto richiedevano ancora il suo contributo, ma raramente.
Ofelia si sentì d'un tratto incredibilmente vecchia. E stanca.
- Potresti leggermene... qualcuna, figliola?
- Vado a prendere il libro - acconsentì Ofelia stringendogli le dita di nuovo.
La governante gli si avvicinò e gli disse qualcosa a bassa voce, prima di seguire Ofelia fuori.
- Ormai... - mormorò Ofelia a bassa voce, incapace di articolare un pensiero, figurarsi una frase.
La governante si asciugò le lacrime cercando di essere discreta, intento in cui fallì miseramente.
- Al più tardi domani, a voler essere ottimisti. Ma non credo che passerà la notte. E non penso nemmeno che si possa parlare di ottimismo, dato lo stato in cui è. Perdonate la mia franchezza e la mia brutalità, madama, ma mi auguro che si spenga in fretta. Non è più vita quella che sta conducendo.
Ofelia pensò alle sue dita scheletriche, a come una volta fossero state grosse e agili, ma così delicate nel maneggiare la carta. La pelle si era ingiallita, persino i baffi avevano perso la loro verve e sembravano flosci; la pancia su cui da piccola si appoggiava per dormire si era prosciugata.
No, non era più vita per lui, senza i suoi libri, senza il suo archivio, senza la forza per prendere sulle ginocchia i pro-pronipoti. Sarebbe stato solo egoistico costringerlo a prolungare quello strazio.
Ofelia ingoiò ciò che aveva incastrato in gola, che sembrava soffocarla ogni secondo di più. - Potete avvisare Thorn, per favore? E dare un'occhiata ai bambini?
L'anziana si ricompose, forse ricordandosi che quella di fronte a lei non era un'amica ma la sua padrona. A volte se ne dimenticava. Era così facile dimenticarsene con Ofelia, che non faceva nulla per mettere delle distanze tra loro. - Ma certo, mia signora. Chiamatemi se avete bisogno.
Ofelia passò la serata, e poi la notte, a leggere al prozio. Non le importava se sentiva la lingua asciutta e la gola riarsa, avrebbe fatto qualunque cosa per alleviare al prozio la sofferenza di quelle ultime ore.
Si rese conto di essersi addormentata solo quando Thorn le posò la sua pelliccia d'orso sulle spalle. Il prozio dormiva, e lei aveva schiacciato gli occhiali.
- Sono che ore? - biascicò, rendendosi conto che non aveva nemmeno visto il rientro a casa di Thorn. Solo l'orologio a pendolo le impediva di perdere del tutto la cognizione del tempo, ma era ormai troppo buio per vedere e non sapeva per quanto avesse dormito.
Thorn le allungò un caffè ancora fumante, cosa che le fece pizzicare gli occhi di nostalgia al ricordo di quando era andata in piena notte all'intendenza, quando indossava i panni di Mime. Non aveva avuto scrupoli nel chiedergli per sé un po' di caffè, e lui era stato tanto generoso da cederglielo tutto, nonostante fosse, con ogni probabilità, la sua colazione.
Ofelia ne bevve un sorso, scottandosi la lingua. Lasciò che il liquido corroborante le scaldasse l'intestino, sentendolo arrivare fino alla punta delle dita.
- La mezzanotte è passata da settantatré minuti.
- I bambini?
- Sono nel nostro letto - grugnì Thorn, cercando di parlare a bassa voce ma ottenendo uno strano effetto rimbombante. - Dormono - aggiunse, come se non fosse implicito.
- Sei venuto a chiedermi di raggiungervi?
- No. Sono venuto a vedere come sta il tuo prozio, e ad assicurarmi che almeno tu stia bene. Il bambino?
- Lui sta bene. Penso che sia quello che sta meglio, ultimamente.
Thorn rimase lì impalato, come se fosse indeciso se andarsene o restare. - Ti serve qualcosa?
Ofelia scosse la testa. Non aveva fame, ed era andata in bagno prima di appisolarsi. Nonostante la gravidanza aveva ancora un po' d'autonomia.
- Vuoi che resti?
Ofelia stava per dire di no, ma si fermò. Voleva la presenza di Thorn al fianco o voleva rimanere da sola con il prozio? A breve se ne sarebbe andato… intendeva affrontare la sua dipartita da sola?
- Cosa fate ancora svegli, tutti e due?! – borbottò la zia Roseline entrando nella stanza con una candela in mano, con ogni probabilità per non fare troppa luce e non svegliare tutti. Abbastanza ironico se si considerava che il suo tono di voce non era affatto basso.
- Almeno da morto… potrò riposare in pace… Roseline – rantolò il prozio, prima di tossire flebilmente.
Era talmente debole da non riuscire quasi più a respirare, figuriamoci tossire. La zia Roseline parve rimpicciolire sotto la sgridata del prozio, ma non si allontanò. Né lui le chiese di farlo.
- Vi lascio riposare – mormorò Thorn, congedandosi. Sulla soglia però si fermò, voltandosi per guardare il prozio. – È stato… un onore conoscervi. Vi ringrazio. Buonanotte.
- Prendetevi cura di Ofelia… come già state facendo… figliolo. Siete… un brav’uomo.
Thorn se ne andò senza nemmeno guardarla, e Ofelia gliene fu grata. Il dolore che già provava l’avrebbe straziata se avesse visto riflesso negli occhi di Thorn lo stesso tormento di cui lei era vittima.
La zia Roseline mise la candela sul comodino e avvicinò una sedia ad Ofelia. Le sembrava giusto che fosse la zia a tenerle compagnia in quel momento, l’altra parente del prozio, la sua legittima nipote. Strinsero entrambe la mano dell’anziano quando tossì debolmente.
-  Vi ricordate di quando da piccola mi sentii male all’interno del museo? – chiese la zia Roseline, con voce insolitamente dolce. – Avevate appena ricevuto l’incarico di archivista ed eravate così attento a tutto che andaste su tutte le furie. Impiegaste dei mesi per permettermi di entrare nuovamente al museo.
Ofelia, nonostante la situazione, non riuscì a nascondere un sorriso. Quella storia non la sapeva, ma immaginarsi la scena era alquanto divertente. Anche il prozio parve incurvare le labbra.
- Che monella… - si lamentò solo, senza aggiungere altro.
Poi raccontò un aneddoto Ofelia, di nuovo la zia, e continuarono così per scacciare la tristezza e parlare di vita anziché di morte, per ricordare al prozio che vita piena avesse vissuto, anche in quegli ultimi istanti di esistenza.
- Grazie, figlie mie. Siete state un dono prezioso – furono le sue ultime parole.
Raccontarono altre due storie con le lacrime agli occhi, con Ofelia che stringeva al petto la voluminosa raccolta recapitatale dal prozio, prima che si addormentasse per non svegliarsi mai più.
Alle prime luci dell’alba l’Archivista emise il suo ultimo respiro.
 
Ofelia non si era aspettata di dover consolare la zia Roseline, ma fu proprio ciò che fece.
Quando il prozio morì, la zia staccò la mano dalla sua, che già si stava raffreddando, per abbracciare Ofelia. Singhiozzò contro la spalla della nipote, lasciandosi andare ad un’emozione così forte che la spiazzò. La sua integerrima, austera e composta zia stava piangendo disperatamente, in modo quasi isterico, senza nemmeno darle il tempo di realizzare cosa fosse accaduto.
Quanto meno la sorpresa iniziale le impedì di piangere. Abbracciò stretta la zia, cullandosela al petto come una bambina, a ruoli invertiti, come aveva fatto tante volte con lei da piccola. Se n’era dimenticata con il tempo, perché la zia era rigida e poco propensa ai contatti, ma ricordava di quando prendeva in braccio lei e i suoi fratelli.
La zia Roseline era buona, aveva un cuore grande, ed era così grata di averla al suo fianco in quel momento…
Qualcuno le posò una mano sulla spalla e quando alzò gli occhi vide che era Thorn, con la governante di fianco che si asciugava gli occhi.
Mise via il fazzoletto in fretta e prese un respiro profondo prima di dire: - Su, su, signora Roseline. Venga a bere una tazza di tè, di quello forte che piace… piaceva al signore suo zio. Le farà bene.
Come una bambina, la zia Roseline si lasciò condurre via, ma l’eco del suo pianto continuò ad arrivare alle orecchie di Ofelia anche quando era ormai inudibile. Si toccò il pendente, in cerca di qualcosa di solido, in cerca dei nomi che tanto amava. Poi toccò la sciarpa per svegliarla, per sentirla viva, sospirando quando la sentì muoversi appena, lenta, depressa.
Guardò il prozio, i tratti del volto distesi nella morte, e distolse subito lo sguardo. Era solo un pallido riflesso di ciò che era stato davvero, dell’uomo forte, sveglio, in gamba, dal commento mordace e dall’acume superiore agli altri. Voleva ricordare chi lui era davvero, e lui non era il corpo esanime che giaceva su quel letto.
Le prime persone venute a porgere le condoglianze arrivarono subito, più che altro domestici già in piedi per lavorare che avevano ricevuto gentilezza e parole buone, interesse sincero, dal prozio.
Ofelia non voleva vedere la tristezza sui loro volti, non voleva rendersi conto della realtà, di cosa ciò significasse. Si lasciò condurre via da Thorn, ma a metà tragitto scoppiò a piangere senza controllo, come quando era stata lei a rischiare la vita con il barone Melchior. Thorn la trascinò dentro la camera dei bambini, vuota perché erano nel letto matrimoniale dei genitori, e la fece sedere prima che cadesse facendo del male a sé e al bambino. Poi si mise di fianco a lei, permettendole di aggrapparsi a lui, di piangergli addosso, di farneticare e perdere la ragione.
D’un tratto Ofelia si ritrovò sdraiata, senza più lacrime, il corpo di Thorn premuto contro il suo. Erano nel letto di Serena.
Quando sollevò lo sguardo vide che anche Thorn aveva gli occhi lucidi, e quello le fece ancora più male. Stavano soffrendo tutti, tutta la casa, per via del prozio, della sua bontà, della sua personalità, del suo interesse per gli altri.
Il tac-tac familiare dell'orologio di Thorn risuonò nel silenzio assordante della stanza. Sembrava un suono sbagliato, troppo normale, come se ora che il prozio mancava tutto dovesse avere un gusto e un rumore diverso.
- I bambini si sveglieranno a breve per la colazione. Io devo occuparmi della cerimonia funebre. Mando un telegramma alla tua famiglia?
Ofelia si rese brutalmente conto di come la vita andasse avanti, a velocità quasi accelerata. Il prozio non c'era più, era morto, aveva smesso di vivere, eppure loro dovevano occuparsi di tante cose. Cose che avrebbero richiesto tempo. Tempo che sarebbe passato senza di lui, senza che lui vedesse.
Ofelia cercò di pensare al fatto che aveva avuto una vita piena e soddisfacente, che se n'era andato circondato d'affetto, che aveva potuto vedere nipoti, pronipoti e pro-pronipoti crescere. Però in quel momento sentiva solo l'assenza. Le cose che si sarebbe perso.
Visse quella mattinata quasi in trance, come se osservasse tutto dall'esterno. Le sembrava di essere intrappolata in uno specchio, in un mondo opposto, senza suoni, estraniata da tutti. A colazione quasi nessuno mangiò, i bambini piangevano, ormai abbastanza consapevoli da capire cosa fosse la morte. Ma una cosa era sapere cosa fosse, un'altra era comprenderla, e ad Ofelia sembrava che non sarebbe mai arrivata l'età giusta per quello, e per accettarla.
L'unica voce che si sentiva, sebbene irriconoscibile, annegata com'era nello sconforto, era quella della zia Roseline, che dettava a Thorn cosa scrivere ai parenti. La zia era talmente sconvolta che non si rendeva nemmeno conto che Thorn scriveva una parola su dieci di quelle che lei pronunciava, sintetizzando all'osso i fatti salienti.
Thorn si fece montare a tavola il telefono che usava in ufficio, per comunicare al segretario tutti i cambi di programma. La sala da pranzo diventò un ammasso di cavi che faceva rimpiangere ad Ofelia i telefoni autonomi di Anima, decisamente meno complicati.
Ofelia stava cercando di far mangiare qualcosa a Tyr, che stava facendo lo sciopero della fame ripetendo: - Papà mamma cattivi! - perché qualcuno aveva fatto piangere i suoi fratelli senza motivo apparente, quando si rese conto di quello che stava dicendo Thorn.
- Accompagnerai la bara fino all'imbarcamento dell'aeronave?
Thorn sollevò gli occhi su di lei, increspando la fronte, come se Ofelia facesse fatica a capire una cosa ovvia.
- Sì, se non volete rischiare che la salma venga trafugata. Non sarebbe il primo convoglio diretto fuori dall’arca che viene preso d’assalto dai predoni che vivono al limite della zona periferica. Si aspettano di trafugare chissà quali merci, attaccano indistintamente le carrozze sguarnite, e purtroppo troverebbero il modo di… sfruttare anche un cadavere. Tuo zio ha richiesto espressamente di essere sepolto su Anima.
La zia Roseline si scusò e corse in bagno, troppo provata per riuscire ad accettare l'immagine del corpo del prozio... profanato.
Ofelia invece cercò di non soffermarsi sulla questione. Del resto, in quel momento le sembrava tutto relativamente poco importante. - Vengo anch'io.
A tavola la fissarono tutti, persino i bambini.
Berenilde scosse la testa e schioccò la lingua. - Non siate sciocca, figliola, nelle vostre condizioni.
- Vengo anch'io, Thorn - ripeté Ofelia, ignorandola e fissando suo marito dritto negli occhi.
- Sei all'ottavo mese, in termini di medie, statistiche e tempistiche potresti partorire in qualsiasi momento.
- Le altre tre gravidanze hanno superato i nove mesi - ribatté lei, agguerrita come sempre quando non intendeva cedere.
Evitò di dire che la quarta non aveva nemmeno raggiunto i cinque mesi.
- Ma il bambino non aveva mai raggiunto queste dimensioni.
- Thorn... - lo chiamò lei, con la voce così ferma che il prozio sarebbe stato fiero di lei.
Quando si rese conto del silenzio che si era creato attorno a loro, però, e del modo in cui i bambini li guardavano, cercò di addolcire la voce. - Ne riparliamo questa sera.
- La partenza è domani.
- Questa sera siamo ancora in tempo.
Thorn si strinse la radice del naso tra le dita, come per cercare di mantenere la calma. Poi si alzò, raccolse le sue carte, e si avviò al lavoro.
Ofelia fissò Renard, che distolse subito lo guardo, mentre Berenilde lo tenne ben inchiodato al suo.
- Vi aspettate che vi fermi?
Ofelia si strinse nelle spalle. - Presumo di sì.
Berenilde sorrise maliziosamente, come una gatta in procinto di saltare su un topo. - Non traggo piacere nel dedicarmi a lottare per delle cause perse. Quando aspettavo Vittoria, voi e vostra zia mi avete più volte impedito di bere o fumare, com'era giusto che fosse. Ma io proseguivo per la mia strada. So che anche se cercheremo di impedirvi di andare, voi troverete il modo per farcela lo stesso. Ragion per cui, mia cara, non tento nemmeno di fermarvi. Spetta a vostro marito decidere, come continuo a ripetervi, e come voi continuate ad ignorarmi.
Ofelia si stupiva sempre di come Berenilde, la personificazione della libertà e della transigenza, nonché dell'infrazione delle regole, risultasse invece legata al patriarcato, all'autorità del marito. Avrebbe voluto chiederle se lei aveva sempre obbedito al defunto coniuge, o se in fondo la sua era solo una facciata come per molte altre cose.
Il fatto che non volesse però intralciarla giocava a suo favore. Se lo avesse saputo la zia Roseline sarebbe stato impossibile per lei partire. L'avrebbe chiusa in camera togliendole persino il piccolo specchio contenuto nella collana per timore che scappasse.
- Non fatene parola con mia zia, ve ne prego.
Gaela si alzò grugnendo. - I giochetti non mi piacciono, lo sapete bene. Vedetevela come credete, io non ho visto né sentito nulla.
Renard osservò la moglie allontanarsi senza quasi far caso a Randolf che gli era improvvisamente piombato in braccio e gli stava tirando la barba. Salame, che ormai era troppo grosso e grasso per stargli in testa, se ne stava accoccolato sulle sue spalle facendo le fusa alla vista del bambino.
- Non fare troppo il testardo, ragazzo, eh? Che poi ci rimettete tu, tuo marito e i tuoi bambini.
Archibald si aprì in un sorriso tutto denti e fossette. - Oh oh, mio amico insegnante, cosa sono tutte queste confidenze con la moglie dell'intendente?
Renard sbiancò, un fantasma pallido con una massa ardente in testa e sgranati occhi verdi pieni di terrore per l'errore commesso con leggerezza.
- Archibald... - lo chiamò Ofelia, sia per ammonirlo che per interrogarlo in proposito.
L'ex ambasciatore parve cogliere entrambi i sensi, perché allungò maleducatamente i piedi sul tavolo e si abbandonò sulla sedia.
- Sono la persona più sincera del mondo, ma ciò non significa che io spiattelli in giro i segreti altrui senza alcun tipo di filtro. C'è una sottile differenza tra il pettegolezzo e il segreto rivelato per tornaconto personale.
Ofelia lo guardò aggrottando la fronte, cosa che fece ridere Archibald.
- Non dirò nulla, state tranquilla. A meno che non sia proprio la signora Roseline a farmi la domanda specifica.
- Quale domanda? - chiese la zia entrando, di un verde smorto come il prato del vicino di casa del cugino Guglielmo, avrebbe detto lei.
- Come state zia? - si intromise Ofelia, bloccando sul nascere qualsiasi commento potesse far sorgere dei sospetti nella zia.
Scuotendo la testa, lei rispose: - Sai che detesto l'ozio tanto quanto la carta maltenuta, ma penso che oggi starò a letto per un po'.
A Ofelia strinse il cuore vedere la zia in quello stato; lei, così energica e pronta a riscuotere gli altri quando si abbattevano, sembrava incapace di reagire.
- Porterò il lutto solo oggi, non mi piace l'autocommiserazione. Però... - borbottò, soffiandosi poi il naso e asciugandosi le lacrime. - Scusatemi.
Quando fu uscita dalla sala, Renard si abbacchiò. - Penso che questo risolva il problema. E nessuno ora potrà impedirvi di fare ciò che volete. L'unica persona che poteva scuotervi per bene e mettervi un po' di sale in zucca è fuori gioco.
- Non ci fate lezione oggi, maestlo Renold? - intervenne Serena, per cercare di cambiare sottilmente argomento.
Più sveglia persino degli adulti.
- Sì maestro, ci fai... vi fate lezione o no? - intervenne Balder con la sua limpidezza, facendo ancora confusione tra le forme di rispetto, i pronomi e i tempi verbali.
- No bambini, oggi è una giornata dedicata alla commemorazione del signor Archivista, che tanto ha donato al mondo con la sua cultura, la sua memoria, la sua conoscenza, la sua gentilezza... scusate... - mormorò poi, cercando di asciugarsi le lacrime, alzandosi da tavola.
Archibald si calò il cilindro distrutto sugli occhi, mentre Berenilde si accese la sigaretta e aspirò dall'elaborato bocchino sfidando con lo sguardo Ofelia: lei le concedeva di fare ciò che voleva, e voleva altrettanto in cambio, per quella volta.
- Mamma, possiamo andare con la prozia Roseline? Era triste - le chiese Balder.
Ofelia annuì. - Vai pure, sono certa che alla zia farà piacere raccontarti qualche storia sul prozio.
Perché quello era rimasto loro. Storie. Un'intera esistenza ridotta ad una storia da raccontare. Era sicura che i bambini avrebbero fatto del bene alla zia. Quando però Tyr seguì Balder portandosi dietro anche Ilda, Ofelia si rese conto che in realtà la zia glieli avrebbe rispediti indietro molto presto.
Serena invece andò in camera con lei, così silenziosa che Ofelia non la notò finché la bambina non le prese la mano, guanto nel guanto.
- Mamma... per favore, non andate domani.
Gli occhi grandi di Serena, impauriti e grigi come il mare invernale, furono l'unica cosa che riuscì a farla tentennare.
- Non succederà nulla di brutto, tesoro. Si tratta solo di accompagnare il papà fino alle mura. Poi consegneremo il corpo del prozio al nostro guardacaccia di fiducia e torneremo indietro.
- Ma ho paura per il bambino che c'è nella pancia. E mi manca il prozio. Perché non c'è più?
I singhiozzi di Serena, tanto improvvisi quanto inaspettati, spinsero Ofelia ad abbracciare la bambina, tenendola stretta quanto la pancia le permetteva. Le baciò i capelli, e cercò di non mostrarle che piangeva anche lei.
- Non voglio lasciare il papà da solo. E voglio fare anch’io un ultimo viaggio con il prozio, anche se lui è morto. Andrà tutto bene Serena, non è tanta strada.
Serena si aggrappò a lei come Ofelia si era aggrappata a Thorn nei momenti di sconforto profondo.
- Non andare mamma...
- Devo andare, tesoro. Ma non voglio andare con te che piangi. Torneremo presto e staremo tutti bene. Te lo prometto.
Ofelia cullò Serena come quando era piccola, rendendosi conto all'improvviso di come il tempo fosse volato, di come lei, nonostante fosse ancora giovane, in realtà fosse cresciuta, invecchiata. Il prozio era morto, Serena aveva otto anni, lei stava per partorire il quarto figlio, che sarebbe stato il quinto, a dire il vero. A volte le sembrava di non essere in grado di prendersi cura di se stessa, e invece aveva anche dei figli cui andare dietro. Qualcuno che dipendeva da lei, legato a lei anche se lei in realtà non aveva mai voluto legarsi a nessuno. 
Quel giorno Serena le rimase sempre appresso, quando andarono a consolare la zia Roseline, quando pranzarono in un silenzio malinconico, anche quando Ofelia fece fare il bagno a Balder e Tyr e Renard intervenne per evitare che Ilda, che era così pura e ingenua, si buttasse dentro insieme a loro, scoprendo "cose che erano riservate ai grandi e per la quale lei avrebbe dovuto attendere anni e anni e anni e che il suo papà rivoltasse da dentro a fuori la persona con cui avrebbe fatto certe cose".
A cena ci furono solo Thorn, Ofelia e i bambini. Ciò diede ad Ofelia l'opportunità di parlare subito col marito, che non si era nemmeno palesato quando era rientrato dall'intendenza.
- Thorn, tu devi lasciarmi partire con te. Io verrò che tu lo voglia o no, non puoi rinchiudermi per...
- La carrozza partirà prima dell'alba. Andremo fino alla muraglia, passeremo la bara al guardacaccia, e torneremo indietro. Saremo a casa per cena.
Ofelia rischiò di strozzarsi con gli spinaci. - Come? - riuscì a chiedere tra i colpi di tosse, con Serena che le batteva sulla schiena.
Thorn la guardò con gli occhi stretti a fessura. - Devo ripetere tutto?
- No, no... ho capito, ma... non ti opponi?
Thorn posò i gomiti sul tavolo e intrecciò le lunghe dita, fissandola come di solito fissava Balder o Tyr quando combinavano una marachella. - Servirebbe a qualcosa?
Era più di una volta che le facevano notare che provare a dissuaderla dal fare qualcosa era una perdita di tempo. Ofelia si chiese se fosse davvero così testarda come tutti sostenevano. A lei sembrava solo di esercitare la sua libertà di scelta.
- Niente Rose dei Venti? - domandò per cambiare argomento, memore di come fossero arrivati al maniero di Berenilde la prima volta che erano sbarcati al Polo.
- La strada è troppo lunga per te in queste condizioni. La carrozza è più lenta, probabilmente più disagevole, ma è la soluzione migliore.
- Posso sempre attraversare qualche...
- Non posso tenerti sott'occhio se te ne vai in giro da sola attraversando specchi e piombando ovunque senza protezione. E non dire che non hai bisogno di qualcuno che ti corra dietro, perché io stesso una volta ho dovuto tirarti fuori da uno specchio in cui eri rimasta incastrata. Io accetto di portarti senza rimostranze solo se tu accetti le mie condizioni.
Il tono di Thorn era al limite del glaciale. Era più che evidente che quella soluzione non gli piaceva per nulla, e Ofelia non poteva pretendere che ne fosse contento. Almeno aveva deciso di portarla con sé, e tanto bastava.
- Accetto. Grazie.
Thorn distolse lo sguardo e non rispose, infilzando poi una patata bollita come se gli avesse arrecato qualche danno. Serena e Balder si zittirono, consapevoli dell'aria pesante che era calata sulla tavola, mentre Tyr spargeva il cibo sul tavolo invece di mangiarlo.
Ofelia accompagnò i bambini in camera presto, seguita da Thorn, dato che l'indomani si sarebbe dovuta alzare prima che albeggiasse. Serena si aggrappò a lei, pregandola in silenzio di non andare. Ofelia le rispose con un rassicurante bacio sui capelli. Thorn invece portò a letto Balder e Tyr, che appena vide Ofelia si mise a scalciare e fare i capricci per passare dalle braccia del padre a quelle della madre.
- Avete fatto il bagno, fate sentire a papà come profumate! – cercò di calmarlo lei.
Balder gonfiò il petto, fiero di profumare, si sistemò gli occhiali storti sul naso e lucidò l’orologio. Tyr invece si scompigliò i capelli chiarissimi, uguali a quelli del padre e della sorella, e mise il broncio.
- Io no pofumo!
Ofelia strinse a sé il bambino, strofinandogli il naso tra i capelli morbidi. - Sì che profumi!
- Io vollio pussare!
- Non si può puzzare, Tyr - lo ammonì Thorn con voce tagliente. - La puzza indica scarsa igiene, e la scarsa igiene porta malattie.
Tyr parve quietarsi, serio. - Malattie butte!
- Sì, quindi ringrazia la mamma che ti ha lavato - lo istruì Thorn.
Tyr incrociò le braccia al petto e rimise il broncio. - Gassie.
Poi però gli fece una pernacchia, al che Ofelia gli tirò un lievissimo schiaffetto sulle labbra, quasi una carezza, per fargli capire che non era proprio il caso di fare certe cose. Serena era preoccupata e guardava il papà come se temesse che potesse arrabbiarsi.
Ofelia si sedette sul letto, fece cenno a Thorn di imitarla e tirò a sé i piccoli. Li abbracciò tutti, mentre Tyr si lamentava del ginocchio di Balder che gli era finito sul femore. Thorn gli fece notare che l'osso che aveva toccato era l'omero, non il femore, e per fortuna Tyr non ribatté o fece altre linguacce.
- Domani io e papà saremo via tutto il giorno. Accompagniamo il prozio sull'aeronave che lo porterà su Anima, dove verrà seppellito. Torneremo domani sera tardi, va bene?
Serena e Balder annuirono con estrema serietà, mentre Tyr fece presente che anche lui e Ilda volevano seppellire il prozio, commento che tutti ignorarono.
- State attenti però - si raccomandò Serena, che sembrava il genitore della situazione.
- Possiamo stare alzati finché non arrivate? - domandò Balder, che da qualche tempo considerava un gesto da grande lo stare alzati oltre l'ora consentita.
- Potremmo tornare molto tardi - intervenne Thorn. - Andate a letto all'ora che vi dirà mia zia.
- O Renard - intervenne Ofelia, terrorizzata.
Berenilde non era l'esempio di persona dalla vita regolare, visto quanto spesso rientrava a casa all'alba, svegliandosi poi per l'ora del tè, seguita ovviamente da Vittoria. Non c'era da meravigliarsi che la bambina sembrasse così tanto persa nel suo mondo.
- E la zia Roseline? - chiese Serena, che si chiedeva per quale motivo la prozia fosse stata estromessa dal cerchio degli adulti di riferimento.
- Domani temo che sarà molto arrabbiata. Quindi non so quanto vi convenga chiedere a lei.
Ofelia rabbrividì al pensiero di come si sarebbe scagliata contro di lei la zia Roseline. E non poteva biasimarla: in aggiunta al dolore per la perdita dello zio, vedeva sua nipote incinta affrontare un viaggio all'ottavo mese di gravidanza.
Ofelia si toccò il pancione, sentendo di fare la cosa giusta. Il bambino non sarebbe stato a rischio, ne era certa.
Balder annuì. - Domani faremo finta che il maestro Renold è il nostro papà - comunicò ai fratelli.
- “Sia” il nostro papà, non “è” - lo corresse Serena.
Thorn si accigliò, disturbato da quella proposta. - Sono io vostro papà.
Balder si sporse per guardarlo. - Lo so, papà. Sono contento che tu sei il mio papà.
- Che tu sia... - mormorò Serena, facendo quasi ridere Ofelia di fronte all'evidenza di quanto cavillosa fosse la figlia. Le ricordava un certo intendente...
Thorn invece parve soddisfatto della risposta. Non si rilassò, decisamente non sorrise, ma almeno non ribatté. Si sciolsero dall'abbraccio e Ofelia e Thorn rimboccarono le coperte a tutti.
Prima di chiudere la porta, Ofelia sussurrò: - Buonanotte, e fate i bravi domani.
- Ci vediamo domani, tornate pvesto - rispose Serena con le sue r mosce che ogni tanto prendevano il sopravvento.
- Buonanotte! - si aggiunse Balder.
- Io faccio blavo! Io seppellisce Badde in gialdino! - urlò infine Tyr, che per qualche strano motivo associava un comportamento corretto alla tumulazione.
Balder emise un verso d'orrore mentre Serena scattava: - Non puoi seppellire Balder in giavdino! Papà, vero che non può?
- Non seppellire nessuno, Tyr - lo redarguì infatti Thorn, sgonfiando tutto l'entusiasmo del figlio, che mise nuovamente il broncio.
Ofelia si chiuse finalmente la porta alle spalle, scuotendo la testa. Quasi non fece caso alla freddezza di Thorn, ma quando lui si coricò, dopo essersi lavato, cambiato e aver preparato le cose per l'indomani, senza nemmeno rivolgerle la parola, Ofelia se ne accorse. Si sedette dal suo lato di letto, stringendosi la vestaglia sulle spalle, infreddolita. L'inverno era arrivato prepotentemente. Non che durante il resto dell'anno al Polo facesse caldo, ma i mesi invernali si sentivano particolarmente: per quanto tenessero il fuoco acceso in quasi tutte le stanze, e per quanto il loro castello fosse relativamente all'avanguardia, con delle condutture che aiutavano a spargere il calore anche nelle stanze più lontane dal cuore della casa, il freddo sembrava infiltrarsi dappertutto, con la facilità con cui Ofelia attraversava gli specchi.
- Prenderai freddo - l'avvertì Thorn, certo che tanto sua moglie non l'avrebbe ascoltato.
Ofelia si allungò verso di lui, impacciata, ma riuscì a far intendere a Thorn ciò che voleva: un abbraccio. Lui si mise seduto, avvolgendo la moglie con le lunghe braccia, scaldandola con il tepore del suo corpo. Ofelia tracciò con le dita le cicatrici che si trovò sotto il naso. Sentì Thorn rabbrividire e smise: aveva scoperto dopo poco tempo dalla loro prima volta che accarezzare quelle tracce di violenza aveva su Thorn un affetto sia catartico che afrodisiaco. Lo aiutava a rilassarsi, come se Ofelia toccandole portasse via con sé il dolore che racchiudevano, e allo stesso tempo lo facevano tremare di aspettativa.
Infatti Thorn si scostò per baciarla, piegato come una molla un po' rigida. Ofelia si sentiva così protetta tra le sue braccia...
- Devi dirmi se qualcosa non va, domani. Qualsiasi cosa. Un dolore insolito, fame, sete, mal di schiena... non voglio che tu o il bambino ci rimettiate. E stai attenta al selciato, in questo periodo dell'anno è particolarmente scivoloso per via del ghiaccio.
Ofelia si sentì scaldare dentro a quelle parole, nonostante potessero essere considerate quasi offensive: non era una sprovveduta. Però sapeva che esternavano l'immenso amore che Thorn provava per lei. Allo stesso tempo, le ricordavano la prima volta che Thorn le aveva rivelato di amarla, in circostanze decisamente poco rosee e tradizionali, nonostante fosse il loro matrimonio. Si ritrovò a pensare che, nonostante fosse stato tutto agli antipodi del tradizionale, non avrebbe fatto nulla di diverso. Non le interessavano vestiti da sposa sfarzosi come quello che sua mamma e sua sorella l'avevano costretta ad indossare su Anima, né cerimonie, fiori e articoli di giornale. All'epoca ancora non aveva capito di amare Thorn, ma anche se si erano sposati nella cella di una prigione, lui con una gamba rotta e lei con un braccio fasciato, c'era stato amore. Quello di Thorn palese, e ardente, dato che uno come lui si era ritrovato a volerle dichiarare così chiaramente i suoi sentimenti; quello di lei velato, ancora al principio di ciò che sarebbe diventato, ma già esistente. Perché non avrebbe sfidato ogni regola sociale e convenzione, obbligando sia Thorn che Archibald a celebrare il matrimonio nonostante fosse stato formalmente annullato, se non avesse sentito, in maniera inconscia, di amare Thorn.
Lo baciò di nuovo, accarezzandogli il viso, godendosi la sensazione della sua barba corta sotto le dita, ruvida e in una certa misura eccitante. Avevano entrambi bisogno di ritrovarsi dopo quel periodo di intenso dolore e preoccupazione, ma nessuno dei due avrebbe spinto l'altro, quella notte. Dovevano dormire, e Ofelia non aveva né le forze né la serenità fisica per andare oltre. Però si strinse a lui quanto poteva, grata per la sua solidità e il suo calore, la forza fisica che aveva nonostante sembrasse gracile, e la pazienza che mostrava nel farle versare tutte le lacrime che non riusciva a trattenere.
Thorn era uno stelo d'erba fatto di roccia.
 
Se ne andarono in silenzio, con poche cose al seguito. Si erano entrambi portati un cambio nel caso in cui avessero dovuto passare la notte fuori. Non si era mai troppo previdenti, gli inconvenienti potevano essere dietro l'angolo. Thorn prese solo la valigetta compatta che si era portato la prima volta su Anima, così piccola che Ofelia ancora si chiedeva come potesse averci inserito all'interno qualcosa che fosse più grande della sua inseparabile penna e di un cambio di biancheria. Lei aveva un bagaglio decisamente più voluminoso, più per la quantità di cappotti che ci aveva infilato dentro che per una vanitosa necessità di un cambio d'abito.
Stettero bene attenti a fare piano quando passarono davanti alla stanza della zia Roseline, che aveva il sonno leggerissimo. Il sonoro russare che trapelava persino dalla porta chiusa però suggerì ad Ofelia che probabilmente la zia aveva preso qualche calmante per riuscire a superare la notte. I bambini dormivano placidamente, Serena e Balder relativamente composti, Tyr invece tutto sghembo e disordinato, cosa che la fece sorridere. Era vivace persino nel sonno, il loro bimbo. Avrebbe voluto andare a sistemarlo, ma temeva di svegliarli tutti e tre, maldestra e ingombrante com'era. Thorn non aveva quelle preoccupazioni e, sulla sua stessa lunghezza d'onda, entrò silenziosamente, sistemò con gentilezza Tyr e gli rimboccò le coperte. Si vedeva dai gesti che compiva quanto amasse quel bambino, nonostante fosse difficile da gestire e talvolta riottoso con il padre.
- Papà? - chiamò piano Serena, la voce impastata dal sonno.
- Dimmi - risuonò la voce di Thorn, sussurrata eppure penetrante.
- State partendo?
- Sì. Torna a dormire.
- Va bene. State attenti. Vi voglio bene.
Thorn le accarezzò teneramente una guancia, e la bambina gli strinse la mano prima di abbandonarsi di nuovo al sonno. Toccata dalla scena, Ofelia strinse la mano di Thorn quando si chiuse la porta alle spalle.
All'entrata trovarono la levatrice e Renard; sembrava che entrambi non avessero dormito per settimane, con occhiaie profonde che contornavano i loro occhi. Persino la capigliatura infuocata di Renard sembrava aver bisogno di dormire, al contrario di Salame, che sbucò da dietro il padrone, si strusciò sulle sue caviglie e si mise pancia all'aria per giocare.
La governante diede ad Ofelia un involto ben chiuso da cui proveniva un buonissimo odorino. Era ancora tiepido.
- Qualcosa da mangiare in viaggio. Deve nutrirsi regolarmente, signora - la istruì, come se Ofelia non lo sapesse.
Le sorrise e le strinse la mano nel prendere il pacchettino, per farle capire che le era grata e sarebbe stata attenta. Le parole avrebbero solo imbarazzato quella burbera e anziana signora, e Ofelia non era mai stata brava ad esternare i propri stati d'animo.
- State attenti. Mi prenderò cura io dei piccoli oggi, ma hanno bisogno dei loro veri genitori, quindi vedete di tornare presto e interi - li redarguì Renard come se fossero loro due i bambini, e lui il genitore. Il discorso più severo che gli avesse mai sentito fare in presenza di Thorn, e soprattutto a Thorn.
Ofelia annuì, cercando di essere convincente. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma non si era mai permessa con Renard e le sembrava un gesto fuori luogo, soprattutto con Thorn, e la sua gelosia, alle spalle. La sciarpa però le venne in aiuto, influenzata dal suo stato d'animo, e si strusciò contro la sua mano in una carezza amichevole. Renard addolcì lo sguardo verde, intenso quanto il rosso dei suoi capelli.
Thorn le mise una mano sulla spalla e la condusse fuori, dove il freddo li investì. Quando salirono sulla carrozza, Ofelia prese subito dal bagaglio una coperta che si avvolse addosso. Tra la gravidanza, il cappotto e la coperta, sembrava un gigantesco bozzolo grassoccio.
Thorn guardava fuori dal finestrino, troppo corrucciato perché il suo potesse essere preso per il solito cipiglio da uomo severo.
- Cosa c'è? - lo interrogò Ofelia.
- Il freddo. Se qui nel centro, relativamente protetti e al sicuro, si intravedono i primi fiocchi di neve, temo che la situazione all'esterno sia ben peggiore. E non so quanto sia giusta per te, questa decisione.
Ofelia rabbrividì, ma non per il freddo pungente.
- Quanto peggiore?
Thorn strinse le labbra, aprì di scatto l'orologio, controllò che la penna fosse al suo posto, prima di rispondere: - Una bufera. Sono improvvise e spesso letali, qui al Polo, specialmente se si è in carrozza. Non è raro che nelle province accanto alla muraglia le strade rimangano bloccate per giorni, con le carrozze seppellite sotto la neve.
Ofelia cercò di non lasciar trapelare il turbamento. Se avesse saputo che le condizioni climatiche erano così avverse sarebbe partita lo stesso? Thorn di sicuro non l'avrebbe lasciata venire, lo dimostravano i suoi pugni chiusi, le nocche sbiancate sotto la pressione dei tendini tirati.
Non era il momento di guardarsi indietro, però. Avrebbe accompagnato il prozio nel suo ultimo viaggio, e non se ne sarebbe pentita. Tirò fuori una mano dall'involucro di tessuto e strinse quella di Thorn, che deglutì, teso.
- Devi dirmi tutto quello di cui hai bisogno. Anche qualcosa di più, se serve.
Ofelia quasi sorrise di fronte alla sua strana maniera di mostrarsi disponibile e premuroso.
- Sto bene. Stiamo bene. E torneremo presto.
 
Non tornarono presto.
Arrivarono alla muraglia diverse ore dopo l'appuntamento, con l'imbrunire che si allungava: con rare e preziose ore di luce, nel cuore dell'inverno sembrava di essere ammantati da una notte perenne.
Fortunatamente, se così la si voleva mettere, la bufera aveva posticipato anche la partenza dell'aeronave, che si trovava ancora all'imbarco, pronta a prendere il volo prima che la tormenta si intensificasse, impedendone il viaggio. Ofelia accarezzò la bara sigillata del prozio, dentro cui aveva depositato i Racconti di oggetti e altre storie Animiste, il suo monocolo e pochi altri oggetti indispensabili. Un animista veniva sempre seppellito con gli oggetti a lui più cari. Pianse in silenzio quando vide il dirigibile lasciare gli ormeggi, come se fosse quello l'addio definitivo che il prozio le riservava, e non quello vissuto nella sua camera, mentre la vita lo abbandonava. Non faceva in tempo ad asciugarsi le lacrime che il freddo gliele congelava addosso, rendendole il viso stranamente rigido.
Thorn le depose qualcosa di pesante sulle spalle, e Ofelia si sentì subito più al caldo quando vide che era circondata dalla pelliccia d'orso che aveva sancito il loro primo incontro. Sembrava che quella pelliccia fosse presente a qualsiasi evento importante, segnava quasi un circolo; alla fine, volente o nolente, se la ritrovavano sempre lì dove avvenivano i fatti importanti, e Ofelia la strinse a sé come una vecchia amica.
Non rimasero a lungo sul pontile, dal momento che le nuvole cariche di neve e ghiaccio inghiottirono subito l'aeronave. Thorn la riaccompagnò alla carrozza dove Ofelia, stremata, si sedette tastandosi il viso per assicurarsi che ci fosse ancora. Sentiva la pelle tirare per via delle lacrime congelate e del freddo, ed era sicura di essere paonazza. Di certo lo era la punta del naso di Thorn, che la fece sorridere tanto che dovette nascondersi nel suo enorme cappotto.
- Ce la fai a rincasare? O dobbiamo fermarci per la notte?
La sua domanda la colse di sorpresa. Una volta Thorn non badava che al tempo. Il tempo che aveva perso, il tempo che avrebbe perso se avesse fatto una certa cosa, il tempo che non poteva permettersi di perdere. Come il tempo, lui stesso non si era mai fermato, implacabile, senza guardare in faccia nessuno pur di seguire la sua precisa agenda.
Invece le stava chiedendo, in quel momento, se lei avesse bisogno di allungare il viaggio, con un notevole spreco di ore di lavoro per lui il giorno dopo.
La cosa la commosse. Avrebbe mentito dicendo che l'andata era stata piacevole: tra il freddo, gli scossoni del pavimento dissestato e lo spazio angusto che non l'aiutava a trovare una posizione comoda, l'ultima cosa che voleva fare era rimettersi in viaggio. E non era nemmeno facile reperire un bagno.
Ma voleva rientrare, non fermarsi, soprattutto dal momento che avvertiva un leggero mal di pancia, probabilmente riflesso del suo mal di schiena quasi perenne ormai. Però rimandare era inutile, prima fossero partiti, prima sarebbero tornati.
- Ce la faccio - lo rassicurò, soffiandosi il naso. Sperava di non prendersi un raffreddore, era l'ultima cosa che le serviva in quel momento.
Thorn annuì seccamente. - Bene, perché rimandare è rischioso. La neve continua ad accumularsi e c’è il pericolo di rimanere bloccati qui se non partiamo subito.
Strizzando gli occhi per guardare fuori dal finestrino, Ofelia si rese conto che quella che aveva scambiato per nebbia altro non era che neve, neve su neve, che ammantava ogni casa, ogni via, ogni lampione, ogni panchina. Era tutto sepolto. Non se ne intendeva di trasporto, non come Thorn, ma a lei sembrava che fosse già impraticabile un proseguimento.
Non a torto, perché non riuscirono a fare che pochi chilometri quando il cocchiere bussò alla porta della carrozza.
- Copriti - le intimò Thorn prima di uscire.
Ofelia non riuscì a sentire cosa si stavano dicendo, però doveva essere qualcosa di grave dato che ci impiegarono diversi minuti. Inopportunamente, la scarsa capacità contenitiva della sua vescica si fece sentire, e Ofelia dovette sporgersi fuori per richiamare il marito.
- Thorn, devo andare in bagno.
Lui non si lamentò, aggrottò solo la fronte già solcata di preoccupazione, maledicendo il tempismo pessimo di quei bisogni fisiologici.
- C'è una locanda al di là della strada, sono pochi passi. Hai bisogno di aiuto?
Ofelia raddrizzò la schiena, orgogliosa. Non era ancora arrivata al punto di aver bisogno di qualcuno per andare alla toilette. - No, torno subito.
Quando uscì dalla locanda, cupa e priva di occupanti se non per la proprietaria, anziana e gentile nonostante l'evidente povertà che fece stringere il cuore ad Ofelia, sospirò di sollievo nel vedere la carrozza. Si era quasi aspettata di vederla sepolta sotto la neve, o partita senza di lei, per quanto sciocco fosse quel pensiero.
Thorn le aprì la porta della carrozza: - Dobbiamo sbrigarci, la tormenta si sta intensificando e se non ci mettiamo in marcia subito il tratto di strada che abbiamo liberato verrà sepolto in pochi minuti.
Ofelia entrò con poca grazia nello stretto pertugio, ringraziando mentalmente Thorn quando la sostenne: sarebbe caduta senza la sua mano a darle stabilità. Non ne poteva proprio più di quella pancia, e giurò a se stessa che quella sarebbe stata l'ultima gravidanza, non ne voleva più sapere.
Mai avrebbe immaginato che non sarebbe stata solo l'ultima gravidanza... ma gli ultimi minuti, di gravidanza.
- Thorn... - lo chiamò, allarmata, meno di cinque minuti dopo.
Lui fissò lo sguardo su di lei come se volesse carpire direttamente dalla sua mente cosa non andasse, e perché avesse quel tono angosciato.
Balbettò qualcosa di incomprensibile prima di dire, in maniera confusa: - Sono andata in bagno.
Thorn si avvicinò tanto che il suo lungo naso affilato quasi sfiorò il suo. La fronte era così aggrottata che Ofelia temeva si paralizzasse in quella posizione. - Devi tornarci?
- No, io... sì. Non può scapparmi la pipì... non...
Sembrava uno di quei discorsi sconclusionati che faceva Balder quando aveva iniziato ad usare il bagno dei grandi, o uno di quelli di Tyr quando teneva la pipì per troppo tempo perché voleva continuare a giocare.
- Possiamo fermarci di nuovo, nel frattempo cercheremo di liberare un altro tratto di strada per...
- Thorn, non devo andare in bagno! - riuscì finalmente a gracchiare Ofelia. - Penso siano le acque.
Di fronte allo sguardo sbarrato di Thorn, che non lasciava mai trapelare un'emozione, figuriamoci lo shock, Ofelia ripeté, in sincronia con la prima contrazione: - Mi si sono rotte le acque.

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Capitolo 49
*** Capitolo 49 ***


Siamo arrivati al giro di boa, care lettrici.
Mi sento quasi commossa. Tecnicamente questo capitolo può quasi essere considerato la fine della storia. Ero addirittura tentata di farla finire qui e continuarla con un altro nome, perché un po' è come se fosse conclusa.
MA ho ancora tantissime cose da raccontarvi sui bimbi di Thorn e Ofelia, sulla loro crescita, il loro carattere e le scelte importanti che compiranno. Mi sono affezionata a loro quanto lo sono a Thorn e Ofelia e per questo da qui in poi la storia riguarderà principalmente loro. Ovviamente Thorn e Ofelia saranno parte integrante dei capitoli a venire, ma i riflettori si sposteranno soprattutto sui loro figli. Anche per questo volevo separare le storie.
In ogni caso, alla fine sarà una sola storia, non due, e spero che vogliate continuare a leggere e che il seguito possa piacervi come mi avete fatto capire di aver apprezzato questi capitoli, e ve ne sono grata dal profondo del cuore.
E tirate pure il fiato, non ci saranno altri 50 capitoli xD Altrimenti qui diventiamo vecchi.
Grazie per tutto il sostegno*-*
PS: certe cose nella prima parte del capitolo potrebbero non essere realistiche, ma... be', sono cose che non ho mai provato quindi viva l'immaginazione e chiudete un occhio ahahaha.


Capitolo 49

Thorn si precipitò fuori dalla carrozza, ordinando in maniera pacata anche se fredda di tornare indietro e lasciarli alla locanda di poco prima. Ofelia sentì il cocchiere borbottare qualcosa, evidentemente sorpreso da quell'ordine, ma Thorn non gli rivolse nemmeno un'occhiata di ammonimento e si precipitò a lunghe falcate verso la locanda. Anche con gli occhiali Ofelia faticava a vederlo, tra la neve che si depositava sulle lenti, il freddo e la sgradevole sensazione di bagnato, nonostante ci fossero poche centinaia di metri a separarli.
Ofelia si risedette in carrozza, imponendosi di respirare a fondo, immaginandosi di essere a casa. La zia Roseline avrebbe dato di matto, chiamando subito la levatrice. La sua aiutante sarebbe arrivata con gli stracci. Thorn sarebbe tornato a casa dall'intendenza, sarebbe entrato in camera e si sarebbe tolto la giacca con le spalline, rimboccandosi le maniche della camicia. Si sarebbe scambiato uno sguardo in tralice con la levatrice, che avrebbe grugnito qualcosa prima di dargli qualche incarico, sapendo di non poter venir meno alla promessa di farlo partecipare attivamente al successivo parto.
Ofelia avrebbe riso per l'ironia della faccenda, se una contrazione non le avesse mozzato il respiro. Thorn non era solo parte attiva del cosiddetto prossimo parto... era proprio lui il levatore. Ofelia dubitava che la vecchietta che le aveva indicato dov'era il bagno sapesse come si faceva nascere un bambino. A dire il vero, dato che aveva dovuto ringraziarla tre volte prima che lei capisse, dubitava anche che ci sentisse.
L'aria gelida che penetrò nella carrozza la riscosse dai suoi pensieri, facendole aprire gli occhi. Le folte sopracciglia bionde del guardiacaccia nascondevano il suo sguardo a metà tra l'impaziente e il preoccupato.
- Madama, perdonatemi, ma per quale motivo...
Quando l'uomo notò le tracce bagnate sul pavimento della carrozza, le mani di Ofelia che si massaggiavano la pancia e i suoi tentativi di respirare profondamente, ebbe quasi un mancamento.
- Madama, voi...
Thorn lo scostò bruscamente, lanciandogli ordini in maniera così alterata che il suo accento del Polo uscì prepotentemente, impedendo ad Ofelia di comprendere. Sembrava che ad ogni parola ci fosse uno scontro tra iceberg.
Quando si affacciò alla carrozza, aveva ripreso la consueta calma da intendente.
- Riesci a camminare?
- Sì, ma...
- Le contrazioni sono regolari?
- No, però...
- Senti qualcosa di strano rispetto alle altre volte? Sei in anticipo di ventotto giorni sulla data di termine.
- Niente di strano, Thorn, per...
- Respira, profondamente, ricordati gli esercizi che...
- Thorn - lo interruppe Ofelia, prendendogli il viso tra le mani. - Respira anche tu.
Contrariamente a quello che si aspettava Ofelia, cioè che Thorn si scostasse e continuasse con le sue domande da medico, lui prese un respiro profondo, lo trattenne, ed espirò senza scomporsi, rigido come i pali della luce all'esterno.
- La carrozza è bloccata qui. Non è una lunga distanza fino alla locanda, la proprietaria sta già facendo bollire degli stracci e ha una camera pronta, ma se la carrozza è ferma per te risulta impossibile raggiungerla. Potremmo trasportarti in braccio ma sarebbe scomodo e...
- Posso camminare, le mie gambe funzionano, sai? – lo interruppe Ofelia.
Era la prima volta che faceva notare a Thorn una cosa ovvia che lui non aveva nemmeno preso in considerazione, e che lo vedeva così in ansia e sconvolto, al punto di non riuscire a ragionare. Anzi, stava ragionando troppo.
- Andiamo, conducimi alla locanda. Camminare fa bene alle puerpere - gli ricordò.
Ignorò le contrazioni fortissime, e lo spiacevole senso di bagnato. Qualcosa le diceva che quello sarebbe stato il parto più complicato che avesse mai affrontato. Senza la comodità degli ambienti di casa sua, senza la familiarità delle sue levatrici... e con un inesperto a seguirla.
Appena superò l'uscio della locanda ringraziò tutti gli oggetti a cui era più legata, in una preghiera silenziosa. Thorn sembrava fatto apposta per il freddo, quasi avesse una vera pelliccia da orso polare sottocutanea, ma lei non si sarebbe mai abituata a quel gelo. A giudicare dal modo in cui la sciarpa si agitava, così come i tappeti d'ingresso e persino le foto sopra al camino, gli oggetti la pensavano come lei. O forse erano agitati come lei. Ofelia proiettava le sue emozioni senza quasi rendersene conto.
Thorn la condusse su per le scale dopo aver scambiato poche parole dal marcato accento polare con la proprietaria, una vecchina canuta dalla stazza imponente che gli porse una bacinella piena di stracci fumanti e un secchio d'acqua altrettanto fumante. Ofelia percepì a malapena la presenza del cocchiere, che prese sia la bacinella che il secchio e sparì al piano di sopra. Tutto si poteva dire degli abitanti del Polo, soprattutto di quelli più poveri, ma non che fossero deboli.
La locanda era accogliente ma piccola. Troppo piccola. Persino la sua casa su Anima, sempre piena di gente e di confusione, risultava più grande. C'era un unico ambiente per la cucina e il minuscolo salotto composto solo da una poltrona e un tavolino, un bagno in cui entravano a malapena i sanitari fondamentali e un logoro tappeto vicino al camino.
Quando sentì la mano di Thorn sulla schiena spronarla verso le scale, Ofelia cercò di tornare alla realtà.
- La signora non ha nessuna esperienza di parti e bambini. Nessun marito, nessun figlio. Ci assisterà come meglio può con la biancheria, ma per il resto dovrò fare tutto io.
Nella sua voce Ofelia colse un lieve tremore: paura. Il tono però era talmente ferreo, il suo intento così determinato, che Ofelia era certa che Thorn sarebbe stato un levatore capace e minuzioso. Benedisse la sua memoria, grazie alla quale gli era bastato assistere ad un solo parto e ascoltare una sola volta le spiegazioni della governante in merito per ricordare tutto.
Prima che Thorn la facesse entrare in una stanza grande abbastanza da contenere un armadio e un letto, ma così piccola da non lasciare spazio per altro, nemmeno per tre persone, Ofelia vide che in quel piano c'erano solo un altro piccolo bagno, con doccia però, e un'altra camera. Nessuna scala per piani superiori.
Quella non era una locanda. Era la casa di una signora che metteva a disposizione una camera se qualcuno ne aveva bisogno, per cercare di arrotondare le entrate. Nonostante il dolore delle contrazioni e l'ansia per il parto, Ofelia sentì il cuore stretto in una morsa.
- Per favore, - supplicò Thorn con voce appena percettibile, - ricompensa la signora adeguatamente.
Non era pratica di questione pecuniarie, non lo era mai stata e mai lo sarebbe stata. Non ne era avvezza perché Thorn si occupava di tutto, nonostante lei avesse gestito anche i registri contabili del museo di Anima e del suo studio di lettura, ma dal momento che al Polo c'era un'altra giurisdizione e lavorava solo Thorn, le sembrava... sbagliato parlare di soldi. Come le sembrava sbagliato usarli per ringraziare qualcuno, sottolineando ancora di più le differenze di classe che imperversavano appena girato l'angolo. Però quella signora anziana aveva offerto loro la casa, e lei non voleva che il gesto rimanesse ignorato.
Thorn grugnì, chiudendosi la porta alle spalle. - Non mi sembra il momento di parlarne, con un parto imminente.
- Ricordatelo per dopo - lo redarguì lei, come se davvero fosse la questione più importante in quel momento.
Thorn finse di ignorarla. Si tolse il cappotto e la giacca, si risvoltò le maniche, mettendo in mostra gli avambracci pallidi e solcati di cicatrici. Eppure erano morbidi al tatto, Ofelia lo aveva scoperto tanto tempo prima, con suo stupore. Lo vide versare dell'acqua bollente in un catino e strofinarsi mani e pelle prima con il sapone e poi con il disinfettante, energicamente, senza nemmeno una smorfia al contatto con l'acqua ustionante.
Ipnotizzata dai movimenti decisi di Thorn, da quelle mani lunghe e ossute, eppure così forti, così abili in confronto alle sue, Ofelia non si accorse che il marito la fissava accigliato.
- Spogliati, Ofelia - le intimò, facendola sobbalzare.
Il tono autoritario da intendente non l'avrebbe perso nemmeno in punto di morte.
Ofelia si costrinse a distogliere lo sguardo per levarsi gli strati di cappotti, maglie e sottogonne, talmente voluminosi che, nonostante la pancia ingombrante, Ofelia si sentì nettamente più leggera quando li ebbe spostati dentro l'armadio. Thorn si fece da parte per lasciarla passare, appiattendosi contro il muro in quello spazio angusto, asciugandosi le mani. Le passò la camicia da notte, slacciandole il vestito per velocizzare la vestizione, che con la sua goffaggine diventava sempre un processo lento e dai risultati imprevedibili. Era stata talmente distratta da non accorgersi nemmeno che il cocchiere aveva portato in camera anche le valigie, oltre alle bacinelle.
Ofelia esitò, sperando che lui non lo notasse, quando si spogliò. Erano ben lontani dal vergognarsi del proprio corpo nudo in presenza dell'altro, non con tutti quegli anni di matrimonio alle spalle, con tutto quello che avevano fatto, e con i figli che ne erano scaturiti. Eppure in quel frangente Ofelia si sentiva più esposta del solito. Un parto non era una cosa pulita, non era una cosa piacevole.
Era il contrario dell'idillio. Era sangue, liquidi fisiologici, sudore, esposizione fisica. Era tutto quello che disgustava Thorn, così attento all'igiene, così asettico, così ripugnato da qualsiasi contatto al di fuori di quello di Ofelia e dei bambini. Eppure non aveva battuto ciglio al parto precedente. Non era nemmeno impallidito. Non si era schifato.
E non lo sembrava nemmeno in quel momento. Solo una ferrea determinazione brillava in quegli occhi metallici chiusi a fessura, dietro ai quali il suo cervello stava quasi sicuramente ripercorrendo per filo e per segno ogni azione da portare a termine, ogni fase e modalità di esecuzione.
Non aprì bocca nemmeno per chiederle se era comoda nel modo in cui aveva sistemato i cuscini, perché sapeva già che lo era. Le alzò la vestaglia in vita, le toccò gentilmente il ginocchio perché aprisse le gambe.
Ofelia si strinse la pancia all'arrivo dell'ennesima, forte contrazione.
Thorn tenne il tempo, calcolò minuti e frequenze, e poi le controllò la dilatazione. Quando aggrottò la fronte più di quanto già non fosse, Ofelia si preoccupò.
Lui però prevenne la sua domanda. - La dilatazione è il doppio dello scorso parto. Sarà una cosa veloce.
Il doppio? Era appena entrata in travaglio!
Ofelia cominciò a fare gli esercizi di respirazione che le aveva insegnato la levatrice, ormai collaudati. Thorn invece iniziò a farle impacchi tiepidi in fronte, a pulire quando serviva, e a stringerle la mano quando una contrazione particolarmente forte le dilaniava il ventre, rimanendo in silenzio nonostante la stretta dolorosa di Ofelia.
- Raccontami qualcosa - mormorò Ofelia dopo aver ripreso fiato, diversi minuti dopo.
Thorn le scostò i capelli dalla fronte, le tastò il ventre e controllò di nuovo la dilatazione, fermandosi lì davanti. Ofelia combatté l'impulso di chiudere le gambe. Il fatto che chiedesse proprio a lui di "raccontarle" qualcosa, lui, il padre che aveva l'abitudine consolidata di addormentare i figli a suon di tabelline, estrazioni di radici, potenze e assiomi algebrici, rendeva l'idea di quanto fosse disperata Ofelia. Avrebbe anche potuto recitarle l'alfabeto a ripetizione, non le importava. Le bastava sentire accanto la sua voce familiare, così profonda da farle vibrare i nervi e le ossa.
Cercò di ricacciare indietro le lacrime di commozione al pensiero di averlo lì, presente, disponibile, pronto. Lì per lei.
- Che nomi avevamo deciso?
Ofelia apprezzò il suo tentativo di distrarla. Era impossibile che Thorn avesse dimenticato i nomi che avevano scelto, il suo era solo un diversivo.
- Luke se è un maschio.
Luke, unione del Loke del Polo e del Luca di Anima.
- Astrid o Mirabelle se è una femmina.
- Astrid no, lo avevamo scartato - la corresse Thorn. - Dopo che hai conosciuto la cugina di madama Cunegonda che ti ha fatto vivere in pieno pubblico un'illusione di te e Archibald in... atteggiamenti intimi - concluse Thorn, arricciando le labbra in disapprovazione.
Ofelia cercò di scacciare il pensiero. Le erano servite delle settimane per smettere di arrossire guardando Archibald. Le illusioni di madama Astrid erano audaci quanto quelle di Cunegonda, a quanto si diceva in giro e, benché ad Ofelia non fosse assolutamente piaciuta l'esperienza, liberarsi di un simile pensiero era difficile. Aveva cercato di sfruttare Thorn per sovrascrivere i ricordi di quell'illusione, tanto che una volta lui si era addirittura rifiutato perché non voleva che lei pensasse ad un altro mentre stava con lui, seppur per dimenticarlo, né voleva essere uno strumento di sfogo. Ofelia si era vergognata così tanto che non aveva più provato a toccarlo per due o tre giorni, finché non era stato lui a cercarla, e a farle dimenticare definitivamente l'immagine di lei e Archibald.
Era successo quando Serena era ancora piccola, prima di Balder, e da allora Ofelia aveva diradato ancora di più le visite a corte. Lei non sarebbe stata per nulla felice se fosse successa una cosa simile a Thorn, e la sua natura gelosa gli aveva fatto vivere male quell'esperienza quanto lei.
Quindi Astrid, per quanto piacesse a Thorn, era stato definitivamente bocciato.
- Luke o Mirabelle.
- Tra poco lo scopriremo. Devi iniziare a spingere, Ofelia.
Ofelia prese un profondo respiro, cercando di ignorare Thorn che sistemava asciugamani e stracci sterilizzati, che chiedeva dalla tromba delle scale altra acqua calda per poi lavare il nascituro, che si sistemava di fronte a lei per tenere d'occhio la situazione.
Le strinse le mani per tutto il tempo, tenendo il ritmo, dicendole quando spingere, quando respirare, quando fermarsi. La aggiornò sullo stato di avanzamento del travaglio, dicendole ora che si vedeva la testa, ora il collo, e infine le spalle, la parte più difficile da far uscire. Le mani insanguinate non gli davano alcun fastidio, e si tergeva il sudore dalla fronte con il braccio, là dove la camicia risultava ancora, stranamente, immacolata. Quando Thorn non poteva allungarsi per prenderle la mano le stringeva delicatamente la caviglia, aiutandola a trovare la posizione migliore.
Se escludeva la sua voce e chiudeva gli occhi, le sembrava di sentire la levatrice, con le sue esatte parole. Si rilassò di conseguenza, e spingere divenne più facile. Non stava dando alla luce una vita solo lei, ma entrambi.
- Per fortuna non era podalico. Nonostante sia in anticipo era girato nel verso giusto - fece notare Thorn come se stesse commentando la bufera esterna. - Ci siamo.
Il parto più veloce di Ofelia, nemmeno cinque ore, si concluse venti minuti dopo, con il vagito di un neonato che squassò le fondamenta della locanda. Ofelia si mise a piangere, buttando fuori dal corpo, oltre al nuovo figlio, anche un'ansia divorante che non si era resa conto di provare da mesi.
Era nato. Stava bene. Non lo aveva perso, non lui.
Thorn iniziò a trafficare con il cordone ombelicale mentre Ofelia riprendeva fiato. Si accorse in quel momento di quanto i mobili della camera si fossero agitati insieme a lei: finalmente le ante dell'armadio smisero di vibrare, i vestiti al suo interno si afflosciarono e le coperte smisero di risvoltarsi da sole.
- Femmina - la informò Thorn, avvolgendo la piccola in un asciugamano quando ebbe finito e cercando di toglierle la vernice caseosa dal viso. - Mirabelle.
Ofelia si asciugò le lacrime e allungò le braccia. Thorn andò verso di lei, si sedette al suo fianco e le mostrò la bimba che piagnucolava piano.
- Benvenuta, Mirabelle - sussurrò, accarezzandole una gota piena, rosea, morbida e tonda.
Thorn le posò un leggerissimo bacio tra i capelli.
- Grazie, Thorn. Grazie - mormorò, toccandogli la mano, commossa.
Nonostante tutto, non era pentita di essere partita. Lo avrebbe rifatto.
Ofelia fece per attaccarsela al seno quando venne colta da un'altra contrazione, forte, e si sentì letteralmente dilatare nuovamente.
- Thorn, qualcosa non va.
Thorn scattò in piedi, strappandole quasi la piccola dalle braccia per controllarle i parametri vitali.
- Non lei - mormorò, rendendosi conto di quanto la sua pancia fosse ancora grossa. Non era mai successo.
- Emorragia? Il cuore? Cosa senti? - domandò a raffica Thorn, toccandole la fronte per capire se avesse la febbre.
Un'emorragia non avrebbe saputo gestirla. Sapeva che di solito si applicavano i lacci emostatici, ma non quando era interna e decisamente non in quella parte del corpo. Si sistemò di nuovo di fronte ad Ofelia, aprendole le gambe per cercare l'origine di quel qualcosa che non andava.
E spalancò gli occhi.
- Thorn? - lo chiamò Ofelia, allarmata.
Senza nemmeno rendersene conto, ricominciò a spingere. Era il suo stesso corpo a chiederglielo. Ma a spingere cosa, che la bambina era nata?
Poi comprese, e si stupì a sua volta.
- Gemelli - dissero contemporaneamente.
Thorn ricominciò a lavorare, a dirle cosa fare, a guidarla.
Cinque figli. Lei che in origine non aveva nemmeno voluto sposarsi. Che aveva detto a Thorn che non avrebbe condiviso il suo letto, figuriamoci una gravidanza.
E se Lisbeth fosse nata sarebbero stati sei.
Per sua scelta, ricordò a se stessa. Per loro scelta. Non per volontà di Sophie. Non per volontà di nessun altro.
E ne era felice.
 
Quaranta minuti dopo Ofelia stringeva al petto due neonate identiche e decisamente sazie. Thorn finì di sistemare come meglio poté gli stracci insanguinati e il resto di quello che aveva usato, e saggiò l'acqua della bacinella.
- Dieci minuti e le lavo.
- Vieni qui a riposarti - lo invitò Ofelia a occhi chiusi.
Il secondo parto, seppure rapidissimo, l'aveva sfibrata. Sentì il materasso ondeggiare sotto il peso di Thorn, che le tolse dalle braccia una delle figlie.
- Dobbiamo cercare un altro nome.
Ofelia scosse la testa. - Mirabelle.
- Non possiamo chiamarle tutte e due Mirabelle - replicò Thorn.
Ofelia non aveva bisogno di guardarlo per sapere che aveva la fronte corrugata, chiaramente contrariato.
- Mira, Belle. Mira e Belle. Sono gemelle. Non sono la stessa persona, ma dovevano essere una sola.
Thorn non replicò, accettando silenziosamente quel compromesso.
- È come se... - farfugliò Ofelia, sempre ad occhi chiusi, - come se Lisbeth avesse trovato comunque il modo di nascere. Lo so che è una cosa insensata e che loro non sono lei, però alla fine abbiamo una bambina in più.
- Basta figli - commentò solo Thorn, più freddo della tormenta fuori.
Ofelia si mise a ridere, voltandosi a guardarlo.
Lui scrutò la prima nata, Mira, come se volesse carpirne i segreti.
- Era statisticamente improbabile che non avessimo nemmeno un gemello. Sia la tua famiglia che la mia ne sono geneticamente portati. Anzi, mi sorprende che non siano arrivati prima.
Dopo quella dichiarazione romantica, Thorn si alzò e iniziò a lavare la neonata, svegliandola. Fortunatamente lei non si allarmò, più a suo agio nell'acqua che all'aria aperta. E decisamente contenta di avere così tanto a disposizione, invece di doversi contendere lo spazio con la sorella.
Dopo un silenzio interrotto solo dallo sciaguattìo dell'acqua, Thorn diede Mira a Ofelia e prese Belle. - Capisco cosa vuoi dire, comunque. Riguardo a Lisbeth. Perdiamo una bambina, e quando concepiamo la seconda ne otteniamo due.
- Lo so che non è lei, non sto asserendo questo - chiarì Ofelia, attirandosi un'occhiata di Thorn. - Penso solo che sia una coincidenza curiosa. Mi auguro che crescano sane e forti come Serena, Balder e Tyr.
- Escludi Tyr. Se dovessero essere forti la metà di lui, saremmo nei guai.
Ofelia sorrise, convenendo con lui su quel punto. Quando Thorn le porse anche Belle, pulita finalmente, Ofelia non ci mise molto ad addormentarsi. Si svegliò però quando Thorn la scosse per la spalla, spostando le bambine sul letto. Aveva ripulito tutto, fatto sparire sangue, bende, asciugamani e bacinelle e portato della biancheria nuova e pulita. Aiutò Ofelia ad alzarsi e ad espletare la pratica che Ofelia odiava di più tra tutto quello che riguardava il parto: rimuovere ogni traccia di corpo estraneo dall'utero per prevenire infezioni. Thorn non batté ciglio, nonostante l'imbarazzo di Ofelia, e le diede una mano a lavarsi frettolosamente in doccia. Quando tornarono in camera, le diede le neonate mentre lui cambiava le lenzuola.
Era quasi l'alba quando si sdraiarono per dormire, con le figlie in mezzo a loro.
- Mira e Belle - sussurrò Ofelia, tastando loro il collo per capire se avessero caldo o freddo.
Thorn le afferrò la mano prima che potesse allontanarla, stringendola con tenerezza. Ofelia invece si portò la sua alle labbra, baciandogli ogni nocca, tentando di trasmettergli con i gesti quella gratitudine, quella riconoscenza e quell'amore sconfinati che nutriva nei suoi confronti. Come al solito, non era in grado di esprimere a parole i suoi sentimenti, che erano così chiari dentro di lei, ma così complicati da rendere a voce. Thorn beveva sempre un bicchiere d'acqua prima di dire qualcosa di emotivamente coinvolgente, come se in quel modo potesse lavare i concetti che voleva esprimere e renderli al meglio, puliti e scevri di possibili malintesi. Infatti, nonostante la mancanza di calore, quello che diceva era sempre perfettamente intelligibile, grammaticalmente perfetto e oggettivamente interpretabile.
Era stato quasi più bravo della levatrice ad occuparsi del parto, ed era stato solo. Ofelia non sapeva come dirglielo. Avrebbe tanto voluto stringersi a lui quella notte.
- Partiremo domani pomeriggio se la tempesta si sarà placata. Non possiamo stare qui a lungo.
- Dove dormono la signora e il signore che ci ha accompagnati?
- Lei nella sua stanza, lui sul divano. Saprò ripagare entrambi, non preoccuparti di questo. Non sono mai venuto meno a un pagamento.
Ofelia non ne dubitava. - Ci sarà un bel trambusto quando ci vedranno tornare in quattro invece che in due.
- Il trambusto lo farà tua zia non vedendoci tornare oggi. Mi sorprenderei se al ritorno trovassimo la casa ancora intatta, e non diroccata e distrutta dalla sua ansia per la tua fuga.
Ofelia si tolse gli occhiali per non pensarci, come se la miopia potesse impedirle di vedere il futuro che l'attendeva. Baciò nuovamente la mano di Thorn, dopo averla ripresa.
- Grazie - mormorò appena.
Thorn si schiarì la voce. - Grazie a te.
- Per cosa?
- Per la famiglia che mi hai dato.
 
Riuscirono a partire il pomeriggio dopo. Thorn e il cocchiere lavorarono tutto il giorno per liberare la carrozza dalla neve, mentre l'anziana locandiera forniva ad Ofelia diverse pezze da usare come pannoloni per le bambine. Le lasciò cullare le neonate a lungo, sentendo il cuore stringersi quando la sentì mormorare, pensando di non essere udita, che lei avrebbe tanto voluto dei bimbi come loro, e un marito come quello della signora. Ofelia non aveva mai pensato che marito e figli avrebbero reso la sua vita significativa, non aveva nemmeno mai voluto raggiungere il suo pieno appagamento come madre e moglie. Ma si rese conto in quel momento di quanto sarebbe stata vuota la sua vita senza i suoi figli. Senza Thorn.
La signora preparò un pasto frugale che Ofelia dovette costringere Thorn a mangiare, e diede anche loro qualcosa come scorta per il viaggio. Ofelia vide Thorn estrarre dalla valigetta una busta che allungò all'anziana. Si rasserenò quando la vide impallidire e cercare di nascondere gli occhi lucidi, mentre quasi si inchinava di fronte a Thorn. Ofelia sperava che quei soldi potessero aiutarla a vivere in pace e comodità gli anni di vita che le rimanevano. Non aveva potuto avere l'amore di una famiglia e le ricchezze non potevano colmare quel vuoto, né farlo dimenticare, però potevano contribuire a realizzare qualche sogno.
Ofelia l'abbracciò forte quando fu il momento di partire, ingarbugliandosi nelle parole finché la locandiera non le fece cenno di tacere. Baciò la testolina delle sue figlie e depose un bacio in fronte persino a lei.
Mira e Belle furono più che tranquille per tutto il viaggio, al sicuro tra le braccia di mamma e papà, comode e al caldo. Piangevano solo quando si svegliavano per la fame o per essere cambiate, e mai come allora Ofelia si era sentita sfruttata: le sembrava di essere una mucca quando una neonata svegliava l'altra con le sue grida, costringendola ad attaccarle contemporaneamente al seno.
E a proposito di grida, Ofelia e Thorn si erano aspettati quelle della zia Roseline quando misero piede in casa. Rossa in viso per la collera e la preoccupazione come non mai, con lo chignon talmente stretto e le forcine talmente adirate che ci si aspettava che partissero come proiettili da un momento all'altro, Ofelia ebbe per la prima volta in vita sua paura della zia.
I bambini la seguirono a ruota, visibilmente sollevati, a parte Tyr a cui non sembrava interessare nulla della sorte dei genitori.
- Sciagurata di una nipote! Volevi spedirmi nella tomba insieme allo zio? Come ti è saltato in mente di andartene a zonzo per il Polo nelle tue condizioni? E se avessi avuto delle complicazioni, a chi avresti chiesto? Se ti fossi sentita male? E se addirittura il bambino fosse nato prima del previsto? Sei più testarda di una vecchia lavanderia e più ostinata di un tappeto logoro. Sei... cos'avete in braccio? Non dirmi che...!
Ofelia, fattasi piccola per i rimproveri, in parte effettivamente meritati, si avvicinò timidamente alla zia. - Vi presento Mira e Belle - disse, toccando un braccio di Thorn affinché scoprisse il visino della seconda gemella. - Sono nate ieri mattina.
- Sono precoci, ma i parametri vitali sono buoni e non hanno risentito del viaggio - spiegò clinicamente Thorn, in un tentativo, capì Ofelia, di rassicurare la zia Roseline.
Quest'ultima ondeggiò, quasi si sentisse mancare la terra sotto i piedi, totalmente stupefatta. - Gemelle?
Ofelia si strinse nelle spalle. - Questo spiega l'inusitata grandezza della pancia, e la difficoltà di Vittoria nel discernere il sesso del neonato.
- E dove hai dato alla luce queste due piccine? Nella carrozza? Che sconsideratezza e che vergogna!
- Nella camera di una locanda - rispose glacialmente Thorn. - Se permettete vorrei parlare con la levatrice per chiederle alcuni ragguagli sul parto.
- Sempre meglio che partorire in carrozza... - brontolò la zia Roseline.
Pose a Thorn un'altra domanda, ma Ofelia non sentì perché i bambini le andarono incontro tirandole la gonna. O meglio, Tyr e Balder tirandole la gonna, Serena era già abbastanza alta, troppo alta, per vedere cosa teneva in braccio.
- Mamma sono due sorelline? - domandò candidamente Balder. - Non una?
- No, sono due. Lei si chiama Mira, il papà tiene in braccio Belle.
- Che bello che sono due! Ma come mai sono due? Tu avevi solo una pancia! - indagò il bambino.
- Io voglio bene sovelline! - urlò invece Tyr, scappando via per chiamare Ilda.
Ofelia sospirò di sollievo di fronte all'entusiasmo di Tyr. Capriccioso e volubile com'era, sarebbe stato un grosso guaio se avesse deciso che le sue sorelle non gli piacevano. Nel frattempo si rilassò anche la sciarpa, che ricadde mollemente sul corpo di Mira; reazione opposta a quella della zia Roseline, che impallidì e guardò inorridita Thorn andarsene a grandi passi. Ofelia aggrottò la fronte, ma non riuscì ad indagare perché Serena richiamò la sua attenzione.
- Sono due i motivi per cui i gemelli possono nascere - spiegò Serena con una voce talmente simile a quella da intendente di Thorn che Ofelia sobbalzò. - Può essere che l'ovulo della mamma si sia scisso dopo essere stato fecondato da un solo spermatozoo del papà e in questo caso i gemelli sono uguali. Altrimenti possono essere due ovuli diversi fecondati da due spermatozoi diversi, e nasceranno gemelli diversi. Mira e Belle sono uguali, mamma?
Ofelia aveva la bocca secca tanto quanto la zia Roseline era bianca in viso. Quasi si sentì mancare.
Archibald si materializzò al suo fianco, sostenendola per la vita. - Adorabile Serena, sei una degna figlia di tuo padre, non c'è che dire. Sta per essere servita la cena e voi parlate di fecondazione? La tua erudizione è un vanto per il Polo, anche se un po' scioccante - gongolò mellifluo, facendo arrossire Serena. - Perché non spiegate a noi tutti come nascono i bambini?
Serena fece per aprire la bocca quando Balder e la zia Roseline la interruppero.
- Come nascono i bambini? – chiese il primo.
- Ti sembrano cose da insegnare ad una bambina della sua età, Ofelia?! Io ti ho parlato di questi... argomenti delicati quando mancavano ormai pochi giorni al matrimonio, non all'età di Serena! Che scempio, è più inadeguato di una forchetta usata come pettine!
Ofelia si trattenne dal dire alla zia che certe cose le aveva scoperte in un libro del museo ancora prima dell'età di Serena, anche se non aveva capito granché. E anche che lei non le aveva spiegato proprio nulla, per fortuna, perché quando alle terme aveva fatto notare che avrebbero dovuto prepararla per ciò che sarebbe avvenuto in seguito al matrimonio, Ofelia si era dileguata.
- È biologia, zia Roseline - la corresse Serena, imperturbabile.
Fortunatamente Thorn e la levatrice rientrarono nel salone, il primo con espressione funerea, la seconda tenendo in braccio Belle. Era trafelata come se Ofelia stesse per partorire in quel momento, invece di aver concluso il giorno prima.
- Mia signora vi prego sedetevi, non dovreste stancarvi troppo - la pregò, indicandole subito il divano.
In effetti Ofelia si sentiva leggermente spossata. Il viaggio in carrozza non era stato molto confortevole, ma almeno non era dovuta rimanere in piedi. Però aveva affrontato un parto gemellare poche ore prima, non era il caso che si affaticasse troppo, per evitare di sottoporre il corpo ad uno stress eccessivo. Starnutì.
Le sarebbe di sicuro venuto il raffreddore.
Mentre la levatrice visitava lei e le neonate, ponendo domande ora sul suo stato di salute ora sulle dinamiche del travaglio, Ofelia cercò di rassicurare i figli più grandi. Serena e Balder continuavano a guardare le sorelline, Balder con curiosità e Serena con evidente sollievo. Solo vedendo distendersi la piega sulla sua fronte Ofelia si rese conto di quanto dovesse essere stata in pensiero la figlia. Balder allungò le braccia per farsi prendere da Thorn, che si chinò come un automa per tirarlo su continuando a parlare con l'anziana. Archibald invece sventolava la zia Roseline perché si riavesse. Ofelia lo vide anche servirle un goccetto di grappa, che la zia buttò giù come fosse acqua. Infatti poi il viso le prese fuoco. Archibald la guardò ammiccando, contento come i figli di Ofelia.
- Anche io braccio! - esclamò Tyr correndo un po' storto con Ilda e Renard al seguito.
Il bambino esitò un po' notando lo sguardo severo del padre dall'alto della sua statura smisurata, ma allungò le braccia con decisione quando vide Balder sorridere. L'idea di imitare il fratello maggiore era più allettante di qualsiasi reticenza potesse avere nei confronti del padre. Ofelia vide però i tratti spigolosi del viso del marito ammorbidirsi quasi impercettibilmente quando Tyr gli serrò le braccia al collo, ridendo contento. Ofelia si sorprendeva sempre quando dimostrava la sua inaspettata forza in quel modo. Era così magro da sembrare in procinto di spezzarsi ogni volta che faceva qualcosa, ma non era il caso di sottovalutare Thorn. E Balder era ormai pesantino, dall'alto dei suoi cinque anni.
Ilda fece una boccaccia a Tyr e si attaccò alla gamba di Renard, che aveva già in braccio Randolf e Salame sull'altra spalla. Imitando Thorn, prese anche lui la bimba, mormorandole un: - Attenta al gatto, piccola bionda.
Poi guardò Ofelia con un mezzo sorriso. - I colpi di scena sono il vostro punto di forza, ve lo concedo. Non solo un parto in mezzo, letteralmente, ad una tempesta, ma addirittura gemelle?
Ofelia si strinse nelle spalle, trovando difficile non rispondere al sorriso di Renard.
- Catastrofi, non colpi di scena - lo corresse Thorn. - Catastrofi, sciagure, sovversioni delle probabilità e tempismo nella scelta di momenti e luoghi inopportuni.
Renard guardò Thorn stupito, chiedendosi, come Ofelia, se fosse serio o avesse provato a fare del sarcasmo.
- Direi un... non ottimo lavoro, ma buono. Molto buono. Io non... complimenti, mio signore - balbettò la levatrice rimettendo Mira tra le mani di Ofelia, a cui l'aveva sottratta per controllarla. - Le piccole sono in salute e mi pare anche la signora sua moglie. Nemmeno la mia apprendista avrebbe saputo fare di meglio.
Ofelia si sentì orgogliosa come non mai di Thorn e della sua memoria, soprattutto perché in quel frangente erano andati a suo beneficio. Cosa avrebbe fatto se lui non avesse assistito all'ultimo parto?
- Direi che è il caso di festeggiare, allora! Questa sera vino offerto per tutti! - gioì Archibald, allontanandosi dalla zia Roseline.
Thorn gli lanciò un'occhiata glaciale. - Il vino è offerto ogni sera. Bevuto per il settantasei percento da voi.
- E per il ventisei da me, caro nipote? - si intromise Berenilde, facendo un'entrata trionfale in salotto insieme a Vittoria, che trovava particolarmente divertente fissarsi i piedi. - Per quale motivo dovremmo gio...?
Le parole morirono sulle belle labbra di Berenilde, che fissò le due neonate come se fossero delle apparizioni.
- Voi ne bevete il ventuno percento. Ventisei e settantasei non fanno cento - la corresse Thorn, incapace di soprassedere di fronte ad un calcolo tanto grossolanamente sbagliato.
- Gemelle? - mormorò Berenilde, avvicinandosi.
Ofelia le passò Mira, poco sorpresa di trovare nello sguardo della madama commozione, nostalgia, desiderio e un profondo affetto.
- Chi l'avrebbe mai detto che la discendenza più numerosa sarebbe arrivata proprio da voi e da mio nipote? Padre Vladimir sarebbe infuriato se fosse ancora vivo.
- Freya ha avuto tre gemelli - le fece notare Thorn.
- Solo quelli. Tu hai cinque figli. Ne avresti avuti sei.
Thorn irrigidì la mascella e lanciò un'occhiata ad Ofelia. - Non era mia intenzione competere sul numero di figli - mise in chiaro, come se una simile questione sminuisse le decisioni che avevano preso lui e Ofelia.
- E a chi assomigliano queste piccine? - lo ignorò Berenilde, accarezzando una guancia di Mira e sporgendosi per guardare anche Belle. - E come si chiamano?
- Mira in braccio vostro, Belle sua sorella. Mi pare che siano un connubio della mia famiglia e di quella vostra, anche se è presto per dirlo. I pochi capelli che hanno sono rossicci, gli occhi sembrano chiari, forse azzurri - spiegò Ofelia a bassa voce.
Un miscuglio delle due famiglie, non di lei e Thorn: lei aveva i capelli scuri, non rosso-ramato come Agata o Hector, mentre Thorn aveva gli occhi di un insondabile grigio, non azzurri come Berenilde o i fratellastri.
Serena era sia Thorn che Ofelia.
Balder era Ofelia.
Tyr era Thorn.
Mira e Belle erano animiste e Draghi.
Di sicuro non potevano lamentarsi di aver generato dei figli fatti con lo stampino: non avrebbero potuto essere più diversi tra loro, anche caratterialmente. Ma era davvero affrettato dirlo in quel momento: il colore dei capelli poteva cambiare radicalmente da bambine, e il colore degli occhi si definiva solo dopo un anno.
- Mamma! - urlò Ilda improvvisamente, facendo sussultare tutti.
Gaela si palesò alle loro spalle, prendendo in braccio la figlia che si era messa a calciare perché il papà la mettesse giù. - Ah, siete tornati... - bofonchiò a mo' di saluto, togliendosi il monocolo che occultava il suo potere da Nichilista. Fortunatamente a casa di Ofelia e Thorn non c'era la minima illusione. - Cos'è questo trambusto?
Ofelia la vide sgranare gli occhi di fronte alle nuove aggiunte di quella casa, ma non riuscì a dire a Balder di coprirsi le orecchie quando Gaela si lasciò andare con uno: - Porco bullone! - di sorpresa.
Ovviamente però non era di Balder che avrebbe dovuto preoccuparsi.
- Pocco bullone! - urlarono infatti Ilda e Tyr, contemporaneamente.
Inutile dire che la cena fu parecchio movimentata, tra Thorn che cercava di far smettere Tyr di urlare imprecazioni, le gemelle che piangevano, reclamando il pasto e stufe di essere passate di braccia in braccia, Serena che snocciolava lezioni di biologia, anatomia e riproduzione a cui Archibald era particolarmente interessato e di cui la zia Roseline era altamente scandalizzata, e Berenilde che sproloquiava di quello che avrebbe raccontato a corte, di come i Draghi sarebbero tornati in auge nel giro di pochi anni, sotto le luci della ribalta.
Ofelia evitò di farle notare che al momento solo Balder aveva dimostrato di possedere gli artigli, e che ne era talmente spaventato da non volerli nemmeno nominare, figuriamoci usarli.
Però guardò il volto di ogni persona che sedeva a quel tavolo, ogni amico e ogni familiare con cui era arrivata fin lì, e anche i domestici che sotto quel tetto se sentivano lavoratori, non schiavi e non sfruttati. Pensò a tutto quello che avevano guadagnato in quegli anni, a com'erano cambiate le loro vite, agli ostacoli superati e alla forza dimostrata.
Guardò la sedia vuota del prozio, strinse la sua collana, e pensò a quello che avevano perso. Ma anche a ciò che era rinato in seguito.
Guardò Thorn, la sua figura rigida, svettante sul tavolo, i capelli biondo-argentei che iniziavano a diradarsi, la barba chiara che gli copriva le guance come la prima neve, le cicatrici che ricordavano violenza ma insegnavano guarigione, il naso affilato, gli occhi metallici penetranti, la fronte perennemente corrugata, le labbra sottili che sorridevano così raramente e le mani grandi e affusolate, bianche, morbide, calde, abili, capaci di fare qualsiasi cosa, di usare violenza se era per forza necessario per proteggere eppure così delicate con lei e i bambini.
Il suo cervello matematico e calcolatore sembrava essere dotato di ingranaggi talmente complessi, piccoli e intricati da rendere difficile capirlo immediatamente, come un mistero da svelare, ma la vera persona che lui era, quella nascosta, quella visibile solo a chi voleva fare lo sforzo di conoscerlo, valeva la pena di quella fatica.
Tutta la vita era un insieme di ingranaggi, come nel lavoro di Gaela. Ogni tanto qualcuno si rompeva, ogni tanto se ne aggiungeva uno nuovo, e ogni tanto l'usura rendeva necessaria una riparazione. Alcuni venivano sostituiti e piazzati da altre parti, divisi, altri venivano fusi. Complessi macchinari sociali, di rapporti interpersonali, di burocrazia e intrighi, di cui tutti loro non erano che una piccola, minuscola parte. Ma se si guardava da vicino, quel piccolo meccanismo che rappresentavano diventava enorme. Erano parte di qualcosa di grande.
E Ofelia era felice di farne parte insieme a tutti loro.

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Capitolo 50
*** Capitolo 50 ***


Lo so che è terribilmente corto, MA è voluto perché sono una persona sadica e volevo lasciarvi con il fiato sospeso sul più bello ahahaha. O il più brutto, dipende.
Non so mai se amare od odiare gli scrittori che mi terminano il capitolo con una frase ad effetto o una rivelazione shock, mandando a monte i miei piani di arrivare fin lì e poi chiudere il libro. Sembra che vogliano dire: "Eh no cara, continua a leggere, cosa chiudi?".
In più, sono dell'idea che se leggi un fine capitolo scialbo, non ti viene voglia di iniziare subito il successivo. Quindi vi faccio penare <3
Dopo questa dose di amore, sappiate che il tempo vola, letteralmente in questo capitolo, quindi se vedete dodici età diverse per i personaggi è tutto normale, voluto e calcolato, ho preso appunti. Bisognerà farli crescere questi bambini no?
Sempre grazie a chi continua a seguirmi senza stufarsi o mandarmi a quel paese!

Capitolo 50

 
I giorni, i mesi, gli anni successivi volarono così in fretta che Ofelia si chiese se non ci fosse un altro clan al Polo, un clan di cui le avevano taciuto l'esistenza, in grado di manipolare il tempo.
Le gemelle furono abbastanza tranquille nei loro primi mesi di vita, perciò a Tyr venne affidato ufficialmente il titolo di neonato più irrequieto, seguito subito dopo da Ilda. I due non si separavano mai, avevano un legame profondo quanto quello di Tyr con i fratelli. Ilda era però più furba di Tyr, e riusciva sempre ad evitare di essere beccata con le mani in pasta, al contrario dell’amico, che si era quindi aggiudicato il nomignolo di Tyr il Terribile.  Guardando come Ilda lo induceva a fare tutto quello che voleva, Ofelia si rese conto che il terzo figlio non brillava per intelligenza quanto i fratelli maggiori, nonostante non fosse stupido. E si chiese anche a cosa avrebbe portato quell'amicizia così stretta nel corso degli anni.
Per quanto riguardava Balder, era l'unico che riuscisse in qualche modo a calmare il fratello, proponendo spesso giochi tranquilli che permettevano a Tyr di sfogare la sua energia senza però arrecare danni a cose o persone. Gli oggetti nei paraggi spesso si ritraevano o tremavano di paura quando il bimbo li adocchiava per sfruttarli in qualche gioco dallo scopo ignoto ma decisamente molesto. Erano uno strano trio, Balder, Tyr e Ilda, ma riuscivano ad andare d'accordo e divertirsi in un modo che sfuggiva alla comprensione di tutti.
Serena invece era già grande per i giochi. Lei passava le giornate nello studio di Thorn a leggere qualsiasi materia le capitasse sotto mano, che il padre ci fosse o meno. Oppure partecipava con interesse alle lezioni di etichetta di Berenilde, che aveva perso ogni speranza di riuscire ad insegnare qualcosa ad Ofelia.
- Come mai non giochi mai con gli altri? - le chiese un giorno Ofelia. - Vuoi entrare a corte, che fai tutte queste lezioni con Berenilde?
Serena scosse la testa bionda, chiudendo il libro e alzando i grandi occhi scuri su di lei. - Voglio diventare intendente come papà, e per farlo mi servono le lezioni della zia. Devo avere a che fare con persone importanti!
Ofelia era rabbrividita di fronte all'acume della figlia, che ad appena nove anni aveva capito più cose di quanto avrebbe voluto. Quando ne parlò con Thorn, però, lo vide aggrottare la fronte. Non c'era mai stato un intendente donna, anzi, al Polo i ruoli di prestigio erano raramente occupati dalle donne.
- Ma l'ambasciatrice che ha preso il posto di Archibald, sua sorella, lo è - gli fece notare Ofelia.
- Vedrò cosa possa fare - rispose laconicamente lui, chiudendo l'argomento.
Gli animisti andarono a trovare le nuove nipoti quando ormai erano già grandicelle, facendo platealmente sospirare Thorn di sollievo quando un mese dopo levarono le tende. Quella visita lasciò in Ofelia e nella zia Roseline tanta nostalgia per il prozio, e in Berenilde la conferma che nel giro di qualche anno avrebbe dovuto organizzare il matrimonio di Vittoria con Tom, talmente innamorato della bella e candida figlia di Faruk da averle portato in dono delle matite colorate nuove e dalle sfumature mai viste prima, e un blocco bianco da disegno. Vittoria impiegò due giorni a realizzare il più bel disegno che avesse mai creato: due giovani che si tenevano per mano nei giardini pensili del Polo, fin troppo simili a come sarebbero potuti diventare lei e Tom nel giro di qualche anno. Almeno le chiacchiere da matrimonio avevano tenuto Agata distante da Ofelia, che aveva potuto concentrarsi su Hector e la moglie, parlando incessantemente della gestione del museo e delle novità familiari, e sulle tre sorelle, innamorate di Mira e Belle al punto da contendersele.
Ofelia ringraziò che le sue, di gemelle, fossero solo due e non tre.
Con il passare dei mesi Tyr mostrò sempre più palesemente la sua avversione per Thorn, che dal canto suo non aveva fatto nulla per meritarsela. Però obbediva solo a lui, e solo quando parlava in quel modo gelido capace di far sembrare caldo un iceberg, al confronto. Tyr si quietava, sì, ma mettendo il broncio e guardando trucemente il padre, a cui non voleva mai dare il bacio della buonanotte come invece facevano sempre Balder e Serena.
- Vuoi bene a papà, Tyr? - gli chiese un giorno Ofelia mentre cambiava le gemelle con il figlio di fianco, curioso. Il suo essere così scostante nei confronti di Thorn iniziava a preoccuparla, non voleva che il marito avesse una ricaduta a livello di autostima e sicurezza in sé dopo tutto quello che aveva così duramente conquistato.
Tyr impiegò un po' troppo a rispondere: - Sì.
Ofelia sentì il cuore alleggerirsi, nonostante la laconicità di quella risposta. - Allora perché lo tratti male?
Quel giorno Tyr era particolarmente tranquillo e riflessivo. Si attaccò alla gonna di Ofelia mentre rispondeva: - Papà cattivo.
- Ti ha mai sculacciato? Ha mai urlato? È mai stato ingiusto? A me non sembra che il papà sia cattivo, Tyr. E ti sgrida perché è giusto essere sgridati quando si sbaglia.
Tyr si allontanò da lei come se l'avesse offeso, scosse la testa e se ne andò a cercare Ilda.
Ofelia temeva che la sua fosse diventata una sorta di gelosia verso Thorn per via dell'ammirazione che Balder e Serena nutrivano nei suoi confronti. Lui adorava i fratelli maggiori, e loro adoravano il padre, che lui faticava a capire perché era sempre serio e impegnato a lavorare. I più grandi questo lo comprendevano, Tyr no.
Quando finalmente lui e Ilda iniziarono ad andare a lezione da Renard, Ofelia poté tirare un sospiro di sollievo. Per Renard, invece, iniziarono i grattacapi.
Dopo una settimana lo vide uscire dall'aula con i capelli talmente sparati in aria da farli sembrare realmente infuocati.
- Il mio vero lavoro comincia ora - mugugnò ad Ofelia, stralunato. - Con Serena e Balder temo sia stato fin troppo, troppo facile, ragazzo. Non so come farò a tenere buoni Tyr e Ilda, dovendo badare anche a Randolf.
- Lasciatelo a me - suggerì Ofelia pacatamente.
- Avete già due gemelle a cui badare.
Ofelia si strinse nelle spalle. - Randolf è più grande di loro, e più tranquillo. Da due a tre la differenza è poca. I più piccoli sono degli angioletti in confronto ai fratelli maggiori.
In effetti, sembrava che l'annata peggiore fosse stata quella di Ilda e Tyr. Ofelia aveva avuto paura al pensiero che anche gli altri bambini fossero come loro, invece era andata talmente bene che si sarebbero dovuti baciare le mani.
Il primo mese fu talmente estenuante per Renard che Ofelia si offrì di dargli una mano in aula, se non altro per contenere Tyr o cercare di tenerlo separato da Ilda. Non che lei fosse l'immagine della calma e della pace, però tendeva a starsene leggermente più buona di Tyr quando lui non era nei paraggi.
Renard però le chiese gentilmente di evitare: se fosse stato sempre sorretto da qualcuno, non avrebbe mai potuto migliorare nel suo lavoro e ottenere dei risultati. Così Ofelia lo assecondò, passando le giornate ad occuparsi di Mira, Belle e Randolf, ascoltando poi nel pomeriggio i resoconti di Renard: Tyr che lanciava palline di carta a Ilda, Ilda che copiava, tutti e due che si mettevano a disegnare anziché scrivere, le chiacchiere incessanti, le continue distrazioni per giocare con Salame o con i gessetti o con i capelli di Balder o con qualsiasi altra cosa che comportasse il non stare attenti a quello che Renard diceva. Nemmeno la tecnica della caramella se facevano i bravi funzionava, perché i bambini imbrogliavano palesemente pur di ottenerne una, o si coalizzavano per rubargliele.
Finché un giorno Renard si presentò a pranzo con un sorriso trionfante sul volto, sedendosi con aria orgogliosa e soddisfatta. Randolf cercò di imitarlo mentre alzava le braccia per farsi prendere da lui, e l'effetto fu a dir poco comico. Quel bimbo era fin troppo buono, soprattutto considerando quanti dispetti gli faceva Ilda. Ma lui era innamorato della sorella e non c'era maltrattamento che non trovasse divertente.
- Ottenuto qualche risultato? - chiese Ofelia a bruciapelo.
- Sanno leggere.
Ofelia sorrise. - Come ci siete riuscito?
- Bastava toccare il tasto giusto. Questa mattina mi sono ritrovato a pensare alle clessidre, ricordate? Avere quelle in mente permetteva a noi valletti di rimanere concentrati sul lavoro, in attesa di ricevere quella ricompensa. Un po' come la caramella, ma con loro non ha funzionato. Però, invece di cercare di fargli ottenere qualcosa che non aveva a che fare con la lezione, come appunto una caramella, ho pensato a cosa avrebbero potuto desiderare che riguardasse le materie.
Ofelia scosse la testa. - Cosa intendete?
- Chi leggerà a Tyr la storia del guerriero da cui ha preso il nome quando sarà grande e reputato abbastanza autonomo da poterlo fare da solo? Non voi, non il signor intendente. Perciò deve imparare per poterlo fare da solo. Anche se quella storia la sa a memoria, visto che ha il potere del padre… Strano, ma ha funzionato. Con Ilda è bastato farle notare che potrà leggere da sola i manuali della mamma e quindi diventare brava come lei più in fretta.
Ofelia ammirava Renard, sia per la sua tenacia che per la dedizione al lavoro, qualunque fosse. Non era per caso che lo aveva scelto come suo consigliere, all'inizio.
- Complimenti. Come pensate di insegnare loro anche a scrivere?
Renard si rabbuiò appena. - A quello devo ancora arrivare, ma sono certo che troverò un modo.
La conversazione si interruppe perché Tyr pensò bene di spargere il sale su tutta la tavola, facendo inviperire la saliera e la pepiera quando arrivarono a tavola anche Berenilde e la zia Roseline, ma Ofelia era certa che Renard avrebbe fatto un ottimo lavoro nell'istruire i bambini.
Nei mesi successivi infatti Ofelia lo trovò spesso intento a studiare manuali pratici nello studio di Thorn, sempre alla ricerca di qualche nuovo metodo o trucchetto da usare per catturare l'attenzione di Tyr e Ilda. La cosa funzionava a meraviglia, dato che spesso Tyr si metteva a raccontare tutto quello che aveva imparato davanti a Thorn e Ofelia. Serena interveniva meccanicamente, come se non potesse farne a meno, per correggerlo e colmare alcuni vuoti di memoria che lei, ovviamente, non aveva, ma persino Thorn era rimasto sorpreso dal lavoro certosino di Renard.
Sorpreso al punto da aumentare la retribuzione di Renard, a insaputa di Ofelia.
- Non è necessario accrescere il mio salario già più che generoso - esordì lui una mattina, ansioso.
Ofelia lo guardò con gli occhi sbarrati.
- Come, scusate?
- Vostro marito ha aumentato il mio salario, ma non ce n'era bisogno. 
Ofelia afferrò per mano Mira che aveva appena iniziato a camminare, distraendola dall'amico. E nel giro di poco avrebbe imparato a sgattaiolare via pure Belle, nonostante fosse più incline a starsene in braccio...
- Più bambini significa più lavoro. Mi sembra corretto - rispose, facendo sospirare Renard.
Saggiamente non era più tornato sull'argomento: discutere con due testardi come Thorn e Ofelia era inutile.
Serena cominciò ad addestrarsi con lei per imparare come si eseguiva una perizia di lettura, come ci si estraniava dall'immersione per non perdere coscienza di sé, mentre Balder seguiva le lezioni ma non partecipava, ancora troppo piccolo per esercitarsi. Inoltre il suo potere non era sviluppato come quello di Serena, che sembrava avere quella perfetta miscela di memoria e lettura per poter sfruttare al meglio quel potere. Come avrebbe voluto Thorn per sé, inizialmente.
Balder non utilizzò più gli artigli, troppo terrorizzato da quel dono, così si concentrò sul miglioramento dell'influenza che esercitava sugli oggetti, con grandissimo malcontento di Berenilde a cui sembrava di vivere in una casa infestata dai fantasmi.
Scoprirono invece il potere di Tyr nel peggiore dei modi, qualche anno dopo.
Ofelia una volta aveva chiesto a Thorn il permesso di andare all'esterno delle mura di Città-cielo, temendo di non riuscire più a distinguere realtà e illusioni. Non si poneva il problema per i bambini, perché in casa non ce n’erano: se i cuscini erano sdruciti si cambiavano, non venivano ammantati di un velo di menzogna lasciandoli tutti lacerati; se c'era un buco nel pavimento o una crepa sul muro, venivano riparati. E le tazzine... da Berenilde erano quasi tutte sbeccate, eppure continuavano ad essere usate perché sembravano nuove e intatte. Con tutte quelle che rompeva Ofelia e che il prozio non poteva più riparare, invece, la governante aveva imparato a fare ordini periodici di stoviglie per non rimanere mai senza.
Però Ofelia non trovava né giusto né salutare tenere i bambini in casa per paura di qualche nemico o solo perché non era di moda farli giocare fuori. Lei era cresciuta su Anima, sulle sue adorate colline, dove andava a scarpinare, e cadere, con fratelli e cugini, che fosse estate o inverno, caldo o freddo, pioggia o sole, che ne avesse voglia o meno. Così portava i bambini fuori, insieme alla zia Roseline e a Renard, ma non a Berenilde, a camminare nelle vere zone della città, quelle dimenticate, abbandonate al punto di non necessitare di illusioni. Oppure, visto che ai bambini piaceva di più, nei giardini pensili, in quel tripudio di fiori, profumi e colori che li spingeva sempre a spogliarsi e correre per il prato, per quanto illusorio.
Ofelia aveva cercato di spiegare loro che quello che vedevano non era vero, che anche se pensavano di avere caldo l'aria era in realtà gelida, i fiori non c'erano e non era primavera. Serena aveva capito, e Balder anche, ma le gemelle erano troppo piccole per rendersene conto mentre Tyr... se ne fregava. A lui bastava poter sfogare l'energia in esubero, cosa che Ofelia era più che felice di fargli fare, piuttosto che avere un bambino irritabile e scalmanato in giro per casa.
Crescendo aveva iniziato a lasciar dormire i genitori tutta la notte per fortuna, e aveva decretato che camera sua, che in realtà era camera di Serena, che poi aveva voluto con sé Balder e alla fine si era aggregato Tyr, era zona solo maschi, e quindi sua sorella doveva andarsene.
Serena era rimasta male di fronte a quell'affermazione, ma aveva accettato di buon grado di trasferirsi in un'altra camera quando Ofelia le aveva detto che le sue sorelle potevano andare con lei, se lo voleva. Serena aveva undici anni e le sorelline tre, per cui Ofelia non dubitava che la maggiore sarebbe stata in grado di chiamarla se qualcosa fosse andato storto durante la notte. Balder in compenso aveva tenuto il broncio sia a Tyr per aver cacciato la sorella da cui era dipendente sia alla sorella stessa, per aver ceduto così facilmente. Tyr si era pentito del suo gesto per circa tre minuti, prima che arrivasse Ilda. Le aveva sbarrato l'accesso alla camera, facendole una linguaccia e cantilenando che lei era una femmina e non poteva entrare.
In risposta, Ilda lo aveva spinto facendolo cadere contro il letto ed entrando di prepotenza. Balder era rimasto immobile con gli occhi sgranati dietro gli occhiali.
- Vieni a giocare? - gli aveva chiesto Ilda come se nulla fosse successo.
Balder si era affrettato a seguirla, temendo lo stesso trattamento, mentre Tyr aveva girato le spalle a tutti ed era rimasto da solo nella loro camera solo per maschi.
- Te la sei cercata, Tyr - aveva detto gravemente Thorn quando la sera il bambino si era arrampicato in braccio alla mamma, nonostante fosse ormai troppo grande, mentre i suoi fratelli e i suoi amici giocavano tranquillamente sul pavimento del salotto.
Tyr aveva risposto girandosi dall'altra parte, per poi andare a saltare sul letto per un'ora intera. Era dovuto intervenire Thorn, con il suo cipiglio severo, per farlo smettere.
Da quel momento Ofelia li portava tutti fuori almeno due volte alla settimana, e Tyr sembrava essersi calmato. Si era fatta inviare una palla dalla sua famiglia su Anima, dato che lì al Polo non sapevano nemmeno cosa fosse un tale oggetto. Ci credeva che i bambini del Polo crescevano in quel modo, se non erano neanche liberi di giocare a palla. Al Cavaliere avrebbe fatto bene, in passato, giocare con gli altri bambini... Altri bambini che iniziarono a presentarsi nei giardini prima con timidezza e poi con la consueta arroganza degli aristocratici. Merito, o forse colpa, di un nuovo articolo del Nibelungen, decisamente poco lusinghiero come al solito, che sosteneva che oltre ad appropriarsi di una terra che non spettava loro in quanto immigrate, ora Ofelia e la progenie si comportavano come se il Polo fosse il loro parco giochi privato. Almeno su quell'ultima questione il nuovo direttore del giornale dopo Cechov aveva avuto ragione: i giardini erano davvero diventati il parco giochi dei bambini.
Vinte le remore iniziali e l'arroganza sostenuta delle mamme e dei loro figli di fronte a quell'inusuale novità, i bambini si lasciarono trainare dalla curiosità, avvicinandosi prima con circospezione e poi con audacia al cerchio composto da Tyr, Ilda, Balder, Serena e talvolta Vittoria. Mira, Belle e Randolf erano troppo piccoli per riuscire a tenere in mano un pallone, lanciarlo e tirarlo, quindi si limitavano a scorrazzare tra i fiori, ridendo come dei matti. Ofelia era meravigliata di fronte alla qualità e alla precisione di quelle illusioni. Se solo i Miraggi avessero usato il loro potere con generosità e altruismo, avrebbero potuto creare delle meraviglie, diventare degli artisti indiscussi.
Nonostante l'iniziale avvicinamento dei bambini, però, nessuno strinse amicizia. Era come se si fossero formate due coalizioni, i figli di Ofelia e Renard contro i figli degli altri aristocratici, dai Miraggi alla Rete, ognuno con il suo tatuaggio chiaro ed evidente. Era una sottile forma di discriminazione implicita che a Ofelia faceva stringere il cuore: su Anima non c'era nulla del genere, e quando le divisioni venivano fomentate già da piccoli, da adulti odio, rancore, invidia e separazioni sarebbero state esacerbate.
Ecco com'era il Polo.
I bambini giocavano insieme ogni volta che potevano, ma divisi in squadre sempre uguali: i tre fratelli con Ilda e Vittoria, e gli altri nella squadra avversaria. I primi mesi si divertirono, probabilmente perché gli incontri non erano regolari e quelle poche volte che i bambini erano numerosi sfruttavano il momento per divertirsi e non fare la guerra.
Quando però ormai Tyr aveva quasi sette anni, iniziarono a vedersi più spesso con tutti, e fu impossibile impedire che il gioco si trasformasse in competizione, e la competizione in rivalità e antipatia.
Se Ofelia non fosse stata così impegnata a correre dietro alle gemelle che scappavano dappertutto insieme a Randolf, confondendo sia lui che la madre su chi fosse Mira e chi Belle, avrebbe notato che i bambini si portavano spesso una mano alla testa con la fronte aggrottata, altre volte si allontanavano oppure si grattavano, come in preda ad un fastidio.
Avrebbe notato che, con il passare dei giorni, sempre più bambini si comportavano in quel modo, addirittura andandosene nei casi peggiori. E avrebbe notato che quelli che soffrivano di emicranie più di frequente erano quelli che Tyr guardava con ira e insofferenza, irritato dal loro comportamento o dai punti che mettevano a segno, sbeffeggiandoli come in qualsiasi partita.
Era un pomeriggio mite per i canoni del Polo quando Tyr usò gli artigli per la prima volta. Thorn aveva raggiunto la famiglia e Renard nei giardini perché aveva del lavoro da svolgere da quelle parti e voleva accertarsi che filasse tutto liscio. Ofelia gli aveva riferito delle partite che facevano, del modo in cui Tyr sfogava l'energia in eccesso, ma anche di come se la prendesse di fronte alla sconfitta.
I bambini non videro nemmeno Thorn quando arrivò, talmente presi dal gioco da non accorgersi di quella figura alta e rigida che controllava tutto dall'alto con il suo naso affilato.
- Sei arrivato prima del previsto - lo accolse Ofelia, spostandosi un po' sulla panchina per fargli posto.
Thorn non si sedette, aprì il suo orologio da taschino, impugnò la sua fedele penna per scrivere un appunto sul fascio di fogli che teneva in mano e borbottò un saluto all'indirizzo delle gemelle che gli si attaccarono alle gambe. All'appello mancavano solo la zia Roseline e Archibald, per una volta era andata con loro anche Berenilde.
- Sono in anticipo di dieci minuti, potrò trattenermi per nove. C'è qualcosa che dovrei sapere?
Come se si fosse rivolto all'intero ambiente e non solo ad Ofelia, Thorn scrutò il giardino, posò gli occhi su Renard e Randolf, rivolse un cenno a sua zia e si mise infine a contemplare la partita, strizzando gli occhi per vedere meglio.
- Nulla di nuovo. Sei andato a vedere il mio studio?
- Niente vandalismo o segni di tentata effrazione questa volta. Quando deciderai di tornarci avvierò le pratiche per la riapertura - rispose con voce atona lui, continuando a fissare Tyr e la partita. Sempre più corrucciato.
Il bambino e un altro ragazzino si stavano squadrando in cagnesco, Serena lo pregava di ricominciare a giocare e lasciar stare. Ma nemmeno l'adorata sorella sembrava in grado di farlo desistere.
Fraintendendo il suo sguardo, Ofelia mormorò a mezza voce: - Non pensare sempre che Tyr ce l'abbia con te o con gli altri. È solo...
Ma un istante dopo Thorn non c'era più. Ofelia osservò la scena come se si svolgesse al rallentatore, talmente stupita da non lasciarlo nemmeno trapelare in volto. Con una velocità impensabile Thorn si diresse a lunghe falcate verso Tyr, i fogli che gli volavano alle spalle, abbandonati.
- Figlio di un bastardo! - esclamò il ragazzo con cui Tyr aveva ingaggiato la battaglia, sputandogli le parole addosso con l’intento di ferire.
- Mio padre non è un bastardo! - urlò Tyr, gli occhi chiari improvvisamente gelidi come quelli di Thorn. E carichi di un astio e una furia che la spaventarono.
Poi Thorn si frappose tra i due, lo sguardo rivolto verso Tyr, le braccia allargate.
La giacca intrisa di sangue.
 

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Capitolo 51
*** Capitolo 51 ***


Buongiorno/pomeriggio/sera/notte a tutti!! Scusatemi per l'attesa e per avervi lasciato sul più bello.
Tanto lo rifarò a fine capitolo xD
Ops ahahahahaha. No dai, scherzo ovviamente ;)
Volevo scusarmi e ringraziare la carissima Alchimia96 che legge assiduamente questa ff e mi dà sempre la carica, ma soprattutto è colei che ha dato per prima a Tyr il soprannome Terribile. Me ne sono innamorata subito e la ringrazio per questo.
Ovviamente grazie anche a tutte le altre sempre presenti *-* Come Saphira-Lupin, che penso sia proprio la primissima ad aver apprezzato quello che scrivo, e poi Jeremymarsh per i confronti ed EtereaAmira.
Detto ciò, a me questo capitolo piace parecchio, il che significa, come sempre, che non sarà nulla di che. Quello che di solito a me piace un sacco non riscuote successo come quello che mi lascia un po' più impassibile xD
Ok basta vagheggiamenti!!


Capitolo 51

Ofelia scattò in piedi, talmente sconvolta che non proferì suono. Barcollò, e fu grata a Renard quando allungò un braccio per impedirle di cadere. Tutt'intorno rimbombavano le grida dei bambini, e i: - Papà! Papà!! - di Serena e Balder. Le gemelle si misero a piangere e Renard le prese in braccio prima che scappassero da Thorn, in quel caos in cui avrebbero finito per essere schiacciate. Ofelia invece si lanciò verso di lui, seguita da una Berenilde che cercava di non perdere la compostezza di fronte ai genitori altolocati di quei bambini pestiferi.
Thorn, un faro immobile nella tempesta, rimase imperturbabile, come se non fosse stato imbrattato di sangue. Il suo sangue. Si concesse solo una rapida occhiata alle spalle per assicurarsi che l’altro bambino, che aveva lo sguardo vitreo, stesse bene, prima di concentrarsi su Tyr. Il figlio lo guardava con gli occhi e la bocca spalancata, incapace di registrare la scena.
- Papà... - mormorò, indietreggiando quando Ofelia gli afferrò la giacca. Provò a sbottonarlo, chiedendosi come facesse lui a rimanere così impassibile, se fosse in stato di shock.
Ma Thorn non cadeva in stato di shock. Le allontanò gentilmente le mani, si slacciò gli ultimi bottoni della divisa da solo e mise in mostra la camicia di solito bianca e inamidata. Ofelia venne colta dal terrore quando vide tutto quel viscoso e sanguigno rosso imbrattargliela.
Thorn si tastò il ventre e non fece nemmeno una smorfia, poi si richiuse la giacca. Mosse un passo in direzione dei fogli che si erano sparsi per il giardino, sotto lo sguardo incredulo di tutti, persino di Renard.
- Devo andare - annunciò come commiato, raccogliendo i documenti e riordinandoli fintanto che camminava verso l'uscita.
Ofelia gli si parò davanti, infischiandosene delle occhiate esterrefatte che riceveva da tutti. Quell’incidente sarebbe stato sicuramente oggetto di conversazione per molto tempo, nonché sicuro articolo di prima pagina del Nibelungen per il giorno successivo. Ofelia non aveva dubbi che, invece di elogiare la prontezza di spirito di Thorn nel difendere il bambino e il suo coraggio per essersi volontariamente preso un colpo d'artigli, i Miraggi avrebbero ridicolizzato il suo gesto e parlato dei Draghi, e di Tyr, come di un clan fuori controllo. Pochi membri, e per di più indomabili.
Non le importava, ma quanto meno voleva assicurarsi che Thorn stesse bene.
- Ho una cassetta di primo soccorso nell'ultimo cassetto del mio ufficio. Mi sto recando lì, ho un appuntamento tra dodici minuti.
Ofelia trattenne a stento un sospiro. - Devi vedere un medico, non chiunque abbia un appuntamento con te. Dovresti rimandare.
- Si accumulerebbero ritardi. Non è un taglio profondo, non servono punti.
- Ma il sangue...
- L'addome è una zona particolarmente irrorata di sangue. Basta disinfettare. In ufficio ho un cambio, se sei preoccupata che gli altri possano notare il sangue e... considerarmi ambiguo.
Ofelia aveva l'impressione di essere tornata indietro nel tempo, ad un'altra epoca, in un'altra situazione, ma con Thorn sempre coperto di sangue e più preoccupato per il lavoro che per la sua salute. E con lei, invece, che pensava a cosa avrebbe detto la gente, a come lo avrebbero considerato. Ambiguo.
Thorn era tutt'altro che ambiguo.
Ofelia scosse la testa, spostandosi appena per farlo passare.
- Tornerò alle sette - si congedò, il tono affettato come sempre. Voltò appena la testa per guardare Tyr, che fissava la schiena del padre con gli occhi sgranati. A terra non c'era nemmeno una goccia di sangue: l'illusione non lo prevedeva. - Con te parlerò dopo - lo apostrofò Thorn con una voce da funerale.
Per la prima volta Ofelia vide Tyr provare qualcosa di simile al rammarico, al senso di colpa. Lui, che era così impavido e fiero, e testardo, parve accartocciarsi su se stesso.
Mormorò un: - Io non gioco più -, prima di andare a sedersi su una panchina, dove venne subito inglobato dall'abbraccio congiunto di Mira e Belle, che non avevano capito granché.
Da quando era diventato anche lui fratello maggiore si era leggermente calmato, era come maturato, rendendosi conto che doveva dare l'esempio a due bambine più piccole, ma rimaneva lo stesso il bambino più scalmanato della combriccola.
In quel momento, non si sarebbe proprio detto.
Tyr dovette scambiare lo sguardo indagatore di Ofelia per una riprovazione, perché distolse subito gli occhi e si fissò i piedi, senza nemmeno rispondere all'abbraccio delle sorelle. Ilda andò a scuoterlo, ma anche di fronte agli spintoni e poi alle parole supplichevoli della migliore amica, Tyr si mostrò sordo e indifferente.
A Ofelia e Renard bastò uno sguardo per decidere di comune accordo di andarsene, mentre le altre madri mormoravano e Berenilde cercava di non pavoneggiarsi troppo mentre lodava le eccezionali doti da Drago di Tyr.
- Sapete in chi ho visto una tale forza, e in età così giovane? Nel mio caro e compianto nipote Godefroy. Uno dei migliori cacciatori degli ultimi decenni. Non mi sorprenderei se il nostro Tyr superasse addirittura suo zio. Non volevamo si sapesse in modo così eclatante, ma quando le buone notizie arrivano forse è il caso che facciano il loro corso. Tyr è già in uno stato avanzato di allenamento, ecco perché Thorn si è immischiato: un singolo colpo di Tyr poteva mozzare la testa del vostro povero erede. Non è il caso di provocare un Drago, specialmente se nel pieno della forza e del vigore...
Il fastidio di Ofelia nell'udire le parole frivole e incentrate sulla fama di Berenilde scemò, trasformandosi in profonda gratitudine. Berenilde non si stava pavoneggiando per la violenza sprigionata da Tyr: stava cercando di proteggere lui, e Thorn, dal pubblico ludibrio e dalla diffamazione. Un bambino dal potere incontrollato che attaccava il padre? Thorn che preferiva essere colpito piuttosto che lasciare che un bambino Miraggio venisse ferito?
No: un bambino nel pieno controllo del suo potere, un Drago come non se ne vedevano da generazioni, che decideva di vendicarsi su un ragazzino, in pieno stile di famiglia, e un padre che decideva di graziare il ragazzino prevedendo cosa avrebbe fatto il figlio, e bloccandolo.
Thorn era un eroe, Tyr pure.
Ma lui non si considerava tale.
Balder gli si avvicinò: - Anche io ho quel potere, sai? A me non piace. Preferisco leggere le cose, è più divertente e non si fa male nessuno. Però il papà mi ha insegnato ad usarlo. Aiuterà anche te - lo consolò, mettendogli una mano sulla spalla.
Serena gli accarezzò la guancia, prima di prendere per mano le sorelline. - Il papà è forte, vedrai che sta bene.
Tyr non rispose nemmeno. Ilda arrivò a tirarlo in piedi, trascinandoselo dietro mentre facevano il percorso a ritroso fino al castello.
Ofelia non ebbe nemmeno il tempo di parlargli perché le gemelle le si attaccarono alle gambe, Salame si mise a litigare con la sciarpa (nonostante fosse grasso e vecchio, quel gatto aveva la stessa energia del padrone) e Berenilde la prese in disparte per lamentarsi di come fossero stati tutti ciechi di fronte al potere di Tyr. Quindi la forza del bambino non era solo parte della messinscena di Berenilde, ma una realtà.
Il potere di Tyr era forte. Fin troppo forte.
Doveva imparare quanto prima a maneggiarlo.
Quando Thorn rincasò, Tyr si destò dal suo stato di catalessi pentita e gli andò incontro con la coda tra le gambe.
Thorn quasi non lo guardò. - Tra cinque minuti nel mio studio.
Lasciò tra le braccia di una domestica di passaggio i vestiti intrisi di sangue prima di svoltare l'angolo e sparire.
Tyr era pietrificato. - Io non so quanti sono cinque minuti - sussurrò.
Balder si sistemò gli occhiali sul naso, poi gli mostrò il polso, esibendo il suo orologio. Con tutte le volte in cui cadeva o sbatteva, era fin troppo tenuto bene, con pochi graffi. Si vedeva che ci teneva a quel regalo. - Te lo dico io.
Ilda gli saltò al braccio con poca grazia, guardando l'orologio come se lo vedesse per la prima volta. - Che roba è?
Mentre Balder si perdeva in spiegazioni minuziose degne della memoria di Thorn e Serena, Ofelia si affrettò verso lo studio del marito: la zia Roseline era tornata proprio in quel momento e lei non aveva voglia di dare spiegazioni sull'umore tetro del figlio Terribile.
- Immagino tu non abbia visitato un medico - lo salutò chiudendosi la porta alle spalle.
Thorn trattenne a stento una smorfia, non di dolore ma di fastidio. - Non darti pena per questioni del genere.
Ofelia appoggiò la mano sulla scrivania e si sporse verso di lui. - Per essere la persona più razionale che conosca, a volte sei davvero illogico. Mostrami la ferita.
Thorn le lanciò un'occhiata affilata che avrebbe terrorizzato chiunque, ma obbedì. Rimosse una garza appena sporca di sangue si scoprì l'addome, su cui campeggiava un taglio rossastro che andava dalle costole al ventre.
Perfettamente dritta.
Pulita.
Precisa.
E ricucita.
- Avevi detto che non era così grave da necessitare dei punti.
Thorn grugnì quando le dita fredde di Ofelia, senza guanti, gli solleticarono la pelle arrossata e tesa vicino alla ferita.
- Ad un secondo esame ho ritenuto opportuno cucirla. Era abbastanza profonda e solo con dei punti di sutura avrebbe smesso di sanguinare.
Ofelia gli si inginocchiò di fronte. - Quanti?
Thorn strinse la mascella. - Otto.
Ofelia strabuzzò gli occhi, la voce ridotta a un flebile sussurro: - Tyr ha... fatto questo?
- In parte è colpa mia. Non mi ero accorto che avesse anche lui gli artigli, né che fossero così sviluppati. Sarebbe stata una ferita molto grave per un bambino, soprattutto considerando che doveva esserci il suo viso al posto del mio corpo.
- Gli artigli non vanno ad intaccare direttamente il sistema nervoso della persona... che si desidera colpire?
- Sì - rispose laconicamente Thorn. - Ma in questo caso il sistema nervoso di Tyr ha intercettato il mio prima di attaccare quello dell'altro bambino. L'ho deviato.
- Lo dovrai addestrare.
Thorn annuì seccamente una sola volta, un movimento rigido del mento. - Da domani stesso.
- Papà? - li chiamò una vocina alle loro spalle. La testa di Serena sbucava da uno specchio, offrendo uno spettacolo alquanto bizzarro. - Balder dice che sono passati cinque minuti.
- Lo so. Perché Tyr non è ancora qui? La puntualità è importante.
Serena aggrottò la fronte. - Tyr ha detto che sarebbe venuto da te trentotto secondi fa.
- Ce ne vogliono ventinove dal salotto al mio studio. Dov'è finito?
Ofelia finì di rimettersi i guanti e andò verso la porta, lasciando che suo marito parlasse dei secondi necessari a raggiungere ogni angolo della casa con la testa di sua figlia che sbucava da uno specchio. Una situazione insolita, persino per i suoi canoni.
Tyr era in attesa fuori, con le mani strette l'una nell'altra. Non guardò nemmeno la mamma.
- Posso entrare? - sussurrò.
A Ofelia vedere il figlio in quello stato strinse il cuore in una morsa.
- Vieni avanti - gli ordinò Thorn, con un tono glaciale che fece provare un brivido di paura persino ad Ofelia. Serena pensò bene di sparire dallo specchio.
Per quanto sapesse che suo marito era innocuo... a volte sapeva essere davvero spaventoso.
Tyr avanzò come se fosse consapevole di essere in procinto di ricevere una condanna a morte. Si riscosse solo quando vide la ferita gonfia e suturata di Thorn sotto la camicia, prima che lui facesse in tempo a coprirla rimettendosi in ordine.
Thorn inchiodò Tyr con lo sguardo finché il bambino non fu costretto ad alzare gli occhi per incrociare i suoi, e allora scoppiò a piangere.
- Scu-scusate papà. Non volevo farvi male. E nemmeno a quel bambino anche se era antipatico e ha detto che Mira e Belle sono stupide. Per favore perdonat...
Le lunghe braccia di Thorn lo afferrarono per sistemarselo sulle ginocchia. Lo abbracciò stretto, e dopo un attimo di esitazione e sgomento, Tyr ricambiò l'abbraccio, piangendo sulla spalla del papà.
Thorn gli accarezzò i capelli chiari, così simili ai suoi. Non cercò di consolarlo, non disse nessuna parola di conforto. Gli offrì solo le sue braccia, dentro le quali il piccolo si rifugiò per la prima volta, accettando quel legame con il padre; accettando quello che aveva sempre voluto dargli, ma che non aveva capito fino a quel momento: affetto. Fin da quando aveva pochi mesi aveva registrato, con la sua incredibile memoria, l’atteggiamento di Thorn. Le ninna nanne che lo infastidivano ed erano prive di amore. La mancanza di sorrisi. Il tono sempre burbero, anche se la mamma si rivolgeva a lui con una vocina stridula e divertente. Crescendo, aveva iniziato a riflettere sui suoi ricordi, facendo paragoni con Ofelia, con Renard, con tutti, e aveva tratto le sue, sbagliate, conclusioni.
In Thorn, il suo essere distaccato, serio e spesso lontano non era per odio nei suoi confronti, si rese conto finalmente Tyr, ma per com'era fatto. Non pensava che fosse il figlio peggiore, o che non valesse nulla o che fosse sbagliato, troppo diverso da lui. Non voleva affatto che fosse come lui.
Suo padre gli voleva bene.
- Ti insegnerò a controllarli. Ci vogliono forza di volontà a padronanza per riuscire a tenere sotto scacco gli artigli e non lasciare che prevalgano sui nostri stati d'animo. 
- E se non ce la faccio?
- Ce l'hanno fatta tutti. La possibilità che tu fallisca è del tre percento.
Tyr si allontanò quel tanto che bastava a guardarlo in volto, preoccupato. - Cosa vuol dire?
Thorn prese un fazzoletto dalla tasca della giacca da intendente, facendo una smorfia quando Tyr gli sfiorò con una gamba l'addome. Soffiò il naso al figlio prima di rispondere: - Significa che è impossibile che tu fallisca.
Un lievissimo increspamento di labbra mostrò ad un occhio attento il fastidio di Thorn: un tre percento non indicava un'impossibilità assoluta; lo aveva detto solo per rassicurare il figlio, ma quell'approssimazione matematica scorretta non gli garbava per nulla. Tyr però parve sollevato da quelle parole, anche se tornò ad accoccolarsi contro il petto solido del padre. Nonostante il dolore, Thorn non si mosse.
Ofelia pensò di lasciarli soli. Per una volta che Tyr si dimostrava disposto a porre una pietra sopra quel conflitto che si portava dietro dalla nascita, era il caso di non interferire.
Preferì usare lo specchio per non distrarli con il rumore della porta.
- Posso vedere la cicatrice? - chiese timidamente Tyr, con le erre scricchiolanti come quelle del padre. Tra tutti i figli, lui era quello che aveva fatto suo l'accento del Polo già dalla prima parola pronunciata.
Ofelia sentì un lieve fruscio di tessuto, poi un grido soffocato di Tyr. - Fa molto male? Ma... e tutte queste?! Chi ve le ha fatte papà?!
Appena tornò in soggiorno, Ofelia si lasciò cadere sul divano. Sorrideva.
- Tutto bene, mamma? - le chiese Serena sedendosi di fianco a lei, mentre Balder quasi voleva salirle in braccio, nonostante fosse troppo grande.
Le gemelle lo fecero inciampare, precedendolo e arrampicandosi su di lei. - Tyllll è cattivo? - chiesero in coro.
- No che non lo è.
- A me non piace quel potere - si lamentò Balder, riuscendo finalmente a sedersi sul divano. Serena si sporse per sistemargli gli occhiali storti.
- Per tutte le mannaie! - esclamò la zia Roseline prima che Ofelia potesse parlare. - Tra tutti i tuoi figli, proprio quello scalmanato doveva ereditare degli artigli così potenti? Farete bene ad educarlo come si deve, altrimenti crescerà come un selvaggio che va in giro a fare a fettine la gente.
- Cara Roseline, siete sempre così pittoresca - intervenne Berenilde, raggiante per quella scoperta. Nella sua mente, Tyr era il salvatore che avrebbe riportato ai fasti di un tempo il suo clan, rendendolo nuovamente indispensabile e importante agli occhi di Faruk, non solo perché lei, la sua favorita nonché madre di sua figlia, ne era parte. Anzi, spesso Faruk si dimenticava di essere il padre di Vittoria. Quando la vedeva doveva ricorrere all'aiuta-memoria per capire chi fosse quella bimba che gli ricordava qualcuno; anche se Vittoria non era decisamente più una bimba e vederla gli ricordava se stesso. Ofelia sperava che, durante uno dei vuoti di memoria dello spirito di famiglia, non si invaghisse di Vittoria, altrimenti sarebbe stato un bel problema. - Sono certa che mio nipote sarà in grado di educare suo figlio e di insegnargli come controllare il suo meraviglioso potere, incarnazione della potenza e anche della sottile raffinatezza e dell'eleganza che derivano dal ferire qualcuno senza nemmeno sporcarsi le mani.
La zia Roseline era inorridita, persino Renard, dubbioso, aggrottò le sopracciglia. Archibald invece, talmente immobile su una poltrona da risultare invisibile, ridacchiò. - Dell'eleganza che deriva dal seminare cicatrici su un corpo altrui, vorrete dire. Ho qualche regalino di vostro nipote, cara madama, che non penso possa essere definito piacevole. Anche se le signore non lo disdegnano.
Berenilde, con la sua regale altezzosità, si lanciò in un discorso storico sul lignaggio e la discendenza dei Draghi, così ricco di dettagli da lasciare Ofelia stupita sulle conoscenze di Berenilde. Sembrava lei la persona la cui famiglia si occupava di conservazione del patrimonio storico.
Quando fu ora di cenare, Tyr apparve immensamente più sollevato. Riuscì anche a scherzare con Ilda, scherzo che nel giro di poco divenne la consueta molestia di lancio di cibo. Quando Thorn lo riprese, Tyr obbedì con la solita reticenza, ma per lo meno non scoccò al padre un'occhiata di fuoco. Ofelia sperava che potesse essere il primo passo verso un buon rapporto padre-figlio. In compenso ci pensarono le gemelle a disobbedire, iniziando a mangiare il purè con le mani.
Allo scoccare dell'ora prevista per andare a letto, mentre Thorn se ne stava sul divano con le gemelle addormentate addosso, e Salame sopra di esse, a correggere con la sua infallibile penna una relazione, Ofelia mandò i figli a salutare il papà con un bacio.
Serena e Balder si precipitarono, come al solito. Thorn, quasi indifferente, si chinò guardandoli a malapena e borbottò un saluto. Distolse gli occhi dal foglio solo quando fu Tyr ad avvicinarsi. E a dargli un lievissimo bacio sulla guancia.
Le rughe sulla fronte di Thorn si distesero come se ci fosse passato sopra un tagliaerba, uno di quelli di Anima, sempre scontrosi e pronti a falciare qualsiasi cosa, che però poi lasciavano il prato perfettamente omogeneo.
Mentre li accompagnava in camera, Ofelia sentì Tyr dire a Balder: - La mamma non punge.
Balder si mise a ridere. - Il papà ha la barba, la mamma no.
- Quella roba che punge? Anche noi ce l'avremo da grandi?
- Presumo di sì - rispose Balder, salutando con un cenno Serena che andò verso camera sua.
- Perché?
- Perché siamo maschi. Ai maschi crescono i peli in faccia.
- Che schifo.
- Già.
Ofelia dovette mettersi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere. Hector era stato l'unico maschio in mezzo a cinque sorelle. Non doveva aver avuto vita facile, si rese conto. Era felice che Balder avesse un altro fratello con cui parlare, nonostante si trovasse meglio con Serena.
- Però le femmine partoriscono - gli fece notare Balder. - Preferisco i peli sinceramente.
- Partoriscono? Nel senso che fanno nascere i bambini?
Ofelia si affrettò a metterli a letto prima che saltasse fuori qualche domanda scomoda.
In camera trovò Thorn che si disinfettava la ferita, a petto nudo in mezzo alla stanza. Aveva portato le gemelle in camera di Serena e i fogli che ancora stava correggendo erano sparsi sul letto. Ofelia gli prese il cotone e il disinfettante dalle mani, pressandolo bene affinché non si incastrasse nulla nel taglio. Sentì Thorn irrigidirsi quando lo solleticò con la punta delle dita, e poi con il cotone.
- Com'è andata con Tyr?
- Non vuole esercitarsi. Balder ha accettato di fare pratica, anche se ha promesso che non avrebbe mai usato gli artigli, lui invece non vuole nemmeno provarci. Ha continuato a piangere finché non ho deciso che avremmo risollevato la questione in un altro momento.
Ofelia finì di medicarlo e prese a mordersi le cuciture di un guanto. - Forse è meglio così, no?
- No - rispose Thorn, lapidario. - Gli artigli sono un potere pericoloso che può essere esercitato anche inconsciamente. Va attivato con la forza di volontà, e spesso la nostra volontà è soggetta all'influsso dei nostri sentimenti. Al contrario della memoria o della lettura, poteri familiari che vengono usati sia che siamo arrabbiati sia che siamo felici, gli artigli non potranno mai essere adoperati per sbaglio quando si è in un momento gioioso. Altresì, se si è sottoposti ad un forte stress fisico, emotivo e mentale, si è alterati o si provano altre forti emozioni negative, se non si è abituati a controllarli può capitare che vengano sfoggiati senza rendersene conto.
Ofelia pensò che in effetti anche il suo dono di attraversaspecchi era simile. Se non fosse stata in grado di spegnerlo, per così dire, avrebbe dovuto stare lontana da qualsiasi superficie riflettente per timore di finirci incastrata. Invece era lei a decidere se attraversare o meno; altrimenti non avrebbe mai potuto pulirne uno, o anche solo toccarlo.
- Bisogna convincere Tyr ad addestrarsi, allora. Solo per controllarlo.
- È quello che ho cercato di fare - brontolò Thorn, sedendosi sul letto e strofinandosi il viso, stanco.
Ofelia buttò via il cotone sporco e si avvicinò a Thorn, accarezzandogli i capelli. Poi, dolcemente, lo strinse a sé. Un uomo normale seduto a letto con la moglie in piedi di fronte a sé sarebbe arrivato ad appoggiare la testa sul suo seno, ma Thorn era troppo alto e Ofelia troppo bassa. Non le sarebbe dispiaciuto nemmeno poter appoggiare le labbra alla sua fronte, ma l'unica cosa che riusciva a fare era fargli appoggiare il mento alla sua spalla oppure poggiare lei la sua fronte contro il suo naso. Ofelia apprezzava la loro differenza d'altezza, Thorn la circondava interamente trasportandola in un luogo noto solo a lei, ma poche, rare volte era davvero fastidioso non poterlo guardare negli occhi senza farsi venire il torcicollo o stringerlo come voleva lei.
Cercò di distrarsi lasciandogli un bacio sulla tempia. - Oggi Tyr è stato bravo.
Thorn cercò di scostarsi, ma Ofelia glielo impedì. Lui allora si attaccò alla sua camicia da notte, aggrappandosi a lei come un naufrago. - Ha quasi sventrato un bambino. Definisci la tua affermazione.
- Lo sai che non l'ha fatto apposta. Tyr non è cattivo. Intendevo dire che è stato bravo con te.
Thorn si irrigidì, come se Ofelia avesse appena infilato un dito nel suo taglio. - Suppongo che ferire gravemente un genitore ti porti ad esserne dispiaciuto e a comportarti bene per una sera. Le statistiche indicano che domani tornerà ad odiarmi, con ogni probabilità.
Ofelia sospirò. Thorn era un tale cocciuto certe volte.
- Tuo figlio non ti odia - mormorò. - Quello di oggi è stato sicuramente un passo verso il vostro avvicinamento. Ora Tyr sa di avere qualcosa in comune con te.
- Sono suo padre, avevamo qualcosa in comune già da prima. Anche un po' di più. Tutto questo è illogico.
Ofelia sorrise, poi si sporse per baciargli una guancia ispida, la cicatrice sull'altra guancia e il collo. - Thorn, mi sorprende che tu non l'abbia notato fino ad ora, ma... i bambini non solo logici. Devono capire tante cose, imparare, e le reazioni e gli atteggiamenti che spesso assumono non si basano su riflessioni e analisi.
- Io non li capisco i bambini - ammise lui con reticenza. O forse era solo senza fiato. Ofelia aveva ancora il naso premuto contro il suo collo.
- Non è per forza necessario capirli per essere un bravo padre. E tu lo sei, Thorn.
In risposta, lui si scostò e le catturò la bocca con la sua, cogliendola così alla sprovvista che per un attimo Ofelia si dimenticò di rispondere. I gesti di Thorn non erano mai anticipati da un preavviso che permettesse di capire cosa avrebbe fatto. E raramente i suoi baci erano dolci. Ad Ofelia andava bene così, però: Thorn non era un uomo dolce. Era un uomo che aveva vissuto anni di sofferenza e privazioni direttamente sulla sua pelle, un uomo distaccato e diffidente, reduce da un'infanzia di abbandono e anaffettività. Non doveva essere dolce, e le poche volte che si dimostrava tale erano un regalo, un momento prezioso che lei custodiva con gelosia.
Così gemette di piacere e di bisogno quando lui le strinse prima i fianchi e poi le cosce, aiutandola a sederglisi in grembo, attenti entrambi affinché non urtasse la ferita. Non voleva carezze in quel momento, voleva sentire che Thorn era vivo, caldo contro di lei, così resiliente da incassare uno squarcio sull'addome senza lamentarsi o vedere un medico. La sua barba le graffiava le guance e la bocca, facendogliele pizzicare, ma quello era nulla in confronto al dolore che doveva provare Thorn.
Ofelia non si rese conto di quanta paura si fosse presa quel pomeriggio finché Thorn non la strinse di più, facendola sentire al sicuro, a casa. Smise di baciarlo per stringerlo forte, così tanto da fare aderire i loro petti in tutta la loro ampiezza, fino a far fatica a respirare. Dopo aver svezzato le gemelle il seno le era rimasto pesante, ingombrante per lei che non lo aveva mai avuto così grande. I fianchi le si erano allargati leggermente e sulla pancia era rimasta una zona soffice che sembrava non voler sparire. In sostanza, era morbida dappertutto anche se non era grassa, e sperava di non diventarlo: nella sua testa ingrassare equivaleva ad assomigliare a sua madre, e lei voleva proprio evitarlo.
In compenso, Thorn sembrava riuscire ad afferrare meglio qualsiasi cosa, con possessività e avidità qualche volta, come se le curve di Ofelia potessero compensare i suoi spigoli. Come in quel momento, quando l'afferrò per i glutei e se la spinse contro, mugugnando poi di dolore e fermandosi nel momento in cui Ofelia gli urtò poco gentilmente l'addome. Il fatto che avesse dimostrato così palesemente il suo dolore la diceva lunga su quanto male avesse.
Ofelia scosse la testa e gli spianò la fronte con le dita. - Credo che sia il caso di rimandare. Sarebbe un problema se la ferita ricominciasse a sanguinare.
Quando però Ofelia si mosse per scendere dalle sue gambe, Thorn l'afferrò per i polsi, gli occhi di metallo incandescenti. Ofelia capì che più che mai quella sera avevano bisogno del conforto l'uno dell'altra. Thorn non era stato in pericolo di vita, Ofelia non aveva rischiato di perderlo, però... farsi gravemente male era così facile…
Thorn sembrò quasi timido quando le disse, con voce bassa e scricchiolante come il ghiaccio, facendo rabbrividire Ofelia: - Non devo per forza muovermi io.
La ferita non sanguinò. Thorn grugnì più volte, ma mai di dolore. Ofelia cercò di essere il più delicata possibile, cosa già difficile in circostanze normali per lei, e condusse tutto da sola mentre Thorn rimaneva sdraiato e l’aiutava con il solo ausilio delle mani.
Dopo pochi minuti erano premuti l'uno contro l'altra, affannati e stanchi.
Ofelia gli baciò una guancia prima di scendere per andare a lavarsi, e quando tornò Thorn aveva ripreso la correzione dei fogli sparsi sul letto, orologio aperto di fianco a lui e penna alla mano.
Ofelia si infilò sotto le coperte e cadde in un sonno così profondo che non si accorse nemmeno, durante la notte, che Tyr era andato da loro in cerca di conforto in seguito ad un incubo. Né che Thorn lo aveva fatto sdraiare in mezzo a loro.
Quando si svegliò la mattina trovò però il bambino abbracciato al papà, serenamente addormentato, e la cosa la commosse. Thorn aprì un occhio e la fissò, un rapace dallo sguardo fisso. Ma aveva la fronte distesa e, anche se in penombra, Ofelia capì che non era mai stato più rilassato di così. Non le servivano gli occhiali per capirlo. Quella tensione che lo aveva ghermito da quando il dubbio che Tyr potesse non volergli bene si era impossessato di lui si era ormai dissipata. Finalmente padre e figlio avevano trovato un punto di incontro e non c’era cosa che potesse rendere più felice Thorn, nonostante la sua impassibilità.
Così Ofelia gli sorrise e si rimise a dormire sospirando.
 
Nei giorni successivi però, nonostante la piccola vittoria conseguita con Tyr, risultò evidente che la strada da percorrere era ancora lunga. Il bambino non era più apertamente ostile nei confronti del padre, ma questo non significava che avesse perso ogni diffidenza e che ad un tratto fosse diventato affettuoso con lui. Certo, gli dava un bacio di benvenuto e di buonanotte di sua spontanea volontà, quando Thorn rientrava dal lavoro e quando era ora di andare a letto, ma non insisteva per farsi prendere in braccio come Balder o le gemelle, e non lo abbracciava spesso quanto Serena. In qualche modo però Thorn sembrava aver capito che ci voleva tempo. Gli sembrava di essere tornato al periodo di fidanzamento con Ofelia, le rivelò una sera.
Eppure, Tyr ancora insisteva nel non voler fare addestramento. Quando Thorn tirava fuori l’argomento faceva finta di essere impegnato con le gemelle e con Randolf, di cui si era dichiarato protettore indiscusso, oppure di avere una questione urgente da risolvere con Ilda, anche quando i due avevano litigato e la bambina lo scacciava in malo modo. A Renard quelle scenette facevano sempre ridere, soprattutto quando il buon vecchio Salame veniva preso d’assalto dalle gemelle fin troppo amorevoli, mentre Randolf, che aveva paura persino della sua ombra, si nascondeva dietro le solide gambe del padre. Ilda e Randolf avevano a malapena capito di essere fratelli, non si trovavano molto tra di loro, un po’ come Balder e le gemelle, ma almeno non litigavano.
Anzi, gli unici due a litigare erano sempre e comunque Tyr e Ilda, per via dei loro caratteri forti. Tyr non aveva mai litigato con Balder, il suo mito, e nemmeno con Serena, che guardava sempre con rispetto, quasi fosse uno spirito di famiglia lei stessa, mentre era il bambino più buono del mondo con le sorelline che teneva sotto la sua ala protettrice. Ofelia sapeva che gli avrebbe fatto bene avere qualcuno di più piccolo a cui badare.
Una settimana dopo l’incidente nel parco, però, accadde l’impensabile.
Ofelia sentì le urla di Tyr e il trambusto che proveniva dal salotto persino dalla camera delle figlie, in cui stava mostrando alle gemelle, insieme a Serena, come animare alcuni loro giocattoli. Le bambine si fecero prendere in braccio dalla mamma e dalla sorella maggiore, che corsero in salotto dove trovarono Tyr con i pugni stretti che fissava il pavimento digrignando i denti e Balder che lo additava con una vena che gli pulsava sulla tempia. Ilda fissava la scena a occhi sgranati, dietro a Tyr, come se avesse paura di Balder. Ofelia non lo aveva mai visto così arrabbiato. Anzi, non lo aveva mai visto arrabbiato. A giudicare dalle espressioni di Berenilde e della zia Roseline, che entrarono in quel momento dopo una notte passata alla corte, nemmeno loro credevano ai loro occhi. Berenilde batté elegantemente le palpebre, mormorando un impercettibile: - Forse ho esagerato con il fumo questa notte, Roseline.
- Siamo in due, sono più intontita di una pentola a pressione – ribatté l’altra.
Ofelia quasi non le sentì, concentrata com’era sulla scena che le si presentava davanti.
- Non puoi sempre fare di testa tua, Tyr! Devi obbedire a papà senza che lui ricorra sempre alle occhiatacce! Sei un pericolo per tutti!
- Non sono un pericolo! – ribatté Tyr alzando sia la testa che la voce.
- Sì invece! Abbiamo iniziato la partita da dieci minuti e già Ilda ha mal di testa, solo perché tu stai perdendo! Il papà ti insegnerebbe a controllarti!
- Ilda non ha mal di testa per colpa mia!
Come a voler negare le sue parole, però, Ilda si allontanò rabbrividendo, con una mano alla tempia. Renard arrivò in quel momento, pronto per iniziare la lezione, e se la prese in braccio insieme a Randolf, protettivo. Per lui la sua bimba non era mai troppo grande per essere presa in braccio.
- Persino io ho mal di testa, Tyr! – lo smentì Balder.
Come un’onda d’urto, come se il risentimento di Tyr si fosse propagato, anche ad Ofelia cominciò a formicolare la pelle, elettrificata.
- Per tutti i mestoli… - borbottò la zia Roseline, stupefatta.
- Tyr, calmati per favore, stai facendo male a tutti – lo supplicò pacatamente Serena, mettendo giù la sorellina per avvicinarglisi.
Tyr sembrava in procinto di mettersi a piangere per l’esasperazione, la rabbia e… la paura. – Non è vero, non sono io! Io so controllarmi! Io non sono pericoloso!
- Sì che lo sei, e non sai controllarti! Sei cocciuto e testardo e non dai retta a nessuno. Non capisci che sei piccolo? Qui tutti ne sanno più di te, e anche più di me, quindi smettila di fare tanto il gradasso e questa sera chiedi aiuto a papà! Lo farò io se non lo farai tu.
- Io non ho bisogno di aiuto! Non sono piccolo! Non lo voglio questo potere, e ti odio!!
Con il suo accento, identico a quello di Thorn, ad ogni parola sembrava che Tyr sbriciolasse un enorme masso di ghiaccio. Quello che accadde dopo, però, fu più simile ad un’esplosione.
L’onda d’urto che Ofelia aveva percepito si canalizzò, scattando dritta verso il viso di Balder. Serena urlò, correndo verso Tyr, che spinse a terra malamente. Anche Balder cadde a terra, senza però che nessuno lo toccasse. Nessuna persona, almeno, perché il sistema nervoso di Tyr lo aveva centrato in pieno.
Si toccò con sgomento la faccia, scoprendola piena di sangue così come la mano con cui si era toccato. Poi chiuse gli occhi, inondati anch’essi da quel liquido denso e appiccicoso, le lenti degli occhiali tinte di rosso.
Due secondi di terrore avvolsero l’enorme stanza.
Poi esplose il caos.

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Capitolo 52
*** Capitolo 52 ***


Ho fatto un mega pasticcione. Un pasticcio di cui forse non vi sareste nemmeno accorti, ma la cosa mi rode da morire quindi mi autodenuncio.
Tyr. Il caro Tyr mi fa ammattire anche se non esiste e non è mio figlio xD Sarà davvero la sua natura. In pratica, a tratti ha la memoria, a tratti no. Nel senso che in origine non doveva averla, doveva avere solo degli artigli particolarmente forti che faceva come da doppio potere. Invece a capitoli alterni gli spunta fuori. Mannaggia. Che irritazione. Per esempio nel capitolo precedente ho scritto che si ricordava delle ninne nanne ecc. In questo capitolo invece non avrebbe dovuto averla, la memoria, e mi è toccato aggiungerla. In un altro capitolo più avanti ho scritto esplicitamente che non ce l'ha ma al punto che sto scrivendo ora ce l'ha.
Insomma, ce l'ha. Me l'ha imposta lui. E mi scoccia perché viene fuori un doppione di poteri ma va be', tanto lui non la usa la memoria. Ci dimenticheremo che ce l'ha, dai.
Ahahahaha scusate. Spero comunque che non ve ne accorgiate.
E spero che il capitolo vi piaccia ;)


Capitolo 52

- Razza di violento, non puoi farti prendere così dalla rabbia! Sei più pericoloso del coltello da macellaio del biscugino Ginevro!
- Un Drago con queste capacità non si vedeva da anni! La nostra salvezza! Certo, dovrà imparare a padroneggiarsi, però…
- Mamma, mamma!! Mammina! Cosa succede a Badde?
- Per tutte le clessidre! Questa era brutta!
Nella concitazione generale, le gemelle iniziarono a piangere attaccate alla gonna di Ofelia. Serena invece corse da Balder dopo aver lanciato un’occhiata piena di delusione a Tyr, che non si era mosso e osservava con orrore il viso del fratello. Non solo si rendeva conto di quello che aveva fatto, ma aveva capito anche che se Serena non lo avesse distratto spingendolo probabilmente il colpo sarebbe stato molto peggiore.
Mortale.
Appena più in basso, sulla gola, o sull’occhio, e…
Tyr scoppiò a piangere, incurante degli spettatori. Non gli interessava di nessuno se non di Balder, che nel suo stoicismo non versava nemmeno una lacrima.
- Non ci vedo, mamma – mormorò solo.
Renard mise giù i figli e in un attimo fu da lui. Lo prese tra le braccia mormorandogli parole rassicuranti e uscì dal salotto chiamando a gran nome la governante. Serena, rimasta a braccia vuote, fissò sua mamma con sguardo spaventato.
- Mira, Belle, rimanete con Serena, va bene? La mamma torna subito.
- Anche io e Randolf? – le chiese educatamente Ilda, con gli occhi spalancati. – Io ho paura di Tyr…
Ofelia si abbassò un po’ per essere alla stessa altezza della bambina, fissando i suoi occhi eterocromi, uno nero come la notte e uno blu come il più splendente dei cieli prima del temporale.
- Se state con Serena non vi succederà nulla.
Tyr, sentendola, la guardò inorridito, continuando a piangere, come se temesse che anche la madre pensasse che era pericoloso e capace di ferire gli altri.
- Fidati, – mormorò Ofelia, rassicurando Ilda e, indirettamente, anche Tyr, - non ti farà male.
I bambini si raccolsero tutti attorno a Serena, come una chioccia con i pulcini.
Prima di andarsene, però, Ofelia vide Tyr inginocchiarsi e continuare a piangere guardandosi le mani, come se fossero anch’esse sporche di sangue. Poi appoggiò la fronte sul tappeto, scosso dai singhiozzi. Ad Ofelia si strinse il cuore, e fu grata a Serena quando la vide liberarsi dall’intrico dei corpi delle sorelle e degli amici per andare da Tyr, raddrizzarlo contro la sua volontà e abbracciarlo.
Balder invece era una maschera di ghiaccio.
La governante, sospirando, gli stava ripulendo il viso. Ofelia arrivò proprio quando lei finì, rivelando una profonda ferita che partiva da sopra il sopracciglio sinistro e terminava tra i capelli, fino alla punta dell’orecchio, dove gli aveva imbrattato i capelli.
- Mamma! – mormorò, sollevato, quando la vide, e Ofelia si avvicinò per stringerli la mano.
Gli sorrise rassicurante.
Balder sussultò quando l’anziana gli disinfettò la ferita, cauterizzandola affinché smettesse di sanguinare.
- La devo ricucire. Rimarrà una cicatrice bella grande.
- Come quella di papà? – domandò Balder, che strinse gli occhi per il dolore.
- Ho idea che sarà più lunga di quella che il vostro papà ha sulla tempia, signorino. Però sì, saranno simili.
Balder cercò di annuire, rassicurato, come se avere il viso deturpato come quello di Thorn fosse un vanto per lui. Ofelia sapeva che, al di là di tutto, a Thorn avrebbe fatto in un certo senso piacere sapere che Balder lo ammirava tanto da volerlo emulare, persino su una cosa come le cicatrici.
Dopo avergli ripulito gli occhiali, Ofelia si fece stringere la mano con forza mentre la governante gli applicava i punti, dolorosi ed evidenti quanto una macchia di vino su una tovaglia immacolata.
Balder fece di tutto per non lamentarsi, ma non poteva trattenere le smorfie ogni volta che l'ago gli penetrava sotto pelle.
- Ecco fatto, signorino - lo rassicurò la governante, con una voce dolce che aveva adoperato poche volte. - Tornerete più o meno come nuovo. Se avete male venitemi a cercare, ho delle erbe amare molto efficaci contro il dolore.
Balder guardò la madre con gli occhi sbarrati. Aveva già provato i rimedi dell'anziana, tanto efficienti quanto disgustosi, e l'idea di doverne fare ricorso lo spaventava più della ferita in sé.
La levatrice gli porse un pezzo di cioccolata come ricompensa, facendogli dimenticare il sapore dell'intruglio che probabilmente si sarebbe dovuto bere. Renard gli diede un buffetto sulla guancia, complimentandosi per il suo coraggio e ottenendo in cambio un sorriso timido.
Quando furono rimasti soli, Ofelia lo ripulì del sangue residuo, gli rimise gli occhiali e gli diede un bacio. - Sei stato duro con Tyr.
Balder sembrò svuotarsi, come un sacco tagliato sul fondo. - Da quando ha attaccato papà per la prima volta, sembra che gli artigli si siano svegliati. È da giorni che gli dico di addestrarsi, ma lui non vuole. Io e Ilda però abbiamo male quando siamo con lui, quando giochiamo. È competitivo.
Ofelia si rese conto che, come Serena, Balder sembrava più grande dei suoi otto anni e mezzo. Sospirò, sedendosi accanto a lui. - Nemmeno tu vuoi usare gli artigli.
- Però so controllarli, il papà me l'ha insegnato.
- Tyr ha paura, come te, di fare del male agli altri.
- Ma io ho imparato a controllarli proprio per non fare male agli altri. Tyr questo non lo capisce.
Ofelia lo strinse a sé. - Penso che dopo oggi lo abbia capito. Lo sai, vero, che non l'ha fatto apposta?
Balder parve a disagio. - Io sì, però, mamma.
Ofelia lo scrutò da dietro le lenti, alzandogli il viso per poterlo guardare negli occhi. Occhiali contro occhiali, capelli scuri e ricci da parte di entrambi, guanti da lettore. Balder era il figlio che più le assomigliava, anche se il naso era di Thorn. E anche gli zigomi affilati. Era ancora presto per dirlo, ma notando la simmetria del suo volto, i tratti molto maschili e l'intensità del suo sguardo, Ofelia intuiva che sarebbe diventato un bel ragazzo.
- Cosa vuoi dire?
Balder distolse lo sguardo. - Che sapevo come spingere Tyr oltre il limite affinché perdesse il controllo.
- Perché l'hai fatto? - chiese pacatamente Ofelia, facendolo irrigidire.
- Conoscevo i rischi. Ho pensato che mettendolo di fronte alla realtà dei fatti, alla pericolosità di questo dono familiare, si sarebbe finalmente convinto ad addestrarsi. Il papà mi ha spiegato i calcoli combinatori in matematica ultimamente, e ho ritenuto che con una probabilità del...
- Balder, la vita non è un calcolo matematico. Tuo padre commise lo stesso errore, anni fa. Non puoi prevedere con funzioni o equazioni le reazioni di una persona. Hai fatto una sciocchezza, potevate rimanere feriti entrambi. Anzi, siete rimasti feriti entrambi, ed è solo grazie a Serena se tu non sei grave, o addirittura morto. Tyr è molto scosso, e tu ti sei marchiato a vita con una cicatrice evidente che non se ne andrà via mai più.
Il labbro di Balder tremò, rompendo quella facciata di calma imperturbabile che era destinata a frantumarsi già da molto. - Scusate, mamma.
Ofelia lo prese tra le braccia quando iniziò a piangere. Era irritata con Balder per la sua avventatezza. Pensava di aver previsto tutto, ma era solo un bambino e alcune volte era impulsivo quanto suo fratello.
O lei.
Però, al di sopra dalla lieve rabbia c'era il sollievo nel vederlo stare bene. Una cicatrice non era nulla, lo sapeva lei, e lo sapeva Thorn, che ne aveva cinquantasei in più.
Balder tirò su con il naso. - Pensate che la cicatrice piacerà a Ilda?
Ofelia si scostò, presa in contropiede. Era così che si sentiva Thorn quando lei tirava fuori le domande più disparate?
Come rispondere ad un quesito così ambiguo? - Perché me lo chiedi?
Balder deglutì, in imbarazzo. - Lei dice sempre che le cicatrici sono per le persone forti, per i combattenti. Dice che sono belle. Io non sono forte, però.
- Ci sono diversi tipi di forza, Balder. Tu sei sicuramente un bambino forte.
Asciugandosi le lacrime con la manica, Balder annuì, confortato.
- Mamma? - chiamò la voce di Serena al di là della porta. - Possiamo entrare?
- Certo.
Serena aprì la porta e cercò subito con lo sguardo Balder. I suoi occhi sembrarono illuminarsi quando lo vide relativamente sano e salvo. Dietro di lei, più alta della media e sicuramente più alta dei fratelli, si nascondeva Tyr, gli occhi rossi di pianto, un fazzolettino in mano, con ogni probabilità della zia Roseline, e lo sguardo basso. Da dietro Tyr invece sbucarono le gemelle, curiose di vedere cosa sarebbe successo.
A Tyr tremava il labbro. Il silenzio rimbombava tra loro come un ospite incomodo.
- Rimarrà la cicatrice? - domandò Serena, rompendo il ghiaccio e avvicinandosi.
Tyr alzò lo sguardo il tempo necessario a cercare la cicatrice nominata da Serena, e sgranò gli occhi quando vide lo stato della fronte del fratello. Tornò subito a fissare il pavimento e si morse il labbro per non piangere.
- Mi pissica la pelle... - mormorò Mira, guardando la gemella.
- Anche a me pissica - rispose Belle.
Tyr s'irrigidì e iniziò a respirare più rapidamente, chiaro segno che stava andando nel panico. Doveva calmarsi.
Balder scese dalla sedia con un cipiglio talmente severo che se fosse stato biondo Ofelia lo avrebbe scambiato per Thorn bambino. Si avvicinò al fratello osservandolo dall'alto.
- Hai visto che non sai controllarti? - lo rimbeccò.
Tyr annuì, contrito come Ofelia non lo aveva mai visto.
- E a cosa serve l'addestramento di papà, anche se non ti piace?
Di nuovo, Tyr mosse appena la testa. Lentamente, quasi temesse di venire sgridato ulteriormente, si raddrizzò per poter scrutare la cicatrice di Balder. Ricominciò di nuovo a piangere in silenzio.
- Scusami, non volevo farti male... Non...
Balder gli prese la mano, tenendola aperta a palmo in su. Poi gli incise appena la carne tramite gli artigli, quel tanto che bastava per lasciargli una girandola rossastra e sottile sulla pelle morbida del palmo.
Tyr sussultò, facendo alzare in piedi Ofelia che non aveva visto cosa fosse accaduto. Aprì la mano, scrutando quel taglio lievissimo che nemmeno bruciava e, tutto sommato, era eseguito con una tale maestria da poter essere considerato bello. Un girello con tre cerchi.
Poi Balder abbracciò stretto Tyr, che vinse subito la resistenza iniziale e si aggrappò al fratello piangendo contro il suo maglione.
- Ora siamo pari - lo rassicurò Balder. - Puoi controllare i tuoi artigli se ti fai aiutare da papà, come ora so fare io. Se impari, sarai tu a comandare loro, e non loro a comandare te.
Ofelia baciò la testa di tutti e due i bambini, abbracciandoli a sua volta.
- Hanno fatto pace, mammina? - le chiese Mira tirandole la gonna.
- Si vogliono ancola bene? - domandò Belle, aggrappandosi dall'altro lato.
Ofelia accarezzò le loro testoline rosso-ramate, sorridendo. - Certo che si vogliono bene. Tutti ve ne volete.
Serena si aggiunse all'abbraccio, completando il quadretto. Anzi, quasi: mancava Thorn.
A rompere l'idillio ci pensò Balder che, con la sua solita grazia, nel tentativo di consolare Tyr riuscì a tirare una testata a qualcuno, gemendo di dolore. Il fratello gli asciugò la ferita con il fazzoletto bagnato di lacrime.
La scena era talmente inverosimile che Ofelia non poté fare a meno di ridere, contagiando tutti, persino Tyr, che abbozzò una risatina timida.
Per il resto della giornata Tyr fu ossequioso e subito pronto a scattare ad ogni ordine del fratello, che sembrava ben lieto di aver dismesso i panni da punitore per riprendere quelli da bambino pacifico e amabile. E un po' sbadato. Rischiò infatti di cadere di faccia dopo essere inciampato nel tappeto, se Ofelia non lo avesse bloccato in tempo. Salvo poi inciampare lei stessa nello slancio. Fu Archibald ad impedirle una rovinosa caduta, passandole una mano attorno alla vita. Senza doppi fini, si scostò subito e uscì di casa in fretta, senza nemmeno badare a ciò che era successo quella mattina, e quindi senza commenti.
Renard riportò i figli nel salotto affinché giocassero insieme agli altri, tranne Serena, che preferiva leggersi infiniti manuali relativi ai temi più disparati, spaventando Ofelia per la sua precocità. Renard fischiò alla vista della ferita ricucita di Balder, strizzandogli l'occhio cameratescamente e assicurandogli che aveva un'aria assolutamente da duro. Ilda lo scrutò con attenzione, facendolo arrossire quando concordò con il padre.
- Anche tu sai usare gli artigli come Tyr? - gli chiese poi, scrutandolo come se lo vedesse per la prima volta e non avesse passato ogni singolo momento con lui, da quando era nata.
- Sì - rispose timidamente Balder, abbassando lo sguardo.
Ilda tirò un pugno sul braccio a Tyr, che barcollò e le urlò dietro. - Perché lui sa controllarli e tu no? Antipatico.
Ofelia sorrise di fronte al battibecco che ne seguì, con Balder che cercava di calmare il fratello e l'amica mentre Serena ogni tanto interveniva con un commento che, invece di rabbonire tutti, infiammava di nuovo i loro animi; senza nemmeno alzare gli occhi dal manuale, oltretutto.
Verso l'ora di cena però Tyr iniziò a mostrare segni di agitazione, un'agitazione nervosa. Lanciava spesso occhiate a suo fratello e alla porta, come in attesa. Cercò addirittura di coprirgli la fronte con la frangia, scostandosi spaventato quando Balder gli chiese cosa stesse facendo, con gli occhi sgranati dietro gli occhiali.
Quando Thorn rincasò, un po' in anticipo rispetto al solito, Ofelia capì che Tyr aveva paventato il suo rientro tutto il pomeriggio. Come biasimarlo? Aveva ferito il fratello perché si era ostinato a non voler ascoltare suo padre.
Thorn mormorò un saluto generico, la zia Roseline gli rispose alla stessa maniera e Berenilde gli sorrise calorosamente, come se avesse una bella notizia da dargli. Thorn però, come sempre, incontrò per primo lo sguardo di Ofelia. Aggrottò la fronte notando l'apprensione che lei non era riuscita a mascherare. Scoprì che Serena aveva la stessa espressione e, quando lei guardò Balder, Thorn ne seguì la traiettoria.
Registrò il taglio.
E inchiodò gli occhi a quelli di Tyr, che invece cercava di farsi piccolo e invisibile. Ad Ofelia fece quasi paura quello sguardo, non solo fisso come quello di un rapace, ma martellante, insistente, di metallo incandescente pronto a raffreddarsi e diventare indistruttibile. Tirò fuori l'orologio da taschino, poi si incamminò verso il suo studio.
- Vieni con me, Balder.
Il bambino lo seguì subito, lanciando un'occhiata rassicurante al fratello. Ma Tyr fissava il tappeto, e nemmeno l'arrivo di Salame che si strusciò sulle sue gambe riuscì a distrarlo. Ofelia capì che la sua paura si era trasformata in qualcosa di simile alla delusione: si era aspettato rabbia da parte di Thorn, ma non di essere ignorato così. Una sfuriata, sebbene non fosse proprio da Thorn, almeno era qualcosa. Una reazione apatica come quella, quasi indifferente, faceva molto più male.
Il salotto piombò nel silenzio mentre la zia Roseline strappava la carta spontaneamente per poi ricucirla, Berenilde si portava la sigaretta alle labbra con aria pensosa, Vittoria si confondeva con il mobilio e i bambini, innaturalmente quieti, guardavano gli adulti come per capire cosa fare. L'unico immobile era Tyr, che sembrava sul punto di scoppiare di nuovo a piangere.
Quando Balder tornò, fu come se avesse premuto un interruttore.
Le domande gli rimbalzarono addosso come l'acqua di una cascata, sommergendolo. Con gli occhi sbarrati, Balder decise di ignorare tutti e dirigersi solo da Tyr.
- Il papà ti aspetta - gli mormorò.
Deglutendo, Tyr si alzò e si avviò mestamente verso lo studio.
- Non è che quell'orso di tuo marito lo riempie di botte? - domandò la zia Roseline.
Ofelia la guardò, risentita. Non poté evitare di lasciar trapelare l'irritazione. - Thorn non ha mai alzato un dito sui suoi figli, zia. Né su nessun altro, se non per difesa personale.
Semmai, era lei quella che ogni tanto era dovuta ricorrere a qualche sculacciata, soprattutto con Tyr.
La voce di Renard tuonò nel salotto come se avesse urlato. - Il signor intendente è un ottimo padre, sono certo che saprà gestire la faccenda.
Sì, gestire la faccenda... ma senza di lei. Non l'aveva nemmeno interpellata al riguardo. Non era sempre lei quella impulsiva, avrebbe voluto far notare a suo marito.
Poi però si ricordò come aveva agito quando era stato il turno di Balder di imparare a controllare gli artigli. Il fatto che fosse diventato un momento padre-figlio di cui soprattutto Tyr aveva bisogno.
Ofelia sospirò, accasciandosi sul divano. Che se la sbrigasse pure Thorn, lei si sarebbe riposata finché non avessero servito la cena.
Il suo piano andò in fumo quando le gemelle le si arrampicarono in grembo, sommergendola.
- Mammina ci lacconti una storia? - chiese Mira.
- Raccontate - le corresse Serena, imperturbabile.
Belle inclinò la testa. - Noi non vogliamo lacconta’e storie. Vogliamo che le lacconti la mammina, le storie!
A causa della caduta precoce dei dentini davanti, dopo aver sbattuto la bocca per terra, Belle sputacchiava dappertutto quando doveva pronunciare la s. Così, quando iniziò a cantilenare: - Storia mamma, sto’ie stolie, Serena storia, stolia!!! -, Ofelia non poté fare a meno di acconsentire con un sospiro. Gli occhiali, indispettiti per quella doccia improvvisa, le saltarono sul naso.
Mai come in quei momenti le mancava il lavoro.
 
Tyr entrò nella biblioteca dopo aver bussato fiaccamente. Thorn era in mezzo alla stanza, gli dava le spalle guardando fissamente il fuoco. Stava armeggiando con qualcosa che Tyr non vedeva.
- Volevate vedermi p-padre?
Thorn lo guardò appena da sopra la spalla, il profilo tagliente del suo viso che si stagliava bianco contro la penombra della stanza. - Non serve che mi chiami padre - lo informò con una voce calda quanto il cuore di un iceberg.
- S-sì - balbettò Tyr, torcendosi le mani dall'ansia.
- Avvicinati - ordinò Thorn, togliendosi la giacca da intendente. Mentre armeggiava con i bottoni della camicia, incalzò il figlio: - Ti avevo detto chi mi aveva procurato quelle cicatrici, quando hai usato gli artigli per la pima volta ferendomi l'addome. Te ne ricordi.
Data la memoria da Storiografo di Tyr, che si era manifestata quasi in sordina, visto quanto poco Tyr la adoperava, quella di Thorn non fu una domanda.
Ma Tyr rispose lo stesso. - Sì - rispose Tyr in un soffio. - I vostri fratelli. Perché erano cattivi.
- Fratellastri - lo corresse Thorn, aggrottando la fronte. - Non ti ho mai detto che erano cattivi.
Tyr sembrò cincischiare, confuso dalla piega che aveva preso la conversazione. - No, ma se vi hanno fatto del male dovevano essere per forza delle persone cattive. No?
- Anche tu hai fatto del male a me e a Balder.
Tyr aprì la bocca per ribattere tutte le sue scuse, e soprattutto che lui non lo aveva fatto apposta, ma le parole gli morirono in gola, soffocate dal senso di colpa.
Thorn continuò a inchiodarlo con lo sguardo, impedendogli di fare altrettanto perché troppo intimorito. Si tolse anche la camicia, e infine, con un movimento inaspettatamente fluido per una persona rigida e dinoccolata come lui, rimosse anche la canottiera.
Aveva fatto pratica con Ofelia, in quegli anni...
- Guardami, Tyr.
Il bambino alzò gli occhi, sgranandoli quando vide il padre a torso nudo di fronte a lui. Dando le spalle al camino era in ombra, così Thorn gi ordinò di avvicinarsi. Poi si girò.
E gli occhi di Tyr si allargarono ancora di più, così tanto che la pelle del viso cominciò a fargli male. Iniziò a piangere silenziosamente di fronte alla vista della schiena devastata del padre, solcata da cicatrici talmente lunghe e profonde da assomigliare alle piste che lui, Balder e Ilda scavavano in giardino per farci correre le bilie. Allungò una mano per toccarne una, ma la ritrasse subito.
- I vostri fratellastri? - chiese con un filo di voce, così sottile che a Thorn ricordò Ofelia nei loro primi incontri.
Aveva dovuto chiederle di alzare il tono, all'epoca.
- Sì - rispose caustico Thorn, compiendo una piccola torsione per indicargli due cicatrici. - Queste due, in particolare, mi sono state inferte involontariamente. Quando Godefroy era inesperto e non sapeva controllare il suo potere.
Le cicatrici erano frastagliate, irregolari, in netto contrasto con quelle precisamente dritte o addirittura geometriche nel resto della schiena.
- Queste sono state quelle più difficili da far guarire. E quelle più pericolose, perché imprevedibili.
- Come le mie - mormorò Tyr, capendo dove voleva andare a parare. - Ma le altre... ve le hanno fatte volontariamente?
Thorn si rimise la canottiera e la camicia. - Non siamo qui per parlare di questo.
Tyr tirò su con il naso. - Io non voglio diventare così, come i vostri fratellastri.
Thorn si inginocchiò di fronte a lui, facendo risuonare gli schiocchi delle sue articolazioni irrigidite al di sopra degli scoppiettii del camino. Posò una mano sulla spalla di Tyr, costringendolo a guardarlo.
- Devi esercitarti per imparare a controllare il tuo potere.
- Ma poi diventerò capace di fare quelle cose come loro! Io non voglio papà, non voglio fare male a Balder o a Ilda o a Serena o alla mamma - gridò, disperato.
Thorn allungò una mano, facendolo sussultare e ritrarre, ma invece di usare violenza, accarezzò dolcemente la nuca del figlio, quei soffici capelli biondi così simili ai suoi, e lo attirò a sé. Di nuovo, Tyr pianse sulla sua spalla, gettandogli le braccia al collo, e alla fine si ritrovarono entrambi accartocciati sul tappeto, con Tyr scosso dai singhiozzi e Thorn che lo teneva stretto.
Thorn ripensò all'Immaginatoio. A quando aveva stretto a sé Ofelia per la prima volta, in circostanze tragiche, così simili a quella. Però era stata la prima volta che Ofelia si era affidata a lui, la prima volta che gli si era avvicinata. Nel bel mezzo di un dramma, avevano posto le basi per un rapporto di fiducia, per una prossimità. Dal male era scaturito qualcosa di assolutamente positivo.
Thorn seppe che sarebbe successo anche in quel momento.
(Se non altro, la matematica era a sua favore).
- Avere la capacità di ferire non significa essere costretti ad esercitarla. E non significa nemmeno essere cattivi.
- Ma Godefroy vi ha fatto male. Lui li usava e...
- Sono per metà Drago anche io - lo interruppe Thorn, che nonostante la fragilità di quel momento aveva un tono da esecutore di pena capitale. - Anche io so usare gli artigli.
Tyr si scostò, sorpreso. – Non vi ho mai visto adoperarli.
- Solo in casi di assoluta necessità. Come te, aborrisco la violenza. Non sono un dono di cui vado fiero, ma so usarli. So controllarli. E questo mi impedisce di ferire involontariamente gli altri.
- Non vi ho mai visto usarli.
Thorn aggrottò la fronte, perplesso di fronte alla ripetizione. - Ho detto che non li uso.
- Io... io pensavo che bisognasse usarli per forza. Loro... io... io ho usato gli artigli per sbaglio contro quel bambino e Balder. Avevo paura che se avessi imparato a controllarli, sarebbe stato più facile... farli uscire.
Thorn rimase in silenzio alcuni attimi, riflettendo. - Capisco... - mormorò infine. - Però è l'esatto contrario. Ora si manifestano in base alle tue emozioni, ma se tu fossi in grado di controllarli, li capiresti. Li bloccheresti. Non sarebbero loro i tuoi padroni, ma tu il loro.
- Per esempio, se io sono bravo a giocare a pallone non significa che debba giocare sempre! - esclamò Tyr, colto da un'improvvisa illuminazione.
Un'ombra di perplessità attraversò Thorn, che pensò che a quei paragoni fantasiosi doveva di sicuro essere più avvezza Ofelia. Lui non era pratico di esempi e similitudini. Avrebbe potuto spiegarglielo con un grafico, un'equivalenza o un calcolo, ma Tyr non era portato per la matematica quanto Serena e Balder.
Poi, però, Tyr si rabbuiò di nuovo. - Se lo avessi capito prima, non avrei ferito Balder. Io sono... sono stupido, papà.
- Non sei stupido - lo sgridò lui, facendolo sussultare. - La stupidità indica mancanza di intelligenza, e nessuno è oggettivamente privo di intelligenza. È una qualità misurabile di cui tutti, persino Archibald, sono dotati.
Tyr sembrò confuso dalla presa in causa di Archibald, ma non fece domande.
- C'è chi ha un valore d'intelligenza superiore e chi inferiore, rispetto alla media. Ma tu sei intelligente. Anche un po' di più. Nelle verifiche che ti fa Renold prendi dei voti più che sufficienti, hai un buon intuito…
Tyr assunse un'espressione ancora più sorpresa. - Voi guardate le mie verifiche? Sapete anche cosa studiamo?
L'espressione severa di Thorn sembrava non scalfirlo più. - Ovvio che le guardo. So bene cosa combinate, come vi comportate, e che risultati ottenete.
Colto da un'improvvisa epifania, finalmente l'ultimo muro che Tyr aveva eretto come difesa contro il padre crollò.
Lo aveva sempre visto come un uomo distante e altero, severo e anaffettivo. Non aveva mai capito l'attaccamento dei suoi fratelli per lui, e si era sempre dimostrato reticente nei suoi confronti. Non gli aveva mai fatto del male, ma gli aveva sempre incusso un po' di timore, e se n'era tenuto alla larga, crescendo fin dai primi anni con una spontanea avversione verso di lui. Si ricordò di tutti i dispetti che combinava e degli episodi in cui si era trovato a disagio con il padre, e capì che la colpa era sua, non di Thorn.
Era sempre stato paziente quando gli aveva insegnato ad usare il vasino. Quando lo sgridava non alzava mai la voce, e non lo aveva mai sculacciato. Lo salutava sempre prima di andare a dormire, anche se in modo un po' distaccato e freddo.
Finalmente, capiva perché. Dopo aver visto la sua schiena, si rese conto del modo in cui era stato cresciuto suo padre. Maltrattato da fratelli, anzi, fratellastri cattivi, senza i genitori, perché non aveva mai visto i nonni da parte di Thorn e aveva presunto che non ci fossero mai stati. Solo. E ferito. Perché le cicatrici erano tante... L'idea che qualcuno potesse ferire in quel modo Balder gli mandò il sangue alla testa.
Ed era proprio il modo in cui era cresciuto lui.
Tyr si rese conto che suo padre non era cattivo.
No, suo padre era fin troppo buono.
- Stiamo divagando - lo riprese Thorn, che aveva difficoltà ad interpretare il suo silenzio. - Hai ferito Balder oggi. Gravemente. Poteva essere un colpo fatale, Tyr. Ti eserciterai con me dopo cena, ogni giorno, finché non avrai imparato a padroneggiare gli artigli. Dovrai allenarti più di Balder, perché il tuo potere è più forte, molto forte. Non transigo.
Tyr abbracciò il padre, cogliendolo di sorpresa. - Vi voglio bene, papà.
Thorn rispose alla stretta dopo un attimo di incertezza, seppellendo il figlio tra le sue braccia. Gli sembrò un ritorno a casa, anche se nessuno se n'era mai realmente andato.
Poi fece scattare l'orologio da taschino. - Dobbiamo andare a cena. Non bisogna mai fare tardi.
Tyr si scostò annuendo.
- Hai chiesto scusa a tuo fratello per quello che gli hai fatto?
- Sì, tante volte. Non voglio più fargli male. A nessuno.
- D'accordo. Andiamo.
Ofelia guardò Tyr con aria perplessa quando lo vide sedersi a tavola sorridendo timidamente. E cercò di non strabuzzare gli occhi quando arrivò anche Thorn, che sembrava... rilassato. Per lo meno, non aveva il solito cipiglio tagliente. Increspò solo la fronte quando vide Archibald, ma decisamente meno del solito.
Quando Ofelia accompagnò i bambini a letto, chiedendosi che fine avesse fatto Tyr, decise di andare da Thorn.
Li trovò entrambi nel suo studio, di fronte al fuoco, con Tyr seduto sulle gambe del padre e Thorn che gli raccontava della gerarchia e delle gesta dei Draghi.
- Quindi può essere utile questo potere.
- Per quanto sia un controsenso definire utile la violenza, sì, lo è. I Draghi hanno contribuito all'approvvigionamento alimentare per secoli, impedendo la penuria di viveri durante i mesi più freddi in cui era difficile coltivare.
Anche se vedeva solo le loro spalle, Ofelia poteva intuire dal tono delle loro voci che erano a loro agio. Tyr non era mai stato così pacifico, nemmeno durante le lezioni di Renard, in cui erano più le volte che faceva il discolo di quelle in cui ascoltava.
- E adesso papà chi dà la caccia alle Bestie? Chi ci procura il cibo?
- Lo fanno alcune casate di ex decaduti, gli Invisibili e i Narcotici. I secondi addormentano le Bestie, o quanto meno le rallentano, mentre i primi si rendono invisibili e li colpiscono con le armi.
- Sono bravi quanto i Draghi, papà?
- No. Le perdite sono tre volte superiori, per non parlare del fatto che è impensabilmente arduo far andare d'accordo due clan che per decenni sono stati nemici, e che ora devono lottare sia per riottenere il loro posto a corte dopo la riabilitazione sia per affermare la loro supremazia. Al Polo solo chi torna utile può entrare a far parte della cerchia stretta di Faruk. Se muore un Invisibile, danno la colpa ai Narcotici; viceversa, se muore un Narcotico i restanti membri del clan accusano gli Invisibili. I Draghi... svolgevano questo compito da decenni. Non avevano bisogno di armi, usare gli artigli era naturale per loro, perciò potevano concentrarsi sulla difesa. Le perdite erano minime e la rendita era sempre proficua.
- Se i Draghi tornassero sarebbe una buona cosa, papà?
Thorn rimase in silenzio per un po', poi aprì l'orologio da taschino e mise via la penna. Ofelia si rese conto solo in quel momento che mentre parlava con Tyr lavorava. Non poteva permettersi di perdere tempo. Ofelia sorrise.
- Sarebbe una cosa utile. Ma i Draghi sono morti tutti. In una battuta di caccia. Non era un mestiere privo di pericoli, per quanto si fosse preparati e abituati.
Fu il turno di Tyr di rimanere in silenzio. Poi disse, con una voce talmente flebile che il fuoco rischiò di sommergerla: - Io sono un Drago. Io potrei... aiutare a cacciare. Con Balder e la zia Berenilde.
Ofelia vide Thorn irrigidirsi, la voce gli si fece tesa. - Sei passato dal non volerli usare al volerne fare un mestiere.
Tyr si accorse del cambiamento nel padre e si mise sulla difensiva. - Non è come far male a qualcuno. Non sarebbe una cosa sbagliata.
- Sarebbe pericoloso. E avventato.
- Ma...
- Non parliamone più - sancì Thorn, chiudendo il discorso come suo solito.
Tyr si girò a guardarlo e Ofelia fu sicura di vedere un broncio sul suo viso.
Le cose tra loro potevano cambiare, sì, ma non così in fretta e non così radicalmente.
Quanto meno, Tyr non ribatté. Si voltò verso il fuoco. - Domani ci addestriamo ancora?
Thorn grugnì un assenso voltando un foglio.
- Balder può partecipare?
- Se vuole venire, non glielo impedirò.
- Allora domani glielo chiedo. Sarà contento che finalmente mi esercito. Oggi abbiamo litigato proprio per questo, sapete?
- Balder è dotato di un grande giudizio, nonostante la sua età. Anche Serena.
Tyr si voltò di nuovo, mostrando ancora il broncio e il cipiglio da combattente. - Quindi sono stupido.
Thorn mise giù i fogli, esasperato. - Non ho detto questo. Tu sei ancora piccolo, il tuo giudizio è diverso dal mio o da quello di tua zia Roseline. Questo non significa che tu sia stupido. Se vuoi un equo paragone, tu sei molto impulsivo per la tua età. E testardo. Come tua madre.
Ofelia si schiarì la voce involontariamente. Il tono di voce mentre la accusava di essere testarda e impulsiva non le piaceva per niente.
Tyr si girò di scatto, scendendo dalle gambe di Thorn e correndo da Ofelia. Come potesse avere ancora tutta quell'energia in corpo, nessuno lo capiva.
Il coperchio dell'orologio di Thorn scattò. - L'ora di andare a letto è passata da un pezzo. Buonanotte, Tyr.
- Buonanotte! - esclamò il bambino, correndo per raggiungere Balder in camera.
Ofelia sospirò. Lo avrebbe di sicuro trovato a saltare sul letto, come al solito. Invece di raggiungerlo, però, guardò la schiena di Thorn.
- Chi sarebbe impulsivo e testardo?
- Lo sai cosa si dice di chi origlia - ribatté lui, apportando le ultime correzioni ai documenti per poi alzarsi in piedi e rassettare.
Ofelia scosse la testa. - Mi pare che la cocciutaggine appartenga più alla tua famiglia che alla mia. Non mi sembra che tu o tua zia vi siate mai fatti remore a fare di testa vostra senza consul...
Thorn si avvicinò in poche falcate, cogliendola di sorpresa e zittendola con un bacio rude. Quando si separarono, Thorn la fissò dall'alto per un istante prima di dirigersi in camera, tirando fuori la pipa.
Ofelia rimase bloccata contro la porta, poi sorrise.
Sì, di sicuro l'impulsività non era una caratteristica di cui lei avesse la prerogativa.

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Capitolo 53
*** Capitolo 53 ***


Un po' di "avanti veloce".
Questo capitolo è un po' l'anticamera dell'evoluazione che ci sarà nel prossimo, quando i ragazzi capiranno cosa vogliono fare della loro vita, continuando a crescere per diventare adulti. Anche se ne manca di tempo perché diventino adulti, eh! Qui invece vengono definiti i loro caratteri e si scoprono infine tutti i poteri familiari, per cui abbiamo delle personalità ormai ben consolidate (anche se mi dispiace da morire per la memoria di Tyr che non doveva esserci e che mi fa venire il nervoso per il "doppione" che si crea e di cui vi accorgerete. Va be' almeno non è un errore grave).
Grazie mille a tutte come al solito, spero che vi piaccia anche questo^^


Capitolo 53

Il rapporto tra Tyr e Thorn andò migliorando di giorno in giorno. Forse non si sarebbero mai trovati completamente, ma almeno da parte di Tyr non c'era più quell'astio iniziale che derivava da una mancanza di comunicazione. Thorn era sempre lo stesso, ma il fatto che Tyr obbedisse più prontamente e non lo portasse come sempre al limite estremo della pazienza gli aveva permesso di essere più avvicinabile dal punto di vista del figlio.
Ogni sera si ritiravano nello studio di Thorn, di tanto in tanto con Balder, raramente con Berenilde, che assisteva all'esercitazione dando consigli e durante il giorno si vantava con la famiglia e con la corte delle incredibili capacità del pronipote.
- Si sentirà molto parlare di lui in futuro, credetemi. Tyr il Drago, un cacciatore come non se ne sono mai visti.
Nonostante le visioni di gloria con cui Berenilde gli infarciva la mente, Tyr si rifiutava di esercitarsi con "bersagli mobili", come li chiamava la prozia, ossia uccelli o ratti o qualsiasi altro animale strisciasse, si muovesse o scattasse, così da fare pratica con esseri viventi.
L'orrore sul volto della zia Roseline a quell'idea era lo specchio di quello di Ofelia, che si opposero categoricamente all'idea. Thorn non approvò, ma nemmeno scartò l'idea di impratichirsi con i ratti, una piaga che affliggeva il Polo da anni e che portava epidemie dilaganti e un mucchio di altre spiacevoli conseguenze che l'intendenza doveva puntualmente gestire.
L'ultima parola però fu di Tyr stesso, che decretò che non avrebbe ucciso nulla e nessuno al di fuori delle Bestie che giravano oltre le mura, come gli altri Draghi. Thorn, a quell’idea riproposta dal figlio, si espresse di nuovo categoricamente: non si sarebbe recato all'esterno per uccidere le Bestie.
La causticità di Thorn poteva essere dovuta a molteplici ragioni, alcune egoistiche e altre fomentate dall'invidia, ma Ofelia sapeva che l'unico motivo per cui si opponeva così strenuamente a quell'idea era la paura, il terrore che il figlio venisse dilaniato dalle Bestie com'era successo al resto della sua famiglia. Ofelia vedeva il tormento nei suoi occhi d'acciaio quando l'argomento spuntava fuori, e il fastidio silenzioso che gli covava sotto pelle quando Berenilde invece dipingeva quadri del futuro in cui Tyr era il salvatore del loro retaggio, ma a scapito della sua sicurezza.
Dopo due settimane di addestramento, Thorn ne decretò la fine. Sia lui che Berenilde gli avevano ormai insegnato tutto quello che sapevano, e Tyr aveva già dato mostra di saper padroneggiare ogni tecnica, trucco e complesso meccanismo di quel potere. Si era applicato diligentemente anche per capirne il funzionamento a livello teorico, argomento per il quale Balder aveva mostrato un notevole interesse. Sicuramente più di quello che aveva dimostrato per l'applicazione pratica di quel potere.
Quella sera, dopo aver dato la notizia a Tyr e aver congedato la zia, Thorn rimase solo con Ofelia e il figlio. Tirò fuori da un cassetto della scrivania una scatolina che fece stringere lo stomaco ad Ofelia. Era da così tanti anni che non la vedeva... se n'era quasi dimenticata.
Ma Thorn no.
- Ti do una cosa Tyr - gli disse senza fronzoli, come se stesse consegnando le carte al suo segretario. - Tu eri troppo piccolo per capirlo, ma se le cose fossero andate diversamente tu avresti un'altra sorella minore, oltre a Mira e Belle.
Tyr sgranò gli occhi. - Davvero?! E dov'è?
- Non è mai nata.
Secco, asciutto, nessun segno di rimpianto o di dispiacere.
Apparente.
Ofelia lo vide incontrare il suo sguardo brevemente per poi distoglierlo.
- Che cosa triste - mormorò Tyr. - Un'altra sorellina l'avrei protetta come Mira e Belle! Nessuno può toccare le mie sorelline! - esclamò poi, mettendosi a tirare finti pugni all'aria.
Per quanto infatti andasse dietro a Balder come un cagnolino, Tyr era particolarmente attento alle sorelline minori, controllando che non si facessero male e che nessuno gliene facesse. Per loro, Tyr era quello che Serena era per Balder: un modello, un eroe. Fortunatamente, almeno, non ne imitavano il comportamento scalmanato.
Ofelia provò una stretta allo stomaco a quelle parole. Thorn invece continuò il discorso, imperterrito. Non si sarebbe mai lasciato andare a sentimentalismi, specialmente di fronte ai figli. - Per ricordarla ho fatto preparare dei regali. Una collana per Serena e per la mamma, un orologio per te e Balder.
- Un orologio come quello di Balder? Quello super bellissimo? - lo interruppe Tyr, facendogli aggrottare la fronte per l'uso di quel gergo poco ortodosso.
Thorn aprì la scatola e ne tirò fuori l'orologio da polso, facendo spalancare la bocca di Tyr. - Se ti riferisci a questo, allora sì. C'è il nome di tua sorella inciso nel quadrante, come negli altri regali. È importante non dimenticare mai nulla nella vita.
Tyr accettò il regalo con solennità, guardandolo in ogni suo dettaglio, girandolon da ogni angolazione per non lasciarsi sfuggire nulla.
- Ti insegno a leggerlo - ordinò Thorn, facendo suonare la frase più come una minaccia che una proposta.
- Mi ha insegnato Balder. Lo so già leggere. Volete vedere?
Thorn aprì fulmineamente il suo orologio da taschino, fissando poi gli occhi in quelli del figlio. - Dimmi che ore sono.
Tyr si concentrò sul piccolo quadrante al punto da tirare fuori la lingua per l'impegno. - Le nove e quaran... no, cinquanta.
- Cinquantadue. Sai cosa vuol dire?
Tyr increspò la fronte. Con quell'espressione, gli occhi chiari e i capelli biondi sembrava più che mai la copia giovanile di Thorn. Il naso non era come quello del padre, che aveva ereditato in pieno Balder, ma ci andava vicino. - No, cosa vuol dire?
- Che l'ora di andare a letto è passata da ventidue minuti. Quindi?
- Quindi dato che ormai sono in ritardo posso fare ancora più ritardo?
- D'accordo - concesse Thorn, attirandosi un'occhiata sorpresa di Ofelia. Thorn era intransigente sugli orari. - Niente mezze misure però. O vai a letto adesso, oppure resti sveglio tutta la notte.
Tyr alzò le braccia al cielo, orologio in mano. - Sveglio tutta la notte! Vado a chiamare Il...
- Da solo.
Il tono glaciale di Thorn spense ogni euforia. Le braccia di Tyr gli ricaddero mollemente, e il bambino sbuffò. - Allora vado a letto. Non è divertente da solo.
Poi si rianimò, vivace come al solito, porgendo l'orologio al padre. - Me lo mettete per favore?
- Ti conviene toglierlo per dormire.
- Me lo tolgo dopo, voglio vedere come mi sta. E voglio farlo vedere a Balder. Il mio è più nuovo del suo.
- Li ho comprati contemporaneamente - lo corresse Thorn, così che non ci fossero differenze tra i figli.
Accettò però di allacciarglielo, prendendolo con le dita lunghe e sistemandolo sul polso del bambino.
- È proprio da grandi. Ora sono grande, con questo.
Thorn increspò la fronte ancora di più. - Non è un orologio a sancire la maturità di una persona.
- Però se me l'avete dato vuol dire che non sono più così piccolo. Altrimenti me l'avreste dato prima.
A quelle parole, Thorn non ribatté. Ofelia gli si avvicinò per depositargli un bacio sulla guancia, gesto d'affetto che Tyr contraccambiò ripulendosi la guancia esageratamente.
- Buonanotte - lo salutò mentre Tyr saltellava verso l'uscita.
-Buonanotte! - esclamò il bambino di rimando. Sulla soglia però si fermò e guardò verso Thorn. - Grazie papà. Prometto che lo tratterò bene.
Thorn fece un impercettibile movimento con la testa, accettando quell'impegno. Poi si lasciò sfuggire un sospiro quando sentì il figlio urlare in corridoio, e la zia Roseline urlare di rimando, disturbata.
- Mi pare che le cose vadano meglio tra voi - osservò Ofelia, stringendo tra le dita il ciondolo di Thorn.
Lui si strinse nelle spalle, come se non avesse nulla da dire sull'argomento. Ofelia gli diede un bacio in fronte, ringraziando il fatto che fosse seduto, e si diresse verso la camera.
- Devo procurare dei ciondoli anche a Mira e Belle - disse però Thorn, bloccandola.
Ofelia annuì, rendendosi conto che effettivamente le gemelle non erano assolutamente in programma quando Thorn aveva commissionato quei gioielli.
Prima che potesse aprire bocca, dalla camera dei ragazzi si sentì arrivare un frastuono poco rassicurante. Thorn scattò in piedi e si fiondò verso l'origine del rumore e, quando subito dopo alle orecchie le giunsero le urla di scuse di Tyr, Ofelia non poté fare a meno di ridere. Le cose andavano meglio, sì, ma questo non significava che fossero perfette.
E per fortuna, perché non aveva mai avuto una vita perfetta, e la perfezione era assolutamente noiosa.
 
Tra una marachella di Ilda e Tyr, una caduta di Balder e qualche nuovo libro che Serena sciorinava a memoria gli anni passarono, e crebbero anche le gemelle. Di temperamento erano docili se non venivano istigate da Tyr, e come tutti gli altri si lasciavano ammansire da Serena, che sembrava la protettrice e il calmante di tutti i suoi fratelli, così pacata e gentile che pareva maleducato farla star male o disobbedirle.
Le piccole dimostrarono fin da subito di aver ereditato da Thorn la memoria degli Storiografi, dote che iniziava a stancare Ofelia dal momento che le gemelle, come Serena e Tyr, ricordavano tutto; al contrario della sorella maggiore, però, non capivano quando fosse il caso di tacere e quello di parlare, e correggevano Ofelia ogni volta che si contraddiceva, con suo sommo fastidio. Quanto a Renard, era già abituato a gestire Serena, che ormai quanto a conoscenza lo aveva abbondantemente superato, e Balder che era uno studioso eccellente, perciò non fece fatica ad adattarsi ai ritmi delle gemelle. Con Tyr e Ilda era quasi una causa persa, sarebbero rimasti per sempre i suoi studenti peggiori, invece il piccolo Randolf era quello che ispirava più tenerezza: studiare gli piaceva moltissimo, ma non aveva la concentrazione di Balder né tantomeno un briciolo della portentosa memoria di Mira e Belle, quindi si ritrovava sempre indietro rispetto agli altri. Inutile dire che era il preferito dell'insegnante. Pacifico com'era, con la stessa indole saggia e benevola del padre, era molto simpatico a Balder e Serena, che si prendevano ogni attimo libero per aiutarlo quando rimaneva indietro.
Dopo un paio d'anni fu evidente, purtroppo, che anche le gemelle avevano ereditato il dono di attraversaspecchi di Ofelia, e per una sfortunata coincidenza Tyr, che non aveva mai visto Serena esercitarlo, scoprì questo meraviglioso potere che faceva scomparire e riapparire le persone magicamente. Nonostante tutte le volte che le tre sorelle gliene avevano dato dimostrazione e spiegazione, Tyr continuava a non capire come funzionasse quel potere, la logica dietro a esso. Caso volle che però riuscisse ad attraversare lo stesso gli specchi, con orrore di Ofelia e Thorn. Non era particolarmente piacevole trovarsi tre bambini esagitati che sbucavano ridendo e rincorrendosi dallo specchio di camera loro, per il solo gusto di far spaventare i genitori. Al teatrino si aggiungeva Serena, che puntualmente arrivava dopo di loro per cercare di farli rinsavire, e Balder attraversava la casa di corsa, col fiatone, per bloccare loro l'uscita dalla porta della camera, così che rimanessero intrappolati e la smettessero di agitarsi.
Il risultato? Due genitori frustrati che avevano il terrore di essere beccati dai figli in atteggiamenti compromettenti, e cinque figli in camera da letto che bisticciavano o ridevano o si azzuffavano ma comunque non erano a letto.
Dopo due settimane di spauracchi e mobili isterici, contagiati dallo stato di costante apprensione di Ofelia, Thorn decise di parlare con Tyr da uomo a uomo. Così, quando la sera sbucò dallo specchio, Thorn lo afferrò per il braccio e lo trascinò in camera sua, agguantando anche Balder che stava correndo verso di loro.
- Ma io non ho fatto nulla! - protestò il figlio maggiore, afferrando gli occhiali prima che cadessero.
Le lamentele di Tyr invece si persero nel corridoio, e Ofelia udì solo la porta della camera dei ragazzi sbattere prima che ripiombasse il silenzio.
Fu il turno di Serena di afferrare le braccia delle sorelle. - Volete che il papà vi sgridi come sta sgridando Tyr? No, e allora tornate in camera e smettetela di farvi irretire da quel discolo di vostro fratello! – esclamò Serena con calma serafica. Da Thorn aveva preso anche la capacità di non mutare mai il tono, che rimaneva sempre soave anche quando si irritava.
- È anche tuo fratello! - dissero in coro le gemelle. - E tu non sei nostra mamma!
Ogni volta pronunciavano le stesse frasi. Sembrava il copione di una pièce scadente. Se solo il tono di Serena fosse stato più fermo e meno dolce, con quelle r mosce che facevano sciogliere i cuori più duri, forse le gemelle le avrebbero dato più ascolto.
Ofelia si mise le mani sui fianchi, squadrandole accigliata dopo essersi risistemata di nascosto la camicia da notte sotto la quale Thorn aveva appena iniziato ad infilare le mani prima di essere interrotti.
- Serena non è vostra mamma, ma io lo sono. E vi conviene ascoltare vostra sorella se non volete che il papà torni indietro e trascini in camera pure voi.
Le bambine sobbalzarono e si rituffarono nello specchio urlando dei "buonanotte" confusi. Ofelia era sicura che almeno una delle due si fosse fatta male, dal momento che attraversare uno specchio stretto insieme non era propriamente comodo e i bordi erano duri.
Serena sospirò, apparendo ancora più grande agli occhi di Ofelia. Aveva ormai quattordici anni, era diventata a tutti gli effetti una signorina e la zia Roseline e Berenilde stavano già cercando qualche buon partito, ma per Ofelia sarebbe sempre rimasta la sua bambina con i grandi occhi grigi di Thorn, i capelli biondi come le piume di un pulcino e quella pacatezza innata che poteva aver ereditato solo dal prozio. Be’, almeno quando l’Archivista non era irascibile.
- Scusatemi, mamma. Ogni volta riescono a farmela sotto il naso.
Ofelia le si avvicinò per accarezzarle il viso. Dovette allungare il braccio per farlo. A parte le gemelle, ormai i suoi figli erano alti quanto lei, se non di più.
- Sei fin troppo responsabile Serena, non hai alcuna colpa. Quella è di Tyr, che mi chiedo quando si darà una calmata. E delle gemelle, che lo seguono ovunque come se fosse un eroe.
Serena sorrise. - Sono furbe, sanno che se lo seguono le sgridate se le prende lui, mentre loro ne escono quasi incolumi.
In effetti, rifletté Ofelia, le più piccole erano troppo indipendenti e intraprendenti per lasciarsi abbindolare dal fratello maggiore. Dovevano essere loro, di loro volontà, a volerlo seguire quando combinava qualcosa. Se solo avessero messo a frutto quell'intelligenza in altri modi...
- In ogni caso, penso che dopo questa sera si daranno tutti una calmata. Non ho mai visto tuo padre così deciso, con Tyr.
Serena si strinse nelle spalle. - Tanto non farà nulla di male. Forse a Tyr una sculacciata ogni tanto sarebbe servita. Non per mettere in cattiva luce l'educazione che ci avete dato, mamma...
Ofelia scosse la mano, mentre la sciarpa la imitava. Nessuna delle due era offesa. - Io a Tyr qualcuna ne ho data, ma mi rideva dietro. Thorn non avrebbe mai alzato il dito su nessuno, lo sapevo fin dall'inizio, e sarebbe ingiusto aspettarci da lui il contrario. Sa meglio di chiunque altro cosa significhi essere oggetto di violenza, seppur impartita con lo scopo di aiutare un bambino.
- Sì, avete ragione. Come al solito, ho ancora tanto da imparare.
- A me sembra che tu sappia già fin troppo, tesoro. Nel giro di poco tempo sarai tu a saperne più di tutti, e io dovrò imparare da te.
Serena scosse la testa, ma le guance le si colorarono di un rosa tenue, sia imbarazzato che compiaciuto. - Ci sono cose che non si possono imparare dai libri, mamma. Che solo i più grandi possono insegnarci. Come il prozio. E voi.
Ofelia l'abbracciò stretta, così orgogliosa di quella ragazza da sentire il cuore esploderle. Serena si abbandonò al suo abbraccio, ricordando a Ofelia che, nonostante l'altezza e la saggezza, era ancora una ragazzina.
Le due si separarono quando la porta della camera si aprì. Thorn si stagliava sull'uscio con gli occhi di metallo che brillavano nella penombra, l'alta figura che sembrava voler sovrastare ogni cosa con la sua imponenza. Ofelia dovette ammettere che con il viso in ombra e la fronte così increspata faceva quasi paura.
Ofelia aprì la bocca per chiedergli qualcosa, ma lui la precedette. - È ora di andare a letto anche per te, Serena. Assicurati di dire alle tue sorelle che se fanno un'altra volta la bravata che si ostinano a fare ogni sera, riserverò loro lo stesso trattamento di Tyr.
Serena annuì, augurò la buonanotte in fretta e si volatilizzò dentro lo specchio con la flessuosa eleganza che Ofelia non avrebbe mai avuto. E nemmeno Balder.
- Che trattamento hai riservato a Tyr? - chiese finalmente Ofelia.
Ma Thorn non le rispose. Chiuse la porta dietro di sé e spinse la moglie a letto, tenendole la bocca impegnata con una serie di baci che fecero perdere ad Ofelia il controllo sulla sua mente. Thorn era famelico; per una serie di vicissitudini era da tre settimane che non stava un po' con sua moglie, e l'essere interrotto per uno stupido scherzo di Tyr doveva avergli fatto saltare i nervi.
Quando ebbero concluso, ansimanti e attorcigliati fra di loro e alle coperte, Ofelia tornò alla carica.
- Che cos'hai fatto a Tyr? - gli chiese appoggiandosi sul gomito, per poterlo guardare in viso.
Thorn distolse lo sguardo e deglutì. - Gli ho detto come nascono i bambini.
Ofelia rischiò di strozzarsi con la saliva. La sciarpa, imbarazzata, si dimenò sul comodino buttando a terra guanti e occhiali. Thorn la fissò per capire quanto fosse grave il soffocamento, ma lasciò perdere quando vide che non era nulla di grave.
- Non glielo avevi già spiegato? E poi, perché hai voluto tirare fuori un argomento del genere proprio ad...
Un cattivo presentimento si fece largo dentro di lei.
Le orecchie di Thorn avvamparono.
- Ho fatto notare che gli adulti non devono condividere l'intimità solo per concepire dei bambini. E questo significa che potrebbero piombare in camera nostra e trovarci in atteggiamenti discinti se non usano le porte per bussare come si dovrebbe.
Ofelia sgranò gli occhi, il respiro di colpo mozzato. Thorn non poteva davvero aver detto quello... Non poteva davvero...
Le labbra si curvarono nella versione un po' storta di un sorriso. Più un ghigno che altro, ma decisamente il simulacro di un sorriso.
- Questo, almeno, è quello che avrei detto se avessi visto che Tyr non mi dava retta al primo tentativo. In realtà, mi è bastato ricordargli di quando è piombato nel bagno di Archibald tramite uno specchio mentre giocava a nascondino. E Archibald si stava facendo il bagno. Gli ho fatto notare che, dato che questa è la nostra camera, se non ci avvisa della sua volontà di entrare potrebbe trovare anche i suoi genitori in quella situazione.
Ofelia rilasciò il respiro che aveva trattenuto. Far immaginare a Tyr Archibald nudo era decisamente meglio che fargli immaginare i suoi genitori in atteggiamenti intimi. Insomma, ormai i tre figli più grandi avevano capito che gli adulti sposati facevano certe cose, e anche come nascevano i bambini, ma ad Ofelia sembrava più che sconveniente che sapessero i dettagli della loro vita di coppia.
Ciò nonostante, non poté fare a meno di scoppiare a ridere.
- Dici che come deterrente è stato efficace?
Un angolo della bocca di Thorn si piegò in una smorfia. Non un sorriso, ma una smorfia di disgusto. - Tyr è impallidito quando si è ricordato della vista di Archibald nudo nel bagno.
Ofelia si coprì la bocca per non ridere troppo forte. Poi si chinò a baciare Thorn, che l'assecondò con trasporto facendo scorrere una mano su tutto il suo corpo.
- Allora credo che non dovremo più temere un'incursione a sorpresa, giusto?
In risposta, Thorn ribaltò le loro posizioni, facendola sdraiare sotto di sé. Ofelia sospirò al contatto con la sua pelle calda.
- Possiamo prendercela comoda...
Thorn grugnì e le affondò la testa nel collo, inspirando il suo profumo e baciandola fino alle clavicole. Ofelia rabbrividì. Avevano cinque figli, di cui la maggiore di quattordici anni, un inizio turbolento alle spalle e un bisogno di indipendenza che garantiva loro un'ampia libertà di azione e autonomia... allora perché, dopo tutti quegli anni, Ofelia sentiva ancora quel bisogno così impellente di Thorn? Perché si sentiva ancora fremere quando pensava che sarebbero riusciti a ricavarsi un po' di tempo per loro? Perché lo cercava con lo sguardo, per sondarne l'umore e lo stato d'animo, e si sentiva... felice quando lo vedeva meno teso del solito?
Perché lo amava così tanto da averlo inconsciamente reso il fulcro della sua vita, lei che aveva odiato l'idea del matrimonio?
Thorn le baciò la fronte per distenderle le rughe che si erano create a seguito di quei pensieri, e la strinse in un abbraccio soffocante come se avesse intuito le sue domande e avesse voluto scacciarle.
Ofelia si abbandonò di nuovo a lui, pensando che non le interessava, per una volta, la risposta a quei perché. Non era importante.
L'unica cosa che contava era il sentimento che Thorn le corrispondeva con il suo stesso impeto. Anche un po' di più. E il fatto che quel legame era la cosa più appagante che avesse mai provato, nonostante non lo avesse mai voluto, né cercato.
E nell'intrico insondabile del caso che li aveva voluti unire, espresse un muto ringraziamento alla vita, in cui c'era stato dolore, ma c'era stata soprattutto gioia.
C'era stato Thorn e ci sarebbe sempre stato.
- Sono felice - gli sussurrò sulle labbra, prima di allacciargli le gambe in vita.
Thorn si irrigidì, Ofelia lo sentiva tremare contro di sé. Poi emise un sospiro di difficile interpretazione, ma i suoi occhi esprimevano sollievo, urgenza e un leggero stupore. Però, non era affilati come al solito.
- Io anche un po' di più.
 
Con i figli impegnati a scuola e ormai abbastanza grandicelli da non avere bisogno che lei fosse perennemente a casa, soprattutto le gemelle che erano autonome e non più costantemente attaccate alle sue gonne, Ofelia riaprì con orgoglio lo studio di lettura.
Thorn sbrigò tutte le carte per lei e nel giro di due settimane poté tornare operativa. Aveva sognato quel momento per tanto tempo, anni, anzi, anni spesi a crescere quei figli che ormai non erano più bambini, e ora che poteva rimboccarsi nuovamente le maniche le sembrava di essere tornata indietro nel tempo, ma dentro una pelle diversa. Era spaesata.
Quando aprì la porta del suo studio, oltre ai cardini che avevano bisogno di olio, la prima cosa che la colpì come un'artigliata fu l'assenza.
L'assenza del prozio.
Dopo avergli mostrato quel luogo e avergli illustrato il progetto su cui aveva già lavorato e che intendeva portare avanti una volta che i bambini fossero cresciuti, era come se fosse diventato il loro luogo. Il loro museo, come quello che avevano avuto su Anima. Il prozio era stato così orgoglioso di lei, del suo operato, e soprattutto del suo voler sfruttare quel potere che sapeva padroneggiare così bene. Nessuno aveva mai creduto in lei come il prozio, né l'aveva incoraggiata così tanto. Non solo era stato presente quando lei cercava di capirne il meccanismo e di metterlo a frutto, ma l'aveva aiutata e incoraggiata quando le sembrava di non capire nulla o di essere trasportata via dalle emozioni e dalla personalità contenuta negli oggetti che leggeva.
Ofelia si soffiò il naso, ringraziò di essere da sola e si chiuse la porta alle spalle, mettendosi al lavoro. Fece i lavori di pulizia più leggeri, attendendo Renard che sarebbe arrivato a darle man forte nel pomeriggio. Renard le aveva detto chiaro e tondo che intendeva darle una mano, non lo aveva chiesto. Aveva ormai perso da tempo l'atteggiamento remissivo da valletto, anche se si ostinava a chiamarla padrona.
- Quando anche le gemelle e Randolf avranno finito gli studi, non so se riuscirò a trovare degli altri alunni. E se lo farò, sarà comunque per mezza giornata. Sono sempre stato bravo ad adulare le persone, sarei un ottimo cacciatore di clienti. Ti ricordi, ragazzo? Ne avevo già trovati parecchi all'epoca della prima apertura!
Ofelia gli aveva sorriso, trascinata dal suo entusiasmo, e gli sorrise anche quel pomeriggio, quando insieme spolverarono superfici, pavimenti e mobili, cambiarono le lampadine e riappesero le insegne. Serena era andata con lei e Thorn qualche giorno prima, per riflettersi negli specchi, in modo che potesse andare a chiamarla celermente in caso di problemi. Ofelia non si era fidata di lasciare quell'incarico anche a Tyr e alle gemelle. Sapeva già che sarebbero piombati in studio in qualsiasi momento, soprattutto per giocare a nascondino. Anzi, forse a nascondino no, dal momento che Serena, Balder, Ilda e persino Randolf avevano ordito un boicottaggio per porre fine agli imbrogli dei tre fratelli, che sfruttavano il loro potere per nascondersi fuori casa o scappare.
In ogni caso, sarebbe stata Serena a contattarla. Se proprio le gemelle avessero avuto bisogno, avevano i ciondoli con cui poter mandare messaggi. Thorn aveva fatto commissionare le collane anche per loro, e successivamente aveva fatto modificare quello di Serena, perché anche lei avesse un piccolissimo specchio nella parte posteriore, come la mamma e le sorelle. Troppo piccolo per far passare qualcosa di più grande di un dito, era utilissimo per passarsi messaggi tra attraversaspecchi. E Ofelia poteva tollerare la continua caduta di bigliettini dal suo ciondolo meglio di quanto avrebbe tollerato un'incursione durante una perizia.
Con Renard e Ofelia fuori casa, la responsabilità ricadeva sulle spalle di Serena, che riusciva con la sua gentilezza un po' fredda a farsi obbedire da tutti, e della zia Roseline, quando non era impegnata a badare a Berenilde e alle sue festicciole di corte. Vittoria era la più enigmatica, ma anche la più facile da trattare, dal momento che rimaneva sempre tranquilla dove la si metteva. A disegnare era diventata ormai bravissima, alcuni cortigiani le avevano addirittura richiesto dei ritratti. Vittoria però non concedeva i suoi servizi a tutti, e quando lo faceva, era per aiutare qualcuno ad aprire gli occhi di fronte alla realtà. Era come se quella ragazza, quasi donna ormai, vedesse oltre, e ritraesse la vera natura delle persone. Natura che al Polo in pochi erano in grado di tollerare, perché raramente piacevole. Persino Archibald non era uscito incolume da uno dei disegni rivelatori di Vittoria. L'espressione baldanzosa e tronfia di Archibald era svanita, cancellata come nessuno era mai riuscito a fare, quando aveva guardato il ritratto. Aveva deglutito in silenzio, aveva piegato con cura il foglio, che poi si era messo in tasca, e se n'era andato. Aveva preso la più grande ubriacatura della sua vita, tanto che per portarlo a letto dopo che in qualche modo lui era riuscito a tornare sulla soglia di casa era servito Renard. Ma anche da ubriaco, l’espressione di Archibald era risultata vuota come lo erano sempre stati i suoi incredibili occhi turchesi.
Oltre al disegno che riusciva a cambiare umore e percezione degli altri, Vittoria si dedicava a qualcosa di innocuo come il ricamo. Le piaceva ricamare cuscini, era un lavoro metodico e ripetitivo che le permetteva perfettamente di prendere le distanze da tutti. Ogni tanto scriveva lettere a Tom, ma su dieci lettere che riceveva, ne spediva una, spesso non conclusa. Berenilde si ostinava ad affermare che fosse amore, perché Vittoria non si sarebbe mai impegnata così tanto in un'attività faticosa come scrivere se non le fosse importato enormemente della persona a cui era indirizzata la lettera. Ofelia sperava solo che il nipote, che aveva visto qualche mese prima e ormai era un uomo fatto e finito, con il sorriso gioviale della madre ma il temperamento mite del padre, non subisse una delusione colossale. Non avrebbe mai potuto avere una relazione normale con Vittoria, ma non sembrava importargli. E in effetti, lui era l'unico al quale Vittoria dedicasse attenzioni. Chissà, magari avrebbero davvero celebrato un altro matrimonio tra animisti e Draghi.
La zia Roseline l'assisteva quando ricamava, sferruzzando per conto suo, usando la macchina da cucire o riparando qualche foglio che Vittoria maneggiava con poca cura. Tyr, per qualche motivo, le osservava ogni volta che poteva, e alla fine si decise a sputare il rospo: voleva una sciarpa da uomo. Ma non voleva comprarla, voleva cucirla.
- Balder ha gli occhiali, Serena ha la sua penna, anche io voglio un golem, qualcosa che possa crearmi io e che sia mio, come un compagno.
In ricordo di quando aveva sferruzzato incessantemente per dare vita alla sua amica di avventure, così vecchia e infeltrita ormai da sembrare spelacchiata, Ofelia accarezzò la sua sciarpa, che le si avvolse docilmente attorno al collo. Non sempre erano andate d'accordo, ma era impossibile che ci fosse una senza l'altra.
Così Ofelia aveva lavorato in pace in studio per diversi giorni, mentre Tyr cuciva la sua sciarpa.
Poi erano iniziati i problemi.
Che stato d'animo poteva aver insufflato una peste dentro un oggetto in fase di creazione? Pace? Gentilezza? Serenità?
Certo che no!
Se possibile, la sciarpa era più dispettosa di Tyr. Sembrava sempre starsene tranquilla sulle spalle del padrone in attesa del momento propizio per attaccare, rapida come un gatto, sorniona e altrettanto menefreghista. Se a tavola Tyr litigava con Ilda, la sciarpa lo aiutava a mettere a segno il colpo decisivo allungandosi furtivamente dove serviva; batteva sulla spalla di qualcuno per distrarlo mentre Tyr lo prendeva in castagna, rubando qualcosa o facendo uno scherzo; storceva costantemente gli occhiali di Balder; girava le pagine dei manuali su cui Serena prendeva appunti, anche se aveva smesso di farlo quando si era resa conto che non era divertente, dal momento che Serena non incassava, ma andava avanti imperterrita con i suoi studi senza arrabbiarsi; coordinava le gemelle se avevano architettato un attacco congiunto; quando andavano al parco a giocare a palla, faceva la differenza tra la vittoria e la sconfitta con i suoi salvataggi miracolosi; strisciava in cucina per rubare indisturbata la cena, facendo impazzire il cuoco che di punto in bianco non trovava più le teglie da nessuna parte. Insomma, sarebbe stata una sciarpa utilissima e molto efficiente, se solo fosse stata temprata da qualcuno che non era Tyr. Inutile dire che ogni volta che vedeva Salame si azzuffavano come se fossero nemici giurati. Il gatto aveva addirittura iniziato ad evitarla quando la vedeva, troppo vecchio per partecipare ancora a quelle bravate da micetti.
L'unica persona per cui la sciarpa avesse un po' di rispetto era Ilda. Balder non le andava troppo a genio, perché probabilmente riteneva che avesse un ascendente troppo educativo e calmante sul suo padrone, quindi lo includeva nei dispetti che perpetrava, anche se con una sorta di cameratismo fraterno incomprensibile. Ilda, invece, la temeva. Da quando la ragazza, dopo essere stata vittima di due dispetti che avevano fatto prima ridere e poi gelare di paura Tyr, che conosceva fin troppo bene l'animo esplosivo dell'amica, aveva impartito una sonora lezione alla sciarpa, questa aveva iniziato a temerla e in seguito a rispettarla.
Infine a difenderla, soprattutto quando era Tyr a scherzare con lei o a farle qualche dispetto. La sciarpa interveniva sempre perché il ragazzo lasciasse stare Ilda. Se perché temesse una ritorsione dell'amica a danni del padrone o perché volesse difendere lei, non era dato saperlo.
Grazie alla sciarpa comunque scoprirono l'ultimo potere familiare delle gemelle: gli artigli, che vennero usati per la prima volta a scapito di Tyr, senza alcuna conseguenza se non due lievi graffi a X. La sciarpa le stava importunando talmente tanto che le gemelle, senza volerlo, si erano vendicate sul fratello. Al contrario di Balder e Tyr, rimasti scossi da un potere così violento, loro accettarono di buon grado sia il dono che l'addestramento del padre, imparando a padroneggiare gli artigli in poco tempo. Non ne rimasero turbate, ma nemmeno ammaliate. Semplicemente, ne erano indifferenti, però ritenevano che fosse un buon deterrente contro persone moleste come i bambini con cui giocavano nei giardini, contro Tyr stesso o contro chiunque altro. Andavano millantando di aver procurato loro la cicatrice di Balder con chi non conosceva la storia, e tanto bastava per tenere lontani gli antipatici. Ofelia aveva deciso di non smascherarle dal momento che quella era l'unica bugia che raccontavano e che in fin dei conti era innocua, ma la aveva messe in guardia: le bugie non erano tollerate, e sarebbero state punite una volta scoperte.
Quanto a Balder, aveva iniziato a farsi crescere il ciuffo riccio quando si era reso conto che la sua cicatrice veniva impropriamente usata dagli altri come trofeo. Tyr sosteneva che fosse stata causata da una Bestia gigantesca messa in fuga proprio dal suo fortissimo fratello maggiore; le gemelle la usavano come vanto personale; Ilda gliela toccava in continuazione perché le piaceva sentire il solco della pelle; Berenilde la esibiva come dimostrazione del potere dirompente di Tyr; Randolf gli chiedeva fin troppo spesso come potesse procurarsene una. Insomma, il fastidio che non gli causava la cicatrice gliela causavano i parenti. Purtroppo la tattica non funzionò perché quando i capelli gli divennero abbastanza lunghi da coprire il taglio, Thorn glieli fece tagliare, ritenendoli inopportunamente smisurati. E poi non ci vedeva bene.
Facendo mente locale sui poteri familiari dei figli, Ofelia dovette riconoscere quasi con preoccupazione che lei e Thorn avevano generato una prole forse troppo variegata e dotata.
- Non è un caso - le rispose Thorn quando glielo fece notare. - Tutti gli animisti sono in grado di influenzare gli oggetti e hanno come minimo un altro potere a disposizione. In questo caso, tu ne hai tre in totale. Io sono il risultato di una mescolanza di due poteri, quando qui al Polo se ne ha solo uno, o proprio nessuno. Era matematicamente certo che i nostri figli avrebbero avuto una panoplia di poteri a disposizione, con abbinamenti rari. Anche un po' di più.
- Vuoi dire che tu ci avevi già pensato?
Thorn aprì e chiuse l'orologio da taschino, per poi mettere via la penna. - Da quando mi hai detto di volere un figlio.
Chissà perché, la cosa colse di sorpresa Ofelia. Probabilmente Thorn aveva anche avanzato ipotesi di ogni tipo su come il patrimonio genetico suo e di Ofelia si sarebbe mescolato. Chissà se qualcuna delle sue previsioni si era realizzata alla perfezione.
- Perché non me ne hai parlato?
Thorn non mutò di una virgola l'espressione imperturbabile. - Non ritenevo che avesse importanza. Non sarebbe cambiato nulla, che io lo avessi detto o meno, tanto valeva vedere come sarebbero andate le cose.
Ofelia non ribatté. In effetti, Thorn aveva effettuato migliaia di calcoli combinatori non necessari per via della sua mente estremamente... matematica, se così la si poteva definire. Ma in effetti, sapere o non sapere quali poteri avrebbero potuto avere il loro figli non avrebbe cambiato nulla.
In ogni caso, tirando le somme erano tutti ugualmente dotati, a parte Balder. Non considerando l'animismo di cui tutti erano “afflitti”, come sosteneva Berenilde, Serena, Mira e Belle avevano tre poteri a testa: la prima aveva la memoria, le mani da lettrice e la capacità di attraversare gli specchi, le seconde avevano la memoria ed erano attraversaspecchi, ma al contrario della sorella maggiore avevano gli artigli e non erano lettrici. Tyr era la copia delle gemelle, ma con artigli molto più potenti e una memoria che non utilizzava quasi mai. Balder era un lettore dotato di artigli, quindi, al contrario degli altri, non era né un attraversaspecchi né Storiografo per un quarto. In quanto a lettura però era già al pari di Ofelia, facendo impallidire la capacità di Serena.
Non c'era un potere che non fosse passato ad almeno uno dei figli. Serena rappresentava l'incarnazione perfetta del motivo per cui era stato orchestrato il matrimonio tra Ofelia e Thorn: fondere e utilizzare insieme la memoria di Thorn e il dono di lettura di Ofelia. Non c'era dubbio che sul versante cerebrale lei avesse ottenuto la combinazione migliore. Tyr, invece, quella più potente, mentre Balder sembrava la congiunzione tra il fratello e la sorella, tra la madre e il padre: lettura e artigli. Le gemelle non davano sfoggio dei propri poteri, a volte era persino facile dimenticare che avessero una memoria portentosa. A Ofelia però piaceva che avessero doni tanto disparati: potevano scegliere la loro strada senza essere influenzati dalle decisioni o dallo stile di vita degli altri fratelli, perché non avrebbero avuto termini di paragone.
- Penso che una famiglia più variopinta della vostra non esista in nessun'altra arca, sapete, moglie di Thorn? Quattro doni familiari sono eccessivi persino nelle arche più prolifiche di poteri - le disse una sera Archibald, osservando i bambini, ormai ragazzi, animare giocattoli, citare a memoria litigi vecchi di anni, leggere oggetti per stabilire chi fosse l'ultimo ad averlo usato o scappare attraverso uno specchio per sfuggire all'ira di qualcuno.
Per una volta, Ofelia si trovò totalmente d'accordo con Archibald.
Osservò le testoline dei figli, e dei loro due migliori amici, e si sentì riempire il cuore d'orgoglio. Lo stesso che provava per Thorn.
Nonostante la sua famiglia d'origine l'avesse sempre considerata un po' strana e diversa, era riuscita a farsi accettare e a creare qualcosa di importante.
Senza vergogna, ammise di essere orgogliosa anche di se stessa.

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Capitolo 54
*** Capitolo 54 ***


Lo so, sono in ritardo. E il capitolo è pure corto e non succede chissà cosa. Però è un passaggio fondamentale per la crescita dei ragazzi.
Spero che vi piacciano i momenti padre-figlio, ecco. Avrei voluto aggiungere un pezzo del capitolo successivo, ma era troppo lungo e non potevo tranciarlo a metà. A mia discolpa, cercherò di postare prima il prossimo. Shcusate.
Buona lettura^^


Capitolo 54

Sul finire dei suoi sedici anni, Serena palesò la decisione che Ofelia in cuor suo già conosceva: voleva diventare intendente. Come il padre.
Lo rivelò una sera a cena, di fronte a tutti, diretta e senza vergogna come Thorn. La zia Roseline annuì in approvazione, sempre sollecita nel sostenere le donne di famiglia che volevano mettere in mostra le loro doti e portare lustro agli animisti. Archibald si mise a ridere e si scolò un intero bicchiere di vino, mentre Renard annuiva e le strizzava l'occhio e Gaela grugniva un assenso. Berenilde storse la bella bocca, già pronta per una serata mondana. Riteneva che una giovane e bella donna come lei fosse più adatta alla vita di corte e alla ricerca di marito che agli studi tediosi di legge. Ci pensò Thorn a zittirla, ripetendo ciò che già una volta aveva riferito ad Ofelia: nessuna legge impediva ad una donna di diventare intendente.
Purtroppo, nonostante non fosse apertamente vietato, era anche estremamente difficile data la chiusura mentale degli abitanti di quella gelida arca. Avevano una predisposizione al cambiamento più dura del ghiaccio che ammantava le foreste esterne, ed erano ancora più inflessibili.
Alla fine Thorn chiuse l'argomento con il suo tono da tagliacarte: - Se sei sicura di questa tua scelta, non sarò certo io a impedirti di provarci. Sappi solo che non sarà una strada priva di difficoltà, soprattutto per te, in quanto donna e in quanto figlia mia, cioè dell'intendente in carica. Per far sì che nessuno possa mettere in dubbio i tuoi risultati e la tua nomina, dovrò essere estremamente imparziale con te, estraneo alla faccenda. Per quanto mi rincresca, non potrai fornirmi i dettagli del tuo percorso, né io potrò offrirti suggerimenti. Costruirsi con le proprie mani però è la più grande forma di appagamento. Ti permetterà di guardarti allo specchio senza vergognarti, perché saprai di essere arrivata dove sei per merito, e non per favoritismi.
Archibald applaudì fiaccamente, esibendo a Thorn un sorriso denigratorio, invece Serena sgranò gli occhi scuri e osservò il padre con sorpresa. Anche lei, come Thorn, raramente lasciava trapelare le proprie emozioni in viso, anche se era più propensa alla risata, per fortuna.
- Parlate come se foste sicuro che otterrò la carica.
Thorn prese in mano il bicchiere, fissandola da sopra il bordo. - È così.
Poi bevve, chiudendo il discorso. Ci pensò però Berenilde ad aprirne un altro, che riguardava la sua tanto amata quanto marcescente corte. Serena avrebbe dovuto partecipare a qualche serata di gala, almeno una alla settimana, se voleva acquisire un po' di notorietà. Non si trattava di raccogliere consensi o raccomandazioni, assicurò, solo di farsi vedere. Di imporre la sua presenza, di far sapere a tutti che lei c'era, e aveva ogni intenzione di restare.
- Devi affermare la tua volontà. Non importa se ti criticheranno alle spalle o a viso aperto, tu devi essere disposta a non cedere. Mento alto, postura eretta, sguardo duro. Sei un Drago, figliola, e i Draghi non abbassano lo sguardo.
Serena provò a ribattere che era Drago solo per un quarto, ma alla fine richiuse la bocca e si mise a mangiare.
- Devo convenire che madama Berenilde ha avuto un'ottima idea. Guardate me, figlia dell'intendente! Di certo non sono conosciuto come un eroe o per aver compiuto grandi gesta... - intervenne Archibald.
- Almeno la gente ha ancora un po' di discernimento... - borbottò Thorn, che venne bellamente ignorato da Archibald.
-... però parlano di me. Mi desiderano, o mi invidiano, ma comunque parlano di me. Ciò significa che sono nei loro pensieri. E se sono nei loro pensieri, sono nella loro vita - concluse, facendo l'occhiolino a Serena e poi lanciando in aria il cilindro sbrindellato. - Acquisire notorietà non vi assicurerà la cattedra dell'intendenza, ma vi permetterà di mantenerla più facilmente. Contate pure sul mio aiuto, figlia di Thorn.
Nell'atmosfera sbalordita che si venne a creare, nessuno osò fiatare, nemmeno Tyr o i bambini più piccoli. Poi Archibald ridacchiò.
- Dovete ammettere che sarebbe alquanto ilare vedere lo scompiglio che si verrà a creare in seno alla corte se la figlia dell'intendente in carica diventasse intendente a sua volta. Donna, figlia di un ex bastardo, dal sangue mescolato e non "puro" come molti pretendono. Sarà molto, molto divertente. Avete il mio pieno appoggio, state certa che dove non potrà aiutarvi vostro padre, arriverò io. Ero un ambasciatore a dir poco... impegnato, ma il mio lavoro lo sapevo fare. E a corte la mia influenza non ha più peso, pertanto nessuno potrà accusarvi di essere aiutata da qualcuno.
Né Ofelia né Thorn ribatterono, entrambi consapevoli che ciò che Archibald stava offrendo era un aiuto prezioso. Thorn nemmeno strinse la mascella di fronte agli insulti rivolti a lui e alla figlia, perché per una volta non erano provocazioni ma semplici dati di fatto in cui Archibald stesso non credeva. Trapelava dal suo tono di voce fin troppo sincero. Del resto, che senso aveva essere di sangue nobile e puro ma essere disconosciuto dalla famiglia perché non si condivideva più lo stesso potere familiare per via di un rapimento? Archibald era il primo ad infischiarsene del colore di sangue di una persona.
- G-grazie signor Archibald.
Il cilindro sbrindellato gli cadde di mano. - Signor Archibald? Che fine ha fatto lo zietto?
Con gran sorpresa di Ofelia, Serena arrossì. - Temo di essere troppo grande per chiamarvi in quel modo. Posso chiamarvi solo Archibald, se volete.
Per una volta, l'espressione sul volto dell'ex ambasciatore rispecchiava la luce nei suoi occhi: spenta, vuota. Cercò di non darlo a vedere chinandosi per raccogliere il cappello. - Come desiderate, figlia di Thorn.
- A me piace zietto! - si intromise Tyr, stanco di quelle conversazioni pesanti. - Continuerò a chiamarvi così.
Archibald gli sorrise, ma gli occhi erano ancora privi di vivacità. - Affare fatto.
Da quella sera, ad Ofelia sembrò più volte di vivere una specie di realtà dissociata dal suo corpo, come se avesse osservato la sua vita dentro uno specchio. Serena stava ancora in classe con Renard, ma studiava individualmente anziché partecipare alle lezioni. Le piaceva il vociare sommesso dei fratelli e degli amici, nonché la compagnia stessa di Renard, che considerava davvero come uno zio. Inoltre, studiare accanto a lui le dava la possibilità di chiedergli consigli e imparare quanto più possibile sul funzionamento del Polo. A dire il vero, quelle cose Serena già le sapeva, Thorn aveva impiegato una settimana a spiegargliele nei minimi dettagli, ma Serena aveva rivelato ad Ofelia di voler ascoltare il punto di vista di un senza-poteri che aveva visto il lato più oscuro della corte, il lato dei valletti e dei servi, non dei nobili che fumavano e si ubriacavano e godevano dei favori del sire Faruk.
I bambini avevano incontrato più volte lo spirito di famiglia in quanto cugini di sua figlia, e come tentativo di Berenilde di ricordare agli astanti che i Draghi erano vivi e presto sarebbero tornati in auge. Erano fioccati commenti poco lusinghieri nel Nibelungen: a quanto pare il successore di Checov aveva la lingua lunga quanto lui. La cosa però non toccò nessuno della famiglia, non come quando Ofelia e la zia erano state definite senza giri di parole sanguisughe arriviste. Secondo Berenilde, mostrare più spesso i pronipoti a corte e in compagnia di Faruk non poteva che giovare al proposito di Serena e alla famiglia. Ma soprattutto al suo, pensava Ofelia. Conosceva bene la vanità della madama. Quando aveva capito che non avrebbe potuto far sposare Serena così presto, aveva cercato di trarre vantaggio dai suoi piani per il futuro. Una delle cariche più alte del Polo portava lustro e tornaconto quanto un matrimonio ben congegnato.
Fortunatamente Serena sembrava indifferente a tutte quelle macchinazioni. Mentre Thorn era la personificazione dell'affettato distacco e della freddezza impassibile, Serena rappresentava la calma serafica e la gentilezza scevra di pregiudizi. Erano entrambi integerrimi, pensavano decisamente troppo e spesso mettevano in soggezione gli altri con i loro calcoli e la loro logica inoppugnabile, ma Serena sembrava avere un'umanità che Thorn aveva mostrato solo a moglie e figli. In poche parole, Serena era buona, così buona che di sicuro prima o poi qualcuno ne avrebbe approfittato, però era anche seria, e questo poteva quanto meno tenere lontano chi non la conosceva; chi non sapeva che aveva una bellissima risata timida ma contagiosa, che sorrideva spesso anche se rimaneva defilata e in silenzio, e che aveva un senso dell'umorismo particolarmente spiccato.
Cose che Archibald scoprì da sé aiutandola a studiare. Ofelia li trovava sempre insieme in salotto quando rincasava dal suo studio, nel pomeriggio. A volte Berenilde sonnecchiava sul sofà, scambiando di tanto in tanto qualche pettegolezzo con Archibald, altre volte c'era la zia Roseline che cuciva o ronfava mentre cercava di riparare la carta di vetusti dizionari, ma più spesso erano da soli. E Archibald poté imparare a conoscerla come non era mai riuscito a fare. Le persone sono completamente diverse quando sono in mezzo ad un gruppo; dimostrano la loro vera personalità solo quando sono da sole, e possono esprimersi liberamente.
Parlavano moltissimo, del funzionamento della corte, di quello che c'era bisogno di sapere sui rappresentanti del governo in carica, sui cortigiani da temere e quelli che potevano essere alleati. Archibald conosceva decine, centinaia di storie vere apprese negli anni in cui era stato membro a pieno titolo della Rete, nonché ambasciatore di Faruk. Con il suo dono, aveva occhi ovunque, e si concentrava sempre sui parenti che potevano vedere qualcosa di interessante. Purtroppo, segreti e ricatti erano una moneta di scambio più allettante e temibile di denaro, favori o minacce. Grazie a lui, Serena imparava quello che nei libri non era scritto. Ogni tanto Archibald si faceva silenzioso, si estraniava in qualche posto nostalgico noto solo a lui; allora Serena si metteva a studiare di buona lena e si tenevano compagnia in silenzio. Sovrappensiero, spesso Archibald si permetteva di giocherellare con le punte dei suoi lunghi capelli. Anche se la cosa aveva messo a disagio Serena, all'inizio, non aveva protestato perché si era resa conto che Archibald lo faceva senza malizia, quasi inconsciamente. Così sorrideva e continuava a leggere. Niente appunti. A cosa le servivano, se aveva ben più di una memoria fotografica? Altre volte, rientrando, Ofelia trovava Archibald decisamente non in vena di raccontare, spiegare o studiare, così assisteva ai suoi molesti tentativi di far ridere Serena o di distrarla, iniziative che si scontravano contro il muro di impassibilità della figlia. Scherzare le piaceva, ma c'era un momento per ogni cosa, e non si accettavano burle durante lo studio. Ofelia provava pena per lei quando la vedeva così insofferente di fronte alle chiacchiere egocentriche di Archibald.
Una cosa però non le era sfuggita: Archibald era sempre sobrio, da quando studiava con Serena. Le riserve di vino in casa duravano molto di più, e lui usciva anche meno la sera per le sue nottate di corte. Era come se Serena gli avesse trasmesso quel senso di responsabilità di cui lui era privo. Ofelia non poteva che sentirsi orgogliosa della figlia.
Pochi mesi dopo la dichiarazione di intenti di Serena, anche Balder se ne uscì con una richiesta. Più che parlare apertamente di un progetto, però, furono alcune innocue domande che pose al padre, a Renard e a Serena che fecero saltare la mosca al naso ad Ofelia. A Thorn chiese di preciso come funzionassero gli artigli e in che modo fossero collegati al sistema nervoso. Come agivano, scientificamente parlando? A Serena chiese se avesse mai letto libri o conoscesse per vie traverse malattie legate ai nervi, o cure poco conosciute usate per aiutare qualcuno a distendere il corpo e i nodi di tensione. A Renard, invece, chiese alcuni approfondimenti di anatomia, sempre sul sistema nervoso e sulle articolazioni.
Dopo due settimane, confermò le supposizioni di Ofelia.
- Voglio cercare un metodo alternativo di sfruttamento degli artigli.
- In parole povere? - chiese Ofelia, che aveva capito cosa il figlio intendesse ma voleva sentirlo spiegare un po' meglio quel concetto. Si sedette sul suo letto per fargli capire che aveva tempo.
Balder spostò il peso da una gamba all'altra, a disagio. – Vo-vorrei usare gli artigli a fin di be-bene. Intaccano il sistema nervoso, papà ha detto proprio che è come se il nostro sistema nervoso attaccasse quello altrui. Però una collisione tra nervi non dovrebbe per forza essere negativa - spiegò con voce sempre più salda man mano che spiegava. Raddrizzò le spalle, si sistemò gli occhiali sul naso. Guardò Ofelia dall'alto al basso. Se c'era qualcuno che aveva preso la smisurata altezza di Thorn, quello era decisamente Balder. - Credo che variando l'intensità con cui si esercitano gli artigli, sia possibile usarli per scopo benefico e curativo. Come un massaggio. Ovvio che se schiaffeggio le spalle o la schiena di qualcuno, o se applico una pressione scorretta, i nodi di tensione che la persona cerca di sciogliere subiranno invece un peggioramento. Allo stesso modo, gli artigli sono usati per indurre il sistema nervoso altrui a credere di essere ferito. Ma se si fosse meno... feroci, e si capisse come interagire con il sistema nervoso degli altri... si potrebbe controllarlo. Distendere nodi, rilassare. Sistemare anche problemi di postura. Come un flusso. Un flusso invisibile che noi Draghi siamo in grado di controllare e canalizzare. Credi che...
Ofelia lo abbracciò stretto, prendendolo talmente alla sprovvista che lei rischiò di inciampare nello slancio e Balder si incastrò nei suoi stessi piedi. Madre e figlio finirono a terra, in contemporanea cercarono gli occhiali a tastoni, Ofelia con l'aiuto della sciarpa e Balder grazie agli occhiali stessi, che barcollarono fino alla sua mano, e si guardarono. Scoppiarono a ridere insieme, sorpresi di fronte all'evidenza che erano i più goffi della famiglia.
Quando calò il silenzio, Balder aiutò Ofelia ad alzarsi e le chiese: - Credete che papà approverà?
Ofelia gli accarezzò la guancia e la cicatrice sulla fronte. - Credo che nessuno sarà più orgoglioso di tuo papà quando gli esporrai questa teoria e quando riuscirai a realizzarla.
Balder sembrò illuminarsi dall'interno. - Dite davvero?
- Ne sono certa. Thorn ha sempre aborrito la violenza intrinseca degli artigli. Ne ha testato il dolore sulla sua pelle. Li ha sempre odiati, come te. Quando doveva difendersi, li utilizzava solo in caso di estrema necessità. Erano la sua ultima arma, non la sua prima scelta -. Evitò di dirgli che aveva preferito usare una pistola in diverse occasioni, piuttosto che gli artigli. - Se tu dimostrerai che gli artigli possono essere usati anche a fin di bene... penso che gli toglierai dalle spalle un peso che nemmeno lui si rende conto di avere.
Balder l'abbracciò di nuovo. - Grazie mamma. Ma non parlate come se fossi già riuscito nell'impresa.
- Che impresa?
La voce cavernosa di Thorn sembrò rimbombare nella quiete della camera da letto. Gli occhi erano così affilati che Balder si sentì in soggezione e abbassò lo sguardo. Thorn invece continuò a scrutarli.
- Siete caduti?
Ofelia e Balder si sistemarono gli occhiali nello stesso momento, pensando di averli storti sul naso. Come faceva Thorn a...
- Ofelia ha il vestito storto e a te è uscita la camicia dai pantaloni - fece notare quando colse le loro occhiate perplesse.
Ofelia sospirò: non gli si poteva nascondere nulla. Mai. Lanciò un'occhiata al figlio, ma Balder tenne lo sguardo basso e si congedò timidamente.
- Ho detto qualcosa di sbagliato? - domandò Thorn quando furono rimasti soli. Di solito Balder lo salutava in modo più caloroso.
Ofelia scosse la testa. Il lupo, o l'orso, nel caso di Thorn, perdeva il pelo ma non il vizio.
Ofelia gli si avvicinò, lo prese per la giacca e lo tirò giù per dargli un bacio. - Solo quello che dici di solito.
Thorn aggrottò la fronte. - Pertanto nulla di sbagliato.
Ofelia sorrise. Thorn era una causa persa in fatto di gentilezza e buone maniere. Però era riuscito a farsi amare sia da lei che dai suoi figli, e tanto bastava.
 
Balder impiegò quasi due settimane a rivelare a Thorn la sua idea.
Era stato talmente agitato prima di parlargliene che Ofelia temeva avrebbe balbettato dall'inizio alla fine. Invece Balder prese un respiro profondo, si lucidò gli occhiali già puliti com'era sempre solito fare, un po' come Thorn con il suo orologio, ed espose la sua teoria come se avesse imparato a menadito un discorso. Nemmeno Serena con la sua memoria infallibile avrebbe potuto fare meglio.
Al termine dell'arringa Ofelia era talmente orgogliosa che avrebbe voluto applaudire.
Thorn, invece, fu distaccato come al solito. Seduto sul letto come una statua aggrottò la fronte, appoggiò i gomiti sulle gambe, intrecciò le mani e vi posò il mento, inchiodando il figlio con lo sguardo. Balder tentennò, in attesa del verdetto.
- Anche se trovi un modo per riuscirci, la gente non si fiderà. I Draghi hanno una fama di membri impulsivi e violenti, saranno in pochi a credere che di punto in bianco gli artigli possano essere usati a fin di bene e ancora in meno saranno disposti a darti una chance di dimostrarlo.
Balder si afflosciò al punto che sembrò perdere diversi centimetri.
Ofelia risentì nelle orecchie la sua voce, rievocata da anni e anni prima.
Renard che la definiva la regina della demistificazione.
Thorn che concludeva, asciutto: - La nemica pubblica numero uno.
Davanti al suo studio di lettura.
Eppure, per quanto scettico, quella volta non l'aveva ostacolata.
- Balder, lasceresti un attimo parlare me e papà?
Memore di come aveva reagito il bambino, che bambino ormai non era più, quando li aveva visti discutere il giorno in cui avevano scoperto i suoi artigli, Ofelia pensò che fosse meglio parlare con Thorn in privato.
Quest'ultimo guardò il figlio uscire con espressione indecifrabile. Appena si chiuse la porta alle spalle, si raddrizzò e puntò gli occhi su Ofelia.
- Non avevo ancora detto nulla.
Ofelia scosse la testa. - Per fortuna. Hai la capacità di smontare l'entusiasmo di una persona, sai?
Thorn non sembrò prendersela. Non se la prendeva mai. - Quando sei abituato al peggio, è più facile non rimanerci male. Progetti, idee, teorie... sono la chiave per il progresso, ma bisogna lasciarsi assorbire totalmente solo quando si è matematicamente certi che la formula funzionerà in tutti i suoi aspetti, con tutte le sue variabili.
Ofelia aprì la bocca per ribattere, ma Thorn continuò imperterrito. - Sarebbe... un buon risultato se Balder trovasse un modo per sfruttare gli artigli per qualcosa che non sia legato alla carneficina. Anche un po' di più. Ma gli artigli sono adoperati dai Draghi da sette generazioni e nessuno ne ha mai trovato un altro impiego. Inoltre, come gli dicevo, c'è la questione sociale. Nessuno accetterebbe mai di lasciar mettere mano al proprio sistema nervoso, tanto più da parte di uno della nostra famiglia. Avrebbe raggiunto un obiettivo eclatante, ma non potrebbe metterlo a frutto. A cosa servirebbe? A chi?
Ofelia si mise di fronte a lui, prendendogli il volto tra le mani. Stessa altezza. Era frustrante a volte.
- Servirebbe a lui. A te. A suo fratello. Alle gemelle. E a tutti i Draghi che verranno. Tu detesti la violenza, così come Balder e Tyr. Non hai mai pensato che magari si sentono come te, a proposito del loro potere? Non sono felici di essere considerati forti, ma pericolosi. Forse anche loro vogliono poter dimostrare di essere migliori, di essere dotati di qualcosa di più di un'arma letale, come hai sempre cercato di fare tu. Hai paura, vero?
Thorn si raddrizzò, superandola nonostante fosse seduto. Ofelia abbassò le braccia, la sciarpa si svegliò dal suo sonnellino, spostandosi sulle sue spalle. - Io non ho paura - scandì, anzi, quasi sputò le parole, come se fossero un insulto.
Ofelia sostenne il suo sguardo. Non si era mai lasciata intimorire da Thorn, di sicuro non l'avrebbe fatto nemmeno in quel momento. - Forse non te ne rendi conto, oppure non vuoi ammetterlo, ma tu hai paura delle delusioni. Temi il fatto che Balder possa sentirsi demoralizzato se la sua teoria si rivelasse falsa, o se si rivelasse corretta ma nessuno fosse pronto a riconoscergliene il merito. Come quando io ho aperto lo studio. Ci ho messo anni a rendermene conto, ma quel giorno non eri caustico per via della richiesta che ti ho fatto, di avere un lavoro mio, vero? Eri contrariato perché forse non avrei trovato clienti. Forse mi sarei avvilita di fronte alle critiche o alle sentenze del Nibelungen. Tu avevi paura che io ci rimassi male per qualcosa che mi stava a cuore.
Thorn serrò la mascella.
E distolse lo sguardo.
Ofelia gli riprese il volto tra le mani obbligandolo a guardarla di nuovo.
- Non puoi proteggerci dalle delusioni, Thorn. A volte fanno parte della vita e ci rendono più forti. Io penso che l'idea che ha avuto Balder valga la pena di essere testata. E se non funzionerà, o se non avrà seguito, sono certa che si riprenderà. Potrà anche essere un ragazzo sensibile, ma non è debole, e sa riprendersi dalle batoste. Ho visto il modo in cui sei cresciuto, capisco che tu voglia proteggerlo, ma... ci sono battaglie che dobbiamo combattere da soli.
Thorn l'attirò tra le sue gambe e la baciò con impeto, graffiandola con la barba non rasata e il pizzetto che periodicamente si lasciava crescere. Dopo l'iniziale sbigottimento, Ofelia si lasciò andare e gli infilò le mani tra i capelli, stringendolo di più a sé.
Thorn avrebbe voluto dirle che era la donna più intelligente che avesse mai conosciuto, che era dotata di una capacità di mettersi nei guai e attirare disgrazie pari al suo spirito di osservazione, che era in grado di dirgli le parole che aveva bisogno di sentire senza che nemmeno lui lo sapesse, che l'amava, che era orgoglioso di lei, che aveva bisogno di lei, e sperava che lei avesse necessità di lui anche solo la metà di lui, perché sarebbe stato più che abbastanza.
Ma Thorn non era sentimentale, e non parlava di cose così astratte come le emozioni, come quella morsa che gli stringeva il cuore, o come quel fremito che gli percorreva le mani dal desiderio di toccarla, perché era un uomo di fatti, non di parole. Non avrebbe nemmeno saputo come esprimere quei concetti; del resto, anche Ofelia parlava poco del suo stato d'animo, in generale, o dei suoi sentimenti. Sembrava bloccarsi quando doveva dire qualcosa di personale, come se il cuore fosse talmente pieno che le parole si fermavano prima di uscire, incastrate nel tentativo di essere liberate tutte insieme, invece che una alla volta. Era forse l'unica caratteristica che avevano in comune.
Però entrambi capivano il linguaggio dei gesti e del corpo, ed era da anni che si dimostravano quello che la loro bocca non riusciva a proferire.
Così, ogni bacio che Thorn le diede era un complimento, una dichiarazione, un discorso, accorati e sentiti quanto le sue labbra e le sue mani erano possessive, avide e sicure.
Ofelia si staccò per prima, come sempre, come se, nonostante tutto quel tempo, ancora non sapesse bene come lasciarsi andare di fronte alla soverchiante forza del suo amore per lei. - Dovremmo far rientrare Balder - mormorò.
Thorn le sistemò gli occhiali, si pettinò, si aggiustò la giacca e consultò l'orologio in pochi e abili gesti. Al suo posto, Ofelia sarebbe ancora stata alle prese con i suoi capelli indomabili.
Andò ad aprire la porta, e Balder entrò con le spalle curve che se fosse condannato al patibolo. Ne aveva tutte le ragioni, dato che gli occhi di Thorn lo trafiggevano come delle lame e la sua postura come al solito non invitava di sicuro agli abbracci.
- Ritengo che la tua teoria sia valida e che le possibilità di riuscita non siano certe, ma neanche nulle. Se dovessi aver bisogno di aiuto, per quanto mi sarà possibile te lo darò. Solo, se non ci sarà un esito positivo, non scoraggiarti troppo. Il solo fatto che tu voglia tentare è... abbastanza.
Balder lo guardò stupefatto. Forse non si aspettava il benestare del padre. Come biasimarlo, dato che solo pochi minuti prima sembrava pronto a smontare le sue supposizioni pezzo per pezzo?
- Voi... sarete orgoglioso di me, se dovessi riuscirci?
Thorn si accigliò. - Lo sono già.
Balder parve afflosciarsi di nuovo, ma non per lo scoraggiamento. Era come se un peso enorme gli fosse stato tolto dalle spalle. Ofelia vide che, dietro le lenti, gli occhiali erano lucidi.
- Grazie, papà - bisbigliò.
Si girò, pronto per andarsene, ma Thorn lo richiamò schiarendosi la voce. Gli tese la mano, in un impacciato tentativo di cameratismo tra uomini. Balder fissò la mano come se avesse difficoltà a comprendere cosa fosse, poi corse verso Thorn, ignorando il suo braccio teso e abbracciandolo. Lui sì che era più alto di Thorn, quando quest'ultimo era seduto.
Dopo un'iniziale reticenza, Thorn gli serrò le sue lunghe braccia intorno. - Gli uomini adulti non sono soliti abbracciarsi, Balder - mormorò, senza tono di reprimenda nella voce.
- Ma io non sono ancora un uomo adulto, papà.
Thorn lo strinse di più a sé e gli accarezzò i capelli ricci prima di lasciarlo andare.
Balder se ne andò sorridendo e Ofelia sentì nascerle sulle labbra lo stesso sorriso inebetito.
- A volte fatico a credere che li abbiamo generati noi, tutti e cinque. Sembra... quasi un miracolo. Erano così piccoli, e ora hanno progetti personali, caratteri diversi, e sono così grandi...
Thorn si alzò, la fronte più aggrottata che mai. - Pensavo avessi capito come funziona la riproduzione.
Ofelia avvampò. - L'ho certo che capito - balbettò, incespicando. - Non era quello che intendevo!
Thorn fece una smorfia che Ofelia vedeva raramente: il simulacro di un sorriso, un tentativo cui non era avvezzo ma che di sicuro era più nelle sue corde rispetto a quando si erano conosciuti. - Valutando le tue parole da un punto di vista semantico, questo è quello che si evince. Non puoi dire che la nascita dei nostri figli è un miracolo se sai il procedimento tramite...
Ofelia zittì Thorn posandogli una mano sul petto. Poi lo spinse perché si risedesse sul letto, e gli montò sopra. Si tolse la sciarpa, che si agitò stizzita per il maltrattamento, e anche i guanti. Prese la testa di Thorn tra le mani e sussurrò sulle sue labbra: - Fammelo vedere, questo procedimento, se non è un miracolo.
Thorn deglutì e l'assecondò, riprendendo da dove si erano interrotti prima di far rientrare Balder.
No, decisamente non era un miracolo la nascita di un bambino, però per Ofelia era come se lo fosse, così come il rapporto tra lei e Thorn. Era pieno di difetti, talvolta di problemi di comunicazione, mancava il senso dell'umorismo, ma la fiducia tra loro era assoluta e Ofelia sapeva che nulla e nessuno avrebbe potuto dividerli. E Thorn era l'uomo più leale che lei avesse mai conosciuto.
Se considerava inoltre che erano stati obbligati a sposarsi, che poi nessuno aveva più voluto approvare quel matrimonio e che erano stati costretti a celebrarlo in prigione, loro due e Archibald...
Non importava la fredda razionalità di Thorn.
Per Ofelia era un miracolo.

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Capitolo 55
*** Capitolo 55 ***


Ciao a tuttiiii! Dunque, rieccomi, con un altro capitolo un po' "fondamentale", pe Tyr, e un po' di passaggio, perché i mesi passano impietosamente e i ragazzi crescono.
In particolare, dopo questo capitolo si entra nel vivo di quello che per me è il percorso dei ragazzi. Del resto si sa, che l'adolescenza porta problemi, e qui siamo nel bel mezzo della pubertà. Quasi per tutti a dire il vero, perché Serena è già praticamente oltre. Che grande che è diventata ç.ç Ma lei è come se fosse nata grande, quindi...
Non vedo l'ora di condiverere i prossimi capitoli, sperando in una vostra reazione positiva.
Grazie di cuore a tutti voi che continuate a leggere e portare pazienza!


Capitolo 55

Tyr ovviamente non volle essere da meno dei fratelli maggiori. Così decise con Ilda che anche lui avrebbe trovato un progetto da portare avanti che rendesse fieri i suoi genitori.
Ofelia rabbrividì quando Tyr le disse che le avrebbe tirato fuori qualcosa di sensazionale: conoscendo il figlio, sarebbe stato qualcosa di sensazionalmente pericoloso. Non era mancanza di fiducia nei confronti di Tyr, Ofelia sapeva che era un bambino intelligente, ma dalla testolina del suo terzo figlio sembravano scaturire solo spunti per dispetti e giochi per passare il tempo. Aveva inventiva, quello era indubbio, come quando aveva accatastato una pila di oggetti metallici dietro le porte del salotto, e quando Balder le aveva aperte era caduto tutto, producendo una cacofonia talmente assordante che si era spaventato al punto di scappare; o quando aveva messo il cancellino della lavagna in equilibrio sulla porta dell'aula, e il malcapitato Renard si era ritrovato con i capelli bianchi di gesso e il viso paonazzo quanto la barba; ancora, nel giardino di Berenilde, ammantato di illusioni, aveva sfruttato il potere di Ilda per trovare delle buche abbastanza grandi da porteci entrare. Grazie al fatto che Renard era un senza-poteri, il potere di Ilda era più controllabile di quello della madre, e la ragazza non aveva bisogno di andare in giro con un monocolo: poteva decidere lei se annullare l'illusione che guardava o no. Così come il fratello. Il fatto che potessero gestirlo però non significava che fosse meno potente. In ogni caso, dopo essersi nascosti nella buca Ilda aveva ripristinato l'illusione, così i loro fratelli e sorelle erano stati presi a gavettoni senza rendersi conto di cosa stesse piovendo loro addosso, né da dove.
La lista era lunga, troppo lunga, e più volte Ofelia aveva sperato che la fantasia vivace di Tyr potesse essere messa a frutto in modo più... produttivo. Lei si riconosceva di più in Balder, senza ombra di dubbio: poco loquace quanto lei, non si faceva notare e inciampava dappertutto.
Ofelia vide Tyr e Ilda confabulare per giorni circa le cose che Tyr avrebbe potuto fare per il suo futuro. Si interrompevano sempre quando qualcuno si avvicinava, come se stessero condividendo un importantissimo segreto che era solo loro. Le gemelle e Randolf per lo più li ignoravano, grati del fatto che non stavano progettando scherzi. Balder invece si sentiva escluso. Serena era sempre stata gentile e disponibile, ma sulle sue, soprattutto negli ultimi tempi in cui si era messa a studiare seriamente con Archibald. Era stato naturale per Balder, sin da piccolo, formare un trio con Tyr e Ilda, da cui però si dissociava quando loro ne combinavano una. Invece, dal momento che lui aveva deciso di cercare un metodo alternativo di utilizzo degli artigli senza includere Tyr, lui aveva scelto di fare lo stesso. A Ofelia faceva tenerezza il suo viso ormai quasi del tutto privo dei tratti infantili quando osservava mogio il fratello e l'amica escluderlo. Ma non era nella sua indole abbattersi, lui andava sempre avanti dritto per la sua strada, come Thorn, così si concentrava ancora di più sulla sua sperimentazione.
Ilda faceva da spola, quando si stancava di Tyr andava da Balder, e viceversa, mantenendosi neutrale in quella diatriba tra fratelli. Nonostante fosse sempre appiccicata a Tyr, Balder riusciva ad esercitare una certa autorità su di lei. Non come un genitore o un adulto, ma come l'amico saggio della situazione; un fratello maggiore.
Il giorno in cui Tyr finalmente capì cosa voleva fare, fu anche il giorno in cui Ofelia si accorse che il modo in cui Balder vedeva Ilda stava cambiando.
- Mamma!! MAMMA!! - gridò Tyr fiondandosi nella camera dei genitori un pomeriggio.
Ofelia stava rassettando la camera per eliminare vecchi vestiti, giochi e altre cianfrusaglie di quando i ragazzi erano piccoli, ma fece cadere tutto quello che aveva tra le braccia quando Tyr entrò urlando. Sbigottito, lui si fermò di colpo sulla soglia, facendo sbattere contro di sé prima Ilda e poi Balder, che diede il colpo di grazia cadendo addosso a tutti.
Mentre si rialzavano, Ofelia disse: - Quante volte ti abbiamo detto che non si urla in quel modo, Tyr?
- Sì, scusate mamma, ma so cosa voglio fare.
Ofelia si sedette sul bordo del letto, fissando il disordine come avrebbe fatto Thorn. Rassettare non rientrava proprio nelle sue corde, lei era quella un po' confusionaria, ma si era stufata dello sguardo omicida che Thorn lanciava all'armadio quando sembrava scoppiare per le troppe cose che conteneva. La sera prima lo aveva trovato alle due di notte con le mani tra gli scaffali per la maniacale esigenza di riordinare, e allora lo aveva trascinato a letto promettendogli che ci avrebbe pensato lei il giorno dopo se le avesse permesso di dormire, perché era ciò che si faceva alle due di notte. Thorn però le aveva fatto notare che lui aveva sempre lavorato alle due di notte, e che a volte aveva viaggiato, alle due di notte, continuando ad elencare cose che aveva fatto finché Ofelia non lo aveva baciato. Si era mostrata molto persuasiva nel mostrargli cos'altro si potesse fare a quell'ora, ma per lo meno Thorn non aveva più cercato di alzarsi dal letto. La mattina però lei era stata così assonnata da arrivare tardi allo studio, aprendo con qualche minuto di ritardo. Per fortuna aveva preso degli appuntamenti per un'ora dopo. A peggiorare la situazione era arrivata una chiamata di Thorn, che le telefonava ogni mattina per accertarsi che fosse arrivata incolume al lavoro, memore di come lo studio fosse stato vandalizzato ancora prima di essere aperto, anni prima. Ofelia gli aveva chiuso il telefono in faccia dopo un battibecco infinito sul fatto che aprire un ufficio pubblico in ritardo poteva portare a reclami e conseguenti controlli serrati da parte del ministero della finanza. Alla fine, inutile dirlo, Ofelia si era stufata. La giornata non era proprio partita con il piede giusto.
E ora ci si metteva Tyr.
- Dimmi allora.
Tyr gonfiò il petto, avanzando, mentre alle sue spalle Ilda cercava gli occhiali di Balder e quest'ultimo le dava una mano a tastoni.
- Voglio fare come la famiglia di papà, come i Draghi! Voglio procurare tanto cibo così nessuno avrà fame, nemmeno le persone più povere!
Lo stomaco di Ofelia si serrò in una morsa. Una volta che Tyr si metteva in testa qualcosa era difficile dissuaderlo. Un tratto di famiglia purtroppo. Ma l'idea che Tyr se ne andasse da solo ad affrontare delle Bestie gigantesche e affamate... aveva ancora in mente le foto dei resti dei corpi dei Draghi, orribilmente devastati in un solo pomeriggio. Poche ore, ed erano spariti tutti. Le venne la nausea al pensiero che Tyr sarebbe potuto rimanere ferito, o peggio, e che lei non avrebbe avuto nemmeno un corpo integro da piangere.
- Mamma ditegli che è una cosa stupida e pericolosa! - si intromise Balder, togliendosi gli occhiali che si era messo al contrario. Inciampò e sarebbe caduto di nuovo se Ilda non lo avesse trattenuto sbuffando.
Balder avvampò, ringraziandola con dei borbottii ed evitando il suo sguardo.
- Tyr, tu non volevi neanche usarli, gli artigli. Ti sei sempre rifiutato.
- Lo so, ma anche Balder li usa per fare qualcosa di buono. O almeno ci prova. Non è che abbia ottenuto dei grandi risultati...
- Sono ancora in fase di sperimentazione! - lo interruppe lui, mortificato.
- Anche io voglio usarli per il bene. Muoiono tante persone che cercano di procurare la carne per tutta l'arca, solo perché per loro è più difficile uccidere le Bestie. La nostra famiglia ha questo incarico da anniiiii! – esclamò allargando le braccia.
- Ti rendi conto che dovrai uccidere delle creature gigantesche, fameliche, con la bocca irta di zanne e pronte a uccidere qualsiasi cosa si muova, Tyr? Sarai in grado di uccidere degli esseri viventi?
Ofelia aveva colpito nel segno. Vide la sua sicurezza vacillare per un attimo, troppo poco per tirare un sospiro di sollievo.
- Ce l'hanno fatta tutti. Anche i figli della sorella cattiva del papà. Ed erano più piccoli di me! Mi sono informato!
Ofelia si chiese quando, di preciso, si fosse documentato così bene sulle gesta dei Draghi. Ne sarebbe stata orgogliosa, la passione per la storia a quanto pareva era ereditaria come la cocciutaggine, se non fosse stata impiegata per qualcosa che poteva ledere alla vita del figlio.
- Se ti sei informato, dovresti anche sapere che quei tre ragazzi sono morti, come tutti gli altri Draghi - gli fece notare Ofelia.
- Ma la zia Berenilde mi ha detto che è stato tutto un inconveniente! Qualcuno ha... sabotato la mente di quelle Bestie. Ha creato delle illusioni che le hanno fatte impazzire! Non è così pericoloso, mamma! Io sono forte!
- Non puoi affrontare da solo delle Bestie che un intero clan non è riuscito a sconfiggere! - si intromise Balder.
Per quanto tranquillo, nessuno sapeva arrabbiarsi come lui. Uno di quegli uomini buoni come il pane, ma che era meglio non infastidire.
- Balder... - lo ammonì Ofelia.
Il ragazzo abbassò il capo, ma tenne gli occhi fissi puntati sul fratello, incenerendolo con lo sguardo. Il colore delle iridi poteva anche essere diverso, però l'intensità era decisamente quella di Thorn. Persino Ilda distolse lo sguardo, a disagio.
Tyr si strinse nelle spalle. - Non dico di voler andare domani. Come Balder, anche io devo fare delle prove, devo... allenarmi. Fare pratica. Diventare super fortissimo!
Ad Ofelia si strinse il cuore. Tyr era un bambino che cercava di diventare grande imitando le gesta dei suoi fratelli, ma ne aveva ancora tanta di strada da fare. Chissà, magari con il passare delle settimane si sarebbe anche dimenticato di quell'idea, l'avrebbe accantonata. Era solito stufarsi di giochi e progetti, era un po' troppo vivace per rimanere a lungo concentrato sullo stesso obiettivo, probabilmente un'iniziativa così a lungo termine non avrebbe avuto riscontri pratici.
Era quello che si augurava.
- Penso che dovresti parlarne con papà. Lui ha visto come agiscono i Draghi, e credo che il suo punto di vista sia più oculato di quello della zia Berenilde - gli rispose, alzandosi.
Tyr parve sgonfiarsi. - Papà mi dirà di no.
Ofelia sorrise. - Il papà a me ha detto di sì tante volte, anche su questioni su cui ero certa avrebbe detto di no.
Non che un no potesse fermarla, pensò. Del resto, anche lei alla fine si era ricreduta su molte cose. Non sapeva proprio cosa avrebbe risposto Thorn, l'unica cosa di cui era sicura era che si sarebbe messo a fare calcoli e a valutare le probabilità di riuscita. Non serviva essere un matematico però per rendersi conto che un bambino contro una... mandria di Bestie inferocite appena uscite dal letargo prevedeva possibilità di riuscita pari a zero.
Tyr parve riprendere vigore. - Diventerò forte allora! Mi allenerò così farò i muscoli e papà non potrà dire di no. Andiamo a fare esercizi Ilda!
Balder alzò di scatto la testa, fissandola. - Non avevi detto che avresti aiutato me?
Ilda parve esitare, alternando lo sguardo tra Balder e Tyr. Fu però quest'ultimo a decidere per lei, prendendola per mano e trascinandola fuori.
- Io ho più bisogno di aiuto di te, tu sei intelligentissimo. Ciao! - si congedò Tyr, portando via l'amica.
Balder si rabbuiò, uscendo dalla stanza senza aggiungere altro.
Nei giorni seguenti Ofelia li osservò con attenzione: quel trio era inseparabile, ma quando si è in dispari, Ofelia lo sapeva bene, qualcuno finiva sempre per essere escluso. Era quasi naturale aspettarsi che sarebbe stato Balder quello più in disparte dei tre, data la sua indole più pacata e riflessiva. Ogni tanto cercava proprio il silenzio, aveva bisogno di estraniarsi con un libro o con qualche ricerca personale, mentre Tyr e Ilda erano sempre in movimento. Eppure Ofelia notò che piano piano quella frattura iniziava a... infastidirlo. O rattristarlo, era difficile dirlo. Come il padre e come Serena, Balder non era molto espressivo.
Mentre quando era solo con Tyr non gli cambiava nulla se rimanevano insieme o si separavano, quando era con Ilda e lei sceglieva di stare con Tyr la seguiva con lo sguardo. Una volta spariti dalla circolazione, fissava il soffitto, o il giardino fuori dalla finestra, perso nei pensieri. Un giorno Ofelia lo vide sospirare e appoggiare la testa sul tavolo. La scena la fece ridere, ma anche intenerire, però non poté dire nulla al figlio perché arrivò Serena a parlare con lui, chiedendogli se gli servisse aiuto per il suo progetto.
Dove Tyr e Ilda mancavano, arrivava Serena a sopperire. Le gemelle invece erano autonome: erano già in due, e quando si stancavano l'una dell'altra andavano ad importunare il timido Randolf, che raramente si staccava da Renard.
Quando però Tyr andò a parlare con Thorn della sua idea, portandosi dietro Ilda, Balder sembrò così mogio che Ofelia non poté impedirsi di parlargli.
Si sedette accanto a lui nel salotto vuoto, appena lasciato libero da Serena e Archibald, che sembravano ormai amici di vecchia data, e gli accarezzò i riccioli scompigliati.
- Ti piace Ilda?
Balder si raddrizzò subito, arrossendo fino alla punta delle orecchie. Si guardò in giro e poi sibilò: - Mamma, cosa dite? Potrebbe sentirvi qualcuno e scoprirlo. Cioè, fraintendere! Non scoprire. Non c'è nulla da scoprire.
Ofelia sorrise. - Hai paura che a lei piaccia Tyr?
Balder sgranò gli occhi. - Mamma, come fate a sapere tutte queste cose?
Magari non aveva la mente calcolatrice di Thorn, ma gli occhi li aveva. E anche un buon intuito. Insieme all'istinto materno.
- Da quanto ti piace? - gli chiese senza rispondere alla domanda.
Balder si abbandonò allo schienale. - Non lo so. Prima era la bambina con cui sono cresciuto, poi mi sono accorto che è... bella. Ho visto... delle cose in lei. Diverse – rivelò. Poi fece spallucce, cercando di sminuire le sue parole. - Ma tanto a lei piace Tyr. Va bene. Siamo amici come sempre. Non è che... la amo o chissà cosa. Siamo piccoli.
Eppure Ofelia lesse una grande tristezza nei suoi occhi, e una maturità fuori dal comune per un ragazzo appena entrato nell'adolescenza. Ofelia vide anche i fogli tutti scarabocchiati in un impeto di rabbia che stavano sul tavolo.
- Sai, l'importante è non mollare. In nessun campo. Non in amore. Non con il lavoro. Non per i propri diritti.
Balder strinse le labbra. - Lo dite per esperienza personale?
Ofelia cercò di rimanere seria, ma le labbra si piegarono. Thorn era stato insistente a modo suo con lei, in campo sentimentale. Non aveva gettato la spugna nemmeno di fronte al peggiore dei rifiuti: un sonoro ceffone in seguito ad un bacio. E lei era stata testarda, se ne rendeva conto, quando aveva detto a Faruk che avrebbe potuto aprire un museo. Ma non aveva demorso, e alla fine era riuscita ad aprire il suo studio di lettura così da non dover essere solo una casalinga buona solo a mettere al mondo figli. Il sentiero percorso per ottenere quelle cose era stato arduo, sia per lei che per Thorn. Un salto nel vuoto senza sapere se ci sarebbe stato un terreno sotto i loro piedi. Però erano stati ripagati.
- Certo. Arrivati alla mia età, la maggior parte delle cose che si dicono sono un'esperienza personale.
Balder aggrottò la fronte come Thorn. - Ma voi non siete vecchia, mamma.
- No, ma posso dire di aver vissuto abbastanza da aver accumulato un bel bagaglio di vittorie, sconfitte e consigli da dare.
Balder si fece pensieroso. Se avesse avuto qualche anno in meno, Ofelia era certa che l'avrebbe abbracciata, ma ormai stava diventando un uomo e cercava di limitare le effusioni con lei da quando Ilda gli aveva dato del mammone. Poco importava che poi lei stessa si fosse fiondata tra le braccia di Renard, Balder ne era rimasto un po' offeso. Ofelia cercò di allungarsi per dargli un bacio, ma si rese conto che il figlio era diventato troppo alto per poterlo fare.
- Quando avete capito di esservi innamorata del papà?
La sciarpa reagì prima di lei a quella domanda, imbarazzandosi e attorcigliandosi al suo collo come un serpente stritolatore. Per fortuna in quel momento arrivò Tyr a distrarre entrambi e a impedire alla sciarpa di strozzare la sua padrona.
- Il papà ha detto sì!!! - urlò, con la sua, di sciarpa, che si muoveva impazzita, gaudente come il proprietario.
Ilda lo seguì e gli tirò un sonoro ceffone sulla nuca. - E smettila di urlare!
Ofelia pensò che era difficile intuire cosa provasse Ilda per Balder, ma di sicuro era facile capire cosa provasse invece per Tyr: lui non sarebbe rimasto che un amico, talvolta esasperante, per lei.
- Cosa vuol dire che ha detto sì, Tyr? - domandò Ofelia.
- Che ha detto che posso andare a procurare carne per tutti. Sarò il Drago più forte e utile che si sia mai visto!
Ofelia scattò in piedi rovesciando la sedia, e l'avrebbe seguita a ruota se Balder non l'avesse afferrata per la manica.
- Deve per forza aver detto altro, Tyr! Il papà è preciso quando parla - lo incalzò Balder, alzandosi a sua volta.
Tyr sbuffò. - Certo, ha detto un sacco di altre cose ma ha detto sì, questo è l’importante!
Ofelia si ritrovò quasi a correre per andare in biblioteca, nell'ufficio di Thorn. Incrociò Archibald che sorrideva sornionamente, ma era talmente di fretta che non fece caso al fatto che il suo sorriso sembrava sincero, e gli occhi non erano così vuoti come al solito. Probabilmente aveva finito di aiutare Serena con gli studi, stranamente gli piaceva farlo.
Quando entrò senza nemmeno bussare, Thorn stava parlando al telefono. Quando finì riattaccò con forza, controllò l'orologio, mise in tasca la penna e si accese la pipa. I gesti metodici e precisi fecero intuire ad Ofelia il suo nervosismo.
- Hai approvato l'idea di Tyr? Lo manderai in mezzo alle Bestie così, indifeso e allo sbaraglio?
Thorn la inchiodò con lo sguardo, prendendo una lunga boccata dalla pipa. Aveva aspirato talmente tanto che quando fu il momento di espirare il suo viso sparì dietro una nuvola di fumo.
- Cosa ti ha detto Tyr di preciso?
- Che hai detto sì.
- E poi?
- Basta.
Thorn si passò una mano tra i capelli già in ordine, scuotendo la testa.
- Non credo che il suo possa essere chiamato 'dono della sintesi', semmai 'estremizzazione della sintesi'. Gli ho posto delle condizioni molto precise, spero che mi abbia ascoltato quando le ho dette.
- Noi sì! - esclamarono due vocine in coro, affiancandosi ai lati di Ofelia e aggrappandosi alle sue braccia.
Thorn increspò la fronte al punto che gli occhi quasi si chiusero da quanto si erano assottigliati. - Avete origliato ancora?
Le bambine ridacchiarono e si nascosero dietro Ofelia, come per nascondersi. Thorn invece le lanciò un'occhiata accusatoria, come se la colpa del loro vizio di origliare fosse suo.
Di certo non poteva essere definita innocente sotto quell'aspetto, ma non aveva insegnato alle figlie ad essere delle spione!
- Papà ha dato quattro condizioni - disse Mira.
- Altrimenti Tyr non potrà fare come i Draghi e andare a caccia - concluse Belle.
Le loro testoline ramate fecero capolino da dietro Ofelia, per poi sbucare fuori del tutto quando videro che Thorn non era poi così arrabbiato.
- La prima condizione è che Tyr compia almeno quindici anni - elencò Mira.
Il cuore di Ofelia mancò un battito. Non mancavano neanche due anni al raggiungimento di quella prima condizione, Tyr aveva tredici anni.
- La seconda condizione è che vada con almeno altri tre Draghi adulti - continuò Belle.
- La terza condizione è che si attenga con precisione chirurgica agli ordini del papà.
- L'ultima condizione è che migliori nell'utilizzo degli artigli.
Le gemelle si guardarono sorridendo. Era come se appartenessero alla Rete, ma con un collegamento a due solo loro. Ogni tanto a Ofelia veniva il mal di testa quando parlavano contemporaneamente o finivano l'una le frasi dell'altra. E quando battibeccavano, dicevano le stesse cose, arrabbiandosi ancora di più.
- Dovrete esercitarvi bene anche voi - disse loro Thorn, continuando a fumare.
- Ma noi siamo già brave! - dissero infatti in coro.
- Come per la conoscenza, non esiste un livello massimo che indica il raggiungimento dell'onniscienza, cosa tra l'altro impossibile, così non c'è un limite al miglioramento che consegue la pratica. Potete sempre dare di più. Pertanto il vostro essere brave non basta se volete andare con Tyr.
Mira spalancò la bocca mentre Belle parlava per lei. - Come avete fatto a capire che vogliamo andare anche noi, papà?
- I vostri bisbigli non sono così inudibili come credete.
Fu Belle a mettere il broncio, questa volta, mentre Mira sospirava. - Va bene papà, faremo pratica.
- Bene. Ora andate.
Le gemelle uscirono dalla camera correndo, chiamando il fratello maggiore a gran voce.
Rimasti soli, Ofelia sentì improvvisamente la bocca secca. Non riusciva a trovare le parole per formulare le domande che le turbinavano in mente.
- Cosa significa tutto ciò? Hai davvero accettato? E tre Draghi adulti nemmeno ci sono!
Thorn le lanciò un'occhiata più gelida del solito. Quella situazione non andava giù nemmeno a lui, era evidente, eppure Ofelia non si capacitava di come avesse potuto accettare.
- Avevo... preso in considerazione quest'idea diverso tempo fa. Quando anche Tyr, oltre a Balder, ha dimostrato di possedere gli artigli. Non guardarmi con quell'espressione, non sono un mostro - sibilò tra i denti.
Ofelia cercò di fingere meno preoccupazione, ma dubitava di esserci riuscita. Andò a sedersi di fronte a Thorn, consapevole che non avevano molto tempo prima di doversi presentare a cena. Si tolse gli occhiali, massaggiandosi le tempie, poi alzò gli occhi su Thorn, unica cosa nitida nella nebbia della miopia.
- Puoi mettermi a parte di tutte le tue macchinazioni, per cortesia?
Thorn serrò la mascella, contrariato dalla scelta di quelle parole.
- Non credere che mi faccia piacere ammetterlo, ma i numeri non mentono e la realtà dei fatti è questa: abbiamo bisogno di qualcuno che procuri i viveri per l'inverno. Come ben sai, i membri di quei clan che sono ritornati a far parte della cerchia di Faruk hanno cercato di sopperire a questa penuria adoperandosi per la caccia con i loro poteri, ma il tasso di morte è altissimo e non possiamo sprecare potenziale umano e poteri utili ad altro solo per cercare di uccidere una o due Bestie di piccola taglia.
Per un attimo Ofelia aveva pensato che Thorn avesse a cuore la sopravvivenza di quelle persone, poi si rese conto che avrebbe solo considerato uno spreco la perdita dei loro poteri, impiegabili in altra maniera, non la loro vita. Thorn non aveva mai nascosto la sua avversione per quell'arca e per i suoi abitanti, che non avevano fatto nulla per lui, se non rendergli l’esistenza un inferno. Non gliene faceva una colpa, conosceva bene il suo carattere e la sua diffidenza verso chiunque.
- Non possiamo andare avanti così, ci serve una contromisura. Tyr è forte, facendo un confronto con Godefroy alla sua età direi che gli è quasi pari. Balder ha un controllo notevole, per quanto non lo lusinghi affatto ammetterlo. A volte la precisione colpisce più della forza, per questo loro due insieme potrebbero essere un'ottima arma. Berenilde sa il fatto suo, è meticolosa e non si espone a rischi inutili. Quando anche le gemelle saranno un po' più grandi, non saremo un gruppetto sguarnito. Sei cacciatori non sono tanti, ma sono il minimo necessario per riuscire a conseguire qualche vittoria indenne.
Ofelia era raggelata dall'orrore. Le vennero in mente i diari del suo antenato, i disegni delle bestie, le immagini della caccia. Sanguinose, terrificanti, le avevano fatto credere che il Polo fosse un'arca priva di civilizzazione, con abitanti barbari e primitivi. Quando aveva visto la verità con i suoi occhi, non aveva più dato peso a quei racconti, ma mai avrebbe pensato di vedersi nuovamente catapultata tra quelle pagine. Con la sua intera famiglia a rischio.
Aveva così tante domande che era difficile dar loro un ordine. Ringraziò di essere seduta, perché le girava la testa. Nella mente aveva solo impresse le parole del Nibelungen, gli avvenimenti di quella terribile giornata in cui avevano scoperto che l'intera famiglia di Thorn e Berenilde, un intero clan, era stato sterminato da delle Bestie inferocite. A quei ricordi si sovrapponeva lo scenario che aveva immaginato per i Draghi, ma con la sua famiglia, dilaniata, al posto loro.
Cominciò con il chiedere, in affanno, la prima cosa che le veniva in mente: - Sei? Parteciperai anche tu?
Thorn le prese il mento tra le dita lunghe, obbligandola a respirare e calmarsi. - Non potrei mai permettere ai miei figli di rischiare la vita mentre io resto inerte dietro una scrivania. Non ho mai avuto il diritto, né il desiderio, sinceramente, di partecipare ad una caccia, ma ora sono un Drago a pieno titolo e posso prendervi parte. Come estremo rimedio, dal momento che se potessi eviterei questa risoluzione, ritengo che una squadra come la nostra, seppur piccola, possa riuscire lì dove gli altri hanno fallito. Mia zia ha esperienza, Tyr ha forza, Balder precisione, le gemelle saranno un ottimo aiuto e io sono in contatto con dei guardacaccia fidati che sapranno indicarci tempi e luoghi migliori per gli attacchi, riducendo così i rischi al minimo. La percentuale di riuscita non dà spazio ad incertezze.
Quelle parole non servirono a calmarla. Tyr. Balder. Le gemelle. Thorn. Berenilde.
Avrebbe perso tutta la famiglia se fosse successo come l'ultima volta. Le sarebbero rimaste solo Serena e la zia Roseline.
- Le gemelle sono ancora piccole...
- Possono addestrarsi con i fratelli, parteciperanno quando saranno cresciute.
- Balder è d'accordo?
- Balder è ragionevole. Quando gli avrò spiegato i fatti, si renderà conto da solo che è l'unica via percorribile. Di fronte ai numeri e alla logica bisogna mettere da parte le proprie reticenze.
Ofelia era a metà strada tra il piede di guerra e la rassegnazione.
- Una condizione prevedeva che ci fossero tre Draghi adulti. Tu, Berenilde e...?
- Balder. Non è a tutti gli effetti un adulto, ma mi sento di considerarlo tale per obbedienza e maturità. In confronto a Tyr lo è di sicuro.
Ofelia avrebbe voluto accasciarsi, invece si ritrasse dalla mano di Thorn e si rimise gli occhiali. Sentiva ancora i suoi occhi su di lei.
- Rispetterai la mia decisione?
Ad Ofelia sembrò di tornare giovane, ad un'altra situazione, in un momento in cui era molto più scossa di come lo era in quell'istante, nonostante la notizia.
La quasi morte per mano del barone Melchior. La sua, di morte. La decisione di Thorn di assicurarsi alla giustizia.
Il suo primo abbraccio.
All'epoca si era sentita annichilita. La sensazione non era cambiata. Forse Thorn si sentiva così quando lei prendeva qualche decisione avventata. Lui, però, almeno le parlava francamente invece di fare di testa sua.
La sciarpa si agitò, impaurita per tutta quella situazione. Per il timore di perdere i propri amati.
Non sapeva se se ne sarebbe pentita, però sapeva che sarebbe stata in netta minoranza se si fosse opposta.
Quindi... - La rispetterò - mugugnò.
Thorn assottigliò ancora di più gli occhi. – L’ultima volta che hai detto così hai comunque cercato delle vie alternative per fare di testa tua concedendomi lo stesso di fare ciò che avevo deciso. Questa volta niente escamotage, Ofelia. Non potrai venire con noi, non ti voglio nemmeno sulle mura. Rimarrai a casa, con Serena e gli altri, e attenderai il nostro ritorno. Sapervi al sicuro ci permetterà di cacciare più tranquillamente.
Ofelia si domandò quando avesse imparato a conoscerla così bene. Stava già pensando ad un modo per mettersi in contatto con i guardacaccia.
- Sembra quasi che… tu ci tenga a questa faccenda. Avresti mai voluto partecipare con la tua famiglia a…
- Non è mai stata la mia famiglia. E non ho mai voluto partecipare. Non è una sorta di… vendetta o dimostrazione personale. È quello che va fatto per far quadrare i conti che sono terribilmente in rosso, per quanto riguarda le dispense.
Se Ofelia avesse avuto le braccia lunghe quanto quelle di Thorn, sarebbe stato il suo turno di allungarsi per prendergli il viso tra le mani.
- Non era un’accusa – si giustificò lei. – Volevo solo… capire.
Thorn si passò le mani sul viso ispido, riprese la pipa. Ofelia notò che i capelli gli si erano schiariti ancora di più: ormai erano quasi del tutto argentei invece che biondo pallido. Non aveva molti anni più di lei, erano ancora giovani, eppure lui sembrava di colpo invecchiato, canuto e con la fronte alta. Erano ancora giovani, sì, ma non giovani come quando si erano conosciuti.
Ofelia si sentì in colpa per aver pensato male di lui. In passato, all'inizio, non gli aveva dato fiducia per dei validi motivi. Già troppe decisioni erano state prese per suo conto senza che lei avesse voce in capitolo, non aveva accettato che anche Thorn si comportasse così, tacendole informazioni fondamentali che la riguardavano. Negli anni avvenire, però, e soprattutto nel presente, Thorn le aveva sempre dimostrato incondizionatamente di essere meritevole della sua totale fiducia. Non gli avrebbe fatto un torto accusandolo di qualcosa di cui non aveva colpa.
Si strinse nelle spalle, mentre la sciarpa allentava la morsa spaventata attorno al suo collo e al suo busto. - Mancano ancora un paio d'anni, no?
Thorn soffiò fuori una boccata della pipa, lontano dal viso di Ofelia. - Un anno e otto mesi, dobbiamo attendere il risveglio dal letargo.
Ofelia non si illudeva che fossero tanti: aveva visto volare quegli ultimi anni, e i figli che aveva desiderato crescessero in fretta perché non la facevano dormire erano ormai più adulti che bambini.
Thorn allungò una mano e strinse la sua, più un gesto meccanico che un tentativo di conforto. I gesti di conforto di Thorn erano improbabili quanto Tyr che leggeva uno dei manuali di Serena.
- Non incorreremo in rischi inutili, prenderemo tutte le precauzioni del caso, staremo attenti e saremo ben organizzati. Non avrei nemmeno preso in considerazione una simile proposta se non fossi stato certo della probabilità di successo.
Ofelia annuì, alzandosi. Thorn prese l'ultima boccata dalla pipa, mise via orologio e penna prima di seguirla in salone per la cena.
Per quanto fosse più tranquilla dopo aver parlato con lui, sapeva che una scheggia di ghiaccio di pura preoccupazione non avrebbe mai abbandonato il suo cuore, pizzicandola ogni volta che Tyr si fosse allenato con Balder, o con le gemelle, o che qualcuno avesse tirato in ballo la questione caccia.
Serena attirò la sua attenzione durante la cena, rivolgendole un timido sorriso di incoraggiamento. Stava affrontando degli esami d'ammissione preliminari per poter accedere al concorso vero e proprio. Nonostante avesse più capacità, intelligenza, memoria e competenza di tutti gli altri partecipanti, era così umile da sentirsi in ansia come se non avesse studiato nulla. Eppure trovava il modo di incoraggiare lei, sua mamma.
Ofelia ricambiò sinceramente il suo sorriso, provando uno slancio d'amore per la figlia maggiore. Archibald, seduto di fianco a Serena, le strizzò l'occhio, per una volta senza malizia. Stava dando davvero un ottimo aiuto a Serena, Ofelia non l'avrebbe mai creduto possibile; probabilmente aveva frainteso lo scambio di sguardi tra lei e la figlia, pensando che fosse un sorriso di incoraggiamento per i suoi progressi, anziché di rassicurazione per il piano che Thorn aveva approvato.
Ma non importava la natura di quella complicità: erano una famiglia forte, sia nei legami che nei poteri. Non erano immuni alle tragedie della vita, le avevano sperimentate più volte sulla loro pelle, ma sapevano fronteggiarle.
E lo avrebbero sempre fatto, insieme.
 
Nel giro di pochi mesi sembrò scoppiare una bomba di eventi in casa. Mentre prima la vita era proseguita con ritmi tranquilli, ognuno impegnato nello svolgimento delle proprie mansioni, la proposta di Tyr al padre diede il via ad una rivoluzione.
Balder e il fratello iniziarono ad allenarsi regolarmente per poter essere in grado di cacciare contenendo al minimo i rischi di fallimento. Attivo ed energico com'era, Tyr fu molto più solerte del fratello maggiore, che dedicava meno tempo di lui ad allenarsi. Nel giro di poco tempo Tyr iniziò a sviluppare una muscolatura ben definita, nonostante la giovane età, e crebbe anche d'altezza. Come colta da un'epifania, un giorno Ofelia lo vide di spalle e realizzò all'improvviso quanto il figlio fosse cresciuto, e quanto assomigliasse a Godefroy. Stessa stazza, fisico imponente, sembrava irradiare dinamismo. Solo il volto completamente glabro tradiva la giovane età: di anni ne dimostrava almeno sedici. Al contrario, Balder sembrava avere più la costituzione del padre, anche se non era magro quanto lui. Gli esercizi con Tyr lo avevano aiutato a mettere su un po' di muscoli, le spalle ampie erano quelle di Thorn, e come Tyr sembrava essere cresciuto di punto in bianco: aveva superato Serena, che per essere una donna era fin troppo alta, quasi quanto Archibald, diventando a pieno titolo il secondo più alto della famiglia. Era evidente che Tyr non lo avrebbe mai raggiunto, nonostante fosse ancora in piena crescita. Inoltre, Balder aveva già un accenno di barba scura sul mento, ed era bello. Oggettivamente bello. Probabilmente il figlio più bello di tutta la nidiata, Ilda e Randolf compresi.
Ofelia compativa Ilda, che doveva sempre fare un passo indietro per guardare in volto gli amici d'infanzia. Le sembrava di aver partorito due giganti quando vedeva quell'inseparabile trio guardarla dall'alto. Ilda era più bassa dei suoi amici, certo, ma questo non significava che fosse bassa. Era poco più alta di Gaela, grazie ai geni da gigante di Renard, e aveva l'età giusta per iniziare a mettere su quelle curve che Serena, longilinea come il padre, non avrebbe mai avuto. Tyr non sembrava essersene accorto, ma Balder lo aveva notato eccome. Nonostante tutto, Ilda continuava a dettar legge e tenere in pugno entrambi i fratelli: non si sarebbe lasciata mettere i piedi in testa solo perché quei due erano diventati di colpo più alti.
Le gemelle erano ancora troppo piccole per dare un'idea di come sarebbero diventate, ma i tratti erano decisamente animisti, con i capelli ramati, il nasino all'insù e la passione, che già preoccupava Ofelia, per il guardaroba ben curato. L'unico tratto attribuibile ad uno dei genitori erano gli occhi argentei come quelli di Thorn, che creavano un contrasto esotico con i capelli rossicci. Alla fine, non avevano preso quelli azzurri della famiglia materna, ma erano comunque chiari. Per il resto, ad Ofelia sembrava di aver messo al mondo due piccole Agata, e la cosa un pochino la spaventava. Quanto a Randolf, era il ritratto di Renard, stessi capelli rossi e stessa stazza. Gli occhi invece erano un connubio perfetto: uno verde come quelli del padre, l'altro nero, l'occhio cattivo, come quello di Gaela, con il potere da Nichilista attivabile a piacimento al contrario di quello della madre.
Le mattine erano ancora scandite dalle lezioni di Renard, a cui partecipavano sia Serena che Balder, la prima per poter passare le selezioni da intendente, il secondo per cercare un modo di mettere in pratica gli studi teorici sul sistema nervoso. Serena non aveva la vita facile: in quanto donna, doveva sostenere una quantità di esami pari a quella che dovevano affrontare i senza poteri delle province più lontane, che venivano considerati dei signori nessuno. Chi era imparentato con cortigiani o con membri dei clan più in vista aveva già l'accesso al concorso vero e proprio, mentre chi voleva cercare di ricavarsi un posto con le proprie forze veniva ostacolato anziché incoraggiato. Non sorprendeva che Serena sostenesse quegli esami da sola, come unica partecipante. Thorn era stato contrario a quel procedimento fin da quando ne aveva scoperto il meccanismo, all'epoca in cui era solo un apprendista, ma non era riuscito ad apportare alcun cambiamento, né nella condizione dei senza poteri meritevoli, né in quella delle donne. Era indubbio che Serena avrebbe passato la selezione, e Thorn dava per scontato che avrebbe passato anche il concorso, ma non le dava mai quella certezza a parole.
- La matematica non è previsione del futuro - aveva detto una volta, rivolto ad Ofelia. - Tu stessa ne sei la prova, ostinata come sei a voler sovvertire le statistiche.
Era anche parco di complimenti, ma sia Ofelia che Serena erano in grado di notare l'orgoglio che lampeggiava nei suoi occhi quando a tavola Serena parlava dei suoi progressi e degli studi. Thorn non apriva bocca, e continuava a mangiare apparentemente con indifferenza, ma chi lo conosceva bene sapeva che ascoltava con attenzione chirurgica ogni parola della figlia. Lo stesso sguardo orgoglioso era evidente sul volto di Archibald. Probabilmente anche per lui si faceva sentire l'istinto paterno, soprattutto dopo essere stato così tanti anni a contatto con i loro figli. Ed era diventato zio parecchie volte, grazie ai nipotini che le sue sorelle avevano iniziato a sfornare. Nipotini che vedeva di rado, escluso dalla sua famiglia come se non ci fosse tra loro un legame di sangue, oltre che mentale.
Non era strano quindi trovarlo sempre in compagnia di Serena, non solo quando lei studiava. Quell'ultimo periodo di preparazione preconcorsuale aveva contribuito a creare un profondo attaccamento tra i due. Non era insolito trovarli seduti sul divano, con Archibald che conversava e Serena che lo ascoltava mentre leggeva qualcosa, intervenendo di tanto in tanto. Archibald la prendeva in giro bonariamente per la sua natura seriosa, dicendole che era una versione del padre, ma Serena sorrideva spesso. Di certo non era civettuola o frivola come le solite donne con cui Archibald era solito intrattenersi, ma Serena aveva sostanza, aveva cervello, maturità, senso dell'umorismo e femminilità. Era un'adulta già da tempo ormai, e forse era per quello che Archibald si trovava tanto bene con lei. Le donne lo cercavano per dimenticarsi la loro solitudine, aveva detto una volta ad Ofelia. Per il suo corpo, per scordare l'infelicità della loro vita e di un matrimonio senza amore. Serena invece non aveva bisogno di quelle cose. Era soddisfatta, era gioiosa, amava la sua vita, la sua famiglia e quello che faceva e studiava. Non cercava Archibald per togliersi volgarmente una voglia, ma per la sua esperienza e per una cosa che non era mai importata a nessuno: la sua personalità.
Ofelia era felice dell'amicizia tra i due, soprattutto perché faceva del bene ad Archibald. Quando era con lei, i suoi occhi erano vivi. Lui era vivo. Una nipote, una bambina che aveva visto crescere e che gli voleva bene per quello che era, ecco cosa gli serviva. Ofelia non si stupiva quando li sentiva discutere di argomenti che non avevano nulla a che fare con gli esami per diventare intendente, Archibald aveva molto da insegnare sotto molti ambiti, anche se sul lavoro era sempre sembrato un pigro nullafacente.
Al contrario, con il passare del tempo si vedeva che Balder era solerte quanto la sorella nei suoi studi, alla costante ricerca di un modo per neutralizzare almeno in parte la violenza e l'incontrollabilità degli artigli in situazioni di stress. Purtroppo però i risultati tardavano ad arrivare, al punto che Ofelia temeva che abbandonasse del tutto il suo virtuoso progetto. Le sarebbe dispiaciuto in quel caso, perché se Balder si fosse dato per vinto ne sarebbe uscito scoraggiato. Soprattutto perché, per lui, sarebbe stato impossibile non fare paragoni con i fratelli: Serena stava ottenendo risultati eccellenti e Tyr non era mai stato così focalizzato su un obiettivo... e così in forma.
Contrariamente alle speranze di Ofelia, non aveva perso interesse né per il proposito di partecipare ad una caccia né per l’allenamento. Il risultato era un fisico tonico e muscoloso già da giovanissimo, e non avrebbe potuto far altro che aumentare. Se la sua somiglianza con Godefroy dava fastidio a Thorn, lui cercava di non darlo a vedere. Oppure non gli importava. In fondo, i capelli biondi ce li aveva anche lui, così come gli occhi chiarissimi. Il naso era forse più simile a quello di Ofelia, ma la mascella squadrata era tutta del padre. Insomma, le somiglianze con Thorn erano troppe perché lui diventasse geloso del fratellastro.
Ilda assisteva sempre agli allenamenti, sdraiata da qualche parte, di solito sul letto di Tyr, e di tanto in tanto distoglieva gli occhi dal suo lavoro di creatività meccanica per lanciare un'occhiata ai due fratelli che si esercitavano a petto nudo. Balder era quello che cedeva sempre per primo, congedandosi per andare a studiare, la scusa perfetta per non allenarsi, oppure sostenendo che lo disgustava avere le mani sudate dentro i guanti che non poteva proprio togliersi. Tra tutti, era quello che aveva preso di più da Thorn, in quanto a maniacalità. Ogni tanto Ilda lo seguiva, altre volte rimaneva con Tyr e continuava a lavorare, anche se la zia Roseline una volta li aveva trovati in camera insieme e si era messa ad urlare scandalizzata, pensando chissà cosa.
Ilda e Tyr avevano provato a spiegarle che ormai loro erano come fratelli, pertanto non avevano bisogno di uno chaperon perché non avevano alcun interesse a "fare cose disdicevoli". Ilda aveva anche simulato il vomito mentre Tyr lo diceva, ma la zia Roseline era stata inamovibile: non potevano stare da soli loro due. La cosa aveva rabbuiato Balder, che non aveva capito interamente la situazione e pensava che la zia avesse beccato il fratello e... l'amica in atteggiamenti intimi, cosa del tutto errata. Comunque, alla fine avevano raggiunto un accordo: la zia avrebbe assistito agli esercizi di Tyr quando Balder non fosse stato con lui e con Ilda. In tre andava bene, in due no. Ofelia rassicurò Tyr, che non gradiva molto la presenza di una zia bacchettona che commentava ogni suo esercizio, ricordandosi di come si fosse più volte addormentata nei momenti in cui avrebbe dovuto fare da guardia a lei e Thorn. Non che all'epoca, quando avevano bisogno di uno chaperon, ci fosse il rischio che qualcosa accadesse tra loro due, ma di sicuro il merito della loro condotta casta non era da attribuire alla zia. Tyr lo capì presto, e la maggior parte delle volte lui e Ilda sgattaiolavano via mentre la zia ronfava, cambiando stanza. Quando quest'ultima si svegliava, ore dopo, di solito li trovava in salotto con Balder, e si complimentava con loro per la loro assennatezza. I due cercavano di non ridere, mentre Balder cercava di non guardarli.
La verità era che a Ilda non importava nulla di Tyr, non sotto il profilo sentimentale. I due erano più soliti azzuffarsi che abbracciarsi, e litigavano tanto quanto andavano d'accordo. Quando Tyr e Balder si allenavano, lei se ne stava tranquilla a costruire i suoi marchingegni. Aveva ereditato la passione della madre per la meccanica, anche se all'inizio per Gaela era stata una necessità, più che una passione. Però era riuscita a trasmetterla alla figlia, alla quale portava a casa spesso pezzi di metallo, viti o bulloni spaiati. La ragazza aveva iniziato a giocarci, per poi scoprire che era in grado di creare oggetti, se non funzionali, almeno belli. Migliorava di settimana in settimana ed era riuscita a creare dei giocattoli molto carini per i più piccoli, che poi Balder o le gemelle animavano per Randolf, anche se l'obiettivo di Ilda era quello di creare qualcosa che potesse funzionare autonomamente, senza l'influsso di qualche animista.
Randolf invece seguiva il padre come un'ombra, faceva tutto quello che faceva lui. Al contrario dell'aspetto, però, non aveva ereditato il suo carattere estroverso e solare. Era il più timido del gruppo, preferiva stare da solo piuttosto che con gli altri, e se proprio doveva stare con qualcuno, rimaneva con le gemelle, che non erano vivaci quanto Ilda e Tyr e quindi a lui più congeniali. Nessuno si sarebbe sorpreso se avesse voluto seguire le orme del padre: Ofelia era certa che sarebbe stato lui a spiegare le cose alle gemelle perché le capissero, se non avessero avuto la loro portentosa memoria. Tra tutti, era quello in cui Ofelia si rispecchiava di più: un po' diverso, un po' schivo, ma ben determinato a non lasciarsi mettere i piedi in testa da nessuno.
Oltre alla bomba di eventi, quando Serena aveva ormai diciannove anni, scoppiarono degli altri tipi di bombe.
Tutte in una sera.
Tutte durante una visita a corte.
Ma per parlare di quella serata, bisogna prima capire come ci si è arrivati.

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Capitolo 56
*** Capitolo 56 ***


Non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate di questo capitolo!! Soprattutto perché ho lasciato un indizio che sicuramente scoprirete subito xD Chissà cosa ne pensate...
Io credo sempre di lasciare indizi che nessuno mai scoverà, invece voi capite tutto subito. Pazienza, vengono lasciati proprio per esser scoperti, quindi...
Buona lettura!

Capitolo 56
 
Berenilde aveva insistito talmente tanto sul voler introdurre i pronipoti in società che ormai le sue parole ad Ofelia non facevano più né caldo né freddo. Non aveva alcuna intenzione di esibire i suoi figli come Bestie da esposizione solo per metterli in mostra o cementare il loro ruolo e prestigio. Non aveva la memoria portentosa di Thorn, ma ricordava bene ciò che una volta Berenilde le aveva confidato, nel giardino della struttura dove sua madre era ricoverata. Lì al Polo i figli venivano mandati in provincia, cresciuti ed educati da altri, e poi tornavano quando avevano l'età giusta per fare il loro ingresso in società. Genitori e figli resi tali solo per nome e sangue, non per un vero vincolo. Ofelia e Thorn non avevano nemmeno parlato al riguardo, quando era nata Serena: non c'era nulla da discutere quando si era in totale disaccordo su un comportamento consolidato. Avevano fatto di testa loro, si erano tenuti tutti i loro figli, e non se n'erano pentiti nemmeno per un secondo. Berenilde le aveva anche confidato, pochi giorni prima della nascita di Vittoria, che stava per diventare di nuovo madre, ma non avrebbe imparato nulla dai suoi errori, dalla morte dei suoi figli. Non sarebbe cambiata.
Qualcosa, invece, era riuscita a cambiarlo: Vittoria l'aveva cresciuta lei, non qualche nutrice in una regione sperduta. Il vizio, se così lo si voleva chiamare, che invece proprio non riusciva ed eliminare era la vanità. Gli incontri a corte erano parte integrante della sua vita. Vi aveva coinvolto Vittoria, e ora insisteva per sfoggiare anche i figli del nipote. Per lei, Faruk e la corte erano imprescindibili per la propria felicità.
Dal canto suo, Ofelia non avrebbe mai costretto i figli a fare qualcosa che non volevano, tanto più se si trattava di una cosa del genere.
Berenilde però l'ebbe vinta dopo che Serena tornò a casa, una sera, sventolando un foglio dattiloscritto, euforica come non mai. Ofelia e Renard erano rincasati da poco dopo aver chiuso lo studio di lettura, e si guardarono stupiti. Era raro vedere Serena scarmigliata, arrossata e così poco composta. Raro, ma bello. Gli occhi scuri le brillavano d'emozione, i capelli biondi le formavano una specie di aureola gonfia intorno alla testa.
Berenilde la guardò sorridendo come una gatta dal divanetto su cui era meticolosamente adagiata per sembrare una musa. - Hai finalmente trovato qualche buon partito, Serena cara? Non essendoci nessun membro del nostro clan da sposare hai una libertà di scelta che a nessuno di noi è stata concessa. Nemmeno ai tuoi cari genitori.
L'espressione di gioia di Serena si spense mentre la zia Roseline rimbeccava ora Berenilde per il suo poco tatto ora Serena per non aver ancora messo su famiglia, dimostrando lei stessa mancanza di tatto.
Archibald intercettò il suo sguardo sorridendo, poi le fece l'occhiolino. - Non c'è nessuno in tutto il Polo che meriti la mano della nostra adorata Serena. E se lo dice il presente zietto più sincero di... una qualsiasi cosa animista con la quale l'egregia Roseline voglia fare un paragone, allora potete credermi.
Lo sguardo di Archibald però era... preoccupato, mentre quello di Serena, già spento rispetto a prima, si adombrò del tutto. Solo un'occhiata all'espressione incoraggiante di Ofelia e Renard le fece tornare la voglia di parlare.
- Sono tra i finalisti del concorso. Finiti questi ultimi mesi di esami potrei diventare l'apprendista di papà.
Renard si lasciò andare ad un urlo di belluina gioia, e persino il sorriso di Archibald sembrò sincero. La zia Roseline annuì più volte, orgogliosa che una donna si imponesse mostrando di che tempra era fatta. Forse aveva più cose in comune con Sophie di quanto tutti si aspettassero. Quanto a Vittoria, per una volta sembrò presente a se stessa e, alzando il viso da ciò che stava disegnando, le sorrise caldamente. Il rapporto tra le due cugine era particolare, ma si poteva dire che Serena fosse l'unica vera amica di Vittoria, nonostante gli anni di differenza. Non era un caso se le aveva chiesto di fare la testimone alle sue nozze con Tom, che sarebbero avvenute da lì a pochi mesi. Il cugino si sarebbe poi trasferito lì al Polo, perché Vittoria non poteva abbandonare Berenilde. Inoltre, così Agata avrebbe avuto la scusa per andare a trovarli, loro e la corte, quando voleva. A Serena faceva strano pensare che due suoi cugini si sarebbero sposati tra loro, era come se i Draghi e gli animisti venissero legati a doppio filo: non un solo matrimonio, ma due.
Quanto a Ofelia, si sentì stringere il cuore alla vista della figlia così felice per quel risultato, e provò un infinito moto di orgoglio per lei, la sua prima bambina. La loro prima bambina, che avevano cercato per mesi. Non avrebbe potuto essere più perfetta di così.
- Quanti altri concorrenti ci sono? - le chiese Renard, battendo le mani così forte che Salame, abbarbicato sulla sua spalla, in protesta gli conficcò gli artigli nella pelle.
- Come ti sei classificata? - chiese invece Ofelia, che ancora si ricordava la sensazione inebriante di essere arrivata prima al concorso per lettori.
- Brava, brava, tutta la sua prozia! - esclamava la zia Roseline come un disco rotto.
Serena rise di fronte a quella confusione, piccola differenza che aveva con Thorn: lui si sarebbe accigliato.
- Cos'è tutto questo baccano? Io non c'entro nulla, giuro! - si aggiunse Tyr entrando nel salotto con Balder e Ilda alle spalle.
Serena scosse la testa. - Per una volta è colpa mia - scherzò, abbracciando il fratello. Tyr era parecchio fisico, come maschio.
- Che hai combinato?
- Sono tra i finalisti del concorso.
Come Renard, Tyr si mise ad urlare di gioia, più simile ad un ululato.
Balder alzò gli occhi al cielo e lo spinse via bonariamente. - Smettila o la assorderai prima che possa partecipare! Congratulazioni Serena.
Più timido di Tyr, come chiunque, Balder non esitò quando si trattò di abbracciarla a sua volta. Ilda e Tyr formavano il trio da cui non si sarebbe mai staccato, ma con Serena aveva un rapporto speciale. Erano confidenti, conoscevano ogni segreto l'uno dell'altra, a volte senza che nemmeno l'altro lo sapesse.
Ilda le sorrise strizzandole l'occhio, contenta di quella vittoria femminile.
- Siamo cinque finalisti - spiegò Serena, rispondendo finalmente alle domande che le avevano posto e che non si era, ovviamente, dimenticata. - Io sono al momento al primo posto, ma in realtà essendo l'unica donna mi hanno indicata sotto a tutti gli altri, nonostante i loro risultati siano inferiori ai miei di almeno il diciotto percento.
Renard si lamentò, la zia Roseline pure. Ofelia invece la fissò attraverso le lenti, trasmettendole una sicurezza che lei non aveva mai provato.
- Tu e tuo padre vi fidate quasi solo dei numeri. Sapete bene che non possono mentire, e Thorn stesso supervisionerà la correzione dei test. Significa che nessuno potrà metterti i bastoni tra le ruote, Serena. Nessuno potrà manomettere il risultato.
Lei sorrise modestamente, rincuorata da quelle parole. - Non si può prevedere il futuro, mamma. Non sento di avere la vittoria in tasca, dovrò impegnarmi come tutti gli altri.
- Mi deluderesti se ti comportassi altrimenti – concluse Ofelia, lasciandola a parlare con gli altri.
Berenilde si alzò in piedi platealmente, alzando il calice e proponendo un brindisi.
- Ahimé, purtroppo non è tutto rose, fiori e... matematica - sospirò poi, appena gli animi si furono calmati. - Per la nomina del nuovo apprendista dell'intendente e poi dell'intendente stesso, si passa al vaglio anche una votazione. Da parte di clan, membri influenti della corte e favoriti.
Serena sbiancò. Guardò subito Archibald, che però distolse lo sguardo. Ofelia non lo aveva mai visto a disagio. E soprattutto, non lo aveva mai visto omettere un'informazione volontariamente. Ne era fin troppo prodigo, di solito.
- Potrebbero... non confermarmi a causa di una votazione?
- Temo di sì, figliola - rispose Berenilde, avvilita. - I risultati del test valgono sicuramente più di tutto, ma se le votazioni dei membri influenti bocciano il candidato, anche se si è la persona più adatta per quel ruolo, non ha importanza. Si viene scartati.
Ofelia guardò Berenilde. - Thorn allora...
Poi capì. Fortunatamente la sua voce era stata talmente flebile in confronto alle urla di dissenso che si levarono subito dopo che nessuno la sentì. Thorn era stato portato avanti da Berenilde, coadiuvato dalla sua fama, dalla sua maestria nel barcamenarsi tra i membri della corte e dall'influenza che aveva su Faruk. E dal barone Melchior, stando a quanto aveva detto lui prima di morire, ucciso prima che uccidesse lei.
Un bastardo non avrebbe mai ottenuto una carica così importante, altrimenti. Non senza un aiuto.
Ofelia sentì la nausea salire quando si rese conto per l'ennesima volta che la meritocrazia in quell'arca era rara quanto un favore disinteressato. Thorn sembrava essere nato apposta per ricoprire quel ruolo, gli si adattava come una seconda pelle, ma senza le giuste conoscenze e le raccomandazioni di sua zia sarebbe stato scartato perché non bello, non famoso, non intrallazzato in qualche intrigo di corte o pupillo di Faruk. Perché bastardo. Era disgustoso.
Serena sembrava in stato di shock. Non emetteva un suono, fissava solo Archibald, quasi senza vederlo, mentre lui si versava un bicchierino di grappa. Renard e Tyr facevano confusione per due, il primo lamentandosi delle ingiustizie il secondo minacciando di marchiare con gli artigli chiunque avesse votato contro la sorella. Ofelia gli lanciò un'occhiataccia, ottenendo in risposta solo un occhiolino e uno sguardo contrito. Sapeva che Tyr non avrebbe mai messo in atto una simile violenza, ma non le piaceva nemmeno sentirle, certe cose.
- Suvvia signori, calmatevi, calmiamoci. Non tutto è perduto. Che poca fiducia avete nelle doti sociali della nostra amata Serena! - li sgridò Berenilde, con un'inflessione da gran dama che invitava sempre tutti al silenzio. - La graziosissima Serena non avrebbe motivo di non essere eletta, oltre che per merito, anche per approvazione cittadina. Sono certa che non sarà necessario nessun... aiuto, da parte mia. A tutto c'è una soluzione.
- Di cosa parlate, zia? - intervenne Balder, facendo le veci della sorella. Le teneva una mano sulla spalla con fare protettivo, unico punto d'ancoraggio di Serena, che continuava a fissare Archibald inebetita.
- Non è forse ovvio? Quale modo migliore per farsi conoscere delle serate di corte? Io non dovrò fare assolutamente nulla, Serena sarà in grado di conquistarsi le simpatie di chi conta solo respirando. Una bella fanciulla a modo, educata, che sa comportarsi, che sa parlare, chi non la amerebbe?
Archibald buttò giù il bicchierino d'un soffio e se ne versò un altro. Ofelia avrebbe voluto fargli compagnia. E così, alla fine, Serena doveva per forza di cose fare il suo ingresso a corte, giusto?
- Io non... voglio conquistare le simpatie di nessuno, zia. Con tutto il rispetto.
Berenilde le sorrise maternamente, avvicinandosi per accarezzarle il viso. - Nessuna offesa, non preoccuparti figliola. Quello che voglio dire è che conosco quelle persone, non voterebbero mai qualcuno che non hanno mai visto, per quanto competente. Se solo tu partecipassi a qualche serata ti vedrebbero, ti conoscerebbero, e sarebbero già più inclini ad accettarti. Io mi sto già adoperando per tessere, meritatamente cara, non pensare che stia imbrogliando, le tue lodi. Sei arrivata sin qui da sola, nessuno lo metterà mai in dubbio. Si tratta solo di presentarti, berti un bicchiere o due, ci sono anche delle ottime danze! Nulla di così tragico, anche se la tua cara madre direbbe il contrario.
Ofelia scosse la testa di fronte allo sguardo di Berenilde, sapendo di aver perso in partenza. Per quanto fossero legate, e si volessero indubbiamente bene, rimanevano su due mondi troppo distanti per riuscire a capirsi.
- Diversi mesi ti separano dai test finali. Invece di limitarti a studiare cose che già sai, dovresti dedicarti a farti un nome. Ascolta le sagge parole di una zia benintenzionata che sa come funzionano queste cose.
Le gemelle sbucarono all'improvviso dal grande specchio del salotto, senza neanche cercare di nascondere il fatto che avevano origliato.
- Possiamo venire anche noi? - chiesero in coro, guardando Berenilde con gli occhi spalancati e pieni di aspettativa.
- Mie piccole adorate, per quanto apprezzi il vostro entusiasmo, non sono una dissennata come vostra madre e la vostra altra prozia pensano. Voi siete ancora troppo piccoline per questi eventi, ma sono certa che quando avrete raggiunto l'età necessaria ci divertiremo moltissimo a partecipare a queste eleganti feste.
Le gemelle non si persero d'animo e cominciarono a parlottare tra loro di cosa avrebbero indossato e chi avrebbero visto a corte, un mondo sconosciuto che loro ritenevano brillante e pieno di cose virtuose. Ofelia non era ancora riuscita a convincerle del contrario.
Serena guardò Berenilde dritta in volto. Come Thorn, non aveva paura di nessuno. - Potranno venire con me anche Balder, Tyr e Ilda?
I due fratelli protestarono, colti di sorpresa, mentre Ilda fece spallucce.
Berenilde sorrise bonariamente a tutti, dispensando espressioni dolci come caramelle. - Non potrei chiedere di meglio, cara figliola. Sarò ben lieta di aprire per voi le porte della corte.
- Io credo di dover chiedere ai miei genitori - disse Ilda. - Non è che alla mamma piaccia proprio tanto la corte. Anzi, le fa proprio schifo.
Berenilde non la sgridò, ma la sua espressione euforica si incrinò un po'.
Ofelia si alzò in piedi, guardando i tre figli maggiori. - Anche voi dovrete chiedere a vostro padre - li mise in guardia. Poi fissò Berenilde. - La decisione, in fondo, spetta proprio ai genitori.
- Ma certo! Genitori coscienziosi che sanno bene qual è il meglio per i loro figli! - approvò Berenilde.
La zia Roseline si mise a brontolare dicendo che sarebbe dovuta andare anche lei per fare da chaperon a tutti perché lei sì che conosceva le nefandezze e le trappole insidiose che albergavano nel cuore della corte! Ofelia si ripromise di dissuaderla, altrimenti sarebbe dovuta andare anche lei per impedire alla zia di respirare il fumo sbagliato o rimanere chiusa in una stanza che non avrebbe proprio dovuto aprire. Anche se, per amore dei figli, forse sarebbe andata lo stesso.
Lei e Berenilde continuavano a sfidarsi con lo sguardo. Ofelia si augurava vivamente che Thorn bocciasse l'idea solo per mettere a tacere lei e le sue idee strampalate, per quanto benintenzionate.
 
Purtroppo, Thorn diede ragione alla zia.
Non ammise con i figli che lui era arrivato dov'era proprio grazie al suo aiuto, perché altrimenti nessuno avrebbe mai messo un bastardo asociale alla guida delle loro finanze e delle loro leggi. Era una questione di cui solo Ofelia era a conoscenza, e anche lei stava ben attenta a non tirarlo fuori: per Thorn era come un'onta, un ricordo estremamente doloroso legato all'infanzia.
Per quanto l'idea di mandare i figli in pasto alla corte di Faruk e agli eccessi lo disgustasse tanto quanto Ofelia, non poté negare che fosse l'unica soluzione al problema.
- La percentuale di riuscita di Serena rasenta il cento percento. Sarebbe uno spreco di potenzialità se non riuscisse a passare solo perché dei cortigiani hanno votato individui più compiacenti e in vista.
Serena si era stretta nelle spalle e aveva accettato l'idea. Se anche Thorn diceva che era l'unica soluzione, si sarebbe sacrificata. Non intendeva rinunciare al suo intento solo per il voto di persone che nemmeno conosceva.
Thorn avrebbe impedito a Balder e Tyr di andare con lei se non li avesse ritenuti indispensabili per Serena. Gli costava già tanto lasciare andare una figlia in quel covo di serpi, mandandoli tutti e tre perpetrava una violenza a suo stesso danno. Ma sarebbe stato peggio per tutti, soprattutto per Serena, se lei fosse andata da sola. Sapevano bene tutti quanti che quando si trattava di partecipare alle feste Berenilde era inaffidabile. E pure la zia Roseline, che si cacciava nei guai persino più di Ofelia. Balder e Tyr invece erano responsabili e ben piazzati, specialmente Tyr: nessuno avrebbe osato importunare Serena con loro al fianco, e lei stessa avrebbe avuto un sostegno emotivo e un appoggio.
Uscendo dalla biblioteca, Serena sfrecciò in corridoio. Balder era troppo impegnato a sbuffare per accorgersene, mentre Tyr lo punzecchiava e gli tirava pacche fraterne sulla schiena.
- Almeno faremo qualcosa di diverso. Chissà, magari c'è anche qualche ragazza carina. Secondo me sarà divertente.
- Se lo dici tu... Per me le ragazze saranno sepolte sotto una quantità di illusioni tale da renderci impossibile un loro riconoscimento di prima mattina, figurati se me ne importa qualcosa.
Tyr rise allontanandosi mentre la sua sciarpa schiaffeggiava bonariamente Balder. I due si diressero verso casa di Ilda per vedere se i suoi avevano accettato. Se ci fosse stata anche lei forse l'esperienza non avrebbe fatto così pena.
Ofelia invece si sedette di peso sulla sedia di fronte a Thorn, svuotata.
- Alla fine tua zia ha vinto.
Thorn continuò a scrivere con la sua fedele penna, consultando l'orologio di tanto in tanto. - Non si tratta di vittoria o sconfitta. Si tratta di ciò che è meglio per Serena. Pensi che abbia preso questa decisione per piacere? L'idea che finisca a corte disgusta tanto te quanto me, non dimenticarlo.
La veemenza di Thorn le fece intuire che in realtà sotto la superficie si agitava un sentimento ben più turbolento del suo. Lei semmai era preoccupata, un po' delusa anche, ma Thorn era proprio infuriato.
Posò la mano guantata sulla sua, obbligandolo a fermarsi. A guardarla.
- Sei stato bravo a prendere la decisione giusta nonostante la nostra volontà contraria.
Thorn aggrottò la fronte. - I numeri non mentono, sarebbe stato irrazionale e controproducente impedirle di percorrere questa strada solo perché non piace a nessuno.
Ofelia alzò gli occhi al cielo: lui e i suoi numeri!
In un altro corridoio di quel castello fin troppo grande, invece, Serena non era così tranquilla come aveva dato a vedere.
Non le era mai capitato di correre tanto, lei era una donna di studio, non di attività, e le venne subito il fiatone.
Trovò la persona che cercava mentre tentava di sgattaiolare in stanza senza essere vista.
- Archibald! - lo chiamò. - Fermatevi!
Impietrito, l'ex ambasciatore obbedì senza rendersene conto.
Serena arrivò in affanno, appoggiandosi al muro per sostenersi. Con la sua corporatura snella sembrava sempre fragile, come in procinto di rompersi. Chi non la conosceva non si rendeva conto che non si sarebbe mai spezzata, nemmeno fisicamente.
- Non mi chiamate più zietto? - cercò di sdrammatizzare lui, anche se per una volta il suo sorriso era inesistente quanto la gioia nei suoi occhi.
Serena gli lanciò un'occhiataccia come poche volte si era permessa di fare, con chiunque. - Non siete mio zio, lo sappiamo entrambi. Però pensavo che foste un amico. Perché mi avete taciuto una verità simile? Se non mi avesse aiutata la zia Berenilde mi sarei trovata impreparata e avrei fatto una pessima figura. Non avrei mai passato quella votazione! Le mie chance di diventare intendente si sarebbero ridotte all'osso, esigue quanto un numero a una cifra. Non venite a dirmi che non lo sapevate, perché non vi credo.
Archibald sospirò e si raddrizzò. Non rimise la solita maschera di spavalderia, ma almeno non appariva più curvo come un vecchio. - Lo sapevo. Ve l'ho taciuto di proposito.
Serena aveva sempre apprezzato la sua onestà, a volte fin troppo schietta. Grazie ad essa, però, sapeva di potersi fidare delle sue parole. Quelle parole fin troppo sincere, per una volta, le fecero male.
- Perché?
- Vi sembrerà stupido e di sicuro non lo apprezzerete, ma... mi sento responsabile nei vostri confronti. Volevo proteggervi. Non sono il vostro padrino, quello è Renold, ma un po' è come se lo fossi. O forse no.
Dopo la stoccata che gli aveva dato lei, era giunto il suo turno di ricambiare il favore.
Archibald si sentiva colpevole sotto il suo sguardo innocente. - Non avete bisogno di protezione e siete la candidata intendente più dotata e competente che abbia mai conosciuto, dopo vostro padre. Ma questo non diteglielo mai, fatemi il favore. Però l'idea che veniste giudicata da aristocratici ignoranti mi turbava. Meritate più di questo. E meritate anche meglio della corte, meritate di più che essere esibita come una Bestia ad un torneo solo per raccogliere consensi. Non volevo che Berenilde vi iniziasse alla vita di corte.
Questa volta gli occhi di Serena trasmettevano pura furia, Archibald si sentiva bruciare. Il suo tono fu secco quanto quello di Thorn: - Vi ringrazio per la vostra premura, ma sono in grado di decidere da sola e di difendermi da sola. E sono anche in grado di fare ciò che va fatto per conseguire un risultato. Altrimenti, non potrei mai essere nominata intendente. Temevate forse, fra le altre cose, di mostrare come apparite a queste serate di società? So bene le storie che circolano su di voi, quindi non cercate di proteggere me quando siete il primo ad esporvi. Grazie per la spiegazione, vi auguro una buona notte.
Serena gli voltò le spalle, Archibald la osservò andare via. Era la prima volta che litigavano, di solito si limitavano a battibecchi, ma la maggior parte delle volte Serena ignorava i suoi punzecchiamenti per non dargli corda. Ad Archibald piaceva provocare, ma quella non era una provocazione, era quasi un tentativo di sabotaggio.
Codardia.
 
Un paio di mesi dopo, Serena, Balder e Tyr erano pronti a fare il loro ingresso in società.
Berenilde li aveva istruiti sul galateo come un tempo aveva fatto, infruttuosamente, con Ofelia, li aveva portati a fare compere per rinnovare il guardaroba e aveva sparlato di ogni singolo membro in vista per far capire loro da chi dovevano stare particolarmente all'erta.
Serena aveva affrontato quel periodo come in trance, studiando tutto il giorno, senza concedersi alcuna distrazione, ligia al dovere fin quasi a rasentare l'ossessione. Ofelia e la zia Roseline in alcune occasioni l'avevano trascinata fuori casa di peso per fare una semplice passeggiata, perché cambiasse aria. Quello che lei viveva come il tradimento di Archibald l'aveva colpita più di quanto si sarebbe immaginata.
Non si parlavano da allora. Archibald bighellonava per casa, aveva ricominciato ad alzare troppo il gomito, si assentava spesso per andare a corte. Sembrava che quella parvenza di perbenismo, lo scopo che aveva trovato dopo aver aiutato Serena a studiare, fosse sparito, lasciandolo di nuovo vuoto e solo.
- Serena cara, hai dei denti perfettamente bianchi e dritti, l'incarnato dei nobili e un sorriso che abbaglia, quando lo esibisci. Cerchiamo di mostrarlo questa sera, mi raccomando. Nessuna espressione alla Thorn. Balder, tu sei assolutamente meraviglioso, ma levati quell'aria annoiata dal viso. Tyr, tu invece trasmetti un po' di emozione ai tuoi fratelli e prendi la loro apatia. E smetti di saltellare da un piede all'altro. Questa sera sarà anche il tuo debutto, dato il tuo proposito di partecipare, anzi, indire la prossima caccia. Quanto a te, cara Ilda, fai onore al clan di tua madre. Erano parecchi anni che non si vedeva una Nichilista calcare i sontuosi pavimenti della corte.
Tyr e Ilda gonfiarono il petto, orgogliosi, mentre i due maggiori parvero soccombere sotto un peso troppo grande. Gaela aveva detto che la figlia poteva fare ciò che voleva, anche se lei aveva detto testualmente di odiare quelle cose da riccastri, mentre Renard era stato più restio. Erano stati Balder e Tyr a convincerlo, e sapeva che con loro la figlia sarebbe stata al sicuro.
Serena strinse leggermente la mano di Balder mostrandogli un sorriso triste, grata nonostante tutto che lui fosse lì con lei, che non l'avesse lasciata sola. Balder ricambiò la stretta.
E così, quando Serena aveva diciannove anni, Balder sedici e Tyr e Ilda quattordici, fecero il loro ingresso a corte.
Ofelia e Thorn avevano deciso di accompagnarli per dare loro un supporto, almeno la prima volta. Entrambi aborrivano quelle serate piene di eccessi e inganni, ma volevano essere presenti per i figli e soprattutto controllare che Tyr, nonostante le raccomandazioni, non andasse a fumare qualcosa di strano da qualche parte. Lui aveva promesso che sarebbe stato lontano da bevande dalla dubbia provenienza e fumo, ma non si sapeva mai. Anche se entrambi dubitavano che Balder e Ilda gli avrebbero tolto gli occhi di dosso, e quei due erano dei gendarmi quando si mettevano in combutta per bloccare Tyr.
Quando entrarono a corte, i quattro giovani, Berenilde, Vittoria, la zia Roseline, l'intendente e sua moglie, il salone parve quasi ammutolire, immobilizzarsi e osservare i nuovi venuti, come animali esotici ad una fiera o saltimbanchi alla carovana del carnevale.
Come ci si aspettava, fu Berenilde a levarli dall'impaccio. Riconobbe subito qualcuno al suo fianco e si mise a parlare con voce fin troppo alta, ma mai stucchevole. Era lei che faceva un onore a quella persona degnandosi di parlarle, e non viceversa. Berenilde aveva un controllo su certi giochetti e intrighi di corte che a suo modo Ofelia ammirava. Sapeva sempre cosa dire, come muoversi, cosa ci si aspettava da lei e come mostrarsi indistruttibile e intoccabile anche quando era sull'orlo del crollo. Al contrario, lei aveva la sciarpa che le si avvinghiava alla vita e alla caviglia per l'ansia e la voglia di fuggire, e rovesciò un calice di champagne dopo nemmeno un minuto dall'ingresso, scusandosi così tanto con il sommelier da metterlo in imbarazzo.
Thorn l'agguantò per il polso per farla raddrizzare, poi spostò la mano sulla sua schiena in un'impercettibile carezza.
Fortunatamente, le chiacchiere di Berenilde e la gaffe di Ofelia risvegliarono la corte dal torpore; i presenti ricominciarono a bere, ridere e parlare, ma l'attenzione di tutti rimaneva puntata sui nuovi arrivati. I figli dell'intendente. Era la prima volta che li vedevano, ne avevano solo sentito parlare e messo in giro pettegolezzi così poco lusinghieri che alcuni si stupirono di non vedere degli esseri deformi e orripilanti, grossolane copie e caricature malriuscite con la fisionomia da lampione dell'intendente.
A dire il vero, tutti e quattro insieme, anche Ilda, facevano la loro figura.
Ofelia cercò di guardarli attraverso gli occhi degli astanti.
Serena era alta quanto Tyr, più della maggior parte delle donne presenti in sala ma meno degli uomini più alti. Era magra, ma non scheletrica, aggraziata. Aveva un contegno invidiabile, non lasciava trasparire le emozioni e si comportava come voleva l'etichetta, senza aggiungere fronzoli non necessari né alle chiacchiere né ai gesti. Con i capelli biondo-argento di Thorn, i suoi occhi scuri e profondi risaltavano ancora di più, così come la carnagione di porcellana. Non era una bellezza mozzafiato, ma intrigante e delicata.
La vera bellezza della serata era Balder. Ofelia aveva sempre pensato che fosse il figlio più bello, ma vedendo la sala gremita di giovanotti ben vestiti e impomatati ebbe la conferma, o la rivelazione, che era più bello anche della gran parte delle persone presenti. Probabilmente era quello che più si avvicinava alla bellezza celestiale di Archibald, ma in toni scuri anziché chiari: moro con gli occhi della sorella e della madre. I capelli ricci e folti splendevano sotto i lampadari di pregiato cristallo che piovevano dal soffitto come pioggia, mettendo in risalto la cicatrice ormai sbiancata che Tyr gli aveva lasciato in fronte anni prima. Anziché rovinare la sua bellezza, quella specie di marchio gli conferiva un'aria un po' selvatica in contrasto con l'espressione seria e matura, il portamento rigido e retto, e gli occhiali che mostravano in effetti l'intellettuale che si nascondeva dietro quell'aria austera. Balder era un insieme di tratti diversi che, mischiati insieme, per pura fortuna, creavano un fascino inaspettato. Da fisionomia ben armonizzata a guazzabuglio era un attimo. Era il più alto tra i presenti, subito dopo Thorn, ma più robusto di lui grazie all'esercizio che faceva con il fratello. Spalle larghe, ma fisico asciutto. Ofelia vide subito che lui e Ilda si scambiavano occhiate di sottecchi quando l'altro era distratto. Il naso, quello sì, l’aveva preso da Thorn, ma meno affilato. Sul suo volto stava molto bene.
Ilda colpiva dritta allo stomaco. Boccoli biondi con leggerissimi riflessi ramati, eredità di Renard e occhi eterocromi dal colore intenso e magnetico, blu e nero. Era decisamente la più bassa dei tre, ma compensava l'altezza con una fisionomia snella ma formosa. Quella ragazza stava mettendo su tutte le curve al posto giusto e, con un po' di buona volontà, riusciva ad edulcorare l'atteggiamento autoritario e il carattere forte. Anche se, dal momento che Tyr e Balder l'adoravano, non ce n'era bisogno.
Infine c'era Tyr, con la sua stazza già fin troppo imponente nonostante la giovane età, e l'altezza che, nonostante non potesse competere con quella del padre o del fratello, era comunque notevole. Anche se sarebbe meglio dire che, sebbene fosse il più giovane, era quello che saltava più all'occhio, un Drago sia nei tratti che nel corpo. Per fortuna, non nello spirito. Ofelia si rese conto che Tyr era diventato ciò che lei credeva fosse Godefroy. La prima volta che lo aveva visto, nei panni di Mime, lo aveva trovato gioviale, persino simpatico, un bonaccione amichevole. Solo durante la conversazione, quando era emerso che era stato lui l'artefice delle cicatrici sul viso di Thorn, Ofelia aveva compreso che dietro la facciata bonaria si celava una serpe. Freya non aveva avuto problemi a colpirla, ma almeno si era rivelata subito per quello che era, non aveva avuto una doppia faccia infida come quella del fratello. Tyr invece era davvero il ragazzone buono e troppo muscoloso che sembrava di cogliere ad un primo sguardo, con gli occhi persi nello scintillio dei lampadari.
- Chiudi la bocca, sono solo illusioni. Sotto quei lampadari c'è una lampadina mezza morta che pende dal soffitto - gli mormorò Ilda a fil di labbra, cercando di non farsi vedere.
Il sorriso di Tyr si allargò ancora di più. - Posso invitarvi a prendere qualcosa da bere, mademoiselle?
Ilda si trattenne dal tirargli un pugno lì davanti a tutti. - Certo, vi ringrazio.
Avevano deciso di darsi del voi in presenza di membri esterni alla loro famiglia, per non sembrare troppo intimi o far sorgere più pettegolezzi di quelli che avrebbero comunque suscitato.
Quel pomeriggio Ilda e Tyr si erano esercitati cercando di abituarsi, ma la prova era durata ben poco e si era tramutata in un giochino sciocco che li faceva solo ridere, rivelando che il loro aspetto era ingannevole: sembravano più grandi di quel che erano.
Ilda e Tyr si allontanarono tutti impettiti, come avevano provato a casa. In qualche modo riuscirono a non scoppiare a ridere mentre tutti si spostavano per lasciarli passare, neanche fossero due spiriti di famiglia. Persino la sciarpa di Tyr, di solito irrequieta, se ne stava composta e in bella mostra come un gatto al sole.
Balder li osservò allontanarsi con la fronte increspata, identico a suo padre, ma decise di rimanere accanto a Serena. Sulle guance aveva un leggerissimo accenno di barba, spuntata qualche settimana prima, che non si era volutamente rasato. Sembrava essere coetaneo di Serena, invece che più piccolo di tre anni.
Mentre i due più piccoli si godevano il rinfresco, Berenilde fece gli onori di casa presentando a tutti Serena, e di conseguenza anche Balder, la sua ombra protettiva. Thorn fu subito reclamato da qualche conte, o barone, che si lamentava di qualcosa e Ofelia decise di seguire lui per dargli il sostegno di cui nemmeno lui sapeva di aver bisogno. In ogni caso i figli se la stavano cavando bene senza di lei, anzi, data la sua goffaggine se la sarebbero cavata meglio.
Eccetto Balder, che con il gomito rovesciò un vassoio e urtò una persona, profondendosi in scuse impacciate finché Serena non lo trasse in salvo. Ofelia sapeva che una difficoltà simile non poteva essere ereditaria, ma Balder era sempre stato alto e magro, dinoccolato, e quello doveva aver contribuito a renderlo un po' imbranato. Dall'altra parte della sala, Tyr si mise a ridacchiare per la scena, e quando Balder se ne accorse Ilda gli tirò un pugno in pancia che di signorile aveva gran poco. Il sorriso di Berenilde si raggelò sul suo viso, fisso come quello di una statua, mentre cercava di salvare il salvabile. Balder e Serena si ricomposero subito, e fu il turno di Ofelia di fare la sua: se Thorn non l'avesse afferrata per il braccio, sarebbe caduta per terra dopo essere inciampata sul vestito. Glielo aveva detto a Berenilde che la gonna era troppo lunga...
Thorn si comportò come se niente fosse, continuando a spiegare al cortigiano di turno, un Miraggio, per quale motivo non si poteva promulgare una legge che prevedesse il pagamento di un contributo da parte di chiunque guardava anche solo per sbaglio un'illusione da lui creata. Le parole "irragionevole", "insensata", "iniqua" e "inaccettabile" sembravano non essere contemplate nel vocabolario di quel panciuto aristocratico. Ofelia era già stanca, si chiedeva davvero come facesse Thorn e reggere ogni giorno. Le si strinse il cuore pensando che Serena voleva andare incontro allo stesso destino, e ci stava riuscendo. Sperava che la sua bambina fosse abbastanza forte da non lasciarsi piegare dalle idee contorte di quei pagliacci senza un minimo di assennatezza.
Superato l'iniziale stupore per la comparsa della famiglia di Thorn al gran completo, la serata trascorse abbastanza tranquillamente. Ofelia non era obbligata a parlare, e ne era grata. Aveva giusto scambiato due parole con Cunegonda, l'unica che conoscesse, ma il rischio di trovare qualcuno pronto a minacciarla era dietro l'angolo, così si asteneva dal cercare di fare conversazione. In compenso, osservava.
Balder non si staccava da Serena, che stava già parlando scioltamente con alcuni membri politici importanti presentati da Berenilde. Tra tutti, sembrava che Serena fosse l'unica in grado di far splendere d'orgoglio gli occhi di Berenilde. Di tanto in tanto però la giovane si voltava, più o meno discretamente, e i suoi occhi cercavano Archibald. Indubbiamente alticcio nonostante la serata fosse appena iniziata, Archibald passava da un gruppo di signore all'altro, suscitando risatine frivole e urletti fintamente scandalizzati ogni volta. Sembrava che facesse del suo meglio per divertirsi e divertire, ma Ofelia non lo aveva mai visto così abbattuto, e sperava che non facesse qualche sciocchezza. Lui e Serena non si erano ancora chiariti, a quanto pareva. Ofelia sapeva che la figlia aveva interpretato come un tradimento il suo tacere un dettaglio così importante sul concorso, ma Serena era buona, non portava rancore a nessuno. Le sembrava che qualcosa sfuggisse alla sua comprensione.
Balder era decisamente più facile da leggere: lanciava occhiate più che palesi alla volta di Tye e Ilda, che quando non ridevano tra loro cercavano di fare i beneducati con le persone abbastanza audaci da andare a conoscerli. Ad Ofelia non passava inosservata la fronte aggrottata di Balder ogni volta che qualche ragazzo le ronzava troppo attorno. Erano per lo più ragazzi che avevano conosciuto al parco, giovani con cui avevano giocato, con cui si erano insultati e si erano sporcati i vestiti, ma sembrava che quella sera si fossero resi conto che Ilda era una ragazza. Una bella ragazza. Lei sembrava a suo agio, Balder per nulla. E come se non bastasse, lei non lo guardava nemmeno di striscio.
La zia Roseline non si vedeva in giro, Ofelia sperava solo che non si fosse infilata in qualche fumé dalla dubbia occupazione. Attirare malcapitati non era solo una prerogativa di Ofelia.
Ad un certo punto Serena si sporse verso Balder, distogliendolo dai suoi pensieri. I due ebbero un breve botta e risposta, Balder sembrava incerto. Alla fine Serena lo spinse dolcemente e lui annuì a testa bassa, facendola sorridere. Serena riprese la conversazione come se nulla fosse mentre Balder si dirigeva verso Tyr e Ilda. Raddrizzò la schiena, si sistemò la camicia inamidata e si avvicinò con aria minacciosa ai ragazzi che ronzavano attorno a Ilda, ma quelli se ne andarono prima che lui arrivasse, senza nemmeno far caso a lui. Balder inciampò appena quando li raggiunse, arrossendo d'imbarazzo.
Tyr ridacchiò. Balder invece lo guardò con cattiveria. - Dì un po', non sai fare altro che sghignazzare?
Preso in contropiede, Tyr si limitò a fare un sorrisino sfrontato che però si spense in fretta. Non ci teneva a litigare con il fratello, e lo conosceva abbastanza bene da sapere quando era il caso di piantarla. Buono com'era, quando Balder si arrabbiava faceva paura.
- Qui sono tutti degli arrivisti - borbottò Tyr, fissando la sala gremita di ipocrisia.
Balder sbuffò. - Te ne sei accorto solo ora?
La sciarpa di Tyr si agitò, appallottolando le punte in un'imitazione di un pugno. Se Balder cercava rogne, lei era pronta a battersi. Tyr le diede una pacca bonaria, riportandola all'ordine.
Ilda prese la parola, distraendoli. - Non so voi, ma a me sembra che abbiamo avuto un'infanzia idilliaca rispetto agli standard della corte. Saremmo stati rovinati se fossimo venuti su così, come questi rampolli. Sono tutti dei gran fessi. Non posso sputare, vero?
Balder incurvò l'angolo della bocca, facendogli tornare una parvenza di buonumore.
Tyr se ne accorse e le posò la mano sulla spalla. - E brava Ilda, tu sì che sai come rabbonire mio fratello. Anzi, voi sì che lo sapete.
Poi ridacchiò da solo. Quella questione della formalità con Ilda lo faceva divertire più del lecito.
- Visto qualcuno di interessante? - chiese Balder e bruciapelo, ignorandolo.
Ilda gli lanciò un'occhiata di sottecchi, mentre Tyr fischiò. - Più di qualcuno. Ma c'è una biondina che mi scruta come se volesse imprimermi nella sua mente. Penso sia imparentata con Archibald. Le farebbe comodo la mia memoria, così potrebbe vedermi e rivedermi come un fotogramma a ripetizione. Io di sicuro lo farò.
Balder scosse la testa. - Quanto sei scemo.
Tyr ridacchiò e gli fece l'occhiolino, assicurandosi che la biondina in questione lo notasse.
- È la nipote di Archibald - confermò Ilda. - La figlia di... della sorella maggiore. Come si chiama già?
- Pazientina - rispose Tyr, l'unico che non avesse problemi tra loro a memorizzare. Tra loro tre, in realtà, perché sia Serena che Mira e Belle avevano la sua stessa memoria portentosa. - Lei si chiama Gabriela. La biondina, dico. Mi piace, è esotico, poco da Polo
- E tu? - lo interruppe Balder, incalzando Ilda. - Visto nessuno?
Lei si strinse nelle spalle. - Nulla che non avessi già visto.
- Come la voglia a forma di fiore sulla vostra chiappa destra, mademoiselle.
Questa volta Ilda gli tirò un pugno talmente forte che Tyr si piegò in due ridendo nonostante il dolore e diverse persone nei paraggi si girarono. Ilda era rossa come i capelli di suo padre prima che si riempissero di ciocche bianche.
- Avevi detto che non avresti mai tirato fuori questa storia - sibilò, fregandosene ormai dell'etichetta. - Tu e la tua dannata memoria.
Tyr continuava a sghignazzare impunemente, mentre Balder se ne rimaneva immobile, raggelato, il viso pallido quanto quello di Ilda era erubescente.
Come faceva suo fratello a sapere una cosa simile? Una cosa così intima e privata legata al corpo di Ilda?
In realtà, se avesse ragionato a mente fredda, si sarebbe accorto che le alternative possibili e innocue erano molteplici, ma lui pensò subito al peggio. Pensò a quell'unica cosa che lo ossessionava. Ma non era possibile, loro non potevano...
Sentì prudere le mani per il desiderio, il bisogno di toccare qualcosa, leggerlo per poter immergere la mente in qualcosa che non fossero i suoi pensieri e sentimenti. Se sua mamma lo avesse sentito ne sarebbe rimasta delusa. Anche un po' di più, come diceva suo papà. Invece prese un mezzo bicchiere di champagne e lo svuotò, distogliendo Ilda e Tyr dal loro teatrino. Avevano già provato qualche alcolico, ma Ilda era l'unica ad apprezzarli. Balder ne detestava anche l'odore, e bevve per quello: per concentrarsi su qualcos'altro, come il sapore acre che aveva in bocca. Cercò di non fare una smorfia di disgusto di fronte a tutti, si era già ridicolizzato abbastanza.
Forse per interrompere quel pericoloso spettacolo, o magari per esibire davvero Tyr come il futuro capocaccia, Berenilde arrivò e si attaccò al braccio del giovane nipote. Il suo sorriso, però, era sincero, e non c'era ombra di rimprovero nel suo sguardo. Solo un velato avvertimento. - Tyr, ti prego di farmi la cortesia, vieni a conoscere alcuni miei... amici. Sono molto interessati al tuo ambizioso progetto e vorrei che mostrassi loro quanto si sbagliano a credere che il clan dei Draghi sia ormai morto e sepolto.
Un avvertimento per i suoi nemici, ecco per chi era quello sguardo. E per Tyr, affinché tirasse fuori tutta la ferocia di cui disponeva. Annuì solennemente, stampandosi in faccia un sorrisino sghembo e presuntuoso. Mentre seguiva la zia, lanciò un'occhiata intensa a Gabriela, che ricambiò con timido sorriso. Poi si girò, in una specie di coreografia che sembrava essere stata provata più volte, e disse rivolto a Ilda: - Venite, fiorellino?
Ilda divenne prima rossa, poi bianca, verde e nera di rabbia prima di seguirlo con passo pesante, ogni tentativo di apparire femminile gettato al vento. Balder si toccò la cicatrice per assicurarsi che fosse tutto vero, di essere davvero lì, e non vittima di qualche illusione. Per una volta, lo avrebbe preferito.
Sotto il naso gli comparve un piattino di fragole. A porgerglielo era Serena, che lo guardava con affetto e comprensione. - Non sei abituato all'alcol, e hai lo stomaco vuoto. Sono passate cinque ore e trentuno minuti da quando hai mangiato, pertanto...
- Mangio, mangio, va bene - cedette lui, esasperato.
Serena sorrise appena. - Non vorrei che ti andasse subito al cervello.
- Mi ci va il sangue, al cervello, non l'alcol - bofonchiò lui con la bocca piena.
Avrebbe voluto togliersi gli occhiali e accogliere la sua miopia a braccia aperte. Almeno, non avrebbe più cercato Ilda con lo sguardo.
E invece lì tornava, sul suo vestito, sulla sua silhouette... sulla sua vicinanza a Tyr, sulla loro complicità, sul loro gravitare uno attorno all'altra.
Serena scosse la testa toccandogli leggermente la mano, guanto contro guanto.
- Smettila di fissarli, Balder. Lo sai anche tu che non può esserci nulla tra quei due. L'amore a volte rende ciechi.
Questa volta, Balder non trattenne la smorfia, come se avesse masticato una fragola viscida e acida. - L'amore ci fa vedere anche troppo, invece.
- Solo quello che pensiamo di vedere, o che vogliamo vedere.
Balder era troppo nervoso per sopportare paternalismi o perle di saggezza o qualunque altro tentativo di riportarlo alla ragione o farlo stare meglio. Gli capitava molto di rado, data la sua mitezza e la sua innata tranquillità. Ma quando capitava, si odiava per come si comportava.
Fece un verso di scherno, puro sarcasmo ai danni della sorella. - E tu allora? Hai finito di lanciare occhiate al tuo innamorato? Non sei messa molto meglio di me.
Mortificata e ferita, Serena distolse lo sguardo. Era la prima volta che Balder vedeva sul suo volto un tale dolore, come se lui l'avesse appena tradita. E forse lo aveva fatto. Nemmeno con Archibald si era mostrata tanto punta sul vivo. Fece per andarsene, ma Balder la trattenne in fretta per il polso.
- Scusami, scusami, ti prego, non volevo dirlo veramente. Ti prego Serena, scusami. Sono un disastro questa sera, non lasciarmi solo.
Serena non si voltò verso di lui, ma non insisté nemmeno per andarsene. Balder le lasciò il polso sottile e fece scivolare la mano nella sua, stringendogliela. I guanti non impedivano al calore di penetrare, facendoli davvero sentire a contatto.
- Sono... ah, non lo so - sospirò. - Ilda e Tyr si girano intorno come... come due pesci. Lui ha fatto un commento fin troppo chiaro, prima, perciò è il caso che getti la spugna con Ilda. Inoltre Tyr è così... avvenente e socievole, tutti vogliono essere suoi amici. Io sono solo il fratello maggiore troppo studioso e privo di memoria brillante che non riesce nemmeno a capire come sistemare i suoi dannatissimi artigli. Tyr ha successo in tutto, mentre io sono un mediocre che non combina nulla. E per di più inciampo contro il nulla. Tu diventerai il prossimo intendente, una carica che mai era stata ottenuta da una donna, sarai la pioniera di una rivoluzione. Non ti chiedo di capirmi, però non abbandonarmi.
Serena si girò verso di lui, il dolore di prima già svanito. Gli accarezzò una guancia con la mano libera e a Balder venne voglia di piangere. Amava sua sorella con tutto il cuore.
- Se solo tu vedessi in te quello che vediamo tutti noi. Sei incredibile Balder. Dico sul serio. Sei il faro di Tyr. E anche di Ilda. Hai ottenuto tutto con le tue mani, con il tuo cervello, e senza barare come noi. Sei tu il vero fenomeno della famiglia, e sono certa che sarai anche quello che otterrà i risultati più sorprendenti. Tyr e io non facciamo altro che calcare delle orme già impresse sulla sabbia, tu invece hai scelto un percorso non tracciato, farai una vera scoperta, una scoperta tua, e non l'imitazione delle gesta di altri.
Balder chiuse gli occhi, gli girava la testa. Che gli stesse andando in circolo quel mezzo bicchiere di champagne? Certo, per una mammoletta come lui doveva volerci proprio poco per esagerare! Che pena...
- Ci stanno fissando - mormorò invece, a voce appena udibile. Anche Ilda li fissava da lontano, il sorriso era sparito dal suo volto. - Quanto ci scommetti che domani circoleranno notizie circa una nostra relazione incestuosa?
Sorprendentemente, Serena rise per l'assurdità della cosa, invece di esserne turbata. - Almeno per una volta non sarà Archibald a suscitare clamore.
Questa volta anche Balder si unì alla risata. Depositò un bacio sulla sommità della testa della sorella. - Grazie. Tu più di tutti ti meriti il meglio, e un amore vero e privo di problemi, Serena, ma non mi permetterò di criticare la tua scelta. Ho fiducia in te.
Lei gli strinse la mano che ancora era intrecciata alla sua. - Grazie - mormorò. Poi, come solo una persona con una memoria portentosa poteva permettersi di fare, tirò fuori la frase di Balder di pochi minuti prima. - Cosa vuol dire che Tyr e Ilda si girano attorno come dei pesci?
Balder scoppiò a ridere talmente forte che dovette staccarsi da Serena e coprirsi la bocca con la mano. Anche lei strinse le labbra cercando di non ridere a sua volta, e cercando di non guardare per l'ennesima volta dove fosse Archibald. O con chi.
Quando si fu ripreso, sospirò e le sorrise. - Senti, vado a cercare un armadio da qualche parte dove chiudermi al buio per cercare un po' di pace e far passare il mal di testa. E per cercare di tornare ad essere una persona socialmente adeguata. Così saprai dove trovarmi, se la mamma si metterà a cercarmi. E non andatevene senza di me, ricordatelo.
Serena alzò gli occhi al cielo.
- Io non dimentico mai nulla - dissero in contemporanea, imitando il padre.
- Ma perché un armadio? - chiese Serena.
Balder si strinse nelle spalle. - Mi sembra il posto più normale, qui rischi di beccarti qualche fumato dietro ogni angolo che svolti. Nessuno mi importunerebbe in un armadio. Ce ne saranno in giro, no?
Serena scosse la testa, divertita. - Non sarò certo io a metterti i bastoni tra le ruote nella tua ricerca della solitudine.
- Grazie, sorella.
Balder posò le fragole che non si ricordava nemmeno di avere ancora in mano e si allontanò, alla ricerca di un armadio abbastanza grande e possibilmente comodo. Guardò l'orologio che suo papà gli aveva regalato anni addietro e che si toglieva a malapena per dormire, fedele compagno quanto gli occhiali e i guanti, per capire quanto tempo fosse passato e quanto ancora dovesse passarne. Era un atteggiamento stupido, lo sapeva, ma sempre meglio che arrecare danni a sé o alla famiglia con le sue parole o le sue azioni. Era grato a Serena per il suo incoraggiamento, ma non ci credeva.
Così come non si accorgeva degli sguardi incantati che tutte le signore gli lanciavano addosso come carezze lascive mentre passava.
Né che Ilda le guardava tutte con disprezzo.

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Capitolo 57
*** Capitolo 57 ***


Ihihihihihih BOOM.
Non dico altro. Spero che vi piaccia il capitolo, spero che qualcuno rimanga scioccato, anche se non in senso troppo negativo (non insultatemi).
Ci saranno diversi POV in questo capitolo. In particolare, Vittoria cara. Ci tengo a precisare che nella mia ff Vittoria non ha il potere che ha nel terzo e quarto libro, quello di viaggiare (come ho detto in passato, questa storia si dirama dopo la fine del secondo libro e ho iniziato a scriverla quando appunto il 3 e 4 non erano ancora usciti), ma ha una specie di miscuglio di poteri riconducibili solo a uno. Mi sa che vi sto facendo confusione. Va be', spero che capirete leggendo.
E detto ciò, attenzione spoiler, sono un po' scioccobasiti dal legame "amichevole" che si è instaurato tra Serena e Archibald. Be', spero di renderlo così naturale da spingervi a dire: "Ma sai che stanno bene insieme?". Spero. Non è detto che io ci riesca, ma ci proverò.

Buona lettura!

Capitolo 57

Ilda cercò di concentrarsi sui discorsi delle persone che aveva davanti, ma faceva fatica. Aveva la mente altrove.
Le sembrava che una decina di signore appartenenti a clan diversi stessero discutendo con Berenilde la mancanza di tatuaggi di tutti loro giovani. I tatuaggi di appartenenza al clan venivano impressi quando il bambino manifestava il potere che lo accomunava alla propria famiglia, per rendere chiaro al mondo che anche lui ce l'aveva e poteva esercitarlo. Ilda conosceva la risposta, non aveva bisogno di sentire Berenilde riferirla infarcendola di dettagli d'onore come se essere senza tatuaggio fosse una nuova moda.
I suoi amici, i figli dell'intendente e di Ofelia, avevano troppi poteri, era impossibile scegliere per loro un tatuaggio. Le gemelle e Tyr ne erano l'esempio lampante: avevano sia la memoria che gli artigli, quindi che tatuaggio avrebbero dovuto avere? Quello sul braccio come i Draghi o quello degli Storiografi? In più, il loro era un misto di poteri mai visto prima, né su Anima né al Polo, perciò proprio il loro esserne privi serviva a distinguerli dagli altri. Quanto a lei, non le serviva un tatuaggio con gli occhi che rendevano così evidente a quale clan appartenesse, o meglio, fosse appartenuta sua madre. In più, a nessuno in famiglia, né a sua mamma né a suo papà, era mai importato di quelle cose. Anzi, sua mamma le odiava proprio. Ogni volta che usciva l'argomento andava fuori di testa e toccava a suo papà calmarla. Ilda ammirava moltissimo sua mamma, voleva diventare come lei, ma nessuno la capiva bene quanto quel gigante di suo papà. Quando da piccola ne aveva combinava una di troppo, ed era successo spesso, sua mamma l'aveva strigliata, e anche suo papà, ma lui le aveva sempre rivolto una strizzatina d'occhio da complici che mitigava la sfuriata.
Tyr le tirò il vestito per richiamare la sua attenzione, intimandole con una sola occhiata e un sorriso tirato di partecipare alla conversazione. Erano talmente tanto amici da rendere superflua qualsiasi parola: a loro bastava uno sguardo, un gesto o un movimento degli occhi per capirsi. Era così anche con Balder, o meglio, era sempre stato così anche con Balder, finché le cose non avevano iniziato a cambiare per entrambi. A Ilda a volte sembrava che fosse diventato un estraneo. Nonostante la poca differenza d'età, era come se lui avesse spiccato il volo verso la maturità, mentre lei era ancora in un limbo incerto tra infanzia e adolescenza.
Si trovava bene con Tyr, era la persona con cui si sentiva più a suo agio al mondo, un po' come se fosse la sua anima gemella o una versione di sé al maschile, ma allo stesso tempo erano sempre di più le volte in cui lo trovava infantile. Per questioni più serie si rivolgeva a Balder, però tra loro c'era stata una strana tensione negli ultimi mesi, e lei non sapeva dare un nome a quella sensazione.
Anzi, lo sapeva, ma non voleva ammetterlo.
Era impossibile.
Balder era come un fratello per lei, come Tyr. Probabilmente era solo un momento di incertezza, un assestamento dovuto alla crescita. I loro stessi di una volta stavano cambiando, abituandosi ai nuovi corpi che crescevano più velocemente di quanto avessero mai fatto, così come le loro menti.
Sì, doveva essere una transizione naturale, nel giro di poche settimane sarebbe tornato tutto normale. Anche Tyr sarebbe cresciuto e maturato e loro sarebbero tornati ad essere un trio, il Terribile Trio, come suo papà li aveva bonariamente rinominati. Doveva solo avere pazienza, e cercare di tenere unito il gruppo. Magari includere un po' di più Balder che sembrava troppo sulle sue. Ma sarebbe andato tutto bene.
Se ne convinse, e finalmente partecipò alla conversazione, facendo tirare un invisibile sospiro di sollievo a Tyr. Si trattennero per qualche minuto, mentre lei cercava di non ridere per le ragioni sbagliate, come la semplice sottogonna che portava una giovane convinta di indossare l'abito più sontuoso della festa, o il fatto che sul divano su cui si pavoneggiava un cortigiano non avesse un solo cuscino senza buchi. A volte si sentiva privilegiata per il semplice fatto di riuscire a distinguere la realtà e poter ridere delle cose che gli altri ignoravano. Le facevano pena, tutti quanti, ammantati di illusioni per sfuggire alla cruda verità.
Era davvero grata di essere cresciuta con la famiglia dell'intendente, che se non altro, per quanto bizzarra, aveva i piedi per terra e dei buoni princìpi.
Andò tutto bene finché non sentì delle ragazze parlare del ragazzo più bello della serata. Occhialuto, con una cicatrice in fronte, un'aria da intellettuale mista ad un che di misterioso e pericoloso. Alto e ben piazzato, con dei colori insoliti per il Polo, colori scuri.
E riccioli nei quali avrebbero voluto affondare le dita.
Ilda si girò verso le ragazze che ridacchiavano in maniera civettuola, cercando con lo sguardo il ragazzo in questione.
Capì per la prima volta come dovesse essere vedere il mondo attraverso un filtro illusorio, percepire ciò che gli altri volevano che percepisse. Perché all'improvviso non ci vedeva più, una nebbia di rabbia e di qualcos'altro di bruciante le oscurava la vista.
Prese Serena per il braccio, forse con troppa foga. - Dov'è Balder?
Serena la guardò con stupore, poi parve capire. Ilda non aveva un rapporto particolarmente stretto con lei, ma era una tipa a posto. Le piaceva. In quel momento, però, le diede fastidio. Capiva sempre troppo, era troppo intelligente.
- Ha detto che andava a rintanarsi in un armadio per...
Ilda non ascoltò il resto, se ne andò di corsa a cercarlo, pensando al peggio.
 
Serena osservò Ilda andarsene con un sorriso triste stampato in volto. Avrebbe voluto che anche per lei le cose fossero così semplici. Era palese che il fratello e Ilda si piacessero reciprocamente, gli unici a non rendersene conto erano proprio i due interessati.
E Tyr. - Dov'è finita Ilda?
Serena ragionò in fretta mentre ritrovava la naturale compostezza. Lanciò un'occhiata a sua mamma, che sembrava aver capito tutto con un solo sguardo. Il genio di famiglia, per quanto riguardava la matematica almeno, era il padre, ma Serena si era resa conto già da piccola che sua mamma era dotata di un'intelligenza fuori dal normale. Vedeva cose che gli altri nemmeno intuivano, e arrivava alla conclusione di un problema con il suo solo spirito d'osservazione. Per quanto Serena fosse caratterialmente più simile al padre, e lo apprezzasse e amasse moltissimo, era convinta che la madre fosse fin troppo sottovalutata in quanto ad acume.
Ma non da suo padre. Lui era forse l'unico che si rendeva conto di quanto speciale fosse, nonostante la naturale goffaggine di cui portava memoria sin da bambina. O forse, era speciale anche per quello.
Serena non capiva bene i meccanismi che avevano fatto innamorare i genitori, soprattutto data la loro diversità e la natura combinata del loro matrimonio, ma era indubbio che fossero legati a filo doppio, dipendenti l'uno dall'altra in un modo che lei non comprendeva. Come il padre, lei era più portata per la matematica che per i sentimenti e ciò che riguardava l'umanistico, ma le cose le vedeva. Vedeva i genitori.
E si augurava un giorno di poter instaurare lo stesso rapporto con qualcuno.
Il suo occhio finì involontariamente per la sala, alla ricerca di quel qualcuno con cui, nella sua scarsa fantasia da donna di scienze, avrebbe voluto un giorno avere quel legame.
"Ma le probabilità sono tutte contro di te Serena, e sai bene che la matematica non mente. Fantasticare su sogni impossibili non cambierà il risultato, ed esacerberà il tuo malcontento."
Rispose prontamente alla domanda indiscreta posta dalla quinta sorella di Archibald, mentre la sua mente le ricordava tutto l'albero genealogico della famiglia e intanto si finiva il suo discorso, o paternale, personale.
Grazie alla memoria aveva una mente estremamente laboriosa, era in grado di pensare a più cose insieme senza che la sua attenzione venisse meno. A volte si rendeva conto di esagerare, anche se era un potere che veniva esercitato involontariamente. E a volte avrebbe anche voluto spegnerla, la sua mente, per non pensare più. Per non calcolare più, ipotizzare tutti gli scenari possibili a cui un dato comportamento portava.
Serena sospirò impercettibilmente mentre Archibald passava accanto a loro cianciando a gran voce, bicchiere pieno alla mano, e quattro donne, due giovani e due mature, lo seguivano come delle paperelle.
O come delle oche starnazzanti.
Avrebbe tanto voluto Balder al suo fianco, ma si augurava anche che Ilda lo trovasse e che passassero un po' di tempo insieme solo loro due. Dovevano mettere da parte la concezione di essere amici d'infanzia, più simili a fratelli che a uomo e donna, ed essere onesti con loro stessi. Lei di sicuro non avrebbe fatto la spia circa la mancanza di chaperon.
Ma chi voleva prendere in giro, se lei era la prima a mentire a se stessa e agli altri? Ringraziava che sua mamma ancora non avesse intuito cosa provava, perché se le avesse anche solo accennato l'argomento, Serena sapeva che si sarebbe rifugiata tra le sue braccia piangendo come una bambina, chiedendole cosa fare. Non voleva coinvolgere nessuno in quella situazione, era già tanto che lo sapesse Balder.
E poi, non c'era nessuna situazione.
 
Vittoria osservò quel mondo variopinto con occhi sgranati pieni di curiosità. Di fianco a Mamma e a Cugina, parlava poco e captava tutto. Le sembrava di essere invisibile, le persone di quella corte avevano smesso da tanto tempo di cercare di intrattenere una conversazione con lei. Vittoria parlava solo con chi voleva, di quello che voleva, e di solito il "chi" erano Cugina e Mamma. Le piaceva Cugina, era paziente con lei, la capiva in un certo senso. L'altro "chi" era Fidanzato, Tom, l'uomo che amava e che presto avrebbe sposato. Sarebbe diventato Marito. Era contenta di sposare Tom, lui era buono, la amava per quello che era, non sempre la comprendeva, ma l'accettava e le andava incontro.
In più non aveva paura dei suoi disegni. Lui era l'unico a cui li avesse mostrati, nemmeno Cugina e Mamma lo sapevano. Non sapevano che, oltre a disegnare e vedere la vera natura delle persone, a volte Vittoria vedeva e disegnava quello che sarebbero diventate. Il futuro, come diceva Fidanzato. Era il loro segreto, perché lui pensava che lei avrebbe passato dei guai se lo avesse detto o mostrato in giro. Era molto protettivo nei suoi confronti.
Anni prima, Vittoria aveva visto che Cugina sarebbe stata bambina, come aveva visto anche Cugino Moro e Cugino Biondo. Con Cugine Uguali aveva avuto difficoltà perché non capiva mai chi avesse disegnato, non era riuscita a dire a Madrina che aspettava due gemelle. Aveva anche visto Figlio e Figlia, ma di loro non aveva parlato nemmeno a Fidanzato. Era il suo segreto, ci sarebbe stato tempo per dirglielo.
Vittoria aveva più segreti di quanto gli altri immaginassero, e lei era felice di non avere così tanti amici. Sarebbe stato più difficile conservarli con delle persone vicine che le facevano pressione. I suoi segreti erano solo suoi, e lo sarebbero sempre stati, anche dopo aver sposato Fidanzato.
Sorrise, quando si rese conto che uno di quei segreti stava per essere condiviso dai diretti interessati, diventando il loro segreto e non più il suo. Quel disegno era uno dei suoi preferiti, era riuscita a catturare un sentimento profondo ma grezzo, appena sbozzato e mutevole, carico d'intensità e passione. Lo aveva riprodotto con gli acquerelli molti anni prima, quando erano talmente piccoli da non capire chi fossero i soggetti disegnati. Ora lo sapeva, li riconosceva, e decise che avrebbe regalato loro quel disegno una volta che si fosse verificato quello scenario.
Alcuni segreti erano suoi, ma era giunto il momento di condividerne una parte.
 
Balder aveva trovato un armadio vuoto e spazioso nel bel mezzo di un fumé occupato solo da un signore grasso e quasi completamente svenuto. Lo aveva guardato con disgusto prima di infilarsi al buio, capendo per la prima volta come mai il padre avesse sempre quell'espressione severa in volto. Se doveva avere a che fare ogni giorno con persone del genere, anche lui avrebbe indossato una maschera di freddezza piuttosto che di disgusto. Era meno offensiva, la freddezza.
Si trovava lì dentro da diverso tempo, anche se non avrebbe saputo quantificarlo, quando sentì dei lievi passi avvicinarsi. Avrebbe tanto voluto avere la memoria di Serena e di tutti gli altri, in quel momento. Non che di solito non lo desiderasse, era quasi umiliante l'invidia che provava nei confronti di quel dono, ma in quel preciso istante lo avrebbe voluto più che in ogni altro attimo della sua vita. In assenza di luce non poteva controllare l'orologio, e senza riferimenti temporali non era in grado di capire se fossero passati cinque minuti o cinque ore. Magari Serena lo stava cercando per tornare a casa.
Quando la porta dell'armadio venne aperta, pensò che l'ultima congettura fosse corretta. Strizzò gli occhi per l'improvvisa luce, cercando di mettere a fuoco. Ci mise un po' a realizzare che, nonostante i capelli chiari e la fisionomia femminile, quella di fronte a lei non era affatto Serena. Capelli ricci anziché lisci, statura nettamente più bassa, corporatura decisamente più... abbondante, rispetto a Serena.
Balder trattenne a stento un gemito di frustrazione. Ilda si guardò attorno, notò il gozzovigliatore e alzò gli occhi al cielo. Fece per parlare, quando degli altri passi risuonarono nel corridoio. Allora si infilò nell'armadio anche lei richiudendoselo alle spalle.
- Eh-!
Il lamento stupefatto di Balder venne soffocato dalla piccola mano di Ilda, che gliela premette sulla bocca mentre cercava un modo decoroso e comodo di sistemare le gambe.
Quando a Balder sembrò impossibile che ci riuscisse, dato lo spazio che ora, in due, si era fatto decisamente più esiguo, finalmente Ilda si fermò sospirando, e librandogli la bocca.
- Si può sapere cosa ci fate qui?! - sibilò, con voce abbastanza bassa da non essere sentito all'esterno.
Ilda gli scoccò un'occhiataccia che si perse nel buio. Per una volta, con o senza occhiali non avrebbe visto ugualmente. - Siamo solo noi due qui, non serve che mi dai del voi.
Resosi conto che in effetti erano solo loro due in uno spazio ristretto, Balder avvampò, ringraziando l'assenza di luce. A quanto pareva i problemi trovavano sempre la persona giusta da tormentare, visto che Ilda era proprio il problema da cui aveva codardamente cercato di fuggire.
- E comunque, - riprese Ilda, bisbigliando, - sei tu a dovermi dire cosa ci fai qui! Sei stato strano tutta la sera. Che c'è, ti sei preso una sbandata per qualcuno?
Che domanda indelicata. Balder si sentiva andare a fuoco. Aveva fatto di tutto per starle lontano da lei, che quella sera splendeva come l'oro ramato dei suoi capelli, più fulgida di una stella, e lo seguiva ovunque per torturarlo.
- Macché - le rispose, scocciato. - Mi dà solo fastidio... - "che tu e mio fratello siate sempre così appiccicati e che lui conosca dettagli così intimi, fisicamente intimi, di te", - tutto.
Ilda grugnì. A dispetto dell'apparenza incredibilmente femminile, quella sera, rimaneva la stessa Ilda un pochino selvatica di sempre. Era la cosa che più amava di lei, la sua naturalezza, il fatto che non fosse artefatta. Tutti lo erano, un po’, ma lei no. Lei mai. Non ne aveva bisogno, non cercava l'approvazione di nessuno, in quella corte di ipocriti.
- Non hai tutti i torti - mugugnò lei, sistemando le gambe un po' troppo vicine a quelle di Balder.
- Occhio a dove metti i piedi - la ammonì lui, allontanandosi per quanto possibile.
Ilda sbuffò una risata. - Tanto mica ti serve adesso, e nemmeno nell'immediato futuro.
Quei commenti fra i denti, invece, il genere di commenti che avrebbe potuto fare con suo fratello che era un maschio, lo mettevano sempre a disagio. Come doveva comportarsi con lei? Prima era stato tutto così semplice, invece da un po' di tempo a quella parte sembrava tutto incredibilmente difficile. Cosa ci si aspettava da lui, cosa da lei, quello che avrebbero dovuto dire e mostrare. Si disse che doveva solo essere onesto con Ilda, com'era sempre stato, ma non capiva più dove fosse il confine tra l'amicizia e il sentimento più... complesso che provava. Decise di risponderle come avrebbe fatto in altre circostanze. O almeno sperò che fosse così.
- Si dà il caso che faccia parecchio male, e non sono un masochista.
Ilda non ribatté, stranamente. Le piaceva avere l'ultima parola.
Dopo un silenzio confortevole, cambiò discorso. - Davvero non hai adocchiato nessuna?
- Perché me lo chiedi?
La sentì stringersi nelle spalle, era come se un movimento appartenesse ad entrambi. - Non so, è pieno di belle ragazze qui. Molte non sono nemmeno tanto... aiutate, hai presente?
Non erano così piene di illusioni o di trucco, intendeva dire. Era l'ultima cosa che Balder avrebbe guardato quella sera, a dire il vero.
- Non mi interessano granché, sinceramente.
- Le ragazze in generale o solo quelle di questa sera? - chiese Ilda precipitosamente, con una certa paura nella voce.
A Balder quasi scappò da ridere, invece sospirò. - Le ragazze di questa sera! Sono... ho... ho già visto la ragazza che volevo vedere. Ma sembra che lei non mi veda come al solito, presa com'è da... quell'altro.
Balder si morse la lingua per costringersi al silenzio. Cosa stava dicendo di fronte a Ilda?! La gelosia lo stava corrodendo, e non gli piaceva. Non era corretto né nei confronti di Ilda, né di suo fratello.
Dal canto suo, Ilda non se la passava molto meglio. Avrebbe quasi preferito sentire Balder dire che non era interessato alle ragazze piuttosto che scoprire che era già interessato ad una ragazza. Ma a chi? Le uniche occasioni in cui avevano socializzato erano state al parco, qualche anno prima, quando si erano ritrovati a giocare con gli altri bambini. Ma ragazze ce n'erano state poche, e di sicuro non le avevano conosciute così bene da capire a chi piacesse chi. Di chi stava parlando Balder? Sentì montare la rabbia, e un senso di possessione che spaventò persino lei per l'impeto con cui si manifestò.
Non aveva mai provato una cosa simile quando Tyr commentava le altre ragazze. Anzi, lei si divertiva a dargli corda. Con Balder, invece, aveva la gola secca.
Sentì il suo corpo muoversi prima che il suo cervello potesse formulare un pensiero. Si ritrovò in ginocchio tra le gambe di Balder, lo sentì irrigidirsi e il respiro gli si mozzò in gola. Peccato, le sarebbe piaciuto condividerlo con lui, inalare la stessa aria.
Incerta su come usare le braccia, si puntellò con le mani sul fondo dell'armadio mentre annullava quella misera distanza posando le labbra sulle sue. Si rese conto solo dopo che, al buio, il rischio di mancarlo e baciargli il mento o il naso era altissimo, così come quello di fare una figuraccia. Per fortuna non accadde.
Ma Balder nemmeno rispose. Continuava a non respirare.
Ilda si mosse maldestramente, però non sapeva cosa stesse facendo e alla fine si staccò. Senza che lui la vedesse, si leccò le labbra. - Hai mangiato fragole?
Balder ritrovò il respiro all'improvviso, affannoso e spezzato, ma almeno respirava. Non fece quasi caso alla domanda ambigua di Ilda, preoccupato com'era di capire se l'incendio che avvertiva era solo sottopelle o se c'era un vero fuoco lì, in quella stanza. Quando avvertì il profumo delicato di Ilda, però, e il suo fiato caldo che sapeva di crema (amava i dolci alla crema), capì che non stavano per morire arsi vivi.
Solo lui rischiava l'autocombustione. Avvenne tutto talmente in fretta che Ilda non fece nemmeno in tempo a registrare il suo ritardo nella risposta. A dispetto della passività di prima, in barba ai sentimenti di chiunque, le prese il viso tra le mani, aggiustando la presa al buio, e se la tirò contro, facendo scontrare di nuovo le loro labbra. Ilda dovette appoggiarsi al suo petto per sostenersi, e quando capì cosa stava toccando aprì bene le dita per sentire appieno i muscoli che stava sfortunatamente accarezzando. Represse a stento un mugolio. Balder invece avrebbe desiderato così tanto togliersi i guanti, sentire i serici capelli di Ilda attorcigliarsi alle sue dita nude, ma non osava muoversi per timore che la magia si spezzasse e il bacio si interrompesse. Non gli importava nemmeno degli occhiali, che per via dell'impeto si erano storti premendogli il bordo contro la cicatrice sulla fronte. Sapeva che poi sarebbero stati offesi e di pessimo umore per tutta la sera, le lenti grigie in segno di protesta, ma non gli interessava neanche quello. Erano molto suscettibili.
L'unica cosa che voleva era che il tempo si prolungasse all'infinito mentre le mani di Ilda lo accarezzavano, per poi stringersi sulla sua camicia, aggrapparsi a lui. Che la stropicciasse pure, fosse stato per lui se la sarebbe tolta come i guanti. Non fu decisamente come il bacio precedente, statico e impacciato. Impararono in pochi attimi come muoversi, come inclinare il viso, come adattare le loro bocche. Come assaggiarsi, quando Ilda gli passò la lingua sul labbro inferiore in cerca di quel sentore di fragole che Balder aveva mangiato. Il contatto lo fece gemere, ma non se ne vergognò e Ilda non si fermò, decisamente non infastidita.
Fece scivolare le mani verso l'alto, infilandogliele tra i capelli folti e ricci, stringendoglieli tra i pugni, possessiva. Stava baciando il ragazzo più bello di quella sera e lui non si stava tirando indietro. Il ragazzo più bello che avesse mai visto, a dire il vero. In quel momento era come se fosse suo.
Balder invece fece il contrario, dai capelli fece scivolare una mano sul suo collo, cercando di rallentare il bacio e renderlo meno bramoso, più dolce, e le posò l'altra sul fianco, delicatamente.
Ilda avrebbe fatto qualsiasi cosa lui avesse chiesto, finché l'avesse toccata così.
Balder aveva la bocca ad un soffio dal suo collo quando udirono la voce di Tyr. Li stava chiamando per i corridoi, interrompendosi solo per salutare qualcuno. Faceva una tale confusione, quel ragazzo. Per fortuna, altrimenti non l'avrebbero sentito entrare nel fumé. Rimasero immobili, raggelati, senza nemmeno cercare di separarsi. Essere beccati in quell'atteggiamento sarebbe stato più che imbarazzante, ma sarebbe stato anche peggio farsi scoprire nel tentativo di separarsi, cosa che non avrebbe affatto mascherato il rossore sui loro visi e i capelli scarmigliati.
Tyr uscì sbuffando, chiudendosi sonoramente la porta alle spalle. Ilda sperò solo che l'ubriacone mezzo svenuto dentro quella stanza fosse davvero mezzo svenuto, e che continuasse ad esserlo.
Quando capirono di essere al sicuro, si rilassarono contemporaneamente, ancora stretti l'uno all'altra. Sfruttando l'ultimo briciolo di coraggio che aveva in corpo, prima di vergognarsi, o pentirsi, o rimuginare, o maledirsi, Balder le diede un bacio sul collo, inspirando a pieni polmoni il suo profumo. Ilda trasalì.
Quei pochi minuti chiusi nell'armadio erano stati i più belli della loro vita. Ed erano gli unici a non averlo ancora capito.
Ilda si affrettò a scostarsi, e dai movimenti invisibili Balder intuì che si stesse sistemando i capelli e il vestito.
Prese un profondo respiro. - Esco prima io, ci vediamo dopo.
Balder vide per un attimo la luce quando Ilda uscì, poi sentì la porta della stanza aprirsi e chiudersi e infine lei che chiamava Tyr.
Registrò la parola "accaldata" del fratello e la risposta evasiva, "ti stavo cercando anche io", di Ilda. Sbatté con forza la nuca sul legno, volontariamente.
Cosa aveva fatto? Con che coraggio avrebbe guardato in viso Ilda, e suo fratello, dopo quel... quel...
Be', Tyr non sembrava interessato a Ilda a dire il vero. Con lui commentava spesso le ragazze che c'erano in giro, ma se Balder avesse scoperto che lo faceva nonostante gli piacesse Ilda, gli avrebbe spaccato il naso. Se si piacevano reciprocamente, come temeva, non si sarebbe messo in mezzo per amor loro, ma non avrebbe permesso al fratello di ferirla o essere scorretto. Quella su cui aveva più dubbi era Ilda. O meglio, non aveva avuto dubbi sul suo amore per il fratello... prima di quel momento. Perché aveva baciato lui, se le piaceva Tyr?
Balder sospirò uscendo dall'armadio. I libri, lo studio, erano immensamente più facili. Quella roba era... contorta.
Sussultò quando, appena richiusa l'anta dell'armadio, si ritrovò di fronte Vittoria. La cugina gli arrivava appena sotto gli occhi, aveva preso l'altezza di Faruk, un po' come Serena quella di Thorn, ma tra i due sembrava lei quella che lo sovrastava. Lo guardò con un sorriso enigmatico e appena accennato, come se sapesse una cosa che lui ignorava. Con sua sorpresa gli sistemò gli occhiali sghembi, gli passò le mani delicate tra i capelli, e gli lisciò la camicia. Poi gli accarezzò il viso e uscì.
Quello, più di tutto, più dei sentimenti ingarbugliati e dei baci, del battito febbrile del suo cuore, lo colpì come un colpo di artigli.
Vittoria sapeva.
 
Balder tornò nel salone principale quasi di corsa, guardandosi attorno come un animale braccato in cerca di fuga.
Intercettò subito Serena e sua mamma, intente a scrutarlo con apprensione, ma non con delusione. Vittoria doveva averlo sistemato bene perché non sorgessero sospetti. Ilda e Tyr erano dall'altra parte, a parlare con un gruppo di ragazzi. Suo papà e la zia Berenilde confabulavano con dei cortigiani rubicondi dall'espressione arcigna, simile, ma meno d'effetto, rispetto a quella del padre, che era imbattibile in quanto a severità. Nonostante i sedici anni, Balder aveva ancora timore quando veniva sgridato da lui. Non alzava mai la voce, non serviva: bastava quello sguardo penetrante, affilato come la lama di un coltello, per mettere in soggezione. Per fortuna lui non veniva ripreso spesso, al contrario di Tyr. Ma Balder amava Thorn, e sapeva di essere ricambiato, come gli altri, anche se il padre non era molto espansivo. Aveva imparato a capirlo sul serio solo quando la mamma gli aveva raccontato della sua infanzia, tramite la lettura involontaria di un dado a lui appartenente. Dopo aver scoperto come il padre era cresciuto, Balder aveva iniziato a volergli ancora più bene: nonostante i pessimi esempi che aveva avuto, era un ottimo genitore, ed era sempre stato presente in ogni ambito o in ogni occasione in cui loro ne avessero avuto bisogno.
In più, non doveva essere facile avere a che fare con persone irragionevoli tutti i giorni, non era una sorpresa che Thorn avesse la fronte piena di rughe per via del costante cipiglio contrariato.
Balder si avvicinò alla madre e alla sorella dopo aver preso un profondo respiro, cercando di apparire normale. Dovette usare ogni briciolo di autocontrollo per non lanciare occhiate costanti a Ilda, sia per guardarla che per verificare se anche lei lo stesse guardando. Vide sua mamma lanciare occhiate ad un gruppo di ragazze poco distanti, e sorridere per una cosa che sapeva solo lei.
- Avvisaci la prossima volta che decidi di sparire, per favore.
- Scusate, mamma, avevo informato Serena che...
- Informa anche i tuoi genitori - gli raccomandò lei gentilmente.
Sua mamma era buona, sopperiva a tutte le mancanze del padre per quanto riguardava le dimostrazioni affettive, ma non era da sottovalutare in quanto a fermezza. Dietro l'aspetto quasi fragile, piccola e magra com'era, era un vero osso duro, che non si spezzava di fronte a nulla.
E aveva uno spirito d'osservazione fin troppo spiccato. - Hai fatto nuove conoscenze o... approfondito quelle vecchie? - gli chiese a bruciapelo, lanciando uno sguardo a Ilda.
Balder si sentì avvampare, cosa che fece sorridere entrambe le donne.
Mortificato, Balder guardò male la sorella. - Hai...
- Serena non mi ha detto nulla, Balder, è una cosa abbastanza evidente. Sei come tuo padre, ma lui l'ho capito dopo diversi anni. Se mi fossi resa conto prima di certe cose, avremmo guadagnato molto, molto tempo.
A Balder non sfuggì la veloce occhiata che il padre lanciò alla madre, come per accertarsi che ci fosse e che stesse bene. Ancora faceva fatica a comprendere il loro rapporto, diversi com'erano, ma sembravano incastrarsi alla perfezione e Thorn era molto protettivo nei suoi confronti. E possessivo.
- Ho solo... fatto un giro. Nessun... approfondimento.
Ofelia gli lisciò la camicia, sotto la giacca, lì dove Ilda l'aveva afferrata. Non era un gesto casuale, non da parte di sua madre. Poi inchiodò gli occhi ai suoi. C'erano quattro lenti a separare i loro sguardi, ma Balder sentì quello della madre scavargli nell'anima.
- Non sei mai stato bravo a dire bugie - disse lei con affetto. Poi diventò d'un tratto seria. - Ma sono tua madre, ed è mio compito metterti in guardia. Vedete di non spingervi troppo oltre, io e tuo padre vi abbiamo cresciuti con dei princìpi che ci aspettiamo che rispettiate. Non si è mai troppo giovani per amare, ma spesso si è troppo giovani per distinguere e saper capire i propri veri sentimenti. Non costringermi a mettervi la zia Roseline come chaperon alle calcagna.
Balder scosse la testa. - Non succederà, mamma. Non ci sono pericoli.
Ofelia lanciò un'occhiata d'intesa a Serena. - Io credo che gli unici a non rendersi conto dei pericoli siate proprio voi due.
Balder aggrottò le sopracciglia. - Cosa volete di...?
Un certo trambusto però lo interruppe, e tutti e tre si girarono verso la fonte del rumore. Il gruppetto di Tyr e Ilda era particolarmente animato e gioviale, all'apparenza. Ma a Balder non sfuggì l'espressione accigliata di Tyr, né la tensione del suo corpo. Così come non perse la punta di fastidio sul viso di corrucciato di Ilda.
Un Invisibile, un membro del clan per cui suo padre aveva perorato la causa di riabilitazione diversi anni prima (così gli aveva insegnato Renold studiando storia), si divertiva ad apparire, scomparire e riapparire all'improvviso attorno a Ilda.
- Non mi va di ballare con voi, ho detto - ripeté Ilda con rabbia appena controllata.
L'Invisibile si mise però a ridacchiare e non fermò il suo giochetto molesto. Balder sentì salirgli il sangue alla testa quando vide, tra un'apparizione e l'altra, una mano posata sul fianco di Ilda, poi il viso del ragazzo fin troppo vicino al suo collo, il corpo di Ilda rigido e sulla difensiva.
Balder sapeva che Tyr non interveniva perché Ilda era più che capace di sistemare da sola le sue faccende. Altroché se ne era capace! Balder sentiva ancora i suoi pugni ben assestati, quelle volte che lui o il fratello si erano permessi di proteggerla come se fosse una damigella in pericolo. Tyr stava facendo la cosa giusta.
Ma Tyr non era innamorato di lei.
Tyr non stava guardando la scena con gli occhi di Balder, gli occhi di chi, fino a pochi minuti prima, aveva posato la bocca sul collo morbido della ragazza, la mano sul suo fianco, con rispetto, con amore, e non con l'arroganza di quel maleducato. Come si permetteva...
Quando Ilda alla fine gonfiò il petto per fronteggiarlo, nel tentativo di guadagnare un po' d'altezza e di robustezza, l'Invisibile fece traboccare la goccia dal vaso già pieno di Balder: le fissò la scollatura generosa con un sorrisino malizioso, quasi sfiorandogliela quando allungò una mano per toccarle un ricciolo dorato che probabilmente lei non era riuscita a rimettere ordinatamente nell'acconciatura.
- Balder... - lo ammonì Ofelia, ma lui era sordo.
Si ritrovò alle spalle del ragazzo in poche falcate, e gli picchiettò una spalla per attirare la sua attenzione.
Quando l'Invisibile si voltò, dovette fare un passo indietro per riuscire a guardarlo in volto. Balder lo vide deglutire, e ringraziò la sua altezza fuori dal normale che gli faceva guadagnare in soggezione quello che non aveva in robustezza. Ma il ragazzo si riprese subito, alzando il mento in maniera strafottente.
- Vi serve qualcosa, spilungone?
Balder non batté nemmeno ciglio, si rifiutò di guardare l'occhiata preoccupata di Ilda, che era stata allontanata di qualche passo da Tyr.
- Sì, che la smettiate di infastidire la mia amica - disse Balder con garbo, e con tutta l'algida autorità che solo un fratello maggiore e il figlio dell'intendente poteva avere.
L'Invisibile sbuffò, sul volto un'espressione che Balder poteva solo definire "da schiaffi". - Penso che la vostra amica possa dirmelo da sola, se gradisce o no le mie attenzioni.
Balder avanzò di un passo, guardandolo dall'alto. Lo trafisse con gli occhi, come se volesse usare lo sguardo come deterrente e inculcargli un po' d'educazione con una sola occhiata. - Penso che la mia amica ve l'abbia detto da sola, che non gradisce le vostre attenzioni. Linguaggio verbale, paraverbale, non verbale, non siete in grado di coglierli? Tono di voce, espressioni, gestualità corporea... In tutta franchezza, forse siete solo troppo ottuso per coglierli. Con tutto rispetto.
Lo sguardo dell'Invisibile perse ogni traccia di divertita malizia, infiammato dall'odio che solo un'offesa poteva far divampare. - In tutta franchezza, non me ne frega nulla se mi dice di no. Quella lì è un bel pezzo di ragazza, si vede che con un po' di insistenza ci starebbe. Le sciacquette come lei ci stanno sempre. E poi non ha un clan influente, non c'è nessun rischio di ripercussione se...
- Le ripercussioni ci sono sempre - lo interruppe Balder prima che la testa dell'Invisibile schizzasse all'indietro, un fiotto di sangue che gli colava dal naso.
L'urlo soffocato di Ilda richiamò l'attenzione di quasi tutta la sala, ma ormai era troppo tardi.
Sordo al trambusto, alle suppliche del fratello e di Ilda, al suo nome che veniva chiamato a gran voce da ogni angolo, Balder si isolò in una bolla di sangue e artigli, il richiamo della violenza che gli ruggiva nelle orecchie.
Balder strinse i pugni, immobile come una statua, e si sentì disgustosamente appagato quando vide la sofferenza sul volto dell'Invisibile. Il ragazzo si afferrò il ginocchio gemendo per la sorpresa e il dolore improvviso, inginocchiandosi sulla gamba sana. Balder voleva vederlo prostrato, voleva vederlo supplicare, voleva che non si avvicinasse mai più a Ilda, mai più...
L'ultimo colpo prima che Tyr intervenisse colpì l'Invisibile in pieno petto, facendolo cadere di schiena. Poi Balder venne trascinato indietro dal fratello, che lo placcò come quando giocavano insieme da piccoli. Solo che questa volta Tyr non lo fece cadere.
E non stavano giocando.
Nonostante l'intervento del fratello e la distanza che stava ponendo tra lui e l'avversario, Balder riuscì a sferrare un altro colpo, più blando, al braccio del ragazzo.
Non c'erano catene o gabbie che potessero limitare l'assalto degli artigli. Non serviva toccare l'avversario, né usare qualche parte del corpo, era solo una proiezione dei nervi. Era un potere subdolo, un attacco da codardi che fluiva sottopelle. Era impari.
Ed era pericoloso, specialmente se si perdeva il controllo. Nessuno poteva cercare di bloccarlo senza rimanere ferito. Nessuno poteva disinnescarli o mitigarli.
- Smettila! Ma che diavolo ti è preso?! - gli sibilò Tyr all'orecchio, costringendolo ad indietreggiare mentre lo strattonava per cercare di farlo tornare in sé. - Nemmeno io farei mai un colpo di testa del genere! Hai bevuto?!
Ilda ne approfittò per andarsene in fretta, mentre attorno all'Invisibile arrivavano altri membri del suo clan a porgere aiuto. La ragazza si rifugiò vicino a Ofelia e Serena lanciando appena un'occhiata a Balder.
Un'occhiata di paura, l'unica cosa in grado di farlo rinsavire.
La maschera di odio cadde mentre Balder tornava il ragazzo buono e timido di sempre, sostituita dall'orrore quando vide il sangue provocato dagli artigli, il disastro che aveva combinato, la violenza che aveva scatenato.
Cosa gli era preso?
La stessa domanda balenò negli occhi di Thorn quando gli svettò davanti. Suo padre era l'unico che poteva ancora riuscire a guardarlo dall'alto in basso, e Balder si sentì piccolo come mai prima di allora. Gli veniva da piangere.
Era sempre stato difficile decifrare le espressioni del padre, imperscrutabile com'era, ma per una volta fu facile. Fin troppo, dolorosamente facile: negli occhi di Thorn albergava solo delusione. Una delusione così profonda da trasparire dai suoi occhi di metallo. Distolse lo sguardo solo un attimo per posarlo su una donna vestita di rosso che era apparsa accanto al ragazzo ferito. La donna cercò Thorn, gli occhi dallo sguardo duro come diamante, e i due parvero quasi scambiarsi un cenno d'intesa, come se si conoscessero.
Poi Thorn riportò l'attenzione su di lui. - Vai a casa con tua madre e i tuoi fratelli. Ora.
Le ultime cose che Balder ricordò con chiarezza, prima che tutto diventasse confuso e indistinto, furono la presa ferrea di Tyr che lo trascinava via, la sua sciarpa avvinghiata al braccio per dare aiuto al possessore, e l'espressione preoccupata di Ofelia.
Ilda non lo guardò nemmeno.

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Capitolo 58
*** Capitolo 58 ***


Un capitolo denso di dialoghi che spero troverete interessanti. Si sviluppa anche qualche rapporto, spero che apprezzerete.
Il resto deve ancora venire, portate pazienza.
E grazie per l'assiduità <3


Capitolo 58

Una volta giunti a casa, a notte inoltrata, nessuno si azzardò a parlare. Ofelia era l'unica adulta, dal momento che Thorn, Berenilde e la zia Roseline erano rimasti a corte a cercare di ripulire il polverone che si sarebbe sollevato in seguito a... all'incidente, se così lo si poteva chiamare. Ofelia non voleva chiamarlo attacco.
- Credo che dovreste andare tutti a dormire - mormorò con voce flebile, ma non priva di autorità. - Domani avremo tutti la mente più lucida per... per quando Thorn ci riferirà gli ultimi sviluppi.
Era l'adulta, sì, ma era talmente sconvolta da non sentirsi tale nemmeno un po'. Come al solito, nonostante non fosse più una ragazzina, ancora le parole le si incastravano in gola quando le emozioni da esprimere erano troppe.
Serena esitò, poi però prevalse la figlia obbediente che era in lei e augurò la buonanotte a tutti, incamminandosi verso la camera dove le gemelle già dormivano. Balder si accasciò sul divano, svuotato di ogni energia. - Lo aspetto qui, mamma. Non penso che sarò in grado di dormire.
Ofelia sospirò. - Cambiati almeno. Vado a prenderti una coperta.
Prima di andarsene lanciò un'occhiata a Ilda e Tyr, una ferma con i pugni serrati, l'altro incerto su come comportarsi. Ofelia sperava solo che non litigassero a volume troppo elevato. Non sapeva se ciò che stava facendo fosse corretto, se fosse giusto lasciarli risolvere da soli i loro problemi, ma di una cosa era certa: intromettersi non sempre era la mossa giusta, anche quando si era spinti da buone intenzioni. Lei aveva passato una vita ad essere oppressa dalla madre che decideva tutto per lei, spingendola al punto di ribellarsi pur di avere un minimo di controllo sulla sua vita. Non voleva che i suoi figli passassero lo stesso, che credessero che opporsi ai genitori fosse l'unico modo per avere un po' di libertà, o che la ritenessero oppressiva. In tal caso, lei e Thorn avrebbero perso ogni possibilità di vedersi raccontare volontariamente dai figli i loro fatti.
Ilda attese un intero minuto prima di sbottare: - Ma sei impazzito?! Cosa diavolo ti è preso?
Balder non ebbe nemmeno le energie per balzare in piedi e rispondere a tono. E non ne aveva il diritto, dopo quello che aveva combinato. - Ti stava molestando.
- Pensi che non sia in grado di difendermi da sola? Credevo che mi conoscessi, Balder! Non posso credere che tu abbia fatto una scenata del genere solo perché uno stupido mi ha fissato le tette!
Balder si irrigidì, Tyr rimase in disparte, una montagna immobile.
- Non l'ho aggredito per questo. Non solo, almeno. Pensavo fossi in pericolo.
Ilda era furente, ogni traccia di quel sentimento che era affiorato quando erano da soli nell'armadio era completamente sparito, soppiantato da qualcosa più simile al disprezzo che all'affetto. Balder si chiese se quei minuti che avevano condiviso fossero davvero esistiti, se Ilda li ricordasse, o se fossero stati cancellati in un'unica volta per colpa sua.
- Stavo per infilzargli il piede con un tacco! - lo informò lei. - E sai bene quanto male fa un pugno ben assestato nello stomaco, e quanto sono brava a tirarli. Non se ne sarebbe accorto nessuno, e lui se ne sarebbe andato con la coda tra le gambe. Lo sai che non sono debole, quindi non farmi apparire come tale! Rimaniamo solo io e mio fratello a portare il nome del clan dei Nichilisti, se appariamo bisognosi di protezione la corte non ci metterà un secondo a schiacciarci sotto la scarpa come dei vermi! E spera che quell'idiota non cerchi vendetta, perché combattere contro un gruppo di Invisibili non dev'essere divertente.
Balder raddrizzò la schiena. - Pensavo che a tua madre non importasse degli intrighi di corte, della considerazione dei cortigiani e del potere.
Ilda si premette le mani sulle tempie, cercando di trattenersi, di non urlare. Imprecò quando cadde la prima lacrima, incandescente e salata come la rabbia che l'aveva fatta tracimare. Ilda odiava piangere, lo aveva confessato una volta, quando erano più piccoli e avevano giocato a obbligo o verità. Si sentiva troppo vulnerabile quando piangeva. Balder ricordava di averla vista piangere solo una volta, quando aveva per sbaglio fatto cadere il fratellino che aveva presto una botta molto forte in testa. Si era presa paura per l'espressione serissima del padre, che invece lei aveva sempre visto sdrammatizzare qualunque situazione, e aveva capito che la faccenda era grave. Per fortuna Randolf non si era fatto nulla se non un brutto bernoccolo, ma lei ne era rimasta molto scossa.
Vederla piangere in quel momento, per colpa sua oltretutto, fece a Balder l'effetto di una doccia gelida. Tyr le mise una mano sulla spalla, ma lei se la scrollò di dosso con ira.
- Ovvio che non gliene importa nulla, ma proprio per questo ci tiene a fare bella figura e mantenere un certo nome! Ha paura per me e mio fratello, e per lei, che possa succedere quello che è successo quando era piccola e le hanno sterminato la famiglia. Apparire forti fungerebbe almeno in parte da deterrente, come una protezione!
- Anche avere amici forti potrebbe essere un deterrente. Come un'alleanza - disse intelligentemente Tyr, dato che Balder non avrebbe ribattuto nemmeno sotto tortura.
Ilda scosse la testa, come se una mosca le ronzasse tra i capelli. - Non è come ottenere qualcosa con le proprie forze. Il danno ormai è fatto.
Si mosse per uscire dal salotto e andare a casa, ma prima di attraversare la porta si voltò e puntò un indice contro Balder, che non ebbe nemmeno la prontezza di abbassare lo sguardo e la fissò come un topolino ipnotizzato da un serpente. - La prossima volta, perché ci sarà una prossima volta, vedi di stare al tuo posto.
Quando uscì, Tyr si passò una mano tra i capelli pallidi, pettinati allo stesso modo di Thorn. - L'hai fatta grossa, fratello.
Balder gli lanciò un'occhiata di fuoco. Come se non lo sapesse. Come se oltretutto in parte non fosse colpa sua, della sua relazione con Ilda, di qualunque natura fosse. Si rese conto con rammarico che quella sua infatuazione stava logorando il rapporto con il fratello, ma non sapeva come fare per evitarlo o rimediare.
Tyr si stravaccò accanto a lui, dandogli un colpetto sulla gamba con il ginocchio. Gli passò un braccio attorno alle spalle, imitato dalla sciarpa che si sdraiò sulle loro schiene. - Certo che per essere un topo di biblioteca, quando vuoi sai tirare fuori gli attributi e farti sentire. Sei proprio un duro, Balder.
Balder perse anche la forza di guardarlo male. Aveva paura delle sue reazioni. - Sai qual è la cosa che mi fa sentire peggio in tutto ciò?
Tyr sapeva che era una domanda retorica, ma tentò lo stesso: - L'aver ferito emotivamente Ilda? L'aver attaccato fisicamente un ragazzo? La reputazione che ti sei fatto? L'articolo del Nibelungen che uscirà domani? Lo sguardo di papà quando...
- Tyr! - lo interruppe Balder, esasperato. - Non mi aiuti così!
Tyr cercò di trattenere un sorriso, ma non ci riuscì. Rafforzò la stretta sulle spalle del fratello. - Scusami, scusami. Solo che, sai, per una volta è bello non essere il responsabile di qualche malanno. Ho sempre pensato che fossi perfetto, irraggiungibile, invece sei umano come me, come tutti.
Dimenticando per un attimo ciò che voleva dire, Balder puntò gli occhiali verso il viso del fratello. Tyr era testardo, era confusionario, spesso era disobbediente e un sacco di altre cose negative, ma era la persona più leale e protettiva che Balder conoscesse, e amava davvero le sue sorelle e i genitori, anche il padre, sebbene riuscisse a dimostrarlo solo in modi bizzarri. Una cosa, però, di certo non era: insicuro. Aveva avuto determinazione e coscienza di sé, sicurezza, fin da neonato, e poi da bambino, quando cercava di imporre il suo volere agli altri e non ascoltava nessuno, a parte Ilda e ogni tanto lui. Scoprire che per tutto quel tempo aveva sempre pensato che lui fosse perfetto lo sconvolse, e si rese conto che non si poteva mai conoscere davvero, del tutto, una persona.
- Io sono tutt'altro che perfetto! Come puoi aver anche solo pensato una cosa del genere?
Tyr si strinse nelle spalle. - Sei sempre stato bello e bravo in tutto. Ottimi voti nonostante non avessi la nostra memoria, sei un lettore abile quanto Serena, se non di più, tanto che la mamma ogni tanto ti chiede una seconda opinione sulle sue perizie, ti capisci al volo con papà, sai fare da mediatore quando gli animi si infiammano, ti adorano tutti, tutti Balder. Sei il figlio che tutti vorrebbero. E non posso odiarti, perché sei anche il fratello perfetto e io sono orgoglioso di essere il minore e di avere un modello come te. Quindi perdonami se scoprire che sei vulnerabile e soggetto come noi all'influsso di queste terribili cose chiamate sentimenti umani in un certo senso mi dà sollievo.
Balder sospirò. Lui e Tyr si volevano bene, avevano un legame d'amicizia oltre che fraterno, qualcosa che difficilmente si sarebbe spezzato, ma non pensava che avesse una tale stima di lui. Malriposta, oltretutto.
- Come ho già detto, sono tutt'altro che perfetto. Guarda che cos'ho combinato questa sera. Di sicuro quest'incidente batte diverse delle tue imprese più gravi.
Tyr ridacchiò. - Sì, devo darti ragione. Sei più bravo di me persino in questo!
Un sorriso sfuggì, suo malgrado, dalle labbra di Balder. - Se fossi perfetto, avrei già trovato il modo di rendere inoffensivi gli artigli, di neutralizzarli o di usarli a fin di bene. Invece guardami. Mesi, anni che studio, e non ho cavato un ragno dal buco. Nessun passo avanti. Serena tra poco diventerà intendente, tu l'anno prossimo parteciperai alla tua prima caccia, e diventerai il migliore nella storia della famiglia, ne sono certo, e io sono ancora al punto di partenza. Mi sembro molto mediocre, sinceramente, non perfetto.
Tyr si alzò, stiracchiandosi. La sua sciarpa, teatrale come al solito, fece un salto per formare un ulteriore giro intorno al collo del padrone, come per dargli importanza. - Io non sono un granché come incoraggiatore, Balder. Quindi non so se riuscirò a farti capire quello che intendo dire, ma... Serena ha un percorso prestabilito davanti. Qualcosa che chiunque può fare. Anche io, sto solo seguendo delle orme già tracciate da moltissimi prima di me, orme di famiglia, di persone che hanno fatto le stesse cose per decenni, forse secoli. Non c'è nulla di nuovo in questo. Ma tu, quando riuscirai nel tuo intento, perché ci riuscirai, sarai il più grande di tutti. Avrai scoperto qualcosa di nuovo, avrai sovvertito l'ordine di quello che si credeva immutabile, e votato solo alla violenza. Passerai alla storia, Balder, e io sarà al tuo fianco, orgoglioso di essere tuo fratello. E ovviamente, dovrai insegnarmelo. Non ho ancora capito cosa intendi fare, ad essere onesto, ma qualsiasi cosa sia, ce la farai. Non so se te ne sei accorto, ma la testardaggine è una virtù di famiglia.
Balder sentì con imbarazzo gli occhi pizzicargli, e non poté trattenere una lacrima contenente mille emozioni: paura di aver commesso un danno irreparabile e aver deluso Ilda e suo padre, rabbia contro se stesso per la mancanza di controllo, ansia per non aver raggiunto ancora nessun risultato, senso di inferiorità in confronto ai fratelli, rammarico per non avere anche lui la memoria che avevano ereditato gli altri, e che gli avrebbe fatto comodo; struggimento per quello che era successo con Ilda, qualcosa che non aveva nemmeno capito ma che sapeva non si sarebbe ripetuto.
Per un attimo, scrutando il viso di Tyr, i suoi occhi chiari così sicuri che lui ce l'avrebbe fatta, la sua incredibile fiducia, ebbe voglia di abbracciarlo e scusarsi, dirgli apertamente che gli avrebbe lasciato Ilda perché tra i due era di gran lunga il più meritevole. Ma era tardi, era stanco, e anche se non sarebbe riuscito a dormire, voleva che quanto meno il fratello si riposasse. Quella che voleva intraprendere era una conversazione troppo lunga da portare avanti a quell'ora.
- Grazie Tyr. Davvero.
Tyr gli fece un sorriso sghembo che gli diede un'aria da bambino, il bambino che era definitivamente stato soppiantato dall'uomo che si accingeva a diventare. - Per una volta posso esserti utile anche io, hai sempre fatto tutto te.
Balder sbuffò, a metà tra il serio e il faceto. - Non esagerare.
Tyr si picchiettò la tempia. - Memoria infallibile. Vuoi che ti elenchi tutte le centoquarantuno volte in cui mi sei stato di supporto?
- Non ci tengo particolarmente, non questa sera. Ma grazie.
Tyr gli fece l'occhiolino e si allontanò. - L'hai già detto ventisette secondi fa, non me lo sono mica dimenticato.
Balder si tolse gli occhiali e si massaggiò il viso quando rimase solo, le lenti degli occhiali grigie per la stanchezza e il senso di colpa.
Pochi istanti dopo tornò Ofelia con il suo cuscino e la coperta, ancora vestita per la serata. Sapeva che Balder era un pochino... delicato, per non dire maniacale come Thorn, e si trovava bene solo con il suo cuscino da importazione animista, cucito dal più pigro degli artigiani con le piume della più pigra delle oche. Era un cuscino che più che indurre il sonno, ti tramortiva direttamente.
Balder consultò l'orologio. - Come mai ci avete messo così tanto? - chiese, curioso.
Ofelia gli sorrise mentre spiegava la coperta e gli passava anche il pigiama. - Perché sapevo che i vostri discorsi avrebbero richiesto un po' di tempo.
Balder si chiese come potesse Ofelia non essere arrabbiata. - Perché non mi sgridate, mamma? Perché non vi vergognate del mio comportamento, non vi infuriate?
Ofelia gli accarezzò il viso, sentendo con sorpresa l'accenno di barba anche con i guanti. Quanto era cresciuto, il suo bambino? - Perché tu lo stai già facendo abbastanza per me, per te, per tuo padre e per l'intera famiglia. Non ho bisogno di aggiungere legna al fuoco.
In effetti, Balder non aveva mai provato odio come in quel momento. Odio per se stesso, per ciò che aveva fatto.
- Non volevo nemmeno imparare e controllarli, gli artigli, e ora mi ritrovo ad usarli volontariamente per fare del male. Cosa sono diventato?
Ofelia sospirò. - Non sei diventato nulla, Balder. Tutti stiamo impulsivi a volte. Questo non vuol dire che tu sia cattivo o abbia tratto godimento da quello che hai fatto.
Balder inorridì al pensiero. Si sarebbe sentito meglio se sua mamma si fosse arrabbiata almeno un po'? O si sarebbe sentito ancora peggio? Sapeva già la risposta, e sapeva anche che se sua mamma lo avesse guardato con la delusione che lui provava per se stesso, si sarebbe messo a piangere come un bambino.
- Ne riparliamo domani, ora cambiati. E insisto perché tu vada a letto, non ha senso rimanere qui.
Balder scosse la testa. - Papà tornerà fra poco, non voglio accoglierlo in pigiama come se andasse tutto bene. E non riuscirei a dormire.
Ofelia sospirò. - D'accordo.
La sciarpa le pendeva mollemente dal collo, decisamente più vecchia e stanca di quella di Tyr. Balder osservò la sua piccola mamma, i suoi lunghi capelli ricci e scuri, gli occhiali, gli occhi castani che vi erano nascosti dietro. Tutti dicevano che si assomigliavano moltissimo, anche se il naso lo aveva preso da suo papà. Sua mamma era forte, di una forza diversa rispetto a quella di Thorn, ma non andava sottovalutata.
Allora... - Perché non vi siete mai imposta, mamma? Perché non ci avete mai obbligato a fare qualcosa, tranne quando sbagliavamo oggettivamente o eravamo maleducati? Perché ora non mi costringete ad andare a letto? Siete pur sempre un genitore a cui devo obbedienza.
Ofelia lo osservò da dietro le lenti, con quegli occhi che, secondo Balder, avevano sempre visto più di quello che si notava a prima vista. La voce che usò per rispondere, però, era flebile come quella di un uccellino. - Perché so cosa significa essere costretti a fare qualcosa contro la propria volontà.
Ofelia avrebbe voluto aggiungere altro, ma parve esitare, mentre i sentimenti e i ricordi le si impigliavano in gola. Voleva dirgli che sapeva come si sente un figlio quando un genitore impone ogni singola scelta, e non voleva che i suoi figli si sentissero così; che non voleva essere quel tipo di madre, che lei e Thorn li avevano cresciuti insegnando loro ad adoperare il proprio giudizio, così che sapessero ragionare e scegliere da soli; che erano lì solo per correggerli quando prendevano delle decisioni inconfutabilmente sbagliate.
Non lo disse, ma Balder parve intuirlo.
- Grazie, mamma. Per quello che vale, penso che siate degli ottimi genitori.
Ofelia gli sorrise. - Facciamo quello che possiamo. Buonanotte, Balder.
- Buon riposo, mamma.
 
Balder si assopì in continuazione, tormentato da pensieri che poi diventavano sogni caotici e lo riconducevano alla realtà, dove si malediceva per ciò che aveva commesso e restava sveglio un po' prima di riappisolarsi.
Quando la porta di casa si aprì, più di tre ore dopo, era quasi l'alba.
Balder si alzò di scatto, e tra la stanchezza e l'innata mancanza di equilibrio cadde sul tavolino basso che aveva davanti.
La prozia Roseline lo guardò con gli occhi iniettati di sangue in un misto di stanchezza, foga e fumo. - Sei più goffo di tua madre, figliolo, il che è tutto dire - disse laconicamente, andando poi diretta in camera.
Doveva essere davvero esausta per fare un paragone con qualcuno e non con un oggetto, o un oggetto appartenente a qualcuno in particolare.
Balder guardò la prozia Berenilde, che nascondeva decisamente meglio la stanchezza. - Non angustiarti, mio caro. Non hai fatto nulla che la corte non abbia già visto, in passato. Lo sanno tutti che non è il caso di stuzzicare un Drago, ma le persone tendono ad avere la memoria corta, e la presunzione di pensare che ci siamo rammolliti. So che nessuno in questa famiglia si congratulerà con te per ciò che hai fatto, ma io ti ringrazio. Per un po' le persone smetteranno di sparlare alle nostre spalle, di chiamarci Draghi decaduti o buoni solo a cercare cavilli burocratici. E quando ricominceranno a dire che non siamo più quelli di una volta, sarà ora della caccia che Tyr ha chiesto di organizzare, e taceranno definitivamente.
Le lenti di Balder mutarono dal grigio al verde, in sintonia con il suo stomaco sottosopra. Sentirsi ringraziare per ciò che aveva fatto lo fece sentire ancora peggio.
Berenilde parve accorgersene, perché gli sorrise benevolmente. - Non fosse per le tonalità di tua madre, direi che sei la copia identica di tuo padre. Forse più sorridente. In ogni caso, so cosa vuoi sapere. L'Invisibile sta bene, le ferite non sono gravi. Non ci sarà nessuna ripercussione o tentativo di vendetta, Thorn ha mediato con Vladislava, la madre del ragazzo. Pare fosse in rapporti... confidenziali con Thorn, e gli doveva un favore per averli rappresentati all’assemblea degli stati interfamiliari e aver riabilitato il suo clan. Inoltre, è una donna ben consapevole del caratteraccio del figlio. Non riceverai nessuna punizione.
A Balder sembrava scorretto passarla liscia in quel modo, uscirne indenne come se avesse erroneamente pestato il piede a qualcuno invece di attaccare brutalmente i suoi nervi.
Doveva trovare al più presto un modo per neutralizzarli o usarli a fin di bene. Se Tyr si fosse messo in mezzo tra lui e l’Invisibile, invece di trascinarlo via alle sue spalle, Balder avrebbe attaccato anche lui. I risultati si erano già visti, anni prima, quando Tyr aveva colpito il padre che si era eretto come scudo per salvare un bambino. Balder aveva quasi mollato il suo progetto perché tardava a vederne i frutti, ma decise in quel momento che avrebbe tentato con tutto se stesso ogni strada per riuscire nel suo intento.
- E... mio padre?
Berenilde lo osservò come se cercasse qualcosa sul suo viso. Balder ebbe paura di quell'esitazione, ma l'attesa di Berenilde era di una natura del tutto diversa da quella che si aspettava lui. La prozia si stava chiedendo come le cose avessero potuto cambiare così, radicalmente, nell'arco di pochi anni. Dal timore che il nipote non si sposasse mai ad un matrimonio combinato da cui era scaturito però un amore sincero e leale, e dei figli che adoravano il padre nonostante il carattere... particolare.
Mai Berenilde avrebbe pensato di vedere un giovane figlio di Thorn così ansioso all'idea di aver deluso il padre, e così in pensiero per lui, specialmente dopo l'infanzia da incubo che il suo povero nipote aveva vissuto e di cui portava segni indelebili sulla pelle e ancora di più nell'animo. Berenilde cercò di non sorridere, sarebbe stato fuori luogo in quella circostanza, ma era felice di cuore che Thorn avesse finalmente ciò che meritava: amore, una famiglia, e qualcuno che lo apprezzasse per ciò che era.
- Tuo padre è rimasto a intermediare fino a poco fa, come ti ho detto. Poi è andato direttamente all'intendenza, aveva alcune pratiche da sbrigare per rimettere ordine. Quelle scartoffie burocratiche che solo lui sembra capire. Tornerà questa sera.
Balder avrebbe dovuto sentirsi sollevato all'idea di non vedere subito Thorn, ma, al contrario, si sentiva ancora più in ansia. Non era il tipo di persona che seppelliva la testa sotto la sabbia, lui i problemi voleva affrontarli e risolverli subito, non restare in attesa e rodersi il fegato. Quella fino a sera sarebbe stata un'attesa estenuante.
- Vi ha... detto qualcosa?
- Non ho nessun messaggio da riferire, se è questo quello che intendi. Non angosciarti troppo, Thorn non era così preoccupato. Almeno, non più del solito. Sarà sempre difficile comprenderlo, per me. Fortunatamente, c'è tua madre che se ne occupa già per tutti. Ti consiglio di dormire il più possibile per il momento. Dovrai essere lucido e in forze per quando rincaserà, non credi, figliolo?
Come se la prozia gli avesse fatto un incantesimo, Balder sentì di colpo le palpebre pesanti. La stanchezza gli piovve addosso come una pioggia torrenziale, e non desiderò altro che andarsene in camera a dormire per un giorno intero.
- D'accordo zia, vi ringrazio - biascicò, esausto.
Berenilde sorrise enigmaticamente. - Buonanotte.
Balder non si lavò nemmeno i denti, una specie di affronto per lui che era tanto meticoloso, preciso e attento. A dire il vero, non si cambiò nemmeno. Si tolse le scarpe, l'orologio e gli occhiali e si buttò a letto, addormentandosi immediatamente.
 
Il giorno dopo, o almeno pensò fosse il giorno dopo, sentì una mano delicata scuoterlo. Con insistenza.
Ci mise diversi secondi a riemergere da quel profondo oblio in cui era caduto, cercando di riprendere coscienza di sé. Chi era? Dov'era? Perché?
Poi si rese conto di essere in camera sua, e si ricordò del perché si sentisse come se fosse caduto dalle mura di Città-cielo. Aprì gli occhi e, tra la nebbia del sonno e della miopia, scorse solo un bagliore dorato, dei capelli chiarissimi che rilucevano nella luce del mattino.
- Ilda...? - biascicò, consapevole di non offrire un gran bello spettacolo.
Un sospiro. - No, sono Serena.
Balder non seppe se esserne sollevato o deluso.
- Dovresti alzarti, è molto tardi, hai dormito più di quanto tu abbia mai...
- In piediiiiii!!
Quell'urlo selvaggio fu seguito da un colpo brutale sul corpo di Balder, che gemette di dolore e sorpresa e si svegliò immediatamente. Altro che i gentili colpi della sorella.
La risata di Tyr gli arrivò all'orecchio fin troppo nitidamente, fastidiosamente allegra.
- Ma sei impazzito?! - chiese Balder arrabbiato, scuotendosi per buttare il fratello giù dalla sua schiena e pizzicando la sciarpa che gli si era annodata intorno alla testa come un turbante. - Non hai mica più cinque anni, Tyr!
Il fratello continuò a ridere e non sembrò minimamente scalfito dal tentativo di Balder di liberarsi di lui. - Allenamento pomeridiano: dieci flessioni con carico sulla schiena. Eseguite bene, mi raccomando.
Balder si bloccò, smettendo di litigare con la sciarpa. - Pomeridiano?
Con più forza di quella che aveva impiegato poco prima, si sporse per prendere a tentoni l'orologio sul comodino, buttando a terra Tyr che si lamentò e appallottolando malamente la sciarpa. Una volta afferratolo, Balder sbuffò, e si mise a cercare gli occhiali senza i quali non avrebbe potuto leggere l'orologio.
- Sono le quattro del pomeriggio. Diciassette minuti - lo anticipò Serena, facendo scattare il gancetto della sua collana.
Balder sgranò gli occhi. Non aveva davvero mai dormito così tanto. Quando Serena gli aveva detto che era tardi, si era immaginato che fosse quasi l'ora di pranzo. Ma ormai era l'ora del tè, e quella che vedeva filtrare da fuori era la luce del sole ormai prossimo a tramontare.
- Tra poco torna papà. Devo... d-devo... - balbettò, muovendosi convulsamente mentre cercava di riordinare le idee, per poi ricadere sul letto dopo aver perso l'equilibrio.
- Devi lavarti, cambiarti, pettinarti e mangiare qualcosa - gli ordinò Serena.
- Hai i vestiti tutti stropicciati e quei calzini ormai ti si saranno attaccati ai piedi. In testa hai il rifugio di uno stormo di corvi. E puzzi pure - rincarò Tyr, pittoresco.
Balder lo guardò male, finalmente con gli occhiali sul naso. - Non puzzo.
- No, ma bisogna cambiare l'aria qui dentro. Vai a lavarti, chiedo di prepararti uno spuntino - ordinò Serena, premurosa nonostante i modi da intendente. Sembrava fosse nata per quel ruolo.
Lo stomaco di Balder brontolò, come se si fosse svegliato alle parole di Serena. In effetti, era da un giorno intero che non mangiava come si doveva, se si escludevano le fragole della sera prima. Le fragole di cui anche Ilda aveva sentito il sapore...
Tyr gli diede una sonora pacca sulla schiena, ridacchiando. Balder si morse la lingua per non imprecare. Talvolta faceva davvero fatica a sopportare il fratello, e la risatina di Tyr dimostrava che non solo ne era a consapevole, ma che si divertiva pure.
- Tyr, andiamo...
La voce di Ilda sull'uscio fece raggelare Balder, che la fissò terrorizzato. Ancora aggrovigliato alle lenzuola, con il completo della sera prima e i capelli non pettinati (non che di solito si potessero pettinare, comunque), non doveva essere un gran bello spettacolo. Ilda gli rivolse appena un'occhiata di sufficienza, facendo un cenno con la testa a Tyr, che si affrettò a seguirla mormorando un saluto frettoloso.
Non appena uscirono, Serena spalancò le finestre e Balder seppellì la testa nel cuscino, soffocando un gemito tra le piume.
- Su! - lo incalzò Serena, tirandolo per il braccio. - Vai a renderti presentabile. Non vorrai mica che papà ti riceva così...
Mortificato, Balder prese la biancheria e il cambio e si diresse in bagno.
Quando ne uscì, trovò Serena e Ofelia sedute sul suo letto rifatto in silenzio. Sua sorella gli porse un piatto con un panino farcito. Balder lo addentò senza tanti complimenti.
- Ho deluso papà. E anche voi, mamma. Ho deluso tutti - disse dopo aver deglutito senza quasi aver masticato. Tossì, e Serena gli passò un bicchiere d'acqua che tracannò.
- Tuo padre a volte è imprevedibile anche per me, Balder. Non trarre conclusioni affrettate.
- Ma il mio comportamento è stato imperdonabile - continuò ad accusarsi lui, innervosito da se stesso.
- I sentimenti a volte ci spingono a fare... cose inconsulte. E la gelosia è la nostra peggior nemica.
Balder continuò a mangiare in silenzio. Gelosia... la provava costantemente, ogni volta che vedeva Tyr e Ilda insieme, la chimica tra di loro… ma quella che aveva provato la sera prima era stata devastante. Gli aveva ottuso completamente la ragione.
- Che cos'è successo con Ilda? - chiese Ofelia.
- Si è arrabbiata. Mi ha detto che sa difendersi da sola e... un sacco di altre cose, perfettamente sensate e razionali. Non so quanto ci metterà a perdonarmi, se mi perdonerà.
- Io intendevo prima del tuo... intervento di ieri sera - precisò Ofelia, guardandolo con aria fin troppo consapevole.
Sua mamma era troppo, troppo osservatrice. Serena la guardò come se non capisse, poi riportò l'attenzione su Balder.
Che vuotò il sacco. - Mi ha baciato - ammise, mentre la fame che provava cambiava natura mentre ci ripensava.
Serena sgranò gli occhi, la massima espressione di stupore che Balder le avesse mai visto fare. Aveva preso dal padre, in quel senso, sempre seria o al massimo con un timido sorriso in volto.
Ofelia invece non sembrò particolarmente sconvolta. Come Balder temeva, lo aveva capitò già la sera prima, quando gli aveva lisciato la camicia spiegazzata.
Prese coraggio e continuò, cercando di spiegare a loro quello che non riusciva a spiegare nemmeno a se stesso. - Mi ha baciato e poi Tyr è arrivato a chiamarla, quindi ci siamo separati. Tyr non... non sospetta nulla, credo. Ho tradito anche lui, oltre a voi. Quando poi quel... ragazzo ha cominciato a... molestarla... io...
Le parole gli morirono sulle labbra, incastrate nel suo stomaco come i suoi sentimenti e il panino che già gli pesava. Ofelia lo guardò come se capisse il suo tormento, la difficoltà nell'esprimersi.
- Cosa vuol dire che hai tradito Tyr? - chiese Serena, mentre Ofelia diceva: - Io ho tirato uno schiaffo a vostro padre, la prima volta che mi ha baciata.
Entrambi i figli fissarono Ofelia con la fronte aggrottata, mentre lei sorrideva al ricordo. Le lenti le si tinsero leggermente di rosa.
- Mamma? - chiamò Serena, per chiederle nemmeno lei sapeva bene cosa.
- Mi ha baciata a sorpresa sulla muraglia di Asgard, a Sabbie d'Opale, nel bel mezzo di una tempesta. Eravamo entrambi fradici e... non era proprio il momento migliore. Reduci da un pranzo di famiglia disastroso e dopo una discussione alquanto insolita. All'epoca io gli avevo detto che saremmo stati coniugi solo di facciata, che non... - raccontò, incespicando verso la fine, quando si rese conto che ai suoi figli stava raccontando quei dettagli intimi. - Insomma, gli avevo detto che non lo amavo e probabilmente non sarebbe mai successo. Con il mio comportamento devo aver dato adito ad un fraintendimento. Mi baciò e io gli diedi uno schiaffo per riflesso, tanto ero stata presa in contropiede. Lui mi disse solo che aveva avuto un dubbio e che io lo avevo dissipato, prima di andarsene e invitarmi con il suo solito modo dolce e garbato a tornarmene su Anima dopo la cerimonia nuziale.
Balder e Serena la fissavano con gli occhi sgranati, sia perché non avevano sentito i loro genitori raccontare spesso di come si fossero conosciuti, riservati com'erano, e sia perché risultava loro difficile immaginarsi uno scenario del genere. Qualcuno che schiaffeggiava il loro padre... anzi, la loro madre che lo faceva! Era inverosimile persino da immaginare.
Le lenti di Ofelia tradivano ancora il suo imbarazzo, ma lei non si lasciò scoraggiare. - Probabilmente vostro padre aveva capito da prima di me che mi ero già innamorata di lui. Proprio quel giorno, direi. Io sono stata molto più lenta a rendermene conto. Quello che voglio dire, Balder, - continuò con tono più serio, fissando il figlio dritto negli occhi, occhiali contro occhiali, - è che non sempre le cose vanno come speriamo. O ci aspettiamo. A volte prendono pieghe... particolari. Ma se c'è un sentimento forte, ci si trova sempre.
Balder finì il panino mentre rifletteva. Quasi non fece caso a Serena, che disse ad Ofelia che aveva sempre pensato che fosse stata lei a prendere l'iniziativa con il padre. Ofelia sorrise, scuotendo la testa.
- Senza Thorn, io sarei rimasta all'oscuro di moltissime cose, soprattutto su me stessa.
Serena sembrava intenzionata a portare avanti l'argomento, curiosa, ma Balder l'anticipò. - Io non credo che Ilda provi un sentimento forte. Siamo amici d'infanzia e basta, tutto qui. Forse, un giorno, cogna...
- Cosa vuol dire che hai tradito Tyr? - lo interruppe Serena, gli occhi assottigliati, riprendendo la domanda posta in precedenza di cui si erano dimenticati tutti tranne lei.
Balder si pettinò all'indietro i capelli, prendendo tempo. - Che non avrei dovuto... insomma, è stata Ilda a baciarmi, sì, ma io non mi sono tirato indietro. Per rispetto nei confronti di Tyr, avrei dovuto farlo, invece di approfittarne. Probabilmente Ilda aveva pure bevuto.
Serena scosse la testa. - Ilda non aveva bevuto, stavo tenendo d'occhio io Tyr e di conseguenza anche lei.
Ofelia completò il pensiero per lei. - Balder, spero che tu non pensi che Tyr sia innamorato di Ilda e viceversa.
Balder la osservò come se avesse parlato in una lingua straniera di difficile traduzione. - No...?
Serena scosse la testa, sul volto la stessa espressione sconsolata di Ofelia. Fu la prima a rispondergli. - Balder, Tyr e Ilda sono come fratelli. Non provano nulla l'uno per l'altra.
Balder si irrigidì. - Anche io e Ilda siamo come fratelli...
- No. Il fatto stesso che Ilda ti abbia baciato lo dimostra. Provate qualcosa di più e siete gli unici a non rendervene conto. Anche Archibald aveva...
La voce le morì sul finire della frase, e Balder cercò di non lanciarle la classica occhiata di chi la sapeva lunga. Non ci sarebbe nemmeno riuscito a dire il vero, preso com'era da altri pensieri.
Ofelia sembrò non fare caso alla reazione di Serena. - Balder, credo che tu e Ilda dovreste parlare apertamente.
Balder scosse la testa. Non riusciva a pensare lucidamente in quel momento. Parlare a Ilda di cosa? E se poi il rapporto si fosse logorato? Se il suo fosse stato un... una voglia da togliersi, un ghiribizzo? Avrebbe minato la loro amicizia sapere che lui l'amava, mentre lei non ricambiava. Inoltre, a dispetto di quanto dicevano sua mamma e sua sorella, lui era sicuro che ci fosse sotto qualcosa con Tyr. Lui sapeva... sapeva delle cose troppo intime su Ilda perché fosse solo una coincidenza. E se poi Ilda non avesse voluto parlargli? Poteva anche rimanere arrabbiata con lui a vita, come sospettava che avrebbe fatto. Insomma, l'aveva davvero combinata grossa.
In quel momento desiderò più che mai avere la memoria del padre e dei fratelli. Era ingiusto che lui fosse l'unico ad esserne privo. E non era nemmeno un attraversaspecchi. Tra tutta la roulette di assegnazione di doni, lui era di sicuro il più sfortunato, quello a cui era toccata in sorte la partita difettata. In altri momenti non si sarebbe soffermato su simili pensieri controproducenti, ma il turbine di emozioni che gli tempestava l'animo lo portava ad essere pessimista.
- Devo riflettere... su molte cose - mormorò infine.
Si infilò le mani nei capelli per pettinarli, ma rimasero incastrate nei ricci.
- Dovresti chiarirti con Tyr, però. Solo lui può confermarti di non essere interessato a Ilda - gli suggerì Serena.
Ofelia si alzò e andò ad accarezzare il viso di Balder, mettendosi in punta di piedi per farlo. - Mi è sempre piaciuta la differenza di altezza fra me e vostro padre, ma avere anche dei figli altissimi inizia a diventare stancante.
Balder le sorrise lievemente, raddrizzandosi per farla sentire ancora più piccola.
- Cercate almeno di non soffrire per amore tutti insieme, sarebbe un lavoro troppo immane per un genitore. Va bene, Serena?
Il tono di Ofelia voleva essere scherzoso, ma Serena impallidì e borbottò una risposta che non era né una conferma né un diniego. Ofelia la scrutò per un secondo di troppo prima di andarsene.
Serena lasciò andare l'aria che non si era nemmeno accorta di aver trattenuto quando rimasero soli.
- Lo so che sei in piena crisi ed è egoistico da parte mia parlarti dei miei problemi, ma secondo te la mamma ha capito qualcosa?
Balder scosse la testa, andando a sedersi accanto a lei. - Non sei egoista, Serena. E sinceramente non so se la mamma ha capito. Io direi di no. Ma la mamma è imprevedibile e a volte più incomprensibile di papà. Ti rendi conto che gli ha tirato uno schiaffo? E che è stato lui a baciarla per prima!?
Serena gli posò la testa sulla spalla. - Già. Avrei voluto vederli, da giovani. Non riesco a capire se sono fatti apposta l'uno per l'altra o se il risultato finale della loro unione è una sfida impossibile alle probabilità. A dire il vero, è entrambe le cose. E molte altre. Insomma, il fatto che dopo un matrimonio combinato e con personalità agli antipodi mamma e papà andassero d'accordo era una percentuale rappresentata da un numero a una cifra, ma che addirittura si amassero è lo zero virgola...
Balder ridacchiò. Quando Serena partiva a parlare di calcoli matematici e statistiche era quasi impossibile fermarla. Avrebbe voluto starle dietro, ma a lui sarebbero serviti diversi fogli e tempo per eseguire quelle operazioni. - Ho capito, Serena. Un miracolo.
Non la vide storcere il naso, ma sapeva che lo stava facendo. - I miracoli non sono dimostrabili né misurabili.
Balder sospirò, facendo piombare il silenzio. Non che lui fosse un sognatore fantasioso, ma a volte il modo fin troppo logico in cui Serena e Thorn vedevano il mondo gli faceva accapponare la pelle. E un po' toglieva la gioia di vivere. Era come se le loro scelte e l'intero corso della loro esistenza fossero predeterminati dalla matematica. Si rifiutava di crederlo.
- Com'è stato? - chiese Serena in un sussurro.
Balder capì a cosa si riferiva senza bisogno di chiederglielo. – È stato... - rispose altrettanto piano, cercando le parole. Come si poteva descrivere una sensazione di pura luce, un calore, un fremito, un estraniamento dal proprio corpo? - Intenso. Bello. Mi chiedevo cosa ci trovassero gli adulti nei baci, mi sembravano abbastanza viscidi, ma... è come se si fosse aperta una porta su un mondo nuovo. Non solo ho rivalutato i baci, ma ne vorrei altri. Tanti. Non riesco a capirlo nemmeno io. So solo che, tra il non baciare nessuno per tutta la vita e il baciare una sola volta in tutta la vita, sceglierei di vivere nell'ignoranza. Meglio struggersi per qualcosa che non si può avere che provarlo, toccare il cielo con un dito, e poi vivere con la consapevolezza che non si proverà mai più una cosa del genere.
Serena sospirò. - Io vorrei provarlo, invece. Meglio sapere cosa si prova, che vivere bramandolo. In ogni caso, non penso che sarà mai il mio caso. E penso che tu sia troppo pessimista.
Balder si strinse nelle spalle, facendola muovere a sua volta.
- Cosa farai ora?
Balder si tolse gli occhiali, pulendoli nonostante fossero già più che lucidi, perfezionisti come lui. Con una stanghetta gli picchiettarono la mano, solidali. Se li rimise e guardò l'ora con il suo orologio. - Attenderò l'arrivo di papà tra sessantadue minuti...
- Sessantaquattro - lo corresse automaticamente Serena, facendogli alzare gli occhi al cielo.
- E poi mi concentrerò di nuovo sul mio... esperimento, progetto, chiamalo come vuoi.
Serena risollevò la testa, scrutandolo. - Lo avevi abbandonato? - gli chiese, con un velato tono di accusa nella voce.
Balder arrossì. - Un po'. Andava troppo a rilento e non mi sembrava che portasse a risultati concreti, quindi ho iniziato a trascurarlo, diciamo. Tyr mi ha incoraggiato a non mollare però, e dopo ieri mi sono reso conto che è fondamentale trovare un modo per disinnescare gli artigli. Sono implacabili, non c'è alcun modo per trattenerli. Sono troppo pericolosi.
- Concordo con Tyr. Non puoi mollare, Balder. Ce la farai. Anche se la percentuale di riuscita è bassa... - mormorò, sincera fin nel midollo. - Se io avessi mollato, non sarei arrivata fin dove sono ora. E chissà, anche se non ci riuscirai tu magari ce la faranno i tuoi figli. Tu intanto stai ponendo le basi per il cambiamento e per una scoperta eclatante.
Balder cercò di non storcere il naso. Porre le basi per una scoperta non era come fare la scoperta. Serena, come Thorn, non era granché brava a consolare o incoraggiare. E a proposito di Thorn...
Balder sospirò. - Spero di non aver deluso troppo papà.
- Non credo. Ma di una cosa sono certa: papà ti vorrà sempre bene. A modo suo, ma te ne vorrà.
Balder le posò un bacio sui capelli pallidi e morbidi. - Cosa farei senza di te?
Serena sorrise timidamente. - Dovresti gestire Tyr da solo.
Balder fece finta di rabbrividire d'orrore. Poi si alzò. - L'ozio è la madre dei vizi, e se non voglio che mi venga un'ulcera per l'ansia, tanto vale che mi metta a lavorare. Se il papà mi cerca, sono in biblioteca, così mi risparmio il tragitto.
Balder uscì, ma poi tornò sui propri passi. - Non ti angosciare. È più facile che ci sia un lieto fine per te, che per me. Soprattutto dopo quello che ho combinato.
Se ne andò senza lasciarle il tempo di rispondere. Serena si rabbuiò e si fissò le mani, le lunghe dita magre da pianista, aveva detto la zia Roseline (aveva anche aggiunto che erano inutili, dato che su Anima i pianoforti svolgevano da soli il loro compito).
Le strinse a pugno. Per lei era impossibile che ci fosse un lieto fine.
Se ne rendeva conto, ma questo non rendeva più facile accettarlo.

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Capitolo 59
*** Capitolo 59 ***


Un po' di drama signoreeeee! xD Probablimente il classico cliché da telenovela però pare che far andare tutto liscio, rose e fiori ecc dopo un po' annoi (non me, ma dettagli... o forse sì?).
Speeeero che il capitolo vi piaccia e che non ci sia troppa confusione. E scusate per il ritardo!


Capitolo 59

Balder passò il tempo che mancava dall'arrivo di Thorn trascrivendo appunti su manuali che non prendeva più in mano da settimane, dagli studi di trasmutazione di Plombor e dei fenomeni tellurici del Tartaro a quelli di anatomia e del sistema nervoso. Si concentrò così tanto che non si accorse nemmeno dello scorrere del tempo. Studiare gli piaceva e come al solito rimpiangeva la memoria di Tyr, di cui il fratello non si faceva nulla, perché a lui toccava fare il doppio della fatica. L'argomento però lo riappassionò subito, e si recriminò, tra le altre cose, di aver trascurato quella parte fondamentale della sua personalità.
Non si accorse né di Ilda, quando passò di fronte alla biblioteca, sbirciando all'interno con aria tormentata, né di Thorn, se non quando il padre gli mise il giornale sotto il naso.
Balder schizzò in piedi, ingarbugliandosi con il tappeto e finendo per terra con la sedia attorcigliata alle gambe. Thorn lo fissò dall'alto, imperturbabile, sistemando i suoi documenti sulla scrivania che il figlio aveva abusivamente occupato. C'erano cadute che nemmeno lui poteva evitare che si verificassero, sia con Balder che con Ofelia.
Balder si rialzò in fretta rassettandosi la camicia e sistemandosi gli occhiali sbilenchi, per poi torturarsi i guanti nell'attesa. Rimise a posto la sedia, gliela spolverò, ossequioso, e si fece da parte, a testa china, penitente.
Questa volta, il giornale Thorn glielo diede in mano direttamente.
Balder guardò il padre, cercando di sondarne i pensieri, prima di spiegare il giornale e leggerlo.
Il Nibelungen non era stato molto clemente con lui.
Figlio dell'intendente attacca immotivatamente un Invisibile!
Gli amici di ieri sono i nemici di oggi!
L'articolo, che Balder lesse lentamente e con molta cura faceva un confronto tra i Draghi del passato e quelli che stavano crescendo, la nuova generazione. A quanto pareva, secondo il giornale e il suo obiettivissimo direttore, i Draghi del passato, sotto la guida di Padre Vladimir, erano stati violenti, sì, ma per una giusta causa, mentre il "nuovo sangue" che derivava dall'intendente era violento contro gli altri membri della corte e per di più non contribuiva al mantenimento della loro perfettamente equilibrata società. Il giornale accusava Thorn di aver educato i figli perché fossero sanguinari, affinché svolgessero il lavoro sporco al posto suo e dei suoi deboli artigli bastardi. Tiravano in ballo anche Ofelia, la "straniera con l'Anima di arrampicatrice sociale", un gioco di parole puerile e di pessimo gusto, assetata di lustro e potere, che non era entrata nelle grazie del sire Faruk solo perché il marito la teneva al guinzaglio.
Balder dovette deglutire più volte per ricacciare nello stomaco il rigurgito di panino che gli era salito in bocca. Gli veniva solo da vomitare, e il colorito verde delle lenti lo dimostrava.
Non aveva il coraggio di alzare gli occhi sul padre. Né di parlare. Perché il coraggio si manifestava nei momenti peggiori e non quando doveva?
- I-io... - balbettò. - Mi dispiace...
Thorn allungò una mano per riprendere il giornale, che Balder gli cedette volentieri. Poi lo fece a pezzi e lo gettò nel cestino.
- Sai qual è la cosa più falsa tra le calunnie scritte in quell'articolo?
Balder scosse la testa, arrischiando uno sguardo al padre. Profilo freddo, naso affilato come il suo, occhi grigi in tempesta, taglienti come la lama di un rasoio, cicatrici bianche che si stagliavano sulla pelle già pallida. Un po' di paura suo papà gliela faceva.
- Il guinzaglio.
Balder aggrottò la fronte.
- L'affermazione che io tengo vostra madre al guinzaglio. Dubito che qualcuno potrebbe mai tenerla sotto controllo o impedirle di fare qualcosa.
Balder sgranò gli occhi. Non capiva se quello di Thorn fosse un serissimo tentativo di umorismo o una constatazione personale che per qualche ignoto motivo stava condividendo con lui.
- E, francamente, non vorrei una condizione del genere. Io stesso ho provato a limitare la sua libertà in passato, ed è stato inutile oltre che sbagliato.
I due rimasero a guardarsi negli occhi. Balder era sempre più confuso. Non aveva intenzione di sgridarlo?
Thorn si diresse verso la finestra, orologio stretto nel pugno e mani dietro la schiena.
- Ciò che hai fatto ieri sera è stato un errore, è stato sconsiderato, vile e ignobile. Tutte cose che tu non sei.
Thorn si voltò verso di Balder, così sconvolto da dimenticarsi di respirare.
- Non ti dirò che è un avvenimento da non ripetere assolutamente, che le conseguenze sarebbero state estremamente gravi se il ragazzo fosse morto e se non ci fosse stata una mia vecchia conoscenza a mediare. Gli altri clan sono suscettibili, prendono anche gli sgarbi minori come affronti, e colgono qualsiasi occasione per poter serbare rancore e vendicarsi. Il desiderio di vendetta comporta un pericolo non solo per te, ma per tutti. Per le tue sorelle, per Tyr, per tua madre. E per le altre persone a stretto contatto con noi, come Renold, sua moglie e i suoi figli.
Balder strinse i pugni, odiandosi e maledicendosi come non aveva mai fatto. Quelle che suo padre gli stava elencando erano conseguenze che chiunque avrebbe potuto immaginare, chiunque. Perché allora lui era stato così cieco e impulsivo da non pensare nemmeno a quello che le sue azioni avrebbero comportato? Aveva messo tutti in una brutta situazione.
- Avrei fatto lo stesso.
Quella dichiarazione lo spiazzò più di tutto il resto. Balder spalancò la bocca, oltre agli occhi, ma poi si affrettò a chiuderla per non sembrare maleducato. Thorn gli fece la cortesia di rispondere alle sue domande prima che lui le ponesse.
- Gelosia e istinto protettivo sono emozioni subdole, spingono a fare ciò che di norma aborriremo, rendono difficile ragionare. Per gelosia in passato ho attaccato Archibald, e sarei stato condannato a morte se mia zia non avesse interceduto e Archibald stesso non avesse sminuito. Ho usato gli artigli senza nemmeno rifletterci, uccidendo un uomo, quando questi ha messo a rischio la vita di tua madre.
- Voi a-avete ucciso un uomo?
Thorn fece un'impercettibile smorfia con le labbra, che però sparì subito. - Anche un po' di più di uno. Ma non è questo il punto. Presumo che ieri sera tu abbia voluto proteggere la figlia di Renold. Siete... amici da molto, è comprensibile. Non deve accadere un'altra volta, però.
Come ramanzina, era stata piuttosto blanda, soprattutto dato quello che aveva fatto. L'intera conversazione con il padre lo aveva stupito. Erano stati due giorni strani, intensi e pieni di inusuali rivelazioni, specialmente da parte di Thorn. Aveva ucciso un uomo... anzi, più d'uno? E aveva attaccato Archibald in passato? All'improvviso gli sembrò di conoscere molto poco di suo padre, a parte qualche racconto frammentario sul suo passato.
Di sicuro però non aveva voglia che accadesse di nuovo una cosa come quella della sera prima.
Per aggiungere un po' di stranezza a quel giorno già insolito, Balder disse di getto: - Sono innamorato di Ilda.
Non aveva una cotta per Ilda, e di sicuro non il genere di sentimenti che si prova tra fratelli o amici d'infanzia. No, lui l'amava, da molto tempo, e sapeva che le cose non sarebbero potute cambiare. Era come se fosse destinato a desiderare solo lei per tutta la vita. Non aveva avuto altre certezze oltre a questa.
Thorn non si mosse, non mutò espressione. Batté appena le palpebre. - Capisco.
Balder si sentì svuotato. Tecnicamente, era la prima volta che lo confessava. Sia Serena che sua madre se n'erano accorte da sole, invece a Thorn aveva deciso di dirlo. Voleva che il padre... facesse qualcosa, che lo aiutasse. Voleva parlarne con un uomo che comprendesse cosa provava, dal momento che era a sua volta stato rifiutato da Ofelia. Il fatto che loro avessero avuto un lieto fine gli dava speranza, ma ogni situazione era a sé stante.
Invece, Thorn commentò solo, dopo un attimo di silenzio: - Non è ancora in età da marito.
La questione era talmente surreale che Balder avrebbe voluto ridere istericamente. Ilda non aveva nemmeno quindici anni, era ovvio che non fosse in età da marito. Nemmeno lui aveva l'età per sposarsi! Scosse la testa, vergognandosi per quello che aveva dichiarato. Cosa si era aspettato, che il padre gli facesse domande sui suoi sentimenti? Non era il tipo. Serena e Tyr gli avevano raccontato che quando erano ancora neonati lui li cullava a suon di calcoli aritmetici, anziché usare parole dolci e canzoncine. Era sempre Ofelia quella con cui parlavano dei loro stati d'animo, al padre si rivolgevano per questioni più pratiche. L'unica vera conversazione intima che avevano avuto tra maschi era stata quella per... spiegare loro la riproduzione. Era stata alquanto imbarazzante da parte sua e di Tyr, mentre Thorn aveva illustrato loro la questione con le mani giunti di fronte a sé, un tono da gendarme e i dettagli tecnici di un dottore, incontrando a malapena il loro sguardo. Avevano tirato tutti un sospiro di sollievo quando aveva finito, e Thorn si era visibilmente rilassato quando i figli non avevano posto ulteriori domande.
Balder voleva un bene indescrivibile al padre, e si rendeva conto che molta della rigidità del suo carattere era stata causata dai rifiuti ricevuti in giovane età da coloro che avrebbero dovuto amarlo di più. A volte provava una stretta al cuore quando pensava a cosa avesse dovuto passare, e la provava anche quando vedeva le sue braccia solcate da cicatrici. Lui più di tutti, pensava Balder, meritava amore, e lo aveva trovato.
Però non era comunque la persona adatta con cui aprirsi.
- Non... non intendevo chiedervi il permesso per sposarla - bofonchiò Balder, atterrito. - Oltre a non avere l'età, non... insomma, deve essere una cosa consensuale.
Thorn lo inchiodò con lo sguardo, più attento di quanto fosse mai stato. - Lei non ricambia? - chiese, facendo scendere il gelo nella stanza. Sembrava che avesse chiesto spiegazioni su un ritardo.
Balder scosse la testa, poi ci ripensò. - Non lo so. Non capisco. Serena dice di sì, ma a me sembra che sia più interessata a Tyr. Non saprei nemmeno come parlarle.
Per un attimo, nell'inflessibile sguardo di Thorn brillò una scintilla di comprensione e... cameratismo. Come se capisse più di chiunque altro come si sentiva.
- Ho imparato che quando si tratta di... queste cose, logica e matematica non servono a nulla. Il che è fastidioso. Anche un po' di più.
Balder sorrise. Suo padre non si smentiva mai, però... ci provava. Con loro, con la sua famiglia, provava ad essere un uomo diverso.
E lui non l'avrebbe cambiato per nessun altro padre al mondo.
- Come avete fatto a conquistare la mamma?
Thorn sembrò preso in contropiede per un attimo, ma la sua espressione si ricompose subito.
Aprì l'orologio che ancora teneva in mano e lo fissò. A lungo. Così a lungo che Balder stava per ripetere la domanda, quando lui rispose: - Ho cercato di non farmi detestare.
Balder aggrottò la fronte. Che razza di risposta era quella?
Thorn chiuse di scatto l'orologio, rimettendolo nel taschino accanto alla penna. - Non sono la persona migliore a cui chiedere consigli in questo campo.
Tagliente come una mannaia, eppure a Balder sembrò dispiaciuto. Lui però non intendeva demordere, per una volta che poteva cercare di capirlo meglio e al tempo stesso aprirsi.
- Però la mamma si è innamorata di voi. Avete cercato di non farvi detestare, ma come? Ci sarà pur stato qualcosa che ha fatto scatt...
- Onestà.
Balder si morse la lingua quando Thorn lo interruppe. Attese la continuazione, sperando che il padre non fosse parco di parole come al solito.
- Tua madre non... ha apprezzato i segreti... anzi, le informazioni che le ho... taciuto, inizialmente.
Balder si rese conto che il padre era in difficoltà. Sperando di non spaventarlo, come se fosse un animale poco avvezzo al contatto con gli uomini, andò a sedersi di fronte alla sua scrivania, guardandolo con quella che sperava fosse un'espressione incoraggiante.
Thorn sospirò impercettibilmente e andò a sedersi di fronte a lui. A Balder sembrò di sentire qualche articolazione scricchiolare nel processo. Non era vecchio, ma ormai non era più nemmeno giovanissimo. Thorn prese la pipa e l'accese, prima di cominciare a parlare.
- Tua madre ha sempre desiderato essere libera. Una cosa di cui mi sono reso conto subito. La sua famiglia era... oppressiva. Aveva sempre preso le decisioni al posto suo. Come ultima, quella di darla in matrimonio a me. Mia zia si ostinava a cercarmi moglie, ma qui al Polo non ci sarebbe stata nessuna disposta a sposarmi. Su Anima, invece, le Decane non sapevano che farsene di una donna che non voleva un marito. E Ofelia aveva quello che mi serviva: il potere della lettura. È stato un accordo tra arche, vantaggioso per tutti tranne che per i diretti interessati. Io non volevo accollarmi una moglie, tua madre invece non voleva niente di niente di quello che stava capitando, tanto meno me.
Balder non aveva mai sentito Thorn parlare così tanto. Lo ascoltava rapito, desiderando che non finisse mai. Conosceva già la storia, ma era come se fosse diversa raccontata da lui.
Invece, Thorn non si smentì. - Il resto già lo sai. Ho usato un approccio sbagliato con lei, non mi sono reso conto di chi fosse. La credevo debole. L'ho detto a lei stessa, che il mio più grande errore è stato quello di malgiudicarla all'inizio. Quando le ho promesso che non le avrei taciuto nessuna informazione che la riguardasse direttamente, ha iniziato a.. non odiarmi più. Guadagnarmi la sua fiducia è stato lento, faticoso. Non mi era mai capitato di doverlo fare prima. Quindi sii onesto con lei. Nel mio caso, ha funzionato.
Balder ci mise diversi secondi per capire che Thorn aveva finito il suo discorso. Non lo guardava nemmeno più, mentre fumava la pipa e dava un'occhiata distratta ad alcune carte posate sulla scrivania, la fronte così perennemente aggrottata che i solchi gli rimanevano anche quando la distendeva.
- E voi? Quando avete capito di esservi innamorato della mamma?
Thorn non sollevò nemmeno gli occhi. - Dopo trentaquattro minuti dal mio arrivo su Anima.
Balder non colse l'insinuazione. - Ma da quanto conoscevate la mamma?
Thorn questa volta lo fissò, e nel suo sguardo non c'era traccia d'imbarazzo, nonostante l'argomento non fosse proprio nelle sue corde. - L'avevo vista per la prima volta trentadue minuti prima.
Balder scattò in piedi, reggendosi alla scrivania per mascherare la lieve perdita di equilibrio. - Mi state dicendo che vi siete innamorato della mamma dopo mezz'ora?!
Le orecchie di Thorn divennero rosse, questa volta. - Trentadue minuti - lo corresse.
- Perché? Cos'è successo? Com'è possibile che abbiate capito di esservi innamorato così?
Thorn strinse la mascella. Evidentemente la questione dava fastidio anche a lui, non essendo prevedibile e, anzi, essendo del tutto aleatoria e inspiegabile.
- È scivolata sul ghiaccio rischiando di trascinare con sé la Decana. Sua madre se l'è presa con lei.
- La mamma lo sa?
- Non l'ho mai ritenuta un'informazione utile da divulgare - fu la risposta secca.
Balder era allibito. Suo padre aveva praticamente avuto un colpo di fulmine con sua madre per quello? Sapendo poi quanto aveva impiegato Ofelia per ricambiarlo, Balder si sentì in pena per lui. Poi si rese conto che avrebbe aspettato il doppio, il triplo del tempo, se fosse servito a far innamorare Ilda.
- Sii onesto con lei - ribadì Thorn, lo sguardo perso nel vuoto. - Ma che non ricapiti più ciò che è successo ieri sera.
Balder annuì e si alzò, frastornato. Sapeva che era impossibile, ma gli sarebbe piaciuto parlare più spesso con suo papà in quel modo. A quanto pareva, avevano più cose in comunque di quanto si sarebbe mai aspettato.
In ogni caso, avrebbe fatto tesoro di quel momento, e sapeva che se lo sarebbe ricordato a vita anche senza la memoria dei fratelli.
 
Balder cercò di soffocare la delusione e la mancanza di Ilda buttandosi a capofitto nello studio. I primi giorni funzionò, poi l'imbarazzo e il disagio che provava quando era nella stessa stanza di Ilda lo spinsero a parlare con suo fratello.
Glielo doveva. E poi, chiedendo spiegazioni a lui forse avrebbe capito alcune cose.
Ne approfittò una mattina in cui erano in una delle camere non occupate del castello, che Tyr aveva adibito a palestra con pesi e altre cose che usava solo lui. Balder si limitava a fare allenamenti a braccia e torso, occasionalmente alle gambe. Tyr invece si era letto, anzi, imparato a memoria ovviamente, un manuale di quelli che Balder si era studiato con fatica per capire il funzionamento del corpo umano in un'ottica di approccio ad un uso migliore degli artigli. Risultato? Conosceva meglio di lui i nomi dei muscoli sparsi per il corpo, delle ossa e dei tendini stessi, e come allenare ogni singolo parte del fisico. La cosa lo innervosiva da morire, ma cercava di non farlo pesare a Tyr; non era colpa sua, del resto. Ilda non si univa più a loro dall'incidente a corte. Sarebbe stato troppo... normale e imbarazzante se lei si fosse messa a costruire qualcosa mentre loro si allenavano, spesso a petto nudo, in un ambiente ristretto.
Balder approfittò di una pausa per intavolare il discorso. Passò al fratello un bicchier d'acqua e, dopo aver svuotato il suo d'un fiato, come se stesse ingerendo coraggio liquido, chiese: - Ami Ilda?
Tyr sputò l'acqua. Era molto teatrale, cosa che spesso infastidiva sia Ilda che Balder, ma per una volta la reazione fu spontanea. Lo aveva preso in contropiede.
- Che?! - chiese, asciugandosi la bocca con la mano. La sciarpa, appoggiata sul tavolo, lo schiaffeggiò sullo stomaco, offesa per essere stata lavata in quel modo, ma il padrone non la considerò nemmeno.
Balder si sistemò gli occhiali. - Ho chiesto se ami Ilda. Se ti piace. Se... insomma, avete una... relazione?
Tyr aveva un'espressione a metà tra il disgusto e lo sbigottimento, bocca aperta e fronte increspata. Assomigliava più che mai a Thorn. Almeno nella parte alta del viso: il loro padre non avrebbe mai fatto una smorfia simile con la bocca. - Hai studiato troppo, Bal? Ti si è fuso il cervello?
Balder gli diede uno spintone senza convinzione. - Sono serio! Perché non puoi rispondermi seriamente anche tu, per una volta?
- Non amo Ilda! E nemmeno lei mi ama! Che razza di discorsi, è praticamente mia sorella. L'idea di... bleah, ti prego!
Balder si rilassò visibilmente, anche se la situazione proprio non gli tornava. E poi, da quel punto di vista Tyr era un po'... ingenuo. Come poteva essere sicuro che Ilda non lo amasse?
- Io ho messo gli occhi su Gabriella, la nipote di Archibald, la figlia di Pazientina, se ti interessa. Hai presente?
Balder non voleva essere maleducato, specialmente con Tyr, ma in quel momento non gli interessava per niente.
- Aspetta. Tu e Ilda però siete inseparabili, siete sempre insieme. E tu sai cose... intime di lei?
Tyr lo guardò con espressione indecifrabile, come se il fratello gli fosse diventato estraneo tutto in una volta. - Balder, correggimi se sbaglio, ma mi pare che siamo tutti e tre sempre insieme, no? Se Ilda non è con me è con te, quelle poche volte in cui siamo divisi. Certo, ultimamente non vale molto questa cosa, da quando... sai... be', Ilda non ce l'ha più così tanto con te, però si aspetta... delle scuse. Lo sai com'è. E di che cose intime parli?! L'ultima cosa intima che ha detto riguardava il suo menarca, due anni fa, e la cosa le ha fatto talmente tanto schifo che non ha voluto che aprissimo bocca al riguardo. E l'ha detto a entrambi, mica solo a me.
Balder processò le informazioni in silenzio, con calma, togliendosi i guanti per far prendere un po' d'aria alle mani accaldate. Tyr aveva ragione. Ma allora...
- Come sai della voglia sulla sua natica? - chiese senza mezzi termini, senza nemmeno arrossire.
Tyr scoppiò a ridere. - Avevamo quattro anni, io e Ilda abbiamo riempito la vasca e ci abbiamo rovesciato dentro un'intera saponetta per fare le bolle. Ci siamo entrati e abbiamo giocato un pomeriggio intero. Quando Renard e la mamma ci hanno trovati, suo padre ha dato di matto, facendo discorsi sul pudore, l'onore, il matrimonio, la convenienza e altre cose con cui non ti tedio. Mi rendo conto solo ora che probabilmente pensava che volessi attentare alla virtù di Ilda. A quattro anni! - raccontò ridacchiando. - In ogni caso, quando Renard l'ha tolta dalla vasca, ho visto una piccola voglia a forma di fiore sulla sua chiap... ehm, sulla natica destra. Lì per lì non ci ho fatto caso, ma qualche mese fa mi è tornato in mente quando Ilda ha detto che lei non aveva mai fatto il bagno con nessuno, al contrario di noi che lo facevamo sin da piccoli. Io mi ricordavo dell'avvenimento per via della memoria, sai, ma lei era troppo piccola. Allora gliel'ho spiegato. E le ho chiesto di quella macchiolina. Non ho mai visto Ilda diventare tanto rossa!! È uno spasso tormentarla al riguardo, cosa che mi fa dedurre che ce l'abbia ancora. Carina come cosa, no?
Carina come cosa.
Carina come cosa?!
Balder non sapeva se era più il desiderio di tirargli uno schiaffo o quello di abbracciarlo.
- Quindi voi non avete mai... cioè, sarebbe anche terribilmente disdicevole e io disapproverei in pieno un simile comportamento, ma non... insomma, voi...
Tyr aggrottò la fronte. - Dimmi che non mi stai davvero chiedendo quello che temo tu voglia chiedermi. Hai idea di cosa mi farebbe papà se scoprisse che ho avuto rapporti con qualcuno prima del matrimonio? Per non parlare di Renard se scoprisse che ho violato sua figlia! - esclamò, inorridito, guardandosi le mani, come se vedesse quelle enormi di Renard al posto delle sue. In effetti, le mani enormi del loro insegnante erano un ottimo deterrente per stare lontani da Ilda. - E poi non abbiamo nemmeno quindici anni, Bal! Ilda è la mia migliore amica! Non potremmo mai... Come ti viene in mente una cosa del genere?! Sei strano ultimamente.
Balder si appoggiò al tavolo con le braccia incrociate sul petto, la testa china.
Onestà, gli aveva consigliato il padre. Con Ilda, certo, ma teneva moltissimo anche al fratello, che ormai era l'unico ad essere all'oscuro di quel... segreto. Persino le gemelle lo sapevano, dato che ogni volta che Ilda entrava e loro erano vicine a lui gli davano delle leggere gomitate ridacchiando. Brutto a dirsi, ma Balder cercava di evitarle il più possibile. Erano un po' troppo... tra le nuvole, per i suoi gusti. E poi avevano cinque anni di differenza. Le sue sorelline erano dolci, sì, e le amava come gli altri, ma erano quelle più incomprensibili per lui. Tanto valeva dirlo anche a Tyr.
- Mi piace Ilda. Molto. Non come sorella o amica...
Tyr spalancò la bocca. - Ti piace piace? Sul serio?
Balder annuì appena.
- Caspita, sei pieno di sorprese ultimamente, fratello! Oh, ma... oh no... pensavi che noi due... no no no, non c'è nulla tra noi! Zero! Hai frainteso.
- Da parte tua magari, ma... non sono sicuro che lei non provi nulla per te.
Tyr si accarezzò il mento. Di solito faceva così nel tentativo di stimolare la crescita della barba, che ancora non si vedeva perché chiaramente troppo presto, ma lui ci provava lo stesso. Al contrario, Balder la sentiva fin troppo nettamente, e sapeva che dopo quegli esercizi avrebbe dovuto radersi. Al contrario del fratello, avrebbe fatto di tutto perché se ne andasse.
- Non prova nulla per me. Potrei giurartelo, scommetterci quello che vuoi. Non ha mai... tentato un approccio. A meno che riempirmi di insulti non sia un approccio. Ora che mi ci fai pensare, però, fa spesso domande su di te, quando non sei con noi. E... caspita, ti fissa un sacco, me ne rendo conto solo ora!
Poi si bloccò nello slancio, un dito puntato al cielo. Lo diresse verso il viso di Balder, come un'accusa. Lui non si scompose.
- Dov'eravate quella sera, Bal? Ilda è sparita... e anche tu non eri in giro. Lo so io, che vi stavo cercando. Allora, furbacchione...?
La porta si aprì di scatto, e Ilda entrò a capo chino, reggendo un libro in una mano e un marchingegno che stava studiando con occhio critico nell'altro. Percependo la strana atmosfera quasi palpabile che aleggiava lì, alzò lo sguardo. Impallidì quando vide Balder, e quasi non degnò di un'occhiata Tyr.
Balder sovrastava il fratello di mezza testa, e sembrava scolpito nel marmo, con il muscoloso torso nudo, le braccia ancora incrociate al petto e i ricci spettinati che gli davano un'aria piacevolmente trasandata. La cicatrice sulla fronte sembrava brillare sotto la luce, conferendo intensità ai suoi occhi scuri.
Ilda si ricompose subito e distolse lo sguardo, ma non poté evitare di arrossire. Voltò loro le spalle per nasconderlo. - Cambiate aria - ordinò, prima di andarsene e richiudersi la porta alle spalle.
Tyr sghignazzò e si appoggiò con un braccio alla spalla di Balder. - Quello, fratello, si chiama 'mangiare con gli occhi'.
Balder arrossì e gli diede un pugno leggero sullo stomaco prima di rimettersi i guanti. Ma Tyr tornò alla carica.
- Cos'avete fatto a corte? Devi dirmelo, Balder. È palese che avete fatto qualcosa.
Balder era stufo di tenersi tutto dentro e, come con Thorn, sentì il desiderio, il bisogno di parlare. Tyr avrebbe potuto capirlo, forse. - Ci siamo baciati. Cioè, mi ha baciato. Lei. Poi io.
Un racconto chiaro, preciso e ricco di dettagli. Per lo meno il punto centrale si era capito.
Tyr fischiò. - Con la lingua?
Balder lo fissò con disgusto per la domanda così priva di tatto. Va bene che loro due parlavano di tutto, ma... c'era un limite, a quel tutto. - Ficcanaso.
- Allora? - lo incalzò Tyr, che fremeva come se fosse una ragazza che aspettava la proposta matrimoniale dell'amato.
Balder sospirò, rimettendosi anche la maglia. - Un po'. Ma non come credi tu. Quindi direi di no.
Tyr sembrava deluso. - Che barba. E com'è stato?
Balder si bloccò. Già, com'era stato? Esistevano parole per descriverlo, o dovevano ancora essere inventate? - Non si può spiegare. Bisogna provarlo. Posso solo dirti che, se potessi, lo farei per l'ottanta percento della giornata. Facciamo settanta, dormire è importante.
Tyr fischiò di nuovo. - Quante notizie bomba, Bal! Tu e Ilda, baciati... e dove, a proposito? Vi ho cercati ovunque.
Balder arrossì. - In un armadio.
Tyr sorrise maliziosamente, anche se lo sguardo era quello di chi ha perso le speranze. - In un armadio. Al buio. Da soli. Non è che siete voi quelli che... sai...? - chiese, ammiccando.
Balder scosse testa e mani, in un diniego categorico. - Sei matto? Assolutamente no.
Tyr tornò subito serio. - Ti sarebbe piaciuto?
Balder arrossì di nuovo, al punto che dovette togliersi gli occhiali da quanto rosate erano le lenti. Sembravano essere diventate persino calde.
Tyr non insisté. Gli posò una mano sulla spalla. - Penso che dovreste parlarvi. Sinceramente. Ho come l'impressione che vi struggiate entrambi per la stessa cosa senza nemmeno rendervene conto, e che gli unici a non capirlo siate voi.
Balder fece un sorrisino privo di divertimento. - La mamma e Serena hanno detto più o meno la stessa cosa.
Tyr mise il broncio. - Parli con le donne prima che con me? Complimenti, fratello. In ogni caso, prima vi chiarite, meglio è. Vai. Ora. Basta che mi avvisi quando chiederai la sua mano a Renard - concluse Tyr ridacchiando, mentre Balder smetteva di ascoltarlo e inforcava la porta dopo essersi rivestito. - Non vorrei essere nei paraggi quando accadrà.
Ma Balder se n'era già andato.



Balder trovò Ilda in corridoio, in compagnia di Mira e Belle. Stavano cercando Randolf, sparito da qualche parte a leggere o a fare altre cose solitarie.
- Non avete scuola voi due? - chiese Balder, gli occhi ridotti a fessura.
Le gemelle gli sorrisero angelicamente, anche se l'effetto sarebbe stato migliore se avessero avuto i capelli biondi anziché rossi. - Il maestro non inizia senza Randolf - disse Mira.
- Ha mandato noi a cercarlo perché è stata colpa nostra se è scappato - continuò Belle.
Mira ridacchiò. - Volevamo acconciargli i capelli ma lui si è rifiutato.
Le gemelle sembravano avere un legame simile a quello della Rete tra di loro. Ogni tanto facevano paura.
Ilda scosse la testa. - Mio fratello dovrebbe mostrare un po' più di fegato. Forse è con Serena, so che voleva chiederle alcune cose. E lei lo ha nascosto più di una volta.
Le gemelle si guardarono e annuirono, poi ammiccarono al fratello maggiore. - Vieni con noi, Ilda? - chiesero contemporaneamente.
Ilda guardò di sfuggita Balder, che la precedette. - Ilda ha da fare con me - disse, affermazione che poi gli costò un imbarazzantissimo rossore su collo e guance.
Tossì per nasconderlo, ma le gemelle stavano già sorridendo, fin troppo consapevoli. Si allontanarono ridacchiando, senza nemmeno salutare.
Balder si grattò la nuca, a disagio. - Mi dispiace che le mie sorelline torturino così Randolf.
Ilda lo guardò severamente, come se con l'occhio cattivo potesse annullare la maschera che indossava e svelare le sue vere intenzioni. Quelle erano le prime parole civili che si scambiavano da quella sera, a parte alcune formule di cortesia più dovute che sentite.
Si strinse nelle spalle, come se la cosa non le interessasse. – È ora che mio fratello tiri fuori un po' di orgoglio e forza, non può nascondersi dietro di me o scappare per tutta la vita. Comunque, che hai da fare con me?
Balder spostò il peso da un piede all'altro, cercando di non mostrarsi troppo agitato. Ilda perdeva la pazienza quando la gente tergiversava.
- Volevo parlarti. E chiederti anche scusa. Per quello che ho fatto e... per il danno di immagine che ho arrecato a te e alla tua famiglia. Poi... ecco...
Le ultime parole si trasformarono in un borbottio confuso, quando una domestica passò accanto a loro e li squadrò con un'occhiata non proprio innocente. Balder prese Ilda per il polso e la trascinò dentro la prima stanza vuota che trovò. Solo dopo essersi chiuso la porta alle spalle si rese conto di ciò che aveva fatto, e arrossì. Ilda cercò di non farlo, andando all'attacco.
- Quindi? Mi pareva ti stessi scusando.
Balder era perplesso. Sì, si era scusato. Cos'altro...? - Ehm... sì. M-mi dispiace. Ho agito d'impulso e mi scuso. Non si ripeterà.
Ilda non sembrava pienamente soddisfatta, ma non aggiunse altro e non girò il dito nella piaga. - Accetto le tue scuse - disse ammorbidendosi un po'. - Devi aggiungere qualcosa?
Balder prese un respiro profondo sperando che lei non lo notasse. - Sì, ehm... pensavo ti piacesse Tyr.
Ilda lasciò cadere le braccia, esterrefatta. - Che?! Assolutamente no! È come un fratello per me. Mai e poi mai potrei... oh... - esclamò, prima di calmarsi e realizzare le implicazioni di quell'affermazione. - Non mi piace Tyr. Non in quel senso. Ma a te piace qualcuno. E non l'hai mai detto né a me né a tuo fratello.
Balder sembrò abbassarsi di statura sotto al peso delle accuse. - Pensavo che voi vi piaceste.
- E quindi?
Balder avrebbe voluto sbuffare. Ilda non gli stava rendendo le cose granché facili. Se lo meritava, ma non fino a quel punto. - Quindi non volevo mettermi in mezzo tra voi due.
Dall'espressione di Ilda era chiaro che non si raccapezzava, ma a Balder sembrava di essere stato chiaro. O forse no?
- Scusa, metterti in mezzo per cosa? Sei tu quello a cui piace qualcuno e non ce l'hai detto.
Balder cominciava ad averne abbastanza. - Non potevo dirtelo se a te piaceva mio fratello e tu piacevi a lui! Avrei distrutto il nostro rapporto e sarei stato egoista!
- La odiamo così tanto questa ragazza? Tanto da distruggere la nostra amicizia?
Balder si infilò le mani tra i capelli. - Sei tu quella ragazza, Ilda! - urlò infine, stremato.
Ilda lo fissava a bocca aperta, come un pesce boccheggiante, gli occhi eterocromi che lo guardavano senza vederlo. - Sono io la ragazza che ti piace? Ma perché non me l'hai detto subito?!
Balder emise un gemito di frustrazione. - Perché. Pensavo. Che. Ti. Piacesse. Mio. Fratello. E. Viceversa. Pensavo steste insieme, come una coppia. Non mi sarei mai messo fra voi.
Ilda aprì la bocca di nuovo e la richiuse, prima di emettere un debole: - Oh.
Le cose non stavano andando come Balder aveva previsto e la cosa lo infastidiva. Si avvicinò a Ilda, facendola indietreggiare, e con un coraggio che non sospettava di avere la spinse contro il muro e si appoggiò ad esso con una mano, lasciandole però lo spazio per tirarsi indietro. - E tu? Perché mi hai baciato?
- Quindi quando hai detto che la ragazza che volevi vedere era presa da quell'altro, a corte, intendevi dire che io ero... ah... ero presa da Tyr. Capisco.
- Perché mi hai baciato? - la incalzò Balder, con una voce talmente gelida che avrebbe potuto fare concorrenza a quella di Thorn.
Ilda rabbrividì. Parve sporgersi verso di lui, sulle punte, ad un soffio dalle sue labbra. Balder poteva sentire il profumo dei suoi capelli. Chiuse gli occhi...
- Hai ragione, si sarebbe rovinato il nostro rapporto. Si rovinerebbe il nostro rapporto, intendo. Siamo amici. E... resteremo amici.
Lo stomaco di Balder gli finì sotto ai piedi, e lui avrebbe solo voluto calpestarlo e distruggerlo. Come il suo cuore. Si allontanò, ponendo più distanza possibile tra di loro. Sentì freddo, senza il corpo di Ilda vicino.
- Quello che abbiamo è troppo importante per metterlo in pericolo. Non... non saprei come fare, senza di te al mio fianco... come amico.
- Perché mi hai baciato, allora?! - sbottò Balder, arrabbiato, scandendo ogni parola.
Arrabbiato con se stesso, per essersi permesso per un attimo di sperare.
Ilda sussultò, evitò il suo sguardo. - Perché... per la situazione. E volevo che fosse con te, il mio primo bacio. Tutto qui.
Il viso di Balder era una maschera di ghiaccio più di quanto lo fosse mai stata quella di Thorn. Lui si era sentito ferito quando Ofelia gli aveva tirato uno schiaffo, certo, e Thorn si era un po' illuso di piacere alla fidanzata, ma loro non erano ancora, all'epoca, in confidenza come Balder e Ilda.
E non si erano mentiti.
- Non voleva dire nulla - bisbigliò Ilda, come se quello che aveva detto prima non fosse stato abbastanza chiaro.
Balder strinse i pugni per cercare di tenere insieme tutte le parti del suo corpo. Si sentiva andare a pezzi, e non voleva farlo di fronte a Ilda.
"Non voleva dire nulla".
Allora perché non lo guardava negli occhi?
- Non ci si comporta così Ilda. Io ho fatto ciò che ho fatto per un motivo, anche se a te non ha garbato e sono il primo ad ammettere di aver sbagliato. E mi hai infamato. Tu però ti sei comportata peggio di me. E io cosa dovrei fare, allora? Urlarti dietro come hai fatto tu?
Ilda non gli era mai sembrata così piccola, così pentita, così... sofferente. Però si ostinava a non guardarlo in volto e Balder era troppo arrabbiato per notare tutte quelle menzogne che lei cercava di spacciargli per verità.
- Restiamo amici...
- Un giorno, forse. Non ora.
Non appena Balder si sbatté la porta alle spalle, Ilda scoppiò in lacrime.

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Capitolo 60
*** Capitolo 60 ***


Buongiorno a tuttiiiiii!
Finalmente si vede qualche progresso sui progetti di Balder! E che progressi...
A tal proposito, questo è un capitolo a cui tengo particolarmente, e spero che vi possa piacere allo stesso modo. Penso che ormai abbiate capito cosa farà Balder, e se non lo avete capito lo scoprirete in questo capitolo MA... ci tengo a precisare, che io nno credo sia una cosa né impossibile, né inventata.
Senza fare spoiler, vi dico solo questo: ricordatevi il quarto libro. La ferita di Seconda. Gli artigli fuori controllo di Thorn. E ciò che ha fatto Ofelia. Fine.


Capitolo 60

I giorni seguenti furono i più duri per entrambi. Ilda si chiedeva come fossero potuti arrivare a quella situazione, Balder non se lo domandava nemmeno più.
Ilda non rimpiangeva quel bacio, non lo avrebbe mai fatto, ma si malediceva ogni giorno quando Balder la evitava o non le parlava quando erano insieme. Se non lo avesse baciato, nulla di tutto quello sarebbe successo, e avrebbero potuto continuare ad essere amici. Non vicini quanto lei (e quanto lui) avrebbe voluto, ma nemmeno così distanti. E Ilda preferiva averlo accanto almeno come amico, che non averlo affatto. Aveva detto quello che aveva detto, cioè che non significava nulla, quel bacio, in un disperato tentativo di tenere Balder accanto a sé. Non avrebbe mai pensato che l'effetto sarebbe stato quello contrario.
Balder, dal canto suo, era troppo arrabbiato per poter vedere oltre, per poter cogliere la menzogna dietro quelle parole. Arrabbiato con se stesso, arrabbiato con Ilda, arrabbiato con l'amore stesso. Con quell'amore che non voleva affievolirsi, che non poteva impedirsi di provare, nonostante tutto. Arrabbiato soprattutto per il fatto che, ogni volta che vedeva Ilda, prima di distogliere lo sguardo e cercare un pretesto per allontanarsi o mostrarsi indaffarato, ripensava al bacio.
E ne desiderava un altro. E un altro. Non voleva altro.
Non aveva più parlato con sua mamma, sua sorella o Tyr. Loro ci avevano provato, ma lui si era sempre rifiutato. Cambiava discorso, si chiudeva nel silenzio. Alla fine avevano deciso di lasciarlo in pace, persino Thorn, che a tavola lanciava occhiate discrete, anche se pungenti come sempre, a lui e a Ilda. Le uniche che non avevano mollato l'osso erano le gemelle, che sembravano interessate ai pettegolezzi quanto la prozia Berenilde, e non perdevano occasione per ascoltare le sue chiacchiere di corte.
Arrivò poi il giorno del matrimonio tra Vittoria e il cugino Tom, che portò al Polo una trentina di animisti e una gran confusione. Tom sarebbe rimasto a vivere lì, perché era impensabile per Vittoria e Berenilde separarsi o allontanarsi dal Polo. Tom era un tipo a posto, Balder si trovava bene con lui. Era taciturno e riflessivo, non si perdeva mai in chiacchiere inutili ed era molto, molto paziente con Vittoria. Ma l'amore che provava per lei era innegabile, la guardava come se fosse il suo sole, la sua aria, la sua terra. E Vittoria, anche se a modo suo, un po' incomprensibile, ricambiava. Il matrimonio fu l'occasione per vedere anche Faruk, che visitava regolarmente la figlia e la sua favorita nella loro casa, lontano da sguardi indiscreti e soprattutto da Thorn, che non voleva assolutamente che lo spirito di famiglia mettesse piede in casa sua.
Balder non riusciva a capire Faruk più di quanto capisse Vittoria, anche se al confronto la cugina gli sembrava un mostro d'intelligenza. La odiò un po', però, quando si avvicinò a lui e Tom mentre parlavano, al ricevimento. Balder stava dando al cugino delle spiegazioni sul funzionamento delle cose lì, ridendo delle cose più strane. Si era dimenticato di Ilda per qualche minuto, splendida nel suo visto dai colori chiari, e si era reso conto che Tom e lui sarebbero diventati ottimi amici, quando arrivò Vittoria a girare il dito nella piaga. O a riaprire una vecchia ferita, comunque la si volesse vedere. Portandosi dietro Ilda per mano, Vittoria la fece fermare accanto a Balder. I due non si guardarono nemmeno. Tom non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca che Vittoria porse ai due un foglio, in modo che però solo loro lo potessero vedere.
Ilda avvampò. Balder sbiancò.
Il disegno di Vittoria era una perfetta riproduzione del bacio che si erano scambiati, il loro primo e unico bacio, immortalato come se fosse stato catturato dallo scatto di una fotografia, e non dalla mano di una ragazza che, quel bacio, non doveva nemmeno averlo sospettato. Li guardò con un sorriso enigmatico prima di andarsene, portando via il novello marito, sempre più confuso e rassegnato ad esserlo per il resto della vita.
Ilda e Balder rimasero a squadrare il disegno senza quasi curarsi di non essere visti. Balder beveva i tratti dolci con cui Ilda era stata ritratta, la gonna increspata, i riccioli chiari sfuggiti all'acconciatura, la curva dolce del naso che toccava la sua. Ilda invece si imprimeva nella memoria quello che, al buio, non aveva potuto vedere: il corpo sinuoso di Balder che si protendeva verso di lei, le sue mani sulla vita, il viso inclinato nella sua angolazione migliore.
L'emozione che la travolse fu talmente dirompente che fu costretta ad andarsene, lasciando Balder da solo a scrutare quel disegno orribilmente preciso e straziante. Non si accorse nemmeno dell'avvicinamento di Ofelia, che gli toccò il braccio con dolcezza, invitandolo a ricomporsi. Alzando lo sguardo, Balder incontrò gli occhi metallici e penetranti del padre, a pochi passi da loro, e si sentì tornare bambino. Voleva correre da lui, abbracciare la mamma, infilarsi nel loro letto fingendo di aver avuto un brutto sogno. Osservò la madre tornare accanto a Thorn, scambiare con lui poche e brevi frasi. Osservò il modo in cui si muovevano, gravitando uno attorno all'altra, proteggendosi a vicenda.
Desiderò essere al posto loro, con Ilda.
Tenne il disegno, lo nascose in camera sua affinché nessuno potesse trovarlo. Non si interrogava più su come Vittoria avesse potuto realizzare un capolavoro del genere, sul perché. La logica non era contemplata, quando si trattava della cugina.
La amò e la odiò per avergli fatto dono di quel disegno che era insieme una condanna e una liberazione.
 
- Non si parlano - disse Thorn a Ofelia qualche sera dopo il matrimonio di Tom e Vittoria.
Ofelia salì sul materasso scostando le coperte, dopo essersi tolta gli occhiali.
- Chi?
- Balder e Ilda.
Ofelia increspò la fronte. Thorn non era abituato a vederla senza occhiali e si sorprendeva sempre di come il suo viso cambiasse senza le lenti a schermarla. Senza un preavviso, se la trascinò addosso con poca grazia, facendola sussultare per la sorpresa. Le afferrò con urgenza e avidità le cosce e poi i glutei, spogliandola con un solo gesto esperto mentre Ofelia, ritrovato il controllo di sé, rispondeva al contatto. Thorn si sedette, incollando il petto a quello della moglie, e la baciò con foga, con un bisogno e un desiderio selvaggio che non dimostrava da un po', ma che Ofelia accolse con piacere. Aveva sempre amato i momenti, rari, in cui Thorn perdeva completamente ogni inibizione, diventando quel cacciatore che aveva sempre rifiutato di essere, ma gli scorreva nelle vene come la violenza nei nervi.
Thorn la baciò ancora e ancora per soffocare i suoi gemiti incontrollati. Ofelia quasi si vergognò, nonostante tutti quegli anni, tutti quegli avvenimenti, perché in qualche modo Thorn sapeva ogni volta come fare per farle perdere il controllo al punto da sentirsi bruciare per il bisogno. Si strinse a lui, abbracciandolo, quando Thorn la spinse oltre il limite, e fu il suo turno di soffocare il suo ruggito spingendogli il viso contro il suo collo, per attutirlo.
- Thorn? - lo chiamò dopo diversi minuti di immobilità, quando i loro respiri furono tornati normali. - Che succede?
Lo conosceva troppo bene per farsi fregare. Qualcosa lo tormentava, e non dovette insistere molto perché lui rispondesse.
- Ho ripensato... al tormento di averti per moglie, di averti accanto, e non poterti... toccare.
Ofelia gli baciò il collo, la guancia, le cicatrici, ripensando ai mesi di attesa a cui l'aveva sottoposto prima di capire che lo amava e lo desiderava, in ogni ambito.
- Sarebbe stato ancora peggio se tu non mi avessi nemmeno parlato. Capisco Balder.
Ecco perché aveva tirato in ballo il figlio e Ilda, allora.
- Ho visto che non si parlano - mormorò contro la sua pelle. - Balder però non vuole dirmi nulla.
Thorn era una statua di ghiaccio contro di lei, immobile come uno spaventapasseri, solido come una roccia. Le accarezzò la schiena. - Non credo ci siano cose da dire in situazioni come questa.
Ofelia si scostò e gli pettinò i capelli che aveva contribuito a mettere in disordine. Ne aveva ancora tanti, ma la fronte era avanzata sempre di più, rendendolo stempiato ai lati fino quasi a metà testa. Ofelia si meravigliava che non li avesse persi tutti, con il suo lavoro.
- Ti ho fatto aspettare, vero?
Thorn la baciò ancora, insaziabile.
- Ne è valsa la pena.
 
Balder si gettò anima nello studio e corpo nell'allenamento. Fare esercizio lo aiutava a scaricare la tensione e a distrarsi con il dolore fisico, mentre lo studio impediva alla sua mente di vagabondare. Si staccava dai suoi programmi serrati solo quando Tom andava in visita, per aiutarlo e dargli consigli da uomo a uomo quando non riusciva ad ambientarsi.
Tenersi occupato lo aiutò anche a stare lontano da Ilda, che si teneva ben alla larga dallo studio di Thorn, o dalla camera in cui Baler si allenava, lontano persino dal fratello. Tyr invece non lo lasciava stare, rimpiangendo il trio che avevano sempre formato con Ilda. Quando aveva capito che non era il caso di sfidare troppo a lungo il buon e paziente Balder, però, il loro rapporto era migliorato. Come una corda troppo tirata, Balder si sarebbe spezzato del tutto se il fratello avesse insistito. Così non avevano più parlato di Ilda, ma continuavano a fare esercizi insieme e a scherzare tra fratelli. Quando poteva, Serena si aggiungeva a loro, prendendo il posto, in modo molto più pacato, di Ilda. Sembrava che avesse perdonato Archibald, anche se tra i due c'era quasi la stessa freddezza che aleggiava tra Ilda e Balder.
Quel ritiro mente-corpo però giovò parecchio a Balder dal punto di vista delle sue ricerche.
Quando aveva ormai diciassette anni, a diverse settimane di distanza dalla prima caccia di Tyr e dall'ultimo esame di Serena, ottenne il primo, vero risultato.
E da lì a poco, il suo successo più grande.
Anche se, a dire il vero, i progressi all'inizio non furono così eclatanti. Se proprio si potevano chiamare successi...
Il primo test lo effettuò su Tyr. Gli spiegò una gran quantità di cose con tono così entusiastico che Tyr non se la sentì di interromperlo. Almeno per i primi dieci minuti. Poi si stufò e gli chiese di arrivare al dunque perché si stava addormentato. Non andò granché bene, perché invece di rilassarsi, come Balder gli aveva promesso che sarebbe successo, Tyr se ne andò dalla stanza gemendo per il numero di tagli superficiali ma dolorosi che gli ricoprivano tutto il busto. Balder era così mortificato e dispiaciuto che a cena faticò a mangiare, ma Tyr lo prese in giro bonariamente mentre Thorn gli disse che in una disciplina nuova come quella la possibilità di riuscita nei primi dieci tentativi era al di sotto del due percento.
Voleva essere un incoraggiamento, ma Ofelia gli diede una leggera gomitata: non lo stava proprio aiutando, e Tyr era sbiancato all'idea di doversi sottoporre a quel supplizio altre nove volte.
A discapito delle previsioni, il secondo tentativo fu già più soddisfacente. Balder chiese a Tyr di fargli da cavia dopo altre due settimane, passate a lavorare febbrilmente sui processi fisici che potevano aver portato a quel risultato.
- Hai male? - gli chiese Balder, dopo due minuti di assoluto silenzio.
Tyr se ne stava immobile in una stanza di cui Balder si era appropriato, seduto con aria annoiata. - No. Dovrei?
Balder aggrottò le sopracciglia. - No, ma dovresti sentire dei benefici. Li senti?
Tyr trattenne a stento uno sbadiglio. - Mi formicola il piede. Mi stai facendo qualcosa al piede?
Balder sbuffò e si passò una mano tra i ricci, sparandoli dappertutto. - Stavo cercando di agire sul tuo collo.
Tyr chiuse gli occhi. - Sento un po' di solletico, in effetti.
- In che punto? - domandò Balder, fiducioso.
Sorrise estaticamente quando Tyr gli indicò il punto su cui lui stava cercando di esercitare una qualche influenza. Ma l'entusiasmo morì quando Tyr chiese: - Ma deve farmi il solletico?
No, non doveva fargli il solletico.
In ogni caso, come risultato non era malaccio. Decisamente meglio dei tagli.
Ci volle un altro mese perché finalmente, finalmente, ottenesse il risultato che aveva sempre sperato. Anche un po' di più.
Dopo la sperimentazione con Tyr nel pomeriggio, la sera fece convocare tutti nella stanza di cui aveva preso possesso per gli esperimenti. Aveva lasciato la biblioteca ad uso esclusivo del padre quando si era reso conto che far mettere Tyr a petto nudo per studiarne meglio l'anatomia non era molto in linea con la deontologia dell'intendenza. Soprattutto mentre Thorn e Serena lavoravano.
Balder indossò un camice bianco e accolse l'intera famiglia, compresi i membri allargati, nella camera che fortunatamente era in grado di contenere tutti. Non c'era nulla di troppo piccolo, in quel castello.
L'emozione fece però un brutto scherzo al timido Balder, che inciampò sui suoi stessi piedi e dovette bere due bicchieri d'acqua prima di riuscire a parlare. Dall'alto della sua statura, Thorn lo fissava con l'orologio alla mano. Annuì una sola volta, come incoraggiamento, quando il figlio intercettò il suo sguardo.
- Bene, ringraziamoci per essere qui... vi ringrazio, volevo dire, per essere lì...
Tyr gli diede un'artigliata sul sedere che produsse l'effetto di una sculacciata, e Balder sussultò. Tyr gli fece l'occhiolino e con le mani lo invitò a calmarsi. Serena gli sorrise dolcemente, prendendo un profondo respiro.
Balder li imitò, inalando più aria che poteva e cercando di rilassarsi. Sentiva i nervi a fior di pelle e avrebbe tanto voluto che in quel momento qualcuno facesse a lui quello che lui si apprestava a fare a Tyr. Incontrò fugacemente gli occhi di Ilda, che lo fissava intensamente, e per qualche motivo ritrovò il coraggio, anziché sentirsi in soggezione. Non si era mai messo in mostra, quello spettava a Tyr, e non aveva mai ottenuto risultati eccelsi nello studio quanto Serena, quelli non erano i suoi compiti. Ma per una volta, da ragazzo timido, riservato e in seconda posizione, voleva avere le luci della ribalta solo per sé, voleva essere il Narratore come una volta lo era sua madre, come gli avevano raccontato.
Voleva essere il protagonista.
Così prese la cartellina su cui si era scritto il discorso, temendo che la sua memoria fallace lo tradisse, ma poi la rimise giù.
- Perché il camice bianco? - chiese Archibald.
Thorn gli lanciò un'occhiata di fuoco, ma l'ex ambasciatore non ne rimase minimamente turbato. Ammiccò a Balder, toccandosi il cilindro sbrindellato, e Balder ne approfittò per partire da quella domanda. Lo ringraziò con un cenno del capo.
- Non penso che questa nuova... scoperta, o disciplina, devo ancora categorizzarla, possa rientrare nell'ambito medico, ma mi sembrava appropriato. È comunque un'influenza che viene esercitata sul corpo... Sostanzialmente, e lo sapete tutti, gli artigli non sono altro che una proiezione del sistema nervoso dei Draghi che attacca, per così dire, il sistema nervoso altrui, che sia animale o umano. Non c'è un contatto fisico diretto, è solo un impulso, un ordine che viene impartito e a cui i nervi rispondono. Tecnicamente, anche se è una definizione grossolana, è come se la persona si autolesionasse. Il cervello pensa di soffrire e il corpo ne accusa il colpo. Non si può fare assolutamente nulla per combatterlo.
- Il mio pensiero è stato di altra natura. Se il nostro sistema nervoso può ledere quello altrui, perché non anche... curarlo? Apportare dei benefici? Capita a tutti di avere un nervo accavallato, o i muscoli contratti, o essere particolarmente rigidi e annodati. Dopo questi anni di studio ho capito che una giusta pressione esercitata sui nervi può distendere completamente qualsiasi parte del corpo, dai tendini alle fibre muscolari, articolazioni e, senza che vi annoi con una lezione di scienze, su tutto quello che vi gravita attorno. Potrebbe essere considerato alla stregua di un massaggio, ma va ad agire molto più in profondità, recando benefici maggiori rispetto alla semplice pressione delle mani. Nei prossimi giorni testerò questa teoria ulteriore su Tyr.
Il fratello emise un sospiro impercettibile, ormai rassegnato ad essere la cavia di Balder in ogni occasione. Non aveva ancora sperimentato ciò che Balder stava dicendo perché non ne avevano avuto il tempo e una volta sicuro del risultato Balder aveva contattato tutti per mostrare loro il risultato.
- Tyr - lo chiamò Balder, come se gli avesse letto nel pensiero. - Se vuoi cortesemente accomodarti, possiamo iniziare la dimostrazione.
Tyr si scrocchiò le nocche della mano e si sdraiò sul lettino, trattenendo a stento qualche battuta esibizionistica. Balder aveva pensato di farlo rimanere a petto nudo, all'inizio, ma poi si era reso conto che la vista del fratello senza maglia sarebbe solo stata una distrazione e non avrebbe apportato nessun beneficio alla dimostrazione. Non erano visibili, gli effetti che voleva produrre.
Balder prese un altro respiro profondo prima di iniziare. O almeno, gli astanti pensarono che avesse iniziato. Non ci fu nessun segno tangibile che fosse iniziata la dimostrazione, ma la ruga di concentrazione sulla fronte di Balder era un indizio abbastanza identificabile. Ilda non gli toglieva gli occhi di dosso.
- Avevi una contrattura alla spalla destra, giusto Tyr?
Tyr chiuse gli occhi, che di colpo sembrarono pesanti, e annuì. - Mi era passata, ma... ogni tanto... Balder, è normale che abbia così sonno?
Balder non rispose, ma dopo pochi attimi Tyr sospirò, rilassando l'intero corpo. - Che bello... - mugugnò.
Ofelia si avvicinò di un passo, sorpresa. Tyr sembrava quasi ubriaco. Non voleva dubitare di Balder, però...
Balder sorrise trionfante. Incespicò un po' all'indietro, come se una corda tesa tra lui e il fratello si fosse spezzata, tornando al mittente. - Finito.
Fu la zia Roseline a dar voce ai pensieri di tutti. - Basta? Finito? Ma abbiamo visto meno che attraverso la finestra oscurante del prozio Felicio. Quella finestra bisbetica diventa nera ogni volta che...
Balder non sembrò demoralizzato da quei commenti. Anzi, sorrise. - Non ho mai detto che avreste visto qualcosa. Tyr, come va la spalla?
Catatonico, Tyr si mise a sedere. Ruotò la spalla e, dopo un attimo di prove, spalancò gli occhi. - Sta meglio di quella sinistra. Come hai fatto?
Il sorriso di Balder si allargò, leggermente compiaciuto. - Temo di aver esercitato una pressione troppo massiccia sul tuo sistema nervoso, questo ti ha indotto uno stato di intorpidimento simile al sonno. In sostanza, troppo rilassamento. Ma il residuo di contrattura è stato completamente sanato.
Renard aveva gli occhi spalancati. - Ecco il perché del camice... Un lavoro più certosino di quello di un dottore!
Balder si passò una mano tra i riccioli, di colpo di nuovo timido e imbarazzato. - Questo sistema permette di andare ad agire direttamente sul nucleo del problema, inducendo il proprio corpo ad autoguarirsi senza alcun effetto collaterale né strascico. Inoltre, non è per forza necessario adoperarlo solo per riparare delle fibre danneggiate. Come avete visto, è un ottimo modo per permettere al corpo di rilassarsi, di rigenerarsi, meglio di certo di quanto potrebbe mai fare un massaggio classico o un'illusione, perché i benefici sono permanenti, o comunque gli effetti tendono a dissiparsi molto più lentamente. Ultimo, ma non ultimo per importanza, questo meccanismo permette di neutralizzare il sistema nervoso altrui in caso di attacco. Ciò significa che, addestrando il proprio sistema nervoso, è possibile bloccare l'attacco di un altro Drago.
Tyr si svegliò dal torpore, spalancando gli occhi. Quella notizia aveva creato più stupore che la dimostrazione pratica di Balder.
- Vuoi dire che se io ora ti attacco, tu puoi contrastarmi? - domandò Tyr.
Balder annuì. - Oppure può bloccarti papà. O la prozia Berenilde. O Mira o Belle. Chiunque possegga gli artigli. Prova a tagliarmi il palmo della mano. Un taglio piccolo, per cortesia, una ferita sulla mano è terribilmente fastidioso durante la guarigione.
Tyr sorrise alzando gli occhi al cielo in modo che solo Balder lo vedesse, e sapeva anche cosa il fratello voleva dirgli, senza bisogno di parole: - Lamentoso, fastidioso e frignone.
Anche se, tra i due, il più frignone era decisamente il più grande e grosso, ma Balder non si metteva a litigare con le cause perse. Invece, alzò il palmo, e Tyr gli fece subito comparire un taglio chirurgicamente dritto nella parte bassa del palmo, quella più dura.
- Lì dovrebbe essere meno antipatico, durante la guarigione - disse solo, cercando di non tirarsela troppo per il suo perfetto controllo.
Balder lo ignorò e mostrò a tutti il taglio, talmente superficiale che nemmeno sanguinava. Poi lo riportò verso Tyr. - Ora rifallo.
Tyr fissò il palmo con atteggiamento rilassato, ripetere quel compito non era che un gioco da ragazzi.
Dopo venti secondi aggrottò le sopracciglia bionde.
Dopo quaranta si irrigidì, assunse una postura adatta al combattimento.
Dopo un minuto, sia lui che Balder avevano la mascella serrata ed erano palesemente presi da una lotta invisibile.
- Può bastare, Tyr, a posto - lo informò Balder.
Ma Tyr sorrise quasi selvaggiamente.
Balder trattenne a stento uno sbuffo. - Con la forza che stiamo esercitando, mi staccherai la mano se cedo.
Tyr fece una smorfia e, evidentemente a malincuore, si rilassò. Balder fece lo stesso un attimo dopo, mostrando il palmo illeso. Gli occhi sgranati che gli risposero e le ovazioni soffocate lo fecero sorridere timidamente.
- Ultimo test, Serena, se non ti dispiace.
La sorella si avvicinò a loro, imperturbabile, come se le avessero chiesto se voleva una fetta di torta e non di offrirsi come soggetto sperimentale. Balder le mostrò il palmo aperto, e lei lo imitò, capendolo al volo.
- Tyr, cerca di fare a Serena il taglio che hai fatto a me.
Il fratello perse il sorriso strafottente e gli lanciò una lunga occhiata, come se si sentisse intimidito. Non gli piaceva perdere e non riuscire a fare una cosa tanto semplice lo irritava. Balder lo sapeva, e non poté evitare di lanciargli un sorrisino compiaciuto. Ancora una volta, nonostante gli sforzi quasi palpabili di Tyr, Serena ne uscì indenne, e gli artigli del Drago più forte della famiglia non poterono nulla contro la pressione di Balder.
- Non capisco - disse Tyr dopo che Serena si fu allontanata. - Io sono più forte di te. I miei artigli dovrebbero comunque sopraffarti.
- Ma non sai come farlo. Se ti insegnassi, probabilmente hai ragione, mi aggireresti, ma non del tutto. Come vedi, è possibile neutralizzarli. È possibile bloccare un Drago e i suoi artigli.
Tyr si lasciò sfuggire una mezza imprecazione di stupore, che si affrettò a bloccare tappandosi la bocca. Ma l'occhiata di riprovazione di Thorn gli arrivò lo stesso. A lui non servivano gli artigli per farsi capire.
Berenilde ridacchiò. - Chi l'avrebbe mai detto che, tra tutti, proprio tu avresti sconvolto in questa maniera le nostre ataviche tradizioni? Mi permetto di scusarmi per averti sottovalutato, caro pronipote. Tu porterai nuova fama al nostro clan - si complimentò Berenilde, battendo piano le mani. - Chiederei solo di non condividere con l'intero Polo la notizia che gli artigli possono essere neutralizzati. Non vorremmo apparire più deboli, vulnerabili, non credi?
Balder si strinse appena nelle spalle, l'orgoglio che aveva sfoggiato durante il suo discorso era ormai sparito. Tyr gli diede una pacca sulla spalla che lo fece ondeggiare.
- Non è necessario divulgarlo, se non lo ritenete opportuno, zia Berenilde. Ma mi sembrava doveroso informare tutti voi - spiegò Balder, soffermandosi su Ilda. Più a lungo del dovuto. - Da ora in poi, ci sarà sempre un modo per fermare qualcuno che perde il controllo degli artigli. O della propria lucidità.
Ilda chinò il capo. Per qualche motivo, nonostante non fosse stata lei ad attaccare senza motivo un ragazzo, si sentiva in colpa.
Ofelia cercò di non lasciar trasparire troppo la commozione. - Complimenti, Balder.
Thorn era ammutolito, stringeva in pugno l'orologio così forte che Ofelia temeva lo avrebbe rotto. Ma lui non disse nulla, mentre le domande e le offerte fioccavano da tutte le parti.
- Insegnerai anche a noi, fratello? - chiese Mira, mentre Belle annuiva e saltellava.
Randolf, silenzioso come sempre, osservava Balder ammirato, mentre Archibald mascherava la sua, di ammirazione, dietro un sorrisetto sghembo un po' ironico. - Chissà quante signore vorranno farsi mettere mano ai nervi da un Drago.
- Ma questa nuova... tecnica o quel che è, può essere esercitata solo dai Draghi sui Draghi? - domandò la zia Roseline.
- Esercitata solo dai Draghi, ma su chiunque lo desideri. Il sistema nervoso del ricevente non deve per forza essere dotato di artigli. Anzi, è più difficile entrare in contatto con un Drago, è come se gli artigli stessi formassero una sorta di scudo ai loro nervi. Serve molta più energia.
- Mi offro come cavia non Drago! Sono certo di avere due o tre nodini nella schiena, la mia signora ha messo a dura prova il mio... - esclamò Renard prima di essere interrotto da una gomitata di Gaela, che grugnì.
Renard le sorrise bonariamente e le diede un sonoro bacio sulla guancia, facendo vergognare più la figlia che la moglie.
- Io porto ancora memoria di come sia accogliere gli artigli sulla propria pelle. Vi lascio volentieri il ruolo sperimentale, Renold - scherzò Archibald, indietreggiando.
Serena lo guardò, impassibile, e distolse gli occhi solo quando Archibald li intercettò. - Io ci sono, se posso rendermi utile.
- Anche io vorrei provare - disse timidamente Randolf, ormai alto quanto la sorella nonostante apparisse il più piccolo della congrega. La stazza era quella del padre, ma il cuore, se possibile, era ancora più buono del suo.
- Idem! – si aggiunse Tom, ammiccando a Balder.
- Una volta che questa stregoneria sarà ben rodata, mi prenoto per una bella giornata di scioglimento. Sono più annodata della chioma del cugino Fernando. Ti ricordi, Ofelia? Abbiamo dovuto rasarlo a zero da quanto era inestricabile quella capigliatura dopo essere finito tra le rose.
Renard guardò la zia Roseline con orrore, mettendo le mani nei suoi, di capelli. La sua zazzera rossa simile al fuoco vivo ormai era stinta in un tenue arancione, per via dei capelli bianchi che spuntavano come erba infestante. Renard era parecchio più anziano di Ofelia, ormai doveva avere una sessantina d'anni. Quando ci pensava, lei rimaneva sempre impressionata, perché in realtà lo considerava un suo pari e, soprattutto, un amico.
Balder guardò i volti estatici di quelle persone, anzi, della sua famiglia, anche se non con tutti c'era un legame di sangue. Vide Vittoria disegnare qualcosa con un sorriso enigmatico sulle labbra, Tom accanto a lei annuire alla sua volta, sostenendola in silenzio, fino ad Archibald, che per una volta sembrava sinceramente emozionato, nonostante il sarcasmo, e a suo padre, che stringeva ancora l'orologio e sembrava tremare nella sua immobilità, passando per le prozie, per il fratello e le sorelle, gli amici, la madre.
Balder prese un profondo respiro e cercò di non mostrare la sua commozione. Si strinse nelle spalle. - Una cosa per volta, per cortesia. Sarò lieto sia di insegnarvi che di... eseguire su di voi questa tecnica, che vi assicuro essere già testata e comprovata. Ecco, devo lavorare seriamente per migliorare l'influsso su chi non è Drago, ma il più è fatto.
Il resto fu un susseguirsi confuso di sorrisi, grida di giubilo, complimenti, strette di mano, abbracci, troppi contatti che gli storsero gli occhiali e troppe pacche che gli fecero perdere l'equilibrio, ma Balder poteva giurare che quello fosse il momento più felice della sua vita.
Poi guardò Ilda, e il sorriso morì sul suo volto per pochi istanti, prima di essere rimpiazzato da uno leggermente meno entusiasta.
Il secondo momento più felice, si corresse.
Ilda non manteneva il contatto visivo a lungo, quando si accorgeva degli occhi di Balder su di sé distoglieva subito i suoi. Si scambiarono solo poche formule di cortesia con cui lei espresse la sua ammirazione. Per lo meno, si ritrovò a pensare Balder, non aveva cominciato a dargli del voi. Sarebbe stato l'ultimo passo necessario a rendere incolmabile l'abisso che si era formato tra di loro.
Archibald per una volta fu seguito da tutti quando propose di andare a brindare al successo del secondogenito dell'intendente, proposta che fu ben accolta e che nel giro di pochi minuti svuotò la stanza. Quello che ormai era stato definito il laboratorio di Balder, già grande di per sé, sembrò enorme senza la folla di prima a riempirla. Tyr gli diede un'altra pacca amichevole, simile ad un abbraccio, prima di uscire esultando e lasciarlo con i genitori.
- Sapevo che ci saresti riuscito! Mio fratello è un dannato genio!
- Tyr, il linguaggio, per favore...! - lo sgridò Ofelia, sospirando quando Tyr sparì nel corridoio.
Poi si voltò verso Balder, gli andò vicino e lo abbracciò stretto. - Vorrei darti un bacio, vorrei accarezzarti il viso, ma sei troppo alto, figlio mio. In questo momento è fastidioso.
Balder ridacchiò, un po' istericamente, liberandosi di tutta la tensione che non si era reso conto di aver accumulato. Non solo per quella presentazione, ma in tutti quegli anni, mesi in cui si era sentito inferiore rispetto ai fratelli e ai loro risultati. Invece ce l'aveva fatta, ci era riuscito. Ancora non ci credeva.
Si chinò verso Ofelia quando lei lo lasciò andare, permettendole di prendergli il viso tra le mani e accarezzarlo, guardandolo in quegli occhi che lei stessa gli aveva donato. - Sono fiera di te. Non saprei come aggiungere altre parole.
Balder le baciò una guancia, sollevandosi poi per affrontare il padre.
Thorn se ne stava in mezzo alla stanza, più rigido del solito, con ancora l'orologio in mano. Quando Ofelia gli tirò la manica della giacca, lui parve svegliarsi. Chiuse di scatto l'orologio e in due falcate fu di fronte a Balder, più alto di lui, ma non così tanto come con il resto del mondo. Prima di riuscire a parlare, o anche solo a respirare, Balder pensò che qualcuno avesse spento la luce, o lo avesse rinchiuso in un sacco.
Thorn lo aveva abbracciato talmente all’improvviso che Balder era rimasto immobile, con la testa premuta contro la spalla del padre. Quando si rese conto della situazione, però, lo strinse a sua volta, aggrappandosi a lui.
E non riuscì ad impedirsi di piangere.
- Grazie - sussurrò Thorn, talmente piano che Ofelia non lo sentì nemmeno.
Balder lo strinse ancora di più, come la madre, senza parole da esprimere. Però sorrise. - Gli uomini adulti non sono soliti abbracciarsi, papà – gli ricordò.
In risposta, Thorn emise uno sbuffo che fece sgranare gli occhi a Balder, nonostante le lacrime: suo papà aveva appena fatto una risatina. Minuscola, arrugginita, più simile ad un respiro, ma decisamente una risata. - Vedo che te ne ricordi - disse Thorn, riferendosi a ciò che gli aveva detto lui quando Balder, tempo prima, aveva proposto quella teoria. All'epoca, Thorn non si era nemmeno permesso di sperare, pur di non rimanere deluso.
Un modo per sfruttare gli artigli a fin di bene, per non doverli per forza usare per una carneficina... un'utopia. Che Balder aveva realizzato.
Se i miracoli fossero esistiti, quello lo sarebbe di certo stato.
Fu il turno di Balder di ridacchiare. - Io non dimentico quasi niente - rispose Balder, citando il padre a modo suo.
La sua memoria forse non era come quella dei fratelli, ma questo non significava che fosse pessima.
Thorn si staccò, tornando rigido come una statua, muovendosi a scatti come un automa. - Dopo cena mi insegnerai.
- Servirà un po' più di una sera per imparare, papà, per quanto non dubiti affatto delle vostre capacità e della vostra velocità di apprendimento.
- Almeno i rudimenti. Non transigo.
Ofelia lanciò al figlio un'occhiata rassegnata e divertita. Era una causa persa cercare di discutere con Thorn.
La cena fu ancora più briosa di quella organizzata per Serena in onore del suo ottimo risultato nella selezione per il ruolo di intendente. Del resto, come disse a Balder, lei non aveva mica fatto una scoperta stupefacente. Aveva solo seguito delle orme già tracciate, e con un aiuto abbastanza impari come la sua memoria.
- I tuoi risultati sono dieci volte superiori ai miei. Al confronto, io sono un'imbrogliona.
Balder aveva scosso la testa ridendo, mentre Tyr annuiva con vigore con la bocca piena. - Confordo! Anche io fono un imbroflione! - esclamò il fratello sputacchiando cibo ovunque, facendo allontanare da sé le gemelle che lo guardarono disgustate.
Le loro forchette si animarono, indignate, per andare a punzecchiare il braccio di Tyr, ma lui quasi non ci fece caso. La sua sciarpa sì però, e le scacciò con un colpo di coda che si concluse con un tafferuglio poco educato tra stoviglie e sciarpa nel bel mezzo della cena.
- Sembra di assistere alla lotta tra bicchieri di Gismondo. A cena con lui era impossibile bere! - si intromise la zia Roseline, che forse aveva bevuto un bicchiere di troppo.
Nonostante la cacofonia degna di una tavola animista, e il numero dei commensali che in effetti si avvicinava a quello delle famiglie di Anima, Balder si divertì e apprezzò moltissimo la cena in suo onore, al punto da dimenticarsi di Ilda. Quasi.
Non gli sfuggivano le continue occhiate che l'amica, se ancora si poteva definire così, gli lanciava. E a lei di sicuro non sfuggivano le sue.
Ma Balder era stato sincero con lei, non aveva avuto riserve nel dirle chiaramente che l'amava. Lei invece non aveva alcun motivo per fissarlo, o cercarlo, dato che aveva preferito che rimanessero solo amici.
Nel dopocena un po' alticcio che ne seguì, con Archibald e Renard che cantavano e passavano bicchierini di grappa come se i presenti fossero sessanta, Balder ne approfittò per sgattaiolare via con Thorn. Prima di chiudersi nel suo studio per insegnargli come mettere mano al sistema nervoso altrui tramite gli artigli, però, Balder non poté fare a meno di notare Serena e Archibald. Le occhiate che fingevano di non lanciarsi. L'ombra del litigio che c'era stato, così come l'amicizia che avevano stretto.
Balder sospirò, pensando che l'amore fosse davvero un calvario. Anzi, un casino, come lo avrebbe volgarmente definito Tyr.
L'esercitazione con Thorn andò bene, suo padre imparava molto più in fretta del previsto. Forse perché sapeva padroneggiare gli artigli da più del doppio dei suoi anni, o forse perché anche lui, in qualche modo, aveva cercato a sua volta di usare quell'arma in altri contesti.
In ogni caso, gli serviva pratica, e qualche altra spiegazione, ma dopo un'oretta Thorn aveva imparato i rudimenti di quella... tecnica.
- Devo trovargli un nome. Non posso chiamarli solo artigli. Gli artigli graffiano, questi... leniscono - si lamentò Balder, che era stufo di dover usare giri di parole complicati e iperbolici.
Thorn aggrottò la fronte. - Non ho molta fantasia - disse schiettamente, facendo sorridere Balder.
Thorn si rese conto di quanto assomigliasse ad Ofelia, soprattutto nelle espressioni. Gli sembrava di avere davanti la moglie, con i capelli corti e i tratti maschili. Anche lei spesso sorrideva per delle cose che lui diceva, nonostante lui non ci trovasse nulla di divertente.
- Filamenti suona male. Artigli quando attaccano. Non sono impulsi... sono più... no, non delle correnti... - mormorò Balder, pensando ad alta voce e massaggiandosi il mento ispido per via della barba serale.
- Eccomiii! Dove ti eri cacciato razza di... oh, ciao papà. Non sapeva foste qui con Balder.
- Balder mi stava insegnando ad usare gli... - rispose Thorn, come se fosse sotto processo, bloccandosi quando si rese conto che in effetti non sapeva come chiamare quei nuovi artigli.
Balder scioccò le dita. - Dammi una mano Tyr, tu sei bravo ad inventarti parole.
Tyr rimase bloccato con un'espressione confusa in volto, incerto se considerare le parole del fratello un complimento o meno. - Cosa ti serve?
- Un nome per questi nuovi artigli. Non possiamo chiamarli artigli.
- Mh... - mormorò Tyr, meditabondo, imitando volutamente la posa di Balder.
Che alzò gli occhi al cielo. - Non sforzarti troppo, mi raccomando.
Prima che i due si azzuffassero verbalmente, Thorn si congedò. - Non fate troppo tardi, questa sera. E non bevete quanto Archibald. Intesi, Tyr?
Il minore dei figli di Thorn alzò le mani, come per provare la propria innocenza. - Io sono astemio, papà. Qui è Balder quello bravo ad alzare il gomito e a reggere...
A proposito di gomiti, Balder ne infilò uno nelle costole di Tyr. - Così mi fai passare per un ubriacone - sibilò.
Tyr sogghignò. - Impossibile, sei troppo perfettino.
- Aiutami, invece di farmi perdere tempo! - lo sgridò Balder, esasperato.
Thorn rimase fermo a guardarli. Non poté fare a meno di pensare che lui e Godefroy non avevano mai, mai avuto un cameratismo del genere. Godefroy lo esibiva in pubblico, come fossero amiconi. Lo aveva fatto anche quando Ofelia era nei panni di Mime. Ma le sue chiacchiere fraterne erano false, ipocrite e prive di quell'affetto profondo che era evidente in Balder e Tyr.
Godefroy era sempre pronto a colpirlo alle spalle. E non solo, visto come gli aveva ridotto il viso.
Thorn scoprì di essere felice. Lo era da anni, da quando Ofelia era entrata prepotentemente nella sua vita, ma se ne rese conto solo in quel momento, come un'epifania.
Era felice della sua vita. Della sua famiglia. Aveva molto per cui essere grato, nonostante... tutto.
- Rilassatori? - chiese Tyr, ottenendo solo una smorfia da Balder. - Massaggiatori? Flussi?
- Peggio. Anche un po' di più.
- Ponti - disse Thorn, zittendo il battibecco.
Balder e Tyr lo fissarono come in passato lo fissavano tutti. Come se fossero sorpresi di vederlo lì, perché lui lì non doveva esserci. Scacciò il ricordo, non si addiceva a quel momento.
I suoi figli non erano Godefroy. I suoi figli non lo attaccavano senza motivo. Non lo odiavano. Non lo disprezzavano. Con loro era riuscito a costruire qualcosa.
Thorn si schiarì la voce. - Sono come dei ponti, questi... artigli. Tra il nostro sistema nervoso e quello degli altri.
Balder si rimise la mano sul mento, riflettendo, ma Tyr non lo imitò questa volta. - Ponti... tecnicamente, gli artigli stessi sono dei ponti. Però mi piace. Sui ponti c'è traffico. Sono un collegamento. Un flusso. Solo che il nome flusso da solo fa schifo, Tyr.
Il fratello si riscosse dal suo torpore. - Almeno io ho proposto qualcosa!
- Va bene? - chiese Thorn, sulla soglia.
Balder gli sorrise. - Mi piace molto. I ponti. Grazie papà, li chiamerò così.
Thorn annuì. - Buonanotte.
Sparì senza attendere risposta, sentendo in sottofondo il battibecco di Tyr e Balder che riprendeva. Si fermò a metà corridoio, cercando di metabolizzare tutto quello che sentiva.
Tutti quei... sentimenti, quelle emozioni.
Orgoglio. Gioia. Commozione. Serenità. Senso di appartenenza.
Riprese a camminare, dirigendosi verso la persona che gli aveva dato tutto, direttamente e indirettamente: Ofelia.
 
Ofelia era già in camera quando Thorn entrò, poco amante dei bagordi quanto lui. Invece la festa che stava continuando nel salotto era ancora in pieno svolgimento, tanto che le voci arrivavano, seppur ovattate, fino a loro, nonostante la grande distanza. E pensare che non erano nemmeno in molti...
Ofelia si voltò verso di lui quando entrò, sorridendogli quando vide che era lui. Aprì la bocca per parlare, ma Thorn la precedette.
- Svestiti e sdraiati a letto.
Ofelia sgranò gli occhi dietro le lenti, e Thorn avvampò. Non era mai stato così brutalmente diretto in quegli anni, non verbalmente almeno.
- Voglio provare una cosa - precisò, anche se quelle parole non miglioravano la situazione.
Erano ambigue.
Ofelia però obbedì, cosa che fece rabbrividire d'aspettativa Thorn. Cercò di non badarci e di concentrarsi.
Ofelia rimase in biancheria e sottoveste sdraiata al centro del letto, a fissarlo.
Thorn si schiarì la voce e fece scorrere lo sguardo sul suo corpo. - Vorrei provare quello che mi ha insegnato Balder. Dovrebbe... aiutarti a rilassarti.
Ofelia si tolse gli occhiali e chiuse gli occhi, cercando di rimanere immobile. - Sono pronta.
Tutta quella fiducia... per lui. Thorn non aveva fatto che poche ore di pratica, giusto un paio, e Ofelia si concedeva così spontaneamente. La sua assoluta certezza che a Thorn sarebbe riuscito tutto lo destabilizzava ancora. Anche un po' di più. Sbagliava, glielo aveva più volte fatto notare. Eppure lei era pronta a mettersi nelle sue mani ad occhi chiusi, letteralmente.
Thorn prese un profondo respiro e usò gli artigli per la prima volta dopo anni. Non aveva bisogno di ripetersi a mente le istruzioni di Balder, le ricordava a memoria, ovviamene. Le aveva già interiorizzate. Liberarli fu terrificante e di sollievo al tempo stesso. Aveva il terrore, al punto da sentire lo stomaco annodato, di farle del male. Ma allo stesso tempo gli artigli facevano parte di lui, erano come un muscolo, e lasciare che un muscolo si atrofizzasse non era piacevole.
Si concentrò su Ofelia, cercò di visualizzare i suoi nervi come gli aveva spiegato Balder. Avrebbe dovuto leggere tre manuali, gli aveva detto il figlio, lasciandoglieli sulla scrivania, in modo da avere chiari in mente i punti da andare a toccare. Thorn sapeva che la sera successiva li avrebbe memorizzati tutti, ma voleva già fare un tentativo.
- Girati di schiena - le ordinò.
Balder gli aveva detto che all'inizio era più facile guardare la parte del corpo su cui si voleva agire, e anche che la schiena era piena di nervi, dunque più facile da lavorare. Thorn si focalizzò sulle spalle.
Dopo molta pazienza da parte di Ofelia, finalmente sospirò. - Mi formicolano le spalle. È... piacevole...
Thorn aggrottò la fronte e cercò di canalizzare meglio il flusso degli artigli, di costruire un ponte, come aveva detto a Balder.
Dopo cinque minuti il corpo di Ofelia si rilassò completamente, il suo respiro si fece lento e pesante.
Preoccupato, Thorn si sporse su di lei. Dormiva, con la testa voltata dalla parte opposta rispetto a lui.
Thorn andò da Balder, che era ancora nel suo studio e si stava riguardando alcuni appunti, senza Tyr. Sembrava poco interessato a tornare alla festa in suo onore.
Thorn si schiarì la voce, cercando di mascherare il disagio. Balder alzò la testa, ma non notò nulla di diverso nella sua espressione imperturbabile. - Oh, siete voi.
- Tua madre si è addormentata dopo che... le spalle. È normale che si sia addormentata?
Balder aggrottò la fronte, facendo muovere la cicatrice che gli attraversava mezza fronte. Thorn si chiese se anche le sue si muovessero in quel modo. - Forse avete usato troppo gli art... i ponti. Se dorme, probabilmente si è rilassata più del dovuto. Respira, giusto?
- Sì.
Balder si strinse nelle spalle. - Allora credo vada tutto bene. Volete che le dia un'occhiata, papà?
Thorn visualizzò Ofelia sul letto, seminuda, e la risposta arrivò in un decimo di secondo. - Non credo sia necessario. Buonanotte.
Balder lo osservò andarsene con aria confusa, quindi si strinse nelle spalle e riordinò alcuni fogli. Era dura abbandonare quell'abitudine di cercare i difetti nei suoi ragionamenti, i cavilli che avrebbero potuto aiutarlo a migliorare. Era vero, aveva trovato il modo di usare a fin di bene gli artigli. Ne aveva dato dimostrazione a tutti. Era talmente felice da non sentirsi nemmeno felice, non riusciva a realizzare ciò che era accaduto.
E la verità era che a quella felicità mancava un piccolo pezzo. Una persona.
Come se l'avesse evocata, Ilda bussò sullo stipite della porta già aperta. - Ti stai perdendo mio papà e Archibald ubriachi che cantano con Tyr. Tuo fratello è così astemio da risultare noioso.
Balder sollevò appena un angolo della bocca in un sorriso. - Un bello spettacolo. Perché te lo stai perdendo?
Ilda si strinse nelle spalle. - Perché è la festa di qualcuno che non è alla sua festa.
Balder aggrottò le sopracciglia, facendole alzare gli occhi al cielo. - Vieni, basta lavorare. Hai dato per oggi.
Ilda si avvicinò, non lo guardò in viso. Gli prese la mano e lo trascinò via.
Balder la seguì senza fiatare, stingendole involontariamente la mano. Ilda intrecciò le dita alle sue, continuando a rimanere in silenzio.
Per quanto si maledicesse, per quanto una parte di lui, quella più orgogliosa, lo odiasse perché si lasciava trascinare via come un cagnolino, la parte predominante di sé non desiderava altro. Perché quel contatto, quella visita, quelle poche parole erano i complimenti taciuti che Balder aspettava. Gli unici che avrebbe voluto udire.
E perché finalmente si sentì davvero, completamente felice.

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Capitolo 61
*** Capitolo 61 ***


Che ne direste di qualche aneddoto simpatico sull'uso dei ponti? No? Be' allora non leggete il capitolo xD
Un po' di leggerezza prima di qualcosa che incombe come un temporale all'orizzonte.
Scusate per il ritardo e godetevi l'imbarazzo ahaahaha.


Capitolo 61

I giorni successivi furono tranquillissimi, dal momento che dopo cena Balder, Tyr e Thorn si ritiravano per lavorare un po' sui ponti. Mira e Belle avevano protestato quando Balder aveva gentilmente chiesto loro di aspettare, prima di partecipare. Avrebbe istruito Thorn e Tyr in modo da poter essere totalmente sicuro di come addestrare loro, e anche la zia Berenilde. Ma le gemelle non si erano dimostrate per nulla contente, e Tyr, che le conosceva meglio, alla fine le aveva convinte dicendo loro che la prossima volta che avrebbe visto i ragazzi della corte avrebbe fatto sì di presentarglieli.
Le gemelle allora si erano calmate ed erano scappate via ridacchiando, mentre Thorn le osservava cupamente, ma senza fiatare. Tra tutti i figli, le gemelle erano quelle che più non capiva. E che temeva fossero le più simili a Berenilde... e Agata.
Le serate di lavoro produssero discreti successi, e altrettanti insuccessi.
Una volta Balder dovette chiamare in aiuto Renard per portare in camera Tyr, da uomo gigantesco a ragazzo gigantesco, mentre lui trascinava suo padre per i corridoi, perché ci era andato giù un po' troppo pesante con i ponti. Aveva cercato di usarli contemporaneamente su Thorn e Tyr, ma aveva dosato male la forza: pensava di doverne usare di più per poter interagire con il sistema nervoso di entrambi, ma ne aveva usata troppa di più. Proprio troppa.
Sostanzialmente, li aveva rilassati al punto che si erano addormentati come sacchi di patate.
Quando bussò alla camera dei genitori, non attese nemmeno la risposta di Ofelia. Aprì la porta con il gomito e in qualche modo fece sdraiare Thorn a letto.
Ofelia aveva gli occhi talmente grandi che le lenti degli occhiali sembrarono di colpo troppo piccole. - Cos'è successo? È svenuto?
- Addormentato - mormorò Balder, al limite delle forze.
Suo papà era magro, sì, ma due metri di uomo non erano certo leggeri. Aveva il respiro affannato quando si raddrizzò, alzandogli le gambe sul materasso.
Ofelia era sbigottita. - Addormentato?
La sciarpa le si attorcigliò ai capelli coprendole gli occhi dall'agitazione, e Ofelia cercò di liberarsi con dei gesti sgraziati. - Come fa... ad essere... addormentato?
Sembravano entrambi dimentichi che lo stesso inconveniente era successo con Ofelia, seppur in maniera molto più leggera, qualche giorno prima. A dire il vero, Ofelia non ne conservava proprio memoria, era solo stato un naturale addormentamento il suo, per quanto ne sapesse lei.
Balder si fissò le mani, come se quel pasticcio fosse stata opera loro. - Troppo intenso. Il ponte. Sia lui che Tyr sono in stato catatonico.
- Ci saranno conseguenze? - domandò Ofelia con una voce appena percettibile, come se fosse tornata ad essere la ragazzina la cui voce veniva sempre sovrastata da quella materna.
Non voleva accusare Balder o farlo sentire in colpa ingiustamente, ma solo capire cosa significasse... Thorn in quello stato.
Balder si passò una mano tra i ricci, gesto preso dal padre, peccato che a lui i capelli non stessero in perfetto ordine come a Thorn. - No, non credo almeno. Una stimolazione troppo forte del loro sistema nervoso li fa appunto addormentare, ma nulla più. Sono semplicemente troppo rilassati.
Ofelia passò a guardare Thorn, il cui ampio petto si alzava ed abbassava ritmicamente. Il viso era così disteso che gli erano sparite tutte le rughe che di solito lo contornavano. Erano in bella mostra sul suo viso perennemente, al punto che Ofelia non credeva possibile che, una volta non tirato, il volto del marito apparisse così liscio. Sembrava avere qualche anno di meno. Thorn poteva anche non avere la bellezza fulgida di Archibald, ma ad Ofelia piaceva e soprattutto, cosa che non saltava all'occhio, aveva una bella pelle. Morbida. Lei lo sapeva meglio di chiunque altro.
Distogliendo lo sguardo da Thorn, Ofelia si concentrò sul figlio. - Provo a svegliarlo?
Balder si sistemò gli occhiali sul naso. - Sì. Aspettatemi però, vado a prendere i miei appunti. Perdonatemi mamma, non voglio apparire troppo... scientifico e inumano, ma questi esperimenti mi sono utilissimi per raccogliere dati.
Detto ciò, sparì, lasciando Ofelia lì da sola a scuotere la testa. "Inumano". Aveva semplicemente la personalità di Thorn, troppo dedito alla matematica, nel caso di Balder alla scienza, per rendersi conto che a volte i sentimenti e le emozioni erano più importanti di semplici dati.
Ofelia si avvicinò a Thorn, scostandogli dalla fronte alcuni ciuffi di capelli che avevano avuto l'ardire di sfuggire dal loro ordine serrato. Quando Balder tornò, la trovò china sul marito, intenta a scrollargli piano la spalla nel tentativo, vano, di svegliarlo.
Balder allungò le braccia e le agitò, scrocchiandosi le nocche delle mani.
Ofelia aggrottò la fronte come Thorn, e fissò il figlio dal basso. - Serve tutta questa preparazione per usare i ponti?
Balder, contrariamente ad ogni previsione, avvampò. - N-no - balbettò. - A dire il vero no. Però penso che faccia scena. Dite che è troppo?
Ofelia scosse la testa. - Dico che mi fa sembrare la cosa più grave di quanto sia.
Ancora rosso in viso, Balder prese il blocco che aveva portato e ci scrisse sopra due cose. - Capito. Scusatemi. Ci vorrà un attimo.
L'attimo dopo, fedele alla parola data, Thorn si svegliò mugugnando.
Ofelia guardò il figlio, sorpresa. - Tutto qui?
Balder si strinse nelle spalle. - Sì. Bastava toccare i nervi giusti. Dormiva molto profondamente, potrebbe volerci un po' perché torni... ehm... nel pieno delle facoltà, per così dire. Ma è a posto. Anzi, mai stato meglio.
Thorn grugnì qualcosa e si girò sul fianco. - Lasciatemi dormire - ordinò, ma il tono gelido che aveva di solito, e le sue erre scricchiolanti, assomigliavano più al lamento di un bambino capriccioso che al comando di un adulto.
Ofelia lo scosse di nuovo per la spalla. - Thorn? Ti senti be...
La sorpresa fu tale che Ofelia non urlò nemmeno, e in un istante si ritrovò sdraiata accanto a Thorn, con gli occhiali dispersi e la sciarpa che l'accecava, avvinghiandosi alla sua testa per lo spavento.
- Dormi qui con me - borbottò Thorn, stringendo la presa attorno alla vita della moglie e seppellendo il viso nel suo collo.
Ofelia lanciò un'occhiata preoccupata a Balder, anzi, a dove pensava fosse Balder, dato che non lo vedeva. Il figlio si schiarì la voce e finì di scrivere alcune cose sul suo blocco, allontanandosi. - Sì, be'... direi che vi lascio a... alle vostre cose. Buonanotte.
Ofelia si agitò, ma la stretta di Thorn era ferrea e le venne il dubbio che non sarebbe nemmeno riuscita a spogliarsi e le sarebbe toccato dormire così. - E Tyr? - riuscì a chiedere.
- Oh, lui non ho intenzione di svegliarlo. Che dorma pure beatamente fino a domani, dovreste ringraziarmi.
In effetti non aveva tutti i torti, ma Ofelia non poteva ammetterlo, in quanto madre imparziale. Le venne da ridere, ma si trattenne. - Dormi bene.
- Anche voi, grazie.
- Ofelia... - biascicò Thorn, ancora intontito. - Il massaggino alla schiena. Fammelo.
Balder si affrettò ad uscire prima di sentire qualcosa di sconveniente, chiudendosi la porta alle spalle e inciampando sui tappeti del corridoio. Scosse la testa mentre si dirigeva nel suo studio, cercando di scacciare dalla testa le parole di suo padre, così insinuante, e soprattutto con quel tono così inquietante, per uno come lui. Poi però si mise a ridacchiare da solo, ricordando l'espressione di orrore di sua mamma mentre cercava di liberarsi prima che le mani di Thorn iniziassero a vagare. Si rimise a scrivere, forse rilassare troppo i nervi aveva un effetto afrodisiaco?
Alzò la testa giusto in tempo per vedere Ilda che camminava nella sua direzione, diretta verso la cucina, in vestaglia da notte. Gli rivolse un sorriso appena accennato, ma negli occhi aveva una luce che poteva dirsi quasi maliziosa mentre si stringeva le braccia al petto. L'effetto voleva essere quello di coprirsi per pudore, ma Balder era troppo sensibile alla sua vista per non notare tutto quello che non avrebbe dovuto notare, ma che notava eccome. Distolse lo sguardo, scontrandosi con il muro e facendo sogghignare Ilda.
Mentre andavano ognuno per la sua strada, pensò che quella vista sì aveva un effetto afrodisiaco. E non servivano test per appurarlo.
 
Si scoprì invece, o meglio, Thorn e Ofelia scoprirono, che effettivamente l'utilizzo dei ponti in maniera troppo massiccia aveva davvero un effetto afrodisiaco. Il rilassamento dei nervi sembrava lasciare il corpo languido, come senza ossa e senza peso, e in un simile stato di benessere fisico privo di dolori si facevano sentire altri... impulsi.
Se qualcuno avesse chiesto spiegazioni a Balder, lui avrebbe risposto dopo accurate ricerche, data la sua poca conoscenza del campo, che spesso le inclinazioni e i desideri di natura sessuale scaturivano direttamente dal cervello, in condizioni ottimali di equilibrio psicofisico. Certo, Thorn era l'uomo più stressato e teso del Polo eppure questo non gli impediva di... provare certi bisogni, ma Balder avrebbe spiegato che, in caso di rilassamento fisico, il cervello ne avrebbe beneficiato e sarebbero venuti a galla bisogni sopiti, bisogni di altra natura.
Ma Balder non disse nulla, né fece ricerche su argomenti del genere, con cui proprio non aveva niente a che fare per ovvi motivi, se non dopo un'esperienza alquanto imbarazzante.
Furono proprio Thorn e Ofelia i pionieri dell'esplorazione di questo campo.
- Una caccia? Tra un mese?
Thorn annuì bruscamente, tenendosi la pipa tra le labbra con una mano e correggendo un foglio con la sua immancabile penna nell'altra. Sembrava agitato, così tanto che non si sedette nemmeno alla scrivania che aveva in camera, continuando a scribacchiare in piedi con i documenti posati sul piccolo comodino. Era così chinato che la sua schiena aveva assunto una curva preoccupante. Era insolito che Thorn lasciasse trasparire in modo così evidente il suo turbamento, quindi Ofelia cercò di non aggredirlo per via di quella notizia improvvisa.
Anche se non fu facile.
Le sembrava di aver perso vent'anni di progressi coniugali, e di essere tornata a rivestire i panni della fidanzatina straniera e tonta che doveva solo obbedire e non avere opinioni.
Ma quel tempo era passato, e lei di opinioni ne aveva sempre avute, ancora di più dopo aver raggiunto la sua età e aver cresciuto dei figli coscienziosi e intelligenti.
- Pensavi di dirmelo quando, esattamente? Una volta che avessi ricevuto il corpo di qualcuno di voi fatto a pezzi?
Thorn si raddrizzò di scatto, come se una molla dentro di lui fosse scattata facendogli compiere un movimento improvviso. Voltò appena la testa, dardeggiando su di lei uno sguardo di fuoco e prendendo una profonda boccata dalla pipa.
- Non essere irrazionale. Hai dimenticato che avevamo concesso a Tyr di partecipare alla sua prima caccia una volta che avesse compiuto quindici anni? Era l'ultimo requisito necessario, gli altri sono stati tutti rispettati: tre adulti ci sono, Tyr è in assoluto il più padrone dei suoi artigli e in questi mesi ha dimostrato di saper obbedire anche quando gli ordini non gli vanno a genio. Penso si possa ancora definire... impulsivo, ma sa controllarsi. Non posso più rimandare, soprattutto perché impugna, e a ragione, le condizioni che io stesso gli ho dato.
Ofelia non sapeva che Tyr fosse così insistente con Thorn per la caccia, ma avrebbe dovuto aspettarselo. Tyr era focoso, si batteva per quello che voleva ottenere, e bastava convincere Thorn per poter finalmente organizzare la prima caccia di Draghi, dopo anni. Le venne la nausea.
- Non mi sono dimenticata dei quindici anni - disse, arrabbiata. Però avrebbe voluto dimenticarsene, invece di vivere nel terrore che quel momento arrivasse e i suoi figli andassero a farsi sventrare da Bestie irascibili e appena svegliate dal letargo. Ofelia sperò solo che il suo stato d'animo non le impedisse di parlare, come succedeva sempre, nonostante ormai fosse più che adulta. - Ma avresti dovuto parlarmene.
Thorn aveva i lineamenti del viso irrigiditi da quanto serrava la mascella. Persino le cicatrici sembravano affilate. - Ne avevamo già parlato. Non sono solito discutere a cadenza regolare di questioni ormai chiuse e su cui avevamo concordato.
Ofelia non voleva dargli ragione, non era la ragione quella con cui stava argomentando la sua posizione, in quel momento. Erano i sentimenti di una madre e moglie. - Avresti potuto ricordarmelo. Lo sai che non abbiamo tutti la tua memoria.
Thorn sembrava pronto ad attaccare qualcuno. Le si avvicinò repentinamente, in poche falcate, torreggiando su di lei. La pipa giaceva sopra i documenti rischiando di sporcarli, un errore imperdonabile da parte sua, ma che la diceva lunga sul suo stato emotivo.
 Se non lo avesse conosciuto così intimamente, se non avesse nutrito una fiducia cieca nei suoi confronti, Ofelia avrebbe avuto paura. Paura di lui. - Non volevo ricordartelo, non quando io stesso stavo facendo di tutto per scordarmelo, sperando contro ogni logica che anche Tyr se ne dimenticasse.
La rabbia di Ofelia si sgonfiò come i cuscini del divano di casa dei suoi genitori quando sua madre si calmava dopo un litigio con suo padre. E si sgonfiavano perché suo papà, da che aveva memoria, aveva sempre ceduto.
Thorn era felice di quella situazione quanto lei. Era stata egoista a pensare solo al suo dolore, alla sua paura. Si mise in un istante nei panni di Thorn.
Come uomo, spaventato all'idea di partecipare alla sua prima caccia senza una guida, anzi, fungendo lui stesso da guida, perché Berenilde, nonostante l'esperienza, non gli avrebbe mai usurpato il posto.
Come intendente, in pieno conflitto d'interessi perché si rendeva conto dell'urgente necessità di una soluzione efficace per sopperire alla mancanza di carne e al tempo stesso non voleva adottare proprio quella soluzione, perché lo implicava in prima linea.
Non ultimo, come padre, perché sarebbe stato responsabile della morte dei suoi stessi figli in caso di disfatta. E Ofelia sapeva che quella era l'unica cosa da cui non si sarebbe mai ripreso.
Della sua vita gli importava relativamente, del suo ruolo e del Polo anche meno, ma di Balder e Tyr...
Ofelia lo abbracciò, cogliendolo talmente di sorpresa da farlo vacillare. Aprì la bocca per parlare, ma non le uscì nessuna parola. Cosa poteva dirgli, in fondo? Che sarebbe andato tutto bene? Thorn non era il tipo d'uomo che si faceva rassicurare da vuoti incoraggiamenti senza sostegni numerici. E le probabilità non giocavano molto a loro favore, lo sapeva anche lei... Oppure doveva dirgli che non doveva preoccuparsi se moriva qualcuno? Era ridicolo! Dirgli che stava prendendo la decisione giusta?
Era la decisione giusta, una piccola, fastidiosa parte di lei se ne rendeva conto, ma non voleva ammetterlo. Prendere la decisione giusta, per quanto semplice, era sempre difficile.
Perché la vita non poteva essere fatta di scelte facili?
Ci pensò Thorn a dire qualcosa per riempire il silenzio. - Domani il Nibelungen ne darà comunicato. Faruk ne è informato. Ha impiegato tre minuti e mezzo a rendersi conto di chi fossero i Draghi, si è svegliato solo quando Berenilde è comparsa per aiutarlo.
- Non è preoccupato per la sua incolumità?
Ofelia sentì Thorn scuotere la testa impercettibilmente anche se non poteva vederlo, premuta com'era contro di lui. - Non si rende conto del livello di pericolo.
Ofelia sapeva che Thorn ne avrebbe fatto a meno, ma lo disse lo stesso: - Ce la farete. Siete forti. E siete uniti. Sono certa che... insomma, credo che sarà un andare bene. Un successo, volevo dire, credo che...
Thorn si chinò di lei, riassumendo la posa che aveva mentre correggeva i documenti sul comodino. La baciò, costringendola ad alzarsi sulle punte. Ofelia avrebbe dovuto saperlo, che Thorn era un uomo di fatti, d'azione. E in quel momento nemmeno lei aveva bisogno di parole. Voleva solo il corpo caldo e solido di Thorn contro il suo, le sue mani addosso perché la facessero sentire viva e amata. Così fu proprio lei a prendergliele e condurle lì dove le voleva, sentendo subito Thorn reagire al suo tocco, alle sue mute indicazioni. Ormai era passato da tempo il periodo dell'imbarazzo. Dopo sei gravidanze e un parto gemellare gestito da lui, non c'era nulla che non conoscessero l'uno dell'altra.
La foga di Thorn la fece ritrovare nuda in mezzo al letto in quaranta secondi, adornata solo di guanti e collana, imprescindibile come la sua sciarpa, che però in quel momento si trovava per terra, intenta a strisciare offesa verso una sedia.
Thorn la divorava con gli occhi, ancora completamente vestito, dai piedi del letto. Ofelia non sarebbe mai riuscita a spogliarlo in fretta, ormai non ci provava nemmeno più. Si mise seduta, osservando quelle rughe e quelle increspature sulla sua fronte che di solito sparivano, momentaneamente, in quei momenti solo loro.
- Cosa c'è?
Thorn salì sul letto, mettendosi in ginocchio di fronte a lei. Ofelia si sporse in avanti appoggiando i gomiti alle ginocchia, cercando di scrutarlo tra la miopia.
- Voglio riprovare a usare i ponti. Me lo permetti?
Ofelia si ricordò della sensazione solleticante che aveva sentito sulle spalle, del piacevole senso di sollievo che aveva provato. Anche se in quel momento era Thorn ad avere più bisogno di distendersi, acconsentì. - Certo.
Gli avrebbe volentieri fatto lei stessa un massaggio, ma con le mani era maldestra e l'unica volta che ci aveva provato gli aveva fatto venire mal di schiena. Di solito lui glieli chiedeva quando in realtà voleva fare altro, con lei…
Si sdraiò e osservò dal basso Thorn, che si mise carponi sopra di lei, facendole trattenere il fiato. La squadrò dalla testa ai piedi, poi chiuse gli occhi. - Chiudi gli occhi - ordinò anche a lei.
Ofelia si irrigidì, a disagio, ma obbedì. Pochi istanti dopo, la sensazione gradevole che aveva provato sulle spalle diversi giorni prima si propagò per tutto il corpo. Partendo dal collo scese sulla schiena, sull'addome, sui lombi, sulle gambe, sulle ginocchia, fino ai piedi, su cui indugiò a lungo. Balder le aveva spiegato che spesso è nei piedi che risiede lo stress, e che lavorando su quelli si poteva aiutare a distendere tutto il corpo. Forse lo aveva detto anche a Thorn, perché a Ofelia formicolavano più di tutto i piedi. O forse erano solo i suoi nervi che le dicevano che avevano bisogno di attenzioni.
Ad un certo punto la sensazione le risalì di nuovo verso l'alto, e Ofelia sentì un diverso nodo di tensione formarsi nel suo ventre, caldo e irresistibile. Si sentiva le ossa liquefatte, la testa leggera. Non era mai stata meglio di così e i suoi nervi sembravano crepitare. Era come se il flusso di energia del suo corpo avesse iniziato a scorrere liberamente, come se avesse sturato un lavandino otturato e fosse stata ripristinata la fluidità che doveva avere.
Sospirò, e non le serviva avere gli occhiali per vedere che Thorn si era irrigidito sopra di lei.
- Qualcosa non va? - sussurrò.
Ofelia aprì gli occhi lentamente. Tra la voce roca di Thorn, il suo accento duro e imperioso e le sue erre glaciali rischiava di perdere il lume della ragione. Il fatto che fosse così rilassata poi, con il corpo del marito così vicino al suo, nuda sotto di lui...
Si avvinghiò al collo di Thorn e lo tirò giù, facendogli emettere, per la prima volta nella sua vita, un suono che poteva essere considerato un urletto di sorpresa. Ofelia si stiracchiò come un gatto facendo spalancare gli occhi a Thorn, le cicatrici che si allungavano sul suo viso come se fossero state un filo troppo tirato. Avrebbe voluto togliersi i guanti e toccargliele, ma le mani le servivano per spogliarlo, cosa che stava già maldestramente tentando di fare. Gli fece saltare un bottone, ma Thorn non se ne curò, stranamente. Il suo sbigottimento era durato solo un istante, prima di baciare la moglie con impeto e premersi contro di lei, contagiato dalla sua frenesia. Finì di spogliarsi da solo, perché se avesse atteso lei sarebbero andati avanti troppo, ed era chiaro ad entrambi che quello che serviva quella sera non erano calma e pazienza.
Ofelia era tutto un sospiro, un abbraccio per tenere Thorn ancora più vicino a sé. Lui, dal canto suo, artigliava le coperte per non imitarla, per cercare di controllare i gemiti che gli risalivano lungo la gola, come dei ringhi selvatici. Ofelia sembrava dissociata dal suo corpo. Avevano avuto diverse occasioni in cui si erano uniti in modo quasi brutale, spinti da un impeto momentaneo, ma Ofelia non si era mai comportata così. Doveva per forza essere dovuto alla pressione che aveva esercitato sui suoi nervi, forse li aveva sollecitati troppo...
Ne ebbe la conferma quando Ofelia si strinse a lui e gemette profondamente dopo pochi attimi dalla loro unione, sorprendendo Thorn. Lui continuò a muoversi cercando di saggiare con i suoi ponti i nervi della moglie, per capire se effettivamente quelle reazioni fossero dovute al suo esperimento.
Ofelia sospirò il suo nome, gli occhi lucidi di piacere e per una volta liberi dalle lenti, e si lasciò andare un'altra volta, trascinando Thorn con sé.
Lui le crollò addosso, sdraiandosi subito al suo fianco per non gravare su di lei con il suo peso, e rimase a fissarla con il fiato grosso, cercando di ritrovare il respiro perduto.
Ofelia invece sembrava perfettamente padrona di sé, languida accanto a lui, con un sorrisino appagato sulle labbra e gli occhi che non sembravano mettere a fuoco nulla. Si voltò verso di lui, accarezzandogli la schiena, e si addormentò ancora prima di aver completato il movimento.
Thorn aggrottò la fronte, continuando a immettere nei polmoni più ossigeno di quanto fosse necessario. Fissando Ofelia, cercando di pensare a qualcos'altro di diverso dai loro ultimi minuti insieme (sette e quindici secondi per la precisione, praticamente un record per loro), andò a lavarsi e cambiarsi per la notte. Quando tornò, Ofelia non si era mossa di un singolo millimetro (lui se ne sarebbe accorto, altrimenti), e non si era preoccupata di infilarsi sotto le coperte. La temperatura in camera non era di certo tropicale, così Thorn, un po' imbarazzato, andò a sistemare il piumone per riscaldarla. Ofelia non se ne accorse nemmeno, facendolo preoccupare. Sembrava svenuta.
Infilandosi la vestaglia, Thorn uscì dalla camera, diretto verso quella di Balder. O forse era nel suo studio a... fare qualcosa…
Si bloccò nel corridoio. Non poteva andare da Balder. Cosa gli avrebbe detto? Non era la prima volta che Ofelia si addormentava dopo che...
Thorn si voltò per tornare in camera. Non se ne parlava, non poteva chiedere a suo figlio informazioni di natura sessuale sul sistema nervoso. E poi Ofelia stava solo dormendo.
Quando si fu chiuso la porta alle spalle, aggrottò la fronte, osservando la moglie ancora immobile (felice, ma immobile) e uscì di nuovo, guardando lungo il corridoio. Tornò dentro. Chiamare Balder era fuori discussione. Era illogico, imbarazzante, inopportuno e improduttivo.
Ofelia stava dormendo, tutto lì.
Quando la raggiunse a letto, due ore e sedici minuti dopo, Ofelia non si era mossa. Non era mai capitato che dormisse completamente nuda, ma Thorn temeva di compiere qualche gesto sbagliato nel tentativo di rivestirla, quindi la lasciò così, e cercò di non far vagare troppo le mani sulla sua pelle calda mentre l'abbracciava.
Ofelia stava dormendo, sì, era semplicemente rilassata, sì... peccato che il mattino dopo ancora non si fosse mossa. Thorn si mise a calcolare quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che era andata in bagno. Di solito lei si svegliava quando Thorn usciva dal letto, e rimaneva ad aspettarlo sotto le coperte finché lui era in bagno, ma quella mattina no. Vestito di tutto punto, Thorn non sapeva più cosa fare. Provò a scuoterla, ma senza risultato, e nemmeno farle suonare la sveglia sul comodino sortì il minimo effetto. Thorn rischiò di romperla per il fastidio, dopo un minuto e quarantasei secondi passati a suonare ininterrottamente.
Gli serviva Balder.
Mettendo da parte il suo orgoglio, andò a chiamare il figlio.
Balder era scomposto quando dormiva, nonostante la sua natura un po' metodica e quasi maniacale, come quella del padre. Tyr russava della grossa, e non si svegliò nemmeno quando Thorn accese la luce.
Balder sì. - Che... che c'è? Chi è? È già mattina?
Thorn gli mise gli occhiali sul naso, ma dall'espressione accartocciata di Balder capì che le sue pupille dovevano ancora adattarsi alla luce. Aveva fronte, occhi e persino il naso e la bocca strizzati. - Vieni - gli disse solo.
Nonostante l'ordine secco come buongiorno, o forse proprio per quello, Balder esitò. - Ma che ore sono? Che succede?
- Vieni, prima di svegliare Tyr.
Balder si liberò delle coperte in malo modo, trattenendo a stendo uno sbuffo di fastidio mentre cercava le ciabatte. Quello che solo Tyr e Ilda sapevano era che, se svegliato in malo modo, il tenero, paziente e calmo Balder diventava alquanto irascibile. Aveva il risveglio lento, e lo avevano imparato a loro spese quando anni prima lo avevano strappato al sonno bruscamente per portarlo a fare colazione. Aveva risposto male a tutti e tenuto il broncio per un'ora, prima di riacquistare una parvenza di normalità e scusarsi per l'atteggiamento da orso. Ilda e Tyr lo avevano preso in giro, ma non si erano più azzardati a tirarlo giù dal letto.
Poco importava che a farlo fosse stato Thorn, Balder era infastidito. - Potete dirmi che succede? - sibilò nel corridoio, cercando di non inciampare mentre rimetteva in funzione il corpo.
- Tua madre non si è svegliata.
Balder incespicò, ma riuscì a non cadere e corse dietro al padre, fingendo di non aver appena rischiato di fare una rovinosa caduta. - È morta?
Thorn gli dardeggiò un'occhiata glaciale, mentre una piccola parte della sua attenzione si focalizzava su quanto fosse alto il figlio. Con nessuno poteva stare dritto come con Balder, che era pochi centimetri più basso di lui, una differenza esigua rispetto al resto del Polo.
- No.
Balder batté più volte le palpebre. Sapeva bene quanto conciso e laconico potesse essere il padre, ma affermare una cosa del genere e poi non dare una spiegazione era davvero troppo striminzita come cosa. Sospirò.
- Papà, avrei bisogno di qualche dettaglio in più per… e poi perché avete chiamato me? Cosa c’entro io? La mamma è forse malata?
Thorn serrò la mascella e non gli rispose. La sua espressione fece capire a Balder che non era il caso di insistere oltre, che avrebbe parlato quando si fosse sentito pronto. Sempre che lo facesse, con Thorn non si poteva mai dire.
Arrivarono nella camera padronale e Thorn si chiuse la porta alle spalle.
Balder socchiuse gli occhi. Ofelia era sotto le coperte con un’aria beata dipinta in volto. Respirava profondamente.
- Ma sta dormendo! – esclamò Balder a mezza voce, ancora incredulo.
Cosa diavolo ci faceva lì, lui?
Thorn si diresse verso il comodino e prese l’orologio da taschino, facendone scattare il coperchio, come se leggere l’ora fosse di fondamentale importanza in quel momento.
- Come ti ho detto, non si è svegliata.
Balder controllò il suo polso, ma non c’era nessun orologio. Se lo toglieva ogni notte per dormire, ma nella foga di precipitarsi dietro a suo padre non si era nemmeno ricordato di prenderlo.
Si tolse gli occhiali e si stropicciò gli occhi, come per indurli a vedere più chiaramente quella situazione.
- Potete spiegarmi per favore cosa ci faccio qui? – domandò, cercando di mantenere un tono calmo e non essere polemico.
Thorn gli lanciò un’occhiata che Balder non seppe interpretare. Però, finalmente, gli rispose. – Ieri sera ho… usato i ponti su di lei. Per… impratichirmi. Subito dopo aver… ehm… -. Thorn si schiarì la voce, e se Balder non fosse stato ancora intento a strapazzarsi gli occhi si sarebbe reso conto del rossore sulle orecchie del padre. – Dopo averli usati si è addormentata. Non si è mossa di un millimetro per tutta la notte, non è andata in bagno, non ha cambiato ritmo respiratorio se non di tre secondi. Ho provato a scuoterla.
Balder si rimise gli occhiali, sospirando. – Quanta forza avete esercitato sui suoi nervi? E su quali in particolare?
Thorn, questa lo capì anche il figlio, era a disagio. Il disagio che si prova quando non si sa bene come rispondere. Il disagio dell’ignoranza, da parte di qualcuno abituato a sapere assolutamente tutto, sempre.
- Su tutto il corpo. Una pressione media, presumo.
“Presumo”. Mai sentito quel termine uscire dalla bocca del padre. Balder cercò di non sorridere. Per una volta, era superiore persino a lui in quanto a competenza in quel campo.
- Potete farmelo provare?
Thorn aggrottò ancora di più la fronte, prima di annuire seccamente. Pochi istanti dopo, Balder barcollò.
- Ohi… papà, questa è una pressione un po’ più forte di “media”.
Thorn socchiuse così tanto gli occhi che Balder non riuscì a intravederne che uno spiraglio sottilissimo, puro metallo incandescente. – Definisci con precisione ciò che intendi.
Balder si chiese come avesse potuto imparare a dire “per favore” con un padre come Thorn. La cosa buffa era che adorava il padre nonostante la sua spigolosità, non solo fisica ma anche caratteriale. Cercò di nuovo di non sorridere, grattandosi la cicatrice sulla fronte.
- Ci siete andato giù pesante. Ci credo che stia ancora dormendo, ne avrà ancora per mezza giornata. I nervi sono intorpiditi. Non è svenuta, ma quasi. Uno svenimento piacevole, intendo, nulla di grave.
Questa volta, Balder notò il rossore diffondersi anche sul collo di Thorn, e inclinò la testa cercando di capire cosa avesse detto di strano.
Thorn si schiarì la voce, ma non diede spiegazioni. – Puoi… sistemarla?
Balder si scrocchiò le mani come suo solito, anche se quel gesto era del tutto superfluo perché le mani non gli servivano a nulla. In qualche modo però calmava i suoi, di nervi.
- Sì, esercitando la giusta pressione. Non ci vorrà molto.
Quando però si avvicino a Ofelia e allungò un braccio per scostarle le coperte di dosso, Thorn esclamò. – Fermo!
Balder fu colto talmente alla sprovvista che finì sdraiato su sua mamma dopo aver perso l’equilibrio. Si rialzò in fretta, allontanandosi. – Cosa, che… che c’è?
Thorn si schiarì di nuovo la voce, distolse lo sguardo. – Non… scostare le lenzuola. Non è decoroso.
Balder aggrottò la fronte, in volto un’espressione che più confusa non si poteva. Poi sgranò gli occhi. – Oh – disse solo, allontanandosi per sicurezza di un altro passo. – Ehm… sì, d’accordo, posso riuscirci lo stesso.
Lanciò un’occhiata al padre prima di continuare, di sottecchi, chiedendosi che diamine avesse combinato la sera prima. Ma davvero voleva saperlo? A giudicare dal rossore sulla pelle perennemente pallida di Thorn, no. E non voleva nemmeno immaginarlo.
Anzi, per amore della scienza, sì.
- Papà? – chiese, perdendo la concentrazione.
Thorn fece saettare gli occhi su di lui, poi li distolse nuovamente.
- Quando, esattamente, la mamma si è addormentata? E… dopo quanto tempo da quando avete usato i ponti su di lei?
Una domanda tecnica. Nelle corde di Thorn. La risposta infatti non si fece attendere. – Si è addormentata alle undici e ventidue. Dopo otto minuti e quindici secondi da quando sono entrato in contatto con il suo sistema nervoso.
- Quanto tempo avete usato i ponti?
- Tre minuti e ventisette secondi.
- Al termine dei quali ne sono passati otto e quindici, giusto?
Balder si grattò la barba mattutina, poi si massaggiò il collo. Guardò il padre, intuendo già quale sarebbe stato il riscontro alla domanda che stava per porgli. – Posso sapere cosa è successo in quegli otto minuti e quindici?
Thorn strinse la mascella. – Non lo reputo divulgabile.
Balder sospirò, cercando di sgomberare la mente e non lasciar correre i pensieri lì dove aveva immaginato. Si sentiva la gola secca. Si tolse nuovamente gli occhiali per non vedere suo padre, se non come una sagoma sfocata. Stava facendo un favore a entrambi così, ne era certo.
- In un recente studio che ho fatto ho… letto che i nervi sono strettamente collegati al desiderio ses… - esordì Balder, salvo poi tossire, soffocato dalla sua stessa saliva. Continuò solo dopo essersi ripreso, con qualche sporadico colpo di tosse. – Ad alcuni desideri. I nervi sono collegati ad alcuni desideri… privati, diciamo. E… e niente. L’appagamento di questi… desideri, unito all’influsso benefico e rilassante dei ponti, può produrre degli strani effetti, tra cui l’aumento della libidine, uno stato di leggerezza mentale, come sotto effetto di alcolici, e un sonno eccessivamente pesante.
Balder prese un respiro profondo. Ce l’aveva fatta, era riuscito a dirlo. Era scienza, solo scienza. Non erano i suoi genitori che… rabbrividì. Per carità, era una cosa naturale ed era felice per loro, per il loro legame di coppia, tutto quello che voleva, ma la coppia rappresentata da sua mamma e suo papà era talmente improbabile, nonostante fosse cresciuto con la consapevolezza che si amavano profondamente, che non voleva nemmeno soffermarsi su certi pensieri o su cosa i suoi genitori facessero o non facessero.
Sotto l’aspetto scientifico, invece, era molto interessante. Peccato non poter approfondire, sarebbe stato troppo imbarazzante.
Probabilmente sua mamma era semisvenuta per l’eccessivo piacere.
- Come quando si usano gli artigli. Bisogna dosare la forza, altrimenti da un taglio superficiale si passa ad una mutilazione. Capite cosa intendo?
Le mani mozzate del barone Melchior. Il naso brutalmente reciso dalla faccia di un assalitore. Certo che Thorn capiva. Meglio di chiunque altro.
- Pressione.
- Esatto – assentì Balder, inforcando gli occhiali e contribuendo a dissipare l’atmosfera pesante che si era venuta a creare. – Bisogna dosare la pressione esercitata. Anche per i ponti. Vi serve un po’ di pratica, ma siete sulla buona strada. Cercate di concentrarvi non tanto sulla forza che impiegate per toccare il sistema nervoso della mamma, quanto sul canalizzare e quindi controllare quel flusso, in modo che sia un leggero sgocciolio e non un rubinetto aperto. Lei, o chiunque altro, insomma, ne trarrà benefici lo stesso.
Thorn aggrottò la fronte. – Si percepisce la differenza?
- Chi viene… ehm… come dire… il ricevente, chiamiamolo così, non sente differenza a livello di nervi, ma rimane più padrone del suo corpo e della sua mente. Posso mostrarvelo?
Thorn annuì, poco entusiasta all’idea eppure curioso.
Balder sorrise. – Gamba destra – disse, andando ad esercitare una minima pressione sulla gamba destra del padre.
- Intorpidita.
- Gamba sinistra.
Thorn si aggrappò al comodino. Scosse la testa. – Non la sento più.
- Avete sentito differenze di pressione a livello nervoso?
- No.
- Precisamente. È solo il corpo che ha reagito in modo diverso. I nervi possono tollerare solo fino ad una certa soglia di sollecitazione, superata quella riversano quel flusso nel corpo. Quindi portano le membra ad addormentarsi. Nessuna controindicazione, è tutto assolutamente sicuro e, anzi, benefico, solo che porta una grande sonnolenza.
- Lo vedo.
Balder sorrise. – Ora vi sistemo entrambi.
Con un minimo sguardo alla gamba sinistra di Thorn, la risvegliò, toccando i giusti punti nei nervi. Poi si concentrò su Ofelia, che dopo poco aumentò il ritmo della respirazione, mugugnò e si girò, iniziando a compiere quei leggeri movimenti che accompagnano il risveglio.
Il sorriso di Balder si allargò. – Fatto. Tra poco dovrebbe essere come nuova, pronta per la giornata.
Thorn lo fissò a lungo, mettendolo quasi in imbarazzo. A sorpresa, gli si avvicinò e gli accarezzò un po’ impacciatamente i riccioli. – Ottimo lavoro. Davvero. Come tua madre, non smetti di stupirmi.
Fu il turno di Balder di arrossire, lusingato. – Ma no, non è n-niente – balbettò.
Thorn continuò a osservarlo con quel suo sguardo implacabile. – È tutto invece. E vorrei che mi spiegassi le cose nuove che scopri.
Balder annuì. – Certo, sarebbe un onor…
- Thorn? – biascicò Ofelia, cercando a tentoni il marito a letto.
Thorn le fu subito al fianco. – È mattina.
- Mh… - mugugnò lei, stiracchiandosi.
Thorn lanciò un’occhiata fulminea a Balder prima di tirarle su la coperta che stava scivolando.
- Io… - esordì Balder, prima di essere interrotto da un sonoro schiocco.
Ofelia aveva trascinato giù Thorn, baciandolo sulle labbra e poi ridacchiando. In effetti, forse qualche effetto collaterale o strascico c’era.
- …vado – concluse, arrossendo, quando Ofelia decise di ignorarlo e cominciò a baciare Thorn. Lui provò a ritrarsi, ma era come se Ofelia fosse diventata più forte, non lo lasciava più andare.
In ogni caso, la cosa non sembrava dispiacere poi così tanto a Thorn.
Una volta chiusosi la porta alle spalle, Balder tirò un sospiro di sollievo. Sperava di riuscire a riprendere sonno, e soprattutto sperava di non sognare i suoi genitori. A dire il vero, sperava di non vederli più per quel giorno. Anche se gli avevano permesso di scoprire una cosa interessante sui ponti… be’, se la sarebbe risparmiata. Prima o poi sarebbe tornata utile anche a lui, ma non nell’immediato futuro.
Quando tornò in camera, Tyr si mosse e aprì un occhio. – Dove… stato? – mugugnò, ancora addormentato.
Balder, sorprendendo per primo se stesso, scoppiò a ridere forte. Quanto meno gli era passato il malumore per l’alzataccia. – Fidati, non vuoi veramente saperlo.
Tyr borbottò altre cose inintelligibili mentre Balder continuava a ridacchiare. Be’, in effetti nemmeno lui avrebbe voluto saperlo.
Il sorriso gli morì sulle labbra quando si rese conto di cosa stessero facendo i suoi genitori mentre lui cercava di riprendere sonno.
Si premette il cuscino sulla testa, sentendo tornare il broncio. Già, per una volta avrebbe voluto rimanere ignorante.

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Capitolo 62
*** Capitolo 62 ***


Parto scusandomi!! 1 per il capitolo un po' corto e 2 per il ritardo.
Purtroppo però il "blocco" successivo si distacca un po' dalla caccia, da Balder, da chiunque, e tratta un tema che per ora non ha convinto nessuno (sì, quella cosa tra quelle due persone xD), e dovevo assolutamente separare le cose!
Perdonatemi, spero che il capitolo vi piaccia lo stesso.


Capitolo 62

A due settimane dalla caccia, il castello era in fermento. La zia Roseline non faceva che ammucchiare su ogni superficie disponibile oggetti che secondo lei sarebbero stati utili, come padelle (nel caso in cui una Bestia si fosse avvicinata troppo), maglioni (perché faceva freddo), occhiali neutri dei quali oscurava le lenti con il suo animismo e che per ripicca tornavano sempre bianche (perché il riflesso del sole sulla neve poteva danneggiare gli occhi), teiere (perché niente è meglio di una tazza di tè per combattere il gelo), telefoni animisti che puntualmente la loro famiglia portava da Anima (e puntualmente non funzionavano, perché al Polo avevano una linea telefonica diversamente gestita), e altre cianfrusaglie come pantofole, giubbotti bianchi (per mimetizzarsi nella neve, come se le Bestie non avessero un olfatto sopraffino), carte da gioco e persino la macchina fotografica che Hector si era dimenticato durante la visita precedente.
I primi giorni Ofelia aveva rincorso la zia cercando di rimettere tutto a posto senza che lei se ne accorgesse, ma mano a mano che i giorni passavano aveva rinunciato, limitandosi a seguirla mordendosi le cuciture dei guanti, con la sciarpa che spazzava per terra, sconsolata, e rischiava di farla inciampare ogni cinque minuti. Avrebbe parlato con i domestici affinché non caricassero a bordo delle carrozze nessuna delle valigie della zia. Dovevano stare via pochissimi giorni, non un mese, e la maggior parte di quella chincaglieria (a parte forse la caffettiera, ma la zia ne aveva preparate sette) era inutile.
Ofelia aveva costretto Thorn a portare anche lei alla caccia, minacciandolo di seguirli attraverso gli specchi se si fosse rifiutato o avesse organizzato qualche sotterfugio. Alla fine avevano raggiunto un compromesso: lei sarebbe potuta andare se avesse giurato, e per una volta si fosse davvero attenuta alla promessa, di non seguirli poi durante la caccia, rimanendosene buona nella casa messa a disposizione dal guardacaccia. Ofelia e Thorn si erano trovati stranamente d’accordo, sia perché così Ofelia poteva andare con loro alla luce del sole, senza imbrogli, sia perché così Thorn aveva la certezza di non doversi preoccupare che lei sbucasse da qualche specchio sbagliato o li seguisse di nascosto tra la neve.
In realtà, nessuno dei due era proprio soddisfatto soddisfatto, ma così funzionavano i compromessi.
Serena invece stava finendo gli ultimi esami e avrebbe avuto il risultato proprio prima della partenza. Grazie a Berenilde e alle serate di corte, strano ma vero, aveva ottenuto un buon seguito tra i membri in vista del Polo, facendosi un nome, una reputazione, e raccogliendo consensi. Thorn avrebbe detto che Archibald si chiudeva in se stesso e si dava alle gozzoviglie in maniera proporzionale alla crescita di notorietà di Serena. Berenilde non perdeva occasione per mettere in mostra la pronipote o i Draghi, parlando con il Nibelungen in termini taumaturgici della caccia che ci sarebbe stata, delle doti di Tyr e del fratello, della nuova ascesa e tutto il resto, al punto che alla corte non si parlava d’altro. Persino Faruk si era interessato della cosa, convocando Berenilde e Thorn, anzi, solo Thorn, dato che Berenilde era quasi sempre con lui, per chiedergli delucidazioni.
Più crescevano attesa e aspettative, più Tyr era impaziente di dimostrare il proprio valore. Balder voleva invece cercare un modo per usare i ponti in battaglia, ma Tyr insisteva affinché si allenasse con lui, invece, dal momento che la forza bruta sarebbe stata indispensabile.
A pochi giorni dalla partenza erano così stressati che Balder si offrì di distendere i nervi a tutti, aiutato da Tyr. Il fratello non era diventato bravo quanto lui, ma se la cavava discretamente e il suo incredibile controllo degli artigli lo aiutava ad adoperare meglio i ponti. Berenilde, Ofelia, la zia Roseline, Renard, persino Serena e Thorn si sottoposero al trattamento. Dovettero tutti ammettere che in effetti la scoperta di Balder era miracolosa ed efficace come poche, perché aiutava davvero il corpo a rilassarsi. Dottore dei nervi, lo chiamavano. Renard rinvenne Salame addormentato in un angolo, colpa di Tyr che aveva usato i ponti su di lui dopo l’ennesimo bisticcio con la sua sciarpa. Per quanto quel gatto fosse vecchio, la forza per giocare la trovava sempre.
A due giorni dalla partenza, Ilda si affacciò nello studio di Balder in un momento di totale calma. Gli altri stavano ultimando i preparativi, e chi aveva bisogno di un massaggino era già andato da Balder, che quindi stava scrivendo il riepilogo della giornata, in piedi in mezzo alla stanza.
Ilda si schiarì la gola per farsi notare, facendo sussultare Balder, a cui cadde la penna.
- Oh, s-sei tu. Non ti avevo sentita – balbettò riprendendo la penna, arrossendo per chissà quale motivo.
- Ho notato. Senti… non è che potrei provare anche io l’effetto dei tuoi incredibili ponti?
La penna cadde di nuovo dalle mani maldestre di Balder, che però la lasciò lì. Deglutì, con la gola improvvisamente secca.
- No-non te li aveva già fatti provare Tyr?
Ilda si strofinò il naso, storcendo la bocca. – Quasi per niente. Sai com’è Tyr, ogni tanto fa fatica a concentrarsi. In più non volevo che fosse lui a… cioè, non mi fidavo. È sempre pronto a fare qualche scherzo di cattivo gusto. Preferivo chiedere a te che… insomma, li hai inventati, no? Di sicuro sai come funzionano e… be’, puoi o no?
L’iniziale titubanza di Ilda si era persa durante la spiegazione, che venne conclusa con un tono stizzito e quasi imperioso.
Balder sussultò. – Oh, sì, sì, cioè… certo, non c’è… problema. Accomodati – disse agitato, riprendendo la penna per non mostrare il rossore sul volto e indicandole di sfuggita la tavola che usava per praticare, coperta da un sottile ma corposo materasso.
Continuò a darle le spalle, prendendo tempo, aspettando che il sangue defluisse dal suo viso. Si mise il camice bianco con cui lavorava. Si sarebbe infilato anche dei guanti, se non ne avesse già avuti. Quando si voltò verso Ilda, scoprì che lei già lo fissava con un sopracciglio inarcato, seduta sul bordo del tavolo. Rimaneva di parecchio più bassa di lui, come al solito.
- Te lo metti sempre il camice?
Balder annuì, avvicinandosi. – Mi piace. Mi sembra che dia un po’ più di credito a quello che faccio. Spero di trasformalo in una professione, e ogni professione ha il suo abito, no? Inoltre, devo prima valutare lo stato di salute fisica ed emotiva del paziente, è un lavoro a tutto tondo che…
Ilda lo interruppe posandogli un dito sulle labbra. Lo tolse subito, come se si fosse accorta in ritardo di ciò che aveva fatto e chinò la testa nascondendosi dietro ai riccioli biondi. Se c’era una cosa che toglieva Balder dall’imbarazzo, era parlare della sua scoperta. Peccato che potesse farlo per ore, ore che non avevano. Potevano andare a chiamarli in qualsiasi momento, anzi, era un miracolo che la zia Roseline non l’avesse seguita fin lì. Ma in realtà l’anziana zia si preoccupava di lei solo quando stava con Tyr, con il quale era sicura ci fosse qualcosa.
Se avesse saputo quanto si sbagliava…
- Cosa devo fare? – sussurrò Ilda, quando capì che Balder non avrebbe preso l’iniziativa.
Per usare i ponti, ovvio. Non in altro senso. E anche la domanda non conteneva altre… implicazioni. No.
Balder si schiarì la voce, distogliendo lo sguardo quando Ilda puntò l’occhio blu e l’occhio nero su di lui, intensi come non mai.
- Sdraiati. Se vuoi. Per favore?
Quell’esitazione la fece sorridere, rompendo l’imbarazzo che si era venuto a creare. Balder la ricambiò mentre lei si sdraiava. Per un attimo erano tornati i bambini che si rincorrevano per casa o si coalizzavano contro Tyr, più spensierati e meno… ingarbugliati.
- D’accordo, dove vuoi che agisca? Hai qualche punto in particolare che senti annodato o…?
Ilda avrebbe voluto dire lo stomaco, ma dubitava che il nodo che sentiva lì fosse causato dai nervi tesi. – La schiena – rispose invece. – Quando sono in officina con mia mamma sto spesso chinata, ogni tanto mi viene mal di schiena.
Balder si fece scrocchiare le nocche, entrando in modalità professionale. Distaccata.
Incrociò di nuovo il suo sguardo e arrossì.
Quasi distaccata.
- Potresti avvertire un formicolio, se diventa troppo intenso dimmelo. Cercherò di agire soprattutto sulle spalle, dove di solito si accavallano più frequentemente i…
Ilda chiuse gli occhi. – Balder, non ho tutto il giorno.
Anche senza vederlo, Ilda sapeva che Balder stava aprendo e chiudendo la bocca in silenzio, alla ricerca di cosa dire.
- Attenta – mormorò infine, con una voce roca che quasi la fece rabbrividire. – Potrei andarci giù pesante.
Ilda sapeva che ciò di cui stava parlando Balder era del tutto diverso da quello che stava pensando lei, eppure non poté fare a meno di guardarlo per averne conferma. Serio come non mai, Balder torreggiava su di lei, i ricci scuri della madre gli ricadevano sulla fronte, coprendo in parte la sua cicatrice, mentre gli occhi erano più penetranti e attenti del solito. C’era passione in quegli occhi, ma un tipo di passione diverso da quello che provava Ilda.
- Del tipo? – gli domandò a voce altrettanto bassa, cercando di ritrovare il controllo di se stessa.
Balder scrollò le spalle con noncuranza. – Potrei farti addormentare. Fino a domani.
Ilda schioccò la lingua. – Ho delle cose da fare, vedi di procedere più leggero di una piuma, grazie.
Balder sorrise appena. - È la mia specialità.
Subito dopo, quando iniziò a sentire un piacevole formicolio sulle spalle, Ilda chiuse di nuovo gli occhi. Un gradevole tepore l’avvolse, facendo sciogliere tutto quel disastro che era diventato il suo rapporto con Balder.
- Potresti sentire caldo nella zona interessata. Non ti spiego perché, ma sappi che è normale.
- Mh… - mormorò lei, sospirando.
Balder ringraziò i suoi occhi chiusi, perché si sentì andare a fuoco le orecchie.
Ilda non seppe dire quanto fosse durata la seduta, un minuto o trenta, un’ora o due. La sua mente si perse, rilassata quanto il suo corpo, che non sapeva fosse così contratto. Doveva farsi dare un’aggiustatina da Balder un po’ più spesso. Non seppe nemmeno dire se aveva dormito, con la testa piena di melassa e incapace di concentrarsi su un singolo pensiero.
- Ilda? – la chiamò Balder gentilmente, toccandole appena una spalla.
Non aveva dormito, no. Non aveva la bocca aperta.
- Che c’è?
Non le serviva vederlo per intuire il sorriso nella sua voce. – Ho finito. Come ti senti?
- Pronta a dormire una vita. Non avevi detto che ci saresti andato giù leggero?
Il sorriso era ancora lì, Ilda aprì gli occhi per vederlo. – Fidati, sono stato il più leggero possibile, ma i tuoi nervi erano parecchio malridotti. Hai solo quindici anni Ilda, cerca di assumere una postura corretta quando studi o costruisci i tuoi marchingegni.
Ilda si mise a sedere con una mano sulla testa, mentre Balder le stava vicino per aiutarla in caso di bisogno. Non le piaceva che lui rimarcasse così la sua età, come se lei fosse una bambina e lui un adulto. Lui non era un adulto.
E lei non era una bambina.
- Ne compio sedici tra poche settimane. Devo ricordarti che sono più grande di Tyr?
Balder sorrise ancora, scuotendo la testa. – Sei un soggetto interessante. Nonostante il tuo corpo sia rilassato, la tua mente ancora non ha perso la sua mordacità. Posso scrivere alcune osservazioni mentre ti riprendi?
Ilda annuì, incapace di rispondere. Per un attimo le girò la testa, ma per fortuna passò subito. – Con tutto il rispetto Balder, cioè, è stato fantastico e diventerò una tua cliente fissa, ma se venisse qualcuno di esterno, credi che sarebbe in grado di tornare a casa dopo il trattamento?
Balder stava scrivendo freneticamente sul suo blocco, dandole le spalle. Talmente concentrato che non si voltò verso di lei. – Perché me lo chiedi?
- Non so, penso di aver bisogno di una stampella – borbottò Ilda, spostando le gambe per rimettersi seduta sul bordo del tavolo.
Balder sospirò. - È una delle cose che sto cercando di sistemare. Mi serve fare pratica per capire quanta pressione esercitare. Se ne adopero troppa, il corpo si rilassa così tanto da diventare quasi gelatinoso. Sono migliorato, ma ho bisogno di perfezionarmi, soprattutto con persone che lo testano per la prima volta.
Balder finalmente si voltò, andandole in contro con il naso ancora sepolto nei suoi fogli. Goffo com’era, era un azzardo per lui muoversi senza guardare dove metteva i piedi.
Ilda ne approfittò per fissarlo, per osservare le sue spalle larghe, la sua altezza, il suo corpo solido, tonico sotto il camice e i vestiti, la curva delle sopracciglia e il bordo degli occhiali. Il nodo che sentiva nello stomaco si strinse di più, quasi si aspettava che facesse rumore, come il gorgoglio di quando si ha fame.
- Ah, potresti provare degli… impulsi strani, come voglie particolari o… altre cose. Quando il corpo è rilassato tendono ad emergere alcuni bisogni che non si avvertiv…
Le parole gli morirono sulle labbra quando Balder abbassò il suo blocco per appunti, incontrando lo sguardo diverso di Ilda, quasi da predatrice. Inciampò, e lei lo afferrò per la camicia, sul petto, tirandolo a sé. Per impedire che cadesse… o no?
Erano troppo vicini.
In un riflesso involontario, Balder portò le mani avanti per impedire la caduta, appoggiando quella che reggeva i fogli sul lettino e quella con la penna sulla gamba di Ilda. La tolse subito, farfugliando delle scuse impacciate prima di rendersi conto che Ilda non aveva tolto le mani dalla sua camicia. Quando incrociò di nuovo i suoi occhi, Ilda lo tirò ancora più giù. I loro nasi si sfiorarono.
Per baciarsi, però, nessuno dovette tirare l’altro. Memori della prima volta che era accaduto, non furono impacciati. Fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio e scoprire di essere ancora perfettamente padroni della routine che si aveva un tempo. Le mani di Ilda scivolarono sul petto di Balder fino alle spalle, mentre una andava ad intrecciarsi ai suoi capelli. Balder invece fece cadere per terra fogli e penna, afferrando gentilmente la vita di Ilda mentre si chinava per essere più vicino a lei. Il bacio fu frenetico all’inizio, ma si stabilizzò presto, trasformandosi in un movimento lento e dolce che riempì la stanza di schiocchi. Ilda sentì il sorriso di Balder sulle labbra e sorrise a sua volta, anche se sapeva che se avesse aperto gli occhi le si sarebbero riempiti di lacrime. Aprì le gambe per permettere a Balder di avvicinarsi di più e lui le accarezzò la schiena, abbracciandola, stringendola a sé. Era gentile anche in quel frangente, quando avrebbe potuto osare.
Ilda di sicuro non l’avrebbe fermato.
- Se la tua prozia ci trova siamo nei guai – mormorò Ilda, mezza seria.
Balder allargò ancora di più il sorriso, baciandole il mento. – Non sei mica con Tyr. Io non rappresento una minaccia, secondo lei. Siamo solo amici, no?
Poi gemette quando Ilda gli accarezzò il polpaccio con il piede, voluttuosamente. Lei ridacchiò, mugugnando un assenso.
Balder si vendicò scendendo a baciarle il collo. Ilda poteva anche essere sotto l’influsso rilassante dei ponti, ma lui non le stava dando una mano a controllarsi. Avrebbe ceduto anche con Tyr?, si ritrovò a chiedersi Balder. – Non mi pare però che gli amici facciano cose di questo tipo.
Ilda sorrise ancora, chiedendosi come fosse possibile rabbrividire quando sentiva così caldo, caldo come il fiato di Balder sulla pelle. Girò il volto quanto bastava per dargli un tenero bacio sulla guancia. – Sai com’è, con gli amici si possono scoprire un sacco di cose.
Ma si rese conto di aver detto una sciocchezza quando sentì Balder irrigidirsi e fermarsi, e lei ebbe di colpo freddo. Balder si spostò per guardarla negli occhi, naso contro naso, la bocca socchiusa per riprendere fiato. Sembrò sul punto di avvicinarsi di nuovo, invece si allontanò gemendo, indietreggiando, come se si fosse spaventato. Prese atto dei fogli per terra, del viso arrossato di Ilda, di come si sentiva. O non si sentiva. E di quello che Ilda aveva detto.
Deglutì, non aveva nemmeno la forza di essere arrabbiato. – Non sono un manichino con cui fare pratica, Ilda. Ho del lavoro da sbrigare.
Ilda scese dal tavolo e gli si avvicinò, dispiaciuta. – Balder, non intendevo dire…
Balder si sistemò i capelli, o cercò di farlo, dato che non riuscì a riordinarli, ma aveva bisogno di tenere le mani occupate per non accarezzare il viso di Ilda. Quel volto che lo faceva tanto arrabbiare, ma anche struggere.
- Non importa ciò che intendevi o non intendevi dire. Mi hai già risposto, no? Siamo amici. Gli amici non fanno certe cose. E inoltre… non è consono. Le nostre madri sarebbero deluse da noi se…
Ilda sbuffò. – Mia mamma no di certo. Quanto alla tua… non saprei. È una donna intelligente e…
- Non giustificherebbe lo stesso un simile atteggiamento. Siamo amici, Ilda? – chiese lui, aspramente, fissandola negli occhi.
Ilda esitò. Era stata lei, tempo prima, a chiudere qualsiasi spiraglio si fosse aperto perché ne fuoriuscisse un sentimento diverso dall’amicizia. Balder le stava dicendo che la decisione spettava ancora a lei, che quella porta poteva aprirla solo lei. Del resto, lui la sua parte l’aveva già fatta.
Dal corridoio risuonò la voce della zia Roseline, che borbottava qualcosa a proposito dei cuscini da viaggio. Sussultarono entrambi. Ilda si affacciò alla porta, imprecando quando capì che la voce si stava avvicinando. Uscì lanciando una veloce occhiata a Balder.
Lui finì di riordinare le sue cose e si sedette alla scrivania per finire il resoconto, produttivo, della giornata. Ma la penna rimase sospesa sul foglio bianco per troppi minuti, e alla fine Balder vi lasciò cadere sopra la testa, i pensieri confusi.
Perché Ilda si ostinava a…? Non era stata lei, forse, a dirgli che dovevano restare amici? Che razza di concetto aveva dell’amicizia? Se lo avesse scoperto la zia Roseline… rabbrividì al pensiero. E se lo avesse scoperto sua mamma? Dubitava che Ofelia sarebbe stata contenta di un simile atteggiamento, era pur sempre disonorevole e inappropriato, però forse lei avrebbe potuto capirlo, aiutarlo. Anzi, forse lo avrebbe capito meglio suo padre, che si era trovato nei suoi panni quando era giovane, con una fidanzata che non lo amava mentre lui provava…
No, impossibile parlare con suo padre di quelle cose. Oltretutto, sua madre non si era gettata tra le sue braccia come Ilda, nonostante non provasse che amicizia…
Lasciò stare i suoi appunti e guardò l’orologio che portava al polso. Si tolse il camice e corse da Tyr, che si stava allenando. Il fratello gli sorrise prima di vedere la sua espressione.
- Ehi, che…?
- Abbiamo la caccia fra due giorni. Tattica. Allenamenti. Piani. Dimmi tutto.
Tyr aggrottò le sopracciglia, assomigliando più che mai a Thorn. – Sicuro che vada tutto bene?
- Non ho mai detto che va tutto bene – rispose laconicamente Balder, rimanendo in camicia per fare esercizi.
- Vuoi… parlarne? Anche io sono in ansia per la caccia, non devi vergognartene. Lo so che detto da me suona strano, ma…
Balder lo fissò con stupore. Se non altro, suo fratello era riuscito a distrarlo. – Hai paura per la caccia?
Tyr sbuffò. – Certo che ho paura! Sembrerò anche scemo, ma non sono immune al timore della morte. Il papà mi ha affidato la caccia, vuol dire che si fida di me, che lascerà condurre me. Ho studiato ogni articolo di giornale scritto, ogni rapporto dei guardacaccia, ogni diario di famiglia e ascoltato ogni singolo racconto di zia Berenilde, e me li ricordo perfettamente perché… be’, perché ovviamente li ricordo. Ma sarò responsabile della vita tua, di quella delle mie sorelle, di papà e della zia, e non c’è resoconto o storia che possa prepararmi a questo.
Balder si mise a sedere. – Non pensavo che ti sentissi così. Sembri sempre…
Tyr sbuffò. – Sicuro di me. Lo so. Sono uno sbruffone.
- Non ho detto questo.
Tyr ghignò, dandogli una spinta. Si allontanò prima che la sua sciarpa gli si avvinghiasse al collo per scherzo. O per soffocarlo. – Lo neghi?
Balder ridacchiò, sorprendendo se stesso. Sentiva ancora sulle labbra il sapore di Ilda. Per una volta era grato di non avere la memoria del padre e dei fratelli, o sarebbe riuscito a pensare a fin troppe cose contemporaneamente. Con la sua mente normale, invece, poteva concentrarsi del tutto su Tyr e i suoi problemi. – Non ho detto questo.
Tyr sorrise e scosse la testa, forse pentito di essersi esposto così.
- Lo hai detto a papà? – gli chiese Balder, alzandosi e avvicinandosi a lui.
Tyr fece una smorfia. – Come faccio? Vado lì e gli dico che ho paura? Fidati, ho immaginato tutti i possibili scenari di risposta, e nessuno è piacevole. Lui che mi dice che da un impegno non si può rescindere, lui che mi dice che è deluso, che dice che sapeva che era troppo presto, che sono troppo piccolo, o lui che…
- …che ti dice che è normale avere paura, che ne ha anche lui e che ti apprezza per esserti confidato?
Tyr lo scrutò per qualche secondo prima di scoppiare a ridere, imitato da Balder.
- Te lo immagini, papà che lo fa sul serio? Consolare… tollerare un ritardo o… è impossibile, non riesco nemmeno a visualizzarlo! – scherzò Tyr.
- Sì hai ragione. Però, secondo me apprezzerebbe lo stesso una confessione. No?
Tyr fece una smorfia. – No. O meglio, non lo so. Ma non voglio deluderlo, e fare marcia indietro dopo aver insistito così tanto sarebbe deludente sia per lui che per me. La mamma è già abbastanza preoccupata di suo, anche se una sua parola di conforto mi farebbe bene in questo momento. Solo che se glielo dicessi inventerebbe qualche piano strampalato per fuggire di casa, come… non so, degli specchi nascosti tra gli alberi della foresta.
Balder ridacchiò. – Non hai tutti i torti. Però papà ci tiene a… a te. A noi. Se gli dicessi che non ti senti pronto, per me non si farebbe scrupoli ad annullare tutto.
Tyr strinse i pugni. – Non voglio che annulli tutto. Sono pronto. È solo un po’ di ansia da prestazione. Andrà bene. Le statistiche sono con noi, anche la formazione, il momento e il gruppo di Bestie individuato dai guardacaccia. Non voglio tirarmi indietro. Solo… parlarne con qualcuno.
Balder gli sorrise, stringendogli una spalla. – Quando non puoi parlare né con la mamma né con il papà…
Tyr rispose al sorriso, provocatorio come al solito. – Hai ragione, ho sempre Ilda in quei casi.
Ma la sua risata si spense quando si rese conto che Balder non si era unito a lui. – Tutto a posto?
Balder si riscosse. – Sì. Anche io… ansia da prestazione, ecco. Magari potrei provare a…
- Scordatelo – lo interruppe Tyr, improvvisamente riottoso. – Niente ponti sulle Bestie. Dobbiamo ucciderli, non farli rilassare.
- Ma una dose massiccia di influsso lenitivo sui loro nervi potrebbe indurli al sonno!
Tyr alzò gli occhi al cielo. – Ripassiamo le tattiche. Niente ponti. Mi serve la tua precisione chirurgica, Balder.
Insofferente, lui annuì a malincuore. Le Bestie sarebbero state delle ottime cavie per le sue teorie, per migliorare la sua tecnica e un sacco di altre cose che non avrebbe mai potuto sperimentare. –  Forza, ripetimi tutto allora.
- Sì, ma prima devo davvero trovare Ilda. Sai dove potrebbe essere?
Balder si irrigidì, posizionandosi per riprendere gli esercizi. – No, non lo so.
Tyr gli lanciò una strana occhiata, ma non insistette. Per quanto bene facesse condividere i propri fardelli, a volte, i pensieri non se ne andavano e nessuno poteva farsene carico. Ad ognuno le sue pene.
Tyr uscì alla ricerca dell’amica mentre Balder si buttava corpo e anima nell’esercizio fisico, cercando di non pensare al fatto che il suo corpo e la sua anima invece appartenevano all’unica persona che sembrava invece non volerli.
O che non era in grado di prendere una decisione al riguardo.
Il che rappresentava già di per sé una decisione.

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Capitolo 63
*** Capitolo 63 ***


Ciao a tuttiiii! Come dicevo lo scorso capitolo, per quanto riguarda la caccia portate pazienza. Si intravederà qualcosa nel prossimo.
Questo è dedicato, so che molti non saranno felici, al "rapporto" tra Serena e Archibald. Spero non sia un capitolo troppo pesante, dal momento che si basa su riflessioni e una full immersion in quello che per me potrebbe essere il vero retroscena di Archibald (per me eh, non è canon e può non essere condiviso da chi la pensa diversamente), però sarei davvero felice se qualcuno, dopo aver letto il capitolo, vedesse in modo un po' diverso questo possibile futuro tra Archi e Serena.
Per gli amanti (*-* me per prima) di Ofelia e Thorn, portate pazienza, nei prossimi capitoli ci saranno dei momenti molto dolci.
Buona lettura!


Capitolo 63

La sera prima della partenza Serena rientrò a pochi minuti dall’ora di cena.
Raggiante come non mai, con un sorriso smagliante stampato in volto e gli occhi accesi di vita, esclamò: - Sono passata! Sarò il prossimo intendente!
Erano tutti radunati nel salotto, persino Gaela e Renard che volevano salutare tutti in vista della partenza, Archibald, Tom e Vittoria.
Ofelia trattenne il respiro mentre la sala si riempiva di urla di giubilo. Balder fu il primo ad abbracciare Serena, commosso per il suo successo, e Tyr il secondo, che la prese e la fece volteggiare, facendola ridere. In un’altra circostanza, Serena si sarebbe lamentata della sua esuberanza, ma non quella sera. Quello era il suo momento, il momento della gioia e della realizzazione. Ofelia si sentì commuovere quando vide gli occhi lucidi della figlia. Non l’aveva mai vista sorridere così tanto e si immaginò come dovesse essere Thorn sorridente. Perché era impossibile non notare la somiglianza tra Serena e il padre, e Thorn avrebbe avuto un sorriso bello come quello della figlia, se solo si fosse permesso di esibirlo.
Ofelia si avvicinò per abbracciare Serena quando gli altri ebbero finito il loro giro, anche se continuarono a rivolgerle una domanda dopo l’altra. Sì, aveva preso il massimo dei voti e no, non aveva ottenuto il maggior grado di consenso della corte, ma quello che aveva raggiunto era bastato a renderla indubbiamente la prima tra i candidati. Berenilde stava giusto dicendo che era possibile essere eletti all’unanimità, ma quello non contava perché l’importante era portare a casa il risultato, quando Ofelia si fece largo tra la folla.
- Mamma! – esclamò Serena, abbracciandola.
Ofelia ricambiò, chiedendosi se fosse normale per una madre arrivare a sentirsi più piccola e fragile della figlia, quella figlia che aveva partorito e cresciuto. La testa le arrivava al petto, non si era sentita così bassa nemmeno al cospetto di Thorn.
Si scostò per accarezzarle il viso con le dita guantate, e si commosse quando vide Serena piangere.
- Ce l’ho fatta, mamma – sussurrò, appoggiandosi alla sua mano.
Ofelia le sorrise, cercando di non far caso agli occhiali storti. – Non avevo dubbi, tesoro. Sono così orgogliosa di te.
Serena si guardò intorno. – Dov’è papà?
- Nello studio, ora vado a chiamarlo. Aspetta qui.
- No, vorrei andare io, per favore, dargli la notizia di persona. E poi, mamma, con tutto il rispetto, ma domani abbiamo una caccia e questa è una serata di gaudio, non è il momento adatto per rompersi qualche arto.
Ofelia strinse le labbra e la lasciò andare, indecisa se essere offesa o divertita dalle parole della figlia. O infastidita, dato che probabilmente aveva ragione. Anni prima, in una delle loro visite ad Anima, si era storta la caviglia proprio il giorno prima della partenza.
Decise però di seguirli con più calma, e arrivò giusto in tempo per vedere Thorn alzarsi di scatto dalla scrivania, facendo indietreggiare Serena per lo spavento. Poi, improvvisamente quanto si era alzato, Thorn si chinò sulla figlia e l’attrasse a sé, abbracciandola. Serena sgranò gli occhi, incapace di registrare il gesto del padre. Serbava ricordi degli abbracci di Thorn solo di quando era piccola, molto piccola. Sebbene sapesse che suo padre le voleva bene, ricevere un gesto d’affetto da lui valeva più di qualsiasi parola.
Piangendo, ricambiò l’abbraccio, seppellendo il viso nel suo petto come tanti anni prima aveva fatto anche Ofelia, ma in circostanze meno liete. Lei sorrise, decidendo di tornare dagli altri e lasciare che Thorn e Serena si godessero il loro momento padre e figlia. Che con ogni probabilità sarebbe durato pochissimo, conoscendo i soggetti.
La serata passò festosamente, mentre tutti continuavano a congratularsi con Serena e le chiedevano come fosse stato l’esame, com’erano gli altri candidati, se qualcuno aveva imbrogliato, e cosa avrebbe fatto da quel momento. Avrebbe seguito un periodo di praticantato con Thorn per poi essere nominata cancelliera. Quando Berenilde disse che era stata brava proprio quanto Thorn, lui la corresse, dicendo che Serena era stata di gran lunga migliore di lui perché era riuscita ad affermarsi da sola. Nelle sue parole non c’era biasimo, e Serena arrossì, lusingata, ma furono le uniche che Thorn pronunciò per tutta la serata. Tom era quello che poneva più domande, essendo ancora poco pratico delle questioni burocratiche del Polo e non avendo una moglie che potesse spiegargliele. Vittoria infatti sorrideva a Serena mentre mangiava, sorriso che veniva ricambiato dalla cugina, ma nulla più, come se non fosse interessata al successo di Serena. Probabilmente era proprio così. Berenilde fece una preparare una torta per festeggiare la nomina di Serena e la partenza del giorno seguente, e l’alcol scorse a fiumi, specialmente dalle parti di Archibald.
Alla fine però dovettero andare a letto presto, per via dell’alzataccia alle prime luci dell’alba. Sarebbe stato un viaggio di quasi un giorno per giungere nel loro maniero nella foresta, fuori dalle mura, e dovevano partire ben riposati. Non si capva chi fra Gaela e Renard fosse il più ubriaco, probabilmente Renard, così Gaela barcollò con il marito fino ai loro appartamenti mentre Randolf si guardava intorno spaesato chiedendosi probabilmente come avesse fatto a finire lì.
 Ilda e Balder evitarono accuratamente di guardarsi per tutta la serata, e alla fine Balder si ritrovò a un passo dall'essere completamente ubriaco. Serena e Tyr fecero squadra per sottrargli un bicchiere di vino completamente pieno, e Tyr gli tirò un amichevole schiaffo in volto che forse, per essere amichevole, fu decisamente troppo forte.
- Se continui così, bello mio, saranno le Bestie a farti a pezzettini dopodomani. Su, in forma nel corpo e nella mente. Non vorrai davvero ubriacarti! - lo sgridò Tyr, mentre Serena, suo malgrado, sorrideva.
Balder alticcio era uno spettacolo più unico che raro, soprattutto considerato che aveva bevuto solo due bicchieri di vino (e nemmeno pieni).
- Spero che tu regga la tensione della caccia meglio di come reggi l'alcol, Balder - infierì persino Serena, che gioiosa com'era per la sua nomina si era permessa di lasciarsi andare per una sera.
La maschera seria era caduta per lasciare il posto ad una ventenne esultante che dimostrava quasi meno dei suoi anni.
- Non sono ubriaco! - borbottò Balder, infastidito, lasciandosi condurre in camera dal fratello. - Domani sarò più fresco di voi. Sono solo allegro.
Tyr scoppiò a ridere. - La zia Roseline direbbe che sei depresso come un tappetino da bagno, fratello. Altro che balla allegra.
Balder sbuffò, ma si fece condurre via. A suo discapito, si poteva dire che non biascicava le parole ed era parecchio lucido, ma di sicuro l'alcol non lo reggeva granché.
Ilda seguì Balder con lo sguardo, in un modo che non sfuggì a Serena. Quando però si avvicinò a lei, l'amica si congratulò nuovamente e disse che doveva andare a dare un'occhiata ai suoi genitori, dileguandosi. Quel comportamento insospettì Serena, che però sapeva di dover aspettare fin dopo la caccia per chiedere spiegazioni al fratello. Perché le probabilità che Balder c'entrasse qualcosa erano molto, molto alte.
Vittoria la imitò trascinandosi dietro Tom. Entrambi sorrisero alla cugina e poi si fermarono a salutare Berenilde. La dama, che aveva bevuto decisamente più di Balder ma reggeva molto meglio di lui, seguì la figlia manifestandole verbalmente il suo amore e rassicurandola circa il fatto che lei, la sua mamma, sarebbe tornata sana e salva e non ci sarebbe stato nulla di cui preoccuparsi. Berenilde tendeva a diventare tenera quando era ubriaca, specialmente se c'era la figlia nei paraggi. Fortunatamente non si accorse dell'indifferenza di Vittoria, che l'accompagnò gentilmente a letto come se i ruoli si fossero invertiti. Serena sorrise di fronte al leggero sospiro di Tom, che tra le due donne non sapeva quale fosse quella più bisognosa di attenzioni. Trasalì addirittura quando la zia Roseline si aggiunse al quadretto per aiutare Berenilde.
- Perché senza di me domani ti troverai senza valigie e con l'aria sbattuta come la sputacchiera del prozio Gino! Ah, la sua sì che era una sputacchiera triste! E come biasimarla?
Serena ridacchiò, guardandosi intorno. Erano rimasti solo i genitori, che si lanciavano a vicenda occhiate in tralice mentre raccoglievano le loro cose. Serena sospettava che avessero litigato, e presumeva che l'oggetto della controversia fosse proprio la partenza dell'indomani, ma non voleva indagare. C'era un motivo se si diceva di non mettere dito tra marito e moglie, in fondo. Le era già capitato di vedere i genitori irritati tra di loro. Anche se sapeva che non sarebbe durata a lungo, le dispiaceva vederli così.
- Buonanotte Serena - la salutò Ofelia, avvicinandosi a lei e accarezzandole il fianco.
Si era stufata di alzarsi sempre sulle punte per toccarle il viso, e un bacio era fuori discussione. Serena le sorrise e abbracciò la madre. - Tornate presto, mi raccomando. E tutti interi.
- Le probabilità sono a nostro favore - intervenne Thorn, burbero.
Ofelia alzò gli occhi al cielo.
- Lo so - assentì gentilmente Serena, chiedendosi dove fosse finita la dolcezza dell'abbraccio in cui l'aveva inglobata poche ore prima.
Ringraziò la sua memoria, che le avrebbe permesso di non scordarsi mai il calore di quella stretta, così rara da parte di suo papà.
- Occupati tu della zia Roseline, mi raccomando. Ultimamente è distratta quanto un ombrello - le raccomandò Ofelia, prima di dirigersi verso camera sua.
Avrebbe voluto stringere la figlia un po' di più, ma sapeva che era a disagio quasi quanto Thorn con le dimostrazioni d'affetto. Inoltre, voleva credere che sarebbe andato tutto per il meglio, e attardarsi in lunghi e preoccupanti arrivederci avrebbe guastato il buonumore dovuto alla sua riuscita.
- Vieni nel mio studio dopo, ho alcune consegne da lasciarti. Dovrai cominciare il tuo primo giorno di praticantato senza di me, ma ho già istruito il segretario. Saranno per la maggior parte incartamenti e bozze da rivedere o pratiche da correggere, nulla che tu non sappia già fare.
Quella dimostrazione di fiducia, coperta da indicazioni pratiche e ordini, fece arrossire Serena. Suo padre si fidava di lei al punto di lasciarle direttamente in mano l'intendenza per tre giorni, nonostante non avesse ancora visto lui all'opera.
- Credi davvero che sarò in grado di farlo, senza di te? - mormorò Serena, spaventata.
Thorn piantò i suoi occhi grigi nei suoi, tagliandole l'anima da quanto erano affilati. - Non lo credo, lo so. Altrimenti non ti affiderei quest'incarico. Non gioverebbe né a me né a te darti dei compiti che poi toccherebbe a me sistemare. Non contemplo mai gli azzardi e le impossibilità.
Serena sospirò. Erano le parole più belle che suo padre le avesse mai detto. Gli sorrise, grata, e vide che anche la bocca di Thorn ebbe un fremito. Forse un tentativo di risponderle?
- Fate attenzione, mi raccomando. So che non vi esponete mai a rischi inutili, ma non pensate che per me sia facile restare qui mentre tutti voi siete in pericolo.
Il volto di Thorn si indurì, mentre increspava la fronte. Ormai rimaneva piena di rughe anche quando era distesa, tanto era stato abituato ad aggottare le sopracciglia.
Esitò, poi ammise: - Non temo l'esito della caccia. Come hai detto, non corro mai rischi inutili. Non se non riguardano direttamente e solo me, e soprattutto non se c'è di mezzo la mia famiglia. Ma quella che mi preoccupa di più è tua madre.
La mascella si tese sul finire della frase, facendogli pronunciare le parole tra i denti.
Serena sbatté le palpebre, perplessa. - Ma la mamma è quella che rischia men... oh! Temete un suo colpo di testa?
Thorn la guardò da dietro le palpebre socchiuse. - Me lo aspetto, non lo temo. Ma proprio perché penso che sia prevedibile, ho il dubbio che succederà altro. Se non sapessi con certezza che non esiste, direi che il potere familiare di Ofelia è la capacità di distorcere le probabilità. O la propensione alla catastrofe. Probabilmente la seconda. Anche un po' di più.
Serena vide per la prima volta che dietro l'atteggiamento distaccato, quasi altero di Thorn, si celava una grande apprensione. Però le venne quasi da ridere. - La mamma ne ha davvero combinate così tante in passato?
Thorn non sembrava divertito, semmai rassegnato. - Non solo in passato, purtroppo. Continua a combinarne. E non mi piace non avere tutte le variabili sotto controllo.
Serena avrebbe voluto chiedergli di più, fargli domande su come si fossero innamorati, come avessero imparato a vivere insieme. Si era già fatta raccontare alcuni dettagli da sua mamma, che però al riguardo diventava quasi timida. Sentirselo raccontare da Thorn sarebbe stato molto interessante. I suoi genitori avevano pochi anni di differenza, alla fine erano praticamente coetanei. Anche con Archibald...
Serena chinò la testa e si rigirò tra le dita, nervosa, una ciocca di capelli. Stava per racimolare il coraggio per chiedere a Thorn di lui e la mamma, ma lui la precedette. - Vado a finire di redigere alcuni rapporti. Raggiungimi dopo.
Serena annuì mentre Thorn usciva dal salotto, poi sospirò. Era una delle conversazioni più intime che avesse mai avuto con suo padre, eppure non le bastava. Si sentiva affine a lui, che sembrava un po' incapace, come lei, di parlare di sentimenti. Però ne provava. Eccome se ne provava. Una facciata dura all'esterno, quasi intransigente, non significa per forza insensibilità d'animo o imperturbabilità. Anche a suo padre, sempre così impassibile, capitava di urlare interiormente? Di struggersi d'amore? Dopo cinque, anzi, sei figli quasi, Thorn doveva per forza aver trovato il modo di mostrarsi, mostrarsi davvero, a Ofelia, e di amarla senza limitazioni o vergogna. O paura. O pregiudizi. O timore dei commenti altrui. O dubbi e incertezze.
Ma quello era suo padre... o era lei?
Serena si massaggiò le tempie, sentendo arrivare un'emicrania da pensieri eccessivi. Aveva chiesto a Tyr e alle gemelle se anche loro soffrivano di mal di testa ogni tanto, ma la risposta era stata negativa. Quando aveva provato a domandarlo a Thorn, lui le aveva rivelato che le sue emicranie era più di tipo mnemonico che da troppa attività cerebrale. Quella risposta l'aveva confortata poco: poteva capire un fastidio causato dal troppo riempimento del cervello, ma lei pensava semplicemente troppo.
Sospirò ancora e andò a sedersi sulla poltrona, a occhi chiusi, in cerca di pace. Fortunatamente era rimasta solo lei, persino i domestici avevano finito di riordinare e sparecchiare.
Quando aprì gli occhi, scoprì di avere completamente torto.
Archibald la fissava dal divano con un sorriso sornione, un calice vuoto mollemente stretto nella mano e il cilindro bucherellato calcato in testa. Non lo aveva notato nessuno perché era sdraiato, quasi invisibile, e il divano dava le spalle al tavolo del salotto. Se li avesse visti la zia Roseline le sarebbe preso un colpo. Non aveva nemmeno fatto caso a quando in passato loro avevano studiato insieme proprio in quella sala, dato che era una stanza in cui passavano moltissime persone. Ma si era infuriata quando li aveva trovati insieme da soli una sera, quando tutti gli altri erano a letto o impegnati in altre attività. Non stavano facendo nulla di male, ma decisamente non stavano studiando. Si stavano dilettando con un cruciverba, mentre lei cercava di non ridere e di trattenersi dal fornire ad Archibald tutte le risposte e lui si impegnava come uno scolaretto per sbagliarle tutte. Doveva riconoscere che ci voleva del genio, però, per riuscire a trovare dei sinonimi con lo stesso numero di lettere.
Scoprire che era rimasta da sola con lui la fece irrigidire, invece lui come al solito non diede peso alla cosa. Come avrebbe potuto? Per lui non era altro che una bambina. In effetti, poteva essere sua figlia, o quanto meno una nipote. Sapeva per certo che Pazientina aveva un figlio della sua età, quindi non c'era da meravigliarsi che non la vedesse come una donna. Soprattutto perché non avrebbe voluto essere una delle tante. Mai. Non si sarebbe mai ridotta così. Eppure, quello che provava nei suoi confronti era così complesso che non sapeva nemmeno lei come avrebbe reagito di fronte a delle avances.
Fortunatamente, Archibald era troppo rispettoso verso Thorn e Ofelia per tentare di disonorarla, o di instaurare una relazione romantica con lei. O almeno così pensava…
Un filo dei suoi pensieri, però, molto fastidioso, si chiese se davvero Archibald fosse rispettoso, o se invece non fosse proprio minimamente interessato a lei.
Sapeva tutto di Archibald. Lo conosceva intimamente, come nessun altro. Perché lo aveva osservato, aveva osservato come interagiva nelle serate a corte, come si rapportava con le sue sorelle e con i padroni di quella che ormai era diventata casa sua, anche se nessuno voleva ammetterlo, cioè i suoi genitori. Si fingeva goliardico con tutti, non si mostrava rancoroso con la famiglia che aveva dovuto tagliare ogni rapporto con lui, escludendolo dalla propria rete di affetti (una minuscola parte di Serena si compiacque della battuta). Ma c'era tristezza nei suoi occhi, e tanta solitudine. Serena lo aveva visto tornare da qualche notte brava passata in compagnia di troppe dame di corte, così tante che avrebbe voluto non avere la memoria di suo padre, per non doverne ricordare costantemente il numero. Ma lo aveva visto tornare sempre più vuoto. Quando studiavano insieme, all'inizio, lui era così tanto sovrappensiero e distratto che aveva dovuto richiamare la sua attenzione più volte, magari con un commento arguto per stemperarne il tono di rimprovero. Archibald si era sempre scusato e si era rimesso al lavoro, ma senza il consueto sorriso sulle labbra. Con lei, si era resa conto Serena, non fingeva. Forse non ne aveva le forze, forse non ne aveva voglia, forse non si sentiva criticato. Qualunque fosse il motivo, Serena lo aveva accolto senza giudicare. E soprattutto, ascoltandolo quando aveva iniziato, poco a poco, ad aprirsi. A rivelare un pezzetto di sé alla volta. Con Archibald c'erano più non detti che affermazioni (e poi dicevano che quello criptico era Thorn!), ma Serena non era una stupida e sapeva collegare i puntini. Aveva capito che Archibald era cresciuto con un peso sulle spalle già dalla tenera età. L'ambasciatore. Di bell'aspetto oltretutto. Doveva sempre essere al massimo, doveva sempre dare il meglio, portare alto il nome e il lustro della famiglia, perché era guardando lui che gli altri, amici e nemici, avrebbero giudicato il loro casato. Quando erano arrivate le sue sorelle le cose erano peggiorate, perché si era fatto carico di proteggerle da quel covo di serpi che era la corte. Che era il Polo stesso. In qualità di ambasciatore era a conoscenza di più segreti rispetto addirittura a Thorn, segreti che gli marcivano dentro, che in certi casi avevano minacciato di farlo impazzire. Di impedirgli di guardarsi allo specchio. Proteggere le sorelle era diventata la sua missione, il suo obiettivo, perché le amava come non aveva mai amato nessuno.
Ma chi avrebbe protetto lui? Chi avrebbe vegliato su di lui?
Aveva solo bisogno di una valvola di sfogo, una distrazione per poter sopportare la sua vita. Sapeva di non poter annegare ogni volta nell'alcol, si sarebbe distrutto a vent'anni, così aveva trovato un rimedio: donne e ribellione. In fondo, con tutti i segreti di cui era a conoscenza, nessuno si sarebbe mai permesso di dirgli qualcosa, o di contraddirlo. Non gli importava di apparire al meglio, anzi, si era impegnato per essere il più trasandato possibile. Anticonvenzionale. Corroso fuori quanto lo era dentro. Ma soprattutto schietto, a volte brutalmente onesto, lì dove gli altri avrebbero usato tatto o indorato la pillola. Era intoccabile, era l'ambasciatore di Faruk, ed era il più importante calderone di informazioni scomode esistente. E le donne... sapeva di essere di bell'aspetto, non aveva dovuto cercare di intentare qualche stupido gioco di seduzione. Aveva semplicemente smesso di respingerle. Vecchie o giovani, grasse o magre, le donne che lo cercavano avevano bisogno di distrarsi dai loro problemi, di sentirsi amate, seppure per una volta. E non ne aveva bisogno anche Archibald? Non era un Miraggio, ma era molto abile nel donare alle donne quell'illusione, anche se spesso era brusco, o poco tenero. Perché non riusciva ad illudere se stesso, e dopo ogni incontro si sentiva più insignificante di prima. Era stato con donne più grandi di trent'anni, era stato con Berenilde, era stato con donne dalla bellezza abbacinante e con bruttarelle appena passabili, era stato con ragazze più piccole. Ma non aveva mai abusato di nessuno. Né si era permesso di accondiscendere alle richieste delle ragazzine appena maggiorenni.
Poteva non sembrare, ma Archibald aveva una morale. O almeno, l'aveva avuta.
Una volta aveva desiderato una famiglia. Una moglie. Figli. L'amore.
Ma ogni segreto che si aggiungeva a quelli da custodire, ogni nuova consapevolezza che acquisiva sulla mancanza di discrezione e privacy nella sua famiglia aveva fatto morire quel desiderio come un fiore calpestato. Non voleva trascinare nessuno nell'intreccio della Rete, e non avrebbe comunque potuto. Avrebbe dovuto sposare una qualche cugina di chissà che grado. Di cui conosceva già tutto. Compresi i pensieri più intimi.
La recisione del legame con la famiglia era stato prima doloroso, poi un sollievo e di nuovo un gran dolore. Non era più in grado di vegliare sulle sue sorelle. Di proteggerle. Erano ormai grandi, ma tenerle al sicuro era il suo unico scopo. Senza quello, cosa gli rimaneva? Poi, il sollievo quando si era sentito libero, quando aveva sentito la sua mente appartenere a lui, solo a lui, per la prima volta. Vuota, priva di voci. La sua famiglia gli aveva permesso di risiedere lo stesso nei suoi vecchi quartieri, un riguardo verso il legame che c'era stato. Non per affetto, ma per dovere. Lì era ritornato il dolore, che si era acuito quando aveva iniziato a fare spola tra casa di Berenilde e di Thorn e Ofelia, di cui aveva invidiato il rapporto. Stare lì con loro aveva riportato a galla vecchi sentimenti e desideri che pensava fossero ormai sepolti, e in mancanza di alternative, aveva finito con l'eccedere più spesso con l'alcol.
Archibald avrebbe voluto quello che avevano Ofelia e Thorn.
E lo avrebbe voluto anche Serena, un giorno.
Tutto questo Serena lo aveva scoperto nel corso delle settimane, componendo le informazioni che lui le dava a spizzichi e bocconi, o un po' più abbondantemente quando era ubriaco. Triste a dirsi, si era innamorata di lui proprio in un suo momento di poca sobrietà, contro ogni logica, contro ogni buonsenso, criterio, costume e conformismo. Archibald quella sera si era presentato nel salone ad un'ora improponibile, con gli occhi iniettati di sangue e un calice vuoto in mano, preso a chissà quale festa e mai restituito. Aveva fatto lo sbruffone con lei, che era ancora alzata per studiare, e poi le si era seduto accanto. Serena aveva continuato a studiare come se nulla fosse, infastidita dall'odore di alcol che gli aleggiava intorno. Per qualche motivo non era spaventata da Archibald, era una figura familiare, qualcuno di cui serbava il ricordo da quando era nata. Un uomo bellissimo, ma che aveva sempre visto come uno zio. Invece quella notte Archibald aveva aperto il suo cuore, lasciando scivolare fuori tutto quello che si portava dentro da anni.
Serena aveva smesso di studiare per ascoltarlo, nonostante potesse fare benissimo tutte e due le cose insieme. Era consapevole che se fosse arrivato qualcuno e li avesse sorpresi a quell'ora improbabile insieme sarebbero stati guai seri, ma Archibald l'aveva incatenata alla sedia con le sue parole. Serena aveva visto cadere la sua maschera, aveva visto la sua bocca assumere la forma di una smorfia amara, sofferente, quella di chi va avanti per inerzia, senza uno scopo. E senza una gioia. Aveva capito tutto, quella notte, il detto e il non detto, la motivazione dietro le sue azioni, la ragione dietro le sue parole, dietro le sue scelte. Aveva scoperto un uomo solo, schiacciato dal peso che la sua famiglia gli aveva messo sulle spalle, che non era stato in grado di gestire quando andava tutto bene e non aveva poi capito come vivere senza quel peso. Un uomo che non sapeva come fare ad amare, perché temeva rappresaglie, temeva di soffrire per amore, e temeva di attirare solo donne immature e interessate a lui solo per una notte di distrazione, e non per costruire una famiglia. Serena aveva visto la sua anima, quella sera. E si era innamorata di Archibald, non l'ex-ambasciatore, non l'uomo che era stato membro della Rete, non il custode di segreti a volte ignominiosi, non il libertino che cercava una via di fuga in qualche rapporto occasionale.
Aveva visto Archibald, l'uomo che c'era sempre stato, che le aveva dato una mano nel suo obiettivo ambizioso più di chiunque altro, che le aveva sempre rivolto gesti gentili e qualche regalo, che non l'aveva mai delusa. Non lei. Archibald, che come lei, intimamente, aveva paura di amare perché rappresentava un salto nel vuoto, una variabile impazzita, un'espressione non calcolabile nel suo mondo regolato dalla matematica. Lo sentì come uno spirito affine, qualcuno che la comprendeva, almeno sotto quell'aspetto. E le aspettative della famiglia? Non ne poteva più delle frecciatine e dei commenti che le rivolgeva la zia Berenilde, per quanto benintenzionata, ma che voleva assolutamente accasarla. Come se fosse solo quella la ragione per cui era nata, in quanto donna. Archibald aveva sempre avuto rispetto per le donne, le aveva aiutate in più di un'occasione. Aveva collaborato anche con sua mamma, da pari a pari.
Serena aveva lanciato un'occhiata all'orologio e chiuso il libro, quando lui aveva finito di biascicare i suoi racconti. Era davvero troppo tardi.
- La società vi giudica, giudica chiunque, ma io credo che il giudizio peggiore che vi viene attribuito venga da voi stesso. Non vi interessa di cosa pensa la vostra famiglia, di cosa pensano i cortigiani, di cosa pensa mio padre, i domestici, chiunque, ma non sopportate ciò che voi stesso pensate di voi. Il basso merito che vi attribuite - aveva affermato Serena con decisione, sporgendosi verso di lui, talmente presa dal suo ragionamento da non far nemmeno caso all'odore di alcol che Archibald emanava. - Avete fatto delle cose buone nella vita, Archibald. Non siete stato voi a voler ricoprire il ruolo che vi è stato imposto. Ma avete un'opportunità, ora che siete libero, per vivere la vita che desiderate, perché lo desiderate voi. E a chi importa cosa pensano gli altri? Noi dobbiamo convivere solo con noi stessi, quindi smettetela di giudicarvi troppo severamente. Non esistono i santi.
Archibald l'aveva fissata con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzati, e Serena aveva visto il suo sguardo farsi d'un tratto sobrio. Archibald le aveva sorriso, e si era sporto a sua volta verso di lei. Il primo, vero sorriso che Serena gli vide sulle labbra, un sorriso nostalgico, triste, ma vero, che finalmente, per una volta, gli scaturiva prima di tutto dagli occhi. Le aveva scostato una ciocca di capelli chiari dalla fronte, accarezzandole la nuca con tenerezza. Non c'era malizia in quel gesto, solo affetto, un affetto puro e incontaminato.
- Quando siete diventata così matura, Serena?
Serena. Non figlia di Thorn, non apprendista intendente, o tutti i nomignoli con cui l'aveva sempre chiamata e chiamava tutti.
Serena aveva deglutito, sentendo lo stomaco rimescolarsi. Aveva distolto lo sguardo e si era allontanata. - Non c'è una data precisa, suppongo.
Archibald aveva sospirato, alzandosi. - Suppongo di no. Suppongo di essere stato cieco, oltre che stupido. E suppongo di dovermene andare da qui, prima di compiere l'errore più grande tra tutti gli errori che ho commesso nella mia miserabile vita. Buonanotte, Serena.
Lei era rimasta immobile a guardarlo mentre se ne andava, registrando dettagli a cui non aveva mai fatto caso, come i capelli ancora folti nonostante l'età, la corporatura solida, non magra come quella di suo papà, o la sua, le mani curate nonostante gli eccessi a cui si lasciava andare, la camminata sicura (a quanto pareva era davvero diventato sobrio di colpo). Quando era andata a dormire, si era resa conto di cosa le avesse fatto venire le farfalle nello stomaco: il modo in cui aveva pronunciato il suo nome, un nome che apparteneva ad una donna, una consapevolezza di cui Archibald aveva preso atto.
Si era innamorata di lui, in segreto, da quel giorno, certa di non poter far nulla per cambiare il modo in cui Archibald la vedeva: una bambina che aveva visto crescere. E sapeva che in lei qualcosa non andava, perché Archibald avrebbe potuto essere suo padre. Eppure la differenza d'età non la intimoriva, né la sua nomea, né ogni storia che girava sul suo conto. Contro ogni logica.
Contro. Ogni. Logica.
Ecco perché odiava l'amore, una cosa così incalcolabile, insensata e aleatoria.
- Ebbene? Avete intenzione di iniziare anche voi a guardarmi con il malcelato disgusto di vostro padre? - esordì Archibald, riportandola brutalmente al presente.
A volte i ricordi l'assorbivano completamente, e Serena si dimenticava di quale fosse il presente. I troppi dettagli e il rivivere perfettamente una scena ottimamente conservata nella propria memoria a volte giocavano questi scherzi a chi era in parte Storiografo.
Serena scosse la testa sospirando. - Non vi guardo con malcelato disgusto. Ero solo assorta.
Archibald le regalò un sorriso tutt'altro che divertito. - Non manca molto, vedrete che anche voi lo farete prima o poi. Mi sono già condannato da solo tacendovi la questione dell'approvazione della corte per poter diventare intendente. E a proposito, congratulazioni! Benvenuta tra gli sciacalli!
Serena si chiese come riuscisse a formulare delle frasi di senso compiuto visto quanto era ubriaco. Quando lo vide alzarsi e barcollare, sospirò e gli si avvicinò.
Archibald ridacchiò. - Ho una gamba addormentata. Che fastidio, come tante piccole punture.
Serena si passò un suo braccio sulle spalle. Alta com'era, Archibald la superava di pochi centimetri e riusciva ad appoggiarsi benissimo. - Vi aiuto io. Ma fate piano, non vorrei che svegliaste qualcuno.
Archibald ridacchiò ancora, afferrando il suo cilindro perché non cadesse. Nonostante la difficoltà di coordinamento, aveva degli ottimi riflessi. Serena lo accompagnò in camera rimuginando su ciò che le aveva detto, ma senza commentarlo. Era evidente che Archibald non avrebbe voluto che diventasse intendente, ne era una prova il fatto stesso che le avesse taciuto l'informazione sul voto generale, quando lei aveva passato la selezione. Voleva proteggerla, e non era affatto felice che lei fosse diventata cancelliera. Non dubitava del suo giudizio, sapeva che la corte e la burocrazia sarebbero state davvero un covo di ipocrisia e bestie pronte a sbranare, ma poteva cavarsela. Se la sarebbe cavata. Non era debole, e lo avrebbe dimostrato. Nonostante questo, sentiva il cuore scaldarsi ogni volta che Archibald dimostrava di tenere a lei. Che fosse quello il motivo per cui si era preso una sbronza simile e non aveva festeggiato? Era da tempo che non si ubriacava fino a quel punto.
Infatti, inciampò in mezzo al corridoio, rischiando di trascinarsi dietro Serena. Lei stabilizzò entrambi, poi gli tappò la bocca quando lui riprese a ridacchiare. La tolse quando Archibald scosse la testa, per farle capire che aveva intenzione di comportarsi bene. O almeno così sperava Serena. Riuscì a raggiungere camera sua e si chiuse la porta alle spalle, perché nessuno passasse lì per caso e li vedesse. Allora sì che sarebbero stati problemi.
Serena lo adagiò sul letto, dove lui si schiantò di faccia ridendo. Poi si voltò, rivolgendole un sorrisetto furbo, e alzò una gamba.
Serena lo guardò in cagnesco, un sopracciglio inarcato, ma quando lui iniziò a sventolare un piede lo afferrò per la caviglia, cedendo. Gli tolse le scarpe, gettandole con stizza in un angolo. Quando si voltò, si ritrovò a pochi centimetri dal viso di Archibald, che si era rimesso seduto.
Il cuore le balzò in gola, il respiro si bloccò nei polmoni. Archibald era diventato mortalmente serio, e non fece nulla per allontanarsi. Né lo fece lei.
- Siete una donna incredibile, Serena. Non lasciate che la corte vi corrompa, né che il lavoro vi consumi. Non ne vale la pena. Meritate di più. Meritate di meglio.
Serena trovò la forza di deglutire, anche se la salivazione le si era azzerata. - E cosa mi merito? Cosa...?!
Archibald posò le labbra sulle sue, leggere come una piuma, delicate, ma non esitanti. Tennero entrambi gli occhi aperti, quelli di Serena addirittura spalancati, ma il bacio non venne approfondito. Sempre che un contatto così leggero si potesse definire bacio. Eppure, Serena sentì la dolcezza alcolica sulle sue labbra, e si trattenne dal saggiarne il gusto di fronte ad Archibald. Per la prima volta nella sua vita, il suo cervello era bloccato. Non sapeva cosa pensare, letteralmente. Nessun filamento di pensiero, niente.
- Non me. Non sarò mai abbastanza per voi. E non ho il diritto di meritarvi. Ma non cambiate, vi prego.
Serena si raddrizzò di scatto, allontanandosi, a scoppio ritardato. Si coprì la bocca con la mano, sconvolta. Archibald la fissò dal basso, fece un sorriso amaro, e si sdraiò. Vestito. Sopra le coperte. Sembrava non importargli nulla.
- Buonanotte, dolce Serena.
Gli diede la schiena. Per qualche motivo le veniva da piangere. Il cervello decise in quel momento di riprendere a lavorare a pieno regime, inondandola di pensieri in modo così improvviso da farle venire il mal di testa.
Si diresse verso l'armadio della biancheria che stava di fronte al letto e ne tirò fuori una coperta, che stese sopra Archibald. Lui si era già addormentato, così non le toccò guardare di nuovo l'abisso di disperazione che si era spalancato in quegli occhi azzurro cielo quando l'aveva baciata. Serena si raddrizzò di nuovo, e l'enormità di quanto era successo la travolse, facendola vacillare. Urtò il comodino così forte che ne cadde un taccuino. Si rialzò massaggiandosi la gamba (e chiedendosi come facessero sua madre e suo fratello a non lamentarsi ogni volta che inciampavano), grata del fatto che Archibald non si fosse svegliato. Raccolse il taccuino quasi meccanicamente, e vide che sotto di esso c'era un foglio. Un foglio piegato, consunto e ingiallito dal tempo, di cui vide un'estremità.
E il tratto inconfondibile di Vittoria.
Vergognandosi in anticipo, sgridandosi perché ficcanasare era deprecabile, eppure non riuscendo a fermarsi.
Questa volta non le venne solo da piangere, pianse veramente. E scostò il foglio appena in tempo, prima che una lacrima lo macchiasse.
Quel disegno era vecchio, Serena non avrebbe saputo dire a quando risalisse. Avrebbe potuto togliersi i guanti e testarlo, leggerlo, ma non voleva. O meglio, non poteva. La tentazione era forte, ma non si sarebbe mai abbassata a tanto, a violare l'intimità di Archibald e Vittoria, per quanto desiderasse scoprire cos'aveva pensato Archibald vedendo quel disegno. Perché, ne era certa, quel foglio lo avevano toccato solo loro due. 
Vittoria aveva catturato l'essenza di Archibald. La sua anima. La sua natura. Quello che la fissava dal foglio era un viso ancora più bello di quanto non fosse in realtà, ma tormentato, dilaniato, talmente sofferente da rendere vana quella bellezza. Gli occhi erano vuoti, tratteggiati con così tanta maestria da sembrare profondi, così profondi da poterci annegare, come se bucassero il foglio e si perdessero in un'altra dimensione. Come un'illusione. Occhi così soli.
Se quel ritratto avesse avuto un nome, sarebbe stato Solitudine. Sembrava il disegno che ne rappresentava la definizione stessa.
A Serena si strinse il cuore. Se quel ritratto rappresentava veramente i sentimenti e lo stato d'animo di Archibald, e lei non ne dubitava, Serena si rese conto che era un miracolo se Archibald ogni tanto era sobrio. Era un miracolo che non fosse un ubriacone senza speranza, che non si desse ogni sera al bere. Perché sembrava imprigionato sul fondo di un pozzo da cui era impossibile uscire.
Asciugandosi le lacrime, ripose con cura il disegno dove lo aveva trovato, sotto al taccuino. Allungò una mano per accarezzare la guancia ispida di Archibald, ma si trattenne. Si fissò il guanto. Non poteva svegliarlo. Non voleva che vedesse la compassione sul suo volto, sapeva che per lui sarebbe stato un duro colpo. Così spense la luce e si fiondò in camera sua tramite lo specchio, ringraziando che le gemelle avessero voluto da qualche mese una stanza tutta per loro. Si buttò a letto e soffocò le lacrime nel cuscino, chiedendosi come potesse la vita essere così ingiusta. E crudele.
 
Non era molto tardi quando Serena bussò. Thorn alzò gli occhi dai suoi fogli, strizzandoli per mettere meglio a fuoco la figura alta e snella che si stagliava sulla porta. Forse stava diventando leggermente miope con l’età.
-Vieni - le disse quando la riconobbe, rituffando la testa nei documenti. Quando Serena gli si affiancò, cominciò a parlare: - Ho già ordinato tutto in modo che ti sia più facile trovare quello che ti serve. Ci sono quattordici relazioni da correggere e sei rapporti da redigere, della quantità minima di millesettecento parole. Delle fatture si occupa il segretario, ma tu...
Per i successivi diciassette minuti Thorn spiegò con voce inflessibile e senza quasi riprendere fiato tutto quello che Serena avrebbe dovuto fare in quei tre giorni, come farlo, quando farlo, e come muoversi nel suo ufficio. Nessuno a parte lei avrebbe potuto stare al passo con quei comandi emanati ad una velocità che avrebbe dovuto essere dichiarata illegale, specialmente senza prendere appunti. Ma Serena aveva la stessa memoria e le stesse capacità di Thorn, per cui non batté ciglio e non pose domande, certa di poter assolvere i compiti che suo papà le stava lasciando.
Thorn scambiò il silenzio della figlia per concentrazione, e solo quando alzò lo sguardo si accorse degli occhi arrossati e lucidi di Serena.
Come se avesse pianto.
Thorn si sentì a disagio. Cosa avrebbe dovuto fare? Come poteva intavolare un dialogo con lei? O porle una domanda senza risultare troppo brusco? Rigido dalla testa ai piedi, si rese conto che nemmeno con i suoi figli riusciva a comportarsi nella maniera corretta. Con Ofelia era facile, lei... lo capiva. Si apriva da sola, con lui, lo costringeva a parlare anche quando non voleva e lo subissava di domande, sempre curiosa. Era facile perché era lei a guidarlo. A fargli capire cosa doveva fare, e di cosa lei aveva bisogno.
Schiarendosi la gola, Thorn le toccò gentilmente un braccio. Poteva essere considerata una carezza, o era solo un maldestro tentativo di contatto? Serena chinò la testa, lasciando che i capelli le coprissero il volto.
Sì, decisamente qualcosa non andava. E i motivi potevano essere molteplici. Uno sbalzo d'umore tipicamente femminile (aveva imparato col tempo, da Ofelia, che non erano eventi così illogici come sembravano. O meglio, erano del tutto insensati, sì, ma era impossibile evitarli, quindi aveva smesso di porsi domande al riguardo), magari la tensione accumulata che si scioglieva (l'esame era stato duro, tutti quegli anni di studi erano stati difficili, per lei, e anche Ofelia era solita piangere dopo un periodo particolarmente stressante), o la preoccupazione per la caccia che ci sarebbe stata. Serena sarebbe rimasta a casa con la zia Roseline, ma la sua famiglia sarebbe stata lontana, e tendenzialmente in pericolo, a parte Ofelia (forse. Con lei non si poteva mai dire, e infatti la cosa che più Thorn temeva della caccia era un colpo di testa della moglie).
Dopo un rapido calcolo, Thorn valutò che l'ultima ragione, la paura per la caccia, era quella con la maggior probabilità di scatenare una crisi emotiva.
Serrò la mascella. Non si trovava per nulla a suo agio con quelle cose. Con... l'espressione dei propri sentimenti. O di quelli altrui.
- Andrà tutto bene - borbottò, con una voce che esprimeva tutto il contrario dell'andare bene. - Non devi preoccuparti. Non ci esporremo a rischi inutili.
Serena lo guardò da dietro i capelli, sorpresa. Forse nemmeno lei si aspettava che lui notasse il suo turbamento. Be', magari come padre era quello che era, ma non era così scadente da non interessarsi nemmeno di sua figlia in un momento di volubilità.
Lei cercò di sorridergli. - Sì, lo so. Ho fiducia nelle vostre capacità. E ringrazio voi di avere fiducia in me. Spero che quando tornerete potrete dirmi che ho fatto un buon lavoro.
Thorn intrecciò le mani sulla scrivania, non sapendo come altro usarle. - Non ho mai avuto dubbi al riguardo.
Il sorriso di Serena si fece un po' più sincero, autentico, anche se non contagiò gli occhi e non le ridiede la gioia. Persino Thorn intuiva che ci fosse qualcos'altro dietro.
-Se... dovessi avere bisogno... so che c'è già Ofelia, però, anche io...
E a proposito di Ofelia...
La porta dello studio si spalancò, e Ofelia fece il suo ingresso con gli occhi che sprizzavano lampi d'irritazione dietro le lenti. Sarebbe stata un'entrata piuttosto d'effetto, se solo non avesse rallentato per non inciampare, ad un certo punto. Quasi non fece caso a Serena, concentrata com'era su Thorn.
- È tardi. Non permetterti di dare ordini a me quando nemmeno tu li rispetti.
Thorn irrigidì la mascella. Era da qualche giorno, da quando lui aveva posto dei paletti molto limitanti alla sua venuta fuori dalle mura (anche perché altrimenti si sarebbe infiltrata da sola), che Ofelia era arrabbiata. Come quando si erano appena conosciuti, sembrava tenerlo a distanza e non accordargli più fiducia di quanto fosse strettamente necessario (in senso lato, dal momento che dormivano insieme).
Thorn prese il suo orologio da taschino, aprendolo e chiudendolo in un secondo. - Sono in anticipo di due ore e trentasei rispetto al solito.
Ofelia fremeva. - Il tuo solito orario non è valido oggi. Dobbiamo alzarci prestissimo. E non vado a dormire se non vieni anche tu, perché temo che potresti non venire proprio e non svegliarmi domani mattina.
Ofelia aveva quasi il fiatone da quanto era in affanno. Serena si irrigidì, a disagio, consapevole che forse non avrebbe dovuto trovarsi lì. Distratta dal suo leggerissimo movimento, Ofelia parve finalmente accorgersi di lei. Sbatté le palpebre diverse volte, si sgonfiò e, se possibile, sembrò perdere addirittura qualche centimetro in altezza.
- Perdonami, Serena, non ti avevo vista. Io... be', buonanotte cara. Ci vediamo presto - la salutò, incespicando un po' sulle parole.
Si diresse verso la porta, ma prima di uscire si voltò di nuovo e guardò cupamente Thorn. Anche se le occhiate di Ofelia erano quasi dolci se paragonate a quelle del marito, era così raro vederle che sortivano un certo effetto. - E concediti il giusto riposo, Serena, lo dico per il tuo bene.
Non appena Ofelia fu uscita, Thorn scattò in piedi, come se si fosse attivato un meccanismo a molla. A Serena parve di sentirgli scricchiolare diverse giunture, ma forse era solo la sua immaginazione.
- Devo andare. Ci vediamo fra tre giorni, Serena. Per le questioni urgenti ti direi di mandare un telegramma, ma non riusciremmo lo stesso a riceverlo stando via per un lasso di tempo così breve.
Serena lo tirò per la manica prima che lui potesse superarla, facendogli inarcare un sopracciglio. Fu lei, all'improvviso, a non sapere come intavolare una conversazione. Thorn la fissava dall'alto con un sopracciglio inarcato.
- Mi chiedevo... ho letto un rapporto, l'ultimo rapporto di caccia. La tua famiglia... cioè, i Draghi avevano condotto una caccia in giornata. Perché voi...?
- Ci impiegheremo tre giorni? Perché è la prima. Voglio che Balder, Tyr e le gemelle si prendano del tempo per studiare l'ambiente, per capire come muoversi e mettersi un po' a loro agio. In più, i Draghi partivano di notte per essere pronti la mattina, noi invece partiamo la mattina. Avevo degli impegni inderogabili per oggi.
- Oh, certo. Capito... - mormorò lei, lasciandogli la manica che non si era accorta di stringere ancora tra le dita. Ma non era quella la domanda che avrebbe voluto porgli. - Tu-tutto bene tra voi e la mamma?
Lo sguardo di Thorn si fece più affilato, come se quella domanda lo avesse punto sul vivo. Poi lo distolse, fissando la porta e dandole le spalle. - Domanda un po' vaga, ma in senso generale sì, tutto bene. Niente di irreparabile.
- Non vi avevo mai visto litigare - continuò lei, suo malgrado interessata a quell'argomento. Pensava che i suoi genitori andassero sempre d'amore e d'accordo, per quanto si potesse associare quel modus operandi a Thorn.
Thorn la fissò di nuovo, una via di mezzo tra la perplessità e l'irritazione. - Non litighiamo in pubblico. Sarebbe disdicevole, e non abbiamo interesse che tutti sentano le nostre questioni personali.
- Litigate spesso? - lo incalzò Serena, troppo curiosa per lasciare cadere l'argomento.
Thorn si voltò di nuovo verso di lei, forse intuendo che la questione non si sarebbe esaurita tanto in fretta. - Dipende da quanto una persona quantifichi "spesso" in senso temporale. Nella mia stima frazionaria, direi di no. Solo in certe occasioni... importanti, quando la divergenza di opinioni è sensibile.
- Non avete paura dei litigi? Di dire una cosa di troppo e... perdere la mamma?
Thorn aprì e chiuse l'orologio, riflettendo. - Ofelia mi ha costretto a... imparare a discutere. E con il tempo ho capito che se un solo diverbio può far venir meno il legame che si ha con una persona, allora forse non era un vero legame. Una volta non la pensavo così, ma parlare è diventato indispensabile, da quando è stato organizzato il fidanzamento con Ofelia. Non ci sarebbe stato nessun rapporto di fiducia da parte sua, altrimenti. Non mi spaventano i litigi, e non spaventano nemmeno tua madre, se no non ne avrebbe iniziati così tanti nel tempo.
- Io non ho ne ho iniziati tanti più di te! Non usare due misure e due bilance. Cioè, due pesi e due...
La testa di Ofelia sbucava dallo specchio che c'era nello studio, e la sua voce stizzita fece vibrare persino i libri. Era una voce bassa e delicata anche quando era stizzita, ma conteneva una forza interiore che non aveva nulla a che fare con il tono. Il fatto che si fosse ingarbugliata così nelle parole fece capire quanto era agitata e scossa.
Ofelia si morse visibilmente la lingua, cercando di calmarsi. Serena non l'aveva mai vista così nervosa. Con un verso infastidito, Ofelia scosse la testa e sparì di nuovo dentro lo specchio. Thorn era così rigido da poter passare per una statua. Il pallore marmoreo della sua pelle aiutava nell'intento. Scoccò un'occhiata indecifrabile a Serena, come se... si vergognasse.
- Vado a sentire cosa vuole, prima che svegli tutta la casa. Lei o la sua sciarpa.
Serena lo fissò con curiosità. - È successo?
- Sì - rispose lui, secco, prima di imboccare la porta. - Ci vediamo fra tre giorni.
Serena sentì il gelo piombarle addosso, e il tormento di prima tornare a scuoterle i nervi. Si sarebbe abbassata a svegliare Balder perché usasse i suoi miracolosi ponti, se non avesse saputo quanto era indispensabile che dormisse. In più, non le era sembrato molto sereno nemmeno lui, quella sera, ma non avevano avuto tempo per parlare.
Passando davanti alla porta della camera dei genitori, per lo meno Serena si tranquillizzò non sentendo urla filtrare dall'interno. Era già qualcosa.
Qualcosa in più su cui riflettere, come se già non avesse abbastanza pensieri. Però parlare con Thorn... le era servito, in qualche modo. Aveva avuto paura di aver esagerato, quando aveva sgridato Archibald per non averle detto della votazione per la carica di intendente, paura di aver superato un confine che non aveva il diritto di oltrepassare. Ma suo padre le aveva svelato, giustamente, che non bastava così poco per rompere un legame. Nemmeno lei, come Thorn, era molto brava con le relazioni umane. Si trovava bene con Vittoria, perché era una ragazza semplice, e con Balder, perché era riflessivo e pacato come la madre, ma con tutti gli altri, persino con Tyr e Ilda, a volte aveva l'impressione di camminare sulle sabbie mobili. Per non parlare di Archibald.
Era solo un ghiribizzo, quello che aveva fatto pochi minuti (quarantasei) prima? Una voglia da ubriaco? O celava un sentimento diverso, un intento più profondo? Lei era consapevole, purtroppo, di cosa provava per lui, ma aveva sempre pensato che fosse a senso unico. Magari anche Archibald...?
No. Serena scosse la testa a quel pensiero, tornando in camera sua. La speranza non era né logica né calcolabile. Era una follia. Tutta quella questione era una follia.
Con sollievo si rese conto che probabilmente Archibald non avrebbe nemmeno ricordato quel... contatto fugace. Per fortuna.
E allora perché sentiva il petto stretto in una morsa di terrore, all'idea che se ne dimenticasse?

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Capitolo 64
*** Capitolo 64 ***


Pre-caccia signore! E momento caruccio Ofe-Thorn.
Ci sono diversi riferimenti a fatti avvenuti nei libri perché riascoltando (con molta calma) gli audiolibri mi vengono in mente molti spunti e mi accorgo di diversi dettagli interessanti.
Buona lettura!


Capitolo 64

Thorn si chiuse la porta della camera alle spalle con un'espressione funerea. Ofelia lo aspettava con la camicia da notte in piedi sul letto, le braccia incrociate al petto. La sciarpa, che fortunatamente non aveva dato di matto, batteva solo la coda sul comodino, infastidita e raggomitolata nella sua offesa personale.
A Thorn venne in mente quando Faruk l'aveva nominata Grande lettrice familiare. Avevano litigato praticamente davanti a tutti quando lui aveva voluto sollevarla dall'incarico e lei aveva puntato i piedi in disaccordo come nemmeno sua zia aveva mai avuto l'ardire di fare. Quella determinazione ogni volta gli suscitava sentimenti contrastanti: da un lato ammirazione (e un bisogno fisico di toccarla) e dall'altra un'insofferenza che gli pizzicava i nervi, come degli artigli ritorti contro di lui. Ofelia era una delle poche che si azzardava a contraddirlo in modo così diretto. Gli altri lo facevano alle sue spalle.
- Mi hai detto che sarei venuta anche io. Non ho intenzione d-mpf!
In poche falcate Thorn la raggiunse, stringendola a sé e baciandola con poca delicatezza. Ofelia rimase rigida nella sua rabbia, non dandogli la soddisfazione di farsi abbindolare così facilmente, ma quando Thorn l'avvicinò ancora di più a sé stringendola per le natiche Ofelia si lasciò vincere. Gli gettò le braccia al collo e lo baciò di rimando, con la sua stessa foga, in parte alimentata anche dalla rabbia. E dalla paura. Se ci fosse stato un modo per impedire alla sua famiglia di partecipare alla caccia lo avrebbe già trovato, e il non avere, di nuovo, alcuna possibilità di scegliere la faceva sentire in gabbia. Ma quelle erano decisioni che non spettavano a lei, bensì a suo marito, ai suoi figli. E non poteva pretendere di poter fare autonomamente le sue scelte se lei per prima non permetteva agli altri di farle.
Però aveva ancora un po' di amor proprio... e di autocontrollo.
Quando Thorn le fece scivolare le mani sotto la camicia da notte, dai polpacci alle cosce, lei si ritrasse. Solo stando in piedi sul letto riusciva ad arrivare alla sua altezza, e in quel caso non le dispiaceva. La aiutava a non sentirsi una bambina al suo cospetto.
Si costrinse ad indietreggiare, cercando di non inciampare sul materasso. - Tu hai stabilito le tue regole, io ho le mie.
Thorn aggrottò la fronte, perplesso di fronte al suo allontanamento. Dopo più di vent'anni di matrimonio, si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui lei si era rifiutata. Almeno sotto quell'aspetto, Ofelia era abbastanza prevedibile. Per non parlare del fatto che era da più di una settimana che non stavano insieme, un po' per la tensione della caccia, un po' per la rabbia, un po' per i preparativi. E Thorn sentiva che anche lei ne aveva bisogno. E voglia.
La sua perplessità era più che giustificata.
- Mi hai chiamato qui per cosa, esattamente?
Ofelia riuscì a non avvampare, ma maledisse gli occhiali che si tinsero di rosa. Non aveva chiamato Thorn per quello! - Perché è ora che tu venga a dormire. Devi rispettare le regole che dai.
Thorn alzò le mani, per farle capire che non intendeva fare nulla, ma si chinò su di lei e le baciò il collo. Ofelia si aggrappò alle sue spalle. Se non altro, per non cadere. - Sono il capofamiglia, le regole non valgono per me.
- E allora è lo stesso per me.
Thorn sospirò contro la sua pelle, facendole il solletico. Si ritrasse, dirigendosi verso il bagno. - Mi sembra di ricordare che non siano state molte le volte in cui hai eseguito degli ordini.
- Forse la tua memoria è poco affidabile - scherzò lei, sedendosi sul letto.
Thorn le scoccò un'occhiata di fuoco. - No, quella è mia moglie.
Quando tornò in camera, pronto per dormire, Ofelia era già sotto le coperte con la sua lampada spenta. Thorn concluse il solito rituale di allineamento oggetti (orologio, penna e sveglia) sul comodino, prima di raggiungerla. Sapeva che non dormiva, conosceva il ritmo dei suoi respiri meglio dei propri. La strinse a sé, e a dispetto dell'arrabbiatura, o di qualsiasi fosse quella cosa che Ofelia provava in quel momento, si voltò verso di lui stringendoglisi addosso come per trattenerlo. Come se paventasse una sua fuga.
Thorn seppellì il lungo naso nei suoi capelli. - Ti sveglio io, domani - le promise.
Ofelia annuì in silenzio, allentando appena la presa. - Non ti perdonerò se mi lascerai indietro questa volta, Thorn.
- Lo so.
- Buonanotte. Per questa, e per quelle a venire.
- Non siamo in procinto di morire, Ofelia.
La sentì stringersi nelle spalle, sbadigliare. - Era per scaramanzia.
Tacque, ma dopo un po' gli pose un'altra, assonnata domanda: - Se morissimo a settant'anni, quante notti ci resterebbero?
Ogni tanto si divertiva a testare le sue doti matematiche in modi improbabili, e per quanto le trovasse strane, Thorn non si rifiutava mai. - Tu compirai settant'anni dopo di me.
- Allora quante notti abbiamo prima che tu compia... settant'anni? - biascicò Ofelia.
Quando Thorn le rispose, sei secondi dopo, Ofelia già dormiva.
Era un numero importante, un numero che Thorn si augurava fosse più piccolo rispetto alla sua aspettativa di vita.
Ma anche un numero che sperava con tutto se stesso fosse effettivo, per riuscire davvero ad arrivare a settant'anni al fianco di Ofelia.
 
Il giorno seguente partirono quando l'alba ancora non era spuntata. Il viaggio in carrozza fu silenzioso, dal momento che quasi tutti dormirono: Berenilde con le gemelle in una carrozza, Thorn, Ofelia, Balder e Tyr nell'altra. Ofelia si sentiva minuscola stipata in quella scatoletta su ruote in presenza dei due uomini più alti del Polo e dei muscoli di Tyr. Balder si assopì immediatamente, imitato da Ofelia, che però non sprofondò del tutto nel sonno. Ad un certo punto sentì Thorn sistemarsi di fianco a lei per farle più spazio, in modo che si appoggiasse a lui e non allo scomodo finestrino.
- La mamma non farà colpi di testa, papà - lo rassicurò Tyr, con il sorriso nella voce tesa.
Thorn grugnì. - Non mi sorprenderebbe il contrario.
La smorfia di Ofelia si perse nella sua sciarpa che sonnecchiava praticamente attorno alla sua testa.
- E tu? - chiese Thorn dopo, tagliando il silenzio con la sua voce profonda. - Farai colpi di testa?
- Oh no. Lo prometto. Sarò l'immagine del rigore e dell'obbedienza. Per questa volta.
- Hai una grande responsabilità sulle spalle.
- Lo so papà. Me ne rendo conto. Fidatevi, sarò in grado di gestire al meglio la questione.
Thorn impiegò più tempo a rispondere, e furono le ultime parole che Ofelia udì prima di addormentarsi del tutto.
- Non ti avrei affidato quest'incarico se le probabilità fossero state contrarie. Ma anche se avessimo avuto il cento per cento di possibilità di successo, non avrei mai acconsentito a quest'impresa se non avessi avuto fiducia in te.
Arrivarono sulle mura in tarda mattinata. Tyr si lamentò subito della fame, imitato dalle gemelle, ma Thorn fu categorico: le ore di luce al Polo erano sempre poche, quindi avrebbero dovute sfruttarle finché c'erano.
Tyr gettò la spugna quando Thorn si mise a fare il calcolo delle calorie che aveva consumato e assimilato quel giorno e il giorno prima, per fargli capire che non sarebbe morto di fame saltando un solo pranzo.
Tyr sbuffò, ma si mise tranquillo. O meglio, si distrasse quando si rese conto che sarebbero andati in slitta. Non era la prima volta che ne usava una (ogni volta che andavano su Anima a far visita alla famiglia di Ofelia compivano sempre il medesimo tragitto), ma sarebbe stata la prima volta in cui ne avrebbe guidata una. Thorn gli consegnò infatti le redini con sguardo inflessibile, come a volergli comunicare che aveva apprezzato la sua arrendevolezza. Forse. O forse, semplicemente, non c'erano abbastanza guardacaccia per andare a prenderli, e fare avanti e indietro più volte per caricare tutti era una perdita di tempo.
Balder impallidì quando Thorn passò le redini anche a lui, per nulla emozionato all'idea di guidare una slitta trainata da Bestie lungo un percorso gelido immerso nella neve. Berenilde lo redarguì bonariamente quando salì dietro di lui sulla slitta, mortificandolo con le sue parole amare velate di miele. Le spalle del giovane si incurvarono sempre di più, facendolo abbassare d'altezza, e Balder si ritrovò a invidiare Tyr che doveva trasportare le gemelle. Avrebbe preferito la loro esuberanza mentre si gettavano ridendo sulla schiena di Tyr che i commenti poco incoraggianti della prozia. Thorn fissava entrambi con sguardo indecifrabile, mentre Ofelia, dietro di lui, non sapeva se essere più in ansia per il figlio più incosciente o per quello fin troppo cosciente.
Contro ogni pronostico, la traversata andò bene e... i ruoli si invertirono. Una volta scoperto che manovrare la slitta non era poi così difficile, Balder si mise a ridere e si portò alla testa della fila, appena oltre Thorn, che gli lanciò un'occhiata tagliente e quasi di sfida, come a intimargli di non azzardarsi a superarlo. Tyr invece parve quasi prendersi paura quando si rese conto che l'incolumità delle sue sorelline dipendeva da lui e che... governare una slitta lanciata a tutta velocità sul ghiaccio con due ragazzine saltellanti a bordo non era poi così facile. Così fu quello più lento, perse la pazienza con Mira e Belle quando lo incitavano ad andare più veloce e si mantenne sulla scia del padre e del fratello per non perderli di vista.
Quando arrivarono nella baita messa a loro disposizione, l'umore di Tyr era così tetro per aver perso la gara immaginaria che si arrabbiò con le sorelline e diede uno spintone a Balder quando lui si avvicinò per prenderlo in giro, con i riccioli sparati ovunque e congelati sulle punte per il freddo. Ofelia li guardò con aria un po' preoccupata; del resto, mettersi a litigare in mezzo alla neve con il rischio di attirare qualche Bestia appena uscita dal letargo non era proprio un'idea che la entusiasmasse. Berenilde però sminuì la questione come una semplice scaramuccia tra fratelli, e persino Thorn la trattenne quando lei si mosse verso di loro per fermarli. Poi finì schiacciata contro Thorn dietro la slitta quando la prima palla di neve venne scagliata dove prima si trovava la sua testa.
Ofelia non disdegnò il corpo di Thorn premuto contro il suo. Gli strati di vestiti e cappotti erano troppi per sentire il calore della pelle del marito (soprattutto considerato lo spessore della pelliccia che Thorn portava, quella che aveva indossato quando si erano visti per la prima volta), però Ofelia si rilassò in automatico. E si rese conto che Thorn le mancava. Forse la sera prima non avrebbe dovuto essere così...
Una seconda palla di neve tracciò un arco che si sarebbe scontrato contro il petto di Thorn, se lui non si fosse spostato in tempo.
Ofelia si sistemò gli occhiali, ma non fece nulla per allontanarsi. La sciarpa si allungò fino a posarsi voluttuosamente sulla spalla di Thorn, un po' pigra e un po' tentatrice. Thorn puntò il suo lungo naso su di lei, inquisitore.
- Di certo non si può dire che tu non abbia degli ottimi riflessi.
- Per tua fortuna. Ti sono stati utili in settecentoventiquattro occasioni. Venticinque con oggi.
Quella che forse voleva essere una battuta fece sgranare gli occhi a Ofelia. - Sul serio mi hai salvata così tante volte?
La bocca di Thorn ebbe un fremito lievissimo, e lui riportò lo sguardo sui figli che urlavano, decisamente non più arrabbiati. - E queste sono solo le volte in cui ti ho salvata direttamente.
Ofelia scosse la testa, incredula. Poi si mise a ridacchiare, finché Balder non cadde in scivolata di fianco a loro.
Thorn si allontanò subito, come se temesse di essere colto con le mani nel sacco nonostante non stesse facendo nulla e le sue mani fossero al loro posto.
- Tuo figlio però ti fa concorrenza, devo dire, anche se il primato è ancora tuo - continuò Thorn, lanciando un'occhiata in tralice a Balder che si alzò gemendo, coperto di neve e con i capelli bianchi.
Si rifugiò dietro al padre proprio nel momento in cui Mira scagliò una palla che centrò Thorn in fronte, lasciandolo immobile come una statua. Non appena Mira e Balder si resero conto di ciò che avevano fatto (una aveva infradiciato Thorn e l'altro lo aveva usato come scudo), divennero bianchi come la neve di cui erano ricoperti. Tyr invece si mangiò una palla di neve per non ridere, tentativo che non gli riuscì perché alla fine scoppiò lo stesso a ridere sputacchiando neve addosso a Belle.
Con la calma di un uccello predatore, Thorn si chinò a raccogliere un po' di neve che compattò in una palla. Ofelia trattenne il fiato osservando ciò che stava succedendo. Thorn non poteva davvero... non avrebbe mica...
Balder indietreggiò, uscendo dal riparo offerto dalla slitta, mentre Mira corse a nascondersi dietro Tyr. Thorn alzò il braccio, prendendo la mira su Tyr, che alzò le mani ridendo come a volersi difendersi... e poi torse il busto e beccò Balder dritto in faccia, facendolo cadere di schiena per la sorpresa.
Tyr scoppiò a ridere, correndo a formare altre palle di neve imitato da Belle, mentre Mira continuava a fissare suo papà con gli occhi sgranati, aspettandosi ad un momento all'altro lo stesso trattamento. Thorn invece le indicò con un lieve cenno della testa Tyr, accovacciato nella neve. Quando Mira capì, si tappò la bocca per non ridere, e si avvicinò di soppiatto a Tyr. Lo spinse, e il fratello finì faccia nella neve. Ofelia era talmente sorpresa da quella situazione da non riuscire nemmeno a ridere con i figli, ma non le sfuggì il ghigno quasi inquietante di Thorn, un sorriso abbozzato, ma decisamente un sorriso.
Thorn che lanciava palle di neve ai figli?
Quando mirò di nuovo a Balder, che si era appena asciugato gli occhiali, il ragazzo cercò di fuggire come poté. - Papà non anche voi, vi prego!
Ma ad affondarlo ci pensò Tyr, che gli saltò addosso trascinandolo con sé nella neve. E le gemelle si gettarono sopra ad entrambi, in un groviglio di gonne, neve e cappotti.
Ofelia spostò lo sguardo su Thorn, che aveva lasciato cadere la palla. Si spazzolò la neve di dosso, si diede un contegno e poi disse, con la voce profonda che rimbombò per tutta la foresta: - Non reputo una buona idea bagnare i cappotti più caldi che avete, a meno che non vogliate affrontare le Bestie in camicia, domani.
Tyr si mise a sedere ridendo, scuotendo i capelli biondi e schizzando tutti, suscitando un coro di proteste. - E ce lo dite adesso?
- Sarebbe servito a qualcosa dirvelo prima?
Tyr rise in faccia al padre, per nulla preoccupato. - No!
- Di fatti. Venite dentro, dobbiamo andare in perlustrazione per domani prima che faccia buio del tutto.
Ancora ridacchiando e lanciando urletti, le gemelle si rialzarono e Tyr allungò le braccia perché tirassero su anche lui. Non fece in tempo a muovere un passo che Balder lo ributtò nella neve prima di scappare. Con un gran colpo di fortuna riuscì ad arrivare senza cadere sulla soglia di casa, seguito dalle gemelle.
Tyr si avvicinò a Ofelia ridendo, prendendola a braccetto. - Non sapevo che papà avesse un lato goliardico.
Ofelia seppellì un sorriso nella sciarpa. - Nemmeno io.
 
Berenilde ebbe invece la reazione che avrebbe dovuto avere Thorn, ossia si arrabbiò. Si lamentò della neve sul pavimento, dei cappotti gocciolanti che avrebbero dovuto appendere davanti al fuoco e del tempo che avevano sprecato. Lamenti inutili, dal momento che diede tutto ad Ofelia perché sbrigasse quelle faccende in mancanza di domestici. Ofelia non oppose resistenza solo perché sapeva che, se avesse fatto fare a Berenilde, avrebbe probabilmente fatto prendere fuoco ai cappotti per asciugarli.
Fu Thorn invece a riprenderglieli di mano e darli ai figli. - Vi ho detto che dobbiamo andare fuori in perlustrazione. Non sono ancora fradici, per il tempo che staremo via dovrebbero riuscire a tenervi un po' di caldo.
- Ma sono bagnati bagnatiiii - si lamentarono in coro le gemelle.
Thorn fece una smorfia, la lievissima traccia d'ilarità che aveva provato prima era ormai dissolta. - Potevate pensarci prima di inzupparvi con le palle di neve. Non siamo qui per divertirci.
Tyr puntò il dito e aprì la bocca per parlare, probabilmente per dire che lui non aveva fatto nulla per scoraggiarli nel loro gioco, ma desistette quando Balder gli tirò una gomitata.
Thorn li scrutò uno a uno con gli occhi ridotta a fessura, come se si rendesse conto solo in quel momento di essere circondato da quattro figli ormai grandicelli. Era una sensazione, una consapevolezza che ogni tanto colpiva anche Ofelia, come un'epifania. Era madre di cinque figli, che sarebbero stati sei, grandi e ormai ben instradati sulla loro via. La cosa la riempiva di orgoglio, ma anche di malinconia, quando si rendeva conto di essere a metà strada tra vecchiaia e giovinezza.
Lo scatto del coperchio dell'orologio di Thorn la fece sussultare, strappandola ai suoi pensieri.
- Siete in ritardo di tre minuti.
Il caloroso saluto era stato rivolto al guardacaccia che per primo era andato a prendere Ofelia e la zia Roseline all'aeronave per portarli a Città-cielo, Jan.
- Scusatemi, mio signore - borbottò il guardacaccia, con il marcato accento del Polo che ancora Ofelia stentava a decifrare.
Fortunatamente Serena non ne aveva nemmeno l'inflessione, con le sue r delicate e arrotolate, mentre Tyr era quello che di gran lunga parlava in modo più simile a suo padre, tutto voce profonda e lettere scricchiolanti. Era perfetto per mettere in soggezione, quando era alterato.
- Possiamo andare?
- Sì, seduta stante, se lo desiderate - eseguì il guardacaccia. Uscì di fretta ma rientrò subito, quasi scontrandosi con Tyr che lo stava seguendo come un cagnolino. - Perdonatemi, miei signori, ho portato le vivande per oggi e domani come mi avevate richiesto.
Ofelia notò solo allora il voluminoso cestino che Jan reggeva tra le braccia. Thorn si era incaricato anche di quell'aspetto pratico nonostante non fosse un gran mangiatore... a lei non era nemmeno venuto in mente. Forse però si era reso conto che, a giudicare da quanto mangiavano Balder e Tyr, far digiunare un Drago dopo la caccia non era probabilmente la scelta migliore.
Balder prese il cestino al posto di Ofelia, deponendolo sul grande tavolo in mezzo al salotto, proprio mentre Thorn bofonchiava a mezza voce: - Ci avete aggiunto delle stoviglie in più per precazione come vi ho chiesto, vero?
- Sì, signore, tutto come ordinato.
Ofelia non si offese nemmeno per quella mancanza di fiducia, perché tale non era. Come avrebbe detto Thorn, era un dato di fatto che avrebbe rotto qualcosa. E senza il prozio a riaggiustare tutto...
Ofelia sospirò per la fitta di nostalgia. Thorn era stato molto previdente. Cercò di scacciare l'improvvisa tristezza per il caro prozio mentre guardava la sua famiglia uscire, con Berenilde a chiudere la fila come se stesse andando ad una serata a corte invece che tra le fauci delle Bestie.
Ofelia non insisté nemmeno per andare, nonostante le continue occhiate di Thorn suggerissero che lui se l'aspettava. Lei però non aveva voglia di vedere il teatro di scontro tra la sua famiglia e delle Bestie irascibili e fameliche dopo il lungo inverno, né aveva alcun interesse a prendere freddo, vista la facilità con cui si buscava il raffreddore. E non era l'unica, a giudicare dal naso già rosso di Balder. Thorn la scrutò con diffidenza, restio a fidarsi di quell'Ofelia remissiva che raramente aveva visto. Probabilmente temeva un colpo di testa, e a Ofelia fece sia ridere che rattristare vedere quanto ancora suo marito a volte sospettasse di lei.
Quello che dovevano fare era un veloce sopralluogo per coordinarsi per la caccia del giorno dopo. Berenilde avrebbe fornito informazioni pratiche in base alle esperienze passate, Tyr avrebbe deciso la strategia, coadiuvato da Thorn, mentre Jan spiegava da dove sarebbero arrivate le Bestie, quante e di quali dimensioni. Il compito di Balder e delle gemelle era quello di ascoltare e trovare già la posizione ideale per il combattimento.
Ofelia intanto, nella baita, si chiese se Thorn avesse anche ordinato a Jan di pulire da cima a fondo la casa, data la mancanza di polvere, sporcizia e della tipica incuria causata dal tempo. Cosa più che probabile, data la maniacalità di Thorn per la pulizia. Non avendo altro da fare, Ofelia mise un po' di legno nel camino, riuscendo persino ad infilarsi due schegge nella mano, nonostante i guanti. Dopo diversi minuti di tentativi infruttuosi però rinunciò ad accendere il fuoco e all'idea di far trovare una bella tazza di tè caldo ai ragazzi quando fossero tornati. Avrebbero aspettato.
Dopo aver apparecchiato la tavola e riordinato le cose presenti nel cestino si appropriò della camera padronale. Si era appena messa un abito più comodo e pesante da casa quando tornarono tutti, tranne il guardacaccia che sarebbe tornato l'indomani. Le gemelle sembravano pensierose, come se si fossero rese conto solo il quel momento dell'enormità di quello che si apprestavano a compiere, invece Balder sembrava un po' più sollevato. Tyr era entusiasta e chiacchierava a ruota libera con Berenilde mentre accendeva il fuoco, probabilmente su espressa richiesta della zia, mentre lei gli raccontava altri aneddoti sulle cacce passate.
- Non è che fossero delle imprese ludiche, figliolo caro. E di sicuro la mia famiglia era... legata in maniera diversa dalla tua. Non c'era questa complicità. A dire il vero, è la prima volta, nonostante l'inesperienza di tutti voi, in cui vado a caccia riponendo la massima fiducia in qualcuno.
Il fuoco attecchì nel momento in cui Tyr saltò in piedi, gonfiando il petto d'orgoglio. - Sarà la caccia più epica di sempre, zia! E vedrete che ci divertiremo!
Thorn grugnì, attirando l'attenzione di Ofelia. Si era seduto al tavolo, spostando i piatti per lavorare su alcuni documenti nonostante fosse ormai ora di cena e avessero tutti saltato il pranzo. Ma quell'uomo non era soggetto alle leggi del proprio corpo, come chiunque? Continuava ad agitare la penna nel tentativo di far sciogliere l'inchiostro al suo interno che, per via del gran freddo, si era addensato, per non dire congelato. - Lo scopo di domani non è quello di divertirsi.
- Lo so, lo so papà, ma perché non approfittarne? Meglio che andare in guerra con la paura che ci striscia sotto pelle come degli artigli, no?
Balder si avvicinò ad Ofelia, vedendola in difficoltà con la pesante teiera colma d'acqua. Gliela prese dalle mani per andare ad appenderla sopra il fuoco, ma tra tutti e due rovesciarono l'acqua per terra e rischiarono di far cadere direttamente la teiera.
Un'ombra alle loro spalle, o meglio, alle spalle di Ofelia, visto che Balder era altissimo, li tolse dall'impaccio. Thorn prese la teiera, la riempì di nuovo fino al bordo e lanciò uno straccio alle gemelle perché asciugassero, prima di appendere la teiera a scaldare. Balder era imbarazzatissimo, ma cercò di non darlo a vedere aiutando le sorelline. - Non concordo con la tua logica.
- Ma sapete anche voi che un recente studio sulla produttività del cervello umano ha dimostrato che in situazioni di forte stress la capacità di ragionamento e la gestione delle proprie emozioni può calare fino al quarantadue percento. Quindi, meglio tenere alto il morale – ribatté Tyr.
Thorn non replicò, tornandosene ai suoi documenti. Balder invece lanciò da terra uno sguardo di puro fastidio ad Ofelia. In effetti, Tyr nemmeno leggeva i giornali e allo studio si era sempre applicato poco, ma gli bastava leggere, anzi, guardare solo una volta una riga di testo per memorizzare delle informazioni del genere. Ofelia non poteva che esserne ammirata, ma capiva il disappunto di Balder.
Quando quest'ultimo si alzò per andare ad esplorare la baita (che per essere un rustico in mezzo alla foresta era dotata di agi non da poco, con letti comodi e ben tenuti), Ofelia si chinò verso le gemelle. - Volete venire a cambiarvi? - chiese loro, con uno sguardo intenso che sottintendeva altro.
Le gemelle si guardarono tra loro prima di seguirla, lasciando Tyr e Berenilde a parlare e Thorn a lavorare.
Ofelia si chiuse la porta della camera alle spalle, fronteggiando le figlie. - Preoccupate?
Mira e Belle le si gettarono addosso, rischiando di farla cadere sul letto. Già quando erano piccole Ofelia aveva fatto fatica a mantenere l'equilibrio con loro, figuriamoci da quando erano diventate due signorine alte praticamente come lei.
- Abbiamo un po' paura - ammise Mira.
Ofelia abbracciò entrambe. - Ma ci saranno papà, Tyr e Balder a proteggervi e a fare il grosso del lavoro. Voi non sarete in prima linea, vero?
Belle scosse la testa. - No. Io starò dietro Tyr, Belle dietro papà. Però fa un po' paura lo stesso.
- Abbiamo visto l'impronta di un cucciolo di Bestia, mamma! - esclamò Mira, scostandosi. - Era e-nor-me! Non potreste crederci! Pensavo fosse l'orma della più grande creatura mai esistita, invece era la più piccola!
Ofelia sorvolò sull'abitudine che Mira aveva preso da sua zia Agata di scandire le parole per dar loro più enfasi. - Per tanti anni i Draghi hanno preso parte alle cacce senza registrare nemmeno un ferito. È una cosa che viene fatta da molto tempo.
Belle si morse il labbro. - Ma nell'ultima sono morti tutti.
Ofelia sospirò. Come poteva convincerle della sicurezza di una cosa di cui lei stessa non era pienamente convinta? Si sedette sul letto. - Vi ho già spiegato per quale motivo è successo quello che è successo. Il guardacaccia, Thorn e Berenilde non permetteranno che vi succeda nulla, né che si corrano rischi inutili.
Mira si appoggiò al suo braccio, sedendosi accanto a lei. - Voi siete qui per riportarci indietro nel caso in cui morissimo?
Ofelia resistesse alla tentazione di mordersi il guanto per l'ansia, mentre entrambe le code della sua sciarpa accarezzavano il viso delle ragazze. - No, figlie mie. Io sono qui per farvi trovare il tè caldo domani, quando tornerete trionfanti. Per assicurarmi che vostro padre non sia troppo taciturno. Per verificare che Tyr non esageri con la sua esuberanza. E per convincere Balder a non fare qualche esperimento sulle Bestie. Ne sarebbe capace.
Belle ridacchiò. - Sì, in effetti ne sarebbe capace.
Mira si strinse ancora di più ad Ofelia. - Grazie mamma.
Ofelia le baciò i capelli. - Ho fiducia nel fatto che ce la farete, assoluta - le rassicurò, spingendo nel profondo di se stessa l'incertezza, la paura, l'inquietudine. - Ma mi ci vedete a stare a casa ad aspettare tranquilla il vostro ritorno? Magari l'anno prossimo, quando verrete qui solo per un giorno e avrete già sconfitto la paura.
Belle si attorcigliò i capelli con le mani. - Secondo voi, mamma, ci farà guadagnare notorietà nella corte questa caccia? Saremo famose quando faremo la nostra entrata in società?
Ecco, più della caccia stessa, era quello a terrorizzarla. La smania delle gemelle di farsi un nome, di farsi conoscere, di apparire. Un mélange perfetto tra Berenilde e Agata, la prima a cui importava il mantenimento del nome e dello status, la seconda interessata alle luci della ribalta e all'ammirazione. Tra tutti i figli, le due più piccole erano quelle che la facevano più preoccupare. Si augurava di cuore che non entrassero a far parte della cerchia delle favorite di Faruk, sia perché avrebbe inasprito i rapporti con Berenilde sia perché, e soprattutto, vedere le figlie agghindate solo con dei diamanti e pronte a obbedire ai capricci di Faruk la disgustava. Thorn, poi, non l’avrebbe mai permesso. Prima del loro ingresso a corte avrebbe davvero, davvero dovuto far loro un discorso serio.
Ofelia stava tentando di mettere insieme una risposta sensata che non prevedesse la loro clausura quando arrivò un urlo di Tyr. Anzi, svariate urla. - Ho fame, ho hame, hofamehofame BALDER HO FAME.
Poi un rumore di qualcosa che si rompeva, e il momento madre-figlie si ruppe come la ceramica in salotto. Andarono a vedere, trovando un Balder compostamente infastidito che fissava i pezzi di piatto ai suoi piedi. Per fortuna solo uno. E per fortuna Thorn ne aveva chiesto qualcuno in più.
Tyr invece sghignazzava. - Se aspettiamo te per la cena, facciamo in tempo ad arrostire la carne di domani.
- Se evitassi di mettermi pressione, forse potrei farcela prima - ribatté stizzito Balder, raccogliendo i pezzi più grossi.
Berenilde guardava tutto dal divano con aria sorniona, mentre Thorn, dopo aver giudicato che non fosse nulla di serio, era tornato alle sue carte. Ofelia sospirò e si chiese se in quella casa esistesse una cosa chiamata scopa. Le gemelle però la precedettero.
- Ci pensiamo noi, mamma, siamo brave a mettere in fuga le cose.
Ofelia non ebbe il tempo di riflettere su quelle parole che le gemelle avevano animato i pezzi residui di piatto, grandi, piccoli o polverizzati che fossero, facendoli uscire di casa perché si buttassero nella neve. In effetti come metodo di pulizia non era male, ma a casa dove avrebbero potuto far andare i cocci rotti? Di sicuro non in giardino. Con un'efficienza insospettabile Mira e Belle apparecchiarono e misero la cena sul fuoco come due brave donne di casa, e nel giro di pochi minuti furono tutti pronti per una cena spartana ma nutriente. Berenilde, che non aveva fatto il minimo sforzo per rendersi utile, come c'era da aspettarsi, elogiò le nipoti lodando le loro maniere, le loro capacità, la postura. In sostanza fece intendere che loro due erano più preparate per la vita di corte di quanto lo fossero i fratelli maggiori, a parte forse Serena, e Ofelia guardò con orrore gli occhi delle figlie che splendevano. Per quanto lei e Berenilde si volessero bene, i loro punti di vista al riguardo sarebbero sempre stati agli antipodi.
La cena e la stanchezza per il viaggio impedirono loro di pensare all'impresa che avrebbero intrapreso nel giro di poche ore. Quando vide le teste dei figli che ciondolavano sui piatti, Ofelia mandò tutti a letto e si offrì di sparecchiare da sola, prestando massima attenzione a non rompere nulla. Sorrise quando sentì Balder proporre di distendere i nervi a chi avesse voluto, in modo leggero leggero così da conciliare il sonno. Non rifiutò nessuno, nemmeno Berenilde.
Ofelia se la cavò con una tazzina sbeccata.
Quando finì, pronta anche lei per andare a dormire, vide Thorn ancora chino sul tavolo e sulle sue carte. Ma lo sguardo era puntato sul suo orologio da taschino, stretto nella sua mano fino a farsi sbiancare le nocche già pallide. Quella vista la sorprese, perché Thorn non si era mai mostrato così palesemente in ansia. Ofelia avrebbe voluto chiedere a Balder di aiutare anche i loro nervi, ma ormai era troppo tardi. A giudicare dal sommesso russare che giungeva dalle camere, udibili a malapena nel silenzio della baita, dormivano tutti della grossa. Si avvicinò a Thorn, preoccupata quando lui non ebbe nessuna reazione, nemmeno quando lei gli posò le labbra sulla nuca. Sulla sommità della testa i capelli si erano diradati lasciando una piccola chiazza glabra, ma la lunghezza degli altri la copriva. 
-  Thorn? - lo chiamò Ofelia, posando una mano sulla sua.
Lui alzò finalmente lo sguardo chiudendo l'orologio, poi si passò una mano tra i capelli.
- Dovremmo andare a letto.
- Sì, hai bisogno di dormire per essere pronto domani - concordò Ofelia.
Ma nessuno dei due si mosse, e Ofelia aveva il presentimento che nessuno dei due avrebbe dormito.
- Forse avrei dovuto approfittare dei ponti di Balder... - borbottò Thorn dopo qualche secondo.
La sciarpa di Ofelia, stanca e agitata, spazzò il pavimento con la coda. Non era da Thorn ammettere una cosa del genere. Era come dire apertamente che aveva paura.
Ofelia sospirò. Magari non aveva le capacità del figlio, ma poteva ancora essere utile per aiutare Thorn a rilassarsi.
Lanciò un'occhiata al corridoio prima di tirarsi su la gonna con movimenti un po' goffi e sedersi a cavalcioni di Thorn, che si allontanò dal tavolo.
Lui non ebbe bisogno di chiedere cosa stesse facendo, né ebbe la forza di respingerla. L'unica cosa di cui aveva bisogno era lei.
Ofelia lo baciò senza urgenza, sentendosi scaldare in mille modi quando Thorn le afferrò prima i fianchi e poi i glutei.
- Mi dispiace averti dato problemi gli scorsi giorni - bisbigliò quando Thorn le liberò la bocca per spostarsi sulla sua mascella. - Ma non potevo stare ferma ad aspettare.
Thorn si staccò dal suo collo per guardarla negli occhi. Ofelia rabbrividì quando il loro bagliore metallico le penetrò nell'animo, abbattendo ogni difesa. Thorn aveva degli occhi bellissimi. - Sono... felice che tu sia venuta. È stata una scelta insensata, inutile e pericolosa ma, contrariamente ad ogni logica, te ne sono grato.
Ofelia lo strinse a sé per un attimo, prima che lui tornasse a graffiarle il collo con la barba ispida che gli cresceva a fine serata. Le sfuggì un gemito quando la strinse ancora di più a sé, possessivamente, e riuscì appena in tempo a mordersi le labbra per contenerlo.
Thorn non diede segno di preoccuparsene mentre allungava le lunghe braccia per accarezzarle le gambe sotto la gonna, eppure disse: - Potrebbero sentirci. Non è il posto migliore questo.
Stavano commettendo un reato per caso? A giudicare dal tono affettato di Thorn, sembrava di sì. Eppure la sua voce dura e le sue sillabe scricchiolanti la scaldavano dentro, invece di spegnere il suo desiderio.
- Penso che Balder li abbia sistemati per bene, con i ponti.
- Però non li ha usati su se stesso.
Ofelia sospirò, poi rantolò quando le dita fredde di Thorn arrivarono alle cosce. Lo shock termico fu quasi doloroso.
Thorn la baciò per soffocare il rumore. - Andiamo in camera - ordinò.
Cercando di fare meno frastuono possibile, i due si diressero nella loro stanza. Ofelia non fece in tempo a chiudere la porta che Thorn ve la schiacciò contro, ricominciando a baciarla con foga, non più con la calma di pochi istanti prima. Soffocò i sospiri di Ofelia con la sua bocca, divorandola con una fame che non dimostrava mai a tavola. Arretrarono finché Thorn non si trovò seduto sul letto, con Ofelia di nuovo sopra. Lui si tolse la camicia in fretta e passò a slacciarsi i pantaloni con dei gesti più che mai precisi. Più Thorn era sotto stress o impaziente, più le sue azioni diventavano mirate, impeccabili. Lei, invece, era caotica come sempre, e lui si ritrovò spettinato in poco tempo.
- Togliti i guanti.
Come al solito, nessuna forma di cortesia, nessuna parola dolce, solo un ordine. Però Ofelia fremette. Quando Thorn era così febbrile e agitato, di solito non perdevano nemmeno tempo a svestirsi. Il fatto che si fosse tolto la camicia e che le avesse ordinato di rimanere con le mani nude poteva significare solo una cosa: voleva essere toccato. Dalla sua pelle, non dai suoi guanti.
E infatti non la spogliò, non le tolse nemmeno la biancheria. La prese senza lentezza, baciandola per soffocare il suo stesso gemito, mentre Ofelia gli accarezzava il petto, le spalle, la schiena, il viso, tracciando con i pollici le cicatrici più grandi e baciandogli dolcemente quelle più piccole. Thorn si appoggiò al suo seno mentre si muovevano insieme, non la guardò nemmeno, aveva solo bisogno di sentirsi avvolto da lei, al sicuro tra le sue braccia.
Prima di concludere però Ofelia lo fece distendere sotto di sé, allungandosi su di lui per continuare a baciarlo. Ci mise poco a crollare, tremante, su di lui, le mani sul suo petto. Le braccia di Thorn la schiacciarono contro di sé in un abbraccio rude e possessivo, e Ofelia poté udire il suo cuore forsennato calmarsi poco a poco, e infine riprendere il suo ritmo regolare.
Thorn le baciò la fronte in un raro momento di dolcezza, accarezzandole i capelli e cercando di non sbuffare quando sentì le dita impigliarsi tra i suoi folti ricci. La traversata in slitta di sicuro non li aveva aiutati ad essere molto... setosi.
Ad Ofelia tornò in mente un fatto, in modo del tutto casuale. E lei non era persona da stare zitta e tenere per sé le cose.
- Ti ricordi quando mi sono arrabbiata con te alla manifattura di Madre Ildegarda?
Thorn respirò un po' più forte, come per assentire. Lui, invece, non si sprecava mai in dialoghi inutili.
- È stata la prima volta in cui abbiamo litigato.
- Io non ho litigato - rettificò Thorn. - Sei tu che hai perso la calma.
Ofelia sospirò. In effetti quella volta aveva davvero perso la pazienza. Non si era mai permessa, nemmeno con sua mamma, soprattutto non con un uomo, di alzare la voce in quella maniera e fare delle simili recriminazioni pungenti. Ne aveva tutti i diritti, certo, Thorn la trattava come una bambina disobbediente e combina guai. Ma era stata anche la prima volta in cui qualcosa le aveva impedito di attraversare gli specchi, qualcosa di cui nemmeno lei si era resa conto. Era già innamorata di Thorn, ma non lo capiva, o non voleva ammetterlo. Voleva solo essere trattata diversamente da lui. Non era Thorn a dover cambiare, però, era la percezione che lei aveva di lui a doverlo fare.
Ciò non toglieva che quelle amare parole se la meritava tutte, anche se magari con un tono più civile.
Fu Thorn a riprendere la parola. - Non... mi aspettavo una simile rabbia da parte tua. Avevo capito da tempo di averti malgiudicata, ma continuavo a sottovalutarti. Eri molto più forte di quello che sembravi, così piccola e sempre ammaccata. In quel momento capii completamente che cercare di controllarti e darti ordini non sarebbe servito a nulla.
Ofelia ridacchiò, anche se era colpita dalle sue parole. - Però continui a darmeli.
Thorn la guardò negli occhi, ad un soffio dalle sue labbra. - Non sono in grado di esprimermi in altra maniera. E non ne vedo il bisogno. Se fossi educato con tutte le persone con cui ho a che fare a corte e nelle varie province, regnerebbe l'anarchia. Non amo il superfluo.
Ofelia lo baciò sorridendo. - Permettimi di dissentire, per me sai esprimerti eloquentemente in molte altre maniere.
- Dobbiamo andare a dormire.
Ma con lui le cose non sarebbero mai cambiate. Ofelia scosse la testa da sola mentre si rimetteva in piedi e si infilava i guanti prima di andare a lavarsi. Quando si sdraiò accanto a Thorn, però, scoprì che lui ancora non dormiva. E che non aveva concluso il discorso.
- Quelli che ti do sono degli ordini che tanto tu non rispetti, quindi non li puoi considerare davvero ordini.
- Stai insinuando che io faccia sempre di testa mia?
- Non lo insinuo, lo affermo. Se così non fosse, tu ora saresti a casa, non qui, in una baita in mezzo alla neve e alle Bestie, senza protezione.
- Però tu non mi imponi più nulla.
- Come ho già detto, non amo il superfluo. La logica mi impone di non incaponirmi con le cause perse.
Ofelia si voltò verso di lui, stizzita. - Non sono una causa persa!
- No, lo è discutere con te. Ora dormi.
Troppo stanca per iniziare a questionare, Ofelia decise di lasciar perdere.
Era ormai addormentata quando Thorn le mormorò tra i capelli: - Non mi sarei potuto innamorare di qualcuno di prevedibile. Anche un po’ di più.

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Capitolo 65
*** Capitolo 65 ***


Fine caccia, e inizio di un periodo un po' turbolento... chissà perché :P
Niente paura e buona lettura!! (Ho fatto la rima xD)


Capitolo 65

Quando Ofelia si svegliò, la mattina dopo, scoprì con orrore che l'alba era passata da diverse ore. Inciampò tra le lenzuola nella foga di scendere dal letto, sbattendo il polso quando ci atterrò malamente sopra dopo essere caduta di faccia. Corse in modo un po' sbilenco in cucina indossando una vestaglia sopra la camicia da notte, ma il fare più cose contemporaneamente non le veniva mai bene, e infatti urtò la porta con il piede e lo stipite con la spalla. Sul tavolo le avevano lasciato un bigliettino, la grafia era quella di Balder:
Torniamo presto, non angustiatevi mamma.
Avremo molta fame!
A dopo.
Il messaggio avrebbe dovuto calmarla, o quanto meno farla sorridere, invece non fece altro che crearle ansia. Si sentì in colpa. Aveva dormito così beatamente tra le braccia di Thorn, finalmente in pace tra loro, che non lo aveva nemmeno sentito alzarsi. Anzi, si sentiva fin troppo rilassata. Per un attimo l'assalì il dubbio che Thorn avesse chiesto a Balder di tramortirla un po' con i ponti, quella mattina, ma sarebbe stato un gesto troppo meschino da parte di Thorn.
Cercò di mangiare senza pensare a cosa potesse succedere, a come stessero le gemelle, se avessero paura. E se Balder si fosse ferito nel tentativo di usare i ponti sulle Bestie? Era testardo, in fondo. E se Thorn si fosse preoccupato così tanto degli altri da non prestare attenzione a se stesso? E se Tyr fosse stato troppo impulsivo o temerario, senza curarsi del pericolo? E Berenilde? Non era vecchia, ma ormai aveva una certa età... non era di sicuro agile come una volta.
Per distrarsi Ofelia decise di andare all'esterno a fare una passeggiata, cercando di mantenere la casa nel suo campo visivo per non perdersi. Quello sì, fra tutte le cose che potevano capitare durante quel soggiorno, Thorn non se lo sarebbe aspettato. Smarrita nei boschi durante una battuta di caccia. Ad Ofelia quasi sfuggì un sorriso al pensiero delle statistiche che avrebbe infranto. Sarebbe morta di freddo nell'arco di una notte, dato che stava iniziando a nevicare.
Neve in prossimità della bella stagione. Il Polo non avrebbe offerto il calore del sole nemmeno nel cuore dell'estate! Ofelia decise di rincasare prima che calasse il buio, altra controindicazione del vivere nel perenne inverno. Era giunta a metà strada, coperta da un piccolo boschetto, quando vide la sua famiglia che tornava. Thorn, poi Tyr, Balder, Mira, o era Belle?, e Berenilde. Ma l'altra gemella? Ofelia tirò un sospiro di sollievo quando vide entrambe: c'erano tutti. Nessuno perdeva sangue, tutti si reggevano sulle proprie gambe. Erano incolumi. Ofelia sentì un peso così grande levarsi dalle sue spalle che vacillò. Il suo scarso equilibrio, non aiutato dalla neve alta che le si stava infilando persino negli stivali, ghiacciandole i piedi, l'abbandonò completamente, e lei si ritrovò lunga distesa, sommersa.
In lontananza sentì le urla dei figli quando si resero conto che non era in casa, grida che si facevano via via più spaventate. L’idea di rovinare le statistiche di Thorn non la faceva più ridere. Thorn l'avrebbe ripresa per bene per la sua avventatezza. Per una volta, non poteva dargli torto. Cercò di rispondere che era lì, ma con la sua voce sommessa non la sentirono nemmeno gli scoiattoli sulla cima degli alberi. Con gli anni era diventata più udibile, lungi dall'essere la voce da passerotto che aveva all'epoca in cui aveva abbandonato Anima, ma non si poteva certo dire che fosse la voce più potente del Polo!
Alla fine riuscì ad agitare una mano mentre cercava di rialzarsi, inciampando sulla coda della sciarpa, che per ripicca le schiaffeggiò la faccia riempiendole gli occhiali di neve. Una volta in piedi, mulinando le braccia per mantenere l'equilibrio, Ofelia non fece in tempo a togliersi gli occhiali che qualcuno lo fece per lei. Sussultò, per poi rendersi conto che la figura sfocata che vedeva a poca distanza era troppo alta. Poteva appartenere solo a Thorn o a Balder.
- Thorn? - chiamò con voce dimessa, aspettandosi una sfuriata.
Thorn si lasciava andare raramente agli scatti d'ira, ma quando succedeva le faceva un pochino paura.
- Ti avevo detto di stare in casa - sibilò lui, con una furia a stento contenuta che trapelava dalla voce. - Potevano esserci delle Bestie qui in giro!
Le rimise gli occhiali, puliti, mentre lei si aggrappava al suo braccio per non cadere.
- Non sono così sciocca! Ho visto che non c'era nessuno nei dintorni!
Sì, sarebbe stato giusto prendersi parole, ma non era così sprovveduta!
Thorn scosse la testa, dandole le spalle e afferrandole la mano. Se la trascinò dietro come una bambina, ma Ofelia non protestò: la neve era talmente alta che la figura imponente di Thorn la aiutava sgombrandole la strada. Non era così orgogliosa da staccarsi da lui solo per finire di nuovo con il naso per terra.
- Le Bestie sono estremamente veloci e hanno un olfatto molto sviluppato. Avrebbero potuto fiutare la tua presenza a diverse centinaia di metri di distanza, e non sono così intontite dal sonno da non percepire una preda facile.
Ofelia starnutì tre volte di fila.
- Hai preso freddo - constatò Thorn, come se non fosse evidente.
- La neve si sta sciogliendo. Penso mi sia entrata anche dentro il cappotto.
Ofelia udì chiaramente lo sbuffo di Thorn: - Nemmeno noi che siamo stati fuori tutto il giorno siamo ridotti così male.
Decisa a non raccogliere le frecciatine del marito, Ofelia tacque. Gli altri erano rientrati tutti, a parte le gemelle che l'abbracciarono, una per lato, non appena fu sulla soglia di casa. Thorn la lasciò a loro ed entrò senza degnarla di uno sguardo.
- Mamma, abbiamo avuto così paura! - disse Belle.
- Sì, tanta tanta paura!
Ofelia si rilassò, lasciandosi abbracciare dalle figlie come se fosse lei la più piccola.
- Oh, povere care, lo sapevo che vi sareste spaventate. Quelle Bestie devono essere state mastodontiche!
Mira scosse la testa contro di lei. - No, mamma, non paura per le Bestie.
Belle ridacchiò. - Paura per te! Non ti trovavamo più!
Ofelia cercò di dare un senso a quelle parole. Avevano avuto più paura per lei, perché non l'avevano vista per pochi minuti, che per le Bestie?
- Quindi non ne avete trovate, presumo.
Mira la guardò battendo gli occhioni grigi, visibilmente preoccupata. Preoccupata per lei. - Mamma, ne abbiamo uccise undici! Il guardacaccia, il signor Jean, ha detto che un bottino così non si vedeva dai tempi degli ultimi Draghi, la famiglia di papà. Gli altri anni i gruppi di Invisibili e gli altri non hanno mai avuto un grande successo.
Ofelia ringraziò che le figlie la tenessero in piedi, se no avrebbe di nuovo perso l'equilibrio. Undici Bestie?
Stava per porre una sfilza di domande quando Thorn si affacciò di nuovo, e lei starnutì.
- Per l'appunto, state facendo raffreddare tutta la casa. E tu ti sei già presa un raffreddore. Scaldati.
Ofelia cercò di non alzare gli occhi al cielo. Ora quel trattamento poteva avere una fine, aveva imparato la lezione. In ogni caso si lasciò trascinare all'interno, dove vide Tyr che metteva su il bollitore, con un biscotto in bocca, e Balder che se ne infilava in bocca un altro. Poi ne diede un secondo al fratello, che masticò con le guance piene come se avesse un'urgenza assoluta di mangiare.
Ofelia si rese conto solo in quel momento che in effetti l'ultimo pasto che avevano fatto era stata la colazione. Non era una buona idea lasciare che Thorn pensasse ai pasti, perché lui proprio non ci pensava, andava avanti per inerzia. Quando a Berenilde, era talmente abituata ad essere servita che sarebbe morta di fame se qualcuno non avesse provveduto a cucinare.
- Dovete essere affamati - mormorò Ofelia mentre Balder e Tyr, dopo aver finito con il bollitore, le si avvicinarono per abbracciarla a loro volta.
- Mamma ma cosa facevate lì fuori? - la riprese bonariamente Tyr.
- Il freddo è stato la parte peggiore, non capisco proprio per quale motivo vi siate inflitta una tale sofferenza! - commentò Balder.
Ofelia boccheggiò, in cerca delle parole, poi starnutì addosso ai figli.
- Scusate, scusate - balbettò, mentre la facevano sedere spostando giacche e cappotti che erano sparsi ovunque. Thorn li raccattò, dato che gocciolavano, per appenderli dove non dessero fastidio.
- Siete molto pallida mamma. Appena il tè sarà pronto ve ne servirò una bella tazza calda con tanto miele - la rassicurò Tyr, che sembrava diventato una chioccia.
Fin troppo docile. Ofelia avrebbe strizzato le palpebre, scettica, se non fosse stata così confusa dalla situazione.
Balder invece prese un altro biscotto, sputacchiando quando parlò. - Fei ficuro di fapere quello che fai?
Mira e Belle lo spinsero via, disgustate dalla fontana di briciole che soffiava fuori ad ogni parola. - Ci pensiamo noi, siamo più affidabili.
- Voi riposatevi, oggi avete fatto tanto!
Berenilde si schiarì la voce, offesa per essere stata ignorata tutto quel tempo. Batté la mano sul divano accanto a sé, con le guance rosee e piene di vita, più bella che mai. - Sì, riposatevi miei cari, venite a sedervi accanto a me. Thorn, è stata una tale emozione poter partecipare a una caccia con te, con i tuoi figli. Non si nota, ma sono commossa.
Ofelia starnutì di nuovo. No, decisamente non si notava la commozione di Berenilde, che sembrava più che altro estatica. E pronta a vantarsi.
Thorn le passò un fazzolettino, spuntando da una delle camere. - Fai la doccia tu per prima o ti verrà la febbre.
- I vostri capelli gocciolano, mamma - le fece notare Mira mentre apparecchiava.
- Sì, fatevela prima voi. Quando avrete finito troverete tè e biscotti ad aspettarvi - disse Belle, prima di schiaffeggiare la mano di Tyr che stava giusto per prendere un altro biscotto. - Farò in modo che ne avanzi qualcuno.
Ofelia stava per ribattere che era lei quella che doveva pendersi cura di tutti loro, che erano loro quelli che avevano rischiato la morte e compiuto una grande impresa quel giorno, ma Thorn la prese con poca gentilezza per un braccio e la trascinò in bagno.
La doccia era già aperta e l'acqua calda riversava il suo vapore rilassante nell'ambiente, facendo fremere di gioia Ofelia. Caldo, finalmente.
Si arrese ad essere lei quella curata, spogliandosi per farsi una bella doccia bollente, quando si rese conto di non aver preso la biancheria. Stava per aprire la porta e avvisare Thorn quando lui entrò in fretta, chiudendosi la porta alle spalle e sbattendo contro di lei.
Iniziò a spogliarsi prima di accorgersi che Ofelia lo scrutava perplessa.
- Dentro - le ordinò, spingendola nella doccia con una mano sulla schiena.
Una mano gelida che la fece urlare.
Thorn si schiarì la voce mentre si toglieva la camicia, il suo tentativo di scusarsi. - In due faremo più in fretta.
Ofelia non osò ribattere. Le sembrava di vivere un'esperienza altrui, non era del tutto consapevole di quello che stava succedendo. Si tolse guanti e occhiali mentre Thorn finiva di togliersi i pantaloni, urtandolo quando entrarono in doccia insieme.
Ofelia si irritò. - Ho capito di averti contrariato, ma non mi sembra il caso di fare tutta questa scena per...
Thorn la zittì con un bacio che la sciolse come la neve tra i suoi capelli. La spinse contro il muro ancora freddo, facendole inarcare la schiena. Un lungo gemito di piacere e dolore si perse nel vapore. - Thorn, ma cosa...?
- Ho temuto che fossi scomparsa. Non fare mai più una cosa del genere, anche se farti promettere non servirà a nulla.
Thorn la prese in braccio senza darle il tempo di rispondere, aiutandosi con il muro per sostenerla. Ofelia non fece in tempo a ribattere o a prepararsi che Thorn si chinò su di lei per soffocare il suo gemito, questa volta unicamente di piacere, in un bacio umido e caldo.
Finalmente Ofelia tornò presente a se stessa, nella sua pelle, e pianse senza che Thorn la vedesse, mentre le lacrime si mescolavano all'acqua e sparivano nello scarico.
Perché era salvo. La sua intera famiglia era salva. Incolume. Per nulla spaventata. E Thorn era così solido contro di lei, così imponente e protettivo e possessivo che non poté che chiudere gli occhi e lasciarsi andare, mentre i suoi sospiri si mescolavano agli sbuffi dell'acqua. Sia lei che Thorn abbandonarono l'ansia, la paura, la rigidità e lo stress in quel modo, tra il calore della doccia e dei loro corpi, e Ofelia si strinse a lui così tanto che temette di fargli male. Ma Thorn non fece nulla per allontanarla, anzi, la spinse contro il muro quanto era fisicamente possibile per sentirla più vicina.
Ofelia gli morse una spalla per zittirsi quando arrivò il suo momento, seguita poco dopo da Thorn che la lasciò andare e alzò il viso verso il getto d'acqua calda, lasciandosi sommergere. Poi lei lo abbracciò, e rimase stretta a lui finché Thorn non chiuse l'acqua. Le baciò la testa e si allungò, senza allontanarsi, per prendere un asciugamano in cui avvolse entrambi. Ofelia ebbe il buongusto di starnutire di nuovo, spezzando l'atmosfera quasi romantica che si era venuta a creare.
- Devi bere il tè - le ordinò Thorn, asciugandole la schiena e poi le gambe, prima di fare lo stesso con se stesso. Ofelia si rimise prima i guanti e poi gli occhiali, del tutto inutili per via del vapore che si era attaccato alle lenti. Si rivestì cercando la biancheria a tentoni, aiutata da Thorn che tra un movimento e l'altro glieli girava nel giusto verso. Sembrava un automa da quanto era preciso e metodico, al contrario di Ofelia che faceva fatica a compiere i gesti più basilari anche in condizioni ottimali di vista e movimento.
Ofelia attese che Thorn finisse di vestirsi per uscire, seguita da lui che sbatté contro la sua schiena quando lei sbatté contro Balder. Le sembrava di stare tra due colossi.
Gli occhiali iniziarono a disappannarsi poco a poco, permettendole di vedere l'espressione sbigottita del figlio. - Stavo cercando papà per dirgli del tè. N-non sapevo che vi foste fatti la doccia ins... cioè... - balbettò, paonazzo, schiarendosi poi la gola. - Il tè è pronto in tavola.
Ofelia ebbe giusto il tempo di vedere Tyr che ammiccava a Balder prima di diventare rossa d'imbarazzo anche lei. Anche a casa si facevano spesso la doccia insieme, ma avevano il bagno in camera e nessuno vedeva i loro spostamenti, o cosa facevano. Soprattutto, non i loro figli.
- Miei cari nipoti, dopo sei figli direi che è più che ovvio che qualche doccia insieme l'abbiano fatta - sogghignò Berenilde, intervenendo in aiuto di Ofelia ma nella maniera peggiore.
Ofelia rischiò di strozzarsi con un sorso di tè, trovando che Berenilde fosse del tutto fuori luogo. Arrischiò un'occhiata verso Thorn, imperturbabile, e le sembrò di sentire la sua voce dire: - Anche un po' di più -, anche se lui non aveva aperto bocca.
Fortunatamente, ci pensò Mira a salvarla da quella situazione scomoda. - Avete tutto il naso rosso mamma.
- Temo di essermi presa il raffreddore.
- O magari un colpo di calore - cantilenò Berenilde, facendole l'occhiolino.
Ma insomma! Possibile che nessuno lì badasse ai fatti propri? Mentre Balder e Tyr, già dimentichi della questione doccia, si litigavano i biscotti, tornò il guardacaccia. Fuori era ormai buio nonostante non fosse nemmeno sera.
- Le Bestie sono state caricate sulla slitta che le porterà a Città-cielo, mio signore - borbottò con il suo accento marcato che Ofelia ancora faticava a comprendere. - Presto la carne verrà macellata e distribuita, e le pellicce riutilizzate. A parte quella destinata a voi per i cappotti dei vostri figli.
Mira e Belle quasi saltarono sulla sedia: - Cappotti papà? Come il vostro?
- Una pelliccia tutta morbida? Vi prego posso quella della Bestia grigia? Aveva un colore così elegante.
Thorn però le ignorò, intento a calcolare: - Considerando il peso delle Bestie senza la pelliccia e il numero di abitanti del Polo, anche considerando una percentuale extra di consumo pro-capite dovuto alla lunga penuria di carne sulle nostre tavole, arriveremo tranquillamente al prossimo disgelo. Per quest'anno, i viveri sono assicurati.
Jean, che era impallidito visibilmente ad ogni parola pronunciata da Thorn, rilassò le spalle quando capì quello che era necessario capisse: il cibo sarebbe stato abbastanza per tutti.
- Vi ringrazio per il vostro illustre lavoro, illustrissimo... ehm... illustre. E i vostri illustri figli. L'illustre zia. E l'illustre moglie che ha partorito i vostri figli. Illustr...
- Abbiamo capito - tagliò corto Thorn, accendendosi la pipa.
Jean si tolse il cappello e accennò un inchino. - Perdonate la mia eloquenza, mio signore, ma era da così tanto che non ricevevamo una notizia così bella! Gli anni scorsi le cacce sono state disastrose, c'erano da rimuovere più cadaveri umani che di animali. Vi farò recapitare il primo taglio di carne già arrostita per cena, come da consuetudine. Grazie per... grazie.
Thorn alzò gli occhi, guardandolo in viso per la prima volta. Annuì una sola volta, prendendo coscienza delle sincere parole del guardacaccia.
Non appena uscì, le gemelle si misero ad applaudire contente, andando dalla zia Berenilde per farsi spiegare la questione dei cappotti. Tyr invece si alzò mulinando un pugno in aria, urtando il braccio di Balder che si sparse il tè addosso. Evitò per un soffio l'ustione, ma tirò giù Tyr perché si sedesse, sibilando: - Se non ti calmi subito ti tramortisco con i ponti.
- Eddai fratello, lasciami esultare! Avremo le pellicce! E la carne per cena! Fresca e abbondante!
Balder sentì lo stomaco brontolare in risposta. Da quando lui e Tyr avevano superato i quattordici anni, la loro fame era raddoppiata. E il fatto che avessero saltato il pranzo di sicuro non aiutava a renderli più tranquilli, soprattutto perché i biscotti non li potevano saziare. Ofelia si alzò per preparare dei panini che potessero intanto placarli un po', specialmente dopo lo sforzo. Intanto si fece raccontare la loro avventura dai due fratelli che continuavano a battibeccare. Avevano ceduto il posto alle gemelle e alla zia perché si lavassero per prime, ma così ad Ofelia risultò ancora più arduo riuscire a non ferirsi o rompere qualcosa.
Al secondo piatto che le cadde nel lavandino, fortunatamente incolume, Thorn si alzò e le si avvicinò, prendendole il coltello dalle mani per tagliare lui stesso il pane. Tra i figli che raccontavano dello sterminio delle Bestie e Thorn che cucinava di fianco a lei, le sembrava di vivere un'esperienza surreale. Non che preparare dei panini potesse essere considerato cucinare, ma ci si avvicinava...
Ofelia scoprì che Balder, Tyr e Thorn avevano lavorato alacremente per far sì che la zia e le sorelle faticassero il meno possibile e fossero ben salve, anche se il loro aiuto fu davvero prezioso. Il loro compito era quello di sfiancare le Bestie, recidendo le articolazioni nei giusti punti, affinché Tyr potesse finirle con la sua forza, superiore a quella degli altri. La precisione millimetrica di Thorn gli era stata utile per non sprecare energie o perdere tempo; Balder invece era stato ineccepibile, grazie alla sua conoscenza ormai naturale del sistema nervoso, persino delle Bestie, nel riportare le recisioni maggiori e più gravi. Le gemelle e Berenilde si erano invece dedicate a finire le Bestie quando queste erano a terra, in attesa del colpo di grazia, per permettere agli altri di guadagnare tempo e non lasciarle contrattaccare. Balder non aveva provato nemmeno a usare i suoi ponti, obbediente e giudizioso.
- Ma l'anno prossimo ci proverò. Potrebbe essere una tecnica ancora più efficace - concluse, addentando l'ultimo pezzo del panino che i genitori gli avevano servito.
Con sorpresa di Ofelia, persino Thorn ne aveva presa una metà.
Tyr gli diede una gomitata. - Non servono i tuoi ponti quando ci sono i miei super artigli! Questo è il mio campo d'azione, tu occupati del tuo.
- E pensare che qualche anno fa non volevi averci nulla a che fare - commentò bonariamente Ofelia.
Tyr sorrise colpevolmente passandosi una mano tra i capelli, che rimasero dritti in testa, umidi per la neve. - Non avevo capito appieno... be', non avevo capito nulla. Pensavo che avrei ferito senza distinzione. Ero spaventato! Così invece posso renderli utili.
Thorn lo guardò con la fissità di un rapace, facendogli perdere il sorriso. - Ti è piaciuto uccidere quelle Bestie?
Anche Balder osservò il fratello, in attesa di una risposta.
Tyr abbassò lo sguardo, riflettendoci. - Mi... mi è piaciuto usare gli artigli. È come se anche i miei nervi si scaricassero quando li uso. Ma le Bestie mi facevano pena quando mi guardavano, in attesa che ponessi fine alla loro sofferenza. Non mi avevano fatto nulla. E tutto quel sangue... No, non mi è piaciuto ucciderle, ma era necessario per tutto il Polo.
Thorn annuì seccamente, come se Tyr avesse appena passato un test. Rendendosene conto, si rilassò.
In quel momento tornarono le gemelle, stropicciandosi gli occhi per il sonno.
- La zia ha quasi finito, tra poco potete andare voi - biascicò Mira.
Belle invece si lasciò cadere sulla sedia, sfinita, e Ofelia le mise davanti un piatto con i panini avanzati. O meglio, i panini che aveva nascosto per evitare che Balder e Tyr se li mangiassero tutti. Quando Tyr allungò la mano per rubarne uno, Ofelia lo schiaffeggiò blandamente.
- Andate a lavarvi, chissà che sia pronta la cena per quando avrete finito.
- Carne carne carne - cantilenò Tyr avviandosi, seguito da Balder.
Ofelia legò i lunghi capelli rossi delle gemelle in una treccia. Erano ancora umidi, così raccomandò loro di stare accanto al camino perché si asciugassero.
Come sperato, Ofelia aveva appena finito di apparecchiare per la cena quando Jean si palesò portando una grossa casseruola da cui si sprigionava un odorino appetitoso. Persino Ofelia sentì salire l'acquolina in bocca, mentre Balder tratteneva Tyr per la collottola per evitare che si fiondasse come un cannibale sulla carne. Avevano finito di lavarsi giusto in tempo.
Quella che ne seguì fu la cena più strana cui Ofelia avesse mai partecipato, persino più di quella consumata a bordo del dirigibile che per la prima volta l'aveva portata da Anima al Polo. I ragazzi erano così stanchi che le teste ciondolavano sul piatto. Due volte Ofelia dovette scuotere Mira, che mangiava praticamente a occhi chiusi, mentre Berenilde non disse nulla a Tyr che aveva la testa poco educatamente appoggiata al braccio. Persino lei, Berenilde, la dama di corte che rincasava all'alba, era silenziosa, quel silenzio stanco di chi desidera solo andare a letto.
Cosa che accadde subito dopo cena, senza nemmeno la consueta richiesta del dolce.
Ofelia portò ai figli del latte caldo per conciliare il sonno dopo il lauto pasto e le forti emozioni della giornata, aggiungendo, contro ogni sua abitudine, un goccino minuscolo di grappa per scongiurare il mal di gola. Lei stessa ne bevve una tazza con una dose un po' più abbondante, sentendo già l'irritazione nell'anticamera della gola. Erano tutti a letto e lei stava finendo di sorbire il suo latte quando si accorse degli occhi implacabili di Thorn su di lei. Più intensi del solito.
Thorn le si avvicinò e si chinò in un lungo e lento movimento per baciarle con leggerezza le labbra che sapevano del gusto zuccherino dell'alcol.
- Mi è venuta in mente la conversazione che ho avuto con Balder quando mi ha rivelato di essere innamorato di Ilda.
Ofelia appoggiò la tazza sul bancone, temendo di romperla. Percepiva qualcosa di importante in quello che Thorn stava per dirle.
- Mi ha chiesto quando ho capito di essermi innamorato di te.
Ofelia sgranò gli occhi. Aveva sempre pensato che Thorn non fosse il tipo di uomo che parlava di sentimenti e apriva il suo cuore, ma nemmeno lei, in effetti, riusciva ad esprimere con tranquillità quei concetti. Il fatto che Thorn tirasse fuori un argomento del genere la sorprese non poco.
- E... quando lo hai capito?
- Dopo trentaquattro minuti dal nostro primo incontro. All'osservatorio di Anima.
Ofelia si morse la lingua nel tentativo di parlare, ma non sapeva cosa dire. All'osservatorio di Anima... era sicura di non aver fatto un'ottima impressione, né di aver detto qualcosa di incredibilmente arguto. Anzi, la conversazione era stata stentata, solo sua mamma aveva intrattenuto un monologo con se stessa. Lei non aveva aperto bocca e, oltretutto... era scivolata sul ghiaccio. Aveva rotto gli occhiali, quello se lo ricordava bene. Aveva visto Thorn in triplice copia per quasi tre giorni, mentre loro si riparavano. Non era stata proprio un esempio di femminilità.
Ofelia sentì il latte scaldarle lo stomaco più di quanto fosse normale. Che fosse per colpa della paura di perdersi che tutti e due avevano cercato di ignorare, che sentivano così tanto il bisogno l'uno dell'altra? Come se i loro corpi avessero capito meglio di loro cosa significavano l'uno per l'altra, e il rischio che avevano corso. Non sarebbe stata la prima volta, dato che più volte Ofelia aveva ignorato i messaggi che il suo stesso corpo le lanciava. Il suo cuore ci aveva messo molto, troppo tempo a capire di amare quell'uomo troppo alto, troppo spigoloso, troppo duro... e troppo incompreso.
- Come? Perché? - chiese in un sospiro. Per una volta, non era lui che poneva laconiche domande da gendarme.
- Non lo so.  È stata la prima volta in assoluto che hai messo a soqquadro il mio mondo, che hai infranto ogni buonsenso e logica. Mi sono girato appena, ti ho vista lì per terra, insofferente alle continue chiacchiere di tua madre, in difficoltà per via delle lenti rotte e... ho sentito come un senso di affinità. Ho anche pensato che il matrimonio con te sarebbe stato un disastro. Se non ti reggevi in piedi a casa tua, al Polo avresti avuto una percentuale fin troppo elevata di problemi. Il mio cuore ha aumentato il battito del ventisei percento.
Ofelia sbatté le palpebre come se avesse qualcosa nell'occhio. Ma perché d'un tratto Thorn si metteva a fare dichiarazioni del genere?
- Il trattamento che mi hai riservato non è stato esattamente lo specchio di quello che provavi - commentò lei, forse un po' troppo acida data le parole in fondo dolci di Thorn.
Ma non aveva potuto evitarlo: si ricordava ancora le parole gelide di Thorn quando la zia Roseline l'aveva spinta da lui con una tisana. L'aveva ritenuta incapace persino di sopravvivere.
Thorn fece una smorfia appena accennata. - Avevo... ero confuso. Non capivo cosa mi stesse succedendo. E tu non mi rendevi il compito facile, imprevedibile com'eri. Mi turbavi, e volevo tenerti lontana. Ma mi... incuriosivi, anche. Eri un'anomalia.
Ofelia non era certa che essere definita un'anomalia fosse un complimento. Però capiva Thorn, capiva il suo linguaggio, e capiva la sua difficoltà nel tirare fuori l'argomento. Da un certo punto di vista, lo ammirava. Avrebbe voluto anche lei dirgli qualcosa di carino, ma le parole le sfuggivano. Di solito era lui a decidere quando una questione era chiusa, ma in quel momento ci pensò lei.
Si allungò sulle punte per baciarlo, sorridendo quando sentì la barba pungerla. Una barba talmente chiara da passare inosservata, eppure presente.
Più tardi, a letto, dopo aver finito il latte ed essere riusciti a scaldare un po' le coperte gelide con il tepore dei loro corpi, Ofelia si strinse a Thorn, aderendo il più possibile a lui.
Rimase immobile per molto, molto tempo, osservando il buio fuori dalla finestra e ascoltando il respiro regolare di Thorn, lento e profondo.
Perché se respirava, significava che era vivo.
Era ancora con lei.
 
Il viaggio di ritorno sembrò molto più breve di quello di andata, grazie al fatto che tutti erano più rilassati e non sentivano più sulle spalle il rischio di una morte imminente. Almeno per un altro anno.
I cappotti dei figli sarebbero arrivati nel giro di pochi giorni, e le gemelle e Tyr non stavano più nella pelle. Balder sarebbe stato più interessato se fosse stato un camice bianco. Lui fu l'unico nervoso durante il rientro, come se fosse più preoccupato di tornare a casa che di lasciarsela alle spalle. Ofelia sospettava che Ilda c'entrasse qualcosa, ma non voleva chiedergli nulla di fronte agli altri, anche se erano suo padre e suo fratello. Sapeva cosa voleva dire vedere i propri fatti messi a nudo di fronte a tutti come se fossero banalità, non voleva turbare o mettere a disagio il figlio.
Se lo sarebbe dovuto aspettare, però, che una volta rientrati non avrebbe avuto il tempo di chiamarlo in disparte: la zia Roseline li fagocitò, urlando e chiedendo ragguagli, palpeggiando Tyr per vedere se fosse ferito e dando pacche alle gambe di Balder per vedere se zoppicava, perché era troppo bassa per controllargli la parte alta del corpo.
Ofelia accolse con gratitudine l'abbracciò di Serena, che si fece carico dei bagagli mentre Archibald lanciava in giro il cilindro. Salame prese a scorrazzare tra le gambe di chiunque, facendo inciampare Balder, mentre Renard elargiva pacche sulle spalle e copriva ogni chiacchiera con la sua risata tonante. Gaela fu l'unica ad andare in suo soccorso, trascinandola in disparte per un braccio e rispondendo con un grugnito ai suoi ringraziamenti. Però aveva l'angolo della bocca incurvato in un sorriso, nonostante la sigaretta tra le labbra. Ilda esitò quando vide Balder, però alla fine corse incontro agli amici e abbracciò sia lui che Tyr contemporaneamente, facendo cadere tutti per terra.
Ofelia ridacchiò. - Ilda sembra piccola, ma ha una grande forza.
Gaela parve gonfiarsi d'orgoglio. - Donna è, altro che!
Randolf rimaneva seduto a tavola, terrorizzato dal trambusto, e le gemelle ne approfittarono per scoccargli due baci identici sulle guance, spaventandolo.
Thorn svettava su tutti con una smorfia di disgusto sul volto, mentre cercava una via di fuga. Alla fine riuscì ad uscire dalla massa di corpi avvinghiati e sparì a lunghe falcate nel suo studio, in cerca di pace. Ofelia rise. Alla fine era riuscita a trasformare dei rispettabili abitanti del Polo in una famiglia animista fatta e finita. Solo più contenuta: se fossero stati tutti animisti, persino le sedie si sarebbero messe a galoppare in giro, e per cena i piatti si sarebbero distrutti da soli a forza di saltare sui tavoli per la gioia.
Archibald lesse a gran voce, in qualità di ex ambasciatore, le ultime testate giornalistiche, che per una volta non infamavano nessuno della loro famiglia, anzi, li proclamavano eroi.
La cena fu tutta un racconto. Tyr diede il meglio di sé nell'infarcire la storia di dettagli sensazionalistici e palesemente inventati ed esagerati. Balder lo correggeva ogni due frasi, sia per punzecchiarlo che per amore di precisione, e alla fine si misero ad accapigliarsi verbalmente. Non litigavano solo quando Tom catturava l’attenzione di Balder per chiedergli qualche particolare realistico di quella caccia, curioso. I due erano davvero spiriti affini: pacati, onesti e curiosi. Tom aveva qualche difficoltà a sostenere l’esuberanza di Tyr, ma compensava del tutto con Balder. Renard rabboccò il bicchiere dei due fratelli per farli smettere, ma brillo com'era sporcò tutta la tovaglia. Ofelia rise come non rideva da mesi, con l’addome contratto. Persino sulle labbra severe di Thorn vide la fugace ombra di un sorriso, quasi impercettibile. Ofelia lo apprezzò solo per il fatto che non si era dato alla fuga, anche se sapeva che avrebbe sfruttato il primo attimo libero per fiondarsi a recuperare il lavoro arretrato. Dubitava che lo avrebbe visto, quella notte. Infatti quando gli altri decisero di trasferirsi sui divani per il dessert, Thorn bisbigliò qualcosa a Serena e si dileguò.
Ofelia aveva notato in Serena, durante la serata, un'ombra. Era gioiosa, sì, e sollevata per il ritorno della famiglia incolume, ma qualcosa la turbava. Ofelia avrebbe voluto avere un po' di tempo per parlarle, ma chiamarla in disparte quella notte sarebbe stato impossibile. Renard l'agguantò per trascinarla al centro dell'attenzione, distogliendola dai suoi pensieri.
Quando si girò di nuovo in cerca della figlia, vide che era sparita. Probabilmente per andare da Thorn.
Non fece caso al fatto che mancava anche Archibald.
 
Serena camminò velocemente lungo il corridoio, grata delle lunghe gambe e meno grata per la grandezza mastodontica di quel castello.
Negli ultimi tre giorni, quando era rimasta sola con la zia Roseline, Archibald non si era fatto vedere. Lei aveva trascorso quasi tutto il suo tempo nello studio del padre, a cui aveva fatto aggiungere un'altra scrivania per sé, e all'intendenza, dove aveva preso confidenza con il segretario del padre. Era riuscita a farlo smettere di tremare di paura quando gli aveva portato un croissant, la mattina prima, ingraziandoselo. A quanto pareva, lavorare con Thorn non doveva essere una passeggiata. Lei stessa ne sarebbe stata terrorizzata, se non avesse avuto la sua stessa memoria.
Grazie al lavoro aveva potuto distrarsi, invece di accanirsi sul pensiero di Archibald. Aveva potuto pensare a lui in modo più... equilibrato. Meno equilibrato era stato il suo tentativo di attraversare gli specchi. In quei tre giorni in cui la famiglia era stata lontana, in lei si erano susseguiti talmente tanti sentimenti confusi e contraddittori da lasciarla quasi tramortita. Non capiva più chiaramente cosa fare e cosa provare. Gli specchi la respingevano, non la volevano, nemmeno il suo fedele specchietto sul retro della collana. La sera precedente era stata talmente esasperata da scoppiare a piangere e tempestare di pugni lo specchio di camera di sua. Era crollata a singhiozzare sul pavimento, sentendosi sola, incompresa, vuota, nonostante la vittoria e l'incarico appena ottenuti. Aveva raggiunto un traguardo incredibilmente ambito... eppure era insoddisfatta. Aveva passato ventotto minuti immobile a rivedere nella mente il ritratto di Archibald, quella tristezza che sicuramente faceva eco alla sua. Ma per un motivo diverso. Archibald non si sentiva solo perché era innamorato di lei.
Lei sì. E quando lo aveva ammesso a se stessa in modo chiaro e sincero le si era stretto lo stomaco in una morsa. Era... sbagliato.
Archibald era stato come uno zio per lei. Aveva ricordi di lui da quando era neonata. L'aveva vista crescere. Poteva essere suo padre! Era innaturale una cosa del genere! Ma per quanto quel sentimento la facesse sentire sporca, la faceva sentire anche viva. Nonostante i punti a sfavore di quel sentimento superassero un numero a due cifre, lei non poteva evitare di provarlo. Sapeva che avrebbe deluso suo padre, sua madre... persino Balder era rimasto scandalizzato all'inizio, e Serena dubitava che l'avesse presa sul serio. Vedeva ancora il cinismo nel suo sguardo quando gliene parlava, così cercava di farlo il meno possibile. Però... sentiva di assomigliare ad Archibald. Il peso che gravava sulle spalle di entrambi, le aspettative, la diversità, i pettegolezzi. Serena era certa di aver visto un lato di Archibald che lui aveva mostrato a pochi. Un lato tenero, divertente, talvolta persino goffo, di fronte all'abissale differenza di conoscenza tra loro. Aveva visto com'era amorevole, con lei e con i fratelli, aveva visto il suo bisogno di essere accettato, di trovarsi un posto in un mondo in cui era difficile vivere.
Aveva visto la disperazione che albergava nei suoi occhi. Voleva estirparla.
Sobbalzò quando vide Thorn incedere verso di lei nel corridoio. Assunse la consueta facciata impassibile, copiata proprio dal padre, per nascondere la paura.
Thorn aggrottò la fronte: - Stai già venendo in studio?
- Oh, no... sto andando in camera mia. Devo prendere alcune cose prima di venire. Ci vorrà un po' - mentì.
Si sentì male: non aveva mai mentito ai suoi genitori.
Thorn fece un impercettibile cenno del capo e la superò: - Mi troverai là quando sarai pronta.
Serena mugugnò un assenso e si chiuse in camera, respirando affannosamente. Non poteva tornare in corridoio. Non poteva lasciare che altri la vedessero avvicinarsi alla camera di Archibald. Si voltò verso lo specchio. Non aveva più provato ad attraversarlo dopo la crisi di pianto del giorno prima.
Quella sera però si sentiva diversa. Strinse i pugni e si avvicinò.
Anche i suoi genitori non avevano avuto un inizio felice. Anche i suoi genitori erano diversi quanto un numero e una lettera, una moltiplicazione e una divisione. Eppure funzionavano.
E lei voleva provare a... voleva tentare con Archibald. O, in ogni caso, chiedergli una spiegazione per il suo gesto inconsulto di tre giorni prima. Per il bacio.
I suoi genitori non erano codardi. Suo padre aveva combattuto, a modo suo, per un amore in cui solo lui credeva. Forse poteva farlo anche lei.
Di sicuro ci avrebbe provato.
Racimolò il coraggio.
Finalmente affrontò il suo riflesso nello specchio. Il suo vero riflesso.
Si immerse senza esitazione.

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Capitolo 66
*** Capitolo 66 ***


Scusate per il mega mega ritardo, ma l'estate è sempre un calvario ç.ç Sono riuscita a trovare un attimo libero solo ora.
Però non temete, non era per un ritardo nella scrittura del capitolo, ma nella rilettura. Quindi (per ora, non si sa mai) non c'è rischio che la storia si areni e rimanga inconclusa.
Grazie mille per la pazienza, sono un po' impaurita dai commenti che riceverò dopo questo cap. Spero vi piaccia.
(Cosa potrebbe andare storto? cit.)


Capitolo 66

Archibald fissava il suo specchio quando lei emerse, come se la stesse aspettando.
Le rivolse un sorriso triste. Un sorriso sobrio.
- Sapevo che sareste venuta, prima o poi.
Serena si torse le dita delle mani: - Dobbiamo parlare.
Archibald sbuffò una risata poco divertita. - Mi sembra di sentire l'intendente.
- Sarò il prossimo intendente, infatti - precisò lei, indicando lo spazio sul letto di fianco a lui. - Posso?
Archibald le fece posto, togliendosi il cappello e dandosi una pettinata. I suoi riccioli biondi continuavano a rilucere, folti e sani nonostante l'età, come se Archibald fosse destinato a rimanere per sempre giovane. Al contrario, i capelli di Thorn si erano diradati e incanutiti.
Serena sospirò a quel pensiero: non perorava di certo la sua causa nel fare un confronto tra Archibald e suo padre.
Lui fraintese il suo sospiro. - È così orribile quello che dovete dirmi?
Serena si morse la cucitura di un guanto. - Dipende. Molti disapproverebbero. Tutti, credo. Anche voi, presumo. È frustrante non poter calcolare l'esito di una conversazione.
Archibald ridacchiò. - Già, voi e la vostra matematica. Quale difficoltà, non poter tradurre la vita in numeri!
Suo malgrado, Serena sorrise di fronte alla presa in giro. Più volte si erano punzecchiati al riguardo, quando studiavano insieme e Archibald le raccontava qualche aneddoto sulla corte dai risvolti decisamente imprevedibili.
Archibald le strinse la mano libera per un attimo fugace, ritraendola subito come se si fosse scottato. - Vi levo io dall'impiccio. Me ne andrò da qui. Chiederò asilo presso le mie sorelle. Non posso permettermi di restare dopo il disonore che vi ho arrecato. Buffo, no, che un libertino come me arrivi a considerare un casto bacio un disonore, non trovate? Ma non potrei mai perdonarmi se vi danneggiassi in qualche modo. Come ho detto, meritate di meglio.
- Meglio di voi, intendete? Perché, vi proporreste?
Il sorriso di Archibald era autentico, ma incredibilmente triste. - Solo un pazzo senza occhi e intelletto non lo farebbe.
Il cuore di Serena mancò un battito. Fissò il muro di fronte a sé per non dover vedere quel viso angelico e dannatamente bello, nonostante non avesse più vent'anni. E neanche trenta.
- Credo che voi mi sovrastimiate. E che non valutiate il grado di maturità dei miei coetanei. A livello mentale sono più immaturi di Tyr, persino di Randolf.
- Non posso darvi torto. Non ho la vostra memoria, ma ricordo bene com'ero alla loro età. Della mente di una donna me ne facevo gran poco.
Serena lo sbirciò di sottecchi. - E ora? Avete cambiato abitudini? So per certo che respingete da mesi tutte le vostre corteggiatrici, senza eccezioni. Come vedete, non siete l'unico in grado di carpire i segreti altrui, Archibald. Perché lo fate?
Archibald si strinse nelle spalle. - Suppongo per provare a me stesso di poter essere alla vostra altezza. Non che questo cambi le cose, ma... spingete le persone a voler essere migliori, Serena. Siete perfetta, ma non quella perfezione che dà fastidio, che causa invidia. Siete pura.
- Non sono perfetta. Nessuno lo è.
- Alcuni sono più perfetti di altri.
Serena sospirò. - Alcuni fingono. Perché mi avete baciata?
Archibald cercò il suo sguardo e lei si concesse di guardarlo negli occhi. Di perdersi in quell'azzurro limpido, il più sereno dei cieli. - Perché nel mio processo di perfezionamento il mio autocontrollo è ancora in fase di revisione.
- Non è una risposta.
- La risposta sarebbe illegale, signorina. Da qui, la mia decisione di andarmene.
- Nessuno ve l'ha chiesto.
- Non siete venuta a chiedermelo voi?
Serena trattenne a stento l'orrore. - Assolutamente no.
Archibald batté le palpebre più volte. - Cosa siete venuta a fare, allora? Potreste insultarmi per la mia impudenza, o scacciarmi, o schiaffeggiarmi, o sguinzagliarmi contro vostro padre, eppure siete qui, tranquilla, a conversare. Perché?
Serena non aveva quasi battuto le palpebre da quando si era permessa di guardarlo, ma la sua espressione indecifrabile si crepò, lasciando trasparire lo sgomento. - Non vi meritate nulla di tutto ciò.
Archibald ghignò. - Certo. Ho solo baciato la figlia dell'intendente, una giovane che ho visto crescere, persino nascere, una ragazza di cui potrei essere il padre. L'unica per cui io provi stima. L'unica per cui abbia mai nutrito, da qualche mese a questa parte, quel genere di amore che spinge a volersi accasare e fare figli. Ne ho combinate tante nella mia vita, Serena, ma non ero mai caduto così in basso. Mai. Quindi ve lo richiedo, da uomo disgustoso quale sono. Perché siete qui?
Serena strizzò le palpebre, sentiva gli occhi bruciare. Non riusciva più a guardarlo. - Perché... provo lo stesso. Sempre che non abbia frainteso le vostre parole. So chi siete, so cos'avete fatto, so che la vostra condotta dissoluta e i vostri trascorsi dovrebbero... allontanarmi. So persino che avete fatto delle proposte indecenti a mia madre. Eppure vi perdono tutto, perché vi amo. Come vedete, sono tutt'altro che perfetta. Mi definirei traviata addirittura.
Con suo sommo stupore, Serena vide gli occhi di Archibald inumidirsi. - Sì, siete decisamente imperfetta se quel vostro cuore al di sopra di tutti batte per me, cara Serena. E questo mi fa sentire ancora più disgustoso.
Serena gli afferrò una mano, stringendola tra le sue. - Non lo siete. Con me siete stato ineccepibile, sempre. Non avete fatto nulla di indecoroso, né allusioni di alcun tipo.
Archibald si passò la mano libera tra i capelli, frustrato, prima di posarla sopra quelle di Serena, in un bozzolo di mani. - Serena, non potete davvero amarmi. Per una volta lo dico senza narcisismo, so l'effetto che faccio alle donne. È facile confondere passione e amore, sbandierare il proprio affetto ai quattro venti, soprattutto se si è nel fiore della giovinezza come voi.
Serena fece una smorfia irritata. Poi si avvicinò per posargli un bacio su una guancia. - Sono il vostro cuore e la vostra mente che voglio, non il vostro corpo. Questo, le vostre altre donne, ve l'hanno mai detto?
Gli occhi sgranati di Archibald corsero alle sue labbra, poi lui si voltò, vergognandosi. - Cosa devo fare per indurvi ad odiarmi? Vi farei finalmente orrore, se vi dicessi che io desidero cuore, mente e anche corpo, di voi?
Serena gli si avvicinò, continuando a tenere in ostaggio la sua mano. - No. Mi rendereste felice, Archibald. Avete detto che spingo le persone a voler essere migliori. Perché non state con me per redimervi dal disgusto che voi, e voi solo, suscitate in voi stesso?
Serena non si era mai sentita più audace di così. Né più viva.
Il rimorso, il senso di colpa, l'assoluta certezza che avrebbe deluso suo padre e sua madre, nulla aveva più significato da quando Archibald le stringeva le mani. Percepiva la sua sofferenza, e voleva porvi fine.
- Non posso farvi questo... - mormorò lui, con il volto ancora girato.
- Ma io voglio questo.
- Siete giovane. Volubile. Cambierete idea.
- Lo pensate davvero?
Un'esitazione. Un silenzio di troppo. - No.
- Guardami, Archibald.
Di fronte a quella confidenza, lui si irrigidì. Ma obbedì, seppur riluttante.
- Hai già dato abbastanza scandalo, no? - cercò di sdrammatizzare lei. Ormai non aveva più argomentazioni da propinargli. - Una notizia sconvolgente in più non cambierà nulla.
- E voi? - replicò lui, raddrizzandosi, avvolgendosi in quella maturità che aveva sempre nascosto quasi a tutti, eterno giovincello scapestrato. - Non siete spaventata all'idea di dare scandalo?
Serena avvampò. - Il... un matrimonio non sarebbe uno scandalo. Ho già... fatto ricerche. Buona parte delle relazioni combinate vede tra i consorti una differenza d'età non trascurabile. Non è illegale. Ho vent'anni, sono quasi una zitella ormai. E non potrebbero sollevarmi dal mio nuovo incarico, non ci sono i presupposti.
Archibald impiegò un po' a rispondere. Deglutì a vuoto, come se avesse la gola secca. - Matrimonio? Davvero sareste disposta a legarvi per quello che resta della mia vita a uno come me?
Serena aveva negli occhi una determinazione ferrea che fece rabbrividire Archibald. - A cos'altro dovrebbero portare questi sentimenti? Non ho intenzione di essere una delle tue conquiste. E non sono più la bambina che prendevi in braccio quando ero piccola. In più, tu non sei così vecchio.
Il viso di Archibald si adombrò, ma finalmente lasciò cadere quell'ultimo schermo che aveva posto fra loro: le diede del tu. - Potrei essere tuo padre, Serena.
Lei appoggiò la fronte alla sua, sorridendo. - A me sembra che tu e mio padre vi conserviate molto bene.
Archibald liberò le mani dalle sue e la cinse in vita, attirandola a sé. L'urlo di Serena venne soffocato dalle labbra di Archibald, e lei si sciolse tra le sue braccia. Aveva voglia di piangere. Come poteva qualcosa di così bello essere sbagliato? Avvolta nel tepore del corpo del suo migliore amico, del suo confidente, dell'uomo che l'aveva aiutata a realizzarsi, a crescere, a maturare... tutto andò al suo posto.
In quel momento sì che si sentiva perfetta.
- Sarà la più grande sciocchezza della mia vita, ma ti amo, Serena. Non credevo nemmeno che un simile sentimento potesse esistere. Ti amo, ti amo, ti...
Serena riprese il bacio, stringendosi a lui. Che enorme bugia aveva detto! Eccome se voleva il suo corpo! Voleva tutto di lui, tutto.
Senza sapere nemmeno come, si ritrovarono sdraiati uno accanto all'altra sul letto. Archibald le accarezzò un braccio mentre la baciava, poi le salì sopra. Si spostò dalle sue labbra alla sua mascella, tracciando dei baci fino al collo. Strofinò il naso lì, inspirando il suo profumo. Quel gesto le fece il solletico, e Serena ridacchiò.
Quel suono così meraviglioso fece tornare Archibald in sé. Si scostò da lei come se avesse visto un mostro, allontanandosi finché non sbatté la schiena contro l'armadio.
- Non così. Non ho intenzione di disonorarti. Con te farò le cose per bene, o non farò nulla. Nutro troppa stima nei tuoi confronti per annoverarti tra le tante notti insignificanti che ho avuto.
Rossa in volto, Serena si mise a sedere, imbarazzata. Da un lato quella nuova vena rispettosa di Archibald la commosse, dall'altra la lasciò... insoddisfatta.
- Quindi?
Archibald si mise a posto il completo bucherellato, lanciando un'occhiata al cilindro che era caduto sul tappeto. Si ravviò i capelli. Le sorrise, un sorriso dolce che Serena gli aveva visto rivolgere solo a lei e ai suoi fratelli quando erano piccoli. Un sorriso sincero, un sorriso di gioia.
- Quindi dovrai sposarmi, temo. Non ho un anello con me al momento, ma posso inginocchiarmi se...
- No - esclamò Serena, scuotendo la testa e avvicinandosi ai piedi del letto. Rise. - No, cioè sì. Non serve che ti inginocchi. E sì, credo che mi toccherà sposarti. Purtroppo.
Archibald si mise a ridere con lei, una risata autentica, avvicinandosi per prenderle il viso tra le mani. - Stai per fare un'enorme sciocchezza.
Serena gli sorrise, perdendo quell'aria austera che la circondava sempre, inflessibile. Aveva un sorriso da bambina. - Sono stata molto brava nella mia vita, una sciocchezza possono anche perdonarmela.
Archibald tornò serio. In lui si agitavano emozioni contraddittorie che non riusciva a controllare. Euforia, e un attimo dopo tormento, rabbia verso se stesso. Non sarebbe mai stato abbastanza per lei, ma era troppo egoista per voler rinunciare all'unica persona che lo amasse davvero per ciò che era.
- Dovremo dirlo a Thorn - mormorò, allontanandosi di nuovo. Serena scorse la paura nel suo sguardo. - Accetterò qualunque reazione avrà.
Strana scelta di parole...
- Devo andare da lui ora, dobbiamo rivedere alcune cose di questi ultimi tre giorni.
Archibald scosse la testa. - Te l'ho sempre detto che lavori e studi troppo.
Serena si diresse verso lo specchio, dandosi una sistemata. - Te l'ho sempre detto la nostra visione del lavoro non coincide per nulla. Ah, un'altra cosa... ho visto il disegno di Vittoria. Per sbaglio, tre notti fa, quando...
Archibald impallidì, così Serena si fermò, pentita di aver visto quel ritratto e anche di averglielo detto.
- Non volevo ficcare il naso...
- No, sono... sollevato all'idea che tu l'abbia fatto. Non dubito che tu mi conosca meglio di tanti altri, ma penso che quel ritratto inquietante faccia capire più cose di quante se ne possano esprimere a parole.
Serena annuì, esitò. - Non... non ho mai visto quello sguardo vuoto sul tuo viso quando stai con me.
Archibald le rivolse il più dolce dei sorrisi. - Perché quando sto con te sono vivo. Tu dai un senso alla mia esistenza, Serena.
Quelle parole la toccarono nel profondo, più di quanto avesse fatto il "ti amo" che le aveva rivolto come una supplica sette minuti prima. Lei annuì, incapace di parlare, e avanzò per avvicinarsi allo specchio. Finalmente onesta con se stessa, in grado di affrontarsi di nuovo.
Archibald la richiamò prima che si immergesse.  - Se ci ripenserai, capirò. Anzi, spero che tu ci ripensi. Spero che... cambierai idea.
- Se c'è una cosa che tutti conoscono universalmente di te, Archibald, è che sei fin troppo onesto. Le bugie non le dici proprio. Pensi veramente quello che mi hai appena detto?
Lo sfrontato, impudente, incurante e sconsiderato Archibald tirò fuori il suo sorrisetto ammaliatore, quasi da bambino. - Touché, signorina. Non lo penso affatto.
Serena scosse la testa sorridendo, prima di immergersi nello specchio.
E sbucare, sorridendo fuori luogo, vicino a Thorn.
 
Serena strinse le labbra quando suo padre alzò gli occhi su di lei. Le sembrava di essere finita su un'altra arca, o di aver volato fino a poco prima ed essere precipitata al suolo in quel momento.
L'espressione severa di Thorn la fece sentire una bambina, piccola e immatura, che non capiva come funzionava il mondo. Eppure lei sapeva che i suoi sentimenti non erano una sciocchezza, non erano un'infatuazione momentanea o una prima cotta. Più volte sua mamma le aveva detto, quasi con rammarico, che era diversa dagli altri bambini, che era nata già adulta. Aveva solo vent'anni, certo, ma di testa ne aveva almeno dieci di più. Sapeva da anni di essere innamorata di Archibald. Magari era uno strano complesso (aveva letto in un libro di medicina che alcune volte capitava che dei prigionieri si innamorassero dei loro carcerieri), magari aveva la tendenza ad amare uomini più grandi di lei e con un passato di dissolutezze perché aveva rigato troppo dritto per tutta la vita. Non aveva mai avuto il minimo istinto di ribellione, nemmeno durante l'adolescenza... forse era quella, la sua ribellione. Eppure non ci vedeva nulla di male. Si era sempre comportata bene.
Stava parlando di amore, non di crimini.
Serena era sicura che sua mamma l'avrebbe capita.
Thorn invece aggrottò la fronte. - Dove sono le cose che dovevi prendere in camera tua?
Serena raggelò. Non era brava a mentire, non aveva mai dovuto farlo. Era inesperta. - Me le sono dimenticate.
Thorn socchiuse gli occhi, solo un lieve bagliore metallico filtrava da sotto le palpebre. Era cinico. Certo, che scusa improbabile aveva usato! Lei, loro, non dimenticavano mai nulla. Era impossibile che accadesse.
- Sono dovuta tornare in salotto e poi non sono più passata in camera. Ma non erano cose fondamentali, ovviamente. Me le ricordo.
Thorn non sembrava pienamente convinto, ma le sue priorità erano altre, per cui le fece cenno di sedersi e tornò ai documenti.
Serena obbedì, grata di potersi distrarre e cercando di non destare sospetti. Nonostante il suo cervello iperattivo lavorasse su più fronti, non riusciva a impedire che buona parte della sua attenzione rimanesse su Archibald. Sulle sue mani. Sul suo bacio. Significava quello, essere innamorati? Contare il tempo che mancava al successivo incontro? Provò compassione per suo padre, per tutto il tempo che aveva sprecato ad amare sua madre in silenzio mentre lei non si avvedeva dei suoi sentimenti. Se Archibald quella sera l'avesse rifiutata, ne sarebbe morta. Internamente. Sapeva che non avrebbe più conosciuto la gioia. Il fatto che l'avesse fermata, poi, che non avesse voluto... andare fino in fondo, con lei, la riempiva di commozione. La verità era che non si sentiva ancora interamente pronta per quel passo, ma avrebbe ceduto se Archibald l'avesse spronata. Invece lui la rispettava. Voleva sposarla prima di... prendere tutto di lei.
Cercò di non arrossire al pensiero.
Più di tutto, più delle parole e delle promesse, era il riguardo che aveva mostrato verso di lei a convincerla che i sentimenti di Archibald erano gli stessi suoi.
Erano una coppia strana? Sì. Non lo erano forse anche i suoi genitori? Le chiacchiere di corte si sarebbero spente, prima o poi?
- Serena? - la richiamò Thorn, che la fissava con un sopracciglio sollevato.
- Scusate. Stavate dicendo?
- Sei distratta. Non è da te.
- Sono stata molto in pensiero in questi giorni - ammise. Ma non ammise che non tutta quella preoccupazione era dovuta alla caccia.
Thorn strinse le labbra sottili. Serena si chiese se con l'età anche i suoi capelli sarebbero diventati candidi come quelli di Thorn, più argentei che biondi.
Lui sembrò a disagio. Probabilmente voleva rassicurarla, ma non sapeva come fare.
Serena gli avrebbe accarezzato la mano, se fosse stata più avvezza ai contatti fisici, ma aveva preso da lui la riservatezza sotto quell’aspetto. Solo qualche raro abbraccio con la madre, o qualche gesto di cameratismo con Balder. Quella sera si era lasciata davvero toccare per la prima volta.
- Per fortuna ora siete tornati. Sono sollevata.
Thorn parve ringraziarla per aver alleggerito la tensione, ma continuò a scrutarla come se non fosse del tutto convinto.
- Era un rischio calcolato. Ma mi rendo conto che la distanza possa essere stata... pesante. Forse tua madre ha avuto ragione nell'insistere a venire. Ma non dirglielo.
Serena sorrise un po'. - Sì, credo che avere la mamma qui ad aspettarvi sarebbe stato un disastro. Più per i mobili che per noi. Temo si sarebbero dati alla fuga.
Thorn trattenne appena una smorfia all'idea del disordinato animismo della moglie.
- Sono stati giorni utili però, per me. Lavorare senza di voi è stato istruttivo, anche se ho tante domande. E cose da farvi correggere.
Thorn distolse lo sguardo da lei quando gli passò alcuni rapporti che aveva precedentemente posato all'angolo della sua scrivania. Entrambi tirarono fuori le loro penne e si misero al lavoro, parlando un linguaggio a loro più congeniale di quello astratto che riguardava paure e amori.
Fecero una pausa solo quando Ofelia sbucò dallo specchio, a notte fonda, per augurare loro la buonanotte. Vedendo quanto erano immersi nelle carte, non si azzardò a consigliare a Thorn di andare a dormire. Ormai lo conosceva.
- Non strapazzare troppo tua figlia - lo ammonì però, ottenendo un grugnito come risposta. Ofelia gli toccò la spalla e accarezzò il viso di Serena prima di dileguarsi, con la sciarpa che dalla stanchezza strisciava per terra, come svenuta.
- Papà - lo chiamò d'impeto Serena, maledicendosi subito dopo. Le parole le erano uscite di slancio.
Il corpo di Thorn si tese, come se stesse aspettando quel momento.
Ormai era tardi per inventare una scusa, suo padre non era stupido. Avrebbe capito. Stava aspettando.
- Se... quando mi sposerò. Se accadrà, insomma... sarete felice?
Thorn si appoggiò allo schienale della sedia, appoggiando i gomiti ossuti sul tavolo e intrecciando le mani. Poi ci ripensò e prese la pipa da un cassetto, insieme a due dadi che si fece rotolare sui palmi, meditabondo. Soffiò una nuvola di fumo che gli coprì il viso, prima di parlare. La sua voce profonda la fece sussultare nel silenzio della notte, e Serena ebbe un brivido di freddo.
- Presumo di sì. È una domanda molto vaga, Serena. Balder mi ha confessato di amare Ilda, anche tu hai qualcuno che ti interessa? Non è troppo presto?
Serena incurvò le spalle e rabbrividì di nuovo.
Thorn si tolse la giacca e gliela passò, rimanendo in camicia. Suo padre sembrava non accusare mai il freddo. Serena lo ringraziò con un cenno del capo e la indossò, prima di rispondere: - Ho vent'anni, papà. Alcuni direbbero che è già tardi.
Thorn prese un'altra boccata. - Già. Lo conosco? È quel concorrente che è arrivato secondo alla selezione? Mi sembrava... che avessi attirato la sua attenzione.
Serena inorridì. Il concorrente di cui parlava Thorn era un suo coetaneo, ed era tutt'altro che gentile. Falso e untuoso, ecco cos'era. Quando Serena aveva vinto, le aveva rivolto degli epiteti così poco lusinghieri che si sentiva arrossire al solo ricordo. Era certa che Thorn lo avrebbe appeso al muro, se avesse saputo.
- No, era solo una domanda come un'altra. Volevo sapere se... avresti acconsentito a... insomma, se ti andasse bene chiunque, come genero.
Thorn la osservò come un rapace. E lei era la sua preda. - Suppongo che avrei delle rimostranze da fare se avesse la fedina penale sporca, se fosse un debosciato scroccone e senza morale e senza princìpi. Per il resto, devi sposartelo tu, mica io. Tollero persino la presenza di Archibald in questa casa, non credo che possa andare peggio di così.
Serena deglutì. Non era proprio contenta della risposta, ma nemmeno disperata. Archibald già lo tollerava, no? Era già qualcosa...
Ma Thorn non era stupido. I suoi silenzi indagatori carpivano più di quanto Serena avrebbe voluto.
- Sai che l'omissione è penalmente punibile, in un processo.
Serena si irrigidì, fece finta di rimettersi al lavoro per cambiare discorso. - Ma questo non è un processo...
- Non ho detto che mi stavo riferendo a questa conversazione... - replicò lui, assottigliando gli occhi.
Serena si morse la cucitura di un guanto, maledicendosi. A volte la troppa trasparenza era un difetto. Aveva praticamente ammesso che stava omettendo qualcosa.
-  Sono solo discorsi ipotetici, papà. Davvero, non ho...
Thorn le puntò la pipa contro. - Hai tempo fino a fine mese per dirmi chi ti ha fatto la proposta di matrimonio. Se non accadrà entro quel termine, dedurrò che ci sia sotto qualcosa di irregolare, e potrei non dare la mia benedizione per l'unione.
Lo stomaco di Serena si attorcigliò su se stesso. - Ma... ma papà, non è come credete. Non ho...
Con la punta della pipa ancora inflessibilmente puntata contro di lei, Thorn la interruppe: - Potrò anche non essere un chiacchierone come tua madre, né essere presente come lei, ma conosco i miei figli. Conosco te. E tua madre mi ha insegnato bene come ci si sente quando la fiducia che si ha in qualcuno viene tradita. Sono tuo padre, sei ancora sotto la mia protezione, sei ancora mia figlia, esigo che mi dici chi hai intenzione di sposare.
Smascherata, Serena sentiva il bisogno di piangere. Thorn sembrava un padre distante, ma non lo era per nulla. In quel momento, avrebbe desiderato che lo fosse. Non le avrebbe messo così tanta pressione. Non si sarebbe preoccupato così tanto.
Perché la sua non era rigidità: era paura per la propria figlia. Paura che soffrisse o prendesse le decisioni sbagliate.
In cuor suo, Serena sapeva che non poteva finire bene.
Chinò la testa. - Entro fine mese - acconsentì, svuotata di ogni energia.
Thorn si rimise la pipa in bocca. - Vogliamo solo il meglio per te, Serena. Spero che tu te ne renda conto. Ora vai a dormire, domani dobbiamo alzarci presto. Abbiamo molto lavoro arretrato.
Sorpresa, Serena tornò a guardarlo. - Non volete che continui ad aiutarvi?
Thorn grugnì. - Hai fatto abbastanza in questi tre giorni. E hai fatto bene. Non serve che passiamo la notte insonne entrambi.
Serena si asciugò in fretta una lacrima. I modi di suo padre erano quasi taglienti, ma lei percepiva l'amore che si celava dietro essi. Il suo istinto di protezione. Lo amava per quello. Era più presente di molti padri che erano più presenti di lui ma al contempo più assenti.
Scosse la testa per scacciare quei pensieri ingarbugliati. Era stanca. La girandola di emozioni che aveva vissuto nelle ultime tre ore inoltre non l'aiutava a pensare lucidamente. Thorn aveva ragione, doveva riposare.
Contravvenendo alla sua poca familiarità con il contatto fisico, si alzò e si avvicinò a Thorn, che rimase immobile ma la seguì con lo sguardo. Serena lo abbracciò stretto, chiudendo gli occhi e appoggiando il mento sulla sua testa.
- Grazie papà. Vi voglio bene.
Thorn le strinse un braccio teneramente, diventò meno rigido dopo pochi secondi.
-  Io anche un po' di più.
Serena sorrise e passò per lo specchio per tornare in camera. Forse era un bene che suo papà le avesse dato una scadenza.
Non sarebbe potuta fuggire, avrebbe per forza dovuto dargli la notizia entro fine mese.
 
I giorni che seguirono quella strana conversazione furono frenetici. Serena trascorreva tutta la giornata al lavoro con Thorn. Quando rincasava era stanca, spesso aveva mal di testa, ma era soddisfatta. Il lavoro all'intendenza era esattamente come lo aveva immaginato, era quello che aveva studiato per tutta la vita, si trovava a suo agio. Il segretario di Thorn era gentile con lei, mentre si irrigidiva ogni volta che Thorn gli rivolgeva la parola. Serena avrebbe voluto dirgli che non ce l'aveva con lui, che era il suo modo di fare e in realtà era una bella e brava persona, ma le sembrava scorretto dover giustificare il padre, come un tradimento.
Dopo cena andava a letto subito se non c'era qualche rapporto arretrato da redigere. I primi giorni era stata alzata fino a notte fonda con Thorn per portarsi in pari dopo i tre giorni di assenza, ma dopo una settimana e mezzo avevano addirittura cominciato a rincasare prima la sera, tanto si erano avvantaggiati. Thorn le aveva lanciato un'occhiata che lei aveva fatto fatica a decifrare prima di dirle: - Sei un ottimo aiuto, non avrei mai pensato di poter contare così su qualcuno.
Grata. Ecco qual era stata l'occhiata di Thorn. Grata, e fiera.
Serena era felice di poter essere di sostegno al padre. Fin da bambina lo aveva visto stanco dopo le giornate di lavoro. Spesso erano stati con lui solo a cena, nell'arco di tutta la giornata, e solo perché Ofelia lo obbligava a mangiare. Era più facile che rincasasse, salutasse con un borbottio, e rimanesse chiuso nel suo studio fino al mattino dopo. In certi periodi, quelli più pieni di scadenze, aveva delle occhiaie così profonde e scure da fargli sembrare gli occhi ancora più affilati. Collaborare con Serena gli tolse dalle spalle un peso che forse non si era nemmeno reso conto di dover portare.
Ogni tanto si accorgeva delle lunghe occhiate penetranti che il padre le lanciava. Probabilmente tentava di capire chi fosse l'uomo di cui si era invaghita. Lei diventava sempre nervosa e intavolava una conversazione che lo distraesse, ma Thorn non era sciocco. Non sapeva cosa sarebbe successo di lì a dodici giorni, quando avrebbe vuotato il sacco circa la proposta di matrimonio di Archibald. Ancora le faceva uno strano effetto pensarlo (lei e Archibald sposati!), ma sapeva che avrebbe fatto un effetto ancora più strano ai suoi genitori. Soprattutto a Thorn. Sapeva che i rapporti tra lui e Archibald non erano proprio idilliaci, ma Serena si augurava che suo padre sotterrasse l'ascia di guerra e provasse a vedere oltre; provasse a vedere ciò che lei stessa aveva visto.
Sapeva che la sua amata e affidabile matematica non era molto positiva al riguardo, ma per la prima volta nella vita Serena si mise a fantasticare. Si immaginò suo padre che sorrideva e stringeva la mano ad Archibald, che la abbracciava e si congratulava. Le veniva da ridere al pensiero, era un'immagine assolutamente irrealizzabile. Però si crogiolava anche in scenari più alla sua portata. Si figurava Thorn, impassibile, che chiedeva loro se ne fossero davvero sicuri, e al termine del discorso accorato di Archibald dava la sua benedizione. Molto formale, un po' distaccato, sicuramente più realistico. Ma sarebbe davvero potuta andare così?
Lei era impaurita e trepidante insieme. Ogni tanto quando lei e Archibald si incrociavano nel corridoio, lui le sfiorava la mano. Quando invece erano certi di essere da soli si scambiavano dei brevi e fugaci baci che la lasciavano sempre sorridente come una di quelle sciocche ragazze che vedeva a corte, e che aveva sempre disprezzato. Serena sapeva che una volta annunciato il fidanzamento avrebbero avuto pochi momenti insieme. Vivendo praticamente sotto lo stesso tetto, lei sarebbe stata seguita da uno chaperon ovunque, per evitare che rimanessero soli e facessero qualcosa di disonorevole.
Ai suoi occhi, l'impossibilità di stare vicini come avevano sempre fatto avrebbe reso ancora più bello il loro matrimonio, il momento in cui sarebbero finalmente stati legati per sempre.
Archibald non beveva più ed era decisamente più bravo di lei a dissimulare. Cercava raramente il suo sguardo attraverso la stanza, ma quando lo faceva le lanciava dei sorrisi dolci e sinceri. Ogni tanto però Serena coglieva il tormento nei suoi occhi: il pensiero di non essere alla sua altezza, di non meritarla, traspariva da lì. Però lei era grande, era in grado di decidere da sé chi si meritasse di stare con lei e chi no. Aveva quel diritto, e se non lo avesse avuto, se lo sarebbe preso. Come sua madre.
Il dubbio costante di Serena, però, riguardava Ofelia. Avrebbe voluto confidarsi con lei, ma temeva di mettere sia sua mamma che lei stessa in una brutta posizione. Ofelia avrebbe pensato di doverlo dire a Thorn, se fosse rimasta turbata dalla notizia. Se invece Ofelia avesse mantenuto il riserbo e Thorn non fosse stato d'accordo e avesse scoperto che Ofelia aveva conservato il segreto, avrebbe inasprito il rapporto tra i genitori. Non voleva che litigassero a causa sua. Almeno su quel punto Serena decise di essere egoista e non dire nulla alla madre, per non metterla in difficoltà. Ma avrebbe tanto, tanto voluto...
Sotto quell'aspetto l'aiutò Balder. Lui rimase ad ascoltarla in silenzio quando gli rivelò che a fine mese avrebbe annunciato a Thorn il matrimonio con Archibald. Con grande dispiacere, Serena notò che la sua gioia non contagiava appieno il fratello, un po' per la sua situazione con Ilda, un po' perché anche lui non era molto convinto di quella storia. Però Balder l'abbracciò, alleviò un po' della sua ansia dicendole che l'importante era che fosse felice. E sicura, soprattutto, che Archibald si sarebbe comportato bene. Serena si rifugiò in quell'abbraccio come se fosse l'ultimo della sua vita, grata di averlo come fratello. Poi gli chiese di usare i ponti su di lei, per aiutare anche i suoi nervi, non solo la sua mente, a calmarsi.
A distrarla quando ormai mancavano solo cinque giorni all'annuncio, ci pensò l'arrivo delle pelli conciate delle Bestie abbattute. A Balder e Tyr andarono dei cappotti di pelliccia incredibilmente simili a quelli del padre. Tyr ne fu così entusiasta che si allacciò solo il primo bottone e corse per casa esibendolo come un mantello. Lo animò addirittura perché si increspasse quando era fermo, come se fosse mosso da un vento invisibile. Ilda e Serena risero di fronte al suo gioco alquanto infantile, invece Balder alzò gli occhi al cielo, chiedendosi come potesse il fratello essere tanto scemo. A giudicare dalla sua fronte increspata, Thorn era dello stesso avviso.
Berenilde ricevette una nuova pelliccia in sostituzione di quella vecchia, ormai demodé, mentre le gemelle rimasero deluse. A loro toccarono dei peluche cuciti a mano fatti di pelliccia. Non erano abbastanza grandi da avere diritto al cappotto, e a dire il vero Thorn aveva dato disposizione che solo un quarto di pelo di una sola Bestia venisse usato per loro, dal momento che il Polo era rimasto a corto anche di quello, non solo di carne. Aveva quindi disposto che ne venisse sprecato il minor quantitativo possibile, e quando ne era avanzato uno scampolo aveva deciso di confezionare per le gemelle dei peluche.
- Ma anche noi volevamo i cappotti nuovi e belli come quelli della prozia Berenilde! - esclamarono quando Thorn mise loro in mano i peluche.
Lui si accigliò, evidentemente contrariato. Serena vide Ofelia scuotere la testa, in disparte. Sapeva bene quanto Thorn tenesse a quel regalo che aveva personalmente commissionato al sarto, che era stato piuttosto scettico. Il fatto che le gemelle non fossero più bambine non gli aveva sfiorato la mente, ma Serena stessa pensava che un peluche fosse un dono apprezzabile anche in età adulta. Soprattutto se di fattura così pregevole e dal pelo morbido come quelli.
Dello stesso avviso, Ofelia si avvicinò alle figlie: - Guardate che il papà si è impegnato molto per farvi questo regalo. E sono ricoperti della stessa pelliccia del cappotto della prozia Berenilde.
Mortificate, le gemelle strinsero al petto i peluche e corsero ad abbracciare Thorn. - Scusateci papà! Non volevamo essere ingrate!
- Ci piace molto il vostro regalo!
Thorn distese impercettibilmente la fronte e posò impacciatamente le mani sulla schiena delle figlie. - Prego - mormorò con voce cavernosa, facendo sorridere Ofelia.
Suo padre, si disse Serena, era algido e inflessibile all'esterno, ma dentro era a suo modo dolce. Con Ofelia, con i figli... pertanto sarebbe stato gentile anche con lei, avrebbe approvato la sua decisione. No?
Cosa poteva andare storto?

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Capitolo 67
*** Capitolo 67 ***


E BOOM ecco il capitolo tanto atteso. Non mi aspettavo un riscontro così eclatante come nel capitolo scorso, mi ha fatto molto piacere. Vuol dire che in fondo la storia tra Archi e Serena piace.
Et voilà la reazione di Thorn. Tutta rose e fiori, ovviamente si offrirà lui di celebrare il matrimonio.
Ovviamente... no.
Buona lettura ;)


Capitolo 67

La sera in cui Serena confessò ai suoi genitori di essere innamorata di Archibald, si ritrovò con quest’ultimo di fronte alla porta dello studio del padre. Non capitava spesso che la porta fosse chiusa, ma dall'interno Serena sentiva filtrare la voce concitata di Ofelia. Colse spizzichi di frasi e parole come "avresti dovuto dirmelo", "sua madre" e "segreti", che le fecero intuire che forse Thorn aveva detto all'ultimo ad Ofelia che Serena doveva fare un annuncio importante. In effetti, da un certo punto di vista lo capiva. Se avesse rivelato a Ofelia che Serena aveva ricevuto una proposta di matrimonio, probabilmente Ofelia avrebbe usato ogni mezzo a sua disposizione per scoprire in anticipo di chi si trattasse. Avrebbe anche cercato di estorcere l'informazione a Serena stessa, con ogni probabilità. Lei si morse le cuciture del guanto, in ansia. Voleva bene a sua madre, molto, ma a volte il suo desiderio di sapere diventava un po'... esasperante. Mai, però, quanto lo era la nonna Sophie. In confronto, Ofelia era una santa.
Non la biasimava per la sua irritazione verso suo papà: nemmeno lei avrebbe voluto essere tenuta all'oscuro di qualcosa che riguardava i suoi figli e che suo marito sapeva.
A proposito di marito, Archibald le si avvicinò così silenziosamente che la fece sussultare quando le strinse dolcemente la mano.
Serena si voltò verso di lui e... rimase senza fiato.
Da che avesse memoria, cioè da tutta la vita, Serena era certa di non avere mai visto Archibald esteticamente ripulito e in ordine. Il suo cilindro sbrindellato, il completo ormai vecchio e pieno di buchi e macchie... spariti. Così come la perenne barbetta trascurata e mal rasata. Quello che aveva di fronte era uno sconosciuto, uno sconosciuto incredibilmente bello. Serena non aveva mai pensato che i vestiti potessero sminuire la bellezza di qualcuno, eppure si rese conto di quanto avessero smorzato quella di Archibald. Se possibile, era diventato ancora più affascinante con i capelli pettinati, un cilindro nuovo e una redingote che doveva essere costata una fortuna, le scarpe lucide che odoravano persino di nuovo e un fiore fresco all'occhiello.
Sembrava essere tornato un giovanotto, e Serena si sentì in soggezione. Non poteva competere con una simile bellezza, Archibald era l'uomo più affascinante che avesse mai visto. Ed era certa di non essere l'unica a pensarla così.
Nel suo semplice vestito si sentì quasi a disagio. Gli sfiorò il petto nello spostare le dita sul fiore, sorpresa di trovarlo vero. - Come può non essere un’illusione? - bisbigliò, temendo di rompere un qualche incantesimo.
Archibald le strinse dolcemente le dita, sorridendole gentilmente. - L'ho commissionato apposta. Raro vedere un fiore qui al Polo, vero?
Serena annuì, a corto di parole. Non voleva guardarlo in volto, aveva paura di quello che vi avrebbe letto.
Archibald le sollevò il mento. - Raro, ma non unico. E io un fiore unico l'ho già trovato.
Serena si allontanò di un passo, avvampando e facendolo ridere sommessamente. - Dov'è finita tutta la tua spavalderia, figlia di Thorn?
Tenendo fede al quel nome, Serena tornò impassibile come il padre. - Sto per dare una notizia alquanto imprevedibile ai miei genitori, non mi sento spavalda, solo spaventata. Tu non sei preoccupato di fare buona impressione?
Archibald si strinse nelle spalle, ma Serena vide che era particolarmente rigido nel completo nuovo. - È la prima volta in vita mia che capita, ma sì, vorrei fare una buona impressione. Conoscendoli, però, so che sarà impossibile.
Serena si rabbuiò. Lei di per sé non era molto positiva al riguardo, però sentire che anche Archibald era rassegnato le fece sprofondare il cuore sotto i piedi. - Sei categorico. Perché ti sei dato tanto da fare se già pensi che andrà male?
Archibald le baciò la fronte prima di posare una mano su una delle due maniglie. - Perché ne vale lo stesso la pena. Pronta?
Serena prese un profondo respiro per darsi coraggio, poi bussò.
Archibald le strinse la mano prima di entrare, e non la lasciò nemmeno quando Serena aprì la porta.
- Se dobbiamo annunciare un fidanzamento, facciamolo come si deve - le mormorò ammiccando prima che Thorn e Ofelia li vedessero.
I genitori, che stavano visibilmente bisticciando, si zittirono e li fissarono. Ofelia inarcò le sopracciglia, Thorn aggrottò la fronte.
Ofelia fu la prima a vedere le dita intrecciate dei due, Serena lo capì dai suoi occhi sgranati. Ofelia, ammutolita, strinse la manica di Thorn come una bambina che vuole attirare l'attenzione del genitore. Thorn rimase impassibile, ma se possibile la sua fronte divenne un intreccio di rughe che spinse Serena a credere che il cipiglio che aveva non se ne sarebbe mai andato, impresso a fuoco sulla sua pelle.
Thorn era troppo pragmatico e realista per negare l'evidenza, ma fissando trucemente le loro mani unite chiese: - Mi pareva che dovessi farci un annuncio. Cosa ci fa lui qui?
Archibald, per nulla intimorito dal tono di Thorn, si erse in tutta la sua statura e lo fronteggiò, ostentando una serietà inaspettata. - In maniera del tutto priva di esibizionismo, per una volta, sono a dirvi che faccio parte dell'annuncio, signor intendente e moglie.
Thorn parve chiudere gli occhi da quanto li assottigliò. Più che sgomento, come la madre, sembrava tremare di furia trattenuta. - Cosa significa?
Serena strinse forte la mano di Archibald per evitare che facesse qualche commento pungente, rovinando ogni loro chance di avere un colloquio civile. Sì, era insolito che Thorn chiedesse spiegazioni di un fatto evidente, ma la circostanza era talmente improba che gli si poteva concedere il beneficio del dubbio. O l'incredulità.
Serena raddrizzò le spalle prendendo coraggio, e Archibald le restituì la stretta alla mano; come incoraggiamento, non per trattenerla, come aveva fatto lei.
- Papà, mamma... so che la notizia potrebbe stupirvi e che è inaspettata, e che avrei dovuto mettervene a parte prima, ma paventavo la vostra reazione. So anche che siete persone ragionevoli, però, ed è facendo appello proprio alla vostra ragionevolezza che vi informo che io e Archibald abbiamo intenzione di contrarre matrimonio.
Lo scatto di Thorn fu talmente repentino che Serena non si avvide nemmeno della sedia che si era rovesciata, mentre Thorn torreggiava sulla scrivania con le mani ben piantate sul ripiano, come per sostenersi. Neanche Ofelia parve accorgersi della sedia, almeno finché la sciarpa, che ne era rimasta schiacciata, cominciò ad agitarsi sul suo viso per richiamare la sua attenzione.
- Vi pregherei di lasciare la mano di mia figlia, essendo considerato un contatto troppo... intimo per due persone adulte non legate da vincoli di parentela - ordinò Thorn con una voce che fece scendere di diversi gradi la temperatura della stanza. Più una minaccia che una richiesta.
Archibald obbedì controvoglia, sorprendendo Serena. Stava davvero cercando di fare buona impressione, e si era reso conto che sfidare Thorn non lo avrebbe aiutato nell'intento. Lui, che non si era mai piegato di fronte a nessuno, nemmeno di fronte all'educazione o alle convenzioni sociali, ora obbediva senza battere ciglio e si presentava ripulito e a modo.
Serena si rese conto di quanto Archibald l'amasse proprio in quel momento. Aveva temuto, in cuor suo, che quello di Archibald fosse un capriccio. La figlia dell'intendente, la figlia di Thorn... una sorta di vendetta, magari inconscia, per non essere riuscito a sedurre sua madre. All'inizio aveva addirittura pensato che fosse per cattiveria, che volesse far soffrire Thorn. L'invidia gioca brutti scherzi, e spesso corrompe anche le persone più benintenzionate. Ma conoscendolo, si era resa conto che in Archibald l'invidia produceva solo tristezza, non odio, e che, per quanto fosse schietto e noncurante delle regole, Archibald aveva una morale, e non era cattivo. Nemmeno un po'.
I suoi gesti e le sue parole però, in quel preciso istante, le colpirono il cuore con forza. Sentì gli occhi inumidirsi, era commossa. Se Archibald era arrivato a quel punto, mettendosi in discussione e cambiando persino se stesso e le sue abitudini, significava che il suo amore per lei non poteva essere inferiore al suo.
Archibald l'amava davvero, sinceramente, profondamente.
Avrebbe voluto riprendergli la mano e stringersela al petto per fargli sentire quanto furiosamente batteva il suo cuore.
- Lascio la mano di vostra figlia solo per chiederla, com'è lecito, a voi, intendente. Thorn. Chiedo umilmente la mano di Serena e la vostra benedizione per il matr...
- No.
Thorn non aveva avuto bisogno di esclamare o urlare quell'unica sillaba per imprimerci una forza quasi tagliente.
Ofelia sobbalzò, tornando al suo fianco dopo essere riuscita a calmare la sciarpa. Faceva rimbalzare gli occhi spalancati dal marito alla figlia, incerta.
- Ma papà...
- No - la interruppe nuovamente Thorn, stringendo i pugni sopra la scrivania.
Ofelia gli posò cautamente una mano sulla schiena, come se temesse di farsi male. Aggrottò la fronte percependo la corrente degli artigli che scorreva in Thorn a fior di pelle. Doveva essere davvero sconvolto per non riuscire a controllarli completamente. Serena si augurò che sua madre non ne rimanesse casualmente ferita. Si augurò anche che suo padre ascoltasse almeno lei, qualunque cosa avesse voluto dirgli.
Ma Thorn non parve fare nemmeno caso ad Ofelia. Continuava a fissare la piccola distanza tra i corpi di Serena e Archibald, come se volesse separarli con la sola forza dello sguardo.
- Serena, puoi spiegarci cosa sta succedendo?
Serena guardò Archibald, di poco più alto di lei, che era molto alta per una donna. Gli fu immensamente grata quando vide che fissava Ofelia negli occhi con una serietà sconosciuta sul viso. Abbassare lo sguardo sarebbe potuto sembrare indice di colpevolezza, e un ammiccamento sarebbe stato fuori luogo. Archibald era perfetto nel ruolo di pretendente, gli si addiceva nonostante fosse così distante dal suo abituale comportamento.
Serena cercò di imitare la sua ferma posizione, ragionando sul fatto che stava per esporre dei fatti, e i fatti sono numeri, i numeri sono affidabili, quindi non aveva nulla di cui preoccuparsi. - Io e Archibald vorremmo contrarre matrimonio, mamma. I matrimoni si contraggono per amore, ecco il motivo per cui siamo decisi a compiere questo passo. Siamo venuti a chiedervi la vostr...
- No - la interruppe Thorn, che sembrava incapace di dire altro. Come se dicendo solo "no" potesse negare e cancellare la realtà stessa della cosa. - I matrimoni non si contraggono per amore, nella maggior parte dei casi. E di sicuro non qui al Polo. Il cinquantadue percento di essi sono combinati per interessi politici o economici, il trentasette percento per rimediare ad una gravidanza indesiderata, quando l'uomo si degna di sposare la donna che ha disonorato. Nel due percento rientrano matrimoni celebrati in stato di ebbrezza e legalmente validi e vincolanti. Solo il nove percento sono matrimoni celebrati per amore.
Serena chiuse la bocca, incapace di ribattere. Guardò la madre con sguardo implorante, ma Ofelia si stava mordendo le cuciture del guanto fissando le mani di Thorn, ancora strette a pugno. Purtroppo, fu Thorn a riprendere il discorso.
- Ora, conoscendo il soggetto, non può essere un matrimonio per tornaconto personale, dal momento che il clan della Rete è uno dei più ricchi e influenti del Polo, anche se hanno reciso il legame con lui. Non sono certo di poter escludere del tutto l'ambizione, dal momento che mi succederai come intendente, Serena, ma a giudicare dai precedenti di Archibald appare chiara la ragione di questo colloquio.
Serena bisbigliò la sua risposta, ma nessuno la udì: - Facciamo parte di quel nove percento, papà… -, perché Thorn spazzò via tutto quello che si trovava sulla scrivania.
- Hai disonorato mia figlia, bastardo.
Nella stanza calò il gelo. Ofelia fissò Thorn con orrore, specchio dell'espressione di Serena, che aveva perso la consueta compostezza. Ofelia si affrettò a richiudere un cassetto che Thorn aveva appena aperto, ma lui quasi non ci fece caso.
- Vi concedo di insultarmi come più vi aggrada, se questo mi permetterà di sposare Serena. Ma vi assicuro che non ho attentato alla virtù di vostra figlia, signor intendente.
Serena tremava. - Papà, vi giuro che non mi ha toccata con un dito - esclamò, sperando che la voce rotta tradisse il suo shock ma non la sua bugia. Archibald l'aveva toccata con più di un dito, a voler essere letterali, ma non c'era stato alcunché di sconveniente, nessun abuso o immoralità. - Non c'è stato nulla di sconveniente – precisò infatti.
Archibald fece un passo avanti, frapponendosi fra Serena e Thorn come uno scudo. - Ho intenzioni serie con vostra figlia - annunciò con tutta la serietà del mondo, così in contrasto con la sua personalità. - Sono qui appositamente per chiedervi di concedermi...
Il primo colpo gli fece sanguinare il naso. Archibald barcollò all'indietro, finendo tra le braccia di Serena che soffocò a stento un urlo.
Thorn aveva uno sguardo così minaccioso da sembrare spiritato. Serena temette seriamente che suo padre potesse uccidere Archibald. Assicuratasi che lui stesse in piedi da solo, si scostò per fargli da scudo al suo posto. Suo padre non avrebbe osato ferire lei... o sì? In quel momento il suo sguardo furente le faceva così paura che avrebbe ritenuto possibile anche l'omicidio. Ofelia era indietreggiata e aveva infilato una mano nello specchio da sempre posizionato vicino alla scrivania di Thorn.
- Thorn... - chiamò lei, sconvolta quanto Serena. - Credo che dovresti...
Ma le sue parole furono interrotte da un secondo colpo d'artigli di Thorn che, con la precisione millimetrica che lo contraddistingueva, colpì il fianco scoperto di Archibald.
Archibald gemette appena e si coprì il fianco con la mano, mentre Serena si affrettava a sostenerlo. Ofelia non aspettò di vedere quanto fosse grave la ferita perché sparì del tutto dentro lo specchio. Archibald fece solo in tempo a scostarsi la giacca per scoprire che la camicia inamidata si stava rapidamente intridendo di sangue che Ofelia fu subito di ritorno, con Tyr al seguito.
Serena era troppo impegnata con Archibald per capire cosa Ofelia avesse detto al fratello, ma vide la determinazione sul volto di Tyr. Quando Thorn si avvicinò con fare minaccioso, con il chiaro intento di colpire ancora, Tyr gli si scagliò contro, placcandolo al suolo.
Il tonfo dei due corpi schiantati sul parquet fece sussultare Ofelia, la cui sciarpa si muoveva impazzita, in preda al terrore. Quella di Tyr invece aveva le estremità appallottolate, come se fosse pronta a fare a pugni.
- Papà vi prego, non costringetemi ad usare i ponti. Non...
Ma Thorn lo ignorò e se lo tolse di dosso come se non pesasse nulla, come se il figlio non fosse un fascio di muscoli e lui un uomo assurdamente magro e alto. Ofelia sapeva che non bisognava dubitare della forza di Thorn, ma nemmeno lei pensava che fosse in grado di sfoderare una tale potenza. Tyr rotolò di lato mentre Thorn, ignorando le sue proteste, si rialzava e incombeva su Archibald e la figlia, ora seduti a terra. Il colpo però non arrivò mai, e tutti, eccetto Thorn, si voltarono verso Tyr. La sua fronte aggrottata nello sforzo di contrastare gli artigli del padre era evidente.
- Baaaaaalder!! - urlò lui, mezzo grugnendo, pochi istanti dopo.
Artigli forti o no, non era ancora un maestro nell'uso dei ponti, mentre Thorn sapeva padroneggiare egregiamente gli artigli.
Come se lo avesse evocato, Balder comparve sulla soglia con il fiatone, aggrappandosi allo stipite. - Eccomi, non so mica attraversare gli specch... papà!
Senza che nemmeno Serena lo vedesse, Thorn si avvicinò e tirò un pugno dritto sull'occhio di Archibald, che si ritrovò lungo disteso per il colpo.
- Bloccagli gli artigli mentre io lo tengo fermo! - ordinò Tyr a Balder, alzandosi. - Tu sei più bravo con quella roba e io con i muscoli.
Balder si avvicinò Thorn con le mani alzate, come per calmare un animale selvatico, mentre Tyr lo placcò di nuovo, senza però farlo cadere. Sembrava uno strano abbraccio a cui nessuno dei due voleva partecipare.
Dalla porta entrò anche Ilda, che era con Tyr e Balder quando Ofelia era andata a chiamarli. Si precipitò da Archibald mentre Balder e Tyr cercavano di calmare il padre.
Ofelia gli si mise di fronte, con gli occhi lucidi. La voce però le uscì ferma, quasi stentorea nello strano silenzio interrotto solo da gemiti e grugniti che era andato a crearsi. - Thorn, smettila.
- Mamma, è pericoloso stare così vicina, allontanatevi... - mormorò Balder, impegnato a bloccare gli artigli del padre.
Sarebbe finita male per tutti e tre se Thorn fosse sfuggito al suo soggiogamento mentre erano così vicini. L'onda d'urto a danno dei loro nervi li avrebbe feriti, e Balder sapeva che il primo a soffrirne sarebbe stato proprio Thorn, se avesse fatto del male a chi amava. Non aveva mai visto il padre così furente e poco razionale. Voleva girarsi per dare un'occhiata a Serena, ma non si azzardò. Gli dispiacque immensamente per lei. Non riusciva a comprendere come avesse potuto innamorarsi di Archibald, ma voleva solo la sua felicità. E aveva visto come lui la rendeva felice. Sapeva che mettersi contro la famiglia l'avrebbe distrutta, si augurava solo che la reazione del padre fosse dovuta ad un’iniziale sorpresa. Era risaputo che tra i due non correva buon sangue, però per il bene di Serena sperava che potessero appianare le loro divergenze.
- Serena, allontanati da lui. E tu non farti mai più vedere, lurido pervertito senza morale.
- Papà! - urlò Serena, con le lacrime agli occhi. - Non mi ha fatto nulla per meritarsi questi insulti, e nemmeno a te.
- Balder, più... usa più di quella roba, papà mi sta pungendo - si lamentò Tyr, puntando i piedi per non lasciar scattare in avanti Thorn.
Balder si unì al suo placcaggio mentre Ofelia guardava il momento attraverso le lenti offuscate dall'ansia.
- Non puoi addormentarlo? - domandò Tyr con i muscoli tesi allo spasimo, parlando come se Thorn non fosse lì.
- Non azzardarti - ringhiò infatti, ma dal momento che continuava a guardare fisso Archibald, nessuno capì a chi si riferisse.
Archibald si alzò con l'occhio già mezzo chiuso per il pugno. - Cosa devo fare perché mi permettiate di sposare Serena? Ditemelo, e lo farò.
- Non c'è nulla che possiate fare, nemmeno l'evirazione. Siete indegno di mia figlia, non vi lascerò mai...
- Balder addormentalo, ORA - ringhiò Tyr, che non riusciva più a tenerlo fermo, soprattutto con la sciarpa che lo intralciava anzichè aiutarlo.
- Non volevo arrivare a tanto... - borbottò Balder, teso per lo sforzo.
- Papà, ci avete sempre messo in guardia dalla violenza!
- No - brontolò Thorn, contrastando i ponti con gli artigli.
- Tyr, dammi una mano... - gemette Balder, sorpreso dalla forza degli artigli del padre.
La rabbia doveva essere un ottimo carburante se riusciva a contrastare persino Tyr.
- Thorn, ti prego... - lo supplicò Ofelia, sempre di fronte a lui.
Thorn la guardò per un istante, e ciò che vide lo fece bloccare. Ofelia lo osservava con gli occhi lucidi e un'espressione spaventata che era stato lui, suo marito, a creare.
L'attimo dopo cadde addormentato addosso a Tyr, che rimase schiacciato.
- Dannazione, se pesa il papà... - borbottò, cercando di spostarsi.
Ofelia sospirò, senza nemmeno la forza di sgridare Tyr per il linguaggio. Si accovacciò accanto a Thorn, cercando di metterlo in una posizione più comoda.
- Sarà fuori combattimento per un po' - la informò Balder, aiutandola.
Poi si diresse verso Ilda e Serena, che aiutavano Archibald a reggersi in piedi.
- State bene? - domandò Balder. - Magari posso rallentare un po' la perdita di sangue influendo sui tessuti attorno... ecco, così...
Archibald fece una smorfia. - Mi fate il solletico.
Balder fece un sorriso tirato. - Credo sia meglio del dolore, no?
Archibald storse di nuovo la bocca, mettendo a disagio Balder. Non era abituato a vederlo così serio. - Nulla che non abbia già provato. Anzi, questo è niente, davvero.
Ofelia non alzò il viso quando disse, ancora vicina a Thorn: - Dovreste andare dalla governante a farvi ricucire.
Serena deglutì il cuore che le si era fermato in gola insieme alle lacrime. Aveva confidato almeno nella comprensione di sua mamma, ma se non riusciva neanche a guardarla in volto...
- Sì, mamma - rispose a fatica.
Archibald rimase fermo, però. - Resta qui, andrò da solo - le disse, spostando il braccio dalla sua spalla alla sua vita.
- Voglio venire con te...
- No - ripeté Archibald sottovoce, scuotendo la testa. - Resta con i tuoi genitori. Per il momento è meglio così.
- Vi aiuto io - si offrì Balder, prendendo il posto di Serena al fianco dell'uomo che aveva sempre considerato una specie di zio.
Serena fu grata al fratello per quel piccolo gesto di solidarietà. Fosse dipeso da Thorn, si rese conto, probabilmente Archibald sarebbe rimasto agonizzante sul pavimento. O magari avrebbe addirittura infierito. Le venne la nausea al pensiero di cos'era successo. Non aveva mai preventivato uno scenario simile tra quelli che si era figurata. Era peggiore di quello che aveva immaginato come peggiore. Non avrebbe mai pensato che suo padre, che aborriva visceralmente la violenza, ne avrebbe fatto uso sull'uomo che amava.
Prima che potesse allontanarsi da Archibald, però, sentì che lui cercava la sua mano. Pensò che volesse darle un'ultima stretta per rassicurarla, e mai come in quel momento avrebbe voluto essere senza guanti, anche al costo di sporcarsi di sangue. Ciò che incontrò il suo palmo però non furono le dita di Archibald, ma qualcosa di solido.
Archibald le lanciò un'occhiata intensa prima di voltarsi per andarsene, cercando di comunicarle qualcosa che Serena non capì. Si affrettò però a mettere il piccolo oggetto nella tasca insieme alla penna. Andò da Ofelia sentendo sulle spalle un peso invisibile ma ben presente.
- Come sta papà?
Ofelia non alzò lo sguardo, rimase china su Thorn. Quando parlò, a Serena sembrò che la sua voce giungesse da molto lontano.
- Sta dormendo. Sta bene – rispose. Poi deglutì, sforzandosi visibilmente di parlare. - Archibald?
Serena non capì cosa Ofelia volesse chiederle, l'insinuazione in quella domanda. Era un: "Archibald sta bene?", o un: " Archibald dov'è?". Oppure ancora: "Proprio Archibald, Serena? Proprio lui?".
Serena non si arrischiò a chiedere spiegazioni e decise di rispondere alle due domande che pensava sua madre potesse porle. Non voleva nemmeno pensare all'ultima.
- Archibald è in infermeria con Balder e Ilda. Non… non so come sta. Non era ridotto bene…
Ofelia annuì lentamente, senza quasi notare che la voce di Serena si era spezzata sulle ultime parole. Né che le lacrime avevano iniziato a sgorgare senza il permesso della proprietaria. Quanto tempo era passato da quando l'avevano vista piangere? Tanto, troppo, a giudicare dall'espressione costernata di Tyr. Lui le posò fraternamente una mano sulla spalla, facendole spuntare un minuscolo sorriso di ringraziamento, quasi invisibile. Tyr non era mai stato un suo confidente, ma mai come in quel momento Serena sentì bisogno di conforto. Lo avrebbe accettato da chiunque, persino da Randolf. Eppure, non poteva impedirsi di sperare che sua madre si riscuotesse e le mostrasse... qualcosa. Un po' di calore, di comprensione. Di affetto. Non era mai stata molto sentimentale, ma ne avvertì il l’esigenza.
Tyr alla fine tolse la mano, schiarendosi la voce a disagio. Finse di non notare le lacrime di Serena. - Penso che dovremmo portare papà in camera. Dormirà della grossa per un bel po', e Balder non può... sistemarlo, ora.
Ofelia si alzò barcollando, senza emettere una parola o tentare di aiutare Tyr. In effetti sarebbe stato inutile, data la sua goffaggine. Così Tyr si fece scrocchiare la schiena e tirò su Thorn sbuffando. Senza aspettare un secondo in più si affrettò verso la camera dei genitori, seguito da Ofelia e Serena. Attraversarono il corridoio come in trance. O come il seguito di un corteo funebre, ma nessuno stava così male da far pensare ad un funerale, e Serena non voleva nemmeno immaginare la scena. Tyr sbuffò pesantemente quando fece cadere sgraziatamente Thorn su letto, facendo rimbalzare il materasso. Si stirò di nuovo la schiena quasi senza fiato.
- Accidenti se pesa il papà... Lo avevo sottovalutato.
- Lo hai già detto - gli fece notare Ofelia, sistemandolo meglio sul letto in modo che non sembrasse un sacco di patate buttato lì.
- Già, ma speravo che fosse pesante solo quando mi era caduto sopra. Invece è pesante a prescindere.
Notando l'atmosfera di disagio che si stava creando, con Serena che cercava di avvicinare la madre e continuava ad asciugarsi le lacrime di nascosto e Ofelia che non se ne accorgeva, Tyr fece una smorfia.
- Bene, credo che andrò a vedere... credo che andrò da Balder, sì.
- Mandalo qui dopo, per favore. Tuo padre non può rimanersene svenuto a vita - gli disse Ofelia con una voce appena udibile.
Tyr annuì e pensò bene di svignarsela, lasciando madre e figlia da sole. Passando strinse il braccio di Serena, poi si chiuse la porta alle spalle.
Serena osservò la schiena di Ofelia, di sua madre, mentre contemplava il marito addormentato. Avrebbe tanto desiderato tornare piccola e appoggiarle la testa sul seno, invece era molto più alta di lei e i ruoli si erano invertiti.
Ofelia andò dalla sua parte di letto e si sedette sul bordo, togliendosi gli occhiali e massaggiandosi gli occhi. La sciarpa, stanca quanto la padrona, le scivolò dalle spalle.
- Vieni - la chiamò Ofelia, battendo sul materasso accanto a sé.
Serena le si avvicinò come un condannato condotto al patibolo.
Ofelia sospirò. - Serena...
Ma lo slancio della figlia la interruppe, e se la ritrovò praticamente raggomitolata addosso, singhiozzante, inginocchiata per terra con la testa sulle sue gambe.
Ofelia si rimise gli occhiali e le accarezzò i capelli, lasciandola piangere. Anche in quello era simile a Thorn, nella rapidità con cui compiva i gesti. Gli abbracci. Ofelia non ricordava l'ultima volta in cui Serena era andata da lei piangendo, in cerca di consolazione. Non ricordava nemmeno che fosse mai successo a dire il vero. Quello di solito era Balder, o le gemelle.
- Mamma... - singhiozzò Serena, abbandonandosi completamente, stringendole la gonna.
Ofelia si svegliò dal torpore e si tolse i guanti. Una delle tante cose che aveva scoperto grazie a Thorn era che c'erano cose che andavano dette con le mani. E i suoi preziosi guanti in quei frangenti erano ostativi.
Così passò le mani tra i capelli di Serena, accarezzandole la nuca. Poi le alzò il viso dolcemente, asciugandole le lacrime.
Ofelia le depositò un bacio in fronte, cercando di non pensare al fatto che sua figlia era alta quanto lei nonostante le fosse inginocchiata di fronte.
- Non c'è motivo di piangere. Nessuno è... gravemente ferito. Sono certa che Archibald si rimetterà.
Serena le fu grata per averlo nominato, per essersi interessata di lui, almeno a parole. Poi però Ofelia sospirò di nuovo.
- Perché non mi hai parlato di questa cosa prima, Serena? Lo sai quanto mi diano fastidio i sotterfugi. Da quanto va avanti questa storia? Tu e Archibald avete... fatto qualcosa di compromettente? Io non... non mi aspettavo una cosa del genere da te.
Ofelia sapeva che forse non era molto delicato girare il dito nella piaga in un momento del genere, ma non sapeva quanti altri momenti tranquilli avrebbe avuto con la figlia, e voleva vederci chiaro.
Serena scosse la testa. - Mi dispiace tanto mamma, non so esprimervi quanto. Avevo paura, avevo tanta paura della vostra reazione. E non ero sicura nemmeno dei sentimenti di Archibald nei miei confronti fino a un mese fa. Non volevo allarmarvi, o illudermi, parlandovi di un mio interesse nei suoi confronti. Speravo che passasse.
A Ofelia si strinse il cuore vedendo la figlia in quello stato. Continuò a tenerle una mano sul viso, intuendo quanto Serena ne avesse bisogno quando ci appoggiò la guancia sopra. Aspettò che fosse in grado di continuare a parlare invece di assillarla con le domande che premevano per uscire.
- Non mi ha compromessa in alcun modo. Solo... s-solo qualche bacio. Nulla più. Anche il papà vi ha baciata prima del matrimonio, no?
Ofelia sospirò. Il fatto che Archibald avesse baciato sua figlia le dava una strana sensazione, un misto di nausea e contrazione allo stomaco. In ogni caso, nulla di positivo. Archibald...
- Ma io e tuo padre eravamo fidanzati, Serena.
Non serviva ricordarle che Thorn quel bacio se l'era preso, più che averglielo dato. Sapeva che Serena se lo ricordava. 
- Dopo il bacio mi ha chiesto... abbiamo deciso di sposarci. Io lo amo mamma. Lo amo davvero. E so che anche lui mi ama. So anche che può sembrare una situazione... bizzarra, poco ortodossa e... anche ripugnante, vista da fuori, ma la differenza d'età non è un ostacolo in molti matrimoni.
Lo sguardo di Ofelia si indurì. - Quelli sono matrimoni combinati, Serena. È di per sé strano che io e tuo padre non abbiamo una gran differenza d'età. E se non sono combinati, sono matrimoni d'interesse. Tu conosci il passato di Archibald, lo sai com'è... ecco... conosci la sua fama.
Serena annuì. - Lo so. È stato proprio questo a trattenerlo finora, a non esplicitarmi prima i suoi sentimenti. Per lo stesso motivo io ho cercato di tenermene alla larga, mamma, ma i miei sentimenti non si sono... smorzati. Quello che proviamo è reale, non è un inganno o un tentativo di Archibald di... fare un dispetto.
Serena aveva una padronanza di linguaggio non inferiore a quella di Thorn. Non le capitava mai di balbettare mentre parlava, o di non trovare le parole, al contrario di lei. Il fatto che fosse così in difficoltà la diceva lunga sul suo stato d'animo.
Ofelia posò la sua fronte su quella della figlia. - Sei la mia prima figlia. Sei il mio orgoglio. Non sai quanto ti abbiamo cercata, quanta paura ho avuto di dire a Thorn che ti desideravo. Vederti sposata ad Archibald... ad un uomo che potrebbe essere tuo padre e che non ha mai avuto peli sulla lingua in quanto a proposte ardite... Lo sai che ha tentato di sedurre anche la zia Roseline?
Serena sobbalzò, facendo scostare Ofelia. Arrossì. - So quanto mi basta sapere su di lui. Non è un santo, ne sono ben consapevole, conosco la sua nomea di seduttore. Però, mamma, da quanto non lo vedete con una donna?
Ofelia increspò la fronte. - Sinceramente non tengo nota delle sue scappatelle, Serena.
Il commento riuscì a farla sorridere. - Ve lo posso dire io, che avevo un po' più interesse di voi nel tenerlo d'occhio. Da quando abbiamo iniziato a studiare insieme.
- È stato allora che... vi siete innamorati?
Serena annuì. - Ci siamo conosciuti meglio. Io ho capito chi era davvero. Ho capito cosa tentava a tutti i costi di nascondere e di annegare negli alcolici e nei... rapporti occasionali - mormorò, arrossendo sul finire della frase.
- La solitudine.
Serena annuì, per nulla colpita dall'intuizione di sua madre. Sapeva quanto fosse osservatrice. - Il senso di abbandono. La tristezza. I suoi occhi, mamma... sorridono, da quando abbiamo iniziato a passare del tempo insieme. Avevate mai notato che prima erano sempre distanti, tristi?
Ofelia annuì, poi si incurvò. - Avevo notato che Archibald era più... felice, da qualche tempo a questa parte. Penso di aver tentato di diventare cieca. Come quando non capivo di essere innamorata di Thorn. Ho cercato di non vedere. Non sono stata più coraggiosa di te. Tu... gli fai del bene. Archibald è tante cose, ma non è malvagio. Non sarebbe capace di sedurti solo per fare un torto a qualcuno. Soprattutto perché ci andresti di mezzo tu stessa e, amore o no, so per certo che lui vi vede come... - si interruppe. Avrebbe voluto dire "dei figli" o "dei nipoti", ma non poteva più fare un paragone del genere se Serena nutriva dei sentimenti romantici nei suoi confronti.
Serena la trasse d'impiccio. - Ho capito cosa volete dire. Ci vuole bene davvero.
Ofelia si raddrizzò, si scostò i capelli dal volto. - Davvero non ti ha toccata in alcun modo?
Serena avvampò e strinse le labbra. Lo sguardo di Ofelia si indurì. Serena sapeva che poteva parlare di tutto con sua mamma, che, anzi, era controproducente il contrario. Per questo sapeva che era meglio non sottovalutarla, non credere che fosse una madre che tollerava tutto. Non era il caso di sfidarla.
- Serena? - la richiamò, con una nota dura nella voce di solito delicata.
Non aveva senso esitare. Serena voleva cercare di portare dalla sua parte almeno Ofelia, dato che con Thorn sarebbe stato impossibile. - Sono stata io. La sera in cui siete tornati dalla caccia... sono andata a cercarlo. Mi aveva baciata quando voi siete partiti, da ubriaco. Volevo capire cosa significasse per lui, sono quindi andata in camera sua. Abbiamo parlato. C'è stato un bacio. Due, a dire il vero. Ci... siamo lasciati un po' prendere la mano... nu-nulla di compromettente, assolutamente - spiegò balbettando, a disagio. Ofelia l'apprezzò per la sincerità. - Lui si è tirato indietro per primo. Ha detto che non voleva disonorarmi e voleva fare le cose come si deve.
Ofelia si massaggiò il viso, stropicciandosi gli occhi senza toccare gli occhiali. - Questo a tuo padre non è il caso di dirlo.
Serena si irrigidì. - No, vi prego.
Ofelia si rimise i guanti, poi prese un fazzoletto dal comodino e lo passò a Serena, che si asciugò il viso e si soffiò il naso. Quando riportò l'attenzione sulla madre, vide che era assorta e guardava di fronte a sé, senza realmente vedere nulla.
- Ad un certo punto, ti risparmio i dettagli, la mia famiglia si è opposta al mio matrimonio con Thorn. Io, che aveva desiderato fino a quel momento di annullare tutto e tornarmene a casa, alle mie colline, ho fatto qualsiasi cosa fosse in mio potere per sposarlo ugualmente.
Serena rimase in silenzio, aspettando il seguito che sapeva ci sarebbe stato. Ofelia abbassò lo sguardo su di lei, aiutandola ad alzarsi perché si sedesse accanto a lei, esattamente come era successo con Archibald un mese prima. Le accarezzò le mani guantate con le sue, ma Serena percepì lo stesso il suo calore.
- Io... non avevo ancora capito di amarlo. Sono stata molto sciocca al riguardo. Però avevo visto qualcosa di più in Thorn. Qualcosa che sfuggiva ai miei genitori, persino a sua zia, ma Berenilde aveva capito che avevamo bisogno l'una dell'altro. Mi implorò di aiutarlo. Mi disse che aveva bisogno solo del mio cuore. Mi gettai in uno specchio per andare a cercarlo, aiutata da Renard e persino dal prozio, che lo aveva tanto in antipatia. Penso che anche tu abbia visto qualcosa di più in Archibald. Hai visto oltre.
Serena le appoggiò la testa sulla spalla, cercando di non ricominciare miseramente a piangere. Erano illogiche, tutte quelle lacrime. Doveva bere per reintegrare liquidi, data la quantità di acqua persa così scioccamente.
- Non posso dire di essere felice di tutto ciò. Non ne sono nemmeno molto convinta, a dire il vero. Ma mi fido di te, Serena. Io non ti ostacolerò. Però non posso fare nulla per convincere tuo padre, lo sai questo, vero?
Serena si sentì meglio e peggio al tempo stesso. - Se non potete convincerlo neanche voi...
Ofelia fece uno strano verso, come una risata trattenuta. - Io non sono mai riuscita a convincerlo di nulla - disse, chiaramente divertita. - Di solito ognuno rimane fermo nella sua posizione finché io non faccio un colpo di testa dei miei. O così direbbe lui.
Serena incurvò la schiena, stringendo più forte la mano di Ofelia.
- Non perdere le speranze - le mormorò la madre. - Proprio come Thorn, forse anche Archibald ha bisogno del tuo cuore.
Serena annuì. - So che è così, mamma.
 
Nel frattempo Balder e Ilda portarono Archibald, che rideva, dalla governante.
- Dobbiamo preoccuparci? - gli chiese Ilda bisbigliando da sopra la spalla del ferito.
Balder scosse la testa. - Risata isterica, indice di nervosismo. Data la situazione, direi che è giustificata.
Ilda aggrottò la fronte. - Quando sei diventato così sapientone?
Balder arrossì. - Suppongo che leggere libri di medicina sortisca quest'effetto.
Ilda grugnì, ma non aggiunse altro.
L'anziana governante buttò per aria i ferri da cucito quando vide il sangue che imbrattava Archibald.
- Santi numi, ma cosa vi è successo, signore? E per una volta che indossavate un completo decente!
La delicatezza non era mai stata nelle sue corde. Del resto, chi avrebbe potuto darle torto? Era vero che Archibald di solito portava solo vestiti impresentabili.
Lui le sorrise e le fece l'occhiolino. - Se fossi stato colpito dalla vostra lingua tagliente, illustre signora, sarei ridotto molto peggio di così.
La governante, per quanto anziana, arrossì mentre gli slacciava giacca e camicia per valutare il danno. Balder invece gli lanciò un'occhiata gelida per il suo solito comportamento provocante. Dal momento che sembrava essersi preso un qualche impegno con sua sorella, non avrebbe tollerato leggerezze da parte sua.
Archibald lo notò e fece l'occhiolino anche a lui, ma lo sguardo rimase serio, come per comunicargli che aveva capito. E non voleva fare sciocchezze.
- Signorina Ilda, andatemi a prendere una bistecca ghiacciata per cortesia. È l'unico rimedio per quell'occhio. Signorino Balder, voi invece portatemi delle bende pulite e dite al cuoco di far bollire l'acqua.
Ilda e Balder se ne andarono in silenzio. Quando tornarono, praticamente insieme, si bloccarono sulla porta. Non per via del taglio sanguinante di Archibald, che aveva la mascella serrata sotto il sorriso del tutto non divertito. Non per via del sangue sulle mani della governante, che cercava di ripulire e cauterizzare la ferita.
No, per le cicatrici. Archibald aveva tre brutti tagli che gli attraversavano l'addome altrimenti perfetto. Tre lunghi segni biancastri che lo sfregiavano. Balder arrischiò un'occhiata a Ilda. A quanto pare nessuna donna era immune al suo fascino, e se era riuscito ad irretire l'inflessibile Serena...
Ma Ilda non sembrava... attratta. Solo curiosa. E senza tatto. - Avete sedotto la donna di troppo? - domandò infatti, facendo un cenno con la testa verso la sua pancia.
Archibald sbuffò una risata. - Potete dirlo forte... ahi!
La governante alzò gli occhi al cielo. - Mi sembra che voi con l'alcol andiate d'accordo, non fate le bizze solo perché non lo avete in corpo ma su una ferita aperta.
Ilda non si diede per vinta mentre gli passava la bistecca, che Archibald si posò sull'occhio con un grugnito. - Marito arrabbiato?
-Ilda... - l'ammonì Balder, che non sapeva quanto fosse il caso di spingersi in là. Era già abbastanza sofferente, non gli serviva il terzo grado.
Ma Archibald sorrise, un sorriso strano. - Nipote. Queste, caro Balder, sono le vecchie ferite procuratemi da vostro padre. Ne ho meritata un'altra, a quanto sembra.
Ilda gli passò un fazzolettino bagnato perché si pulisse il naso. - Mi meraviglio che non sia rotto - mormorò, mentre Archibald annuiva, d'accordo con lei.
- O mozzato. L'intendente sa picchiare bene, bisogna riconoscerglielo.
Fu il turno di Balder di non demordere. - Chi? - domandò, accennando alle vecchie cicatrici.
Archibald fece una smorfia. - Vostra zia. Anzi, prozia. Berenilde, insomma. Mi sorprende di aver ricevuto tre artigliate per lei e solo una per la figlia...
Ilda inarcò un sopracciglio. - Avete il naso che si gonfierà come una patata e un occhio nero, e dite "solo"?
- Quelli sono nulla in confronto ad un'artigliata. Il vostro clan è sempre stato un po' brutale, sapete?
Balder aprì la bocca per rispondergli male, poi si ricordò di cosa lui stesso avesse fatto al figlio di Vladislava, l'Invisibile, e chiuse la bocca. Archibald gli rivolse un ghigno di trionfo prima di sibilare per il dolore. La governante aveva iniziato a ricucirlo.
- Dov'è l'acqua bollente che avevo chiesto?
Ilda si dileguò, lieta di scappare da lì, mentre Archibald impallidì.
- Cosa volete farci con l'acqua bollente?
- Nulla di preoccupante, state tranquillo e non lagnatevi come un bambino. Altrimenti chiederò al signorino Balder di pensare a voi.
Archibald ci rifletté un attimo. - Non sarebbe una cattiva idea in effetti - bofonchiò. - Magari solo un pochino?
Balder sospirò. Quando Ilda tornò, Archibald aveva ripreso colore e aveva la testa che ciondolava come se fosse stato colto da una grande sonnolenza. O come se fosse ubriaco.
Prima di andarsene, Balder gli si avvicinò di nuovo, approfittando del momento di distrazione della governante. - Non azzardatevi a far soffrire mia sorella. Potete sposarvi e fare quello che vi pare, per quanto mi riguarda, ma se la vedrò soffrire anche solo un minuto per colpa vostra, rimpiangerete questo momento perché ciò che vi farò sarà dieci volte peggio. E nessuno può fermare i miei artigli o i miei ponti, nemmeno Tyr.
Archibald deglutì e ritrovò un po' di lucidità per annuire. Quando guardò Balder negli occhi, aveva uno sguardo serio e penetrante. - Non accadrà, questo ve lo posso giurare. Farò tutto ciò che posso per rendere Serena la donna più felice su quest'arca. E sulle altre.
Balder annuì e si voltò per andarsene. Poi ci ripensò e gli diede una pacca sulla spalla un po' impacciata, facendo sorridere per il divertimento Archibald. - Mi fate quasi più paura di vostro padre, sapete?
Le guance di Balder si tinsero di rosso. - Non so se posso considerarlo un complimento. Mio papà a volte sa essere inquietante.
- Solo a volte? - lo canzonò Archibald.
- Vedo che la vostra lingua sta più che bene - borbottò la governante, che cercava di tenerlo fermo. - Ora però state buono o ve la taglierò io.
Balder e Ilda si affrettarono ad uscire prima che l'anziana se la prendesse anche con loro, chiudendosi la porta alle spalle. Sospirarono insieme appoggiandosi al muro, e guardandosi scoppiarono a ridere, più che altro per la tensione accumulata.
A Balder era mancato ridere così con lei, come ai vecchi tempi.
Ilda gli sorrise. - Certo che siete più che protettivi nella tua famiglia, eh.
Balder si grattò la testa, scompigliandosi i ricci. - Fastidioso, vero?
Ilda alzò le spalle. - Penso sia una cosa carina, finché non succede come questa sera o... come quella sera.
- Già... - mugugnò Balder, continuando però a fissarla.
Senza rendersene conto si avvicinarono, fino a trovarsi a pochissima distanza. A Ilda sarebbe bastato prendere un respiro profondo per toccare il corpo di Balder con il suo. Si schiarì la voce.
- Credi che... tuo padre abbia reagito così perché il pretendente era Archibald, o avrebbe reagito così a prescindere?
Balder aggrottò la fronte, facendo rattrappire la cicatrice. – Credo, solo perché era Archibald. Come mai questa domanda?
Ilda scosse la testa. - Non lo so, forse non vuole che i suoi figli si sposino. Magari è fin troppo possessivo, o reputa che nessuno sia alla loro altezza, come mio papà.
Ci pensò Balder a fare l'ultimo passo, schiacciandosi leggermente contro di lei. Ilda non si scostò.
- Come mai questa domanda? - chiese ancora Balder, con una voce bassa e lenta che la fece rabbrividire.
Niente, per quanto entrambi cercassero di starsi lontani, per quanto si ripetessero che non c'era nulla da fare ed erano solo amici, alla fine finivano sempre, irrimediabilmente calamitati l'uno dall'altra. Forse in parte era colpa anche dell’adrenalina che scorreva loro in corpo, che faceva emergere i loro veri desideri.
Ilda si alzò sulle punte, ad un soffio dalle labbra di Balder. Lui trattenne il respiro.
- Mi chiedevo cosa farà quando sarai tu a portargli qualcuna per fargli sapere che intendi sposarti.
Lui fece un sorriso sghembo che le fece accelerare il battito cardiaco, gli occhiali gli scivolarono sulla punta del naso. Negli occhi, la muta domanda che le aveva già posto due volte.
Invece gliene fece altre due. Malizioso. - Gelosa? O hai solo paura che possa non piacerti la donna con cui passerò il resto della mia vita? Dato che sei mia amica da una vita, saremmo tutti più felici se andaste d'accordo, no?
Lo stomaco di Ilda si strinse su se stesso, facendole male. Il sorrisetto di Balder, da tentatore che era, divenne sofferente e sarcastico insieme. - Come se fossimo tutti fratelli e sorelle...
- Non dirlo - sussurrò lei.
Avrebbe voluto sibilarlo, dirlo con cattiveria, invece le uscì un rantolo strozzato.
Balder inclinò la testa. - Pensavo fosse quello che volevi...
Ilda lo maledisse per l'autocontrollo che aveva. Era sempre stato quello più razionale tra loro, lei era quella impulsiva. Quella a cui bolliva il sangue. Lui era il ghiaccio che leniva il suo fuoco, aiutandola ad essere migliore. A rallentare.
Ma non la stava molto aiutando, in quel momento...
Si alzò ancora di più sulle punte, pronta a baciarlo a dispetto di tutto, quando sentirono i passi di qualcuno.
Accaldati, si staccarono ponendo tra loro più distanza del necessario. Il calore sulle loro guance era più traditore di qualunque cosa avrebbero potuto fare. E che alla fine non avevano fatto, ma sembravano ancora più colpevoli proprio per quello.
Tyr si fermò quando li vide, fraintendendo la loro agitazione. Balder si chiese come potesse essere così tonto, a volte.
- Ehi, Archibald è ridotto così male?
Ilda scosse la testa, incapace di parlare. Balder invece prese un respiro profondo.
- No, nulla di grave. Abbiamo scoperto che papà l'ha già... conciato per le feste, in passato.
- Oh - esclamò Tyr, neanche troppo sconvolto. Come se fosse normale scoprire che Thorn aveva già usato violenza su un uomo... - Be', la mamma ti cerca. Per papà.
- Sta male?
- No, no no. Solo che, sai com'è... non vuole che dorma tre giorni.
Balder sospirò. - Giusto. Ci siamo andati giù pesanti.
Eppure esitò. Senza guardare Ilda, sentì comunque il suo corpo tendersi verso di lei. Sentiva ancora la morbidezza delle sue curve premute contro di lui.
Tyr fece passare lo sguardo da uno all'altra, poi assottigliò gli occhi. - Tuuuuutto bene qui?
I due si scostarono, annuendo un po' troppo in fretta. Balder fece un cenno con la mano e se ne andò di corsa.
- Guarda che così inciampi! - gli urlò dietro Tyr ridacchiando. Smise subito quando vide che Ilda non lo imitava. - Certo, tutto bene. Sembra che tu stia per piangere. Senti, mi basta già mia sorella, non so cosa fare con le donne che piangono. Anche se tu sei più un uomo che una do...
Il pugno di Ilda sulla spalla lo fece gemere e ridere insieme. - Ecco, ora ti riconosco.
Ilda sbuffò, poi però sorrise riconoscente. Tyr poteva anche essere uno sciocco, ma sapeva di poter sempre contare su di lui.
- Non vedo l'ora di raccontare tutto alle gemelle. Con una notizia così ci andranno a nozze - esclamò Tyr, che per qualche motivo faceva sempre di tutto per essere considerato dalle gemelle il loro fratello preferito.
Di solito loro ignoravano i suoi tentativi, ma lui non demordeva.
Ilda scosse la testa. - Forse è il caso di non parlare più di nozze per un po', che dici?
Tyr fece una smorfia. - Qua mi pare che le cose in senso amoroso non vadano granché bene a nessuno, no?
Ilda alzò gli occhi al cielo. - Non è che abbiamo vent'anni, Tyr, siamo ancora piccoli. E di Gabriella cosa mi dici?
Gabriella, la biondina figlia di Pazientina che Tyr aveva adocchiato alle serate di corte. Con suo immenso stupore, lo vide arrossire leggermente.
Ilda sgranò gli occhi. - Caspita, ti piace sul serio allora!
Tyr ai balli ci provava un po' con tutte. Sapeva di piacere, con quel sorriso impertinente e il fisico muscoloso. Faceva sempre una bella figura, Ilda non poteva negarlo. Non aveva il fascino misterioso e la bellezza aggraziata di Balder, era più... rustico, quasi selvatico, però era bello. Non pensava, che tra tutte le ragazze con cui flirtava, ce ne fosse una che aveva davvero catturato il suo interesse.
- La trovo carina. Qualche problema? - chiese bruscamente, perdendo il buonumore.
Ilda ridacchiò. - Se ti offendi così la cosa deve essere seria per forza.
Tyr scosse la testa. – A dire il vero non le ho mai parlato, solo qualche occhiata ammiccante, sai… Ma se vuoi parlare di Gabriella, allora parliamo anche di mio fratello. Che ne dici?
Ilda ammutolì, si incupì.
Tyr non era affatto divertito quando parlò di nuovo. - Ecco, vedo che ora si ragiona. Non mi piacciono due pesi e due misure.
- Dove hai imparato questi modi di dire così sofisticati?
- Non cambiare discorso - la rimbrottò Tyr. - Dite spesso che sono cocciuto, testardo e tutto il resto, ma a me pare che tu e mio fratello siate solo scemi.
Ilda chinò la testa, mostrandosi vulnerabile solo per un istante. - Ho già rovinato il mio rapporto con lui, non farmi rovinare anche quello con te.
Tyr decise di lasciar stare. Quelle chiacchiere non erano per lui.
Decise di alleggerire la tensione. - Di sicuro sarà divertente vedere la reazione di tuo padre, quando gli sottoporrai un pretendente. Ti prego fammi assistere, penso che sarà esilarante.
Ilda lo colpì di nuovo, ma risero entrambi. Tyr però era sicuro che gli sarebbe venuto un livido. Era parecchio forte, Ilda, lui lo sapeva dolorosamente bene.
- Meglio se andiamo a dormire, questa sera abbiamo già avuto la nostra dose di avvenimenti imprevisti - propose Ilda.
- Già - concordò Tyr. - Solo... vorrei parlare con Archibald, prima.
Ilda inarcò un sopracciglio. - Vuoi metterlo in guardia?
Tyr avvampò. - Be', sì. Si parla dell'onore di mia sorella, qui.
Ilda alzò gli occhi al cielo, di nuovo, e si allontanò. - Tutti uguali siete. Ci ha già pensato Balder.
- Ah... allora vado dalle gemelle!
Continuarono a bisticciare finché non si separarono, mentre Ilda accusava Tyr di essere un pettegolo e lui le diceva che era una gran rottura di scatole.
In quanto ad insulti, nemmeno Ilda si trattenne. Con le sue imprecazioni colorite era la gioia di Gaela.
 
Balder aprì la porta della camera dei genitori senza bussare, cogliendo le ultime frasi di un discorso che doveva essere stato parecchio lungo.
- Non perdere le speranze… Archibald… cuore.
- So che è così, mamma.
Balder si schiarì la voce per annunciare la sua presenza. Avrebbe voluto anche lui parlare con Serena, consolarla come poteva, però si rese conto che parlare con la mamma era la cosa migliore che Serena potesse fare. Perché Ofelia sapeva sempre dire loro la cosa giusta, perché era una donna, e... be', era meglio così. L'importante, alla fine, era che qualcuno la facesse stare meglio.
- Volevate vedermi, mamma? - chiese quando le due donne si girarono verso di lui.
Ofelia si alzò sospirando. Sembrava invecchiata di colpo, e solo in quel momento Balder si rese conto dei fili grigi che si mescolavano ai suoi folti capelli scuri e ricci, indomabili come i suoi. Come se avesse intuito i suoi pensieri, Ofelia iniziò a legarli in una treccia.
- Puoi fare qualcosa per svegliare Thorn? Non mi va di tenerlo incosciente solo perché non faccia altre sciocchezze.
- Certo.
Serena si affrettò ad alzarsi. - Io credo che... andrò in camera mia. Perdonate la mia codardia, ma non reputo sia il caso di trovarmi qui, almeno per questa sera, quando il papà si sveglierà.
Ofelia annuì: - Sì, ci parlerò io prima. Cerca di dormire.
Serena chinò la testa. Sapevano tutti che non avrebbe chiuso occhio, quella sera. Uscì senza nemmeno guardare Balder, troppo esausta per riuscire a sostenere un'altra conversazione o un altro sguardo.
Quando Serena si chiuse alle spalle la porta di camera sua, grata di non condividerla più con le gemelle, appoggiò la testa al muro, sconsolata. Era andata peggio di quanto avesse previsto, molto peggio. E perché? Perché aveva permesso ai sentimenti di intaccare la sua capacità di ragionamento, il suo raziocinio. Se non fosse stata così stupidamente cieca, avrebbe intuito prima quali sarebbero state le conseguenze di quell'annuncio.
Forse stava davvero sbagliando tutto. Si svuotò le tasche del vestito per andare a dormire. Quando tolse la penna, però, la sua fedele penna che si mise a rotolare su stessa, inquieta, sul comodino, qualcosa cadde a terra. Serena si era dimenticata, o meglio, non aveva più dato importanza a quello che Archibald le aveva messo in mano, nel marasma che era avvenuto.
Quando lo raccolse sentì gli occhi pizzicarle di nuovo (doveva bere, la disidratazione era alle porte).
Un anello.
Un anello semplice, d'oro con incastonata una pietra grigia. Serena era quasi certa che fosse un diamante.
- Avrei tanto voluto avere il colore di occhi di mio papà - aveva confessato una sera ad Archibald, durante una delle loro sessioni di studio che si era protratta oltre la mezzanotte.
Esattamente la sfumatura del diamante di quell'anello.
No, non stava sbagliando. Serena sorrise quando se ne rese conto. Non stava sbagliando nemmeno suo papà, preoccupandosi per lei. Era solo errato il modo in cui aveva affrontato la questione.
Serena si infilò l'anello al dito, all'anulare sinistro, dov'era giusto che stesse un anello di fidanzamento. Avrebbe tanto voluto che a metterglielo fosse stato Archibald, ma era già tanto che glielo avesse dato, visto com'erano andate le cose.
Quel regalo valeva più di molte parole. Archibald gliel'aveva dato dopo essere stato brutalmente colpito. Glielo aveva dato quando era evidente che Thorn avrebbe rifiutato di dargli lei in moglie.
Quell'anello però indicava che Archibald non demordeva. Era la promessa più importante che avrebbe mai potuto farle.
Così, contro ogni pronostico, quando Serena si mise a letto, si addormentò subito. 
Si cullò la mano guantata al petto, ora più pesante per via dell'anello, e del giuramento che conteneva.

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Capitolo 68
*** Capitolo 68 ***


Ta-ta-tataaaaaaaa. Ops, spoiler.
Ecco a voi il tanto atteso dialogo tra Thorn e Ofelia.
Sarà un capitolo abbastanza incentrato su Archibald e Serena, ma sarà l'ultimo xD Mi pare... Ci sarà un bel cambio di registro dopo, ma sempre con Thorn e Ofelia in mezzo.
Bene, spero che vi piaccia e buona lettura. Grazie come al solito a tutti voi che dopo 68 capitoli siete ancora qui<3


Capitolo 68

Dopo che Balder ebbe "sistemato" Thorn, si congedò dicendo che si sarebbe svegliato dopo circa dieci minuti.
Lo disse fissando il suo orologio da polso con una serietà tale da indurre Ofelia a credere che stesse calcolando anche i secondi.
- Dovrebbero essere dieci minuti precisi, sì - le confermò avviandosi verso la porta.
Ofelia batté le palpebre più volte, stupita. - Non credevo che avessi raggiunto un tale livello di... controllo, sui ponti.
Balder si strinse nelle spalle, modesto. - Devo essere il più accurato possibile se voglio che la gente venga da me per farsi sistemare. Mi piacerebbe aprire uno studio, come il vostro, ma la diffidenza sarebbe tanta e se non ci sarà corrispondenza tra ciò che dico e ciò che faccio, mi prenderanno per un ciarlatano.
Ofelia trovò la forza di sorridergli mentre gli augurava la buonanotte. Non le interessavano i risultati conseguiti dai suoi ragazzi, li avrebbe amati ugualmente, anche se Serena non fosse diventata cancelliera, se Tyr non avesse concluso con successo una caccia e se Balder non avesse scoperto un altro uso, benefico, degli artigli. No, quello che la riempiva di soddisfazione era vederli realizzati, vedere che avevano trovato una loro strada ed erano felici di percorrerla. Come lei con il suo studio di lettura. Con le mani era maldestra, molto maldestra, l'unica cosa per cui poteva metterle a disposizione erano le perizie che concludeva sempre con ottimi risultati. Le faceva piacere metterle a frutto.
Andò a cambiarsi per la notte e quando uscì dal bagno, allo scadere dei dieci minuti, vide Thorn che si agitava, prossimo al risveglio.
Socchiuse gli occhi, guardando prima lei e poi scandagliando la stanza. Ofelia capì che non era confuso quando lo vide stringere i pugni fino a farsi sbiancare le nocche.
La sua espressione si indurì: dovevano parlare seriamente.
- Dov'è lui? Dov'è quel... quel...
Ofelia gli si avvicinò e lo afferrò per le spalle, tentando, minuta com'era, di tenerlo seduto. Di tenerlo calmo.
- Thorn, stavi per prendere la pistola...
- Dov'è?! - sbraitò, facendo sobbalzare Ofelia.
Che gli tirò uno schiaffo.
Thorn ammutolì, rigido come uno spaventapasseri.
Ofelia non aveva mai più alzato le mani su di lui dopo il bacio che lui si era preso inaspettatamente. Si ritrovò disorientata dal suo stesso gesto, come quella volta di tanti anni prima. Sapeva che Thorn non le avrebbe mai fatto del male, ma preferì scostarsi lo stesso. Lui però la fermò, appoggiando una lunga mano ossuta sulla sua, ancora posata sulla sua spalla. Un gesto gentile, una domanda più che un ordine.
La richiesta di rimanere, di non allontanarsi.
- Thorn - riprese Ofelia, con una voce gelida. - Stavi per prendere la pistola. Che fosse per rabbia o meno, volevi davvero puntarla su Archibald? Su nostra figlia?
Quando Ofelia aveva chiuso il cassetto della scrivania che Thorn stava aprendo, era stato per quello. Per impedirgli di prendere la pistola. Il timore di Ofelia venne confermato quando Thorn strinse le labbra: era lucido quando lo aveva aperto. Un gesto premeditato. - Non l'avrei puntata su Serena.
- Archibald era di fianco a Serena, Thorn.
- Non avrebbe dovuto esserci.
Ofelia gli strinse la spalla. - Thorn, pensavo che ti facessi sempre guidare dalla ragione. Questa sera hai... tu....
Thorn assottigliò gli occhi in un'espressione torva. - Non è facile mantenere la calma quando attorno a te nessuno si fa guidare dalla ragione.
- Sei ricorso agli artigli.
- Era necessario. Ho già detto che li uso solo quando...
- Thorn, non era necessario. Hai attaccato Archibald! Se i tuoi figli non fossero intervenuti per fermarti tu... lui...
Ofelia non si era mai sentita tanto impotente come in quel momento. Le parole le rimanevano incastrate nel petto, come se avessero paura di uscire. Spaventate e disorientate come lei. Non riconosceva quella parte di lui così… violenta. La spaventava.
- Era necessario - sibilò lui a denti stretti. - Ha... toccato nostra figlia e l'ha dison...
- No, Thorn, tu l'hai disonorata - lo interruppe Ofelia.
Il silenzio calò nella stanza mentre le sue parole, finalmente stentoree, rimbombarono come se ci fosse l'eco.
Thorn le lasciò andare la mano e parve incurvarsi su se stesso. Sembrò rendersi conto dell’atteggiamento difensivo di Ofelia, del suo timore. Si passò una mano sul mento ispido, alzò un braccio per prendere il suo orologio da taschino, ma poi lo fece ricadere, come se fosse troppo stanco persino per quel gesto. E incapace di chiedere scusa. Invece, emerse qualcos’altro, come una vecchia ferita che si riapriva nonostante la cicatrizzazione.
- Com’è che tutti preferiscono sempre Archibald?
La sua voce piatta e priva di inflessioni mise a disagio Ofelia. Lei sapeva quanta sofferenza nascondessero in realtà. Mai avrebbe pensato che sarebbe venuto il giorno in cui lei avrebbe dovuto mantenere il sangue freddo mentre Thorn... sragionava.
- Non si tratta di preferenze. Né di gelosie. E non stiamo parlando di te. Serena era venuta a parlarci. Archibald l'accompagnava. Non hanno commesso alcun crimine e tu hai ferito Archibald. Pensavo che aborrissi la violenza.
- È così.
- Allora perché sei sempre pronto ad usarla su Archibald? Lo odi così tanto?
Thorn si irrigidì. - Ha sedotto nostra figlia, Ofelia. L'ha... non voglio nemmeno pensare a cosa le abbia... io...
Ofelia si sedette accanto a lui e gli prese le mani, chiuse a pugno sulle lenzuola e tremanti, tra le sue. Si accertò che la guardasse bene in volto prima di parlare.
- Archibald non le ha fatto nulla, Thorn. Non l'ha toccata. Non ha abusato di lei. Non sta giocando, non con lei.
- Come puoi esserne così certa? Come puoi credergli?
- Non credo a lui, Thorn. Credo a Serena.
- Ti ha detto lei queste cose?
- Sì. Mentre eri incosciente è stata qui a vegliarti con me. Ha pianto. Mi ha confessato tutto.
- Una confessione è la conseguenza di un peccato. I criminali confessano.
Ofelia sospirò. - Una confessione è qualcosa che ci preme sulla coscienza, Thorn. E a lei preme il sentimento che prova per Archibald con Archibald, in contrasto con il rispetto che prova per te. Capisci quale conflitto si è dovuta sobbarcare da sola?
- No. Come può... amarlo? È matematicamente impossibile, il divario d'età è troppo elevato, sono caratterialmente incompatibili...
Ofelia riuscì in qualche modo a sorridere e gli diede un bacio sulla guancia, per zittirlo. Thorn ammutolì dopo essersi reso conto di ciò che aveva detto. Ofelia però voleva calcare su quell'aspetto.
- Noi non siamo incompatibili, Thorn? Non siamo... opposti? Non siamo diversi?
Si ricordava bene quando le aveva fatto capire che una come lei, così fuori dagli schemi, dall'ordinario, avesse dato una scossa al suo mondo. Thorn si era innamorato di lei perché era imprevedibile, perché lo faceva sentire vivo. Non lo annoiava. Archibald e Serena erano diversi, molto diversi, ma... non erano così anche loro? Non erano così anche Gaela e Renard? Non erano così i suoi genitori?
- Noi eravamo promessi in matrimonio.
Ofelia avrebbe riso se la situazione non fosse stata tanto grave. - Ti stai appigliando a scuse inconsistenti, Thorn. Non è con un matrimonio combinato che ci si innamora di qualcuno. Serena e Archibald non erano venuti proprio per chiedere la tua benedizione per il matrimonio?
Lo sguardò di Thorn si indurì. - Sei d'accordo con tutta questa... pazzia?
Una domanda a cui Ofelia non aveva risposta. Voleva che sua figlia sposasse Archibald? No. Se non altro per via di tutte le donne che aveva corteggiato, della sua vita dissoluta, dei tentativi di seduzione che inscenava con chiunque, della sua sciatteria, dei suoi modi troppo schietti, dell'età... la lista era molto lunga. Però voleva che Serena fosse felice, e sembrava che Archibald la rendesse tale. Non sapeva forse anche lei cosa significasse essere incastrati in un matrimonio imposto e senza amore? Mai avrebbe voluto che Serena si privasse di quello che provavano lei e Thorn.
- Che io sia d'accordo o meno è irrilevante. Mi fido di Serena, e questo basta.
Thorn strizzò forte gli occhi, in conflitto.
- Hai notato la buona volontà di Archibald? Io non l'ho mai visto vestito a modo e senza l'aria impertinente e sfacciata. Archibald non si sarebbe mai abbassato a tanto se non fosse stato per qualcosa che lui stesso ritiene fondamentale.
Thorn riaprì gli occhi, senza dar segno di averla sentita. - Come fai a dire che non l'ha toccata? Come puoi esserne certa?
Ofelia si torturò i capelli per l'ansia, sciogliendoli dalla treccia che si era fatta poco prima. Sospirò di nuovo. - Serena è stata molto schietta con me. Mi ha detto cosa non hanno fatto... e cosa invece hanno fatto.
Ofelia gli mise una mano sul petto per tenerlo fermo, gli occhi che ardevano di furia. - Cos'hanno fatto? Ofelia.
Anche se non le piaceva essere apostrofata in quel modo e ricevere ordini con un tono così perentorio, Ofelia sapeva che non era il caso di lamentarsi in quel momento. - Si sono baciati. Archibald si è fermato. Non ha voluto andare oltre.
- Bisogna mettere uno chaperon alle calcagna di Serena per evitare che quell'avvolt...
Ofelia prese il viso di Thorn tra le mani e lo baciò, zittendolo di nuovo. Inizialmente Thorn rimase rigido, perplesso, poi tirò la camicia da notte di Ofelia perché si scostasse e infine cedette al bacio della moglie, che diventava sempre più ardito e impaziente. Gli si avvicinò, quasi non gli diede il tempo di respirare, e poi si staccò con gli occhi lucidi per quelle che potevano essere lacrime di... rabbia, tristezza, confusione. Lacrime di mille emozioni trattenute. Thorn ne bloccò una con il pollice prima che le scendesse sulla guancia.
- Archibald si è fermato, Thorn. Non ha voluto disonorarla.
Thorn capì il perché di quel bacio. Anche se avevano passato il fiore della giovinezza, anche se di baci se n'erano scambiati tanti, tantissimi, anche se in quel momento non sentivano il richiamo della passione e giacere insieme era l'ultima cosa a cui pensavano... resistere ad un contatto così intimo da parte di chi si amava era difficile. Risvegliava i sensi. Faceva perdere il controllo.
Thorn avrebbe detto che le possibilità che Archibald si fermasse erano pari a zero. Però si fidava di Serena. Si fidava di Ofelia.
Si schiarì la gola, cambiando argomento. - Hai... hai avuto paura di me, prima.
Ofelia inclinò la testa ponendo una muta domanda, allontanandosi leggermente. Thorn sembrava in difficoltà nella sua stessa pelle, come se si fosse ristretta.
- Quando ho... colpito Archibald la prima volta. Poi quando mi hai chiesto di smetterla, dopo che è arrivato Balder. E anche poco fa, quando mi sono svegliato. Avevi la stessa espressione di quella volta.
- Quale volta?
Thorn strinse i pugni. - La volta in sei venuta nel mio ufficio di notte, dopo l'attacco, quando vestivi i panni di Mime. Ero ricoperto di sangue, ti avevo puntato una pistola contro, ma tu eri inflessibile... ti sei ritratta solo quando ti ho guardata, seduti per terra, pensando che avrei potuto farti del male anche io. Hai detto che i tuoi nervi erano stati messi a dura prova, quel giorno, quindi sei scattata con un nonnulla. Però hai avuto paura, quali che fossero le motivazioni. Anche prima...
Ofelia gli accarezzò la guancia sfregiata, percorrendo la cicatrice con il pollice. - Puoi biasimarmi, Thorn?
Lui chiuse di nuovo gli occhi, come se cercasse di rivivere la scena nella sua mente e di vedersi da fuori. Strinse le labbra, poi fece una smorfia. - Lo sai che non ti farei mai del male.
Un giro di parole per dire che no, non la biasimava. Che si rendeva conto di come doveva essere apparso. Una furia.
- Hai quasi fatto del male ai tuoi figli, mentre tentavano di calmarti. Sì, ho avuto paura Thorn, ma non per me. Per i nostri figli e per te, perché eri fuori controllo. Se fosse successo qualcosa a Serena, o a Balder o a Tyr, so che non te lo saresti mai perdonato. E la verità è che non ti saresti perdonato nemmeno l'assassinio di Archibald, se fosse accaduto, perché avrebbe fatto soffrire Serena.
Thorn sobbalzò a quelle parole. Poi posò la testa sulla spalla della moglie, svuotato di ogni forza.
- Non intendo dare il mio consenso. Mi dispiace Ofelia.
Imprevedibilmente, come sua consuetudine, Ofelia lo sorprese, ridacchiando. Era proprio il momento meno opportuno per farlo, però la tensione accumulata fino a quel momento si faceva sentire, anche per lei.
- Non avevo dubbi in merito. Io non sono entusiasta all'idea. Anzi, sarei contraria anche io. Però temo che Serena troverà il modo di fare di testa sua lo stesso, a giudicare da quanto in fondo si è spinta, trovando persino il coraggio di venire a parlarne con noi con Archibald al seguito. Il connubio dei nostri caratteri non è molto a nostro favore, quando sono i nostri figli a voler prendere le proprie decisioni da soli.
Thorn emise un leggerissimo sbuffo dal naso, quasi infastidito. Ofelia lo guardò così a lungo che Thorn si chiese se non si fosse incantata. Stava per preoccuparsi quando lei lo abbracciò dolcemente.
- Sai, dopo aver capito... quello che provavo per te... credo che nulla avrebbe potuto tenermi lontana. E tu hai lottato con tutte le tue forze per cercare di farmi capire quello che già sentivi.
Thorn la strinse a sua volta, seppellendo il naso affilato nel suo collo. Ofelia gli nascose il viso perché così era più facile parlare. Nonostante tutto quello che stava succedendo, le sue parole gli scaldarono il cuore. Aveva sempre pensato di non meritare nulla, di non essere mai abbastanza, e invece lei gli aveva dato tutto ciò che aveva senza che lui dovesse chiederglielo. Sì, aveva fatto il possibile per non farsi odiare da lei, e ne era valsa la pena. Ne sarebbe sempre valsa la pena, per ciò che aveva ottenuto.
- Io credo che Serena provi quello che proviamo noi, Thorn.
- In tal caso sarà bene sorvegliarla.
Ofelia si scostò dall'abbraccio per puntare gli occhi nei suoi, mordendosi la cucitura di un guanto. - Non mi piace l'idea di sorvegliare Serena.
Thorn inarcò un sopracciglio. - Tua zia era la tua chaperon. È normale che abbia bisogno di sorveglianza, per il suo bene.
- Però non intendi dare la tua benedizione.
- Mi hai detto di essere anche tu contraria.
Ofelia chinò la testa. - Sì, ma... se ne va della felicità di mia figlia, penso di poter mettere da parte la mia reticenza. No?
- No - ribadì Thorn, scostandosela di dosso per andare in bagno.
Quando ne uscì, pronto per dormire, trovò Ofelia che si intrecciava i capelli a gambe incrociate in mezzo al letto, con lo sguardo basso.
Thorn faticava a capire il suo conflitto interiore. Anche lui voleva che sua figlia fosse felice, proprio per questo un matrimonio con Archibald era fuori discussione: sapeva che non le avrebbe portato nulla di buono. Era ancora giovane, con il tempo avrebbe capito...
Eppure qualcosa lo infastidiva, lo tormentava, come se non fosse la decisione migliore. Una cosa del tutto priva di senso, dal momento che i numeri erano dalla sua parte e che lui era il padre di Serena, quindi sapeva cosa fosse meglio per lei. Non aiutava il fatto che Serena fosse sempre stata di una maturità fuori dall'ordinario. Appena ventenne, era come se avesse trent'anni, in realtà. Ma i sentimenti giocavano brutti scherzi, era facile caderne vittima.
Ofelia si riscosse solo quando Thorn scostò le coperte, guardandola. Nei suoi occhi scorse il bisogno che percepiva anche lui come una corrente elettrica. Non un bisogno sessuale, bensì di intimità. Come se avessero la necessità di qualcosa di solido per aggrapparsi alla realtà, per rimanere a galla. Così Thorn non fu affatto sorpreso quando Ofelia spense le lampade e lo raggiunse sotto le coperte, dove gli posò la testa sul petto e intrecciò le gambe con le sue in modo così stretto che se uno dei due si fosse ritratto avrebbe trascinato con sé anche l'altro.
Ci misero molto tempo ad addormentarsi, un po' per l'agitazione che ancora scorreva loro in corpo, un po' per godersi il contatto, come se temessero di perdersi da un momento all'altro.
Quando Thorn sentì che il respiro di Ofelia era diventato lento e profondo, e che il suo abbraccio si era allentato, capì che non sarebbe proprio riuscito a dormire. Avrebbe potuto lavorare, ma la verità era che non voleva scostarsi dal corpo caldo di Ofelia.
Si chiese per la prima volta dove sarebbe stato, in quel momento, senza di lei. Per quanto privo di fantasia fosse, la verità era che non riusciva ad immaginarsi alcun futuro.
 
Il giorno successivo Serena aveva lo stomaco talmente chiuso che non toccò cibo per tutto il giorno.
Si sarebbe volentieri data malata al lavoro, ma sapeva che sarebbe stata una vigliaccheria; che sarebbe stato un furto e una menzogna, dato che fisicamente stava bene; che si sarebbe vergognata e...
Insomma, il pensiero le attraversò la mente per una frazione infinitesimale di secondo prima che lei la scacciasse con disgusto.
Si fece trovare sulla porta di casa nel momento in cui suo padre apriva e chiudeva l'orologio da taschino, forse chiedendosi se l'avrebbe vista quel giorno, se avrebbe dovuto chiamarla, o quanto l'avrebbe fatto ritardare. La squadrò con espressione indecifrabile, soffermandosi più del dovuto sugli occhi gonfi. Non che lui fosse messo tanto meglio, con le occhiaie profonde così in contrasto con il colore chiaro degli occhi.
Thorn esitò. E Thorn non esitava mai. - Non hai fatto colazione.
Serena pensò acidamente che era proprio fondamentale l'alimentazione in quel momento. Poi se ne pentì, perché alla fine suo padre stava in qualche modo mostrando premura. In cuor suo però avrebbe voluto che mostrasse quelle attenzioni in altri modi, per esempio sollevando la questione del fidanzamento. Invece Thorn si comportò come se nulla fosse. Da un lato era sollevata all'idea che suo padre non ce l'avesse con lei, dall'altra era mortificata, come se non desse abbastanza importanza all'argomento.
La mattina era passata vicino alla camera di Archibald, ma quando aveva visto una domestica stazionare lì davanti con aria palesemente colpevole tirò dritto. Aveva usato allora lo specchio per assicurarsi che Archibald stesse bene, e quando lo aveva visto dormire profondamente non aveva avuto il coraggio di svegliarlo.
Quando fecero una piccola pausa pranzo, durante la quale né lei né Thorn mangiarono, Serena prese in mano l'argomento.
- Papà, riguardo a... quanto successo ieri...
Poi si fermò, incapace di proseguire. Thorn la impalò con lo sguardo, rigido come al solito e inespressivo, però Serena riuscì a scorgere una specie di... ammorbidimento. Come se fosse in pena per lei, e quello che doveva dirle non le piacesse.
- È una follia - le andò in aiuto Thorn, o meglio, la fermò. - Un'infatuazione. Passerà.
Serena strinse i pugni, sentendosi... arrabbiata. Era sempre stata un modello, non aveva mai dato problemi, aveva sempre obbedito... perché non potevano accettare l'unica cosa che avesse mai chiesto? O dare per scontato di conoscere i suoi sentimenti?
- Non è un'infatuazione, papà. Quella che avevate per la mamma era un'infatuazione? L'avreste definita così?
Thorn strinse le labbra, ma Serena non avrebbe saputo dire se fosse arrabbiato. - Non è questo il punto. Non sposerai Archibald, Serena. Non è un buon partito. Dovresti essere a conoscenza della sua fama, delle sue bravate, di come si è comportato. Ha sedotto mia zia. E un numero di altre donne così vasto che ho la nausea solo a pensarlo.
- Lo so. So tutto di lui. Lo conosco bene, papà.
- Non puoi conoscerlo bene. Ci vogliono anni per conoscere intimamente qualcuno.
Serena si sentiva una bambina capricciosa, ma non aveva intenzione di demordere. Ne andava del suo futuro, della sua felicità. - Lo conosco meglio di voi. Una persona non è fatta solo di scandali e avvenimenti. Si trova molto di più indagando in loro, parlandoci. Ed è quello che io ho fatto.
- Gli imporrò di lasciare casa nostra.
Serena raggelò. - Non potete farlo... - lo supplicò in un sussurro.
Eppure, tutta la rabbia del giorno prima era svanita, lasciando Thorn prosciugato. Quasi dispiaciuto. Per Archibald, o per lei?
- È casa mia, e penso che lui abbia stazionato abbastanza per i nostri corridoi, appropriandosi di una camera come se fosse il suo castello.
- Voi sapete cosa significa essere abbandonati, e volete infliggere a lui lo stesso destino?
Serena capì di aver passato il segno quando Thorn le lanciò un'occhiata che avrebbe potuto tagliare il ferro. Aveva toccato un nervo scoperto e se ne pentì immediatamente.
- Hai preso da tua madre la capacità di prendere decisioni affrettate e di contraddirmi?
Serena poteva quasi sentire lo scricchiolio dei suoi denti digrignati mentre parlava.
- Papà, ho veramente intenzione di sposarlo. Io lo amo, capite? Vorrei passare la mia vita con lui, vorrei...
Serena si fermò, mentre un'immagine raminga e non richiesta le balenava in mente: lei abbracciata ad Archibald con un bimbo biondo in braccio, dagli occhi azzurri. E l'espressione di Archibald finalmente di gioia autentica. Non si era nemmeno resa conto di covare, in fondo, un desiderio di maternità, prima di ammettere quello che provava per Archibald. Sperò di non essere arrossita.
Thorn si aggiustò i polsini della giacca e il colletto, come se essere in ordine fosse fondamentale in quel momento.
- Serena, è una pessima decisione. Archibald è una pessima scelta. Non posso acconsentire a questa richiesta.
Dall'espressione del padre, Serena capì che era dispiaciuto. Sotto la rabbia, sotto la perplessità, sotto lo scetticismo, suo padre non era contento di doverla deludere, di doverle negare qualcosa.
Lo apprezzò, ma non abbastanza.
Non ne parlarono più, e la sera Ofelia le portò in camera un tortino al cioccolato. Una piccola parte di sé si recriminò per quella dieta a base di digiuni e zuccheri, ma qualcosa di dolce, scoprì, era proprio quello di cui aveva bisogno.
Anche se il gusto era un po' salato, mischiato alle lacrime che non riuscì a trattenere mentre Ofelia le accarezzava i capelli.
 
I giorni successivi furono come un sogno, una realtà distante che non le apparteneva completamente.
A cena si estraniava, mangiando in silenzio e senza appetito mentre Berenilde tirava fuori l'argomento come se non potesse farne a meno e la zia Roseline la recriminava ogni cinque minuti per non aver chiesto la presenza di uno chaperon. Le diede della sprovveduta e dell'ingenua, dicendole che era un miracolo se la sua virtù era ancora intatta. Serena non reagiva mai. Né faceva caso alle occhiate contrite e dispiaciute di Balder, che avrebbe voluto parlarle ma non trovava mai il coraggio.
Archibald se n'era andato, costretto da Thorn. Lei non aveva nemmeno avuto la possibilità di salutarlo, di lui non le rimanevano altro che l'anello e una lettera che lui aveva pregato Ofelia di consegnarle. Sua madre gliel'aveva messa in mano e basta, senza nemmeno sapere cosa dirle.
Quella lettera era chiusa nel suo cassetto, stropicciata e con l'inchiostro sbiadito per via delle lacrime.
Serena sapeva che quello che avevano lei e Archibald era unico, incomprensibile anche, specialmente per chi li vedeva da fuori. Sapeva che era un sentimento destinato a durare, ma sapeva anche che senza vedersi sarebbe stato difficile, se non impossibile, mantenere i contatti. Di giorno lei non poteva sgattaiolare via, sotto l'occhio vigile di Thorn, e Archibald di sicuro non poteva entrare all'intendenza. Serena non aveva nemmeno idea di dove stesse.
Nessuno riusciva a consolarla, e quella che era sempre stata serietà, da parte sua, divenne una divorante tristezza, un profondo senso di solitudine. Era circondata dalla famiglia, dai fratelli, da suo padre e sua madre, dagli amici. Eppure le mancava una persona. Una sola, ma fondamentale. Se si era soliti dire "lontano dagli occhi, lontano dal cuore", per Serena era l'opposto. Si rese conto, in mancanza di Archibald, di quanto la sua presenza fosse stata importante, e di che vuoto avesse lasciato ora che non c'era più. Nel suo caso, si era resa conto davvero del valore della sua compagnia solo quando l'aveva persa.
Lo rivide per la prima volta dopo un mese dall'accaduto, a corte. Trasandato come sempre, con un bicchiere vuoto in mano. Un bicchiere che rimase vuoto tutta la serata, mentre i loro sguardi si cercavano. Serena si odiava per essere così sentimentale, ma la vista dello sguardo vacuo e disperato di Archibald le trafiggeva il cuore, facendole venire voglia di piangere. Come se lo avesse intuito, suo padre le rimase vicino tutta la sera, lanciando occhiate di ammonimento ad Archibald, perché non si azzardasse ad avvicinarsi. La stessa cosa accadde la seconda volta, con Serena che faticava sempre di più a concentrarsi sulle conversazioni e sui suoi doveri.
Non voleva ricorrere a Balder perché consegnasse un messaggio scritto da lei. Thorn avrebbe sospettato qualcosa dall'avvicinamento del fratello all'ex ambasciatore, e avrebbe controllato a vista anche lui. Usare gli specchi sarebbe stato inutile, dal momento che non sapeva dove sbucare per incontrarlo.
Alla terza serata di corte aveva esaurito sia le idee che le speranze quando un domestico le si avvicinò. Le porse un calice di spumante nonostante i valletti avessero il divieto categorico di interagire con gli ospiti. Lo sapeva perché era una delle tante cose che Archibald le aveva insegnato. E sapeva anche che di sicuro un domestico non si sarebbe permesso di ammiccare. Di fronte all'occhiolino del ragazzo, Serena quasi sobbalzò. L'espressione del valletto però rimase immutata, tranne che per gli occhi, che corsero al calice che ancora reggeva prima di posarsi di nuovo su Serena.
- Mademoiselle... - mormorò.
La voce di Archibald.
Serena prese il calice e sentì le dita del domestico indugiare, come se temesse che qualcosa potesse cadergli di mano. Serena abbassò lo sguardo e vide un pezzettino di carta sbucare dalla base del flute. Strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire la minima reazione. Fece un cenno del capo sbrigativo prima che il domestico, o meglio, Archibald travestito da valletto, si allontanasse. Serena cercò di non ridere quando lo vide porgere l'intero vassoio ad un grasso nobile visibilmente ubriaco che non fece nemmeno caso a quella maleducazione.
Quel travestimento incredibilmente fuorviante doveva per forza di cose essere opera di un Miraggio. Era impossibile che Archibald avesse cambiato colore di capelli, e persino di occhi! Serena si voltò verso Ilda e scoprì che la stava fissando. Ovvio, era impossibile ingannare una Nichilista. Serena non sapeva quanto le avesse detto Balder, né se le avesse detto qualcosa. Il rapporto tra i due non era idilliaco nell'ultimo periodo, quindi Ilda poteva anche non sapere nulla. E fare domande.
Domande che avrebbero insospettito Thorn.
Come se le avesse letto nel pensiero, però, Ilda scosse leggermente la testa. Tornò a chiacchierare con Tyr come se nulla fosse successo.
Tirando un sospiro di sollievo, Serena disse a Ofelia, poco distante, che sarebbe andata alla toilette. Thorn non la perse di vista un attimo mentre si allontanava, e Serena sapeva di avere i minuti contati: se ci avesse messo troppo, si sarebbe insospettito.
In bagno spiegò il biglietto di carta con così tanta foga da rischiare di far cadere il calice, che svuotò nel lavandino.
La grafia di Archibald la fissava dal foglietto, indicandole il tragitto per raggiungere una specifica camera e un orario.
04:00 davanti allo specchio.
Serena aveva una mezza idea di cosa significasse quel messaggio criptico, ma aveva bisogno di aiuto per verificarlo. Gli serviva un collaboratore.
Nel quale si imbatté appena uscita dal bagno. Sembrava che Balder stesse facendo la posta proprio per aspettarla!
- Ilda mi ha detto di aver visto Archibald con una livrea da valletto confezionata da un Miraggio - sibilò. - Cosa sta succedendo?
Serena raggelò. - A chi altro l'ha detto?
- Solo a me. È vero allora? Era Archibald?
Serena annuì. Aveva gettato nelle immondizie il biglietto strappato in piccoli pezzi (tredici, per la precisione). Non aveva bisogno di leggerlo una seconda volta, ovviamente.
- Cosa voleva?
Serena lo fissò più del necessario, pensierosa, perché Balder si spazientì.
- Allora? - la incalzò.
- Ti va di accompagnarmi a fare un giro?
Balder inarcò un sopracciglio e Serena si rese conto di quanto assomigliasse a Thorn, nonostante avesse preso in gran parte dalla madre.
Non gli lasciò il tempo di ribattere: lo prese a braccetto e si diresse verso un corridoio laterale.
- Dimmi se papà è allarmato - gli sussurrò prima di svoltare l'angolo.
Balder girò discretamente la testa e le rispose solo quando furono oltre la vista dalla sala: - No, sempre che quella fosse un'espressione "non allarmata". Non è che il papà abbia una gamma di dimostrazione di emozioni così ampia, sai?
Serena ridacchiò nervosamente.
- Mi dici dove stiamo andando?
- A specchiarci.
 
Balder ovviamente cercò di dissuaderla. Un appuntamento alle quattro di mattina in una camera abbandonata al centro della corte, con solo un vecchio divano sdrucito e un grande specchio a muro ad arredarla, a Balder non era proprio di gradimento. Soprattutto se era l'unico a conoscere i dettagli dell'incontro e non era un attraversaspecchi. Serena sarebbe stata senza protezione, e lui sarebbe stato complice di... qualunque cosa quei due volessero fare.
Lo sguardo supplice e disperato di Serena però lo fece cedere. Si fidava di lei, si augurava che non commettesse sciocchezze. Non avrebbe fatto la spia.
Così Serena si immerse nello specchio di camera sua alle quattro di mattina, precise, senza che nessuno sospettasse nulla e con l'intera casa addormentata.
Finì dritta tra le braccia di Archibald, che la strinse a sé seppellendo il viso nei suoi capelli. Serena lo sentì inspirare forte, per cogliere il suo profumo, come se lei fosse l'unica aria che lui fosse in grado di respirare. Le si inumidirono gli occhi e ricambiò con forza l'abbraccio. Rimasero stretti l'uno all'altra per un tempo troppo breve e troppo lungo (quarantacinque secondi), in silenzio, prima di separarsi. Archibald però non la lasciò, e appoggiò la fronte sulla sua, come se una separazione fosse fisicamente dolorosa per lui.
- Mi sei mancata così tanto... - mormorò, con la voce strozzata, ben attento a non incontrare il suo sguardo.
Serena si sentiva le parole bloccate in gola, mentre la paura e la tensione che aveva sentito in quelle settimane e che le avevano gravato sullo stomaco come un macigno si dissolsero. Semplicemente sparirono. Finché era con Archibald, non avrebbe avuto paura del futuro. In quel momento stava vivendo lì, con lui, e non si sarebbe preoccupata dei giorni successivi, almeno per qualche minuto. O così si augurava.
- Sei guarito completamente...
Archibald si scostò per specchiarsi. Innamorato o no, desideroso di essere migliore per Serena o no, rimaneva pur sempre vanesio. Si accarezzò la pelle del viso, grattandosi poi la barba bionda e sorridendo maliziosamente al suo riflesso.
- Guarito e bello, direi.
Serena alzò gli occhi al cielo, facendolo ridere, e quel suono leggero fece sorridere anche lei.
- L'addome...?
Archibald si scostò quel tanto che bastava per tirarsi su la giacca e la camicia rovinate. Nonostante lo stato pietoso in cui erano ridotti i suoi vestiti, talvolta persino macchiati, Serena non gli aveva mai sentito un cattivo odore addosso. Archibald aveva sempre un profumo gradevole, familiare.
Lui non fece caso al rossore della ragazza quando si chinò per scrutarsi il torso esposto.
- Guarita anche questa. Per fortuna ci ha pensato la vostra governante a sistemare il peggio. Le vallette di mia sorella Pazientina non hanno fatto altro che flirtare, fosse stato per loro sarei morto dissanguato.
Serena non reagì alla provocazione, nonostante il lieve disagio che la gelosia le fece provare. Invece si chinò verso di lui, allungando la mano per toccargli le altre cicatrici, quelle vecchie. Archibald si irrigidì e trattenne il respiro, prendendole la mano prima che sfiorasse la sua pelle.
Le accarezzò il dito su cui svettava l'anello che le aveva regalato. - Lo porti davvero?
Serena aggrottò la fronte, come se fosse sorpresa. Ad Archibald ricordò violentemente Thorn, ma non voleva pensare a lui in quel momento. Specialmente, non associato a Serena.
- Certo che lo porto. È il mio anello di fidanzamento. O hai avuto un ripensamento?
Archibald sgranò gli occhi. Nella sua vita di gozzoviglie e sregolatezza e nei panni di ambasciatore, poche cose erano riuscite a prenderlo in contropiede come Serena.
- N-no, certo che no. Desidero ancora sposarti. Pensavo che tu avessi avuto un ripensamento visto che Thorn... vista la sua reazione.
Serena scosse la testa, incapace di articolare ciò che provava in quel momento: struggimento per lui, dolore per ciò che stava facendo a suo padre, senso di colpa, ma anche desiderio di ribellione.
Infelicità.
In ogni caso, Archibald stava solo cercando di distrarla, cosa impossibile da fare con chi aveva una mente da Storiografo. Serena usò la mano che Archibald non le teneva per toccargli le cicatrici.
- E queste?
Archibald scosse le spalle come se nulla fosse, ma Serena vide che si era irrigidito. Abbassò in fretta la camicia. - Un altro regalino di Thorn.
Serena lo scrutò, in cerca di qualcosa di non detto che percepiva aleggiare nell'aria. Increspò nuovamente la fronte. - Quando è successo?
Archibald spostò il peso da un piede all'altro, a disagio. - Oh, tanto tempo fa. Tantissimo. Non ricordo neanche...
- Perché?
Archibald sbuffò. - Sì, hai preso decisamente da Thorn. Fa uno strano effetto, sai, ammetterlo, come se dicessi di essere in realtà innamorato di lui...
- Non svicolare, Archibald - lo riprese Serena. - Perché mio papà ti ha inferto queste cica...! -. Si interruppe e sgranò gli occhi, giungendo da sola alla conclusione. - È stato per la zia Berenilde, vero? Quando vi ha scoperti.
Serena non aveva mai visto Archibald impaurito, nemmeno quando aveva fronteggiato suo padre, nemmeno quando era stato attaccato. Eppure in quel momento fu certa che Archibald avesse paura.
- Cosa c'è? - lo incalzò Serena, non senza un certo tatto. Al contrario di Thorn, era autorevole eppure aveva sempre una nota pacata nella voce, presa sicuramente da Ofelia.
- Non pensavo che lo sapessi... Non volevo nascondertelo, ma col senno di poi non è una cosa di cui io vada molto fiero. Ero molto ubriaco, molto giovane e molto sicuro di me, mentre Berenilde era... molto sconvolta per la perdita di tutti i suoi figli e del marito. Aveva Faruk, certo, ma a volte la prendeva uno sconforto tale da... farle commettere qualche avventatezza.
Serena scosse la testa. - Ho detto a mio padre che ti conosco bene, e non mentivo quando l'ho detto. Sicuramente c'è qualche segreto su di te che ancora mi sfugge, ma ho letto tutti i giornali pubblicati da sessantadue anni fa ad oggi, Archibald, e una notizia come quella non passa in sordina. Sì, sei stato a letto con la mia prozia, e sì, lo sapevo da tempo. E allora? Non è che prima pensavo che fossi un santo. Non cambia nulla una donna in più o una in meno, anche se si tratta di una mia parente.
Archibald batté più volte le palpebre come se non riuscisse a cogliere appieno le parole di Serena. - Non... non sei arrabbiata? Disgustata? Gelosa?
Serena gli rivolse un minuscolo sorriso. - Di sicuro non mi fa piacere la cosa. Ma sono tutti fatti avvenuti prima che io addirittura nascessi, prima che ci innamorassimo, e non posso fartene una colpa.
Al contrario di Thorn e Ofelia, decisamente Serena non aveva problemi a parlare dei suoi sentimenti. Aveva quel pizzico di razionalità in meno rispetto al padre e quel poco di consapevolezza di sé in più rispetto alla madre per riuscire a parlare liberamente e senza che le parole le si impigliassero in gola. Da un certo punto di vista era come se fosse ancora più logica di Thorn, vagliando oggettivamente anche le questioni sentimentali prima di decidere se fosse il caso di dirle o meno.
Archibald l'abbracciò con impeto, stringendola a sé come se non volesse lasciarla più andare. - Forse tuo padre ha ragione. Non dovremmo sposarci. Non sono degno di te, Serena. Non ho fatto nulla di utile nella mia vita.
Serena ricambiò dolcemente l'abbraccio, seppellendo il viso nel collo di Archibald, grata alla sua memoria che le avrebbe permesso di ricordare il calore di quel momento per sempre.
- Questo lo pensi tu, ma gli articoli di giornale non mentono. Se si legge tra le righe tra uno scandalo e l'altro, nonostante la tua facciata da scansafatiche nullafacente, sei stato un ottimo ambasciatore. Imparziale e onesto. Anche un po' di più.
Archibald ridacchiò nonostante lo sconforto che l'aveva attanagliato.
Non si sentiva all'altezza di quella ragazza, di quella donna appena ventenne che gli teneva testa e sapeva comportarsi meglio di lui. Saggia, bella, intelligente, gentile e decisa, Serena era praticamente perfetta. Archibald non riusciva a capire cosa ci vedesse in lui. Viveva nel costante senso di inadeguatezza e nel timore che prima o poi Serena avrebbe scoperto qualcosa sul suo conto che l'avrebbe fatta inorridire e fuggire. Lei era esattamente l'opposto di tutto ciò che lui rappresentava, così integerrima e solerte, non capiva proprio come potesse essere interessata a lui. Eppure riusciva a farlo ridere, a farlo sentire di nuovo giovane, a farlo ragionare e riflettere. Gli permetteva di considerarsi migliore.
Serena si scostò e gli posò una mano sulla guancia. - Smettila di rimuginare su delle inezie e aggiornami su quanto è successo questo mese.
Passarono le due ore successive a chiacchierare tenendosi per mano come due adolescenti con la prima cotta, seduti sul vecchio divano con le molle che fuoriuscivano dalle imbottiture senza dar nemmeno segno di averle notate. Serena gli raccontò del lavoro con il padre che, nonostante il rapporto un po' teso, procedeva a gonfie vele. Le piaceva quel lavoro e le piaceva lavorare con Thorn, imparava molto da lui e allo stesso tempo lo aiutava ad essere un pochino meno nevrotico. Leggermente. Tentava, insomma.
Lui invece le rivelò che alla fine, come già i pettegolezzi sostenevano, lui era tornato dai parenti, nell'ala dei loro vari appartamenti dove stava Gabriella, la secondogenita di Pazientina. Aveva l'età di Tyr, forse leggermente più piccola, ed era una dei pochi membri della Rete che ancora lo considerava parte integrante della famiglia. Molti altri che prima della recisione del legame erano dipesi da lui come delle zecche si limitavano a parlargli il meno possibile, se non addirittura a ignorarlo o parlare tramite il loro collegamento mentale in sua presenza. Ad Archibald non era mai importato granché dei molti membri della sua famiglia, ma per le sue sorelle nutriva davvero un affetto profondo e il loro allontanamento lo aveva fatto soffrire. Soprattutto con Pazientina, che gli parlava, certo... ma non come prima. Non lo guardavano più, nemmeno le più piccole, con quel misto di riverenza e ammirazione di una volta. Serena capì che a suo modo prendersi cura e proteggere le sorelle gli aveva dato uno scopo. Era anche per quello che si era attaccato tanto a loro, ai figli di Thorn e Ofelia: una famiglia numerosa, con tanti bambini piccoli che lo ammiravano come uno zio.
In effetti, a parte l'ultimo periodo per via della rivelazione scioccante, Tyr, Balder, Ilda e le gemelle, persino il timido Randolf, avevano sempre adorato Archibald e scherzato con lui.
Soffriva di solitudine e aveva dei complessi di abbandono più profondi di quanto chiunque riuscisse a vedere.
Quando Serena controllò il suo pendente a orologio e vide (in maniera precisa, ovviamente) che era ora di andare, Archibald le baciò la mano. Le sfiorò poi il naso con il suo, ma senza baciarla, nonostante il desiderio che Serena gli vedeva riflesso negli occhi e che sapeva essere lo specchio del suo. La toccava sempre vedere come si tratteneva con lei, pur di non fare un passo falso. Si diedero appuntamento per due notti, o meglio, due mattine dopo, e poi Serena si immerse nello specchio ritrovandosi nella penombra di camera sua.
Se Thorn notò il sorriso a fior di labbra che Serena cercò di nascondere per tutto il giorno, non lo diede a vedere.
 
A giorni alterni, per un intero mese, Serena e Archibald si incontrarono di nascosto alle prime ore del mattino.
Per un intero mese cercarono di farselo bastare.
Ma due ore al giorno, un giorno sì e un giorno no, non erano abbastanza per una coppia che solo poche settimane prima aveva fantasticato sulla cerimonia di nozze.
Serena cercò di nuovo di parlare con Thorn, ma senza risultati, sprofondando nello sconforto. Ofelia non aveva consigli da darle, e anche lei poteva fare ben poco per convincere Thorn a lasciar sposare la figlia quando lei stessa diffidava di Archibald. Balder non riusciva a tirarla su di morale, e Serena non riusciva ad essergli di sostegno per la questione di Ilda.
Era più acuto il dolore di chi non poteva stare con la persona amata, ma almeno era certo di essere ricambiato, o il dolore di chi invece si struggeva per una persona che non provava gli stessi sentimenti?, si ritrovò a chiedersi Serena osservando lei e il fratello tormentarsi per due problemi agli antipodi.
Quando però abbracciava Archibald la risposta se la dava da sola: sapere di essere amati era già di per sé un sollievo. E una speranza, perché gli ostacoli di quell'amore erano esterni, risolvibili. Si soffriva in due. Balder invece era da solo, non poteva costringere Ilda ad amarlo.
O meglio, Ilda lo amava, ma si stava stupidamente complicando la vita. Loro due avrebbero potuto avere un lieto fine, nessuno si sarebbe opposto al loro matrimonio nel giro di qualche anno. Invece Ilda si ostinava ad essere una codarda che non voleva rischiare. Un giorno, frustrata per l'ennesima discussione con Thorn e per la mancanza di Archibald, Serena andò a parlarle. Era sempre andata d'accordo con Ilda, anche se non erano amiche intime come lei lo era con Tyr e Balder. Però si rispettavano e apprezzavano a vicenda.
Non fu una conversazione di cui Serena andò fiera. Nonostante l'aspetto calmo esteriormente, perse il controllo della sua capacità verbale. Probabilmente fu a causa dello stress, delle speranze disattese, del brutto periodo e del deterioramento dei rapporti con la sua famiglia... in ogni caso, non avrebbe dovuto dire a Ilda, in modo nemmeno troppo velato, che era una vigliacca. Che aveva un'opportunità d'oro eppure non voleva coglierla. Che stava facendo soffrire il fratello e pure se stessa per delle ragioni che neanche esistevano. Gli occhi scuri di Ilda, nero e blu, si indurirono e non ci fu molto che Serena potesse fare per dirimere la questione. Si era pentita delle sue parole nell'attimo esatto in cui le aveva pronunciate. Non era riuscita a controllarsi. Tentò di scusarsi per il modo in cui le aveva parlato, ma non per quello che le aveva detto.
Per quanto buone fossero state le sue intenzioni, sortirono l'effetto opposto.
Quando rientrò dal lavoro quella sera, Balder l'aspettava in camera, infuriato. Le disse che sapeva occuparsi delle sue questioni personali, non aveva bisogno di una mammina invadente che andasse a fare le veci del figlio come se lui fosse un uomo senza orgoglio e senza carattere. Le disse che se le cose stavano così forse era perché a lui andavano bene così e lei, in sostanza, non doveva impicciarsi.
Litigarono come non avevano mai litigato, fomentati dai loro problemi personali che cercavano una valvola di sfogo diversa dai dialoghi pacati che sembravano non portare a nulla.
Balder se ne andò sbattendo la porta e intimandole di farsi i fatti suoi, visto che lei almeno qualcuno che ricambiava i suoi sentimenti ce l'aveva.
Serena sentì un misto di rabbia e tristezza ribollirle nelle vene, una furia che non aveva mai provato prima. Nei confronti di suo padre, di Balder, di Ilda, persino di Ofelia e anche di Archibald. Ma soprattutto contro se stessa. Era delusa perché non riusciva più a soddisfare le aspettative di Thorn, delusa per essersi innamorata di Archibald, ma anche delusa da Thorn perché non riusciva ad accettare l'unica cosa che gli avesse mai davvero chiesto nella vita.
Era in un tale stato di nervoso e senso di impotenza che quando quella notte si incontrò con Archibald gli atterrò tra le braccia in lacrime. Lui si dimostrò paziente come Serena non avrebbe mai creduto potesse essere. Era sempre ciarliero e pronto a fare qualche battuta mordace, e le piaceva farla ridere. Invece parve capire che non era proprio il momento, non quella notte. Così si limitò ad abbracciarla stretta accarezzandole i capelli, passandole un fazzolettino pulito di tanto in tanto per permetterle di soffiarsi il naso e asciugarsi gli occhi. Non proferì una parola, il suo tocco fu delicato come una piuma, eppure Serena, anche nel suo dolore, era consapevole delle sue mani sulla schiena, sui fianchi, o sui capelli.
Era delusa da tutti, sì, ma in quel momento capì che non avrebbe potuto rinunciare in alcun modo ad Archibald. Aveva sempre disprezzato le damigelle piagnucolose e orribilmente innamorate di quei pochi romanzi romantici che le era capitato (per sbaglio) di leggere. Trovava ridicolo il loro struggimento, il loro desiderio e la loro frivolezza. Mai avrebbe pensato di potersi immedesimare in loro, disposte a morire per amore (non che lei volesse arrivare a quel punto, comunque).
Non era disposta a morire. Aveva lottato così tanto, poi, per diventare cancelliera… non vi avrebbe rinunciato. Non voleva nemmeno rinunciare alla sua famiglia, nonostante il litigio con Balder e l’incomprensione di Thorn.
Però voleva Archibald, sopra ogni cosa.
Sopra tutti.
Quando le lacrime finalmente si placarono, strinse nel guanto l’ultimo fazzoletto e si allungò sul divano logoro della camera in cui si davano sempre appuntamento per baciargli il collo. Un bacio lieve e veloce, solo uno sfioramento, però bastò perché Archibald si irrigidisse e rinforzasse la pressione della sua mano alla base della schiena.
- Serena… - mormorò, con la voce spezzata per un sentimento che lei non riuscì a identificare. – Forse dovremmo smetterla. Con tutto questo. È chiaro che ti fa soffrire e per una volta non voglio essere l’egoista che…
- No – lo interruppe lei, scostandosi. Doveva avere gli occhi gonfi e rossi e i capelli spettinati, di sicuro non una bella vista. Archibald non l’aveva mai vista piangere, aveva sempre temuto che, se fosse successo, lui si sarebbe reso conto della loro differenza d’età. L’avrebbe forse vista come una bambina, allontanandosi? – Non è colpa tua se sto così. Sei la mia unica gioia, ultimamente.
Archibald sospirò. – Come può non essere colpa mia se stai così? Ci vediamo di nascosto come due criminali, come se facessimo qualcosa di disdicevole. Incredibili a dirsi, lo so, ma l’unica cosa disdicevole che facciamo è abbracciarci. Sto perdendo il mio fascino, se ancora non mi sei saltata addosso, che dici?
Suo malgrado, Serena incurvò la bocca in una parvenza di sorriso che fece invece rabbuiare Archibald. – Sì, ho decisamente perso fascino se questa è la tua reazione.
Le accarezzò il viso, scrutandole gli occhi. – Sono serio. Dovremmo separarci per un po’, vedere se…
- Sposiamoci – lo interruppe di nuovo lei, questa volta zittendolo per la sorpresa. – Di nascosto. Non ho mai voluto grandi cerimonie, e tu… non te l’ho mai chiesto, a dire il vero.
Archibald fece una smorfia e scosse la testa, facendo ondeggiare il cilindro logoro che, sfidando le leggi della fisica, non si azzardava mai a cadere. – Niente grandi cerimonie, assolutamente. Sono stufo delle persone, in generale.
- Perfetto. Ci sposiamo, io manterrò il mio incarico da cancelliera, non ci sarà nessuno scandalo, nessun bisogno della benedizione di…
- Nessuno scandalo?! Serena, un matrimonio segreto è uno scandalo. Soprattutto se io e te siamo i sottoscrittori del contratto matrimoniale! Un pettegolezzo del genere non c’è dai tempi in cui tua madre era ancora fidanzata.
Serena si accigliò. – Le persone, specialmente a corte, parlerebbero anche se ci sposassimo convenzionalmente. Alla fine basta a noi sapere che abbiamo fatto le cose seguendo le regole. E quando vedranno che non sono incinta… cioè… - farfugliò, arrossendo. – Non è un matrimonio riparatore, voglio dire, si accorgeranno presto anche di questo.
Archibald continuò a osservarla intensamente, in cerca forse di qualche crepa nella sua facciata imperturbabile, di qualche tentennamento. Ma Serena era mortalmente seria.
- Vorresti davvero sposarti senza tua madre e tuo padre al fianco? Senza i tuoi fratelli?
Serena si morse la cucitura di un guanto, vacillando appena. – Ovviamente no. Ma il mio sogno di una cerimonia intima e felice non è mai stato realizzabile, a giudicare dalla reazione che ha avuto mio papà. Lui è contrario a prescindere, con Balder oggi ho litigato… in questo momento, è come se non avessi nessuno.
Archibald le abbassò la mano affinché smettesse di torturarsi i guanti. A quanto pareva, l’unico con la prerogativa di girare con i vestiti bucati era lui.
- E tua madre?
Serena strinse le labbra, in mancanza dei guanti. Scoprire quei sentimenti per Archibald, così travolgenti, aveva pian piano distrutto la sua imperturbabile rigidità. Quando era nervosa, ora, non poteva fare a meno di muoversi, mordersi i guanti, le labbra, o toccarsi i capelli. Sentiva sempre la sua penna, il suo golem, girarle come una trottola nella tasca del vestito.
- Mia madre non andrebbe contro mio padre. Credo. Non lo so.
- In passato, da fidanzati, è andata molte volte contro tuo padre, a dire il vero.
- Ma dopo sposati?
Archibald non rispose. In effetti, dopo un periodo turbolento, Ofelia aveva sempre creato, occasionalmente, qualche “problema”. Ma non si era più permessa di contrastare Thorn. Non in pubblico, almeno. Archibald sospettava che dietro le porte della loro camera da letto risolvessero parecchi contrasti in modi non del tutto verbali. Da quando Ofelia si era innamorata di Thorn, ed era un mutamento che Archibald aveva notato, Ofelia era stata più… rispettosa nei suoi confronti. E il rispetto comportava fiducia, non agire di testa propria mettendo il proprio marito in imbarazzo.
No, Ofelia non avrebbe potuto appoggiare quel matrimonio apertamente con Thorn così palesemente contrario.
- Domani potresti cambiare idea e volere la tua famiglia. O scegliere la tua famiglia al di sopra di me. Non voglio che tu ti penta delle decisioni prese in un momento di rabbia. Te lo dico io, che di errori di questo genere ne ho fatti tanti.
Fu il turno di Serena di guardarlo seriamente. In fondo, gli era grata per la premura che dimostrava nei suoi confronti. Non voleva che fosse avventata, era ammirevole da parte di una persona che fino a quel momento era stato così noncurante di tutto. – Non è una decisione che prendo a cuor leggero, Archibald. A dire il vero, è l’unica decisione possibile. Non voglio deludere la mia famiglia, mio padre, ma allo stesso tempo, più di tutto, non voglio rinunciare a te. Non posso. E non possiamo continuare a vederci così. È facendo questo, questi incontri segreti, anche se non facciamo nulla di male, che io tradisco la loro fiducia. Ma una volta sposati, saremmo a posto. Saremmo puliti. Il matrimonio non sarebbe annullabile, la mia famiglia dovrà solo accettarlo.
Archibald, contro ogni previsione, ammiccò aprendosi in un sorriso malizioso. – Per non essere annullabile, il matrimonio deve essere consumato.
Eppure, nonostante il tentativo di alleggerire un po’ la tensione, lo stomaco di Archibald si fece pesante. Serena era preziosa per lui. Era… qualcosa che voleva difendere, anche da se stesso. Unirsi fisicamente a lei era un desiderio che provava ormai da tempo, ma anche qualcosa che lo terrorizzava. Nonostante le fin troppo numerose esperienze avute, aveva paura di non essere all’altezza.
Per la prima volta ci sarebbe stato del sentimento, in quell’atto, e non era sicuro di saper conciliare le due cose.
Serena era diventata paonazza e aveva distolto lo sguardo. – Sì, ovvio. È una conseguenza del matrimonio, è logico che noi… non verrà messa in dubbio la validità dello stesso, insomma.
La paura non se ne andò, ma Archibald si sentì un po’ rassicurato dalle sue parole. Anche lei, quindi, voleva. E temeva. Era come se fossero entrambi, anche lui, inesperti in quel campo.
Archibald prese un respiro profondo. – Vorrei che ci riflettessi ancora un paio di giorni. Se ne sarai convinta la prossima volta che ci vedremo, allora sarò d’accordo.
- Ci sposeremo? – domandò lei, timidamente, guardandolo negli occhi di nuovo.
Archibald le baciò la fronte. – Ci sposeremo.
 
Due notti dopo, quando si incontrarono, la situazione in casa non era migliorata. Serena era più convinta che mai di sposarsi, anche se la sua mancanza di pragmatismo spaventava Archibald. L’aveva conosciuta, sin da piccola ma soprattutto quando l’aiutava a studiare, come una ragazza che calcolava in anticipo ogni cosa, che prevedeva ogni mossa. Metteva in conto le spese, il tempo di studio, aveva sempre un piano principale infallibile e due di riserva per sicurezza. Era praticamente impossibile coglierla di sorpresa.
Eppure, quando le chiese dove avrebbero vissuto, come avrebbero vissuto, Serena seppe offrirgli solo risposte vaghe.
- Mio padre non mi butterà fuori di casa, per quanto sia arrabbiato con me. Di questo sono sicura.
- Percepisco un’entrata come cancelliera, e tu un sussidio dalla tua famiglia, ci basteranno.
- Mia mamma ha fatto dedicare un’intera area del castello a Renold e alla sua famiglia, una volta sposati non cambierà nulla nemmeno per noi.
Per quanto fosse scettico, mise da parte la sua reticenza e le promise che si sarebbero sposati nell’arco di una settimana. Gli serviva giusto il tempo per organizzare tutto, trovare dei testimoni discreti e un ministro di culto altrettanto discreto. In pratica, avrebbe fatto ricorso alle persone di cui conosceva i segreti più scabrosi per contare sul loro silenzio. In cambio, anche lui avrebbe mantenuto il suo.
Lo faceva quasi ridere il fatto che lui, che nella vita non aveva mai programmato nulla e aveva vissuto alla giornata come se non ci fosse un domani, fosse all’improvviso preoccupato e intento a fare progetti.
Avrebbe voluto offrire di meglio a Serena. Avrebbe voluto offrirle di più. Mai come in quei giorni rimpianse il legame spezzato con la sua famiglia, il suo vecchio ruolo da ambasciatore. Se le cose fossero state com’erano un tempo, lui avrebbe ancora avuto in mano le redini della sua famiglia. Avrebbe deciso da sé, avrebbe avuto molto da elargire a Serena, invece di elemosinare da Pazientina una camera. Gli scocciava dover pesare su Serena per provvedere a quella che stava per diventare la loro famiglia.
Quando arrivò il giorno del matrimonio, però, e vide Serena andargli incontro nel suo miglior abito bianco, ogni titubanza sparì. Amava quella ragazza. Quella donna.
E quando lei gli disse il fatidico sì, quando disse che voleva diventare sua moglie, e si scambiarono gli anelli che Archibald si era procurato, seppe che avrebbe saputo renderla felice.
Perché solo a lui Serena rivolgeva quel sorriso che la faceva sembrare una bambina spensierata.

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Capitolo 69
*** Capitolo 69 ***


Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla nel cielo l'arcobaleno.
Sìììììì... ma non oggi.
Prossimamente su questi schermi, si spera ;)
Sono mooolto curiosa di sapere cosa ne pensate, anche se un po' ho paura.


Capitolo 69

- Dov’è Serena?!
Ofelia sobbalzò sul divano quando Thorn rincasò.
I suoi passi rimbombarono per tutto il salone, stranamente vuoto nonostante fosse quasi l'ora di cena.
- Dov'è Serena.
Non una domanda, ma un ordine. Se Ofelia non lo avesse visto tanto sconvolto, si sarebbe indispettita. Aveva il respiro affannoso e i capelli scarmigliati, la fronte così aggrottata da far accartocciare le cicatrici. Si mise subito in piedi, per una volta senza perdere l'equilibrio.
- Non è con te?
Thorn le scoccò un'occhiata dardeggiante che trasudava rabbia e... preoccupazione. - Se fosse con me non ti avrei chiesto dov'è. Se scopro che hai preso parte in tutto questo, Ofelia... non è una di quelle improvvisate che puoi permetterti di...
Ofelia alzò le braccia, per placarlo. Raramente lo aveva visto sconvolto, e ancora più raramente se l'era presa così con lei. Lei, che non stava capendo molto della situazione in quel momento.
Thorn inspirò a fondo con il suo naso affilato, cercando di ritrovare il controllo. Nel frattempo la testa di Balder fece capolino dalla porta del salotto, attirato dal trambusto. Curioso, ma non masochista: se avesse tirato un'aria troppo brutta, se ne sarebbe andato subito. In più non aveva quasi mai visto i suoi genitori litigare, se non da piccolo.
- Thorn, non so di cosa tu stia parlando. Serena non è in casa. Pensavo che fosse con te, all'intendenza.
- Non lo è. Non lo è stata. Ha richiesto il congedo matrimoniale ieri sera prima di chiudere l'ufficio, a mia insaputa.
Ofelia batté le palpebre più volte, chiedendosi se la miopia non si fosse in qualche modo espansa, intaccandole le facoltà mentali: non ci vedeva chiaro in quella faccenda, le sembrava di non capire nulla.
- Congedo matrimoniale? - domandò con voce flebile, innegabilmente sorpresa.
Balder fece sbucare dalla porta anche il lungo corpo, accigliato come il padre.
- Serena è sparita?
- A nostra insaputa, allora, non solo mia - borbottò Thorn, fissando Ofelia che si era immobilizzata. - Non volevo dubitare... - mormorò, a disagio.
Il suo tentativo di scuse.
- Si è sposata? Senza dirci nulla? Chi... con chi...
Thorn non batté nemmeno le palpebre. Ofelia si maledisse per la sua stupidità. Che domanda inutile. Con chi mai poteva essersi sposata Serena?
Ofelia si portò una mano alla bocca, sconvolta. Balder le si avvicinò e le passò una mano sulla schiena per sorreggerla.
- Serena non avrebbe mai... lei non potrebbe...
Thorn fece una smorfia impercettibile, incrinando la facciata sempre imperturbabile. La diceva lunga su quanto fosse stravolto da quella notizia. Tirò fuori dalla giacca da intendente una lettera, che Ofelia si affrettò a leggere insieme a Balder.
Serena si scusava per quanto si apprestava a fare mentre scriveva quella lettera, ma diceva chiaramente di non poter fare altrimenti. Sosteneva di amare Archibald e di essere ricambiata. Pur sapendo in che rapporti era con Thorn, si augurava, per il suo bene, che quel periodo di congedo matrimoniale potesse aiutarlo a farsi una ragione delle sue scelte e accettarle. Concludeva chiedendo scusa per la sofferenza e il caos che avrebbe arrecato, per aver fatto tutto di nascosto, e per non averne parlato con nessuno, specialmente con Ofelia. Ma non le avevano lasciato scelta, sosteneva.
Ofelia non aveva bisogno di leggere quella lettera per capire in che stato d'animo si trovava Serena quando l'aveva scritta. Bastavano le sbavature d'inchiostro lì dov'erano cadute le lacrime della figlia per intuirlo.
- È... legale, questo?
Thorn strinse le labbra, come se stesse per dire qualcosa che andava contro la sua volontà. - Purtroppo sì. Il congedo matrimoniale può essere preso all'improvviso, l'importante è presentare la documentazione che certifichi l'avvenuto matrimonio. Deve essersene andata ieri notte. Archibald avrà corrotto qualcuno perché celebrasse le nozze all'alba, e una volta firmato il contratto Serena lo ha depositato sulla mia scrivania. Non c'è altra soluzione, ieri sera siamo andati via insieme. Il certificato di matrimonio riporta l'orario di questa mattina. Serena oggi sarebbe dovuta rimanere in ufficio mentre io facevo un sopralluogo, l’ho scoperto solo quando sono rientrato in ufficio. Aveva calcolato tutto. Tu e la tua maledetta capacità di attraversare gli specchi.
Ofelia non gli aveva mai sentito usare un tono tanto tagliente con lei. Nonostante lo sbigottimento per la situazione che era piombata loro addosso, si sentì punta nel vivo.
- Come se fosse causa mia, questa situazione. Se tu avessi acconsentito al matrimonio, nostra figlia non si sarebbe dovuta sposare di nascosto, senza nemmeno la famiglia a partecipare!
- Se tu non fossi sempre stata incline a fare di testa tua, forse nostra figlia non sarebbe stata così poco propensa ad obbedire!
- Serena è sempre stata l’esempio dell’obbedienza! Non dare la colpa a me – sibilò Ofelia, incapace di alzare la voce.
- Difatti, sposarsi di nascosto e contro un ordine preciso del proprio padre rappresenta sicuramente l’emblema dell’obbedienza.
Ofelia gli scoccò un’occhiataccia come mai aveva fatto. L’ansia e la preoccupazione per Serena si erano tramutate in rabbia verso le accuse che Thorn le stava rivolgendo. Capiva che il marito fosse sconvolto e che dovesse sfogarsi, ma erano una squadra in quella situazione, non avversari.
- Mamma, papà… - provò a blandirli Balder, con gli occhi sgranati che gli allungavano persino la cicatrice sulla fronte.
- Non biasimare Serena per delle azioni che noi per primi abbiamo commesso.
Thorn respirò profondamente dal naso.
- Non sono stato io ad andare in una cella di prigione di nascosto, insistendo, contro la volontà della tua famiglia e del tuo stesso fidanzato, per sposarmi.
Ofelia si sentì ferita da quelle parole. Le lacrime traboccarono, piene di tensione per tutto quello che stava accadendo. Il lampo di dolore che passò negli occhi di Thorn non servì però a farla sentire meglio: sapeva che si sarebbe pentito subito di ciò che aveva detto… ma intanto l’aveva detto. E aveva fatto passare il suo gesto, la sua insistenza, per un capriccio, anziché per un gesto di amore.
Dal suo tono sembrava quasi che si fosse pentito di quel matrimonio, di quel momento. Il momento in cui aveva ammesso chiaramente di amarla. Un momento disperato, ma… uno dei momenti che Ofelia serbava con più emozione nel suo cuore.
- No, non sei stato tu a organizzare in velocità il matrimonio. Tu sapevi solo dire no e mettere le persone da parte. Come con Serena. Una cosa ti ha chiesto, in tutta la sua vita!
- Che cosa…? – domandò Tyr, attirato dal trambusto.
- Per tutte le teiere, fate più baccano di una pentola a pressione! – si aggiunse la zia Roseline.
Thorn strinse il pugno, Ofelia sentì la corrente galvanica degli artigli, a stento trattenuta, pizzicarle la pelle.
- L’unica cosa che non potevo accettare, mi ha chiesto! L’unica! Tu l’avresti buttata tra le braccia di quell’inaffidabile libertino incompetente e…?!
- No! Non avrei voluto, e non l’avrei fatto. Ma piuttosto che costringere mia figlia a fare le cose di nascosto, a scappare, avrei ceduto, sì. Avrei anteposto lei a me, come all’epoca ha fatto anche mio padre. Come ha fatto il mio prozio! Avrei avuto fiducia in lei.
- Non posso perdonarla.
Ofelia raggelò. – Io non perdonerò te, se tu non perdonerai lei. È mia figlia Thorn, voglio esserci per lei. Anche a costo di ingoiare il rospo e sopportare di avere Archibald come genero.
- Io no.
Thorn se ne andò a lunghe falcate verso il suo studio, facendo scostare lo stuolo di spettatori che si era accumulato sulla soglia del salotto.
Ofelia avrebbe voluto fare lo stesso, ma fu assediata di domande non appena Thorn fu fuori portata d’orecchio. Ofelia si sentì in colpa quando vide lo sguardo preoccupato di Balder, più a disagio per il litigio cui aveva assistito che per l’improvvisata della sorella.
Ofelia fu grata a Berenilde quando, a cena, prese la parola, valutando mosse e contromosse per arginare il pettegolezzo e rendere la notizia il meno drammatica possibile. Serena ne sarebbe uscita screditata: un matrimonio improvvisato e non annunciato non era di certo il modo per far pensare alla gente che andasse tutto bene. Come minimo avrebbero ipotizzato una gravidanza indesiderata. Come minimo.
Ofelia sperava che Serena fosse pronta a resistere alla pioggia di vessazione che ne sarebbe derivata. E sperava che Archibald rimanesse sempre al suo fianco dato che lei, in quel momento, non poteva. Serena non aveva specificato la destinazione del loro viaggio di nozze, li aveva solo informati che sarebbe stata lontana per sei giorni. Non voleva assentarsi troppo dal lavoro.
Ofelia non mangiò quasi nulla, non ascoltò quasi nulla. Non sentì nemmeno i rimproveri della zia Roseline, rivolti un po’ alla nipote e un po’ alla pronipote. Una storia già vista, diceva, e Ofelia non poteva darle torto. Lei di sicuro non era una santa, in quanto a matrimoni imprevisti, ma aveva delle attenuanti. Lei e Thorn, in fondo, erano stati pubblicamente fidanzati. Poco importava che lui avesse rotto il fidanzamento e fosse ferito e in carcere, al momento del matrimonio.
Quando Ofelia tornò in camera sua, sorda alle domande di tutti, cieca alle occhiate dei figli preoccupati, si sedette sul letto e fissò il muro senza vederlo. La sciarpa era in uno stato catatonico che l’avrebbe preoccupata, in un’altra circostanza. Ma aveva altro a cui pensare.
Aveva fiducia in Serena. Sapeva quello che faceva, anche se poteva non sembrare, in quel momento.
Al di là di tutto, si augurava che fosse felice.
Si augurava che si godesse il viaggio di nozze, ovunque fosse. Si augurava che Archibald la trattasse bene.
Quando sarebbe rincasata, sarebbe stato l’inferno.
 
Erano le due di mattina quando Ofelia scalciò via le coperte e si rimise gli occhiali. Tanto non riusciva a dormire, e Thorn non si era fatto vedere da quando avevano litigato. Attraversò lo specchio di camera sua per sbucare nello studio di Thorn, con una punta di compiacimento mista a irritazione. Si rendeva conto di quanto fosse infantile, però non riusciva proprio a digerire, tra le altre cose che Thorn aveva detto, il disdegno per quel potere familiare che a lei era sempre piaciuto tanto.
Quando sbucò nella biblioteca si trovò Thorn seduto di fronte, letteralmente. Aveva spostato la sedia dalla sua scrivania a due passi dallo specchio, ma Ofelia dubitava che fosse per specchiarsi. Da quanto tempo se ne stava seduto così, immobile? A giudicare dagli scricchiolii poco rassicuranti prodotti dalla sua schiena quando si raddrizzò, era troppo, troppo tempo che non si muoveva.
Ma quell'uomo era soggetto alle leggi che regolavano i meccanismi dell'organismo dei comuni mortali o no? Ofelia si pentì di essersi risentita così tanto per le sue parole. Erano state dure, indubbiamente, ma... Thorn era davvero sconcertato. Non lo aveva mai visto tanto provato e, sebbene non fosse un'attenuante e non lo giustificasse, Ofelia poteva in parte comprenderlo.
- Vado a prenderti qualcosa da mangiare - mormorò a bassa voce girandosi per immergersi nuovamente nello specchio.
La mano di Thorn si strinse attorno al suo polso quando Ofelia aveva già la testa che sbucava nello specchio vicino alla cucina. Non la tirò, però. Era una richiesta. Ofelia tornò indietro e lo guardò bene in viso. Solo allora si rese conto dei capelli spettinati, delle ombre sotto gli occhi, più pronunciate del solito, e degli occhi stessi, iniettati di sangue.
- Thorn - lo chiamò Ofelia, allarmata, prendendogli il viso tra le mani.
Lui si accasciò contro di lei, posandole la testa sulla spalla. Le strinse le braccia in vita, si aggrappò a lei come un naufrago in mezzo al mare.
Vincendo ogni reticenza, Ofelia gli accarezzò i capelli.
Passò un tempo che Ofelia non avrebbe saputo definire prima che Thorn aprisse bocca. - Non li lascerò stare in casa. Non posso permetterlo.
Ofelia sospirò, svuotata di ogni energia. - Vuoi cacciare di casa tua figlia?
- No, voglio cacciare suo marito. E dal momento che suo marito è legato a lei, ora, dovrà andarsene pure lei.
Ofelia si allontanò quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Alti uguali, con lui seduto. - Thorn, come provvederà a se stessa? Potremmo dedicarle un'ala del castello, è immenso questo posto. Come con Renard. Non dobbiamo per forza rinunciare a nostra figlia.
Gli occhi di Thorn erano tormentati, combattuti tra l'amore per Serena e l'odio per Archibald, sopito fino a quel momento, quando era esploso con una potenza inaudita.
- Non posso lasciarla impunita, Ofelia. Le avevo proibito di sposare Archibald. Devono esserci delle conseguenze, lei sapeva che ci sarebbero state. L'ha sposato tenendoci all'oscuro, lo vedeva contro ogni buonsenso. Non sappiamo nemmeno se... - spiegò Thorn, con voce gelida. Assomigliava così tanto allo scricchiolio di un iceberg, quella volta, che Ofelia poteva sentirla addirittura incrinarsi per la forte emozione. - Potrebbe averla disonorata. Serena ha detto di no, ma hanno continuato a vedersi.
Ofelia sentì la gola seccarsi. Anche lei ci aveva pensato. Si era fidata di Serena quando era stata sincera con lei, ammettendo che c'era stato un bacio. Ma si erano incontrati più volte, probabilmente grazie al suo dono di attraversaspecchi, senza scorta, senza protezione, senza che nessuno sapesse dove trovarla.
I dubbi di Thorn erano fondati, ma lei voleva fidarsi di sua figlia. Doveva fidarsi. Serena non li avrebbe mai delusi in quel modo. Quello che aveva fatto... Ofelia poteva comprendere perché lo avesse fatto. Poteva capirla.
- Una volta ti dissi che concedevo difficilmente la mia fiducia, e che all'epoca né tu né Archibald ne godevate - mormorò Ofelia, abbracciandolo. Aveva bisogno di solidità in quel momento, di stringerlo e sentire che almeno lui c'era, nonostante le amare parole che si erano lanciati. - Serena invece ne gode, Thorn. Da quando era bambina. È sempre stata un esempio, una figlia modello.
Thorn rafforzò la presa sui suoi fianchi. - Non dirmi che avrei dovuto accondiscendere. Non dirmi che avrei dovuto accettare una tale catastrofica unione - sibilò, tagliente. - C'è una donna con cui Archibald non sia stato, a parte te? Quell'uomo ha sposato nostra figlia. E non c'è nulla che possiamo fare per invalidare quell'unione. Serena ha voluto prendere da sola le sue decisioni. Ne pagherà anche le conseguenze.
Ofelia sentiva un gran bisogno di essere rassicurata, ma Thorn non stava facendo un buon lavoro in merito. Non che l'avesse mai fatto, a dire il vero... non era proprio un consolatore.
Voleva solo sapere dove fosse Serena. Se stesse bene. Come se non bastasse, era combattuta tra il sollievo per non doverle parlare dei doveri coniugali e l'apprensione per non averlo fatto. Le aveva spiegato certe cose quando era più giovane, e non dubitava che Serena se le ricordasse, con la sua memoria. Ma un conto era parlarne da giovani fanciulle che vedono cambiare il proprio corpo, un altro era discuterne alla vigilia di un matrimonio.
Ofelia sperava che fosse andato tutto bene.
Sperava che Archibald fosse gentile.
Sperava di cuore che la trattasse come Serena meritava, che le desse il meglio.
Sperava che tornassero a casa. Non era pronta per separarsi dalla pacata dolcezza di Serena.
Non poteva biasimare Archibald per essersene innamorato, ma questo non lo avrebbe mai detto a Thorn.
- Gli altri non conoscono Serena quanto noi. I pettegolezzi le distruggeranno la reputazione.
Ofelia scosse la testa. - Anche su di me sono circolate tante voci, in passato. Questo non ha impedito alle persone di venire a richiedere perizie nel mio studio. Anche tu, signor intendente, sei stato oggetto di scandali. Eppure sei qui. Serena dovrà sopportare malelingue e occhiate indagatrici, e questa è la punizione per non aver fatto le cose come doveva. Ma noi, Thorn, non dovremmo punirla ulteriormente se ha fatto le cose per bene...
- Sei sempre stata troppo permissiva. La vita è governata da leggi Ofelia, leggi che vanno rispettate perché non regni l'anarchia e perché le cose possano essere svolte con ordine. Serena non ha fatto le cose per bene.
- Forse la restrizione che tu le hai imposto era troppo limitante.
- So cos'è meglio per lei.
Ofelia posò la fronte sulla sua. - Thorn, ci siamo sposati in una cella di prigione dopo che tu avevi rotto il fidanzamento. Eravamo soli, con Archibald a farci da ministro di culto e testimone, scarmigliati e non in perfetta salute. Tu avevi appena ucciso un uomo. I miei parenti si erano opposti più strenuamente di te alla nostra unione. Non siamo stati proprio conformisti nemmeno noi, non trovi? - gli domandò, cercando di farlo ragionare. Ma con un uomo che ascoltava solo numeri e logica, non era così facile fare leva sui sentimenti. Ofelia lo baciò teneramente, scostandosi apposta appena lo sentì vincere la reticenza e ricambiare il bacio, lasciandolo a bocca asciutta. - Non siamo proprio le persone più adatte per dire a Serena di non fare la stessa cosa. Anche perché, in fondo, io tornando indietro lo rifarei.
Thorn si riappropriò delle sue labbra bruscamente, come per confermarle con i gesti ciò che a parole non era in grado di esprimere. Con lui era sempre stato così. Un abbraccio un po' rude per dirle che c'era. Un bacio sul collo per dirle che l'amava. Uno sfioramento della mano per dirle che era felice. No, nemmeno Thorn sarebbe tornato indietro, lei lo sapeva. Thorn si esprimeva meglio a gesti che a parole, e i gesti erano affettati come lui.
- Noi sapevamo cos'era meglio per lei quando era una bambina. Ma ora è una donna, Thorn, e forse... è lei a sapere cos'è meglio per sé. Non voglio avere la presunzione di prendere le decisioni al posto suo, basandomi su quello che ritengo meglio in base a me stessa.
"Come mia madre", fu ciò che entrambi pensarono, ma non dissero.
Thorn chinò il capo di nuovo, nascondendosi alla sua vista. Ofelia vide le orecchie prendergli fuoco.
- Mi... sono espresso male, prima. Ho perso il controllo. Non accadrà più.
Ofelia gli accarezzò le cicatrici che spuntavano dal colletto della camicia, quelle più superficiali. Era il modo di Thorn per chiedere scusa. Non erano delle vere scuse, ma Ofelia poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui Thorn aveva esplicitamente domandato perdono. Semplicemente, non era nelle sue corde. Non era tanto una questione di orgoglio, la presunzione di non considerarsi mai in errore, quanto un ragionamento "logico" che a volte gli impediva di ammettere una debolezza. In sostanza, se Thorn si affidava solo ai numeri, che per natura erano infallibili... considerava infallibile anche se stesso.
L'ammissione di aver fatto qualcosa di non propriamente correttissimo era già un enorme passo in avanti.
Però non risolveva il loro problema.
- Cosa facciamo con Serena?
Thorn si scostò e si passò una mano tra i capelli, cercando di sistemarli. Invano.
- Non posso lasciar correre. Al di là della mia... opinione su suo marito - disse sputando quasi quella parola, - se fosse stato Tyr a disobbedire, lo avrei punito. Non posso essere indulgente con Serena solo perché è la mia cancelliera e non si è mai comportata male.
- Sì, capisco.
Almeno l'essere così integerrimo aveva spinto Thorn a non fare differenze tra i figli. Un conto era sentirsi più affine con alcuni di loro rispetto agli altri, un altro era fare delle vere e proprie preferenze. Ma lui era il primo a sapere come ci si sentisse, quando venivano fatte delle distinzioni ingiuste. Lo ammirava per quello, nemmeno a lei piacevano due pesi e due misure, e anche lei sapeva come ci si sentisse ad essere quella diversa, la non preferita. Eppure le stringeva il cuore dover prendere dei provvedimenti contro Serena. E le faceva male sapere che faceva male anche a Thorn.
- Capisco anche, però, che non possiamo buttarla fuori casa.
- Non posso soprassedere.
- Tho...
- Troverò una soluzione - la interruppe lui, in un tono tutt'altro che conciliante. - Non l'abbandonerò a se stessa, ma...
Ofelia capì dalla mancanza della solita eloquenza di Thorn che più che rabbia, sotto pelle gli ribolliva il senso di tradimento. Lo aveva già visto arrabbiato, molte volte, e in nessun caso aveva faticato a parlare o a trovare le parole.
- Lo sai, vero, che Serena deve soffrire come noi in questo momento? Sai quanto deve esserle costato fare tutto di nascosto e sposarsi senza la presenza dei suoi affetti più cari?
Thorn emise un grugnito indistinguibile. - Ha scelto di rinunciare a noi con le sue decisioni. Non vittimizzarla.
Ofelia si scostò, conscia ormai che sarebbe stata una causa persa continuare quella discussione. In più, aveva talmente sonno che le palpebre cominciavano a cederle.
- Tu hai scelto di rinunciare al nostro matrimonio, con le decisioni che avevi preso all'epoca.
Thorn sollevò di scatto la testa. Gli occhi metallici ridotti a due fessure brillarono nella penombra. - Non paragonare le due cose. Io l'ho fatto per proteggerti.
- Serena l'ha fatto per amore. Come la tua, non è stata una scelta facile, ne sono sicura.
Ofelia si immerse nello specchio senza aspettare risposta.
Nonostante la stanchezza, però, solo quando Thorn la raggiunse e la strinse tra le braccia, finalmente Ofelia prese sonno profondamente.
 
La settimana successiva alla notizia del matrimonio di Serena e Archibald trascorse troppo in fretta, ma allo stesso tempo in modo fastidiosamente lento.
Ofelia non sapeva dove avrebbe potuto mandare un telegramma per informarsi delle condizioni di Serena, altrimenti avrebbe provveduto la sera stessa della scoperta. Sperava che Serena trovasse il modo di mettersi in contatto con loro, con lei almeno, anche solo per dirle che stava bene, ma non accadde. Quando Thorn si svegliò con delle occhiaie profonde come mai Ofelia ne aveva viste, decise di non disturbarlo nemmeno con quella questione. Il congedo matrimoniale sarebbe durato una settimana, non era un periodo di tempo così lungo da rendere l'attesa impossibile.
Ofelia avrebbe tanto voluto distrarsi con il lavoro, insieme a Renard che era sempre in grado di farle tornare il buonumore. Ma dopo il primo articolo del Nibelungen, che descriveva in toni fin troppo erotici quella "fuga romantica", e sei o sette visite indesiderate nel studio di lettura da parte di persone che decisamente non erano interessate ad una perizia ma solo al pettegolezzo, Ofelia decise di chiudere per qualche giorno. Nel poco tempo libero che aveva, Balder le aveva sempre dato una mano, diventando decisamente il più bravo dopo Ofelia nell'utilizzo del suo potere da lettore, anche più di Serena. Così si prodigò per aiutare Ofelia a spostare gli appuntamenti, e quando uscì la nuova storia campata per aria sulla prima pagina del Nibelungen, gli appuntamenti erano tutti stati spostati e i battenti chiusi. L'attesa a casa fu estremamente tediosa per Ofelia, che non era abituata a starsene con le mani in mano. Però trovò conforto nella zia Roseline, che era invecchiata parecchio negli ultimi tempi. Era diventata un po' sorda, ma Ofelia fu contenta di vedere che non aveva perso la capacità di fare commenti mordaci e osservazioni acute.
- Non angustiarti per tua figlia, figliola. Sei ansiosa come quei frenetici giorni prima del matrimonio, sempre tesa, pronta a sgusciare via in uno specchio in barba a me, la tua chaperon. Bei tempi quelli, quando eri ancora una ragazzina... e lo ero anche io! - le disse un pomeriggio, mentre riparava la pagina di un libro che Ofelia aveva strappato per l'ansia. Aveva ben pensato di iniziare a mordersi le cuciture del guanto, quando la zia Roseline le aveva urlato contro come se avesse commesso un atto osceno.
- Difficile non angustiarmi per mia figlia, quando ha contratto un matrimonio segreto e non so né dove sia, né come stia.
La zia Roseline emise uno sbuffo sarcastico. - Ora sai come mi sono sentita io all'epoca. Dovrei essere io quella arrabbiata per la storia che si ripete, non tu, che mi hai fatto prendere lo stesso spavento! Anzi, ben ti sta! Chi la fa, l'aspetti.
In effetti, come già aveva fatto notare a Thorn, loro non avevano molto diritto di parola. Le circostanze erano diverse, certo, ma alla fine si erano sposati da soli e all'improvviso.
La zia le si avvicinò per toglierle il guanto dalla bocca, con più dolcezza del previsto. - Guarda quanto bene ti sono andate le cose. Se è di buon auspicio, allora Serena è in una botte di ferro! A meno che non sia incinta e non abbia voluto organizzare un matrimonio riparatore. In quel caso, ci penserò io a strigliarla a dovere!
Ofelia era certa che Serena non fosse incinta. Almeno su quello riponeva assoluta fiducia in sua figlia. L'idea della zia Roseline che sgridava Serena in un misto di metafore animiste e borbottii irritati le fece quasi tornare il sorriso. Le strinse la spalla, ringraziandola con lo sguardo.
Aveva sempre dato la zia per scontata, quindi le fece piacere stare con lei, capace di farla sentire ancora una ragazzina bisognosa di chaperon. Le avrebbe perdonato qualsiasi cosa, se non altro per tutto l'aiuto e il sostegno che le aveva sempre dato, fin da quando erano salpate da Anima per approdare su quelle terre gelide e desolate.
Balder, Tyr e le gemelle le stettero sempre accanto per tirarla su di morale e per non farla sprofondare troppo nei suoi pensieri. Ofelia pensava che dietro la costante attenzione dei figli ci fosse lo zampino di Thorn, che sosteneva che quando lei rimuginava troppo e stava troppo tempo senza fare niente, se ne usciva con una delle sue bravate che si ripercuotevano sulla famiglia per settimane. Lo avrebbe sgridato, se avesse scoperto che era così, ma la verità era che le faceva piacere stare un po' da sola con le gemelle e con i figli maschi. Soprattutto con le gemelle, a cui sperava di far passare un po' la voglia di debuttare a corte. Erano sempre state troppo smaniose di fare nuove conoscenze (maschili) e di avere sempre abiti nuovi. Non erano come Agata, ma quasi, e l'influenza di Berenilde non aiutava di sicuro Ofelia a placare i loro desideri. Non riusciva a smorzare il loro entusiasmo, nemmeno raccontando delle cose subdole che alcuni cortigiani facevano, o di ciò che era successo a lei in passato. Aveva provato anche a parlarne con Berenilde stessa, che l'aveva rassicurata con impensata dolcezza. Le aveva detto che ci avrebbe pensato lei a vegliare su di loro, le sue predilette. La cosa non aveva affatto fatto sentire meglio Ofelia, che oltre a Serena si ritrovò angosciata per le figlie minori. Mancavano ancora più di due anni al loro debutto, ma lei sapeva che due anni passavano in un battito di ciglia. Le girava la testa quando si ritrovava a pensare che le sue figlie più piccole avevano abbondantemente superato la prima decade di vita.
A ridarle la serenità mentale di cui aveva tanto bisogno, inavvertitamente, ci pensò Vittoria. La cugina acquisita di Ofelia una sera le si avvicinò mentre lei chiacchierava con Tom di come fosse cambiata Anima in quegli anni di lontananza. Vittoria accarezzò il viso di Tom con una tenerezza che Ofelia non si sarebbe mai aspettata da una creatura... volubile come Vittoria. E il sorriso ammaliato che Tom le rivolse fece provare ad Ofelia una fitta al cuore. Thorn non l'aveva mai guardata così, ma le era sempre andato bene. Al di là del fatto che Thorn non sorrideva, Ofelia sapeva che il suo amore lo aveva dimostrato in moltissimi modi diversi. Non aveva bisogno di un sorriso per avere la certezza di quello che Thorn provava. No, il dolore che le pizzicò lo stomaco derivava dall'incertezza. Archibald guardava così Serena? Ofelia se lo augurava, perché Serena non si meritava nulla di meno dell'amore più grande che un uomo potesse darle.
Vittoria guardò Ofelia farsi pensierosa, inclinò la testa. Come solo chi conosce qualcun altro meglio di sé può prevedere, Tom sospirò e le allungò una matita e un blocco di fogli. In silenzio, con lo sguardo un po' perso, Vittoria si sedette e iniziò a disegnare. Ofelia lanciò un'occhiata interrogativa a Tom, che si strinse nelle spalle e le mormorò di aspettare.
Dieci minuti dopo Vittoria si voltò verso Ofelia e le sorrise dolcemente. Si alzò per andare a consegnarle il disegno che aveva appena finito. Per Ofelia, fu come essere rapita nella stessa visione che aveva avuto Vittoria, se così si poteva definire il suo dono. Nel disegno c'erano lei, Serena e Thorn. Lei e la figlia si tenevano per mano mentre Thorn se ne stava curvo per abbracciare Serena, che piangeva. Quel disegno l'avrebbe angosciata ancora di più se non fosse stato per il sorriso che faceva capolino, quasi timidamente, dalle sue labbra. Nel disegno, Ofelia si stava asciugando le lacrime con la mano libera... e dall'ombra proiettata sulla sua bocca si vedevano le labbra incurvate.
Solo quel dettaglio, inequivocabile, le suggeriva che fosse un disegno felice. La tensione nei corpi di Thorn e Serena invece era così evidente che, se Ofelia non fosse stata rassicurata dalla sua stessa figura, avrebbe pensato al peggio. Forse un tradimento di Archibald, con Thorn che abbracciava Serena per consolarla? O la morte di Archibald?
No, doveva essere un avvenimento gioioso. Probabilmente era il ritorno a casa di Serena, con Thorn che la perdonava e archiviava la questione come solo lui sapeva fare. In fondo, nel disegno, così verosimile da sembrare una foto, lei e Thorn erano uguali a com'erano nel presente. Non erano invecchiati. Quindi raffigurava qualcosa che sarebbe accaduto presto.
Il dono di Vittoria era straordinario. Ofelia alzò lo sguardo per dirglielo, ringraziandola per averla consolata come nessuna parola sarebbe stata in grado di fare, ma si rese conto di essere rimasta sola. Vittoria e Tom le avevano concesso un momento di tranquillità perché potesse riordinare i suoi pensieri.
Affrontare il tempo che rimaneva prima del ritorno di Serena, grazie a quella promessa in matita, fu molto più facile.
Sarebbe andato tutto bene.
 
Non andò tutto bene.
Serena rientrò da dov'era andata con Archibald il giorno prima della scadenza del congedo, con sgomento di tutti. L'aspettavano per il giorno dopo.
Fu quindi una sorpresa per Ofelia vedere sbucare un braccio dallo specchio di camera sua. Thorn era appena andato all'intendenza e lei si stava dirigendo in bagno. Incespicò per lo spavento e cadde, incapace di gridare. Solo quando la realtà dei fatti la colpì si affrettò ad alzarsi per andare ad afferrare quella mano.
Una mano guantata.
Serena.
Gliela tirò gentilmente, così che Serena capisse che aveva via libera. Solo allora fece emergere tutto il corpo dallo specchio.
- Mamma! - esclamò, gettandosi tra le sue braccia.
Finirono entrambe sdraiate a letto a causa dell'impeto, Ofelia sentì la schiena schioccare sinistramente. Non era decisamente più una giovanotta. Il suo primo pensiero fu che Serena non aveva più l'età, né l'altezza, per fare certe cose. Le sembrava di essere stata investita da un cavallo. La seconda cosa che pensò, subito dopo, fu che era bello avere di nuovo la figlia tra le braccia, così la strinse come poté, sollevata di averla lì.
Infine provò paura. Serena era lì, da sola, in cerca di un abbraccio, lei che era sempre così composta. Doveva aver frainteso il disegno di Vittoria.
Archibald le aveva fatto qualcosa. Archibald l'aveva ferita...
- Mamma, mi dispiace tanto - mormorò Serena con voce rotta dall'emozione.
Ofelia si scostò per guardarla in volto. - Andrà tutto bene, tesoro. Risolveremo tutto. Ma dimmi, Archibald ti ha fatto del male? Sei scappata? Cos'è successo...?
Ofelia ammutolì quando vide Serena avvampare.
Serena non avvampava mai.
Scosse la testa, evitando di guardare Ofelia negli occhi. - Scusatemi, Archibald sta facendo lo sciocco.
Ofelia aggrottò la fronte e si sistemò gli occhiali, come se potessero aiutarla a vederci chiaro.
- Si è comportato male?
Serena strinse gli occhi e sospirò sonoramente. - Lasciami parlare con mia madre e vattene per un momento - borbottò a voce quasi inudibile.
Ofelia si scostò e si sedette sul letto aggiustandosi la camicia da notte. Aveva gli occhi sgranati.
- Serena, cosa...?
Il sorriso un po' timido e un po' di vergogna della figlia la mandò ancora più in confusione.
- Perdonatemi, mamma. Sto ancora cercando di abituarmi alla costante presenza di Archibald nella mia testa e... per quanto possa essere utile per controllare che non faccia qualche sciocchezza, a volte sa essere molto fast...
- Presenza di Archibald... nella tua testa? - ripeté Ofelia meccanicamente.
Quando tutti i pezzi del quadro si incastrarono, Ofelia si diede della stupida per non averci pensato prima. Archibald stesso, all'epoca, aveva officiato la loro Cerimonia del Dono, permettendo ai poteri familiari suoi e di Thorn di mescolarsi. Era una consuetudine lì al Polo, ma non su Anima, per quel motivo era stato facile dimenticarsene.
E Archibald era... - ...un membro della Rete. Tu e lui...
Serena arrossì di nuovo. - Abbiamo una Rete nostra, ora. Quando la sua famiglia ha reciso il legame con lui, Archibald non ha perso il suo potere. Semplicemente, non aveva più nessuno con cui condividerlo. Quando sua nipote Gabriella, l'unica disposta a presenziare al matrimonio, ha officiato la Cerimonia per noi, lo abbiamo scoperto. È stato... alquanto strano riuscire a sentire i suoi pensieri e vedere attraverso i suoi occhi. Anche se lui si è lamentato subito che avrà un'emicrania perenne a causa dell'eccessivo lavoro che svolge la mia mente. Sinceramente non pensavo che le nostre attività cerebrali fossero tanto diverse, mamma. È come se le vostre menti funzionassero dieci volte più lentamente di...
- Serena, aspetta, rallenta - la interruppe Ofelia, a cui stava già venendo il mal di testa.
Serena non era mai stata così loquace. Ma a parte quello, dire che aveva un cervello lento non era esattamente il miglior complimento da rivolgere a sua madre.
- Oh, scusatemi. Temo che il sollievo mi abbia dato alla testa.
Ofelia si sentì irritata per un attimo. Le sembrava di non riconoscere più la figlia. Scappava senza dire nulla a nessuno per sposarsi e tornava a casa come se nulla fosse. Non era arrabbiata quanto Thorn ma, dietro il sollievo dato dall'averla di nuovo tra le braccia... era arrabbiata anche lei.
- Serena, ti rendi conto di quello che hai fatto?
Serena si rabbuiò e chinò la testa. - Sì. Scusatemi, non avevo altra scelta. E perdonatemi anche per la mia irruenza. Ero solo... così felice di rivedervi. Temevo che non avreste più voluto avere a che fare con me.
Ofelia le accarezzò la guancia, sentendo la rabbia svanire quando vide gli occhi di Serena gonfi di lacrime. Si sentiva solo stanca.
La sciarpa frustò l'aria, frenetica. - È stata una settimana pesante. Dimmi cos'è successo.
Trascorsero la successiva ora sedute a letto, sorde ai morsi della fame, mentre Serena raccontava a Ofelia cos'era successo. Ofelia apprese dei litigi con Ilda e Balder, della situazione tesa con Thorn, e in fondo in fondo non poté biasimarla per aver fatto ciò che aveva fatto quando Archibald era stato l'unico ad offrirle un po' di conforto. Serena le disse che Archibald era stato un signore, le giurò che non era successo nulla di sconveniente prima del matrimonio, i giornali mentivano tutti. Avevano trascorso la luna di miele in un castello di proprietà della famiglia di Archibald, in una zona in cui le illusioni dei Miraggi non imperversavano come nel centro di Città-cielo. Erano stati dei giorni splendidi, rivelò, per quanto velati sempre di preoccupazione e senso di colpa per ciò che aveva fatto. Aveva ereditato il legame mentale della Rete, come già le aveva accennato. Stavano ancora cercando entrambi di abituarsi a quella condizione, lei per ovvi motivi, lui perché era da solo con i suoi pensieri da più di vent'anni. Per giunta, dover condividere la mente con il cervello iperattivo di uno Storiografo non era un'impresa semplice. Da parte sua, Archibald aveva ereditato la lettura. Ofelia trovò il fatto tristemente comico, dal momento che era il dono che Thorn avrebbe voluto ereditare, senza risultati. Il colmo era proprio quello: che lo guadagnasse Archibald grazie al matrimonio con sua figlia.
Serena era felice. Non si era pentita delle sue scelte, anzi. Ogni tanto si estraniava, per parlare in privato con Archibald, si rese conto Ofelia. Non poteva ancora credere che il più sregolato e libertino uomo del Polo fosse riuscito a far innamorare di sé sua figlia, e addirittura ad accasarsi. Ofelia cercò, con titubanza nemmeno troppo velata, di intavolare una conversazione circa i... doveri coniugali. La cosa durò meno di un minuto e comportò una notevole dose di imbarazzo sia a Ofelia che a Serena. In ogni caso, emerse che Serena ovviamente sapeva già tutto, e non solo perché Ofelia gliene aveva parlato quando era diventata adolescente. Chissà quanti libri di biologia si era letta Serena al riguardo. Probabilmente ne sapeva persino più di lei. Fu evidente che in quella settimana di viaggio di nozze il matrimonio fosse stato consumato, e dunque reso effettivo e non annullabile. Mentre Serena arrossiva di nuovo per qualche commentino di Archibald, Ofelia la osservò. Per quanto lei avesse fatto l'improvvisata di andare a sposare Thorn nella cella della prigione, solo molto, troppo tempo dopo aveva davvero capito i suoi sentimenti. Ci aveva messo mesi per capire di essere innamorata di Thorn, e per scoprire di desiderare da lui... anche un po' di più. Lui era stato così paziente con lei...
- Mamma? - la richiamò Serena, distogliendola dai suoi ricordi.
- Va bene, allora... l'argomento è chiuso, giusto? - chiese, rendendosi conto di quanto Thorn l'avesse influenzata in quegli anni.
"L'argomento è chiuso" era una delle sue frasi più ricorrenti.
- Sì, non c'è bisogno di parlarne.
Ofelia la scrutò a lungo, inducendola ad aggrottare la fronte. Così simile a suo padre...
- Cosa hai intenzione di fare ora, Serena?
Serena raddrizzò le spalle come se si fosse preparata a quel momento. - Nell'immediato, pensavo di stare a casa oggi. Ci sono diverse variabili in questo piano, a dire il vero, e se le spiegassi tutte dovrei fare uno schema...
- Rendilo breve, per favore - borbottò Ofelia, massaggiandosi la testa.
Archibald era l'ultima persona a meritare la sua comprensione, ma in quel momento gli faceva decisamente pena. Condividere la mente di Thorn sarebbe stata un'esperienza che si augurava di non fare mai.
- Archibald sta sbrigando alcune commissioni. A quanto pare la condivisione di poteri deve essere registrata per tenerne traccia, così che ogni cittadino sia censito e si possa avere una stima di chi possiede quali poteri. Dopodiché andrà a spostare le sue cose verso la nuova ala che gli hanno... ci hanno riservato nel palazzo della Rete, ma è una sistemazione temporanea. Molto temporanea. Abbiamo un mese per trovarci una casa vera e propria.
Ofelia poteva capirla. Lei stessa si era sentita un'intrusa nella magione di Berenilde, quando era arrivata al Polo. Per quello aveva chiesto a Thorn di poterle dare un suo domicilio. Lo stesso doveva valere per Serena, soprattutto se la famiglia del marito aveva dato loro un termine di trasloco così stretto. Un invito nemmeno troppo velato ad andarsene perché indesiderati.
- Forse Thorn potrebbe...
Serena scosse la testa. - Sono consapevole di ciò che ho fatto. So che non è stato corretto e so di aver ferito molte persone. Papà in primo luogo, dato che gli ho disobbedito. Ero a conoscenza delle conseguenze, però, e le affronterò. Le affronteremo - si corresse dopo un attimo, forse per via di un commento di Archibald. - Cercheremo una casa non distante da qui, sia io che Archibald abbiamo un'entrata, saremo in grado di mantenerci. Non possiamo, e non vogliamo, stare nel palazzo della Rete. Stare qui sarebbe già diverso, ma non voglio essere un peso e, ripeto, non sarebbe giusto.
Ofelia sospirò. Quella era la Serena che conosceva, sempre organizzata e pragmatica. Se solo le cose fossero andate diversamente... - Cosa hai intenzione di fare oggi?
Serena non diede segni di insicurezza, rigida come il padre. Era difficile, come per Thorn, decifrare il suo linguaggio del corpo. - Volevo parlare con voi singolarmente. So che sarebbe stato meglio andare prima da papà, ma non volevo disturbarlo al lavoro. Conosco bene il suo modus operandi. Vorrei... stare con voi oggi, se lo reputate consono. Non voglio disturbare.
- E Archibald?
- Ha un bel po' di lavoro da sbrigare. In più dice che per questa volta, e solo questa, può condividermi... - rispose con troppa schiettezza, traducendo i pensieri di Archibald senza rendersi conto dell'intimità che stava rendendo pubblica. - In tutta onestà, credo che abbia paura di papà. Non posso biasimarlo dopo che...
Serena si zittì, a disagio. Ofelia attese che ritrovasse la parola.
- Il corpo di Archibald è solcato di cicatrici, mamma. A causa di papà.
Ofelia avrebbe voluto dirle che non immaginava nemmeno quanto fosse solcato di cicatrici il corpo di Thorn. Solo di tipo fisico... le cicatrici che si portava dietro dall'infanzia, a livello mentale ed emotivo, erano ancora più numerose. Sentì il bisogno di difendere suo marito. Il trattamento violento riservato ad Archibald era stato ignobile, certo... ma Archibald non era privo di colpe.
- A causa di papà, che però era arrivato al limite. Prima sua zia, poi sua figlia. Sai quanto gli costi ricorrere agli artigli. Quando lo fa, è solo in situazioni estreme, non per una triviale antipatia.
Serena incassò il colpo senza ribattere, saggiamente.
- Ora è inutile rimuginarci su. Tuo padre ha fatto quello che ha fatto, e tu e Archibald avete fatto quello che avete fatto. Non possiamo cancellare i nostri gesti, una volta che li abbiamo compiuti. Oggi resta qui con noi, questa sera vediamo cosa dirà Thorn.
Ofelia si vestì in fretta mentre Serena l'aspettava per andare a fare colazione. Prima di richiudersi la porta alle spalle, Ofelia lanciò un'occhiata al cassetto del comodino in cui aveva nascosto il disegno di Vittoria. Non voleva dare false speranze né a Serena né a se stessa, ma in qualche modo sapeva che sarebbe andato tutto bene.
 
La giornata fu una delle più piacevoli che Ofelia avesse vissuto da qualche mese a quella parte. Serena non era più tetra e seriosa per via della situazione difficile con Archibald, sebbene paventasse ogni ora di più il rientro del padre. Tyr fu entusiasta di vederla, e la prese in giro senza pietà perché per una volta non era lui l'oggetto dell'ira di Thorn. La cosa non risollevò molto il morale di Serena, però non ribatté perché apprezzava il buonumore del fratellino. Le gemelle si dimostrarono fin troppo interessate alla cerimonia nuziale e al viaggio di nozze, tanto che Ofelia fu costretta a sgridarle prima che scandalizzassero la zia Roseline. L'incontro con Balder fu più cauto. I due si squadrarono a lungo, incerti su come l'altro avrebbe reagito. Alla fine fu Balder a percorrere la distanza che li separava in poche falcate, stringendo la sorella tra le braccia. Serena, impacciata come Thorn con le effusioni, si limitò a lasciarsi stringere appoggiando la testa sulla spalla del fratello. La zia Berenilde la sgridò per l'avventatezza e allo stesso tempo, come solo lei riusciva a fare, si complimentò per il colpo grosso. Anche se un po' in decadenza, Archibald rimaneva un membro illustre della cerchia dei cortigiani più importanti. Ofelia apprezzò la delicatezza che mostrò nel non sollevare la questione delle numerose storielle avute dal suo novello marito, di cui una proprio con lei. Ci pensò la zia Roseline a strigliarla per bene, ma Ofelia non si era aspettata nulla di diverso. E anche Serena, che parve addirittura esserle grata per le parole dure.
Quando era quasi ora dell'arrivo di Thorn, però, la tensione crebbe visibilmente in Serena. Distratta com'era, Ofelia decise di portarla direttamente nello studio del padre, per evitare che magari si svolgesse qualche scenata in pieno salotto, di fronte a tutti. Vedendo la figlia che non trovava pace, e sentendosi lei stessa irrequieta, le tornò in mente il periodo di prigionia in casa di Berenilde, con la pioggia come unica compagna giorno e notte. Anche in quel caso, le sembrava di essere tornata ad essere una reclusa.
Leggermente in anticipo rispetto al solito orario, la porta della biblioteca si aprì all'improvviso e l'alta figura di Thorn fece il suo ingresso. Prese atto della presenza di Serena aggrottando appena la fronte, già increspata di suo, e non disse nulla. Si sedette alla scrivania e compose il numero di quello che doveva essere l'ufficio del suo segretario, a giudicare dai pochi ordini laconici e autoritari. Latrò alcuni cambi di appuntamento e di orario prima di riagganciare e sistemarsi nel suo solito modo: gomiti sulla scrivania, dita intrecciate e mento posato sulla sommità.
Più volte Ofelia si era chiesta come facesse a non pungersi, con quel mento ossuto che aveva.
- A quanto pare sono sempre l'ultimo a venire a conoscenza di cose di fondamentale importanza - esordì, glaciale, lanciando un'occhiata tagliente ad Ofelia.
Lei sapeva che non le stava riservando uno sguardo truce solo per avergli taciuto l'arrivo di Serena quel giorno. No, sicuramente Thorn nella sua mente stava rivangando tutte le volte che Ofelia aveva preso qualche iniziativa senza dirgli nulla. Per uno Storiografo, dimenticare era impossibile e portare rancore era fin troppo facile. Naturale, quasi.
- Non volevo disturbarvi al lavoro - si scusò Serena rispettosa.
Le labbra di Thorn ebbero un fremito quasi impercettibile che increspò la sua facciata di assoluta imperturbabilità. Fastidio, interpretò Ofelia.
- Il disturbo che mi avresti dato oggi al lavoro sarebbe stato il minore dei problemi che hai creato.
Serena impallidì, le lenti di Ofelia si ingrigirono. Non si era aspettata una passeggiata, ma nemmeno un trattamento simile. E neanche Serena, a giudicare dal suo sguardo ferito.
Eppure mantenne la schiena dritta, la voce ferma nonostante il dolore che provava. - Non mi avete lasciato scelta, papà...
Thorn batté una mano sul tavolo, facendo trasalire Serena. Forse lei era poco avvezza agli scatti di Thorn, la cui costante padronanza di sé portava a credere che non si sarebbe mai scomposto. Ma Ofelia ricordava bene le volte in cui aveva compiuto qualche gesto avventato. La prima era ancora impressa a fuoco nella sua mente: Thorn aveva spazzato tutto quello che si trovava sulla sua scrivania, telefono compreso, quando Ofelia gli aveva rivelato che sua nonna aveva tentato di incastrarla con l'avvelenamento di Madre Ildegarda. Per lui perdere il controllo in quel modo era il chiaro segno di un turbamento che non riusciva mai ad affiorargli sul viso, ma si agitava dentro di lui come un uragano.
- Scappare contro ogni buon senso con un uomo dalla fama eufemisticamente discutibile, per non parlare del divario d'età, contro un ordine dei tuoi genitori non mi sembra nemmeno una scelta, Serena. Non c'era, una scelta da compiere.
Serena lo guardò sguardo contrito... ma anche deciso. Era pentita di aver fatto soffrire la sua famiglia, ma non di ciò che aveva fatto. Lo avrebbe rifatto, Ofelia lo sapeva.
- Se vi foste trovato voi nella mia posizione, papà, cos'avreste fatto? Se la reputazione della mamma fosse stata discutibile, se il divar...
- Non stiamo parlando di me e di tua madre, qui, Serena - la interruppe Thorn stringendo il pugno. - Pur di proteggerla, io avevo rinunciato al nostro contratto. Il tuo non mi sembra un atto di altruismo.
Ofelia si morse il labbro quando vide che Serena si stava agitando. Un piccolo fremito della mano, un guizzo degli occhi... piccoli segni quasi impercettibili che minavano il suo perfetto autocontrollo.
- La mamma è venuta da voi per sposarvi lo stesso contro...
Thorn si alzò così repentinamente da far sussultare Ofelia. - Non stiamo parlando di me e di tua madre - scandì Thorn lentamente, ogni parola una stilettata di ghiaccio in procinto di creparsi.
- Ma è la stessa situazione! - ribatté Serena alzando appena il tono, lei che non si era mai permessa di rispondere a suo padre. E che non ne aveva mai avuto l'occasione, a dire il vero, ligia com'era. - Ho fatto le cose secondo le regole, papà. Il fidanzamento, il matrimonio, tutto secondo le regole. Siamo intoccabili. È solo perché non avete voluto dare il vostro consenso che siamo dovuti ricorrere a dei sotterfugi.
Thorn aveva i pugni talmente stretti da avere le nocche sbiancate. - Non dare la colpa a me. E prenditi la responsabilità delle tue azioni. Ti do un castello in eredità perché tu possa avere un tuo domicilio, ma nulla più. Non voglio Archibald in casa mia. Se vorrai venire a salutare i tuoi fratelli e tua madre, lo farai da sola. Ti aspetto domani all'intendenza, puntuale.
Lacrime di rabbia, impotenza, tristezza e delusione solcarono in silenzio le guance di Serena. Avevano il sapore del tradimento.
Ofelia le si avvicinò, ma Serena la tenne a distanza con un gesto.
- Vi ho sempre rispettato e ammirato, papà. Siete sempre stato il mio riferimento, giusto, leale, equo, imparziale e assennato, logico. Ora vi guardo, e non vedo nulla di tutto ciò...
- Serena... - l'ammonì Ofelia, prendendole la mano.
Aveva ormai rinunciato alla visione idilliaca del disegno. Serena piangeva come nel ritratto, e si stringevano la mano... ma Ofelia non aveva nemmeno la forza di piangere, e Thorn sembrava ben lungi dall'abbracciare la figlia.
Perché allora Vittoria...?
- Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria - concluse Thorn. - Domani all'intendenza. Puntuale.
Serena abbracciò frettolosamente Ofelia prima di immergersi nello specchio dello studio. Tante volte vi aveva trovato rifugio.
Mai avrebbe pensato di doverlo usare come via di fuga dalla sua stessa casa.

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Capitolo 70
*** Capitolo 70 ***


Ho finito le ferie ç.ç Sono molto triste ç.ç Ma spero che il capitolo vi piaccia. Ora l'attenzione, come promesso, si sposta un po' da Archibald e Serena e si concentra su altro. Questo capitolo è fondamentale per il futuro di Balder (io lo amo. Vorrei un Balder. E' imbarazzante dato che l'ho creato io, è come se fosse mio figlio in un certo senso... va be' xD)
E.... un bel momentino OfeThorn che ci sta sempre bene.
Grazie mille a tutti per il sostegno che continuate a darmi dopo ben 70 capitoli, grazie di cuore!


Capitolo 70

Il litigio che ne seguì, tra Thorn e Ofelia, fu un misto di lacrime e melodramma.
- Hai cacciato tua figlia di casa! - lo accusò lei, cedendo infine al pianto.
Avrebbe voluto bruciare il disegno di Vittoria.
- Le ho dato un castello. Una casa sua. Non l'ho cacciata, è lei che ha deciso di andarsene. Quando due persone contraggono matrimonio, a parte rare eccezioni o un'eccessiva povertà, i coniugi assumono un domicilio proprio.
- Non dirmi che se avesse sposato qualcun altro le avresti offerto un castello, Thorn. Non mentirmi. Se avesse sposato chiunque altro, le avresti permesso di restare finché lei stessa non avesse espresso il desiderio di andarsene.
Thorn serrò la mascella, teso come poche volte Ofelia lo aveva visto.
- Ti ho già detto le mie logiche e ponderate ragioni... - sibilò lui, al limite dell'esasperazione. - Non le ho vietato di vedere i membri della sua famiglia, l'ho solo allontanata per coerenza...
- Al diavolo la tua coerenza, Thorn - lo interruppe Ofelia, tirando su con il naso e scacciando con un gesto il fazzolettino che lui le stava porgendo. - Vuoi dirmi davvero che se Serena venisse a cena con Archibald tu saresti contento? Glielo permetteresti?
Thorn irrigidì la mascella. - Potrebbe venire solo lei in visita...
Ofelia emise un verso di scherno. Thorn non l'aveva mai vista così arrabbiata, e di occasioni gliene erano capitate tante. - Come se io me ne andassi in giro senza di te. Sono sposati, Serena non verrebbe mai da noi lasciando Archibald da solo. E così deve essere.
- Così deve essere anche una punizione.
Ofelia si tolse gli occhiali per asciugarli, stufa. Thorn la prese per le spalle, costringendola a guardarlo. Da così vicino, non le servivano gli occhiali per vederlo chiaramente. Doveva essere curvo come la ruota di una carrozza.
- Ho dato a Serena un castello, Ofelia. Hai detto tu stessa che è sposata. Se rifletterai a mente fredda, in modo logico, capirai che la mia è stata la decisione migliore.
Ofelia avrebbe voluto alzare il sopracciglio, scettica, ma rinunciò perché sapeva che l'effetto che avrebbe ottenuto non sarebbe mai stato neanche paragonabile a quello di Thorn.
- Voglio che Serena ceni da noi almeno una volta alla settimana. Con il marito. Su Anima la famiglia è tutto, Thorn, e siamo tutti una grande famiglia, letteralmente. Archibald, che tu lo voglia o no, è entrato a far parte della nostra. Ma la verità è che faceva parte della nostra famiglia già da tempo.
- Non fa parte della...
- Smettila di essere così intransigente, Thorn! Così duro! - urlò Ofelia, zittendolo. Thorn la guardò senza battere ciglio, le sopracciglia così inarcate da far allungare persino le sue cicatrici. - Ho sopportato così tanto per te, all'inizio! Minacce di morte, pettegolezzi, insulti, travestimenti, persino pestaggi. Penso che, per amore di tua figlia, tu possa accettare di cenare di tanto in tanto con suo marito! Smettila con questa gelosia insensata!
Quella frase lo colpì talmente nel profondo che Thorn quasi non si accorse che Ofelia se n'era andata, con la voce arrochita per averla alzata. Non era decisamente abituata ad usare quel tono. A Thorn fece venire in mente la prima volta che l'aveva udita, alla manifattura di Madre Ildegarda. Anche in quel frangente era rimasto basito... e aveva fatto un bagno di consapevolezza. Consapevolezza della forza di Ofelia, della sua indipendenza, della sua assoluta non-fragilità, a dispetto di ciò che poteva sembrare a primo impatto.
Saltò la cena, passò tre ore immobile alla sua scrivania, abbarbicato lì come un gargoyle, avvolto in una nuvola di fumo della pipa. Con le dita premute sulle tempie, si rese conto che lui e Ofelia avevano litigato più in quelle poche settimane che in venticinque anni di matrimonio.
Era geloso? Non era una novità, a dire il vero, che fosse geloso di Archibald. Era sempre stato dolorosamente consapevole delle differenze che intercorrevano tra lui e l'ambasciatore, il figlio primogenito del ramo principale della Rete, colui che era destinato ad essere il diplomatico di Faruk e che già in fasce sembrava portato per grandi cose. Contrariamente a ogni prospettiva e anche alle statistiche, la bellezza di Archibald infante e ragazzo era stata soppiantata completamente dalla bellezza dell'Archibald uomo. Non c'era stato un singolo momento, nella sua vita, in cui Archibald fosse stato meno di bellissimo. Persino Thorn, suo malgrado, era costretto a riconoscere (ma non ad ammettere) che la sua avvenenza era oggettiva. Aveva goduto dei favori dei nobili da piccolo, e delle donne da grande. Aveva diretto competentemente la sua famiglia, nonostante l'aria da pigro nullafacente e l'idea edonistica che dava di sé.
La verità era che chiunque avrebbe e aveva sempre preferito Archibald a lui.
Persino sua madre.
Per quanto Thorn si sforzasse, lavorasse, applicasse le leggi a regola d'arte, cercasse il benessere dell'intera arca, fosse imparziale e dotato, tutti avrebbero sempre scelto Archibald, lo sciatto, imprevedibile, pungente, sregolato Archibald. Thorn non sarebbe mai stato alla sua altezza. Persino la zia Roseline, si era accorto, per un periodo di tempo era stata sensibile alla presenza di Archibald. Aveva capito che né lui né Archibald godevano delle sue grazie, durante il fidanzamento... ma Archibald era riuscito a farla arrossire. Era sicuro che, se avesse insistito un po', anche quell'integerrima donna avrebbe ceduto.
Aveva cercato di sedurre sua moglie.
E infine gli aveva rubato la figlia.
Thorn non poteva, non voleva credere che quello che c'era fra loro fosse vero amore. O avrebbe dovuto sperarlo, per il bene di Serena? Ormai erano sposati, non c'era nulla, nessun cavillo che avrebbe potuto invalidare un simile contratto. Lui lo sapeva meglio di chiunque altro, data la sua conoscenza dei commi più nascosti e ignorati di ogni singolo codice civile del Polo. Il danno era fatto, il dado era tratto... e nessuno sembrava rendersene pienamente conto. Nemmeno Ofelia capiva quale enorme rischio o problema significasse per la loro figlia. Era condannata ad una vita di infelicità e infedeltà... perché mai, mai lui avrebbe creduto che Archibald potesse essere un uomo leale e devoto alla propria moglie.
La testa gli lanciava fitte di emicrania più intense del solito. Thorn rabboccò la pipa e prese dalla sua collezione privata quattro dadi, che lanciò sulla scrivania calcolandone probabilità e ricorrenze. Non aveva bisogno di fogli, calcolatrici o penne, grazie alla sua mente. Quella mente che però minacciava di scoppiargli.
Perché la vita non poteva essere ordinata e prevedibile come la matematica? Un calcolo, un semplice calcolo, in modo che ognuno sapesse cosa fare, come farlo, e cosa aspettarsi dagli altri.
Dopo centoventinove lanci di dai, Thorn spense la pipa.
Si era innamorato di Ofelia perché sfuggiva completamente alla logica e ai limiti imposti dall'aritmetica.
Lui, un uomo così integerrimo, innamorato di un'anarchica. Il controsenso che veniva a crearsi era paradossale.
Thorn mise via i dadi.
Non conosceva una donna in grado di resistere alle avances di Archibald. Nemmeno sua figlia, la persona più intelligente e dotata di buonsenso che conosceva, più ancora di Ofelia, aveva resistito.
Eppure sua moglie ce l'aveva fatta. Ofelia aveva scelto lui, al di là del matrimonio combinato.
Lo aveva proprio scelto.
Thorn si alzò dalla scrivania.
Aveva sempre saputo di non essere portato per... quelle questioni... sentimentali. Lo aveva detto ad Ofelia. Non era interessato a mostrare la parte migliore di sé, non gli importava di fare buona impressione, non si perdeva in convenevoli. Se una cosa non andava bene, non indorava la pillola. Se una richiesta doveva essere negata, lo faceva con decisione, perché non c'erano zone grigie. Non c'era un risultato diverso, in una somma a due termini. Il risultato era uno, uno e basta, incontestabile.
Ma con Ofelia era diverso. L'aveva delusa? L'aveva maltrattata?
Non sapeva di preciso fin dove potesse spingersi il suo pessimo carattere. Ofelia lo aveva sempre tollerato, lo aveva accettato e lo apprezzava addirittura, ma era una condizione che poteva cambiare in qualsiasi momento.
Specialmente se lui si ostinava a portare avanti degli atteggiamenti che infastidivano Ofelia. Anche se infastidire di sicuro non era il termine corretto.
Thorn spese le luci e si diresse in camera.
Ofelia era semisdraiata, intenta a leggere un libro, quando lui si richiuse la porta alle spalle. Gli occhi assonnati e in procinto di chiudersi della moglie parvero perdere ogni traccia di stanchezza quando lo misero a fuoco. Occhi arrossati e gonfi per le lacrime.
Thorn non voleva essere responsabile del suo dolore. Non voleva essere lui quello che la faceva piangere. Dopo anni di matrimonio, aveva ancora bisogno che lei gli dicesse se faceva qualcosa di sbagliato, o se non faceva qualcosa che avrebbe dovuto fare. Aveva bisogno di Ofelia, sotto ogni aspetto possibile.
Quando aveva finito per dimenticarsene?
Ofelia si mise seduta quando lui si avvicinò e le si sedette accanto.
Esitò prima di ricambiare l'abbraccio dentro cui lui la fagocitò, ma alla fine, per fortuna, lo ricambiò. Seppellì il viso nel suo petto e tirò su con il naso. I suoi ricci gli solleticarono il mento, impigliandosi nella barba.
Aprì la bocca per parlare, ma la sua dialettica infallibile si ruppe, come un'espressione in cui mancava un termine.
Ofelia parve capire. In qualche modo oscuro che lui proprio non comprendeva, Ofelia capiva sempre.
Sollevò la testa per baciargli la gola, in modo dolce, non lascivo. Thorn l'apprezzò più di qualsiasi parola.
Se lo baciava, non doveva essere così arrabbiata, giusto?
- Thorn, Serena non ha scelto Archibald al posto tuo. Non ti ha sostituito. Sono due cose completamente diverse, i sentimenti che prova per lui e per te. Tu sei suo padre, le hai dato la vita, l'hai cresciuta, le hai insegnato tutto ciò che sa. Grazie a te, imitando te, Serena ha trovato la sua vocazione. Ti stima come forse non stimerà mai nemmeno suo marito. Ma il fatto che ti ammiri e ti ami non significa che per lei sarai l'unico. Sarebbe un amore morboso, una cosa diversa dall'amore padre-figlia. Mi preoccuperebbe, se Serena vedesse te come l'unico uomo della sua vita. Ma tu sei l'unico padre che ha. Sei il primo uomo per cui ha provato affetto.
- Ha scelto di sposare Archibald.
Ofelia si scostò per guardarlo negli occhi. - Volevi che sposasse te?
Lo sguardo di Thorn si indurì. Non apprezzò molto il tentativo di Ofelia di alleggerire la tensione, e in effetti era stato un commento un po' pesante.
- Mi ha disobbedito.
Ofelia sospirò. – Thorn, non aveva scelta. Sei l'uomo più intelligente e coerente che conosca, come fai a non renderti conto che non abbiamo diritto di parola quando noi stessi all'epoca abbiamo...
Thorn la interruppe baciandola, un bacio improvviso e inaspettato, quasi impacciato, come quello che si era preso su una muraglia sotto la pioggia, una vita prima.
Ofelia capì che era di quello che aveva assolutamente bisogno in quel momento, così si abbandonò a lui. Poteva cercare di scacciare la sua gelosia, la sua insicurezza, solo donandoglisi completamente.
Così, per una volta non impacciata, si sfilò la camicia da notte e la sciarpa, che si raggomitolò sotto l'indumento e si rimise quieta, semi addormentata. Rabbrividì, non di freddo, quando vide lo sguardo intenso di Thorn percorrerle il corpo, bisognoso di lei. Era una sensazione ancora inebriante, nonostante tutto quel tempo e tutti i loro cambiamenti. Lo afferrò per la camicia e lo tirò giù con sé, perché si sdraiasse sopra di lei. Sapeva che a Thorn piaceva quando prendeva lei l'iniziativa, quando era lei a dimostrargli quanto lo volesse, ma in quel momento era Thorn quello vulnerabile. Era lui quello che doveva condurre, quello che doveva riacquistare fiducia non solo in sé, ma anche in lei, in loro.
Thorn non perse tempo a spogliarsi e Ofelia gli slacciò solo pochi bottoni della camicia prima di afferrarlo per le spalle, aggrappandosi a lui mentre si muovevano insieme. I loro respiri si fusero in baci sempre più lunghi e umidi, così profondi che le lenti degli occhiali di Ofelia arrossirono e il tappeto e il comodino iniziarono a tremare di aspettativa. Ofelia gemette quando Thorn le afferrò possessivamente le cosce per stringersele attorno, cercando di esserle ancora più vicino, ancora più uniti.
Ofelia si chiese come potesse essere tutto così esasperatamente lento e al tempo stesso freneticamente incalzante.
Forse Thorn doveva mostrarsi vulnerabile più spesso, a giudicare dai risultati che quella condizione produceva.
Anche quando ebbero ritrovato il fiato che avevano perso, sdraiati attaccati l'uno all'altra, nessuno dei due trovò qualcosa da dire. Ofelia, premuta contro il fianco ancora vestito di Thorn, ne approfittò per accarezzargli la pelle del petto che era riuscita a liberare dalla camicia. Non era molto, ma poteva andare. Riusciva a raggiungere diverse cicatrici, tracciandogliele delicatamente con le dita. Non aveva i ponti, ma aveva un modo tutto suo per aiutare il marito a rilassarsi. Quando rabbrividì di nuovo, per il freddo questa volta, Thorn si affrettò a coprirla.
Ofelia si decise infine a riprendere la parola.
- Serena e Archibald... vorresti davvero impedirgli di provare ciò che proviamo noi?
Non erano esattamente le parole giuste da dire. In effetti, ricordare a Thorn che Serena e Archibald avevano dei doveri coniugali da adempiere, ricordargli quell'intimità che doveva esserci fra loro, era forse la cosa peggiore da fargli immaginare.
Thorn si sedette sul bordo del letto, allontanandosi da Ofelia.
- Cerca di capire quello che voglio dirti - lo supplicò lei, con la voce spezzata.
Thorn odiava essere la causa di quella sofferenza. Aveva giurato che non l'avrebbe mai ferita... ma c'erano molti modi diversi per fare del male a qualcuno.
- Ti fidi davvero di Archibald? Tu... sei più brava di me, a capire le persone. Riesci a far sì che ti amino. Guarda Renold. L'unica persona a cui è più devoto di te è sua moglie.
Ofelia si allungò per toccargli un braccio. - Non è da te ripeterti e farmi ripetere. Mi fido di Serena, non di Archibald. Mi fido incondizionatamente di Serena. Ma mi fido anche di ciò che ho visto negli occhi di Archibald. Perciò, Thorn, invitali a cena. Insieme. L'unico modo in cui possiamo controllare se va tutto bene è... osservandoli, no?
Thorn si alzò, passandosi una mano tra i capelli spettinati. Ofelia osservò la sua figura slanciata dal basso, i capelli pallidissimi, la fronte alta e un po' stempiata, la barba quasi invisibile, le cicatrici.
Amava quell'uomo. Lo amava anche quando la tormentava in quel modo.
- Dammi tempo - le chiese. Anzi, le ordinò.
- Serena avrà sempre bisogno di te. Dalle la possibilità di vivere la vita che desidera, con chi desidera... ma essendoci sempre, quando le servirà. Perché, lo so, le servirà.
Ofelia sentiva spesso la mancanza del padre. Di quell'uomo buono, silenzioso, un po' impacciato. A modo suo, un modo po' nascosto e schiacciato dalla presenza della madre, suo padre c'era sempre stato per lei. Una volta le aveva detto che avrebbero scontentato le decane, sì, ma almeno le avrebbero scontentate in due.
- Qualunque cosa capiterà, dalle la possibilità di affrontarla con noi.
Thorn la guardò con la coda dell'occhio prima di dirigersi in bagno.
Ofelia si augurò che quello che aveva visto in lui fosse un impercettibile cenno d'assenso con il capo.
Si rivestì, resistette alla tentazione di riguardare il disegno di Vittoria.
Magari non nell'immediato, ma forse, un giorno...
 
In un'altra camera, un'altra coppia se ne stava abbracciata a letto, incapace di dormire.
- Non mi perdonerà mai.
L'uomo le depositò un bacio sui capelli chiarissimi. Poi glieli accarezzò, e per una volta cercò di non lamentarsi per il fastidio procurato dai guanti.
- Lo sai che ti perdonerà. Sai anche che è testardo come pochi. Una caratteristica ereditaria.
Quando la moglie non rise, però, l'uomo abbandonò ogni tentativo di farle tornare il buonumore. Le baciò la guancia.
- Gli ho visto fare cose che vanno completamente contro la sua natura, per tua madre. A quanto pare, anche se non sembra, Thorn è davvero capace di amare. E io lo so che ti ama, altrimenti non avrebbe reagito così. Diciamocelo, se avessi una figlia, nemmeno io sarei stato contento di darla in sposa ad uno come me.
Percependo l'assoluta e dolorosa sincerità nella sua voce, una sincerità nuda e pura, non usata come scudo, per una volta, la donna si strinse ancora di più a lui, accarezzandogli il viso con la mano guantata.
- Tu pensi troppo male di te.
- E tu troppo bene. Capisco l'atteggiamento di tuo padre, davvero. Penso anzi che quello che ha fatto sia più di quanto io mi meriti. Lo apprezzo. Ma lo odio, anche, per il modo in cui ti sta facendo soffrire.
Una lacrima le sfuggì prima che lei riuscisse a trattenerla. - Pensi che le cose si sistemeranno?
Archibald le posò un bacio delicatissimo sulle labbra, scostandosi quando Serena le schiuse, pronta per approfondire il contatto.
Lui le rivolse un sorrisetto scanzonato del tutto irresistibile. - Non sottovalutare la capacità di Ofelia di ottenere ciò che vuole. E lei di sicuro vuole vedere sua figlia. E sono certo che lo voglia anche Thorn. Ma solo Ofelia può farglielo capire.
- Non pensavo avessi tutto questo... rispetto, per mia madre.
L'uomo avrebbe voluto dirle che aveva assoluta stima per chi era riuscita a resistere ai suoi tentativi di seduzione, ma non gli sembrava delicato dirlo a sua moglie. Non era decisamente il caso di minare la sua fiducia in lui ricordandole il suo passato.
- Come potrei non averne, quando ha saputo rimettere in riga quell'uomo più rigido e inflessibile di un palo? E che lo ha pure sposato! Mi sono sempre chiesto se fosse un po' pazza... ma le sono anche grato. Molto grato. E anche a tuo padre, purtroppo.
La donna inarcò un sopracciglio, in quella maniera che la faceva assomigliare così tanto a suo padre. - E perché mai?
Archibald la baciò di nuovo, un po' più a lungo questa volta, sentendo il cuore accelerare quando sua moglie sospirò. - Perché senza di loro, testardaggine compresa... non avrei mai avuto te.
Finalmente Serena sorrise, un sorriso piccolo e timido, ma era tutto ciò di cui Archibald avesse bisogno.
 
Il tempo che Thorn aveva chiesto ad Ofelia non venne mai quantificato.
Serena andava spesso a trovare la madre a casa quando finiva di lavorare all'intendenza. Si congedava dal padre, attraversava qualche specchio e salutava i fratelli e le sorelle. Chiacchierava un po' con Ofelia, la aggiornava su come stessero andando il trasloco e il lavoro. A detta della figlia, Archibald era il miglior uomo che potesse capitarle. Era paziente e le chiedeva sempre resoconti dettagliati della giornata. Si interessava della sua salute, aveva delle premure nei suoi confronti che nessuno aveva mai avuto. Non perché Ofelia e Thorn le avessero fatto mancare qualcosa, precisò a sua mamma, temendo si offendesse, ma perché un tipo diverso di amore comportava un tipo diverso di bisogni e riguardi. La ascoltava parlare senza mai stancarsi, e Ofelia si chiese quanto mai potesse parlare la silenziosa e riservata Serena.
Forse l'amore cambiava davvero le persone.
Forse serviva proprio una persona, la persona giusta, perché si potesse tirare fuori il meglio di sé, la propria vera personalità.
Nonostante la gioia di Serena, però, Ofelia non si faceva ingannare. Negli occhi della figlia, uguali ai suoi, vedeva inconfondibilmente la ferita che l'atteggiamento di Thorn aveva scavato.
Al lavoro ovviamente parlavano... di lavoro. Thorn faceva fatica ad aprirsi con lei, figuriamoci con la figlia che lo aveva deluso e che aveva cacciato di casa.
Serena una volta le confessò di essere felice di poter stare con lui almeno all'intendenza, perché altrimenti non lo avrebbe mai visto. Lavoravano bene insieme, si capivano.
Si capivano su tutto... eccetto Archibald.
L'affetto che Serena provava per il padre non era diminuito, e il rancore che aveva provato si era dissipato. Per merito anche di Archibald, le rivelò Serena, che le ripeteva sempre che non doveva avercela con Thorn e che al suo posto lui avrebbe reagito peggio. Come ogni figlia, sperava solo di potersi ricongiungere con il padre, con quell'uomo un po' brusco nelle parole e nei gesti, ma che non aveva mai esitato a cambiarle un pannolino, ad assisterla mentre vomitava, a pulirle il naso, a cullarla in piena notte. Ad insegnarle tutto ciò che sapeva.
Serena quelle cose le ricordava tutte, una per una, non poteva dimenticarle. Sapeva che quell'uomo c'era ancora, dietro al senso di tradimento che provava.
Sapeva che si sarebbe ancora affrettato in suo soccorso, se ce ne fosse stato bisogno.
Ofelia cominciò a fare pressioni su di lui affinché invitasse la figlia e il loro genero a cena, per aiutarli a riavvicinarsi. Per aiutare Serena, ma anche Thorn, a stare meglio. Lo ripeteva spesso, che Archibald era il loro genero. Come se volesse scolpirglielo nella mente affinché non se ne dimenticasse.
Come se Thorn avesse potuto scordarlo. Avrebbe voluto, ma non poteva.
Mentre i tentativi di Ofelia di far riconciliare padre e figlia arrancavano, almeno i suoi tentativi di persuadere Balder a lavorare con lei funzionarono. Probabilmente per esasperazione, ma quello non era importante.
Balder si era concentrato così tanto sullo sviluppo dei ponti e aveva passato così tanto tempo a rimpiangere di non avere la memoria degli Storiografi da aver dedicato sempre meno attenzioni all'altro potere che aveva: quello della lettura. Ofelia lo aveva aiutato a svilupparla quando ancora andava a scuola, prima che capisse cosa voleva fare da grande. Aveva istruito sia lui che Serena, spiegando loro ciò che a suo tempo il prozio aveva insegnato a lei.
Ofelia lo convinse ad andare ad aiutarla dopo la settimana di chiusura dovuta al matrimonio di Serena. Gli appuntamenti che aveva dovuto spostare si erano accavallati tutti e le serviva aiuto, un aiuto pratico che Renard ovviamente non poteva darle, per quanto fosse sempre efficiente e disponibile.
Il primo giorno Balder la seguì quasi di malavoglia, ma visto l'umore un po' grigio di Ofelia in quei giorni e la tensione che aleggiava in casa, aveva deciso di assecondarla per amore della pace. E anche per distrarsi un po' dal pensiero fisso di Ilda e, anche per lui, di Serena. Gli dispiaceva che le ultime parole rivolte alla sorella prima che se andasse fossero state amare. Lui e Serena erano sempre andati d'accordo, erano pacati per natura. Temeva che se fosse stato meno brusco con Serena nulla di tutto quel pasticcio sarebbe successo, e quell'idea lo tormentava. Avrebbe potuto essere più comprensivo? Serena aveva solo cercato di aiutarlo...
Aveva anche ragione, da un certo punto di vista. La situazione tra lui e Ilda era meno complicata rispetto a quella di Serena e Archibald... ma più complicata da un altro.
La verità era che Serena gli mancava. Era strano non vederla più tutte le sere a cena, strano non essere più rimproverato pacatamente da lei quando bisticciava con Tyr.
Aiutare sua mamma era una gradita distrazione. E, si scoprì, una rivelazione.
Il primo giorno di apertura fu frenetico. Il secondo non fu da meno. Ofelia non sarebbe mai riuscita a star dietro a tutte le perizie da sola. Renard redigeva le relazioni e si occupava dei pagamenti (Ofelia, nonostante tutti quegli anni, non era mai stata pratica della parte pecuniaria e amministrativa), Balder si limitò ad eseguire le letture più semplici. Se non che una volta sbagliò l'anello da esaminare e, invece di leggerne uno relativamente recente, ne lesse uno vecchio di almeno cent'anni, senza battere ciglio.
Ofelia gli aveva spiegato che gli oggetti più vissuti erano i più difficili da leggere. Erano stati maneggiati da così tante persone in così tanti momenti che chi eseguiva la perizia rischiava di perdersi, se non manteneva integra la propria personalità e il contatto con la realtà.
Quando Ofelia si accorse che Balder aveva toccato l'anello sbagliato, era ormai troppo tardi. E quando lui riaprì gli occhi, per nulla turbato, l'angoscia era stata soppiantata dalla sorpresa. Senza farsi notare, mentre Balder redigeva la relazione da consegnare al cliente, Ofelia lesse a sua volta l'anello. Poi confrontò la sua lettura con il resoconto di Balder.
Impeccabile. Mancavano solo due o tre dettagli, non fondamentali, per renderla assolutamente perfetta.
Dal momento che Balder esercitava raramente quel potere, comunque, quella disamina era taumaturgica. Renard non parve nemmeno farci caso, preso com'era dalla catalogazione e dal depennare le letture effettuate dalla sua lista, ma quando chiusero lo studio per tornare a casa, quella sera, Ofelia parlò seriamente con Balder.
Era molto dotato per quelle perizie. A meno che su Anima non fosse nato, nel corso degli anni, qualcun altro con il talento di Ofelia, lei era certa che suo figlio avrebbe preso il suo posto come miglior lettore di Anima.
Sorpreso da quelle affermazioni, il giorno dopo Balder testò le sue capacità cimentandosi nelle letture più ardue. Ofelia gliele promosse tutte.
E trovò anche il modo per ricompensarlo.
Era chiaro che, nonostante il suo talento, la vera vocazione di Balder rimanesse quella di utilizzare i ponti per fare del bene. Utilizzarli solo su parenti e amici però stava diventando avvilente per lui.
Ofelia aveva dei clienti che poteva definire fedeli, nobili che nel corso degli anni le avevano chiesto diverse perizie e si erano sempre dimostrati soddisfatti, portandole nuovi clienti. Loro si fidavano di lei.
E lei si fidava di suo figlio.
Così, quando il quarto giorno di lavoro si presentò nello studio una nobile senza-poteri sposata con un Miraggio poco in vista, una delle sue migliori clienti, Ofelia mise in atto il suo piano. Era una delle sue preferite, priva della puzza sotto il naso tipica di chi era nato nella bambagia, lì al Polo. Il suo era stato un vero matrimonio d'amore, dal momento che raramente i casati più in vista si sposavano con dei senza-poteri. Suo marito era stato screditato per quell'unione, ma aveva un talento illusorio unico e molto utile, quindi non avevano potuto estrometterlo del tutto dalle ricchezze di famiglia. In ogni caso, nonostante il salto nella scala sociale, sua moglie aveva conosciuto la povertà e la sofferenza, e nemmeno il lustro della corte le aveva tolto la naturale empatia e gentilezza.
La donna perfetta su cui tentare il suo progetto.
Renard andò a chiamarla nel retro, dove avevano l'ufficio, con i due oggetti esaminati e le due relazioni perfettamente incartate. Ofelia lo ringraziò e si diresse verso la parte dello studio aperta al pubblico, dove Balder stava studiando una pipa di fronte ad un nuovo cliente. Molto recente, un lavoretto facile. Balder non ci mise molto a leggerla e a scrivere due appunti per Renard, riferendo i fatti salienti al cliente. La nobile intanto osservava la scena incuriosita. Andava lì da anni, cercando di capire se gli oggetti che aveva in casa erano stati manipolati o affetti da qualche illusione che a lei e al marito sfuggiva. I rischi di entrare in una famiglia di Miraggi, o di esserci nati. Ma era la prima volta che vedeva qualcun altro esercitare quel potere, estraneo al Polo.
Ofelia pensò che non poteva capitarle occasione migliore, Balder si stava mettendo in buona luce da solo. Quando raggiunse il bancone, Ofelia si bloccò gemendo, con la spalla rigida.
La Miraggio la guardò con preoccupazione, mentre Balder scattò in piedi e si precipitò dalla madre. La Miraggio indietreggiò quando vide l'altezza di Balder. Ofelia le lesse in volto ciò che pensava: figlio dell'intendente. Se non bastava la somiglianza con Ofelia stessa a far capire che era suo figlio, l'altezza ereditata da Thorn ne era la prova inconfutabile.
- Mamma, state bene?
Ofelia sperò che la sua faccia sofferente non sembrasse troppo falsa. Non era brava a recitare, né a fingere dei dolori che non aveva.
- Sì, credo. Ho solo... la spalla bloccata. Sento una fitta. Puoi pensarci tu, Balder?
Lui annuì, solerte. - Volete sedervi prima?
- No, sono sicura che sia una cosa da nulla e che sarai velocissimo.
Balder aggrottò la fronte, ma non disse nulla.
L'effetto benefico dei suoi ponti fecero provare sollievo ad Ofelia nonostante non avesse nessun dolore. Non si era resa conto che la tensione di quei giorni si era davvero scaricata sulla sua schiena, quindi non dovette fingere: i ponti di Balder la stavano davvero aiutando.
Sospirò. - A posto Balder, grazie. Mi sento molto meglio.
Balder annuì, le sfiorò il braccio in una specie di carezza, e tornò al lavoro. Solo allora parve accorgersi della Miraggio che li guardava con gli occhi sgranati. Timido come al solito arrossì, le rivolse un impacciato saluto con il capo e tornò dal suo cliente.
Ofelia cercò di non sorridere. - Scusatemi madame, a volte dimentico di non essere più giovane come un tempo. Continuo a farmi male come quando ero una ragazza, ma ci metto più tempo a guarire. Mio figlio è un vero toccasana.
- Non sapevo fosse un lettore anche lui. Di sicuro però è un valido aiuto per voi.
- In realtà ha iniziato da pochi giorni a collaborare con me. Lui è specializzato in altro, qualcosa che né qui né al Polo viene praticato.
La Miraggio annuì distrattamente, indecisa se essere indiscreta e chiedere di più o essere educata e non indagare. Prese il borsellino dalla borsetta per pagare il servizio, con delusione di Ofelia, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio.
- Scusatemi, posso chiedervi cos'è successo? Vostro figlio non vi ha nemmeno toccata. In cos'è... specializzato, come avete detto?
Ofelia seppellì il viso nella sciarpa per non mostrare apertamente il sorriso. Poi la scostò, fingendo che si fosse mossa di sua spontanea volontà. La Miraggio conosceva bene la sua sciarpa, la prima volta che l'aveva vista aveva pensato si muovesse solo grazie ad un'illusione. Quando la sciarpa, offesa, le aveva fatto volare via il cappellino, aveva capito che era invece molto reale e molto viva.
- Oh, mio figlio ha dedicato gli ultimi mesi a trovare un modo per sfruttare gli artigli dei Draghi per fare del bene anziché del male. Potrebbe essere paragonato ad un dottore, in un certo senso. In casa non riusciamo più a fare a meno di lui, non c'è nervo che non riesca a sistemare.
Come c'era da aspettarsi, la Miraggio spalancò gli occhi, sorpresa. - Gli artigli? Ma... nessun Drago, da che si ha memoria, li ha mai usati per curare qualcuno.
Ofelia si strinse nelle spalle. - È per questo che Balder esercita solo in casa. Nessuno gli crederebbe, tutti lo temerebbero. La famiglia paterna di mio marito è sempre stata conosciuta come volubile e capricciosa, di certo non incline agli atti di bontà. Ma Balder è diverso.
- E i suoi artigli non fanno del male?
- Lui li chiama ponti. Il potere è fondamentalmente lo stesso, è il modo di utilizzarli che è diverso. Un modo mai sperimentato prima.
La Miraggio parve meditarci mentre prendeva i soldi.
- Vostro figlio però ha partecipato alla caccia. Vuol dire che... sa usarli anche nella maniera che tutti conoscono, no?
- Sì, esatto. Per questo teme che nessuno sia disposto a provare le sue arti mediche. Ci sarebbe troppo pregiudizio, e non ha torto, dati i precedenti e la nomea dei Draghi. Balder però non ha la tempra dei parenti paterni. Nessuno dei miei figli ce l'ha, nonostante la caccia. Hanno avuto anzi molte difficoltà ad imparare a padroneggiare gli artigli, temevano sempre di ferire qualcuno.
Ofelia non aveva mai parlato così tanto con una cliente, nemmeno con la Miraggio, con cui si era intrattenuta più spesso. Si versò un bicchiere d'acqua per schiarirsi la gola. Sperava che dipingendo sotto la giusta luce tutta la famiglia, la signora si incuriosisse e, magari, provasse il talento di Balder. Forse con un passaparola...
- È... molto diverso da ciò che viene raccontato nei giornali.
Ofelia cercò di non fare una smorfia.
- Da quando sono qui al Polo, non ho letto una testata giornalistica che fosse vera.
La signora annuì suo malgrado. - Anche se il giornale è gestito da un membro del mio clan, non posso darvi torto. Lo dico solo perché mi fido di voi. Ciò che in passato è stato detto sul vostro conto... di sicuro non corrisponde a realtà.
Ofelia fu felice di quell'ammissione, che doveva costare davvero molto alla sua cliente. - Vi ringrazio.
La Miraggio le lasciò i soldi sul bancone, prese le sue carte e le sorrise. - Grazie a voi per la vostra sincerità.
Quel dialogo non aveva sortito l'effetto sperato da Ofelia. Certo, aveva fatto pubblicità a Balder, ma non aveva molto senso se nessuno era poi spronato a voler provare i suoi ponti. Non si presentarono altre occasioni per quella settimana, ma Ofelia era fiduciosa che prima o poi ce l'avrebbero fatta a far conoscere il talento e la scoperta di Balder.
Alla fine della settimana, non appena chiusero lo studio, Balder andò nel retro, nell'ufficio. Ofelia e Renard erano chini su un registro in cui alcuni dati non erano stati annotati, cercando di ricostruire a quale cliente facessero riferimento. Quasi non fecero caso a Balder.
Lui si schiarì la voce, a disagio. - Vorrei continuare a lavorare con voi mamma, se posso.
Ofelia alzò la testa così di scatto che diede una testata sul mento di Renard.
Quell'omone cadde per la sorpresa, e Ofelia, costernata, rischiò di finirgli addosso. Lui la rassicurò con un gesto, alzandosi da solo e massaggiandosi il viso.
- Come hai detto? - chiese allora Ofelia a Balder, temendo di aver capito male.
Balder si strinse nelle spalle, impacciato. - Mi piace questo lavoro. È interessate leggere gli oggetti, ricostruire la loro storia. A me studiare storia è sempre piaciuto, e in un certo senso questo è quasi la stessa cosa. Solo per mezza giornata, se per voi va bene. Vorrei continuare ad esplorare altre branche dell'applicazione dei ponti. Però potrei dare una mano anche a voi e... padroneggiare meglio questo secondo potere.
Ad Ofelia venne in mente il prozio, l'orgoglio che avrebbe provato senza ovviamente dirlo esplicitamente. Le si inumidirono gli occhi. Anche lei non riusciva a palesare bene i propri sentimenti, quindi non avrebbe mai detto quanto era orgogliosa e quanto quella richiesta la riempisse di gioia.
Sperò solo che trasparisse dalla sua voce spezzata. - Mi farebbe molto piacere. Anzi, ci - si corresse, quando si accorse che Renard, immobile accanto a lei, piangeva apertamente.
Una volta, quando era piccolo, nella sua ingenuità Balder aveva temuto che tra Ofelia e Renard ci fosse qualcosa. Era stata una paura sciocca da bambino, durata quanto una primavera e poi sparita. Solo a distanza di anni aveva capito la vera natura del rapporto tra la mamma e il suo consigliere. Un'amicizia, un'amicizia pura. Renard era protettivo nei confronti di sua mamma, ma alcune volte le si rivolgeva in tono quasi intimo chiamandola "ragazzo" e dandole del tu. Ad Ofelia non pareva dare fastidio, anzi, più avanzava con l'età e più la cosa la faceva sorridere. Era quel genere di amicizia che una volta avevano avuto lui e Ilda, completamente scevra di... passioni.
Ofelia e Renard erano fedeli l'uno all'altra... ma soprattutto ai loro coniugi, ed era innegabile l'amore che provavano per Thorn e per Gaela.
Renard si illuminava come un caminetto quando vedeva la moglie, anche quando lei schioccava la lingua e lo ignorava. Poi però lo guardava di sottecchi e Renard sembrava ringiovanire di vent'anni.
Balder sorrise. - Allora da lunedì comincerò ufficialmente. Preferite che lavori la mattina o il pomeriggio?
- La mattina andrà bene. A volte Renard deve svolgere delle commissioni la mattina, quindi il tuo aiuto mi sarà prezioso.
Balder annuì. - Va bene, certo. E... mamma?
Ofelia inclinò la testa percependo un cambiamento nel suo tono. - Sì?
Balder si torse le mani nei guanti. - Posso andare a trovare Serena questa sera?
Ofelia sorrise. - Perché non ci andiamo insieme?

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Capitolo 71
*** Capitolo 71 ***


Non mi capita spesso, ma sono soddisfatta di questo capitolo. Si sistemano un po' di cose, altre iniziano finalmente a funzionare, Balder è sempre uno gnocco da paura...
Tutto a posto insomma.
E poi mi sento malvagiamente felice, anzi, felicemente malvagia per le ultime tre frasi del capitolo ahahahahahahahah. Sono una bruttissima persona. Non vedo l'ora di leggere i vostri commenti <3


Capitolo 71

Quando Ofelia concluse l’ultima commissione e si presentarono al castello di Serena e Archibald, perfettamente a metà strada tra casa loro e lo studio di lettura, Balder fischiò.
- Casa piccolina, direi.
In effetti, il palazzo di Serena era di poco meno imponente del loro. Ma loro ci vivevano in una decina, senza contare i domestici.
Ad aprire fu proprio Archibald, che li accolse con due bicchieri di vino e un enorme e sincero sorriso che, suo malgrado, fece saltare un battito al cuore di Ofelia. Sorriso che poi si spense immediatamente.
- Ah, siete voi. Aspettavo mia moglie.
Archibald non si era rabbuiato, non proprio. Ma quasi. Ofelia non era mai stata attratta da lui, ma non poteva negare che fosse oggettivamente bello. E con la capacità di fare dei sorrisi che contagiassero anche gli occhi, lo era ancora di più. Ofelia spostò lo sguardo sul vino.
- Spero non stiate corrompendo mia figlia.
Archibald ritrovò il buonumore. - Il venerdì sera festeggiamo sempre la fine della settimana con mezzo bicchiere di vino, cara suocera. Mezzo, nulla più.
Balder inarcò un sopracciglio. - A stomaco vuoto?
Archibald ghignò. - Vostra sorella è molto più allegra quando le entra nelle vene un pochino di alcol -. Il suo sguardo si indurì, facendo intendere chiaramente che non era divertito. - Dopo una settimana passata a lavorare con il vostro lugubre padre, ha bisogno di un aiutino per ritrovare la gioia, cognato.
Balder strinse i pugni. Sorpresa, Ofelia gli posò una mano sul braccio per calmarlo. Sentiva la leggerissima corrente dei suoi artigli pizzicarle la pelle. Gli artigli di Balder, non i ponti.
Ma erano stati loro a piombare a casa altrui senza preavviso, di sicuro non volevano peggiorare i rapporti. - Non siamo qui per litigare - mormorò diplomaticamente, con voce così flebile da costringere entrambi gli uomini a concentrarsi su di lei. - Volevamo solo salutare Serena.
Archibald la soppesò senza il sorrisetto strafottente e falso di sempre. Vuotò il suo bicchiere d'un fiato. - Be', accomodatevi.
Ofelia non ricordava di essersi mai sentita impacciata dal silenzio in presenza di Archibald. Di solito lui ciarlava fino a coprire ogni imbarazzo, per poi crearne di nuovi lui con le sue insinuazioni. Rimase così sorpresa dal suo cambiamento, però, da non riuscire a proferire lei stessa parola. Archibald era... pulito. In ordine.
Sbarbato, con un taglio nuovo, senza cilindro sbrindellato. Indossava una redingote sobria ma elegante. Appena confezionata. Senza buchi. Con tutti i bottoni.
Ofelia boccheggiò, ma Archibald non sorrise vedendola in difficoltà. - Serena meritava un marito presentabile - spiegò lui senza bisogno di porre domande. - Non voglio farla sfigurare. Non vivo più solo per me, ormai.
Balder era talmente accigliato che Ofelia temeva gli sarebbe rimasto per sempre il solco tra le sopracciglia. Un po’ come suo padre.
- Vi ringrazio per... avere questa considerazione per mia figlia.
Archibald fece una smorfia. - Considerazione che voi non avete. Facevo e faccio tutt'ora sul serio.
Ofelia sospirò. - Non sono venuta a cercare lo scontro o a puntare il dito, Archibald. Sono qui per salutare mia figlia e suo marito.
A quell'affermazione Archibald parve sgonfiarsi un po'. Forse vedersi finalmente riconosciuto nel ruolo di marito di Serena era tutto ciò che gli serviva.
Sorrise appena, ma sorrise davvero. - Oh be', in tal caso benvenuti in casa nostra. Ci sono alcune cosette da rifinire ma le cose fondamentali le abbiamo. Certo, non possiamo ancora ospitarvi per dormire per sfuggire alle grinfie del signor intendente, ma a breve sarà possibile anche quello.
Balder si irrigidì. - Le grinfie del signor intendente vi hanno dato una dimora di tutto rispetto, signore - sibilò.
Archibald scosse la testa, sospirando. - E pensare che una volta ero lo zietto di tutti.
- Non siamo qui per polemizzare, Archibald. Thorn ha sbagliato, ma non ha agito senza motivo. Da un certo punto di vista non posso dargli torto.
Archibald si accigliò. - Non è per ciò che ha fatto a me che ce l'ho con lui. È per Serena. Lei adora suo padre. Pensate sia facile saperla tutto il giorno a contatto con lui nonostante il rapporto teso, e poi vederla sciogliersi in lacrime quando rincasa la sera? Capirei, accetterei, l'odio di Thorn nei miei confronti se solo questo risparmiasse Serena dalla tristezza.
Balder perse l'atteggiamento conflittuale e si curvò, come se avesse all’improvviso caricato un peso sulle spalle.
- Sono certa che con il tempo...
Il rumore della porta d'ingresso che si apriva zittì tutti. Archibald saltò in piedi, si sistemò giacca e camicia e prese il bicchiere, facendo loro cenno di tacere. Poi andò da Serena.
- Buonasera moglie. Posso avere l'ardire di dirti che i tuoi capelli sono più fulgidi del sole, quello vero, e che la tua pelle risplende come la sua sorella luna?
Ofelia e Balder udirono una risatina sommessa, poi lo schiocco di un bacio.
- Sei ridicolo - disse Serena, mentre la sua voce si avvicinava.
- Sì, be', nessuno mi ha mai definito ridicolo, ma penso che sia anche questa una poetica espressione del tuo amore, no?
Balder si alzò in piedi di scatto quando Serena varcò la soglia del salotto, perdendo il sorriso. In casa si erano salutati distrattamente quando Serena era andata a trovare Ofelia di sera... un saluto ben diverso da quello che sarebbe stato appropriato dato il loro rapporto. In sostanza, non si erano più davvero parlati da quando avevano litigato.
Ofelia si alzò a sua volta, temendo uno scontro, ma non ebbe mai il tempo di parlare.
Uno scontro ci fu, ma di natura diversa da quella che si aspettavano tutti. Balder e Serena corsero insieme l'uno verso l'altra. Serena saltò letteralmente addosso al fratello. Era praticamente la metà di lui, a parte l'altezza, eppure riuscì a farlo cadere. Si ritrovarono aggrovigliati sul tappeto, con Balder che cercava di levarsi dalla bocca i suoi capelli e Serena che tentava di liberare una gamba. Gli diede un calcio per sbaglio.
- Ahio! - esclamò Balder, sorpreso. - Dovrei essere io quello imbranato, non tu!
Serena si immobilizzò e lo guardò con gli occhi sgranati prima di scoppiare a ridere. Si lasciò nuovamente cadere su di lui di peso, spremendogli fuori l'aria dai polmoni. Quando ritrovò il fiato, anche Balder si mise a ridere. Ofelia sorrise e Archibald si illuminò sentendo la risata così rara di Serena, soprattutto negli ultimi tempi. Balder la strinse a sé, seppellendo il viso nei suoi capelli.
- Mi sei mancata.
Serena nascose il viso nel suo collo. - Ultimamente, purtroppo, piango spesso. Ti chiedo per cortesia di non farmi ricominciare, è molto... deludente, da parte mia.
Balder alzò gli occhi al cielo. - Solo tu puoi pensare che piangere sia deludente. Io sono deludente, piuttosto. Mi dispiace per ciò che ti ho detto. Sono... felice per te. Davvero. Mi sembra che Archibald si stia comportando bene. In caso contrario, sai che...
Archibald si schiarì platealmente la voce. - Sapete, un carattere istrionico come il mio gongola all'idea che si parli di lui. Ma sarei qui, signori, se permettete.
Serena ridacchiò ancora e si alzò, aiutando Balder a fare lo stesso. Poi si avvicinò ad Archibald, che le porse il braccio.
- Come vedete, caro cognato e suocera, sono un perfetto gentiluomo.
- Seh - borbottò Balder, con un mezzo sorriso.
Archibald batté più volte le palpebre, come se vedesse per la prima volta Balder. - Accipicchia, ho paura che questo ragazzo prima o poi farà impallidire la mia bellezza. Come vi permettete di essere tanto avvenente, giovanotto? Soprattutto considerando che avete i geni dell'intendente...
Serena gli diede una gomitata. - Sii educato...
- Sono educato! Gli ho fatto un complimento!
Balder era arrossito, e le lenti degli occhiali con lui. - Come va il lavoro? - chiese per cambiare argomento.
Serena si strinse nelle spalle. - Come mi aspettavo. È quello che ho studiato per tutta la vita. Mi piace.
Balder annuì. - E... con papà?
Serena esitò. - Come prima. Più o meno.
- Pensavo che nel vocabolario puntuale tuo e di tuo padre un'espressione così vaga non fosse nemmeno contemplata - commentò Ofelia, mentre Serena si intristiva.
Cercava, senza successo, di non dar peso alla questione. - Lavoriamo bene insieme. Molto bene. Almeno al lavoro ci capiamo.
- Ma...?
Serena si morse la cucitura di un guanto. Archibald le strinse affettuosamente il braccio. - Ma non mi guarda nemmeno in viso.
Esitò.
Intervenne Archibald. – Diglielo, Serena...
Lei sospirò. - A volte mi sembra che mi guardi la pancia. Come se temesse di vederla crescere da un giorno all'altro, prova che gli ho mentito - rivelò di getto, arrossendo. - Prova che io e Archibald non abbiamo rispettato i termini del matrimonio.
Fu il turno di Ofelia di sospirare. - Almeno da quel punto di vista, siamo certi che si ricrederà presto. A meno che voi non... insomma, sarebbe normale, da sposati...
Sia Balder che Serena avvamparono, e così Ofelia stessa. Un conto era parlarne con sua figlia da sola, un conto era nominare certi argomenti alla presenza di due uomini, di cui uno ancora troppo giovane.
- No - la bloccò subito Serena. – No, no.
- Non nell'immediato - la corresse Archibald.
Serena lo guardò come se temesse di avere a braccetto un estraneo. Figli? Non ne avevano mai parlato, ancora.
Balder si schiarì la voce. - Io invece ho iniziato a lavorare con la mamma.
Serena si illuminò. - Davvero? Come lettore?
Mentre Balder e Serena monopolizzavano la conversazione, finirono per sedersi. Il tempo passò. La tensione si dissipò. Archibald li fece ridere. Non fece più commenti pungenti su Thorn.
Dopo un po' di tempo Serena guardò l'orologio sulla sua collana e poi sua mamma, che se ne accorse. Guardò la pendola che svettava lì vicino, alzandosi.
- Siamo in ritardo per la cena.
Balder però non si alzò. - Posso restare?
Tutti lo fissarono, cercando di capire a chi avesse rivolto la domanda.
Alla fine Balder guardò Serena e Archibald. - Posso autoinvitarmi a cena?
Serena gli sorrise, poi si voltò verso Archibald, che chinò il capo. - Saremo lieti di avervi come primo ospite, caro cognato.
- Mamma?
- Suppongo non ci siano problemi, se i padroni di casa hanno accettato. Sai tornare a casa?
Balder alzò gli occhi al cielo, sorridendo. - Sì, mamma. E voi?
Ofelia scosse la testa, avvilita. - Non c'è più rispetto, al giorno d'oggi.
Voleva essere una battuta leggera, ma Serena si sentì presa in causa. Cercò di mascherarlo comunque con la sua espressione impassibile, così simile a quella di Thorn.
Ofelia la salutò abbracciandola e raccomandò a Balder di non fare troppo tardi e di non disturbare.
- Sarà anche la moglie di Archibald ora, ma rimane mia sorella. Certo che la disturberò.
Ofelia sorrise. Prima di andare, però, aggiunse: - Abbi pazienza, Serena. Tuo papà è testardo, ma ti vuole davvero bene.
Balder inarcò un sopracciglio. - Dire che è testardo è dir poco.
Ofelia lo guardò male. - Non mi pare che in famiglia ci sia qualcuno non affetto da testardaggine.
Archibald si chinò verso di lei per farle l'occhiolino. Per una volta, privo della solita malizia. - A cominciare dalla madre, a dire il vero. Prima ancora che vi sposaste con Thorn avevo capito che sareste stata una bella grana per il Polo. Avete fatto di testa vostra così tante volte che...
- Ho capito, ho capito. Possibilmente, non davanti ai miei figli, Archibald.
Lui le rivolse un sorriso furbo. - Oh, ne avrei da raccontare.
Ofelia si affrettò a salutare tutti, prima che Archibald tirasse fuori le decine di volte in cui aveva disobbedito. Non sarebbe stato un buon esempio, proprio per niente. Ci mancava solo che anche Balder e Tyr cominciassero a fare di testa loro.
A cena Archibald non distolse gli occhi da Serena nemmeno per un secondo. Non la vedeva così... serena da quando si erano scambiati il loro secondo bacio. Da lì in poi era stata tutta una girandola di ansia e incertezza, anche dopo il matrimonio, per via dei rapporti con Thorn. Ma in quel momento, quella serata, Serena era felice. Ogni tanto gli stringeva la mano, felice di averlo accanto mentre Balder la aggiornava sulla sua nuova intenzione di aiutare Ofelia allo studio. Evitarono accuratamente l'argomento Ilda, confermando a Serena che non c'erano stati sviluppi, così come l'argomento Thorn, anche se Balder volle sapere tutto di quello che faceva al lavoro. Mantenendo il segreto professionale, Serena gli raccontò comunque delle richieste più assurde che i cortigiani avevano l'ardire di pretendere. Balder rise tanto da farsi mancare il fiato, mentre Archibald scuoteva la testa sogghignando, dicendo che quello era nulla in confronto a ciò che aveva visto e sentito lui. Serena invece mantenne la sua calma compostezza, come se non stesse affatto parlando di questioni surreali.
Quando Balder rincasò, con il cuore leggero, trovò Thorn ad attenderlo in salotto. Il cuore si fece di piombo, sprofondandogli nello stomaco. Non aveva un coprifuoco, giusto? Guardò l'orologio: no, non era nemmeno tardi. Eppure suo padre lo inchiodava con lo sguardo come se avesse commesso un crimine.
Lo stesso sguardo con cui Ofelia aveva, diverse ore prima, fulminato Thorn. Quando Thorn le aveva chiesto il perché del suo ritardo e della mancanza di Balder, Ofelia gli aveva riferito della loro visita a sorpresa a Serena. Dopo avergli detto che Balder avrebbe cenato dalla sorella, lo aveva guardato male, sfidandolo a dire qualcosa. Thorn non aveva detto nulla, stranamente docile. In fondo, tutte le limitazioni che aveva imposto non si applicavano assolutamente agli spostamenti dei figli.
- Ehm... buonasera papà. Tutto... bene? - chiese Balder, per sbarazzarsi di quel silenzio scomodo.
Thorn parve rifletterci. Sembrava più che mai un rapace, con lo sguardo affilato come il naso e il corpo immobile. - Sì. Tu?
Cos'era, un'inquisizione?
- S-sì, bene, grazie.
Thorn annuì.
Balder si torse le mani. Perché si sentiva in colpa anche se non aveva fatto nulla di male?
- La mamma vi ha detto che ho intenzione di lavorare allo studio con lei?
Thorn annuì seccamente di nuovo. - È stata una proposta gradita. Di recente ho ispezionato la sua contabilità e i suoi appuntamenti. A parte gli sconti che sembra applicare senza criterio, non ho riscontrato irregolarità. Ma gli appuntamenti sono aumentati del diciotto percento negli ultimi tre anni. Lei non lo ammetterebbe mai, ma ha bisogno di aiuto.
- Certo, mi fa piacere rendermi utile. E sono contento di sperimentare qualcosa di nuovo. Aspettate, ma controllate ufficialmente anche i registri della mamma? Come intendente o come marito?
- Come intendente. Un'ispezione in veste di marito non avrebbe alcun valore.
Balder batté gli occhi più volte. - Fate davvero i controlli contabili ufficiali anche alla mamma?
Thorn, invece, non batté ciglio. - Ha un'attività commerciale, certo che faccio i controlli anche a lei. Una volta le ho fatto una multa per un'irregolarità. Nessuno è al di sopra della legge.
Balder era sconvolto. - Ma... è come se la multa l'aveste fatta a voi stesso.
- Infatti l'ho pagata io.
Thorn non aggiunse altro. Balder nemmeno. Non avrebbe saputo cosa dire, sinceramente. Sapeva che suo papà era... ligio, ma così si rasentava l'ossessione! Non sapeva se apprezzarlo o temerlo.
Balder si grattò il mento, a disagio. Non si rasava da due giorni, il rumore dei suoi guanti che grattavano contro la barba risuonò innaturalmente forte in quel silenzio teso.
- Allora, buonanotte, papà.
- Sì.
Balder aveva quasi girato l'angolo quando Thorn lo chiamò.
- Serena. Sta bene?
Lui si girò, sorpreso. - La vedete più spesso di me.
Questa volta, Thorn distolse lo sguardo. - Al lavoro non è come a casa.
L'espressione di Balder si addolcì. - Sta bene. Ma sono certo che starebbe ancora meglio, se glielo chiedeste voi.
Thorn gli lanciò un'occhiata delle sue, per rimetterlo al suo posto. Per ricordargli qual era il suo ruolo: quello di figlio.
Balder cercò di non alzare gli occhi al cielo. - Sta bene, sì. Avvilita per la situazione, ma Archibald si prende cura di lei. Ognuno può pensare e vedere quello che vuole ma... io so quello che ho visto. La ama davvero, potrei giurarlo. Però le mancate.
Thorn si rimise a fissare il muro. - Buonanotte.
Sospirando, anche Balder gliela augurò.
Sì, decisamente in famiglia non ce n'era uno che non fosse testardo.
 
Nei mesi successivi ci furono diversi cambiamenti. A poco a poco, come la pioggia costante che erode le rocce, la mentalità delle persone può essere cambiata. Così come la loro volontà.
E la loro testardaggine.
La prima novità si presentò quando Balder lavorava con Ofelia ormai da un mese.
Una mattina insolitamente calma, allo studio, Balder stava aiutando Renard a spostare uno scatolone di vecchi documenti mentre Ofelia faceva il controllo di cassa. Entrò la Miraggio che Balder aveva già visto due o tre volte nel corso del mese, sua mamma gli aveva confermato che era una delle clienti più affezionate che avevano.
- Buongiorno madame - l'accolse Ofelia, con voce pacata come sempre. - Come posso aiutarvi oggi?
La Miraggio si tolse i guanti, gesto che per un momento Balder invidiò. Aveva iniziato ad apprezzare il suo potere da quando esercitava con Ofelia, lo aveva rivalutato, ma a volte non poter toccare liberamente ciò che voleva era frustrante. Era come se ci fosse sempre una certa distanza tra lui e il mondo.
La signora sembrava a disagio. - Perdonatemi, non so bene come dirvelo. Io sarei venuta per vostro figlio, oggi.
Balder alzò la testa di scatto, Renard si fermò. Reggevano ancora entrambi lo scatolone.
Ofelia non sembrò per nulla turbata da quella preferenza, nonostante per anni fosse stata lei ad eseguire le perizie per la donna. In un certo senso, se Balder era così bravo, il merito era un po' anche suo: il potere lo aveva ereditato da lei, ed era stata lei ad insegnargli ciò che sapeva. Era felice che potesse essere tramandato... e che il titolo di miglior lettore venisse conquistato dal figlio.
- Certo, madame. Si accomodi pure, mio figlio arriverà a breve per eseguire la perizia.
- Ehm... no... - farfugliò la donna, mentre Balder e Renard ricominciavano a camminare. - Volevo sapere se potrebbe aiutare mio marito... con i ponti.
Un frastuono e un'imprecazione fecero sussultare sia Ofelia che la Miraggio, che si voltarono verso l'origine del rumore. Balder fissava la donna con occhi sgranati, le mani vuote dopo aver fatto cadere lo scatolone sul piede di Renard, il responsabile dell'esclamazione colorita.
- Come? - domandò Balder, stupito.
Ofelia lottò per non lasciare che la bocca si tirasse in un sorriso di trionfo.
- Vedete, mio marito soffre da diversi mesi di mal di schiena. Da due giorni la situazione si è aggravata. È convinto di essere un giovanotto, non mi ascolta mai quando gli dico di prendersela più comoda. Comunque, per me si è stirato o strappato qualcosa, non saprei. Vostra mamma però mi parlava del vostro... talento.
Balder si sistemò gli occhiali che erano scivolati sulla punta del naso, poi si grattò la cicatrice. - Io sono lusingato per la vostra fiducia, madame, ma... forse per una questione del genere dovreste sentire un medico. Non sono certo di potermi occupare di un caso così delicato con la mia poca esperienza.
La Miraggio scosse la testa. - Non vi dico quanti soldi abbiamo speso in medici. Ciarlatani incompetenti, dal primo all'ultimo. Le nostre illusioni sono più concrete dei loro titoli di studio. Credo che tentare con un nuovo approccio non guasterebbe. Fidatevi, non potrebbe aggravarsi più di così. Va in giro curvo come un vecchio da due giorni, e solo quando il dolore non lo costringe a letto. Ho parlato con lui delle vostre capacità, e abbiamo convenuto che fare questo tentativo non nuocerà.
Renard fece rimbalzare gli occhi tra Balder e la Miraggio, senza nemmeno cercare di nascondere la curiosità.
- E se non fossi capace di risolvere il problema?
La donna si strinse nelle spalle. - Ora come ora, non è risolvibile e lui lo sa. Non cambierebbe nulla, avremmo solo un po' di speranza in meno. Però, non staremo lì a chiederci come sarebbe stato fare questo tentativo. Se voi aveste un'occasione, seppur minima, di realizzare un desiderio... non la sfruttereste?
Ofelia vide lo sguardo di Balder cambiare totalmente. L'incertezza si affilò, divenne qualcos'altro. Determinazione, forse. Sicurezza.
- Va bene madame, vi presterò i miei servigi. Ditemi solo dove e quando.
La Miraggio quasi si commosse. Gli sorrise riconoscente. - Vi ringrazio molto, moltissimo. Se non è troppo disturbo, vi chiederei di venire anche subito. Mi piacerebbe alleviare la sofferenza di mio marito quanto prima, e non ha senso indugiare. Sempre che voi non abbiate, ovviamente, impegni precedenti.
Rispose Ofelia per lui. - Oggi è una giornata particolarmente tranquilla. Vai pure.
- Ovviamente pagherò tutte le spese di trasporto e... di tutto quello di cui potreste avere bisogno. Vi devo acquistare delle attrezzature specifiche?
Balder scosse la testa. - Solitamente mi porto dietro tutto quello di cui ho bisogno. Aspettatemi solo due minuti, poi potremo partire.
La Miraggio guardò il giovane andarsene con stupore. - Si porta dietro... il suo altro lavoro?
- Non è proprio un lavoro, non ancora. Gli piacerebbe, ma è arduo far cambiare le proprie idee all'intera popolazione. Senza offesa. Le parole "Draghi" e "benefici" nella stessa frase farebbero storcere il naso a chiunque. Sono in pochi quelli che si azzarderebbero a proporsi per un simile esperimento.
La Miraggio parve quasi volersi tirare indietro. - Ma... voi li avete provati, no?
Renard, con le spalle afflosciate alla prospettiva di tirare su un simile scatolone da solo, sospirò. - Li abbiamo provati e riprovati. E dopo il carico che mi toccherà sollevare da solo, oggi, il signorino Balder questa sera mi dovrà una bella seduta extra sotto i suoi ponti.
- Perdonatemi Renold, mi sono proprio dimenticato di v... del pacco.
Renard sorrise bonariamente a Balder, che aveva messo giù la sua borsa per aiutare l'ex insegnante. Gli fece l'occhiolino. - Era dai tempi in cui facevo il valletto che qualcuno non si dimenticava di me.
Balder sembrò così dispiaciuto che Renard scoppiò a ridere, facendogli capire che scherzava.
- Davvero, per voi questa questa sera dose doppia di ponti.
Posarono lo scatolone sul relativo scaffale dell'archivio e Renard gli scompigliò i capelli. - Ci conto, ragazzo.
Lui gli sorrise e riprese la borsa. Diede un bacio ad Ofelia e regalò anche a lei un sorriso come non ne vedeva da tanto. Ofelia pensava sempre che quello fosse il sorriso che avrebbe avuto Thorn, se mai avesse provato a muovere in quel modo i muscoli facciali. Ed era bellissimo.
- Buona fortuna - gli augurò Ofelia.
Balder drizzò le spalle, pronto a farsi strada con le sue forze.
- Come mai vi portate dietro l'attrezzatura per lavorare con i ponti anche se non esercitate? - gli domandò la Miraggio uscendo.
- Diciamo che mi piace tenermi pronto per qualsiasi evenienza. Se volete mentre andiamo posso spiegarv...
La voce si perse in lontananza mentre i due si allontanavano, ma Ofelia continuò a fissare la porta accarezzandosi la sciarpa per diversi istanti.
Alla fine Renard la riscosse dai suoi pensieri posandole una mano sulla spalla e porgendole una tazza di tè. - Sono grandi ormai, ragazzo.
Ofelia sorrise e accettò la tazza. Una figlia sposata. Un figlio che lavorava con lei e forse, finalmente, aveva trovato la prima occasione per poter fare ciò che davvero desiderava. Un altro figlio che aveva già realizzato il suo sogno e due figlie minori che presto sarebbero entrate in società.
- Ne abbiamo fatta di strada - mormorò Ofelia.
Renard le diede una leggera pacca con il braccio. - Puoi ben dirlo, ragazzo. Puoi ben dirlo.
 
La sera, il sorriso a trentadue denti di Balder parlò da solo.
Rientrò in casa nello stesso momento di Ofelia, Thorn e Renard, che si voltarono sul vialetto giusto in tempo per veder allontanarsi quella che era chiaramente una carrozza appartenente ai Miraggi.
Ofelia non fece in tempo ad assalirlo di domande che Balder raccontò tutto da solo. Per essere timido e pacato, quando era entusiasta diventava un vero chiacchierone.
- È stato fantastico, non mi sono mai sentito così... così...
- Realizzato? - suggerì Ofelia.
- Sì! - esclamò lui, infilandosi le mani tra i riccioli, euforico. Come risultato, i capelli finirono sparati da tutte le parti. Come se solitamente non fossero già spettinati di loro.
- Cos'è questo baccano? Che hai combinato, giovanotto? - saltò su la zia Roseline, infastidita.
Berenilde, distesa su una chaise-longue mentre pettinava i capelli di Vittoria, parve non accorgersi nemmeno del trambusto. Tyr invece scattò in piedi, urtando bruscamente Tom e Ilda. Il primo si massaggiò la spalla, la seconda gli tirò un calcio sullo stinco.
- Ti sei mangiato di nuovo quella roba che sembra rosmarino? Non ti vedo così felice da quella volta.
Thorn aggrottò la fronte. - Quale rosmarino?
Balder avvampò e scosse la testa. - Ho ottenuto il mio primo cliente fisso!
Nella cacofonia che ne seguì fu quasi impossibile per Balder raccontare cos'era successo, sommerso com'era da elogi, pacche amichevoli e scoppi di risate qui e là. Alla fine riuscì a spiegare gli avvenimenti della giornata, dal momento che quella mattina era uscito di casa tranquillo come al solito ed era tornato che sembrava avesse bevuto un goccio di sole da quanto era raggiante.
Riassunse l'incontro della mattina e il tragitto per andare a casa dei Miraggi, durante il quale aveva spiegato per filo e per segno come funzionava il suo potere alla signora che aveva richiesto il suo intervento.
- E tu ti sei fidata a lasciarlo andare da solo a casa di due Miraggi? - sibilò Thorn a Ofelia, interrompendo, non per la prima volta, Balder.
- È una mia cliente da anni, mi fido di lei. Non tutto quello che faccio è da incoscienti, sai?
Lui strinse le labbra come per obbligarsi a stare zitto, e Balder continuò.
Il problema del marito era grave, il poveretto se ne stava piegato senza alcuna possibilità di riuscire a raddrizzare la schiena. Balder si era fatto spiegare a quali cure mediche si fosse fatto sottoporre e da chi, prendendo appunti per un'ora intera.
- Nessuno si è annoiato a morte? - intervenne Tyr, che sapeva bene quanto potessero durare gli interrogatori di Balder.
Il fratello lo guardò male e lo ignorò.
In sostanza, aveva fatto sdraiare l'uomo a letto, prono perché sdraiarsi sulla schiena in quelle condizioni sarebbe stato impossibile. Aveva cercato di sondare i nervi dorsali del Miraggio con un approccio molto leggero all'inizio, ma si era quasi spaventato vedendo in che stato versasse la schiena del Miraggio. Allora si era rimboccato le maniche e aveva detto ai coniugi che avrebbe dovuto andarci giù un po' più pesante per ottenere qualche beneficio, solo che la cosa avrebbe potuto causargli una forte sonnolenza.
- Avevi il camice vero? Scommetto che ti sei rimboccato davvero le maniche - lo prese in giro Tyr.
Questa volta, oltre a Ilda, anche il pacifico Tom gli diede un calcio, facendolo uggiolare. Almeno tacque, anche se li guardò male.
In sostanza, il marito gli aveva detto di procedere come meglio credeva. Lui si fidava di sua moglie, che si fidava di sua mamma, che si fidava di lui e... insomma, si fidava. Doveva fidarsi.
Dopo aver lavorato sulla sua schiena per tre ore, con il poveretto che si era addormentato della grossa dopo cinque minuti, la Miraggio aveva invitato Balder a mangiare qualcosa e fare una pausa. A fine pasto erano stati interrotti da alcune urla, e subito dopo il padrone di casa si era precipitato nella sala da pranzo ridendo come un bambino e piegando la schiena in ogni modo possibile. Balder lo aveva guardato con orrore e prima che potesse fermarlo, la schiena aveva emesso un brutale schiocco e il Miraggio si era fermato a metà movimento. Balder lo aveva obbligato a tornare a letto. Anche se il colpo subito era stato molto più leggero che in passato e il Miraggio era riuscito a camminare ancora molto bene, Balder gli aveva intimato di non alzarsi per il resto del pomeriggio, perché lui potesse continuare a lavorare.
Ci era voluto un intero pomeriggio solo per permettere all'uomo di potersi muovere senza temere di bloccarsi di nuovo, ma c'erano così tanti nodi di tensione da sciogliere che Balder avrebbe dovuto tornare ogni pomeriggio per tutta la settimana. Se li avessero ignorati, presto o tardi la situazione sarebbe peggiorata e il Miraggio si sarebbe trovato punto e a capo. Con quella promessa in tasca, letteralmente, perché i Miraggi gli avevano fatto firmare un contratto, la signora aveva pianto e lo aveva abbracciato, e anche il marito si era commosso mentre lo ringraziava. Gli avevano fornito la carrozza per rincasare, e Balder non aveva saputo dire se fosse più commosso o gioioso per ciò che era successo.
Aveva fatto del bene. Aveva usato i ponti a fin di bene. Aveva vinto il pregiudizio. Era stato utile a qualcuno.
Non riusciva a smettere di sorridere, e Ofelia si accorse che Ilda non riusciva a smettere di guardarlo. E sorridere a sua volta, perché Balder era talmente bello, di una bellezza pura e umile, che era impossibile non ricambiare.
Ofelia non avrebbe mai pensato di arrivare al punto di sentirsi come sua mamma, eppure... una figlia era sistemata (felice, ecco significava per lei che fosse sistemata), e già pensava al secondo.
La paga che alla fine della settimana gli venne corrisposta, una somma per cui anche Thorn quasi sgranò gli occhi, era nulla in confronto al piacere che aveva provato nel fare un’opera buona e nel vedere la sincera gratitudine dei due Miraggi. Si erano accordati per continuare con delle sedute di controllo ogni due settimane per tenere d'occhio la situazione, ma Balder era sicuro di aver fatto un buon lavoro. Avrebbe tanto voluto avere modo di disegnare internamente la struttura della schiena dell'uomo prima e dopo l'intervento. Si chiedeva come avesse fatto a vivere così per tutti quegli anni. Il Miraggio gli aveva rivelato di essere addirittura in grado di respirare meglio, da quando Balder lo aveva guarito.
Guarito!
Gli artigli, i ponti, potevano guarire.
La settimana dopo Balder disse che sarebbe andato a cena da Serena per dare anche a lei la notizia. Thorn gli fece presente che, vedendola al lavoro tutti i giorni, glielo aveva accennato lui stesso. Ma farselo riferire da Thorn non era affatto come raccontarlo di persona, quindi Balder era andato. E Tyr lo aveva seguito.
La settimana successiva si aggregò Ilda, che non vedeva Serena da troppo tempo. Nonostante il litigio, a nessuna delle due andava di serbare rancore, e la serata che passarono insieme fu una delle più piacevoli della loro vita. La settimana dopo ancora si unirono anche le gemelle, a cui mancava la sorella maggiore. Poche settimane dopo, tra un impegno e l'altro, a tavola si ritrovarono solo Ofelia e Thorn.
Non era mai accaduto, in tutti quegli anni, che a cena ci fossero solo due persone. Mai. C'era sempre la famiglia di Renard, ma i coniugi si erano presi una serata per loro e Ilda aveva trascinato Randolf a casa di Serena. Vittoria, Tom e Berenilde erano andati a fare visita a Faruk, e la zia Roseline si era unita a loro per controllare quel "malandrino". I figli di Ofelia e Thorn erano tutti dalla sorella maggiore.
Ai due non dispiaceva avere un po' di tempo solo per loro, ma la situazione evidenziava un grosso problema di fondo.
- Sai, se tu ti decidessi ad invitare nostra figlia e suo marito a cena, i nostri figli non sarebbero costretti ad uscire la sera, per strada, per poterla vedere un po'.
- Sono Draghi, sanno difendersi.
Ofelia sbuffò. - Prima o poi accetterò anche io l'invito di Serena e tu ti troverai qui da solo.
Thorn alzò gli occhi, improvvisamente attento. - Ti ha invitata?
- Ci ha invitati. I suoi genitori. Non ho mai potuto accettare quell'invito.
Thorn la ignorò, chiudendo il discorso a modo suo come al solito.
Ma Ofelia non demorse, e così nemmeno Balder nel tentativo di trovare nuovi clienti.
Non fu difficile. A quanto pareva, anche se nelle serate di corte i due Miraggi restavano sempre lontani dai riflettori, la loro influenza era potente. Nell'arco di poche settimane la cliente più fidata di Ofelia era diventata anche la cliente più fidata di Balder, facendogli così tanta pubblicità che ad un certo punto i pomeriggi di lavoro quasi non gli bastavano più. Aveva appuntamenti su appuntamenti, ma non voleva assolutamente rinunciare a lavorare con sua mamma. Non solo perché era grazie ad Ofelia se era arrivato dov'era in quel momento, ma anche perché il lavoro come lettore gli piaceva. Raggiunsero un compromesso con Renard: dato che grazie al supporto di Balder era diventato più facile gestire il lavoro allo studio, Renard si era incaricato di fare da segretario anche a lui, gestendo i suoi appuntamenti.
C'era voluto qualche giorno di rodaggio, ma alla fine il trio Ofelia-Balder-Renard era diventato una macchina funzionante e super efficiente. Un successo su tutta la linea, anche quella giornalistica.
Per la prima volta da quando Ofelia era al Polo, infatti, lessero un articolo del Nibelungen non solo lusinghiero nei confronti della loro famiglia, ma soprattutto veritiero. Pubblicità gratuita e ben diffusa. Fu possibile solo grazie all'intervento dei Miraggi che Balder aveva servito per primi. I due infatti avevano minacciato, in maniera non meglio specificata, il direttore del giornale. Era ovviamente un loro cugino, e quando la voce sui ponti di Balder si era propagata come un'epidemia, lui aveva subito trovato il modo di utilizzarla a proprio favore: tirature extra e prettamente scandalistiche. Offesa, la coppia di Miraggi lo aveva costretto a scrivere non sono un articolo di smentita il giorno seguente, ma addirittura che parlasse in maniera sublime dell'intelligenza e delle capacità di Balder.
Lo studio di lettura di Ofelia divenne quindi Studio di lettura e naturopatia, un termine coniato da Balder, che sosteneva che ciò che faceva fosse tutto assolutamente naturale.
Tyr lo aveva preso in giro per il nome così altisonante, ma era piaciuto a tutti, perciò lo avevano approvato.
Finalmente, a distanza di quasi un anno dalla prima caccia, anche Ofelia riuscì ad ottenere qualcosa. Ci vollero pazienza, costanza, litigi e sane dosi di rabbia per convincerlo, ma alla fine Thorn cedette. Cedeva sempre, con lei.
Invitò ufficialmente Serena e Archibald a cena.
Prima di trasformarsi in una vera e propria festa, quella sera, scorsero fiumi di lacrime. Da parte di Serena, di Ofelia, della zia Roseline, anche se era ancora "arrabbiata" con lei per la sua condotta sconsiderata. E poi ancora Balder, Renard, persino Ilda parve tergersi gli occhi, salvo poi far lacrimare Tyr per il pugno che gli tirò quando lui si azzardò a prenderla in giro. E Vittoria.
Vittoria, che guardava Ofelia. Nessuna delle due aveva dimenticato il disegno, ma quel ritratto non divenne una scena vera nemmeno quella sera. Serena e Thorn non si abbracciarono. Thorn rimase più rigido del solito, non degnò né di un saluto né di un'occhiata Archibald, che per l'occasione aveva comprato un completo d'alta sartoria. Né Archibald si sforzò di conversare con il suocero, o lo prese in giro in modo pungente come aveva sempre fatto. Sapeva che sarebbe stato controproducente, ma più di tutto, in realtà, non riusciva a staccare gli occhi da Serena. Che sorrideva, che parlava, che rideva e scherzava. Nemmeno nei suoi momenti più entusiastici era stata felice come quella sera. Con la sua famiglia, completa.
Erano ancora lontani dall'ottenere l'unità che avevano sempre avuto. I rapporti con Thorn erano ancora tesi, ma il fatto stesso che tollerasse la presenza di entrambi sotto lo stesso tetto, uno accanto all'altra, aveva del miracoloso.
Ofelia chiuse gli occhi ad un certo punto, felice.
Si sarebbe realizzato, quel disegno, ne era certa. Sarebbero tornati come prima.
Di sicuro seppe ricompensare bene Thorn, quella notte.
Quando lui andò in doccia, lei si spogliò in fretta e si infilò dentro con lui. Lo spinse contro il muro, gli baciò ogni singola cicatrice, dal petto, il massimo d'altezza a cui arrivava, all'addome, alle braccia. Poi si inginocchiò e passò alle gambe, e lì rimase, mentre Thorn si sosteneva all'altro muro per mantenere l'equilibrio e il controllo di sé. Alla fine la fece rialzare per baciarla, per attaccare lei al muro, per sentirla sospirare vicino al suo orecchio. Quell'ultimo anno era stato denso, pieno di emozioni, positive e negative, ma solo quella notte finalmente Thorn sentì che Ofelia era tornata sua nella sua interezza. Completa. Solo per lui.
Finalmente si erano ritrovati, e passarono quasi tutta la notte a baciarsi e accarezzarsi come due ragazzini alle prese con il primo amore. O meglio, come una coppia di sposini novelli.
Thorn le baciò via le lacrime prima che lei si addormentasse tra le sue braccia.
- Grazie per questa sera - mormorò con voce impastata. 
Quattro parole che racchiudevano una decina di significati. A volte la matematica era buffa.
Thorn scosse la testa, arrendendosi a sua volta al sonno.
Solo Ofelia poteva fargli pensare che la matematica fosse buffa.
 
Ma l'anno non era ancora finito, e tra le varie emozioni che avevano provato, ne mancava una.
La paura.
La seconda caccia era dietro l'angolo.

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Capitolo 72
*** Capitolo 72 ***


Sono egocentrica se dico da sola che adoro questo capitolo? Di solito però quando un capitolo mi piace particolarmente, agli altri è abbastanza indifferente...
Spero di cuore di no, perché è Balder!Centric. Tuuuutto il capitolo per il mio bambino supersexy... ahem... Lo amo.
Va be'.
Buona lettura. Ah, e Ofelia per una volta non è la responsabile della paura altrui come molte avevano ipotizzato ;)


Capitolo 72

La seconda caccia non andò proprio bene bene come la prima.
Forse perché erano meno spaventati, forse perché erano troppo sicuri di sé... qualcosa andò storto.
Ofelia non li accompagnò. La sua presenza era stata inutile l'anno prima, se l'erano cavata egregiamente, quindi non avrebbe avuto senso seguirli. Per non parlare del fatto che quella caccia, com'era consuetudine, si svolse in giornata.
Per l'occasione Serena e Archibald rimasero con Ofelia, Vittoria e Tom, la zia Roseline e Ilda tutto il giorno, in attesa che gli amici e i parenti tornassero. Alcuni stavano giocando a carte, altri leggendo o lavorando con qualche nuovo macchinario da testare in officina, quando la porta d'ingresso sbatté con un impeto che fece sussultare quasi tutti.
Renard si stiracchiò, accarezzando Salame che gli si era addormentato in grembo. Nessuno sapeva come quel gatto potesse essere ancora vivo. - Oh, sono tornati i nostri prodi cacciato... - esclamò, prima che la vista che gli si presentò davanti gli facesse mordere la lingua dalla paura.
Thorn e Tyr incedevano sorreggendo Balder, uno per lato. Il volto del ragazzo era esangue, il respiro corto e affaticato. Più che camminare, strisciava i piedi per terra.
- Chiamate un dottore, dannazione! - urlò Tyr, prossimo alle lacrime. - O la governante, qualcuno, chiunque...!
La zia Roseline non lo richiamò nemmeno per l'imprecazione. Renard scattò in piedi, facendo cadere a terra Salame che atterrò aggraziatamente sulle zampe e, troppo vecchio per arrampicarglisi addosso, salì sul divano. Si parò davanti a tutti evitando che si assiepassero attorno a Balder, ferendolo o intralciando Thorn e Tyr.
Ilda aveva gli occhi sbarrati per il terrore. Lei, che manteneva sempre il sangue freddo ed era padrona di sé, in quel momento era immobile, incapace di reagire. Urtandola, fu Randolf a correre fuori dalla stanza per chiamare la governante.
Seguendoli con i piedi di piombo e il cuore che batteva furiosamente, Ofelia arrancò dietro Thorn e Tyr, che depositarono Balder a letto con una delicatezza inaspettata da parte di due persone pratiche come loro. Tyr gli sbottonò la pelliccia e rivelò una camicia intrisa di sangue al di sotto. Gli sfuggì un singhiozzo di frustrazione che fece piangere Ofelia.
- La fasciatura non ha retto - disse glacialmente Thorn, come se Balder non si stesse dissanguando di fronte a loro. La verità, però, era che anche a lui tremavano le mani mentre rimuoveva la camicia in modo tale da mettere a nudo la pelle. Ofelia aveva assistito ad un omicidio in diretta, alla suturazione di diverse ferite profonde di Thorn e dello stesso Balder, aveva partorito due gemelle in una locanda con solo l'aiuto del marito... non era proprio avvezza alle scene cruente, ma non ne era nemmeno digiuna. Eppure la vista della ferita di Balder le fece venire la nausea.
Nel fianco aveva una profonda artigliata che aveva portato via pelle e carne, tre segni indelebili. Nella parte superiore si intravedeva l'osso della costola, fortunatamente sfuggito al colpo. Il problema era il sangue. Così tanto sangue...
La governante, che ormai era anziana e non più abituata a quelle corse a rotta di collo, arrivò con il fiatone. Anche lei, che di ferite ne aveva curate tante, sgranò gli occhi.
Tyr parve impazzire alla vista dell'ansia sul viso della donna che lo aveva aiutato a venire al mondo, come se fosse la conferma che suo fratello era spacciato.
- Qualcuno ha chiamato un dottore? - esclamò, implorando l’aria, guardando Ofelia. - Sapete se è stato chiamato? Chi...
La governante gli afferrò il polso con una presa ferrea, in netto contrasto con la fragilità che sembrava derivare dai suoi capelli bianchi. - Di sicuro sbraitando così non aiuterete nessuno, ragazzino. E un medico non comparirà magicamente sulla soglia di casa. In ogni caso, non serve alcun medico.
Thorn strinse gli occhi a fessura. - L'artigliata non ha intaccato l'osso né gli organi interni.
La governante non parve stupita. La sua riverenza nei confronti di Thorn era aumentata da quando lui aveva fatto nascere Mira e Belle, le sue competenze mediche non la sorprendevano più. Ofelia, invece, ne rimaneva sempre colpita. Non tanto per la conoscenza teorica, quanto per quella pratica. Si chiedeva spesso, in casi del genere, quante delle cicatrici di Thorn lui si fosse curato da solo, in silenzio, lontano da una parola gentile o un gesto di conforto.
- Precisamente - confermò la governante alla volta di Thorn. - Basta ricucire per evitare ulteriori perdite di sangue e integrare con del ferro per ripristinarne la giusta quantità favorendone la riproduzione.
Thorn assentì con un secco cenno del capo mentre la governante si chinava su Balder, mettendosi al lavoro. Non aveva capito granché di quello che Randolf le aveva riferito, ma nel dubbio aveva portato pomate, kit per suturare e altri strumenti utili.
Tyr, invece, non si calmò, sordo a qualsiasi parola gli venisse riferita. - Quello stupido, gliel'avevo detto, io! Rischiare una morte del genere solo per... una teoria, che idiozia! Lo ucciderei con le mie stesse mani se non fosse in punto di morte!
La governante si voltò verso di lui, il volto teso. - Calmatevi, non ci serve ulteriore baccano. Vostro fratello non è in pericolo di morte, è solo debole e pallido per la perdita di sangue.
Tyr scosse la testa, ondeggiando come se fosse ubriaco. - Voi non eravate lì, non avete visto... non... lui era di spalle, e la Bestia l'ha... era così vicina... e c'era tutto quel sangue...
- Tyr, sto bene - biascicò Balder, facendo voltare tutti. Aveva ancora il respiro affannoso mentre cercava di trattenere delle smorfie di dolore quando le mani della governante lo toccavano. - Un pisolino e sarò come nuovo... non è il caso di...
- Tu, imbecille idiota! Un pisolino?! Cosa vuoi che risolva una dormita, poteva tranciarti in due quella Bestia!! Poteva...!
Ofelia allungò una mano per toccare il braccio di Tyr, per cercare di placarlo. La serenità della governante l'aveva aiutata a tranquillizzarsi, ma in Tyr non aveva sortito alcun effetto. Lui si scrollò di dosso la sua mano senza quasi rendersi conto di essere stato toccato. Continuava a insultare Balder e inveire, finché gli si avvicinò Thorn.
Di solito nei casi di manifesta isteria serviva uno scossone o uno schiaffo, qualcosa di forte insomma, per aiutare la persona a riprendersi. Ofelia non si sarebbe mai immaginata Thorn capace di tirare un ceffone a Tyr...
E infatti lo prese per le spalle e lo attirò a sé, abbracciandolo stretto. Dopo un'iniziale esitazione che fece ammutolire Tyr, lui si sciolse in lacrime, artigliando la giacca del padre e piangendo come un bambino.
Thorn lo consolò impacciatamente, ma non lo lasciò mai andare. Nessuna parola di conforto, nessuna carezza calmante, eppure c'era. Era solido contro Tyr, un sostegno, una presenza. Un passo alla volta, Thorn lo condusse fuori, un po' spingendo e un po' trascinando. Sparirono alla vista, e solo quando Ofelia non udì più Tyr piangere lo stomaco le si snodò. Come se la presenza del figlio, la sua disperazione, fossero stati opprimenti.
Al suo posto, arrivò Ilda. - P-posso dare una mano?
La governante non la guardò nemmeno. - Stracci puliti e sterilizzati, acqua calda. Serviranno più per pulire il sangue che altro. La ferita non è così profonda come sembra, signorino Balder. Sarà una bella scocciatura da far guarire, ma nulla che un po' di riposo non possa risanare.
Balder si sforzò di sorridere, lanciando un'occhiata a Ilda e alla madre. - E io che volevo vantarmi... di essere stato a un passo dalla morte... ahia!
La governante scosse la testa dopo averlo punto di proposito. - Avete una ferita in carne viva e vi fa male la puntura di uno spillo! E fate meno lo spaccone. Il fatto che la situazione sia meno grave di quanto sembri non significa che non lo sia affatto. C'è ancora rischio d'infezione e... gli stracci?!
Ilda sobbalzò e si affrettò fuori dalla camera, obbediente.
Ofelia si avvicinò a Balder, sedendosi sul letto vicino alla governante. - Immagino che tu sia troppo provato per dirmi cos'è successo e perché Tyr è così arrabbiato. Di solito, quando qualcuno di caro è ferito, il primo sentimento che si prova non è di rabbia.
Balder strinse le labbra, esasperato dalla sagacia della madre. - Sono molto provato, mamma.
Ofelia abbozzò un sorriso e si sporse per scostargli i riccioli dagli occhi. Si asciugò le lacrime. - Gli hai fatto prendere un bello spavento. E non sono a lui. Non ho mai visto tua padre così pallido, e per lui il pallore è una costante.
- Io invece non ho mai fatto suturazioni imprecise. Vi chiederei quindi, gentilmente, di evitare qualsiasi movimento, grazie.
Balder sorrise e chiuse gli occhi, troppo stanco per combattere ancora il sonno.
 
Quando Ilda rientrò portando un secchio di acqua calda e uno di stracci, la governante stava parlando sommessamente: - È abbastanza un miracolo che ne sia uscito così bene. Solo un'artigliata è profonda, quella che ha sfiorato l'osso. Le altre due sono più leggere, come se Balder fosse riuscito a spostarsi all'ultimo. Non so neanche come sia possibile. La cosa più grave è la perdita di sangue, ma la fascia che gli avevano applicato per comprimere il torace ha fatto un buon lavoro. Sarebbe potuto morire dissanguato prima di arrivare qui. Anzi, mi chiedo come sia possibile che l'abbiano portato qui invece di farlo curare sulle mura.
Ilda si schiarì la voce, posando i secchi. - Ho chiesto a Mira e Belle mentre aspettavo gli stracci. A quanto pare, Balder ha minimizzato la ferita e sostenuto che fosse solo un graffio e che il sangue fosse della Bestia che aveva di fianco. Si sono accorti della gravità della situazione solo a metà strada, quando Balder è mezzo svenuto e ha accusato il dolore. Pare che prima non si fosse lamentato.
- Adrenalina - commentò la governante, concentrata. - Che famiglia di cocciuti.
Ilda si morse il labbro e si spostò dall'altra parte del letto.
- Mamma! - chiamò Mira a mezzavoce, dalla soglia della camera.
Belle aveva le lacrime agli occhi. - Abbiamo visto Tyr piangere.
- Balder è morto? - domandò Mira, mettendosi a piangere a sua volta.
Ofelia sospirò e le portò via, rassicurandole e chiedendo loro di tranquillizzare anche gli altri.
Quando tornò, vide che Ilda stava stringendo la mano di Balder.
E che lui la stava stringendo a sua volta.
 
Ofelia andò in camera sua quando la mezzanotte era passata da molto. Aveva portato la cena a Balder per costringerlo a mangiare. Oltre alla perdita di forze dovuta al quasi dissanguamento, non mangiava da praticamente tutto il giorno. Il cuoco aveva dato il meglio di sé nel preparare alimenti ricchi di ferro: una bella bistecca appena scottata, lenticchie, spinaci, uova e uva passa. Balder aveva mangiato controvoglia, e lo aveva fatto solo perché Ilda e Ofelia erano rimaste a fissarlo in attesa che finisse tutto il piatto. Come se non bastasse, Thorn era passato proprio quando si era messo a lamentarsi, lanciandogli un'occhiata delle sue affinché tacesse e obbedisse. Ci mancava solo che si mettesse a fare i capricci.
Ilda se n'era andata insieme a lei dopo essersi assicurate che Balder dormisse e bevesse una tisana per calmare i dolori, uno di quegli intrugli miracolosi della governante. Efficaci quanto disgustosi. Per lo meno, la ruga sulla fronte di Balder si era spianata. Anche il respiro si era regolarizzato.
Quando aprì la porta di camera sua, Ofelia trovò Thorn seduto sul bordo del materasso, con il mento affilato posato sulle mani, e... Tyr addormentato al centro del letto, ancora vestito.
- Ho usato i ponti - la informò subito Thorn.
Ofelia si chiuse la porta alle spalle. Con quel gesto sentì venir meno tutte le energie, come se avesse chiuso fuori anche la forza che l'aveva sostenuta fino a quel momento. Rapido e silenzioso, Thorn l'afferrò prima che cadesse, accompagnandola a letto.
- Era così isterico da doverlo addirittura tramortire? - domandò Ofelia quando la testa smise di girare. Vacillò.
- Non hai mangiato nulla.
- Thorn, rispondimi. Aspetta, Serena e Archibald?
Thorn assottigliò gli occhi. - Ho detto loro che potevano prendersi una stanza, se volevano. Solo per questa volta.
Be', almeno una nota positiva in quella serata c'era: Thorn non aveva cacciato di casa la figlia. E non aveva costretto lei e il marito a domire in camere separate.
Non riuscì a trattenere una risatina nervosa... e poi si mise a piangere. Ansia, paura, preoccupazione e nervosismo si riversarono fuori bagnando la camicia di Thorn quando lui la strinse a sé. Emozioni accumulate da tutta la settimana, prima per la paura della caccia, poi per l'attesa infinita del loro ritorno, e infine per la vista di Balder ferito. Nonostante quel giorno praticamente chiunque gli avesse pianto addosso (anche le gemelle lo avevano abbracciato piangendo, chiedendo conforto in mancanza di Ofelia), Thorn fu paziente e non parlò né si scostò.
Ofelia si chiese se anche lui, ogni tanto, avesse bisogno di piangere. Si chiese se fosse anche per lui quel momento. Però Thorn non cedette, le appoggiò solo il mento sulla nuca, chinandosi, in attesa.
Quando Ofelia smise di singhiozzare, non attese un ulteriore sprone.
- Tyr si è addormentato da solo. Io ho solo usato i ponti per rilassarlo. Aveva il sonno agitato.
- Dimmi cos'è successo. Dall'inizio. Voglio i dettagli Thorn, una perizia.
Thorn non brontolò nemmeno. Avevano praticamente terminato la caccia quando era successo. Avevano abbassato la guardia pensando di aver ucciso tutte le Bestie. Se possibile, era andata ancora meglio della prima volta. Balder aveva allora voluto approfittarne per testare l'effetto dei ponti su una Bestia azzoppata e mezza morta a terra. Era praticamente innocua, Thorn non aveva nemmeno richiamato all'attenzione Balder. Tyr aveva sbuffato, ma non aveva insistito nel dissuadere il fratello. Quando però si erano girati di nuovo verso di lui era troppo tardi. Una Bestia enorme, probabilmente il compagno di quella a terra, stava correndo a tutta velocità verso Balder. Lui l'aveva subito fermata, tramortendola con i ponti contro ogni buon senso. Nel vedere il compagno crollare a terra, la Bestia che era già a terra, e non era poi così intontita, aveva colpito Balder al fianco. Quando erano accorsi da lui, lui aveva scherzato dicendo che per fortuna non indossava la pelliccia nuova fatta fare l'anno prima. Non provava dolore per via dell'adrenalina, non sentiva l'umido del sangue, che pensava fosse neve sciolta. Il sangue a terra? Era così vicino alla Bestia, che nel frattempo Tyr aveva ucciso, da risultare confondibile. Il resto Ofelia lo sapeva.
Il tragitto in carrozza, la fasciatura di fortuna.
- Non capisco... - mormorò Ofelia quando Thorn ebbe finito, accettando di buon grado il fazzoletto che la sciarpa le porgeva. - Tyr era arrabbiato, oltre che preoccupato.
- Con se stesso. Con Balder. Si sente responsabile delle cacce. Anche un po' più di me. È lui che ha voluto ricominciare a cacciare, e per lui ogni cosa che va storta è una sua responsabilità. Avrebbe dovuto vedere prima la Bestia, avrebbe potuto salvare Balder, tutti condizionali, ipotesi che lo tormentano appena una variabile si modifica. E poi ce l'ha con lui perché non gli ha dato retta. Gli aveva intimato di non testare i ponti sulle Bestie, lo aveva avvertito che era troppo pericoloso, eppure Balder ha voluto provare lo stesso. Anche se le circostanze erano a favore di Balder, Tyr non glielo perdona. È arrabbiato con lui perché avrebbe potuto morire.
Ofelia scosse la testa. Tyr, sempre così impulsivo e passionale. Era normale che avesse dato di matto all'idea di vedersi morire sotto agli occhi il fratello, il migliore amico, l'eroe. Se ne sarebbe sicuramente attribuito la colpa, se fosse andata peggio. Non la sorprendeva che avesse avuto un tale crollo emotivo.
- E tu? Non hai avvertito Balder che poteva esser pericoloso testare i ponti sulle Bestie?
Thorn le lanciò un'occhiataccia affilata come un rasoio. - Certo che l'ho avvertito. Più volte di quanto sia lecito ripetersi, anche con chi non ha la mia memoria. Ho smesso di farlo quando ho capito che avvertire lui di qualcosa era come avvertire te: inutile.
Ofelia era troppo stanca per capire se fosse il caso di offendersi. Nel dubbio, lasciò stare.
- Almeno ora sappiamo che i ponti sono molto efficaci sulle Bestie. Anche un po' di più. Almeno di questo Balder dovrebbe essere soddisfatto.
- Cosa vuoi dire?
- Anche solo per rallentare una Bestia delle dimensioni di quella che si stava scagliando contro Balder, ci sarebbe voluto lo sforzo congiunto mio e di Tyr, o di Balder e Tyr, forse anche con le gemelle o mia zia. Il fatto che l'abbia tramortita da solo sfida ogni criterio e probabilità.
- Da morto però non gli serve a nulla verificare una teoria.
- La verità è che sarebbe potuto accadere a chiunque. Non è stata colpa di Balder. Anzi, senza la sua prontezza di riflessi e i suoi ponti, chiunque altro sarebbe morto. Se al posto suo ci fossero state le gemelle, o mia zia...
Ofelia vide il suo pugno chiudersi in una morsa, ipotizzando ciò che sarebbe potuto accadere. Anche la sua impassibilità, alla fine, stava per incrinarsi. Ofelia lo abbracciò più stretto, cercando di dare sostegno dopo averlo ricevuto.
- Sarebbe potuta andare peggio.
Thorn annuì. - Sì. Ho parlato con la governante. La ferita è brutta, ma una volta guarita non gli rimarranno che tre strisce sulla pelle. Nulla di così insolito per un cacciatore.
Ofelia gli posò una mano sull'addome, dove, sotto i vestiti, faceva capolino la cicatrice infertagli da Tyr quando non voleva imparare a usare gli artigli.
Già, nulla di insolito.
Ofelia sospirò. - La prossim...
- No. Sarebbe accaduto con o senza di te. Starai a casa anche il prossimo anno.
Ofelia non aveva voglia di mettersi a discutere. Lanciò un'occhiata a Tyr, placidamente addormentato proprio al centro del letto. - E lui?
- Lui ha pianto. Urlato. Alla fine si è addormentato piangendo, esasperato.
- Si è addormentato proprio al centro del letto?
- No, si è addormentato addosso a me. Io l'ho messo lì.
- Oggi sembra che si affidino tutti a te - mormorò Ofelia, sbadigliando.
Thorn si irrigidì. - Non ne sono abituato. Ma nessuno si è lamentato.
Ofelia sorrise appena e si allungò per lasciargli un bacio sulla guancia.
- Non c'è nulla per cui dobbiamo lamentarci.
 
La mattina dopo Tyr si svegliò di soprassalto. Spaesato, sussultò quando si girò e vide gli occhi di suo padre che lo fissavano. Indietreggiò per lo spavento e si scontrò con qualcun altro alle sue spalle. Urtata, Ofelia mugugnò nel sonno. Tyr scattò a sedere e balzò fuori dal letto in biancheria e canottiera.
- Che è successo?!
- Hai dormito qui, dopo esserti addormentato addosso a me - rispose laconicamente Thorn, di buon umore già dal primo mattino.
- Mi avete tolto i vestiti?!
Ofelia si mise a sedere, irritata. I suoi ricci scompigliati sembravano animati di vita propria. Persino la sciarpa sembrava un serpente in procinto di mordere, infastidita. Gli occhi miopi della madre si puntarono su Tyr senza vederlo. - Ti abbiamo messo al mondo noi, Tyr! E poi eri troppo pesante da spostare. Smettila di strepitare, sono le... che ore sono?
Thorn la imitò e si sedette, pronto per scendere dal letto. Tyr sussultò quando vide che era a petto nudo.
- Sono le sette e tredici.
Ofelia si stropicciò gli occhi, borbottò un ringraziamento e si rimise a letto.
Possibile che nessuno a parte lui fosse turbato da quella situazione?
- Quindi, fatemi capire. Ho dormito con voi come se avessi ancora quattro anni perché mi sono addormentato addosso a papà. E questo... Balder!
Ofelia e Thorn si lanciarono delle occhiate in tralice quando Tyr si fiondò mezzo nudo fuori dalla porta, svegliando chiunque con le sue urla. Probabilmente si stavano lanciando in silenzio l'occhiata "è tuo figlio" che si scambiavano di solito i genitori quando volevano incolpare l'altro per degli atteggiamenti impropri di qualche figlio. Anche se Ofelia non ci vedeva e Thorn era impassibile. In ogni caso, Ofelia tornò a dormire.
Tyr invece si fiondò in camera sua, quella che ancora condivideva con Balder, e spalancò la porta senza tanti riguardi. Balder sussultò per lo spavento, facendo spostare la mano della governante che gli toccò in pieno le suture. Balder gemette per il dolore.
Poi fissò il fratello. - Delicato come sempre - lo prese in giro, sdrammatizzando.
Tyr gli si fiondò addosso, facendo urlare la governante in protesta. Lo abbracciò cercando di non fargli male e gli baciò i capelli scompigliati. - Come stai? Sei uno stupido cretino, lo sai?
L'anziana sbuffò. - Oltre che svergognato siete pure volgare! - berciò, adirata. - Se ci fosse qui la vostra prozia vi pulirebbe la bocca con il sapone!
Come se fosse stata evocata, la zia Roseline si affacciò. - Cosa fai mezzo nudo, Tyr? Non hai un minimo di pudore?!
Attaccato da tutti i lati, con Balder che ridacchiava e gemeva per il dolore che ciò comportava, Tyr arrossì di vergogna. A peggiorare la situazione ci pensò Ilda.
- Sono venuta a veder... dannazione Tyr, non ci tenevo a vederti così! - esclamò coprendosi gli occhi.
La zia Roseline si voltò verso di lei. - Dovrei lavarti la bocca con il sapone, signorina!
Mentre la governante concordava con Roseline e Tyr afferrava la prima vestaglia a portata di mano per coprirsi, arrivò Thorn, vestito di tutto punto. - Aggiornamenti?
Balder sorrise di fronte a quel trambusto di prima mattina. - Sono vivo.
Tyr si trattenne a stento dal tirargli un pugno, per nulla divertito.
- Questo lo vedo - borbottò Thorn, algido, rivolgendosi alla governante.
- Posso guardare ora? - sussurrò Ilda alla zia Roseline, che decretò che non ci fosse più nulla di sconveniente da osservare.
- La pelle è arrossata e irritata, com'è normale, ma non sembrano esserci segni di infezione. Non ha perso sangue durante la notte, le bende sono pulite.
Thorn annuì. - Se ci sono problemi sapete dove contattarmi.
Parve esitare, come se fosse indeciso se avvicinarsi al figlio o no. Poi però si rese conto della piccola folla e se ne andò senza voltarsi.
Trovò Serena di fronte alla porta della sua vecchia camera. Thorn aveva ordinato che non venisse toccato nulla da quando se n'era andata, come per lasciarla in attesa del suo ritorno. Era pronta per iniziare a lavorare, con tanto di portadocumenti alla mano.
-  Buongiorno papà - salutò educatamente, quasi timorosa. Come se fuori dal lavoro si aspettasse che lui fosse... arrabbiato. - Balder sta bene?
- È una domanda fin troppo generica. Non sta bene, ma non sta morendo. Si riprenderà.
Serena annuì e poi si morse la cucitura del guanto. Poi, con la stessa mano aprì la sua catenina. Il regalo di Thorn. - Siamo leggermente in ritardo. Potrei, magari... passare a trovarlo questa sera? Per salutarlo?
Thorn pensò che tutta quella situazione fosse disdicevole. Sua figlia non avrebbe dovuto chiedere il permesso per andare a trovare suo fratello. Se solo...
Cercò di non pensare a quel "se". - Sì - rispose seccamente, prima di andare in sala da pranzo.
Serena lo seguì in silenzio, impassibile come lui. Eppure, quella piccola vittoria rischiò quasi di strapparle un sorriso.
Intanto, in camera di Balder e Tyr, la governante continuò con le domande da dove Thorn si era interrotto.
- Come vi sentite? Dolori? Fame?
- Sopportabili. Ma devo andare in bagno.
Tutte le donne si voltarono verso Tyr, che sospirò. - Io ti accompagno solo, non ho intenzione di aiutarti.
Poi emise un'esclamazione sorpresa e si mise a ridere. - Ora usi gli artigli, eh? Non potevi usarli ieri?
Nella stanza parve calare di colpo la temperatura. Balder si adombrò. - Sai che se li avessi usati non sarei qui ora. Non sarei riuscito a fermare quella Bestia.
Tyr minimizzò con un gesto della mano. - Sei stato imprudente lo stesso.
Balder lo afferrò per il colletto quando Tyr si chinò per aiutarlo ad alzarsi. - Tyr. Non incolparmi per essermi salvato la vita con le mie mani. Quella Bestia non c'era quando mi sono messo a fare i miei esperimenti. Senza i ponti sarei morto. Non cercare giustificazioni solo perché hai avuto timore della mia morte. È da ignoranti negare una verità solo per paura di cambiare. I ponti possono essere utili in battaglia, l'hai visto. E tu hai condotto egregiamente la caccia, ok? Io sono vivo. Voi siete incolumi. Siamo forti. E ora aiutami ad andare in bagno.
Tyr prese un respiro tremante, di quelli che si emettono dopo aver pianto tutte le proprie lacrime. Balder spostò la mano dietro il suo collo e gli accarezzò la nuca con affetto.
Guardò la governante. - Ho il permesso di alzarmi?
L'anziana alzò le mani in segno di resa. - Negartelo non servirebbe, quindi sì, avete il mio permesso.
Balder le rivolse un piccolo sorriso grato e abbassò la voce. - Sapete che odio il pappagallo.
Con sorpresa di Ilda, la burbera governante si aprì in un sorriso sincero. - Lo so, signorino. Filate in bagno prima che cambi idea. Ma fate attenzione, non ho intenzione di ricucirvi.
Balder le fece l'occhiolino. A quanto pareva, scampare alla morte lo rendeva audace. Evitò di incrociare lo sguardo di Ilda, e lei ne approfittò per imprimersi nella mente ogni suo movimento. Balder era sempre stato il più tranquillo e pacato di loro, ma questo non significava che fosse debole. Nemmeno per un istante lei e Tyr avevano dubitato della sua forza. Sapevano che quando si impuntava, su qualsiasi cosa, ce l'aveva vinta lui. Solo che la maggior parte delle volte, per amore della pace, preferiva lasciar correre.
Aveva passato la notte a piangere e lui invece era lì, un colosso, forte, intelligente, bello e amorevole. Si sentiva patetica.
- Posso farmi una doccia?
La governante sbuffò. - Non calcate la mano. Non potete bagnare la ferita, e non vi conviene stare in piedi troppo a lungo. Vostro fratello vi laverà a pezzi, mi sembra morire dalla voglia di aiutarvi.
Tyr fece una smorfia che gli valse una tirata di capelli da parte di Balder. Che smise di sorridere quando riuscì ad alzarsi dal letto. Impallidì subito per lo sforzo. - Ecco, ora il dolore lo sento. Ci vediamo tra poco a colazione. Posso, vero?
La governante si alzò sbuffando e radunando tutti i suoi attrezzi. - Fate quello che volete, basta che non bagniate la ferita e, fatemi il favore, non strapazzatevi. Non vi cucio più, giuro.
Balder arrivò al bagno facendo una smorfia dopo l'altra. - Non ho intenzione di farmi ricucire, ne ho già avuto abbastanza nel corso degli anni.
- Pff, corso degli anni. Ti sei fatto male solo ieri, non fare tanto il vissut... ahia! Smettila di pizzicarmi!
- Ti ricordo la cicatrice che ho in fronte! Chi pensi che...
La porta si richiuse alle spalle dei due ragazzi, tagliando fuori il loro bisticcio. Tutte e tre le donne sorrisero: se quei due avevano la forza di battibeccare, voleva dire che andava tutto bene.
 
Per il resto della settimana tutti si comportarono come delle chiocce con Balder, accorrendo ad ogni suo gemito e cercando di fargli mangiare quanto più ferro possibile. Dopo quattro giorni Balder era sicuro di voler diventare vegetariano, stufo com'era della carne rossa, ma anche lenticchie e bietole non gli facevano più così voglia. Il Nibelungen ovviamente aveva riportato la notizia. Balder non era poi così contento di essere al centro dell'articolo, di sicuro non quanto lo sarebbe stato Tyr. I suoi ponti avevano guadagnato altra pubblicità, sì... ma non del tipo che voleva lui. "Artigli narcotizzanti in grado di abbattere una Bestia adulta" non era proprio una definizione lusinghiera per i ponti, che avrebbero dovuto rassicurare la gente. L'esito della caccia passò quasi in secondo piano, ma era eccezionale, meglio ancora dell'anno precedente. Thorn disse addirittura che con quel ritmo avrebbero avuto un'eccedenza di carne difficile da immagazzinare e gestire.
Nonostante le paure di Balder, allo studio di Ofelia arrivarono un sacco di richieste per richiedere i servizi dei ponti. Balder però sarebbe stato fuori servizio per almeno tre settimane.
Tre settimane di riposo, passate a leggere, a giocare a carte e a bere tè. Tyr gli fece notare periodicamente che andando avanti così si sarebbe rammollito. Ci avrebbe pensato lui a rimetterlo in sesto una volta che si fosse ripreso, a costo di fargli sputare sangue. Balder era così stanco dell'immobilità che avrebbe accettato volentieri qualsiasi allenamento Tyr avesse voluto proporgli.
La degenza portò due buone notizie. La prima era che Serena e Archibald bazzicarono di più per casa, con la scusa di vedere il ferito. Il rapporto era ben lungi da essere quello di sempre, almeno per Serena e Thorn, ma Ofelia era speranzosa. Già il fatto che lui accettasse la loro presenza insieme in casa era un gran passo. La seconda fu che Ilda si riavvicinò a Balder. Prima iniziò a chiedergli timidamente come stesse, gli portava qualche spuntino. Poi gli portò i libri, i cruciverba che entrambi adoravano ai tempi in cui li risolvevano insieme, le carte. Piccoli gesti, pochi minuti che divennero ore. Alla fine, ricominciò a trascorrere la maggior parte del suo tempo libero con lui, quando non era in officina con sua mamma, e con Tyr.
Balder non aveva voglia di indagare sulla natura del loro rapporto. Da codardo, rimandava sempre. Si diede come termine la sua guarigione. Una volta che fosse stato meglio, avrebbe parlato con Ilda. L'avrebbe attaccata al muro se necessario. Non poteva dirgli che erano solo amici, non gli andava più di sorbirsi quella scusa inutile. Non poteva cercare la sua mano, sfiorargli le dita, e dirgli che era un atteggiamento da amici. Non poteva sedersi sul bracciolo della poltrona dove c'era lui e passargli una mano attorno al collo dicendo che le serviva solo per stabilizzarsi. Non poteva continuare a guardarlo quando lui era distratto, per poi distogliere subito gli occhi quando lui se ne accorgeva. Era consapevole di essere un po' tonto sotto quell'aspetto, e non aveva un metro di paragone non avendo avuto nessun'altra infatuazione. Però un termine di paragone ce l'aveva: Tyr. E con Tyr Ilda non si comportava così. Né si comportava così a corte. Sembrava quasi che i ragazzi la disgustassero, anzi.
Era tonto, ma non così tonto. Ed era stanco.
E, dopo tre settimane di inattività quasi totale, aveva bisogno di sfogarsi.
Così, quando un pomeriggio Ilda andò da lui per vedere come stesse, dopo aver passato la mattinata in officina con Gaela per cercare di far funzionare la sua ultima invenzione, Balder non riuscì più a trattenersi.
Ilda entrò senza farci caso, senza bussare. Balder era a petto nudo di fronte allo specchio, controllava le cicatrici. Quella mattina la governante gli aveva tolto i punti. Tre linee parallele e sottili si allungavano su tutta la lunghezza del fianco, sinuose e pulite. La governante aveva fatto un lavoro certosino, calcolando quanto erano spessi i tagli che aveva ricevuto. Certo, non erano proprio invisibili... erano sottili in paragone ad un pollice. In effetti, erano spesse quanto un mignolo, almeno quella più grande, ma sarebbe potuta andare molto peggio.
Balder si sentiva bene come non si sentiva da tempo. Nessun dolore eccessivo, solo un leggero indolenzimento, nessuna pelle che tirava. E, al contrario di quello che Tyr poteva insinuare, non si era rammollito proprio per nulla.
Di fronte ai suoi muscoli, Ilda arrossì.
Quando iniziò a balbettare, Balder si voltò di scatto. La fissò in silenzio, poi sospirò per prendere coraggio. Si avvicinò e la spinse contro la porta. Aveva pensato di attaccarla al muro, in senso figurato, per parlare, in quei giorni? Be', anche attaccarla alla porta e baciarla, in senso letterale, non era una prospettiva da scartare. Anzi, era decisamente più allettante.
La cinse in vita premendola contro la porta, e non fu chiaro chi dei due iniziò il bacio, se lui chinandosi, o lei alzandosi sulle punte.
Quando però le loro bocche si scontrarono, non ci furono più dubbi su chi, cosa, quando, dove. Ilda gli gettò le braccia al collo tirandolo giù verso di sé, Balder si resse alla porta con una mano per non caderle addosso. Fu un bacio frenetico all'inizio, dettato dall'impazienza, dal lungo periodo in cui non si erano nemmeno sfiorati. Ma i loro corpi ricordavano bene come fosse il contatto con l'altro. Balder avrebbe, come sempre, voluto togliersi i guanti, ma se lo avesse fatto poi avrebbe potuto toccare solo il viso di Ilda... e lui voleva toccare tutto di Ilda. Meditò se provare a prenderla in braccio, solo per sentire le sue gambe avvinghiate attorno alla vita, ma quando provò ad alzarle una gamba, azione a cui lei proprio non si sottrasse, sentì il fianco dolere in protesta. Forse non stava completamente bene. Magari era il caso di evitare il sollevamento pesi, almeno per un'altra settimana.
Ilda si fermò quando gli sfuggì un gemito sofferente, gli posò una mano sopra le costole dov'era la ferita. Si schiacciò contro la porta per mettere un minimo di distanza tra loro. - Ti fa male? Vuoi che...?
Balder le parlò sulle labbra, riavvicinandosi: - No, voglio solo questo.
Riprese a baciarla, più lentamente questa volta. Ilda colse il cambio di ritmo e gli accarezzò il viso, incastrò le mani tra i suoi riccioli, sospirò accanto al suo orecchio. Fu il suo momento di gemere, e non di dolore, quando Balder le agguantò all'improvviso il fondoschiena. Le sue mani indugiavano sui suoi fianchi già da un po', ma Ilda non pensava che avrebbe davvero preso un'iniziativa simile. Non ci sperava, a dire il vero. Si chiese come potesse un tipo come Balder, timido, pacato e sempre ordinato e regolare, lasciarsi andare in quel modo. Era... inebriante. Il suo palese desiderio la faceva sentire viva. Balder era intraprendente solo per lei, solo con lei.
Era inutile negarlo, ingannare entrambi con discorsi fallaci e mentirsi: voleva Balder, così come lui voleva lei. Si appartenevano da più tempo di quanto fossero disposti a contare, così sarebbe sempre stato. Non ci sarebbe stato nessun altro per loro.
Come se le avesse letto nei pensieri, Balder le baciò il collo e lì la supplicò: - Se mi dici ancora che siamo solo amici, Ilda, non risponderò più delle mie azioni.
Ilda deglutì, si inarcò sotto il suo tocco quando Balder le fece risalire le mani sulla vita, sulla schiena, sulle spalle, per poi circondarle il viso e costringerla a guardarlo. Non era il caso di far arrabbiare Balder, Ilda lo sapeva. Come tutte le persone buone e tranquille, quando perdeva la calma faceva quasi paura. Di solito far arrabbiare la gente le veniva facile, si divertiva anche... ma non con Balder. Per lui nutriva un rispetto di cui ancora non riusciva a identificare l'origine.
Ma non fu per paura che concordò con lui. No, anche lei era stufa di fingere, di stargli lontano. La loro amicizia era stata più minata dalla lontananza che dalle possibili conseguenze di una relazione amorosa. Ormai, tentare non nuoceva più.
Balder le mordicchiò il collo, facendole emettere uno squittio che la fece arrossire, mentre lui ridacchiò. No, tentare non nuoceva per nulla.
- No - ammise lei, scostandosi appena. Non poteva riuscire a dire ciò che voleva con lui così vicino, con il suo respiro sulla pelle. - Non siamo solo amici, non ti ho mai considerato solo un amico.
Balder si allontanò, il respiro affannato e gli occhi accesi, vivi, le labbra umide e le gote arrossate. Ilda pensò che non fosse mai stato più bello di così. Balder era oggettivamente bello, era un dato di fatto. E sembrava quasi ingiusto che lui non ci facesse caso, che non desse peso alla cosa. Ammirarlo era come contemplare lo splendore marmoreo di una statua. Una statua dagli occhi scuri e dai capelli altrettanto scuri e ricci, con una barba leggera ma persistente che sembrava non volersene mai andare, un naso affilato che dava carattere al viso e la mascella volitiva. Per non parlare della cicatrice in fronte, sbandierata come segno distintivo invece che come deturpazione. In lui c'era qualcosa di... virile che a volte il suo atteggiamento compassato nascondeva. Una specie di forza interiore che veniva trasmessa dal corpo.
Ilda, la forte e stoica Ilda, avrebbe voluto piangere per la sua stupidità nell'averlo allontanato. Seppellì il viso nel suo petto, abbracciandolo, quando lui indietreggiò di un altro passo. Non voleva che la guardasse in volto, che vedesse quanto si vergognava. Ignorò persino il suo sospiro quando l'abbraccio gli riverberò nella ferita, ancora un po' dolorante. - Non ho mai voluto essere solo tua amica. Ma avevo paura. Non volevo perdere ciò che avevamo per tentare qualcosa che non sapevamo dove ci avrebbe portati. Sono stata una vigliacca, ho fatto soffrire entrambi per niente.
Balder si irrigidì. Ilda avrebbe sopportato la sua ira volentieri, era ciò che si meritava. Lo aveva trattato malissimo quando lui le aveva messo il suo cuore in mano. Il colmo era che il suo cuore era poi l'unica cosa che volesse.
Balder però non si arrabbiò. Le accarezzò i ricci dolcemente, premette la sua nuca contro di sé, le cinse le spalle. Fu quella dolcezza a farla sciogliere in lacrime.
- Quando ho visto quella Bestia che mi correva incontro ho pensato di essere spacciato. Ero sicuro che sarei morto. Per un istante ho anche pensato che non valesse la pena di tentare di salvarmi, che era tutto inutile. Poi ho visto, come un'allucinazione, i volti dei miei familiari. Ho visto mia mamma e mio papà, Tyr e Serena, le gemelle, le zie, i cugini, tutti, nonostante io non abbia una memoria portentosa. Il primo viso che ho visto, però, che mi è rimasto impresso, è stato il tuo. Potremmo morire domani, Ilda. Potrebbe succedere qualcosa da un momento all'altro. La vita è troppo breve per perderci dietro a stupide esitazioni. Io ti amo, ti ho sempre amata, e non intendo negarlo più. Se me lo permetterai, sarei onorato di rimanere al tuo fianco tutta la vita.
Ilda, in risposta, tirò su con il naso. Poi, con una voce piccola e spezzata così poco da Ilda, lei rispose: - Sono io che devo chiederti di permettermi di restare. Ho fatto un casino dopo l'altro. Avevo paura di rovinare ciò che avevamo e ho rovinato anche quello che non avevamo. Potrai mai perdonarmi?
Balder le baciò la sommità della testa. Ilda non era bassa... ma non era nemmeno alta, soprattutto in paragone con lui. Gli piaceva sentirla così piccola tra le braccia, gli trasmetteva un senso di fragilità che in lei non era mai evidente. Ma, come in tutti, era presente. - Non ho nulla da perdonare. Dimmi solo di sì, io ti voglio con i tuoi ganci destri più dolorosi di un'artigliata, con il tuo turpiloquio, le tue battute pessime e la capacità di rimettere tutti in riga.
Ilda ridacchiò, facendogli vibrare lo stomaco. - Così mi fai passare per una donnaccia. O una meccanica di bassa lega.
- O un'inventrice frustrata.
Ilda gli tirò un leggero calcio sullo stinco, che lo fece ridere. - Dicono che un abbraccio aiuti a mandare via lo stress. Magari un bacio può aiutare per la frustrazione?
Balder non se lo fece ripetere due volte, le lasciò una traccia di baci sulla mascella fino alla bocca. Ilda si impossessò prontamente della sua quando finalmente si sfiorarono. Schiuse le labbra con un sospiro quando Balder le tracciò il contorno del labbro inferiore con la lingua, per poi morderlo dolcemente. Ilda avrebbe voluto stringerlo a sé, arrampicarsi su di lui, buttarsi con lui sul letto, ma aveva paura che fosse ancora troppo presto per la ferita. E che entrasse Tyr da un momento all'altro.
- Com'è che pare che tu sia terribilmente bravo in tutto quello che fai? - gli chiese quando si staccò per riprendere fiato.
Balder le annusò i capelli. Persino l'odore di lei gli piaceva, quello che aveva quando non metteva il profumo. Avrebbe passato la vita ad inalare la sua stessa aria, se lei avesse voluto. Si sentiva perdutamente patetico e stupidamente felice.
- Attenta, potrei abituarmi a sentirtelo dire.
Ilda scosse la testa, solleticandogli il volto con i capelli chiari. - Io non ci giurerei. Non te lo ripeterò mai più.
Balder si allontanò per prenderle il viso tra le mani, improvvisamente serio. - Dicevo sul serio prima. So che forse è un po' presto per chiedertelo, però...
Ilda ridacchiò. - Tu hai l'età giusta per sposarti, io non ho nemmeno diciassette anni. Non possiamo aspettare?
Balder si rabbuiò, un po' offeso. - Ovvio che aspetteremo. Era solo per... una conferma, ecco.
Ilda si strinse nelle spalle, sorridendo maliziosamente. - Non penso di volermi impegnare ora. Sai, alla prossima serata di corte potrei trovare l'amore della mia vita...
Balder sbuffò divertito, una scintilla di cattiveria negli occhi. - Ma se mi lanci occhiate lascive da una vita! E poi, pare che io sia il ragazzo più bello del Polo.
Ilda gli diede un pugno che lo fece ridere e gemere insieme. - Io non lancio occhiate lascive a nessuno. E allora sei solo un finto tonto, sei ben consapevole della tua avvenenza!
Lui rise ancora, tenendosi il fianco. - Direi di non esserne consapevole, ma di non essere nemmeno sordo e cieco. Leggo i giornali e sento i commenti che vengono fatti su di me. Di solito, secondo una semplice media matematica, quando un gran numero di persone dice la stess...
Ilda lo tirò a sé e lo baciò per farlo tacere. - E sta un po' zitto.
Felici come solo due innamorati alle prime armi potevano essere, Ilda e Balder continuarono a ridacchiare come due sciocchi. Nei giorni successivi ritrovarono il feeling di sempre, quella connessione unica che avevano sempre avuto, ancora più che con Tyr, ma che avevano cercato di sopprimere per via dell'amicizia che avevano. I mesi di distacco non avevano arrugginito proprio nulla, gli ingranaggi della loro relazione erano più oliati che mai.
E pronti per essere mostrati al mondo.

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Capitolo 73
*** Capitolo 73 ***


Penso che questo sia il capitolo più lungo da quando ho iniziato a postare questa storia.
Da Balder si passa a Tyr signori, con lievi accenni OfeThorn qui e lì.
Spero che vi piacciano anche queste storie alternative, portate pazienza che i nostri beneamati genitori torneranno, uniti come sempre.
Grazie di cuore per essere ancora qui <3


Capitolo 73

Tyr non ci mise molto tempo ad accorgersi del cambio che era avvenuto in Balder e Ilda. Quando fu certo di ciò che vedeva, ciò che palesemente vedeva, ne approfittò per stuzzicarli un po'.
- Da quanto pomiciate di brutto? - chiese in un pomeriggio di pioggia.
Lui e Balder stavano facendo esercizi e Ilda stava leggendo un manuale di meccanica accanto ad alcuni pezzi di un marchingegno abbastanza innovativo che però non riusciva a far funzionare bene. Le occhiate che lei e Balder si lanciavano, neanche troppo di sottecchi, erano fin troppo esplicite e divertenti. Così come le loro reazioni.
Balder si fece quasi cadere un peso sul piede, Ilda si mise a tossire. Entrambi erano rossi come dei pomodori maturi.
Tyr scoppiò a ridere.
- Come ti viene in mente una volgarità simile? - sbottò Balder, infilandosi una maglia.
Come se fosse stato il fare esercizi a petto nudo a tradirlo.
Tyr continuava a ridacchiare. Smise solo quando il manuale parecchio voluminoso che Ilda stava leggendo gli volò nello stomaco.
- Maledetta... - gemette.
- Ringrazia che non ho mirato più in basso.
Tyr ghignò, quel ghigno che gli era proprio valso il soprannome di Tyr il Terribile. - Ho un consiglio per voi. Se tu Ilda guardassi un po' più il tuo manuale e un po' meno Balder, quel coso che stai costruendo lo avresti finito da un pezzo. E se tu, Bal, ti concentrassi un po' di più sul fare gli esercizi anziché sul mostrare i muscoli a Ilda, forse avresti effettivamente dei muscol...
Tyr barcollò, scuotendo la testa. - Ehi, è scorretto farmi prendere sonno mentre vi svergogno. Smettila.
Balder sospirò. - È così palese?
- Mh... non è che sia palese. È che voi siete palesi. Ma sono contento per voi. Un po' inorridito, ma contento. E dato che siete entrambi come fratelli per me, me la prenderò con chiunque faccia soffrire l'altro.
- Io sono davvero tuo fratello... - borbottò Balder a mezzavoce.
- Ah, manterrò il segreto, ma non aspettatevi che vi lasci camera mia per le vostre effusioni zozze.
Ilda avvampò di nuovo e Balder, invece di tramortirlo con i ponti, lo pizzicò con gli artigli come meritava. - Niente del genere! - boccheggiò Balder, a disagio e imbarazzato. - Non abbiamo... noi non...
- Mio papà ci ucciderebbe se facessimo una cosa del genere. Anzi, prima ucciderebbe lui, poi troverebbe una giustificazione per me, come se Balder mi avesse traviata.
Balder, da rosso che era, impallidì. - Ma tuo papà non mi adorava?
Ilda si strinse nelle spalle. - Certo, ma sono pur sempre la sua bambina. Pensa che abbia ancora cinque anni e che vivrò con lui per sempre.
Tyr sbuffò una risata. Poi ghignò e si rivolse a Balder. - Quindi non hai ancora visto la sua voglia? Sai, quella sulla chiap...
Questa volta fu Ilda ad avventarglisi contro, e Balder non fece nulla per fermarli mentre si azzuffavano. La vista di Ilda così vicina a Tyr non gli faceva più alcun effetto. Si era finalmente convinto che la natura del loro rapporto fosse puramente innocente. Ilda era davvero come una sorella per Tyr, quella considerazione non sarebbe mai potuta cambiare. E stando con Balder, lo sarebbe diventata a tutti gli effetti. Parte della famiglia.
Di quella famiglia a cui non sfuggiva mai nulla, e che si accorse fin troppo presto del cambio di atteggiamento di Balder e Ilda.
Nel peggior modo possibile, ossia in pubblico.
Balder e Ilda si smascherarono alla prima apparizione a corte dopo la caccia e l'infortunio. Uno stuolo di ragazze coraggiose si fece avanti per chiedere a Balder come stesse, separandolo da Ilda e Tyr. I due rimasero in disparte ad osservare la scena, la prima infastidita, il secondo divertito da quelle attenzioni e dal disagio del fratello, che con la sua altezza svettava su tutti faticando a trattenere le smorfie. Quando riuscì a liberarsi, finalmente, si fiondò dietro Ilda e Tyr, come per nascondersi.
Ignari di essere osservati da Ofelia e Thorn, Tyr venne richiamato da loro, lasciando soli Ilda e Balder. Molto discretamente i due si misero a parlare come di consueto, dimentichi del fatto che non erano affatto discreti e che la vicinanza che avevano, così come i sorrisi tentatori, erano molto più interpretabili di quanto loro si aspettassero.
A farli girare e sbiancare fu Tyr, che in seguito ad una frase di Ofelia sputò l'acqua che aveva appena bevuto, tossendo. Quando incrociò lo sguardo di Balder distolse subito gli occhi, e lui non poté fare a meno di guardare Ofelia. Ofelia, che nascondeva un sorriso dietro la mano, e Thorn, che invece lo fissava con un sopracciglio inarcato. Balder si allontanò di un passo da Ilda, come se porre della distanza tra di loro potesse ingannare l'intuizione dei genitori. Quando li vide parlare di nuovo con Tyr, però, si infastidì. Li raggiunse a grandi falcate e incenerì il fratello con un'occhiata.
- Saresti stato zitto eh? Sei più pettegolo del direttore del Nibelungen, il che, come potrai ben immaginare, non è proprio un complimento – sibilò, trattenendosi per non prenderlo per il bavero della giacca.
- Non ho fatto nulla, te lo assicuro. Avete fatto tutto voi – replicò Tyr, spaventato nonostante la presunta innocenza.
Una mano guantata si posò sul polso di Balder affinché lasciasse andare il fratello.
- Pensi che abbiamo bisogno che Tyr faccia la spia per capire cosa sta succedendo? Non sottovalutare i tuoi genitori, Balder – lo sgridò pacatamente Ofelia, con voce appena udibile.
Thorn borbottò qualcosa di inintelligibile che sembrava avere a che fare con il sottovalutare Ofelia, ma Balder non aveva interesse ad indagare. Divenne rosso.
- Io non… cioè, non sta succedendo nulla.
Thorn inarcò anche il secondo sopracciglio, unica evidenza del fatto che stava seguendo la conversazione. Per il resto, era impassibile e distaccato come sempre.
- Ilda non è ancora in età da marito – disse solo, facendo irrigidire tutti. – Manca ancora un anno e mezzo.
- S-sì, ma… - balbettò Balder, incerto su come giustificarsi.
- Fino ad allora, quando sarete in casa insieme verrete seguiti da uno chaperon, come si conviene.
Balder sbiancò. – Ma così lo sapranno tutti. Anche la zia Roseline e Renold.
Ofelia si morse la punta del guanto per non ridere, Tyr invece ghignò.
- Di solito è questo che accade con un fidanzamento – rincarò Thorn, il tono di voce monocorde come se stesse annunciando un cambio della tappezzeria.
Ofelia si schiarì la voce, ricordando come all’inizio Thorn l’avesse spacciata per la nuova dama di compagnia di Berenilde piuttosto che rivelare che era la sua fidanzata. Certo, i motivi erano diversi e Thorn l’aveva fatto per proteggere lei e la zia, ma la storia sembrava in qualche modo ripetersi sempre. Prima con Serena, ora con Balder.
- Devi chiedere la sua mano anche a Renold, Balder. La sua famiglia deve esserne informata – gli disse Ofelia, dolcemente ma con un tono che non ammetteva repliche.
Balder sospirò e parve rimpicciolirsi. – Non è che siamo fidanzanti, comunque.
- Non aggrapparti a qualche cavillo inesistente – lo redarguì Thorn, più loquace del solito. – La vostra intenzione di sposarvi è chiara, le cose vanno fatte come si deve. La legge è la legge.
Balder lanciò un’occhiata a Ilda, che si stava torcendo le mani dall’ansia, fissandoli apertamente. Si immobilizzò quando Ofelia le sorrise.
Per fortuna, o forse sfortuna, arrivò Serena a soccorrerla. Dopo il litigio le due non si erano più parlate molto. Non erano arrabbiate, entrambe percepivano che il risentimento che avevano covato era sparito, però… rimaneva una certa tensione tra loro, come se non sapessero più come interagire. Non sapevano come fare il primo passo.
- Ciao – salutò placidamente Serena, facendo cenno ad Archibald di lasciarla sola.
Lui le fece l’occhiolino e si diresse verso Berenilde. Con la coda dell’occhio, però, Serena si sentiva osservata. Per non parlare della voce di Archibald nella testa. Era impossibile nascondersi qualcosa quando erano così collegati, ma Serena si stava abituando. Sentiva di avere un ruolo importante nell’aiutare il marito a rendere la propria mente un posto migliore. Un rifugio, non una gabbia.
- Ciao, Serena – salutò mestamente Ilda.
Le due guardarono Thorn, la cui espressione imperturbabile restava come al solito indecifrabile. Poteva essere nel bel mezzo di un discorso di condanna o essere in procinto di lodare Balder, non sarebbe cambiato nulla sul suo volto. Le spalle curve di Balder però rendevano evidente che non poteva essere la seconda opzione.
Ilda sperava solo che non fosse nemmeno una condanna.
Serena si schiarì la gola. Tutto in lei era lieve, dal suo tono di voce alla sua presenza, come se non volesse occupare spazio.
O impicciarsi. Ilda fece una smorfia.
- Per lo meno, e dovresti esserne felice, mio padre non sta attaccando fisicamente Balder.
A Ilda sfuggì una risatina nervosa e si strinse le braccia al petto. Notò un ragazzo che le fissava schiettamente il decolleté, però, così si affrettò a rimettere giù le braccia. La scollatura del suo vestito era fin troppo audace, l’aveva messo solo perché stupidamente voleva vedere la reazione di Balder. E le sue occhiate a stento trattenute avevano fatto arrossire entrambi più di una volta. Non aveva pensato alla visione dall’alto che Balder aveva con la sua statura. Si ripromise di indossare solo vestiti accollati da quel momento in poi.
A volte voleva essere magra come Serena. Almeno non avrebbe attirato costantemente sguardi lascivi. Eppure, Archibald la guardava con desiderio nello stesso modo in cui Balder guardava lei. Non era il corpo a calamitare lo sguardo di coloro che le amavano, ma l’anima stessa.
Ilda sapeva che Balder si sarebbe sentito attratto da lei anche se non avesse avuto tutta quell’abbondanza.
- Per ora no.
Serena sospirò invece di ridere. – Credo di doverti delle scuse, Ilda, ma ci tengo anche a dirti quanto io ti invidi.
Ilda sgranò gli occhi. – Invidiarmi?
Serena guardò la sua famiglia con un sorriso mesto: Tyr diede una pacca sulla spalla a Balder così forte da farlo vacillare, ma il fratello non parve accorgersene, rapito com’era dal discorso di Thorn. Lo aveva sempre ammirato come Serena stessa lo ammirava. Come se fosse il loro eroe. E Ofelia… sorrideva timidamente come se quell’istante fosse tutto ciò che contava per lei.
- Avrei voluto anche io una cosa del genere, quando ho annunciato il mio fidanzamento.
Ilda avrebbe voluto chiederle come facesse a sapere di lei e Balder, o correggerla dicendo che non erano fidanzanti. Non ancora. La parte di lei che sapeva di aver preso dalla madre, invece, un po’ brusca e troppo diretta, avrebbe voluto intimarle di farsi i fatti propri.
Invece le strinse piano le dita guantate.
- Sono io a dovermi scusare. Avevi ragione, ovviamente, solo che è difficile guardare in faccia la realtà. Ammettere di essere codardi. E io sono stata codarda per anni, troppo impaurita dall’idea di stravolgere la mia vita per qualcosa che forse non sarebbe andato bene. Eppure io a quel qualcosa tenevo più di tutto.
Serena le sorrise e ricambiò la stretta. – Non hai da scusarti. Davvero. Ero un po’… isterica in quel periodo.
- Per una volta puoi anche permettertelo, sei sempre stata impostata.
Il consueto non-tatto di Ilda fece rabbuiare Serena, che si mise a riflettere. Archibald invece soffocò nella mano una risata nonostante il discorso che stava facendo la persona con cui stava parlando non fosse affatto divertente.
- Ma ti ringrazio – continuò Ilda. – Mi serviva una bella sgridata. Anche mia mamma me l’aveva detto, però, sai, lei è sempre un po’… pungente, quindi le sue parole non mi hanno scalfita tanto quanto le tue.
Serena sembrava a disagio, non sapendo come replicare.
- In fondo è finita bene però, no? Sia per me, forse, che per te…
Serena guardò Thorn. – Io userei il forse per me. È finita bene, forse, per me, mentre per te sicuramente… aspetta, perché il forse?
Ilda gemette. – Non abbiamo ancora parlato a mio padre.
Serena ridacchiò. – Fidati, non potrà andare peggio che con il mio.
Ilda si coprì gli occhi mentre Balder arrossiva fino alla punta delle orecchie, imitato da Ofelia che tirò la manica di Thorn come per zittirlo. Tyr invece fece una smorfia e se ne andò direttamente, camminando a grandi passi verso di loro.
- Se mio padre parla ancora di ormoni giuro che non mi sposerò mai. Preferivo una bella artigliata alla storia di come nascono i bambini. Con permesso, vado a bermi dell’acqua molto fresca.
Serena sbarrò gli occhi.
Ilda scosse la testa, rassegnata. – Fidati, può andare peggio con mio padre. Sia dal lato artigliata, che dal lato discorsi imbarazzanti.
 
In effetti, quando qualche giorno dopo Balder uscì da casa di Renold e Gaela dopo aver annunciato il suo interesse, se così lo si poteva definire, per Ilda, era sudato come neanche durante le cacce aveva sudato.
Ilda si alzò sulle punte per dargli un bacio sulla guancia. – Sei stato fantastico.
Balder le lanciò un’occhiata allucinata, come se facesse fatica a mettere a fuoco. – Se pensi che un misero bacetto basti come ricompensa per ciò che ho fatto, partiamo con il piede sbagliato.
Ilda ridacchiò e si sporse in avanti, avvicinandosi sempre di più alle sue labbra finché…
La porta si aprì di scatto alle loro spalle. Renard li separò poco gentilmente e poi, con un sorriso affilato sul viso solitamente sempre gentile, li prese entrambi a braccetto.
- Vedrete, ragazzi, ci divertiremo un sacco con me come vostro chaperon fino al vostro matrimonio.
Sì, la chiacchierata era andata bene… se si escludevano le pacche sulla schiena che Renard aveva dato a Balder, forse leggermente troppo forti per essere amichevoli. E se si escludeva anche il discorso imbarazzante su ciò che i doveri coniugali comportavano e che categoricamente loro avrebbero evitato come la peste fino al giorno del matrimonio, rispettando tra di loro una distanza di almeno due metri. E… sì, anche le occhiate truci lanciate verso Balder e quelle commosse e un po’ tradite indirizzate a Ilda erano state inquietanti. Per non parlare di Gaela, che si era stretta nelle spalle dicendo che Ilda era grande abbastanza per decidere con chi stare. E che poi aveva accusato Renard di essere un ipocrita bacchettone dal momento che lui e lei prima del matrimonio ci avevano dato dentro come…
Ahem.
Ma era andata bene. Nel senso che sarebbe potuta andare peggio.
Nei mesi successivi, nonostante la guardia costante della zia Roseline, che per fortuna ogni tanto si addormentava, di Renard e degli altri, Ofelia andò in loro soccorso. Concedendo loro una fiducia che nessuno sembrava volergli accordare, decretò che anche Tyr potesse fare loro da chaperon. Ma che quando fosse stato il suo turno, lei non sarebbe mai stata troppo lontana.
Una specie di concessione minacciosa: Tyr poteva allentare la presa su di loro, ma lei non avrebbe lasciato che si allentasse troppo.
Risultato? Un po’ di respiro, anzi, qualche sospiro per i due innamorati. Quando erano con Tyr, puntualmente lui trovava sempre un’incombenza da sbrigare che richiedeva dai cinque ai dieci minuti. Ovviamente, appena lui usciva di scena Ilda si gettava su Balder, o viceversa. Si scambiavano qualche bacio innocuo e qualcuno meno innocuo, a volte chiacchieravano solo, magari di cose personali di cui non avrebbero voluto parlare con altri, oppure si avvicinavano solo per abbracciarsi stretti.
Di solito quando Tyr tornava loro si erano già ricomposti e si comportavano come se nulla fosse, ma quei minuti insieme, seppur brevi, erano loro davvero di conforto. Sembrava che non riuscissero più a stare separati, ma allo stesso tempo la fiducia che Ofelia accordava loro li spingeva a non volerne abusare.
Per ringraziarla implicitamente, con l’aiuto dell’animismo di Balder, Ilda le costruì una lampada da comodino regolabile, così che Ofelia potesse sempre leggere a letto nella posizione che preferiva.
- Sei sicura che lasciarli soli ogni tanto non sia troppo permissivo? – le domandò Thorn una sera, notando come il regalo di Ilda seguisse il libro di Ofelia come un segugio, per accertarsi che nemmeno un angolo della pagina rimanesse in ombra.
Non appena Ofelia lo chiuse, la lampada si spense e si ripiegò ordinatamente sul comodino, facendo sprofondare Ofelia nella penombra.
Ofelia si sporse verso il marito chiudendo anche il suo di libro (se così si poteva chiamare il nuovo codice civile del Polo, che conteneva tremila pagine con parole così piccole da rendere necessaria la lente di ingrandimento) e lo baciò.
Thorn lasciò stare il volume e la sovrastò, incastrandola sotto di sé. Ofelia ridacchiò.
- Non li lascio soli per delle ore, Thorn. Solo qualche minuto.
Thorn le baciò il collo e rabbrividì quando Ofelia sospirò accanto al suo orecchio. Tutti quegli anni, e ancora le solite reazioni. Come se fosse la prima volta.
- Qualche minuto è quello che serve, Ofelia.
Lei scosse la testa, imbarazzata. Sperava che Thorn fosse così vicino da non vedere il suo rossore.
- Non le prime volte.
Come a volerle dare ragione, Thorn le sollevò la vestaglia in pochi secondi e si preparò a iniziare. O a concludere. In ogni caso, ci sarebbe voluto poco per entrambi.
- Cerca di non contravvenire almeno a questa regola, Ofelia. Cerca di rispettarne almeno una – sibilò sulla sua pelle, con la voce resa roca un po’ dal desiderio e un po’ dall’irritazione.
Lei gli allacciò le gambe in vita. – Io rispetto le regole! Non voglio avere uno scandalo in casa. Con te le regole le ho seguite, se non sbaglio.
Thorn le baciò la pancia, facendole trattenere il respiro. – Anche quando venivi a trovarmi all’intendenza a notte fonda? O quando il nostro chaperon, quello che hai messo alle calcagna di Balder e Ilda, si addormentava, e noi restavamo soli? Se è così che tu intendi “seguire le regole”, allora non concordiamo.
Ofelia lo attirò a sé per baciarlo, stringendogli nel pugno i capelli alla base della nuca.
Thorn però si scostò e continuò imperterrito. – O forse a te non si applicavano perché avevi promesso di non condividere il letto con me?
Ofelia arrossì ancora e si irritò. Odiava quando Thorn le ritorceva contro le sue stesse frasi. Odiava davvero la sua memoria, in quei momenti.
- Sono ancora in tempo per mantenere la parola, se vuoi – lo minacciò con voce flebile.
Le labbra di Thorn ebbero un fremito. Un sorriso? Poteva essere?
Thorn fece unire i loro corpi e catturò il gemito di Ofelia, sorpresa, con la propria bocca.
Quando dopo si sistemò accanto a lei, nonostante il respiro affannoso, ebbe il coraggio di chiederle: - Dicevi?
Ofelia si tolse con stizza gli occhiali per non doverlo più vedere. – Il discorso è chiuso.
Occupata com’era ad essere in collera con il marito, Ofelia non si accorse che il colpo di tosse di Thorn era in realtà… una risata.
 
Con Balder e Ilda che si comportavano da piccioncini, Tyr iniziò a sentirsi un po' escluso e... solo. Nonostante nella loro amicizia a tre non fosse cambiato nulla, anzi, fosse tornato tutto alla normalità dopo il periodo di distacco di Ilda e Balder, Tyr sentiva qualcosa di trano, di diverso.
Serena ormai era sposata e fuori casa, Balder e Ilda si sarebbero fidanzati e accasati in poco più di un anno, mentre lui... Lui?
Lui non aveva trovato l'amore. A corte flirtava con le ragazze, ma non c'era mai nulla di serio. Alcune signorine gli parlavano solo per provare ad arrivare a suo fratello, mentre quelle che si dimostravano possibilmente interessate a lui erano come… sbagliate. Non scattava nulla, e il solo pensiero di scambiarsi qualche bacio con loro lo ripugnava. Balder e Ilda non erano decisamente disgustati quando si baciavano. Anzi. A volte erano così presi da loro che Tyr doveva schiarirsi la voce fortissimo perché quei due staccassero, non senza vergogna, le mani l'uno dall'altra.
La verità era che anche lui avrebbe voluto provare quello che provavano i suoi fratelli, e anche i suoi genitori. Quella scintilla che brillava negli occhi di Balder e di Serena era vivida e inconfondibile, ma anche negli occhi di Ofelia, quando guardava Thorn, si scorgeva qualcosa di profondo, come se il suo sguardo cambiasse. In quello del padre era impossibile scorgere alcunché, come al solito, ma Tyr era sicuro che se fosse stato anche solo un decimo più espressivo avrebbe colto quell'affetto anche in lui.
Avrebbe voluto chiedere a Balder come avesse fatto a capire di essere innamorato di Ilda, o come avesse fatto ad innamorarsi proprio. Doveva fare qualcosa? C'era qualche procedura? Parlarne con Serena e Ilda non era nemmeno contemplabile, ma anche con Balder aveva difficoltà a porre domande. Si sentiva ignorante. Per tutta la vita gli era bastata la famiglia, gli amici, i fratelli, pensava che non gli sarebbe mai servito altro. Guardando la felicità di Balder e Ilda, però, e in parte anche di Serena, si sentiva in difetto. I suoi fratelli stavano sperimentando qualcosa di nuovo, qualcosa di innegabilmente bello, e lui... voleva provarlo a sua volta. Sapeva che sarebbe sempre stato amico di Ilda e che Balder ci sarebbe sempre stato per lui, ma era come se nel legame che avevano stretto loro due ci fosse qualcosa di ancora più esclusivo. Qualcosa di intimo.
E la verità era che Tyr aveva paura di restare solo, a lungo andare.
Così cominciò a guardarsi attorno, a guardare davvero. Quando a corte Ilda e Balder erano accanto a lui, ma troppo impegnati a civettare per ricordarsi che lui era lì, ne approfittava per scandagliare discretamente la sala.
E poi arrivò il suo momento.
Anni dopo, quando i suoi figli gli avessero chiesto quando aveva incontrato la mamma per la prima volta, lui avrebbe risposto che era proprio quella sera.
Ma che non aveva fatto proprio una bella figura, tonto com'era all'epoca. Per fortuna, lei si era innamorata molto tempo prima, perciò non gli era servito sfoggiare chissà quali arte seduttive. Anche perché altrimenti sarebbe rimasto proprio solo a vita.
Tyr intravide quasi per caso Serena e Archibald sorridere ad una giovane bionda molto simile ad Archibald. Gli ci volle un attimo per ricordarsi che era Gabriella, la nipote di Archibald, e quindi anche di Serena ora. Che strano essere la zia di qualcuno che era poco più piccolo del proprio fratello. Gabriella aveva forse un anno in meno di lui, non di più. Sedici probabilmente. E Serena era sua zia. Tyr trovò la cosa inspiegabilmente buffa.
Così buffa che, quando Archibald e Serena si allontanarono, Tyr andò a parlarci. A parte il fatto che la trovava molto carina, era certo che lei trovasse carino lui. Non gli sfuggivano le occhiate che gli rivolgeva, a volte di sottecchi, altre meno. Alcune volte aveva anche accennato a un saluto, attirava la sua attenzione discretamente, ma in modo che lui sapesse che c’era. Solo che, per quanto lui flirtasse e ci provasse con le ragazze, non aveva mai voluto farlo con lei. In qualche modo sapeva di piacerle e, per quanto lo chiamassero Tyr il Terribile, non era cattivo. Non gli andava di illudere qualcuno, e lui non aveva intenzioni serie con nessuna.
Almeno fino a quel momento.
- Buonasera mademoiselle... Gabriella, giusto? - chiese avvicinandosi, sfoggiando il suo sorriso migliore, mentre la sciarpa si metteva in mostra con lui.
Lei gli rispose con un sorriso sincero, ma un sopracciglio inarcato. Sembrava che lo stesse mutamente sgridando per averci messo così tanto ad andare a parlarle.
- Buonasera, Tyr - rispose lei, saltando direttamente le formalità. L'accento del Polo in lei produceva lo stesso effetto che sulle labbra della zia Berenilde: era suadente, quasi dolce nonostante l'asprezza di quella lingua. Nulla a che vedere con il modo di parlare di Thorn. - A cosa devo la visita del più grande cacciatore in vita da vent'anni a questa parte?
Il tono di Gabriella era sia ironico che ammirato, e Tyr gonfiò il petto. - Mi chiedevo come dovesse essere avere una zia come mia sorella, così vicina a voi per età. Dev'essere stata una bella sorpresa scoprire che vostro zio si era sposato in segreto con una ragazza così giovane.
Gabriella sorrise di nuovo, ma con condiscendenza questa volta. Come se fosse un bambino. - Direi di no, dal momento che sapevo tutto.
Tyr perse il sorriso ammaliatore per sostituirlo con un'espressione confusa. - In che senso sapevate tutto?
- Ho officiato io alla Cerimonia del Dono. Sono stata io a fare da tramite perché i loro poteri familiari si mescolassero.
Tyr increspò la fronte. - Perché?
Gabriella rise. - Non c'è una ragione specifica. Mia madre, Pazientina, quella che mi sta fulminando con lo sguardo... sì lei, eccola, salutatela con me... ecco, mi considera una sobillatrice.
Tyr guardò esterrefatto Gabriella salutare sua madre con un sorriso quasi perverso, e la donna risponderle con la più infuriata delle occhiate.
Gabriella sospirò. - Santa Rete, che ipocrita.
Tyr spalancò la bocca. - Ma non... vi legge nella mente?
- Sì, sempre. Ma non mi interessa. Comunque, mia madre è una falsa. Lo zio Archi ha fatto moltissimo per lei, per tutte loro sorelle, e il modo in cui loro l'hanno ripagato è stato ignobile. Lo zio sa che può contare su di me, quindi sapevo da tempo della sua intenzione di sposare Serena. Penso di aver capito che la amava prima ancora che se ne rendesse conto lui. Il minimo che potessi fare era presenziare al matrimonio.
Tyr era andato lì per flirtare, e invece si trovò a parlare con Gabriella come se fosse un'amica di vecchia data. Piuttosto diretta oltretutto. Non a caso, era la nipote di Archibald.
- Ma i tuoi parenti non hanno letto nella tua mente le sue intenzioni?
Gabriella ammiccò maliziosamente. - Sono brava a serbare i miei segreti. Sono una dei membri della Rete con più controllo sui propri poteri. Anche questa cosa fa imbestialire mia madre.
- Non vi piace vostra madre, direi.
- Non mi piace la mia famiglia. A parte mio fratello e lo zio Archibald - rettificò lei aspramente. - Niente a che vedere con la vostra - aggiunse con... nostalgia? Poteva essere?
Tyr era sempre più basito. Era convinto di piacerle, eppure lei non stava facendo nulla per... ammaliarlo? Insomma, si stava lamentando!
- Come fate a sapere che la mia famiglia è meglio della vostra?
- Basta osservarvi. Avere le menti collegate non impedisce a gelosia e tradimenti di mettere radici, non rende più facile creare dei legami sinceri. Voi invece... basta guardarvi per capire che vi volete bene davvero, senza pretendere nulla in cambio.
Tyr diede un'occhiata a Balder e Ilda, che ora erano intenti a ridere con Serena e Archibald. Un po' in disparte, Ofelia stava mormorando qualcosa all'orecchio di Thorn, piegato di quasi novanta gradi per raggiungere l'altezza della moglie. Il modo in cui lei si appoggiava al suo braccio e la vicinanza dei loro corpi tradiva una profonda intimità.
L'amore in famiglia era stato così scontato che Tyr non si era mai accorto di quanto fosse prezioso. E raro. Era fortunato.
- Magari anche voi un giorno avrete una famiglia così - mormorò.
Non seppe nemmeno lui perché lo disse, forse solo per consolarla. Gabriella gli sorrise, mostrandogli una dolcezza che non traspariva affatto quando parlava della sua famiglia.
- Ne dubito, ma grazie per le vostre parole. Sarebbe impossibile per me separarmi dalla Rete. Il nostro non è un potere che si possa accendere o spegnere come il vostro; come gli artigli. È perpetuo, come quello di vostra madre. Ho chiesto allo zio cosa ha fatto lui per costringere la nostra famiglia a spezzare il legame, ma a quanto pare le condizioni che hanno portato a quell'episodio non sono replicabili. Peccato.
Tyr strinse le labbra, poi sorrise. - Vostra mamma mi sta fulminando con lo sguardo.
Gabriella ridacchiò. - Odia che io parli con voi. Per questo mi piace parlare con voi.
- Ma è solo la prima volta che parliamo.
Gabriella gli fece l'occhiolino. - Speriamo non sia l'ultima, allora.
Quando Tyr andò dai genitori, con la sciarpa mollemente appoggiata sulla sua testa, in riflessione, l'occhiata che Thorn gli rivolse era più affilata di un rasoio. - Ti pregherei di evitare di causare un incidente diplomatico con il clan della Rete. Vedono già male il matrimonio con Serena, vorrei evitare ulteriori grattacapi.
Tyr si imbronciò. - Ho causato un incidente diplomatico solo una volta, non serve rinfacciarmelo sempre. Non combino guai con tutte le persone con cui parlo.
Con tutte no, ma il soprannome Tyr il Terribile era sempre azzeccato, soprattutto quando parlava a sproposito e poi i membri più influenti della corte andavano a lamentarsi con Thorn.
- Ricordartelo non nuoce.
- Papà, io non dimentico mai nulla.
E di sicuro, pensò lanciando un'occhiata a Gabriella, che lo stava decisamente guardando, non avrebbe dimenticato la conversazione con Gabriella.
 
Alla serata successiva l'approcciò di nuovo. Parlare con lei era stato intrigante. Un po' impegnativo, ma intrigante. Ragionandoci a mente fredda, Tyr si rese conto che Gabriella era talmente abituata a parlare con persone che leggevano i suoi pensieri da dimenticare che non tutti avevano quell'abilità.
- Allora, com'è mia sorella come zia?
Gabriella gli sorrise garbatamente. - Buonasera anche a voi. Come state?
Tyr le rivolse il suo miglior sorriso scanzonato. - Avete ragione, perdonate la mia maleducazione. Sono abituato ad andare dritto al punto.
Lo disse con quello che secondo lui era il suo miglior tono provocante. Voleva stuzzicarla un po' quella sera, un innocuo flirt. Ma Gabriella aggrottò le sopracciglia, per nulla ammaliata. - Non troppo dritto, spero.
Tyr esitò. - Ehm... no. Sono diretto... il giusto, credo.
Lei annuì, seria. Poi tornò a sorridere. - Vostra sorella è una bellissima persona. Sono davvero felice di averla conosciuta e di averla in famiglia.
Tyr si strinse nelle spalle e poi incrociò le braccia al petto, tirando i muscoli. - Sì, mia sorella è a posto. Ma non è una persona bella come me - scherzò, facendole l'occhiolino.
In risposta, Gabriella lo osservò da sopra il bordo del calice da cui stava bevendo. Nessuna reazione degna di nota. Tyr ci rimase male.
Si schiarì la gola per nascondere il disagio.
Fortunatamente, parlò prima Gabriella, riempiendo il silenzio. - Immagino sia così, ma conosco meglio lei. È solo la seconda volta che ci parliamo.
Tyr ritrovò la spavalderia. - Oh, sono sicuro che mia sorella non faccia che parlare di me.
Gabriella aggrottò la fronte. - A dire il vero, no. Ogni tanto racconta qualche vostra marachella, ma non così spesso.
Tyr non sapeva se essere più offeso dal fatto che Serena parlava poco di lui, e parlava pure di cose imbarazzanti, o dalle reazioni tiepide di Gabriella.
Alla fine sbottò, impulsivo come un Drago. - Pensavo di piacervi!
Gabriella sgranò gli occhi. - Be', sì che mi piacete. Ma vi preferisco quando fate meno il cascamorto.
Tyr spalancò la bocca. - Come, scusate?
Gabriella invece tappò la sua, di bocca, con la mano. - Perdonatemi, non volevo essere maleducata. Sapete, quando i vostri pensieri vengono costantemente letti senza alcun filtro, diventa facile dimenticare che non tutti hanno accesso alla mente altrui. A volte non edulcoro ciò che devo dire, vi chiedo scusa. Tendiamo ad essere troppo schietti per questo.
Tyr quasi non la ascoltò. - Io non faccio il cascamorto!
Gabriella inarcò un sopracciglio. - Sì che lo fate. Con tutte.
- M-ma voi continuate a guardarmi da anni!
Gabriella si accigliò, espressiva quanto Thorn era indifferente. - Siete un bel ragazzo.
- Anche mio fratello è bello. È pieno di bei ragazzi qui, ma voi guardavate me!
- Intanto, vostro fratello è sempre stato palesemente proprietà della vostra amica, la Nichilista. E poi non mi metto a fissare tutti i bei ragazzi che trovo, se permettete. A me piacevate voi.
- Perché al passato? Non vi piaccio più?
Gabriella incrociò le braccia al petto. - È un interrogatorio? Vi conosco a mala pena. Dovrei essere io a chiedere a voi, dato che notavate le mie occhiate nei vostri confronti, per quale motivo avete deciso di venire a parlare con me proprio ora.
Tyr imitò, senza volerlo, la sua posizione. La sciarpa agitava la coda sulla sua schiena, irrequieta. Valutando se saltare addosso a quella ragazza o continuare ad aspettare. - Perché non vi piaccio più?
Gabriella rise per lo stupore. - Sembrate un bambino. Ripeto, non vi conosco, ma non apprezzo granché chi perde tempo a flirtare con chiunque.
- Ma ora sono qui, e non sto flirtando.
- Permettetemi la correzione: state flirtando male.
Tyr arretrò di un passo, come se Gabriella lo avesse colpito. Nell'orgoglio era stato di sicuro colpito. La sciarpa parve mettersi sull'attenti, valutando la situazione. Gabriella parve accorgersene, così sospirò e sotterrò l'ascia di guerra.
- Mi piacerebbe conoscervi meglio, se questo può consolarvi. Per quello che ho visto di voi finora, vi apprezzo di più quando siete voi stesso e non cercate di fare colpo.
Invece che blandirlo, le sue parole parvero farlo arrabbiare sul serio. Si sa che ci si offende davvero quando ciò che viene criticato è vero...
- Non ho bisogno di consolazione. E posso trovare altre ragazze più interessate alla mia compagnia.
Gabriella scosse la testa. - Se è ciò che volete da una ragazza, io non vi tratterrò. Ma dubito che la compagnia di altri sia... più incalzante della mia.
Di fronte all'ennesimo occhiolino malizioso di Gabriella, Tyr arrossì e girò i tacchi. La sciarpa agitò la coda come per mandarla a quel paese. Rabbia, era solo rabbia quella che provava.
Due settimane dopo andò da lei con la coda tra le gambe, mentre Balder e Ilda assistevano alla scena stupiti. Era raro trovare qualcuno che tenesse testa a Tyr, e ancora più raro era trovare qualcuno che addirittura lo rimettesse al suo posto. Gabriella nascondeva delle unghie affilate sotto la dolcezza disarmante del suo sorriso.
- Sono stato ridicolo, vi devo delle scuse - esordì, quando Gabriella si staccò dalle sue cugine per andare dove Tyr la stava aspettando.
- Lieta che ve ne siate reso conto. Buonasera comunque, come state?
Tyr sorrise, un sorriso sincero e non ammaliatore. Non poteva sapere che il cuore di Gabriella aveva perso un battito proprio in quel momento.
- Non fate un torto ai miei genitori pensando che non mi abbiano educato, ve ne prego.
Gabriella ricambiò il sorriso spontaneamente. - Non lo farò. Mi piacciono i vostri genitori. Vostra mamma sembra sapere ciò che vuole.
- E sa anche come ottenerlo. Mai sottovalutarla. In ogni caso, io sto bene, vi ringrazio. Voi?
- Godo di ottima salute e, spero, anche di ottima compagnia questa sera. Allora, com'è stato il corteggiamento con le signorine di due settimane fa?
Tyr non riuscì a trattenere una smorfia. - Illuminante.
Gabriella rise per davvero per la prima volta da quando Tyr le aveva rivolto la parola. Aveva una risata molto femminile, di quelle che facevano spuntare automaticamente il sorriso sui volti degli altri. I suoi occhi azzurri come quelli di Archibald si accesero, persino i capelli biondissimi parvero risplendere. - Non ne dubito. Penso che il termine ‘illuminante’ sia proprio appropriato.
- Già. Scusatemi per essere stato un cafone. È stato un po' un insulto alla vostra intelligenza, di gran lunga superiore alla loro.
- Già - lo imitò Gabriella, sempre sorridendo, dando un buffetto alla sciarpa che si era avvicinata al suo viso. - Ammetto però che è stato divertente vedervi. Mettete in mostra i muscoli in modi del tutto inaspettati, come un galletto in un pollaio, eppure lo fate sembrare naturale.
Tyr sollevò un sopracciglio e incurvò maliziosamente un angolo della bocca. - Ora siete voi, però, quella che sta flirtando.
Lei scosse la testa ridendo. - Se considerate un complimento l'essere paragonato a un gallo, sì. Allora, ditemi. Cosa fate nella vostra vita avventurosa, a parte allenarvi e uccidere Bestie?
- Come sapete che mi alleno?
- Vi giuro che non sto flirtando, ma... avete davvero una muscolatura non trascurabile. È evidente che dovete passare molto tempo a curare questo aspetto di voi.
Tyr valutò seriamente la deduzione. Gli sembrava che Gabriella apprezzasse quando era se stesso. In fin dei conti, non era diverso dal parlare con Ilda.
- Touché, mademoiselle. Non è fondamentale avere muscoli per cacciare, però secondo me aiuta a calarsi nella parte. Come se facessimo il lavoro che dobbiamo fare a mani nude, e non con il nostro sistema nervoso.
- Immagino che anche la parte scenica, in effetti, voglia la sua parte. E quando non cacciate e non vi allenate?
Tyr aprì la bocca, ma rimase bloccato. Cosa faceva lui nel tempo libero, a parte bighellonare e infastidire i fratelli, quando ne aveva l'opportunità? Balder aveva due lavori, Serena era cancelliera, Ilda aiutava Gaela in officina e quando era casa aveva sempre qualcosa da costruire o sistemare. Persino Randolf e le gemelle a casa non stavano mai fermi, continuando a studiare.
Si sentì un po' inferiore.
- Nulla degno di nota. Voi?
Gabriella gli lanciò una strana occhiata, ma non insistette. - Io sono candidata a diventare la futura ambasciatrice. Non peccavo di scarsa modestia quando vi ho detto che sono una delle persone con il potere della Rete più sviluppato. E so essere diplomatica, anche se non sembra. Nel tempo libero leggo.
Tyr inarcò un sopracciglio biondo. - Leggete? A caso?
- Non a caso! Leggo romanzi, storie. Mi permettono di viaggiare e di vedere altre realtà anche quando sono sicura che non me ne andrò mai dal Polo. È un ottimo passatempo.
- Qualche consiglio per un principiante?
Gabriella strabuzzò gli occhi. - Volete provare a leggere un libro?
- Detta così è un po' offensiva. In quanto Storiografo per un quarto, ho ereditato la memoria di mio papà. Memoria fotografica. Datemi tre titoli che potrebbero interessarmi, ve ne farò il riassunto la prossima volta.
Gabriella alzò il mento con aria di sfida. - Affare fatto. Tre titoli, uno romantico, uno d'avventura e uno drammatico.
Tyr fece una smorfia. - Romantico? - domandò, scettico, lanciando un'occhiata a Balder e Ilda che si stavano platealmente comportando da sciocchi.
Ilda gli stava dando un pugno, ma senza alcun vigore, facendo ridere il fratello.
Gabriella seguì il suo sguardo. - Uh, direi che sono usciti allo scoperto da poco.
- Si può evitare il libro romantico?
- Assolutamente no. Non siate ottuso, tenete la mente aperta a nuove esperienze.
Tyr abbassò lo sguardo, stupito. Gabriella gli stava sfiorando casualmente un braccio con le mani, mani piccole e delicate, indugiando sul muscolo. Lui le sorrise come un predatore. Così, alla fine lei aveva fatto la sua mossa, eh?
- Se la nuova esperienza siete voi, ammetto che potrei cercare di essere anche un po' più che aperto.
Gabriella rise di gusto. - Siete pessimo in questo, lasciatevelo dire.
Tyr si chinò su di lei, d'un tratto serio, avvicinando il viso al suo più di quanto fosse lecito per mantenere il decoro. - Eppure vi piace, non mentite.
Gabriella deglutì a vuoto, ipnotizzata come se di fronte a lei ci fosse un serpente. In effetti, la sciarpa che si agitava sinuosa vicino al suo viso sembrava proprio un serpente. Poi sbatté le palpebre, non in modo suadente, solo per cercare di riacquistare la lucidità. - Non vi ho mai nascosto che mi piacete.
- Accetterò anche il libro romantico. Ah, piacete alla mia sciarpa. È un grande onore, di solito non le piace nessuno.
Il giorno dopo, perché la sera stessa era troppo stanco per mettersi anche solo a cercare i libri che Gabriella lo aveva sfidato a leggere, Tyr si recò nella biblioteca più grande del Polo. Venne colto dalla nostalgia quando mise piede in quel luogo ancestrale, che sembrava essere lì, con polvere annessa, fin dalla fondazione del mondo. Aveva ricordi molto vividi, grazie alla sua memoria, di quando ci andava con il prozio di sua mamma. Era stato un uomo buono e aveva apprezzava moltissimo quella biblioteca. Tyr venne colto da un’epifania che scaturiva più da una sensazione che da un ricordo. Trovò i tre libri di suo interesse e andò a casa.
Il giorno dopo tornò in biblioteca con i tre libri già letti e ne prese altri tre. Il giorno dopo ancora, ne prese altri cinque.
Quando arrivò la serata di corte successiva, Tyr era così impaziente che Balder dovette chiedergli per forza se era successo qualcosa tra lui e Gabriella. Non lo vedeva così trepidante da... be', da mai.
Tyr gli disse solo che si stava facendo una nuova amica molto simpatica, il che era vero. Gabriella era bella, a suo modo dolce, anche se troppo schietta, e sembrava veramente interessata a conoscerlo. Non sapeva cosa fossero, però gli piaceva ciò che erano in quel momento.
Quando varcò la soglia della corte, quella sera, si fiondò da lei, che già lo aspettava sorridendo. La sciarpa si allungò verso la sua mano per salutarla. A volte era più educata del padrone, a parte per il caratteraccio.
- Ciao, io sto bene grazie e anche voi state bene. Bando alle ciance...
Gabriella rise per quel saluto frettoloso, diede persino una pacca alla sciarpa, e lo incalzò subito con domande specifiche sui tre libri che gli aveva consigliato. Domande a cui Tyr rispose con dettagli che lei nemmeno ricordava. Gabriella spalancò sempre di più la bocca mano a mano che Tyr le raccontava degli altri libri che aveva letto quella settimana, molti più di quanti lei avesse consigliato e molti più di quanti lei riuscisse a leggere in un mese. Tyr ad un certo punto ridacchiò e le posò gentilmente un dito sotto il mento, spingendo finché Gabriella non richiuse la bocca.
- Io volevo farvi avvicinare al mio mondo, non risvegliare un mostro. Possibile che non abbiate mai letto un libro prima?
Tyr fece una smorfia, incrinando l'espressione di entusiasmo che aveva avuto sino a quel momento. - Solo testi scolastici e manuali che mio padre mi costringeva a leggere. So un sacco di cose, ma cose che non mi interessa sapere. Non credevo esistessero libri che potessero essere letti solo per il gusto di farlo, e non per acquisire competenze di qualche tipo.
- Da un libro si acquisisce sempre qualcosa.
- Ovvio, avete capito cosa intendevo dire... Inoltre, sono un po' irrequieto, nel caso in cui non l'aveste notato. Tendo a essere più un tipo da azione che da studio. L'inattività mi annoia.
Gabriella gli rivolse un sorriso al contempo dolce e feroce, e Tyr sentì lo stomaco fremergli di una strana sensazione. - E leggere libri vi annoia?
Lui rispose con lo stesso sorriso sfacciato. - Sono molto ammalianti, devo dire - sussurrò con voce roca, avvicinandosi impercettibilmente a Gabriella.
Lei arrossì e arretrò. Resosi conto che finalmente uno dei suoi tentativi di seduzione era andato a segno, Tyr provò un'appagante sensazione di vittoria. Sentì il bisogno di avvicinarsi di più a Gabriella, ma non voleva sconfinare e passare un segno invisibile che parevano essersi imposti. Per qualche motivo, a Gabriella lui sembrava piacere sul serio, e non voleva rovinare quell'amicizia che stavano costruendo approfittando del suo ascendente su di lei.
Nel corso della serata alla conversazione, incuriositi, si aggiunsero anche Balder e Ilda. Ilda e Gabriella parvero capirsi subito, e scoprirono di avere anche alcune letture in comune.
Tu hai letto dei libri romantici? - le chiese Balder, trasecolato.
Ilda gli tirò un pugno sul braccio, rossa di vergogna. - Non pensare di conoscere tutto di me solo perché ci conosciamo da una vita.
Balder parve preso in contropiede da quella rivelazione e rimase silenzioso per il resto della serata. Ma non quando rincasarono.
- Gabriella sembra simpatica - esordì mentre si preparavano per dormire.
Tyr si infilò sotto le coperte sbadigliando, non prima di aver contratto i muscoli per mostrarli a Balder, che come al solito se ne fregava. Però lo faceva ridere la costanza del fratello nel mettersi in mostra, soprattutto perché sapeva che lo faceva per scherzare e non per vantarsi. Non sul serio.
- Sì, è una tipa a posto.
- Le piaci.
Tyr si bloccò mentre si sistemava le coperte addosso. - Presumo di sì.
- E tu? Ti piace?
Tyr si voltò. Si sentiva a disagio a parlare di quelle cose. Era piacevole stare con Gabriella, gli veniva naturale. Quando era con lei, poi, sentiva come un pizzicorino alla bocca dello stomaco, come una specie di fame che non era fame di cibo. Non era una brutta senazione. Però non era sicuro di cosa provasse veramente, non gli sembrava di avere quel trasporto che invece aveva suo fratello per Ilda. Non riusciva a capire a che punto fosse un rapporto come il loro.
- È una buona amica.
Balder sospirò. - La mamma vi ha adocchiati. Aspettati un terzo grado.
Quel commento gli fece venire la pelle d'oca.
Ofelia però non fu così indagatrice come al solito. Tirò fuori la questione una sera dopo cena, quando in salotto c'erano solo lei e Thorn, che leggeva il giornale (del giorno dopo) e fumava la pipa, lui, Balder e le gemelle. Gli fece qualche domanda superficiale, ma sembrava sbadata, intenta a fissare le gemelle. Non era un mistero che Ofelia temesse il momento in cui le figlie minori sarebbero entrate in società, evento per il quale mancava alla fine solo qualche settimana. Dietro insistenza sia loro che di Berenilde, Ofelia e Thorn avevano accettato di farle partecipare alle serate di corte un po' prima del compimento dei quindici anni. In compenso ci pensò Thorn a far tornare la pelle d'oca a Tyr, lanciandogli un'occhiata penetrante che poteva solo essere un ammonimento. Un "non ci deludere" insieme ad un "vedi di fare le cose come si deve".
Ma tanto, cosa avrebbe mai potuto fare di male? Soprattutto in una biblioteca. Da solo con Gabriella. Una biblioteca enorme, piena di angoli bui e deserti dove non passava mai nessuno.
- Non ci credo - disse Gabriella a mo' di saluto quando trovò Tyr stravaccato per terra circondato da libri, nella suddetta biblioteca. - Pensavo scherzassi quando hai detto che ti leggi una decina di libri al giorno qui.
Tyr si strinse nelle spalle, senza commentare il fatto che lei avesse iniziato a dargli del tu. Di sua spontanea volontà. - Non mi va di portarmi via dei libri che finirei in un pomeriggio per poi riportarli l'indomani. Li leggo qui e basta.
Gabriella si sedette accanto a lui.
Ecco, una cosa che gli piaceva molto di lei era l'adattabilità. Gabriella non era troppo signorina da schifarsi di qualsiasi cosa. Le smorfiosette della corte non avrebbero mai concepito di sedersi sulla moquette vecchia e polverosa di una biblioteca.
- Da solo?
Tyr le scoccò un sorriso foriero di guai mentre la sciarpa strisciava quasi sensualmente sul suo torso. - Vorresti farmi compagnia?
Gabriella si strinse nelle spalle e prese un libro. - Perché no? Tanto è quello che farei se fossi a casa.
- Non hai... dei doveri o robe simili?
Gabriella lo fissò con tutta la calma di questo mondo. - Sì. Ma sono brava a nascondere le tracce. Sai, con decine di persone che parlano e fanno qualcosa, non c'è mai il tempo per spiare cosa faccio io. A parte mia mamma, ma lei è facilmente eludibile. E tu, non hai cose da fare?
Tyr allargò il sorriso. - Sì.
- E allora ribelliamoci insieme.
Se non si trovavano ogni giorno, si trovavano a giorni alterni. Molto più spesso di quanto fosse lecito per due ragazzi giovani, non fidanzati, tanto meno sposati, e senza chaperon. Approfittavano enormemente di quei momenti insieme, leggendo in silenzio, oppure chiacchierando e scambiandosi opinioni sui libri che avevano letto e che volevano che l'altro leggesse. Erano a loro agio, più di quanto Tyr fosse mai stato persino con Ilda. Il silenzio che li avvolgeva era caldo, intimo, come una vecchia coperta. Però, a Tyr non sfuggivano le occhiate che Gabriella gli lanciava di sottecchi. Così come a lei non sfuggivano le sue.
Un giorno, mentre erano entrambi seduti a terra con le gambe che si sfioravano, uno di fronte all'altra, Gabriella chiuse di scatto il libro che stava leggendo. Lo guardò con il fuoco negli occhi.
Tyr alzò lo sguardo. - Che c'è? - le chiese, aggrottando la fronte.
- Hai mai baciato qualcuno?
Tyr aggrottò ancora di più la fronte. Gabriella stava per dirgli che con quell'espressione era assolutamente identico a Thorn, ma Tyr la precedette, rispondendole: - No! Sono un ragazzo puro e innocente, io. E tu?
- Se sono pura e innocente?
- No, se hai mai baciato... qualcuno.
Gabriella gli si avvicinò carponi, azzerando la salivazione di Tyr, e gli posò le mani sulle spalle. La sciarpa, perennemente in movimento come il padrone, si immobilizzò. Lentamente, forse per dare a se stessa il tempo di rinsavire, o a lui quello di ritrarsi, Gabriella lo baciò. Un bacio timido e casto, uno sfioramento leggero di labbra. Tyr strinse forte gli occhi. I morbidi ricci di Gabriella che gli solleticavano il volto, il suo profumo, così vicino e avvolgente... e il suo corpo, premuto contro il suo, caldo e...
Gabriella si staccò troppo presto. Tyr aveva gli occhi sgranati. Quella ragazza era più terribile di lui...
- Ora sì - rispose lei in ritardo, sorridendo timidamente.
In Tyr invece non c'era nulla di timido. Quella sensazione formicolante allo stomaco era esplosa, una fame che lo divorava e a cui finalmente aveva trovato una cura. Solo guardando le labbra di Gabriella sentiva di stare già meglio. Ma se il contatto di prima era il rimedio a quello che sentiva, era stato solo un palliativo. Un misero antipasto durante una cena di cui desiderava primo, secondo, contorno e dolce. E digestivo.
Le sue mani scattarono verso di lei, tirandosela addosso e facendo cadere il libro, e quasi gemette quando il torso di Gabriella fu spinto contro il suo. Gli parve all'improvviso di essere vivo, di aver recuperato la vista dopo un periodo di cecità. I contatti di Balder e Ilda non gli sembravano più estranei o disgustosi... semmai, gli facevano provare invidia.
Invece gli occhi azzurro cielo di Gabriella, limpidi come l'acqua, lo infiammavano. In lui si scatenò un desiderio cocente fin troppo comune nei diciassetteni, troppo grandi per essere bambini ma troppo piccoli per essere uomini.
- Tyr... - sussurrò lei prima che lui la zittisse con un bacio vero.
Gabriella non rimase a lungo scombussolata. Nel giro di tre secondi riprese il controllo di sé e gli allacciò le braccia al collo, stringendosi ancora di più a lui. - Oh, sì che mi piaci... - mormorò sorridendo sulle sue labbra.
In risposta, Tyr la strinse ancora più forte. La sciarpa si allungò fino a circondare entrambi, legandoli letteralmente insieme.
Da quel momento, cercare di tenere le distanze alle serate di corte divenne ancora più difficile. I loro occhi venivano costantemente calamitati dall'altro, come un richiamo a cui non potevano resistere. Ma se di fronte a tutti erano bravi ad ignorarsi, in biblioteca non erano affatto bravi a trattenersi. Ormai il tempo che dedicavano alla lettura era drasticamente calato, dirottato in qualcosa che Tyr avrebbe definito più nelle sue corde: qualcosa di più attivo. Si davano appuntamento tra gli scaffali meno frequentati della biblioteca, quelli che all'epoca avevano interessato solo il prozio: genealogie, compendi e liste di nomi di tutte le famiglie... di tutte le arche, da che si aveva memoria. Si salutavano con un cenno del capo, segnalando che in giro non c'era nessuno. Poi, la maggior parte delle volte abbandonavano i libri che avevano in mano su uno scaffale vicino, o su un tavolo, e non aprivano nemmeno la bocca per salutarsi. O meglio, la bocca la aprivano, ma non per parlare...
Incontro dopo incontro, i baci divennero sempre più profondi, i tocchi sempre più audaci, i respiri sempre più corti. Un bottone in più aperto sulla camicia di Tyr. Una mano che scendeva un po' più in basso sulla schiena di Gabriella. Un bacio sul collo, sulla clavicola, sotto la clavicola... 
- Gab... - ansimò un giorno Tyr, afferrandola per le natiche e prendendola in braccio, spingendola contro uno scaffale per sostenerla meglio. Lei si fece sfuggire un gemito così forte che si bloccarono entrambi, mentre lei si tappava la bocca con la mano. Poi scoppiarono a ridere.
E poi sentirono un rumore. Tyr lasciò andare Gabriella e si nascose due corsie più in là mentre lei si sistemava le gonne e cercava di ritrovare una parvenza di respiro regolare. Pochi secondi dopo comparve un anziano.
- Siete stata voi a fare quel rumore? Vi siete fatta male?
Gabriella ci mise un po' a rispondere, come se si stesse chiedendo dove fosse e perché. - S-sì... ho sbattuto il piede. Scusatemi se ho fatto rumore.
L'anziano guardò il disastro di libri che c'era per terra, disordine che fortunatamente dava credito alle parole di Gabriella.
- Nessun problema cara. Siete interessata alla genealogia?
Gabriella fissò gli antiquati volumi sugli scaffali, così spessi da renderglieli pesanti alla sola vista. - No, in realtà io cercavo un posto tranquillo in cui leggere.
Ma l'anziano, oltre che vecchio, pareva anche sordo. Le rubò venti minuti parlandole di tutto l'albero genealogico della sua famiglia, che gestiva la biblioteca da molti, molti, molti, molti anni. Era un grande onore per una famiglia di senza-poteri, le disse qualcosa come sei volte, anche se con parole diverse. Nel suo nascondiglio, Tyr se la rideva della grossa. Alla fine decise di andare ad aiutarla comparendo con nonchalance come se dovesse prendere un libro dall'importanza fondamentale. Quando l'anziano vide che i due si conoscevano, si congedò educatamente. Non appena se ne fu andato, Gabriella e Tyr scoppiarono a ridere, cercando di camuffare le risate con colpi di tosse.
Da quella volta però apparve evidente che non potevano più incontrarsi così, con il costante rischio di essere scoperti. Eppure, finché non trovavano un luogo più adatto a... fare quello che facevano, continuarono a tornare lì. Un po' più per leggere e un po' meno per baciarsi.
E poi, una sera, Gabriella trovò la soluzione. Ad una serata di gala che si teneva in una grande sala di casa sua, Gabriella prese Tyr in disparte e lo condusse in un corridoio appartato. Tyr si era già chinato per baciarla, quando lei lo fermò.
- Aspetta, vieni con me prima.
- Gab, mia mamma sarà anche presa dal tenere d'occhio le mie sorelline, ma non è così cieca da non accorgersi che siamo spariti insieme.
Lei gli tirò una manica, camminando più in fretta. - E dammi un po' di fiducia.
- Ma dove stiamo andando?
- Qui! - sbottò lei, esasperata, aprendo una porta e facendolo entrare in una camera decisamente femminile e decisamente piena di libri.
Tyr non ebbe il tempo di soffermarsi nemmeno su un dettaglio di quella stanza che Gabriella gli prese il viso e lo girò verso quello che voleva che vedesse: un enorme specchio a muro a grandezza Thorn.
- Allora?
- Allora cosa? Perché mi sta mostrando uno specchio?
Gabriella sospirò. - Sei una delle persone più intelligenti che io conosca, eppure a volte mi chiedo come tu faccia ad essere così tonto. Sei o non sei un attraversaspecchi?
Tyr sgranò gli occhi quando capì cosa Gabriella volesse davvero mostrargli. Tyr andò a specchiarsi, fissando il suo riflesso e chiedendosi cosa fosse diventato. Suo fratello non avrebbe mai tramato una cosa del genere. Era sbagliata. Nemmeno Archibald aveva fatto una cosa così… inopportuna con sua sorella. Se Thorn lo avesse scoperto sarebbe stata una tragedia. E sua mamma... l'avrebbe delusa, profondamente delusa, lei che era sempre stata così paziente con lui.
Scosse la testa. - Gabriella la Terribile. Non so se posso... andare fino in fondo, a questa cosa. Lo vorrei, davvero, ma non è giusto. C'è un limite anche alla nostra ribellione. E poi io non voglio tradire la mia famiglia. A te non andranno a genio i tuoi, ma io amo i miei. E mi hanno insegnato... una certa moralità.
Gabriella si sentì d'un tratto pesante, schiacciata, come se le fosse crollato il soffitto addosso. - Cosa vorresti insinuare? Che io sono un'immorale che ti sta facendo voltare le spalle alla tua famiglia? Mi pareva che tu lo volessi quanto me.
Tyr sentì i nervi tendersi, gli artigli scorrergli nelle vene come il sangue. Avrebbe voluto usare i ponti su Gabriella, invece, per aiutarla a rilassarsi. Per cancellare quel dolore che vedeva sbocciare sul suo viso.
- Non sto assolutamente dicendo questo. Solo che dovremmo...
Dovevano cosa? Aspettare il matrimonio? Aspettare come minimo un anno, se non due? Lui aveva diciassette anni, a Gabriella mancava poco per compierli. Al di là del fatto che non voleva aspettare, avrebbe prima voluto capire cosa provava. Ciò che sentiva all'imbocco dello stomaco si era finalmente concretizzato in un bruciante e disperato bisogno di lei, un ferro incandescente che posava su delle braci costantemente attizzate quando si trovava vicino a lei. Eppure... matrimonio? Non ci aveva mai pensato. A parte cacciare, non sapeva nemmeno cosa volesse fare nella vita, figuriamoci con chi passarla. Però Gabriella era importante per lui. Importantissima. Se non come fidanzata, almeno come amica.
Anche se con degli amici non si faceva quello che facevano loro. Neanche come fidanzati, a dire il vero.
Gabriella aveva i pugni serrati. - Ho afferrato il punto, non serve che aggiungi altro. Torna pure alla festa prima che tua mamma si accorga che non sei qui.
Tyr esitò. Qualunque decisione avesse preso, la sua vita non sarebbe più stata la stessa da quel momento in poi. - Sia tu che la mia famiglia siete importanti per me, Gabriella. Possiamo... continuare come al solito. Aspettare. Non dobbiamo per forza... fare questo.
La rassegnazione sul volto di Gabriella era così evidente da mascherare persino la rabbia che covava al di sotto. E poteva nascondere le lacrime che lei si stava tanto sforzando di trattenere. - Non possiamo continuare così, e lo sai. A me piace che tu tenga così tanto alla tua famiglia, la vorrei io una famiglia come la tua! Ma io non voglio essere seconda a nessuno, Tyr. Magari sarà stupida la mia idea di voler vivere un amore da romanzo, ma è quello che desidero. E... lo desideravo con te, ma non così. Voglio tutto, o non darmi niente. Perché questo limbo mi sta uccidendo. Non voglio che continuiamo a stare insieme e baciarci solo perché ci piace. Non ti sto chiedendo di scegliere tra me e la tua famiglia, Tyr. Una cosa non esclude l'altra. Ti sto solo chiedendo di scegliere me sopra tutto. Di scegliere noi.
Alla fine, Gabriella si morse un labbro, infuriata con se stessa per non essere riuscita a trattenere quelle lacrime silenziose che si schiantavano a terra come macigni. Tyr si precipitò di fronte a lei, alzandole il viso. Vederla soffrire gli stava spezzando il cuore. Gli sembrava che lo avessero preso ad artigliate, pezzo per pezzo.
- Gab...
Lei lo guardò a lungo, accarezzò distrattamente la sciarpa che le si era avvinghiata all'avambraccio. Si alzò sulle punte, come se volesse baciarlo, ma poi si ritrasse. - Chiudete la porta quando uscite, per favore.
Trasecolato, così stupito da barcollare, Tyr obbedì. Non si rese nemmeno conto della resistenza che opponeva la sua sciarpa. Voleva scappare da lì, da quella situazione, da quel dolore. Lui aveva sempre avuto una vita facile e felice, eppure negli ultimi tempi pareva che la fortuna che li aveva assistiti sino a quel momento avesse voltato loro le spalle. Il matrimonio segreto di Serena, la ferita di Balder... aveva provato dolore, paura e senso di impotenza come mai prima di allora. E anche in quel momento, con la ragazza che gli aveva sconvolto la vita a pochi centimetri di distanza, dietro una porta chiusa, si sentiva come se non avesse mai provato gioia. Come se non sarebbe stato in grado di provarne mai più.
Nonostante la sua memoria, gli sembrava di non riuscire a ricordare nemmeno una parola di quella conversazione. Nonostante la moltitudine di pensieri che riusciva ad articolare contemporaneamente, non riusciva ad afferrarne nemmeno uno. Aveva la mente vuota.
Quando tornò nel salone, Ofelia intercettò subito il suo sguardo. Si guardò attorno alla ricerca di Gabriella, senza quasi far caso all'espressione del figlio. E poi si distrasse, controllando le figlie, in apprensione, mentre Thorn le posava rudemente una mano sulla schiena per rassicurarla. Le gemelle erano circondate da un capannello di ammiratori, nulla di insolito, ma sua mamma sembrava sempre in ansia quando si trattava di loro.
Avere così tanti figli doveva essere dura, si rese conto Tyr. Poi si soffermò sulla mano di Thorn, posata solidamente sulla spalla di Ofelia, come un'àncora. Guardò Serena e Archibald, che da un capo all'altro della sala si lanciavano sorrisini velati, palesemente impegnati in una conversazione mentale tutta loro nonostante Serena stesse parlando con alcuni funzionari. E poi c'erano Ilda e Balder, accanto a Berenilde, Vittoria e Tom, che si sfioravano le mani a più riprese, senza quasi farci caso, come se i loro interi esseri fossero attratti e calamitati dall'altro.
Balder gli avrebbe detto che stava sbagliando. Anzi, che aveva sbagliato, ma ora si stava comportando correttamente. Non poteva parlare con lui. Serena era fuori discussione, collegata com'era con Archibald: lui avrebbe saputo subito di quello che aveva voluto fare sua nipote. Ofelia e Thorn erano esclusi.
Tyr andò a buttare giù un bicchierino di liquore fregandosene della sua scarsa tolleranza dell'alcol.
Sempre meglio tollerare quello che il freddo e la solitudine che lo avevano ghermito.

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Capitolo 74
*** Capitolo 74 ***


Signori tornano finalmente i nostri amati genitori. Non per tutto il capitolo, ma sono certa (spero) che apprezzerete.
Ofelia e Thorn sempre e per sempre <3 Sono in vena di dolcezze oggi.
Comunque, in ordine, un altro po' di Tyr (il Terribilissimo, mascalzone), un po' di OfeThorn e un po' di accenno di tragedia greca che vedrà implicate le.. GEMELLE.
Non facciamoci mancare nulla xD


Capitolo 74

Tyr aveva letto da qualche parte, una volta, che in vino veritas.
Non era ubriaco, solo un po'... insomma, non era ubriaco, ma non si sentiva sobrio.
Balder non fece domande quando lo aiutò a tornare in camera, e Tyr si addormentò subito.
Sognò Gabriella.
E quando si svegliò, nel cuore della notte, si mise a fissare il soffitto senza vederlo, buio com'era. Vicino a lui, da qualche parte nell'oscurità, il respiro profondo e regolare di Balder era stranamente rilassante.
Per la prima volta si chiese cosa provasse per Gabriella. Era ovvio che gli piacesse, altrimenti non avrebbe passato così tanto tempo con lei. E non l'avrebbe baciata. Quattrocentosettantanove volte. Tyr si coprì la testa con il cuscino.
Gabriella gli aveva aperto gli occhi su moltissime cose. Grazie a lei aveva scoperto la passione per la lettura e anche un nuovo lato di sé, migliore, che non doveva per forza essere quello da cascamorto. Non aveva mai pensato all'eventualità di volere dei figli o di sposarsi, avrebbe voluto che le cose rimanessero sempre com'erano. Ma non sarebbe stato possibile.
Così come non sarebbe stato possibile, per lui, vivere senza avere Gabriella accanto a sé. Come amica... e non solo. Il profumo della sua pelle, la morbidezza dei suoi capelli, la limpida profondità dei suoi occhi. Il modo in cui lo sgridava, il modo in cui a volte spingeva lui a sgridarsi da solo, lanciandogli solo un'occhiata. E sotto quella corazza costruita per sfuggire al controllo della sua famiglia, c’erano un'empatia e una dolcezza che avrebbero fatto sciogliere persino suo padre.
Gabriella era speciale.
Nei giorni successivi lei non si presentò in biblioteca.
Alla serata di corte in cui si rividero, non lo degnò di uno sguardo.
Tyr si rese conto che la solitudine che provava in quel momento non aveva nulla a che fare con quello che aveva provato con Balder e Serena. Si era sentito un po' escluso, e si rendeva conto di essere anche un pochino egocentrico. Ma i suoi fratelli erano rimasti con lui. Se li vedeva un po' meno di prima o aveva meno attenzioni da loro, non era un gran tragedia. Invece il vuoto dato dall'assenza di Gabriella era qualcosa di divorante, totale. Non sapeva più con chi parlare dei nuovi libri che leggeva (Ilda non leggeva abbastanza da poter avere conversazioni regolari in quella materia), non sapeva più con chi criticare le ragazze e i ragazzi che a corte flirtavano spudoratamente. Con Gabriella rideva, rifletteva, parlava e progettava. Lei lo aiutava ad apprezzare ancora di più ciò che aveva.
Lo rendeva migliore.
Ci mise qualche giorno a capirlo, forse troppi, ma alla fine lo capì. Non sapeva quando fosse successo, né come, era stata una cosa talmente naturale, giusta e semplice che non ci aveva fatto caso. Ma si era innamorato di Gabriella. Forse quando lo aveva baciato in biblioteca. Forse quando aveva letto il primo libro consigliato da lei. Oppure quando le aveva parlato per la prima volta e lei, nonostante l'evidente attrazione per lui, lo aveva rimesso al suo posto.
Gabriella aveva domato Tyr il Terribile. E lui, da addomesticato, si era innamorato. E non voleva più stare senza di lei. Era presto per parlare di matrimonio e figli, ma in fondo non avrebbero fatto nulla di male se poi si fossero sposati. Avrebbero solo anticipato i tempi... E diamine se il suo corpo aveva bisogno di anticipare i tempi. Il solo pensiero di lei lo faceva bruciare di desiderio. Aveva bisogno di toccarla, di stringere tra le braccia il corpo che racchiudeva quell'anima così simile e insieme così diversa dalla sua.
Aveva procrastinato qualche altro giorno per cambiare stanza. Balder aveva aggrottato la fronte, probabilmente pensando che se Tyr se ne fosse andato in una camera da solo lui non avrebbe più potuto invitare Ilda lì. Invece fece quasi commuovere il fratello quando gli disse che sarebbe stato strano, dopo tutti quegli anni, non averlo più come compagno di nottate. Non avrebbero più potuto chiacchierare fino a notte fonda o fare battaglie di cuscini, Tyr non avrebbe più potuto fargli i dispetti… anche se quello era un bene.
- Non sto mica cambiando casa, Bal, non essere così melodrammatico!
Balder gli aveva rivolto un sorrisino timido, di quelli che producevano il batticuore nelle ragazze di corte. - Lo so, ma mi sembra che ci sia qualcosa di... definitivo in questo, come una distanza che si è creata tra noi. Non è per Ilda, vero?
Tyr lo abbrancò come un animale, stringendolo così forte da farlo gemere e fargli scricchiolare le costole. Balder rise.
- Tanto c'è la zia Roseline che non vi concederà un attimo di tregua. E no, non è per Ilda. Penso che ognuno di noi abbia bisogno di un po' più di spazio.
Balder lo squadrò quasi con ammirazione. E nostalgia. - Sei cambiato, Tyr. Non so come, ma sei cambiato.
Tyr gli rivolse il sorriso furbo da bambino che non se n'era mai andato. La sciarpa fece la dispettosa al posto suo, allungandosi di soppiatto per scompigliare al fratello tutti i capelli. Balder si lamentò.
- Credo sia la barba. Mi fa più uomo, vero?
Balder lo spinse via ridendo. - Ma se è così bionda da non notarsi nemmeno!
Tyr si finse offeso, poi prese coraggio. - Bal, tu hai mai pensato di... con Ilda, insomma... davvero volete aspettare il matrimonio?
Balder aggrottò la fronte, facendo muovere la cicatrice e trasformandosi in una versione mora e un po' barbuta di Thorn. - In che senso vogliamo aspettare il matrimonio? Se vogliamo sposarci? Be', sì che vogliamo sposarci.
- No, intendo... - Tyr esitò. Poi pensò che tanto valeva essere diretto. - Non hai voglia di portartela a letto?
Balder si soffocò con la sua stessa saliva e avvampò. Proprio in quel momento, Ilda si palesò sulla soglia, silenziosa come un fantasma. - Ciao, che state combinando?
Senza nemmeno pensarci, Balder si concentrò sulla porta della camera e, contagiandola con il proprio nervosismo, la fece chiudere di colpo. Dall'altra parte, Ilda gridò loro degli insulti non proprio da signora.
- Sì che... cioè, no! Be', sì, ma... Tyr, come ti viene in mente una cosa simile? Non si può prima del matrimonio! È una legge sacrosanta.
Tyr parve sgonfiarsi. - Che ligio che sei. Noiosetto.
Balder si offese un po'. - Sono noiosetto ma le regole le rispetto. Vedi di non farti venire strani grilli in testa e rispettale anche tu.
Balder uscì, scusandosi con Ilda e inventandosi una scusa sull'ennesimo scherzo di Tyr.
Ma non era stato Tyr a far chiudere la porta, così come non era bravo a rispettare le regole. Quello che non si sapeva non poteva ferire, no? Non era necessario che i suoi genitori sapessero cosa lui e Gabriella...
No, non era necessario. Lo era, invece, andare a sistemare le cose con Gabriella.
Agitando le code sulla sua schiena, irrequieta, la sciarpa sembrava spronarlo. Tyr la toccò, grato di quell'incoraggiamento.
Attesero insieme che fossero andati tutti a letto.
Poi Tyr si immerse nello specchio di camera sua.
 
Gabriella sussultò quando Tyr le mise una mano sulla spalla, scuotendola per svegliarla. Una figura imponente ammantata di oscurità nel buio della notte. Era un miracolo la ragazza che non avesse urlato.
- Sono io, Gab.
Lui non poteva vederlo, ma Gabriella sbatté le palpebre più volte, chiedendosi se fosse un sogno. Accese l'abat-jour, strizzando gli occhi per la luce. Felice di vederla, la sciarpa si sciolse dal collo di Tyr e le si accoccolò in grembo. Dopo un'esitazione iniziale, lei l'accarezzò come un gatto. Non era mica arrabbiata con lei, solo con il padrone. Tyr si accovacciò accanto al letto e lei si alzò sul gomito, sdraiandosi sul fianco. La sciarpa non protestò. Non protestava mai, finché Gabriella l'accarezzava.
- Cosa ci fai... fate, qui?
Tyr sospirò. - E dammi del tu, dai.
Gabriella indurì lo sguardo. - Siete in camera mia, decido io come e quanto parlarvi. E se ho intenzione di parlarvi. Cosa fate qui?
Tyr si strinse nelle spalle per guadagnare un po' di tempo. In effetti, non si era preparato un discorso. Doveva dirle che l'amava? Dirlo così di getto però lo metteva a disagio.
- Io... volevo chiederti se c'è posto nel tuo letto.
Gabriella inarcò un sopracciglio. In effetti, non era stata la sua migliore scelta di parole.
- Il vostro è troppo piccolo? - chiese lei, con una punta di crudele malizia.
Tyr sapeva di non dover abboccare, eppure le sorrise provocante. - Sono effettivamente grosso. Ben proporzionato, non so se mi spiego. Ma il mio letto è perfettamente in grado di accogliere un fisico... prestante come il mio, grazie.
Gabriella cercò di rimanere seria, senza riuscirci. Alla fine si tappò la bocca con la mano per cercare di soffocare la risata. Le labbra di Tyr si sollevarono in automatico, un sorriso sincero, spontaneo e leggero, finalmente, come il suo cuore.
- Questa era proprio pessima, la peggiore che abbia sentito. Non è nemmeno una frase da flirt, è una frase da Immaginatoio.
- E tu come fai a sapere quale potrebbe essere una frase da Immaginatoio? Dai, fammi spazio. Vediamo se il tuo letto è in grado di contenermi.
Gabriella cedette, facendogli posto sotto le coperte. Quando fece caso al pigiama colorato di Tyr, ridacchiò. - Bel pigiama.
- So che preferiresti che non lo indossassi... né questo, né altro, ma ti prego di non essere troppo sfacciata.
Gabriella sospirò. - Sul serio, cosa ci fai qui? Non so per chi mi hai presa, ma non lascio dormire con me chiunque. Soprattutto non i ragazzi che mi piantano in asso dopo che ho dato loro diretto accesso a camera mia.
Tyr si sporse per darle un bacio sulla punta del naso. - Credo sia il mio modo di dimostrarti che ti metto al primo posto. Non volevi questo?
In silenzio, quando Tyr spese la luce, Gabriella lo abbracciò, premendo il viso sul suo petto. - Per ora sì. Ma io voglio tutto.
Tyr le baciò la fronte, azzeccandone per miracolo la posizione. - Anche io.
 
Tyr iniziò ad andare da Gabriella ogni notte. Lei riusciva in qualche modo a schermare i suoi pensieri agli altri membri della Rete, così che non li scoprissero. Lui metteva la sveglia nel suo orologio da polso in modo da tornare in camera sua ogni mattina alle cinque, perché nessuno sospettasse niente. Farla sotto il naso del più grande e potete clan di ficcanaso e pettegoli del Polo dava a Tyr una certa malsana soddisfazione. Aveva proprio l'animo di un bambino a cui piace combinare marachelle sotto gli occhi di tutti, riuscendoci anche bene.
Nessuno dei due mise fretta all'altro. A volte si baciavano prima di addormentarsi, alternando baci timidi ad altri più audaci. Altre volte chiacchieravano fino a notte fonda. Altre, rimanevano abbracciati in silenzio, svegli e vigili, cullati dal respiro dell'altro. Se la prendevano comoda perché ormai non avevano più paura di essere scoperti tra gli scaffali di una biblioteca polverosa, né temevano di avere poco tempo. Avevano tutta la notte, ogni notte. E ne sfruttavano ogni singolo secondo.
Gabriella apprezzava la calma di Tyr, il fatto che non la spingesse. Contrariamente a quanto si potesse pensare, lei gli aveva dato accesso a camera sua non esclusivamente per quello. Voleva solo che avessero un luogo in cui poter stare tranquilli, soli. A leggere, parlare, a fare quello che volevano. Un luogo in cui essere loro stessi.
Alla fine, però, successe quello che entrambi volevano succedesse. Quello che non sarebbe dovuto succedere.
Durante una notte particolarmente calda, tra le coperte e il corpo di Gabriella premuto contro il proprio, Tyr si svegliò sudato. Si tolse la maglia del pigiama per rinfrescarsi e si rimise a dormire. Quando alle cinque suonò il suo orologio, svegliando anche Gabriella, lei sussultò sentendo troppa pelle sotto alla mano. Mezzo addormentato com'era, Tyr non ci fece caso e accese la lampada sul comodino, grugnendo per la solita alzataccia. Fu il turno di Tyr di trasalire quando Gabriella fece scendere la mano, accarezzandogli ogni muscolo del ventre. La vide boccheggiare, ma era così sorpreso da non approfittarne nemmeno per stuzzicarla.
- Sapevo che eri muscoloso, ma... hai dei muscoli che non pensavo nemmeno esistessero!
Lui ridacchiò. - Ti faccio una lezione di anatomia intensiva, se vuoi.
- Se è la tua anatomia, non ti dico di no - borbottò lei.
Dalla sera dopo Tyr iniziò a dormire senza maglia, facendo sempre il teatrino da seduttore prima di levarsela. Finché spinse Gabriella al limite.
Non appena Tyr abbassò la guardia, spogliandosi un po' sovrappensiero, Gabriella gli afferrò i lembi della giacca del pigiama e lo tirò a sé. Lo baciò con foga, togliendogli la maglia superflua, e gli accarezzò ogni centimetro di pelle che trovava, dalle spalle alle braccia, dalla schiena al ventre. Lui ansimava quando le sue mani gli passavano sugli addominali, se per sensibilità o per eccitazione lei non voleva saperlo, e lui non voleva dirlo.
Iniziarono ad esplorarsi ogni volta un po' di più, se non erano troppo stanchi. Ogni notte sempre più audacemente. Ogni notte sempre più a lungo. Sempre più avidi, smaniosi, pieni di energia.
Una notte anche Gabriella si tolse la vestaglia, facendosi ricoprire il corpo di baci incandescenti. Quella dopo, Tyr si levò i pantaloni, dormendo con le gambe nude intrecciate a quelle di Gabriella. Poi lei si fece togliere, conducendo quel gioco che aveva iniziato lei stessa, mesi prima, anche la biancheria. Tyr iniziò a baciare tutto, tutto, tutto, senza inibizioni, senza più indumenti. In poco tempo impararono a conoscere il corpo dell'altro meglio del proprio, a scoprire cosa li facesse sospirare di più, cosa li spingesse a sussurrare il nome dell'altro nella notte.
Poi arrivò il momento in cui Tyr le salì sopra, inchiodandola al letto. Gli indumenti erano ormai solo un lontano ricordo. Gabriella gli allacciò le gambe in vita, preparandosi, guardandolo con fiducia. Gli accarezzò il viso.
Lui le baciò il palmo della mano e le chiese, citando le sue stesse parole di tanto tempo prima: - L'hai mai fatto con qualcuno?
Ricordandosi di quella domanda scambiata durante il loro primo bacio, Gabriella sorrise: - No, sono una ragazza pura e innocente io.
Tyr attese. Poi le sussurrò: - Dovresti chiedermi: 'E tu?'.
Lei ridacchiò, ma c'era una punta di nervosismo nella sua risata. - Mi sembra abbastanza evidente che tu non l'abbia mai fatto, signor Sono Sicuro Di Me E So Fare Tutto.
Tyr spalancò la bocca. - Non era questa la risposta!
Ma ridevano entrambi.
- Rilassati ora... - le mormorò Tyr all'orecchio, quando la sentì irrigidirsi dopo essersi avvicinato. - Non voglio farti male. Ti prometto che non te ne farò. E se te ne farò, tu potrai infliggermene il doppio con un'arma a tuo piacimento.
Gabriella non rise, gli allacciò le braccia attorno al collo, come se volesse nascondere il viso.
- Vuoi che usi un pochino i ponti? Poco poco. Bal dice che aiutano anche... insomma, potrebbero essere utili.
Dopo un'iniziale reticenza, Gabriella annuì. - Poco però. Non voglio essere intontita.
Tyr si sciolse per la dolce vulnerabilità della sua voce. Come aveva fatto quella ragazza ad entrargli dentro in quel modo, e in così poco tempo? Gli sembrava quasi di essere una marionetta, un giocattolo tra le sue mani. Lei lo aveva sempre adocchiato, e alla fine era riuscita ad averlo. Era come se avesse sempre saputo che erano perfetti l'uno per l'altra e stesse solo aspettando il momento giusto. Non era una cosa graduale e quasi prevedibile come l'amore di Ilda e Balder. Era un'esplosione, un terremoto, uno smottamento, uno sparo nel cuore. Una novità arrivata come una palla di cannone, ma decisamente gradita.
E destinata a durare, di quello era certo.
Esercitò una minima pressione sul sistema nervoso di Ilda, delicato come non mai. Smise non appena la sentì rilassare i muscoli. Gli fece piacere scoprire che, in fondo, Gabriella non era così tesa.
La baciò e non la lasciò più andare, catturando i suoi gemiti e i suoi ansiti mentre diventavano una cosa sola, bevendoli come se fossero l'acqua che agognava dopo un allenamento duro. Si beò del suo viso, si riempì gli occhi della sua espressione quando la sentì tremare sotto di sé, trattenere un grugnito, reclinare la testa all'indietro e strizzare gli occhi, preda di quell'emozione nuova che non era mai stata così intensa. Tyr fu grato, grato, grato alla sua memoria per la prima volta nella sua vita, perché non si sarebbe mai dimenticato il viso di Gabriella in quel momento.
Pura estasi. Puro amore per lui.
Lui cercò di non pesarle addosso, ma Gabriella sembrava condividere il suo stesso pensiero: nonostante tutto, erano ancora troppo distanti. Così lo tirò giù facendoselo aderire addosso come una coperta, e sospirò di piacere e gioia prima di addormentarsi. Tyr si mise al suo fianco e la imitò, dimenticandosi persino di spegnere la lampada.
Quello che avrebbe dovuto essere un arrivo, un traguardo, come una pietra miliare nel percorso di una persona, fu invece un inizio.
L'inizio di un periodo di smania e fibrillazioni che li portava a non averne mai abbastanza, a toccarsi, baciarsi, cercarsi ogni volta che potevano, ogni notte, più volte, e ancora non bastava.
Si guardavano stupiti, quasi vergognandosi di quel bisogno impellente che provavano l'uno per l'altro. Tyr poi sembrava davvero non averne mai abbastanza. Era insaziabile e, se Gabriella non avesse avuto per lui lo stesso trasporto, sarebbe stato difficile stargli dietro. Per fortuna covava da anni per lui un sentimento di desiderio neanche così nascosto, che finalmente aveva trovato appagamento. A lui poteva sembrare di essere la sua marionetta, ma in realtà era Gabriella che si sentiva sua prigioniera, disposta a fare qualsiasi cosa lui chiedesse e a dargli più di quanto lui si aspettasse. Se Tyr fosse stato appena più egoista o approfittatore di così, meno buono, avrebbe potuto disporre di lei a piacimento. Lo avrebbe seguito persino in prigione. E lo stesso avrebbe fatto Tyr.
- Cosa mi stai facendo? - le chiese una volta, mentre l'abbracciava da dietro e riprendeva fiato con il naso premuto contro la sua spalla.
Tu cosa stai facendo a me. Mascalzone.
Lui ridacchiò sulla sua pelle e Gabriella sentì il suo petto vibrare contro la sua schiena. Sorrise.
- Hai condotto un uomo sulla via della perdizione.
- Io direi che assomiglia più ad un ragazzo, e non mi sembra tanto contrariato.
- Quel ragazzo, allora, ti chiede di condurlo ancora più in profondità in questo traffico oscuro e malvagio.
Gabriella rise e si girò per baciarlo, stiracchiandosi come un gatto contro di lui.
Era perfetta per lui come nessun altro sarebbe mai stato. Aveva un carattere deciso come Ilda, necessario per tenere Tyr in riga. Ma allo stesso tempo era più dolce, meno... grezza. All'apparenza era fragile ed elegante, un cioccolatino ripieno, ma Tyr sapeva quali artigli sapesse tirare fuori, di natura molto diversa dai suoi, ma altrettanto letali. Una ragazza che sapeva come metterlo in carreggiata senza però farlo sentire un bambino.
Una donna che sapeva renderlo uomo.
Tyr doveva ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non sgattaiolare da Gabriella anche durante il giorno, solo per vederla, salutarla o respirare il suo profumo. Una volta andò da lei prima di cena, assicurandosi prima che non ci fosse nessuno in camera. La trovò in accappatoio sul letto che si pettinava i capelli bagnati dalla doccia. Lei non si rese conto subito del suo arrivo, attraversare gli specchi non comportava alcun genere di cigolio di porte o rumore di passi. Si accorse per forza della sua presenza, però, quando Tyr la prese in braccio, soffocando il suo urlo di paura con un bacio, e le fece fare un'altra doccia, con lui dentro. Alla fine Gabriella fu costretta a cacciarlo via prima che le loro famiglie si accorgessero della loro assenza, ma quella notte Tyr tornò.
Tornava sempre.
A volte Tyr, per quanto felice di non essere scoperto, si chiedeva come fosse possibile che Ofelia non si fosse accorta di nulla. Sua mamma sembrava avere...come un intuito. Leggeva dentro una persona, la scandagliava e capiva se qualcosa non andava. Non solo con la famiglia. Del resto era normale conoscere i propri figli così bene da percepire la loro vulnerabilità prima di loro stessi. Ma Ofelia riusciva a leggere gli altri, come se fosse così abituata a leggere gli oggetti da aver acquisito anche la facoltà di risalire al passato delle persone solo parlando con loro.
Preso com'era da Gabriella, non si chiese come mai sua mamma era così distratta.
Né lei si avvide di ciò che stava combinando Tyr.
Per quanto sarebbe stato grave se avesse scoperto della condotta di Tyr, Ofelia avrebbe preferito quel problema agli altri che stava affrontando.
Problemi ben peggiori.
 
Il debutto delle gemelle aveva suscitato la più grande varietà di sentimenti in famiglia: paura da parte di Ofelia, entusiasmo da parte di Berenilde, confusione da parte di Thorn.
Ofelia era stata così preoccupata nei giorni precedenti la loro prima serata di corte che i mobili della camera da letto avevano iniziato persino a spostarsi da soli. Thorn aveva evitato di fiatare, anche se guardava e calcolava trucemente tutti i centimetri di disallineamento della tappezzeria; ma non aveva potuto stare zitto quando i cassetti avevano iniziato ad aprirsi e chiudersi da soli, i tappeti e fare gli sgambetti e le sedie a spostarsi nel momento in cui stava per sedersi.
Dopo un altro tentato omicidio da parte dell'anta dell'armadio, la sera prima del tanto temuto evento, Thorn si ripiegò come un pezzo di legno e afferrò Ofelia per il polso quasi bruscamente, allontanandole la mano dalle labbra. Si era scucita così tanti guanti in quel periodo da aver reso necessario l'ordine di una nuova fornitura da Anima con un anticipo di sette mesi rispetto al solito.
- Perché sei così terrorizzata? Con gli altri gli eventi a corte vanno bene, e non possiamo esimerci dal partecipare, purtroppo. Sai che lo vorrei quanto te. Anche un po' di più.
Ofelia prese a muovere le gambe nervosamente, seduta sul bordo del letto. Thorn le si sedette accanto.
- Non è la serata in sé che mi spaventa. Sono le gemelle. Loro sono diverse da Tyr, Balder e Serena. Sono fin troppo simili a mia sorella e a tua zia. Agli altri nostri figli non sono mai importate le chiacchiere di corte, le apparenze, i vestiti nuovi e tutto il resto. Loro invece sono impazienti di fare parte di quel mondo, di fare bella figura, di avere il vestito migliore ed essere sulla bocca di tutti.
Thorn aggrottò la fronte, facendo muovere tutte le cicatrici. Il baffo e il pizzetto ad àncora invece rimanevano sempre immobili. Il baffo era un esperimento che stava tentando da qualche settimana, e a Ofelia non dispiaceva affatto. Gli dava un'aria più giovanile.
- Non è da te desiderare che gli altri siano qualcosa di diverso.
Thorn pensò a tutti gli anni di matrimonio e ai mesi di fidanzamento. Ofelia non gli aveva mai chiesto di cambiare. Gli aveva detto che gli altri potevano considerarlo ambiguo, gli aveva chiesto sincerità, gli aveva fatto delle richieste, ma non aveva mai voluto cambiare alcun tratto del suo carattere. E Thorn si rendeva conto di non essere molto... conforme al modello di comportamento di tutti gli altri. Eppure ad Ofelia era andato bene lo stesso. Lei per prima sapeva cosa voleva dire essere costretta ad essere qualcun altro solo per volontà dei familiari.
Ad Ofelia invece vennero in mente i primi giorni di vita al Polo, quando Thorn nemmeno la conosceva, anzi, nemmeno si era preso la briga di cercare di conoscerla, e già pretendeva di sapere cosa fosse o non fosse da lei. Quanto si era infuriata all'epoca. In quel momento, invece, le sembrò che Thorn potesse capirla meglio di quanto si capisse lei stessa. Capirla per davvero.
- Non voglio assolutamente che cambino. Non hanno nulla che non vada. Va bene se sono interessate alla vita mondana e ai gioielli. L'unica cosa a cui mi opporrei e che vorrei impedire sarebbe il loro entrare a far parte del circolo delle favorite di Faruk.
Thorn assottigliò così tanto gli occhi che dalle palpebre semichiuse filtrò solo un lieve bagliore metallico, deciso e penetrante. - Credo che a quello si opporrebbe anche mia zia. Oltre a me e a te. E spero che anche loro non lo vogliano.
- No, per fortuna no. Il problema è che...
Ofelia esitò, incerta su come articolare le parole. Le sentiva opprimerle il petto, comprimerle il cuore, incastrarsi in gola. Perché doveva essere sempre così difficile esprimersi?
Thorn parve capirlo. Non riusciva ancora a prevedere tutto ciò che Ofelia avrebbe fatto, o cosa le passasse per la testa, ma finalmente riusciva ad anticipare e percepire qualcosa su di lei. Non lo avrebbe mai ammesso, ma la cosa lo riempiva di soddisfazione. Per un matematico incallito, riuscire a prevedere l'imprevedibile era il parossismo del compiacimento.
- Vuoi che usi i ponti?
Ofelia sospirò, poi scosse la testa. In quel momento era troppo nervosa per riuscire a dormire. Sapeva che i ponti l'avrebbero aiutata, ma... non voleva dormire, non ancora. Si alzò e si sedette sulle gambe di Thorn, appoggiandosi a lui con il fianco. Lui la circondò con le braccia, stringendola e ingabbiandola, facendo diventare il mondo un po' più buio, ma anche un po' più caldo. Adorava quando con la sua stazza gigantesca la fagocitava, inglobandola. Ofelia sorrise quando sentì il suo battito accelerare contro il suo orecchio. Tra una cosa e l'altra in quel periodo erano stati impegnati, così impegnati da non avere nemmeno tempo per loro stessi. La vicinanza di Thorn avrebbe potuto aiutarla quanto i ponti, così si sporse per baciarlo sul mento, poi sulla mascella, nel punto sensibile sotto l'orecchio...
La bocca di Thorn fu sulla sua in un attimo, impaziente come al solito. Spogliò Ofelia con pochi e abili gesti e lei si ritrovò nuda sulle sue gambe nel giro di pochi secondi. Thorn la fece stendere sotto di sé senza mai smettere di baciarla, come se quei pochi giorni di lontananza fisica avessero scavato in lui un bisogno impellente e profondo quanto un pozzo. Ofelia non protestò nemmeno quando Thorn, ancora vestito, si preparò per concludere. Anche lei sentiva una certa urgenza.
Però anche essere così squilibrati non le andava a genio.
- Togliti almeno la camicia - lo pregò in un sussurro vicino all'orecchio, sorridendo quando lo sentì fremere.
Anche lei voleva accarezzarlo, tracciare con le dita quelle cicatrici che conosceva così bene, gli tacque. Si tolse da sola i guanti e baciò Thorn sulla tempia quando lo sentì inspirare a pieni polmoni per via delle sue mani fredde sulla schiena accaldata. Ofelia aveva sempre le mani fredde nonostante i guanti, quando era tesa.
Quando ebbero finito, sdraiati uno di fianco all'altra, Thorn la coprì con la sua camicia perché non prendesse freddo, mentre lei gli premeva la testa sul petto, accoccolata contro di lui. Thorn le ripassò i guanti, mettendoglieli lui stesso.
Ofelia prese un respiro profondo mentre lui li allacciava. - Il problema è che le gemelle non sembrano consapevoli del pericolo. Per loro è un mondo meraviglioso e sfavillante quello in cui entreranno domani sera. Non capiscono che le persone che ci sono lì vorranno da loro sempre più di quanto loro potranno dare. Non voglio che restino deluse, ma sono sorde ai miei avvertimenti.
Thorn soppesò le sue parole, appoggiò il mento sulla sommità della sua testa. - Sono buone - disse, sorprendendo Ofelia.
Non lo aveva mai sentito definire qualcuno "buono". In più, tra tutti i figli, Mira e Belle erano quelle che capiva di meno, per via del carattere agli antipodi. Però era vero, le gemelle erano buone. Ingenue. Vedevano il mondo ancora con occhi di bambine, innamorate dell'amore e con la promessa di un principe galante nel cuore.
- Sarebbe così facile raggirarle... Ingannarle, ferirle, persino rapirle. Ho il sospetto che basterà una formula di cortesia per indurle ad andare con qualche sconosciuto, solo perché è stato educato.
Il pizzetto di Thorn le grattò la testa mentre lui rispondeva: - Da un punto di vista statistico trovo che la possibilità che due ragazze vengano rapite sotto al naso di genitori, due zie, due cugini, tre fratelli maggiori, un cognato e un'amica di famiglia siano... abbastanza esigue.
Ofelia si sarebbe stupita del suo tono vagamente sarcastico, se non fosse stata distratta da altro. Il fatto che Thorn non fosse più di tanto preoccupato era rassicurante... ma non del tutto. Non era stato lui a ripeterle più volte che aveva una predisposizione naturale alle catastrofi, o che con lei le statistiche sembravano seguire regole aleatorie? Ofelia aveva il sospetto che quella questione riguardasse più lei che le gemelle. Lei stessa si era fidata delle persone sbagliate, lì al Polo, anni addietro. Ma non disse nulla di tutto ciò a Thorn.
- Hai appena ammesso che Archibald è il cognato dei nostri figli?
Thorn si irrigidì contro di lei, come sempre quando lui veniva nominato. Era come il suo corpo lo rifiutasse quanto la sua mente. - Legislativamente parlando è così. Non è negando che un problema si sistemerà.
Ofelia sospirò, distratta dal problema delle gemelle per via di un altro problema. - Non credo che ormai si possa definire un problema. Sono sposati da più di un anno ormai. E l'evidenza che Serena non era incinta al momento del matrimonio è evidente, Archibald ha davvero fatto le cose come...
- Non ne voglio più parlare - la interruppe Thorn. - Non è il suo essersi comportato, per una volta, correttamente che dirimerà la questione. E il suo concetto di corretto è comunque discutibile. Cenano con noi ogni tanto, Ofelia, è già una grande concessione.
Ofelia si girò sull'altro fianco quando Thorn si alzò per andare in bagno, chiudendo la conversazione anche in senso letterale. In altre circostanze si sarebbe unita a lui, ma non quella sera. Così aspettò che lui uscisse per andare a farsi la doccia a sua volta.
Quando tornò a letto, come al solito Thorn l'afferrò per la vita e la tirò verso di sé. Lei scosse la testa, lamentadosi con se stessa per la sua incapacità di restistergli, e si sitemò al suo fianco.
Da qualche parte, tra un anno e l'altro, tra un battibecco e un bacio, tra un silenzio e una discussione, erano diventati incapaci di dormire staccati. Per quante cose potessero cambiare nella loro vita, almeno il calore dei loro corpi di notte sarebbe stata una costante che nemmeno Ofelia sarebbe riuscita a variare.
E che lei stessa si augurava non variasse mai.
 
La tanto temuta prima serata di corte delle gemelle andò bene e male allo stesso tempo. Bene perché Tyr, Balder e Thorn stesso si comportarono come guardie del corpo, stando sempre a pochi passi di distanza da loro o comunque non perdendole d'occhio. Dunque, nessun rapimento. Male perché parlarono con un sacco di ragazzi.
- Sapevo che i loro colori esotici avrebbero attirato l'attenzione - gongolava Berenilde. - Belle come sono, sono certa che avremo presto dei matrimoni che consolideranno ancora di più la nostra posizione a corte. Se ciò è possibile, dato che siamo già in auge come non mai, grazie alle cacce e al lavoro rivoluzionario di Balder.
Ofelia non ne voleva proprio parlare, di matrimoni. A Balder mancava un annetto scarso per sposarsi, una volta che Ilda fosse stata in età da marito, e il matrimonio di Serena era stato... non voleva nemmeno pensare al fatto di non avervi assistito. Da un giorno all'altro aveva scoperto che la figlia era sposata, e poi era andata via di casa. Con Balder ci lavorava, se anche fosse andato via di casa l'avrebbe visto spesso. In realtà, il castello in cui vivevano era così grande che avrebbero potuto tranquillamente vivere lì anche loro, ma Ofelia sapeva bene cosa significasse vivere sotto lo stesso di un'altra donna. Con Berenilde non era stata male, a parte i suoi frequenti malumori e le infinite lezioni di etichetta, ma non era mai stata davvero a casa. Non pensava che le sarebbe venuto il complesso di abbandono del nido, eppure eccola lì, terrorizzata di fronte all'idea che i figli se ne andassero. E di sicuro le gemelle erano troppo piccole anche solo per pensare al matrimonio.
Però Berenilde aveva ragione, grazie ai loro colori insoliti per il Polo avevano subito attirato l'attenzione. Belle e Mira erano belle, sì, ma una bellezza nella media, nulla di eclatante come nel caso di Balder. A renderle speciali erano i capelli fulvi tipici della famiglia di Ofelia accostati agli occhi grigi di Thorn, un connubio insolito sia al Polo che su Anima. Per di più, Mira e Belle erano dolci e socievoli.
Fu proprio la loro indole amichevole ad attrarre diversi ragazzi. Ofelia continuava a lanciare loro occhiate per controllare che stessero bene, e lei vedeva che anche Thorn faceva lo stesso. Balder e Tyr erano attenti a proteggere le sorelle, sì, ma nessuno pretendeva che stessero attaccati a loro tutta la serata, ogni serata.
Quello che più spaventava Ofelia era l'ingenuità delle gemelle. Avevano il savoir faire di Berenilde, il suo modo elegante di parlare e di atteggiarsi, ma con più umiltà. Con innocenza, non per apparire, come Berenilde. Mira e Belle volevano farsi degli amici, indossare bei vestiti e belle scarpette, basta. Non avevano mire particolari come la prozia, non puntavano ad ottenere successo, fama o invidia. In sintesi, avevano l'animo di Agata nel corpo di Berenilde.
La combinazione peggiore, perché Berenilde sapeva da cosa e da chi stare in guardia. Stava attenta. Sapeva chi poteva stuzzicare e chi era meglio evitare, si teneva alla larga dai guai. Mira e Belle erano inesperte e pensavano che tutto il mondo fosse buono e caro. Si sarebbero fatte fregare persino da un criminale in tenuta da prigioniero. Non erano stupide, solo... troppo fiduciose. Erano vissute in un'ambiente pacifico, lontano da intrighi e persone false, era quasi normale che non sapessero bene di chi fidarsi.
Lei stessa purtroppo aveva dato retta alle persone sbagliate appena arrivata al Polo. Bastava pensare al barone Melchior perché le venissero i brividi. Ma proprio perché aveva saggiato sulla sua pelle quanto fosse facile farsi ingannare, poteva parlare con cognizione di causa. Come lei, però, sembrava che le gemelle avessero bisogno di verificare la realtà con i loro occhi per crederci loro stesse.
Fortunatamente, le raccontavano dei ragazzi che conoscevano e delle amicizie che stringevano, mettendola a parte della loro vita. Ofelia durante le serate le controllava da lontano, associando i visi ai nomi che loro le snocciolavano, cercando di cogliere qualsiasi accenno di falsità nelle loro espressioni. Quando ne notava qualcuno e metteva in guardia le figlie, però, loro minimizzavano, trovando scuse e giustificazioni per ogni atteggiamento ambiguo che Ofelia credeva di aver visto.
Era come nello spettacolo di illusioni della carovana del carnevale. Troppo concentrata su un unico punto, quello in cui credeva stesse sorgendo il problema, non si accorse di dove in realtà stesse andando tutto a rotoli.
Nella camera di Tyr.
E nella camera di Mira e Belle.
Quella volta Thorn avrebbe decisamente maledetto il potere di attraversaspecchi.

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Capitolo 75
*** Capitolo 75 ***


Non pensavo che sarei riuscita a postare! Per fortuna ho finito di scrivere perché in questo periodo non sarei riuscita a fare nulla e mi sarei arenata.
Non so come facciano le persone a comprare casa. Io, personalmente, sto impazzendo.
In ogni caso, il capitolo parla un pochino, finalmente delle gemelle! Spero tanto che vi piaccia.


Capitolo 75

- Belle? Belle! Svegliati, ci aspettano! - sibilò Mira nel cuore della notte, cercando di far alzare la sorella.
- Mh... - borbottò lei in risposta. - Non sono più sicura di voler fare questa cosa, Mira.
La sorella alzò gli occhi al cielo, e fu come vedere se stessa riflessa in uno specchio. Uno specchio irritato. Mira ci si diresse per finire di acconciarsi i capelli.
- Non fare la preziosa. Vuoi farmi andare da sola?
Belle sbuffò. - Vorrei che nessuna delle due andasse, a dire il vero.
Mira le lanciò un'occhiataccia. - Ma se eri entusiasta quando Mathias ti ha invitata! Non hai fatto che parlare di quello stupido baciamano per tutta la serata!
Belle arrossì. - Tu invece hai parlato del bacio sulla guancia di Egil per due giorni.
- Un bacio sulla guancia è un bacio sulla guancia. Un baciamano è un baciamano.
Belle la fissò come se fosse diventata stupida.
- Allora, vieni o no? Dirò a Mathias che sei interessata ad un altro se mi lascerai andare da sola.
Belle calciò via le coperte borbottando improperi a mezza voce. Si vestì in fretta, si diede una sciacquata al viso e sistemò i capelli lisci in una semplice treccia fissata con dei nastrini. Mira invece era tutta impegnata a farsi dei boccoli complicati, facendola aspettare come al solito. Mira odiava i capelli lisci. Nonostante fossero folti e voluminosi, sosteneva che fossero privi di carattere. Si lamentava sempre di quanto fosse ingiusta la genetica, che aveva donato i ricci di Ofelia solo a Balder, mentre gli altri figli avevano i capelli "ligi" come quelli del padre.
- Sempre a Balder tutte le fortune - diceva spesso, nonostante Balder pensasse esattamente il contrario.
Mira finì di legarsi l'ultimo nastro, si rimirò e poi fissò Belle con le mani sui fianchi. - Smettila di rimuginare. Lo so che stai pensando alla velocità della luce. Non stiamo facendo nulla di male.
- Allora perché non lo abbiamo detto alla mamma? Siamo sole, nel cuore della notte, ad una festa di giovani, senza chaperon. Non mi sembra proprio 'niente di male'.
- Belle, mi sto un po' offendendo. Non ho intenzione di fare nulla di sconveniente! Non sono una depravata, voglio solo approfondire le nostre amicizie. Quanto a Egil, è un bravo ragazzo. Non si azzarderebbe a disonorarmi, né io lo permetterei. Stiamo andando di nascosto solo perché la mamma e il papà altrimenti non lo permetterebbero mai. Loro non capirebbero che non c'è nulla di male, vedrebbero subito il pericolo dove non c'è.
Belle sembrava ancora un po' dubbiosa, ma sospirò ammettendo la sconfitta. In effetti, era stata un po' pesante con Mira. - Perdonami. Solo che non mi piace avere segreti con loro.
Mira andò a sedersi vicino a lei e l'abbracciò. - Nemmeno io, ma loro sono troppo protettivi. Dài, andiamo. Va bene farli aspettare, ma non troppo. Io sarò la tua chaperon e tu la mia. Ti permetto di pizzicarmi con gli artigli se vedi che in qualche modo la cosa mi sta sfuggendo di mano, d'accordo?
Poi le diede un bacio sulla guancia e Belle si rilassò.
- Va bene, andiamo.
Belle guardò il suo pendente a orologio prima di alzarsi. Thorn ne aveva regalato uno sia a lei che a Mira qualche anno prima, in ricordo anche per loro di quella sorella che non avevano mai conosciuto. Belle a volte si chiedeva come sarebbe stato avere un'altra sorella maggiore, di età più vicina a loro, non come Serena. Si chiedeva anche se loro sarebbero esistite, se Lisbeth fosse nata. Forse i loro genitori si sarebbero fermati a quattro. In ogni caso, le dispiaceva non poter conoscere quella sorella.
Come se intuisse i suoi pensieri, Mira le prese la mano.
Si misero di fronte allo specchio. Si strinsero le dita, sorridendo timidamente al loro riflesso.
Poi si immersero.
 
Dall'altra parte trovarono ad aspettarle, come convenuto, Egil e Mathias, due cugini Persuasivi che erano stati sempre molto gentili con loro. E molto affascinanti.
Quando le vide, Mathias diede di gomito al cugino. - Te l'avevo detto che sarebbero venute. A quanto pare sappiamo essere persuasivi anche senza ricorrere al nostro volgare potere.
Mira e Belle risero, più rilassate, e presero il braccio che loro porgevano. Il piano era stato quello di sbucare da uno specchio del salone della corte, vuoto a quell'ora, per poi essere condotte dai due ragazzi al luogo designato per il ritrovo.
Quando arrivarono, furono accolte da un coro festante che le osannò come se fossero le celebrità della serata. Mira e Belle arrossirono di piacere e, scortate dai ragazzi, si affrettarono ad ammirare il loro riflesso nel primo grande specchio disponibile. In questo modo, la seconda volta che andarono alla festa sbucarono direttamente lì, sempre con Egil e Mathias ad attenderle.
E fu così anche per la terza volta.
La quarta, ormai era Belle a svegliare con impazienza la sorella, trascinandola giù dal letto e dentro lo specchio.
Mira aveva avuto ragione, non c'era nulla di male in quello che facevano. Si erano fatte degli amici e delle amiche, si tenevano alla larga da quelli più... eccessivi, ma per il resto erano educati e a modo proprio come durante le serate di corte.
Ofelia era solo troppo apprensiva, tutto lì.
Fu questo il pensiero che balenò in testa a Mira quando Egil, la quinta volta che si trovarono, la sbatté contro il muro, premendosi contro di lei e bloccandole ogni tentativo di muoversi. A pochi passi da lì, l'urlo di Belle venne tappato dalla mano di Mathias, che provvide anche a bloccarle le braccia dietro la schiena. Per essere il più basso dei due, Mathias aveva una forza insospettabile.
- Tu non vuoi usare gli artigli su di me, vero, Draghetta? - cantilenò Egil, schernendo Mira e dandole del tu senza permesso e senza presupposti, ricorrendo al suo potere da Persuasivo.
Mathias sghignazzò sentendo i mugugni spaventati di Belle contro la sua mano.
Mira era bloccata, inerte, incapace di ragionare. Cosa stava succedendo? Perché Mathias e Egil si comportavano così? Loro erano sempre le stesse, non avevano fatto nulla di diverso dal solito. Era una serata come le altre. Avevano proposto di fare due passi fuori, all'aperto, perché Mira e Belle non ne potevano più del puzzo di fumo che aleggiava nel salone. I ragazzi ridevano, le avevano prese per mano, erano stati gentili. Quando lo aveva sentito avvicinarsi, Mira aveva pensato che Egil volesse passarle un braccio sulle spalle, scaldarla dato il freddo pungente. Di sicuro non si aspettava di vedere il proprio respiro mozzato a causa della botta contro il muro.
- Cosa state facendo? Perché? Egil! - balbettò Mira, cercando di tornare padrona di sé.
A volte, essere in grado di pensare più cose contemporaneamente era controproducente. Nella testa aveva solo preoccupazione per Belle e ricordi di sua mamma che la metteva in guardia. Ogni singolo consiglio. Ogni avvertimento. Era troppo tardi per seguirli, ormai? Era troppo tardi per pentirsi? Stavano per essere... stuprate? Uccise?
Belle già piangeva, ma Mira fece di tutto per non lasciar cadere nemmeno una lacrima. Non avrebbe dato a quei due farabutti quella soddisfazione.
Egil ghignò malignamente e posò con brutalità le labbra sulle sue, prendendosi un bacio con violenza. Si staccò appena prima che Mira potesse morderlo, schioccando la lingua.
- No no no, signorina, fai la brava. Oppure questa mano... - sibilò, posandole con prepotenza una mano sul fondoschiena, - vagherà in altri posti in cui non dovrebbe andare. Che ne dici? Ti piacerebbe?
Mira avvampò di vergogna, sentendosi violata. Smise di opporre resistenza. Come si sarebbe sentita, se davvero quella mano fosse andata in zone ancora più intime?
Una lacrima le scivolò sulla guancia. Una sola, bruciante di rabbia e delusione. Era tutta colpa sua, quella. E ci aveva trascinato dentro pure Belle.
Cercò di comunicare con lei con lo sguardo, come al solito. Ma Belle era terrorizzata, e lei temeva di avere la stessa espressione dipinta in viso.
- Perché lo state facendo? Cosa vi abbiamo fatto?
Mathias sbuffò, infastidito. - A parte rubarci il lavoro e far pestare a sangue un nostro caro amico da vostro fratello? Ricordate l'Invisibile figlio di Vladislava? Be', direi che siete divertenti da prendere in giro, ma forse troppo, troppo credulone. Privilegiate e protette in modo disgustoso. Vostro padre è un bastardo che è arrivato in cima alla scala sociale in modo immeritato e vergognoso, arrogandosi dei diritti che nemmeno alle vere famiglie nobili vengono riconosciuti. Devo continuare?
Mira stava per iperventilare. - Nostro padre ha aiutato i vostri casati a ristabilirsi! Senza di lui non sareste qui!
- Stiamo zitte ora, sì? Da brava - mormorò Egil, persuadendola a tacere. - Vostro padre non ha fatto niente per cui dobbiamo considerarci in debito nei suoi confronti, ha solo applicato la legge. La legge però non prevede che un bastardo dal sangue misto arrivi così in alto solo per merito di favori e gambe aperte da parte della zietta.
Mira si agitò, inorridita dalle sue parole. O forse dagli insulti al padre. Magari dal dolore per la stretta di Egil? Avrebbe dovuto proteggere sua sorella. Era suo compito, da sempre, difendere Belle, che era così buona e candida. Invece la gemella era lì, di fronte a lei, bloccata e in lacrime.
Mira sentì la rabbia montare come un'onda d'urto, gli artigli pizzicarle la pelle... e rimanere bloccati, inabili all'attaco. Egil glieli impediva. E le impediva anche di parlare.
Ma avere un fratello fissato con l'esercizio fisico come Tyr aveva dei vantaggi. Tra cui, il non essere mai inermi.
Mira tirò a Egil un calcio tra le gambe, facendogli emettere un gridolino per nulla virile prima di vederlo accasciarsi al suolo.
Come se avesse ricevuto un ordine, Belle morse la mano di Mathias e usò il proprio corpo come perno per buttare lui a terra. Prima che lui potesse usare il suo potere, Belle gli tirò un calcio nello stomaco, neutralizzandolo.
- Non dovete mai sottovalutare un Drago, luridi mascalzoni - disse Belle, riuscendo a mantenere la voce ferma, gelida come quella di Thorn. Mira si sorprese di quel tono tagliente sulle labbra della sorella. - La legge prevede che qualcuno rappresenti i vostri clan alle assemblee interfamiliari, e sanno tutti che nessuno avrebbe mai rappresentato il vostro se non fosse stato per nostro padre. Né qualcuno sarebbe stato abbastanza convincente. Siete degli ingrati che credono di avere chissà quali diritti, ma in realtà siete solo delle sanguisughe.
Sconvolta, Mira non oppose resistenza quando Belle la prese per mano e la trascinò via. Corsero verso lo specchio che le avrebbe riportate a casa, così vicino eppure immensamente lontano. Belle continuava a piangere, ma anche con la vista appannata riusciva a vedere quello che sicuramente anche Mira stava realizzando in quel momento: i sorrisi di chi li circondava erano in realtà ghigni, le ragazze avevano solo sguardi di pungente invidia per quasi chiunque, e chi non era impegnato a guardare male gli altri ne stava spettegolando.
Fu come se un velo fosse caduto dai loro occhi, e al suo posto si fossero imposte le lenti di Ofelia: le lenti di chi vedeva davvero, chiaramente il mondo, per esserne stato a propria volta scottato.
Sia Mira che Belle sapevano che stavano pensando la stessa cosa, che si stavano maledicendo e insultando, chiedendosi come avessero potuto essere così stupide. Così dannatamente ingenue.
Poi il viso di Mira venne centrato in pieno da un pugno Invisibile che la fece stramazzare a terra, gemente. La guancia le divenne subito rossa, presagio di un gonfiore imminente e non occultabile, ma non pianse. Belle la ammirò come non mai, lei si sentiva solo una piagnucolona. Era sempre stata quella più debole, quella più tranquilla, quella che si faceva trascinare.
Quella che non era capace di imporsi. Non ce l'aveva con Mira per la situazione in cui era, solo con se stessa. Se avesse voluto, avrebbe potuto insistere fin dalla prima volta per stare a casa, per non andare. Aveva scelto di sgattaiolare via di nascosto. Scelto di fidarsi di quei ragazzi. Scelto di disobbedire. Era colpa sua, sua e della sua debolezza.
Perse ogni controllo quando vide un rivolo di sangue filtrare dalle labbra della sorella.
Belle usò i ponti in modo massiccio e casuale per cercare di colpire l'Invisibile. Strinse i pugni quando lo vide comparire, diventare distinguibile e scuotere la testa per cercare di scacciare il sonno improvviso di cui era caduto vittima.
Ci pensò Belle a farglielo passare, usando gli artigli per mozzargli la punta dell'orecchio, che cadde macabramente a terra. Quando l'Invisibile, ovviamente in combutta con Egil e Mathias, gemette, la festa parve interrompersi.
Belle si fece coraggio e cercò di sorridere tra le lacrime. Lo specchio era a pochi passi e, riflettendosi sulla sua superficie, vide che il risultato di quella smorfia era inquietante. Proprio quello che voleva. Non le interessava più fare colpo su quella gente.
- Secondo l'articolo 17 comma 4-ter del nostro codice civile, "quando un membro di uno dei casati reggenti attacca immotivamente il membro di un altro casato, al di fuori di qualsiasi duello legalmente proclamato o singolar tenzone regolarmente richiesta, tale atto di violenza non è giustificato e tutelato. Qualsiasi azione venga perpetrata dal membro del clan offeso o da un suo consanguineo, nel caso in cui la parte lesa sia impossibilitata ad agire, verrà considerata come legittima difesa e non avrà conseguenza alcuna, nemmeno in caso di morte."
Belle si sarebbe gustata il silenzio attonito e spaventato che era calato sulla sala, se non avesse sentito un fastidioso fischio nelle orecchie per via dell'adrenalina che le scorreva in corpo, come il sangue che filtrava dalle mani che l'Invisibile si premeva sull'orecchio. Belle guardò gli astanti, tra cui Egil e Mathias, che si erano rimessi in piedi e le avevano raggiunte. Il dolore sui loro volti non fu di alcun sollievo per Belle, che sentiva solo la nausea risalirle in gola con le parole successive.
- Ringraziate che vi abbia mozzato solo la punta dell'orecchio e non l'intero orecchio, o il naso, o qualsiasi altra appendice io reputi inutile, attaccata a voi. O la vostra stessa, patetica vita. La prossima volta che ci vedremo, né io né mia sorella né mio padre o miei fratelli saremo così indulgenti, quindi vedete di non incrociare nuovamente il nostro cammino.
Aizzando gli artigli come uno scudo, Belle porse la mano a Mira e l'aiutò a rialzarsi. Sentì le persone alle sue spalle indietreggiare, percependo la corrente galvanica degli artigli. Un monito. Un avvertimento. Una promessa di morte, se qualcuno avesse osato attaccarle alle spalle.
Le gemelle sparirono in fretta nello specchio e, una volta crollate sul pavimento di camera loro, si guardarono. Mira infranse lo specchio con rabbia, come se così facendo potesse impedire a chiunque di seguirle. Non si preoccupò delle schegge di vetro che le ferivano le mani finché Belle non la trascinò via.
La abbracciò.
E insieme scoppiarono a piangere.
 
Renard fece cadere tutti i documenti che aveva in mano quando, la sera dopo, rientrò dallo studio insieme a Ofelia. Per una volta avevano fatto tardi, mentre Thorn era rincasato prima, contemporaneamente a loro
Si misero quindi tutti e tre a fissare in attonito silenzio la guancia livida di Mira, mentre Belle sedeva al suo fianco torcendosi le mani. Nessuna delle due alzò gli occhi.
Salame, che era stato sepolto sotto i fogli, fu il primo a rompere il silenzio soffiando in direzione di Renard.
- Mi-Mira... - bisbigliò Ofelia, la cui voce pareva essersi persa per strada.
In risposta, la figlia tirò su con il naso.
Renard raccolse in fretta fogli e gatto e si dileguò, mentre Ofelia e Thorn si avvicinavano alle figlie.
Thorn prese il mento di Mira tra le dita, costringendola a guardarlo. Come un dottore, le mosse il viso e cercò di capire se fosse tutto a posto, se la situazione fosse più o meno grave di quel che sembrava.
- Denti?
Quella domanda risuonò come uno sparo, tanto che Belle sussultò.
- A posto - riuscì a rispondere Mira, a mezza voce.
- Cos'è successo? E quando? Chi ha scagliato il pugno? Perché lo ha fatto? - interrogò Thorn.
Ofelia aveva il presentimento che, se non avesse avuto una memoria straordinaria, si sarebbe messo a prendere appunti come un vero gendarme.
Le gemelle avevano vagato per casa senza farsi vedere per tutto il giorno. Non avevano parlato della notte prima. Non avevano fatto ripulire i vetri. Si erano messe in salotto quasi per caso, come se volessero essere colte in flagrante. Delle criminali che volevano confessare.
E così fecero.
Rivelarono ogni cosa, dall'atteggiamento dolce di Egil e Mathias alle scappatelle negli specchi, dall'affronto dei due ragazzi all'attaco di Belle.
Ofelia e Thorn ascoltarono in silenzio, scrutandole in cerca di dettagli omessi o verità modificate. Erano così concentrati da non accorgersi nemmeno dell'entrata di Tyr, che fece marcia indietro e sparì alla vista mormorando un: - Vado a prendere una bistecca.
Alla fine del racconto, quando le gemelle si misero a piangere, scusandosi a profusione e insultandosi da sole, Ofelia si sporse per abbracciarle entrambe. Mira e Belle si aggrapparono alla madre come se temessero che qualcuno potesse portarla via.
- Vi siete legittimamente difese, non ci sarà alcun tipo di conseguenza - disse Thorn a mo' di consolazione.
Belle lo fissò, stupita. - Nessuna conseguenza? Ma... nemmeno un castigo?
L'occhiata che Thorn le lanciò di sottecchi fu più che eloquente. - Nessuna conseguenza dal punto di vista giuridico. Quanto a voi due, non potrete uscire di casa, per nessun motivo, per un mese. Nessun evento, nessuna modista, nessuna visita ad un'amica o a Serena. Per quanto siate pentite, avrei punito chiunque al vostro posto, quindi punirò anche voi.
Mira annuì, grata per quel provvedimento. Per quanto la riguardava, non voleva saperne di uscire o di vedere gli amici (quali amici, poi?) per molto più di un mese. Non aveva nemmeno fame, figuriamoci andare a fare acquisti.
Thorn si alzò. - Vado a vedere lo stato dello specchio di camera vostra - annunciò, intuendo che le gemelle non avevano avvertito nessuno dei frantumi di vetro nella loro stanza. – In parte sono deluso. Non mi aspettavo una simile sconsideratezza da parte vostra.
Ofelia si scostò per guardare le figlie in volto. Asciugò le lacrime dai loro visi, cercò di sorridere sperando di far capire loro che andava tutto bene. Come poteva sgridarle? Non era stata lei stessa, anni addietro, a fuggire dalla tenuta di Berenilde nel cuore della notte per vedere come fosse il Polo? Un genitore che aveva commesso lo stesso errore del figlio aveva diritto di parola?
- Poteva andare peggio - disse loro.
Belle usò il fazzolettino che le aveva dato Thorn per soffiarsi il naso. - Poteva anche non andare. Nel senso che siamo noi ad averla fatta andare così. Papà ha ragione, dovreste essere delusa anche voi. Se solo vi avessimo ascoltato, mamma...
Mira annuì, concorde con la sorella.
- Credo che ormai sia inutile piangere sul latte versato. Non vorrei dire che spero che quest'esperienza vi serva di lezione, ma è così. Sono certa che dopo oggi riuscirete a valutare meglio le persone. Verrete imbrogliate ancora, è impossibile non ricevere altre batoste dalla vita. Però saprete come evitare di infilarvi voi stesse in situazioni spiacevoli.
- Perché non siete arrabbiata, mamma? Siamo scappate di nascosto, vi abbiamo disobbedito. Abbiamo rischiato di essere disonorate. Sgridateci, per favore - singhiozzò Mira, ricominciando a piangere.
Ofelia l'abbracciò stretta, accarezzando poi il viso di Belle. - Tesoro, io sono solo terribilmente sollevata che voi stiate bene. E sono preoccupata. Ma non arrabbiata. Avete corso un pericolo enorme, ma io riesco solo a pensare che ora siete qui, incolumi. Chi più e chi meno. Quanto alla punizione, ci ha già pensato Thorn.
- A me sembra di meritare molto peggio - disse Belle, parlando anche per Mira.
- Non ha senso che vi infliggiamo noi un castigo quando siete voi stesse a punirvi per prime. Non pensate che la vostra coscienza ve la farà passare liscia. Avete giù abbastanza peso da portare senza che ne aggiungiamo altro noi.
Era vero. Sia Mira che Belle sentivano il petto oppresso, una sensazione sgradevole che avevano attribuito al loro aver tenuta nascosta la faccenda ai genitori. Ma ora che avevano rivelato ogni segreto, ora che avevano raccontato tutto... il peso non si era dissolto del tutto. Era ancora lì, forse più pungente di prima.
Era un senso di colpa con cui avrebbero dovuto convivere a vita, nessuno avrebbe potuto assolverle.
In quel momento arrivò Tyr, che allungò una bistecca congelata a Mira. Lei gli sorrise riconoscente, ma prima che lui potesse aprire bocca ritornò Thorn. - Camera vostra è stata ripulita. Non avrete uno specchio a muro nuovo fino a nuovo ordine - esordì, secco. Quando però vide le espressioni contrite e abbattute delle figlie, quelle figlie che faceva un po' fatica a capire ma di cui apprezzava la solarità, si sentì un po' turbato.
Ovviamente dal suo viso non trapelò nulla. Al contrario, Tyr e le sorelle sgranarono gli occhi quando Thorn si chinò un po' rigidamente per posare un bacio sui loro capelli rossi prima di dileguarsi nello studio.
Ofelia sorrise di fronte alle espressioni inebetite dei figli. - Credo che quello sia il modo di vostro padre di dirvi che anche lui è sollevato che siate sane e salve.
 
Quella sera, la cena non fu pacata come la reazione dei genitori.
La zia Roseline si sperticò in insulti sia per quei manigoldi che "avevano colpito le sue pronipoti come se fossero delle bistecche di maiale" sia per le stesse pronipoti, che erano state "più sciocche e superficiali delle taniche di olio del biscugino Leopoldo, finite nel fiume". Tyr invece cercava di fare dell'umorismo per tirare su il morale delle gemelle, mentre Renard rimbrottava Ilda mettendola in guardia dai furfanti della corte. Gaela era tutta un'imprecazione e un rivangare il passato, ma a nessuno sembrava dare fastidio.
Mira e Belle invece sembravano assenti, mentre piluccavano il cibo senza appetito e sorridevano senza sentimento alle battute di Tyr. Balder le fissava in silenzio, serio, pronto ad offrire loro appoggio per qualunque cosa fosse servita.
Quella fu solo la prima di una serie di giornate, poi di settimane, di apatia. Tyr cercava di coinvolgerle in qualche attività, Balder le aiutava a migliorare il loro uso dei ponti, persino Randolf, il timido Randolf che le aveva sempre considerate troppo esuberanti, provò a tirarle su di morale. Parlavano con Serena, parlavano con Ofelia, parlavano anche con Ilda, ma nessuno sembrava riuscire a levare loro di dosso il peso che comprimeva loro il petto e la notte le lasciava boccheggianti, a pensare a com'erano state toccate e tradite.
Il primo mese passò nell'inerzia più totale. Sia Mira che Belle paventavano il rientro a corte, che fu meno doloroso del previsto grazie al sostegno dei fratelli e dei genitori. Non potevano esentarsi del tutto dagli eventi, purtroppo, anche se sia loro che Ofelia avrebbero voluto. Ofelia stessa avrebbe evitato di presentarsi, se solo avesse potuto. Avvolte come in un bozzolo protettivo, dopo la prima serata fu più facile andare. Di sicuro aiutava il fatto di avere alle spalle, a massimo due passi di distanza, due giganti come Balder e Thorn e un colosso come Tyr. Arrischiarono uno sguardo nella direzione dei loro cosiddetti amici, che si comportavano come se nulla fosse. Non incrociarono mai i loro sguardi, e le gemelle si sentirono sia rassicurate che avvilite. Avevano sperato almeno in delle scuse...
Ingenue, erano davvero troppo ingenue.
Quando iniziarono ad essere meno nervose all'idea di presentarsi a quegli eventi, poterono viverla un po' meglio. Ma non era più come una volta. Non aspettavano con trepidazione i vestiti nuovi, non si truccavano con la stessa cura di prima, Mira si era persino rassegnata a tenere i capelli lisci, perfettamente acconciati, ma lisci.
Il vantaggio unico che ottennero fu quello di scoprire chi poteva essere davvero loro amico. Una sera si avvicinarono due fratelli, un ragazzo e una ragazza di pochi anni di differenza, che erano amici di alcuni loro conoscenti della vecchia compagnia. Insomma, si erano sempre visti, ma non avevano mai interagito come con Egil e Mathias.
Balder e Tyr si misero spalla a spalla dietro a Mira e Belle con fare quasi minaccioso. Il ragazzo arrossì, distolse lo sguardo, ma ebbe il coraggio di fare da scudo alla sorella. Erano entrambi biondi, un biondo scuro però rispetto al pallido platino tipico del Polo, ma con gli occhi chiari.
La sorella si sporse oltre il fratello e sorrise amichevolmente. - Buonasera! Io sono Milena e lui è mio fratello Berthold. Siamo Persuasivi e... scusatemi, non so bene come iniziare quesra conversazione, a dire il vero. Vorrei scusarmi a nome dei miei cugini. Noi eravamo lì quando siete state attaccate e... non che sapessimo cosa stessa accadendo, a dire il vero...
Bertold si schiarì la voce. Era appena più basso di Tyr e meno massiccio, ma aveva una bella stazza. - Quello che mia sorella vuole dire è che non sapevamo dei piani di quegli scellerati dei nostri cugini. Ci scusiamo per non essere riusciti ad evitare un simile spiacevole incidente. Non siamo mai stati in buoni rapporti con loro e da quando abbiamo visto cosa vi hanno fatto abbiamo interrotto ogni contatto.
La sorella si intromise di nuovo, sorridendo imbarazzata. - Noi in realtà siamo molto grati a vostro padre per il lavoro che ha fatto. Sappiamo bene che senza la sua competenza saremmo ancora nello stato pietoso in cui versavamo prima. Per questo ci rincresce che proprio voi siate state oggetto della rabbia immotivata dei nostri cugini. So che sarà... difficile, ecco, che vi fidiate di noi, ma vi assicuro che siamo in buona fede. Speriamo che il tempo possa dimostrarlo.
Mira incontrò per la prima volta lo sguardo di Berthold, che distolse subito il suo e... arrossì. Belle invece riuscì a fare un timido sorriso. - Vi ringraziamo per le vostre parole. Sarà un po' difficile per noi riporre fiducia in qualcuno che non fa parte della nostra famiglia, almeno per un po' di tempo. Vi chiediamo di essere pazienti con noi.
Alle loro spalle arrivò anche Ilda, che tirò leggermente i loro capelli per far sentire la sua presenza.
Milena sorrise di nuovo. - Capiamo perfettamente. A dire il vero, era da tanto che volevamo presentarci, ma Egil e Mathias vi hanno sempre monopolizzate. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, noi ci siamo.
Berthold annuì in segno di assenso, facendo addirittura un mezzo inchino prima di allontanarsi con la sorella al braccio.
Quando si furono allontanati, dalla parte opposta della sala rispetto ai cugini, Balder si sporse verso di loro. - Erano sinceri.
Ilda gli lanciò un'occhiata dubbiosa. - Come fai a esserne certo?
Balder le fece l'occhiolino. - Il sistema nervoso di una persona rivela un sacco di cose sul suo stato d'animo. Sto esplorando nuovi campi di applicazione dei ponti. Vi basti sapere che sono un rivelatore di verità, mentitemi e lo scoprirò sub-ahia!
Ilda gli diede una botta sul fianco con la mano tesa, facendolo gemere e raddrizzare. - Non mi sembra una cosa molto corretta, Balder.
Lui si incupì. - Perché, hai qualcosa da nascondermi? E comunque non lo uso mai su di voi. Ho voluto fare una prova solo in questo caso. Dovete ammettere che è utile.
Loro malgrado, le gemelle annuirono. Mira lanciò un'occhiata discreta a Berthold, che la stava già guardando e distolse in fretta lo sguardo. Nonostante tutto, si ritrovò a sorridere leggermente.
Ci vollero parecchie settimane, però, perché Mira e Belle tornassero ad essere gioiose e briose come un tempo. Si diedero del tempo per guarire, anche se sapevano che dentro di loro sarebbe rimasta una traccia indelebile che bruciava di vergogna e non si sarebbe mai estinta.
Dopo tre mesi dalla loro ultima scappatella, Thorn fece portare in camera loro un nuovo specchio a figura intera, intarsiato e riccamente decorato. Era davvero bellissimo, un regalo di riconoscimento della loro buona condotta. Le gemelle ovviamente lo ringraziarono, lo abbracciarono insieme, mettendolo a disagio, ma quando la porta della camera si chiuse dietro di loro, fecero fatica a specchiarsi.
Sapevano già cosa avrebbero visto, cosa già vedevano negli specchi disseminati per casa e nel loro bagno.
Mira avrebbe visto una ragazza che era stata troppo sicura di sé, arrogante, e incapace di proteggere la sorella. Avrebbe visto un senso di colpa divorante, una vergogna cocente che la rendeva quasi incapace di guardarsi allo specchio.
Belle avrebbe visto una ragazza troppo debole, incapace di imporsi, che si lasciava trascinare. E una ragazza che era ricorsa con fin troppa facilità alla violenza, sentendo nel sangue il richiamo dei Draghi passati, brutali e letali. Avrebbe visto fragilità, incertezza, e timore. Paura di sé. Impotenza.
Non sarebbe stato facile tornare a guardarsi con leggerezza, specchiarsi e affrontare se stesse.
Se anche un giorno lo avessero fatto, se si fossero affrontate nuovamente a testa alta, erano entrambe certe, assolutamente certe, di una cosa.
Mira e Belle si presero per mano mentre osservavano lo specchio nuovo. Mentre osservavano ciò che erano in quel momento.
Non sarebbero mai più state in grado di attraversare uno specchio.
 
Arrivò infine anche il momento di partire per la terza caccia. I giorni precedenti l’impresa furono frenetici come sempre, tra i preparativi, i comunicati stampa, le discussioni sulle strategie e gli allenamenti.
Tyr faceva allenare le gemelle e Balder nel combattimento e nel mantenimento del tono muscolare, mentre Balder li istruiva su come poter usare i ponti sulle Bestie in modo efficace. L'ultima caccia era stata un successo dal punto di vista del risultato, meno dal punto di vista dei danni riportati. Balder era guarito perfettamente, percò aveva rischiato seriamente la vita. Quell'esperienza era comunque servita per rendersi conto che i ponti potevano essere un ottimo modo di combattere, affiancati agli artigli: erano più efficaci, soprattutto se erano Balder e Tyr ad usarli, e lasciavano inermi le Bestie, immobili e affaticate, pronte perché Thorn, le gemelle e Berenilde le finissero con gli artigli.
Furono giorni impegnativi anche dal punto di vista amoroso.
Ofelia aveva ormai deposto le armi, rassegnata all'idea che andare con i figli e il marito a cacciare l'avrebbe resa solo un peso, soprattutto dal momento che andavano e tornavano in giornata e lei non avrebbe avuto un posto dove stare. E rimanere in mezzo all'azione mentre gli altri combattevano era fuori discussione. Allora coglieva ogni opportunità per ricordare a Thorn, tramite i baci e la vicinanza, quanto fosse importante che si concentrasse sulla buona riuscita della caccia per tornare presto a casa da lei. Come se lui potesse dimenticarsene.
Tra baci rubati e notti passate avvinghiati, sembravano essere tornati due ragazzini alla scoperta di se stessi.
E a proposito di tornare ragazzini, Ilda e Balder erano una loro versione più casta.
Il giorno prima di partire passarono la mattina a fare esercizi e il pomeriggio a ripassare la strategia. Quando ebbero finito e Balder ebbe congedato le sorelle e il fratello, Ilda si infilò nello studio del ragazzo e lo spinse contro il muro. Meticoloso, ordinato, maniacale com'era, Balder lasciò cadere volentieri i fogli che aveva in mano per chinarsi a baciare Ilda senza la minima esitazione.
- Mh... - mormorò, mugugnando di piacere, quando le mani di Ilda gli tolsero la camicia dei pantaloni.
Poi sussultò quando le sue mani fredde gli passarono sulla pelle nuda dell'addome, ma non fece nulla per fermarla.
- Mi pare che gli allenamenti con Tyr diano ottimi risultati - commentò lei, schiacciandosi ancora di più contro di lui.
Balder le strinse i fianchi, desiderando più che mai abbassare le mani e portare Ilda ancora più vicino a sé, ma trattenendosi. Sapeva che stavano giocando con il fuoco. Se avesse anche solo sfiorato le natiche di Ilda, o messo le mani su quell'invitante scollatura che lei non perdeva occasione di mettergli sotto il naso, non sarebbe più riuscito a trattenersi.
- Non costringermi a farti dormire, tesoro... - le mormorò sulle labbra, riempiendole poi il viso di baci brevi e secchi.
Ilda tremò udendo il nomignolo. Non era proprio una persona dolce o romantica, era più pratica, però non poteva fare a meno di sciogliersi quando Balder la vezzeggiava. Ridacchiò, pizzicandogli quella poca pelle che aveva sopra gli addominali. Non aveva un filo di ciccia, ci pensava lei ad averne per entrambi. Non che fosse grassa, ma era decisamente più formosa e morbida. - A letto intendi? È lì che vorresti portarmi? E io che pensavo fossi un gentiluomo...
Balder sospirò contro il suo collo, pensando al gelo che avrebbe incontrato il giorno successivo, alle Bestie, al dolore dell'anno passato. Qualsiasi cosa pur di non immaginare Ilda sdraiata sotto di sé...
- Ehi, sta arrivando la zia Roseline! - esclamò Tyr, entrando a sorpresa.
Ilda e Balder si separarono così in fretta che per una volta fu Ilda a perdere l'equilibrio. Balder l'agguantò prima che cadesse, ma perse a sua volta la stabilità e il risultato fu che finirono entrambi a terra, uno sopra l'altro.
Si alzarono in fretta a furia sistemandosi gonne e camicia mentre Tyr se la rideva della grossa.
- Non sta arrivando la zia Roseline, vero? - chiese Ilda con aria minacciosa, preparando già la mano per sferrargli un pugno.
Persino Balder aveva l'aria irritata. Tyr sghignazzò. - Nessuna zia Roseline. Per fortuna, date le sconcezze che stavate facendo.
Ilda boccheggiò, avvampando. Per quanto fosse sempre ben disposta a parlare di quelle cose, diventava pudica se riguardavano lei.
- Non stavamo facendo nulla di sconveniente, Tyr! - lo rimbrottò Balder, anche lui rosso. - Sei terribile.
Tyr continuò a sghignazzare. - Lo so, grazie. Diciamo solo che per fortuna sono arrivato. La carne è debole, sai com'è.
Balder scosse la testa, mettendo un altro passo di distanza tra lui e Ilda, per sicurezza. A Tyr facevano quasi pena.
- A proposito di carne debole... com'è che non riesco a capire se tu menti o no? È come se avessi sempre gli artigli o i ponti a protezione.
Ilda diede uno schiaffo leggero sul braccio di Balder. - Lo sai che non mi piace quando usi i ponti così...
Tyr cercò di non lasciar trapelare nulla e assunse un'espressione maliziosa mentre proteggeva ancora meglio i propri nervi da un possibile attacco di Balder. - Perché io sono così innocente da non avere proprio nulla da nascondere.
Balder lo guardò storto, grugnendo, per poi impallidire quando sentì davvero la voce della zia Roseline in corridoio.
- Ci vediamo a cena, ciao - annunciò prima di sparire oltre la porta, per sfuggire all’anziana irascibile.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma aveva un po' paura di quella donna. Non che fosse cattiva, anzi, ma i suoi rimbrotti lo facevano sempre sentire un bambino. Per non parlare del fatto che sembrava fiutare "irregolarità" ovunque. Sapeva che solo guardandolo avrebbe capito che aveva amoreggiato.
Ilda si massaggiò le braccia, come se senza Balder vicino sentisse improvvisamente freddo.
- Tu non hai altro da fare che mettere i bastoni tra le ruote a me e Balder?
Tyr sorrise innocentemente. - Stavo solo cercando di preservare le vostre virtù. Sarebbe davvero increscioso se per colpa di una mia distrazione voi... deste scandalo.
Ilda gli tirò uno schiaffo sul braccio, facendolo ridere. - Se ti mangeranno le Bestie, non verrò al tuo funerale.
Tyr mise il broncio. - Quanta cattiveria. Bene, ti lascio ai tuoi... pensieri - la salutò affrettandosi ad andarsene, ammiccando maliziosamente mentre Ilda arrossiva.
Si sentiva un po' meschino a stuzzicare così il fratello e l'amica. Effettivamente, forse era davvero meritato il suo nomignolo, anche se poco lusinghiero. Tyr il Terribile. Sì, lo era.
Soprattutto perché lui si fiondò in camera sua e poi dentro lo specchio, dove placcò Gabriella a letto e la riempì di baci.
- Tyr! Smettila! - si lamentò lei, ridendo. - Te l'ho detto che devi stare attento di pomeriggio, potrebbe sempre esserci qualcuno.
Lui si scostò dopo averle dato un lungo bacio sulle labbra. - Salutami come si deve, il tuo valoroso cavaliere domani va a combattere.
Gabriella si rabbuiò, mettendosi a sedere. - Partite? Di già?
- No, ma questa sera dormirò con Balder. Dobbiamo alzarci presto e tra poco ceniamo, quindi... mi sa che questo sarà il nostro saluto. Se mi scoprono sono morto.
Siamo morti - rettificò Gabriella, gettandogli le braccia al collo.
Gli baciò la guancia, annusando il profumo del dopobarba. Tyr aveva sempre le guance ben rasate e lisce come quello di un bambino. Era meno peloso di Balder, non aveva ancora una barba folta e omogenea, e forse non l'avrebbe mai avuta. Ma a lei andava bene così. Tyr ridacchiò quando lei gli mordicchiò la mascella.
Gabriella lo lasciò andare. - Ti prego, amore mio, stai attento.
Tyr alzò gli occhi al cielo. - Grazie, ora che me lo hai detto starò attento. Altrimenti mi sarei comportato da incosciente.
Gabriella gli prese il viso tra le mani. - Dico sul serio. È la prima volta che vai a caccia da quando noi... Insomma, non voglio che cambi nulla. Quindi torna qui da me domani appena rientri, va bene? E pensa a me quando stai per compiere qualche sciocchezza.
Tyr le baciò la fronte con una dolcezza che la fece sciogliere in lacrime. - Ehi, Gab, non piangere. Andrà tutto bene, davvero. Balder e io abbiamo un piano a prova di bomba. Anzi, di Bestia. Tornerò presto, incolume, e sarà tutto come prima. Anzi, - le disse abbassando la voce in un modo che voleva essere seducente, - domani notte ti terrò bloccata a letto fino all'alba.
Gabriella tirò su con il naso, lasciandolo andare. - Me lo prometti?
Tyr le sorrise con dolcezza. - Non avrei mai pensato che una ragazza mi avrebbe fatto promettere una cosa simile.
Gabriella gli strinse la spalla, riuscendo a regalargli un minuscolo sorriso. - Lo sai cosa intendo. Promettimi che tornerai, e potrai fare quello che vuoi.
- Ovvio che tornerò. E recupererò gli abbracci che non ti ho dato questa sera. Dormi bene. E smettila di piangere, voglio andare via imprimendomi nella mente il tuo visetto sereno.
Gabriella cercò di mostrarsi forte e si asicugò le lacrime. - Sono solo gli ormoni, non sto piangendo per te.
Tyr ghignò. - Ah-ah, se lo dici tu - la prese in giro dirigendosi verso lo specchio.
Prima di andarsene, le fece l'occhiolino.
E poi Gabriella fu sola. Sola con le sue lacrime. Almeno Serena, Ilda e Ofelia potevano preoccuparsi insieme dell'esito di quella caccia. Lei invece non poteva confidarsi con nessuno, avrebbe dovuto aspettare un'intera giornata senza avere notizie, senza poter gioire con la famiglia di Tyr del loro ritorno.
Il ritorno di Tyr...
Nonostante quello che aveva detto lui, sapeva che le cose non sarebbero mai più state le stesse.

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Capitolo 76
*** Capitolo 76 ***


Io  non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate di questo capitolo, soprattutto la parte finale.
Ho fatto del mio meglio per rendere tutto il più esplosivo possibile e mi sono divertita da morire ahahahahahaha. Molti di voi hanno anche capito una cosetta che qui si svela...
Del resto, Terribile non è il soprannome di Tyr a caso. E grazie di cuore ad Alchimia96, adoro questo soprannome xD


Capitolo 76

La caccia andò così bene che l'intera famiglia rincasò due ore prima del previsto. Ofelia dalla sorpresa, e dalla paura che qualcuno fosse ferito, fece volare il libro che teneva in mano, che arrivò pericolosamente vicino a Salame. La zia Roseline le lanciò improperi mentre si chinava a raccogliere quella povera carta ferita, invece Salame le soffiò addosso. Sia a lei che a Renard, che si fiondò a separare Ilda e Balder quando i due si abbracciarono in modo un po' troppo "intimo" per i suoi gusti.
- Papino, fosse per voi la distanza consona da tenere sarebbe da un capo all'altro della stanza! - esclamò Ilda, che cercava sempre di rabbonire il padre iperprotettivo con dei nomignoli carini.
- Ecco, sì, sarebbe molto consono - concordò lui.
Ilda alzò gli occhi al cielo, separandosi suo malgrado da Balder. - Non era questo che intendevo...
Mira e Belle corsero ad abbracciare Ofelia, pronte a raccontarle tutto senza tralasciare nulla. Per Ofelia, che voleva sempre sapere i dettagli di ciò che accadeva, la parlantina delle figlie era una miniera d'oro. Non come con Thorn, a cui doveva porre una quantità di domande solo per ottenere delle informazioni minime. Lei sporse la testa per osservare il marito, che la scrutava già intensamente. Più intensamente del solito. Quello sguardo le fece venire i brividi, e non di freddo.
- È andata davvero così bene?
Lui annuì seccamente. - Anche un po' di più.
- Mamma, i ponti hanno dato una svolta alla caccia! - esclamò Balder, entusiasta, dimenticandosi per un istante che non poteva nemmeno dare un casto bacio sulla guancia a Ilda.
- Sì mamma, sì! - gioirono in coro le gemelle.
Ofelia rise. - Perché non tenete i racconti per cena? - domandò, cercando di non guardare Thorn. - Così potranno ascoltarli tutti, anche quelli che mancano all'appello.
- Ma mancano ancora tre ore alla cena - sbuffò Mira.
- Approfittatene per farvi una bella doccia calda, allora. E magari per bere un bel tè.
Ofelia si sentiva meschina a cercare di sbarazzarsi così delle figlie, ma le occhiate di Thorn sembravano... insistenti.
- Io ne approfitto per andare a fare una passeggiata. Per... scaricare la tensione, sapete, no? Vieni con me, Ilda?
La zia Roseline si raddrizzò borbottando. - Non senza di me.
Sul volto di Balder passò un lampo di tristezza. - Era sottinteso, zia.
- E non senza di me! - si intromise Renard, guardando quasi con malinconia la figlia.
Balder adorava Renard, ma non da quando lui lo considerava un rivale che aveva rubato il cuore della figlia. Sorprendendolo, però, l’omone gli diede una pacca sulla schiena e gli sorrise. - Forza, andiamo a fare quello che dev'essere fatto!
Ilda aggrottò la fronte, perplessa. - Cioè una passeggiata? Sembra che dobbiate andare in guerra!
Ofelia vide che Thorn si scambiava una strana occhiata con Renard, e poi annuì, come se stessero intrattenendo una conversazione nota solo a loro.
- Be', se voi qui siete a posto, io andrei a... lavarmi. E riposarmi - disse Tyr candidamente.
Troppo candidamente. Tyr non era mai stanco. Era iperattivo!
Ofelia lo guardò allontanarsi un po' dubbiosa, poi però sentì di nuovo gli occhi di Thorn addosso.
- Forza, andate a riposarvi un pochino. Poi mi racconterete tutto, va bene?
Le gemelle annuirono, e per fortuna di Ofelia sbadigliarono, come se si fossero rese conto solo in quel momento di essere stanche.
Tyr era sparito, Mira e Belle erano andate in camera loro, Balder e Ilda erano fuori con Renard e la zia Roseline, Berenilde si era adagiata sulla chaise longue con il suo bocchino di narghilé, in attesa dell'arrivo di Vittoria e...
Ofelia non fece quasi in tempo a chiudere la porta della camera che già Thorn la stava spogliando.
Avrebbe riso se non avesse sentito così tanto la sua urgenza.
Con il tempo aveva scoperto che negli uomini, e anche nelle donne, le situazioni adrenaliniche producevano due effetti: o un'improvvisa stanchezza che piombava addosso quasi improvvisamente, oppure un bisogno fisico di sfogarsi. Le gemelle erano stanche. Thorn non lo era mai. Anzi, a Ofelia sembrava pieno di energie.
Gli gettò le braccia al collo quando lui la sollevò per portarla a letto.
- Questa sera vengono anche Serena e Archibald - lo informò, sperando che dargli quella notizia in quella situazione potesse indorargli un po' la pillola.
- Mh... - rispose lui, passandole il naso sul collo prima di baciarle la clavicola e poi scendere.
Non era proprio la reazione che si era aspettata, ma almeno non aveva brontolato. E soprattutto, non si era fermato. E non si fermò nemmeno quando arrivò a baciarle la pancia, facendo scorrere le mani ovunque. Ovunque.
Ofelia inspirò il profumo di freddo dei suoi capelli ormai spettinati, sussultando quando Thorn le mordicchiò il fianco, passandoci poi sopra la lingua.
Un lungo sospiro.
C'era anche chi sentiva una fame improvvisa e impellente, in quei casi. Ofelia era sicura che Tyr avrebbe fatto una capatina alle cucine prima di cena, infatti.
Thorn, invece, aveva una fame di tutt'altro tipo, e aveva deciso di banchettare con lei.
 
Quello che Ofelia non presagiva nemmeno, era che anche l'appetito di Tyr fosse di altra natura.
Lui varcò lo specchio che già si stava spogliando, mentre la sciarpa, irrequieta e nervosa come lui, scivolò via come un serpente per andare ad acciambellarsi attorno al collo di Gabriella.
Gabriella, che sussultò quando lo vide, e poi gli gettò le braccia al collo, allacciandogli le gambe in vita.
Tyr sostenne il suo peso come se fosse una piuma, prima di adagiarla sul letto dopo averla baciata e morsa ovunque.
Si stava togliendo la canottiera lasciandole un succhiotto sotto la clavicola, quando lei lo fermò. - Non lì, Tyr, si vede.
Lui le lanciò un'occhiata impaziente e maliziosa. - Più giù, allora.
Gabriella non si lamentò più. Non fece nemmeno caso al fatto che Tyr non la spogliò, e non finì nemmeno di spogliarsi lui. La prese con urgenza, ma anche con gentilezza. Fu l'amplesso che durò meno da quando si erano conosciuti, ma anche quello più appassionato, pieno della gioia di essersi ritrovati, del bisogno di stare ancora più vicini, di fondersi. Gabriella pianse, sollevata finalmente. Era stata una giornata estenuante, passata ad aspettarlo, e lui le baciò via tutte le lacrime, mormorando: - Sono qui, sono qui Gabriella.
Soddisfatti, ma anche insoddisfatti, si presero poi il loro tempo per spogliarsi con calma, senza mai staccarsi, divorandosi con gli occhi, bevendosi uno la presenza dell'altra, felici di esistere insieme in quel momento perfetto. Gabriella rise quando Tyr le tolse le calze lasciandole una scia di baci sulla pelle nuda, dall'anca alla caviglia. Rise asciugandosi le lacrime.
- Basta piangere, bella Gabriella, o penserò che ti sto facendo un torto - sussurrò lui, baciandole anche la pianta del piede.
Possibile che quella donna profumasse e fosse perfetta dappertutto?
Gabriella si mise seduta, avvicinandoglisi ancora di più. - Non mi stai baciando, amore - mormorò, come se quello fosse il vero torto.
Tyr rimediò subito.
Un'ora dopo era sdraiato sopra di lei, stanco e appagato, mentre lei gli passava le dita tra i capelli fini e morbidi. Sotto la luce della lampada da comodino, l'unica che avevano lasciato accesa per rilassarsi di più, rilucevano come pagliuzze d'oro.
Tyr emetteva un mormorio che sembrava sgorgare direttamente dal petto e faceva vibrare la pancia di Gabriella, come le fusa di un gatto. Non voleva pensare al fatto che nel giro di un'altra ora se ne sarebbe dovuto andare per lavarsi e prepararsi alla cena con la famiglia. Lo avrebbe voluto per sé per tutta la notte, e poi per tutto il giorno dopo, e...
- Com'è che non ne ho mai abbastanza di te? - bofonchiò lui, togliendo romanticismo alle sue parole biascicandole.
Gabriella sorrise. - Creo dipendenza. Era scritto nel manuale d'istruzioni.
Tyr alzò il viso e le sorrise come un bambino, facendo accelerare il suo battito cardiaco. - Spero che tu crei dipendenza solo a me.
Gabriella sbuffò, ma continuò a sorridere. Era bello sentire che era geloso. A parole non era mai... espansivo.
- Non pensare di essere così speciale da avere l'esclusiva. O così capace...
Tyr fece una smorfia. - Non insinuare nemmeno certe cose quando siamo avvinghiati insieme nel tuo letto.
Lei alzò gli occhi al cielo. Poi si morse un labbro, racimolando quel coraggio che aveva cercato di raggranellare per giorni, in quel periodo. Non credeva ci fosse un modo giusto per dirlo, o un modo che avrebbe reso la situazione meno terrificante.
- Devo dirti una cosa...
- Mh... - mormorò lui, riempiendole la pancia di baci lenti e sensuali.
Gabriella si impose di non distrarsi. Doveva dirglielo. Subito. Era già passato fin troppo tempo.
- Sono incinta.
Tyr alzò di scatto la testa, sbalordito, raggelato, con la fronte aggrottata quanto quella di suo padre e occhi e bocca spalancati.
- Che?! In che senso?
- Nel senso che sono incinta.
Di fronte alla sua calma serafica, Tyr parve bloccarsi. Poi si allontanò da lei mettendosi seduto, le mani tra i capelli. - Mio padre mi ammazza.
- Be', ora sei tu a non dover tirare fuori tuo padre mentre sei a letto con me - gli disse lei, cercando di alleggerire la tensione.
Peccato che la voce le uscì strozzata, spaventata.
Dopo un minuto di silenziosa immobilità, con Tyr che sembrava essere diventato una scultura nuda, Gabriella sentì improvvisamente freddo. Si coprì con la coperta e gli prese il viso tra le mani.
- Tyr, dì qualcosa.
- Non può essere... un ritardo? Tu non sei mai stata regolare.
Gabriella cercò di non dare a vedere che l'aveva sorpresa l'affermazione di Tyr. Certo, con la sua memoria era automatico che tenesse traccia di certe cose, però le faceva lo stesso un certo effetto.
- Dovresti sapere meglio di me che un ritardo di un mese è troppo.
- Magari è saltato?
Gabriella sospirò. - Tyr, ho gli ormoni impazziti e piango costantemente. Se non piango sono irritata. Ho la nausea. Penso di essere già a due mesi di gravidanza. Ti basta come spiegazione?
Tyr strinse i pugni. - Che guaio. Com'è potuto accadere?!
Gabriella iniziava ad innervosirsi. - Pensavo sapessi come accadono queste cose - commentò pungente.
Tyr le lanciò un'occhiataccia. - Sì, ovvio, ma... pensavo che fossimo stati attenti.
- A parte in due occasioni.
Tyr sbuffò. - Non pensavo bastassero due occasioni!
- Ne basta una, Tyr. Una.
- Non te la prendere con me!
- E con chi dovrei prendermela, scusa?! - sbottò Gabriella, scoppiando a piangere.
Tyr strinse i pugni, infuriato contro se stesso. Si allungò verso Gabriella, cercò di tirarla verso di sé. Quando vide che lei però non gli facilitava il compito, si mosse per andarle vicino. La avvolse, abbracciandola stretta al di sopra delle coperte e dandole un lungo bacio sulla tempia, appoggiandoci poi la fronte.
- Scusami, scusami, non volevo alzare la voce. Ti prego, non piangere. È... una bella notizia. Scandalistica, inaspettata, esplosiva, ma è una bella notizia. No?
Gabriella continuò a piangere, allungandosi sul comodino per prendere un fazzoletto. Poi però tornò a rifugiarsi tra le braccia di Tyr. La sciarpa si allungò sul letto fino al suo ventre, dove si acciambellò come un cuscino. Era un maldestro tentativo di confortarla, maldestro come il suo proprietario.
- Dimmelo t-tu se è una be-bella notizia o-o meno - singhiozzò.
Tyr le diede un altro bacio. - In che senso?
- In che senso? Tyr, stiamo in-insieme da mesi e non mi hai mai detto che mi ami. Non mi hai... n-non mi hai mai fatto intendere che vo-vorresti sposarmi, un giorno. A volte mi sembra che tu c-ci tenga a me, altre vo-volte mi sento solo... usata.
Tyr raggelò, inorridito. - Usata? Usata?! Gab, dimmi che non è vero. Dimmi che hai parlato a sproposito. Perché se tu pensi che io ti abbia usata per tutto questo tempo, abbiamo buttato via dei mesi. Io ho buttato via dei mesi, se non sono riuscito a farti capire che ti amo più della mia stessa vita. Sei il mio pensiero fisso, vorrei vederti ad ogni minuto di ogni ora di ogni giorno, e fidati che per uno Storiografo la consapevolezza del tempo è estremamente precisa e tediosa. Voglio passare la mia vita con te, Gabriella. Pensavo che i miei intenti fossero chiari.
Gabriella si raggomitolò ancora di più contro di lui, respirando erraticamente. Tyr fu paziente, lui che paziente non lo era proprio, e lasciò che si calmasse, che esaurisse le lacrime e finisse di singhiozzare per riuscire a parlare. Nel frattempo continuò ad accarezzarle la schiena, a cercare di rassicurarla con i gesti.
Finalmente, Gabriella prese un respiro profondo e sembrò nuovamente in grado di parlare. - Scusami, davvero. Come ho detto, sono gli ormoni. Io... so che ci tieni a me. Non sono così stupida. Però, sai, i maschi sono impulsivi e... non abbiamo mai parlato del nostro futuro. Non mi hai mai detto a parole di amarmi. Ho visto tanti ragazzi piantare in asso delle ragazze dopo averle corteggiate come se ne andasse della loro vita, solo perché si erano stufati.
Tyr le baciò la tempia. - Ma io non ti ho corteggiata come se ne andasse della mia vita.
La battuta riuscì a strappare un sorriso a Gabriella, anche se sembrava più una smorfia. - Potresti dirmi delle cose dolci un po' più spesso, però...
- Pensavo di dirtene abbastanza quando facciamo... sai...
Gabriella scosse la testa, questa volta esasperata. - Quelle non valgono! E la maggior parte delle volte sono sconcezze.
Tyr si offese. - Non è vero. E poi lo sai che non sono proprio tipo da formulette amorose.
Dopo aver accarezzato la sciarpa, lei rispose: - Non ti sto chiedendo di dedicarmi poesie ogni giorno, Tyr. Ti chiedo solo qualche parola in più, per farmi capire che la nostra relazione non è solo fisica. Ne ho bisogno.
A Tyr si strinse il cuore. Si chinò per darle un lungo e tenero bacio sulle labbra, delicato e profondo allo stesso tempo. - Io pensavo che gesti come questo fossero già una dichiarazione di per sé. Lo sai che sono più... che ho bisogno di cose tangibili. Non è questione di avere una relazione fisica, è questione di... Come faccio a fartelo capire? - borbottò, irritato con se stesso perché non riusciva ad esprimersi bene. - Fin da quando mi hai baciato la prima volta, forse da prima, ho capito che tu saresti stata l'unica per me. È un dato di fatto, la mia mente non concepisce nemmeno che io un giorno possa stare con un'altra come sto con te. E la mia mente di cose ne concepisce fin troppe, fidati. Da quel momento, da quando questa rivelazione mi ha colpito dentro, senza bisogno di spiegazioni verbali da parte del mio cervello, tu sei mia. Io sento... un inestinguibile bisogno di te perché tu sei parte di me. Quando hai freddo non pensi a decantare paroline dolci alla coperta, te la prendi e ti ci avvolgi. Quando hai fame, non espliciti il tuo amore ad un panino col salame, lo prendi a morsi.
Gabriella ridacchiò, anche se ricominciò a piangere. - Come sei poetico.
Tyr sbuffò. - Hai capito cosa intendo?
Lei annuì, soffiandosi il naso.
- Quello che provo quando sono lontano da te è come un'amputazione. Mi manca un braccio. E io il braccio me lo vengo a riprendere, non gli dico che è un bravo braccio. Per me le parole non valgono con te, ho bisogno di toccarti, di sentirti. E non parlo solo di... dell'intimità. Io sarei felice anche solo tenendoti la mano tutto il tempo.
Gabriella inarcò un sopracciglio, facendogli spuntare sulle labbra un sorriso quasi timido. - Va bene, no, ovviamente sono molto più felice se facciamo qualcosa di più che tenerci per mano. Quello che intendevo dire è che per me non è tutto qui, Gabriella. Ti amo più di me stesso.
Lei gli gettò le braccia al collo. - Vorrei avere la tua memoria per ricordarmi per sempre ogni singola parola che hai detto.
- Ce l'ho io quella memoria. Basta chiedermi di ripetertele. Quando vuoi. Lo farò così spesso da farle imparare anche a te.
Gabriella si asciugò le lacrime e sorrise. - Magari possiamo rivedere qualcosa di questa dichiarazione, come la parte del panino al salame.
- Quella era la parte migliore! Essere paragonati al salame è un gran complimento.
- Anche la parte del braccio. È un po' macabro pensare che ti manca un braccio e che ci parli prima di riattaccartelo alla spalla.
Tyr inorridì. - Ma a cosa pensi?! Sicura di sentirti bene?
- Guarda che sono cose che hai detto tu! - lo prese in giro lei, mentre la sciarpa si agitava tra di loro.
Pochi secondi dopo, però, i sorrisi svanirono.
- Tyr, rimane la questione del bambino.
- Lo so, lo so. Ci sposeremo. Andrà tutto bene.
- Ne dubito. La mia famiglia odia la tua. Mi faranno un sacco di storie. Potrebbero recidere il legame che hanno con me.
- Non ti sei mai trovata bene con i tuoi, che male ci sarebbe?
Gabriella rabbrividì. Tyr l'abbracciò stretta pensando che dipendesse dal freddo, ma scaturiva dalla paura. - Recidere il contatto mentale con qualcuno è... devastante. Doloroso. E pericoloso. Molto pericoloso. Se decidessero di farlo, potrei non sopravvivere.
- Non accadrà. Dovranno vedersela con i miei artigli, se ti metteranno in pericolo. E poi c'è di mezzo un bambino... un bambino! Diventerò padre, Gabriella!
Lei alzò gli occhi al cielo. - Per essere uno con la mente iperattiva, a volte sei a scoppio ritardato.
- Mi ci vedi a fare il padre? - chiese lui, ignorandola.
- Sinceramente? No. Come io non riesco a vedermi madre. Fra qualche anno di sicuro. Ma ora...
- Ci giocherò a palla! – decretò Tyr. – E se piangerà troppo, lo farò addormentare con i ponti.
Gabriella si scostò, inorridita. Prese la vestaglia per coprirsi, invece Tyr sembrava completamente a suo agio nudo in mezzo al letto. Felice come un bambino senza pannolone.
- Tyr, non funziona così con i bambini! Non puoi… drogare un neonato! E non puoi nemmeno giocarci a palla! E se fosse una femmina?
Tyr fece spallucce. – Chi dice che le femmine non possano giocare con la palla, scusa? Ilda giocava con noi ed era la migliore. Aveva una mira… sai quante pallonate in faccia mi sono preso?
- Tyr! – lo richiamò Gabriella, cercando di riportarlo sull’argomento giusto.
- E poi i ponti non sono droga. Mi offendi, anzi, offendi Balder se dici così. E sai che lui è permalosetto…
- A dire il vero, no, non lo so. Non sono stata presentata alla tua famiglia ufficialmente. Ma comunque non puoi fare niente del genere con un bambino!
Tyr si strinse nelle spalle, come se non ne fosse pienamente convinto. Poi afferrò un ricciolo di Gabriella e se lo avvolse attorno al dito con aria meditabonda.
- Tyr? – chiese Gabriella, dopo un silenzio talmente lungo da essere preoccupante, per uno come Tyr. Per non parlare della sua immobilità.
- Che c’è?
- Cosa stai aspettando?
Lui aggrottò la fronte. – Sto pensando, cosa devo aspettare?
- A cosa stai pensando?
- Al nome! Che ne dici di Fredrik? Oppure Sigvard! Fa molto da duro! Sigvard, il Flagello delle Bestie. Oppure un nome corto come il mio, come Alf o Jon!
Gabriella lo spinse per buttarlo giù dal letto, cogliendolo così alla sprovvista da riuscirci.
- Ahia, Gab, ma che male! Sono atterrato su quel sedere che ti piace tanto afferr…
Una cuscinata in faccia lo zittì. E lo fece anche ridere.
- Insomma, si può sapere che problema c’è? Mi sto interessando attivamente di nostro figlio, no? Nostro figlio. Io penso che sia una bella notizia. Devi farci l’abitudine, sì, però alla fine io di bambini ne volevo quindi…
Gabriella si sporse per zittirlo nell’unica maniera possibile: con un bacio. Si scostò apposta quando lui si mosse per avvicinarsi a lei e approfondire il contatto.
- Davvero, mi commuove che tu stia cercando il nome maschile per un bambino che potrebbe benissimo essere femmina, però, sai, ci sarebbero questioni leggermente più urgenti da trattare. Tipo, non so, il nostro matrimonio? Parlare con tuo padre?
Tyr rabbrividì. – Preferivo cercare nomi. Meglio Alf o Ulf?
Gabriella si scostò, sbuffando. – Sei un tale immaturo a volte.
Tyr si rialzò, pettinandosi, o meglio spettinandosi, i capelli già sparati in ogni direzione. – Vado ad organizzare tutto, tu rilassati e stai tranquilla. Lo stress non fa bene a mio figlio.
- O a nostra figlia… - sbottò Gabriella, al limite della sopportazione, cadendo di faccia nella trappola di Tyr. Per una volta, la stava davvero solo provocando.
- Preparati perché quando tornerò potresti doverti fidanzare.
Tyr si voltò, ma si fermò subito, con un piede già nello specchio, quando Gabriella lo richiamò.
- Che c’è? Qualcosa non va? O volevi solo un bacio d’arrivederci?
Gabriella inarcò un sopracciglio, prendendosi il tempo per guardarlo dalla testa ai piedi. – Sei nudo.
Tyr abbassò lo sguardo. – Oh.
- E poi, visto che non hai capito nulla di quello che ti ho detto prima, gradirei una dichiarazione come si deve, invece di vederti piombare qui questa notte o domani e mettermi un anello al dito come se mi stessi passando un asciugamano.
Tyr le fece l’occhiolino, si pettinò sul serio, e poi si inginocchiò davanti al suo letto.
- Perdona la mia mise, ma credo che questo sia il mio miglior completo, se posso permettermi di dirlo. E so che piace pure a te.
Gabriella si schiarì la voce, invitandolo a tagliare corto.
Tyr prese un respiro profondo. – Gabriella del Clan della Rete, abitante del Polo, candidata ad essere la futura ambasciatrice del sire Faruk, secondogenita di Pazientina, a sua volta secondogenita di…
- Tyr! – sibilò Gabriella, temendo che ripercorresse tutto l’albero Genealogico.
- Meraviglia delle arche, dolce, bella, intelligente donna, vuoi farmi l’onore di sposarmi?
Gabriella sospirò. – È stato pietoso, ma la parte finale ti ha salvato. Sì, Tyr, voglio sposarti.
Non poté fare a meno di sorridere quando Tyr le si avventò contro per baciarla, sulle labbra, sulle guance, sulla fronte, sul collo, facendola ridere per il solletico.
- Visto che sono ancora nudo… sarebbe un peccato non approfittarne, no?
A Gabriella mancò il fiato. Tyr era davvero troppo troppo troppo iperattivo.
- E poi ormai non rischiamo più che tu resti incinta, no? Non dobbiamo, sai… stare attenti…
Gabriella avrebbe voluto buttarlo di nuovo giù da letto. Lei non rischiava di rimanere incinta perché lo era già, dal momento che lui non era stato attento.
Però di fronte ai suoi occhioni chiari pieni di aspettativa, di amore, di venerazione nei suoi confronti, non poté fare a meno di stringerlo a sé, rotolando poi per mettersi sopra di lui.
Erano in un mare di guai, il loro futuro era incerto, una piccola parte di sé era terrorizzata, inerme, come una bambina spaurita e incapace di alzarsi da terra... Ma Tyr le teneva la mano, gliela stringeva con forza e dolcezza, e non si sarebbe mai allontanato da lei. La guardava come se fosse la prima vera stella che vedeva nella sua vita, e a lei non serviva altro per racimolare il coraggio e fronteggiare il domani.
Così chiuse gli occhi e si perse nel mare di stelle in cui Tyr la faceva sempre nuotare.
 
Ofelia si stava sistemando i riccioli ancora umidi nello studio di Thorn, accanto al caminetto acceso. Thorn era chino sulla sua scrivania a redigere il rapporto di caccia che il giorno successivo avrebbe consegnato all’intendenza. Era concentrato, stranamente rilassato, eppure Ofelia avvertiva su di sé il suo sguardo, di tanto in tanto.
Si sentiva arrossire come una ragazzina, e sperava che lui non se accorgesse. Dopo le cacce era come se Thorn indossasse, per poco tempo, un’altra pelle. Quella di un predatore, sicuro di sé, letale, preciso. Era… diverso. Ed era inebriante.
Quando il suo sguardo si fece decisamente insistente, Ofelia si voltò e si diresse da lui. Si appoggiò alla scrivania di fianco a lui senza guardarlo, allungando le dita per prendere il suo orologio da taschino. Thorn però glielo sfilò di mano con le lunghe dita pallide.
- Mancano trentadue minuti alla cena, se è questo che ti stavi chiedendo.
Ofelia fece una smorfia impercettibile. – Allora manca poco all’arrivo di Serena. Di solito arriva mezz’ora prima ed è precisa come solo tua figlia potrebbe essere.
Thorn parve non sentire nemmeno le sue parole. Le mise una mano, possessiva, sul fianco, e si allungò ancora di più verso di lei. Come se già non fosse abbastanza alto.
- Perché la cosa dovrebbe infastidirti? – le chiese, facendo audacemente scivolare la mano più in basso.
La porta si spalancò all’improvviso, facendo automaticamente allontanare Ofelia e Thorn. Allontanare così tanto che Ofelia finì per terra per lo spavento. La sciarpa si mise alla ricerca degli occhiali che le erano caduti mentre Thorn allungava una mano per aiutarla a tirarsi su, come se fosse una tazzina o un cucchiaino.
- Serena, si dovrebbe bussare – disse freddamente Thorn, facendo vibrare l’aria di un tipo diverso di elettricità, rispetto a quella che c’era stata fino a pochi secondi prima.
Serena aveva il fiatone, e Ofelia le si avvicinò di corsa quando la mise a fuoco e vide in che stato era: sconvolta. Serena era come Thorn, raramente lasciava trapelare le emozioni in quel modo. Il fatto che fosse tanto turbata la diceva lunga sul suo stato d’animo.
Ofelia le prese la mano tra le sue. – Tesoro, che succede? Stai bene? È successo qualcosa ad Archibald?
- Ti ha fatto qualcosa? – si intromise Thorn, con il solito tono da gendarme.
Un lampo di dolore passò negli occhi di Serena, affranta all’idea che il padre pensasse sempre il peggio del marito. Fortunatamente, svanì subito. Serena abbracciò Ofelia, cogliendola di sorpresa: la figlia era restia quanto Thorn alle effusioni. Erano così speculari l’uno all’altra, così simili… possibile che la frattura fra loro fosse così grande?
Ofelia ricambiò l’abbracciò cercando di non sentirsi piccola tra le braccia della gigantesca figlia. Anche se per lei, tutti i suoi figli erano giganteschi.
Quando si staccò, Ofelia vide che aveva gli occhi lucidi. Riprese la sua mano e gliela strinse, sorridendo tra le lacrime.
- Sono incinta. Diventerete nonni.
Il rumore della sedia che si spostava bruscamente fino a crollare per terra fece sussultare entrambe. Thorn era chino sulla scrivania, vi si appoggiava con le braccia come per non perdere l’equilibrio. Una scena brutalmente familiare che fece accostare ancora di più madre e figlia.
- Dov’è Archibald?
Serena impiegò qualche secondo a recuperare la parola. Aveva la voce rotta. – In salotto. Volevo darvi io la notizia, personalmente. Abbiamo pensato che… fosse meglio così. Oh, Archibald vi fa le congratulazioni, dice che sta preparando lo champagne per brindare e… - le lacrime la sopraffecero, impedendole di continuare. – Pensavo che sareste stati felici di diventare nonni.
Ofelia le sorrise incoraggiante, commuovendosi anche lei. Le baciò la mano che stringeva tra le sue. – Certo che siamo felici, Serena. È… è una notizia meravigliosa. Io non…
Le parole di Ofelia vennero meno, come sempre quando era così piena di emozioni da non riuscire a tradurle in parole. Anche Serena le sorrise per farle capire che comprendeva. E per ringraziarla della solidarietà.
Nessuna delle due si accorse della presenza di Thorn finché lui non si chinò su Serena, abbracciandola impacciatamente. Lei fu così presa alla sprovvista da sospirare di paura.
Fu la scena più ambigua che Ofelia vide da diversi anni a quella parte, con Thorn che stringeva rigidamente Serena a sé e lei che se ne stava immobile, inflessibile come un palo, con una mano stretta in quella di Ofelia.
Però poi Serena si sciolse, ricominciò a piangere, si godette l’abbraccio di Thorn. Un abbraccio che aveva atteso per tre lunghi, lunghissimi anni. Un abbraccio che non si era resa conto le fosse mancato così tanto.
Una scena ambigua, sì, ma non così estranea a Ofelia, che sorrise e si asciugò le lacrime con la mano libera.
Era una scena già vista, una scena agognata. Il finale che si era aspettata anche lei tre anni prima, ma che infine, con un po’ di ritardo, era arrivato. Vittoria non aveva sbagliato, non aveva infierito. Le aveva dato una speranza che purtroppo Ofelia aveva lasciato avvizzire nel cassetto del suo comodino, dove riposava, dimenticato, il disegno della cugina.
Il disegno che finalmente si era avverato.
Thorn si scostò e rapidamente si levò una lacrima ribelle dall’angolo dell’occhio: niente poteva sfuggire al suo controllo serrato. Però gli occhi arrossati non mentivano
- Spero che quell’imbecille di tuo marito sappia ciò che fa.
- Papà! – lo redarguì Serena, che però si mise a ridere per l’assurdità della cosa e per la tensione accumulata.
- In ogni caso, io sarò presente. Ho una discreta esperienza in fatto di bambini. Anche un po’ di più.
Ofelia batté le palpebre come se non riuscisse a metterlo bene a fuoco. – Saremo presenti, vorrai dire.
Chi avrebbe mai detto che sarebbe servito un bambino per sistemare le cose tra padre e figlia? Tra nonno e madre, nel giro di pochi mesi.
- Di quanto sei? Quando l’hai scoperto? – chiese Ofelia, facendo una smorfia quando si rese conto che anche lei aveva preso da Thorn.
- Quattro mesi. Volevamo essere sicuri che fosse tutto regolare prima di dirvelo. Lo cercavamo da tanto.
La bocca di Thorn ebbe un guizzo quasi involontario prima di riassumere la consueta linea rigida e impassibile. Forse il pensiero di sua figlia e Archibald che cercavano di avere un bambino non gli era proprio congeniale. In effetti, Thorn era solo contento all’idea di diventare nonno, non è che avesse all’improvviso iniziato ad amare Archibald.
- Lui come l’ha presa?
Serena sospirò. – Archibald? È più felice di me. Fosse stato per lui lo avremmo avuto subito, ma io volevo prima ambientarmi con il lavoro, il matrimonio e… tutte le novità. Non… sono stati anni facili, non volevo mettere al mondo un bambino in un contesto familiare disastrato.
Thorn sostenne il suo sguardo, alzando un sopracciglio quando si sentì sfidato dalle asserzioni di Serena.
Lei cercò la sua mano, stringendo tra le sue, guantate, quelle di entrambi i genitori. – Potete mettere via i dissapori, per favore? Penso che Archibald abbia ampiamente dimostrato che i suoi intenti sono più che seri.
Le labbra di Thorn ebbero di nuovo quel fremito difficilmente interpretabile. – Dal momento che non è ancora scappato dopo la notizia della gravidanza, posso concedergli un due percento di fiducia in più.
Serena alzò gli occhi al cielo, pensierosa. – Lui dice che almeno un venti percento è doveroso. E dice anche che Ofelia come nonna sarà deliziosa.
Thorn aggrottò la fronte così tanto da far quasi sparire la cicatrice sulla tempia, mentre la sciarpa di Ofelia strisciava pigramente sulle sue spalle.
- Non è il caso di allargarsi.
Serena ridacchiò, contenta di quell’accoglienza di gran lunga migliore di quella che si era aspettata.
Accoglienza che invece non sarebbe stata tanto buona per qualcun altro…
- Gabriella è incinta! – esclamò Tyr piombando nella stanza a piedi scalzi, con i capelli ancora umidi e la camicia fuori dai pantaloni, oltre che mal abbottonata.
Almeno i pantaloni erano allacciati…
- Chi?! – chiese Ofelia, trasecolata, mentre Thorn aggrottava le sopracciglia ancora di più.
Il suo viso pareva un foglio accartocciato su cui brillavano due sottili fessure di metallo.
- La figlia di Pazientina? La possibile futura ambasciatrice? – chiese invece, con un tono così gelido da far calare la temperatura nella stanza.
Tyr annuì, sconvolto. Non era stata la sua migliore entrata, ma una volta tornato in camera sua, dopo la doccia, lo aveva preso il panico.
- Perché dovrebbe interessare te? – lo incalzò Thorn, scandendo così lentamente ogni parola che ad Ofelia sembrarono macigni che le crollavano nello stomaco.
Aveva un brutto, bruttissimo presentimento…
Tyr parve colto alla sprovvista. Si passò la mano tra i capelli. – Be’, perché il figlio è mio…
Ofelia si portò una mano alla bocca, sconvolta. Sentì le gambe cedere e si aggrappò a Thorn per impedirsi di cadere… e per impedire a Thorn di commettere qualche azione inconsulta.
Serena era rigida, immobile, ma mai quanto Thorn che sembrava scolpito nel marmo. Ofelia aveva paura che al primo movimento che avesse fatto, si sarebbe crepato, rotto in mille pezzi.
- Com’è successo?
Tyr avvampò. – L-lo sapete come accadono queste cose, papà. Me lo avete spiegato voi!
Thorn strinse i pugni, contrariato. – Non era quello che intendevo – sibilò. – E comunque io ho spiegato a te e a tuo fratello anche la questione dei contraccettivi. Pensavo l’avessi capita!
Tyr si grattò la testa, a disagio. – Sì, l’avevo capita. Cioè, l’ho capita. Ma… sono cose che capitano, no?
Ofelia stentò a sentire la sua voce spezzata quando disse: - Ma non siete nemmeno fidanzati Tyr! Come hai potuto…
La vista della delusione di Ofelia fece crollare quel poco di spavalderia che Tyr ancora conservava. All’improvviso parve tornare bambino, un bambino che aveva combinato una marachella più grande di sé. Tyr il Terribile.
- M-mi dispiace, ma… ci sposeremo. Sistemeremo tutto!
- Non avresti nemmeno dovuto avvicinarti a una ragazza senza la nostra supervisione, Tyr! – sbottò Thorn, facendolo sussultare.
Per quanta paura incutesse, Thorn non alzava mai la voce. Era troppo controllato.
- B-be’… - balbettò lui, cercando di giustificarsi, scusarsi, redimersi. – Non è che Balder e Ilda siano stati poi così controllati in questi anni!
- Che cosa?! – esclamò Balder, entrando in quel momento con Ilda a braccetto, il cui sorriso raggiante si spense immediatamente.
Alle loro spalle, Renard doveva aver sentito la frase di Tyr, perché si frappose con forza tra la figlia e Balder.
- Vi sposerete e sistemerete tutto? – esclamò Serena, perdendo pure lei la pazienza, come il padre.
Ofelia si sentiva schiacciata da tutte quelle personalità notoriamente pacate che perdevano le staffe. Persino Balder sembrava sul punto di… esplodere, in qualche modo. Aveva le lenti degli occhiali rosse di rabbia
- Il papà mi ha fatto passare le pene dell’inferno per un solo, misero errore. Quindi scusami, Tyr, ma anche se sei mio fratello spero che verrai punito a dovere pure tu! – continuò imperterrita. Poi si voltò verso Thorn: - Mi avete sempre insegnato che non esistono due pesi e due misure!
Thorn serrò la mascella. – Verrà punito. Ma tu cosa ci fai qui, Balder?
Sorpreso di essere stato interpellato, Balder si allontanò da Renard, come se percepisse pure in lui la corrente elettrizzante degli artigli. – Intanto ci tengo a precisare che io e Ilda abbiamo osservato ogni regola del buon costume in tutti questi mesi. Nulla di sconveniente è…
- Di questo parleremo dopo, vieni al punto – lo interruppe Thorn.
Balder boccheggiò come se avesse ricevuto un pugno. – Visto che ci tenete così tanto a saperlo… - borbottò, con la voce che grondava sarcasmo. - Volevo annunciarvi il mio fidanzamento ufficiale con Ilda! – esclamò allungandosi nonostante Renard per prendere la mano di Ilda e mostrare a tutti l’anello.
- Congratulazioni! – mormorò Serena, già pentita della sua sfuriata, sorridendo sinceramente al fratello e all’amica.
Ilda riuscì a rispondere con un sorriso striminzito, prima di tornare ad incenerire Tyr con lo sguardo.
Thorn invece si premette le mani sulla fronte, visibilmente esausto. – Non è il momento Balder, non abbiamo bisogno di ulteriori problemi.
Balder sgranò gli occhi. – Problemi?! Il mio fidanzamento sarebbe un problema? Scusate, ma voi due che cosa fate qui?! – chiese alla volta dei fratelli.
- Io sono incinta – rispose Serena, appoggiandosi ad Archibald quando entrò di soppiatto nella stanza, forse temendo che gli animi si surriscaldassero.
- Anch’io – rispose Tyr, mordendosi un’unghia. – Cioè, ho messo incinta Gabriella.
Balder e Ilda spalcarono la bocca all’unisono mentre Renard si metteva le mani tra i capelli.
- Gabriella?! Ma non mi avevi detto che non c’era nulla tra voi?
Tyr assunse un’aria colpevole e alzò le mani come se chiedesse pietà, non sapendo più a chi appellarsi.
Balder si accigliò. – Scusate, io qui sono l’unico che fa le cose come si deve e vengo definito un problema? Tyr ha… disonorato sé stesso, Gabriella e la famiglia, Serena è incinta di un uomo che voi odiate, papà, senza offesa Serena, e noi siamo il problema?
- Io però le cose le ho fatte come si deve. Almeno al settanta percento – brontolò Serena, che venne inglobata dall’abbraccio comprensivo di Archibald.
Thorn stava per perdere le staffe, era così evidente che Ofelia fece un passo indietro per via della corrente che gli scorreva sotto pelle. Gli strinse il braccio per cercare di calmarlo, ma la cosa non sortì alcun effetto.
- Mi sono espresso male – ringhiò Thorn. – Permetterai che mi esprima male, quando ci sono dei veri problemi da risolvere.
Ofelia scosse la testa. – Congratulazioni ragazzi, siamo davvero felici per voi.
Ilda inarcò un sopracciglio, mettendo in dubbio le sue parole dato il clima eufemisticamente teso dello studio.
Ofelia si parò davanti a Thorn temendo che la situazione potesse sfuggire di mano. – Perché non ne discutiamo a cena? Festeggiando, ovviamente, per la gravidanza di Serena e il fidanzamento di Balder e Ilda!
- Che coraggio, ragazzo… - mormorò Renard, che si allontanò leggermente di fronte allo sguardo pericoloso di Thorn.
- Hai davvero detto festegg… - intervenne infatti lui, minaccioso.
Lo interruppe Vittoria, che si infilò tra Renard e Balder con nonchalance, seguita da un preoccupato Tom, e si diresse verso Serena senza degnare nessuno di un’occhiata.
- Ti stavo aspettando, cugina – disse con quella sua voce dolce ed eterea, impalpabile.
Serena le sorrise, un po’ preoccupata però per la comparsa improvvisa di Vittoria. E incuriosita. – Mi stavi aspettando?
Vittoria sorrise guardando qualcosa al di là di lei, al di là di tutti loro. Le toccò la pancia e Serena lottò per non sottrarsi a quel contatto, poco avvezza com’era ad essere toccata.
- Perché rimanessimo incinte insieme. Le nostre bambine nasceranno tra cinque mesi e mezzo.
A Balder andò di traverso la saliva, e iniziò a tossire così forte che Renard dovette dargli delle pacche fin troppo energiche sulla schiena.
- C’è qualcuna che non è incinta, qui? – domandò quasi sovrappensiero il gigante dai capelli rossi e bianchi, scosso da ciò che stava succedendo.
Senza distogliere gli occhi da Vittoria e Serena, Ilda alzò la mano in risposta.
- Le nostre bambine? – chiese pacatamente Serena, sapendo come interagire con Vittoria per riuscire a cavarle di bocca una conversazione sensata.
Vittoria sorrise. – Sì, la mia Bernadette e le tue gemelle.
Archibald incespicò ed ebbe un mancamento quando udì quelle parole. Thorn gli lanciò un’occhiata di bruciante e tagliente ghiaccio quando lo vide sbiancare, come a sfidarlo di lasciare sua figlia. Avrebbe visto quali sarebbero state le conseguenze…
- E io? – pensò poco opportunamente di intervenire Tyr, curioso anche lui di sapere.
- Un maschio. Fra sette mesi – rispose seraficamente Vittoria, come se non fosse piombata lì all’improvviso e non stesse profetizzando tutte le nascite dei mesi successivi.
Tyr lanciò un pugno in aria, gioioso come se non fosse sua la causa di quel delirio all’interno della biblioteca che suo padre usava come studio.
Vittoria lo ignorò e si girò verso Ilda, che si irrigidì e cercò di nascondersi dietro Balder.
- Il tuo turno sarà tra un anno e mezzo, Ilda.
E questa volta, nessuno poté impedire a Renard di svenire.
Né a Balder di soffocarsi.

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Capitolo 77
*** Capitolo 77 ***


Buona domenica!!!
Siamo ufficialmente a meno due capitoli dalla fine! Per metà novembre in pratica, Ingranaggi sarà concluso. Non ci posso credere, davvero, mi dà una stranissima sensazione. E' da anni che questa ff mi tiene compagnia.
Spero come sempre che il capitolo possa piacervi e possa strapparvi una, o anche due risate xD


Capitolo 77

La cena che seguì gli annunci fu in assoluto una delle più bizzarre da quando Ofelia e Thorn si erano sposati, il che era tutto dire.
Anziché parlare di quanto fosse stata fruttuosa la caccia e geniale la tattica adoperata, la conversazione verté su tutt’altro: matrimoni e gravidanze.
La zia Roseline fu gentilmente accompagnata a tavola da Ofelia, dopo una strigliata storica a Tyr che durò per ben ventisette minuti. Ofelia non aveva saputo se ridere o piangere di fronte allo sguardo colpevole di Tyr, che sembrava essere tornato un bambino sotto i colpi verbali della zia Roseline, tutta similitudini animiste e delusione. Non che lei e Thorn fossero molto più contenti della zia, a quella notizia. Una gravidanza al di fuori del matrimonio era grave, molto grave. Tyr rifuggiva sempre il loro sguardo, sapendo di aver combinato la più grossa sciocchezza della sua vita. E di aver ampiamente tradito la fiducia dei genitori.
Renard si era seduto tra Ilda e Balder, tenendo lontani i novelli fidanzati come se temesse che Ilda potesse rimanere incinta con il loro sfioramento delle mani. Gaela continuava ad alzare gli occhi al cielo, minimizzando. Balder, se possibile, era ancora più infelice di Tyr: dopo anni finalmente riusciva a fidanzarsi con Ilda e la notizia e la gioia che ne sarebbero dovute conseguire venivano annacquate dalla rivelazione di Serena, molto più eclatante, e da quella ancora più sconvolgente di Tyr.
Non faceva che borbottare come una teiera, assomigliando più che mai alla zia Roseline, che faceva lo stesso fissando trucemente Tyr.
Berenilde non aveva tempo di dare consigli al nipote circa la questione del matrimonio riparatore, impegnata com’era a tergersi le lacrime. Era praticamente stata l’ultima a scoprire della gravidanza di Vittoria, ma stranamente non si era offesa. La felicità di diventare nonna era per lei troppo grande, tanto che non faceva che istruire Vittoria come se dovesse partorire entro poche ore, continuando ad accarezzarle i capelli e la pancia. Si congratulò così tanto con Tom da metterlo addirittura a disagio. La sua esaltazione era seconda solo a quella delle gemelle, che non facevano che porre domande alla sorella maggiore e a Tyr, al settimo cielo all’idea di diventare zie e di conoscere Gabriella.
Ad Ofelia vedere le figlie e Berenilde così serene scaldò il cuore. Ricordava ancora quando Berenilde l’aveva messa a parte della sofferenza che serbava nel cuore, nel profondo, la solitudine e lo straziante dolore per aver perso i suoi bambini. Un dolore che, Ofelia lo sapeva bene, non se ne sarebbe mai andato. Capiva quanto quella notizia significasse per Berenilde, una donna il cui più grande desiderio era stato quello di diventare mamma. Con Vittoria c’era riuscita, l’aveva cresciuta personalmente, senza affidarla ad altri o mandarla lontano. L’aveva vista innamorarsi e sposarsi. E presto avrebbe stretto in grembo il suo nipotino. Ofelia era così contenta per lei!
E quella sensazione luminosa la riportava sempre a lei… e a Thorn. Stavano per diventare nonni anche loro.
Lei, nonna. Di tre nipoti in un colpo solo, e quattro nel giro di altri due anni. Anzi, meno, stando alle parole di Vittoria. Avrebbero avuto di nuovo la casa piena di bambini. Fissando il tavolo, tra sguardi rabbuiati e lucidi di emozione, si rese conto che la sua era davvero una famiglia animista, piena di caos, di legami, di persone, di bambini. Lei aveva sempre amato i suoi parenti, il senso di comunità, anche se a volte lo aveva percepito come un po’… opprimente. Non le era più mancato quel senso di appartenenza, quando lei e Thorn avevano allargato la famiglia. Solo ora si rendeva conto che il suo cuore si era alleggerito. Non se n’era mai resa conto, non consciamente, ma aveva iniziato a preoccuparsi man mano che i suoi figli crescevano.
Era giusto che si innamorassero, sposassero, che vivessero le loro vite, era ciò che voleva per loro, ma aveva anche paura di essere… lasciata indietro.
Si diede della sciocca guardando la tavolata. Serena le stava già lanciando occhiate, ansiosa di parlare con lei, di chiederle consiglio. Lo intuiva senza bisogno che la figlia le chiedesse nulla. Tyr era così nervoso che la sua sciarpa non la smetteva di buttare per terra fette di pane, e le posate e i piatti nel suo raggio d’azione si stavano allontanando sempre di più, tremando. Balder ogni tanto la guardava esasperato, forse alla ricerca di un’alleata o di un po’ di conforto in quella bolgia.
Era felice all’idea di diventare nonna. Estatica addirittura.
Il senso materno, il desiderio di diventare madre si era fatto strada in lei poco alla volta, in modo leggero, quasi nascosto, come il sentimento che aveva nutrito per Thorn senza capirlo. Al contrario, la voglia di diventare nonna non si era mai palesata: era esplosa nel momento stesso in cui le avevano detto che lo sarebbe diventata.
Guardò Thorn, ma come al solito non riuscì ad interpretare la sua espressione. A giudicare da quella di Archibald, invece, che sembrava avere un’emicrania a causa del troppo pensare di Serena, forse era un bene per Ofelia non sapere nulla di quello su cui Thorn stava rimuginando. Troppe, troppe questioni, suppose notando le rughe di preoccupazione sulla sua fronte, lo sguardo accigliato, la mascella tesa e le nocche sbiancate delle sue mani strette a pugno. Non aveva toccato cibo.
Quando aprì la bocca, fu per ordinare a Tyr di chiedere in sposa Gabriella entro l’indomani e parlare con la sua famiglia. Il matrimonio si sarebbe tenuto dopo tre giorni.
Tyr accolse con un sospiro la notizia, come se fosse sollevato, come se avesse temuto di non poter sposare Gabriella. Al tempo stesso, parve anche preoccupato. Quando poi Thorn gli disse che lui e Gabriella sarebbero andati a vivere in un castello, come Serena, sbiancò. Si sentiva cacciato. Aprì più volte la bocca per parlare, ma poi la richiuse. Quando incontrò lo sguardo quasi comprensivo di Serena, parve afflosciarsi.
- Sì, papà – rispose solo, perdendo l’appetito anche lui.
Poteva non sembrare, ma Tyr era il più devoto alla famiglia tra tutti loro. Tra la venerazione per il fratello maggiore, l’ammirazione per Serena e l’istinto protettivo verso le gemelle, Ofelia sapeva che un allontanamento da quella casa sarebbe stato un duro colpo per lui. Era anche quello che passava più tempo con la zia Roseline, la maggior parte delle volte a bisticciare, ma Ofelia aveva visto come si cercavano quando stavano troppe ore senza parlare o beccarsi. Era il pupillo di Berenilde e andava d’accordo con Tom, in più aveva un cameratismo tutto suo con Renard. Dargli un castello vuoto in cui vivere solo con Gabriella sarebbe stato come sottrargli una parte di sé. Nonostante le sue azioni imperdonabili, Ofelia sapeva che andava punito. A consolarla c’era solo la consapevolezza che presto avrebbe avuto una sua famiglia a cui badare.
Lui aveva decisamente ereditato il senso di comunità tipico di Anima, era spaesato senza amici e parenti al fianco.
- Non hai nulla da ridire? – chiese Thorn quella sera ad Ofelia, quando furono finalmente in camera da soli.
Lei si impigliò nella camicia da notte, rendendo difficoltosa la risposta. Non si vergognò nemmeno quando sentì le lunghe e abili dita di Thorn farsi largo tra bottoni, capelli e stoffa per aiutarla. Ormai aveva perso il conto delle volte in cui, per un motivo o per l’altro, l’aveva aiutata a vestirsi. O le aveva impedito di uscire con i vestiti al rovescio.
- Da ridire su cosa?
- Su Tyr. Sul castello. È stato un pomeriggio intenso e siamo appena tornati da una caccia. Decisamente, la giornata più densa di avvenimenti da quando ci siamo sposati, tra il matrimonio, la tua lettura del libro di Faruk e la mia riabilitazione.
Ofelia accarezzò la sciarpa aiutandola a scivolare sul comodino, prima di mettersi a letto. – Sapevo che l’avresti fatto. Che l’avresti allontanato. Se non altro per il tuo senso di giustizia. Non potevi punire Serena e non punire Tyr.
Thorn parve riflettere sulle sue parole. Se era sorpreso da quanto bene Ofelia lo conoscesse, non lo diede a vedere. – A livello di gravità, Tyr ha fatto peggio di Serena.
Ofelia sgranò ostentatamente gli occhi. – Dici davvero? Mettere incinta una ragazza con cui non è nemmeno fidanzato a diciotto anni è peggio che sposare regolarmente un uomo dopo aver chiesto anche la benedizione del proprio padre?
Thorn aggottò così tanto la fronte da far accartocciare persino il viso. – Stai facendo del sarcasmo?
Ofelia alzò gli occhi al cielo. – Direi che Serena non è stata corretta, ma Tyr ha proprio sbagliato. Sono abbastanza delusa da lui, a dire il vero. E preoccupata per Gabriella. Non deve essere facile passare la notte da sola senza sapere ciò che abbiamo detto a Tyr.
Thorn si fece più immobile del solito. – Qualcuno ha provveduto a togliere lo specchio da camera sua?
Ofelia si strinse nelle spalle. – Ormai è incinta, se anche gli impedissimo di vederla non cambierebbe nulla.
Thorn sistemò impeccabilmente il comodino prima di raggiungere Ofelia sotto le coperte e stringerla a sé.
- Pensi che sia troppo blanda la punizione di Tyr?
- Penso che sia adeguata, per lui. Dovrà in un certo senso cavarsela da solo, anche se avrà a disposizione un castello. Spero che la cosa lo aiuti a maturare un po’.
Ofelia si strinse ancora di più a Thorn quando sentì le sue labbra tra i capelli. – Tu potresti ancora avere un altro figlio.
L’affermazione colse Ofelia così di sorpresa che diede una testata al mento di Thorn. Lui non grugnì nemmeno.
- Stiamo per diventare nonni di tre nipoti, quattro bambini se includiamo anche la gravidanza di Vittoria. Non credo che avere un figlio ora sia un’ottima idea. Per non parlare del fatto che non ne ho né la forza, né la voglia.
Ofelia si zittì di colpo quando si rese conto della vera implicazione delle parole di Thorn. – Vorresti un altro figlio?
- No – fa la sua laconica risposta.
Ma non era tutto, Ofelia lo percepiva. Così gli accarezzò una mano e aspettò.
- Solo che… è una cosa un po’… insomma, i nostri figli che hanno dei figli. È strano.
Ofelia non pensava che la parola “strano” rientrasse nel vocabolario di Thorn. Per lui era sì o no, nella matematica non c’era posto per stranezze, dubbi o ambiguità.
Avrebbe voluto dirgli che diventare nonni era naturale, ma conosceva Thorn. Si meravigliava, a dire il vero, di dove fossero arrivati, vista la loro partenza. Thorn non voleva nemmeno figli all’inizio, o marmocchi, come li aveva chiamati. E invece ne avevano cinque, che sarebbero stati sei in altre circostanze. E stavano per diventare nonni di tre bambini, non di uno.
In un certo senso, capiva ciò che Thorn voleva dirle. Si girò verso di lui, premendo la testa sul suo petto.
- Sei contento di diventare nonno?
Thorn esitò, ma la sua risposta fu sicura. – Sì. Lo sono. Ma non so come fare.
Ofelia gli baciò una cicatrice profonda sulla spalla. – Come hai fatto a diventare padre. Essere nonni verrà ancora più naturale. Sarà facile.
- Come può essere facile?
- Noi saremo i nonni, non i genitori. Quei bambini non saranno una nostra responsabilità. Noi dovremo solo dar loro amore come abbiamo fatto con i nostri figli. A me sembra più facile.
Thorn grugnì. Dare amore non era esattamente un concetto scientifico o misurabile, ma Ofelia sapeva che aveva afferrato il punto.
Poi Thorn si irrigidì. – Ci sarà ancora più confusione con i poteri. E ancora più animismo.
Ofelia ridacchiò di fronte alla palese paura di Thorn. – Non sei curioso di vedere a chi assomiglieranno, o che dono avranno?
- …no – mormorò Thorn.
La sua risposta era così incerta che Ofelia dovette soffocare una risata. Quando stava per diventare padre aveva avuto dei momenti di incertezza e di paura, ma non pensava che il problema si sarebbe ripresentato in veste di nonno.
- Sei riuscito a farti amare dai tuoi figli. Farti amare dai nipoti sarà ancora meglio.
- Perché?
- Perché a sgridarli ed educarli penseranno i genitori. Noi li vizieremo.
Ofelia sapeva, persino al buio, che Thorn aveva la fronte increspata e le labbra strette in una linea sottile.
- In una società, il vizio non…
Ofelia lo zittì con un bacio, cercando di non sbuffare o mettersi a ridere. Quando Thorn rispose e le serrò le mani sul fondo schiena, però, perse ogni traccia di divertimento.
- Perché non vizi un po’ me questa notte, nonno? – gli chiese.
Come se fosse di nuovo impegnato a dar la caccia alle Bestie, Thorn divenne un predatore. Non si fece ripetere due volte l’invito di Ofelia. In effetti, la caccia aveva anche i suoi lati positivi…
E Thorn capì che viziarsi e viziare non era poi così male come credeva. Anche un po’ di più.
 
Tre giorni dopo celebrarono il matrimonio di Tyr e Gabriella, provata ma felice. All'intima e spartana cerimonia parteciparono solo i familiari di Tyr e la famiglia di Renold, e già di per sé erano un bel gruppo. Nessun membro della Rete però si prese il disturbo di essere presente, e quell'atteggiamento fece venire la nausea ad Ofelia.
Il giorno dopo l'annuncio di Tyr, lui e Gabriella erano andati a parlare con Pazientina, la madre di Gabriella, con Archibald come spalla. Oltre che scandalizzata e tradita, si era mostrata completamente priva di istinto materno. A quanto pareva gli interessi della famiglia dovevano essere messi al di sopra di qualsiasi cosa, persino dell'amore della figlia per qualcuno di esterno.
Con orrore e delusione di Archibald, Pazientina si era consultata brevemente con gli altri di fronte alla figlia, in lacrime di fronte a lei, e avevano decretato all'unisono che per lavare l'onta che sarebbe derivata da quell'unione e da quella nascita avrebbero reciso il collegamento mentale con Gabriella. Proprio come avevano fatto con Archibald.
Per quanto la sua famiglia non le piacesse, per Gabriella era stato un duro colpo. Tyr aveva dovuto sostenerla per evitare che crollasse, mentre lei si proteggeva la pancia. Archibald si era fatto avanti mentre il fratello maggiore di Gabriella fissava la madre con sbalordimento. A quanto pareva, l'unanimità di quella decisione era alquanto discutibile.
- Pazientina, lo sai che la recisione è una pratica che potrebbe comportare la morte - era intervenuto Archibald in difesa di Gabriella.
Oltre all'affetto che provava per lei nei panni di zio, Gabriella era stata la testimone al suo matrimonio, l'unica che non l'avesse mai trattato diversamente nonostante non fosse più mentalmente collegato agli altri. Non era la sua nipote preferita, in un certo senso era la sua unica nipote. E ci sarebbe sempre stato per lei.
Pazientina lo aveva guardato con disprezzo. Dopo la sua recisione i rapporti con chiunque si erano raffreddati, anche se Archibald aveva continuato ad essere considerato un membro della Rete e ad avere incarichi di prestigio. Ma la vera rottura con la sua famiglia c'era stata quando aveva sposato Serena. Potevano tollerare che non condividesse più pensieri e segreti con gli altri, ma non che si imparentasse con i Draghi. Eppure le sue sorelle avevano sempre ammirato Berenilde. A lungo andare, quell'atteggiamento ipocrita aveva finito per logorare Archibald, e quell'ultima decisione era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
- Se sei sopravvissuto tu, non vedo perché non debba sopravvivere anche lei.
- È incinta, Pazientina! Porta in grembo tuo nipote. Io sono sopravvissuto per caso, non per prassi. Rischieresti davvero di uccidere tua figlia e tuo nipote solo per punirla?
Lo sguardo di Pazientina si era indurito ancora di più. - La colpa non è mia, Archibald. È lei che si è voluta mescolare con... con...
Tyr aveva sbuffato ostilmente, facendole capire che non era il caso di esagerare con le parole nei confronti di un Drago.
Lei si era zittita, ma solo per cambiare argomento. - Questa sera ci sarà l'esecuzione. Buon per lei se sopravviverà.
- Non ti riconosco più - mormorò Archibald, disgustato.
Pazientina lo aveva guardato quasi con nostalgia prima di andarsene. - Nemmeno io.
Sia Tyr che Archibald avevano abbracciato Gabriella quando si era messa a piangere, una volta soli. Senza chiedere il permesso a nessuno, l'avevano portata a casa di Tyr, dove la zia Roseline l'aveva sgridata per la sua incoscienza e immoralità. Quando però aveva visto gli occhi gonfi e rossi della ragazza, il suo dolore evidente nelle spalle curve, aveva sospirato e le aveva portato un tè caldo, alternando in borbottii sommessi insulti animisti e parole di rassicurazione. Stranamente, Gabriella si era calmata.
Aveva conosciuto formalmente Ofelia, Balder e Ilda nella veste di futura, anzi, prossima parente.
- Ho sempre desiderato fare la vostra conoscenza, anche se ovviamente avrei voluto che le circostanze fossero diverse - aveva ammesso quando aveva stretto la mano guantata di Ofelia.
Non si era scusata per le sue azioni, non aveva cercato giustificazioni. Era consapevole di ciò che aveva fatto, e Ofelia aveva capito che non era pentita. Sarebbe stata pronto a rifarlo. Per quanto condannasse ciò che lei e Tyr avevano fatto, non poteva che provare simpatia per quella ragazza. Nemmeno lei si era mai pentita di ciò che aveva fatto, per quanto a volte il risultato delle sue azioni fosse stato a dir poco dubbio.
- Starai da noi fino al matrimonio - aveva sentenziato Archibald. - Non c'è modo per impedire una recisione, purtroppo. Basta che ogni membro della Rete sia presente, e quando si ha un collegamento mentale, non importa il luogo in cui ci si trova.
Quella notte Tyr aveva ottenuto il permesso speciale di stare con Gabriella a casa di Archibald e Serena. L’aveva abbracciata tutto il tempo, premendola forte contro di sé, come a volerle fare da scudo con il suo corpo. Aveva premuto le labbra contro i suoi capelli quando Gabriella aveva urlato, si era stretta la testa tra le mani e poi era svenuta. Aveva vegliato su di lei tutta la notte.
Aveva pianto con lei quando la mattina si era svegliata, dolorante, abbattuta, catatonica, ma viva. Le aveva baciato via le lacrime dal volto e aveva cercato di farla ridere, o anche solo sorridere, ma senza risultato. L'aveva praticamente imboccata quando lei, inappetente, aveva rifiutato sia la colazione che il pranzo.
La notte prima del matrimonio, che avrebbe dovuto passare in camera con Balder perché lo tenesse sotto controllo, aveva pregato il fratello di coprirlo, solo per quella volta. Balder aveva alzato gli occhi al cielo ma lo aveva lasciato andare, e Tyr aveva passato la notte a stringere Gabriella tra le braccia. Si era addormentato solo quando anche lei era riuscita a prendere sonno, finalmente.
La mattina Tyr era stato svegliato da un bacio di Gabriella, poi da un altro, e un altro ancora. Aveva pensato di sognare quando aveva visto la fidanzata sorridergli, offrendogli una vista limpida di quegli occhi azzurro cielo.
- Voglio svegliarmi così ogni giorno - aveva mormorato contro la sua guancia, facendola sorridere.
- Da domani sarà così. Per molto tempo. Non so se te ne sei accorto, ma sono abbastanza difficile da uccidere - aveva scherzato lei, con una punta di dolore nella voce.
Tyr l'aveva baciata per distrarla, peccato che avessero finito entrambi per farsi prendere un po' troppo dal bacio. Tyr aveva lasciato vagare le mani sul corpo di Gabriella finché non si erano fermate sul suo seno. - Quand'è che cominciano a crescere, queste?
Gabriella lo aveva spinto giù dal letto. - Vai a cambiarti, se non vuoi che mi rifiuti di sposarti.
Tyr le aveva lanciato un sorriso che avrebbe dovuto essere condannato da un tribunale, e lei aveva fatto di tutto per non baciarlo di nuovo. - Sul serio, vai.
- Dammi un bacio prima. Tra poco sarò tuo marito, Gab.
Lei aveva alzato gli occhi al cielo e gli aveva dato un bacio casto, onde evitare di ricadere di nuovo sul letto insieme a lui.
Quando era sbucato dallo specchio in camera sua, Tyr si era ritrovato davanti un Balder furente.
- La mamma pensa che tu sia in bagno con il mal di pancia. Sappi che non ti coprirò mai più.
Tyr gli aveva scoccato un sorriso misto di scuse e ringraziamento. - Dov'è ora la mamma?
- A prendere dalla governante quell'intruglio per il mal di pancia.
- Ma fa vomitare quella roba! Letteralmente!
- Potevi pensarci prima di chiedermi di fare da palo. Ti meriteresti ben altro. Qui sono l'unico che rispetta le regole e l'unico che se la prende sempre sui denti.
Tyr gli aveva tirato un pugno amichevole sulla spalla. - Sei l'eroe di tutti.
- Sì, sì, va bene. Ora vai a cambiarti, sposo.
Balder non l'avrebbe mai ammesso, ma quel commento, detto dalla persona più sincera che conoscesse, lo aveva fatto quasi arrossire. Di Tyr si potevano dire tante cose, ma di sicuro non che fosse un bugiardo o un gran elargitore di complimenti.
Quando furono tutti vestiti e pronti per uscire, Ofelia si prese del tempo per ammirare i suoi tre uomini. Thorn indossava la divisa da intendente elegante, quella riservata alle occasioni ufficiali, con le spalline dorate lucide e i bottoni splendenti. Teneva in mano il suo orologio da taschino come se gli stesse comunicando qualcosa di fondamentale. Balder e Tyr indossavano una redingote molto simile, che si differenziava solo per alcuni dettagli di quella di Tyr, che lo rendeva più elegante. Non era stato facile trovare un abito da poso in due giorni, ma il risultato era comunque molto piacevole. Tra l'altezza e i muscoli, padre e figli insieme erano davvero belli da vedere. Persino le cicatrici sul volto di Thorn sembravano acquisire un certo fascino. Dovette pensarlo persino Ilda, perché quando li raggiunse nel salone insieme al fratello e ai genitori si ritrovò ad arrossire senza motivo. O forse il motivo era Balder, che da solo calamitava l'occhio di chiunque.
Quando Archibald si unì a loro a braccetto con Serena, Ofelia lo sentì mormorare alla moglie: - Se non fossi un animo puro, sarei invidioso dell'avvenenza di tuo fratello. Non è concesso essere così attraenti.
Serena non gli diede nemmeno retta, ma la bocca le si incurvò in un sorriso prima che lei riuscisse a trattenerlo.
Gabriella pianse per tutta la cerimonia. E anche dopo, quando abbracciò i nuovi parenti, commossa dal loro benvenuto.
- Sono gli ormoni, solo quelli - continuava a ripetere.
Ma da come Tyr le stringeva la mano, senza mai lasciarla, Ofelia capì che dietro c'era altro, c'era di più. Gabriella non era solo felice di aver sposato Tyr, ma anche di essere diventata parte della loro famiglia.
Il ricevimento si tenne nel castello dei due novelli sposi. A quanto pareva Tyr aveva omesso di dire alla moglie dove avrebbero vissuto, e scoprirlo con la casa piena di gente che sapeva meglio di lei come muoversi non era un ottimo modo di iniziare il matrimonio.
- Che padrona di casa sono se non so nemmeno dove sono le stanze? - sibilò lei a Tyr, che come al solito non prestava attenzione a certi dettagli.
- Per quello c'è tempo! Per ora ti basta sapere dove sono camera da letto e gabinetto. O, c'è anche una bibliot...
Fu così che scoprirono che Gabriella aveva ereditato gli artigli in seguito alla Cerimonia del Dono che si era tenuta qualche ora prima. Tyr barcollò, spinto dall'irritazione della moglie. Non era il caso di stuzzicare una donna incinta che aveva passato tre giorni pessimi. Tyr si mise a ridere di gusto quando atterrò sul sedere, spiazzando tutti. Poi si fece serio, toccandosi la fronte, e infine lanciò a Gabriella un sorrisetto compiaciuto.
- Almeno ora, mia cara moglie, non potrò più chiedermi cosa ti passa per la testa. Sento forte e chiaro quanto sei arrabbiata.
Archibald fu il primo a dar voce al dubbio generale. - Buona fortuna, nipote. Condividere la mente con uno Storiografo non è affatto divertente, te lo assicuro.
Gabriella fece una smorfia.
- Gabriella ha ereditato gli artigli e Tyr la connessione con la sua mente? - chiese Ofelia per conferma, incuriosita.
- A quanto pare sì, suocera. E se non mi sbaglio, Gabriella avrà di sicuro ereditato anche il vostro animismo - le rispose Archibald sogghignando, facendo fremere il tappeto ai suoi piedi.
A quanto pareva l'animismo veniva ereditato sempre in una di quelle cerimonie del Dono. Del resto, era una prerogativa di ogni animista, tutti ce l’avevano. E a quanto pareva, Archibald era incredibilmente bravo a farsi amare dagli oggetti. Di sicuro più che dagli uomini, a giudicare dallo sguardo irritato che gli lanciò Thorn.
Tyr si alzò e prese Gabriella per mano. - Vorrà dire che l'anno prossimo avremo un'altra partecipante alla caccia.
Le gemelle schizzarono ad abbracciare la nuova cognata. - Sì, ti prego Gabriella, ci divertiremo tanto.
Vincendo l'iniziale esitazione, e soprattutto il nervosismo, Gabriella sorride alle ragazze, alte quanto lei. - Se ci siete voi, volentieri - rispose.
Aveva una miriade di cugine e un fratello maggiore, ma Gabriella non si era mai sentita davvero parte della sua famiglia. Avevano interessi troppo diversi, mentalità in conflitto. Guardando quelle persone con un'accozzaglia di poteri familiari diversi, che le sorridevano con calore come se fosse parte del loro gruppo da quando era nata, Gabriella sentì finalmente di aver trovato il suo posto. Sorrise a Tyr, che betté le palpebre stranito e poi rispose al suo sorriso.
Questa è la tua famiglia ora, le sussurrò nella mente.
Devo ammettere che è stata un bell'acquisto, in effetti.
Non ero io, il bell'acquisto?
Gabriella schermò i suoi pensieri in modo da non fargli sentire che era divertita. Al contrario, lui doveva ancora prendere la mano con quel potere, e lei poteva sentire qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Io ti ho notato per la prima volta perché eri carino, ma mi sono interessato a te solo per la tua famiglia.
Il sorriso di Tyr vacillò, e Gabriella fece di tutto per non mettersi a ridere.
Allora vai a vivere con mia mamma e mio papà, dai.
Ma se non riesci a starmi lontano nemmeno una notte!, lo prese in giro Gabriella.
Archibald si schiarì la voce. - A questo proposito, magari potete imparare a controllare il vostro potere in un altro momento? Non è molto consigliato testarlo di fronte ad un pubblico numeroso. Spesso ci si confonde e si rischia di rivelare ad alta voce informazioni che si vorrebbero mantenere... private. Anche se devo ammettere che sarebbe divertente vedere Tyr in difficoltà.
Tyr gli lanciò un'occhiata mortificata, come se non fosse abituato ad avere tutti contro. Cosa che, in realtà, per lui era normale.
- Trattate bene mia nipote - gli intimò scherzosamente, ma con una vena minacciosa nel tono.
Thorn non riuscì a trattenere un grugnito, squadrando Archibald con malcelata ostilità. Come se volesse rivolgergli lo stesso ammonimento, ma nei confronti della figlia.
- Aspettate - intervenne Tom, confuso. - Ma ora... Serena è la zia di Tyr? E... ed è la zia della sua stessa cognata? - esclamò, sorpreso.
La zia Roseline schioccò la lingua. - La cosa non dovrebbe sconvolgerti tanto, figliolo. Su Anima se ne trovano anche di peggio, di miscele improbabili di parentele.
Tom aprì la bocca per rispondere, ma esitò. Alla fine annuì: - Sì, avete ragione.
Tyr invece ammiccò nei confronti di Serena: - Ciao, zia! Vorrà dire che i nostri figli saranno... cosa saranno i nostri figli?
- Cugini di primo grado e pronipoti - rispose prontamente Thorn, chiudendo di scatto l'orologio da taschino.
- Ma allora...
- Possiamo mangiare?! - sbottò Balder, che diventava leggermente irascibile quando aveva fame.
Ilda ridacchiò e gli strinse la mano.
La zia Roseline scattò subito sull'attenti. - Giovanotti, ho il dovere di informarvi che, finché non sarete uniti dal sacro vincolo del matrimonio, dovete astenervi da certi contatti e manterene una distanza di...
Balder indicò Tyr minacciosamente. - Lui si è sposato oggi e sta già per diventare padre. Mi state davvero recriminando una stretta di mano, zia? - esclamò incredulo.
La zia Roseline serrò la mascella cavallina e alzò il mento, facendo ondeggiare pericolosamente lo stretto chignon. - Vi tengo d'occhio... - concluse, senza specificare se in quel momento o in generale.
Renard diede a Balder una pacca di solidarietà. E se persino l'iper protettivo padre di Ilda lo compativa, voleva dire che il paradosso della situazione rasentava il ridicolo.
A parte gli screzi iniziali, i festeggiamenti che ne seguirono furono molto piacevoli. Gabriella si trovava già bene con Ilda, e scoprì di apprezzare molto anche la pacatezza della suocera. Ofelia era quanto di più diverso ci fosse da sua madre, con la sua voce sommessa e il palese affetto che provava per tutta la famiglia. Con Thorn non scambiò più di qualche parola, ma Serena le si avvicinò e le confessò con aria indulgente che per i suoi canoni quella era un'accoglienza incredibilmente calorosa.
Dopo essersi presentate per bene e aver un po' preso in giro Tyr, Serena si diresse verso suo padre, mormorandogli qualcosa sommessamente. La conversazione durò quasi venti minuti, durante i quali nessuno osò interromperli, meno che mai Ofelia, che si beveva ogni loro gesto studiandolo da lontano. Quando si separarono, Serena sorrise con affetto e accarezzò il volto del padre, che parve adagiarsi per un attimo sulla sua mano prima di allontanarsi a sua volta.
Ofelia sapeva meglio di chiunque altro quanto quegli anni di lontananza emotiva avessero fatto male a quei due, che avevano molto da recuperare. Essere colleghi di lavoro era molto diverso che essere padre e figlia. Ofelia non avrebbe mai immaginato che sarebbe servito un bambino, o meglio, due bambine per ricucire un rapporto sfilacciato.
Serena intercettò lo sguardo della madre e si diresse da lei con un piccolo sorriso sulle labbra.
Ofelia non fece in tempo a porle una domanda che Serena le rispose: - Stavamo discutendo dei termini del mio congedo di maternità. Papà vorrebbe che stessi a casa già ora, nonostante io possa lavorare come minimo fino al sesto mese.
Serena sorrise ancora di più di fronte all'aria attonita di Ofelia. – È sempre stato apprensivo, vero?
- Mi meraviglia che te lo abbia chiesto. Di solito questo genere di cose le ordina.
Serena rise. - Mamma, secondo voi mi ha davvero chiesto di smettere di lavorare? Mia ha semplicemente informata che dalla settimana prossima sono esentata dallo svolgimento delle mie mansioni.
Ofelia la guardò con stupore. - Ma sembrava che steste commentando la dolcezza del tè o l'irascibilità dei cuscini in primavera!
Serena sorvolò sul paragone incomprensibile. - Siamo anche in grado di discutere civilmente.
Ofelia inarcò un sopracciglio, insinuando silenziosamente che negli ultimi anni non sembravano essere stati affatto in grado di discutere civilmente. Ancora non riusciva a credere che avessero parlato di una questione così delicata e divergente senza infervorarsi o senza che Thorn colpisse qualcuno.
- Cosa gli hai risposto?
- Che non se ne parla. E a meno che non voglia licenziarmi od ordinare ad Archibald di sequestrarmi in casa mia, io andrò a lavorare finché mi sentirò in forze.
Ofelia la ascoltava con un'attenzione quasi morbosa. - E lui cosa ti ha risposto?
Serena rise ancora. - Sembrate voi la figlia e io la madre. Mi ha detto che sono proprio come voi e che discutere è una perdita di tempo.
Ofelia trattenne a stento uno sbuffo. Sempre lì ricadevano con i loro discorsi, vero? Lanciò un'occhiataccia a Thorn che si era appena allontanato da Balder e Tyr, ma lui si fece scivolare addosso il suo sguardo com'era abituato a fare. In compenso, lo scoppio di risa di Tyr calamitò l'attenzione di tutti, mentre Balder avvampava e Ilda rideva chiaramente ai danni del fidanzato. Riuscì persino a zittire le gemelle, che avevano praticamente rapito la nuova cognata.
Non appena Serena si era diretta da Ofelia, infatti, Thorn aveva adocchiato i due figli, che stavano bisticciando, un po' defilati.
- Lo so che hai ragione, che io ho sbagliato, quello che vuoi, ma potresti evitare di rinfacciarmi ogni singola volta i miei errori? Cominci a diventare pedante - stava dicendo Tyr a Balder.
- Scusami se ho un forte senso di giustizia.
- Scusami se sei frustrato! Sai che secondo me Ilda sarebbe ben felice di aiutarti a rilassarti? E non con i ponti, Balder...
- Tyr! – aveva sibilato Balder, irritato, assicurandosi che Ilda fosse fuori portata d'orecchio. Peccato che lei fosse fin troppo vicina e fin troppo in ascolto, nonostante cercasse di fingere il contrario.
- Eddai, Bal! Stai per diventare zio! Di tre nipotini! E il mio è un maschio! Scommetto che non vedi l'ora di giocarci.
Balder si era raddrizzato, colpito da quelle parole. In effetti, era davvero felice all'idea di diventare zio, ed era felice anche per Tyr. Gabriella gli sembrava una ragazza e con la testa sulle spalle. Ma soprattutto, in grado di rimettere in riga il fratello, qualità fondamentale se voleva essere sua moglie. Stava per seppellire definitivamente l'ascia di guerra quando Tyr aveva aggiunto, come al solito a sproposito e volgarmente: - Smettila di fare a gara su chi ce l'ha più lungo. Anche perché vincerei io.
Balder aveva spalancato la bocca, inorridito e imbarazzato. E con una luce indignata negli occhi.
- Non è affatto ve...
- Ad essere precisi, vincerei io - si era intromesso Thorn, comparendo quasi dal nulla. Era ancora un mistero come riuscisse ad essere così furtivo nonostante l'altezza smisurata. - E ora smettete di dare spettacolo e comportatevi come si conviene.
Dopo quelle due misere frasi se n’era andato, ignorando l'occhiataccia che Ofelia gli stava lanciando per via di Serena, e lasciandosi alle spalle due figli boccheggianti.
Ilda invece se la rideva della grossa. - Balder, spero che tu non abbia ereditato solo l'altezza da tuo padre - lo prese in giro, con una punta di sincerità fin troppo evidente.
Tyr scoppiò a ridere di gusto mentre Balder arrossiva come non mai, con le lenti degli occhiali rosse quanto la punta delle sue orecchie.
- Che ti avevo detto, Bal? Ilda ti farà rilassare per bene.
I due, complici, continuarono a ridere e si diedero persino il cinque.
- Vado a bere qualcosa da prendere - disse Balder, incespicando sia sulle parole che sui suoi stessi piedi. Il rossore non voleva proprio saperne di sparire.
- Qualcosa di bello freddo, mi raccomando - gli urlò dietro Tyr, ancora ridendo.
Poi si sporse su Ilda, mormorandole qualcosa all'orecchio che la fece diventare di una tonalità appena più tenue del rossore di Balder.
Ofelia scosse la testa insieme a Serena, guardando la scena, ma sorridevano entrambe. Era bello vedere che tutto era tornato alla normalità, persino il trio di inseparabili combinaguai. E nonostante Tyr fosse ormai sposato.
Ofelia sospirò all'idea di vedere Tyr diventare padre. Sarebbe stato un buon padre, sì... ma lo vedeva ancora acerbo.
Come se le avesse letto nei pensieri, si avvicinò Renard. - Saremo dei nonni fantastici, ragazzo. E li aiuteremo quando loro non sapranno che pesci pigliare.
Salame si strusciò sulle sue gambe in risposta, ormai troppo vecchio per arrampicarsi su di lui.
Ofelia gli sorrise e gli diede una gomitata amichevole. - Penso proprio che ci toccherà.
Renard le fece l'occhiolino prima di tornare da Gaela, e Ofelia si rese conto che anche Serena era tornata da Archibald. Lui le stava porgendo un piatto ricolmo di cibo. Avevano la tipica espressione di chi si preoccupa eccessivamente e di chi è stufo di tante attenzioni indesiderate, ma ad Ofelia faceva piacere vedere che erano una coppia affiatata. L'amore sconfinato di Archibald traspariva da ogni suo gesto, da come la guardava, da come le posava le mani in vita con fare possessivo.
E poi le arrivò al fianco Thorn, che era possessivo solo nell'intimità della camera da letto.
Ofelia gli tirò la manica. - Credo che abbiamo fatto un buon lavoro.
- Credi?
Ofelia reclinò il collo come se dovesse guardare il soffitto. Era terribile parlare con Thorn quando le era così vicino. - Credo proprio di sì.
Thorn la fissò dall'alto, prima di riportare lo sguardo sui figli, sui parenti, sugli amici, che ridevano e scherzavano, parlavano concitatamente e si punzecchiavano, ma si volevano innegabilmente bene.
- Tu non credi che abbiamo fatto un buon lavoro? - gli chiese Ofelia a mezza voce, sentendosi quasi insicura.
Thorn scosse la testa in diniego, facendole precipitare il cuore. Poi però le sfiorò le dita guantate.
- Non credo. Ne sono convinto. Anche un po' di più.

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Capitolo 78
*** Capitolo 78 ***


Tecnicamente il prossimo capitolo è l'ultimo.
E ho detto tutto.
Spero vi piaccia questo intanto, ho premuto il pulsante di "avanti veloce".


Capitolo 78

Due mesi dopo, finalmente si sposarono Ilda e Balder. Essendo l'unico figlio che non lo aveva contrariato, l'unico che aveva rispettato le regole, Thorn gli offrì la possibilità di scegliere dove vivere dopo il matrimonio.
Dopo averne discusso con Ilda, i due chiesero di poter rimanere al castello con loro, con le loro rispettive famiglie. L'idea di avere un posto tutto loro li allettava, ma Ilda sapeva che suo padre ci sarebbe rimasto male all'idea di un allontanamento. Così Thorn fece risistemare un'altra ala del castello per darla al figlio come regalo di nozze.
Il loro matrimonio, al contrario di quello intimo di Gabriella e Tyr, fu un evento pubblico a cui partecipò la crème della corte. Persino Faruk, invitato su insistenza di Berenilde, presenziò la cerimonia, insieme a tutti i clienti di Balder che fecero così tanta pubblicità al dono dello sposo da rischiare quasi di rendere quel giorno di festa una riunione di lavoro.
A parte il bacio troppo lungo tra gli sposi, che fece ridere alcuni e scandalizzò altri, e un'improvvisa scomparsa degli stessi durante il rinfresco, salvo poi riapparire con le gote rosse e i capelli scarmigliati, il loro fu un bel matrimonio. Le gemelle sfoggiarono degli abiti meravigliosi, rivalendosi così delle due celebrazioni mancate di Serena e Tyr. Dopo la sposa, di sicuro le più belle erano loro. In particolare Mira, dopo aver scoperto che suo fratello aveva invitato sia Berthold che Milena, i Persuasivi che si erano dimostrati amichevoli dopo lo spiacevole incidente accaduto con le gemelle, si illuminò. Ofelia sospirò, sperando di non dover organizzare troppo preso un altro matrimonio, e di non avere grattacapi come per Tyr. Anche perché Mira era decisamente troppo giovane per il matrimonio. Nessuno invece reggeva minimamente il confronto con Balder. Persino Tyr, il testimone, sembrava solo appena passabile di fianco al fratello raggiante. Vittoria e Serena invece esibirono con orgoglio le pance arrotondate. Tra tutti i membri di quella famiglia allargata, non c'erano dubbi che l'articolo del giorno successivo del Nibelungen sarebbe stato incredibilmente lungo.
Come ulteriore regalo, per premiare Balder della buona condotta, Thorn regalò loro anche il viaggio di nozze in una località o arca a loro scelta. I coniugi scelsero il Deserto, l’arca di Djinn, sia perché erano stufi del freddo del Polo sia perché pareva che avesse le migliori terme che si potessero immaginare. Non a caso, Djinn era il signore delle acque calde. Balder era interessato a studiare come le terme apportassero beneficio al sistema nervoso, mente Ilda… be’, lei voleva solo godersi Balder in costume.
Quando tornarono, erano il ritratto della felicità, complici e in sintonia come non erano mai stati, nonostante gli anni di amicizia. Balder era talmente euforico che non diede nemmeno in escandescenze quando Tyr gli rivolse un sorrisino malizioso chiedendogli se finalmente avesse visto la voglia di Ilda. In compenso, lei lo fulminò con lo sguardo.
Tre mesi dopo il loro ritorno, Thorn e Ofelia diventarono nonni per la prima volta. E anche per la seconda. Serena aveva una pancia enorme, resa ancora più grande dal contrasto con la sua corporatura esile. Tra tutti i fratelli, lei era decisamente quella più magra, così simile alla struttura ossea di Thorn. E con poche curve, sopratutto rispetto alle cognate. Archibald le era girato attorno come una chioccia arruffata durante tutti i mesi della gravidanza, temendo che si stressasse troppo. A poco erano valse le battute di Serena, che gli facevano notare che lei era giovane e in forze, e lui quello anziano. Chiamarono le bimbe Anja e Agnes, due fagottine indubbiamente bionde e indubbiamente con il colore di occhi del padre, per quanto fosse ancora presto per dirlo. Erano belle come il sole e tranquille come la madre, Ofelia se ne innamorò a prima vista. Fu Serena, provata ma felice, a metterle in braccio Anja dopo il parto, mentre Archibald diede Agnes a Thorn. I due uomini esitarono prima di toccarsi, guardandosi come se si vedessero per la prima volta. A labbra strette e con la fronte aggrottata, fu Thorn a colmare la distanza tra di loro, sfiorando Archibald per permettergli di dargli Agnes.
- State attento, è così piccola... - mormorò Archibald. Era così insolito vederlo serio e attento che a volte era quasi difficile riconoscerlo, a primo impatto.
Thorn lo fulminò con un'occhiata. - Ho cresciuto io vostra moglie. L'ho tenuta in braccio quando aveva novantuno secondi di vita.
Archibald strinse a sua volta gli occhi. - Anche io ho tenuto in braccio mia moglie appena nata.
- Non vi sembra alquanto ambigua questa frase?
Serena guardò il marito sospirando. - Archibald... - implorò.
Non aveva certo l'autorità per chiedere a suo padre di essere meno infantile.
Archibald desistette, tacendo per una volta. Thorn ne fu visibilmente sorpreso. Non ricordava un singolo dialogo in cui Archibald non avesse avuto l'ultima parola o un commento a sproposito. Stentava a crederlo nonostante l'evidenza, ma pareva davvero che Serena gli stesse facendo del bene, smussando gli angoli appuntiti e ribelli del suo carattere.
A riprova di ciò, Archibald andò a depositarle un bacio in fronte, prima di riavvicinarsi ad Agnes.
Ofelia sorrise guardando i due uomini, così vicini ed entrambi incantati dai piccoli pugni della bimba, dai movimenti erratici delle braccia, dalla pelle rosea.
- Spero che non abbiano preso dal nonno - bofonchiò Archibald a mezza voce.
E l'atmosfera fu rovinata.
C'era un limite a quanto una persona poteva cambiare. In ogni caso, vedendoli sfidarsi con lo sguardo, anche Serena sorrise. Thorn e Archibald non erano amici, non erano legati, non erano nulla... eppure erano qualcosa. Nessuno però avrebbe saputo definire cosa.
Due settimane dopo fu il turno di Vittoria, per la quale Berenilde versò un fiume di lacrime, soprattutto dopo aver scoperto come si sarebbe chiamata la nipotina: Bernadette, un nome il più possibile simile al suo, la nonna.
- Mi chiamerà zia, vero? Non posso sentirmi chiamare nonna, tesoro mio. È talmente blasé... E poi, non sembro affatto una nonna.
- Smettetela di farvi problemi per nulla e godetevi vostra nipote. A volte siete più ridicola di una sedia sul divano. Ed è successo. Cosa dovrei dire io, che sono pro-prozia? - esclamò la zia Roseline, scrutando con attenzione la piccola Bernadette.
Berenilde avrebbe voluto lanciarle un'eloquente occhiata che mettesse ben in mostra la differenza fra loro due, ma si trattenne. Roseline per lei era una cara, fidata e preziosa amica, non voleva in alcun modo offenderla.
E poi sbarrò gli occhi. - Anche io sono pro-prozia - mormorò, sconvolta, prima di correre allo specchio con la piccola Bernadette per controllare il suo viso, come se temesse che fossero comparse all'improvviso delle rughe.
Nonostante ormai fosse quasi anziana, termine che lei non voleva in alcun modo sentire associato a se stessa, Berenilde rimaneva una donna bellissima, ammirata persino dalle più giovani.
Tom le corse dietro per riprendersi la figlia, temendo che la schiacciasse contro lo specchio nella foga di rimirarsi.
E infine, tre mesi dopo, arrivò il maschietto.
- Si chiama Alf - annunciò Tyr con orgoglio, come se tutti dovessero comprendere al volo che era importante per lui che il nome del figlio avesse il suo stesso numero di lettere.
Tyr era stupidamente felice, ma anche stupidamente stupido, al punto che Gabriella alzava costantemente gli occhi al cielo.
- Tyr non puoi tenerlo così! - gli urlò dietro quando il marito mostrò il bimbo in giro tenendolo sotto le ascelle.
- So già che ti rigurgiterà addosso un sacco di volte se continui a sballottarlo così! Ma chi è il neonato, tra voi due?
- Tyr, piange perché ha fame, non perché vuole giocare! - lo supplicò due minuti dopo.
Persino la sua sciarpa, più incline ad obbedire a Gabriella che a lui, si mise a schiaffeggiarlo per cercare di farlo stare tranquillo.
La scena avrebbe fatto quasi ridere se Gabriella non fosse stata così esasperata da avere addirittura gli occhi lucidi. Poi però Tyr le mise Alf sul petto e le riempì il viso di baci, raggiante e sordo a qualsiasi recriminazione.
Gabriella sospirò. Poteva andarle peggio. Poteva andarle molto peggio. Alla fine sorrise, cercando di non farlo notare a Tyr. In realtà, non poteva andarle meglio di così.
Quando Balder prese in braccio il nipotino, riuscendo a farlo addormentare nonostante gli strepiti, Tyr gli lanciò un'occhiata cinica. - Hai usato i ponti?
Balder lo guardò male di rimando. - Non uso i ponti per qualsiasi cosa come pensi tu, Tyr.
- Ma con me non si è addormentato - ribatté lui, imbronciato.
Gabriella si passò le mani sul viso. - Tyr, lo stavi agitando più delle anche di mia cugina quando nei paraggi c'è un partito appetibile.
Ilda scoppiò a ridere. - La figlia di Dolce, vero? Anche noi la prendiamo sempre in giro. Oh, cioè... - balbettò poi, cercando di rimediare alla gaffe.
Gabriella le sorrise. - Sì, tutti la prendono in giro, me compresa.
Tyr intanto continuava a guardare in cagnesco Balder, che cullava il piccolo come se non avesse fatto altro per tutta la vita.
- Dovrebbe addormentarsi con suo papà, non con suo zio. Con me ha solo frignato.
- Si vede che ha capito con chi ha a che fare - lo prese in giro Balder, porgendo il piccolo alla madre.
Tyr lo ignorò. - Ehi, Gab, posso leggergli i nostri libri secondo te?
- Un libro puoi anche leggerglielo, anche se dubito che ti ascolterà molto. Ma non dei nostri. Non sono molto adatti ad un neonato, Tyr. Non li capirebbe.
Lui la guardò come se stesse parlando un'altra lingua. - E allora? Mio papà mi sciorinava tabelline e formule matematiche avanzate.
Gabriella fece una smorfia quando vide nella testa di Tyr il ricordo delle ninne nanne di Thorn. - In effetti avrebbero fatto addormentare chiunque. Comunque saresti un buon padre, Balder.
Lui si strinse modestamente nelle spalle. - Penso di avere ancora molto da imparare. Io aspetterei un po'.
Ilda grugnì. - Ma non così tanto. Non possiamo mica essere da meno di Tyr, ti pare?
- Mio figlio batterà di sicuro il vostro! - esclamò Tyr, mentre la sua sciarpa si agitava con le code strette a pugno.
- Ah sì? Be', se nostro figlio sarà come Balder e il tuo come te, ci saranno pochi campi in cui potrà vincere.
Balder e Gabriella si scambiarono un sorriso rassegnato mentre Ilda e Tyr bisticciavano. A guardarli, Balder si chiese come avesse mai potuto anche solo pensare che ci fosse del tenero tra suo fratello e sua moglie.
E Balder alla fine non aspettò così tanto prima di diventare padre, dal momento che Ilda insisteva. E insisteva…
Non che a lui dispiacesse il modo in cui insisteva. Ilda era particolarmente fantasiosa nel cercare metodi per sedurlo e convincerlo ad avere un bambino. La verità era che gliela diede vinta in una settimana.
Per ricompensarlo, una sera Ilda si fece trovare a letto vestita solo di un body di pizzo che lasciava ben poco spazio all'immaginazione. Balder arrossì quando la vide, e gli si seccò pure la bocca.
Con estrema calma, si tolse la giacca come se dovesse mettersi il pigiama, come se non ci fosse sua moglie mezza nuda in attesa di lui, a letto. - Dove hai trovato un indumento così striminzito?
Come a conferma di quell'aggettivo, striminzito, Ilda si sistemò il seno abbondante. Forse era di una taglia in meno della sua, quel coso. Anche due.
Poi gli lanciò un'occhiataccia. - Pensavo che me l'avresti stappato di dosso, questo coso. Per essere un Drago, di autocontrollo ne hai fin troppo.
Balder si bloccò, come se si fosse dimenticato cosa doveva dire o cosa doveva fare. Solo gli occhi si muovevano... per tutto il corpo di Ilda. Sembrava andato in cortocircuito. Si schiarì la bocca come se dovesse parlare... ma parve dimenticarsi ciò che doveva dire.
Sospirando, Ilda gli andò incontro gattonando sul letto, facendo ondeggiare i lunghi e serici capelli biondi e... tutto il resto. Quella vista non aiutò molto Balder a riprendersi dallo stato catatonico.
Ilda però sorrise quando, baciandolo, lo sentì riscuotersi e prendere il controllo. Non ci fu più spazio per il Balder meticoloso, preciso e chirurgico che mostrava di essere agli altri. Quando era con lei, perdeva il controllo, letteralmente. Diventava un vero Drago, non stava lì a calcolare, a pianificare, a ragionare. Si abbandonava ai sensi. Una cosa che Ilda aveva sospettato fin dal loro primo bacio, ma di cui aveva avuto conferma solo durante la notte di nozze. Balder sapeva essere passionale tanto quanto era razionale e... dannazione se sapeva come baciarla e dove mettere le mani!
Non scherzava quando aveva detto che non c'era una singola cosa in cui non fosse bravo. Rimase incinta un mese e mezzo dopo la nascita di Alf. Quando diedero la notizia a Renard e Gaela, il gigante con quasi tutti i capelli bianchi si mise a piangere. Nonostante con il tempo si fosse un po' incurvato e non fosse alto come Balder, Renard rimaneva sempre una presenza imponente ovunque andasse. Gaela lo aveva preso in giro dandogli del sensibilone, ma Ilda aveva cercato di non piangere a sua volta vedendo la madre con gli occhi lucidi. Sorprendendo tutti, però, era stato Randolf quello più emozionato. Il fratellino sempre silenzioso e pacato, così tanto da far dimenticare la propria presenza, a volte. A quanto pareva, i bambini gli piacevano molto, e non vedeva l'ora di diventare zio.
La gravidanza di Ilda procedette senza intoppi, a parte l'umore ballerino e le voglie insensate e improvvise. Ma, a quelle, Balder era abituato.
- Mi stai dicendo che il seno ti crescerà ancora di più, giusto? - le chiese poco dopo aver scoperto che era incinta.
Ilda alzò un sopracciglio, piccata. - Di solito funziona così.
Balder cercò di non lasciar trapelare nessuna emozione sul viso, ma si voltò per mordersi la cucitura di un guanto.
A Ilda però non sfuggiva nulla. Lo guardò con irritazione. Ogni tanto le capitava di diventare petulante. - Ti crea qualche fastidio? O stai pensando a cose perverse?
Balder si voltò con le guance tutte rosse. - Io non sono perverso! E non penso a cose perverse. Solo... non saranno un po'... troppo pesanti? - domandò, guardando il seno già prosperoso della moglie, sulla cui figura magra e piccolina il petto spiccava come le colline di Anima.
- Già - gemette lei, d'un tratto rassegnata. - Avrò parecchio bisogno dei ponti sulla schiena, ti prenoto in anticipo. E spero che non mi si allarghino troppo i fianchi...
Balder le si avvicinò depositandole un bacio sulla fronte. - Non hai bisogno di prenotarmi in anticipo, tu. E cosa ti importa dei tuoi fianchi? Sei perfetta, e lo sarai a prescindere da...
Confermando in pieno di essere incinta, con sbalzi umorali agli antipodi, Ilda dimenticò tristezza e fastidio e prese il volto di Balder tra le mani, alzandosi il più possibile sulle punte per baciarlo. Lui sgranò gli occhi, preso in contropiede. Invece di abbracciare Ilda, però, guardò l'orologio per controllare l'ora, rispondendo al bacio solo distrattamente.
A Ilda tornò il malumore. - Non mi interessa se fai tardi al lavoro, ti prenoto per questa mattina. Cioè, per dieci minuti. Facciamo venti.
- Ma farò tardi... - mugugnò lui sulle sue labbra, poco convinto.
Così poco convinto che si stava già sbottonando la giacca che aveva appena finito di indossare.
Ilda sorrise. - Non sai che bisogna sempre assecondare le voglie di una donna incinta?
Balder le baciò il collo, facendola squittire. Poi la condusse verso il letto. - E di cosa avrebbe voglia questa donna incinta?
Ilda ridacchiò, poi le si mozzò il respiro quando le labbra di Balder iniziarono a scendere. Come avevano fatto le sue mani a slacciarle il corpetto, oltretutto? Non lo aveva nemmeno sentito.
- Allora? - la incalzò lui, spronandola affinché dicesse chiaramente cosa voleva.
Anche se era palese ad entrambi, cosa Ilda volesse.
- Vorrei mio marito.
- Mh... e lui è d'accordo?
Ilda si mise a cavalcioni su di lui, slacciandogli la camicia. - Assolumente d'accordo. E dovrebbe parlare di meno e far lavorare quella bocca di-mpf...
Balder la zittì con un bacio, tardando al lavoro di ventidue minuti. Quando Ofelia lo vide arrivare trafelato e paonazzo, sorrise senza dirgli nulla.
 
Quando Ilda era ormai al settimo mese di gravidanza, si ritrovarono tutti una domenica pomeriggio nel salotto di Ofelia e Thorn. Ora che Serena e Tyr vivevano per conto loro, avevano preso l'abitudine di pranzare insieme la domenica per riuscire a stare tutti insieme. Persino Archibald. Non è che lui e Thorn fossero proprio diventati amiconi, però almeno si tolleravano. Le piccole Anja e Agnes avevano fatto un ottimo lavoro di riconciliazione tra papà e nonno, e aiutato a ricucire completamente il rapporto con Serena. Ofelia non poteva fare a meno di pensare che forse, in altre circostanze, Thorn e Archibald sarebbero potuti essere amici. Per lo meno, ora che Archibald era più "ripulito", grazie a Serena. Poi si ricordava di come fosse desiderato, sciatto e con una deontologia professionale tutta sua, e le veniva da ridere: vederli amici sarebbe stato paradossale.
Thorn aveva acconsentito a stare in salotto con loro solo perché Serena era tornata a lavorare dopo il periodo, fin troppo breve a detta di tutti, di maternità. L'intendenza, grazie a lei, era sempre aggiornata e Thorn poteva tirare un po' il fiato. Le gemelle di undici mesi sembravano stare benissimo, anche se Serena aveva ricominciato a lavorare quando avevano appena sei mesi. In quel momento erano tranquille, quasi in procinto di dormire, come sempre dopo pranzo, in braccio a mamma e papà. E Thorn, senza smentirsi, si stava leggendo una relazione. Non sarebbe forse mai venuto il giorno in cui se ne sarebbe stato con le mani in mano, nemmeno di domenica.
Alf invece, di nove mesi, sembrava avere l'argento vivo nelle vene. Notte o giorno, pranzo o non pranzo, si muoveva costantemente e, se non lo si teneva d'occhio, gattonava ovunque. Era l'incubo di... di tutti praticamente. Specialmente di Gabriella, che doveva stargli dietro tutto il giorno.
Balder stava facendo un massaggio classico alle spalle di Ilda, che aveva iniziato ad accusare dei leggeri mal di schiena per tutto il peso che doveva portare.
- Non vedo l'ora di partorire - borbottò per l'ennesima volta, facendo ridere sia Serena che Ofelia.
Gabriella scosse la testa, in disaccordo. - Preferivo i calci in pancia al parto e a... questo! - esclamò sbuffando quando Alf iniziò a tirarle i capelli e a piagnucolare per scendere.
Balder deglutì, terrorizzato, neanche fosse lui a dover partorire. - Ma non potevamo aspettare un altro po'? - bofonchiò, sperando di non essere udito.
Invece lo sentirono tutti, specialmente Ilda.
- Non potevamo mica essere gli unici senza figli ancora, no?
Tyr aggrottò la fronte, distraendosi dal cercare di far ridere il figlio. - Per questo avete avuto un bambino? Perché noi altri già li avevamo?
Balder si strinse nelle spalle, rassegnato come chi aveva già sostenuto quella conversazione fin troppe volte. - Lo sai che Ilda è competitiva.
La moglie gli diede uno schiaffetto sulla mano che lui le aveva messo sulla spalla, massaggiandosi la pancia con l'altra. - Non fingere di non essere competitivo anche tu.
- Non nego di esserlo, ma avrei aspettato un altro po', sinceramente.
Tyr si schiarì la voce. - Balder, lo sai che siamo noi a mettere incinte le donne, vero? Non il contrario. Avevi il coltello dalla parte del manico!
Balder aprì la bocca per parlare, sconvolto, ma non ne uscì un suono.
- Tyr! - lo redarguì Ofelia, scuotendo la testa, mentre sua moglie gli dava uno scappellotto.
- Mi sembra una conversazione inopportuna - disse Thorn senza nemmeno alzare gli occhi dai fogli che stava correggendo, penna alla mano. Proprio non riusciva a non lavorare.
- Credo che sia un commento alquanto controverso detto da te, Tyr - commentò Serena, sistemandosi meglio la bimba in braccio, che le diede un bacio sugoso sulla guancia.
- Almeno io ho aspettato il matrimonio! - si giustificò Balder, senza motivo.
- Sì, be', sempre facile usare questa scusa.
- Ma non è una scusa! - sbottò Balder, che si sentiva un po' punto sul vivo.
- In ogni caso, non è che devono sempre comandare le donne. Noi siamo parte... attiva in questo processo. Possiamo decidere, eh.
- Mi vai a prendere un po' di acqua e limone? - chiese Ilda bruscamente, facendo scattare Balder sull'attenti.
- Appunto... - mugugnò Tyr. - Non siamo mica zerbini! Siamo uomini, noi! Abbiamo il controllo!
- Sì... - borbottò Gabriella con poco entusiasmo. - Senti, uomo, io ho assoluto bisogno di un caffé.
Tyr incrociò le braccia al petto, sogghignando maleficamente. - Puoi anche andare a fartelo, o andare a chiedere che te lo facciano.
Serena scosse la testa, mormorando: - Mi sa che stai passando il segno.
Archibald ridacchiò, mettendo giù Anja che a quanto pareva aveva voglia di sgranchirsi le gambe. Portandosi dietro il povero padre.
Gabriella scattò in piedi. - Non ho problemi a farmi un caffé. Ma allora tu tieni Alf.
Tyr prese il bambino che Gabriella gli mise in braccio, sorridendo. - Ma certo che tengo mio figlio. Pensi che abbia difficoltà?
Gabriella sorrise come se la sapesse lunga, e andò ad appoggiarsi allo stipite della porta, fissandoli. Balder si mise vicino a lei, incerto se correre subito a portare alla moglie quanto richiesto o restare a godersi lo spettacolo.
Il figlioletto scoppiò a piangere. Tyr fece una smorfia. - Pensi che non sappia farlo smettere di piangere? Sono il padre! Certo che so farlo smettere! Non è vero... birichino? - gli chiese, come se fosse incapace di parlare al figlio con una voce rassicurante o con i giusti vezzeggiativi.
Balder ridacchiò, Gabriella pure.
- Ti avevo sottovalutata, Gabriella - commentò Ilda, ammirata. - Sei una santa, oltre che una peste. Io non sarei in grado di gestire quello lì. E non parlo del bambino.
Tyr mise il broncio, cambiando posizione al piccolo che piangeva sempre più forte. - Io non ho bisogno di essere gestito. Insomma, lo sanno fare tutti...
Thorn alzò gli occhi dai suoi documenti, mentre Ofelia gli tirava la manica della giacca nascondendo un sorriso nella sciarpa.
Dopo altri dieci secondi di strepiti, Tyr scattò in piedi e corse fino a dove si trovava Gabriella. - Ci vuoi latte e zucchero nel caffè? - chiese sconfitto. Persino la sciarpa gli scompigliò i capelli, delusa.
Gabriella ridacchiò. - Anche della panna montata, ho bisogno di quella dolcezza che mio marito non mi dà.
- Mio marito me la dà, ma anche per me della panna, grazie Tyr! Cioccolata calda con la panna, anzi! - rincarò Ilda, malefica.
- Non volevi acqua e limone? - le domandò Balder, che faticava a stare dietro alle sue voglie.
- Nah, l'idea che Tyr mi faccia preparare la cioccolata è molto più allettante.
Balder sorrise trionfante al fratello, tornando da Ilda. Non prima però di aver preso il nipotino dalle braccia della cognata. Alf smise subito di piangere. Il sorriso di Balder divenne ancora più fulgido.
- Non vale usare i ponti - brontolò Tyr.
- Non li sto usando. Ti ho già detto che non li testerei mai su un bimbo. Non è vero, piccino? - chiese poi a Alf con una vocina sciocca, facendolo ridere.
Tyr sbuffò.
- Non avevi detto di avere il controllo? - domandò Thorn di punto in bianco, fissando il figlio con... era una luce divertita negli occhi, quella?
Tyr spalancò la bocca mentre gli altri scoppiavano a ridere. Se ne andò con la coda fra le gambe, bofonchiando: - Aspettate che cresca e vedrete quanto mi adorerà, quel piccoletto.
Ofelia abbassò la mano fino a stringere il mignolo di Thorn, divertita. Lui inglobò direttamente la sua piccola mano nella sua.
Quando Tyr tornò, ossequioso, nessuno infierì oltre. Tyr era abbastanza umorale.
Serena andò a sedersi vicino ai genitori, passando Agnes a Thorn quando lui allungò le braccia.
Nonno. Ancora Thorn non riusciva a crederci. A volte non credeva nemmeno di essere padre, figuriamoci nonno. Con già quasi quattro nipoti, oltretutto! E a tutti risultava ancora sorprendente vedere come Thorn ci tenesse a quei piccoli fagottini piangucolosi. Tyr, Serena e le gemelle ricordavano bene, grazie alla loro memoria, come fosse come padre quando erano loro i neonati. Sapevano che li aveva addormentati, cullati (a modo suo) e lavati innumerevoli volte, ma osservare quelle scene con i propri occhi da fuori era più destabilizzante.
Ad Ofelia invece si riempiva il cuore di gioia e commozione.
Archibald le sorrise e si avvicinò per dare a lei Anja, così che i nonni avessero in braccio entrambe le nipoti. Se gli faceva impressione vedere che Ofelia e Thorn erano già nonni mentre lui era appena diventato padre, nonostante fossero praticamente coetanei, non lo dava a vedere. Così come non dava a vedere la preoccupazione che gli rodeva lo stomaco: avrebbe dovuto proteggere le figlie da uomini come lui, quando fossero cresciute. Che amara ironia!
- Comunque non è che io abbia obbligato Balder, eh! - disse di punto in bianco Ilda. - Lui era d'accordo.
Balder avvampò. - Sì, tesoro, penso che l'abbiano capito.
Tyr sogghignò, riprendendosi dal precedente smacco. Per poi essere nuovamente colpito. - Evita battute, Tyr, che almeno io il controllo l'ho avuto. Sai com'è... nessuna svista.
La zia Roseline scelse proprio quel momento per entrare in salotto con le gemelle, Randolf e Renard, che si precipitò accanto alla figlia riempiendola di domande. Ilda alzò gli occhi al cielo, ma sorrideva.
- E lasciala un po' stare - borbottò Gaela togliendosi la sigaretta dalle labbra, entrando dietro di loro e spaparanzandosi su una poltrona, mentre Randolf e le gemelle prendevano discretamente posto su un divanetto.
- Se state infierendo su Tyr, ne avrei anche io tante da dire! - esclamò la zia Roseline, interpretando correttamente la faccia soddisfatta di Balder e quella decisamente insoddisfatta di Tyr.
- Ma zia! Vi pensavo mia alleata!
- Assolutamente no, giovanotto. Non solo per quel fattaccio del matrimonio riparatore, ma anche perché me ne hai combinate abbastanza da riempire per intero la vasca da bagno del nipote del prozio Osvaldo.
Tyr si abbacchiò mentre Gabriella rideva e si allungava per dargli un bacio sulla guancia, mormorando: - Il mio bambinone.
Renard invece si girò verso il genero e gli chiese, sempre interessato agli aneddoti animisti: - Che cos'aveva la vasca del prozio Osvaldo?
Balder si strinse nelle spalle, ignorante quanto lui.
Anja invece piangucolò un po', ma Thorn fu lesto a calmarla, attirandosi un'occhiata sia ammirata che affascinata di Archibald. Umilmente, cercando di ingraziarsi il suocero, gli disse: - Ho ancora molto da imparare da voi, temo.
Thorn strinse le labbra in una linea sottile. - Anche un po' di più.
- Comunque mio figlio è l'unico maschio per ora. È speciale! - esclamò Tyr, cercando di riprendersi dalle batoste di prima.
- Tyr! - sbottò Gabriella, esasperata. - Non ti faceva così maschilista! Stai passando il segno.
Tyr si chinò su di lei e la baciò davanti a tutti, sorridendo. - Eddai Gab, stavo solo scherzando. Lo sai che adoro le femminucce.
- Mh... - mormorò lei, poco convinta. - Una devi adorarne.
Tyr ridacchiò e le sussurrò qualcosa all'orecchio, qualcosa che solo lei udì. Qualcosa di sconcio, a giudicare dal rossore che si diffuse sulle guance di Gabriella.
Balder si affrettò a rimetterle Alf in braccio, in modo da separare i due prima che qualcuno si lamentasse, o che Tyr trascinasse via la moglie e scappasse loro anche il secondo figlio.
In quel momento si unirono al quadretto le ultime persone che mancavano: Vittoria, Tom con in braccio una Bernadette addormentata e Berenilde, trasognata dopo una visita a Faruk, che a quanto pareva era andata più che bene.
Per fortuna Thorn aveva scelto di vivere nel castello più grande, altrimenti non ci sarebbe mai stato spazio per tutti. Salame provò a saltargli sulle ginocchia, impedito dalla vecchiaia, ma lui si affrettò a scacciarlo. Poteva anche essere insospettabilmente bravo con i bambini, ma gli animali erano un'altra cosa.
E poi, quanto longevo era quel gatto?!
- Ho una cosa per voi - annunciò Vittoria, facendo ammutolire tutti, persino sua mamma.
Non parlava mai, non attirava mai l'attenzione su di sé... era facile che passasse inosservata, nonostante la somiglianza evidente con uno spirito di famiglia e l'incarnato pallido che sembrava rifulgere di luce propria.
Gaela si sporse dalla poltrona, incuriosita.
Vittoria srotolò un lungo cartoncino su cui erano dipinti in acquerello, con una tecnica incredibilmente realistica, tutti loro... e molte altre persone.
- Chi sono? - chiese Ofelia, strizzando gli occhi.
- Siamo noi... - rispose Serena a mezzavoce. - Ma ci sono...
- Sette ragazzini in più - concluse Randolf per lei.
Vittoria sorrise, visibilmente orgogliosa di se stessa. - Siamo noi, fra qualche anno. Tutti noi.
Balder deglutì. - Sette bambini?! - esclamò con voce strozzata, mettendosi a fare un veloce calcolo di come potessero essere suddivisi quei bambini tra loro cinque fratelli. Bambini ancora relativamente piccoli... avrebbero quindi potuto non essere tutti.
Questa volta, fu Thorn ad allungare la mano per stringere quella di Ofelia. Come se fosse un'estensione dei suoi artigli, Ofelia percepì la sua commozione arrivarle dritta al cuore.
- Siamo noi - mormorò.
Erano loro, la loro famiglia, in quel dipinto. Loro, che avevano dato vita a tutto.
Al centro dell'acquerello c'era Thorn, che svettava anche da seduto. Thorn, circondato da bambini aggrappati a lui. Bambini che lo amavano, che lo cercavano, bastava guardare i loro visi sorridenti e sereni per capirlo.
Erano loro, il loro amore. Il loro futuro.
Un ingranaggio alla volta.

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Capitolo 79
*** Capitolo 79 - Epilogo ***


Non ci posso credere che questo è l'ultimo capitolo. Alle ultime battute stavo per mettermi a piangere, non mi è mai successo con qualcosa che ho scritto io.
Solo che questa storia ha significato così tanto per me. In primis, per la storia di Ofelia e Thorn che ho amato e amo tuttora alla follia. Scriverla mi ha permesso di dare loro quel lieto fine che non hanno proprio avuto del tutto. E poi, mi ha dimostrato che posso farcela a concludere qualcosa, che se voglio posso trovare la determinazione, il tempo e la voglia per terminare una storia. Ne ho iniziate così tante senza mai concluderle...
Ma soprattutto, un ringraziamento speciale di cuore a tutti voi che mi avete seguita fino a qui, a voi 68 che avete messo questa storia nelle preferite e a voi 56!!! (non può essere una coincidenza xD) che l'avete messa nelle seguite. Senza di voi avrei anche mollato, ma i vostri commenti e la vostra presenza mi ricordavano sempre che Ingranaggi non era solo per me. Era per chiunque amasse Ofelia e Thorn e il meraviglioso universo della Dabos. In particolare, grazie a SaphiraLupin, consulente anche Bridgertoniana che è la mia lettrice di più lunga data. Ad Alchimia96 con cui ho amato chiacchierare, alla quale dobbiamo il soprannome di Terribile per Tyr e alla quale io devo un sacco in quanto a supporto. Le tue parole sono state spesso quelle che mi hanno spinta a scrivere una parola in più, una riga in più. E grazie a JeNihal che non è da tanto che si è aggiunta al gruppo delle assidue recensitrici ma lo ha fatto con un entusiasmo impareggiabile *-* A voi un grazie più speciale ancora.
Ma grazie anche a tutti quelli che hanno letto anche solo un capitolo.
Questo capitolo è per tutti voi, spero che possa farvi ridere, un pochino anche piangere, ma soprattutto che vi lasci con un dolce gusto in bocca e un bel ricordo.
Vostra, MaxB.


Capitolo 79 - Epilogo

Qualche anno più tardi... anche un po' di più...


- Altro che sette bambini - borbottò Balder, esasperato.
Vittoria passò di lì, sorridendogli angelicamente come se non fosse stata lei ad illuderlo che ci sarebbero stati solo sette bambini. Sì, perché prima Balder aveva temuto quel gran numero di prole in giro per casa. Poi l'aveva agognata, quando da sette erano diventati otto, poi dieci, e in un battito di ciglia stavano per diventare quindici.
- Le tette dei carlini?! - esclamò la zia Roseline, sgomenta.
Il tempo non era stato molto clemente con lei, che con la vecchiaia era diventata canuta, curva e pure sorda. L'artrite la perseguitava e ormai passava le giornate in poltrona a ricucire le pagine di vecchi libri che non avevano bisogno, in realtà, di essere aggiustati. Era diventata magra come un uccellino, anche se sulla poltrona sembrava una palla di lana: per sopperire al freddo, si infagottava in grossi maglioni che un tempo avrebbe vietato ad Ofelia, tanto erano brutti. E il numero di capi che indossava aumentava in maniera spropositata. Ofelia era preoccupata, ma non si poteva fare granché contro il freddo, specialmente quando sembrava sgorgare direttamente dalle ossa.
- State tranquilla - la rassicurava sempre Berenilde, che invece era invecchiata più che bene. - Vostra zia, figliola, è l'erba più cattiva che io conosca. E si sa che l'erba cattiva non muore mai.
Ofelia avrebbe voluto offendersi quando glielo sentiva dire, ma ogni volta che la guardava vedeva un affetto innegabile negli occhi sorridenti di Berenilde, e sorrideva persino lei. L'amicizia tra quelle due donne era strana, ma di sicuro era sincera. E profonda. Erano come il giorno e la notte, agli opposti eppure imprescindibili l'una dall'altra.
I boccoli di Berenilde erano diventati bianchi con l'età, ma la sua figura rimaneva elegante e non si vedeva traccia di rughe. Ofelia aveva sempre pensato che il trucco facesse miracoli, ma Vittoria le aveva rivelato che in realtà aveva chiesto un aiutino ad un Miraggio. Motivo per cui, ogni volta che entrava in una stanza, Ilda aggrottava la fronte, quasi fosse confusa.
A parte il leggero ritocchino, Berenilde era bella, felice, e somigliante al sire Faruk e alla figlia, con quei colori ancora più chiari del solito. E come poteva non essere felice, quando Vittoria le aveva regalato due splendidi nipotini? A Bernadette si era aggiunto Farid, un nome decisamente non comune di quell'arca, ma Vittoria aveva voluto dare un tributo anche al padre, oltre alla madre. In più era stata irremovibile, Tom non aveva potuto fare granché per proporre le sue, di scelte. Tutto sommato, lui sembrava soddisfatto. Stare dietro a Vittoria e ai figli gli prendeva quasi tutto il tempo, ma si vedeva con chiarezza quanto li amasse. E alla fine Berenilde aveva ceduto: i bambini la chiamavano nonna, non zia... ma solo quando erano in privato. Per la corte, lei sarebbe sempre stata la zia.
Un'altra persona decisamente in visibilio all'idea di essere circondata da nipoti urlanti era Renard. A distanza di cinque anni, Ilda e Balder gli avevano sfornato prima un maschietto, poi una femminuccia e poi un altro maschio. E poi avevano detto basta.
- Tre è il numero perfetto - aveva risposto Ilda quando Gaela le aveva chiesto quanti ancora avrebbe voluto farne. - Non sono mica una mucca.
Balder non aveva capito il paragone con le mucche, ma era più che d'accordo con la moglie. Soprattutto perché tre bambini piccoli davano un sacco da fare. Però aveva aggiunto, come giustificazione, rivolto al fratello: - Tre come noi. Il Terribile Trio.
Tyr si era quasi commosso.
Quanto a lui, dopo aver dato a Gabriella quattro maschietti pestiferi, pareva che finalmente stesse per diventare padre di una bimba. Gabriella si era messa a piangere quando Vittoria le aveva sorriso confermandole che, sì, era incinta di una femmina. In caso contrario avrebbe strozzato Tyr. E aveva dichiarato che dopo il quinto avrebbe chiuso i battenti, con sommo dispiacere del marito, che in realtà si divertiva ad essere padre. Forse perché, in fondo, si sentiva ancora un bambino anche lui, nonostante il folto baffo biondo che si era fatto crescere e che secondo lui gli dava un'aria incredibilmente virile. Non si poteva biasimare Gabriella per essere sempre stanca, insomma, specialmente dopo l'ultimo parto: due gemelli. Nonostante fosse provata e i bambini le risucchiassero tutte le energie, però, era assodato che fosse nata per fare la madre. Aveva una pazienza e una dolcezza infinite, i bambini pendevano dalle sue labbra... come suo marito. Se all'inizio era stata lei ad amare ciecamente Tyr, quasi irrazionalmente, ormai non c'erano più dubbi circa il fatto che Tyr non avrebbe più potuto vivere senza di lei. E alla fine Gabriella trovava davvero virili i suoi baffi, se ci aveva fatto cinque figli...
In dolce attesa era anche Mira, per la terza volta. Per lei niente gemelli, solo due femminucce e ora, a quanto diceva Vittoria, in arrivo un maschio. Anche lei aveva intenzione di fermarsi, nonostante il marito insistesse per averne almeno quattro. Ofelia sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsi se Mira avesse improvvisamente cambiato idea... erano gli svantaggi di essere sposata con un Persuasivo. Ma Berthold era una persona corretta, persino la sciarpa di Tyr ci andava più o meno d'accordo. E se era riuscito a passare il vaglio del cipiglio di Tyr, Balder e persino di Thorn, tutti estremamente protettivi nei confronti delle gemelle dopo lo spiacevole incidente accaduto con i cugini di Berthold e Milena, non c'erano incertezze circa la sua buona volontà. Ma bastava solo guardarlo per capire che non era lui ad esercitare il suo potere su Mira, bensì il contrario, e da molto prima che Mira ereditasse il potere dei Persuasivi. Lei ci aveva messo un po' di tempo per innamorarsi, rimasta scottata com'era dalla sua falsa amicizia con i Persuasivi. Le buone intenzioni di Berthold però erano evidenti, e quando aveva deciso di dargli una possibilità gli aveva fatto il regalo più bello del mondo. Le era bastato veder sorridere di quell'uomo così timido e serio quasi quanto Thorn per capire che dentro era bello tanto quanto lo era fuori. Per lo meno, a lei piaceva. Belle era di un altro avviso, ma i gusti non si discutevano.
A proposito di Belle, era praticamente l'unica a non essersi ancora sistemata... proprio come Randolf. Sia Ofelia che Mira sospiravano complici quando li vedevano andare al lavoro insieme, più vicini di quanto non fossero con chiunque altro, ma allo stesso tempo distanti, una distanza piccola che però sembrava incolmabile. Ofelia aveva provato più volte a parlarle, senza risultati. Belle si chiudeva a riccio quando sentiva pronunciare il nome di Randolf, e il ragazzo era così ermetico che sarebbe stato impossibile cavargli di bocca una frase che non riguardasse il suo lavoro. Non sapeva nemmeno quando si fossero innamorati, sempre che loro si fossero resi conto di esserlo. Ofelia non riusciva a capire se fosse un bene o un male che passassero così tanto tempo insieme, ma non ci si poteva far nulla.
Era così orgogliosa di ciò che stavano facendo che non voleva in alcun modo incrinare quel sottile equilibrio che si era creato tra loro. Diventato maggiorenne, Randolf aveva espresso al padre il desiderio di diventare un insegnante, come lui. Ma anziché essere un istitutore dell'alta società, uno schiavo dei ricchi come un tempo era stato suo padre, aveva voluto fondare una sua scuola. Una scuola per senza-poteri, per garantire, almeno in parte, pari opportunità a tutti. Prendeva uno stipendio misero, ma grazie alle anonime donazioni di Thorn e Archibald per sostenere le spese del progetto riusciva in qualche modo a far funzionare tutto quanto. Belle aveva abbandonato i sogni di gloria sulla corte dopo l'immane delusione subita, e si era concentrata sullo studio per cercare di redimersi ai suoi stessi occhi. Non era strano che si fosse avvicinata ancora di più a Randolf, che difficilmente tollerava le esuberanze di Mira. Chiudendosi in se stessa dopo essersi sentita in colpa per quello che aveva fatto, era stato quasi naturale per Belle avvicinarsi a Randolf. O meglio, essere avvicinata da lui, che non era abituato a vederla così abbacchiata. Avevano iniziato a passare più tempo insieme, solo per studiare, come un tempo avevano fatto Tyr e Gabriella. A differenza di loro, però, non erano mai andati oltre uno sfioramente di mano che faceva partire al galoppo il cuore di Belle... salvo poi farla risprofondare nell'incertezza. Randolf era solo gentile? Quando i suoi bellissimi occhi eterocromi, nero e verde, la guardavano, cosa vedevano? E quando si sistemava i capelli fulvi e indomabili al mattino, si chiedeva come sarebbe stato farseli accarezzare da lei?
Non era nulla, si diceva Belle. Solo amicizia. Così come un tempo Ofelia non aveva saputo riconoscere il suo amore per Thorn. In ogni caso, finché Belle stava bene con se stessa e con ciò che faceva, a detta sua, Ofelia sarebbe stata contenta per lei. A ben vedere, era esattamente quello che lei, in prima persona, aveva voluto una volta: la tranquillità del suo lavoro e l'appagamento derivante dal fare ciò che voleva, da sola.
In ogni caso, di sicuro a Belle il suo lavoro piaceva. E le veniva piuttosto facile, data la sua innata bontà e la mente assorbente come una spugna. Renard, lei e Randolf, che aveva preso la licenza con le sue sole forze, erano un trio di insegnanti che rivaleggiavano con le competenze dei rampolli più altolocati del Polo. E offrivano i loro servigi a dei senza-poteri! Il Nibelungen era stato impietoso nel commentare la loro "sovversiva e ripugnante opera di alfabetizzazione dell'inutilità", come aveva definito il progetto di Randolf. La miglior risposta che i tre insegnanti diedero a quel giornale fazioso fu l'apertura delle porte della scuola il giorno dopo, cui si presentarono tutti i bambini iscritti. Nemmeno uno era mancato all'appello, mai, tanto che una volta Randolf era stato costretto a rimandare a casa un giovanotto con la febbre che si era presentato malato a costo di non perdere la lezione.
Per Ofelia era stato un duro colpo perdere Renard, ma era stato anche il regalo più bello che sentiva di avergli mai fatto. Salvarlo dalla reclusione costringendolo a fare il valletto non era stato esattamente un regalo, quanto un recupero dalla prigione con cambio lavoro. Lei e Renard stavano bene insieme, ma Ofelia aveva capito che la vera vocazione dell'amico era l'insegnamento quando aveva assistito a qualche lezione tenuta ai loro figli. Renard era paziente, capace, sapeva farsi benvolere e, con tutti gli anni passati al servizio di dame capricciose, aveva l'abilità di adattarsi ad ogni studente tirandone fuori il meglio. Gli era sembrato quasi spaesato quando era tornato ad aiutarla nel suo studio, come se non sapesse più come fare quel lavoro. E per quanto le fosse utile e prezioso, nonché competente, gli era sembrato anche che fosse sprecato come segretario, o consigliere, o comunque la si volesse vedere.
Sapeva che era la decisione giusta lasciarlo andare, glielo avevano detto i suoi occhi verdi luminosi e il modo in cui si torturava le mani quando le aveva chiesto, scusandosi profusamente, se poteva dare le dimissioni. Tecnicamente era in pensione, data l'età, ma era ancora pieno di energie. Ofelia era felice di vederlo realizzato, con suo figlio, e si vedevano tanto quanto prima. In fondo, abitavano praticamente nella stessa casa.
A Renard era subentrata Mira. Non aveva il dono di leggere gli oggetti come lei e Balder, ma era un'ottima segretaria, organizzata quanto Thorn. Ofelia avrebbe teorizzato che forse la mania compulsiva per l'ordine e il controllo derivava dalla memoria degli Storiografi, ma ogni volta ci pensavano Tyr e il suo incurabile disordine a smentirla. In ogni caso, Mira era un'eccellente aiutante, sia per lei che per Balder. E per Tyr.
Pochi mesi dopo il matrimonio di Balder, il suo giro di clienti per l'uso dei ponti era raddoppiato. La sua occupazione principale era diventata quella di fisioterapista, a volte non riusciva nemmeno ad aiutare sua madre mezza giornata. In più, girare per il tutto il Polo per recarsi a casa altrui era una grossa perdita di tempo, oltre che un pericolo. Se n'erano resi conto quando Balder era tornato a casa con un dito mozzato chiuso in un fazzoletto e l'espressione disgustata.
- Non è mio - si era giustificato, cercando di non guardare mentre Thorn apriva il fazzoletto per studiare atarassicamente il dito, come se si trattasse di un bigliettino e non di una falange morta e insanguinata. - Legittima difesa. Il cliente che mi ha richiesto il servigio non era un Persuasivo, né tantomeno aveva bisogno di un massaggio.
- Me ne occupo io - aveva borbottato Thorn. - Tu stai bene?
Stoicamente, Balder aveva annuito e si era raddrizzato gli occhiali. - Anche un po' di più.
Thorn gli aveva lanciato una strana occhiata, tornando poi alle sue carte.
Ofelia aveva provato un disturbante senso di dejù-vu, ma soprattutto una sensazione inquietante che le strisciava sotto pelle. Ogni volta che vedeva Balder uscire dallo studio per recarsi da qualche paziente, si chiedeva se lo avrebbe rivisto, o come lo avrebbe rivisto.
La soluzione gliel’aveva presentata Mira una sera, prima di cena. Ofelia si stava mordendo le cuciture del guanto, alla ricerca di una sistemazione per il numero di clienti che da sola non riusciva più a gestire... e per i pazienti di Balder, in aumento e potenzialmente in cattiva fede.
- Perché non assumiamo Tyr?
Il diretto interessato aveva aperto un occhio, facendo ridere il figlioletto che pensava fosse addormentato. Ofelia invece aveva smesso di mordersi il guanto mentre la sua sciarpa si stiracchiava, sorniona.
Mira si era stretta nelle spalle, impacciata, quando si era ritrovata gli occhi di tutti puntati addosso, persino quelli di Tyr.
- Be'... l'altro giorno, passando per andare dalla modista, ho visto un locale in affitto più grande di quello che abbiamo noi ora. E non tanto distante. Siamo molto in attivo con le entrate, potremmo permetterci di vendere lo studio che abbiamo ora e comprare l'altro, espandendoci in modo da sfruttarlo congiuntamente come studio di lettura e fisioterapia. In questo modo Balder non dovrebbe andare in giro per tutto il Polo a casa di clienti, avrebbe lo spazio per riceverli comodamente. E tra un appuntamento e l'altro potrebbe darvi una mano con le perizie. Inoltre, assumendo Tyr ci sarebbe una gran mole di lavoro in meno sia per voi, mamma, che per Balder. Lui potrebbe essere... come dire...
Balder si era massaggiato il mento ispido, meditando ad alta voce. - Una spola. Un jolly. La mamma può solo leggere e Tyr può solo usare i ponti. Io potrei aiutare chi ne ha più bisogno.
Mira si era illuminata, grata che non avessero bocciato subito la sua idea. - Esatto! E io sarei in grado di gestire entrambe le contabilità.
- Io invece sarei il deterrente contro malintenzionati. Se prima provavano ad incastrarti, Bal, con me e te a lavorare insieme desisteranno tutti dal provare qualche colpo di testa.
Ofelia aveva guardato la figlia con ammirazione, sentendosi sciocca a non averci pensato lei stessa. - È davvero una buona idea Mira, grazie per averla proposta.
- Anche un po' di più - aveva commentato Thorn, talmente immobile, come al solito, da passare quasi inosservato. - Potrei cercare i dati catastali del locale in affitto domani, e occuparmi del resto delle carte.
Ad Ofelia era sembrato che le cose andassero troppo in fretta, ma quando Tyr aveva detto: - Ci sto! Sono stufo di fare il papà a tempo pieno mentre Gabriella lavora come vice mabasciatrice -, si era convinta.
Nel giro di pochi giorni avevano inaugurato il nuovo Studio di lettura e Dragopatia, con una velocità e una precisione che a volte la spaventavano. Avevano cambiato il nome del campo medico di Balder perché, be’, la medicina naturale poteva studiarla e applicarla chiunque. Solo i Draghi invece potevano esercitare i ponti. Tyr ci aveva subito preso la mano con la gestione dei clienti, anche se all'inizio erano stati un po' in soggezione. Nonostante fosse Balder quello più alto e con tanto di cicatrici di guerra sparse per il corpo, tra cui in viso, era la stazza di Tyr ad incutere più timore. C'era troppa somiglianza con Godefroy per non farci caso, ma Tyr era stato bravo a conquistarseli con la battuta pronta e l'atteggiamento leggero.
Dopo una settimana, sembrava che madre e figli lavorassero insieme da sempre anziché da pochi giorni. Balder passava in un attimo dal camice bianco alle mani nude per la perizia di qualche oggetto, Ofelia accoglieva i clienti e leggeva gli oggetti, Tyr distendeva i nervi dei pazienti e Mira fatturava mentre stilava i referti medici e le perizie e batteva cassa. E spesso faceva due o tre cose contemporaneamente.
Mira e Thorn insieme erano temibili quanto lui e Serena nei panni di intendenti. E a proposito di intendenza, qualche anno dopo la nascita di Anja e Agnes, che rimasero le uniche figlie di Serena e Archibald, Serena diventò intendente...
E Thorn andò in pensione.
Tutti gli dicevano che se l'era meritato, che era ora che smettesse di lavorare, che anche Ofelia si sarebbe finalmente dovuta riposare, con i figli grandi e i nipoti che crescevano. Ma Thorn era incapce di stare fermo. Quando Serena lo mandava gentilmente via dall'intendenza affinché lasciasse lavorare lei da sola, dato che la presenza di estranei non era giustificata se non per appuntamenti, Thorn andava ad aiutare Tyr permettendo a Balder di aiutare Ofelia. Quando veniva cacciato anche da lì, soprattutto da Mira che odiava che qualcuno ficcasse il naso nei suoi conti impeccabili, andava a tenere qualche lezione di economia alla scuola di Randolf. Economia o qualunque altra cosa servisse insegnare. Non c'era una singola materia su cui non avesse delle conoscenze approfondite. Belle e Randolf non avevano cuore di mandarlo via (Randolf più che altro non ne aveva il coraggio), in più spaventava gli alunni, ma nessuno lo fece mai sentire sgradito. A quanto pareva lo stakanovismo era radicato in lui quanto i suoi ricordi.
Ofelia si riprometteva sempre di organizzare una vacanza solo per loro due quando avesse anche lei smesso di lavorare. Un'avventura in giro per le arche, magari a Babel, dove pareva che ci fosse la più grande biblioteca di tutte, chiamata Memoriale. Poi però Ofelia guardava i nipoti, i figli, il suo lavoro, e la voglia di andarsene da sola con Thorn si affievoliva. Ormai era da tempo, da tanto tempo, che non erano più solo loro due. E la cosa andava bene ad entrambi, per quanto fossero indispensabili uno per l'altra.
Gaela, invece, di lavorare non ne voleva più sapere, dopo una vita passata chinata sotto i motori di macchine e marchingegni. Aveva venduto l'officina ad un ottimo prezzo grazie al giro clienti che aveva. Non avrebbe potuto passarla a nessun successore, dal momento che Ilda era più interessata alla costruzione meccanica che alla riparazione e Renard e Randolf erano letterati. Anche Gaela però non era il tipo da starsene con le mani in mano. Ci aveva provato, al contrario di Thorn; un tentativo di prendere la vita con leggerezza. Era durata due giorni, poi se n'era andata in giro borbottando che se non le avessero dato qualcosa da fare avrebbe dato di matto. Era finita così a lavorare con Ilda e... con i nipoti. Ilda era un'inventrice molto dotata e dalle mani abili anche per la costruzione, mentre Gaela aveva le conoscenze tecniche necessarie per far funzionare i meccanismi. Grazie al matrimonio con Balder, inoltre, Ilda aveva ereditato l'animismo che le serviva per dare vita agli oggetti, unica cosa che ancora le mancava per rendere le sue creazioni uniche e autonome. C'era anche da dire che non sempre, ovviamente, quello che costruiva funzionava al primo colpo. In quel caso, il retaggio da Nichilista le tornava più che utile. Era come se in parte spegnesse il suo stesso animismo, in modo che lei potesse usarlo solo a piacimento, e non in modo involontario. Con lei, per quanto fosse arrabbiata o felice, i mobili non davano mai di matto. Si agitavano solo se era lei a volere che lo facessero.
Gaela se la prendeva comoda, ora che non aveva più orari fissi e appuntamenti, considerando l'aiuto che dava alla figlia più un hobby che un lavoro. Quando si stancava andava dietro ai nipoti, che adorava anche se non lo avrebbe mai ammesso, e quando si stancava anche di loro... be', tornava a lavorare.
In effetti non la si poteva biasimare... se i ragazzi di per sé davano già abbastanza da fare, quelli con poteri multipli erano una vera impresa da gestire. Tra nichilismo, animismo, artigli, attraversaspecchi, lettori, persuasione e memoria ce n'era già abbastanza per far impazzire i genitori. Come se non bastasse, quando le bambine di Serena e Archibald e i figli di Tyr e Gabriella erano cresciuti, si erano accorti di un fatto alquanto insolito. Serena e Archibald avevano una connessione mentale, una Rete tutta loro, e lo stesso valeva per Tyr e la moglie. Ovviamente, i genitori erano connessi ai rispettivi figli... se non che i figli stessi erano connessi mentalmente ai cugini! Thorn aveva meditato a lungo sulla questione, giungendo alla conclusione che probabilmente il collegamento alla Rete aveva a che fare con il sangue. Solo tra consanguinei poteva essere tramandato, e solo i consanguinei facevano parte della stessa Rete. A meno che, ovviamente, non ci si sposasse con un membro che già era collegato ad una Rete. Nel caso specifico, Archibald e Gabriella erano stati estromessi dalla Rete, il loro legame era stato reciso... ma non significava che il potere familiare fosse sparito. Infatti, loro lo avevano condiviso con i coniugi, e poi con i figli... quei figli che avevano un legame telepatico già in atto con i genitori al momento della nascita, senza recisioni, e che avevano trovato un collegameno automatico con i cugini. Un vincolo rafforzato dal sangue in comune, congiunto, di Archibal e Gabriella e di Serena e Tyr. Quel connubio di fattori aveva fatto sì che i genitori fossero mentalmente legati ai figli, e che i figli fossero legati ai genitori e ai cugini.
Era come se una nuova, piccola Rete fosse nata.
La questione dei poteri multipli era ben presto diventata un problema per una società inflessibile e radicata nelle tradizioni come il Polo. I tatuaggi dei clan non erano solo un simbolo di lustro o un ornamento, erano una protezione. Dovevano sempre essere in bella mostra, così che le persone potessero capire a cosa andavano incontro parlando con una determinata persona. Sapendo che di fronte a sé c'era un Drago, qualcuno di sicuro avrebbe usato maggior cautela nel discutere, per non suscitare una violenza in cui non rischiava di incorrere parlando, per esempio, con un Narcotico o un Nichilista. O uno Storiografo.
La discendenza di Thorn, varia e multipotere, aveva iniziato a creare davvero scompiglio quando aveva contratto matrimonio con membri di altri clan, seminando ancora più confusione. Partendo dal presupposto che tutti erano capaci di influenzare gli oggetti, c'erano ora Draghi Nichilisti, o Draghi Attraversaspecchi collegati alla Rete, o lettori Persuasivi Storiografi, così come Attraversaspecchi Draghi Persuasivi Storiografi (la seconda figlia di Mira e Berthold aveva davvero vinto il jackpot dei poteri familiari, se si includeva anche l'animismo)! Un tale guazzabuglio che talvolta nemmeno i genitori ricordavano più quale potere avessero i figli.
Così Serena aveva proposto, in seno alla corte, una modifica da apportare ad una legge vecchia di trecentoquaruntuno anni. Si era battuta con anima e corpo, sostenuta dalla nuova ambasciatrice Gabriella, quando non era impegnata a stare dietro ai maschietti teppisti che aveva messo al mondo, e dal marito che sapeva ancora quali tasti toccare con i vari membri della corte del Polo. Alla fine l’avevano spuntata con il minimo di consensi necessari per modificare la legge, ma era stata comunque una vittoria. Una vittoria che permetteva ai membri della nobiltà di avere dei tatuaggi multipli. In quel modo, Tyr dovette tatuarsi il braccio come i Draghi, la spirale degli Storiografi e la fronte in quanto appartenente alla Rete; anche se il simbolo che avevano Archibald e Gabriella venne leggermente modificato nella forma, in modo tale da non confondere tra loro la Rete originale con quella che era nata in seguito alla recisione dei due ambasciatori. Mira lo seguì a ruota, aggiungendo però al suo corpo il tatuaggio da Persuasiva. Serena invece si era ritrovata solo con la spirale da Storiografa e il simbolo della Rete, Balder aveva solo il braccio tatuato e Belle aveva la spirale e il braccio ds Drago. Ilda aveva dovuto farsi tatuare il braccio perché aveva ereditato gli artigli dei Draghi, come Gabriella, e lei e Randolf erano stati ufficialmente riconsciuti come Nichilisti. Ofelia era sicura che prima o poi avrebbero imposto anche a lei dei tatuaggi, magari per il dono di attraversaspecchi, per l'animismo oppure per la capacità di leggere, ma per il momento nessuno aveva detto nulla e lei taceva. Non c’era nessun tatuaggio legato ai poteri animisti che lei aveva trasmesso a figli e nipoti.
Se prima la corte aveva sempre guardato con altezzosità quel nuovo sangue dai molteplici poteri, come se i figli dell'intendente non fossero degni di stare a contatto con gli atavici discendenti dei primi figli di Faruk, dopo la legge sui tatuaggi divennero gelosi. Anzi, invidiosi. Si erano resi conto che era impossibile, per la progenie di Thorn e i relativi coniugi, essere banditi dalla corte o vedere il proprio casato cadere in disgrazia. Se la Rete avesse perso il favore di Faruk, o magari fosse successo ai Persuasivi, loro sarebbero rimasti a galla grazie al potere dei Draghi. Viceversa, se per ipotesi i Draghi fossero stati disconosciuti, alcuni sarebbero sopravvissuti nella corte grazie al retaggio da Persuasivi, o Nichilisti.
Anche se era impossibile che i Draghi perdessero importanza, soprattutto visto il numero di membri che ormai ne facevano parte. All'iniziale gruppo preposto per la caccia si erano aggiunte Gabriella e Ilda, la prima con ansia e la seconda con trepidazione, e poi tutti i figli di Gabriella e Tyr, la figlia e il figlio minore di Balder e Ilda, e la primogenita di Mira e Berthold. Anche se Ofelia temeva ancora le loro partenze annuali, soprattutto per i nipoti che sembravano prendere troppo alla leggera quel compito pericoloso, era allo stesso tempo sollevata di vedere un così folto numero di persone. Se l'unione faceva la forza, quello era decisamente il gruppo di Draghi più forte che il Polo avesse mai visto. Addirittura a volte i più piccoli erano scoraggiati quando tornavano a casa, perché erano in così tanti da non poter uccidere più di tante Bestie a testa.
Erano appunto appena tornati da una caccia quando Balder si lamentò dei sette bambini. Da quando avevano visto realizzarsi la premonizione di Vittoria, erano praticamente raddoppiati. I due figli di Balder stavano rincorrendo i quattro teppisti loro cugini, i figli di Tyr. Gabriella fece capolino nel soggiorno con il pancione prominente, ormai prossima al termine, intimando a Tyr di fermare la sua progenie se non voleva che lei partorisse nel soggiorno. La figlia di Balder, quella che saggiamente non seguiva fratelli e cugini, si avvicinò alla zia incinta insieme alle gemelle di Serena, per sentire la cuginetta scalciare nel pancione. Vittoria invece teneva per mano suo figlio e sua figlia, più loquaci di lei ma al tempo stesso sempre un po' sulle loro, come la madre. Le due ragazzine di Mira corsero invece incontro al nonno, aggrappandosi alle sue gambe come a suo tempo aveva fatto la loro mamma, sempre pronta ad abbracciare e donare affetto. Mira, con la pancia che iniziava a intravedersi, e Belle si guardarono sorridendo, pensando la stessa cosa senza bisogno di essere parte dello stesso clan mentalmente collegato. Ilda invece diede di gomito a Balder, indicando i sei ragazzi ormai grandicelli che avevano iniziato a ruzzolarsi sul pavimento come se avessero cinque anni. Ilda scoppiò a ridere dopo aver sussurrato qualcosa all'orecchio del marito, che era sbiancato e si era messo a scuotere la testa freneticamente, facendo volare persino gli occhiali. Probabilmente gli aveva chiesto se volesse un altro figlio, che per Balder era più un incubo che un desiderio.
La zia Roseline invece urlava per i quattro angoli del salotto: - Chi?! Cosa?! -, cercando di seguire più conversazioni contemporaneamente e non riuscendo a capire mezza parola di nessuna.
Bernadette e Farid si staccarono dalla mano della madre quando Porchetta saltò sul divano, evidentemente terrorizzato da tutto quel caos.
Salame era ormai morto da diversi anni, con enorme dispiacere di tutti. Thorn aveva fatto ricerche approfondite per capire quanto potesse essere longevo un gatto e quale fosse il record di vita esistente. Aveva lavorato diversi giorni dal momento che, com'era prevedibile, le date di nascita e di morte degli animali domestici non venivano registrate. Si vedeva che Thorn ormai era in pensione... In ogni caso, dopo accurate ricerche, Thorn aveva scoperto che non era mai esistito un gatto che fosse vissuto quanto Salame. Il suo voleva essere un tentativo di consolazione, dato che tutti, persino la zia Roseline, piansero la sua dipartita. Era anche immaginabile, dal momento che quel gatto aveva fatto parte delle loro vite come un familiare, da prima del matrimonio di Ofelia e Thorn e Gaela e Renard e per tutta la nascita e la crescita dei loro figli. Ofelia dubitava che gli altri avessero capito l'intenzione dietro la ricerca di Thorn, quindi si era commossa quando aveva visto Renard, il vero proprietario di Salame, alla fin fine, stringere brevemente la spalla di Thorn in segno di riconoscenza. Un gesto azzardato, un gesto che di sicuro Thorn non avrebbe apprezzato, restio com'era al contatto fisico con chiunque non facesse parte della sua famiglia. Invece aveva annuito, riconoscendo il dolore di Renard e rispettandolo, accettando il suo ringraziamento. Ofelia aveva sentito pizzicarle gli occhi vedendo quello scambio silenzioso. Porchetta era arrivato con Archibald, che un mese dopo la morte di Salame aveva raccattato per strada un cucciolo di gatto dal pelo grigiastro mezzo morto di fame. In effetti, il colore del pelo ricordava la porchetta. E in onore a Salame, anche lui aveva adottato il nome di un salume.
E anche la sua vitalità, dal momento che era vispo quanto i giovani maschi di casa.
Ofelia guardò ridendo Farid che prendeva il braccio Porchetta, mentre il gatto soffiava con astio verso i figli di Tyr, memore di quanto fossero dispettosi. Tyr si accarezzò i baffi con un sorriso da bambino dipinto sul volto... un sorriso da bambino furbo, lo stesso che avevano i suoi figli. E infatti, andò a bisbigliare loro qualcosa adocchiando maliziosamente sia Bernadette e Farid che i cugini dalla parte di Balder. Che infatti, intuendo la mal parata, andò verso da lui con cipiglio minaccioso. Tyr si mise a ridere e sussultò, pizzicato da un colpo d'artigli probabilmente, mentre padri e figli si mettevano a bisticciare.
La zia Roseline li sgridò agitando un pesante vocabolario.
Vittoria sorrise con aria pacifica a tutti, come se fosse una diva di teatro intenta ad ammaliare un pubblico e non una madre nell'occhio del ciclone.
Ilda, Serena e Gabriella scuotevano la testa e Archibald se la rideva.
Renard tentava di sedare le rivolte tra i nipoti e gli altri ragazzi.
Randolf impallidì, e solo una distrazione da parte di Belle poté trattenerlo dallo scappare.
Mira si mise a sgridare le sue figlie che stavano disturbando Berenilde.
In quel marasma, Thorn cercò gli occhi di Ofelia. Per essere un uomo imperturbabile, un maestro nel nascondere le proprie emozioni, da quando erano nati i nipoti era diventato particolarmente bravo a lasciar trapelare la sua esasperazione. E non a torto, dato che tre tra i bambini più piccoli ne approfittarono per placcarlo come dei cacciatori con una Bestia. Thorn li fissò con la fronte aggrottata, come se si stesse domandando da dove fossero sbucati tutti quei bambini urlanti e pestiferi. Guardò l'orologio da taschino come se potesse contenere la risposta a quel quesito, poi fissò di nuovo la moglie.
Ofelia finse di essere impegnatissima a farsi una treccia, pettinandosi con le dita i lunghi capelli ormai più candidi che scuri. Nascose un sorriso nella sciarpa senza smettere di guardare Thorn, vacillando quando i bambini decisero di andare ad abbracciare anche lei, oltre al nonno.
E tra il vociare e i richiami di papà, mamma, nonno e nonna, ai quali si giravano almeno tre persone prima di capire quale ragazzo avesse chiamato chi, Thorn e Ofelia rimasero a fissarsi.
Come se fossero i soli nel grande salone.
Come se la scena che si svolgeva sotto i loro occhi fosse stata merito loro.
E lo era, si rese conto Ofelia. Avevano dato loro vita a quella confusione vitale, a quell'amore.
Si avvicinò a Thorn, mentre i nipoti andavano ad importunare qualcun altro.
Gli tirò la manica, come faceva quando era giovane. Giovane e ignara. E incompleta.
- Non avevi detto di non volere marmocchi? - lo prese in giro a bassa voce, così bassa che Thorn dovette chinarsi verso di lei.
- Ho una moglie propensa al catastrofismo - rimarcò lui, imperturbabile.
Ofelia ridacchiò. - A me piace questa catastrofe - ammise guardandosi attorno. - E a te?
Thorn intrecciò le dita con le sue, un gesto che poche volte si era concesso di fare. Nonostante ormai Ofelia si considerasse vecchia, nonostante fosse una nonna, nonostante avesse da tempo passato il periodo dei batticuori e del formicolio della pelle quando Thorn la toccava, sentì un piacevole calore pervaderle il petto.
Rispose alla stretta di Thorn, chiudendo le sue piccole dita attorno alla grande mano del marito.
E Thorn rispose a lei: - Anche un po' di più.











*Piccola nota*
Scusate se aggiungo altro a quello che ho scritto sopra, ma volevo lasciarvi concentrare sul capitolo e scrivere qui sotto questa piccola aggiunta.
Ho deciso infine di inserire un 80° capitolo, molto breve, che so già che non piacerà a tutti. Per questo motivo ho già messo il flag di Completo alla storia. La storia finisce qui.
Ma se siete in vena di angst, o di farvi male, o di vedere che idea malsana ho avuto, sappiate che pubblicherò anche un piccolo capitolo triste. Non so dirvi quando, forse ci vorranno più di consueti dieci giorni e ci vedremo a dicembre, però ci sarà.
Solo a titolo informativo.
Grazie ancora per aver finito di leggere Ingranaggi ed essere arrivati fin qui con me.

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Capitolo 80
*** Capitolo 80 - Il Sogno di una Vita ***


Eccomi qui. Non è passato nemmeno un anno da quando ho concluso Ingranaggi, a novembre 2023, eppure mi sembra molto di più. Mi sembra un'altra vita.
Avevo archiviato questa parte della storia, l'ultima parte, nel mio pc, dicendo che prima o poi l'avrei pubblicata. Ma me lo sono scordata. O meglio, penso che il mio cervello abbia voluto scordarsene, per non renderlo vero.
Vi avevo detto nell'epilogo che sarebbe stata una parte estremamente drammatica. Non credo però che immaginiate quanto. Forse pensate che sarà la morte, dopo anni di felicità, ad una veneranda età, nel proprio letto, al calduccio, circondati dalla famiglia, di Thorn o di Ofelia.
Lo spererei anche io, ma non è questo che mi sono sentita di scrivere.
Quindi, se non volete che la magia di questa storia finisca, se volete davvero un epilogo felice per Ofelia e Thorn, un epilogo che la Dabos non ha scritto (non è una critica, non posso criticarla per aver creato questo meraviglioso universo), non leggete questo capitolo.
Io ho dovuto scriverlo, perché volevo che la mia storia fosse reale. Ma non può essere reale, se la Dabos ha scelto un epilogo diverso.
Nulla di quello che c'è dentro Ingranaggi esisterebbe dentro la storia originale.
Però niente ci impedisce di... sognare.
Grazie di cuore a tutti.


Il Sogno di una Vita

Ofelia si svegliò in preda all'affanno, respirando convulsamente, madida di sudore e con i capelli più aggrovigliati del solito.
La sciarpa le allungò gli occhiali, mettendoglieli lei stessa sul naso. Ofelia l'accarezzò, grata più che mai dell'aiuto che le aveva fornito in quegli anni, ma se li tolse usando i palmi. Si massaggiò il viso, ricordandosi come poteva strofinarsi per bene gli occhi quando aveva delle dita.
Solo allora si rese conto, sentendosi in colpa, che a letto c'era solo lei. Le lenzuola di fianco a sé erano fredde, Thorn si era alzato da un po'. Eppure era sicura che fosse ancora notte.
- Sono qui - rispose lui, come se le avesse letto nel pensiero.
Una voce profonda, un timbro duro, un tono privo di qualsivoglia dolcezza.
Ofelia si rimise gli occhiali e guardò subito verso il punto da cui aveva sentito provenire la voce.
Thorn se ne stava abbarbicato su una vecchia poltrona nell'angolo, curvo, ripiegato come un mobiletto. Sembrava fatto di vetro, un materiale sottile e crepato pronto a frantumarsi in qualunque momento.
Ofelia sentì il cuore decelerare quando lo vide, si sentì pervasa di una calma immotivata. Se Thorn era lì con lei, andava tutto bene.
Doveva essere così, no?
- Incubo? - chiese lui, con il piglio da inquisizione che aveva sempre avuto in un altro tempo, in un altro luogo.
Ofelia annuì, sentendo un improvviso dolore alla nuca. Sopportabile, ma inaspettato.
Thorn parve quasi intuirlo. - Non mi interessa, data la botta che hai preso ieri in testa. Hai dormito per dodici ore filate. Non c'è traccia di commozione cerebrale.
Ofelia si tastò la testa con i palmi, sentendo l'inconfondibile protuberanza di un bernoccolo. Era caduta dalle scale, il giorno prima. Aveva battuto la testa.
Si portò poi le mani sulla pancia, battendo più volte le palpebre. Parve realizzare qualcosa, e le sue spalle si afflosciarono.
Thorn le fu accanto in un attimo, silenzioso e rapido come sempre. Il suo sguardo si affilò quando Ofelia cercò i suoi occhi, come se si recriminasse per qualcosa che non poteva darle. Come se si biasimasse. Sapeva sempre, in qualche modo, quando Ofelia soffriva per un motivo che non si dava la pena di descrivergli. Nonostante gli anni, era come se ciò che gli aveva rivelato su di sé fosse ancora un segreto. Come se, evitando di parlarne, Ofelia potesse considerarlo una bugia, qualcosa che non la riguardava. Ingannando se stessa e Thorn, anche se Thorn non si faceva ingannare. E sapeva, sapeva più di quanto lasciasse vedere.
Sotto gli occhi dal bagliore metallico aveva delle occhiaie scure e così profonde che Ofelia si chiese se dormisse, prima di ricordarsi che in effetti no, quasi non dormiva.
Poco a poco il sogno stava scivolando via, sostituito da pezzi di realtà. Pezzi affilati come dei vetri. Come dei rasoi.
Thorn non dormiva quasi nulla da quando era... tornato da lì. Da quando lei era riuscita a tirarlo fuori, dopo anni. E dopo mesi, ancora Thorn non dormiva. Come se fosse possibile, il suo corpo era diventato ancora più magro e spigoloso. Non aveva più quella leggerissima morbidezza che aveva percepito... nel suo sogno. In quella realtà, lei non lo aveva mai costretto a mangiare, e lui non l'aveva assecondata.
La sua inquietudine doveva essere palese, perché Thorn l'abbracciò. All'improvviso, bruscamente, come suo solito, ma era tutto quello di cui Ofelia aveva bisogno. Avrebbe voluto aggrapparsi alla sua camicia, invece si limitò a posargli i palmi sul petto. Sentiva il suo cuore battere forsennatamente, come se fosse stato contagiato dalla sua ansia.
Le si inumidirono gli occhi. Thorn le accarezzò i capelli, incerto su come fare. Non era mai stato bravo a consolare, Ofelia lo sapeva. Ma qualsiasi gesto lui tentasse con quello scopo era come balsamo su una ferita.
- Parlamene - le ordinò Thorn.
Se non fosse stata così sconvolta, Ofelia avrebbe sorriso per il suo tono. Non era più intendente da anni, ma quel ruolo gli era impresso addosso come se lo covasse sotto pelle, nei nervi e nel sangue, come gli artigli.
Non era una domanda, era un ordine.
Ofelia esitò, ma poi si rese conto che i contorni del sogno diventavano più sfumati. Le lasciavano dentro solo una sensazione agrodolce, che un domani sarebbe diventata piacevole, ma per il momento era solo bruciante. Come un'epifania. Come lo scorcio di una vita altrui. Una vita che avrebbe amato, ma non avrebbe mai potuto ottenere. Chissà se un'altra Ofelia, compiendo scelte diverse, avrebbe potuto vivere quell'esistenza. Imperfetta, certo, eppure...
- Non è stato un incubo. È stato... un sogno molto bello. Avrei voluto che durasse ancora un po'.
Il vero incubo era, ora, saper di dover vivere senza quella prospettiva. Il suo cuore scoppiava di gioia da quando aveva ritrovato Thorn, ma c'era sempre un fondo di acuminato dolore sotto tutto quell'amore. Come se, nonostante tutto, amandosi si ricordassero a vicenda ciò che era stato e che avevano perso, ciò che erano stati e non avrebbero più potuto essere.
Ofelia si convinse che sarebbe stato difficile solo per quel giorno, come sempre quando un sogno ti destabilizza. A volte sognava Renard, sognava Gaela e talvolta anche Archibald, e sentiva un'infinita tristezza invaderle le membra come se la loro assenza l'appesantisse.
Sarebbe passata, quella sensazione. Domani, forse.
Ma non voleva che il sogno svanisse. Non voleva dimenticarsene, come purtroppo accade con tutti i sogni, a volte anche dopo poche ore, o pochi minuti.
Ofelia guardò Thorn, scostandosi appena. Non voleva allontanarsi dal suo calore. Voleva qualcuno che conservasse la sua memoria, seppur fantasiosa, anche quando fosse evaporata dalla sua mente come la rugiada al mattino.
Thorn non le mise fretta.
- Puoi... conservare tu questo sogno per me? Io di sicuro lo dimenticherò.
- Io non dimentico mai nulla.
Ofelia sorrise tristemente. - E non ne sono mai stata così felice.
Prese un respiro profondo, premette il viso contro il petto del marito. Contro il suo cuore.
Persino Thorn perse la nozione del tempo impiegato da Ofelia per raccontare quel sogno. Un sogno lungo, un sogno vivido, un sogno che lui non avrebbe mai potuto darle. Ma un sogno che stava già svanendo da lei, che era costretta a lunghe pause per ricostruire i fatti avvenuti quando c'erano dei buchi di memoria.
Thorn fu paziente. Ascoltò in silenzio. La strinse, così immobile che Ofelia temeva che non sarebbero più stati in grado di muoversi, di staccarsi.
E così, grazie a Thorn, rievocò una vita insieme, una vita che avevano scelto, che non era stata imposta loro da nessuno. Riportò in vita Serena, Balder, Tyr, persino Lisbeth, e Mira e Belle. Gli narrò di Ilda e Randolf, di Renard e Gaela. Dopo un tentennamento piuttosto lungo, gli raccontò anche di Archibald... Archibald e Serena. E poi dei loro nipoti. Di quanto lui fosse stato un padre eccezionale e un nonno incredibilmente amato. Cercò di fargli sentire com'era stato, nel suo sogno, tenere in braccio i loro figli appena nati, e vedere lui fare lo stesso, con estremo amore, estrema cura, estrema capacità. Gli parlò di loro. Arrossì, addirittura.
E quando finì, molto tempo dopo, Thorn la baciò delicatamente. Non disse nulla, ma Ofelia sapeva che era un po' come il suggellamento di un patto, quel bacio. Thorn sarebbe stato il custode del suo sogno.
Avrebbe condiviso con lei quel fardello, e insieme lo avrebbero affrontato, un giorno alla volta.
Ofelia tornò a sdraiarsi sul letto. Implorò con gli occhi Thorn, affinché la spogliasse.
Si amarono lentamente, intensamente, come se un'estrema cura nei loro gesti potesse dare loro ciò che entrambi sapevano non essere possibile.
Un atto che avrebbe dovuto portare alla generazione di un figlio, un'unione d'amore che avrebbe dovuto generare altro amore, che avrebbe dovuto generare una cosa meravigliosa: un bambino che fosse in parte Ofelia e in parte Thorn.
Avrebbe dovuto.
Invece li restituì solo a se stessi, ricordò loro che l'altro c'era, e ci sarebbe sempre stato. Che ne avevano passate tante, insieme e da soli, e tante altre ne avrebbero passate, ma solo insieme.
Non si sarebbero separati mai più, si sarebbero sempre bastati.
E, in qualche modo, Thorn avrebbe sempre portato con sé i loro figli, ricordandoli come se fossero davvero esistiti. Perché, un po', erano parte di loro.
E loro erano parte l'uno dell'altra.

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