College Wars

di destiel87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Across the universe ***
Capitolo 2: *** Walking on the moon ***
Capitolo 3: *** Neutron star collision ***



Capitolo 1
*** Across the universe ***


Story 1 – Across the universe



 
“Limitless undying love,
Which shines around me like a million suns,
It calls me on and on across the universe.

Nothing's gonna change my world.”

 
 
“Abbiamo appena ascoltato un classico del 68’, Across the universe, dei Beatles! Qui è dj Yoda che vi parla, per la Light Force radio, in diretta dall’assolata San Francisco. Oggi ci sono 35 gradi, le spiagge sono affollate di surfisti e belle ragazze in bikini, mentre davanti al municipio centinaia di ragazzi si sono radunati per protestare contro la guerra del Vietnam. Ma il vostro Yoda lo sapete, non vuole parlare di guerra con voi! Ditemi invece, se poteste girovagare per l’universo, con uno zaino in spalla, dove andreste?”
 
Il professor Kenobi stava ascoltando la radio, seduto nel suo ufficio alla San Francisco University, con un libro sulla guerra in corea tra le mani.
Si accarezzava distrattamente la barba, pensando alla domanda appena sentita.
Era un ufficio piuttosto grande e luminoso il suo, le librerie erano ricolme di libri e la scrivania di saggi da correggere.
Improvvisamente la porta si aprì di colpo, ed un giovane ragazzo entrò fischiettando.
Solo un ragazzo in tutta l’università, in tutto lo stato a dirla tutta, avrebbe potuto entrare nel suo ufficio senza bussare, lanciando la sua giacca di pelle nera sul divanetto.
“Buongiorno Anakin!” Esclamò il professore, fingendo indifferenza.
Con la coda dell’occhio tuttavia si fermò ad osservare quello splendido e seducente ragazzo, con le cuffie alle orecchie, che scuoteva il corpo e mimava con i movimenti delle dita, quelli che avrebbe eseguito con la sua chitarra.
I jeans stretti, la maglietta nera con la scritta “the sith” il nome del suo gruppo, stampata in rosso.
I capelli biondo castano che ricadevano mossi come le onde sul collo.
Il ragazzo, ben consapevole dello sguardo su di lui, continuò a muoversi per la stanza, ignorando il professore, e aspettando che abboccasse alla trappola.
Non dovette attendere a lungo, che il professor Kenobi si alzasse per catturarlo tra le sue braccia, iniziando a muoversi con lui in una specie di danza.
Anakin gli mise le cuffie sulle orecchie per fargli sentire la melodia, e l’altro in tutta risposta gli diede un bacio.
Anakin si sentii pizzicare le guancie dalla sua barba, e ispirò a pieno quel suo odore di sapone e muschio bianco. Appoggiò la testa sulla sua spalla, e strinse le braccia intorno alla sua ampia schiena.
Erano tutte cose che adorava di lui, cose semplici, che però lo facevano sentire bene.
 “Sai mi sento un po’ tradito però…” Esclamò dopo un po’.
Il professore si tolse le cuffie per sentirlo meglio, guardandolo confusamente.
“Ti ho beccato sai? Stavi ascoltando i Beatles!”
Obi Wan scoppiò a ridere.
“Ma non ti vergogni? Il tuo ragazzo suona in un gruppo rock e tu ascolti quella roba!”
Obi Wan sospirò.
“Se è per questo, il tuo compagno legge Hugo e tu fumetti. Chi si dovrebbe vergognare adesso eh?”
Anakin gli fece una linguaccia, che subito si trasformò in un’altro bacio.
Obi Wan gli stava accarezzando la schiena, scivolando sotto la sua maglietta, quando d’improvviso bussarono energicamente alla porta.
C’era solo un ragazzo, anzi, una ragazza, che bussava in quel modo.
Obi Wan si sistemò il maglione, mentre Anakin gli passava le dita tra i capelli, pettinandolo alla buona.
Giusto il tempo per dire: “Entri pure” Che la ragazza aveva già sfondato la porta.
“Signorina Padme.” Esclamò compostamente Obi Wan.
“Ciao Padme!” Aggiunse Anakin, sollevando le dita per fargli un segno.
“Immaginavo che ti avrei trovato qui Ani!” Ripose lei, alzando il sopracciglio.
“Mi conosci!”
“Oh altrochè! Ma adesso mi serve il professore, ho delle domande importanti!” Disse lei, lasciando cadere una pila di libri sulla sua scrivania.
Obi Wan sospirò, osservando quella piccola determinata ragazza.
Ammirava la sua forza di volontà ed il suo altruismo, anche se temeva che prima o poi i suoi modi bruschi e diretti l’avrebbero messa nei guai.
“A dir il vero, ero convito che fosse andata a manifestare per la pace stamattina.”
“Oh ci sono andata!” Rispose lei, mostrando fieramente un grosso segno rossastro sul braccio.
“Quei porci degli sbirri!” Sbottò Anakin, andando a controllare.
“Anakin, modera il linguaggio!”  Lo rimproverò lui.
“E in quanto a lei signorina, credo che faremo bene a fare due chiacchere.” Aggiunse, incrociando le braccia sul petto.
Anakin e Padme si guardarono, sapevano entrambi che quel gesto significava una lunga ramanzina, ormai avevano imparato a conoscerlo.
Qualche ora dopo, i due ragazzi erano seduti in aula, nelle file centrali, ad ascoltare non molto attentamente il discorso del professore, sulla storia dell’occupazione giapponese in corea.
Padme stava disegnando dei nuovi volantini per la manifestazione studentesca che si sarebbe tenuta tra qualche giorno, pensando ad uno slogan accattivante.
Anakin invece stava giocherellando con la matita, facendosela passare sulla labbra, mentre guardava Obi Wan, sperando di attirare la sua attenzione.
“Ani, dammi una mano! Non mi viene in mente niente!” Sbuffò esasperata Padme.
Anakin osservò i suoi volantini, rifletté qualche momento e poi ci scrisse sopra: Unitevi alla ribellione!
Lei sembrò soddisfatta, e gli diede un bacio sulla guancia.
“Allora ci vieni al mio concerto stasera?” Chiese Anakin.
“Oh giusto, era questa sera… Com’è che vi chiamate?” Domandò, infilandosi la matita tra i capelli.
Lui la guardò storto, indicandole la maglietta.
“I sith!” Esclamò seccato.
“Scusa… Troppe cose per la testa!” Si giustificò lei. “Stasera non posso Ani, ho un esame tra due giorni e devo studiare…”
Lui mise il broncio, come faceva sempre quando era arrabbiato.
A Padme ricordava tanto un bambino capriccioso, ma del resto, era un lato del suo carattere che trovava semplicemente adorabile. Ma non era la sola del resto, visto che anche il professore lo stava guardando, mordendosi il labbro inferiore.
“Ti prometto che la prossima volta vengo!” Disse alla fine. “E ti faccio anche i volantini!”
Lui borbottò qualcosa, poi le offrì il mignolo, che lei strinse con un sorriso.
Il concerto si teneva in un locale in centro città, The Black Hole.
Era un locale sotterraneo, angusto e buio, da li prendeva il nome. Tuttavia, era in quel luogo che si tenevano i migliori concerti degli artisti emergenti punk rock.
E i Sith, erano senza dubbio uno dei gruppi più richiesti quell’anno. Con il loro sound narcotico ed elettrico,  era facile perdersi in un trip. E la voce graffiante del cantante, era a detta di tutti, ammaliante.
Quando Anakin si presentò sul palco, le ragazze nelle prime file si misero ad urlare istericamente.
Aveva dei pantaloni di pelle nera, una maglietta rossa strappata sul torace, e i suoi occhi grigio azzurri risaltavano con la matita nera che portava.
Tra le mani reggeva una Fender stratocaster bianca, lo stesso modello che usava Hendrix.
Obi Wan era nelle prime file, incantato da quella visione, da quel ragazzo che cantava a squarcia gola, muovendosi sul palco come una pantera nella notte, con grazia e ferocia.
Quando poi catturava i suoi occhi, Obi Wan aveva l’impressione che il resto del mondo fosse sparito, e che esistessero solo loro.
Alla fine del concerto, Anakin gli corse incontro, saltandogli addosso e circondandogli la schiena con le gambe.
Era una cosa che che Obi Wan adorava, quel gesto da bambino, così semplice e dolce allo stesso tempo. Tuttavia, non era un gesto che poteva fare in pubblico.
Lo fece scendere, allontanandosi dal suo abbraccio.
“Non qui…” Gli disse. “Quando saremo a casa io…”
Ma non fece in tempo a finire la frase, che il viso di Anakin si rabbuiò.
“Cazzo, ma perché fai sempre così?”
“Lo sai il perché… Per persone come noi, è meglio essere prudenti.”
Anakin alzò gli occhi al cielo. “Io voglio divertirmi, non essere prudente!”
“Lo so… Temo che dovrò esserlo io per entrambi. Scoppierebbe uno scandalo se ci scoprissero.”
“Dall’altra parte del mondo scoppiano le bombe…” Replicò Anakin, appoggiandosi contro la parete di mattoni. “E tu ti preoccupi degli scandali…”
“Non sarà sempre così tesoro… Un giorno le cose cambieranno.” Dicendolo, sfiorò le sue dita con le proprie, facendogli un timido sorriso.
Anakin le strinse, provando a convincersi che sarebbe stato davvero così, per quanto facesse male.
Intorno a lui, coppie di amanti si baciavano, ballavano, e si tenevano per mano, godendosi il loro amore e la loro gioventù.
Ma a lui questo non era concesso. Non poteva semplicemente avvicinarsi e baciarlo, come avrebbe voluto fare. C’erano sempre persone pronte a fare del male, a quelli come loro.
Non che gli importasse, ma per il suo compagno, insegnare era tutta la sua vita, e uno scandalo del genere, gli avrebbe portato via tutto.
“Ci vediamo dopo a casa?” Chiese gentilmente Obi Wan.
Anakin annuì, e guardò le dita di lui che si staccavano lentamente dalle proprie.
Il suo viso sparì tra la folla, e lui tornò dai suoi amici.
C’era almeno una cosa che poteva fare, per non pensare.
Ed era già davanti a lui, allineata in tante piccole strisce bianche.
Il suo batterista gli passò una banconota arrotolata.
Anakin sorrise e la prese.
Quella notte, dopo aver festeggiato fino alle quattro con i suoi amici, prese la metro e poi si fece qualche isolato sotto la pioggia, per arrivare a casa del suo ragazzo, o compagno, come preferiva dire lui.
Quando Obi Wan gli aprì la porta, strofinandosi gli occhi, con solo le mutande addosso, Anakin gli saltò di nuovo addosso, baciandogli il collo e la bocca.
L’altro lo afferrò per le cosce, sollevandolo e spingendolo contro il suo petto, per poi catturare la sua bocca.
Chiuse la porta con un calcio, dirigendosi verso la camera da letto.
Non vedeva l’ora di poter possedere quel ragazzo, di poterlo avere tutto per sé.
Finché vide i suoi occhi, e notò le pupille dilatate.
Sapeva fin troppo bene, cosa voleva dire.
Aveva già notato che tirava su con il naso, ma pensò che fosse per il freddo.
“Anakin, dimmi la verità.” Disse con serietà, facendolo scendere. “Ti sei fatto questa sera?”
Il ragazzo fece spallucce. “E allora?”
“E allora? Anakin!” Sbottò lui, tirando un pugno sul tavolino del corridoio.
“Devi smetterla con quella roba… Non capisci che ti fa male?”
“Ma se sto benissimo! Perché ti tanto fastidio che io mi diverta?”
“Perché questo non è divertirsi, questo è uccidersi!”
“Cazzate!” Esplose Anakin. “Tu sei solo invidioso, perché io mi godo la vita, al contrario di te!”
“Oh quindi adesso sarei io il problema?”
“Si maledizione! Tu… Te ne stai nascosto nel tuo ufficio, tra i tuoi libri, e intanto la vita ti scorre davanti e neanche ti accorgi che te la stai perdendo!”
Obi Wan sospirò scoraggiato… Non era la prima discussione che avevano su quell’argomento, e temeva che non sarebbe stata l’ultima.
“Ti sbagli… Io sto vivendo la mia vita, la sto vivendo con te.”
“E questo secondo te è vivere?”
“E quello che fai tu lo è?”
“Io mi diverto Obi Wan! Voglio provare tutto, tutto quello che la vita ha da offrire, bello o brutto che sia. Non voglio avere rimpianti quando morirò.”
“E io non voglio trovarti morto in bagno, perché sei andato in overdose.”
Restarono a lungo a guardarsi, nell’oscurità della notte, a qualche metro di distanza l’uno dall’altro. Ognuno fermo nella sua idea, ognuno a stringere i pugni, combattendo contro la voglia di ridurre quella maledetta distanza.
Alla fine, Anakin fece qualche passo avanti, e Obi Wan arretrò.
Il più giovane se ne andò di corsa, sbattendo la porta dietro di sé.
Camminò sotto la pioggia, isolato dopo isolato, fino ad arrivare nel quartiere residenziale dove viveva Padme.
La luce del suo piccolo appartamento era accesa, segno che era ancora china sui libri.
Salì le scale, bussò alla sua porta.
Padme aprì, con un libro sotto il braccio e la matita tra i capelli.
“Anakin? Che ci fai qui a quest’ora?”
Lui non disse niente, e abbassò la testa.
“Hai litigato con Obi Wan?”
Il ragazzo annuì, stringendo i pugni sulle cosce.
Padme lo fece entrare, e andò a preparargli qualcosa di caldo.
Nel frattempo lui si accomodò sul divano, guardandosi distrattamente intorno.
Era un appartamento piccolo ma elegante, pieno di ogni comodità.
Il padre lavorava in politica, e aveva insistito affinché la figlia avesse solo il meglio, al contrario di Anakin, che veniva da un quartiere povero, e aveva dovuto fare due lavori per permettersi di studiare.
Ogni tanto pensava a sua madre, china a cucire tutta la notte, per poter comprargli i libri.
Eppure Padme non era una di quelle ragazze con la puzza sotto il naso, che ostentava il suo benessere, o lo guardava con disprezzo.
Era l’unica ragazza, che gli volesse davvero bene così com’era, la sua migliore amica fin dai primi giorni di università.
Quando tornò dalla cucina, con il suo pigiama rosa, intenta a non rovesciare  la tazza fumante che teneva tra le mani, Anakin non poté far a meno di sorridere.  
Si sedette vicino a lui, e con un asciugamano iniziò ad asciugargli i capelli, mentre lui beveva.
Alla fine, lui appoggiò la testa sulla sua spalla, lasciandosi andare alla tristezza, mentre lei gli passò un braccio sulla spalla, tirandolo più vicino a sé.
“Resta qui stanotte Ani… Dormi un po’. Vedrai che domani risolverete tutto, come sempre.”
“Non ne sono così sicuro Padme… Vorrei solo… Non lo so, che fosse più semplice stare con lui.”
“E quando mai le storie d’amore sono semplici?” Disse lei, con un mezzo sorriso.
Lui annuii e fece spallucce.
“Almeno tu sai cosa di prova… Io invece…”
Lei si avvicinò un po’ di più al suo viso, guardandolo a lungo negli occhi.
“Sono sicuro che un giorno ti innamorerai anche tu, e quel giorno riderò, perché sarai tu a piangere sulla mia spalla!” Esclamò lui, facendole l’occhiolino.
“E se mi fossi innamorata, proprio del ragazzo che piange sulla mia spalla? Non sarebbe una bella sfortuna?” Rispose malinconica, avvicinandosi ancora di più.
Lui si scostò un poco, imbarazzato.
“Per favore Ani… Vorrei tanto sapere cosa si prova, almeno una volta.”
“Padme io… Tu sei la mia migliore amica, lo sai, ma… Obi Wan….”
“Lo so… Lo vedo come lo guardi. A volte mi chiedo come sarebbe, se guardassi me in quel modo.”
“Non dipende da me… Credimi, sarebbe tutto più semplice se potessi guardare te…”
“Allora guardami Anakin. Solo per una notte, guarda me. Ama me.”
Padme si avvicinò alle sue labbra, sfiorandole con le proprie.
Titubante, confuso, stanco e arrabbiato, Anakin ricambiò il bacio.
Qualche minuto dopo, si tolse la giacca.
Poi, spese la luce.
 
“Qui è dj Yoda che vi parla, miei giovani apprendisti! E’ un’altra giornata di sole, nella nostra bella San Francisco! Lo sentite sul viso? Sentite il suo calore sulle braccia? Fin dentro il vostro cuore? Richard Nixon si è ufficialmente candidato come nuovo presidente degli stati uniti, e lasciatevelo dire, se dovesse vincere, anni oscuri si prospettano davanti a noi. Ma non pensiamo a lui, non pensiamo alla guerra, e alle bare che tornano dal Vietnam. Io dico, pensiamo al sole sul nostro viso, pensiamo al vento tra i capelli, ma soprattutto pensiamo all’amore! Perché dopotutto, cosa sarebbe la vita, senza amore? E allora adesso ascoltiamo insieme un altro successo dei Beatles, all you need is love! Questo è per voi, mio giovani apprendisti innamorati!”
 
Anakin vagava tra i corridori dell’università, perso tra le tante persone che  camminavano accanto a lui.
Erano tutti vestiti di verde e oro, i colori dell’università, per la partita di football che si sarebbe svolta quel pomeriggio.
La maggior parte degli studenti rideva e scherzava, eccitati per l’evento.
Alcuni, erano più concentrati sugli esami, e si riconoscevano per il loro aspetto stanco e trasandato, il naso nei libri e qualche merendina nelle tasche.
E poi c’era il gruppo di studenti che si batteva per la fine della guerra, che urlava slogan, distribuiva volantini, che chiedeva a gran voce attenzione.
E quella voce, era quella di Padme.
Quando la vide, Anakin si fermò di colpo.
Dopo quello che era successo, non sapeva proprio come affrontarla.
Vergogna, imbarazzo, colpa, si dibattevano dentro di lui.
Appena lo vide, la ragazza gli corse in contro con un sorriso smagliante, che subito si spense nel vedere la sua espressione.
Rimasero per un po’ a guardarsi, senza sapere cosa dire.
Poi d’improvviso, nei corridoi apparse il professor Kenobi, vestito con un completo marrone, i capelli ben pettinati, le scarpe lucide, la valigetta in mano, e lo sguardo spento.
Anakin incrociò il suo sguardo, e si sentì mancare, quando l’altro, dopo averlo guardato tristemente, si era voltato.
Appena la sua figura sparì tra la folla, Anakin diede un pugno contro il muro, imprecando.
“Non qui, Ani.” Disse lei, prendendolo per mano, e portandolo in un’aula vuota.
Stanco e sconfitto, Anakin si accasciò per terra.
Padme si sedette accanto a lui.
“Mi dispiace…” Disse Anakin alla fine.
“E’ a me che dispiace… Sapevo che tu… Che tu lo ami, sono stata un’egoista.”
Dopo qualche minuto di silenzio, lui le prese la mano.
“Non possiamo scegliere chi amare, Padme. Ma possiamo scegliere a chi volere bene, e io, ti voglio bene, e te ne vorrò sempre. Perdonami, se non posso darti di più.”
“Lo so Ani…” Disse lei con un timido sorriso, poi appoggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi.
Per un po’ di tempo, rimasero ad osservare le foglie che volteggiavano in cielo portate dal vento, oltre la grande vetrata.
“Adesso però devi andare!” Esclamò Padme, alzandosi in piedi.
“E dove?” Rispose lui confuso.
“Da lui! Ti sta aspettando, di questo ne sono certa. Perciò vai, e lotta, Anakin!” Dicendolo, gli tirò la mano, facendolo alzare.
Lui annuì, sospiro, poi le baciò la fronte.
“Tu però devi promettermi che starai bene, ok?”
“Starò bene Ani.”
Quando lui chiuse la porta dietro di sé, lei scoppiò in lacrime.
Lacrime di tristezza, ma anche di gioia.
Perché dopotutto, per quanto male facesse, adesso, sapeva cosa si provava.
Anakin percorse di corsa i corridoi, cercandolo ovunque.
Non era in mensa, non in biblioteca, sembrava che non ci fosse da nessuna parte.
Poi alla fine si ricordò.
C’era una ala della biblioteca, quella dove si trovavano i testi in greco antico e latino, dove di solito andavano le coppie per trovare un po’ di intimità.
Una volta, anche loro ci erano andati. Più di volta, in realtà.
Quando arrivò, lo trovò appoggiato contro la parete, gli occhi chiusi, il libro per terra.
Sorrise, lo raccolse, e glielo porse.
Obi Wan sembrò sorpreso, ma felice.
“Come stai?” Chiese, scostandogli un ciuffo di capelli dal viso, e portandolo dietro l’orecchio.
“Meglio, adesso.” Rispose lui.
L’altro sorrise appena, accarezzandogli la guancia.
“Ascoltami Anakin… Ci ho pensato molto, e credo che sia anche colpa mia, se tu ti comporti così. 
Lo so, sono freddo con te. Sono distante. Ti ferisco, ti allontano, e tu ti senti solo. Ma se non ti do abbastanza, allora ti darò di più. Ti bacerò di più, di stringerò di più, ti amerò di più. Perché tu sei importante per me. Perché ti amo. Amo la tua mente brillante, e sono sicuro che potresti fare grandi cose, se lo volessi. Amo il tuo corpo, e non voglio vederlo distrutto dalla droga. Perciò smettila, ti prego, smettila.”
Obi Wan lo strinse, abbracciandolo con tutto sé stesso, appoggiando la testa sulla sua.
“Davvero mi ami?” Sussurrò Anakin, sprofondando nel suo maglione di lana.
“Si. Avrei dovuto dirtelo più spesso, ma lo farò ogni giorno, se servirà a convincerti. Tu dici che mi nascondo, che della vita non m’importa, ma non è vero. Io… Ho dei progetti, per noi. E magari non te ne parlo, perché ho paura che tu li trovi stupidi e noiosi, ma li ho.”
“Parlamene, voglio sentirli… Per favore.”
Obi Wan gli prese il viso tra le mani, sollevandolo fino ad incontrare i suoi occhi.
“Voglio insegnarti tutto ciò che so. Voglio mostrarti il mondo e le sue meraviglie. Voglio portati in italia, bere un caffè sotto il colosseo, fare l’amore e svegliarci a Firenze. Voglio baciarti sopra la Tour Eiffel. Voglio portati in scozia,  a vedere le montagne verdi… Voglio fare il bagno in grecia, e guardare insieme il tempio di apollo. Voglio portarti sotto le piramidi d’egitto. Ecco, quello che voglio.”
Fu allora, che Anakin sorrise.
“Hai dei progetti per noi…” Disse, accarezzandogli i capelli.
“Li ho.” Rispose lui, sfregando il naso contro il suo.
“E quanto pensi che dureranno, questi progetti?”
“Beh, se non è chiedere troppo, che ne dici di tutta la vita?”
Anakin  sorrise, ed i suoi occhi s’illuminarono, al punto che al professore sembrò che in essi ci fossero milioni di stelle.
“Non è chiedere troppo…” Rispose alla fine, stampandogli un bacio, mentre si dondolava tra le sue braccia, tra l’odore di vecchi libri e muschio bianco.
 
“Eccomi di nuovo, ragazzi e ragazze, in diretta per voi dalla Light Force radio! Che siate soli o innamorati, che stiate lavorando o studiando, passeggiando o pulendo casa, dj Yoda è qui per tenervi compagnia. Sono giorni difficili questi, Martin Luther King è stato ucciso, ma non il suo sogno. Oh no ragazzi, i sogni non muoiono mai. Le idee resistono al tempo. Perciò, aggrappatevi ai vostri sogni, che possano essere la vostra luce nell’oscurità. E adesso, ascoltiamo insieme un altro successo dei Beatles, amici miei: Hey Jude!”
 
Era una sera come tante, Obi Wan era impegnato a correggere alcuni saggi, e Padme stava studiando per l’esame di diritto civile. Anakin era con i suoi amici, nel garage del batterista, a provare i nuovi brani che avrebbero suonato al Black Hole, il sabato successivo.
Uno dei brani lo aveva scritto lui stesso, anche se non aveva detto a nessuno a chi si riferisse nel testo.
Erano sudati e stanchi, con mani, piedi e gola a pezzi per lo sforzo. Ma erano eccitati, perché le prove erano andate bene.
Verso mezzanotte, uno dei ragazzi estrasse una bustina bianca dalla tasca, sostenendo che per i Sith, era ora di rilassarsi.
Anakin appoggiò la chitarra contro il muretto, poi si sedettero tutti intorno al tavolino, abbassarono le luci, misero su un vinile dei Pink Floyd, e iniziarono a versare la polverina bianca sullo specchio.
Anakin la guardava ipnotizzato, osservando quei piccoli granelli bianchi che da li a poco lo avrebbero fatto sognare. Tutto ciò che voleva, era partire per un viaggio, sentire il corpo sciogliersi e brillare, essere tutt’uno con l’universo. Sentire la mente espandersi, il corpo ricoprirsi di brividi e scariche di piacere. Essere tutto ed essere niente. Fare parte di qualcosa più grande di lui.
Fu allora che realizzò.
Faceva già parte di qualcosa di più grande.
Lui ed Obi Wan, lo erano.
Erano tutto e niente, quando erano insieme.
Erano brividi di piacere, erano diamanti nel cielo, erano il viaggio attraverso l’universo.
Sorrise.
“Ha dei progetti per me…” Sussurrò.
I suoi amici non capirono, gli chiesero di che parlasse.
“Dei progetti per noi… E io non dovrei essere qui!”
Non aspettò nemmeno una risposta, corse via, senza pensare a niente, la direzione la conoscevano già i suoi piedi.
Arrivò a casa sua sudato ed esausto, sentendosi invincibile ed eccitato allo stesso tempo.
Quando Obi Wan aprì la porta, entrò bruscamente dentro, spogliandosi.
L’altro sembrò confuso, ma contento di farsi strappare i vestiti da dosso.
“Voglio essere parte dei tuoi progetti. Voglio farne di miei, e voglio che ci sia tu.”
“E quali sarebbero i tuoi progetti, se posso chiedere?”
“Farmi scopare per tutta la notte!” Rispose lui malizioso, sbottonandosi i jeans.
“Mi sembra un ottimo progetto…” Esclamò, prendendolo in braccio.
Lo trascinò in camera, sbattendo contro mobili e muri, fino a cadere nel letto.
Finirono di spogliarsi con movimenti bruschi e veloci, impazienti di essere una cosa sola, di assaggiarsi e consumarsi nella notte.
Obi Wan gli mordeva il petto, il ventre, i fianchi, lasciando segni di morsi e scie di saliva sul suo corpo caldo.
Anakin gli tirava i capelli, graffiava la sua schiena, giocava con la sua lingua. Incrociò le gambe dietro la sua schiena, muovendo il bacino contro il suo.
Di solito al suo compagno piaceva fare le cose con calma, gustarsi ogni piccola sensazione, per poi prenderlo quando il desiderio si faceva bruciante.
Ma quel giorno, aveva troppa voglia di lui, per fare le cose con calma.
Gli entrò dentro con impeto e passione, baciando la sua bocca.
Il ragazzo sotto di lui gemeva di piacere, assecondando i suoi movimenti con i fianchi e inarcando la sua schiena.
Presto i loro movimenti si sincronizzarono, trovando il ritmo perfetto per quell’unione, come se fosse un ballo, dapprima lento, poi sempre più veloce.
Due corpi che s’incastravano l’uno dentro l’altro, due spiriti irrequieti che si cercavano, urlando i loro nomi.
Anakin gli era salito a cavalcioni, e muoveva il bacino in movimenti circolari, strizzandogli i capezzoli, mentre Obin Wan gemeva, aggrappandosi ai suoi fianchi, cercando le sue mani.
L’estasi arrivò varie volte, prima che riuscissero a fermarsi, ormai allo stremo sulle forze.
Anakin si sdraiò sul petto del suo compagno, all’altezza del cuore.
Non c’era di più bello al mondo, che addormentarsi ascoltando il battito del suo cuore.
Non c’era una sensazione al mondo, capace di eguagliare quel senso di pace e di calore.
Le sue braccia strette intorno alla schiena, come a volerlo proteggere.
I leggeri baci che gli dava sulla sua testa, furono le ultime cose che sentì, prima di addormentarsi.
“Ti amo prof…” Disse, prima di chiudere gli occhi.
Passarono alcuni mesi, da quel giorno.
Mesi in cui tutto sembrava scorrere per il meglio, in cui l’equilibrio sembrò ristabilito.
Anakin e Padme avevano recuperato la loro amicizia.
Lei andò ai suoi concerti, lo aiutò a mettere la matita sotto gli occhi, a pettinargli i capelli.
Teneva a bada le donne e la curiosità dei suoi amici, prendendolo per mano.
Lui andò alle sue manifestazioni, scrisse altri slogan, disegnò volantini, curò le sue ferite, e la protesse dai manganelli della polizia.
Nel frattempo, anche se ancora non era ufficiale, e ancora non aveva una chiave tutta sua, Anakin viveva da Obi Wan. Erano anni ormai che andava avanti e indietro, lasciando ogni volta piccole cose in casa del compagno. Un vinile, un paio di scarpe, dei libri, lo spazzolino, la giacca.
Alla fine, Obi Wan gli aveva detto di prendere le poche cose che erano ormai rimaste nel suo vecchio appartamento e portarle da lui.
Aveva sempre pensato che il compagno non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo, e che se fosse successo, sarebbe accaduto con un grande gesto.
Mazzi di fiori, scritte sui muri, fuochi d’artificio, una cena romantica. Cose di questo genere, pensava. E invece era successo nel modo più naturale possibile, tanto che solo dopo qualche ora, aveva realizzato cosa era realmente accaduto.
Gliel’aveva detto mentre si stavano lavando i denti, prima di andare a dormire.
Anakin  stava cantando, reggendo lo spazzolino come fosse un microfono, mentre l’altro rideva, finché alla fine gli era caduto nel water. Obi Wan gli aveva dato il suo, e alla fine aveva aggiunto che avrebbe fatto dello spazio nel bagno, in modo che lui potesse metterci le sue cose, tra cui uno spazzolino di ricambio.
E in salotto, e in cucina, e nell’armadio, Così aveva detto.
Anakin lo aveva baciato, ancora sporco di dentifricio, ed erano finiti a fare l’amore contro il muro del corridoio.
Erano caduti tre quadri e una lampada, ma era stata una bella serata.
Ma prima della tempesta, c’è sempre la quiete.
E’ una lezione che i marinai imparano in fretta.
E alla fine, la tempesta arrivò.
Un giorno di giugno, un giorno come tanti altri.
Anakin era casa di Padme, lei era stranamente silenziosa da qualche giorno, e sotto i suoi occhi c’erano pesanti occhiaie. Le tremavano le mani, mentre beveva il the.
Finché alla fine esplose, in un pianto disperato.
E lì, sul tavolo della cucina, Anakin ricevette la notizia che gli avrebbe cambiato la vita.
Di nuovo, le grandi notizie non arrivarono con gesti importanti e grandi dichiarazioni, ma nella quotidiana e semplice vita di due ragazzi, che capiscono di dover crescere troppo in fretta.
Tra un cartone di cereali e un cesto di frutta, piangendo e tenendosi per mano.
Alla fine, lui le fece la domanda che entrambi temevano.
“Che cosa vuoi fare adesso Padme? Vuoi tenere il bambino?”
Lei lo guardò a lungo, gli occhi velati dalle lacrime, le labbra tremanti.
“Voglio tenerlo. E’ nel mio corpo, è nella mia vita, e io lo amo. Non credevo, che si potesse amare così tanto qualcuno… Ma è così. Morirei per lui, vivrò per lui. Questo lo sento dentro il mio cuore, in ogni fibra del mio essere.”
Lui annuì, stringendole più forte la mano.
“Ma non voglio… So che ti sembrerò egoista nel dirlo, ma non voglio che la mia vita si fermi.
Non voglio essere solo una moglie e una madre. Non voglio che la mia vita si riduca a preparare la cena aspettando il tuo arrivo, a cambiare pannolini e fare la spesa. Non voglio che tutto finisca in un sogno infranto, in una canzone mai cantata. Io voglio di più dalla mia vita. Voglio fare la differenza e cambiare il mondo, così quando nostro figlio crescerà, lo troverà migliore. Potrà essere fiero di me.”
“E io voglio aiutarti a farlo. Non ti mentirò Padme, non l’ho mai fatto e non inizierò adesso. Sono terrorizzato. Non ho idea di cosa devo fare. Non so come farò a diventare adulto, a diventare padre. Non so come si pagano le bollette o come si chiede un mutuo. So a malapena allacciarmi le scarpe da solo. Ma posso imparare, voglio imparare. Perché nostro figlio ha bisogno di me, e perché tu hai bisogno di me. E io ci sarò, questo te lo prometto. Voglio far parte della vita di mio figlio, voglio vederlo crescere, insegnargli a suonare la chitarra. E voglio esserci quando avrai bisogno di me. Ma… Non posso sposarti. Lo so che sarà uno scandalo, che tuo padre mi minaccerà con il fucile, che qualcuno ti guarderà con disprezzo. Che mi odierai. Ma ti prego, non chiedermi questo… Perché gli spezzerei il cuore, proprio adesso che ha imparato ad usarlo…”
“Lo so Ani… So che tu lo ami, e non potrei mai chiederti di rinunciare alla tua felicità per me. Tu mi hai dato molto più di quanto immagini, e non potrei mai perdonarmi, se tu vivessi una vita infelice per causa mia.
“Possiamo farcela Padme. Tu ed io. E… Obi Wan. Lo so, sarà strano, sarà difficile. Ma possiamo farcela. Se tu me lo permetti…”
Lei annuì, appoggiando la testa sulla sua spalla.
Lui le baciò la fronte, e fece un profondo respiro.
Una parte della sua vita era finita, un’altra stava per iniziare.
La strada sarebbe stata lunga, ed era appena iniziata, ma prima, c’era ancora un ostacolo da superare.
Obi Wan dormiva al suo fianco, russando leggermente, con la testa sul suo ventre, raggomitolato al cuscino. Sembrava quasi un gatto quando dormiva, pensava Anakin, accarezzandogli i capelli.
Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dirgli la verità, e che la verità lo avrebbe allontanato, distrutto. Che forse lo avrebbe perso per sempre.
Guardò la sua fender bianca, appoggiata sulla poltroncina sotto la finestra, proprio accanto ad una pila di libri del suo compagno.  Era davvero uno strano accoppiamento il loro, due persone così diverse, che tuttavia traevano l’uno il meglio dall’altro.
Obi Wan spesso leggeva in salotto, mentre Anakin  suonava qualcosa con la chitarra.
E a volte, il ragazzo traeva ispirazione per i suoi testi dalle storie che Obi Wan gli leggeva dai suoi libri.
Guardò di nuovo l’uomo straiato al suo fianco, gli baciò la fronte, lo lasciò svegliarsi con calma, ricoprendolo di dolcezza, temendo che ogni bacio, ogni carezza, potesse essere l’ultima.
Poi lo prese tra le braccia, e iniziò a parlare, con il cuore in gola.
“Devo dirti una cosa… Una cosa terribile. Ho commesso uno sbaglio, e capirò se mi odierai, perché anch’io mi odio, per averti fatto questo. Per averti ferito.”
Obi Wan lo guardava dritto negli occhi, scrutandolo attentamente, come una preda che cerca di capire dove la freccia del cacciatore lo colpirà.
“Perciò odiami, insultami, picchiami se devi, ma non rinunciare a me. Non rinunciare ai progetti che avevi per noi, e ti prometto che passerò il resto della mia vita a rimediare a quello sbaglio.”
“Raccontami cosa hai fatto Anakin, dimmi ogni cosa, non importa quanto farà male…”
Anakin gli raccontò tutto, guardando le lacrime scendere sul viso del suo compagno.
Alla fine, Obi Wan era seduto per terra, la testa tra le gambe, che piangeva sommessamente.
Anakin tentò di abbracciarlo, di accarezzargli i capelli, di prendergli la mano.
Ogni sua parola, era come una coltellata.
Ogni sua lacrima, un veleno che avrebbe voluto bere.
Obi Wan urlò, prese a pugni il muro, lanciò contro la parete tutto ciò che trovò.
Lo insultò, gli disse che era un codardo, che aveva rovinato tutto, che lo aveva tradito, che lo odiava, che era finita, che malediva il giorno in cui lo aveva incontrato.
Anakin piangeva, ascoltava, lo lasciava sfogarsi, sperando che almeno così, il suo dolore si sarebbe alleviato.
Erano passate ore, ore di urla e di lacrime, quando alla fine, si ritrovarono entrambi seduti sul bordo del letto, distanti, e vicini al tempo stesso.
“Non posso cambiare il passato… E forse, anche se potessi non lo farei, perché anche se ho sbagliato, anche se a causa di quell’errore le nostre vite sono cambiate per sempre, da quell’errore è nato qualcosa di buono. Non lo so, forse era destino, che accadesse. Ma dopotutto, sono solo un ragazzo, cosa posso saperne della vita, del destino? Però posso scegliere che cosa fare adesso, questo posso farlo. Posso scegliere che tipo di uomo voglio essere. E io ho scelto di aiutare Padme, di veder crescere mio figlio, ma ho scelto anche te. Ho scelto di amare te. Di vivere una vita con te. Adesso, sta a te, scegliere.”
“Scegliere? Cosa posso scegliere io?” Esclamò Obi Wan, quasi in un sussurro, con la voce ancora impastata dal pianto. “Tu hai fatto tutto questo e l’hai chiamato destino. Hai scelto di restare al suo fianco, di crescere vostro figlio, quindi dimmi, che scelta potrei mai avere io?”
Anakin raccolse tutto il suo coraggio, tutto l’amore, tutta la speranza che gli era rimasta, si fece spazio tra le sue braccia, raggomitolandosi sulle sue gambe come un bambino.
“Puoi odiarmi e cacciarmi via. Puoi rifarti una vita, lasciarmi andare, e un giorno, amare qualcun altro. Io lo capirò. Oppure puoi restare. Puoi aiutarmi ad essere padre. Puoi essere un padre per mio figlio. Perché tu saresti un ottimo padre, e sarebbe fortunato, ad avere te. Io sarei fortunato, a dividere la mia vita con te. Non posso farcela da solo tesoro, ho bisogno di te. Perciò aiutami a crescere, insegnami ad essere un uomo, mostrami il mondo, mostrami ogni cosa. E un giorno, quando sarà grande, lo mostreremo anche a nostro figlio. Insieme.”
Ci fu un lungo momento, il tempo di un respiro, il tempo di una vita.
 
“Ed eccoci qui, mie giovani apprendisti, nell’inverno di questo nuovo mondo. Qui è dj Yoda, in diretta da Washington, per la Light Force radio. E’una data storica oggi, una data che rimarrà per sempre nei libri di storia: E’ il 27 gennaio del 1973, e posso ufficialmente dire che la guerra è finita! La vita, ha vinto ancora una volta. La pace, ha vinto. L’amore ha vinto. L’oscurità ci ha tentato, ci ha picchiato, umiliato, sottomesso. Ma anche l’oscurità, prima o poi deve cessare. E oggi, è quel giorno. Il giorno in cui il mondo può tornare a respirare, in cui una nuova luce sorge ancora più luminosa. Perciò ditemi, miei apprendisti, come intendete passare questa nuova vita che vi viene concessa? Vi lascio adesso, con un classico immortale dei Beatles, let it be!”
 
 
Scendeva la neve, leggera e soffice come una carezza.
Scendeva la neve, in una piccola casa di legno in nevada.
Tutto intorno solo i boschi, selvaggi e impotenti.
Due bambini giocavano nella neve, rincorrendosi e lanciandosi palline.
Due adulti, erano seduti sulla neve, il più giovane tra le braccia dell’altro, rannicchiato contro la sua schiena, con le gambe di lui che circondavano le sue.
“Quando hai detto che viene a riprenderli Padme?” Chiese Obi Wan, massaggiandogli il petto.
“Tra tre settimane. Deve finire di preparare la campagna elettorale.”
“Tre settimane… Bene, abbiamo un sacco di tempo allora! Volevo portarvi a vedere una cosa…”
“Che cosa?”
“Ah è una sorpresa!” Rispose l’altro, facendogli l’occhiolino.
Anakin gli stampò un bacio, poi si perse a guardare i bambini, che stavano facendo un pupazzo di neve.
“Credi che gli piaceranno i regali che gli abbiamo fatto?”
“Ah non ho dubbi. Ho dovuto praticamente strapparteli dalle mani, per impacchettarli. Sei poco meno bambino di loro, perciò se piacciono a te, piacciono a loro.”
“Aha mister adulto, ti ricordo che tu hai giocato con me fino a ieri.”
“Per accontentare te…”
“Ma piantala, che ti stavi divertendo come un matto!”
Obi Wan sorrise, non potendo negare oltre l’evidenza.
Leila stava correndo verso di loro, sfuggendo alle palle di neve lanciate dal fratello.
“Papà Obi aiutami!” Urlò lei, salendogli sulle spalle.
La piccola aveva lunghi capelli neri raccolti in una treccia, che le circondava la testa come una corona, occhi dello stesso colore, un visino dolce e minuto e un cappottino bianco.
Obi Wan la prese tra le braccia, rotolando nella neve, fin quando riuscì a tirarsi su.
Luke e Anakin nel frattempo, avevano già preparato altre palle di neve, e gliele stavano lanciando contro.
Per quasi tutto il pomeriggio, continuarono a giocare, a fare gli angeli nella neve e a costruire pupazzi ciocciotelli con una carota al posto del naso.
Dopo aver fatto il bagno e aver cenato, i bambini poterono finalmente aprire i regali, e gli adulti accoccolarsi sul divano, vicino al camino.
Luke urlava dalla gioia, “Papà Ani guardami! Sono un cavaliere!” Esclamò mostrando al padre la spada laser azzurra.
Era minuto e biondo, gli occhi azzurri ed innocenti, e la vitalità che solo un bambino poteva avere.
“Lo sei tesoro!” Gli rispose lui, con un gran sorriso.
“Anch’io anch’io sono un cavaliere!” Disse Leila, mostrando la sua spada laser verde.
“Non preferisci essere una principessa?” Chiese Anakin ridendo.
“Posso essere entrambe le cose?” Replicò lei, saltellando.
“Certo che puoi principessa!” Rispose Anakin.
I due bambini ripresero presto a combattersi, alzando e abbassando le spade, giocando a fare i cavalieri di una grande battaglia.
Obi Wan diede un bacio sulla tempia ad Anakin, che appoggiò la testa al suo petto, circondandogli la vita con il braccio.
“L’avresti mai immaginato, che sarebbe andata a finire così?” Chiese, guardando i bambini ridere.
“No. Avevo immaginato una vita completamente differente, ma questa, è decisamente migliore di ogni sogno che io abbia fatto.”
Anakin sorrise, dandogli un leggero bacio sulle labbra.
Non era il primo, non sarebbe stato l’ultimo, ma solo uno dei tanti baci, che si danno in una vita passata insieme.


“Qui è dj Yoda, un’ultima volta in diretta con voi dalla Light Force radio. Ascoltate buona musica, leggete tanti libri, amate, fatevi amare, fate il bagno nudi nell’oceano, ballate sulla sabbia, urlate ad un concerto, prendete uno zaino e partire per un lungo viaggio, baciate uno sconosciuto, e non dimenticate mai di guardare le stelle. Che la forza sia con voi, miei apprendisti! Qui dj Yoda, passo e chiudo.”






 

 

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Capitolo 2
*** Walking on the moon ***


Story 2 - Walking on the moon
 


 

“Walking on the moon, we could walk forever,
Walking on the moon, we could live together,
Walking on the moon, walking back from your house,

Walking on the moon, feet they hardly touch the ground.”

 
 
 
“Qui è dj Chewbecca, in diretta da Chicago per la Rebel radio! Abbiamo appena ascoltato un classico del ’79, Walking on the moon, dei Police! Oggi ci sono 17 gradi, e sulla città nevica, mettendo a dura prova la pazienza degli automobilisti, che al momento sono bloccati sulla Michigan Avenue. Se avete fretta di andare da qualche parte, al lavoro, a scuola, dalla vostra bella mogliettina o dall’amante, mettetevi il cuore in pace, ci sarà da aspettare! Ma non preoccupatevi, non pensate alla destinazione e godetevi il viaggio! Il vostro dj preferito è qui per tenervi compagnia. E ora ditemi amici miei, se poteste passeggiare sulla luna, con chi vorreste essere?”
 
“Che razza di domanda!” Esclamò Han, tamburellando con le mani sul volante. “Con la mia Leila ovviamente!” Aggiunse, infilandosi tra una macchina e l’altra per guadagnare terreno.
“E da quando è diventata la tua Leila?” Chiese Luke, abbassando il finestrino per fare una foto.
Posizionò la sua polaroid più un alto possibile, in modo da immortalare la neve  che scendeva.
“Oh lo sarà prima o poi, vedrai piccolo!” Disse Han, superando una toyota grigia. “E chiudi quel dannato finestrino, prima che moriamo congelati!”
Fece un’altra brusca manovra, immettendosi in una stradina laterale, mentre un tizio dietro di lui imprecava a gran voce.
“Sempre se non moriamo in un incidente d’auto, prima!” Esclamò Luke, raccogliendo i libri che erano caduti durante la manovra.
“Ma con chi credi di parlare? Devo ricordarti che ho fatto la magnificent mile in 12 minuti?”
“Devo ricordati che ti hanno tolto la patente per tre mesi quella notte?”
“Non è questo il punto mi pare!”
Luke alzò gli occhi al cielo, dando distrattamente un’occhiata ai dadi dorati appesi allo specchietto della macchina.
“Arriveremo in ritardo, comunque!” Sbuffò alla fine, appoggiandosi al sedile.
“Non arriveremo in ritardo, fidati del tuo Han!” Rispose l’altro, con quel suo tipico sorriso da furbetto.
Era a causa di quel sorrisetto che tutte le ragazze gli cascavano ai piedi.
Tutte, tranne una.
La professoressa Organa stava camminando nel parco della Loyola university of Chicago, stando ben attenta a non scivolare sulla neve.
Portava i capelli neri raccolti in uno chignon, e una treccia sottile le incorniciava la testa come una coroncina. Era per quello che molti ragazzi la chiamavano “la principessa”.
Uno di quelli era proprio Han, che dopo aver parcheggiato in tutta fretta, aveva corso sotto la neve fino a raggiungerla.
Dietro di lui, Luke le stava scattando una foto, catturando il momento in cui si era fermata a guardare la neve che si posava sul ramo di un albero.
“Principessa!” Esclamò Han, andandole incontro con il suo solito sorriso.
Lei alzò gli occhi al cielo. “Le ho detto molte volte di non chiamarmi in quel modo, signor Solo.”
“E io ti ho detto molte volte di non chiamarmi signor Solo! Mi fa sembrare vecchio!”
Lei lo guardò con la coda dell’occhio, mentre saliva le scale di pietra che conducevano all’ingresso principale.
Han si affrettò a porgerle il braccio, da vero gentiluomo. O almeno, era quello che cercava di fare, anche se lo sguardo malizioso tradiva la sua poca dimestichezza con la galanteria.
“Non se ne parla neanche!” Disse lei. “Preferisco cadere.” Esclamò sprezzante, facendo meno attenzione ai suoi passi.
Dopo tre scalini, finì per scivolare, ritrovandosi a volare all’indietro.
Con suo grande stupore però, non era Han il suo salvatore, ma Luke.
Quando si voltò a guardarlo, il ragazzo abbozzò un timido sorriso, arrossendo sulle guancie e sul naso.
“Ti ringrazio Luke.” Disse lei gentilmente, lasciando che lui la aiutasse a rimettersi in piedi.
Han lanciò al compagno di stanza un’occhiata che prometteva una sfuriata, e lui fece spallucce.
“Perché lui è solo Luke e non signor Skywalker?” Borbottò nervoso, ma prima di poter aggiungere altro lei era già svanita tra la folla di ragazzi che si apprestava ad entrare all’università.
Han sospirò, scosse la testa, poi avvolse il braccio intorno al collo di Luke, trascinandolo dentro.
Mentre camminavano, si ritrovarono in lungo corridoio, che conduceva all’ala ovest, e proprio davanti a loro, la professoressa Organa camminava a testa alta, con la grazia e la fierezza che la contraddistinguevano da tutte le altre ragazze accanto a lei.
“Non è la donna più bella del mondo, Luke?” Fece Han, tirandolo un po’ più verso di sé.
“Se dico di si, ti arrabbierai?” Chiese l’altro, mentre cercava di scrollare la neve dal suo giubbotto arancione.
 “E’ probabile!”
“Allora no!”
“Bugiardo!”
Luke fece un sorriso imbarazzato, nascondendo il viso dietro la sua polaroid azzurra e bianca.
Era una OneStep land, con la lente fissa e la telecamera istantanea.
Entrarono nell’aula di diritto penale, sedendosi come sempre negli ultimi posti.
“Come hai detto che l’hai chiamata, la tua polaroid?”
“R2D2.” Rispose Luke, sistemando i libri davanti a sé.
“Assurdo, dare un nome ad una macchina fotografica!” Rispose Han, piazzando i piedi sopra il lungo banco di legno.
Luke lo prese per una gamba e glieli tirò immediatamente giù.
“Oh quindi tu puoi dare un nome alla tua macchina e io no?”
“Il Falcon non è una semplice macchina piccolo, è il mio orgoglio e la mia gioia, la più veloce di Chicago, e forse anche dell’intero stato!” Dicendolo, si batteva il petto all’altezza del cuore, come farebbe un padre orgoglioso.
“Ancora non mi sembra vero, che l’hai vinta a Lando! Che avresti fatto se avesse vinto lui? Non avevi una Chevrolet da dargli…”
“Probabilmente gli avrei dato te! A pensarci bene, ci avrebbe guadagnato, quell’idiota!”
Luke aprì la bocca per replicare qualcosa, ma non sapendo se prendere il suo commento come un complimento o una offesa, rimase in silenzio.
Nel frattempo, la professoressa Organa aveva iniziato  a scrivere sulla grande lavagna i passaggi dell’udienza preliminare, nella quale il giudice può rilasciare l’imputato sulla parola o fissare una cauzione per la futura comparizione in udienza.
Luke scriva scrupolosamente appunti, mentre Han invece lanciava occhiate lascive alla professoressa, che si muoveva con grazia nel suo tailleur bianco, cercando di ignorarlo.
“Ancora non capisco per quale motivo ti sei iscritto al corso di diritto penale…” Disse Luke, scuotendo la testa.
“Beh non tutti vogliono diventare avvocati come te! Ma del resto, con tutte le volte che mi ha fermato la polizia, conoscere qualche trucchetto in più per zittirli, mi farebbe comodo…”
Luke sospirò, poi riprese a prendere appunti.
Alla fine della lezione, Han si trattenne fino all’ultimo, per avere modo di parlare con la professoressa.
Prima che lei riuscisse a prendere tutti i libri e avviarsi verso la porta, lui si era già posizionato tra lei e la suddetta porta.
“Allora tesoro, che ne diresti di venire con me ad un concerto stasera? C’è un gruppo che suona le canzoni dei Journey!” Gli fece il suo sorriso più accattivante, muovendo leggermente i fianchi.
“Preferirei rompermi una gamba, tesoro!” Rispose lei, spostandolo con la forza.
Han cercò di inseguirla, finché si sentì tirare per il giubbotto di pelle.
C’era solo un ragazzo, che si ostinava a tirarlo in quel modo, quasi fosse un bambino.
“Luke, non è il momento!” Sbottò, cercando di divincolarsi.
“Blues!” Esclamò l’altro.
“Come?”
“C’è un concerto Blues stasera in centro!” Disse, indicando la professoressa con lo sguardo.
Han gli diede un energica pacca sulla spalla, borbottando qualcosa mentre correva per i corridoi.
Luke lo osservò per qualche istante, prima di incamminarsi verso l’aula di diritto civile, nell’ala est dell’edificio.
Come sempre, teneva la polaroid sul viso, pronto a scattare una volta trovato il soggetto giusto.
C’era una ragazza asiatica,  con i capelli completamente rosa e le cuffie sulla testa, che ballava sulle scale d’emergenza, gli occhi chiusi e le braccia aperte.
Luke sorrise e scattò una foto.
Gli piaceva catturare quei momenti nascosti, quando le persone non sapevano di essere viste e si comportavano naturalmente, senza maschere o filtri.
Non sopportava i sorrisi falsi, le pose costruite, gli abbracci dati per circostanza.
Rimase ancora un po’ a guardare quella ragazza, cantare e danzare, come se fosse sola al mondo.
Poi osservò la sua macchina fotografica, e per un momento si chiese cosa si provasse a trovarsi dall’altra parte dell’obbiettivo.
Ad essere catturato dall’obbiettivo.
Aveva provato a farsi delle foto, qualche giorno prima, nel terrazzino dell’appartamento che condivideva con Han, ma le aveva trovate stupide, banali, senza significato. Così le aveva buttate nel cestino della cucina.
Sospirò, poi tornò sui suoi passi, e si diresse verso l’aula.
Le ore passarono più in fretta del previsto, e verso le cinque tornò al parcheggio, dove trovò Han intento a togliere la neve dal parabrezza del suo Falcon.
“Allora, ci viene?” Chiese con poca speranza. L’altro scosse la testa avvilito.
A causa del traffico e della neve ci volle quasi un ora per tornare a casa, un piccolo appartamento nell’east side.
Erano al sesto piano e l’ascensore era rotto da prima del loro arrivo, ma era a buon mercato.
L’ingresso si apriva in un salottino, dove c’erano un divano verde e una tv, una bella collezione di vinili sistemata nella libreria, e alcuni modellini di macchine sparsi qua e la.
Alle pareti spiccavano alcuni poster di belle donne, rock band, e appesi ai fili del bucato, le fotografie di Luke. C’era un cucinino sulla destra, separato dalla sala da un tavolo a penisola.
Un piccolo bagno, sempre pieno di magliette sporche, asciugamani e calzini stesi sul calorifero.
E una camera da letto.
Sulle prime, i due guardando quell’unico letto matrimoniale, scuotendo energicamente la testa.
Poi, guardarono i loro miseri risparmi, tenuti in un vecchio pacchetto di sigarette, e annuirono.
Non fu facile all’inizio, Han russava, e Luke scalciava.
Provarono a dormire in direzioni opposte, testa contro piedi, ma a furia di prendersi calci in testa, Han ci rinunciò, sistemandosi accanto a lui.
Stavano facendo una colletta, per comprare due letti, ma le continue spese dell’università vedevano quella misera colletta ridotta a dodici dollari e venticinque penny.
Quella sera, mentre Han cucinava,  mettendo in una padella degli spaghetti in scatola, Luke stava ascoltando la radio, sdraiato sul letto.
Tamburellava con le dita sulle ginocchia, canticchiando il ritornello, quando di sfuggita guardò la scrivania di Han, piena come sempre di pezzi di macchine.
A dir il vero, erano sparsi un po’ ovunque per la casa, ma almeno, lo aiutavano ad arrotondare.
E comunque, era sempre meglio che lavare i piatti come faceva lui.
Il suo sguardo passò dai tubi alla chiave inglese, passando per rotelle e cose di cui non conosceva neanche il nome.
Poi si fermò sulla bacheca che si trovava sopra la scrivania, dove Han aveva appeso le foto dei suoi amici, delle sue tante ragazze, e naturalmente, delle sue macchine.
C’è n’era anche una dei suoi genitori, in bianco e nero, leggermente spiegazzata. Era l’unica che aveva.
E poi mentre vagava tra i tanti volti femminili, di cui non ricordava i nomi, trovò una sua foto. Quella foto che era sicuro di aver buttato nel cestino qualche giorno prima.
Non poté far a meno di sorridere, mentre ascoltava un’altra canzone.
 
“Qui è dj Chewbecca, in diretta dalla Rebel radio. A Chicago sono le otto e trentacinque minuti, ditemi amici miei, come state passando questa serata? A cena dalla vostra incasinata famiglia? A letto con la vostra ragazza? Sui libri di scuola, o con gli amici a bere birra? In qualunque modo la stiate passando, con chiunque voi siate, non dimenticatevi di guardare il cielo questa notte! E’ una data storica amici miei, oggi primo febbraio, la sonda della NASA Voyager, ha fotografato per la prima volta il pianeta Giove, da una distanza di 32,7 milioni di chilometri. Riuscite a immaginarlo? Da qualche parte molto lontano da qui, nella galassia c’è un grande pianeta chiamato Giove, e chissà se ci abita qualcuno, se ci sono tanti piccoli uomini blu, che fanno l’amore con le loro piccole donne blu, proprio in questo momento. E adesso vi lascio con il singolo degli Scorpions: Is there anybody there!”
 
Quella mattina Han era dovuto andare a dare una mano in officina, avrebbe saltato un paio di lezioni, ma del resto, non si poteva dire di no a settanta dollari con facilità.
Luke era nel parco del campus, e stava scattando alcune fotografie ad un uccellino intento a mangiare briciole sulla neve fresca.
Si era sdraiato a terra, per avere una migliore prospettiva, e proprio nel momento in cui stava per schiacciare il bottoncino verde, qualcuno inciampò sulle sue gambe, cadendo a terra.
Luke si voltò per scusarsi, quando si rese conto chi aveva davanti.
C’erano tre ragazzi che lo guardavano dall’alto verso il basso, e non proprio tre bravi ragazzi.
Quello che era a terra, scattò verso di lui con il pugno aperto, e Luke si affrettò ad alzarsi, mettendosi a correre il più velocemente possibile.
Purtroppo per lui, i bravi ragazzi in questione giocavano a football, e ci misero poco a prenderlo.
Il più alto dei quattro gli prese la polaroid, lanciandola poi al suo compagno come se fosse un pallone.
Luke provò a scusarsi, a chiedere per favore, ad intercettare la polaroid quando la lanciavano, ma sembrava tutto inutile.
Finché d’improvviso una mano afferrò la macchina fotografica.
Voltandosi per vedere chi fosse stato, non poté fare a meno di sorridere.
“Vi divertite ragazzi?” Esclamò Han, con il suo solito sorriso beffardo.
“Ma guarda guarda, sei fortunato moccioso!” Esclamò uno dei ragazzi. “E’ arrivato il tuo fidanzato!”
“Coinquilino, prego.” Lo corresse Han. Poi prese Luke per un braccio, trascinandolo dietro di lui.
“Allora, avete altro da dire o volete passare direttamente ai pugni?” Chiese, tirandosi su le maniche della giacca.
Luke provò a farlo desistere, ma ottenne solo la sua amata polaroid e un sorriso incerto.
Quando la professoressa Organa arrivò, uno degli atleti era a terra, con l’occhio pesto. Un altro era in ginocchio, con il labbro sanguinante.
Han stava facendo a pugni con i due rimasti, mentre Luke aveva appena sollevato un ramo, preparandosi a colpire.
“Che cosa sta succedendo qui?” Urlò, incrociando le braccia al petto.
Quasi tutti iniziarono a parlare contemporaneamente, accusandosi a vicenda.
“Adesso basta!” Tuonò lei. “Via da qui voi quattro, prima che chiami la polizia!”
I bravi ragazzi si allontanarono in fretta, conoscendo bene la reputazione severa della professoressa.
“E ora, voglio sapere la verità. Coraggio!”
Han iniziò a parlare, ma fu  interrotto dal suo cenno di silenzio.
“Non da te. Luke, dimmi ogni cosa.”
Han alzò gli occhi al cielo, e Luke buttò a terra il bastone.
“Ecco… Quei ragazzi mi hanno preso la polaroid e… Non volevano più ridarmela. Poi è arrivato Han in mio aiuto e poi… Poi è arrivata lei in aiuto a tutte e due.”
“Ehy, io avevo tutto sotto controllo!” Esclamò Han, asciugandosi il sangue sulla fronte con la manica della giacca.
Com’era prevedibile, si beccarono entrambi una bella sfuriata.
E dopo, un paio di cerotti sulla testa.
Più tardi quello stesso giorno, mentre Luke era ancora in biblioteca per un ricerca, e fuori nevicava,
Han decise di tornare a casa, a farsi un meritato pisolino.
Proprio mentre era per strada, canticchiando allegramente una canzone dei Clash, notò sul marciapiede opposto una ragazza che camminava sotto la neve fitta, coprendosi la testa con un libro.
Frenò bruscamente, facendo stridere le ruote, poi fece un inversione a u, che gli costò non pochi insulti da parte degli altri automobilisti, fino a ritrovarsela davanti.
“Vuoi un passaggio principessa?” Chiese, con il suo miglior sorriso.
“No.” Rispose lei, inarcando il sopracciglio.
Lui la seguì per qualche metro, continuando ad insistere.
“Sta nevicando!”
“La neve mi piace!”
“Ti prenderai un raffreddore!”
“Mi berrò un the caldo quando sarò a casa.”
Dopo vari tentativi, parcheggiò la macchina.
Non si era mai arreso in vita sua, non avrebbe iniziato adesso.
Prese l’ombrello dal sedile posteriore, la seguì e poi si mise al suo fianco, riparandola.
“Oh per l’amor del cielo!” Sbottò lei, non riuscendo a non sorridere.
Lui fece spallucce, avvicinandosi di più a lei, che in tutta risposta lo spinse via, facendolo cadere sulla neve.
Non riuscì a trattenere una risata, e nemmeno lui, perché dopotutto, almeno era riuscito a farla ridere.
Si posizionò di nuovo al suo fianco, reggendo il suo ombrello azzurro.
Lei alzò gli occhi, studiando con curiosità i robot bianchi che vi erano stampati sopra.
“E’ di Luke.” Si giustificò lui.
“Dovevo immaginarlo.” Rispose lei.
Han le offri il braccio, mordendosi appena il labbro.
Lei sbuffò, e lo prese.
Fecero quattro isolati a piedi, in silenzio.
Lui avrebbe voluto dirle tante cose, ma gli sembravano tutte stupide.
Lei avrebbe voluto chiedergli molte cose, ma temeva di risultare invadente o noiosa.
Alla fine, lui la accompagnò fin sotto la porta di casa, lei frugò nella borsa fino a trovare le chiavi, ed aprì la porta.
Han si sporse verso di lei, socchiudendo gli occhi e corrucciando le labbra in un bacio.
Lei lo fece avvicinare, guardandolo con fare malizioso.
Poi, gli chiuse la porta in faccia.
Lui si massaggiò il naso dolorante, riprendo l’ombrello.
“Che diavolo di donna!” Disse tra sé e sé, con un sorriso.
Mentre tornava verso la macchina ripensò a quella canzone, Walking on the moon, e capì cosa volesse dire essere così felice da avere la sensazione di camminare sulla luna, senza peso e senza pensieri.
“Walking on the moon, walking back from your house.” Iniziò a canticchiare. “Walking on the moon, feet they hardly touch the ground.”
 
“Qui è il vostro dj Chewbecca, da Chicago. Oggi fa freddo, terribilmente freddo! E’ proprio la giornata ideale per avere una folta pelliccia, o per infilarsi nel letto di qualcuno, e scaldarsi a vicenda. Ditemi amici miei, avete qualcuno di speciale a scaldarvi? C’è qualcuno che sfrega il naso contro il vostro? Che mette i piedi sotto i vostri? Che vi infila le mani sotto la maglietta, facendovi rabbrividire? Se non è così, non preoccupatevi, perché la buona musica è la più fedele delle amanti! Ci penserà lei a scaldarvi il cuore, amici miei. E adesso, un altro successo dei Clash, Lovers rock!”
 
Era una bella domenica di sole a Chicago, e i due ragazzi erano andati a fare un giro in macchina, fermandosi poi al Millennium Park per mangiare un panino e sdraiarsi un po’ sul prato.
Poi approfittando del sole, Han si era messo a lavare la macchina, mentre Luke se ne stava seduto contro un albero, canticchiando qualcosa e scattandogli delle foto di tanto in tanto.
Han dal canto suo non disdegnava essere al centro dell’attenzione, quindi reagiva a tutte quelle foto mettendosi in posa e facendo le boccacce.
Poi, proprio mentre si era messo in posa esibendo i muscoli, udirono una risata famigliare.
“Ah gli uomini e  il loro orgoglio…” Esclamò Leila, sollevando il braccio ed imitandone i movimenti.
Luke scoppiò a ridere, beccandosi uno straccio in faccia.
Han non si scompose, appoggiandosi contro la macchina, e spostando le braccia dietro la schiena per mettere in mostra il petto, che la maglietta bianca bagnata risaltava ancora di più.
In tutta risposta Leila gonfiò il petto, imitandone la posa.
Luke rise di nuovo, e Han alzò gli occhi al cielo, sconfitto per la seconda volta.
“Se proprio ti diverte tanto prendermi in giro, vieni a vedermi domani stasera! Scommetto che quando mi vedrai sfrecciare con il mio Falcon, ti tremeranno quelle belle gambe che hai.”
“Le mie belle gambe non tremano per nessuno, tanto meno per te!” Rispose lei, incrociando le braccia.
“Ah se ne sei così sicura, allora vieni!” Esclamò lui, andandole vicino e mettendole un braccio intorno alla vita, che subito lei scostò bruscamente.
“E dove si tiene questa gara di preciso?”
“Nel South side, si parte a mezzanotte, davanti alla fabbrica di carne dei fratelli Earl. Allora principessa, ci vieni a vedere il tuo cavaliere che corre?”
“Non dirai sul serio spero? E’ un quartiere pericoloso quello! Correre è pericoloso! Vuoi forse morire giovane?”
“Perché, ti dispiacerebbe se io morissi?” Rispose lui, avvicinando il viso al suo.
Lei gli mise una mano sulla faccia, spostandolo malamente.
“E tu non dici niente? Lo lasci correre?” Disse rivolgendosi a Luke.
“Non è mica mia moglie!” Si affrettò a dire Han.
“E anche se fosse, non mi darebbe comunque retta.” Aggiunse Luke.
Han si limitò a fare spallucce.
“L’unica cosa che posso fare è correre con lui, almeno lo tengo d’occhio.”
“Non dirmi che corri anche tu? Ma è una pazzia! Han, se gli succede qualcosa sarà tutta colpa tua!” Aggiunse alla fine Leila, dandogli una leggera spinta.
“Vieni a vederci principessa, e dammi un bacio come portafortuna. Vedrai che poi torno da te sano e salvo. E ovviamente, anche il mio copilota!” Aggiunse facendole l’occhiolino.
“Neanche per sogno! Fate quello che volete, non me ne importa niente!” Disse lei nervosamente, allontanandosi a gran passo.
I due ragazzi rimasero per un po’ a guardarla camminare tra gli alberi, sorridendo mentre lei scuoteva la testa e borbottava qualcosa tra sé e sé.
“Quella è cotta di me, te lo dico io!” Esclamò Han, grattandosi la nuca con un sospiro.
“Lascia perdere, non hai speranze con lei…”
“Ma se mi ama!”
“Ma se ti disprezza!”
Han fece uno dei suoi soliti sorrisi, mettendogli il braccio intorno al collo.
“Ah ma le donne innamorate fanno cosi piccolo, ti urlano addosso e alzano gli occhi al cielo, aspettando che tu le baci.”
“Forse lei vorrebbe qualcuno di piu… Serio, maturo…”
“Come te vuoi dire?”
Luke balbettò qualcosa imbarazzato, nascondendo il viso nella giacca di jeans.
“Guarda che è inutile, lo sai benissimo che sei un pessimo bugiardo. Ti piace, e non posso darti torto, è semplicemente bellissima.”
“Non è per quello che io…” Iniziò a dire, senza sapere come continuare. In effetti, non era mai riuscito a capire cosa le piacesse tanto di lei.
“Ah non importa quale sia il motivo, è così e basta. Non si può condannare un uomo perché si è innamorato. Perciò falle pure la corte, e se riesci a conquistarla, potrei anche brindare alla vostra salute.”
“Lo faresti davvero?” Chiese l’altro incredulo.
“Beh, prima dovrei ubriacarmi parecchio per conto mio, sarebbe un boccone davvero amaro, da mandare giù. Ma fammi una promessa, accada quel che accada, noi resteremo sempre amici, ok?”
Disse, porgendogli la mano.
Luke lo fissò per qualche istante, e notò che non aveva quel suo sorriso sfacciato, ma che anzi, era molto serio. Ed era molto raro, vedere Han così serio.
“Te lo prometto.” Disse scansando la sua mano. “Tu sei come un fratello per me. Più di un fratello” Aggiunse, poi si tuffò tra le sue braccia, stringendolo forte.
“Ehi, adesso non esagerare! Ho una reputazione da mantenere!” Esclamò Han, che era sempre un po’ a disagio  nelle manifestazioni d’affetto maschili.
“Dormi con me ogni notte e adesso ti lagni per un abbraccio?” Rispose Luke ridendo.
“Mi raccomando urlalo un po’ più forte, quella gang laggiù non ti ha sentito bene!” Esclamò Han, spostandolo, per poi scompigliargli i capelli biondi.

“Eccomi di nuovo con voi, ragazze e ragazzi di tutte le età! Qui è dj Chewbecca che vi parla, dalla Rebel radio. Questo due febbraio, è una data che rimarrà segnata per sempre nei nostri cuori. Abbiamo perso una stella, una stella che ha bruciato il cielo con la sua musica, e che troppo presto si è spenta. Sid Vicious, il bassista dei Sex Pistols, è stato trovato morto per overdose, a New York. Succede così a volte, per quanto tragico possa sembrarci, certe persone non sono nate per questo mondo, non gli appartengono. Appartengono al firmamento, allo spazio, all’infinito. Vivono tra noi, illuminano le nostre vite grigie come fuochi d’artificio, e poi bruciano della notte. La prossima canzone è dedicata a te, amico mio. Ascoltiamo adesso Lonely boy, dei Sex Pistols.”
 
Erano le undici e cinquanta, e i due ragazzi se ne stavano appoggiati contro il Falcon, intorno a loro c’erano altre sette macchine, tutte in attesa di partire.
Uno di loro aveva uno stereo appoggiato sul cofano, e in tutta la strada risuonavano le note di Highway to hell, degli ACDC.
Una ragazza camminava tra le macchine, con un fazzoletto bianco arrotolato sulla coscia destra. Bionda, occhi azzurri penetranti e un abitino rosso che lasciava poco all’immaginazione.
Tutti gli sguardi erano su di lei, tutti, tranne quelli di due ragazzi. 
“Secondo me non viene…” Disse Luke, allacciandosi il giubbotto arancione.
“Verrà.” Rispose secco Han, accendendosi una sigaretta.
“Tra poco dobbiamo andare…”
“Verrà.” Rispose, soffiando il fumo verso il cielo.
Poi, quando mancavano meno di cinque minuti alla partenza, Leila arrivò.
Portava i capelli neri sciolti, un fazzoletto blu sulla testa e un abito dello stesso colore, che le lasciava scoperta la schiena.
“Lo sapevo, che saresti venuta!” Disse Han, buttando la sigaretta per terra e correndole incontro.
“Oh falla finita, voglio solo assicurarmi che arriviate vivi a domani. Se succede qualcosa a Luke, non potrò mai perdonartelo!”
Lui la prese tra le braccia, avvicinando il viso al suo.
“Stronzate. La verità è che ti piaccio!”
“Ma quando mai!”
“Ti piaccio perché sono un farabutto... Non ci sono abbastanza farabutti nella tua vita.” Esclamò, reclamando un bacio.
“A me piacciono gli uomini gentili.” Rispose lei, spostando il viso per nascondere un sorriso.
“Come Luke vero? Lo so lui è adorabile. E’ impossibile non volergli bene... Però non sono gli uomini gentili che ti fanno battere il cuore…”
“E chi ti dice che tu mi faccia battere il cuore?” Rispose lei, cercando nonostante il rossore, di mantenere la posizione.
Han le appoggiò le dita sul collo, accarezzandola delicatamente, salendo fino all’orecchio e poi scendendo fino alla clavicola.
“Lo sento. Sento il tuo cuore che batte accelerato… Che batte per me.”
Per qualche istante rimasero immobili, l’uno perso negli occhi dell’altro, con i respiri che si mischiavano e i corpi che fremevano per avere maggiore contatto.
Poi la ragazza in rosso annunciò di prendere posizione, e tutti i piloti salirono nello loro macchine, facendo rombare i motori.
Han la prese per mano, nonostante lei cercasse di svincolarsi, fino ad arrivare davanti al Falcon.
“Allora, sei proprio sicuro di vincere?” Chiese lei, guardando prima lui e poi Luke, con aria preoccupata.
“Principessa, la vedi quella meraviglia? Disse indicando la sua macchina nera. “Quella, è una Nissan R32 Skyline GT-R modificata. E io sono il miglior pilota al mondo. E’ chiaro che vincerò, ma se tu mi dessi un bacio, allora potrei bruciare l’asfalto.”
“Non ti arrendi mai, vero?”
“Mai principessa.”
Lei lo guardò per qualche minuto, avvicinando le labbra alle sue.
Poi improvvisamente lo spostò, afferrò il viso di Luke e gli stampò un bacio.
Fu in quel momento, che qualcosa diventò evidente per tutti loro:
Han capì che quella donna irritante, era fatta apposta per lui.
Leila capì che quel ragazzo testardo, sarebbe stata la sua fine.
Luke capì che non era poi così innamorato come pensava.
Alla fine i due salirono in macchina, la ragazza sventolò il fazzoletto, e otto macchine sfrecciarono sotto le stelle.
Leila restò immobile, guardando la macchina sparire fino all’orizzonte, e anche se erano dieci anni che non pregava, quella sera si ritrovò a incrociare le mani e guardare il cielo.
I minuti sembravano interminabili, e ogni rumore la faceva scattare.
Iniziò a battere i tacchi sull’asfalto, mangiandosi le unghie.
Odiava stare così, per un uomo poi! E che uomo!
Quel mascalzone, testardo, idiota di un… Un rumore improvviso fermò il flusso dei suoi pensieri, ed ecco che quella maledetta macchina nera apparse davanti a lei, stracciando il traguardo.
E d’improvviso, il mascalzone uscì dalla macchina, correndole incontro. E questa volta neanche tutta la sua forza di volontà riuscì ad impedirle di saltargli addosso, incrociando  le braccia dietro il suo collo e le gambe dietro la sua schiena.
“Hai visto principessa? Te l’avevo detto che avrei vinto!” Disse lui raggiante, sfregando il naso contro il suo.
“Tu, razza di un farabutto!” Esclamò lei, in bilico tra la rabbia e l’eccitazione.
Lui le stampò un bacio, al quale lei non riuscì a sottrarsi.
Non era certo il primo bacio che riceveva, ma era il primo che aveva ricambiato con altrettanta passione.
Han aveva le labbra calde e morbide, la lingua vivace e una leggera barba che le pungeva le guancie.
Le sue mani le tenevano saldamente i fianchi, e i capelli castani erano morbidi sotto le sue dita affusolate.
Preso dall’euforia del momento, Han si mise a roteare, facendola dondolare tra le sue braccia, sempre più forte, finché aprendo le braccia Leila ebbe la sensazione di poter volare.
Luke sorrise, prese la sua polaroid, e scattò una foto.
Tutto attorno a loro risultava sfocato, privo d’importanza. Lo sguardo orgoglioso di lui, Il sorriso di lei e le sue braccia che si allungavano verso la luna, quasi che potesse prenderla tra le mani, erano le uniche cose importanti.
Verso l’una di notte, si ritrovarono tutti e tre a bere birra, seduti sul cofano della macchina, mentre guardavano le luci della città, silenziosa e fredda, che si espandeva sotto di loro.
Rimasero lì per qualche ora, finché Luke iniziò a sbadigliare, gli occhi iniziarono a farsi pesanti, e finì per appoggiare la testa sulla spalla di Han.
Dopo un po’, dall’altra parte anche Leila iniziò a sbadigliare, strofinandosi gli occhi. Poggiò la testa sulla spalla libera del ragazzo, rannicchiandosi su di lui.
Mentre i due dormivano serenamente, Han riuscì, non senza qualche difficoltà, a sfilare la polaroid dal collo di Luke, e a scattare una fotografia a tutti e tre.
Sorrise, combattendo contro il fastidioso impulso di commuoversi, e mise la foto nel taschino della sua giacca.
Poi passò un braccio intorno ad ognuno dei due, e si perse a guardare le luci della città, simili alle stelle nel cielo notturno.


“Eccomi di nuovo qui con voi, ragazzi e ragazze, il vostro dj Chewbecca, in diretta dalla rebel radio.
La città brilla stanotte! C’è chi torna a casa dalla sua fidanzata, c’è chi è stato appena lasciato e sfreccia nella notte, sperando di seminare le lacrime. C’è chi dorme al calduccio nel proprio letto, sognando feste indimenticabili e trofei sul caminetto. C’è chi dorme per strada, avvolto da un cartone, e sogna un bel letto caldo. C’è chi ascolta blues, sdraiato sul divano, senza riuscire a prendere sonno. C’è chi sta lavorando, e si appoggia ad una scopa per non crollare per terra. C’è chi sta ballando, c’è chi suonando una chitarra. Ci siamo tutti noi, insaziabili sognatori, incorreggibili amanti, affamati di musica, affamati di vita. E allora la prossima canzone la dedico a voi, perfetti sconosciuti che vivete nella notte. Questa è  Goodbye stranger dei Supertramp. Qui è il vostro dj Chewbecca, che la forza sia con voi. Passo e chiudo!”



 

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Capitolo 3
*** Neutron star collision ***


Story 3 - Neutron star collision



 
“Then our hearts combined like a neutron star collision.
I have nothing left to lose you took your time to choose,
Then we told each other with no trace of fear that.

Our love would be forever,
and if we die we die together.”

 
“Qui è il vostro dj Hux, in diretta dalla Starkiller radio di New York! Questo era l’ultimo singolo dei Muse, Neutron star collision, un vero successo di questo 2010! Una canzone che ci parla d’amore, quel tipo di amore per cui si può morire. Ma del resto, non siamo tutti i soldati dell’amore? Sempre alla ricerca, sempre in missione, sempre in lotta, spesso in fuga. E chissà se quell’amore che tanto a lungo abbiamo cercato, per cui così duramente abbiamo lottato, sarà destinato a durare per sempre, per un anno, o una notte sola. Si dice che New York sia la città che non dorme mai, e allora eccoci qui, ad affrontare una nuova giornata, una nuova ricerca, e forse amici miei, sarà oggi il vostro giorno fortunato!”
 
“Fottute canzoni d’amore!” Sbottò Rey, sbattendo nervosamente il bicchiere sul vassoio.
Finn e Poe si guardarono confusamente, seduti dall’altra parte del tavolo, senza sapere cosa dire.
Prima che uno dei due riuscisse a pensare a qualcosa da replicare, Rey si era già alzata. Li salutò con un rapido cenno della mano e uscì dalla mensa del campus con l’aria assente.
“L’amore fa male…” Disse Finn, tirando un lungo sospiro.
“Vuoi sapere cos’altro fa male?” Rispose Poe, avvicinando il viso alla sua spalla.
“L’amore non corrisposto?” Fece l’altro, malinconico.
“No, questo!” Esclamò Poe, rovesciandogli dei cubetti di ghiaccio nella giacca.
Finn si alzò di scatto imprecando, cercando di scrollarseli di dosso, mentre Poe rideva, passandosi una mano tra i folti capelli neri.
“Questa me la paghi, Dameron!” Disse Finn, scattando nella sua direzione.
Rey stava camminando per i lunghi corridoi della Columbia university, quando i due ragazzi attraversarono di corsa quello a fianco, rincorrendosi l’un l’altro.
Lei li seguì con lo sguardo, non riuscendo ad evitare di ridere.
Proprio mentre stava svoltando l’angolo, ancora intenta a guardarli, un giovane professore stava per svoltare lo stesso angolo, nascosto dietro una pila di libri.
Fecero ancora qualche passo, prima di andare a sbattere l’uno contro l’altra.
Caddero entrambi a terra, insieme ai libri che si sparpagliarono intorno a loro.
“Ma che cazzo! Guarda dove vai razza di…” Sbottò Rey, prima di rendersi conto di chi aveva davanti.
Il professor Solo era seduto a terra a gambe incrociate, con un libro dalla copertina verde aperto sulle sue gambe e un altro in grembo.
I lunghi capelli neri gli ricadevano sugli occhi, profondi come un cielo notturno, e per qualche momento, Rey si perse ad osservarli, incantata dal modo in cui catturavano la luce.
“Oh mi scusi, non l’avevo proprio vista…” Disse il professore, rialzandosi in piedi. “Signorina…?”
“Rey.”
“Avrà anche un cognome immagino.”
“Solo Rey.” Si affrettò a dire lei.
Lui le porse la mano, per aiutarla a rialzarsi. “Va bene, solo Rey.” Disse, con un timido sorriso.
Era un sorriso strano, che lei non aveva mai visto. Non era un sorriso di gioia, ma neanche uno di quei sorrisi forzati che si fanno quando si è costretti, sembrava piuttosto un gesto incerto, come se la persona che avesse davanti non fosse abituata a sorridere, o non sapesse bene come farlo.
Rey gli prese la mano, era grande, e la sua presa salda la risollevò in un unico scatto.
Il professore si mise a raccogliere i libri, ed il sorriso sparì.
Istintivamente Rey gli diede una mano, prendendone quattro e facendone una pila.
“L’aiuto a portarli, professore.”
“Non c’è né bisogno, davvero.”
“Ormai li ho presi!” Rispose lei, facendo spallucce.
Poi di nuovo, quel sorriso.
“Va bene, mi segua allora.”
Rey annuì, seguendolo nel corridoio, poi su per le scale, fino ad arrivare al secondo piano, dove proseguirono fino ad arrivare davanti alla porta di un ufficio.
Lui aprii la porta, scostandosi per farla passare, poi le indicò la scrivania e le disse di appoggiarli lì.
Era un ufficio piccolo, c’era una scrivania di legno, e dietro di essa una libreria.
Nell’angolo sotto la finestra c’era un piccolo divanetto blu e un tavolino ricolmo di fogli.
Rey appoggiò i libri, e notò che sulla scrivania erano riposti degli spartiti musicali, ci passò le dita sopra, seguendo le note e le lunghe linee, fino ad osservare l’intestazione:
Notturno op. 9 n. 1 di Chopin.
“Conosce Chopin, signorina?” Chiese gentilmente il professore.
Lei scosse la testa, vagamente a disagio. “No, non fa per me.”
“Non tutti sono in grado di apprezzarlo, forse perché scava oltre la superficie, oltre la corazza che ci costruiamo, arrivando fin dentro l’anima. Ci si sente nudi, di fronte a tanta bellezza.”
Rey ascoltava rapita, cercando di immaginare una simile sensazione.
“Ma forse lei preferisce musica più… Moderna. Canzoni d’amore magari.”
Rey scoppiò a ridere. “Odio le canzoni d’amore, sono tutte così banali, stupide e…”
“Irreali?” La anticipò lui.
Lei annuì, lui sorrise, solo per qualche istante, poi si scostò una ciocca di capelli dl viso, riponendola dietro l’orecchio, e tornò ad indossare quella maschera d’indifferenza che portava sempre.
Il professore si mise silenziosamente a sistemare i libri, riponendoli con la massima cura negli scaffali. Sembrava che le sue lunghe dita li accarezzassero, quasi fossero vecchi amici.
Rey si sentiva quasi di troppo, come se fosse un intrusa in quel suo piccolo mondo. Si voltò verso la porta, e proprio in quel momento, fu attratta da qualcosa. Un quadro, appeso alla grande parete frontale.
Si avvicinò incuriosita, come se quel dipinto avesse una voce propria, e la stesse chiamando.
Erano raffigurati due cavalieri, un uomo ed una donna.
Lei era vestita di bianco, e intorno a lei, tutto era luminoso, quasi accecante.
Lui era avvolto nell’ombra, dai capelli ai vestiti, tutto di sé richiamava il nero.
I due avevano le fronti appoggiate l’una contro l’altra, gli occhi chiusi.
Entrambi reggevano una spada, conficcata dritta nel corpo dell’altro, all’altezza del cuore.
Ma attraverso quelle spade, anche i colori li trafiggevano, li oltrepassavano, inondando il bianco di lei di sfumature nere, e l’oscurità di lui, in onde di luce. 
“Eros e Thanatos.” Sussurrò il professore.
Lei lo guardò incuriosita, chiedendo di più con lo sguardo.
“Amore e morte. Secondo Freud, la pulsione di vita, o Eros, comprende la libido e lo spirito di autoconservazione. Mentre la pulsione di morte, o Thanatos, si manifesta in tendenze di distruzione, verso sé stessi e gli altri.” Disse lui, indicando i cavalieri con le dita, mentre spiegava.
“L’eterna lotta tra Eros e Thanatos, costituisce la forma più profonda dell’ambivalenza, tuttavia è una sorta di equilibrio, l’uno non può esistere senza l’altro, come se si completassero a vicenda.”
Rey rimase in silenzio, osservando i volti dei due cavalieri. C’era sofferenza in loro, ma anche felicità. Il sangue usciva dal loro petto, sporcando di rosso scarlatto i loro corpi, eppure le loro mani erano intrecciate.
“E’ strano… Questo dipinto… Non lo so’ è come se lo avessi già visto. In un sogno…” Disse lei, corrugando la fronte, e avvicinandosi per vedere meglio. “E’ quasi come se fosse…”
Mentre parlava, Rey sfiorava i volti dei cavalieri, passando i polpastrelli sui loro volti, cercando di capire le sensazioni che riceveva in quel momento. Ben si ritrovò a fare lo stesso gesto, spinto da un istinto che non seppe spiegarsi, accarezzando la luce intorno al corpo nero del cavaliere.
“Un ricordo?” Disse lui, mentre le loro dita si sfioravano, come mosse da un energia che avvolgeva ogni cosa, e che li spingeva a ricongiungersi.
“Si… Ma non è possibile! Me lo ricorderei, se avessi vissuto un’esperienza come questa.”
Lui si voltò, guardandola negli occhi, e per qualche istante le loro dita rimasero le une sull’altre, mentre i loro sguardi s’incatenavano, studiandosi a vicenda, cercando qualcosa in profondità...
“Forse non è accaduto in questa vita, ma in una passata.” Disse alla fine Ben, senza smettere di guardarla.
“Lei crede nella rincarnazione, professore?”
“Credo nell’anima. L’anima è immortale, e ci sono forze nell’universo molto più grandi di me e di te, che avvolgono ogni cosa.”
“Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio, di quante tu ne possa sognare nella filosofia.” Disse lei.
“Shakespeare.” Aggiunse lui stupito, abbandonandosi ad sorriso caldo e genuino.
I due rimasero a guardarsi, per un tempo che non seppero calcolare, come se in qualche modo stessero dialogando con lo sguardo, con lo spirito, anziché con le parole.
Solo molto dopo, si ritrovarono nell’aula di filosofia del professore, separati dai lunghi banchi dove si sedevano li studenti.
Rey si trovava nelle file centrali, alla sua destra c’era Finn, che continuava a scarabocchiare sul suo quaderno per attirare la sua attenzione. E alla sua sinistra Poe, che tirava all’altro ragazzo palline di carta, cercando a sua volta di attirare la sua attenzione.
Il professor Solo era in piedi in mezzo all’aula, indossava un completo nero, e stava spiegando la concezione junghiana di casualità e teleologia. Secondo la sua teoria, il comportamento dell’uomo è condizionato dalla sua storia individuale, la casualità, e dalle sue aspirazioni future, la teologia. Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, guidano l’essere umano nel suo comportamento presente.
Si muoveva con grazia, quasi che non appartenesse a quel mondo, ma che fosse solo un spirito.
La sua voce era bassa e suadente, come il canto di una sirena.
C’era qualcosa di misterioso in lui, qualcosa che Rey non aveva mai notato, eppure adesso non riusciva a pensare ad altro.
Poi quando i due ragazzi la colpirono con l’ennesima pallina di carta, fu costretta a tornare alla realtà. Tirò entrambi per le orecchie, finché non la finirono, e a quel punto fece un profondo respiro, e tornò a concentrarsi su quello che diceva il professore, e a prendere appunti.
Quella sera, cambiò qualcosa. Fu un cambiamento leggero, quasi difficile da avvertire, come una scossa di terremoto quando stai ancora dormendo, che viene percepita solo nella parte più inconscia della mente.
Finn e Poe avevano appena finito l’allenamento di football, e stavano lasciando il campo, festeggiando per l’ultimo punto segnato.
Indossavano le divise della loro squadra, i Columbia Lions, bianche e blu, che erano ora ricoperte di erba e fango.
Una volta negli spogliatoi, iniziarono a svestirsi delle pesante uniformi e dei caschi, sui quali avevano scarabocchiato i loro nomi in codice: Capo nero era il soprannome di Poe, e FN-2187 quello di Finn. Si chiamavano così solo tra di loro, visto che nessun’altro ne conosceva il significato.
Mentre erano a torso nudo, intendi a sfilarsi i pantaloni, sentirono alcuni ragazzi ridere, guardando Finn. Sentirono parole come negro, gang, rifiuto della società.
Poe si voltò di scatto, serrando la mascella e stringendo i pugni.
Fece un passo verso di loro, prima che Finn lo afferrasse per un braccio, tirandolo verso di sé.
“Lascia perdere, non ha importanza.” Disse, rise e scrollò le spalle, come se non gliene importasse nulla.
Poe però vedeva oltre quella risata, oltre quella scrollata di spalle, vedeva il dolore nei suoi occhi.
Quando i ragazzi andarono a farsi la doccia e loro rimasero soli, Poe accarezzò con le dita il tatuaggio di Finn, quel sole nero sul braccio. Sapeva cosa si nascondeva sotto, cosa copriva. L’anno in cui lo aveva conosciuto, su sul braccio muscoloso c’era scritto First Order. Era la gang a cui apparteneva, e quello era il marchio che portavano i suoi membri.
Accarezzò i bordi del sole, seguendone i raggi, poi si voltò verso Finn, che teneva la testa abbassata contro l’armadietto.
Poi il ragazzo sollevò il viso, cercando con lo sguardo gli occhi neri del suo amico, che fin troppo spesso sembravano leggere nei suoi.
A molti isolati da dove si trovavano,  nell’ East Village, c’era una palestra.
Dentro quella palestra, una ragazza si stava allenando con la sua spada di legno.
Lottava al centro della grande sala, altri dodici ragazzi erano intorno a lei, osservando curiosi ed intimoriti i suoi movimenti, la forza che metteva in ogni attacco, la velocità con cui si muoveva.
Il suo avversario era tra i migliori del corso, e metteva nei suoi colpi una tale furia, che solo in due riuscivano a tenergli testa. Rey era una di quelli, ma quella sera in particolare, qualcosa sembrava distrarla, non erano che sussurri, ombre sui muri.
Ma quei sussurri, avevano la voce di lui.
E ogni volta che guardava negli occhi il suo avversario, erano gli occhi di lui, che lei vedeva.
Cadde a terra, ansimando per la fatica, tremando per il dolore.
Fece un profondo respiro, allontanando quei pensieri, cercando di regolarizzare il battito, di trovare la calma dentro di lei.
Guardò il suo avversario,  e si rimise in piedi.
In un'altra zona della città, nell’Upper West Side, un uomo stava suonando il suo piano.
Era un pianoforte a coda Steinway & sons, l’ultimo regalo di sua madre.
Ogni volta che accarezzava i tasti, aveva la sensazione di vederla ancora al suo fianco.
Era un appartamento elegante il suo, molto spazioso ed illuminato, ma vuoto.
L’uomo era nel salone, e oltre il pianoforte, oltre grande vetrata che si affacciava su Central Park, osservava la luna. Quella tenue luce, sembrava chiamarlo a sé.
Stava suonando il Preludio op. 28 n.15 di Chopin, una melodia che di solito lo trasportava lontano, oltre la città, oltre la luna, nel vasto ed infinito universo.
Ma quella notte, lo portò da una ragazza, dai suoi occhi penetranti, dalla luce che emanava.
“Rey…” Sussurrò Ben Solo, chiudendo gli occhi e accarezzando i tasti del pianoforte.
 
“Qui è il vostro Dj Hux, in diretta dalla Starkiller radio. A New York sono le undici e cinquanta minuti, e le strade sono affollate di giovani in cerca di divertimento, di amanti in cerca di passione, di musicisti in cerca di ispirazione. C’è chi beve cocktail nei locali alla moda, c’è chi si scola una birra al parco con gli amici, c’è chi si beve un bicchiere di vodka e bacia i suoi figli, prima di andare al lavoro, c’è chi sorseggia un bicchiere di vino, nudo nel suo letto accanto a qualcuno. Per tutti voi, qualsiasi cosa stiate bevendo, le lancette corrono, corrono veloci! Ma c’è ancora tempo, prima che sorga il sole. E allora eccovi la prossima canzone, vi lascio in compagnia di Kesha, con la sua Tik tok!”
 
Era una bella giornata estiva, e Rey stava percorrendo la Fifth Avenue con la sua moto, attraversando Manhattan sotto il sole del mattino.
Arrivò al campus verso le dieci, godendosi la vista del cielo limpido all’orizzonte, si diresse verso i parcheggi, e lì, con la sua camminata leggera e un libro tra le mani, c’era il professor Solo, che attraversava distrattamente la strada.
Cercò di frenare, spostandosi bruscamente a destra per evitarlo, e nella manovra perse il controllo, sbandando e scivolando sull’asfalto con la sua moto, fino a rotolare per qualche metro.
Si ritrovò a terra, fissando confusamente il cielo sopra di lei.
Sentì in lontananza la voce di lui che la chiamava, finché non se lo ritrovò davanti.
Alzò la visiera del casco, cercandola con lo sguardo, poi l’aiutò a sollevarsi, fino a quando riuscì a metterla seduta.
Aveva la testa appoggiata al suo petto, quando lui le sollevò delicatamente il casco.
“Stai bene? Rey? Vuoi che chiami un’ambulanza?”
“Sto bene…” Disse lei, cercando di metterlo a fuoco.
“Sei sicura? Potresti avere un trauma cranico, o un emorragia interna o…”
“Sto bene, sul serio professore!” Rispose lei, sforzandosi di sorridere.
“Che giorno è oggi? Quante sono le mie dita? Riesci a muovere le gambe? Ti fa male la schiena?”
Continuò a chiedere lui, visibilmente spaventato.
“Il 16 giugno. Tre. Si e no.” Rispose lei, sorridendo.
Era quasi buffo, vederlo così agitato, proprio lui che di solito era così composto e silenzioso.
Lui sospirò, sorrise, e le spostò i capelli dal viso, rimanendo qualche istante a guardala.
C’era una tale profondità nel suo sguardo, che aveva la sensazione di essere nuda.
Ed era strano per lei sentirsi così, lei che si era costruita un armatura, e che non si lasciava avvicinare da nessuno.
Il professore diede un’occhiata al suo braccio scoperto, che strisciando sull’asfalto aveva riportato una brutta abrasione. Lo stesso valeva per la gamba sinistra, che era rigata di sangue e di terriccio per l’ustione da attrito.
“Ti porto in infermeria, bisogna medicare le ferite.”
Lei annuì, e prima di poter dire qualcosa, si ritrovò sollevata dal terreno, tra le sue braccia.
“Posso camminare!” Esclamò a disagio, cercando goffamente di scendere.
“Posso portarti io, non sei pesante.”
“Non è quello il punto!”
“E’ colpa mia se sei caduta, lascia almeno che ti aiuti!”
Mentre lei continuava ad insistere per camminare, e lui per portarla, finirono per arrivare in infermeria.
“Sei davvero una ragazza testarda, te l’hanno mai detto?” Disse Ben, appoggiandola al lettino.
“Costantemente.” Rispose lei, facendo una smorfia divertita.
Il professore si guardò intorno, ma non c’era nessuno, così disse che sarebbe andato a cercare aiuto.
“Non c’è n’è bisogno, so’ cosa fare.”
“Hai fatto un corso di infermieristica?”
“No, ma non è la prima volta che cado… Ti dirò… Le dirò io cosa fare…”
“Dammi pure del tu. E’ colpa mia se sei qui, mi sembra il minimo.”
“Va bene… Ben?” Chiese lei incerta.
Lui annuì.
Sotto le indicazioni di Rey, il professore le tamponò la ferita al braccio con un panno, applicando una leggera pressione fin quando l’emorragia si fermò. Poi la lavò con cura, passandoci sopra del sapone. La parte più difficile fu togliere i residui di asfalto con le pinzette, ma per fortuna aveva le mani ferme, il che gli consentì di essere molto preciso. Poi l’asciugò con cura, passando il panno sul braccio,  ci passò sopra la crema antibiotica e infine la fasciò con una garza.
Per tutto il tempo aveva cercato di essere il più gentile e delicato possibile, mordendosi il labbro inferiore per la concentrazione. Rey lo guardava, non riuscendo a trattenersi dal sorridere.
Era piacevole avere tutte quelle attenzioni, e di nuovo si ritrovò a pensare a quanto fosse buffo, aveva quasi un aria fanciullesca, mentre la puliva e la fasciava con cura.
Mentre Ben ripeteva le operazioni con la gamba, osservò i tanti lividi che aveva, da quelli più recenti, rossi e gonfi, a quelli più vecchi, viola e gialli.
“Come te li sei fatta? Se posso chiedere…” Chiese, inginocchiato sotto di lei, mentre reggeva sulle gambe il suo piede.
“Mi addestro ogni giorno, botte del genere sono normali per me.”
“Deve essere un addestramento piuttosto violento, per causarti queste ferite.” Disse, mentre le fasciava la ferita.
“Solo quando combatto.”
Lui la guardò per qualche istante, incuriosito.
“Kendo.” Rispose lei, anticipando la domanda.
“La via della spada.” Rispose lui, colpito.
“Conosci il Kendo?” Chiese lei, ancora più colpita.
“So’ che è un’arte marziale giapponese, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la katana anticamente usate dai samurai… Mi affascina molto, quel mondo. A differenza delle altre arti marziali, o delle tecniche di combattimento occidentali, che basano tutto sulla forza, la via della spada mi è sempre sembrata più elegante, raffinata… Ha qualcosa di…”
“Mistico?” Lo interruppe lei.
“Si, esatto. Quasi come una danza mortale.”
“Una danza? Non l’avevo mai vista, sotto questo punto di vista.”
“Forse dopotutto, in un’altra vita eri davvero una cavaliere. O un samurai”
Mentre le stava stringendo la garza, si ritrovò a indugiare sulla sua caviglia, accarezzandola leggermente con la punta delle dita.
Fu una questione di secondi, poi sembrò ridestarsi, e tornò ad occuparsi della fasciatura.
“E tu invece? Chi pensi di essere stato, nella tua vita precedente?”
“Oh non lo so…” Rispose cupamente lui. “Ma ho come la sensazione di aver commesso qualcosa di orribile. Di aver fatto del male a qualcuno.” Dicendolo, abbassò la testa e curvò la schiena, quasi che portasse un peso sulle spalle, troppo pesante da sopportare.
“Qualsiasi cosa tu abbia fatta, appartiene ad un'altra vita. Ad un altro te stesso. Ora quella persona non esiste più. Ci sei solo tu. E tu sei una persona buona, che cura le ferite degli altri.”
Ben sollevò il viso, rilassò il corpo, come se quel peso fosse diventato più leggero.
Sorrise, e Rey pensò di non aver mai visto un sorriso più caldo e gentile del suo.
Anche i suoi occhi, sembravano più luminosi.
Fu a quel punto che Finn spalancò la porta, correndo come una furia verso di lei.
“Rey! Che ti è successo? Eravamo così preoccupati!” Urlò, avvicinandosi al suo letto e prendendole la mano.
“Oh sto bene, niente di grave!” Rispose lei, lasciando la presa.
“Abbiamo saputo dell’incidente e siamo corsi subito a cercarti!” Esclamò Poe, che era proprio dietro al ragazzo.
“Siete stati gentili a preoccuparvi, ma davvero non è niente, solo qualche livido in più!”
“Se trovo lo stronzo che ti ha fatto cadere giuro che lo strozzo!” Esclamò concitato Finn.
“Veramente, lo stronzo sarei io.” Disse Ben, alzandosi in piedi.
“Oh, bene!” Disse Finn, avvicinandosi a lui con fare minaccioso.
Ben non arretrò, sostenendo il suo sguardo.
“Stai calmo amico!” Esclamò Poe, prendendolo per un braccio e tirandolo indietro di qualche passo. “Sta bene, non lo vedi come sorride?”
“Ma se è piena di fasciature! Poteva anche morire, te ne rendi conto?” Sbottò Finn, senza tuttavia allontanarsi dalla sua presa.
Per qualche minuto rimasero tutti immobili, come se il minimo gesto potesse compromettere quel delicato equilibrio.
“Che sta succedendo nella mia infermeria?” Urlò una donna sulla cinquantina, con la divisa celeste. Dopo aver malamente buttato fuori i tre uomini, si accertò che le medicazioni fossero state eseguite correttamente.
Quella sera, di nuovo qualcosa cambiò nella vita di ognuno di loro.
A tratti rapido e impetuoso, a tratti delicato e leggero, quel cambiamento era come un’onda, destinata a cambiare per sempre il corso degli eventi.
Poe e Finn si trovavano nella loro stanza, una piccola camera che condividevano fin dal primo giorno di college.
Si erano conosciuti il giorno in cui Finn aveva lasciato il First Order, il giorno in cui aveva deciso che quella non era la sua vita. Poe si era trovato in mezzo a quel caos per puro caso, e aveva preso botte da un paio di ragazzi della banda, quando inaspettatamente Finn l’aveva portato via, scappando con lui tra i vicoli di Harlem. Avevano corso per sette isolati, temendo di venire accoltellati da un momento all’altro, e alla fine si erano ritrovati in cima ad un vecchio edificio, sdraiati su un terrazzo che profumava di bucato, nascosti dai panni stesi al sole.
Avevano guardato il cielo per tutto il pomeriggio, senza dire nulla. Poi all’improvviso avevano iniziato a parlare, a raccontarsi le piccole e grandi cose che facevano parte della loro vita. E da allora, non avevano più smesso.
Quella sera stavano giocando al loro videogioco preferito, Star Wars.
“Qui Capo nero, sono circondato! Ho bisogno di supporto!” Esclamò Poe con il joystick in mano, muovendosi nel letto come se stesse schivando i nemici.
“Qui FN-2187! Sto arrivando amico, sono proprio dietro di te! Tieni duro!”
“Sono troppi! Ne ho tre a ore dieci, aiutami!”
“Possiamo farcela Capo nero, ti copro le spalle!”
“Dobbiamo farcela FN-2187, la resistenza conta su di noi!”
Continuarono così per molte ore, battaglia dopo battaglia, inseguendosi nel cielo, seguendo le stelle e abbattendo nemici.
Fu verso le tre del mattino, che Poe si accorse che il suo amico si era addormentato.
Rise, osservando il filo del joystick che si era attorcigliato intorno al suo petto, e cercò di liberarlo senza svegliarlo.
Si ritrovò a cavalcioni su di lui, mentre tentava di sollevargli la schiena quel tanto che bastava per sfilargli il cavo.
Sospirò, quando si ritrovò vicino alle sue labbra, pesando a quanto avrebbe voluto potersi chinare e farle sue.
Lentamente Finn aprii gli occhi, guardandolo confusamente tra il sonno e la veglia.
Per qualche minuto, rimasero entrambi sospesi, gli occhi persi l’uno nell’altro, i respiri che si mischiavano tra di loro.
Nessuno dei due si mosse, nessuno dei due parlò.
“Buonanotte, Capo nero…” Mugugnò Finn con un sorriso stanco, richiudendo gli occhi.
“Buonanotte, FN-2187…” Rispose Poe, sistemandosi al suo fianco.
“Abbiamo vinto?” Chiese dopo un po’ Finn, voltandosi verso di lui ancora con gli occhi chiusi.
“Si amico mio, abbiamo vinto.” Poe si girò, appoggiando la fronte contro la sua e rannicchiandosi vicino al suo petto. Finn gli strinse la mano, e lui chiuse gli occhi.
Molto lontano da lì, dall’altra parte della città, una ragazza stava guidando la sua moto, percorrendo la Palisades interstate pkwy, che costeggiava il fiume Hadson sulla destra, e si affacciava al grande parco naturale sulla sinistra.
Tutto ciò di cui aveva bisogno era il vento sul viso, le stelle all’orizzonte e la natura che la circondava.
Percorse quella strada per ore, senza una meta precisa, con il solo desiderio di perdersi nella notte.
Poi d’improvviso, notò una figura in una piazzola di parcheggio.
Un uomo vestito di nero, con i capelli lunghi che ondeggiavano nel vento e lo sguardo perso all’orizzonte.
Si fermò poco dopo, convinta di esserselo immaginato, e tornò indietro, quasi ridendo per la sua fervida immaginazione.
Eppure, quando si fermò nella piccola piazzola, si rese conto di non esserselo immaginato.
Proprio in mezzo al nulla, in una strada deserta, così lontano dalla città, c’era Ben che le sorrideva.
Scese dalla moto, togliendosi il casco e liberando i lunghi capelli castani nel vento.
“Pensavo di averti immaginato.” Disse incredula, avvicinandosi a lui.
“Forse è così. Forse sono solo il frutto della tua immaginazione.” Rispose lui, con un sorriso.
Per quanto fosse strano per lei, addirittura ridicolo, si stava davvero affezionando a quel suo malinconico sorriso.
“Forse allora dovrei toccarti, per accertarmi che tu sia reale.”
Lui allungò la mano verso di lei, senza smettere di sorridere.
Dietro di lui, la luna si affacciava tra i grattacieli, illuminando il fiume con i suoi riflessi dorati.
Rey rimase qualche istante a guardarlo, quasi temendo che allungando la mano, avrebbe afferrato l’aria.
Invece, raggiunse la sua mano, stringendola nella propria.
Di nuovo i loro occhi si cercarono, si scontrarono, e l’uno si perse nello sguardo dell’altra, mentre il vento accarezzava la loro pelle e le loro dita si intrecciavano.
 
“C’è la luna piena stanotte, sopra New York! La state guardando anche voi? Qui è il vostro dj Hux, sempre con voi dalla Starkiller radio. Una luna del genere fa sognare, fa venire voglia di esprimere un desiderio. E allora uscite sul terrazzo, affacciatevi alla finestra, scendete in strada, ed esprimete un desiderio amici miei! Chissà che la luna non vi ascolti questa notte…  Chissà che proprio mentre state camminando per la strada, stanchi e soldi, non vi troviate proprio ciò che desideriate. Che sia una macchina veloce o una bella donna, si può trovare ogni cosa sulla strada, basta sapere dove guardare. E adesso ascoltiamo insieme la prossima canzone, Meet me the halfway, dei black eyed peas.”
 
Era una domenica pomeriggio di giugno, e il sole splendeva sopra Central Park.
Rey si esercitando con la sua spada di legno, ripetendo i movimenti, schivando e parandosi, cercando di concentrarsi solo sulla spada, come fosse un prolungamento del suo braccio.
Poco distante, Poe e Finn avevano afferrato dei rami e li stavano usando come fossero delle spade, sfidandosi in un duello mortale.
Poi d’improvviso un uomo sollevò lo sguardo dal suo libro, perdendosi qualche momento ad osservare i raggi del sole, che filtravano tra le fronde rosa delle magnolie.
Seguì uno di quei raggi, fino a quando si ritrovò davanti Rey, che girata di spalle era intenta a fare degli affondi verticali. I petali rosa danzavano intorno a lei, mossi dal vento.
Pensò di andarla a salutare, così si avvicinò, sollevando la mano e aprendo la bocca per dire il suo nome, quando venne colpito violentemente al petto, e si ritrovò per terra a lamentarsi per il dolore.
Rey mollò immediatamente la spada, inginocchiandosi sull’uomo.
“Ben! Stai bene? Mi dispiace, non ti avevo visto!” Disse, mettendosi a cavalcioni su di lui.
Lui si massaggiava il torace, la bocca corrugata in una smorfia sofferente.
“Più o meno…” Disse poco convinto, con gli occhi socchiusi.
“Accidenti, è tutta colpa mia! Mi dispiace così tanto...” Rispose lei, posando la mano sul suo petto.
Fu in quel momento che Ben sollevò il viso, e aprendo gli occhi si rese conto di come la figura della ragazza emergesse dalla luce del sole dietro di lei, rendendola quasi accecante.
“Eros e Thanatos…” Sussurrò, ripensando al quadro.
“Come?” Fece lei confusa.
“La luce dietro di te…” Rispose, indicandole il sole con il dito. “Mi ha ricordato quel dipinto.”
Lei sorrise, ricordando a sua volta quell’immagine.
“Dobbiamo smetterla di incontrarci così però!” Esclamò dopo un po’, ridendo.
Lui annuì, con un debole sorriso, mettendosi meglio a sedere.
Lei scoppiò a ridere, e lui la guardò smarrito.
Rey avvicinò la mano ai suoi capelli neri, all’altezza dell’orecchio destro, sfilandogli uno stelo d’erba. Poi glielo mostrò, ridendo.
“Oh, certo. Ne ho ancora?” Chiese lui, passandosi una mano sui capelli.
Lei annuì, avvicinò di nuovo la mano e ne tolse uno vicino alla fronte, continuando così per un po’.
Ben rimase a guardarla, incanto dalla dolcezza del suo volto, di solito così scontroso.
Poi mentre lei catturava un petalo rosa, facendolo scivolare tra i suoi capelli, si ritrovò ad accarezzare la sua tempia, delicatamente, con la punta delle dita.
Quando si accorse di quanto stava facendo, si immobilizzò, senza sapere se continuare o ritrarsi. Cercò negli occhi di Ben la risposta, che le arrivò con uno sguardo carico di dolcezza.
Appoggiò di nuovo le dita sul suo viso, seguendone i contorni, dalla guancia al collo.
Poi sentì la mano di lui muoversi sulla sua clavicola, accarezzarne i bordi fino a salire lentamente, indugiando sul collo e dietro l’orecchio, fino a posarsi sulla sua guancia.
Chiuse istintivamente gli occhi, godendosi il calore di quel contatto, perdendosi in quella sensazione di pace e desiderio.
Ad una ventina di metri, Finn stava cercando Poe, che si era nascosto.
Con il ramo ben sollevato e gli occhi che scrutavano in tutte le direzioni, si muoveva facendo il meno rumore possibile, nella speranza di sorprenderlo e vincere quella battaglia.
Camminava sull’erba, circondato dalle magnolie in fiore, quando d’improvviso se lo ritrovò davanti, appeso a testa in giù, con le gambe che circondavano un grande ramo.
“Preso!” Esclamò Poe vittorioso.
“Cazzo!” Rispose Finn, lasciando cadere il bastone a terra.
“Ho vinto! Quindi devi fare la penitenza.” Disse l’altro ridendo, con i capelli neri che gli ricadevano sul viso.
“Oh ma andiamo, non abbiamo cinque anni!”
“Le regole sono quelle amico!” Fece l’altro, senza smettere di ridere.
“E va bene… Cosa vuoi che faccia?” Disse sospirando.
Poe stette qualche minuto a riflettere, dondolandosi lievemente con le gambe.
“Potresti baciarmi!” Sussurrò alla fine, tirandosi un po’ giù con le gambe, per arrivare all’altezza del suo viso.
“Che cosa?” Esclamò confuso Finn. “Stai… Stai scherzando vero?”
“Oh no no, affatto.”
“Ma… Ma non è leale!” Disse visibilmente a disagio.
“Certo che lo è.”
“Ma… Siamo in un parco pubblico!”
“Beh è allora? Non ti ho mica chiesto di farmi un pomp…”
Finn gli mise una mano sulla bocca, zittendolo all’istante.
I due rimasero a guardarsi, il primo eccitato e vittorioso, il secondo titubante ed imbarazzato.
“E comunque non saprei… Si insomma… Non saprei come fare.”
“Non sai come si bacia?” Chiese Poe, spostandosi i capelli dal viso.
“Certo che so come si bacia idiota!” Rispose l’altro nervoso. “Ma io… Ecco non ho mai… Baciato un altro ragazzo.” Sussurrò alla fine, grattandosi la nuca.
“E’ come baciare una ragazza!”
“Ma non dire stronzate! Non può essere uguale!”
“Ti dico di si.”
“E tu come fai a saperlo?”
L’altro sorrise maliziosamente, inarcando il sopracciglio.
Lo sguardo di Finn passò dalla confusione, all’irritazione.
“Geloso FN-2187?”
“Nient’affatto.” Rispose imbronciato, incrociando le braccia al petto.
Per qualche minuto Finn  rimase così, lo sguardo basso e la bocca corrucciata, i piedi che sfregavano contro il terreno.
“Beh se può consolarti…” Iniziò a dire Poe, catturando la sua attenzione.
“Non ho mai baciato un ragazzo che mi piacesse veramente…” Sussurrò malizioso.
“E… Allora? Che vuoi dire?” Chiese Finn a disagio, guardandolo con la coda dell’occhio.
“Che se ora tu mi baci, sarebbe la prima volta.” Disse con voce seria, smettendo di dondolarsi.
Finn lo guardò e fece un profondo respiro, lasciando scivolare le braccia sul petto.
Avanzò di un paio di passi verso di lui, fissando prima i suoi occhi scuri e poi le sue labbra sottili.
E per un lungo momento, indugiò, avvicinandosi piano alla sua bocca, temendo e desiderando quel contatto.
Quando alla fine le sue labbra si posarono su quelle dell’amico, si sentì invadere da una sensazione di piacere, come se il suo corpo si stesse sciogliendo e scaldando allo stesso momento.
 
“Abbiamo appena ascoltato Misery, dei Maroon 5! Qui è il vostro dj Hux che parla, come sempre in diretta da New York! Ditemi amici miei, non vi sentite anche voi dei miserabili idioti, quando siete innamorati? Così piccoli, stupidi, inetti perfino. Ci si dimentica come si parla, come si guida, come si cammina,  a volte come ci si allaccia le scarpe. E’ così che ci riduce l’amore. Ci dimentichiamo di noi stessi, delle bollette da pagare o dell’esame da preparare, e in compenso la nostra mente si riempie di tante piccole cose che non ci appartengono: Il profumo dei suoi capelli, il suo colore preferito, il sapore della sua pelle, il modo che ha di arricciarsi i capelli tra le dita. Sono queste le cose che rimangono, alla fine.”
 
Era un martedì mattina qualunque alla Columbia university, o almeno, così sembrava.
Finn era seduto sugli spalti, ed osservava il campo di calcio verde di fronte a lui, ispirando a pieni polmoni l’odore di erba tagliata.
Stringeva i pugni sulla sua maglietta azzurra, quella della squadra. Passò le mani sul numero 21, sorridendo malinconico. Poi osservò le scritte fatte con il pennarello rosso, accanto al suo nome.
Faceva male, leggere quelle parole così piene d’odio.
Più male che qualsiasi colpo preso sul campo.
La buttò a terra, chiedendosi se un giorno avrebbe potuto dimenticare il suo passato, o se gli sarebbe rimasto incollato addosso per sempre.
Era così preso dai suoi pensieri che non si accorse nemmeno che Poe era arrivato, finché non lo vide sedersi al suo fianco.
Aveva ancora la maglietta della squadra, e le strisce nere colorate sulle guancie.
Guardò l’uniforme dell’amico, raccogliendola da terra e togliendo il terriccio con le mani.
“Stasera la laviamo con il sapone, vedrai che tornerà come nuova!” Disse, cercando di sorridere.
Ma l’altro non rispose, continuò a fissare il campo, con gli occhi tristi.
“Sono degli idioti, fregatene di quello che pensano!”
“Forse hanno ragione Poe… Forse non dovrei essere qui…”
“Non dire stronzate!” Esclamò l’amico, passandogli un braccio intorno al collo. “Sono solo invidiosi perché sei più bravo di loro, tutto lì.”
“Lo dici solo per consolarmi…” Rispose l’altro, abbassando il viso.
“Lo dico perché è vero. Dentro e fuori dal campo.”
Finn scosse la testa, amareggiato. “Quello che ho fatto, non mi rende migliore di loro. Mi rende solo una persona orribile. E neanche tutto il sapone del mondo potrà cancellare quello sono stato.”
Poe rimase qualche istante a guardarlo, sospirò. Poi con la mano gli guidò il volto, per poterlo guardare negli occhi.
“Ciò che hai fatto, non ti rende una persona orribile. Una persona orribile, non si sentirebbe in colpa, non capirebbe di aver sbagliato, e non cercherebbe di rimediare ai suoi errori.”
“E dimmi, cosa ho fatto io per rimediare ai miei errori? Nulla, me ne sto qui a giocare come un bambino.”
“E che mi dici del fatto che hai rischiato la vita per salvare la mia? Quello non conta?” Disse Poe, accarezzandogli teneramente la guancia. “Te lo ricordi quel terrazzo? Quello dove abbiamo parlato la prima volta?” Chiese con gentilezza, sfregando il naso contro il suo.
“C’erano i panni stesi… E profumava di bucato.” Disse Finn, quasi in un sussurro. “Il cielo era limpido, e tu ridevi, osservando le nuvole. Non potrei mai dimenticarlo… E’ stato quel giorno, che la mia vita è cambiata.”
“Si… Perché hai lasciato la tua banda. Perché hai deciso che potevi essere migliore.”
“No…” Rispose Finn, alzando lo sguardo, fino ad incontrare gli occhi di Poe. “Perché ho incontrato te.”
Si ritrovarono entrambi a sorridere, fronte contro fronte.
Poe accarezzava la nuca dell’altro ragazzo, strofinando la guancia contro la sua, mentre
Finn gli prendeva la mano, dandogli dei leggeri baci sul collo.
Dall’altra parte del campus, nella biblioteca, Rey stava cercando un libro, osservando tra i tanti volumi sugli scaffali neri.
Poi d’improvvisò lo trovò, era un grande tomo con la copertina marrone. Soddisfatta avvicinò la mano per prenderlo, ma quando posò le dita sulla copertina, sfiorò quelle di qualcun altro.
In quella sottile linea che lo separava dagli altri volumi, in quello spiraglio di luce che univa i due lati della libreria, scorse uno occhio nero, un lato della sua bocca carnosa, un ciuffo di capelli che ricadeva sulla guancia.
Ben scostò il volume accanto, e quello dopo ancora, e ad ogni spazio che si liberava, il suo viso si faceva completo.
Rimasero a guardarsi, senza sapere cosa dire.
Le loro dita ancora vicine, che si accarezzavano i polpastrelli.
Poi lui allungò lentamente la mano, fino a stringere con forza la sua.
Rey aveva la sensazione di aver già vissuto quel momento, di aver già sfiorato la sua mano in quel modo, di essersi persa nei suoi occhi. Riusciva quasi ad avvertire il calore del fuoco vicino a loro, il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli, i tuoni in lontananza, il suo respiro lento ed incerto.
Spostò bruscamente la mano, spaventata da quei ricordi.
Rimase a fissare la sua mano, cercando di capire cosa le stesse succedendo.
Era un sogno? Era la sua immaginazione?  O erano davvero frammenti di una vita passata?
Erano domande troppo grandi, a cui non sapeva darsi una risposta.
Poi notò che Ben era proprio al suo fianco, e stava cercando con le dita di ricongiungersi alle sue.
“Non so cosa mi succeda…” Disse lei, ritraendo un poco la mano. “Non so cosa dire, ne cosa fare.”
“Allora non dire niente, non fare niente…” Rispose lui, intrecciando le dita con le sue. “Rimani semplicemente qui con me.”
Lei annuì debolmente, poi appoggiò la testa contro il petto di Ben, sospirando profondamente.
Lui le baciò la fronte, stringendola a sé con l’altra mano.
Lentamente i loro corpi si strinsero l’uno all’altro, sempre più forte, fino ad unirsi in’unico abbraccio.
 
Eccomi di nuovo con voi, miei soldati dell’amore! Qui è dj Hux, dalla Starkiller radio. Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo di Bruno Mars, Just the way you are. A chi non piacerebbe sentirsi dire quelle parole? Ti amo, proprio così come sei. A chi non piacerebbe sentirsi dire che si è perfetti, esattamente così come siamo? Con tutti i nostri difetti e le nostre manie, con le rughe sotto gli occhi e i capelli arruffati, con i piedi troppo piccoli e le cosce troppo grandi? Infondo è quello che cerchiamo tutti. Personalmente, io ho qualcuno che mi ama, esattamente come sono. Il mio gatto, il generale. Vi sembrerò stupido forse, ma in un mondo dove le persone vanno e vengono, quel grosso gatto rosso, è l’unico che rimane.”
 
Era il quattro luglio, e tutta l’America si preparava per festeggiare il giorno dell’indipendenza.
A New York avevano organizzato un grande corteo, le sfilate dei carri, feste e concerti in tutta la città, e i famosi fuochi d’artificio.
Anche il campus era in fibrillazione, e almeno per quel giorno, sia studenti che professori misero da parte le lezioni e i libri di testo, per concentrarsi sulle celebrazioni.
Il preside aveva organizzato una grande festa, per i docenti e i genitori degli alunni.
Ogni anno, quelle feste diventavano sempre più eleganti ed esclusive, per mantenere alta la reputazione del college. Dopotutto, era uno degli otto facente parte dell’Ivy League.
Era un onore, ma anche un responsabilità.
Il professor Solo naturalmente era stato invitato, ma per la prima volta nella sua carriera, era venuto accompagnato.
Entrò nella grande salone delle cerimonie del Campus, con uno smoking nero, e una ragazza a braccetto. Lei aveva i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle, e un vestito argentato, stretto e lungo, che le fasciava armoniosamente il corpo.
Non era abituata a portare i tacchi, per cui accettò di buon grado il braccio di Ben, pur di non cadere davanti a tutti.
Ben camminava dritto e fiero, impassibile e sfuggente, come se nemmeno vedesse tutte le persone che lo circondavano.
Con un cenno del capo salutava chi conosceva, ignorando tutti gli altri.
Rey cercava di imitarne i movimenti, visibilmente a disagio.
Odiava i vestiti, odiava le feste, spesso anche le persone.
Soprattutto, quel genere di persone che giudica chi ha di fronte in base all’abito che porta o alla sua posizione sociale.
Per quasi tutta la sera rimasero praticamente in silenzio, evitando presentazioni imbarazzanti e discussioni superflue. Bevvero qualche bicchiere di champagne, e osservarono i quadri e le sculture che decoravano la sala.
Ogni tanto si catturavano con lo sguardo, perdendosi in un universo tutto loro.
Finché lo sguardo di Ben venne attratto dal pianoforte, posto nell’angolo della grande sala.
Accarezzò i tasti bianchi e neri, sedendosi sulla panca.
Rey era davanti a lui, e dietro di lei, la luna era già alta in cielo.
Ben sorrise, poi iniziò ad accarezzare i tasti, componendo una melodia, senza smettere di guardarla, come se la stesse suonando solo per lei.
Era Clair de lune, di Debussy.
Intorno a loro si creò una piccola folla, intenta a contemplare il malinconico pianista, ascoltando distrattamente quel motivo dolce e famigliare.
Dall’altra parte della città, nelle affollate vie di Manhattan, Poe e Finn stavano festeggiando con alcuni amici, bevendo  e cantando a squarciagola, accennando qualche passo di danza, rincorrendosi per le strade. Tutto attorno a loro c’erano amici intenti ad ubriacarsi, ragazze che ballavano tra di loro, coppie che si baciavano sotto le luci colorate, odori di ogni sorta di cibo, fuochi d’artificio nel cielo, canzoni che risuonavano dagli auto parlanti.
L’intera città era in festa, e sembrava quasi che tutti avessero dimenticato i loro problemi, mettendo in pausa la loro vita incasinata, per concedersi una notte di follie e divertimenti.
Poe stava guardando il cielo, eccitato per i fuochi e le loro molte forme e colori.
Finn al suo fianco, guardava il volto del ragazzo, così dolce ed espressivo.
Poi d’improvviso lo prese per mano, trascinandolo attraverso la folla.
“Aspetta! Dove stai andando?” Esclamò confuso Poe. “Voglio vedere i fuochi d’artificio!”
“E’ una sorpresa!” Gli rispose l’altro, facendogli l’occhiolino.
Incuriosito ed emozionato, il ragazzo si lasciò portare senza fare domande, anche quando salendo sulla metro, Finn gli fece mettere una benda sugli occhi. Anche quando inciampò sul marciapiede e rischiò di cadere dalle scale.
Più di una volta fu tentato di togliersi quella benda, stufo di sbattere contro la gente o scivolare.
Ma resistette, perché la mano di Finn era salda nella sua, e la sua voce lo guidava.
Quando alla fine gli disse di toglierla, rimase senza fiato.
“Aspetta… Questo è… E’ davvero…?” Chiese impressionato, guardandosi intorno.
“Si. E’ il nostro terrazzo.” Rispose l’altro. Poi tirandolo appena per la mano, lo portò in un angolo dove aveva sistemato un lenzuolo bianco per terra, e sparso petali di rosa.
“Questa è la cosa più romantica che io abbia mai…” Iniziò a dire Poe, visibilmente commosso.
“Cazzo! Lo sapevo che sarebbe successo…” Lo interruppe Finn. “Che idiota che sono!” Sbottò, sbattendo il piede per terra.
“Che succede?”  Chiese l’altro, avvicinandosi a lui.
“Beh… Avevo lasciato qui anche lo spumante. Dovevo immaginare che ce lo avrebbero rubato!” Esclamò sospirando, mentre si grattava la nuca. Scusa… Volevo che fosse tutto perfetto.”
Poe rise, guardando quel ragazzo di solito così orgoglioso e forte, diventare improvvisamente tenero e premuroso.
“E’ tutto perfetto… Credimi. Non c’è nient’altro che potrei volere in questo momento…” Rispose, unendosi a lui in un abbraccio.
Gli strinse le braccia intorno al collo, mentre Finn gli circondava la vita.
“Sei proprio sicuro, di non desiderare nient’altro?” Sussurrò al suo orecchio, baciandogli poi il collo.
Poe si morse il labbro, accarezzando la nuca del ragazzo.
“Qualcosa ci sarebbe, a pensarci bene.”
“Vediamo se indovino allora!” Esclamò Finn, avvicinandosi alla sua bocca.
E proprio mentre i fuochi d’artificio scoppiavano nel cielo sopra di loro, illuminandolo di verde, rosso, giallo e viola, le loro labbra si scontrarono, si assaporarono, riscoprendo vecchi e nuovi sapori.
Due corpi stavano per unirsi, su quel bianco lenzuolo ricoperto di fiori.
Due anime stavano per ricongiungersi, come nella vita precedente avevano fatto.
Una vita di guerre, di schiavitù, di ribellione e di stelle.
Così come avrebbero fatto in quella successiva.
L’eco di quella vita, risuonava ora nella mente di Rey, mentre osservava le stelle sopra di lei.
Il vento le soffiava tra i capelli, piccoli brividi le ricoprivano la schiena.
Ben le appoggiò la sua giacca sulle spalle, con un timido sorriso.
Si appoggiò alla sua schiena, accostando la guancia contro la sua.
“A cosa stai pensando?” Le chiese, circondandole la vita con le braccia.
“Alle stelle.” Rispose lei. “Ti chiedi mai, cosa ci sia lassù?”
“Si… Immagino, che in una galassia lontana, altre due persone simili a noi, si stiano facendo la stessa domanda, guardano un cielo diverso.”
Lei sorrise, alzando gli occhi verso il cielo, immaginando, ricordando, un’altra vita.
Ben seguii il suo sguardo, e si perse negli stessi ricordi, ricordi sbiaditi e confusi, simili ad un sogno quasi del tutto dimenticato.
Poi avvicinò le labbra a quelle di lei, respirando su di esse per qualche istante.
Lei non chiuse gli occhi, gli tenne aperti, ostinandosi a guardarlo.
Quando le loro labbra si sfiorarono, timide e calde di desiderio, qualcosa dentro di loro scattò.
Qualcosa di indefinibile si risvegliò, inondandogli di un piacere simile all’estasi.
Rimasero a lungo su quel piccolo terrazzino, nascosti dalle tende di velluto, a consumarsi a vicenda.
Lui la sollevò tra le braccia, stringendola con tutta la forza che aveva, facendola roteare nell’aria.
“Faresti una pazzia con me?” Chiese lei alla fine, tra un bacio e l’altro.
“Si.” Le rispose Ben, riprendendo fiato.
Lei sorrise, con quel sorriso da bambina, furbo e malandrino.
Si tolse le scarpe, lanciandole dal balcone, con grande stupore di lui.
Lo prese per mano, fino ad arrivare ai parcheggi, dove gli lanciò un casco.
Salì sulla sua moto, si allacciò il suo, e accese il motore, sfidandolo a salire con lo sguardo.
Per qualche istante lui restò a guardarla incerto, poi fece un profondo respiro, e salì.
“Allora, dove mi vuoi portare?”
“Ha importanza?”
“No… Immagino che non ne abbia.”
“Allora tieniti forte Ben, si parte!”
Attraversarono la città in festa, superarono le macchine e le persone, oltrepassarono i grandi ponti, costeggiarono il mare, percorsero le lunghe strade, superando colline ed i boschi, finché le stelle scomparvero, ed un nuovo sole sorse di fronte a loro.
 
“Abbiamo appena ascoltato Train, con la sua Hey soul sister. Sembra anche voi, che vi stia chiamando? Che sussurri il vostro nome? Che vi cerchi tra gli sguardi della gente? E’ lì da qualche parte, la vostra anima gemella. Forse proprio al vostro fianco, forse in un’altra città, forse addirittura in una galassia lontana lontana. Qui è dj Hux, per l’ultima volta in diretta con voi, dalla Starkiller radio. Oggi è un giorno importante, per ognuno di noi, perché ci ricorda che per quanto difficile possa sembrare, per quanto dura possa essere, per quanti sacrifici richieda, abbiamo tutti la possibilità di essere liberi. Liberi non solo come nazione, ma come persone, come semplici esseri umani. Liberi di essere chi siamo, liberi di amare chi vogliamo. Liberi di inseguire strade diverse, di complicarci la vita, di sbagliare, di cadere e di rialzarci. Liberi di scegliere, liberi di pentirci, di provare, ancora e ancora, inseguendo quei sogni che ci tengono svegli la notte, che ci spingono ad andare avanti, sempre.  E allora ovunque voi siate nella galassia, con chiunque voi siate, qualsiasi strada stiate percorrendo, non smettete di percorrerla. Non smettete di inseguire i vostri sogni, per quanto lontani possano sembrare. Qui è il vostro dj Hux, che la forza sia con voi. Passo e chiudo.”



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