The butterfly effect di Digihuman (/viewuser.php?uid=632586)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
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scritta.
Questa
storia ed i personaggi in essa descritti sono frutto della mia
fantasia. Qualsiasi similarità con persone reali o
scomparse, luoghi
o eventi è puramente causale e non intenzionale.
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices.
Per chi l'avesse
letta,
riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non
l'avesse
ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei
primi tre
capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa
originale.
Il
rating della storia varierà man mano scriverò i
capitoli, motivo
per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89
per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
verde
Personaggi
capitolo:
Brent e
Yoshiko
CAPITOLO
1
Avete
mai
sognato di essere una farfalla?
Le
farfalle
sembrano quasi danzare nell'aria quando sbattono le loro ali. Io ho
sempre sognato di essere una farfalla monarca. Le monarca sono
così
regali e maestose, con le loro grandi ali arancioni contornate da uno
spesso bordo nero. Nella loro diversità, sembrano tutte
così ben
delineate e perfette.
Da
piccolino
ero convinto che le farfalle monarca nascondessero tra le ali polvere
di fata e forse chissà, nonostante i miei trent'anni
suonati, mi
piace pensare che sia ancora così.
Ricordo
ancora un episodio piuttosto divertente della mia infanzia.
Avrò
avuto sì e no all'incirca quattro o cinque anni.
Papà aveva appena
lavato la boccia del mio nuovo e fiammante pesce rosso. Un vertebrato
insulso, che mi era stato regalato dopo aver espresso il desiderio di
voler un animale domestico. Mi aveva insegnato a prendermi cura di
lui e a pulire la sua bolla di vetro. In realtà, la cura e
l'attenzione da prestare ad un banale pesce rosso era più
che
elementare e, devo proprio ammetterlo, terribilmente noioso. Quel
giorno rubai la sua retina di plastica verde. A quell'età la
mia
ambizione andava ben oltre lo spalare escrementi di pesce. Volevo
catturare una farfalla monarca, volevo potermi cospargere della sua
magica polverina e alzarmi in volo. E lo volevo a tutti i costi.
Peccato non sia mai riuscito nel mio intento e credetemi, ci ho
provato davvero, ma è sempre stato tutto invano. Passai
inutilmente
due buone ore a cuocere sotto il sole rovente di Agosto, nella vana
speranza di poter accaparrarmi uno splendido esemplare di quella
specie che tanto mi faceva sognare.
In
realtà,
non ho mai smesso di sperarci. Nonostante abbia trascorso quasi
trentanni della mia vita a rincorrere il mio sogno più
grande con
scarso successo, non ho mai smesso di sperare. Non so, è
come se
quella farfalla rispecchiasse un po' il mio obiettivo finale. Ancora
oggi non so spiegare il perchè di quella mia fissazione. Ed
in
realtà non è mai stata l'unica.
La
mia fiaba
preferita dell'epoca era niente di meno che Peter Pan. Lo vedevo
almeno una volta a settimana, il cartone, ovviamente. In
realtà non
mi interessava molto poter restare bambino a vita, ma, caspita, Peter
poteva volare davvero!
Io
le avevo
provate tutte. Avevo creato il mio modesto aereoplanino con la
scatola in cartone del microonde. Le ali erano state ricavate da un
paio di vecchie mensole in bambù trovate nella cantina della
nonna
defunta. Il telaio, finemente progettato, era stato trapiantato da un
vecchio go kart del mio vicino di cottage, ormai archiviato tra le
cose da rottamare. Il vecchio motore era ancora funzionante, un po'
arrugginito, ma pur sempre funzionante. Faticava ad accendersi e
spesso borbottava tanto quanto mio zio Benton dopo una tirata di
sigaro. Quel piccolo relitto ricavato da materiali di recupero era
un'oscenità da guardare, lo ammetto, ma faceva il suo sporco
lavoro.
Il weekend mi divertivo a fingere di essere un meccanico di fama
mondiale, impegnato nella progettazione di un finissimo propulsore
turbofan da montare sul mio velivolo. La fantasia non mi è
mai
mancata e la mia passione per i motori e per gli aerei non è
mai
morta.
Mi
chiamo
Brent Smith, ho trent'anni e voglio raccontarvi la mia storia. Una
storia tanto triste quanto ricca di forti emozioni, toccata da
un'infanzia relativamente serena vissuta tra le campagne inglesi ed
un'adolescenza più turbolenta, forse troppo vivace e ribelle
per un
mezzo anglosassone come me. La vita mi ha sempre concesso un'infinita
varietà di possibilità. Sapete quel detto che fa
"si chiude
una porta e si apre un portone"? Beh, è proprio il caso di
dirlo. Di porte sbattute in faccia ne ho viste parecchie, eppure ho
sempre raccolto i miei quattro stracci e ho navigato a vele spiegate
verso l'oceano della vita, abbracciandolo e facendolo mio nonostante
le avversità incontrate. Alla fin fine era solo questione di
tempo,
prima o poi, come tutti del resto, ho trovato il mio portone. Peccato
però che per aprirlo ci volesse una chiave d'oro che,
ahimè, non
era in mio possesso. Ma non temete, ho trovato una soluzione anche a
quello. D'altra parte a cosa serve possedere una chiave, quando si ha
l'abilità di saltellare e scavalcare anche la cancellata
più alta.
Insomma, una vita ricca di ostacoli, che però mi ha sempre
dato
tanto e a cui non posso negare di dover molto.
Sono
nato
dall'amore proibito tra un giovane uomo inglese, che all'epoca non
aveva più di venticinque anni, ed una splendida donna
giapponese di
ben dodici anni più grande. Da quel poco che sono riuscito a
sviscerare da mio padre, si sono conosciuti durante una torrida
estate in Venezuela. Mia madre si era presa un anno sabbatico dal
lavoro e si era unita ad un'associazione di volontariato per poter -
a detta sua - espiare le proprie colpe. Non so bene di quale colpe
parlasse, né l'ho mai saputo, ma sicuramente si trattava di
qualcosa
di grosso. Papà, al contrario, faceva parte di un gruppo di
medici
senza frontiere, i cosiddetti Doctors without Borders. Non
era altro che un giovane laureando in medicina che tentava di trovare
il suo posto nel mondo dando la propria disponibilità a chi
più lo
necessitava. Mio padre è sempre stato così, un
uomo tutto d'un
pezzo dai sani principi, ligio al proprio lavoro e dal senso civico
molto sentito. Si sono conosciuti e si sono amati sin dal primo
giorno.
Passarono
solo quattro mesi insieme prima che mio padre decise di rincasare in
Inghilterra per via dei propri studi. Da allora silenzio stampa, fino
a quando, sette mesi più tardi, mia madre gli ha bussato
alla porta
donandogli il frutto del loro amore proibito e invitandolo a non
farsi mai più sentire nè vedere. Questo
è tutto ciò che so di mia
madre, si chiamava Sanae Shinbaya, era una giovane donna d'affari,
dalla carnagione candida come la neve e dai lineamenti morbidi e ben
delineati. Mio padre non ha mai saputo raccontarmi altro, né
ha mai
avuto modo di mostrarmi una sua foto.
Ciò
nonostante non ho nulla da rimproverargli. Ha cresciuto un figlio in
completa solitudine, senza una donna al proprio fianco e per di
più
riuscendo ugualmente a laurearsi in medicina con il massimo dei voti.
Insomma, un degno personaggio di un qualsiasi romanzo di Sparks.
Per
quanto riguarda me, che dire, non posso certo vantarmi di essere come
mio padre. Probabilmente non potrei mai essere come lui, d'altra
parte siamo così diversi. Fisicamente ho il suo aspetto, ma
nell'anima sono un tipo ribelle, molto espansivo e solare. Lo porto
nel cuore, lo tengo stretto nei miei ricordi, ma niente di
più. Già,
mio padre è ormai morto da diversi anni a causa di un brutto
male.
Lo stesso male che tentava di estirpare ogni giorno dai suoi giovani
pazienti. Papà era un oncologo pediatrico. Buffo come la
vita alle
volte ti si ritorca contro e ti schernisca in tal modo, vero?
Essere
per
metà inglese e per metà giapponese ha i suoi pro
e contro. In
realtà so ben poco del paese di origine di mamma. La maggior
parte
della mia vita l'ho trascorsa in Inghilterra con mio padre e
successivamente slittando tra una città e l'altra delle
campagne
meridionali inglesi. A dirla tutta il mio certificato di nascita
indica Tokyo come mia città natale, ma la città
in cui ho vissuto
per la maggior parte della mia infanzia e adolescenza è
Exeter. Si
tratta di un tipico borgo inglese, di quelli che spesso si vedono nei
film con quei vialetti perfetti, contornati da villette bifamiliari
altrettanto perfette, tutte rigorosamente in mattone con un
immancabile giardino perfetto. Insomma, una cittadina all'apparenza
perfetta, ma che nel suo profondo cela grandi misteri. Exeter si
trova nel Devon, una contea a sud-ovest dell'Inghilterra sita in
Cornovaglia, forse una delle zone più verdi dell'isola.
In
realtà
sono cresciuto in un piccolo sobborgo non molto distante da questa
città, Torquay, una frazione costiera di Torbay distante
meno di
trenta chilometri da Exeter. Avevo poco più di tre anni
quando ci
siamo trasferiti in quest'ultima città, proprio grazie ad
una
promozione che mio padre ebbe a lavoro. E niente, la maggior parte
dei miei ricordi sono proprio legati a questa città.
Ricordi, che
tra le tante cose, mi riportano a lei, alla mia dolce Yoshiko.
L'ho
conosciuta diversi anni fa, durante un Maggio particolarmente freddo
e lunatico. Un mese fuori dal comune, dicevano i telegiornali, il
Maggio più freddo degli ultimi cinquantanni. Mai vista la
neve in
quel periodo dell'anno, eppure, con lei, arrivò anche
Yoshiko.
Nacque tutto come una banale cotta estiva. Nel tempo però
è mutata
sempre di più, mi ha portato a mettere in dubbio ogni scelta
fatta,
fino a trasformarsi in una travolgente storia d'amore che mi ha
accompagnato durante l'adolescenza fino ad ora. Nonostante il
segmento di tutto ciò possa apparire lineare e breve, la
retta che
riconduce inizio a fine non è altrettanto dritta. Ci sono
stati
eventi, taluni nefasti, che ne hanno curvato la scia. Perciò
il
percorso che abbiamo dovuto affrontare è sempre stato
difficile. Per
fortuna mio padre mi ha dotato di due gambe agili e robuste e la
corsa ad ostacoli non è mai stata un grosso problema per me.
«Non
capisco, la farfalla non è un essere troppo femminile per
uno come
te?» mi domandò Yoshiko un pomeriggio inoltrato
mentre ci trovavamo
sdraiati su un manto erboso non lontano dal fiume Quay(1).
«Cosa
odono
le mie orecchie» alzai il capo divertito e la guardai
interrogativo
«sbaglio o stai forse ponendo una domanda alquanto
sessista?».
La
giovane
ridacchiò divertita, portandosi la mano davanti al volto e
coprendo
la bocca «riesci sempre a rigirare le mie frasi,
Brent».
Io
allungai
un braccio verso il suo volto e le abbassai la mano stringendola
nella mia «ti prego, smettila di coprire il tuo bel sorriso
ogni
volta che ti rendi radiosa ai miei occhi».
Yoshiko
rimase sorpresa per quella frase «sei il solito adulatore,
Brent»
disse puntando lo sguardo ambrato al cielo «più
che una farfalla a
me sembri tanto un'ape travestita da farfalla».
Ridacchiai
divertito «un'ape, seriamente?».
Lei
mi
guardò con occhi seri «un'ape, hai capito
bene!» confermò ancora
una volta «ti chiamerò Bee».
Io
rimasi
stregato dallo sguardo sicuro di lei «Bee, dici? Suona
bene!».
Lei
si
accostò al mio fianco e mi puntò l'indice sul
naso «le api sono
laboriose e tu sei... un operaio. Sì, per l'appunto un'ape
operaia».
La
guardai
stranito alzando un sopracciglio e curvando le labbra «le
operaie
sono tutte femmine sterili, non lo sai? Voglio essere un fuco
io!».
Yoshiko
scoppiò a ridere mostrando finalmente il suo sorriso radioso
con
grande grazia «non ho la più pallida idea di
ciò che stai dicendo,
ma se ti fa sentire meglio, ti lascerò fare il
fuco!».
Contagiosa.
Non mi serviva sentire altro se non lei ridere di gusto.
Yoshiko
era
giunta in Inghilterra grazie ad una borsa di studio piuttosto
abbiente. Studiava presso l'International School tramite un programma
di scambio. Grazie alla sua borsa di studio poteva permettersi la
retta scolastica, una serie di agevolazioni fiscali e assicurative,
l'abbonamento alla rete dei bus ad una tariffa ridotta e l'alloggio
in una famiglia ospitante. Il miglior modo per imparare la lingua, le
avevano detto.
La
sua
famiglia ospitante era piuttosto canonica. Il padre, Andrew, era il
classico uomo inglese, dal pancione colmo di birra e dai tratti
tipici anglosassoni, pelle chiara, biondo quasi platino a chiazze
rossastro, barba a spiga e occhi color cielo. La moglie, Marie,
poteva essere mezza spanna più bassa di lui, capelli lunghi
e lisci,
rossi lucenti e privi di volume, occhi anch'ella color cielo e dal
corpo piuttosto voluminoso. Al loro seguito vi era la piccola Cody
Hellen, una frugoletta di pochi mesi, dalla carnagione candida quasi
riflettente e dal ciuffo ramato piuttosto ribelle.
Avevano
accolto Yoshiko in casa loro quasi come fosse una seconda figlia. La
loro villetta si reggeva su tre piani dalla scarsa metratura. Al
terzo ed ultimo piano, rigorosamente mansardato, vi era la sua
cameretta ed un angusto bagno privato. Nonostante le scarse
dimensioni, non le mancava nulla. Vi era un letto, dal materasso
paffuto e piuttosto comodo, una bella finestra che affacciava sulla
riva del Quay, un armadio incassato nel muro, un'ampia cassettiera
sotto la rete del letto ed uno splendido lucernario. Posso ancora
rammentare il color panna delle pareti e l'odore lavanda che
areggiava in quella stanza. Sopra la testata del letto, Yoshiko aveva
appeso alcune foto di amici e parenti per poterli sentire
più vicino
a sé.
Lei
aveva
dodici anni compiuti quando giunse per la prima volta in
città. Io
ne avevo quindici, ma ne dimostravo qualcuno in meno, devo
ammetterlo. Certo non si può parlare di amore vero e proprio
quando
ci si ritrova a far fronte a determinate emozioni ad una giovane
età
come la nostra, eppure qualcosa era scattato sin dal primo istante in
cui il mio sguardo si era posato su di lei.
Era
Maggio
inoltrato eppure l'aria era ancora secca e gelida. Mi ritrovavo a
sfrecciare lungo il letto del fiume Quay con la mia canoa.
Quell'estate avrei dovuto affrontare una gara importante contro un
nemico di lunga data, perciò seguivo rigidi programmi di
allenamento
volti a raggiungere il podio. Lei, al contrario, passeggiava
beatamente con delle amiche non curante della tempesta che di
lì a
breve si sarebbe abbattuta sulla città. La vedevo sorridere
e
coprirsi il volto con la mano, quasi a voler nascondere il suo dolce
sorriso. Ne rimasi incantato sin dal primo istante.
Aveva
una
lunga chioma di capelli neri che le svolazzava audace lungo le spalle
fino a sfiorare con la punta le natiche. Occhi nero corvino,
brillanti e vivaci, leggermente velati da due spesse lenti poste sul
suo volto dalla montatura lilla opaca. Labbra morbide, non
particolarmente pronunciate, color pesca messe in risalto da un filo
di lucidalabbra. Il viso era ovale, morbido e delicato, terminava con
un mento non troppo pungente. Il suo fisico era asciutto, non del
tutto formato, poco ondulato rispetto ad altre ragazze della sua
età,
sinonimo che la sua maturità non era ancora sbocciata del
tutto.
Poi
il suo
sguardo, acceso e vivace, si posò su di me e lì
ebbi il primo vero
contatto con lei. Peccato che quel che successe dopo fu da
dimenticare. Impanicato, o forse preso alla sprovvista, mi agitai
eccessivamente e con fare goffo dimenai fin troppo la pagaia tanto da
finire in acqua senza neanche accorgermene. Inutile dire che quando
tornai a galla, udì solo un coro di ragazzine petulanti che
ridevano
e additavano nella mia direzione.
Nonostante
il mio primo istinto fosse quello di raccogliere tutto e allontanarmi
da loro il prima possibile, non potei far a meno di notare che
Yoshiko allungava una mano nella mia direzione e mi incitava ad
uscire dall'acqua.
«Va
tutto
bene?» mi domandò con un accento piuttosto
scolastico.
«Sì,
ecco,
io... veramente...» farfugliai grattandomi nervosamente il
capo «ho
perso solo l'equilibrio».
Yoshiko
mi
allungò gentilmente la propria giacca e mi invitò
ad appoggiarla
sulle spalle «prenderai freddo così
bagnato».
Rimasi
interdetto a guardarla per chissà quanto tempo. Forse
secondi, forse
ore. Il tempo in certe circostanze è relativo.
Non
posso
dire di averla amata sin dal primo sguardo, perchè a
quindici anni
con quale esperienza si può parlare di amore.
Però la trovavo
magnetica, la sua gentilezza per me era una ventata d'aria calda. La
ringraziai inchinandomi leggermente. I suoi tratti, chiaramente
asiatici, mi fecero compiere quel gesto con estrema naturalezza
«arigato» le dissi.
Il
suo sguardo si illuminò decisamente sorpreso
«nihongo wa hanasemasu
ka?(2)»
mi domandò infine.
Io
rimasi come un ebete a fissarla per una manciata interminabile di
secondi per poi rispondere «la mia conoscenza circa la lingua
giapponese nasce e muore qui».
Yoshiko
dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per soffocare il fiume
di risate che seguì la mia frase «sei
buffo» disse semplicemente.
Mi
guardai intorno imbarazzato notando che le amiche non parevano
altrettanto innocue. Una ragazza la strattonò dalla maglia e
le
sussurrò qualcosa in giapponese indicando con sguardo severo
un
agglomerato di villette non molto distanti dalla nostra zona. Yoshiko
annuì e tornò a fronteggiarmi «la
giacca puoi tenerla, me la
ridarai domani».
Io
la guardai ancora una volta intontito. Non mi potevo certo definire
un vero e proprio sciupa femmine, ma generalmente me la sapevo cavare
abbastanza bene con il gentil sesso. Eppure sin da subito con Yoshiko
era stato diverso. Era come se lei avesse espugnato la mia robusta
fortezza e avesse avuto libero accesso alla mia
vulnerabilità.
Annuì
lentamente mentre potevo scorgere la sua figura che mano a mano
veniva trascinata lontana dalle sue amiche «domani, stessa
ora,
stesso posto» aggiunse voltandosi verso di me e sorridendo
amabilmente.
Il
nostro primo e raccombolesco incontro. Come scordarlo, soprattutto
vista la figuraccia fatta.
Il
giorno successivo, come pattuito da lei, ci incontrammo nuovamente
sulle rive del Quay. Quel giorno, lo ammetto, mi sentivo al quanto
nervoso e non ne conoscevo il motivo. Quando la vidi da lontano,
alzai un braccio per farmi notare. La giovane ragazza non si scompose
e non ricambiò il gesto, si limitò ad avvicinarsi
da me sorridendo.
«Konnichiwa»
le dissi accompagnando il saluto con un breve inchino.
«Buongiorno»
mi rispose lei ridacchiando «non è necessario
essere così
formali».
Mi
grattai il capo. Avrei tanto voluto farle una buona impressione ed
invece mi ero solo messo in imbarazzo da solo.
Decisi
di interrompere il silenzio che era calato tra noi presentandomi
«sono Brent» le allungai una mano sorridendo.
Lei
l'afferrò saldamente con la propria e la strinse scuotendola
leggermente «Yoshiko».
Con
lo sguardo indicai il viale asfaltato che costeggiava le rive del
fiume e le feci cenno di seguirmi. Mentre camminavamo l'uno affianco
all'altra rubandoci di tanto in tanto lo sguardo, lei prese coraggio
e mi domandò «come mai parli
giapponese?».
Io
sorrisi divertito in parte da quella domanda «parlarlo
è forse un
parolone, conosco qualche termine» le risposi notando quanto
fosse
insoddisfacente la mia risposta. Mi sentii quasi in dovere di
approfondire l'argomento «mamma era
giapponese».
Lei
mi guardò con lo sguardo spento, quasi cupo e
sussurrò «perdonami,
non avrei dovuto chiedertelo».
La
guardai confuso per poi comprendere la sua reazione. Purtroppo il mio
tempo verbale al passato era stato male interpretato, perciò
mi
apprestai subito a correggere il mio errore «no, lei
è viva» mi
soffermai un secondo per poi aggiungere «almeno
credo».
Lei
interruppe la camminata per guardarmi dritto negli occhi e stortare
il naso. Ridacchiai imbarazzato grattandomi ancora una volta il capo
«non so nulla di lei, mi ha abbandonato alla
nascita».
Yoshiko
coprì involontariamente la bocca con la propria mano e
sgranò gli
occhi incredula da quanto sentito «ma è
orribile!».
«No
beh, a dirla tutta non lo è» le risposi guardando
il cielo «ha
preferito non aver nulla a che fare con me» alzai le spalle
con fare
neutrale e aggiunsi «alla fine è stato meglio
così, non avrei mai
sopportato di vivere con una persona che non mi avrebbe mai
amato».
Lei
mi guardò piuttosto sconcertata. La prima impressione che
ebbi
guardandola fu quella di aver appena detto un'eresia. Sicuramente
Yoshiko aveva una bella famiglia alle spalle, si vedeva anche solo
dal suo modo di vestire, molto curato, raffinato seppur noioso.
«Io
comunque volevo ringraziarti per avermi tirato fuori dall'acqua
ieri»
le dissi timidamente.
Lei
mi guardò ancora una volta facendo penzolare il capo a
destra e
sinistra come a voler cercare qualcosa «la mia
giacca?» mi domandò
infine.
Io
avvampai dall'imbarazzo e cominciai a dimenarmi nervosamente fino a
schiaffeggiarmi da solo la fronte «che stupido, la
giacca!».
Per
la prima volta Yoshiko si abbandonò alla spenzieratezza e
ridacchiò
divertita «sei buffo». E
siamo a due.
«Mi
dispiace moltissimo» le dissi cercando di scusarmi in tutti i
modi
possibili ed inimmaginabili.
«Brent»
disse ad un tratto lei catturando la mia piena attenzione «va
tutto
bene!».
Il
mio sguardo saettò rapido verso di lei fino a focalizzarsi
sui suoi
occhiali lilla «cosa gli è successo?» le
domandai indicando
un'asticella riattaccata alla bene meglio con il nastro
trasparente(3).
Yoshiko
si sfilò agilmente gli occhiali del volto per poi guardarli
affranta
«mi si sono rotti in aereoporto appena sbarcata
qui» rispose
piuttosto intristita «un signore mi è venuto
contro senza farlo
apposta e mi sono caduti a terra».
Mi
avvicinai a lei guardandoli meglio «per fortuna non ti si
sono rotte
le lenti» lei mi sorrise parzialmente confortata
«ho un amico
ottico che riuscirebbe ad aggiustarteli in giornata».
I
suoi occhi si illuminarono di speranza. Sono piuttosto convinto di
aver visto in lei un fuoco accendersi «mi potresti portare da
lui?».
Le
sorrisi con affetto «ma certamente».
Quel
pomeriggio mi resi utile e la portai ad aggiustare gli occhiali
concedendole anche una breve gita presso il centro città e
le zone
circostanti. Fu il nostro primo vero appuntamento mascherato. Nessuno
dei due avrebbe mai potuto definirlo tale, non eravamo innamorati
né
avevamo l'età per esserlo. Eppure vi erano tutte le carte in
regola:
ora e luogo prestabiliti, un giro per la città, un gelato in
centro
e il rientro a casa all'orario stabilito dalla sua famiglia
ospitante.
Da
quel giorno sino ai successivi sei mesi, ci siamo frequentati come
una giovane coppia di amici. Le ho mostrato la città, la main
street(4) e i
luoghi di aggregazione giovanile.
L'ho portata in canoa con me, le ho mostrato le rive del Quay, quelle
meno esposte al turismo e l'ho portata a mangiare sul fiume la nostra
tipica pizza all'anatra. Già, avete capito bene, pizza
all'anatra.
Per non parlare delle serate trascorse fuori dalla cattedrale ad
assaggiare tutti i tipi di birra analcolica artigianale del luogo o i
pomeriggi passati a giocare a bowling con le sue amiche che, con il
tempo, hanno saputo lasciarsi andare.
Tutti
i weekend li passavo in sua compagnia lungo le sponde del fiume Quay,
entrambi sdraiati sul manto erboso del posto. Lei spesso aveva un
libro in mano, era molto dedita alla scuola e i suoi voti
rispecchiavano perfettamente la sua attitudine allo studio.
«La
lettura è importante, alimenta la nostra anima e la
arricchisce con
esperienze che mai nella vita ci sogneremmo di fare» mi disse
un
giorno sorniona mentre sfogliava un libro piuttosto consumato.
«Perchè
non ti compri un Kindle? La copertina di quel libro sta cadendo a
pezzi» le risposi notando il pietoso stato in cui si trovava
quel
povero testo.
«Mai!»
mi rispose con forza e convinzione «la carta ha
quell'odore...
inebriante».
Il
mio sguardo dubbioso le diede l'imput per proseguire con il suo
discorso «... quell'odore di vecchio e vissuto, di storie
fantastiche e magiche che ti fanno sognare e ti catapultano in un
mondo del tutto nuovo» i suoi occhi socchiusi quasi a voler
materializzare nella propria mente sogni e speranze «le
pagine
ruvide, l'inchiostro stampato e in rilievo... come puoi non amare i
libri?» mi domandò ad un tratto.
Io
rimasti sbigottito da quella domanda, in realtà non sapevo
bene cosa
risponderle «probabilmente non ho mai trovato il libro adatto
a me».
Lei
mi guardò con occhi di sfida e sorrise «posso
farti alcune
domande?».
Ciò
che seguì fu una vera e propria intervista, degna di un
investigatore affermato. Saettò tra un argomento e l'altro
nella
vana ricerca di un genere letterario, di uno scenario o anche solo di
un personaggio che potesse fare al caso mio.
«Va
bene, bandiera bianca!» mi rispose alzando le braccia in
segno di
resa «però, visto che ti piacerebbe diventare un
aviatore, potresti
leggere la biografia di Amanda Earhart».
«So
tutto su di lei!» le risposi preparatissimo
«è nata a fine
ottocento negli Stati Uniti ed è stata la prima aviatrice
donna a
sorvolare l'Oceano Atlantico» allungai lo sguardo verso
Yoshiko
convinto di aver fatto centro e ripresi il mio monologo «ha
imparato
a volare dopo la ventina e ha comprato quasi subito un biplano con il
quale ha anche stabilito un record femminile».
Yoshiko
mi guardò ammaliata «ti prego, non
fermarti» mi risponse
sarcastica.
«Qualche
anno prima di morire ha stabilito il record mondiale di altitudine.
Venne soprannominata Lady Lindy perchè è stata
l'unica, insieme a
Lindbergh, ad aver trasvolato da sola l'Atlantico» avevo
ormai
catturato l'attenzione di Yoshiko ed ero consapevole di tenerla in
pugno «un altro record è stato scoccato negli
Stati Uniti per aver
sorvolato da costa a costa l'intera Nazione senza effettuare alcun
scalo».
Lei
mi guardò attonita, quasi incredula da quanto sentito dire,
mentre
io mi alzai vittorioso inchinandomi ed emulando un trionfo con i
fiocchi. Feci un giro intorno a Yoshiko imitando con la bocca un coro
di tifosi e ritornando prontamente innanzi a lei.
«Ebbene
sì, devo proprio ammetterlo» rispose lei chiudendo
il tomo che
aveva tra le braccia «Brent Smith, tu mi hai
spiazzata».
Le
sorrisi divertito e le posai un bacio fugace sulla guancia
«uno a
zero per me, allora».
Yoshiko
si
imporporò visibilmente e girò lo sguardo altrove
fingendosi
distratta. Ma invano furono le sue gesta, perchè subito
notai la
mano risalire lungo il busto per poi carezzarsi la guancia arrossata.
Quel
giorno
lo capì lei e lo capii anche io, qualcosa tra di noi era
cambiato.
Quando
si
può realmente parlare di amore? Vi è
un'età a partire dalla quale
si può trasformare una simpatia in un qualcosa di
più? Queste sono
le classiche domande a cui non saprò mai rispondere, ma so
per certo
che per Yoshiko ho sempre provato qualcosa. Il problema è
sapere che
cosa.
A
quindici
anni avevo in testa una sola cosa, il sesso. Tutti parlavano di
sesso, chi a scuola si fingeva grande raccontando di avere certe
riviste piccanti nel comodino di camera propria, chi al contrario si
vantava di aver già scoccato il primo bacio ad una ragazza
più
grande, chi descriveva l'arrivo in seconda base e chi, come me,
restava seduto e ammutolito ad ascoltare i racconti degli altri.
Pensando
a
Yoshiko mi domandai se potessi realmente associarla al sesso. Alla
fine la nostra amicizia era appena sbocciata e in lei avevo trovato
una buona amica e una spalla su cui fare affidamento, perchè
rovinare tutto. Inoltre, a breve sarebbe dovuta tornare in Giappone e
di me le sarebbe rimasto solo un lontano ricordo. Eppure sentivo di
dovermi togliere un pensiero dalla testa.
«Hai
mai
baciato un ragazzo?» le domandai un giorno mentre
passeggiavamo
lungo la main street.
Si
voltò
verso di me ridacchiando divertita «a dodici anni? E chi mai
vorrebbe baciarmi?».
Mi
grattai
nervosamente il capo e soffocai una risata incontrollata «hai
ragione».
Lei
interruppe la sua passeggiata per fronteggiarmi accigliata
«ho
ragione? Stai forse intendendo dire che nessuno vorrebbe mai
baciarmi?».
«No,
ma che
dici» le risposi preso contro piede «non intendevo
dire questo».
«Già
certo, chi mai vorrebbe baciarmi a dodici anni»
rimarcò nuovamente
lei portandosi le braccia ai fianchi.
La
situazione si stava scaldando e io necessitavo più che mai
di
uscirne vivo.
Sino
ad
allora mi ero sempre reputato un ragazzo sveglio e coraggioso. Eppure
in quell'occasione avevo perso il mio tocco e le parole mi morirono
in gola. Mi ero ritrovato ad annaspare e boccheggiare nella speranza
che prima o poi la bocca riuscisse ad emettere un qualsiasi verso.
Man mano la mia agitazione cresceva, notavo aumentare la rabbia di
Yoshiko. Aveva serrato i denti e stretto i pugni. Sono convinto che
in quell'occasione avrebbe voluto tirarmi un pugno in faccia.
Perciò
feci l'unica cosa che ero in grado di fare. Mi avvicinai a lei con
fare lesto, le presi il volto tra le mani e le schioccai un casto
bacio sulle labbra.
La
guardai
spaurito e le dissi «io vorrei baciarti» e girai
prontamente i
tacchi per scappare via quando lei allungò una mano nella
mia
direzione e afferò saldamente la manica della mia giacca.
Mi
voltai
verso di lei e la vidi toccarsi le labbra con occhi sgranati.
«Era
il mio
primo bacio...» sussurrò con voce flebile.
Avrei
voluto
dirle che non volevo, che non era mia intenzione e che non sapevo che
altro fare, ma la verità è che io volevo
baciarla. Ma nella sua
innocenza di dodicenne, capì subito che lei non era pronta a
fare
quel passo.
La
riaccompagnai a casa nel silenzio più totale, guardandola di
nascosto mentre camminava al mio fianco ancora sgomenta.
«Perdonami...»
le sussurrai cercando di trovare un contatto con lei.
Lei
si voltò
verso di me e mi chiese molto dolcemente «è stato
come le altre
volte?».
La
guardai
leggermente confuso non capendo bene a cosa volesse alludere. Si
toccò nuovamente le labbra e approfondì la sua
domanda «è stato
come baciare le altre ragazze?».
«Beh...»
da dove iniziare, la mia esperienza in quel campo non poteva certo
vantare chissà quante vittime «è stato
diverso».
«Diverso
in
che modo?» domandò ancora quasi volesse sentirsi
dire un qualcosa
in particolare.
Difficile
dare una risposta concreta ad una domanda simile. Avrei voluto dirle
che ogni ragazza è a sé, che il mondo
è bello perchè è vario,
che generalmente baciavo solo ragazze mature. Eppure le parole mi
morirono in gola e annaspando risposi semplicemente «tu hai
qualcosa
di speciale».
Non
sapevo
se la mia frase fosse giusta o sbagliata, né seppi dire se a
lei
bastò quella risposta. Lei rimase in silenzio per il resto
del
tragitto ed io la imitai senza fiatare.
Arrivati
sotto casa sua, le afferrai una mano guardandola dritta negli occhi
con lo sguardo da cane bastonato, nel tentativo di far risorgere in
lei un sentimento di pietà. Non funzionò, il suo
carattere era
troppo forte per farsi abbindolare in quel modo. Spezzò quel
contatto tra noi e mi guardò apaticamente, quasi con
disprezzo
«domani sera tornerò a casa, lo sai questo,
vero?».
Come
dimenticarlo, purtroppo. Ero perfettamente conscio del fatto che quei
sei mesi erano volati via come cenere al vento. Mi limitai ad annuire
convinto che anche questa volta lei sarebbe rimasta impassibile
innanzi alla mia tristezza. Invece allungò una mano in mia
direzione, mi guardò dritto negli occhi quasi a volermi
leggere
nell'anima e sorrise «mi mancherai».
Il
mio
sguardo si accese e il petto si gonfiò con quanta
più aria
possibile. Sospirai dalla gioia per poi ritrovarmi, ancora una volta,
a perdermi nei suoi dolci occhi «ti scriverò una
lettera tutte le
settimane» le dissi.
Fu
allora
che notai una sottile patina opaca oscurare il suo sguardo. Avrei
potuto giurarlo, stava cercando con tutta sé stessa di
trattenere le
lacrime che, insolenti, tentavano di rigarle il volto «me lo
prometti?» mi domandò singhiozzando.
«Croce
sul
petto» le risposi abbozzando una X con l'indice.
«Croce
sul
petto» ribadì lei imitandomi prima di lanciarsi
tra le mie braccia
abbracciandomi forte «mi mancherai, Bee».
«Mi
mancherai anche tu, Yoshiko» le risposi allontanadola da me e
donandole un sorriso di conforto.
Rincasò
senza voltarsi verso di me. Potevo sentire la tensione galleggiare
nell'aria e renderla quasi irrespirabile. I suoi passi si fecero
lenti e pesanti, come se in quell'attimo il tempo si fosse fermato.
Non
potevo
certo impedire la sua partenza, ma avrei potuto renderla
indimenticabile.
La
mattina
successiva lasciai davanti a casa della sua famiglia ospitante un
cestino di vimini con un sacco di prelibatezze della zona. Le feci
avere anche un paio di latte di thè early gray che tanto le
piaceva,
i classici biscotti di frolla al cocco tipici del luogo, la tovaglia
scaccata bianca e rossa che usavamo sempre per il pic nic del sabato
pomeriggio, una copertina in pile con lo stemma della città
per
coprirsi dall'aria condizionata dell'imminente volo e un album
contenente le moltissime foto scattate in quei sei mesi insieme. Al
suo seguito, inoltre, vi era una busta piuttosto spessa con una lunga
lettera scritta a mano.
Queste
attenzioni sono il frutto di un amore immaturo, cosa che a quindici
anni, spesso, non si concepisce fino in fondo, figuriamoci a dodici.
Eppure tra di noi vi è sempre stato un legame speciale,
profondo,
che ancora oggi non riesco a spiegare a parole. Yoshiko per me
è e
sempre resterà il mio primo e vero amore.
Spesso
mi
ritrovo a pensare a quando, temporaneamente parlando, potrei
collocare il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei. Avevo
sentito le farfalle allo stomaco già la prima volta che la
vidi.
Quel brontolio interiore poi non aveva fatto altro che aumentare man
a mano la frequentavo ed uscivo con lei. Penso che quel primo bacio
fu solo una virgola posta all'interno della nostra storia, la prima
di molte.
Quei
sei
mesi trascorsi insieme furono un qualcosa di magico, forse un periodo
fondamentale per la mia maturazione spirituale. Probabilmente non
sarei quello che son diventato. Posso dirlo con certezza,
poiché
tutte le scelte prese successivamente furono solo dettate dal mio
cuore. Tutto mi riportava a lei, regolarmente e con prepotenza, come
se fossimo destinati a rimanere per sempre insieme. Ma si sa, il per
sempre nella vita reale non esiste. O forse è un bene che in
pochi
si possono concedere, ma soprattutto che in pochi hanno il piacere di
poter sperimentare. Penso che ritrovarsi ad amare fino alla morte una
sola ragazza sia il sogno di tutti. Ma le avversità, gli
ostacoli
della vita la rendono una vera e propria utopia.
Non
lo nego,
anche io, da perenne sognatore, avrei preferito poter raccontare una
storia in cui il mio amore giovanile è stato il primo e
l'unico.
Purtroppo però la realtà dei fatti non me lo
consente. Il mio amore
è iniziato con lei, ma ha preso altre strade nel corso degli
anni a
causa di alcune mie scelte sbagliate. Se potessi tornare indietro
cambierei tutto questo? Mi assicurerei di poter vivere solo con lei e
per lei? Creerei il mio personale "per sempre felice e
contenti"? Forse sì, forse no. Non sono scelte facili
perchè
ciò che sono diventato ora è frutto di
ciò che ho fatto prima.
Nulla ci può far intendere che a cambiare il passato, si
ritroverebbe una figura migliore di se stessi nel futuro.
L'unica
certezza che ho è che il mio amore è nato con lei
e che morirà
ciecamente con lei.
(1)
Il fiume Quay viene correttamente letto /chii/ [clicca
qui
per
tornare alla lettura]
(2)
parli giapponese? [clicca qui per
tornare alla lettura]
(3)
perdonate la scelta lessicale fatta, ma non avrei mai potuto
chiamarlo "scotch" in quanto, essendo la storia ambientata
in Inghilterra, avrebbe assunto in significato differente [clicca
qui per tornare alla lettura]
(4)
si tratta della strada principale, il cuore della città,
dove si
trovano la maggior parte dei negozi [clicca
qui per tornare alla lettura]
Angolo
dell'autrice.
-
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
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inclusa la memorizzazione, riproduzione, rielaborazione,
diffusione
o distribuzione dei contenuti stessi mediante
qualunque
piattaforma tecnologica, supporto o rete telematica,
senza
previa autorizzazione scritta.
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo: verde
Personaggi
capitolo: Brent e
Yoshiko
Capitolo
2
La
distanza, si sa, tende ad allontanare due persone in maniera
inesorabile, soprattutto se i soggetti in questione abitano
esattamente l'uno dalla parte opposta del mondo rispetto all'altra.
Per fortuna, nel nostro caso è stato diverso: la distanza ha
reso sì
le cose più difficili, ma non è stata la vera
artefice della nostra
separazione.
Con
il tempo ho imparato ad esternare i miei sentimenti anche per
iscritto. Lo devo ammettere, non sono mai stato quel genere di
ragazzo. Amo gli sport estremi, mi piace star seduto con le gambe
aperte stile frequentatore assiduo di bar, masticare rumorosamente a
bocca aperta e tifare senza contegno per la mia squadra di calcio
preferita. Eppure, Yoshiko è riuscita a tirar fuori da me
quel lato
tenero e romantico che mai avrei pensato di avere.
***
Mio
padre, nonostante fosse molto impegnato con il suo lavoro, aveva
notato un cambiamento in me. L’avevo sentito più
volte vociare al
telefono con la zia e incolpare mia madre per non essermi stata
vicina. A detta sua mi mancava tatto ed eleganza e lui non era in
grado di condividere con me certi sentimenti in quanto, secondo il
suo illustre parere, era un compito che spettava ad una donna. Per
quanto fosse un uomo fantastico, questi erano i momenti che mi
facevano notare quanto fosse umano e vulnerabile. Era proprio con
questo genere di frecciatine che mi faceva intendere quanto soffrisse
per la mancanza di una figura femminile al suo fianco. Eppure, negli
anni non aveva mai provato a mettersi in gioco. Dava la colpa al
lavoro, al dover badare a me e al nonno che, giusto un paio di anni
prima, era morto di vecchiaia. Insomma, si inventava mille impegni
pur di non alzare la cornetta ed invitare una collega, un'amica o una
vicina fuori per una cena o anche solo per un caffè.
Cara
Yoshiko,
oggi
ho avuto una discussione pesante con mio padre. Sai com'è,
ogni cosa che faccio non va mai bene. Non volevo farlo arrabbiare, lo
giuro! E non mi sto discolpando. Ma sono stufo di averlo a casa ogni
sera con quel broncio dipinto sul volto di chi si lamenta di non avere
una vita sociale, ma allo stesso tempo non fa nulla per incrementare la
sua cerchia di amici. Dice di averne già fin troppi, eppure
non esce mai con nessuno.
L'ho
iscritto (a sua insaputa) su quel sito di incontri per uomini maturi
single che pubblicizzano tanto in televisione. Apriti cielo, ha dato di
matto. Ho messo su un paio di foto sue di qualche anno fa, quelle che
avevamo fatto a quella famosa fiera di città di cui ti ho
parlato l'ultima volta. Non ho scritto bugie sul suo conto, lo giuro!
Ho scritto che è un uomo di altri tempi, il classico signore
educato che sposta la sedia alla propria amata prima di accomodarsi a
tavola, che apre la portiera dell'auto per farla accomodare al suo
interno, che si stringe in un angolo del divano per consentirle di star
sdraiata durante la visione di un film. Insomma, cose del genere! Non
ho neppure mentito sulla sua età, anche se forse ho un po'
ingigantito i suoi hobby. Sì, ama uscire a passeggiare, ma
non è vero che è un appassionato del trekking. Ho
raccontato poco del suo lavoro, non vorrei che uscisse con una donna
interessata solo al suo portafoglio, mi spiego?
Beh,
sai la sua rabbia da cosa è derivata? Dal fatto che
nell'arco di un paio di ore dall'iscrizione lo hanno contattato in
circa una decina di donne, tutte interessate ad avere un appuntamento
con lui. È sbottato con me, dicendo che non mi sarei mai
dovuto permettere di iscriverlo ad un sito così offensivo. A
detta sua solo gli “uomini disperati” lo fanno. Ma
a me pare tanto che lui lo sia.
Morale
della favola? Avevo ragione io! Martedì uscirà a
cena con una delle donne che ha risposto all'annuncio.
Devo
ammetterlo, la lavata di capo alla fine non è stata poi
così male. Per lo meno ne è valsa la pena! Il
martedì non è stata una scelta sua,
bensì mia, sai perché? Gioca il Manchester United!
Con
affetto, Bee. |
Ricordo
bene che quel giorno mi soffermai molto sul termine "affetto".
Si era insinuato in me un certo dubbio: non era forse troppo? Data la
giovane età e la distanza che ci divideva, era stupido
tentare di
andare oltre. Ma più le scrivevo e più leggevo le
sue lettere, più
sentivo crescere un sentimento nuovo in me. Lei rispondeva usando lo
stesso tono spingendosi, spesso, anche oltre. Non riusciva a celare i
propri sentimenti dietro le sue lettere, era più forte di
lei.
Caro
Bee,
mi
manca tutto dell'Inghilterra. Mi mancano i manti erbosi e finemente
tagliati che caratterizzano i parchi di Exeter. Mi mancano le serate
trascorse in compagnia presso quel locale che ogni mercoledì
sera organizzava un momento karaoke a suon di stonate e canzoni
immortali. Mi mancano le passeggiate domenicali ed i pic-nic
stravaganti lungo la riva del Quay. Mi manca il gracidare delle rane
presenti nel laghetto del giardino della scuola. Mi mancano persino le
pizze all'anatra, la pioggia incessante e quel vento così
forte da avermi rotto almeno una decina di ombrelli. Ma, soprattutto,
mi manchi tu.
Qui
in Giappone non conosco nessuno che sia come te. I miei compagni di
classe mi prendono in giro perché porto questi occhiali
così grandi. Lo so, dovrei dimostrarmi superiore, ma proprio
non ci riesco e ogni volta che torno a casa mi viene sempre da piangere.
Sai,
ho una novità. Mamma e papà stanno pensando di
comprarmi un portatile per poter avere accesso ad internet e studiare
più agevolmente anche da casa. Dicono che non è
mai presto per pensare all'università.
Sto facendo fatica a riadattarmi alla
mia città natale, sai. Qui è tutto più
frenetico, non si ha mai abbastanza tempo per riuscire ad adempiere a
tutti i compiti in programma. Mentre lì, era come ritrovarsi
sospesi nel tempo, come se l'orologio andasse a rilento. Le giornate in
Inghilterra non passano mai, si ha sempre tempo per fare tutto. Forse
sono gli impegni, forse è solo la mia testa, eppure
preferisco vivere lì piuttosto che qua.
I
miei genitori non mi danno tregua. Mi hanno già bocciato la
richiesta di tornare altri sei mesi ad Exeter, sono convinti che alla
fin fine sia stata solo una grande perdita di tempo e che io sia
rimasta indietro con il mio programma scolastico.
Sono
disperata, non sai quanto darei per trascorrere anche solo una
settimana in tua compagnia. Secondo te è una cosa stupida?
Forse sono solo troppo infantile. Dovrei crescere, lo so, ma questa
fretta che mi mettono addosso non mi si addice. Non sono ancora entrata
nella fase adolescenziale e già mi sono stufata.
Ti
mando un bacio, di quelli che già conosci.
Tua,
Yo. |
Saperla
a miglia e miglia di distanza da me, insofferente e triste per la
vita che l'aspettava, mi trafiggeva il cuore. Ogni volta che ricevevo
una sua lettera in cui si lamentava di quanto fosse impegnativa la
sua giornata, di quanto fossero pressanti e pesanti i suoi genitori,
o peggio, di quanto io gli mancassi, mi sentivo inutile. Avrei voluto
essere lì con lei in quel periodo per poterla abbracciare,
stringerla a me e darle la forza di andare avanti. Eppure, non ebbi
mai modo di farlo e questo fu uno dei miei più grandi
rimpianti.
Con
l'arrivo delle festività invernali, Yoshiko ricevette in
regalo il
suo primo portatile. Un modello della Dell piuttosto costoso e dotato
della miglior tecnologia Intel presente sul mercato. Ero piuttosto
convinto che suo padre avesse sborsato almeno una mensilità
buona
del proprio stipendio per poter pagare un affarino del genere.
Ciò
che contava, però, fu che grazie a quell'aggeggio
tecnologico io e
lei riuscimmo a sentirci più spesso.
Caro
Bee,
hai
visto? La mia prima email! E non poteva che essere indirizzata a te!
Mi
fa quasi strano non dover più attendere furtivamente il
postino davanti casa ogni Lunedì sera.
Devo
ammetterlo, un po' mi manca l'odore inconfondibile di lavanda delle tue
lettere perfettamente imbustate. Già, non puoi saperlo, ma
ogni volta che arrivava la tua lettera mi veniva quasi istintivo
annusarla. Sono piuttosto convinta che il negozio che te le vende, le
tiene accanto ad una qualche riserva di candele profumate. Correggimi
se sbaglio.
Dunque,
oggi sono piuttosto elettrizzata perché so di potermi
dilungare a scriverti tutto ciò che mi passa per la testa
senza temere di scrivere troppi fogli. E vuoi mettere il risparmio di
tempo nel farlo? Una digitata veloce sulla tastiera e già ho
impresso nero su bianco tutti i miei pensieri. Lo trovo straordinario!
Avremo
mai modo di organizzare anche una video-chiamata? Sarebbe
così bello poterti rivedere, seppur con uno schermo di
mezzo. Ovviamente dovremo trovare un orario ed una data che vada bene
ad entrambi e che non preveda la presenza di mio padre nei paraggi. Sai
com'è fatto lui, lo vedrebbe solo come una grande perdita di
tempo.
Il
mio viaggio stesso ad Exeter, a detta sua, è stato inutile.
Io non sono d'accordo. Grazie a te sono migliorata moltissimo con
l’inglese e ho risolto anche il problema che avevo con la
pronuncia della "r". Ho potuto visitare posti bellissimi, conoscere
tanta gente nuova di tutto il mondo e frequentare un ambiente ben
più rilassato di quello che vivo qui tutti i giorni.
Potrò
mai tornare ad Exeter prima o poi? Avremo mai occasione di rivederci?
Perché non vieni qui in Giappone? Alla fin fine potresti
anche decidere di visitare la tua città natale, che ne pensi?
Un
abbraccio forte e sentito, Yo. |
Più
di una volta Yoshiko tentò di convincermi ad andare da lei.
Diceva
che fosse cosa buona e giusta scoprire il mio passato ed incontrare
la donna che mi aveva messo al mondo. La verità era che
avevo paura.
Avevo paura di scoprire che mia madre mi avesse abbandonato per
motivi ben più gravi di una semplice intolleranza verso i
neonati.
Avevo paura persino della reazione che mio padre avrebbe potuto avere
nello scoprire che in parte avrei tanto voluto conoscere i fantasmi
del mio passato. Non avevo mai parlato con lui di mia madre,
né
tanto meno avevo avuto modo di chiedergli nulla a riguardo. Tutto
ciò
che mi era stato detto sul suo conto era avvenuto solo per sbaglio.
Una certezza, però, ce l'avevo: lui doveva esserne
innamorato per
davvero. Non spese mai una brutta parola nei suoi confronti,
né
tanto meno affibbiato un epiteto negativo o parlato male di lei.
Insomma, per quanto lei lo avesse fatto soffrire, lui non era mai
riuscito a puntarle il dito contro. Che uomo.
Yoshiko
provò a farmi esternare ciò che sentivo per la
mia madre biologica,
ma la verità era che non sapevo bene cosa provare per lei.
Voglio
dire, mi aveva messo al mondo e di questo credo di essergliene grato,
ma niente di più. Non avevo alcun legame con lei. Non volevo
cercarla, perché non avevo mai sentito un bisogno primario.
Lo
consideravo un pensiero piuttosto sensato, ma per Yoshiko non lo era.
Lei era una delle persone più curiose che io avessi mai
conosciuto.
Mi aveva confidato che se fosse successo a lei, non avrebbe desistito
un attimo ad andare in anagrafe per ottenere tutte le informazioni
utili per trovarla. Se si fosse reso necessario, avrebbe persino
ingaggiato un detective privato. Ma se una madre biologica non
intendeva farsi trovare, perché insistere?
Ma
nulla, Yoshiko era decisamente troppo cocciuta per afferrare il
concetto e comprendere il mio punto di vista. Forse era anche per
quello che mi affezionai in questo modo a lei. Perché lei
era così
diversa da me. Perché gli “opposti si
attraggono”, almeno così
si diceva da sempre.
Caro
Bee,
come
stai? Le giornate qui trascorrono inesorabili senza che io me ne
accorga. Il tempo di aprire gli occhi e già vengo immersa in
una routine tanto rigida quanto stretta. Non riesco a farmela mia e
questo mi fa cadere nello sconforto.
Grazie
al mio nuovo portatile ho avuto modo di navigare su internet e
rintracciare diversi nominativi di detective che lavorano sul
territorio giapponese. Non avrebbe certo senso trovarne uno in
Inghilterra. Dobbiamo solo sperare che tua madre sia ancora qui. Ti
allego un elenco di ciò che ho trovato.
Lo
so, sono tutti piuttosto cari, ma penso ne valga la pena. Non vuoi
conoscere il tuo passato? Io ne sarei curiosissima.
Ti
è mai capitato di fantasticare su di lei? Dunque, conoscendo
te come persona e, per quel poco che mi hai raccontato di tuo padre, mi
verrebbe quasi da pensare che tu madre sia una donna dalla mente
artistica. Ce la vedrei bene come professoressa di arte, che ne pensi?
Oppure come musicista. Magari scopriamo che nella sua carriera ha
cantato per la colonna sonora di qualche film famoso. Sarebbe
straordinario, non credi anche tu?
Mia madre invece è una
donna noiosa. Purtroppo nella mia famiglia vige ancora una visione
piuttosto arretrata circa la gerarchia da adottare. Papà
è l'uomo di casa, il suo unico mestiere è quello
di lavorare e portare i soldi a casa per mangiare. A mamma tocca tutto
il resto. Lei deve cucinare per noi tutti, riassettare casa ogni
singolo giorno assicurandosi di pulire persino il pianerottolo oltre il
nostro portone; deve fare il bucato con cadenza nei giorni pari. Ti
prego, non chiedermi il motivo esatto di quest'azione, ma
papà è un tantino fissato con queste cose.
Sospetto un disturbo ossessivo compulsivo, ma non sia mai che io possa
esternare una simile eresia! Insomma, papà lavora e mamma fa
tutto il resto. A me pare tanto che qui l'unica persona ad indossare i
pantaloni in casa sia proprio lei. Ma loro non ammettono questo genere
di argomentazioni in casa, dicono che io viaggio troppo con il pensiero
e che non riesco a tenere i piedi per terra. Sarà anche
vero, ma proprio non riesco a capire cosa ci sia di male in tutto
questo. Io non chiedo molto, solo essere me stessa. Possibile che
questo non sia sufficiente per loro?
Starai
ancora dormendo, perciò ti auguro la buona notte. Yo.
|
Con
il trascorrere del tempo vennero a galla altri problemi ancora. Il
fuso orario ci consentiva di scriverci solo in differita; d'altra
parte io ero ben sette ore indietro rispetto a lei. Perciò
quando io
ero a scuola la mattina, lei era impegnata nei suoi mille programmi
pomeridiani extracurricolari; viceversa quando qui era sera, lei si
trovava già nel mondo dei sogni. Oppure mentre lei disponeva
di
un'ora libera a pranzo, io ero in procinto di svegliarmi per andare a
scuola. Insomma, le nostre routine non combaciavano mai.
Le
cose, purtroppo, andarono solo peggiorando. I suoi genitori le
mettevano a disposizione il computer solo per studiare. Avevano
attivato un programma di parental
control con il
quale monitoravano ogni
sua azione e ogni suo utilizzo del portatile. Inutile dire che chat,
programmi di messaggistica istantanea e simili, erano stati
ampiamente cancellati dal suo dispositivo. Restava comunque l'email
che, per quanto potesse emulare l'invio telematico di una lettera, ci
consentiva per lo meno di rendere le nostre conversazioni quasi
istantanee.
Le
conservai tutte. Molte, con gli anni, addirittura le stampai e le
inserì nella mia scatola dei ricordi.
Ogni
tanto mi capitava di poterle riesumare e rileggere. Ovviamente,
stampai le migliori, quelle che meritavano di essere conservate per
un'intera vita.
Una
di queste la conoscevo quasi a memoria. La lessi talmente tante
volte, che potevo quasi recitarla ad alta voce come fosse una poesia
di quelle imparate tra i banchi di scuola. Yoshiko era sempre stata
una ragazza molto aggraziata, composta e riservata. Con me riusciva
ad aprirsi molto e con gli anni aveva perso l'imbarazzo di dover
tacere innanzi a situazioni che le creavano disagio. Nella famosa
email in questione, Yoshiko si lamentava per essere stata messa in
punizione dopo aver ricevuto un 98/100 nell'ultimo esame di
matematica. E pensare che io, quella volta, ero già pronto a
farle i
miei complimenti per l'ottima votazione ricevuta. I suoi genitori
invece pretendevano il massimo da lei e quei due punti di differenza
non li ammettevano. Le avevano tolto tutto, persino la cena prima di
andare a letto. Un'esagerazione che io stesso tutt’ora non ho
mai
capito. In effetti avevo sentito un gran vociare circa l'ordinamento
scolastico giapponese, sicuramente molto superiore rispetto a quello
inglese, seppur più severo e imperativo. Sta di fatto, che
quella
volta Yoshiko si era difesa non male con le parole. Aveva vomitato
ogni suo pensiero riguardo famiglia e scuola che decisamente sembrava
non far parte di lei.
Caro
Bee,
perdonami
per questa email, ma ho un bisogno quasi esasperato di sfogarmi con te.
I
miei genitori sono i soliti insensibili dediti solo al lavoro e alle
apparenze. Ho speso quasi un mese reclusa in casa per preparare uno
stupido esame di matematica per poi ottenere 98/100, un punteggio degno
di essere festeggiato, ma che, secondo i miei genitori, non vale
più di una sufficienza. Mi sono sentita dire che sono una
figlia ingrata, perché sai loro si ammazzano dalla mattina
alla sera solo per potersi permettere la retta della mia scuola
privata. Nessuno gliel'ha mai chiesto! Ingrata io? Sono loro che
pretendono troppo da me. Ti giuro, mi piacerebbe così tanto
tornare indietro nel tempo per vedere se alla mia età erano
così perfetti da ottenere solo il punteggio massimo in ogni
stupida cosa che facevano. Li odio! Mi infastidiscono così
tanto quando fanno così.
Mio
padre poi... mi verrebbe da imprecargli contro! Mi ha tolto tutto, mi
ha messo in punizione per non aver ottenuto la lode in questo esame.
Non posso più frequentare le lezioni di canto corale che mi
piacevano tanto. Mi ha tolto l'accesso al pc, se non per studiare,
ovviamente solo in sua presenza. Mi ha persino fatto trascrivere su un
quaderno intero la frase: devo onorare sempre la mia famiglia. Ma
stiamo scherzando?
Ti
giuro, se potessi scappare di casa in questo preciso istante lo farei!
Mi ospiteresti, vero?
Mio
padre non capisce. Ha persino spintonato un mio compagno proprio fuori
da scuola perché, a detta sua, invadeva il mio spazio
personale. Non oso immaginare come potrebbe conciarti se scoprisse che
mi hai baciata!
Mia madre è esattamente...
quel genere di donna completamente succube a lui. Lei fa solo
ciò che dice lui, pare quasi un essere non pensate. Giuro,
se mai dovessi diventare quel genere di donna, ti prego, uccidimi prima!
Mio
padre è soltanto un esaltato del... cavolo. Per non dire
altro. Sono piuttosto convinta che lui sia talmente insoddisfatto della
propria vita, che stia tentando di spronare me a raggiungere quelli che
all'epoca erano i suoi traguardi. Ma a me questa vita fa schifo! Io non
voglio vivere la loro vita, io voglio poter scegliere in autonomia.
Voglio dire, neanche fossimo in un’epoca ancora
così sessista, durante la quale l'uomo è colui
che porta il pane in tavola e la donna è costretta a
rifugiarsi nelle segrete di casa per adempiere ai propri doveri
femminili, quali lavare a terra o stupidate varie.
Io
voglio poter uscire come e quando voglio, vorrei tanto poter vedere il
mondo in piena autonomia.
Se
mai avrò un figlio, mi assicurerò di essere
esattamente come NON sono i miei genitori. Questo è certo!
Perdona
lo sfogo.
Mi
manchi, come sempre. Yo. |
Seppur
quella email mi abbia strappato un sorriso, mi faceva star male
vederla penare in quel modo. Non aveva spazio di manovra, ogni
decisione veniva presa dai genitori e lei si ritrovava ad obbedirgli
neanche fosse un automa. Insomma, in quell'occasione la
sentì
imprecare più e più volte, cosa mai successa
prima d'ora.
Oppure
in un'altra situazione, mi aveva sviscerato il suo amore improbabile
per i panda, confidandomi di voler mollare la scuola per potersi
occupare di certi villaggi che ospitano quegli animali in via di
estinzione presenti proprio nelle sue zone. Un sogno alquanto
singolare, devo ammetterlo, ma che mi faceva apprezzare ancora di
più
lei come persona.
Eppure,
in ogni sua lettera ci metteva sempre qualcosa di suo. All'infuori di
quella sfuriata fatta, non l'avevo mai sentita parlare male di
nessuno.
Spesso
mi domandavo come fosse possibile che una creatura così
divina
potesse avere dei genitori tanto... vorrei evitare di immergermi
anche io in uno sproloquio nei loro confronti. Ma, caspita, se mi
faceva imbestialire parlare di loro. Era solo a causa loro che
Yoshiko si era allontanata da me fino a smettere di rispondere alle
mie email. Già, dopo aver trascorso notti insonni pur di
spendere
anche solo cinque minuti del mio tempo nel comunicare con lei in
diretta, mi ritrovai a sbattere la faccia contro un muro altissimo.
Ne
parlai anche con mio padre una volta. Sono sempre stato un libro
aperto per lui, non vi era neanche bisogno di aprire il discorso che
lui tanto già sapeva. Ha sempre saputo.
«Figliolo,
perché non ti siedi un attimo» disse mio padre in
quell'occasione
guardandomi dritto negli occhi.
Dal
suo sguardo potevo benissimo intuire quale fosse l'argomento che
voleva trattare con me in quel momento.
«Certo»
risposi senza indugio sedendomi accanto a lui sul divano.
«Vedi
figliolo, nella vita di ciascun ragazzo... ci sono persone che vanno
e che vengono» iniziò dicendo «e sono
tutte esperienze che servono
ad arricchire il tuo bagaglio personale, che porterai sempre con te
durante il lungo viaggio della tua vita».
Che
pensiero profondo e noioso allo stesso tempo. Non ero mai stato bravo
ad affrontare quel tipo di discorso.
«Okay...»
gli risposi titubante con l'aria di chi ancora non aveva intuito dove
volesse arrivare.
«Brent,
certe persone... certe ragazze» aggiunse correggendosi con un
colpo
di tosse «potranno sembrarti uniche al mondo, ma non
è detto che lo
siano davvero».
Quella
frase mi ferì. Il mio sguardo cambiò di colpo per
tramutarsi in un
broncio che trapelava il mio disaccordo.
«Lo
so, figliolo, so cosa stai pensando» riprese non badando
molto a me
«la vita è in continua evoluzione e tu con lei.
Gli amori giovanili
sono sempre i più belli perché sanno lasciarti
quell'impronta
indelebile nel cuore che solo le prime esperienze sanno fare».
Mai
verità fu più dolorosa.
«Purtroppo
crescendo perderai l'entusiasmo di provare certi sentimenti per una
donna» aggiunse «non ti auguro di ritrovarti come
me, solo e
sposato con il proprio lavoro. Ma vorrei capissi che lei non
sarà né
la prima, né la seconda o terza ragazza che conoscerai mai
in vita
tua. La senti così vicino a te perché
è la prima volta che provi
queste emozioni ed è normale, ed anche bello che tu lo
faccia. Ma
non voglio che per questo motivo tu ne rimanga scottato».
Ridacchiai
divertito, mai mi sarei aspettato di incappare in un simile discorso
con mio padre. Era un po' come affrontare il tanto temuto discorso
assorbenti per le madri. Tutto sommato a mio padre era anche andata
bene, immaginarmelo alle prese con tampax e simili sarebbe stato
ancora più epico.
«Sì,
papà, ho capito. Meno cuore, più testa,
è chiaro dove vuoi
arrivare!» risposi cercando di tagliare corto per l'imbarazzo.
«No,
non hai capito proprio nulla!» mi rispose tirandomi una pacca
amichevole sulla schiena «devi saper ben dosare le due cose,
tanta
testa, quanto amore».
Lo
guardai incuriosito. Ancora una volta il mio viso assunse
l'espressione ebete di chi ancora non aveva capito nulla.
«Il
cuore serve a bilanciare i pensieri razionali della mente, senza di
esso risulteresti un automa apatico» mi disse accennando un
sorriso
«ma il cuore non può esistere senza mente,
altrimenti rischieresti
di vivere una vita in balia unicamente dei tuoi sentimenti senza
ponderare le scelte fatte».
Fu
più forte di me, quel discorso mi trafisse come una freccia.
Sicuramente sgranai gli occhi sconvolto, mio padre lo notò,
ne sono
più che sicuro.
«Quindi...»
cercai di dire.
Lui
mi anticipò «quindi lascia che la tua mente ti
trascini ovunque tu
voglia andare, ma non scordare di mettere il cuore in qualsiasi cosa
tu voglia fare».
Sorrisi.
Mai le parole di mio padre furono più efficaci di quelle.
Me
le porto dietro tutt'ora. In ogni cosa che faccio ci metto testa e
cuore, senza rinunciare né a uno né all'altro e
la mia vita è
perfetta così.
Poi
avvenne l'inevitabile. Iniziò tutto con delle banali scuse.
Aveva le
prove con il coro domenicale. La musica era sempre stata una sua
grande passione, come poterglielo negare, d'altra parte non ero
nessuno per vietarle di frequentare quel corso. Poi vennero gli esami
di fine corso, importantissimi anche quelli. Lo studio le rubava
molto tempo libero. Infine, gli svariati sport ai quali era
impossibile rinunciare: il tennis le rubava un'ora il lunedì
e il
mercoledì sera; la ginnastica artistica occupava ben due ore
del
venerdì subito dopo il corso di economia domestica; vi era
poi il
nuoto che frequentava la mattina un paio di ore prima dell'inizio
delle lezioni. Il sabato e la domenica erano giornate sacre da
passare in famiglia tra parenti alquanto discutibili e amici di
famiglia che puntualmente la punzecchiavano parlando di scuola e
futuro. Le lezioni scolastiche iniziavano presto la mattina e
terminavano agli orari più assurdi concedendole giusto il
tempo di
tornare a casa, farsi una doccia e cenare.
Il
tempo a me dedicato, generalmente, era intorno alle dieci di sera
secondo il suo fuso orario, ovvero le mie tre di pomeriggio,
nonché
orario in cui, puntualmente, avevo gli allenamenti di calcio.
Insomma, tutto era di ostacolo alle nostre comunicazioni. Non solo,
quelle poche volte che non crollava a dormire - spesso capitava anche
subito dopo cena - scriveva le email talmente di fretta da lasciarmi
giusto due misere righe da leggere.
E
pensare che spesso rincasavo dagli allenamenti con una voglia matta
di poter leggere i suoi scritti. Certo, ero felice di poter ricevere
ugualmente attenzioni da lei, conoscevo benissimo i suoi miliardi di
impegni, eppure mi rattristava notare quanto fossero cambiati i suoi
toni nei miei confronti.
E
niente, in men che non si dica sparì dalla faccia della
terra. Non
so dirvi il perché, né come accadde. Successe e
basta.
Sono
piuttosto convinto che dietro la sua scelta, se di scelta si
può
parlare, vi fosse suo padre. Insomma, dall'oggi al domani lei smise
di rispondere alle mie email.
E
nulla, io dovetti imparare a vivere senza di lei. Almeno per il
momento. Rimasi solo, privato di ciò che all'epoca ritenevo
più
caro.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo: giallo
Personaggi
capitolo: Brent ed
Isaac
Capitolo
3
Isaac
Smith. Mio padre è sempre stato un mistero per me. Sono
piuttosto
convinto che nessuno sia mai stato in grado di comprenderlo fino in
fondo. Ed io temo proprio di non essere stato da meno.
Insomma,
non vorrei inscenare scuse patetiche su quanto un adolescente voglia
restare rinchiuso in camera da letto ore ed ore della propria vita
senza avere alcun contatto coi propri genitori, ma in effetti per me
è
stato
così.
Forse
era solo un pretesto per evitare discussioni imbarazzanti o domande
scomode. Si sa, i genitori di figli adolescenti hanno questa
grandissima perspicacia di uscirsene con le domande più
disparate,
nei momenti più inopportuni.
***
Le
mie giornate erano caratterizzate dalla solita e monotona routine di
sempre. La mattina la trascorrevo a scuola, nel pomeriggio vi erano
gli allenamenti di calcio e canoa e la sera la dedicavo al mio sport
estremo preferito in assoluto: schiva l'uomo. Già, quei
pochi minuti
che trascorrevo a casa con mio padre, mi parevano sempre una tortura.
A cena, unico momento in cui non potevo certo voltargli le spalle,
tenevo sempre lo sguardo rivolto sul tavolo. Tracannavo tutto
ciò
che avevo nel piatto alla velocità della luce. Non mi andava
di
imbattermi in lui. Purtroppo per me, io ero come un libro aperto per
lui e, per fortuna, era “solo” un oncologo e non
uno psicologo.
Odiavo
le nostre cene insieme perché spesso se ne saltava fuori con
alcune
di quelle domande scomode e personali, quali “com'è
andata a scuola, figliolo?”;
oppure “ma
quella ragazza che tanto ti piaceva, la senti ancora?”.
Sapevo
bene che quei quesiti non avevano un fine specifico, me le chiedeva
quasi fosse una routine farlo. Eppure mi sentivo a disagio e, in
particolar modo, giudicato in base alle risposte date.
Una
sera, non lo scorderò mai, successe qualcosa di sconvolgente:
mio padre era rincasato da poco dopo un turno infinito di ben dodici
ore in reparto. Era stanco, glielo si poteva leggere sul volto. Due
profonde occhiaie sottolineavano il suo sfinito sguardo. Visto
l'orario, erano già le dieci di sera, decidemmo di ordinare
del fish
and chips
e di farcelo consegnare direttamente a casa. Mentre eravamo seduti a
tavola, attaccò bottone come al suo solito, borbottando
qualcosa a
bocca piena -figliolo, com'è andata la giornata a scuola?-.
Eccolo,
ci risiamo.
Era
stata una giornata infernale. Il professore di letteratura mi aveva
interrogato a sorpresa, cogliendomi completamente impreparato.
Perciò
non ero dell'umore di parlarne, allora improvvisai l'improbabile
-male, ho mandato a quel paese il prof e mi sono messo a ballare nudo
sul banco-.
Lo
ammetto, l'idea mi era seriamente balenata in mente, ma ovviamente mi
ero limitato ad incassare il brutto voto e a chiudermi in un silenzio
profondo al mio banco.
Mio
padre, troppo assorto nella sua stanchezza e, probabilmente, nel
rivangare la giornata lavorativa, mantenne lo sguardo fisso sulle
patatine rimaste nel suo piatto, per poi rispondere -sì,
bravo, hai
proprio fatto bene-.
Sgranai
gli occhi e lo fissai con uno sguardo misto tra stupore e
divertimento. Probabilmente si sentì osservato,
alzò gli occhi dal
piatto fino ad incontrare il mio volto ilare e domandarmi -non ti ho
ascoltato, figliolo, lo ammetto. Ho forse risposto con una
fesseria?-.
Scoppiai
a ridere compiaciuto. Per la prima volta, trovai le nostre noiose
cene piuttosto divertenti.
***
Mio
padre era quel genere di uomo che donava tutto sé stesso per
gli
altri. Sapete quel detto che dice, “ama il prossimo tuo, come
te
stesso”? Lui l'aveva preso alla lettera. Il suo lavoro ne era
una
dimostrazione.
Tutti
in città lo amavano come un padre, un figlio, un nipote,
come uno di
famiglia. In ospedale riceveva sempre omaggi da tutti, pazienti,
colleghi o semplici conoscenti. Era molto stimato per il suo lavoro.
Nonostante
abbia un ricordo piuttosto sbiadito del suo funerale, non posso
dimenticare la calca di gente che si era formata fuori dalla chiesa.
Vi era metà cittadina presente. Nonostante toccò
a me tenere il
discorso di chiusura, durante i vari elogi funebri che tenne il
sacerdote, molta gente salì sull'altare per piangere la sua
morte.
Conservo ancora nel cuore ogni loro parola. Fu descritto come un uomo
dalla fede indistruttibile, dal talento innato nel proprio lavoro e
dalla sottile sensibilità.
È
vero. Penso di non poterlo descrivere diversamente. Forse un
aggettivo lo si potrebbe aggiungere: paziente.
***
L'adolescenza
arrivò di botto, senza bussare alla mia porta e senza
chiedermi
minimamente il permesso. E con essa arrivarono anche i problemi.
Inutile
dire che ogni ragazza che mi ronzava intorno, mi faceva sentire
importante tanto da farmi drizzare... i capelli. Mio padre
cercò di
attaccare bottone con me cercando di parlarmi di precauzioni e di
sesso, ma fu piuttosto invano perché ogni volta cambiavo
discorso o
mi chiudevo in camera mia.
So
bene di aver reso la sua vita un vero inferno in quel periodo.
A
scuola potevo definirmi tranquillamente uno scapestrato. Per quanto
cercassi di rigare dritto, c'era sempre un qualche compagno in grado
di farmi sprofondare a terra. Nonostante la mia condotta riscuoteva
l'ira di tutti i professori, il mio rendimento scolastico non si
poteva definire poi così pessimo. Non ero molto portato
nelle
materie umanistiche, ma in quelle scientifiche ero un asso e nessuno
era più bravo di me.
Purtroppo,
però, questa mia grande attitudine alla fisica e alla
chimica, venne
prese di mira da alcuni miei compagni di calcio di qualche anno
più
grandi di me. Più volte mi capitò di finire
gonfiato di botte per
mano loro, ma non mi piegai
mai
alle loro richieste.
Sfortunatamente
a 15 anni arrivò un nuovo insegnante a scuola, un certo
signor Tips,
per l'esattezza Dick Tips*. Mi ero promesso e ripromesso in
più
occasioni di non cacciarmi nei guai, ma ogni volta rimandavo il mio
impegno per poter deridere quel professore.
-Mi
scusi professore, ma quest'anno faremo ancora educazione sessuale?-
domandai disturbando una noiosissima lezione di filosofia.
-Signor
Smith, le sembra questo il modo di interrompere questa interessante
lettura di Freud?- domandò scocciato il signor Tips.
-Beh,
in realtà la trovo una domanda piuttosto attinente- risposi
disinvolto.
-Freud
va al di là della semplice lezioncina su come infilare un
preservativo al manico di una scopa, non crede?- chiese con ira
avvicinandosi al mio banco.
-In
realtà non mi riferisco a Freud- sfoggiai un sorriso
sfrontato in
sua direzione -è attinente con lei, signor Dick Tips- dissi
scandendo bene nome e cognome.
-Certo,
certo, ridete pure- rispose l'uomo rivolgendosi alla classe che non
era riuscita a contenere le risate -aggiungerei anche,
perché non
diventare preside di questa scuola? Il signor Head Master Dick Tips,
celebre e famoso portavoce dei consigli del cazzo-.
Le
risate vennero alimentate ulteriormente dalla sua battuta, facendoci
piegare tutti sul banco.
-O
meglio ancora, che ne dite di Lawyer Dick Tips, avvocato stimato di
consigli del cazzo, perderei sicuramente qualsiasi causa- aggiunse
nuovamente.
L'atmosfera
si fece sempre più chiassosa e ilare, tanto che il
professore, che
teneva lezione nella classe accanto, dovette entrare da noi per
chiedere di abbassare la voce.
Ad
un certo punto, il nostro insegnante dovette sbattere una mano sulla
cattedra per riportare l'attenzione su sé stesso e calmare
le acque
-grazie, signor Smith per questo splendido input che ci ha dato-
disse infine indicandomi la porta -il preside Richards sarà
lieto di
invitarlo oggi pomeriggio ad una seduta extra di buone maniere-.
-Che
cavolo...- sbuffai innervosito recandomi dal preside sicuro di
sbattere per bene la porta alle mie spalle prima di uscire.
Inutile
dire che da quel giorno il signor Tips mi prese di mira.
I
miei voti oscillarono
sempre intorno alla sufficienza risicata. Rimaneva comunque indubbia
la mia attitudine allo studio, perciò non riusciva in nessun
modo a
sfilarmi l'insufficienza. Ciò nonostante, trascorrevo la
maggior
parte dei miei pomeriggi in punizione, spesso anche oltre l'orario
ordinario delle lezioni, saltando anche gli allenamenti di calcio.
Il
professore Burke, insegnante di fisica e matematica, un giorno venne
da me per darmi una lezione di vita. Avrei voluto fuggire in quel
momento, avrei voluto tapparmi le orecchie e scappare via di
lì.
Eppure il suo discorso, più avanti, avrebbe cambiato il mio
modo di
vedere il mondo.
-Brent,
sei un giovane così brillante, con un padre che... beh,
tutti noi
conosciamo quanto sia in gamba. Non capisco, cosa ti spinga a
comportarti in questo modo- domandò pacatamente, quasi
conoscesse
già la verità.
Feci
spallucce e non replicai, facendogli intendere di non aver una
risposta alla sua domanda.
-Sai,
Brent, anche io alla tua età ero un tantino fuori dal coro.
Mi
definivano la pecora nera della famiglia. Mamma e papà erano
due
umili operai presso una fabbrica di scarpe da ginnastica, due persone
dedite al lavoro, alla famiglia e alla chiesa. Esattamente l'opposto
mio. Mi cacciavo spesso nei guai. Pensa, una volta sono anche finito
in galera- mi disse il professore ridacchiando amaramente.
Strabuzzai
gli occhi e lo guardai alzando un sopracciglio -non ci credo...- mi
venne quasi spontaneo dirlo.
-Ed
invece sì- rispose lui -un gruppo di ragazzi più
grande di me mi
sfidò a rubare una barretta di cereali da un supermarket ed
io,
testa dura com'ero, ovviamente lo feci-.
Si
fermò a raccontare quell'episodio come se stesse mentalmente
ripercorrendo ogni istante di quella sera criminale. Io lo guardai
quasi incuriosito, pregandolo con lo sguardo di andare avanti, ma non
ottenni risposta.
Ad
un tratto il signor Burke si rivolse a me sorridendomi molto
dolcemente -mi rivedo molto in te, Brent. So cosa ti spinge a
comportanti in questo modo-.
Mentalmente
imprecai e mi sforzai di pensare che non lo sapeva veramente, non
poteva saperlo. Eppure i suoi occhi mi trasmettevano l'opposto.
-Non
pensare che io sia nato ieri- mi disse ridacchiando -non è
mia
intenzione farti la paternale, ma sappi che se andrai avanti
così
finirai solo nei guai-.
Detto
ciò si alzò e tornò alla cattedra per
supervisionare l'aula
punizioni.
Mi
venne quasi istintivo guardarmi attorno e visionare chi condivideva
con me quelle due ore di castigo.
C'erano
due ragazze molto ambigue, che si scambiavano sguardi allusivi per
poi istigare il professore leccandosi le labbra e facendogli versi
piuttosto sensuali. Vestiti attillati, trucco pesante e molto marcato
sugli occhi, gote infuocate e curve davvero niente male.
Un
paio di banchi dietro loro, vi era un ragazzone grande e grosso con
una cresta talmente alta da poter quasi toccare il soffitto.
Chissà
quante bombole di lacca doveva
consumare al giorno per potersi conciare in quel modo. Piercing
ovunque, sul labbro, sul sopracciglio destro, dilatatori ad entrambi
i lobi delle orecchie e chissà che altre strane decorazioni
metalliche poteva contare sotto i vestiti. Continuava a creare
piccole palline di carta imbevute nella sua stessa saliva, da
appiccicare schifosamente sotto il banco.
Poco
più avanti di me, invece, vi era un ragazzo dall'aspetto
piuttosto
comune che sedeva con aria da strafottente. Gambe stese in avanti e
appoggiate sopra al banco, braccia incrociate al petto ed una
sigaretta spenta che ciondolava dalle sue labbra. Continuava a
guardare nervoso l'orologio, probabilmente nell'attesa di poter
finalmente scappare da quell'inferno per potersi prendere una boccata
di nicotina.
Ultima,
ma non meno importante, vi era una ragazza piuttosto alta e ben
piazzata. La riconobbi subito, faceva parte del team di wrestling
della scuola, ovviamente lei era l'unico membro femminile effettivo
di quella squadra. Girava voce che fosse una tipa piuttosto violenta,
la classica attaccabrighe della situazione. Perciò non mi
stupì
molto ritrovarla in aula con me.
Poi
mi venne istintivo guardarmi. Non avevo vizi all'epoca. Non bevevo,
non fumavo, non ero mai il primo ad alzare le mani seppur mi fosse
capitato in più occasioni di partecipare a qualche rissa.
Non avevo
strani tatuaggi sul corpo, piercing o simili.
Perciò
mi venne istintivo chiedermi “ma io qui dentro, che diavolo
ci
faccio?”
***
So
che può sembrare assurdo ed eccessivo, ma Yoshiko aveva
tirato fuori
il meglio di me e senza di lei, non restava altro che un Brent vuoto.
Mi
è capitato più volte di domandarmi come sarebbero
andate le cose se
lei fosse tornata o rimasta ad Exeter con me. Di una cosa, sono
sicuro: sarei andato ugualmente bene a scuola e, proprio per questo,
sarei stato comunque preso di mira dal solito gruppetto di teste
calde della scuola. Eppure, mi piace pensare che grazie a lei avrei
potuto superare quel periodo scolastico in maniera differente e
magari, avrei fatto penare meno anche mio padre.
Ancora
una volta mi ritrovo a pensare a lui, a quanto la sua educazione
abbia influenzato la mia intera vita. Nonostante io l'abbia fatto
impazzire e gli abbia creato dispiaceri e preoccupazioni, lui non mi
ha mai abbandonato, non ha mai smesso di credere in me. Le sue
punizioni spesso erano severe, ma oggi come oggi le reputo coerenti
con l'atteggiamento che avevo all'epoca.
***
Solita
cena, solita riunione padre e figlio, solito silenzio.
Come
ogni pomeriggio, ero rincasato tardi proprio perché ero
finito in
punizione ancora una volta.
Mio
padre ad un certo punto iniziò a tossire forte, quasi come
se si
stesse strozzando con la sua stessa saliva. Quando quel momento
passò, appoggiò rumorosamente la forchetta sul
piatto creando un
assordante tintinnio che mi esplose nelle orecchie.
-Brent...-
dichiarò ad un tratto fissandomi dritto negli occhi.
Il
suo sguardo, la voce ferma e tesa, mi fecero subito capire che quella
sera mi sarei beccato una gran bella lavata di testa. E così
fu, in
parte.
-Non
ho le forze per
litigare con te, non starò qui a sottolineare i tuoi errori
o le tue
mancanze. Non farò paragoni con il figlio dei vicini o con
tuo
cugino Simon- disse senza distogliere lo sguardo severo dal mio volto
-non è una decisione che prendo alla leggera, né
una cosa che
faccio con piacere, ma i miei impegni e il mio lavoro mi obbligano a
farlo. Perciò sappi che da domani inizierai a frequentare la
U.K.M
school-.
Lo
guardai sbigottito -aspetta, vuoi forse sbattermi in una scuola
preparatoria per fanatici della guerra, che per altro si trova a
Liverpool?-.
Mio
padre non cambiò espressione neanche per un istante -ho
già preso
contatti con il sergente Taylor ed è ben lieto di
accoglierti nel
loro programma nonostante sia già iniziato e siano a
metà
semestre-.
Mi
alzai frustrato da tavola sbattendo le mani sul ripiano in legno e
facendo cadere alle mie spalle la sedia -tu non puoi farmi questo!-
gli sbraitai -non sei poi così diverso da mamma alla fine.
Mi stai
abbandonando, proprio come ha fatto lei!-.
Fu
così che per quella sera mi rinchiusi in camera a fare le
valige.
***
Non
avrei mai voluto pronunciare quelle parole, lo giuro. Ma la rabbia
del momento mi annebbiò la testa e mi fece dire tante di
quelle
cattiverie che nel corso degli anni mi sono rimangiato.
Papà
appariva stanco e spossato in quel periodo, ma come potevo sapere che
dietro la sua aria afflitta e sconfortata, ci fosse dell'altro. Non
sapevo della sua malattia all'epoca, né lui aveva mai
accennato di
parlarmene.
Sono
stato un pessimo figlio, ne sono consapevole.
Durante
quel lungo periodo che seguì in quella scuola preparatoria,
non ebbi
mai modo di tornare a casa per rivedere mio padre. Ci sentivamo
frequentemente al telefono e nel weekend ci concedevamo il lusso di
fare una video-chiamata.
Sapete
quando si dice che la distanza avvicina le persone? Mai frase fu
più
veritiera di questa. In mio padre trovai tutto ciò di cui
avevo
bisogno in quel momento. L'amore che avevo scoperto prematuramente
grazie a Yoshiko, si era trasformato in un sentimento profondo ed
autentico per mio padre. Finalmente lo vedevo con occhi diversi, con
occhi maturi.
C'era
voluto un po' troppo tempo, ma per fortuna
iniziai ad amarlo esattamente come più meritava. Insomma,
meglio
tardi che mai.
Il
legame che ero riuscito ad instaurare con lui, andava ben oltre
ciò
che si potesse provare per una donna. L'amore era sì un
sentimento
intenso, ma non poteva competere con l'affetto che si provava nei
confronti del proprio padre.
Per
un lungo periodo, quindi, mio padre
era riuscito a colmare il baratro che si era formato nel mio cuore a
causa dell'allontanamento di Yoshiko.
Lui
era sempre stato la mia ancora,
la mia spinta a volermi migliorare, il faro che mi aveva guidato
durante il periodo buio che avevo attraversato. E lo so, forse sto
ingigantendo la cosa, forse sto esagerando a descrivere il mio
rapporto con lui, ma ho amato quell'uomo come nessun altro al mondo.
Peccato che me ne sia reso conto troppo tardi.
***
Era
estate inoltrata, un periodo dell'anno che ho sempre amato in cui
l'Inghilterra fiorisce e concede al resto del mondo di godere dei
suoi splendidi scenari.
Tutti
sono convinti che noi inglesi tendiamo ad andare all'estero in
vacanza solo perché le nostre spiagge non sono all'altezza
di molti
altri paesi che affacciano sul mediterraneo. Niente di più
falso.
L'istinto che ci guida all'estero è dettato solo ed
esclusivamente
da una vivace curiosità e da un senso di voler conoscere il
mondo e
di volerlo visitare in qualsiasi periodo dell'anno.
L'Inghilterra
propone moltissimi contesti stupendi da poter visitare in estate. Io,
per esempio, ho sempre trascorso le mie vacanze sulla spiaggia di
Exmouth, un piccolo borgo del Devon che dista solo dieci fermate di
treno da Exeter, meno di mezz'ora di viaggio.
Quell'anno,
contrariamente a quanto fatto nei precedenti, decisi di andare a
Shelly Beach con mio padre per trascorrere insieme l'ultima settimana
di Agosto prima del rientro a scuola e della ripresa delle lezioni.
Fu
una settimana degna di nota, in cui io e lui ci aprimmo e riuscimmo a
parlare tra di noi forse per la prima volta. E fu proprio per
l'attenzione che riuscì ad avere nei suoi confronti, che
finalmente
fui in grado di notare alcuni particolari di mio padre piuttosto
singolari.
-Certo
che ti sei un tantino spelacchiato in testa, eh?- domandai scherzoso
allungando il palmo della mano per accarezzare il suo capo ormai
calvo.
-Eh,
figliolo, gli anni scorrono anche per me, non sono certo immortale-
mi rispose facendomi sorridere.
-Dovresti
lavorare meno- gli dissi accennando alle sue occhiaie.
-Una
splendida eredità di famiglia- sospirò aumentando
il mio
divertimento -prima o poi compariranno anche sotto i tuoi occhi, e
allora smetterai di prendermi in giro-.
Quando
mio padre si mise in costume innanzi a me, non potei non notare il
pallore della sua pelle, il colore viola chiazzato presente qua e
là
su tutto il corpo, la vita stretta e asciutta e le gambe sottili e
aguzze. La maggior parte delle sue ossa sporgeva sotto il sottile
strato di pelle, il volto era scavato e smunto.
-Stai
mangiando?- gli domandai preoccupato.
-Fatico
a stare al passo con i turni- ammise lui indicando il suo addome -non
ho mai molto tempo per pranzare o cenare e quel poco che ingurgito
è
cibo da fast food, tutto fuorché salutare-.
-Sai
papà, potrà sembrarti assurdo, ma mi mancano le
nostre bizzarre
cene- ammisi distogliendo lo sguardo da lui per l'imbarazzo.
-Non
ci credo- disse lui con tono ironico -mio figlio Brent Smith che mi
fa una confidenza simile, è decisamente da annotare negli
annali
della storia inglese!-.
Risi
a crepapelle non badando al mio cambio repentino di argomento. Fu
quasi inconsapevole la cosa, eppure evitai di approfondire lo stato
di salute di mio padre, come se fossi conscio di ciò che lo
attendeva.
***
Se
solo potessi tornare indietro, in quel giorno. Gli avrei chiesto
perché aveva tutti quei lividi sul corpo, perché
il suo fiato si
accorciava ad ogni passo che faceva, perché la stanchezza lo
affliggeva così tanto, lui che un tempo era così
energico e attivo.
Come
ho fatto a non notare che un male invisibile lo stava divorando da
dentro? Come ho fatto a non riconoscere i chiari segni di una
leucemia in atto?
Se
solo potessi tornare indietro, lascerei tutto per tornare a stare con
lui, per poter trascorrere con lui il restante tempo che gli
rimaneva.
Eppure
quell'estate lui non mi disse una parola, rubandomi in parte la
libertà di scelta.
Non
ho potuto scegliere di stare al suo fianco; io
l'avrei fatto.
Non
ho potuto scegliere di abbandonare la scuola per potermi prendere
cura di lui; io
l'avrei fatto.
Non
ho potuto abbandonarmi al dolore e allo sconforto di ciò che
a breve
sarebbe successo; io
l'avrei fatto.
Non
ho avuto il tempo di piangerlo come sarebbe stato giusto fare; io
l'avrei fatto.
Se
avessi potuto barattare il mio corpo con quello di mio padre; io
l'avrei fatto.
Ma
ora non sarei qui, a raccontare la mia storia, la sua storia. Alla
fine il posticipare l'inevitabile è stata di nuovo un atto
di
altruismo. Una scelta che mio padre ha fatto nei miei confronti, per
evitare che io sprecassi altro tempo della mia vita senza trovare il
mio posto nel mondo.
Ve
l'ho detto io che quell'uomo è un qualcosa di speciale!
*Dick
Tips. Il nome Dick e il cognome Tips sono piuttosto diffusi in
America ed Inghilterra. La loro associazione, però, risulta
piuttosto singolare, in quanto la sua traduzione letterale sta per:
consigli del cazzo!
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
rosso per presenza di scene erotiche
Personaggi
capitolo:
Brent, sergente Gamble, Sam
Capitolo
4
La
U.K.M
school
è una scuola preparatoria per giovani uomini di successo. Il
solo
pensare al loro slogan, mi fa ancora raddrizzare i peli delle
braccia. Rispetto, confidenza, disciplina, lavoro di squadra e una
vita salutare: la scuola si basa su questi pilastri fondamentali.
Non
che li trovassi eccessivi; sono piuttosto convinto che
– effettivamente – ognuno di noi dovrebbe basare la
propria
esistenza
su
valori così importanti. Solo che, ad un primo impatto, ero
quasi
convinto di essere cascato nella classica scuola di fanatici
militari.
Vi
erano diversi corsi disponibili. Il primo era una sorta di campo
estivo per giovani marmotte:
un corso
della
durata di circa tre settimane, in cui potevano aderire bambini dai 5
ai 16 anni. All'apparenza poteva sembrare un piccolo mondo incantato,
si entrava bambini e se ne usciva adulti. Ma la realtà,
spesso, non
rispecchia ciò che la mente vuole far credere. Insomma, ho
visto
bambini scappare a gambe levate e genitori ritirare i propri figli
anche a distanza di poche ore dall'ingresso in sede.
Il
corso che frequentavo io, però, era ben diverso. Si trattava
di una
scuola a tutti gli effetti;
prevedeva,
perciò,
l'inizio delle lezioni i primi di Settembre, per poi terminare a
metà
Luglio con le famose “summer
brain drain”.
Le
vacanze estive venivano definite in questa maniera scherzosa dai
nostri professori, i quali erano convinti che il nostro cervello si
svuotasse di tutte le nozioni assimiliate durante l'intero anno
scolastico.
Nonostante
all'apparenza potesse sembrare la classica scuola ad impronta
militare stile film americano, fanatica e amante della madre patria,
in realtà non era così severa e idealizzata. I
corsi da frequentare
erano piuttosto flessibili e, devo ammetterlo, molto interessanti. Vi
erano tutte le materie base presenti nella mia vecchia scuola, in
più
vi erano sedute extra di allenamento fisico, meditazione, stretching
mattutino e sport vari. Avendo ormai compiuto i 16 anni, avevo
diritto ad entrare nell'Istruzione Terziaria, perciò potevo
attingere ad un programma scolastico di tipo programmato.
Seppure
in Inghilterra l'obbligo scolastico termini con il compiere dei 16
anni, una buona fetta di studenti non rinuncia al proprio diritto
allo studio, perciò prosegue l'educazione fino al
raggiungimento dei
18 anni, periodo in cui si aprono le porte per i corsi universitari.
Come
ogni scuola inglese che si rispetti, anche la U.K.M
school
prevedeva un piano di studio flessibile. Vi erano alcune materie
obbligatorie, come Inglese, Storia e Matematica, altre invece
facoltative. Io avevo optato per materie per lo più
scientifiche,
concentrandomi sulla Fisica, la Chimica e dei corsi più
pratici di
Elettronica e Meccanica. Il percorso a cui ero stato iscritto si
divideva in due parti. La prima parte prevedeva l'acquisizione di un
mini-diploma in servizi pubblici di terzo grado, suddiviso in due
anni scolastici. La seconda parte, al contrario, concedeva
l'opportunità di ampliare i propri orizzonti, approfondendo
le
proprie capacità e abilità in ambito militare,
così da introdurre
meglio gli studenti ad un'eventuale carriera in divisa.
Gli
orari scolastici erano meno serrati rispetto a molte scuole private,
le lezioni iniziavano alle 9, per poi interrompersi a mezzogiorno con
la pausa pranzo e riprendere per altre due ore il pomeriggio. Le
attività ludiche e sportive, invece, si tenevano sempre nel
tardo
pomeriggio per consentire a chiunque di staccare dalle lezioni e
dallo studio. Vista l'inclinazione militare a cui faceva appoggio la
scuola, la mimetica era d'obbligo. Ma lo dovevo
ammettere, ero un figurino con la divisa militare addosso e non
passavo certo inosservato.
Visti
i miei 16 anni suonati, oltre a scuola, studio e sport, per la testa
iniziavo ad avere anche certe fissazioni per il corpo femminile. La
maggior parte delle ragazze dell'accademia erano magre e slanciate,
un vero e proprio spettacolo da ammirare. Purtroppo però la
mia
mente guardava sempre al passato e, nonostante fosse già
trascorso
un anno dall'ultima volta che avevo sentito Yoshiko, il mio pensiero
tornava sempre a lei.
Scoprì
di essere più imbranato di quel che pensavo con le donne.
Avete
presente
quelle scene classiche, stile film giovanile, in cui il protagonista
si ritrovava a sbattere la faccia contro un palo per strada, solo
perché troppo intento a guardare una ragazza? Beh, a me
successe ben
tre volte.
Oppure
mi capitò anche di scivolare giù per l'intera
tromba delle scale,
proprio perché Samantha Elliots mi aveva sorriso.
Sam
era uno schianto di ragazza. La classica donna inglese dalla pallida
pelle, capelli setosi biondo cenere, occhi di ghiaccio e sedere ben
imbottito. Insomma, impossibile non notarla. In realtà non
aveva una
gran fama a scuola. In molti la prendeva in giro per la sua
mascolinità: le piaceva il calcio, frequentava spesso la
sala
giochi, correva con i go-kart e pretendeva di essere trattata come
tutti i ragazzi presenti in accademia. Un carattere sano, senza ombra
di tutto. Io la vedevo esattamente così, come una donna
forte, che
voleva farsi rispettare, azzerando la disparità sessuale che
spesso
vigeva nel mondo militare. Ed era proprio per questo suo modo di
agire controcorrente che iniziai ad invaghirmi di lei.
I
nostri dormitori erano suddivisi in alloggi che potevano ospitare
fino ad un massimo di quattro persone. Era come vivere in un piccolo
villaggio turistico, in cui ogni gruppetto di giovani aveva il suo
bungalow in cui stare. Nonostante lo stampo visibilmente maschilista,
le abitazioni erano state organizzate in maniera tale da ospitare una
coppia di ragazze ed una coppia di ragazzi. A detta dell'ufficiale in
carica, era un modo come un altro per abituare entrambi i sessi a
condividere luoghi pubblici e privati senza imbarazzo. Inutile dire
che il bagno era ovviamente in comune, così come lo era
l'unica
camera da letto data in dotazione. Una specie di loculo umidiccio in
cui vi era un unico comodino per quattro e due letti a castello in
ferro battuto. Gli alloggi lasciavano abbastanza a desiderare, ma
nell'insieme non era poi così male.
Indovinate
con chi avevo avuto il piacere di condividere quei pochi metri
quadri? Ovviamente con Sam. Insieme a noi vi era anche una ragazza
ormai quasi maggiorenne, una certa Ellis Greene, ed un ragazzotto
alle prime
armi piuttosto basso e tarchiato di nome Maurice Sanders. Sam non fu
mia coinquilina sin da subito. Inizialmente stava in un'altra
abitazione, solo
più tardi mi confessò di essere stata verbalmente
molestata da uno
dei suoi vecchi coinquilini. Fu per quel motivo che riuscì a
farsi
cambiare di camerata.
Purtroppo
vivere sotto lo stesso tetto non
mi fu di
grande
aiuto. Ogni qual volta cercavo di attirare la sua attenzione, mi
cacciavo immediatamente nei guai. Era più forte di me,
più cercavo
di apparire carismatico, più finivo per fare la figura del
fesso.
Una volta sono addirittura riuscito a pulirmi il sedere
con una foglia di ortica in mancanza di carta igienica. Inutile dire
che mi ero ritrovato a trascorrere mezza giornata nell'ambulatorio
dell'infermiere Karl a culo all'aria con chissà quale crema
spalmata
sopra. Oppure, in un'altra occasione, diedi fuoco
al patio esterno mentre tentavo di affinare le mie abilità
culinarie, nel vano tentativo di arrostire uno spiedino su un
barbecue improvvisato. Tutto questo perché avevo detto a Sam
di
saper cucinare. Che
idiota.
Insomma,
nonostante io cercassi come sempre di tenermi lontano dai guai,
pareva quasi che fossero i guai a prediligere la mia compagnia.
Sapevo di essere uno particolarmente attraente, ma non fino a
quel
punto.
I
primi mesi li trascorsi serenamente. L'anno precedente ero stato
costretto da mio padre a frequentare solamente gli ultimi tre mesi,
prima dell'interruzione delle vacanze estive. Inutile dire che non
ero riuscito a stringere amicizia con nessuno. Per di più mi
era
toccato sostenere il GCSE, ovvero il diploma di fine scuola
secondaria.
Dopo
aver trascorso l'estate al mare con mio padre, avevo capito che non
ero nelle condizioni di recargli altri dispiaceri e pensieri.
Perciò
avrei voluto rigare dritto e procedere a testa china, passando
inosservato.
Riuscì
persino a raggiungere le vacanze autunnali indenne – nove
giorni di
puro relax trascorso a casa in solitudine – in quanto mio
padre si
era ritrovato, come sempre, a gestire turni impossibili. A Novembre,
però, quando tornai a Liverpool, scoprì che Sam
si era trasferita
da noi ed i miei ormoni impazzirono, tanto da non concedermi
più un
attimo di tregua. Mi sentivo come un leone in gabbia, violato nella
propria libertà.
Da
allora fu tutto diverso e mi ritrovai a finire sempre più
spesso nei
guai.
-Signor
Smith, la sto forse annoiando con questa lezione?- mi
domandò il
professore, trovandomi per l'ennesima volta con lo sguardo perso
fuori dalla finestra.
-No-
risposi io imbarazzato.
-No,
cosa?- mi domandò piuttosto scocciato.
-No,
signore- aggiunsi.
-Molto
bene, ora sparisci e porta il tuo culo dal Sergente Gamble, non ho
tempo da perdere con te- rispose allungando un braccio ed incitandomi
ad uscire dall'aula.
Mi
alzai a fatica dal banco scontrandomi con lo sguardo divertito di
Sam, che dovette portarsi una mano al volto per soffocare le risate.
Quel
gesto così semplice, così femminile, mi
riportò alla mente
Yoshiko. Con un velo di tristezza raccolsi la giacca e mi allungai
verso il corridoio per poi ritrovarmi davanti alla porta del preside
di quel posto.
Bussai
energicamente ed entrai con scarso entusiasmo.
-Signor
Smith, che piacere. Iniziavo quasi a preoccuparmi, sono trascorse ben
72 ore dalla scorsa volta che ti ho visto- mi salutò il
sergente con
sarcasmo.
Mi
immolai davanti a lui, salutandolo come un buon soldatino e rimanendo
ben fermo in posa.
-Brent,
appoggia il culo sulla sedia ed ascoltami bene- mi disse mentre
cercava di accendersi una sigaretta.
Ridacchiai
divertito puntando lo sguardo sul cartello che vietava di fumare
presente alle sue spalle. Il sergente colse subito l'ironia del mio
sorriso e si voltò fino ad osservare lui stesso l'avviso. Si
girò
verso di me e mi mostrò un grosso sorriso sornione -il bello
di
essere il capo, sta proprio nel poter fare quel cazzo che mi pare-.
Alzai
un sopracciglio sorpreso dalle sue parole, ma d'altra parte aveva
ragione lui. Lui aveva sempre ragione.
-Ascolta
Brent, ormai mi fai visita un giorno sì e un giorno no,
perciò ho
deciso di sospendere tutte le tue attività per il prossimo
mese- mi
disse inebriandosi con l'odore di nicotina che fuoriusciva da bocca e
naso.
Io
spalancai gli occhi e mi agitai furioso -no, non posso essere
sospeso, mio padre ci rimarrebbe malissimo. La prego, mi dia un'altra
possibilità, giuro che non combinerò
più casini-.
Il
sergente ridacchiò di gusto alle mie parole.
Chissà quante volte
avrà sentito dire certe fesserie dai suoi studenti. Peccato
che io
ero più che serio.
-Vedi
Brent, il problema è proprio questo. Tu sei qui solo per tuo
padre e
non per te stesso- mi rispose scaricando il residuo della propria
sigaretta dentro il posa cenere -conosco i ragazzi come te, non
riuscirai mai a concludere nulla all'interno di questa scuola se non
ti imponi di volerlo fare per te stesso e non per gli altri-.
Io
lo guardai sbigottito senza riuscire a fiatare alcuna risposta. In
effetti era vero, io ero lì per mio padre, non certo per me.
-Ho
parlato con il Dottor Smith il weekend scorso- strabuzzai gli occhi
nuovamente non aspettandomi una confessione simile -e ho scoperto che
ti piacciono gli aerei, vero?-.
Il
mio sguardo si inebetì innanzi a quella domanda
-sì, è vero, ma
che cosa c'entra questo?-.
Il
sergente scoppiò in una grassa risata e si alzò
dalla cattedra per
poi avvicinarsi a me. Mi appoggiò una grande mano sulla
spalla e mi
invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio.
-Vorrei
mostrarti una cosa. Vieni- mi disse scortandomi in un'ala della
scuola che non avevo mai visitato.
Arrivammo
davanti agli alloggi privati dei professori. Sicuramente dovevo
apparire piuttosto smarrito e confuso, perché sul volto del
sergente
vi era un sorriso divertito.
-Prego,
accomodati- mi disse invitandomi ad entrare nella sua stanza privata.
Quando
varcai la porta, mi trovai in una stanza piuttosto cupa e
maleodorante. Vi erano ceneri di sigaretta sparse più o meno
ovunque, libri appoggiati alla bene meglio su un qualsiasi ripiano
pianeggiante, fotografie ammatassate sulla scrivania, tanto da
crearne una pila alta quasi un metro. Sorrisi all'idea di potermici
avvicinare solo per dargli una soffiata e far cadere tutto a terra.
“Infantile”,
pensai.
-Vedi,
Brent, tuo padre mi ha parlato moltissimo di te. Mi ha detto che hai
sempre sofferto per la mancanza di tua madre. E che nella tua
discrezione, non hai mai osato chiedere nulla sul suo conto- disse
catturando la mia attenzione -lui è convinto che questa tua
grande
dote di metterti nei casini, sia solo un inconscio modo di attirare
attenzioni che, al contrario, non hai mai ricevuto in infanzia-.
Se
c'era una cosa che detestavo, erano gli estranei che tentavano di
psicanalizzarmi. No, non ero un attaccabrighe, ero solo un ragazzo
abbonato alla sfortuna perenne, ma vaglielo a spiegare.
-Sergente,
non vorrei risultare inopportuno...- cercai di dire senza
però
alzare lo sguardo dal pavimento.
-No,
lasciami parlare, ti prego- mi interruppe lui -vedi Brent, ti ho
portato qui per un motivo preciso. Non ho deciso di sospendere le tue
attività curricolari solo per infliggerti una punizione. I
ragazzi
che vengono qui hanno per lo più trascorsi sereni, seppur
tutti
abbiano la concezione che questa scuola serva a mettere in riga
giovani scapestrati. Noi non obblighiamo nessuno a restare qui, le
nostre porte sono sempre aperte, sia in ingresso che in uscita-.
Finalmente
trovai il coraggio di alzare lo sguardo, incuriosito da ciò
che
stava dicendomi.
-Prima
di congedarmi dall'esercito e venire ad insegnare in questa scuola,
io ero un pilota di cacciabombardieri- mi confessò attirando
la mia
completa attenzione -posso dire di aver avuto un'esperienza veramente
eccellente in aviazione-.
Il
mio sguardo si illuminò e mi incantai ad ascoltare la storia
della
sua vita. Il sergente mi spiegò cosa lo aveva spinto a fare
il
militare e da dove nasceva la sua passione per quei maestosi velivoli
che trovavo raffigurati persino nei quadri appesi per tutta la sua
stanza.
-Vorrei
mostrarti una cosa, seguimi- e detto ciò mi
scortò fuori
dall'edificio,
per
poi
incamminarsi verso la boscaglia che precedeva la spiaggia. Camminammo
non più di 5 minuti fino a raggiungere un piazzale adibito
all'atterraggio di elicotteri di salvataggio e velivoli leggeri.
-Questo
è Piton, il mio biposto. L'ho comprato un anno dopo il
congedo con
onore. Non riuscivo a star lontano dal cielo. È come un
istinto
primordiale, sento la necessità di sorvolare l'oceano, le
vallate e
tutto ciò che mi circonda anche se non sono più
in servizio da anni
ormai. Volare mi fa sentire vivo qui- disse indicandosi il petto e
alludendo al proprio cuore.
In
quell'istante non riuscì a fiatare. Ero come incantato dal
suo
racconto e più ascoltavo le sue parole, più mi
trovavo d'accordo
con quanto diceva e lo sentivo molto vicino a me.
Mi
venne istintivo allungarmi verso il suo velivolo per poterlo ammirare
più da vicino. Prima di potergli toccare il muso, trattenni
il fiato
e, ad occhi chiusi, allungai un braccio fino ad appoggiare l'intero
palmo della mano sul suo metallo gelido. Assaporai il contatto che
ebbi con quel mostro volante e rimasi in silenzio ad assaporare quel
momento a me sacro. Ad un certo punto percepì un formicolio
sul
dorso della mano e, quando aprì gli occhi, mi ritrovai
dinnanzi allo
spettacolo della natura più bello di sempre:
a camminare leggiadra sopra la mia mano vi era una farfalla. Ma non
un lepidottero qualsiasi, bensì una maestosa monarca. Il mio
cuore
in quel momento schizzò a mille e rimasi agghiacciato ad
osservarla.
I ricordi si fecero prepotenti nella mia mente e la memoria mi
riportò al passato ancora una volta, a quel giorno in cui
tentai di
catturare quell'insetto tanto maestoso.
Quando
ritrassi la mano, mi aspettavo che la farfalla sarebbe volata via ed
invece, con mio grande stupore, rimase ben salda alla mia mano
sbattendo lievemente le ali. Fu allora che sorrisi al pensiero che
stesse tentando di cospargermi di polverina magica. Guardai la
farfalla e poi l'aereo che avevo davanti a me e poi di nuovo la
farfalla.
Che
fosse un segno del destino? O forse la vita si stava prendendo gioco
di me ancora una volta?
Il
mio perenne ottimismo mi fece propendere per la prima opzione.
Avvicinai il piccolo insetto alato al volto e gli sorrisi sussurrando
un -grazie-.
La
farfalla accolse i miei ringraziamenti e si alzò leggiadra
in volo
accennando un paio di giro intorno al mio volto, per poi allontanarsi
da me danzando e giocando con il vento.
-Sergente,
so perché mi ha portato qui- dissi voltandomi finalmente
verso
l'uomo che mi aveva fatto scoprire un mondo nuovo -ma non capisco
cosa l'ha spinta a fare tutto questo per me-.
-Io
ero esattamente come te, ragazzo mio- mi disse sorridendo e
avvicinandosi a me fino ad appoggiarmi una mano sulla spalla -ma ho
avuto una guida che ha sempre creduto in me e che mi ha indirizzato
fino a qui-.
Sorrisi
come se mi avessero appena rivelato il segreto della vita.
-Da
domani ti voglio concentrato e determinato, perché avrai il
piacere
di fare lezione direttamente con il sottoscritto- mi disse
indicandosi con entrambe le mani e ammiccando soddisfatto -e non
accetto un no come risposta!-.
Quel
giorno conobbi il mio mentore. A lui devo tutto ciò che sono
diventato. Lui mi ha dato una cosa che fino ad ora solo mio padre mi
aveva concesso: la fiducia.
Con
lo scorrere del tempo imparai moltissime cose sull'aviazione. Il
sergente Gamble mi fece comunque studiare tutte le materie base del
mio corso, ma si concentrò maggiormente sulle nozioni utili
per
entrare nell'aviazione militare.
La
RAF, Royal Air Force,
era l'aeronautica
militare del Regno Unito. Mi ero quasi convinto di volerne far parte.
Amavo volare, amavo i motori e tutti gli assetti militari e amavo
soprattutto l'idea di poter avere una mia indipendenza.
Avevo
passato al vaglio ogni possibile opzione. Avrei potuto fare il pilota
di
aerei da trasporto passeggeri, di soccorso o di rifornimento. Ma la
verità era che nulla poteva competere contro il sogno della
mia
vita, ovvero il poter pilotare un Eurofighter Typhoon, uno splendido
esemplare di bimotore di quarta generazione. Al contrario del
cacciabombardiere classico, non aveva un
impiego strettamente militare. Si tratta di un velivolo multiruolo in
grado di sfrecciare oltre
il cielo con due procedure differenti. In modalità di
attacco,
questo velivolo era in grado di impedire ai bombardieri nemici di
raggiungere il suolo inglese, spesso distruggendo gli aerei nemici
prima ancora che raggiungessero il loro obiettivo. In
modalità
difensiva, al contrario, creava una sorta di barriera in volo che
concedeva la supremazia aerea della propria nazione.
Ero
consapevole che mi sarebbe stato impossibile pilotare proprio
quell'esemplare che tanto amavo.
In effetti erano stati messi a disposizione solamente 160 modelli
negli ultimi sedici anni; ma ero fiducioso e sapevo che prima o poi,
scalando quell'invalicabile gerarchia militare che vi era dietro,
avrei raggiunto la vetta e, di conseguenza, mi sarei accaparrato la
possibilità di pilotarne uno.
Il
sergente Gamble mi spiegò che le forze aeree erano suddivise
in più
gruppi. Vi era un primo gruppo caratterizzato da tutte le forze aeree
d'attacco; un secondo di difesa; un terzo si occupava della
coordinazione degli attacchi; un quarto era deputato
all'addestramento delle nuove reclute; un quinto al supporto aereo;
infine
il sesto
organizzava le spedizioni di esplorazione. Il sergente aveva iniziato
la gavetta all'interno del sesto gruppo, per poi far carriera fino a
poter scegliere di stanziarsi nel terzo gruppo. Mi raccontò
di
essere nato per dare ordini, perciò trovava perfetto il
poter
coordinare le operazioni di attacco.
-Tu
a quale gruppo vorresti appartenere, invece?- mi domandò
curioso
quel giorno.
-Non
saprei- risposi ancora confuso mentre fissavo il quaderno con gli
appunti.
Tutti
i gruppi contavano allo stesso modo, non vi era un ordine di
importanza.
-Mi
piacerebbe molto appartenere al sesto- dissi infine.
-Un
esploratore, quindi- affermò il mio mentore portandosi una
mano
sotto il viso e sfregandola per bene contro il mento -capisco-.
Lo
guardai incuriosito, domandandomi se ci fosse nulla di male nella mia
scelta.
-In
effetti, ti ci vedo bene- aggiunse infine -sei un ragazzo molto
impulsivo e sfrontato, non hai paura del pericolo e ti piace
abbracciare nuove avventure con coraggio-.
Sorrisi
divertito, in poche parole era riuscito ad inquadrarmi perfettamente.
Mi guardai le mani come se per un istante percepissi una certa forza
in esse -è come se il pericolo mi facesse sentire vivo,
l'adrenalina
viene pompata nelle mie vene ed io mi sento imbattibile-.
-Torna
coi piedi per terra, Brent. Ti ricordo che fare l'esploratore non
significa gironzolare per i cieli come fossi in vacanza. Nelle
missioni si muore. Nessuno ne è esente- mi disse tarpando il
mio
entusiasmo.
-In
ogni caso- aggiunse cambiando argomento -dobbiamo essere preparati.
Ti voglio concentrato e determinato, perché si tratta di un
percorso
che solo pochi eletti si possono permettere. Non basta avere il
fisicaccio per entrare a fare il militare. Ci vuole testa, passione e
cuore-.
-La
nostra prima tappa è qui- disse puntando il dito su una
cartina
posta alle sue spalle -la scuola di Shawbury. Penso una delle
migliori scuole di aviazione del paese-.
-Immagino
già che ci sarà da sudare per entrare- commentai
sconsolato e
alzando gli occhi al cielo.
-Fossi
in te non mi preoccuperei- disse il sergente
piazzandosi innanzi
a me -con un mentore come me, non puoi assolutamente fallire-.
L'idea
di andare a vivere in un paesino dimenticato dal mondo non mi
allettava moltissimo, ma era anche vero che avrei ridotto le distanze
con mio padre.
-Sai,
ragazzo mio, mi disse il sergente ammiccando -ti farò
sputare sangue
pur di entrare in quella scuola. Perciò, se vuoi un
consiglio da
uomo a uomo, fossi in te mi troverei un bel diversivo in questo
periodo, sai, giusto per allentare la pressione-.
Non
colsi subito il senso di quella frase, ma quando quel giorno
incontrai Sam a casa, tutto fu più chiaro.
Samantha
Elliots era la ragazza più strana che io
avessi mai conosciuto. Era bella, veramente bella, una di quelle
bellezze naturali che tutti si giravano a guardare. Allo stesso tempo
sembrava appartenere
ad un altro mondo. A lei non importavano i trucchi o i vestiti, non
che fosse di rilievo la cosa, alla fine in quella scuola vi era
l'obbligo della mimetica. Eppure, nonostante il candore della sua
pelle, gli occhi da cerbiatta profondi come pozze blu, aveva sempre
quel modo di fare mascolino. Era rissosa, mamma mia se era rissosa.
Una
volta a scuola dovetti persino salvarla da un paio di ragazze che le
murarono la via per il bagno. La accompagnai in quello dei maschi
facendole da guardia del corpo per evitare che nessuno potesse
entrare mentre lei utilizzava i servizi. Per fortuna non vi era
questo problema in casa, il bagno era condiviso. Non disse una parola
per tutto il giorno, né mi ringraziò mai per il
gesto.
La
stessa sera, però, si avvicinò a me con fare
furtivo. I nostri due
compagni di bungalow stavano già dormendo. Io non riuscivo a
prendere sonno, ero troppo assorto nei miei pensieri. Ero adagiato
sul patio esterno con lo sguardo puntato al cielo,
sognando
di poter
fluttuare leggiadro in aria. Quando lei si avvicinò a me,
ero
talmente assorto nei miei pensieri, da non accorgermi della sua
presenza. Ed ecco che feci l'ennesima figuraccia cadendo
rovinosamente dal patio sul prato umido, bagnandomi per altro i
pantaloni.
Sam
sorrise quella volta. Era la prima volta che potevo ammirare la sua
dentatura perfetta, non più nascosta dalla mano. Quel suo
gesto
innaturale e fastidioso di coprirsi la bocca quando rideva, mi
portava regolarmente alla mente Yoshiko.
Mi
alzai dal prato e sorrisi imbarazzato, portandomi una mano dietro la
nuca e grattandola maldestramente.
-Non
ti avevo notata- le dissi.
-Già,
ho visto- mi rispose lei avvicinandosi a me e porgendomi una mano
-fai due passi?-.
Rimasi
piuttosto sorpreso da quella richiesta, ma accettai senza indugio.
Ero
impacciato e molto nervoso
all'idea di trovarmi da solo con lei. Camminammo per una buona decina
di minuti fino a raggiungere la spiaggia più vicina alla
scuola.
Sam
si avvicinò alla riva raccogliendo un sasso da terra per poi
lanciarlo energicamente verso il mare. Lo guardammo colare a picco,
dopo aver prima effettuato un paio di rintocchi sulla sua superficie.
-Io
sono strana secondo te?- mi domandò all'improvviso.
-Tu,
cosa?- chiesi preso contropiede.
-Ti
sembro una strana?- chiese nuovamente alzando il tono di voce.
-Io,
ecco...- dissi balbettando.
Samantha
era l'opposto di Yoshiko. Lei era bionda con occhi azzurri ghiaccio,
era impavida e sfacciata, non aveva alcun timore di esternare le
proprie emozioni o i propri pensieri. Non conosceva il pericolo e,
anzi, spesso ci si buttava contro come se non temesse alcuna
ripercussione. Lei era tosta, forte ed estremamente indipendente. Yo
era scura di capelli e con gli occhi profondi ed espressivi, era
timida e molto introversa, spesso tremava come una foglia innanzi a
tutto ciò che era fuori dall'ordinario e apriva bocca solo
se sicura
di poterlo fare. Era molto cauta e studiava attentamente la
situazione prima di poter muovere i primi passi verso qualcosa di
sconosciuto. Insomma, completamente diverse tra loro.
-Tu
sei diverso dagli altri- disse poi lei tornando a guardare il mare.
-Cosa
te lo fa pensare?- le domandai trovando finalmente il coraggio di
rivolgerle la parola.
-Sei
l'unico che non ha mai tentato di infilarsi nelle mie mutande-
rispose con sguardo fisso in avanti.
Il
suo volto pareva inespressivo e più la guardavo, meno
riuscivo a
leggere la sua espressione.
-È
un modo carino per chiedermi se sono gay?- domandai confuso
aggrottando la fronte.
-È
un modo carino per chiederti perché ancora non ti sei fatto
avanti-
rispose lei fronteggiandomi.
-Ho
un'altra per la testa- mi venne subito da rispondere.
Mi
diedi dello stupido e cercai di scacciare via Yoshiko dai miei
pensieri.
-Sei
sempre così, tu?- domandò Sam avvicinandosi
maledettamente a me.
-Così
come?- le chiesi piuttosto impacciato.
-Non
so- rispose lei chiudendo a fessura gli occhi per osservarmi meglio
-sembri sempre assorto nei tuoi pensieri-.
Samantha
mi fronteggiò con grinta e poggiò il palmo della
sua mano sulla mia
fronte -chissà cosa c'è qui dentro-.
-Vorrei
saperlo anche io- risposi quasi sussurrando. Chiusi poi gli occhi e
mi maledì per la seconda volta quella sera.
-In
ogni caso, per quel che vale, ti trovo interessante- mi rispose
dandomi le spalle e iniziandosi a spogliare.
-Che
fai?- le domandai nel panico più totale, notando che non si
era
fermata all'intimo.
La
bionda sfilò tutti gli indumenti per poi gettarli malamente
sulla
spiaggia e voltarsi ammiccando -seguimi-.
Si
gettò in acqua senza alcun pudore, non preoccupandosi
minimamente di
essere vista da qualcun altro sulla spiaggia.
Cosa
le faceva pensare che l'avrei rincorsa nelle acque gelide del Mar
d'Irlanda nel bel mezzo della notte, per altro completamente nudo e
senza freni inibitori? Ma nel momento in cui la mia mente
finì di
riflettere su ciò, il mio corpo si era già
svestito di ogni abito.
Mi ritrovavo così ad osservarla nuotare nuda sotto il cielo
stellato
ed una luna particolarmente tonda e grande. Come un ebete, rimasi
impalato sulla spiaggia completamente disarmato e con le mani che
reggevano quel poco di mascolinità che era rimasta intatta
in quel
momento.
-Forza,
che aspetti!- mi incitò Sam mentre sguazzava gioiosamente in
acqua.
Imprecai
fino a mordermi la lingua, per poi muovere i miei primi passi verso
le gelide acque nordiche. Immersi il piede destro per poi venir colto
da una ventata di aria glaciale. Guardai ancora una volta Sam. In
quel momento mi tornarono alla mente le parole del mio mentore circa
l'allentare la tensione e trovare un “diversivo”.
Raccolta
finalmente una manciata di coraggio, mi buttai a capofitto nel mare,
schizzando ovunque e bagnandole i capelli.
-Finalmente,
ce n’è voluto di tempo per convincerti-
asserì Sam divertita.
-Allora-
disse avvicinandosi a me con sguardo malizioso -cosa abbiamo qui?-
domandò portando sott'acqua le mani.
Sussultai
al suo tocco e subito mi ridestai. Chiusi gli occhi e il volto
famigliare di Yoshiko si fece strada tra i miei ricordi.
“Maledizione”.
Dopo
Yo, avevo sì avuto qualche relazione occasionale, scambi di
baci,
qualche effusione più intima, ma
nulla di più. Samantha era diversa da tutte le altre ragazze
con cui
ero stato finora. Lei era di una sfrontatezza inaudita. Quasi mi
sentivo a disagio in sua presenza.
Avevo
solo 16 anni compiuti all'epoca, ma mai fino ad allora avrei pensato
di poter perdere la verginità in quel modo.
Lo
so, sono un uomo di altri tempi, me lo dicono tutti. Rimango tutt'ora
dell'idea che l'amore si possa trovare in una persona sola in tutta
la vita. In effetti per Sam non era amore, ma solo attrazione.
Era
ormai mezzanotte. Lei era completamente disinibita davanti a me. Le
onde del mare cullavano la nostra armonia e ci trascinavano sempre
più vicini, fino a quando i nostri corpi nudi cozzarono tra
di loro.
Sentì un fremito ripercorrere la mia schiena, giù
fino alla mia
zona più calda.
-Non
ho mai fatto sesso con nessuno- mi confidò lei guardandomi
negli
occhi.
Non
sapevo cosa risponderle. In realtà non ero neanche sicuro di
voler
essere lì in quel momento. Ma il mio corpo tradiva la mia
mente e
una lotta interiore scoppiò violenta in me. La testa mi
urlava di
scappare finché ero in tempo, ma la mia erezione era
già dritta
sull'attenti pronta a sprofondare in lei.
-Neanche
io- le risposi iniziandola a baciare.
Lei
non si ritrasse, anzi, iniziò ad esplorare la mia bocca con
una
voracità assurda. Mi prese il volto tra le mani, strofinando
i
polpastrelli sui miei capelli ormai zuppi. La sentì ansimare
e
respirare a fatica. Poi, ad un tratto, sentì un'ondata di
caldo
pervadermi in basso, ma quando guardai giù, notai solo le
sue cosce
avvinghiate al mio bacino. Era senza pudore, sfrontata e
accattivante. E tutto ciò mi eccitava maledettamente
In
quel momento la mia testa si divise dal mio corpo, non letteralmente
parlando. Ma è come se i miei pensieri fluttuassero a
Yoshiko,
mentre pian piano iniziavo ad esplorare il corpo di un'altra donna.
Mi diedi dello stronzo, lo ricordo bene.
Quando
tornai in me, ancora non avevo oltrepassato il confine della sua
verginità, perciò mi bloccai di istinto
guardandola negli occhi e
domandandomi cosa diavolo stessi facendo. Ma lei si strinse forte
alle mie spalle e mi supplicò di farlo.
-Ne
ho davvero bisogno- mi disse quasi piangendo.
Non
sapevo che fare, non sapevo come muovermi, non mi ero mai trovato in
una situazione simile.
Chiusi
gli occhi per poi riaprirli pochi secondi dopo. Sul suo volto
immaginai dipinto quello di Yoshiko e con una spinta unica entrai in
lei senza trattenermi più.
Lei
imprecò, si dimenò sotto il mio tocco, per poi
conficcare le dita
nella mia carne.
-Non
smettere- mi disse con voce dolorante.
E
più la mia mente si sforzava di mantenere il controllo e di
badare
la mia forza, più il mio corpo sbatteva contro il suo con
fin troppo
vigore.
Era
forse questo fare l'amore? Lo sapevo io e lo sapeva anche Sam che
questo era sbagliato. Era sesso e niente di più.
Fu
così che persi la mia verginità, nel modo
più meccanico possibile,
seguito ed inseguendo istinti quasi primordiali. Non ci scambiammo
uno sguardo, né una parola di conforto. Lasciammo che i
nostri corpi
godessero l'uno dell'altro senza vincoli sentimentali.
Quando
raggiungemmo la spiaggia Sam non staccò gli occhi da me
neanche per
un istante.
-Ti
ha fatto così schifo?- mi domandò rimettendosi la
maglietta.
La
guardai confuso, domandandomi perché avesse quel dubbio.
-No,
io...- dissi ancora in preda a mille emozioni.
-Stavi
pensando ad un'altra, dico bene?- mi domandò ridacchiando.
-No!-
mentì.
-Sì-
ribatté lei.
Mi
morsi il labbro inferiore.
-Tranquillo,
anche io stavo pensando ad un'altra- mi disse dandomi le spalle e
facendomi cenno di rientrare a casa -ma lei non può darmi
quello che
puoi darmi invece tu-.
Rimasi
imbambolato sulla spiaggia, ancora mezzo nudo, a fissare la sua
figura che si allontanava nell'ombra della notte.
Mi
guardai intorno sconcertato, insicuro di non aver ben capito le sue
parole.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
giallo per presenza di tematiche delicate
Personaggi
capitolo:
Brent, Isaac, sergente Gamble, Sam
Capitolo
5
Nonostante
la confessione implicita
che Sam mi aveva fatto, tra di noi non era cambiato nulla.
Continuavamo ad ignorarci in pubblico, per poi finire ad esplorare la
nostra sessualità in completo silenzio e lontano da occhi
indiscreti. Sapevo che tutto questo era sbagliato. Era sbagliato che
lei non volesse fare coming
out
dichiarando il proprio orientamento sessuale; era sbagliato che io me
ne stessi zitto in silenzio, lasciandola fare e quasi approfittando
della situazione; era sbagliato che la nostra fosse solo una messa in
scena, una finta relazione segreta; era sbagliato che nessuno dei due
volesse parlarne con l'altro; ed era soprattutto sbagliato il
pensiero secondo cui, oggigiorno, una giovane ragazza non potesse
esprimere la propria sessualità senza il timore di venire
additata
dalla gente come un'eretica.
Era
nato tutto come un gioco, per me lei era un diversivo allo studio,
mentre io per lei non ero nient'altro che un escamotage per fingersi
etero, quando in realtà non lo era. Perché,
nonostante noi
cercassimo di staccarci dal gruppo la sera e di nascondere la nostra
tresca, le voci giravano veloci a scuola e tutti già
sapevano che
tra di noi vi era un rapporto piuttosto carnale.
Una
sera, però, esplosi e decisi di parlarne faccia a faccia con
lei.
-Sam,
forza, seguimi- dissi afferrandola per il braccio e trascinandola sul
retro del bungalow.
-Quanta
fretta che hai, Brent- mi disse masticando rumorosamente la gomma che
aveva in bocca -hai tutta questa voglia stasera?-.
Le
lanciai uno sguardo piuttosto truce, tanto da riuscire a zittirla in
un istante.
-Non
ce la faccio più ad andare avanti così- le dissi
facendola finire
spalle al muro e parandomi davanti a lei con le braccia conserte
-cosa sono esattamente per te?-.
Sam
dapprima spalancò gli occhi - sicuramente presa contropiede
- per
poi trattenere una risata alquanto divertita.
-Cielo,
Brent! Non ti facevo così sentimentale- disse sghignazzando
-non so
quale sia stato il tuo trauma infantile, ma, cavolo, se ti ha segnato
la cosa-.
Feci
per ribattere sciogliendo le braccia e aprendo la bocca, quando lei
si scaraventò sulle mie labbra iniziando a divorarle. La
allontanai
da me quasi con disprezzo, confuso dalla sua risposta -Sam,
è
proprio questo che non va-.
Questa
volta fu lei a tentennare nell'udire le mie parole.
-Perché
fai così? Perché tenti sempre di... eccitarmi,
quando sappiamo
benissimo che non è me che vuoi!- avevo finalmente trovato
il
coraggio di ribellarmi a quella malsana relazione -non sono scemo,
cosa credi. Ho visto benissimo come guardi Cassandra Blake-.
A
quel nome, Sam si inalberò e si fiondò su di me
coprendomi la bocca
e azzittendomi -ti prego, non così ad alta voce-.
Distolsi
la mano di Sam dalla mia bocca, fino ad osservarla e capire che avevo
perfettamente centrato il punto.
-Se
qualcuno dovesse scoprirlo...- i suoi occhi si annebbiarono e per un
istante non la riconobbi.
Sam
era sfrontata, disinvolta e disinibita. Il suo carattere forte non si
piegava neanche sotto lo sguardo più severo e non si faceva
mai
mettere i piedi in testa da nessuno. Ma era evidente che quel
discorso l'aveva scossa nel più profondo. La sua voce
tremava e con
essa anche le sue braccia.
Mi
avvicinai meglio a lei fino a racchiudere le sue piccole mani nelle
mie -ti hanno fatto del male?-.
Lei
mi guardò con i suoi occhi profondi -chi?-.
Alzai
le spalle -non lo so, qualcuno, magari!-.
-No,
non ha niente a che fare con questa scuola, non così
direttamente
per lo meno- mi disse scostando lo sguardo e riprendendo fiato -mio
padre è un predicatore di Dio. Credo di non dover aggiungere
altro-.
Alzò
gli occhi al cielo, facendoli roteare in maniera piuttosto scocciata.
In
quel momento mi sentì uno stronzo, ma non riuscì
a trattenere una
risata malvagia -lesbica figlia di un reverendo?-.
Lei
mi tirò un pugno piuttosto potente al petto, facendomi per
un
istante mancare il fiato. Mi piegai in due per il dolore. Con la coda
dell'occhio notai che Sam stava cercando di divincolarsi dalla mia
presa, perciò l'allentai senza però concederle la
libertà.
-Frena,
frena- dissi riprendendo il controllo del mio corpo, per poi
fronteggiarla ancora una volta -mi dispiace, non era mia intenzione
essere così stronzo-.
Lei
scostò il capo di lato e cercò di nascondere una
piccola lacrima
che, gelida e solitaria, cercava di scendere sul suo volto. Fu allora
che mi sentì scosso nell'anima e capì che lei non
era fatta di
ferro, non era immune alle mie parole. Avevo trovato il suo punto
debole e non era certo da me approfittarne in quel modo.
-Sam-
sussurrai cercando di attirare la sua attenzione -ti prego,
guardami-.
Le
poggiai una mano sotto il mento, costringendola a voltarsi verso di
me e guardarmi dritto negli occhi.
-Il
tuo segreto è al sicuro con me- le dissi facendomi una croce
sul
cuore -ti prometto che non dirò nulla a nessuno-.
Lei
rimase per un attimo a fissarmi. Il suo sguardo magnetico
trapassò
le mie pupille, come a volere entrare dentro di me fino a leggermi
nell'anima. Trattenni il fiato, come se stessi attendendo la mia ora.
Lei
aprì la bocca e finalmente mi confidò tutto -a me
piacciono le
ragazze e non i ragazzi. Ma mio padre è un uomo di fede e di
vecchia
veduta, non accetterebbe mai una figlia lesbica in casa. Sarebbe come
tradire la sua fiducia-.
-Così,
però, tradisci te stessa ed i tuoi sentimenti- dissi di
getto.
-Come
se già non lo sapessi- sbuffò divertita -non
dovrei mentire al mio
cuore e dovrei essere più sincera con i miei genitori,
meglio?-.
Scoppiai
a ridere e feci spallucce -non lo so, meglio?-.
Lei
si unì alle mie risate ritrovando il buonumore -ecco,
è proprio per
questo che ho scelto te, Brent. Sei l'unico ragazzo della scuola che
non mi ha mai trattata diversamente dalle altre. Non sei uno sporco
maschilista e, se non fosse stato per me, non ti saresti mai infilato
sotto i miei vestiti-.
-E'
un onore essere scelto da una lesbica per assecondare i suoi istinti
sessuali, mentre, scopandomi, pensa ad un'altra donna. Questo
è
esattamente ciò a cui ho sempre aspirato!- non era da me
uscirmene
con frasi tanto sarcastiche, ma non riuscì a trattenermi e,
per una
volta dopo tanto tempo, mi sentì finalmente me stesso.
Lei
mi diede una spallata amichevole e disse -che sfortuna venir sbattuto
da una delle ragazze più sexy dell'accademia, eh?-.
Istigatrice,
fu tutto ciò che mi venne in mente in quel momento.
Però non aveva
certo tutti i torti, il sesso con lei era perfetto e non potevo certo
lamentarmene.
Non
potevo non notare, però, che ogni volta che lo facevamo, lei
teneva
regolarmente lo sguardo fisso al soffitto.
D'altra
parte era solo sesso. Lo sapevo io e lo sapeva benissimo anche lei.
I
mesi a seguire furono tra i migliori della mia vita.
Io
e Sam avevamo instaurato una relazione veramente unica. Certo, era
tutto basato su una menzogna e ne ero consapevole però, in
un certo
senso, vi era un legame vero e proprio che ci univa. Io ero diventato
il suo confidente e cavaliere dall'armatura scintillante, e lei era
il famoso diversivo di cui avevo tanto bisogno.
Le
lezioni private con il sergente Gamble stavano portando i loro frutti
e, per la prima volta da quando avevo abbracciato l'adolescenza,
stavo rigando dritto. Insomma, avevo una finta fidanzata etero, che
in realtà era lesbica, che mi regalava indimenticabili
nottate di
fuoco, un professore che buttava anima e corpo sul mio apprendimento
ed un padre amorevole su cui contare, che si faceva sentire con una
certa costanza.
Eppure,
sentivo che mi mancava ancora qualcosa. Per quanto Sam si fosse
rivelata fantastica con me, per me non era abbastanza. Mi mancava
l'amore e, perché no, mi mancava il romanticismo.
Sono
un uomo, non dovrei dedicarmi a tutte queste smancerie - Sam mi aveva
rimproverato già abbastanza su questo - ma fa parte del mio
essere e
non riesco a farne a meno.
Lo
stare insieme a Sam aveva portato i suoi frutti. Prima di tutto, gli
altri ragazzi della scuola avevano smesso di additarmi come uno
sfigato. Perché, siamo sinceri, a scuola non ero certo il
più
popolare. Mi avevano allontano dai corsi, venivo seguito privatamente
dal sergente in persona, neanche fossi figlio suo, e, fino ad allora,
nessuno mi aveva mai visto in gentil compagnia. Almeno
finché non
era comparsa Sam nella mia vita.
Consapevole
che la mia fama era solo l'ombra di ciò che in
realtà ero,
trascorsi gli ultimi mesi nella popolarità. Finalmente tutti
mi
salutavano per i corridoi. Molti ragazzi mi davano il cinque anche
senza conoscermi. Più tardi scoprì che Sam aveva
alimentato la mia
fama, facendo circolare certe voci piccanti sul mio conto, su quanto
fossi ben messo e sulle mie capacità sotto le lenzuola. In
quel
momento, tutto di me urlava sesso. La mia nuova pettinatura, tipica
alla militare, rasata ai lati con una bella cresta di pochi
centimetri che si reggeva fiera sul mio capo; il mio nuovo fisico,
scolpito dai duri allenamenti programmati con il sergente; la mia
pelle, finalmente non più color latte, ma fortemente
abbronzata; la
mia altezza, che nell'arco di un anno aveva raggiunto il metro e
novanta. Insomma, mesi intensi dedicati al mio corpo, alla mia mente
e alla mia carriera.
Conclusi
l'ultimo semestre ottenendo i punteggi più alti del mio
corso.
Gamble era molto orgoglioso di me. Un anno ancora e sarei potuto
entrare nell'esercito. E lui non era il solo. Mio padre non aveva
potuto assistere alla consegna dei diplomi, ma mi aveva chiamato la
sera stessa piangendo al telefono dalla gioia. Un atteggiamento che
mi aveva colpito parecchio, poiché non tipico di lui.
E
con il concludersi dell'anno accademico, finalmente si aprì
l'estate
e la possibilità di tornare a casa per ben due mesi e mezzo.
Avrei
potuto rivedere mio padre, svagarmi un po', andare al mare e magari
mangiare un po' di quel fish
and chips
cucinato dalla bancarella ambulante presente in fondo alla nostra
strada, che tanto mi piaceva.
Feci
i bagagli, salutai Sam in maniera plateale con tanto di bacio davanti
a tutti, genitori compresi, e presi il primo treno per tornare a
casa.
Ci
vollero circa cinque ore di viaggio ed uno scalo a Birmingham, prima
di poter rincasare. Alla stazione non venne a prendermi nessuno, ma
già ne ero al corrente. Perciò, raccolsi il mio
borsone, me lo
caricai in spalla e mi incamminai verso casa. Per fortuna dovetti
camminare solo per una quindicina di minuti e, visto le ore trascorse
seduto in treno, non mi diede poi così noia potermi
sgranchire le
gambe.
Avevo
già in mente il programma della serata: cena con mio padre,
probabilmente meno imbarazzante del solito, visione di un bel film
d'azione, trasmesso rigorosamente in seconda serata, ed una bella
dormita nel mio letto, il tutto non prima delle due di notte.
Nel
passeggiare verso casa, dopo aver attraversato tutta Western Way,
presi un paio di svincoli fino a raggiungere il Quay. Le mie gambe si
fecero d'un tratto molli e con la mente iniziai a divagare nei
lontani ricordi che avevo di quel posto. Ed ecco che, come per magia,
mi si parò davanti una figura alta e snella, dai lunghi
capelli neri
e lisci. La guardai meglio, mi dava le spalle. I miei occhi si
riempirono di speranza e le mie gambe iniziarono a camminare da sole.
Quando mi avvicinai a lei, misi una mano sulla sua spalla,
costringendola a voltarsi verso di me. Seguì la delusione di
aver
solo incontrato una ragazza che le assomigliava tanto, ma che,
purtroppo, non era Yoshiko. Lei mi guardò stranita, mi
scusai e
tirai dritto imbarazzato come non mai.
Mi
diedi un colpetto alla tempia e feci retromarcia verso casa
maledicendomi.
Com'era
possibile che, a distanza di tutti quegli anni, la mia mente ancora
mi giocasse quegli scherzi? Mi venne istintivo specchiarmi nella
vetrina di un negozio a lato della strada, per domandarmi cosa
avrebbe pensato lei di me. Poi scossi il capo e procedetti dritto
lungo la via. Stavo con Sam, o almeno così facevamo credere.
Ero un
ragazzo diverso rispetto a quello di pochi anni prima. Non ero sicuro
che sarei ugualmente piaciuto a Yoshiko in queste vesti.
Mi
diedi del patetico, perché, per quanto mi sforzassi di
apparire
risoluto e forte, in realtà ero solo un debole ancorato ad
un
vecchio ricordo amoroso. Anzi, con il tempo mi accorsi che stavo
idealizzando la figura di Yoshiko più del previsto. Non
l'amavo
veramente, ma amavo l'idea che mi ero fatto di lei. Ed era
impossibile non pensare a lei come un metro di paragone.
Sarà stato
per quel motivo che mi ritrovavo ad avere una finta relazione con una
ragazza omosessuale.
Mentre
il flusso dei miei pensieri non mi dava tregua, tanto da provocarmi
un simpatico mal di testa, raggiunsi casa. Non ebbi neanche modo di
cercare le chiavi, perché, stranamente, la porta d'ingresso
era già
aperta.
Entrai
guardando subito l'orologio: erano solo le due del pomeriggio. Eppure
mio padre sarebbe dovuto essere a lavoro.
Un
signore dalla salute cagionevole si avvicinò all'ingresso,
pregandomi di chiudere subito la porta per evitare correnti d'aria.
Il
mio sguardo rimase fisso su quella figura che mi si parava davanti.
Non avevo mai visto mio padre così stanco, così
spossato e
insofferente. Non è mai stato un uomo dalla folta chioma, ma
la sua
testa ora era coperta solamente da una fine peluria ramata. Gli
occhiali mascheravano il suo sguardo affaticato, ma lasciavano
ugualmente intravedere due occhiaie marcate che gli contrassegnavano
il volto. Alto, giusto qualche centimetro in meno a me, ma smunto e
sciupato nell'aspetto, avvolto in un pigiama di almeno due taglie
più
grandi. A completare il suo aspetto vi era il colore della sua pelle,
bianco, pallido e a tratti violaceo. Sembrava un fantasma.
Avevo
già avuto qualche sospetto l'anno prima, durante l'estate
trascorsa
insieme al mare, ma non avevo mai avuto il coraggio di approfondire
l'argomento con lui. Tutto andava per il meglio finalmente,
perciò
la mia mente in quell'anno scolastico si era rifiutata di voler
pensare al peggio. Purtroppo però, la tua situazione era
più
critica del previsto e un dolore lancinante stava per imbattersi
nella mia vita.
-Papà...-
sussurrai con un filo di voce.
-Figliolo,
ben tornato a casa- mi disse avvicinandosi a me e abbracciandomi
calorosamente.
Lo
scostai forse con troppa irruenza, notando subito che il suo mancato
equilibrio lo stava facendo cadere a terra. Allungai un braccio e
afferrai la sua maglia, aiutandolo a rimanere in piedi.
-Scusa-
dissi di getto spaventandomi per l'accaduto -io non volevo-.
Mi
sorrise e non disse nulla.
Mi
accompagnò in cucina ma, prima di raggiungere la stanza, mi
soffermai in salone dove avvistai una scena dell'orrore. La sala era
stata adibita a camera ospedaliera. Vi era un grande lettino di
quelli elettrici che hanno la funzione di alzare ed abbassare sia lo
schienale che il poggiapiedi. Insieme ad esso vi erano tanti altri
strani macchinari, uno più rumoroso dell'altro. Potevo
distinguere
il trespolo della flebo, il respiratore artificiale, siringhe
sigillate e sterilizzate in apposite confezioni sul tavolo, insieme
ad una combinazione di farmaci e ad un apparecchio in grado di
registrare il battito cardiaco. Nonostante mio padre fosse un medico,
non mi ero mai interessato a nulla di tutto ciò.
La
domanda più spontanea sarebbe stata
“papà, cos'hai?” ed invece
riuscì solo a chiedergli -quanto ti resta?-.
I
suoi occhi si fecero lucidi, ma trattenne comunque le lacrime -un
mese, forse due-.
Avrei
potuto abbracciarlo, baciarlo, fargli sentire il mio calore ed il mio
affetto. Ed invece strinsi il pugno talmente forte da farmi male ed
uscì rapido dalla stanza fino ad oltrepassare la porticina
sul
retro. La mia testa si mosse veloce a destra e sinistra, lo sguardo
impazzì e gli occhi rotearono furiosi alla ricerca di un
qualsiasi
oggetto da distruggere.
Quel
pomeriggio sfasciai gran parte dell'arredo esterno che avevamo.
Quando rincasai, circa mezz'ora più tardi, mio padre non
osò
chiedermi nulla.
Mi
aspettavo una cena di rientro silenziosa, ma mai come quella.
Più il
tintinnio delle posate si faceva assordante, più la mia
rabbia
ribolliva dentro di me.
-Perché?-
domandai furioso guardandolo dritto negli occhi.
Vidi
il suo sguardo triste e sconfortato, e capì che si sentiva
in colpa.
-Vedi,
Brent. Avrei voluto dirtelo prima, ma ho sempre sperato di riuscire
ad uscire da questo tunnel da solo- mi disse appoggiando le posate
sul piatto -circa tre anni fa ho scoperto di soffrire di una forma
piuttosto comune di leucemia. Ho fatto della radioterapia e della
chemioterapia. Ma le mie difese immunitarie sono calate drasticamente
e il mio lavoro in ospedale non è stato d'aiuto-.
Con
l'avanzare del suo racconto, mi accorsi di star piangendo come un
bambino. Mi guardai le mani tremanti, per poi concentrarmi di nuovo
su di lui che, in silenzio, tentennava sul da farsi.
-Perché?-
domandai nuovamente -perché non me lo hai voluto dire! Non
sono più
un bambino. Io... avrei potuto esserti vicino, piuttosto che sprecare
il mio tempo a scuola-.
-Non
sarebbe cambiato nulla, figliolo- mi disse portandosi una mano sulla
fronte -avresti solo perso tempo prezioso, badando a me-.
-Tu
non sei e non sarai mai tempo perso per me- dissi esternando forse
per la prima i miei sentimenti per lui.
Entrambi
ci ritrovammo nel silenzio più totale.
-Ed
ora?- domandai verso di lui senza alcuna speranza.
-Ed
ora godiamoci la splendida estate che ci aspetta, figliolo- mi
rispose sorridendo.
***
Non
so dirvi quanto quel mese significò per me. Vorrei
raccontarvi che
tutto andò per il meglio, che i medici trovarono una cura
miracolosa
e che guarì come d'incanto. Purtroppo non andò
così. Nulla di
tutto ciò andò per il verso giusto.
Morì esattamente 37 giorni
dopo.
Ma
di lui conservo ancora un ricordo estremamente bello, perché
in quel
mese, consci della precarietà della situazione, ci godemmo
ogni
istante della reciproca compagnia.
Purtroppo
mio padre in quel mese ebbe alti e bassi. La cosa migliore da fare,
probabilmente, sarebbe stata quella di farlo ricoverare in ospedale,
magari sedarlo con un po' di morfina, giusto per attenuare il dolore
cronico. Lui, però, non volle ed io non contestai la sua
scelta.
Sapete
quando si dice che i medici sono i peggiori pazienti al mondo?
Santissime parole! Non era stato molto diligente in quel periodo, lo
devo ammettere, ma per lo meno aveva conservato la lucidità
fino
all'ultimo, il che mi permise di averlo per me e di poter godere
della sua presenza fino all'ultimo. Impossibile dire che in un mese
recuperammo il rapporto degli ultimi anni, ma - lo ammetto –
scoprì
in lui non tanto un padre amorevole - quello già lo sapevo -
ma un
amico con cui aprirmi.
***
-E
così, figliolo, sei cresciuto- disse una sera allungando gli
occhi
maliziosi e ridacchiando tra un colpo di tosse e l'altro.
-Papà,
che schifo, no!- gli dissi sicuro di non voler affrontare
quell'argomento con lui.
-Beh,
hai sedici anni, non ci trovo nulla di male- mi disse appoggiando il
capo sul cuscino vaporoso del suo letto.
Lo
guardai con la coda nell'occhio, in parte tentato all'idea di poter
parlare con qualcuno di Samantha, in parte restio a farlo. Era pur
sempre mio padre!
Fu
lui allora a cogliermi completamente impreparato -io ho perso la
verginità a 14 anni-.
La
birra che stavo sorseggiando mi andò di traverso. Mi tirai
un paio
di colpi al petto cercando di riprendere il controllo sul mio corpo.
Gli occhi balzarono fuori dalle orbite e non riuscì a non
trattenere
una risata divertita -papà!- dissi ancora una volta.
-Figliolo,
è fisiologico, che vuoi che ti dica!- rispose lui
riprendendo fiato.
Ogni
parola per lui era una fitta incredibile. Annaspava come poteva,
l'aria pareva non essere mai abbastanza.
Ero
seriamente intenzionato a dirottare l'argomento, magari parlando del
tempo o di sport, ma poi mi voltai incuriosito verso di lui e mi
venne spontaneo chiedergli -seriamente 14 anni?-.
Mio
padre scoppiò nuovamente a ridere, probabilmente
perché era già
convinto che avrei abbassato l'ascia di guerra, o forse solo colto
alla sprovvista -cosa vuoi che ti dica, Brent, ero un ragazzino
precoce- mi rispose ilare.
***
Ricordo
benissimo che in quel momento la mia mente divagò ancora una
volta,
fino a ripercorrere i miei tormentati quattordici anni. Tormentati,
si fa per dire. In realtà, fu un periodo grandioso per me,
perché
conobbi Yoshiko. Mi capita spesso di ritornare indietro a quel giorno
e ritrovarmi a pensare che forse, se non l'avessi mai conosciuta, non
mi sentirei così bloccato con le altre ragazze. È
come se il mio
cuore fosse stato rapito da lei e non riuscissi ad andare oltre.
***
-E
di questa Sam, che cosa mi dici?- mi domandò mio padre
riportandomi
al presente.
-Samantha?-
domandai posizionandomi meglio sulla sedia posta accanto al letto di
mio padre.
La
mia reazione fece intendere a mio padre che ero sì disposto
ad
intraprendere questo arduo argomento con lui ma che, allo stesso
tempo, non mi sentivo molto a mio agio in quei panni.
-Samantha
è lesbica, papà- fu tutto ciò che
riuscì a dire.
Lui
mi guardò confuso per poi abbozzare un sorriso -hai perso la
verginità con una ragazza lesbica?-.
Girai
subito il capo verso di lui per poi lanciargli un cuscino in faccia
-ma smettila!-.
Lui
ridacchiò divertito ancora una volta, lanciando a sua volta
il
cuscino sul fondo del letto -suvvia, Brent, non te la prendere con il
tuo vecchio e malatticio padre. Piuttosto racconta, sono davvero
curioso-.
Lo
osservai di sbieco intuendo il suo forte sarcasmo. Per una volta lo
guardai dritto nei suoi occhi scuri, per poi riflettermi in lui
trovando grandi somiglianze.
-Non
sapevo fosse...- non ero mai stato molto bravo con le parole e anche
in quell'occasione andai nel panico. Non volevo risultare omofobo,
non lo ero affatto. Ma al contempo ero poco informato su quale fosse
il termine più corretto per indicare la sua scelta sessuale,
senza
risultare un fanatico religioso che inforcava un'arma contro gli
omosessuali. Insomma, mi soffermai per un istante ed esitai nella
scelta del termine.
Per
fortuna, mio padre mi venne incontro -... lesbica?-.
Lo
guardai confuso -sì, ecco, io non so bene come chiamarla-.
Mio
padre appoggiò una mano sulla mia spalla e mi sorrise
-chiamala
semplicemente Samantha-.
Mi
misi una mano sul volto e imprecai contro me stesso sottovoce.
-Che
altro mi sai dire su di lei?- mi domandò.
-Beh,
Samantha è di Oxford e ha esattamente tre giorni
più di me- risposi
sorridendo al suo ricordo -è una delle migliori allieve a
scuola,
una patita delle armi e ha una mira eccezionale-.
-Straordinario.
Una ragazza brava a sparare!- rispose mio padre quasi sarcastico.
Finsi
di non notare il suo tono ilare e proseguì a parlare di lei
-è
molto bella, nonostante non voglia che glielo si dica. Le piace il
rugby, il canottaggio e la granita all'arancia-.
Mio
padre annuì con il volto -e a letto?-.
Questa
volta, la birra, al posto di andarmi di traverso, schizzò
fuori
dalla mia bocca fino ad inondare il suo viso.
-Papà,
cazzo!- urlai rivolto tra un misto di risate e imprecazioni.
-Che
diavolo di farmaci ti stanno dando per renderti così...- non
mi
venne subito il termine.
-Disinibito?-
rispose lui alzando una scatoletta azzurrina dal suo comodino -in
ogni caso ti conviene approfittarne ora del tuo vecchio, mio caro
Brent, perché un domani non potrai più godere di
queste mie perle
di saggezza-.
Alzai
lo sguardo e lo fissai inebetito per un istante.
***
Seppur
io non abbia mai avuto modo di aprirmi molto con mio padre, dovete
sapere che quei rari e trascorsi momenti di trasparenza tra di noi,
erano comunque tenuti a bada da un comportamento molto riservato da
parte sua.
Perciò
non ero abituato a sentirlo parlare così liberamente, senza
alcun
filtro.
In
quel mese e mezzo trascorso a stretto contatto con lui, conobbi mio
padre nel più profondo dell'anima. Fu un rapporto esclusivo
il
nostro.
Purtroppo
non durò molto e, come mi abituai alla sua costante
presenza,
dovetti abituarmi anche alla sua improvvisa scomparsa.
E
lo devo ammettere, da allora niente fu più lo stesso.
Dovetti
imparare a vivere senza di lui.
Vi
assicuro che sopravvivere ad un genitore alla sola età di 17
anni è
dura, perché non si hanno ancora le basi per poter
affrontare di
petto la vita come viene nonostante, al contrario, agli occhi dello
stato tu sia già un uomo completo, quasi maggiorenne ed
indipendente.
Perciò
venni colto da una solitudine incolmabile e venni lasciato solo da
tutti e da tutto, ad affrontare una vita che agli occhi di un
adolescente appare insormontabile.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Non
sono solita fare
grandi premesse, ma vorrei ringraziare Jadis per avermi accompagnata
nel coming out della mia splendida Sam.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
arancione per presenza di scene di natura sessuale
esplicite
Personaggi
capitolo:
Brent, sergente Gamble, Sam
Capitolo
6
Quando
mio padre morì, mi trovai innanzi ad un bivio: avrei potuto
tornare
nella mia vecchia scuola e proseguire i miei studi nella mia
città
natale; oppure, avrei potuto riprendere in mano quello sprazzo di
sole che mi aveva baciato negli ultimi mesi e tornare in accademia.
Seppur possa sembrare una scelta molto difficile, per me fu quasi
scontato decidere quale strada intraprendere.
Guardai
quelle quattro mura che per anni furono
testimoni di mille avvenimenti, cene imbarazzanti, litigate furiose
e, perché no, pianti, sorrisi e rinascite. Quella casa aveva
accolto
ogni mio cambiamento, scoprendo ogni lato del mio carattere e
accogliendo ogni sfumatura del mio umore altalenante. Non era un
addio, ma, chiudere quel portone alle mie spalle, fu quasi
struggente. Sapevo di uscire da lì per non tornarci
più, per lo
meno non a breve.
Appoggiai
una mano su quella ruvida superficie legnosa dipinta di verde scuro,
serrando gli occhi e volendo quasi rinchiudere al suo interno ogni
mio ricordo legato a questa casa -addio- sussurrai flebilmente. La
mia mano scivolò lungo l'intera facciata in mattone dello
stabile,
come a volerla accarezzare, fino a distaccarsi da essa mantenendo
però vivo il ricordo di tale tatto. Diedi le spalle alla
casa che mi
aveva accolto praticamente da sempre, per poi incamminarmi verso la
stazione, pronto a riprendere la mia vita in mano. Destinazione
U.K.M. School!
Quando
rientrai nei dormitori le cose non erano particolarmente cambiate.
Anche quest'anno, esattamente come il precedente, ero in camera con
Sam. Mi salutò come al suo solito, lanciandomi un forte
pugno sulla
spalla -bentornato, straniero- mi disse -ti vedo un tantino deperito,
devi recuperare-.
Sorrisi.
Non poteva sapere che dietro al mio falso sorriso si celava un evento
tanto nefasto.
-Ti
vedo bene- le dissi di rimando, appoggiando il mio borsone sul letto.
-Ho
detto tutto ai miei...- sussurrò lentamente per poi voltare
lo
sguardo verso di me vittoriosa e dire -sanno tutto-.
Mi
passai una mano sul volto e poi sui folti capelli -dici sul serio?
Proprio tutto?!-.
Lei
ridacchiò divertita -hai capito bene!-.
-E
come l'hanno presa?- le domandai incuriosito accostandomi a lei.
-Meglio
del previsto. A quanto pare sono di larghe vedute- rispose lei
portandosi entrambe le mani ai lati -fortunatamente tengono
più alla
mia felicità, che a salvare le apparenze-.
-E'
incredibile, Sam!- risposi contento per lei.
Mi
voltai di spalle e mi rabbuiai. In quell'istante capì che
avevo
appena perso l'unica persona su cui potevo contare all'interno di
quel posto. Tutto ciò che avevo creato in accademia era
basato sulla
menzogna di poter stare con Samantha Elliots, una delle ragazze
più
sexy della scuola.
La
guardai con quell'aria solare, felice come mai. Ero piuttosto
convinto di non averla mai vista così spensierata. Faticavo
quasi a
riconoscerla. Tra l'altro aveva tagliato i capelli quasi a caschetto
e quell'aria così sbarazzina le donava molto. La trovai
attraente
come non mai, forse anche più di prima.
-Ti
va di scopare sul retro?- mi domandò con nonchalance dopo
aver
gettato alla bene-meglio il suo borsone sotto il letto e portandosi
le braccia sui fianchi.
Sgranai
gli occhi e scoppiai a ridere.
No,
dopotutto non era poi così tanto cambiata.
Rientrai
con circa una settimana di anticipo anche per poter parlare faccia a
faccia con il sergente Gamble in maniera tale da velocizzare la mia
istruzione. Obiettivo finale: diventare un aviatore!
-Ragazzo
mio, che piacere rivederti!- mi disse accogliendomi con una
sorprendente euforia.
Mi
abbracciò come solo un padre poteva fare e, troppo fresco di
lutto,
mi irrigidì sotto il suo tocco. Poggiò le sue
grandi mani su
entrambe le mie spalle allontanandomi un poco e guardandomi dritto
negli occhi -okay, cos'è successo?-.
Sorrisi
disarmato, consapevole di non potergli nascondere nulla.
-Mio
padre è morto- risposi senza veli.
Prima
ancora di subirmi tutto il suo dispiacere e balle varie, aggiunsi -ti
prego, non dire nulla e fa finta che io non ti abbia detto nulla-.
Con
il suo sguardo severo mi esaminò da cima a fondo per poi
dire
semplicemente -dobbiamo riprendere subito gli allenamenti. Ho
già
accennato ad alcuni colleghi che entro la metà dell'anno
prossimo
entrerai in caserma come cadetto-.
Le
mie spalle si rilassarono e sospirai rumorosamente -grazie-.
-Non
farmi fare brutte figure, mi sto esponendo per te- rispose dandomi le
spalle per poi aggiungere -ora vatti a lavare che puzzi come un cane
morto, domattina sveglia alle cinque e cento giri di campo per
iniziare-.
Il
petto mi si gonfiò velocemente. Avvicinai immediatamente la
mano
alla fronte e, mettendomi in posa, urlai un forte -sì,
signore!-
prima di uscire dalla stanza.
***
Mi
guardo le braccia piene di tatuaggi. Poi, con un frammento di vetro
rotto in mano, mi rispecchio al suo interno allungando di un poco il
collo a sinistra fino a sfoderare un altro splendido tatuaggio che si
dirama lungo tutta la carotide di destra. Con la mano accarezzo il
petto, non volendo scordarmi neanche di tutto l'inchiostro impresso
sui miei addominali in ogni direzione. Il mio corpo è la mia
anima e
su di esso ho scolpito indelebilmente ogni ricordo importante della
mia vita. Ecco perché il mio primo tatuaggio è
stato proprio una
farfalla monarca, a livello dell'avambraccio sinistro. Negli anni mi
sono sentito dire che era troppo femminile, che avrei dovuto
toglierlo o coprilo con un teschio o simili. La verità
è che
neanche sotto tortura lo cambierei. È molto bello.
Immaginatevi sì
una farfalla monarca, ma quasi astratta, dai colori abbozzati e dai
lineamenti soffusi. Perché io l'associo esattamente ad una
utopia,
per me è importante il concetto che vi è dietro,
un ricordo
infantile che negli anni ho coltivato fino a trasformarlo nella mia
attuale professione.
Mi
guardo allo specchio ancora una volta, soddisfatto del risultato
finale. Con la mano destra accarezzo la farfalla che giace beata
sull'avambraccio sinistro. Mi sistemo meglio gli occhialini da
aviatore sul capo e sorrido alla mia figura ormai matura. Forza,
è
ora di partire ancora una volta per una nuova avventura, senza
scordare mai che questo presente mi è stato concesso solo
perché il
passato è stato ciò che è stato.
***
In
quell'ultimo anno scolastico mi ritrovai a scendere dal piedistallo
di belloccio della scuola, per far fronte a doveri ben più
ingenti.
La mia priorità assoluta era entrare nell'aeronautica
militare. Il
sergente Gamble, in tutto ciò, giocava un ruolo
più che
fondamentale. Dopo avermi studiato ed analizzato per l'intero primo
anno, aveva finalmente deciso di sfoderare ogni sua arma,
concentrando ogni energia su di me e sul mio apprendimento. A scuola
venni in parte preso in giro per questo. In tanti alludevano ad una
tresca tra me e lui, non comprendendo seriamente ciò che
più ci
legava. Non eravamo due fanatici militari, non c'era alcun legame
sentimentale tra di noi, né l'allenamento e il duro lavoro
fungevano
da collante in questa nostra strana relazione – se
così la si
poteva definire. Tra di noi vi era un un'unica cosa in comune:
l'amore per gli aerei. Ebbene sì, a fare
da padrone nella nostra storia erano sempre quegli splendidi giganti
volanti.
Fu
proprio per questo motivo che ad un paio di mesi di distanza dal mio
primo tatuaggio, me ne feci un secondo che raffigurava la tavola
prospettica di un Fokker F.VII, il monoplano trimotore con cui Amelia
Earhart sorvolò per la prima volta l'Oceano Atlantico.
Ovviamente il
mio ricordo andò a quel lontano pomeriggio di tanti anni
addietro,
in cui rivelai a Yoshiko del mio amore incondizionato per
quell'aviatrice detentrice di tanti record mondiali.
In
ogni caso, al vociare circa il mio rapporto stretto con il sergente
Gamble, si aggiunse anche il fattore Sam. Già,
perché le notizie,
in luoghi così accalcati e piccoli come quello, corrono in
fretta.
Presto tutti seppero dell'omosessualità di Sam. Vorrei
raccontarvi
una di quelle storie a lieto fine. La sua famiglia l'aveva
già
accettata per quello che era, perciò vi aspetterete che i
suoi
coetanei facessero
altrettanto. Ebbene no, per una volta i ruoli si invertirono e ad
avere una vecchia e squallida mentalità, non erano tanto i
genitori
conservatori di lei, bensì i nostri stessi compagni di
scuola.
Non
mi importava davvero di quello che si diceva su di me e lei, ma non
potevo negare che quell'ambiente così tossico, facesse star
male
Sam.
La
famosa Cassandra Blake, quando seppe dell'omosessualità di
Sam, le
tolse persino il saluto. Una cattiveria, direte voi. In effetti
così
fu, ma concesse anche a Sam di conoscere la gente per chi realmente
era.
Nonostante
fosse assodata ormai la sua predilezione per il corpo femminile, Sam
si intrufolava ancora sotto le mie coperte a notte inoltrata per
poter trovare conforto e per poter sfogare ogni suo desiderio
proibito.
In
realtà io trassi parecchio vantaggio da quella relazione
malsana.
Grazie a Sam iniziai a conoscere e comprendere il corpo femminile in
maniera impeccabile, riscoprendomi quasi capace di amare una donna.
Dico quasi perché, seppur io sia stato legato a Sam da un
sentimento
molto profondo, non sono convinto che ciò fosse amore vero.
Ormai
conoscevo ogni centimetro della sua pelle e potevo interpretare ogni
sua espressione e voglia anche senza farle aprire bocca. Sotto le
lenzuola Sam era un'altra donna. Seppur alla luce del sole potesse
apparire impavida, sicura di sé e particolarmente tosta,
sotto
l'impallidire della luna si richiudeva a riccio e mostrava una certa
timidezza che probabilmente solo io avevo potuto conoscere fino a
quel momento.
C'erano
molte cose di lei che amavo per davvero, come il mordersi il labbro
inferiore quando voleva che io aumentassi il ritmo delle mie spinte;
oppure l'inclinare la testa leggermente indietro e a destra per
supplicarmi di scendere in basso per poter baciare e accarezzare la
sua femminilità; oppure l'inarcare la schiena come a voler
chiedere
spinte più lente ma allo stesso tempo energiche; o ancora il
contrarre le natiche sotto il mio tocco, chiedendomi di prenderla
dalle spalle. Ed in quei momenti le piaceva il tocco rude, di colui
che quasi approfittava del suo corpo per raggiungere un piacere
veramente etereo. Eppure non l'ho mai usata,
né l'ho
mai amata
in quei momenti.
Le
prime volte erano imbarazzanti, lei doveva prendermi la mano nella
sua e guidarmi in ogni mia mossa perché non sapevo davvero
dove
andare o cosa fare per poterle procurare un minimo di piacere. Ma con
il tempo imparai davvero a giocare con lei e con la sua
femminilità,
tanto da anticipare le sue voglie e le sue pensate. I suoi orgasmi si
fecero sempre più sentiti e più eccitanti di
volta in volta. Mi
accorsi con estremo piacere che mi bastava anche solo guardarla
godere del mio tocco. Non mi importava dover entrare realmente in
lei, mi importava quasi più recarle piacere. Fu allora che
capì di
volerle comunque molto bene. Okay, non era amore e non lo era mai
stato. Ma le volevo davvero tanto bene. E il poter soddisfare le sue
voglie, assecondare i suoi desideri e far avverare ogni suo sogno
erotico, per me era un po' come regalarle l'unica cosa che ero in
grado di darle davvero. Non era amore, ma forse un po' lo era, anche
se in una versione molto differente rispetto a ciò che
generalmente
si può pensare.
-Sai,
Brent- mi disse una sera Sam guardando la fioca luna -credo di
piacere ad Annah-.
Ero
sdraiato sulla sabbia, con entrambe le braccia sotto il capo,
rilassato come non mai. Quella rivelazione mi scosse nel profondo.
-Annah,
huh? Parli della ragazza nuova, quella biondina con le lentiggini?-
le domandai sdraiandomi sul fianco.
-Sì,
proprio lei- mi disse Sam senza distogliere lo sguardo dal nostro
satellite luminoso -secondo te se ci provo, ci sta?-.
Sorrisi
divertito, tornando in posizione supina.
In
quel preciso istante avrei voluto mentirle, dicendo che probabilmente
non avrebbe accettato un invito ad uscire da parte sua. Ma la
verità
era che Sam era una bella persona e per me meritava il meglio. In
quel preciso istante capì che meritava di prendere il volo e
di
staccarsi dal passato, in un certo senso necessitava di svecchiarsi.
Io ero solo una stupida ancora a cui lei si era aggrappata per tanto,
troppo tempo. Io le davo sicurezza, io c'ero sempre per lei e sempre
ci sarei stato. Perciò le dissi l'unica cosa che mi venne
spontaneo
dirle in quel momento -io fossi in lei ci
starei-.
Lei
mi tirò un pugno al braccio -scemo, tu già ci
stai!-.
-Brent,
non ti fa strano farti tua sorella?- mi domandò tutto d'un
tratto
come era suo solito fare.
-Sam,
ma cosa diavolo stai dicendo!- imprecai quasi strozzandomi con la mia
stessa saliva.
-Sì,
insomma, tu per me sei come un fratello, perciò io sono tua
sorella-
mi disse lei sorridendomi -abbiamo un rapporto incestuoso io e te-.
Mi
portai una mano sul viso divertito, senza in realtà aver
nulla da
contestare. Lei scherzava ed io lo sapevo bene. Eppure amore fraterno
era il modo più corretto per descrivere ciò che
provavo per lei.
-Però...
sì, insomma, se hai bisogno di capire meglio come funziona
il
clitoride femminile, puoi sempre chiedere a me che ti mostro meglio
dove cercarlo- rispose vaga Sam gesticolando al vento e lasciandosi
trasportare da una risata piuttosto genuina.
-Sei
incorreggibile- le dissi divertito e non dando eccessivo peso alle
sue parole. Ormai sapevo perfettamente quando non dover dar conto a
ciò che diceva.
-Ho
un'idea ancora più allettante- mi disse lei balzandomi sul
petto e
portando il suo viso a due centimetri dal mio volto.
-Ti
prego, lascia che indovini- dissi mantenendo una certa calma, ma
focalizzandomi sul suo sguardo. Poi lo notai, quel sopracciglio
destro leggermente alzato, l'angolino della bocca inarcato verso
l'alto, quello scintillio negli occhi che preannunciava un pensiero
osé.
Sorrisi,
avevo intuito il suo pensiero -appena avrai una fidanzata vera,
faremo una cosa a tre-.
Lei
spalancò gli occhi e si portò una mano al volto
-Brent Smith,
cazzo!- imprecò alzandosi in piedi e cominciando a
saltellare qua e
là in preda ad una strana danza della pioggia -come ci sei
riuscito?-.
Scoppiai
a ridere e, alzandomi in piedi e dandole le spalle, mi allontanai
verso il nostro bungalow senza darle alcuna risposta. Non era
necessario. Ve l'ho detto, ormai riuscivo
ad interpretare ogni suoi pensiero.
Il
sergente Gamble in quel periodo mi diede filo da torcere, ma non vi
nego che questo suo imporsi su di me, il volermi allenare fino allo
sfinimento – mio e suo tra l'altro – mi
aiutò molto a tenere la
mente lontana dal pensiero di mio padre. Non che volessi scordarmi di
lui. Ma la sua perdita era ancora viva in me e doleva come fosse una
ferita aperta. Impossibile da rimarginare, sapevo bene che neanche
con gli anni avrei potuto convivere con quel dolore. Ma il tenere
corpo e mente impegnati mi aiutava, perché alla fin fine ero
talmente focalizzato sul mio obiettivo prossimo, da non aver tempo
né
forze di concentrarmi su altro.
Con
l'arrivo del primo Natale senza mio padre, però, quella
sensazione
sfumò. Vi erano ben due settimane di vacanze in cui
inesorabilmente
mi sarei ritrovato a pensare a lui, al nostro primo Natale separati.
Per fortuna però non ero solo al mondo e Sam, con un gesto
del tutto
altruista, mi invitò a trascorrere le festività a
casa sua.
Oxford,
una delle mete più ambite di tutti i turisti. Credetemi se
vi dico
che ha letteralmente rapito il mio cuore.
Samantha
mi presentò ai suoi genitori senza filtri, dicendo che io
ero quello
con cui fingeva di stare per non far notare agli altri la sua
omosessualità. Un gran bel biglietto da visita, soprattutto
tenendo
conto che suo padre era un reverendo.
-Piacere-
dissi ormai immerso nell'imbarazzo più totale allungando un
braccio
e stringendo la sua fredda mano.
L'uomo
non disse una parola, mi squadrò dall'alto in basso
– seppur lui
fossi una spanna più basso di me – e strinse la
presa sulla mia
mano.
La
madre imbarazzata lo scostò leggermente fino a stringermi
anch'ella
la mano e invitarmi ad entrare in casa.
-Samantha
ci ha detto che hai appena perso il padre, quanto mi dispiace- mi
disse con quella vocina acuta e fastidiosa, completamente priva di
empatia.
Non
avevo parole da porgli dopo quella frase, perciò mio limitai
ad
annuire e distogliere lo sguardo da lei.
-Mamma!-
la rimproverò subito Sam allargando le braccia e sospirando
-ma ti
pare!-.
Il
padre abbozzò un sorriso osservando le due donne
intraprendere un
lungo ed estenuante litigio su quali fossero i modi più
carini di
porgere le condoglianze ad uno che aveva appena perso il padre.
Rimasi
inebetito in piedi in salotto, domandandomi perché avevo
accettato
l'invito a trascorrere quel Natale insieme alla famiglia Elliots.
Il
padre di Sam, che si chiamava Klaus, mi porse una mano sulla spalla,
invitandomi poi a seguirlo nel giardino sul retro della villetta.
-Samantha
mi ha detto che hai fatto per lei- mi disse appena chiusa la porta
alle sue spalle.
Klaus
Elliots era sicuramente un personaggio molto singolare. Era molto
alto, seppur meno di me, con una gran massa di capelli biondo
ossigenato e due occhi talmente azzurri da far quasi impressione.
Feci
per contestare la sua frase, ma l'uomo subito esordì dicendo
-mia
figlia è sempre stata diversa
dagli altri-.
Seppur
non abbia apprezzato il termine da lui usato, nel suo tono non vi era
disprezzo per tutto ciò. Si vedeva però che
faticava ad accettare
la sua omosessualità.
-Ti
sbagli- disse ad un tratto.
Lo
guardai confuso non capendo a cosa potesse alludere.
-So
benissimo cosa stai pensando, Brent- mi disse distogliendo lo sguardo
e fissando per un istante il cielo -non fatico ad accettare la sua
scelta sessuale-.
Inarcai
subito un sopracciglio stupito dalla sua perspicacia.
-La
verità che ho paura del mondo e non di lei- mi
spiegò mettendosi
entrambe le mani nella tasca dei jeans -di come il mondo
potrà
trattarla d'ora in avanti e di come tenterà di emarginarla-.
Sorrisi
e mi avvicinai a lui piuttosto convinto di me -lo sa, signor Elliots,
anche io ho paura del mondo, ma sa una cosa, non ho mai conosciuto
una ragazza più in gamba di sua figlia!-.
Lui
mi guardò con occhi colmi di paura.
***
Quello
era uno sguardo che non ho mai dimenticato. Lo sguardo di un padre
che si strugge per il possibile futuro della figlia in una
società
ancora emotivamente arretrata e non in grado di affrontare
così
apertamente l'omosessualità. Lo stesso identico sguardo di
terrore
che aveva mio padre in procinto di morte, quando mi confessò
di non
essere pronto a lasciarmi solo. Probabilmente uno di quegli sguardi
che solo quando si diventa padri si può veramente capire.
***
Nonostante
mi aspettassi chissà quale stranezza in casa Elliots,
dovetti
ammettere che il Natale trascorso da loro fu piuttosto piacevole. Sua
madre si rivelò una cuoca eccezionale, mentre suo padre mi
accolse
come un figlio raccontandomi vecchi aneddoti sulla sua vita religiosa
aprendomi le porte ad un credo che non conoscevo di avere.
Il
rientro in accademia
fu piuttosto brusco poiché il sergente non si
risparmiò con gli
allenamenti. A detta sua, vi erano ben due settimane di pacchia da
recuperare; ma in verità ero consapevole che lui ci stava
mettendo
faccia e reputazione, perciò
ci teneva particolarmente al mio buon successo.
A
Marzo dovetti affrontare i tanto temuti test di ingresso in accademia
a Shawbury. In realtà non conoscevo questo passaggio, ero
convinto
che accettassero chiunque nell'esercito e, con mia grande sorpresa,
scoprì che non era affatto così. Persino i decimi
di vista potevano
fare la differenza.
Ad
accompagnarmi in questo salto nel buio vi era ovviamente il sergente
Gamble.
-Mi
aspettavo di dover frequentare prima l'accademia di smistamento, non
pensavo di poter far domanda direttamente per l'aviazione- dissi
dubbioso rivolto al mio mentore.
Lui
allargò le braccia e mi rispose -che vuoi che ti dica, mio
caro
Brent, le vie del Signore sono infinite-.
Scoppiai
a ridere ormai sicuro che ci fosse il suo zampino in tutto
ciò.
-Ti
sei allenato duramente per giungere fino a qui. Ti ho accolto a
scuola che eri un pivellino di soli sedici anni con ancora i peli
pubici da far crescere ed ora ti ritrovo a spiccare il volo da solo
come un uomo fatto e finito- mi disse il sergente fronteggiandomi e
poggiando le sue grandi mani su entrambe le mie spalle -sappi che
comunque andrà, sono molto fiero di te, Brent-.
Non
ebbi né modo né tempo di fiatare, che un uomo,
quasi il doppio di
me in quanto stazza, mi si avvicinò e mi invitò a
seguirlo.
Quel
pomeriggio decretò il mio futuro. Scoprì di aver
ottenuto il
massimo dei voti in ogni ambito di valutazione. I miei test
attitudinali risultarono più che brillanti e le mie prove
fisiche
quasi al limite dell'umano. Dissero che avrebbero anticipato
l'iscrizione a Maggio qualora fossi interessato. Mi dissero che non
avevano mai visto un esame di simile portata ma che, con molta
probabilità, tutto ciò era solo merito del mio
mentore. Al sergente
Gamble, dunque,
dovevo veramente molto. Lui mi aveva accolto sotto la sua ala senza
indugio, non trattandomi come il resto della società che mi
vedeva
fragile e problematico.
Lui era riuscito a cogliere la mia emotività, legata
soprattutto
alla mia condizione famigliare assai precaria, ed a trasformarla in
una forza interiore in grado di infondermi le energie necessarie per
poter affrontare il futuro a testa alta.
***
Non
posso dire di dover la vita al sergente Gamble, perché non
mi sarei
comunque suicidato o sciocchezze simili in seguito alla morte di mio
padre. Però se non fosse stata per la sua presenza costante,
probabilmente di lì a pochi mesi mi avrebbero dovuto
raccogliere con
la scopa, perché sicuramente sarei andato in mille pezzi.
Sicuramente
sarei sopravvissuto fino
ad ora, con o senza di lui. La differenza sta nel modo con cui
l'avrei fatto. È grazie a lui se ora posso affermare con
estrema
certezza che ho preso le decisioni giuste nella vita, arruolandomi,
seguendo la mia passione per i velivoli e cercando di volare il
più
in alto possibile.
Quell'uomo
ha impresso nel mio animo un profondo sentimento di gratitudine e mi
ha fatto comprendere l'importanza di non essere mai soli e di aver
sempre qualcuno affianco, soprattutto quando si tratta di prendere
decisioni importanti.
Il
sergente Gamble per un breve periodo della mia vita
rimpiazzò la
figura paterna che avevo perso. Fu proprio per questo che quando
morì, esattamente tre giorni dopo il nostro viaggio a
Shawbury, la
mia vita subì una brusca frenata ancora una volta, per poter
accogliere nel cuore l'ennesimo lutto.
In
quell'istante realizzai una brutta verità: che tutti noi
siamo di
passaggio su questa terra e che nessuno è immune alla falce
dell'oscuro
mietitore.
Sono
sempre stato convinto che il sergente fosse immortale. Forse
perché
fisicamente appariva quasi come un dio greco, dai muscoli ben
scolpiti e quel sorriso smagliante che ammaliava ogni mia compagna di
scuola.
Klaus
quel Natale passato mi disse che il tempo di ciascuna persona
è
limitato al poter raggiungere e centrare l'obiettivo per il quale
è
stata messa al mondo. Questo pensiero mi fa sorridere,
perché il
sergente è morto subito dopo la mia ammissione
nell'esercito, perciò
mi vien quasi da pensare che il suo scopo fosse quello di farmi da
mentore e indirizzarmi verso il mio futuro. Forse sono troppo
precipitoso in questo mio pensiero o forse sono semplicemente
egocentrico, ma mi piace pensare che sia andata davvero così.
Il
mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica
militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Nonostante
non sia solita lasciare grandi note iniziali, vorrei ringraziare la
mia dolce Wendy_88 per essere sempre la prima a leggere e recensire i
miei capitoli. Motivo per cui, voglio dedicarle il paragrafo su Peter
Pan, la sua favola preferita.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
rosso per presenza di scene di natura sessuale parzialmente
esplicite
Personaggi
capitolo:
Brent e Sam
Capitolo
7
Il
mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica
militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.
La
Royal Air Force di Shawbury è stata la prima base aerea ad
accogliere giovani reclute da arruolare nell'aviazione militare
inglese.
Nacque
come accademia selettiva nel 1917, proprio a cavallo della prima
guerra mondiale. Ovviamente serviva un centro di addestramento che
potesse sfornare quanti più soldati possibili e all'epoca
Shawbury
poteva contare su una stazione aerea niente male. Venne chiusa
intorno agli anni venti a causa di una netta riduzione del personale,
per poi riaprire i battenti nel lontano 1938, sempre con scopo
accademico, ovvero organizzata per addestrare futuri aviatori per
l'aeronautica militare inglese. Parliamo della scuola di
addestramento di piloti militari più antica al mondo. Non
una tra le
tante, ma la
prima in assoluto.
Perciò,
sono piuttosto orgoglioso di poter dire di aver iniziato la mia
carriera da cadetto proprio lì. Se non fosse che,
ahimè, è durata
ben poco.
***
Giunto
sino a Shawbury, venni subito a conoscenza della dura realtà
dei
fatti: nessuno mi avrebbe appoggiato
in tutto questo. Il sergente Gamble non c'era più,
perciò addio
spalle coperte; ma prima di esso, avevo perso anche l'unico familiare
su cui poter fare affidamento. Al mondo, in quel momento, vi ero io e
solamente io.
Il
mio cellulare vibrò nella tasca dei miei pantaloni
proprio mentre mi accingevo ad aprire la grande cancellata di quel
nuovo posto. Estrassi il telefono e lessi il messaggio che avevo
appena ricevuto -spacca più culi che puoi-.
Sorrisi
divertito. Non ebbi neanche necessità di scoprire chi me lo
aveva
mandato, tanto già lo sapevo. Quel modo di fare
così sfacciato,
secco e graffiante potevano appartenere solamente ad una persona:
Sam.
-Verrai
a trovarmi?- le domandai istintivamente.
-Anche
domani- mi rispose senza esitazione.
Misi
il cellulare nuovamente in tasca e mi addentrai verso una nuova
esperienza.
Il
sergente Gamble mi aveva raccontato tante cose su quel posto. In
effetti ero abbastanza in fibrillazione perché finalmente
avrei
imparato a pilotare un aereo. Il mio sogno stava per esaudirsi e non
potevo che esserne felice.
Alla
fine, nonostante gli alti e bassi, ero giunto esattamente dove avevo
sempre sperato di arrivare.
L'inserimento
in accademia fu piuttosto traumatico. Se la U.K.M school poteva
apparire - ma giusto esternamente - un covo di fanatici militari,
Shawbury lo era senz'altro. I cadetti erano tutti con il capo rasato,
tipico taglio da soldato. All'epoca non avevo sicuramente il taglio
più alla moda tra i ragazzi e non ero un grande stimatore
dei miei
capelli, ma non vi nego che questo dover per forza uniformarmi agli
altri mi stava stretto. Ma purtroppo quelle erano le regole e non
potei fare
altro che abituarmi a dover sottostare a certe convenzioni stipulate
secoli prima, non so neanche io da chi.
Le
camerate erano terrificanti e per un istante ebbi nostalgia del mio
angusto bungalow. Strette e alte stanze completamente in cemento
senza alcuna rifinitura alle pareti. Letti a castello in ferro
battuto con un materasso alto poco più di cinque centimetri.
Pavimenti anch'essi in cemento perfettamente puliti e tirati a
lucido. Ogni letto era distanziato dal precedente da meno di un metro
di spazio. La mia prima impressione
fu che un claustrofobico non avrebbe mai e poi mai potuto
sopravvivere lì dentro. Non vi erano armadi, né
comodini o
tavolini, solo un grosso forziere che, nel mio immaginario, mi
riportò alla favola di Peter Pan. Ma qui non vi erano fatine
con la
polvere magica, né corsari dalle splendenti spade o bambini
sperduti
che potevano volare. Beh, in realtà un bambino sperduto che
–
almeno si spera – prima o poi avrebbe potuto volare c'era
eccome,
ed ero proprio io. Ma mi bastò uno sguardo a destra ed uno a
sinistra per ritrovare la mia stessa espressione spiazzata in altri
ragazzi. Lì, ora come ora, non ero l'unico bimbo sperduto. E
fui
preso alla sprovvista quando conobbi il mio compagno di letto.
-Piacere,
io sono Peter- mi disse allungando un braccio nella mia direzione.
Sorrisi.
Ero appena approdato all'isola che non c'è senza neanche
essermene
reso conto.
Le
prime due settimane trascorsero velocemente. Gli allenamenti, per
quanto sfiancanti potessero essere, non erano assolutamente
paragonabili a quelli proposti dal sergente Gamble. Mi accorsi subito
di essere un passo avanti a tutti i novellini del posto. E non ero
l'unico ad averlo notato.
Il
sergente del posto, un certo Bill O'Connel, iniziò a farmi
sgobbare
il doppio dicendomi che quella era l'ultima volontà di
Gamble.
Purtroppo,
però, come in ogni scuola che ho frequentato, mi ritrovai a
fronteggiare un paio di tipetti tutto fuorché amichevoli. Il
bullismo non è mai stato il mio forte. L'ho subito sin dalla
tenera
età per via della mancanza di una figura materna nella mia
vita,
alla U.K.S school, per via del rapporto quasi esclusivo che avevo con
il sergente Gamble ed ora qui, per via, ancora una volta,
dell'invidia che gli altri avevano nei miei confronti. Non volevo
apparire come il falso modesto della situazione, ma conoscevo bene le
mie abilità e ad alimentarle vi era questo forte desiderio
di poter
far avverare i miei sogni infantili. Perciò, ho sempre
puntato in
alto, anche quando la gente ha cercato di portarmi sul fondo. Non
tutti però riuscivano ad apprezzare i miei sforzi e a
comprendere
che se ero lì, ora, in quel momento, non era per merito di
terzi,
bensì per la mia capacità di sfruttare il mio
potenziale al
massimo.
Evans,
così si chiamava uno dei miei commilitoni, provava una seria
invidia
nei miei confronti. Eppure non ne aveva motivo: era il figlio del
colonnello in carica. Ma sapete come vanno queste situazioni,
nonostante il calcio in culo dato dal padre, Evans non era fatto per
l'esercito e arrancava per restare a galla. Il fatto che io, invece,
riuscissi in tutto ciò che facevo, gli dava noia. Provai
più volte
a spiegargli che non
era tanto una questione di dote, quanto di forza di volontà.
Io
volevo diventare un
pilota a tutti gli effetti,
era sempre stato il mio desiderio di infanzia. Per questo ci mettevo
tutto me stesso in ogni cosa che facevo. Lui invece era lì
giusto
per merito del padre e non per volontà propria.
Nonostante
i consueti momenti di litigio con questo soggetto, il resto procedeva
tutto bene.
Nel
frattempo, Sam era diventata la mia confidente, nonché
migliore
amica. Ci sentivamo moltissimo al telefono, spesso anche in
video-chiamata. I miei commilitoni mi reputavano molto fortunato, ma
la verità era che non mi permisi di rivelare loro il fatto
che Sam,
in realtà, fosse lesbica. Loro erano convinti che io stessi
con una
ragazza particolarmente perversa e ninfomane. La verità era
che loro
udivano solo parte delle mie chiamate, quei frangenti in cui Sam
rivelava di voler far certe cose proibite con me. Ma se io conoscevo
bene il suo essere diretta e, spesso, sarcastica, per loro era un
atteggiamento del tutto estraneo e tendevano spesso a prendere sul
serio ogni cosa che lei mi diceva.
-Mi
manca la tua compagnia- mi diceva spesso.
-E
a me manca la tua- le rispondevo io.
Nonostante
fossi consapevole di non attirarla fisicamente come poteva fare
invece una donna, le piacevo come persona. E a me bastava quello. Non
parlo di quel piacere carnale, legato esclusivamente al sesso. Lei mi
voleva bene, proprio come io ne volevo a lei. Forse aveva ragione lei
quando un tempo mi disse che io e lei eravamo un po' come fratello e
sorella.
-Sai,
Brent Smith, da quando sei andato via molti ragazzi vorrebbero
prendere il tuo posto- mi disse Sam un giorno ironizzando sulla sua
popolarità -sono diventata la puttana della scuola-.
-Non
sei una donnina dai facili costumi- risposi allentando la tensione
-al massimo puoi essere una ninfomane, ma solo con chi vuoi tu-.
-Giusto,
solo con chi ce l'ha più lungo di venti-tre centimetri-
scrisse lei
facendo seguire la sua espressione con una emoticon divertita.
-Sam!-
risposi cercando di dare quasi un tono di rimprovero alla mia voce.
La
conoscevo fin troppo bene. La sua era solamente una facciata. L'idea
di passare per la ragazza vogliosa che tentava di sedurmi con quel
suo modo estremo di fare, non faceva parte di lei per davvero.
Mi
reputo un uomo fortunato, perché ho avuto modo di conoscere
la vera
Sam, la ragazza di cui in parte posso dire di provare un amore
fraterno. So di ripetermi in tutto questo discorso, ma lei per me
è
stato un pilastro fondamentale. Negli ultimi due anni ha significato
moltissimo e mi ha insegnato ad amare in un modo del tutto singolare
e fuori da ogni canone. Ho amato sì una ragazza, una donna
meravigliosa, ma l'ho amata come un fratello ama la propria sorella.
E di nuovo si ritorna sul pensiero incestuoso che ho di lei. Che in
realtà non lo è, non abbiamo alcun legame di
sangue, ma vi è una
connessione estrema tra di noi.
***
Dovete
sapere che dietro la Sam disinibita e sboccata che avete conosciuto,
in realtà vi è una fragile crisalide delicata.
Già, che noia
penserete voi, con tutte queste metafore sulle farfalle.
Però lei è
ancora chiusa all'interno del suo bozzolo, alla ricerca del suo posto
nel mondo. Io, forse, l'ho trovato e devo ringraziare il sergente
Gamble per questo. Lei, purtroppo, non è stata altrettanto
fortunata.
***
Le
sue mani corsero veloci lungo i miei addominali, pregandomi ancora
una volta di trascinarla verso quel limbo peccaminoso che era l'unico
spettatore delle nostre notti insonni.
Ritrassi
la mano che ancora giaceva sul suo sodo sedere, fino ad avanzare su e
accogliere nel mio calore i suoi seni tiepidi. I capezzoli turgidi,
particolarmente ispessiti un po' per il freddo, un po' per il mio
tatto, vibrarono sotto l'eccitazione che Sam stava provando in quel
momento. Con i polpastrelli ne afferrai uno, stringendolo e
giocandoci un poco insieme. Era morbido e leggermente umido,
scivolava tra le mie dita con puro piacere, provocando in lei una
forma di eccitazione che la scuoteva in tutto il corpo.
Nonostante
la voglia di poter approfondire quel sentimento così
stimolante, Sam
prediligeva il conforto di un delicato tatto, infinito nei suoi
movimenti ed eterno nel tempo. A lei non piaceva consumare
quell'amore in fretta e furia, seppur l'idea di poterlo fare in
luoghi ostili o in momenti inopportuni la eccitava forse anche
più.
-Dai,
non smettere- mi disse prendendo la mia mano nella sua e portandola
giù verso la propria intimità.
Chiuse
gli occhi e si ritrasse all'indietro, quasi quel gesto l'aiutasse ad
assaporare ancora di più quel momento così
confidenziale.
Feci
ciò per cui ero stato chiamato a fare. Le feci provare
piacere, così
tanto piacere da farla godere come mai prima.
Quella
sera mi disse per la prima volta di volermi bene.
Non
ci siamo mai detti di amarci, perché alla fine
non era quello il sentimento che ci legava. Ci volevamo bene, ci
facevamo compagnia quando serviva, ci ascoltavamo e parlavamo tra di
noi come due vecchi amici. Niente di più. Io ero l'unico
uomo nella
sua vita che non aveva mai provato ad approfittare della sua bellezza
e del suo corpo, ed era proprio per questo motivo che lei era
attratta da me. Però era proprio nei momenti più
intimi che capivo
di aver difronte una ragazza che ostacolava la propria natura.
Riuscivo sì a farle provare piacere e a farle raggiungere
l'apice
del godimento, ma al contempo vi erano alcuni momenti che mi facevano
capire che lei si sentiva a disagio. Le piaceva essere toccata, le
piaceva quando io l'amavo carnalmente, quando entravo in lei e
spingevo con ardore il mio sesso contro il suo. Ma al contempo,
evitava sempre di guardare in basso e ogni qual volta facevamo sesso,
lei chiudeva gli occhi immaginandosi sicuramente ben altra
situazione. Si lasciava masturbare, ma non contraccambiava mai il mio
gesto. Non l'ho mai forzata in questo, perché sapevo di
metterla a
disagio. Ed era proprio questo disagio per il membro maschile che mi
fece capire quanto fosse attratta dal corpo femminile. Alla fine Sam
non era
altro che
una giovane donna alla scoperta della propria sessualità ed
io
potevo solo saziare la sua sete di piacere e assicurarmi che lei
stesse bene con me, senza costrizioni o imposizioni.
Il
poter contare
su di lei, in ogni caso, fu una cosa piacevole. Quando presi la
decisione di arruolarmi a Shawbury, ero quasi convinto di dover
mettere una pietra sopra il nostro rapporto. Non che vi fosse un
rapporto vero e proprio, per lo meno non era un rapporto esclusivo il
nostro. Lei mi assicurò che non avrebbe mai avuto un uomo al
di
fuori di me, ma conoscendo la sua inclinazione sessuale, tutto
ciò
mi fece sorridere. Ovviamente Sam non avrebbe mai avuto un altro uomo
all'infuori di me, d'altra parte era pur sempre lesbica.
Quando
anche Sam concluse il suo
percorso scolastico, il nostro legame si rafforzò
maggiormente.
Venne a trovarmi in un paio di occasioni, presentandosi ai miei
commilitoni come la mia amica di letto. Ormai non riuscivo neanche
più ad imbarazzarmi davanti alle sue battutine schiette, ero
abituato e, in un certo senso, ne ero ammaliato. Già,
perché sapevo
perfettamente che non avrei mai potuto trovare un'altra donna come
lei.
Persino
tutto ciò non andò a genio ad Evans. Ci
provò con Sam
spudoratamente e per di più innanzi a me. Uno sfacciato.
Finì per
ritrovarsi con un nove inches*
di scarpe stampato nelle parti basse. Sam non si era limitata a
renderlo sterile almeno momentaneamente, ma lo aveva persino messo in
ridicolo davanti a tutta l'accademia. Uno smacco per lui che,
purtroppo, non digerì facilmente.
Fu
così che, nel giro di pochi giorni, mi ritrovai sbattuto
fuori
dall'accademia. Secondo il codice penale articolo 336 e 337, venni
accusato di violenza e resistenza ad un pubblico ufficiale. I
commilitoni che quel giorno erano presenti alla scena, si ritrassero
come ricci innanzi alla presenza del padre di Evans, non solo
evitando di spalleggiarmi in una situazione in cui ovviamente ero
stato incastrato, ma dandogli persino manforte.
Fui
scioccato e disgustato da quell'accademia. Mi aspettavo di poter
affrontare una carriera eccellente al suo interno ed invece, a causa
del solito guastafeste di turno, mi ero ritrovato a tornare a casa
con la coda tra le gambe.
Il
rincasare fu più duro del previsto. Quello stabile, che
aveva
accolto la mia infanzia, appariva persino più grande e
più vuoto
del previsto. Quel weekend raccolsi ogni cornice appesa alle pareti e
la buttai violentemente nell'indifferenziata.
Sam
venne in mio soccorso, scusandosi su più fronti per
l'accaduto.
-Fidati,
non hai nulla di cui scusarti- le dissi mentre riempivo l'ennesimo
scatolone con dei vecchi vestiti di mio padre -Evans avrebbe trovato
comunque un modo per cacciarmi da lì, prima o poi-.
Lei
mi prese una mano e me la strinse forte nella sua, fino ad invitarmi
a perdermi nei suoi occhi chiari -per quel che vale, Brent, per me
rimani una persona meravigliosa-.
Sorrisi.
Era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Raccolsi
lo scatolone e lo imballati con un po' di nastro -questo direi che va
tra le cose da dare in donazione- dissi portandolo in salotto ed
accostandolo ad altri due scatoloni della medesima misura.
Mi
guardai soddisfatto. Innanzi a me vi erano raggruppati diverse
scatole. A destra vi erano le cose da buttare, in centro quelle da
donare e a sinistra i ricordi da conservare.
-Ed
ora che ne sarà di me?- dissi sottovoce osservando quei due
miseri
scatoloni sopravvissuti alla spazzatura.
-Io
in realtà un'idea ce l'avrei, Brent- mi disse Sam sorridendo.
La
guardai pormi un opuscolo e lo presi tra le mani fino ad aprirlo in
tre parti e leggere: Chitose Air Base.
-Hokkaido?-
domandai a Sam -seriamente?-.
Lei
ridacchiò divertita -sì, va bene, mi aspettavo
questa tua reazione.
Però non sottovalutare tutto ciò, voglio dire,
sei o non sei per
metà giapponese?-.
Sollevai
un sopracciglio. In effetti Sam non aveva tutti i torti. Ero pur
sempre nato a Tokyo, persino il mio certificato di nascita lo
attestava.
Guardai
Sam aizzare uno scatolone contenente libri di vario genere e
trascinarlo verso la sua macchina -questi li voglio io-.
-Libri?-
domandai scettico.
-Libri!-
rispose lei ben convinta -che c'è Smith, non ti sembro una
tipa da
libri?-.
Io
sorrisi divertito -assolutamente, secondo me tu non conosci barriere,
sei nata per fare qualsiasi cosa-.
Lei
appoggiò lo scatolone nel bagagliaio della sua auto per poi
girarsi
verso di me con occhioni dolci -dio, quanto sei smielato, Brent-.
Sghignazzai
aspettandomi una risposta simile da parte sua.
Mentre
lei era intenta ad incastrare lo scatolone all'interno della sua
piccola vettura, io guardai e riguardai meglio il volantino che mi
aveva dato. Chitose Air Base, non ne avevo mai sentito parlare. A
dirla tutta non sapevo nulla del Giappone o delle sue usanze.
Conoscevo poche parole, giusto perché Yoshiko me le aveva
insegnate
anni addietro. Sorrisi all'idea che forse, presto o tardi, avrei
potuto abitare nel suo stesso Paese.
Sam
arrivò di soppiatto innanzi a me e mi strappò il
volantino dalle
mani -entriamo, forza! Lo so che muori dalla voglia di sapere
qualcosa su questo posto-.
Le
sorrisi grato per tutto quello che stava facendo per me.
-Minimo
mi devi una cena e del buon sesso, sappilo!- rispose
schiaffeggiandomi contro il volantino e sorridendomi maliziosa.
Ridacchiai
divertito, annuendo senza indugio.
Nonostante
la mia connessione fosse piuttosto lenta, riuscii ugualmente a
recepire alcune informazioni circa l'accademia militare giapponese,
soprattutto grazie alla dote nascosta di Sam in informatica.
-Dunque,
a quanto pare il Giappone ha una divisione militare molto
particolare. Qui dice che esistono tre grandi gruppi di appartenenza:
la Rikujo,
Kaijo e Koku Jieitai,
ovvero fanteria, marina navale ed aeronautica- spiegò Sam
scorrendo
il dito sul monitor del proprio computer quasi volesse tenere il
segno di quanto letto.
-Quindi
io dovrei far richiesta alla Koku Jieitai, dico bene?- domandai
insicuro.
Sam
annuì e proseguì dicendo -pare che la base aerea
di Chitose si
trovi in Hokkaido, una delle otto regioni del Giappone, situata
direttamente a nord dell'isola principale dell'arcipelago nipponico,
Honshū- mi disse mostrandomi anche una cartina presa direttamente da
internet.
-Ma
è un aeroporto o un'accademia?- domandai incuriosito.
-Qui
dice che è una base aeronautica vera e propria, situata
vicino
all'aeroporto di New Chitose, con il quale si ritrova spesso a
cooperare e insieme al quale costituisce uno dei più grandi
centri
di volo presenti in tutto il Giappone- mi rispose Sam piuttosto
impressionata da quanto letto.
-Caspita...-
sussurrai quasi a corto di parole quando guardai le poche foto che
Sam riuscì a reperire di quel posto.
-Ora
vorrei solo capire come diavolo fare a...- biascicò Sam
quasi stesse
pensando ad altra voce -è tutto scritto con simboli assurdi-.
-Sono
caratteri kanji-
le dissi correggendola e beccandomi un sonoro schiaffo sul braccio.
-Allora
mister so-tutto-io, decifra questi geroglifici e cerca di capirne
qualcosa- mi disse scostandosi dal computer e invitandomi a prendere
il suo posto.
Mi
sedetti controvoglia davanti al computer, sicuro di non riuscire a
tradurre nulla di significativo, in quanto la mia conoscenza del
giapponese era veramente limitata. Notai però un numero di
telefono,
uno a caso, per intenderci, e decisi di chiamare, tanto non avevo
nulla da perdere in quel momento.
Mi
risposero in giapponese e il mio primo istinto fu quello di
interrompere subito la chiamata, ma Sam mi incitò a
proseguire la
telefonata, perciò dissi l'unica parola che mi veniva in
mente in
quel momento -sayonara**-.
-Konbanwa***-
mi rispose poco convinto un uomo al di là del globo.
-Io...
parla inglese?- domandai consapevole di non poter reggere un discorso
di senso compiuto in lingua giapponese.
-Sì,
signore- mi rispose l'uomo quasi ridendo.
Sospirai
sollevato e, grazie soprattutto all'appoggio morale di Sam, spiegai
per filo e per segno la mia posizione. L'uomo con cui ero al telefono
dovette rigirare la mia chiamata ad un suo superiore il quale mi
spiegò nel dettaglio come era organizzato il loro esercito e
come
funzionava la fase di arruolamento, invitandomi, come previsto, a
visitare l'accademia di persona. Inoltrarono poi la mia chiamata ad
un altro collega, il quale si occupava del reclutamento di nuovi
cadetti.
Quando
chiusi la telefonata avevo sì, le idee più
chiare, ma al contempo
mi sentivo quasi sfinito, come se quei cinquanta minuti trascorsi al
cellulare mi avessero prosciugato le energie.
-Quindi?-
domandò Sam di ritorno dopo essere uscita di casa per
raggiungere la
bancarella di fish
and chips
che vi era in fondo alla via -fame?-.
Mi
allungò un sacchettino di carta con al suo interno cipolle e
patatine fritte e pesce impanato.
Afferrai
con discrezione la mia cena e iniziai a mangiare raccontandole nel
frattempo tutto ciò che ero riuscito a scoprire -l'esercito
giapponese, a causa dell'imposizione dettata dalla costituzione
stipulata dopo la seconda guerra mondiale, ha scopi puramente
passivi. In poche parole il Giappone ha rinunciato per sempre
all'opportunità di dichiarare guerra ad altri Paesi.
Perciò
l'esercito non è come qui in Inghilterra che viene
utilizzato per
missioni militari offensive. Là viene impiegato solo per
scopi
difensivi e missioni umanitarie-.
Sam
alzò un sopracciglio -un esercito che non fa la guerra? No,
scusa,
ma perché?-.
Io
ridacchiai divertito -non è che non fa la guerra- le spiegai
cercando di memorizzare ogni spiegazione datami poco prima -devi
sapere che dopo la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale, al
Giappone fu imposto lo smantellamento dell'apparato militare. Motivo
per cui ha subito questo cambiamento così traumatico nel
post
guerra-.
Sam
annuì mentre addentava con voracità il suo fishburger
-e come pensi di fare con la lingua?-.
Mi
portai una mano al mento e risposi sicuro di me -appena vinta la
guerra, gli Stati Uniti hanno occupato il Giappone e hanno costruito
una serie di basi militari tutt'ora attive-.
-E
perciò laggiù si parla inglese senza alcun
problema- dedusse Sam
terminando il suo panino -tutto chiaro-.
-Perciò
ora come devi procedere?- domandò Sam afferrando alcune
delle mie
patatine e mangiandole sotto i miei occhi.
-Quelle
erano mie- dissi puntandole il dito contro.
Lei
mi rispose con una linguaccia, rubandomi ancora una mangiata di
patatine dal piatto.
-Perciò
ora come devi procedere?- domandò Sam nuovamente sfidandomi
con lo
sguardo.
Assottigliai
gli occhi fino a quasi chiuderli per poi rispondere stizzito -hanno
richiesto alcune scartoffie preliminari per valutare la mia
preparazione, poi mi contatteranno per procedere con un colloquio
conoscitivo e, se tutto va bene, mi inviteranno in Giappone per dei
test attitudinali e fisici-.
-Quindi
te ne andrai- disse con tono malinconico.
-Non
è detto- mi avvicinai a lei sorridendo -non vorrai certo
farmi
credere che sei triste per la mia partenza-.
-Finalmente
ti levi dalle scatole una volta per tutte!- rispose lei alzandosi dal
tavolo e appoggiando i piatti nel lavandino.
Sam
in quel momento non voleva darlo a vedere, ma era veramente triste
per la mia dipartita. Perciò mi alzai dal tavolo per
raggiungerla e
l'abbracciai da dietro.
-Ti
voglio bene, Sam- le sussurrai all'orecchio.
-Idiota
che non sei altro- sbraitò lei allontanandomi da
sé -lo sai che
odio queste smancerie-.
Ridacchiai
divertito per la sua reazione, afferrandola ancora una volta e
trascinandola verso di me -te l'ho mai detto che sei particolarmente
carina quando ti arrabbi?-.
-Ed
io te l'ho mai detto che con la gonna ed i tacchi saresti proprio un
bel figurino?- mi rispose lei cercando di mantenere intatta la sua
corazza.
Sorrisi
e le accarezzai il viso, scostandole una ciocca dal volto -mi
mancherai, Sam Elliots- le dissi guardandola poi fissa negli occhi.
-Sei
un cretino...- disse lei di getto, girando il volto a sinistra e
cercando quasi di mascherare la sua espressione sgomenta.
Spostai
la mano dalla guancia fino al mento, costringendola a reggere il mio
sguardo e guardarmi dritto negli occhi -ti voglio bene anche io- le
risposi.
Sapevo
bene cosa stava passando in quel momento. Lei era fatta
così, non lo
dava a vedere, ma era ovvio che la mia decisione l'aveva realmente
turbata. Eppure era stata lei ad incitarmi a seguire questo percorso
alternativo.
I
suoi occhi languidi mi penetrarono dritto al cuore. Sentii come una
tenaglia stringermi forte il petto.
Quella
notte l'amai come mai prima d'ora. L'amai in ogni modo possibile,
donandole tutto me stesso e facendole provare ogni sorta di piacere.
L'amai come se non ci fosse un domani per noi, perché in
effetti fu
così. Quello fu un addio a tutti gli effetti.
Non
vi fu un domani per noi perché, a distanza di pochi giorni,
venni
contattato dalla Chitose Air Base poiché ritenuto idoneo ad
affrontare i tanto temuti test di ingresso.
Nel
breve giro di una settimana, quindi, mi ritrovai a mollare ancora una
volta ciò che conoscevo e più mi era familiare,
per salpare alla
rotta dell'ignoto.
Se
per ormai quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in
Inghilterra, secondo regole specifiche, parlando una lingua
conosciuta sin dalla nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a
dover intraprendere un viaggio verso tutto ciò che mi era
estraneo,
ma che per metà mi apparteneva, alla ricerca della
felicità. Perché
sì, per me diventare un pilota era un po' come raggiungere
l'apice
della felicità.
*
nove inches come unità di misura, corrisponde ad un numero
trentasei
di scarpe italiane.
**
addio
***
buonasera
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
INFO:
finalmente TBE inizia ad intrecciarsi con Choices, perciò da
questo
capitolo in avanti – almeno per chi ha avuto modo di leggere
la mia
precedente minilong – ritroverete un volto noto, Taichi
Yagami, e
alcune citazioni e scene prese proprio da Choices.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
verde
Personaggi
capitolo:
Brent e Taichi
Capitolo
8
Se
per quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in Inghilterra,
secondo regole specifiche, parlando una lingua conosciuta sin dalla
nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a dover intraprendere
un viaggio verso tutto ciò che mi era estraneo, ma che per
metà mi
apparteneva, alla ricerca della felicità. Perché
sì, per me
diventare un pilota era un po' come raggiungere l'apice della
felicità.
Lasciai
alle spalle poche cose a me care, tra cui la casa che per un'intera
vita era stata testimone della mia maturazione, che aveva abbracciato
la morte di mio padre e che aveva condiviso i suoi ampi spazi con me;
Sam che il giorno in cui partii venne a trovarmi in aeroporto
regalandomi un bacio di addio, insieme alla sua maglietta preferita
dei Pantera; l'Inghilterra e le sue usanze, sicuramente meno ferree
di quelle che avrei dovuto adottare in Giappone.
I
miei sogni, però, erano più grandi di qualsiasi
altra cosa
e non avrei concesso nemmeno a me stesso di ostacolarli.
Quando
giunsi per la prima volta in Giappone mi accorsi subito di non essere
altro che un giovane turista spaesato. Non vi era nulla che
richiamasse alla mia Inghilterra, tutto mi era così estraneo
e
diverso. Seppur per metà potessi ritenermi giapponese,
nella
realtà dei fatti non lo ero per nulla. Non sapevo nulla di
questo
magico Paese, se non ciò che avevo potuto curiosare sulle
guide
turistiche riguardanti la sua tradizione solida e stimata in tutto il
mondo, il cibo salutare e ormai commercializzato in tutto il mondo,
l'architettura nota all'estero soprattutto per i suoi santuari
scintoisti e dai templi buddhisti.
Il
mio primo obiettivo era l'aeroporto di Shin Chitose, più
correttamente definito, situato a sud-est della città di
Chitose e
Tomakomai, nell'isola di Hokkaido. Nonostante non ricopra un'area
particolarmente vasta, o per lo meno sicuramente inferiore rispetto
all'aeroporto di Londra, Shin Chitose gode di una notevole estensione
in verticale. Questo aeroporto, infatti, è edificato su ben
cinque
piani, tra cui un piano interrato collegato alla linea ferroviaria
principale di Sapporo tramite treni locali ed espressi.
Quando
approdati finalmente sulla terra ferma, notai subito
un'organizzazione quasi maniacale da parte dei giapponesi.
Tant'è
che non ebbi alcuna difficoltà a raggiungere uno dei quattro
tour
desks
situati al primo piano dell'aeroporto. Avevo bisogno di mangiare. In
volo mi ero limitato a prendere una bottiglietta di acqua e un
sandwitch confezionato veramente terribile, dal sapore quasi
plastificato e la consistenza simil cartone del latte. Tutto
ciò
aveva solo aiutato il mio stomaco ad aprirsi ulteriormente ed ora ero
in completa balia del brontolio della mia pancia. La signorina al
tour
desk
mi disse di dovermi recare all'ufficio informazioni per questo genere
di domande, ma, prima ancora di lasciarmi andare, si guardò
intorno
e mi indicò in fretta e furia la strada da imboccare per
poter
raggiungere uno dei tanti ristoranti presenti all'interno
dell'aeroporto. Quel suo gesto, quasi celato dalla paura, mi
lasciò
perplesso. Era come se il dover infrangere le regole lì
fosse un
reato perseguibile dalla legge.
Al
secondo piano trovai moltissimi negozi in cui poter far shopping, ma,
vista la motivazione che mi aveva spinto a raggiungere il Giappone,
oltrepassai quei locali per giungere al terzo piano dedicato
all’area
ristoro. In Inghilterra non tutto il cibo take
away
era così prelibato come in Giappone. Mi ritrovai ad amare il
pesce
crudo, cosa che non avrei mai immaginato in vita mia. Mi sono sempre
definito una persona fortemente carnivora. Tra una bella costata al
sangue ed un trancio di salmone, ho sempre preferito la carne.
Eppure, sarà stato il cambio di clima, il cambio di luogo,
di
cultura, ma avevo riscoperto un amore per determinate pietanze che
non sapevo neanche di avere. Mi ritrovai a pranzare con un mucchietto
di riso in bianco avvolto in un foglietto scuro di non so cosa.
Scoprii solo successivamente che mi ero cibato con delle alghe.
Guardai
il mio orologio e mi affrettai a raggiungere l'esterno di quel
palazzo a mezza luna, per poi cercare un modo per raggiungere
l'accademia.
Mi
documentai nel frattempo in internet e scoprii che l'aeroporto di
Shin Chitose aveva aperto nel 1991 in sostituzione dell'adiacente
aeroporto di Chitose. Quest'ultimo divenne
poi esclusivo per le forze di autodifesa giapponesi, nonostante
tuttora fosse ancora collegato
fisicamente allo scalo civile.
Ecco,
Chitose era il mio obiettivo prossimo.
Dovetti
chiamare un taxi per poter raggiungere la Chitose Air Base. Meno di
dieci minuti di viaggio ed eccomi lì, innanzi a quello che
speravo
essere il mio futuro.
Appena
varcai le porte della base aerospaziale, venni accolto molto
calorosamente dal medesimo personaggio con il quale avevo parlato la
settimana precedente al telefono. Uno dei tanti, visto il giro di
chiamate che dovetti fare.
Il
colonnello Itou si presentò molto cordialmente, con il
tipico saluto
giapponese, chinando lievemente corpo e capo in avanti. Io rimasi per
un istante confuso sul da farsi, ma poi realizzai di essere un
semplice ospite in uno dei paesi più tradizionalisti del
mondo.
Perciò imitai il mio futuro superiore per poi fronteggiarlo.
-È
un piacere averti qui, Brent Smith- mi disse il colonnello allungando
la mano verso di me e stringendola forte nella sua.
Sorrisi
per quel gesto. Fu proprio in quella movenza che ritrovai una certa
familiarità e un tocco di ospitalità
internazionale.
-Smith,
ho controllato le tue carte prima di convocarti qui per l'ammissione
e non ho potuto fare a meno di notare, con piacere, che sei nato a
Tokyo.
Dico bene?- mi domandò l'uomo mentre mi invitava a seguirlo
all'interno
dell'edificio.
La
struttura era in cemento grezzo, completamente priva di ogni
possibile decorazione o rifinitura. Adiacente ad essa vi erano
diversi capannoni piuttosto grandi che si reggevano in altezza per
poter accogliere al loro interno velivoli militari di svariate forme
e dimensioni.
-Sì,
purtroppo non so molto altro sulle mie origini asiatiche- risposi
vago guardandomi attorno e ammirando la struttura internamente.
-Hai
mai vissuto in Giappone?- mi domandò proseguendo il suo
cammino
verso un corridoio che appariva infinito.
-Che
io sappia solo per pochi mesi, ma giusto quand'ero ancora in fasce-
risposi cercando di captare eventuali note negative sul suo volto.
Ma
quell'uomo appariva così risoluto e inespressivo, che non mi
diede
modo di interpretare la sua espressione.
-Eccoci-
disse ad un tratto dopo aver raggiunto un portone piuttosto pesante
ed invitandomi ad entrare -il generale ti sta aspettando-.
Presi
un respiro ed oltrepassai l'uscio del suo ufficio, per poi ritrovarmi
faccia a faccia con un uomo distinto, vestito solo della sua migliore
uniforme.
Mi
salutò anch'egli inchinando il capo in avanti ed io dovetti
fare
altrettanto.
-Accomodati-
mi disse con scarso entusiasmo -colonnello, lei invece può
congedarsi-.
Doveva
sicuramente trattarsi di un suo superiore visto il tono utilizzato
per invitarlo ad uscire dalla stanza.
-Sono
Kobayashi, generale di brigata aerea dell'aeronautica giapponese-
disse afferrando alcuni documenti posti sulla sua scrivania ed
iniziando a sfogliarli proprio davanti a me.
Mi
ritrovavo davanti al primo, in ordine gerarchico crescente, tra i
gradi degli ufficiali generali. Incredibile, in quel momento mi
sentii minuscolo ed insulso quanto un moscerino.
-Brent
Smith, nato a Tokyo da donna ignota. Tuo padre è un medico
ing...-
iniziò leggendo la mia storia personale prima di venir
interrotto da
me.
-Era-
lo corressi.
-Mi
scusi?- domandò non capendo la mia correzione.
-Mio
padre era
un medico- mi spiegai meglio.
Il
generale non accennò neanche per un istante ad una reazione
empatica
nei miei confronti. Si schiarì la voce e proseguì
la mia
introduzione -vedo che hai sempre vissuto in Inghilterra, che non
parli giapponese e non hai mai vissuto qui in Giappone-.
Il
modo con cui lesse la mia scheda personale mi fece quasi venire i
brividi.
-Non
mi pare tu abbia tratti asiatici- mi disse alludendo alla forma dei
miei occhi, decisamente più occidentale della sua.
-Ecco,
io...- avrei voluto rispondere a quell'accusa, ma la verità
era che
non sapevo nulla circa il mio concepimento e la mia madre biologica.
-In
ogni caso il certificato non lascia dubbi, sei giapponese, seppure
per metà- dichiarò infine rimarcando questa frase
quasi con tono
accusatorio, per poi proseguire di getto -noto con piacere che,
rispetto a molti nostri cadetti della tua età, hai
già avuto
esperienze in mimetica. Sei stato in una scuola a stampo militare ed
hai frequentato per un breve periodo un'accademia di aviazione-.
-Sissignore-
dissi sentendomi quasi in dovere di impettirmi innanzi ad un
personaggio del suo calibro.
L'uomo
si alzò dalla scrivania per poi soffermarsi davanti alla
finestra
del suo studio
e guardare esternamente -devi sapere Brent, che al contrario di
quanto si possa percepire
dai film esteri, non siamo un popolo particolarmente chiuso nelle
proprie mura-.
Alzai
un sopracciglio non capendo perfettamente il discorso da lui
iniziato.
-Noi
non abbiamo come obiettivo quello di arruolare soldati da macello,
noi non puntiamo a fare la guerra. Il nostro esercito è
stato
redatto solo per poter difendere il nostro paese e per poter aiutare
i nostri alleati in missioni di salvataggio, recupero o umanitarie.
Per questo non arruoliamo uomini basandoci solo sul loro curriculum o
sul loro aspetto- nonostante il suo discorso potesse apparire
piuttosto glorioso, continuavo a non capire dove volesse andare a
parare.
-Voglio
conoscere il vero Brent Smith, quello che ha fatto miglia e miglia
pur di poter diventare un pilota, quello che ha abbandonato la sua
patria per poter inseguire un sogno- si voltò verso di me
sorridendomi -voglio conoscere la persona che si cela dietro queste
carte, perché il mio sesto senso non si smentisce mai e in
questo
momento mi sta invitando a prendere seriamente in considerazione
l'idea di arruolarti nel mio esercito. Un esercito che io stesso ho
scelto di persona, soldato per soldato, senza eccezioni-.
Sentii
il cuore salirmi fino in gola e pulsare talmente forte da farmi
credere per un istante di sentire il terremoto sotto i miei piedi.
-Sei
pronto Brent Smith a raccontarmi tutto di te?- mi domandò
allungano
una mano in mia direzione ed invitandomi a stringerla nella mia.
-Prontissimo!-
risposi senza alcun indugio alzandomi dalla mia sedia e raccogliendo
la sua sfida.
Trascorsi
quasi tre ore intere raccontando ogni singolo dettaglio della mia
vita, mettendo da parte l'imbarazzo e cercando di non tralasciare
nessun particolare. Gli raccontai dell'incontro piuttosto bizzarro
dei miei genitori, del mio rapporto con mio padre e di quanto io
abbia patito la mancanza di una figura materna. Decisi di aprirmi
completamente a quello sconosciuto perché, mal
che sarebbe andato, mi
avrebbe negato l'accesso in accademia e sarei tornato dall'altra
parte del mondo senza doverlo più rivedere.
Perciò tanto valeva
fare un tentativo.
Gli
raccontai persino del sergente Gamble, della seconda
possibilità che
mi era stata concessa e dell'influenza positiva che quell'uomo aveva
avuto nei miei confronti. Parlai persino di Sam, tralasciando
ovviamente qualsiasi scampagnata avvenuta sotto coperta.
Comprendetemi.
Quando
mi domandò perché proprio l'aviazione, io
intrapresi un lungo
discorso sulla mia passione infantile, raccontandogli della favola di
Peter Pan e della farfalla monarca. Gli mostrai persino il mio
tatuaggio e lì intravidi un'espressione che probabilmente
non avrei
mai potuto dimenticare. Mi aspettavo di venir preso per pazzo, strano
o comunque che il mio discorso lo avrebbe fatto desistere
dall'ammettermi in accademia. Ed invece, con mia grande sorpresa, si
tolse la giacca, per poi sfoderare un tatuaggio molto simile al mio.
-Chou-
mi disse ricomponendosi subito e non dandomi eccessivo tempo di
ammirare il suo tatuaggio -mia figlia-.
Sospirò
poggiandosi una mano sul petto e socchiudendo gli occhi quasi a voler
ricrearsi la figura della figlia nella mente.
-Sai
che cosa sono i bambini farfalla, Brent?- mi domandò allora
il
comandante tornando a sedersi dietro alla sua scrivania.
Scossi
il capo non comprendendo la serietà di quel discorso.
-Chou
è nata con una grave malattia della pelle. La sua epidermide
era
talmente delicata da avere continue bolle e lesioni, sangue ed
infezioni. Bambini farfalla proprio per questo motivo,
perché la
loro pelle è delicata proprio come le ali delle farfalle-.
-Chou
significa farfalla- disse indicandosi il petto, esattamente dove
giaceva il tatuaggio di una splendida farfalla monarca -Chou
è morta
poche ore dopo il parto-.
Mi
sentii la gola arida, incapace di proferire parola innanzi ad una
rivelazione simile. Il mio sguardo confuso fece intendere tutto e il
comandante tornò a sorridermi per poi aggiungere -abbiamo
entrambi
perso una persona a noi cara, siamo legati da una farfalla monarca e
ci piace volare. Tu credi nelle coincidenze, Brent?-.
Alzai
lo sguardo verso la sua imponente figura. Solo in quel frangente
notai con mio grandissimo stupore che quell'uomo era persino
più
alto di me. Eppure avevo sentito dire che gli asiatici erano tutti
bassi. Dicerie, come sempre.
Lo
guardai dritto negli occhi
e, prima
ancora di formulare una qualsiasi risposta a senso compiuto,
intravidi nei suoi occhi quelli del sergente Gamble. E fu allora che
sorrisi di cuore.
-Non
credo nelle coincidenze, signore- risposi schiettamente.
-Neanche
io, figliolo- rispose lui alzandosi dalla scrivania e battendo le
mani tra di loro -benvenuto in accademia, Brent Smith-.
Lo
guardai con stupore e con lo sguardo di chi davvero non si sarebbe
mai aspettato un inserimento tanto immediato.
Ecco,
quella fu la svolta di cui avevo bisogno. La svolta che mi
portò sin
qui.
Quel
giorno il comandante in carica si mise una mano sul cuore e mi
introdusse in accademia, facendomi saltare persino al gradino
successivo, evitandomi così ogni incombenza noiosa e
umiliante
tipica del novellino.
***
Negli
ultimi due anni ho imparato la lingua giapponese e ho affinato le mie
conoscenze in ambito militare. Ho imparato a pilotare e, modestia a
parte, sono un talento nato.
Ho
chiesto di venir collocato nel gruppo adibito al soccorso estero,
perciò trascorro mesi interi fuori dal Giappone per poter
portare a
termine alcune tra le più ardue missioni. Al di fuori di
tutto ciò,
vivo la vita come viene, senza ostacoli o limiti imposti da nessuno.
Sono finalmente il pieno artefice del mio destino e questa sensazione
di onnipotenza nei miei stessi confronti è indescrivibile.
Ho
fatto un discreto salto di qualità nell'ultimo periodo. Con
l'imminente aumento di grado, ho persino avuto il privilegio di poter
pilotare uno dei pochi prototipi in circolazione di Lockheed Martin
F-35 Lightning II, da noi definito anche JSF-F35. Si tratta di un
caccia multiruolo monoposto di quinta generazione, a singolo
propulsore, con ala trapezoidale a caratteristiche strealth, ovvero
completamente invisibile ai radar o a qualsiasi dispositivo di
localizzazione moderno. Insomma, un gioiellino niente male che
l'aeronautica militare ha deciso di affidare proprio a me. Vi parlo
di circa 14 miliardi di yen di velivolo, non so se mi spiego.
Inoltre,
visto che nella vita non ho avuto eccessiva fortuna in quanto
amicizie e buone compagnie da frequentare, vivo la maggior parte
delle mie missioni in solitaria. Beh, vivevo
a dirla tutta. Nell'ultimo mese mi è stato affiancato un
nuovo
cadetto, un certo Taichi Yagami. Non l'ho ancora ben inquadrato, ma
ha un trascorso recente piuttosto doloroso con il quale fatica a
convivere. Per ora ci limitiamo a parlare di aerei e di tutto
ciò
che concerne l'aviazione, senza mai sforare l'argomento.
Un
mese effettivamente è troppo poco per poter dire di
conoscere
veramente una persona. Eppure mi sono legato a questo ragazzo sin da
subito. È terrorizzato e spaventato da ciò che
sta facendo. Si vede
che la scelta fatta non è stata sua. In realtà
non gli è neanche
stata imposta. Diciamo che per una serie di motivi, ha optato per la
carriera militare.
Sapete,
circa un paio di anni prima ha perso il padre e vista la situazione
economica familiare piuttosto precaria, ha ben pensato di arruolarsi
così da poter sostituire l'introito del padre.
Ebbene
sì, è una cosa che abbiamo in comune. Una delle
tante, in realtà.
Lui è un po' come me. È un ragazzo estremamente
coraggio e
impulsivo, vive ogni istante della sua vita dando tutto sé
stesso e
ragionando con il cuore e non troppo con la mente. Il che non sempre
lo porta a prendere decisioni giuste. Ma chi meglio di me
può
capirlo.
Nonostante
sia solo un mese che lavoriamo a stretto contatto, in lui ho trovato
un fratello d'armi, una persona su cui contare e che possa guardarmi
le spalle anche sul campo. Cosa che non potrei dire circa i miei
commilitoni.
Anni
prima ebbi alle spalle un uomo che diede sé stesso per me. E
no, non
mi riferisco a mio padre, bensì al sergente Gamble. Un uomo
che è
riuscito a guardare al di là di me come ragazzino,
con
gli ormoni a palla e con il malumore perenne. Lui ha riposto in me la
fiducia di cui avevo bisogno, spronandomi a diventare una persona
migliore. Ed è ciò che credo e spero di essere
diventato. Ecco
perché Taichi mi piace, perché in parte mi
ricorda la transizione
che ho subito. E lui, proprio come me, merita di essere spalleggiato
da una persona che creda in lui e che possa aiutarlo a superare le
difficoltà che sta vivendo, dandogli una seconda
opportunità di
riscattarsi.
Ed
io vorrei proprio essere quella persona.
Nonostante
Taichi abbia paura di ciò che lo attende all'estero,
è piuttosto
elettrizzato all'idea di allontanarsi dal Giappone. Dice che spesso i
ricordi lo divorano nel sonno.
-Sono
convinto che una volta in Russia riuscirò a trovare la pace
interiore- mi dice un giorno nell'interfono mentre sorvoliamo la
punta più a Est della Cina diretti in Siberia.
-Non
ci giurerei molto- gli rispondo guardando fuori dal mio finestrino
-la Russia può essere un posto abbastanza inospitale-.
-Che
ti è successo veramente, Taichi?- gli domando cercando di
non
perdere il controllo del mio velivolo -c'è un addensamento
qui
avanti, fa attenzione-.
Scorgo
il suo velivolo fluttuare leggermente su e giù, ma senza mai
deviare
la propria rotta.
-Mio
padre è morto, questo già lo sai- mi dice
facendomi annuire -solo
dopo la sua morte ho scoperto che la mia famiglia aveva dei debiti
insoluti e io sono l'unico uomo di casa-.
Sorrido
a quel pensiero così tradizionalista. Ancora una volta la
mia mente
fluttua a Yoshiko ricordandomi delle sue lettere e di quanto fosse
costante in lei e nella sua cultura il dover dipendere da un uomo.
-Capisco...-
gli rispondo senza voler entrare nel merito dell'argomento.
-Non
è come pensi tu- mi rimprovera. Sento che il suo tono
è cambiato,
quasi mi rimprovera per i miei pensieri accusatori.
-E
cosa penso?- gli domando fingendomi vago.
-Che
è una mentalità arretrata la mia, che dovrei
permettere a mia madre
di lavorare e che non dovrei tarparmi le ali facendo un lavoro che
non mi piace- mi risponde con fermezza.
Seppur
io non stia condividendo il mio velivolo con lui, mi ritrovo a
strabuzzare gli occhi, non immaginandomi davvero di poter essere
anticipato in quel modo.
-Già,
lo sapevo- aggiunge poi, quando non riceve alcuna mia risposta.
Sorrido.
Taichi
Yagami, che personaggio.
-E
allora com'è andata veramente?- gli domando in tono forse
troppo
saccente.
-Mia
madre non ha mai lavorato in vita sua e sicuramente alla sua
età non
l'avrebbe assunta nessuno. Rischiavamo lo sfratto e mia sorella
è
ancora minorenne. Il che significa che gli assistenti sociali
avrebbero potuto affidarla ad una famiglia temporanea. A meno che io
non fossi stato in grado di trovare un buon lavoro- mi spiega lui
iniziando a perdere quota.
Lo
affianco con il mio aereo e gli faccio cenno di scendere meno
precipitosamente -ti sei sacrificato per loro-.
-
È una domanda?- mi chiede sghignazzando.
-Un'affermazione,
piuttosto- gli rispondo.
-Credevo
di sì. Il primo anno è stato uno schifo. Ci credi
se ti dico che mi
hanno persino fatto pulire i cessi con lo spazzolino?- mi dice
ridacchiando.
-Scherzi?
Ancora con queste usanze così barbare?- domando io
ringraziando di
aver saltato quel rito di passaggio.
-Ho
seriamente creduto di dovermi sacrificare per loro, che questa era
necessariamente la strada più giusta da intraprendere- mi
spiega con
quel tono di chi ha ancora qualcosa da dire.
Segue
una lunga pausa nella quale io percepisco quasi il bisogno di una sua
ulteriore confidenza. Quel chiacchierare con lui e quel brusio nelle
orecchie, che aveva preso il posto del silenzio tombale a cui ero
generalmente abituato, mi rendono felice.
Un
amico, ecco di cosa avevo veramente bisogno.
-Mi
piace volare, mi fa sentire libero- aggiunge ad un tratto.
-Capisco
cosa intendi dire- gli rispondo sentendomi quasi invadere dalla gioia
di poter condividere con lui una passione tanto grande e radicata in
me.
-Ma
ora portiamo i nostri culi a terra e andiamoci a bere una bella
bottiglia di vodka- dico io in fase di atterraggio -ti ci vuole una
bella bevuta per far scivolare via ogni pensiero-.
Dal
finestrino lo vedo alzare un pollice in alto, vittorioso e pronto
alla sua prima vera avventura.
Sapete
quel detto che dice chi
trova un amico, trova un tesoro?
Ebbene sì, il bimbo sperduto che è in me, ha
appena raggiunto il
tanto e ambito traguardo di sempre: il tesoro dei pirati. Peccato che
in questo caso nella mia cassa vi è un qualcosa che va ben
oltre il
tangibile. Il mio tesoro è proprio lui, Taichi Yagami.
Quel
giorno abbiamo sancito un'amicizia importante mediante una sana
bevuta alcoolica che, ahimè, non è propriamente
finita bene. Solo
più tardi ho scoperto che Taichi non aveva mai bevuto in
vita sua.
Ebbene sì, serata dalle prime esperienze, primo viaggio
aereo in
solitaria, primo volo all'estero, prima bottiglia di vodka e prima
simpaticissima ed indimenticabile lavanda gastrica.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo:
giallo per accenni a tematiche forti
Personaggi
capitolo:
Brent, Taichi, altri
Capitolo
9
Gli
ultimi sei mesi trascorsi in Russia sono stati impegnativi per Taichi
e me. Abbiamo dovuto fronteggiare una rivolta popolare proprio alle
porte di San Pietroburgo.
Quella
città dall'estrema bellezza rappresenta forse una delle mete
più
ambite in Russia,
non tanto per le vaste dimensioni che ricopre, ma per lo più
per
l'importanza che riveste il suo porto e la sua storia.
A livello architettonico ospita alcune tra le strutture più
maestose
e belle al mondo. Parliamo di secoli di storia dell'arte, un viaggio
incredibile alla scoperta dello stile barocco e neoclassico. Non per
niente l'intero centro storico di San Pietroburgo è stato
riconosciuto come patrimonio dell'UNESCO.
Purtroppo,
però, la ricchezza di questa città è
racchiusa al suo interno,
abbracciando esternamente un grado di povertà che rasenta
l'estremo.
Ed è proprio per questo motivo che nel secolo precedente si
è
verificato un brusco picco nel livello di criminalità. In
realtà,
la causa maggior di questa presa di potere da parte della malavita
è
dovuta ai cambiamenti avvenuti dopo la perestroika.
Parliamo di riforme economiche e politiche avviate sotto lo stato
federale dell'Unione Sovietica, finalizzate alla riorganizzazione
dell'economia e della struttura politica e sociale del Paese. Tutto
ciò, come previsto, ha comportato un declino del tenore di
vita ed
una diminuzione dell'efficacia delle forze di polizia locali. Motivo
per cui è stato reso necessario l'intervento dell'esercito.
In
particolar modo, dopo l'assassinio del vice governatore Manevic e
della deputata Starovojtova, San Pietroburgo fu soprannominata dalla
stampa russa come la capitale
del crimine.
Ed è un nome che tutt'ora si trascina dietro.
Seppur
il Giappone non sia un alleato politico e militare della Russia,
adempie comunque al suo patto di salvaguardare le rivolte ed i suoi
connazionali all'estero. Motivo per cui io e Taichi siamo qui ora, in
Russia.
La
cerchia di persone più povere del paese ha ben pensato di
assediare
l'esterno di San Pietroburgo, cercando così di prendere il
potere
dell'intera città. E per farlo si è avvalsa di
alcune ambasciate
straniere, rapendo tra i tanti alcuni dei nostri connazionali. Ed
ecco che qui interveniamo io e Taichi, che, attraverso una missione
di recupero, abbiamo l'ordine di riportare tutti i nostri compatrioti
in Giappone. Ovviamente sani e salvi, altrimenti che razza di
operazione di salvataggio sarebbe questa.
E
ci siamo quasi
riusciti. Circa tredici persone tra adulti e bambini. Dico quasi
perché purtroppo gli intoppi non sono mancati.
Nel
gruppo dei tredici vi era anche una ragazza italiana, una certa
Ilaria. Si era trasferita nel paese di ghiaccio come medico
volontario. Aveva abbandonato una vita agiata e piena di ricchezze
per privarsi di ogni bene e aiutare il prossimo. Una ragazza che
poteva avere all'incirca l'età di Taichi o al massimo la
mia. Ilaria
aveva ammesso di aver trascorso un paio di anni in una prigione
politica russa a causa dei suoi solidi ideali. Lei credeva nelle
seconde possibilità e nel rispetto reciproco. Aveva
imboccato quella
strada perché voleva poter dare assistenza medica gratuita
anche a
coloro che non se lo potevano permettere. Una ragazza d'oro che aveva
prestato il suo sapere a coloro che più lo necessitavano.
L'abbiamo
salvata da una fine lenta e dolorosa. Ciò nonostante Ilaria,
seppur
non supportata dall'ambasciata italiana, ha deciso di rimanere in
Russia per proseguire il suo lavoro di volontariato.
In
ogni caso, quella missione mi ha letteralmente privato di forze ed
emozioni. Poter vedere con i miei stessi occhi la diversità
che si
può riscontrare all'interno ed all'esterno di una singola
città, è
sconvolgente. Tutti i magnate e le famiglie benestanti possono godere
di certi privilegi, che la maggior parte dei rifugiati esiliati
all'esterno della città non potrebbero mai avere nella loro
intera
vita.
In
ogni caso, anche in questo frangente, sono stato grato di aver
accanto una persona come Taichi. Certo, è un tantino
inesperto e
alle volte troppo impulsivo, ma cavoli se ha coraggio da vendere! Il
suo carattere così determinato lo spinge ad agire persino
alla luce
del sole. Perciò non mi resta che coprirgli le spalle
scaricando
l'intero caricatore del mio mitra sul suolo nemico. E quale nemico.
Il popolo, i rifugiati, i ribelli non sono altro che persone come me,
come te. Persone comuni, disperate e angosciate dalla situazione per
lo più economica che vige sulle loro teste. Spesso abbiamo
scoperto
che l'arma più efficace con loro non è altro che
la moneta. La
moneta d'oro vera e propria, i rubli. Perché non hanno paura
delle
armi, non temono di morire. È gente che ormai non ha nulla
da
perdere. Se non muoiono sotto le armi nemiche, muoiono ugualmente di
fame. Perciò poter contrattare con loro è
relativamente facile,
basta un pezzo di pane, o dell'acqua, o alle volte delle medicine.
Alla
fine questa missione è stata una delle meno sanguinarie mai
vissute.
Non ho colpito neanche un uomo, se non un soldato russo ubriaco in
procinto di violentare una giovane bielorussa scappata da Minsk alla
ricerca di una vita nuova. E quale scelta peggiore se non cercare di
scavalcare clandestinamente i confini russi.
Tutto
ciò ha aiutato me e Taichi a riflettere su una cosa molto
importante: per quanto i nostri trascorsi possano apparire a noi
stessi turbolenti, vi è sempre una persona a noi estranea
che sta
vivendo una situazione di disagio ben peggiore della nostra.
È
una sera come le altre, Taichi mi ha appena offerto un bicchiere di
birra -mi fa strano pensare che siamo qui ormai da oltre sei mesi-.
-Già...-
sussurro io bevendone un sorso.
Il
freddo nordico di quel Paese ostico non mi tange più ormai.
Lo trovo
quasi ospitale. Mi siedo accanto a Taichi, il quale ha raccolto un
paio di ceppi di legno per poter accendere un focolare davanti a noi.
-Raccontami
di questa Sora- gli chiedo io alzando il bicchiere verso di lui e
chiedendogli di versarmi ancora della birra.
-Non
credo ci sia molto da dire- mi risponde lui allungandomi una sua foto
-è la ragazza con i capelli ramati-.
-Bella-
rispondo guardandola con attenzione e sorridendo -eravate piccoli
qui- aggiungo notando il viso fanciullesco di Taichi.
-Eh
sì, ci è stata scattata anni fa, quando ancora
giocavamo a calcio
insieme-
mi risponde lui continuando a scolarsi la bottiglia di birra -lei
è
ciò che c'è di
più irraggiungibile -.
Scoppio
a ridere di gusto -ma come, Yagami. Corri come un velocista per tutta
la distesa siberiana, saltando tra una mina e l'altra, e poi vuoi
farmi credere di non riuscire a dichiararti ad una ragazza?-.
Mi
guarda con sguardo severo. Probabilmente il mio appunto non gli
è
piaciuto, ma sorrido, è più forte di me. Mi piace
stuzzicarlo,
perché spesso capita che si inalbera tanto da perdere le
staffe e
tenermi il muso per ore intere.
-Lei
è diversa da tutte le altre ragazze- mi risponde dopo un po'.
-Questa
frase te l'ho già sentita dire- rispondo bevendo un altro
sorso di
birra -tipo un milione di volte!-.
Taichi
ridacchia e proseguiamo così per circa un'oretta. Scopro che
anche
lui, come me, è legato ad un amore infantile. Una ragazza
che sin
dal primo sguardo lo ha rapito, con il quale ha un legame speciale.
Beviamo
ancora e ancora. Tracannando un barile di birra e qualche bottiglia
di vodka fino allo sfinimento. Alla fine siamo uno più
ubriaco
dell'altro.
La
sua presenza mi fa piacere, è una buona spalla su cui
affogare gli
amari dispiaceri della vita da militare.
-Okay,
okay ora tocca a
me!- ridacchio io afferrando un'altra bottiglia di birra -pronto?-.
Taichi
mi guarda incuriosito e, con lo sguardo annebbiato
dall'alcool, mi dice -vai spara!-.
Mi
posiziono meglio, con le
gambe incrociate, dietro ad un prepotente falò che ormai
scoppietta
animatamente e domando -preferiresti andare in Iraq o restare qui in
Russia?-.
-Cioè
no, aspetta, tu mi stai seriamente chiedendo
dove vorrei schiattare?- mi chiede Taichi alticcio -decisamente in
Russia! Se mi va bene creperei prima per il freddo, piuttosto che per
il fuoco nemico!-.
Scoppiamo
a ridere a pieni polmoni. Siamo
entrambi consci di non dover scherzare su certi argomenti, ma il
poterne parlare liberamente e ad alta voce è un po' come
poter
espiare i nostri timori.
-Ok,
di nuovo me!- dico ancora io.
-No,
che cazzo, ora tocca a me!- controbatte invece Taichi.
-Non
sono pronto, credo di essermi appena pisciato addosso- mi
lamento un tantino sbronzo, toccandomi il cavallo dei pantaloni -no,
scherzo, sono asciutti-.
Taichi
cade rovinosamente con la faccia
a terra a causa dell'ilarità che ho provocato in lui... o
più
semplicemente a causa della sua sbronza.
-Taichi,
allora...- mi
metto addirittura in piedi davanti a lui per essere sicuro di essere
udito -quante seghe ti fai al giorno, fratello?-.
Taichi
allunga
un braccio verso di me e mi atterra senza indugio a terra.
-Tante,
troppe per ricordarmelo- alzando la bottiglia ormai vuota di birra
urla -ma le dedico tutte alla mia Sora!-.
Che
idiota. È così
ridicolo. Taichi non è proprio in grado di reggere l'alcool.
Decisamente non fa per lui.
Ma
sono questi i momenti che mi fanno sentire vivo.
Questa
notte ho dormito come un bambino, un po' per l'alcool ancora in
circolo, un po' perché nulla ha disturbato realmente il mio
sonno.
Tutto
tace intorno a me, fatta eccezione per il ronfare di Taichi. Quello
sì che ci dà dentro quando cade tra le braccia di
Morfeo.
Poi
il mio
telefono squilla. Una notifica. Una email. Erano giorni che attendevo
nuove direttive circa la missione in Russia. Ormai avevamo terminato
l'incarico che ci era stato affidato, perciò era questione
di giorni
prima di ricevere nuovi ordini.
Afferro
il telefono in mano e resto abbastanza stranito nel notare un
indirizzo a me familiare. Scuoto il capo, sono perfettamente conscio
di aver bevuto come un cammello, ciò nonostante non mi
capacito
ancora una volta di quanto la mia mente voglia giocarmi brutti
scherzi.
Apro
l'email e leggo molto lentamente, non tanto per poter comprendere
bene quanto scritto, quanto per assicurarmi di non aver seriamente le
allucinazioni. Sin dalle prime due parole mi sento il cuore in gola.
Caro
Bee,
non
so neanche da dove iniziare... so perfettamente di essere sparita
dalla circolazione e vorrei poterti spiegare il perché, ma
non così,
non per email.
Purtroppo
ho il tempo contato in questo istante e anche solo mandarti questa
email, per me, significa rischiare il tutto per tutto.
Perciò andrò
dritta al punto. Anni fa ti chiesi se, qualora avessi avuto l'istinto
di scappare di casa, mi avresti potuta ospitare. Io purtroppo non ho
altro modo per contattarti. Ma l'ho fatto, Bee. Sono scappata. E ora
ho bisogno di te. Sono una codarda, sono un'egoista e probabilmente
non mi merito neanche una tua risposta. Ma ti prego, sei veramente
l'unica persona al quale potrei mai chiedere una cosa simile.
Yo
Nella
stessa email trovo un numero di telefono con prefisso +81 e
lì
realizzo che lei è ancora in Giappone. Non posso far a meno
di
volare con la mente e leggere e rileggere quell'email quasi
risuonasse particolarmente criptica nella mia mente.
Il
tono con cui è stata scritta, la scarsa accuratezza con cui
è stata
inviata – vi sono errori di scrittura e distrazione, niente
punteggiatura – tutto mi fa pensare che lei sia in pericolo.
Per
quanto io abbia voltato pagina, anni e anni fa, in quello stesso
istante vengo catapultato brutalmente al passato e la figura di
quella giovane ragazza asiatica, conosciuta anni prima sulle rive del
Quay, appare nitida davanti a me.
Rimango
stranito. Mi guardo a destra e sinistra, quasi
mi aspetto che qualcuno possa sbucare da chissà dove
dicendomi che
si tratta solo di uno
scherzo. Eppure lì ci sono solo io, un cielo particolarmente
silenzioso, il frinire delle cicale ed il ronfare beato di Taichi.
Guardo
il mio telefono e mi rendo conto di essere più titubante del
previsto nel chiamarla.
Per
anni ho sempre sperato di poterla incontrare di nuovo. Di riuscire
finalmente a riconciliarmi a lei, riuscendo così a dirle
tutto
quello che per troppo tempo mi sono tenuto dentro. Eppure, ora che ne
ho la possibilità, tentenno. Dall'email Yoshiko appare
visibilmente
sconvolta, qualcosa non va, mi pare chiaro. Forse, richiamandola,
potrei scoprire di aver sempre fantasticato su una persona che non
è
assolutamente ciò che ho immaginato. Magari Yoshiko
è stata
idealizzata nella mia mente più del previsto e l'idea di
poter
scoprire che quell'essere per me perfetto, non esiste assolutamente,
quasi mi fa paura.
Ma
al diavolo i se
ed i ma:
non è aspettando altro tempo che troverò risposte
alle mie domande.
Perciò, digito pesantemente il numero da lei lasciato e
appoggio il
cellulare all'orecchio, faticando a trovare una frequenza di respiro
sufficientemente rilassata.
-Bee?-
sento rispondere dall'altra parte del telefono.
Il
mio sguardo subito si spalanca e mi sento pervadere dal gelo
più
totale.
Mi
aspettavo che, una volta sentita la sua voce, mi sarei surriscaldato
tanto da arrossire in sua compagnia. Ed invece, il contrario.
Nonostante
abbia detto solo il mio nome, posso giurare che la sua voce sia
sottotono, cupa e rotta dal pianto.
-Dove
sei?- le domando.
-Io...-
attende un attimo prima di rispondere -non ne ho la più
pallida
idea, Bee-.
Mi
agito. Ha paura, anzi, è proprio terrorizzata. Quel suo
fiato corto,
il sussurrare quasi non voglia essere udita da nessuno. Tutto mi fa
pensare che lei sia in guai seri.
-Riesci
a prendere il treno o l'aereo?- le domando senza neanche realmente
ragionare.
-Il
treno o l'aereo?- mi chiede lei confusa -ho circa 20.000 yen con me-.
-Perfetto,
ti mando un indirizzo, quando arrivi richiamami- le dico velocemente.
-Bee,
io... grazie- cerca di dirmi lei scoppiando a piangere al telefono.
Mi
sento morire. Una morsa terrificante mi prende al petto. La
curiosità
allo stesso tempo mi assale, domandandomi cosa diavolo possa essere
successo. Oggi e negli anni.
-No,
non c'è tempo per i convenevoli- le rispondo forse un po'
troppo
glaciale -ne parleremo meglio quando potremo rivederci-.
-Okay...-
mi risponde Yoshiko prima di chiudere la chiamata.
Sento
il telefono scivolarmi dalle mani. Lo stringo con forza e allo stesso
tempo con cura. Lo abbasso a livello del petto e osservo il display
sgomento.
La
sua voce.
Sono
ormai trascorsi ormai quasi cinque anni dall'ultima volta che le ho
parlato per email, sei contando l'ultima volta che ci siamo visti di
persona. In questi ultimi sei anni, per l'appunto, ho fantasticato su
di lei in ogni modo possibile ed inimmaginabile. Sono stato con altre
donne, consapevole che nessuna potesse mai essere al suo pari. Mi
sono limitato nelle relazioni, preferendo stare con una ragazza
palesemente lesbica, piuttosto che ritrovarmi in una relazione
duratura con una donna reale. Ed invece no, solo ora realizzo che non
ho mai voluto instaurare un rapporto serio con nessuna donna, proprio
perché avrebbe significato il mio distacco totale da lei. Io
ero il
diversivo di Sam e lei era il mio.
Non
potrei mai equiparare Sam a Yoshiko, per il semplice fatto che,
tralasciando le grosse diversità che vi sono tra le due, con
una
potevo fare sesso, mentre con l'altra potrei fare l'amore.
Ma
no, non voglio soffermarmi su questo pensiero. Yoshiko sta chiedendo
il mio aiuto e sarei un vero stronzo ad approfittarne in quel modo.
Quella
notte ovviamente non sono riuscito a dormire. E come potrei farlo.
Avviso
Taichi del cambio di piano. Lui viene subito affidato ad un mio pari
per intraprendere una missione piuttosto leggera in Bosnia. In quanto
a me, raccolgo i miei quattro stracci, faccio il pieno al mio
monoposto e via dritto a casa.
Quando
raggiungo Shin Chitose afferro il cellulare e chiamo subito Yoshiko.
La chiamata non dura molto. Mi dice di trovarsi al piano interrato,
esattamente dove si trova il treno che da Sapporo l'ha condotta sin
lì.
E
parto in quella direzione. Le mie gambe mantengono prima un passo
piuttosto contenuto, fino ad avanzare sempre più veloci ed
intraprendere una corsa quasi estenuante verso l'ascensore. Attendo
impalato ed inebetito innanzi a quelle due porte metalliche e
scorrevoli. Il suono di un campanello mi fa intendere che è
giunto
il grande momento. Appena si spalancano, esco. Questa volta a passo
lento. Tentenno e allo stesso tempo mi affretto a guardarmi intorno.
Una serie di sensazioni, una più contrastante dell'altra,
prendono
il sopravvento su di me.
E
se non fossi all'altezza? E se non le piacessi più? E se mi
stesse
solo sfruttando? E se fosse tutto uno scherzo?
Poi
la vedo e subito la riconosco.
Lei
alza lo sguardo e subito mi riconosce.
In
quel preciso istante si aprono le porte del diretto per Higashi
Muroran e un fiume di gente scende aumentando per un istante la
distanza che ci divide. Vedo gli occhi di Yoshiko calamitarsi sui
miei. Si alza dal proprio posto
e inizia a venirmi incontro. Cerco di camminare verso di lei, ma la
gente tenta di trascinarmi altrove. Allungo le braccia nella sua
direzione, aggrappandomi
saldamente al desiderio di poterla abbracciare. Sul suo volto leggo
dolore e sofferenza. Pian piano la gente si screma e la distanza tra
di noi si azzera. Ci fronteggiamo, ma non ci salutiamo. Poi lei si
getta tra le mie braccia ed io resto lì, completamente
imbambolato,
mentre inconsciamente la stringo forte a me.
-Yoshiko-
sussurro quasi a voler spezzare quella magia. Già,
perché ancora di
magia si tratta.
Dopo
tutti quegli anni, mi accorgo di non aver solo idealizzato il suo
ricordo, ma di averlo ben radicato nel mio cuore. Vorrei tanto
scattare un'istantanea di questo momento, perché sono
convinto che
mai nella vita potrei mai provare tanti sentimenti così
contrastanti
come ora.
Abbasso
il volto, la stringo forte a me, le accarezzo i capelli scuri e
annuso il suo profumo. Chiudo gli occhi quasi a voler memorizzare
ogni istante, ogni sensazione provata.
Lei
alza lo sguardo ed io mi perdo in lei, in quelle pozze di petrolio
che mi fissano umide e scintillanti. Le sorrido per la prima volta e
le accarezzo il volto. Vorrei tanto dirle che va tutto bene, che ora
è con me e che non potrà più
succederle nulla. Ma la verità è
che ho paura, tanto quanto lei probabilmente. Ho paura di lasciarmi
andare ancora una volta, inconsciamente, proprio come al nostro
primo incontro. Ho paura di farle promesse che forse, un indomani,
non potrei mantenere. Ho paura di conoscere la sua storia e di farle
conoscere la mia,
scoprendo magari che è cambiato tutto. Ho paura che nulla
potrà mai
tornare come prima.
Poi
la fisso negli occhi. È bella esattamente come ricordavo.
Solo più
grande, più matura, con quei suoi occhi grandi, a mandorla,
terribilmente profondi ed espressivi. I capelli sono persino
più
lunghi di quanto ricordassi, mossi e completamente al naturale. Il
viso dalle linee morbide e delicate, leggermente pallido, con le
labbra che accennano ad un lieve rossore, insieme alle gote,
leggermente imporporate probabilmente per la vicinanza dei nostri
volti. Il mio occhio malizioso scende giù, scrutando le sue
curve,
decisamente più sinuose e mature di quel che ricordavo.
Con
la testa completamente fuorviata, cerco di riprendere il controllo su
me stesso, tornando nuovamente sui suoi occhi e cercando di decifrare
quello sguardo così emblematico.
-Seguimi-
le dico prendendola per mano e conducendola fuori dall'aeroporto.
Chiamo un taxi e senza alcun indugio decido di portarla lontana
dall'accademia.
-Un
hotel?- mi domanda quasi preoccupata, mentre io la guardo
imbarazzata.
-Non
è come credi- le rispondo velocemente avvicinandomi alla
hall di
quel posto -la ragazza alla reception è la fidanzata di un
mio
commilitone-.
Yoshiko
annuisce lievemente, mentre io prendo le chiavi di una stanza e mi
allontano insieme a lei verso il retro dell'edificio.
-Stanza
numero 13, allora è un vizio- sussurro tra me e me, non
notando però
che Yoshiko mi sta fissando.
-Il
tuo numero...- mi dice lei abbassando lo sguardo.
-Tu...-
ma non ho il tempo di fiatare altro che lei sorride ad annuisce.
Sorrido
a mia volta. Quasi quasi inizio a convincermi dell'idea che anche lei
possa avermi pensato in tutto questo tempo.
Apro
la porta della nostra camera e come un cavaliere di altri tempi la
invito ad entrare per prima. Oltrepassa la soglia con la coda tra le
gambe, testa china in avanti e sguardo di chi ha il timore persino di
respirare.
Vorrei
chiederle cosa le è successo, ma so bene che prima o poi
parlerà di
sua spontanea volontà.
Si
guarda intorno, come a volersi assicurare che qui lei è al
sicuro.
-Yo...-
le dico cercando di attirare la sua attenzione -hai fame?-.
Lei
mi guarda, ma decide di non fiatare. Annuisce solamente.
Mentre
ordino una porzione di ramen e di sushi misto per telefono, la vedo
rovistare nel suo zaino. Non ha altro con sé, solo un
piccolo
zainetto in pelle ed il portafoglio.
-Non
hai caldo?- le domando dopo aver prenotato la cena e aver notato che
indossa ancora un pesante cappotto invernale.
Lei
si guarda intorno titubante, insicura se sbarazzarsi di quell'abito o
meno. Il mio primo pensiero va a cosa potrebbe indossare lì
sotto.
Chiudo gli occhi e mi do dello stupido anche solo per averlo pensato.
Lei
si blocca davanti a me, alza lo sguardo, mi fissa negli occhi e quasi
mi studia. Poi noto i suoi occhi roteare, su e giù,
analizzando la
mia figura per intero. Mi gonfio di orgoglio e cerco quasi di fare
una bella figura, ma i dubbi mi assalgono e subito mi domando se mai
potrò essere alla sua altezza. Mi pare quasi una
fotomodella. Non
sono sicuro
che lei sia effettivamente una bellezza mozzafiato o meno, ma
è il
pensiero che ho di lei che me la fa esaltare ancora di più.
La trovo
splendida, seducente persino in quel pesante e orrendo cappotto
bordeaux. Sorrido e per un istante mi viene in mente l'abito da
cerimonia che Ron indossava al Ballo del Ceppo in Harry Potter.
-Non
ti piace, vero?- mi domanda poi prendendo tra le mani i lembi
inferiori del cappotto e osservandolo imbarazzata.
-Diciamo
che ti preferirei senza- le rispondo mordendomi la lingua prima
ancora di terminare la frase -perdonami, io non intendevo quello-.
Lei
ridacchia -ed invece sì-.
Allargo
le braccia sconsolato, sapendo di aver ormai messo le carte in tavola
-ed invece sì!- ammetto semplicemente.
Inizia
a slacciare i bottoni molto lentamente. Non capisco se lo stia
facendo per sedurmi, o se ogni sua movenza nella mia mente appaia
più
peccaminosa di ciò che realmente è.
Dopo
aver liberato ogni singola asola dai bottoni, allarga i lati del
cappotto sospirando rumorosamente per poi lasciarlo cadere a terra.
Sotto
di esso non vi è altro che un paio di shorts fin troppo
estivi ed
una canottiera intima, per altro senza reggiseno. Purtroppo
però i
miei ormoni non hanno modo né tempo di impazzire come
previsto,
perché il mio sguardo viene catturato da ben altro. I miei
occhi si
assottigliano e si concentrano sul suo ventre libero da qualsiasi
tessuto. Mi avvicino a lei con lo sguardo contrariato e con il volto
di chi ha appena scoperto un segreto che lascia veramente il segno.
Le
accarezzo il ventre facendola tremare più di paura che
altro, poi,
con la mano, risalgo fino a far strusciare il mio indice contro tutto
il suo braccio destro.
-Ti
prego, Bee- mi supplica lei con occhi ormai colmi di lacrime -non
guardarmi in quel modo-.
-Io...-
ingoio un rivolo di saliva che mi scende dalla bocca senza permesso.
-
È stato mio padre- poi finalmente arriva la rivelazione -ha
picchiato mia madre e poi ha punito me per essermi messa in mezzo. Lo
fa ormai da che ne ho memoria-.
Rimango
imbambolato a guardare il suo corpo ricoperto di lividi e un senso di
nausea mi stringe la bocca dello stomaco.
Faccio
per fiatare, ma qualcuno suona alla porta. Sul volto di Yoshiko
appare un'espressione di puro terrore. La invito a chiudersi per un
istante in bagno, mentre vado a vedere di chi si tratta. Per fortuna
è solamente il ragazzo delle consegne. Pago la cena
lasciandogli
anche una generosa mancia, tutto pur di farlo filare via da qui
nell'immediato.
Appoggio
il sacchetto del take
away
sul tavolino della stanza e mi dirigo in bagno, ritrovando Yoshiko
riversa a terra a piangere come una bambina indifesa.
-Bee,
è stato orrendo- mi dice tra un singhiozzo e l'altro -ho
seriamente
creduto di morire-.
Quelle
poche parole mi prendono alla sprovvista. Mi sento impotente e
inutile. Poi però la guardo avvinghiata alla mia maglia e
capisco di
poter fare qualcosa per lei. Forse è giunto il momento di
tirare
fuori l'uomo che è in me, dedicando anima e corpo all'unica
persona
che io abbia mai realmente amato in vita mia.
Le
sollevo il capo e le faccio una promessa -giuro che d'ora in poi mi
prenderò cura io di te-.
Lei
annuisce. Nei suoi occhi leggo gratitudine, ma soprattutto scorgo uno
sguardo di fiducia nei miei confronti.
Quasi
tre anni fa dissi al generale Kobayashi di non credere nelle
coincidenze. Ma quel giorno mentii.
Io
credo nelle coincidenze, anzi, io spero
nelle coincidenze. Perché la mia vita va avanti solo a
coincidenze.
È un caso che diversi anni fa io abbia conosciuto Sam? No,
mio padre
era in procinto di morire ed io avevo bisogno di una spalla su cui
contare. E lei era lì, esattamente dove doveva essere. Dopo
di lei è
arrivato Taichi ed ora posso contare su di lui non solo come fratello
d'armi, ma soprattutto come migliore amico.
Sebbene
questo scambio fortemente imparziale di cause ed effetti possa
apparire una nozione estremamente lontana da ciò che di
più
scientifico vi è al mondo, vi stupirà sapere che
è un concetto
chiave che si fonda sulla matematica e sulla fisica moderna. Una
fisica moderna che non ha nulla a che fare con quella quantistica, ma
che è fortemente legata alla teoria del caos. L'effetto
farfalla è
facile da comprendere e la mia
vita, forse, ne è il più palese esempio. Ogni
piccolezza da me
vissuta, come quelle elencate sopra, mi ha portato ad essere
ciò che
di meglio non potevo essere. Certo,
mi fa sorridere come l'icona della farfalla sia sempre così
presente
all'interno della mia vita, in maniera ben più concreta e
sotto
forma di essere vivente, o come idea astratta con basi fortemente
scientifiche. La farfalla, così delicata nel suo volare e
apprezzata
per i suoi colori - monarca in particolare - immaginata come un
essere innocuo, con un suo semplice e fievole battito di ali
può
causare una tempesta. Questo perché la variazione di
pressione
causata dalle ali può amplificarsi nello spazio e nel tempo
e
assumere dimensioni inimmaginabili.
Perciò
la mia vita si riflette ancora una volta in una farfalla in tutto e
per tutto.
Volete
sapere perché anche in questo caso sono convinto che Yoshiko
non sia
una coincidenza? Ieri notte, prima di sbronzarmi insieme a Taichi,
sono riuscito a coronare uno dei miei sogni d'infanzia. Eravamo
solamente io e lui, Taichi e me. Lui era disteso sopra un manto
erboso guardando il cielo tingersi prima di un viola scuro, poi di un
blu notte. Poi ho scorto un lepidottero quasi fluorescente,
illuminato dal timido bagliore della luna, che pian piano sorgeva in
cielo. Una farfalla. Ma sono sicuro che avrete già capito
che non si
tratta di una farfalla qualunque, ma di una monarca. Ebbene
sì, l'ho
vista, luminosa e leggiadra. Taichi mi ha dato del matto quando ho
iniziato a rincorrerla nel tentativo di acchiapparla. Per un attimo
mi sono rivisto nei panni del Brent bambino, con quell'insulso retino
da acquario, pieno di speranze che, con gli anni, sono solo andate
scemando. Non questa volta, però. No, perché ieri
sera sono
riuscito a prenderla a mani nude. La tenevo serrata tra entrambi i
miei palmi. Volevo guardarla, ammirarla e rendermi conto di quanto
fossero magiche le sue ali. Allo stesso tempo, però, avevo
paura a
schiudere la mia morsa, perché temevo potesse volare via. Ed
invece
non è stato così. È rimasta
lì, appoggiata sulla mano sinistra,
lasciandosi ammirare.
Quella
sera mi sono convinto che qualcosa di bello sarebbe successo. Ed in
effetti eccomi qui, in compagnia di Yoshiko. Forse non nella
situazione migliore che si possa sperare, ma finalmente insieme.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
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Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Il
rating della storia varierà man mano scriverò i
capitoli, motivo
per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Non
sono solita farlo, ma dedico questo capitolo a tutti coloro che hanno
atteso a lungo questo momento, in particolare lo dedico a fumoemiele,
poiché originariamente questo capitolo non era stato
preventivato,
ma ho deciso di scriverlo per lei.
Rating
capitolo: rosso
per presenza di scene di natura sessuale esplicita
Personaggi
capitolo: Brent e
Yoshiko
CAPITOLO
10
Finalmente
siamo qui, entrambi nella stessa stanza. Eppure lei appare
irraggiungibile.
Mangia
composta al tavolo, tenendo lo sguardo basso sul suo piatto. Vorrei
chiederle tante cose, eppure non ho il coraggio di farlo, o
più
semplicemente ho paura a sentirne le risposte. Non riesco a mangiare
nulla, la bocca dello stomaco mi si è chiusa e si ribella al
mio
volere. Lei, invece, nel suo contegno più totale, pare non
avere
fondo e mangia con gusto. Ma lo fa con finezza, senza scomporsi
più
del dovuto. Mi domando da quanti giorni sia in quelle condizioni e da
quanto tempo è che non mangia.
Quando
termina la cena, appoggia le bacchette sul suo tavolo e mi ringrazia
chinando lievemente il capo in avanti. Io resto basito davanti a lei,
non sapendo come reagire, cosa dire o cosa fare.
Finalmente
alza lo sguardo e lo incrocia con il mio e mi sento raggelare.
Trattengo il fiato
ed attendo qualche secondo, nella vana speranza che sia lei ad aprire
bocca per prima. Ma purtroppo non è così. Sono un
codardo.
Si
alza dal tavolo e raccoglie i contenitori del nostro take
away
assicurandosi di smaltirli negli appositi contenitori della raccolta
differenziata. Poi mi guarda furtiva, insicura di cosa dover fare. Io
la guardo, la osservo e cerco di leggere tra le righe, ma purtroppo
non riesco ad interpretare i segni del suo corpo e questo mi fa
sentire completamente inutile.
Abbasso
lo sguardo sconsolato e rimango immobile, seduto al tavolo, investito
da quell'incapacità di intendere e di volere.
Ad
un certo punto sento un lieve tocco sul capo. Alzo lo sguardo e lei
è
lì, che mi fissa con quei suoi occhioni dolci, con un lieve
sorriso
sul volto. Non è forzato e non è nemmeno di
circostanza. Mi sta
sorridendo con il cuore, lo posso sentire.
Mi
accarezza prima la fronte, poi scorre sul retro lungo la nuca, fino a
sfiorarmi il collo con l'indice. Socchiudo gli occhi e mi lascio
inebriare da quel tocco, che da anni bramo come l'aria che respiro.
Quando
sento la sua pelle allontanarsi dalla mia, spalanco subito gli occhi
e la cerco spaesato, ritrovandola nuovamente di fronte a me. E nulla,
lei è ancora lì, ha solo smesso di accarezzarmi.
La guardo e mi
domando cosa possa essere cambiato in una frazione di secondo. Il suo
volto è completamente apatico. Rimane imbambolata davanti a
me, mi
fissa, ma allo stesso tempo non mi sta guardando realmente. Il suo
sguardo mi oltrepassa, come fossi un fantasma.
Allungo
un braccio per afferrare la sua mano, ma subito si ridesta dai suoi
pensieri e arretra. Ha paura, lei ha paura di me. Lo leggo nei suoi
occhi.
Ritraggo
la mano altrettanto impaurito. In questo momento non so davvero come
comportarmi. Non mi sono mai ritrovato in una situazione come questa
e sento quasi di non esserne all'altezza.
Non
sono mai stato un buon oratore. Ai fatti, però, me la cavo
egregiamente. Perciò decido di alzarmi dal tavolo e di fare
una
mossa azzardata che, forse, potrebbe decretare la mia fine. Mi alzo
dal mio posto, fronteggiandola. La differenza di altezza tra di noi
è
veramente palese. Ci saranno sì e no due buone spanne di
distacco.
Lei è intimorita dalla mia statura. Il suo corpo si
irrigidisce di
colpo e l'aria si fa talmente pesante, da farmi notare il suo
affanno.
Le
sfioro un braccio con i polpastrelli, trapassando i suoi occhi con il
mio sguardo. Risalgo lungo l'avambraccio per poi allungare la mia
mano sulla sua schiena quasi nuda. Mi soffermo sulla spalla,
stringendola debolmente nel mio palmo, fino a muovere i primi passi
nella sua direzione, azzerando così lo spazio che ancora ci
divide.
L'abbraccio
e lei si lascia abbracciare. Lei sta trattenendo il fiato, lo riesco
a sentire. Purtroppo, però, non riesco a capire se lo fa per
il mio
stesso motivo, o se ha talmente paura di me, da non riuscire neanche
a muovere un muscolo.
«Mi
sei mancata...» sospiro stupendo persino me stesso per
quest'uscita.
Sento
il suo corpo distendersi
sotto il mio tocco. Le sue mani si allungano timide verso la mia
schiena, stringendomi in un caldo abbraccio.
Ancora
una volta si lascia andare alle sensazioni e inizia a piangere, anche
se questa volta lo fa in silenzio. Sento le sue mani aggrapparsi alla
mia maglietta e stringerla forte, probabilmente sgualcendola, ma
questo proprio non è di mio interesse.
Le
accarezzo la nuca e le poso un casto bacio sulla testa, stringendola
ancora più forte a me, facendole capire che io ci sono, ora
e
domani, che sono innocuo e dalla sua parte.
La
sento singhiozzare e, con una debilitata forza, mi allontana da
sé
per potermi, finalmente, guardare dritto negli occhi. Mi sento
perforare le pupille. Il suo sguardo è magnetico e allo
stesso tempo
mi penetra, facendomi quasi sussultare.
«Anche
tu mi sei mancato, Bee» mi risponde con voce debole.
Bee.
Ormai erano anni che nessuno mi chiamava più in quel modo.
Sentir
pronunciare quel termine, dalle sue labbra per altro, mi fa venire la
pelle d'oca.
«Mi
sembra tutto così assurdo...» aggiunge poi
apparendo confusa, ma
allo stesso tempo sorridendomi.
Capisco
la sua sensazione. Mi sento uguale.
Trovo
questa situazione surreale. La donna che ho bramato per anni e anni,
che è diventata per un periodo la mia ossessione, la mia
incarnazione di perfezione, è qui, proprio davanti a me, tra
le mie
braccia. E più la guardo, più scorgo in lei
ciò che ho sempre
visto: bellezza. Ma non vi parlo di quella bellezza fisica - seppur
non abbia assolutamente nulla da dire sulla sua figura longilinea. Vi
parlo per lo più di quella bellezza che, forse, neanche io
so ben
descrivere. È semplicemente bella, non c'è
bisogno di dire altro.
«Bee»
sussurra inclinando leggermente il capo a sinistra e guardandomi
interrogativa «cosa c'è?».
Sorrido
divertito e in maniera del tutto spontanea le rispondo «cosa
c'è,
dovrei chiederlo io a te».
Domanda
scomoda. Si incupisce per un attimo. Mi mordo il labbro inferiore e
propongo «ti va un film?». Per fortuna in un
frangente torna
radiosa e annuisce con entusiasmo.
Spendiamo
le restanti due ore di luce a guardare un film di Harry Potter a
caso. La verità è che qualsiasi cosa in quel
frangente mi sarebbe
apparsa ben più interessante di quanto realmente potesse
essere.
Tutto questo perché lei è qui con me e non mi
importa di altro.
Avrei
voluto fare il playboy allungano un braccio sulle sue spalle e
avvicinandola a me, mentre guardavamo il film. Ma la verità
è che
non mi sento adatto a quel ruolo e non sono neanche sicuro che tutto
ciò possa piacere a Yoshiko.
Poi
però mi ridesto da questo pensiero, perché alla
fine cosa ne posso
veramente sapere di cosa può o non può piacerle.
Crescendo
si cambia. I cambiamenti fanno parte di ognuno di noi e sono
esattamente ciò che ci rende tali.
Non
appena appare la scritta the
end sul televisore,
pigio con estrema lentezza il pulsante rosso del telecomando. Ogni
secondo di silenzio è una tortura. Ho così tante
domande da farle,
la maggior parte di esse scomode, che temo quasi di inondarla di
fastidio.
Lei
si volta verso di me e incrocia entrambe le gambe sul divano,
sedendosi comodamente e puntando con lo sguardo al mio viso.
«So
benissimo che non verrò mai giudicata da te, per quello che
ho
fatto, per come me ne sono andata» mi dice prendendo parola
«ma io
sento di doverti tante spiegazioni».
«Yoshiko,
non è necessario, lo sai benissimo» cerco di
dirle, mentre in mente
mia spero solamente che lei si intestardisca a tal punto da rivelarmi
ugualmente tutto.
E
per fortuna è così.
«No,
io ci tengo» mi dice «solo che... non so bene
da dove iniziare».
«Inizia
con il dirmi come stai, ora» le suggerisco io, accarezzandole
il
volto.
«Ora...
mi sento al sicuro» e mi guarda con occhi languidi, tanto da
farmi
sentire le farfalle nello stomaco.
«Aspetta»
sussurra, però, quando nota che io tento di dire qualcosa,
mi punta
l'indice alle labbra e purtroppo il mio lato maschile prende il
sopravvento, facendo irrigidire la parte inferiore del mio corpo. Per
fortuna lei non nota nulla.
«Non
ti ho mai raccontato la verità su mio padre»
procede quindi con le
spiegazioni «già sai quanto lui fosse... dedito al
suo lavoro e al
mio studio. Lui ha sempre voluto che io eccellessi in ogni materia e
in ogni circostanza, scuola o sport che sia».
Il
suo sguardo non si smuove dal mio neanche per un istante.
«Non
è mai stato un uomo particolarmente violento.
Però nell'ultimo
periodo era diventato... un'altra persona.» nonostante voglia
nascondere le sue emozioni, un rivolino salato le bacia una guancia
«lui tornava
sempre più tardi da lavoro, con l'aria stanca».
Si
asciuga quella solitaria lacrima con il dorso della mano e prosegue
la sua storia «sono piuttosto convinta che a lavoro subisse
ogni
male dal suo capo, tanto da portarselo a casa e sfogarlo su... di
noi».
Alza
lo sguardo al cielo, quasi a voler supplicare i suoi stessi occhi di
non cadere in un pianto esagerato. E più si sforza e meno ci
riesce.
«Non
c'è bisogno di parlarne ora» le dico asciugandole
l'ennesima
lacrima che, prepotente, raggiunge il mento per poi precipitare sul
divano. Lei annuisce.
«Ed
ora, che ne sarà di me, Bee?» mi domanda confusa.
«Che
ne sarà di noi» la correggo io, sorridendole.
«No,
io...» prende fiato, si vede che sta per intraprendere un
discorso a
lei ostico «non voglio compassione».
«E
non è compassione quella che io provo per te» le
rispondo con
naturalezza, seppur nella mia mente mi venga spontaneo prevedere la
sua prossima domanda.
«E
allora cosa?» mi domanda osservandomi con occhi da cerbiatta
«cosa
provi per me, Bee?».
Abbasso
prima lo sguardo, come a voler riorganizzare i miei pensieri e
cercando quasi di fare mente locale. Poi torno nuovamente ad ammirare
la figura che ho innanzi.
Vorrei
dirle che cosa provo. La verità, però,
è che io stesso non lo so.
È forse amore? Ossessione? O semplice simpatia? Al diavolo
il
cervello che mi rema contro, io voglio agire come meglio mi riesce.
Mi avvicino a lei. Porto una mano dietro la sua nuca, accarezzandole
i capelli e invitandola ad avvicinarsi a me. Pian piano i nostri
volti coprono quella ridotta distanza che vi è tra di noi,
fino ad
incrociarsi e poi unirsi. Appoggio le mie labbra sulle sue, come
fosse un banale esperimento per scoprire meglio i miei sentimenti per
lei. Poi, però, mi ritrovo a bramarle, forse più
del previsto.
Inizio a divorarle, cercando di inumidirle non solo con le mie stesse
labbra, ma anche con la lingua. Lei schiude subito la sua bocca,
consentendomi di esplorare il suo sapore. Ci baciamo ancora e ancora.
Il tempo diventa relativo e in quell'istante non sono sicuro di che
ore siano, o di quanti minuti siano già trascorsi.
Lei
allunga le mani verso il mio volto. Mi accarezza e mi bacia. Sento i
suoi polpastrelli spingere contro la mia pelle e risalire sul capo,
fino ad intrecciarsi nei miei capelli. Mi bacia e gioca con loro. La
sento sussultare più e più volte e mi domando se
può un singolo
bacio, far fremere così tanto di passione una persona.
La
risposta è sì.
Purtroppo
non riesco a contenere le mie emozioni. Il mio basso ventre inizia a
pulsare e lo sento spingere contro i boxer.
I
nostri volti si staccano. Io mi specchio in lei. Per un istante mi
sorge spontaneo pensare se lei non lo stia facendo solo per buttarsi
alle spalle ciò che ha passato nell'ultimo periodo. Poi
però la
guardo meglio e dinnanzi a me trovo una giovane donna sicura di
sé.
Talmente sicura che mi toglie la maglietta senza neanche lasciarmi il
tempo di fiatare. Mi guarda negli occhi, eppure sento le sue mani
curiose esplorare il mio petto.
Le
sue dita affusolate disegnano cerchi concentrici sul mio torace,
aumentando la
pressione sulla mia pelle. Poi scorgo un segno: si lecca le labbra. E
capisco che non sono l'unico in quella stanza ad aver voglia di
approfondire la nostra conoscenza.
Al
diavolo ogni cosa, in questo momento voglio solo pensare a stare bene
con lei. Decido, però, di non fare la prima mossa e di
lasciarla
giocare con me, con il mio corpo. Mi sorride dolcemente, seppur in
maniera estremamente timida.
Non
la ricordavo così intraprendente. Mi si siede sulle gambe e
posso
tranquillamente sentire il mio membro premere contro di lei. Lei
sembra non farci caso, o per lo meno la cosa non la tange affatto.
Mi
bacia ancora una volta, continuando a far scorrere le sue mani sul
mio petto, sulla mia schiena nuda e tra i miei capelli. Sento le sue
cosce serrarmi il bacino e senza alcun indugio mi alzo in piedi
afferrando
il suo sedere tra le mani e trascinandola a letto con me. Nonostante
il grande bagaglio di esperienza fatto con Sam, mi accorgo di essere
inerme davanti a Yoshiko. I dubbi mi assalgono e per un attimo tremo
all'idea di riuscire ad unirmi a lei. Forse perché bramo
questo
momento da praticamente sempre, o forse perché sono insicuro
di me e
temo di rischiare di perderla così. Eppure lei non pare
intimorita
dal mio contatto.
Stendo
la sua schiena sul materasso libero da ogni coperta e la sovrasto con
il mio corpo. La mia mano si muove al ritmo dei nostri corpi, curiosa
e frenetica, con quel sali e scendi che mi fa pensare di non aver ben
chiaro da dove iniziare. Ed in effetti è così.
Sono completamente
in balia delle mie emozioni che quasi non riesco a concentrarmi sul
singolo dettaglio, ma bramo così ardentemente il suo corpo
da
volerlo tutto e subito.
Le
sfilo quella misera canottierina che indossa, ritrovandomi davanti
alle porte del paradiso. Per un istante
soltanto, mi scordo dei suoi lividi e mi lascio inebriare dall'odore
della sua pelle, un misto
tra mandarino e basilico. Un'abbinata a me sconosciuta, ma che mi
porta subito a perdere il lume della ragione.
Lei
nel frattempo tiene gli occhi chiusi e la sento ansimare sotto il mio
tocco.
Con
le labbra inizio a baciarle la clavicola sinistra, mentre la mia mano
corre veloce sulla sua schiena, quasi in balia di una corsa
incontrollata. Scendo giù verso lo sterno fino a contornare
un seno
con la lingua, creando cerchi concentrici sempre più
interni, fino a
raggiungere il capezzolo e intrappolarlo tra i miei denti. La sento
sussultare rumorosamente, mentre con entrambe le mani mi accarezza i
capelli e mi incita a scendere.
Sorrido
al sol pensiero di quell'invito così peccaminoso.
Procedo
la mia discesa,
fino a scontrarmi contro il bottone degli shorts. Lei però
mi blocca
subito con una mano, sussurrandomi dolcemente «anche
tu.»
In
effetti lei è vestita con i suoi soli shorts, mentre io
ancora non
mi sono sfilato nulla dal corpo, se non la maglietta.
Ridacchio imbarazzato quando noto di aver ai piedi ancora gli anfibi.
Punto una scarpa sull'altra e mi disfo di loro facilmente. Poi torno
alla mia postazione e, facendo leva sulle ginocchia, mi tolgo subito
anche i pantaloni finendo per indossare solamente i boxer.
Predomino
sul suo corpo, stendendomi ancora una volta su di lei e ammirando le
sue cosce longilinee, morbide ed estremamente lisce al tatto. Mi
eccito nel toccare ogni centimetro della sua pelle, pregustandomi da
subito l'idea di poterla fare mia quella notte.
Per
un istante nella
mia mente balza la malsana idea che io mi stia solo approfittando di
lei e che lei stessa si stia approfittando di me per trovare conforto
e una sensazione di sicurezza mai provata prima
dentro le mura domestiche. Però la osservo sorridermi,
giocare con
il mio sguardo, osservarmi maliziosa e stuzzicarmi le labbra con le
sue. E lì capisco, non ho bisogno di pensare ad altro.
Capisco
che Yoshiko ha perso il controllo sul suo corpo nel momento in cui
con la mano scende verso i miei boxer, pregandomi con lo sguardo di
levarli. Sorrido imbarazzato, pur consapevole di non aver veramente
nulla da temere. Non sono certo il ragazzo che tende a sbandierare ai
quattro venti la lunghezza del suo membro, ma avendo vissuto gli
ultimi anni con soli uomini accanto, so benissimo di essere piuttosto
dotato. E quando sfilo i boxer rimango piacevolmente sorpreso nel
constatare quanto io sia riuscito a catturare la curiosità
di
Yoshiko. Guarda giù e poi mi guarda in volto, arrossendo ma
sorridendo.
È
impossibile non poter confrontare quel momento, con tutti i
precedenti avuti con Sam. E lì ridacchio al pensiero,
confermando
una volta per tutte l'omosessualità di Sam: lei non si
è mai
permessa di guardarmi laggiù. Alla fine, forse, Yoshiko
è un po'
come una prima volta per me.
Poco
importa, mentre la mia mente sta divagando in quei lontani ricordi e
nelle mie congetture a cui sono andato incontro, il mio corpo lavora
per me, facendomi ritrovare sotto pelle il corpo accaldato e
completamente nudo di Yoshiko.
La
amo. La amo nella mia mente, la amo con i miei baci, con i miei
tocchi e con tutto il mio corpo. Ogni poro della mia pelle sembra
trasudare amore. Ma al diavolo la delicatezza, non riesco a
trattenermi né a contenere la mia eccitazione.
Soffoco
il mio istinto animale stringendola in un abbraccio. Nudi,
esattamente come la natura ci ha fatti. Lei mi spintona via con
quell'aria furbetta che mi fa pensare subito a qualcosa di malizioso.
Mi fa sdraiare sulla schiena e senza neanche chiedermi il permesso mi
fissa al materasso con il suo corpo, sovrastandomi e imprimendo una
lieve forza sui miei polsi, quasi a volermi indicare chi comanda.
Ridacchio
divertito perché
non mi sarei mai
aspettato tanta sfrontatezza da parte sua sotto le coperte. E devo
ammettere che questo suo lato nascosto mi eccita parecchio.
La
lascio fare, rilassando ogni singolo muscolo del mio corpo e godendo
della sua presenza.
Lei
appare impacciata, si vede che non sa dove mettere mano.
Però non è
intimorita da me, né dalla mia mascolinità che al
momento
picchietta frenetica sulle sue natiche.
«Cosa...
io cosa dovrei fare ora?» mi domanda con uno sguardo curioso.
Mi
imbambolo a fissarla e mi concentro su quella semplice domanda. I
miei occhi si stringono in una fessura finché una lampadina
si
accende in me «Yoshiko tu...?».
«Oh
cielo, Bee... no, io mai!» aggiunge poi gesticolando
animatamente
con le mani, leggermente in imbarazzo, ma non a disagio.
«Ma
io...» cerco di dirle disorientato prima di venir interrotto
nuovamente dal suo entusiasmo.
«Non
importa» mi risponde lei con una dolcezza disarmante
«l'importante
è che... tu lo voglia davvero».
Mi
alzo di colpo facendola quasi cadere dal letto. Chiudo gli occhi e
impreco innanzi alla mia goffaggine «perdonami».
Lei
quasi rotola sul letto ridacchiando divertita e finendo per sdraiarsi
sulla propria schiena, abbracciata da un'aria stranamente ilare.
«Io
lo voglio davvero, Yo» le rispondo serioso.
«Lo
so» risponde lei cercando di contenere le risate.
«No,
Yo, io lo voglio davvero» cerco di spiegarle temendo di non
essere
preso sul serio.
«Bee»
sussurra lei mentre cerca di ricomporsi innanzi a me. Si siede sulle
mie gambe, divaricandole proprio e facendo strusciare le sue cosce
contro il mio inguine «nonostante gli anni trascorsi, non ci
hai
pensato due volte a raccogliere i miei cocci del passato e... mi sei
venuto in soccorso, senza neanche pretendere delle scuse da parte
mia».
«Non
era necessario» le risposi scostandole una ciocca dal viso.
«Lo
so» disse nuovamente sospirando e iniziando a giocare con il
mio
tatuaggio della farfalla monarca «Bee... non avevi mica detto
che
volevi essere un fuco?».
«Non
ci credo!» esclamo divertito, mentre lei cerca di coprirsi il
volto
contenendo una risata davvero gustosa.
«Sei...
tremenda» le rispondo stringendola forte a me.
Poi
mi accorgo di una piccola verità: io e lei siamo
completamente nudi,
l'uno sopra l'altro, completamente consapevoli della nostra
fisicità,
del nostro contatto e della nostra vicinanza e nessuno dei due prova
alcun imbarazzo in quell'istante.
«Sei
bellissima» le dico quindi baciandole la fronte.
«Sì,
certo...» ribatte lei abbassando lo sguardo.
«Sì,
certo!» controbatto io alzandole il mento e fissandola dritta
negli
occhi.
«Bee...?»
sussurra lei «ti amo».
Mi
sento ribollire il sangue nelle vene. La tachicardia si impossessa di
me e per un attimo quasi vedo nero. Ho sempre sognato di sentirglielo
dire, ma sono sempre stato convinto che quelle due parole le avrei
dette io per primo. Mai e poi mai ho sognato che sarebbe stata lei la
prima a dirlo. Mi ha seriamente preso
in contropiede. E non solo. Faccio per risponderle altrettanto, ma
lei mi prende il volto e inizia a baciarmi. Quei baci soffusi e quasi
infantili, si tramutano poi in passione che arde. Sento la pelle
surriscaldarsi e sento il suo tocco pesante e senza contegno.
E
come per magia mi ritrovo di nuovo catapultato sul fondo del letto,
con lei sopra che si raccoglie i capelli a lato fino a stendersi sul
mio petto per baciarmi ancora e ancora. Con la sua mano scende
giù
verso il mio membro, afferrandolo e toccandolo con grazia. Sento la
sua presa salire e scendere con un movimento sempre più
ridondante e
sempre più saldo alla mia pelle. Mi sento in estasi come non
mai.
Non riesco a tornare in me, in quel momento è come se il mio
volere
fosse passato in secondo piano e ogni mio gesto, ogni mio
apprezzamento fosse rivolto a lei.
Il
suo movimento incalzante inizia a farsi troppo eccitante, tanto da
farmi temere di venire con largo anticipo. Perciò con un
colpo di
reni, ribalto subito la situazione finendo a sovrastarla forse un po'
più rudemente di quanto preventivato.
«Rilassati»
le sussurro mentre con la mano scendo in basso. Mi conforto nel
sentire la sua entrata completamente priva di resistenza. Mi
aspettavo una certa rigidità da parte sua, ma forse
è più a suo
agio di quel che preventivavo. Perciò procedo
nel mio intento di farla godere come mai.
Le
accarezzo le grandi labbra fino ad incontrare la piccola sporgenza
esterna che Sam mi aveva insegnato essere fonte del miglior orgasmo
femminile. Con l'indice inizio a stuzzicarle il clitoride, facendolo
scorrere su e giù e sfregando frenulo e glande quasi in
contemporanea. Posso sentire il suo umore fuoriuscire quasi
immediatamente. Mai mi sarei aspettato una reazione così
rapida del
suo corpo. Mi bagno le prime due dita con il suo liquido, per poi
continuare a massaggiare le grandi labbra e ogni singolo centimetro
della sua femminilità.
«Oh,
Bee...» mi sussurra completamente in estasi.
Ecco,
questa
è esattamente il tipo
di reazione che ho sempre desiderato.
La
curiosità si avvinghia a me e mi accorgo che il solo
toccarla non mi
basta più, perciò la guardo dritto negli occhi e,
indicando in
basso, domando «posso?».
In
risposta, lei mi afferra per i capelli e mi spinge verso il basso.
Mi
sorprendo ancora una volta della sua spavalderia e mi ritrovo ad
amare questo suo lato peccaminoso.
Appena
fronteggio la sua femminilità, mi accorgo di quanto bella
sia. Nella
sua forma quasi ovale, la trovo perfetta e mi eccito anche solo a
guardarla. Con le prime due dita della mano destra divarico
leggermente le grandi labbra, fino a poter baciare le più
piccole.
La mia lingua inizia ad esplorare la sua femminilità,
trovando un
certo appagamento e provando delle emozioni veramente fortissime.
Seppur sia io a far godere la mia amata, in quel momento è
come se
stessi provando io stesso le sue stesse sensazioni. La bacio, la
lecco, divoro la sua carne fino a dissetarmi del suo umore che fluido
e incontrollato fuoriesce dal suo corpo.
È
indubbiamente bagnata. Sufficientemente bagnata da concedermi di
appagarmi di lei ancora più in profondità. E non
ho nemmeno il
bisogno di chiederle il permesso di farlo, perché lei
è lì che
mugugna supplicandomi di farla mia ed io cedo innanzi alle sue
preghiere.
Torno
su, baciandole prima la fronte e poi nuovamente le labbra. Con le
mani le accarezzo il viso e il seno, strizzandolo e tastandolo con un
certo gusto.
Mentre
mi inebrio di lei e mi perdo nel suo amore, divarico le sue gambe con
una certa gentilezza, in maniera tale da potermi addentrare in lei
delicatamente.
Spingo
la mia turgida asta verso il suo umido condotto, fino ad esplorare
quella caverna impregnata di umore. Mentre spingo dentro di lei, la
sento fremere dall'eccitazione e non ho neanche modo di raggiungere
il fondo, che vengo inondato dal suo primo orgasmo.
Alzo
gli occhi verso di lei con un sorriso piuttosto malizioso,
incrociando uno sguardo birichino e si morde il labbro inferiore
divertita.
Apriamo
le danze in breve tempo, unendo i nostri corpi bisognosi di
quell'amore tanto atteso. Più spingo dentro di lei,
più sento la
mia eccitazione ingrossarsi e venir stretto all'interno del suo
corpo. La sua morsa sul mio membro è veramente serrata,
tanto da
provocarmi continue scariche elettriche in tutto il corpo.
Mi
sento sudare e sento di aver veramente perso l'autocontrollo.
Allontano
le mani dal suo volto, abbracciando così il suo sedere e
strizzandolo energicamente nel palmo delle mie mani. Lei sussulta,
forse di piacere, forse di dolore. Utilizzo quella presa per
aumentare l'intensità delle mie spinte e per assicurarmi di
affondare meglio in lei.
Ho
perso il conto di quante volte sia già venuta in quel
momento. Forse
tre, forse sei. Che importa. L'unica cosa che mi tange constatare
è
che lei stia veramente godendo di me e di quel suo primo momento. Non
sono neanche sicuro del tempo trascorso.
Ho
il fiato corto e sento le ginocchia dolente, perciò decido
di
cambiare posizione. Poi mi accorgo che sia io, sia lei siamo
completamente madidi di sudore.
Però
faccio presa sul suo corpo e la isso su di me, portandomi in
posizione eretta.
Ora
siamo in piedi, o per lo meno io lo sono. Lei è avvinghiata
a me,
con le gambe che contornano i miei fianchi e le nostre
intimità
completamente fuse tra di loro.
L'eccitazione
è veramente troppa, eppure a bassi corti riesco ad
avvicinarmi al
bagno. A fatica accendo la luce e apro le ante della doccia fino a
cacciarmi sotto insieme a lei che mi divora il petto di baci. Accendo
subito il sifone dell'acqua e lascio che i nostri corpi vengano
bagnati dal getto tiepido di acqua.
«Ho
sempre sognato di farlo sotto la doccia» gli rispondo con
scarso
romanticismo.
Lei
ridacchia divertita, ma ciò non limita la sua sete di godere.
Adagio
la sua schiena contro la parete piastrellata della doccia, fremendo
maledettamente nel momento in cui la sento stringere i muscoli
pelvici attorno al mio membro. Sicuramente il muro è un
tantino
freddo.
Mi
ritrovo quindi a fronteggiare la donna che da anni amo in segreto,
completamente immerso in lei, avvinghiato al suo corpo che mi eccita
come mai. Schiena al muro, natiche pressate tra la parete e il mio
pube, sorrette unicamente dalle mie forti braccia. Spingo con ardore
anche sotto il getto dell'acqua chiudendo gli occhi e abbandonandomi
ad ogni istinto primitivo racchiuso in me.
La
bacio, la tocco, godo del suo corpo non una, ma due volte quella
sera. E non posso dire altrettanto di lei, visto che probabilmente
è
venuta ormai una decina di volte.
Terminata
la doccia, ci accasciamo completamente esausti a letto.
Lei
si stende a pancia in giù sul materasso, completamente nuda
e troppo
stanca per rivestirsi. La copro con un lenzuolo leggero, almeno
nascondendo le natiche e lasciando libera la sua schiena. Io mi sento
accanto a lei, appoggiandomi su un fianco solo dopo aver indossato i
miei boxer.
Ci
guardiamo ancora negli occhi, mai sazi di aver un contatto visivo
costante. Le accarezzo la schiena fino a quando socchiude gli occhi e
cade nelle braccia di Morfeo con un sorriso abbozzato sulle labbra.
Sorrido
a mia volta.
«Ti
amo anche io» sussurro consapevole di non essere udito da lei
«ti
prometto che non ti lascerò più andare via, a
questo punto solo la
morte potrà separarci...».
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
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autorizzazione scritta.
Buongiorno,
questa
storia originale si intreccia con una mia storia già scritta
precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta,
riconoscerà
subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT!
Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto
poiché contiene spoiler per questa originale.
Il
rating della storia varierà man mano scriverò i
capitoli, motivo
per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.
Ringrazio
con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in
veste di Beta Reader!
Rating
capitolo: verde
Personaggi
capitolo: Brent,
Yoshiko, Taichi, sorpresa
CAPITOLO
11
Sono
trascorsi quattro anni da quel fatidico giorno che ha cambiato per
sempre la mia vita.
Yoshiko
continua a ripetersi che è stato solo un bene che suo padre
si sia
dimostrato per quello che realmente era. Sono, però,
convinto che
non lo creda davvero. Probabilmente lo dice perché nel suo
subconscio sta cercando di trovare una motivazione al suo cambiamento
e, vista la sua indole da perenne sognatrice romantica, è
convinta
che persino quel triste ricordo che ha di lui sia stato utile a
raggiungere l'apice della felicità, portandola a tornare tra
le mie
braccia e vivere finalmente la nostra storia d'amore.
Vi
parlo di una storia sognata e bramata da anni e per anni. Yoshiko
è
sempre stata una fissazione per me, tanto da temere di poter
impazzire per amore. Ero convinto di averla idealizzata troppo e di
non poter più bearmi del calore e dell'amore di una persona,
a meno
che questa non avesse il suo nome. Ed in effetti non ho avuto torto
in questo mio pensiero, perché alla fine sono riuscito a
trovare la
pace interiore solo stando con lei.
Ora
lei è stesa accanto a me. Sono a casa da soli due giorni per
via di
un congedo straordinario che mi sono preso. Un congedo che, per
meglio dire, lei mi ha forzato a prendere.
Posso
intravedere le prime luci dell'alba farsi spazio tra le tende
turchesi della nostra stanza. Saranno sì e no le cinque e
mezza del
mattino. Il sole sorge presto in questo periodo dell'anno.
Lei
dorme a pancia in giù, come al suo solito. La sua gamba
sinistra è
leggermente alzata in avanti, mentre il volto è inclinato
verso di
me. Potrei dirvi che è una donna perfetta, ma quel rivolino
di
saliva che le cola malamente dal labbro inferiore distorce un po' la
realtà dei fatti. Eppure per me lo è veramente,
perfetta dico. Le
scosto una ciocca dal volto e lei fa una delle sue smorfie
infastidite. Devo ancora capire come mai non le piaccia affatto
essere toccata in viso. Eppure io le consumerei il volto di baci e
carezze, se solo me lo lasciasse fare.
Vorrei
bearmi di questa visione in eterno, ma la natura chiama e sono
costretto ad alzarmi dal letto per poter andare in bagno a fare due
gocce. Dopo la notte trascorsa a rimpinzarmi di pizza e birra, tipico
piatto orientale, ho la vescica che esplode.
Neanche
il tempo di rientrare in camera da letto e lei è sveglia,
accostata
alla finestra che si gode la visione di quell'alba che ha tinto il
cielo di un caldo arancio.
L'abbraccio
dal dietro e appoggio il mento sulla sua spalla sinistra senza
fiatare o dire una parola. Quell'istante è perfetto
esattamente così
com'è.
Le
mie mani scivolano sul suo ventre e lo accarezzano, mentre trattengo
il fiato ancora e ancora. Non sono eccitato, seppur il suo corpo mi
attiri come sempre. Eppure trattengo il fiato e una lacrima solca il
mio volto, mentre chiudo gli occhi e con i polpastrelli proseguo la
mia corsa a circumnavigare quel piccolo mappamondo che alberga in
lei.
La
cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è
il suo tempo. E
quale migliore tempo se non nove lunghi ed estenuanti mesi di
incubazione. Sorrido al pensiero che nove mesi appaiano tanto
infiniti quanto brevi. Ci sono giorni in cui mi accorgo di non essere
pronto e di non aver nulla di pronto. Altri, al contrario, in cui
l'attesa appare eterna e la voglia di poter incontrare il nostro
piccolo Isaac è immensa.
Isaac.
Già, non potevo scegliere nome migliore. Sono uno di quegli
uomini
che mai si sarebbe sognato nella vita di chiamare il proprio figlio
come suo padre. Eppure Isaac è stata la scelta
più spontanea per
me. Il nome Isaac deriva dall'ebraico isehaq
e significa "Dio sorride". È stata Yoshiko ad andare a
conoscerne l'etimologia e, vista la connotazione tanto positiva che
assume questo nome, è stato facile decidere.
Accarezzo
ancora il suo pancione da sotto la magliettina intima e mi lascio
cullare dal momento spensierato che stiamo vivendo.
Alle
volte mi viene quasi spontaneo guardarmi alle spalle e scoprire che,
nonostante tutto, la mia vita non ha poi fatto così schifo.
Yoshiko
è un punto cardinale per me e per l'esattezza è
il mio est. Ma come
si suol dire, una rosa dei venti è dotata di quattro punte.
Non ho
faticato molto a trovare il mio sud, il sergente Gamble, il mio nord,
mio padre, ed infine il mio ovest, Sam.
Yoshiko
sa tutto di Sam, della nostra relazione e dei nostri trascorsi
insieme. Non vi nego che inizialmente ne è rimasta un
tantino
sconcertata, soprattutto perché ha faticato a comprendere
come può
un etero stare con una lesbica e viceversa. E va bene, non posso
certo darle torto. Ma Yoshiko è sempre stata una donna di
ampie
vedute e me lo ha dimostrato in più occasioni e anche questa
volta
non è stata da meno.
Sam
per me non è il passato, ma è il presente, ora
più che mai. Le ho
presentato Yoshiko quasi un anno fa e l'emozione è stata
fortissima.
Sam, la cara e forte Sam, si è commossa nel vederla e ha
pianto
ininterrottamente per diversi minuti quando l'ha abbracciata. Quel
giorno mi ha guardato negli occhi e mi ha detto una frase che non
dimenticherò mai: “lei
è preziosa, Brent, perché è la
dimostrazione del fatto che i sogni
possono davvero diventare realtà”.
Da
allora lei è stata una presenza costante nella nostra vita.
Quel
pomeriggio decidiamo di andare a fare compere per il bambino. Yoshiko
è ormai a metà gravidanza e ancora non abbiamo
comprato nulla,
neppure il necessario per l'ospedale. Lei è tutta eccitata e
l'idea
di poter andare a fare shopping per sé e per il bambino la
rende
particolarmente felice. Il suo telefono, però, squilla
animatamente
ed è costretta a mettere l'entusiasmo da parte per poter
rispondere
alla chiamata.
Il
suo viso si fa cupo, poi risplende e si spegne nuovamente. Alla fine
un velo di stupore misto ad eccitazione si dipinge sulla sua candida
pelle.
«Ti
prego, siediti» mi dice a fine chiamata con
fermezza e senza indugio.
«Sono
due?» le domando quasi spaventato.
«Due
cosa?» mi chiede lei stranita.
«Isaac»
rispondo solamente, quasi inebetito alla notizia.
«Bee,
ma ti pare!» mi rimprovera ridacchiando.
Per
fortuna, vorrei quasi sospirare mentre mi accascio sul divano.
«Promettimi
di non arrabbiarti con me...» inizia lei preannunciando un
argomento
a me ostico e rendendomi nervoso.
«Cos'hai
combinato?» le domando guardandola di
sbieco.
«Tu,
prometti!» dice lei con tono fermo.
«Croce
sul cuore» rispondo io emulando il gesto
con la mano.
«Ho
ingaggiato un detective privato per scoprire chi è la tua
madre
biologica» mi dice tutto ad un fiato
guardandomi negli occhi.
Scoppio
a ridere. E pensare che per un istante quasi ci sono cascato. Ma la
mia risata mi muore in gola nel momento in cui osservo la sua
espressione quasi apatica. E capisco. Lei non sta scherzando. Sta
dicendo la verità.
«No,
non mi interessa» le rispondo alzandomi di scatto
dalla mia
postazione e uscendo come una furia fuori dalla nostra abitazione.
Lei
non mi rincorre. Lei resta in casa. Perché lo sa benissimo
che il
mio istinto mi porta sempre a tornare da lei. Ed in effetti ritorno
sui miei passi in meno di trentaquattro secondi.
«Perché
mi ha abbandonato?» le domando con rancore, rabbia e
risentimento.
«Io...
non lo so» il mio volto si incupisce e lei capisce subito di
dover
aggiungere dell'altro.
«Ma
so chi conosce tutte le risposte alle tue domande» alzo il
volto
nella sua direzione e il mio sguardo parla da solo. Lei è la
luce
dei miei occhi, il mio faro durante una cupa notte in tempesta.
La
seguo senza alcun timore. Mi scorta sotto un portone singolare che
non richiama affatto la cultura giapponese. Appartiene quasi all'arte
neoclassica. Caratteristiche peculiare, conoscendo il luogo in cui si
regge.
Varchiamo
quel portone e subito veniamo accolti da un autentico uomo caucasico
di mezz'età. Ci fa accomodare senza giri di parole arrivando
subito
al dunque «in questa scheda troverai tutte le informazioni
che ho
scoperto sulla tua madre biologica».
Sento
un groppo alla gola che fatica quasi a scendere. Ingoio, eppure quel
macigno mi si ferma in bocca e mi toglie il fiato. Sento che potei
avere un attacco di panico da un momento all'altro.
Afferro
quell'anonima cartelletta grigia e la stringo nelle mani. Poi la
appoggio sul tavolo e la porgo a Yoshiko «ti prego, fallo
tu».
Lei
annuisce e mi sorride, prendendomi una mano tra le sue e cercando di
calmarmi con lo sguardo.
Apre
la cartelletta e ne estrae una relazione «Sanae
Shinbaya». Inizia a
leggermi la storia della sua vita, raccontandomi dove è
nata, com'è
cresciuta, quali scuole ha frequentato e com'è stata la sua
infanzia.
Quel
racconto mi scivola addosso come acqua, pungendo la mia pelle dal
tanto è fredda. Non riesco a memorizzare le informazioni che
mi
vengono date e la mia mente vaga altrove. Eppure mi conosco e so bene
che questo mio meccanismo di difesa vuole solo evitare di scontrarmi
con la realtà dei fatti: lei mi ha abbandonato. E ora a me
importa
solo scoprirne il motivo. Non mi interessa sapere chi è
stata e chi
è ora come ora, voglio solo sapere cosa l'ha spinta a darmi
via.
Yoshiko
interrompe la lettura, probabilmente ha notato quanto io sia
distratto. Poi, però, vedo i suoi occhi sfrecciare a destra
e
sinistra come all'impazzata, spalancandosi sul finale e lasciandola
letteralmente a bocca aperta.
«Bee»
mi sussurra con estrema dolcezza «lei ti amava».
Perché
dici questo, vorrei chiederle. Ma la mia reazione prevede solo un
forte corrugamento della fronte e niente di più.
«Pare
che l'anno prima di andare a fare volontariato in Venezuela, lei
abbia sconfitto una grave forma di tumore alle ovaie» dice
Yoshiko
stupita e stranita da quella informazione.
Io,
al contrario, vengo investito da un treno in corsa. Non è
possibile,
è come un loop
infinito, una storia sentita e già vissuta.
«Il
volontariato era il suo modo di condividere con i più
sfortunati, la
buona sorte che l'aveva baciata» mi spiega il detective
irrompendo
nel discorso «mi è stato riferito che ha scoperto
di essere
incinta, solo dopo aver scoperto che il cancro era tornato».
«Lei...»
le parole fanno fatica ad uscire dalla mia bocca «lei ha
scelto me».
Il
detective annuisce con un sorriso beffardo sulle labbra ed il mio
mondo ancora una volta subisce una battuta d'arresto.
«Era
stufa di combattere contro quel male che la divorava dentro. Aveva
già subito tre interventi ed era ormai alla quarta ricaduta.
Ha
deciso di utilizzare le sue ultime forze per dare la vita a
te»
aggiunge il detective.
Mi
sento pugnalato, distrutto e ferito. Sento che le forze mi stanno
abbandonando. Tutto ciò che ho sempre creduto su mia
madre... è
tutto solo una mera e falsa illusione di ciò che nel mio
piccolo
avevo voluto credere per sentirmi al sicuro. Ma la verità
è che con
lei ero più che al sicuro, perché lei ha
letteralmente dato la sua
vita per me. Un gesto che forse, solo ora che sto per diventare
padre, posso comprendere appieno.
Dopo
aver ringraziato il detective ed essere usciti da quel cimitero di
informazioni, abbiamo trascorso due ore a comprare il mondo per il
piccolo Isaac. Ho scoperto di essere un padre amante dello shopping
compulsivo. Ho comprato ogni bene possibile e inimmaginabile,
partendo da ciò che è utile, fino a spendere
soldi per piccole
frivolezze.
Ma
in cuor mio sono conscio del fatto che non potrò mai
raggiungere il
grado di amore che mia madre ha raggiunto mettendomi al mondo in
quelle condizioni. Eppure oggi ho imparato una lezione veramente
importante. Ovvero che dietro ad ogni azione, seppur questa possa
apparire davvero insensata o involontaria, vi è un fondo di
premeditazione e che spesso dietro a queste azioni si cela una dura
realtà.
Quella
stessa sera mi sono ritrovato a fare una cosa che mai avrei pensato
davvero di fare. Ho raccolto busta e carta e ho scritto una lettera,
come ai cari bei vecchi tempi.
Caro
Isaac,
vorrei
raccontarti della tua famiglia, delle tue radici e da dove deriva il
cinquanta percento di te.
La
famiglia è il bene più prezioso che potrai avere
nella vita e per
questo motivo bisogna tenersela stretta, così come io non ho
mai
abbandonato il pensiero di tua madre nonostante le avversità.
Oggi,
Isaac, vorrei raccontarti di tuo nonno, della persona che è
stata
per me, ma soprattutto della persona che è stata per gli
altri. Un
uomo che ha donato se stesso per il prossimo. Lui era un eroe
invisibile. Non parliamo di uno degli eroi che probabilmente
incontrerai nella tua vita leggendo i fumetti Marvel, neppure uno di
quelli che verrà mai acclamato in televisione. Ma ti
assicuro che se
chiedi alla comunità, sentirai solo parlare bene di lui.
Nessuno ha
mai versato una parola acida nei suoi confronti. Ed io mi auguro che
un domani anche tu possa essere come lui.
Vorrei
poterti dire altrettanti grandi cose anche su tua nonna, ma la
verità
è che..
Appoggio
la penna sulla scrivania e mi accorgo di non sapere davvero cosa dire
su di lei. Mi alzo e mi allontano dalla stanza fino a raggiungere
Yoshiko. Sta beatamente spiaggiata sul divano. Mi avvicino a lei e
allungo una mano in sua direzione, invitandola a seguirmi.
«Dove
mi porti di bello, tesoro?» mi domanda lei incuriosita.
«Vestiti
bene, oggi andiamo a Tokyo» lei mi guarda curiosa e confusa.
«Oggi?
Ma è un viaggio lungo da affrontare, non è certo
dietro l'angolo»
mi risponde lei, non capendo la mia fretta.
«Cosa
racconteremo domani ad Isaac sulla sua famiglia? Non potremo parlare
bene dei tuoi genitori per ovvi motivi e non potrò parlare
di mia
madre perché di lei non so assolutamente nulla. Mio padre,
che Dio
lo abbia in grazia, è morto anche lui» le rispondo
gesticolando in
maniera quasi convulsa.
«Bee,
ti prego, calmati» sussurra lei con voce pacata e tremante
allo
stesso tempo.
«No,
ho deciso. Oggi si fa a Tokyo. Andremo a visitare la tomba di mia
madre e poi andremo a parlare con la tua. Basta con i fantasmi del
passato. Dobbiamo lasciarci tutto alle spalle se vogliamo che nostro
figlio viva serenamente» le rispondo.
Questa
volta non ottengo alcuna risposta da parte sua. Yoshiko mi volta le
spalle e si chiude in camera nostra diligentemente a preparare le
valigie.
Dopo
un'ora siamo in volo per affrontare il nostro passato, presente e
futuro.
Yoshiko
è molto nervosa e lo scorgo con facilità
poiché continua a
passarsi tra le mani una vecchia collana della madre. Non ho dubbi
che la sua mente stia vagando altrove. Lei è qui con me, ma
è come
se non ci fosse veramente.
«Ho
paura di incontrare mio padre» mi confida guardandomi con
occhi
dolci e lucidi.
«Non
lo incontreremo, infatti» le rispondo io sorridendole e
cercando di
infonderle tranquillità.
«Non
capisco, hai detto che stiamo andando a Tokyo anche per questo e
ora...» la sua frase rimane in sospeso.
«Devi
ancora superare altri 4 mesi di gravidanza ed io sarò
sicuramente
via per lavoro» le dico cercando di impostare alla bene
meglio il
discorso che vorrei farle «il che significa che tu resterai
sola per
tutto il tempo e anche in caso di bisogno sarai sola... e a me questa
cosa non piace».
Lo
sguardo di Yo si illumina e finalmente capisco che è
arrivata alla
mia stessa conclusione, ma, al contrario di quanto pensato, decide di
accantonare il discorso e di non riprenderlo più per
l'intero
viaggio.
In
tarda serata raggiungiamo un albergo in periferia e affittiamo una
stanza per un paio di notti. Il mio congedo durerà ancora
una
settimana e non oltre, perciò sento di aver il tempo contato
per
poter sistemare il nostro presente.
La
mattina seguente decidiamo di dirigerci in primo luogo esattamente
dove è stata sepolta mia madre.
I
cimiteri giapponesi sono differenti da quelli inglesi. Si trovano
solitamente vicino a un tempio o un santuario e sono spesso
completamente immersi nel verde
La
tipica tomba giapponese è di solito una tomba di famiglia
costituita
da un monumento in pietra, con un posto per i fiori, per incenso e
per l’acqua, e una camera o cripta sottostante per le ceneri.
Il
nome del defunto è spesso inciso nella parte frontale della
tomba.
Spesso, però, il nome viene anche scritto su un sotoba,
una tavola di legno posta su un supporto dietro o accanto alla tomba,
insieme alla data di morte o a preghiere. Alcune tombe dispongono di
una scatola per biglietti da visita, dove amici e parenti che
visitano la tomba possono lasciare il proprio biglietto.
Ed
è proprio in questa occasione che mi ritrovo ad afferrare
uno dei
bigliettini posti sulla tomba di mia madre per fare una cosa
impensabile.
La
cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è
il suo tempo.
Non
sono le parole, non sono i fiori, i regali. È il tempo.
Perché
quello non torna indietro e quello che ha dato a te è solo
tuo,
non
importa se è stata un’ora o una vita.
(David
Grossman)
Mai
come in questa occasione ho trovato questa frase così
azzeccata e
perfetta.
Yo
si presenta alle mie spalle e mi abbraccia «È una
frase
bellissima».
«Credo di
essere un pessimo figlio»
rispondo sconsolato.
«Bee,
perché dici questo?» mi domanda lei
fronteggiandomi e prendendomi
il volto tra le mani.
«Prima
di tutto ho trascorso un'intera vita con l'idea che mia madre
fosse... una stronza!» avrei voluto ponderare le mie parole
in
questa circostanza, ma la verità dei fatti è che
ho seriamente
pensato che lei fosse una vera stronza. Voglio dire, quale madre
potrebbe mai abbandonare il proprio figlio senza darne un valido
motivo e senza mai più ripresentarsi alla sua porta?!
«Ed
ora che la incontro per la prima volta -si fa per dire- le lascio un
banale e anonimo biglietto sulla tomba» mi accuccio a terra
sprofondando il viso tra le mie stesse braccia.
Ad
un tratto mi sento quasi intrappolato in un velo di malinconia
«sono
un pessimo figlio» annuncio nuovamente «come
diavolo posso
diventare o anche solo sperare di diventare un bravo padre?».
La
reazione primaria che mi aspetto da una come Yo è quella di
consolarmi e probabilmente accarezzarmi, abbracciarmi o qualcosa di
simile. Sì, insomma, in una situazione simile avrebbe fatto
così.
Ovviamente non in questa. Lei cosa fa? Scoppia a ridere, il che mi
inebetisce il doppio.
«Cos'hai
da ridere?» le domando.
«Vedi...
ti domandi come tu possa essere un padre, quando alle spalle hai una
figura paterna degna di Nobel» afferma lei rannicchiandosi
affianco
a me «pensa a me che come figura materna di riferimento ho
una donna
completamente succube e indifesa».
Io
la guardo stranito «e la cosa ti fa ridere?».
Yo
annuisce timidamente prima di irrompere con una risata ancora
più
accesa.
Dannati
ormoni femminili e dannati ormoni della gravidanza, un mix alquanto
letale e per il quale ringrazio di essere nato uomo!
Quella
stessa sera decidiamo di fare un giro per Tokyo. L'idea di ritrovarmi
nella stessa città dove mia madre è nata e
vissuta per la maggior
parte della sua vita, mi fa venire in un certo senso i brividi.
È
tutto così diverso e lontano dalla mia cara e vecchia
Inghilterra.
Eppure sono qui, in Giappone, da diversi anni ormai e ancora non
riesco a capacitarmi e ad entrare nello spirito di questo Paese che
ha davvero tanto da regalare.
Taichi
è di queste zone. Mi ha raccontato tantissime cose su Tokyo
e per
quanto io sia abituato in un certo senso a metropoli altrettanto
vaste, l'immensità di questa città è
sbalorditiva. La meccanica,
la precisione e l'uniformità con la quale è stata
costruita è
quasi inumana. Eppure è proprio grazie a questa
rigidità e
precisione su cui si basa, che Tokyo appare quasi perfetta. Per le
strade la gente cammina sorridendo, tenendosi per mano e con passo
piuttosto pacato. Guardo Yoshiko al mio fianco e mi viene quasi
istintivo stringerle più forte la mano. Inutile dire che il
mio
gesto non fa altro che attirare la sua attenzione. Ma non mi chiede
nulla, mi sorride dolcemente e torna ad ammirare le luci notturne che
illuminano la città.
Tutto
appare affascinante e lontano, come se a vivere questo istante non
fossi io ma un'altra persona. Tokyo è magica, ha proprio
ragione
Taichi.
Ad
un tratto, forse sono io ad avere un passo troppo felpato, ma mi
sento tirare per il braccio. Mi volto indietro e trovo Yoshiko
immobile, occhi sgranati e bocca semiaperta. Il mio primo pensiero va
ad Isaac, perciò mi avvicino a lei e le chiedo se va tutto
bene.
Lei, però, non ha modo di rispondermi, perché
alle mie spalle si
sente audace una voce femminile.
«Yoshiko»
mi volto e mi ritrovo a fronteggiare una bella donna di
mezz'età,
capelli lunghi e lisci, scuri ma con diverse ciocche argentate. Una
donna di bell'aspetto, ma dalla presenza contenuta e quasi timida.
«Mamma...»
sussurra Yo quasi a bocca asciutta.
Realizzo
che ciò che avremmo dovuto fare la mattina seguente, ci
aveva
anticipati. Che brutti scherzi che gioca il destino alle volte.
La
madre abbassa lo sguardo e subito nota il gonfiore all'addome di
Yoshiko, realizzando senza grande perspicacia che sua figlia
è in
dolce attesa.
Decido
di prendere le redini della situazione abbozzando una domanda che
risulta stretta a tutti quanti «suo marito?».
Credo
che la mia impertinenza non le sia andata a genio, o per lo meno quel
broncio sul suo volto mi fa intendere così.
«Ci
possiamo prendere un thè? Ho bisogno di sedermi»
afferma Yo
avvinghiandosi al mio braccio come a cercare conforto.
Ci
avviciniamo al primo locale a portata di schiocco e l'imbarazzo
è
evidente per tutti. Cavolo, ho sempre odiato queste situazioni. Sono
un chiacchierone, ma mi trovo a disagio a conoscere sua madre proprio
in questa circostanza.
«Lui
è Brent Smith, il mio compagno» mi presenta
Yoshiko a sua madre.
«Non
è giapponese» risponde lei senza neanche
stringermi la mano.
Sul
mio volto compare un sorriso falso. Ecco uno di quei momenti in cui
vorrei essere invisibile o per lo meno trovarmi altrove. Eppure
è
tutta colpa mia se ora come ora mi ritrovo in questa situazione al
limite dell'irreale.
«In
realtà preferirei definirmi un cittadino del mondo. Sono
anglo-giapponese, in ogni caso. Non che in realtà questo
faccia
differenza, giusto?» le domando a colpo diretto.
La
donna appare quasi intimidita da me, dal mio fare e dalla mia
risposta secca. Yoshiko al contrario mi tira leggermente il lembo
della felpa come a volermi pregare di rimanere calmo.
«Comunque,
mi fa piacere che ci siamo incontrati per caso questa sera, l'idea
era comunque quella di venire a trovarvi domani» aggiungo
ancora.
«Io
e mio marito ci siamo lasciati, in realtà. Perciò
non mi avreste
trovata a casa» risponde la donna abbassando lo sguardo e
giocherellando con il bicchiere di acqua davanti a sé.
«Vi
siete lasciati?» domanda Yoshiko assumendo un'aria piuttosto
preoccupata.
«Tesoro,
quando ho realizzato che eri scappata via solo a causa nostra... mia!
Sono stata una vigliacca e non ti ho concesso di avere la vita che
tanto meritavi» la madre di Yoshiko scoppia a piangere come
una
bambina e per la prima volta inizio a provare compassione nei suoi
confronti.
Yoshiko
mi guarda con occhi languidi e già capisco cosa mi vuole
chiedere.
«Signora,
io credo sia il caso di ripartire da zero» le allungo
nuovamente la
mano nella speranza che almeno questa volta si decida ad afferrala.
«Mi
chiamo Brent Smith, ho conosciuto sua figlia tantissimi anni fa e me
ne sono innamorato all'istante. Chiamatelo colpo di fulmine o
qualsiasi cosa sia, ma lei mi è entrata nella mente e nel
cuore come
nessun'altra» la donna stringe timidamente la mia mano questa
volta
e quasi rimane attratta dal mio racconto.
«Sono
scappata da lui... hai ragione, non sopportavo più
papà» aggiunge
Yoshiko accostando la propria sedia a quella della madre «da
allora
io e Bee siamo sempre rimasti insieme e ora...» Yo si
accarezza
dolcemente il grembo per poi aggiungere «siamo in attesa del
piccolo
Isaac».
La
madre si commuove nell'udire le parole della figlia. Certo, aveva ben
capito lei fosse incinta, ma dirlo così apertamente e con
quel velo
di gioia infinita che riesce sempre a trasmettere Yoshiko,
sicuramente è un'altra cosa.
Sebbene
la vita si intrecci continuamente in quell'altalenare di emozioni che
tutti noi conosciamo, tra delusioni, amarezze, brividi di gioia, di
malinconia, cuori che sobbalzano e amori che sbocciano, mi sorprendo
ogni volta ad ammirare questo flusso a spirale che mi avvolge.
È la
natura umana, provare almeno una volta nella vita queste emozioni.
Credo di aver toccato ormai con mano ogni singola emozione esistente.
La tristezza che la perdita di mio padre mi ha lasciato, la sorpresa,
eccitante e un po' sconvolgente, di rivisitare il pensiero che ho
sempre avuto di mia madre, il coraggio e la protezione che provo ad
avere accanto un compagno di armi come Taichi, l'amicizia e
l'incredibile forza d'animo che mi ha potuto donare Sam... e l'amore
incondizionato che ha saputo trasmettermi Yoshiko sin dal nostro
primo incontro, fino alla nostra prima notte insieme, alla scoperta
di diventare genitori. La vita è anche questo, una ricerca
della
felicità, avvolta in un pizzico di avventura cieca,
mischiata
all'esperienza nata dal contatto con persone a te diverse, per natura
o cultura. E in ultimo, ma non meno importante, l'impatto che
l'imprevedibilità e la varietà di ciò
che ci circonda si fonde con
il piccolo bagaglio che abbiamo caricato fin'ora sulle spalle. Un
concetto forse difficile da comprendere, ma la verità
è che la mia
vita, come quella delle persone a me care che mi circondano,
è in
perenne evoluzione perché vola, alle volte controcorrente,
alle
volte seguendo la giusta scia. Ed è qui che nasce il
concetto di
effetto farfalla. Perché ciò che per gli altri
può apparire un
incontro-scontro di lieve importanza, per altri può
trasformarsi in
un uragano di mutazioni. Motivo per cui non credo ai “e
se”. Per
me non esistono. Ciò che è accaduto nel passato
è servito a
forgiare il presente di oggi e probabilmente a plasmare le basi del
futuro di domani.
È
meraviglioso scoprire come il mondo si presenta ai nostri occhi dopo
che si ha preso la consapevolezza di questo concetto. Chiamatela
fisica, teoria del caos, magia o semplicemente disillusione, ma la
verità è che vi è un ciclo di tempo
che, seppur futuro, è già
stato scritto. Come si suol dire, siamo solo dei passeggeri in questo
mondo. Viaggiatori nel tempo e del tempo, che viviamo in una frazione
di mondo in cui stabiliamo le nostre vite, credendo che queste
possano durare per l'eternità o almeno sperando in questo
concetto.
Ma siamo fugaci, come orme sulla sabbia che vengono cancellate dalle
onde del mare. A noi non è dato sapere il nostro destino,
allo
stesso tempo questo è già stato scritto e non
possiamo che
partecipare passivamente a questo loop infinito.
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