Il tepore del ghiaccio

di Sabriel Schermann
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

Disclaimer: un grazie speciale va a Juriaka: senza di lei questo titolo non esisterebbe o sarebbe alquanto terribile. Raramente sono soddisfatta delle mie idee a riguardo e credo di averla appena ingaggiata come mia creatrice di titoli personale, dunque GRAZIE di cuore carissima ♡
Brevi note riguardo al testo: la storia è ambientata tra la fine del 1999 e l'inizio del 2000. La canzone utilizzata è Storm degli Infected Rain.

 

 

 

 

 

 

Il-tepore-del-ghiaccio

 

 

 

 

 

 

 

 

With tearful face and little lives
Is best she could she begged the skies
For a dad and a mom, a forever home...


[John Waller - Orphan]

 

 

 

 

 

 

Non sapeva dire se fossero state le gocce di pioggia a svegliarla oppure il canto notturno del bosco.
Doveva trovare un riparo per poter dormire al sicuro, quella piccola creatura abbandonata dall'umanità: l'acqua le bagnava il viso e i capelli riversi sul terreno uniti in ciocche incrostate di sangue.
Ormai sveglia, Sindy osservava le gocce piombarle sulle guance come bombe sulla folla, picchiandole la pelle con dolcezza.
Erano quelle le uniche carezze che avesse mai ricevuto; anche quando si era spinta fino alla strada, i passanti l'avevano scansata con ribrezzo, disgustati dalla vista di una bambina povera e malandata.
Non le era mai capitato di non riuscire a dormire, in quei mesi passati nel bosco: il vento della sera era la sua ninnananna, le fronde di cui la natura aveva spogliato gli alberi erano il suo unico giaciglio.
Quella notte, però, qualcosa non andava: sentiva le gocce incollarsi alla pelle, fredde e dense, pesando sul suo corpo come se lentamente la seppellissero.
La paura di non poter vedere che cosa la circondasse l'immobilizzò, ma la curiosità era più forte di qualsiasi timore: si sfiorò il viso con le dita, percependo uno strato solido sciogliersi sotto il suo tocco.
Doveva essere quella schiuma bianca che cadeva dal cielo durante l'inverno: in passato, era addirittura riuscita a sgattaiolare di nascosto fin nel cortile dell'orfanotrofio per poterla toccare.
Cullata dai ricordi più dolci, Sindy si addormentò sotto la sua quercia preferita, lasciando che la neve fungesse da coperta al suo gelido corpicino.
Quando gli occhietti si spalancarono nuovamente, quasi non riusciva a respirare: il cielo era plumbeo e la luce doveva averla illuminata già da qualche ora.
Fu allora che udì delle voci poco lontano: tentò di accovacciarsi all'ombra della corteccia, ma le gambe erano troppo rigide e i passi sconosciuti si facevano sempre più vicini.
«Stavo cacciando dall'altra parte del bosco quando l'ho vista» sentì qualcuno sbraitare, «all'inizio non avevo capito che bestia fosse, poi mi sono reso conto che era proprio una persona!»
«Cazzo, non è che l'hai colpita?»
«Non credo, non c'era alcuna traccia della bambina quando me ne sono andato...»
«Come fai a sapere che era una bambina?»
Le voci dovevano provenire solamente da qualche albero più indietro. Sindy cominciò a tremare sotto le lenzuola innevate, come mai avrebbe tremato solamente per il freddo. La paura di essere trovata e il gelo del suo letto le impedivano di muoversi dietro al grande tronco.
Il fruscio nella neve suggeriva passi pesanti come la marcia di un soldato pronto ad afferrarla e riportarla indietro, dove tutto ebbe inizio.
«Ho visto i capelli lunghi e il cappottino rosso che indossava. Ti dico che era la bambina del volantino! A quest'ora potrebbe anche essere morta».
Qualsiasi sapore avesse la morte, Sindy l'avrebbe preferita mille volte alla vita nella foresta. Se la morte era in un luogo caldo e sicuro, dove la fame e la sofferenza non esistevano, allora Sindy desiderava morire al più presto.
Non percepiva né vedeva più il proprio corpo: e allora perché il suo animo pareva così vivo e lucido? Perché non poteva spegnersi anche lui come tutto il resto?
«Se riuscissimo a trovarla e ottenere quei soldi...»
«Sarebbe un buon modo di iniziare l'anno nuovo!»

 

 

 

It's hard to move
Come find me
It's hard to breathe
Please save me

 

 

 

Ora che ci pensava, ciò che aveva appena vissuto non le pareva nemmeno reale. Due sconosciuti le erano passati accanto senza accorgersi del corpo sepolto sotto la neve: se si fossero voltati, avrebbero certamente potuto scorgere il suo viso alla luce del giorno.
Invece si erano addentrati nella foresta, continuando a parlare di qualcosa che Sindy non aveva compreso.
Il sole era spuntato a fatica qualche minuto più tardi, aiutandola a recuperare lentamente la sensibilità degli arti: aveva avuto abbastanza tempo per pensare a un modo per nascondersi, cullata dal battito potente del proprio cuore. Restare nella zona sarebbe stato pericoloso, avrebbe dovuto cercarne un'altra più riparata, dove gli uomini difficilmente si addentravano.
«Mi chiamo Sindy e sono nata il 13 giugno del 1990...» ripeté dentro di sé: non aveva il coraggio di parlare ad alta voce, come faceva quando si sentiva troppo sola. Si era rivolta spesso agli animali che abitavano il bosco, prima che si nascondessero dalla stagione più fredda dell'anno; aveva parlato con i fiori, scusandosi per azzannarli quando la fame non le permetteva di fare altrimenti. Aveva imparato in breve tempo a concepire la foresta come un grande piatto prelibato: aveva provato anche ad assaggiare il terriccio, ma era troppo amaro per poter anche solo essere infilato sulla lingua.
La stagione invernale, però, da qualche settimana non le aveva lasciato quasi nulla da mettere sotto i denti.
Dopo solamente un'ora di cammino, Sindy era troppo debole per proseguire oltre. Le suole delle sue scarpette preferite ormai non esistevano più, e i piedi sanguinavano sul terreno quando inciampava nei rami più aguzzi.
Lasciandosi cadere sulla distesa bianca, ne afferrò un pugno per infilarselo d'istinto in bocca.
I fiocchi si sciolsero veloci sulla lingua, ma la neve non riempiva lo stomaco, né placava le sofferenze.
Il sole era già stato inghiottito dalle nubi e il gelo le penetrava nelle ossa con la lentezza dell'acqua che lima le sponde di un ruscello.
Un sonno profondo le invase le membra, come se stesse volando: il vento voleva portarla via con sé, su una nuvola, dove un banchetto di dolciumi attendeva di essere consumato.
Forse la morte non era dolce come aveva creduto quando ancora poteva nutrirsi. Forse c'era qualcosa di peggio di tornare all'orfanotrofio, dal maestro e dai suoi sospiri notturni, dalla signora Matilde e dalla mancanza d'affetto.
Forse la fame era peggiore di tutto ciò che aveva vissuto fino ad allora.
Sindy non aveva forze, ma le lacrime non avevano bisogno di energia per scivolare sulle guance e suicidarsi nella neve.
Non le importava più se qualcuno l'avesse vista o udita.
Voleva solo banchettare su una nuvola.

 

 

 

Walking into the night
I'm trying to find you
Walking into the night
So I can find you

 

 

 

Sindy si addormentò quasi soffocando nelle sue stesse lacrime.
Non seppe dire quanto tempo avesse dormito: in verità, non sapeva nemmeno come si calcolasse il tempo.
Con rinnovata energia, riuscì a tirarsi in piedi e proseguire verso la direzione che aveva intrapreso. Le tenebre stavano già risucchiando la foresta e doveva trovare un nuovo rifugio in fretta. Oltrepassò una piccola collinetta, discendendola con calma per poi accorgersi che qualcosa nel paesaggio era cambiato: gli alberi non la circondavano più e il terreno era divenuto improvvisamente spoglio intorno a sé.
Tutto sembrava nascosto da una patina bianca: la debolezza la fece inciampare nei suoi stessi passi, facendola ruzzolare per qualche metro. Svenne e rinvenne più volte; qualcuno doveva averla catapultata in una nuova dimensione: il sole non era più incastrato dietro le nuvole e, in lontananza, lo si poteva scorgere tuffarsi nel mare.
Aveva visto quel panorama solamente una volta, quando accostò di soppiatto la porta dell'orfanotrofio per fuggire verso la libertà.
Quella vista così rara e nuova la spinse a tirarsi in piedi e avvicinarsi, ma la distesa salata spense la sfera scarlatta troppo in fretta, ipnotizzando quella piccola creatura che qualcuno aveva obbligato a stare al mondo, quasi dieci anni addietro.
Tutto ciò che la sua visuale comprendeva ora era una casa, forse di legno, con un grande recinto trasparente su cui qualcuno pareva camminare come se fosse sul punto di crollare.
Solo dopo essersi avvicinata ancora, Sindy si accorse che ai piedi indossavano qualcosa che non aveva mai visto.
«Ma sono delle fate...» si lasciò sfuggire, senza accorgersi di essersi accostata tanto da aggrapparsi alla ringhiera della pista.
Mancano solo le ali, pensò, ma subito la sua fantasia ne disegnò delle più colorate sulla schiena delle ragazze.
Non seppe mai trovare le parole per definire ciò che avvenne dopo. Forse era stato il freddo a condurla fino alla casa, o forse la curiosità che l'aveva sempre contraddistinta.
In quel momento, la fame e la debolezza parevano quasi scomparse: voleva solamente diventare una fata, come quelle persone che scivolavano senza cadere. Se lo meritava, dopotutto.
Non era così che funzionava? All'orfanotrofio la signora Matilde diceva che il duro lavoro veniva sempre ricompensato.
Forse, dopo la fame e la solitudine che aveva subito, la sua ricompensa era divenire una bella fatina dalle ali azzurre per volare ai confini del mondo.
Quasi scivolò sullo zerbino posto fuori dalla porta: all'interno, un uomo dai capelli chiari la fissava con sguardo curioso, e anche i giovani con quelle strane scarpe ai piedi interruppero per un istante la loro attività.
Nessuno fiatò fino a quando la bambina non barcollò fino allo sgabello più vicino, intontita dalla differenza di temperatura e dalla vista di nuovi volti.
Con la testa pesante, Sindy fissò il pavimento per un po', indecisa sul da farsi: che cosa l'aveva spinta fin lì? Perché si era esposta così tanto agli uomini?
Ma subito si calmò: dopotutto era in mezzo alle fate e nessuno avrebbe potuto farle del male. Quelle creature avevano i poteri magici e, se avessero voluto riportarla indietro, di sicuro loro avrebbero potuto fermarli.
Alzò lo sguardo sullo sconosciuto, fissandolo negli occhi, senza accorgersi che erano rimasti soli.
Sindy sorrise per la prima volta dopo svariate settimane; cominciava ad accaldarsi, ma era una sensazione talmente piacevole che avrebbe potuto svenire, dopo tanto gelo nel cuore.
Lo sentiva: quelle fatine le stavano facendo del bene.
L'uomo continuava a fissarla con la bocca semiaperta, senza emettere alcun suono né fare alcun movimento. Solo allora la bambina si accorse che si trovava dietro un bancone di legno, su cui campeggiavano alcuni fogli e degli oggetti che non aveva mai visto.
«Voglio diventare una fata» azzardò, e la voce uscì gracchiante e stridula dalla sua gola.
Eccitata e felice per la prima volta dopo tanto tempo, Sindy non poteva sapere che quell'uomo, che normalmente avrebbe temuto, l'aveva riconosciuta.
«Puoi aiutarmi?»
Lo vide poggiare il foglio che aveva in mano senza distogliere lo sguardo dal suo corpicino martoriato dalla fame: qualcosa di ben più importante delle fate, infatti, aveva catturato la sua attenzione.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Now she’s here, from halfway around the world
'Cause Jesus hears the orphan
He is moving Heaven and Earth
All for one little girl...


[John Waller - Orphan]

 

 

 

 

 

 

Jan aveva aperto un pacchetto di cracker dopo la sua ultima lezione di pattinaggio: il giorno dopo sarebbe tornato nella sua casa di Amsterdam, quella che i genitori gli avevano lasciato in eredità e in cui si era trasferito insieme alla famiglia quando la moglie era rimasta incinta, quasi dieci anni prima.
Aveva riconosciuto quella strana bambina sporca e affamata, come faceva credere lo sguardo posatosi sul pacco di cibo aperto: era fuggita dall'orfanotrofio, l'unico della città, e tutto il personale la stava cercando disperatamente, in pena per lei.
Jan aveva visto i volantini lungo le strade e aveva udito le dicerie della gente, preoccupata per quella piccola sconosciuta, che ormai avrebbe dovuto essere già morta da un pezzo.
In effetti, dall'aspetto sembrava uscita dall'oltretomba: la neve che era caduta durante la notte doveva avere sciolto il sangue incastrato nei capelli; tutto di lei emanava un odore atroce e alla vista sarebbe stato impossibile trattenere un moto di disgusto.
«Ne vuoi uno?» riuscì soltanto a mormorare, porgendole il pacco con gentilezza. Quella creatura gli faceva una gran pena: avrebbe voluto offrirle un pasto caldo e un letto su cui riposare, ma sarebbe partito all'alba il giorno successivo e doveva ancora riscuotere il denaro che il proprietario della pista di pattinaggio gli doveva.
Jan si recava nella sua città natia tutti gli inverni, quando gli impegni lo permettevano: aveva così una buona scusa per tornare a levigare il ghiaccio della sua vecchia pista, giocare con qualche pargolo curioso e guadagnare qualcosa.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso, ciò che davvero lo spingeva fino a Bloemendaal era la speranza di riconoscere il viso di suo fratello tra la gente; l'inverno passato si era addirittura spinto fino alla loro vecchia casa, illudendosi di trovare qualcuno che gli dicesse dove si trovava la sua famiglia perduta.
«Ne vuoi un altro?»
Quando la bambina si avvicinò per sgattaiolare via col bottino, Jan pensò che fosse una bella bambina in condizioni migliori: la pelle ambrata e la chioma corvina – colorata qua e là di qualche macchia vermiglia – gli ricordavano quelle ragazze indonesiane che di tanto in tanto notava, anni addietro, quando si dirigeva in bicicletta verso il centro della città.
Gli occhietti allungati e vispi della piccola si insinuarono nei suoi in una silenziosa richiesta di aiuto: quando le porse l'intero pacchetto, la vide azzannare il cibo con foga, infilando in bocca un pezzo dopo l'altro, ingoiando senza nemmeno masticare.
«Se mangi così velocemente ti verrà il mal di stomaco...»
Ma che cosa stava dicendo? Un'orfana che aveva vissuto nascosta chissà dove per mesi era appena giunta fin lì l'ultimo giorno dell'anno, e lui pensava al mal di stomaco?
Doveva aiutarla, doveva nutrirla e farla riposare. Non avrebbe potuto sopportare vederla andare via in quelle condizioni, senza averle offerto il minimo aiuto.
Jan dovette avvicinarsi per strapparle la plastica dalle mani per evitare che la ingerisse. La bambina, però, si rifugiò in fretta in un angolo della parete.
«Non ti voglio fare del male!» si affrettò a dire l'uomo, porgendo le mani avanti in segno di scuse. Se qualcuno fosse entrato nella sala in quel momento, avrebbe certamente pensato che stesse tentando di addomesticare un gattino o qualche altro animale selvatico.
«Sai dov'è la tua mamma?» si lasciò sfuggire, mordendosi la lingua subito dopo.
Idiota, è fuggita da un orfanotrofio!
Ma la piccola doveva essersi calmata un poco: «Che cos'è la mamma?»
Se avesse potuto, Jan sarebbe scoppiato in lacrime in quell'istante, maledicendosi per non averla aiutata prima; aveva parlato con una tale debolezza nella voce, una tale innocenza...
Anche sua figlia Anja doveva essere così in quel periodo.
Strinse in pugni e le palpebre: no, non avrebbe mai potuto tornare a casa lasciandola in quel posto di lupi e orfani!
Non l'avrebbe abbandonata né l'avrebbe portata indietro, lui era un uomo.
Aveva letto una cifra sul volantino, un numero con almeno due zeri, se lo ricordava bene. Ora che ci pensava, doveva esserci anche il nome, piuttosto breve e certamente straniero, ma proprio non lo rammentava con esattezza.
Il suo istinto da adulto gli diceva che quella bambina dovesse essere molto importante per il personale dell'orfanotrofio, se erano disposti a erogare una ricompensa per averla indietro.
«Come ti chiami?» azzardò, quasi certo di non ricevere risposta. Forse sarebbe fuggita per la paura, avrebbe potuto correre tra le panche e andare via senza che lui fosse in grado di fermarla, accovacciato sul pavimento com'era.
«Sin» la sentì sussurrare, «Dee».
«Sindy?»
Solamente qualche tempo dopo Jan avrebbe scoperto che la bambina non mentiva: Sin Dee erano rispettivamente il nome e il cognome registrati al comune di Bloemendaal, dove la piccola era nata il 13 giugno 1990.
Se aveva origini straniere, nel suo accento non ve n'era alcuna traccia.
Qualcuno doveva averla abbandonata dopo averne registrato la nascita, oppure erano stati i medici dell'ospedale a farsene carico. Forse era figlia di un ricco olandese e una ragazza indonesiana, di quelle trasportate in Olanda illegalmente attraverso il florido mercato degli esseri umani.
Fissando quegli occhi color giada, Jan promise a se stesso che, se glielo avesse permesso, si sarebbe preso cura di quella piccola creatura fino alla fine dei suoi giorni.
Avrebbe potuto aiutarla con le pratiche dell'adozione, avrebbe potuto pagare un istituto dove qualcuno potesse crescerla in modo adeguato.
Mai l'avrebbe riportata all'orfanotrofio, nemmeno per tutto quel denaro, dove qualcosa doveva averle dato una valida ragione per fuggire.
«Dobbiamo andare all'ospedale, Sin» disse in tono tranquillo ma risoluto, allungando una mano verso di lei, «hai bisogno di mangiare ed essere curata...»
Qualcosa luccicava sulle guance della bambina: erano lacrime piccole come lei, ma lui non poteva sapere quanta sofferenza trasportassero sulla loro scia. Non ci volle molto perché scoppiasse in un pianto liberatorio, accartocciandosi su di sé come a voler essere inghiottita dal pavimento.
Jan avrebbe voluto dirle che gli dispiaceva per ciò che la sorte le aveva riservato, ma non poteva mostrarsi debole davanti a qualcuno più fragile di lui.
Doveva mostrarsi forte come aveva dovuto imparare ad essere, doveva aiutarla come aveva aiutato suo fratello, quando ancora ne aveva uno.
La mano che aveva teso ora sfiorava quella piccola e sporca della bambina: la loro pelle si unì in un incontro fatale, le unghie si carezzarono e due anime si avvinghiarono l'una all'altra per la prima vera volta.
Nessuno dei due poteva immaginare che il legame appena sancito non sarebbe mai stato sciolto per davvero.
«Andiamo all'ospedale Sindy, andiamo...» mormorò Jan tra le lacrime, perché il suo cuore di uomo buono era troppo fragile per resistere alla vista di una creatura singhiozzante che chiedeva aiuto.
«Andiamo dalle fate» sussurrò, prima di prenderla in braccio e portarla via, verso una vita migliore.
Il giorno del suo trentacinquesimo compleanno, Jan si riscoprì il padre che non aveva potuto essere.

 


 

I want to scream into the ocean
Then sink back into the ocean
Feel the pain rise up to the skies
Awakening the thunder

 

 

 

Si era addormentata non appena il ginecologo terminò di visitarla: quella creatura non doveva vedere un letto come quello da un bel po' di tempo.
«La bambina è completamente sana» gli aveva detto il medico, «Ha solo bisogno di riprendere a mangiare regolarmente, ma domani potrebbe già essere dimessa».
Dormiva tranquilla la piccola Sindy, le dita strette nelle sue. Prima di abbandonarsi al sonno, gli aveva afferrato la mano con forza, forse per calmarsi dopo quella giornata piena di nuove esperienze.
Jan la osservò dormire per un po' prima di addormentarsi a sua volta: che cosa avrebbe dovuto fare? Che cosa le sarebbe successo se l'avesse lasciata in ospedale, tra le mani di quegli sconosciuti?
Non poteva più negarlo: il suo pianto gli aveva sciolto il cuore. Con sua immensa sorpresa, si era lasciata trasportare fino all'auto, dove l'uomo le aveva offerto un po' d'acqua e l'aveva portata fin lì, sulla via di casa.
Jan aveva deciso di tornare ad Amsterdam per sicurezza: sapeva che lì qualcuno avrebbe saputo prendersi cura di lei meglio che a Bloemendaal.
«Piccola Sin, sei il regalo più bello che potessi ricevere oggi...» sussurrò al corpicino addormentato, stringendo la manina che la piccola aveva ancora infilata nella sua.
Poi osservò l'orologio ancorato al polso, l'ultimo regalo di sua madre prima che morisse: mancavano solamente tre minuti al nuovo anno, ma Jan comprese in fretta che qualcosa non andava.
Quella bambina aveva sconvolto tutti i suoi piani: solitamente restava alla pista fino allo scoccare della mezzanotte, osservando i fuochi d'artificio illuminare le tenebre, ritrovandosi a esprimere ogni anno il desiderio di ritrovare la figlia che sua moglie aveva portato via con sé.
Ogni anno le sue richieste non trovavano risposta, eppure... eppure quella sera qualcosa era cambiato.
Un minuto separava la fine del giorno del suo compleanno dall'inizio del nuovo secolo: un silenzio irreale invadeva i reparti, persino i neonati parevano aver smesso di piangere per accogliere il Duemila con riverente silenzio.
Sì, c'era qualcosa di diverso nell'aria: l'inizio di una nuova vita, l'intreccio di due anime che avevano trovato ciò che cercavano l'una nell'altra, senza saperlo.
Era l'amore, quel sentimento che Jan credeva di aver perduto quasi del tutto; osservando quel corpicino così fragile, comprese all'improvviso di aver appena ricevuto un dono, piombato dal cielo come un fiocco di neve.
I botti assordanti cominciarono a tuonare fuori dalla finestra e l'assenza di tende gli permise di vederne i bagliori.
Ancora non lo sapeva, ma qualcosa dentro di lui si era riacceso: forse la vita gli aveva dato una seconda occasione.
Quella piccola creatura l'aveva inconsapevolmente salvato dal baratro e, accogliendo un nuovo secolo, Jan promise a se stesso di donarle delle grandi ali per poter volare ai confini del mondo.


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