Lupus in fabula

di Damnatio_memoriae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo lupesco ***
Capitolo 2: *** La fame caccia il lupo dal bosco ***
Capitolo 3: *** Per la pecora è lo stesso che la mangi il lupo o che la scanni il beccaio ***



Capitolo 1
*** Prologo lupesco ***


 
 
Prologo “lupesco”

 
In Renania, alle soglie di quel secolo maledetto che fu il Cinquecento, non esistette mai nessuna locanda, taverna o cantina più famosa dell’ostello del vecchio e taciturno Ambrosius. Nato come rifugio per i soldati in tempo di guerra e trasformatosi poi in una trascurabile stamberga di campagna, la locanda del Canide Sdentato era il cuore e l’anima di Ambrosius, che passava le sue lunghe giornate chino a spolverare il bancone e a spazzare in terra, senza dimenticarsi mai di lavare e ripulire boccali già lavati e ripuliti.
Le pareti in legno e pietra erano come le orecchie del nostro locandiere e coglievano tutto, senza mai spifferare nulla: urla, sussurri, gemiti, pianti, risate; la porta chiodata, robusta e decorata a lucchetti e serrature era come le sue braccia: nessuno veniva allontanato dal Canide Sdentato senza una giusta causa e tutti i viandanti, i vagabondi, i disperati, i pazzi, le prostitute lì trovavano il loro riparo, che avessero di che pagare o meno. In ogni caso, a lavare boccali non si era mai in troppi.
Le finestre erano gli occhi di Ambrosius: vigilavano all’interno e all’esterno, sui campi che circondavano l’osteria, sulle stalle quasi vuote che erano state costruite al limitare del cortile e, più importante della vita medesima, vigilavano sui barilotti di idromele e di birra; al piano di sopra, da cui si accedeva attraverso una scala troppo stretta e traballante, si aprivano stanze e stanze, quasi tutte occupate, tenute sempre al caldo dalla buona volontà del padrone di casa, che non mancava una sola sera di far passare sotto le porte un po’ di carboni ardenti sottratti al camino della sala principale.
Ambrosius passava le giornate di quegli inverni perenni così, eroico protettore della sua osteria e di chi la viveva. Anche se nemmeno lui, in fondo, era sicuro di potersi fidare di tutti. Erano tempi bui, quelli. A nulla erano valse le retate dei contadini, i roghi dei preti, le incursioni dei soldati imperiali, perchè in mezzo a quelle campagne dove si ergeva solitario soltanto il comignolo del Canide Sdentato, ancora si vociferava di quel pericolo di zanne feroci, di occhi gialli, di intenzioni malefiche che erano bastate a far allontanare villani, mangia-terra ed ecclesiastici da quella piana.
Ambrosius, però, era rimasto. Più saldo di una quercia secolare e più testardo di un mulo, non avrebbe mai abbandonato il suo rifugio, unico riparo per gli sventurati che si addentravano in quelle terre inospitali. Eppure li vedeva, lì fuori, di notte, aggirarsi come ombre intorno alla sua casa, pieni di cattive intenzioni. Cani del demonio senza dubbio, che pure non riuscivano – o ancora non sapevano come farlo – ad entrare in quella roccaforte improvvisata per cibarsi dei suoi avventori. O, destino più amaro, per trascinarli insieme a loro nell’oscurità.
Nessuno l’avrebbe immaginato, sperato o confessato, ma il Canide Sdentato era diventato, non per sua scelta, l’ultima valida difesa contro i mezzi-uomini, le mezze-bestie, i lupi, i Mannari o qualsiasi altro appellativo i viandanti gradissero affibbiare a quelle empietà viventi.
La vecchia Nan l’aveva predetto quel che sarebbe capitato, ma nessuno le aveva dato ascolto. Nessuno in quella stamberga era sordo a profezie, maledizioni o divinazioni, ma chi mai avrebbe potuto credere ad una anziana suora, allontanata e rinnegata perfino dal suo stesso convento, che travisava le Scritture, che confondeva la storia e che stentava a rammentare gli accadimenti anche più recenti? La risposta corretta sarebbe “non molti”, ma solo per essere cortesi, dato che la vecchia Nan era, per così dire, l’idolo della locanda, il suo totem, la sua protettrice, la nonna di tutti. Per quel che ne sapeva lo stesso Ambrosius, quella suora era sempre stata lì, con lui, sin dal primo giorno.  
«Avanti, megera, spostati!» la coinvolse proprio in quel momento un’altra presenza costante alla locanda, un uomo che anche da lontano, prima ancora di scrutarne i lineamenti, si capiva essere un cacciatore. «Tu e la tua solita abitudine ad impadronirti del camino come se dovesse scaldare solo te! Non siamo più in monastero» sbottò con la sua voce profonda e graffiante, facendosi posto sulla panca vicino al fuoco e allungando la mano – l’unica che gli era rimasta – per scaldarsi le ossa.
Poco più in là, un uomo della stessa età che non portava incisi addosso i rischi del mestiere e che per via della sua vita rilassata e abitudinaria appariva anche più giovane, sollevò gli occhi dalle pagine che stava leggendo indisturbato, per riprenderlo senza troppa enfasi: «Dominic» lo chiamò «Non è questo il modo di comportarsi».
«Oh, taci Edmund!» rispose lui, senza degnarlo di uno sguardo ma accompagnando le sue parole con un gestaccio, e per via dei caratteri, degli atteggiamenti e non in ultimo dell’aspetto fisico, nessuno avrebbe capito che in realtà proprio quei due uomini, così diversi, erano in realtà fratelli e non fratelli qualsiasi. Si sapeva che la madre li aveva portoriti lo stesso giorno, a pochi minuti di distanza, ma perché non fossero uguali come solitamente accadeva, almeno di viso, nessuno lo aveva capito. Un ciarlatano una volta aveva provato a proporre loro una sua strampalata teoria, su due pance, o due sacchi, non si era capito. Di sacchi, come quelli per il grano, poi, nel ventre di una donna non se ne era mai sentito parlare. Secondo questo arrivato, comunque, i sacchi erano due e ben separati, non comunicanti, e lì i bambini non ancora formati erano poi cresciuti da soli, ognuno per conto proprio. Edmund, che era il più calmo e il più curioso, vi aveva riflettuto a lungo prima di rispondere allo straniero che, sì, forse vi era qualcosa di vero nelle sue parole. Per contro, Dominic lo aveva liquidato a suon di brutte parole.
«E allora» aveva provato ancora a convincerlo il malcapitato, trattenendolo per una spalla «Allora, se non credete a questa ipotesi, dovrete almeno dar credito alla seconda: che vostra madre avesse amanti diversi!». Dello sfortunato viandante nessuno seppe più nulla, ma Dominic ancora si gongolava al pensiero di essere riuscito a strappargli tutti i denti prima di vederlo correre via impaurito come un agnello, sotto lo sguardo contrariato del fratello.
A Dominic si avvicinò, senza più il timore che l’aveva colta le prime volte in sua presenza, una ragazza da poco entrata in età da marito. Gli porse una coperta calda, pesante, una delle tante che Ambrosius aveva cucito e che lei si affannava a portare ai compagni appena rientrati alla locanda, per evitare che prendessero freddo. Portava il nome di Hanna, ma non erano rimasti in molti a chiamarla in quel modo, preferendo invece rivolgersi a lei con diminutivi e vezzeggiativi di ogni sorta che avevano come effetto, quasi immediato, quello di farla arrossire.
Il cacciatore quasi non le strappò la coperta dalle mani e a mo’ di ringraziamento emise solo un suono gutturale, burbero e pressochè impercettibile, ma lei continuò a sorridergli come sempre, sicura della sua ruvida bontà.
Aveva gli occhi chiari, Hanna, di un azzurro cristallino, e la pelle bianca come il latte che tirava dalle mucche, quelle poche che erano sopravvissute ai lupi. I capelli biondi, lunghi, lisci e sempre sciolti la facevano somigliare agli Angeli che la vecchia Nan diceva di sognare, ma in quegli anni il Diavolo era stato così impegnato a dar mostra delle sue capacità che Hanna dubitava dell’esistenza delle schiere angeliche.
Edith, che prima di dover chiedere asilo al Canide Sdentato era stata la balia e l’ostetrica più richiesta della bassa, aveva fatto nascere anche Hanna – insieme ad un numero cospicuo di ospiti lì presenti – e l’aveva vista crescere minuta ma sana, insieme ai suoi fratelli e a sua madre. Non riusciva tuttavia a capacitarsi di come la sua famiglia avesse potuto abbandonarla, lasciarla indietro nella disperata fuga d’anime che aveva trasformato quelle campagne prima floride in colli desolati. Come se altrove, poi, non ci fosse nulla da temere, come se i lupi si aggirassero solo intorno a quella locanda.
«Non è stata colpa loro!» li difendeva subito la giovane, stringendosi nelle spalle e abbassando lo sguardo. «È stata colpa mia. Ho fatto la mia scelta: sono rimasta».
«Perché?» la invitava a parlare Edith, che aveva a cuore tutti i suoi neonati e li trattava come se fossero suoi figli, gli stessi figli che il Signore non le aveva mai dato ma che lei aveva desiderato tanto.
«Dovevo» nascondeva le lacrime Hanna «Avevo…avevo una persona da proteggere».
L’unica che non gradiva la presenza di Hanna o il cui animo non sembrava essere stato toccato dalla gentilezza della ragazza era Lilith e insieme a lei, più per riflesso che per antipatia sincera, la sua combriccola di burloni, mascalzoni e donnaioli, ognuno con la sua storia, con i suoi timori e i suoi segreti, ma in fondo bravi giovani, pronti all’avventura, sprezzanti del pericolo e decisi a far colpo sull’unica donna del loro gruppo, di certo il più affiatato del rifugio. Conosciuta come la lupa per via dei folti capelli neri, degli occhi vivaci ma minacciosi e non in ultimo per il suo carattere selvaggio e indomito, Lilith aveva cessato di gioire del suo soprannome – che pure sentiva le appartenesse – per motivi scontati. Nessuno degli avventori di Ambrosius aveva avuto vita facile, ma alcuni di loro potevano almeno consolarsi nei ricordi di un’infanzia spensierata e felice. La stessa cosa non si sarebbe potuta dire per l’avvenente Lilith: della sua bellezza se ne accorse per primo il padre, che la cedette per qualche soldo al bordello di Casa Matilde, dove rimase fino a venticinque anni. Al contrario di quello che si potrebbe pensare, però, Lilith non fu mai succube né degli uomini né di Dama Matilde – e Dama era tutto un dire, per una nobile caduta in disgrazia. Pur arrivando da lontano per incontrarla, le dicerie sul temperamento della lupa erano volate così in fretta che i clienti si erano rassegnati all’idea di non poterla sfiorare senza il suo consenso. E il suo consenso, Lilith, se lo teneva stretto, proteggendolo con le unghie e con i denti. E quand’anche l’ebbe dato, non fu senza amore.  
Il Canide Sdentato era, come si può intuire, un crogiolo di razze e di dialetti, di abitudini e di personalità. Si consumavano liti, rappresaglie, passioni, alcune trattenute al pari delle bestemmie in Chiesa, altre conclusesi drammaticamente. Come quella di Gerwin, che era difficile da dimenticare, in particolare per la dolce Odine, che ne portava il peso addosso – letteralmente. I clienti che Ambrosius vedeva ora nel suo locale e che si trastullavano come meglio credevano nella sala principale l’avrebbero scoperto solo verso la fine di questo racconto che fu quello che successe allora tra Gerwin e Odine a mettere in moto tutti gli avvenimenti successivi. Ma non è questo né il tempo né il luogo per accennarlo, specie contando quello a cui i presenti stavano per assistere.
A ridurre il baccano che aveva riempito la sala principale di voci, risate, urla sguaiate e quant’altro ci pensò, involontariamente, la vecchia Nan. Le mani tremarono convulsamente, le dita ossute e piene di grinze lasciarono la presa sul bicchiere che tenevano stretto e questo cadde a terra disfacendosi in centinaia di schegge. Al povero Ambrosius il cuore saltò in gola.
«Che ti prende, strega?» schizzò in piedi Dominic «Mi hai bagnato tutti gli stivali!».
Hanna corse da lei, scuotendole le spalle. «Nan? Nan!».
«La vecchia starà per morire?» domandò Lilith al suo vicino, un ragazzo dai capelli castani e dagli occhi verdi.
«Perché? Non è immortale?».
Lei scosse la testa. «Dio dev’essere proprio un uomo se è così stupido da volersela prendere così presto».
«Presto? Sarà più vecchia di un albero secolare!».
Il corpo dell’anziana donna venne ancora scosso dagli spasmi. Aprì la bocca e la richiuse, ripetendo il gesto. «Sta arrivando…» riuscì infine a bisbigliare e davanti agli sguardi perplessi dei suoi compagni ripetè, senza più fiato: «Sta arrivando!».
Dominic percepì un brivido corrergli lungo la schiena, gli occhi si ridussero a due fessure, la mano corse all’archibugio posato sul tavolo. Gli altri lo imitarono all’istante, afferrando chi un coltello, chi una spada, chi un forcone, chi una lancia e tutti trasalirono quando un urlo di donna, sofferente e pieno di paura, arrivò dal piano di sopra.  

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Capitolo 2
*** La fame caccia il lupo dal bosco ***


 
La fame caccia il lupo dal bosco


 
Una grande agitazione colse gli ospiti del Canide Sdentato, quella sera. Fu una sensazione piacevole, di calda eccitazione più che di terrore, e ciascuno ringraziò silenziosamente il proprio Dio per aver portato in quella locanda almeno un’ostetrica.
Hanna, su ordine di Edith, riempì una tinozza di acqua e la mise a riscaldare sul fuoco, quindi corse per i piani ad ammucchiare quante più lenzuola possibili.
Vedendola così indaffarata, Lilith piegò la bocca in un ghigno beffardo e, per deriderla, le urlò: «Corri verginella, corri!», tra le risate generali dei suoi compari di brigata.
L’altra, sudata e rossa in viso – un po’ per l’imbarazzo, un po’ per la fatica – si arrestò all’istante e con un’aria che pensava potesse essere sufficientemente minacciosa domandò: «Perché devi essere sempre talmente maligna?».
«Non ti scandalizzare per così poco, ancora non è nulla».
«E’ abbastanza, invece. Ma tu non hai nessuna coscienza che ti suggerisca quando fermarti».
«Trovo solo divertente burlarmi di chi non sa stare agli scherzi».
«Bhe, trovati qualcun altro da sbeffeggiare, o io…».
«O tu cosa?». I lineamenti si inasprirono, oscurandole il volto, e negli occhi le balenò un guizzo che aveva un chè di perfido, ma solo Hanna lesse nella sua espressione la paura. Alzò le gambe e accavallò i piedi sul tavolo, le suole degli stivali ancora sporchi di fango dal turno di ronda.
Hanna dovette mordersi la lingua per non trasformare in parole i suoi pensieri. «Nulla» si limitò a dire, anche a costo di fare la figura della codarda.
«Bada ragazzina, non reagisco bene alle minacce, neanche a quelle a vuoto» concluse Lilith mentre la osservava sparire al piano di sopra.
La stanza di Odine - l’ultima che si affacciava sul corridoio - era alquanto povera di mobili e sull’unica cassapanca presente Ambrosius aveva acceso una lampara, la cui fiamma tremolante faticava però a illuminare l’ambiente. E forse era meglio così, se nemmeno la luna con le sue stelle si era osata a rischiarare la notte.
Al capezzale della partoriente, Edith non era la sola a temere per il peggio. La vecchia Nan, munita del suo bastone, se ne stava in disparte, la schiena ricurva poggiata al muro, gli occhi vitrei e lucidi che non lasciavano intendere che cosa stesse passando per la testa dell’anziana suora. Solo le labbra arricciate e una ruga profonda che le solcava la fronte erano il sintomo di tutta la sua angoscia.
Wera, una lavandaia da poco arrivata all’osteria del Canide Sdentato, teneva stretta tra le sue la mano di Odine, che per sopravvivere sentiva di doversi aggrappare con tutte le sue forze a qualcosa – o a qualcuno – come se attraverso quella stretta potesse uscirle dal corpo tutto il dolore che la stava lacerando. E non le interessava nemmeno che nella stanza fosse appena entrato, insieme ad Hanna, anche Jacob, un uomo, cosa inammissibile per il decoro dell’epoca. Che fosse dottore sarebbe importato poco se quella non fosse stata la situazione che era, cioè drammatica ed imprevedibile, e si sa che davanti alla morte la decenza conta poco, per non dire che vale nulla.
Edith, dal canto suo, poteva dire di non aver mai assistito ad un parto così difficile, triste coronamento di una gravidanza già iniziata nel peggiore dei modi e proseguita senza grandi miglioramenti. Nessuno era mai stato allontanato dal Canide Sdentato, con o senza giusta causa, e su questo Ambrosius era categorico. Vigeva nella sua amata locanda un’unica legge, che in fondo era la legge del mare, anche se il mare lì nessuno lo aveva praticamente mai visto. Alla mercè dei Mannari il Canide Sdentato non avrebbe mai lasciato un singolo uomo, assassino, tagliagole o il più schifoso e lurido criminale mai comparso sulla faccia della terra. Ma ad una condizione. E purtroppo per lui – e per Ambrosius, che aveva dovuto cacciarlo – Gerwin non l’aveva rispettata.
Era sempre stato un giovane dabbene, Gerwin. Un ragazzo puro, educato, gentile nei modi e nei pensieri, a detta di alcuni fin troppo ingenuo. Era fermamente convinto che la bontà, se praticata quotidianamente, sarebbe stata in grado di sconfiggere qualsiasi male, anche quello che si era abbattuto sulla bassa, quello stesso Male che aveva sbranato la sua famiglia, lasciandolo solo al mondo. Ma Gerwin non provava odio, non ne sarebbe stato capace. E questo, se lo aveva reso insopportabile agli occhi di qualche compagno più irruento e dedito all’azione (non certo votato al perdono), era invece bastato a far innamorare Odine.
Il desiderio di sposarla era nato in fretta in Gerwin, che aveva pertanto respinto con garbo le proposte della ragazza di non attendere il matrimonio. «Perchè» gli diceva lei «Perché il nostro amore, che è sincero così com’è, dovrebbe diventare meschino, impuro o innaturale se consumato senza una promessa fatta davanti a Dio? Il Signore lo sa già che non potrei mai esserti infedele o mancare di amarti anche solo per un giorno». Ma lui desiderava seguire le orme di suo padre, essere cioè un uomo d’onore, e così aveva fatto, riuscendo a convincere anche la sua promessa. Fino a quella tragica sera che tutti ricordavano. Come poter dimenticare lo sguardo sconvolto di Odine, il dolore e la vergogna che le avevano riempito gli occhi di lacrime mentre Dominic ed Edmund trascinavano lontano dal suo corpo un Gerwin che lei non riconosceva più?
«Come?!» gli aveva urlato «Come hai potuto farmi una cosa simile?».
«No! No!» continuava a ripetere il ragazzo, scalciando e strattonando «Lasciatemi dannazione, lasciatemi! Non ero io, non ero in me!».
Le donne presenti distoglievano lo sguardo, gli uomini lo seguivano con sdegno. «Risparmia il fiato, porco» sibilava qualcuno, «Adesso le feste le riceverai da noi» lo minacciava qualcun altro.
«No, no! Voi non capite! Odine, lo giuro sulla mia anima, su tutto quello che ho di più caro, su qualsiasi cosa, non ti avrei mai fatto del male, mai! Io non…».
«Sparisci dalla mia vista!» aveva singhiozzato lei, nascondendo il viso nell’abbraccio di Wera, che l’aveva coperta con il suo mantello.
«Tu mi conosci, devi credermi!» aveva continuato ad implorarla «Non ero io! Non sapevo quello che stavo facendo. Non erano i miei pensieri, non erano le mie mani! Odine, ti prego, ti prego!».
Ambrosius, per la prima volta nella vita, aveva dovuto indurire il cuore per racimolare la forza di cacciare Gerwin dalla sua unica casa: il nostro oste tollerava a stento il male che si annidava fuori dal suo uscio, ma che addirittura dei compagni si ferissero a vicenda, quello era inaccettabile. Ci pensava già il mondo a remar loro contro, non avevano certamente bisogno di aiutarlo!
Di Gerwin non si seppe più nulla, ma non c’era bisogno di ritrovarne il corpo per immaginare il destino che gli era toccato. In ogni caso, la pancia di Odine che si era fatta così tonda ed ingombrante non aveva lasciato spazio a dubbi su chi potesse essere il padre, ma nessuno aveva più accennato all’accaduto. Per Edith, poi, era già un miracolo essere arrivati all’ottavo mese, viste le condizioni pietose della madre: pareva quasi che la bambina che portava in grembo (la balia era certa che si trattasse di una femmina, vista la forma del ventre e dei sintomi dei primi mesi) le stesse rubando tutta l’energia che le era rimasta in corpo, che la stesse prosciugando lentamente e inesorabilmente della linfa vitale, come fanno certi cuccioli di serpente che hanno bisogno che la madre muoia per poter sopravvivere a loro volta. E tutto il sangue e il dolore a cui Edith e Jacob stavano assistendo in quel preciso istante in quella camera, non promettevano una conclusione differente.
Dovettero passare delle ore, lunghe e travagliate, prima che Odine riuscisse finalmente a mettere al mondo la sua creatura, sana, robusta e subito affamata. Hanna pianse di felicità e così tutti i presenti. Edith si preoccupò immediatamente di esaminare la bambina, mentre il dottore si occupava della madre.
«E’ viva? Sta bene?» chiese affaticata Odine, sforzandosi di allungare il collo per vederla.
«Sei stata bravissima, cara» la rassicurò l’ostetrica «E' forte come un puledro!».
Sorrise, visibilmente sollevata, ma ormai priva di forze. Con le ultime energie che percepiva avere in corpo bisbigliò: «Leandra. Si chiama Leandra».
«Leandra, sta bene» la assecondò Edith, avvolgendola nelle coperte. «La piccola Lea».
Jacob visitò Odine come meglio potè, ma non serviva essere dottori per capire che con tutto il sangue che aveva versato non doveva essergliene rimasto molto in corpo. La scrutò a fondo, tastandole addome e ventre, stranamente lividi, e quello che vide, poi, gli gelò il sangue nelle vene.
«Edith…» richiamò l’attenzione della donna con una voce tale da farle accapponare la pelle «L’ha divorata. L'ha divorata dall'interno».
«Cosa diavolo stai dicendo?».
«La sua pancia è vuota. Ogni organo è stato…».
Non gli permise di finire la frase, terrorizzata dalla sua intuizione: «Non dire scemenze!».
«Se non presti ascolto alle mie parole, forse crederai ai tuoi occhi».
La donna non fece in tempo ad avvicinarsi che Leandra, ancora stretta tra le sue braccia, emise il suo primo vagito. Nella sala principale, a quel suono, tutti batterono le mani e gridarono così forte da farsi udire chiaramente anche al piano di sopra. Ambrosius distribuì i suoi boccali di birra ed idromele – esprimendo in questo modo la sua gioia – e i bicchieri sbatterono l’uno contro l’altro in un augurio sincero, anche se un po’ rozzo.
La piccola Leandra aprì e chiuse la sua boccuccia per piangere più forte e fuori dalla locanda, dai sentieri non battuti, dalle campagne, dai boschi, si levarono gli ululati che riecheggiarono sonori nel silenzio della notte. Erano ululati poderosi, vibranti, talmente macabri da non poter provenire da nulla che fosse naturale. Mariechen, Ludwig e Albert rientrarono immediatamente dal loro turno di guardia, spalancando la porta del Canide Sdentato e richiudendosela all’istante alle spalle, balbettando frasi sconclusionate.
Nell’osteria, prima immersa in un clima di festa, si erano tutti ammutoliti e solo Leandra e i mezzi-uomini continuavano a far tremare i cuori dei presenti.
«Non è bene». La vecchia Nan, incerta sulle gambe, si avvicinò alla bambina con affanno. Scostò le coperte che la avvolgevano fino alle guance e Leandra smise di piangere quando incrociò gli occhi dell’attempata suora.
«Si è svegliato dal suo letargo» bisbigliò rabbrividendo lei, guardando fuori dalla finestra senza riuscire a vedere nient’altro che la sua immagine riflessa. «Nulla è più come lo conoscevamo. Il male è disceso tra gli uomini e si è infine impossessato dei loro corpi e il vizio, la colpa e il peccato ne hanno mutato l’aspetto per rammentare ai mortali il loro destino. E c’è chi li guiderà in questa impresa, perché Dio ha bandito il Diavolo dal nostro mondo, ma egli è un ingannatore e sa come agire manipolando i più deboli. Non si fermeranno sino a quando non avranno riscattato la vita con la vita, pagando il debito dei crimini che abbiamo commesso o rendendoci complici della loro missione. C’è il buio nel cuore degli uomini e alcuni ne sono stati divorati. Siamo stati avvertiti, ma non abbiamo riconosciuto i segni e ora non possiamo tirarci indietro. Ma non saremo soli nella nostra lotta» continuò, guardando Leandra, gli occhi innocenti spalancati. «Non saremo da soli finchè un figlio dell’empietà, estraneo alle colpe dei padri, rimarrà al nostro fianco. E noi dovremo proteggerlo, perchè i lupi lo temono più di ogni altra cosa e, temendolo, lo cercheranno. Lui non lo deve trovare. Lui, da cui è partito tutto, lui che è stato annunciato dai suoi seguaci e che già è a conoscenza della nascita del suo nemico, lui non gli si dovrà mai avvicinare».
 

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Capitolo 3
*** Per la pecora è lo stesso che la mangi il lupo o che la scanni il beccaio ***



Per la pecora è lo stesso che la mangi il lupo o che la scanni il beccaio



 
«Io dico di lasciarla morire» asserì con fare intransigente Dominic, le braccia incrociate sull’ampio petto e l’espressione dura e arcigna che lo aveva sempre contraddistinto. «Gettiamola nel pozzo o lasciamola al limitare della radura. L’acqua o le bestie faranno il resto».
Udito un simile suggerimento, gli uomini e le donne che si trovavano più vicini al rude cacciatore assunsero una espressione assai contrariata. Hanna, gli occhi chiari spalancati, giunse le mani come a voler pregare, ma non proferì alcuna parola. Ambrosius, fermo dietro al suo bancone di legno, tremò versando da bere a chi glielo aveva richiesto e nemmeno il sidro che fuoriuscì dai calici bastò a riscuoterlo. Edith, invece, strinse a sé la piccola Leandra, circondandola con quelle braccia che avevano dato la luce a più bambini di quanti la sua mente potesse tener memoria, minacciando l’uomo dal basso della sua statura. «Non ti azzarderai ad alzare un solo dito su questa innocente creatura, a costo di dovertelo staccare a morsi personalmente. Non hai un minimo di rispetto per la donna che ha dato la vita pur di far nascere questa bambina? Non hai forse sufficiente senno per pensare a qualcosa di più carino da dire nei confronti di chi, appena venuta al mondo, si ritrova già orfana? O sei talmente pieno di boria da non sapere più che cosa fartene della compassione?».
«Compassione?!» scattò l’uomo, rosso in viso. «Guarda, donna!» urlò, scoprendo il moncherino «Vedi forse compassione in questo? Credi davvero che quei cani maledetti abbiano avuto commiserazione mentre mi addentavano la mano e mi laceravano le carni, strappandomele dalle ossa e riducendomi in questo misero stato? Spera che il tuo Dio utilizzi la compassione di cui vai tanto fiera come moneta di scambio, perché ti assicuro che nella tomba non ti servirà a nulla!».
«Spero che Dio abbia sufficiente pietà da elargire anche ai blasfemi come te!» ringhiò e quando la piccola Lea iniziò ad agitarsi a causa del trambusto che la circondava, la cullò. «Sempre che tu non sia empio come le creature di cui straparli con così tanto fervore…».
«Non ti azzarderai…» estrasse dal fodero la sua pistola.
«Oh, mi azzardo eccome invece! E non fingere di non averlo pensato anche tu! Non finga nessuno» guardò i presenti uno per uno «di non aver pensato o temuto quel che solo io sto avendo il coraggio di proferire. Non credo affatto che ciò che cova là fuori non abbia fatto il suo nido anche qui dentro; non credo affatto che il male che ha infettato il mondo là fuori non abbia steso le sue mani anche su di noi; non credo affatto che un vecchio portone di legno e una arrugginita serratura siano in grado di tenerci lontano dall’oscurità, ma sono senz’altro utili per tenere quell’oscurità così vicina a noi da non destare sospetti. Scusami Ambrosius, so che avevi le migliori intenzioni» aggiunse piena di sconforto, rivolgendosi all’oste che più di chiunque altro aveva dato segno di accusare quelle parole «Ma ha ragione la vecchia Nan: gli uomini sono troppo malleabili e non c’è nulla che manipoli di più i loro cuori del male. Ed io temo – no, ne sono certa! – che il Diavolo abbia già trovato un comodo nascondiglio tra queste mura».
«É questo che vuoi donna? Metterci uno contro l’altro?».
«No, questo è quello di cui tu mi stai accusando!».
«Perché lo stai facendo tu!».
«Non ho nessun bisogno di spiegare ad un bruto, ignobile essere quale sei tu del perché non mi fidi di qualcuno che getterebbe una così piccola creatura in pasto alle fiere, quando questa potrebbe essere la nostra sola speranza di salvezza!».
«Chi ti dice che lo sia?» continuò a sbraitare il cacciatore, agitando con foga le braccia in aria, trattenendosi a stento. Subito suo fratello Edmund lo raggiunse, posandogli le mani sulle spalle e invitandolo con tono pacato a moderarsi, senza però riuscirci. «Tutte le tue scellerate supposizioni si basano sul farnetichio di una vecchia suora a cui nemmeno le sue consorelle hanno mai dato credito!».
«Bhè, se anche fosse come dici tu, non vedo perché dovrei servire a delle belve una neonata come pasto domenicale».
«Semplicemente perché un giorno in meno per lei potrebbe significare un giorno in più per noi, sempre che con i suoi urli non abbia risvegliato tutti i luridi canidi da qui fino al confine. Oppure concedi una grazia a tutti i presenti: lasciaci la poppante e immolati per la causa al posto suo. Almeno, con la tua carne, gli animali avranno da mangiare per un bel po’. Sempre che tu non voglia tenere la bambina per puro egoismo, giusto per trovare quel briciolo di conforto che il tuo ventre arido non è stato in grado di concederti. Quanto devi essere stolta per sperare che una bambina così piccola possa sopravvivere, senza una madre e senza un padre, in un mondo come il nostro? Cosa pensi abbia lei?» la indicò con il dito e Leandra, come se si sentisse sotto minaccia, iniziò a mugugnare tra le braccia della donna che aveva cessato di cullarla, impegnata com’era a trattenere lacrime amare. «Cosa pensi abbia più di noi? Cosa pensi abbia più di tutti i nostri compagni che sono morti o scomparsi pur essendo infinitamente più grandi, più forti e più scaltri? Il mio è un atto di misericordia e che voi non lo riteniate così non mi tange. La bambina non vi ringrazierà quando si troverà a dormire ogni notte che Dio manda sulla terra nella più angosciosa paura e desidererà non essere mai nata quando si troverà ad assistere inerme alla morte di tutte le persone che la circondano. E allora si troverà da sola, in balia di un mondo che sarà divenuto ancora più spietato e ancora più crudele e talmente pericoloso da costringerla a sperare solamente in una dipartita rapida e indolore. Se foste tutti meno ipocriti le risparmiereste un simile destino, ma so bene che nessuno di voi sarebbe in grado di prendersi una simile responsabilità e io non ho voglia di assumermi responsabilità che mi verrebbero rinfacciate fino alla fine dei miei giorni. Tenetevi pure la bambina, ma sappiate che le nostre fatiche si sono appena triplicate».
Sul Canide Sdentato calò il silenzio e nella sala principale della sperduta locanda tutti gli uomini di Ambrosius chinarono il capo. Alcuni tirarono un sospiro di sollievo, altri sperarono nell’arrivo di una gelata che potesse portarsi via senza dolore l’infante, altri ancora rimasero a lungo divorati dai dubbi. Ma tutti, indiscriminatamente, si allontanarono di un passo dal proprio vicino, non sapendo più di chi potersi fidare.
 
 
Per Hanna, quella notte, non fu semplice prendere sonno e quando le parve chiaro che l’oscurità che circondava il Canide Sdentato – un buio tetro che nulla di buono lasciava presagire – non le avrebbe concesso sogni sereni, decise di lasciare la sua stanza e di scendere dabbasso, nella speranza che il fuoco del camino le riscaldasse, se non lo spirito, almeno le ossa. Lungo il corridoio buio e umido, dove le assi del pavimento scricchiolavano e i chiodi arrugginiti rischiavano di ferire i malcapitati, diversi erano i suoni che si potevano udire: in una camera una lenta nenia cercava di tenere buona la piccola appena nata; in un’altra il giovane garzone, Albert, russava rumorosamente, forse a causa di quel naso un po’ malandato che Jacob non era riuscito a rimettergli a posto; dall’ultima porta del corridoio, che Hanna sapeva essere quella della stanza di Georg, provenivano certi suoni che la fecero arrossire e, involontariamente, rallentò il passo.
Non l’aveva mai capito, quel Georg. Con i suoi occhi verdi e gli scompigliati capelli castani, le era sempre parso un giovane mediocre, senza infamia ma certamente senza lode, appena riconoscibile dalla tendenza a scherzare su tutti e su tutto. Quando Hanna era giunta alla locanda del Canide Sdentato, lui, di una decina d’anni più grande, già si trovava lì, insieme alla sua combriccola di soli ragazzi, sempre pronti a bere, scherzare, fare a botte e fare pace – in un modo tutto loro che, solitamente, passava di nuovo dall’alzar le mani. Agli occhi degli avventori di Ambrosius, che li aveva visti crescere insieme, quella manica di ragazzi sembrava destinata a non dividersi mai. Qualcuno li paragonava agli apostoli di Gesù Cristo, qualcun altro sperava di vederli arruolati nello stesso reggimento, altri ancora avrebbero scommesso sul loro futuro di contrabbandieri, sempre al di fuori della legge ma per nulla al mondo divisi. Così doveva essere, e così forse sarebbe stato davvero, se Lilith non si fosse fermata nella nostra sventurata locanda. Forse inconsciamente - più probabilmente con intenzione ma senza coscienza - la Lupa della Bassa aveva portato così tanto scompiglio nella mente e nei corpi di Georg e dei suoi amici da far crollare come un castello di carte qualsiasi proposito di solidale fratellanza.
Il primo a risentirne fu Thomsen, dei quattro il più gentile, per gli altri il più ingenuo, che giurò sulla loro amicizia di considerare Lilith alla stregua di una santa, di un’intoccabile, una dama da venerare da lontano nel rispetto dei sentimenti manifestati dai suoi compagni. Di fatto lo fece, almeno fino a quando non si rese conto che l’unico ad aver rispettato il patto era stato anche l’unico ad averlo proposto: lui.
Benedict aveva manifestato da subito le sue intenzioni, tutte alquanto profane e che poco spazio lasciavano all’intuizione, ma si era ritrovato a dover ingoiare un grosso e amaro boccone di fronte all’evidenza che, nonostante il suo impegno e le molteplici battute allusive, l’unica donna ad averlo mai rifiutato era anche la sola che lui avrebbe davvero voluto. E un orgoglio schernito, almeno per il fiero Benedict, non era qualcosa che potesse essere lenito da bambineschi patti d’amicizia eterna.
Il più intelligente del gruppo fu anche quello che durò meno nei suoi propositi. Nonostante si fosse sempre distinto dagli altri per ponderatezza, Klaus aveva dovuto presto rassegnarsi all’idea che, in alcuni frangenti della vita, una mente, per quanto bene allenata, è succube degli strani istinti primordiali dei quali aveva avuto modo di leggere, ma che non aveva mai sperimentato né combattuto. E, con Lilith, non sembrava neppure essere intenzionato a trattenerli.
Georg, invece, non era né il più leale, né il più sfrontato, né il più ponderato della compagnia, eppure, oltre all’indole moderata e ai lineamenti apprezzabili, aveva dalla sua una peculiarità di cui Lilith non avrebbe mai potuto fare a meno: l’arrendevolezza. Che si trattasse di accondiscendere a qualsiasi sua richiesta o di lasciare libero il campo affinchè lo potesse fare qualcun altro, Georg si era rassegnato ad interpretare la foglia in balia del vento, ad essere messo da parte e poi ripreso alla stregua di un soprammobile secondo i tempi dettati dalla sua fiamma, nell’assoluta convinzione – quella sì – che Lilith si sarebbe un giorno scoperta follemente innamorata di lui. E la Lupa della Bassa era senz’altro in grado di lasciargli intendere ciò che più lo avrebbe tenuto a bada.
Hanna fece appena in tempo a poggiare il piede sul primo gradino della stretta scala che la porta della camera di Georg si aprì cigolando. Subito la ragazza si impietrì e solo dopo qualche istante, quando un’ombra si venne definendo nel buio del corridoio, tornò a respirare.
«Che cosa fai verginella? Origli?» le domandò con fare scocciato Lilith, sistemandosi i capelli ancora scompigliati.
«Ti assicuro che non ho bisogno di origliare per sentirti».
«Sei forse invidiosa?».
«La tua non è certo una condizione invidiabile» ribattè ferita Hanna, voltandole le spalle per tornare da dove era venuta, dimentica del motivo che l’aveva spinta a lasciare la sua stanza. Si voltò appena a guardarla con aria torva. «E più ti ostinerai a comportarti come se nulla dovesse capitarti, meno invidiabile diventerà».
L’altra le si lanciò addosso, cogliendola di sorpresa. Le agguantò il polso, stringendolo in una morsa ferrea e storcendolo in una posa innaturale. «Devi fare più attenzione ai nemici che ti scegli, Hanna. Se io vado a fondo, tu vieni con me» le sussurrò minacciosa e un guizzo nei suoi occhi avrebbe lasciato intendere a chiunque una certa gioia nell’essere la ragione del dolore altrui. «Siete in minoranza, lo siete sempre stati e siete destinati a perdere. Vuoi fare la spia? Corri, Hanna, corri, più veloce che puoi. Vai da Ambrosius a confessare quello che sai, ma non dimenticarti di dirgli da quanti anni è che gli nascondi una serpe in casa». Poi, in una frazione di secondo, come se fosse stata investita da un acuto senso di colpa, lasciò la presa. «Mi fai talmente pena da farmi passare persino la voglia di minacciarti. Ma non sarà così in eterno».
«Tu non sei mia nemica» balbettò la bionda, stringendosi la mano al petto e massaggiandola.
«Non sono nemmeno una tua amica. Ti sono solo debitrice, mio malgrado. Mi hai messa tu in questa situazione. Se mi ritrovo qui, imprigionata come un cane legato a un gancio, sei l’unica persona che ho da ringraziare».
«Lo dici come se avessi avuto scelta».
«Ce l’avevi! Era la mia scelta. Avresti semplicemente dovuto rispettarla».
«Per quanto ancora me lo vorrai rinfacciare, Lilith? Non ti basta mai? Non ti consuma la solitudine?».
La mora si mise subito sulla difensiva e quasi ringhiò: «Io non sono sola».
Hanna non riuscì a trattenere una smorfia. «Certo…lo vedo».
«Non permetto a nessuno di giudicarmi, men che meno a te».
«Scaldare un letto non ti farà sentire meno sola. E non si tratta di un giudizio, ma di un fatto».
«Allora avresti dovuto lasciarmi morire, anziché tenermi in vita e manifestarmi una così bassa considerazione. Ma non è più possibile tornare indietro adesso, né per te, né per me, e giuro che non mancherò un solo giorno di rinfacciarti tutte le conseguenze che la tua stolta decisone ha avuto. E non fingere con me Hanna: lo so che ti penti ogni giorno della scelta che hai fatto. Sei solo troppo codarda per ammetterlo» concluse Lilith con rabbia e senza aspettare una risposta se ne andò. Nel sorpassarla per tornare alla sua stanza, la urtò così violentemente che quasi non la fece cadere.
Rimasta sola, quando ormai nessuno avrebbe potuto udire la sua confessione o intuire le sue emozioni, Hanna sussurrò: «No che non me ne pento. Ma me lo rendi così difficile, sempre così difficile…».

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