In hoc signo vinces

di Ai_1978
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


CAPITOLO I
 
“Il guerriero sa che è libero di scegliere ciò che desidera: le sue decisioni sono prese con coraggio, distacco e, talvolta, con una certa dose di follia.”
P. Coelho
 
L’anziana donna giaceva nel letto esanime.
I capelli ormai candidi sparsi sul cuscino e intrisi di sudore, la pelle giallastra e cadente tipica di un malato terminale. Il corpo gonfio per l’idropisia.
L’edema le aveva deformato i lineamenti e nulla rimaneva dell’antica avvenenza.
Il corpo della donna venne scosso da uno spasmo violentissimo di tosse, dovuto alla febbre polmonare che la stava uccidendo.
Due candide mani fresche le si posarono sul viso. La vecchia aprì gli occhi e vide la giovane che da giorni la accudiva amorevolmente.
«Ma … Máirín …» rantolò l’anziana donna.
La ragazza sorrise dolcemente: «Stai giù, nonna. Non ti sforzare. Io sono qui con te.»
Così dicendo prese un panno bagnato e lo passò delicatamente sulla fronte febbricitante della malata.
La vecchia, con lentezza estenuante, sollevò un braccio scheletrico e con la mano deformata dall’artrosi, accarezzò il viso liscio e rosato della nipote.
Era bella Máirín, coi lunghi capelli castani boccoluti e quegli occhi straordinariamente espressivi.
Gli occhi di sua nipote…
Le avevano sempre tanto ricordato lui. Non nel colore: gli occhi di lui erano verdi, quelli della ragazza di un vivace color nocciola. Ma il taglio era quello, così come la forma delle labbra, lievemente asimmetrica.
L’anziana donna sussurrò: «Assomigli davvero molto a tuo nonno, piccola mia.»
La fanciulla sussultò: « Al nonno Domhnall? Dici sul serio? Non lo avevo mai notato…»
Un velo di tristezza passò negli occhi cisposi della vecchia. Un tempo erano stati verdi ma ormai risultavano grigiastri e spenti. L’anziana donna aprì la bocca per parlare, ma fu colta da un altro accesso di tosse.
«Nonna, ti prego! Ti stai affaticando troppo…»
«No!» la protesta della malata giunse violenta ed inaspettata e fece trasalire la ragazza.
«Ma… tu stai male!»
«Sì, sto molto male…» la voce rauca della nonna sembrava raddolcita «Sto morendo, non mi rimane molto da vivere. E proprio per questo c’è qualcosa che devi sapere…»
Máirín strabuzzò gli occhi. L’anziana parente sembrava molto risoluta. Cercò di opporsi: «Non ora, sei troppo stanca.»
«Ora invece è il momento adatto: non so se supererò la notte.» tossì di nuovo «Aiutami a tirarmi a sedere, per favore.»
La ragazza sollevò la nonna e le sistemò dietro la schiena due guanciali. Premurosamente le domandò: «Sei comoda?»
La vecchia annuì.
«Siediti qui accanto a me, mia cara. C’è qualcosa che tu devi sapere.»
La giovane ubbidì e si sistemò accanto alla nonna nel letto e prese tra le sue le mani deformi dell’anziana parente.
La vecchia tentò di sorridere, mostrando le gengive. La malattia e la debilitazione le avevano fatto perdere tutti i denti. Non riusciva più ad ingurgitare cibi solidi da tempo.
Viveva in quella casa con la nipote diciottenne, la figlia di Gearalt il figlio avuto da...
« Domhnall … il mio defunto marito … » l’anziana esitò e accarezzò la testa ricciuta e serica della ragazza «… Non era tuo nonno…»
Máirín sobbalzò per lo stupore, ma non disse nulla lasciando che la nonna continuasse a parlare.
«… Moltissimi anni fa, quando vivevo alla corte di Lord Cerdic io amai un uomo, con una tale intensità che il suo volto mi appare ancora nei sogni.»
La fanciulla, a questo punto intervenne: «Ma io credevo che tu e il nonn… e Domhnall, vi foste conosciuti proprio quando vivevi da Lord Cerdic…»
La bocca sdentata della vecchia si contrasse in un sorriso: «Sì, Domhnall era il capitano delle guardie… ma avvenne dopo. Un altro soldato rubò la mia anima qualche tempo prima… e non me la restituì mai più.»
Máirín era sconvolta: per anni aveva creduto che il marito della donna fosse il padre di suo padre ed ora, quando ormai era orfana da tempo di entrambi i genitori, apprendeva che tutto era stato solo una menzogna. Tutti le avevano sempre mentito.
Provò un istintivo moto di rabbia, ma la curiosità prevalse.
Perciò si accoccolò contro la nonna, con gli occhi che si colmavano di lacrime, si mise ad ascoltare in silenzio il racconto della vecchia che con voce interrotta da rantolii e colpi di tosse, narrava una storia avvenuta mezzo secolo prima…
 
*******
 
Camminava sorretto dai due commilitoni, in uno stato di semi incoscienza.
Non vedeva quasi più nulla, il dolore lancinante della ferita gli ottenebrava i sensi. La febbre lo stava divorando.
Il cuoio della cotta penetrava la carne martoriata della ferita in suppurazione che, dalla clavicola, si estendeva per tutto il lato sinistro del costato. Dalla lacerazione proveniva un odore malsano, dolciastro.
Con gli ultimi barlumi di ragione giunse ad una conclusione: era gangrena. Non sarebbe vissuto a lungo. Sentiva l’essudato purulento colare lungo il fianco.
I compagni al suo fianco lo osservavano preoccupati: il viso esanime, le labbra livide e tirate. Le profonde occhiaie bluastre incorniciavano due occhi vacui, annebbiati dalla febbre altissima.
«Pádraig! Non mollare proprio ora!»
Di chi era quella voce? Eoghan, Nollaig?
Ma che importanza aveva, dopotutto? La Morte sarebbe sopraggiunta presto e avrebbe posto fine a tutta quella sofferenza inutile. Una vita passata lontano da casa, a combattere Sassoni per un Signore che non sentiva suo. Aveva dovuto privarsi di tutto: del calore del corpo di sua moglie, dell’abbraccio dei suoi figli, della tranquillità della sua casa e di un campo coltivato. Della sua terra oltre il mare: l’Irlanda.
Per cosa? Per morire come un ratto, marcendo in seguito ad una ferita procurata dalla lama di un cane sassone. Qual porco! Se solo fosse stato più attento!
Ma il verme l’aveva colto di sorpresa, con la sua enorme mole. Puzzava come un maiale e si muoveva lento come un bue, ma a nulla era servita la sua agilità. L’enorme spada del nemico gli aveva trapassato la carne come un coltello caldo taglia il burro.
Che schifo di morte … ma soprattutto: che schifo di vita!
«Pádraig, guardami. Non perdere conoscenza, in nome di Dio! Non lo fare! Siamo quasi arrivati. Siamo nel cortile della fortezza di Lord Cerdic. Guarda là in fondo: ecco le donne di corte che ci portano idromele e pane, per darci il benvenuto!»
Ancora la voce del compagno che non riusciva a riconoscere. Gli pareva di scorgere una punta di entusiasmo nel tono del soldato al suo fianco.
Le donne! Certo… le donne.
Da quanto non toccava una donna? Le lunghe notti solitarie nelle quali aveva dovuto placare da solo il desiderio incontenibile, pensando a morbide forme da abbracciare e calde cosce da penetrare.
Non avrebbe più goduto di quel piacere.
Peccato.
Anche nella debolezza e lo stato febbrile, le sue labbra si piegarono in un sorriso ironico.
Con le ultime forze rimaste alzò lo sguardo: non vedeva nulla, stava troppo male.
Di fronte a lui c’era qualcuno, vestito di rosso.
Un prete?
Non riusciva a mettere a fuoco.
Poi giunse una voce, sconosciuta: «Questo uomo sta morendo! Presto, consegnatelo a me. Proverò a curarlo.»
 
*******
 
«Mio Signore, ti scongiuro! Lascia che io tenti di guarirlo!» La donna era inginocchiata ai piedi di Lord Cerdic a capo chino, con la lunga treccia corvina che le ricadeva da un lato e le vesti di velluto rosso che lambivano i piedi del suo padrone.
Non osava sollevare lo sguardo, poiché temeva che l’uomo si accorgesse che il suo tono sottomesso era solo una finzione. Lei era una Figlia della Dea e da anni fingeva di sottomettersi al volere di quel nobile che l’aveva rapita dalla sua comunità di sacerdotesse nei boschi della Britannia Minore, per farne una schiava cortigiana.
Non poteva fare altrimenti. L’aveva presa sedicenne, ancora vergine e votata alla Dea. Ricordava ancora le percosse che le avevano rotto le costole quando aveva tentato di opporsi alla lussuria del suo carnefice.
Lord Cerdic ora era un uomo anziano, ma all’epoca era un valente guerriero dalla lunga barba rossiccia e i capelli intrecciati con anelli di ferro ottenuti dalle spade dei nemici sconfitti.
Alto e massiccio, puzzava di cuoio e di alcool. Non poteva dimenticare quando il suo membro eccitato aveva violato la sua femminilità ancora intatta, strappandole un grido acuto di dolore.
Aveva fatto i suoi comodi, ansando e toccandola con lascivia e violenza, fino a farle male, per poi lasciarla lì, rannicchiata in un pagliericcio, tremante e in lacrime, mentre il sangue della sua verginità perduta le colava tra le cosce.
Aveva pregato la Dea che la portasse via con sé per sempre, ma i suoi accorati appelli non erano stati ascoltati.
Gli unici vaghi ricordi del viaggio in mare riguardavano la nausea dovuta al figlio che quel mostro aveva concepito nel suo ventre.
Appena giunta sulla terra ferma e alla corte del Lord, aveva immediatamente saputo cosa fare.
Il suo addestramento sacerdotale le aveva insegnato anche come liberarsi di un figlio indesiderato. E il frutto di una violenza non poteva vedere la luce. Era un abominio, un oltraggio alla Dea della Vita che lei serviva.
Aveva abortito, bevendo un infuso di segale cornuta. Era stata male per giorni, rischiando l’ergotismo. L’anziana nutrice l’aveva accudita, dandole della sciocca e dicendole che, con quella bravata, probabilmente si era resa sterile per sempre.
A lei poco importava. Se d’ora in poi la sua vita avrebbe dovuto essere quella della cortigiana, anzi, della puttana di un Lord, tanto valeva non poter più concepire.
Si sarebbe risparmiata solo ulteriori angosce.
Erano passati nove inverni da quel triste giorno.
Si era quasi abituata a tutto: al sesso forzato con il Signore o i nobili ospiti, agli insulti, alle mani che si infilavano ovunque.
Solo una cosa non riusciva ad accettare: il dover sempre e comunque implorare.
Per qualche strana ragione Lord Cerdic le voleva bene: a modo suo le era affezionato. Le concedeva sempre tutto. Ma ogni volta, per ottenere qualcosa, lei doveva inginocchiarsi e chiedere.
Non lo tollerava.
Ma stavolta era necessario.
Sempre a capo chino, ripeté la propria accorata preghiera: «Mio Lord, consentimi di portare quell’uomo in una delle stanze libere dell’ala ovest e curarlo. Altrimenti morirà! L’infezione è molto avanzata.»
La grande mano possente e callosa di Cerdic le afferrò il viso con poca delicatezza, costringendola a guardarlo. Poi il Lord parlò: «Olwen, mia cara… mi stai chiedendo molto. Portare un semplice soldato in una stanza privata e curalo. Perché? Non puoi farlo negli alloggi comuni dei soldati?»
Olwen strinse i denti: «Mio Signore, il soldato è molto grave. Ha bisogno di tranquillità. Il continuo via vai degli alloggi dei soldati non è adatto alle sue condizioni. Potrebbe morire!»
Il nobile esplose in una fragorosa risata sguaiata: «E cosa credi che me ne importi, donna, della vita di un semplice soldato? Fosse un ufficiale, capirei! Ma di soldati ne trovo a valanghe. Quando voglio.»
Uomo indegno.
Non capiva che la vita di qualsiasi essere umano era sacra alla Dea?
La donna respinse mentalmente la repulsione e cercando di modulare il tono di voce, sfoderò la sua arma migliore: il fascino. Aggrappandosi alle ginocchia del suo signore lo guardò fisso negli occhi e disse: «Mio Lord, ti prego, fallo per me.»
La lussuria è un sentimento che può annientare il più valoroso degli uomini. Lord Cerdic trovava la sua schiava irresistibile da anni e la preferiva tutt’ora ad altre cortigiane più giovani. Quella femmina l’aveva stregato fin dal primo momento. Non per la bellezza: la sua corte era piena di belle donne. Ma per lo sguardo fiero e di sfida.
Dovette cedere: «Va bene, donna. Consideralo un compenso per tutte le volte che hai scaldato il mio letto.»
«Grazie, mio Signore.» sussurrò Olwen.
La fece alzare e prendendola per la vita se la tirò sulle ginocchia. Palpeggiandole sgraziatamente il seno incominciò a leccarle il collo e le catturò la bocca in un bacio viscido.
Sapeva di alcool, come sempre. Inoltre quel bacio era sporco, tutt’altro che piacevole.
«Fammi divertire, donna.» ordinò il lord.
Lei non oppose resistenza: aveva sopportato altre volte, lo avrebbe fatto anche questa.
Dopotutto aveva ottenuto ciò che desiderava.
Aveva vinto lei, in un certo senso.

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Capitolo 2
*** II ***


CAPITOLO II

Erano passate due settimane da quando Olwen aveva incominciato a curare il soldato sconosciuto.
Gli aveva abbassato la febbre con un infuso di corteccia di salice e dopo aver pulito la ferita suppurata, l’aveva tenuta fasciata con impacchi di un’argilla speciale che si procurava nel bosco vicino, lungo il fiume. Aveva proprietà antisettiche.
L’uomo era stato in preda alla febbre e al delirio per tutto il tempo. Tra le parole sconnesse e senza senso aveva colto dei nomi: due femminili e uno maschile.
Moglie? Figli?
Sorrise tra sé: che cosa le importava?
Ad onor del vero non aveva nemmeno capito cosa l’avesse spinta a prendersi cura con tanta devozione di quello sconosciuto. Tutto ciò che sapeva era che qualcosa l’aveva “costretta” a farlo, quando l’aveva visto ferito e morente sorretto dai compagni nel cortile del castello.
Era stato un istinto molto forte, come se una voce misteriosa le ordinasse di guarire quel soldato.
Forse era uno degli ultimi barlumi della Vista.
Da anni non adoperava più e sue capacità divinatorie, tuttavia a volte le visioni tornavano a lei involontariamente.
Forse quell’uomo le era stato mandato dalla Dea stessa. Lei aveva il dovere di salvarlo.
E, a quanto sembrava, ci era riuscita.
Toccò la fronte del soldato: era fresca. La febbre era quasi del tutto scomparsa.
Immerse un panno di lino nell’acqua profumata di unguenti e, slacciando la camicia di rozzo cotone dell’uomo, iniziò con le spugnature giornaliere.
Si soffermò sulla ferita, che stava guarendo.
Per salvarlo aveva dovuto asportare molto tessuto necrotico: sarebbe rimasta una cicatrice piuttosto deturpante. Probabilmente a lui non sarebbe importato un granché: era un soldato, non una fanciulla in età da marito che teneva più al proprio aspetto che al resto.
Indugiò sul torace del soldato per accorgersi che altre cicatrici, più piccole e datate, lo costellavano.
Chissà quante ferite aveva subito quell’uomo in battaglia.
Quante primavere poteva avere?
Ad occhio non sembrava giovanissimo. Probabilmente superava la trentina.
Qualche capello bianco cominciava a comparire sulle tempie, tra i capelli scuri, e la barba, ormai lunga, non era più perfettamente nera.
Sollevò delicatamente le braccia del convalescente e iniziò a pulire le sue mani. Non aveva mani grandi, anzi. Sembravano insolitamente delicate per essere quelle di un guerriero.
Eppure erano indiscutibilmente virili.
Mentre era assorta nei propri pensieri, non si accorse che l’uomo si mosse.
Dapprima impercettibilmente, poi emesse un suono gutturale. Le sue dita si strinsero intorno alle mani di Olwen, facendola sussultare.
Poi, senza aprire gli occhi, cercò di articolare qualche sillaba: «R… R… Ro… Róisín…»
Róisín.
Ancora quel nome.
Chissà chi era questa donna che era stata invocata per tutta l’agonia.
Istintivamente lei sottrasse la propria mano dalla presa di lui, richiuse la camicia e si scostò dal letto.
Si tirò in piedi, sistemando la lunga treccia e disse, con tono pacato: «No, soldato. Non sono Róisín.»
In quello stesso istante lui spalancò gli occhi e per la prima volta Olwen poté vederne il colore: erano verdi. Un verde freddo, come quello del mare.
Identici ai suoi.
La cosa, inspiegabilmente, la turbò parecchio.
Il soldato la fissò smarrito per qualche minuto, poi con voce impastata, parlò: «D- dove sono? E tu chi sei, Signora?»
Signora?
Olwen trattenne a stento una risata. Chiaramente le sue vesti eleganti e il suo aspetto curato dovevano averlo tratto in inganno.
L’aveva scambiata per una nobildonna. Meglio chiarire subito l’equivoco.
«Sei al castello di Lord Cerdic, soldato E qui non c’è nessuna “signora”.»
L’uomo strinse gli occhi, per mettere meglio a fuoco l’immagine della donna che aveva di fronte.
Era alta, molto bella. Snella, con dei lunghissimi capelli neri raccolti in una treccia laterale. Indossava una ricca veste di broccato rosso e profumava di unguenti preziosi. Indossava un cerchio argentato che fermava i capelli in fronte e dei gioielli, sempre in argento. Chi altri poteva essere se non una nobildonna?
Poi notò un dettaglio: quelli che inizialmente aveva scambiato per bracciali, in realtà non lo erano.
Erano… manette. Manette ornamentali, legate tra loro da una lunga e sottile catena d’argento che non intralciava i movimenti.
Ma erano un simbolo inequivocabile di schiavitù. Quella non era una donna libera.
Una sola categoria di schiave indossava quel tipo di manette ornamentali: le cortigiane.
Una puttana.
Si trovava al cospetto di una puttana.
Ora ci vedeva bene, i suoi occhi mettevano a fuoco perfettamente. Scorse tutta la figura della donna, per esaminarne i dettagli.
Era affascinante, sebbene non giovanissima: doveva aver superato abbondantemente le venti primavere.
Aveva un bel viso, dai tratti non perfetti ma estremamente piacevoli. Bellissime labbra piene, naso dritto, grandi occhi verdi coronati da ciglia seriche, fronte…
E proprio su quella fronte un particolare gli raggelò il sangue: al centro si intravedeva un tatuaggio, sbiadito dal tempo. Una mezza luna.
Il simbolo delle streghe pagane.
La mano destra dell’uomo scattò inconsciamente verso il proprio collo, alla ricerca di un qualcosa… un qualcosa che però non trovò. Il panico lo assalì.
Olwen lo osservava divertita, con aria di scherno.
Tuttavia si intenerì. Infilò una mano nella scollatura del proprio abito e ne estrasse un oggetto: un ciondolo di rame, a forma di croce, legato ad un laccio di cuoio.
«Cerchi questo, soldato?» lo beffeggiò porgendogli l’ornamento.
L’uomo, con malagrazia, glielo strappò dalle mani.
Come rientrò in possesso del ciondolo sembrò rasserenarsi. Lo portò alle labbra e vi depose un bacio carico di devozione, sussurrando qualche parola.
La donna lo osservò incuriosita: «Sei cristiano, soldato?»
Lui la fissò, quasi con disprezzo: «Sì, credo nell’ Unico e Vero Dio: Nostro Signore Gesù Cristo.»
«Amen.» ironizzò lei con un ghigno, cercando di ignorare la velata offesa alla sua Dea.
Il soldato aggiunse, quasi con aria di sfida: «E ho un nome, donna. Io sono Pádraig ap Breandán.»

 

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Capitolo 3
*** III ***


CAPITOLO III
 

Pádraig era un uomo risoluto, od ostinato ed ottuso, come lo aveva definito Olwen. Una volta scoperta l’origine della donna che l’aveva curato e guarito la ringraziò con una certa freddezza chiedendo alla stessa di congedarsi e che gli fossero mandati un cerusico e un prete.
La donna, con una smorfia acconsentì senza protestare: se quello stolto tracotante voleva morire per mano di un incompetente che curava qualsiasi cosa con i salassi e di un predicatore cristiano che pensava che ogni avvenimento funesto fosse una punizione divina per chissà quale peccato commesso, che lo facesse pure. Non era affar suo.
O meglio: non lo era più. Olwen sapeva benissimo che ormai il soldato era fuori pericolo. Nemmeno le opinabili pratiche pseudo-mediche del cerusico avrebbero più potuto rappresentare un rischio.
La donna era uscita da pochi minuti quando il prete, Padre Conn, entrò nella stanza di Pádraig. Era alto e molto magro con gli zigomi sporgenti e le guance incavate. Indossava una tonaca scura un po’ sbiadita e una croce di legno al collo. Aveva un volto arcigno, perennemente atteggiato in una smorfia di disgusto. La pelle era chiara, i capelli radi di un castano spento e sopracciglia folte e grigiastre che nascondevano due occhi fortemente miopi. Proprio per questo motivo il religioso strizzava spesso lo sguardo assumendo un’espressione che gli sciocchi scambiavano per intelligenza quando in realtà era dovuta unicamente alla cecità.
Padre Conn era il prete che seguiva l’esercito: molti soldati, infatti, avevano sposato la nuova religione, il cristianesimo, e Lord Cerdic aveva ritenuto opportuno, per non creare inutili malcontenti nelle truppe, affiancare ai tradizionali druidi che accompagnavano le sue milizie anche degli esponenti della Fede del Nazareno.
Così, prima di ogni battaglia, mentre i druidi, come d’abitudine, eseguivano riti propiziatori e scaramantici urinando, sputando e mostrando i genitali alle armate nemiche, Conn si aggirava silenzioso e austero spargendo acqua che egli stesso definiva “benedetta” e salmodiando in quel poco di latino stentato che la sua scarsa cultura e intelligenza gli avevano concesso di apprendere.
«Laudetur Jesus Christus, nunc et semper» esordì il religioso scrutando il soldato.
Egli, con una smorfia di dolore, si tirò più ritto nel letto e prontamente rispose: «Semper laudetur».
Esauriti i convenevoli, il prete si sentì in dovere di informarsi sulle condizioni di salute del convalescente: aveva relativamente pochi seguaci nelle fila britanniche e la prematura dipartita di uno di essi avrebbe rappresentato una perdita e uno smacco indelebile per la potenza tanto messa in discussione dell’Unico e Vero Dio. Molto pragmaticamente Conn si interessava più all’immagine pubblica di una religione che stava prendendo piede velocemente, che alla salute del proprio fedele. Una divinità efficiente e potente non permette che i propri seguaci cadano in battaglia, soprattutto per mano di un pagano sassone.
«Sto un po’ meglio, Padre. Ma credo di aver bisogno di confessarmi» ammise Pádraig con mestizia.
Il sacerdote era confuso: «Confessarti, sodato? E perché mai? Sei stato privo di coscienza nelle ultime due settimane e per quanto riguarda i tuoi eventuali comportamenti in battaglia sappi che l’Onnipotente perdona chi combatte in Suo nome».
«No, non è per quello. La causa di tutto è la donna che mi ha curato durante i giorni di agonia…» nella voce dell’uomo era percepibile un tono sdegnato: «Non so se tu abbia avuto occasione di vederla, Padre: era una pagana. Una prostituta vestita di rosso che mi ha curato usando chissà quale stregoneria insegnatale dal Maligno! Mi sento sporco, impuro!»
Il prete sgranò gli occhi, incredulo e la sua voce assunse un tono stridulo: «La Meretrice di Babilonia! Vade retro!». Così dicendo si fece istintivamente il segno della croce seguito pedissequamente dal soldato irlandese.
Padre Conn riassunse contegno e, volendo capirne di più, comandò all’uomo di slacciarsi la camicia per poter esaminare la sua ferita. Pádraig obbedì e aprì il tessuto del proprio indumento mentre il religioso si chinava vicino al suo petto per vederci meglio, strizzando lo sguardo come di consueto.
La ferita si presentava in ottime condizioni: stava indubbiamente guarendo, non aveva segni apparenti di infezione e la carne, sebbene arrossata, si stava rimarginando. Non vi era alcuna traccia di essudato o di cattivo odore, anzi: la lacerazione emanava il profumo gradevole e penetrante degli unguenti medicamentosi utilizzati da Olwen. Ovviamente tutto ciò al soldato non poteva dirlo: sarebbe stato come ammettere che le pratiche pagane erano più potenti della Divina Provvidenza. Inconcepibile.
Assunse quindi un’espressione esageratamente atterrita e urlò: «Il Demonio! Sento la presenza del Demonio! Tu devi immediatamente confessarti ed essere benedetto, figlio mio, se vuoi tornare nella grazia di Nostro Signore. In caso contrario morirai e brucerai eternamente nella Geenna, dove le fiamme dell’Inferno divoreranno la tua anima tra le più atroci sofferenze. Per sempre.»
La metà delle parole pronunciate dal prete sarebbero bastate per convincere un credente meno fervente di Pádraig. Infatti l’uomo, pallido di terrore, implorò aggrappandosi alla manica della veste del sacerdote: «Aiutami, Padre! Cosa devo fare?».
Conn, con fare imperioso, ordinò: «In ginocchio!»
Il soldato era molto debole e dolorante, non si alzava dal letto da più di quindici giorni e solo nelle ultime ore, da quando aveva ripreso conoscenza, aveva ricominciato a mangiare un po’ di cibo, per lo più brodo nel quale intingeva piccoli bocconi di pane nero. Mettersi in ginocchio era uno sforzo al di là delle sue possibilità. Anche il prete lo sapeva, ma pur di mantenere la propria autorità spirituale, fu intransigente.
L’irlandese, serrando i denti, con impegno sovraumano e guidato dalla propria incrollabile Fede, si spostò sul bordo del letto e buttò le gambe di lato. Puntellandosi sul braccio dal lato “buono” (il destro), cercò di issarsi in piedi.
Il capogiro fu istantaneo poiché le gambe erano troppo deboli per reggerlo, e l’uomo cadde subitaneamente in ginocchio al cospetto di Padre Conn. Costui, si avvicinò al malcapitato e pose una mano sul suo capo chino.
Pádraig sentiva dolori lancinanti in tutto il corpo ma non si mosse.
Il religioso pronunciò qualche parola in latino tentennante per poi proseguire nella propria lingua natia, a lui sicuramente più congeniale: «Perdona, o Padre, quest’uomo per essersi lasciato sedurre dalle tentazioni lascive del Demonio che si è presentato a lui come la Donna Scarlatta, la Grande Meretrice. Riportalo sulla retta via, Dio Onnipotente, e parlami! Dimmi cosa mi comandi per salvare quest’uomo e io lo farò!»
Dettò ciò Conn buttò la testa all’indietro e cominciò a rantolare come in preda ad una possessione mistica. Il soldato era spaventato e non osava alzare lo sguardo. Sentiva solo i cupi suoni gutturali emessi dal religioso e la pressione della sua mano sopra il capo.
Dopo qualche secondo il prete, con voce più normale, proclamò: «L’Onnipotente si è rivelato a me e mi ha parlato! Egli, nella Sua immensa gloria, ha deciso di perdonarti, ma dovrai espiare tutti i tuoi peccati…»
«S-sì» balbettò Pádraig con un filo di voce.
Fu di nuovo la volta del sacerdote: «Dovrai pregare ogni giorno, all’alba, per due ore in assoluto silenzio, astenerti dalle pratiche carnali di ogni tipo per almeno due lune e nutrirti solo di acqua e un piccolo pezzo di pane per quindici giorni. Solo in questo modo tornerai ad essere degno del Regno dei Cieli»
Il soldato si rincuorò: almeno esisteva una via di uscita. Timidamente sollevò lo sguardo e fissò Conn: «Farò tutto ciò che mi ordini, Padre»
«Non sono io ad ordinartelo» lo corresse furbescamente il religioso «ma Nostro Signore. Fai come ti ha detto e sarai salvo»
L’irlandese annuì sommessamente.
«Ego te absolvo a peccatis tuis in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen» proclamò solennemente il prelato.
«Amen» ripeté il fedele con devozione. Poi tentò di rialzarsi, ma vacillò.
Con uno slancio inusuale di umanità, Conn lo sorresse e lo aiutò a riposizionarsi nel letto. Poi lo ammonì di nuovo: «Mi raccomando, figlio: preghiera, astinenza e digiuno»
«Sarà fatto, Padre» confermò Pádraig.
Il prete, compiaciuto, si congedò e si voltò, ma giunto sulla soglia della stanza ebbe un ripensamento: «Un’ultima cosa…»
«Dimmi, Padre» lo esortò il soldato
Conn assunse un’espressione quasi ferina: «La donna, la strega pagana. Se il mio istinto non mi inganna tornerà per controllare il suo operato e per concludere la sua malvagia azione di seduzione della tua anima. Se questo dovesse accadere, tu fingi di assecondarla. Dobbiamo incastrarla e sbugiardarla per quella lurida meretrice figlia del Demonio che è. Riferiscimi ogni suo movimento e ogni sua singola parola» le labbra dell’uomo si contrassero in un sorrisetto malvagio «Lo farai per me e per il Nostro Dio Padre, Pádraig?»
«Certo, Padre. Lo farò per te e per Nostro Signore»
«Molto bene, figlio. Molto bene» e così dicendo il sacerdote si allontanò dalla stanza, lasciando l’irlandese immerso nei propri pensieri.
 
*******
 
Olwen, nella stanza che divideva con le altre schiave concubine, stava rammendando una tunica logora della servitù vicino alla finestra, approfittando della luce del sole che era ancora alto nel cielo.
Improvvisamente una strana sensazione la invase, come un brivido freddo che le percorreva le membra.
Pericolo!
Il suo istinto le impose di sollevare lo sguardo dal proprio lavoro e guardarsi intorno. Le altre cortigiane chiacchieravano e ridacchiavano tra loro mentre lavoravano: chi cuciva, chi filava, chi ricamava. I loro figli più piccoli, nati in modo illegittimo dai lord che usufruivano dei “servizi” delle sue compagne, giocavano ai piedi delle madri. Ogni tanto qualcuno di loro piangeva perché non trovava un giocattolo o per una piccola lite con uno degli altri bimbi e, prontamente, una delle donne accorreva a consolarlo.
Tutto sembrava tranquillo e monotono come al solito.
Olwen fece spallucce e cercò di scacciare la brutta sensazione che provava.
Dopotutto, se davvero ci fosse stato un qualsivoglia pericolo all’orizzonte, ora come ora poteva farci ben poco: tanto valeva rassegnarsi e aspettare il naturale susseguirsi degli eventi.

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