The butterfly effect

di Digihuman
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



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Questa storia ed i personaggi in essa descritti sono frutto della mia fantasia. Qualsiasi similarità con persone reali o scomparse, luoghi o eventi è puramente causale e non intenzionale.



Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.
Il rating della storia varierà man mano scriverò i capitoli, motivo per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: verde
Personaggi capitolo: Brent e Yoshiko


CAPITOLO 1





Avete mai sognato di essere una farfalla?
Le farfalle sembrano quasi danzare nell'aria quando sbattono le loro ali. Io ho sempre sognato di essere una farfalla monarca. Le monarca sono così regali e maestose, con le loro grandi ali arancioni contornate da uno spesso bordo nero. Nella loro diversità, sembrano tutte così ben delineate e perfette.
Da piccolino ero convinto che le farfalle monarca nascondessero tra le ali polvere di fata e forse chissà, nonostante i miei trent'anni suonati, mi piace pensare che sia ancora così.
Ricordo ancora un episodio piuttosto divertente della mia infanzia. Avrò avuto sì e no all'incirca quattro o cinque anni. Papà aveva appena lavato la boccia del mio nuovo e fiammante pesce rosso. Un vertebrato insulso, che mi era stato regalato dopo aver espresso il desiderio di voler un animale domestico. Mi aveva insegnato a prendermi cura di lui e a pulire la sua bolla di vetro. In realtà, la cura e l'attenzione da prestare ad un banale pesce rosso era più che elementare e, devo proprio ammetterlo, terribilmente noioso. Quel giorno rubai la sua retina di plastica verde. A quell'età la mia ambizione andava ben oltre lo spalare escrementi di pesce. Volevo catturare una farfalla monarca, volevo potermi cospargere della sua magica polverina e alzarmi in volo. E lo volevo a tutti i costi. Peccato non sia mai riuscito nel mio intento e credetemi, ci ho provato davvero, ma è sempre stato tutto invano. Passai inutilmente due buone ore a cuocere sotto il sole rovente di Agosto, nella vana speranza di poter accaparrarmi uno splendido esemplare di quella specie che tanto mi faceva sognare.
In realtà, non ho mai smesso di sperarci. Nonostante abbia trascorso quasi trentanni della mia vita a rincorrere il mio sogno più grande con scarso successo, non ho mai smesso di sperare. Non so, è come se quella farfalla rispecchiasse un po' il mio obiettivo finale. Ancora oggi non so spiegare il perchè di quella mia fissazione. Ed in realtà non è mai stata l'unica.
La mia fiaba preferita dell'epoca era niente di meno che Peter Pan. Lo vedevo almeno una volta a settimana, il cartone, ovviamente. In realtà non mi interessava molto poter restare bambino a vita, ma, caspita, Peter poteva volare davvero!
Io le avevo provate tutte. Avevo creato il mio modesto aereoplanino con la scatola in cartone del microonde. Le ali erano state ricavate da un paio di vecchie mensole in bambù trovate nella cantina della nonna defunta. Il telaio, finemente progettato, era stato trapiantato da un vecchio go kart del mio vicino di cottage, ormai archiviato tra le cose da rottamare. Il vecchio motore era ancora funzionante, un po' arrugginito, ma pur sempre funzionante. Faticava ad accendersi e spesso borbottava tanto quanto mio zio Benton dopo una tirata di sigaro. Quel piccolo relitto ricavato da materiali di recupero era un'oscenità da guardare, lo ammetto, ma faceva il suo sporco lavoro. Il weekend mi divertivo a fingere di essere un meccanico di fama mondiale, impegnato nella progettazione di un finissimo propulsore turbofan da montare sul mio velivolo. La fantasia non mi è mai mancata e la mia passione per i motori e per gli aerei non è mai morta.

Mi chiamo Brent Smith, ho trent'anni e voglio raccontarvi la mia storia. Una storia tanto triste quanto ricca di forti emozioni, toccata da un'infanzia relativamente serena vissuta tra le campagne inglesi ed un'adolescenza più turbolenta, forse troppo vivace e ribelle per un mezzo anglosassone come me. La vita mi ha sempre concesso un'infinita varietà di possibilità. Sapete quel detto che fa "si chiude una porta e si apre un portone"? Beh, è proprio il caso di dirlo. Di porte sbattute in faccia ne ho viste parecchie, eppure ho sempre raccolto i miei quattro stracci e ho navigato a vele spiegate verso l'oceano della vita, abbracciandolo e facendolo mio nonostante le avversità incontrate. Alla fin fine era solo questione di tempo, prima o poi, come tutti del resto, ho trovato il mio portone. Peccato però che per aprirlo ci volesse una chiave d'oro che, ahimè, non era in mio possesso. Ma non temete, ho trovato una soluzione anche a quello. D'altra parte a cosa serve possedere una chiave, quando si ha l'abilità di saltellare e scavalcare anche la cancellata più alta. Insomma, una vita ricca di ostacoli, che però mi ha sempre dato tanto e a cui non posso negare di dover molto.
Sono nato dall'amore proibito tra un giovane uomo inglese, che all'epoca non aveva più di venticinque anni, ed una splendida donna giapponese di ben dodici anni più grande. Da quel poco che sono riuscito a sviscerare da mio padre, si sono conosciuti durante una torrida estate in Venezuela. Mia madre si era presa un anno sabbatico dal lavoro e si era unita ad un'associazione di volontariato per poter - a detta sua - espiare le proprie colpe. Non so bene di quale colpe parlasse, né l'ho mai saputo, ma sicuramente si trattava di qualcosa di grosso. Papà, al contrario, faceva parte di un gruppo di medici senza frontiere, i cosiddetti Doctors without Borders. Non era altro che un giovane laureando in medicina che tentava di trovare il suo posto nel mondo dando la propria disponibilità a chi più lo necessitava. Mio padre è sempre stato così, un uomo tutto d'un pezzo dai sani principi, ligio al proprio lavoro e dal senso civico molto sentito. Si sono conosciuti e si sono amati sin dal primo giorno.
Passarono solo quattro mesi insieme prima che mio padre decise di rincasare in Inghilterra per via dei propri studi. Da allora silenzio stampa, fino a quando, sette mesi più tardi, mia madre gli ha bussato alla porta donandogli il frutto del loro amore proibito e invitandolo a non farsi mai più sentire nè vedere. Questo è tutto ciò che so di mia madre, si chiamava Sanae Shinbaya, era una giovane donna d'affari, dalla carnagione candida come la neve e dai lineamenti morbidi e ben delineati. Mio padre non ha mai saputo raccontarmi altro, né ha mai avuto modo di mostrarmi una sua foto.
Ciò nonostante non ho nulla da rimproverargli. Ha cresciuto un figlio in completa solitudine, senza una donna al proprio fianco e per di più riuscendo ugualmente a laurearsi in medicina con il massimo dei voti. Insomma, un degno personaggio di un qualsiasi romanzo di Sparks.
Per quanto riguarda me, che dire, non posso certo vantarmi di essere come mio padre. Probabilmente non potrei mai essere come lui, d'altra parte siamo così diversi. Fisicamente ho il suo aspetto, ma nell'anima sono un tipo ribelle, molto espansivo e solare. Lo porto nel cuore, lo tengo stretto nei miei ricordi, ma niente di più. Già, mio padre è ormai morto da diversi anni a causa di un brutto male. Lo stesso male che tentava di estirpare ogni giorno dai suoi giovani pazienti. Papà era un oncologo pediatrico. Buffo come la vita alle volte ti si ritorca contro e ti schernisca in tal modo, vero?

Essere per metà inglese e per metà giapponese ha i suoi pro e contro. In realtà so ben poco del paese di origine di mamma. La maggior parte della mia vita l'ho trascorsa in Inghilterra con mio padre e successivamente slittando tra una città e l'altra delle campagne meridionali inglesi. A dirla tutta il mio certificato di nascita indica Tokyo come mia città natale, ma la città in cui ho vissuto per la maggior parte della mia infanzia e adolescenza è Exeter. Si tratta di un tipico borgo inglese, di quelli che spesso si vedono nei film con quei vialetti perfetti, contornati da villette bifamiliari altrettanto perfette, tutte rigorosamente in mattone con un immancabile giardino perfetto. Insomma, una cittadina all'apparenza perfetta, ma che nel suo profondo cela grandi misteri. Exeter si trova nel Devon, una contea a sud-ovest dell'Inghilterra sita in Cornovaglia, forse una delle zone più verdi dell'isola.
In realtà sono cresciuto in un piccolo sobborgo non molto distante da questa città, Torquay, una frazione costiera di Torbay distante meno di trenta chilometri da Exeter. Avevo poco più di tre anni quando ci siamo trasferiti in quest'ultima città, proprio grazie ad una promozione che mio padre ebbe a lavoro. E niente, la maggior parte dei miei ricordi sono proprio legati a questa città. Ricordi, che tra le tante cose, mi riportano a lei, alla mia dolce Yoshiko.

L'ho conosciuta diversi anni fa, durante un Maggio particolarmente freddo e lunatico. Un mese fuori dal comune, dicevano i telegiornali, il Maggio più freddo degli ultimi cinquantanni. Mai vista la neve in quel periodo dell'anno, eppure, con lei, arrivò anche Yoshiko. Nacque tutto come una banale cotta estiva. Nel tempo però è mutata sempre di più, mi ha portato a mettere in dubbio ogni scelta fatta, fino a trasformarsi in una travolgente storia d'amore che mi ha accompagnato durante l'adolescenza fino ad ora. Nonostante il segmento di tutto ciò possa apparire lineare e breve, la retta che riconduce inizio a fine non è altrettanto dritta. Ci sono stati eventi, taluni nefasti, che ne hanno curvato la scia. Perciò il percorso che abbiamo dovuto affrontare è sempre stato difficile. Per fortuna mio padre mi ha dotato di due gambe agili e robuste e la corsa ad ostacoli non è mai stata un grosso problema per me.

«Non capisco, la farfalla non è un essere troppo femminile per uno come te?» mi domandò Yoshiko un pomeriggio inoltrato mentre ci trovavamo sdraiati su un manto erboso non lontano dal fiume Quay(1).
«Cosa odono le mie orecchie» alzai il capo divertito e la guardai interrogativo «sbaglio o stai forse ponendo una domanda alquanto sessista?».
La giovane ridacchiò divertita, portandosi la mano davanti al volto e coprendo la bocca «riesci sempre a rigirare le mie frasi, Brent».
Io allungai un braccio verso il suo volto e le abbassai la mano stringendola nella mia «ti prego, smettila di coprire il tuo bel sorriso ogni volta che ti rendi radiosa ai miei occhi».
Yoshiko rimase sorpresa per quella frase «sei il solito adulatore, Brent» disse puntando lo sguardo ambrato al cielo «più che una farfalla a me sembri tanto un'ape travestita da farfalla».
Ridacchiai divertito «un'ape, seriamente?».
Lei mi guardò con occhi seri «un'ape, hai capito bene!» confermò ancora una volta «ti chiamerò Bee».
Io rimasi stregato dallo sguardo sicuro di lei «Bee, dici? Suona bene!».
Lei si accostò al mio fianco e mi puntò l'indice sul naso «le api sono laboriose e tu sei... un operaio. Sì, per l'appunto un'ape operaia».
La guardai stranito alzando un sopracciglio e curvando le labbra «le operaie sono tutte femmine sterili, non lo sai? Voglio essere un fuco io!».
Yoshiko scoppiò a ridere mostrando finalmente il suo sorriso radioso con grande grazia «non ho la più pallida idea di ciò che stai dicendo, ma se ti fa sentire meglio, ti lascerò fare il fuco!».
Contagiosa. Non mi serviva sentire altro se non lei ridere di gusto.

Yoshiko era giunta in Inghilterra grazie ad una borsa di studio piuttosto abbiente. Studiava presso l'International School tramite un programma di scambio. Grazie alla sua borsa di studio poteva permettersi la retta scolastica, una serie di agevolazioni fiscali e assicurative, l'abbonamento alla rete dei bus ad una tariffa ridotta e l'alloggio in una famiglia ospitante. Il miglior modo per imparare la lingua, le avevano detto.
La sua famiglia ospitante era piuttosto canonica. Il padre, Andrew, era il classico uomo inglese, dal pancione colmo di birra e dai tratti tipici anglosassoni, pelle chiara, biondo quasi platino a chiazze rossastro, barba a spiga e occhi color cielo. La moglie, Marie, poteva essere mezza spanna più bassa di lui, capelli lunghi e lisci, rossi lucenti e privi di volume, occhi anch'ella color cielo e dal corpo piuttosto voluminoso. Al loro seguito vi era la piccola Cody Hellen, una frugoletta di pochi mesi, dalla carnagione candida quasi riflettente e dal ciuffo ramato piuttosto ribelle.
Avevano accolto Yoshiko in casa loro quasi come fosse una seconda figlia. La loro villetta si reggeva su tre piani dalla scarsa metratura. Al terzo ed ultimo piano, rigorosamente mansardato, vi era la sua cameretta ed un angusto bagno privato. Nonostante le scarse dimensioni, non le mancava nulla. Vi era un letto, dal materasso paffuto e piuttosto comodo, una bella finestra che affacciava sulla riva del Quay, un armadio incassato nel muro, un'ampia cassettiera sotto la rete del letto ed uno splendido lucernario. Posso ancora rammentare il color panna delle pareti e l'odore lavanda che areggiava in quella stanza. Sopra la testata del letto, Yoshiko aveva appeso alcune foto di amici e parenti per poterli sentire più vicino a sé.
Lei aveva dodici anni compiuti quando giunse per la prima volta in città. Io ne avevo quindici, ma ne dimostravo qualcuno in meno, devo ammetterlo. Certo non si può parlare di amore vero e proprio quando ci si ritrova a far fronte a determinate emozioni ad una giovane età come la nostra, eppure qualcosa era scattato sin dal primo istante in cui il mio sguardo si era posato su di lei.
Era Maggio inoltrato eppure l'aria era ancora secca e gelida. Mi ritrovavo a sfrecciare lungo il letto del fiume Quay con la mia canoa. Quell'estate avrei dovuto affrontare una gara importante contro un nemico di lunga data, perciò seguivo rigidi programmi di allenamento volti a raggiungere il podio. Lei, al contrario, passeggiava beatamente con delle amiche non curante della tempesta che di lì a breve si sarebbe abbattuta sulla città. La vedevo sorridere e coprirsi il volto con la mano, quasi a voler nascondere il suo dolce sorriso. Ne rimasi incantato sin dal primo istante.
Aveva una lunga chioma di capelli neri che le svolazzava audace lungo le spalle fino a sfiorare con la punta le natiche. Occhi nero corvino, brillanti e vivaci, leggermente velati da due spesse lenti poste sul suo volto dalla montatura lilla opaca. Labbra morbide, non particolarmente pronunciate, color pesca messe in risalto da un filo di lucidalabbra. Il viso era ovale, morbido e delicato, terminava con un mento non troppo pungente. Il suo fisico era asciutto, non del tutto formato, poco ondulato rispetto ad altre ragazze della sua età, sinonimo che la sua maturità non era ancora sbocciata del tutto.
Poi il suo sguardo, acceso e vivace, si posò su di me e lì ebbi il primo vero contatto con lei. Peccato che quel che successe dopo fu da dimenticare. Impanicato, o forse preso alla sprovvista, mi agitai eccessivamente e con fare goffo dimenai fin troppo la pagaia tanto da finire in acqua senza neanche accorgermene. Inutile dire che quando tornai a galla, udì solo un coro di ragazzine petulanti che ridevano e additavano nella mia direzione.
Nonostante il mio primo istinto fosse quello di raccogliere tutto e allontanarmi da loro il prima possibile, non potei far a meno di notare che Yoshiko allungava una mano nella mia direzione e mi incitava ad uscire dall'acqua.
«Va tutto bene?» mi domandò con un accento piuttosto scolastico.
«Sì, ecco, io... veramente...» farfugliai grattandomi nervosamente il capo «ho perso solo l'equilibrio».
Yoshiko mi allungò gentilmente la propria giacca e mi invitò ad appoggiarla sulle spalle «prenderai freddo così bagnato».
Rimasi interdetto a guardarla per chissà quanto tempo. Forse secondi, forse ore. Il tempo in certe circostanze è relativo.
Non posso dire di averla amata sin dal primo sguardo, perchè a quindici anni con quale esperienza si può parlare di amore. Però la trovavo magnetica, la sua gentilezza per me era una ventata d'aria calda. La ringraziai inchinandomi leggermente. I suoi tratti, chiaramente asiatici, mi fecero compiere quel gesto con estrema naturalezza «arigato» le dissi.
Il suo sguardo si illuminò decisamente sorpreso «nihongo wa hanasemasu ka?(2)» mi domandò infine.
Io rimasi come un ebete a fissarla per una manciata interminabile di secondi per poi rispondere «la mia conoscenza circa la lingua giapponese nasce e muore qui».
Yoshiko dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per soffocare il fiume di risate che seguì la mia frase «sei buffo» disse semplicemente.
Mi guardai intorno imbarazzato notando che le amiche non parevano altrettanto innocue. Una ragazza la strattonò dalla maglia e le sussurrò qualcosa in giapponese indicando con sguardo severo un agglomerato di villette non molto distanti dalla nostra zona. Yoshiko annuì e tornò a fronteggiarmi «la giacca puoi tenerla, me la ridarai domani».
Io la guardai ancora una volta intontito. Non mi potevo certo definire un vero e proprio sciupa femmine, ma generalmente me la sapevo cavare abbastanza bene con il gentil sesso. Eppure sin da subito con Yoshiko era stato diverso. Era come se lei avesse espugnato la mia robusta fortezza e avesse avuto libero accesso alla mia vulnerabilità.
Annuì lentamente mentre potevo scorgere la sua figura che mano a mano veniva trascinata lontana dalle sue amiche «domani, stessa ora, stesso posto» aggiunse voltandosi verso di me e sorridendo amabilmente.
Il nostro primo e raccombolesco incontro. Come scordarlo, soprattutto vista la figuraccia fatta.

Il giorno successivo, come pattuito da lei, ci incontrammo nuovamente sulle rive del Quay. Quel giorno, lo ammetto, mi sentivo al quanto nervoso e non ne conoscevo il motivo. Quando la vidi da lontano, alzai un braccio per farmi notare. La giovane ragazza non si scompose e non ricambiò il gesto, si limitò ad avvicinarsi da me sorridendo.
«Konnichiwa» le dissi accompagnando il saluto con un breve inchino.
«Buongiorno» mi rispose lei ridacchiando «non è necessario essere così formali».
Mi grattai il capo. Avrei tanto voluto farle una buona impressione ed invece mi ero solo messo in imbarazzo da solo.
Decisi di interrompere il silenzio che era calato tra noi presentandomi «sono Brent» le allungai una mano sorridendo.
Lei l'afferrò saldamente con la propria e la strinse scuotendola leggermente «Yoshiko».
Con lo sguardo indicai il viale asfaltato che costeggiava le rive del fiume e le feci cenno di seguirmi. Mentre camminavamo l'uno affianco all'altra rubandoci di tanto in tanto lo sguardo, lei prese coraggio e mi domandò «come mai parli giapponese?».
Io sorrisi divertito in parte da quella domanda «parlarlo è forse un parolone, conosco qualche termine» le risposi notando quanto fosse insoddisfacente la mia risposta. Mi sentii quasi in dovere di approfondire l'argomento «mamma era giapponese».
Lei mi guardò con lo sguardo spento, quasi cupo e sussurrò «perdonami, non avrei dovuto chiedertelo».
La guardai confuso per poi comprendere la sua reazione. Purtroppo il mio tempo verbale al passato era stato male interpretato, perciò mi apprestai subito a correggere il mio errore «no, lei è viva» mi soffermai un secondo per poi aggiungere «almeno credo».
Lei interruppe la camminata per guardarmi dritto negli occhi e stortare il naso. Ridacchiai imbarazzato grattandomi ancora una volta il capo «non so nulla di lei, mi ha abbandonato alla nascita».
Yoshiko coprì involontariamente la bocca con la propria mano e sgranò gli occhi incredula da quanto sentito «ma è orribile!».
«No beh, a dirla tutta non lo è» le risposi guardando il cielo «ha preferito non aver nulla a che fare con me» alzai le spalle con fare neutrale e aggiunsi «alla fine è stato meglio così, non avrei mai sopportato di vivere con una persona che non mi avrebbe mai amato».
Lei mi guardò piuttosto sconcertata. La prima impressione che ebbi guardandola fu quella di aver appena detto un'eresia. Sicuramente Yoshiko aveva una bella famiglia alle spalle, si vedeva anche solo dal suo modo di vestire, molto curato, raffinato seppur noioso.
«Io comunque volevo ringraziarti per avermi tirato fuori dall'acqua ieri» le dissi timidamente.
Lei mi guardò ancora una volta facendo penzolare il capo a destra e sinistra come a voler cercare qualcosa «la mia giacca?» mi domandò infine.
Io avvampai dall'imbarazzo e cominciai a dimenarmi nervosamente fino a schiaffeggiarmi da solo la fronte «che stupido, la giacca!».
Per la prima volta Yoshiko si abbandonò alla spenzieratezza e ridacchiò divertita «sei buffo». E siamo a due.
«Mi dispiace moltissimo» le dissi cercando di scusarmi in tutti i modi possibili ed inimmaginabili.
«Brent» disse ad un tratto lei catturando la mia piena attenzione «va tutto bene!».
Il mio sguardo saettò rapido verso di lei fino a focalizzarsi sui suoi occhiali lilla «cosa gli è successo?» le domandai indicando un'asticella riattaccata alla bene meglio con il nastro trasparente(3).
Yoshiko si sfilò agilmente gli occhiali del volto per poi guardarli affranta «mi si sono rotti in aereoporto appena sbarcata qui» rispose piuttosto intristita «un signore mi è venuto contro senza farlo apposta e mi sono caduti a terra».
Mi avvicinai a lei guardandoli meglio «per fortuna non ti si sono rotte le lenti» lei mi sorrise parzialmente confortata «ho un amico ottico che riuscirebbe ad aggiustarteli in giornata».
I suoi occhi si illuminarono di speranza. Sono piuttosto convinto di aver visto in lei un fuoco accendersi «mi potresti portare da lui?».
Le sorrisi con affetto «ma certamente».
Quel pomeriggio mi resi utile e la portai ad aggiustare gli occhiali concedendole anche una breve gita presso il centro città e le zone circostanti. Fu il nostro primo vero appuntamento mascherato. Nessuno dei due avrebbe mai potuto definirlo tale, non eravamo innamorati né avevamo l'età per esserlo. Eppure vi erano tutte le carte in regola: ora e luogo prestabiliti, un giro per la città, un gelato in centro e il rientro a casa all'orario stabilito dalla sua famiglia ospitante.

Da quel giorno sino ai successivi sei mesi, ci siamo frequentati come una giovane coppia di amici. Le ho mostrato la città, la main street(4) e i luoghi di aggregazione giovanile. L'ho portata in canoa con me, le ho mostrato le rive del Quay, quelle meno esposte al turismo e l'ho portata a mangiare sul fiume la nostra tipica pizza all'anatra. Già, avete capito bene, pizza all'anatra. Per non parlare delle serate trascorse fuori dalla cattedrale ad assaggiare tutti i tipi di birra analcolica artigianale del luogo o i pomeriggi passati a giocare a bowling con le sue amiche che, con il tempo, hanno saputo lasciarsi andare.
Tutti i weekend li passavo in sua compagnia lungo le sponde del fiume Quay, entrambi sdraiati sul manto erboso del posto. Lei spesso aveva un libro in mano, era molto dedita alla scuola e i suoi voti rispecchiavano perfettamente la sua attitudine allo studio.
«La lettura è importante, alimenta la nostra anima e la arricchisce con esperienze che mai nella vita ci sogneremmo di fare» mi disse un giorno sorniona mentre sfogliava un libro piuttosto consumato.
«Perchè non ti compri un Kindle? La copertina di quel libro sta cadendo a pezzi» le risposi notando il pietoso stato in cui si trovava quel povero testo.
«Mai!» mi rispose con forza e convinzione «la carta ha quell'odore... inebriante».
Il mio sguardo dubbioso le diede l'imput per proseguire con il suo discorso «... quell'odore di vecchio e vissuto, di storie fantastiche e magiche che ti fanno sognare e ti catapultano in un mondo del tutto nuovo» i suoi occhi socchiusi quasi a voler materializzare nella propria mente sogni e speranze «le pagine ruvide, l'inchiostro stampato e in rilievo... come puoi non amare i libri?» mi domandò ad un tratto.
Io rimasti sbigottito da quella domanda, in realtà non sapevo bene cosa risponderle «probabilmente non ho mai trovato il libro adatto a me».
Lei mi guardò con occhi di sfida e sorrise «posso farti alcune domande?».
Ciò che seguì fu una vera e propria intervista, degna di un investigatore affermato. Saettò tra un argomento e l'altro nella vana ricerca di un genere letterario, di uno scenario o anche solo di un personaggio che potesse fare al caso mio.
«Va bene, bandiera bianca!» mi rispose alzando le braccia in segno di resa «però, visto che ti piacerebbe diventare un aviatore, potresti leggere la biografia di Amanda Earhart».
«So tutto su di lei!» le risposi preparatissimo «è nata a fine ottocento negli Stati Uniti ed è stata la prima aviatrice donna a sorvolare l'Oceano Atlantico» allungai lo sguardo verso Yoshiko convinto di aver fatto centro e ripresi il mio monologo «ha imparato a volare dopo la ventina e ha comprato quasi subito un biplano con il quale ha anche stabilito un record femminile».
Yoshiko mi guardò ammaliata «ti prego, non fermarti» mi risponse sarcastica.
«Qualche anno prima di morire ha stabilito il record mondiale di altitudine. Venne soprannominata Lady Lindy perchè è stata l'unica, insieme a Lindbergh, ad aver trasvolato da sola l'Atlantico» avevo ormai catturato l'attenzione di Yoshiko ed ero consapevole di tenerla in pugno «un altro record è stato scoccato negli Stati Uniti per aver sorvolato da costa a costa l'intera Nazione senza effettuare alcun scalo».
Lei mi guardò attonita, quasi incredula da quanto sentito dire, mentre io mi alzai vittorioso inchinandomi ed emulando un trionfo con i fiocchi. Feci un giro intorno a Yoshiko imitando con la bocca un coro di tifosi e ritornando prontamente innanzi a lei.
«Ebbene sì, devo proprio ammetterlo» rispose lei chiudendo il tomo che aveva tra le braccia «Brent Smith, tu mi hai spiazzata».
Le sorrisi divertito e le posai un bacio fugace sulla guancia «uno a zero per me, allora».
Yoshiko si imporporò visibilmente e girò lo sguardo altrove fingendosi distratta. Ma invano furono le sue gesta, perchè subito notai la mano risalire lungo il busto per poi carezzarsi la guancia arrossata.
Quel giorno lo capì lei e lo capii anche io, qualcosa tra di noi era cambiato.

Quando si può realmente parlare di amore? Vi è un'età a partire dalla quale si può trasformare una simpatia in un qualcosa di più? Queste sono le classiche domande a cui non saprò mai rispondere, ma so per certo che per Yoshiko ho sempre provato qualcosa. Il problema è sapere che cosa.
A quindici anni avevo in testa una sola cosa, il sesso. Tutti parlavano di sesso, chi a scuola si fingeva grande raccontando di avere certe riviste piccanti nel comodino di camera propria, chi al contrario si vantava di aver già scoccato il primo bacio ad una ragazza più grande, chi descriveva l'arrivo in seconda base e chi, come me, restava seduto e ammutolito ad ascoltare i racconti degli altri.
Pensando a Yoshiko mi domandai se potessi realmente associarla al sesso. Alla fine la nostra amicizia era appena sbocciata e in lei avevo trovato una buona amica e una spalla su cui fare affidamento, perchè rovinare tutto. Inoltre, a breve sarebbe dovuta tornare in Giappone e di me le sarebbe rimasto solo un lontano ricordo. Eppure sentivo di dovermi togliere un pensiero dalla testa.
«Hai mai baciato un ragazzo?» le domandai un giorno mentre passeggiavamo lungo la main street.
Si voltò verso di me ridacchiando divertita «a dodici anni? E chi mai vorrebbe baciarmi?».
Mi grattai nervosamente il capo e soffocai una risata incontrollata «hai ragione».
Lei interruppe la sua passeggiata per fronteggiarmi accigliata «ho ragione? Stai forse intendendo dire che nessuno vorrebbe mai baciarmi?».
«No, ma che dici» le risposi preso contro piede «non intendevo dire questo».
«Già certo, chi mai vorrebbe baciarmi a dodici anni» rimarcò nuovamente lei portandosi le braccia ai fianchi.
La situazione si stava scaldando e io necessitavo più che mai di uscirne vivo.
Sino ad allora mi ero sempre reputato un ragazzo sveglio e coraggioso. Eppure in quell'occasione avevo perso il mio tocco e le parole mi morirono in gola. Mi ero ritrovato ad annaspare e boccheggiare nella speranza che prima o poi la bocca riuscisse ad emettere un qualsiasi verso. Man mano la mia agitazione cresceva, notavo aumentare la rabbia di Yoshiko. Aveva serrato i denti e stretto i pugni. Sono convinto che in quell'occasione avrebbe voluto tirarmi un pugno in faccia. Perciò feci l'unica cosa che ero in grado di fare. Mi avvicinai a lei con fare lesto, le presi il volto tra le mani e le schioccai un casto bacio sulle labbra.
La guardai spaurito e le dissi «io vorrei baciarti» e girai prontamente i tacchi per scappare via quando lei allungò una mano nella mia direzione e afferò saldamente la manica della mia giacca.
Mi voltai verso di lei e la vidi toccarsi le labbra con occhi sgranati.
«Era il mio primo bacio...» sussurrò con voce flebile.
Avrei voluto dirle che non volevo, che non era mia intenzione e che non sapevo che altro fare, ma la verità è che io volevo baciarla. Ma nella sua innocenza di dodicenne, capì subito che lei non era pronta a fare quel passo.
La riaccompagnai a casa nel silenzio più totale, guardandola di nascosto mentre camminava al mio fianco ancora sgomenta.
«Perdonami...» le sussurrai cercando di trovare un contatto con lei.
Lei si voltò verso di me e mi chiese molto dolcemente «è stato come le altre volte?».
La guardai leggermente confuso non capendo bene a cosa volesse alludere. Si toccò nuovamente le labbra e approfondì la sua domanda «è stato come baciare le altre ragazze?».
«Beh...» da dove iniziare, la mia esperienza in quel campo non poteva certo vantare chissà quante vittime «è stato diverso».
«Diverso in che modo?» domandò ancora quasi volesse sentirsi dire un qualcosa in particolare.
Difficile dare una risposta concreta ad una domanda simile. Avrei voluto dirle che ogni ragazza è a sé, che il mondo è bello perchè è vario, che generalmente baciavo solo ragazze mature. Eppure le parole mi morirono in gola e annaspando risposi semplicemente «tu hai qualcosa di speciale».
Non sapevo se la mia frase fosse giusta o sbagliata, né seppi dire se a lei bastò quella risposta. Lei rimase in silenzio per il resto del tragitto ed io la imitai senza fiatare.
Arrivati sotto casa sua, le afferrai una mano guardandola dritta negli occhi con lo sguardo da cane bastonato, nel tentativo di far risorgere in lei un sentimento di pietà. Non funzionò, il suo carattere era troppo forte per farsi abbindolare in quel modo. Spezzò quel contatto tra noi e mi guardò apaticamente, quasi con disprezzo «domani sera tornerò a casa, lo sai questo, vero?».
Come dimenticarlo, purtroppo. Ero perfettamente conscio del fatto che quei sei mesi erano volati via come cenere al vento. Mi limitai ad annuire convinto che anche questa volta lei sarebbe rimasta impassibile innanzi alla mia tristezza. Invece allungò una mano in mia direzione, mi guardò dritto negli occhi quasi a volermi leggere nell'anima e sorrise «mi mancherai».
Il mio sguardo si accese e il petto si gonfiò con quanta più aria possibile. Sospirai dalla gioia per poi ritrovarmi, ancora una volta, a perdermi nei suoi dolci occhi «ti scriverò una lettera tutte le settimane» le dissi.
Fu allora che notai una sottile patina opaca oscurare il suo sguardo. Avrei potuto giurarlo, stava cercando con tutta sé stessa di trattenere le lacrime che, insolenti, tentavano di rigarle il volto «me lo prometti?» mi domandò singhiozzando.
«Croce sul petto» le risposi abbozzando una X con l'indice.
«Croce sul petto» ribadì lei imitandomi prima di lanciarsi tra le mie braccia abbracciandomi forte «mi mancherai, Bee».
«Mi mancherai anche tu, Yoshiko» le risposi allontanadola da me e donandole un sorriso di conforto.
Rincasò senza voltarsi verso di me. Potevo sentire la tensione galleggiare nell'aria e renderla quasi irrespirabile. I suoi passi si fecero lenti e pesanti, come se in quell'attimo il tempo si fosse fermato.
Non potevo certo impedire la sua partenza, ma avrei potuto renderla indimenticabile.
La mattina successiva lasciai davanti a casa della sua famiglia ospitante un cestino di vimini con un sacco di prelibatezze della zona. Le feci avere anche un paio di latte di thè early gray che tanto le piaceva, i classici biscotti di frolla al cocco tipici del luogo, la tovaglia scaccata bianca e rossa che usavamo sempre per il pic nic del sabato pomeriggio, una copertina in pile con lo stemma della città per coprirsi dall'aria condizionata dell'imminente volo e un album contenente le moltissime foto scattate in quei sei mesi insieme. Al suo seguito, inoltre, vi era una busta piuttosto spessa con una lunga lettera scritta a mano.
Queste attenzioni sono il frutto di un amore immaturo, cosa che a quindici anni, spesso, non si concepisce fino in fondo, figuriamoci a dodici. Eppure tra di noi vi è sempre stato un legame speciale, profondo, che ancora oggi non riesco a spiegare a parole. Yoshiko per me è e sempre resterà il mio primo e vero amore.

Spesso mi ritrovo a pensare a quando, temporaneamente parlando, potrei collocare il momento esatto in cui mi sono innamorato di lei. Avevo sentito le farfalle allo stomaco già la prima volta che la vidi. Quel brontolio interiore poi non aveva fatto altro che aumentare man a mano la frequentavo ed uscivo con lei. Penso che quel primo bacio fu solo una virgola posta all'interno della nostra storia, la prima di molte.
Quei sei mesi trascorsi insieme furono un qualcosa di magico, forse un periodo fondamentale per la mia maturazione spirituale. Probabilmente non sarei quello che son diventato. Posso dirlo con certezza, poiché tutte le scelte prese successivamente furono solo dettate dal mio cuore. Tutto mi riportava a lei, regolarmente e con prepotenza, come se fossimo destinati a rimanere per sempre insieme. Ma si sa, il per sempre nella vita reale non esiste. O forse è un bene che in pochi si possono concedere, ma soprattutto che in pochi hanno il piacere di poter sperimentare. Penso che ritrovarsi ad amare fino alla morte una sola ragazza sia il sogno di tutti. Ma le avversità, gli ostacoli della vita la rendono una vera e propria utopia.
Non lo nego, anche io, da perenne sognatore, avrei preferito poter raccontare una storia in cui il mio amore giovanile è stato il primo e l'unico. Purtroppo però la realtà dei fatti non me lo consente. Il mio amore è iniziato con lei, ma ha preso altre strade nel corso degli anni a causa di alcune mie scelte sbagliate. Se potessi tornare indietro cambierei tutto questo? Mi assicurerei di poter vivere solo con lei e per lei? Creerei il mio personale "per sempre felice e contenti"? Forse sì, forse no. Non sono scelte facili perchè ciò che sono diventato ora è frutto di ciò che ho fatto prima. Nulla ci può far intendere che a cambiare il passato, si ritroverebbe una figura migliore di se stessi nel futuro.
L'unica certezza che ho è che il mio amore è nato con lei e che morirà ciecamente con lei.



(1) Il fiume Quay viene correttamente letto /chii/ [clicca qui per tornare alla lettura]
(2) parli giapponese? [clicca qui per tornare alla lettura]
(3) perdonate la scelta lessicale fatta, ma non avrei mai potuto chiamarlo "scotch" in quanto, essendo la storia ambientata in Inghilterra, avrebbe assunto in significato differente [clicca qui per tornare alla lettura]
(4) si tratta della strada principale, il cuore della città, dove si trovano la maggior parte dei negozi [clicca qui per tornare alla lettura]



Angolo dell'autrice.
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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


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Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: verde
Personaggi capitolo: Brent e Yoshiko

Capitolo 2



La distanza, si sa, tende ad allontanare due persone in maniera inesorabile, soprattutto se i soggetti in questione abitano esattamente l'uno dalla parte opposta del mondo rispetto all'altra. Per fortuna, nel nostro caso è stato diverso: la distanza ha reso sì le cose più difficili, ma non è stata la vera artefice della nostra separazione.

Con il tempo ho imparato ad esternare i miei sentimenti anche per iscritto. Lo devo ammettere, non sono mai stato quel genere di ragazzo. Amo gli sport estremi, mi piace star seduto con le gambe aperte stile frequentatore assiduo di bar, masticare rumorosamente a bocca aperta e tifare senza contegno per la mia squadra di calcio preferita. Eppure, Yoshiko è riuscita a tirar fuori da me quel lato tenero e romantico che mai avrei pensato di avere.

***


Mio padre, nonostante fosse molto impegnato con il suo lavoro, aveva notato un cambiamento in me. L’avevo sentito più volte vociare al telefono con la zia e incolpare mia madre per non essermi stata vicina. A detta sua mi mancava tatto ed eleganza e lui non era in grado di condividere con me certi sentimenti in quanto, secondo il suo illustre parere, era un compito che spettava ad una donna. Per quanto fosse un uomo fantastico, questi erano i momenti che mi facevano notare quanto fosse umano e vulnerabile. Era proprio con questo genere di frecciatine che mi faceva intendere quanto soffrisse per la mancanza di una figura femminile al suo fianco. Eppure, negli anni non aveva mai provato a mettersi in gioco. Dava la colpa al lavoro, al dover badare a me e al nonno che, giusto un paio di anni prima, era morto di vecchiaia. Insomma, si inventava mille impegni pur di non alzare la cornetta ed invitare una collega, un'amica o una vicina fuori per una cena o anche solo per un caffè.

Cara Yoshiko,
oggi ho avuto una discussione pesante con mio padre. Sai com'è, ogni cosa che faccio non va mai bene. Non volevo farlo arrabbiare, lo giuro! E non mi sto discolpando. Ma sono stufo di averlo a casa ogni sera con quel broncio dipinto sul volto di chi si lamenta di non avere una vita sociale, ma allo stesso tempo non fa nulla per incrementare la sua cerchia di amici. Dice di averne già fin troppi, eppure non esce mai con nessuno.
L'ho iscritto (a sua insaputa) su quel sito di incontri per uomini maturi single che pubblicizzano tanto in televisione. Apriti cielo, ha dato di matto. Ho messo su un paio di foto sue di qualche anno fa, quelle che avevamo fatto a quella famosa fiera di città di cui ti ho parlato l'ultima volta. Non ho scritto bugie sul suo conto, lo giuro! Ho scritto che è un uomo di altri tempi, il classico signore educato che sposta la sedia alla propria amata prima di accomodarsi a tavola, che apre la portiera dell'auto per farla accomodare al suo interno, che si stringe in un angolo del divano per consentirle di star sdraiata durante la visione di un film. Insomma, cose del genere! Non ho neppure mentito sulla sua età, anche se forse ho un po' ingigantito i suoi hobby. Sì, ama uscire a passeggiare, ma non è vero che è un appassionato del trekking. Ho raccontato poco del suo lavoro, non vorrei che uscisse con una donna interessata solo al suo portafoglio, mi spiego?
Beh, sai la sua rabbia da cosa è derivata? Dal fatto che nell'arco di un paio di ore dall'iscrizione lo hanno contattato in circa una decina di donne, tutte interessate ad avere un appuntamento con lui. È sbottato con me, dicendo che non mi sarei mai dovuto permettere di iscriverlo ad un sito così offensivo. A detta sua solo gli “uomini disperati” lo fanno. Ma a me pare tanto che lui lo sia.
Morale della favola? Avevo ragione io! Martedì uscirà a cena con una delle donne che ha risposto all'annuncio.
Devo ammetterlo, la lavata di capo alla fine non è stata poi così male. Per lo meno ne è valsa la pena! Il martedì non è stata una scelta sua, bensì mia, sai perché? Gioca il Manchester United!
Con affetto, Bee.

Ricordo bene che quel giorno mi soffermai molto sul termine "affetto". Si era insinuato in me un certo dubbio: non era forse troppo? Data la giovane età e la distanza che ci divideva, era stupido tentare di andare oltre. Ma più le scrivevo e più leggevo le sue lettere, più sentivo crescere un sentimento nuovo in me. Lei rispondeva usando lo stesso tono spingendosi, spesso, anche oltre. Non riusciva a celare i propri sentimenti dietro le sue lettere, era più forte di lei.

Caro Bee,
mi manca tutto dell'Inghilterra. Mi mancano i manti erbosi e finemente tagliati che caratterizzano i parchi di Exeter. Mi mancano le serate trascorse in compagnia presso quel locale che ogni mercoledì sera organizzava un momento karaoke a suon di stonate e canzoni immortali. Mi mancano le passeggiate domenicali ed i pic-nic stravaganti lungo la riva del Quay. Mi manca il gracidare delle rane presenti nel laghetto del giardino della scuola. Mi mancano persino le pizze all'anatra, la pioggia incessante e quel vento così forte da avermi rotto almeno una decina di ombrelli. Ma, soprattutto, mi manchi tu.
Qui in Giappone non conosco nessuno che sia come te. I miei compagni di classe mi prendono in giro perché porto questi occhiali così grandi. Lo so, dovrei dimostrarmi superiore, ma proprio non ci riesco e ogni volta che torno a casa mi viene sempre da piangere.
Sai, ho una novità. Mamma e papà stanno pensando di comprarmi un portatile per poter avere accesso ad internet e studiare più agevolmente anche da casa. Dicono che non è mai presto per pensare all'università.
Sto facendo fatica a riadattarmi alla mia città natale, sai. Qui è tutto più frenetico, non si ha mai abbastanza tempo per riuscire ad adempiere a tutti i compiti in programma. Mentre lì, era come ritrovarsi sospesi nel tempo, come se l'orologio andasse a rilento. Le giornate in Inghilterra non passano mai, si ha sempre tempo per fare tutto. Forse sono gli impegni, forse è solo la mia testa, eppure preferisco vivere lì piuttosto che qua.
I miei genitori non mi danno tregua. Mi hanno già bocciato la richiesta di tornare altri sei mesi ad Exeter, sono convinti che alla fin fine sia stata solo una grande perdita di tempo e che io sia rimasta indietro con il mio programma scolastico.
Sono disperata, non sai quanto darei per trascorrere anche solo una settimana in tua compagnia. Secondo te è una cosa stupida? Forse sono solo troppo infantile. Dovrei crescere, lo so, ma questa fretta che mi mettono addosso non mi si addice. Non sono ancora entrata nella fase adolescenziale e già mi sono stufata.
Ti mando un bacio, di quelli che già conosci.
Tua, Yo.

Saperla a miglia e miglia di distanza da me, insofferente e triste per la vita che l'aspettava, mi trafiggeva il cuore. Ogni volta che ricevevo una sua lettera in cui si lamentava di quanto fosse impegnativa la sua giornata, di quanto fossero pressanti e pesanti i suoi genitori, o peggio, di quanto io gli mancassi, mi sentivo inutile. Avrei voluto essere lì con lei in quel periodo per poterla abbracciare, stringerla a me e darle la forza di andare avanti. Eppure, non ebbi mai modo di farlo e questo fu uno dei miei più grandi rimpianti.
Con l'arrivo delle festività invernali, Yoshiko ricevette in regalo il suo primo portatile. Un modello della Dell piuttosto costoso e dotato della miglior tecnologia Intel presente sul mercato. Ero piuttosto convinto che suo padre avesse sborsato almeno una mensilità buona del proprio stipendio per poter pagare un affarino del genere. Ciò che contava, però, fu che grazie a quell'aggeggio tecnologico io e lei riuscimmo a sentirci più spesso.

Caro Bee,
hai visto? La mia prima email! E non poteva che essere indirizzata a te!
Mi fa quasi strano non dover più attendere furtivamente il postino davanti casa ogni Lunedì sera.
Devo ammetterlo, un po' mi manca l'odore inconfondibile di lavanda delle tue lettere perfettamente imbustate. Già, non puoi saperlo, ma ogni volta che arrivava la tua lettera mi veniva quasi istintivo annusarla. Sono piuttosto convinta che il negozio che te le vende, le tiene accanto ad una qualche riserva di candele profumate. Correggimi se sbaglio.
Dunque, oggi sono piuttosto elettrizzata perché so di potermi dilungare a scriverti tutto ciò che mi passa per la testa senza temere di scrivere troppi fogli. E vuoi mettere il risparmio di tempo nel farlo? Una digitata veloce sulla tastiera e già ho impresso nero su bianco tutti i miei pensieri. Lo trovo straordinario!
Avremo mai modo di organizzare anche una video-chiamata? Sarebbe così bello poterti rivedere, seppur con uno schermo di mezzo. Ovviamente dovremo trovare un orario ed una data che vada bene ad entrambi e che non preveda la presenza di mio padre nei paraggi. Sai com'è fatto lui, lo vedrebbe solo come una grande perdita di tempo.
Il mio viaggio stesso ad Exeter, a detta sua, è stato inutile. Io non sono d'accordo. Grazie a te sono migliorata moltissimo con l’inglese e ho risolto anche il problema che avevo con la pronuncia della "r". Ho potuto visitare posti bellissimi, conoscere tanta gente nuova di tutto il mondo e frequentare un ambiente ben più rilassato di quello che vivo qui tutti i giorni.
Potrò mai tornare ad Exeter prima o poi? Avremo mai occasione di rivederci? Perché non vieni qui in Giappone? Alla fin fine potresti anche decidere di visitare la tua città natale, che ne pensi?
Un abbraccio forte e sentito, Yo.

Più di una volta Yoshiko tentò di convincermi ad andare da lei. Diceva che fosse cosa buona e giusta scoprire il mio passato ed incontrare la donna che mi aveva messo al mondo. La verità era che avevo paura. Avevo paura di scoprire che mia madre mi avesse abbandonato per motivi ben più gravi di una semplice intolleranza verso i neonati. Avevo paura persino della reazione che mio padre avrebbe potuto avere nello scoprire che in parte avrei tanto voluto conoscere i fantasmi del mio passato. Non avevo mai parlato con lui di mia madre, né tanto meno avevo avuto modo di chiedergli nulla a riguardo. Tutto ciò che mi era stato detto sul suo conto era avvenuto solo per sbaglio. Una certezza, però, ce l'avevo: lui doveva esserne innamorato per davvero. Non spese mai una brutta parola nei suoi confronti, né tanto meno affibbiato un epiteto negativo o parlato male di lei. Insomma, per quanto lei lo avesse fatto soffrire, lui non era mai riuscito a puntarle il dito contro. Che uomo.
Yoshiko provò a farmi esternare ciò che sentivo per la mia madre biologica, ma la verità era che non sapevo bene cosa provare per lei. Voglio dire, mi aveva messo al mondo e di questo credo di essergliene grato, ma niente di più. Non avevo alcun legame con lei. Non volevo cercarla, perché non avevo mai sentito un bisogno primario. Lo consideravo un pensiero piuttosto sensato, ma per Yoshiko non lo era. Lei era una delle persone più curiose che io avessi mai conosciuto. Mi aveva confidato che se fosse successo a lei, non avrebbe desistito un attimo ad andare in anagrafe per ottenere tutte le informazioni utili per trovarla. Se si fosse reso necessario, avrebbe persino ingaggiato un detective privato. Ma se una madre biologica non intendeva farsi trovare, perché insistere?
Ma nulla, Yoshiko era decisamente troppo cocciuta per afferrare il concetto e comprendere il mio punto di vista. Forse era anche per quello che mi affezionai in questo modo a lei. Perché lei era così diversa da me. Perché gli “opposti si attraggono”, almeno così si diceva da sempre.

Caro Bee,
come stai? Le giornate qui trascorrono inesorabili senza che io me ne accorga. Il tempo di aprire gli occhi e già vengo immersa in una routine tanto rigida quanto stretta. Non riesco a farmela mia e questo mi fa cadere nello sconforto.
Grazie al mio nuovo portatile ho avuto modo di navigare su internet e rintracciare diversi nominativi di detective che lavorano sul territorio giapponese. Non avrebbe certo senso trovarne uno in Inghilterra. Dobbiamo solo sperare che tua madre sia ancora qui. Ti allego un elenco di ciò che ho trovato.
Lo so, sono tutti piuttosto cari, ma penso ne valga la pena. Non vuoi conoscere il tuo passato? Io ne sarei curiosissima.
Ti è mai capitato di fantasticare su di lei? Dunque, conoscendo te come persona e, per quel poco che mi hai raccontato di tuo padre, mi verrebbe quasi da pensare che tu madre sia una donna dalla mente artistica. Ce la vedrei bene come professoressa di arte, che ne pensi? Oppure come musicista. Magari scopriamo che nella sua carriera ha cantato per la colonna sonora di qualche film famoso. Sarebbe straordinario, non credi anche tu?
Mia madre invece è una donna noiosa. Purtroppo nella mia famiglia vige ancora una visione piuttosto arretrata circa la gerarchia da adottare. Papà è l'uomo di casa, il suo unico mestiere è quello di lavorare e portare i soldi a casa per mangiare. A mamma tocca tutto il resto. Lei deve cucinare per noi tutti, riassettare casa ogni singolo giorno assicurandosi di pulire persino il pianerottolo oltre il nostro portone; deve fare il bucato con cadenza nei giorni pari. Ti prego, non chiedermi il motivo esatto di quest'azione, ma papà è un tantino fissato con queste cose. Sospetto un disturbo ossessivo compulsivo, ma non sia mai che io possa esternare una simile eresia! Insomma, papà lavora e mamma fa tutto il resto. A me pare tanto che qui l'unica persona ad indossare i pantaloni in casa sia proprio lei. Ma loro non ammettono questo genere di argomentazioni in casa, dicono che io viaggio troppo con il pensiero e che non riesco a tenere i piedi per terra. Sarà anche vero, ma proprio non riesco a capire cosa ci sia di male in tutto questo. Io non chiedo molto, solo essere me stessa. Possibile che questo non sia sufficiente per loro?
Starai ancora dormendo, perciò ti auguro la buona notte. Yo.

Con il trascorrere del tempo vennero a galla altri problemi ancora. Il fuso orario ci consentiva di scriverci solo in differita; d'altra parte io ero ben sette ore indietro rispetto a lei. Perciò quando io ero a scuola la mattina, lei era impegnata nei suoi mille programmi pomeridiani extracurricolari; viceversa quando qui era sera, lei si trovava già nel mondo dei sogni. Oppure mentre lei disponeva di un'ora libera a pranzo, io ero in procinto di svegliarmi per andare a scuola. Insomma, le nostre routine non combaciavano mai.
Le cose, purtroppo, andarono solo peggiorando. I suoi genitori le mettevano a disposizione il computer solo per studiare. Avevano attivato un programma di parental control con il quale monitoravano ogni sua azione e ogni suo utilizzo del portatile. Inutile dire che chat, programmi di messaggistica istantanea e simili, erano stati ampiamente cancellati dal suo dispositivo. Restava comunque l'email che, per quanto potesse emulare l'invio telematico di una lettera, ci consentiva per lo meno di rendere le nostre conversazioni quasi istantanee.
Le conservai tutte. Molte, con gli anni, addirittura le stampai e le inserì nella mia scatola dei ricordi.
Ogni tanto mi capitava di poterle riesumare e rileggere. Ovviamente, stampai le migliori, quelle che meritavano di essere conservate per un'intera vita.
Una di queste la conoscevo quasi a memoria. La lessi talmente tante volte, che potevo quasi recitarla ad alta voce come fosse una poesia di quelle imparate tra i banchi di scuola. Yoshiko era sempre stata una ragazza molto aggraziata, composta e riservata. Con me riusciva ad aprirsi molto e con gli anni aveva perso l'imbarazzo di dover tacere innanzi a situazioni che le creavano disagio. Nella famosa email in questione, Yoshiko si lamentava per essere stata messa in punizione dopo aver ricevuto un 98/100 nell'ultimo esame di matematica. E pensare che io, quella volta, ero già pronto a farle i miei complimenti per l'ottima votazione ricevuta. I suoi genitori invece pretendevano il massimo da lei e quei due punti di differenza non li ammettevano. Le avevano tolto tutto, persino la cena prima di andare a letto. Un'esagerazione che io stesso tutt’ora non ho mai capito. In effetti avevo sentito un gran vociare circa l'ordinamento scolastico giapponese, sicuramente molto superiore rispetto a quello inglese, seppur più severo e imperativo. Sta di fatto, che quella volta Yoshiko si era difesa non male con le parole. Aveva vomitato ogni suo pensiero riguardo famiglia e scuola che decisamente sembrava non far parte di lei.

Caro Bee,
perdonami per questa email, ma ho un bisogno quasi esasperato di sfogarmi con te.
I miei genitori sono i soliti insensibili dediti solo al lavoro e alle apparenze. Ho speso quasi un mese reclusa in casa per preparare uno stupido esame di matematica per poi ottenere 98/100, un punteggio degno di essere festeggiato, ma che, secondo i miei genitori, non vale più di una sufficienza. Mi sono sentita dire che sono una figlia ingrata, perché sai loro si ammazzano dalla mattina alla sera solo per potersi permettere la retta della mia scuola privata. Nessuno gliel'ha mai chiesto! Ingrata io? Sono loro che pretendono troppo da me. Ti giuro, mi piacerebbe così tanto tornare indietro nel tempo per vedere se alla mia età erano così perfetti da ottenere solo il punteggio massimo in ogni stupida cosa che facevano. Li odio! Mi infastidiscono così tanto quando fanno così.
Mio padre poi... mi verrebbe da imprecargli contro! Mi ha tolto tutto, mi ha messo in punizione per non aver ottenuto la lode in questo esame. Non posso più frequentare le lezioni di canto corale che mi piacevano tanto. Mi ha tolto l'accesso al pc, se non per studiare, ovviamente solo in sua presenza. Mi ha persino fatto trascrivere su un quaderno intero la frase: devo onorare sempre la mia famiglia. Ma stiamo scherzando?
Ti giuro, se potessi scappare di casa in questo preciso istante lo farei! Mi ospiteresti, vero?
Mio padre non capisce. Ha persino spintonato un mio compagno proprio fuori da scuola perché, a detta sua, invadeva il mio spazio personale. Non oso immaginare come potrebbe conciarti se scoprisse che mi hai baciata!
Mia madre è esattamente... quel genere di donna completamente succube a lui. Lei fa solo ciò che dice lui, pare quasi un essere non pensate. Giuro, se mai dovessi diventare quel genere di donna, ti prego, uccidimi prima!
Mio padre è soltanto un esaltato del... cavolo. Per non dire altro. Sono piuttosto convinta che lui sia talmente insoddisfatto della propria vita, che stia tentando di spronare me a raggiungere quelli che all'epoca erano i suoi traguardi. Ma a me questa vita fa schifo! Io non voglio vivere la loro vita, io voglio poter scegliere in autonomia. Voglio dire, neanche fossimo in un’epoca ancora così sessista, durante la quale l'uomo è colui che porta il pane in tavola e la donna è costretta a rifugiarsi nelle segrete di casa per adempiere ai propri doveri femminili, quali lavare a terra o stupidate varie.
Io voglio poter uscire come e quando voglio, vorrei tanto poter vedere il mondo in piena autonomia.
Se mai avrò un figlio, mi assicurerò di essere esattamente come NON sono i miei genitori. Questo è certo!
Perdona lo sfogo.
Mi manchi, come sempre. Yo.

Seppur quella email mi abbia strappato un sorriso, mi faceva star male vederla penare in quel modo. Non aveva spazio di manovra, ogni decisione veniva presa dai genitori e lei si ritrovava ad obbedirgli neanche fosse un automa. Insomma, in quell'occasione la sentì imprecare più e più volte, cosa mai successa prima d'ora.
Oppure in un'altra situazione, mi aveva sviscerato il suo amore improbabile per i panda, confidandomi di voler mollare la scuola per potersi occupare di certi villaggi che ospitano quegli animali in via di estinzione presenti proprio nelle sue zone. Un sogno alquanto singolare, devo ammetterlo, ma che mi faceva apprezzare ancora di più lei come persona.
Eppure, in ogni sua lettera ci metteva sempre qualcosa di suo. All'infuori di quella sfuriata fatta, non l'avevo mai sentita parlare male di nessuno.
Spesso mi domandavo come fosse possibile che una creatura così divina potesse avere dei genitori tanto... vorrei evitare di immergermi anche io in uno sproloquio nei loro confronti. Ma, caspita, se mi faceva imbestialire parlare di loro. Era solo a causa loro che Yoshiko si era allontanata da me fino a smettere di rispondere alle mie email. Già, dopo aver trascorso notti insonni pur di spendere anche solo cinque minuti del mio tempo nel comunicare con lei in diretta, mi ritrovai a sbattere la faccia contro un muro altissimo.

Ne parlai anche con mio padre una volta. Sono sempre stato un libro aperto per lui, non vi era neanche bisogno di aprire il discorso che lui tanto già sapeva. Ha sempre saputo.
«Figliolo, perché non ti siedi un attimo» disse mio padre in quell'occasione guardandomi dritto negli occhi.
Dal suo sguardo potevo benissimo intuire quale fosse l'argomento che voleva trattare con me in quel momento.
«Certo» risposi senza indugio sedendomi accanto a lui sul divano.
«Vedi figliolo, nella vita di ciascun ragazzo... ci sono persone che vanno e che vengono» iniziò dicendo «e sono tutte esperienze che servono ad arricchire il tuo bagaglio personale, che porterai sempre con te durante il lungo viaggio della tua vita».
Che pensiero profondo e noioso allo stesso tempo. Non ero mai stato bravo ad affrontare quel tipo di discorso.
«Okay...» gli risposi titubante con l'aria di chi ancora non aveva intuito dove volesse arrivare.
«Brent, certe persone... certe ragazze» aggiunse correggendosi con un colpo di tosse «potranno sembrarti uniche al mondo, ma non è detto che lo siano davvero».
Quella frase mi ferì. Il mio sguardo cambiò di colpo per tramutarsi in un broncio che trapelava il mio disaccordo.
«Lo so, figliolo, so cosa stai pensando» riprese non badando molto a me «la vita è in continua evoluzione e tu con lei. Gli amori giovanili sono sempre i più belli perché sanno lasciarti quell'impronta indelebile nel cuore che solo le prime esperienze sanno fare».
Mai verità fu più dolorosa.
«Purtroppo crescendo perderai l'entusiasmo di provare certi sentimenti per una donna» aggiunse «non ti auguro di ritrovarti come me, solo e sposato con il proprio lavoro. Ma vorrei capissi che lei non sarà né la prima, né la seconda o terza ragazza che conoscerai mai in vita tua. La senti così vicino a te perché è la prima volta che provi queste emozioni ed è normale, ed anche bello che tu lo faccia. Ma non voglio che per questo motivo tu ne rimanga scottato».
Ridacchiai divertito, mai mi sarei aspettato di incappare in un simile discorso con mio padre. Era un po' come affrontare il tanto temuto discorso assorbenti per le madri. Tutto sommato a mio padre era anche andata bene, immaginarmelo alle prese con tampax e simili sarebbe stato ancora più epico.
«Sì, papà, ho capito. Meno cuore, più testa, è chiaro dove vuoi arrivare!» risposi cercando di tagliare corto per l'imbarazzo.
«No, non hai capito proprio nulla!» mi rispose tirandomi una pacca amichevole sulla schiena «devi saper ben dosare le due cose, tanta testa, quanto amore».
Lo guardai incuriosito. Ancora una volta il mio viso assunse l'espressione ebete di chi ancora non aveva capito nulla.
«Il cuore serve a bilanciare i pensieri razionali della mente, senza di esso risulteresti un automa apatico» mi disse accennando un sorriso «ma il cuore non può esistere senza mente, altrimenti rischieresti di vivere una vita in balia unicamente dei tuoi sentimenti senza ponderare le scelte fatte».
Fu più forte di me, quel discorso mi trafisse come una freccia. Sicuramente sgranai gli occhi sconvolto, mio padre lo notò, ne sono più che sicuro.
«Quindi...» cercai di dire.
Lui mi anticipò «quindi lascia che la tua mente ti trascini ovunque tu voglia andare, ma non scordare di mettere il cuore in qualsiasi cosa tu voglia fare».
Sorrisi. Mai le parole di mio padre furono più efficaci di quelle.

Me le porto dietro tutt'ora. In ogni cosa che faccio ci metto testa e cuore, senza rinunciare né a uno né all'altro e la mia vita è perfetta così.

Poi avvenne l'inevitabile. Iniziò tutto con delle banali scuse. Aveva le prove con il coro domenicale. La musica era sempre stata una sua grande passione, come poterglielo negare, d'altra parte non ero nessuno per vietarle di frequentare quel corso. Poi vennero gli esami di fine corso, importantissimi anche quelli. Lo studio le rubava molto tempo libero. Infine, gli svariati sport ai quali era impossibile rinunciare: il tennis le rubava un'ora il lunedì e il mercoledì sera; la ginnastica artistica occupava ben due ore del venerdì subito dopo il corso di economia domestica; vi era poi il nuoto che frequentava la mattina un paio di ore prima dell'inizio delle lezioni. Il sabato e la domenica erano giornate sacre da passare in famiglia tra parenti alquanto discutibili e amici di famiglia che puntualmente la punzecchiavano parlando di scuola e futuro. Le lezioni scolastiche iniziavano presto la mattina e terminavano agli orari più assurdi concedendole giusto il tempo di tornare a casa, farsi una doccia e cenare.
Il tempo a me dedicato, generalmente, era intorno alle dieci di sera secondo il suo fuso orario, ovvero le mie tre di pomeriggio, nonché orario in cui, puntualmente, avevo gli allenamenti di calcio. Insomma, tutto era di ostacolo alle nostre comunicazioni. Non solo, quelle poche volte che non crollava a dormire - spesso capitava anche subito dopo cena - scriveva le email talmente di fretta da lasciarmi giusto due misere righe da leggere.
E pensare che spesso rincasavo dagli allenamenti con una voglia matta di poter leggere i suoi scritti. Certo, ero felice di poter ricevere ugualmente attenzioni da lei, conoscevo benissimo i suoi miliardi di impegni, eppure mi rattristava notare quanto fossero cambiati i suoi toni nei miei confronti.
E niente, in men che non si dica sparì dalla faccia della terra. Non so dirvi il perché, né come accadde. Successe e basta.
Sono piuttosto convinto che dietro la sua scelta, se di scelta si può parlare, vi fosse suo padre. Insomma, dall'oggi al domani lei smise di rispondere alle mie email.
E nulla, io dovetti imparare a vivere senza di lei. Almeno per il momento. Rimasi solo, privato di ciò che all'epoca ritenevo più caro.


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: giallo
Personaggi capitolo: Brent ed Isaac

Capitolo 3





Isaac Smith. Mio padre è sempre stato un mistero per me. Sono piuttosto convinto che nessuno sia mai stato in grado di comprenderlo fino in fondo. Ed io temo proprio di non essere stato da meno.
Insomma, non vorrei inscenare scuse patetiche su quanto un adolescente voglia restare rinchiuso in camera da letto ore ed ore della propria vita senza avere alcun contatto coi propri genitori, ma in effetti per me è stato così.
Forse era solo un pretesto per evitare discussioni imbarazzanti o domande scomode. Si sa, i genitori di figli adolescenti hanno questa grandissima perspicacia di uscirsene con le domande più disparate, nei momenti più inopportuni.

***

Le mie giornate erano caratterizzate dalla solita e monotona routine di sempre. La mattina la trascorrevo a scuola, nel pomeriggio vi erano gli allenamenti di calcio e canoa e la sera la dedicavo al mio sport estremo preferito in assoluto: schiva l'uomo. Già, quei pochi minuti che trascorrevo a casa con mio padre, mi parevano sempre una tortura. A cena, unico momento in cui non potevo certo voltargli le spalle, tenevo sempre lo sguardo rivolto sul tavolo. Tracannavo tutto ciò che avevo nel piatto alla velocità della luce. Non mi andava di imbattermi in lui. Purtroppo per me, io ero come un libro aperto per lui e, per fortuna, era “solo” un oncologo e non uno psicologo.
Odiavo le nostre cene insieme perché spesso se ne saltava fuori con alcune di quelle domande scomode e personali, quali “com'è andata a scuola, figliolo?”; oppure “ma quella ragazza che tanto ti piaceva, la senti ancora?”.
Sapevo bene che quei quesiti non avevano un fine specifico, me le chiedeva quasi fosse una routine farlo. Eppure mi sentivo a disagio e, in particolar modo, giudicato in base alle risposte date.
Una sera, non lo scorderò mai, successe qualcosa di sconvolgente: mio padre era rincasato da poco dopo un turno infinito di ben dodici ore in reparto. Era stanco, glielo si poteva leggere sul volto. Due profonde occhiaie sottolineavano il suo sfinito sguardo. Visto l'orario, erano già le dieci di sera, decidemmo di ordinare del fish and chips e di farcelo consegnare direttamente a casa. Mentre eravamo seduti a tavola, attaccò bottone come al suo solito, borbottando qualcosa a bocca piena -figliolo, com'è andata la giornata a scuola?-. Eccolo, ci risiamo.
Era stata una giornata infernale. Il professore di letteratura mi aveva interrogato a sorpresa, cogliendomi completamente impreparato. Perciò non ero dell'umore di parlarne, allora improvvisai l'improbabile -male, ho mandato a quel paese il prof e mi sono messo a ballare nudo sul banco-.
Lo ammetto, l'idea mi era seriamente balenata in mente, ma ovviamente mi ero limitato ad incassare il brutto voto e a chiudermi in un silenzio profondo al mio banco.
Mio padre, troppo assorto nella sua stanchezza e, probabilmente, nel rivangare la giornata lavorativa, mantenne lo sguardo fisso sulle patatine rimaste nel suo piatto, per poi rispondere -sì, bravo, hai proprio fatto bene-.
Sgranai gli occhi e lo fissai con uno sguardo misto tra stupore e divertimento. Probabilmente si sentì osservato, alzò gli occhi dal piatto fino ad incontrare il mio volto ilare e domandarmi -non ti ho ascoltato, figliolo, lo ammetto. Ho forse risposto con una fesseria?-.
Scoppiai a ridere compiaciuto. Per la prima volta, trovai le nostre noiose cene piuttosto divertenti.

***

Mio padre era quel genere di uomo che donava tutto sé stesso per gli altri. Sapete quel detto che dice, “ama il prossimo tuo, come te stesso”? Lui l'aveva preso alla lettera. Il suo lavoro ne era una dimostrazione.
Tutti in città lo amavano come un padre, un figlio, un nipote, come uno di famiglia. In ospedale riceveva sempre omaggi da tutti, pazienti, colleghi o semplici conoscenti. Era molto stimato per il suo lavoro.
Nonostante abbia un ricordo piuttosto sbiadito del suo funerale, non posso dimenticare la calca di gente che si era formata fuori dalla chiesa. Vi era metà cittadina presente. Nonostante toccò a me tenere il discorso di chiusura, durante i vari elogi funebri che tenne il sacerdote, molta gente salì sull'altare per piangere la sua morte. Conservo ancora nel cuore ogni loro parola. Fu descritto come un uomo dalla fede indistruttibile, dal talento innato nel proprio lavoro e dalla sottile sensibilità.
È vero. Penso di non poterlo descrivere diversamente. Forse un aggettivo lo si potrebbe aggiungere: paziente.

***

L'adolescenza arrivò di botto, senza bussare alla mia porta e senza chiedermi minimamente il permesso. E con essa arrivarono anche i problemi.
Inutile dire che ogni ragazza che mi ronzava intorno, mi faceva sentire importante tanto da farmi drizzare... i capelli. Mio padre cercò di attaccare bottone con me cercando di parlarmi di precauzioni e di sesso, ma fu piuttosto invano perché ogni volta cambiavo discorso o mi chiudevo in camera mia.
So bene di aver reso la sua vita un vero inferno in quel periodo.
A scuola potevo definirmi tranquillamente uno scapestrato. Per quanto cercassi di rigare dritto, c'era sempre un qualche compagno in grado di farmi sprofondare a terra. Nonostante la mia condotta riscuoteva l'ira di tutti i professori, il mio rendimento scolastico non si poteva definire poi così pessimo. Non ero molto portato nelle materie umanistiche, ma in quelle scientifiche ero un asso e nessuno era più bravo di me.
Purtroppo, però, questa mia grande attitudine alla fisica e alla chimica, venne prese di mira da alcuni miei compagni di calcio di qualche anno più grandi di me. Più volte mi capitò di finire gonfiato di botte per mano loro, ma non mi piegai mai alle loro richieste.
Sfortunatamente a 15 anni arrivò un nuovo insegnante a scuola, un certo signor Tips, per l'esattezza Dick Tips*. Mi ero promesso e ripromesso in più occasioni di non cacciarmi nei guai, ma ogni volta rimandavo il mio impegno per poter deridere quel professore.
-Mi scusi professore, ma quest'anno faremo ancora educazione sessuale?- domandai disturbando una noiosissima lezione di filosofia.
-Signor Smith, le sembra questo il modo di interrompere questa interessante lettura di Freud?- domandò scocciato il signor Tips.
-Beh, in realtà la trovo una domanda piuttosto attinente- risposi disinvolto.
-Freud va al di là della semplice lezioncina su come infilare un preservativo al manico di una scopa, non crede?- chiese con ira avvicinandosi al mio banco.
-In realtà non mi riferisco a Freud- sfoggiai un sorriso sfrontato in sua direzione -è attinente con lei, signor Dick Tips- dissi scandendo bene nome e cognome.
-Certo, certo, ridete pure- rispose l'uomo rivolgendosi alla classe che non era riuscita a contenere le risate -aggiungerei anche, perché non diventare preside di questa scuola? Il signor Head Master Dick Tips, celebre e famoso portavoce dei consigli del cazzo-.
Le risate vennero alimentate ulteriormente dalla sua battuta, facendoci piegare tutti sul banco.
-O meglio ancora, che ne dite di Lawyer Dick Tips, avvocato stimato di consigli del cazzo, perderei sicuramente qualsiasi causa- aggiunse nuovamente.
L'atmosfera si fece sempre più chiassosa e ilare, tanto che il professore, che teneva lezione nella classe accanto, dovette entrare da noi per chiedere di abbassare la voce.
Ad un certo punto, il nostro insegnante dovette sbattere una mano sulla cattedra per riportare l'attenzione su sé stesso e calmare le acque -grazie, signor Smith per questo splendido input che ci ha dato- disse infine indicandomi la porta -il preside Richards sarà lieto di invitarlo oggi pomeriggio ad una seduta extra di buone maniere-.
-Che cavolo...- sbuffai innervosito recandomi dal preside sicuro di sbattere per bene la porta alle mie spalle prima di uscire.

Inutile dire che da quel giorno il signor Tips mi prese di mira.
I miei voti oscillarono sempre intorno alla sufficienza risicata. Rimaneva comunque indubbia la mia attitudine allo studio, perciò non riusciva in nessun modo a sfilarmi l'insufficienza. Ciò nonostante, trascorrevo la maggior parte dei miei pomeriggi in punizione, spesso anche oltre l'orario ordinario delle lezioni, saltando anche gli allenamenti di calcio.
Il professore Burke, insegnante di fisica e matematica, un giorno venne da me per darmi una lezione di vita. Avrei voluto fuggire in quel momento, avrei voluto tapparmi le orecchie e scappare via di lì. Eppure il suo discorso, più avanti, avrebbe cambiato il mio modo di vedere il mondo.
-Brent, sei un giovane così brillante, con un padre che... beh, tutti noi conosciamo quanto sia in gamba. Non capisco, cosa ti spinga a comportarti in questo modo- domandò pacatamente, quasi conoscesse già la verità.
Feci spallucce e non replicai, facendogli intendere di non aver una risposta alla sua domanda.
-Sai, Brent, anche io alla tua età ero un tantino fuori dal coro. Mi definivano la pecora nera della famiglia. Mamma e papà erano due umili operai presso una fabbrica di scarpe da ginnastica, due persone dedite al lavoro, alla famiglia e alla chiesa. Esattamente l'opposto mio. Mi cacciavo spesso nei guai. Pensa, una volta sono anche finito in galera- mi disse il professore ridacchiando amaramente.
Strabuzzai gli occhi e lo guardai alzando un sopracciglio -non ci credo...- mi venne quasi spontaneo dirlo.
-Ed invece sì- rispose lui -un gruppo di ragazzi più grande di me mi sfidò a rubare una barretta di cereali da un supermarket ed io, testa dura com'ero, ovviamente lo feci-.
Si fermò a raccontare quell'episodio come se stesse mentalmente ripercorrendo ogni istante di quella sera criminale. Io lo guardai quasi incuriosito, pregandolo con lo sguardo di andare avanti, ma non ottenni risposta.
Ad un tratto il signor Burke si rivolse a me sorridendomi molto dolcemente -mi rivedo molto in te, Brent. So cosa ti spinge a comportanti in questo modo-.
Mentalmente imprecai e mi sforzai di pensare che non lo sapeva veramente, non poteva saperlo. Eppure i suoi occhi mi trasmettevano l'opposto.
-Non pensare che io sia nato ieri- mi disse ridacchiando -non è mia intenzione farti la paternale, ma sappi che se andrai avanti così finirai solo nei guai-.
Detto ciò si alzò e tornò alla cattedra per supervisionare l'aula punizioni.
Mi venne quasi istintivo guardarmi attorno e visionare chi condivideva con me quelle due ore di castigo.
C'erano due ragazze molto ambigue, che si scambiavano sguardi allusivi per poi istigare il professore leccandosi le labbra e facendogli versi piuttosto sensuali. Vestiti attillati, trucco pesante e molto marcato sugli occhi, gote infuocate e curve davvero niente male.
Un paio di banchi dietro loro, vi era un ragazzone grande e grosso con una cresta talmente alta da poter quasi toccare il soffitto. Chissà quante bombole di lacca doveva consumare al giorno per potersi conciare in quel modo. Piercing ovunque, sul labbro, sul sopracciglio destro, dilatatori ad entrambi i lobi delle orecchie e chissà che altre strane decorazioni metalliche poteva contare sotto i vestiti. Continuava a creare piccole palline di carta imbevute nella sua stessa saliva, da appiccicare schifosamente sotto il banco.
Poco più avanti di me, invece, vi era un ragazzo dall'aspetto piuttosto comune che sedeva con aria da strafottente. Gambe stese in avanti e appoggiate sopra al banco, braccia incrociate al petto ed una sigaretta spenta che ciondolava dalle sue labbra. Continuava a guardare nervoso l'orologio, probabilmente nell'attesa di poter finalmente scappare da quell'inferno per potersi prendere una boccata di nicotina.
Ultima, ma non meno importante, vi era una ragazza piuttosto alta e ben piazzata. La riconobbi subito, faceva parte del team di wrestling della scuola, ovviamente lei era l'unico membro femminile effettivo di quella squadra. Girava voce che fosse una tipa piuttosto violenta, la classica attaccabrighe della situazione. Perciò non mi stupì molto ritrovarla in aula con me.
Poi mi venne istintivo guardarmi. Non avevo vizi all'epoca. Non bevevo, non fumavo, non ero mai il primo ad alzare le mani seppur mi fosse capitato in più occasioni di partecipare a qualche rissa. Non avevo strani tatuaggi sul corpo, piercing o simili.
Perciò mi venne istintivo chiedermi “ma io qui dentro, che diavolo ci faccio?”

***

So che può sembrare assurdo ed eccessivo, ma Yoshiko aveva tirato fuori il meglio di me e senza di lei, non restava altro che un Brent vuoto.
Mi è capitato più volte di domandarmi come sarebbero andate le cose se lei fosse tornata o rimasta ad Exeter con me. Di una cosa, sono sicuro: sarei andato ugualmente bene a scuola e, proprio per questo, sarei stato comunque preso di mira dal solito gruppetto di teste calde della scuola. Eppure, mi piace pensare che grazie a lei avrei potuto superare quel periodo scolastico in maniera differente e magari, avrei fatto penare meno anche mio padre.
Ancora una volta mi ritrovo a pensare a lui, a quanto la sua educazione abbia influenzato la mia intera vita. Nonostante io l'abbia fatto impazzire e gli abbia creato dispiaceri e preoccupazioni, lui non mi ha mai abbandonato, non ha mai smesso di credere in me. Le sue punizioni spesso erano severe, ma oggi come oggi le reputo coerenti con l'atteggiamento che avevo all'epoca.

***

Solita cena, solita riunione padre e figlio, solito silenzio.
Come ogni pomeriggio, ero rincasato tardi proprio perché ero finito in punizione ancora una volta.
Mio padre ad un certo punto iniziò a tossire forte, quasi come se si stesse strozzando con la sua stessa saliva. Quando quel momento passò, appoggiò rumorosamente la forchetta sul piatto creando un assordante tintinnio che mi esplose nelle orecchie.
-Brent...- dichiarò ad un tratto fissandomi dritto negli occhi.
Il suo sguardo, la voce ferma e tesa, mi fecero subito capire che quella sera mi sarei beccato una gran bella lavata di testa. E così fu, in parte.
-Non ho le forze per litigare con te, non starò qui a sottolineare i tuoi errori o le tue mancanze. Non farò paragoni con il figlio dei vicini o con tuo cugino Simon- disse senza distogliere lo sguardo severo dal mio volto -non è una decisione che prendo alla leggera, né una cosa che faccio con piacere, ma i miei impegni e il mio lavoro mi obbligano a farlo. Perciò sappi che da domani inizierai a frequentare la U.K.M school-.
Lo guardai sbigottito -aspetta, vuoi forse sbattermi in una scuola preparatoria per fanatici della guerra, che per altro si trova a Liverpool?-.
Mio padre non cambiò espressione neanche per un istante -ho già preso contatti con il sergente Taylor ed è ben lieto di accoglierti nel loro programma nonostante sia già iniziato e siano a metà semestre-.
Mi alzai frustrato da tavola sbattendo le mani sul ripiano in legno e facendo cadere alle mie spalle la sedia -tu non puoi farmi questo!- gli sbraitai -non sei poi così diverso da mamma alla fine. Mi stai abbandonando, proprio come ha fatto lei!-.

Fu così che per quella sera mi rinchiusi in camera a fare le valige.

***

Non avrei mai voluto pronunciare quelle parole, lo giuro. Ma la rabbia del momento mi annebbiò la testa e mi fece dire tante di quelle cattiverie che nel corso degli anni mi sono rimangiato.
Papà appariva stanco e spossato in quel periodo, ma come potevo sapere che dietro la sua aria afflitta e sconfortata, ci fosse dell'altro. Non sapevo della sua malattia all'epoca, né lui aveva mai accennato di parlarmene.
Sono stato un pessimo figlio, ne sono consapevole.
Durante quel lungo periodo che seguì in quella scuola preparatoria, non ebbi mai modo di tornare a casa per rivedere mio padre. Ci sentivamo frequentemente al telefono e nel weekend ci concedevamo il lusso di fare una video-chiamata.
Sapete quando si dice che la distanza avvicina le persone? Mai frase fu più veritiera di questa. In mio padre trovai tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento. L'amore che avevo scoperto prematuramente grazie a Yoshiko, si era trasformato in un sentimento profondo ed autentico per mio padre. Finalmente lo vedevo con occhi diversi, con occhi maturi. C'era voluto un po' troppo tempo, ma per fortuna iniziai ad amarlo esattamente come più meritava. Insomma, meglio tardi che mai.
Il legame che ero riuscito ad instaurare con lui, andava ben oltre ciò che si potesse provare per una donna. L'amore era sì un sentimento intenso, ma non poteva competere con l'affetto che si provava nei confronti del proprio padre.
Per un lungo periodo, quindi, mio padre era riuscito a colmare il baratro che si era formato nel mio cuore a causa dell'allontanamento di Yoshiko.
Lui era sempre stato la mia ancora, la mia spinta a volermi migliorare, il faro che mi aveva guidato durante il periodo buio che avevo attraversato. E lo so, forse sto ingigantendo la cosa, forse sto esagerando a descrivere il mio rapporto con lui, ma ho amato quell'uomo come nessun altro al mondo. Peccato che me ne sia reso conto troppo tardi.

***

Era estate inoltrata, un periodo dell'anno che ho sempre amato in cui l'Inghilterra fiorisce e concede al resto del mondo di godere dei suoi splendidi scenari.
Tutti sono convinti che noi inglesi tendiamo ad andare all'estero in vacanza solo perché le nostre spiagge non sono all'altezza di molti altri paesi che affacciano sul mediterraneo. Niente di più falso. L'istinto che ci guida all'estero è dettato solo ed esclusivamente da una vivace curiosità e da un senso di voler conoscere il mondo e di volerlo visitare in qualsiasi periodo dell'anno.
L'Inghilterra propone moltissimi contesti stupendi da poter visitare in estate. Io, per esempio, ho sempre trascorso le mie vacanze sulla spiaggia di Exmouth, un piccolo borgo del Devon che dista solo dieci fermate di treno da Exeter, meno di mezz'ora di viaggio.
Quell'anno, contrariamente a quanto fatto nei precedenti, decisi di andare a Shelly Beach con mio padre per trascorrere insieme l'ultima settimana di Agosto prima del rientro a scuola e della ripresa delle lezioni.
Fu una settimana degna di nota, in cui io e lui ci aprimmo e riuscimmo a parlare tra di noi forse per la prima volta. E fu proprio per l'attenzione che riuscì ad avere nei suoi confronti, che finalmente fui in grado di notare alcuni particolari di mio padre piuttosto singolari.
-Certo che ti sei un tantino spelacchiato in testa, eh?- domandai scherzoso allungando il palmo della mano per accarezzare il suo capo ormai calvo.
-Eh, figliolo, gli anni scorrono anche per me, non sono certo immortale- mi rispose facendomi sorridere.
-Dovresti lavorare meno- gli dissi accennando alle sue occhiaie.
-Una splendida eredità di famiglia- sospirò aumentando il mio divertimento -prima o poi compariranno anche sotto i tuoi occhi, e allora smetterai di prendermi in giro-.
Quando mio padre si mise in costume innanzi a me, non potei non notare il pallore della sua pelle, il colore viola chiazzato presente qua e là su tutto il corpo, la vita stretta e asciutta e le gambe sottili e aguzze. La maggior parte delle sue ossa sporgeva sotto il sottile strato di pelle, il volto era scavato e smunto.
-Stai mangiando?- gli domandai preoccupato.
-Fatico a stare al passo con i turni- ammise lui indicando il suo addome -non ho mai molto tempo per pranzare o cenare e quel poco che ingurgito è cibo da fast food, tutto fuorché salutare-.
-Sai papà, potrà sembrarti assurdo, ma mi mancano le nostre bizzarre cene- ammisi distogliendo lo sguardo da lui per l'imbarazzo.
-Non ci credo- disse lui con tono ironico -mio figlio Brent Smith che mi fa una confidenza simile, è decisamente da annotare negli annali della storia inglese!-.
Risi a crepapelle non badando al mio cambio repentino di argomento. Fu quasi inconsapevole la cosa, eppure evitai di approfondire lo stato di salute di mio padre, come se fossi conscio di ciò che lo attendeva.

***

Se solo potessi tornare indietro, in quel giorno. Gli avrei chiesto perché aveva tutti quei lividi sul corpo, perché il suo fiato si accorciava ad ogni passo che faceva, perché la stanchezza lo affliggeva così tanto, lui che un tempo era così energico e attivo.
Come ho fatto a non notare che un male invisibile lo stava divorando da dentro? Come ho fatto a non riconoscere i chiari segni di una leucemia in atto?
Se solo potessi tornare indietro, lascerei tutto per tornare a stare con lui, per poter trascorrere con lui il restante tempo che gli rimaneva.
Eppure quell'estate lui non mi disse una parola, rubandomi in parte la libertà di scelta.
Non ho potuto scegliere di stare al suo fianco; io l'avrei fatto.
Non ho potuto scegliere di abbandonare la scuola per potermi prendere cura di lui; io l'avrei fatto.
Non ho potuto abbandonarmi al dolore e allo sconforto di ciò che a breve sarebbe successo; io l'avrei fatto.
Non ho avuto il tempo di piangerlo come sarebbe stato giusto fare; io l'avrei fatto.
Se avessi potuto barattare il mio corpo con quello di mio padre; io l'avrei fatto.
Ma ora non sarei qui, a raccontare la mia storia, la sua storia. Alla fine il posticipare l'inevitabile è stata di nuovo un atto di altruismo. Una scelta che mio padre ha fatto nei miei confronti, per evitare che io sprecassi altro tempo della mia vita senza trovare il mio posto nel mondo.

Ve l'ho detto io che quell'uomo è un qualcosa di speciale!






*Dick Tips. Il nome Dick e il cognome Tips sono piuttosto diffusi in America ed Inghilterra. La loro associazione, però, risulta piuttosto singolare, in quanto la sua traduzione letterale sta per: consigli del cazzo!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: rosso per presenza di scene erotiche
Personaggi capitolo: Brent, sergente Gamble, Sam

Capitolo 4





La U.K.M school è una scuola preparatoria per giovani uomini di successo. Il solo pensare al loro slogan, mi fa ancora raddrizzare i peli delle braccia. Rispetto, confidenza, disciplina, lavoro di squadra e una vita salutare: la scuola si basa su questi pilastri fondamentali.
Non che li trovassi eccessivi; sono piuttosto convinto che – effettivamente – ognuno di noi dovrebbe basare la propria esistenza su valori così importanti. Solo che, ad un primo impatto, ero quasi convinto di essere cascato nella classica scuola di fanatici militari.

Vi erano diversi corsi disponibili. Il primo era una sorta di campo estivo per giovani marmotte: un corso della durata di circa tre settimane, in cui potevano aderire bambini dai 5 ai 16 anni. All'apparenza poteva sembrare un piccolo mondo incantato, si entrava bambini e se ne usciva adulti. Ma la realtà, spesso, non rispecchia ciò che la mente vuole far credere. Insomma, ho visto bambini scappare a gambe levate e genitori ritirare i propri figli anche a distanza di poche ore dall'ingresso in sede.
Il corso che frequentavo io, però, era ben diverso. Si trattava di una scuola a tutti gli effetti; prevedeva, perciò, l'inizio delle lezioni i primi di Settembre, per poi terminare a metà Luglio con le famose “summer brain drain”. Le vacanze estive venivano definite in questa maniera scherzosa dai nostri professori, i quali erano convinti che il nostro cervello si svuotasse di tutte le nozioni assimiliate durante l'intero anno scolastico.
Nonostante all'apparenza potesse sembrare la classica scuola ad impronta militare stile film americano, fanatica e amante della madre patria, in realtà non era così severa e idealizzata. I corsi da frequentare erano piuttosto flessibili e, devo ammetterlo, molto interessanti. Vi erano tutte le materie base presenti nella mia vecchia scuola, in più vi erano sedute extra di allenamento fisico, meditazione, stretching mattutino e sport vari. Avendo ormai compiuto i 16 anni, avevo diritto ad entrare nell'Istruzione Terziaria, perciò potevo attingere ad un programma scolastico di tipo programmato.
Seppure in Inghilterra l'obbligo scolastico termini con il compiere dei 16 anni, una buona fetta di studenti non rinuncia al proprio diritto allo studio, perciò prosegue l'educazione fino al raggiungimento dei 18 anni, periodo in cui si aprono le porte per i corsi universitari.

Come ogni scuola inglese che si rispetti, anche la U.K.M school prevedeva un piano di studio flessibile. Vi erano alcune materie obbligatorie, come Inglese, Storia e Matematica, altre invece facoltative. Io avevo optato per materie per lo più scientifiche, concentrandomi sulla Fisica, la Chimica e dei corsi più pratici di Elettronica e Meccanica. Il percorso a cui ero stato iscritto si divideva in due parti. La prima parte prevedeva l'acquisizione di un mini-diploma in servizi pubblici di terzo grado, suddiviso in due anni scolastici. La seconda parte, al contrario, concedeva l'opportunità di ampliare i propri orizzonti, approfondendo le proprie capacità e abilità in ambito militare, così da introdurre meglio gli studenti ad un'eventuale carriera in divisa.
Gli orari scolastici erano meno serrati rispetto a molte scuole private, le lezioni iniziavano alle 9, per poi interrompersi a mezzogiorno con la pausa pranzo e riprendere per altre due ore il pomeriggio. Le attività ludiche e sportive, invece, si tenevano sempre nel tardo pomeriggio per consentire a chiunque di staccare dalle lezioni e dallo studio. Vista l'inclinazione militare a cui faceva appoggio la scuola, la mimetica era d'obbligo. Ma lo dovevo ammettere, ero un figurino con la divisa militare addosso e non passavo certo inosservato.
Visti i miei 16 anni suonati, oltre a scuola, studio e sport, per la testa iniziavo ad avere anche certe fissazioni per il corpo femminile. La maggior parte delle ragazze dell'accademia erano magre e slanciate, un vero e proprio spettacolo da ammirare. Purtroppo però la mia mente guardava sempre al passato e, nonostante fosse già trascorso un anno dall'ultima volta che avevo sentito Yoshiko, il mio pensiero tornava sempre a lei.
Scoprì di essere più imbranato di quel che pensavo con le donne. Avete presente quelle scene classiche, stile film giovanile, in cui il protagonista si ritrovava a sbattere la faccia contro un palo per strada, solo perché troppo intento a guardare una ragazza? Beh, a me successe ben tre volte. Oppure mi capitò anche di scivolare giù per l'intera tromba delle scale, proprio perché Samantha Elliots mi aveva sorriso.
Sam era uno schianto di ragazza. La classica donna inglese dalla pallida pelle, capelli setosi biondo cenere, occhi di ghiaccio e sedere ben imbottito. Insomma, impossibile non notarla. In realtà non aveva una gran fama a scuola. In molti la prendeva in giro per la sua mascolinità: le piaceva il calcio, frequentava spesso la sala giochi, correva con i go-kart e pretendeva di essere trattata come tutti i ragazzi presenti in accademia. Un carattere sano, senza ombra di tutto. Io la vedevo esattamente così, come una donna forte, che voleva farsi rispettare, azzerando la disparità sessuale che spesso vigeva nel mondo militare. Ed era proprio per questo suo modo di agire controcorrente che iniziai ad invaghirmi di lei.

I nostri dormitori erano suddivisi in alloggi che potevano ospitare fino ad un massimo di quattro persone. Era come vivere in un piccolo villaggio turistico, in cui ogni gruppetto di giovani aveva il suo bungalow in cui stare. Nonostante lo stampo visibilmente maschilista, le abitazioni erano state organizzate in maniera tale da ospitare una coppia di ragazze ed una coppia di ragazzi. A detta dell'ufficiale in carica, era un modo come un altro per abituare entrambi i sessi a condividere luoghi pubblici e privati senza imbarazzo. Inutile dire che il bagno era ovviamente in comune, così come lo era l'unica camera da letto data in dotazione. Una specie di loculo umidiccio in cui vi era un unico comodino per quattro e due letti a castello in ferro battuto. Gli alloggi lasciavano abbastanza a desiderare, ma nell'insieme non era poi così male.
Indovinate con chi avevo avuto il piacere di condividere quei pochi metri quadri? Ovviamente con Sam. Insieme a noi vi era anche una ragazza ormai quasi maggiorenne, una certa Ellis Greene, ed un ragazzotto alle prime armi piuttosto basso e tarchiato di nome Maurice Sanders. Sam non fu mia coinquilina sin da subito. Inizialmente stava in un'altra abitazione, solo più tardi mi confessò di essere stata verbalmente molestata da uno dei suoi vecchi coinquilini. Fu per quel motivo che riuscì a farsi cambiare di camerata.
Purtroppo vivere sotto lo stesso tetto non mi fu di grande aiuto. Ogni qual volta cercavo di attirare la sua attenzione, mi cacciavo immediatamente nei guai. Era più forte di me, più cercavo di apparire carismatico, più finivo per fare la figura del fesso. Una volta sono addirittura riuscito a pulirmi il sedere con una foglia di ortica in mancanza di carta igienica. Inutile dire che mi ero ritrovato a trascorrere mezza giornata nell'ambulatorio dell'infermiere Karl a culo all'aria con chissà quale crema spalmata sopra. Oppure, in un'altra occasione, diedi fuoco al patio esterno mentre tentavo di affinare le mie abilità culinarie, nel vano tentativo di arrostire uno spiedino su un barbecue improvvisato. Tutto questo perché avevo detto a Sam di saper cucinare. Che idiota.
Insomma, nonostante io cercassi come sempre di tenermi lontano dai guai, pareva quasi che fossero i guai a prediligere la mia compagnia. Sapevo di essere uno particolarmente attraente, ma non fino a quel punto.

I primi mesi li trascorsi serenamente. L'anno precedente ero stato costretto da mio padre a frequentare solamente gli ultimi tre mesi, prima dell'interruzione delle vacanze estive. Inutile dire che non ero riuscito a stringere amicizia con nessuno. Per di più mi era toccato sostenere il GCSE, ovvero il diploma di fine scuola secondaria.
Dopo aver trascorso l'estate al mare con mio padre, avevo capito che non ero nelle condizioni di recargli altri dispiaceri e pensieri. Perciò avrei voluto rigare dritto e procedere a testa china, passando inosservato.
Riuscì persino a raggiungere le vacanze autunnali indenne – nove giorni di puro relax trascorso a casa in solitudine – in quanto mio padre si era ritrovato, come sempre, a gestire turni impossibili. A Novembre, però, quando tornai a Liverpool, scoprì che Sam si era trasferita da noi ed i miei ormoni impazzirono, tanto da non concedermi più un attimo di tregua. Mi sentivo come un leone in gabbia, violato nella propria libertà.
Da allora fu tutto diverso e mi ritrovai a finire sempre più spesso nei guai.

-Signor Smith, la sto forse annoiando con questa lezione?- mi domandò il professore, trovandomi per l'ennesima volta con lo sguardo perso fuori dalla finestra.
-No- risposi io imbarazzato.
-No, cosa?- mi domandò piuttosto scocciato.
-No, signore- aggiunsi.
-Molto bene, ora sparisci e porta il tuo culo dal Sergente Gamble, non ho tempo da perdere con te- rispose allungando un braccio ed incitandomi ad uscire dall'aula.
Mi alzai a fatica dal banco scontrandomi con lo sguardo divertito di Sam, che dovette portarsi una mano al volto per soffocare le risate.
Quel gesto così semplice, così femminile, mi riportò alla mente Yoshiko. Con un velo di tristezza raccolsi la giacca e mi allungai verso il corridoio per poi ritrovarmi davanti alla porta del preside di quel posto.
Bussai energicamente ed entrai con scarso entusiasmo.
-Signor Smith, che piacere. Iniziavo quasi a preoccuparmi, sono trascorse ben 72 ore dalla scorsa volta che ti ho visto- mi salutò il sergente con sarcasmo.
Mi immolai davanti a lui, salutandolo come un buon soldatino e rimanendo ben fermo in posa.
-Brent, appoggia il culo sulla sedia ed ascoltami bene- mi disse mentre cercava di accendersi una sigaretta.
Ridacchiai divertito puntando lo sguardo sul cartello che vietava di fumare presente alle sue spalle. Il sergente colse subito l'ironia del mio sorriso e si voltò fino ad osservare lui stesso l'avviso. Si girò verso di me e mi mostrò un grosso sorriso sornione -il bello di essere il capo, sta proprio nel poter fare quel cazzo che mi pare-.
Alzai un sopracciglio sorpreso dalle sue parole, ma d'altra parte aveva ragione lui. Lui aveva sempre ragione.
-Ascolta Brent, ormai mi fai visita un giorno sì e un giorno no, perciò ho deciso di sospendere tutte le tue attività per il prossimo mese- mi disse inebriandosi con l'odore di nicotina che fuoriusciva da bocca e naso.
Io spalancai gli occhi e mi agitai furioso -no, non posso essere sospeso, mio padre ci rimarrebbe malissimo. La prego, mi dia un'altra possibilità, giuro che non combinerò più casini-.
Il sergente ridacchiò di gusto alle mie parole. Chissà quante volte avrà sentito dire certe fesserie dai suoi studenti. Peccato che io ero più che serio.
-Vedi Brent, il problema è proprio questo. Tu sei qui solo per tuo padre e non per te stesso- mi rispose scaricando il residuo della propria sigaretta dentro il posa cenere -conosco i ragazzi come te, non riuscirai mai a concludere nulla all'interno di questa scuola se non ti imponi di volerlo fare per te stesso e non per gli altri-.
Io lo guardai sbigottito senza riuscire a fiatare alcuna risposta. In effetti era vero, io ero lì per mio padre, non certo per me.
-Ho parlato con il Dottor Smith il weekend scorso- strabuzzai gli occhi nuovamente non aspettandomi una confessione simile -e ho scoperto che ti piacciono gli aerei, vero?-.
Il mio sguardo si inebetì innanzi a quella domanda -sì, è vero, ma che cosa c'entra questo?-.
Il sergente scoppiò in una grassa risata e si alzò dalla cattedra per poi avvicinarsi a me. Mi appoggiò una grande mano sulla spalla e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio.
-Vorrei mostrarti una cosa. Vieni- mi disse scortandomi in un'ala della scuola che non avevo mai visitato.
Arrivammo davanti agli alloggi privati dei professori. Sicuramente dovevo apparire piuttosto smarrito e confuso, perché sul volto del sergente vi era un sorriso divertito.
-Prego, accomodati- mi disse invitandomi ad entrare nella sua stanza privata.
Quando varcai la porta, mi trovai in una stanza piuttosto cupa e maleodorante. Vi erano ceneri di sigaretta sparse più o meno ovunque, libri appoggiati alla bene meglio su un qualsiasi ripiano pianeggiante, fotografie ammatassate sulla scrivania, tanto da crearne una pila alta quasi un metro. Sorrisi all'idea di potermici avvicinare solo per dargli una soffiata e far cadere tutto a terra. “Infantile”, pensai.
-Vedi, Brent, tuo padre mi ha parlato moltissimo di te. Mi ha detto che hai sempre sofferto per la mancanza di tua madre. E che nella tua discrezione, non hai mai osato chiedere nulla sul suo conto- disse catturando la mia attenzione -lui è convinto che questa tua grande dote di metterti nei casini, sia solo un inconscio modo di attirare attenzioni che, al contrario, non hai mai ricevuto in infanzia-.
Se c'era una cosa che detestavo, erano gli estranei che tentavano di psicanalizzarmi. No, non ero un attaccabrighe, ero solo un ragazzo abbonato alla sfortuna perenne, ma vaglielo a spiegare.
-Sergente, non vorrei risultare inopportuno...- cercai di dire senza però alzare lo sguardo dal pavimento.
-No, lasciami parlare, ti prego- mi interruppe lui -vedi Brent, ti ho portato qui per un motivo preciso. Non ho deciso di sospendere le tue attività curricolari solo per infliggerti una punizione. I ragazzi che vengono qui hanno per lo più trascorsi sereni, seppur tutti abbiano la concezione che questa scuola serva a mettere in riga giovani scapestrati. Noi non obblighiamo nessuno a restare qui, le nostre porte sono sempre aperte, sia in ingresso che in uscita-.
Finalmente trovai il coraggio di alzare lo sguardo, incuriosito da ciò che stava dicendomi.
-Prima di congedarmi dall'esercito e venire ad insegnare in questa scuola, io ero un pilota di cacciabombardieri- mi confessò attirando la mia completa attenzione -posso dire di aver avuto un'esperienza veramente eccellente in aviazione-.
Il mio sguardo si illuminò e mi incantai ad ascoltare la storia della sua vita. Il sergente mi spiegò cosa lo aveva spinto a fare il militare e da dove nasceva la sua passione per quei maestosi velivoli che trovavo raffigurati persino nei quadri appesi per tutta la sua stanza.
-Vorrei mostrarti una cosa, seguimi- e detto ciò mi scortò fuori dall'edificio, per poi incamminarsi verso la boscaglia che precedeva la spiaggia. Camminammo non più di 5 minuti fino a raggiungere un piazzale adibito all'atterraggio di elicotteri di salvataggio e velivoli leggeri.
-Questo è Piton, il mio biposto. L'ho comprato un anno dopo il congedo con onore. Non riuscivo a star lontano dal cielo. È come un istinto primordiale, sento la necessità di sorvolare l'oceano, le vallate e tutto ciò che mi circonda anche se non sono più in servizio da anni ormai. Volare mi fa sentire vivo qui- disse indicandosi il petto e alludendo al proprio cuore.
In quell'istante non riuscì a fiatare. Ero come incantato dal suo racconto e più ascoltavo le sue parole, più mi trovavo d'accordo con quanto diceva e lo sentivo molto vicino a me.
Mi venne istintivo allungarmi verso il suo velivolo per poterlo ammirare più da vicino. Prima di potergli toccare il muso, trattenni il fiato e, ad occhi chiusi, allungai un braccio fino ad appoggiare l'intero palmo della mano sul suo metallo gelido. Assaporai il contatto che ebbi con quel mostro volante e rimasi in silenzio ad assaporare quel momento a me sacro. Ad un certo punto percepì un formicolio sul dorso della mano e, quando aprì gli occhi, mi ritrovai dinnanzi allo spettacolo della natura più bello di sempre: a camminare leggiadra sopra la mia mano vi era una farfalla. Ma non un lepidottero qualsiasi, bensì una maestosa monarca. Il mio cuore in quel momento schizzò a mille e rimasi agghiacciato ad osservarla. I ricordi si fecero prepotenti nella mia mente e la memoria mi riportò al passato ancora una volta, a quel giorno in cui tentai di catturare quell'insetto tanto maestoso.
Quando ritrassi la mano, mi aspettavo che la farfalla sarebbe volata via ed invece, con mio grande stupore, rimase ben salda alla mia mano sbattendo lievemente le ali. Fu allora che sorrisi al pensiero che stesse tentando di cospargermi di polverina magica. Guardai la farfalla e poi l'aereo che avevo davanti a me e poi di nuovo la farfalla.
Che fosse un segno del destino? O forse la vita si stava prendendo gioco di me ancora una volta?
Il mio perenne ottimismo mi fece propendere per la prima opzione. Avvicinai il piccolo insetto alato al volto e gli sorrisi sussurrando un -grazie-.
La farfalla accolse i miei ringraziamenti e si alzò leggiadra in volo accennando un paio di giro intorno al mio volto, per poi allontanarsi da me danzando e giocando con il vento.
-Sergente, so perché mi ha portato qui- dissi voltandomi finalmente verso l'uomo che mi aveva fatto scoprire un mondo nuovo -ma non capisco cosa l'ha spinta a fare tutto questo per me-.
-Io ero esattamente come te, ragazzo mio- mi disse sorridendo e avvicinandosi a me fino ad appoggiarmi una mano sulla spalla -ma ho avuto una guida che ha sempre creduto in me e che mi ha indirizzato fino a qui-.
Sorrisi come se mi avessero appena rivelato il segreto della vita.
-Da domani ti voglio concentrato e determinato, perché avrai il piacere di fare lezione direttamente con il sottoscritto- mi disse indicandosi con entrambe le mani e ammiccando soddisfatto -e non accetto un no come risposta!-.
Quel giorno conobbi il mio mentore. A lui devo tutto ciò che sono diventato. Lui mi ha dato una cosa che fino ad ora solo mio padre mi aveva concesso: la fiducia.


Con lo scorrere del tempo imparai moltissime cose sull'aviazione. Il sergente Gamble mi fece comunque studiare tutte le materie base del mio corso, ma si concentrò maggiormente sulle nozioni utili per entrare nell'aviazione militare.
La RAF, Royal Air Force, era l'aeronautica militare del Regno Unito. Mi ero quasi convinto di volerne far parte. Amavo volare, amavo i motori e tutti gli assetti militari e amavo soprattutto l'idea di poter avere una mia indipendenza.
Avevo passato al vaglio ogni possibile opzione. Avrei potuto fare il pilota di aerei da trasporto passeggeri, di soccorso o di rifornimento. Ma la verità era che nulla poteva competere contro il sogno della mia vita, ovvero il poter pilotare un Eurofighter Typhoon, uno splendido esemplare di bimotore di quarta generazione. Al contrario del cacciabombardiere classico, non aveva un impiego strettamente militare. Si tratta di un velivolo multiruolo in grado di sfrecciare oltre il cielo con due procedure differenti. In modalità di attacco, questo velivolo era in grado di impedire ai bombardieri nemici di raggiungere il suolo inglese, spesso distruggendo gli aerei nemici prima ancora che raggiungessero il loro obiettivo. In modalità difensiva, al contrario, creava una sorta di barriera in volo che concedeva la supremazia aerea della propria nazione.
Ero consapevole che mi sarebbe stato impossibile pilotare proprio quell'esemplare che tanto amavo. In effetti erano stati messi a disposizione solamente 160 modelli negli ultimi sedici anni; ma ero fiducioso e sapevo che prima o poi, scalando quell'invalicabile gerarchia militare che vi era dietro, avrei raggiunto la vetta e, di conseguenza, mi sarei accaparrato la possibilità di pilotarne uno.
Il sergente Gamble mi spiegò che le forze aeree erano suddivise in più gruppi. Vi era un primo gruppo caratterizzato da tutte le forze aeree d'attacco; un secondo di difesa; un terzo si occupava della coordinazione degli attacchi; un quarto era deputato all'addestramento delle nuove reclute; un quinto al supporto aereo; infine il sesto organizzava le spedizioni di esplorazione. Il sergente aveva iniziato la gavetta all'interno del sesto gruppo, per poi far carriera fino a poter scegliere di stanziarsi nel terzo gruppo. Mi raccontò di essere nato per dare ordini, perciò trovava perfetto il poter coordinare le operazioni di attacco.
-Tu a quale gruppo vorresti appartenere, invece?- mi domandò curioso quel giorno.
-Non saprei- risposi ancora confuso mentre fissavo il quaderno con gli appunti.
Tutti i gruppi contavano allo stesso modo, non vi era un ordine di importanza.
-Mi piacerebbe molto appartenere al sesto- dissi infine.
-Un esploratore, quindi- affermò il mio mentore portandosi una mano sotto il viso e sfregandola per bene contro il mento -capisco-.
Lo guardai incuriosito, domandandomi se ci fosse nulla di male nella mia scelta.
-In effetti, ti ci vedo bene- aggiunse infine -sei un ragazzo molto impulsivo e sfrontato, non hai paura del pericolo e ti piace abbracciare nuove avventure con coraggio-.
Sorrisi divertito, in poche parole era riuscito ad inquadrarmi perfettamente. Mi guardai le mani come se per un istante percepissi una certa forza in esse -è come se il pericolo mi facesse sentire vivo, l'adrenalina viene pompata nelle mie vene ed io mi sento imbattibile-.
-Torna coi piedi per terra, Brent. Ti ricordo che fare l'esploratore non significa gironzolare per i cieli come fossi in vacanza. Nelle missioni si muore. Nessuno ne è esente- mi disse tarpando il mio entusiasmo.
-In ogni caso- aggiunse cambiando argomento -dobbiamo essere preparati. Ti voglio concentrato e determinato, perché si tratta di un percorso che solo pochi eletti si possono permettere. Non basta avere il fisicaccio per entrare a fare il militare. Ci vuole testa, passione e cuore-.
-La nostra prima tappa è qui- disse puntando il dito su una cartina posta alle sue spalle -la scuola di Shawbury. Penso una delle migliori scuole di aviazione del paese-.
-Immagino già che ci sarà da sudare per entrare- commentai sconsolato e alzando gli occhi al cielo.
-Fossi in te non mi preoccuperei- disse il sergente piazzandosi innanzi a me -con un mentore come me, non puoi assolutamente fallire-.
L'idea di andare a vivere in un paesino dimenticato dal mondo non mi allettava moltissimo, ma era anche vero che avrei ridotto le distanze con mio padre.
-Sai, ragazzo mio, mi disse il sergente ammiccando -ti farò sputare sangue pur di entrare in quella scuola. Perciò, se vuoi un consiglio da uomo a uomo, fossi in te mi troverei un bel diversivo in questo periodo, sai, giusto per allentare la pressione-.
Non colsi subito il senso di quella frase, ma quando quel giorno incontrai Sam a casa, tutto fu più chiaro.

Samantha Elliots era la ragazza più strana che io avessi mai conosciuto. Era bella, veramente bella, una di quelle bellezze naturali che tutti si giravano a guardare. Allo stesso tempo sembrava appartenere ad un altro mondo. A lei non importavano i trucchi o i vestiti, non che fosse di rilievo la cosa, alla fine in quella scuola vi era l'obbligo della mimetica. Eppure, nonostante il candore della sua pelle, gli occhi da cerbiatta profondi come pozze blu, aveva sempre quel modo di fare mascolino. Era rissosa, mamma mia se era rissosa.
Una volta a scuola dovetti persino salvarla da un paio di ragazze che le murarono la via per il bagno. La accompagnai in quello dei maschi facendole da guardia del corpo per evitare che nessuno potesse entrare mentre lei utilizzava i servizi. Per fortuna non vi era questo problema in casa, il bagno era condiviso. Non disse una parola per tutto il giorno, né mi ringraziò mai per il gesto.
La stessa sera, però, si avvicinò a me con fare furtivo. I nostri due compagni di bungalow stavano già dormendo. Io non riuscivo a prendere sonno, ero troppo assorto nei miei pensieri. Ero adagiato sul patio esterno con lo sguardo puntato al cielo, sognando di poter fluttuare leggiadro in aria. Quando lei si avvicinò a me, ero talmente assorto nei miei pensieri, da non accorgermi della sua presenza. Ed ecco che feci l'ennesima figuraccia cadendo rovinosamente dal patio sul prato umido, bagnandomi per altro i pantaloni.
Sam sorrise quella volta. Era la prima volta che potevo ammirare la sua dentatura perfetta, non più nascosta dalla mano. Quel suo gesto innaturale e fastidioso di coprirsi la bocca quando rideva, mi portava regolarmente alla mente Yoshiko.
Mi alzai dal prato e sorrisi imbarazzato, portandomi una mano dietro la nuca e grattandola maldestramente.
-Non ti avevo notata- le dissi.
-Già, ho visto- mi rispose lei avvicinandosi a me e porgendomi una mano -fai due passi?-.
Rimasi piuttosto sorpreso da quella richiesta, ma accettai senza indugio. Ero impacciato e molto nervoso all'idea di trovarmi da solo con lei. Camminammo per una buona decina di minuti fino a raggiungere la spiaggia più vicina alla scuola.
Sam si avvicinò alla riva raccogliendo un sasso da terra per poi lanciarlo energicamente verso il mare. Lo guardammo colare a picco, dopo aver prima effettuato un paio di rintocchi sulla sua superficie.
-Io sono strana secondo te?- mi domandò all'improvviso.
-Tu, cosa?- chiesi preso contropiede.
-Ti sembro una strana?- chiese nuovamente alzando il tono di voce.
-Io, ecco...- dissi balbettando.
Samantha era l'opposto di Yoshiko. Lei era bionda con occhi azzurri ghiaccio, era impavida e sfacciata, non aveva alcun timore di esternare le proprie emozioni o i propri pensieri. Non conosceva il pericolo e, anzi, spesso ci si buttava contro come se non temesse alcuna ripercussione. Lei era tosta, forte ed estremamente indipendente. Yo era scura di capelli e con gli occhi profondi ed espressivi, era timida e molto introversa, spesso tremava come una foglia innanzi a tutto ciò che era fuori dall'ordinario e apriva bocca solo se sicura di poterlo fare. Era molto cauta e studiava attentamente la situazione prima di poter muovere i primi passi verso qualcosa di sconosciuto. Insomma, completamente diverse tra loro.
-Tu sei diverso dagli altri- disse poi lei tornando a guardare il mare.
-Cosa te lo fa pensare?- le domandai trovando finalmente il coraggio di rivolgerle la parola.
-Sei l'unico che non ha mai tentato di infilarsi nelle mie mutande- rispose con sguardo fisso in avanti.
Il suo volto pareva inespressivo e più la guardavo, meno riuscivo a leggere la sua espressione.
-È un modo carino per chiedermi se sono gay?- domandai confuso aggrottando la fronte.
-È un modo carino per chiederti perché ancora non ti sei fatto avanti- rispose lei fronteggiandomi.
-Ho un'altra per la testa- mi venne subito da rispondere.
Mi diedi dello stupido e cercai di scacciare via Yoshiko dai miei pensieri.
-Sei sempre così, tu?- domandò Sam avvicinandosi maledettamente a me.
-Così come?- le chiesi piuttosto impacciato.
-Non so- rispose lei chiudendo a fessura gli occhi per osservarmi meglio -sembri sempre assorto nei tuoi pensieri-.
Samantha mi fronteggiò con grinta e poggiò il palmo della sua mano sulla mia fronte -chissà cosa c'è qui dentro-.
-Vorrei saperlo anche io- risposi quasi sussurrando. Chiusi poi gli occhi e mi maledì per la seconda volta quella sera.
-In ogni caso, per quel che vale, ti trovo interessante- mi rispose dandomi le spalle e iniziandosi a spogliare.
-Che fai?- le domandai nel panico più totale, notando che non si era fermata all'intimo.
La bionda sfilò tutti gli indumenti per poi gettarli malamente sulla spiaggia e voltarsi ammiccando -seguimi-.
Si gettò in acqua senza alcun pudore, non preoccupandosi minimamente di essere vista da qualcun altro sulla spiaggia.
Cosa le faceva pensare che l'avrei rincorsa nelle acque gelide del Mar d'Irlanda nel bel mezzo della notte, per altro completamente nudo e senza freni inibitori? Ma nel momento in cui la mia mente finì di riflettere su ciò, il mio corpo si era già svestito di ogni abito. Mi ritrovavo così ad osservarla nuotare nuda sotto il cielo stellato ed una luna particolarmente tonda e grande. Come un ebete, rimasi impalato sulla spiaggia completamente disarmato e con le mani che reggevano quel poco di mascolinità che era rimasta intatta in quel momento.
-Forza, che aspetti!- mi incitò Sam mentre sguazzava gioiosamente in acqua.
Imprecai fino a mordermi la lingua, per poi muovere i miei primi passi verso le gelide acque nordiche. Immersi il piede destro per poi venir colto da una ventata di aria glaciale. Guardai ancora una volta Sam. In quel momento mi tornarono alla mente le parole del mio mentore circa l'allentare la tensione e trovare un “diversivo”. Raccolta finalmente una manciata di coraggio, mi buttai a capofitto nel mare, schizzando ovunque e bagnandole i capelli.
-Finalmente, ce n’è voluto di tempo per convincerti- asserì Sam divertita.
-Allora- disse avvicinandosi a me con sguardo malizioso -cosa abbiamo qui?- domandò portando sott'acqua le mani.
Sussultai al suo tocco e subito mi ridestai. Chiusi gli occhi e il volto famigliare di Yoshiko si fece strada tra i miei ricordi. “Maledizione”.
Dopo Yo, avevo sì avuto qualche relazione occasionale, scambi di baci, qualche effusione più intima, ma nulla di più. Samantha era diversa da tutte le altre ragazze con cui ero stato finora. Lei era di una sfrontatezza inaudita. Quasi mi sentivo a disagio in sua presenza.
Avevo solo 16 anni compiuti all'epoca, ma mai fino ad allora avrei pensato di poter perdere la verginità in quel modo.
Lo so, sono un uomo di altri tempi, me lo dicono tutti. Rimango tutt'ora dell'idea che l'amore si possa trovare in una persona sola in tutta la vita. In effetti per Sam non era amore, ma solo attrazione.
Era ormai mezzanotte. Lei era completamente disinibita davanti a me. Le onde del mare cullavano la nostra armonia e ci trascinavano sempre più vicini, fino a quando i nostri corpi nudi cozzarono tra di loro. Sentì un fremito ripercorrere la mia schiena, giù fino alla mia zona più calda.
-Non ho mai fatto sesso con nessuno- mi confidò lei guardandomi negli occhi.
Non sapevo cosa risponderle. In realtà non ero neanche sicuro di voler essere lì in quel momento. Ma il mio corpo tradiva la mia mente e una lotta interiore scoppiò violenta in me. La testa mi urlava di scappare finché ero in tempo, ma la mia erezione era già dritta sull'attenti pronta a sprofondare in lei.
-Neanche io- le risposi iniziandola a baciare.
Lei non si ritrasse, anzi, iniziò ad esplorare la mia bocca con una voracità assurda. Mi prese il volto tra le mani, strofinando i polpastrelli sui miei capelli ormai zuppi. La sentì ansimare e respirare a fatica. Poi, ad un tratto, sentì un'ondata di caldo pervadermi in basso, ma quando guardai giù, notai solo le sue cosce avvinghiate al mio bacino. Era senza pudore, sfrontata e accattivante. E tutto ciò mi eccitava maledettamente
In quel momento la mia testa si divise dal mio corpo, non letteralmente parlando. Ma è come se i miei pensieri fluttuassero a Yoshiko, mentre pian piano iniziavo ad esplorare il corpo di un'altra donna. Mi diedi dello stronzo, lo ricordo bene.
Quando tornai in me, ancora non avevo oltrepassato il confine della sua verginità, perciò mi bloccai di istinto guardandola negli occhi e domandandomi cosa diavolo stessi facendo. Ma lei si strinse forte alle mie spalle e mi supplicò di farlo.
-Ne ho davvero bisogno- mi disse quasi piangendo.
Non sapevo che fare, non sapevo come muovermi, non mi ero mai trovato in una situazione simile.
Chiusi gli occhi per poi riaprirli pochi secondi dopo. Sul suo volto immaginai dipinto quello di Yoshiko e con una spinta unica entrai in lei senza trattenermi più.
Lei imprecò, si dimenò sotto il mio tocco, per poi conficcare le dita nella mia carne.
-Non smettere- mi disse con voce dolorante.
E più la mia mente si sforzava di mantenere il controllo e di badare la mia forza, più il mio corpo sbatteva contro il suo con fin troppo vigore.
Era forse questo fare l'amore? Lo sapevo io e lo sapeva anche Sam che questo era sbagliato. Era sesso e niente di più.
Fu così che persi la mia verginità, nel modo più meccanico possibile, seguito ed inseguendo istinti quasi primordiali. Non ci scambiammo uno sguardo, né una parola di conforto. Lasciammo che i nostri corpi godessero l'uno dell'altro senza vincoli sentimentali.

Quando raggiungemmo la spiaggia Sam non staccò gli occhi da me neanche per un istante.
-Ti ha fatto così schifo?- mi domandò rimettendosi la maglietta.
La guardai confuso, domandandomi perché avesse quel dubbio.
-No, io...- dissi ancora in preda a mille emozioni.
-Stavi pensando ad un'altra, dico bene?- mi domandò ridacchiando.
-No!- mentì.
-Sì- ribatté lei.
Mi morsi il labbro inferiore.
-Tranquillo, anche io stavo pensando ad un'altra- mi disse dandomi le spalle e facendomi cenno di rientrare a casa -ma lei non può darmi quello che puoi darmi invece tu-.
Rimasi imbambolato sulla spiaggia, ancora mezzo nudo, a fissare la sua figura che si allontanava nell'ombra della notte.
Mi guardai intorno sconcertato, insicuro di non aver ben capito le sue parole.


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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: giallo per presenza di tematiche delicate
Personaggi capitolo: Brent, Isaac, sergente Gamble, Sam

Capitolo 5





Nonostante la confessione implicita che Sam mi aveva fatto, tra di noi non era cambiato nulla. Continuavamo ad ignorarci in pubblico, per poi finire ad esplorare la nostra sessualità in completo silenzio e lontano da occhi indiscreti. Sapevo che tutto questo era sbagliato. Era sbagliato che lei non volesse fare coming out dichiarando il proprio orientamento sessuale; era sbagliato che io me ne stessi zitto in silenzio, lasciandola fare e quasi approfittando della situazione; era sbagliato che la nostra fosse solo una messa in scena, una finta relazione segreta; era sbagliato che nessuno dei due volesse parlarne con l'altro; ed era soprattutto sbagliato il pensiero secondo cui, oggigiorno, una giovane ragazza non potesse esprimere la propria sessualità senza il timore di venire additata dalla gente come un'eretica.
Era nato tutto come un gioco, per me lei era un diversivo allo studio, mentre io per lei non ero nient'altro che un escamotage per fingersi etero, quando in realtà non lo era. Perché, nonostante noi cercassimo di staccarci dal gruppo la sera e di nascondere la nostra tresca, le voci giravano veloci a scuola e tutti già sapevano che tra di noi vi era un rapporto piuttosto carnale.

Una sera, però, esplosi e decisi di parlarne faccia a faccia con lei.
-Sam, forza, seguimi- dissi afferrandola per il braccio e trascinandola sul retro del bungalow.
-Quanta fretta che hai, Brent- mi disse masticando rumorosamente la gomma che aveva in bocca -hai tutta questa voglia stasera?-.
Le lanciai uno sguardo piuttosto truce, tanto da riuscire a zittirla in un istante.
-Non ce la faccio più ad andare avanti così- le dissi facendola finire spalle al muro e parandomi davanti a lei con le braccia conserte -cosa sono esattamente per te?-.
Sam dapprima spalancò gli occhi - sicuramente presa contropiede - per poi trattenere una risata alquanto divertita.
-Cielo, Brent! Non ti facevo così sentimentale- disse sghignazzando -non so quale sia stato il tuo trauma infantile, ma, cavolo, se ti ha segnato la cosa-.
Feci per ribattere sciogliendo le braccia e aprendo la bocca, quando lei si scaraventò sulle mie labbra iniziando a divorarle. La allontanai da me quasi con disprezzo, confuso dalla sua risposta -Sam, è proprio questo che non va-.
Questa volta fu lei a tentennare nell'udire le mie parole.
-Perché fai così? Perché tenti sempre di... eccitarmi, quando sappiamo benissimo che non è me che vuoi!- avevo finalmente trovato il coraggio di ribellarmi a quella malsana relazione -non sono scemo, cosa credi. Ho visto benissimo come guardi Cassandra Blake-.
A quel nome, Sam si inalberò e si fiondò su di me coprendomi la bocca e azzittendomi -ti prego, non così ad alta voce-.
Distolsi la mano di Sam dalla mia bocca, fino ad osservarla e capire che avevo perfettamente centrato il punto.
-Se qualcuno dovesse scoprirlo...- i suoi occhi si annebbiarono e per un istante non la riconobbi.
Sam era sfrontata, disinvolta e disinibita. Il suo carattere forte non si piegava neanche sotto lo sguardo più severo e non si faceva mai mettere i piedi in testa da nessuno. Ma era evidente che quel discorso l'aveva scossa nel più profondo. La sua voce tremava e con essa anche le sue braccia.
Mi avvicinai meglio a lei fino a racchiudere le sue piccole mani nelle mie -ti hanno fatto del male?-.
Lei mi guardò con i suoi occhi profondi -chi?-.
Alzai le spalle -non lo so, qualcuno, magari!-.
-No, non ha niente a che fare con questa scuola, non così direttamente per lo meno- mi disse scostando lo sguardo e riprendendo fiato -mio padre è un predicatore di Dio. Credo di non dover aggiungere altro-.
Alzò gli occhi al cielo, facendoli roteare in maniera piuttosto scocciata.
In quel momento mi sentì uno stronzo, ma non riuscì a trattenere una risata malvagia -lesbica figlia di un reverendo?-.
Lei mi tirò un pugno piuttosto potente al petto, facendomi per un istante mancare il fiato. Mi piegai in due per il dolore. Con la coda dell'occhio notai che Sam stava cercando di divincolarsi dalla mia presa, perciò l'allentai senza però concederle la libertà.
-Frena, frena- dissi riprendendo il controllo del mio corpo, per poi fronteggiarla ancora una volta -mi dispiace, non era mia intenzione essere così stronzo-.
Lei scostò il capo di lato e cercò di nascondere una piccola lacrima che, gelida e solitaria, cercava di scendere sul suo volto. Fu allora che mi sentì scosso nell'anima e capì che lei non era fatta di ferro, non era immune alle mie parole. Avevo trovato il suo punto debole e non era certo da me approfittarne in quel modo.
-Sam- sussurrai cercando di attirare la sua attenzione -ti prego, guardami-.
Le poggiai una mano sotto il mento, costringendola a voltarsi verso di me e guardarmi dritto negli occhi.
-Il tuo segreto è al sicuro con me- le dissi facendomi una croce sul cuore -ti prometto che non dirò nulla a nessuno-.
Lei rimase per un attimo a fissarmi. Il suo sguardo magnetico trapassò le mie pupille, come a volere entrare dentro di me fino a leggermi nell'anima. Trattenni il fiato, come se stessi attendendo la mia ora.
Lei aprì la bocca e finalmente mi confidò tutto -a me piacciono le ragazze e non i ragazzi. Ma mio padre è un uomo di fede e di vecchia veduta, non accetterebbe mai una figlia lesbica in casa. Sarebbe come tradire la sua fiducia-.
-Così, però, tradisci te stessa ed i tuoi sentimenti- dissi di getto.
-Come se già non lo sapessi- sbuffò divertita -non dovrei mentire al mio cuore e dovrei essere più sincera con i miei genitori, meglio?-.
Scoppiai a ridere e feci spallucce -non lo so, meglio?-.
Lei si unì alle mie risate ritrovando il buonumore -ecco, è proprio per questo che ho scelto te, Brent. Sei l'unico ragazzo della scuola che non mi ha mai trattata diversamente dalle altre. Non sei uno sporco maschilista e, se non fosse stato per me, non ti saresti mai infilato sotto i miei vestiti-.
-E' un onore essere scelto da una lesbica per assecondare i suoi istinti sessuali, mentre, scopandomi, pensa ad un'altra donna. Questo è esattamente ciò a cui ho sempre aspirato!- non era da me uscirmene con frasi tanto sarcastiche, ma non riuscì a trattenermi e, per una volta dopo tanto tempo, mi sentì finalmente me stesso.
Lei mi diede una spallata amichevole e disse -che sfortuna venir sbattuto da una delle ragazze più sexy dell'accademia, eh?-.
Istigatrice, fu tutto ciò che mi venne in mente in quel momento. Però non aveva certo tutti i torti, il sesso con lei era perfetto e non potevo certo lamentarmene.
Non potevo non notare, però, che ogni volta che lo facevamo, lei teneva regolarmente lo sguardo fisso al soffitto.
D'altra parte era solo sesso. Lo sapevo io e lo sapeva benissimo anche lei.

I mesi a seguire furono tra i migliori della mia vita.
Io e Sam avevamo instaurato una relazione veramente unica. Certo, era tutto basato su una menzogna e ne ero consapevole però, in un certo senso, vi era un legame vero e proprio che ci univa. Io ero diventato il suo confidente e cavaliere dall'armatura scintillante, e lei era il famoso diversivo di cui avevo tanto bisogno.
Le lezioni private con il sergente Gamble stavano portando i loro frutti e, per la prima volta da quando avevo abbracciato l'adolescenza, stavo rigando dritto. Insomma, avevo una finta fidanzata etero, che in realtà era lesbica, che mi regalava indimenticabili nottate di fuoco, un professore che buttava anima e corpo sul mio apprendimento ed un padre amorevole su cui contare, che si faceva sentire con una certa costanza. Eppure, sentivo che mi mancava ancora qualcosa. Per quanto Sam si fosse rivelata fantastica con me, per me non era abbastanza. Mi mancava l'amore e, perché no, mi mancava il romanticismo.
Sono un uomo, non dovrei dedicarmi a tutte queste smancerie - Sam mi aveva rimproverato già abbastanza su questo - ma fa parte del mio essere e non riesco a farne a meno.
Lo stare insieme a Sam aveva portato i suoi frutti. Prima di tutto, gli altri ragazzi della scuola avevano smesso di additarmi come uno sfigato. Perché, siamo sinceri, a scuola non ero certo il più popolare. Mi avevano allontano dai corsi, venivo seguito privatamente dal sergente in persona, neanche fossi figlio suo, e, fino ad allora, nessuno mi aveva mai visto in gentil compagnia. Almeno finché non era comparsa Sam nella mia vita.
Consapevole che la mia fama era solo l'ombra di ciò che in realtà ero, trascorsi gli ultimi mesi nella popolarità. Finalmente tutti mi salutavano per i corridoi. Molti ragazzi mi davano il cinque anche senza conoscermi. Più tardi scoprì che Sam aveva alimentato la mia fama, facendo circolare certe voci piccanti sul mio conto, su quanto fossi ben messo e sulle mie capacità sotto le lenzuola. In quel momento, tutto di me urlava sesso. La mia nuova pettinatura, tipica alla militare, rasata ai lati con una bella cresta di pochi centimetri che si reggeva fiera sul mio capo; il mio nuovo fisico, scolpito dai duri allenamenti programmati con il sergente; la mia pelle, finalmente non più color latte, ma fortemente abbronzata; la mia altezza, che nell'arco di un anno aveva raggiunto il metro e novanta. Insomma, mesi intensi dedicati al mio corpo, alla mia mente e alla mia carriera.
Conclusi l'ultimo semestre ottenendo i punteggi più alti del mio corso. Gamble era molto orgoglioso di me. Un anno ancora e sarei potuto entrare nell'esercito. E lui non era il solo. Mio padre non aveva potuto assistere alla consegna dei diplomi, ma mi aveva chiamato la sera stessa piangendo al telefono dalla gioia. Un atteggiamento che mi aveva colpito parecchio, poiché non tipico di lui.
E con il concludersi dell'anno accademico, finalmente si aprì l'estate e la possibilità di tornare a casa per ben due mesi e mezzo. Avrei potuto rivedere mio padre, svagarmi un po', andare al mare e magari mangiare un po' di quel fish and chips cucinato dalla bancarella ambulante presente in fondo alla nostra strada, che tanto mi piaceva.
Feci i bagagli, salutai Sam in maniera plateale con tanto di bacio davanti a tutti, genitori compresi, e presi il primo treno per tornare a casa.

Ci vollero circa cinque ore di viaggio ed uno scalo a Birmingham, prima di poter rincasare. Alla stazione non venne a prendermi nessuno, ma già ne ero al corrente. Perciò, raccolsi il mio borsone, me lo caricai in spalla e mi incamminai verso casa. Per fortuna dovetti camminare solo per una quindicina di minuti e, visto le ore trascorse seduto in treno, non mi diede poi così noia potermi sgranchire le gambe.
Avevo già in mente il programma della serata: cena con mio padre, probabilmente meno imbarazzante del solito, visione di un bel film d'azione, trasmesso rigorosamente in seconda serata, ed una bella dormita nel mio letto, il tutto non prima delle due di notte.
Nel passeggiare verso casa, dopo aver attraversato tutta Western Way, presi un paio di svincoli fino a raggiungere il Quay. Le mie gambe si fecero d'un tratto molli e con la mente iniziai a divagare nei lontani ricordi che avevo di quel posto. Ed ecco che, come per magia, mi si parò davanti una figura alta e snella, dai lunghi capelli neri e lisci. La guardai meglio, mi dava le spalle. I miei occhi si riempirono di speranza e le mie gambe iniziarono a camminare da sole. Quando mi avvicinai a lei, misi una mano sulla sua spalla, costringendola a voltarsi verso di me. Seguì la delusione di aver solo incontrato una ragazza che le assomigliava tanto, ma che, purtroppo, non era Yoshiko. Lei mi guardò stranita, mi scusai e tirai dritto imbarazzato come non mai. Mi diedi un colpetto alla tempia e feci retromarcia verso casa maledicendomi.
Com'era possibile che, a distanza di tutti quegli anni, la mia mente ancora mi giocasse quegli scherzi? Mi venne istintivo specchiarmi nella vetrina di un negozio a lato della strada, per domandarmi cosa avrebbe pensato lei di me. Poi scossi il capo e procedetti dritto lungo la via. Stavo con Sam, o almeno così facevamo credere. Ero un ragazzo diverso rispetto a quello di pochi anni prima. Non ero sicuro che sarei ugualmente piaciuto a Yoshiko in queste vesti.
Mi diedi del patetico, perché, per quanto mi sforzassi di apparire risoluto e forte, in realtà ero solo un debole ancorato ad un vecchio ricordo amoroso. Anzi, con il tempo mi accorsi che stavo idealizzando la figura di Yoshiko più del previsto. Non l'amavo veramente, ma amavo l'idea che mi ero fatto di lei. Ed era impossibile non pensare a lei come un metro di paragone. Sarà stato per quel motivo che mi ritrovavo ad avere una finta relazione con una ragazza omosessuale.
Mentre il flusso dei miei pensieri non mi dava tregua, tanto da provocarmi un simpatico mal di testa, raggiunsi casa. Non ebbi neanche modo di cercare le chiavi, perché, stranamente, la porta d'ingresso era già aperta.
Entrai guardando subito l'orologio: erano solo le due del pomeriggio. Eppure mio padre sarebbe dovuto essere a lavoro.
Un signore dalla salute cagionevole si avvicinò all'ingresso, pregandomi di chiudere subito la porta per evitare correnti d'aria.
Il mio sguardo rimase fisso su quella figura che mi si parava davanti. Non avevo mai visto mio padre così stanco, così spossato e insofferente. Non è mai stato un uomo dalla folta chioma, ma la sua testa ora era coperta solamente da una fine peluria ramata. Gli occhiali mascheravano il suo sguardo affaticato, ma lasciavano ugualmente intravedere due occhiaie marcate che gli contrassegnavano il volto. Alto, giusto qualche centimetro in meno a me, ma smunto e sciupato nell'aspetto, avvolto in un pigiama di almeno due taglie più grandi. A completare il suo aspetto vi era il colore della sua pelle, bianco, pallido e a tratti violaceo. Sembrava un fantasma.
Avevo già avuto qualche sospetto l'anno prima, durante l'estate trascorsa insieme al mare, ma non avevo mai avuto il coraggio di approfondire l'argomento con lui. Tutto andava per il meglio finalmente, perciò la mia mente in quell'anno scolastico si era rifiutata di voler pensare al peggio. Purtroppo però, la tua situazione era più critica del previsto e un dolore lancinante stava per imbattersi nella mia vita.
-Papà...- sussurrai con un filo di voce.
-Figliolo, ben tornato a casa- mi disse avvicinandosi a me e abbracciandomi calorosamente.
Lo scostai forse con troppa irruenza, notando subito che il suo mancato equilibrio lo stava facendo cadere a terra. Allungai un braccio e afferrai la sua maglia, aiutandolo a rimanere in piedi.
-Scusa- dissi di getto spaventandomi per l'accaduto -io non volevo-.
Mi sorrise e non disse nulla.
Mi accompagnò in cucina ma, prima di raggiungere la stanza, mi soffermai in salone dove avvistai una scena dell'orrore. La sala era stata adibita a camera ospedaliera. Vi era un grande lettino di quelli elettrici che hanno la funzione di alzare ed abbassare sia lo schienale che il poggiapiedi. Insieme ad esso vi erano tanti altri strani macchinari, uno più rumoroso dell'altro. Potevo distinguere il trespolo della flebo, il respiratore artificiale, siringhe sigillate e sterilizzate in apposite confezioni sul tavolo, insieme ad una combinazione di farmaci e ad un apparecchio in grado di registrare il battito cardiaco. Nonostante mio padre fosse un medico, non mi ero mai interessato a nulla di tutto ciò.
La domanda più spontanea sarebbe stata “papà, cos'hai?” ed invece riuscì solo a chiedergli -quanto ti resta?-.
I suoi occhi si fecero lucidi, ma trattenne comunque le lacrime -un mese, forse due-.
Avrei potuto abbracciarlo, baciarlo, fargli sentire il mio calore ed il mio affetto. Ed invece strinsi il pugno talmente forte da farmi male ed uscì rapido dalla stanza fino ad oltrepassare la porticina sul retro. La mia testa si mosse veloce a destra e sinistra, lo sguardo impazzì e gli occhi rotearono furiosi alla ricerca di un qualsiasi oggetto da distruggere.
Quel pomeriggio sfasciai gran parte dell'arredo esterno che avevamo. Quando rincasai, circa mezz'ora più tardi, mio padre non osò chiedermi nulla.
Mi aspettavo una cena di rientro silenziosa, ma mai come quella. Più il tintinnio delle posate si faceva assordante, più la mia rabbia ribolliva dentro di me.
-Perché?- domandai furioso guardandolo dritto negli occhi.
Vidi il suo sguardo triste e sconfortato, e capì che si sentiva in colpa.
-Vedi, Brent. Avrei voluto dirtelo prima, ma ho sempre sperato di riuscire ad uscire da questo tunnel da solo- mi disse appoggiando le posate sul piatto -circa tre anni fa ho scoperto di soffrire di una forma piuttosto comune di leucemia. Ho fatto della radioterapia e della chemioterapia. Ma le mie difese immunitarie sono calate drasticamente e il mio lavoro in ospedale non è stato d'aiuto-.
Con l'avanzare del suo racconto, mi accorsi di star piangendo come un bambino. Mi guardai le mani tremanti, per poi concentrarmi di nuovo su di lui che, in silenzio, tentennava sul da farsi.
-Perché?- domandai nuovamente -perché non me lo hai voluto dire! Non sono più un bambino. Io... avrei potuto esserti vicino, piuttosto che sprecare il mio tempo a scuola-.
-Non sarebbe cambiato nulla, figliolo- mi disse portandosi una mano sulla fronte -avresti solo perso tempo prezioso, badando a me-.
-Tu non sei e non sarai mai tempo perso per me- dissi esternando forse per la prima i miei sentimenti per lui.
Entrambi ci ritrovammo nel silenzio più totale.
-Ed ora?- domandai verso di lui senza alcuna speranza.
-Ed ora godiamoci la splendida estate che ci aspetta, figliolo- mi rispose sorridendo.

***

Non so dirvi quanto quel mese significò per me. Vorrei raccontarvi che tutto andò per il meglio, che i medici trovarono una cura miracolosa e che guarì come d'incanto. Purtroppo non andò così. Nulla di tutto ciò andò per il verso giusto. Morì esattamente 37 giorni dopo.
Ma di lui conservo ancora un ricordo estremamente bello, perché in quel mese, consci della precarietà della situazione, ci godemmo ogni istante della reciproca compagnia.
Purtroppo mio padre in quel mese ebbe alti e bassi. La cosa migliore da fare, probabilmente, sarebbe stata quella di farlo ricoverare in ospedale, magari sedarlo con un po' di morfina, giusto per attenuare il dolore cronico. Lui, però, non volle ed io non contestai la sua scelta.
Sapete quando si dice che i medici sono i peggiori pazienti al mondo? Santissime parole! Non era stato molto diligente in quel periodo, lo devo ammettere, ma per lo meno aveva conservato la lucidità fino all'ultimo, il che mi permise di averlo per me e di poter godere della sua presenza fino all'ultimo. Impossibile dire che in un mese recuperammo il rapporto degli ultimi anni, ma - lo ammetto – scoprì in lui non tanto un padre amorevole - quello già lo sapevo - ma un amico con cui aprirmi.

***

-E così, figliolo, sei cresciuto- disse una sera allungando gli occhi maliziosi e ridacchiando tra un colpo di tosse e l'altro.
-Papà, che schifo, no!- gli dissi sicuro di non voler affrontare quell'argomento con lui.
-Beh, hai sedici anni, non ci trovo nulla di male- mi disse appoggiando il capo sul cuscino vaporoso del suo letto.
Lo guardai con la coda nell'occhio, in parte tentato all'idea di poter parlare con qualcuno di Samantha, in parte restio a farlo. Era pur sempre mio padre!
Fu lui allora a cogliermi completamente impreparato -io ho perso la verginità a 14 anni-.
La birra che stavo sorseggiando mi andò di traverso. Mi tirai un paio di colpi al petto cercando di riprendere il controllo sul mio corpo. Gli occhi balzarono fuori dalle orbite e non riuscì a non trattenere una risata divertita -papà!- dissi ancora una volta.
-Figliolo, è fisiologico, che vuoi che ti dica!- rispose lui riprendendo fiato.
Ogni parola per lui era una fitta incredibile. Annaspava come poteva, l'aria pareva non essere mai abbastanza.
Ero seriamente intenzionato a dirottare l'argomento, magari parlando del tempo o di sport, ma poi mi voltai incuriosito verso di lui e mi venne spontaneo chiedergli -seriamente 14 anni?-.
Mio padre scoppiò nuovamente a ridere, probabilmente perché era già convinto che avrei abbassato l'ascia di guerra, o forse solo colto alla sprovvista -cosa vuoi che ti dica, Brent, ero un ragazzino precoce- mi rispose ilare.

***

Ricordo benissimo che in quel momento la mia mente divagò ancora una volta, fino a ripercorrere i miei tormentati quattordici anni. Tormentati, si fa per dire. In realtà, fu un periodo grandioso per me, perché conobbi Yoshiko. Mi capita spesso di ritornare indietro a quel giorno e ritrovarmi a pensare che forse, se non l'avessi mai conosciuta, non mi sentirei così bloccato con le altre ragazze. È come se il mio cuore fosse stato rapito da lei e non riuscissi ad andare oltre.

***

-E di questa Sam, che cosa mi dici?- mi domandò mio padre riportandomi al presente.
-Samantha?- domandai posizionandomi meglio sulla sedia posta accanto al letto di mio padre.
La mia reazione fece intendere a mio padre che ero sì disposto ad intraprendere questo arduo argomento con lui ma che, allo stesso tempo, non mi sentivo molto a mio agio in quei panni.
-Samantha è lesbica, papà- fu tutto ciò che riuscì a dire.
Lui mi guardò confuso per poi abbozzare un sorriso -hai perso la verginità con una ragazza lesbica?-.
Girai subito il capo verso di lui per poi lanciargli un cuscino in faccia -ma smettila!-.
Lui ridacchiò divertito ancora una volta, lanciando a sua volta il cuscino sul fondo del letto -suvvia, Brent, non te la prendere con il tuo vecchio e malatticio padre. Piuttosto racconta, sono davvero curioso-.
Lo osservai di sbieco intuendo il suo forte sarcasmo. Per una volta lo guardai dritto nei suoi occhi scuri, per poi riflettermi in lui trovando grandi somiglianze.
-Non sapevo fosse...- non ero mai stato molto bravo con le parole e anche in quell'occasione andai nel panico. Non volevo risultare omofobo, non lo ero affatto. Ma al contempo ero poco informato su quale fosse il termine più corretto per indicare la sua scelta sessuale, senza risultare un fanatico religioso che inforcava un'arma contro gli omosessuali. Insomma, mi soffermai per un istante ed esitai nella scelta del termine.
Per fortuna, mio padre mi venne incontro -... lesbica?-.
Lo guardai confuso -sì, ecco, io non so bene come chiamarla-.
Mio padre appoggiò una mano sulla mia spalla e mi sorrise -chiamala semplicemente Samantha-.
Mi misi una mano sul volto e imprecai contro me stesso sottovoce.
-Che altro mi sai dire su di lei?- mi domandò.
-Beh, Samantha è di Oxford e ha esattamente tre giorni più di me- risposi sorridendo al suo ricordo -è una delle migliori allieve a scuola, una patita delle armi e ha una mira eccezionale-.
-Straordinario. Una ragazza brava a sparare!- rispose mio padre quasi sarcastico.
Finsi di non notare il suo tono ilare e proseguì a parlare di lei -è molto bella, nonostante non voglia che glielo si dica. Le piace il rugby, il canottaggio e la granita all'arancia-.
Mio padre annuì con il volto -e a letto?-.
Questa volta, la birra, al posto di andarmi di traverso, schizzò fuori dalla mia bocca fino ad inondare il suo viso.
-Papà, cazzo!- urlai rivolto tra un misto di risate e imprecazioni.
-Che diavolo di farmaci ti stanno dando per renderti così...- non mi venne subito il termine.
-Disinibito?- rispose lui alzando una scatoletta azzurrina dal suo comodino -in ogni caso ti conviene approfittarne ora del tuo vecchio, mio caro Brent, perché un domani non potrai più godere di queste mie perle di saggezza-.
Alzai lo sguardo e lo fissai inebetito per un istante.

***

Seppur io non abbia mai avuto modo di aprirmi molto con mio padre, dovete sapere che quei rari e trascorsi momenti di trasparenza tra di noi, erano comunque tenuti a bada da un comportamento molto riservato da parte sua.
Perciò non ero abituato a sentirlo parlare così liberamente, senza alcun filtro.
In quel mese e mezzo trascorso a stretto contatto con lui, conobbi mio padre nel più profondo dell'anima. Fu un rapporto esclusivo il nostro.
Purtroppo non durò molto e, come mi abituai alla sua costante presenza, dovetti abituarmi anche alla sua improvvisa scomparsa.
E lo devo ammettere, da allora niente fu più lo stesso.
Dovetti imparare a vivere senza di lui.
Vi assicuro che sopravvivere ad un genitore alla sola età di 17 anni è dura, perché non si hanno ancora le basi per poter affrontare di petto la vita come viene nonostante, al contrario, agli occhi dello stato tu sia già un uomo completo, quasi maggiorenne ed indipendente.
Perciò venni colto da una solitudine incolmabile e venni lasciato solo da tutti e da tutto, ad affrontare una vita che agli occhi di un adolescente appare insormontabile.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Non sono solita fare grandi premesse, ma vorrei ringraziare Jadis per avermi accompagnata nel coming out della mia splendida Sam.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: arancione per presenza di scene di natura sessuale esplicite
Personaggi capitolo: Brent, sergente Gamble, Sam

Capitolo 6



Quando mio padre morì, mi trovai innanzi ad un bivio: avrei potuto tornare nella mia vecchia scuola e proseguire i miei studi nella mia città natale; oppure, avrei potuto riprendere in mano quello sprazzo di sole che mi aveva baciato negli ultimi mesi e tornare in accademia. Seppur possa sembrare una scelta molto difficile, per me fu quasi scontato decidere quale strada intraprendere.
Guardai quelle quattro mura che per anni furono testimoni di mille avvenimenti, cene imbarazzanti, litigate furiose e, perché no, pianti, sorrisi e rinascite. Quella casa aveva accolto ogni mio cambiamento, scoprendo ogni lato del mio carattere e accogliendo ogni sfumatura del mio umore altalenante. Non era un addio, ma, chiudere quel portone alle mie spalle, fu quasi struggente. Sapevo di uscire da lì per non tornarci più, per lo meno non a breve.
Appoggiai una mano su quella ruvida superficie legnosa dipinta di verde scuro, serrando gli occhi e volendo quasi rinchiudere al suo interno ogni mio ricordo legato a questa casa -addio- sussurrai flebilmente. La mia mano scivolò lungo l'intera facciata in mattone dello stabile, come a volerla accarezzare, fino a distaccarsi da essa mantenendo però vivo il ricordo di tale tatto. Diedi le spalle alla casa che mi aveva accolto praticamente da sempre, per poi incamminarmi verso la stazione, pronto a riprendere la mia vita in mano. Destinazione U.K.M. School!

Quando rientrai nei dormitori le cose non erano particolarmente cambiate. Anche quest'anno, esattamente come il precedente, ero in camera con Sam. Mi salutò come al suo solito, lanciandomi un forte pugno sulla spalla -bentornato, straniero- mi disse -ti vedo un tantino deperito, devi recuperare-.
Sorrisi. Non poteva sapere che dietro al mio falso sorriso si celava un evento tanto nefasto.
-Ti vedo bene- le dissi di rimando, appoggiando il mio borsone sul letto.
-Ho detto tutto ai miei...- sussurrò lentamente per poi voltare lo sguardo verso di me vittoriosa e dire -sanno tutto-.
Mi passai una mano sul volto e poi sui folti capelli -dici sul serio? Proprio tutto?!-.
Lei ridacchiò divertita -hai capito bene!-.
-E come l'hanno presa?- le domandai incuriosito accostandomi a lei.
-Meglio del previsto. A quanto pare sono di larghe vedute- rispose lei portandosi entrambe le mani ai lati -fortunatamente tengono più alla mia felicità, che a salvare le apparenze-.
-E' incredibile, Sam!- risposi contento per lei.
Mi voltai di spalle e mi rabbuiai. In quell'istante capì che avevo appena perso l'unica persona su cui potevo contare all'interno di quel posto. Tutto ciò che avevo creato in accademia era basato sulla menzogna di poter stare con Samantha Elliots, una delle ragazze più sexy della scuola.
La guardai con quell'aria solare, felice come mai. Ero piuttosto convinto di non averla mai vista così spensierata. Faticavo quasi a riconoscerla. Tra l'altro aveva tagliato i capelli quasi a caschetto e quell'aria così sbarazzina le donava molto. La trovai attraente come non mai, forse anche più di prima.
-Ti va di scopare sul retro?- mi domandò con nonchalance dopo aver gettato alla bene-meglio il suo borsone sotto il letto e portandosi le braccia sui fianchi.
Sgranai gli occhi e scoppiai a ridere.
No, dopotutto non era poi così tanto cambiata.

Rientrai con circa una settimana di anticipo anche per poter parlare faccia a faccia con il sergente Gamble in maniera tale da velocizzare la mia istruzione. Obiettivo finale: diventare un aviatore!
-Ragazzo mio, che piacere rivederti!- mi disse accogliendomi con una sorprendente euforia.
Mi abbracciò come solo un padre poteva fare e, troppo fresco di lutto, mi irrigidì sotto il suo tocco. Poggiò le sue grandi mani su entrambe le mie spalle allontanandomi un poco e guardandomi dritto negli occhi -okay, cos'è successo?-.
Sorrisi disarmato, consapevole di non potergli nascondere nulla.
-Mio padre è morto- risposi senza veli.
Prima ancora di subirmi tutto il suo dispiacere e balle varie, aggiunsi -ti prego, non dire nulla e fa finta che io non ti abbia detto nulla-.
Con il suo sguardo severo mi esaminò da cima a fondo per poi dire semplicemente -dobbiamo riprendere subito gli allenamenti. Ho già accennato ad alcuni colleghi che entro la metà dell'anno prossimo entrerai in caserma come cadetto-.
Le mie spalle si rilassarono e sospirai rumorosamente -grazie-.
-Non farmi fare brutte figure, mi sto esponendo per te- rispose dandomi le spalle per poi aggiungere -ora vatti a lavare che puzzi come un cane morto, domattina sveglia alle cinque e cento giri di campo per iniziare-.
Il petto mi si gonfiò velocemente. Avvicinai immediatamente la mano alla fronte e, mettendomi in posa, urlai un forte -sì, signore!- prima di uscire dalla stanza.

***

Mi guardo le braccia piene di tatuaggi. Poi, con un frammento di vetro rotto in mano, mi rispecchio al suo interno allungando di un poco il collo a sinistra fino a sfoderare un altro splendido tatuaggio che si dirama lungo tutta la carotide di destra. Con la mano accarezzo il petto, non volendo scordarmi neanche di tutto l'inchiostro impresso sui miei addominali in ogni direzione. Il mio corpo è la mia anima e su di esso ho scolpito indelebilmente ogni ricordo importante della mia vita. Ecco perché il mio primo tatuaggio è stato proprio una farfalla monarca, a livello dell'avambraccio sinistro. Negli anni mi sono sentito dire che era troppo femminile, che avrei dovuto toglierlo o coprilo con un teschio o simili. La verità è che neanche sotto tortura lo cambierei. È molto bello. Immaginatevi sì una farfalla monarca, ma quasi astratta, dai colori abbozzati e dai lineamenti soffusi. Perché io l'associo esattamente ad una utopia, per me è importante il concetto che vi è dietro, un ricordo infantile che negli anni ho coltivato fino a trasformarlo nella mia attuale professione.
Mi guardo allo specchio ancora una volta, soddisfatto del risultato finale. Con la mano destra accarezzo la farfalla che giace beata sull'avambraccio sinistro. Mi sistemo meglio gli occhialini da aviatore sul capo e sorrido alla mia figura ormai matura. Forza, è ora di partire ancora una volta per una nuova avventura, senza scordare mai che questo presente mi è stato concesso solo perché il passato è stato ciò che è stato.

***

In quell'ultimo anno scolastico mi ritrovai a scendere dal piedistallo di belloccio della scuola, per far fronte a doveri ben più ingenti. La mia priorità assoluta era entrare nell'aeronautica militare. Il sergente Gamble, in tutto ciò, giocava un ruolo più che fondamentale. Dopo avermi studiato ed analizzato per l'intero primo anno, aveva finalmente deciso di sfoderare ogni sua arma, concentrando ogni energia su di me e sul mio apprendimento. A scuola venni in parte preso in giro per questo. In tanti alludevano ad una tresca tra me e lui, non comprendendo seriamente ciò che più ci legava. Non eravamo due fanatici militari, non c'era alcun legame sentimentale tra di noi, né l'allenamento e il duro lavoro fungevano da collante in questa nostra strana relazione – se così la si poteva definire. Tra di noi vi era un un'unica cosa in comune: l'amore per gli aerei. Ebbene sì, a fare da padrone nella nostra storia erano sempre quegli splendidi giganti volanti.
Fu proprio per questo motivo che ad un paio di mesi di distanza dal mio primo tatuaggio, me ne feci un secondo che raffigurava la tavola prospettica di un Fokker F.VII, il monoplano trimotore con cui Amelia Earhart sorvolò per la prima volta l'Oceano Atlantico. Ovviamente il mio ricordo andò a quel lontano pomeriggio di tanti anni addietro, in cui rivelai a Yoshiko del mio amore incondizionato per quell'aviatrice detentrice di tanti record mondiali.

In ogni caso, al vociare circa il mio rapporto stretto con il sergente Gamble, si aggiunse anche il fattore Sam. Già, perché le notizie, in luoghi così accalcati e piccoli come quello, corrono in fretta. Presto tutti seppero dell'omosessualità di Sam. Vorrei raccontarvi una di quelle storie a lieto fine. La sua famiglia l'aveva già accettata per quello che era, perciò vi aspetterete che i suoi coetanei facessero altrettanto. Ebbene no, per una volta i ruoli si invertirono e ad avere una vecchia e squallida mentalità, non erano tanto i genitori conservatori di lei, bensì i nostri stessi compagni di scuola.
Non mi importava davvero di quello che si diceva su di me e lei, ma non potevo negare che quell'ambiente così tossico, facesse star male Sam.
La famosa Cassandra Blake, quando seppe dell'omosessualità di Sam, le tolse persino il saluto. Una cattiveria, direte voi. In effetti così fu, ma concesse anche a Sam di conoscere la gente per chi realmente era.
Nonostante fosse assodata ormai la sua predilezione per il corpo femminile, Sam si intrufolava ancora sotto le mie coperte a notte inoltrata per poter trovare conforto e per poter sfogare ogni suo desiderio proibito.
In realtà io trassi parecchio vantaggio da quella relazione malsana. Grazie a Sam iniziai a conoscere e comprendere il corpo femminile in maniera impeccabile, riscoprendomi quasi capace di amare una donna. Dico quasi perché, seppur io sia stato legato a Sam da un sentimento molto profondo, non sono convinto che ciò fosse amore vero.
Ormai conoscevo ogni centimetro della sua pelle e potevo interpretare ogni sua espressione e voglia anche senza farle aprire bocca. Sotto le lenzuola Sam era un'altra donna. Seppur alla luce del sole potesse apparire impavida, sicura di sé e particolarmente tosta, sotto l'impallidire della luna si richiudeva a riccio e mostrava una certa timidezza che probabilmente solo io avevo potuto conoscere fino a quel momento.
C'erano molte cose di lei che amavo per davvero, come il mordersi il labbro inferiore quando voleva che io aumentassi il ritmo delle mie spinte; oppure l'inclinare la testa leggermente indietro e a destra per supplicarmi di scendere in basso per poter baciare e accarezzare la sua femminilità; oppure l'inarcare la schiena come a voler chiedere spinte più lente ma allo stesso tempo energiche; o ancora il contrarre le natiche sotto il mio tocco, chiedendomi di prenderla dalle spalle. Ed in quei momenti le piaceva il tocco rude, di colui che quasi approfittava del suo corpo per raggiungere un piacere veramente etereo. Eppure non l'ho mai usata, né l'ho mai amata in quei momenti.
Le prime volte erano imbarazzanti, lei doveva prendermi la mano nella sua e guidarmi in ogni mia mossa perché non sapevo davvero dove andare o cosa fare per poterle procurare un minimo di piacere. Ma con il tempo imparai davvero a giocare con lei e con la sua femminilità, tanto da anticipare le sue voglie e le sue pensate. I suoi orgasmi si fecero sempre più sentiti e più eccitanti di volta in volta. Mi accorsi con estremo piacere che mi bastava anche solo guardarla godere del mio tocco. Non mi importava dover entrare realmente in lei, mi importava quasi più recarle piacere. Fu allora che capì di volerle comunque molto bene. Okay, non era amore e non lo era mai stato. Ma le volevo davvero tanto bene. E il poter soddisfare le sue voglie, assecondare i suoi desideri e far avverare ogni suo sogno erotico, per me era un po' come regalarle l'unica cosa che ero in grado di darle davvero. Non era amore, ma forse un po' lo era, anche se in una versione molto differente rispetto a ciò che generalmente si può pensare.

-Sai, Brent- mi disse una sera Sam guardando la fioca luna -credo di piacere ad Annah-.
Ero sdraiato sulla sabbia, con entrambe le braccia sotto il capo, rilassato come non mai. Quella rivelazione mi scosse nel profondo.
-Annah, huh? Parli della ragazza nuova, quella biondina con le lentiggini?- le domandai sdraiandomi sul fianco.
-Sì, proprio lei- mi disse Sam senza distogliere lo sguardo dal nostro satellite luminoso -secondo te se ci provo, ci sta?-.
Sorrisi divertito, tornando in posizione supina.
In quel preciso istante avrei voluto mentirle, dicendo che probabilmente non avrebbe accettato un invito ad uscire da parte sua. Ma la verità era che Sam era una bella persona e per me meritava il meglio. In quel preciso istante capì che meritava di prendere il volo e di staccarsi dal passato, in un certo senso necessitava di svecchiarsi. Io ero solo una stupida ancora a cui lei si era aggrappata per tanto, troppo tempo. Io le davo sicurezza, io c'ero sempre per lei e sempre ci sarei stato. Perciò le dissi l'unica cosa che mi venne spontaneo dirle in quel momento -io fossi in lei ci starei-.
Lei mi tirò un pugno al braccio -scemo, tu già ci stai!-.
-Brent, non ti fa strano farti tua sorella?- mi domandò tutto d'un tratto come era suo solito fare.
-Sam, ma cosa diavolo stai dicendo!- imprecai quasi strozzandomi con la mia stessa saliva.
-Sì, insomma, tu per me sei come un fratello, perciò io sono tua sorella- mi disse lei sorridendomi -abbiamo un rapporto incestuoso io e te-.
Mi portai una mano sul viso divertito, senza in realtà aver nulla da contestare. Lei scherzava ed io lo sapevo bene. Eppure amore fraterno era il modo più corretto per descrivere ciò che provavo per lei.
-Però... sì, insomma, se hai bisogno di capire meglio come funziona il clitoride femminile, puoi sempre chiedere a me che ti mostro meglio dove cercarlo- rispose vaga Sam gesticolando al vento e lasciandosi trasportare da una risata piuttosto genuina.
-Sei incorreggibile- le dissi divertito e non dando eccessivo peso alle sue parole. Ormai sapevo perfettamente quando non dover dar conto a ciò che diceva.
-Ho un'idea ancora più allettante- mi disse lei balzandomi sul petto e portando il suo viso a due centimetri dal mio volto.
-Ti prego, lascia che indovini- dissi mantenendo una certa calma, ma focalizzandomi sul suo sguardo. Poi lo notai, quel sopracciglio destro leggermente alzato, l'angolino della bocca inarcato verso l'alto, quello scintillio negli occhi che preannunciava un pensiero osé.
Sorrisi, avevo intuito il suo pensiero -appena avrai una fidanzata vera, faremo una cosa a tre-.
Lei spalancò gli occhi e si portò una mano al volto -Brent Smith, cazzo!- imprecò alzandosi in piedi e cominciando a saltellare qua e là in preda ad una strana danza della pioggia -come ci sei riuscito?-.
Scoppiai a ridere e, alzandomi in piedi e dandole le spalle, mi allontanai verso il nostro bungalow senza darle alcuna risposta. Non era necessario. Ve l'ho detto, ormai riuscivo ad interpretare ogni suoi pensiero.

Il sergente Gamble in quel periodo mi diede filo da torcere, ma non vi nego che questo suo imporsi su di me, il volermi allenare fino allo sfinimento – mio e suo tra l'altro – mi aiutò molto a tenere la mente lontana dal pensiero di mio padre. Non che volessi scordarmi di lui. Ma la sua perdita era ancora viva in me e doleva come fosse una ferita aperta. Impossibile da rimarginare, sapevo bene che neanche con gli anni avrei potuto convivere con quel dolore. Ma il tenere corpo e mente impegnati mi aiutava, perché alla fin fine ero talmente focalizzato sul mio obiettivo prossimo, da non aver tempo né forze di concentrarmi su altro.
Con l'arrivo del primo Natale senza mio padre, però, quella sensazione sfumò. Vi erano ben due settimane di vacanze in cui inesorabilmente mi sarei ritrovato a pensare a lui, al nostro primo Natale separati. Per fortuna però non ero solo al mondo e Sam, con un gesto del tutto altruista, mi invitò a trascorrere le festività a casa sua.
Oxford, una delle mete più ambite di tutti i turisti. Credetemi se vi dico che ha letteralmente rapito il mio cuore.
Samantha mi presentò ai suoi genitori senza filtri, dicendo che io ero quello con cui fingeva di stare per non far notare agli altri la sua omosessualità. Un gran bel biglietto da visita, soprattutto tenendo conto che suo padre era un reverendo.
-Piacere- dissi ormai immerso nell'imbarazzo più totale allungando un braccio e stringendo la sua fredda mano.
L'uomo non disse una parola, mi squadrò dall'alto in basso – seppur lui fossi una spanna più basso di me – e strinse la presa sulla mia mano.
La madre imbarazzata lo scostò leggermente fino a stringermi anch'ella la mano e invitarmi ad entrare in casa.
-Samantha ci ha detto che hai appena perso il padre, quanto mi dispiace- mi disse con quella vocina acuta e fastidiosa, completamente priva di empatia.
Non avevo parole da porgli dopo quella frase, perciò mio limitai ad annuire e distogliere lo sguardo da lei.
-Mamma!- la rimproverò subito Sam allargando le braccia e sospirando -ma ti pare!-.
Il padre abbozzò un sorriso osservando le due donne intraprendere un lungo ed estenuante litigio su quali fossero i modi più carini di porgere le condoglianze ad uno che aveva appena perso il padre.
Rimasi inebetito in piedi in salotto, domandandomi perché avevo accettato l'invito a trascorrere quel Natale insieme alla famiglia Elliots.
Il padre di Sam, che si chiamava Klaus, mi porse una mano sulla spalla, invitandomi poi a seguirlo nel giardino sul retro della villetta.
-Samantha mi ha detto che hai fatto per lei- mi disse appena chiusa la porta alle sue spalle.
Klaus Elliots era sicuramente un personaggio molto singolare. Era molto alto, seppur meno di me, con una gran massa di capelli biondo ossigenato e due occhi talmente azzurri da far quasi impressione.
Feci per contestare la sua frase, ma l'uomo subito esordì dicendo -mia figlia è sempre stata diversa dagli altri-.
Seppur non abbia apprezzato il termine da lui usato, nel suo tono non vi era disprezzo per tutto ciò. Si vedeva però che faticava ad accettare la sua omosessualità.
-Ti sbagli- disse ad un tratto.
Lo guardai confuso non capendo a cosa potesse alludere.
-So benissimo cosa stai pensando, Brent- mi disse distogliendo lo sguardo e fissando per un istante il cielo -non fatico ad accettare la sua scelta sessuale-.
Inarcai subito un sopracciglio stupito dalla sua perspicacia.
-La verità che ho paura del mondo e non di lei- mi spiegò mettendosi entrambe le mani nella tasca dei jeans -di come il mondo potrà trattarla d'ora in avanti e di come tenterà di emarginarla-.
Sorrisi e mi avvicinai a lui piuttosto convinto di me -lo sa, signor Elliots, anche io ho paura del mondo, ma sa una cosa, non ho mai conosciuto una ragazza più in gamba di sua figlia!-.
Lui mi guardò con occhi colmi di paura.

***

Quello era uno sguardo che non ho mai dimenticato. Lo sguardo di un padre che si strugge per il possibile futuro della figlia in una società ancora emotivamente arretrata e non in grado di affrontare così apertamente l'omosessualità. Lo stesso identico sguardo di terrore che aveva mio padre in procinto di morte, quando mi confessò di non essere pronto a lasciarmi solo. Probabilmente uno di quegli sguardi che solo quando si diventa padri si può veramente capire.

***

Nonostante mi aspettassi chissà quale stranezza in casa Elliots, dovetti ammettere che il Natale trascorso da loro fu piuttosto piacevole. Sua madre si rivelò una cuoca eccezionale, mentre suo padre mi accolse come un figlio raccontandomi vecchi aneddoti sulla sua vita religiosa aprendomi le porte ad un credo che non conoscevo di avere.
Il rientro in accademia fu piuttosto brusco poiché il sergente non si risparmiò con gli allenamenti. A detta sua, vi erano ben due settimane di pacchia da recuperare; ma in verità ero consapevole che lui ci stava mettendo faccia e reputazione, perciò ci teneva particolarmente al mio buon successo.
A Marzo dovetti affrontare i tanto temuti test di ingresso in accademia a Shawbury. In realtà non conoscevo questo passaggio, ero convinto che accettassero chiunque nell'esercito e, con mia grande sorpresa, scoprì che non era affatto così. Persino i decimi di vista potevano fare la differenza.
Ad accompagnarmi in questo salto nel buio vi era ovviamente il sergente Gamble.
-Mi aspettavo di dover frequentare prima l'accademia di smistamento, non pensavo di poter far domanda direttamente per l'aviazione- dissi dubbioso rivolto al mio mentore.
Lui allargò le braccia e mi rispose -che vuoi che ti dica, mio caro Brent, le vie del Signore sono infinite-.
Scoppiai a ridere ormai sicuro che ci fosse il suo zampino in tutto ciò.
-Ti sei allenato duramente per giungere fino a qui. Ti ho accolto a scuola che eri un pivellino di soli sedici anni con ancora i peli pubici da far crescere ed ora ti ritrovo a spiccare il volo da solo come un uomo fatto e finito- mi disse il sergente fronteggiandomi e poggiando le sue grandi mani su entrambe le mie spalle -sappi che comunque andrà, sono molto fiero di te, Brent-.
Non ebbi né modo né tempo di fiatare, che un uomo, quasi il doppio di me in quanto stazza, mi si avvicinò e mi invitò a seguirlo.
Quel pomeriggio decretò il mio futuro. Scoprì di aver ottenuto il massimo dei voti in ogni ambito di valutazione. I miei test attitudinali risultarono più che brillanti e le mie prove fisiche quasi al limite dell'umano. Dissero che avrebbero anticipato l'iscrizione a Maggio qualora fossi interessato. Mi dissero che non avevano mai visto un esame di simile portata ma che, con molta probabilità, tutto ciò era solo merito del mio mentore. Al sergente Gamble, dunque, dovevo veramente molto. Lui mi aveva accolto sotto la sua ala senza indugio, non trattandomi come il resto della società che mi vedeva fragile e problematico. Lui era riuscito a cogliere la mia emotività, legata soprattutto alla mia condizione famigliare assai precaria, ed a trasformarla in una forza interiore in grado di infondermi le energie necessarie per poter affrontare il futuro a testa alta.

***

Non posso dire di dover la vita al sergente Gamble, perché non mi sarei comunque suicidato o sciocchezze simili in seguito alla morte di mio padre. Però se non fosse stata per la sua presenza costante, probabilmente di lì a pochi mesi mi avrebbero dovuto raccogliere con la scopa, perché sicuramente sarei andato in mille pezzi.
Sicuramente sarei sopravvissuto fino ad ora, con o senza di lui. La differenza sta nel modo con cui l'avrei fatto. È grazie a lui se ora posso affermare con estrema certezza che ho preso le decisioni giuste nella vita, arruolandomi, seguendo la mia passione per i velivoli e cercando di volare il più in alto possibile.
Quell'uomo ha impresso nel mio animo un profondo sentimento di gratitudine e mi ha fatto comprendere l'importanza di non essere mai soli e di aver sempre qualcuno affianco, soprattutto quando si tratta di prendere decisioni importanti.
Il sergente Gamble per un breve periodo della mia vita rimpiazzò la figura paterna che avevo perso. Fu proprio per questo che quando morì, esattamente tre giorni dopo il nostro viaggio a Shawbury, la mia vita subì una brusca frenata ancora una volta, per poter accogliere nel cuore l'ennesimo lutto.
In quell'istante realizzai una brutta verità: che tutti noi siamo di passaggio su questa terra e che nessuno è immune alla falce dell'oscuro mietitore.
Sono sempre stato convinto che il sergente fosse immortale. Forse perché fisicamente appariva quasi come un dio greco, dai muscoli ben scolpiti e quel sorriso smagliante che ammaliava ogni mia compagna di scuola.
Klaus quel Natale passato mi disse che il tempo di ciascuna persona è limitato al poter raggiungere e centrare l'obiettivo per il quale è stata messa al mondo. Questo pensiero mi fa sorridere, perché il sergente è morto subito dopo la mia ammissione nell'esercito, perciò mi vien quasi da pensare che il suo scopo fosse quello di farmi da mentore e indirizzarmi verso il mio futuro. Forse sono troppo precipitoso in questo mio pensiero o forse sono semplicemente egocentrico, ma mi piace pensare che sia andata davvero così.

Il mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Nonostante non sia solita lasciare grandi note iniziali, vorrei ringraziare la mia dolce Wendy_88 per essere sempre la prima a leggere e recensire i miei capitoli. Motivo per cui, voglio dedicarle il paragrafo su Peter Pan, la sua favola preferita.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: rosso per presenza di scene di natura sessuale parzialmente esplicite
Personaggi capitolo: Brent e Sam

Capitolo 7






Il mese dopo anticipai la mia partenza e mi arruolai nell'aeronautica militare presso l'accademia di aviazione a Shawbury.

La Royal Air Force di Shawbury è stata la prima base aerea ad accogliere giovani reclute da arruolare nell'aviazione militare inglese.
Nacque come accademia selettiva nel 1917, proprio a cavallo della prima guerra mondiale. Ovviamente serviva un centro di addestramento che potesse sfornare quanti più soldati possibili e all'epoca Shawbury poteva contare su una stazione aerea niente male. Venne chiusa intorno agli anni venti a causa di una netta riduzione del personale, per poi riaprire i battenti nel lontano 1938, sempre con scopo accademico, ovvero organizzata per addestrare futuri aviatori per l'aeronautica militare inglese. Parliamo della scuola di addestramento di piloti militari più antica al mondo. Non una tra le tante, ma la prima in assoluto.
Perciò, sono piuttosto orgoglioso di poter dire di aver iniziato la mia carriera da cadetto proprio lì. Se non fosse che, ahimè, è durata ben poco.

***

Giunto sino a Shawbury, venni subito a conoscenza della dura realtà dei fatti: nessuno mi avrebbe appoggiato in tutto questo. Il sergente Gamble non c'era più, perciò addio spalle coperte; ma prima di esso, avevo perso anche l'unico familiare su cui poter fare affidamento. Al mondo, in quel momento, vi ero io e solamente io.
Il mio cellulare vibrò nella tasca dei miei pantaloni proprio mentre mi accingevo ad aprire la grande cancellata di quel nuovo posto. Estrassi il telefono e lessi il messaggio che avevo appena ricevuto -spacca più culi che puoi-.
Sorrisi divertito. Non ebbi neanche necessità di scoprire chi me lo aveva mandato, tanto già lo sapevo. Quel modo di fare così sfacciato, secco e graffiante potevano appartenere solamente ad una persona: Sam.
-Verrai a trovarmi?- le domandai istintivamente.
-Anche domani- mi rispose senza esitazione.
Misi il cellulare nuovamente in tasca e mi addentrai verso una nuova esperienza.
Il sergente Gamble mi aveva raccontato tante cose su quel posto. In effetti ero abbastanza in fibrillazione perché finalmente avrei imparato a pilotare un aereo. Il mio sogno stava per esaudirsi e non potevo che esserne felice.
Alla fine, nonostante gli alti e bassi, ero giunto esattamente dove avevo sempre sperato di arrivare.

L'inserimento in accademia fu piuttosto traumatico. Se la U.K.M school poteva apparire - ma giusto esternamente - un covo di fanatici militari, Shawbury lo era senz'altro. I cadetti erano tutti con il capo rasato, tipico taglio da soldato. All'epoca non avevo sicuramente il taglio più alla moda tra i ragazzi e non ero un grande stimatore dei miei capelli, ma non vi nego che questo dover per forza uniformarmi agli altri mi stava stretto. Ma purtroppo quelle erano le regole e non potei fare altro che abituarmi a dover sottostare a certe convenzioni stipulate secoli prima, non so neanche io da chi.
Le camerate erano terrificanti e per un istante ebbi nostalgia del mio angusto bungalow. Strette e alte stanze completamente in cemento senza alcuna rifinitura alle pareti. Letti a castello in ferro battuto con un materasso alto poco più di cinque centimetri. Pavimenti anch'essi in cemento perfettamente puliti e tirati a lucido. Ogni letto era distanziato dal precedente da meno di un metro di spazio. La mia prima impressione fu che un claustrofobico non avrebbe mai e poi mai potuto sopravvivere lì dentro. Non vi erano armadi, né comodini o tavolini, solo un grosso forziere che, nel mio immaginario, mi riportò alla favola di Peter Pan. Ma qui non vi erano fatine con la polvere magica, né corsari dalle splendenti spade o bambini sperduti che potevano volare. Beh, in realtà un bambino sperduto che – almeno si spera – prima o poi avrebbe potuto volare c'era eccome, ed ero proprio io. Ma mi bastò uno sguardo a destra ed uno a sinistra per ritrovare la mia stessa espressione spiazzata in altri ragazzi. Lì, ora come ora, non ero l'unico bimbo sperduto. E fui preso alla sprovvista quando conobbi il mio compagno di letto.
-Piacere, io sono Peter- mi disse allungando un braccio nella mia direzione.
Sorrisi. Ero appena approdato all'isola che non c'è senza neanche essermene reso conto.

Le prime due settimane trascorsero velocemente. Gli allenamenti, per quanto sfiancanti potessero essere, non erano assolutamente paragonabili a quelli proposti dal sergente Gamble. Mi accorsi subito di essere un passo avanti a tutti i novellini del posto. E non ero l'unico ad averlo notato.
Il sergente del posto, un certo Bill O'Connel, iniziò a farmi sgobbare il doppio dicendomi che quella era l'ultima volontà di Gamble.
Purtroppo, però, come in ogni scuola che ho frequentato, mi ritrovai a fronteggiare un paio di tipetti tutto fuorché amichevoli. Il bullismo non è mai stato il mio forte. L'ho subito sin dalla tenera età per via della mancanza di una figura materna nella mia vita, alla U.K.S school, per via del rapporto quasi esclusivo che avevo con il sergente Gamble ed ora qui, per via, ancora una volta, dell'invidia che gli altri avevano nei miei confronti. Non volevo apparire come il falso modesto della situazione, ma conoscevo bene le mie abilità e ad alimentarle vi era questo forte desiderio di poter far avverare i miei sogni infantili. Perciò, ho sempre puntato in alto, anche quando la gente ha cercato di portarmi sul fondo. Non tutti però riuscivano ad apprezzare i miei sforzi e a comprendere che se ero lì, ora, in quel momento, non era per merito di terzi, bensì per la mia capacità di sfruttare il mio potenziale al massimo.
Evans, così si chiamava uno dei miei commilitoni, provava una seria invidia nei miei confronti. Eppure non ne aveva motivo: era il figlio del colonnello in carica. Ma sapete come vanno queste situazioni, nonostante il calcio in culo dato dal padre, Evans non era fatto per l'esercito e arrancava per restare a galla. Il fatto che io, invece, riuscissi in tutto ciò che facevo, gli dava noia. Provai più volte a spiegargli che non era tanto una questione di dote, quanto di forza di volontà. Io volevo diventare un pilota a tutti gli effetti, era sempre stato il mio desiderio di infanzia. Per questo ci mettevo tutto me stesso in ogni cosa che facevo. Lui invece era lì giusto per merito del padre e non per volontà propria.
Nonostante i consueti momenti di litigio con questo soggetto, il resto procedeva tutto bene.

Nel frattempo, Sam era diventata la mia confidente, nonché migliore amica. Ci sentivamo moltissimo al telefono, spesso anche in video-chiamata. I miei commilitoni mi reputavano molto fortunato, ma la verità era che non mi permisi di rivelare loro il fatto che Sam, in realtà, fosse lesbica. Loro erano convinti che io stessi con una ragazza particolarmente perversa e ninfomane. La verità era che loro udivano solo parte delle mie chiamate, quei frangenti in cui Sam rivelava di voler far certe cose proibite con me. Ma se io conoscevo bene il suo essere diretta e, spesso, sarcastica, per loro era un atteggiamento del tutto estraneo e tendevano spesso a prendere sul serio ogni cosa che lei mi diceva.
-Mi manca la tua compagnia- mi diceva spesso.
-E a me manca la tua- le rispondevo io.
Nonostante fossi consapevole di non attirarla fisicamente come poteva fare invece una donna, le piacevo come persona. E a me bastava quello. Non parlo di quel piacere carnale, legato esclusivamente al sesso. Lei mi voleva bene, proprio come io ne volevo a lei. Forse aveva ragione lei quando un tempo mi disse che io e lei eravamo un po' come fratello e sorella.
-Sai, Brent Smith, da quando sei andato via molti ragazzi vorrebbero prendere il tuo posto- mi disse Sam un giorno ironizzando sulla sua popolarità -sono diventata la puttana della scuola-.
-Non sei una donnina dai facili costumi- risposi allentando la tensione -al massimo puoi essere una ninfomane, ma solo con chi vuoi tu-.
-Giusto, solo con chi ce l'ha più lungo di venti-tre centimetri- scrisse lei facendo seguire la sua espressione con una emoticon divertita.
-Sam!- risposi cercando di dare quasi un tono di rimprovero alla mia voce.
La conoscevo fin troppo bene. La sua era solamente una facciata. L'idea di passare per la ragazza vogliosa che tentava di sedurmi con quel suo modo estremo di fare, non faceva parte di lei per davvero.
Mi reputo un uomo fortunato, perché ho avuto modo di conoscere la vera Sam, la ragazza di cui in parte posso dire di provare un amore fraterno. So di ripetermi in tutto questo discorso, ma lei per me è stato un pilastro fondamentale. Negli ultimi due anni ha significato moltissimo e mi ha insegnato ad amare in un modo del tutto singolare e fuori da ogni canone. Ho amato sì una ragazza, una donna meravigliosa, ma l'ho amata come un fratello ama la propria sorella. E di nuovo si ritorna sul pensiero incestuoso che ho di lei. Che in realtà non lo è, non abbiamo alcun legame di sangue, ma vi è una connessione estrema tra di noi.

***

Dovete sapere che dietro la Sam disinibita e sboccata che avete conosciuto, in realtà vi è una fragile crisalide delicata. Già, che noia penserete voi, con tutte queste metafore sulle farfalle. Però lei è ancora chiusa all'interno del suo bozzolo, alla ricerca del suo posto nel mondo. Io, forse, l'ho trovato e devo ringraziare il sergente Gamble per questo. Lei, purtroppo, non è stata altrettanto fortunata.

***

Le sue mani corsero veloci lungo i miei addominali, pregandomi ancora una volta di trascinarla verso quel limbo peccaminoso che era l'unico spettatore delle nostre notti insonni.
Ritrassi la mano che ancora giaceva sul suo sodo sedere, fino ad avanzare su e accogliere nel mio calore i suoi seni tiepidi. I capezzoli turgidi, particolarmente ispessiti un po' per il freddo, un po' per il mio tatto, vibrarono sotto l'eccitazione che Sam stava provando in quel momento. Con i polpastrelli ne afferrai uno, stringendolo e giocandoci un poco insieme. Era morbido e leggermente umido, scivolava tra le mie dita con puro piacere, provocando in lei una forma di eccitazione che la scuoteva in tutto il corpo.
Nonostante la voglia di poter approfondire quel sentimento così stimolante, Sam prediligeva il conforto di un delicato tatto, infinito nei suoi movimenti ed eterno nel tempo. A lei non piaceva consumare quell'amore in fretta e furia, seppur l'idea di poterlo fare in luoghi ostili o in momenti inopportuni la eccitava forse anche più.
-Dai, non smettere- mi disse prendendo la mia mano nella sua e portandola giù verso la propria intimità.
Chiuse gli occhi e si ritrasse all'indietro, quasi quel gesto l'aiutasse ad assaporare ancora di più quel momento così confidenziale.
Feci ciò per cui ero stato chiamato a fare. Le feci provare piacere, così tanto piacere da farla godere come mai prima.

Quella sera mi disse per la prima volta di volermi bene.
Non ci siamo mai detti di amarci, perché alla fine non era quello il sentimento che ci legava. Ci volevamo bene, ci facevamo compagnia quando serviva, ci ascoltavamo e parlavamo tra di noi come due vecchi amici. Niente di più. Io ero l'unico uomo nella sua vita che non aveva mai provato ad approfittare della sua bellezza e del suo corpo, ed era proprio per questo motivo che lei era attratta da me. Però era proprio nei momenti più intimi che capivo di aver difronte una ragazza che ostacolava la propria natura. Riuscivo sì a farle provare piacere e a farle raggiungere l'apice del godimento, ma al contempo vi erano alcuni momenti che mi facevano capire che lei si sentiva a disagio. Le piaceva essere toccata, le piaceva quando io l'amavo carnalmente, quando entravo in lei e spingevo con ardore il mio sesso contro il suo. Ma al contempo, evitava sempre di guardare in basso e ogni qual volta facevamo sesso, lei chiudeva gli occhi immaginandosi sicuramente ben altra situazione. Si lasciava masturbare, ma non contraccambiava mai il mio gesto. Non l'ho mai forzata in questo, perché sapevo di metterla a disagio. Ed era proprio questo disagio per il membro maschile che mi fece capire quanto fosse attratta dal corpo femminile. Alla fine Sam non era altro che una giovane donna alla scoperta della propria sessualità ed io potevo solo saziare la sua sete di piacere e assicurarmi che lei stesse bene con me, senza costrizioni o imposizioni.

Il poter contare su di lei, in ogni caso, fu una cosa piacevole. Quando presi la decisione di arruolarmi a Shawbury, ero quasi convinto di dover mettere una pietra sopra il nostro rapporto. Non che vi fosse un rapporto vero e proprio, per lo meno non era un rapporto esclusivo il nostro. Lei mi assicurò che non avrebbe mai avuto un uomo al di fuori di me, ma conoscendo la sua inclinazione sessuale, tutto ciò mi fece sorridere. Ovviamente Sam non avrebbe mai avuto un altro uomo all'infuori di me, d'altra parte era pur sempre lesbica.
Quando anche Sam concluse il suo percorso scolastico, il nostro legame si rafforzò maggiormente. Venne a trovarmi in un paio di occasioni, presentandosi ai miei commilitoni come la mia amica di letto. Ormai non riuscivo neanche più ad imbarazzarmi davanti alle sue battutine schiette, ero abituato e, in un certo senso, ne ero ammaliato. Già, perché sapevo perfettamente che non avrei mai potuto trovare un'altra donna come lei.
Persino tutto ciò non andò a genio ad Evans. Ci provò con Sam spudoratamente e per di più innanzi a me. Uno sfacciato. Finì per ritrovarsi con un nove inches* di scarpe stampato nelle parti basse. Sam non si era limitata a renderlo sterile almeno momentaneamente, ma lo aveva persino messo in ridicolo davanti a tutta l'accademia. Uno smacco per lui che, purtroppo, non digerì facilmente.
Fu così che, nel giro di pochi giorni, mi ritrovai sbattuto fuori dall'accademia. Secondo il codice penale articolo 336 e 337, venni accusato di violenza e resistenza ad un pubblico ufficiale. I commilitoni che quel giorno erano presenti alla scena, si ritrassero come ricci innanzi alla presenza del padre di Evans, non solo evitando di spalleggiarmi in una situazione in cui ovviamente ero stato incastrato, ma dandogli persino manforte.
Fui scioccato e disgustato da quell'accademia. Mi aspettavo di poter affrontare una carriera eccellente al suo interno ed invece, a causa del solito guastafeste di turno, mi ero ritrovato a tornare a casa con la coda tra le gambe.

Il rincasare fu più duro del previsto. Quello stabile, che aveva accolto la mia infanzia, appariva persino più grande e più vuoto del previsto. Quel weekend raccolsi ogni cornice appesa alle pareti e la buttai violentemente nell'indifferenziata.
Sam venne in mio soccorso, scusandosi su più fronti per l'accaduto.
-Fidati, non hai nulla di cui scusarti- le dissi mentre riempivo l'ennesimo scatolone con dei vecchi vestiti di mio padre -Evans avrebbe trovato comunque un modo per cacciarmi da lì, prima o poi-.
Lei mi prese una mano e me la strinse forte nella sua, fino ad invitarmi a perdermi nei suoi occhi chiari -per quel che vale, Brent, per me rimani una persona meravigliosa-.
Sorrisi. Era esattamente ciò di cui avevo bisogno.
Raccolsi lo scatolone e lo imballati con un po' di nastro -questo direi che va tra le cose da dare in donazione- dissi portandolo in salotto ed accostandolo ad altri due scatoloni della medesima misura.
Mi guardai soddisfatto. Innanzi a me vi erano raggruppati diverse scatole. A destra vi erano le cose da buttare, in centro quelle da donare e a sinistra i ricordi da conservare.
-Ed ora che ne sarà di me?- dissi sottovoce osservando quei due miseri scatoloni sopravvissuti alla spazzatura.
-Io in realtà un'idea ce l'avrei, Brent- mi disse Sam sorridendo.
La guardai pormi un opuscolo e lo presi tra le mani fino ad aprirlo in tre parti e leggere: Chitose Air Base.
-Hokkaido?- domandai a Sam -seriamente?-.
Lei ridacchiò divertita -sì, va bene, mi aspettavo questa tua reazione. Però non sottovalutare tutto ciò, voglio dire, sei o non sei per metà giapponese?-.
Sollevai un sopracciglio. In effetti Sam non aveva tutti i torti. Ero pur sempre nato a Tokyo, persino il mio certificato di nascita lo attestava.
Guardai Sam aizzare uno scatolone contenente libri di vario genere e trascinarlo verso la sua macchina -questi li voglio io-.
-Libri?- domandai scettico.
-Libri!- rispose lei ben convinta -che c'è Smith, non ti sembro una tipa da libri?-.
Io sorrisi divertito -assolutamente, secondo me tu non conosci barriere, sei nata per fare qualsiasi cosa-.
Lei appoggiò lo scatolone nel bagagliaio della sua auto per poi girarsi verso di me con occhioni dolci -dio, quanto sei smielato, Brent-.
Sghignazzai aspettandomi una risposta simile da parte sua.
Mentre lei era intenta ad incastrare lo scatolone all'interno della sua piccola vettura, io guardai e riguardai meglio il volantino che mi aveva dato. Chitose Air Base, non ne avevo mai sentito parlare. A dirla tutta non sapevo nulla del Giappone o delle sue usanze. Conoscevo poche parole, giusto perché Yoshiko me le aveva insegnate anni addietro. Sorrisi all'idea che forse, presto o tardi, avrei potuto abitare nel suo stesso Paese.
Sam arrivò di soppiatto innanzi a me e mi strappò il volantino dalle mani -entriamo, forza! Lo so che muori dalla voglia di sapere qualcosa su questo posto-.
Le sorrisi grato per tutto quello che stava facendo per me.
-Minimo mi devi una cena e del buon sesso, sappilo!- rispose schiaffeggiandomi contro il volantino e sorridendomi maliziosa.
Ridacchiai divertito, annuendo senza indugio.
Nonostante la mia connessione fosse piuttosto lenta, riuscii ugualmente a recepire alcune informazioni circa l'accademia militare giapponese, soprattutto grazie alla dote nascosta di Sam in informatica.
-Dunque, a quanto pare il Giappone ha una divisione militare molto particolare. Qui dice che esistono tre grandi gruppi di appartenenza: la Rikujo, Kaijo e Koku Jieitai, ovvero fanteria, marina navale ed aeronautica- spiegò Sam scorrendo il dito sul monitor del proprio computer quasi volesse tenere il segno di quanto letto.
-Quindi io dovrei far richiesta alla Koku Jieitai, dico bene?- domandai insicuro.
Sam annuì e proseguì dicendo -pare che la base aerea di Chitose si trovi in Hokkaido, una delle otto regioni del Giappone, situata direttamente a nord dell'isola principale dell'arcipelago nipponico, Honshū- mi disse mostrandomi anche una cartina presa direttamente da internet.
-Ma è un aeroporto o un'accademia?- domandai incuriosito.
-Qui dice che è una base aeronautica vera e propria, situata vicino all'aeroporto di New Chitose, con il quale si ritrova spesso a cooperare e insieme al quale costituisce uno dei più grandi centri di volo presenti in tutto il Giappone- mi rispose Sam piuttosto impressionata da quanto letto.
-Caspita...- sussurrai quasi a corto di parole quando guardai le poche foto che Sam riuscì a reperire di quel posto.
-Ora vorrei solo capire come diavolo fare a...- biascicò Sam quasi stesse pensando ad altra voce -è tutto scritto con simboli assurdi-.
-Sono caratteri kanji- le dissi correggendola e beccandomi un sonoro schiaffo sul braccio.
-Allora mister so-tutto-io, decifra questi geroglifici e cerca di capirne qualcosa- mi disse scostandosi dal computer e invitandomi a prendere il suo posto.
Mi sedetti controvoglia davanti al computer, sicuro di non riuscire a tradurre nulla di significativo, in quanto la mia conoscenza del giapponese era veramente limitata. Notai però un numero di telefono, uno a caso, per intenderci, e decisi di chiamare, tanto non avevo nulla da perdere in quel momento.
Mi risposero in giapponese e il mio primo istinto fu quello di interrompere subito la chiamata, ma Sam mi incitò a proseguire la telefonata, perciò dissi l'unica parola che mi veniva in mente in quel momento -sayonara**-.
-Konbanwa***- mi rispose poco convinto un uomo al di là del globo.
-Io... parla inglese?- domandai consapevole di non poter reggere un discorso di senso compiuto in lingua giapponese.
-Sì, signore- mi rispose l'uomo quasi ridendo.
Sospirai sollevato e, grazie soprattutto all'appoggio morale di Sam, spiegai per filo e per segno la mia posizione. L'uomo con cui ero al telefono dovette rigirare la mia chiamata ad un suo superiore il quale mi spiegò nel dettaglio come era organizzato il loro esercito e come funzionava la fase di arruolamento, invitandomi, come previsto, a visitare l'accademia di persona. Inoltrarono poi la mia chiamata ad un altro collega, il quale si occupava del reclutamento di nuovi cadetti.
Quando chiusi la telefonata avevo sì, le idee più chiare, ma al contempo mi sentivo quasi sfinito, come se quei cinquanta minuti trascorsi al cellulare mi avessero prosciugato le energie.
-Quindi?- domandò Sam di ritorno dopo essere uscita di casa per raggiungere la bancarella di fish and chips che vi era in fondo alla via -fame?-.
Mi allungò un sacchettino di carta con al suo interno cipolle e patatine fritte e pesce impanato.
Afferrai con discrezione la mia cena e iniziai a mangiare raccontandole nel frattempo tutto ciò che ero riuscito a scoprire -l'esercito giapponese, a causa dell'imposizione dettata dalla costituzione stipulata dopo la seconda guerra mondiale, ha scopi puramente passivi. In poche parole il Giappone ha rinunciato per sempre all'opportunità di dichiarare guerra ad altri Paesi. Perciò l'esercito non è come qui in Inghilterra che viene utilizzato per missioni militari offensive. Là viene impiegato solo per scopi difensivi e missioni umanitarie-.
Sam alzò un sopracciglio -un esercito che non fa la guerra? No, scusa, ma perché?-.
Io ridacchiai divertito -non è che non fa la guerra- le spiegai cercando di memorizzare ogni spiegazione datami poco prima -devi sapere che dopo la sconfitta subita nella seconda guerra mondiale, al Giappone fu imposto lo smantellamento dell'apparato militare. Motivo per cui ha subito questo cambiamento così traumatico nel post guerra-.
Sam annuì mentre addentava con voracità il suo fishburger -e come pensi di fare con la lingua?-.
Mi portai una mano al mento e risposi sicuro di me -appena vinta la guerra, gli Stati Uniti hanno occupato il Giappone e hanno costruito una serie di basi militari tutt'ora attive-.
-E perciò laggiù si parla inglese senza alcun problema- dedusse Sam terminando il suo panino -tutto chiaro-.
-Perciò ora come devi procedere?- domandò Sam afferrando alcune delle mie patatine e mangiandole sotto i miei occhi.
-Quelle erano mie- dissi puntandole il dito contro.
Lei mi rispose con una linguaccia, rubandomi ancora una mangiata di patatine dal piatto.
-Perciò ora come devi procedere?- domandò Sam nuovamente sfidandomi con lo sguardo.
Assottigliai gli occhi fino a quasi chiuderli per poi rispondere stizzito -hanno richiesto alcune scartoffie preliminari per valutare la mia preparazione, poi mi contatteranno per procedere con un colloquio conoscitivo e, se tutto va bene, mi inviteranno in Giappone per dei test attitudinali e fisici-.
-Quindi te ne andrai- disse con tono malinconico.
-Non è detto- mi avvicinai a lei sorridendo -non vorrai certo farmi credere che sei triste per la mia partenza-.
-Finalmente ti levi dalle scatole una volta per tutte!- rispose lei alzandosi dal tavolo e appoggiando i piatti nel lavandino.
Sam in quel momento non voleva darlo a vedere, ma era veramente triste per la mia dipartita. Perciò mi alzai dal tavolo per raggiungerla e l'abbracciai da dietro.
-Ti voglio bene, Sam- le sussurrai all'orecchio.
-Idiota che non sei altro- sbraitò lei allontanandomi da sé -lo sai che odio queste smancerie-.
Ridacchiai divertito per la sua reazione, afferrandola ancora una volta e trascinandola verso di me -te l'ho mai detto che sei particolarmente carina quando ti arrabbi?-.
-Ed io te l'ho mai detto che con la gonna ed i tacchi saresti proprio un bel figurino?- mi rispose lei cercando di mantenere intatta la sua corazza.
Sorrisi e le accarezzai il viso, scostandole una ciocca dal volto -mi mancherai, Sam Elliots- le dissi guardandola poi fissa negli occhi.
-Sei un cretino...- disse lei di getto, girando il volto a sinistra e cercando quasi di mascherare la sua espressione sgomenta.
Spostai la mano dalla guancia fino al mento, costringendola a reggere il mio sguardo e guardarmi dritto negli occhi -ti voglio bene anche io- le risposi.
Sapevo bene cosa stava passando in quel momento. Lei era fatta così, non lo dava a vedere, ma era ovvio che la mia decisione l'aveva realmente turbata. Eppure era stata lei ad incitarmi a seguire questo percorso alternativo.
I suoi occhi languidi mi penetrarono dritto al cuore. Sentii come una tenaglia stringermi forte il petto.
Quella notte l'amai come mai prima d'ora. L'amai in ogni modo possibile, donandole tutto me stesso e facendole provare ogni sorta di piacere. L'amai come se non ci fosse un domani per noi, perché in effetti fu così. Quello fu un addio a tutti gli effetti.
Non vi fu un domani per noi perché, a distanza di pochi giorni, venni contattato dalla Chitose Air Base poiché ritenuto idoneo ad affrontare i tanto temuti test di ingresso.
Nel breve giro di una settimana, quindi, mi ritrovai a mollare ancora una volta ciò che conoscevo e più mi era familiare, per salpare alla rotta dell'ignoto.
Se per ormai quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in Inghilterra, secondo regole specifiche, parlando una lingua conosciuta sin dalla nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a dover intraprendere un viaggio verso tutto ciò che mi era estraneo, ma che per metà mi apparteneva, alla ricerca della felicità. Perché sì, per me diventare un pilota era un po' come raggiungere l'apice della felicità.





* nove inches come unità di misura, corrisponde ad un numero trentasei di scarpe italiane.
** addio
*** buonasera

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

INFO: finalmente TBE inizia ad intrecciarsi con Choices, perciò da questo capitolo in avanti – almeno per chi ha avuto modo di leggere la mia precedente minilong – ritroverete un volto noto, Taichi Yagami, e alcune citazioni e scene prese proprio da Choices.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: verde
Personaggi capitolo: Brent e Taichi

Capitolo 8



Se per quasi vent'anni della mia vita avevo vissuto in Inghilterra, secondo regole specifiche, parlando una lingua conosciuta sin dalla nascita, ora mi ritrovavo dall'oggi al domani a dover intraprendere un viaggio verso tutto ciò che mi era estraneo, ma che per metà mi apparteneva, alla ricerca della felicità. Perché sì, per me diventare un pilota era un po' come raggiungere l'apice della felicità.
Lasciai alle spalle poche cose a me care, tra cui la casa che per un'intera vita era stata testimone della mia maturazione, che aveva abbracciato la morte di mio padre e che aveva condiviso i suoi ampi spazi con me; Sam che il giorno in cui partii venne a trovarmi in aeroporto regalandomi un bacio di addio, insieme alla sua maglietta preferita dei Pantera; l'Inghilterra e le sue usanze, sicuramente meno ferree di quelle che avrei dovuto adottare in Giappone.
I miei sogni, però, erano più grandi di qualsiasi altra cosa e non avrei concesso nemmeno a me stesso di ostacolarli.

Quando giunsi per la prima volta in Giappone mi accorsi subito di non essere altro che un giovane turista spaesato. Non vi era nulla che richiamasse alla mia Inghilterra, tutto mi era così estraneo e diverso. Seppur per metà potessi ritenermi giapponese, nella realtà dei fatti non lo ero per nulla. Non sapevo nulla di questo magico Paese, se non ciò che avevo potuto curiosare sulle guide turistiche riguardanti la sua tradizione solida e stimata in tutto il mondo, il cibo salutare e ormai commercializzato in tutto il mondo, l'architettura nota all'estero soprattutto per i suoi santuari scintoisti e dai templi buddhisti.
Il mio primo obiettivo era l'aeroporto di Shin Chitose, più correttamente definito, situato a sud-est della città di Chitose e Tomakomai, nell'isola di Hokkaido. Nonostante non ricopra un'area particolarmente vasta, o per lo meno sicuramente inferiore rispetto all'aeroporto di Londra, Shin Chitose gode di una notevole estensione in verticale. Questo aeroporto, infatti, è edificato su ben cinque piani, tra cui un piano interrato collegato alla linea ferroviaria principale di Sapporo tramite treni locali ed espressi.
Quando approdati finalmente sulla terra ferma, notai subito un'organizzazione quasi maniacale da parte dei giapponesi. Tant'è che non ebbi alcuna difficoltà a raggiungere uno dei quattro tour desks situati al primo piano dell'aeroporto. Avevo bisogno di mangiare. In volo mi ero limitato a prendere una bottiglietta di acqua e un sandwitch confezionato veramente terribile, dal sapore quasi plastificato e la consistenza simil cartone del latte. Tutto ciò aveva solo aiutato il mio stomaco ad aprirsi ulteriormente ed ora ero in completa balia del brontolio della mia pancia. La signorina al tour desk mi disse di dovermi recare all'ufficio informazioni per questo genere di domande, ma, prima ancora di lasciarmi andare, si guardò intorno e mi indicò in fretta e furia la strada da imboccare per poter raggiungere uno dei tanti ristoranti presenti all'interno dell'aeroporto. Quel suo gesto, quasi celato dalla paura, mi lasciò perplesso. Era come se il dover infrangere le regole lì fosse un reato perseguibile dalla legge.
Al secondo piano trovai moltissimi negozi in cui poter far shopping, ma, vista la motivazione che mi aveva spinto a raggiungere il Giappone, oltrepassai quei locali per giungere al terzo piano dedicato all’area ristoro. In Inghilterra non tutto il cibo take away era così prelibato come in Giappone. Mi ritrovai ad amare il pesce crudo, cosa che non avrei mai immaginato in vita mia. Mi sono sempre definito una persona fortemente carnivora. Tra una bella costata al sangue ed un trancio di salmone, ho sempre preferito la carne. Eppure, sarà stato il cambio di clima, il cambio di luogo, di cultura, ma avevo riscoperto un amore per determinate pietanze che non sapevo neanche di avere. Mi ritrovai a pranzare con un mucchietto di riso in bianco avvolto in un foglietto scuro di non so cosa. Scoprii solo successivamente che mi ero cibato con delle alghe.
Guardai il mio orologio e mi affrettai a raggiungere l'esterno di quel palazzo a mezza luna, per poi cercare un modo per raggiungere l'accademia.
Mi documentai nel frattempo in internet e scoprii che l'aeroporto di Shin Chitose aveva aperto nel 1991 in sostituzione dell'adiacente aeroporto di Chitose. Quest'ultimo divenne poi esclusivo per le forze di autodifesa giapponesi, nonostante tuttora fosse ancora collegato fisicamente allo scalo civile.
Ecco, Chitose era il mio obiettivo prossimo.
Dovetti chiamare un taxi per poter raggiungere la Chitose Air Base. Meno di dieci minuti di viaggio ed eccomi lì, innanzi a quello che speravo essere il mio futuro.

Appena varcai le porte della base aerospaziale, venni accolto molto calorosamente dal medesimo personaggio con il quale avevo parlato la settimana precedente al telefono. Uno dei tanti, visto il giro di chiamate che dovetti fare.
Il colonnello Itou si presentò molto cordialmente, con il tipico saluto giapponese, chinando lievemente corpo e capo in avanti. Io rimasi per un istante confuso sul da farsi, ma poi realizzai di essere un semplice ospite in uno dei paesi più tradizionalisti del mondo. Perciò imitai il mio futuro superiore per poi fronteggiarlo.
-È un piacere averti qui, Brent Smith- mi disse il colonnello allungando la mano verso di me e stringendola forte nella sua.
Sorrisi per quel gesto. Fu proprio in quella movenza che ritrovai una certa familiarità e un tocco di ospitalità internazionale.
-Smith, ho controllato le tue carte prima di convocarti qui per l'ammissione e non ho potuto fare a meno di notare, con piacere, che sei nato a Tokyo. Dico bene?- mi domandò l'uomo mentre mi invitava a seguirlo all'interno dell'edificio.
La struttura era in cemento grezzo, completamente priva di ogni possibile decorazione o rifinitura. Adiacente ad essa vi erano diversi capannoni piuttosto grandi che si reggevano in altezza per poter accogliere al loro interno velivoli militari di svariate forme e dimensioni.
-Sì, purtroppo non so molto altro sulle mie origini asiatiche- risposi vago guardandomi attorno e ammirando la struttura internamente.
-Hai mai vissuto in Giappone?- mi domandò proseguendo il suo cammino verso un corridoio che appariva infinito.
-Che io sappia solo per pochi mesi, ma giusto quand'ero ancora in fasce- risposi cercando di captare eventuali note negative sul suo volto.
Ma quell'uomo appariva così risoluto e inespressivo, che non mi diede modo di interpretare la sua espressione.
-Eccoci- disse ad un tratto dopo aver raggiunto un portone piuttosto pesante ed invitandomi ad entrare -il generale ti sta aspettando-.
Presi un respiro ed oltrepassai l'uscio del suo ufficio, per poi ritrovarmi faccia a faccia con un uomo distinto, vestito solo della sua migliore uniforme.
Mi salutò anch'egli inchinando il capo in avanti ed io dovetti fare altrettanto.
-Accomodati- mi disse con scarso entusiasmo -colonnello, lei invece può congedarsi-.
Doveva sicuramente trattarsi di un suo superiore visto il tono utilizzato per invitarlo ad uscire dalla stanza.
-Sono Kobayashi, generale di brigata aerea dell'aeronautica giapponese- disse afferrando alcuni documenti posti sulla sua scrivania ed iniziando a sfogliarli proprio davanti a me.
Mi ritrovavo davanti al primo, in ordine gerarchico crescente, tra i gradi degli ufficiali generali. Incredibile, in quel momento mi sentii minuscolo ed insulso quanto un moscerino.
-Brent Smith, nato a Tokyo da donna ignota. Tuo padre è un medico ing...- iniziò leggendo la mia storia personale prima di venir interrotto da me.
-Era- lo corressi.
-Mi scusi?- domandò non capendo la mia correzione.
-Mio padre era un medico- mi spiegai meglio.
Il generale non accennò neanche per un istante ad una reazione empatica nei miei confronti. Si schiarì la voce e proseguì la mia introduzione -vedo che hai sempre vissuto in Inghilterra, che non parli giapponese e non hai mai vissuto qui in Giappone-.
Il modo con cui lesse la mia scheda personale mi fece quasi venire i brividi.
-Non mi pare tu abbia tratti asiatici- mi disse alludendo alla forma dei miei occhi, decisamente più occidentale della sua.
-Ecco, io...- avrei voluto rispondere a quell'accusa, ma la verità era che non sapevo nulla circa il mio concepimento e la mia madre biologica.
-In ogni caso il certificato non lascia dubbi, sei giapponese, seppure per metà- dichiarò infine rimarcando questa frase quasi con tono accusatorio, per poi proseguire di getto -noto con piacere che, rispetto a molti nostri cadetti della tua età, hai già avuto esperienze in mimetica. Sei stato in una scuola a stampo militare ed hai frequentato per un breve periodo un'accademia di aviazione-.
-Sissignore- dissi sentendomi quasi in dovere di impettirmi innanzi ad un personaggio del suo calibro.
L'uomo si alzò dalla scrivania per poi soffermarsi davanti alla finestra del suo studio e guardare esternamente -devi sapere Brent, che al contrario di quanto si possa percepire dai film esteri, non siamo un popolo particolarmente chiuso nelle proprie mura-.
Alzai un sopracciglio non capendo perfettamente il discorso da lui iniziato.
-Noi non abbiamo come obiettivo quello di arruolare soldati da macello, noi non puntiamo a fare la guerra. Il nostro esercito è stato redatto solo per poter difendere il nostro paese e per poter aiutare i nostri alleati in missioni di salvataggio, recupero o umanitarie. Per questo non arruoliamo uomini basandoci solo sul loro curriculum o sul loro aspetto- nonostante il suo discorso potesse apparire piuttosto glorioso, continuavo a non capire dove volesse andare a parare.
-Voglio conoscere il vero Brent Smith, quello che ha fatto miglia e miglia pur di poter diventare un pilota, quello che ha abbandonato la sua patria per poter inseguire un sogno- si voltò verso di me sorridendomi -voglio conoscere la persona che si cela dietro queste carte, perché il mio sesto senso non si smentisce mai e in questo momento mi sta invitando a prendere seriamente in considerazione l'idea di arruolarti nel mio esercito. Un esercito che io stesso ho scelto di persona, soldato per soldato, senza eccezioni-.
Sentii il cuore salirmi fino in gola e pulsare talmente forte da farmi credere per un istante di sentire il terremoto sotto i miei piedi.
-Sei pronto Brent Smith a raccontarmi tutto di te?- mi domandò allungano una mano in mia direzione ed invitandomi a stringerla nella mia.
-Prontissimo!- risposi senza alcun indugio alzandomi dalla mia sedia e raccogliendo la sua sfida.

Trascorsi quasi tre ore intere raccontando ogni singolo dettaglio della mia vita, mettendo da parte l'imbarazzo e cercando di non tralasciare nessun particolare. Gli raccontai dell'incontro piuttosto bizzarro dei miei genitori, del mio rapporto con mio padre e di quanto io abbia patito la mancanza di una figura materna. Decisi di aprirmi completamente a quello sconosciuto perché, mal che sarebbe andato, mi avrebbe negato l'accesso in accademia e sarei tornato dall'altra parte del mondo senza doverlo più rivedere. Perciò tanto valeva fare un tentativo.
Gli raccontai persino del sergente Gamble, della seconda possibilità che mi era stata concessa e dell'influenza positiva che quell'uomo aveva avuto nei miei confronti. Parlai persino di Sam, tralasciando ovviamente qualsiasi scampagnata avvenuta sotto coperta. Comprendetemi.
Quando mi domandò perché proprio l'aviazione, io intrapresi un lungo discorso sulla mia passione infantile, raccontandogli della favola di Peter Pan e della farfalla monarca. Gli mostrai persino il mio tatuaggio e lì intravidi un'espressione che probabilmente non avrei mai potuto dimenticare. Mi aspettavo di venir preso per pazzo, strano o comunque che il mio discorso lo avrebbe fatto desistere dall'ammettermi in accademia. Ed invece, con mia grande sorpresa, si tolse la giacca, per poi sfoderare un tatuaggio molto simile al mio.
-Chou- mi disse ricomponendosi subito e non dandomi eccessivo tempo di ammirare il suo tatuaggio -mia figlia-.
Sospirò poggiandosi una mano sul petto e socchiudendo gli occhi quasi a voler ricrearsi la figura della figlia nella mente.
-Sai che cosa sono i bambini farfalla, Brent?- mi domandò allora il comandante tornando a sedersi dietro alla sua scrivania.
Scossi il capo non comprendendo la serietà di quel discorso.
-Chou è nata con una grave malattia della pelle. La sua epidermide era talmente delicata da avere continue bolle e lesioni, sangue ed infezioni. Bambini farfalla proprio per questo motivo, perché la loro pelle è delicata proprio come le ali delle farfalle-.
-Chou significa farfalla- disse indicandosi il petto, esattamente dove giaceva il tatuaggio di una splendida farfalla monarca -Chou è morta poche ore dopo il parto-.
Mi sentii la gola arida, incapace di proferire parola innanzi ad una rivelazione simile. Il mio sguardo confuso fece intendere tutto e il comandante tornò a sorridermi per poi aggiungere -abbiamo entrambi perso una persona a noi cara, siamo legati da una farfalla monarca e ci piace volare. Tu credi nelle coincidenze, Brent?-.
Alzai lo sguardo verso la sua imponente figura. Solo in quel frangente notai con mio grandissimo stupore che quell'uomo era persino più alto di me. Eppure avevo sentito dire che gli asiatici erano tutti bassi. Dicerie, come sempre.
Lo guardai dritto negli occhi e, prima ancora di formulare una qualsiasi risposta a senso compiuto, intravidi nei suoi occhi quelli del sergente Gamble. E fu allora che sorrisi di cuore.
-Non credo nelle coincidenze, signore- risposi schiettamente.
-Neanche io, figliolo- rispose lui alzandosi dalla scrivania e battendo le mani tra di loro -benvenuto in accademia, Brent Smith-.
Lo guardai con stupore e con lo sguardo di chi davvero non si sarebbe mai aspettato un inserimento tanto immediato.


Ecco, quella fu la svolta di cui avevo bisogno. La svolta che mi portò sin qui.
Quel giorno il comandante in carica si mise una mano sul cuore e mi introdusse in accademia, facendomi saltare persino al gradino successivo, evitandomi così ogni incombenza noiosa e umiliante tipica del novellino.

***

Negli ultimi due anni ho imparato la lingua giapponese e ho affinato le mie conoscenze in ambito militare. Ho imparato a pilotare e, modestia a parte, sono un talento nato.
Ho chiesto di venir collocato nel gruppo adibito al soccorso estero, perciò trascorro mesi interi fuori dal Giappone per poter portare a termine alcune tra le più ardue missioni. Al di fuori di tutto ciò, vivo la vita come viene, senza ostacoli o limiti imposti da nessuno. Sono finalmente il pieno artefice del mio destino e questa sensazione di onnipotenza nei miei stessi confronti è indescrivibile.

Ho fatto un discreto salto di qualità nell'ultimo periodo. Con l'imminente aumento di grado, ho persino avuto il privilegio di poter pilotare uno dei pochi prototipi in circolazione di Lockheed Martin F-35 Lightning II, da noi definito anche JSF-F35. Si tratta di un caccia multiruolo monoposto di quinta generazione, a singolo propulsore, con ala trapezoidale a caratteristiche strealth, ovvero completamente invisibile ai radar o a qualsiasi dispositivo di localizzazione moderno. Insomma, un gioiellino niente male che l'aeronautica militare ha deciso di affidare proprio a me. Vi parlo di circa 14 miliardi di yen di velivolo, non so se mi spiego.
Inoltre, visto che nella vita non ho avuto eccessiva fortuna in quanto amicizie e buone compagnie da frequentare, vivo la maggior parte delle mie missioni in solitaria. Beh, vivevo a dirla tutta. Nell'ultimo mese mi è stato affiancato un nuovo cadetto, un certo Taichi Yagami. Non l'ho ancora ben inquadrato, ma ha un trascorso recente piuttosto doloroso con il quale fatica a convivere. Per ora ci limitiamo a parlare di aerei e di tutto ciò che concerne l'aviazione, senza mai sforare l'argomento.
Un mese effettivamente è troppo poco per poter dire di conoscere veramente una persona. Eppure mi sono legato a questo ragazzo sin da subito. È terrorizzato e spaventato da ciò che sta facendo. Si vede che la scelta fatta non è stata sua. In realtà non gli è neanche stata imposta. Diciamo che per una serie di motivi, ha optato per la carriera militare.
Sapete, circa un paio di anni prima ha perso il padre e vista la situazione economica familiare piuttosto precaria, ha ben pensato di arruolarsi così da poter sostituire l'introito del padre.
Ebbene sì, è una cosa che abbiamo in comune. Una delle tante, in realtà. Lui è un po' come me. È un ragazzo estremamente coraggio e impulsivo, vive ogni istante della sua vita dando tutto sé stesso e ragionando con il cuore e non troppo con la mente. Il che non sempre lo porta a prendere decisioni giuste. Ma chi meglio di me può capirlo.
Nonostante sia solo un mese che lavoriamo a stretto contatto, in lui ho trovato un fratello d'armi, una persona su cui contare e che possa guardarmi le spalle anche sul campo. Cosa che non potrei dire circa i miei commilitoni.
Anni prima ebbi alle spalle un uomo che diede sé stesso per me. E no, non mi riferisco a mio padre, bensì al sergente Gamble. Un uomo che è riuscito a guardare al di là di me come ragazzino, con gli ormoni a palla e con il malumore perenne. Lui ha riposto in me la fiducia di cui avevo bisogno, spronandomi a diventare una persona migliore. Ed è ciò che credo e spero di essere diventato. Ecco perché Taichi mi piace, perché in parte mi ricorda la transizione che ho subito. E lui, proprio come me, merita di essere spalleggiato da una persona che creda in lui e che possa aiutarlo a superare le difficoltà che sta vivendo, dandogli una seconda opportunità di riscattarsi.
Ed io vorrei proprio essere quella persona.

Nonostante Taichi abbia paura di ciò che lo attende all'estero, è piuttosto elettrizzato all'idea di allontanarsi dal Giappone. Dice che spesso i ricordi lo divorano nel sonno.
-Sono convinto che una volta in Russia riuscirò a trovare la pace interiore- mi dice un giorno nell'interfono mentre sorvoliamo la punta più a Est della Cina diretti in Siberia.
-Non ci giurerei molto- gli rispondo guardando fuori dal mio finestrino -la Russia può essere un posto abbastanza inospitale-.
-Che ti è successo veramente, Taichi?- gli domando cercando di non perdere il controllo del mio velivolo -c'è un addensamento qui avanti, fa attenzione-.
Scorgo il suo velivolo fluttuare leggermente su e giù, ma senza mai deviare la propria rotta.
-Mio padre è morto, questo già lo sai- mi dice facendomi annuire -solo dopo la sua morte ho scoperto che la mia famiglia aveva dei debiti insoluti e io sono l'unico uomo di casa-.
Sorrido a quel pensiero così tradizionalista. Ancora una volta la mia mente fluttua a Yoshiko ricordandomi delle sue lettere e di quanto fosse costante in lei e nella sua cultura il dover dipendere da un uomo.
-Capisco...- gli rispondo senza voler entrare nel merito dell'argomento.
-Non è come pensi tu- mi rimprovera. Sento che il suo tono è cambiato, quasi mi rimprovera per i miei pensieri accusatori.
-E cosa penso?- gli domando fingendomi vago.
-Che è una mentalità arretrata la mia, che dovrei permettere a mia madre di lavorare e che non dovrei tarparmi le ali facendo un lavoro che non mi piace- mi risponde con fermezza.
Seppur io non stia condividendo il mio velivolo con lui, mi ritrovo a strabuzzare gli occhi, non immaginandomi davvero di poter essere anticipato in quel modo.
-Già, lo sapevo- aggiunge poi, quando non riceve alcuna mia risposta.
Sorrido.
Taichi Yagami, che personaggio.
-E allora com'è andata veramente?- gli domando in tono forse troppo saccente.
-Mia madre non ha mai lavorato in vita sua e sicuramente alla sua età non l'avrebbe assunta nessuno. Rischiavamo lo sfratto e mia sorella è ancora minorenne. Il che significa che gli assistenti sociali avrebbero potuto affidarla ad una famiglia temporanea. A meno che io non fossi stato in grado di trovare un buon lavoro- mi spiega lui iniziando a perdere quota.
Lo affianco con il mio aereo e gli faccio cenno di scendere meno precipitosamente -ti sei sacrificato per loro-.
- È una domanda?- mi chiede sghignazzando.
-Un'affermazione, piuttosto- gli rispondo.
-Credevo di sì. Il primo anno è stato uno schifo. Ci credi se ti dico che mi hanno persino fatto pulire i cessi con lo spazzolino?- mi dice ridacchiando.
-Scherzi? Ancora con queste usanze così barbare?- domando io ringraziando di aver saltato quel rito di passaggio.
-Ho seriamente creduto di dovermi sacrificare per loro, che questa era necessariamente la strada più giusta da intraprendere- mi spiega con quel tono di chi ha ancora qualcosa da dire.
Segue una lunga pausa nella quale io percepisco quasi il bisogno di una sua ulteriore confidenza. Quel chiacchierare con lui e quel brusio nelle orecchie, che aveva preso il posto del silenzio tombale a cui ero generalmente abituato, mi rendono felice.
Un amico, ecco di cosa avevo veramente bisogno.
-Mi piace volare, mi fa sentire libero- aggiunge ad un tratto.
-Capisco cosa intendi dire- gli rispondo sentendomi quasi invadere dalla gioia di poter condividere con lui una passione tanto grande e radicata in me.
-Ma ora portiamo i nostri culi a terra e andiamoci a bere una bella bottiglia di vodka- dico io in fase di atterraggio -ti ci vuole una bella bevuta per far scivolare via ogni pensiero-.
Dal finestrino lo vedo alzare un pollice in alto, vittorioso e pronto alla sua prima vera avventura.

Sapete quel detto che dice chi trova un amico, trova un tesoro? Ebbene sì, il bimbo sperduto che è in me, ha appena raggiunto il tanto e ambito traguardo di sempre: il tesoro dei pirati. Peccato che in questo caso nella mia cassa vi è un qualcosa che va ben oltre il tangibile. Il mio tesoro è proprio lui, Taichi Yagami.
Quel giorno abbiamo sancito un'amicizia importante mediante una sana bevuta alcoolica che, ahimè, non è propriamente finita bene. Solo più tardi ho scoperto che Taichi non aveva mai bevuto in vita sua. Ebbene sì, serata dalle prime esperienze, primo viaggio aereo in solitaria, primo volo all'estero, prima bottiglia di vodka e prima simpaticissima ed indimenticabile lavanda gastrica.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Rating capitolo: giallo per accenni a tematiche forti
Personaggi capitolo: Brent, Taichi, altri

Capitolo 9



Gli ultimi sei mesi trascorsi in Russia sono stati impegnativi per Taichi e me. Abbiamo dovuto fronteggiare una rivolta popolare proprio alle porte di San Pietroburgo.
Quella città dall'estrema bellezza rappresenta forse una delle mete più ambite in Russia, non tanto per le vaste dimensioni che ricopre, ma per lo più per l'importanza che riveste il suo porto e la sua storia. A livello architettonico ospita alcune tra le strutture più maestose e belle al mondo. Parliamo di secoli di storia dell'arte, un viaggio incredibile alla scoperta dello stile barocco e neoclassico. Non per niente l'intero centro storico di San Pietroburgo è stato riconosciuto come patrimonio dell'UNESCO.
Purtroppo, però, la ricchezza di questa città è racchiusa al suo interno, abbracciando esternamente un grado di povertà che rasenta l'estremo. Ed è proprio per questo motivo che nel secolo precedente si è verificato un brusco picco nel livello di criminalità. In realtà, la causa maggior di questa presa di potere da parte della malavita è dovuta ai cambiamenti avvenuti dopo la perestroika. Parliamo di riforme economiche e politiche avviate sotto lo stato federale dell'Unione Sovietica, finalizzate alla riorganizzazione dell'economia e della struttura politica e sociale del Paese. Tutto ciò, come previsto, ha comportato un declino del tenore di vita ed una diminuzione dell'efficacia delle forze di polizia locali. Motivo per cui è stato reso necessario l'intervento dell'esercito. In particolar modo, dopo l'assassinio del vice governatore Manevic e della deputata Starovojtova, San Pietroburgo fu soprannominata dalla stampa russa come la capitale del crimine. Ed è un nome che tutt'ora si trascina dietro.
Seppur il Giappone non sia un alleato politico e militare della Russia, adempie comunque al suo patto di salvaguardare le rivolte ed i suoi connazionali all'estero. Motivo per cui io e Taichi siamo qui ora, in Russia.
La cerchia di persone più povere del paese ha ben pensato di assediare l'esterno di San Pietroburgo, cercando così di prendere il potere dell'intera città. E per farlo si è avvalsa di alcune ambasciate straniere, rapendo tra i tanti alcuni dei nostri connazionali. Ed ecco che qui interveniamo io e Taichi, che, attraverso una missione di recupero, abbiamo l'ordine di riportare tutti i nostri compatrioti in Giappone. Ovviamente sani e salvi, altrimenti che razza di operazione di salvataggio sarebbe questa.
E ci siamo quasi riusciti. Circa tredici persone tra adulti e bambini. Dico quasi perché purtroppo gli intoppi non sono mancati.
Nel gruppo dei tredici vi era anche una ragazza italiana, una certa Ilaria. Si era trasferita nel paese di ghiaccio come medico volontario. Aveva abbandonato una vita agiata e piena di ricchezze per privarsi di ogni bene e aiutare il prossimo. Una ragazza che poteva avere all'incirca l'età di Taichi o al massimo la mia. Ilaria aveva ammesso di aver trascorso un paio di anni in una prigione politica russa a causa dei suoi solidi ideali. Lei credeva nelle seconde possibilità e nel rispetto reciproco. Aveva imboccato quella strada perché voleva poter dare assistenza medica gratuita anche a coloro che non se lo potevano permettere. Una ragazza d'oro che aveva prestato il suo sapere a coloro che più lo necessitavano.
L'abbiamo salvata da una fine lenta e dolorosa. Ciò nonostante Ilaria, seppur non supportata dall'ambasciata italiana, ha deciso di rimanere in Russia per proseguire il suo lavoro di volontariato.
In ogni caso, quella missione mi ha letteralmente privato di forze ed emozioni. Poter vedere con i miei stessi occhi la diversità che si può riscontrare all'interno ed all'esterno di una singola città, è sconvolgente. Tutti i magnate e le famiglie benestanti possono godere di certi privilegi, che la maggior parte dei rifugiati esiliati all'esterno della città non potrebbero mai avere nella loro intera vita.
In ogni caso, anche in questo frangente, sono stato grato di aver accanto una persona come Taichi. Certo, è un tantino inesperto e alle volte troppo impulsivo, ma cavoli se ha coraggio da vendere! Il suo carattere così determinato lo spinge ad agire persino alla luce del sole. Perciò non mi resta che coprirgli le spalle scaricando l'intero caricatore del mio mitra sul suolo nemico. E quale nemico. Il popolo, i rifugiati, i ribelli non sono altro che persone come me, come te. Persone comuni, disperate e angosciate dalla situazione per lo più economica che vige sulle loro teste. Spesso abbiamo scoperto che l'arma più efficace con loro non è altro che la moneta. La moneta d'oro vera e propria, i rubli. Perché non hanno paura delle armi, non temono di morire. È gente che ormai non ha nulla da perdere. Se non muoiono sotto le armi nemiche, muoiono ugualmente di fame. Perciò poter contrattare con loro è relativamente facile, basta un pezzo di pane, o dell'acqua, o alle volte delle medicine.
Alla fine questa missione è stata una delle meno sanguinarie mai vissute. Non ho colpito neanche un uomo, se non un soldato russo ubriaco in procinto di violentare una giovane bielorussa scappata da Minsk alla ricerca di una vita nuova. E quale scelta peggiore se non cercare di scavalcare clandestinamente i confini russi.
Tutto ciò ha aiutato me e Taichi a riflettere su una cosa molto importante: per quanto i nostri trascorsi possano apparire a noi stessi turbolenti, vi è sempre una persona a noi estranea che sta vivendo una situazione di disagio ben peggiore della nostra.

È una sera come le altre, Taichi mi ha appena offerto un bicchiere di birra -mi fa strano pensare che siamo qui ormai da oltre sei mesi-.
-Già...- sussurro io bevendone un sorso.
Il freddo nordico di quel Paese ostico non mi tange più ormai. Lo trovo quasi ospitale. Mi siedo accanto a Taichi, il quale ha raccolto un paio di ceppi di legno per poter accendere un focolare davanti a noi.
-Raccontami di questa Sora- gli chiedo io alzando il bicchiere verso di lui e chiedendogli di versarmi ancora della birra.
-Non credo ci sia molto da dire- mi risponde lui allungandomi una sua foto -è la ragazza con i capelli ramati-.
-Bella- rispondo guardandola con attenzione e sorridendo -eravate piccoli qui- aggiungo notando il viso fanciullesco di Taichi.
-Eh sì, ci è stata scattata anni fa, quando ancora giocavamo a calcio insieme- mi risponde lui continuando a scolarsi la bottiglia di birra -lei è ciò che c'è di più irraggiungibile -.
Scoppio a ridere di gusto -ma come, Yagami. Corri come un velocista per tutta la distesa siberiana, saltando tra una mina e l'altra, e poi vuoi farmi credere di non riuscire a dichiararti ad una ragazza?-.
Mi guarda con sguardo severo. Probabilmente il mio appunto non gli è piaciuto, ma sorrido, è più forte di me. Mi piace stuzzicarlo, perché spesso capita che si inalbera tanto da perdere le staffe e tenermi il muso per ore intere.
-Lei è diversa da tutte le altre ragazze- mi risponde dopo un po'.
-Questa frase te l'ho già sentita dire- rispondo bevendo un altro sorso di birra -tipo un milione di volte!-.
Taichi ridacchia e proseguiamo così per circa un'oretta. Scopro che anche lui, come me, è legato ad un amore infantile. Una ragazza che sin dal primo sguardo lo ha rapito, con il quale ha un legame speciale.
Beviamo ancora e ancora. Tracannando un barile di birra e qualche bottiglia di vodka fino allo sfinimento. Alla fine siamo uno più ubriaco dell'altro.
La sua presenza mi fa piacere, è una buona spalla su cui affogare gli amari dispiaceri della vita da militare.
-Okay, okay ora tocca a me!- ridacchio io afferrando un'altra bottiglia di birra -pronto?-.
Taichi mi guarda incuriosito e, con lo sguardo annebbiato dall'alcool, mi dice -vai spara!-.
Mi posiziono meglio, con le gambe incrociate, dietro ad un prepotente falò che ormai scoppietta animatamente e domando -preferiresti andare in Iraq o restare qui in Russia?-.
-Cioè no, aspetta, tu mi stai seriamente chiedendo dove vorrei schiattare?- mi chiede Taichi alticcio -decisamente in Russia! Se mi va bene creperei prima per il freddo, piuttosto che per il fuoco nemico!-.
Scoppiamo a ridere a pieni polmoni. Siamo entrambi consci di non dover scherzare su certi argomenti, ma il poterne parlare liberamente e ad alta voce è un po' come poter espiare i nostri timori.
-Ok, di nuovo me!- dico ancora io.
-No, che cazzo, ora tocca a me!- controbatte invece Taichi.
-Non sono pronto, credo di essermi appena pisciato addosso- mi lamento un tantino sbronzo, toccandomi il cavallo dei pantaloni -no, scherzo, sono asciutti-.
Taichi cade rovinosamente con la faccia a terra a causa dell'ilarità che ho provocato in lui... o più semplicemente a causa della sua sbronza.
-Taichi, allora...- mi metto addirittura in piedi davanti a lui per essere sicuro di essere udito -quante seghe ti fai al giorno, fratello?-.
Taichi allunga un braccio verso di me e mi atterra senza indugio a terra.
-Tante, troppe per ricordarmelo- alzando la bottiglia ormai vuota di birra urla -ma le dedico tutte alla mia Sora!-.
Che idiota. È così ridicolo. Taichi non è proprio in grado di reggere l'alcool. Decisamente non fa per lui.
Ma sono questi i momenti che mi fanno sentire vivo.

Questa notte ho dormito come un bambino, un po' per l'alcool ancora in circolo, un po' perché nulla ha disturbato realmente il mio sonno.
Tutto tace intorno a me, fatta eccezione per il ronfare di Taichi. Quello sì che ci dà dentro quando cade tra le braccia di Morfeo.
Poi il mio telefono squilla. Una notifica. Una email. Erano giorni che attendevo nuove direttive circa la missione in Russia. Ormai avevamo terminato l'incarico che ci era stato affidato, perciò era questione di giorni prima di ricevere nuovi ordini.
Afferro il telefono in mano e resto abbastanza stranito nel notare un indirizzo a me familiare. Scuoto il capo, sono perfettamente conscio di aver bevuto come un cammello, ciò nonostante non mi capacito ancora una volta di quanto la mia mente voglia giocarmi brutti scherzi.
Apro l'email e leggo molto lentamente, non tanto per poter comprendere bene quanto scritto, quanto per assicurarmi di non aver seriamente le allucinazioni. Sin dalle prime due parole mi sento il cuore in gola.

Caro Bee,
non so neanche da dove iniziare... so perfettamente di essere sparita dalla circolazione e vorrei poterti spiegare il perché, ma non così, non per email.
Purtroppo ho il tempo contato in questo istante e anche solo mandarti questa email, per me, significa rischiare il tutto per tutto. Perciò andrò dritta al punto. Anni fa ti chiesi se, qualora avessi avuto l'istinto di scappare di casa, mi avresti potuta ospitare. Io purtroppo non ho altro modo per contattarti. Ma l'ho fatto, Bee. Sono scappata. E ora ho bisogno di te. Sono una codarda, sono un'egoista e probabilmente non mi merito neanche una tua risposta. Ma ti prego, sei veramente l'unica persona al quale potrei mai chiedere una cosa simile.
Yo

Nella stessa email trovo un numero di telefono con prefisso +81 e lì realizzo che lei è ancora in Giappone. Non posso far a meno di volare con la mente e leggere e rileggere quell'email quasi risuonasse particolarmente criptica nella mia mente.
Il tono con cui è stata scritta, la scarsa accuratezza con cui è stata inviata – vi sono errori di scrittura e distrazione, niente punteggiatura – tutto mi fa pensare che lei sia in pericolo. Per quanto io abbia voltato pagina, anni e anni fa, in quello stesso istante vengo catapultato brutalmente al passato e la figura di quella giovane ragazza asiatica, conosciuta anni prima sulle rive del Quay, appare nitida davanti a me.
Rimango stranito. Mi guardo a destra e sinistra, quasi mi aspetto che qualcuno possa sbucare da chissà dove dicendomi che si tratta solo di uno scherzo. Eppure lì ci sono solo io, un cielo particolarmente silenzioso, il frinire delle cicale ed il ronfare beato di Taichi.
Guardo il mio telefono e mi rendo conto di essere più titubante del previsto nel chiamarla.
Per anni ho sempre sperato di poterla incontrare di nuovo. Di riuscire finalmente a riconciliarmi a lei, riuscendo così a dirle tutto quello che per troppo tempo mi sono tenuto dentro. Eppure, ora che ne ho la possibilità, tentenno. Dall'email Yoshiko appare visibilmente sconvolta, qualcosa non va, mi pare chiaro. Forse, richiamandola, potrei scoprire di aver sempre fantasticato su una persona che non è assolutamente ciò che ho immaginato. Magari Yoshiko è stata idealizzata nella mia mente più del previsto e l'idea di poter scoprire che quell'essere per me perfetto, non esiste assolutamente, quasi mi fa paura.
Ma al diavolo i se ed i ma: non è aspettando altro tempo che troverò risposte alle mie domande. Perciò, digito pesantemente il numero da lei lasciato e appoggio il cellulare all'orecchio, faticando a trovare una frequenza di respiro sufficientemente rilassata.
-Bee?- sento rispondere dall'altra parte del telefono.
Il mio sguardo subito si spalanca e mi sento pervadere dal gelo più totale.
Mi aspettavo che, una volta sentita la sua voce, mi sarei surriscaldato tanto da arrossire in sua compagnia. Ed invece, il contrario.
Nonostante abbia detto solo il mio nome, posso giurare che la sua voce sia sottotono, cupa e rotta dal pianto.
-Dove sei?- le domando.
-Io...- attende un attimo prima di rispondere -non ne ho la più pallida idea, Bee-.
Mi agito. Ha paura, anzi, è proprio terrorizzata. Quel suo fiato corto, il sussurrare quasi non voglia essere udita da nessuno. Tutto mi fa pensare che lei sia in guai seri.
-Riesci a prendere il treno o l'aereo?- le domando senza neanche realmente ragionare.
-Il treno o l'aereo?- mi chiede lei confusa -ho circa 20.000 yen con me-.
-Perfetto, ti mando un indirizzo, quando arrivi richiamami- le dico velocemente.
-Bee, io... grazie- cerca di dirmi lei scoppiando a piangere al telefono.
Mi sento morire. Una morsa terrificante mi prende al petto. La curiosità allo stesso tempo mi assale, domandandomi cosa diavolo possa essere successo. Oggi e negli anni.
-No, non c'è tempo per i convenevoli- le rispondo forse un po' troppo glaciale -ne parleremo meglio quando potremo rivederci-.
-Okay...- mi risponde Yoshiko prima di chiudere la chiamata.
Sento il telefono scivolarmi dalle mani. Lo stringo con forza e allo stesso tempo con cura. Lo abbasso a livello del petto e osservo il display sgomento.
La sua voce.
Sono ormai trascorsi ormai quasi cinque anni dall'ultima volta che le ho parlato per email, sei contando l'ultima volta che ci siamo visti di persona. In questi ultimi sei anni, per l'appunto, ho fantasticato su di lei in ogni modo possibile ed inimmaginabile. Sono stato con altre donne, consapevole che nessuna potesse mai essere al suo pari. Mi sono limitato nelle relazioni, preferendo stare con una ragazza palesemente lesbica, piuttosto che ritrovarmi in una relazione duratura con una donna reale. Ed invece no, solo ora realizzo che non ho mai voluto instaurare un rapporto serio con nessuna donna, proprio perché avrebbe significato il mio distacco totale da lei. Io ero il diversivo di Sam e lei era il mio.
Non potrei mai equiparare Sam a Yoshiko, per il semplice fatto che, tralasciando le grosse diversità che vi sono tra le due, con una potevo fare sesso, mentre con l'altra potrei fare l'amore.
Ma no, non voglio soffermarmi su questo pensiero. Yoshiko sta chiedendo il mio aiuto e sarei un vero stronzo ad approfittarne in quel modo.

Quella notte ovviamente non sono riuscito a dormire. E come potrei farlo.
Avviso Taichi del cambio di piano. Lui viene subito affidato ad un mio pari per intraprendere una missione piuttosto leggera in Bosnia. In quanto a me, raccolgo i miei quattro stracci, faccio il pieno al mio monoposto e via dritto a casa.
Quando raggiungo Shin Chitose afferro il cellulare e chiamo subito Yoshiko. La chiamata non dura molto. Mi dice di trovarsi al piano interrato, esattamente dove si trova il treno che da Sapporo l'ha condotta sin lì.
E parto in quella direzione. Le mie gambe mantengono prima un passo piuttosto contenuto, fino ad avanzare sempre più veloci ed intraprendere una corsa quasi estenuante verso l'ascensore. Attendo impalato ed inebetito innanzi a quelle due porte metalliche e scorrevoli. Il suono di un campanello mi fa intendere che è giunto il grande momento. Appena si spalancano, esco. Questa volta a passo lento. Tentenno e allo stesso tempo mi affretto a guardarmi intorno. Una serie di sensazioni, una più contrastante dell'altra, prendono il sopravvento su di me.
E se non fossi all'altezza? E se non le piacessi più? E se mi stesse solo sfruttando? E se fosse tutto uno scherzo?
Poi la vedo e subito la riconosco.
Lei alza lo sguardo e subito mi riconosce.
In quel preciso istante si aprono le porte del diretto per Higashi Muroran e un fiume di gente scende aumentando per un istante la distanza che ci divide. Vedo gli occhi di Yoshiko calamitarsi sui miei. Si alza dal proprio posto e inizia a venirmi incontro. Cerco di camminare verso di lei, ma la gente tenta di trascinarmi altrove. Allungo le braccia nella sua direzione, aggrappandomi saldamente al desiderio di poterla abbracciare. Sul suo volto leggo dolore e sofferenza. Pian piano la gente si screma e la distanza tra di noi si azzera. Ci fronteggiamo, ma non ci salutiamo. Poi lei si getta tra le mie braccia ed io resto lì, completamente imbambolato, mentre inconsciamente la stringo forte a me.
-Yoshiko- sussurro quasi a voler spezzare quella magia. Già, perché ancora di magia si tratta.
Dopo tutti quegli anni, mi accorgo di non aver solo idealizzato il suo ricordo, ma di averlo ben radicato nel mio cuore. Vorrei tanto scattare un'istantanea di questo momento, perché sono convinto che mai nella vita potrei mai provare tanti sentimenti così contrastanti come ora.
Abbasso il volto, la stringo forte a me, le accarezzo i capelli scuri e annuso il suo profumo. Chiudo gli occhi quasi a voler memorizzare ogni istante, ogni sensazione provata.
Lei alza lo sguardo ed io mi perdo in lei, in quelle pozze di petrolio che mi fissano umide e scintillanti. Le sorrido per la prima volta e le accarezzo il volto. Vorrei tanto dirle che va tutto bene, che ora è con me e che non potrà più succederle nulla. Ma la verità è che ho paura, tanto quanto lei probabilmente. Ho paura di lasciarmi andare ancora una volta, inconsciamente, proprio come al nostro primo incontro. Ho paura di farle promesse che forse, un indomani, non potrei mantenere. Ho paura di conoscere la sua storia e di farle conoscere la mia, scoprendo magari che è cambiato tutto. Ho paura che nulla potrà mai tornare come prima.
Poi la fisso negli occhi. È bella esattamente come ricordavo. Solo più grande, più matura, con quei suoi occhi grandi, a mandorla, terribilmente profondi ed espressivi. I capelli sono persino più lunghi di quanto ricordassi, mossi e completamente al naturale. Il viso dalle linee morbide e delicate, leggermente pallido, con le labbra che accennano ad un lieve rossore, insieme alle gote, leggermente imporporate probabilmente per la vicinanza dei nostri volti. Il mio occhio malizioso scende giù, scrutando le sue curve, decisamente più sinuose e mature di quel che ricordavo.
Con la testa completamente fuorviata, cerco di riprendere il controllo su me stesso, tornando nuovamente sui suoi occhi e cercando di decifrare quello sguardo così emblematico.
-Seguimi- le dico prendendola per mano e conducendola fuori dall'aeroporto. Chiamo un taxi e senza alcun indugio decido di portarla lontana dall'accademia.

-Un hotel?- mi domanda quasi preoccupata, mentre io la guardo imbarazzata.
-Non è come credi- le rispondo velocemente avvicinandomi alla hall di quel posto -la ragazza alla reception è la fidanzata di un mio commilitone-.
Yoshiko annuisce lievemente, mentre io prendo le chiavi di una stanza e mi allontano insieme a lei verso il retro dell'edificio.
-Stanza numero 13, allora è un vizio- sussurro tra me e me, non notando però che Yoshiko mi sta fissando.
-Il tuo numero...- mi dice lei abbassando lo sguardo.
-Tu...- ma non ho il tempo di fiatare altro che lei sorride ad annuisce.
Sorrido a mia volta. Quasi quasi inizio a convincermi dell'idea che anche lei possa avermi pensato in tutto questo tempo.
Apro la porta della nostra camera e come un cavaliere di altri tempi la invito ad entrare per prima. Oltrepassa la soglia con la coda tra le gambe, testa china in avanti e sguardo di chi ha il timore persino di respirare.
Vorrei chiederle cosa le è successo, ma so bene che prima o poi parlerà di sua spontanea volontà.
Si guarda intorno, come a volersi assicurare che qui lei è al sicuro.
-Yo...- le dico cercando di attirare la sua attenzione -hai fame?-.
Lei mi guarda, ma decide di non fiatare. Annuisce solamente.
Mentre ordino una porzione di ramen e di sushi misto per telefono, la vedo rovistare nel suo zaino. Non ha altro con sé, solo un piccolo zainetto in pelle ed il portafoglio.
-Non hai caldo?- le domando dopo aver prenotato la cena e aver notato che indossa ancora un pesante cappotto invernale.
Lei si guarda intorno titubante, insicura se sbarazzarsi di quell'abito o meno. Il mio primo pensiero va a cosa potrebbe indossare lì sotto. Chiudo gli occhi e mi do dello stupido anche solo per averlo pensato.
Lei si blocca davanti a me, alza lo sguardo, mi fissa negli occhi e quasi mi studia. Poi noto i suoi occhi roteare, su e giù, analizzando la mia figura per intero. Mi gonfio di orgoglio e cerco quasi di fare una bella figura, ma i dubbi mi assalgono e subito mi domando se mai potrò essere alla sua altezza. Mi pare quasi una fotomodella. Non sono sicuro che lei sia effettivamente una bellezza mozzafiato o meno, ma è il pensiero che ho di lei che me la fa esaltare ancora di più. La trovo splendida, seducente persino in quel pesante e orrendo cappotto bordeaux. Sorrido e per un istante mi viene in mente l'abito da cerimonia che Ron indossava al Ballo del Ceppo in Harry Potter.
-Non ti piace, vero?- mi domanda poi prendendo tra le mani i lembi inferiori del cappotto e osservandolo imbarazzata.
-Diciamo che ti preferirei senza- le rispondo mordendomi la lingua prima ancora di terminare la frase -perdonami, io non intendevo quello-.
Lei ridacchia -ed invece sì-.
Allargo le braccia sconsolato, sapendo di aver ormai messo le carte in tavola -ed invece sì!- ammetto semplicemente.
Inizia a slacciare i bottoni molto lentamente. Non capisco se lo stia facendo per sedurmi, o se ogni sua movenza nella mia mente appaia più peccaminosa di ciò che realmente è.
Dopo aver liberato ogni singola asola dai bottoni, allarga i lati del cappotto sospirando rumorosamente per poi lasciarlo cadere a terra.
Sotto di esso non vi è altro che un paio di shorts fin troppo estivi ed una canottiera intima, per altro senza reggiseno. Purtroppo però i miei ormoni non hanno modo né tempo di impazzire come previsto, perché il mio sguardo viene catturato da ben altro. I miei occhi si assottigliano e si concentrano sul suo ventre libero da qualsiasi tessuto. Mi avvicino a lei con lo sguardo contrariato e con il volto di chi ha appena scoperto un segreto che lascia veramente il segno.
Le accarezzo il ventre facendola tremare più di paura che altro, poi, con la mano, risalgo fino a far strusciare il mio indice contro tutto il suo braccio destro.
-Ti prego, Bee- mi supplica lei con occhi ormai colmi di lacrime -non guardarmi in quel modo-.
-Io...- ingoio un rivolo di saliva che mi scende dalla bocca senza permesso.
- È stato mio padre- poi finalmente arriva la rivelazione -ha picchiato mia madre e poi ha punito me per essermi messa in mezzo. Lo fa ormai da che ne ho memoria-.
Rimango imbambolato a guardare il suo corpo ricoperto di lividi e un senso di nausea mi stringe la bocca dello stomaco.
Faccio per fiatare, ma qualcuno suona alla porta. Sul volto di Yoshiko appare un'espressione di puro terrore. La invito a chiudersi per un istante in bagno, mentre vado a vedere di chi si tratta. Per fortuna è solamente il ragazzo delle consegne. Pago la cena lasciandogli anche una generosa mancia, tutto pur di farlo filare via da qui nell'immediato.
Appoggio il sacchetto del take away sul tavolino della stanza e mi dirigo in bagno, ritrovando Yoshiko riversa a terra a piangere come una bambina indifesa.
-Bee, è stato orrendo- mi dice tra un singhiozzo e l'altro -ho seriamente creduto di morire-.
Quelle poche parole mi prendono alla sprovvista. Mi sento impotente e inutile. Poi però la guardo avvinghiata alla mia maglia e capisco di poter fare qualcosa per lei. Forse è giunto il momento di tirare fuori l'uomo che è in me, dedicando anima e corpo all'unica persona che io abbia mai realmente amato in vita mia.
Le sollevo il capo e le faccio una promessa -giuro che d'ora in poi mi prenderò cura io di te-.
Lei annuisce. Nei suoi occhi leggo gratitudine, ma soprattutto scorgo uno sguardo di fiducia nei miei confronti.

Quasi tre anni fa dissi al generale Kobayashi di non credere nelle coincidenze. Ma quel giorno mentii.
Io credo nelle coincidenze, anzi, io spero nelle coincidenze. Perché la mia vita va avanti solo a coincidenze. È un caso che diversi anni fa io abbia conosciuto Sam? No, mio padre era in procinto di morire ed io avevo bisogno di una spalla su cui contare. E lei era lì, esattamente dove doveva essere. Dopo di lei è arrivato Taichi ed ora posso contare su di lui non solo come fratello d'armi, ma soprattutto come migliore amico.
Sebbene questo scambio fortemente imparziale di cause ed effetti possa apparire una nozione estremamente lontana da ciò che di più scientifico vi è al mondo, vi stupirà sapere che è un concetto chiave che si fonda sulla matematica e sulla fisica moderna. Una fisica moderna che non ha nulla a che fare con quella quantistica, ma che è fortemente legata alla teoria del caos. L'effetto farfalla è facile da comprendere e la mia vita, forse, ne è il più palese esempio. Ogni piccolezza da me vissuta, come quelle elencate sopra, mi ha portato ad essere ciò che di meglio non potevo essere. Certo, mi fa sorridere come l'icona della farfalla sia sempre così presente all'interno della mia vita, in maniera ben più concreta e sotto forma di essere vivente, o come idea astratta con basi fortemente scientifiche. La farfalla, così delicata nel suo volare e apprezzata per i suoi colori - monarca in particolare - immaginata come un essere innocuo, con un suo semplice e fievole battito di ali può causare una tempesta. Questo perché la variazione di pressione causata dalle ali può amplificarsi nello spazio e nel tempo e assumere dimensioni inimmaginabili.
Perciò la mia vita si riflette ancora una volta in una farfalla in tutto e per tutto.
Volete sapere perché anche in questo caso sono convinto che Yoshiko non sia una coincidenza? Ieri notte, prima di sbronzarmi insieme a Taichi, sono riuscito a coronare uno dei miei sogni d'infanzia. Eravamo solamente io e lui, Taichi e me. Lui era disteso sopra un manto erboso guardando il cielo tingersi prima di un viola scuro, poi di un blu notte. Poi ho scorto un lepidottero quasi fluorescente, illuminato dal timido bagliore della luna, che pian piano sorgeva in cielo. Una farfalla. Ma sono sicuro che avrete già capito che non si tratta di una farfalla qualunque, ma di una monarca. Ebbene sì, l'ho vista, luminosa e leggiadra. Taichi mi ha dato del matto quando ho iniziato a rincorrerla nel tentativo di acchiapparla. Per un attimo mi sono rivisto nei panni del Brent bambino, con quell'insulso retino da acquario, pieno di speranze che, con gli anni, sono solo andate scemando. Non questa volta, però. No, perché ieri sera sono riuscito a prenderla a mani nude. La tenevo serrata tra entrambi i miei palmi. Volevo guardarla, ammirarla e rendermi conto di quanto fossero magiche le sue ali. Allo stesso tempo, però, avevo paura a schiudere la mia morsa, perché temevo potesse volare via. Ed invece non è stato così. È rimasta lì, appoggiata sulla mano sinistra, lasciandosi ammirare.
Quella sera mi sono convinto che qualcosa di bello sarebbe successo. Ed in effetti eccomi qui, in compagnia di Yoshiko. Forse non nella situazione migliore che si possa sperare, ma finalmente insieme.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


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Buongiorno,
questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.
Il rating della storia varierà man mano scriverò i capitoli, motivo per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.

Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!

Non sono solita farlo, ma dedico questo capitolo a tutti coloro che hanno atteso a lungo questo momento, in particolare lo dedico a fumoemiele, poiché originariamente questo capitolo non era stato preventivato, ma ho deciso di scriverlo per lei.

Rating capitolo: rosso per presenza di scene di natura sessuale esplicita
Personaggi capitolo: Brent e Yoshiko


CAPITOLO 10




Finalmente siamo qui, entrambi nella stessa stanza. Eppure lei appare irraggiungibile.
Mangia composta al tavolo, tenendo lo sguardo basso sul suo piatto. Vorrei chiederle tante cose, eppure non ho il coraggio di farlo, o più semplicemente ho paura a sentirne le risposte. Non riesco a mangiare nulla, la bocca dello stomaco mi si è chiusa e si ribella al mio volere. Lei, invece, nel suo contegno più totale, pare non avere fondo e mangia con gusto. Ma lo fa con finezza, senza scomporsi più del dovuto. Mi domando da quanti giorni sia in quelle condizioni e da quanto tempo è che non mangia.
Quando termina la cena, appoggia le bacchette sul suo tavolo e mi ringrazia chinando lievemente il capo in avanti. Io resto basito davanti a lei, non sapendo come reagire, cosa dire o cosa fare.
Finalmente alza lo sguardo e lo incrocia con il mio e mi sento raggelare. Trattengo il fiato ed attendo qualche secondo, nella vana speranza che sia lei ad aprire bocca per prima. Ma purtroppo non è così. Sono un codardo.
Si alza dal tavolo e raccoglie i contenitori del nostro take away assicurandosi di smaltirli negli appositi contenitori della raccolta differenziata. Poi mi guarda furtiva, insicura di cosa dover fare. Io la guardo, la osservo e cerco di leggere tra le righe, ma purtroppo non riesco ad interpretare i segni del suo corpo e questo mi fa sentire completamente inutile.
Abbasso lo sguardo sconsolato e rimango immobile, seduto al tavolo, investito da quell'incapacità di intendere e di volere.
Ad un certo punto sento un lieve tocco sul capo. Alzo lo sguardo e lei è lì, che mi fissa con quei suoi occhioni dolci, con un lieve sorriso sul volto. Non è forzato e non è nemmeno di circostanza. Mi sta sorridendo con il cuore, lo posso sentire.
Mi accarezza prima la fronte, poi scorre sul retro lungo la nuca, fino a sfiorarmi il collo con l'indice. Socchiudo gli occhi e mi lascio inebriare da quel tocco, che da anni bramo come l'aria che respiro.
Quando sento la sua pelle allontanarsi dalla mia, spalanco subito gli occhi e la cerco spaesato, ritrovandola nuovamente di fronte a me. E nulla, lei è ancora lì, ha solo smesso di accarezzarmi. La guardo e mi domando cosa possa essere cambiato in una frazione di secondo. Il suo volto è completamente apatico. Rimane imbambolata davanti a me, mi fissa, ma allo stesso tempo non mi sta guardando realmente. Il suo sguardo mi oltrepassa, come fossi un fantasma.
Allungo un braccio per afferrare la sua mano, ma subito si ridesta dai suoi pensieri e arretra. Ha paura, lei ha paura di me. Lo leggo nei suoi occhi.
Ritraggo la mano altrettanto impaurito. In questo momento non so davvero come comportarmi. Non mi sono mai ritrovato in una situazione come questa e sento quasi di non esserne all'altezza.
Non sono mai stato un buon oratore. Ai fatti, però, me la cavo egregiamente. Perciò decido di alzarmi dal tavolo e di fare una mossa azzardata che, forse, potrebbe decretare la mia fine. Mi alzo dal mio posto, fronteggiandola. La differenza di altezza tra di noi è veramente palese. Ci saranno sì e no due buone spanne di distacco. Lei è intimorita dalla mia statura. Il suo corpo si irrigidisce di colpo e l'aria si fa talmente pesante, da farmi notare il suo affanno.
Le sfioro un braccio con i polpastrelli, trapassando i suoi occhi con il mio sguardo. Risalgo lungo l'avambraccio per poi allungare la mia mano sulla sua schiena quasi nuda. Mi soffermo sulla spalla, stringendola debolmente nel mio palmo, fino a muovere i primi passi nella sua direzione, azzerando così lo spazio che ancora ci divide.
L'abbraccio e lei si lascia abbracciare. Lei sta trattenendo il fiato, lo riesco a sentire. Purtroppo, però, non riesco a capire se lo fa per il mio stesso motivo, o se ha talmente paura di me, da non riuscire neanche a muovere un muscolo.
«Mi sei mancata...» sospiro stupendo persino me stesso per quest'uscita.
Sento il suo corpo distendersi sotto il mio tocco. Le sue mani si allungano timide verso la mia schiena, stringendomi in un caldo abbraccio.
Ancora una volta si lascia andare alle sensazioni e inizia a piangere, anche se questa volta lo fa in silenzio. Sento le sue mani aggrapparsi alla mia maglietta e stringerla forte, probabilmente sgualcendola, ma questo proprio non è di mio interesse.
Le accarezzo la nuca e le poso un casto bacio sulla testa, stringendola ancora più forte a me, facendole capire che io ci sono, ora e domani, che sono innocuo e dalla sua parte.
La sento singhiozzare e, con una debilitata forza, mi allontana da sé per potermi, finalmente, guardare dritto negli occhi. Mi sento perforare le pupille. Il suo sguardo è magnetico e allo stesso tempo mi penetra, facendomi quasi sussultare.
«Anche tu mi sei mancato, Bee» mi risponde con voce debole.
Bee. Ormai erano anni che nessuno mi chiamava più in quel modo. Sentir pronunciare quel termine, dalle sue labbra per altro, mi fa venire la pelle d'oca.
«Mi sembra tutto così assurdo...» aggiunge poi apparendo confusa, ma allo stesso tempo sorridendomi.
Capisco la sua sensazione. Mi sento uguale.
Trovo questa situazione surreale. La donna che ho bramato per anni e anni, che è diventata per un periodo la mia ossessione, la mia incarnazione di perfezione, è qui, proprio davanti a me, tra le mie braccia. E più la guardo, più scorgo in lei ciò che ho sempre visto: bellezza. Ma non vi parlo di quella bellezza fisica - seppur non abbia assolutamente nulla da dire sulla sua figura longilinea. Vi parlo per lo più di quella bellezza che, forse, neanche io so ben descrivere. È semplicemente bella, non c'è bisogno di dire altro.
«Bee» sussurra inclinando leggermente il capo a sinistra e guardandomi interrogativa «cosa c'è?».
Sorrido divertito e in maniera del tutto spontanea le rispondo «cosa c'è, dovrei chiederlo io a te».
Domanda scomoda. Si incupisce per un attimo. Mi mordo il labbro inferiore e propongo «ti va un film?». Per fortuna in un frangente torna radiosa e annuisce con entusiasmo.

Spendiamo le restanti due ore di luce a guardare un film di Harry Potter a caso. La verità è che qualsiasi cosa in quel frangente mi sarebbe apparsa ben più interessante di quanto realmente potesse essere. Tutto questo perché lei è qui con me e non mi importa di altro.
Avrei voluto fare il playboy allungano un braccio sulle sue spalle e avvicinandola a me, mentre guardavamo il film. Ma la verità è che non mi sento adatto a quel ruolo e non sono neanche sicuro che tutto ciò possa piacere a Yoshiko.
Poi però mi ridesto da questo pensiero, perché alla fine cosa ne posso veramente sapere di cosa può o non può piacerle. Crescendo si cambia. I cambiamenti fanno parte di ognuno di noi e sono esattamente ciò che ci rende tali.
Non appena appare la scritta the end sul televisore, pigio con estrema lentezza il pulsante rosso del telecomando. Ogni secondo di silenzio è una tortura. Ho così tante domande da farle, la maggior parte di esse scomode, che temo quasi di inondarla di fastidio.
Lei si volta verso di me e incrocia entrambe le gambe sul divano, sedendosi comodamente e puntando con lo sguardo al mio viso.
«So benissimo che non verrò mai giudicata da te, per quello che ho fatto, per come me ne sono andata» mi dice prendendo parola «ma io sento di doverti tante spiegazioni».
«Yoshiko, non è necessario, lo sai benissimo» cerco di dirle, mentre in mente mia spero solamente che lei si intestardisca a tal punto da rivelarmi ugualmente tutto.
E per fortuna è così.
«No, io ci tengo» mi dice «solo che... non so bene da dove iniziare».
«Inizia con il dirmi come stai, ora» le suggerisco io, accarezzandole il volto.
«Ora... mi sento al sicuro» e mi guarda con occhi languidi, tanto da farmi sentire le farfalle nello stomaco.
«Aspetta» sussurra, però, quando nota che io tento di dire qualcosa, mi punta l'indice alle labbra e purtroppo il mio lato maschile prende il sopravvento, facendo irrigidire la parte inferiore del mio corpo. Per fortuna lei non nota nulla.
«Non ti ho mai raccontato la verità su mio padre» procede quindi con le spiegazioni «già sai quanto lui fosse... dedito al suo lavoro e al mio studio. Lui ha sempre voluto che io eccellessi in ogni materia e in ogni circostanza, scuola o sport che sia».
Il suo sguardo non si smuove dal mio neanche per un istante.
«Non è mai stato un uomo particolarmente violento. Però nell'ultimo periodo era diventato... un'altra persona.» nonostante voglia nascondere le sue emozioni, un rivolino salato le bacia una guancia «lui tornava sempre più tardi da lavoro, con l'aria stanca».
Si asciuga quella solitaria lacrima con il dorso della mano e prosegue la sua storia «sono piuttosto convinta che a lavoro subisse ogni male dal suo capo, tanto da portarselo a casa e sfogarlo su... di noi».
Alza lo sguardo al cielo, quasi a voler supplicare i suoi stessi occhi di non cadere in un pianto esagerato. E più si sforza e meno ci riesce.
«Non c'è bisogno di parlarne ora» le dico asciugandole l'ennesima lacrima che, prepotente, raggiunge il mento per poi precipitare sul divano. Lei annuisce.
«Ed ora, che ne sarà di me, Bee?» mi domanda confusa.
«Che ne sarà di noi» la correggo io, sorridendole.
«No, io...» prende fiato, si vede che sta per intraprendere un discorso a lei ostico «non voglio compassione».
«E non è compassione quella che io provo per te» le rispondo con naturalezza, seppur nella mia mente mi venga spontaneo prevedere la sua prossima domanda.
«E allora cosa?» mi domanda osservandomi con occhi da cerbiatta «cosa provi per me, Bee?».
Abbasso prima lo sguardo, come a voler riorganizzare i miei pensieri e cercando quasi di fare mente locale. Poi torno nuovamente ad ammirare la figura che ho innanzi.
Vorrei dirle che cosa provo. La verità, però, è che io stesso non lo so. È forse amore? Ossessione? O semplice simpatia? Al diavolo il cervello che mi rema contro, io voglio agire come meglio mi riesce. Mi avvicino a lei. Porto una mano dietro la sua nuca, accarezzandole i capelli e invitandola ad avvicinarsi a me. Pian piano i nostri volti coprono quella ridotta distanza che vi è tra di noi, fino ad incrociarsi e poi unirsi. Appoggio le mie labbra sulle sue, come fosse un banale esperimento per scoprire meglio i miei sentimenti per lei. Poi, però, mi ritrovo a bramarle, forse più del previsto. Inizio a divorarle, cercando di inumidirle non solo con le mie stesse labbra, ma anche con la lingua. Lei schiude subito la sua bocca, consentendomi di esplorare il suo sapore. Ci baciamo ancora e ancora. Il tempo diventa relativo e in quell'istante non sono sicuro di che ore siano, o di quanti minuti siano già trascorsi.
Lei allunga le mani verso il mio volto. Mi accarezza e mi bacia. Sento i suoi polpastrelli spingere contro la mia pelle e risalire sul capo, fino ad intrecciarsi nei miei capelli. Mi bacia e gioca con loro. La sento sussultare più e più volte e mi domando se può un singolo bacio, far fremere così tanto di passione una persona.
La risposta è sì.
Purtroppo non riesco a contenere le mie emozioni. Il mio basso ventre inizia a pulsare e lo sento spingere contro i boxer.
I nostri volti si staccano. Io mi specchio in lei. Per un istante mi sorge spontaneo pensare se lei non lo stia facendo solo per buttarsi alle spalle ciò che ha passato nell'ultimo periodo. Poi però la guardo meglio e dinnanzi a me trovo una giovane donna sicura di sé. Talmente sicura che mi toglie la maglietta senza neanche lasciarmi il tempo di fiatare. Mi guarda negli occhi, eppure sento le sue mani curiose esplorare il mio petto.
Le sue dita affusolate disegnano cerchi concentrici sul mio torace, aumentando la pressione sulla mia pelle. Poi scorgo un segno: si lecca le labbra. E capisco che non sono l'unico in quella stanza ad aver voglia di approfondire la nostra conoscenza.
Al diavolo ogni cosa, in questo momento voglio solo pensare a stare bene con lei. Decido, però, di non fare la prima mossa e di lasciarla giocare con me, con il mio corpo. Mi sorride dolcemente, seppur in maniera estremamente timida.
Non la ricordavo così intraprendente. Mi si siede sulle gambe e posso tranquillamente sentire il mio membro premere contro di lei. Lei sembra non farci caso, o per lo meno la cosa non la tange affatto.
Mi bacia ancora una volta, continuando a far scorrere le sue mani sul mio petto, sulla mia schiena nuda e tra i miei capelli. Sento le sue cosce serrarmi il bacino e senza alcun indugio mi alzo in piedi afferrando il suo sedere tra le mani e trascinandola a letto con me. Nonostante il grande bagaglio di esperienza fatto con Sam, mi accorgo di essere inerme davanti a Yoshiko. I dubbi mi assalgono e per un attimo tremo all'idea di riuscire ad unirmi a lei. Forse perché bramo questo momento da praticamente sempre, o forse perché sono insicuro di me e temo di rischiare di perderla così. Eppure lei non pare intimorita dal mio contatto.
Stendo la sua schiena sul materasso libero da ogni coperta e la sovrasto con il mio corpo. La mia mano si muove al ritmo dei nostri corpi, curiosa e frenetica, con quel sali e scendi che mi fa pensare di non aver ben chiaro da dove iniziare. Ed in effetti è così. Sono completamente in balia delle mie emozioni che quasi non riesco a concentrarmi sul singolo dettaglio, ma bramo così ardentemente il suo corpo da volerlo tutto e subito.
Le sfilo quella misera canottierina che indossa, ritrovandomi davanti alle porte del paradiso. Per un istante soltanto, mi scordo dei suoi lividi e mi lascio inebriare dall'odore della sua pelle, un misto tra mandarino e basilico. Un'abbinata a me sconosciuta, ma che mi porta subito a perdere il lume della ragione.
Lei nel frattempo tiene gli occhi chiusi e la sento ansimare sotto il mio tocco.
Con le labbra inizio a baciarle la clavicola sinistra, mentre la mia mano corre veloce sulla sua schiena, quasi in balia di una corsa incontrollata. Scendo giù verso lo sterno fino a contornare un seno con la lingua, creando cerchi concentrici sempre più interni, fino a raggiungere il capezzolo e intrappolarlo tra i miei denti. La sento sussultare rumorosamente, mentre con entrambe le mani mi accarezza i capelli e mi incita a scendere.
Sorrido al sol pensiero di quell'invito così peccaminoso.
Procedo la mia discesa, fino a scontrarmi contro il bottone degli shorts. Lei però mi blocca subito con una mano, sussurrandomi dolcemente «anche tu.»
In effetti lei è vestita con i suoi soli shorts, mentre io ancora non mi sono sfilato nulla dal corpo, se non la maglietta. Ridacchio imbarazzato quando noto di aver ai piedi ancora gli anfibi. Punto una scarpa sull'altra e mi disfo di loro facilmente. Poi torno alla mia postazione e, facendo leva sulle ginocchia, mi tolgo subito anche i pantaloni finendo per indossare solamente i boxer.
Predomino sul suo corpo, stendendomi ancora una volta su di lei e ammirando le sue cosce longilinee, morbide ed estremamente lisce al tatto. Mi eccito nel toccare ogni centimetro della sua pelle, pregustandomi da subito l'idea di poterla fare mia quella notte.
Per un istante nella mia mente balza la malsana idea che io mi stia solo approfittando di lei e che lei stessa si stia approfittando di me per trovare conforto e una sensazione di sicurezza mai provata prima dentro le mura domestiche. Però la osservo sorridermi, giocare con il mio sguardo, osservarmi maliziosa e stuzzicarmi le labbra con le sue. E lì capisco, non ho bisogno di pensare ad altro.
Capisco che Yoshiko ha perso il controllo sul suo corpo nel momento in cui con la mano scende verso i miei boxer, pregandomi con lo sguardo di levarli. Sorrido imbarazzato, pur consapevole di non aver veramente nulla da temere. Non sono certo il ragazzo che tende a sbandierare ai quattro venti la lunghezza del suo membro, ma avendo vissuto gli ultimi anni con soli uomini accanto, so benissimo di essere piuttosto dotato. E quando sfilo i boxer rimango piacevolmente sorpreso nel constatare quanto io sia riuscito a catturare la curiosità di Yoshiko. Guarda giù e poi mi guarda in volto, arrossendo ma sorridendo.
È impossibile non poter confrontare quel momento, con tutti i precedenti avuti con Sam. E lì ridacchio al pensiero, confermando una volta per tutte l'omosessualità di Sam: lei non si è mai permessa di guardarmi laggiù. Alla fine, forse, Yoshiko è un po' come una prima volta per me.
Poco importa, mentre la mia mente sta divagando in quei lontani ricordi e nelle mie congetture a cui sono andato incontro, il mio corpo lavora per me, facendomi ritrovare sotto pelle il corpo accaldato e completamente nudo di Yoshiko.
La amo. La amo nella mia mente, la amo con i miei baci, con i miei tocchi e con tutto il mio corpo. Ogni poro della mia pelle sembra trasudare amore. Ma al diavolo la delicatezza, non riesco a trattenermi né a contenere la mia eccitazione.
Soffoco il mio istinto animale stringendola in un abbraccio. Nudi, esattamente come la natura ci ha fatti. Lei mi spintona via con quell'aria furbetta che mi fa pensare subito a qualcosa di malizioso. Mi fa sdraiare sulla schiena e senza neanche chiedermi il permesso mi fissa al materasso con il suo corpo, sovrastandomi e imprimendo una lieve forza sui miei polsi, quasi a volermi indicare chi comanda.
Ridacchio divertito perché non mi sarei mai aspettato tanta sfrontatezza da parte sua sotto le coperte. E devo ammettere che questo suo lato nascosto mi eccita parecchio.
La lascio fare, rilassando ogni singolo muscolo del mio corpo e godendo della sua presenza.
Lei appare impacciata, si vede che non sa dove mettere mano. Però non è intimorita da me, né dalla mia mascolinità che al momento picchietta frenetica sulle sue natiche.
«Cosa... io cosa dovrei fare ora?» mi domanda con uno sguardo curioso.
Mi imbambolo a fissarla e mi concentro su quella semplice domanda. I miei occhi si stringono in una fessura finché una lampadina si accende in me «Yoshiko tu...?».
«Oh cielo, Bee... no, io mai!» aggiunge poi gesticolando animatamente con le mani, leggermente in imbarazzo, ma non a disagio.
«Ma io...» cerco di dirle disorientato prima di venir interrotto nuovamente dal suo entusiasmo.
«Non importa» mi risponde lei con una dolcezza disarmante «l'importante è che... tu lo voglia davvero».
Mi alzo di colpo facendola quasi cadere dal letto. Chiudo gli occhi e impreco innanzi alla mia goffaggine «perdonami».
Lei quasi rotola sul letto ridacchiando divertita e finendo per sdraiarsi sulla propria schiena, abbracciata da un'aria stranamente ilare.
«Io lo voglio davvero, Yo» le rispondo serioso.
«Lo so» risponde lei cercando di contenere le risate.
«No, Yo, io lo voglio davvero» cerco di spiegarle temendo di non essere preso sul serio.
«Bee» sussurra lei mentre cerca di ricomporsi innanzi a me. Si siede sulle mie gambe, divaricandole proprio e facendo strusciare le sue cosce contro il mio inguine «nonostante gli anni trascorsi, non ci hai pensato due volte a raccogliere i miei cocci del passato e... mi sei venuto in soccorso, senza neanche pretendere delle scuse da parte mia».
«Non era necessario» le risposi scostandole una ciocca dal viso.
«Lo so» disse nuovamente sospirando e iniziando a giocare con il mio tatuaggio della farfalla monarca «Bee... non avevi mica detto che volevi essere un fuco?».
«Non ci credo!» esclamo divertito, mentre lei cerca di coprirsi il volto contenendo una risata davvero gustosa.
«Sei... tremenda» le rispondo stringendola forte a me.
Poi mi accorgo di una piccola verità: io e lei siamo completamente nudi, l'uno sopra l'altro, completamente consapevoli della nostra fisicità, del nostro contatto e della nostra vicinanza e nessuno dei due prova alcun imbarazzo in quell'istante.
«Sei bellissima» le dico quindi baciandole la fronte.
«Sì, certo...» ribatte lei abbassando lo sguardo.
«Sì, certo!» controbatto io alzandole il mento e fissandola dritta negli occhi.
«Bee...?» sussurra lei «ti amo».
Mi sento ribollire il sangue nelle vene. La tachicardia si impossessa di me e per un attimo quasi vedo nero. Ho sempre sognato di sentirglielo dire, ma sono sempre stato convinto che quelle due parole le avrei dette io per primo. Mai e poi mai ho sognato che sarebbe stata lei la prima a dirlo. Mi ha seriamente preso in contropiede. E non solo. Faccio per risponderle altrettanto, ma lei mi prende il volto e inizia a baciarmi. Quei baci soffusi e quasi infantili, si tramutano poi in passione che arde. Sento la pelle surriscaldarsi e sento il suo tocco pesante e senza contegno.
E come per magia mi ritrovo di nuovo catapultato sul fondo del letto, con lei sopra che si raccoglie i capelli a lato fino a stendersi sul mio petto per baciarmi ancora e ancora. Con la sua mano scende giù verso il mio membro, afferrandolo e toccandolo con grazia. Sento la sua presa salire e scendere con un movimento sempre più ridondante e sempre più saldo alla mia pelle. Mi sento in estasi come non mai. Non riesco a tornare in me, in quel momento è come se il mio volere fosse passato in secondo piano e ogni mio gesto, ogni mio apprezzamento fosse rivolto a lei.
Il suo movimento incalzante inizia a farsi troppo eccitante, tanto da farmi temere di venire con largo anticipo. Perciò con un colpo di reni, ribalto subito la situazione finendo a sovrastarla forse un po' più rudemente di quanto preventivato.
«Rilassati» le sussurro mentre con la mano scendo in basso. Mi conforto nel sentire la sua entrata completamente priva di resistenza. Mi aspettavo una certa rigidità da parte sua, ma forse è più a suo agio di quel che preventivavo. Perciò procedo nel mio intento di farla godere come mai.
Le accarezzo le grandi labbra fino ad incontrare la piccola sporgenza esterna che Sam mi aveva insegnato essere fonte del miglior orgasmo femminile. Con l'indice inizio a stuzzicarle il clitoride, facendolo scorrere su e giù e sfregando frenulo e glande quasi in contemporanea. Posso sentire il suo umore fuoriuscire quasi immediatamente. Mai mi sarei aspettato una reazione così rapida del suo corpo. Mi bagno le prime due dita con il suo liquido, per poi continuare a massaggiare le grandi labbra e ogni singolo centimetro della sua femminilità.
«Oh, Bee...» mi sussurra completamente in estasi.
Ecco, questa è esattamente il tipo di reazione che ho sempre desiderato.
La curiosità si avvinghia a me e mi accorgo che il solo toccarla non mi basta più, perciò la guardo dritto negli occhi e, indicando in basso, domando «posso?».
In risposta, lei mi afferra per i capelli e mi spinge verso il basso.
Mi sorprendo ancora una volta della sua spavalderia e mi ritrovo ad amare questo suo lato peccaminoso.
Appena fronteggio la sua femminilità, mi accorgo di quanto bella sia. Nella sua forma quasi ovale, la trovo perfetta e mi eccito anche solo a guardarla. Con le prime due dita della mano destra divarico leggermente le grandi labbra, fino a poter baciare le più piccole. La mia lingua inizia ad esplorare la sua femminilità, trovando un certo appagamento e provando delle emozioni veramente fortissime. Seppur sia io a far godere la mia amata, in quel momento è come se stessi provando io stesso le sue stesse sensazioni. La bacio, la lecco, divoro la sua carne fino a dissetarmi del suo umore che fluido e incontrollato fuoriesce dal suo corpo.
È indubbiamente bagnata. Sufficientemente bagnata da concedermi di appagarmi di lei ancora più in profondità. E non ho nemmeno il bisogno di chiederle il permesso di farlo, perché lei è lì che mugugna supplicandomi di farla mia ed io cedo innanzi alle sue preghiere.
Torno su, baciandole prima la fronte e poi nuovamente le labbra. Con le mani le accarezzo il viso e il seno, strizzandolo e tastandolo con un certo gusto.
Mentre mi inebrio di lei e mi perdo nel suo amore, divarico le sue gambe con una certa gentilezza, in maniera tale da potermi addentrare in lei delicatamente.
Spingo la mia turgida asta verso il suo umido condotto, fino ad esplorare quella caverna impregnata di umore. Mentre spingo dentro di lei, la sento fremere dall'eccitazione e non ho neanche modo di raggiungere il fondo, che vengo inondato dal suo primo orgasmo.
Alzo gli occhi verso di lei con un sorriso piuttosto malizioso, incrociando uno sguardo birichino e si morde il labbro inferiore divertita.
Apriamo le danze in breve tempo, unendo i nostri corpi bisognosi di quell'amore tanto atteso. Più spingo dentro di lei, più sento la mia eccitazione ingrossarsi e venir stretto all'interno del suo corpo. La sua morsa sul mio membro è veramente serrata, tanto da provocarmi continue scariche elettriche in tutto il corpo.
Mi sento sudare e sento di aver veramente perso l'autocontrollo.
Allontano le mani dal suo volto, abbracciando così il suo sedere e strizzandolo energicamente nel palmo delle mie mani. Lei sussulta, forse di piacere, forse di dolore. Utilizzo quella presa per aumentare l'intensità delle mie spinte e per assicurarmi di affondare meglio in lei.
Ho perso il conto di quante volte sia già venuta in quel momento. Forse tre, forse sei. Che importa. L'unica cosa che mi tange constatare è che lei stia veramente godendo di me e di quel suo primo momento. Non sono neanche sicuro del tempo trascorso.
Ho il fiato corto e sento le ginocchia dolente, perciò decido di cambiare posizione. Poi mi accorgo che sia io, sia lei siamo completamente madidi di sudore.
Però faccio presa sul suo corpo e la isso su di me, portandomi in posizione eretta.
Ora siamo in piedi, o per lo meno io lo sono. Lei è avvinghiata a me, con le gambe che contornano i miei fianchi e le nostre intimità completamente fuse tra di loro.
L'eccitazione è veramente troppa, eppure a bassi corti riesco ad avvicinarmi al bagno. A fatica accendo la luce e apro le ante della doccia fino a cacciarmi sotto insieme a lei che mi divora il petto di baci. Accendo subito il sifone dell'acqua e lascio che i nostri corpi vengano bagnati dal getto tiepido di acqua.
«Ho sempre sognato di farlo sotto la doccia» gli rispondo con scarso romanticismo.
Lei ridacchia divertita, ma ciò non limita la sua sete di godere.
Adagio la sua schiena contro la parete piastrellata della doccia, fremendo maledettamente nel momento in cui la sento stringere i muscoli pelvici attorno al mio membro. Sicuramente il muro è un tantino freddo.
Mi ritrovo quindi a fronteggiare la donna che da anni amo in segreto, completamente immerso in lei, avvinghiato al suo corpo che mi eccita come mai. Schiena al muro, natiche pressate tra la parete e il mio pube, sorrette unicamente dalle mie forti braccia. Spingo con ardore anche sotto il getto dell'acqua chiudendo gli occhi e abbandonandomi ad ogni istinto primitivo racchiuso in me.
La bacio, la tocco, godo del suo corpo non una, ma due volte quella sera. E non posso dire altrettanto di lei, visto che probabilmente è venuta ormai una decina di volte.

Terminata la doccia, ci accasciamo completamente esausti a letto.
Lei si stende a pancia in giù sul materasso, completamente nuda e troppo stanca per rivestirsi. La copro con un lenzuolo leggero, almeno nascondendo le natiche e lasciando libera la sua schiena. Io mi sento accanto a lei, appoggiandomi su un fianco solo dopo aver indossato i miei boxer.
Ci guardiamo ancora negli occhi, mai sazi di aver un contatto visivo costante. Le accarezzo la schiena fino a quando socchiude gli occhi e cade nelle braccia di Morfeo con un sorriso abbozzato sulle labbra.
Sorrido a mia volta.

«Ti amo anche io» sussurro consapevole di non essere udito da lei «ti prometto che non ti lascerò più andare via, a questo punto solo la morte potrà separarci...».

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


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Buongiorno,

questa storia originale si intreccia con una mia storia già scritta precedentemente, ovvero Choices. Per chi l'avesse letta, riconoscerà subito il personaggio di Bee. Per chi non l'avesse ancora letta, ALT! Consiglio la lettura SOLO dei primi tre capitoli e non del quarto poiché contiene spoiler per questa originale.

Il rating della storia varierà man mano scriverò i capitoli, motivo per cui per ogni capitolo avrà un proprio rating.


Ringrazio con il cuore LadyMoon89 per aver intrapreso con me questo percorso in veste di Beta Reader!


Rating capitolo: verde
Personaggi capitolo: Brent, Yoshiko, Taichi, sorpresa



CAPITOLO 11




Sono trascorsi quattro anni da quel fatidico giorno che ha cambiato per sempre la mia vita.
Yoshiko continua a ripetersi che è stato solo un bene che suo padre si sia dimostrato per quello che realmente era. Sono, però, convinto che non lo creda davvero. Probabilmente lo dice perché nel suo subconscio sta cercando di trovare una motivazione al suo cambiamento e, vista la sua indole da perenne sognatrice romantica, è convinta che persino quel triste ricordo che ha di lui sia stato utile a raggiungere l'apice della felicità, portandola a tornare tra le mie braccia e vivere finalmente la nostra storia d'amore.
Vi parlo di una storia sognata e bramata da anni e per anni. Yoshiko è sempre stata una fissazione per me, tanto da temere di poter impazzire per amore. Ero convinto di averla idealizzata troppo e di non poter più bearmi del calore e dell'amore di una persona, a meno che questa non avesse il suo nome. Ed in effetti non ho avuto torto in questo mio pensiero, perché alla fine sono riuscito a trovare la pace interiore solo stando con lei.

Ora lei è stesa accanto a me. Sono a casa da soli due giorni per via di un congedo straordinario che mi sono preso. Un congedo che, per meglio dire, lei mi ha forzato a prendere.
Posso intravedere le prime luci dell'alba farsi spazio tra le tende turchesi della nostra stanza. Saranno sì e no le cinque e mezza del mattino. Il sole sorge presto in questo periodo dell'anno.
Lei dorme a pancia in giù, come al suo solito. La sua gamba sinistra è leggermente alzata in avanti, mentre il volto è inclinato verso di me. Potrei dirvi che è una donna perfetta, ma quel rivolino di saliva che le cola malamente dal labbro inferiore distorce un po' la realtà dei fatti. Eppure per me lo è veramente, perfetta dico. Le scosto una ciocca dal volto e lei fa una delle sue smorfie infastidite. Devo ancora capire come mai non le piaccia affatto essere toccata in viso. Eppure io le consumerei il volto di baci e carezze, se solo me lo lasciasse fare.
Vorrei bearmi di questa visione in eterno, ma la natura chiama e sono costretto ad alzarmi dal letto per poter andare in bagno a fare due gocce. Dopo la notte trascorsa a rimpinzarmi di pizza e birra, tipico piatto orientale, ho la vescica che esplode.
Neanche il tempo di rientrare in camera da letto e lei è sveglia, accostata alla finestra che si gode la visione di quell'alba che ha tinto il cielo di un caldo arancio.
L'abbraccio dal dietro e appoggio il mento sulla sua spalla sinistra senza fiatare o dire una parola. Quell'istante è perfetto esattamente così com'è.
Le mie mani scivolano sul suo ventre e lo accarezzano, mentre trattengo il fiato ancora e ancora. Non sono eccitato, seppur il suo corpo mi attiri come sempre. Eppure trattengo il fiato e una lacrima solca il mio volto, mentre chiudo gli occhi e con i polpastrelli proseguo la mia corsa a circumnavigare quel piccolo mappamondo che alberga in lei.
La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo. E quale migliore tempo se non nove lunghi ed estenuanti mesi di incubazione. Sorrido al pensiero che nove mesi appaiano tanto infiniti quanto brevi. Ci sono giorni in cui mi accorgo di non essere pronto e di non aver nulla di pronto. Altri, al contrario, in cui l'attesa appare eterna e la voglia di poter incontrare il nostro piccolo Isaac è immensa.
Isaac. Già, non potevo scegliere nome migliore. Sono uno di quegli uomini che mai si sarebbe sognato nella vita di chiamare il proprio figlio come suo padre. Eppure Isaac è stata la scelta più spontanea per me. Il nome Isaac deriva dall'ebraico isehaq e significa "Dio sorride". È stata Yoshiko ad andare a conoscerne l'etimologia e, vista la connotazione tanto positiva che assume questo nome, è stato facile decidere.
Accarezzo ancora il suo pancione da sotto la magliettina intima e mi lascio cullare dal momento spensierato che stiamo vivendo.
Alle volte mi viene quasi spontaneo guardarmi alle spalle e scoprire che, nonostante tutto, la mia vita non ha poi fatto così schifo. Yoshiko è un punto cardinale per me e per l'esattezza è il mio est. Ma come si suol dire, una rosa dei venti è dotata di quattro punte. Non ho faticato molto a trovare il mio sud, il sergente Gamble, il mio nord, mio padre, ed infine il mio ovest, Sam.
Yoshiko sa tutto di Sam, della nostra relazione e dei nostri trascorsi insieme. Non vi nego che inizialmente ne è rimasta un tantino sconcertata, soprattutto perché ha faticato a comprendere come può un etero stare con una lesbica e viceversa. E va bene, non posso certo darle torto. Ma Yoshiko è sempre stata una donna di ampie vedute e me lo ha dimostrato in più occasioni e anche questa volta non è stata da meno.
Sam per me non è il passato, ma è il presente, ora più che mai. Le ho presentato Yoshiko quasi un anno fa e l'emozione è stata fortissima. Sam, la cara e forte Sam, si è commossa nel vederla e ha pianto ininterrottamente per diversi minuti quando l'ha abbracciata. Quel giorno mi ha guardato negli occhi e mi ha detto una frase che non dimenticherò mai: “lei è preziosa, Brent, perché è la dimostrazione del fatto che i sogni possono davvero diventare realtà”.
Da allora lei è stata una presenza costante nella nostra vita.

Quel pomeriggio decidiamo di andare a fare compere per il bambino. Yoshiko è ormai a metà gravidanza e ancora non abbiamo comprato nulla, neppure il necessario per l'ospedale. Lei è tutta eccitata e l'idea di poter andare a fare shopping per sé e per il bambino la rende particolarmente felice. Il suo telefono, però, squilla animatamente ed è costretta a mettere l'entusiasmo da parte per poter rispondere alla chiamata.
Il suo viso si fa cupo, poi risplende e si spegne nuovamente. Alla fine un velo di stupore misto ad eccitazione si dipinge sulla sua candida pelle.
«Ti prego, siediti» mi dice a fine chiamata con fermezza e senza indugio.
«Sono due?» le domando quasi spaventato.
«Due cosa?» mi chiede lei stranita.
«Isaac» rispondo solamente, quasi inebetito alla notizia.
«Bee, ma ti pare!» mi rimprovera ridacchiando.
Per fortuna, vorrei quasi sospirare mentre mi accascio sul divano.
«Promettimi di non arrabbiarti con me...» inizia lei preannunciando un argomento a me ostico e rendendomi nervoso.
«Cos'hai combinato?» le domando guardandola di sbieco.
«Tu, prometti!» dice lei con tono fermo.
«Croce sul cuore» rispondo io emulando il gesto con la mano.
«Ho ingaggiato un detective privato per scoprire chi è la tua madre biologica» mi dice tutto ad un fiato guardandomi negli occhi.
Scoppio a ridere. E pensare che per un istante quasi ci sono cascato. Ma la mia risata mi muore in gola nel momento in cui osservo la sua espressione quasi apatica. E capisco. Lei non sta scherzando. Sta dicendo la verità.
«No, non mi interessa» le rispondo alzandomi di scatto dalla mia postazione e uscendo come una furia fuori dalla nostra abitazione.
Lei non mi rincorre. Lei resta in casa. Perché lo sa benissimo che il mio istinto mi porta sempre a tornare da lei. Ed in effetti ritorno sui miei passi in meno di trentaquattro secondi.
«Perché mi ha abbandonato?» le domando con rancore, rabbia e risentimento.
«Io... non lo so» il mio volto si incupisce e lei capisce subito di dover aggiungere dell'altro.
«Ma so chi conosce tutte le risposte alle tue domande» alzo il volto nella sua direzione e il mio sguardo parla da solo. Lei è la luce dei miei occhi, il mio faro durante una cupa notte in tempesta.

La seguo senza alcun timore. Mi scorta sotto un portone singolare che non richiama affatto la cultura giapponese. Appartiene quasi all'arte neoclassica. Caratteristiche peculiare, conoscendo il luogo in cui si regge.
Varchiamo quel portone e subito veniamo accolti da un autentico uomo caucasico di mezz'età. Ci fa accomodare senza giri di parole arrivando subito al dunque «in questa scheda troverai tutte le informazioni che ho scoperto sulla tua madre biologica».
Sento un groppo alla gola che fatica quasi a scendere. Ingoio, eppure quel macigno mi si ferma in bocca e mi toglie il fiato. Sento che potei avere un attacco di panico da un momento all'altro.
Afferro quell'anonima cartelletta grigia e la stringo nelle mani. Poi la appoggio sul tavolo e la porgo a Yoshiko «ti prego, fallo tu».
Lei annuisce e mi sorride, prendendomi una mano tra le sue e cercando di calmarmi con lo sguardo.
Apre la cartelletta e ne estrae una relazione «Sanae Shinbaya». Inizia a leggermi la storia della sua vita, raccontandomi dove è nata, com'è cresciuta, quali scuole ha frequentato e com'è stata la sua infanzia.
Quel racconto mi scivola addosso come acqua, pungendo la mia pelle dal tanto è fredda. Non riesco a memorizzare le informazioni che mi vengono date e la mia mente vaga altrove. Eppure mi conosco e so bene che questo mio meccanismo di difesa vuole solo evitare di scontrarmi con la realtà dei fatti: lei mi ha abbandonato. E ora a me importa solo scoprirne il motivo. Non mi interessa sapere chi è stata e chi è ora come ora, voglio solo sapere cosa l'ha spinta a darmi via.
Yoshiko interrompe la lettura, probabilmente ha notato quanto io sia distratto. Poi, però, vedo i suoi occhi sfrecciare a destra e sinistra come all'impazzata, spalancandosi sul finale e lasciandola letteralmente a bocca aperta.
«Bee» mi sussurra con estrema dolcezza «lei ti amava».
Perché dici questo, vorrei chiederle. Ma la mia reazione prevede solo un forte corrugamento della fronte e niente di più.
«Pare che l'anno prima di andare a fare volontariato in Venezuela, lei abbia sconfitto una grave forma di tumore alle ovaie» dice Yoshiko stupita e stranita da quella informazione.
Io, al contrario, vengo investito da un treno in corsa. Non è possibile, è come un loop infinito, una storia sentita e già vissuta.
«Il volontariato era il suo modo di condividere con i più sfortunati, la buona sorte che l'aveva baciata» mi spiega il detective irrompendo nel discorso «mi è stato riferito che ha scoperto di essere incinta, solo dopo aver scoperto che il cancro era tornato».
«Lei...» le parole fanno fatica ad uscire dalla mia bocca «lei ha scelto me».
Il detective annuisce con un sorriso beffardo sulle labbra ed il mio mondo ancora una volta subisce una battuta d'arresto.
«Era stufa di combattere contro quel male che la divorava dentro. Aveva già subito tre interventi ed era ormai alla quarta ricaduta. Ha deciso di utilizzare le sue ultime forze per dare la vita a te» aggiunge il detective.
Mi sento pugnalato, distrutto e ferito. Sento che le forze mi stanno abbandonando. Tutto ciò che ho sempre creduto su mia madre... è tutto solo una mera e falsa illusione di ciò che nel mio piccolo avevo voluto credere per sentirmi al sicuro. Ma la verità è che con lei ero più che al sicuro, perché lei ha letteralmente dato la sua vita per me. Un gesto che forse, solo ora che sto per diventare padre, posso comprendere appieno.

Dopo aver ringraziato il detective ed essere usciti da quel cimitero di informazioni, abbiamo trascorso due ore a comprare il mondo per il piccolo Isaac. Ho scoperto di essere un padre amante dello shopping compulsivo. Ho comprato ogni bene possibile e inimmaginabile, partendo da ciò che è utile, fino a spendere soldi per piccole frivolezze.
Ma in cuor mio sono conscio del fatto che non potrò mai raggiungere il grado di amore che mia madre ha raggiunto mettendomi al mondo in quelle condizioni. Eppure oggi ho imparato una lezione veramente importante. Ovvero che dietro ad ogni azione, seppur questa possa apparire davvero insensata o involontaria, vi è un fondo di premeditazione e che spesso dietro a queste azioni si cela una dura realtà.
Quella stessa sera mi sono ritrovato a fare una cosa che mai avrei pensato davvero di fare. Ho raccolto busta e carta e ho scritto una lettera, come ai cari bei vecchi tempi.

Caro Isaac,
vorrei raccontarti della tua famiglia, delle tue radici e da dove deriva il cinquanta percento di te.
La famiglia è il bene più prezioso che potrai avere nella vita e per questo motivo bisogna tenersela stretta, così come io non ho mai abbandonato il pensiero di tua madre nonostante le avversità.
Oggi, Isaac, vorrei raccontarti di tuo nonno, della persona che è stata per me, ma soprattutto della persona che è stata per gli altri. Un uomo che ha donato se stesso per il prossimo. Lui era un eroe invisibile. Non parliamo di uno degli eroi che probabilmente incontrerai nella tua vita leggendo i fumetti Marvel, neppure uno di quelli che verrà mai acclamato in televisione. Ma ti assicuro che se chiedi alla comunità, sentirai solo parlare bene di lui. Nessuno ha mai versato una parola acida nei suoi confronti. Ed io mi auguro che un domani anche tu possa essere come lui.
Vorrei poterti dire altrettanti grandi cose anche su tua nonna, ma la verità è che..

Appoggio la penna sulla scrivania e mi accorgo di non sapere davvero cosa dire su di lei. Mi alzo e mi allontano dalla stanza fino a raggiungere Yoshiko. Sta beatamente spiaggiata sul divano. Mi avvicino a lei e allungo una mano in sua direzione, invitandola a seguirmi.
«Dove mi porti di bello, tesoro?» mi domanda lei incuriosita.
«Vestiti bene, oggi andiamo a Tokyo» lei mi guarda curiosa e confusa.
«Oggi? Ma è un viaggio lungo da affrontare, non è certo dietro l'angolo» mi risponde lei, non capendo la mia fretta.
«Cosa racconteremo domani ad Isaac sulla sua famiglia? Non potremo parlare bene dei tuoi genitori per ovvi motivi e non potrò parlare di mia madre perché di lei non so assolutamente nulla. Mio padre, che Dio lo abbia in grazia, è morto anche lui» le rispondo gesticolando in maniera quasi convulsa.
«Bee, ti prego, calmati» sussurra lei con voce pacata e tremante allo stesso tempo.
«No, ho deciso. Oggi si fa a Tokyo. Andremo a visitare la tomba di mia madre e poi andremo a parlare con la tua. Basta con i fantasmi del passato. Dobbiamo lasciarci tutto alle spalle se vogliamo che nostro figlio viva serenamente» le rispondo.
Questa volta non ottengo alcuna risposta da parte sua. Yoshiko mi volta le spalle e si chiude in camera nostra diligentemente a preparare le valigie.

Dopo un'ora siamo in volo per affrontare il nostro passato, presente e futuro.
Yoshiko è molto nervosa e lo scorgo con facilità poiché continua a passarsi tra le mani una vecchia collana della madre. Non ho dubbi che la sua mente stia vagando altrove. Lei è qui con me, ma è come se non ci fosse veramente.
«Ho paura di incontrare mio padre» mi confida guardandomi con occhi dolci e lucidi.
«Non lo incontreremo, infatti» le rispondo io sorridendole e cercando di infonderle tranquillità.
«Non capisco, hai detto che stiamo andando a Tokyo anche per questo e ora...» la sua frase rimane in sospeso.
«Devi ancora superare altri 4 mesi di gravidanza ed io sarò sicuramente via per lavoro» le dico cercando di impostare alla bene meglio il discorso che vorrei farle «il che significa che tu resterai sola per tutto il tempo e anche in caso di bisogno sarai sola... e a me questa cosa non piace».
Lo sguardo di Yo si illumina e finalmente capisco che è arrivata alla mia stessa conclusione, ma, al contrario di quanto pensato, decide di accantonare il discorso e di non riprenderlo più per l'intero viaggio.
In tarda serata raggiungiamo un albergo in periferia e affittiamo una stanza per un paio di notti. Il mio congedo durerà ancora una settimana e non oltre, perciò sento di aver il tempo contato per poter sistemare il nostro presente.

La mattina seguente decidiamo di dirigerci in primo luogo esattamente dove è stata sepolta mia madre.
I cimiteri giapponesi sono differenti da quelli inglesi. Si trovano solitamente vicino a un tempio o un santuario e sono spesso completamente immersi nel verde
La tipica tomba giapponese è di solito una tomba di famiglia costituita da un monumento in pietra, con un posto per i fiori, per incenso e per l’acqua, e una camera o cripta sottostante per le ceneri. Il nome del defunto è spesso inciso nella parte frontale della tomba. Spesso, però, il nome viene anche scritto su un sotoba, una tavola di legno posta su un supporto dietro o accanto alla tomba, insieme alla data di morte o a preghiere. Alcune tombe dispongono di una scatola per biglietti da visita, dove amici e parenti che visitano la tomba possono lasciare il proprio biglietto.
Ed è proprio in questa occasione che mi ritrovo ad afferrare uno dei bigliettini posti sulla tomba di mia madre per fare una cosa impensabile.

La cosa più preziosa che puoi ricevere da chi ami è il suo tempo.
Non sono le parole, non sono i fiori, i regali. È il tempo.
Perché quello non torna indietro e quello che ha dato a te è solo tuo,
non importa se è stata un’ora o una vita.
(David Grossman)

Mai come in questa occasione ho trovato questa frase così azzeccata e perfetta.
Yo si presenta alle mie spalle e mi abbraccia «È una frase bellissima».
«Credo di essere un pessimo figlio» rispondo sconsolato.
«Bee, perché dici questo?» mi domanda lei fronteggiandomi e prendendomi il volto tra le mani.
«Prima di tutto ho trascorso un'intera vita con l'idea che mia madre fosse... una stronza!» avrei voluto ponderare le mie parole in questa circostanza, ma la verità dei fatti è che ho seriamente pensato che lei fosse una vera stronza. Voglio dire, quale madre potrebbe mai abbandonare il proprio figlio senza darne un valido motivo e senza mai più ripresentarsi alla sua porta?!
«Ed ora che la incontro per la prima volta -si fa per dire- le lascio un banale e anonimo biglietto sulla tomba» mi accuccio a terra sprofondando il viso tra le mie stesse braccia.
Ad un tratto mi sento quasi intrappolato in un velo di malinconia «sono un pessimo figlio» annuncio nuovamente «come diavolo posso diventare o anche solo sperare di diventare un bravo padre?».
La reazione primaria che mi aspetto da una come Yo è quella di consolarmi e probabilmente accarezzarmi, abbracciarmi o qualcosa di simile. Sì, insomma, in una situazione simile avrebbe fatto così. Ovviamente non in questa. Lei cosa fa? Scoppia a ridere, il che mi inebetisce il doppio.
«Cos'hai da ridere?» le domando.
«Vedi... ti domandi come tu possa essere un padre, quando alle spalle hai una figura paterna degna di Nobel» afferma lei rannicchiandosi affianco a me «pensa a me che come figura materna di riferimento ho una donna completamente succube e indifesa».
Io la guardo stranito «e la cosa ti fa ridere?».
Yo annuisce timidamente prima di irrompere con una risata ancora più accesa.
Dannati ormoni femminili e dannati ormoni della gravidanza, un mix alquanto letale e per il quale ringrazio di essere nato uomo!

Quella stessa sera decidiamo di fare un giro per Tokyo. L'idea di ritrovarmi nella stessa città dove mia madre è nata e vissuta per la maggior parte della sua vita, mi fa venire in un certo senso i brividi. È tutto così diverso e lontano dalla mia cara e vecchia Inghilterra. Eppure sono qui, in Giappone, da diversi anni ormai e ancora non riesco a capacitarmi e ad entrare nello spirito di questo Paese che ha davvero tanto da regalare.
Taichi è di queste zone. Mi ha raccontato tantissime cose su Tokyo e per quanto io sia abituato in un certo senso a metropoli altrettanto vaste, l'immensità di questa città è sbalorditiva. La meccanica, la precisione e l'uniformità con la quale è stata costruita è quasi inumana. Eppure è proprio grazie a questa rigidità e precisione su cui si basa, che Tokyo appare quasi perfetta. Per le strade la gente cammina sorridendo, tenendosi per mano e con passo piuttosto pacato. Guardo Yoshiko al mio fianco e mi viene quasi istintivo stringerle più forte la mano. Inutile dire che il mio gesto non fa altro che attirare la sua attenzione. Ma non mi chiede nulla, mi sorride dolcemente e torna ad ammirare le luci notturne che illuminano la città.
Tutto appare affascinante e lontano, come se a vivere questo istante non fossi io ma un'altra persona. Tokyo è magica, ha proprio ragione Taichi.
Ad un tratto, forse sono io ad avere un passo troppo felpato, ma mi sento tirare per il braccio. Mi volto indietro e trovo Yoshiko immobile, occhi sgranati e bocca semiaperta. Il mio primo pensiero va ad Isaac, perciò mi avvicino a lei e le chiedo se va tutto bene. Lei, però, non ha modo di rispondermi, perché alle mie spalle si sente audace una voce femminile.
«Yoshiko» mi volto e mi ritrovo a fronteggiare una bella donna di mezz'età, capelli lunghi e lisci, scuri ma con diverse ciocche argentate. Una donna di bell'aspetto, ma dalla presenza contenuta e quasi timida.
«Mamma...» sussurra Yo quasi a bocca asciutta.
Realizzo che ciò che avremmo dovuto fare la mattina seguente, ci aveva anticipati. Che brutti scherzi che gioca il destino alle volte.
La madre abbassa lo sguardo e subito nota il gonfiore all'addome di Yoshiko, realizzando senza grande perspicacia che sua figlia è in dolce attesa.
Decido di prendere le redini della situazione abbozzando una domanda che risulta stretta a tutti quanti «suo marito?».
Credo che la mia impertinenza non le sia andata a genio, o per lo meno quel broncio sul suo volto mi fa intendere così.
«Ci possiamo prendere un thè? Ho bisogno di sedermi» afferma Yo avvinghiandosi al mio braccio come a cercare conforto.
Ci avviciniamo al primo locale a portata di schiocco e l'imbarazzo è evidente per tutti. Cavolo, ho sempre odiato queste situazioni. Sono un chiacchierone, ma mi trovo a disagio a conoscere sua madre proprio in questa circostanza.
«Lui è Brent Smith, il mio compagno» mi presenta Yoshiko a sua madre.
«Non è giapponese» risponde lei senza neanche stringermi la mano.
Sul mio volto compare un sorriso falso. Ecco uno di quei momenti in cui vorrei essere invisibile o per lo meno trovarmi altrove. Eppure è tutta colpa mia se ora come ora mi ritrovo in questa situazione al limite dell'irreale.
«In realtà preferirei definirmi un cittadino del mondo. Sono anglo-giapponese, in ogni caso. Non che in realtà questo faccia differenza, giusto?» le domando a colpo diretto.
La donna appare quasi intimidita da me, dal mio fare e dalla mia risposta secca. Yoshiko al contrario mi tira leggermente il lembo della felpa come a volermi pregare di rimanere calmo.
«Comunque, mi fa piacere che ci siamo incontrati per caso questa sera, l'idea era comunque quella di venire a trovarvi domani» aggiungo ancora.
«Io e mio marito ci siamo lasciati, in realtà. Perciò non mi avreste trovata a casa» risponde la donna abbassando lo sguardo e giocherellando con il bicchiere di acqua davanti a sé.
«Vi siete lasciati?» domanda Yoshiko assumendo un'aria piuttosto preoccupata.
«Tesoro, quando ho realizzato che eri scappata via solo a causa nostra... mia! Sono stata una vigliacca e non ti ho concesso di avere la vita che tanto meritavi» la madre di Yoshiko scoppia a piangere come una bambina e per la prima volta inizio a provare compassione nei suoi confronti.
Yoshiko mi guarda con occhi languidi e già capisco cosa mi vuole chiedere.
«Signora, io credo sia il caso di ripartire da zero» le allungo nuovamente la mano nella speranza che almeno questa volta si decida ad afferrala.
«Mi chiamo Brent Smith, ho conosciuto sua figlia tantissimi anni fa e me ne sono innamorato all'istante. Chiamatelo colpo di fulmine o qualsiasi cosa sia, ma lei mi è entrata nella mente e nel cuore come nessun'altra» la donna stringe timidamente la mia mano questa volta e quasi rimane attratta dal mio racconto.
«Sono scappata da lui... hai ragione, non sopportavo più papà» aggiunge Yoshiko accostando la propria sedia a quella della madre «da allora io e Bee siamo sempre rimasti insieme e ora...» Yo si accarezza dolcemente il grembo per poi aggiungere «siamo in attesa del piccolo Isaac».
La madre si commuove nell'udire le parole della figlia. Certo, aveva ben capito lei fosse incinta, ma dirlo così apertamente e con quel velo di gioia infinita che riesce sempre a trasmettere Yoshiko, sicuramente è un'altra cosa.

Sebbene la vita si intrecci continuamente in quell'altalenare di emozioni che tutti noi conosciamo, tra delusioni, amarezze, brividi di gioia, di malinconia, cuori che sobbalzano e amori che sbocciano, mi sorprendo ogni volta ad ammirare questo flusso a spirale che mi avvolge. È la natura umana, provare almeno una volta nella vita queste emozioni. Credo di aver toccato ormai con mano ogni singola emozione esistente. La tristezza che la perdita di mio padre mi ha lasciato, la sorpresa, eccitante e un po' sconvolgente, di rivisitare il pensiero che ho sempre avuto di mia madre, il coraggio e la protezione che provo ad avere accanto un compagno di armi come Taichi, l'amicizia e l'incredibile forza d'animo che mi ha potuto donare Sam... e l'amore incondizionato che ha saputo trasmettermi Yoshiko sin dal nostro primo incontro, fino alla nostra prima notte insieme, alla scoperta di diventare genitori. La vita è anche questo, una ricerca della felicità, avvolta in un pizzico di avventura cieca, mischiata all'esperienza nata dal contatto con persone a te diverse, per natura o cultura. E in ultimo, ma non meno importante, l'impatto che l'imprevedibilità e la varietà di ciò che ci circonda si fonde con il piccolo bagaglio che abbiamo caricato fin'ora sulle spalle. Un concetto forse difficile da comprendere, ma la verità è che la mia vita, come quella delle persone a me care che mi circondano, è in perenne evoluzione perché vola, alle volte controcorrente, alle volte seguendo la giusta scia. Ed è qui che nasce il concetto di effetto farfalla. Perché ciò che per gli altri può apparire un incontro-scontro di lieve importanza, per altri può trasformarsi in un uragano di mutazioni. Motivo per cui non credo ai “e se”. Per me non esistono. Ciò che è accaduto nel passato è servito a forgiare il presente di oggi e probabilmente a plasmare le basi del futuro di domani.

È meraviglioso scoprire come il mondo si presenta ai nostri occhi dopo che si ha preso la consapevolezza di questo concetto. Chiamatela fisica, teoria del caos, magia o semplicemente disillusione, ma la verità è che vi è un ciclo di tempo che, seppur futuro, è già stato scritto. Come si suol dire, siamo solo dei passeggeri in questo mondo. Viaggiatori nel tempo e del tempo, che viviamo in una frazione di mondo in cui stabiliamo le nostre vite, credendo che queste possano durare per l'eternità o almeno sperando in questo concetto. Ma siamo fugaci, come orme sulla sabbia che vengono cancellate dalle onde del mare. A noi non è dato sapere il nostro destino, allo stesso tempo questo è già stato scritto e non possiamo che partecipare passivamente a questo loop infinito.

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