tachipirina

di ghost_blu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Corvi ***
Capitolo 2: *** Pasticche ***
Capitolo 3: *** Bacio ***
Capitolo 4: *** Azzurro chiaro ***
Capitolo 5: *** Pioggia ***
Capitolo 6: *** Il mio migliore amico è andato sulla luna ***
Capitolo 7: *** Recovery ***
Capitolo 8: *** Ultraviolence ***
Capitolo 9: *** Quando danzai con la paura ***
Capitolo 10: *** nightdream ***
Capitolo 11: *** Toxic ***
Capitolo 12: *** Camomilla ***
Capitolo 13: *** Fiore ***
Capitolo 14: *** Never know best ***
Capitolo 15: *** Astratto ***
Capitolo 16: *** Bianca ***
Capitolo 17: *** Mattina ***
Capitolo 18: *** Ossa ***



Capitolo 1
*** Corvi ***


Ogni tanto ci pensava.
A dire il vero ci pensava ogni volta che calava la notte e doveva rimanere a dormire in quel luogo dimenticato da Dio. Ci pensava nel suo letto dalle coperte fredde, i lenzuoli morbidi che le appannavano quel corpo magro e pallido, mentre gli occhi non trovavano sonno nemmeno facendo il rosario tre volte. Rimaneva dentro la sua camera, tra le mura bianche e fresche mentre la testa era girata verso la finestra dietro di lei. Gli occhi neri riflettevano la luce neon e liquida dei lampioni che drappeggiavano la strada buia. E stava lì in silenzio, ad ascoltare la sua tanto amata notte e i grilli che rendevano ancora più enorme la vuota assenza di anime di quel posto. Non c'era suono più bello per ristabilire i suoi battiti.
La stanza era sempre colma di oscurità. Quell' acida stronza non voleva che tenesse nessuna luce da notte perché disturbava le sue preziosissime e rotte in culo ore di sonno. Le uniche luci erano quelle in strada. Faceva troppo caldo ancora per non tenere la finestra aperta e lasciare che l'aria profumata e fredda entrasse a dare sollievo a quei polmoni incatramati e logori quanto la testa, o le mani, o l'intero corpo.
Quella casa di campagna dava su l'unica stradina asfaltata che riconducesse alla civiltà, oltrepassata la linea di luce dei lampioni, si estendevano campi su campi fino a sfociare in nere colline indistinguibili tra il buio della notte.
E lei ci pensava mentre guardava quell'orizzonte senza luce. Pensava al desiderio bruciante di alzarsi, scavalcare la finestra e correre. Correre come se avesse il demonio alle spalle, come se quei fantasmi che le scopavano gli occhi fossero riusciti ad uscire dalla bocca e avessero iniziato ad inseguirla. Avrebbe riso, correndo, avrebbe urlato di terrore scappando da loro mentre l'aria fredda le avrebbe dato vita. Sarebbe andata nei campi, con la vestaglia bianca a fiorellini blu sporca del suo stesso sangue, già si vedeva, nuda e viva sotto quel velo che la rendeva così femmina. Nuda e sporca di sangue, la pelle aperta, gli occhi vivi così vivi che sarebbe stata l'angelo più bello di tutto l'inferno. Avrebbe corso tra l'erba alta, si sarebbe persa tra i campi, tra il profumo di fiori di erbe e di paglia. Avrebbe corso scappando da quei demoni, avrebbe respirato forte spaventando i corvi che becchettavano alla luce lunare. Ali nere di sarebbero aggiunte a quel cielo di morte e la sua pelle rossa cremisi e pallida come la neve avrebbe accarezzato l'erba, avrebbe con le mani sentito la consistenza di quei campi, con i piedi la terra dura che graffiava come pezzi di vetro. Voleva correre fino a farsi girare la testa, respirare, guardare quel cielo, e silenziosa come un ombra sdraiarsi tra quel mare agitato di paglia aspettando che i demoni la raggiungessero e la dilaniassero. Che la portassero via con loro, che vincessero.
Sarebbe scomparsa di notte, tra quei campi. Non desiderava di meglio che abbandonare quel mondo troppo stretto, viscido e violentato che in un modo tanto bello, tanto violento e tanto vivo.
Finiva poi per addormentarsi quando le prime luci iniziavano a dare il cambio alla notte, e allora non aveva più senso, l'incanto finiva e il sonno fisico si faceva spazio nella testa. Una ragazza silenziosa con una vestaglia bianca a fiorellini blu, in mezzo a quel campo di notte, tra il vento che muove l'erba e il sangue che ne sporca la paglia. Finiva sempre per sognarlo.

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Capitolo 2
*** Pasticche ***


Il sapore dello zucchero colava in gola mentre gli occhi si chiudevano catatonici. Girava un po' tutto nella stanza, la luce fioca della sua lampada scopava con il buio della finestra come lui avrebbe voluto fare con la luna. Avrebbe voluto chiudere gli occhi e lasciarsi andare ai corpi, al calore all'affetto, le carezze i sussurri e rimettere insieme a furia di baci quello schifosissimo e super scontato ipernormale cuore spezzato. E invece lo zucchero sente giù per la bocca, ingoia la sborra del suo dolore ed è dolce, dolce e tossica come un veleno.
Il letto è tanto morbido mentre i capelli appiccicosi di lacrime isteriche impiastrano il volto gli fa stringere gli occhi perché lo sente lo sente nel sangue.
Dopo aver tanto amato, l'odio che cola dentro di lui è acido. È a forma di rabbia, è nero rosso fa male fa malissimo mentre striscia e logora e distrugge. Distrugge tutto quel equilibrio precario che avevano le sue sinapsi. Se quell'amore stupendo e giovane l'avevano tirato su fino al cielo adesso l'odio amaro iracondo e intriso di zucchero l'avevano di nuovo sbattuto a terra, e lui è nato senza le istruzioni per rialzarsi, non ce l'ha mai fatta. Che schifo questo mondo.
Che schifo l'odio, l'amore, essere vivi. Pensa mentre la stanza gira e la droga resta sul palato. E la stanza gira un sacco, gira il letto, gira il buio della notte puttana che non fa un cazzo e prende solo. Gira gira come i colori dai suoi occhi come le spirali i cerchi e zucchero solo zucchero adesso sente in quel delirio di odio. Il soffitto si muove come se si stesse sciogliendo e la vista si appanna mentre il suo cuore corre corre e corre in questa tachicardia malata e vede verde giallo blu.
Vorrebbe solo evadere, gli sta stretto questo mondo queste parole queste righe cazzo smettila smettila di raccontare di dire tappati la bocca ferma le mani dai fuoco a tutto questo e urla. Urla di odio figlio di puttana urla perché questo fa schifo questo fa tutto schifo e questo è il perfetto prologo per la tua vita di merda.
Lui ne vuole un altro di mondo, ne vuole un altra di vita ne vuole un altro di amore ne vuole altre di pasticche.
Zucchero cola dalla bocca.



 

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Capitolo 3
*** Bacio ***


Oggi piove. Piove come Dio comanda cazzo, ed bello. A me sinceramente la pioggia fa schifo, ma domani potrei dire che la adoro, come ieri ho detto che odiavo il freddo, tra una settimana dirò che è meraviglioso.
So' scemo in culo in pratica.

C'è questo posto che amo. Non è proprio un posto in realtà, è una finestra, la finestra di un cesso per di più. Mi rinchiudo in quel bagno quando la testa mi si annoda, quando mi annoio o quando ho bisogno di silenzio. Chiudo a chiave, mi sporgo per avere il viso sospeso nel vuoto, faccio partire l'accendino e inizio a fumare.
È successo così anche oggi, oggi che pioveva forte e c'era già buio, il cielo dipinto di acquerello scuro e il silenzio mi ha accarezzato le guance fredde.
Sapete Silenzio è una figa, è una ninfa bellissima e pallida che mi tiene la mano quando gli occhi sono vitrei e le labbra sanno di fumo, come le dita, i capelli e i muri di quel bagno. È una figura lasciva, che toglie il respiro, occhi senza luce e ombra invisibile. I suoi capelli sono così neri che ti imbrattano, così tutte le volte che mi tocca, si struscia, richiede le mie attenzioni, inevitabilmente mi macchio di pece. Il collo, le mani, i fianchi, la mia pelle si sporca di lei, così nera e candida da fare male e dare sollievo.
E quindi stavo lì, fumavo e guardavo il cielo attraverso quelle colline nere e scure scure e gli alberi del giardino, con i rami e le foglie che si innalzano al cielo come se volessero raggiungerlo. La luce di un lampione smaschera le gocce che scrosciano come se non ci fosse un domani, senza la colpa di starmi infradiciando la punta dei capelli dello stesso colore di quel cielo di merda.
C'è solo il rumore della pioggia, il blu nero e Silenzio. Mi sta dietro, spinge il suo corpo contro la mia schiena, sento la carne nuda, i suoi seni che premono contro le costole, le braccia avvinghiate alle mie, le cosce che intrappolano le mie gambe. Mi tiene le mani ghiacciate sugli occhi. Silenzio sorride con quelle labbra rosso sangue, si stringe a me, in un abbraccio che non sarà mai caldo.
La sigaretta è quasi finita, il fumo si arrochisce dentro i miei polmoni e poi fa le capriole per aria.
La testa è affollata, ci sono troppe persone dentro, troppe paia di occhi, troppe parole, troppi sospiri, troppi pensieri e sorrido come un deficiente mentre mi sanguina la mente e sento il dolore scivolare giù, l'aggroviglio sminchiarmi gli alveoli peggio di quel catrame, e una goccia di serenità che mi fa beare di quella folla. Forse sono quasi felice mentre guardo le colline, sono felice mentre prendo coscienza di quel casino, di quanto sia bello avere la mente piena e di quanto fosse atroce quando ce l'avevo vuota. Quando non c'era più niente a smuovere le membra e solo esistevo, esistevo come un maledetto pupazzo di merda e allora diventato isterico e chiamavo disperato i fantasmi. Invece adesso c'è un gran casino, doloroso a tratti, complicato e difficile, ma almeno c'è e mi rende felice.
Le ultime boccate di fumo sono le più buone, mi rigiro il sapore in bocca e contemplo il dipinto di questo Dio sconosciuto.
Questa finestrella ha assistito a tutti i dialoghi con me stesso, quelli più profondi, sinceri. Li dicevo a Silenzio. Le dicevo quello che le voci strillavano nel mio cervello, quello che la mia pelle avrebbe raccontato per anni, il sesso che mi attaccava fili ai polsi e mi rendeva più astratto persino di Lei. Le dicevo, e intanto lo dicevo a me, parole che sapevano di sangue, di vomito, di etere. Le chiedevo se in quel cielo o in quegli alberi ci vedesse davvero quel anonimo Dio di cui tutti parlano, se esistesse per lei o per me. Poi le parlavo di morte, di come certe volte avrei voluto farmi innondare dalla sua pece e raggiungere la sua sorella. Sarei scappato una volta per tutte e vaffanculo. Vaffanculo a tutti e tutto. Ma poi no. Mi ricordavo tutte le volte che sono un idiota e che ho paura della morte, di quel dubbio schifoso che mi martella la testa. E quindi lei mi diceva che non volevo la morte, non volevo davvero morire, non si può, volevo solo il dolore. Mi sarei ammazzato in quel momento solo per vedere le facce di tutti, di quelli che avrebbero pianto, di quegli avrebbero aperto gli occhi e io avrei riso cazzo come avrei riso nel vedere quella scena da film da due soldi. E lei, Silenzio, quindi mi diceva che non volevo cessare di esistere, volevo vedere solo il dolore apparire come al solito e rovinare tutto. Volevo ingoiare zucchero fino a collassare solo per poi essere salvato, portato in ospedale, curato e vedere la disperazione negli occhi di chi mi ha visto riverso nel mio vomito lì in quel bagno, di come mi sarei sentito male, di come avrebbe fatto male e io avrei avuto ancora scuse su scuse per scoparmi quella troia del Dolore e disfarmi il corpo, ancora e ancora solo peggiorando tutto come un enorme gigantesca spirale da cui non sono mai riuscito ad un uscire, da cui non voglio, e da cui non ho ricordi fuori da esso. E alla fine sapete cosa sarebbe successo? Il cane a forza di mordersi la coda avrebbe finto per staccarsela e per quanto non voglia la morte, Dolore avrebbe finito per portarmici illudendomi con le sue parole dolci.
Da quella finestra non ci ho visto la fine della spirale, ma quando ho finito la sigaretta Silenzio mi ha baciato.
Un bacio che sapeva di felicità.

 

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Capitolo 4
*** Azzurro chiaro ***


Il luogo sicuro.
Voi ne avete uno? Un posto in cui il vostro corpo perde ogni tensione e la testa smette di macchinare e semplicemente si ferma. Vi sentite caldi, candidi, bianchi e azzurri e serenamente vuoti. Siete al sicuro e nessuno può farvi del male.
Angelo ha sognato quella sensazione come un pazzo. Ha passato notti intere continuando a pensarci, a desiderare una fuga, a desiderare qualcuno, qualcosa, Dio quel che vi pare bastava che gli dasse sollievo. Finiva con le mani e gli occhi che bruciavano e aveva così voglia ma così tanta cazzo di voglia di scappare di casa, lì di notte in quell'istante. Sentire freddo mentre corre con il motorino, le strade deserte i lampioni alienanti come unica fonte di luce. E lui che scappa corre via fugge, ad una velocità assurda avrebbe sfrecciato per quelle merde di strade fino ad una porta, fino ad arrivare da qualcuno.
Alla fine Angelo non chiedeva molto, non chiedeva la pace nel mondo, non chiedeva che tutti i suoi problemi scomparissero, non chiedeva l'amore o i miracoli; chiedeva solo una carezza, una pausa, qualche ora di tranquillità un sonno sereno. Chiedeva con tutta l'anima le braccia di qualcuno, un buco nero in cui affondare, una spirale arancione, grigia, azzurra nera, un cantuccio in un grembo tiepido e le coccole di qualcuno a cui sentiva voler tanto bene e di cui l'affetto era reciproco.
Qualcuno che non chiedesse come doveva aiutarlo, che non gli dicesse la verità che non fosse duro, severo, troppo reale. Semplicemente consolarlo se piangeva, non fare parole che non fossero dolci, narcotiche, che appartenessero dentro il suo cuore mentre lui rimaneva lì. Angelo voleva essere nudo per una volta, rannicchiarsi nel letto di questo fantomatico fantasma, sentire le coperte avvolgerlo e lui avvolgersi ad egli, rimanendo un groviglio di dolore, un cumulo di schifo. Voleva sentirsi piccolo, fragile, rotto spaccato almeno per dieci minuti, in un abbraccio rimanere così. Al sicuro. Il dolore troppo grande per poter ad uscire che riesce solo a strabordare dalla bocca, da tutti i fottuti buchi del suo corpo.
Voleva che il mondo scomparisse, che si dimenticasse chi fosse, dov'era, che aveva un corpo, la pelle i muscoli le ossa. Poteva restarne di lui solo l'idea a viaggiare in quella spirale calda e così piacevole. La realtà non sarebbe servita.
E ci ripensa Angelo, ci ripensa a quei momenti nel letto in cui non poteva davvero scappare, in cui non riusciva ad avere ciò che tanto cazzo voleva. La frustrazione, la rabbia il cuscino scaraventato dall'altra parte della camera. Cristo la furia, la furia cieca e pensare che sarebbe bastato scendere dal letto per fuggire ma non sarebbe stato abbastanza lo stesso. Mancava da chi correre.
Ci ripensa adesso mentre i capelli neri e lunghi sono appiccicati, umidi di lacrime al suo volto, arricciato su se stesso e con il sonno che lo trascina piano piano. Ci ripensa e intanto si stringe a lei.
Finalmente dorme sereno.

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Capitolo 5
*** Pioggia ***


La sigaretta stava finendo. Era lì sotto quel pergolato, mentre la pioggia incessava attorno a lui. Quella maledetta ferraglia d'un treno stava per partire, le sue luci gialle e a neon sporco e i suoi sedili smollati dal tempo lo aspettavano come per invogliarlo a muovere il cazzo di culo o sarebbe rimasto lì. Ma si era incantato, lo sguardo vitreo, i ricci azzurri spiaccicati sulla fronte e appesantiti dalla pioggia; la cicca che illuminava di quel tenue ardere rosso, tutto lo scuro di quel cielo.
Era proprio bello, pensava solo a questo. Era bello un casino, diamine.
Stava fissando fondamentalmente il nulla, solo le rotaie che si srotolavano avanti per chilometri, aggrovigliate di cavi fili antenne sospese che lo rendevano uno scenario quasi distopico. Lì mentre piove a dirotto, il cielo e tutto il resto è grigio e tendente al buio della sera vicina, i lampioni che lanciano squarci di luce arancione come segnali antibomba.
Lui se ne sta semplicemente lì, con lo zaino di traverso e i brividi di freddo, lì per salire sul regionale che l'avrebbe riportato finalmente a casa. Si sente il fottuto personaggio di un anime anni novanta, che cagata. Per di più senza togliersela dalla bocca, la sigaretta lo sta facendo un po' soffocare e i suoi capelli si stanno inumidendo ancora di più provocandogli fastidio ovunque. Ma resta lì, incantato.
Provare la sensazione di essere astratti, di sentirsi calmi e bianchi. In questo momento sente una colata azzurra come i suoi capelli, uscirgli dalla bocca, colargli sulle mani, e in aggiunta a questa sensazione così eterea di calma e di profondissima quiete, la bile gli torna in gola e passivamente malinconico si accorge di tutta la tristezza che gli gonfia il petto. Si accorge di quanto a guardare tutti quei fili sospesi, quel cielo scuro e la pioggia silenziosa gli venga in mente oltre alla pace, l'inferno.
Dopotutto è ovvio no? Non sarebbe vivo se non provasse questo, se l'essere non fosse che un continuo macchinare di opposti che si susseguono, di chiaro che definisce lo scuro, di tristezza che da vita alla quiete, di pianto disperato che delinea un sonno sereno. È una macchina che arranca a sigarette, un ingranaggio che gira solo, fatto di contrasti che pezzo dopo pezzo lo faranno saltare di testa.
Bene così. Una lacrima gli riga la guancia pallida, l'asciuga subito con l'orlo della felpa nera.
«Oh, ti vuoi muovere?»
Quella voce gli interrompe il suo personale teatrino sulla filosofia della vita riportandolo alla realtà.
«Eh?»
«Sbrigati dai, ti sei incantato random»
Si volta verso la voce e posa gli occhi sul suo proprietario, Giulio sta lì in piedi tra il binario e il primo scalino di ferro del treno e lo guarda con un cipiglio confuso e assonnato. È una giornata davvero lunga.
Spegne la sigaretta sotto la suola della scarpa e la getta sotto la ferraglia, fa per seguire il ragazzo ma si incanta di nuovo.
Si dimentica pure di quando pesino i libri dentro lo zaino.
Finisce che gli arriva una spintarella che lo fa quasi cadere, rincoglionito com'è.
«Ma che guardi?» Giulio ha finito per scendere dai gradini e mettersi a fissare pure lui quello che tanto lo prende.
«È bello vero?»
Dice solo questo, manco si accorge dell'espressione del diciottenne che guarda le rotaie semplicemente per come sono: una merdosa massa di ferro arrugginito che prima o poi – spera a breve – si staccherà tra di se facendo deragliare il suo treno. Il fatto che piove la rende una merdosa ferraglia arrugginita bagnata.
«Mi sa che te sei n po' sonato»
Sorride a quella sua piccola infantilità con ironica disperazione, si scosta i lunghi e scapestrati capelli castani dietro l'orecchio e finisce per posare un piccolo bacio sulle labbra arrossate dal freddo dell'azzurro.
«L'erba a te fa sul serio male» ride mentre lo prende per un braccio e lo trascina dentro il treno. Rosso come il diavolo lo segue, fanculo i pensieri filosofici, Giulio gli ha dato una bella svegliata.
Prendono posto negli ultimi e isolati sedili in fondo al vagone, lì dentro il caldo è piacevolissimo, la luce non è fredda e da mal di testa come nei treni più moderni che di solito gli rifilano, e l'annata da dopoguerra di quel catorcio ha reso i sedili più smollati delle rotelle nella testa di Giulio. Si sbraccano lì come se si trovassero su divano di casa loro, finalmente a riposo, guarda fuori dal finestrino osservando mentre si appanna tra la nebbia e la pioggia fredda all'esterno.
Il treno parte in silenzio, anche loro si chetano dopo qualche discorso abbozzato sull'ultimo videogioco su cui hanno preso la fissa, troppo stanchi per parlare, si sta troppo comodi su quei sedili.
Sente un miscuglio caldo dentro le viscere, il sapore del tabacco che gli impasta la bocca, il tepore del corpo di Giulio accasciato sopra il suo, il suo profumo di vestiti troppo chiusi nell'armadio, le maglie scolorite e troppo usate, i visi stanchi ma sereni, i cazzi di varie dimensioni disegnati sulla condensa dei finestrini, il rumore della pioggia e del motore del treno, gli anfibi logori e intrecciati appoggiati ai sedili davanti, a dare quello spruzzo di anarchia-punk giusto giusto. Tutta questa dolcezza, questo tepore e serenità profonda si mischia a quella tristezza amara, quel sensazione di pianto, quella rabbia che sente sulla punta delle dita. Si mischia tutto come in una spirale dolce e amara.
Pensa a quelle rotaie, ai lampioni arancioni, ai fili sospesi, al freddo e alla tristezza e poi sente Giulio infilare una mano ghiacciata sotto la felpa, a contatto contro la pelle nuda del fianco e quel tepore frebbicitante che gli da tanto alla testa si scioglie come LSD.
Alla fine ha ragione, è solo una macchina che continua a muoversi per inerzia di una catena di causa-effetto. Però è la macchina più viva che conosce.

I am machine
I never sleep
I keep my eyes wide open
I am machine
A part of me
Wishes I could just feel something
I am machine
I never sleep
Until I fix what's broken
I am machine
A part of me
Wishes I could just feel something

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Capitolo 6
*** Il mio migliore amico è andato sulla luna ***


Il mio migliore amico è andato sulla luna. Un pezzetto del mio cuore è andato con lui. Adesso al posto di quel frammento resta un vuoto nero, una bruciatura.
Il mio migliore amico è andato sulla luna. Ha deciso di partire un giorno d'inverno, mentre pioveva e faceva freddo. Chissà se lassù c'è qualcosa che lo tiene al caldo.
Il mio migliore amico è andato sulla luna. Adesso guarda le stelle e cerca il suo pianeta, cerca la sua rosa come il piccolo principe. Io sono rimasta qua, e alla fine non siamo poi così lontani, è solo lo spazio a separarci.
Il mio migliore amico è andato sulla luna. Chissà se tornerà dal suo viaggio intergalattico, se deciderà di proseguire o se tornerà a casa. Io lo aspetto tutti i giorni tra le lacrime e le risate fatte col cuscino.
Il mio migliore amico è andato sulla luna. Un tempo volevamo andare su Marte insieme, quando ancora di lune non si parlava e gli astri facevano da sfondo alle nostre giornate, andavamo all'avventura come Spike sulla sua astronave. Adesso la navicella è partita solo con lui.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Di notte desidero che torni da me, di giorno vorrei solo che continuasse il suo viaggio fino a cercare la dimensione a cui appartiene. Sarà perché quando il sole va via lo vedo da qua, lo vedo lassù che sta seduto e guarda il niente e vorrei essere anch'io insieme a lui. Magari in due potevamo essere meno tristi, come quando eravamo piccoli.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Ogni tanto me lo immagino che combatte contro alieni mai visti, contro bestie ancestrali e aberranti creature provenienti da altri mondi. Spero che qualcuno lassù, si prenda cura delle sue ferite di guerra.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Ogni tanto mi scrive che è tutto ok, che lì il tempo è diverso, che è solo e che non sa dove il cosmo lo porterà. L'ultima volta è stato un po' di tempo fa, sulla luna il segnale non deve prendere bene.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Mi chiedo se troverà qualcun'altro che lo guardi in quegli occhi grandi e ci veda i buchi neri a cui appartengono. Se troverà qualcuno che lo porterà più lontano di quando mai abbia fatto io, qui piccola su questa terra sporca.
Il mio migliore amico è andato sulla luna. Io sono rimasta qui, tra i baci di un altro e qui le giornate sono come sempre. Il treno è sempre il solito, il caffè ha lo stesso sapore, il sesso ha la stessa violenza e le canne mi fanno male come sempre. Perfino il cielo è lo stesso, perfino le risate sono sempre sguaiate, solo le lacrime sono cambiate.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Vorrei che tornasse da me che la smettesse con questa storia dell'avventura che crescesse che si ribellasse che diventasse adulto per un po' e basta cazzo basta basta il mio migliore amico è andato sulla luna e si è portato via tutto con se. Si è rubato tutto e alle briciole ci hanno pensato gli alieni cosmici.
Il mio migliore amico è andato sulla luna.
Ma qui sulla terra cadono meteoriti.












 

Nansjsnsnsmsmsmaannsnssnsshhsshsjnssnnn

Quest'affare non ha un cazzo di senso. Non è una poesia non è una os non è niente. Cito solo Josephine Yole Signorelli, in arte fumettibrutti:
"A volte ho troppo dolore. Non posso perdere tempo a disegnarlo meglio, voglio solo buttarlo fuori"

Ho provato a raccontare la storia di due migliori amici. Si amano di quel modo in cui si amano i migliori amici, sono cresciuti insieme e hanno passato momenti ridendo come coglioni e altri piangendo come disperati, ma quando uno dei due parte per la sua strada e non da più sue notizie, l'altra lo aspetta "sulla Terra" fatta a pezzi tra il dolore lancinante e la speranza che in realtà non torni più in quel posto di merda e che trovi la serenità altrove.
Spiegata così forse fa ancora più cagare porcoddio.
Boh basta vi lascio una canzone di lowlow.

Arirang:

La gente pensa che dentro sia una persona amara
Volevo solo che i cattivi avessero una chance
Perché il loro oblio ha qualcosa di struggente
Libero dalle catene del giudizio della gente
Libero dalle rime, libero dalle pastiglie
Niente da insegnare, non voglio figli né figlie
Vorrei soltanto essere una sagoma di gesso
Un angelo disegnato al suolo fra i cocci di bottiglie
Ho perso lei, ho trovato chi sono
Ho perso un amico e mi è caduto il cielo
Ho perso lei, ho trovato chi sono
Ho perso un amico e mi è caduto il cielo
Ho perso lei
Ho perso lei e ho trovato chi sono
Ho perso lei, mi è caduto il cielo
Per addormentarmi racconta una storia bella
Di un bambino intelligente con un'ottima pagella
Si sente insignificante come la particella
Di sodio in quella vecchia pubblicità di merda
Il ragazzo c'ha un amico, è l'unico di cui si fida
L'amico è un tipo strano, ha una forma di apatia
Hanno una passione in comune, quella di odiare la vita
Di amare i film d'autore, gli aereoplani e la poesia
Oro, rose, oasi, astri
Scherzi, sogni, odio, orgasmi
Organi, cemento, armi
Ho pensato di ucciderti ed anche di suicidarmi
Ma in fondo chi non l'ha fatto?
Vedi, non siamo speciali affatto
Mi piacerebbe vivere nel tuo stereo
Mezzanotte e zero zero, esprimi un desiderio
C'ho messo tanto a imparare a rappare semplice
Ricordi quel periodo assurdo in cui rappavi pure te?
Ricordi quando il dolore noi non riuscivamo a esprimerlo?
L'insicurezza ed essere in balia dell'opinione altrui
Le canne sopra una panchina, assenti, in preda a piccoli problemi
Oppure presi da un'intesa folle e risate sguaiate
A tredici anni a Trastevere ubriachi scalzi
Salto sul muro, il calcio volante di Matrix
La cultura si misura in base all'ambizione
E l'ambizione si misura in base alla cultura
Il nostro retaggio, il coraggio, la ribellione
Bruciando lentamente in una camera arancione
E poi, ultima cosa, ci tenevo a dirti che quando parlavi
Della fortuna avevi ragione
Io parlo di niente e tutto, parlo del tuo inferno
Di te ascoltatore ipocrita, mio simile, fratello
Oro, rose, oasi, astri
Scherzi, sogni, odio, orgasmi
Organi, cemento, armi
Ho pensato di ucciderti ed anche di suicidarmi
Ma in fondo chi non l' ha fatto?
Vedi, non siamo speciali affatto
Mi piacerebbe vivere nel tuo stereo
Mezzanotte e zero zero, esprimi un desiderio
Quando sogno io vedo la madonnina
Mi piace perché è d'oro e troneggia sopra il duomo
Poi mi sconvolgo e penso che la mia vita
È bella solo nell'idea di ciò che credi che sono
Ma io vorrei salvare quei momenti
Tirare su dei tempi che col tempo tu contempli
Catturare i frammenti belli e poi farci un mosaico
Psycho dramma, vivo la boheme dell'arte che osanna solo i talenti, ah
Stare da soli è bello ma è una cosa strana
Nel mio lavoro l'amicizia è una nota stonata
L'unico modo purtroppo è offendere tutti
Prima di tutto chi si ama
Stare da soli è bello ma è una cosa strana
Nel mio lavoro l'amicizia è una nota stonata
L'unico modo purtroppo è offendere tutti
Prima di tutto chi si ama
Oro, rose, oasi, astri
Scherzi, sogni, odio, orgasmi
Organi, cemento, armi
Ho pensato di ucciderti e anche di suicidarmi
Ma in fondo chi non l'ha fatto?
Vedi, non siamo speciali affatto
Mi piacerebbe vivere nel tuo stereo
Mezzanotte e 00, esprimi un desiderio

 

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Capitolo 7
*** Recovery ***


C'e questo ragazzino che abita in un palazzo sgangherato, ha gli occhi verdi e i capelli viola tagliati con le forbici da sua madre. Ha quindici anni forse, non tiene bene il conto. È mingherlino e secco e porta vestiti larghi larghi.
Il ragazzino ha un migliore amico, ci parla quando è solo, quando cammina in equilibrio sui muretti o quando si fuma una canna dopo l'altra. Il migliore amico si chiama Sestesso ed è uno un po' svitato un sacco simpatico. Ascolta tanta buona musica e lo conosce meglio di lui, sa sempre cosa pensa, cosa prova e gli parla sempre con schiettezza.
Non ha tanti altri amici, sta sempre per i fatti suoi con un sorrisetto stampato sul quel viso rotondo, si diverte sempre un mondo a guardare gli altri.
Entra e esce da edifici strani, ha preso confidenza con gli infermieri. Basta un foglio con una firma e a scuola non ci va per una settimana. Lì dentro può stare in pigiama e dormire finalmente per una notte intera.
Sorride sempre il ragazzino, anche quando il cielo cade, anche quando i muri vorticano anche quando il corpo non risponde ai suoi comandi. In realtà in quei momenti piange e suda tanto, si sforza di tenersi a freno e di tornare nella realtà. Ma appena si calma sa che è ancora vivo e che ce la farà, ha ancora tanto tempo e lui potrà vivere così.
Non è coraggioso, i vestiti sono sempre più larghi anche se mangia come un buco nero. Il dottore dice che sono le caramelle che deve prendere, quelle che lo fanno stare in pace.
E la notte dorme e urla urla e dorme. E quando non dorme e quando non urla piange, piange perché vorrebbe tornare a fare il suo sorrisetto calmo e fumarsi una canna dopo l'altra correndo sui muretti e ridendo con Sestesso. Piange perché vorrebbe avere un momento di precaria pace che duri più di qualche ora. Gli basterebbe qualche giorno.
Ma poi cade addormentato come un sacco di farina sfatto e stanco tutto bagnato per lo sforzo di sopravvivere.
Sopravvive ad un altra notte, un altro giorno, un altra caramella.
Sopravvive.

 

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Capitolo 8
*** Ultraviolence ***


Non riesce a reggere.
Non. Riesce. A. Reggere.
C'è un modo giusto per scrivere descrivere buttar fuori tutto quello che sta vivendo? Vivendo un questo momento. È un modo giusto questo di comunicarlo? Con questi segni strani fatti di inchiostro digitali, con queste virgole con questi punti con le parole. Chi era lo stronzo filosofo che diceva che la verità non esiste e se esiste non può essere pensata e se può essere pensata non può essere detta? Perché beh i pensieri le sensazioni sono fatti di sostanza diversa dalle parole no? Se io adesso vi dico che sta tremando tremando tremando come una pazza con il respiro iperveloce gli occhi grondanti di lacrime e le unghie conficcate a forza nella pelle che vi direi? L'ho solo scritto qui adesso, testimonianza inutile di una ragazzina del cazzo coi disturbi mentali, sai che novità. L'ho solo scritto non riuscireste mai a vederne la vera natura. Ho le mani impregne di sostanza differente.
Marta è in crisi. Sta seduta crollata sul pavimento del bagno che piange, non sa che altro fare oltre a piangere. Piange piange e basta e maledice la sua cazzo di vita. I lunghi capelli neri sono bagnati di lacrime e moccico e gli si appiccicano al viso alle spalle alle mani. Che schifo fa tutto così schifo.
Sta lì pietosa mentre prende fuoco struccata con lo stesso pigiama da un mese, attorno a lei tante scatoline di cartone, tanti blister di alluminio e plastica la circondano come uno schieramento nemico.
Cazzo Marta, cristo santo come ti sei ridotta così ancora? Come sei tornata a questo punto? A doverti farti sanguinare gli avambracci da quanto li stringi, da doverti farti venire il mal di testa da quanto ti tiri i capelli. Come hai fatto cazzo?! Come hai fatto di nuovo e ancora e ancora. Fammi indovinare vuoi prenderle tutte vuoi ingoiarle tutte intere quelle medicine vero? Schifosa tossica malata. Fai pena porcoddio fai pena.
A Marta basterebbe allungare le mani, basterebbe porgere le dita verso le sue dosi, verso quelle piccole piccolissime pillole bianche rosa e blu. Ci vorrebbe così poco.
Ma lei non può.
Non lo può fare di nuovo, non può ricominciare ancora non può presentarsi di nuovo strafatta davanti ai professori, non può sentire i rimproveri acidi della sua amica non può vedere ancora le lacrime negli occhi di lui.
È una bomba Dio merda è una bomba ad orologeria che sta per esplodere e ferire tutti. Tutti.
Piange traboccante di disperazione, perché domani dovrà tornare a scuola, dovrà di nuovo uscire dal suo piccolo nido sicuro dovrà vedere ancora i due fioccare come pioggia ai compiti, le assenze di nascosto che non sa come giustificare, le interrogazioni a scena muta e le corse in bagno. Le urla soffocate in bagno, la voglia di prendere a testate il muro mattonellato e lurido fino a che non si spacca il cranio. La cosa che le fa più schifo è che dovrà ridere e scherzare con tutti i suoi compagni, conoscenti, non far trapelare nemmeno una virgola e non ce la fa. Non ce la fa dopo questo a tornare a casa poi, a dover urlare ancora a dover continuare con questa merda giorno dopo giorno dopo giorno. A fingere di essere qualcuno di cui è rimasta solo una facciata sottilissima, come l'intonaco di un muro rotto.
Piange fuori di se, urla grida tanto nessuno può sentirla tanto ignora le chiamate di lui che continuano ad arrivare, il campanello che continua a strillare. Gli viene da vomitare a pensare a quando dovrà aprire la porta, a quando dovrà dargli delle spiegazioni vedere la delusione nei suoi occhi.
Non regge, non regge non regge non regge più.
Non ci riesce è troppo pesante.
Troppo.

 

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Capitolo 9
*** Quando danzai con la paura ***


La notte calava come veli su ogni cosa. Su quei palazzi distrutti dalle bombe, sugli adulti stanchi e lacerati dal lavoro e sui bambini che si addormentavano innocenti sui loro cuscini.
E poi c'erano loro, che come il velo nero calava su di essi voleva solo significare che era arrivato il momento. Il momento di uscire, come topi nascosti nelle loro tane virtuali che di notte zampettavano loschi tra i vicoli, finalmente nascosti da occhi indiscreti.
Lia sul suo letto si stava facendo delle foto in reggiseno, coperta dalla penombra della sua stanza. A breve sarebbero arrivati gli altri ratti e con loro il mondo segreto in cui potevano evadere. Non c'erano genitori a rompere il cazzo, nessuno sarebbe entrato senza il suo consenso, quella era casa sua e solo sua. Non una gran cosa per avere solo diciassette anni.
Sul letto la musica appannava tutta la stanza con le sue urla marce e ribollenti di sentimenti contrastanti tra loro. Si muoveva bella e seducente, Lia. Non faceva pose da adulta, non metteva in mostra unghie lunghe e rifatte o trucco stratificato. Il reggiseno di pizzo parlava da se, fasciando quel seno minuto ma tondo e morbido, la pelle pallida e i fianchi stretti.
È così bella Lia, è così viva così morta che ti verrebbe da baciarla con una foga che solo il pianto sa dare e sbatterla su quella brandina del suo letto e vederla sorridere. Un accenno di sorriso basterebbe a farti salire la voglia di toccarla ovunque e sentirla respirare forte quando hai il viso tra quelle cosce sode.
Lia fa impazzire, lì ferma e bella, bella da morire.
Ha appena postato l'ultima foto quando sente il campanello. Fa un piccolo scatto e corre ad infilarsi la prima maglia XXL che trova sul letto, una gonna che è quasi più corta delle mutande e si sistema la zazzera di capelli che ha in testa, inutilmente.
La porta quando si apre rivela un ragazzo alto, vestito di nero da cima a fondo con un sorriso dalle labbra rosse.
«Piccola mia»
Quello lì è Andrea, il suo ragazzo, è con lui che vive. L'abbraccia quasi a prendersela in collo e lei ricambia come una bambina felice.
Dietro di lui compaiono altri due ragazzi che iniziano subito a far casino e ridere. Sono Daniele e Lorenzo, gli amici di Andrea, i suoi amici.
«Liaaaaa! Ma come sei bella stella mia!»
Daniele è già ubriaco, bella.
Lia ride e gli stacca la bottiglia di Jack dalle mani mentre sente il rumore più bello del mondo provenire dalle mani di Lorenzo.
Una scatolina contenente tanti piccoli portali si scuotono come un richiamo tra le sue mani. A Lia viene fame.
Cerca con gli occhi Andrea e lo trova a svuotare lo zaino pieno di schifezze, patatine e merendine varie che gli andranno ad intasare lo stomaco, sul suo letto. Poggia anche una piccola cassa bluetooth sul comodino e una bustina piena di meraviglioso fiori.
Gli va incontro abbracciandolo. Gli è mancato il suo odore.
«Piccola»
Andrea sorride, sorride sempre e le accarezza la testa dandole un dolce bacio sulle labbra.
«Stai bene?» sussurra, in ogni caso gli altri due non avrebbero sentito un cazzo data la musica e il fatto che fossero già strafatti di loro.
Annuisce come una bimba, si mette in punta di piedi per dargli un altro bacio e gli lecca il labbro forato da un labret argenteo e freddo.
In cambio riceve la sua mano che gli stringe possessiva il fianco. Si staccano quando Lia sente Lore buttarsi come un cretino a capofitto sul suo letto proprio accanto a loro.
«Oh fra, passami la roba che intanto giro»
Andrea gli da la busta e un kit.
«Falle leggere che il coglione ci resta sennò»
Accenna a Daniele che gli ha preso l'astuccio dalla scrivania e, ubriaco torto, sta cantando in modo drammatico sotto Bring me to life.
Tutti ridono,
finalmente può avere la sua tregua.

Un ora dopo l'aria si è fatta pesa, gli occhi pesanti. L'odore di erba è asfissiante e dolciastro, si unisce ad un sentore di alcol e di saliva. O almeno su l'ultima forse è solo Lia a percepirla, la sua lingua completamente divorata dalla bocca di Andrea. Forse è fatta, nella sua bocca si impasta il purino che si è divisa con l'altro, con i suoi sospiri e la musica che striscia tra i loro corpi.
Si sente meglio, si sente molto meglio adesso. Come una bambina che finalmente viene portata a casa, rassicurata e accarezzata. Andrea è il suo mondo.
Ma non basta, non è abbastanza.
Loro due sono sul letto, semidistesi a limonare da un po' mentre gli altri due stanno al telefono a ridere delle stronzate che si guardano e cantare le canzoni che la cassa vomita a ripetizione, seduti sul pavimento. Ad un certo punto smettono, Daniele e Lorenzo si guardano e sorridono e con gli occhi furbi e annebbianti dall'erba strisciano da qualche parte alla ricerca di uno zaino. Ghostmane gli accompagna come due demoni alle spalle di Lia.
I suoi occhioni verdi sono abbassati, le membra sciolte e i capelli arruffati come al solito e stretta accoccolata come un anima ferito, sta in grembo ad Andrea. Pare quasi che dorma.
È Daniele ad arrivargli alle spalle, le afferra delicato per quelle e la trascina verso di lei.
«Lia... Lia... principessa vieni che ho una cosa bella»
Lei si sveglia di botto, il cuore che batte forte ma non ha paura. Lorenzo anche lui la trascina a sedere sul ciglio del letto, sotto lo sguardo permissivo di Andrea che veglia ogni contrazione della sua delicata fata.
I due hanno il sorriso lungo fino agli occhi, strafatti e ubriachi gli donano l'amore che solo due diavoli potrebbero dare.
La scatolina si apre e Lia sbava come una cagna, sorride tremolante anche lei alla vista di quella dimensione astratta.
«Solo mezza per lei signorina»
La pasticca si spezza sotto le sue dita. Lorenzo la tiene dritta e le sussurra all'orecchio.
«È una giornata speciale per la nostra principessa»
È Lorenzo a mettersi in bocca la dose, è giallina pallida e all'apparenza più innocua di un moccioso. Sospira estasiato e guarda Andrea, appoggiato al muro dietro di lei che li guarda con gli occhi liquidi. Non schioderà lo sguardo da quella scena.
Lia sorride mentre Daniele l'abbraccia e si scioglie su di lei, sorride come uno scheletro in decomposizione e si avvicina alla bocca di Lorenzo. Il ragazzo apre la bocca e rivela la pasticca, gliela offre come su un piatto d'argento e Lia non esita un instante. Non è neanche un bacio il loro, dura un secondo e finalmente sente quel sapore amaro, la sente sciogliersi e scivolare giù per la gola. Il corpo reagisce con uno scossone, un brivido l'attraversa tutta e fa per darla ad Andrea ma lui scuote la testa. Resterà vigile per controllarla. Sorride ancora, quanto è bello quando sorride, quanto è bello pensa.
«È tutta tua stella»
Sussurrano i due estasiati come due pazzi e lei non può fare a meno di sorridere con loro e iniziare a ridere.
Che bello, che bello è tutto così bello, è tutto così caldo è tutto così piacevole. Si sente smembrare mentre la pelle inizia a diventare bollente e tutto si rilassa, tutto rallenta e nessun pensiero riesce più ad invadere la mente, niente, niente niente. Niente genitori, niente conto corrente in rosso, niente capo bastardo, niente professori stronzi, niente cicatrici, niente lacrime.
Solo bello, è solo tutto bello ora. Ride ride e ride.
«Voglio ballare»
Si alza in piedi, il petto animato dalla voce straziata di Marilyn Manson che adesso strilla Long Hard Road Out Of Hell.
La musica le riempie il cervello come se volesse annegarla. Si mette al centro della stanza e inizia a volteggiare, gira gira e danza, danza e urla le parole delle canzone, le urla perché le sente sue. Si leva il reggiseno da sotto la maglia e libera piroetta come una ballerina rotta, si muove e si contorce. I piedi che si contorcono in mille direzioni le mani spasmodiche si rincorrono per aria. E Lia è bella davanti a quei tre, Lia è bella da morire con quelle labbra rosse e gli occhi adesso come di mille colori. È eccitante come un ombra nera che di muove in quella penombra, in quell'affanno di droghe muovendo lasciva i fianchi, le mani, si tira i capelli, recita le parole e ondeggia come se fosse aria, fumo, miasma.
E lei lo sente, lo sente che le droghe le stanno prendendo la testa, che l'hanno liberata dai pensieri per riempierla di demoni, di terrore, che adesso tutte le sue allucinazioni si stanno facendo concrete mentre gira gira gira, ad ogni piroetta Lorenzo ha le sembianze di un diavolo nero e sorridente, ad un altra piroetta è Daniele che ha mille corna e mille spine e mille mani, tutto nero, e più piroetta e più Andrea si trasforma in un ombra e le ombre le vengono addosso si avvicinano cercano di prenderla e lei si ritira, si allontana e un secondo dopo le va addosso.
È terrorizzata ma anche così in estasi e più gira e più sente che sta bene e si avvicina a quei demoni perché la terrorizzino, la ammazzino, che danzino questo ballo della pazzia con lei.
Urla senza fiato fino a che la canzone non finisce ma qualcuno la rimette da capo. Il petto che si alza e si abbassa frenetico. Vede i demoni avvicinarsi, spuntare dagli angoli dei suoi occhi e lei vede tutta la realtà girare come una spirale, contorcersi e il suo corpo spezzarsi e allungarsi per poi rimischiarsi tutto insieme.
Il terrore arriva e la raggiunge e forse piange ma continua a ridere continua a danzare senza sosta. Si sente così viva mente l'ammazzano, mente finalmente muore, mentre quei fantasmi neri la prendono con se nella follia del terrore. È così bello anche se ogni particella di se urla di terrore. È così bello, così bello.

La sua mente si riprende quando cade sul pavimento di schianto. Non si era neanche accorta di star cadendo e si ritrova con la faccia a contatto con le mattonelle fredde del pavimento. Ride forte.
Anche i tre ridono e si alzano si fretta per controllarla.
«Andre... a-..n» biascica mentre non riesce a smettere di ridere. Non vede niente, non vede un assoluto cazzo e con le mani cerca il suo ragazzo.
«Shhh, vieni qua»
Andrea la prende in collo tirandola su dal pavimento e se la mette in grembo sul letto.
Lia ha un sorriso in faccia e gli occhi chiusi, continua a barcollare con l'intero corpo da una parte all altra.
«Come stai amore?»
Sussurra.
Lia ride, ride perché adesso deve morire.
«Andiamo in bagno? Ci andiamo ti prego»
Andrea spalanca gli occhi e sorride, sorride ancora non solo contento, ma affamato, più affamato di quando non l'abbia reso vedere la sua ragazza ballare mezza nuda come se fosse una dea.
«Si, si ci andiamo, ma prima mangia ok?»
La tiene stretta a se mente con lo sguardo cerca il consenso inutile dei due che come due coglioni gli sghignazzano dietro la fortuna che ha. Trova con lo sguardo il sacco pieno di pangoccioli e se lo fa passare, scartandone uno e porgendolo a Lia che non sta capendo un cazzo.
«Maaa lo devo mangiare tutto io?»
Andrea continua a porgerglielo.
«Si dai, sennò ti senti male, mangia, se mangi poi andiamo in bagno»
La riluttanza di Lia si rivela per la fame atroce che aveva e in due morsi praticamente lo finisce.
«sei bravissima»
La bacia e si fa finalmente trascinare per il piccolo corridoio fino al bagno»

Chiusi dentro lo stanzino che è il cesso l'urgenza diventa prepotente.
Si baciano, Lia lo sente, lo sente che viene amata, solo così è convinta che glielo dimostri, solo così gli crede. Gli crede mentre le palpa il seno, mentre sospira spingendo il suo bacino contro di lei. Si sente l'angelo più bello del paradiso quando le accarezza i capelli, svenuta in ginocchio davanti al suo pacco, mentre gli sbottona quei jeans troppo stretti e lo libera dalla sua costrizione. Quello che vede è il nirvana, quello che sente quando fa scontrare l'intero viso contro in boxer gonfi e sente i suoi sospiri sommessi. Lo bacia e lo lecca senza più veli come se volesse mangiarlo, gira tutto, la testa gli occhi si sente completamente sciogliere e morire. Lo prende in bocca fino alla base, non le importa di strozzarsi o che le manchi l'aria. Si sente così amata mentre lui la tiene stretta a se, l'accarezza e la bacia eccitato da far schifo, come un cane in calore. Non ce la fa più. La gira e la sbatte contro il lavandino, Lia ride, lo vuole ora ora ora, deve amarla e ammazzarla, non ce la fa più a vivere e le droghe la stanno soffocando.
Si sfila gonna e mutandine in un unico gesto e si piega. Andrea la guarda, le solleva un attimo la maglia rivelando quella schiena pallida, quei lineamenti lievemente maschili e abbozzati, ma dolci e sinuosi. Cristo. Si è solo sua, solo sua e non la lascerà mai.
Le si avventa sopra e Lia muore, sente i baci e i morsi, le parole belle mentre sente che sfila il preservativo dall'involucro e se lo mette in un gesto veloce.
Trattiene il respiro e vede tutti i cazzo di colori dell'arcobaleno quando lo sente entrare con un colpo secco. Dapprima il suo corpo fa attrito ma bastano pochi secondi per cedere e lasciarlo libero di affondare e affondare in lei. Gli stringe i fianchi morbidi e spinge, si sfoga in lei, abbastanza lucido da capire e abbastanza strafatto da non contenersi nel divorarla, nel darle quello che vuole e Lia muore muore e viene amata.
Sente il cazzo duro e turgido di Andrea continuare a sbatterla e il piacere è così tanto che mischiato al resto le pare di svenire e forse per qualche secondo sviene davvero. In quella furia di spinte e gemiti sa che sono uniti e che non è sola. Che non è sola.
La pazzia l'ha davvero divorata alla fine.
Con le ultime due spinte Andrea viene dentro di lei con un gemito roco e lungo. Sente il suo inguine premere contro il fondoschiena e le gambe incrociarsi e un brivido di puro godimento l'attraversa. Gli bastano due secondi per riprendersi che esce da dentro di lei e adesso è il suo turno di stare in ginocchio. Affonda la lingua e le mani tra le sue gambe. Bastano qualche colpo preciso e le dita che anche Lia viene, o sviene non lo so, non lo sa nemmeno più lei.

Si accascia sul pavimento, scopre di avere il fiato corto e di non riuscire a respirare. Ormai senza forza riesce solo ad accasciarsi contro Andrea, anche lui per terra che la tiene stretta a se.

Alla fine è solo un ratto.

 

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Capitolo 10
*** nightdream ***


Certo che sarebbe una figata. Pensa. Sarebbe una vita perfetta se tutti i giorni andasse così. Se la vita fosse una ripetizione infinita di sere come questa.
Maria non riesce a pensare ad altro mentre gli si chiudono quasi gli occhi e sente il fresco accennato dallo spiraglio della finestra.
I capelli corti e neri d'ebano sono sudaticci e appiccicati tra la fodera del cuscino e la nuca e un sorriso le incurva gentile il volto.
Le ultime scariche dell'orgasmo la scuotono viva da capo a piedi, e gli ultimi gemiti le aprono la bocca.
Sarebbe una figata stare sempre tutto il tempo accaldati dal piacere. Riempiti di amore, dolce e caldo, come il suo corpo minuto. Le curve morbide e pallide del suo esile corpo fanno capolino dalla felpa nera, aperta, l'ultimo indumento restatole addosso ad appannare il suo corpo.
Più la guardi, e adesso Giulio la sta guardano bene, e più te ne innamori. Ti innamori di quei capelli carbone, di quelle piccole lentiggini invisibili, di quegli occhi così verdi da parere un gatto, da parere così bimba, ma basta un secondo e l'elusione scompare. Non potrebbe essere più donna nei suoi diciott'anni.
E quei due numeri le fioriscono addosso, a gli occhi scialbi e marroni di Giulio che adesso le osservano il seno sodo florido, la pancia soffice ma piatta e le cosce di zucchero che adesso stanno abbandonate tra le coperte sgualcite. È così bella che ti sembra di vedere una fata, che la immagini immersa tra i campi di fiori. Adesso invece se ne sta lì disfatta e ansimante, il languore che le pervade ancora elettrico le membra.
La stanza dove sono finiti a scopare come delle furie assonnate è la camera dello stesso ragazzo, piccola e tappezzata di cianfrusaglie ma pur sempre con il letto a due piazze.
Maria si lascia sciogliere mentre da seduta adesso, spezza una sua lucky strike rossa, del pacchetto morbido perché le piace quando si accartocciano.
Prende i suoi fiori di campo e inizia a sbriciolarseli sulla mano, poi tabacco, cartina, filtro, saliva, accendino.
Sì, vorrebbe che tutte le giornate siano così. Vorrebbe sentire tutti i giorni i suoi fianchi tra le gambe, le cosce stringerti, i baci e graffi i gemiti. Vorrebbe vedere e sentire tutti i giorni le stelle, fumo denso dei fiori, le coperte arancioni e le macchine giù in strada. Vorrebbe averli i suoi occhi grandi, il sorriso sempre sul suo volto e le carezze turgide di affetto e amore. E poi le basterebbero anche le patatine rustiche, le sue sigarette e la musica hardrock.
Vorrebbe che il mondo si chiudesse lì adesso, su di loro e che tutto il resto scomparisse.
Prendesse il volo e scomparisse lontano lontano.

 

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Capitolo 11
*** Toxic ***


Sai cosa è tossico? Cosa vedo quelle sere in cui vomito bile viola e neon? Cosa c'è nelle mie arterie nelle vene e nella testa? C'è tutto questo, c'è tutta questa merda nevrotica che mi mostra le costole e mi fa sentire morto. E mi sento morto anche quando fa freddo e devo correre a prendere il tram alle sei di mattina strafatto di merda dalla notte prima, quando vomito in bagno in silenzio e zitto o quando chiudo la bocca anche se ho fame.
Non riesco capisci? A produrre, ad essere una persona civile, umana o stronzate simili. Anzi a dire il vero sono umano, sono più umano di tutti fantocci, solo l'incarnazione dell'umanità e quindi della sua decadenza nell'autodistruzione e nel peccato.
E se anche adesso me ne sto qui a fumare come uno stronzo e togliermi il sonno con questa lattina azzzurra piena di veleno e taurina mi sento vivo. Mi sento vivo perché sono più morto di voi, perché sono così vivo che vi ammazzerò tutti, vi schiaccerò sotto di me mentre sono soffocato tra le coperte di un letto da cui non ho le forze di alzarmi.
In realtà più che sputarvi nel viso adesso avrei voglia di dormire, di dormire tanto, una giornata intera. Il mio corpo necessità di essere traslato ancora e ancora in altre dimensioni, perché sono troppo per questa terra violentata e infame, anzi sono troppo per queste città piene di fumo e radiazioni. Se potessi al contrario mi trasformerei in spirito solo per vivere per sempre in un campo di fiori.
Oh, cristo. Ecco che arriva, arriva tutta insieme la notta da quaggiù, sul davanzale della finestra tra il piumone troppo peso. Arriva di colpo e mi entra dentro le viscere come un amante iracondo, mi spacca le cosce e mi fa sanguinare col vomito.
Vedo mille colori e la mia pelle scotta più di prima, è calda e liscia sotto le mie mani magre e sterili, e gli occhi si sono fatti più tossici della mia lingua e sembra di stare in una vecchia videocamera che non funziona più.
Ho dimenticato di dirti che mi sono imbottito di antiepilettici e adesso i polmoni non mi funzionano da un po', sarà per quello che ho gli spasmi e la schiuma alla bocca. Poco male, così farò anch'io finalmente parte di quel caos di luci che odio ma che mi tengono in vita. E sai che ti dico adesso perdo la gara solo per il gusto di non far finta di vincere. Vi inculo tutti e mi rendo tossico, tossico, tossico come scorie ultraviolette. Sono così vivo che non posso più abitare tra persone morte.

 

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Capitolo 12
*** Camomilla ***


Fuori piove.
Ma piove da far schifo della serie che l'ombrello che ha in mano ad una certa le vola via e si sfracella contro un albero da quanto piove. Quando succede i suoi occhi si riempiono di risate e ride come una bambina urlando e scappando sotto il primo pergolato che trova. Resta lì.
Resta lì sotto con il giubbotto scuro e fradicio, le goccioline di pioggia che capitombolano dal suo cappuccio. Sta lì ferma in quella stradina stretta e buia, completamente silenziosa e abbandonata da qualsiasi anima. Sorride ancora, il volto oscurato dalla notte e illuminato solo da qualche pallida luce proveniente dai lampioni. Fa così freddo che neanche lo sente, da quanto ride, da quanto è serena. Sta lì in quel vicolo, sotto quel pergolato, in questa notte chiara. Mentre ancora le spalle le sobbalzano per le risate, in tre secondi una sigaretta sottile si infila tra le dita ghiacciate e umide, incontra le labbra allungate in un sorriso sghembo e si abbraccia con la fiamma di un accendino bic blu, che le illumina il volto solo per un istante. Già che c'è poi, trova pure il posto a sedere sulla gradinata di questa casa riparatrice e sconosciuta a cui a chiesto asilo. Accanto a lei crescono delle margherite, di cui il biancastro dei petali è appesantito dalla pioggia e ingrigito dal buio. Si allungano verso quel cielo crescendo stronze e inarrestabili da una crepa nel marciapiede. Lei le fissa e pensa che le erbacce sono così cazzute. Ride ancora per la minchiata appena detta e intanto espira fumo e condensa fredda.
Resta semplicemente così. Buio, silenzio, pioggia, sigaretta.
Sussurra appena.
«Sono felice»
E il cuore a quel punto non regge più, si inonda di così tante emozioni che straripano, la prendono in ostaggio e vincono, la giustiziano e il suo sangue ricade così immensamente felice sotto forma di lacrime. Singhiozza mentre sorride, e più si rende conto di quanto sia caldo il suo petto e più piange. Come una bambina, così piccola.
È felice e allora perché è anche così triste? Perché è ancora così rotta perché? Perché piangere se si è felici? E più ci pensa e più le lacrime corrono e si ritrova con la testa tra le ginocchia, le guance umide e fredde e il cuore bollente. È così tanto felice. Felice felice felice, lo ripete a se stessa e nella sua testa così tanto da farle girare la testa. Ma qualcosa continua a non andare. E no, non la limita, non rovina niente di quel bellissimo sentimento, ma lo accompagna. La tristezza così abissale dentro di lei prende a braccetto quella felicità così bambina e ridente, quelle risate sguaiate che faceva solo mezz'ora fa insieme ai suoi primi due amici, insieme a Giulio che la baciava in continuazione. Insieme, insieme ad altri, ha mai usato quest'espressione per parlare di lei? Per parlarne in modo così tanto leggero e senza catrame addosso, senza vedere nelle altre persone il dolore. Ma è mai stata così?
Che strano pensa, mentre un gatto nero si unisce a lei cercando riparo anch'esso, mettendosi cupo e ferino all'ombra di un vaso, che strano dice: pensava che la felicità fosse diversa dall'allegria. E mentre lo dice si smentisce da sola e capisce quanto il dolore le abbia ormai preso tutto, quanto tutta quella merda in cui vive si sia rubata ogni pezzetto della sua umanità, della sua vita e dei suoi sentimenti. Ormai i suoi fantasmi hanno vinto, riescono ad infestare anche serate come questa, ma poi pensa che ci riesce comunque ad essere felice nonostante pianga come il cielo.
È come se due ombre viaggiassero dentro di lei. Nessuna vince e nessuna perde, ma insieme almeno per questa notte, la fanno rimanere ancora viva. Viva abbastanza da guardare le margherite, da accarezzare quel gatto nero, da asciugarsi le lacrime con la pioggia, da ridere ancora e abbastanza per fare l'amore tutta la notte.
Finché resiste allora, potrà ancora essere.

 

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Capitolo 13
*** Fiore ***


Maria sta lì, al centro del letto.
È sera ormai, il sole se ne è quasi del tutto andato e ne resta solo qualche pallida sfumatura di un arancione che sa di estate, imbevuto in quel liquido e immenso azzurro scuro del cielo notturno. Nel bel mezzo della primavera oggi fa caldo, e adesso con l'avvenire della notte, fa abbastanza tepore da stare con la finestra di camera sua aperta, per goderne di quell'aria profumata e placida.
Sta sdraiata, vestita come un barbone tossicodipendente da crack, tra le coperte nere del letto e circondata come un vortice dalla miriade di poster, foto e stronzate varie appese sulle quattro mura intorno a lei. Una canzone dei Gorillaz a fine che lo stereo sta sputando sottovoce.
Sta lì che è quasi buio nella stanza, solo una luce gialla e acida illumina il suo volto stanco e incavato dal pallore e le occhiaie, sorride.
Si sente vorticare. Si sente come il centro profondo di un enorme aspirale di colori, colori caldi che vorticano e lei vortica con loro.
Si sente in pace una volta tanto, con quei corti capelli messi alla cazzo e le labbra distese all'insù da una dose tiepida di droghe nel suo sangue. Si sta sciogliendo lì nell'occhio del ciclone.
Apre gli occhi, guarda il soffitto e pensa.
Pensa a quanto odiasse quando era piccola la campagna dove è cresciuta e ride. È buffo perché i ricordi dei campi a quell'ora la sera, delle camminate tra i boschi e i sentieri quando in città e a scuola tutto andava così tanto di merda ma così tanto da soffocarla prenderla alla gola e sbatterla, schiacciarla al suolo e fracassarle la carne e le ossa ancora e ancora fino a che svegliarsi non era diventato un incubo, e poi tornare lì, tornare in quei campi pieni zeppi di fiori e ulivi. L'unica preoccupazione è quell'ape che ti si è posata tra i capelli. Non ci sono più malattie, pianti, urla o   piatti frantumati a terra, non ci sono più voti di merda, sguardi di scherno, corse ai bagni, graffi allo specchio, pillole, compresse, pasticche, capsule, sonno, vomito, spasmi. No niente. Solo i fiori.
Tornava a casa con le globe nere sporche di terra fino alle caviglie e jeans larghi macchiati d'erba o quant altri colori, un sorriso sfatto, di chi sente di aver respirato almeno un giorno aria pulita, leggera, senza nessuna traccia di veleno. Aveva le braccia cariche di buste della Coop piene di erbe e fiori. Prima di cena si sarebbe messa a pulire le foglie medicinali e fare nastri lunghissimi coi i fiorellini, seduta in terrazza.
E li guardava quei fiori e pensava che avrebbe voluto assomigliargli.
Avrebbe voluto assomigliare a quella piantina che nonostante il freddo, la pioggia, i fulmini, gli animali e l'uomo stesso, cresceva e stava salda a terra, diventava giorno per giorno sempre più grande, sempre più alta, sempre più forte.
Sono un mucchio di stronzate hippie sì, ma avrebbe voluto lo stesso avere un briciolo di quella forza. Sentirsi legata a terra e non strappata via dal mondo e da se stessa. Forte e resistente non con le ginocchia che cedono e la schiena che si inarca negli spasmi.
Energia, avrebbe voluto avere quell'energia tutto qui.

Maria in tutto ciò è ancora sul letto, in città, in camera sua, nel palazzo dove vive, in quel piccolo appartamento, con la sera che ormai è notte e la luce gialla che le illumina le guance.
Sorride ferina, tranquilla, serena e in pace con il mondo che l'ha vomitata. Spegne la luce, va alla finestra e si spoglia piano.
Prima la maglia larghissima per scoprire un busto stretto e magro fino al nervoso, pallido e liscio, poi i pantaloni larghi della tuta, a scoprire quelle cosce giovani, toniche e magre. È il turno del reggiseno nero a rivelare i piccoli seni sodi e rotondi, i calzini, e infine gli slip. Scivolano via dalle gambe lasciando ad occhi indiscreti i culo sodo e con genuina femminilità il suo inguine.
Maria è bella, il suo corpo è bello, nervoso e magro e pieno di cicatrici. Maria è bella, bella come un fottuto angelo. Si passa una mano tra i capelli, sigaretta, accendino, zap, inspira e espira fumo bianco e dolce di una camel gialla.
Sorride mentre si rimette a letto, stavolta sotto le coperte leggere, la sensazione del corpo nudo contro le lenzuola rosse le riempie le membra di languore e sonno. Fuma la sigaretta guardando il soffitto e aspettando che Giulio torni da lavoro. Appena la finisce però il sonno inizia a prevalere e si addormenta così, con un sorriso sereno sulle labbra, la finestra aperta e lo stereo che ancora sussurra.
Sapete perché Maria è tanto bella? Perché è un angelo, perché stasera aveva questo sorriso beato sul volto?
Perché sa di essere forte, almeno un po'. Si è resa conto che se lo vuole, se si concentra, se ci mette tutta se stessa può sopravvivere.
È sbocciata e si è resa conto di esser sempre stata un fiore.









 

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Heyo
Avete domande sul personaggio di maria?

 

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Capitolo 14
*** Never know best ***


Elena, Elena. Senza pensieri Elena.
Così senza pensieri che non si accorge nemmeno che ha iniziato a piovere, lì seduta sul cemento armato che le graffia le cosce nude e bianche, coperta dalla presenza pesante e ansiosa del grande cavalcavia sopra di lei.
Se ne sta sola sola sotto quel ponte, alla riva di un fiumiciattolo accantucciata dove c'è più riparo.
Canticchia, Elena senza pensieri, canticchia guardando lo schermo di quel vecchio aggeggio che ha più anni di lei, scalfito e mezzo rotto, una specie di piccola console, simile ad un gameboy, rosso e dallo schermo pixelato verde. E tutto attorno a lei casca con la pioggia, lavando via qualcosa di inlavabile che da quella piccola città non potrebbe mai andar via. Come qualcuno che si mette a spazzare il pavimento di una casa abbandonata che ha decine di anni di polvere addosso e non sarà mai davvero pulita. È vecchio quel paesino ma si sente vecchia anche lei.
È piccola Elena, va in quarta liceo. La parola liceo, addosso a lei è disegnata con le occhiaie, ma non di certo per lo studio. Più cose ha da fare e più tardi farà la notte a non farle, è direttamente proporzionale. Ha troppe sigarette da fumare la notte per potersi mettere sui libri. Lo fa solo in rari casi, quando quello che legge le interessa per davvero e non pensa sia solo un balbettare sconclusionato di qualche cinquantenne che non è riuscito a far altro nella vita che inserirsi in un concorso pubblico.
Non che lei abbia una vita migliore, in realtà, e infatti non dice niente per far notare agli altri quanto siano patetici o sbagliati, perché lei non è nessuno, tantomeno le interessa informarli.
Sta lì seduta ormai da parecchie ore, come quasi ogni giorno. La guardi Elena e vedi quei ciuffi rossi amarena andarle sempre sugli occhi, rischiare di bruciarsi quando la sigaretta si accorcia dopo ogni boccata. Ha un viso dai lineamenti dolci, grandi occhi neri e labbra rosse. Sembrerebbe perfetta ma lo è solo ai miei occhi e a quelli di Ludovico. Più la guardi e più la vedi femmina. Taciturna ma non perché si trattiene, non ha mai niente da dire che non sia sconclusionato o fuori di testa, a volte così assurdo che perfino quel musone del suo migliore amico ride (senza che lei capisca il perché lo faccia). Poi le guardi gli occhi, truccati di nero, sfumato appena, solo a formare una linea da occhi di gatto. Burro di cacao su quelle labbra di ciliegia incurvate in spensierati sorrisi, o come adesso, appiattite in una apatica atonia contratta solo dal tenere della sigaretta. Le orbite vuote di qualsiasi emozione che non sia quel briciolo di concentrazione atta a sconfiggere il nemico nel videogioco. D'altronde i suoi capelli sono fradici anche se è al coperto e le scarpe sono impigliate a dei massi più giù nel fiume, portate via dalla corrente. Sulla schiena deve avere un livido.
È calda anche se fradicia, accogliente e ruvida. Quel maglione mezzo umido che le cala sulla spalla nuda, candida e dai cui si scorge un tatuaggio sulla scapola. Quel lurido buco non dovrebbe essere il suo posto, penseresti nel guardarla. Merita di più, merita una bella canna e un letto stracomodo. Merita di fare l'amore tutta una notte amandola fino allo stremo, senza vestiti che possano coprirle le gambe secche, anche se la lisa gonna di tartan che ha addosso già scopre ad occhi indiscreti ogni profonda curiosità. La ameresti e te la scoperesti fino a sbranderlarla, per poi scoprire che non è servito a niente. Che è fatta di fumo e che non le interessa. Gli si scioglierebbero le cosce attorno alle tue solo per riuscire a non debordare, solo per appagare ansie e dolori, già venute a galla e che ribollono sotto la sua pelle sotto forma di nicotina. Niente di più, niente di meno.
Sarà per questo che i bulli le sputano addosso e le ragazze ridono di lei e a sopportarla e starle accanto è solo uno come Ludovico che è acido e vagabondo e anche un po' figlio di puttana.
Non parla non perché è timida, ma perché non le importa davvero dei discorsi che fanno, a lei piace parlare di cose come assurdi mostri robotici o i nuovi ghiaccioli alla ciliegia. Non ha amici come le altre non perché non riesce, ma perché le basta Ludovico e le sue sigarette e qualche ragazzo che si spinga tra le sue braccia una notte ogni tanto. Le basta sinceramente senza alcuna traccia di malinconia. E se quegli stronzi le gettano il quaderno dalla finestra allora le ruote dei loro motorini saranno squarciate e nessun cristo saprà che è stata lei. Vive a tratti e vive bene tra divinità meccaniche, lattine di soda, una macchina fotografica usa e getta, qualche abbraccio molesto al suo migliore amico e un pacchetto di camel gialle.
Elena senza pensieri.
Senza pensieri.













 

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Just vibe in flcl bro.

 

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Capitolo 15
*** Astratto ***


Sta seduta sul pavimento del cesso, nuda. Le resta solo al collo un sottile collarino di plastica. A coprire il corpo solo la pelle, eburnea e imperfetta, segno di chi non se ne cura poi molto. Non si ricorda bene il perché sia nuda, o il perché sia nel bagno di casa sua, sulle mattonelle ghiacciate e lisce. Le cosce fanno male, così come la schiena e le spalle, il setto nasale e le narici. Da quel vestito di pelle si intravedono un po' le costole, le ossa dei fianchi. Ma non se ne cura poi molto, così come del freddo ustionante o del mal di testa che le suona nella scatola cranica. Sta solo distesa, gli occhi semichiusi, senza la parvenza della realtà. Piange crede, o almeno qualcosa di bagnato le solca le guance e i polmoni fanno male.
Lo vedete lì nel mezzo? Sì lì sul seno, sullo sterno, appena sotto le clavicole. C'è un pallino, un puntino nero che le fora il petto. È più piccolo di un segno a matita ma avvicinatevi, guardateci dentro.
Dentro di lei esiste un altra dimensione. Qualcosa che per vederla dovreste smettere di pensare e di esistere nel modo in cui esistete in questa di dimensione. È un universo astratto, colorato con i pastelli a cera e con le stelle di carta attaccate alle sue molteplici mura. Lì dentro fa freddissimo. Non c'è il ghiaccio né la brina, il freddo non è del corpo. Al centro di questa dimensione c'è quel pallino nero. È una sfera compatta, che pulsa e si annoda contorcendosi come uno scarabocchio. Sta solo lì, esiste e non fa altro. Quello è Dolore.
Non è una poesia sulle droghe. Non è un post su Instagram con il cuore spezzato. Non è qualcosa che permea la superficialità e voi tutti sapete di che dolore parlo. Quello dentro di lei se ne sbatte il cazzo di tutto quello che c'è intorno a lui e fuori dal quel corpo, però il mondo fuori a tutto a che vedere con lui. A quella massa nera non gliene sbatte un cazzo delle parole, dei sogni infranti o dei romanzi. Non lo riguardano. Dolore lei sa chi è e sa che sta in un altra dimensione. Niente a che vedere con gli specchi del mondo fuori. È qualcosa che adesso non provate respirando, pensando e vivendo nel momento in cui vi trovate. È un altro modo di concepire la realtà che non fa conto di quest'ultima. Lì sta Dolore.
Quel pallino nero è stato nutrito giorno dopo giorno da quando lei è nata. Giorno dopo giorno, evento dopo evento. È fatto di cicatrici. Di urla, di pianti, di crisi di astinenza che non ti fanno respirare mentre soffochi sotto una doccia fredda sotto cui ti ci hanno buttato per farti ripigliare. È fatto di schiaffi, insulti, prese in giro, mani indesiderate e pasticche, strisce, abbandoni, sigarette, digiuno. Blu e verde scuro. È fatto di tutte quelle cose che non ha la forza di commentare, a malapena di raccontare, che subisce perché non può far altro in un continuo svegliarsi la mattina. Qualcosa da cui vuoi solo evadere.
Dolore è stato nutrito dal mondo e adesso è cresciuto così tanto che il suo peso la schiaccia a terra. Non è drammatico, neanche malinconico, è solo vuoto e freddo.
Prima riusciva a trascinarsi, a spingersi un passo avanti all'altro anche se il peso sembrava troppo. È più Dolore cresceva e più spazio prendeva e più di lei venivano strappati brandelli, se la mangiava e diventava solo un involucro di carne. Più pesante diventa e più vuota è. Ma adesso il peso è troppo. Si è preso tutto, Dolore ha preso il suo corpo e il suo cuore senza chiedere il permesso e adesso se ne sta lì come una stella morente e densissima pronta ad esplodere per creare un buco nero.
Magari non è nel suo bagno si è sbagliata. Qualcuno deve averla scopata e lasciata lì strafatta sul cesso di qualche posto abbandonato. O magari l'umido che sente sul corpo è sangue e sta morendo. Non se ne cura poi molto. Cerca di rannicchiarsi contro il pavimento e resta lì, in posizione fetale nel mezzo di quel nero, così freddo e assente da emozioni. Non desidera altro che abbandonarsi lì, senza pensare a niente, provare niente, essere niente. Non le importa più vivere in questo mondo, cercherà altrove.
Il suo suicidio viene spezzato da dei colpi. Sembrano il bussare di una porta, un bussare agitato. Non le importa.
La porta deve essersi sfondata e qualcuno si sta avvicinando a lei. Solo adesso si accorge che è davvero nel suo bagno ed è davvero sporca di sangue. E Giulio sta davvero urlando.
Vomita. Il Dolore non riesce a stare più dentro gli argini della carne e vomita bile nera.
Qualcuno la alza, cerca di prenderla in braccio e la infila a sedere sul cesso, le tiene la testa alzata verso il soffitto, che ai suoi occhi non esiste più. Sta morendo.
Inizia un rumore di cassetti che si aprono e flaconi che sbattono tra di loro. Qualcosa di ghiacciato le viene versato sulle cosce, brucia, fa scivolare via il sangue.
Non sente più il suo corpo ne tanto meno se ne preoccupa. Nota solo Giulio stringerli delle bende addosso e una felpa che la copre.
Sta continuando a chiamarla e urlare.
Vomita ancora. Lui la pulisce. Poi si sente sollevare e deve averla presa in braccio. Camminano nel buio per un po' poi sente qualcosa di morbido sotto di se. Giulio si distende accanto a lei sul letto e l'unico riflesso che il suo corpo riesce ad eseguire è lo strisciare verso il suo petto.
Rimangono lì. Giulio che piange e la stringe a se. Le accarezza i capelli e la copre con le lenzuola, il suo intero corpo proteso ad abbracciarla e proteggerla.
Forse lei sta piangendo ancora o forse è sangue. Piange per il tepore appena trovato.
Piange per quella piccola lucina in mezzo al nero che ancora non si è spenta.

 

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Capitolo 16
*** Bianca ***


Margherita la guarda e piange.

I banchi di scuola odorano di bianchetto e gomme marce, di grafite e di polvere sui libri. Se ne accorge dopo la seconda ora passata con il viso spiaccicato su uno di essi, precisamente il suo, in ultima fila a lato, totalmente invisibile da qualsiasi figura didattica in grado di metterle una nota. Davanti a lei ha Michele che cristo Dio è due metri e la copre perfettamente. Margherita allora a scuola dorme tutto il giorno, il suo banco pieno di scarabocchi è la superficie più comoda che esista, la sciarpa di lana il più superlativo dei cuscini.
Sta messa uno schifo: vestita col pigiama in pratica, le scarpe consunte che non usa per uscire messe per sbaglio, il trucco sbavato ma quella non è una novità e l'unico dettaglio che fa desistere dal pensare che si sia buttata nel treno diretto a scuola esattamente così come è scesa dal letto, è il collare di pelle nero messo largo al collo.
Che schifo che fa Margherita, ha pure i capelli sporchi, lo stomaco che gorgoglia, ma occhiaie troppo profonde per avere il coraggio di sfamarlo.
I suoi capelli sanno di fumo, la bocca di sborra, esattamente quello che ci si aspetta da una troia come lei. E Margherita pensa, pensa con la faccia schiacciata contro il baco, a quanto faccia schifo. Lei, il mondo, il cielo inquinato e i palazzi fuori scuola che non le piacciono per niente, a quanto faccia schifo il sole acerbo e le cose luminose. La luce le fa male agli occhi, il suo corpo non lo regge e la rigetta sotto forma di lacrime dolorose. È meglio la penombra, in cui può dormire e nascondere le ossa del suo corpo sempre più visibili. Una penombra in cui non può vedere quanto quelle mutandine di pizzo la rendano squallida quanto una prostituta, ma bella come una dea.
Nella penombra, pensa, non c'era troppo buio da morirne ma neanche così tanta luce che tanto non riesce a sopportare. La penombra è la vita. Nasconde quello che vogliamo nascondere ma non abbastanza da dimenticarcene, non abbastanza oscuro da non vedere il nostro riflesso ma c'è abbastanza luce da vederci allucinazioni di ombre dietro di noi.
E poi pensa che sta facendo un mucchio di discorsi del cazzo.
Sbatte la testa.
Che schifo. Che schifo che fai Margherita. Saresti così bella e dannata, ma invece resti solo patetica, spenta, dentro un corpo e una vita che non ti appartengono. Che squallore.
Vorresti strapparti via quella carne senza scopo dal corpo, uscire da quello schifo di testa che ti ritrovi, dalle mura di una casa in cui sei costretta prigioniera. Giorno dopo giorno Margherita tu scompari, si sostituisce a te un fantoccio che fa tutto quello che tu odi.

Gira la testa e si distende da un lato, continuando ad affogare in quei pensieri densi.
Di sfuggita la prima cosa che vede è una sua compagna di classe, dall'altro lato della stanza. Si chiama Bianca, e mentre pensa al suo nome inizia a fissarla lì di nascosto.
Bianca è una ragazza minuta, della sua stessa età, sembra uscita da qualche libro di fiabe: pelle pallidissima e priva di imperfezioni, capelli lunghi neri e mossi, occhi grandi e verdi e sorriso solare. Se Bianca fosse una cosa sarebbe delle tempere, sarebbe un libro o una canzone indie. La cosa che più le da fastidio di lei è che è così bella, ma così bella senza nemmeno saperlo o sforzandosi per esserlo. È un cazzo di fiore, un anima stupenda e etera. Eppure è umana e per di più ha una vita di merda, famiglia sfasciata e padre sotto dieci metri di terra. Ha una fottuta vita orribile eppure è così bella, bella dentro. È piena di amore sconsiderato, non senza pensieri, è semplice, una spirale di colori caldi e pieni di vita. Con il suo dolore lei crea cose così belle, parole o quadri non importa cosa siano, cosa Margherita sbircia dal suo profilo Instagram. Una cosa è certa: Bianca è migliore di lei, è una persona migliore di lei, più bella più naturale, più viva di lei. Viva per davvero.
Eppure Margherita cazzo dalla vita ha avuto solo merda, solo merda su merda a profusione. È dovuta nascere con quella mente mal funzionante, con quell'anima rotta, una psiche incapace di guarire fino in fondo. Ha distrutto il suo corpo e ha visto distruggersi tante persone davanti a lei, coloro che amava contagiati dalla sua stessa malattia. Hanno sofferto entrambe tantissimo, Bianca e Margherita, ma lei è comunque più bella, da Bianca nasce vita, mentre le mani di Margherita sono sterili e incapaci di creare.
Una testa rotta e un corpo da cui non nasce niente, senza alcun talento, senza alcuna identità.
Eppure ha lo stesso potenziale di Bianca, eppure il suo corpo magro e i suoi occhi truccati di nero saprebbero accogliere un corpo caldo e diventarne la casa, il dolore nero colarle dalle mani e diventare inchiostro, il sorriso generare amore e i capelli colorati accompagnarne carezze. Potrebbe fare così tanto, dare così tanto alla vita a cui si aggrappa fino alla strenua, ma non lo fa. O meglio, non ci riesce. Non ci riesce cristo santo, ci sta provando cazzo ad essere una persona degna di stare al mondo ma non ci riesce. Pensa a solo a quanto non deve mangiare oggi e alle ore che passerà su quello schifo di telefono ad annullarsi. A diventare niente niente assoluto. L'unico pensiero è di scappare via da lì, tornare se stessa, ridere, urlare, respirare ancora. Respirare e sentire l'aria arrivare fino ai capillari, sentire di essere ancora qui.
Invece solo nero.

Stringe gli occhi, qualche lacrima cade zitta sul banco, nessuno lo nota, meglio così.
E poi l'affanno gli entra nel petto, la smania e la paranoia lo seguono.
Invece solo nero. Uno schifoso e putrefatto nero.
No, no.

Stringe la prima cosa che si ritrova sotto mano e con le braccia al petto si tira a se il suo stesso maglione.
Il suo cuore ha un sussulto, lentamente il corpo ritrova la quiete.
Nel buio della sua mente una fioca pallina di luce inizia ad accendersi.
Quel maglione è di Giulio. Sorride piano mentre lo pensa. Pensa al caldo che gli sta dando

 

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Capitolo 17
*** Mattina ***


Pelle di carta, bianca come il cotone, facile da rompere e da ricucire.
Nasconde i fianchi pieni di lividi, magri e sinuosi sotto un top nero della bed metal preferita.
È sul letto, caldo tepore di una notte ormai andata, le lenzuola emanano sesso, un odore che sa di fiori. Giulio è accanto a lei, completamente nudo e dormiente, in un limbo sereno cullato dalla certezza del tepore della sua Maria accanto a se. Ma lei si sta alzando e come un soldato si sveglia, accarezzandole la schiena dalla posizione prona in cui è.
Pelle come carta, aperta e forata, anche le sue cicatrici sanno di fiori, fiori bui che crescono solo di notte.
La guarda con un occhi lascivo infilarsi i pantaloni della tuta di due taglie più grandi della sua, senza curarsi delle mutandine. Quella carta, quella pelle chiara e difficile, è la miglior carezza mattutina.
Maria si alza in piedi a fatica mentre Giulio si riveste. Il dolore permea l'amore di quei quotidiani gesti, avvolti nella penombra di una casa ancora con gli avvolgibili abbassati. La vede andare in bagno, le gambe scheletriche di muovono sinuose, coperte dal sacco dei pantaloni. È sciatta, assonnata, morta, avrebbe voluto non svegliarsi stamattina, ma Giulio le ha tenuto la mano tutta la notte impedendole di scivolare via. 
Arriva davanti allo specchio e si fa cagare come al solito, lava il viso e i denti e poi si siede sul cesso. Fa male muoversi, i tagli tirano.
Dopo aver fatto si spoglia di nuovo, guarda quella troia della bilancia e si sale sopra a testa dritta. L'arnese infernale segna un altro mezzo chilo in meno. È contenta, un sorriso le lacera il cuore.
Il resto lo fa in fretta: si riveste, prende i trucchi e si da una sistemata sbavando tutto come ogni mattina, o altrimenti non si sente abbastanza figlia del demonio.
Quando va nella piccolissima cucina di casa sua Giulio non c'è, è in bagno, lo sente dall'acqua. Inizia a metter su una moka per il caffè e l'odore di questo la rallegra per un istante. Poi fa la brava donna di casa come tutti i giorni, con le cuffie alle orecchie ad ascoltare dell'industrial o un po' di nu metal, i capelli neri come l'ebano che arruffati svolazzano mentre apre i cassetti. Tira fuori le fette biscottate e le gocciole, altri biscotti, roba a caso e mette a scaldare un po' di latte.
Quando Giulio torna di là il piccolo tavolino con la tovaglia di plastica è pronto per la colazione: la moka è pronta, il latte pure, ci sono ciotole e biscotti; e Maria, che fuma.
La mattina non si parla molto. Qualche ti amo per confortare le ferite notturne ma poi i niente di più. Giulio però torna con in mano con il disinfettante, le bende e le medicine.
«Vieni amore»
Mentre tre lacrime scendono bollenti sulle guance, maria abbassa i pantaloni, lì seduta e continua a fumare come se volesse ingoiarla.
Giulio si mette in ginocchio e inizia, disinfetta la pelle lesa e ricuce alla bene e meglio il suo cuore, con un filo di speranza che lo avvolge. Gira le bende intorno alle cosce, ci lascia un lungo bacio, e poi risale.
«Il caffè si fredda" trema Maria, il mozzicone ormai andato nel posacenere.
Versa una tazzina per lei e il resto nella ciotola di Giulio in cui versa anche il latte caldo.
«Tieni»
Gli da le pasticche, gli antipsicotici, i calmanti e li manda giù col caffè.
La notte oggi ha vinto, i fantasmi si sono liberati dal suo corpo, e hanno graffiato la carta e l'anima di Giulio.
Mangiano in silenzio. Non è un silenzio crudele. È un silenzio affranto, stanco, tiepido e innamorato.
Maria ridacchia nel guardarlo mentre si infila in bocca tre biscotti di fila inzuppati nel caffellatte. Lei intanto sorseggia il suo caffè insieme alla seconda sigaretta, questa un po' "speciale". Il sapore dell'erba è leggero e si impasta con caffè e con il sapore della sborra dolce e amara di Giulio. Colazione preferita. Sente già le mani tremare e allora per pietà ingoia a fatica una fetta biscottata. Trentatré calorie. Basta.
Finisce il caffè e sta lì a guardare la sua metà, fumandosi quella canna atonica e dolce.
«Mangia qualcos'altro dai»
Scuote la testa e sorride.
«Amore se mi svieni a scuola come faccio poi»
«Lo sai che non svengo, sono resistente»
Ricala il silenzio. Il sapore d'erba le impasta la bocca così bene.
Finiscono la mattina in camera a vestirsi e fare una sveltina di quelle rapide forte, perché sono in ritardo per il treno. Tra i baci e i morsi escono di casa di fretta. Il dolore al petto che non va mai via, un biscotto alle fragole nella tasca della felpa.

 

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Capitolo 18
*** Ossa ***


Lune e stelle sono disegnate sui suoi fianchi.
Maria è lì, camera buia, penombra estiva pomeridiana che filtra nella sua camera, nella camera che condivide con Giulio, sdraiato dormiente accanto a lei, nudo e appagato, coccolato, amato. Anche maria è così, ma lei brucia.
Davanti al loro letto c'è un piccolo specchio di quelli che girano, che di solito fa da armadio di guerra con le mutande tirate sopra per la fatica di sistemarle nei cassetti, ma oggi è vuoto. Il riflesso di Maria limpido. Il riflesso del suo corpo seduto sul letto, nervoso, ossuto, annodato, fragile e arrossato nelle giunture, come una bambola di carta velina.
Lune e stelle sono disegnate sulle spalle, sulle braccia, sui polsi. Costellazioni sulle cosce, sull'addome. Che schifo.

Mi sento male. Mi sento davvero tanto male così tanto male che mi sembra di morire. Il mio corpo va a fuoco le mie mani non smettono di martoriarmi. Il mio cuore va veloce e sto vomitando bile. Sto esplodendo, sto morendo aiutatemi, aiuto. Aiutatemi.

Maria continua.
Ho fame vorrei mangiare ma non posso, il mio fantasma dice che sarò molto più scopabile se non mangio, che sarò molto più bella, un fiore nero che tutti vorranno, sopratutto Giulio. Non ascoltare lui, dice il fantasma, non sei bella adesso, fai cagare sei un cesso lardoso di merda, sei una balena sei inguardabile, fa venivate il voltastomaco. Tappati quella bocca, continua: non mangiare, se mangi ingrassi e a quaranta cinque chili non ci arriverai mai, le tue ossa non saranno mai visibili se continui a mangiare, devi diventare uno scheletro a quel punto avrai il permesso. Ma sarai troppo esausta vero? Anche se avrai il permesso di mangiare troverai un altra scusa per non farlo. Meglio di no, brava, sei una bimba così brava, una bravissima troia. Ascolta me e solo me, solo me soltanto la mia voce e morirai finalmente. Non è quello che vuoi?
Schianta cazzo schianta. Impasticcati come la tossica che sei e muori con gli occhi rivoltati. Schifosa ameba, aborto di merda.
Sei un fiore bellissimo sì,
Il tuo corpo è solo un fiore sterile.
Ucciditi.

Maria piange davanti allo specchio, piange anche dopo tra le braccia di Giulio. Piange. Il vuoto nero che sente ha preso il sopravvento.
La penombra non è più nirvana, è incubo terrificante. Fa così schifo, Maria fa così schifo, fa così schifo. Schifo. Schifo. Schifo.
Schifo.
Vaffanculo.

 

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