Regalami un Sorriso di Little Miss Sunshine (/viewuser.php?uid=29655)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno scambio fortunato ***
Capitolo 2: *** Lentiggini ***
Capitolo 3: *** Vodka Lemon ***
Capitolo 4: *** Perdona i miei Silenzi ***
Capitolo 5: *** Il Gioco Della Bottiglia ***
Capitolo 6: *** Punto di Rottura ***
Capitolo 7: *** New York, New York! ***
Capitolo 8: *** Regalami un Sorriso ***
Capitolo 9: *** Pancakes, Alcohol and Rock 'n Roll ***
Capitolo 10: *** Un Giorno (Non) Come Gli Altri ***
Capitolo 1 *** Uno scambio fortunato ***
Regalami
un sorriso
Capitolo
Primo: Uno scambio fortunato.
Il
bar situato di fronte al Liceo Classico “Umberto
Eco” nell’ora che
precedeva la campanella d’inizio diventava un vero e proprio
Inferno. Situato
in un punto strategico del quartiere romano EUR, si affacciava sulla
stessa
piazza dov’erano situate la Posta,
la stazione dei vigili del fuoco, l’ufficio di una
importante compagnia telefonica ed una scuola elementare. Di
conseguenza ogni
mattina vi confluivano persone di tutte le età e di tutte le
professioni per
consumare la prima colazione, ordinavano cornetti, moretti(*),
cappuccini e
caffé corretti. I ragazzi dopo aver ordinato si sedevano sui
tavolini situati
fuori dal bar e mentre mangiavano, avevano
l’opportunità di ripassare per
l’ultima volta la materia in cui rischiavano quel giorno.
Quel giorno ero arrivata prima del mio solito e dopo aver constatato
che al
solito punto di ritrovo della mia classe non ci fosse nessuno, mi ero
diretta
verso il bar. Solitamente arrivavo sempre un po’ prima per
poter parcheggiare
tranquillamente la mia macchinetta senza il rischio di trovare le
macchine
degli impiegati dei vari uffici parcheggiate anche sui posti riservati
ai
motorini e a tutti i mezzi di cilindrata cinquanta. Tuttavia quella
mattina,
stranamente, avevo deciso subito cosa mettermi e non avevo perso troppo
tempo
camminando avanti e indietro per casa senza combinare niente, riuscendo
così ad
uscire alle otto meno dieci da casa e stando alle otto in punto di
fronte
all’inquietante cancello del mio liceo.
-Scusate- Dissi a voce abbastanza alta in modo da riuscire a farmi
spazio
fra la massa di gente che si era accalcata nell’area fra il
bancone e la cassa.
Mentre aspettavo che fosse il mio turno per pagare mi guardai intorno
cercando
di scorgere qualche volto conosciuto: riconobbi qualche ragazza
dell’ultimo
anno ed una professoressa della sezione G che chiaccherava animatamente
con un
suo alunno.
-Buongiorno, Ginni!- La voce di Franco, il proprietario del bar, mi
destò
dalla mia perlustrazione del luogo. Mi voltai con un ampio sorriso e
contai
velocemente i soldi che tenevo sulla mia mano destra: un euro e trenta
giusti
giusti. –Un moretto ed un caffé, giusto?-
-Giusto- Risposi sorridente. In fondo dopo due anni passati a fare
sempre
colazione lì, ordinando le sempre stesse cose, anche lui ed
i baristi avevano
imparato a memoria i miei gusti in fatto di cibo. Posai i soldi sul
piattino e
presi lo scontrino, mettendomelo subito in tasca. Tanto non me lo
chiedevano
neanche più. Sgomitando il più elegantemente
possibile ed il meno dolorosamente
per coloro che mi circondavano, riuscii a raggiungere il bancone,
buttando
immediatamente la mia borsa a terra. Non appena Anna, la barista, mi
notò, mi
accolse con un ampissimo sorriso e mi fece segno di andare a prendere
il
moretto ed il caffé. Non passarono neanche due minuti che
stavo già consumando
tranquillamente la mia colazione. Mentre addentavo felice il moretto
assaporandone il sapore al cioccolato pensando alla giornata che mi
aspettava,
mi guardai un po’ intorno e non appena voltai la testa a
destra vidi al mio
fianco un ragazzo che non avevo probabilmente mai notato prima a scuola
avvicinarsi, posare la borsa a terra e mettere lo scontrino sul
bancone. Lo
osservai incuriosita mentre mandavo giù l’ultimo
pezzo di quella bontà
ipercalorica che avevo appena mangiato: alto, capelli mori non troppo
lunghi e
leggermente spettinati, carnagione un po’ scura e lineamenti
tranquilli, dolci
e regolari. Possibile che nella mia scuola, carente di ragazzi carini,
non si
fosse mai parlato di quel ragazzo che meritava sicuramente un posto
nella
classifica dei più desiderati? Ipotizzai che fosse uno nuovo
mentre portavo la
tazzina alle labbra per mandare giù il caffé
amarissimo. Ad un tratto lui si
girò ed incrociò il mio sguardo che gli stava
facendo una radiografia da almeno
un paio di minuti. Mentre le mie guance si coloravano probabilmente di
porpora
ed indirizzavo il mio sguardo ficcanaso sul piattino dove posavo la
tazzina,
lui sorrideva guardandomi per poi tornare a concentrarsi sul suo
cappuccino.
-Ciao, Anna!- Dissi con evidente imbarazzo nella voce mentre mi piegavo
a
raccogliere la borsa a tracolla da terra.
-Ciao, Bella!- Rispose salutandomi con la mano. –Ci vediamo
domani!-
Nonostante fosse sempre indaffarata, mi parlava sempre con una simpatia
ed una
gentilezza immensa, facendomi sentire ogni volta benvoluta al famoso
“baretto
dell’Eco”. Lanciai un’ultima occhiata al
nuovo, misterioso ragazzo che in quel
momento mi dava le spalle ed uscii, ringraziando il cielo che
l’ora di punta
era ormai passata e c’era la metà della gente.
-Ginni, Ginni, Ginni!- Una chioma di capelli biondi sembrava correre
nella
mia direzione dal parcheggio e solo quando si fermò e si
scosse, vidi il viso
della mia migliore amica, Sara.–Buongiorno! Che ore sono?- Mi
domandò con un
po’ di fiatone passandosi una mano fra i capelli per
sistemarli e stringendo
saldamento nell’altra il suo casco azzurro.
-Sono le otto e dieci- Risposi guardando l’orologio che
portavo al polso.
–Sembra che tu ti sia fatta di corsa il tragitto da casa a
qui!- Osservai
guardandola un po’ meglio senza poter evitare di ridere.
-Non ho sentito la sveglia, mi sono alzata venti minuti fa.. Non
chiedermi
come faccia ad essere qui! Sono venuta solo perché quella
folle della Marini
oggi vuole controllare le nostre parafrasi di Dante!- Respirava a
stento e la
sua espressione sembrava raccontare da sola la sua disavventura
mattutina.
-Comunque, ora che mi hai degnata della tua regale presenza, proporrei
di
andare a cercare Gianluca ed entrare.. Metti caso che oggi la Marini
si è svegliata
prima! Poi se entriamo un minuto dopo avrà un motivo per
chiamarci!- Cominciai
ad incamminarmi in direzione della scuola e proprio mentre oltrepassavo
il bar,
usciva quel ragazzo senza nome. Lo guardai un momento prima di
ascoltare ciò
che mi raccontava Sara.
-Ieri sono stata tutto, tutto il pomeriggio a copiare quella dannata
parafrasi da internet! Non finivano più quei cavolo di
versi..- Sara era fatta
così, amava lamentarsi. Era una ragazza molto sveglia,
dolce, ed anche
piuttosto intelligente, ma studiare regolarmente non faceva proprio per
lei..
Si riduceva ogni volta all’ultimo minuto e finiva sempre per
fare le cose a
metà, prendendo così voti mediocri.
-Io più che altro ho faticato a mettere insieme tutti i
fogli sparsi che
avevo disperso per casa!- Commentai senza troppo interesse per
l’argomento
mentre ci fermavamo proprio davanti alla nostra scuola, sul marciapiede
opposto. –Strano che non si veda Gianluca..- Mormorai
guardando la strada in
salita che stava alla mia destra, su cui lato destro erano parcheggiate
tutte
le macchinette e tutti i motorini. -..Eppure il motorino l’ha
già
parcheggiato!- Aggiunsi guardando il suo scooter 125 della Yamaha
sistemato
accanto ad una moto nera come la pece che faceva la sua bella figura
fra tutti
quei motorini.
-Magari è già dentro.. Entriamo dai, che non ho
voglia di colloquiare con quella
racchia!- Sara mi
tirò per un braccio facendomi attraversare, praticamente
trascinandomi, la
strada. Varcammo il cancello e salimmo i gradini, entrando
così nell’edificio
vero e proprio. Svoltammo a sinistra e prendemmo le scale, salendo al
primo
piano. Raggiunsimo la nostra classe il II E ed entrammo, trovando sei
nostri
compagni di classe impegnati a discutere animatamente
dell’ultima partita della
Roma.
-Buoongiorno!- Esordì colui che era il mio più
grande amico, più importante
anche di Sara e di tutto il resto del mondo: Gianluca. Capelli castani,
con la
frangia, portati sempre con quel poco di gel che gli donava
quell’aria un po’
sbarazzina, i vestiti firmati ma senza esagerazione ed un sorriso che
era in
grado di illuminarti la giornata più buia. Una persona
d’oro: sorridente,
ambizioso, comprensivo.. Ma c’era anche da dire che era
dannatamente,
perdutamente stronzo. Amava dare un’immagine di sé
forte, del menefreghista, ma
non appena si apriva con qualcuno perdeva subito quella stupida
maschera.
-Ciao, tesoro!- Dissi stampandogli un bacio sulla guancia prima di
andare a
posare la borsa sul banco che condividevo con lui, mentre Sara si
sedeva su
quello dietro che invece spartiva con Annagiulia, un’altra
nostra grande amica,
anche se non aveva lo stesso rapporto che avevamo noi tre.
-Oggi prevedo un’assenza collettiva- Dissi mentre andavo alla
porta per
affacciarmi al corridoio.
-Mannaggia alla mia stupidità!- Sbottò Matteo, un
mio compagno di classe
che sembrava un troll un po’ più carino.
–Potevo evitare di far sega(*) quattro
giorni fila per poi ridurmi il giovedì ad entrare!-
Batté un pugno sul banco
per poi tornare a discutere con Davide, un altro della sua stessa
specie della
divinità di Francesco Totti. Eravamo in tutto otto persone
su diciotto quella
mattina.. Indubbiamente quella vecchia megera avrebbe chiesto la
parafrasi,
perché spiegare non poteva secondo il regolamento
d’Istituto che voleva la
presenza di metà classe più uno
affinché il docente potesse andare avanti con
il programma.
-Arriva, arriva!- Annunciai ai miei compagni di classe precipitandomi
al
mio banco e prendendo posto affianco a Gianluca che già
aveva tirato fuori il
libro di italiano. Ci dividevamo i libri e di conseguenza non dovetti
neanche
scomodarmi di aprire la mia borsa: la penna la prendevo da lui ed era
meglio
non far vedere alla professoressa dei quaderni, in caso se ne fosse
dimenticata!
-Buongiorno, ragazzi..- Disse con la sua solita vocina frettolosa
fissando
terra e trascinando la sua borsa di pelle marrone. Quella borsa pesava
un
quintale ed era l’incubo di ogni studente del corso E essere
incaricato a
portargliela nella sua prossima classe. Tutti ci alzammo, visto che non
alzarsi
era ritenuto da lei un attacco personale, e non appena lei si sedette
noi tutti
la imitammo, guardandoci silenziosamente intorno e pregando tutti
affinché si
esaurisse un unico nostro desiderio. –Come mai oggi siete
così pochi? Io volevo
far progredire un po’ le vostre conoscenze, per Bacco!-
Borbottò aggrottando le
sopracciglia ed aprendo il registro di classe. –Facciamo
prima a segnare
solamente i presenti, oggi.. Allora, vediamo chi
c’è..- Si guardò intorno
portandosi la penna alla bocca per poi fiondarsi a scrivere.
–Chiara
Amatori..Matteo Bassotti..Valeria Guglielmino.. Davide Manili.. Giorgia
Moccia.. Veronica Paglialunga.. Sara Rossetti.. Ginevra Sforza e
Gianluca
Terenzi.. Eccoci qui!- Chiuse trionfante il registro e
continuò a segnare le
assenze sul proprio registro personale.
Ombretta Marini era considerata probabilmente la professoressa
più suonata
in tutto il Liceo Classico “Umberto Eco”. I
racconti delle sue lezioni, delle
sue battute e di tutte le sue stranezze avevano circolato per anni e
continuavano a circolare per tutti i corridoi, fra tutti gli studenti
ed i
professori ma, stranamente, non arrivavano a lei che era la diretta
interessata. Non amava seguire il programma ministeriale della propria
materia:
in realtà si permetteva di saltare spesso autori importanti
ed opere, solo
perché non sono esattamente di suo gusto. Aveva i capelli
lunghi fino le
spalle, grigi e sparati all’aria stile Einstein, vestiva
antiquata e non sempre
in un modo definibile decente. Tuttavia ciò che maggiormente
i suoi studenti
temevano erano le sue interrogazioni: era in grado di chiederti le cose
più
assurde, concentrarsi su una riga di un lunghissimo canto di Dante e
mandarti a
posto con un quattro solo per una domanda a cui non davi una risposta
pienamente soddisfacente. La donna più eccentrica del mondo.
-Oggi cos’avevamo? Dante?- Domandò con la sua aria
stralunata. Qualcuno
annuì e lei si alzò dalla cattedra avanzando su
quegli stivali scamosciati che
portava da anni e con ancora il cappotto addosso. –Non dovevo
fare un controllo
delle parafrasi?- Domandò
senza
conoscere in realtà neanche lei la risposta. Nessuno
tuttavia osava mentirle,
perché sennò la punizione sarebbe stata ben
peggiore. Non si metteva né ad
urlare, né a fare scenate isteriche Ombretta. Lei perdeva la
fiducia, se la
legava al dito e non perdeva mai l’occasione per ricordarlo.
Mentre passava fra i primi banchi, noi altri tiravamo fuori i quaderni
di
italiano dagli zaini. Presi la borsa e la posai sulle mie ginocchia, la
aprii e
ci mancò poco che non tirassi un urlo. Probabilmente in quel
momento sembravo
uno di quei comici cartoni animati con gli occhi sparati fuori dalle
orbite e
la mandibola che toccava terra.
-Non è la mia borsa questa!- Dissi a Gianluca boccheggiando.
Inarcò un
sopracciglio, non aveva afferrato il concetto.
–Non-è-la-mia-borsa!- Scandii
nuovamente ficcando la sua testa quasi dentro di essa.
–Guarda!-
-Ho capito, ho capito..- Disse allontanandomi con le mani. –E
di chi è
diamine è allora?- Bella domanda!
-Se lo sapessi non starei qui no, che dici?- Proprio in quel momento la
trotterellante figura di Ombretta Marini si accostò al terzo
banco centrale
che, guardate un po’ il caso, era proprio il mio.
-Dove sono i quaderni, ragazzi?- Domandò fintamente cordiale
mentre in
realtà già articolava la ramanzina che ci avrebbe
fatto in caso non glieli
avessimo dati. Gianluca le passò prontamente il suo e lei si
buttò a leggere a
capofitto. Gianluca Terenzi era il suo alunno preferito, ne aveva
sempre uno di
sesso maschile. Generalmente disprezzava i maschi e li riservava un
trattamento
peggiore che alle ragazze ma con il suo cocchetto di turno cambiava
decisamente
atteggiamento: dolce, affettuosa, premurosa..quasi una mamma!
–Bravo, vedo che
resti sempre un ragazzo diligente!- In realtà non aveva
letto neanche mezza
parola di quelle parafrasi. Gianluca avrbebe potuto tranquillamente
scriverci i
testi delle canzoni dei Metallica e lei se la sarebbe bevuta senza
troppi
problemi. –Il tuo, Sforza?- Panico.
-Professoressa.. Non ci crederà, non ci credo neanche io..Ma
c’è stato uno
scambio di borse!- Lei mi fissava con gli occhi sbarrati ed era
già pronta ad
aprire la bocca per poter usare finalmente la ramanzina che si era
preparata.
Tuttavia provai a salvarmi in corner e portai sul tavolo la borsa nera,
l’aprii
e tirai fuori tutti i libri ed i quaderni che c’erano dentro.
–Non sono i libri
di questa sezione, guardi!- Escalmai mettendole ad un centimetro dal
naso il
libro di italiano del misterioso proprietario di quella borsa. La Marini
prese il libro fra
le mani e lo guardò incuriosita, lo aprì alla
prima pagina per cercare il nome
ma non lo trovò.
-Per quanto mi riguarda potresti aver messo su questa piccola,
divertente
scenetta per non fare le parafrasi.. Sforza, sicuramente sei una
ragazza onesta
ma in tutti questi miei anni di carriera ho imparato che fidarsi
è bene, ma non
fidarsi è meglio!- Trotterellò alla cattedra e mi
fissò sorridente mentre
prendeva la sua agendina rossa. –Annoto il tuo nome e alla
nostra prossima
lezione provvederò a controllare se adempi ai tuoi compiti,
signorina!- Detto
ciò mi lasciò completamente perdere per
continuare il proprio giro ed io
sospirai sonoramente. In fondo mi era andata anche meglio del previsto.
Guardai
Gianluca e cominciai ad aprire ogni singolo libro e quaderno. Non
c’era il nome
da nessuna parte, né la classe, né un diario.
Come poteva qualcuno andare in
giro senza diario!
-Non ha personalità questa persona! Ha una scrittura che
potrebbe essere
sia di una ragazza che di un ragazzo! Non ha un diario, ha i quaderni
mezzi
vuoti, i libri talmente usati che neanche a volerlo riuscirei a
distinguere una
scritta attuale da una passata.. Chi diamine è una persona
che a gennaio, con
il primo quadrimestre agli sgoccioli, ha i quaderni mezzi vuoti?- Stavo
cominciando a sfiorare l’isterismo e mentre li richiudevo uno
per uno mi
immaginavo la reazione che avrebbe avuto l’altra persona nel
momento in cui
avrebbe aperto la borsa. Maledizione.. Mi dovevo proprio comprare la
tracolla
dell’Eastpack più anonima ed irriconoscibile di
tutte? Nera, senza peluche,
senza portachiavi.. Chiavi? –Le chiavi! Gian, le chiavi!- Gli
diedi un pugno
sul braccio che lo fece sussultare. Sara fece un
“shhh” invitandoci a stare più
calmi visto che Ombretta stava controllando proprio al suo banco.
–Le chiavi
della mia macchinetta erano nella borsa..- Sussurrai posando la
tracolla a
terra. –C’era il mio portafoglio, i miei documenti,
il mio telefono, il mio
iPod.. Questo qui non ha nulla! Neanche uno straccio di libretto
scolastico!-
-Guarda il lato positivo..- Si intrommise Sara che
era stata appena abbandonata dalla professoressa che se ne stava
tornando alla
cattedra. -..L’altro ha i tuoi documenti, con su scritto il
tuo nome ed indirizzo.
Troverà sicuramente il modo di riportartela!- Quelle parole
mi fecero tanto
rincuorare che riuscii a non pensare troppo alla storia della borsa e
presi
addirittura qualche appunto sul nuovo argomento che la vecchia
spiegava.
Incredibile.. Quel giovedì si stava rivelando una giornata
davvero incredibile.
Sei ore più tardi suonava la campanella più amata
dagli studenti di tutte le classi: quella dell’ultima ora.
Non appena finì il
suo gioioso canto, gli alunni di undici intere sezioni si riversarono
nei
corridoi del liceo e cominciarono a precipitarsi verso una delle due
uscite, a
seconda di dove si trovasse la loro classe, di dove avessero
parcheggiato.
Uscii da quella principale che dava proprio sulla salita dove avevo
parcheggiato con ancora la borsa sconosciuta sulla mia spalla. Nessuno
era
venuto a reclamarla durante la ricreazione e stavo cominciando davvero
a
perdere le speranze. Magari era un ladro che aveva creato tutto
ciò per rubarmi
soldi, chiavi e tutto. Le mie preoccupazioni aumentarono: cominciavo a
ragionare come la mia folle prof di italiano.
-Ci vediamo domani!- Sara salutò me e Gianluca con
un affettuoso bacio sulla guancia ed andò verso il suo
motorino che si trovava
dalla parte opposta della piazza. Io e Gianluca invece prendemmo la
salita ed
andammo verso i nostri rispettivi mezzi di trasporto.
-Mi dispiace di non poterti dare un passaggio,
davvero.. Devo passare a prendere mia sorella a scuola..- Mi disse
sinceramente
dispiaciuto Gianluca. Scossi la testa, sapevo perfettamente che mi
avrebbe
portata sulla luna se avesse potuto.
-Tranquillo, ho mandato un messaggio a mamma
avvertendola che siccome lei stava a lavoro andavo con
l’autobus da nonna e
restavo a pranzo da lei!- Risposi osservandolo mentre si metteva il
casco e
saliva sullo scooter. Certo che Gianluca meritava tutto il titolo del
più
desiderato della scuola. Aveva un bel fisico asciutto e scolpito,
vestiva in
quel modo perfetto che oscillava fra il firmato ed il casual senza mai
prevalere da un lato, era simpatico, socievole ed intelligente.. Anche
se
l’intelligenza non era mai un fattore che veniva considerato
dalle ragazze al
momento di valutare una loro nuova preda.
-Ciao, Ginni!- Mi disse mandandomi un bacio
lontano ed allontanandosi a gran velocità. Mi fermai
lì a guardare sconsolata
la mia macchinetta parcheggiata qualche metro più in
là mentre mi stringevo di
più nel mio cappotto. I miei lunghi capelli rossicci
ondeggiavano mossi dal
freddo vento invernale e mi sentivo che la sciarpona che mi ero avvolta
intorno
al collo non avrebbe protetto le mie povere corde vocali e che il
giorno dopo
probabilmente sarei sembrata un travestito della Colombo (*).
-Si, papà.. Guarda non so chi diamine sia!
Stamattina sono andato alla partita di pallavolo con la scuola,
sì, e quando ho
aperto la borsa per prendere la tuta.. non era la mia!- Ero
già sul punto
d’andarmene quando a quelle parole scattai come un radar. Il
proprietario della
lucente moto nera che era stata parcheggiata vicino a quella di
Gianluca era
anche il proprietario della famosa borsa? Non lo vedevo in faccia in
quanto
stava sistemando qualcosa nel sottosella, forse il bloccadischi.
-Sì,sì.. ci sono i documenti e tutto.. Non credo
di averla mai vista a scuola!- Ma come non mi aveva mai vista! Dove
viveva il
ragazzo? Conoscevo quasi tutti in quel liceo essendo stata per tutti e
quattro
gli anni rappresentante di classe e passando le mie ricreazioni in
cortile a
conversare con tutti quelli che mi capitano a tiro.
–Vabbè dai ci vediamo a
casa ..Sì, sì, avevo tutto nelle tasche per
fortuna. A tra poco!- Attaccò e
dopo aver sistemato il cellulare in tasca prese il casco e se lo
rigirò fra le
mani.
-Hey, aspetta!- Urlai facendolo voltare di scatto.
–Credo che tu abbia la mia borsa..- Aggiunsi a voce un
po’ più bassa. Lo
sconosciuto si tolse il casco e rimasi un attimo allibita: era il
ragazzo di
quella mattina al bar. Certo che non mi aveva mai vista.. Io non avevo
mai
visto lui, pensavo addirittura che fosse uno nuovo. Lui
inarcò un attimo il
sopracciglio e poi sorrise, sfoggiando uno dei sorrisi più
belli che avessi mai
avuto l’opportunità di vedere.
-Credo proprio di sì!- Disse tirando fuori dalla
tasca della giacca il mio libretto. –In questa foto sembri
una ragazzina di
dieci anni con la varicella!- Commentò ridacchiando la mia
foto. Strabuzzai gli
occhi e con uno scatto felino gli strappai di mano il pezzo di carta e
lo
strinsi al petto, non prima di aver buttato un occhio
sull’orribile foto.
-Ok che sembro che io abbia dieci anni e non
diciassette.. Ma non ho la varicella! Sono tante, tante lentiggini.. Le
ho
anche ora..- Provai a giustificarmi un po’ imbarazzata. In
fondo era proprio un
bel ragazzo, lui, e sentirmi fare certi commenti sulla foto non mi
faceva stare
proprio a mio agio. Lui mi guardò intensamente per poi
annuire.
-In effetti sei proprio piena zeppa di
lentiggini!- Osservò per poi avvicinarsi a me e posare
accanto ai miei piedi la
mia borsa. –E sei anche un po’ secchiona.. Cosa ci
fai con dieci versi del
Purgatorio parafrasati con tanto ordine e diligenza?- Questo era
decisamente
troppo!
-Ma non ti sarai fatto un po’ troppo i fatti miei?
Oggi la professoressa ci controllava i quaderni e.. E sempre meglio dei
tuoi!
Ma dai! Non c’è uno straccio di nome da nessuna
parte, hai una scrittura
ambigua ed i tuoi quaderni potrebbero anche non esserci visto
l’uso che ne
fai!- Obiettai cocciuta ma anche un po’ divertita da quella
situazione.
-Anche tu non hai tardato ad aprire tutto,
Ginevra.- Bene, mi chiamava anche per nome il ragazzo! Aveva un bel
sorriso
certamente, ma era estremamente beffardo e sghembo. I suoi occhi
castani
sembravano ridere in continuazione di me ed io non sapevo se il tutto
mi desse
fastidio, mi stesse indifferente o simpatico. Gli passai la borsa e
presi la
mia, aprendola e sorridendo felice. Afferrai le chiavi della
macchinetta ed il
cellulare: dovevo avvertire mia madre del fatto che non aveva una
figlia
completamente deficiente ed andare subito da nonna, che mi stava
già
aspettando.
-Io ora devo andare!- Dissi infine con un sorriso
che probabilmente si allargava su tutto il mio volto. –E
siccome tu conosci il
mio nome, potrei sapere il tuo?- Domandai curiosa guardandolo negli
occhi.
-Emanuele.- Rispose molto semplicemente mentre si
metteva la borsa in spalla e riprendeva il casco nero come la sua moto.
–Ci si
vede a scuola allora- Aggiunse sedendosi sulla yamaha.
-Sì, ci si vede!- Mi voltai e mi incamminai verso
il mio adoratissimo mezzo di trasporto e, quando ne ero ormai a due
passi mi
voltai e vidi Emanuele ancora impegnato con il casco in un mano ed il
cellulare
nell’altro.
-Io non ti ho rubato la tuta, eh!- Dissi a voce
alta. Lui alzò lo sguardo e mi sorrise, scoppiando poi
proprio a ridere.
-Non c’era. Un giornò ti racconterò!-
Lasciandomi
con quella sottospecie di promessa si infilò il casco,
abbassò la visiera e
infilò il cellulare nella borsa. Fece retromarcia e poi con
una sonora sgommata
si allontanò. Lo seguii con lo sguardo mentre aprivo la
portiera e mi sedevo in
macchina. Posai la borsa sul sedile affianco al mio e tirai fuori un
attimo le
mie cose: il mio quaderno di italiano, i miei libri di storia e latino,
ed
infine il mio diario. Lo sfogliai qualche secondo per poi notare sulla
seconda
pagina un post-it giallo con su scritto:
“Complimenti
per i gusti musicali! E.”
Sorrisi
leggendo quella calligrafia anonima,
chiusi poi il diario e partii in fretta diretta a casa di mia nonna.
Probabilmente non mi immaginavo nemmeno che quello scambio avrebbe
cambiato il
resto del mio anno scolastico.
(*) Il
moretto è un cornetto la cui pasta è fatta
completamente di cioccolato ed anche al suo interno ne è
riempito.
(*) La Colombo
è la strada che porta dal Colosseo ad Ostia e di notte
è solita essere frequentata da prostitute e travestiti.
Questa è la
prima fanfiction originale che scrivo ed è ambientata in
tutti posti da me conosciuti. Il mio liceo non si chiama Umberto Eco,
ma la piazzetta, il baretto e tutti i luoghi descritti sono realmente
esistenti. Per i personaggi mi sono ispirata a ragazzi e ragazze che
frequentano la mia scuola oppure a persone di fuori che conosco. La mia
prof di italiano è la famosa Ombretta, anche se non si
chiama così! Spero che questa FF vi piaccia, anche se so che
far appassionare le persone con una originale non è sempre
facile. Tuttavia mi piace questa storia ed ho intenzione di portarla
avanti!
Un bacione,
Silvia.
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Capitolo 2 *** Lentiggini ***
Capitolo
Secondo: Lentiggini.
La
sigaretta dopo un compito in classe di Greco è probabilmente
la migliore
dell’intera giornata, seguita da quella dopo mangiato. Feci
un ultimo tiro
prima di lasciarla a Gianluca, gustando il sapore che la Marlboro
Light aveva lasciato
nella mia bocca. Io, Gianluca, Sara, Matteo e Valeria eravamo in
cortile a
goderci quei venti minuti in più di ricreazione che ci
eravamo guadagnati
consegnando prima il compito. Io ero poggiata con la schiena contro la
palestra, Valeria era seduta con la schiena poggiata nel mio stesso
modo,
mentre gli altri tre stavano in piedi davanti a noi o confrontando
pezzi della
versione o facendo ipotesi sugli errori fatti e sul futuro voto.
-Quasi non ci speravo più in una versione di Erodoto.. Mi ha
salvata dal
corso di recupero a febbraio!- Disse Valeria alzando i pugni al cielo
vittoriosa. –Io amo quella donna, oggi me la sposerei!-
Aggiunse sorridente.
-Adesso non esagerare.. Io non mi sposerei la Mauro
neanche per tutto
l’oro di questo mondo!- Commentò Sara facendo il
gesto del vomito. Maurizia
Mauro, professoressa di latino e di greco che si era diplomata proprio
all’Umberto Eco, era una di quelle donne che sorridevano
tanto e pugnalavano
altrettanto spesso alle spalle. Non aveva preferenze, non ti aiutava
mai. Se
avevi la media del dieci spaccato ed un giorno facevi una scena muta
era due,
non era un “torni la prossima volta”,
“sei politico”, e baggianate del genere
che si sentivano troppo spesso ultimamente.
-Io per un sette la sposerei e ci andrei a letto!- Esclamò
Matteo scoppiando
poi a ridere. Inutile dire che lo seguimmo tutti a ruota in quella
risata,
scrollandoci di dosso la tensione accumulata nell’ora e mezza
precedente.
Matteo Bassotti era una di quelle persone che dopo quattro anni in
classe
insieme ancora non riuscivo a capire perfettamente. Era molto furbo,
sveglio,
sapeva come arruffianarsi le professoresse e senza il minimo sforzo
aveva una
media decente. Però era anche il classico teppista che si
sfondava di alcol,
fumo di tutti i generi. Un giorno poteva essere la persona
più gentile ed
altruista del mondo, quello dopo uno stronzo che ti faceva contrarre
tutte le
viscere per la rabbia. Era famoso in tutta la scuola per la sua famosa
schiacciata di pallavolo: le ragazze di tutto il liceo quando
c’erano le
partite del torneo interno, evitavano di giocare nella partita contro
il IIE
proprio per non rompersi un dito o un polso, com’era
già successo
precedentemente.
-Che schifo!- Gianluca diede una spintarella a Matteo, buttando nel
frattempo la sigaretta. –Mi stavo immaginando la scena e..
CHE SCHIFO!- Ormai
la risata ci aveva contagiati tutti ed eravamo piegati in due, con le
lacrime
agli occhi. Quando riuscii bene o male a riprendermi mi rimisi dritta,
inspirando profondamente e guardando in direzione
dell’entrata a scuola vidi
uscire due ragazzi. Aguzzai la vista e ne riconobbi uno: Emanuele.
Era passata ormai una settimana dal nostro casuale scambio di borse e
conseguente incontro, e quella era la prima volta che lo rivedevo dopo
che ci
eravamo salutati davanti la sua moto. Indossava dei jeans scuri, delle
converse
blu, un maglione grigio e sopra aveva il giubbotto nero della Museum.
-Chi è quello?- Domandai tranquilla ai miei amici. Era
distante almeno
venti metri, sicuramente non avrebbe sentito niente. Tutti quanti si
girarono a
guardarlo mentre io cercavo di fare la disinteressanta fissando il mio
sguardo
sulle finestre dei bagni di ogni piano da dove erano affacciati alcuni
quartini (*)
-Quello col cappotto nero è Emanuele Benassi,
l’altro è Federico della
Valle- Rispose prontamente Sara. Poi mi guardò con quel suo
modo curioso e
birichino. –Perché ti interessa, Ginni? Ti piace
per caso?- Domandò facendomi
l’occhiolino. Tutti i miei amici mi fissarono incuriositi.
Raramente a me,
Ginevra Sforza, la lentigginosa rossa del IIE, piaceva un ragazzo.
Solitamente
avevo differenti spasimanti ma li consideravo tutti estremamente
appiccicosi e
stupidi, così mi ero guadagnata con il tempo la fama di
“stronza”. In realtà
non mi ero mai lamentata di quell’appellativo che
accompagnava spesso il mio
nome fra i ragazzi, perché in fondo un po’ stronza
lo ero davvero, senza
impegnarmici. Il mio problema più grande con i ragazzi era
che sì, magari
fisicamente mi piacevano e ci uscivo un paio di giorni, ma dopo
quarantotto ore
se non avevano neanche un po’ di sale in zucca li scaricavo
senza farmi troppi
problemi e senza dar loro troppe spiegazioni. Restava il fatto che a
me, quel
ragazzo, non piaceva. Indubbiamente aveva qualcosa che catturava la mia
attenzione ma, oltre a ciò, non c’era
assolutamente nulla.
-No, ma che dici!- Distolsi lo sguardo dalla figura di Emanuele e mi
concentrai a dissuadere i miei amici dalla teoria che stavano
silenziosamente
covando. –Solo che lui era il famoso proprietario della borsa
che ho scambiato
ieri e non sapevo il suo cognome!- Mi giustificai determinata riuscendo
apparentemente a convincerli.
-E ci hai anche parlato?- Domandò Valeria lanciandogli di
tanto in tanto
un’occhiata.
-Mmm.. Sì, perché?- Quella domanda mi aveva un
po’ stupita effettivamente.
Se ci avevo parlato? Certo.. Mica mi ero presentata, mi ero presa la
borsa, gli
avevo ridato la sua e poi ero corsa via!
-Hai parlato con Benassi? Non ci credo!- Questa volta era Sara che mi
guardava con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca aperta.
–Perché non me
l’hai detto!- Lanciai una silenziosa richiesta
d’aiuto a Gianluca e Matteo,
sperando di essere salvata da quelle due che mi stavano lentamente
circondando.
Però i ragazzi hanno un brutto vizio, purtroppo: parlare
sempre ed
esclusivamente di calcio, donne e moto. In quel momento il loro
discorso
verteva sul nuovo calendario di Megan Fox e sapevo che pretendere un
salvataggio d’emergenza era agli stessi livelli di chiedere
ai miei come regalo
di compleanno un Ferrari: inutile e deludente.
Tornai a posare lo sguardo sulle mie due amiche che mi guardavano in
preda
ad una voglia irrefrenabile di novità ed abbassai un momento
lo sguardo prima
di parlare. –Ma sì che ci ho parlato! Abbiamo
scherzato un po’ sulla storia
dello scambio e su queste cose.. Poi me ne sono andata! –
Dissi tutto d’un
fiato sperando di calmarle ma le mie parole ebbero l’effetto
contrario. –Perché
diamine fate quelle facce!- Sbottai esasperata.
-Hai parlato, riso, scherzato con Emanuele Benassi! Te ne rendi conto?-
Disse Valeria con foga mentre Sara accanto a lei annuiva.
–Emanuele Benassi!
Quello lì non scende mai in cortile, non parla mai con
nessuno che non sia
Federico della Valle o un compagno di classe ed è un figo
allucinante! E’ ricco
da far paura.. Il padre è il proprietario di
un’importantissima multinazionale
e la loro famiglia passa l’anno scolastico qui e le vacanze a
New York in un
attico sulla 5th Avenue!- Certo che Valeria Guglielmino si stava
rivelando un
vero e proprio database di gossip. Valeria era una ragazza tutto pepe:
capelli
castani, portati a caschetto, uno stile tutto suo ed originale. I suoi
occhietti vispi sembravano sempre sul punto di combinare qualche
pasticcio ed
era un’amante della risata di prima classe.
-Grazie per avermi detto la sua vita, morte e miracoli ma davvero, non
mi
interessa, ci ho solamente parlato per quella questione della borsa!-
Sara e
Valeria si guardarono per un istante, decidendo silenziosamente di non
insistere più. Probabilmente immaginavano che ben presto i
motivi per insistere
si sarebbero presentati spontaneamente.
-Comunque sta in II A- Disse ad un tratto Sara. Mi aveva letto nel
pensiero
per caso? Avevo passato gli ultimi due minuti a chiedermi in che classe
stesse,
per capire anche perché non lo avevo mai visto nel mio
corridoio. Lui stava
sempre al mio stesso piano, solo con la classe nel corridoio che si
affacciava
sulla grande piazza, mentre la mia finestra dava sulla scuola
elementare.
Passò poco tempo ed il discorso su Emanuele Benassi era
stato archiviato.
Nel frattempo era suonata la campanella che annunciava
l’inizio della
ricreazione ed un mare di gente si era riversato nel cortile. La
maggior parte
della popolazione studentesca trascorreva quei quindici desiderati
minuti nel
cortile, mentre una parte più ristretta preferiva vagare per
i corridoi, o
restare in classe a ripassare o affacciarsi alle finestre dei bagni ed
osservare la vita da sopra senza però prenderne parte. Molte
persone
desideravano quella campanella per poter scendere e contemplare per
quindici minuti
la persona che volevano ma con cui non avevano ancora mai parlato,
altri per
incontrarsi con i rispettivi fidanzati o con amici che stavano nelle
classi,
molti semplicemente per sedersi o con la schiena contro la palestra o
sul
campetto esterno di pallavolo e chiaccherare ripassando nel frattempo
qualcosa
tutti insieme. Una volta mi era capitato di dover restare su in classe
durante
la ricreazione e solo allora mi ero affacciata ad una delle famose
“finestre” e
dovetti ammettere che era uno spettacolo seguire tutto da sopra,
soprattutto se
si stava al primo o al secondo piano, da dove c’era una
visuale perfetta visto
che si entrava nel cortile solamente dal piano seminterrato.
Quel giorno il mio sguardo cercò comunque incuriosito
Emanuele Benassi. La
descrizione che me ne avevano dato Sara e Valeria mi fece distrarre
completamente dai discorsi che venivano nel frattempo condotti
all’interno del
gruppetto con cui passavo le mie ricreazioni. Aveva quel non so che si
misterioso, quel ragazzo, di irraggiungibile che mi intrigava. Forse
perché noi
umani siamo fatti così: ci interessiamo di qualcosa solo
quando quel qualcosa
non sa minimamente della nostra esistenza.
Ad un tratto lo notai e mi destai dai mille pensieri che già
inconsciamente
stavo facendo. Era seduto sugli scalini che collegavano la faccia della
scuola
che dava sulla piazza ed il cortile, con Federico della Valle ed altri
ragazzi
della sua classe che avevo già visto qualche volta in giro
per la scuola. Era
tranquillo, rilassato, rideva e si vedeva che stava a proprio agio. Non
lo
avevo davvero mai notato in quei quattro anni a scuola?
Com’era possibile?
Eppure le mie amiche e, secondo il loro parere, moltissime altre
ragazze
sarebbero morte pur di ottenere un suo sguardo, una minima
considerazione da
parte sua. Eppure lui era così.. Riservato. Non era come
Gianluca. Gianluca era
un bellissimo ragazzo, desiderato da mezza scuola, ed era aperto,
parlava con
tutte le ragazze che timidamente si presentavano. Lo faceva per poi
illuderle,
certo, perché come ho già detto un po’
stronzo lo era, ma almeno non si
chiudeva a riccio, conquistando giorno dopo giorno sempre maggiore
popolarità
all’Umberto Eco. Benassi invece era completamente
l’opposto.. O era timido e
non a conoscenza dell’effetto che faceva il suo aspetto alle
ragazze, oppure
era un ricco, viziato figlio di papà che si considerava
estremamente superiore
e non si mischiava con la ‘gente comune’.
Chissà perché avevo il presentimento
che fosse lo specchio della mia seconda ipotesi. Eppure il giorno
precedente si
era rivelato simpatico, aveva scherzato, riso, mi aveva anche presa in
giro, se
volevamo essere precisi, rivelandosi un tipo alla mano.
Driiin
Senza
che me
ne fossi accorta era trascorsa l’intera ricreazione che io
avevo passato a guardare imbambolata un ragazzo. Un ragazzo! Come se
fosse il
primo essere di sesso maschile decente che vedessi! Dio, sembravo una
dodicenne
in calore!
-Come mai oggi eri così silenziosa?- Mi domandò
Gianluca mettendomi un
braccio intorno le spalle mentre stavamo rientrando
nell’edificio. –Di solito
non stai zitta un minuto. Mi nascondi qualcosa, roscia?- Sorrideva lui,
ma
sapevo che in realtà nutriva forti sospetti.
-Ma che! Stavo solamente pensando alle due ore infernali che ci
aspettano!
Matematica e fisica!- Mentii spudoratamente facendo spallucce. Non
dovetti
fingere più di tanto l’odio che nutrivo per quelle
due materie.. In fondo stavo
ad un Liceo Classico e l’odio per le materie scientifiche era
innato in quasi
tutti.
-Ma se oggi andiamo a vederci quel documentario!- Si intromise Sara
prendendomi sottobraccio. La mia mano destra finì sulla mia
fronte. –Sei la
solita sbadata!- Ridacchiò insieme a Gianluca.
-Quello su Einstein, è vero!- Dissi ridendo anche io. Quei
due erano la mia
dose di allegria giornaliera. Sapevano farmi ridere sempre, in
qualsiasi
occasione, senza fare niente di speciale. Non dovevano inventarsi
balletti,
fare facce buffe, bastava che parlassero, facessero una battuta, ed io
già ero
a terra morta dal ridere.. Era la loro presenza. La presenza dei miei
due
migliori amici.
-Anche voi andate?- Una voce alle nostre spalle parlò quando
arrivammo al
pianerottolo del nostro piano. Ci voltammo ed incrociammo lo sguardo di
Giacomo
De Angelis, il rappresentante di classe del II A. Fermi tutti: II A? La
classe
di Emanuele?
-Sì! Infatti l’Angelucci ce lo aveva anticipato
che ci sarebbe stata
un’altra classe!- Disse Gianluca dopo aver stretto la mano di
Giacomo.
-Ah, davvero l’aveva detto?- Chiesi senza neanche
accorgermente. I tre mi
fissarono un po’ straniti.
-Oggi stai un po’ fra le nuvole eh!- Disse Giacomo
sorridendo. –Chissà a
cosa o a chi pensa la signorina!- Tutti scoppiarono a ridere ma io
ringraziai
il cielo, nel frattempo, per avere tutte quelle lentiggini che
mascheravano
sempre i miei rossori improvvisi.
Dieci
minuti dopo il IIA ed il IIE si trovavano nell’Aula Magna del
Liceo
“Umberto Eco” a parlare a voce altra fra loro
mentre le due professoresse di
matematica cercavano di far partire il documentario. Sedevo
nell’ultima fila
con Sara, Gianluca, Davide e Matteo e seguivo attentamente la partita
di
briscola che gli ultimi due stavano facendo sui propri iPhone.
-Ma sei un deficiente eh!- Sbottai tanto una piccola botta in testa a
Matteo. –Ti pare che butti il tre di briscola con
l’asso che non è ancora
uscito! Ti sta bene!-
-Non avevo visto che era di briscola!- Provò a giustificarsi
cercando di
recuperare l’irrecuperabile. Un secondo dopo aveva messo il
telefono in tasca
scocciato per non leggere l’enorme scritta “HAI
PERSO” che sarebbe apparsa a
breve sullo schermo. Mi guardai intorno e riuscii a scorgere Emanuele,
seduto
con Giacomo e Federico qualche fila avanti a me, tutto impegnato a
ridersela
con i due amici. Distolsi lo sguardo e decisi di non imbambolarmi a
fissarlo
più, concentrandomi su Sara e Davide che stavano cercando di
vincere
all’ennesimo gioco stupido che il ragazzo aveva scaricato
dall’iStore.
-Silenzio, ragazzi, silenzio!- Disse l’Angelucci ad alta
voce. –Accendete i
vostri cervelli e spegnete i cellulari!- Le battutine di quella donna
circolavano da anni per la scuola e, anche quella, provocò
qualche risatina per
la sala.
-Come sapete, Albert Einstein.. – Continuò la Rosa,
la professoressa
dell’altra classe. Spensi decisamente anche il cervello,
oltre al cellulare,
posando la mia testa sulla spalla di Sara e non facendo caso ad una
sola parola
di quella donna. Si spensero le luci e restammo noi, le prof ed
Einstein. Il
documentario partì, in bianco e nero, ed una monotona,
noiosissima voce parlò.
In inglese?! Certo! Quelle due pazze speravano che 40 alunni avrebbero
retto
due ore di film coi sottotitoli anche in bianco e nero?
-Prof ma che è sta cosa!- La voce di Davide
sovrastò quella inglese del
narratore e tutti si girarono verso di noi prima di scoppiare in una
sonora risata.
Fra tutte quelle teste girate c’era anche quella di Emanuele
che rideva insieme
agli amici guardandoci. Guardandomi, forse. Chissà se mi
aveva notata,
riconosciuta. Lo guardai con un sorriso ma lui sembrò non
accorgersi di me,
tanto è vero che si girò e con le braccia
incrociate al petto continuò a
seguire il filmato. Maledetto ragazzo! Poi aveva dato della secchiona a
me,
quello?
Sbuffai imbronciata, come una bambina a cui si rompe la bambola
preferita.
Mi poggiai allo schienale della sedia e cominciai a cercare di seguire
quel
dannato documentario. Peccato che il II E fosse la classe
più casinista
dell’intera scuola e la nostra cattiva fama era giunta
ovunque.. Neanche
volendo mi sarei riuscita a concentrare! I ragazzi cominciarono a
tirarsi
palline di carta e ben presto nelle ultime due file scoppiò
una vera e propria
guerra con tanto di urla barbare, alleanze e comportamenti non adatti a
dei
diciassetteni e a dei diciottenni.
-Matteo questa me la paghi!- Dissi a voce forse un po’ troppo
alta nel momento
decisamente sbagliato. In quel momento l’Angelucci aveva
interrotto la
riproduzione del filmato e Davide aveva tirato una pallina di carta
proprio in
testa a lei. La donna si voltò e mi becco con il braccio a
mezz’aria pronta a
dare un’amorevole carezza
a Matteo.
-Sforza!- Il mio cognome rimbombò per tutta l’Aula
Magna e fra le due
classi calò il silenzio. –Ringrazia Dio che non ti
mando dalla preside per
questa!- Urlò alzando la mano con la pallina tirata da
Davide in mano.
Boccheggiai, pronta a rispondere, ma la gomitata nello stomaco da parte
di sara
mi intimò il silenzio. –Te la cavi uscendo
solamente dall’aula fino alla fine
della riproduzione del filmato! Non ti metto una nota solo
perché siamo agli
sgoccioli del primo quadrimestre ed un sette in condotta ti
rovinerebbe!- I
suoi occhi sembravano pronti ad incenerirmi. Presi velocemente la borsa
e me la
misi a tracolla, mentre sentivo i miei compagni esprimere pareri tipo
“Pur di
non vedere questo schifo mi faccio sbattere fuori pure io!” e
gli occhi di
quaranta persone puntati su di me. Anche i suoi
occhi. Lo guardai per un istante mentre tentavo di uscire da
quella fila di
sedie.
-Non sei poi tanto secchiona!- Mi disse ad un tratto facendomi
l’occhiolino. Inutile dire quanto fosse giunto inaspettato
quel commento alle
mie orecchie. Si era accorto della mia presenza, di tutto.. Non ero
stata un
fantasma per lui in quell’ora e un quarto di stupido
documentario. Scossi la
testa e sorrisi, uscendo poi dall’Aula Magna senza proferire
altra parola.
Non appena chiusi la porta sospirai sollevata: in fondo mi ero tolta il
peso di dover seguire quel noiosissimo video fino alla fine! Nonostante
ciò,
non vedeva l’ora di vedere uscire Davide Manili da quella
stanza per fargliela
pagare. L’Angelucci già la detestava abbastanza,
le mancava pure quel ricordino
per avere un perfetto “pacco regalo” da dare ai
miei genitori ai prossimi
colloqui. Maledetto ragazzo!
Sbuffando mi incamminai verso la macchinetta del caffé e
dopo aver inserito
trenta centesimi presi quello che era il terzo caffé
macchiato della giornata.
Uscii in cortile, presi una sigaretta e me l’accesi,
gustandomi quei trenta
minuti di pace che mi aspettavano.
Perché tutto d’un tratto Benassi mi rivolgeva la
parola? Era passata una
settimana senza che lo vedessimo, quel giorno non mi aveva calcolata di
striscio ed ormai lo vedevo troppo ben puntato sul suo piedistallo.
Magari
voleva essere simpatico, divertente. Poi per aver fatto quella battuta
aveva
dovuto ricordare il fatto che mi aveva dato della secchiona quel
giorno! Fermi,
fermi, fermi. Io, Ginevra Sforza, stavo cominciando a farmi filmini su
un
ragazzo? Io che i ragazzi non li desideravo mai e loro si presentavano
di
continuo? Dov’era finita quella parte di me che era definita
stronza e che
andava a braccetto con la mia popolarità? Feci un altro tiro
di sigaretta e
scossi la testa. Non era possibile, mi stavo riducendo a fare cose che
non
erano da me. In quella settimana non ci avevo mai pensato a quel
ragazzo, ma
possibile mi fosse bastato solamente rivederlo per rifarmi tanti tanti
viaggi
mentali?
Finii la sigaretta e la buttai, bevendo poi l’ultimo sorso di
caffé e
gettando il bicchierino di plastica nel secchio che stava accanto alla
porta
dov’ero poggiata.
-I
haven't
been home for a while I'm sure everything's the same mom and dad
both in denial and only jokes to take the blame..-(*) Cantavo ad
alta voce mentre
guidavo diretta a casa. Appena era suonata la campanella mi ero
precipitate
fuori da scuola, ero salita in macchinetta ed ero partita. Il cielo non
faceva
pensare a nulla di buono ed ero sicura che a breve avrebbe piovuto. Il
semaforo
diventò verde ed io proseguii diretta a Via della Grande
Muraglia, dove vivevo.
Svoltai a destra e presi la strada che avrei dovuto fare dritta per
dritta per
almeno altri cinque minuti. Guidavo piano, a quei cinquadue chilometri
orari
che l’Aixam mi permetteva. La radio era altissima, come mio
solito. Amavo
cantare ma avevo sempre avuto l’impressione di essere
abbastanza stonata e, di
conseguenza, se dovevo cantare dovevo farlo senza poter sentire la mia
voce.
Mentre mi lasciavo alle spalle il Laghetto dell’EUR pensavo
alla giornata che
mi aspettava una volta a casa. Dovevo studiare latino e biologia, fare
una
versione di greco e poi andare in piscina per il corso teorico da
bagnina.. Era
solo l’una e mezza, potevo tranquillamente farcela! Tutto
sommato ero
complessivamente di buonumore ma, la sfiga nera che mi perseguitava da
una
settimana circa, era pronta dietro l’angolo a colpire.
Boom
Avevo
preso
sicuramente una buca, ma la cosa più grave era che la
macchinetta si era spenta. Fortunatamente, se fortuna la si poteva
chiamare,
stavo sulla corsia a destra e così riuscii ad accostare il
più possibile la
macchinetta al marciapiede, nonostante il motore spento e mettere poi
le
quattro frecce. Uscii da quella inutile scatola di latta e mi guardai
intorno:
non c’era niente e nessuno che potesse essere utile a me e
all’Aixam. Mi portai
le mani fra i capelli e tirai fuori il cellulare. Spento. Mannaggia a
me che mi
scordavo sempre di metterlo in carica! Strinsi i pugni e guardai il
cielo.
Ecco, direte che è la scena più classica del
mondo, la più ridicola. Ma
credetemi, quella scena scontata e da due soldi capitò
proprio a me. La
pioggia. Piccole, stupide, insulsi gocce cominciarono a cadere sul mio
viso
bagnandomi gli occhi, il naso, le guance. Mi tolsi l’elastico
che portavo al
polso e lo usai per legarmi i capelli. Non che fossi una di quelle
bimbe amanti
dei propri capelli che sbraitavano appena si arricciavano, ma erano
lunghi fino
alla metà della schiena e quando erano bagnati si
appiccicavano ovunque dandomi
un fastidio micidiale.
Guardavo l’orologio senza riuscire a ragionare: cosa fare?
Dove lasciare la
macchinetta? Come tornare a casa? Intanto erano passati dieci minuti
senza che
io concludessi qualcosa. Ad un tratto, mentre la pioggia mi aveva fatto
completamente la doccia e le mie speranze erano finite sotto le suole
delle mie
scarpe, sentii il rombo di un motore ed il rumore di una fermata. Alzai
lo
sguardo e vidi una moto nera lucente davanti alla mia macchinetta
grigia.
Emanuele?
-Oddio sia ringraziato il cielo!- Esclamai forse a voce troppo alta,
perché
mentre si toglieva il casco lo vedevo che rideva sotto i baffi.
Probabilmente
non ero mai stata così felice in vita mia di vedere una
persona.
-Che ti è successo, studentessa modello?- Mi
domandò non appena scese dalla
moto, avvicinandosi. –La scatola di latta è
morta?- Solo io potevo chiamare in
quel modo il mio amatissimo catorcio. Arricciai un po’ il
labbro e poi annuii.
-Non riesco più a farla partire.. Ho provato tutti i modi
che il meccanico
mi ha suggerito di provare in questi casi..- Lui scoppiò a
ridere sotto il mio
sguardo accigliato. –Che ti prende?-
-Scommetto che ti si ferma regolarmente!-
-Sì..ma è la prima volta che non riparte!- Fu un
botta e risposta veloce.
Di sicuro non mi facevo tenere testa, in nessun discorso, scherzoso o
serio che
fosse, da nessuno. Emanuele salì in macchinetta e
provò ad avviarla senza alcun
successo, poi tolse le chiavi me le diede in mano e sorrise, come uno
che pensa
a qualcosa.
-Sali in macchina!- Mi disse, aprendomi la portiera. Alzai un
sopracciglio
senza muovere un passo. –Su dai, non fare la preziosa..
Dobbiamo parcheggiarla
in quel posto un po’ più avanti, non puoi mica
lasciarla qui finché non viene
il carroattrezzi!- Più che convinta salii in macchina e
tolsi il freno a mano,
mettendo poi le mani sul volante.
-Vai, sono pronta!- Lui si era già posizionato dietro la
macchina, con le
braccia tese e le mani che premevano sul vetro posteriore.
Cominciò a spingere
e la macchinetta senza troppi problemi si spostò.
Fortunatamente per entrare
nel posto non dovemmo fare molte manovre e dopo qualche situazione
esilarante e
risata, uscii dalla macchinetta soddisfatta con la borsa a tracolla.
Emanuele
sorrideva raggiante mentre era impegnato a tirare qualcosa fuori dalla
sua
cartella senza lasciare che i libri si bagnassero per la fitta pioggia.
Allungò
poi il braccio e mi porse un casco bianco, semplice, con qualche
scritta in
nero qua e là.
-Stai scherzando?- Avevo una paura folle delle moto e di qualsiasi cosa
avesse due ruote. Le mie avventure, o forse sarebbe stato meglio
chiamarle
disavventure, con la bicicletta erano note a tutti miei amici ed ogni
volta che
si organizzava una scampagnata io restavo a casa a guardarmi la
televisione.
-Come ci vorresti tornare a casa, di grazia?- Mi domandò
guardandomi negli
occhi. In quel momento mi persi completamente nel suo sguardo. I suoi
occhi
castani avevano qualche leggerissima sfumatura di verde ed era
così grandi,
dolci, espressivi. La frangia mora era appiattita contro la fronte e le
goccioline di pioggia scivolavano veloci sul suo viso. Diamine,
possibile che
mi incantassi come se nulla fosse?
-Sulla bicicletta mi sono rotta una gamba, poi un polso, poi tre dita.
Una
volta sono salita sul motorino di Sara ed abbiamo preso una buca,
cadendo.-
Dissi in fretta, quasi per nascondere l’imbarazzo provocato
dal raccontare sia
la mia incapacità di stare su mezzi a due ruote, sia quello
provocato
dall’essermi fissata a guardarlo.
-Hai paura?- Domandò ridacchiando. –Ma ti fai
tanto la dura, l’ho visto il
tuo diario, sai.. Tutte canzoni dei Metallica, dei Guns and Roses.. E
poi hai
paura della moto e della..- Qui la risata prese il sopravvento.
Impiegò qualche
secondo a riprendere controllo di sé. -..della bicicletta?-
Boccheggiai qualche
secondo prima di ridere un po’ anche io.
-Sono paure fondate perlomeno!- Mormorai alzando le mani e
facendogliele
vedere. –Guarda i miei mignoli..Sono stortissimi..- Dissi con
voce lamentosa. Lui
prese le mie mani fra le sue ed avvertii un calore unico, immenso. Lo
osservai
mentre le guardava divertito, tenendole strette.
-Sei proprio un personaggio!- Disse poi lasciando delicatamente le mie
mani
e passandosi le proprie fra i capelli. –Mettiti quel casco e
andiamo. Sta
diluviando e non smetterà.. E se non arriviamo a casa domani
ci sveglieremo con
la broncopolmonite.- Ormai le sue parole non suonavano più
come proposta, ma
come un vero e proprio ordine. Senza aggiungere altro salì
sulla moto e mi fece
cenno con la mano di montare. Con la maggiore lentezza di cui ero
capace mi
avvicinai a quella bestia di moto e salii, mettendomi poi in fretta il
casco. –Non
te lo stringere troppo che poi muori non per colpa della moto ma per
soffocamento!- Mi stava guardando nello specchietto retrovisore.
Probabilmente
arrossii ma per fortuna non mi specchiai in quel momento, odiavo vedere
la mia
figura già prevalentemente rossiccia diventarlo ancora di
più.
-Dobbiamo andare alla fine di Viale della Grande Muraglia..poco prima
del benzinaio.-
Annunciai, schiarendomi prima la voce. Lui si limitò a fare
un leggero segno con
il capo.
–Sei pronta?- Deglutii e poi
mormorai un leggerissimo “sì” mentre
mettevo i piedi nel punto apposito–Puoi anche
stringerti a me, eh.. Non ti faccio del male.- Disse guardandomi per un
ultima
volta prima di abbassarsi la visiera e mettere in moto. Passai le mie
braccia
intorno al suo busto e chiusi gli occhi. In quel momento lui diede gas
ed un
attimo dopo la mia macchinetta era solo un lontano ricordo.
Emanuele guidava veloce, sicuro di sé, ma senza
esagerazione. In fondo
penso che si preoccupasse della mia innata paura per la moto e non ci
tenesse a
farmi prendere un infarto. Stringendomi a lui riuscivo a percepire
tutto il suo
calore e, dopo i primi istanti, aprii gli occhi e guardai il mio
quartiere
scorrermi veloce affianco. Si muoveva agilmente fra le macchine e le
sue
fermate non erano mai brusche ed improvvise ma anzi, completamente il
contrario. Mi aveva fatto apprezzare per una volta nella mia vita
quello che
chiamavano il “brivido delle due ruote” e quando si
fermò davanti alla mia
palazzina e non sentii più il vento sul mio viso, dovetti
ammettere che quasi
mi dispiaceva.
-Allora, fifona.. Com’è andata?- Mi
domandò mentre scendevo dalla moto e mi
toglievo il casco, senza reggermi neanche bene in piedi. Lui si era
tolto il
proprio senza però scendere dalla moto e mi guardava con un
sorriso.
-Strano ma.. bene.- Risposi sincera, restituendogli il casco e
cominciando
a prendere le chiavi di casa dal cappotto. Su una cosa aveva avuto
ragione.. La
pioggia non aveva proprio voglia di smettere di cadere.
-Sono proprio un guidatore provetto!- Disse ridendo con quel suo fare
spavaldo ed un po’ ammiccante.
-Te lo potrei anche lasciar credere, mister modestia!- Lo guardai
sistemare
il casco bianco nella borsa e risistemarsela in modo tale che non lo
disturbasse a guidare. –Grazie mille, comunque, davvero.. Mi
hai salvata da..
Non so nemmeno io che cosa..-
-Ma figurati!- La sua risposta fu gentile. Per un momento pensai alla
descrizione che mi aveva dato Valeria di quel ragazzo: chiuso nel suo
mondo,
viziato, ricco sfondato e menefreghista. Non vedevo nessuno di quegli
attributi
in lui.
-Ti devo un favore.- Dissi prima di salutarlo con un cenno della mano
ed
avviarmi al mio cancello. Lui ricambiò quel cenno con un
movimento più piccolo,
più impercettibile, e mi guardò mentre aprivo
piano il portone. Prima di
scomparire dietro di esso mi voltai per guardarlo un’ultima
volta. Si era già
messo il casco senza però abbassare la visiera.
-Ciao, Lentiggini!- Mi urlò con un largo sorriso beffardo
impresso sulle
labbra. Poi si sistemò il casco e tutto per
un’ultima volta e partì
velocemente, più velocemente di quando c’ero io
dietro di lui. Mormorai un
impercettibile “ciao” e poi entrai scuotendo la
testa.
Lentiggini? Mi aveva chiamata.. Lentiggini?
Autrice:
Grazie
mille a tutti coloro che hanno recensito, aggiunto la storia ai
preferiti e alle seguite, ma anche ai lettori silenziosi. Sono felice
che il
primo capitolo vi sia piaciuto e spero che questo non vi deluda visto
che io lo
adoro. Non so precisamente come farò continuare
l’intreccio ma fidatevi che me ne
uscirò con qualcosa di buono!
Un abbraccio a tutti,
Silvia.
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Capitolo 3 *** Vodka Lemon ***
Capitolo
Terzo: Vodka Lemon
Lentiggini.
Mi aveva chiamata Lentiggini.
Quando entrai nella mia stanza, buttandomi poi sul letto, non riuscii a
non
pensare ad Emanuele Benassi.. come darmi torto, d’altronde?
Affioravano nella
mia mente le immagini di quella mezz’ora passata insieme, del
passaggio in
moto, del suo modo di fare, della sua risata ed inevitabilmente mi
ritrovai a
fantasticare.
Cosa diamine succedeva? Ero sempre io, Ginevra Sforza? Scossi la testa
mentre mi toglievo il cappotto, la sciarpa ed infine le scarpe, senza
prendermi
la briga di mettere a posto niente di tutto ciò. Sicuramente
qualcosa di
strano, di insolito stava accadendo ed io non riuscivo a farci i conti,
ma
perché? Forse inesperienza o paura. Inesperienza
perché mai mi ero trovata
nella situazione di pensare ad un ragazzo che non era minimamente
interessato a
me e paura perché probabilmente il ricordo di Federico
bruciava ancora dentro
di me.
Federico Grandi era stato il mio primo, unico ragazzo.
L’unico che era
riuscito ad aprire il mio cuore definito da tutti di ghiaccio,
l’unico che mi
aveva fatta sentire speciale, che era entrato nella mia vita con
convinzione,
apparentemente per non uscirne mai. Eppure, come sempre accade,
l’utopia di
quell’amore destinato a durare per sempre si infranse,
lasciando solamente
cocci che ferivano molto più della rottura del sogno stesso.
Ancora ricordavo
quel pomeriggio autunnale quando pochi giorni dopo aver festeggiato i
nostri
nove mesi insieme, mi aveva detto che non mi amava più come
prima, che non
ricambiava più i miei sentimenti, che voleva farla finita
con me per non
illudermi ancora di più, per non ferirmi. Io ne ero uscita
distrutta
inizialmente, con il cuore spezzato non in due pezzi, ma in infiniti,
ma con il
passare dei giorni, delle settimane, vedendo in lui solo indifferenza,
avevo
raccolto tutte le mie forze fino a costruire una maschera
d’indifferenza di cui
mi ero stupita io stessa.. Due settimane e sembrava che non fosse
passato
nulla, sembrava che sul mio cuore non fosse passato un treno. Erano
trascorsi
tre mesi da quel ventisette di ottobre, ma nonostante facessi finta di
nulla,
nonostante ridessi di quella storia, spesso mi chiudevo in stanza ed
accedendo
la musica soffrivo silenziosamente, con orgoglio, com’ero
abituata a fare con
tutto.
Driiiin!
Il
telefono di casa mi destò da quella triste ondata di
pensieri, facendomi
sobbalzare. Corsi velocemente in salone e presi la cornetta,
schiarendomi la
voce.
-Pronto?- Dissi, sperando che chiunque fosse non riuscirre a sentire la
mia
voce un po’ roca, dispersa ancora in quei dolci e
contemporaneamente amari
ricordi.
-Ginevra, sono io!- Era la voce di mia madre, che probabilmente mi
aveva
chiamato mille volte sul cellulare ed infine arrerasi aveva chiamato a
casa.
–Perché hai il cellulare spento?-
-Sì è scaricato.. Senti, la macchinetta si
è rotta, l’ho lasciata
parcheggiata in Via della Tecnica..- Cominciai mentre mi guardavo le
punte
ramate dei capelli. –Non è che poi potresti
chiamare il carroziere e chiedergli
quando può venirla a prendere?-
-Sì, sì.. – Mi disse leggermente
sbrigativa lei dopo qualche istante.
Probabilmente aveva ancora molto lavoro da svolgere. –Tu stai
bene? Vai a
mangiare, ti ho lasciato un’insalata!- ù
-Tutto apposto, mamma, non ti preoccupare.. Ora vado a mangiare!-
Quella
breve conversazione si chiuse con i soliti saluti che ci si scambia fra
madre e
figlia e poggiata la cornetta andai in cucina. Presi
l’insalata che mi madre mi
aveva preparato e me la portai in salone dove dopo essermi seduta ed
aver
acceso la televisione, cominciai a mangiare con gusto. Quando mi
ritenni sazia
e soddisfatta, presi il telecomando e cominciai a cambiare canale,
sperando di
trovare un programma, magari anche il più stupido che fosse
di mio gradimento,
ma sembrava che quella pioggia avesse lavato via anche tutto
ciò che di decente
ci fosse in tv, costringendomi a spegnerla. Tornai in cucina mettendo a
lavare
il piatto, il bicchiere e la forchetta, affacciandomi nel frattempo
anche alla
finestra, per perdermi ad osservare le goccioline che correvano lungo
il vetro,
donando sempre più maliconia a quel pomeriggio.
Driiiin!
Possibile
che
tutti avessero deciso di farsi due chiacchere con me?
Sbuffando corsi nuovamente in direzione del telefono e risposi cercando
di
mascherare la mia scocciatura.
-Pronto?- Quasi mi stupii della falsità del mio tono,
aggrottando la
fronte. Evidentemente non fui l’unica a stupirsi, visto che
dall’altra parte
della cornetta sentii una risatina.
-Che diamine fai?- La voce di Sara mi fece decisamente risollevare il
morale e sorrisi quasi naturalmente, buttandomi poi sul divano pronta
ad
un’intensa chiaccherata.
-Pensavo fosse di nuovo mia madre..- Mi giustificai, cominciando a
giocherellare con i capelli. -..Non hai idea di
cos’è successo oggi dopo
scuola!- Così mi riservai la bellezza di poter parlare da
sola indisturbata di
tutto ciò che mi era accaduto, ripercorrendo gli eventi.
Raccontai filo e per
segno la mia amata disavventura, mentre lei faceva strani versi di
stupore ogni
volta che mettevo in mezzo Emanuele. Mi ritrovai a sfogliare con un
sorriso le
immagini di quei momenti, sognando ad occhi aperti lontana da occhi
indiscreti,
sola nel mio mondo.
-Come sarei voluta essere al tuo posto.. in moto con Benassi!- La voce
sognante di Sara mi fece quasi venire il diabete. Da
quand’era che aveva quella
cotta per quel ragazzo che era stato uno sconosciuto per me fino alla
settimana
precedente?
-Benassi è un tipo strano.- Commentai un po’
sovrappensiero mentre guardavo
un video che passavano su MTv. –A scuola non mi calcola,
appena stiamo io e lui
si trasforma, diventando un’altra persona.-
-Benassi è così, te l’ho detto. Ha il
suo mondo, ci vive, il resto non lo
calcola. E’ uno di quei tipi che “se il mondo
casca, mi sposto un po’ più in
là”! Per quanto può essere figo..
Lascialo perdere!- La ascoltai senza fiatare,
sentendomi nuovamente dire quelle cose che già sapevo
perfettamente, che già mi
ero sentita raccontare più volte.
-Hai ragione- Mentii, sperando che in questo modo cambiasse argomento.
Inutile dire che non fossi d’accordo con ciò che
aveva appena detto: ormai mi
ero costruita un’immagine di Emanuele Benassi completamente
differente da
quella che ne avevano le mie amiche e le restanti studentesse
dell’ Eco.
-Comunque ti avevo chiamata per dirti che domani sera andiamo al
festino di
Marika Marchesani, quella del IIIC..- Una festa! Finalmente! Sorrisi
sollevata
sia per il cambio d’argomento repentino sia per la
novità. Un festino con
alcol, fumo e buona musica a casa di una delle più ricche
del nostro liceo.
Cosa avrei mai potuto desiderare di più?
Quel
sabato uscii da scuola con uno strano buonumore. Forse era
l’aria di
festa che ormai era palpabile all’interno del Liceo, o forse
era il bel tempo
che finalmente aveva scacciato via il ricordo del diluvio del giorno
precedente. Scesi l’ultimo scalino e salutai Gianluca e Sara,
aspettando poi
mia madre. Mi voltai a guardare le classi che uscivano dalla scuola,
riversandosi nella stretta salita, ed inevitabilmente il mio sguardo fu
catturato dal II A e dai suoi componenti che scendevano con la classica
fretta
di tutti coloro che terminano finalmente la settimana scolastica.
Emanuele Benassi e Federico della Valle si fermarono a chiaccherare con
dei
ragazzi della B giusto un metro e mezzo davanti a me. Poggiata con la
schiena
contro il muretto, li osservai con discrezione, aiutata anche dalla
folla che
continuava a scorrere davanti a me e spesso fermandosi per salutarmi e
chiedermi informazioni o sulla vita scolastica studentesca o su qualche
attività che il comitato studentesco stava organizzando.
Passarono cinque
minuti, cinque minuti in cui i miei occhi cercarono i studiare i suoi
movimenti, cercando di capire se quei movimenti corrispondevano o meno
all’idea
che mi ero fatta di lui.
Il mio cellulare vibrò. Mia madre era arrivata. Mi alzai
sulle punte e vidi
la
Mercedes
classe A parcheggiata di fronte al baretto. Salutai un paio di ragazze
del
quinto ginnasio che si erano fermate a parlare e mi incamminai nella
direzione
di mia madre, sistemandomi bene sulla spalla la borsa. Successe tutto
in pochi
istanti: passando affianco al gruppetto dove stava parlando Emanuele,
presi una
storta e persi l’equilibrio, andandomi a poggiare proprio
sulla spalla per non
cadere. Una volta ripresa, alzai lo sguardo e gli sorrisi, nel modo
più
amichevole possibile.
-Oi ciao.. Scusami!- Dissi, senza riuscire a togliermi dalle labbra
quel
sorriso ebete. La sua reazione mi spiazzò completamente. Mi
guardò in quel modo
austero, serio, e senza pronunciare parola si voltò,
tornando a parlare con i
suoi amici. Come se non esistessi. Come se non fossero esistiti quei
momenti
che avrebbero reso necessario un saluto, un qualsiasi cenno,
un’espressione
differente.
Stupita, con nuovi dubbi per la testa, me ne andai velocemente,
cercando di
fare il minor numero di passi possibile per arrivare alla macchina di
mia
madre. Entrai, mi sedetti e fissai davanti a me senza pronunciar parola.
-Tutto bene?- Mi domandò mia madre con dolcezza,
sistemandomi una ribelle
ciocca rossa dietro l’orecchio e sorridendomi. Annuii
impercittibilmente,
forzando le mie labbra ad assumere la forma di quello che si sarebbe
potuto
definire un sorriso. Partimmo e mi persi nel guardare fuori dal
finestrino
finendo, mentre giravamo nella parte opposta alla salita, a lanciare
uno
sguardo a quel gruppetto. Benassi non c’era più e
non lo capii solo dal fatto
che il gruppo avesse perso un componente, ma anche da rombo del motore
che fece
scattare la mia testa costringendomi a guardare avanti, a guardare una
moto
nera sfrecciare.
-Queste moto! Sono così pericolose!- Esclamò mia
madre, alzando poi
leggermente il volume della musica. Le fui immensamente grata,
riuscì a
lasciarmi immersa nel miei pensieri, senza disturbarmi.
Allora mi ero sbagliata io? Mi ero illusa pensando di aver scoperto un
lato
di Emanuele che non conosceva nessuno, un lato bellissimo che rivelava
solamente a me? Aveva avuto ragione Sara a definirlo
un’egoista, un
menefreghista, egocentrico? Chiusi gli occhi scuotendo delicatamente la
testa:
non potevo essermi immaginata quel suo sorriso così dolce,
così vero, non
potevo essermi immaginata la sua gentilezza, la sua premura nei miei
confronti.
Non potevo essermi immaginata un altro Emanuele Benassi.
Stivali
neri con il tacco da otto centimetri. Calze nere a bande larghe.
Vestito nero corto che giovava dello spessore delle calze, con uno
scollo
classico, con le maniche corte. Mi guardavo allo specchio girando e
rigirandomi, legando i capelli per poi slegarli. Non ero esattamente il
tipo di
ragazza che si metteva in tiro per andare alle feste e quella sera ero
piuttosto compiaciuta del fatto di essere riuscita a vestirmi bene,
senza
cadere sull’elegante, mantenendo quel mio stile un
po’ alternativo, originale.
Presi una cintura che tenevo sul tavolo, bianca e grigia, e la misi
sotto il
seno. Pronta, sembrava che finalmente fossi pronta per uscire.
Mi allontanai dallo specchio prima di scatenare
quell’autocritica che sorge
spontanea quando ci si specchia cercando qualche difetto nel proprio
look che
in realtà è già impeccabile. Il
citofono suonò ed afferrando al volo il
cappotto nero lungo e la borsetta nera di pelle, mi precipitai fuori
dall’appartamento, scoccando prima un bacio sulla guancia di
mia madre.
-A casa per le due!- Mi urlò dietro. Le risposi con un
sì gridato mentre
varcavo già la soglia della porta, sbattendola poi alle mie
spalle. Scesi le
scale, cercando accuratamente di non rompermi l’osso del
collo nell’impresa ed
una volta fuori dal palazzo insipirai profondamente.
Squadrai lo scooter di Gianluca, spostando poi lo sguardo sul suo viso
radioso ed allungai il braccio per prendere il casco che gentilmente mi
porgeva. Mormorai un “grazie” indimidito, montando
poi dietro di lui.
-Buonasera, Madamigella!- Mi disse con dolcezza, voltandosi e
sorridendomi
in quel modo affascinante che lo caratterizzava. –Pronta per
la partenza?-
Domandò, mettendosi poi il casco ed avviando lo scooter.
-Sì, stai attento..- Dissi supplichevole passando le braccia
intorno la sua
vita, stringendomi alla sua schiena. Nuovamente mi trovai a
sperimentare il
brivido delle due ruote e mi trovai a pensare ad Emanuele, a quel
passaggio a
casa, al suo sorriso sghembo, a quando mi aveva chiamata
“lentiggini”. Sorrisi,
chiudendo gli occhi ed assaporando la sensazione di avere il vento in
viso,
cercando di scacciare tutti i pensieri che affollavano la mia testa da
due
giorni interi ormai. Troppo tempo. Troppo tempo perso dietro a chi?
Dietro
l’ennesimo buffone, pallone montato?
Ci fermammo ed aprii gli occhi, allentando la presa su Gianluca, scesi
in
fretta dal motorino e mi tolsi il casco.
-Andata così tragicamente?- Mi domandò,
allungando il braccio per passarmi
con dolcezza una mano fra i capelli. –Dai che sono andato
piano e non ho preso
buche..- Ridacchiò, ritirando poi la mano e scendendo a
propria volta dallo
scooter, piegandosi per mettere la catena.
-Sei stato bravo.- Lo lodai affettuosamente, guardandomi poi intorno
con le
braccia incrociate al petto. L’ampio parcheggio che si
trovava di fronte la
villa di Marchesani era colmo di macchinette, macchine e motorini, ma
il mio
sguardo insoddisfatto dei dubbi, dei problemi di quella giornata, si
andò a
posare proprio sull’ultimo mezzo di trasporto che avrebbe
dovuto addocchiare:
una moto nera, parcheggiata vicino ad una mini cooper rossa. Emanuele
Benassi
era alla festa. Perché era alla festa? Non era Benassi colui
che non
partecipava mai ad eventi del genere, troppo impegnato nella vita
mondana del
“proprio mondo”? Aggrottai le sopracciglia e,
quando Gianluca finì con la
catena, mi avviai all’entrata insieme a lui, ridendo per
qualche battuta, ma
con la testa altrove, decisamente.
Citofonammo e dopo esserci identificati varcammo il cancello,
ritrovandoci
in un magnifico giardino con tanto di piscina. Era presente davvero
tutta la
scuola, o perlomeno tutte le classi liceali e qualche membro delle
ginnasiali.
Camminai sicura di me fra tutti quei gruppetti: conoscevo la maggior
parte
delle persone, sicuramente non ero la ragazza che non si sentiva a
proprio
agio, non lo ero mai stata.
-GINNIIIII!- Sara mi abbracciò con tanta foga da farmi
barcollare.
–Finalmente sei arrivata!- La
baciai su
una guancia e sentii la puzza di alcol salirmi su per le narici. Era
ubriaca
persa. Si allontanò da me e mi sorrise, passandosi una mano
fra i lunghissimi
capelli mentre si reggeva appena sui tacchi blu che aveva ai piedi. Mi
accorsi
solo allora che aveva un bicchiere in mano e con uno scatto glielo
rubai,
lasciandola stupefatta per qualche istante. –Ginni cattiva..-
Mormorò mettendo
su il broncio. –Sei proprio una stronza!- Sbottò
infine girando sui tacchi ed
allontanandosi traballante. Gianluca mi guardò con aria
preoccupata e fece per
seguirla quando ad un tratto la vedemmo avvicinarsi ad un ragazzo e
parlare
apparentemente tranquilla. Aguzzammo la vista e riuscimmo a riconoscere
la
fisionomia di Federico della Valle.
-Da quant’è che lo conosce?- Mi domandò
Gianluca quasi leggendomi nella
mente. Feci spallucce scuotendo poi la testa.
-Pensavo che la conoscenza di Benassi e Della Valle fosse Off Limits..
Ma
adesso parla con entrambi..- Entrambi restammo in silenzio mentre
vedevamo
Federico offrirle un’altro bicchiere ben colmo, per poi
passarle il braccio
intorno alla vita ed entrare in casa.
-Gianluca!- Una voce femminile ci distrasse. Mi voltai e vidi una
gallinella di quarto ginnasio buttare le braccia intorno al suo collo
stampandogli un bacio sulle labbra. Vidi il mio migliore amico girarsi
imbarazzato nella mia direzione, come a volersi scusare, ma io con un
leggero
gesto della mano gli dissi che era OK, che poteva andare, ed in pochi
istanti
restai sola.
Senza pensarci due volte entrai in casa e cercai Marika, la quale
trovai
seduta sui divanetti con dei compagni di classe a sorseggiare dello
spumante.
-Ginni! Sei venuta!- Mi accolse con un abbraccio, alzandosi.
–Vieni, ti
accompagno a posare il cappotto..- Mi prese sotto il braccio e mi
trascinò al
piano superiore, nella sua stanza. Posai il cappotto sul letto e poi
scesi
nuovamente con lei.
-Gran bella festa, come al solito..- Mi complimentai gentilmente.
-Sì, se non fosse per tutta la gente ubriaca.. Hai visto in
che stato gira
Sara?- La mia preoccupazione a quelle parole salì ancora di
più. –E’ andata con
Della Valle, quello del II A chissà dove..-
-Se non si fa vedere entro poco la vado a cercare!- Disse con un
sorriso,
cercando di mascherare la mia reale ansia. Ci salutammo e fui libera di
andare
a mia volta al tavolo dove vi erano tutti gli alcolici. Mi fermai
dubbiosa ad
osservare cosa potessi bere, quando una voce alle mie spalle mi fece
trasalire.
-Stanotte puoi far baldoria, non devi mica più guidare.- Mi
voltai ed il
mio sguardo si intrecciò con quello di Emanuele. Eccolo
lì di nuovo a
parlarmi.. A parlarmi come se nulla fosse, come se mi parlasse sempre
così,
ogni volta, come se non mi evitasse in cortile, all’uscita,
come se per lui
esistessi.
-Non amo bere più di tanto.- Dissi con calma, cercando di
distogliere lo
sguardo ma senza alcun risultato. Lui sorrise, io lo imitai con poca
grazia.
Senza dire nulla prese una bottiglia di vodka ed un bicchiere, lo
riempì per un
quarto e poi vi versò della limonata. –Tu invece
non dovresti guidare?- Gli
domandai, inarcando un sopracciglio.
-Infatti è per te, questo.- Mi porse il bicchiere e dopo che
lo afferrai,
fece scivolare le proprie mani nelle tasche, senza smetterla di
guardarmi. Portai
il bicchiere alle mie labbra e mandai giù un sorso di quel
cocktail che mi
aveva preparato. –Approvi?- Domandò curioso come
un bimbo che consegna i propri
compiti a casa alla maestra.
-Buono..- Era il cocktail più semplice al mondo, dannazione,
ma il solo
fatto che l’avesse preparato lui gli donava tutto il gusto
che necessitava per
essere “particolare”. Lui annuì
soddisfatto, mentre io terminavo di mandare giù
quel primo colpo basso per il mio fegato.
-Come sono andati questi giorni senza scatola di latta?- Mi
domandò,
prendendomi così dolcemente in giro. Dannazione,
perché non si comportava così
anche a scuola, perché non mi faceva mai caso? La vodka
cominciava a fare
effetto, leggermente, me ne accorsi dal fatto che cominciai a sentire
la testa
un poco più leggera.
-Hey, la posso chiamare solo io in quel modo!- Risposi ridendo,
contagiando
anche lui in quella mia..allegria, se così la si poteva
chiamare. Lo vidi
chinarsi sul mio orecchio, con quel suo modo di fare affascinante,
unico.
-Scusami..- Mi sussurrò, allontanandosi poi con il sorriso
sghembo già
pronto a ridere di me. Aggrottai le sopracciglia stupita da tutta
quell’improvvisa
confidenza. Restammo un paio di minuti in silenzio, sorridendo, e quel
momento
quasi dolce, quasi sincero, vero, fu interrotto dalla comporsa di
Federico che
teneva per mano Sara, decisamente ubriaca.
-Sara!- Mi avvicinai alla mia migliore amica, guardandola negli occhi.
Lei
non rispose, evidentemente già in quello stato che
è al confine fra ubriachezza
pesante e leggera. Si limitò ad annuire con un sorriso
ebete. Federico fece l’occhiolino
ad Emanuele e prese una bottiglia di vodka dal tavolo, cominciando poi
allontanarsi con Sara che lo seguiva come un cagnolino.
-Dove vai con quella?- Gli urlai dietro. –Sta già
abbastanza male, lasciala
stare!- Mi trattennero dal correre appresso a quei due solo lo sguardo
truce di
Sara e la mano di Emanuele che mi trattenne delicatamente per un
braccio. Federico
mi rise in faccia, continuando poi a camminare imperterrito, mentre io
mi
voltavo verso Emanuele, con le labbra schiuse ed
un’espressione interrogativa dipinta
sul volto. Mi bastarono pochi istanti per disincantarmi e riprendere un
po’ di
lucidità. Con un colpo secco allontanai il mio braccio dalla
mano di Emanuele,
facendo qualche passo indietro.
-Come mai tutto d’un tratto ti interessa qualcosa di me?-
Sbottai, dicendo
parole che non avrei mai detto se non avessi bevuto quella vodka.
–Mi parli
quando fa comodo a te. Altrimenti non mi calcoli. Non sono la prima
deficiente
troia che prendi e ti porti a letto con un paio di battutine e qualche
sorriso.-
Da un lato ero seriamente soddisfatta di ciò che stavo
dicendo, dall’altro
ancora non mi rendevo conto di quanto me ne sarei potuta vergognare.
–Quindi ora,
se non ti dispiace, vado a togliere la mia amica dalle grinfie di un
altro
puttaniere come te.- Senza degnarlo di un’altra occhiata
girai sui tacchi e me
ne andai veloce, cercando di seguire quello che mi era sembrato il
tragitto
fatto da Federico.
-Ginevra!- Gianluca mi si avvicinò, decisamente preoccupato.
–Sara si è
chiusa in camera con Federico..- Aggiunse ansiosamente.
-E con una bottiglia di vodka, lo so..- Lo guardai meglio e vidi sul
collo
un enorme livido violaceo che tendeva al nero. –Ma cosa
diamine ha quella al
posto della bocca?- Sbottai senza riuscirmi a trattenere dal ridere.
-Un’aspirapolvere.- Sorrise e per un attimo scaricammo la
tensione. Ma fu
solo un attimo, appunto, perché quella festa non era
destinata a finire in una
maniera decente.
-Sta sbrattando l’anima!- Urlò una ragazza che si
era affacciata dal piano
di sopra. Io e Gianluca ci guardammo per poi precipitarci su per le
scale.
-Chi?- Domandai guardandola negli occhi. Lei scrollò le
spalle, indicandoci
un corridoio.
-Una del II E.. sta nell’ultima porta a destra..- Lo disse
con tanta
indifferenza, noncuranza, che mi venne una voglia immensa di darle un
pugno sul
naso. Senza neanche aspettare Gianluca corsi lungo il corridoio con il
cuore
che batteva a mille, affacciandomi poi a quello che era un bagno. La
mia
mandibola toccò terra ed il mio cuore si fermò:
Sara era stesa a terra, i
capelli biondi sparpagliati sulle mattonelle bianche ed il viso
rossissimo.
-Sara!- Urlai precipitandomi al suo lato, scuotendola per le spalle.
Alzai
lo sguardo ed incrociai quello di Federico, colpevole, che mi guardava
senza
muoversi.
-E’ svenuta..- Disse una ragazza al mio fianco, senza alzare
la testa. Mi
girai e vidi Gianluca alla soglia della porta.
-Chiama l’ambulanza, subito.- Ordinai scuotendo la testa.
-Ma sei deficiente? Sai che casino che scatta?- Sbottò
Federico,
guardandomi con gli occhi sbarrati.
-Ha ragione. Dobbiamo chiamare l’ambulanza.- Mi voltai di
scatto e vidi
Emanuele affianco a Gianluca.
Tutto mi sembrò passare velocemente, troppo
velocemente. Gianluca chiamò il
118 mentre tutti gli invitati alla festa o scappavano verso le proprie
case
oppure nascondevano dove potevano la marijuana e tutte le altre
sostanze
illegali che erano state portate a quel festino. Io restai seduta
lì al lato di
Sara, tenendole la mano, finché non sentii le sirene
dell’ambulanza far alzare
ancora di più il tono della voce di tutti.
Quando i medici arrivarono, mettendola sulla barella, li seguii fino
all’automobile,
sorretta da un lato da Gianluca e dall’altro da Emanuele,
sorprendentemente. Gianluca,
essendo l’unico diciottene, salì
nell’ambulanza con Sara, mentre io cercavo di
seguirlo, mentre cercavo di capire cosa dicevano quegli uomini con la
tuta
arancione riguardo lo stato della mia amica.
-Calma..- La voce di Emanuele accompagnata dalla sua forte stretta
sembrarono fermare i miei impulsi per qualche attimo. Chiusi gli occhi
e cercai
di non cercare più il volto di Sara, con quel rossetto
sbavato, il mascara
colato, i magnifici capelli biondi sporchi di vomito, e la sua pelle
così
bianca, pallida, con quel rossore esagerato sulle goti.
L’ambulanza partì e se ne andarono indifferenti ma
pieni di gossip tutti
gli alunni dell’Umberto Eco che il lunedì
avrebbero avuto di che parlare
indubbiamente. Scoppiai in un violento pianto, un pianto disperato e
lungo che
Emanuele soffocò stringendomi forte al suo petto. Sentii la
sua mano salire
alla mia nuca premendo il mio volto contro di lui, posando nel
frattempo il
mento sulla mia testa. Le parole coma
etilico non uscivano dalla mia testa. Quelle due parole che
i medici
avevano così tante volte detto.
Ecco anche il
terzo capitolo! Spero che anche questo vi piaccia e non vi
annoi troppo! Sinceramente la parte della festa la reputo un
po’ scontata ma ho
cercato di non renderla il solito punto dove succedono tutti gli
impicci, anzi
:P! Ringrazio swettlove,
grillomylife, balenotta per le recensioni in questi
capitoli! Sono davvero molto importanti per me! Inoltre ringrazio tutti
coloro
che hanno aggiunto la storia ai preferiti, coloro che la seguono e
coloro che
la leggono senza recensire! Un bacione!
|
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Capitolo 4 *** Perdona i miei Silenzi ***
Capitolo
Quarto: Perdona i Miei Silenzi.
Mi
sciacquai
il viso con l’acqua gelida dei bagni dell’ospedale
Sant’Eugenio, alzando poi lo sguardo per specchiarmi ed
inorridire del mio
stesso riflesso. La mia pelle era bianchissima, come la neve, le
lentiggini
contrastavano esageratamente con quel pallore. Gli occhi azzurri
avevano un
aspetto stanco, spaventato, accentuato dalle leggere occhiaie che si
erano
formate e dal rossore dei bulbi oculari. I miei capelli probabilmente
erano gli
unici ad aver mantenuto un aspetto composto: giovavano ancora
dell’effetto
della piastra e ricadevo lisci fino all’altezza del seno. Mi
asciugai le mani
ed uscii dal bagno, incamminandomi lungo il corridoio del pronto
soccorso in
direzione di Gianluca, Emanuele e Federico che parlavano a bassa voce
davanti
la porta della stanza dove i medici stavano con Sara ed i suoi
genitori. Avevo
già avvertito mia madre dell’evento e mi aveva
detto di stare tranquilla, di
stare lì tutto il tempo che avrei voluto e chiamarla per
ogni necessità. Anche
lei era infinitamente preoccupata: Sara era come una figlia per lei, la
adorava
e quell’evento l’aveva scossa indubbiamente.
Ero
giunta al Pronto Soccorso poco dopo che l’ambulanza era
partita.
Emanuele aveva sciolto quell’abbraccio e mi aveva offerto il
casco ed un
passaggio in moto. Strano da immaginare, ma non avevo neanche dato
fiato alla
mia bocca per lamentarmi della mia paura, per chiedergli di andare
piano. Mi
ero semplicemente messa quell’affare sulla testa e
l’avevo allacciato, per poi
sedermi silenziosamente dietro di lui stringendomi piano alla sua
schiena. La
villa di Marika Marchesani si trovava appena a dieci minuti
dall’ospedale, ma
quel tragitto mi parve infinitamente lungo. Guardavo la
città scorrermi
affianco senza in realtà accorgermi di dove fossi, quali
strade stesse
percorrendo, e quando si era fermato, ero scesa sempre senza dire
nulla, con lo
sguardo vuoto puntato sull’ambulanza parcheggiata di fronte
l’ingresso del
pronto soccorso. Emanuele aveva messo la catena, l’allarme
alla moto e poi mi
aveva passato un braccio intorno alle spalle, delicatamente, quasi con
la paura
di sfiorarmi, e ci eravamo incamminati verso l’edificio, in
silenzio. La
presenza di Benassi mi dava sicurezza, in fondo, mi dava quel senso di
pace che
in quel momento necessitavo. Lo guardai un istante, scoprendolo
concentrato che
fissava la strada davanti a sé, i muscoli tesi ma
quell’aria tranquilla.
Entrammo nella piccola saletta d’accettazione, mentre tutti
gli altri pazienti
in attesa di guardavano. C’erano persone di tutte
l’età che aspettavano il
proprio turno: chi con un piede rotto, chi con un pallore esagerato sul
volto.
-Sì, siamo qui per Sara Rossetti.- Emanuele parlava composto
con il signore
di circa cinquant’anni che era dedito a fare tutte le
pratiche
dell’accettazione. –Sì, la ragazza
arrivata con l’ambulanza poco fa.-
Aspettammo un paio di secondi e la porta alla nostra si aprì
in uno scatto.
-Prego, si trova nella stanza numero sette.- Ci disse gentilmente,
indicandoci la porta. Mi precipitai dentro senza nemmeno aspettare
Emanuele ed
una volta all’inizio del corridoio vidi in lontananza
Gianluca poggiato contro
una parete. Corsi il più veloce possibile, o almeno alla
velocità che mi
permettevano i miei tacchi, e lo abbracciai con forza. Le sue braccia
risalirono la mia schiena, stringomi piano contro il suo corpo.
-Shhh..- Sussurrò piano al mio orecchio, cercando
inutilmente di calmarmi:
le lacrime erano ricominciate a scendere e non avevano intenzione di
smetterla.
–Stai calma, dai..- Aggiunse con dolcezza, passando le dita
fra i miei capelli.
Passarono cinque come venti minuti e mi allontanai da lui,
strofinandomi gli
occhi gonfi. –Hey, ragazzi..- Mi voltai e vidi Emanuele con
affianco Federico
che stringevano a turno la mano di Gianluca, salutandosi. Probabilmente
l’occhiata che lanciai a Federico fu esageratamente truce,
visto che il mio
migliore amico mi diede un leggero pizzico sul braccio. Evitai tuttavia
di
salutarlo, mordendomi la lingua per non fare qualche battutina
sicuramente
acida e poco conveniente.
-Come sta?- Domandò Federico a Gianluca.
Quest’ultimo si strinse nelle
spalle, incupendosi.
-Coma etilico.- Una pugnalata sarebbe stata meno efficace, meno
dolorosa.
Le mie viscere di contrassero e per un momento la mia vista si
appannò. Chiusi
gli occhi e mi poggiai contro la parete, incapace di ragionare, di
parlare. Coma etilico. Le mie paure
si erano
avverate, il mio terrore era reale ora: la mia migliore amica stava
rischiando
la morte. Le mie gambe tremarono, divenendo molli e mi sentii
improvvisamente
più pesante. Sarei caduta a terra se delle forti braccia non
mi avessero
sorretta. Mi fecero sedere su un qualcosa che non riuscivo a definire e
solo
allora aprii gli occhi vedendo davanti a me il volto di Federico della
Valle.
-Tutto bene?- Mi chiese con premura, passandomi una mano sulla guancia
che
doveva essere gelida visto quanto bruciava la sua pelle a contatto con
la mia.
-Non mi toccare.- Ringhiai con tutte le poche forze che mi erano
rimaste.
–Non ti basta aver fatto andare in coma Sara?- Alzai la voce,
mentre la mia
testa ricominciava a girare con forza, facendomi per un attimo
oscillare.
Federico fu sul punto di rispondere, ma Emanuele poggiò la
mano sulla sua
spalla, facendolo ammutolire immediatamente. Gianluca passò
avanti a quei due e
mi fece stendere con delicatezza sulla barella dov’ero
già seduta.
-Chiudi gli occhi e riprenditi.- Mi intimò con estrema
dolcezza. Annuii,
cercando di rilassare tutti i miei muscoli, di sciogliere i nervi. Mi
bastarono
pochi istanti per azzerare i pensieri, per caderein uno stato di
semincoscienza che parve durare settimane, mesi.
Aprii gli occhi improvvisamente, sedendomi di scatto e guardandomi
intorno,
senza realizzare dove mi trovassi effettivamente. Furono le calde mani
di
Emanuele, che mi presero il viso, a riportarmi alla calma. Lo guardai
negli
occhi e velocemente realizzai: ricordai tutto ciò che era
successo e riconobbi
quel corridoio dalle pareti bianche ed arancioni.
-Quanto ho dormito?- Chiesi in un sussurro, mentre le sue mani si
allontanavano e lui si rimetteva dritto in piedi.
-Non più di cinque minuti.- Mi rispose sorridendo.
–Gianluca e Federico
sono andati a prenderti dell’acqua ed un caffé.-
Al secondo nome piegai il mio
volto in una smorfia. –Non credere che non gliene freghi
niente: è spaventato
come tutti noi.- Mi disse, leggendomi quasi nella mente tutti i
pensieri
negativi che rivolgevo a Federico.
-Non gli importa di Sara.- Risposi prontamente. –E’
qui solo perché ha una
coscienza!-
-Che ne sai?- Domandò, facendomi aggrottare le sopracciglia.
Cosa voleva
dire? –Lo sapevi che a Federico piace Sara da un anno? Non
è.. Non siamo i mostri
che tu pensi.- Strabuzzai
gli occhi incredula: a Della Valle piaceva Sara? Da un anno? Pensare
che lei li
considerava Off Limits, irraggiungibili. –Ed anche lui era
ubriaco, questa
sera.. Quindi non ragionava troppo quando continuava ad offrirle da
bere..-
-Ti prego non lo giustificare.- Dissi con una nota d’accidia.
–Non ha
scuse.- Lui annuì, evidentemente d’accordo con
ciò che dicevo. Poi ripensai
alle sue parole ed aggiunsi con più dolcezza, con
più calma. –Non ho mai detto
che siete dei mostri.-
-Ci hai dato dei puttanieri. E credimi che non lo siamo.- Mi
ricordò lui
con una nota quasi di tristezza nella voce. Arrossii violentemente
ricordandomi
del discorso che gli avevo fatto quando Federico aveva condotto via
Sara e mi
ritrovai senza nulla da dirgli, improvvisamente. Gli avevo rinfacciato
di non
calcolarmi mai quando eravano a scuola, di parlarmi solo quando ci
ritrovavamo
noi due. Grazie a Dio quell’imbarazzante silenzio fu ben
presto interrotto da
Gianluca e Federico che tornavano parlando tranquillamente, porgendomi
poi
prima il caffé e poi la bottiglietta d’acqua.
Il caffé amaro scivolò velocemente nella mia
gola, bruciando un po’.
Strizzai un po’ gli occhi, schifata, per poi aprire in fretta
la bottiglietta
di plastica, mormorando un “grazie”, evitando
accuratamente lo sguardo di
Federico. L’acqua fresca quasi mi rivitalizzò e mi
ritrovai a respirare più
regolarmente, apparentemente più tranquilla. Alzai
finalmente lo sguardo e
guardai i tre ragazzi con un leggero sorriso, quasi a volerli
rassicurare e
proprio in quell’istante dei passi veloci, forse troppo, ci
fecero tutti
voltare in direzione della porta d’ingresso del corridoio.
Franco Rossetti e Alba Schinardi, i genitori di Sara, camminavano
velocemente verso dove eravamo seduti noi. Mi passai una mano fra i
capelli e
poi li feci un cenno con la testa, di saluto. Alba mi si
avvicinò,
abbracciandomi con dolcezza.
-Grazie per essere venuta.. Per essere venuti.- Si rivolse a tutti noi,
prima di seguire il marito nella stanza numero sette. Nel momento in
cui aprì
la porta riuscimmo ad intravedere il letto su cui era stesa Sara, prima
che la
porta sbattesse nuovamente. La paura sul viso della madre di Sara mi
fece
rabbrividire con forza.
Raggiunsi
Emanuele, Gianluca e Federico, con il viso sciacquato che mi
donava l’illusione di aver lavato via le mie preoccupazioni.
Restava il fatto
che noi eravamo lì mentre dentro c’era Sara in
coma etilico. La parola coma
aveva un tale effetto su di me, ogni volta che la pronunciavo, che
necessitavo
di poggiarmi alla spalla di Gianluca o di Emanuele.. Inutile dire che
evitavo
accuratamente di avere contatti con Federico, ancora incapace di
guardarlo
negli occhi.
Non si sa ancora niente?- Domandai con un filo di voce, sperando in una
buona notizia, anche se erano passati appena dieci minuti da quando me
ne ero
andata per andare in bagno.
-Sono usciti i genitori di Sara,- cominciò Gianluca,
guardandomi con aria
grave. –e ci hanno detto che è meglio se ci
accomodiamo in Sala d’Attesa, se
vogliamo restare..Altrimenti possiamo anche tornare a casa.- La sua
voce si
incupì nuovamente e a quel punto alzai lo sguardo.
–Sara non sembra avere intenzione
di svegliarsi.. sai non esistendo un "antidoto", la terapia del coma
etilico si fonda sulla correzione dell'ipotermia, dell'ipoglicemia e
dell'acidosi, ovvero la diminuzione del PH del sangue.. – Mi
spiegò,
utilizzando quei termini così precisi, così
tecnici. -..dobbiamo aspettare e
sperare.- Chiusi gli occhi e sospirai, incrociando le braccia al petto
ed
incamminandomi verso la Sala
d’Attesa, lentamente, reggendomi appena su quei tacchi a
causa della testa troppo
pesante, a causa dei troppi pensieri che l’affollavano. Mi
sedetti su una
sediola, passandomi entrambe le mani fra i capelli e fissando il
pavimento.
Sospirai sonoramente, cercando di calmare il mio cuore che come
impazzito
batteva. Coma etilico. Correzione dell’ipotermia.. Quelle
parole così tecniche
mi facevano impazzire: non sapevo cosa volessero dire, non sapevo cosa
stesse
accadendo a Sara.
Emanuele si sedette affianco, me ne accorsi dalla presenza di un paio
di
scarpe nuove nell’aria che stavo guardando per terra,
imbambolata. Alzai lo
sguardo ed incrociai il suo, chiudendo poi gli occhi e poggiandomi
contro lo
schienale.
-Vuoi venire a fumarti una sigaretta con noi?- Aprii gli occhi vedendo
Gianluca davanti a me che si rigirava un pacchetto di Camel fra le
mani. Scossi
la testa debolmente. Passò lo sguardo su Emanuele che a
propria volta scosse la
testa e se ne andò fuori con Federico, sorridendomi con
dolcezza.
-Se vuoi, vai..- Dissi ad Emanuele, guardandolo. -..non devi farmi da
babysitter- aggiunsi, cercando di buttarla sul ridere.
-Non fumo.- Rispose molto semplicemente lui, ricambiando il mio sorriso
e
rilassandosi sulla sediola, alzò lo sguardo sul soffitto.
Non dissi nulla,
limitandomi a guardare dritto davanti a me, senza in realtà
vedere nulla,
troppo concentrata a sciogliere i nodi dei miei pensieri. Fui tanto
presa da
quella complicata impresa che mi addormentai senza nemmeno
accorgermene,
scivolando con dolcezza fra le braccia di Morfeo. Le braccia che mi
accolsero,
tuttavia, non furono esattamente quelle della divinità greca
ma di una divinità
in carne ed ossa che sedeva al mio fianco. Nel sonno sentii Emanuele
Benassi
abbracciarmi con dolcezza, portando la mia testa sul suo petto e
poggiando la
sua guancia contro essa. Beandomi di quella posizione, del calore del
suo corpo,
riuscii a dimenticare per una frazione di secondo tutto: Sara, il coma
etilico,
Federico.. Come se mi fossi fatta una doccia che avesse lavato via le
mie
impurità, le mie preoccupazioni, lasciandomi soddisfatta nei
confronti del
mondo per quel brevissimo istante.
Affrontare
il mio Liceo dopo quel weekend infernale mi sembrava una di
quelle sfide impossibili che non sarei mai riuscita a vincere. Mai. Mi
veniva
da rimettere solamente pensando a quando sarei giunta di fronte al
cancello e
tutti avrebbero cominciato a pormi le domande su Sara, sul coma, sulla
sua
situazione. Come avrei potuto rispondere? Mentre aspettavo che Gianluca
mi
passasse a prendere, cercavo con tutte le forze di non tornare a casa e
restarci, evitando di ricordare ancora quella tremenda notte ed il
giorno
seguente. Avevo passato la domenica chiamando ogni secondo i genitori
di Sara,
sperando che ci fossero miglioramente, ma alla fine loro mi avevamo
liquidata
dicendomi semplicemente che mi avrebbero chiamata non appena avessero
saputo
qualcosa. Erano passate diciotto ore e non era successo nulla, nessuno
mi aveva
chiamata se non Gianluca. Emanuele mi aveva accompagnata a casa la
mattina
precedente, salutandomi con una dolce carezza sul viso e
l’invito a riposarmi,
con la promessa di vederci a scuola.. Vederci a scuola. Certo, ci
saremmo
visti, ma ci saremmo anche salutati? Avrebbe nuovamente fatto finta di
non
vedermi dopo gli ultimi eventi che in un modo o nell’altro ci
avevano uniti?
Non feci in tempo a trovare una risposta che Gianluca
arrivò, fermandosi
proprio davanti il mio palazzo. Velocemente corsi allo scooter, mi
infilai il
casco e salii, senza paura ormai. Mi strinsi a lui e dopo avergli
mormorato un
“buongiorno” all’orecchio, partimmo
velocemente.
Gianluca parcheggiò lontano dalla salita e dal baretto e
quando scendemmo
mi guardò negli occhi, capendo evidentemente cosa li turbava.
-Semplicemente non ti curar di loro.- Mi disse, finendo poi di mettere
la
catena al motorino. –Fregatene.. Se ti chiedono qualcosa,
rispondigli e basta,
senza prolungare il discorso.- Continuò, alzandosi in piedi
e prendendo lo
zaino che aveva lasciato poggiato sulla sella.
-Io me ne frego.- Cercai di sembrare convinta. –Ma non posso
pensare al
menefreghismo della gente..- Scossi la testa, passandomi poi una mano
fra i
capelli.
-La gente sarà sempre menefreghista e vorrà
sempre avere qualcosa di cui
parlare.- Disse serio, cominciando ad incamminarsi. –Se ti
butti giù per i
coglioni dell’Umberto Eco, cosa farai più avanti?-
Abbozzai un sorriso, seguendolo.
Passando davanti al baretto notai come una ventina di teste si
girò a
guardarci, parlottando poi rumorosamente. La storia di Sara Rossetti
era un
gossip succulento, che si poteva spolpare per bene, fino in fondo senza
annoiarsi. Io ero la migliore amica, la famosa Ginevra
“quella roscia” e
Gianluca “quello figo”, era il suo migliore amico..
Eravamo al centro di quel
gossip quasi quanto lei e quanto Federico “quello che
Rossetti s’è fatta” ed
Emanuele “quello con cui la roscia è andata in
moto”. Nel momento in cui ci
fermammo davanti l’imponente entrata del Liceo la stessa
ochetta con la bocca
da aspirapolvere di sabato sera, venne a salutare Gianluca con due baci
sulle
guance, ridacchiando come una deficiente. Mi guardò di
sbieco, mormorando un
“ciao” nella mia direzione.
-Come sta l’alcolizzata?- Domandò con una risatina
a Gianluca. Lo vidi
irrigidirsi ed io strinsi i denti.
-L’alcoliz..- Una mano si posò dolcemente sulla
mia bocca, invitandomi in
quel modo al silenzio. Non riuscivo a girarmi per vedere
l’autore di quel gesto
e restai immobile, lanciando un’occhiata a Gianluca.
-L’alcolizzata è in coma etilico. Ora che hai lo
scoop corri a raccontarlo
e levati dalle palle.- Lo sconosciuto allentò la presa e mi
voltai,
ritrovandomi davanti Emanuele Benassi. Non so se sorrisi per
ciò che aveva
detto a quella gallinella o perché finalmente mi stava
guardando, mi stava
parlando, mi stava considerando.
-Perché frequenti quella deficiente?- Chiese Emanuele a
Gianluca mentre si
stringevano la mano.
-Per avere quattordici anni è molto.. sveglia, la ragazza.-
Rispose
sorridendo. Eccolo il vero stronzo che nascondeva dentro di lui!
-Basta che ve la da e
siete subito
ai suoi piedi!- Ridacchiai, notando che Emanuele non si era mosso di un millimetro, standomi
ancora
vicinissimo.
-A me non basta.- Disse tranquillo guardando prima me e poi Gianluca.
-Questa è la tecnica che usiamo per rimorchiare quelle che
non ce la
danno!- Disse quest’ultimo, facendoci scoppiare tutti a
ridere. La tensione era
alta, certo, ma cercavamo tutti di mascherarla, giocando a quel gioco
delle
maschere abilmente, nonostante sapessimo tutti come fosse la sua
conclusione.
-Come sta?- La voce cupa di Federico interruppe quella
falsità e ci fece
precipitare tutti insieme nel burrone rappresentato dalla vita reale.
Ci
guardammo tristemente negli occhi, rispondendoci già da soli.
-Non ci sono miglioramenti.- Dissi sospirando, fissandomi poi le punte
degli stivali marroni che portavo. Nessuno disse nulla e continuammo a
stare
così in piedi senza sapere cosa dire, cosa fare.. Qualsiasi
parola sembrava
troppo sbagliata, qualsiasi gesto sembrava troppo banale.
–Oggi pomeriggio ho
intenzione di andare all’ospedale.- Disse ad un tratto,
risollevando gli
sguardi di tutti.
-Qual’è orario delle visite?- Domandò
Emanuele.
-Dalle sei alle sette.- Risposi prontamente, guardandolo.
-Vengo con te.. –
-Anche io.- Disse Federico, affrontando il mio sguardo..
C’era da dire che
era rimasto un po’ intimorito dopo l’ultimo sfogo
che avevo avuto con lui.
-Io vengo, ovviamente..- Concluse Gianluca. –Però
vi raggiungo alle sei e
mezza, che fino le sei ho gli allenamenti di calcio.-
-Io non so come venire allora!- Intervenii. Gianluca era
l’unico che
abitava vicino a me e che mi dava sempre passaggi quando la macchinetta
si
rompeva. Quindi spesso.
-Ti passo a prendere io alle sei meno dieci e ci vediamo
all’entrata
principale alle sei. Ok?- Emanuele parlò così
chiaro e conciso da non avere
neanche il tempo di stupirmi. Mi limitai ad annuire, assecondata da
Federico.
La campanella della prima ora suonò, facendoci sbuffare
tutti all’unisono.
Stava per iniziare l’ennesima, pesante giornata scolastica.
Sei ore di curioso
vociare, sei ore di domande, di risposte da dare.
-Ci vediamo a ricreazione.- Con quel saluto Emanuele e Federico si
allontanarono, lasciando me e Gianluca soli. Quest’ultimo
passò il braccio
intorno alle mie spalle e ci incamminammo nella direzione
dell’ingresso, pronti
ad affrontare, insieme, quella mattinata.
Scesi
dalla
moto di Emanuele tremando per il freddo. Mi strinsi nel
cappotto e nascosi il viso fino l’altezza del naso nella
sciarpa che portavo.
Ma non tremavo solamente per il freddo: nella mia mente il pensiero
principale
era Sara. Sara stesa su un lettino, con delle macchine che la
monitoravano. Sara
stesa nel bagno della villa di Marika. Sara che continuava a bere.
Rabbrividii
a quelle immagini e mi strinsi nelle spalle, mentre con Emanuele mi
incamminavo
verso l’entrata dell’ospedale. Attraversammo la
strada e raggiungemmo Federico
che già ci aspettava, bruciando l’attesa fumando
una sigaretta.
-Mi lasci due tiri?- Gli chiesi quando arrivammo, dopo esserci
salutati. Mi
guardò sorpreso, per quell’incredibile
“voglia di conversare” che avevo nei
suoi confronti. Gli avevo rivolto già troppe parole per i
miei gusti. Lui si
limitò ad annuire, passandomi la sigaretta. Fumai lentamente
assaporando il
sapore del tabacco, buttando poi il mozzicone a terra.
Entrammo nell’ospedale e dopo essere passati per
l’accoglienza, salimmo al
terzo piano ed andammo nella
stanza dov’era
ricoverata Sara. Arrivando ci ritrovammo di fronte i suoi genitori.
-Buonasera..- Esordimmo quasi in coro, per poi salutare personalmente i
due. Guardai Alba e Franco con un po’ di rancore, per non
avermi più chiamata,
per non avermi più fatto sapere nulla.
-Come sta?- Chiese gentilmente Emanuele, mantenendo un tono di voce
basso,
che lasciava trapelare tutte le emozioni che il suo cuore sperimentava.
-E’ stabile, ma non migliora. – Disse secco Franco,
tamburellando
nervosamente con le dita sulla propria gamba.
-Entrate, dai ragazzi..- Alba guardò con dolcezza il marito,
con amore,
cercando di risollevare il suo morale ormai a terra, le sue speranze
perse. Un
sorriso di circostanza si dipinse sul nostro volto ed entrammo nella
camera. Il
mio cuore si ghiacciò: Sara era stesa, immersa nella
solitudine di quella
singola che i genitori le avevano preso affinché stesse
sola, senza condividere
il proprio spazio con nessun’altra persona. Era pallida,
stesa quasi come una..
morta. Il suo petto si alzava e si riabbassava impercittibilmente, ed
il
monitor al fianco del letto ticchettava, scandendo i battiti del cuore
di Sara.
Sentii Federico al mio fianco espirare sonoramente e mi voltai,
vedendolo
per la prima volta sotto una luce diversa. Era affranto, enormemente
spaventato, pallido. Chiuse gli occhi e si portò la mano
alla bocca,
avvicinandosi poi lentamente al letto. Cercai di imitarlo ma la mano di
Emanuele, posandosi dolcemente sulla mia, mi trattenne.
-Dagli un secondo..- Mi disse, indietreggiando fino a poggiarsi con la
schiena sulla parete, in attesa.
-Scusami, Sara.. Scusami per essere stato uno stronzo, scusami per
essermi
approfittato della tua ebrezza ieri, per non essermi fermato. Scusami
se ti ho
ridotto in questo stato, se ti ho portato a questo. Pagherei per
rivederti come
ti vidi l’anno scorso per la prima volta.. Ero affacciata
alla finestra del
bagno, durante la ricreazione, e tu ridevi in cortile, con Ginevra. Eri
felice
della vita, eri felice.. e la tua risata mi è rimasta
talmente impressa che
eccomi, dopo un anno, che ti confesso il mio.. amore.- Sussultai a
quell’ultima
parola, volgendo la testa nella direzione di Emanuele che serio
guardava dritto
davanti a sé, quasi senza respirare. –Scusami..-
Lo sentii mormorare un’ultima
volta per poi girarsi verso di noi. I suoi occhi erano lucidi, sinceri,
ed il
mio cuore si strinse in una morsa che mi fece sussultare. Mi ero sbagliata
così tanto su Federico della
Valle? Osservai la sua frangia bionda, i suoi occhi verdi, e mi chiesi
come
aveva fatto quel ragazzo che stava in piedi davanti a me a fare, a dire
ciò che
lui aveva fatto e detto il giorno precedente. Federico uscì
dalla stanza ed
Emanuele lo seguì, e io restai così sola. Mi
avvicinai a Sara lentamente,
prendendo poi una sedia e sedendomi accanto a lei, prendendole la mano.
-Non avevi ragione su Emanuele come io non avevo ragione su Federico.
Te lo
devo confessare.. Avevi ragione sui miei sentimenti nei confronti di
Benassi
quella mattina dopo il compito di greco. Mi piace, sì.. Te
lo dico
sinceramente, te lo dico perché quando ti sveglierai ti
farò una testa enorme
per dirti “perché per lui non esisto”,
“perché non mi parla”, “non
gli piaccio”,
e mi odierai così tanto che vorrai farmi finire su un
lettino di questo genere
con tante contusioni alla testa.- Ridacchiai da sola, sperando che le
lacrime
non cominciassero a scendere. –Perché è
così. Io per lui non esisto.. Fa finta
che io non ci sia, si volta altrove invece di salutarmi.. E poi diventa
così,
così incredibilmente ambiguo.. Con quei sorrisi che possono
voler dire una come
mille altre cose, con quei suoi gesti gentili, dolci.. –
Scossi la testa..ma
cosa stavo dicendo? Mi alzai, mettendo la sedia a posto, pronta ad
uscire
quando un leggero colpo di tosse mi fece voltare.
-Sei una deficiente..- Il mormorio che uscì dalle labbra di
Sara mi fece
strabuzzare gli occhi. –E’ innamorato perso.- La
guardai immobile come una
statua a metà fra dove avevo posato la sedia ed il letto.
Quando il mio
cervello realizzò mi precipitai dalla mia migliore amica e
vidi i suoi occhi
leggermente aperti ed un leggerissimo sorriso sulle labbra.
-Sei sveglia!- Dissi con le lacrime agli occhi. –Emanuele!
Federico! E’
sveglia!- Urlai voltandomi, ma Emanuele era già
lì e Federico stava entrando
con Alba e Franco. Emanuele da quanto si trovava lì affianco
alla porta? Aveva
forse sentito il mio monologo, il mormorio di Sara?
Alba si precipitò vicino alla figlia con Franco al proprio
seguito. La
gioia che lessi nei loro occhi fu imparagonabile a qualsiasi altra
espressione
di felicità io avessi visto nella mia vista. Alba piangeva a
dirotto e Franco a
stento tratteneva le lacrime, troppo concentrato a preservare la sua
maschera
di uomo duro e incommovibile. In quel momento entrò
Gianluca, con un pacchetto
di dolcetti in mano e per poco non li lasciò cadere quando
vide una Sara
sveglia guardarlo dal letto. Gianluca si avvicinò, lasciando
il pacco su di un
tavolino, e strinse la mano della ragazza con delicatezza,
osservandola,
sorridendo, per poi allontanarsi e lasciare il posto a Federico. Lo
sguardo che
si scambiarono probabilmente non me lo scorderò mai: avete
presente quegli
sguardi pieni di parole, pieni di sentimenti che ti restano impressi?
Ecco. Sara
gli regalò il suo sorriso più bello, schiarendosi
poi la voce e spostando lo
sguardo con Emanuele.
-Ho bisogno di riposare ora.- Disse piano, beandosi ancora delle nostre
espressioni che fra lo stupito e l’infinita gioia
probabilmente erano tanto
irripetibili quanto l’evento che era appena accaduto. Si era
svegliata dopo due
giorni di coma, di coma etilico.. Si era svegliata ed era lì
davanti a noi che
sorrideva, ci guardava, cancellando con quei suoi piccoli gesti
l’incubo in cui
eravamo precipitati tutti quel sabato sera. Era finita. Dopo averla
salutata
ancora, uscimmo tutti dalla stanza mentre i medici la visitavano.
Uscimmo dall’ospedale,
ci allontanammo il più possibile da quel posto dove per due
giorni avevano
versato le nostre lacrime, svelato i nostri timori. Ognuno
tornò nella propria
casa a parte Alba e Franco che restarono con la figlia.
Emanuele mi accompagnò a casa e sorprendentemente scese
dalla moto, fermandosi
a chiaccherare con me. Inutile dire che mi torturavo chiedendomi se
effettivamente avesse sentito o meno ciò che avevo detto a
Sara, se aveva
sentito i miei sentimenti essere svelati così apertamente.
-Non riesco a smettere di sorridere.- Dissi guardandolo, giustificando
il
sorriso ebete che avevo stampato sulle mie labbra senza riuscire a
toglierlo.
-Non farlo.- Rispose lui ridacchiando. No, non avrei smesso di
sorridere
per nulla al mondo, assolutamente. –Ciò che
è successo merita tutti i sorrisi
di questo mondo.- Aggiunse.
-Forse mi ero sbagliata su Federico.- Ammisi, incrociando le braccia al
petto. Sì, dopo ciò che avevo sentito, dopo aver
visto quello sguardo, i suoi
occhi lucidi, ero certa del fatto che mi fossi sbagliata.
-Non avevi tutti i torti, in fondo..- Mi ricordai le scene di quel
sabato
sera ed annuii, ricordando anche l’odio nei suoi confronti,
gli scatti nel
pronto soccorso.
-Già..- Guardai un attimo per terra, per poi riaffrontare i
suoi occhi. Pessima
idea: mi persi in quel castano così intenso, così
affascinante, e mi ritrovai
ad imbambolarmi come una stupida ancora. Mi schiarii la voce e distolsi
lo
sguardo, ormai chiaramente consapevole del fatto che ero arrossita
completamente. -..Grazie per avermi accompagnata, comunque..
– Dovevo recuperare
il mio contegno, dannazione! Anche il mio colorito se possibile! -..ora
devo
proprio andare.- Ecco,
così magari avrei
posto termine alle orribili figure che mi ero probabilmente procurata
quel
pomeriggio. Lui annuì, sembrando per niente scosso da quel
fatto.. Certo, come
mai si sarebbe dovuto comportare? Non gli interessavo, assolutamente.
-Ci vediamo domani a scuola?- La sua domanda retorica mi
evitò un altro
giro fra i miei pensieri contorti. Annuii, aprendo poi il portone.
Quando fui
ormai sul punto di entrare, la sua mano prese la mia con delicatezza
come
prima, nell’ospedale. Lo guardai stupita, chiedendo una
spiegazione, una
giustificazione di quel suo gesto improvviso. –Perdona i miei
silenzi,
Lentiggini.- Mi disse con estrema dolcezza, lasciando poi la mia mano e
voltandosi, andando alla propria moto. Indietreggiai, chiudendomi il
portone
alle spalle e poggiando la schiena contro di esso. Socchiusi gli occhi
e li
riaprii solo quando lui partì ed il rombo del motore della
sua moto fu solo un
ricordo lontano. Cosa voleva dire? Perché dovevo perdonare i
suoi silenzi? Come
faceva a sapere di quanto mi avevano fatto patire quei suoi silenzi?
Aveva
sentito, sicuramente, indubbiamente, il mio monologo. E’
innamorato perso. Le parole di Sara, tuttavia, mi fecero
gioire il cuore. Mi
ritrovai così a sorridere stupidamente guardando il cielo.
Emanuele Benassi in due
settimane aveva conquistato la mia mente, i miei sogni. Sì,
io Ginevra Sforza per
la prima volta nella mia vita, desideravo ardentemente un ragazzo.
Eccomi
al termine del quarto capitolo! Ho pubblicato solamente ieri il terzo,
ma le idee sono venute così velocemente che non mi sono
trattenuta dal continuare.
Cosa dire.. Spero che anche questo capitolo vi piaccia e che
continuiate a seguirmi.
x_Mokona, swettlove,
grillomylife: Grazie
infinitamente per le recensioni e per i complimenti! Spero di non
deludervi con il passare dei capitoli :P
Inoltre ringrazio coloro che mi hanno aggiunta alle preferite e alle
seguite, ed anche tutti i lettori silenziosi.
Silvia.
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Capitolo 5 *** Il Gioco Della Bottiglia ***
Capitolo Quinto: Il gioco della
bottiglia.
Fissavo la valigia che tenevo aperta sul letto con le mani
sui fianchi e la
tipica espressione di una ragazza che vorrebbe metterci tutto ma ci
può mettere
solo l’essenziale. Disperata, in poche parole. Sbuffai
sonoramente alzando poi
lo sguardo, incrociando quello di Gianluca e di Sara che stando seduti
alla mia
scrivania un po’ mi guardavano spazientiti, un po’
controllavano le notifiche
su facebook.
-Aiutatemi!- Dissi esasperata, sedendomi poi sul letto su dei jeans.
Gianluca alzò le mani come a dirmi “me ne tiro
fuori” e quindi mi decisi ad
indirizzare il mio sguardo di cucciolo ferito a Sara, in modo da
convincerla.
–Sara! Aiutami! E’ colpa tua se sono in questo
guaio!- La supplicai, scendendo
dal letto e mettendomi in ginocchio davanti a lei.
Alba e Franco, i genitori di Sara, avevano invitato me, Gianluca,
Federico
ed Emanuele a trascorrere il weekend nella loro casa a Roccaraso, una
località
sciistica abruzzese situata a poche ore da Roma ed abbastanza
movimentata, sia
di giorno che di notte. L’intento del viaggio era di
festeggiare il risveglio
di Sara, che era avvenuto una settimana e mezzo prima, ringraziandoci
anche per
essere stati vicini alla figlia e a loro in quelle trentasei ore
infernali.
Inutile dire come fossi nello stesso tempo elettrizzata e spaventata
dal dovere
passare un finesettimana con Benassi, nella stessa casa, ogni secondo,
minuto,
ora della giornata insieme.
-I miei ci passano a prendere fra un’ora e mezza, Ginni.
Quindi, adesso
scegli uno di tutti quei jeans che hai buttato sul letto che sono tutti
uguali,
fra l’altro, prendi un paio di stivali col tacco, il vestito
che hai scelto
dopo due ore di dubbi, le felpe, la tuta, le magliette.. tutto
ciò che vuoi, insomma,
basta che ti sbrighi, perché altrimenti ci perdiamo il
venerdì sera a
Roccaraso. Chiaro?- Strabuzzai gli occhi, assumendo poi la classica
espressione
della bambina offesa. Sara diventava decisamente autoritaria quando ci
si
metteva, riuscendo ad incutere addirittura del timore. Lanciai
un’occhiata alle
valige dei miei due migliore amici, collocate accanto alla porta e
silenziosamente cominciai a mettere alcune cose nella mia valigia
ancora vuota.
-Federico chiede se è un problema se lui ed Emanuele vengono
qui fra
mezz’oretta, un po’ in anticipo.- Disse Gianluca,
voltandosi a guardare.
-No, che non è un problema!- Urlò subito Sara
entusiasta.
-Sì che lo è! Guardate in che stato sono..
Guardate la mia stanza!- Troppo
tardi, evidentemente, visto che Gianluca ridacchiava guardando lo
schermo. Mi
precipitai al computer e da sopra la sua spalla lessi la conversazione
che
teneva aperta con Federico. “Ginni è
d’accordo..Venite quando volete!” Tirai un
pugno sul braccio di Gianluca, incenerendolo con lo sguardo, per poi
correre a
finire di riempire quella maledetta valigia.
Certo che Sara era così felice di vedere arrivare Federico..
Non sapevo se
effettivamente avesse sentito la dichiarazione d’amore che le
aveva fatto quel
pomeriggio all’ospedale, se se ne ricordasse o non so che, ma
certamente sapevo
che lui gliela fatta nuovamente, il giorno seguente, quando
l’era andata a
trovare a casa e da quel giorno il loro rapporto era cambiato, non
divenendo
ancora una storia ufficiale, ma una relazione da cui entrambi erano
coinvolti e
che entrambi stavano usando per capire se erano veramente pronti a
diventare
l’uno il ragazzo dell’altro. Ero felice per lei,
enormemente.. Sara era
probabilmente una delle ragazze più belle che conoscevo, con
quei capelli
lunghi, biondi, che ti illuminavano ogni volta che li scuoteva, e gli
occhi
azzurri come il cielo, grandi, veri, come lei, ma non aveva mai aperto
il suo
cuore a nessuno.. Aveva frequentato molti ragazzi, certo, ma nessuno
aveva
avuto il merito di essere stato il suo “primo
amore”, e se Federico Della Valle
avesse assunto quel titolo, in fondo non mi sarebbe dispiaciuto
più di tanto..
La mia opininione era totalmente cambiata in quei dieci giorni, dal
giorno in
cui Sara si era risvegliata. Ero andata oltre i miei stessi pregiudizi,
oltre a
quella maschera di Don Giovanni biondo, alto e bello che portava forse
inconsciamente, scoprendo una persona gentile, premurosa, sincera, che
aveva
semplicemente bisogno della persona giusta per aprirsi e mostrare tutte
quelle
sue qualità.
In balia di quei pensieri, stupefandomi, conclusi di riporre vestiti
nella
valigia, piegando un cappello. Avevo preso la tuta per lo snowboard, la
maschera, i vestiti per le due sere, i tacchi, le scarpe da
ginnastica.. tutto
insomma. E ci avevo messo molto meno del previsto. Sospirai soddisfatta
e non
feci in tempo a sedermi sul letto per riprendere fiato che suonarono al
citofono. Scattai in piedi e mi chiusi in bagno, sbattendo la porta.
Nel
frattempo mia madre dal salone urlò, annunciandoci che
Emanuele e Federico
stavano salendo. Mi guardai allo specchio, sciogliendo la coda alta e
lasciando
i capelli rossi ricadere in dei morbidi boccoli sulle spalle, ed
afferrai il
beauty-case sia per truccarmi sia per infilarlo dopo nella valigia.
-Ginni posso provarmi uno dei tuoi reggiseni?- Mi ero appena finita di
mettere il mascare, aprendo poi la porta e ritrovandomi davanti
Emanuele e
Federico con un largo sorriso sulle labbra.
-No, Federico.- Risposi fintamente arrabbiata. –Emanuele,
vale anche per te
ovviamente.- Lui mi guardò con aria angelica, alzando le
mani in segna di resa.
–Gianluca!- Chiamai e lui alzò un braccio, per
farsi vedere, seduto sul letto.
–Anche per te.- Tornai nel bagno finendo di riemprire il mio
beauty-case, per
poi uscire il più velocemente possibile, in modo che non
combinassero altri
guai. Li guardai con aria sospettosa, avvicinandomi alla valigia e
posandovi il
beauty, chiudendola poi definitivamente e finalmente, anche.
-Ce l’hai fatta!- Disse Gianluca, avvicinandosi e sollevando
la mia
valigia, per metterla a terra. –E’ solo un fine
settimana eh.. pesa un
quintale!- Commentò storcendo il viso.
-Non so come tu sia abituato ad andare sulla neve, ma la tuta pesa!-
Gli
feci la linguaccia, togliendogli la valigia dalla mano ed andandola a
mettere
affianco alle altre quattro. Quando mi voltai, vidi Emanuele e Federico
particolarmente concentrati a fissare un punto sulla mia parete.
Aggrottai le
sopracciglia, avvicinandomi curiosa. Sfortunatamente le loro risatine
mi
rivelarono prima del previsto il motivo del loro divertimento: stavano
ammirando la foto preferita di mia madre. Io
all’età di sei anni in montagna:
così tante lentiggini che non si vedeva la mia pelle, i
capelli ramati al vento
e gli occhi azzurri spalancati, come se avessi appena incontrato
l’uomo nero.
-Te l’hanno mai detto che sembra che tu abbia la varicella?-
Mi domandò
Federico in preda alle risate mentre si stendeva sul letto, casualmente accanto a Sara, e prendendo casualmente la sua piccola mano con la
propria. Sorrisi, mentre afferravo per un braccio Emanuele e lo
allontanavo da
quella parete.
-Sì, effettivamente me l’ha già detto
il tuo amichetto.- Dissi a denti
stretti, spingendo quella montagna sul mio letto ed andandomi a mettere
vicino
a Gianluca, con un leggero broncio. -Non sono poi così tante
le mie
lentiggini.- Bofonchiai poggiando la testa sulla spalla del mio
migliore amico.
-Se prendi una penna e provi ad unire tutte le lentiggini, crei uno di
quei
giochetti della settimana enigmistica!- Disse Gianluca, facendo
scoppiare tutti
a ridere. Spalancai la bocca sorpresa, saltando poi su Gianluca e
cominciando a
dargli piccoli pugnetti sul petto. Sfortunatamente stando a cavalcioni
su di
lui, fui molto facile da ribaltare e caddi precisamente e non
esattamente con
leggerezza addosso ad Emanuele che invece di scostarmi passò
delicatamente il
suo dito sul mio viso. Lo guardai stupita da quel gesto così
pubblico e così
dolce.. Ma mi dovetti prontamente ricredere delle sue intenzioni.
-Hai proprio ragione, Gian.. Sarebbe da passare sul computer con lo
scanner
ed inviare alla Settimana Enigmistica.- Mi alzai e mettendo le mani sui
fianchi
sbuffai, cercando di assumere una presenza autoritaria. Ma tutti
scoppiarono
nuovamente ed inevitabilmente a ridere.
Probabilmente
al destino non ispiravo simpatia, visto che nel momento in
cui ci sedemmo nell’ampia auto del padre di Sara, capitai
proprio vicino a
Emanuele. L’auto che la famiglia Rossetti utilizzava per i
viaggi era una di
quelle che contenevano fino a nove persone e cui sedili erano disposti
a due
per due e davanti vi era il posto per il conduecente ed altre due
persone. Sara
si sedette avanti con la madre ed il padre, Gianluca si
precipitò a prendere
posto vicino a Federico e, bell’amico, mi lasciò
con Emanuele. Ci sedemmo nella
penultima fila, buttando tutti gli zaini nell’ultima e
desiderai essere in
qualsiasi altro posto al mondo, pur di non provare
quell’imbarazzo. Restai in
silenzio guardando fuori dal finestrino finché non furono
caricate tutte le
valigie e non fummo pronti per partire. Non appena la macchina si
mosse, chiusi
gli occhi e poggiai la testa contro il sedile: non volevo dormire,
anche perché
se mi fossi addormentata come l’ultima volta vicino ad
Emanuele, i miei neuroni
si sarebbero fusi. Non potevo negare il piacevole ricordo delle sue
braccia
intorno a me che mi cullavano con dolcezza nel sonno, ma non potevo
neanche
permettermi di rivivere quei momenti con la consapevolezza che lui
forse
sapeva, che lui forse aveva sentito il mio monologo
all’ospedale. Lo sentii
muoversi accanto a me ed aprendo gli occhi mi girai, guardandolo mentre
si
toglieva il giubbotto, buttandolo sui sedili dietro. Lo imitai e con un
sorriso
gli passai il mio cappotto affinché lo poggiasse dietro. Il
silenzio regnava
sovrano, mentre davanti a noi Federico e Gianluca parlavano senza fare
alcuna
sosta, noi ci limitavamo a sguardi e sorrisi che con la loro
dannatà ambiguità
rischiavano di farmi impazzire. Emanuele mi porse una cuffietta del suo
iPod ed
io la presi, mormorando un “grazie” ed immergendomi
nei pensieri accompagnata
anche da quel sottofondo musicale.. Una cosa che avevo in comune con
quel
ragazzo c’era: i gusti musicali. Ricordavo ancora e non senza
un sorriso, il
bigliettino che mi aveva lasciato nel diario il giorno dello scambio,
dove
lodava le mie preferenze in fatto di musica. Tenendo il tempo con un
dito, mi
lasciai incantare dalla strada che scorreva alla mia sinistra, con la
fronte
poggiata contro il finestrino.
Arrivammo
a Rivisondoli, la cittadina affianco a Roccaraso dove aveva casa
la famiglia Rossetti, verso le sette e mezza di sera e dopo aver
scaricato le
valigie ci sistemammo nella casa. Questa era un appartamento a due
piani
situato nel centro della piccola città, completamente in
legno conservava
quella magnifica aria invernale, che ti faceva proprio intendere che
eri
arrivato in una località sciistica. Ci sistemammo nelle
nostre stanze: io con
Sara, mentre i tre ragazzi condividevano la stanza degli ospiti.
Cenammo
velocemente con ciò che Alba aveva portato da casa e poi
salimmo a cambiarci
per uscire la sera. Non avevamo intenzione di andare per locali,
discoteche, in
quanto la mattina dopo ci aspettava una sveglia alle sette, quindi
optai per
dei jeans, gli stivali marroni con il tacco, un maglione bianco un
po’ lungo ed
il giubbotto marrone nella Museum. Ero pronta anche per andare al polo
nord, in
quel modo. Aspettai che Sara finisse di truccarsi e scendemmo al piano
di sotto
dove i tre ragazzi ci stavano aspettando non senza fare un
po’ di sano baccano.
-Le principesse ce l’hanno fatta!- Disse Gianluca
applaudendo, beffardo.
Gli feci la linguaccia, spostando poi lo sguardo su Emanuele che, tanto
per
confondermi ancora di più, mi guardava in una maniera
strana, quasi a volermi
fare una radiografia. Mi limitai a sorridergli, mentre Sara
approfittando
dell’assenza dei genitori, si era già allegramente
buttata fra le braccia di
Federico.
-Cosa facciamo?- Domandai, voltandomi verso Sara che velocemente si
ricompose, restando mano nella mano con Federico, sorridente come non
mai.
-Andiamo ad un pub irlandese che sta qua dietro casa e poi possiamo
andare
alla pineta che sta lì davanti.. Stiamo un po’ ai
tavolini a non fare nulla e
torniamo a casa.- Propose con una scrollata di spalle. –Poi
domani andiamo ad
una discoteca che sta ad una ventina di minuti da qui a piedi.-
Aggiunse
tranquilla.
-Per me va bene.- Disse Emanuele, allacciandosi il giubbotto e
sistemandosi
la sciarpa. –Usciamo ora però che sennò
muoriamo di caldo.- Lo seguimmo
chiaccherando, ci fermammo sul pianerottolo ad aspettare che Sara
chiudesse la
porta a chiave, visto che i genitori erano andati a farsi un giro per
la città,
ed uscimmo in strada.
-Ho proprio voglia di una Guinness!- Esordì Emanuele,
camminando affianco a
me e Gianluca.
-Io mi prendere un bel Jack Daniel’s..- Commentò
quest’ultimo, guardandomi
poi. –E tu?- Guardai avanti, vedendo che Sara e Federico si
erano abbastanza
allontanati da noi e poi dissi a voce bassa.
-Ma avete ancora voglia di bere dopo ciò che è
successo?- Non ci avevo ancora
mai pensato neanche io, in realtà, non sapevo come
comportarmi con l’alcol
davanti a Sara. Eppure era lei che ci stava conducendo ad un pub,
sapeva che
noi non volevamo smettere di bere, a differenza sua che si era
dichiarata
ufficialmente astemia.
-Una birra o un Jack Daniel’s non ti fanno nulla.. Non
abbiamo mica voglia
di ubriacarci.- Disse tranquillamente Emanuele, guardandomi negli
occhi.
–L’esperienza di Sara ci serva per il futuro, per
non alzare troppo il gomito.-
Annuii, non so se rapita dalle sue parole o dal suo sguardo, dai suoi
occhi.
Deglutii, guardando poi la strada davanti a me.
-Io un Bayley’s non lo rifiuterei.- Dissi cercando di fare la
vaga. Certo
che faceva un freddo! Eravamo agli inizi di febbraio, nel pieno della
stagione
sciistica, ed uscivamo tranquillamente a farci passeggiate per
Rivisondoli..
con l’intenzione di andare in una pineta, poi! Solo Benassi e
Sara potevano
essere d’accordo su un programma serale di quel genere.
-Eccoci!- Federico alzò un braccio, circa venti metri
davanti a noi,
indicandoci il pub dove stavano entrando con Sara. Affrettammo
leggermente il
passo e ci ritrovammo davanti l’insegna del “Irish
Original Pub”, nel quale
entrammo tirando un sospiro di sollievo non appena il caldo del locale
ci
avvolse, come anche il vociare di tutte le persone presenti.
Ci andammo a sedere in un tavolo da sei situato in un angolo, piuttosto
riservato, e dopo esserci tolti i giubbotti, passammo ad aprire i
menù, anche
se infondo avevamo già scelto tutti cosa prendere.
-Avete scelto, ragazzi?- Ci voltammo tutti insieme a guardare la
cameriera
e notai come a Gianluca ed Emanuele cadeva la mandibola, mentre
Federico si
tratteneva dal fare la stessa fine. La ragazza che era venuta a
prendere le
ordinazioni era la copia di Angelina Jolie, ma della nostra
età. Lunghi capelli
neri, un po’ mossi, grandi occhi marroni, il viso tondo, le
labbra carnose. Non
potei non posare lo sguardo su Emanuele e provare un sentimento a me
completamente nuovo: la gelosia. La guardava come si guarda una
divinità,
pendendo completamente dalle sue labbra. Gianluca si schiarì
la voce e le
sorrise.
-Io prendo un Jack Daniel’s.- La cameriera
ricambiò il suo sorrise mentre
appuntava sul taccuino, spostando poi lo sguardo su Emanuele.
-Io una Guinness media.- Lo sguardo che la ragazza gli
riservò fu così
chiaro che non ci serviva un intenditore dei comportamenti umani per
capire che
era sinceramente interessata a lui. Mentre scriveva l’ordine,
lo guardava di
tanto in tanto e lui ricambiava, felice, soddisfatta.
-Un Baileys’ con ghiaccio.- Ordinai secca io, senza neanche
guardarla,
troppo impegnata a fare i conti con quella dannata gelosia che si era
insinuata
velocemente dentro me. Non udii neanche le ordinazioni di Federico e
Sara,
troppo impegnata a decifrare gli sguardi che Emanuele e la ragazza si
stavano
lanciando.
-Torno subito!- Ci disse infine con un largo sorriso, allontanandosi.
Gianluca ed Emanuele si buttarono subito a commentare la ragazza.
-Cioé ma l’hai vista?- Certe volte mi chiedevo
cosa avessero messo nel
cervello di Gianluca: un cervello o mangime per galline. Diamine, era
il mio
migliore amico, perfettamente a conoscenza della mia sbandata per
Emanuele
Benassi e cosa faceva? Lo incitava a chiederle il numero? Lo incitava
ad andare
a parlare? Ovviamente.. “una figa del genere non si
può lasciar perdere così!”.
Scossi la testa sconsolata guardandomi poi le unghie.
-Ma la volete smettere? Siete proprio dei disperati!- Sbottò
Sara dopo
avermi lanciato un’occhiata ed aver capito che dietro il mio
falsissimo sorriso
si celava un sentimento ben più forte e doloroso.
-In tempi di carestia ogni buca è galleria!- Disse Gianluca
scrollando le
spalle. Ringraziai Dio che stesse seduto proprio davanti a me. Gli
diedi un
calcio su uno stinco che sperai vivamente ricordasse per il resto della
vita.
Mi guardò ed ammutolì, capendo che se avesse
anche cominciato a lamentarsi,
avrebbe avuto il bis.
-Eccomi qui!- L’odiosa voce della cameriera ci fece
nuovamente voltare
tutti di scatto. Ma a guardarla ormai restò solamente
Emanuele. Gianluca
fissava il tavolo, io guardavo Emanuele pendere dalle labbra della
ragazza e
Sara e Federico semplicemente chiaccheravano fra di loro. –La
coca-cola?-
Domandò e quando Sara alzò la mano, gliela porse
con gentilezza. –Il rum e pera?-
Lo passò a Federico. –Il Baileys’?-
Alzai la mano evitando di guardarla negli
occhi, e presi fra le mani il bicchiere, mormorando un
“grazie”. –Il Jack
Daniel’s è per te..- Gianluca finalmente si
disincantò dal cercare un non so
che nel tavolo e la guardò. –E la Guinness
invece ricordo perfettamente che è per te.-
Casualmente si ricordava perfettamente proprio
dell’ordinazione di Emanuele. Ma
chissà perché!
Si allontanò infine con
un ampio sorriso e mentre guardavo Emanuele seguirla con lo sguardo mi
diedi
una piccola botta in testa. Dannazione, ero così gelosa? Al
punto da fissarlo
mentre guardava un’altra? No, non se ne parlava.. Dovevo
cambiare assolutamente
atteggiamento visto che quello che avevo stava diventando ridicolo. Non
poteva
piacermi un ragazzo fino a quel punto.. Un ragazzo che non ci pensava
nemmeno a
me, che aveva la testa altrove. Sconsolata fissai il mio
Bailey’s e portai il
bicchiere alle labbra, mandando giù un sorso.
-Domani dobbiamo assolutamente fare la Direttissima!-
Quando
riuscii finalmente a tornare a seguire i discorsi dei miei amici,
sentii Sara
parlare entusiasta delle discese che avremmo dovuto fare il giorno
dopo. –Vero
che è fantastica, Ginni?- Alzai lo sguardo e la guardai,
guardando poi gli
altri che mi fissavano. Annuii, poggiando il bicchiere sul tavolo.
-E’ fantastica.. Pura adrenalina.- Commentai cercando di
metterci tutta
l’euforia che potevo. –Anche se quando è
ghiacciata non è il massimo per lo
snowboard.-
-Anche tu fai snow?- Mi domandò Emanuele. Lo guardai e
mormorai un “sì”.
–Allora non sono l’unico.. Questi fanno tutti sci.-
Sorrise, lanciando poi
un’occhiata agli altri.
-Non capiscono le emozioni che ti può dare una discesa sullo
snowboard.-
Dissi semplicemente, sentendomi a mio agio visto che si parlava di un
argomento
a me caro.
-Il vento sul viso, le curve mozzafiato, l’adrenalina..-
Emanuele mi
parlava con quell’aria sognante caratteristica dei bambini
che amano molto
qualcosa e si trovano a parlarne con gli altri. Lo guardavo
così perso nella
propria passione, nei proprio discorsi, che non sentii neanche una
parola delle
molteplici che mi aveva rivolto, limitandomi ad annuire.
–Domani ci divertiamo
io e te.- Il suo discorso si concluse con quella frase. Sorrisi,
passandomi una
mano fra i capelli ed aprii bocca per rispondere quando un braccio si
allungò
davanti a me posando qualcosa sul tavolo. Alzai lo sguardo ed incrociai
quello
della cameriera che aveva lasciato il conto sul tavolo, che aveva
“rubato”
tutte le attenzioni che mi aveva rivolto fino a quel momento Emanuele.
–Potete
pagare alla cassa.- E dicendo ciò si allontanò
nuovamente. I ragazzi pagarono
sia per loro che per noi, vietandoci categoricamente di tirare fuori i
portafogli ed Emanuele dopo aver racconto tutti i soldi si
alzò andando alla
cassa, dicendoci di aspettarlo fuori. Mentre uscivamo non potei non
notare che
stava chiaccherando con la cameriera, ridevano, scherzavano.. Avevano
entrambi
colto l’attimo. Evviva il Carpe Diem!
-Dov’è la pineta?- Chiesi a Sara mentre mi
accendevo una sigaretta. Lei la
indicò: si trovava proprio davanti al pub. –E cosa
facciamo lì oltre al morire
dal freddo?- Lei sorrise e tirò fuori dalla borsa una
bottiglia vuota.
-Il gioco della bottiglia!- Sorrise maliziosa lanciando
un’occhiata a
Federico.
-Il gioco della bottiglia?- Ripetei perplessa. Loro annuirono
soddisfatti e
nel frattempo Emanuele uscì dal pub, dando una pacca sulla
spalla di Gianluca.
-Giulia mi ha lasciato il numero.. Ha detto che domani sera ci
becchiamo in
discoteca!- Eccitato come un bambino di due anni che gioca con il
proprio
action-man, Emanuele annunciò al mondo la propria conquista.
–Adesso possiamo
andare. Qualcuno ha parlato del gioco della bottiglia?-
Il
gioco della bottiglia è probabilmente il metodo
più semplice ed efficace
per arrossire davanti al ragazzo che segretamente ti piace. Seduti ad
un tavolo
nella pineta ci guardavamo negli occhi mentre la bottiglia era immobile
al
centro, pronta per essere girata.
-Credo che noi tutti conosciamo le regole o sbaglio?-
Domandò Sara mentre
passava un dito sul collo vitreo della bottiglia.
-Anche il mio cane sa le regole!- Sbottò Emanuele, aprendosi
poi in un
sorriso.
-Meno male che non è stupido come te Luis..-
Commentò a bassavoce Federico,
ridacchiando. Sara alzò le mani per calmare i due amici che
erano pronti ad
affrontarsi in una gara di insulti e si schiarì la voce.
-Allora cominciamo con il gioco!- Annunciò Sara mentre gli
sguardi di tutti
si posavano sulla bottiglia e la tensione saliva leggermente. Sara ci
guardò
con uno strano luccichìo negli occhi, facendo infine girare
la famosa bottiglia
che si fermò su Federico.
-Presumo che le opzioni siano: bacio se esce una ragazza e schiaffo se
esce
un ragazzo. Giusto?- Domandò sorridendo. Annuimmo tutti e
Federico allora girò
la bottiglia, per trovare la persona da schiaffeggiare o da baciare.
–Sara!-
Esultò felice, girandosi poi verso di lei. Li guardai con un
sorriso mentre lui
prendendole il viso fra le mani, la baciava con dolcezza, non
limitandosi al
bacio a stampo previsto.
-Ho detto bacio non “fare un bambino”!- Rise
Gianluca mentre dava una
spintarella a Federico, in modo da farli allontanare. Sorrisero
entrambi e Sara
prese la bottiglia, facendola girare.
-Un bacio a Gianluca!- Disse con un sorriso quando la bottiglia si
fermò
puntando il ragazzo.
-Hey e se io non volessi?- Borbottò Federico fintamente
offeso. Sara gli
stampò un dolce bacio sulle labbra, andando poi da Gianluca.
Lo baciò, dandogli
poi uno schiaffo leggero. Sorrise e tornò da Federico e
prese la sua mano. Il
mio cuore batteva forte, incredibilmente forte. Emanuele mi guardava di
tanto
in tanto ed io avevo quell’inevitabile sensazione che sarebbe
capitato anche a
me di doverlo baciare. Ed il sesto senso non sbaglia mai..
-Uno schiaffo ad Emanuele! Finalmente!- L’esultanza di
Gianluca mi fece
svegliare di colpo dai miei sogni ad occhi aperti. Vidi come Gianluca
dava uno
schiaffo non esageratamente forte ad Emanuele che rideva, afferrando
poi la
bottiglia.
-Posso usarla per dartela in testa?- Domandò a Gianluca che
scosse la testa,
allontanandolo. –Ok, ok.. Giriamola.- La girò con
forza e con lo sguardo seguii
ogni singolo giro. Il tempo sembrò andare molto
più piano ed ogni volta che
passava accanto a me, non respiravo, finché non passava
oltre. Alla fine
rallentò bruscamente e sembrò fermarsi su
Gianluca ma continuò ancora, puntando
me. Alzai lo sguardo, incrociando il suo che beffardo mi guardava. In
quel
momento mi sentii come una bambina di cinque anni: mi sarebbe piaciuto
scuotere
la testa, dire che non volevo, dire che mi vergognavo e che mi tiravo
fuori da
quella storia.. Eppure avevo diciassette anni e non potevo
più godere di quei
privilegi infantili, perché usufruirne avrebbe voluto
ammettere il fatto che
ero innamorata di Emanuele Benassi.
-Bacio! Bacio! Bacio!- Intonò Sara battendo le mani.
Emanuele si alzò
sorridendo, avvicinandosi. Mi guardò tranquillo mentre
posava le mani sulle mie
goti che stavano bollendo, giovando del buio che nascondevano il mio
rossore.
Si chinò sul mio viso guardandomi negli occhi, per poi
chiuderli e posare le
sue labbra con dolcezza sulle mie. Fu uno stupido, breve bacio a
stampo, ma per
me durò mesi, anni, e mi fece rabbrividire con forza. Quando
si allontanò,
rompendo quell’incantesimo, aprii gli occhi e lo guardai,
deglutendo. Mi sorrise
mentre si allontanava, sedendosi nuovamente davanti a me e passandomi
la
bottiglia. Cercai di ricompormi mentre la posavo sul tavolo e la facevo
girare,
mentre tutto dentro di me in realtà tremava.
-Un bacio a Federico!- Disse Gianluca battendo le mani. Mi alzai quasi
meccanicamente, lanciando un’occhiata a Sara che non si
toglieva un sorriso
ebete dalle labbra dopo il mio bacio con Emanuele, e mi avvicinai a
Federico,
baciandolo poi senza sentimento, senza alcuna emozione.. Come avrei
baciato
Gianluca, come avrei baciato mia madre.. E non riuscii a non pensare al
dolce
contatto con le labbra di Emanuele, al delicato tocco delle sue dita
sulla mia
pelle, al suo sorriso. Mi ritrovai a fantasticare su noi due insieme,
al poter
godere di quei suoi baci in ogni momento, senza vergogna, senza la
necessità di
avere mille lentiggini per nascondere il rossore delle mie guance. Mi
ritrovai
a pensare a noi due e a nessun altro e mentre mi sedevo, portando una
mano fra
i miei capelli, guardai Emanuele che ricambiava il mio sguardo e mi
chiesi se
fossi realmente innamorata di lui o era una di quelle cotte che ti
vengono
quando vuoi follemente qualcuno che non puoi ottenere. Sì,
perché ne ero
convinta, testarda come ero. Lui voleva Giulia, quella cameriera
dell’Irish Pub,
non voleva me. E contemporaneamente non riuscivo a spiegarmi la
dolcezza dei
suoi movimenti, di quel bacio.. Giunsi alla razionale conclusione che
probabilmente dovevo smetterla di guardare film d’amore,
visto che mi stavo
immaginando tutto, ma dedussi anche che il ricordo delle sue labbra
sulle mie
non sarei mai riuscita a dimenticarlo, malgrado per lui fosse stato un
bacio
uguale a quello che io avevo dato a Federico: spassionato, fraterno.
(Dal
23 al 30
Agosto sarò in
viaggio.. Quindi, in caso non riesca a postare domani,
posterò il 31.. mi
scuserete per l’attesa spero!:D)
Ecco il quinto capitolo! Che dire.. Era un capitolo necessario per far
delineare tutto il resto della storia. Vi dico solamente di stare bene
attenti
alla figura di Giulia, la cameriera, che non è stata
introdotta così a caso ;)!
Inoltre vi annuncio che per il prossimo (e vero, magari :P) bacio fra i
due
dovrete ancora aspettare un pochettino..ma che ne varrà la
pena, visto che ho
avuto un colpo di genio! Vi lascio con queste due piccolissime
anticipazioni e
passo ai saluti!
Ombrosa: Oddio,
quando
ho visto
la tua recensione ho spalancato gli occhi. Non ne ho mai ricevute di
così
lunghe J!
C’è da dire che il
mio desiderio, dall’inizio della storia, era di distinguere i
miei personaggi
da quelli che ultimamente incrocio spesso: la sfigata che si innamora
del
figo.. Oppure i classici battibecchi! Quindi ho cercato di creare dei
personaggi con dei caratteri variopinti, differenti fra di loro, ognuno
rappresentante di una parte della popolazione studentesca che si
incontra di
solito. Ginni me la immagino come una ragazza abbastanza popolare,
certo, ma
non per la sua bellezza o per i suoi soldi. E’ indubbiamente
molto carina
nell’aspetto, ma è conosciuta per il carattere,
per il ruolo che ricopre di
rappresentante e per i suoi capelli rossi. Mentre Emanuele è
bello, ma non
popolare. Vive in un suo mondo, con dei suoi amici, e sembra (come
anche
Federico) qualcosa che non è a causa del suo alienarsi
dall’ “Umberto Eco”.
Gianluca diciamo che è il classico “bello e
stronzo” visto però da un’altra
luce: un ottimo, sincero amico che farebbe di tutto per le sue migliori
amiche.
Federico è, come hai detto tu, una persona
dall’animo buono, che subisce l’ira
di Ginni appunto a causa della maschera che lui inconsciamente porta..
Lui non
si crede né irraggiungibile, né “off
limits”, né tutto ciò che sembra a
prima
vista: è una persona tranquilla che semplicemente non sente
la necessità di
avere troppi amici, accontentandosi di quei pochi ma veri che ha:
Emanuele..e
poi Gianluca, la stessa Ginevra e Sara, con la quale stringe qualcosa
di più
forte di un’amicizia. Sara invece è un personaggio
che pian piano delineerò
sicuramente meglio, ma lei è allo stesso livello di Ginevra,
come “popolarità”,
ma decisamente più ingenua.. Ma resta una formidabile amica
che non tradirebbe
mai né Ginni né Gianluca. Grazie mille per il tuo
commento, in sintesi xD!
Spero di leggere altre tue recensioni!
Swetlove: Tu
sei da
mettere in
cima alle persone da ringraziare! Segui questa storia
dall’inizio ed ogni volta
mi lasci una recensione, facendomi felcissima. Anche io adoro questo
capitolo,
guarda, proprio perché è pieno di emozioni
dall’inizio, alla fine, e quella
frase conclusiva.. beh, è alla chiave di tutto
l’intreccio :D
Sonietta: Wa
anche io
amo
Emanuele! Non si sbilancia mai troppo.. Alle volte le fa credere
chissà cosa,
altre volte la evita.. J Poi dopo che
avrai
letto questo capitolo (ed anche i due seguenti), avrai ancora
più dubbi
riguardo a lui, credimi.. Ma non farmi sbilanciare con le
anticipazioni! Grazie
per la recensione, spero continuerai a seguire la FF!
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Capitolo 6 *** Punto di Rottura ***
Capitolo
Sesto: Punto
di Rottura
Dopo aver acquistato gli skipass e noleggiato gli sci e le tavole da
snowboard,
io, Sara, Emanuele, Gianluca e Federico, stavamo sull’ovovia
che ci avrebbe
portati in cima alla montagna. Io stavo accando ad Emanuele,
guardandolo di
tanto in tanto, mentre gli altri parlavano di uno strano film che
avevamo visto
la sera prima quando eravamo tornati a casa.
-E quel coniglio cosa c’entrava?- Domandò Sara,
che ancora non riusciva ad
individuare il senso di quelle due ore e mezza di film, malgrado glielo
avessimo spiegato in tutti i modi possibili almeno cento volte.
-Niente, Sara, nienta..- Disse un Federico ormai scoraggiato. Lei mise
su il
broncio, incrociando le braccia al petto e sbuffando. Federico le
sorrise,
chinandosi poi a baciarla con dolcezza. –Te lo spiego
più tardi, ok?- Lei annuì
e lui le passò delicatamente una mano sul viso. Sorrisi a
tutta quella
dolcezza, posando poi lo sguardo su Gianluca ed Emanuele che stavano
confabulando qualcosa cercando di non farsi sentire.
-Di che parlate?- Domandai senza nascondere la mia
curiosità. Loro due mi
guardarono, senza togliersi un bellissimo sorriso dalle labbra.
-Della tua bellezza mozzafiato, Ginni.- Disse Emanuele, languidamente.
No, non
doveva fare così, dannazione! Minava
all’integrità della mia sanità mentale!
-Non fare il ruffiano.- Gli feci la linguaccia, togliendo nel frattempo
un po’
di neve dalla mia tavola.
L’ovovia arrivò a
destinazione e scendemmo dalla cabina,
inspirando poi a pieni polmoni quell’aria fresca,
dannatamente fredda,
caratteristica dell’altitudine. Chiusi gli occhi,
soddisfatta, e quando li
riaprii mi trovai costretta ad inseguire i miei carissimi amici che si
erano
già allontanati, tutti allegri ed in preda alle chiacchere.
Mi sedetti affianco
ad Emanuele, cominciando a sistemare gli attacchi dello snowboard. Dopo
averli
stretti adeguatamente mi alzai in piedi, affiancata ad Emanuele e dopo
essermi
scambiata proprio con quest’ultimo un’occhiata
complice, ci buttammo in quella
discesa, insieme.
Ecco, le emozioni che si provano quando cominci una pista sullo
snowboard sono
indescrivibili ed inimitabili..Per provarle bisogna semplicemente
armarsi di
coraggio ed imparare a maneggiare uno snowboard. Il vento si incontrava
con
dolcezza con la pelle del mio viso ed ogni volta che molleggiavo sulle
ginocchia per fare una curva, mi veniva di intonare una di quelle
canzoni con
un ritmo deciso e cantarla a tutta voce. Guardai Emanuele che si
muoveva
espertamente poco davanti a me. Fece un leggero trick, fermandosi poi
ad
aspettarmi e quando lo raggiunsi gli sorrisi, tranquilla, felice:
finalmente
nel mio posto naturale, finalmente in pace con me stessa, felice.
A
mio parere, quando si
è in montagna, non c’è nulla di
migliore del pranzo alla baita: lasciare gli
sci, la tavola e tutte le fatiche della prima metà della
giornata sciistica ed
abbandonarsi ad un ipercalorico panino con la salsiccia e delle
patatine
fritte.
Noi cinque eravamo pienamente impegnati in
quell’attività, stando seduti su
delle sdraio a prendere il sole. Addentai con gusto il mio panino,
tenendo gli
occhi chiusi a causa del sole che batteva talmente forte che non
sembrava
essere in pieno inverno.
-Io e Gianluca abbiamo una proposta!- Annunciò Emanuele
soddisfatto. Tutti ci
girammo con un’espressione che poteva essere definita
solamente come
preoccupata. Quei due avevano particolarmente legato ed una cosa che li
caratterizzava era indubbiamente il fatto di progettare scherzi, uscite
esilaranti e fuori dal comune. –Non vogliamo proporvi di
scalare l’Everest,
tranquilli!- Disse alzando le mani, arrendendosi davanti a noi.
-E nemmeno il K2 spero!- Commentò Federico ridacchiando,
mentre Gianluca faceva
il verso della sua risata, facendola concludere con un
“no”.
-Siccome Sara e Ginni portano lo stesso numero di scarpe.. Ed anche
io,Federico
e Gianluca, avevamo intenzione di fare uno.. scambio.-
Spiegò Emanuele, con un
sorriso disteso.
-Sci per Snowboard!- Completò soddisfatto Gianluca, mentre
noi ci scambiavano
delle occhiate contemporaneamente preoccupate ed interessate.
-Noi ragazzi facciamo a giro, visto che siamo dispari..Ma comunque la
cosa è
fattibile. In più c’è questa pista che
saprebbero fare anche bambini di due
anni a nostra disposizione.- Emanuele e Gianluca erano eccitati come
non mai,
certo che si divertivano con poco.
-Se mi rompo l’osso del collo sullo snowboard è
colpa tua eh!- Ammonì Sara a
Emanuele con un sorrisetto.
-Guarda che rischio come te di farmi male sugli sci.. devo ancora
capire come
diamine fate ad andare su quei cosi, con le gambe staccate..-
Borbottò Emanuele
mentre beveva la sua Coca-Cola.
-Ma che dici! La tavola è il mistero irresolvibile!- Disse
Gianluca, mentre
Federico alle sue spalle annuiva. –Come fai ad andare sullo
snowboard, con le
gambe incollate, e la possibilità di muoverti solamente
grazie al bacino, le
braccia..-
-Veramente ti muovi grazie al movimento delle ginocchia, anche.-
Precisai,
facendo la linguaccia a Gianluca. Emanuele passò un braccio
intorno alle mie
spalle, abbracciandomi in quel modo strano, da seduto.
-Una che finalmente mi capisce!- Esultò soddisfatto.
-Avete venduto l’anima al diavolo voi due, ecco cosa avete
fatto!- Disse
Gianluca, finendo nel frattempo il panino ed accartocciando la carta,
buttandola nel cestino che stava vicino a noi.
-Almeno andrò all’inferno in buona compagnia!-
Dichiarò Emanuele, ancora
abbracciandomi.
Quando tutti ebbero terminato il proprio meritato pranzo, fumato una
sigaretta
e riso a dovere, ci alzammo, pronti ad affrontare quella nuova
avventura programmata
da Emanuele e Gianluca.
Dopo
molti, forse troppi tentativi, riuscii finalmente a far scivolare il
mio piede
nello scarpone da sci. Federico esultò, alzando i pugni al
cielo e Sara batté
le mani soddisfatta. Io tirai un sospiro di sollievo, molto
semplicemente. Non
avevo ancora mai affrontato una fatica del genere, abituata
com’ero ai comodi e
morbidi scarponi da snowboard che si infilavano senza esagerate
difficoltà. Mi
voltai a guardare Emanuele e Gianluca, impegnati nella stessa impresa,
e ridacchiai.
Emanuele si voltò e ricambiò il mio sorriso,
facendomi poi l’occhiolino.
-Ahi! Così mi blocchi la circolazione!- Urlai, dando uno
schiaffetto sulla mano
di Federico, che strizzò gli occhi, prendendo
l’altro scarpone.
-E’ necessario se non vuoi ruzzolare giù dalla
montagna con le gambe rotte.-
Disse, mentre Sara gli dava una leggera gomitata.
-Non la spaventare dai..- Disse con un ampio sorriso guardano un
po’ me ed un
po’ lui.
-Oddio devo infilare anche il secondo scarpone?- Dissi leggermente
impaurita,
fissando lo scarpone rosso fiammante che Sara aveva noleggiato,
decisamente
riluttante.
-Vuoi andare con uno solo sci?- Domandò Federico, inarcando
un sopracciglio. Io
scossi la testa mentre lui pazientemente aiutava il mio piede ad
infilarsi in
quella robaccia che non era uno scarpone, no, era un avvoltoio affamato
della
sanità del mio piede! Strinsi i denti, spingendo la punta
del mio piede dentro
lo scarpone con tutte le mie forze. Quando finalmente
scivolò dentro, scatenai
una reazione uguale a quella precedente, alla quale però
parteciparono anche
Emanuele e Gianluca, che ci avevano raggiunti.
-Voi siete matti comunque ad andare in giro con queste trappole ai
piedi.-
Commentò Emanuele, fissandosi i piedi disgustato.
-Devo ammettere che gli scarponi da snowboard sono più
carini.- Ammise Sara
guardandosi i piedi.
-Hey, non mi plagiare la ragazza!- Sbottò Federico. Ci
voltammo tutti a
guardarlo incuriositi: aveva definito Sara la sua
“ragazza”. Un sorriso si
delineò sulle nostre labbra, mentre Sara arrossiva, finendo
di allacciarmi lo
scarpone.
-La tua dolce metà dopo quest’esperienza si
convertirà alla cultura dello
snowboard!- Ridacchiò Emanuele, porgendomi poi la mano per
aiutarmi ad alzarmi.
La strinsi con forza, mettendomi poi in piedi e cominciando a camminare
in quel
modo strano in cui camminano gli sciatori quando indossano gli
scarponi.
-Ed ora?- Domandammo all’unisono io e Sara, io guardando gli
sci e lei lo
snowboard. Gianluca, che per il momento non partecipava a quel
divertente
scambio, sorrise, preparandosi a continuare la spiegazione della
deviazione
della sua mente e di quella di Emanuele, ovvero di ciò che
dovevamo fare.
-Adesso ognuno prende il suo mezzo di trasporto, se lo carica in
spalla, e sale
un po’ di quella salita. Poi tenta a mettersi in piedi e
scendere.- Parlò con
tanta calma e chiarezza che mi venne voglia di tirargli un pugno sul
naso.
-Devo portarmi questi cosi dietro?- Domandai accigliata inarcando le
sopracciglia. Ecco perché preferire mille volte lo snowboard
agli sci, dannazione!
Lui annuì, indicandomi poi la salita che dovevo incominciare
ad affrontare.
Lasciai che i lineamenti del mio viso si piegassero in una smorfia ed
incominciai a camminare, pesantemente, con Emanuele al mio fianco che
sbuffava.
-Cosa sbuffi tu! L’idea è tua!- Ridacchiai,
dandogli una leggera spintarella.
-Non pensavo comprendesse il dover trascinare gli sci.- Disse a denti
stretti,
trattenendo a stento una risata. Scossi la testa, facendo altri dieci
passi per
poi buttare gli sci sulla neve e metterli paralleli, come mi aveva
accuratamente spiegato Sara. Miracolosamente riuscii ad incastrare gli
scarponi
negli sci al primo tentativo, come Emanuele, e dopo averli messi,
prendemmo le
bacchette e lanciammo un’occhiata a Sara e Federico che si
stavano allacciando
gli scarponi, ridendo.
-E dopo ciò?- Urlai. Sara alzò lo sguardo,
sorridente come non mai.
-Per girare devi fare lo spazzaneve.. Scava nei ricordi della tua
infanzia.-
Storsi il naso alla sola idea di ricordare le mie esperienze sugli sci
di
quando avevo sette anni. Avevo visto e rivisto i video fatti da mia
madre e
quello che mi era rimasto impresso era quando, scendendo da una
discesa, avevo
preso una pietra ed ero cascata, facendomi di faccia circa venti metri.
Mi
faceva male tutto al solo pensiero.
-Lentiggini, ti vuoi muovere?- Alzai lo sguardo e vidi Emanuele che
tranquillamente girava.
-Ma tu sei un imbroglione!- Sollevai la bacchetta nel tentativo di fare
un
gesto minaccioso. Sapeva sciare quel deficiente! Ridussi gli occhi a
due
fessure, mentre dandomi una leggera spinta con le bacchette cominciavo
a
muovermi.
-Lentiggini no..no..- Avevo compiuto un grandissimo errore.
Secondo le
leggi più elementari della fisica, se un corpo si trova in
discesa, scende più
velocemente e pericolosamente di un corpo che scende in parallelo con
una
leggera inclinazione. Indovinate? Come una stupida mi ero messa con il
volto
bello che diretto a valle e gli sci, su quella piccolissima discesa,
stavano
cominciando a prendere una minima velocità. Cercai di
svoltare a sinistra,
accennando uno spazzaneve, ma tutto ciò che accadde fu ben
differente dalla
semplice caduta che mi sarei aspettata.
Nel momento in cui svoltai a sinistra, il mio sci si andò ad
infilare
perfettamente in mezzo a quelli di Emanuele. Istintivamente mi
aggrappai al suo
busto con tutte le mie forze, mentre cadevano entrambi a terra
cominciando a
rotolare nella neve. Le sue braccia mi strinsero forti al suo petto
mentre
sentivo gli sci staccarsi dai miei piedi e la neve infilarsi dentro la
mia tuta
ed entrare nella mia bocca.
Cinque secondi dopo eravamo fermi. Aprii timorosa gli occhi
ritrovandomi sopra
ad Emanuele Benassi che mi guardava tranquillo, con un sorriso sulle
labbra.
Ero talmente vicina a lui che sentivo il suo respiro infrangersi con
dolcezza
sul mio viso e le punte dei nostri nasi si sfioravano leggermente.
-Tutto apposto, Lentiggini?- Domandò ridacchiando. Io,
completamente persa nel
castano dei suoi occhi, nella dolcezza del suo sorriso, riuscii a
malapena ad
annuire, sperando di non svenire così fra le sue braccia.
–Sei proprio un
disastro..- Disse scuotendo la testa mentre con una mano sistemava una
ciocca
dei miei capelli dietro le orecchie. Non si muoveva, non mi toglieva da
quella
posizione che, tutto sommato, non mi dispiaceva affatto.
-E tu giochi sporco!- Tirai uno scherzoso pugnetto sul suo petto,
sorridendo.
–Sai sciare perfettamente!-
-Mmm.. Forse ho fatto anche qualche anno di sci!- Ammise, posando
nuovamente la
sua mano sulla mia schiena. –Sei tutta piena di neve..-
Commentò a voce bassa,
quasi in un sussurro che mi fece rabbrividire con forza. Non seppi cosa
rispondere: lo guardai negli occhi senza riuscire a spiccicare parola
incantata
da quella unica, incredibile vicinanza di cuinon sarei riuscita a
godere
ancora, probabilmente. Lui schiuse le labbra, senza allontanarsi, senza
allontanarmi di un millimetro.
Boom.
Federico rotolò sopra di noi. Chiusi gli occhi sentendo il
rumore della tavola
che cadeva con forza sulla neve.
-Questa ha fatto male.- Commentai mentre scivolavo al lato di Emanuele,
passandomi una mano dietro la schiena.
-Scusate..- Mormorò Federico, prima di scoppiare a ridere,
sedendosi. Cercai di
sollevarmi e vidi Sara scivolare tranquillamente sullo snowboard: aveva
talento
la ragazza. Si avvicinò a noi, scuotendo la chioma bionda
con un largo sorriso.
-Alzatevi, sennò stasera niente Rumba Room!-
La
discoteca “Rumba Room” era situata in effetti
proprio a venti minuti a piedi
dalla casa di Sara e, quando arrivammo notammo immediatamente una lunga
fila di
persone che desideravano entrarvi. Secondo quanto ci avevano spiegato
Alba e
Franco quella era l’unica discoteca che c’era
nell’area fra Rivisondoli e
Roccaraso e di conseguenza tutta la gioventù e non che
abitava lì si riuniva il
sabato sera in quell’unico locale. Ringraziai il cielo, in
quel momento, che
Sara conoscesse tutti i PR della zona e che ci aveva fatto mettere in
lista,
evitandoci quella lunga coda, in quel modo. Facendoci spazio fra tutte
le
persone, riuscimmo miracolosamente ad arrivare all’entrata e
dopo aver preso il
braccialetto azzurro della discoteca, entrammo.
C’era da dire che quella sera ero più debilitata
del solito: Emanuele si era
messo in tiro, evidentemente, e tutte le mie sinapsi avevano smesso di
lavorare
contemporaneamente. Indossava dei jeans scuri, semplici e stretti, che
scendevano dritti fino alle converse nere basse. Ma la mia vera
debolezza che
lui aveva scoperto, era la camicia. Una semplice camicia bianca con le
righe
sottili nere, era stata in grado di annientare la mia
capacità di intendere e
di volere, abbinata quei primi bottoni slacciati e ai capelli mori
leggermente
spettinati che ricadevano morbidamente sulla sua fronte. Anche io, in
fondo, mi
ero data da fare quella sera: mi ero messa un vestito bianco, quindici
centimetri
sopra il ginocchio, con sotto delle calze marroni a bande larghe ed i
miei
stivali marroni con il tacco. La scollatura non era esagerata ma era
notevole e
giovava dello chinon in cui ero miracolosamente riuscita a raccogliere
i miei
capelli.
Non appena entrammo nel “Rumba Room”, le mie
orecchie dovettero abituarsi alla
musica alta che suonava imperterrita e all’enorme massa di
gente che era
affollata nella pista e sui balconcini. Passammo prima a lasciare le
borse ed i
cappotti, diretti poi alla pista nella speranza di riuscirci a
ritagliare un
po’ di spazio per noi.
-Ti sei ripresa dalla caduta?- Disse Emanuele, chinandosi
all’altezza del mio
orecchio in modo che lo sentissi. Mi voltai ed incrociai il suo
sguardo,
sorridendo.
-Sei molto delicato quando cadi, davvero.- Dissi ironica, ridacchiando.
Non
potevo non essere di buonumore dopo che pensavo a quella rotolata che
ci
eravamo fatti insieme. Insieme, sì, uno abbracciato
all’altro, per concludere
in bellezza, come nei film, sdraiati l’uno
sull’altro. Maledetto Federico!
Scossi la testa, guardando poi la pista e movendo qualche passo.
-Potrò mai farmi perdonare?- Fui costretta a girarmi
nuovamente, invitata dalla
sua dolce mano che si era posata sulla mia schiena. Veramente lo avevo
perdonato immediatamente, da quando mi aveva guardato in quel modo
prima che
Federico rompesse la magia, lo avevo perdonato a prescindere. Tuttavia
scollai
le spalle, guardandolo furbescamente.
-Chissà..- Dissi mantenendomi sul vago, mentre Federico,
Sara e Gianluca già
avevano cominciato a ballare. Emanuele prese la mia mano con dolcezza.
-Un ballo migliorerebbe la situazione?- Domandò mentre il
mio cuore si
scioglieva alla delicatezza del suo tocco, al ricordo delle sue mani
sulle mie
guance, del suo bacio.
-Forse.- Arrossii, distogliendo lo sguardo e puntandolo sulla nuova
conquista
di Gianluca: una ragazza un po’ bassa, coi i capelli a
caschetto castani ed un
bel fisico, anche se piuttosto minuto. Emanuele seguì il mio
sguardo e lo
sentii ridere, per poi andare in pista trascinandomi con sé.
La famosa hit di Flo-Rida suonava a tutto volume, scandendo il ritmo
dei
movimenti di tutte le persone presenti. Nel momento in cui si sentirono
le
prime note della canzone, tutti esplosero in applausa e grida di
approvazione,
buttandosi poi in massa nella pista, riducendo ulteriormente il
già poco spazio
a disposizione. Quando mi arrivò una spinta da dietro, finii
addosso ad
Emanuele, che prontamente portò una mano dietro la mia
schiena, facendo aderire
i nostri corpi. Alzai timidamente lo sguardo, incrociando il suo, e mi
chiesi
cosa diamine mi aveva spinto punto primo ad accettare quel ballo, punto
secondo
a stare così dannatamente vicina a lui. Passarono appena un
paio di secondi in
cui ci fissammo così, senza dire nulla e fare nulla, prima
che lui si
cominciasse a muovere a tempo di musica, contagiando anche il mio corpo
a
quell’ennesima tortura. Vista la posizione già
sconveniente in cui eravamo
costretti a causa del pienone del sabato sera, portai le mie braccia al
suo
collo con un’iniziale timidezza che fu immediatamente
spazzata via dal
ritornello. Non so neanche io cosa successe: magari fu la canzone che
amavo
particolarmente o i passi sicuri di Emanuele, ma ci ritrovammo a
ballare in una
maniera decisamente non adatta a due “perfetti
amici”. Le sue mani, posate sui
miei fianchi, seguivano ogni mio movimento ed io ero, stranamente,
perfettamente a mio agio, senza il minimo rossore, senza la minima
timidezza.
-You spin my head right round right round when you go down, when you go
down
down..- Lo
sentii cantare ad alta voce, mentre per l’ennesima volta i
nostri corpi
aderivano perfettamente a causa del
movimento che incrementava non appena arrivava il ritornello. Quei tre
minuti e
mezzo della durata della canzone, passarono nello stesso tempo lenti e
veloci e
quando la canzone terminò, facendone iniziare una non
esageratamente conosciuta
che fece svuotare leggermente la pista, noi restammo fermi,
imbambolati,
vicinissimi. Ci guardavamo negli occhi con un leggero sorriso sulle
labbra, come
se tutto il mondo intorno a noi si fosse fermato, lasciandoci
quell’attimo di
paradiso.
-Perdonato?- Mormorò al mio orecchio, guardandomi poi in
quel modo che mi
faceva morire.
-Mmm..- Feci finta di pensarci un attimo, arricciando sul mio dito
indice una
ciocca ribelle di capelli. -..sì, dai, sei perdonato.- Le
sue labbra si
allargarono in un sorriso e la mia gola improvvisamente si
seccò. Non c’era
assolutamente niente da fare: ero completamente andata per Emanuele
Benassi,
non c’erano storie che reggevano.. non potevo nasconderlo
neanche più a me
stessa. Certo, ero già giunta alla conclusione che mi
piaceva, anche parecchio,
ma ero sempre stata convinta del fatto che mi piacesse solo
perché non lo
potevo ottenere.. Ed invece, mi piaceva da impazzire a prescindere.
Anzi,
quando sembrava starci, quando sembrava che mi provocasse, mi piaceva
ancora di
più.
-Vado a prendermi qualcosa da bere.- Dissi, mentre bloccavo Gianluca
che
evidentemente era diretto come me al bar.
-Ci vediamo fra poco allora!- Emanuele sorrise, facendomi
l’occhiolino ed
andando a raggiungere Federico e Sara. Guardai con Gianluca e passai un
braccio
intorno la sua vita, alzando poi lo sguardo per rivolgergli un ampio
sorriso.
-Come mai siamo così felici?- Mi domandò,
scompigliandomi delicatamente i
capelli, prima di portare il proprio braccio intorno alle mie spalle.
Io mi
strinsi nelle spalle, mentre nella mia mente si era fissata
l’immagine di
Emanuele, ormai. Gianluca sorrideva a sua volta, tranquillo,
soddisfatto.
-E tu su chi hai fatto colpo?- Domandai io, prendendo la palla al balzo
per
cambiare l’argomento trattato. Come sperato Gianluca si
illuminò ulteriormente
a quello domanda.
-Si chiama Marzia, vive alla Garbatella(*) e va al “Primo
Levi”.. ha la nostra
stessa età e qui sta in casa della cugina!- Spalancai gli
occhi, mentre mi
facevo spazio per arrivare al bancone. Fortunato il ragazzo, si era
trovato una
ragazza a Rivisondoli che viveva vicino a lui. Stupefacente.
–Che spettacolo!-
Sorrisi insieme a lui, sinceramente felice per ciò che mi
aveva appena detto.
-Che vi preparo?- Il barman comparve davanti a noi, sorridendoci
cortesemente.
Mi guardò intensamente, aspettando che ordinassimo, e non
potei non notare
l’intenso azzurro dei suoi occhi. Incredibile, dovevo
smetterla di imbambolarmi
a fissare gli occhi di tutti i ragazzi decenti o carini (o magari
belli!) che
mi si presentavano!
-Per me un Negroni!- Disse Gianluca, lasciandomi ancora beare per
qualche
istante del sorriso che il barman mi rivolgeva.
-Per me un Cosmopolitan.- Dissi infine, dopo aver messo un
po’ di pace e di
ordine nel mio povero cervello. Il ragazzo ci sorrise, posando due
bicchieri
sul bancone e cominciando a preparare i nostri cocktail.
-Di dove siete?- Ci domandò poi ad un tratto, mentre
prendeva il ghiaccio.
-Roma!- Rispose prontamente Gianluca, osservando nel frattempo i
movimenti
sicuri delle sue mani.
-Si sente subito che non siete di qui.- Commentò,
rivolgendomi un ampio
sorriso. –Io sono Marco, comunque.- Si presentò,
allugando velocemente la mano per
stringere quella di Gianluca e la mia, per poi continuare con i
cocktails.
-Io sono Ginevra e lui e Gianluca.- Dissi ricambiando finalmente uno
dei
molteplici sorrisi che mi aveva indirizzato. –Tu sei di qui?-
Domandai posando
entrambi i gomiti sul bancone e sedendomi su una sediola, imitando
Gianluca.
Lui annuì, offrendoci finalmente il Negroni ed il
Cosmopolitan.
-Dell’Aquila.- Precisò, pulendosi le
mani con un asciugamano e prendendo
poi i due coupon delle consumazioni gratuite che gli stavamo porgendo.
–Io vado
a servire i prossimi. Semmai ci si rivede dopo!- Ci fece
l’occhiolino e si
avvicinò sorridente a due ragazzi che si erano avvicinati
qualche metro più in
là.
-Insomma non ci stava provando..- Disse Gianluca mentre beveva il primo
sorso
del Negroni. Io sorrisi, scrollando le spalle.
-Un po’..- Portai alle labbra il Cosmopolitan e ne assaporai
il sapore.
-Non ti dispiaceva troppo però, eh!- Mi diede una piccola
pacca sulla spalla ed
io arrossii. Certo che si notava proprio quando un ragazzo mi
interessava
almeno un po’!
-Non troppo..- Sorrisi, guardando poi tutte le persone che ci
circondavano:
coppie che si formavano e si separavano, ragazze che mandavano languidi
sguardi
ai loro amati. In discoteca si potevano ammirare le scene
più bizzare. Terminammo
i nostri cocktail in silenzio, posando poi i bicchieri vuoti sul
bancone ed
alzandoci.
-Torniamo dalla tua amata?- Dissi con un largo sorriso, cominciando a
farmi
spazio fra la folla. Gianluca, accanto a me, sorrise come quello stesso
bambino
che dopo aver giocato con il suo action-man va a giocare con la
playstation:
enormemente soddisfatto e voglioso.
-A ritrovarla fra tutta questa gente la mia amata.- Ci fermammo davanti
agli
scalini che conducevano alla pista e la perlustrammo
dall’alto.
-Eccola lì, guarda..- La indicai e mi voltai per godere del
sorriso che si
illuminò sulle sue labbra. Non c’era cosa
più bella del vedere il mio migliore
amico felice sorridere.
-Io vado.- Mi disse, poggiando con dolcezza una mano sul mio braccio.
Io
annuii, rendendolo “libero” di andare da quella
ragazza che gli faceva
quell’effetto e mi guardai intorno, alla ricerca di Sara,
Federico ed Emanuele.
Non tardai, sfortunatamente ad individuarli..Probabilmente sarebbe
stato meglio
che il mio sguardo non si fosse posato sulla chioma bionda di Sara e,
poi, su
Emanuele. Lui ballava allegro, sorridendo, ma non da solo, ovviamente.
La sua
mano destra stringeva a sé il corpo di una ragazza che
riconobbi solo dopo aver
strizzato gli occhi: Giulia, la cameriera della sera precedente. Il
loro ballo
lasciava intendere a tutti le loro intenzioni: la loro
complicità, i loro
movimenti, i loro sguardi d’intesa, erano solamente delle
premesse a quello che
accadde dopo. Mentre sentivo il mio cuore scricchiolare piano,
sforzandosi di non
rompersi, Giulia si muoveva sinuosamente contro il corpo di Emanuele,
strusciandosi quasi avidamente contro di lui. Lui teneva il viso
piegato
sull’incavo del suo collo, e con l’altra mano
seguiva i movimenti del suo
bacino, non dispiacendosi di far scendere le dita ogni tanto
più sotto della
linea dei fianchi. Scossi la testa, cercando di distogliere lo sguardo,
ma i
miei occhi sembrava legati da un’invisibile forza
all’autolesionismo. Ad un
tratto il mio cuore raggiunse l’apice della sopportazione e
si spezzò. Si
spezzò nel preciso istante in cui le labbra di Emanuele si
posarono su quelle
di Giulia in un bacio ben differente da quello che aveva dato a me, la
sera
prima. Un bacio vero, un bacio reale, che si approfondì
velocemente, lasciando
perdere il tempo della musica, ed aprendosi a movimenti per
più sensuali, ben
più intensi. Restai ferma, mentre il mondo intorno a me si
muoveva velocemente,
ad ascoltare il suono che facevano le parti del mio cuore cadendo a
terra. Un
suono assordante che fu accompagnato da un dolore nel petto che mi era
stato
uno sconosciuto, fino a quel momento.
La canzone terminò e loro si allontanarono, riprendendo
fiato. Emanuele alzò lo
sguardo e mi guardò, ancora pietrificata in cima alle scale.
Affrontai il suo
sguardo con tutto l’orgoglio che avevo dentro di me, un
orgoglio indubbiamente
ferito, ma che non voleva farsi beccare in quelle condizioni. Le mani
di Giulia
si posarono sulle guance di Emanuele, trasportandolo in un altro bacio,
al
quale lui partecipò solo dopo avermi lanciato
un’ultima, indecifrabile
occhiata. Mi voltai, passandomi una mano fra i capelli ed
allontanandomi il più
velocemente da ciò che rimaneva del mio cuore, dei miei
sentimenti. Cercando di
non incrociare lo sguardo di nessuno, mi avvicinai al bancone,
sedendomi su una
sediola. Non ci potevo credere: mi ero fatta illudere. Io, Ginevra
Sforza,
un’illusa. Mai avrei immaginato di mettere in una stessa
frase il mio nome, il
mio cognome, ed il termine “illusa”. Ero andata
troppo oltre quella volta..
Avevo fantasticato su una storia senza un futuro, su una storia che
esisteva
solo per me: i suoi sorrisi, i suoi sguardi, la caduta sulla neve, quel
ballo..
erano cose normali, fra amici, che io invece, volando sulle ali della
fantasia,
avevo interpretato male, creandomi una storia, una realtà
valida solo ed
esclusivamente per me, alla quale lui non aveva la minima intenzione di
partecipare.
-Di nuovo qui?- Alzai lo sguardo, incrociando quello di Marco. Accennai
un
sorriso, annuendo. –Prendi qualcosa?-
-Non ho un soldo.- Risposi molto semplicemente, cercando di deviare il
corso
dei miei pensieri.
-Offro io!- Mi fece l’occhiolino, guardandomi poi dritto
negli occhi. Ricambiai
quello sguardo schacciando tutta la tristezza che piano piano si era
accumulata
dentro di me.
-Guarda che non è una scusa per non pagare, la mia.-
Chiarii, lasciandomi poi
dolcemente contagiare dalla risata che suscitai in lui con le mie
parole.
-Non ti ho mai accusato di una cosa del genere.- Riuscì a
dire fra una risata e
l’altra.
-Mm... Allora voglio un Invisibile.- Lui spalancò gli occhi
e scosse la testa.
-Cosa stai cercando di dimenticare?- Domandò, aggrottando le
sopracciglia.
-Scusami?- Avevo capito bene la sua domanda? Non stavo assolutamente
cercando
di dimenticare qualcosa. No, niente mi turbava. Andava tutto bene. O no?
-Ti vuoi prendere una sbronza, questo è chiaro dopo che
ordini un Invisibile.
La domanda è perché vuoi prenderti una sbronza
tutto ad un tratto? Vuoi
dimenticare qualcuno o qualcosa?- Io abbassai lo sguardo, scoperta nel
mio
tentativo di cercare di passare oltre a tutta la storia di Emanuele, di
Giulia.. –Un ragazzo?- Suggerì, porgendomi nel
frattempo un bicchiere d’acqua
che accettai volentieri.
-Una storia lunga.- Dissi fissando il bicchiere di plastica.
-Fra dieci minuti stacco, se vuoi puoi raccontarmela.- Propose con
semplicità,
guardandomi. Mi strinsi nelle spalle: in fondo perché non
avrei dovuto
accettare? Sara stava con Federico, Gianluca con la sua nuova conquista
ed
Emanuele con Giulia. Che mi restava da fare?
-Ok.- Accettai, mentre Marco si allontanava con un largo sorriso sulle
labbra.
Sembrava un ragazzo a posto, tutto sommato.. Avevo quella strana
sensazione di
potermi semplicemente fidare. Lo aspettai standomene seduta
lì al bancone,
guardandomi un po’ intorno, senza vedere nulla in
realtà. Ero fatta così,
quando mi perdevo nei miei pensieri mi isolavo a tal punto dal mondo da
lasciarmi scorrere la vita davanti senza reagire in alcun modo. Quei
dieci
minuti passarono talmente lentamente che mi sembravano ore che stavo
lì a
pensare e a ripensare al comportamento di Emanuele, cercando di
analizzarlo, di
comprenderlo. Marco mi si avvicinò già con il
giubbotto e la sciarpa, pronto
per abbandonare il locale. Io mi alzai e lo seguii fino al guardaroba,
dove
ritirai la mia borsa ed il mio giubbotto, per poi uscire dal locale.
Tirai un
sospiro di sollievo quando, uscita nella strada dove era situato il
locale, non
sentii più la musica assordante e la gente che mi circondava
da tutti i lati.
Quando vi fu abbastanza silenzio per poter parlare, io e Marco
cominciammo a
discutere del più e del meno, camminando per Rivisondoli.
-Quanti anni hai?- Mi domandò Marco, guardando un
po’ me ed un po’ la strada.
-Diciassette, e tu?-
-Venti- Sorrise. –Sto al secondo anno di Medicina.-
Lo guardai
incuriosita, mentre ci avvicinavamo ad una panchina situata dopo il
parco che
si estendeva davanti alla discoteca.
-Io vorrei fare medicina, dopo aver finito il liceo.- Dopo esserci
seduti,
chiaccherammo un po’ della facoltà che frequentava
e mi spiegò molte cose,
chiarendo molti dei dubbi che avevo su medicina. Marco era un ragazzo
intelligente, un po’ timido, un tipo alla mano, insomma, che
però perse tutti i
punti conquistati quando tornò a toccare il mio unico tasto
dolente: Emanuele.
-Insomma perché volevi ubriacarti?- Mi domandò ad
un tratto, dopo un lungo
discorso sulla microchirurgia. Io abbassai lo sguardo: colpita ed
affondata.
Sospirai, stringendomi maggiormente nel giubbotto e guardando la
discoteca in
lontananza.
-Mi piace da impazzire un ragazzo, Emanuele, che era lì
nella discoteca..- Era
la prima volta che parlavo così apertamente di
ciò che provavo a qualcuno che
non fosse Sara o Gianluca, e quasi non mi sembrava vero di aprire il
mio cuore
ad un completo sconosciuto. –E mi ero convinta, piano piano,
che in un certo
senso ricambiasse anche lui i miei sentimenti.- Mi passai una mano fra
i
capelli, prendendo poi il pacchetto di sigarette dalla borsa,
accendendomene
una.
-E lui ha baciato un’altra, questa sera.- Concluse il mio
racconto con una
semplicità che mi stupì. Lo guardai stupefatta,
annuendo poi debolmente.
-Già.. Sono un’illusa.- La parola
“illusa” ogni volta che la pronunciavo mi
faceva rabbrividire. Faticavo ad ammettere a me stessa che mi ero
lasciata
prendere in giro così facilmente dai miei sentimenti.
-Sei una stupida.- Disse lui molto semplicemente e quando si
scontrò con la mia
espressione aggiunse velocemente. –Sei una stupida ad
abbatterti così a
diciassette anni per un ragazzo.-
-Non ci sono età in cui abbattersi è accettabile
ed età in cui non lo è.-
Commentai, portando poi la sigaretta alle mie labbra.
-Certo, ma quando si è giovani bisogna essere sempre pronti
a guardare avanti.-
Io non potei fare altro oltre ad annuire. –Senti ma.. Tu sei
sicura di non
piacergli?-
-Ne sono sicura al cento percento!- Risi, nascondendo un certo
isterismo in
quella risata. –Se ne va in giro a baciare altre! Come potrei
mai piacergli!-
Scrollai le spalle, guardandolo poi negli occhi.
-Non è mica detto..- Disse con un sorriso ben stampato sulle
labbra, guardando
poi l’orologio che portava al polso. –Sono le due e
mezza.. Io alle tre devo
raggiungere degli amici, quindi adesso ti riaccompagno, ok?- Io mi
alzai in
tutta risposta, guardandolo tranquilla. In fondo avevo fatto proprio
bene ad
uscire con lui da quel locale. Guardai la sua frangia castana che
ricadeva un
po’ disordinatamente sulla fronte, il naso dritto, gli occhi
azzurrissimi.. ed
indubbiamente era anche un bel ragazzo che aveva del cervello e non
aveva colto
l’occasione per provarci spudoratamente, come avrebbero
invece fatto molti
altri esponenenti del sesso maschile.
Ci incamminammo diretti alla discoteca, camminando lentamente, cercando
anche
di morire di freddo.
-Comunque, se non gli piaci è un idiota.- Risi alle sue
parole, mentre lui
aggrottava le sopracciglia.
-E’ la frase più scontata che potessi dire.- Gli
spiegai, cancellando
quell’espressione stupita dal suo volto.
-Io credo di no, invece. Sei bella, simpatica, intelligente.. cosa
potrebbe
volere di più un ragazzo?- Arrossii, spostando
immediatamente lo sguardo dai
suoi occhi al terreno.
-Delle labbra all’Angelina Jolie.- Mormorai, sperando che non
mi sentisse.
Invece lui scoppiò a ridere, portando un braccio intorno
alle mie spalle.
-Non mi dire che si è baciato con Giulia Pelosi!- Io annuii,
guardandolo. La
conosceva anche lui? –Un mese fa, prima di cominciare il mio
turno in
discoteca, ero andato al pub a bermi una birra.. –
-E lei ci ha provato spudoratamente.- Questa volta fu il mio turno di
completare la sua frase, mentre lui annuiva ancora in preda alle risate.
-Sei molto meglio tu.- Disse infine, mentre io sorridevo sarcastica.
–Per il
semplice fatto che non sei una puttana.-
-Ah grazie! Solo per questo!- Ridevo anche io ormai, mentre gli davo
una
spintarella. –Se volevi riempirmi di complimenti fino alla
fine potevi almeno
dire che io ero molto più bella, interessante!- Ormai
eravamo davanti al
locale, dovevamo solamente attraversare la strada e ridevamo come non
mai. Ero
riuscita a cancellare momentaneamente tutta la storia di Emanuele dalla
mia
testa e ridevo sinceramente, con le lacrime agli angoli degli occhi,
reggendomi
alle spalle di Marco.
Successe tutto velocemente: una mano si posò sul mio
posteriore insistentemente
ed io mi voltai di scatto, notando un gruppo di uomini che ci
passò davanti
ridendo. Individuai il proprietario di quella mano che evidentemente
aveva
osato troppo e lo spinsi tanto violentemente da farlo quasi cadere
giù dal
marciapiede.
-Sei un porco!- Gli urlai dietro, già pronta ad attraversare
con Marco accanto
che mi guardava e tutte le persone che si trovavano davanti la
discoteca che si
erano ammutolite e si godevano la scena. Misi il primo piede sulle
strisce
pedonali, cominciando ad avvicinarmi alla discoteca, quando quello
stesso uomo
che avevo spinto, mi prendeva per un braccio ed allontanandomi
violentemente da
Marco, mi avvicinava a sé. Guardai il suo volto sudicio,
lercio come la mano
che mi aveva toccato, e sentii il suo alito che puzzava
d’alcol infrangersi sul
mio viso.
-Lasciami.- Ringhiai, divincolandomi, ma la sua presa era troppo forte.
Marco
si avvicinò, cercando di allontanarmi da
quell’uomo, ma gli amici del tipo lo
bloccarono da dietro, impedendogli di muoversi. –Lasciami!-
Urlai questa volta
più forte, chiedendomi nel frattempo, stretta in quella
presa di ferro, con le
sue sudice mani piantate sul mio sedere , perché nessuno da
quel diamine di
locale si muoveva. Chiuse gli occhi, cercando di divincolarmi
nuovamente. Urlai
spaventata quando ad un tratto, poco dopo che avevo riaperto gli occhi,
un
pugno si era andato ad infrangere contro il naso di
quell’uomo, facendogli
perdere la presa che aveva sul mio corpo. Mi allontanai velocemente,
attraversando la strada, per poi voltarmi a guardare la scena.
Emanuele, Federico
e Gianluca si erano lanciati su quell’uomo, mentre
Marco era stato
lasciato dagli amici di quel porco ed adesso stava aiutando i due a
liberarsi
di quei tipi. Un braccio mi strinse la vita. Mi voltai ed incrociai lo
sguardo
preoccupato di Sara che teneva una mano sulla propria bocca, incredula.
Solo l’intervento dei buttafuori della discoteca
riuscì ad interrompere lo
scontro fra i nove. La banda si allontanò, tirando qualche
insulto da lontano,
mentre Gianluca, Marco, Emanuele e Federico se ne andavano dal lato
opposto,
spinti dagli enormi buttafuori. Senza neanche aspettare Sara mi buttai
al loro
seguito, attraversando di corsa la strada ed abbracciando da dietro
Gianluca.
Lui si voltò, con un labbro rotto e chissà quali
altre ferite nascoste dal buio
di quella strada. Si voltarono anche Federico, Marco ed Emanuele, tutti
con del
sangue che usciva o dalle labbra o dal naso.
-Scusate ragazzi..- Mormorai abbassando lo sguardo.
–E’ tutta colpa mia.-
-E’ colpa tua per il semplice fatto che te ne vai in giro con
gli sconosciuti.-
Le parole di Emanuele mi fecero alzare lo sguardo di scatto, mentre una
rabbia
improvvisa saliva. –Che diavolo ci facevi fuori dalla
discoteca?- I suoi occhi
sembravano lanciare fiamme.
-Emanuele, smettila, non è colpa di nessuno..- Federico
portò la propria mano
sulla spalla dell’amico. –Ha avuto la sfortuna di
incontrare dei porci
ubriachi.- Nel frattempo ci aveva raggiunti Sara, con il fiatone.
Guardai prima
Marco e poi Emanuele, mentre il sangue ribolliva.
-E cosa restavo a fare dentro la discoteca, eh? Eravate tutti
impegnati, o
sbaglio?!- Parlai a voce talmente alto che Sara e Gianluca, che stavano
parlottando, ammutolirono. Emanuele abbassò di colpo lo
sguardo, mentre il mio
cuore si stringeva. –Mi sbaglio?!- Ripetei, guardandolo fisso
negli occhi,
arricchita di una nuova forza che era alimentata dalla rabbia.
-Non ti sbagli.- Mormorò lui a denti stretti, distogliendo
lo sguardo.
-E cosa dovevo fare? Restare lì come una cogliona a
guardarti mentre ti
strusciavi addosso a quell’altra? Eh? Non gira tutto intorno
a te!- L’ultima
volta che avevo avuto il coraggio di parlargli in quel modo era stato
alla
festa di Marika Marchesani, quando Sara si era ubriacata.
–Vaffanculo,
Emanuele!- Ed in quelle parole riversai tutto il disprezzo, la rabbia,
il
risentimento e la delusione che avevo covato quella sera quando lo
avevo visto
con Giulia. Mi girai di scatto, allontanandomi. Qualcuno mi
seguì e quando una
mano si posò sulla mia spalla, mi girai così
rabbiosamente che il povero che mi
aveva seguito quasi scattò. –Ancora non hai ca..
Ah, Marco.- Abbassai lo
sguardo, vergognandomi di quella mia reazione. Quando ritrovai il
coraggio per
guardarlo negli occhi, notai un ematoma che si andava creando intorno
il suo
occhio, leggermente socchiuso. –Scusami..- Mormorai.
-Non ti preoccupare.. Scusami tu se ti ho fatto incontrare quei
tipacci.-
Accennò un sorriso.
-Non è colpa tua.- Ricambiai quel leggero sorriso, con il
cuore che ancora
batteva ancora follemente dopo quello sfogo ad Emanuele.
-Io ora devo andare.. Scrivimi il tuo numero, che semmai ci sentiamo.-
Mi porse
il suo cellulare ed io sorrisi, mentre scrivevo il mio numero, con le
dita che
tremavano sia per il freddo che per il nervoso.
-Grazie per la chiaccherata.- Dissi infine, mentre li porgevo il
telefonino.
-Grazie a te.- Si chinò per baciarmi le guance,
allontanandosi poi con un
sorriso. –E non ti preoccupare troppo per il tizio.. Quando
capirà l’errore
madornale che ha fatto, se ne pentirà.- Con quella perla di
saggezza riferita
chiaramente ad Emanuele, Marco si allontanò. Le mani
affondate nelle tasche ed
i capelli che venivano mossi dal freddo vento. Restai ferma, le braccia
incrociate, incapace di voltarmi a guardare cosa succedeva dietro di
me,
incapace di incontrare nuovamente lo sguardo di Emanuele. Avevo chiuso
con lui,
ufficialmente.. avevo chiuso con quel ragazzo che non aveva capito
niente di
me, che era stato in grado di prendere il mio cuore, illuderlo, farlo innamorare,
per poi spezzarlo con una tale durezza da non lasciare neanche la
possibilità
di ricostruirlo.
-Tesoro..- La voce di Gianluca mi riportò alla
realtà. Le sue braccia mi
strinsero forte al suo petto e ricambiai con forza
quell’abbraccio. In quel
momento volevo solamente Gianluca e Sara, nessun altro.. Volevo tornare
alla
mia vita, quella senza Emanuele e Federico, quella senza quei due
ragazzi che
non avevo mai visto e che avrebbero potuto tranquillamente continuare a
vivere
la propria vita lontani dall’Umberto Eco e da me. In
realtà il povero Federico
non aveva nessuna colpa in tutta quella storia.. Anzi, probabilmente
era
l’unico che si era rivelato una persona normale, alla fine di
tutto.. Aveva
avuto ragione Sara su tutto: su Emanuele, sul suo carattere, su tutta
la
negatività che aveva espresso riguardo i suoi confronti.
Soffocai tutto il mio dolore e la mia rabbia nel pianto che asciugai
contro il
petto di Gianluca. Pianto che lui, Sara, Federico ed anche Emanuele
presero per
il pianto tipico di una ragazza spaventata, una ragazza a cui
è stato toccato
il sedere da un vecchio pervertito, una ragazza cui amici si sono
picchiati con
forza davanti ai suoi occhi per lei.. Mentre in realtà ero
solamente una
ragazza ferita che stava vivendo la sua seconda delusione d'amore.
Spazio dell'autrice: Non odiatemi. Ho odiato anche
io scrivere questo
capitolo.. Ma era necessario per far progredire il racconto, visto che
come vi
ho già detto ho già delineato i capitoli
successivi! Vi premetto che dovrete
sopportare un altro paio di capitoli.. cattivi, ecco, di questo genere!
E dopo
ciò non mi dilungo più con le anticipazioni! :)
Ora passo ai
ringraziamenti!
Grazie infinitamente a Ombrosa, Swettlove,
MoKoNa_x ! Non
sapete quanto faccia piacere leggere le recensioni.. Mi date un
sostegno
enorme!
Vi mando un bacione enorme e spero che continuerete a seguirmi tutti:
voi che
recensite, voi che leggete silenziosamente, voi che mi aggiungete ai
preferiti
e alle storie seguite!
Silvia.
|
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Capitolo 7 *** New York, New York! ***
Capitolo
Settimo: New York, New York!
Era
passato un mese da quel quattro di febbraio. Un mese dal giorno in cui
il mio cuore si era spezzato a causa di Emanuele Benassi. Un mese dal
giorno in
cui, non sapevo neanche io per quale motivo, se ne era andata via una
parte
importante dentro di me. Sembrerà inevitabilmente una di
quelle frasi
melodrammatiche delle diciassettenni innamorate, ma purtroppo era
ciò che io
diciassettene disillusa, provavo all’incirca da trenta giorni.
Era successo tutto in fretta, forse troppo in fretta, stentavo ancora a
metabolizzare gli eventi del gennaio passato, malgrado febbraio fosse
già
passato da un pezzo e marzo stava passando, ben deciso a lasciare il
posto ad
Aprile, al mio diciottesimo compleanno, alle vacanze di Pasqua e tante
altre cose
che mi sembravano troppo differenti da quelle che io in
realtà volevo.
Quel quattro febbraio, quando avevo urlato in faccia ad Emanuele il
fatto
che mi aveva scocciato con le sue manie di egocentrismo e lo avevo
anche
mandato a quel bel paese, non poteva non avere un amico del cuore: il
cinque
febbraio.
Quella
domenica mi ero alzata tranquilla dal letto, cercando di non
rispondere alle invadenti domande di Sara sul mio stato
d’animo. Mi ero chiusa
a riccio dopo lo sfogo contro il petto di Gianluca ed evitavo
accuratamente le
domande di tutti su come mi sentissi. Come mi potevo sentire? Delusa?
Ferita?
Amareggiata? No, molto semplicemente: confusa. Ma non avevo voluto
condividere
quel mio stato d’animo con nessuno, e quella mattina mi ero
precipitata in
cucina a bere un caffé espresso che non poteva farmi altro
che bene.
-Buongiorno.- Quando entrai in cucina, alzando lo sguardo incrociai
ovviamente lo sguardo di Emanuele. Mi soffermai a guardare il suo
labbro rotto,
il grosso ematoma sulla sua guancia e l’occhio leggermente
socchiuso, cercando
tuttavia di mantenere l’espressione più
impassibile possibile.
-Buongiorno.- Risposi freddamente, mentre mettevo la cialda nella
tecnologica macchinetta Nespresso, quella pubblicizzata da George
Clooney, per
intenderci. Aspettai che il mio caffé fosse pronto e poi mi
andai a sedere al
tavolo, rigorosamente davanti ad Emanuele Benassi, se qualcuno avesse
voluto
avere il gusto del dubbio. Cercai di mandare giù il
caffé il più velocemente
possibile, per evitare quella stramba ed inconveniente situazione, ma
quando
fui sul punto di cominciare ad ustionarmi la lingua, piombò
nella stanza
Gianluca, ed io tirai un sospiro di sollievo.
-Buongiorno, Ginni. Buongiorno Emanuele.- Disse con dolcezza, spostando
lo
sguardo da me a Emanuele, come per volerci studiare con decisamente
poca
discrezione. Non c’era niente da studiare, niente! Non
c’era neanche più niente
da scovare: le relazioni, di qualsiasi genere ci fossero state, fra me,
Ginevra
Sforza, ed lui, Emanuele Benassi, erano terminate la sera precedente, o
meglio
dire alle tre di notte di quella stessa domenica.
-Buongiorno, Gianluca.- Risposi cortesemente, mentre
l’atmosfera che si
andava creando mi piaceva sempre di meno. Evitai accuratamente lo
sguardo di
Emanuele mentre prendevo una delle brioches che i genitori di Sara ci
avevano
comprato. Perché tutto d’un tratto Benassi mi
guardava così intensamente? Che
diamine aveva da guardare? Non mi ero truccata male, a dire il vero non
mi ero
truccata affatto, non avevo disegni strani nel viso e non stavo
mangiando
spinaci, evitando il rischio di avere roba strana fra i dente. Cosa
voleva?
-Buongiorno a tutti!- Eccolo completato il quadro! Federico e Sara
entrarono nella Sala da Pranzo e fermandosi accanto a Gianluca alla
macchinetta
del caffé, fissarono me ed Emanuele al tavolo, malgrado ci
fossero tre posti
liberi ad aspettarli.
-Potete sedervi, eh.- Dissi mentre finivo il caffé e posavo
rumorosamente
la tazzina sul tavolo. Li guardai riducendo i miei occhi a due fessure.
-Stiamo aspettando il caffé!- Trillò allegra
Sara, guardando poi con amore
Federico. Scossi la testa, chiedendomi se quella notte mentre io ero
immersa in
un sonno senza sogni, loro avessero fatto festa a base di sostanze
stupefacenti
ed allucinogene.
Driin
Driin
La
suoneria più banale del mondo, appartenente alla nokia,
ruppe quella
strana situazione, ed io ringraziai il cielo di essere
l’unica deficiente ad
avere quella suoneria e di essere quindi chiamata a rispondere a quel
benedetto
telefonino, evadendo da quel posto. Senza guardare lo schermo risposi,
estremamente felice per avere finalmente altro a cui pensare.
-Ciao, Ginevra, sono Marco.- La volce calma e rassicurante di quel
ragazzo
mi fece spuntare un sorriso sulle labbra. Sia benedetto Marco, il
cameriere del
“Rumba Room!”
-Ciao, Marco!- Risposi raggiante, mentre Emanuele lasciava cadere la
brioche per fissarmi. Che diamine hai da guardare? Gli avrei voluto
dire, ma
riuscii a trattenermi, tornando a guardare la tazzina vuota del
caffé. –Come
mai chiami così presto?-
-Devo andare in biblioteca a studiare.- Fece un attimo di pausa.
–Ti sta
fissando come un pesce lesso?- Spalancai gli occhi, cercando poi di
recuperare
un po’ di contegno.
-Ma cosa dici!- Sbottai, mentre notavo la curiosità
accrescere negli occhi
di Sara, Gianluca, Federico e ovviamente di Emanuele.
-Rispondi!- Il suo tono era beffardo ed io ridacchiai. Maledetto Marco!
-Sì.- Sibilai, cercando nel frattempo qualcosa con cui
distrarmi.
-E poi dici che non gli piaci. Sta ribollendo di gelosia.- Per poco non
cascai a terra dalle risate. Risate decisamente isteriche,
sfortunatamente.
-Ed io sono cappuccino rosso!- E prima che potesse ribattere aggiunsi.
–Non
usare la scontata battuta che i miei capelli sono rossi come il
cappuccio.-
Sentii Emanuele soffocare una risata. Lo incenerii con lo sguardo,
tornando a
concentrarmi su Marco.
-Comunque le mie profezie si avvereranno, Rossa.-
-Rossa mi mancava come soprannome..- La mano di Emanuele si strinse in
pugno. Cercai di evitarlo. –Comunque ti
aggiornerò, stanne pur certo.-
-Okay, allora ora ti lascio al pomeriggio dei tuoi sogni.- Adorabili i ragazzi sarcastici, no?
-Ciao, Marco.-
-Ciao, Rossa!- Chiusi la telefonata, posando il telefonino sul tavolo
ed
alzando lo sguardo. Tutti cercarono di fingersi indaffarati, come se
non
avessero ascoltato come degli avvoltoi quella chiamata. Tutti si
finsero
indaffarati tranne Emanuele. Sbuffando mi alzai da tavolo, posando la
tazzina
nel lavandino ed allontanandomi da quella cucina-sala da pranzo.
Tutti
matti. Erano tutti irreversibilmente, incredibilmente, matti. Non
c’era niente da fare. Dopo aver passato lo skipass
nell’apposito apparecchio,
io e gli altri stavamo in fila per prendere la seggiovia che ci avrebbe
portati
in cima, dalla quale poi saremmo dovuti scendere affrontando
l’adorata
Direttissima: una lunga, lunghissima pista nera, che dava del filo da
torcere a
tutti, nessuno escluso, ed era incredibilmente bella.
Giunti ormai ai tornelli, Federico, Sara e Gianluca si erano fermati e casualmente mi ero ritrovata seduta su
quella dannata seggiovia insieme a Emanuele. Ovvio. Guardai dritto
davanti a me
e mi accorsi che quella salita era lunga, incredibilmente lunga,
probabilmente
sarebbe durata dai cinque ai dieci minuti. Troppo tempo da trascorrere
con quel
deficiente. Sbuffai, togliendomi poi un guanto e prendendo
dall’interno della
mia tuta il pacchetto di Camel Light. Presi una sigaretta, mettendomela
fra le
labbra, riponendo poi il pacchetto nella tasca interiore. Portai la
mano alle
tasche dei pantaloni, per poi sbuffare con talmente tanta forza da
rischiare di
lasciar cadere la sigaretta.
-Maledizione.- Sussurrai a denti stretti.
-Hai bisogno dell’accendino?- La voce di Emanuele
suonò estremamente
gentile. Troppo gentile. Mi girai e lo guardai in cagnesco, mentre lui
mi
rivolgeva un ampio sorriso. Non aveva capito nulla, allora? Non aveva
capito
che aveva chiuso con me? Tuttavia presi l’accendino e mi
accesi la sigaretta,
riconsegnandoglielo il più in fretta possibile.
-Da quand’è che fumi?- Domandai dopo aver fatto un
paio di tiri, sempre
senza guardarlo.
-Non fumo. L’ho portato via a Giulia ieri, per sbaglio.-
Rispose
tranquillamente, mettendosi poi a fischiettare. Ah bene! Dovevo anche
ringraziare Giulia Pelosi di aver lasciato casualmente
l’accendino ad Emanuele,
sanando in tal modo la mia crisi da assenza di nicotina. Grazie Giulia!
-Capisco.- Dissi secca, determinata a non spiccicare più
parola per il
resto della salita. Ed il deficiente fischiettava. Diamine, mi sentivo
proprio
una ragazzina delle elementari ad insultarlo per ogni minima cosa che
faceva,
ogni parola che pronunciava..ma non c’era niente da fare: ero
orgogliosa, di un
orgoglio ferito sì, ma di un orgoglio che adesso non ci
pensava proprio a
cedere un’altra volta davanti a quel bel faccino.
Gettai via la sigaretta, guardando poi dritta davanti a me. Mancava una
cinquantina di metri all’arrivo, grazie a Dio. Mi misi in
posizione per
scendere, togliendo la tavola dalla sbarra. Tentai di sollevarla ma
qualcuno la
bloccava. Mi voltai per vedere Emanuele che la tratteneva, serio in
volto.
-Perché hai reagito così?- Domandò.
Guardai prima lui e poi il punto
d’arrivo sempre più vicino. Doveva togliere quella
cosa immediatamente.
-Non ho reagito in nessun modo.- Risposi secca, tentando nuovamente
invano
di alzare la sbarra.
-A me non sembra.- Mi guardava fisso negli occhi, non curandosi del
fatto
che a cinque metri dovessimo scendere.
-Alza quella sbarra, deficiente!- Ringhiai con tutta la forza che
avevo.
Lui lasciò molto semplicente la presa e quella si
alzò. Appena posai la tavola
sulla neve, prendendo controllo dei miei movimenti, mi chinai un
secondo a
fermare gli attacchi, prendendo poi a scendere velocemente la Direttissima
senza
voltarmi. Emanuele Benassi non aveva capito assolutamente nulla, quello
era
certo. Possibile che il suo cervello fosse veramente pieno di mangime
per
canarini? Un cervello non era proprio riuscito a prenderselo quando li
consegnavano? No, non funzionava così con me. Mi aveva
ferita, la sera
precedente, magari non lo sapeva, magari non pensava al bacio con
Giulia come
prima causa di quella mia rabbia.. E poi, però. Poi mi aveva
anche
colpevolizzata! Mi aveva accusato in quella semi-scenata di gelosia che
era
colpa mia se si ritrovava con la faccia deformata perché
andavo in giro con
“sconosciuti”. Ma alla faccia sua lo sconosciuto!
Era una persona molto più
normale di lui! Sicuramente con un cervello ben funzionante nella
scatola
cranica! Mentre inventavo nuovi termini per insultare mentalmente
Emanuele,
scendevo in preda ai deliri quella dannata Direttissima che, quel
giorno era
più gelata del solito. Facevo una fatica immensa a
controllare la tavola e a
non perderne il controllo durante le varie curve. Ad un tratto, mentre
giravo
in backside, riuscendo a malapena a mantenere in equilibrio la lamina
sulla
lastra di ghiaccio che avevo preso, qualcuno mi afferrò per
il cappuccio del
giubbotto della tuta, facendomi cascare all’indietro. Grazie
al cielo la
direttissima era stretta e mi trovavo proprio al bordo pista: beccai in
quel
modo un cumulo di neve e rallentai la discesa, tirando un sospiro di
sollievo
mentre senza girarmi, mi mettevo nel fuoripista, seduta. Dopo aver
ripreso
controllo di me stessa mi voltai e vidi Emanuele che teneva ancora
fermamente
il mio cappuccio. Sbarrai gli occhi incredula.
-Mi potevi ammazzare, razza di deficiente!- Urlai dopo essermi
slacciata
gli attacchi ed essermi messa in piedi davanti a lui.
-Non ti è successo niente, o sbaglio?- Domandò
lui senza reagire alle mie
urla da pazza isterica.
-Poteva succedermi! Ma che diamine hai in quella testa?- Lo guardavo
fisso
negli occhi mentre il mio sangue ribolliva. –Cosa diamine
vuoi ottenere?-
-Spiegazioni.- Ah! Lui voleva delle spiegazioni! Certo, molto logico.
–Ed
il tuo perdono.- Aggiunse mentre io lo fissavo accigliata. Il mio
perdono,
certo!
-Ho solamente deciso che è meglio se stiamo uno fuori dalla
vita
dell’altro.- Dissi fredda, gelida quasi come l’aria
e la neve che ci
circondava. Lui non fece una piega, non mosse un singolo muscolo,
continuando a
guardarmi negli occhi.
-Io non voglio che tu stia fuori dalla mia vita.- Ribatté
con tale
semplicità che io per poco non mi lasciai deviare. No,
dovevo portare avanti
quella storia a testa alta, non volevo più soffrire per lui.
-Dimmi un motivo per cui vuoi che io resti.- Replicai affrontando il
suo
sguardo, senza più timidezza, senza più
imbambolarmi davanti a quel castano.
–Dimmi un motivo per il quale tu vuoi me e non una qualsiasi
altra persona
nella tua vita.- Specificai. Calò il silenzio. Lui
spostò lo sguardo a terra e
si strinse nelle spalle, senza parlare, mentre io lo continuavo a
guardare,
tenendo le redini di quella situazione, non subendo più. Lui
finalmente mi
guardò negli occhi.
-Io..- Tentò di dire, ma richiuse immediatamente la bocca.
Io lo guardai,
incitandolo con lo sguardo. Sperando che lui dicesse qualcosa che
cambiasse le
mie intenzioni.. Perché infondo io non volevo interrompere
quella
“relazione”,di qualunque genere fosse, con lui. Ma
Emanuele abbassò nuovamente
gli occhi ed io sospirai, mentre il mio cuore si stringeva forte.
-Quando trovi una risposta soddisfacente, fammi uno squillo.- Dissi
secca,
amareggiata, mettendomi poi la tavola ai piedi ed andandomene
lanciandogli un
ultimo sguardo. Lui mi guardava fermo, immobile, come se ad un tratto
fosse
diventato una statua di ghiaccio. Mi voltai dall’altra parte
e scesi la
Direttissima,
cercando di resettare i miei ricordi fino ad un mese prima, quando
Emanuele
Benassi non era nessuno per me.
Mi
destai da quell’ondata di ricordi, tornando alla prima
settimana di
Marzo che stavo vivendo. Terminai di fare la cartella, mettendomi poi
la borsa
a tracolla e dandomi un’ultima occhiata allo specchio. Quel
lunedì si tornava
in classe dopo la settimana di riposo che la scuola ci dava sempre a
fine
febbraio. Mi sistemai i capelli ed uscii dalla mia camera, per poi
uscire di
casa. Mia madre era già uscita da un pezzo per andare in
ufficio, quindi non mi
soffermai a salutare nessuno e corsi spedita nel garage. Dieci minuti
ero
davanti a scuola.
Quel marzo non era cominciato nel migliore dei modi, metereologicamente
parlando. Erano già tre giorni che pioveva a dirotto e
quella notte aveva
addirittura grandinato. Con il cappuccio della felpa che indossavo
tentai di
ripararmi dalla pioggia, mentre andavo a passo spedito al baretto.
Arrivai
inevitabilmente bagnata e quando entrai ringraziai il cielo che Sara e
Gianluca
avevano preso un tavolino lontano dalla massa, anche se vicino ai
bagni, e mi
aspettavano lì con il mio caffé ed il moretto
già pagato.
-Grazie vi adoro..- Dissi semplicemente, buttando la borsa a terra e
levandomi il giubbotto, per poi sedermi. Sara era tutta intenta a
ripassare per
l’imminente interrogazione di filosofia, mentre Gianluca
ricopiava la versione
di latino. Insomma avevo degli amici molto studiosi!
-Oggi non rischi nulla?- Mi domandò Gianluca alzando un
occhio da Cicerone.
Io scossi la testa soddisfatta.
-Rischierei solamente italiano ma mi giustifico, che ieri sera sono
tornata
tardi e non ho fatto in tempo ad aprire il libro.- Avevo passato il
week-end a
Milano a casa di mio padre ed il treno aveva fatto ritardo, al ritorno.
-E’ andata bene su?- Chiese Sara, chiudendo finalmente il
libro e
sorseggiando tranquilla il suo cappuccino. Ingoiai un pezzo di moretto,
annuendo.
-Sì, sono stata coi miei soliti amici di lì..
sabato siamo andati ad un pub
carino e per il resto siamo stati lì al Duomo e dintorni..-
Risposi, bevendo
poi il caffé prima di continuare. –Voi che avete
fatto?-
-Siamo stati con Federico, Emanuele e Sara a Firenze..- Disse cauto
Gianluca, ben consapevole del fatto che il tasto
“Benassi” era sempre piuttosto
doloroso per me.
-Divertiti?- Domandai atona, concentrandomi a mangiare il moretto.
-Sì abbastanza.. peccato che di vita notturna a Firenze non
ce ne sia.-
Commentò Sara con un largo sorriso sulle labbra.
–Oh guardate, c’è Federico!-
Si illuminò ancora di più, sbracciandosi poi per
attirare l’attenzione
dell’amato. Alzai a malavoglia lo sguardo, vedendo
inevitabilmente la figura di
Emanuele avvicinarsi insieme a Federico al nostro tavolino. In quel
mese non ci
eravamo praticamente mai visti. Avevo interrotto le uscite con quei due
ed
avevo passato i sabato sera o con Gianluca e Sara soltanto o con la mia
classe.
A ricreazione Emanuele non scendeva mai e nei corridoi non ci
incontravamo,
quindi quella era una sottospecie di “primo
incontro” dopo la tempesta.Abbassai
lo sguardo, finendo il moretto il più lentamente possibile.
-Ciao, Ginni!- Mi salutò Federico, chinandosi a baciarmi una
guancia.
-Oi, Fede!- Risposi con tutta la mia simpatia. In fondo Federico non mi
aveva fatto niente ed avevo passato volentieri alcuni pomeriggi a casa
di Sara
anche con lui. Non lo volevo solamente vedere quando era in compagnia
dell’amichetto.
-Ciao.- Mi salutò Emanuele. Lo guardai freddamente, a
differenza del mio
cuore che accellerava.. Maledetto!
-Ciao.- Risposi talmente secca da stupirmi, portando poi tutta la mia
attenzione al discorso che stavano portando avanti Gianluca, Sara e
Federico.
-Avete sentito che si è allagato tutto l’ultimo
piano e metà del nostro?-
Disse Federico. Noi spalancammo tutti gli occhi: ok che il liceo cadeva
a
pezzi. Ma addirittura allagarsi per due piani interi!
-Quali classi del nostro piano?- Domandai curiosamente. Lui si strinse
nelle spalle.
-Non lo so.. Ce lo diranno quando entreremo perché molte
classi sono in
gita e quindi c’è disponibilità di
classi vuote ..magari spostano lì gli
sfollati..-
Me
ne stavo seduta tranquillamente accanto a Gianluca, immersa
completamente nella pace dei sensi. Avete presente quando non vi devono
interrogare, avete fatto tutti i compiti, nessuno vi rompe? Ecco,
quello era il
mio stato d’animo mentre al cambio dell’ora
giocherellavo con il mio diario
attendendo l’arrivo di Ombretta Marini.
Sara stuzzicava con la matita Gianluca, mentre Davide e Matteo erano
vicini
al nostro tavolo a parlare di Daniele de Rossi come due dodicenni con
gli
ormoni in fiamme.
-Ma sembrate gay!- Sbottai dopo un po’ che loro gli
attribuivano aggettivi
come “bello di casa”, “il più
bello” e cose simili.
-Shh.. Non capisci nulla. Totti e De Rossi sono ..SONO!- Disse
orgogliosamente Matteo levando i pugni al soffitto.
-Ah, certo.. capisco..- Mormorai cercando altro su cui concentrarmi. I
deliri calcistici maschili sono davvero da evitare se si tiene al
proprio
Quoziente Intellettivo. Aprii il diario ed il mio sguardo si
imbatté sul
post-it di Emanuele. Complimenti per i
gusti musicali. Quanto tempo era passato da quando ci eravamo
scambiati le
borse? Da quando mi aveva dato il passaggio a casa con la moto? Poco,
ma a me
sembrava troppo.
-Buongiorno, ragazzi!- Trillò Ombretta Marini entrando
saltellante.
Scattammo tutti in piedi per salutarla e poi ci sedemmo.
–Allora, allora.. Oggi
vorrei proprio sentire qualcuno visto che i pagellini sono vicini e non
ho
neanche un voto..- Disse mentre apriva la propria borsa e tirava fuori
i libri,
sistemandosi poi gli occhiali sul naso. Alzai prontamente la mano,
attirando la
sua attenzione. –Dimmi, Sforza.-
-Professoressa, vorrei giustificarmi.- Dissi con voce chiara e decisa.
Lei
strabuzzò gli occhi ed incominciò a scuotere la
testa: brutto segno.
-Ma hai avuto questa bella settimana per prepararti..E poi avevo
già
annunciato che interrogavo.. Lo sai, lo sapete, che dovete dirmi delle
giustificazioni prima che io specifichi cosa voglio fare
nell’ora di lezione.-
Disse in quel continuo scuotere di testa che cominciava seriamente a
darmi sui
nervi.
-Ma non ha dato il tempo..- Provai incerta ma lei scattò in
piedi, con gli
occhi che brillavano di una strana luce decisamente folle. Bruttissimo
segno.
-Sforza! O vieni a colloquiare con me o prendi due o prendi due ed esci
fuori dalla classe!- Sbarrai gli occhi: ma stava parlando seriamente
quella
donna? Non sapevo una ceppa del programma d’italiano, non
avevo ripassato
assolutamente nulla e le mie conoscenze di fermavano a gennaio quando
mi aveva
chiamata per mettermi un voto in pagella.
-Ma prof! Sono partita e ieri sono tornata tardi! Non ho ripassato
nulla!-
Mi alzai anche io, cercando di giustificarmi in tutti i modi, anche a
costo di
arrampicarmi sugli specchi con tutte le mie forze.
-Sempre con queste scuse! Ma non ti sei stancata? Ancora ricordo la tua
storiella per la parafrasi..- Ridacchiò, guardandosi le
mani. Lo sapevo, lo
sapevo che l’avrebbe ritirata fuori. -..Uno scambio di borse
eh, Sforza?-
L’accompagnai nella sua folle risata, mentre in me nasceva
uno strano desiderio
di sangue: la volevo morta, subito, quella dannata professoressa
incompetente.
-Poi però l’ho ritrovata.- Abbozzai un sorriso,
sperando che si
dimenticasse la faccenda del due.
-Sforza, mi hai stancata. Vai fuori dalla classe.. Per questa volta
senza
il due. Ma non ti voglio vedere per il resto dell’ora.
Fuori!- Alzai le mani in
segno di resa ed uscii il più velocemente fuori da quella
maledetta classe.
Era matta, era completamente matta quella donna. Cosa diamine si
prendeva?
Confondeva la cocaina con lo zucchero la mattina? Scossi la testa
mentre
chiudevo la porta alle mie spalle. Mi poggiai con la schiena contro la
parete e
scivolai a terra, portando le gambe al petto, mettendo ordine nella mia
testa.
Seriamente ero stata cacciata dalla classe perché avevo
tentato di
giustificarmi in italiano? No, non era possibile. Mi alzai di scatto,
passandomi le mani tra i capelli, incamminandomi poi al bagno che si
trovava a
pochi metri dalla mia classe. Quando fui sul punto di entrare,
chiudendo la
porta per poter fumare, una porta sbatté con tale forza da
farmi saltare.
Tornai indietro nel corridoio e guardai allibita Emanuele Benassi che
era davanti
alla mia classe. Alzai entrambe le sopracciglia. Da dove era uscito?
-Tu non stai nell’altro corridoio?- Domandai, mentre mi
avvicinavo a lui.
Lui guardava ancora infuriato la porta.
-Si è allagato.. Ricordi quello che diceva Federico?- Disse
recuperando la
calma. Mi ero quasi dimenticata del suono della sua voce: un
po’ roca,
profonda, così dannatamente maschile ed attraente.
-Ah.. E vi hanno spostai qui..- Conclusi, facendo scivolare le mani
nelle
tasche mentre tornavo a poggiarmi con la schiena alla parete. Lui
annuì
sedendosi per terra come avevo fatto io poco prima.
-Come mai sei fuori dalla classe?- Mi domandò, guardandomi
poi fisso negli
occhi. Il tempo non aveva aiutato a guarire le ferite del mio cuore..
Perché
dopo un mese, rivederlo, rivederlo guardarmi in quella maniera, mi
faceva
rabbrividire.
-Ho una professoressa folle. Mi ha sbattuta fuori perché mi
sono
giustificata.- Spiegai, riassumendo tutto l’evento a quelle
poche parole. –E
tu?- Quando finì di sghignazzare, lo vidi stringere i pugni:
era un gesto che
faceva quando si innervosiva.
-Quella cogliona di Arte.. Mi sono preparato
quell’interrogazione da una
settimana e non mi ha fatto recuperare il quattro del compito
perché ho confuso
il termine “essiccato” con
“disseccato”.. Le ho montato su una scenata che mi
ha fatto guadagnare il suo odio perenne.. Ma ne è valsa la
pena, la odio dal
primo giorno che l’ho vista!- Concluse in quel modo quel suo
racconto un po’
rabbioso, un po’ confuso.. Ed io gli sorrisi. Lui mi
guardò, senza dire nulla, ed
io mi sentii avvampare le guance.
-Perché mi guardi?- Chiesi senza pensarci. Che vergogna..
come me ne uscivo
con quelle domande? Abbassai lo sguardo, intimidita.
-Mi ero quasi scordato di quanto fosse bello il tuo sorriso.- Mi
rispose
con la voce più roca del solito, in una sottospecie di
sussurro. Probabilmente
diventai un peperone e mentre sussurravo un timido
“grazie”, evitai
accuratamente di alzare lo sguardo.
–Com’è andata questa settimana?- Lo
ringraziai mentalmente per aver cambiato argomento e lo guardai con
molta più
calma.
-Sono stata qui a Roma.. ed il week-end sono salita a Milano a trovare
mio
padre.- Risposi. Che gioco stavamo giocando? Era solo una chiaccherata,
infondo. Mica gli stavo offrendo l’opportunità per
recuperare il rapporto perso
con me.. Era solo una chiaccherata fra due studenti che erano stati
sbattuti
fuori dalle rispettive classi contemporaneamente.
-Ah tuo padre lavora lì?-
-Vive lì con la sua famiglia.- Precisai con assoluta calma.
Lui si limitò
ad annuire, probabilmente imbarazzato per il fatto tirato fuori. In
realtà a me
non faceva nessun effetto parlare della storia della mia famiglia. Mia
madre
era stata amante di mio padre, che le aveva mentito dicendole di aver
lasciato
sua moglie e l’aveva poi messa incinta, scappando quando il
test di gravidanza
aveva dato positivo. Non era esattamente il padre ideale, il padre che
si
voleva conoscere.. ma mia madre ci teneva, tuttavia, a farmi avere una
figura
paterna e di conseguenza andavo ogni tanto a trovarlo, ma senza
considerarlo
troppo. Lui ci provava, certo, ad instaurare un rapporto con me.. Ma
lui per me
non era nessuno, non significava nulla. Passavo le giornate a Milano
uscendo
con i miei amici di lì, limitandomi a pranzare una volta o
due con mio padre.
–Tu sei andato a Firenze giusto?- Domandai, deviando il
quella volta il corso
della conversazione.
-Sì.. Ci siamo divertiti..- Rispose senza troppo entusiasmo.
Si alzò,
mettendosi nella mia stessa posizione, poggiato però alla
parete opposta. –L’hai
più visto Marco?- Quella domanda arrivò come un
fulmine a ciel sereno. Cercai
di non mostrarmi esageratamente sorpresa e boccheggiai, prima di
riuscire a
parlare.
-Sì è venuto a Roma un paio di volte.. Ci
sentiamo fondamentalmente con
internet e al telefono.- Dissi con voce incerta. Cosa gliene importava
ad
Emanuele se avevo sentito Marco? E perché si ricordava
ancora di Marco?
Deglutii, guardando un po’ il pavimento ed un po’
lui. –Tu hai più visto
Giulia?- Non so con quali forze riuscii a pronunciare quelle parole.
Ero masochista,
ecco tutto.
-Mi ha mandato un sacco di messaggi.. Mi ha chiamato parecchie volte..
Ma
non ho mai risposto. Non me ne frega nulla di quella stupida.- Rispose
serio,
senza staccarmi gli occhi di dosso. E certo! Però intanto in
discoteca non gli
era dispiaciuto farsela strusciare addosso in tutte le posizioni
possibili!
Accennai un sorriso e distolsi lo sguardo. –Si era illusa che
quella cosa in
discoteca potesse avere un seguito.- Ecco come rideva delle ragazze che
si
illudevano! Velocemente nella mia mente si fece spazio il pensiero che
avesse
potuto ridere anche di me, dei miei sentimenti, del mio cuore ferito..
La vista
mi si annebbiò e socchiusi gli occhi. Sì,
probabilmente aveva riso di me, aveva
riso delle mie scenate, delle mie parole.. Di tutte le volte che lo
avevo
guardato con gli occhi tipici di una deficiente stracotta del figo di
turno.
La campanella suonò ed io alzai lo sguardo, incrociando il
suo che mi
fissava in una maniera dubbiosa, interrogativa. Cercava di capire cosa
passasse
per la mia mente.
-Io vado.- Dissi, riuscendo a malapena a parlare. Mi girai, pronta ad
entrare in classe, quando la sua mano mi afferrò dolcemente
per il polso, come
aveva fatto infinite altre volte. Mi girai e lo guardai, incapace di
opporre
resistenza.
-Mi manchi da morire.- Mormorò, mentre io mi scioglievo
lentamente ai suoi
piedi. Mi avvicinò a sé ed io obbedii a quel
gesto che mi avvicinava a lui. –Io
ti voglio nella mia vita, Ginni.- Aggiunse. A quelle parole il mio
cervello si
svegliò tutto d’un tratto e la mia espressione si
indurì. Dovevo portare avanti
la decisione presa. Mi allontanai di scatto, liberandomi da quella
leggera
presa.
-Perché?- Domandai sicura, senza paura. Volevo un
perché, volevo una
risposta, una qualsiasi. Lui si incupì, incrociando le
braccia al petto.
-Ginni, ti prego.. Cancella tutto ciò che è
successo..- Prese il mio viso
fra le mani, ma riuscii ad allontanarmi nuovamente con non so quale
forza di
volontà. Dov’era la Marini?
Perché non usciva? -Emanuele, sai
perfettamente che voglio una risposta. Non bastano più
queste frasi fatte.- Dissi seria, mentre i miei occhi si appannavano a
causa
delle lacrime che volevano uscire. Non potevo guardarlo, non potevo
stare così
davanti a lui.. Mi girai ed entrai in classe, fregandomene altamente
del fatto
che la professoressa non fosse ancora uscita. Mi sedetti al mio banco
ignorando
le sue parole, passandomi le mani fra i capelli sotto lo sguardo
preoccupato di
Gianluca. Perché Emanuele non usciva dai miei pensieri?
-Sei
innamorata.- Decretò Marco. Lo guardai con entrambe le
sopracciglia
inarcate. Stavamo seduti sulle scale di Piazza di Spagna mangiando
tranquillamente il take-away del Mc Donald’s.
-Grazie, non ci ero arrivata!- Borbottai
sarcastica, addentando poi il mio
Cheeseburger.
-E presumo che tu sappia che devi anche fare qualcosa.- Io scoppiai a
ridere, scuotendo poi la testa.
-Qui ti sbagli. Non ho intenzione di fare nulla.- Dissi convinta,
guardandolo di sbieco. –Tra qualche settimana mi
passerà questa mia stupida
cotta.- Continuai, mangiando nel frattempo le patatine.
-Non è una stupida cotta. Sei innamorata.- Non osai
replicare, limitandomi
a continuare a mangiare. –E cosa vorresti fare? Continuare a
piangerti addosso
per queste settimane nella speranza di scordarti di lui?-
-Io non mi piango addosso!- Sbottai indignata. –Mica ho tre
anni!- Finii il
cheeseburger buttando la carta nella busta che ci avevano dato,
passando poi a
terminare anche le patatine e la coca-cola.
-Ci pensi continuamente però.- Guardai Marco, che ricambiava
tranquillamente
il mio sguardo. Il mio cuore dava ragione a lui ma la mia testa.. La
mia testa
no. Portava avanti le proprie considerazioni agguerrita, senza farsi
intimorire
da nessuno. Restai in silenzio finendo le mie patatine.
-Io non so cosa fare.- Ammisi infine, mentre sorseggiavo la coca-cola.
Sì,
infondo la realtà era proprio quella: io non sapevo cosa
fare con Emanuele.
Avrei voluto non fare nulla.. Assolutamente nulla.
-Non fare nulla non ti farà stare meglio.- Ovviamente aveva
smontato il mio
desiderio in due secondi. Sospirai, guardando i turisti che si
accalcavano
vicino alla fontana per fare le foto.
-Perché non fa qualcosa lui?- Borbottai scocciata, facendo
scoppiare a
ridere Marco.
-Lui ha provato a fare qualcosa..quand’è successo?
Il lunedì della
settimana passata?- Io annuii, ricordando l’accaduto nel
corridoio.
-Sì ma.. Io voglio che lui mi dia un
perché..un dannato perché..- Mugolai
fissandomi le scarpe.
-Hai ragione.-
-E che è successo che mi dai ragione?- Scoppiammo a ridere.
Incredibile a dirsi
ma Marco De Angelis era entrato a far parte della mia vita, dopo quel
quattro
febbraio a Rivisondoli. Ne era entrato a far parte senza prepotenza,
senza
forzare.. Aveva semplicemente trovato la chiave giusta per farmi aprire
il mio
cuore a lui, ed ora era una delle persone a cui raccontavo tutto della
mia
vita.
Veniva regolarmente a trovarmi a Roma, una o due volte al mese, come
quel
giorno, quel sabato. Aveva la macchina e quindi non era un problema per
lui
venire nella Capitale, ogni volta che avevo bisogno di lui o quando lui
aveva
voglia di raccontarmi un po’ di sé. Marco era un
ragazzo per bene, uno di
quelli che si cercano assiduamente e si catalogano come principi
azzurri. Era
bello d’aspetto ma anche intelligente.. Mi aveva parlato per
ore ed ore della
facoltà di medicina, delle sue aspirazioni, dei suoi sogni.
Poi mi aveva
raccontato della sua situazione famigliare, i problemi con il fratello
che era
al carcere minorile per aver picchiato la propria professoressa, del
padre e
della madre che facevano finta che non esistesse per non macchiare di
vergogna
il nome della loro famiglia. Inoltre avevamo affrontato insieme non
solo i miei
problemi d’amore, ma anche i suoi.. Che si trovava in un
perenne tira e molla
con la ragazza che era stato il suo primo vero amore.
Dovevo ammettere, in fondo, che quel quattro febbraio non era stato un
giorno totalmente negativo. Avevo conosciuto Marco e Gianluca aveva
conosciuto
Marzia, la sua attuale ragazza.
Sì, faticavo anche io a capacitarmi del fatto che Gianluca,
il mio Gianluca
Terenzi, si fosse fidanzato, mettendo finalmente la testa a posto.
Aveva sempre
rappresentato per me il Casanova ideale.. Il bello e impossibile di cui
io ero
la migliore amica, invidiata da tutte le ragazze. Ma ero felice per
lui, incredibilmente
felice.. Marzia era una ragazza adorabile che avevo avuto modo di
conoscere in
quel mese, ci teneva a Gianluca e non gli faceva mancare
attenzioni..Come del
resto faceva anche lui nei suoi confronti. E nel frattempo il ero
l’unica che
ancora vagava da sola in mezzo a migliaia di cuori innamorati.
Salutai
Marco con un bacio sulla guancia, scendendo dalla sua Smart ed
avviandomi verso il mio palazzo. Salii al secondo piano, dovevo vivevo,
ed
entrai nel mio appartamento. Mia madre ancora non c’era.
Entrai nella mia
stanza e buttai il cappotto sul letto sedendomi poi al computer. Entrai
su
Facebook ed andai a vedere i messaggi privati che mi attendevano:
Valeria..
Sara.. Emanuele Benassi. Emanuele Benassi?! Guardai stupida lo schermo,
cliccando poi sul messaggio per leggerlo.
Presto saprai
il perché.
Il mio cuore
cominciò a battere a velocità inaudite. Presto
saprò il
perché. Cosa voleva dire quell’ennesimo misterioso
messaggio? Emanuele Benassi
aveva proprio scocciato con quella storia dei rebus.. Continuava a
mandarmi
messaggi in codice che non riuscivo mai a risolvere a causa sia della
sua
ambiguità e sia del fatto che non ero assolutamente portata
per indovinare.
Spensi il computer e mi buttai sul letto, guardando il soffitto.
Emanuele
Benassi era un vero e proprio dilemma, dall’inizio alla fine.
Inizialmente non
mi calcolava in dei momenti e poi mi calcolava troppo.. Poi eravamo
passati
agli sguardi d’intesa, agli abbracci, alle frasi dette un
po’ apposta un po’
no.. Ed ora eravamo tornati ai messaggini in codice scritti su
Facebook.
Ottimo. Io, povera deficiente innamorata, cosa mai dovevo pensare?
Perché non
volevo dare una tregua al mio cuore stremato? Ce l’aveva
così tanto con me?
E ripensai velocemente a quella mattina nel corridoio.. “Mi
manchi” mi
aveva detto avvicinandomi a sé. Cosa sarebbe mai successo se
mi fossi
avvicinata cedendo al suo fascino? Cosa aveva intenzione di fare? E
perché
tutto d’un tratto dopo un mese mi diceva quelle cose e dopo
un mese e mezzo mi
mandava messaggi privati così, senza senso? Mi pensava anche
lui, forse?
-Ginni, sei a casa?- La voce di mia madre mi fece destare di scatto. Mi
alzai da letto e mi sistemai i capelli.
-Sì, mamma, arrivo!- Corsi in salone, sorridendo a mia
madre. Lei alzò il
braccio stringendo una busta blu.
-C’è posta per te.- Disse, porgendomi la busta. La
guardai incuriosita,
aprendola.
Gentile Ginevra Sforza,
Le annunciamo con immenso
piacere che in seguito alla Sua partecipazione alla competizione
d’inglese al
concorso Canguro, ha vinto un viaggio a New York dal 3/04 al 07/04 di
questo
anno ed un corso di inglese di per la durata del suo soggiorno nella
prestigiosa Williams School of New York City.
Alloggerà nel campus della
Columbia University, situato nel centro della città e tutte
le spese di vitto e
alloggio saranno pagate dalla nostra organizzazione.
Alleghiamo insieme a questa
lettera la prenotazione del volo di andata e ritorno ed i dettagli sul
suo
corso di lingua nella città.
Le inviamo i nostri più
cordiali saluti,
Asia De Matteis e Giacomo
Cornacchia.
Fissai
con la
bocca spalancata quei fogli. Lessi almeno tre volte la
lettera e controllai almeno altre dieci la prenotazione
dell’aereo.
-Allora?- Domandò mia madre, curiosa. Io la guardai
completamente
stupefatta.
-Ho vinto un viaggio a New York.- Dissi riuscendo a malapena ad
articolare
quella frase.
-Un viaggio a New York? Fai vedere!- Mi strappò di mano
tutta la
documentazione. Corsi al calendario: Era il diciassette marzo.. Ed il
tre
aprile andavo a New York. Avrei festeggiato il mio diciottesimo
compleanno a
New York.
-Vado a New York!- Dissi ad alta voce, come finalmente realizzando
ciò che
mi stava accadendo. Mia madre mi guardò sorridendo ed
annuendo.
-Sì, Ginevra, vai a New York.- La abbracciai con foga,
baciandole più volte
la guancia. Non potevo crederci.. Possibile che finalmente la fortuna
mi stesse
sorridendo? Andavo a New York. Gratis. Andavo a New York grazie ad un
diamine
di concorso fatto in prima liceo. Andavo a New York!
Spazio
dell’autrice*che pubblica perché il viaggio che
doveva fare è saltato..uff*: Alloooora!
Spieghiamo questo capitolo. Ho voluto
soprattutto delineare il rapporto che c’è ora fra
Emanuele e Ginevra ed i
motivi dei loro comportamenti. Inoltre ho voluto delineare meglio la
figura di
Marco ed il suo ruolo nella storia.. Ricordatevi che non introduco mai
i
personaggi a vuoto, io! Inoltre, ho introdotto questa nuova avventura
che
attende Ginni. New York. Vi dice qualcosa? Mah.. Non anticipo nulla!
Spero che
vi piaccia anche questo capitolo malgrado io personalmente lo reputo
noioso,
anche se necessario. Ora passiamo ai ringraziamenti:
x_MoKoNa: Preciso che
sfortunatamente queste storie romantiche hanno sempre un non so che di
film..
Tuttavia quel capitolo l’ho voluto introdurre appunto per
delineare meglio la
figura di Emanuele. Come hai detto tu è molto ambiguo.. Non
si capisce se è
interessato a Ginevra o no. In realtà sembra proprio che lui
si diverta
semplicemente.. Ma dopo la reazione di Ginni e le sue decise condizioni
affinché tornino al loro rapporto precedente, Emanuele
comincia a cambiare e a definirsi,
perdendo la sua tendenza a cambiare ogni secondo faccia. Comunque..
Grazie
infinite per la recensione, attendo tuoi commenti anche su questo
capitolo! Un
abbraccio!
Swettlove: Eh
già, Emanuele è
proprio un deficiente.. Però se non fosse così
complicato e stupido, non
sarebbe bella la sua storia con Ginni, no? J
Grillomylife: Ahahahah ma
non si
chiama Lucry! E’ Ginni lei!
Vero15Star: Oh! Una nuova
lettrice!
Si.. Sfortunatamente in amore siamo tutti un po’ degli
idioti! Emanuele è uno
stronzo da un lato, certo, ma anche lui si renderà conto dei
propri errori, col
passare del tempo.. Gianluca è il migliore amico che anche
io vorrei, e tutte
le sue caratteristiche, il suo carattere, sono uguali a quelle di un
mio
carissimo amico che però non vive a Roma.. Uffa! La sfiga
proprio! :D Grazie
per la tua recensione, spero di leggerne altre! Bacio!
Elienne: Marco
è un amoree!
Infatti l’ho introdotto anche in questo capitolo
perché mi piace un sacco..
Anche se ho paura di farlo diventare una sottospecie di Gianluca 2!
Grazie per
la recensione!
Ombrosa: Ahahah
si in quel
capitolo mi ero effettivamente divertita.. Ho creato un paio di
situazioni che
potevano far pensare che succedesse qualcosa ed invece.. Alla fine La Catastrofe
più totale!
:D Grazie per aver conitnuato a leggere e recensire questa storia.. mi
fa un
piacere immenso!
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Capitolo 8 *** Regalami un Sorriso ***
"L'amore chiede tutto, ed
ha il diritto di farlo."
Ludwig van Beethoven
Capitolo Ottavo: Regalami un
Sorriso.
Sorseggiavo
tranquillamente la mia Guinness, muovendo la testa a ritmo
di musica, mentre mi trovavo con Marco all’Irish Pub del mio
quartiere alla vigilia della
mia partenza per New York. Avevo già salutato Sara,
Gianluca, Federico e Marzia
che si erano assicurati che non solo mi divertissi ma che mi ricordassi
di loro
nel momento di comprare i souvenir. Per quanto riguardava il mio
imminente diciottesimo
compleanno al quale mancavano all’incirca quarantotto ore, mi
avevano
semplicemente raccomandato di non pensare troppo al regalo che mi
avevano fatto
in quanto lo avrei ottenuto solamente “a tempo
debito”.
-Sei emozionata?- Mi domandò Marco, mentre mangiava le
noccioline che ci
avevano portato con le birre.
-Da impazzire.- Dissi ridacchiando, alternando alla birra la sigaretta.
La
cosa più bella di quel pub era proprio l’area
fumatori. –E’ sempre stato un mio
sogno andare a New York, ma ogni volta mia madre mi trascina in viaggi
esotici
e mai nelle grandi metropoli. Erano anni che assillavo Gianluca e Sara
affinché
andassimo nella Grande Mela!- Lui sorrise.
-Io ci sono stato dopo la maturità.. Mi sono fatto un mese
lì per poi
tornare per gli esami d’ammissione a Medicina.- Aprii la
bocca sbalordita.
Avevo appena trovato il viaggio perfetto per me! –Tu
però hai avuto più
fortuna. Non paghi neanche!-
-In effetti quando ho ricevuto quella lettera sono rimasta per un
attimo
sconvolta. Non ci potevo credere di avere tutta quella fortuna, io, che
ultimamente sembro perseguitata dalla sfiga!- Scoppiammo a ridere
entrambi
anche se in realtà io, con quella risata, volli mascherare
una più nascosta
tristezza. Da quando avevo conosciuto Emanuele, quella mattina di
Gennaio, non
erano stati pochi gli eventi che mi avevano colpito. Per citare solo
quelli più
importanti c’era stato il coma etilico di Sara, la decadenza
della fiducia di
Ombretta Marini nei miei confronti, la mia seconda delusione
d’amore e tanti, tanti
filmini mentali che non riuscivo più a smettere di farmi. Se
avessi impegnato
l’energia che mettevo per sognare ad occhi aperti nello
studio e nella ricerca,
probabilmente in quel momento sarei stata una rinomata scienziata ai
livelli di
mister Einstein!
Tuttavia da quando mi era arrivata quella lettera riguardante New York,
avevo ben deciso di smetterla di farmi problemi, di piangermi addosso
come
diceva Marco e di pensare sempre solo ai lati negativi portati dalla
comparsa
di Benassi nella mia vita. Tutto sommato, come avevo già
detto, non era andato
poi tutto così tanto male per me e per i miei amici e,
probabilmente, era
finalmente arrivato anche il mio turno di godermi un po’ di
felicità.
Dopo che Marco ebbe pagato il conto, rifiutandosi categoricamente
–come
sempre- di farmi pagare anche solo un centesimo, uscimmo dal pub e
salimmo
nella smart. Nonostante fossero già i primi
d’aprile, il tempo non era
assolutamente migliorato: faceva sempre piuttosto freddo e non si
poteva uscire
di casa senza una sciarpa addosso ed un cappotto, anche se non
esageratamente
pesante. Non appena chiudemmo le portiere dell’auto, Marco
mise in moto ed
accese la musica, infilando nel lettore CD un disco dei Guns and Roses,
come
faceva sempre quando ero in macchina con lui.
-Ti riporto a casa, no?- Mi domandò, guardandomi un attimo
mentre faceva
manovra per uscire dal parcheggio.
-Sì, domani ho l’aereo che parte alle dieci di
mattina.. Devo stare per le
otto a Fiumicino e quindi capirai a che ora dovrò mettere la
sveglia.- Marco si
limitò ad annuire, partendo poi a gran velocità
dal pub.
Passavo lentamente le dita sulle rifiniture in legno della portiera,
giocherellando con tutto ciò che mi capitasse a tiro. Amavo
con tutta me stessa
quella macchina: forse perché mi faceva evitare di pensare
ai cinquantadue
chilometri orari che faceva la mia scatola di latta o forse
perché ormai dopo
due mesi che conoscevo Marco, mi ci ero abituata.
-Almeno starai per un po’ senza problemi per la testa.- Lo
guardai. Sapevo
perfettamente che si riferiva ad Emanuele e mi domandai mentalmente per
quale
assurdo motivo, tutto ad un tratto, lo tirava in ballo. Durante tutta
la sera
non lo avevamo nominato ed io ne ero stata estremamente felice ed ora,
a due
minuti da casa, mi diceva quelle cose. Strano.
-Mh..Sì, un po’ di pace almeno per i miei diciotto
anni l’ho ottenuta.-
Dissi tranquilla, anche se ancora un po’ stordita, mentre lui
ormai si fermava
sotto il mio palazzo.
Ci guardammo per un istante e lui mi sorrise, portando poi con mia
grande sorpresa,
la sua mano al mio viso, carezzandomi con dolcezza la guancia per poi
sistemare
una ciocca ramata dietro l’orecchio. Cosa stava facendo? Il
mio cervello
cominciò a lavorare bruciando tutti gli zuccheri che avevo
ingerito nel corso
di quella giornata.
-Mi mancherai, lo sai?- Domandò Marco con voce roca,
guardandomi fisso
negli occhi. Il panico si impadronì di ogni singolo muscolo
del mio corpo e mi
paralizzai, riuscendo per fortuna a non fare facce troppo strane.
Deglutii,
continuando a ricambiare quello sguardo.
-Anche tu..- Mormorai prendendo finalmente un po’ ti fiato.
Perché tutto
d’un tratto mi preoccupavo in quel modo? Quante volte
Gianluca mi aveva parlato
così, anche in modo più esagerato, quante volte
mi aveva carezzato il viso,
abbracciato, mormorato cose dolci? Ma lui
non è Gianluca. Un’odiosa vocina
parlò nella mia mente ed io mi chiesi per
la prima volta nella mia vita, seriamente, se non stessi veramente
sfiorando la
follia più totale. Però, infondo, quella
sottospecie di coscienza aveva
ragione: Marco non era Gianluca. Quell’ultimo lo conoscevo da
tutta la mia
vita, mi aveva vista con l’apparecchio, con i brufoli, mi
aveva vista rompermi
il polso con il monopattino, mi aveva vista crescere, soffrire,
cambiare ed io
lo avevo visto nelle stesse situazioni. Gianluca era il mio migliore
amico, mio
fratello in pratica, mentre Marco era semplicemente un ragazzo molto
gentile
che conoscevo da due mesi e che mi ispirava fiducia e simpatia.
-Spero che mi penserai in questi giorni..- Cominciò lui,
facendomi
paralizzare nuovamente quando con la sua mano tornò a
carezzare con dolcezza la
mia guancia, scendendo poi con le dita sulle mie labbra, sfiorandole e
schiudendole leggermente. Ero completamente impazzita:perché
non mi muovevo?
-..Perché io ti penserò in continuazione.-
Continuò Marco imperterrito. Il buio
dell’auto probabilmente nascondeva la mia espressione
terrorizzata. –Credo di
essermi innamorato di te.- Quelle ultime parole arrivarono a me come
una
pugnalata. Ecco cosa succedeva a fidarsi troppo di un ragazzo che non
fosse il
mio Gianluca! Non ebbi neanche il tempo per ragionare, fare qualcosa,
perché le
labbra di Marco si posarono con estrema delicatezza sulle mie, per far
poi
spazio all’insistenza. Mi ritrovai a rispondere per qualche
istante a quel
bacio, finché il mio cervello si decise a darsi una mossa e
a risolvere quella
maledetta situazione.
Portai le mani al petto di Marco e lo allontanai di colpo da me,
guardandolo poi negli occhi senza sentirmi più spaesata.
Scossi la testa mentre
le mie labbra ardevano a causa di quel bacio che aveva assunto per
qualche
strano motivo i caratteri della violenza.
-Marco, io..- Cominciai a dire, ma lui sorrise, scuotendo la testa ed
allontanandosi.
-Sei innamorata di Emanuele, lo so..- Guardò la strada
davanti a sé,
stringendo le mani in dei pugni. Ma allora era proprio una fissa dei
ragazzi
quella dei pugni! Io mi limitai ad annuire, senza smettere di guardarlo.
-Mi dispiace.- Mormorai. Marco continuava a scuotere debolmente la
testa.
-Scusami tu, Ginni.. Ho superato il limite. Sapevo perfettamente di
Emanuele ma non sono riuscito a controllarmi.- Poi finalmente si
girò a
ricambiare il mio sguardo, con un’espressione un
po’ triste sul volto ma quel
suo perenne largo sorriso sulle labbra. –Fai finta che non
sia successo nulla,
se puoi.. e fai buon viaggio.- Io annuii, aprendo la portiera. Per un
attimo mi
fermai a pensare se lasciarlo con un bacio sulla guancia o no, ma alla
fine
decisi di andarmene senza peggiorare ulteriormente la situazione.
Richiusi la
portiera alle mie spalle con un leggero sorriso sulle labbra, aprendo
poi il
cancello ed entrando nel palazzo. Sentii la macchina partire e
sospirai. Quella
nuova avventura proprio non mi ci voleva.
Arrivai a casa e buttai il cappotto, la borsa e la sciarpa sul letto,
guardando poi di sbieco la valigia già pronta per la
partenza. Il giorno dopo
andavo a New York.. Non dovevo lasciarmi turbare da
quell’avvenimento. Ma come
fare? Chissà da quanto tempo Marco nutriva nei miei
confronti un sentimento più
forte dell’amicizia, chissà da quanto tempo
credeva di amarmi e
chissà come si sentiva in quel preciso istante.
Probabilmente lui, in quel momento, provava le medesime cose che avevo
provato io quando avevo visto Emanuele baciarsi con Giulia. Gli avevo
detto
detto chiaramente, più volte, nel corso di quel mese che
amavo Emanuele, che
volevo Emanuele.. E chissà lui ogni volta come si era
sentito. Chiusi gli
occhi, portandomi le mani fra i capelli e sospirando.
Dopo
essermi ripresa almeno un po’, presi il cellulare e fissai
per qualche
istante lo schermo. Infine andai sul menù e scelsi di
scrivere un nuovo
messaggio.
Marco mi ha baciata. Avevi
ragione tu.. Quell’amicizia puzzava troppo.
Inviai il messaggio a Gianluca, sospirando. Mi aveva avvertita
più volte nel
corso di quei due mesi che probabilmente Marco aveva intenzione di
ottenere
qualcosa di più delle nostre amorevoli chiaccherate
giornaliere da tipici
amici. Inizialmente avevo creduto che lo dicesse per gelosia nei
confronti del
nostro rapporto ma, solo in quel momento, incominciavo a realizzare
seriamente
che Gianluca non si sbagliava mai.
E magari adesso ti stai
deprimendo e non ti va di partire. Idiota! Mettiti a letto e pensa che
domani a
quest’ora stare a New York City e che starai attendendo
impaziente il tuo
diciottesimo compleanno!
Ecco perché adoravo Gianluca: non mi aveva scritto
“avevo ragione io”
oppure “te l’avevo detto” ed era anche
riuscito ad indovinare perfettamente il
mio stato d’animo. Sorrisi ad ogni parola di quel messaggio,
ridacchiando fra
me e me.
Sei il mio angelo. Ti voglio
bene, tesoro! Buonanotte.
Posai il cellulare sul comodino e mi spogliai, mettendomi il pigiama e
poi
andando in bagno per struccarmi. Da un lato il mio cuore soffriva un
po’ per
Marco perché si immedesimava nelle sensazioni che
probabilmente in quel momento
lui stava provando, dall’altro invece mi ordinava di seguire
il consiglio di
Gianluca, di lasciarlo perdere perché non ne valeva la pena
di rovinarsi il
viaggio dell’anno a causa di un ragazzo conosciuto appena due
mesi prima.
Tornai in camera e tolsi tutta la roba che avevo accumulato sul letto
nel
corso di quella giornata e mi misi sotto le coperte, spegnendo la luce.
Solo a
quel punto presi il cellulare e lessi l’ultimo messaggio di
Gianluca.
Attenta che così mi innamoro
anche io!!! Scherzo lo sai, che poi Marzia ti impicca! Ti vu bi anche
io.. Ma
bi sta per bruciare. Buonanotte, chiamami dall’aeroporto.
Scoppiai a ridere come una deficiente mentre spegnevo il cellulare e
chiudevo gli occhi. Ecco perché ero felice di svegliarmi
ogni mattina per
andare a scuola, ecco perché quando stavo male riuscivo ad
affrontare tutto con
un sorriso. Avevo Gianluca e sapevo che nessuno sarebbe riuscito a
distruggermi
finché ci sarebbe stato lui al mio fianco. Con
quell’ultimo pensiero lasciai il
mondo degli svegli e mi inoltrai in quello dei dormienti, crollando in
un
lungo, profondo sonno.
Salii
felice e soddisfatta nei confronti del mondo e dell’intero
universo su quell’aereo, pronta psicologicamente ad
affrontare quella vacanza a
New York City, totalmente inconsapevole del fatto che, otto ore dopo,
sarei
scesa arrabbiata come una belva con il desiderio di tornare a Roma.
-Goodmorning!- Mi salutò educatamente una hostess sulla
quarantina: la
tipica donnona americana. Capelli biondi, corti, viso tondo ed un
sorriso tanto
ampio quanto falso. –The Business Class is right here.- Mi
indicò cortesemente
i miei posti a sedere in prima classe. Le risposi con un semplice
accenno di
sorriso, avviandomi poi al mio posto. Non feci in tempo a fare due
passi che la
mia mandibola cadde a terra ed i miei occhi uscirono fuori dalle
orbite.
-Cosa diamine ci fai tu qui?- Emanuele Benassi sedeva tranquillamente
al
posto affianco a quello che doveva essere il mio, leggendo il
Messaggero. Mi
guardò, sorridendo.
-Vado a New York.- Disse con estrema calma. –Anche tu,
immagino.- No, qui
c’era qualcosa che non tornava. Aprii la bocca, come per
parlare, ma poi la
richiusi stizzita. Lui mi guardò ancora un po’,
compiaciuto, tornandosene poi a
leggere il giornale.
-Signorina, potrei passare?- Una signora anziana mi tamburellava con le
sue
lunghe dita nodose sulla spalla. Annuii e mi sedetti velocemente vicino
ad
Emanuele, ancora incapace di capacitarmi del fatto che andasse a New
York.
-Perché vai a New York?- Domandai, evitando accuratamente di
urlare..
Malgrado fosse una tentazione irresistibile.
-Mi va.- Scrollò le spalle senza staccare gli occhi dalla
pagina sportiva.
Gli strappai il giornale dalle mani, mettendomelo sulle ginocchia. Lui
si girò
lentamente, inarcando un sopracciglio.
-E vorresti dirmi che è un caso che tu vada a New York
proprio quando ci
vado io, durante la settimana scolastica, e stia seduto proprio accanto
a me?-
Ridussi gli occhi a due fessure mentre uno strano presentimento stava
avendo la
meglio su di me.
-Il mondo è piccolo, Ginni. Ora dammi il giornale, su..-
Allungò la mano in
direzione del Messaggero ed io prontamente gliela schiaffeggiai.
-Non me la dai a bere così!- Dissi con una
tonalità decisamente alta: stavo
cominciando a dare in escandescenze. La hostess che mi aveva accolto si
fermò
accanto alla nostra fila, indicandoci il segno delle cinture che
dovevano
essere allacciate. Emanuele le sorrise nella maniera più
ruffiana che avessi
mai visto, guardandomi poi severamente.
-Su, Ginevra, allaccia questa cintura che l’aereo adesso
comincia a
muoversi e poi decolliamo.- Sorrise un’ultima volta
all’americana, che ricambiò
allontanandosi. Io sbuffai, sistemando quella cintura e guardando lo
schermo
davanti a me su cui compariva il logo della Delta Airlines. Decisi di
lasciar
perdere l’interrogatorio per un po’: almeno per la
durata del decollo, che
rappresentava per me il punto più critico
dell’intero volo. Mentre l’aereo
faceva le manovre per giungere alla pista, cercavo di non inviare
troppe
maledizioni ad Emanuele Benassi, seduto al mio fianco, che leggeva
tranquillamente il giornale, che gli avevo restituito, senza farmi
troppo caso.
E certo, lui era tranquillo.. Ed io mi ritrovavo a pensare per quale
strano
scherzo del destino mi trovassi su quell’aereo seduta vicino
a lui. L’aereo
prese velocità, alzandosi poi velocemente in cielo, pronto
ad affrontare quella
traversata dell’oceano Atlantico. Chiusi gli occhi, evitando
di pensare agli
incidenti aerei degli ultimi anni e cominciando ad immaginare il mio
soggiorno
negli States.
-Sei proprio ingenua.- La voce di Emanuele unita alla mia paura del
decollo, favorirono a far diventare il più cagnesco
possibile lo sguardo che
gli lanciai.
-Cosa vorresti dire?- Sibilai, mentre il mio stomaco si contorceva.
-Da quand’è che per i concorsi Canguro vinci un
viaggio in America?- Disse
con un ampio sorriso sulle labbra. Io spalancai la bocca, non pensando
più
all’aereo in fase di decollo ma alle sue parole.
-Cosa diamine stai insinuando?- Dissi con una voce che non riconobbi
come
mia: roca, preoccupata. Quell’orribile presentimento stava
tornando a galla.
-Che forse è stato uno scherzo architettato con grande
maestrìa.- Disse
vago, riponendo nello zaino che aveva con sé il giornale e
cominciando a
guardarsi intorno, evitando accuramente il mio sguardo assassino. Lo
afferrai
per il colletto della polo che portava, costringendolo a fissarmi negli
occhi.
-Sputa il rospo.- Sillabai, con il suo viso ad un paio di centimetri
dal
mio. Lui sorrise.
-Forse ho organizzato tutto io.- Le ultime due parole le disse appena,
visto che strinsi talmente tanto quel colletto da rendergli difficile
il
respirare. Lui allontanò le mie mani dal suo collo con
delicatezza, mentre io
non riuscivo a togliermi un’espressione di sorpresa dal volto.
-Avresti pagato mille euro di volo?- Domandai stupefatta.
–Avresti
falsificato la documentazione della Williams? Dell’alloggio
alla Columbia?- Ad
ogni domanda che ponevo il mio sangue ribolliva a temperature sempre
più alte.
-Ho pagato solamente l’inchiostro per stampare tutti i
fogli.- Disse,
trattenendo appena una risata.
-Ed il volo aereo?- Non ci potevo credere. Stava parlando seriamente?
Era
veramente serio?
-Non sai che è mio padre a costruire tutti gli aerei della
Delta?- Domandò
con calma mentre io scuotevo la testa. –Ora lo sai.- Concluse
dondolando
beffardo la testa. Gliela avrei staccata a morsi quella testa.
–Quindi dedurrai
che i biglietti sono gratis.- Concluse soddisfatto. La manovra del
decollo era
terminata e l’aereo era passato in fase di crociera. Slacciai
la cintura ancora
frastornata e cercai di calmare i miei nervi.
-E per quale assurdo motivo avresti fatto tutto ciò?-
Balbettai incerta sul
da farsi: picchiarlo o rassegnarmi. Ormai stavo andando a New York.. Il
fatto
che fosse colpa di Benassi era un piccolo insulso.. Dettaglio. No?
-Io e te dobbiamo chiarire un po’ di cose.- Strabuzzai gli
occhi.
-TU SEI MATTO!- Urlai dandogli un pugno sul braccio. Un po’
di persone di
affacciarono dalla Economica per guardarci. –Tu hai
organizzato tutto ciò
perché devi chiarire con me? Tu sei matto!-
Abbassai il tono della voce, senza
continuare a riempirlo di pugni. –Non potevi parlarmi a Roma?
Qual’era la
necessità di portarmi a New York? Sei matto, matto, matto!-
-A Roma non mi ascolti..- Disse lui affrontando tranquillamente il mio
sguardo. Lo odiavo quando riusciva a mantenersi calmo in tutte le
situazioni.
–E poi fa più effetto a New York.-
-P-più effetto?- Balbettai. Stava scherzando vero? Da
piccolo gli avevano
datto una botta in testa davvero forte, forse?
-Consideralo come un regalo di compleanno.- Mi rivolse un ampissimo
sorriso, quasi più ruffiano di quello che aveva indirizzato
alla hostess
americana.
-E mi spieghi dove dormo?- Milioni di domande cominciavano ad
affiorare.
-A casa mia.- Rispose, prendendo la rivista di bordo.
-A-a casa tua?-
-Non sapevi che ho un attico sulla quinta strada?- Sì, lo
sapevo. Ricordai
in un lampo le parole di Sara su di lui, il fatto che passasse tutte le
sue
vacanze a New York e che fosse ricco sfondato. Preferii non rispondere,
prendendo il telecomando dello schermo situato sul sedile di fronte al
mio ed
impostando l’inglese come lingua. Non ci potevo credere: non
solo mi ero fatta
ingannare da Emanuele Benassi in quella maniera colossale, ma ero
seduta su un
aereo, diretto a New York, proprio con l’organizzatore di
quella trappola ed
avrei passato quattro giorni con lui, compreso il mio compleanno.
Mentre
immaginavo tutte le modalità in cui potevo far morire
quell’adorabile ragazzo,
quest’ultimo
sorrideva beato mangiando le noccioline che l’hostess gli
aveva portato. Potevo
buttarlo giù dal suo attico, farlo investire da un taxi,
ficcargli una
forchetta in gola mentre dormiva beato. I miei occhi ormai erano due
fessure ed
uno strano sadismo si stava impossessando con me, quando qualcuno
tamburellò
insistentemente sulla mia spalla. Mi girai ed il gioioso volto di
Emanuele mi
accolse.
-Ci guardiamo un film?- Mi domandò con aria innocente.
L’annuncio del
pilota coprì la marea di parole poco carine che gli rivolsi.
Ero
sveglia da almeno cinque minuti e guardavo lo schermo che diceva che
mancavano dieci minuti all’arrivo. Al mio fianco Emanuele
dopo aver bevuto lo
champagne che si era riuscito a far dare dalla hostess nonostante non
avesse
ventuno anni, dormiva beato, senza accorgersi della lenta discesa
dell’aereo.
Per tutta la durata del volo non gli avevo rivolto parola se non per
rispondergli acida, ancora troppo immersa nei miei pensieri contorti
per
riuscire a mettere insieme delle frasi sensate. Era tutto estremamente
assurdo:
per quale motivo Emanuele aveva organizzato tutto quel viaggio?
Possibile che
fosse così esageratamente determinato a chiarire con me? Presto saprai il perché. Quel
messaggio privato era arrivato lo
stesso giorno della falsa lettera della vincita del viaggio ed io non
avevo mai
pensato a collegare quei due eventi, troppo presa
dall’entusiasmo per la
partenza. Emanuele Benassi mi aveva stupita per l’ennesima
volta e malgrado
dissimulassi la mia soddisfazione per quel suo gesto, non riuscivo a
nascondere
a me stessa la contentezza per trovarmi su quell’aereo con
lui, diretta a New
York dove avremmo passato quattro giorni noi due da soli.
-Mhh..- Emanuele si rigirò al mio fianco, mugolando. Lo
guardai ed evitai per
un pelo di mettermi a ridere come una deficiente: aveva i capelli mori
tutti
spettinati, la bocca appena schiusa e l’aria di un bambino
innocente. Tirai
fuori la macchinetta fotografica e gli scattai velocemente una foto,
nascondendola subito. Ci fu un vuoto d’aria e
l’aereo sobbalzò, facendo
svegliare di scatto il mio compagno di viaggio che
sbadigliò, stiracchiandosi
poi. –Buongiorno.- Disse con la voce ancora impastata dal
sonno e gli occhi
gonfi. –Quanto manca?- Domandò dopo essersi
scrocchiato l’osso del collo.
-Stiamo atterrando.- Risposi con maggiore calma rispetto alla nostra
prima
chiaccherata: ormai il mio tono trapelava rassegnazione da tutti i pori.
-Dopo che abbiamo preso le valige andiamo a casa a posare tutto.. Ci
viene
a prendere l’autista di mio padre.- Spiegò mentre
l’aereo toccava finalmente
terra, facendo scoppiare tutti in degli applausi. Emanuele mi parlava
così
calmo del nostro programma per la giornata che mi veniva sinceramente
voglia di
riprendere a sbraitargli contro per tutto ciò che aveva
organizzato. Mi limitai
quindi ad annuire serrando i denti, tirando nel frattempo fuori il
telefonino
dalla tasca dei jeans. Lo accesi e chiamai mia madre, fregandomene
altamente
delle disposizioni di sicurezza che vietavano l’uso degli
apparecchi
elettronici fino alla definitiva fermata del veicolo.
-Ciao, mamma!- Dissi, cercando di sembrare il più calma
possibile. Non ero
abituata a mentire a mia madre.
-Ciao, tesoro! Andato bene il volo?-
-Sì, ho dormito tutto il tempo.. Che ore sono ora
lì in Italia?- Domandai,
slacciandomi nel frattempo la cintura. Guardai Emanuele che
giocherellava con
il proprio iPhone. Scossi la testa.
-Qui sono le sei.. da te è mezzogiorno, giusto?-
-Esatto. Senti mamma, ti mando un messaggio quando arrivo al campus che
sennò mi scarico la scheda subito!-
-Ok, ci sentiamo dopo.-
Attaccai e riposi il cellulare nella borsa, inspirando ed espirando
profondamente. Povera mamma che pensava che fossi diretta al campus
della
Columbia University, mentre in realtà stavo per essere
segregata nella casa
newyorkese di Benassi. Cosa avevo fatto di così negativo
nella mia vita
precedente?
Venti minuti dopo io ed Emanuele avevamo già passato il
controllo
passaporti e stavamo aspettando tranquillamente l’arrivo dei
nostri bagagli.
Continuavo a non parlargli, aggrappata all’utopia che quello
fosse solo
l’ennesimo incubo notturno e che presto mi sarei svegliata,
ridendone
allegramente. Un pizzico sul braccio mi fece capire che non ero nel
mondo dei
sogni, ma in quello reale, e che l’incubo lo stavo vivendo in prima persona. Guardai
Emanuele che con quella sua aria
angelica fissava i primi bagagli che stavano uscendo, come se non fosse
stato
lui a staccarmi mezzo braccio con quel pizzico.
-La mattina prendi una gran dose di simpatia tu, vero?- Lui
scoppiò a
ridere.
-Tu invece sei un’accannita consumatrice di yogurt scaduti.-
Rispose a
tono, facendomi boccheggiare qualche istante. Aveva decisamente
stancato quel
ragazzo! Individuai la mia valigia e la tirai via dal nastro che la
trasportava, con Emanuele che ridacchiava per l’espressione
che avevo
evidentemente fatto.
-Potevi anche aiutarmi.- Borbottai mentre mi davo una botta sulle
ginocchia, per sistemare i jeans.
-Quando faccio cose carine per te reagisci sempre male.- Disse mentre
prendeva il suo trolley, posandolo poi con estrema leggerezza affianco
al mio.
-Fra le cose carine devo anche aggiungere il fatto che mi hai ingannata
per
portarmi a New York con te?- Domandai inarcando un sopracciglio.
-Anche..- Non riuscì a concludere la frase perché
gli tirai un pugno nello
stomaco con non troppa delicatezza.
-No, quella non è una cosa carina.- Conclusi la nostra breve
e simpatica
conversazione in quel modo, girando poi sui tacchi ed avviandomi verso
l’uscita
dell’aeroporto senza preoccuparmi di aspettarlo.
-Ma dove vai da sola! Non sai manco qual’è la
nostra auto!- Mi urlò dietro,
ridendo.
-Prendo un taxi!- Sbottai, senza girarmi, continuando a camminare
decisa.Mi ritrovai
a stare ferma all’uscita
dell’aeroporto, le braccia incrociate al petto ed una grande
confusione in
testa.
-Come mai sei qui, signorina so-tutto-io?- Mi canzonò
Emanuele,
raggiungendomi e sorridendomi beffardo. Ovviamente ero rimasta ferma
lì senza
sapere dove andare, da chi andare, come andare. Non risposi, cercando
di non far
caso a quel sorriso sghembo che gli illuminava il volto.
–Forse mi aspettavi?-
-Forse.- Borbottai. Lui ridacchiò vittorioso.
-Andiamo su..- Indicò una Mercedes nera parcheggiata una
decina di metri da
noi e si incamminò. Lo seguii, muovendo ogni singolo passo
senza rendermene
ormai conto. L’autista scese dall’auto per aprire
il portabagagli e sistemare
le valige, passando poi ad aprirci le portiere, per farci entrare. Mi
sedetti
sui comodi sedili in pelle, tirando un sospiro di sollievo per il
riscaldamento.
A New York il tempo non era migliore di quello di Roma, anzi, faceva
anche più
fresco.
-Andiamo direttamente a casa, Mark.- Disse
Emanuele in perfetto inglese. Dannazione, la sua voce quando parlava in
inglese
era ancora più attraente.
-Perfetto.- Rispose, concentrandosi
poi sulla guida. Cominciai a guardare fuori dal finestrino, chiedendomi
un
altro milione di volte come avevo fatto ad essere così
stupida per cadere in
quel maledetto scherzo. Non avevo chiamato l’agenzia, niente,
avevo preso tutta
la documentazione, tranquilla ed ero salita sull’aereo,
felice, diretta a New
York.
-Domani è il tuo compleanno.- Disse Emanuele. Mi voltai con
un mezzo
sorriso. Lui guardava tranquillo fuori dal finestrino, con i muscoli
rilassati,
sembrava immerso nel suo universo parallelo.
-Mh..- Mi limitai ad emettere un lieve mugolìo.
-Richieste particolari?- Si voltò anche lui, guardandomi
direttamente negli
occhi, quasi come a volermi trapassare con tutta la sua forza.
-Mi basterebbe un perché.- Dissi a voce bassa,
sovrappensiero. Solo dopo
realizzai di averlo veramente detto. Stupida, stupida, stupida! Lui
rise,
buttando indietro la testa. Poi tornò serio e prese la mia
mano e se la portò
alle labbra, baciandola leggermente prima di lasciarla con delicatezza
sul sedile.
-Testarda che non sei altro.- Mormorò, lanciandomi
un’ultima divertita
occhiata, tornando a guardare la città che si delineava al
nostro fianco, fuori
dal finestrino.
Si, Emanuele, la testarda ero io, ero la io razionale e non. Testardo
era
il mio maledetto cuore che ti desiderava follemente e non ne voleva
proprio
sapere di battere per te, di sobbalzare ogni volta che ti vedeva..E
testarda
era diventata anche la mia mente che non voleva vedere il soffrire il
cuore e
cercava ora disperatamente delle risposte, per proteggermi dalla
sofferenza,
dal dolore.
-Ginni..- Una voce distante mi chiamava, scuotendomi anche con
decisione.
Sì, era arrivata la fine di quell’incubo. Aprii
gli occhi e vidi Emanuele
chinato su di me che sghignazzava. No, l’incubo era appena
cominciato.
Mi ero addormentata con la guancia spiaccicata contro il vetro della
macchina e dopo che mi fui staccata mi strofinai il viso e gli occhi
non
energia. Mi guardai intorno: eravamo proprio sulla quinta strada; lo si
notava
dal traffico, dalla gente sui marciapiedi.. Guardai infine Emanuele
negli occhi
e scossi la testa.
-Siamo arrivati.- Mi disse con dolcezza, piano, in modo da non farmi
intontire ancora di più. Io mi limitai a fare un
leggerissimo cenno con il capo
e lo seguii fuori dalla macchina. Mark aveva già tirato
fuori le valigie e ci
sorrideva raggiante. Dopo i brevissimi saluti, io ed Emanuele ci
avviammo verso
il portone d’ingresso della lussuosa palazzina dove avremmo
soggiornato. Il
portiere ci aprì la porta, salutando affettuosamente
Emanuele e sorridendo a
me. Il tragitto fino all’ultimo piano fu piuttosto
silenzioso.. Da un lato ero
ancora nel mondo dei sogni, dall’altro non sapevo cosa dire
ad Emanuele visto
che il mio cervello era convinto a non instaurare un rapporto normale
con lui
fino a che non avesse ricevuto risposte soddisfacenti.
L’ascensore arrivò a
destinazione ed io seguii Emanuele nel pianerottolo, aspettando poi che
aprisse
la porta. Mi guardavo curiosamente intorno, chiedendomi nel frattempo
se era
veramente tutto reale: mi trovavo veramente in un lussuoso appartamente
sulla
Fifth Avenue? Ero veramente con Benassi? Scossi la testa, entrando
finalmente
in casa.
-Wow.- Non riuscii a trattenere quella esclamazione come misi piede
nell’appartamento. Era molto grande, arredato in stile
classico, con tutti i
mobili in legno pregiato. Ci fermammo nel salone, caratterizzato da un
enorme
libreria al cui centro c’era un televisore al plasma e degli
eleganti divanetti
verdi con le rifiniture in oro. Emanuele si buttò sul
divano, sospirando.Camminai
per un po’ per l’appartamento, tornando poi dal
proprietario di tutto quel ben
di Dio.
-Dove mi sistemo?- Domandai indicando eloquentemente la mia valigia.
Lui
aprì gli occhi, squadrandomi un istante.
-Dove ti pare..- Ma si, in fondo casa era la sua, no? Io dovevo andare
“dove mi pareva”. Scossi la testa, indirizzandomi
poi verso il corridoio dove
avevo capito fossero sistemate tutte le camere da letto. Aprii la prima
porta
che mi ritrovai sulla destra, ma l’urlo di Emanuele mi fece
talmente saltare su
dalla paura da far cadere il trolley.
-Tutte le camere ma non quella!-
Era ancora lontano.
Io ridacchiai ed
alzai la valigia, guardandolo poi con aria di sfida. Aprii la porta e
mi
ritrovai in un ampia stanza con le pareti azzurre: la stanza di
Emanuele?
Entrai, lasciando il trolley alla soglia, guardandomi curiosamente
intorno.
-Lentiggini, ti avevo detto di..- Troppo tardi, avevo già
localizzato ciò
che lui potentetemente cercava di nascondermi: una sua foto decisamente
da
usare come motivo di ricatto, appartenente ai teneri anni della sua
infanzia.
Emanuele era fotografato all’età di sette anni
circa, con i capelli
spettinatissimi ed una smorfia allucinante dipinta sul volto. Mi portai
le mani
alla bocca mentre scoppiavo a ridere, piegandomi quasi un due. Alzai un
secondo
lo sguardo e vidi Emanuele alla soglia della porta che mi fissava in
cagnesco.
Mi portai una mano agli occhi per asciugarmi le lacrime che si erano
rintanate
negli angoli. A
quel puntò Emanuele
scattò, placcandomi con una classica mossa da rugby e
buttandosi insieme a me
sul letto. Soffocai un gridolino, riprendendo poi nuovamente a ridere,
guardandolo.
Era steso sopra di me, sul comodo letto ad una piazza e mezzo, e
sorrideva
indispettito, guardandomi. Stava violando tutte le regole che avevo
posto,
stava rompendo uno ad uno i paletti che con tanto difficoltà
avevo conficcato
per delimitare quello che era stato e quello che era il nostro rapporto.
-Non hai diritto di ridere di quella foto, tu..-
Disse, puntandomi l’indice addosso fintamente minaccioso. Io
imbronciai il labbro inferiore. -..Non mi guardare così..
Dopo che ho visto quella tua foto,
hai perso ogni diritto
di criticare le mie smorfie!- Feci una faccia scandalizzata,
spingendolo via da
me per farlo scivolare al mio lato.
-Mi avevi promesso che non mi avresti più presa in giro per
quella!-
Riuscii a dire fra una risata e l’altra, pensando sia alla
mia foto che alla
sua.
-A mali estremi, estremi rimedi!- Disse lui convinto. Restammo
così a
ridere, guardando un po’ il soffitto ed un po’
l’uno all’altro, per un bel po’.
Alla fine dovevo ammettere che con Emanuele mi divertivo sempre: sapeva
farmi ridere, farmi stare bene con me stessa e nei confronti del
mondo..
Peccato che fosse anche dannatamente stronzo e che amasse giocare con i
miei
sentimenti. Ma questi erano piccolissimi dettagli.
Driin.
Quella
stramaledetta suoneria, accompagnata da un’insistente
vibrazione,
fecero rompere di colpo il contatto visivo che i miei occhi avevano
instaurato
con quelli castani di Emanuele. Mi sedetti sul letto, tirando fuori il
cellulare dalla tasca e guardai il numero sul display. Marco. Sorrisi
inconsciamente e risposi.
-Oi, ciao..- Emanuele nel frattempo si alzò, uscendo dalla
stanza. Mi
faceva effetto parlare con Marco dopo gli avvenimenti della sera
precedente, a
quel pub.. In fondo Marco me lo aveva detto chiaramente che per lui la
nostra
non era solamente un’amicizia, ormai, mentre io ero ancora
follemente
innamorata di Emanuele Benassi.
-Ciao!- La sua voce suonò allegra come sempre: per un
momento sperai che
gli fosse passata la delusione, ma subito realizzai che non fosse
possibile..
Io dopo due interi mesi ancora pendevo dalle labbra di Emanuele senza
riuscire
a disincantarmi. –Com’è andato il volo?
Sei arrivata al campus?- Domandò.
-Non hai idea di cos’è successo..- Incominciai,
fermandomi poi un istante.
Quanto male gli avrebbe fatto sapere che stavo con Emanuele a New York?
-Si?- Incalzò lui ed io dovetti fare velocemente mente
locale.
-Quel coglione di Benassi stava in aereo con me.. Quel ragazzo non lo
sopporto più di giuro, mi da ai nervi.- Sì, forse
se gli parlavo male di
Emanuele si sarebbe sentito un po’ meglio. Sentii Marco
ammutolirsi tutto d’un
tratto e già me lo immaginai tutto con i muscoli testi che
respirava
profondamente, cercando di mantenere la calma. Dopo un po’
ridacchiò,
istericamente, scaricando evidentemente la tensione, ed io capii che
avevo
agito correttamente.
Per mia sfortuna, nel momento in cui decisi di far stare meglio Marco,
ferii inconsapevolmente Emanuele. Nel momento in cui pronunciai altre
cose su
di lui, ben più pesanti, lui si affacciò alla
porta, guardandomi con una faccia
a metà fra il deluso e l’arrabbiato. Senza
pronunciare parola si voltò e se ne
andò. Due secondi dopo sentii la porta d’ingresso
chiudersi rumorosamente.
-Ginni, ci sei?- Mi domandò Marco, visto che ero rimasta in
silenzio a
ragionare su ciò che era successo.
-Mh si.. Marco, scusa, ma ora devo proprio andare..- Dissi velocemente,
alzandomi già dal letto.
-Ci sentiamo a mezzanotte!- Esclamò lui entusiasta,
chiudendo infine quella
chiamata. Sì, certo, ci saremmo sentiti a mezzanotte, per il
mio diciottesimo
compleanno, ma nel frattempo Emanuele se ne era andato, prendendosela
con molta
probabilità per ciò che avevo detto. Corsi fuori
dalla stanza, cercandolo per
tutto l’appartamento nella vana speranza che non fosse
veramente uscito:
controllai in ogni singola stanza dei due piani di cui era composta la
casa,
senza trovarlo, e solo allora decisi di uscire fuori ad affrontare New
York.
Mettetevi nei miei panni, maledizione.. Ero in una città che
conoscevo solo di
nome e di fama, senza la più pallida idea di come orientarmi
e alla disperata
ricerca di un ragazzo offeso che conosceva quella metropoli meglio
delle proprie
tasche. Perdevo assolutamente in partenza.
Mentre correvo nella stanza di Emanuele per prendere il cappotto,
lanciai
uno sguardo all’orologio che segnava le due passate.. dove se
ne andava un
ragazzo italiano diciassettenne alle due e mezza del pomeriggio a New
York?
Scossi la testa: entrare nella testa di Emanuele e capirlo era
impossibile già
per le cose più futili, figuriamoci per una questione seria.
Mi precipitai
fuori dall’appartamento prendendo le chiavi che il geniaccio
aveva lasciato e
mentre scendevo in ascensore mi soffermai a pensare che per la prima
volta in
tre mesi era colpa mia e non sua. Avevo indubbiamente esagerato, quella
volta,
con le parole, i commentini su Emanuele.. Sì, potevo covare
un certo rancore
nei suoi confronti e voler far stare meglio il cuore spezzato di Marco,
ma ciò
non giustificava assolutamente far del male ad un ragazzo che,
diciamocela
tutta, mi aveva portata a New York con sé.
Così mi ritrovai fuori dal palazzo, sulla Fifht Avenue,
senza avere la più
pallida idea di dove andare, cosa fare. Mi ritrovai ad aver percorso
l’intera
quinta strada, lunga com’era, ad aver camminato lungo
l’intero perimetro del
Central Park che dava sull’Upper East Side, e a non aver
concluso nulla. Non
era quello il modo in cui speravo di trascorrere il mio primo giorno
lì a New
York, non era il modo in cui speravo di relazionarmi con Emanuele: in
fondo
quella arrabbiata ero io e ad un tratto i nostri ruoli si erano
scambiati,
lasciandomi spiazzata. I taxi, la gente, New York si mostrò
ai miei occhi
confusa e troppo veloce, almeno per la mia capacità di
intendere di quel
momento.
Tornai così sconfitta alle sei davanti al palazzo, salutando
con un cenno
il portiere.
-Ha visto Emanuele Benassi?- Domandai
al signore
sulla quarantina d’anni. Lui scosse la testa, stringendosi
nelle spalle.
-Non l’ho visto più
rientrare
da quando lei è uscita a cercarlo.- Io ringraziai
e decisi di poggiarmi contro il
muro, all’aria aperta, per aspettarlo. Sì, non
m’interessava passare il mio
primo giorno a New York ad aspettare un deficiente che mi aveva fatta
stare
male.. Non m’interessava dare retta alla mia parte razionale
che mi imponeva di
andarmi a godere la città. Non mi sarei mai riuscita a
godere New York nelle
condizioni in cui ero in quel momento, andava completamente contro la
mia
natura.
Passavano i minuti, le ore, ed io restavo inchiodata a quel muro,
guardando
ogni singola persona che passava fumando una sigaretta dopo
l’altra. Ogni volta
che vedevo una frangia disordinata mora, o un ragazzo con la polo
gialla ed un
maglione grigio, il mio stomaco ed il mio cuore saltavano
contemporaneamente,
facendo una capriola, ma non appena realizzavo che non era lui entrambi
ammutolivano, lasciando un grande vuoto dentro di me. Non saprei dire
quanto
tempo passò esattamente dal momento in cui cominciai ad
aspettarlo lì, ma
quando lo vidi scendere dalla Mercedes nera, annullai tutta
l’ansia dell’attesa
e per poco non gli saltai con le braccia al collo. Per poco,
sì, perché quando
scese tutto traballante senza riuscirsi a reggere bene in piedi,
l’ansia fece
velocemente spazio alla preoccupazione. Gli corsi incontro,
abbracciandolo per
riuscire a sorreggerlo senza far notare nulla di strano al portiere che
per il
momento, continuava a stare tranquillo senza badare troppo a noi.
Quando lui poggiò la sua testa sulla mia spalla,
abbandonandosi contro di
me, un fortissimo odore di alcol giunse alle mie narici ed io spalancai
gli:
era ubriaco. Ma che ore erano? Perché tornava ubriaco? Non
riuscii a pormi
troppe domande visto che non appena congedai con un gesto Mark,
Emanuele si
divincolò da quella sottospecie d’abbraccio.
-Non fingere che ti importi qualcosa di me ora.- Borbottò,
incamminandosi
poi con passo incerto dentro la palazzina. Il portiere ci
aprì la porta con
aria circospetta ma io mi limitai a sorridere, come a volerlo
tranquillizzare
che il signorino Benassi non avesse nulla.
-Non fingo, idiota.- Sussurrai all’orecchio di Emanuele
mentre aspettavamo
l’ascensore. –Cosa diamine avevi intenzione di
fare?- Aggiunsi, guardandolo
seria.
Lui non mi rispose,
limitandosi a
spendere tutte le proprie energie per restare in piedi. In ascensore lo
osservai meglio: la testa gli dondolava da un lato all’altro
e gli occhi erano
completamente rossi.. Stentavo a riconoscerlo. Davvero quelle mie
parole a
Marco lo avevano portato a tanto? Addirittura all’andarsi ad
ubriacare? No, non
era possibile.. Lui era l’imperscrutabile Benassi, quello che
ne sapeva una più
del diavolo, che cambiava ogni secondo e che non riuscivi mai a
conoscere
veramente.
Le porte dell’ascensore si aprirono ed io passai un braccio
intorno alla
sua vita, per aiutarlo a reggersi meglio in piedi, camminando poi verso
la
porta. Tirai fuori le chiavi e con un po’ di
difficoltà riuscii a farlo
finalmente entrare dentro casa. Lui si liberò dal mio
braccio e si andò a
buttare sul letto dove ore prima era successo tutta la catastrofe e
sospirò
rumorosamente. Certo che io ero proprio attratta dagli ubriaconi, eh!
Prima
Sara, poi Emanuele.. e le loro sbornie le dovevo subire tutte io!
Raggiunsi con estrema lentezza la stanza dove si era sistemato e mi
affacciai, incontrando il suo sguardo pronto ad accogliermi. Era uno
sguardo
vuoto, spaesato, evidentemente aveva bevuto non poco e la testa gli
stava
girando ad alte velocità.
-Non ho bisogno della tua compassione, Lentiggini..-
Borbottò, mettendosi
poi seduto e smettendola di guardarmi. Io abbassai lo sguardo,
colpevole,
avvicinandomi lentamente a lui. Mi inginocchiai in modo tale da
ritrovarmi con
il viso alle sue spalle e lo guardai seriamente, costringendolo a
corrispondere
quel mio sguardo portando le mie mani al suo viso.
-Non sono un tipo che compatisce, dovresti saperlo.- Dissi seria,
concentrandomi a restare tale senza cadere nel fascino dei suoi occhi,
anche se
così dannatamente ubriachi e rossicci.
-Mi disprezzi.- Disse lui evidentemente amareggiato. –E chi
disprezza
tratta l’oggetto del proprio disprezzo come tu tratti me
solamente con
compassione.- Sospirai. Io non lo disprezzavo.. Non lo disprezzavo con
nemmeno
una cellula del mio corpo, non lo disprezzavo neanche per scherzo,
malgrado lo
desiderassi spesso, per non soffrire più per amore.
-Io non ti..- Cominciai, ma lui mi interruppe con un brusco gesto della
mano.
-Ti ho sentita, è inutile che adesso parli con tanto affetto
nei miei
confronti.- La sua voce era la tipica voce di un ubriaco che dice tutto
ciò che
ha nella mente, senza riuscire a trattenersi. Mi sarebbe venuta voglia
di
stringerlo forte a me, dicendogli che io lo amavo, che avevo detto
tutte quelle
parole solo a causa di Marco.. Ma restai ferma, immobile, a guardarlo
sentendomi terribilmente in colpa.
-Ti vado a preparare un caffé.. Sdraiati intanto.- Mormorai
infine,
alzandomi in piedi ed uscendo velocemente dalla stanza mentre il mio
cuore
batteva veloce. Arrivai alla cucina e poggiai le mani sul lavandino,
chiudendo
poi gli occhi e sospirando.
Tutto ad un tratto Emanuele si era mostrato ai miei occhi come non
aveva
mai fatto prima: debole, sconfitto, deluso.. E pensare che la causa di
ognuno
di quegli aggettivi che ora gli attribuivo fossi io, mi faceva stare
enormemente male. Immaginai per un istante come mi sarei sentita io se
lo
avessi sentita parlare in quel modo di me con.. Giulia, ad esempio,
malgrado
sapessi perfettamente che lei fosse già uscita dalla sua
vita, precisamente
quello stesso quattro febbraio in cui il mio cuore si era spezzato. Al
posto di
Emanuele mi sarei sentita morire, avrei pianto per ore, mi sarei fatta
tremila
filmini, lo avrei odiata con tutta me stessa. E magari anche lui in
quell’istante mi stava odiando. A quel pensiero il mio cuore
si strinse
talmente forte da farmi sospirare.
Dopo aver preparato il caffé, avendoci spremuto anche un
po’ di limone
dentro, tornai nella stanza di Emanuele, trovandolo finalmente in una
posizione
diversa da quella in cui l’avevo lasciato. Stava steso sul
letto fissando la
parete. Quando entrai lui alzò debolmente lo sguardo,
seguendomi con esso
finché non mi sedetti al suo fianco, poggiando la tazzina
sul suo comodino.
-Come ti senti?- Gli domandai con gentilezza. Lui come risposta
mugolò.
Ottimo, la sbornia lo stava portando alla fase del delirio.. Poi si
sarebbe
finalmente addormentato. Si mise a sedere, o almeno ci
provò, e lentamente
portò la tazzina alle proprie labbra, bevendo il
caffé. Non disse nulla,
tornandosene sdraiato a guardarmi con occhi vuoti.
Gli passai una mano fra i capelli mori, come avevo desiderato di fare a
lungo, e lui chiuse gli occhi, rilassandosi sotto i miei tocchi. Le
ciocche dei
suoi capelli scivolavano con estrema facilità fra le mie
dita e mi accorsi che
il mio cuore e la mia mente avessero finalmente fatto pace, almeno per
quei
pochi minuti che furono accompagnati dal silenzio che regnava in quella
stanza.
Passarono forse venti minuti ed io feci per allontanare la mano, pronta
ad
andarmene per lasciarlo dormire, quando lui afferrò le mie
dita con le sue,
lasciandomi quindi nella stessa posizione in cui ero stata fino a quel
momento.
Lo guardai curiosamente, ma lui non aprì gli occhi.
-Vorrei solo che tu fossi felice e che non odiassi me e questi quattro
giorni a cui ti ho costretta..- Mormorò con la voce
impastata. Aprì debolmente
gli occhi ed i nostri sguardi si incrociarono mentre lui lasciava la
presa
sulla mia mano. Io restai immobile, come paralizzata da ogni singola
parola che
aveva pronunciato.
-Scusami per ciò che ho detto prima.- Riuscii solamente a
dire. Non pensai
in quel momento che paradossalmente ero io che chiedevo scusa a lui e
non era
lui che chiedeva il mio perdono. Emanuele scosse con poca energia la
testa.
-Non mi devi nessuna scusa tu.- Io sorrisi. Evidentemente il ragazzo
leggeva anche la mia mente. –Però se vuoi farti
perdonare una cosa la potresti
fare..- Eccola là! Ora la parte stronza di lui sarebbe
venuta a galla.
Sospirai.
-Dimmi..- Dissi, sforzandomi di non guardarlo male. Avevamo appena
“chiarito” quell’inconveniente e non
volevo vederlo nuovamente afflitto. Strano
a dirsi ma il suo sguardo da cucciolo ferito ed orgoglioso mi era
rimasto
impresso fortemente, forse perché mi ricordava un
po’ me dopo che avevo chiuso
con lui.
-Regalami un sorriso.- Le sue parole mi lasciarono a bocca aperta. Lo
guardai per qualche istante mentre i miei neuroni sembravano essersi
paralizzati, non facendomi più ricevere alcun segnale dal
cervello. Le mie labbra
si piegarono spontaneamente in un dolce sorriso ed Emanuele lo
ricambiò,
chiudendo poi gli occhi e crollando in un lungo sonno.
Mi aveva chiesto seriamente di regalargli un mio.. sorriso? Siccome il
mio
cervello era deceduto, nel frattempo, non riuscii più
finalmente a fare
migliaia di ragionamenti contorti sul comportamento di Emanuele e, per
una
buona volta, fu il mio cuore a domare ogni mio singolo movimento. Scesi
dal
letto e ci risalii dall’altro lato, stendendomi al lato di
Emanuele. Poggiai la
mia fronte contro la sua spalla, sdraiandomi sul fianco destro e mi
addormentai
in pochi istanti, con il cuore finalmente più leggero e
soddisfatto di aver
battuto la mia esagerata razionalità.
**Autrice**
Cominciamo col dire che in questo capitolo ci ho messo tutta me
stessa..
Sapete che di solito non mi sbilancio con i commenti su ciò
che scrivo e sono
sempre piuttosto critica nei confronti di ciò che scrivo..
Ma questa volta lo
devo dire: amo questo capitolo.
Forse
vi stupirete per ciò che succede fra Marco e Ginni ma,
l’avevo già anticipato,
Marco avrà un ruolo di primo piano nella Fan Fiction e non
uscirà di scena
presto. Come vedete, inoltre, il capitolo porta il titolo
dell’intera storia..
Tutta l’idea della FF era partita da quando mi ero ricordata
una scena del
genere che mi è successa nella vita reale, quindi sono
piuttosto affezionata a
quelle tre parole xD!
Per ciò che Emanuele combina in questo capitolo: spero che
non vi sembri
troppo banale e scontata l’idea che quei due vadano a New
York.. ma non ho
resistito ed ho cercato di creare un modo carino per mandarceli
entrambi e
riuscire finalmente a risolvere questa relazione un po’
complicata che hanno.
Vorrei tanto aver visto le vostre facce quando Ginni arrivando nella
Business Class incontra Emanuele seduto molto sfacciatamente che la
guarda come
se non fosse successo nulla.. Ho riso da sola mentre li immaginavo
seduti
sull’aereo insieme! Comunque, come vedete sta succedendo
qualcosa, ma non
crediate che Emanuele riesca a sfuggire alla voglia di
“perché” di Ginevra..
sennò sarebbe troppo banale, ecco! Però vi
anticipo che per sapere
dovrete aspettare un altro capitolo o forse due! Detto ciò
passo ai
ringraziamenti!
Vero15star: Sì, Emanuele
è davvero
un cretino..però come vedi forse il comportamento di Ginevra
gli sta facendo
mettere un po’ la testolina a posto. Sfortunatamente i
ragazzi capiscono solo a
suon di mazzate ù.ù! Senza aver ancora letto la
tua recensione avevo
accontentato un po’ la tua fantasia su Marco e Ginni, vedi?
Anche se alla fine
non va a buon fine nulla xD Gianluca io lo amo con tutta me
stessa..altro che
Emanuele! Però ti devo deludere dicendoti subito che fra lui
e Ginni non ci
sarà mai nulla.. Voglio provare a crederci in questa sincera
amicizia fra donna
e uomo per una buona volta!! xD Grazie mille per la recensione!!
Elienne: Ahahah..Io quando sono
cotta di un ragazzo mi faccio trecento pippe mentali su ogni suo
singolo
gesto/movimento.. quindi mi sono completamente immedesimata nella
povera Ginni!
Per la spiegazione di Ema dovrai ancora aspettare un paio di capitoli,
ma più o
meno hai colto come sarà..anche se non l’ho ancora
messa bene a punto!
Betty O_o: Wa una nuova lettrice!
Grazie
infinite per tutti i complimenti! Gli errori ortografici
sfortunatamente sono
frutto della mia enorme pigrizia: scrivo di getto senza premeditare mai
e poi
sono sempre troppo pigra di andare a rileggere per scovare errori di
battitura
etc. Mi sforzerò d’ora in poi! Come vedi sono
riuscita a pubblicarla prima
della tua partenza ! Enjoy it!
x_MoKoNa: Spero che piano piano
riuscirai ad apprezzarlo un po’ di più dai.. xD!!
Grazie per la recensione
comunque, :**
Swettlove: Eccola la mia lettrice
più accanita! Ahah come vedi alla fine a New York Emanuele
ci è venuto per
davvero.. Ha organizzato tutto lui!! J
Spero che ti piaccia
questo capitolo.. Un bacione!
Ombrosa: Non sei affatto
ripetitiva per il semplice fatto che è sempre un enorme
piacere vedere la
propria storia recensita ed apprezzata! Il viaggio sfortunatamente
è saltato ma
vabbè.. ormai mi è passata la delusione iniziale!
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Capitolo 9 *** Pancakes, Alcohol and Rock 'n Roll ***
Come
vorrei stare qui con te, cosa
darei per restarti accanto,
vorrei che tu potessi
sorridermi.
La
Sirenetta.
Capitolo Nono: Pancakes,
Alcohol and Rock ‘n Roll.
Il
profumo della marmellata al lampone si insinuò nelle mie
narici
sinuosamente e mi fece aprire leggermente gli occhi. Per un attimo li
richiusi,
scivolando nuovamente nel mondo dei sogni, ma quando notai che questo
non
desisteva, mi costrinsi a controllare meglio da dove provenisse.
Aprii con tutta la mia forza di volontà e vidi una candela
bruciare,
incastrata su dei pancakes con panna e lamponi. Alzai lo sguardo ed
incrociai
quello di Emanuele e collegai finalmente tutto. Sorrisi, passandomi una
mano
fra i capelli.
-Fra un minuto compi diciotto anni..- Mi disse con voce calma.
Spostai più volte lo sguardo dai pancakes a lui. Allora
aveva organizzato
davvero tutto quel ragazzo. Scossi la testa, senza riuscire ormai a
scollarmi
il sorriso dalle labbra. L’arrivo della mezzanotte fu
segnalato dai messaggi
che cominciarono ad arrivare sul mio cellulare, che sentivo in
lontananza,
visto che lo avevo lasciato sul divano insieme al cappotto quando ero
tornata.
-Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri a Ginevra, tanti
auguri
a te...- Cantò con dolcezza, continuando a guardarmi negli
occhi intensamente,
e quando terminò avvicinò a me quella torta
improvvisata.
-Esprimi un desiderio.- Mi disse.
Io ci pensai un istante, seguendo il movimento della piccola fiamma
sulla
candela che si muoveva a destra e a sinistra. Cosa potevo desiderare in
quel
momento? Ero con Emanuele. Emanuele non faceva lo stronzo. Ero a New
York. Ero
a New York in un attico sulla Quinta Strada. Desideravo.. Desideravo il
suo amore, ecco tutto.
Presi fiato e soffiai con forza su quell’unica candelina a
forma di numero
diciotto che c’era e battei insieme a lui le mani. Ricambiai
per un istante il
suo sguardo, sicuramente arrossita come non mai, e poi lo abbassai.
-Grazie.- Dissi dopo essermi schiarita la voce.
-Di niente.. Quasi dimenticavo: auguri, neodiciottenne.-
Portò la mano al
mio viso ed io spalancai gli occhi. Tirai un sospiro di sollievo quando
la fece
scivolare sul mio orecchio e cominciò a tirare con
delicatezza. Contai insieme
a lui fino a diciotto e quando terminò quella leggera
tortura, scoppiammo
entrambi a ridere.
Dal salone la amata suoneria cominciò a farsi sentire
insistentemente ma
inizialmente non avevo la benché minima intenzione di
muovere un muscolo per
scendere da quel letto, beandomi per quegli istanti della presenza di
Emanuele
Benassi al mio fianco. Fu solo quando ricominciò a suonare
per la quarta voce
che finalmente riuscii a prendere la forza di volontà
necesssaria per alzarmi
da quel morbido ed accogliente letto.
-Pronto?- Domandai un po’ incerta visto che, tanto per
cambiare, mi scordai
di leggere il nome della persona che mi chiamava.
-Auguriiiiii!- La voce di Sara per poco non mi assordò.
Nel frattempo mi raggiunse Emanuele, posando i pancakes sul tavolino
situato nel centro della stanza, togliendo nel frattempo le candeline e
guardandomi con la coda dell’occhio.
-Grazie, Sara!- Dissi con un ampio sorriso sulle labbra.
-Hey, ci sono anche io!- La voce di Gianluca mi fece allargare
ulteriormente il sorriso, per quanto fosse possibile.
–Auguri, Ginni!-
-Grazie, Gianluca.- I miei due migliori amici: quelli era sicuramente
gli
auguri a cui tenevo di più.
-Siete arrivati a New York senza problemi?- Mi domandò Sara.
Fui sul ponto
di rispondere tranquillamente quando, ad un tratto, collegai le sue
parole con
gli avvenimenti di quella mattina.
-Tu sapevi che Emanuele aveva organizzato tutto?- Dissi con gli occhi
spalancati, voltandomi nella direzione del ragazzo che invece stava
sghignazzando. Sara temporeggiò qualche istante e capii che
Gianluca le aveva
rubato nel frattempo il telefonino.
-Veramente lo abbiamo aiutato a farti cadere nella trappola.- Mi disse
con
voce calma. Erano stati tutti contagiati dalla sfacciataggine di
Benassi?
-Ma io vi odio!- Tuttavia non riuscivo a non sorridere.
Mi sedetti affianco ad Emanuele sul divano,
guardando la mia torta con soddisfazione e con l’acquolina in
bocca.
-Ora ti lasciamo ai prossimi auguri, ci sentiamo domani mattina.-
Dissero
in coro.
-Ok, a domani. Grazie..-
-Ti vogliamo bene!- Urlarono nuovamente ed i miei timpani furono sul
punto
di rompersi nuovamente. Aspettai la chiamata di mia madre e poi lasciai
il
telefonino su una poltrona, concentrandomi su Emanuele.
-Hai plagiato anche i miei migliori amici.- Dissi con tono fintamente
arrabbiato.
-L’idea di New York è stata mia però.
Quando sono venuto in camera tua non
ho potuto notare le foto della città, il poster enorme sul
tuo letto.- Mi
spiegò con estrema calma, mentre mi porgeva le posate per
tagliare i pancakes e
prendeva una macchinetta fotografica poggiata a qualche centimetro dai
piatti.
-Ma non mi vorrai fare anche una foto! Mi sono appena svegliata!-
Protestai,
coprendomi il viso con le mani.
-Zitta e taglia la torta!- Ordinò ridendo, contagiandomi
inevitabilmente.
–La vorrai una foto alla mezzanotte del tuo diciottesimo
compleanno!-
-Punto primo non è una torta e punto secondo è
mezzanotte e dieci!-
Ribattei cocciuta, abbassando nel frattempo le mani e portando le
posato a
sfiorare i pancakes.
-Dettagli.- Sorrise, inquadrandomi con l’obiettivo.
–Cheese!- Io lasciai ad
un sorriso prendere posto sulle mie labbra, incapace di negargli quel
permesso:
ero davvero entusiasta, non potevo nasconderlo a nessuno, tantomeno
all’artefice della mia gioia. Il flash consacrò
quel momento che sarebbe
rimasto negli anni e chissà, quando sarei stata vecchia,
vedendo quella foto,
sarei morta dalle risate, ricordando come quel folle di Emanuele
Benassi mi
aveva portata a New York per “chiarire” e per
festeggiare il mio compleanno.
Mentre tagliavo i pancakes e con Emanuele cominciavamo a mangiarli, mi
soffermai a guardarlo in ogni suo movimento, e ricordai
cos’era successo poche
ore fa, quando era tornato ubriaco. Chissà anche in quel
preciso istante come
si sentiva: i postumi della sbornia, il malditesta, il sonno, il
fusorario..
Eppure era così felice, così naturale, ed era in
grado di conquistarmi con ogni
suo piccolo gesto.
-Grazie.- Dissi ad un tratto.
Lui si girò nella mia direzione, la forchetta a
mezz’aria con un pezzo di
pancake, sorridente. Probabilmente non gli avevo mai parlato
così seria, così
dal profondo nel mio cuore senza dirgli cose negative. Quelle volte che
gli
avevo aperto i miei sentimenti era stato per cacciarlo fuori dalla mia
vita,
per chiudere i nostri rapporti.. Invece in quel preciso istante lo
stavo
ringraziando per aver organizzato in ogni minimo dettaglio quel quattro
Aprile.
-Di niente..- Disse infine. Mi rispondeva sempre nello stesso modo:
sorrideva, diceva “di niente” e guardava il cibo
davanti a sé, finendo
finalmente di mangiare la sua parte di ‘torta’ e
lasciandosi andare contro lo
schienale del divano.
-Torno subito.- Mi disse sbadigliando e si alzò, tornando in
camera. Lo
aspettai solo qualche istante, perché lui tornò
subito dopo aver fatto un po’
di rumore di là, con una bustina in
mano.
-Cos’è quello?- Domandai aguzzando la vista. Lui
la poggiò accanto a me,
sedendosi poi a gambe incrociate sul divano.
-Gianluca e Sara ci tenevano a fartelo avere.- Mi rispose.
Finii di mangiare il più velocemente possibile i pancakes e
mi fiondai ad
aprire il regalo che i miei migliori amici mi avevano fatto. Ecco cosa
intendevano dicendo che i regali sarebbero arrivati a tempo
debito. Maledetti!
Presi la bustina e la aprii sotto lo sguardo attento e circospetto di
Emanuele. Uscì fuori una scatoletta color verde acqua legata
elegantemente con
un nastro dorato. Aprii senza far troppi danni il tutto e tirai fuori
un
bracciale di Tiffany&Co. Per poco non mi prese un colpo: mi
avevano
regalato davvero quel bracciale.. Io vi avevo fatto accenno mesi prima,
senza
darci troppo peso, sperando che fosse un regalo fatto con tutto il
resto della
classe, non solo da loro due. Sorrisi
rigirandomelo fra le mani, ancora totalmente incredula.
-Ti aiuto a mettertelo?- Mi domandò cortesemente Emanuele.
Alzai lo sguardo
ed annuii, porgendogli il bracciale ed allungando il braccio in modo
che
potesse sistemarlo al mio polso. –Ecco fatto!-
Ammirai e riammirai il cuore pendere al mio polso per almeno una
ventina di
volte, sorridendo felice ad Emanuele, avrei sorriso felice al mondo
intero in
quell’istante. Non m’importava che lui mi dovesse
ancora delle spiegazioni,
ormai sapevo che lui me le avrebbe date al momento giusto, senza le mie
pressioni. Scattammo più foto insieme, le foto
più stupide, quelle che si fanno
nei momenti più classici di demenza, e mi ritrovai a ridere
come non mai, con
le lacrime agli occhi. Finimmo a rincorrerci come due deficienti di sei
anni
per tutta l’estensione della casa, buttandoci cuscini addosso
ed infine
addormentandoci sul suo letto dopo aver parlato. Parlato di cosa?
Parlato di
me, di lui, parlato delle nostre aspirazioni, dei momenti passati, di
Federico
e di Sara, di Gianluca.. Parlammo di tutto, tranne che di noi. Per la
seconda
volta nell’arco delle ultime dodici ore mi addormentai con un
sorriso ben
stampato sulle labbra ed Emanuele al mio fianco nelle mie stesse
condizioni. Il
mio cuore era diventato nuovamente un suo giocattolo? Non me lo
domandai quella
notte.. Non mi chiesi nulla di strano, nulla di complesso come avevo
fatto
negli ultimi tre mesi. Certo che la frase “l’unico
che può curare le tue
lacrime è colui che te le ha fatte versare” si
rivelò incredibilmente
veritiera. Mi bastava Emanuele al mio fianco per dormire in pace con me
stessa
e con il mondo?
Quando
tornai ad aprire gli occhi, fu a causa della sveglia che Emanuele aveva
impostatato sul proprio cellulare alle dieci di mattina. Alzai
leggermente la
testa, per guardarmi intorno. Ero stesa sul letto faccia a faccia con
Emanuele.
Lui teneva il suo braccio sul mio fianco e dormiva ancora beatamente,
non
avendo evidentemente sentito il suono della sveglia. Sorrisi, tornando
a posare
la testa sul cuscino e lasciando il mio sguardo vagare lungo i dolci
lineamenti
del suo volto. Immerso così nei suoi sogni, sembrava la
persona più innocua,
più semplice dell’intero universo. Sarebbe stato
bello avvicinarmi a lui ancora
un po’, allungarmi un po’ e posare le mie labbra
sulle sue con estrema
dolcezza. Inconsapevolmente bruciai cinque centimetri che ci separavamo
e così,
a due centimetri dal suo viso, decisi di tornare a rilassarmi sul
cuscino.
Chiusi gli occhi, mentre sentivo il suo respiro infrangersi
delicatamente
contro la mia pelle.
-Ginni?- La sua voce roca mi fece aprire gli occhi lentamente. I nostri
sguardi si incrociarono a due centimetri di distanza ed io annuii
debolmente.
-Buongiorno.- Mormorai con un leggero sorriso sulle labbra.
Lui allontanò il suo braccio dal mio corpo, stiracchiandosi
e mettendosi
seduto sul bordo letto. I suoi capelli erano più disordinati
del solito ed il
suo volto, da addormentato, non perdeva il suo fascino, acquistando
d’altro
canto una tenerezza che non si coglieva spesso sul suo viso.
-Buongiorno, festeggiata.- Mi disse dopo essersi ripreso almeno un
po’,
voltandosi nella mia direzione. Io mi sedetti sull’altro lato
del letto dopo
avergli sorriso. Mi ero addormentata con i vestiti del viaggio e le
scarpe
grazie a Dio ero riuscita a togliermele in un momento di
lucidità.
-Dov’è il bagno?- Gli domandai inarcando un
sopracciglio mentre mi
precipitavo a prendere il mio beautycase dalla valigia. Lui
mugolò ed alzò il
braccio, indicando fuori dalla porta.
-L’ultima porta sulla destra.- Eccoli i postumi della
sbornia. Parlava e si
atteggiava come un ubriaco: probabilmente quando sarei tornata dal
bagno lo
avrei trovato bello addormentato sul letto come se nulla fosse.
-Ti senti bene?- Chiesi mentre mi avviavo verso il corridoio. Per
risposta
ricevetti un mugolìo e capii che le mie previsioni non erano
state affatto
scorrette. Entrai nel grande bagno e chiusi la porta alle mie spalle,
spogliandomi poi e mettendomi sotto la doccia. L’acqua calda
mi scivolò addosso
facendo diffondere il calore per tutto il mio corpo e per quei quindici
minuti
mi sembrò di essere immersa nel Paradiso. L’unico
suono che sentivo era l’acqua
che si infrangeva contro i miei capelli, la mia pelle, isolandomi da
tutto il
resto del mondo.
Tuttavia quegli attimi paradisiaci si conclusero bruscamente con la
scoperta ch Emanuele Benassi fosse un razzo a lavarsi e a vestirsi a
differenza
mia. In poche parole, l’adorabile ragazzo, mi
staccò l’acqua calda e mi
costrinse a sbrigarmi a prepararmi. Inutili erano stati i miei
tentativi di
ribellarmi inventando scuse come “E’ il mio
compleanno!” “sono più grande di
te”, perché in un modo o nell’altro,
andando davvero contro la mia natura, quindi
minuti dopo ero vestita, asciugata e con i capelli sistemati.
-Ti odio.- Dissi a denti stretti, facendolo scoppiare a ridere.
-Mi amerai dopo questa giornata.-
Tuttavia il mio cervello decise di non abbandonarmi almeno quel giorno
e non
appena udì il verbo ‘amare’ si mise
velocemente in azione. L’aveva scelto
appositamente quel verbo? Sapeva dei miei sentimenti? Oppure lo aveva
detto
senza rifletterci su? Lo guardavo di sbieco mentre scendevamo
nell’ascensore,
occupando le mie mani prima nell’allacciarmi il cappotto, poi
a sistemarmi la
sciarpa, poi a lisciarmi il camoscio di cui erano fatti i miei stivali.
Sì, per
i miei diciotto anni la Grazia Divina
mi aveva regalato evidentemente la follia. Bellissimo regalo! Ero pazza!
-Ti voglio portare nel mio negozio preferito qui a New York.-
Annunciò ad
un tratto mentre camminavamo lungo la Fifth
Avenue. –Ogni volta che vengo qui e
non voglio stare a casa
perché litigo con i miei o perché mi annoio ed ho
volta di pensare ad altro,
vado lì e poi me ne vado in un altro posto che ti voglio
mostrare a Central
Park.-
-Io quando ho voglia di starmene per i fatti miei me ne vado al Pincio
(*),
tu sei più complesso.- Dissi con un sorriso sulle labbra,
osservandolo mentre
mi parlava in quel modo sognante dei posti a lui cari.
-La mia villa a Roma mi offre abbastanza posti per isolarmi. Questo
appartamento alla fine no, quindi.. Mi sono arrangiato.- Provai ad
immaginarmi
per un attimo Emanuele che sentiva la necessità di stare un
po’ in pace, per
pensare.. Sorrisi a quell’immagine mentre arrivavamo ad una
via un po’ nascosta
dov’era situato un negozio di musica.
Entrammo ed il nostro arrivo fu annunciato da un campanello collocato
sulla
porta. Mi trovai immersa in un’atmosfera decisamente
accogliente e.. antica.
Era un negozietto di cinque metri per sette, da un lato vintage,
dall’altro
rock e vendeva non solo dischi originali ma anche in vinile.
-Ciao, Emanuele!- Quello che
doveva essere il proprietario del negozio venne ad accoglierci,
abbracciando
affettuosamente Emanuele che ricambiò con un ampio sorriso.
-John, questa è Ginevra. Oggi
è il
suo compleanno e vorrei che tu le trovassi qualcosa di particolare ed
unico.-
Inizialmente sorrisi per la presentazione, poi mi voltai con tanto di
occhi
verso Emanuele. Ma allora veramente gli avevano dato una botta in testa
da
piccolo.. Ancora che mi voleva regalare qualcosa? Dopo tutto
ciò che aveva già
fatto!
-Io non..- Provai a dire ma fui interrotta da John che strinse
calorosamente la mia mano.
-Molto piacere! Vieni, vieni,
mi è arrivato un vinile molto raro dei Ramones proprio ieri..-
La mia iniziale
voglia di rifiutare categoricamente ogni altro regalo da parte di
Emanuele
scomparve nell’istante in cui John mi mostrò la
registrazione live di una
performance dei Ramones che io avevo cercato molto ma a cui poi avevo
rinunciato visto che ne esistevano pochissime copie. Stringendo
l’oggetto fra
le mani mi voltai prima a guardare Emanuele, poi John, poi il disco,
poi
nuovamente Emanuele.
-Lo prendiamo.- Disse soddisfatto
Emanuele, allontanandosi poi con John e lasciandomi ammirare quel mio
regalo di
compleanno. Dopo aver rimurginato per due secondi, li raggiunsi alla
cassa e
diedi il vinile al proprietario affinché me lo mettesse in
una busta.
-Grazie.- Dissi guardando Emanuele.
-E’ il tuo compleanno.-
Rispose lui
molto semplicemente prendendo il resto da John e dandomi in mano la
busta.
-Hai davvero un ottimo ragazzo!
Tienitelo stretto!- Io prima sbiancai a quelle parole e poi
diventai
rossissima.
-Lui n..- Ma Emanuele bloccò le mie parole.
-Grazie di tutto, Jhon.- Salutò
educatamente,
uscendo poi insieme a me dal negozio. Non gli dissi più
nulla riguardo il
commento dell’anziano signore e ci incamminammo discutendo di
musica diretti al
Central Park.
Probabilmente ancora non realizzavo per cosa stessi sorridendo di
più: per
quella rarità dei Ramones o per Emanuele? Scossi la testa,
ben decisa a
liberarmi di quella mia razionalità per quel giorno: ero
diciottenne, ero
libera, ero perseguibile legalmente, anche, però questo era
un dettaglio.
Volevo vivere quella giornata in ogni suo istante, in ogni sua parte
con un
sorriso e sapevo che potevo farlo, almeno finché Emanuele ci
fosse stato.
Finché ci fosse stato quell’Emanuele e non
l’altro che non conoscevo.
Raggiungemmo in una ventina di minuti anche il secondo punto della
nostra
‘escursione’ mattiniera. Nel cuore del Central Park
vi erano diversi laghi
artificiali ed Emanuele mi condusse verso quello più grande.
-Questo è il The Reversoir,- Mi
spiegò mentre camminavamo per un sentiero che ci stava
conducendo proprio verso
la riva. –venivo sempre qui la domenica mattina,-
Continuò guardando un po’ me
un po’ per terra. –mi sedevo sull’erba e
guardavo le gare che organizzavano i
bambini con le proprie barche a vela in miniatura, accompagnati dai
loro
genitori.- A quelle ultime parole un po’ di tristezza
velò la sua voce e ci
sedemmo per terra. Portai le gambe al petto e posai il mento sulle
ginocchia,
continuando ad ascoltarlo. –Sai perché venivo qui
da bambino?- Nonostante fosse
una domanda retorica io scossi debolmente la testa, continuando a
seguire quel
suo discorso. –Perché ogni domenica mattina io
chiedevo a mio padre di
accompagnarmi a giocare con gli altri bambini come facevano tutti i
padri e lui
mi rispondeva sempre di no, perché doveva lavorare,
perché doveva andare ad
Atlanta, perché doveva finire un progetto.. E mi prometteva
sempre che la
prossima volta, la prossima domenica, saremmo andati. Fatto sta che
promessa
dopo promessa sono passati dieci anni ed ora non voglio più
giocare con le
barchette la domenica mattina.- Concluse quel suo racconto con evidente
amarezza ed io restai per un attimo spiazzata. Per quale motivo tutto
d’un
tratto mi aveva voluto raccontare quelle cose? Guardai
l’acqua del lago venire
mossa leggermente dal vento e poi guardai il suo viso cupo indirizzato
verso il
punto che io avevo fissato fino a qualche istante prima. Si
schiarì la voce e
capii che stava per continuare il suo discorso. –Amo questo
posto con tutto me
stesso perché qui ho sognato veramente.. La mia fantasia si
immaginava come
sarebbe stato con mio padre, e tante altre cose..- Quando disse quelle
ultime
parole si voltò verso di me e mi sorrise, con più
sincerità, con più gioia.
-Questo posto è bellissimo.- Riuscii semplicemente a dire,
passando un
braccio intorno alle spalle di Emanuele e posando la testa sulla sua
spalla,
come se fosse la cosa più naturale da fare.
-Già, lo so..- Mormorò lui prima di sospirare. E
fu così che trascorsi la
mezz’ora più silenziosa e più intensa
di tutta la mia vita. Nessuno osò dire
nulla ed i miei occhi furono lasciati liberi di vagare per la
superficie di
quel lago e la mia mente di perdersi nei meandri della sua fantasia.
Aveva
ragione Benassi: quello era il posto adatto per pensare ed isolarsi. Ed
io
pensai a Marco ed ai suoi sentimenti, pensai a Gianluca, a Sara, pensai
a me
stessa e a ciò che provavo nei confronti di Emanuele. Pensai
a tutto ciò che mi
era successo da quel giorno di Gennaio e non potei non giungere alla
conclusione che quello scambio aveva cambiato l’intero corso
della mia vita e
forse non l’aveva indirizzata troppo verso la
negatività.
Uscii
nella terrazza del superattico indossando un vestito nero, corto, con
delle decolleté nere lucide ed un cappotto nero sopra. I
capelli erano lasciati
cadere boccolosi sulle mie spalle ed ero leggermente truccata. Feci un
leggero
colpo di tosse ed Emanuele si voltò, lasciando spazio ad
un’espressione di
sorpresa sul proprio volto.
-Stai bene..- Lo sentii dire un po’ incerto mentre mi veniva
incontro. Era
forse in imbarazzo? Lui indossava dei pantaloni neri abbastanza
eleganti, una
camicia bianca e un maglione grigio con un ampio scollo a V, con sopra
a sua
volta un cappotto nero per coprirsi dal freddo.
-Come mai tutta questa eleganza?- Gli domandai accendendomi una
sigaretta.
Lui sorrise guardando prima l’orologio e poi me.
-Fra dieci minuti ci passa a prendere Mark ed andiamo a farci un giro
per
la città.- Rispose vago. Probabilmente aveva già
premeditato qualcosa ed io
arrossii al pensiero.
-Oggi mi stai viziando troppo.- Ridacchiai per poi aspirare il fumo
della
sigaretta.
-I diciotto anni vengono una volta soltanto, non avrai nulla da
rimpiangere
almeno.- Già, nulla da rimpiangere. Qualcosa avrei rimpianto
sicuramente:
nonostante fossero state infine le occasioni per baciarlo, per provare
a dirgli
qualcosa, io mi ero sempre tenuta bene a distanza a causa del mio
adorato
cervello che stava tornando a comandare il mio cuore. Voleva un
perché lui e
non si fidava come me del fatto che Emanuele me lo avrebbe dato di sua
spontanea volontà.
Alle otto spaccate uscimmo dal palazzo, accomodandoci nella nerissima
Mercedes che ci aspettava. Faceva un po’ più
freddo del solito, quella sera, o
forse era semplicemente l’emozione a farmi rabbrividire
continuamente.
-Dove andiamo?- Domandò
Mark,
voltandosi.
-All’Empire State Building.-
Rispose prontamente Emanuele, guardandomi poi con un ampio sorriso.
-Ma è chiuso! Ho visto stamattina gli orari! Il sabato sera
non ci si può
salire! (*)- Dissi guardandolo. Ma lui in tutta risposta mi fece cenno
con la
mano di aspettare.
-Preferisci andare a cena?- Mi domandò ad un tratto. Io
lasciai
un’espressione di disgusto impadronirsi dei miei lineamenti:
alle sei ci
eravamo abbuffati di hot dog e nachos in un ristorante vicino casa ed
ancora me
lo sentivo sullo stomaco. –Immaginavo.-
-Tanto l’Empire è chiuso.- Borbottai convinta
incrociando le braccia sotto
il seno.
-Quanto rompi!- Disse lui ridendo.
Ebbene sì, nuovamente Emanuele Benassi aveva avuto ragione.
Ci fermammo proprio davanti l’imponente palazzo
dell’Empire State Building
e dopo essere scesi degli uomini vestiti alquanto elegantemente
accolsero
affettuosamente Emanuele all’interno dell’edificio,
accompagnandoci
all’ascensore. Sì, il dettaglio che il padre di
Benassi conoscesse metà New
York probabilmente mi era sfuggito.
-Brava signorina-so-tutto-io..- Mi canzonò Emanuele mentre
salivamo a gran
velocità. Gli feci la linguaccia, decidendomi poi a non
tornare più
sull’argomento per evitare ulteriori prese in giro.
Quando arrivammo in cima ed uscii all’aperto trovando New
York
completamente ai miei piedi, per poco non dissi addio alla mia
mandibola. Mi
affrettai ad affacciarmi e guardai meravigliata Emanuele che
immortalò
prontamente la mia espressione da ebete con la sua macchinetta
fotografica.
Dopo che lo ebbi insultato per un paio di secondi, lui si
avvicinò a me e mi
sorrise.
-Ti piace?- Domandò con un largo sorriso. Io annuii e lui
guardò giù,
beandosi a sua volta per qualche istante di quel panorama che
probabilmente non
era la prima volta che si mostrava ai suoi occhi.
-Come hai fatto a farci fare questa visita privata?- Domandai poi
mentre
facevamo il giro a trecentosessanta gradi per
quell’Osservatorio della città.
-Contatti di mio padre.- Rispose scrollando le spalle. Avevo indovinato
allora.. Ma quanto era potente il padre di Emanuele allora? Aggrottai
le
sopracciglia scacciando quel pensiero dalla mia mente, tornando a
concentrarmi
al presente: a me, Emanuele, la foto che continuava a scattarmi. Mi
sentivo un
po’ una diva a stare lì, vestita così
elegantemente, solo con lui su quella
torre, senza nessun altro. Mi avvicinai a lui e guardandolo negli occhi
gli
sorrisi. Lui mi guardò un po’ incerto, un
po’ stupefatto.
-E’ il miglior compleanno di tutti.- Dissi, per poi ridere e
fare un giro
su me stessa.. Lui rise, seguendomi con lo sguardo e disse qualcosa che
non
riuscii a capire, ma che sembrò un “è
la giornata più bella di tutte”.
Erano
le dieci di sera quando Mark si fermò. Ancora non realizzavo
cose
stesse succedendo visto che Emanuele si era assicurato che dalla benda
che mi
aveva legato intorno gli occhi non riuscissi a vedere nulla.
Mi ero così limitata nel corso di tutto il tragitto dallo
State Empire
Building a porre insistentemente domande ad Emanuele su dove fossimo,
quale
fosse la nostra destinazione, ma la sua risposta era stata una molto
semplice e
diretta minaccia di ritrovarmi anche con una benda sulla bocca, per non
parlare
più.
La portiera si aprì ed Emanuele prese la mia mano,
guidandomi fuori
dall’auto, aiutandomi a scendere. Lo seguii, affidandomi
ciecamente alla guida
della sua mano, che mi conduceva con delicatezza per quei posti
sconosciuti,
che non potevo né immaginare, né prevedere.
-E’ un ascensore questo?- Gli domandai, mentre sentivo delle
porte aprirsi
e la spinta di Emanuele che mi invitava ad andare in quella direzione.
-Forse.- Rispose ridacchiando. Quanto lo odiavo quando faceva
così..
Riusciva sempre a mantenersi così serio nel proprio gioco,
non faceva una
piega, non si lasciava mai tradire da una parola uscita involontaria
dalle sue
labbra.
Presto sentii il caldo abbandonarmi, accogliendo un gelo incredibile.
Un
vento fortissimo mi colpiva, scompigliandomi i capelli e facendomi
congelare
dalle punte dei piedi. Mi strinsi più forte ad Emanuele che
invece,
simpaticissimo com’era, si allontanò,
posizionandosi dietro la mia schiena.
-Pronta?- Domandò al mio orecchio. Dopo essermi ripresa dai
brividi che mi
percorsero a causa della sua immensa vicinanza, annuii estremamente
curiosa.
Lo sentii sciogliere il nodo dietro la mia testa e poi la benda cadde
fra
le mie mani, mentre io aprivo gli occhi, restando imbambolata davanti a
ciò che
mi si presentava davanti.
Un elicottero di modeste dimensioni ci stava aspettando, già
avviato, in
una delle più classiche scene da film, film che stavo
vivendo in quei momenti
in prima persona. Ero sulla cima di un grattacielo e New York mi stava
aspettando per essere esplorata anche in quella maniera nuova,
totalmente
sconosciuta per me.
Senza dire nulla mi voltai verso Emanuele, raggiante, che rispose
entusiasta a quel mio sorriso, posando poi una mano sulla mia schiena.
Incominciammo a camminare nella direzione dell’elicottero:
Emanuele salì per
primo, tendendomi poi una mano per riuscire a salire; gliene fui grata,
visto
che i tacchi che avevo indossato non mi permettavano un grande
equilibrio. Mi sedetti accanto al finestrino e nel frattempo il pilota
ci fece sistemare le
cinture ed ogni cosa per partire, tornando poi davanti. Stavamo per
partire.
-Hai un po’ di paura?- Mi domandò Emanuele con un
ampio sorriso. Io annuii,
deglutendo. Già avevo paura dell’aereo,
figuriamoci di un elicottero. –E’
normale, anche io ne avevo la prima volta.- Gli sorrisi debolmente,
mentre quel
veicolo cominciava ad emettere suoni ben più forti.
–Prendi la mia mano.- Mi
voltai verso di lui, aggrottando leggermente la fronte, e lui non
attese un mio
movimento. Prese la mia mano, intrecciando con decisione le sue dita
con le
mie. Gli sorrisi debolmente, chiudendo poi per un istante gli occhi.
L’elicottero decollò e prese velocità
rapidamente, e New York si mostrò
sotto i miei occhi. Fu uno di quegli spettacoli di cui avevo tanto
sentito
parlare con entusiasmo, quelle immagini che si sognano, si provano ad
immaginare, ma che non si capiscono finché non si vivono in
prima persona.
New York di notte, illuminata da migliaia di luci immortali di tutti i
colori, appariva più splendida che mai, più
splendida di quanto io me la fossi
ma potuta immaginare. L’elicottero sorvolava sul fiume Hudson
e alla mia
sinistra la città appariva in tutta la sua
maestosità. La presa di Emanuele
sulla mia mano era ferma, ancora, anche se la paura aveva fatto spazio
nel mio
cuore all’entusiasmo, alla felicità.. Quella vera.
Mentre tornavamo a sorvolare la città, Emanuele mi indicava
prima la
Statua della Libertà, poi
l’Empire State Building, poi il Central Park, la Fifth
Avenue, Times Square.. I
miei occhi si perdevano in quella miriade di immagini, increduli della
fortuna
che avessero avuto. Increduli come lo ero io: ero su
quell’elicottero grazie ad
Emanuele, ero a New York grazie ad Emanuele, e stavo festeggiando il
compleanno
più importanti di tutti in un modo che non mi sarei mai
neanche immaginata che
potesse essere possibile.
Istintivamente strinsi di più la mano di Benassi e restai
qualche istante a
constatare quanto fosse calda, dolce, gentile quasi.. E soprattutto a
realizzare che mai avrei più potuto provare delle emozioni
del genere
trovandomi su un maledetto elicottero che mi stava facendo New York.
Mi voltai verso Emanuele, che ricambiò quel mio sguardo, e
gli sorrisi con
tutta la dolcezza che avevo, mettendo in quel sorriso tutto
ciò che provavo nei
suoi confronti, tutto l’amore, tutta la gratitudine.
Non riuscii a pensare per un solo istante che lui avesse giocato con i
miei
sentimenti, che fosse stato uno stronzo.. Perché il ragazzo
con cui ero stata
quelle ultime ventiquattro ore corrispondeva perfettamente
all’idea che mi ero
fatta di lui le prime volte che ci avevo parlato.
Qualcuno
dice che in America se non si è ventunenni non si
può bere.
Qualcuno dice che se si vuole bere in America bisogna avere documenti
falsi.
Nah, molto più semplice.
Se ti vuoi ubriacare a New York e sei una neo-diciottenne, basta che
vai in
un locale con Emanuele Benassi.
Dopo l’Empire State Building, il volo
sull’elecottero, la benda sugli occhi
e tutte le soprese che Emanuele mi aveva riservato per quella serata,
decidemmo
molto saggiamente di festeggiare il mio compleanno anche in un modo
più adulto, disse lui e alcolico, precisai io.
Raggiungemmo il Bellavita(*), un
prestigioso locale situato proprio accanto a Times Square e ci sedemmo
ad un
tavolino, ben decisi a violare decisamente le regole americane.
Francamente non
ci credevo più di tanto che ci avrebbero servito da bere
senza neanche
chiederci uno straccio di documento ma mi dovetti ricredere, tanto per
cambiare
in quella serata, quando Emanuele andò a salutare di persona
il proprietario
del locale ed io fui ovviamente accolta come la nuova girlfriend
del signorino.
-Potresti finire in carcere per ciò che stai facendo.- Disse
ridacchiando
Emanuele, mentre sfogliavamo attentamente il menù in cerca
di qualcosa di
decisamente alcolico.
-Ma smettila..- Fu la mia risposta che arrivò più
che tempestivamente. Ero
ancora in grado di intendere e di volere.
In conclusione ordinammo due martini a cui ne seguirono altri due,
dello
champagne, altri Martini, altro champagne e quando la testa cominciava
già a
girare, decidemmo di passare al Cosmopolitan, alla Tequila, al Sex on
The Beach
e tutto ciò che più alcolico si poteva desiderare.
Un bicchiere.
Due bicchieri.
-Dovremmo regolarci..- Disse ad un tratto Emanuele, o almeno credo, ma
prendemmo la saggia decisione di bere un altro bicchiere
d’acqua e tornarcene a casa.
Sfortunatamente i bicchieri d’acqua, per come li intendevamo
noi, erano
shottini di vodka che si duplicavano. Solamente quando la mia testa
cominciò a
girare con molta decisione, riuscimmo ad alzarci dal tavolo ed
andarcene.
Camminavo accanto ad Emanuele con la testa che girava in maniera
incontrollabile e mi poggiavo alla sua spalla per riuscire a mantenermi
in
equilibrio sui tacchi. Eppure, nonostante la pesantezza di quella
sbornia,
ridevamo, continuavamo a ridere come due matti per ogni piccola cosa
che ci
accadeva, per ogni parola, gesto..
Salimmo nella macchina giusta solamente grazie a Mark che ci
pescò mentre
andavamo da tutt’altra parte e ci riportò al
nostro posto.
Pochi minuti dopo ed eravamo già a casa.
Non mi rendevo conto assolutamente di nulla di ciò che mi
stava accadendo
intorno: avevo solamente l’impellente bisogno di sentire
Emanuele affianco a
me, perché sapevo che finché ci sarebbe stato lui
al mio fianco non mi sarebbe
successo nulla.
-Ginni, aspettami su in terrazza.- Mi disse Emanuele dopo che ci fummo
tolti i cappotti ed io le scarpe.
-Vieni con me..- Mormorai implorante prendendolo per mano e tirandolo
verso
di me. I nostri visi si trovarono a tre centimetri di distanza e lui
sorrise.
-Credimi che sarai felice quando salirò.- Non riuscivo a
capire se lui
fosse più sobrio di me o no, anche se ne dubitavo fortemente
vista la quantità
di alcol che avevamo bevuto in quel maledetto locale.
Salii così le scale, rischiando più volte di
rompermi l’osso del collo
visto che non mi reggevo praticamente in piedi e quando arrivai in
terrazza
l’aria fredda mi fece per un attimo riprendere un minimo di
lucidità. Mi
sedetti su una delle sedie di legno che c’erano ed aspettai
Emanuele.
La mia lucidità era in realtà
solamente quella piccola e breve
fase che precede la sbornia di cui non ti ricordi nulla. Certo, sapevo
regolarmi solitamente, ma quella sera in compagnia di Emanuele qualcosa
stava
decisamente sfuggendo al nostro controllo.
Stavano sfuggendo al nostro controllo i nostri gesti: più
volte la distanza
di sicurezza fra me ed Emanuele si era annullata e ci eravavamo
ritrovati quasi
sul punto di superare quella linea dell’
“amicizia”, se così si poteva chiamare
il nostro rapporto.
Una canzone a me ben conosciuta cominciò a suonare ad alto
volume per tutta
la terrazza.
Inizialmente mi domandai se non fosse uno scherzo portato
dall’alcol ma
poi, quando vidi comparire Emanuele da dentro casa con una bottiglia di
vodka
in mano, capii che l’aveva accesa lui.
-Da dove hai presto quella?- Domandai indicando la bottiglia,
avvicinandomi
a lui.
-L’abbiamo presa prima al locale, non ricordi?- Scossi la
testa.
Avevamo davvero preso una bottiglia di vodka al locale?
Mi dimenticai ben velocemente di quel nuovo quesito visto che il mio
cervello si spense non appena decisi di bere un goccio di vodka liscia.
Mi
lasciai completamente andare al ritmo della musica e cominciai a
ballare.
Da sola?
Con Emanuele?
Con la bottiglia?
Probabilmente la risposta era sì per ognuna delle ipotesi,
visto che degli
unici ricordi che mi restarono di quella serata conservavo quello delle
mie
braccia intorno al collo di Emanuele. Emanuele che mi guardava
sorridendo e
bevendo un po’ di vodka. Io che bevevo dalla bottiglia e la
trattavo come se
fosse mia figlia.
-Ginni, smettila di bere.- Mi disse ad un tratto Emanuele, togliendomi
la
bottiglia dalle mani. Io mi imbrociai e mi accorsi che già
un quarto se ne era
andato.
-Non è giusto.- Brontolai. –Ho diciotto anni, su!-
Dissi cercando di
riprendermela. Emanuele mi guardò seriamente e mi fece
sedere, mettendosi poi
seduto davanti a me.
-Puoi bere solo se facciamo una cosa.- Io spalancai gli occhi.
-Maiale!- Urlai dandogli uno schiaffo. Emanuele scoppiò a
ridere.
-Ma se non ti ho detto neanche cosa.- Ricordo che mi calmai a quelle
parole.
-Cosa allora?- Chiesi curiosa.
-Facciamo il gioco della verità. Se vuoi bere, devi
rispondere sinceramente
alla domanda che ti faccio. E dopo che bevi, tocca a te farmela e
così via.-
Spiegò lui. Io accettai ovviamente, non sapendo incontro a
cosa mi stessi
spingendo.
-Sei mai stata innamorata?- Mi domandò lui, tenendo la
bottiglia a
mezz’aria.
-Sì.- Risposi prontamente. –Federico Grandi.- Gli
dissi anche il nome,
anche se non me l’aveva chiesto. Riuscii miracolosamente a
trattenermi dal
dirgli che fossi anche innamorata di lui. Mi passò la
bottiglia ed io mandai
giù un sorso: ormai scendeva giù come se fosse
acqua.
-Sei mai stato innamorato?- Gli domandai.
-Sì, di Michela De Paolis.- Non la conoscevo. Mi strinsi
nelle spalle e gli
ripassai la bottiglia. Avevo uno strano istinto assassino nei confronti
di
quella Michela De Paolis. Beata lei.
Pensai, o forse lo dissi. Lui prese la bottiglia e se la
portò alle labbra.
-Sei vergine?-
-Che cazzo te ne frega?- Ribattei velocemente. Lui
ridacchiò, stringendosi
nelle spalle.
-Stai al gioco o non vuoi bere?- Io ridussi gli occhi a due fessure.
-No.- Risposi secca mentre le immagini della mia prima volta
affioravano.
Federico che mi stringeva a sé, mi baciava, mi diceva che mi
amava più della
sua stessa vita. Quei ricordi mi fecero rabbrividire mentre bevevo un
altro po’
di vodka. –E tu?-
-No.- Ovviamente non avevo nutrito il benché minimo dubbio
sulla sua
risposta.
Ogni domanda era un sorso di vodka.
Ogni sorso di vodka era un passo lontano dalla lucidità.
Ogni passo lontano dalla lucidità era un passo lontano dalla
memoria.
L’ultima domanda che ricordo fu “Sei
innamorata?”, ma non so cosa gli
risposi.
**Autrice**
Allora! Ecco il compleanno di Ginevra ed ecco un Emanuele che apre
finalmente un po’ il suo cuore! Vi anticipo che il prossimo
capitolo sarà
scritto dal punto di vista proprio di Emanuele ed avrete le risposte a
tutte le
vostre domande.
So che mi odierete per come ho fatto concludere il capitolo visto che
l’ho
interrotto proprio sul punto più bello, però
dai..almeno vi incuriorisco un
pochettino, no?!
Tutti i posti descritti nel capitolo riferiti a New York escluso il
lago,
l’Empire State Building ed il volo in elicottero, sono
inventati da me!
Che dite, vi è piaciuto? Io non ne sono esageratamente
convinta ma spero
che vi piaccia ugualmente! La sbornia l’avevo premeditata da
mesi.. E mi sono
divertita da impazzire a scrivere provando a sentirmi nei panni di
un’ubriaca
che non ricorda assolutamente nulla e che le cose che ricorda le
ricorda tutte
confuse, incastrate.
Ora
passiamo ai ringraziamenti che questa volta sono
numerosi.. Sono felicissima quando ricevo tante recensioni per un
capitolo, mi
sento appagata!
__Yuki__:
Una nuova lettrice, che bello! Meno male allora che
non è stata banale
come cosa..Ed io che mi preoccupavo tanto. Pensa che non ho proprio
pensato al
fatto che anche Emanuele potesse vincere! Grazie infinite per i
complimenti,
spero continuerai a seguire la storia!DarkViolet92: Grazie
infinite!
Elienne:
Ahahahah credimi, ho riso come pochi a scrivere la parte
dell'aereo. Spero
che ti piaccia questo capitolo!
sonietta: Anche tu sei nuova! Dai che
più o meno ci avevi preso..ma per
le spiegazioni dovrai ancora attendere il prossimo capitolo! Spero che
questo
ti sia piaciuto!
cloddy94: Quante nuove persone che
commentano..quanto sono felice! Che
dire, cara, grazie mille per ogni singolo complimento. Posto molto
regolarmente
perché al momento sto in Russia dai miei nonni e mi annoio a
morte e di
conseguenza ho tanto tempo per scrivere, scrivere, scrivere..e poi non
mi so
trattenere non postando qualche giorno il capitolo quando so
già che è pronto!
Spero che questo capitolo non abbia deluto le tue aspettative! Un bacio!
Betty O_o: E
di che? Avevo il capitolo pronto e mi sono detta: perché
temporeggiare?
Ebbene il nostro Emanuele ha una vena romantica, suvvia..soprattutto in
questo
capitolo e Ginevra dopo due mesi di silenzio si sta finalmente
sciogliendo. Io
mi sarei sciolta subito onestamente xD Fai buon viaggio! Un bacio
alletta: Un'altra novità fra le mie
commentatrici! Quanto sono felice
che ti abbia appassionata la mia storia! :) Grazie mille per tutti i
commenti
spero di leggere altre tue recensioni più avanti.
Ombrosa: Un capitolo di sorprese, eh? Non sei la
prima che mi dice che pensava
che Emanuele avrebbe vinto il concorso..e pensare che io non l'ho
neanche
sfiorata come idea! Questa New York capitolo dopo capitolo ci
svelerà sempre
più Emanuele, quello "vero" come lo chiama Ginni.. Non
quello che lei
detesta. Non perderti il prossimo capitolo che sarà scritto
interamente dal
punto di vista di Emanuele e vedrai quante cose usciranno a galla
(compreso il
fatto che lui abbia bevuto per non pensare a quello che Ginni aveva
detto a
Marco)! Un bacione e grazie come sempre per la tua recensione. Un bacio!
vero15star: Ahahaha.Si, secondo me quel ragazzo per
quattro mesi ha
avuto tutto nella testa tranne il cervello ma ora perlomeno si sta
dando da
fare per rimediare! Io al posto di Ginni ci sarei arrivata a piedi a
New York
piuttosto che salire in macchina con Emanuele! Per quanto riguarda
Marco non
temere! Il povero piccino innamorato tornerà! xD Un bacione
e grazie infinite
per seguirmi sempre!
swettlove: Oddio quanti complimenti..sono
felicissima che ti sia
piaciuta l'idea con la quale li ho spediti entrambi a New York! Per
quanto
riguarda la frase..io la amo, mi fa pensare a tanti momenti belli belli
belli..
e poi immaginarmi Emanuele che la diceva, beh, ha tutto un suo effetto,
no? Un
bacione.
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Capitolo 10 *** Un Giorno (Non) Come Gli Altri ***
Through it
all, I made my mistakes
I stumble and fall, but I mean these words
I want you to know
With everything I won't let this go,
these words are my heart and
soul
I'll hold on to this moment you know,
'cause I'll bleed my heart
out to show
That I won't let go
With Me – Sum 41
Capitolo Decimo: Un giorno
(non) come gli altri.
Emanuele
Benassi non era mai stato sinonimo di passeggiate alle dieci di
mattina.
Eppure quella mattina quando mi svegliai con la testa ancora pesante
per la
sbornia e le palpebre che non ne volevano sapere di stare alzate, mi
feci una
doccia velocemente ed uscii, ben deciso a schiarirmi le idee, a capire
qualcosa
di tutto ciò che mi era successo ultimamente.
Da quella mattina di gennaio la mia vita era cambiata decisamente con
l’ingresso di Ginevra Sforza nella mia
quotidianità. In un modo o nell’altro
aveva conquistato la mia testa ed il mio cuore e mentre camminavo le
immagini
di quei tre mesi si presentavano una dopo l’altra nella mia
mente.
Era un modo particolare quello in cui avevo conosciuto Ginevra,
effettivamente.
Quel giorno ero arrivato a scuola un po’ prima del mio solito
e siccome mia
madre e mio padre erano partiti per andare a trovare i miei zii ad
Ancona,
avevo deciso di fare colazione al confusionario baretto della mia
scuola. Non
lo frequentavo quasi mai visto che odiavo il rumore di prima mattina e
quando
vi entrai per poco non mi prese un colpo. Ragazzi e ragazze mai visti
erano
affollati a chiaccherare, a pagare alla cassa.. e spingevano, ridevano,
cantavano:
uno zoo. Dopo aver pagato il mio cappuccino mi avvicinai al bancone e
la vidi
per la primi volta: Ginni era al bancone e stava bevendo il
caffé e mangiando
un moretto, guardandosi distrattamente intorno. Mi fermai accanto a lei
e diedi
lo scontrino alla barista. Lei tornò dopo pochissimi istanti
con un largo
sorriso sulle labbra ed il mio cappuccino fra le mani. Quella mattina
ne avevo
di cose da fare: avevo il compito di matematica in terza ora e di
conseguenza
io e Federico avevamo deciso molto saggiamente di non andare a scuola,
per
farci un giro in centro: tanto mio padre era convinto che avessi una
partita di
pallavolo e, a dircela tutta, non gliene importava più di
tanto.
Alzai lo sguardo dal cappuccino e mi guardai intorno, incrociando
quello di
Ginevra che stava al mio lato. Lei per un attimo spalancò
gli occhi e poi tornò
a concentrarsi sul suo caffé: beccata. Non la conoscevo ma
non mi posi
minimamente la domanda sul perché mi stesse fissando.. ormai
non mi interessava
più. Decine su decine di ragazzine urlanti si affollavano
durante la
ricreazione casualmente davanti la
mia classe per guardarmi ed una in più o una in meno che mi
faceva il filo
ormai non mi faceva nessuna differenza.
Ginevra finì la sua colazione e se ne andò
velocemente dopo aver salutato
la barista. Io mi limitai a finire di bere il mio cappuccino ed uscii a
cercare
Federico.
-Guarda quant’è figa!- Sì, lo avevo
decisamente trovato. Mi girai e lo vidi
tutto adorante guardare nella direzione di una ragazza dai lunghi
capelli
biondi che correva il più velocemente possibile: Sara
Rossetti, l’amore della
sua vita.
-Sì, invece di imbambolarti muoviti che qui passano un sacco
di
professoresse.- Lo tirai via a forza dalla visione celestiale della sua
Lei e
ridacchiando ci avviammo verso la fermata dell’autobus.
Molto francamente non mi ero mai interessato attivamente di far
sbocciare
l’amore fra Federico e Sara.. Non si erano nemmeno mai
parlati e,soprattutto,
non avevo la minima voglia di fare da Cupido. Me ne fregavo altamente
dei discorsi
amoreggianti di lui, anche se non era un comportamento esattamente
degno del
migliore amico di sempre.. Ma ero fatto così e Federico mi
accettava anche in
quel modo.
-Com’è andata a finire allora la storia con i tuoi
zii?- Domandò Federico
mentre ci sedevamo sul primo autobus che portava alla metro. Sospirai
pesantemente, sistemandomi la borsa dell’Eastpack sulle
ginocchia.
-A quanto pare mio padre e lo zio Giorgio hanno litigato davvero per
bene
questa volta.- Dissi, cercando di parlare con la maggiore noncuranza
possibile.
–Sembravano moglie e marito che urlavano chi avrebbe usato a
giugno e chi a
luglio la casa a Porto Cervo..- Mi strinsi nelle spalle.
-E tutto ciò perché sei riuscito a farti anche la
tua stessa cugina!-
Federico mi diede una pacca sulla spalla, sorridendo. Risposi a quella
pacca
con un leggero pugnetto mentre scendevamo dal 778, scendendo lungo gli
scalini
che portavano alla metro, di fronte a cui vi era la parte meno
frequentata del
“Laghetto dell’EUR”.
-Almeno io sono riuscita a farmela.- Sentenziai infine, ridacchiando,
mentre ci sedevamo sull’erba e distendevamo le gambe.
–Sei venuto con me in
Calabria per anni, provandoci, ma lei non c’è mai
stata..-
-Ha un debole per i troll, evidentemente.- Scoppiammo entrambi a ridere
per
un po’, finché Federico non riuscì a
riprendere il controllo di sé, calmandosi.
–Parlando di cose serie.. fumiamo?- Domandò,
indicando eloquentemente con lo
sguardo la borsa. Io annuii, cominciando ad aprire la mia borsa.
Guardai dentro
sempre con un sorrisetto sulle labbra e quest’ultimo si
spense immediatamente.
–Allora?- Chiese Federico più insistentemente. Io
scossi la testa, alzando lo
sguardo.
-Non è la mia borsa!- Balbettai. Federico scoppiò
a ridere, dandomi una
leggera bottarella. Io deglutii. –Federico, non è
la mia borsa questa! Guarda!-
Cominciai a tirare fuori tutti i libri, velocemente, uno dopo
l’altro e li
fissavo stupefatto.
-C’erano quaranta euro d’erba lì
dentro!- Federico parve finalmente
realizzare mentre sfogliava furiosamente i libri ed i quaderni che io
estraevo.
–Prendi il libretto!- Mi strappò praticamente la
borsa dalle mani e dieci
secondi dopo sventolava il libretto davanti al mio naso. Lo afferrai e
guardai
la foto ed i dati personali.
-Ginevra Sforza,- Cominciai a leggere, mentre Federico guardava i
quaderni
con gli occhi ancora fuori dalle orbite. –nata il quattro
aprile del
novantuno.. frequenta il II E, conosciamo qualcuno in II E?- Federico
parve
illuminarsi.
-Sara..- Disse con aria sognante, prendendo il libretto e guardando la
foto.
-E’ la migliore amica! E’ la rappresentante
d’istituto.. Non l’hai mai vista?-
Io scossi la testa, guardando la foto attentamente. –Anche
lei è una gran figa.
Sono una coppia di fighe.- Diedi una botta in testa a Federico.
-La smetti di fare il pervertito!- Sbottai, poggiando il libretto
indietro
nella borsa.
-Parla quello che si scopa la cugina!- Lanciai
un’occhiataccia a Federico e
questo guardò altrove. Per passare il tempo allora presi un
quaderno di Ginevra. Era nero, con
le pagine verdi:
particolare la ragazza. Lo aprii e per poco che non persi la mandibola:
versi
su versi del Purgatorio dantesco parafrasati con ordine e diligenza.
-Ce l’ha un diario questa?- Domandai mentre Federico fissava
con la mia
stessa espressione un altro quaderno della sconosciuta.
-Ma hai visto quant’è ordinata, fa paura!- Mi
sventolò davanti al naso un
altro quaderno. –Comunque sì, tieni.- Posai il
quaderno di italiano per terra e
presi il diario.
-Guarda questo qui.. C’è il Purgatorio trascritto
e commentato.- Gli dissi
mentre cominciavo a sfogliare il diario: una smemoranda interamente
nera. Ogni
pagina che giravo incontravo una frase di una canzone sempre differente
dei
gruppi più svariati: Led Zeppelin, Guns and Roses, Nirvana,
Ramones, Sex
Pistols, Simple Plan, Negramaro, Negramaro, Negrita.. –Fede,
mi passi i
post-it?- Domandai alzando lo sguardo da quelle pagine. Federico era
fissato
con i post-it e se ne portava sempre un bel mazzetto con sé.
Lui annuì,
cercando nel proprio zaino per poi passarmeli. Dopo aver rimediato
anche una
penna decisi di lasciare un segno del mio passaggio a quella
famosissima ma per
me sconosciutissima Ginevra Sforza.
Ginevra Sforza.
Ginni.
L’avevo lasciata sul letto che dormiva ancora profondamente,
un braccio
sotto il cuscino e l’altro lasciato cadere morbidamente lungo
il suo fianco. Si
era addormentata così la sera precedente quando
l’avevo portata in camera
ubriaca, si era lamentata come sempre dimendandosi con forza dalla mia
presa ma
appena l’avevo coperta con il piumone era crollata in un
sonno profondo.
Dimenandosi era riuscita a dirmene di tutti i colori, che ero uno
stronzo,
che l’avevo usata per
poi metterla a
letto come una bambina, che me l’avrebbe fatta pagare.. Ma
non capiva che
fatica era stata per me staccarmi dalle sue labbra, dai suoi baci, dal
suo
corpo e riportarla a letto.
Era cominciato tutto per festeggiare i suoi diciotto anni: eravamo
andati
al Bellavita, avevamo bevuto un bel po’, ci eravamo fatti
regalare una
bottiglia dal proprietario e ce ne eravamo tornati a casa. Saliti in
terrazza
avevamo acceso la musica ed avevamo dato via a quel gioco che avevo
ideato
teoricamente per farla bere di meno, visto che il ricordo di Sara,
dell’ospedale era piuttosto fresco e vederla finire nella
stessa situazione non
era il mio desiderio più forte. Un sorso, un altro e le
domande erano diventate
più a bruciapelo, più intime.
-Sei vergine?- Le domandai ridacchiando, tenendo la bottiglia in alto
in
modo che lei cercasse di allungare le sue braccia per prenderla, senza
però
riuscirci.
-Che cazzo te ne frega?- Mi rispose subitò, riservandomi
quello sguardo
assassino che non fece altro che aumentare le mie risate.
-Stai al gioco o non vuoi bere?- La tentai, facendo oscillare davanti
al
suo naso la bottiglia. Lei si arrese, sospirando.
-No.- Rispose secca e mi rubò la bottiglia dalle mani con
avidità,
perdendosi mentre beveva nei suoi pensieri. –E tu?-
-No.- Le risposi tranquillamente. La mia prima volta non me la
ricordavo..
Le uniche cose di cui ero certo erano che era accaduto tutto in
spiaggia a
Sabaudia durante il ferragosto di tre anni prima con una ragazza
più grande di
me. La classica storiella che racconterebbe il figo di turno agli amici
ma di
cui io non avevo nulla di cui vantarmi, visto che infondo, certi
ricordi sono
preziosi e si vorrebbero avere.
Scossi la testa mentre portavo la bottiglia alle mie labbra senza bere
però. Se avessi continuato la mia memoria si sarebbe
azzerata ed infondo erano
molte le immagini di quella sbornia che mi volevo conservare.
Ginni che ballava a piedi nudi, con le braccia alte verso il cielo, i
lunghi capelli rossi che oscillavano da una parte all’altra e
quel suo sorriso.
Quel sorriso così sincero, così ampio,
così vero.. Quel sorriso che illuminava,
contagiava chiunque e di cui io ero totalmente dipendente dalla prima
volta che
me ne aveva rivolto uno.
Poi c’era Ginni che ballava con me, tenendo le braccia
incrociate dietro il
mio collo, guardandomi con i suoi occhi azzurrissimi leggermente
arrossati da
tutte le ore che eravamo svegli e dall’alcol.
-Ti sei divertita oggi?- Le domandai infine curiosamente.
-Sì.- Rispose ed il mio cuore parve fare un salto di gioia.
Ci tenevo
davvero così tanto a farla felice?
-E tu?- Mi domandò prontamente lei, bevendo la vodka.
-Sì..- Mormorai, ormai disperso nei ricordi, nei pensieri,
anche se
offuscati e confusi dall’alcol. Sì, ero stato
benissimo con lei, ero stato con
lei così come avevo desiderato starci da tempo.
-Ginni,- Incominciai, passando la bottiglia da una mano
all’altra, guardando
un po’ questa ed un po’ la ragazza seduta davanti a
lei. –Sei innamorata?- Le
domandai guardandola dritta negli occhi. Lei per un attimo parve
confusa,
stupita, imbarazzata da quella mia domanda, ma poi si sciolse in un
dolce
sorriso.
-Sì- Mi rispose tranquilla, affrontando coraggiosamente il
mio sguardo. Il
mio cuore parve fermarsi un istante per poi riprendere a battere
furiosamente.
Era innamorata? Di chi? Di me ?
Riusciva ancora ad essere innamorata di me dopo tutto ciò
che era successo da
febbraio?
-E tu sei innamorato, Emanuele?- Alzai lo sguardo ed incrociai il suo
che
mi fissava insistentemente: voleva delle risposte, Ginevra, voleva i
suoi
perché lei.
-Sì.- Risposi infine, sospirando.
Era stato così difficile dire quell’unica,
brevissima parola, ma ora il mio
cuore era lì che saltava di gioia mentre io ero come
paralizzato, incollato
alla sedia. Ero innamorato davvero? Ero innamorato di lei? O era
solamente
l’effetto dell’alcol?
Impossibile saperlo, almeno finché sarei stato in quelle
condizioni, ma
l’unica cosa di cui ero certo era che più volte,
negli ultimi due mesi, dopo
che lei mi aveva dato il suo ultimatum, avevo pensato a lei, alla
possibilità
di noi due insieme.
Presi la bottiglia che lei mi porgeva e la posai sul tavolo accanto a
noi,
scuotendo la testa. Non volevo più giocare a quel gioco. Lei
fece per
riprendersela ma istintivamente posai la mia mano sulla sua e la fermai
così a
mezz’aria. Ginni mi guardò perplessa: forse ancora
rimurginando sulle mie
parole, forse ormai troppo ubriaca per ragionare come una persona
normale.
Mi alzai e la tirai verso di me, lasciando che il suo corpo aderisse
perfettamente contro il mio, godendo dei brividi che mi percorsero
completamente al contatto con lei. La guardai un’ultima volta
negli occhi prima
di poggiare le mie labbra sulle sue. Erano morbide, accaldate, e
sapevano
incredibilmente di vodka. Una mia mano scivolò fra i suoi
capelli, scendendo
poi sulla sua nuca e stringendola con forza a me in quel bacio.
Inizialmente la sentii stupita sotto i miei tocchi, poi entrambi ci
dimenticammo di cosa stessimo facendo, dove fossimo, e quel bacio si
approfondì
velocemente. Mi lasciai rubare dal suo profumo, dalle sue mani delicate
che
carezzavano prima il mio viso, poi la mia schiena, che mi tenevano
stretto a
lei. Ma non ce n’era bisogno che mi stringesse per non
lasciarmi andare via,
non me ne sarei mai andato. Le mie mani scesero lungo la sua schiena,
carezzandola intensamente, mentre le nostre labbra si staccavano ed io
scendevo
lungo il suo collo in una calda scia di baci.
-Ho freddo..- Mormorò lei contro le mie labbra quando tornai
a posarle
sulla sua bocca. Io mi allontanai da lei e la guardai un attimo,
chiedendomi se
stessi facendo la cosa giusta: ero ubriaco, lei era ubriaca. Ma gli
istinti del
proprio corpo sono duri da tenere a freno. Così la condussi
per mano nel
superattico, e scivolai insieme a lei sul divano che era situato
lì.
-Va meglio?- Le domandai mentre lei si stendeva su di me, facendo fare
un
balzo al mio stomaco. Lei si limitò ad annuire, tornando a
baciarmi. Ed io
risposi a quel bacio lasciando che le nostre lingue si intrecciassero
in quel
gioco, in quella danza che stavano conoscendo, scoprendo. Le mie mani
esplorarono il suo corpo prima con indecisione, lentezza e poi con
più
intensità, con più desiderio. Scoprii che il suo
collo era un’attrazione
formidabile per me alla quale non riuscivo più a resistere e
che ogni volta che
la baciavo avevo voglia di farlo ancora, ancora, senza fermarmi mai.
I baci che seguirono fecero alzare mano a mano la temperatura in quella
stanza. Le mie mani avevano abbassato le spalline del suo vestito,
lasciando
intravedere la pelle nuda del suo petto ed il reggiseno nero, mentre
lei si era
impadronita dei bottoni della mia camicia. Scendeva lenta su quei
bottoni,
mentre io non riuscivo a privarmi di un suo solo sospiro, di un suo
solo bacio,
e solo quando ormai giunse al quinto e la mia pelle arse al contatto
con quella
del suo petto, ebbi non so quale forza di allontanarla da me.
-Stiamo esagerando.- Dissi serio, cercando di non guardare quei suoi
dannati occhi che avrebbero piegato ai suoi piedi chiunque. Lei
aggrottò le
sopracciglia, provando ad avvicinarsi nuovamente, ma io la riuscii a
tenere
lontano, alzandomi poi velocemente con lei dal divano. –Hai
bevuto troppo, Ginni,
ti porto a letto.- Lei mugolò, posando le sue mani sulle mie
spalle, per
reggersi in piedi senza cadere e poi, dopo avere realizzato il senso
delle
parole mi guardò male.
-Sei uno stronzo.- Disse, allontanandosi di scatto da me. La presi in
braccio, riuscendo con non so quale fortuna a non prendermi uno degli
schiaffi
che cercava in continuazione di tirarmi. Come ho già detto,
me ne disse di
tutti i colori, mi minacciò in tutti i modi possibili e
quando la posai
soddisfatto sul mio letto mi aveva detto le parole che mi avevano
tormentato il
cuore per tutta la notte seguente.
-Fai tutto come ti pare a te! Mi baci quando vuoi tu, ti approfitti
della
mia sbornia, mi usi e poi mi porti a letto come una bambina! Cantami
anche la
buonanotte ora!- Mi urlò, mentre io le carezzavo i capelli
cercando di farla
stendere. –E non mi toccare!- Mi schiaffeggiò la
mano ed io la allontanai, non
riuscendo comunque a sorridere.
Davvero pensava quelle cose?
Pensava che non m’importava di lei?
Pensava che mi fossi approfittato di
lei?
Scossi la testa, portando le mani sul viso costringendomi a guardarmi.
Si
ammutolì all’istante ed io la guardai: piena di
lentiggini, confusa, non mi
capiva, non capiva quella situazione.
-Baciarti era la cosa che desideravo di più.- Le sussurrai,
mentre lei
lasciava passare sul suo viso decine e decine di espressioni
differenti:
sorpresa, curiosità, sorpresa, odio, sorpresa.
-Lasciami stare, ti prego- Mormorò scuotendo la testa.
–Non ci voglio
restare male- Aggiunse, sdraiandosi e sospirando. Io cercai di trovare
una
spiegazione ragionevole a quelle parole, ma Ginevra non era
l’unica sotto
l’effetto dell’alcol e la mia testa girava
insistentemente. Mi limitai a
sistemarle una ciocca di capelli dietro l’orecchio e a
coprirla con il piumone.
-Buonanotte.- Le dissi infine, piegandomi sul suo viso per lasciarle un
dolce bacio sulle labbra. Lei annuì debolmente mantenendo
gli occhi chiusi.
-Notte.- Rispose, girandosi poi sull’altro fianco. Mi alzai
dal letto e
socchiusi la porta alle mie spalle. Chiusi e riaprii gli occhi,
rendendomi
conto che la mia testa girava decisamente più velocemente di
qualche istante
prima e che avevo l’impellente bisogno di stendermi.
Raggiunsi un po’ traballante il divano in salone e mi sdraiai
a pancia in
su, sospirando sonoramente. Quando chiusi gli occhi non riuscii a
dormire
immediatamente: forse per la sensazione che il mondo stesse girando,
forse
perché la mia testa non riusciva a trovare la pace, a
liberarsi dai ricordi,
dagli avvenimenti di quella serata. Quando varcai la soglia del mondo
dei
sogni, lo feci però con l’immagine di Ginevra ben
stampata nella mia mente.
Riuscii
finalmente a raggiungere lo Starbucks situato all’incrocio
della
Fifth Avenue con la 59esima strada e tirai fuori dalla tasca dei jeans
cinque
dollari, rivolgendo poi un sorriso alla cassiera.
-Un moka-frappuccino piccolo,
perfavore.- Ordinai educatamente, stupendomi poi della mia
stessa voce: più roca e
più profonda del solito.
-Arriva subito!- Mi disse la
ragazza con un sorriso, rivolgendosi poi al prossimo cliente: una
signora
anziana con i suoi due nipotini. Sorrisi con amarezza, prendendo poi il
mio
frappuccino ed uscendo dallo Starbucks, incamminanandomi lungo la Fifth
Avenue, diretto ormai a
casa.
Considerai più volte l’idea di andare al Central
Park ma l’erba bagnata non
faceva altro che allontanarmi da quell’idea.
Più pensavo a ciò che era successo la sera
precedente e più mi ponevo la
domanda che mi aveva rivolto Ginevra: “sei innamorato,
Emanuele?” Ero
innamorato io, Emanuele Benassi?
Avevo deciso di chiudere definitivamente con l’amore, avevo
deciso che non
ne valeva la pena di soffrire, di passare ore infernali a causa di una
ragazza.
Ero stato fidanzato un anno e tre mesi con Michela. Quindici mesi in
cui io
avevo dato tutto me stesso giorno dopo giorno, mese dopo mese,
perché lei era
la mia prima vera ragazza, la
prima
con cui non stavo solo così per starci durante una vacanza
estiva, ma ci stavo
perché io l’amavo e lei amava me. Ci eravamo
conosciuti alla festa di diciotto
anni della cugina di Federico, andava a scuola in un liceo scientifico
del
centro di Roma ed era più grande di me di un anno. Mi
presentai, chiaccherammo
un po’ e poi ci scambiammo i numeri, cominciando a sentirci,
a frequentarci. Un
mese dopo ci mettemmo insieme e cominciammo quella che aveva tutti i
caratteri
della storia che doveva durare per sempre.
Sfortunatamente quell’eternità fu violentemente
spezzata dal suo ex, con il
quale si frequentò per gli ultimi quattro mesi della nostra
storia. Lo scoprii
da solo, casualmente, nel modo probabilmente peggiore, il giorno che
preceva il
nostro sedicesimo mesiversario. Ricordavo ancora quel pomeriggio
perfettamente
in ogni suo dettaglio: ero uscito da scuola e l’avevo
chiamata, chiedendole se
aveva voglia di uscire quel pomeriggio, lei mi aveva risposto che aveva
da fare
ed allora ero uscito a farmi un giro con Federico, accompagnandolo a
comprare
dei libri per scuola a Piazza della Repubblica; arrivammo e prima di
entrare
Federico mi domandò di aspettarlo perché voleva
fumare una sigaretta e fu in
quell’istante che il destino si pronunciò: se
fossimo entrati non avrei mai
potuto notare una coppia che si baciava appassionatamente in una mini
cooper
rossa parcheggiata a pochi metri dalla libreria, non avrei mai scoperto
Michela
ed il suo tradimento.
Sospirai e mi accorsi che in preda ai ricordi mi ero fermato a guardare
una
famigliola che giocava a football nel parco, ridendo e gridando a gran
voce.
Scossi la testa, riprendendo a camminare con la testa, invece,
totalmente
altrove. Fra le nuvole.
Fatto stava che dopo la mia rottura con Michela mi ero ripromesso
solennemente che non mi sarei mai più andato a buttare in
delle storie d’amore
ed avevo cominciato così a stilare la mia lunga lista da Don
Giovanni. Federico
mi aveva rimproverato più volte il fatto che non mi
comportavo bene, che
cambiare ragazze come se nulla fosse non mi faceva apparire migliore e
non
faceva soprattutto onore. Avevamo litigato più volte
insistentemente
sull’argomento e la volta che la nostra amicizia per poco non
si chiuse
seriamente successe che ci prendemmo a pugni e deviai il suo setto
nasale e lui
mi ruppe uno zigomo. Dopo quel giorno mi calmai sicuramente ma
restò il fatto
che ero diventato estremamente cinico e poco disponibile nei confronti
dell’amore,
delle ragazze, della possibilità di provare nuovamente
determinati sentimenti.
Eppure Ginevra da quel giorno in cui ci eravamo scambiati le borse, era
stata in grado di stimolare il mio cuore freddo ed impassibile. Era
riuscita a
farmi provare delle emozioni, dei sentimenti che avevo rinchiuso nel
più
lontano dei cassetti e che non avrei mai più voluto sentire.
Dal primo giorno
in cui l’avevo vista avevo combattuto assiduamente per capire
cosa fosse ciò
che provavo per lei: amore o attrazione. Non ero giunto ad una
conclusione
malgrado più volte mi fossi illuso di aver trovato una
soluzone, eppure quando
l’avevo baciata mi era sembrato tutto così giusto,
tutto così sensato, ed il
mio sì a quella sua domanda sembrava la cosa più
vera che io avessi detto in
tutta la mia vita.
Gli ultimi tre mesi era stati caratterizzati dalla sua comparsa nella
mia
vita, la migliore amica della ragazza del mio migliore amico,
inevitabilmente i
nostri destini si erano intrecciati per non riuscire più a
separarsi, malgrado
i tentativi di Ginevra.
Sospirai nuovamente, buttando via il bicchiere ormai vuoto dove prima
c’era
stato il mio moka frappuccino e, nonostante fossi abbastanza distante
ancora
dal mio palazzo, decisi di attraversare la strada ma, a mia grandissima
sorpresa,
vidi venire proprio nella mia direzione Ginevra. Camminava veloce, con
gli
occhi ben puntati su di me. Era bella Ginevra di una bellezza tutta
sua,
particolare. Aveva quei lunghi boccoli ramati, la pelle quasi diafana e
quelle
migliaia di lentiggini ed infine i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi
azzurri.
Erano dello stesso colore del cielo quando non c’era aria di
tempesta, così
grandi, sinceri, che sembravano offrirti la possibilità di
entrare in lei,
comprenderla e che lasciavano sfuggire quella leggera paura di
affezionarsi
troppo, quella paura che lei aveva sempre nei miei confronti.
Accennai un sorriso ma l’espressione sul suo volto mi fece
intendere che
non stava decisamente venendo in pace. Le opzioni erano poche: o si
ricordava
perfettamente della notte precedente o aveva voglia di riscuotere il
suo
‘perché’.
-Sei un coglione!- Mi urlò quando fu ad un metro di
distanza, dandomi uno
schiaffo sulla guancia che probabilmente mi lasciò
metà del viso rossa. –Sei
uno stronzo!- Cominciò a darmi insistenti pugni sul petto.
Inizialmente non
compresi tutto ciò che stava accadendo e solo dopo che la
mia mente ebbe
realizzato ciò che stava accadendo, la afferrai per i polsi
e la bloccai.
-Che succede?- Le domandai con la maggior calma possibile. Lei
alzò lo sguardo
e notai che i suoi occhi erano leggermente gonfi, con delle occhiaie un
po’
accennate: aveva forse piano? Deglutii, mentre lei si liberava dalla
mia presa
e si toglieva velocemente la sciarpa che portava al collo.
-Cosa succede, maiale?- Urlò, facendo girare qualche
newyorkese incuriosito
a guardarci. Indicò il suo collo. –Ecco cosa
succede! Come me lo spieghi!-
Guardai il suo collo teso e notai che sulla pelle chiara risaltava un
grosso
livido violaceo: maledizione.
-Io..- Provai a dire ma lei mi azzittì in fretta, dandomi
una spintarella.
-Tu sei un porco, hai capito? Ti sei approfittato del fatto che fossi
ubriaca! Mi hai usata per i tuoi sporchi comodi e poi te ne sei
fregato!- Si
fermò, abbassando le mani e guardandomi con aria tradita,
ferita. Il mio cuore
si strinse.
-Eravamo ubriachi, abbiamo cominciato a baciarci e..- Provai a
spiegarmi,
ma lei scuoteva già la testa.
-E hai ben pensato di prenderti tutto no, visto che c’eri!-
Spalancai gli
occhi: davvero pensava che io avessi continuato, avessi superato quel limite.
-Ginni, no.. Ci siamo solamente baciati in un modo un po’
più spinto, ma non
è successo nulla!- Anche
io alzai la voce: da un lato indignato per ciò che stava
pensando di me,
dall’altro perché non volevo, non volevo
assolutamente litigare con lei.. Non
dopo ciò che era successo, non dopo che avessi capito che a
lei ci tenevo
davvero.
-E perché dovrei crederti?- Domandò con la voce
leggermente tremante.
–Perché dovrei crederti, Emanuele! Non hai fatto
nulla per meritarti la mia
fiducia, mi hai semplicemente fatta sempre soffrire!- I suoi occhi si
riempirono di lacrime ed ebbi il forte impulso di abbracciarla,
stringerla al
mio petto, baciarla. Eppure lei era lontana chilometri, aveva innalzato
un muro
fra di noi che non riuscivo a superare.
-Credimi e basta. Non avrei mai potuto farti una cosa del genere.- Ero
stato io che l’avevo fermata, che l’avevo preso in
braccio, l’avevo portata a
letto e l’avevo fatta dormire: non riuscivo a sopportare di
sentirmi trattato
come un mostro.
-Ero ubriaca persa! Avresti dovuto portarmi a letto subito, non avresti
dovuto farmi più bere!-
-Ti ho portata a letto!- Urlai esasperato, mentre lei mi guardava
pronta ad
incenerirmi. –Ti ho messa a letto, ti ho coperta con il
piumone, l’ho fatto!-
-Ma prima ti sei approfittato un po’ della situazione, no?
Cosa mi sarei
mai potuta aspettare da uno come te? Da uno che bacia le ragazze in
discoteca
così per fare e poi le prende anche in giro! Come mi posso
aspettare da uno che
per tre mesi ha giocato con il mio cuore: l’ha preso,
l’ha illuso e poi l’ha
schiacciato!- Mentre gridava quelle parole le lacrime uscivano
violentemente,
scendendo sulle sulle sue guance. Il mio cuore si paralizzò:
l’avevo davvero
illusa? L’avevo davvero fatta soffrire? Inarcai un
sopracciglio e lei notò
evidentemente la mia sorpresa nel sentirmi dire quelle cose.
–Cosa pensavi che
mi aveva fatto piacere vederti baciare Giulia? Che non mi piacessi? Ti
sei
sbagliato! Perché..- E si fermò un attimo,
abbassando lo sguardo, respirando
profondamente. -..Perché ti amo! Ti amo e non dovrei farlo!
Non posso amare una
persona schifosa come te, non posso amare uno che a me non ci tiene
neanche
minimamente, che mi fa star male per mesi, che prima non mi calcola,
che poi mi
sorride e fa il gentile.. Non posso amare uno che non mi rivolge la
parola per
due mesi e poi mi porta a New York come se nulla fosse!- Singhiozzava
violentemente davanti a me, mentre io ero fermo, non riuscendo a
muovere un
singolo muscolo.
Ti amo. Quelle due parole
rimbombavano nella mia mente e le mie ginocchia sembravano essersi
fatte
improvvisamente molle come non mai.
Ti amo. E pensavo a Ginevra che
soffriva a causa mia, a quanta forza aveva avuto ad affrontare il mio
sguardo
tutte quelle volte che il suo cuore invece moriva a causa mia.
Ti amo.
–Ti voglio fuori dalla mia vita, per sempre! E non
m’importa più di sentire
i tuoi perché! Non mi
dirai mai
perché mi vuoi nella tua vita per il semplice fatto che tu
neanche sai se mi
vuoi o meno..Perché sei fatto così, Emanuele!
Vuoi tutto e non vuoi niente! Io
non sono merce di scambio, un giocattolo, sono una persona con un
cuore, che
sta male a causa tua e non ci sta più a stare ai tuoi
stupidi, infantili
giochetti!- Prese fiato, asciugandosi con la manica del cappotto le
lacrime. Tremava
tutta. Poi alzò lo sguardo e mi guardò
seriamente. –La cosa più ridicola sai
qual’è? Immaginavo che avresti detto qualcosa,
almeno, invece sei così codardo
da non riuscire neanche a commentare.- Scosse la testa mentre io venivo
pugnalato da ognuna di quelle parole. –Me ne vado a Roma, ho
già chiamato ed ho
cambiato il biglietto.- Concluse così quel suo lungo
discorso e si girò,
correndo via da me.
La guardai allontanarsi, velocemente, ed io non riuscii a muovermi.
Perché?
Perché non la seguivo e non la fermavo? Per dirle poi cosa?
Ti amo.
Anche io l’amavo, l’amavo dal primo momento,
l’amavo dalla prima volta che
mi aveva sorriso.
Ti amo.
Il suo sorriso, i suoi occhi, la sua risata. Tutto era impresso dentro
di
me, stampato per non essere più cancellato, come se fosse
inchiostro
indelebile.
Ti amo.
L’amavo perché quando stavo con lei tutto il resto
del mondo poteva anche
scomparire, perché quei due giorni a New York erano stati i
migliori di tutta
la mia vita.
Ti amo.
-Ti amo anche io..- Mormorai al vento, mentre dei bambini correvano
davanti
a me, facendomi svegliare di colpo. Eppure ero arrivato troppo tardi,
anche
quella volta.. Avevo pensato che sarebbe stato tutto facile, che tutto
si
sarebbe piegato ai miei piedi, anche lei.. Avevo pensato che quando
avrei
voluto, lei ci sarebbe stata, ed invece Ginevra era differente e se ne
era
andata. Mi aveva aspettato, mi aveva dato la possibilità di
averla, di stare
con lei, ed io l’avevo presa alla larga, pensando che ci
sarebbe stato il
tempo. Era stata chiara: avevamo chiuso definitivamente
perché io non riuscivo
a decidermi ed aveva fatto bene.
Me ne vado a Roma.
Non appena ricordai quelle sue ultime parole qualcosa riuscì
finalmente a
scattare nella mia testa e presi in fretta il cellulare dalle mie
tasche con le
dita che tremavano. Tremavo.
Digitai
il numero di mia zia che lavorava al check-in della Delta Airlines
lì a New
York. Non poteva finire così, non doveva finire
così, non quando avevo capito
che era lei che volevo, che senza di lei non potevo starci, che senza
di lei
non potevo farcela.
-Ema! Ciao!- La voce di mia zia suonò estremamente gioiosa
alle mie
orecchie.
-Ciao, zia.. Senti, ti chiamavo per chiederti un favore..- Cominciai,
deglutendo.
-Sì certo, dimmi, va tutto bene lì al centro no?-
Mi domandò. No, andava
tutto a rotoli, andava tutto male, malissimo.
-Sì, va tutto bene. Ginevra Sforza a che ora ha
l’aereo oggi?- Domandai
mentre ogni singola parte del mio cuore moriva al suono del suo nome.
-All’una e mezza.- Guardai l’orologio: erano le
undici. Probabilmente già
stava in taxi. –Sei sicuro che vada tutto bene?-
-Sì, grazie mille zia.- Attaccai senza aspettare risposta e
corsi con tutta
la velocità che avevo fuori dal Central Park. Probabilmente
quella mattina lei
aveva organizzato tutto: si era svegliata, aveva visto il succhiotto,
aveva
chiamato la Delta Airlines,
fatto la valigia ed era venuta da me..
Mi aveva trovato nonostante non le avessi detto dove
fossi.
Arrivai con il fiatone davanti al mio palazzo e, non vedendo Mark da
nessuna parte, alzai prontamente il braccio per fermare un taxi.
-All’aeroporto!- Dissi senza neanche curarmi di parlare in
inglese. Ma
quello parve capire alla perfezione e diede gas, allontanandosi in
fredda dal
Central Park, dal centro di New York.
Cosa mi era preso? Ero rimasto lì immobile ad ascoltare le
sue parole senza
riuscire a parlare. Codardo.
Possibile che non me ne fossi mai reso conto prima di quanto fossero i
miei
sentimenti nei suoi confronti? Avevo voluto fare quel viaggio a New
York con
lei per chiarire, certo, per accennarle che forse da parte mia ci fosse
qualcosa in più di un’amicizia.
Ingenuo!
Non mi ero mai accorto del fatto che lei mi amasse? Non ci avevo mai
fatto
caso? Mi ero curato solamente di non perdere il rapporto con lei
perché da parte mia
pensavo che non ce l’avrei mai
fatta senza di lei, mentre ero convinto che io a lei non interessassi
ormai da
quel cinque febbraio in cui mi aveva dato il suo ultimatum.
Idiota.
Il taxi si fermò ed io lasciai in mano dell’uomo
una banconota da cento
dollari senza nemmero procurarmi di riscuotere il resto. Scesi
giù
dall’automobile e corsi all’interno
dell’aeroporto, venendo travolto dalla
marea di gente che doveva partire e che affollava ogni singolo metro
quadrato
di quel posto.
Decisi di agire seguento il mio istinto e corsi istintivamente verso i
controlli situati fuori dalla dogana, spingendo via tutti coloro che si
trovavano in mezzo dicendo “excuse me” ogni tre
passi. Non potevo lasciarla
partire, non potevo rovinare tutto con lei definitivamente, non prima
di averle
detto che l’amavo anche io, che non poteva lasciarmi
lì perché avevo bisogno di
lei, come la sera precedente: avevo bisogno della morbidezza delle sue
labbra,
delle sue braccia strette intorno a me, dei suoi sorrisi, dei suoi
sguardi così
allegri, furbi, sinceri.
-Ginevra!- Urlai sbracciandomi quando individuai la sua chioma rossa in
coda per fare il controllo. Lei si girò e
spalancò gli occhi, domandando poi
qualcosa alla signora che stava in fila davanti a me: stava cercando di
passare
avanti. In quel momento allora me ne fregai altamente di tutto e di
tutti e
scavalcando tutta la fila che mi separava da lei l’afferrai
per un braccio e la
avvicinai a me con tanta forza che lasciò cadere la propria
borsa a terra,
guardandomi poi spaventata negli occhi.
-Lasciami, abbiamo già concluso il nostro discorso.- Disse
gelida,
divincolandosi. Ma io non avrei lasciato quella presa, non
l’avrei più lasciata
andare via.
-No, non abbiamo concluso nulla perché io devo ancora
parlare.- Ribattei determinato.
Lei fece un sorriso ironico, voltandosi a guardarsi intorno. La gente
ci
fissava leggermente dubbiosa.
-Hai avuto la tua occasione per parlare. Hai avuto tre mesi per
parlare.-
Mi guardò fisso negli occhi ed io deglutii. No, dovevo
assolutamente
continuare, portare a termine quel nostro discorso.
-Mi sono svegliato troppo tardi. Ma non negarmi la
possibilità di chiarire,
ti prego.- La supplicai, mentre il mio cuore accellerava i battiti.
-Non le voglio sentire le tue solite frasi fatte.- Sembrava rassegnata
mentre scuoteva con poca energia la testa. –Te l’ho
già detto una volta: non
sono la prima troietta che ti porti a letto con un paio di battutine.-
La prima
volta che avevo sentito quelle parole avevo riso, invece in quel
momento mi
faceva ancora più male al cuore.
-Io ti amo.- Presi
il suo viso fra
le mie mani, costringendola a guardarmi negli occhi. –Ti amo
ed è per questo
motivo che non posso pensare ad una mia sola giornata senza averti
più nella
mia vita. Ti voglio nella mia vita perché sei riuscita a
farmi provare
nuovamente dei sentimenti che avevo rimosso disilluso e ferito dopo una
storia
finita male. Ti amo perché mi basta un tuo sorriso per stare
bene, mi basta un
tuo sguardo, una tua risata..una tua presa in giro.- Abbassai lo
sguardo e
fissai il pavimento. –Non avrei mai voluto farti del male, ma
come hai detto tu
sono uno stronzo, sono un deficiente egoista che ha messo sempre se
stesso
davanti a tutto.. Sono stata così impegnato a cercare di
capire ciò che provavo
io nei tuoi confronti da non pensare minimamente a ciò che
potessi provare tu,
in quei momenti..- Affrontai il suo sguardo acquoso.
-Perché mi evitavi inizialmente?- La sua serietà
fu tradita dal tremolìo
della sua voce.
-Ti evitavo perché dalla prima volta,- carezzai con il
pollice le sue
guanca, deglutendo. –dalla prima volta che ti ho visto ho
provato qualcosa di diverso, di
forte nei tuoi confronti.
Chiamalo colpo di fulmine, chiamalo come ti pare, ma ne avevo paura..Ne
avevo
paura perché io mi ero ripromesso di non innamorarmi
più, di non legarmi più ad
una ragazza come mi ero legato a lei.-
Chiusi gli occhi un attimo, mentre l’immagine di Michela si
insinuava
prepotentemente nella mia mente, venendo poi sostituita da quella di
Ginevra,
in piedi davanti a me, con le labbra leggermente schiuse e la voglia di
capire,
di essere convinta. –Ti evitavo quando ero con i miei amici,
mascherandomi
dietro la mia fama di “montato che si isola dal mondo con
Della Valle”..ma poi
quando ero davanti a te non riuscivo a non.. a non innamorarmi giorno
dopo
giorno di te.-
-Ma se eri..se eri innamorato di me..- Capii che pronunciare quelle
parole
per lei era incredibilmente difficile. -..Perché?
Perché..Giulia?-
-Perché sono uno stronzo..Un puttaniere.- Deglutii,
allontanando le mani dal
suo viso. –Un puttaniere che in quella discoteca tanto per
cambiare ha fatto
uscire fuori la sua natura..Perché sono così in
realtà, o almeno ero così
prima di conoscere te.-
Sospirai, mentre lei fissava un po’ il soffitto, un
po’ per terra. –Io voglio sono
te, adesso.. E non ti voglio come un premio di cui vantarmi, non ti
voglio
perché non sei caduta ai miei piedi ed allora voglio
mostrare al mondo che
io posso averti.-
-Anche perché io sono
caduta ai
suoi piedi.- Mi guardò con un mezzo sorriso sulle labbra.
-Scusami, Ginni, ti prego.. Ieri sera, malgrado tu sia convinta che io
ti
abbia usato, non sai come sono
stato
quando ti ho baciato, mi sono sentito felice..
Quando ti ho allontanato, quando ti ho portato a letto, ho combattuto
con ogni
mia forza, con ogni mio muscolo contro il mio desiderio.. Avrei
desiderato
dartene altre mille di baci, sentire le tue mani su di me.. Scusami..-
Lei però
era ancora dubbiosa: rincuorata sicuramente, ma anche incerta.
-P-perdona i miei..silenzi?- Balbettò. Io ricordai come in
un flashback il
coma etilico di Sara, l’ospedale, quel pomeriggio del
risveglio. –Avevi sentito
il mio monologo a Sara?- Domandò, ricominciando debolmente a
tremare,
guardandomi.
-No.- Risposi fermamente. Di cosa parlava ora? Aggrottai la fronte e
lei
sbiancò. –Io quel giorno mi ero reso solamente
conto che non volevo più
evitarti, che volevo conoscerti, che volevo lasciarti la
possibilità di entrare
nel mio cuore..- Le spiegai con calma.
-Quel giorno dissi a Sara che mi
piacevi da morire.- Disse seriamente, scuotendo poi la testa.
–E che tu non mi
calcolavi, che eri strano..-
-E’ cominciato l’imbarco
per il
volo DL 921 diretto a Roma Fiumicino.-
Ginevra si voltò di scatto: era il suo volo.
-Non andare, ti prego.- La implorai prendendo nuovamente il suo viso
fra le
mie mani.
-Ho paura di fidarmi.- Mormorò ricambiando il mio sguardo.
Mi chinai sul suo viso e la baciai, finalmente da sobrio, finalmente
con
tutte le carte in tavolo e nessun dubbio, nessuna cosa tenuta dentro il
mio
animo nascosta. Inizialmente lei ricambiò il mio bacio con
indecisione, con
timidezza. La strinsi con delicatezza a me, mettendo tutta la dolcezza
di cui
ero capace in quel bacio. Non ero una qualsiasi ragazza che baciavo per
raggiungere il mio scopo, no, lei era diversa e tutto con lei doveva
essere
differente. Lei ricambiò il mio bacio portando le braccia ad
intrecciarsi
dietro il mio collo. Lasciai le mie mani scendere lungo la sua schiena,
esplorandola con delicatezza, quasi avendo paura di farle del male. E
fu un bacio
diverso da quello che ci eravamo scambiati la sera precedente:
riversammo in
quel bacio tutti i nostri sentimenti, le nostre emozioni e le
mescolammo,
mentre il tempo sembrava essersi interrotto intorno a noi. Quando ci
separammo
aprii piano gli occhi, quasi con la paura di svegliarmi da quel sogno.
Lei fece
evidentemente lo stesso e quando ci guardammo le sue guance divennero
rosse.
-Scusami..- Scosse la testa, allontanandosi poi da me e prendendo da
terra
la borsa che le era cascata. Non capivo: la guardavo negli occhi e
cercavo di
comprendere cose le stesse passando per la mente. La presi per una
mano, ma lei
si allontanò continuando a scuotere la testa. -..Devo
andare.- Mormorò,
alzandosi poi sulle punte per baciarmi dolcemente le labbra
un’ultima volta.
E mi lasciò così, con gli occhi spalancati in
mezzo ad una folla di gente
che faceva il controllo dei bagagli e passò attraverso il
metal detector senza
più girarsi nella mia direzione.
Se ne era andata.
Non riuscivo ancora a realizzare che alla fine avesse scelto di..
andarsene. Possibile che era finita così? Possibile che
appena avevo riaperto
il mio cuore, questo era stato immediatamente
spezzato?
Ed io la volevo dannatamente.
La amavo e la volevo con me.
Osservai i suoi capelli rossi allontanarsi sempre più dal
mio campo visivo
e sospirai, mentre le mie mani si stringevano in dei pugni in cui
tentavo di
sfogare tutta la mia rabbia, la mia frustrazione. Se ne era andata.
Restai per qualche altro istante fermo lì con la gente che
passava
scansandomi, facendo di me ciò che voleva. Solo dopo qualche
minuti mi mossi,
uscendo dall’aeroporto. Muovevo ogni singolo passo senza
realmente accorgermi
di dove fossi, dove stessi andando. Uscii dall’aeroporto con
nella testa voci
su voci che si accavallavano, intrecciandosi con le parole di Ginevra,
con le
immagini di Ginevra.
-Hey, ragazzo, hai bisogno di un
taxi?-
Alzai lo sguardo e mi accorsi di essere uscito dall’aeroporto
e mi ritrovai
davanti ad un ragazzo di colore che mi fissava insistentemente. Battei
un paio
di volte le palpebre, cercando di riprendere un po’ di
controllo.
-Allora?- Domandò
spazientito,
battendo il piede a terra.
-Sì, grazie, devo andare a
Central Park.- Risposi, finalmente riuscendo a mettere
insieme delle parole in inglese.
Lui annuì e mi fece cenno di seguirlo. Salimmo nel taxi e
partimmo in totale
silenzio. Guardavo fuori dal finestrino e ricordavo il giorno in cui
ero
arrivato lì con Ginni: la sua faccia sorpresa in aereo, il
suo sorriso ironico,
la sua risata isterica e la sua voglia di autonomia da me finita male.
Sorrisi
fra me e me, scuotendo leggermente la testa: non potevo aver mandato a
puttane
tutto in quella maniera.
Scesi
dal taxi dopo aver pagato e mi incamminai con le mani affondate nelle
tasche all’interno del polmone verde di New York. E
così mi ritrovai per
l’ennesima domenica a vagare come un senzatetto per
quell’enorme parco,
amareggiato e ferito.
La mia meta fu inevitabilmente il lago dove avevo affogato tutte le
volte
il mio dispiacere e che quello impassibile aveva assorbito, liberandomi
di un
peso che premeva forte sul mio cuore. Mentre camminavo guardavo le
persone che
ridevano, si abbracciavano, si rincontravano e mi sentivo un
po’ come mi
sentivo da piccolo quando vedevo i bambini felici con il loro padre che
li
stringeva forte al proprio petto e poi li aiutava con le barchette.
Sospirai,
sedendomi sulla riva, portando le ginocchia al petto e posando la testa
su di
esse, guardando delle anatre in lontananza.
Probabilmente lei in quel momento era già
sull’aereo, magari stava già
decollando e forse stava pensando a me. Magari rideva della situazione,
dandomi
dell’idiota, magari piangeva, magari sospirava.. Me la
immaginai in ogni
situazione ed infine premetti i palmi delle mani sui miei occhi con
forza, come
a voler cancellare tutto, come a voler tornare indietro alla sera
precedente,
non farla ubriacare, baciarla da sobria..
Avevo organizzato il suo compleanno punto per punto, accuratamente,
perché
alla fine di quella serata volevo confessarle che la volevo nella mia
vita
perché sapeva farmi battere il cuore come
nessun’altra, che ero gelosa di quel
suo nuovo amichetto..Marco, o come diamine si chiamava, che volevo
poter godere
del suo sorriso ogni volta che ne volevo. Mi passai una mano fra i
capelli
infine, alzandomi e sistemandomi la camicia ed il maglione,
stringendomi poi
maggiormente nel mio giubbotto.
Così mi voltai, stanco di stare lì a fissare
quelle maledette barche in
miniatura, ben deciso ad andarmene a casa. A fare cosa poi? Scossi la
testa
scacciando via quella domanda e quando alzai lo sguardo mi ritrovai
davanti
Ginevra.
Era una visione? Sognavo o ero desto?
Lei mi sorrise debolmente, facendo un passo verso di me e non capivo
ancora, la mia mente si rifiutava di funzionare correttamente.
Boccheggiai un
po’ e lei ridacchiò, allungando le sue braccia
nella mia direzione.
Solo allora mi accorsi che stringeva fra le mani una barca a vela
bellissima: costruita di un legno scuro, con le vele grandi,
bianchissime, e
tutti i dettagli rifiniti con cura. Era una barca a vela da mettere in
acqua e
controllare con il telecomando. Era la barca a vela che da bambino
avevo
desiderato, la barca vela che avrei voluto mettere nell’acqua
di quel lago
insieme a mio padre..e me l’aveva regalata Ginevra. Ma il
regalo più bello non
era quel dannato giocattolo, ma lei.
Lei che stava in piedi davanti a me sorridente, lei che mi guardava
negli
occhi, lei con i suoi bellissimi boccoli ramati e la voglia di vivere
dipinta
sul volto. Era lei in carne ed ossa. Si schiarì la voce ed
io mi decisi a
chiudere la bocca.
-Ho pensato che infondo,- Cominciò, facendomi capire che
dovevo prendere la
barca. –ti sei guadagnato una domenica da ricordare con
felicità.- Pendevo
dalle sue labbra e quando terminò, tenendo con una sola mano
la barca, poggiai
l’altra sulla sua guancia e l’avvicinai a me,
baciandola con dolcezza.
Sì, era quello ciò che volevo, era lei che
mancava nella mia vita, e nulla
di più giusto avrei mai potuto fare.
Le mie labbra sulle sue leggermente fredde ebbero l’effetto
di scaldarmi
non solo tutto il corpo ma anche il cuore. Tornò ad essere
un cuore che batteva
sinceramente, che batteva per una ragazza, che batteva innamorato.
Quando ci allontanammo mi parve di essere bruscamente riportato alla
realtà
dopo degli attimi puramente paradisiaci. Lei mi sorrise, lasciandomi un
altro
delicato bacio a fiordilabbra. Poi si allontanò,
oltrepassandomi e dirigendosi
alla riva del lago.
-La proviamo questa barca?- Mi domandò facendomi
l’occhiolino.
Allungai il braccio per riuscire a prendere la sua mano, facendola
voltare.
Le sorrisi, carezzando con dolcezza le sue piccole dita.
-Ti amo, Ginni.- Le dissi con voce chiara, seriamente, e provai
emozioni
indescrivibili quando lei si sciolse in un ampio sorriso, chinando
leggermente
la testa.
-Ti amo anche io, Emanuele.- Rispose, tornando poi sui suoi passi,
verso il
lago, sorridente. La seguii e la affiancai, piegandomi poi sulle
ginocchia a
posare la barca sull’acqua, spingendola con delicatezza e
prendendo il
telecomando che Ginni mi offriva. Mi alzai e la guardai, sorridendo.
Come potevo non sorridere? Non avrei più smesso di sorridere
con lei
insieme a me. Mi aveva regalato la capacità di amare ed essere felice con una ragazza di nuovo,
dopo un lungo periodo di
tempo.
**Autrice**
Ecco finalmente questo soffertissimo capitolo.. E’ stata
un’impresa
scriverlo, concluderlo, perché avevo sempre paura di cadere
nella banalità. Sì,
lo so che ho fatto le due classiche scene da film, come finale, ma non
sono
riuscita a trattenermi perché erano dannatamente belle!
Come vedete ho finalmente risposto a tutte (credo!) le domande ed ho
delineato un po’ meglio il carattere di Emanuele (credo!)
individuando anche le
cause che l’hanno portato ad assumere determinati
atteggiamenti! Per il resto..
Quanto sono belli con Ginni! Ho pensato fino all’ultimo se
far partire Ginevra
o meno ma, alla fine, ho deciso che tirarla per le lunghe era davvero
esagerato
e quindi, nel prossimo capitolo, vedremo perché ha deciso di
tornare da lui.
Non mi dilungo troppo con i commenti e passo a ringraziare tutti coloro
che
anche questa volta hanno recensito (amo le recensioniii!):
sonietta: ecco
le risposte alle
tue curiosità! ;) Thank u per la recensione!
DarkViolet92: eheheh..al
loro
risveglio: tanti problemi!
Vero15star: Ha
strisciato
abbastanza? Dai che è tenero.. Gianluca tornerà
nel prossimo capitolo come
anche Marco! Non ti preoccupare, le tue recensioni in prima crisi mi
fanno
sempre sorridere e tanto piacere! Un bacio e grazie!
__Yuki__: Questa
volta sono stata
un po’ meno veloce ma ammetto che veramente rispetto ad altri
autori sono un
fulmine. Il punto è che siccome ho molta ispirazione scrivo
molto velocemente..
non mi piace far aspettare i lettori perché io stessa ODIO
aspettare! Grazie
mille per i complimenti e per la recensione.. Spero che ti piaccia
questo
fondamentalissimo capitolo xD
Ombrosa: Certo
che è
organizzato, deve farsi perdonare il ragazzo! Come vedi sono arrivate
le
risposte a tutte le domande! Un bacio e grazie!
Anthy: Uh
una nuova lettrice!
Grazie mille, cara, per tutti i bei complimenti! J
Spero continuerai a seguirmi! Un bacio
ChasingTheSun: Ciao,
Vale non che mia
nuova lettrice! Come vedi mi sono sbrigata a concludere di scrivere
questo
capitolo per non farvi stare troppo sulle spine.. Spero ti piaccia! Un
bacio e
grazie!
X_MoKoNa: Ti do
ragione su ciò
che hai detto perché io, al posto di Ginni, me ne sarei
proprio che andata.
Però Emanuele alla fine Ginevra la conosce visto che fra
alti e bassi sono
passati tre mesi e sono “legati”
dall’amore che lega Federico e Sara e dall’amicizia
(che vedremo ben definita più tardi) fra Emanuele e
Gianluca. Spero che ti
piaccia questo capitolo in cui ho focalizzato solo ed esclusivamente
Emanuele e
spero, e qui mi affido alla tua critica, di non averlo vittimizzato
troppo
perché era la cosa che temevo maggiormente!! Grazie come
sempre per la tua
recensione.. Un bacio!
Swettlove: Eh si che ha
organizzato tutto..Finalmente lui e Ginni parlano e si relazionano
senza muri
ed ostacoli fra di loro. Credo che oggi sarai piuttosto felice di
leggere gli
avvenimenti di questo capitolo.. xD un bacio e grazie grazie grazie!
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