The kids from yesterday

di time_wings
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - Lo scherzo memorabile ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Mura ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Paura ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - (Bianco) Natale ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Leone ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Percorsi ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Come gocce di pioggia ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - Cera e ghiaccio ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8.1 - Tra trasgressione e timidezza ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8.2 - Tra trasgressione e timidezza ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - Fantasmi ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 - Puro ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Guizzi nel vetro ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 - Catena di Eventi ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 - Non sei solo ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 - Me, vecchio ed erede ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 - Il più malandrino ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 - Ingranaggi in armonia ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 - Il profumo della consapevolezza ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - Ciò che il vetro non riflette ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 - Tre lettere ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 - Scelta ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21 - Titolo: la Mappa del Malandrino ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22 - Successo? ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 - A un mondo di distanza ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 - Verità scomode ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 - Fiducia ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 - Effetto farfalla ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 - Prima regola dello scherzo ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 - L'importanza di chiamarsi Sirius ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 - Nascita e morte (di un amore) ***
Capitolo 32: *** Capitolo 30 - Cinque minuti e trentadue ***
Capitolo 33: *** Capitolo 31 - The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars ***
Capitolo 34: *** Capitolo 32 - Frammenti di mondo ***
Capitolo 35: *** Capitolo 33 - Il tempo che ci resta ***
Capitolo 36: *** Capitolo 34 - Mappa ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0 - Lo scherzo memorabile ***


The Kids From Yesterday


 
 

0. Lo scherzo memorabile



“È stata una vera fortuna!” trillò il ragazzo, negli occhi quel luccichio di pacata estasi che precedeva una grande idea. Lo trovò riflesso, proprio uguale, nelle pupille del fratello.
“Puoi dirlo forte. Non l’avremmo mai trovata senza tutte quelle detenzioni.” George ridacchiò e alzò le sopracciglia con fare eloquente. Sollevò la pergamena e le diede una rapida occhiata, mentre Fred sussurrava incantesimi uno dietro l’altro, serrando gli occhi per concentrarsi.
“Beh, direi che hanno dato i loro frutti,” Fred si rialzò, sorridendo sghembo e spazzolandosi i vestiti. “Ci siamo,” soffiò poi, tornando a voltarsi in direzione del fratello e trovando sul suo viso la stessa impazienza e trepidazione.
“Nessuno nei paraggi?” domandò Fred, alzando un sopracciglio.
George abbassò lo sguardo sulla pergamena e scosse la testa. “Via libera.”
“A te l’onore, fratello.”
Fu il turno di George di inginocchiarsi. Osservò il lavoro del fratello e annuì soddisfatto, inumidendosi le labbra. Sollevò lo sguardo su Fred e sorrise, tendendogli la mappa con una mano.
Puntò la bacchetta sul tubo incrostato e inspirò a fondo l’aria fetida dell’impianto idraulico della scuola. Adorava quell’attimo prima di combinare un disastro, quel silenzio adrenalinico che gli faceva venir voglia di ingegnarsi ancora e pensare a qualcosa di più grande, più spettacolare. Mormorò un incantesimo e sentì subito il ferro creparsi, allargarsi e rimodellarsi.
 
“È andata?” James alzò un sopracciglio e si voltò a dare un’occhiata alle sue spalle. Sospirò teso, osservando l’altro ragazzo chinato ancora a terra. “Ehi,” lo richiamò, appallottolando un pezzo di pergamena e lanciandogliela dietro la testa. “Sirius?”
“Ci sono quasi, James, se solo stessi zitto un attimo…” Sirius si curò solo di riafferrare la palla di carta e rispedirla al mittente, ma non lo degnò di uno sguardo.
“Devi darti una mossa, si sta avvicinando…”
“Lo so,” tagliò corto Sirius, alzandosi di scatto e osservando con un po’ di timore la sua opera. “James?”
“Mh-mh?” il ragazzo teneva lo sguardo puntato sulla mappa e, di tanto in tanto, si sistemava gli occhiali sul naso, in un gesto dovuto più a tensione che necessità.
“James,” lo chiamò ancora Sirius, che adesso lo fissava, in attesa di una risposta.
“Che c’è?” domandò lui, seccato, distogliendo lo sguardo dalla mappa per puntarlo sul suo amico. Si fissarono per un paio di secondi, poi un rumore metallico costrinse James a gettare un’occhiata al tubo incrostato.
Sirius si morse il labbro inferiore. “Corri, se scoppia siamo fregati,” parlò poi, afferrando il ragazzo per il polso e tirandoselo dietro.
Il corridoio attraverso cui scapparono non gli era sembrato così lungo all’andata. Una luce angolata colpiva pigra la svolta che avrebbero dovuto prendere. “Ha funzionato?” ansimò James, percependo la stretta sul suo polso aumentare di intensità.
“Credo di sì.” Sirius rise divertito, una vena di adrenalina gli striava esaltata la voce e James lo seguì a ruota, mentre i mantelli svolazzavano pericolosamente attorno alle suole delle loro scarpe.
Svoltarono alla fine del corridoio e salirono le scale di pietra così in fretta che se Gazza li avesse visti li avrebbe messi in punizione solo per quello.
James sussurrò qualcosa alla pergamena, tra gli ansiti, e la infilò in fretta nella tasca posteriore dei pantaloni. Sirius si voltò verso di lui, un sorriso divertito ancora stampato in faccia. Ricambiò l’occhiata, senza alcun bisogno di aggiungere altro, e insieme accelerarono. “Dovremmo farcela,” considerò James, erano praticamente arrivati alle porte della Sala Grande.
“Ce la facciamo sicuro, Ramoso,” lo prese in giro Sirius, fermandosi a riprendere fiato e soffiandosi un ciuffo di capelli via dagli occhi. James poggiò stanco entrambe le mani sulle ginocchia e respirò a fondo, poi alzò lo sguardo su Sirius e sorrise.
Non passò molto prima che i ragazzi si decidessero a entrare. Il solito vociare concitato li accolse non appena varcarono la soglia, come se fosse stato impaziente di esplodere.
Peter alzò lo sguardo su di loro, sgranò gli occhi e attese ansioso che James e Sirius li raggiungessero al tavolo dei Grifondoro.
“Un successo,” lo informò Sirius, alzando un angolo della bocca e sedendosi tranquillamente.
James lo imitò e puntò uno sguardo sicuro negli occhi di Peter. “Spero vi siate lavati, stasera, perché non vi consiglio di usare il bagno,” commentò disinvolto, strizzando l’occhio a Peter, che ricambiò con una risata.
“Avanti, non fare l’innocente.” Sirius diede di gomito a Remus, seduto al suo fianco. “L’idea è tua.”
“L’idea non è mia,” puntualizzò Remus, roteando gli occhi come se l’intera faccenda lo avesse seccato, “io vi ho solo detto che le tubature potevano essere incantate e riempite d’acqua.” Remus alzò finalmente lo sguardo sui suoi amici, ma un sorriso appena accennato gli incurvava già le labbra.
“Noi ne abbiamo solo tratto fuori il meglio.” Sirius scrollò le spalle e ricambiò il sorriso.
“Se il meglio è allagare la faccia dei nostri compagni…” si intromise James, sbuffando divertito.
Sirius alzò un sopracciglio e gli rifilò una gomitata leggera nelle costole. “Ma da che parte stai?”
“In effetti è una buona idea,” considerò Peter, cacciandosi in bocca una generosa porzione di stufato di carne e patate.
“Avete sentito? Pete è dalla mia parte.”
“Ehi, ho fatto da palo, ma sei scemo? E poi non vedo l’ora di vedere la faccia di Mocciosus quando finalmente sarà costretto a lavarsi.”
“Tu sei fissato.” Sirius alzò gli occhi al cielo e si decise a prestare attenzione al suo stufato. James era fissato. Davvero, aveva sempre avuto un problema con Severus Piton e a volte era ingestibile. Non che si fosse mai fatto troppi problemi a imbottirlo anche lui di incantesimi, specialmente… nell’ultimo periodo. Semplicemente, lui non era fissato. “Ragazzi,” annunciò poi, alzando drammaticamente il cucchiaio, come se stesse elaborando una sentenza di morte, “questo scherzo ce lo ricorderemo per sempre.”
 
La sera in cui tutti coloro che usarono i lavandini furono investiti da una quantità d’acqua ben più sostanziosa di quella per serviva per lavarsi i denti passò alla storia… dei Malandrini. L’intera scuola era fradicia e nessuna prova che li incolpasse fu mai trovata, a parte ovviamente la fama di combinaguai.
James, Peter, Sirius e Remus passarono la serata nella Sala Comune della loro casa, coi denti già lavati da tempo e un sorriso enigmatico stampato in faccia ogni volta che un nuovo compagno bagnato passava loro davanti, sempre provvisto di occhiatacce e accuse silenti. James, di tanto in tanto, cedeva a una risata un po’ troppo ovvia.
I ragazzi, loro malgrado, furono costretti a dare ragione a Sirius: quello scherzo se lo sarebbero ricordato per sempre.
Il calore familiare di un ricordo felice gli fu asportato brutalmente. La sensazione gialla nel petto fu sostituita da un gelo appuntito. Non sentiva più le dita, non riusciva a muoversi, a stento rantolava e gli sembrava di fluttuare.
In un primo momento, le immagini gli scorrevano davanti e aveva la sensazione che non appartenessero al suo passato, ma forse a quello di qualcun altro, qualcuno che non esisteva più. Vedeva i volti dei suoi amici, ma non gli sembrava di essere mai stato lì, non riusciva più ad afferrare la connessione che c’era tra quel ricordo e la sua presenza. Allo stadio successivo quei volti mutavano, si distorcevano, sembravano di gomma e allo stesso tempo di cartapesta. Poi prendevano altre forme, quelle di sua madre con un cipiglio deluso e meschino, quelle di suo fratello, che a stento riconosceva, nonostante la somiglianza, quelle del suo migliore amico, ma senza il solito sorriso storto – il volto immobile e gli occhi spalancati in una maniera innaturale tipica solo della morte.
Un’angoscia immane lo pervadeva e gli sembrava di non percepire solo il suo dolore, ma quello dell’intero pianeta, dell’intera galassia, se fosse stato possibile. Un concentrato di pesantezza che gli si annidava nello sterno e infine il silenzio, l’inconscia consapevolezza che quell’inferno era finalmente passato, ma un’incapacità di fondo di sentirsi sollevato. Convalescente, ma in via di una guarigione destinata a interrompersi. Era attaccato dal dubbio continuo che, in effetti, quei ricordi non fossero suoi, che quelle persone non fossero mai esistite, che fosse tutto frutto dello stadio avanzato di follia in cui era convinto di versare.
Un grido acuto gli bruciò le orecchie. Sarebbe potuto provenire da qualunque luogo, non avrebbe fatto differenza.
Delle volte credeva di poter sentire il ronzio delle mosche a chilometri di distanza, altre gli pareva di non riuscire a percepire nemmeno il suo respiro, anche quando questo era scosso e rumoroso.
In quei casi doveva mettercela tutta e ricordarsi che stava ancora respirando, che in fondo doveva farlo per forza, perché i polmoni gli bruciavano e la gola era secca. E, anche se non vedeva niente e la mente gli si annebbiava, si concentrava sulle poche percezioni certe.
Si concentrava sulla pietra fredda e inospitale, sulla puzza intollerabile di urina e di escrementi, sul retrogusto ferroso del sangue e sulla testa che gli pulsava. Riusciva a sentire i lamenti e i mormorii che parevano impregnarsi nella pietra, scorrere come veleno, a renderlo meno umano. Alcuni di loro parlavano tantissimo, tutto il tempo, senza preoccuparsi se fosse notte o giorno, facevano discorsi accavallati, a volte litigavano, certe altre urlavano. Altri non parlavano affatto, delle volte si alzavano e prendevano a camminare freneticamente, nei pochi metri quadri della loro miseria. Il suono dei piedi nudi che si scontravano con pozze d’acqua gelata di condensa in continuazione, come un ticchettio assordante che sembrava provenire da tutte le direzioni e nessuna, scandiva un tempo sempre più infinito.
Certe volte, invece, la luce della luna si allineava alla sua finestra e capitava che fosse piena, che lo accecasse e che gli occhi disabituati lo tradissero e gli facessero vedere strane cose, come i rami annodati del Platano Picchiatore e le imposte di una finestra distante probabilmente anni luce da dove si trovava in quel momento. 
In quegli istanti si costringeva ad aprire gli occhi, combatteva il peso sulle palpebre e la necessità impellente di sdraiarsi e smettere di respirare, e la fissava. La luce gli rimbalzava negli occhi, ma non glieli lasciava spenti, solo stanchi. A guardarli sarebbero sembrati trasparenti.
In quei momenti c’era silenzio, un silenzio irreale. A volte chiudeva anche gli occhi e il respiro gli aumentava a dismisura, c’era odore di muschio e il cuore gli batteva forte, lo sentiva tamburellare. Pensava a spazi enormi e gli veniva voglia di mettersi a correre e ridere, ridere fortissimo. E lo faceva eccome. Una risata acuta gli scappava dalle labbra, rotolava mezza rotta e risuonava tra le mura mentre la fronte gli si distendeva. Delle volte giurava, ne era sicuro, di sentire un lupo ululare.
Spesso apriva gli occhi di scatto, perché gli pareva di perdersi, di non respirare, di scoprirsi disorientato e di non capire cosa ci facesse lì tutta quella pietra né perché ci fossero sbarre spesse di contenimento a impedirgli di ammirare come si doveva la luna.
In quei momenti inclinava la testa di lato, le sopracciglia gli si incontravano in una smorfia di autentico e puro dolore e si inginocchiava, realizzava, capiva in un secondo. Una brezza gelida gli attraversava le ossa e una serie di nodi gli si attorcigliavano nello stomaco fino a raggiungere la gola. Di solito tossiva, salutava la luna e, con un briciolo di forza, si concedeva una trasformazione di un minuto, il pelo incrostato riluceva sotto la luce argentea ed eterea.
Ad Azkaban c’erano quelli che camminavano, quelli che gridavano, c’erano anche quelli che piangevano fino a perdere la voce.
Sirius Black, una volta al mese, era quello che rideva come un pazzo tra le mura di pietra.






 

 


Un paio di note sulla storia e sul parto che è stata e che tutt’ora è:
FERMI.
Lo so, questa storia l'hanno scritta tutti, tutti a fare le stesse cose, gli anni che passano, tutti che schioppano male, la gente che sclera, la gente che piange, le fisse, le cose fanon che a furia di ripeterle sono diventate canon. LO SAPPIAMO, però vi giuro, io non lo faccio per la gloria, l'ho scritta per la gioia di scriverla e invece di passare il tempo a chiedermi: "oddio, copio qualcuno?" poiché TUTTI CI COPIAMO perché la storia è sempre la stessa, ho detto "sai cosa? Io me la scrivo come mi pare, ciao belli", quindi niente, è esattamente quella storia che hanno scritto tutti, PERÒ, ora io non ho letto tutte le storie del fandom, a dire il vero sui malandrini ne ho letta una, PERÒ ci metto quasi-la-mano-sul-fuoco che questa è l'unica strutturata così. Forse dovrei chiedermi perché? Rendermi conto che se nessuno l'ha fatto è perché fa schifo? Forse, verissimo. E vabbè. 

Ora possiamo presentarci. 
Ciao, gente. Voi non mi conoscete, ma spero di avervi convinti con questo mezzo prologo e che ci conosceremo in questo tempo.
DUE ANNI.
2 A N N I, due sono gli anni che ci ho messo a trovare il coraggio e il modo per scrivere questa cosa. Ogni volta che dovevo toccare uno di questi quattro ero così: 
Capito come? Così: 
Ho un block notes da due anni, con due semplici frasi: inizio e fine storia, ma nessuna idea per riempirla. Me lo rimangio: non è stata un parto, un parto è più breve.
Quindi eccoci alla cosa a cui forse inizierò a tenere più di qualunque altra su questo profilo, anche per il solo fatto di aver scritto la prima pagina ed essere riuscita ad andare avanti.
Vabbè, mo’ non vi voglio ammorbare, però ci tenevo a fare una breve introduzione alla storia, perché voi non potete capire come mi senta a pubblicare questa cosa, non potete capire. Tra l’altro non so che mi sia preso, non era neanche il momento migliore per farlo, però oggi ho detto “è il giorno” e il giorno è diventato.
Ho 13 capitoli da parte, ma dovrebbero essere anche più del doppio in totale, non voglio fare promesse, quindi ci provo ad aggiornare regolarmente, ci provo, se non sento la pressione ci riesco pure.
Mo’ le cose serie.
1. 
Forse da qualche parte c'è qualcosa di cambiato, nel caso ve lo dico, ma io avevo delle necessità. Vabbè.
2. 
Questa storia ha un'unica regola, io ve lo dico così ci facciamo pace subito, non voglio illudere nessuno: ogni gioia ha un prezzo. Ci vogliamo divertire? Ci divertiremo, ma ci ammazzeremo di angst periodicamente, capirete col primo capitolo in che modo. Spero con tutto il cuore di essere riuscita a bilanciare questa cosa nel modo giusto, perché, sarò onesta, è quello a cui punto. 
È tutto, queste note sono super lunghe, vi giuro che è l'ultima volta che le scrivo così. Buona permanenza e grazie di aver letto <3
Adieu,

El.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Mura ***


1. Mura

 






Novembre, 1981
 
L’impatto con il pavimento di pietra gli fece inarcare la schiena. Gemette e mormorò un insulto, alzandosi a sedere e poggiando la testa contro altra pietra. Rabbrividì al contatto e si diede una veloce occhiata attorno.
Quel posto era dannatamente umido, le pareti sembravano fatte di carta velina eppure erano infrangibili, stabilissime. Gli spifferi superavano la casacca leggera e si insinuavano fin sotto la pelle, fino a raggiungere le ossa.
Quel posto puzzava da morire. Non riusciva a capire se fosse urina, vomito, muffa o un mix di tutti e tre. Si chiese come avrebbe resistito… be’, per sempre.
Quel posto era Azkaban.
Alzò una mano a sfiorarsi una tempia e quando la ritirò e la esaminò trovò le dita sporche di sangue. Inarcò un sopracciglio e si guardò attorno. La luce gialla del tramonto entrava a striscioline tramite una serie di finestre intagliate nella roccia, infrangendosi brillante sul pavimento.
Sirius la osservò, umettandosi le labbra secche e puntando poi lo sguardo su una catena dagli anelli robusti che riposava alla sua sinistra. Udì un click sinistro, un attimo prima che questa si trascinasse magicamente nella sua direzione. Strisciò con un rumore metallico sulla pietra e gli si arrotolò a una caviglia.
Si ritrasse appena, a contatto col ferro gelato. Espirò tremante e deglutì a fatica, poi alzò le ginocchia al petto e vi ci poggiò i gomiti, lasciando passare le mani nei capelli e schioccando la lingua, amareggiato. Ne udì l’eco.
La gola gli bruciava per il troppo urlare e la testa gli pulsava per la ferita al viso. Sentiva i muscoli indolenziti per l’impatto e per averli sentiti cedere troppo spesso nelle ultime ore.
Era lì da meno di cinque minuti e già sentiva un’unica, dilaniante emozione dibattersi per aggiudicarsi il primo posto: la disperazione. La più totale, disarmante disperazione. Quel luogo ne era intriso, sembrava sussurrargliela direttamente nell’anima.
La testa gli si caricò di informazioni note e dolorose, le associava a tutto ciò che di terribile aveva vissuto nella sua vita.
Era avvenuto tutto in un attimo, negli ultimi tempi. C’erano un sacco di cose che non aveva fatto in tempo a fare e a dire. In realtà, a dirla tutta, c’erano un sacco di cose che non aveva avuto modo di registrare. Iniziò a sudare e il cuore prese a martellargli nel petto con la pesantezza della sua realizzazione: aveva tutto il tempo del mondo per mettersi a pensare e questa era una cosa che non era mai girata in suo favore.
Mai, neanche una volta.
Batté un pugno contro il muro di pietra e represse un gemito di dolore. Gli occhi presero a saettare da un lato all’altro della stanza e comprese in un attimo che quelli erano gli unici metri della sua libertà, che non avrebbe mai più visto altro al mondo che non fossero quelle mura e quelle sbarre e il suo dolore, che non solo avrebbe iniziato a poco a poco a dimenticare i visi delle persone che aveva conosciuto, ma che avrebbe finito per non ricordare più neanche il suo, che se glielo avessero mostrato l’avrebbe preso per un passante.
Si alzò in piedi e lasciò scorrere le dita tra i capelli, frustrato, poi tornò a sedersi e si concentrò.
Chiuse gli occhi e contò i respiri, distese le dita strette da troppo tempo a pugno senza che se ne fosse reso conto. Si concentrò sul suono della risacca, sulle onde che s'infrangevano violente alla base della torre. Pensò al tono gentile ma deciso di James, quando gli diceva di non esplodere e si lasciava sfuggire una battuta sul suo temperamento. Una fitta allo stomaco lo distrasse, al ricordo. Mantenere la calma non aveva nessun senso, lo sapeva benissimo, non avrebbe cambiato le cose e non avrebbe riportato in vita nessuno.
Tuttavia combatté l’istinto di mettersi a urlare, quando pensò al motivo per cui era finito lì, a come nessuno si fosse preso il disturbo di dargli retta, o anche solo una goccia di siero della verità. Sentì il sangue prendere a pulsare nelle vene e lasciò cadere la testa all’indietro con più violenza di quella che avrebbe dovuto esercitare per non farsi male davvero, nell’impatto contro il muro.
Era innocente.
E a saperlo era il solo.
L’ultima persona con cui avrebbe voluto passare il resto della sua vita? Se stesso.
Alzò gli occhi al soffitto e gli fu restituita la solita pietra, una crepa serpeggiava silente tra le increspature.
 
***
 
Sirius sospirò annoiato, seguendo con lo sguardo una venatura del legno del soffitto. Poi roteò gli occhi e li puntò sui tre ragazzi seduti non troppo lontano da lui.
“Mi sto annoiando a morte,” annunciò, come se verbalizzarlo lo potesse aiutare a renderlo un problema comune.
James alzò gli occhi su di lui, lasciando momentaneamente Peter al suo destino. “Potresti studiare anche tu,” propose. Una luce ironica, però, gli illuminava gli occhi. Non passò molto prima che la ritrovasse riflessa in quelli di Sirius, che sbuffò divertito, mentre un sorriso gli si formava sulle labbra.
L’intesa, tra loro, era stata fulminante.
“Certo, come no.”
“E allora che vorresti fare?” Remus alzò gli occhi dal suo libro, uno sguardo stanco gli oscurava le iridi altrimenti brillanti. Sirius lo guardò e inclinò la testa di lato, alzando gli occhi al soffitto per riflettere. Una parte di lui non faceva che chiedersi perché sembrasse sempre così esausto.
“Non lo so, qualunque cosa, non c’è nulla da fare qui?”
Peter scrollò le spalle. “Io sto finendo di scrivere il mio…”
“Intendo qualcosa di interessante, Peter,” tagliò corto Sirius, cercando aiuto nello sguardo di James.
Peter notò l’occhiata che si scambiarono e prese parola timidamente, interrompendo il contatto con il suono della sua voce. “Potremmo, ehm, studiare la pozione di domani e sbagliarla,” propose lui, che aveva davvero bisogno di finire di scrivere il suo elaborato, ma non voleva distruggere le aspettative del suo nuovo amico. L’idea doveva sembrargli un buon compromesso, “per divertirci,” aggiunse poi, quando Sirius alzò un sopracciglio, scettico.
“Per divertirci?”
James lasciò scivolare disinvolto un braccio sopra le spalle di Peter. “Sai che non è una cattiva idea?” iniziò, l’ombra di un sorriso gli alzava già furba gli angoli della bocca. Sirius unì confuso le sopracciglia, ma James non gli diede tempo di fare domande. “Potremmo lasciar scivolare per sbaglio una zanna di serpente in più nel calderone di qualche Serpeverde,” accennò e lo sguardo di Sirius si illuminò. Peter guardò James con la più sincera ammirazione negli occhi e Remus, invece, si decise solamente ad abbassare e chiudere il suo libro una volta per tutte, ammonendoli con lo sguardo, ma senza crederci troppo.
Sirius non si lasciò intimidire, anzi pensò che fosse il momento giusto per esternare il suo entusiasmo, per trascinarlo via da quel sonno costante che rifilava a tutti anche da sveglio. “Che dici? Ci dai una mano?” domandò, invitandolo con un cenno del capo ad avvicinarsi al libro di pozioni che James aveva aperto davanti a loro.
Remus sospirò e si alzò dalla poltrona della Sala Comune, un sorriso accennato gli incurvava le labbra, ma una paura che Sirius non riuscì bene a identificare gli lampeggiava calma negli occhi. Scelse di abbassare lo sguardo e non badarci troppo.
“Forse, se aggiungiamo cinque lumache invece che quattro, esplode,” propose James, pizzicandosi il ponte del naso in riflessione.
Sirius scrollò le spalle e ci pensò su. “Non credi che se ne accorgerebbero prima che si sciolgano? E poi potrebbe prendere un altro colore, nessuno la userebbe,” considerò, prima che una nuova proposta gli accendesse lo sguardo. “Potremmo rubare tutti gli aculei di porcospino!”
James alzò gli occhi su di lui, scuotendo la testa e ridacchiando. “E dove ce li mettiamo, scusami?”
Sirius assottigliò gli occhi, ricambiando il principio di sorriso sul viso di James in una maniera che non lasciava presagire nulla di buono. “Oh, io avrei qualche idea.”
James sbuffò divertito e disgustato insieme, in una mezza risata, e Sirius lo seguì a ruota, mentre Peter continuava a leggere senza sosta e, anche, senza capire una sola parola.
“Ehm,” Remus si schiarì la gola, vagamente a disagio, quando tre paia d’occhi si concentrarono su di lui, “una zanna di serpente in più, in effetti, cambia le cose.”
“È quello che dicevo!” esultò James, ricevendo una gomitata leggera nelle costole da parte di Sirius, in un aggressivo invito a lasciar proseguire Remus.
Il ragazzo annuì con un sorriso obliquo che finalmente raggiunse gli occhi. “Se ne mettiamo sette, una volta tritate sarà impossibile trovare l’errore.”
“Però se ne mettono sempre quattro misurini,” commentò Peter.
“Ma la concentrazione è diversa. È questo che fa la differenza e dal colore non si nota.”
Peter, James e Sirius sgranarono gli occhi e li puntarono sconvolti su Remus, che si sistemò a disagio sulla sedia. “Voglio dire, sono abbastanza piccole, si possono far levitare sui calderoni dei Serpeverde e...” Remus scrollò le spalle, “invece che eliminare i brufoli li ingrossa e li fa esplodere… credo.”
Peter grugnì disgustato, ma gli sguardi di James e Sirius rimasero assolutamente strabiliati. Sembravano guidati dallo stesso telecomando, quando si alzarono all’unisono e si posizionarono ai due lati di Remus, in un silenzio quasi terrificante, stringendolo tra loro e mettendolo visibilmente a disagio.
“Remus Lupin,” iniziò James, un sorriso compiaciuto serpeggiò veloce sulle sue labbra.
“Tu sei un genio,” concluse per lui Sirius.
Remus soppresse una risata e se li scrollò di dosso. “Me ne pento immediatamente. Non voglio dare il via a un’associazione a delinquere,” scherzò, alzandosi e alzando le mani a dimostrare la sua innocenza.
“Mi piace come suona,” commentò Sirius e Peter rise.
Remus grugnì frustrato, ma finì per fare lo stesso.
 
Sirius tamburellava con un piede sul rialzo in legno dello sgabello e gli occhi correvano veloci in ogni direzione come se fosse stato continuamente sul punto di scoppiare. James gli rifilò una leggera gomitata nel costato. “Così ci farai scoprire,” gli sussurrò, dando una rapida occhiata in giro e assicurandosi che nessuno avesse notato la sua agitazione.
“Avete ancora intenzione di farlo?” Remus si avvicinò reggendo delle fiale. Mantenne la voce bassa, sfruttando la confusione generale che c’era sempre prima di una lezione.
Sirius che James si voltarono verso di lui, un ghigno a testa e un’energia che, sommata, avrebbe garantito elettricità a una famiglia per settimane. “Sei impaziente, per caso?”
“N-no, chiedevo solo.” Remus aggrottò la fronte e scosse la testa.
I due aspiranti criminali si scambiarono uno sguardo d'intesa. “Già,” James sorrise e osservò il professore raccogliere utensili e ingredienti da un armadietto, “non c’è pericolo, staʼ tranquillo, mi assicuravo solo che lui non ci facesse scoprire,” indicò Sirius con un cenno del capo. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e sorrise. Remus ricambiò, alzando timidamente gli angoli della bocca, poi abbassò lo sguardo e tornò al suo calderone.
“La pozione Scacciabrufoli,” iniziò il professor Lumacorno a voce alta, per farsi sentire il più chiaramente possibile, “è ottima per iniziare, sapete, potrebbe, ehm,” esitò, osservando i suoi alunni come a disagio, “tornarvi utile in questo periodo della vostra vita.” La classe rise e lui scandagliò con attenzione i suoi alunni. “Spero abbiate dato un’occhiata alla ricetta negli scorsi giorni.”
“Può dirlo forte,” Sirius ridacchiò, inclinandosi verso James per assicurarsi che fosse lʼunico a sentirlo.
“Non dovrebbe provocare grandi danni, ma ho preferito farvi trovare gli ingredienti alla vostra postazione. Con le prime lezioni avreste dovuto imparare a trattarli.”
“Ce le hai?” sussurrò James e Sirius annuì, mostrandogli una manciata di zanne di serpente in più che aveva avvolto in un panno scuro.
Dopo qualche minuto i ragazzi erano già al lavoro e il professor Lumacorno andava di postazione in postazione ad accertarsi che tutto andasse per il meglio e per guidare i suoi alunni in caso di problemi.
“Secondo me è il momento,” considerò Sirius, versando le sue zanne di serpente nel mortaio e osservando James iniziare a pestarle.
“Sì, be’, potremmo…” James fece levitare un po’ delle zanne in più e si preparò a indirizzarle nei calderoni dei Serpeverde più vicini.
“Come procede, ragazzi?” Il professor Lumacorno sembrò materializzarsi alle loro spalle. Sorrise caldamente, guardando curioso il lavoro appena iniziato. Forse in modo così curioso da non rendersi conto delle loro malefatte. I ragazzi riuscirono miracolosamente a non cadere dai loro sgabelli per lo spavento e Sirius prese a sfogliare velocemente il libro di pozioni per nascondere le poche zanne di serpente in più.
“Benissimo, professore,” Sirius sfoggiò uno dei suoi sorrisi più sicuri e la cosa sembrò attirare tutta l’attenzione del professore su di lui. Si sporse appena verso il composto che i suoi alunni avevano versato nel calderone bollente giusto qualche minuto prima. James aveva totale via libera.
Un sorriso compiaciuto si dipinse sul volto dell’uomo, che alzò un sopracciglio impressionato.“Oh, ha un colore perfetto, signori…”
“Black,” rispose Sirius con sicurezza e un sorriso disinvolto gli strisciò sulle labbra.
“Potter,” si aggiunse James, voltandosi verso il professore e, nello stesso istante, lasciando cadere un paio di zanne di serpente nei calderoni vicini, con un guizzo veloce della sua bacchetta.
“Bene, sono lieto di fare la vostra…”
“Ehm, professore…” un ragazzo dai capelli scuri e a spazzola attirò la sua attenzione prima che potesse concludere la frase, “questo fumo non era descritto nel…”
Gli occhi del professor Lumacorno crebbero di parecchi centimetri. “Oh, no, no, allontanatevi!”
Ma prima che il ragazzo potesse fare alcunché, si levò una serie di grida dalle postazioni vicine. Delle strane bolle troppo simili a brufoli deformi si formarono sui volti dei Serpeverde e presero a esplodere, liberando un liquido giallognolo, che fece storcere il naso ai più deboli di stomaco.
James e Sirius, invece, si scambiarono una veloce occhiata incredula, prima di scoppiare a ridere. Il resto dei Grifondoro era nettamente diviso tra risate e versi di disgusto, fatta eccezione per una ragazza dai capelli rossi, che corse in direzione di un amico, colpito dallo scherzo.
“Ehi, Bellatrix, mi piace il tuo nuovo stile,” gridò Sirius, dall’altra parte della stanza. La visione del volto della cugina, distorto al limite del possibile dalla rabbia e dalla vergogna, che puntò gli occhi scuri su di lui, per poco non gli fece venir voglia di rotolarsi a terra dalle risate.
Scoccò una veloce occhiata in direzione di Remus, le iridi illuminate dall’esaltazione, e il ragazzo non poté che ricambiare con un sorriso veloce, scuotendo la testa e alzando gli occhi al cielo, per nascondere la soddisfazione.
“Mantenete la calma!” il professor Lumacorno si stava sgolando, mentre correva da un lato all’altro della classe per sedare gli animi dei ragazzi e preparare un blando antidoto… Era evidente che non stesse seguendo il suo stesso ordine. “Mantenete la… E va bene, per oggi è tutto, chi non è stato colpito dal fumo della pozione si rechi ordinatamente fuori dalla classe.”
E, con quelle parole, la loro quinta lezione di pozioni si concluse con successo.
 
“È stato spettacolare,” commentò Sirius, varcando la soglia della Sala Comune dei Grifondoro e allargando le braccia con soddisfazione. James annuì ridacchiando. “Hai visto la faccia di Bellatrix?” continuò, voltandosi verso l’amico, mentre un sorriso vagamente più affilato sostituiva quello divertito di qualche attimo prima. “Impagabile.”
“E l’hai visto quel tizio, Wilkes?” ribatté James, ridendo. “Sembrava voler staccare la testa a qualcuno!”
Sirius annuì. “Be’, prima che gli esplodesse la faccia!” scherzò, poi, scoppiando a ridere. Peter, poco più dietro, lo imitò. “È stato un piacere fare affari con lei, signor Potter,” Sirius gli scosse forte una mano e fece un grande inchino. James alzò gli occhi al cielo.
“Molto aristocratico da parte tua.”
Sirius fece un verso a metà tra un grugnito e una risata e gli diede una leggera spinta, facendogli perdere appena l’equilibrio. Remus, poco più dietro, si concesse la prima risata da quando si era unito distaccatamente al gruppo, dopo la sera precedente. Perché così gli piaceva definire lʼaccaduto. 
Certo, non gli era mai dispiaciuta la loro compagnia, un poʼ si riteneva uno… stretto conoscente dei tre ragazzi, solo che preferiva di gran lunga quei veloci momenti di gentilezza e cortesia, nulla che instaurasse relazioni più profonde. In più, non gli serviva altra carne da bruciare al tempio della delusione: l’amicizia o i legami non rientravano nelle sue possibilità.
A dire il vero, neanche nelle sue aspettative.
Non che non avesse sognato ad occhi aperti, una volta o due, di farsi qualche amico a Hogwarts, o che non si fosse addormentato, qualche sera prima di salire su quel treno, lasciandosi cullare dall’irrealizzabile idea di stringere una qualche tipo di intesa con un coetaneo.
Era solo una questione di curiosità, non certo di illusioni o addirittura di speranze.
“E tu,” Sirius si voltò, puntando gli occhi chiarissimi in quelli di Remus, quasi come se avesse potuto leggere i suoi pensieri. 
Il ragazzo sgranò gli occhi e si indicò. “Io?”
Sirius annuì. “Fatti venire qualche altra grande idea per il prossimo scherzo, visto che James è totalmente inutile.”
“Ehi!”
“Qualche altra idea?” Remus sollevò un sopracciglio.
“Dobbiamo fondare o no un’associazione a delinquere?”
Remus sgranò gli occhi e lasciò vagare lo sguardo su James e Peter. “Hai creato un mostro, stammi a sentire,” scherzò James, guidando gli altri verso il dormitorio dei ragazzi del primo anno.
“È una bella espressione,” considerò Sirius, mentre gli altri grugnivano in dissenso, trascinandolo di sopra. “È davvero una bella espressione.”
 
Remus si lasciò cadere stanco sul letto, staccando un morso dalla sua barretta di cioccolato e riavvolgendo poi la carta stagnola per conservarla.
James, Peter e Sirius erano possibilmente da qualche parte a prepararsi per andare a dormire. Quelli erano i momenti più stressanti della giornata. Remus indossava il pigiama nell’arco di un minuto e si sistemava sempre già a letto, terrorizzato all’idea che i ragazzi potessero tornare e vederlo senza maglietta.
Quel morso di cioccolata se l’era meritato.
Espirò pesantemente e scivolò sul letto fino a sdraiarsi, osservando gli altri tre letti vuoti e preparandosi a fingere di dormire per il loro ritorno. Sperava addirittura di non dover fingere affatto, ma non ci contava.
Le immagini della giornata appena trascorsa gli passavano sotto le palpebre continuamente, ripetendosi una volta esaurite e costringendolo a ripercorrere più e più volte le scene che aveva definito senza ombra di dubbio salienti.
Una strana irrequietezza lo assaliva non appena pensava alla sensazione nuova che gli si era espansa nel petto quando gli sguardi fieri dei suoi compagni si erano posati su di lui, dopo lo scherzo a lezione di pozioni. Somigliava vagamente all’orgoglio, ma era molto più pressante e decisamente meno… individuale.
C’era anche un po’ di senso di colpa a fargli compagnia, perché non riusciva a smettere di pensare che non solo si stava concedendo di provare simpatia per qualcuno, ma aveva anche in qualche modo causato problemi. Insomma, sapeva di dover essere grato al professor Silente per avere anche solo concesso a uno come lui di frequentare la scuola come un normale ragazzino, ma, nonostante tutte le misure che la sua mente amava prendere contro la sua felicità, Remus sentiva anche l’impellente e soprattutto irresistibile bisogno di sentirsi normale, anzi di concedersi un po’ di divertimento. Una parte di lui sbottava di tanto in tanto, insorgeva furente, reclamando il suo diritto a smettere di piangersi addosso e cogliere l’occasione di farsi degli amici, prima che legassero troppo per accoglierlo tra loro.
“È cioccolata?”
Remus per poco non schizzò via dal letto quando udì la voce di James a pochi metri da lui. Non l’aveva proprio sentito arrivare, così immerso nei suoi pensieri.
“Ehm, sì,” riuscì a pronunciare, dopo qualche secondo di confusione. Notò gli occhi del ragazzo raddoppiare di volume. “Ne vuoi un po’?” ridacchiò, tendendogli la barretta con una mano e osservandolo pensarci su.
James non ci mise molto a scrollare le spalle e annuire, accettando il cioccolato e staccandone un pezzo con le dita, poi si sedette ai piedi del letto di Remus. Se lo cacciò in bocca dopo averlo esaminato con un cipiglio concentrato e alzò lo sguardo su di lui, sollevando le sopracciglia. “Non sa di Cioccorana,” considerò infine, dando il verdetto finale, “E neanche di…”
Remus rise. “È babbana,” spiegò, studiando la reazione di James.
Lui sgranò gli occhi e, se possibile, la esaminò con ancora più interesse. “È buonissima!” commentò infine, con lo sguardo di uno che la sapeva lunga sul cioccolato.
Remus osservò divertito staccarne un altro pezzo, ma un’ombra triste gli aveva già oscurato gli occhi. Era semplicemente irresistibile, la tentazione di stringere legami e creare dei ricordi. Non sapeva esattamente se fosse stato un istinto animale di viaggiare in branco, la necessità umana di non rimanere solo o un misto di entrambi, ma inspirò pesantemente e l’idea di James che assaggiava cioccolata babbana davanti ai suoi occhi non gli sembrò più così divertente.
“Sai,” iniziò James, riponendo la barretta sul comodino del compagno e alzandosi per dirigersi verso il suo letto. Si voltò all’improvviso, però, e puntò uno sguardo glaciale e stranamente serio in quello di Remus. Gli occhi scuri quasi lampeggiavano. “Non so cosa ti faccia tanta paura, ma secondo me dovresti lasciarti andare,” sentenziò poi, scrollando le spalle come se gli avesse proposto di fare la cosa più facile del mondo, un mezzo sorriso gli alzava solo un angolo della bocca. Remus pensò che non sembrasse affatto un ragazzino di undici anni, in quel momento. “Io te lo dico.” concluse, riponendo gli occhiali sul comodino. Il suo tono sembrava alludere a qualcosa di più profondo, qualcosa che Remus doveva essersi lasciato sfuggire nei modi di fare e che James aveva captato.
Prima che potesse ribattere, il suo compagno si lasciò cadere con un salto sul letto e, muovendo veloce la bacchetta, chiuse le tende rosse attorno a lui in un’eloquente buonanotte.
 
***
 
La morte sa di sale.
A dire il vero non lo so per esperienza diretta, ma mi ci sono avvicinato spesso e so con certezza che ha quel sapore. Me lo aspetto, lo vedo arrivare. Credevo fosse colpa delle lacrime, ma non ho sentito la morte ogni volta che ne ho versate, è un sapore più aspro, non saprei spiegarlo.
Qualcuno dice che la morte puzzi di gomma. Non mi è mai capitato di sentirne l’odore, a essere sinceri, però forse puzza più di pioggia, di panni bagnati intrisi di fango. Forse ho solo visitato troppe bare.
Che sotto le mani sembri sabbia è praticamente una certezza. Hai presente quella sensazione infinita di soddisfazione, quando hai corso tanto verso una meta precisa e finalmente afferri il tuo trofeo? La morte sa di quella decadenza amara, della vittoria che ti si scioglie così, tra le mani. Che come sabbia ti passa tra le dita e ti ritrovi all’improvviso con niente in mano dopo un’immensa fatica. Non so se sia ironico, in un certo senso, ma è proprio dopo aver vinto che, tempo qualche attimo, e ho conosciuto quella sabbia. La morte ha certamente questa consistenza sfuggente. Ci metterei la mano sul fuoco.
Che la morte abbia l’aspetto di una signora con la falce non direi affatto. Forse un uomo, alto ma incurvato, forse solo il volto del tuo carnefice, forse una luce o una nube di gas. Forse è solo un velo. Di una cosa sono certo: la vedi arrivare.
Se c’è una percezione che proprio non le sono riuscito a dare direi che è il suo suono, sarebbe bello se cantasse, non c’è dubbio, ma renderebbe tutto più nostalgico, aumenterebbe il nodo che ho in petto. E poi non spiegherebbe la serenità sui volti di chi muore. Forse urla e basta, forse ti fa arrabbiare perché tu non ti accorga che sta succedendo, forse ha il suono di un incantesimo, forse di uno sparo.
So che vorresti non pensare a tutto questo, te lo dovresti lasciare alle spalle, ma ci sono tante cose che non sai e che nessuno ha mai conosciuto così a fondo per poterne parlare.
Questa è una bella storia, una bella storia che è finita male.
 
Una sola cosa, però, mi sento di dirti:
Io non ho rimpianti.






 
Note corte stavolta:
Ehilà, vi do finalmente il benvenuto in questa roba assurda che sarà questa storia, questo è finalmente il vero inizio.
Piccola precisazione: Bellatrix, a dire il vero, dovrebbe essere nata nel '50, ma questa era una delle piccolissime modifiche di cui vi parlavo. Avevo davvero bisogno di un familiare ben noto di Sirius che non fosse Regulus a scuola e Narcissa dura troppo poco, quindi, ecco, SORPRESA!
Benissimo, abbiamo fondato questa assurda associazione a delinquere senza nome e, per adesso, con un solo scherzo sulla fedina penale. Ovviamente è ambientato più o meno all'inizio del loro primo anno e su questa scelta non posso davvero esprimermi più di così perché COSE. Comunque eccovi Remus Lupin, le turbe e il cioccolato, starter pack, insomma.
Ah, una cosa che non potevo permettermi di dire nelle scorse note perché erano più lunghe della vita di James (ops): in questa storia Peter verrà trattato bene. Ora mi farò odiare da tutti, ma trovo che sia un personaggio davvero interessante e con cui si possono fare varie cose carine, quindi, finché è innocente, non gli farò in nessun modo pesare i suoi futuri delitti.
Questo è tutto, beccatevi questo momento Remus e James perché io li adoro, ma è difficile dar loro lo spazio che meritano <3
Ci vediamo domenica prossima con questo delirio, yuppie!
Grazie davvero a tutti per aver letto!
Adieu,

El.

   

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Paura ***


2. Paura

 





Halloween, 1981
 
Paura.
Un’emozione brillava nera sopra tutte le altre. Paura.
Peter ne sentiva le vene gonfie mentre correva come un matto in un vicolo deserto e buio, il piccolo naso che già percepiva altri mille odori in più e una nuova e più grande consapevolezza dello spazio che lo circondava, nonostante ci fosse abituato.
Ruzzolò per delle scale umide e andò a sbattere contro un cassonetto di latta. Il rumore metallico lo riportò alla realtà, facendogli sentire per la prima volta il bruciore e il sangue che pompava con forza contro il dito… o quel che ne restava. Non aveva percepito dolore fino a quel momento, forse per l’impennata di adrenalina, ma notò che a stento riusciva a muoversi, un fischio gli bucava le orecchie.
Aveva paura.
E si sentiva un codardo.
Non aveva alcun interesse a uccidere Sirius. A dire il vero non credeva che ci sarebbe mai riuscito. Quel compito, in fondo, non gli era stato assegnato prima che succedesse. E poi farlo con le sue mani era tutto un altro paio di maniche.
Nonostante ciò sapeva benissimo che, in un certo senso, lo aveva condannato. Era l’unica opzione, davvero, non ne vedeva altre. I suoi amici erano sempre stati pronti a schierarsi, a mettere in gioco la vita, credevano nell’onore e nella lealtà.
Non che lui non ci avesse creduto, all’inizio. Se avesse avuto modo di parlare con la persona che era due anni prima e raccontargli cosa avrebbe finito per fare era certo, sicuro, che quel ragazzino avrebbe stentato a crederci, forse l’avrebbe addirittura odiato.
Peter aveva semplicemente capito che era molto meglio così, che non c’era alcuna vittoria in serbo per loro contro uno come il Signore Oscuro. Aveva accettato che le sorti della guerra erano state decise molto tempo prima che James e Sirius e Remus potessero capire o scegliere da che parte schierarsi.
E sarebbe stato impossibile convincerli della verità.
Lui non era cattivo.
Lui era diverso. Lo era sempre stato. E un tempo la cosa gli era pesata immensamente.
Gli anni a Hogwarts erano stati la parte più bella della sua vita. Quando era salito su quel treno, il primo giorno, aveva avuto una gran paura, quasi asfissiante, di rimanere solo. Scenari apocalittici si erano dipinti nella sua testa e si vedeva triste, preso in giro, a condividere il dormitorio con ragazzi belli, brillanti e senza ombra di dubbio migliori di lui.
Gli anni a Hogwarts erano stati felici davvero, ma, a ripensarci dopo il tradimento, c’erano state proprio tante cose sopra le quali era passato e che a quel punto usava per rincuorarsi, giustificarsi o, almeno, per alleggerire il peso che sentiva crescere nel petto. E funzionava.
Peter aveva avuto torto. Ci aveva messo meno tempo del previsto a farsi degli amici. James era simpatico e non aveva storto il naso quando l’aveva visto e Sirius gli dava pacche sulle spalle quando era abbattuto e ogni volta si era sentito innegabilmente suo amico. Anche a Remus aveva voluto bene, davvero, aveva rischiato la vita per aiutarlo con il suo problema, anche se una parte di lui aveva sempre creduto che Sirius l’avrebbe ucciso, se si fosse rifiutato.
Non che non avesse voluto diventare un animagus, gli era tornato utile dopotutto, è solo che una parte di lui si chiedeva a quel punto se avesse avuto propriamente scelta.
Sebbene fosse riuscito a fare amicizia, il senso di inferiorità non l’aveva mai abbandonato e, a passare il tempo con James e Sirius, si era di tanto in tanto anche acuito.
Era pienamente consapevole che tutte quelle cose non le aveva neanche mai processate, al tempo, ma da quando i Malandrini non esistevano più ne aveva di colpo preso coscienza.
Stare attorno a James e Sirius era stato difficile, estenuante, quasi. A volte uno strano dolore gli stringeva il petto quando pensava che la loro infinita intesa era qualcosa che era destinato a guardare da lontano, perché lui era solo Peter.
Ridevano alle sue battute, ascoltavano le sue idee per un nuovo scherzo, si complimentavano quando gli riusciva un incantesimo particolarmente difficile, ma sentiva costantemente di dover dimostrare loro qualcosa, come se una battuta bruttina, un’idea poco brillante e un incantesimo andato storto avessero potuto dar loro la scusa per dargli il benservito. A volte si era sentito come se non avesse potuto sbagliare, come se un errore gli fosse potuto costare l’intera amicizia.
Peter di battute brutte, idee terribili e incantesimi disastrosi ne aveva fatti parecchi e i ragazzi l’avevano sempre sostenuto, ma, semplicemente, per James non era Sirius e per Sirius non era James. E il problema, forse, era sempre stato lì. 
In Remus aveva sempre visto un alleato silente, ma lui non cercava la loro approvazione, non sembrava disperato quanto lui in tal senso ed era intelligente e brillante e aveva dei motivi per essere protetto, dei gesti nobili che i suoi amici potevano dedicargli. Tutto ciò lo faceva sentire ancora più escluso e insulso. Quando Remus e Sirius avevano iniziato a stabilire un nuovo legame, lo spettro del “noi e Peter” doveva averlo inconsciamente assalito.
Trovava ancora difficile ammettere a se stesso pensieri tanto sinceri, mentre sfruttava il buio del viale per rintanarsi e prendere fiato. Una parte di quell’odio non era altro che una difesa bella e buona. Non era pentito, almeno per il momento, perché sapeva che, suo malgrado, l’avrebbe fatto altre mille volte. Questo non significava che non provasse dolore.
Peter non voleva uccidere James, semplicemente non aveva scelta. I suoi amici restavano la cosa più bella che il mondo gli avesse mai regalato, ma la guerra era anche questo.
Sacrificio? No, rassegnazione.
Riprese a correre. Mentre vicoli bui e umidi gli scorrevano ai lati, una parte di lui si domandò dove posizionare quelle sensazioni e, senza pensarci troppo, Peter trovò un contenitore abbastanza grande per tutte: la Paura.
 
***
 
“Secondo me hai paura.”
James alzò uno sguardo offeso su Peter e si passò una mano tra i capelli, incurante. “Assoluta…”
“Se la sta facendo sotto,” rincarò la dose Sirius, dando di gomito a Peter e guardando James. Il ragazzo sbuffò disinvolto, ma era evidente che una parte di lui non riuscisse a fare a meno di sentirsi avvilita.
“Non me la sto facendo sotto,” sbottò, con un po’ troppa irruenza per essere così rilassato come diceva.
Non me la sto facendo sotto,” gli fece il verso Sirius, alzando entrambe le mani come a sottolineare la sincerità delle sue parole, che di sincero non avevano nulla.
James assottigliò lo sguardo e scosse la testa. “Sei una spina nel fianco, te l’hanno mai detto?”
Sirius finse di pensarci su, poi scosse la testa come se fosse stato sul punto di tirar fuori una risposta negativa. “No, non direi,” ragionò infatti, “se non contiamo tutti i giorni da quando sono nato,” aggiunse infine, scrollando le spalle e sorridendo furbo.
James alzò gli occhi al cielo, ma non ebbe modo di aggiungere altro.
“Oh, sei tornato!” Peter mosse una mano verso il fondo della Sala Grande. Remus li aveva appena avvistati e si stava dirigendo verso di loro a passo lento. Poggiò la tracolla sulla panca come se quel gesto gli fosse costato tutte le sue forze e si lasciò cadere accanto a Peter.
“Tutto bene?” gli domandò James, giocherellando nervosamente con il lembo inferiore del suo mantello e lanciando uno sguardo veloce in quello stanco di Remus. Il ragazzo annuì e non disse altro. Pareva che attendesse disperatamente che qualcuno parlasse, per sfuggire a quell’analisi.
Sirius, seduto di fronte a lui, lanciò uno sguardo di sottecchi a James e Peter, prima di sporgersi nella sua direzione e puntare gli occhi stranamente gentili nei suoi. “Sei sicuro? Hai un graffio…”
“Sto bene,” Remus alzò una mano davanti a lui, come a stroncare sul nascere qualunque domanda. Prima che Sirius potesse rispondere, James lo ammonì con lo sguardo.
“Se i tuoi genitori ti…” si interruppe però, sibilò e si morse veloce un labbro. James gli aveva tirato un calcio in uno stinco da sotto il tavolo. “Se hai voglia di parlare di qualcosa,” raddrizzò il tiro, “noi siamo tuoi amici,” concluse semplicemente e Remus abbassò lo sguardo per un attimo.
“Siete miei amici?” il ragazzo alzò un sopracciglio, un’aria di sfida a tingergli gli occhi stranamente brillanti e un’irrequietezza che si trascinava da giorni a rischiare di irritarlo di continuo e senza un reale motivo.
Peter annuì energicamente e James per poco non saltò dalla panca. “Sì!”
Remus annuì pratico e afferrò un biscotto secco. “Allora non guardatemi così ogni volta che mi…” Remus si congelò e Sirius alzò velocissimo lo sguardo su di lui, “ogni volta che torno,” tagliò corto, cacciandosi il biscotto in bocca. I ragazzi si scambiarono sguardi complici, poi Sirius annuì e scrollò le spalle.
“Va bene,” concesse con tono nervoso e James sospirò rumorosamente, accanto a lui. “Scusa,” aggiunse poi, addolcendo genuinamente il tono.
Remus annuì, piano.
“Sai,” iniziò Peter. Percepiva un’aria tesa e pensò che fosse compito suo trovare qualcosa da dire per stemperare l’atmosfera, “James se la sta facendo sotto,”
Sirius sembrò risollevarsi e la sua reazione fece un po’ ridere, paragonata a quella di James, accanto a lui. “Non me la sto facendo sotto, Peter,” obiettò lui e Remus alzò un sopracciglio, in una muta richiesta di spiegazioni.
“No, non se la sta facendo sotto,” Sirius diede una pacca amichevole sulle spalle tese di James e il ragazzo si voltò verso di lui, vagamente all’erta e pronto a incassare la prossima battuta.
Quando notò che Sirius non sembrava intenzionato ad aggiungere altro annuì piano, voltandosi verso Peter e Remus e alzando di poco il mento, per apparire più sicuro. “Già, non ho paura.”
“Oh, ehi,” Sirius si voltò a guardarlo, accigliandosi e poggiando drammatico una mano sul petto, “da quando hai i capelli così bianchi?” domandò poi, puntandogli contro la bacchetta, dandogli una manata in testa e iniziando a rovistare nei capelli già normalmente in disordine. James si divincolò e cercò di scrollarselo di dosso, più che deciso a iniziare una vera e propria lotta sulle panche della Sala Grande.
“E tu, Peter,” mormorò James, “non ridere e dammi una mano a togliermi questo coso di dosso.”
“Coso?”
Remus scosse la testa e rise piano, addentando un secondo biscotto. “Qualcuno mi può spiegare perché James se la sta facendo sotto?”
“Io non me la sto facendo sotto!”
“Ci sono le selezioni di Quidditch e lui vuole tentare,” lo informò Sirius, scrollando le spalle e cacciandosi in bocca un angolo del toast al burro che teneva in mano. Ci riuscì per un pelo, un attimo prima che James si scagliasse di nuovo contro di lui, “mh, e ha paura perché di solito al primo anno non prendono nessuno,” concluse, rimasto impassibile all’attacco e anzi biascicando appena perché aveva ancora la bocca piena.
Remus alzò un sopracciglio divertito. “Allora perché hai deciso di tentare quest’anno?”
James, dall’alto dei suoi undici anni, sfoderò un sorriso sicuro e si sistemò più dritto sulla panca. “Si vive una volta sola, Remus,” commentò, semplicemente.
Peter alzò gli occhi al cielo, mentre divorava le sue uova, “credi che ce la farai?” domandò, poi, sollevando uno sguardo curioso e squisitamente ingenuo su James.
Il ragazzo si strinse nelle spalle, sentendo tre paia d’occhi puntarsi su di lui. Qualche compagno Grifondoro si era perfino voltato a origliare. Tra loro, una ragazza dai folti capelli rossi sembrava particolarmente più attenta. James si portò una mano ai capelli, arruffandoli appena istintivamente e sorridendo. “Certo, Pete, ce la farò sicuro,” replicò convinto.
Sirius sbuffò derisorio e, nonostante l’occhiata di James, lo sguardo ammirato di Peter non vacillò.
 
***
 
Il vento che rombava nelle orecchie a stento gli fece sentire il fischio forte di Sirius, seduto sugli spalti dello stadio della scuola insieme a Peter e Remus. Volò loro accanto, alzando una mano per zittirlo, ma Sirius si sentì solo più incoraggiato a farsi sentire. Lo ignorò, mentre si concentrava per mirare. Ruotò il braccio per darsi lo slancio e lanciò la pluffa, segnando nell’anello.
“Oh,” Sirius tornò a sedersi tra Remus e Peter.
“È forte,” commentò quest’ultimo, annuendo meravigliato, la bocca ancora semiaperta per la sorpresa.
Sirius annuì come colpito da un fulmine. “E chi l’avrebbe mai detto?”
Remus inclinò la testa di lato e cercò di concentrarsi sul suo amico. Non aveva mai avuto tanto tempo per imparare le regole del Quidditch. Conosceva i rudimenti del gioco, gli scopi essenziali e riusciva a riconoscere che tirare la palla in un anello poteva considerarsi un punto. Le sue conoscenze, però, finivano lì. Non se la sentiva di dare un giudizio, ma, a giudicare dal silenzio di Sirius e l’assenza di brevi interventi di Peter, James doveva saperci fare.
“Sei fortunato che siamo a corto di Cacciatori, Potter, Edgar ha lasciato la scuola l’anno scorso e lui…” Davey Gudgeon adocchiò un ragazzo del terzo anno che a stento riusciva a tenere la pluffa in mano, poi sospirò, scribacchiando qualcosa sulla cartellina che teneva fra le mani, “sei dei nostri,” annunciò infine, richiamando gli altri giocatori per reclutarne e confermarne alcuni. James sgranò gli occhi e un sorriso orgoglioso gli si dipinse in viso, mentre Gudgeon annunciava altri compagni di squadra.
James si voltò verso i suoi amici e alzò un pollice, accanto a un sorriso smagliante che non nascondeva un pizzico più che abbondante d’orgoglio. Udì distintamente Sirius fischiare di nuovo e toccare veloce la spalla di Remus. Il ragazzo si alzò di malavoglia, già sorridendo e, fece scivolare due dita in bocca, fischiando fortissimo. Vide Sirius sgranare gli occhi e voltarsi verso di lui, probabilmente chiedendogli come diavolo avesse fatto.
“Allenamenti ogni sabato mattina, più qualche straordinario quando ci avviciniamo alle partite. Confido in voi, ragazzi. Mi dispiace per tutti gli altri, spero avrete modo di rifarvi i prossimi anni,” concluse il capitano, congedando tutti e recandosi affaccendato negli spogliatoi.
 
“Sei stato fantastico!” gridò Peter, andando incontro a James, quando finalmente uscì dagli spogliatoi per tornare al castello con i suoi amici.
“Che ti avevo detto, Pete?” scherzò il ragazzo, alzando un sopracciglio e ringraziando anche Remus per i complimenti.
“Ehi, James,” Sirius lo intercettò e gli poggiò disinvolto un braccio sulle spalle, “non mi hai detto di essere nato con la scopa in cu…”
“Davvero divertente,” lo interruppe il ragazzo, “un amico di mio padre mi ha regalato una scopa, quando ero piccolo, diceva che è importante arrivare a scuola pronti,” spiegò semplicemente, scrollando le spalle, “avevo un anno.”
Sirius si bloccò sul posto, costringendo James a fare lo stesso, poi scoppiò a ridere. “Scusa, ma che…” si ritrovò a interrompere la frase a metà, tenendosi la pancia dalle risate. Peter non resse e si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, scoppiando anche lui a ridere un attimo dopo, “non riesco a immaginarti.”
“Cosa?” James lasciò vagare confuso lo sguardo da Sirius a Peter, non riuscendo a contenere un sorriso. “Guardate che non c’è niente di strano a… Remus?” James cercò conforto sul viso del suo amico, che alzò entrambe le mani come a difendersi.
“Ecco, c’è da dire che è un po’ strano, James, tutto qua,” commentò infine, mordendosi un labbro per non ridere quando Sirius gli si scaraventò praticamente addosso mentre rideva. Doveva essere esagerato in tutto quello che faceva?
Remus però non vacillò affatto.
“Ma che c’è di strano?” domandò James, allargando le braccia e costringendo gli altri a riprendere il cammino verso il castello, “no, davvero, spiegatemi cosa…” James si interruppe e alzò la testa come a pregare il cielo, poi si voltò a guardare Sirius. “E tu la finisci?”
“James Potter,” pronunciò il ragazzo, facendosi improvvisamente serio e tornando a cingergli le spalle con un braccio. Si batté la mano libera sul petto, prima di riprendere a parlare: “giuro solennemente che, se mai ti verrà in mente di riprodurti, ahinoi, la prima cosa che farò sarà regalare una scopa a quella povera creatura,” concluse e Peter e Remus risero forte.
James alzò gli occhi al cielo, ma ridacchiò. “Grazie dell’avvertimento, adesso, se vossignoria vuole scusarmi,” Sirius grugnì, ma lui continuò: “vorrei proprio tornare al dormitorio, perché quello scherzo non si penserà da solo.”
 
***
 
“No,” Remus si bloccò al centro della stanza, voltandosi a guardare James e Sirius, che avevano appena varcato la soglia del dormitorio. Peter li fissò sconvolto, alzandosi a sedere sul letto, “ci prendete in giro, vero?”
I nuovi arrivati scossero il capo sconsolati. James si passò una mano tra i capelli e inspirò profondamente. “Ascoltate, potete trovarli voi, dobbiamo solo…”
“Dovevamo essere in quattro per non destare sospetti!” si lamentò Peter, lasciandosi cadere a peso morto sul materasso e sospirando avvilito.
“Come avete fatto?” domandò Remus, grugnendo appena e camminando avanti e indietro per il dormitorio.
Sirius alzò un sopracciglio e inclinò il viso di lato. “Ti sei preso a cuore la questione dell'associazione a delinquere.” Remus si limitò a fissarlo per qualche secondo, senza fiatare e Sirius sospirò. “È impossibile avere occhi ovunque, questo castello è dannatamente complicato e quella gatta è odiosa.”
“Vi siete fatti beccare da Gazza?” Peter si rialzò a sedere solo per alzare entrambe le sopracciglia, sconcertato.
“No, ma sono esplose davanti alla professoressa McGranitt,” spiegò James, alludendo alle loro bombette rudimentali, “che abbiamo incontrato mentre scappavamo… da Gazza.”
“Una settimana di detenzione e niente Hogsmeade, ma lascia fare gli allenamenti a James perché è più competitiva di un’aquila.”
“Le aquile sono competitive?” domandò Peter, ma Sirius lo ignorò. 
“Remus,” parlò invece, afferrandolo per le spalle. Lupin si guardò attorno e lasciò cadere lo sguardo su James, che si trattenne dal ridere con un rumore strozzato. Remus riabbassò lo sguardo su Sirius, trovando incredibilmente difficile mantenere una faccia seria. Annuì, prendendolo chiaramente in giro. “Io ripongo tutte le mie speranze in te,”
“Scusami?” Peter si rialzò per la terza volta a sedere e Sirius lanciò un veloce incantesimo in direzione del ragazzo, senza staccare gli occhi da Remus.
Peter cadde rovinosamente a terra. “Ehi!”, si lamentò e James corse in suo soccorso, non riuscendo comunque a trattenere le risate.
“E ovviamente anche su me e James, visto che troveremo sicuro un modo per venire lo stesso,” buttò lì Sirius, lasciando finalmente il suo amico e dirigendosi disinvolto al suo letto.
“Che cosa?” Peter si rialzò da terra, senza accettare la mano di James, perché era troppo molle per il ridere.
“Che ti aspettavi, che ce ne saremmo rimasti con le mani in mano? Qualcuno di voi conosce un passaggio?” domandò James, riprendendosi e dirigendosi anche lui verso il suo letto.
I ragazzi si scambiarono qualche sguardo veloce, Remus fu il primo ad abbassarlo, vagamente a disagio. Sirius corrugò le sopracciglia e lo studiò per qualche secondo. “Be’, abbiamo sette anni per scoprirli tutti,” disse, non nascondendo un’occhiata più intensa in direzione di Remus.
Sirius tirò le tende del suo letto, mormorando qualche buonanotte assonnato e, lentamente, tutti andarono a dormire.
 
***
 
“Devi stare attento,” sussurrò Sirius, buttando un occhio alla fiala su cui stava lavorando James.
Il ragazzo aveva il viso all’altezza dell’orlo, la cravatta alzata su una spalla perché non lo intralciasse e spostava di tanto in tanto gli occhiali avanti e indietro sul naso come se vedere bene la fiala e poi vederla sfocata potesse dare un senso di completezza al tutto. Sirius si sporse con la testa un po’ più verso di lui e James interruppe il suo lavoro lasciando il braccio a mezz’aria e alzando la testa per guardare il suo amico, un sopracciglio alzato e gli occhi ridotti a una fessura. “Ti devi tagliare i capelli, amico, stanno iniziando a crescere troppo,” constatò, levandosi di dosso la massa nera che rischiava di soffocarlo.
“A me piacciono,” replicò semplicemente Sirius, con una scrollata di spalle. James alzò un sopracciglio, poco d’accordo, ma tornò sulla sua fiala.
“Devi stare attento,” ribadì Sirius, tornando a fissare l’orlo della pozione con gli occhi spalancati, mentre James lasciava cadere una goccia. “Devi stare…”
Sirius!
“Scusa, scusa,” si difese il ragazzo, alzando le mani, “volevo solo assicurarmi che non facessi un disastro.”
“Lo farò, se continui a starmi appiccicato, dannazione,” James versò due gocce di un composto scuro e denso nella soluzione che aveva preparato.
“A che state?” Remus spuntò proprio in quel momento dietro di loro, poggiando le mani sulle spalle di Sirius e facendolo non solo sobbalzare, ma anche cascare appena in avanti, addosso a James, che perse la presa sulla fiala e la fece cadere sul pavimento del dormitorio. Questa si spaccò, riversando il liquido scuro sul parquet.
James non disse una parola, si girò soltanto con il viso verso Sirius, fissò un punto imprecisato della stanza e poi piantò gli occhi nei suoi, mordendosi la lingua.
“Mi ha spaventato,” si difese il ragazzo, umettandosi le labbra e raccogliendo un paio delle sue fiale. “Niente paura,” lo rassicurò poi, raccattando un po’ delle erbe che avevano disseminato per la stanza e scippando la sostanza scura dalle mani di James. Appoggiò tutto sull’unico angolo ancora libero del suo comodino, inspirò profondamente, si liberò della cravatta con uno strattone e tirò indietro qualche ciuffo ribelle che gli ricadeva sulla fronte.
“Perché lo deve fare in bilico?” chiese Remus in quella che era più una constatazione rassegnata che una domanda. Alzò un sopracciglio a quella visione buffa ma anche… elegante, in un certo senso.
James lo fissava a braccia conserte, un cipiglio che gridava ‘non ce la farà e potrò prendermela con lui’ da tutti i pori.
Con somma sorpresa di James e Remus – e anche un po’ dello stesso Sirius – ce la fece eccome, versando il composto nero tutto in un solo colpo, il che fece rizzare i capelli della nuca di James.
“A voi,” annunciò Sirius, porgendo la fiala all’amico come se avesse appena vinto alla lotteria dei maghi.
James gliela strappò di mano, sotto il suo ghigno vittorioso, e la esaminò con cura, per poi passarla a Remus per un secondo parere. Ci mise solo un attimo a trasformare quel cipiglio in un ghigno d’intesa che si abbinava perfettamente a quello di Sirius.
“Perfetto,” commentò Remus, un angolo della bocca alzato in un sorriso, mentre Sirius e James si davano il cinque.
In effetti era impressionante. 
 
***
 
“Ci siamo,” Peter si guardava attorno come un animale in gabbia, convinto che tutte le persone che, per puro caso, posavano lo sguardo su di lui fossero assolutamente e innegabilmente a conoscenza di quello che stavano combinando. La notte di Halloween non era mai stata così terrificante.
“Pete, così ti viene un infarto prima ancora che iniziamo,” considerò Sirius, alzando un sopracciglio confuso e costringendo il ragazzo a guardarlo.
“Pare che Silente voglia far ballare degli scheletri,” li informò Remus, addentando un pezzo di carne con un po’ troppa irruenza.
“È buona?” gli domandò Sirius, alzando un angolo della bocca divertito e indicando la carne con un cenno del capo. Era felice che quel ragazzino dall’aspetto così malato avesse finalmente un po’ di fame.
Remus scrollò le spalle. “Troppo cotta,” esalò, prima di sgranare gli occhi e fissare Sirius per qualche secondo, come colpito da un fulmine. Si riscosse un attimo dopo, però, ma l’amico aveva già aggrottato la fronte.
“Be’, lo dice ogni anno, pare, ma nessuno li ha mai visti ballare,” si intromise James, che non aveva affatto notato il modo in cui Sirius lo stava guardando.
“Non lo sapremo mai,” si aggiunse Peter, il cipiglio nervoso ormai disteso e rimpiazzato dall’eccitazione per quello che stavano per fare.
“Ben detto!” James diede una pacca ben assestata sulla spalla di Peter. “Procediamo?” domandò poi, accennando con lo sguardo ai pipistrelli che volavano per la Sala Grande e le zucche che ne adornavano il soffitto.
I tre ragazzi annuirono, un sorriso impaziente illuminò gli occhi di Sirius.
“Altri dieci anni così!” brindò James, senza alcun bicchiere, levando la sua bacchetta per prima e aspettando che i suoi amici lo imitassero.
Con un colpo sincronizzato delle loro bacchette e un incantesimo sussurrato da quattro voci contemporaneamente, la Sala Grande piombò nel buio, le lanterne di zucche intagliate si spensero e solo le candele laterali della Sala rimasero accese. Un brusio concitato prese a diffondersi nella stanza, aumentando di volume di secondo in secondo.
Prima che qualunque professore potesse prendere la situazione in mano e limitarsi semplicemente ad agitare la bacchetta e riaccendere le luci, un fruscio nell’aria, ai lati delle candele, attirò l’attenzione di tutti.
Le loro fiamme rosse e vibranti si tinsero di un blu acceso e tremolarono a ritmo di un insolito spostamento d’aria. La Sala Grande piombò nel silenzio e gli occhi di tutti si concentrarono ai lati della stanza, dove le fiamme danzavano sulle note di una musica muta.
Dopo qualche secondo di silenzioso stupore, le luci delle zucche si riaccesero una ad una e il cibo sui tavoli della cena fu rimpiazzato dalle più famose leccornie di Mielandia.
La professoressa McGranitt ne raccolse una e lesse, a caratteri quasi illeggibili: ‘Per Minnie, uno speciale’.
Mentre le mani di tutti si protendevano ad afferrare i dolci, un fumo verde si sprigionò nella stanza con uno scoppio, facendo annegare la Sala Grande in una nube densa e che sapeva di polvere da sparo.
“Cos’è successo?” domandò una ragazza bruna, non troppo lontana da loro.
Quando la nube verde si diradò, l’intera Sala Grande risultò ricoperta di striscioni rossi e oro, con particolare attenzione al tavolo dei Serpeverde, dove il legno del ripiano era praticamente invisibile e le teste dei ragazzi spuntavano appena da sotto i festoni, tra ringhi e grida di rabbia. Il resto della stanza eruppe di risate e apprezzamenti, mentre un’unica domanda si faceva strada nella folla.
“Qualcuno ha visto chi è stato?”
“Dove sono i Prewett?”
“Lupin, la storia che la luce cambia colore quando passano i fantasmi è geniale!” gridò esaltato Sirius, sorridendo a Ser Nicholas, che si inchinò a loro a qualche metro di distanza. 
“Ho solo studiato,” si limitò a rispondere Remus, stringendosi nelle spalle, “modificare i dolci con quell’esplosivo è stato davvero geniale,” ribatté il ragazzo, suo malgrado, con un'occhiata a Sirius e James.
Minerva McGranitt aveva a quel punto una morbida sciarpa Grifondoro arrotolata al collo e Sirius, che a stento riusciva a trattenere le risate, alzò un pollice e le fece l’occhiolino dal suo posto al tavolo.
 
“Questi ragazzi ci faranno penare,” pronunciò la professoressa, sporgendosi verso il preside della scuola.
“Pare che neanche quest’anno farò ballare gli scheletri,” Silente sorrise enigmatico e la McGranitt sospirò, già esasperata. Si puntò la bacchetta al collo e, amplificando la voce, esclamò: “Black, Lupin, Minus e Potter, siete in detenzione per una settimana.”
E, a dirla tutta, quel genere di fama era l’unica cosa che gli mancava.
 
***
 
Novembre, 1981
 
L’irrequietezza era una delle parti peggiori.
Parlare di ossa che si rompono, visione che cambia e percezioni che si distorcono era sempre stato facile, fin troppo. Chiunque avrebbe potuto capire, immaginare il dolore e comprenderne l’angoscia.
Ma l’irrequietezza era inspiegabile, subdola.
Si insinuava strisciando sotto la pelle, artigliando la nuca e strattonando. Gli solleticava il collo, scendendo lungo la spina dorsale e gli gelava le vertebre, costringendolo a muoversi sulla sedia ogni cinque secondi e a non riuscire a tenere gli occhi fissi su qualcosa per più di un attimo.
Alle volte tremava fortissimo, perché la tensione si accumulava nei muscoli e sentiva il bisogno irrefrenabile di muoverli tutti insieme per scrollarsela di dosso. In quei momenti aveva una voglia immensa di strapparsi la pelle dalle ossa, di essere chiunque ma non se stesso. In quei momenti non vedeva l’ora che finisse.
L’irrequietezza era la peggiore.
Durava giorni interi, notti intere, lo teneva sveglio, lo faceva sudare; i sensi all’erta, le orecchie tese per captare anche il più lieve tubo che perde.
Nei momenti prima della trasformazione si acuiva, lo stracciava, lo stravolgeva. Quasi non vedeva l’ora di perdere la concezione del tempo, dello spazio. Quasi bramava il momento in cui avrebbe finalmente smesso di pensare, di essere lui.
Quella notte lo desiderò più di ogni altra.
Si voltò di scatto, come per abitudine, e la stanza gli restituì solo il buio. Un ricordo malfermo gli si appese al cervello, ricordandogli che non aveva nessuno verso cui girarsi, per quella notte e per tutte le altre a venire. Deglutì e, prima che l’amarezza e il senso d’abbandono lo sommergessero, un dolore bianco gli trafisse la testa, passando per le tempie e facendogli trattenere il fiato.
Percepì le ossa spezzarsi e a stento ne sentì il rumore, mentre qualcosa, dall’interno, gli stringeva lo stomaco e lo costringeva a piegarsi in due dal dolore. L’intestino sembrava volerlo stritolare e sentiva il sangue pulsava tra le tempie come a volergli far esplodere gli occhi. Un formicolio alle gambe lo fece inginocchiare e una sola, inedita, fitta al petto gli spense il cervello.
Al centro della stanza dalle assi di legno graffiate c’era adesso un lupo.
L’animale alzò di scatto il collo, lo puntò al soffitto e liberò un solo straziante ululato.
Non c’era più nessuno a tenergli compagnia.
Tra le grezze emozioni disumane risplendeva pressante la solitudine e la bestia ne ebbe... paura.





 
NotediElCiao. Avvertimento lampo: settimana prossima aggiorno lunedì se sono felice, martedì se lunedì piango, sorry, ma almeno è lunghissimo, quindi mi faccio perdonare.
Bene. Ora revisiono per l'ultima volta, così mi ricordo pure che devo scrivere nelle note (non solo sono disorganizzata, ma rivelo anche i miei segreti, wow).
Sono felice di avervi avvertiti nello scorso capitolo su Peter, perché adesso che avete letto la prima parte possiamo metterci l'anima in pace. Spero che qualcuno non mi venga a cercare dopo questa cosa.
Ah, allora, due cose. Volevo davvero che James entrasse nella squadra al primo anno, lo trovavo carino da confrontare con Harry. La disputa sul ruolo di James nel quidditch è più accesa che mai anche oggi: alcuni dicono fosse Cercatore, altri Cacciatore. Qui è Cacciatore e pace, così Harry mantiene il suo primato speciale di primino cercatore e siamo tutti più felici. L'amico di suo padre che gli ha regalato la scopa a un anno è un mio guilty pleasure, Sirius si è tatuato quella promessa nel sangue e :))
Gudgeon è un vero personaggio di quel tempo, ma ovviamente non si sa niente di lui, è stato divertente dargli una personalità.
Ah, pare che James abbia messo gli occhiali al quinto anno. Non mi interessa, sono il suo simbolo e nessuno glieli toglierà. Già è difficile scrivere le sue battute senza "mate", "bloody" e "git" ogni volta che apre bocca, concedetemelo.
Remus ha undici anni e non riesce a capire che quando pensa "elegante" intende "bello" AH-AH-AH, poraccio.
Mi ha fatto molto ridere che la notte di Halloween del 1971 James abbia detto "altri dieci anni così" ahahahah (mi sentite piangere? Si è capito che non sto ridendo? Ok).
Niente, una cascata di grazie per aver letto, davvero <3
Adieu,

El.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 - (Bianco) Natale ***


3. (Bianco) Natale

 





Dicembre, 1980
 
La neve cadeva a fiocchi argentati, poggiandosi silente sul davanzale della finestra. Un bagliore caldo inondava la stanza e le luci sull’albero si accendevano a intermittenza, in una danza rilassante e che sapeva di casa.
L’odore di torta alle carote aveva ormai invaso il soggiorno e, con ogni probabilità, qualcuna delle stanze confinanti.
Lily si soffiò un ciuffo rosso via dal viso e infilò i guanti per recuperare la teglia dal forno. Un’ondata di fumo la travolse e alzò un gomito per scostarsi quell’unico ciuffo che continuava a ricaderle in faccia. Accompagnò l’anta del forno con un piede, si diresse verso il tavolo e vi poggiò il ruoto al centro. Poi osservò la tavola per qualche attimo, inclinando il viso di lato e assottigliando gli occhi alla vista della torta. Dannazione, aveva davvero un buon aspetto.
Incrociò le braccia al petto e lasciò vagare lo sguardo per la stanza.
“James,” chiamò. Un mugugno proveniente dalla poltrona le fece alzare gli occhi al cielo, “James,” tentò ancora, un angolo della bocca che si alzava in un sorriso divertito.
Puntò gli occhi sulla torta, poi su James, poi ancora sulla torta. Si avvicinò al dolce e lasciò scivolare un dito sull’orlo esterno, dove dei ciuffi di crema al formaggio si alzavano in una maniera irritantemente precisa, poi si recò davanti alla poltrona, si prese un attimo per contemplare il volto di James rilassato dal sonno e, infine, prese fiato: “Mi hai sentita?”
“Sì, Lily, ti ho sentita,” biascicò il ragazzo, affondando la testa nello schienale della poltrona e schiudendo un occhio per squadrare velocemente sua moglie.
Lily non aggiunse altro: si chinò appena in avanti e spalmò la crema al formaggio sul naso di James prima che potesse fermarla. Non riuscì a trattenersi dal ridere, quando lui tentò invano di divincolarsi dalla sua presa e scostare veloce la faccia, lamentandosi con versi indistinguibili.
Lily non demorse, continuò a imbrattarlo come meglio poté finché James non grugnì infastidito e le bloccò il polso con una mano. Gli occhi scuri ancora appannati dal sonno, ma illuminati da una nuova luce. James alzò un sopracciglio e si portò il dito di Lily alle labbra, leccando via la crema rimasta con un mugugno soddisfatto e chinandosi in avanti per rubarle un bacio.
“Non possiamo,” ridacchiò lei, quando intuì le intenzioni di James. Si allontanò appena, guardandolo con lo stesso desiderio che vedeva riflesso nei suoi occhi. Lily occhieggiò verso il grembo del marito, dove Harry riposava ancora sereno, immune a quel baccano.
“Lo molliamo a Sirius e Remus per qualche minuto, più tardi?” la pregò lui, alzandosi con ancora Harry in braccio e dirigendosi come su un binario verso la tavola imbandita.
“Secondo me ce lo meritiamo,” convenne lei, in quel tono per metà ironico e per metà serio tipico di Lily e che lasciava James confuso ogni santa volta.
“Concordo,” rispose lui, tagliando una fetta della torta di carote e cacciandosela in bocca. “Ci so proprio fare con i dolci.”
“James,” Lily si voltò per guardare suo marito: in una mano reggeva la torta, nell’altra Harry, mentre ruminava un boccone. Doveva ammettere che ce la stava mettendo tutta per risultare ridicolo.
“Che c’è?”
Era davvero buffo, con quello sguardo spaesato. Sembrava finalmente avere la sua età, la rilassatezza di un ragazzo.
“Niente,” Lily alzò gli occhi al cielo, liberandolo dal peso di Harry, “ma forse dovresti aspettare gli ospiti.”
James sospirò, il tipico sorriso di quando stava per dire qualcosa di stupido gli tagliò le labbra. “Al mio tredicesimo compleanno non mi hanno aspettato per mangiare la torta.”
“Be’…”
“La mia torta,” ripeté James, come a sottolineare la gravità del tradimento. Si avvicinò veloce a Lily e, complice Harry e la scarsa mobilità che dava a chi lo teneva, fu in grado di ricambiare il favore e cospargerle la faccia di crema con più risultati di quelli che aveva ottenuto lei.
“No.” una nuova voce si intromise nella conversazione e James sobbalzò solo per un attimo, il terrore dipinto negli occhi, prima di scuotere la testa e riprendersi. Si voltò seccato, ma con il solito principio di sorriso diverso che gli spuntava sulle labbra ogni volta che era quella voce a parlare. “Io non permetterò che quel povero ragazzo assista ai vostri strani giochi di ruolo.”
Sirius, che aveva appena fatto irruzione nella casa di James e Lily tramite il camino, alzò un dito con fare deciso. Sulle labbra lo stesso sorriso diverso che aveva solo quando era con James. Si avvicinò determinato alla coppia e James gli andò incontro, lo sguardo minaccioso che si addolciva a ogni passo, finché i due non si trovarono faccia a faccia e si scambiarono un lungo abbraccio.
“È passato un po’,” considerò Sirius, l’ironia nella voce alterata appena da un tremolio. James annuì nella sua spalla, ma non disse nulla.
Quando sciolsero l’abbraccio si studiarono per qualche secondo, annuendo consapevoli e sollevati nel constatare che non ci fossero nuove cicatrici.
“Fai i figli e cucini, Potter? Devo pensare che lei abbia rovinato il diamante che ho forgiato per anni.” Sirius spezzò il contatto teso e un sorriso furbo gli alzò un sopracciglio. Si diresse verso la tavola, osservando la torta e ponderando qualcosa che Lily non riuscì a decifrare. Allungò la mano verso la teglia e rubò un pezzo che James aveva lasciato tagliato. Lily sgranò gli occhi e li puntò offesi in quelli di Sirius, attirando la sua attenzione.
“Che c’è?”
“Prego, serviti pure,” Lily alzò un sopracciglio e Sirius era sicuro che avrebbe incrociato le braccia al petto, se non avesse avuto un bambino in braccio.
“Grazie.”
“Non ti è passato neanche per la testa di aspettare Peter? O Remus?”
“Sa cacciare il cibo da solo, Evans,” Sirius le strizzò l’occhio e sorrise. “E poi… Ottima, James,” si interruppe, preoccupandosi di servirsi con un’altra fetta, “e poi al terzo anno non abbiamo aspettato James per mangiare la sua torta di compleanno.” Sirius si leccò un dito e annuì soddisfatto.
“Te l’ho detto,” James le passò davanti e si poggiò con la schiena sulla sedia del soggiorno, accanto a Sirius, come a schierarsi. Lily li guardò entrambi per un attimo, accettando la sfida silente di quei due, poi scosse la testa e si allungò verso il tavolo, afferrando un pezzo di torta dalla teglia e sperando che non fosse davvero così ottima come sembrava.
“Ma quando hai imparato?”
“Quindi non sei stata tu a costringerlo?” Sirius sgranò gli occhi e le puntò un dito contro. Lily scosse la testa sorpresa quanto lui e a James venne voglia di prostrarsi ai piedi di Remus quando lo sentì arrivare dal camino. Finalmente.
“Ci mette un po’ a far passare un’altra persona,” constatò il nuovo arrivato, spazzolandosi i vestiti scuri per liberarsi della fuliggine e adocchiando il camino. Alzò gli occhi su James ed esitò solo per un attimo, quando lui lo coinvolse in un abbraccio. Incrociò lo sguardo di Sirius. Gli stava sorridendo vivace e con una luce negli occhi che non gli vedeva mai per così tanti minuti consecutivi. Gli venne naturale mimare quello sguardo e stringere a sua volta l'amico.
“Vuoi della torta?” Sirius gliela offrì mentre ne masticava un boccone e Remus scosse piano la testa.
“Aspetto Peter.”
Lily sospirò soddisfatta e alzò gli occhi al cielo, mentre James e Sirius scoppiavano a ridere per la sua reazione. “Tu sei sempre stato il mio preferito.”
“Come scusa?” domandò James, mentre guardava ferito Lily e Remus che si abbracciavano stretti, a sottolineare il tradimento.
 
Peter arrivò non molto tempo dopo, borbottando anche lui qualche miglioria da apportare al camino che filtrava gli ospiti.
Fu estremamente strano sedersi tutti e cinque a tavola e festeggiare il Natale. Aveva un che di domestico che nessuno di loro si sarebbe potuto spiegare. Fuori si gelava, era buio, la neve continuava a piovere e a posarsi su altri suoi strati già spessi. Un vento irriverente sbatteva di tanto in tanto contro i vetri.
Al contrario, però, la casa era calda e illuminata e così accogliente. Il contrasto tra quei due mondi era strabiliante. Tutto ciò che per quella sera restò fuori da quella casa sembrava lontanissimo, innocuo. Non li avrebbe colpiti, non li avrebbe interrotti, non li avrebbe spezzati. Era strano da pensare, ma appigliarsi a quelle sensazioni era tutto ciò che gli veniva concesso, in quegli anni.
Una finestra chiusa, davanti a loro, e nient’altro a minacciarli. Sarebbe bastato affacciarsi per vedere che fuori il mondo era ancora tempesta, però, a volte, nel vetro della finestra si riflettevano le luci dell’albero di Natale e la tavola imbandita e James non riusciva a vederci altro che i sorrisi delle persone che amava.
“Si muore di caldo,” Peter, che aveva assunto un po’ troppo Whisky Incendiario, si alzò ridendo per qualcosa che aveva detto Remus e si avvicinò alla finestra, aprendo uno spiraglio sottilissimo che lasciò passare un po’ d’aria.
“Vado?”
“Sirius, combinerai un pasticcio.”
“Allora vado,” e, detto ciò, la sagoma umana di Sirius si tramutò veloce in un grosso cane nero, che trotterellò scodinzolando furiosamente in direzione di Harry. Spinse affettuoso la testa contro il suo piccolo corpo e si lasciò accarezzare dalle mani goffe del bambino.
 
***
 
Remus Lupin non era mai stato così stanco dopo una luna piena. Davvero, mai. Era ancora nervoso, continuamente irritabile e tutti i muscoli gli gridavano di fermarsi ogni volta che provava anche solo ad alzare la testa dal cuscino. In più le nuove cicatrici sulla schiena non erano ancora guarite e gli veniva voglia di mettersi a strillare ogni volta che qualunque strato di cotone lo sfiorava, il che sembrava succedere… ogni volta che indossava una maglietta.
Madama Chips l’aveva dimesso solo quella mattina, un occhio critico che gli intimava come al solito di riposarsi ed evitare le scorribande per il castello durante la notte.
Era passato più di un anno da quando poteva dire ad alta voce di avere degli amici e sospettava che fosse esattamente la voglia di sentirsi normale e la tendenza a voler passare più tempo possibile con loro ad aver reso le ultime lune sempre più terribili. James gli lanciava occhiate preoccupate, di tanto in tanto, Peter si mordeva il labbro nervoso quando capitava che Remus sibilasse per il dolore e Sirius si lasciava sfuggire domande apparentemente disinvolte, spesso e volentieri, e Remus sapeva benissimo dove mirasse ogni volta.
Rischiava di esplodere, questo era certo.
Si lasciò cadere senza fiatare sul letto del dormitorio e fissò il pannello di legno all’estremità superiore per qualche secondo, poi lasciò andare un sospiro profondo e pregò che nessuno facesse domande – che Sirius non facesse domande.
“Pete, hai preso le Caccabombe per lo scherzo di Natale?” James si aggirava indaffarato per la stanza, reggendo un pezzo strappato di pergamena sul quale aveva probabilmente appuntato la ‘lista della spesa’ del loro ultimo scherzo.
“Sì, James, sono lassù.”
Remus si voltò per un attimo in direzione dei due ragazzi e James puntò immediatamente lo sguardo nel suo. Quella solita luce preoccupata gli brillò negli occhi. “Sirius, alza il culo da quel letto e vieni a darmi una mano,” James puntò la bacchetta in direzione di una massa indistinta poggiata sul letto e una scintilla di luce blu volò dalla punta alla matassa nera che era Sirius, costringendolo a muoversi.
Il ragazzo si massaggiò la schiena nel punto in cui James l’aveva colpito e bisbigliò un ‘bastardo’ fra i denti. Tuttavia, prima che potesse alzarsi per ricambiare il favore e dare inizio a uno dei loro soliti duelli da dormitorio, James alzò un sopracciglio e fissò lo sguardo in un punto imprecisato del letto del suo amico.
“Che c’è?” Sirius alzò un angolo della bocca, come seccato.
“Che cos’è quella?” James non aspettò una risposta e adocchiò un angolo di una pergamena nascosta tra le lenzuola, sottraendola al cuscino sotto cui era poggiata con una velocità che gli avrebbe fatto facilmente guadagnare la posizione di Cercatore.
“Ma che… James,” Sirius registrò con un attimo di ritardo quello che era avvenuto e si alzò di scatto per fiondarsi sul ragazzo, che si voltò prontamente a dargli le spalle.
“Oooh, una lettera,” James alzò un sopracciglio allusivo, voltandosi a guardare Peter e Remus con un sorrisetto. I due ragazzi osservavano la scena in attesa. Era riuscito a divertire anche Remus.
“Non sto scherzando.”
“Chi ha detto che scherzi? È una ragazza?”
“Ridammela,” ribatté Sirius, tentando in tutti i modi di rimpossessarsi della lettera.
James riuscì finalmente a scartarla e si schiarì la gola con un colpo di tosse, continuando a evitare tutti gli attacchi di Sirius. Quando finalmente si riuscì a liberare di lui con una spallata, Sirius si passò una mano tra i capelli nervoso. “Madre,” lesse poi e qualunque risata gli morì in gola, mentre lasciava scorrere gli occhi sulle parole della lettera.
Prima ancora di aprir bocca alzò lo sguardo a incontrare quello di Sirius. Era deciso, non particolarmente ferito, sembrava solo all’erta. Gli occhi grigi lampeggiavano come prima di un acquazzone. “Sirius, questa è…”
La conversazione aveva ormai la completa attenzione anche di Remus e Peter.
“Questo è…”  ritentò James, esitando di nuovo con lo sguardo in quello di Sirius, “è quello che vuoi?”
Il ragazzo si leccò le labbra e abbassò lo sguardo solo per un istante. Un istante brevissimo in cui sembrava avere solo dodici anni e chili di paure che aveva ancor più paura di confessare. Dopo quell’istante, però, alzò la testa e scrollò le spalle, un sorriso irriverente che gli giocava sulle labbra e un luccichio amaro nello sguardo: “Penso di sì.”
“E Regulus?”
“Regulus che?” Sirius continuava a sorridere, ma un velo di dispiacere gli sporcava lo sguardo.
James lo fissò con pazienza. Lo detestava quando faceva finta di non capire, ma quella volta non sarebbe scappato.
“Gli parlerò,” fece pratico Sirius, “capirà.”
Ancora una volta James non fiatò, annuì soltanto e aggrottò la fronte, poco convinto.
“Senti,” riprese Sirius, improvvisamente conscio del silenzio attento che era sceso nel dormitorio, “lui ci sa stare, in mezzo a loro, anzi senza di me ci sa stare anche meglio, credimi, non sentirà…” si interruppe, serrando la mascella e scuotendo veloce la testa. “Non capisco perché tu mi voglia convincere a non mandarla.”
“Io non ho detto niente, ti ho solo chiesto di Regulus,” James alzò la lettera, porgendogliela con una scrollata di spalle. Sirius la afferrò e si affrettò alla porta, “sei sicuro che quando tornerai andrà tutto bene?”
Sirius fece scattare il pomello con un po’ troppo nervosismo, ma si lasciò sfuggire una risata ironica. “Sono curioso di scoprire come si supereranno.” E, senza aggiungere altro, uscì per raggiungere la Guferia, lasciandoli soli.
 
“Che c’era scritto?” Peter sembrava essersi spaventato troppo all’idea di far scoppiare Sirius per chiederlo quando era ancora lì.
“Resta qui per le vacanze di Natale, vero?” Remus si alzò a sedere con un sospiro, passandosi una mano tra i capelli, per mascherare il dolore che cambiare posizione gli stava procurando.
James annuì, continuando a fissare la porta oltre la quale era scomparso Sirius qualche secondo prima, poi aggrottò la fronte per un attimo e si voltò verso Remus. “Hai risolto la tua faccenda a casa?”
“Sì, per un po’ credo sia a posto,” rispose il ragazzo, evasivo. James annuì di nuovo, senza staccare gli occhi dai suoi, come se la cosa lo stesse aiutando a pesare le sue idee. Remus ricambiò, iniziando a intuire i pensieri dell’altro.
L’ombra di un sorriso si disegnò sul volto di entrambi, quando si voltarono all’unisono in direzione di Peter. Il giovane spalancò gli occhi. “Che succede?”
“Hai da fare a Natale?”
“Eh?”
“Quello che James sta cercando di dire,” iniziò Remus, sorridendo, “è che potremmo restare tutti a scuola, per quest’anno.”
“Che ne dici?”
Peter sembrò pensarci su per un attimo, ma poi il suo volto si illuminò con un sorriso e accettò l’offerta di buon grado.
“Benissimo, miei cari,” James si diresse al suo comodino e ne tirò fuori tre pergamene pulite e qualche piuma, “all’opera,” comandò lanciandogliele e i tre ragazzi si misero a scrivere alle loro famiglie.
 
***
 
Sirius arricciò il naso e aggrottò le sopracciglia infastidito. Dopo qualche secondo, però, la sua fronte si era già distesa.
Non passò molto prima che il naso tornasse a pizzicargli di nuovo. Esalò un mormorio sconclusionato e si passò il retro della mano sulla faccia, tornando ad aggrottare le sopracciglia. Dei sussurri al suo fianco lo costrinsero a sospirare e schiudere un occhio, nervoso. Ci mise più del previsto a realizzare dove fosse, che giorno era e, soprattutto, che aveva un opossum imbrattato di dentifricio che gli stava imbrattando il naso. Saltò all’indietro, mettendosi a sedere e prendendosi un attimo ancora per capire che quello non era un opossum, ma un pellicciotto bruttissimo e che a governarlo era James, con uno sguardo fin troppo divertito. Peter, intanto, gli dava dritte su dove colpire.
“Ma che cazzo è?!”
“Dentifricio,” risposero Peter e James in coro, scrollando le spalle, mentre continuavano ad avvicinargli quell’obbrobrio in faccia.
“Sì, lo vedo ma perché è su quel… coso?”
“Sembrava il posto più divertente su cui spalmare del dentifricio.”
Sirius assottigliò lo sguardo confuso, mordendosi la lingua e avvicinandosi solo di qualche millimetro alla mano di James, perché sembrasse un movimento impercettibile. “Non dovreste preparare i vostri bauli?” domandò poi, guadagnando una discreta quantità di centimetri, mentre James alzava lo sguardo come in riflessione.
“Sai, il fatto è che…”
James non ebbe modo di finire quella frase. Il pellicciotto gli fu sottratto con uno scatto davvero impressionante di Sirius e, prima che potesse solo pensare di continuare il discorso, si ritrovò costretto a difendersi dal contrattacco, piazzando le mani davanti alla faccia e temendo il peggio quando si trovò bloccato sul letto di Sirius e sotto il suo peso.
“Pete!” gridò James. “Pete, ritirata! Hanno invaso la nave!”
“Non credere che per te sia finita qui, Peter,” lo mise in guardia Sirius, mentre lottava contro le mani di James, che tentavano di allontanare il finto-opossum dalla sua faccia. “Finisco con lui e dopo tocca a te.”
Sirius scoprì una falla nella sua difesa e James vide il pellicciotto cremoso avvicinarsi ogni attimo di più come in slow motion. Proprio quando il dentifricio era tanto vicino da aver riempito il suo campo visivo Sirius si bloccò, alzando lo sguardo di scatto come un animale sotto attacco verso la porta del dormitorio appena aperta.
“Ho notato uno strano…” Remus si interruppe, osservando in profonda contemplazione la scena che gli si era appena parata davanti. James era disteso sul letto con gli occhi spalancati, mentre Sirius era seduto su di lui; con una mano lo teneva fermo e con l’altra reggeva un opossum coperto di dentifricio. Peter osservava la scena assorto come a chiedersi per chi fare il tifo. 
“Ho notato uno strano quadro,” annunciò invece, perché quel genere di cose erano all’ordine del giorno, nel loro dormitorio. James colse quel momento di distrazione per liberarsi dalla presa di Sirius e alzarsi a sedere.
“Che intendi?”
“Non lo so, era l’unico che non si muoveva,” spiegò Remus, recuperando un libro dal baule sotto al suo letto e iniziando a sfogliarlo.
“E quindi?”
“Ma dov’è?” fece invece Sirius, pratico.
“C’è una porta, accanto alla Sala Grande, che conduce a delle scale. C’è un corridoio con una serie di quadri e questo… era l’unico che non si muoveva,” continuò Remus, inclinando la testa su un lato e non smettendo di sfogliare pagine di un libro che ai tre ragazzi non sembrava dire nulla.
Sirius e James si scambiarono una rapida occhiata. “Oooh, capisco,” insinuò Sirius, il sorriso di chi la sapeva lunga piantato in faccia. Remus alzò gli occhi su di lui e inarcò un sopracciglio.
“Pare che il buon vecchio signor Lupin se ne vada in giro a cercare passaggi segreti,” gli diede corda James, abbozzando lo stesso sorriso di Sirius, ma con un effetto in qualche modo… diverso. “Lo studente bravo e diligente corrotto dai suoi amici delinquenti.”
“E io, allora?”
“Zitto, Peter.”
Remus rise piano e alzò di nuovo lo sguardo su di loro. “Cercavo un modo per accedere alle cucine, se il quadro è quello che penso ci dovrebbe essere una stanza esattamente sotto la Sala Grande…” esitò con lo sguardo su una pagina, poi un sorriso vittorioso gli spuntò sulle labbra, “e pare che i quadri che non si muovono nascondano un segreto.”
“Tu sei un grande,” scandì James e gli occhi gli si illuminarono.
“Quindi festa di Natale e festa privata, tra una settimana?” propose Remus e Peter e James annuirono energici.
“Aspetta, che?” Sirius alzò un sopracciglio, totalmente confuso e registrò appena lo sguardo di Remus sciogliersi in un sorriso, prima che parlasse ancora.
“Non gliel’avete detto?”
“Detto cosa?”
“Credevi davvero che ti avremmo lasciato qui da solo a Natale?” James rise e, prima che Sirius potesse difendersi, gli trascinò la sua stessa mano, ancora provvista di opossum, sulla faccia, imbrattandolo di dentifricio. Remus e Peter scoppiarono a ridire e, suo malgrado, anche Sirius.
 
***
 
Alohomora.
James alzò gli occhi al cielo: “Davvero? Ti sembra una porta, Sirius?”
“Ehi, io ci ho provato,” il ragazzo scrollò le spalle e si fece da parte, “tu che hai in mente, Potter, apriti sesamo?”
James lo ignorò e inspirò a fondo, prendendo il posto di Sirius davanti al quadro. Per un attimo Peter pensò che l’immagine di quattro ragazzi che fissano intensamente un quadro di una natura morta dovesse sembrare parecchio stupida, ma era un lavoro che andava fatto. Era una questione importante. James si concentrò solo sulla sua bacchetta, chiuse gli occhi e la alzò, puntandola verso il quadro. “Revelio,” scandì e un suono sordo, oltre il muro, gli raggiunse le orecchie.
“Quindi c’è davvero un passaggio,” considerò Sirius, tastando il muro accanto al quadro e riflettendo. “’Revelio’? Impressionante,” aggiunse poi, data la difficoltà dell’incantesimo. Solo che quando li faceva Sirius, anche i complimenti sembravano una presa in giro.
“Resta il fatto che non sappiamo come accedervi,” mormorò Remus, inclinando il viso di lato e studiando intensamente il quadro come se la risposta fosse sempre stata lì.
Peter si avvicinò esitando. Non era del tutto convinto di poter dare una mano a quelli che si stavano rivelando tre degli studenti migliori di Hogwarts, ma l’idea di restare lì, fermo, ad aspettare che trovassero la soluzione, lo faceva sentire incredibilmente stupido. Quindi pensò che fingere di cercare anche lui una risposta all’enigma fosse lo stratagemma migliore per non sentirsi a disagio. In più una parte di lui voleva davvero rendersi utile e l’idea di un mistero come quello lo allettava a tutti gli effetti.
James, intanto, si era voltato a dar loro le spalle, mormorando incantesimi a mezza voce come a passarli in rassegna per trovarne uno che suonasse tanto come ‘apriti, passaggio segreto’. Remus e Sirius, invece, avevano iniziato una discussione per nulla interessante su quanto fosse utile continuare a tastare il muro in cerca di indizi. Non sembravano trovarsi d’accordo.
“Almeno io non resto fermo a guardarlo, Lupin.”
“Almeno io non sembro un cretino.”
Peter si avvicinò timidamente al quadro e lasciò vagare un dito sulla frutta congelata sulla tela. Forse, pensò, visto che è l’unico quadro immobile devo invogliarlo a muoversi.
Non seppe bene perché e, soprattutto, cosa l’avesse spinto a fare qualcosa di molto simile a una carezza alla pera in primo piano, ma, e di questo Peter era sicuro, all’improvviso il battibecco tra Sirius e Remus cessò e il mormorio di James si sciolse in un verso di stupore.
Peter si voltò velocemente verso il quadro che aveva appena solleticato e notò, con lo stesso stupore dei suoi amici negli occhi, che al posto della pera c’era adesso una maniglia.
“Pete…” Sirius si avvicinò al quadro con una mano tesa, sfiorò il pomello dorato e gli fece fare uno scatto su un lato. La tela del quadro si fece da parte e la sua cornice a quel punto inquadrò una serie di elfi affaccendati. Quattro lunghi tavoli erano disposti all’interno della cucina a mimare la geometria della Sala Grande. Sirius li osservò rapito, con la bocca semiaperta e un sorriso appena accennato.
“Entriamo?” sussurrò James, decisamente più vispo, dando di gomito a Sirius e cercando il suo sguardo.
Il ragazzo si riscosse e un vero sorriso furbo gli incurvò le labbra. “Puoi dirlo forte” e si tuffarono nella cornice.
A Remus e Peter non restò altro da fare che seguirli.
 
***
 
“Credimi, Severus, sono sempre insopportabili. Non succede solo quando ci sei tu. Anche se sembrano avere una particolare preferenza per te.”
Lily Evans alzò gli occhi al cielo e si lasciò cadere sul sedile del treno. Piton aggrottò la fronte e spostò lo sguardo veloce verso la porta dello scompartimento, poi tornò a prestare attenzione alla sua amica. “Mi sorprende la quantità di volte in cui non vengono puniti per quelle loro presuntuose uscite,” ribatté poi con sdegno, rischiando uno sguardo di sottecchi in direzione di Lily.
La ragazza si strinse nelle spalle e annuì. “Peter però non mi sembra troppo colpevole e Remus non è male.”
Severus gettò un altro sguardo alla porta e replicò atono: “Ha qualcosa di strano.”
“Credo abbia dei problemi a casa, ci torna spesso,” commentò Lily, guardando il profilo di Severus che si voltava di nuovo verso la porta dello scompartimento. “Aspetti qualcuno?”
Severus parve riscuotersi e scosse la testa. “No,” rispose semplicemente e Lily pensò che sembrasse sincero. Da un po’ aveva notato che il suo amico pareva quasi all’erta, continuamente. Non l’aveva mai sentito propriamente distante, neanche distratto, a dire il vero, sembrava solo un po’ a disagio, rigido.
“Lily?”
“Mh?” Lily si riscosse e incrociò lo sguardo di Severus.
Le sopracciglia erano distese, ma una patina preoccupata gli rivestiva lo sguardo. “Ti ho chiesto se sei tesa.”
La ragazza sembrò pensarci su.
“Posso essere sincera?” Severus aprì la bocca per rispondere, ma lei lo anticipò. “Sì,” confessò, “non vedo Petunia da mesi, non ci scriviamo mai e so che qualunque cosa dirò, troverà un modo per fraintenderla e interpretarla come un insulto o un modo per pavoneggiarmi,” Severus annuiva, ma non la guardava dritto negli occhi, il suo sguardo era spostato di poco sui suoi capelli rossi. “Non lo so, più siamo lontane, poi, più la cosa peggiora. Sento che la sto perdendo ogni giorno un po’ di più.”
“Lily,” Severus sospirò, poi puntò finalmente lo sguardo dritto nei suoi occhi, con decisione, “lei non ti…”
“Non mi merita, lo dici sempre,” lo intercettò lei. Un sorriso triste le si formò sulle labbra e scosse la testa, “ma è mia sorella, Severus. Non posso…” sollevò lo sguardo sul soffitto dello scompartimento con un sospiro. “Non posso lasciarla andare così.”
Severus non ribatté. Strinse solo le labbra, come a trattenersi dall'esprimere il suo dissenso.
 
***
 
L’atmosfera, nel castello, sembrava vibrare di eccitazione. Il fatto che fosse per lo più vuoto non aveva quasi per nulla intaccato la sua solita aria accogliente e ospitale e aveva dato a James, Sirius, Peter e Remus tutto il tempo – e lo spazio – di progettare scherzi e comportarsi nella Sala Comune come se fosse stata la loro. Sirius era stato il primo ad accomodarsi. Aveva questa particolare capacità, in realtà, di far sembrare che certe cose gli fossero naturalmente concesse, per qualche speciale autorizzazione innata. Non era una questione di educazione o di rango, era più legata al fatto che quando c’era non si poteva non sentirlo. Remus notava spesso come fosse una caratteristica che addirittura James non arrivava a conquistare con tale disinvoltura.
Due giorni prima di quella che James e Sirius amavano chiamare ‘la divina scoperta’, erano proprio in Sala Comune.
“Ne ha chiesto uno, messere?” Sirius si inchinò profondamente, risultando buffo, con la cravatta rosso e oro allacciata alla testa e un piatto con un soufflé al cioccolato in una mano.
Remus ridacchiò, ma non si lasciò scappare l'offerta. “Dove l’hai preso?” domandò dopo un po’, tra un boccone e l’altro. Sirius sorrise furbo e Remus non fu più tanto sicuro di voler conoscere la risposta.
“Neanche gli elfi resistono al mio fascino.”
James rese chiaro a tutti che la cosa lo faceva ridere particolarmente, perché finse di strozzarsi con una Cioccorana e Sirius si limitò ad afferrare la bacchetta dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni e lanciare un veloce incantesimo nella sua direzione.
James lo schivò con facilità.
“Dovresti procurartene altre,” pronunciò, poi, staccando un morso della rana di cioccolato e osservando annoiato la carta che aveva vinto.
“Che cosa hai detto?” Remus alzò di scatto lo sguardo su di lui, costringendolo a ricambiare. Sirius gli mimò di tagliare corto piuttosto platealmente, ma Remus si accorse anche di questo, “James, dove hai preso quella cioccolata?”
“Allora,” il ragazzo alzò entrambe le mani, l’istinto di ‘non fare movimenti affrettati’ come davanti a un orso superò la sua razionalità, “c’è da dire che…”
“Avete davvero rovistato nel mio comodino?”
“O-oh, attenti al lupo,” Sirius si intromise, allargando le mani divertito. “Tu hai una scorta, amico!” aggiunse, poi, voltandosi solo a quel punto nella sua direzione. Era un ragazzo davvero tranquillo e mai drammatico, ma in effetti non l’avevano mai visto… così. Così all’erta, gli occhi che lampeggiavano. Non riusciva a capire se Sirius non percepisse il pericolo o se fosse solo così pazzo da aver deciso di sfidarlo. Remus ricambiò il suo sguardo, avvicinandosi lentamente e puntando gli occhi nei suoi. Sirius contrasse le sopracciglia per un attimo, uno solo, confuso, poi ricambiò lo sguardo e alzò un angolo della bocca.
Lo stava davvero sfidando.
Qualcosa di impreciso cambiò negli occhi di Remus e, per la prima volta in un anno, Sirius notò che erano inusuali. Qualcosa di disumano gli danzava nelle pupille. Alzò un sopracciglio, la confusione ebbe la meglio e gli rivolse uno sguardo che poteva essere interpretato solo come una muta richiesta di spiegazioni.
Durò un attimo.
Remus indietreggiò di scatto e impallidì. La frase ‘attenti al lupo’ che continuava a ripetersi sempre più terrificante nella sua testa e l’improvvisa consapevolezza di aver reagito in maniera troppo evidente, troppo affrettata. Era stata una coincidenza? O un’altra delle affermazioni insidiose di Sirius?
“Ehi, ne prendiamo altre, davvero, io e James abbiamo trovato un passaggio per Hogsmeade,” Sirius si avvicinò a Remus, tendendo una mano per toccargli una spalla.
“No, no, non è quello,” mormorò Remus, scuotendo la testa e scostandosi. Un principio di sorriso amaro gli accartocciò le labbra. “No, non importa, però… ditemelo, se la prendete,” riuscì a dire infine, perché fingere di essersela presa per la cioccolata gli sembrava la mossa più astuta.
James aveva guardato la scena con attenzione. Non seppe bene per quale ragione, ma si sentì portato a proteggere Remus. C’era una strana aria nella stanza e sapeva di essere il solo a poterla diradare. “Sì, scusaci, noi…”
“Però, ecco, è solo cibo e neanche vitale,” lo interruppe Sirius. Il suo tono era calmo, quasi distaccato mentre lo fissava attento.
Remus giurò di essere riuscito a sentire lo sguardo del suo amico trasformarsi in spilli nello spazio tra di loro. Per una volta mantenne alto lo sguardo. “Che vuoi dire?”
“Basta,” James non gridò, fu semplicemente molto deciso. Era un discorso in cui erano caduti più volte e finiva sempre alla stessa maniera: Sirius si innervosiva perché non riusciva a ottenere quello che voleva e Remus alzava un muro inattaccabile e parlava a stento. Il Natale era vicino, erano rimasti tutti insieme e avevano scottanti novità da comunicare; l’ennesimo e inutile scontro era l’ultima delle cose che voleva sentire.
“Quando volevate dirci del passaggio per Hogsmeade?” Peter si intromise con un entusiasmo a dir poco patetico e platealmente costruito, ma James sentì un’ondata d’affetto dirigersi verso di lui per aver cercato di riportare, anche goffamente, un po’ di leggerezza.
Sirius sospirò. Non era stupido, ma lasciò correre e si passò una mano tra i capelli, inspirando tra i denti. “È vero ed è stato geniale,” sorrise, lanciando un veloce sguardo complice in direzione di James. Il ragazzo annuì a sua volta, “crediamo che porti direttamente a Mielandia,”
“Non ci credo,” replicò Peter, questa volta davvero entusiasta, “Remus non avrà di che preoccuparsi!”
I due ragazzi si lanciarono in un racconto che riguardava una fuga da Gazza, una statua provvista di un occhio solo e un corridoio che non doveva vedere la luce da ‘qualunque età abbia adesso Silente moltiplicata per cinquanta’, a detta di Sirius.
Remus ascoltò per lo più e diede suggerimenti, ma lasciò parlare principalmente Peter. Un attimo prima era stato sicuramente goffo, forse addirittura imbarazzante, ma il suo lavoro non si era fermato lì. L’unico modo che aveva per distrarre Sirius e James era esattamente quello: farli sentire spettacolari.
Che avessero un’immensa sicurezza e tutte le carte in regola per ostentarla era indubbio, ma senza nessuno a lodarli sarebbero probabilmente stati come tutti quelli che prendevano di mira. Remus non sapeva se la tattica di Peter fosse paradossalmente pericolosa, ma in quel momento non se la sentì di condannarlo. 
 
***
 
“Fate piano,” sussurrò James, prima di scoprire tutti e quattro dal mantello dell’invisibilità.
Era la sera prima della vigilia di Natale e tutto ciò che ai ragazzi restava da fare era una scorpacciata di dolci da Mielandia. Sirius e James non avevano mentito quando avevano accennato a un passaggio segreto per Hogsmeade, ma pareva che fossero riusciti solo ad aprirlo, prima che un miagolio in avvicinamento li avesse costretti a scappare.
Dissendium,” pronunciò James e Remus si accigliò.
“È una password?”
Sirius annuì orgoglioso, ma non disse nulla.
“Come fate a conoscerla?”
Sirius sospirò, lasciando scivolare un braccio sulle spalle di Remus con l’aria di chi la sapeva lunga. “Un mago non rivela mai i suoi trucchi.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e osservò un passaggio aprirsi al di sotto di quella statua vagamente raccapricciante.
“Salutate Gunhilda di Gorsemoor,” li invitò James con un cenno di una mano, mentre lo stesso sorriso orgoglioso di Sirius gli invadeva la faccia.
“C-chi è?” domandò Peter, passando sotto le sue mani con il terrore che potesse prender vita e attaccarlo. L’unico occhio della strega di pietra sembrava minacciarlo e seguirlo.
“Mangi troppe poche Cioccorane, Peter,” rispose Sirius, passandogli accanto per dare un primo sguardo al corridoio nero e stretto che si era aperto loro davanti, “e la cosa mi sorprende.”
“Idiota,” mormorò Peter, lanciandogli un incantesimo fiacco, che il ragazzo schivò senza fatica.
“La sua carta mi manca,” mormorò James, avvicinandosi all’obiettivo.
La luce della sua bacchetta, però, penetrò nel passaggio, illuminandolo per un attimo. Qualcosa si mosse nelle tenebre e Sirius fece qualche passo indietro, studiando quel buio come se gli avesse potuto dire qualcosa.
“L’avete visto?” intervenne James, avvicinandosi a Sirius per dare un’occhiata.
Remus rimpianse i secondi successivi a quell’avvenimento per i mesi a seguire e, qualche volta, addirittura per anni. Mosse un passo incuriosito in avanti, perché stare con loro lo rendeva stranamente sicuro e coraggioso. In più, la probabilità che le loro teste calde unite li cacciassero in qualche guaio, era straordinariamente alta e si sentiva in dovere di mostrarsi responsabile. Peter rimase in disparte e attese un responso, ma Remus si avvicinò alla bocca del passaggio anche più di Sirius e James. Era inutile provare a spiegarglielo, ma se c’era qualcuno capace di sentire i rumori più inudibili e di notare i dettagli più sottili, quello era lui. Faceva parte del pacchetto che la sua condizione gli donava non tanto gentilmente.
Accadde tutto in un attimo.
Un fruscio sinistro echeggiò nel passaggio e fu il motivo per cui Remus non fu in grado di localizzare immediatamente la creatura che a quanto pareva si era avvicinata velocemente a loro. Prima che potesse allontanarsi, addirittura schermarsi con… qualunque altro dei suoi amici, qualcosa volò verso l’alto e Remus riuscì solo a registrare lontanamente la voce di James che diceva: “un molliccio?” prima che questo prendesse la forma di un grande disco luminoso. Una luna piena.
Remus lo fissò per qualche attimo, non seriamente intimorito dal molliccio – e come avrebbe potuto? –, mentre un sapore amaro gli invadeva la bocca. Alle sue spalle calò il silenzio e una parte di lui sperò irrazionalmente che fosse solo, che Peter, James e soprattutto Sirius non stessero guardando, che fossero scappati, rinnegando una delle qualità più famose della loro stessa casa.
La sfera se ne stava in silenzio, torreggiando sulla sua testa come a sbeffeggiarlo.
Sentì la mano di James poggiarsi sulla sua spalla: “’Riddikulus’, dovrebbe funzionare,” suggerì e Remus rischiò uno sguardo verso di lui. James guardava in alto, visibilmente confuso.
Abbassò lo sguardo, raggiunse la sua bacchetta nella tasca del mantello e la puntò in su. “Riddikulus,” pronunciò e una palla da volley bianca ricadde ai suoi piedi, rimbalzando e perdendo quota. James puntò la bacchetta contro di lei e la spedì lontano.
Nessuno parlò per qualche secondo.
“Be’, c’era da aspettarselo, nessuno fa visita alla vecchia Gunhilda da un po’,” Sirius ruppe il silenzio e si avviò verso il corridoio segreto, con la disinvoltura di chi non aveva appena visto la paura più intima di un suo amico. Remus lo guardò titubante e rimase fermo dov’era. “Andiamo? Sei tu che ti lamenti del fatto che ti rubiamo la cioccolata,” Sirius si voltò verso di lui, un sorriso divertito giocava sulle sue labbra.
“Dovrei esserne felice?” riuscì a ribattere Remus, mentre un po’ di leggerezza tornava a riscaldargli il cuore.
“Dovresti esserne onorato,” ribatté lui, dandogli le spalle, con un piede già oltre l’orlo del passaggio segreto. James era dietro di lui, “ma ormai sappiamo che sei un po’ lunatico,” la voce divertita di Sirius rimbalzò tra le pareti del corridoio prima di raggiungere Remus. Il ragazzo scosse la testa, ma sorrise.
James gli rivolse un solo, impercettibile sguardo criptico, prima di invitarlo a seguirli con un cenno del capo.
Remus era sollevato, ma l’impronta dello sguardo scuro del suo amico gli percorse la schiena in un brivido di terrore per le ore successive.
 
***
 
“Ehi.”
Silenzio. Si chiese se l’avesse almeno sentito.
“Ehi,” James alzò una mano per colpirlo, ma Remus alzò la sua, come a invitarlo a dargli un’altra chance.
“Sirius.” Remus poggiò delicatamente una mano sulla sua. James diede una rapida occhiata e inarcò un sopracciglio, sorpreso dal fatto che esistesse la delicatezza come metodo di persuasione.
Non ebbe troppo tempo per pensare nient’altro, però, perché Sirius sobbalzò come se l’avessero caricato a molla e respinse, più o meno senza registrarlo, qualunque contatto fisico. “Che c’è?”
James lo guardò come si guardava uno scemo. “Che c’è? Non lo so, dimmelo tu, non sapevo di avere un morto come amico.”
Sirius lo liquidò con un gesto della mano e tornò alla sua cena di Natale, come se niente fosse.
James, Remus e Peter colsero l’occasione per scambiarsi un’occhiata d’intesa.
 
Non passò molto prima che tornassero nel loro dormitorio: avevano optato per tenere lì la loro festa privata. D’altro canto, non erano gli unici Grifondoro rimasti a scuola per le vacanze natalizie e la sala comune non era un posto sicuro per tirar fuori leccornie dalla provenienza sospetta.
In più, non volevano davvero rischiare di imbattersi in qualcuno… di più specifico. Era evidente che ci fosse qualcosa di strano in Sirius da qualche giorno. Nessuno di loro capiva esattamente cosa, non poteva certamente essere triste all’idea di non trovarsi a casa per Natale, quindi la teoria silenziosa che si era diffusa nel resto dei ragazzi girava unicamente attorno a Regulus.
Qualunque fosse il motivo, James si era impegnato per tenerlo occupato, perché non serviva una conoscenza del soggetto troppo profonda per sapere che Sirius, con troppo tempo libero, era un problema.
“James, Sirius,” Remus assottigliò lo sguardo e lo puntò sui due, la testa inclinata su un lato, mentre ignorava con qualche difficoltà il cioccolato fondente finissimo che Sirius gli stava sventolando sotto il naso, “avete visto niente di strano?”
Peter ridacchiò tra sé.
“Sì, una volta un polpo con i guanti,” rispose distratto James, cacciandosi in bocca l’ennesima Cioccorana e tendendo una carta a Peter con aria fiacca. Dannati doppioni! Il ragazzo l’accettò con un verso soddisfatto.
“No,” Remus cercò di attirare di nuovo l’attenzione dei ragazzi, “no, qui in giro, voglio dire,” ritentò, questa volta mordendosi la lingua in attesa, con aria di rimprovero.
“No, Remus,” Sirius alzò gli occhi al cielo, un sorriso obliquo iniziava già ad espandersi sul suo viso e una falsa aria di superiorità gli striava la voce. Era per metà sdraiato e si reggeva la testa con una mano, “vivono in mare, non qui in giro.”
James scoppiò a ridere e batté il cinque a Sirius. Peter, invece, per poco non lasciò cadere per il troppo ridere il bottino di patate al forno che aveva gentilmente sottratto agli elfi.
Remus alzò gli occhi al cielo e alzò una stampella che reggeva tre dei suoi maglioni. Maglioni che in quel momento erano rosa.
“Oh, quello,” James adocchiò i capi incriminati e, invece di spaventarsi, si mise più comodo sul letto. Remus si unì a loro, accomodandosi sullo spazio ancora vuoto che gli era stato lasciato.
“Tu non hai stile, abbiamo pensato di dartene un po’ del nostro...” Sirius scrollò le spalle, poi rivolse una veloce occhiata a James. “Cioè, del mio,” si corresse, quando constatò che fosse l’unico che potesse prendersi il diritto di rimodernare il guardaroba dei suoi amici.
“Ehi!”
“James, io ti voglio bene, ma li hai visti i tuoi capelli?”
“io gioco a quidditch, quindi...”
“Tu avresti stile?” Remus lo interruppe, alzando ironico un sopracciglio.
Sirius sembrò rifletterci un attimo, poi abbassò lo sguardo sulla sua camicia e sulla cravatta rossa mollemente allacciata al collo. “Decisamente.”
“Ah, davvero? Non sapevo che il look da spazzatura andasse di moda,” Remus sorrise con un’alzata di sopracciglia, ma il suo tono sembrava serio.
“Il punto non è la moda, ma come la si porta,” ribatté Sirius, mordendosi un labbro e strizzandogli l'occhio con fare seducente.
Remus grugnì vagamente disgustato e afferrò la prima Cioccorana che gli capitò sotto mano, lanciandogliela dritta sul naso.
“Aaah!” Peter si voltò confuso verso Sirius, accasciato sul suo letto proprio addosso a Remus. Si teneva la faccia dolorante e si lamentava come se gliel’avessero rotta. 
“Ma è serio?”
“È un esaltato,” ribatté James, scartando l’ennesima Cioccorana e passando deluso l’ennesimo doppione a Peter, che lo accettò, di nuovo, di buon grado.
“Tu dovresti aiutarmi!” ribatté Sirius, riavutosi dal mancamento con una velocità impressionante. Quando non ricevette risposta si limitò a scartare la sua, di Cioccorana, dato che ne aveva avuto pieno diritto quando gli era finita sul naso.
“Chi è?” domandò fiacco James, passando in rassegna le carte sfortunate di quella sera, ma non riuscendo comunque a nascondere una punta di speranza nella voce.
“Mhh,” Sirius mormorò qualcosa tra i denti, mentre masticava la sua cioccolata. “La vecchia Gunhilda è tornata a farti visita, signor Lupin!” 
“Che cosa?” James per poco non cadde dal letto, avvicinandosi a Sirius con le mani tese e pregandolo con gli occhi. “La sto cercando da mesi!”
Sirius sorrise furbo e alzò la testa con fare superiore. “Ah, sì? E quanto saresti disposto a pagarla?” Fece in tempo a scattare con la mano indietro, prima che l’amico potesse metterci sopra le mani.
James inarcò un sopracciglio. “Niente, visto che tu non le hai mai collezionate e hai già un cazzo di patrimonio.”
“Andiamo, James, questo è business, io che ci guadagno?”
“Ti prego, dagliela,” lo supplicò Peter, che già prevedeva la catastrofe che si sarebbe consumata di lì a poco. Remus, invece, sospirò rassegnato e si preparò all’ennesima lotta.
Le sue previsioni si avverarono praticamente subito, perché James si fiondò su Sirius con la velocità di un Cercatore e i due caddero rovinosamente dal letto, continuando a combattere con la drammaticità de Il Gladiatore. “Peter, il cappello!” gridò James, ma Remus era praticamente a due passi dal comodino e non si precluse la possibilità di testare la loro ultima creazione.
“No, quello è di Minnie!” gridò Sirius, ancora schiacciato sotto il peso di James, ma riuscendo in qualche modo a tenersi stretta la carta. “No, l’abbiamo prep…”
Un attimo dopo, un cappello natalizio rosso gli fu piantato in testa e una barba lunga e grigia gli si formò sulla faccia quasi immediatamente.
“Remus, traditore!” gridò il ragazzo, un tono gracchiante gli modulò la voce e i tre amici scoppiarono a ridere.
“L’idea della voce è stata geniale, Remus.”
“Be’, che posso dire? Adesso dagli quella dannata carta, Sirius.”
E il ragazzo ubbidì. Era in un posto lontano da Grimmauld Place, con una barba lunga e grigia che poco si addiceva alla sua età e aveva puntato tutto su una carta che infine aveva perso.
Eppure, nonostante la quantità assolutamente grande di cose che sembravano fuori posto, Sirius sorrise. Attorno a lui i ragazzi ridevano, ma Sirius si limitò a sorridere. Non esplose in una risata, ma nel suo petto.
Per la prima volta in vita sua Sirius si sentì a casa.
E una parte di sé gridò in protesta quando, in uno spigolo della sua mente, vide il volto ferito di Regulus.
 
***
 
Dicembre, 1980
 
“Credo dorma.”
A James per poco non venne un colpo quando Sirius gli poggiò una mano su una spalla. “E credo dovresti farlo anche tu o stanotte non riceverai regali.”
James rise e si sfilò gli occhiali, massaggiandosi le tempie. “Grazie,” mormorò, accennando col capo alle scale che portavano alla stanza di Harry, che dormiva beato. Non importava quante persone ci fossero in una stanza, quanto Harry fosse entusiasta e curioso e nemmeno quante voci parlassero una sull’altra, Sirius riusciva a farlo addormentare sempre.
“Figurati, devo avere una specie di superpotere,” sussurrò lui, sedendosi sul divano accanto a James e non lasciandogli alcuno spazio personale. “Se continua così non riuscirò mai a parlare con lui senza farlo crollare, pensa quando lo porterò per bar!”
“Tu non lo porterai per nessun bar,” ribatté James, scuotendo la testa e fissandolo negli occhi. Non era cambiato poi molto dall’ultima volta, quel luccichio d’intesa sembrava voler brillare per sempre.
“Sai che sono un’ottima spalla.”
“Proprio per questo.” James alzò un braccio stanco e lo lasciò passare sulle spalle di Sirius. C’era un silenzio confortevole e il fuoco che crepitava nel camino regalava alla stanza una sensazione di innaturale rilassatezza.
James prese fiato come per iniziare a parlare, ma Sirius alzò la testa di scatto e lo guardò dritto negli occhi. “Stai zitto. Lo so già,” mormorò, tornando a rilassarsi sul divano. “Tu parli troppo.”
James sbuffò divertito, ma non fiatò. In effetti non c’era bisogno di sottolineare quanto surreale fosse stata quella serata, quanto sembrasse essere stata strappata a un futuro che avevano sempre solo sognato, ma che non avevano mai avuto la possibilità di vedere realizzato.
Cercò di imprimere ogni sensazione nella sua testa, perché gli sembrava che uno spiffero fosse penetrato nella stanza a ricordargli che, lì fuori, la neve era rimasta più fredda che mai.





 

 


NotediElciao bbbelli (con la voce delle tartarughe di Nemo). Anche se lunedì è agli sgoccioli ci tenevo a non farvi pensare che fossi triste *civette in sottofondo*.
Vabbè, comunque il ritardo è dovuto al fatto che questo capitolo FACEVA SCHIFO, signori. Cioè, dico davvero, l'ho praticamente riscritto. Vabbè, questa roba giustamente non vi interessa. Allora, che dovevo dire? Ah, siamo entrati nell'era dei capitoli lunghi. Mi scuso immensamente, questa sarà la lunghezza media dei capitoli, so che sono dei cosi allucinanti, ma per far parlare quattro persone ci metto metà pagina minimo e... quattro persone è il numero medio di persone per scena, quindi ciccia. Poi cioè, tranquilli, siamo già al secondo anno ma non faccio durare ogni anno due capitoli, è una cosa più graduale yu-huu.
Mi sono fatta attendere con la questione famiglia-di-Sirius, però questo era il momento giusto. Diamo i crediti a chi li deve avere. C'è una fanart che un giorno riuscirò a mettere nel capitolo di Alessia Trunfio (bravissima, seguitela) in cui ci sono loro quattro nel dormitorio che mangiano e ridono a natale. E niente, l'ho vista dopo aver ideato il capitolo e ho visto che avevamo lo stesso headcanon, quindi mentre lo scrivevo pensavo a quella fanart :D
Io sono una pazza malata per James che seda gli animi e ancor di più per Peter che lavora nell'ombra e ristabilisce l'equilibrio. Gioisco per l'esistenza dei mollicci perché sono stati una manna dal cielo (spoiler prossimo capitolo?) e, sì, è possibile che si trovino in luoghi bui e chiusi da tempo. La carta di Gunhilda pare esista davvero, wow.
Vabb, ci vediamo domenica con il capitolo (volevo dire il nome, ma ho realizzato che non ce l'ha ancora) QUATTRO!
Adieu,

El.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Leone ***


Mezzo warning: accenni di violenza su un bambino, ma proprio accenni.
 

4. Leone


 

 
Gennaio, 1989
 
La morte non esisteva.
Aveva lo sguardo rivolto al cielo e una di quelle stelle brillava più intensamente di ogni altra, sembrava voler esplodere e disperdersi e ridursi in brandelli fino a colare liquida come se il cielo fosse stato fatto a scalini.
Una goccia argentea piangeva nel buio e portava il suo nome.
Poco più su, una falce di luna era tanto sottile da venire mangiata dalle tenebre. La guardò dritta in due dei suoi crateri e sperò che gli dicesse qualcosa.
Lei non si mosse. Sembrava volerlo sfidare.
Gli parve che la stella si fosse avvicinata. Brillava orgogliosa, forse addirittura un po’ arrogante, ammesso che si possa dire di una stella. E probabilmente rincorse la luna, come a costringerla a darsi una mossa.
Non seppe cosa fosse, quanto fosse distante e soprattutto se stesse dimenticando qualcosa. Sapeva che dietro quei punti di luce qualcosa gridava per essere dissotterrata.
Lo sapeva perché gli mancava il respiro e l’aria gli pareva più rarefatta che mai.
Una sola, ultima, inspiegabile gioia gli esplodeva nel petto, perché gli astri si rincorrevano come se li avesse orchestrati. Come se avesse passato l’intera sua vita a gestirne i ritmi e le turbolenze.
Erano le uniche emozioni che si potessero baciare. Sapeva benissimo che era lì per quello, che un contatto lieve sarebbe bastato a strappargli via dal petto anni e anni di colori sgargianti. Eppure quella visione era irresistibile e, sebbene si fosse ripromesso di non cedere e continuare a provare la solita angoscia, doveva ammettere che quelli ci sapevano fare, in quanto a seduzione lo superavano.
Forse, se si fosse lasciato baciare, avrebbe avuto modo di ricordare anche solo per un attimo che c’era stato un tempo in cui quel cielo lo aveva saputo comprendere.
Chiuse gli occhi e sorrise e quello fu l’unico incoraggiamento di cui avessero bisogno.
Percepì un velo posarsi addosso e solleticargli le braccia. Poi una scarica della più pura e profonda gioia gli attraversò le viscere, fino a concentrarsi sulle sue labbra.
Il dolore ha sapore più amaro e fu l’ultimo ad arrivare.
Aveva qualcosa di assolutamente stimolante, ma un formicolio lungo la schiena inerme gli suggerì che non era ciò che voleva. Quel dolore non aveva alito, né odore, era solo un vento freddo che lo costrinse a inspirare fortissimo, fino a sentire i polmoni quasi esplodere.
Non vide tutta la sua vita, né il futuro che avrebbe potuto avere. Non vide un volto amico, né l’inferno sputare fiamme per impiantarsi nella sua mente.
Però, giusto un attimo prima di sentire quel tanto atteso e ben più spaventoso niente, un paio d’occhi grigi lo guardarono bagnati come in lacrime.
Si vociferava che, quando i Dissennatori baciavano, l’emozione che raggiungeva il resto dell’anima per ultima, quasi come se fosse stata incredibilmente pigra o solo molto testarda, fosse il rimpianto. A quanto pareva lo era davvero, perché prima del tradimento, delle scelte strategiche che non avevano portato ad altro che una tragedia, prima della disperazione per aver capito tutto troppo tardi, c’era stato il più grande rimpianto di non averlo aiutato.
Regulus Black era morto come un diavolo perché lui non era stato in grado di salvarlo.
 
Sirius sussultò e un singulto gli lasciò le labbra. Si scontrò di nuovo con la pietra gelata e capì, in un attimo di lucido orrore, che non aveva sognato.
Che cosa c’era di peggio di un Dissennatore?
Quando aveva posto per la prima volta la domanda, da bambino, era rimasto così colpito da non aver creduto alle sue orecchie: erano voci, non potevano essere vere. Quando poi l’aveva chiesto in seguito la risposta aveva iniziato a cementarsi da qualche parte nella sua testa, perché restava sempre la stessa. Forse avevano ragione, forse era davvero così, ma cosa c’era di peggio che sentirsi disperati ogni giorno?
Si diceva che i Dissennatori fossero la piaga più leggera di Azkaban e Sirius aveva immaginato, sin da piccolo, mostri spaventosi solidificarsi nel buio e ferire, abbattere e dilaniare senza sosta.
Eppure nessuna altra creatura l’aveva mai attaccato lì.
Guardarsi impazzire era la sensazione più angosciosa nel pianeta e quel giorno la provò per la prima volta.
Il bacio del Dissennatore non era stato un sogno, quindi, era davvero il delirio? Avrebbe perso la coscienza, i ricordi che lo rendevano diverso da un numero volgare legato a una catena?
Si sentiva la testa scoppiare per la febbre e nel petto cresceva la voglia improvvisa di venire baciato davvero, non nella sua testa, per risparmiarsi la disperazione più profonda.
Per la prima volta desiderò di essere morto.
 
***
 
“Sto morendo!” Sirius rientrò nella sala comune guardandosi le mani pietoso. “James, di’ a Remus che sono stato io a rubare la sua ultima tavoletta di cioccolato,” si lamentò, poggiando la cartella di cuoio sul tavolino con un colpo davvero troppo pesante per essere la sua.
“Parli come se non fossi qui davanti a te,” si limitò a rispondere Remus, dalla sua poltrona accanto al fuoco, senza prestare troppa attenzione alla dinamica.
James inarcò un sopracciglio. “Che ci hai messo dentro? Un Serpeverde intero?” domandò con un cenno del capo in direzione della cartella. Sirius scrollò le spalle e si lasciò cadere sul divano, proprio addosso a James, che cercò di levarselo di dosso.
“Perché hai fatto così tardi?” chiese invece Peter, alzando la testa dal suo tema di Erbologia.
“Pete!” Sirius ci mise un attimo a lasciare James in pace per occupare lo spazio personale del suo amico, “a qualcuno qui interessa delle mie ingiuste fatiche!”
“Ingiuste?” Remus alzò gli occhi dal suo libro solo per un veloce sguardo ironico nella sua direzione.
“Mi hanno fatto lucidare i trofei,” si lamentò, “anche quelli di quell’incapace,” aggiunse, indicando James con un pollice. Peter ridacchiò. “E adesso ho le mani rovinate per sempre.”
“Guarda che è una cosa che fanno tutti,” si intromise di nuovo Remus, che evidentemente aveva voglia di boicottarlo.
“Cosa? Avere le mani rovinate?”
“Lucidare il metallo, Sirius, sei tu che sei nato in un castello,”
“Chiamalo castello,” il giovane lasciò il povero Peter ai suoi compiti e riacchiappò la borsa dalla tracolla. “Buonanotte, signori,” li prese in giro, facendo per andarsene. Prima che potesse muovere un solo passo, però, la mano di James si serrò attorno al suo polso, poi strinse. Sirius si voltò con la fronte aggrottata, dando una rapida occhiata alla mano dell’amico, poi lo guardò negli occhi, in una muta richiesta di spiegazioni.
“Perché eri in punizione?”
Sirius sbuffò. “E quando non lo sono?”
James non rise, continuò a fissarlo. Non sembrava arrabbiato, più inquieto e, cosa ancor più strana, un’impercettibile scintilla di speranza gli illuminava le pupille. “Non studi con noi?”
“Tu non stai studiando, James,” Sirius si risistemò la cartella sulla spalla con la mano libera.
Lo sguardo di James scattò sulla borsa, di nuovo. “E tu sei davvero stanco e vuoi andare a dormire?”
Sirius mosse appena il polso per liberarsi. Non sembrava più tanto divertito. “Ma che problema hai?”
James inclinò la testa impercettibilmente in direzione del tavolino. C’erano almeno altri dieci libri aperti su di esso, ma a Sirius bastò uno sguardo per vedere quello che sapeva di dover vedere.
Tornò con gli occhi su James.
Era teso, sembrava aspettare qualcosa, qualsiasi reazione di Sirius gli sarebbe bastata. Si fissarono per qualche secondo, senza fiatare.
Poi Sirius annuì pratico, sospirò e alzò gli occhi verso la poltrona. La presa di James si strinse sul suo polso, costringendolo a tornare a guardarlo, poi scosse la testa piano.
“Tutto bene, ragazzi?” Remus spezzò quella tensione ed entrambi sussultarono. James mollò la presa.
“Va tutto bene,” ribatté Sirius, disinvolto come se non avesse passato gli ultimi minuti ad avere una conversazione muta con James.
Remus lo guardò per qualche secondo, il sopracciglio alzato di chi non se l’era bevuta, ma il silenzio di chi non era sicuro di voler sentire la verità. “Okay,” concesse infine, con una scrollata di spalle, “buonanotte.”
Sirius lo salutò con un cenno del capo e si voltò. “Ci vediamo qui alle due,” sussurrò, poi, a James, prima di salire le scale che portavano ai dormitori.
“Ehi!” Peter rovistò sul tavolino, in cerca degli appunti di Erbologia che Remus gli aveva prestato. “Che ci devi fare con ‘l’essenziale sulla difesa contro le arti oscure’?” Poi afferrò il libro in questione come se costituisse una minaccia. James si voltò veloce nella sua direzione e fu leggermente troppo violento nel prenderglielo di mano.
“Non dovremo leggerlo prima del prossimo anno!”
“Mocciosus deve fare da cavia per incantesimi più avanzati,” commentò James con la solita disinvoltura, sfogliando il libro in cerca di una pagina a caso. Peter rise piano e tornò al suo tema.
 
***
 
“Che cosa sai?”
Le voci sicure, ma vagamente impensierite di Sirius e James si fusero insieme nel buio. James grugnì frustrato e accese una lampada a olio poggiata su un mobiletto, poi la spostò sul tavolo dove normalmente i Grifondoro si riunivano per studiare. Sirius gli si sedette di fronte e aprì la cartella davanti a lui. Ne tirò fuori due libri, uno di questi sembrava messo piuttosto male e il titolo era quasi illeggibile. Ci aveva infilato un pezzo di pergamena in mezzo, come segnalibro, e lo usò per aprirlo alla pagina segnata.
Esitò per un attimo, con il libro ancora chiuso sul tavolo e un dito tra le pagine ingiallite, per non perdere il segno. “Anche tu,” sussurrò poi e James capì al volo.
Si chinò appena per raggiungere il manuale che aveva nascosto sotto il divano, diede una rapida occhiata al suo interno e poi si fermò, puntando lo sguardo in quello di Sirius.
Lasciarono cadere entrambi i libri sul tavolo e attesero qualche attimo di troppo per abbassare lo sguardo l’uno su quello dell’altro.
Sul libro che aveva James, una grande scritta nera comunicava ai lettori che quello era l’inizio del capitolo diciassette e un’immagine di un lupo occupava il centro della pagina trecentonovantaquattro. Il libro di Sirius faceva decisamente più paura.
La frase ‘Non è vero che i lupi mannari perdono di lucidità quando trasformati’ era scritta in grassetto e un disegno mostruoso di una creatura dalle enormi fauci ostili sembrava voler scappare dalla pagina.
Sirius fu il primo a ricordarsi di respirare. Si lasciò cadere con un sospiro contro lo schienale del divano e lanciò uno sguardo alla grande finestra di fronte a lui. La luce della luna filtrava pigra tra i riquadri in ferro battuto, come a volersi fare protagonista di quella notte. “Secondo te è possibile?” domandò, passandosi una mano sulla faccia e inspirando profondamente.
James scrollò le spalle e diede un’occhiata al libro che aveva trovato Sirius.
“Li descrive come mostri, dice che sono intrattabili e violenti, che hanno un istinto naturale per la carne umana e che quando non sono trasformati sono ugualmente disumani,” spiegò Sirius, che si alzò con un colpo di reni, per afferrare il libro del terzo anno.
“Lui non è così,” commentò James, corrugando la fronte mentre continuava a leggere. “Ti prego: ‘incapaci di ragionare, impossibilitati a servirsi di qualunque metodo diverso dalla violenza per ottenere ciò che vogliono’,” James rise. “Questa roba non ha senso, ci avrebbe già staccato il collo da un bel po’ e non saremmo qui per leggerlo. Davvero hai passato tre ore a lucidare trofei per… questo?”
Sirius annuì, ma chiuse il libro di difesa contro le arti oscure di scatto. “Allora come lo spieghi, James?”
“Ha paura della luna, e allora?”
“Allora cos’altro potrebbe essere?”
“E che ne so io?!” James si mise a sedere composto, di colpo all’erta perché la conversazione si stava facendo via via più animata. “So che è una fobia a tutti gli effetti, magari un lupo mannaro ha ucciso sua nonna, che ne so?”
“E quindi torna a casa una volta al mese, senza eccezioni?” Sirius inarcò un sopracciglio e scosse la testa, “e quando torna a scuola ha una serie di cicatrici nuove di zecca? Perché sua nonna è stata uccisa da un lupo mannaro? Logico.”
“Forse…”
“Oppure è un lupo mannaro, James,” lo interruppe Sirius, una sicurezza negli occhi che gli aveva visto solo quando aveva deciso di non tornare a casa sua per Natale.
“A te sembra violento, inumano e incapace di ragionare?” James alzò un sopracciglio e Sirius distolse lo sguardo. 
“No.”
Nessuno parlò più per un po’. James continuò a rovistare nel libro che Sirius aveva sottratto alla sezione proibita della biblioteca, mentre lui continuava a fissare la finestra, mordendosi un labbro.
“Quindi tu hai fatto ricerche che confermano l’evidenza, come me, perché non ci credi?” Sirius aveva mantenuto un tono calmo e basso, ma James capì che lo stava attaccando. “Dici che non è così?”
“Dico che non ne siamo sicuri.”
Sirius sospirò, poi infilò una mano nella tasca della sua felpa e ne tirò fuori una pergamena. La lanciò sul tavolo e aspettò che James la prendesse, incrociando le braccia al petto.
“È il calendario degli scherzi. Che dovrei farci?” James la raccolse continuando a fissare Sirius. Il ragazzo accennò col capo in direzione della pergamena, come a invitarlo a leggerla.
“Ci sono segnate le fasi lunari.” Si tirò a sedere per dare un occhio al calendario insieme al suo amico, “ventuno dicembre. Quando ho deciso di non tornare a casa Remus era appena tornato dalla sua. La luna piena era due giorni prima.”
James sgranò leggermente gli occhi, ma non fiatò. Era la prima volta dall’inizio di quella conversazione che chiamavano per nome il loro amico e uno strano silenzio seguì quella frase.
“Ventitré ottobre. Rinviamo lo scherzo di quel giorno perché Remus doveva tornare. Guarda, è cancellato e spostato al ventisette, l’abbiamo fatto vicinissimo a quello di Halloween.” Un cerchio rosso inquadrava spaventoso il numero ventitré sul calendario.
“E Halloween scorso? Ti ricordi che era irrequieto e nervoso e non capivamo che avesse?”
James annuì piano.
“Ora che si fa?” Sirius continuava a fissare la finestra, aveva di nuovo le braccia conserte e non smetteva di tamburellare con il piede sul tappeto. James gli diede una rapida occhiata e inarcò un sopracciglio, confuso.
“Che vuol dire ‘che si fa’?”
“Be’, che dovremmo fare, continuare a comportarci come se nulla fosse?”
James si alzò di scatto, afferrò un cuscino e glielo lanciò addosso.
Sirius si voltò a guardarlo con aria interrogativa e James assottigliò lo sguardo. “Come vorresti comportarti, scusa? Vuoi voltargli le spalle solo perché ha un problema? Credi che lui farebbe questo per te? Non vuoi aiutarlo?”
Sirius si alzò a sua volta. “No, però… Non lo so, questo cambia le cose.”
“Ascoltami bene,” James abbassò la voce di qualche tono, fino a farla sembrare un ringhio, “quel libro dice tutte stronzate. L’ha scritto qualcuno che non sa niente di lupi mannari. Oppure Remus è un’eccezione, non ne ho idea, so solo che se ti azzardi a fargliela pesare o ad allontanarti da lui per questa storia, io ti rovino, non me ne frega niente se sei mio fratello.”
Sirius sgranò gli occhi e spalancò la bocca, sgomento. “Aspetta, che…”
“Hai capito?”
Sirius lo guardò per qualche altro istante, poi abbassò lo sguardo e annuì, tornando a sedersi sul divano. “Come intendi aiutarlo? Pagina duecentosette, non c’è cura.”
“Qualcuno ha fatto i compiti.” James alzò un sopracciglio divertito, ma Sirius ribatté con un sorriso mogio. “Troveremo un modo,” continuò, affondando tra i cuscini del divano e lasciando vagare stancamente lo sguardo sulle pagine ingiallite.
“Trovare un modo per cosa?”
Sirius e James schizzarono dai divani prima ancora di registrare e assegnare un volto alla nuova voce che si era introdotta nella Sala Comune.
Peter se ne stava in pigiama sotto l’arco che collegava la stanza alle scale per i dormitori. Si stropicciò un occhio e sbadigliò sguaiato, quasi non facendo caso allo sguardo allarmato che si scambiarono i suoi amici.
“Che state facendo? Studiate?” Avrebbe riso, se non fosse stato così stanco.
James scambiò un’altra occhiata con Sirius, indeciso, ma poi Peter abbassò lo sguardo sul tavolino e sembrò che tutto il sonno gli fosse stato risucchiato via di colpo. Alzò gli occhi sconcertati sui suoi amici, guardando prima uno e poi l’altro come in una partita di flipper. “Che significa?” Mosse qualche passo indietro, inorridito e Sirius sospirò un po’ scocciato, incrociando le braccia al petto.
James lo guardò un’ultima volta, poi sospirò e si passò una mano tra i capelli. “Peter,” parlò e Sirius lo guardò solo per un attimo, prima di annuire, “siediti.”
 
***
 
Quando la mattina arrivò, la luce naturale sembrò sollevare dal petto di James quella vaga angoscia che si diceva da giorni di non provare per niente, ma che in fondo lo aveva fatto dormire suppergiù un’ora in totale, quella notte.
Peter aveva fissato il vuoto per qualche minuto e aveva detto solo ‘okay’, a fine spiegazione. L’atmosfera si era addensata così tanto che la Sala Comune e poi il dormitorio gli erano sembrati pesanti nei polmoni come acqua.
E a colazione comprese, a giudicare dallo sguardo perso di Sirius, che dovevano aver trascorso la notte alla stessa maniera, che se avessero sommato il tempo in cui avevano dormito, arrivare al risultato totale di due ore sarebbe stato un successo.
Sirius si accasciò di lato, vagamente consapevole di aver avuto fortuna nell’atterrare sulla spalla di James. Il ragazzo non si lamentò, anzi appoggiò la testa sulla sua e chiuse a sua volta gli occhi. Remus ridacchiò e diede di gomito a Peter. “Che hanno fatto ieri notte?”
Peter sembrò andare nel panico più totale: arrossì di botto e farfugliò qualcosa di incomprensibile. Sirius grugnì e alzò la testa, costringendo James a fare lo stesso. “Molto divertente, ma quello che io e James facciamo la notte deve restare tra noi.”
Peter, come Remus, rise, ma non mancò di notare l’occhiata ammonitrice che Sirius gli riservò.
“Non resiste al mio fascino,” gli diede corda James, cacciandosi in bocca un cucchiaio di cereali. Un po’ di latte gli colò da un angolo della bocca e Sirius alzò un sopracciglio, disgustato.
“Così mi rendi la vita difficile, Potter.”
“Guarda la tua camicia, Black.”
Sirius abbassò lo sguardo. Una macchia di marmellata tingeva gloriosa la sua ultima camicia pulita. Sbuffò, armandosi di tovagliolo e tanta stanchezza.
“Perché ti porti quel libro del terzo anno ancora dietro?”
La voce di Remus li raggiunse prima ovattata e James all’inizio pensò che, davvero, perché si portava un libro del terzo anno dietro? Poi sobbalzò, facendo lamentare Sirius, che si era nuovamente appisolato sulla sua spalla e che sosteneva che il suo zigomo, questa, non se la meritava. “Te l’ho detto, quel… coso ha bisogno di una lezione,” esalò James e il suo pollice si mosse sbrigativo a indicare Piton, seduto da qualche parte al tavolo dei Serpeverde.
“Di preciso, bullizzare qualcuno ti fa sentire realizzato?”
La voce squillante di Lily era l’ultima cosa che James avrebbe mai desiderato di sentire in generale. Quella mattina, poi, in particolar modo. Sospirò con la rassegnazione di chi sa di aver iniziato la giornata col piede sbagliato, poi puntò uno sguardo indifferente in quello furioso di Lily. “No, Evans,” ribatté, cercando di concentrare la maggior quantità di veleno possibile nel suo cognome, “non qualcuno. Bullizzare quel fanatico del tuo fidanzatino, quello sì che mi fa sentire realizzato.”
Lily serrò la mascella e ridusse le labbra a una linea sottile. Gli occhi le lampeggiarono di rabbia. “Non è il mio fidanzato,” precisò, raccogliendo le sue cose dal tavolo della colazione con più veemenza di quanto meritassero, “e se ti trovo a fargli del male, Potter,” minacciò, scimmiottando la maniera con cui James aveva pronunciato il suo cognome qualche secondo prima, “ti farò rimpiangere di essere nato maschio.”
Sirius sembrò svegliarsi dal suo sonno di bellezza solo per scoppiare a ridere e lasciare una manata divertita sulle spalle di James.
“Marlene, ti prendo il posto a lezione,” avvisò Lily, che aveva finito di radunare le sue cose e aveva lanciato un’ultima occhiata innervosita a James. “E tu, Sirius,” il ragazzo alzò lo sguardo su di lei, in attesa, un sorriso divertito gli alzava un angolo della bocca, ma Lily si limitò a borbottare qualcosa, mentre usciva come una furia dalla Sala Grande.
Sirius si voltò verso Marlene, aveva la fronte falsamente aggrottata e un pollice che puntava verso le porte della Sala Grande dietro cui era scomparsa Lily. “Ha detto ‘fottiti’?”
Marlene si morse un labbro e soppresse una risata, perché sarebbe stato come voltare le spalle a una delle sue migliori amiche. Non resse, però, e si lasciò scappare un veloce sbuffo divertito, che camuffò con un colpo di tosse.
“Come pensavo,” convenne Sirius, scuotendo la testa e sorridendo. Marlene ricambiò.
“Qui hai segnato quelli che intendi usare?” Remus si allungò a sfiorare i pezzi strappati di pergamena che James aveva anche lui infilato la sera prima nel libro. Stava per aprirlo su uno di quei segni, quando James si fiondò in avanti e gli sottrasse letteralmente il libro da sotto il naso. Remus rimase con una mano a mezz’aria e cercò dubbioso lo sguardo di Sirius. Lui ebbe la prontezza – o la stanchezza – di limitarsi a scrollare le spalle come se James fosse stato notoriamente un tipo un po’ aggressivo e non ci fosse stato nulla di cui preoccuparsi.
Ciò che proprio non aveva senso, Remus ebbe modo di ragionarci in seguito, era che James sembrava quasi dispiaciuto.
 
***
 
“Latte?” Regulus Black quasi non distinse la voce di sua cugina. Aveva gli occhi fissi sul tavolo dei Grifondoro e si mordeva forte la lingua. Nessuna emozione traspariva dal suo sguardo, se non una velatissima e impercettibile rabbia. “Regulus?” Narcissa appoggiò la brocca d’argento davanti al ragazzo, con un tonfo.
Regulus non sobbalzò, non si spaventò. Mosse semplicemente lo sguardo dal tavolo agli occhi della cugina. La fissò per qualche istante, poi schioccò la lingua. “Cosa?”
Narcissa non sembrò particolarmente colpita quando ripeté la domanda. “Ti ho chiesto se vuoi del latte.”
Regulus annuì, il solito sguardo spento si sostituì a quello di qualche attimo prima. “Sì, grazie,” rispose solo e Narcissa annuì, versandogli il latte nella tazza.
“Sai,” iniziò, torcendo il polso per poggiare la brocca sulla tavola, “continuare a pensarci non ti porterà da nessuna parte.”
Regulus alzò un sopracciglio e la osservò infastidito. 
“Dico solo che ha scelto,” spiegò, accennando col capo in direzione di Sirius. “Non passerà molto prima che ne farà un’altra delle sue e il suo nome verrà cancellato,” continuò, scrollando le spalle sotto gli occhi disinteressati di Regulus. “Prima o poi capirà di non avere più niente, nessuna famiglia da cui tornare. Ma tu sei migliore di così.”
La ragazza gli sorrise e Regulus si morse un labbro, lanciando un’ultima occhiata alla tavola dei Grifondoro, prima di voltarsi verso sua cugina. Era incoraggiante e, soprattutto, era sincera, glielo leggeva negli occhi: lei voleva aiutarlo, voleva assicurarsi che non sbagliasse e che desse il giusto valore alla famiglia.
Però.
Però Sirius, a qualche tavolo di distanza, stava ridendo. Era una cosa che a Regulus non capitava da due anni, di ridere senza paura di sbagliare. Attorno a lui c’erano delle persone che Narcissa aveva giudicato, leggendo tra le righe, passeggere, temporanee. Si chiese se non fosse vero.
Vedere suo fratello ridere, al tavolo dei Grifondoro, e la voglia di ridere per riflesso durò solo un attimo.
Sirius a Natale non era tornato. Gli aveva promesso che ci sarebbe stato, che l’avrebbe protetto e che non l’avrebbe dimenticato, una volta andato a Hogwarts. E poi non c’era stato, non l’aveva protetto e l’aveva dimenticato.
Non era invidioso dei suoi amici, non era geloso di suo fratello, non era triste, Regulus era immancabilmente arrabbiato. Perché Sirius aveva dei doveri, delle aspettative che gravavano su di lui e se ne era fregato, come il più codardo dei Grifondoro.
Suo fratello stava giocando, recitando una parte che presto gli sarebbe troppo pesata, perché lui non apparteneva né a quella casa, né a quella gente. Non era questione di rango, ma di sangue e, Regulus lo sapeva, prima o poi il suo sangue Nero si sarebbe rivelato.
Pensò queste cose in preda alla rabbia, accecato dal risentimento e dalla sofferenza per l’abbandono, ma non comprese – e come poteva? – che con quei pensieri qualcosa si era rotto, che da quel momento in poi le cose non sarebbero state più le stesse.
Col senno di poi, all’alba dei suoi diciott’anni, Regulus non rimpianse mai totalmente quella scelta, ma il fatto che fosse stata così netta. Non si era mai sentito l’unico responsabile di quella rottura, ma forse la drasticità dei suoi undici anni e un fondo di rancore invalidante, gli avevano giocato un brutto scherzo.
Restò il fatto che, da quella mattina, Regulus smise di guardare la schiena di Sirius, in attesa che si voltasse.
 
***
 
Il seme del dubbio.
Era peggio di un calcio in faccia, un invito ad andarsene, a dormire nel bosco e abbandonare per sempre il dormitorio. Peggio addirittura di una minaccia di dirlo a tutta la scuola, a tutto il mondo, alle galassie vicine, addirittura.
Peggio quasi dello sguardo disgustato e ferito di Peter, di James, di Sirius.
C’era qualcosa nella sua aggressiva voglia di conoscere la verità che lusingava Remus in una parte della sua mente. Era una parola che non si sarebbe mai aspettato di pensare in merito alla sua condizione, ma l’idea che qualcuno potesse essere così interessato ai segreti di uno come lui era nuova e, si vergognava ad ammetterlo, anche un po’ esaltante.
Non aveva niente a che fare col ricevere attenzioni. L’obiettivo di quelle sensazioni non era affatto il colpo di scena, l’effetto sorpresa, l’idea di far passare abbastanza tempo perché ‘ehi ragazzi, sono un lupo mannaro’ risultasse spiazzante e spettacolare. Anzi, era l’esatto opposto: non aveva in programma di dirlo ai suoi amici, ma era l’idea che Sirius fosse così preoccupato da assillarlo, a farlo involontariamente sorridere.
Era l’effetto collaterale dell’amicizia, la prova tangibile che non era tutto falso. Anche se non era destinato a durare, quell’affetto era reale e l’insistenza ne era una prova commovente.
Il tempo delle belle emozioni, però, era terminato quando James aveva varcato la soglia del passaggio di Gunhilda. Il suo sguardo era serio, come non l’aveva mai visto, i suoi occhi erano consapevoli di qualcosa e Remus tremava come una foglia se pensava che quel qualcosa potesse essere corretto.
I suoi sospetti non si erano dissolti quando aveva trovato quel maledetto libro del terzo anno praticamente ovunque. E il fatto che James fosse così riservato a riguardo era terrificante. Conosceva il programma del terzo anno, aveva già recitato davanti allo specchio le espressioni da assumere quando sarebbe arrivato il giorno, per non sembrare minimamente toccato. Lui sapeva che tra quelle pagine c’era il suo più grande segreto e vederlo così spesso nelle mani di James lo rendeva irrequieto.
Il seme del dubbio non era stato solo piantato, germogliava ogni giorno più rigoglioso e Remus non aveva idea di come estirparlo.
Fissò il soffitto con un sospiro e ascoltò i passi dei suoi amici avvicinarsi alla porta del dormitorio.
“Sei sveglio?” Peter si fermò sull’uscio e Remus grugnì in risposta.
“Ti abbiamo portato del cioccolato,” si unì Sirius, infilando la testa da un lato della cornice della porta per farsi vedere. Con una mano sventolava una delle bacchette di cioccolato di Mielandia.
Remus si alzò a sedere con un sibilo di dolore. La luna piena era in arrivo e le ossa erano già rigide e i muscoli intorpiditi. “Vuoi dell’acqua?” James si fece largo nella stanza all’istante e Remus alzò un sopracciglio, ma scosse la testa.
James e Peter si diressero ai rispettivi letti.
Accettò sospettoso la bacchetta di cioccolata di Sirius e lo osservò per qualche attimo, mentre gliela porgeva. Uno strano mattone di ghiaccio gli si addensò nello stomaco e deglutì a fatica. Quella gentilezza improvvisa lo insospettiva.
Sirius aggrottò la fronte. “Che c’è?”
Remus scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto, chiudendoli per un attimo e inspirando a fondo. Quando tornò a prestare attenzione ai suoi amici James guardava oltre la finestra della stanza. Una luna crescente biancheggiava tra le tenebre. “James?”
Il suo amico si voltò a guardarlo, incontrando distrattamente gli occhi confusi di Remus. “Mh-mh?”
“Io… non ho paura.”
Sirius sospirò rumorosamente, poi si alzò dal letto di Remus. “Quanto potrà mai durare?” mormorò, dirigendosi verso il suo letto. “Sono curioso di scoprire il tuo, di Molliccio, James,” Sirius alzò la voce e tirò le tende del suo letto, per poi disfarlo per infilarcisi dentro.
“Io non ho paura di niente,” il ragazzo scrollò le spalle e sorrise.
“Sì, certo, e lo stregone dal cuore peloso?”
“Sirius, ne abbiamo già parlato, quella storia è terrificante,” James sgranò gli occhi e scosse la testa, come a sottolineare l’ovvio.
Remus alzò un sopracciglio, felice che la conversazione avesse cambiato direzione. “Chi?”
“È una fiaba per bambini,” spiegò Sirius, che ce la stava mettendo tutta per non ridere di James.
“È una fiaba che leggono solo i bambini traumatizzati.”
“Io la leggevo,” Sirius alzò un sopracciglio.
“Esatto.”
Remus e Peter risero.
“La conosci ‘la storia del calderone delle anime’?” domandò Sirius, genuinamente curioso.
James lo fissò per un attimo. “Amico, che infanzia hai avuto?”
“E me lo chiedi?”
“Il mio Molliccio sarebbe di sicuro un serpente,” si intromise Peter, mordendosi un labbro e mettendo su un’espressione decisamente spaventata.
“Davvero? Hai paura dei serpenti?” Remus lo guardò meravigliato, un sorriso comprensivo gli si formò sulle labbra.
“È come si muovono,” precisò aggrottando la fronte, impensierito.
“C’è stato un periodo in cui avevo paura dei Dissennatori,” confessò infine James. “Lo scoprii troppo presto, ero piccolo e…” rabbrividì, “terrificanti.”
Sirius sporse il labbro inferiore. “Povero piccolo James, traumatizzato a vita!”
Il ragazzo si avvicinò al suo letto solo per dargli una spinta e Sirius rotolò giù, ridacchiando e affrettandosi ad arrampicarsi un attimo dopo.
“In realtà è molto saggio,” considerò Lupin, appoggiando un braccio sulla fronte, in riflessione.
Sirius si esibì nel più plateale sbuffo divertito di cui fu capace, riuscendo a tornare sul suo letto. “Chi, lui? Saggio? Sei simpatico, Remus.”
Il ragazzo rise e scosse la testa. “Davvero, vuol dire che quello di cui hai paura è… la paura. Molto saggio, James,” ribadì, annuendo orgoglioso, come se l’avesse istruito tutta una vita ad avere sagge paure. “Sirius, il tuo molliccio,” continuò Remus, spiazzando tutti per l’assenza del tono interrogativo. Sembrava quasi che lo pretendesse, che se Sirius poteva ficcare il naso a cadenza mensile nei suoi spostamenti, allora a lui era lecita almeno una domanda scomoda.
James e Peter non aggiunsero altro, ma avrebbero volentieri stretto la mano mille volte a Remus per essersi spinto così oltre. Quello che sapevano si basava sulle poche concessioni a mezza voce di Sirius: la sua famiglia era intrattabile, il rapporto con suo fratello si era incrinato, ma i motivi che si nascondevano dietro a ogni gesto restavano per lo più supposizioni dei ragazzi.
Se Sirius voleva giocare a strappare la verità di bocca a Remus, lui avrebbe giocato d’astuzia.
Lo guardò fisso in faccia, nessuna emozione trasparì dal suo viso, ma una scintilla di allarme gli bruciava negli occhi. “Non ne ho idea, non ne ho mai visto uno, tranne il tuo,” ribatté, umettandosi le labbra. Il fatto che l’avesse velatamente attaccato era il più eloquente sintomo che si fosse messo sulla difensiva. Attaccare quando era alle strette era da sempre la tattica di Sirius. Ci aveva messo qualche mese a decodificarla.
“Neanche James e Peter, ma hanno saputo rispondere.”
Sirius sospirò. “Mio nonno?”
James rise tagliente. “Oh, andiamo, tuo nonno? Puoi inventarti una bugia migliore.”
“Ehm, puoi non dirlo, se vuoi,” iniziò Peter, alzando lentamente una mano, come se fosse stato necessario prenotarsi per parlare, “però noi non ti giudichiamo.”
Sirius non disse molto altro, si guardò solo attorno, come a sondare il terreno, riservando uno sguardo a ognuno di loro. Peter sembrò molto soggezione, quando arrivò il suo momento.
Poi Sirius guardò dritto davanti a sé, sospirò come se la confessione che stava per fare gli fosse costata almeno tre anni di vita, infine mormorò, in un sussurro appena udibile, solo quattro parole: “Me, vecchio ed erede.”
Tornò di nuovo a fissare i suoi amici, come se a rimettere a loro la parola, come se ad essere in imbarazzo non dovesse più essere lui.
“Che ti hanno fatto?” domandò James, titubante, non tanto per curiosità, ma perché credeva che sapere in cosa consisteva il comportamento dei suoi genitori fosse necessario alla loro amicizia.
Sirius scrollò le spalle, capendo al volo a cosa si riferisse, ma stava iniziando ad agitarsi. “Stracci umidi, qualche incantesimo, repressione.”
Remus inarcò un sopracciglio. “Incantesimi?”
Sirius annuì soltanto, ma il nervosismo stava crescendo esponenzialmente col suo respiro.
“Che genere di incantesimi?” James aggrottò la fronte e scambiò un’occhiata veloce con Remus e Peter. Peter, in particolare, sembrava pietrificato.
“Incantesimi, James,” si spazientì Sirius, “vogliono che le loro idee vengano seguite senza obiezioni e provo un piacere sconfinato nel vedere il più completo disappunto sulle loro facce di cazzo, quando faccio qualcosa che non gli va giù, come respirare.”
Sirius non stava propriamente tremando, ma la frustrazione sembrava esserglisi depositata sulla pelle, come a caricarlo, e a quel punto era diventata evidente.
“Quindi lo fai per il gusto di ribellarti?” Remus sapeva che James lo stava provocando per sapere di più. La sua famiglia era famosa, il suo cognome gli aveva fatto storcere il naso appena lo aveva conosciuto, sapeva quali fossero le loro idee e sapeva anche che Sirius non le condivideva affatto, ma mancava poco perché parlasse una volta per tutte e quello era l’unico modo.
Come previsto, Sirius abbandonò l’espressione indifferente che aveva messo su e aggrottò le sopracciglia. “No, James,” alzò la voce, “lo faccio perché hanno idee del cazzo, si sposano tra cugini, bruciano i nomi dei traditori su una parete, come se li cancellassero dal mondo e pensano che gli unici maghi rispettabili siano quei purosangue del cazzo che frequentano, ecco cosa,” sputò fuori e si riusciva quasi a distinguere l’esatto momento in cui qualcosa nel suo cervello scattò, annebbiandogli la vista e non permettendogli di filtrare ciò che pensava da quello che diceva. Non riuscì, però, a capire che avrebbe dovuto smettere all’istante di parlare. “E non mi pare che gli vada contro tanto per apparire ribelle e interessante, visto che mi diserederebbero sul posto, se sapessero che…”
“Sirius.” Lo sguardo di James cambiò in una frazione di secondo, mentre sgranava gli occhi.
“Non solo sono in Grifondoro, ma il mio amico è un lupo mannaro.”
Gelo.
Non c’era altro modo per descrivere la tensione che si era sparsa nella stanza al pronunciare di quelle parole.
Si gelò anche la mente di Sirius, che si voltò sconvolto verso Remus, come se quelle parole non fossero state le sue.
James aveva mantenuto la calma, ma non aveva trovato niente da dire. Aveva solo sospirato rassegnato, forse perché l’aveva vista arrivare, poi si era passato una mano sulla faccia.
Peter, se prima era pietrificato, a quel punto era sempre pietrificato, ma con gli occhi sgranati e puntati in basso, sul suo materasso.
Remus, invece, aveva la bocca semiaperta e sembrava che una parola fluttuasse indecisa tra le sue labbra. Ormai non c’era più nessun seme del dubbio da far crescere, la realtà gli si riversò addosso con la violenza di una doccia fredda. Tutto ciò che aveva temuto per due anni, tutto ciò che si era augurato non succedesse, tutta la paura di lasciarsi andare e di accettare l’amicizia che gli veniva offerta, si tramutò in una solida e spiazzante verità: Loro sapevano, l’avrebbero abbandonato.
Il labbro inferiore gli tremò di paura e il dormitorio che da bambino aveva tanto sperato di abitare si trasformò in una gabbia strettissima e asfissiante. Sapeva che non sarebbe durata a lungo, solo, non pensava che sarebbe durata così poco.
James colse questi pensieri con uno sguardo e aprì le mani con decisione davanti a sé. “Okay, allora, è vero, però…”
“Non è vero,” esalò Remus voltandosi per la prima volta verso i ragazzi e guardandoli tutti per un attimo, con la vista annebbiata. “Non è…”
James alzò entrambe le sopracciglia, gentilmente scettico al sentire quella negazione. “Remus, lo sappiamo,” ribatté, “so cosa stai pensando e non abbiamo intenzione di dirlo a qualcuno. Vogliamo aiutarti.”
Lupin puntò gli occhi nei suoi, sembravano lampeggiare più come quelli di una preda che di un predatore, aveva le labbra secche e il respiro affannato. Scosse la testa e sgusciò via dal letto, in un istinto naturale ad avvicinarsi il più possibile alla porta, per mantenere aperta una via di fuga. “No,” mormorò, confuso, “no, io… Voi non potete.”
“Remus?” Peter lo richiamò, sembrava addirittura calmo, come se fosse giunto il momento di non concentrarsi su quello che pensava lui, ma di essere un buon amico. Tremò comunque per un attimo, però, quando gli occhi decisamente più brillanti del suo amico si posarono su di lui. Deglutì con difficoltà. “Noi… Troveremo un modo, dico bene, James?”
Il ragazzo annuì deciso. “Sì, puoi parlarne liberamente, ti aiuteremo a trovare scuse ogni mese quando vai a casa.” James mosse un passo verso di lui.
Remus indietreggiò istintivamente verso la porta. “Non vado a casa,” ammise, sentendo sempre più muscoli tendersi nervosi, “mi serve un po’ d’aria.”
Avrebbe voluto chiedere cosa e quanto sapessero, ma non riuscì a dire altro. Aprì la porta del dormitorio e discese rapido le scale che conducevano alla Sala Comune.
 
James si accasciò sull’orlo del suo letto, poggiò i gomiti sulle ginocchia e sbuffò sonoramente, nascondendo la faccia tra le mani. “Sirius, devi fare qualcosa per le tue reazioni,” mormorò stanco, non aveva la forza né proprio la voglia di mettersi a discutere. In ogni caso sapeva che quel segreto non sarebbe durato a lungo, avrebbe solo voluto che la verità non uscisse fuori in maniera così brusca, per il bene di Remus.
Sirius continuava ad avere lo sguardo basso di un cane bastonato. Annuì. “Mi dispiace,”
“Lo so,” ribatté James, alzandosi con un sospiro. “Vado a recuperarlo,” annunciò infine, dirigendosi a passo spedito verso la porta.
In un attimo, Sirius fu in piedi e gli si parò davanti. “Vado io.”
James lo guardò negli occhi, esitando, ma lui annuì come se avesse letto i suoi pensieri e avesse voluto rassicurarlo sul fatto che era calmo e aveva la situazione in mano.
James annuì piano e lo lasciò andare.
 
***
 
“Potevi salire un po’ più in alto, eh?”
Sirius arrivò in cima alla Torre di Astronomia con il fiatone e la fronte umidiccia. Remus non si voltò, ma si irrigidì visibilmente.
Gli si avvicinò lentamente e si sedette piano accanto a lui, lasciando le gambe penzolare oltre la ringhiera.
“Fa male?”
Passò qualche minuto prima che Sirius parlasse di nuovo, sapeva che forse non era l’approccio giusto, ma pensò che valesse la pena tentare. Remus lo guardò per un secondo, come se fosse stupido, gli occhi brillanti sembravano raccogliere la luce della luna quasi piena, restituendo un bagliore innaturale.
Sirius sostenne il suo sguardo.
“Sì,” esalò Remus con un sospiro, perché ormai non aveva più nulla da perdere.
“E le cicatrici…”
“È… colpa mia, devo essere da solo, qualunque essere umano…” Remus non andò oltre, incespicò sulle parole e lasciò vagare nell’aria il resto della frase.
“Ti fanno sembrare un duro,” sputò fuori poi, poggiando un braccio su un ginocchio e scrollando le spalle, “le cicatrici, intendo.”
Remus guardò la luna riflettersi nell’acqua solo per un attimo, prima di registrare le sue parole e scoppiare a ridere.
“Dico davvero!”
“Sirius!”
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui, alzando un sopracciglio confuso perché all’improvviso il suo amico stava guardando il cielo con gli occhi sgranati e aveva smesso di colpo di ridere. Pensò che fosse una delle controindicazioni del diventare lupi una volta al mese. “Che c’è?”
“Guarda.”
“Senti, è tutto nuovo per me, ti serve una qualche tisana per lupi mannari? È normale?”
Remus si voltò veloce verso di lui, con la fronte aggrottata. “Cosa? No, guarda le stelle.”
Okay, quindi adesso Remus si stava concedendo la libertà di comportarsi in modo strano perché Sirius sapeva tutto? Non è che la cosa lo disturbasse, ma faticava seriamente a stargli dietro. Il suo sopracciglio continuò ad alzarsi, sembrava voler arrivare in cielo. “Sì, succede ogni notte, sai, quando il sole tramonta si vedono le stelle,” spiegò, muovendo una mano come se stesse ripetendo una lezione trita e ritrita.
Remus rise, era incredibile che fosse la seconda volta Successo!. A ben pensarci, la sua risata sembrò uscire fuori più pulita, cristallina. “Lo so, ma… Tu lo sai cosa significa il tuo nome?”
“Ah,” Sirius rivolse uno sguardo contrariato al cielo, come se gli avesse fatto un torto, “sì, l’ennesima cosa strana e imbarazzante della mia famiglia. Quale sarebbe?”
Remus scrollò le spalle e indicò una stella, a qualche passo dalla luna. Sembrava voler giocare a chi era più luminosa.
“Certo che se la tira,” osservò Sirius, alzando un angolo della bocca per come dominava il cielo.
“Già, come qualcuno.”
Sirius gli rivolse una veloce occhiataccia, ma non negò.
I ragazzi smisero di parlare e stettero in silenzio a contemplare luna e stelle. Passò molto altro tempo, prima che l’eco lontana del miagolio della gatta di Gazza arrivasse alle loro orecchie. Sirius si ringraziò mentalmente per aver chiesto a James di prestargli il suo mantello dell’invisibilità, prima di andarsene.
Vi si nascosero sotto e sgattaiolarono silenziosi al dormitorio.
 
***
 
Agosto, 1979
 
“Devi… Dovrai fare tutto quello che ti dirò, hai capito?” Il respiro gli si mozzò in gola, ancor prima di pronunciare quelle parole. Tremava, perché c’erano almeno altre mille cose che sarebbero potute andare storte. “Devi farlo per me,” continuò, tentando disperatamente di mantenere un tono deciso.
L’elfo annuì titubante e si rigirò tra le mani il medaglione che aveva appena ricevuto.
“È importante che tu non dica mai a mia madre quello che ho fatto. Tu non saprai niente e non ne farai parola con nessuno, hai capito? Non c’è modo di sopravvivere, già lo so, lo devi distruggere tu.” Una certa sicurezza gli si solidificava nello sguardo a ogni parola. L’elfo annuì di nuovo: aveva paura.
Le mura erano umide, sentiva le gocce di condensa cadere una dietro l’altra e infrangersi nell’acqua.
“Distruggilo, è necessario, non ti chiedo nient’altro, è il mio ultimo ordine.”
Anche questa volta, l’elfo annuì, meno convinto delle precedenti e osservò la linea sottile delle labbra di Regulus piegarsi in un sorriso. “Però, così, Regulus Black sarà per sempre ricordato…”
“Non ha importanza, non c’è altro modo.”
Gli occhi grigi brillavano sotto la luce tetra che le pareti della grotta riflettevano. Una luce folle, ma incredibilmente libera gli si accese nelle pupille.
Kreacher fece in tempo a ribadirgli la sua lealtà per l’ultima volta.
“Grazie,” esalò semplicemente il ragazzo, con il tono di un brindisi, mentre mandava giù il primo sorso di veleno.
Da quel momento in poi vide poco altro oltre allo sfondo bianco del suo dolore. Gli occhi paralizzati dell’elfo si cristallizzarono nella sua testa e scomparvero del tutto man mano che il liquido scuro gli raschiava la gola, goccia dopo goccia. Strane visioni, come in sogno gli si affacciarono alle palpebre, poi non vide più nient’altro, fu solo dolore, angoscia immane. 
Era… vivo?
Forse sì, ma aveva una gran sete e il suo corpo si mosse di conseguenza.
Gli parve di vedere il cielo punteggiato di stelle davanti a sé e pensò che tutto ciò che voleva era raggiungerlo, toccarlo con un dito e addensarsi per sempre in una costellazione.
Si accorse, con un ultimo briciolo di coscienza, che in quel cielo si sentiva annegare.
Un velo di morte lo avvolse a partire dalle caviglie e pensò che, anche se non riusciva più a respirare, c’era qualcosa di accogliente in quel tessuto soffice. C’era un abbraccio, un sentore d’affetto. C’era un’emozione autentica e una calma innaturale.
Era davvero fatto così, l’amore?
La mente continuava a vorticare molesta e le figure dei mostri più nitidi gliela invasero prepotenti.
All’improvviso una sola, ultima immagine, proprio mentre pensava che non avrebbe più retto e percepiva i polmoni scoppiare, mise un punto a quella tempesta.
Si vociferava che l’emozione che raggiungeva il resto dell’anima per ultima, quasi come se fosse stata incredibilmente pigra o solo molto testarda, fosse il rimpianto. A quanto pareva lo era davvero, perché prima di anni di risentimento, di occhiate meschine e un velo di gelosia, c’era stato il più grande rimpianto di non avergli parlato.
Giusto un attimo prima di sentire quel tanto atteso e ben più spaventoso niente, un paio d’occhi grigi lo guardarono bagnati.
Quando Regulus raggiunse il fondo del lago degli Inferi sorrideva quasi.
Un’ultima goccia si unì alla grotta, satura di mille altre eppure mai sazia.
Sul volto immerso nell’acqua scura si era aggiunta una lacrima.


 

 


Note di El: Ue ciaaaaaao!
Vabbé, capitolo astronomico (non nel senso che è bello, nel senso che c'è l'astronomia). Penso che questa cosa sia spiegare: la costellazione del Leone è quella in cui c'è Regolo, in inglese Regulus, in Harry Potter Regulus Black. Wow, mitico. Quindi è questa cosa che dà il nome al capitolo, considerando anche il suo coraggio, capi, il coraggio di un leone... Vabbè, taccio prima che la cosa smetta di avere senso.

Può capitare che Sirio e la luna si avvicinino, cioè, non davvero, nel senso che appaiono vicine dalla terra. Mo' che è successa questa cosa della Torre di Astronomia è la fine, sappiatelo, è la fine, non dico altro. "Lo stregone dal cuore peloso" è una vera storia del mondo magico, "la storia del calderone delle anime" no, ma non ne avevano di inquietanti quindi ho dovuto fare la tipa creativa. Magari un giorno la scrivo davvero. Comunque le parole di Remus sulla paura dei dissennatori di James sono uguali a quelle che dice a Harry. Cioè, lo spero, perché non ho un terzo libro vero in italiano, quindi spero che sia una traduzione ufficiale. L'incubo è stato dare paure a ognuno, grazie mille, spero siano azzeccate. Questo è tutto, ah, non è vero, voglio troppo bene a James.
Okay, ora ho finito.
Volevo però prendermi sette secondi per ringraziare la leggera impennata di gente che ha iniziato a seguire questa storia <3 grazie mille, cari!
A domenica!
Adieu,

El.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Percorsi ***


5. Percorsi

 




Metà novembre, 1981
 
Solitudine.
Non c’era altro. La percepì ancor prima di aprire gli occhi, addirittura prima di riprendere conoscenza.
Nella stanza dalle assi di legno graffiate, un raggio di sole filtrava pigro attraverso le imposte.
Remus Lupin strizzò gli occhi e fece per voltarsi e continuare a dormire, quando una fitta all’altezza del fianco gli mozzò il fiato. Grugnì, di colpo all’erta, e una smorfia di un dolore pungente gli si dipinse in faccia. Corse con una mano a tenersi il fianco, in un istinto a proteggerlo e, lentamente, si costrinse ad aprire gli occhi.
La prima cosa che vide fu quella luce.
Continuava a farsi strada tra gli spifferi della finestra e si stendeva placida e più larga sulle assi di legno graffiate. Pulviscoli di polvere danzavano frizzanti nel suo raggio.
Remus batté gli occhi e si guardò intorno, disorientato.
Erano anni che non soffriva tanto dopo una trasformazione e si chiese perché i suoi amici l’avessero lasciato solo per la prima volta.
In uno scomparto nascosto e segretissimo del suo animo una vocina non aveva fatto altro che ripetergli, sin da quando li aveva incontrati, che prima o poi sarebbe successo. Anche se James si era mostrato aperto e disponibile, anche se lui, forse più di tutti, aveva sempre visto la sua condizione come qualcosa di vagamente simile a un pregio. 
Annusò l’aria e non captò nessuno dei loro odori.
Poi una consapevolezza, più amara e dolorosa dell’abbandono, lo spiazzò con la forza della realizzazione: James Potter era morto, Peter Minus pure e Sirius Black era da qualche parte, a metà tra un tribunale e una condanna a vita ad Azkaban.
Un dolore mille volte più angosciante della fitta al fianco lo colpì al petto e una disperazione incomunicabile gli attraversò lo stomaco, quando si alzò a sedere. Gridò per la frustrazione, perché sapeva che nessuno poteva sentirlo. Gridò fortissimo, con voce raschiata e spezzata per gli ululati inumani della notte precedente e si costrinse a piangere, perché poteva permetterselo e perché sperava che lasciar uscire qualcosa, qualunque cosa, l’avrebbe fatto sentire un po’ meno sopraffatto.
Si guardò di nuovo attorno, il raggio di sole continuava a stendersi imperturbabile sulle assi di legno graffiate dalle unghie del lupo.
Davanti a lui non c’era nessuno. I suoi genitori erano morti, come la maggior parte dei suoi amici, ma credette di impazzire quando il pensiero gli cadde su Sirius.
Sirius che ogni mattina di luna piena, negli ultimi sei anni, anche con la guerra e gli spostamenti segreti, aveva sempre fatto in modo di esserci. Se lo immaginò davanti, la testa inclinata su un lato e lo sguardo divertito a dire qualcosa di estremamente stupido, come ‘buongiorno, stasera ci sentivamo selvaggi’ e che non mancava mai di farlo sorridere, anche debolmente.
Si sentì il fiato mancare, quando ricordò cosa aveva fatto.
La notte di Halloween del 1981, Sirius non aveva tradito solo il suo migliore amico: li aveva distrutti tutti.
Remus si piegò su un lato e vomitò sulle assi di legno graffiate.
 
***
 
“È praticamente invisibile!” Lupin si alzò di scatto dalla panca per seguire meglio l’azione. Gli occhi saettavano alla velocità vertiginosa di James Potter.
L’ombra di un sorriso passò invisibile sulle labbra di Sirius. “Attento, stai sbavando.”
Remus si voltò per un attimo verso di lui, assottigliò lo sguardo e scosse la testa. “È bravissimo, solo che non posso dirglielo, altrimenti si gonfia d’ego e vola via.”
“E tu negli ultimi due anni hai imparato tutto sul quidditch?” si unì Peter, l’ironia era palpabile anche nella sua voce.
Remus alzò gli occhi al cielo, ma non ebbe modo di rispondere, perché, proprio in quel momento, il cronista gridò esaltato. La pluffa era entrata pulita nell’anello avversario!
James Potter teneva un pugno guantato in alto e un sorriso beffardo gli inondava il viso, mentre si godeva l’esultanza della sua casa.
Remus, in effetti, diede proprio un bel contributo a quell’esultanza, perché gridò a squarciagola, se possibile alzandosi in piedi ancora di più e facendo scoppiare a ridere Peter e Sirius. Oh, più tardi gliel’avrebbe fatta pagare!
Quando tornò a sedersi, con la naturalezza di chi non si era appena fatto venire un quasi-infarto, Sirius gli poggiò una mano su una spalla. “Va tutto bene? Ehi, Remus, a noi puoi dirlo.”
Era poco credibile, davvero, perché il suo sorriso si era affilato e la presa in giro nel tono scalpitava incontrollabile per liberarsi. Remus gli rivolse una veloce occhiataccia, poi tornò a concentrarsi sul gioco. Il principio di un sorriso gli incurvò le labbra. “Sono solo solidale,” ribatté distrattamente, sperando con tutto se stesso che Sirius si desse una mossa a lasciarlo in pace e a concentrarsi anche lui sulla partita.
“Non sei solidale: sei impazzito,” ribatté lui, congiungendo le mani dietro la testa e stravaccandosi con la schiena sul sediolino, correndo anche lui con gli occhi a seguire la pluffa, ma non facendone parola con nessuno.
Non passò molto prima che altri dieci punti fossero assegnati a Grifondoro.
Sirius vide Remus fremere, accanto a lui, pronto a scattare per l’ennesima volta, gli occhi disumanamente brillanti che saltavano da una parte all’altra del campo, totalmente rapiti. Giurò di averlo sentito imprecare in un urlo liberatorio, quando, poco tempo dopo, il Cercatore della loro casa conquistò il boccino, ma non ne fu propriamente sicuro, perché a quel punto gridava anche lui e gli spalti in cui erano stipati esplosero in un boato esaltato.
La partita contro i Tassorosso si concluse con una vittoria schiacciante dei Grifondoro.
James non era un Cercatore, ma, dopo aver esultato con i suoi compagni, volò per il campo come se gli fosse appartenuto e Sirius gli mandò un bacino, soffiando su una mano, quando passò davanti a loro. James finse di afferrarlo al volo e se lo stampò su una guancia, alzando un sopracciglio e leccandosi platealmente le labbra.
Da qualche parte qualcuna sospirò sognante.
 
***
 
“Signor vincitore, in arrivo il suo premio!”
Nella sala comune dei Grifondoro, dove nessuno si era precluso la possibilità dei sani festeggiamenti che seguivano sempre una vittoria, Sirius alzò un braccio per cingere le spalle del suo migliore amico e si accasciò contro il suo fianco. La burrobirra che reggeva rischiò di colargli addosso, ma non successe, perché Sirius si affrettò a infilare il bordo del boccale in bocca al suo amico, inondandogli la faccia e le guance di schiuma. James rise e tossicchiò, spostandoselo di dosso.
Sirius scrollò le spalle e inclinò il boccale nella sua direzione, prendendo un sorso generoso di burrobirra a sua volta.
Proprio in quel momento Remus e Peter riuscirono a farsi strada attraverso un gruppo di Grifondoro e raggiunsero i loro amici.
Un sorriso enorme spuntò sulla faccia di Peter. “Perché si comporta così?”
“Non lo so, è impazzito,” James si arruffò i capelli e, quando Sirius alzò veloce le sopracciglia, ironico, gli lanciò un’occhiataccia con un retrogusto un po’ divertito.
Remus aggrottò la fronte. “Chi glielo dice che la quantità di alcol in quella cosa è pressoché inesistente?”
Peter e James scrollarono le spalle e Sirius abbassò il boccale e si ripulì la bocca con il dorso della mano. “Non ho mai detto di essere ubriaco,” si difese, porgendo la burrobirra anche a Remus, che declinò con un gesto della mano. Peter, invece, accettò la bevanda di buon grado.
“Scusami,” James prese Sirius per una spalla e lo costrinse a mettersi di fronte a lui, poi lo squadrò da capo a piedi, “ma come ti sei vestito?”
Sirius abbassò lo sguardo su di sé. Ecco come si era vestito: indossava ancora i pantaloni della divisa scolastica, ma al posto della camicia anonima portava una di quelle sgargianti camicie di lino a fantasia floreale che si dovevano portare tanto in America ed era, a detta sua, un autentico tocco di classe. “Un affare, James, l’ho presa appena fuori King’s Cross, non è bellissima?”
I ragazzi si scambiarono uno sguardo veloce, poi Remus si voltò verso Sirius con un sospiro, dalla faccia sembrava quasi che gli dispiacesse dover dire la verità. “È terribile.”
Sirius aggrottò la fronte, e poggiò drammatico una mano sul petto, ferito. “Tu non capisci niente.”
“No, è orrenda davvero,” James trattenne una risata in uno sbuffo e sorrise a Remus, in un plateale sguardo d’intesa.
Sirius aprì la bocca sconcertato dalla gravità dell’affronto. “Pete?” Si voltò verso di lui di scatto, negli occhi una pretesa di sostegno.
Peter prese un po’ troppo seriamente quella chiamata in causa, perché sobbalzò e scrollò sconsolato la testa. Per poco non rovesciò la burrobirra. “Non è il tuo migliore acquisto.”
“Questa roba va di moda tra i babbani, avete ancora tanto da imparare,” decretò Sirius, alzando entrambe le sopracciglia a mo’ di imprenditore e sorridendo sicuro. Remus doveva ammettere che, sebbene quella camicia fosse, altro che un autentico tocco di classe, un autentico pugno nell’occhio, addosso a lui e al suo modo naturalmente disinvolto di muoversi risultava vagamente accettabile, in una maniera che aveva molto poco a che fare con la camicia e virava più sul carisma.
Lo osservò guardarsi attorno, scandagliare la sala e fermarsi con lo sguardo su una persona.
Sirius fece cenno a Marlene di raggiungerli e lei annuì in risposta, coinvolgendo Dorcas, Alice e Mary. Peter si affrettò a eliminare i residui di schiuma di burrobirra dalla sua bocca per rendersi quantomeno presentabile.
“Il secondo goal, James, è stato… da paura,” si complimentò Marlene, avvicinandosi con un sorriso smagliante e congratulandosi con James, il cui sorriso si allargò orgoglioso in una maniera che fece roteare gli occhi di Remus.
“Non lo dovevi dire,” sussurrò il ragazzo, passandosi rassegnato una mano sulla faccia.
Sirius lasciò scivolare un braccio sulle spalle di Marlene con la naturalezza di chi lasciava scivolare braccia sulle spalle delle ragazze ogni giorno e disse qualcosa sul fatto che James era sempre da paura, soprattutto appena sveglio. Lei rise e poi disse l’ultima delle cose che avrebbe dovuto dire, almeno a detta di Remus. “Ehi, la camicia ti sta benissimo!”
Sirius sgranò gli occhi e fissò i suoi amici negli occhi, uno ad uno, poi si voltò di nuovo verso Marlene. “Grazie, continuo a ripeterlo, ma qui qualcuno non mi ascolta!”
Remus alzò gli occhi al cielo, perché fu verso di lui che Sirius si concentrò con lo sguardo, con aria accusatoria.
Solo in quel momento Remus notò che Lily se ne stava in un angolo, non troppo lontana dal gruppo che aveva seguito Marlene. Pensò che Sirius, James e il povero Peter sarebbero stati perfettamente in grado di gestire le ragazze da soli, quindi si allontanò per raggiungerla, congedandosi velocemente.
 

“Non ti unisci a loro?” Remus aveva il tono forzatamente rilassato di chi non era rilassato neanche un po’. Era comunque un passo avanti rispetto al riservato ragazzino dell’anno precedente che neanche ci provava. Forse il carisma dei suoi amici aveva finito per rimbalzare, a lungo andare, anche su di lui.
Lily si voltò. “E sentire Black e Potter gonfiarsi a vicenda? No, grazie, sto meglio qui.”
Remus rise genuino e Lily l’osservò per un attimo, vagamente sorpresa del fatto che non si fosse affrettato a difenderli o almeno a ribattere. Quando lo vide annuire consapevole e con un pizzico di rassegnazione, si stupì del tutto. “Non posso negarlo.”
Lily lo studiò per la prima volta da quando era entrata in quella scuola. Lui e Peter erano sempre e solo stati gli amici di Sirius e James. Sapeva che non erano come loro, ma non aveva mai preso in considerazione l’idea di approfondire la conoscenza di nessuno dei due. Non seppe bene perché, ma Remus le sembrò di colpo interessante.
La domanda che più premeva le uscì di bocca prima di poterci pensare un secondo di più e valutare l’idea che, forse, lo stava offendendo: “Posso chiederti che ci vedi in loro? Insomma, perché ci passi il tempo?”
Di nuovo, Remus non sembrò ferito, dispiaciuto né tantomeno offeso. Un luccichio incuriosito gli brillò negli occhi e Lily non poté fare a meno di lasciar scivolare lo sguardo da lì a una lunga cicatrice che gli percorreva lo zigomo diagonalmente. “Non sono così male come credi,” rispose semplicemente, scrollando le spalle.
Lily si sentì un po’ in difetto. 
Si era sempre proclamata la prima degli indifferenti, nei riguardi di James, Sirius, Peter e Remus, una di quelle persone che aveva bellamente ignorato i commenti che passavano ormai di bocca in bocca su di loro, una delle poche, addirittura, che non si era mai interessata alla vita sentimentale di James Potter e Sirius Black, cosa che ultimamente pareva andare di moda; però in quel momento iniziò a credere che, più che incurante, era stata semplicemente categorica. E forse anche un po’ ottusa.
La leggerezza con cui Remus l’aveva messa davanti al suo pregiudizio la colpì con più chiarezza di quanto potessero fare Sirius e James con mille delle loro scenate plateali. Lo guardò esitando, perché quel ragazzo le dava l’impressione di avere una certa inclinazione ad essere sempre nel giusto. “Non devo credere, mi basta vedere.”
“Non vedi tutto,” continuò Remus, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo. Lily alzò un sopracciglio, scettica, ma lui continuò: “Ci sono sempre stati, anche quando le cose si sono messe male. So che ce l’hai con loro per la questione di Moccio…” Lily si voltò a guardarlo di scatto. “Piton, scusa,” un sorriso divertito gli incurvò le labbra anche dopo la correzione, “ma…”
“È il mio migliore amico, cosa dovrei pensare?”
Remus sembrò mordersi la lingua, come astenendosi dal sottolineare il numero di volte in cui Severus aveva contrattaccato, mostrandosi un po’ meno per il ragazzino innocente che Lily si ostinava a difendere. Alla fine si limitò a scrollare le spalle. “Non ho detto che ti devi innamorare di James e sposarlo,” puntualizzò, ironico. “Tu mi hai chiesto cosa ci vedo in loro, io ti ho risposto.”
Lily si acquietò. Remus non era della sua stessa idea su Piton, ma era la prima volta che qualcuno, parlando di lui, non cercava di dissuaderla dall’essergli amica. “Già, e una parte di me continua a non capirlo. Immagino quante volte avrai provato a fermarli per lo scherzo della fontana di fuochi d’artificio,” iniziò Lily, riferendosi a una delle loro ultime opere in ambito di scherzi distruttivi.
Remus rise e, con un colpo di reni, lasciò il muro a cui si era appoggiato. “Oh, neanche una volta,” ribatté, divertito dall’espressione confusa di Lily, “avresti dovuto vedere come gli è piaciuto quando l’ho proposto.”
Lily sgranò gli occhi. Passò solo un attimo, poi rise e scosse la testa. Non condivideva una virgola delle sue parole fino a quel momento, ma, in un certo modo contorto, Remus Lupin aveva appena guadagnato la sua stima. Solo perché l’aveva sorpresa.
 
***
 
“È carino, Mary, ma non m’interessa.”
Marlene era stesa sul suo letto e fissava il soffitto come se ci avesse voluto intrattenere una conversazione. Mary palesò il suo scetticismo con uno sbuffo ironico. “Sì, certo e lui è stato un sacco… fisico,” rincarò la dose, fissando uno sguardo sicuro su Marlene, nonostante lei guardasse ancora il soffitto.
“Secondo me stai esagerando,” ribatté Dorcas, che si era appena infilata sotto le coperte e aveva una gran voglia solo di dormire.
“Grazie!” disse soddisfatta Marlene, lasciando cadere drammaticamente le braccia sul materasso e alzando appena il busto per incontrare gli occhi di Dorcas e lanciarle un’occhiata colma di gratitudine.
“È anche vero, però,” continuò Dorcas, un sorriso divertito si faceva già strada sul volto stanco.
“Oh, no.”
“Che quando ti ha messo un braccio attorno alle spalle sei arrossita.”
“Ma non è vero!” si difese Marlene, questa volta alzandosi a sedere sul materasso, perché l’affronto l’aveva punta sul vivo.
“È un po’ vero,” si intromise Alice, sorridendole gentile e ridacchiando un po’, “avete anche ballato.”
“Va bene, ehi, Marlene?” Lily si alzò a sedere proprio sul finire dell’osservazione di Alice. Scosse la testa indignata, ma un sorriso divertito la tradì. “Ascolta me: no,” Lily mosse la testa molto lentamente a destra e a sinistra e Marlene aggrottò la fronte, cercando di non ridere. “Tutti, davvero, vanno bene tutti, ma non Black.”
“Allora Potter…” la provocò Mary, che già conosceva la risposta.
“Neanche lui!” la interruppe prevedibilmente Lily. “Sto ridendo, ma sono seria.”
Non ci fu molto da fare, perché tempo un secondo e tutte le ragazze scoppiarono a ridere. Lily mandò al diavolo quel briciolo di autocontrollo che la tratteneva e si unì alle risate.
 
***
 
“Taglia, veloce,” Sirius si guardò alle spalle all’erta, ma tutto, attorno a loro, sembrava tacere. Neanche il vento che rombava tra le mura esterne del castello si curò di far rumore, anzi, anche quando passava tra le campane, tutto ciò che rimbombava era il silenzio.
I ragazzi si strinsero nei mantelli: erano nella serra, al chiuso, ma il freddo pungente di novembre si insinuava tra le pieghe dei vestiti solo per far loro un dispetto.
Peter era sul punto di scoppiare. Certo, anche Sirius si guardava intorno con fare pratico e spiccio, ma Peter era assolutamente paralizzato dalla paura. Un conto era andare in giro a far scherzi e rischiare al massimo due settimane della peggiore detenzione… un altro conto era Azkaban. Per un attimo ammirò la leggerezza con cui James e Sirius stavano rubando le piante dalla serra.
In un impeto di coraggio, mosso da un intimo desiderio di non passare per l’inutile ragazzino che si appoggiava allo studio degli altri, Peter si chinò in avanti e afferrò la Mandragora per il tronco… o per il busto e cercò di imitare il tono più sicuro di Sirius che gli venne in mente, quando finalmente parlò. “Ma scusate, perché non prenderne una e portar…”
“NO!”
James si allungò sul tavolo delle Mandragore fino a stendervisi sopra e pose la mano su quella di Peter, spingendo verso il basso.
Un grido ovattato si diffuse come un’eco nel silenzio delle serre, ma erano fuori pericolo. La Mandragora era rientrata perfettamente nel terreno proprio un attimo prima del disastro.
Sirius incrociò le braccia al petto e sospirò. “Secondo anno, Pete, le Mandragore gridano se dissotterrate e da adulte possono anche ucciderti.”
Sirius che diceva qualcosa di effettivamente utile, di solito, era un evento più unico che raro, ma aveva usato un tono seccato e tagliente, che faceva sembrare quella frase, più che una lezione, un’osservazione acida.
“Tranquillo, per fortuna non è successo niente,” James si ripulì del terriccio che aveva raccolto stendendosi sul tavolo e rivolse un sorriso autentico a Peter. “E tu preparati, perché sei il primo a banchettare,” aggiunse, questa volta rivolgendosi a Sirius.
“Che? Perché io?”
Sirius non ebbe molto tempo per parlare, perché James recise una foglia dal ramo della Mandragora che Peter aveva afferrato, sussurrò sottovoce un incantesimo che potesse pulirla e gliela cacciò in mano senza troppe cerimonie. Poi si affrettò a fare lo stesso per se stesso e per Peter, ma senza tutta quella irruenza.
I tre ragazzi si presero un attimo per osservare la foglia in silenzio. Non si guardarono, non parlarono, trattennero il fiato, probabilmente. Sirius fu il primo ad alzare lo sguardo sugli altri, sospirando per attirare la loro attenzione.
James e Peter recepirono il messaggio e si scambiarono un’occhiata tesa. La luce del tramonto filtrava attraverso i vetri oscurati della serra, risultando più verdina che arancione.
“Un mese?” domandò Peter, più per incredulità che per conferma. I due ragazzi annuirono in silenzio e alzarono la foglia all’altezza della bocca.
“Per Remus,” annunciò James; negli occhi gli brillò una luce totalmente nuova che aveva più il riflesso della determinazione. Peter e Sirius annuirono, influenzati da quelle parole e improvvisamente più decisi.
James annuì a sua volta e fu il primo ad agire. Spiegò la foglia davanti ai suoi occhi e se la cacciò in bocca, facendola aderire alla parte interna della guancia, poi impugnò nuovamente la bacchetta e pronunciò un incantesimo di adesione biascicato: aveva ancora la bocca aperta.
Sirius avrebbe riso di lui, se non fosse stato troppo occupato a reprimere un conato di vomito. Peter, invece, ci mise un attimo.
“Okay.”
Dopo qualche attimo di assestamento, James batté piano con la lingua contro la guancia, per assicurarsi che la foglia avesse aderito, poi guardò i suoi amici annuire. “L’avete attaccata?”
“Sì,” disse Peter, con la faccia grigia.
Sirius, invece, aggrottò le sopracciglia confuso. “Attaccata?”
“No, sai che ti dico? Lasciala così, magari ti ci soffochi nel sonno.”
Sirius lo guardò contrariato, le sopracciglia scure ancora aggrottate, ma non più per la confusione. James sospirò e si avvicinò puntandogli contro la bacchetta. “Ehi, ehi, che vuoi fare? Giù le mani, Potter,” Sirius indietreggiò buffamente, colpendo con i piedi qualche secchio di latta impilato, che cadde con un fracasso micidiale.
“Te la voglio attaccare, idiota, apri la bocca.”
“James, non so dove te la sei messa quella bacchetta!” Sirius, ora spalle al muro, alzò entrambe le mani per difendersi.
“Oh, ti faccio vedere dove te la infilo se non la pianti.”
“La Mandragora?” scherzò Peter, che si sentiva più leggero per non essere quello che stava dando problemi.
“Bella questa, Pete,” Sirius rise nervoso, occhieggiando il ragazzino con una vena di terrore negli occhi, “James, hai sentito la battuta di Peter?”
“Apri e smettila di parlare,” il tono di James sarebbe stato parecchio perentorio se solo non avesse avuto quello sguardo minaccioso da una parte e una risata a fior di labbra che scalpitava per uscire dall’altra.
Sirius si arrese e aprì la bocca riluttante, alzò la lingua contro il palato e scoprì la zona appena dietro i denti, poi guardò Peter negli occhi, cercando un appiglio alla realtà. Peccato che il ragazzo si tenesse la pancia dal ridere.
Dopo qualche secondo Sirius cercò di dire qualcosa, ma la lingua bloccata sul palato non si rivelò utile al dialogo, quindi James e Peter non capirono altro che una serie di versi. Sirius si spazientì e roteò gli occhi.
“Hai chiesto se ho fatto?”
James non dovette aspettare molto perché lui annuisse energico.
“Ah, sì, da un bel po’, ma facevi ridere così.”
Sirius chiuse la bocca di scatto, facendo schioccare i denti, e lo guardò male. “Sai, secondo me la tua forma da Animagus sarà una iena,” considerò, mentre, silenziosi come non lo erano stati per tutto il resto del tempo, i tre iniziarono a dirigersi di nuovo al castello.
“Dici? Secondo me più qualcosa di imponente e maestoso, come un leone.”
Peter, alle loro spalle, rise di gusto. “O una puzzola.”
“E se qualcuno di noi fosse un elefante?” domandò Sirius, concentrandosi momentaneamente sui reali risvolti inaspettati che avrebbe potuto prendere la faccenda.
“Con la quantità di fastidio che dai e la grandezza del tuo cervello, il massimo che ci possiamo aspettare da te è una zanzara,” dichiarò James.
“Oggi hai preso il posto di Remus in fatto di sarcasmo?”
“Qualcuno si deve sporcare le mani,” James fece spallucce e si accinse a oltrepassare la soglia del passaggio che li avrebbe condotti alle porte della Sala Grande.
“Noto quanto ti pesa.”
Risero insieme e tornarono alla luce artificiale delle fiaccole disposte lungo le pareti.
Il sapore amaro della foglia aveva portato un po’ di nervosismo nell’animo dei ragazzi. Il processo era ancora del tutto reversibile, bastava sputarla, in fin dei conti, ma passare l’intera estate a prepararsi, a progettare e pianificare, soprattutto all’insaputa di Remus, era sembrato un gioco per tutti e tre. Tenere in bocca quella foglia di Mandragora per un mese, invece, aveva messo in moto l’intera procedura e la cosa sembrava improvvisamente un po’ più concreta.
C’erano un milione di cose che sarebbero potute andare storte nel processo per diventare Animagi; dal rischio di una forma ibrida alla perdita della ragione, fino ad arrivare a storie terrificanti di persone che avevano passato le ultime ore della loro vita a ululare dal dolore per un arto rimasto invariato o per un organo mutato e permanentemente compromesso.
Per non parlare delle implicazioni legali della faccenda: sarebbero stati destinati a non poterne fare parola con nessuno, perché registrarsi era fuori discussione e un viaggio ad Azkaban era l’ultimo dei sogni dei ragazzi, soprattutto di James.
Stranamente, però, proprio lui sembrava il più tranquillo.
Non importava cosa comportasse, quando James voleva qualcosa non c’era verso di levargliela dalla testa. Avrebbe lottato fino alla morte per la più stupida delle idee, per la più irraggiungibile, ammesso che lui la ritenesse nobile. Era testardo fino allo sfinimento, ma nessuno era mai morto per estrema caparbietà o almeno non che Peter sapesse. In più era un tipo anche abbastanza convincente e, con un fomentatore di folle come Sirius al suo fianco, non c’era storia. Non c’era verso che Remus rimanesse solo a ogni trasformazione.
L’avevano deciso insieme, una sera piovosa di qualche mese prima.
Peter, invece, si sentì utile e importante.
Era entrato in qualcosa che stentava ancora a credere di poter avere e, sebbene percepisse la paura appendersi alle ossa e rischiare di tirarlo giù, una parte di lui era grata, perché quella era la prova che fosse davvero uno di loro, l’ultima di una serie di conferme che sentiva di dover avere continuamente. Fare qualcosa di bello per qualcuno era una sensazione impagabile e Peter lasciò che questa nascondesse come sotto un tappeto la paura folle di morire o di essere incarcerati, perché era nelle mani di Sirius e James e loro erano fenomenali.
 
***
 
Spero che quando leggerai queste parole sarà tutto finito. Spero che riuscirai a provare sollievo, in qualche modo. Lo spero per te, dico davvero. 
Perché certe cose, anche se ti spezzano l’anima, finiscono in qualche modo per avere una loro funzionalità.
Sono sicuro che avrai appreso i più importanti valori che un essere umano possa seguire e rispettare. C’è chi li comprende solo in punto di morte, ma, vedi, sono pochi quelli che ci riescono in tempo per farsi cambiare.
Io provo un enorme rispetto per quelle persone, lo so perché ho avuto la possibilità di conoscerne qualcuna e mi sono reso conto solo nel punto di morte di un altro che c’era qualcosa di più, oltre alla vista oltre il mio naso.
Spero che lo capirò appieno anch’io quando arriverà il momento, perché non ci sono riuscito quando ero in tempo per cambiare.
Spero con tutto me stesso che, quando leggerai queste parole, ti potrai rendere conto che hai in mano un tesoro, anche se sei circondato da vetri rotti.
Ti chiedo espressamente di non mollare, anche se sei stanco, perché mi fido ciecamente di te e ne ho conosciuto solo un altro col tuo fegato. Altri due, a dire il vero. Mi è sembrato assurdo vedere che c’era rimasto ancora qualcuno con certe qualità, ma loro erano lì, davanti a me, a dimostrarmelo sempre. 
Spero soprattutto che tu non ne abbia già pianti troppi.
E prego, anche dalla terra, che tu non abbia rimpianti.
 



 
Note di Elveloci. Allora volevo solo dire che la scena in cui le ragazze parlano di Marlene e Sirius non vuole accusare nessuna ragazza di essere frivola e leggera nei suoi discorsi. Anche perché i discrosi dei malandrini non mi paiono neanche questo grande pozzo di scienza, quindi, ecco, volevo mettere in chiaro le cose. So che questo capitolo è un po' "sì, ma, boh, perché siamo qui?" solo che senza almeno due di queste cose non si poteva andare avanti, quindi ecco, era anche necessario. Sono una fan sfegatata di Remus che sclera alle partite di James. Non mi chiedete perché, ma è una cosa che non vedo mai nelle fic e mi dispiace, quindi mi sentivo in dovere di contribuire. La mia anima scientifica si sente in dovere di comunicarvi che la "zona dietro i denti" si chiama pavimento orale, ma sarebbe stato ridicolo da scrivere così, però era giusto chiamare le cose col loro nome. INOLTRE, i passaggi per diventare Animagus seguono una guida ufficiale e spero con tutta me stessa che si capiranno bene man mano. La parte finale dovrebbe rendervi chiaro cosa sono queste sporadiche cose in corsivo ;)
Scusate il ritardo e grazie AAAAA tantissimo di aver letto.
A domenica!
Adieu,

El.

   

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Come gocce di pioggia ***


TW: violenza(?)



6. Come gocce di pioggia




31 agosto, 1971
 
“SILENZIO!”
La voce della donna tuonò tra le pareti soffocanti e scure che iniziavano già a stringersi a formare il corridoio.
Sirius, poco più che undicenne, si appellò a tutta la sua forza di volontà per alzare gli occhi su di lei. La donna ricambiò con uno sguardo deciso e che non ammetteva repliche.
Sirius, però, fece l’errore di prendersela con la forza, una replica. “Ho solo detto che non puoi saperlo,” disse, scrollando le spalle, come se non si trattasse della Nobile e Antichissima Casata Black, ma di scegliere tra un calzino nero e uno bianco.
Lanciò un veloce sguardo di lato: Regulus era appoggiato al muro. Tentava di apparire il più disinvolto possibile, ma detestava quelle volte in cui sua madre lo costringeva ad assistere alle ramanzine che propinava al fratello, glielo leggeva in faccia. Lei la pubblicizzava come la migliore forma di educazione, ma Sirius sospettava che avesse più a che fare con una sottile e sottintesa minaccia che suonava tanto come, ‘se ti azzardi a comportarti anche tu così, ecco cosa ti aspetta’.
Sirius la trovava la cosa più stupida sulla faccia della Terra: Regulus non avrebbe mai mosso un passo falso. Era semplicemente ovvio. 
Quello sguardo, occhi negli occhi, durò un attimo soltanto.
Sirius tornò a guardare sua madre, questa volta una scintilla di sfida gli ardeva negli occhi altrimenti disinteressati. In quel momento, seppe di averla fatta scattare.
Walburga Black raggiunse il figlio con un paio di falcate e Sirius, in una frazione di secondo, scosse la testa quasi divertito, quando vide il fratello sussultare.
La donna afferrò il figlio per il colletto della camicia stirata, che lui aveva alzato come poco si conveniva per un nobile, e lo costrinse, in punta di piedi, a fronteggiarla. Un lampo di timore vagò il tempo della sorpresa nello sguardo di Sirius, poi si spense di nuovo per far posto alla faccia tosta che aveva meticolosamente affinato negli anni.
“Tu varcherai la soglia di quella scuola portando alto il tuo cognome,” spiegò Walburga, gli occhi iniettati di furia e minaccia, “e, quando la varcherai un’ultima volta,” il tono della donna si abbassava di secondo in secondo, “lo farai come Caposcuola della casa dei Serpeverde. Allora, e solo allora, sarai pronto a ereditare questa casa.”
Sirius alzò gli occhi al cielo e sbuffò divertito. “Poi,” continuò per lei, mantenendo il tono cantilenante della madre, “sposerò una donna purosangue, che faccia parte delle ventotto famiglie sacre, forse… Bellatrix, che dici? A quel punto mi comprerò un bulldog francese a cui lasciare l’immensa e doratissima ricchezza della Nobile e Antichissima…”
Sirius non ebbe il tempo di concludere la recita di quel progetto, perché Walburga lo lasciò andare con uno scatto e si allontanò da lui quel tanto che bastava per puntargli contro la bacchetta.
Sirius la guardò disorientato per un attimo; sapeva di essersi spinto più in là delle altre volte, ma sua madre era sempre stata incline alle punizioni ‘alla babbana’, che non prevedevano incantesimi.
Spostò lo sguardo veloce su Regulus, vergognandosi, solo per un attimo, di quanto dovesse sembrare supplichevole.
“Stai attento, sai che non ti conviene provocarmi.”
E Sirius sapeva bene che non gli conveniva, ma presto sarebbe andato a Hogwarts, avrebbe passato la maggior parte dellʼanno lontano da quella casa enorme ma asfissiante. Non riuscì proprio a evitare che la trepidazione scoppiasse in una risata derisoria.
“Dai, avanti, colpisci, capirai che...”
Stupeficium!” gridò la donna, con voce acuta e intrisa di sdegno.
E Sirius perse i sensi.
 
Non seppe bene quanto tempo fosse passato, quando schiuse un occhio e, ancora spossato, si ritrovò ancora il viso sfigurato dalla rabbia di sua madre, che lo fissava dall’alto. “Le case, a Hogwarts, sono quattro,” spiegò la donna, come se avesse voluto essere così gentile da impartirgli una lezione su come funzionavano le cose a scuola. Sirius si tastò la testa nel punto in cui pulsava furiosamente. Aveva ancora la vista annebbiata.
“Fa’ in modo di finire in quella giusta,” aggiunse infine, sferrando il vero attacco, “altrimenti saranno guai.” Walburga girò i tacchi e si diresse al piano superiore.
Regulus, invece, sembrò contare i secondi. Quando ritenne la conta soddisfacente, corse dal fratello e si inginocchiò sulle assi di legno lucidate della casata Black.
Sirius alzò una mano e la poggiò sulla spalla di Regulus: la usò per tirarsi su, ma nel mentre pronunciò fievole: “Sto bene, tranquillo, non ho bisogno di aiuto.”
Regulus inclinò la testa su un lato e aggrottò la fronte. “Perché fai così?” domandò, ignorando le proteste di suo fratello, mentre lo spingeva gentilmente verso la parete del corridoio, per farlo stare seduto.
“Perché cerco di farla ragionare, intendi?”
Regulus soffiò una risata appena abbozzata, ma non sembrava divertito, solo seccato dalle moine del fratello. “Perché la provochi, vorrai dire.”
Sirius scosse la testa e alzò gli occhi al cielo. “Io non c’entro niente qui,” esalò, tenendo ancora lo sguardo sul soffitto ed esaminando con falso interesse i ghirigori e gli intarsi. Non ebbe modo di vedere il fratello stringere le labbra, né di rendersi conto che, in qualche modo, stava ferendo anche lui.
“Già.”
Sirius riabbassò lo sguardo su Regulus, un luccichio divertito gli balenò negli occhi. “Ehi, ti va se faccio di nuovo quella cosa?”
Un nuovo sorriso piegò le labbra del ragazzino, ma non raggiunse gli occhi. Annuì, però, accennando col capo al parquet, come a dire che era pronto a vederlo procedere.
Sirius mosse una mano in avanti e piccoli fiocchi di neve caddero a cascata sulle assi di legno della casata Black.
Regulus e Sirius sorrisero all’unisono, fissando gli occhi sul ghiaccio che fluttuava.
Un velo di tristezza, però, si era posato sulle iridi gemelle.
 
***
 
Pssst,” James Potter, con una capigliatura interessante che vedeva metà dei suoi capelli appiccicati alla testa e l’altra metà più incasinata del solito, non riuscì del tutto a sussurrare quel richiamo, risultando curiosamente incoerente. Gli occhi scuri e divertiti brillavano da dietro le lenti quadrate degli occhiali che aveva messo di fretta sul naso e che pendevano sul lato destro. “Sirius, ehi.”
Un grugnito stanco si liberò da sotto le coperte. Ma non da quelle del letto di Sirius, bensì di Remus. “Che vuoi, James?”
“Remus Lupin!” tuonò il ragazzo, allargando le gambe come uno schermidore e alzando una mano su un fianco in una maniera che lo faceva apparire piuttosto buffo. La bacchetta puntava dritta dritta al naso dell’amico. “Oggi è tempo di duellare,” aggiunse, il che rese chiaro, agli occhi ancora annebbiati dal sonno di Remus, il perché di tanto entusiasmo. “Forza, attacca!” lo esortò, riuscendo solo a guadagnare un ennesimo grugnito da parte di Remus, che si voltò a dargli le spalle, totalmente incurante della bacchetta che gli veniva ancora puntata contro.
James alzò gli occhi al cielo e, frustrato, mosse la mano armata in direzione del letto di Peter. Con un colpetto veloce della bacchetta gli tirò le coperte di dosso.
“Avanti, Pete, è il grande giorno.”
“Vaffanculo, James,” biascicò l’altro, risollevando il piumino fin sopra alla testa, più deciso che mai a continuare a dormire.
James si preoccupò di richiamare a sé tutto il suo coraggio Grifondoro, quando alzò una mano sulla testa di Sirius, che non sembrava essere rimasto particolarmente colpito da tutto quel baccano. Sapeva che quello che stava per fare era proibito, vietato, inammissibile fra di loro, ma Sirius andava svegliato al più presto, perché James voleva duellare.
“Io eviterei,” Remus si alzò a sedere, sfregando una mano su un occhio, incapace di scrollarsi di dosso il sonno residuo. Ormai aveva capito che non c’era verso di guadagnare qualche minuto in più di sonno.
James scrollò la testa solenne e si strinse nelle spalle, perché quella era una questione importante e andava sbrigata al più presto. Così inspirò e Remus abbozzò un sorriso per la gravità che James stava deliberatamente dando a tutta quella situazione, poi si preparò a osservare la scena, perché sapeva che ci sarebbe stato da ridere.
“Ehi, Pete,” chiamò infatti, lanciandogli un cuscino e riuscendo a prenderlo in pieno sulla testa bionda. Il ragazzo si lamentò, ma continuò a dormire.
James non poteva aspettare un attimo di più: abbassò la mano sulla testa di Sirius e gli arruffò violentemente i capelli, spargendoglieli ovunque, anche nel naso.
Sirius sospirò, sembrava ancora troppo incosciente per arrabbiarsi. “James,” mormorò, muovendo una mano verso il cuscino, “scegli come vuoi morire,” sentenziò poi, con voce ancora impastata dal sonno e gli occhi chiusi. Dal tono sembrava che gli stesse chiedendo di abbracciarlo.
Remus e James risero e, per un attimo, non successe nulla.
Fu nell’attimo successivo che le cose presero una piega che i capelli di Sirius avevano perso ormai da qualche secondo.
Tolse la mano da sotto il cuscino e sfruttò il fatto che James gli fosse praticamente steso addosso per ribaltare le posizioni e sedersi sopra di lui. Pareva che Sirius avesse questa inutile abitudine a dormire con la bacchetta sotto il cuscino, perché era quella che aveva afferrato qualche minuto prima e che adesso gli puntava sulla faccia.
Il sonno sembrava aver già abbandonato i suoi occhi, che invece brillavano di rabbia e di un sadico divertimento. “Se c’è una cosa che mi dà fastidio…” iniziò il ragazzo, prima che James lo interrompesse.
“È esattamente per questo che l’ho fatto,” rispose, come se non si fosse trovato in posizione di svantaggio. A riprova della sua sfacciataggine, James afferrò il polso con cui Sirius reggeva la bacchetta e lottò per deviarla dalla sua faccia, perché era piuttosto sicuro che non avesse intenzione di limitarsi alle minacce. “È una cosa importante,” tentò di spiegarsi, “oggi ci sono i duelli.”
“Stai già perdendo il tuo, Potter,” Sirius si passò divertito la lingua sui denti, mentre continuava a lottare con James.
“La prossima volta che m’ignori te li taglio, Black,” ribatté il ragazzo, che se la stava proprio spassando.
“Tu provaci, te la faccio ingoiare,” gli tenne testa Sirius e batté la lingua contro la guancia un paio di volte, in una maniera per cui molte fanciulle avrebbero perso la testa, ma che a James fece capire in modo più che eloquente che si riferiva alla foglia che aveva dovuto tenere in bocca per svariati mesi. Rabbrividì e arricciò le labbra in una smorfia disgustata, fissandolo.
Expelliarmus,” disse semplicemente Remus, calmo e all’apparenza un po’ annoiato e Sirius vide la sua bacchetta compiere una parabola perfetta fino ad atterrare nella mano dell’amico.
“Ehi!”
Remus scrollò le spalle e ridacchiò.
“Grazie!” James si voltò felice nella sua direzione, “alla babbana?” domandò poi, ancora bloccato sotto il peso di Sirius.
Lui annuì e, senza esitare, i due iniziarono a lottare.
 
***
 
“Ci tengo che rispettiate le regole,” la voce cantilenante e cadenzata del professor Jigger rimbalzava tra le mura della grande classe di Difesa Contro le Arti Oscure. “Il duello non consiste in una barbara sfilza di incantesimi con cui attaccare il nemico,” continuò, ripetendo quelle parole senza la minima emozione nella voce, come se qualcuno l’avesse piazzato lì vent’anni prima e gli avesse detto di recitare quelle istruzioni da allora, “dovete essere scaltri e distinguere il momento della difesa da quello dell’attacco.”
Sirius sbuffò sonoramente, dal suo posto accanto a James. Se non fossero stati in piedi e tutti i banchi non fossero stati spostati di lato per consentire una lezione più dinamica, Sirius era sicuro che avrebbe passato metà del tempo a chiedersi se avessero intenzione di passare alla pratica.
“Vi è consentito usare qualunque incantesimo studiato finora, con alcuni divieti.”
James inspirò affranto e scambiò un veloce sguardo col suo migliore amico.
“Incantesimi che non rientrano nel programma del primo, del secondo e del terzo anno sono proibiti. Sono ammessi incantesimi che studieremo più avanti, nel corso dell’anno scolastico corrente, chi sono io per impedirvi di studiare di più?”
Qualcuno nella classe rise e Sirius pensò che avrebbe dovuto rivalutare il suo concetto di ironia. Quando notò che quel qualcuno era Lily Evans ne fu sicuro.
“Non potete appiccare incendi o attaccare il compagno avversario col fuoco, non potete interferire in altri combattimenti, non potete distruggere la classe in nessuna maniera e non potete evocare animali per attaccare.”
“Peccato, avevo proprio intenzione di evocare un lupo domestico,” scherzò Sirius e una parte consistente della classe ridacchiò. Quando Lily Evans alzò gli occhi al cielo, seccata, Sirius pensò che quella ragazza avesse bisogno d’aiuto. Tuttavia, solo altre tre persone in quella classe ebbero modo di cogliere il senso profondo della battuta. Remus ebbe una voglia matta di scambiare partner con James solo per fargliela pagare.
“Sono serio, signor Black,” Arsenius Jigger lo ammonì con lo sguardo.
“Lo sono anch’io, professore, di nome e di fatto.”
Altre risate si diffusero nell’aula e il professore decise di ignorarlo, perché conosceva bene le conseguenze di quelle discussioni: perdita di tempo e detenzioni.
“Iniziamo,” prese di nuovo parola Jigger, la voce già stanca per la noiosissima ora che lo attendeva, “posizionatevi di fronte al vostro compagno e ricordate di inchinarvi prima di dare inizio al duello.”
Un mormorio concitato si diffuse nell’aula. Peter lanciò un’occhiata preoccupata a Remus, chiedendosi se non fosse il caso di darsela a gambe. Il ragazzo, però, gli sorrise incoraggiante e si inchinò. Peter lo imitò in maniera un po’ goffa.
Everte Statim!
Come c’era da aspettarsi, James e Sirius non attesero neanche un attimo per cominciare. Nulla di ciò che aveva detto James violava le regole, ma nessuno avrebbe mai iniziato in maniera così violenta un duello amichevole. Il professor Jigger alzò gli occhi al cielo e comprese, suo malgrado, di dover tenere d’occhio quei due.
“Bastardo,” sibilò Sirius, muovendo la bacchetta davanti a sé e spedendo indietro l’incantesimo. James alzò una mano e mitigò il contrattacco. “Aqua Eructo,” sussurrò lui, che voleva evitare di dare tempo a James per capire cosa avesse in mente e cercò quindi di non farsi sentire.
Un cascata d’acqua si riversò su di lui, che, punto sul vivo, fu costretto a togliersi gli occhiali. Prima che Sirius avesse modo di sfruttare quello stallo per riversargli addosso una forma facilitata e ammessa di uno schiantesimo, James roteò la mano con cui reggeva la bacchetta alla cieca e sfruttò la gocce rimaste per rispedirgliele a mulinello.
Fu così che, dopo cinque minuti di duelli, Sirius e James erano già fradici.
“Hai freddo?” domandò James e Sirius scosse la testa e gli puntò contro la bacchetta, perché sapeva cosa stava per fare.
“Parla di meno e non rivelare le tue prossime mosse.”
Ventus,” chiamò James e, pur aspettandoselo, Sirius non riuscì a deviare il turbine d’aria che lo schiaffeggiò.
James mosse di nuovo la bacchetta, spedendo un’altra spirale di vento addosso al compagno. Sirius lo trovò un buon momento per testare la flessibilità delle regole del professor Jigger, perché questa volta si difese, scrollandosi di dosso l’aria molesta e spedendola ai lati.
La cosa ebbe chiaramente un effetto sugli altri duellanti. In particolare su Remus, che non riuscì a gestire la ventata e l’attacco di Peter insieme e cadde su un ginocchio. Fece un sorriso al suo avversario, però, perché a Peter brillavano un po’ gli occhi.
Expelliarmus!” e James si difese. Sirius riattaccò con lo stesso incantesimo, avvicinandosi a ogni attacco e dando all’amico solo la possibilità di difendersi nell’intervallo tra un tentativo di disarmo e un altro. James sorrise, ancora con la bacchetta in mano, perché era stato in grado di pararle tutte. I due si guardarono per un attimo, poi annuirono e attaccarono insieme. Dalla collisione di incantesimi volarono scintille, che si diffusero verso l’alto, scendendo a fontana.
Il professor Jigger sospirò pesantemente, battendosi una mano sulla fronte e ringraziando la sua buona stella per aver fatto in modo che quella lezione fosse stata organizzata in compresenza con i Tassorosso e non i Serpeverde. Poi si voltò nella direzione di James e Sirius e si decise a fermarli.
La lezione si concluse prevedibilmente con una cascata di scintille non necessarie, che il professor Jigger decretò troppo simili al fuoco, e due detenzioni.
 
***
 
“E poi si è messa a urlare, ma non c’era più molto che potesse fare,” Sirius scrollò le spalle e si riassestò la tracolla della borsa sulla spalla.
Erano di ritorno alla Torre di Grifondoro, dopo la lezione di Difesa Contro le Arti Oscure. 
Peter sgranò gli occhi, sconvolto. “L’hai fatto davvero?” Un misto di ammirazione e paura gli brillava nello sguardo e Remus, qualche passo dietro di loro, sospirò rassegnato.
Sirius annuì orgoglioso e gli occhi di Peter continuarono a crescere in volume.
“Hai attaccato poster di babbane in bikini sulle pareti della tua stanza?”
Sirius annuì ancora, un sorriso furbo che si allargava sulle sue labbra.
“Un incantesimo di adesione permanente sulle pareti della tua stanza?”
“Sì, Peter,” si intromise James, appoggiando un braccio sulle sue spalle e tirandolo a sé per arruffargli i capelli, “ora puoi smettere di sbavare.”
“Oh, no,” tubò ironico lui, “quello è un compito che lascio a Marlene McKinnon.”
L’espressione prima così fiera e rilassata di Sirius vacillò per un secondo, poi aggrottò la fronte e fissò lo sguardo su Peter, interrompendo la passeggiata per i corridoi per una lunga occhiataccia. “Che c’entra?”
“Dimmelo tu,” ribatté Peter, con una scrollata di spalle. “Secondo me le piaci.”
“E tu la incoraggi,” si unì Remus a dare man forte al suo amico e sorridendo furbo a Sirius. Il ragazzo si voltò verso di lui e scosse la testa, ma non ebbe mai modo di rispondere alla provocazione, perché James incappò in qualcosa che richiedeva la sua più completa attenzione. Ad essere più precisi, in qualcuno.
“Guarda chi si vede,” un autentico ghigno si dipinse sul volto di James. Sirius inclinò la testa su un lato e il sorriso che si formò sul suo, di volto, sembrava più ironico e strafottente. Peter conosceva quell’atmosfera e sapeva di doversi fare da parte, così raggiunse Remus e gli riservò un’occhiata consapevole.
Gli studenti che si trovarono a passare per quel corridoio gettarono sguardi fugaci alla situazione, qualcuno si fermò addirittura a guardare.
“Ragazzi,” tentò Lupin. Sapeva che era totalmente inutile, ma ogni volta ci provava. Non aveva mai avuto grandi problemi con le teste calde di James e Sirius. In primo luogo perché, anche se loro non ci facevano caso, aveva una presa sulla situazione molto più salda di quanto pensassero, soprattutto su Sirius e sui suoi scatti insani.
E poi, a essere onesti, andare in giro a fare scherzi e combinare guai era uno dei primari interessi anche di Remus. Il fatto che lo desse meno a vedere non significava in nessuna maniera che venisse trascinato o costretto a prendervi parte. E, per finire, non essere bersaglio di trucchi simpatici significava godere di quella lealtà e unione che esisteva solo tra loro quattro.
Insomma, Remus ci aveva pensato a lungo e si era reso conto che non si era semplicemente accontentato di loro perché l’avevano accettato o si erano avvicinati a lui in primo luogo: ci si trovava benissimo per davvero.
C’era solo un neo, in tutta quella situazione, ed era la loro divergenza di idee sui metodi che usavano contro Severus Piton. Quando si trattava di prendersela con l’intera casa Serpeverde gli andava più che bene. Li detestava, li trovava a dire il vero anche un po’ ridicoli e gli scherzi a loro sfavore risultavano sempre i più geniali e stimolanti, ma quando il bersaglio era solo Mocciosus le cose si complicavano.
Piton era insopportabile, su questo non c’era nulla da discutere, e non gli faceva così tanta pena da fargli venir voglia di prendere l’iniziativa e fermarli, ma erano i metodi a non piacergli affatto.
Peter sembrava solo ammirato dalla quantità diversa di incantesimi che testavano contro di lui.
Sirius aveva sempre seguito ciecamente James in quell’astio, perché per lui era un’evidente occasione per coalizzarsi col suo migliore amico e perché, ovviamente, era convinto che Piton fosse invidioso di loro. 
Ma i motivi di James non li aveva mai capiti fino in fondo, soprattutto con i suoi principi.
Sospirò rassegnato per l’ennesima volta in quei minuti, e notò ancora come le loro posture cambiassero sempre visibilmente in presenza di Piton.
“Ho sentito della detenzione, Potter, vi hanno affidato i bagni?”
Provocarli non fu una bella mossa. Era accompagnato da Mulciber e Avery, due compagni Serpeverde che indossavano un ghigno a testa e tanta voglia di mettere in pratica gli insegnamenti delle loro ultime lezioni passate a duellare.
“No, quello è il tuo habitat naturale, Mocciosus,” ringhiò Sirius, tra i denti. Il sorriso sfacciato sul suo volto si era solo affilato.
I cinque ragazzi avevano le banchette puntate tutte contro i loro avversari e i compagni nei corridoi attendevano col fiato sospeso che la tensione scoppiasse. Muoversi di lì era fuori discussione. Era come pestare un rametto in presenza di una creatura pericolosa. Remus ne sapeva qualcosa.
James e Sirius si scambiarono un’ultima occhiata complice, prima di agire.
Furono veloci in maniera impressionante.
Levicorpus!” gridò James e Sirius lanciò incantesimi alla rinfusa a Mulciber e Avery a una velocità che fece chiedere a entrambi se non stesse reggendo due bacchette.
La sorte peggiore toccò a Piton. Il ragazzo sgranò gli occhi sconvolto e non ebbe modo di replicare. Si trovò a penzolare a testa in giù nel bel mezzo del corridoio e la bacchetta gli cadde di mano.
Sirius si voltò di scatto verso James, aggrottando le sopracciglia e lanciando un’occhiata veloce a Piton. Mulciber e Avery rimasero ugualmente stupefatti.
“Quindi è questo che fa, Mocciosus. Ottima trovata, peccato che non sia più solo tuo.”
Piton si divincolò e ringhiò frustrato. James inclinò la testa su un lato e scrollò le spalle.
“Se vuoi scendere basta chiedere.”
“Potter, ti…”
La mano di James scattò verso l’alto. “Liberacorpus,” chiamò e Piton atterrò sul pavimento di pietra di Hogwarts con un tonfo.
Remus, che era rimasto a guardare la scena a braccia conserte, alzò lo sguardo su Sirius e, per un attimo, sperò che avesse trovato un po’ di senno.
Si sbagliò. 
Sirius fischiò con approvazione e alzò un angolo della bocca in un sorriso obliquo. “Fatti aiutare dai tuoi amici a rimetterti in piedi,” sibilò, accennando col capo al punto in cui Mulciber e Avery erano scomparsi, temendo di dover sperimentare sulla loro pelle un incantesimo di cui, chiaramente, non afferravano le coordinate.
James fece un cenno a Sirius e, insieme, si allontanarono verso la Torre di Grifondoro.
 
***
 
Peter stava sudando tutta l'acqua che aveva bevuto a cena.
Allineò la sua falena con l’apertura della fiala, poi strizzò gli occhi dal disgusto e la lasciò cadere. Un sonoro ploff gli annunciò che aveva fatto centro.
James, accanto a lui, diede una piccola scossa alla sua fiala e la osservò attraverso la luce fievole di una delle lanterne che illuminavano il corridoio.
Erano passati sei mesi da quando si erano appiccicati in bocca la foglia di mandragora ed erano sette giorni che si svegliavano all’alba per recarsi nella Foresta Proibita in cerca di rugiada da aggiungere alla pozione, protetti chiaramente dal mantello dell’invisibilità di James. La foglia sarebbe dovuta rimanere in ammollo solo per un mese, ma avevano avuto vari incidenti di percorso e, una volta, avevano dovuto addirittura ripetere la procedura, perché a quanto pareva nella fiala di James era entrata della rugiada che era stata toccata dal sole. La sua pozione aveva preso un colore blu intenso che non era in nessun modo previsto dalle istruzioni.
Avevano ricominciato tutti daccapo per pura solidarietà.
Finalmente, però, all’alba di maggio, quella lunga serie di rituali apparentemente privi di senso era finita e una stagione spoglia di acquazzoni era appena iniziata.
Grandioso.
L’aggiunta di una crisalide di sfinge di testa di morto alla fiala era l’ultimo essenziale ingrediente. L’accozzaglia di libri e informazioni che avevano messo insieme per oltre un anno, a quel punto, prevedeva la fase più complessa e aleatoria del processo e Peter non era sicuro che nascondersi in una classe del castello rendesse le cose più tranquille.
“Bene, previsioni del meteo dei prossimi mesi?” domandò Sirius, chinato su uno spigolo di un banco, perché era arrivato il turno della sua falena.
James lo squadrò per un attimo impensierito. “Mi spieghi perché devi fare tutte le cose delicate in bilico?” gli domandò, poi, con un sopracciglio inarcato e un sorriso sulle labbra.
Sirius si voltò verso di lui di scatto, sfiorando con il gomito la fiala in posizione precaria. Peter per poco non si mise a urlare. Sirius notò compiaciuto che lo scherzo era andato a segno e sorrise furbo, prima di tornare al suo compito.
“Bene,” esalò, dopo qualche attimo di concentrato posizionamento di falena. “Ora abbiamo un problema.”
James alzò una mano ad arruffarsi i capelli, in un silenzio concentrato.
“Un Oblivion?” propose Peter, stringendosi nelle spalle e aspettando un verdetto. James e Sirius sembrarono pensarci su.
Il problema di quella fase così delicata del processo per diventare Animagi era che questa fiala pareva andasse nascosta in un posto tranquillo e buio. A Hogwarts non era certo difficile trovare un luogo che rispondesse al criterio, ma il nodo era che, a quel punto, avrebbero dovuto aspettare il temporale successivo e, nell’attesa, non visitare in nessun modo il luogo in cui era stata nascosta la fiala. Oltre che trovare un posto per cui non sarebbero mai passati, neanche per caso, i ragazzi avrebbero avuto un incredibile e insormontabile impedimento: non avrebbero potuto neanche pensare alla fiala.
“Sarebbe anche una buona idea,” considerò James, riferendosi all’incantesimo di memoria che aveva proposto Peter.
“Il problema è che se io cancello la memoria a te e James la cancella a me, nessuno potrà più cancellarla a lui,” spiegò Sirius, che aveva lasciato la sua fiala ancora in bilico e aveva raggiunto i suoi amici, seduti a gambe incrociate sul pavimento. La luce tremolante del fuoco gli si rifletteva negli occhi in una maniera un po’ sinistra.
“E poi, anche se riuscissimo a trovare un modo per dimenticare temporaneamente la fiala, nessuno potrebbe annullare l’incantesimo e ce ne dimenticheremmo per sempre,” continuò James, che adesso aveva entrambe le mani nei capelli e i gomiti a terra, frustrato.
Seguì un silenzio snervante. Se Gazza fosse passato lì davanti, sarebbe probabilmente riuscito a sentire il ronzio dei loro cervelli che si spremevano come forsennati.
All’improvviso, senza alcun preavviso, Sirius mosse veloce la bacchetta verso un armadietto della stanza, evocando silenziosamente un pennarello blu. Peter e James alzarono uno sguardo interrogativo su di lui. Le sue labbra si piegarono in un sorriso furbo. “Facciamo scommesse?”
“Eh?”
“Non dobbiamo pensare alle nostre fiale, dico bene?”
James e Peter annuirono in contemporanea, ma un sorriso strano andava già espandendosi sul viso di James. Non aveva del tutto inteso dove volesse andare a parare Sirius, ma sembrava averlo capito intuitivamente al volo. Quella specie di connessione, ultimamente, non era una novità.
“Benissimo, se trovassimo un modo per non avere idea di com’è fatta la fiala non avremmo assolutamente modo di pensarla, ma riusciremmo comunque a mantenerne il ricordo.”
James annuì, iniziando ad afferrare sempre più velocemente e illuminandosi di secondo in secondo.
“Scommettiamo,” Sirius fece spallucce e porse il pennarello blu ai ragazzi.
“Non ti seguo, Sirius,” si intromise Peter, la fronte aggrottata per lo sforzo e la concentrazione.
“Vuole fare scommesse sulle nostre future forme da Animagus,” spiegò James, lanciando un’occhiata divertita a Sirius. “Se le scriviamo sulle fiale di un altro, saremo in grado di ricordare le nostre solo per com’erano prima che si riempissero di scritte.”
Peter comprese al volo. “E a quel punto chi l’ha manomessa andrà a nasconderla in un posto buio e tranquillo, come da manuale!” concluse il ragazzo.
James annuì, perché finalmente il loro piano era concluso, quando un pensiero stupido ma necessario gli attraversò la mente. “Passiamo la maggior parte del tempo insieme, ma se c’è qualche luogo in cui andate spesso che non conosciamo dovreste dirlo,” li avvertì e Peter si limitò a scrollare le spalle.
Per qualche attimo, nessuno parlò.
“Ehm, con me evitate la Torre di Astronomia,” disse Sirius, in un sussurro.
James inarcò un sopracciglio. “Perché?”
Sirius si limitò a scuotere la testa, come se assieme a una pozione stesse fabbricando anche un nuovo segreto. “Evitate,” comandò semplicemente e James si limitò a scrollare le spalle.
“Allora niente Torre di Astronomia per Romeo, con me evitate il dormitorio delle ragazze,” scherzò James, guadagnandosi un pennarello dietro la nuca da parte di Sirius.
“Bene, i termini della scommessa verranno redatti in seguito, scriviamo?”
La fiala di Peter andò nelle mani di James, la cui pozione, invece, finì suo malgrado in mano a Sirius, lasciando un’ultima coppia disponibile.
“Pete, stai attento, lì dentro ci sono la mia saliva e i miei capelli, qualcuno potrebbe clonarmi,” lo avvertì Sirius, quando gli consegnò la sua fiala.
“Credo che un solo Sirius sia abbastanza,” considerò Peter, accettando tra le mani la fiala che era stata più in bilico nella storia delle fiale. 
Dopo aver scribacchiato di fretta qualcosa sui vetri, i ragazzi intascarono il bottino e si guardarono per qualche attimo. “Ingegnatevi,” diede istruzioni James. “Se il luogo che avete in mente verrà aperto solo domani, non ditelo e basta. Fingete di andare a nasconderla.”
Sirius, James e Peter uscirono silenziosi dalla classe in cui si erano rintanati, si diedero un ultimo sguardo attorno e pregarono con tutto il cuore che Gazza non avesse intenzione di disturbarli durante la loro prima missione seria.
A un incrocio di corridoi si liberarono del mantello dell’invisibilità e presero tre direzioni diverse.
 
***
 
31 agosto, 1971
 
Regulus osservava con ammirazione le gocce di pioggia che cadevano silenziose sul marciapiede di Grimmauld Place. Si era rintanato nella sua stanza subito dopo cena e nessuno aveva mosso particolari obiezioni. Non aveva neanche avuto bisogno di parlare, a dire il vero, perché un’altra cena terribile era stata consumata in casa Black e Walburga si era limitata a sparecchiare con un gesto stizzito della bacchetta, invitando tutti a togliere il disturbo.
Sua madre aveva rivelato a Orion della lingua lunga di suo fratello di quel pomeriggio e Sirius non si era lasciato scappare l’occasione di dimostrare di nuovo… qualunque cosa ci tenesse tanto a dimostrare.
Regulus era particolarmente infastidito da quella sua innata voglia di provocare e, soprattutto, non ci vedeva alcuna ragione. Spesso trovava il suo modo di fare mille volte più snervante di quello che tanto denunciava. Non gli mancava niente, aveva letteralmente tutto e trovava comunque il modo di lamentarsi. Non lo capiva, quella continua negazione in fondo lo offendeva, colpiva anche lui e gli sembrava tutta una messa in scena, inventata di sana pianta per il gusto di andare contro ciò che gli veniva detto di fare, come se questo l’avesse potuto rendere più intelligente.
Eppure, quando erano soli, Regulus ci cascava sempre. Suo fratello aveva un’innata tendenza a farsi voler bene, quando decideva che qualcuno gli andasse a genio e la lealtà che ne seguiva costringeva spesso Regulus a perdonargli tutto, anche le non troppo velate ammissioni sull’odio che provava su qualunque cosa appartenesse alle quattro, immense mura del numero 12 di Grimmauld Place.
Peccato che a quelle quattro, immense mura appartenesse anche lui! 
Una sonora bussata alla porta lo costrinse a distogliere lo sguardo dalla finestra appannata, dove alcune gocce di pioggia si erano attardate su un percorso che si divertiva a indovinare.
“Si può?” Sirius non attese una risposta per sgusciare nella stanza del fratello. Regulus però aveva annuito. “Non si scappa così facilmente,” scherzò ancora, ma Regulus scrollò le spalle e tornò a osservare le gocce di pioggia che gareggiavano sul vetro.
“Sei arrabbiato con me, vero?” Sirius sorrideva consapevole, una traccia di ironia gli striava il tono, ma non lo rendeva spiacevole.
“Non hai fatto nulla di nuovo,” lo colpì velatamente Regulus, con un’ennesima scrollata di spalle incurante solo per un occhio non esperto.
Sirius si lasciò cadere sul letto del fratello e sospirò. “Ma sei arrabbiato con me.”
Regulus si voltò di scatto, negli occhi c’era riflessa con chiarezza tutta l’irritazione che negava. “Non aspetti altro che andartene. Finalmente potrai farlo. Sei felice, no?”
“Da morire.”
Regulus si lasciò scappare un suono a metà tra uno sbuffo e una risata. “Appunto.”
Sirius sembrò capire e ridacchiò, il che mise a dura prova i nervi di suo fratello. “Ascolta,” il ragazzino tornò serio e un velo di imbarazzo gli si posò sulle guance, “quando dico con tutta questa leggerezza che detesto questo posto e, soprattutto, quando lo dico a te,” specificò, abbassando il capo e alzando gli occhi su di lui, con un sorriso a metà, “lo faccio perchè ovviamente rientri nelle cose che non odio,” Regulus alzò uno sguardo sconcertato sul fratello, che intanto si era avvicinato a lui. “Non vedo l’ora che arrivi anche la tua lettera, così avremo un posto tutto per noi per essere felici,” concluse, portando una mano ad arruffargli i capelli.
Regulus si scrollò di dosso la mano del fratello e si lasciò scappare una risata.
Osservò il percorso curioso di due gocce che, a metà finestra, si incontrarono a fondersi in una.
“Quindi non vuoi abbandonarmi?”
Sirius rise sguaiato. Avrebbe fatto venire i brividi e altre cinque rughe alla madre, se l’avesse sentito. “Scordatelo. Sei mio fratello,” disse poi, dirigendosi verso la porta e facendo scattare il pomello per uscire. “Vado a preparare il baule per domani, perlustro la zona prima che arrivi anche tu,” promise, strizzandogli un occhio e richiudendosi la porta alle spalle.
Regulus rise tra sé, tornando con lo sguardo sul viale per godersi uno degli ultimi temporali estivi.
Proprio sul fondo della finestra, tra i riquadri in ferro battuto, giunsero in quel momento le gocce che si erano unite al centro. Regulus notò con sorpresa che a un certo punto si dovevano essere separate e aver preso percorsi diversi, perché si arrestarono ai due angoli opposti del suo davanzale, infrangendosi sul cemento.
Un brivido che non riuscì a spiegarsi gli percorse la schiena.






 

Note di El: Ciao, note rozze.
Il finale della prima scena è liberamente ispirato a due cose: frozen palesemente e questa fanart qui, ovviamente con ambientazioni e situazioni diverse perché ho realizzato dopo che mi stavo ispirando a qualcosa. Ok, basta. Salutate Jigger, che i professori di difesa contro le arti kttv cambiano ogni anno. Ciao, Jigger, sarà difficile sostituirti. Ah, e lo so che non si dovrebbero fare battute sul nome di Sirius in italiano, ma ragazzi, vi giuro che è capitata, non l'ho prevista. Sorry.
 Per i più curiosi, l'incantesimo per far muovere le cose a mulinello si chiama "Circumrota", potete andare a circumrotare tutti.
Ah, ultima cosa, la questione di levicorpus ha una spiegazione, datemi tempo.
Vabbbbè, detto ciò davvero grazie come al solito per aver letto <3
Adieu,


El.


 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 - Cera e ghiaccio ***


7. Cera e ghiaccio

 



Vigilia di natale, 1989
 
Peter Minus era stato speciale. I cinque minuti e trentadue del suo successo gli avevano affibbiato l’incredibilmente raro epiteto di Testurbante. Un evento unico, che per Peter si era tradotto in cinque minuti e trentadue di soggezione e sudore.
Il Testurbante indicava un mago il cui tempo di smistamento superava i cinque minuti. Il silenzio del cappello gli era sembrato il primo di una lunga serie di scherzi cattivi nei suoi confronti.
Si aspettava di finire nel mirino dei bulli, una volta a scuola, ma non certo dopo neanche unʼora da quando aveva messo piede lì.
Peter, negli anni, aveva pensato a lungo al motivo di quei cinque minuti, a cosa avesse lui, che era solo Peter, per aver dato tanto da pensare a quel povero cappello. All’inizio, quando era giovane e sotto l’influenza dei suoi amici sicuri, si portava dietro quella storia come una coccarda, perché gli aveva dato spessore e validità. Era stato complicato per cinque minuti e trentadue, meritevole di attenzione e di ragionamento. Era stato il centro del pensiero di qualcuno, anche se di un cappello.
Dopo dodici anni dalla fine della scuola, Peter aveva iniziato a vedere le cose in un’altra maniera. Si era chiesto se il cappello avesse passato quei cinque minuti e trentadue a chiedersi se ci fosse almeno una casa che facesse per lui e non ad arrovellarsi su quale delle sue capacità spiccasse tanto più delle altre da reclamare a sé il verdetto.
Peter, più che sentirsi tante cose, aveva iniziato a sentirsi nessuna.
“Percy, staccati da quel topo,” Fred glielo prese dalle mani con non troppo garbo, posandolo a terra, “inizi a diventare inquietante.”
“Si dà il caso che sia il mio topo,” Percy rifilò a suo fratello uno sguardo che solo un tredicenne minaccioso poteva padroneggiare.
“Chiedigli se gli va di trasformarsi in una bella signorina.” George, seduto al lato di Percy che non era occupato da Fred, mimò le labbra carnose di un’attraente fanciulla, “magari si vuole unire a noi per il Natale.”
Percy alzò gli occhi al cielo, alzandosi dal sofà foderato arancione per liberarsi dalle grinfie di quelle due palle al piede. Lasciò stare Crosta e si diresse alla tavola imbandita: il cenone della vigilia sarebbe stato un autentico mercato, come al solito.
Crosta colse l’occasione di potenziale solitudine per passare attraverso lo spiffero della finestra e fare un salto nei campi che accerchiavano la Tana.
Quando fu certo di essersi allontanato abbastanza da occhi indiscreti, si concesse una trasformazione.
Il sole tramontava placido e arancione dietro le colline, che già assumevano un tono caldo e scuro. Il fresco della sera in arrivo superava gli insufficienti strati dei suoi abiti logori e lo avvolgeva sereno, facendolo rabbrividire piacevolmente. Gli stessi vestiti che indossava quando, al banco dei pegni, aveva pagato cara la sua libertà.
Peter avvicinò le gambe al petto e poggiò la testa sulle ginocchia, continuando a fissare il sole.
Quando tornava ad assumere la sua forma umana, tutte le emozioni che aveva incamerato e processato in maniera blanda fino a quel momento lo invadevano a cascata, come atomi spinti improvvisamente a legarsi gli uni agli altri a rendersi molecole, più complessi, più incomprensibili.
Peter aggrottò la fronte e dondolò appena, nervoso.
Il sole era calmo, le risate divertite della famiglia Weasley gli giungevano all’orecchio ovattate e qualche corvo si attardava nel cielo cobalto, gracchiando in lontananza. Tutto era così sereno. Forse era esattamente quello, il problema, forse era la serenità a rendere più crudo il dolore, perché bruciava secco, come acqua su pietre incandescenti.
Peter continuò a fissare il sole, in attesa che lasciasse posto alla ben più nota notte. Era un uomo libero, sì, che era scappato dalla morte, certo, ma non era più nessuno. Era Crosta, forse, e a volte sperava di poterlo diventare completamente.
E il senso di colpa, il pentimento, quando tutto era finito, non si era certo dimenticato di entrare prepotente nella sua testa. Era uno spillo che gli trapassava il cranio, ma non gli permetteva di morire dissanguato.
Peter non voleva la morte, ma la redenzione, voleva tornare indietro o abbandonarsi al Signore Oscuro una volta per tutte e farla finita. Diventare suo, che era mille volte più facile, bisognava seguire la strada spianata e i cartelli che puntavano in direzione ‘paura’. Peter aveva un fiuto naturale per quel genere di sentieri.
James Potter era morto da otto anni e non c’era giorno che non pensasse a come avesse preso cinque vite a cui teneva e le avesse abbattute tutte, la sua per prima. Aveva contro di sé il mago in vita che più temeva, dietro quattro sbarre che lo separavano dall’inevitabile scoperta che era ancora vivo e i sostenitori più feroci dell’altro mago che più temeva; lui, però, era morto.
Se c’era qualcuno da cui sarebbe potuto tornare, suo malgrado, era proprio dal secondo, perché poteva essere riportato in vita e forse la gloria e la dimostrazione della sua immensa fedeltà avrebbero curato gli animi dubbiosi dei maghi che lo incolpavano.
Peter era un traditore in ogni mondo e il sole caldo e arancione era ormai prossimo a sparire.
Una sola lacrima amara cadde fino al palmo della sua mano, poi lasciò che Crosta attutisse tutto il dolore che un corpo umano grande e grosso non era in grado di contenere.
Quella sera Peter Minus passò i cinque minuti e trentadue più vuoti della sua storia, tornato a essere nessuno.
 
***
 
Il rumore curioso di uno stomaco che gorgogliava interruppe il silenzio della Sala Comune. Il ragazzo sgranò gli occhi scuri e si guardò attorno.
“Pete,” James alzò un sopracciglio ironico verso di lui, “hai davvero ancora fame?”
Lui si strinse nelle spalle, intingendo la piuma nell’inchiostro. “Ho lo stomaco vuoto,” si limitò a rispondere e Sirius sfruttò quella succulenta occasione per alzare la testa dal libro per un’occhiata ironica.
“Certo, Pete, in effetti è quello che succede a tutti venti minuti dopo aver cenato.”
James rise insieme a lui e Remus si premurò di lanciar loro un cuscino a testa addosso, giusto perché era riuscito a farli stare zitti a studiare nella stessa stanza per ben venti minuti e voleva mantenere quel record.
“Per piacere, sto studiando,” ribatté Sirius, alla muta e aggressiva presa di posizione del suo amico. James sbirciò sul suo libro e iniziò già a sghignazzare.
Sirius si schiarì la voce, con gli occhi puntati su un rigo particolarmente interessante de ‘Le Forze Oscure’. “La trasformazione mensile non può essere evitata in alcuna maniera,” iniziò e Remus inspirò affranto. Una parte di sé lo costrinse ad affrettarsi con lo sguardo nella Sala Comune, constatando con sollievo che non ospitava altri studenti oltre che loro. Sirius si poggiò con la testa sul bracciolo della poltrona di Lupin e continuò a leggere: “Avviene a ogni luna piena e il soggetto è portato ad attaccare indiscriminatamente chiunque gli capiti a tiro, parente o sconosciuto che sia.”
Remus si ritrovò, sorpreso, a sorridere del tono annoiato e perfettamente naturale con cui Sirius stava leggendo quelle parole. 
“Per fortuna sto studiando, altrimenti non ce lʼavrei proprio fatta a imparare queste stronzate,” mormorò e James e Peter scoppiarono a ridere. “I lupi mannari sono creature aggressive e maligne.”
“Oh, puoi dirlo forte,” confermò Remus, annuendo come se gli fosse capitato di avere a che fare con un lupo mannaro, una volta o due.
“Sirius, leggi bene, c’è scritto che può staccarti la testa se metti le mani nella sua scorta di cioccolata,” gli diede corda James e Sirius annuì solenne.
“Però non dicono che sono super noiosi.”
“E che non vanno svegliati prima delle otto del mattino!” aggiunse Peter.
“Affamati, noiosi e dormiglioni, Pete, devi dirci qualcosa?” Sirius aggrottò la fronte sconcertato e fissò un falso sguardo dubbioso sul suo amico. “No, perché non so se ce la farei mai ad avere un amico lupo mannaro.”
Peter roteò gli occhi. “Stronzo.”
I tre ragazzi risero e dichiararono chiuso il discorso lupo mannaro. Proprio in quel momento, infatti, Dorcas e Mary tornarono alla Torre di Grifondoro.
Sirius, seduto ancora a terra, si lasciò cadere nuovamente con la testa contro il bracciolo della poltrona di Remus e poggiò svogliatamente il libro sulle ginocchia, sfogliandolo come se l’avesse scritto lui. Remus lo osservò per qualche secondo, genuinamente divertito da quell’atteggiamento. Notò con un pizzico di distante ironia che quando Sirius aveva deciso di non tagliare i capelli aveva fatto sul serio. Era diventata una cosa importante per lui, forse perché le bandiere Grifondoro e i poster delle ragazze rimanevano a Grimmauld Place, mentre poteva evidenziare la sua differenza ogni giorno, quando si guardava allo specchio. Forse sottintendeva un bisogno anche estetico di farsi notare più di quanto già non facesse, di essere diverso non solo dalla sua famiglia, ma dal mondo intero… o forse solo da ‘se stesso, vecchio ed erede’.
Remus non aveva dimenticato le sue parole, anche se pronunciate prima di un momento che per lui era stato tragico.
Comunque credeva che gli donassero e che, a dirla tutta, a guardarli sembrassero soffici, che sarebbe stato interessante assaporarne la consistenza sotto i polpastrelli, passarci le dita in mezzo...
“Potter,” la voce tagliente di Lily Evans lo costrinse a tornare in sé. Per un attimo si chiese dove fosse e, soprattutto, che espressione avesse. Quasi dimenticò quanto strano si fosse sentito negli ultimi trenta secondi.
“Evans,” la salutò James, “posso esserti d’aiuto?”
“Sì,” replicò lei, gli occhi che si riducevano a due fessure, “ho una richiesta.”
“Vedrò cosa posso fare.”
“Lascialo in pace,” ribatté perentoria, nella voce neanche la minima traccia della richiesta che aveva menzionato.
“Parli di Mocciosus? Ma io gli ho fatto un favore!”
Sirius, accanto a lui, ridacchiò.
“Mi spieghi in quale universo appenderlo a testa in giù è considerato un favore?”
James alzò gli occhi al cielo come se avesse dovuto spiegare la cosa più ovvia del mondo al più stupido degli esseri umani. “Bastava chiedere,” replicò con aria superiore, “io gli ho reso onore.”
Lily lo osservò disgustata, ma anche vagamente confusa dal motivo per cui attaccare un ragazzino potesse essere considerato un onore.
James sapeva benissimo di cosa parlava. Era stata una mossa strategica. Severus era diventato sempre più inquietante e il suo atteggiamento viscido aveva iniziato a disturbarlo in maniera insopprimibile. Lo disgustava, non c’era fibra del suo corpo che non lo urtasse istintivamente e, allo stesso tempo, che non gli gridasse di attaccarlo. Gli avrebbe fatto pena se non fosse stato così dedito alle Arti Oscure. James si sentiva in dovere di proteggere il mondo da lui e, soprattutto, quando camminava per i corridoi con Lily Evans,  qualcosa proprio al centro dello stomaco lo turbava. Era sbagliato. Ormai erano mesi che lo vedeva scribacchiare su quel dannato libro di Pozioni e, qualunque cosa fosse, stava funzionando alla grande. Piton era semplicemente imbattibile in materia: riusciva quasi a immaginarlo nei sotterranei Serpeverde a preparare intrugli rivoltanti per compiacere Lumacorno. Sospettava anche che stesse tentando di ingraziarselo solo per seguire Lily agli incontri speciali che organizzava il professore.
James aveva pensato bene di sbirciare. Aveva notato quello scarabocchio di “Levicorpus” e ci aveva messo tutto se stesso per distinguerne le lettere. Non ci aveva messo molto, invece, a capire a cosa servisse. Il bastardo, adesso, inventava anche incantesimi!
Era solo giusto che, prima ancora che potesse metterli a punto, li testasse anche. E quale modo migliore di testarli che sperimentarli sulla sua pelle? James ne era praticamente convinto: gli aveva fatto un favore. Che poi il favore l’avesse fatto anche a se stesso era un altro discorso.
Per quanto le ragioni di James fossero nobili, a detta sua, Lily era più decisa che mai a guardarlo in cagnesco. E James non aveva alcun problema a ricambiare con la stessa moneta.
Sirius interruppe quello scambio di sguardi con un colpo di tosse. “Ma tu non ci detestavi? Perché non vai a farlo da un’altra parte?” Il repertorio di battutine di Sirius che Lily ignorava con la leggerezza di chi non le aveva neanche sentite aveva ormai raggiunto livelli che Arsenius Jigger, con i suoi tomi di seicento pagine, poteva solo sognare.
“A volte penso, Potter, che tu abbia un serio problema di fiducia in te stesso,” sputò fuori Lily, un sorriso sprezzante giocava astuto sulle sue labbra.
Passò qualche secondo di silenzio, James addirittura sembrò colpito, poi i quattro amici scoppiarono a ridere contemporaneamente, nessuno escluso.
“Scusa, Lily,” si intromise Remus, che aveva ormai un bel rapporto con la ragazza, basato sulla stima e il rispetto reciproco, “però James è davvero l’ultima persona che definirei così.”
“Ehi, la penultima,” si unì Peter, alzando un dito, “l’ultima è Sirius!”
“Ah-ah, molto divertente,” ribatté lui, ma forse non se la sentì di negare.
“Devo ricredermi, Evans, sei simpatica,” la provocò James, negli occhi una scintilla che quasi la implorava di iniziare a litigare.
“La verità,” la ragazza alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa per contenere l’irritazione, “è che forse non hai le palle di affrontarlo senza i tuoi trucchetti.”
Era incredibile come James fosse in grado di mantenere la calma in qualunque situazione. Sirius sarebbe scattato e avrebbe distrutto tutto, Peter avrebbe abbassato lo sguardo e avrebbe trovato il modo più veloce ed efficiente di darsela a gambe e Remus si sarebbe rabbuiato, colpito nel segno e consapevole. James, invece, si limitò a scrollare le spalle con la disinvoltura di chi non si lasciava mai toccare da niente. Abbassò lo sguardo sulla patta dei suoi pantaloni, poi lo rialzò su di lei. “L’ultima volta che ho controllato cʼerano, le mie palle.”
Lily sbuffò esasperata: era come parlare a un muro. “Sei così volgare,” ribatté con sdegno. Poi, senza aggiungere altro, sfoderò la bacchetta e la puntò, con somma sorpresa di James, non sulla sua faccia, ma sui suoi pantaloni. “Be’, ricontrolla, idiota.”
Evans incrociò le braccia al petto e, con quell’ultimo incantesimo, prese la strada per i dormitori femminili, sotto gli sguardi divertiti di Sirius e Peter.
Non appena se ne fu andata i due scoppiarono a ridere. “Ricontrolla, idiota,” la scimmiottò Sirius, tenendosi la pancia dalle risate. “Esilarante, davvero.”
“James, va tutto bene?” chiamò Remus, che si era finalmente accorto che il suo amico fissava un punto impreciso del tavolino davanti a sé, senza nessuna espressione particolare in viso.
“James?” Peter aggrottò le sopracciglia, accigliato.
Il ragazzo si limitò ad alzare lo sguardo più calmo e beato della Terra sui due ragazzi, dedicando un’occhiata tutta a Peter e poi una unicamente per Remus. Un attimo dopo si morse la lingua in riflessione, tornando a fissare quello spigolo di tavolino che doveva aver attirato tutta la sua attenzione.
“Sirius?” chiamò, picchiettando con una mano sul suo braccio, ma continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, “mi devi dare una mano,” esalò, infine, contraendo finalmente le sopracciglia in una smorfia preoccupatissima.
“Aspetta, ti ha davvero…” Sirius lo guardò per un attimo in faccia, poi prese a squadrarlo dalla testa ai piedi. Non resse un secondo di più e la risata più rumorosa di tutta Hogwarts gli scoppiò nei polmoni. “Ti ha davvero incantato le palle?!” riuscì a domandare, tra le lacrime.
“Non lo so, ma ha fatto qualcosa. Tu mi devi aiutare,” ribatté James, lo sguardo serissimo e pregno di timore che si specchiava in quello divertito di quell’inutile del suo migliore amico.
“Riesci ad alzarti?” domandò Sirius, tirandolo su e non smettendo un attimo di ridere. “Andiamo in bagno.”
“Sirius, mi devi aiutare.”
“Tranquillo, James, ti salvo io.”
Remus e Peter si guardarono per un secondo, due scintille gemelle di divertimento illuminavano i loro sguardi.
“Non so tu, ma io questa non me la perdo, Pete,” decretò infine Remus, alzandosi dalla sua poltrona e raggiungendo Sirius e James, offrendo anche la sua spalla all’amico infortunato. James lo guardò con la gratitudine di chi è nelle mani del suo angelo.
I tre amici e il morto si incamminarono a tutta burrobirra verso i bagni più vicini.
 
***
 
La povera Bertha Jorkins, quella mattina a colazione, subì un’incredibile tortura. Quattro paia d’occhi si erano puntate su di lei, come a sfidarla a mettere in giro qualche altra voce sul loro conto e sui loro prossimi scherzi.
James mosse pericolosamente la sua fetta di pane e burro davanti alle facce dei suoi amici, richiamando l’attenzione su di sé. Si sistemò meglio gli occhiali sul naso e addentò un angolo del suo pane. “Quella deve stare lontana da noi,” commentò James, con la serietà di un generale che organizza una fondamentale spedizione, “manca una settimana alla fine della scuola,” ricordò ai suoi amici, senza dimenticare un’occhiata più significativa a Sirius e Peter, per una questione che li stava mandando in seria agitazione nell’ultimo periodo. “Questo scherzo non si può rimandare per una soffiata di una ficcanaso e noi dobbiamo…” James si interruppe, lo sguardo perso da qualche parte al tavolo dei Corvonero. I tre amici si scambiarono una veloce occhiata confusa. “Sirius.” 
Il ragazzo, che si stava grattando scompostamente alla base del collo come ad eliminare chissà quali pulci, si bloccò con un gomito a mezz’aria, per incontrare gli occhi divertiti di James. “Che c’è?”
“Ti fissano,” lo informò lui, con un cenno della testa in direzione di due ragazze Corvonero.
Sirius inarcò un sopracciglio e si voltò veloce verso il tavolo della casa. In effetti due ragazze, in quell’instante, saltarono sul posto con qualche udibile risolino e si voltarono a dar loro le spalle in men che non si dica. Sirius inclinò la testa di lato, come a ponderare qualcosa di non ben definito. Una delle due, con lo sguardo basso e un sorriso timido, si voltò appena a mostrare il profilo. L’espressione di Sirius non cambiò considerevolmente, si limitò a bagnarsi le labbra con la punta della lingua, prima di voltarsi di nuovo verso i suoi amici, pratico e spiccio, una scrollata di spalle già appoggiata addosso, come pronta a partire. “Okay, ricapitoliamo. Io...”
“Credo sia arrossita,” commentò Remus, un sorriso ironico a rimarcare lo scambio di occhiate prima avvenuto, lo sfottò che faceva da sfondo al suo commento.
“Lupin, ti devi concentrare,” gli intimò Sirius, sventolandogli un dito davanti come se si trattasse di una questione improrogabile. “Quindi, io prendo gli slittini…”
“Per l’ultima volta, Sirius,” lo interruppe esasperato Peter, “quelle sono assi di legno con dei cardini trasfigurati in delle ruote.”
“Prendo gli slittini, dicevo, e voi vi fate trovare alla base della Torre di Astronomia, prima delle scale.”
I ragazzi annuirono e quattro sorrisi furbi strisciarono sui loro volti. James alzò entrambe le mani per dare il cinque ai suoi amici. Prima che Peter e Sirius potessero ricambiare, però, i tre si guardarono in faccia sconvolti, poi girarono il collo verso le finestre della Sala Grande così velocemente che Remus credette che si fossero rotti l’osso del collo.
Un ticchettio si infrageva sui vetri.
“Piove!” esclamò Peter, sconvolto, come se avesse passato l’ultima settimana a recarsi sul tetto della scuola a esibirsi nella più disperata danza della pioggia che riuscisse a gestire. Il che non si discostava troppo dalla verità.
Remus li guardò, chiedendosi se non fossero impazziti tutti di botto. “Sì, anche stanotte è piovuto,” replicò, mentre una parte di lui si domandava se fosse giusto dargli corda quando si comportavano in maniera così bizzarra.
“Che stai dicendo?!” Sirius si voltò di scatto verso di lui come se della finestra non gli fosse più importato un fico secco. “In che modo? In che modo pioveva?” gli domandò, poi, come se ne fosse valso della sua stessa vita.
Remus, aggrottò la fronte vagamente allarmato da tutta quell’aggressività. “E io che ne so? In modo normale, con l’acqua.”
“Ma quanto?” James era altrettanto ansioso.
“Ragazzi, tutto bene?”
“Quanto, Remus?” Peter ripeté.
“Un po’, credo, niente tuoni, come adesso, però dovrebbe rischiarare nel pomeriggio.”
I tre ragazzi si scambiarono un’occhiata afflitta. Avevano nascosto quelle dannate pozioni al buio, come da manuale e, a quel punto, avrebbero solo potuto aspettare l’arrivo di un temporale. Il problema era che, se fossero tornati alle rispettive case per le vacanze estive, non sarebbero stati a scuola per riesumare la pozione. A quanto pareva il mondo aveva deciso di portare sulla Terra l’estate più asciutta del secolo!
James sospirò e lasciò andare la testa indietro con uno sbuffo.
La voce spaventata di Peter raggiunse flebile le sue orecchie, “James, che facciamo se…”
“Non voglio neanche pensarci.”
Remus ascoltò lo scambio di battute degli amici accigliato, poi rifilò una gomitata leggera nelle costole di Sirius. “Mi spieghi che avete?”
Sirius scosse la testa per liberarsi di un ciuffo che gli era ricaduto sul naso. “Fa molto caldo,” commentò infine, squadrando le finestre della Sala Grande come se stesse intrattenendo una di quelle conversazioni brevi da ascensore.
Remus aggrottò la fronte e lo fissò in attesa, ma Sirius non ricambiò il suo sguardo e la loro conversazione finì così.
 
***
 
“Io non glielo lascerei fare,”
“Remus, staʼ zitto, sto lavorando,” gli intimò Sirius, in bilico su quello che lui amava definire slittino, ma che era pur sempre una piattaforma con le ruote. Sempre dannatamente in bilico agitò un altro po’ la bacchetta sul caschetto di James, senza successo.
Aveva ben pensato, infatti, che presentarsi con un caschetto rosa da protezione fosse una mossa ridicola e per questo divertente, ma da quando l’aveva messo non era più riuscito a toglierselo dalla testa… letteralmente. Così aveva optato per chiedere una mano ai suoi amici.
“James, glielo stai davvero lasciando fare?” domandò Peter, come se non glielo stesse già lasciando fare.
“Ehi, vi vorrei ricordare che una settimana fa sono stato io a mettergli a posto le palle,” puntualizzò Sirius, prendendo la testa di James tra le mani e costringendolo ad abbassarla per guardare meglio, “grazie per la fiducia.”
“Io ti darei la mia vita in mano,” confessò James, alzando lo sguardo sul suo migliore amico quel tanto che bastava per mandargli un bacino.
“E io la passerei a Pete, ci saprebbe fare molto più di me,” aggiunse Sirius. Nessuno dei ragazzi lo notò, ma Peter alzò gli occhi sui suoi amici, profondamente colpito da quella confessione sbadata che Sirius si era lasciato sfuggire come se fosse stata la scelta più ovvia. Pensò che avrebbe fatto davvero di tutto per essere all’altezza di quel compito.
Con un ultimo colpo di bacchetta, Sirius spaccò il casco a metà, riuscendo nel delicato intento di evitare di riservare lo stesso trattamento alla testa di James. “Hai la testa dura, Jamie, ti ha salvato di nuovo.”
James alzò gli occhi al cielo e rise, passandosi una mano nei capelli per farli tornare al loro antico capolavoro di autentico disordine. “Si va?”
I quattro teppisti guardarono la lastra di ghiaccio davanti a loro, Peter alzò un sopracciglio preoccupato, ma poi si fermò un secondo a osservare i suoi amici. Sirius e James erano su di giri e un sorrisetto eccitato piegava le labbra di Remus.
Sirius fu il primo a muoversi. Si sedette sullo ‘slittino’ e si prese un attimo per stabilizzarsi, poi puntò la bacchetta davanti a sé e rinforzò la lastra artificiale che stava già prendendo a sciogliersi.
“Chiudo io,” annunciò James orgoglioso, “vai, Remus.”
Prese posto proprio alle spalle di Sirius, seguito da Peter e, per finire, da James.
“Durante la corsa costruite la lastra di ghiaccio. Tutti,” intimò loro Peter, con un tremolio nella voce.
Annuirono, inspirando l’aria insolitamente fredda e preparandosi al lancio.
“Reggiti,” sussurrò Sirius, lasciando quell’invito alle sue spalle. Remus non aveva assolutamente idea del perché non fosse corso ad assicurarsi sui fianchi del suo amico, soprattutto con Peter che, dietro di lui, sembrava addirittura volergli strappare lo stomaco.
“Sì, scusa, stavo…” Remus scosse la testa. Non aveva neanche idea di cosa stesse facendo. Abbracciò Sirius senza aggiungere altro. Lui gli sorrise, uno sbuffo quasi impercettibile che non voleva prenderlo in giro. Remus ricambiò.
“Che stiamo aspettando?”
“Sei una spina nel fianco, James,” ribatté seccato Sirius, lasciando un ultimo cenno divertito a Remus, prima di voltarsi.
In un attimo i ragazzi si trovarono a scivolare su una lastra di ghiaccio costruita centimetro dopo centimetro dalle loro bacchette, neutralizzando ogni forma di scale che fosse mai esistita. Guadagnarono velocità in pochissimo tempo, visto quanto si trovava in alto la Torre di Astronomia da cui erano partiti.
Schizzarono veloci come la luce tra i cunicoli di Hogwarts, con il loro carrellino incantato per sostenere curve e scossoni. Risero di gusto, mentre tutta la scuola si faceva da parte per far passare quattro pazzi che sfrecciavano su uno slittino di fortuna, che sembrava del tutto intenzionato ad arrivare come un razzo fino alle porte della Sala Grande. 
“Ma che cosa…”
“Non ci credo.”
Sirius sentì distintamente la risata di Marlene, mentre Lily cercava ancora di capire cosa diavolo ci facesse lì del ghiaccio e perché James Potter ci stesse sfrecciando sopra. Ma la verità era che era già troppo tardi, erano ormai lontanissimi da lì, il vento del loro gelo gli arrivava in faccia senza farsi troppi problemi.
“La Sala Grande!” gridò Peter, l’adrenalina che fluiva inarrestabile, costringendolo a poter solo ridere e impedendogli categoricamente di preoccuparsi.
Le grandi porte della sala si pararono loro davanti, gli occhi di mezza scuola erano già puntati sul carrellino e sul suo ingresso trionfale a cena prima che tutti gli altri vi si recassero.
Erano vicini alla soglia, a un passo dall’attraversarla…
E Minerva McGranitt sciolse con un colpo di bacchetta tutto il ghiaccio rimanente, facendo frenare il carrello bruscamente sulla pietra scabra e facendo risultare il tanto agognato ingresso trionfale in un ribaltamento secco del veicolo.
I ragazzi caddero rovinosamente a terra, non riuscendo però a smettere di ridere.
“Saltiamo il momento in cui mi fornite delle scuse che non reggono e passiamo a quello in cui finite tutti e quattro dritti in detenzione?” propose la donna, con occhi velati di rassegnazione. Un pizzico di divertimento, però, le illuminava l’espressione. I ragazzi non seppero dire se fosse sadismo, ma sospettavano da tempo che, in realtà, la donna provasse una certa simpatia nei loro confronti.
“Mi pare ingiusto, Minnie,” disse Sirius, rialzandosi e spazzolandosi i vestiti senza alcuna grazia, “in galera senza processo? Questo è l’insegnamento che si dà alle giovani menti?”
Sirius notò con la coda dell’occhio il numero consistente di curiosi che si erano affacciati nella Sala Grande, già preparata in vista della cena. Un pubblico era tutto ciò che gli mancava.
“Signor Black…” iniziò la donna, rassegnata.
“Avanti, Minnie,” Sirius sfoderò il sorriso più seducente che gli riuscì, “so che non vuole farlo.”
La professoressa McGranitt pensò che se avesse continuato a dare corda alle ridicole avances di quel ragazzino avrebbe perso la testa. Incrociò quindi le braccia al petto e rifilò un’occhiata pungente al compagno di merende di Black.
“Singor Potter,” esalò già sfinita, “lo sai, vero, che in questa settimana ci sono gli ultimi allenamenti?”
“Oh, andiamo,” James scosse la testa, “il quidditch è fondamentale, non me li farà mai saltare.”
Minerva strinse le labbra, sfidandolo con lo sguardo, ma James sapeva troppo bene che aveva una certa predilezione per quello sport. “No, infatti,” concesse, “per questo i tuoi amici ti ringrazieranno caldamente, visto che sconterete la pena stasera,” e qui riservò uno sguardo eloquente a Sirius, “subito dopo cena.”
Peter sgranò gli occhi. “Ma domani ci sono le consegne degli elaborati di fine anno!”
“La prossima volta, signor Minus, ci penserai due volte prima di lanciarti nell’ennesima scorribanda con i tuoi amici,” sottolineò la donna, con vago sdegno, “e con un po’ di fortuna imparerai qualcosa,” concluse severa, lasciando la sala con un ultimo sguardo significativo in direzione di Remus.
 
***
 
“Dodici marzo,” sussurrò Sirius, passandosi una mano sugli occhi e poggiando entrambi i gomiti sul banco di legno.
Erano chiusi da oltre due ore in quello che Gazza amava chiamare il suo ufficio, ma che sembrava più uno sgabuzzino con un tavolo e due sedie. La detenzione più noiosa del mondo non accennava a concludersi, perché a copiare e ordinare i rapporti danneggiati dei crimini degli studenti non si finiva mai. Sirius stentava a comprendere il motivo per cui far leggere ai delinquenti più famosi della scuola le infrazioni degli altri potesse essere educativo o vagamente punitivo. Al massimo li avrebbe aiutati a ideare lo scherzo successivo!
Remus gli diede un colpetto leggero nel fianco. “Non abbiamo finito.”
“Sto morendo di sonno,” si giustificò lui, condendo il tutto con un grande sbadiglio che non si preoccupò di coprire con una mano. Remus lo osservò con un sopracciglio alzato, mentre Sirius appoggiava la testa su una mano e chiudeva gli occhi.
“Non farò tutto io.”
“Non farlo. Ce ne occuperemo tra qualche mese,” si limitò a rispondere, con una scrollata di spalle, “non penserai che questa sia l’ultima detenzione,” una scintilla di divertimento gli brillò negli occhi stanchi.
Hanno aperto una voragine nel pavimento,” lesse Remus a fatica, ignorandolo e procedendo a copiare il crimine su una pergamena nuova di zecca.
“Avanti, lascia stare,” lo pregò Sirius, appropriandosi del documento decrepito e lanciandolo alla rinfusa in un cassetto. Remus si lamentò quel tanto che bastava per fingersi quello responsabile del duo, poi sospirò assonnato, lasciandosi cadere con il busto sullo schienale della sedia. Sirius gongolò vittorioso e appoggiò senza troppe cerimonie la testa sulla sua spalla, sbadigliando ancora una volta.
Remus alzò una mano distratto, contagiato dal suo sbadiglio. L’abbassò delicatamente sulla testa di Sirius, lasciando scorrere le dita tra i capelli scurissimi e sorprendendosi del fatto che neanche la luce della lampadina di Gazza donasse loro un riflesso più chiaro. Chiuse gli occhi stremato, non interrompendo quella carezza assonnata.
Sirius mormorò qualcosa a mezza voce, ottenendo, come risultato, null’altro che un verso indistinguibile di contentezza, poi mosse appena la testa per andargli incontro. Quando la spostò per costringerlo a grattare dietro l’orecchio Remus ridacchiò e, senza pensarci troppo, disse: “Sembri un cane.”
Sirius alzò la testa con un sorriso. “Davvero?”
“Ehm… Credo?”
“Ci scommetteresti su?”
“Eh?” Remus scosse la testa, chiedendosi se il sonno lo stesse confondendo o se fosse Sirius ad essere troppo stanco per mettere tre parole vicine che avessero senso.
“Sì, scommettiamo.”
“Ma su cosa?”
“Se tu vinci avrai sei mesi per decidere di farmi fare qualunque cosa; se perdi sarò io a decidere,” propose Sirius, lo sguardo prima spento scintillava furbo sotto la stessa lampadina di Gazza. Di colpo la lampadina non sembrava più la cosa più luminosa nella stanza.
“Io non sono sicuro di aver capito su cosa stai scommettendo,” ammise Remus, confuso.
Sirius scrollò le spalle. “Fidati.”
E poi fece una cosa che fece provare a Remus una serie di emozioni tutte insieme: disgusto, confusione, nervosismo e ancora disgusto. Sirius si sputò letteralmente al centro del palmo della mano, come uno scolaretto di cinque anni fissato con gli insetti e a caccia di bruchi.
“Perché ho la sensazione che, in un modo o nell’altro, ci andrò a perdere?” gli domandò Remus lanciando un’occhiata non troppo allettata alla mano di Sirius e spostando velocemente i documenti che avevano già compilato per proteggerli dalla sua saliva colante. Poi squadrò unʼultima volta la sua mano e si decise a stringerla. L’avrebbe davvero fatto, se solo lui non l’avesse ritratta di scatto.
“Ah-ah,” lo ammonì, porgendogliela di nuovo, lentamente, “anche tu,” disse, con un cenno del capo verso la sua mano.
Remus aggrottò la fronte. “Scordatelo.”
Sirius alzò gli occhi al cielo. “Avanti.”
Il ragazzo sospirò affranto, poi, con sua somma sorpresa, si sputò davvero su una mano. “Me ne pentirò,” decretò, ricambiando la stretta con vigore e alzando un sopracciglio inorridito al sentire il contratto della loro scommessa sciogliersi letteralmente tra le loro mani, “è disgustoso,” commentò e Sirius si alzò spezzando la stretta e ripulendosi la mano sui pantaloni. Remus preferì un incantesimo.
“Bene, andiamo a salvare James e Peter,” proferì Sirius, deciso, e Remus non ebbe nulla da contestare.
 
***
 
Novembre, 1981
 
Caldo.
Faceva un gran caldo, ovunque. I quadri sembravano, inquieti, voler sbattere contro la parete ricoperta di carta da parati brillante. L’aveva lucidata e in effetti rifletteva la luce sinistra della lampada a olio appoggiata su una piccola cassettiera di legno d’ebano.
Faceva un gran caldo, anche se novembre era appena entrato. Lei quel periodo lo detestava. Era abituata ormai da anni a credere che nella sua tragica vita avesse avuto un marito e un unico figlio, entrambi morti prematuramente a lacerarle il cuore fino all’ultima fibra. L’arrivo di novembre e il ricordo del parto erano un altro colpo al petto annuale.
Quel giorno, però, qualcosa era cambiato.
Un’ondata di orgoglio, un misto di gioia repressa e sorpresa assopita le scoppiò nel cuore al sentire la notizia più discussa di tutte, quasi quanto la fine del Signore Oscuro.
Doveva ammettere che non l’avrebbe mai creduto possibile, eppure, nella disperazione dei suoi lutti, quello che una volta considerava un figlio aveva fatto un passo nella direzione corretta.
“Oooh, lui ci ha provato,” gracchiò Walburga Black, tra le mani un candelabro colante cera. Questa cadeva a gocce grosse e incandescenti sulle assi di legno dell’enorme tenuta che era casa Black, solidificandosi e prendendo un colore più freddo.
Di quella casa conosceva ogni angolo.
Da quando qualcosa era scattato nella sua testa la casa sembrava divisa come la sua persona. Lucidava delirante le pareti, come se la carta da parati lo richiedesse, credeva addirittura di potercisi specchiare dentro e poi afferrava un candelabro e lasciava che la cera colasse in terra senza preoccuparsene. Kreacher, quando la donna aveva questi scatti, la seguiva ubbidiente e a testa bassa, ripulendo le gocce sulla via della solidificazione e ustionandosi le mani già contuse e doloranti. Non fiatava e si limitava ad ascoltarla impotente nel suo borbottare e mugugnare, la più totale disperazione per non esser riuscito a portare a termine il compito del suo padrone che bruciava ancora viva come due anni prima.
“Lui ci ha provato, il traditore,” ripeté lei, quasi in un gemito. Le parole si accavallavano, come a rincorrersi per avere la meglio e risultare più eloquenti. “Ci ha provato!” gridò di colpo, smettendo di borbottare e allargando le braccia come se avesse voluto rivolgersi a un pubblico. A quel gesto improvviso, dell’altra cera si staccò dalle candele accese e mancò Kreacher per un soffio.
“Ma,” proseguì, gli occhi sgranati in maniera innaturale si soffermarono finalmente sull’elfo, come se avesse avuto improvvisamente un’importanza da non sottovalutare, “il sangue è sangue, sai,” un sogghigno le scappò dalla linea spezzata delle labbra. Kreacher annuì incurante e procedette a pulire la cera dalle assi di legno.
“Il suo sangue è nero,” rise, la lucidità sembrava lasciarle lo sguardo a ogni battito di ciglia. “Può correre quanto vuole, quanto vuole, ma non potrà andare troppo lontano, ce l’ha scritto nel sangue!”
Walburga Black rise forte. Le mura accolsero quella risata facendola rimbalzare e diffondendola in tutta la casa vuota.
Non c’era più nessuno lì. C’era solo lei, delirante, con la fronte che pulsava e il senno che l’abbandonava di minuto in minuto.
Si appoggiò contro la carta da parati che aveva da poco lucidato e lasciò cadere finalmente lo sguardo a terra. Sorrise, non seppe se sprezzante o orgogliosa. “Ce l’ha scritto nel sangue,” ripeté, il tono stranamente pacato, come se avesse costretto anche il figlio a cedere alla verità.
Walburga lasciò cadere il candelabro ancora acceso sulle pagine della Gazzetta del Profeta. Una candela tra le tre si prese la briga di incendiarla.
Lingue di fuoco presero a divorare, voraci, l’inchiostro nero sulle pagine del giornale. Un titolo assurdo bruciava di secondo in secondo.
 
Sirius Orion Black, 22 anni, uccide senza pietà dodici babbani innocenti e il mago Peter Minus. Dichiarato colpevole, è stato ora trasportato nella prigione di Azkaban.
 
Presto quella notizia non fu altro che cenere.
Onore alla famiglia.




 

Note di El: Uelà, mi scuso immediatamente per il ritardo, ho palesemente fatto male i miei calcoli e quindi niente, eccoci qui anche se è martedì. Sirius è nato a novembre, per questo sul giornale c'è scritto "22 anni", così, a scopo informativo.
Comunque piccola questione su Walburga. Allora, io ero sicura, certa, ragazzi, proprio convinta che nel canon fosse impazzita. E invece non è vero, pare. Ho cercato di ripensare a tutte le fic che ho letto e mi sono accorta che è una cosa che non ho mai visto neanche in una fic. Quindi pare che abbia un headcanon che non sapevo di avere. Vabbè, per quello che vale, eccolo. Poi, sempre su quella scena, "può correre quanto vuole, ma non può andare troppo lontano" è una semi-cit di una canzone che comparirà di nuovo, semplicemente perché è bellissima: Mrs. Potter's lullaby dei Counting Crows, ecco, citiamo le fonti. Detto questo, questa sono io che mi impegno per fare le note corte, CIAO!
No, okay, invece no, informazione di servizio. Poiché non scrivo un capitolo a settimana è evidente che un bel giorno quelli da parte finiranno. Poiché il prossimo è diviso in due parti usciranno sempre a distanza di una settimana (mi pare troppo ingiusto, altrimenti), ma dall'8 in poi pensavo di aggiornare ogni 10 giorni, per mantenere una costanza molto poco tipica del mio carattere, ecco. Il 14, invece, potrebbe uscire una settimana dopo il 13. "Sì, ma che me ne faccio di questa notizia adesso?" non lo so, avete ragione, non lo so.
Grazie miiiiiille per aver letto!
Adieu,

El.

 


 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8.1 - Tra trasgressione e timidezza ***


8.1 Tra trasgressione e timidezza

 




Agosto, 1981
 
Un tonfo sordo al piano di sotto fece alzare James e Lily di scatto. Un secondo per guardarsi negli occhi, specchiarsi nel terrore condiviso che danzava nelle pupille già libere dal sonno.
“Non può essere,” mormorò James, lo sguardo saettò istintivamente verso la porta della stanza in cui dormiva suo figlio.
Passò qualche altro secondo – o minuto, per come il tempo sembrava scorrere – di gelo. Gli occhi di entrambi si alternavano tra quelli dell’altro e l’uscio della porta, i muscoli all’erta e i respiri mozzati. In quella sospensione silenziosa, quasi si potevano udire ingranaggi cerebrali in movimento forsennato.
“James!”
Una voce conosciuta e amica bucò il silenzio e i ragazzi trassero un sospiro tremante all’unisono, riprendendo colore e ricomponendosi da quel terrore. 
Durò un attimo, poi riconobbero, nella voce di Sirius che li aveva fatti tornare a respirare, una crepa di disperazione.
James deglutì a fatica e, con un ultimo sguardo d’intesa a sua moglie, si alzò il lenzuolo di dosso e si affrettò al piano inferiore.
La sveglia sul comodino segnava le tre e quarantaquattro del mattino.
Quando James e Lily discesero le scale, Sirius allargò le braccia, un cipiglio della più profonda tristezza piantato in fronte e un singhiozzo trattenuto che scalpitava per uscire e che si espresse in un goffo colpo di tosse.
James chiuse gli occhi ed espirò a fatica, si portò una mano tra i capelli e cercò di mettere a fuoco la stanza senza occhiali. “Chi è?” domandò affranto, un tono rassegnato che nessuno dovrebbe mai abituarsi ad avere, soprattutto a vent’anni.
Lily, accanto a lui, gli prese la mano e tremò, una scintilla di lucidità che ancora la costringeva ad attenersi ai piani. “Il nome di mia sorella,” sussurrò sconsolata, perché le pesava dubitare dell’identità di un amico così caro.
“Petunia,” rispose Sirius con un filo di voce, appurando che quello era davvero lui. Lily strinse le labbra e annuì.
Sirius alzò gli occhi al cielo e sbatté le palpebre un paio di volte: a Lily non era mai successo di vederlo davvero sul punto di piangere. Un terrore devastante le pervase lo stomaco, fino a risalire e stringerle la gola.
“È Remus? Chi è?” James stava praticamente vibrando dal panico, Lily percepì il suo palmo inzupparsi di sudore freddo.
Il ragazzo scosse la testa e un primo peso si alzò dal petto di entrambi. Il fatto che non si fosse affrettato a negare confermò, però, che qualcuno era morto, che non c’era già più speranza, che era il momento di un ennesimo addio impotente.
Fu con estremo dolore che Lily realizzò che gli occhi spenti e stranamente più scuri di Sirius erano su di lei e non su James.
Scosse la testa, come se si fosse dovuto scusare. “Sono morti tutti, Marlene e tutta la sua famiglia,” sussurrò. Sembrava che avesse bisogno di riprendere fiato a metà tra una parola e l’altra, come se un solo respiro non fosse bastato a comunicare la notizia.
James aprì la bocca per parlare, ma finì per non dire nulla. La mano di Lily si strinse forte alla sua, mentre qualcosa le bucava il petto e la costringeva ad appoggiare una mano proprio sul cuore.
Non si rese neanche conto di essere scoppiata a piangere, di essersi accasciata a terra, seduta sull’ultimo gradino della rampa e di aver iniziato a singhiozzare fino a non riuscire quasi più a respirare.
James non perse un attimo e allacciò un braccio, protettivo, attorno alla sua spalla, sedendosi accanto a lei. 
Sirius non disse più niente, ma distolse lo sguardo.
“Come?” riuscì a pronunciare lei, in un singulto a stento comprensibile, lo sguardo spezzato che si aggrappava a quello dell’amico come a cercare conforto.
Sirius contrasse le sopracciglia e si prese un attimo, come ad accertarsi di poter parlare. “Non so quasi niente, me l’ha detto Remus, ma non parliamo molto ultimamente. Dei Mangiamorte devono essere…” Sirius si interruppe, tossì appena per scrollarsi di dosso quel suono rotto che era sul punto di sopraffare le sue parole, “mi dispiace,” disse solo. Poi incontrò ancora lo sguardo di James. Lui annuì, più come a rassicurarlo, a dirgli che lo sapeva, che certi dolori non si potevano sopprimere.
Sirius si strinse nelle spalle e sorrise mesto, poi cacciò le mani in tasca e distolse ancora lo sguardo. Una lacrima sola corse disperata a rigargli una guancia.
E Lily seppe cosa stava pensando. Come se la sua disperazione fosse traboccata oltre i contorni di se stessa e si fosse allargata in tutta la stanza, rendendola una singola cosa enorme. Le pareva che fosse abbastanza per leggere come il suo dolore, negli occhi di Sirius, si riflettesse trasformandosi in terrore, in potenzialità. Non era mai stato bravo a vivere senza James.
Quella notte, Lily non smise di piangere finché la sveglia sul comodino non segnò le sette e venticinque.
 
***
 
L’estate più assurda di sempre, ecco cos’era stata. Il loro primo mese da studenti al quarto anno di Hogwarts era ormai giunto al termine e James era sicuro, certo, che il mondo intero stesse cospirando contro di loro, contro di lui.
“Sono passati cinque mesi,” si lamentò, alzando gli occhi al cielo terso di inizio ottobre, maledicendolo. Stavano ancora aspettando un temporale per la loro pozione. “Oh, ti dico io come andrà a finire,” riprese ancora, mentre passavano per il lago per dirigersi al campo di quidditch. Alcuni ragazzi stavano approfittando degli ultimi aliti di vento caldi di fine estate per riunirsi in piccoli gruppetti sulla costa del lago. Prima che potesse dire, presumibilmente a Sirius, ma più precisamente al dio che governava il meteo, come prevedeva che sarebbe andata a finire, l’occhio gli cadde su Lily Evans. Incredibile come, anche dopo l’estate, fosse rimasta la solita rompiscatole.
Ebbe la fortuna di incrociare il suo sguardo e strizzarle un occhio nella maniera più fastidiosa che gli riuscì. La missione ebbe successo quando lei sbuffò seccata e gli diede le spalle.
“Ti dico io come andrà a finire,” ripeté James, dopo quel veloce scambio di sguardi. Non mancò di notare che qualche ragazza, non troppo lontano da Lily, arrossì e ridacchiò. Fece finta di non vedere, perché gli pareva che lo facesse apparire ancor più desiderabile. Per rimarcare quella così meticolosamente costruita aria di distratta bellezza, si lasciò scorrere una mano tra i capelli e si leccò le labbra: in fondo era tempo di dare spettacolo. Allungò una mano davanti a sé, come se avesse voluto far comparire delle grosse scritte da quiz televisivo. “Hai presente la prima partita dell’anno contro i Tassorosso? Temporali, fulmini, tuoni e saette, e io non potrò fare niente,” elencò e Peter, poco più dietro di lui, ridacchiò sonoramente.
“Oh, puoi dirlo forte.”
James annuì, poi alzò ancora una mano ad arruffarsi i capelli.
Remus si guardava attorno con la faccia di uno che era ancora a tre settimane dalla luna e che, conseguentemente, aveva tutte le forze del mondo per dar voce all’impressionante quantità di battute sarcastiche che gli passavano per la testa. Un sorriso sfrontato andò allargandosi sulle sue labbra. “Ehi, James,” chiamò, affrettandosi a sostituire tutta quell’ilarità con un cipiglio preoccupato. Peter, accanto a lui, notò l’inganno e iniziò già a sorridere, previdente.
Il ragazzo si voltò veloce, gli occhi che già chiedevano impensieriti cosa ci fosse che non andava. A Remus fece tenerezza, ma solo per un attimo. 
“Deve esserti caduto un po’ di tempo fa, ho pensato di fartelo notare.”
Anche Sirius si voltò, confuso.
“Cosa?”
“Il tuo ego,” disse, il sorriso furbo che tornava a piegargli le labbra. “Straripava.”
Peter e Sirius scoppiarono a ridere. Quando James aprì la bocca, fingendosi offeso e preso in giro e guardandolo con due occhi grandi pieni di tristezza, Remus si premurò anche di indicare col pollice un punto imprecisato dietro di loro, come a guidarlo verso il suo ego perduto.
“Questa era bella,” commentò Sirius, battendo una manata sulle spalle di James, che sembrava improvvisamente essere sceso dal suo piedistallo.
“Ti è piaciuta?” domandò Remus, quasi grato, “ne ho una anche per te, se vuoi.”
Peter provò il forte desiderio di sdraiarsi sull’erba solo per ridere più forte.
Sirius assottigliò lo sguardo e si prese un attimo per osservare i due, la lingua tra i denti e un insulto pronto a partire. “Stronzo,” e Remus scrollò le spalle, “non hai nessuna luna a cui pensare?”
“Non lo so, dimmelo tu,” Remus sorrise, riferendosi a tutte le lune che, ormai, avevano contemplato insieme, ma qualcosa, nello sguardo di Sirius, cambiò.
“Ci stai provando con me? Mettiti in fila,” ribatté lui, alzando gli occhi al cielo come se lì si potesse ammirare la sua fila.
“Neanche morto,” disse Remus, scuotendo la testa energicamente. “Non farò neanche il tifo per te, oggi.”
Sirius si irrigidì quando, a quelle parole, ricordò chiaramente perché lui e James stessero facendo quella sfilata: le selezioni di quidditch. “Già,” commentò, soffiando una risata flebile.
James, all’udire quelle parole, si fomentò tutto. “Ho grandi piani, grandiosi!” espose, allungando di nuovo una mano davanti a sé come se stavolta avesse davanti uno schema di gioco. “Io ti vedo in attacco, sì,” James si prese una pausa e alzò gli occhi al cielo, l’indice piazzato davanti alla sua faccia come se pensare gli richiedesse uno sforzo talmente grande da non poter essere interrotto, “immagina quanto saremo forti tutti e due,” gli occhi di James brillavano di sogni. “Okay, schema. Ti vedo già a sgusciare tra gli avversari,” James gesticolava come un pazzo, “tu li distrai, poi mi passi la pluffa a parabola, così,” e mimò un arco lungo e poco curvo “e non ci sarà portiere che potrà fermarci.”
“Io non li posso sopportare,” sospirò Peter, pensando a tutte le volte in cui si sarebbe trovato a sentire i due straparlare di tattiche di quidditch, “sono destinato a rimanere l’unico sano di mente.” 
“E io, scusami?” inquisì Remus, alzando un sopracciglio con un sorriso.
“Devo ricordarti che mostro sai diventare?”
“Solo una volta al mese,” si difese, sollevando una mano a giustificarsi.
“Mi riferisco a quando guardi le partite di James,” lo prese in giro Peter e Remus allargò entrambe le braccia in segno di protesta.
“Io non mi esalto,” ribatté piccato.
“Remus, io ti sento,” James gli mandò un occhiolino, mentre un sorriso obliquo gli si dipingeva furbo sulle labbra. Remus posò uno sguardo preoccupato su Sirius, chiedendo un parere con gli occhi.
Lui si strinse nelle spalle, come se non avesse voluto essere troppo indelicato, poi aprì la bocca titubante, chiedendosi evidentemente se dire la sua non lo avrebbe ferito irreversibilmente. “Sei un cazzo di esaltato,” decretò categorico e Remus sbuffò.
In fondo avevano ragione.
“Bene, dicevamo,” riprese James, che proprio non ce la faceva a contenersi sulla questione, “sarai fantastico,” concluse, con sguardo orgoglioso e mille piani che gli vorticavano nella testa.
Sarebbe stato strepitoso!
 
***
 
“Wow,” commentò Peter.
Aveva la bocca spalancata e uno sguardo che poteva apparire vuoto, più che concentrato. In realtà i suoi occhi erano puntati sul campo da quidditch come se tutti i suoi pensieri provenissero da lì. Lasciava vagare lo sguardo a destra e a sinistra come se si stesse tenendo un’autentica partita di flipper davanti a sé.
Remus alzò un sopracciglio e tossì per reprimere una risata. “Già,” convenne, “wow,” ripetè.
“È…” Peter setacciò il suo vocabolario interiore, alla ricerca di una parola che non fosse troppo offensiva, “un autentico disastro!” fallì alla fine e Remus scoppiò a ridere, portandosi una mano alla faccia per apparire il più discreto possibile.
“È penoso.”
“Però McKinnon non è affatto male,” notò Peter, inclinando la testa su un lato e osservando Marlene volare spedita e segnare in uno degli anelli. Remus annuì piacevolmente sorpreso, riuscendo a stento a distinguere una chioma bionda che sfrecciava davanti ai suoi occhi.
“Ehm... Okay,” James fermò il gioco con un segno della mano, “tutto bene? Non essere teso, sono sicuro che…” Un sopracciglio si alzava già impietosito, ben consapevole che non era certo l’ansia a determinare la pessima performance di Sirius, “ce la farai,” concluse poi, arricciando un lato del labbro superiore nel cercare di mascherare la voglia più segreta di scoppiare a ridere.
Ma Sirius mancò l’ennesima pluffa, per non parlare della corsa al boccino, che si rivelò più vana di quella di Merlino e la tartaruga. [1]
“Ehm, bene,” alla fine delle selezioni, Gudgeon, il capitano della squadra Grifondoro, riunì tutti gli aspiranti giocatori per il verdetto finale. “Quest’anno abbiamo tanti nuovi talenti disposti a mettersi in gioco e ne sono contento. Ci aspetta un anno duro. Le voci circolano in fretta e sono state diffuse notizie su un potenziale Cercatore imbattibile Serpeverde,”
“Già,” si intromise James a braccia conserte e un sorriso sfrontato, “sono sicuro che a diffondere questa voce siano stati loro.”
Gudgeon cercò di mantenersi imparziale, ma era ovvio che i Serpeverde stessero elaborando qualche tattica per assicurarsi un clima di terrore.
“Ad ogni modo, ci sono parecchi elementi promettenti e ho il cuore più leggero all’idea di lasciare questa squadra, l’anno prossimo, in buone mani,” Gudgeon riservò un’occhiata più lunga a James, i cui occhi si illuminarono d’orgoglio e di trionfo. Era forse una velata allusione al fatto che avrebbe capitanato lui la squadra?
“Per questo motivo annuncio che hanno passato le selezioni di quidditch di quest’anno…” Gudgeon si prese qualche attimo di gustosa suspense, “Catchlove, McKinnon e Fabian e Gideon Prewett.”
James riservò un’occhiata a metà tra il divertito e il dispiaciuto a Sirius.
“Black,” chiamò ancora Gudgeon e il ragazzo aggrottò le sopracciglia scure, visibilmente confuso, “speriamo con ardore che ciò che dicono i Serpeverde sia falso e che tuo fratello giochi come te,” concluse poi, probabilmente più con praticità che con offesa, ma James non riuscì a trattenersi oltre e scoppiò a ridere.
Sirius non era propriamente offeso, sapeva di essere una frana in quel dannato gioco e il quidditch non era mai stato nei suoi desideri, se non per supporto, ma pensò che una battuta contro quel Gudgeon non avrebbe fatto male a nessuno. “Sicuramente avete lo stesso senso dell’umorismo,” commentò infatti, con il tipico sorriso arrogante che era capace di sfoderare anche quando era lui, ad essere in una posizione di svantaggio.
La squadra rise e Sirius si ritenne soddisfatto di aver vinto, se non un posto in squadra, almeno la conversazione.
 
***
 
“Black,” chiamò una voce femminile.
Sirius si voltò, facendo capolino con la testa oltre il cornicione della porta degli spogliatoi maschili e sorridendo alla ragazza.
La stanza, in cui normalmente si respirava un’aria tesa, quasi carica elettricamente, era ormai vuota eccetto per Sirius e James, che avevano finito per rimanere più a lungo negli spogliatoi in seguito all’ennesima battuta di James sul talento nel quidditch di Sirius, che era sfociata nell’ennesima rissa giocosa.
“McKinnon?” James, ancora senza maglietta, mosse un passo in direzione della ragazza. I drappi rossi e oro che decoravano la stanza filtravano la luce calda del pomeriggio inoltrato.
“Posso parlarti un attimo?” domandò lei, un sorriso sfrontato dipinto in viso e nessun interesse nella mezza-nudità di James. Sirius scambiò uno sguardo veloce con il suo migliore amico, poi scrollò le spalle e si alzò dalla lunga panca in legno scuro, seguendo la ragazza lontano da James.
Strinse tra i denti la sua bacchetta e si alzò i capelli ancora umidi, arrotolandoli per impedire che gli ricadessero freddi sulla nuca.
Marlene lo osservò a braccia conserte, aspettando che finisse, ma si decise presto a parlare: “Hai finito il tema di Trasfigurazione per domani?” domandò, dal tono sembrava che le pesasse molto avere a che fare con lui.
Lui si sfilò la bacchetta dalla bocca e si bloccò con le mani a mezz’aria, tentando di ricordare, “no, credo che lo farò domani mattina, ti serve una mano?”
Marlene rise e scosse la testa. “Niente detenzioni per oggi?”
“Sorpresa?” Sirius si appuntò i capelli con la bacchetta e mimò l’atteggiamento di lei, appoggiandosi al muro e incrociando le braccia al petto.
“Molto, lo ammetto,” confessò Marlene, abbassando la testa e scuotendola. Sirius pensò che avesse davvero un bel sorriso. “Perché non ci facciamo un giro, stasera?” domandò, più come una sfida che una richiesta.
Sirius inclinò la testa su un lato e unì le sopracciglia, pensieroso. Durò qualche attimo, poi sollevò un angolo della bocca in un sorriso sghembo. “Se devi chiedermi di uscire fallo bene, McKinnon,” buttò fuori infine, sbuffando divertito. 
Marlene si morse un labbro, più perchè aveva voglia di strangolarlo che per imbarazzo. “Avresti potuto farlo tu,” ribatté infatti, velenosa.
Sirius alzò gli occhi in riflessione, “ma lo stai facendo tu!”
Marlene sospirò, consapevole del danno che stava per fare. “Ti va di uscire, stasera?” domandò, guardandolo fisso e senza azzardarsi ad abbassare gli occhi.
“Con chi?” 
“Da soli.”
“Ci incontriamo per caso?”
Marlene continuò a reggere il suo sguardo. “È un appuntamento.”
“Ah, non avevo capito.”
“Ora hai capito?” iniziava a sorridere.
Sirius annuì pratico e improvvisamente rilassato. Dopo quello scambio serrato qualcosa, nel suo sguardo, si era ammorbidito. “Hai in mente qualcosa?” 
Ma Marlene non poté fare a meno di notare che avesse finalmente abbandonato qualsiasi maschera egocentrica per porle una domanda semplicissima. Rimase momentaneamente presa in contropiede.
“Tranquilla,” Sirius si intromise nei suoi pensieri, “conosco un posto,” la rassicurò con un sorriso.
Marlene si prese un attimo per studiare quell'improvviso cambio di atteggiamento. “Okay.”
“Ovviamente,” aggiunse Sirius e un sorriso complice gli si dipinse in viso, “se sei disposta a infrangere qualche regola.”
Marlene represse una risata nel naso. “Alle nove in Sala Comune,” disse. Poi gli diede le spalle e si allontanò. Sirius inclinò la testa su un lato e la squadrò. Marlene, come se avesse avuto gli occhi anche dietro la testa, si voltò di scatto e scosse la testa, muovendo una mano come per scacciarlo.
Sirius rise.
 
***
 
Peter aveva gli occhi sgranati da un tempo che sembrava innaturale per qualunque essere umano. James ridacchiò e gli passò una mano davanti agli occhi, per tentare di farlo rinvenire.
“Cioè, fammi capire,” iniziò Peter, che probabilmente era stato riportato alla realtà dalla mano magica di James, “tu fai assolutamente schifo alle selezioni di quidditch…”
“Ehi!” Sirius allargò entrambe le braccia, offeso.
“Andiamo, sei cresciuto in una famiglia di maghi, è assurdo che tu non abbia imparato a giocare,” Remus tentò di avvalorare la tesi di Peter con la logica, ma a Sirius caddero le braccia.
“Be’, noi non giocavamo, da piccoli,” si lamentò poi.
“Ma pare che Regulus sia bravo,” si intromise James, facendo spallucce e bevendo un sorso del suo succo di frutta.
Sirius esalò un verso a metà tra uno sbuffo e un grugnito. “Mi sembra impossibile, ma staremo a vedere.”
Peter scosse la testa, come se non riuscisse proprio a togliersi dalla mente quel pensiero, “tu fai assolutamente schifo alle selezioni di quidditch,” iniziò di nuovo, muovendo il dito sul letto del dormitorio, come se avesse voluto tracciare un percorso su una mappa del tesoro “e rimorchi?” concluse infine, incredulo, alzando gli occhi su Sirius.
Il ragazzo scrollò le spalle e annuì divertito.
“Ed è stata lei a chiedertelo?”
Sirius annuì ancora.
“Dove andate?” domandò invece James.
“Le ho detto che conosco un bel posto,” rispose lui criptico.
Remus aggrottò la fronte, rabbuiandosi senza una ragione. Si era fatto un’idea in merito a quel ‘bel posto’ e non seppe bene perché, ma pensò che, se le sue supposizioni fossero state corrette, si sarebbe offeso. “Che posto?” domandò infatti, con un pizzico di aggressività in più di quanta ne avrebbe voluta mostrare. La sua mente vagò senza permesso alla Torre di Astronomia.
“Pensavo di andare a Hogsmeade,” rispose Sirius, come a doversi difendere, “perché?”
Remus fu certo che se il suo cuore avesse potuto sospirare l’avrebbe fatto in quel momento, e di sollievo. “Chiedevo,” ribatté stizzito; era il suo turno di mettersi sulla difensiva.
“Okay.” James si intromise letteralmente nella strana tensione che si era creata tra i due, con le sopracciglia aggrottate nella confusione di uno che percepiva un’aria densa ma non riusciva a capire se fosse il solo.
Peter sembrava abbastanza rilassato, come se in fondo non fosse accaduto proprio nulla.
Si chiese se fosse stata solo una strana impressione.
 
***
 
“Da quanto conoscete questo passaggio?” domandò Marlene e Sirius comprese che lui e i suoi amici si erano fatti una gran bella reputazione, se le veniva così naturale parlare al plurale. Gli occhi le brillavano sotto la luce fredda dei lampioni disseminati per Hogsmeade. C’era perlopiù silenzio e qualche voce concitata che veniva prontamente ovattata dalle spesse mura di negozi e locali notturni.
Sirius si strinse nelle spalle e un sorriso sghembo gli strisciò sulle labbra. “Un mago non rivela mai i suoi trucchi.”
Marlene alzò gli occhi al cielo e rise, rompendo il ghiaccio e muovendo i primi passi al centro della strada principale di Hogsmeade.
Sirius affondò le mani nelle tasche dei pantaloni, la giacca troppo leggera per la temperatura frizzante di ottobre. “Ti va una burrobirra?” domandò poi, scrollando le spalle con disinvoltura, come se in fondo non gli importasse.
Marlene aggrottò le sopracciglia, poi soffiò una risata derisoria e alzò ancora gli occhi al cielo. “Seguimi,” disse infine, prendendolo per un polso prima che potesse ribattere e trascinandolo lontano da tutti i negozi illuminati.
Sirius osservò con un cipiglio confuso i capelli biondi di Marlene, che svolazzavano davanti a lui, mentre camminava decisa verso il nulla.
Sorrise, però, per la prima volta esaltato dalla compagnia di una ragazza. Essere uscito con Marlene, a quel punto, gli sembrò una gran bella idea.
Non poté che seguirla. 
 
***
 
Severus Piton stava praticamente affondando nella sua poltrona di pelle nera. Aveva un sopracciglio alzato, unico indizio del disgusto di fondo che provava.
Era sicuro che Mulciber non avesse smesso di parlare un attimo nell’arco degli ultimi venti minuti e lo stava semplicemente disturbando oltre ogni limite. Riuscì a stento a trattenere l’ennesimo grugnito di disapprovazione, quando Avery gli diede ragione, condendo il tutto muovendo energicamente il capo su e giù. Forse voleva che Mulciber pensasse che stava annuendo, ma a Severus ricordò più una foca ammaestrata.
Rosier scoppiò a ridere. “Colpa dei Nati Babbani, ecco di chi,” decretò, stringendosi nelle spalle come se fosse stata la risposta più ovvia.
Wilkes annuì solenne, i capelli a spazzola si mossero con la sua testa in una maniera assai buffa.
“I miei genitori,” annunciò Mulciber, zittendosi per qualche secondo e assicurandosi che nessuno fosse nei paraggi. Piton pensò, a dirla tutta, che lo stesse facendo per creare un po’ di interessante tensione, “dicono che qualcosa si sta muovendo, sapete,” sussurrò, quasi in un sibilo.
Avery sgranò gli occhi, improvvisamente spaventato dalla maniera rapidissima in cui quelle parole buttate al vento si stessero trasformando in immagini solide. “Si sta muovendo qualcosa?”
Severus inclinò il capo su un lato e aggrottò la fronte. Mulciber doveva star bluffando.
“Non mi hanno voluto dire altro, solo che finalmente noi avremo giustizia,” continuò, riempiendosi la bocca di parole che non erano sue e gustando sul palato la forza immane che avevano avuto sui suoi amici.
Qualunque cosa si stesse muovendo, a detta dei genitori di Mulciber, aveva preso a farlo anche nella Sala Comune dei Serpeverde, perché un sottile strato di gelo pareva essersi depositato attorno a loro ad appesantire ogni respiro.
Tra i volti curiosi, eccitati e vagamente impensieriti dei ragazzi, solo quello vuoto di Piton pareva spiccare.
“Tu che ne pensi, Severus?” domandò Wilkes, con un cenno del capo nella sua direzione.
Il ragazzo lo guardò con sufficienza, le palpebre che si alzavano e si abbassavano a un ritmo decisamente più lento di quello tipico di ogni altro occhio. “Penso che si sia fatto tardi,” commentò atono, alzandosi dalla sua poltrona e lasciando un ultimo sguardo ai suoi amici.
Rosier soffiò una risata, “andiamo, era un argomento interessante.”
“Che si potrà affrontare di nuovo,” Severus scrollò le spalle e mosse un mano incurante, dirigendosi già ai dormitori. Fu sicuro di esserseli scrollati di dosso solo quando sentì Rosier tornare a stendersi sul divano con un tonfo sordo.
Quella notte, una strana inquietudine si fece strada nel suo animo. Si addormentò con un solo, inestricabile, pensiero in testa, che si tradusse in un viso preciso nel momento in cui si abbandonò al sonno, scivolando nell’incoscienza: Lily.






 

 


[1]: Versione magica(?) del paradosso di Zenone di Achille e la Tartaruga.

Note di El: Ciaoooo, benvenuti alla fine della parte 1 del capitolo 8, questa cosa mi pesa da morire perché la struttura è andata un po' a farsi benedire così, però intero era troppo lungo e Severus non è comunque il massimo della gioia, quindi c'è comunque un po' di gioioso angst, yuppie. Rido da sola per la quantità di cose che stanno tutte in questo inizio di capitolo che mi rendono super insicura, quindi glisserò abilmente che magari non vi siete ancora accorti che sono terribili e ALLORA, io lo so che ci sono tipo millemila fanfiction in cui Sirius è Battitore e se la gode, MA ASSOLUTAMENTE NON IN QUESTA. Cioè, sono proprio categorica sulla questione, ragazzi, bisogna che abbia qualche difetto cioè, non esiste la gente perfetta, mo pure bravo a quidditch? E che è, è arrivato il principino, noooo, assolutamente no. 
E ovviamente, madre, mille grazie per aver letto, veramente, è un onore rubarvi tempo con 'sta cosa.
Ciao, ci becchiamo all'8.2, ANZI NO, quando si divide a metà si lasciano gli estratti, eh? Io vi saluto qui, addio gente!


 

“Ora che hai abilmente evitato la mia prima domanda e credi di essere fuori pericolo,” il ragazzo puntò di nuovo lo sguardo sul suo amico, ma solo per un secondo, “mi vuoi dire perché sei venuto qui?” alzò gli occhi sul cielo e sulla solita falce di luna. Un velo opaco ne ostruiva la vista e Sirius inclinò la testa su un lato, realizzando, solo quando un primo tuono superò la voce di Remus, che stava piovendo a dirotto.


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 8.2 - Tra trasgressione e timidezza ***


8.2 Tra trasgressione e timidezza

 





Agosto, 1981

Sirius ricordava i fiori, li ricordò vividamente per i successivi dodici anni e, di tanto in tanto, anche dopo.
Puzzavano, questo era certo, e alcuni erano obiettivamente brutti. Anche le facce delle persone lo erano. Le facce di quelle poche persone che avevano avuto il modo e la ristrettissima libertà di presentarsi in una casa ormai vuota.
Sirius si guardava attorno con occhi spenti e assenti, sembrava quasi che fosse lì per errore, che non sapesse cosa stava facendo. Teneva la mascella serrata per non lasciar scappare niente. Non poteva saperlo, non poteva neanche immaginarlo, ma quella fu forse una delle cose che spinsero Remus ad allontanarsi ulteriormente da lui, come faceva ormai da circa un anno.
I fiori puzzavano da matti, sapevano di morte. Quel luogo intero ne era intriso.
Sorrise debolmente quando Peter si avvicinò a lui stravolto e gli poggiò solidale una mano su una spalla, la sofferenza dipinta in volto e un senso di impotenza che gli aveva letto in faccia qualche tempo prima e che da allora non gli aveva più visto abbandonare.
Peter sembrava perso, totalmente smarrito e senza più un briciolo di speranza. Si aggirava per la casa con gli stessi occhi vecchi delle fotografie sorridenti ancora in fila sulle mensole, sembrava volersi stampare in testa ogni dettaglio per flagellarsi senza motivo in seguito.
Senza alcun motivo.
Remus era seduto su una poltrona proprio accanto a un bouquet di quei maledetti fiori. Lanciò un veloce sguardo a Sirius.
Lui ricambiò consapevole... e diffidente.
Remus serrò le labbra, come dispiaciuto, come se, indirettamente, tutto ciò fosse colpa sua, poi distolse lo sguardo.
Sirius lo fissò soltanto, cercando di leggere, nella maniera stupida in cui Remus si colpevolizzava da sempre per qualunque cosa, la possibilità di un tradimento.
 

“James, noi…” Lily scoppiò a piangere, mentre teneva ancora strette le mani del marito tra le sue.
James la guardò per un attimo in viso e non riuscì a trattenere una smorfia di sofferenza. Poi coinvolse Lily in un abbraccio, lasciando che singhiozzasse sulla sua spalla a inzuppargli la maglietta. La strinse più forte.
“Noi non possiamo neanche essere lì,” riuscì a dire Lily, asciugandosi le lacrime con una mano e percependo, quasi con la porta sul retro delle sue sensazioni, anche la sua maglietta inumidirsi, “non possiamo dirle addio, capisci? Per l’ultima volta.”
“Lo so,” disse James, in un sussurro, “finirà presto,” si costrinse a dire, ma come poteva mostrarsi positivo in un momento simile? Come poteva anche solo azzardarsi a credere che le cose potessero finire nella maniera in cui le avevano programmate? Improvvisamente gli sembrò tutto così vano e quella casa gli parve stretta e asfissiante, in una maniera che collideva violentemente con la vita che aveva sperato di costruirci dentro quando ci aveva messo piede per la prima volta.
“Lei c’è sempre stata per me,” sussurrò Lily. Non piangeva più, ormai, la fragilità dei suoi ventun anni nascosta di colpo sotto la sola voce spezzata, “noi avremmo potuto… io avrei dovuto…”
James sciolse l’abbraccio e le prese il viso tra le mani, scuotendolo dolcemente e portandolo più vicino al suo. “Nessuno avrebbe potuto fare qualcosa,” sentenziò, cercando il suo sguardo quando lei sospirò scettica e alzò gli occhi al cielo, “è la guerra, l’Ordine comporta dei rischi, lo sai.” Cercò di mostrarsi convincente, ma gli occhi arrossati lo rendevano difficile.
“Sta diventando sempre più feroce,” considerò lei, quasi pregandolo con lo sguardo di fare qualcosa “ed è noi che cerca, nostro figlio. Marlene è morta per…”
“Per colpa tua? Non perché lui è un dannato assassino?” James scosse la testa e un sorriso tirato gli alzò un angolo della bocca. “Davvero, Evans? Pensavo di essere io quello egocentrico.” Il riflesso di quella scintilla ironica che faceva di James Potter James Potter tornò per un attimo a invadergli le pupille.
Lily rise triste. Era una cosa rotta e poco convincente, ma in quelle circostanze fu una conquista.
 
Oh, ecco di cosa sapevano quei dannati fiori, di qualcosa di acido andato a male.
Senza ombra di dubbio di quello e di naftalina, ma forse non erano i fiori; era la morte.
 
***
 
Il rumore di una bottiglia che veniva stappata trafisse il silenzio in bilico della notte di Hogsmeade. L’aroma pungente del whisky incendiario si liberò come fumo oltre l’orlo della bottiglia e Sirius e Marlene avvicinarono il naso curiosi, respirando l’odore della trasgressione. A entrambi scappò una risata mentre, seduti scomposti su un muretto di pietra, volgevano lo sguardo allo spicchio di luna decrescente di inizio ottobre.
Sirius allungò una mano per farsi passare la bottiglia già appiccicosa e trasse un lungo sorso. “Questo non l’ho mai assaggiato,” commentò stupito, alzando la bottiglia al livello degli occhi e dando un’occhiata all’etichetta.
“Quello di Ogden è il migliore,” lo informò lei, facendo concorrenza al miglior sorriso sghembo di Sirius, poi interruppe qualsiasi sua ulteriore contemplazione della bevanda per sottrargli la bottiglia e concedersi un sorso decisamente più sicuro e spedito.
Sirius inarcò un sopracciglio a guardarla bere, vagamente impressionato. Sorrise, però, perché la sua opinione su di lei cresceva esponenzialmente. Sfregò le mani tra loro per riscaldarle e le affondò nelle tasche dei pantaloni. “Me ne lasci un po’, che dici?” domandò ironico e Marlene soffiò una risata tagliente, tendendogli la bottiglia e leccandosi il sapore dolciastro del whisky dalle labbra.
Sirius sorrise di rimando, mentre la consapevolezza del fatto che fossero totalmente soli si faceva di secondo in secondo più solida.
L’atmosfera si era addensata in poco tempo, riflettendo la temperatura di Hogsmeade, che era scesa di qualche grado in una manciata di minuti.
Sirius si mosse istintivamente più vicino a lei, per compensare con il gelo del muretto su cui erano seduti. Sembrava che ci fosse qualcosa sospeso tra i loro respiri, un urgente bisogno di riempire quel vuoto con una parola che non riuscivano del tutto a visualizzare. Prese un altro sorso dalla bottiglia di whisky incendiario, felice di poterlo usare sia per riscaldarsi, sia per stemperare quello che aveva identificato essere un inedito imbarazzo. Cercò di concentrarsi sul bruciore che gli graffiava la gola e di distrarsi.
“Bella performance, oggi,” commentò Marlene, stringendosi nel mantello, nella voce un tremolio di freddo o di qualcos’altro. Se Sirius non l’avesse percepito nel suo tono, avrebbe davvero pensato che fosse totalmente a suo agio. “Sbaglio o non hai sfiorato neanche un anello?” domandò, poi, la solita ironia pronta a superare ogni imbarazzo.
Sirius sbuffò divertito, ridendo piano e giocandosi ancora una volta la carta di un sorso di whisky. “Per tua informazione, ne ho sfiorati due.”
“Avversari?” chiese Marlene, con troppa innocenza nella voce per risultare anche solo un minimo innocente.
Sirius le rifilò una veloce occhiataccia, ma Marlene distolse lo sguardo dopo un attimo, cacciando le mani in tasca con un sospiro. Lui inclinò la testa su un lato, osservandola armeggiare con qualcosa di non ben definito. Prese l’ennesimo sorso di whisky e, forse complice l’alcol, ostentò un coraggio costruito di sana pianta. “Non avrò colpito neanche una pluffa,” iniziò, sulle labbra la solita curva astuta che esibiva prima di uno scherzo distruttivo, “ma il mio fascino ha colpito eccome.”
Marlene scoppiò a ridere in maniera un po’ troppo derisoria, a detta di Sirius, e finalmente cavò dalle tasche un pacchetto di sigarette babbane. Ne estrasse una e, dopo un attimo, una fiamma timida scappò dall’accendino a illuminare la brace. “Tu non sai proprio flirtare, eh?” lo provocò, prendendo un tiro della sigaretta e soffiando via il fumo poco dopo.
“Io so flirtare eccome,” si difese Sirius, con un cenno del capo nella sua direzione. “Cos’è quella roba?”
Marlene scelse di non rispondere e si limitò a porgergli la sigaretta con una scrollata di spalle. Sirius le restituì la bottiglia con sguardo diffidente e prese tra le mani il cilindro di carta, rigirandoselo tra le dita come se avesse potuto avvelenarlo sul posto. Si portò la sigaretta alla bocca, non staccando gli occhi da quelli di Marlene e saggiando il filtro amaro tra le labbra.
“Respira,” lo guidò lei, “non troppo, è la prima volta,” si premurò di aggiungere, osservandolo.
Non considerò, però, che quella frase l’aveva rivolta a Sirius Black. Ovviamente l’aveva presa come una sfida.
Prese un respiro profondo e trattenne il fiato come se espirare fosse diventato lo sport dei deboli. Peccato che si ritrovò costretto a cedere, perché i suoi polmoni lo costrinsero a tossire via il fumo in una nube densa e biancastra che contrastava in maniera quasi artistica col buio della notte di Hogsmeade. Marlene rise di gusto. “Te l’avevo detto!”
Sirius le porse la sigaretta con un sorriso e la osservò tirare senza problemi. “Non è male,” mentì, “me ne lasci una?”
Lei gli allungò il pacchetto senza aggiungere altro e si sporse appena oltre il muretto. Osservò le prime luci dei negozi di Hogsmeade spegnersi una dopo l’altra. I Tre Manici di Scopa, a qualche edificio di distanza, resisteva alla tarda ora, ma sempre più clienti si affollavano all’uscita, salutando la padrona del locale e la giovane Rosmerta. “Forse dovremmo tornare,” considerò Marlene, spegnendo la sigaretta sulla pietra sempre più fredda del muretto.
Sirius lanciò un’occhiata al viale e fece schioccare la lingua, con un sospiro. “E io che pensavo che fossi una delinquente, McKinnon.” Tornò a guardare Marlene, una scintilla di sfida a illuminargli gli occhi e una provocazione marcata con la voce sul suo cognome.
“Ti ho già fatto scoprire l’Ogden e le sigarette babbane,” considerò lei, contando le rivelazioni della serata su due dita, “non pensi che sia un po’ troppo per te, Black?”
“E tu?” domandò Sirius, mantenendo un tono ironico, ma facendosi improvvisamente più serio nell’espressione. “Non vuoi scoprire niente di nuovo?”
Qualunque presa in giro le passasse per la testa le morì sulle labbra, sostituita da un respiro spezzato. Lo sguardo le cadde titubante su quelle di Sirius, prima di risalire sui suoi occhi. Non ebbe molto tempo di vederci alcunché, perché lui si sporse in avanti e la baciò.
Un tocco impacciato, a dire il vero, quasi insicuro, prima che Marlene ricambiasse, saltando un respiro. Il sapore del tabacco babbano e del whisky magico si fusero insieme in un qualcosa che sapeva di adulti e di ribellione.
Non fu particolarmente piacevole, ma sicuramente fu tenero. Marlene sapeva che a un certo punto sarebbe stato corretto far scivolare la lingua nella sua bocca, ma perse il tempo giusto per farlo e finì per leccargli le labbra un po’ goffamente.
Sirius rise sulla sua bocca e rimediò dove lei aveva fallito, collezionando un altro mezzo disastro quando fece scontrare i denti con i suoi, spingendosi in avanti nello stesso momento in cui lo fece lei.
Non riuscirono a giudicare, in ogni caso, quell’esperienza come sgradevole. La falce di luna sorrideva come intenerita dai suoi trecentomila chilometri in cielo, segnando quella notte come una delle più spensierate e tranquille degli ultimi tempi.
Per una volta, infatti, la presenza della luna non era presagio di dolore, sofferenze e fratture, non suggeriva un’ennesima notte insonne. Sembravano aver raggiunto una specie di precaria tregua, una sera in cui permettersi di non maledirsi a vicenda.
In qualche modo, oramai, quella con la luna era anche la sua guerra.
Sirius ci pensò, per un attimo fuggevolissimo, a quanto le stelle brillassero più intensamente di fianco a una luna non piena, distratto di continuo da un bacio che aveva chiesto lui e che finalmente pareva essersi stabilizzato. E, in quello stesso attimo, contro ogni previsione, quella luna stranamente gentile gli portò alla mente proprio Remus, per quanto sbagliato questo potesse sembrare.
 
***

Novembre, 1980

“Dov’eri?” Remus era stato sul punto di sbadigliare, quando la porta d’ingresso si era aperta cigolando nel silenzio. Era seduto al tavolo della cucina, la luce gialla del lampadario illuminava a stento una vecchia copia di ‘notti bianche’. Sirius diede una rapida occhiata al libro, poi alzò gli occhi nei suoi.
L’aria era pesante, l’atmosfera tesa.
“Ti interessa?” ribatté scettico, scrollando le spalle e liberandosi della giacca.
Remus annuì mesto. “Sì, mi interessa.”
Si guardarono negli occhi, una tensione che non scorreva dall’epoca del grande scherzo di Piton e una tristezza opaca all’idea che, da quel momento in poi, quella sarebbe stata la loro vita.
Era estenuante, ormai. Era iniziata come una stupidaggine. Sirius aveva smesso di preparare il tè per due, una mattina. Remus, senza batter ciglio, si era svegliato e aveva iniziato a farselo da solo, senza neanche disturbarsi a chiedergli perché. Semplicemente, lo sapeva.
La guerra aveva affondato i suoi artigli di ghiaccio in ogni casa in cui fosse mai stato pronunciato un incantesimo, ma lì le cose erano ancora più tragiche.
Remus, quando da ragazzini avevano litigato, aveva giurato a se stesso che, se mai avesse perdonato Sirius per la faccenda dello scherzo, non si sarebbe mai più azzardato a dissotterrare la questione.
E poi si era tradito.
Mentre Sirius passava tutto il tempo da James e Lily, a cercare una soluzione per proteggerli da morte certa, Remus sospettava di lui e della quantità spropositata di tempo che passava fuori casa senza dare spiegazioni. All’inizio si era odiato per aver riportato a galla la questione dello scherzo a Piton, poi, però, l’idea che Sirius lo avesse già tradito una volta si era iniziata a radicare troppo in profondità e a prevalere sulle promesse di un sedicenne ingenuo.
Avrebbero potuto parlare apertamente e chiudere la questione, forse anche cambiare le sorti della guerra, ma quello era un esito possibile solo grazie a una variabile che ormai non poteva più entrare in gioco: era in questi casi che l’assenza di James si faceva determinante.
Perché continuavano a vivere insieme? Per tenersi d’occhio.
“Ero in missione per conto dell’Ordine,” rispose Sirius, in una mezza verità. Lasciò la giacca sull’appendiabiti e si diresse, suo malgrado, in cucina per un caffè.
“Dove?”
“In un villaggio babbano.”
“Tutto il giorno?” Remus sollevò un angolo della bocca in un sorriso di scherno.
Sirius iniziò ad armeggiare con la macchina con troppo nervosismo per riuscire ad occuparsi anche solo della cialda. “Sì, tutto il giorno.”
“Che hai scoperto?”
Sirius sospirò sonoramente, abbandonando il tono ingenuo e falso che aveva messo su. “Che vuoi?”
Remus aggrottò le sopracciglia, in una scarsa versione di un cipiglio confuso. “Ti ho solo fatto una domanda.”
“No, mi stai facendo un interrogatorio.”
Sospirarono entrambi, esausti. Remus annuì con una scrollata di spalle e, senza aggiungere altro, si alzò.
“Dove vai?” gli domandò Sirius. Per un attimo i loro occhi si incontrarono come a chiedersi aiuto a vicenda, vent’anni a testa e un affetto sfiorito prematuramente.
“A dormire, sono stanco.”
Sirius ritrovò il sospetto che aveva accantonato solo il tempo di uno sguardo triste. “Ah, sei stanco?” iniziò, il tono polemico che Remus gli aveva sentito usare solo contro i loro peggiori nemici, “mi sembra strano, visto che non fai praticamente niente tutto il giorno, o sbaglio?”
Remus si bloccò, mentre gli dava ancora le spalle. Annuì, perché quella frase era sia un’offesa per il fatto che non avesse un lavoro, sia un’insinuazione su un possibile tradimento. Attaccare quando veniva messo alle strette, d’altronde, anche se dai suoi stessi sentimenti, era da sempre la tattica di Sirius.
Lo ignorò, perché non rispondere alle provocazioni era il modo migliore per non farlo vincere. “Ti aspetto a letto.”
E, quando Remus sparì sopra le scale, Sirius si lasciò cadere sbuffando contro il mobile della cucina, fissando, mentre attendeva il suo caffè, il libro che Remus aveva lasciato sul tavolo.
‘Ti aspetto a letto’, ormai, era diventato il loro modo gentile per prenotare il letto. L’altro, semplicemente, si addormentava per sbaglio sul divano.
 
***
 
“Non pensavo fosse occupato.”
La voce divertita di Remus lo fece sussultare. Si irrigidì. Per qualche motivo, la sua presenza non gli era sgradita, semplicemente, per una volta, non era sicuro di volerla. Annuì, però, e si voltò a sorridergli.
Una regola d’oro, durante quegli appuntamenti all’aperto sulla Torre di Astronomia, era il silenzio. Era parte della tradizione, ormai. Sirius faticava molto a non commentare tutto, per stemperare quella serietà che inevitabilmente si depositava nell’aria, appesantendola. Si sentiva quasi utile e a posto quando si trovavano lì perché Remus era nervoso, irrequieto o insonne. Si sentiva assolutamente a disagio, invece, quando era lui il primo a lamentarsi nel sonno, ad alzarsi direttamente a sedere e a prendersi la testa tra le mani per un imbarazzantissimo e debole incubo.
Succedeva spesso, in quei casi, che Remus si svegliasse quasi subito, anche tre giorni dopo la luna, e che lo chiamasse scrollandolo appena, quando era bloccato in un dormiveglia confuso e tremendo. Non si accordavano neppure, agguantavano il mantello di James e, in silenzio, salivano fino in cima alla Torre di Astronomia, dove l’aria sembrava più respirabile e il fresco sui vestiti leggeri aiutava a rimanere con i piedi per terra, in qualche modo, a mantenere un contatto con la realtà.
In quelle sere, per quanto Remus fosse discreto, Sirius si sentiva scoperto.
“Non riesci a dormire?” domandò Sirius, voltandosi ancora a guardare il cielo e aspettando che Remus si sedesse accanto a lui.
“Cos’è quella roba?” il ragazzo eluse la domanda e alzò un sopracciglio, accennando col capo in direzione delle dita di Sirius.
“Me l’ha data Marlene,” si difese lui, come se ci fosse stato bisogno di difendersi, accendendo la sigaretta con la punta della bacchetta e cercando con tutto se stesso di non tossire.
Remus soffocò una risata nel naso e lo osservò fallire un attimo dopo. “Te l’ha data Marlene?” ripeté in una domanda, ignorando le sue momentanee e teatrali difficoltà respiratorie e alzando un paio le volte le sopracciglia, con aria allusiva.
“Sei chiacchierone,” lo prese in giro Sirius, che non stava più degnando di uno sguardo il cielo stellato, la falce di luna e il momentaneo e inspiegabile fastidio che gli aveva dato Remus. La sua completa attenzione era su quell’aggeggio strano e rilassante che gli faceva un po’ girare la testa. Un sorriso furbo gli alzò entrambi gli angoli delle labbra, mentre prendeva un tiro dalla sigaretta e lanciava una lunga occhiata significativa al suo amico. “Ci siamo baciati,” annunciò, camuffando l’ennesimo colpo di tosse con una risata. Remus lo notò e scoppiò a ridere.
Un sorriso genuino, però, si nascondeva sotto quella velata presa in giro. “Davvero? L’hai costretta?”
Sirius assottigliò gli occhi e lo guardò male. “Mi ha pregato di farlo di nuovo.”
“Chi? Marlene?” domandò Remus, platealmente scettico. Sirius prese il primo tiro senza tosse della sua vita e si dimenticò di rispondere male. “E ora… state insieme?” domandò Remus, un sorriso obliquo dipinto in viso, a mettere in risalto una lunga cicatrice su una guancia.
Sirius scosse il capo e soffiò fuori il fumo dai polmoni. “Non è così che si fa, Lupin.”
“Be’, ti piace?”
Che domanda era? Marlene era simpatica, carina e sveglia. Era brava a quidditch e forse non accumulava tanti punti quanto quella fanatica di Lily Evans, ma aveva intuizioni brillanti nelle materie più difficili. Ovviamente gli piaceva Marlene, non aveva nulla che non andasse.
“Certo.” Un tipico odore di terra bagnata gli invase le narici: si chiese se le sigarette babbane fossero fatte con terriccio per piante.
Remus lo guardò, contrasse le sopracciglia per un attimo, scettico, poi si strinse nelle spalle. “Questa è una buona cosa,” concluse infine, un sorriso sincero che distese il cipiglio di qualche attimo prima.
Sirius si sentì a disagio. “No, cos’era quella faccia?”
“Quale faccia?”
“Quella faccia,” Sirius gesticolò con la mano impegnata davanti alla sua faccia, come se quel gesto avesse potuto spiegare mille cose, “quella dubbiosa,” si spiegò, faticando a trovare la parola giusta.
“Non ho nessun dubbio…” tentò di difendersi Remus, ma Sirius scosse la testa subito. “Ho fatto quella faccia…”
“Allora lo ammetti!” Sirius soppresse una risata quando Remus si zittì di colpo e lo guardò come se avesse voluto strangolarlo. Alla fine cedette e ridacchiò, costringendo Remus ad alzare gli occhi al cielo.
“Ho fatto quella faccia,” ripeté lui, facendo una pausa come a sfidarlo ad aprir bocca. Sirius ondeggiò con la testa a prenderlo in giro, ma non lo interruppe, “perché non mi sei mai sembrato interessato a nessuna di tutte quelle attenzioni, tutto qua.”
Sirius scrollò le spalle e lanciò la cicca dalla Torre. Notò con confusione che non eseguì una parabola pulita, ma si sottomise alla gravità come se qualcosa l’avesse spinta dall'alto. “Dovresti provare a baciare qualcuno, capiresti molte cose,” gli suggerì Sirius, con la maturità e l’esperienza che un bacio e una sigaretta gli avevano conferito in una sera.
Remus rise. Di lui, del suo simpatico tono vissuto e dell’assurdità che una prospettiva del genere gli restituiva la sua mente. Andare a scuola era stato un sogno, avere degli amici gli era parso chiedere troppo, essere stato accettato da loro era stato un regalo di chiunque ci fosse lassù: non avrebbe mai osato chiedere di più. “Certo,” esalò, concentrandosi sulla piega ironica che voleva prendesse la sua risposta. Ci riuscì a metà.
Sirius sospirò. “Ora che hai abilmente evitato la mia prima domanda e credi di essere fuori pericolo,” il ragazzo puntò di nuovo lo sguardo sul suo amico, ma solo per un secondo. “Mi vuoi dire perché sei venuto qui?” alzò gli occhi sul cielo e sulla solita falce di luna. Un velo opaco ne ostruiva la vista e Sirius inclinò la testa su un lato, realizzando, solo quando un primo tuono superò la voce di Remus, che stava piovendo a dirotto.
Capì che le sigarette non sapevano di terra bagnata, che la cicca era caduta in picchiata per la pioggia sottile e invisibile che l'aveva spinta dall'alto e che la luna era coperta da nuvole via via sempre più dense.
Un fulmine tagliò il cielo a metà e una serie di segnali di allarme si accesero nella testa di Sirius. “Un temporale,” mormorò trasognato e ancora intontito.
Remus inarcò un sopracciglio, perché questa ossessione dei suoi amici stava diventando decisamente preoccupante e il modo in cui Sirius stava guardando il cielo lo stava mettendo anche un po’ a disagio.
Una pioggia torrenziale si riversò sul tetto di Hogwarts, tanto da costringere i ragazzi ad allontanarsi da dove si trovavano per via dell’inclinazione.
Sirius posò uno sguardo sconcertato su Remus, sembrava aver visto un fantasma. “Un temporale!” esultò questa volta, come se i Grifondoro avessero appena vinto contro i Serpeverde, contro suo fratello.
“Sì, ma…”
Sirius sembrò riscuotersi. “Devo andare,” tagliò corto, prendendo a muovere le mani frenetico, la luce flebile sulla Torre di Astronomia si rifletteva nei suoi occhi grigi: sembravano mandare scintille come nel cielo.
“Mi spiegate che vi pren…”
“Vai a letto, Remus,” ribatté pratico Sirius, come indaffarato, occupatissimo. “Vai a letto,” ripeté, più per scopi personali che per un vero interessamento al suo ciclo del sonno. “E…” Sirius esitò, adocchiando il mantello e mordendosi un labbro.
Remus seguì il suo sguardo e aggrottò la fronte: non poteva credere che intendesse lasciarlo lì senza copertura!
“Scusami, davvero, mi serve,” mormorò Sirius, afferrando velocissimo il mantello dell’invisibilità di James e iniziando a usarlo per coprirsi.
“E a me no?”
“Ne ho davvero bisogno, tu… fidati di me, ti prego,” spiegò, senza spiegarsi affatto. Poi scomparve sotto il tessuto magico.
Remus udì un’altra scusa provenire da un punto imprecisato nell’aria, poi fu certo di essere rimasto solo.








 

Note di El: NON FUMATE!!
Ciao, ehilà ciaaaao. Benvenuti all'ultimo capitolo che dista una settimana dall'ultimo pubblicato... Vabbè, era un modo difficile per dire che aggiorno tra dieci giorni. Dispiace un sacco anche a me, ma Costanza prende il volo, altrimenti (questa battuta faceva veramente schifo). 
Informazione necessaria "Come capire se la luna è crescente o no?" Tranquilli, ve lo spiega El con una semplice guida. Se è a forma di D, cioè ha la pancia rivolta verso destra è Crescente, perché è bugiarda. Se invece è a forma di C, poiché è sempre bugiarda, è Decrescente. Bene, ovviamente era importantissimo, cioè.
Comunque devo troppo precisare una cosa dello scorso capitolo non perché voglia dare degli stupidi a voi, CI MANCHEREBBE ALTRO, veramente, ma perché la stupida sono io che, ripensando allo scorso capitolo, mentre ero circondata da gente, ho tipo detto ad alta voce "merda, ho fatto un casino!" e invece non ho fatto nessun casino se non urlare una parolaccia ad alta voce. Allora. Il fatto che sia agosto del 1981 e che Sirius entri a casa di James e Lily per dare la notizia della morte di Marlene. Bene, può farlo perché semplicemente non hanno ancora fatto il bordello del Custode Segreto. E questo perché? Perché, semplicemente, per me non ha nessun senso che questa cosa duri addirittura più di due mesi. Cioè, Peter cambia sponda (e non come la cambiano Sirius e Remus, sadly) a ottobre del 1980. Non c'è proprio nessun universo in cui siano rimasti vivi un anno intero con Peter come Custode. Cioè, ma non esiste proprio. Okay che Voldemort si deve un attimo organizzare, ma un attimo cioè, più di due mesi non possono proprio farcela. Quindi questa cosa dell'Incanto Fidelius deve essere durata veramente veramente poco. Qui due mesi. Mo', io ho fatto il maggior numero di ricerche possibili e spero vivamente che non mi sia sfuggito niente e che non mi sia persa un'informazione canon molto importante che sfracella questa teoria, però ecco, fino a prova contraria così stanno le cose, altrimenti non ha proprio senso.
Vabbè dopo questo spiegone che mi pareva anche abbastanza importante, in realtà, ecco tutto, le informazioni di servizio ci sono, la pioggia scende finalmente e una scena alla torre di Astronomia è arrivata.
Pregate che non mi faccia venire di nuovo voglia di inserire paragrafi che non dovevano esistere totalmente a caso perché per quanto mi sia piaciuto scrivere la scena dei sospetti, capitemi, non mi so spiegare, ho dovuto leggere 'notti bianche' in rush (perché non potevo assolutamente citare un libro che avevo letto, dico io) e ho dovuto coinvolgere mia zia che mi ha spiegato come fanno il caffé gli inglesi (non so perché non gli abbia fatto fare il té, visto che non sapevo fare il caffé, non ne ho idea, come ogni cane che si rispetti è Sirius che tira il guinzaglio io non ho proprio potere su di lui soprattutto, voleva il caffé)
Quest'è quanto, scusatemi se vi ho ammorbati ma tanto pace, non mi vedete per dieci giorni, almeno questo.
No, okay, però adesso davvero grazie perché, anche se tecnicamente questo è l'ottavo capitolo, in realtà siamo già a dieci e questa cosa da un lato mi fa capire che oooooh e quanto la stiamo tirando per le lunghe e mamma mia schioppate tutti e finiamola qui, ma dall'altro lato cioè grazie un sacco per essere ancora qui a leggerla MA BASTA ESSERE SENTIMENTALI, ciao, grazie veramente <3
Adieu,

El.


 

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Capitolo 11
*** Capitolo 9 - Fantasmi ***


9. Fantasmi







1 settembre, 1993
 
Remus Lupin si strinse nel suo cappotto rattoppato e tirò su col naso. Aveva le ossa indolenzite e un’eccitazione inusuale per quel periodo del mese gli montava nel petto.
Normalmente avrebbe fatto carte false per godere appieno della prima, vivida emozione positiva dopo anni, ma una stanchezza anche più feroce del normale gli stava divorando pian piano la testa, come a invitarlo aggressiva a chiudere gli occhi per un po’.
Passò in rassegna con lo sguardo gli scompartimenti ancora mezzo vuoti del treno e gettò l’occhio in una cabina quasi come se qualcosa, al suo interno, lo avesse chiamato. Due giovani Tassorosso parlottavano fra loro a bassa voce, come a non volersi far sentire e, alla vista dell’uomo, alzarono uno sguardo allarmato, poi abbassarono gli occhi in fretta. Se per il suo aspetto o perché era un adulto, Remus non lo seppe mai.
Superò la cabina in fretta. La cosa non aveva nulla a che fare con i loro sguardi, però, c’era qualcos’altro.
Un incantesimo scherzoso gli sfiorò un orecchio e due ragazzi praticamente identici sgranarono gli occhi sorpresi. “Scusi,” disse uno dei due, con un sorriso che non sembrava affatto dispiaciuto. L’altro ridacchiava come un pazzo dietro la sua schiena. Remus sorrise debolmente, anche se non voleva mostrarsi subito troppo accondiscendente, poi scosse la testa come a rassicurarli. Sapeva benissimo che non avevano bisogno di essere rassicurati.
Fu solo quando si infilò nell’ultimo scompartimento del treno e si lasciò cadere sul sediolino che realizzò che, per ben sei anni, passare davanti a quella cabina era stato un incubo. Ed ecco il motivo della strana fretta. Vedere quei due gemelli, in un certo modo, l’aveva come svegliato.
Era il luogo in cui si rintanavano Piton, Regulus e un altro paio di amici strani che a James piaceva tanto insultare. Non aveva idea del perché il suo corpo l’avesse percepito prima ancora che lui stesso fosse in grado di realizzarlo, era come se avesse sempre mantenuto la memoria del numero di passi che, dall’ingresso, ci avrebbe impiegato a raggiungere quella cabina. Come se i suoi muscoli si fossero nuovamente plasmati su una storia che andava solo rispolverata, a compiere azioni di cui non aveva mai perso l’abitudine.
Sospirò; l’eccitazione che scemava in una nostalgia pungente, che gli picchiettava la nuca come a ricordargli che tornare sul luogo del delitto non era facile neanche per il complice dell’assassino. A maggior ragione se l’assassino era improvvisamente a piede libero.
Dannato lui e dannata quella sua tendenza a rendere teatrale anche una maledettissima evasione.
Dormire gli avrebbe fatto bene. Si accasciò con il fianco sul finestrino del treno e chiuse gli occhi, tre voci appena udibili gli giunsero all’orecchio lontane, come provenienti da un altro tempo, un altro mondo. Scherzavano su qualcosa, ma non riuscì ad afferrare cosa con precisione, così in bilico sul filo del sonno.
“Dovremmo inaugurarla,” James si guardava attorno, analizzando ogni angolo delle pareti del treno. Il loro secondo anno era alle porte e lui non era nella pelle all’idea dei nuovi fantastici scherzi che aveva in mente.
“Allora è questa? La nostra cabina?” Peter, invece, aveva una vena ironica nella voce. Remus sorrise e si guardò attorno a sua volta, per pensare a qualcosa da lasciare nello scompartimento. Qualcosa di piccolo, invisibile a tutti se non a loro, che sapevano dove cercare. Qualcosa che avrebbe reso quella cabina loro.
“Non si sa come sia riuscito a scappare da Azkaban,” una voce nuova si intromise in un sogno che assumeva sempre più i contorni di un ricordo. Suonava nervosa, inorridita, “nessuno c’era mai riuscito prima. Ed era anche un sorvegliato speciale.”
“Certo, potremmo… Non lo so, appendere uno striscione e scriverci su ‘James Potter è vergine. Ragazze, vi va di convertirlo?’ Suona bene,” un commento leggero fatto con una nota divertita nella voce.
Remus sorrise e diede del vandalo a Sirius.
“Oh, Ron, non dire sciocchezze,” una voce femminile, derisoria, distorse quel ricordo, “Black ha già ucciso un mucchio di persone in una strada affollata!”
“Io ce lo attacco,” Sirius tirò fuori una specie di lungo pezzo di tessuto che somigliava un po’ troppo a una tenda bianca di altissima fattura. Nessuno fece domande, ma poterono giurare di sentire Walburga Black urlare anche da lì.
“Ma sei scemo?” domandò retorico James, battendosi una mano in testa, “guarda che lo cambio, ci scrivo sopra il tuo nome.”
“Oh, ti prego, James,” ribatté il ragazzo, muovendo leggero una mano davanti a lui.
Remus alzò gli occhi al cielo e lo imitò, esagerando ulteriormente quel gesto con la mano e concludendo la frase al posto suo, in una caricatura del suo accento. “Ti prego, James, non ho bisogno di uno striscione per rimorchiare!”
Sirius assottigliò lo sguardo. “Ti ammazzo, Lupin.”
“Tu?” lo interruppe James, “tu a duello non hai speranze.”
Sirius sembrò pensarci su. “Contro Peter sì,” soffiò, scoccando un’occhiata al ragazzino.
Peter si strinse nelle spalle, sarebbe quasi potuto sembrare offeso se non avesse masticato un veloce ‘va’ a farti fottere, Sirius,ʼ prima di scoppiare a ridere.
“Volentieri, qualche volontario?”
Un miagolio contrariato si intromise nel sogno.
“Non fare uscire quella cosa!” gridò un ragazzo.
“Grattastinchi!”
“Via di qui!”
“Ron, lascialo stare!” esclamò ancora la studentessa. Lo squittio di un topo risuonò terrorizzato nel vagone.
Lupin si mosse a disagio sul sedile, ancora troppo cedevole alle avances del sonno per svegliarsi davvero.
“Ehm… professor Lupin?”
Un altro squittio.
“Deve essere qualcosa di meno… appariscente,” propose Remus, abbassando uno sguardo ironico su Sirius. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto.
“Uno striscione per te?”
“Ti sembra meno appariscente?” domandò Lupin, aggrottando le sopracciglia e osservandolo in attesa.
Tu sei meno appariscente.”
Remus si indicò le cicatrici sul viso, in maniera eloquente. “Ti sembro poco appariscente?”
“Secondo me sono da duro,” ribatté Sirius e James, accanto a lui, annuì solenne, come se quella fosse stata una verità incontraddicibile.
Remus li guardò entrambi per un attimo, poi scosse la testa rassegnato, un sorriso accennato ad alzargli gli angoli della bocca e una traccia di speranza a illuminargli lo sguardo.
“Hermione?”
“Che cosa fai?”
“Stavo cercando Ron…”
“Entra e siediti.”
“Non qui!”
Bastò quello, a dire il vero, una voce più alta, ma spaventosamente simile a quella di James. Sembrava… così fuori contesto, immersa in dialoghi di cui non afferrava le coordinate, affiancata a nomi che non conosceva.
“Qui ci sono io!”
Remus Lupin aprì gli occhi di scatto e la verità lo colpì come le secchiate d’acqua gelata che gli avevano fatto da sveglia ai tempi di Hogwarts. Quello scompartimento era lo scompartimento dei Malandrini, vi si era rintanato senza nemmeno dar conto alle sue gambe.
James e Peter erano morti, Sirius era evaso di galera.
Tutto era abbastanza ovvio, ma non comprese subito perché la cabina fosse immersa nel buio, né perché un freddo pungente si stesse aprendo unʼinquietante strada per le sue ossa. 
La rabbia gli risalì alla testa, il dolore gli arpionò la gola e il collegamento al gelo e al buio gli parve subito chiaro.
“Ahia!” gemette ancora un’altra voce.
“Silenzio!” esclamò all’improvviso, con voce sorprendentemente roca. Aprì con calma una mano e una luce tremolante gli scappò dalle dita con un crepitio. “Restate dove siete,” aggiunse e lo sguardo gli cadde su un ragazzino dai capelli disordinati e neri. Un paio d’occhi verdi lo guardavano con curiosità e un pizzico di timore reverenziale, una cicatrice svettava sulla fronte, marchio del famoso ‘bambino che è sopravvissuto’. A lui ricordava solamente un misto di James e Lily.
Quando la porta si aprì e una figura incappucciata si fece largo nello scompartimento, il freddo si impennò e una quantità indefinibile di angoscia piombò loro addosso. Gli occhi di Lupin saettarono in direzione di Harry e gli parve di sentire il sangue nelle vene ghiacciare tutto insieme. Il Dissennatore lo stava attaccando.
“Professore…” sussurrò una ragazzina dai lunghi capelli castani.
Remus non disse niente, diede una rapida occhiata alla cabina, per accertarsi di non fare danni, poi scavalcò Harry Potter e si interpose tra lui e quella figura deplorevole. “Nessuno di noi tiene nascosto Sirius Black sotto il mantello. Va’ via,” sussurrò, agitando la bacchetta con un gesto fluido.
Lasciò vagare lo sguardo appena dietro il cappuccio del Dissennatore. Lì, poco più sopra il cornicione della porta, un’incisione storta spiccava sul muro e un tessuto bianco ormai impolverato incorniciava la scritta. Oltre alla polvere, doveva portare attaccato anche qualche traccia di felicità. Remus si concentrò.
“Oh, avanti, col pezzo di tenda è più bello, è una cornice!” osservò Sirius, dopo aver performato un incantesimo di adesione permanente sul muro dello scompartimento.
“Ci vuoi questa tenda a tutti i costi, eh?” domandò Peter, osservandolo armeggiare col tessuto strappato per abbellire il loro capolavoro.
“Oh, ma… Riesci a sentirla?” James sembrò trattenere il fiato e cercare di captare un rumore in particolare. “Oh, sì!” esultò poi, guardando Sirius, “questa mi sembra proprio la voce di tua madre che ti maledice!”
Tre parole incise lo osservavano sbiadite. Si concentrò a fondo, cercando di non associare il resto di quella storia – della loro storia – al momento in cui vennero scritte.
Poi puntò la bacchetta contro il Dissennatore e, senza esalare neanche una parola, osservò come se non l’avesse evocata lui una luce argentea scivolare via dalla punta. Non lo guardò direttamente, a dire il vero, gli occhi gli erano rimasti incollati su quelle tre parole, scritte ancor prima che venissero usate per uno dei più grandi e geniali progetti mai ideati nei confini di quella scuola.
Fatto il misfatto.
 
***
 
“James, Peter, alzatevi immediatamente!”
Sirius scivolò e non cadde per puro miracolo. Aveva illuminato a giorno la stanza del dormitorio tra lanterne e bacchetta e continuava a urlare indaffaratissimo, inserendo qualche parolaccia nel discorso, perché dovevano davvero fare in fretta.
James si stropicciò un occhio con il dorso della mano e si alzò a sedere con un lungo sbadiglio. “La devi smettere,” mormorò, preparandosi già al compito che detestava di più sulla faccia della Terra: sedare Sirius quando era irrimediabilmente su di giri… e lui no. 
“Ti devi alzare adesso,” ribatté Sirius, avvicinandosi al letto di James e tirandogli le coperte via di dosso.
“Quello che hai fatto con Marlene ce lo puoi raccontare domani.”
Sirius si bloccò per un attimo, aggrottò le sopracciglia confuso, poi sgranò gli occhi e scosse la testa energicamente. “No, non avete capito niente, sta piovendo!”
Il silenzio durò un attimo. James sgranò gli occhi e scambiò uno sguardo veloce con il suo migliore amico, poi afferrò il cuscino e lo lanciò dall’altro lato della stanza, sul letto di Peter, senza neanche preoccuparsi di accertarsi che stesse effettivamente piovendo a dirotto.
Si alzò incespicando sui suoi stessi passi e, senza aspettare che la testa smettesse di girare, inforcò gli occhiali e corse a tirare Peter giù dal letto.
“Pete, piove! Un temporale!” gli gridò Sirius, entusiasta come se non stesse per mettere a punto uno degli incantesimi più difficili del mondo magico.
James gli rivolse un’occhiata allarmata. “Abbassa la voce, idiota, se svegliamo Remus è la fine.” Scoccò un’occhiata al letto del ragazzo. Le tende erano chiuse e nessun suono oltrepassava la loro barriera.
“Remus non c’è, per questo dobbiamo muoverci,” spiegò pratico Sirius, scuotendo ancora Peter, che aveva preso a lamentarsi e grugnire, “Pete!”
“Che vuol dire che non c’è? Dov’è?” James aveva smesso di tartassare Peter e aveva preso a guardare Sirius chiedendogli con gli occhi qualche pezzo in più del puzzle.
“Era con me, ho guadagnato tempo, è senza mantello, ci metterà una vita a tornare,” spiegò veloce Sirius, dando letteralmente uno schiaffo al povero Peter.
“Ma che ore sono?”
“Che ne so? L’una?” Sirius si soffiò un ciuffo via dagli occhi e piazzò il mantello dell’invisibilità tra le mani del suo amico. Aveva finalmente entrambe le mani libere. “Peter!”
“Ma che stavate facendo?” James si rigirò pensieroso il mantello tra le mani.
“Alla buonora!” gridò Sirius, a braccia conserte, ignorando la domanda dell’amico, perché Peter pareva essere tornato dal Regno dei Morti. “Alzati,” comandò, privandolo delle calde coperte in cui si era rintanato.
“Ma che ore sono?”
“L’una,” rispose James, fidandosi del calcolo approssimativo dell’amico.
“Sta piovendo!” Sirius lo tirò per un braccio e avrebbe portato avanti il suo progetto di farlo cadere dal letto, se solo Peter non si fosse divincolato mezzo assonnato e avesse messo i piedi giù di sua spontanea volontà.
“E io che ci devo fare?” domandò, sbadigliando sonoramente.
“Pete…” iniziò James, un sorriso furbo che non era assolutamente scontato sul volto di uno che aveva aperto gli occhi da praticamente sette secondi.
“Un temporale…” continuò Sirius, allusivo, muovendo una mano in cerchio, come a mimare il comportamento delle lente rotelle del suo amico.
“OH!” Peter saltò letteralmente giù dal letto, guardandosi attorno con fare pratico e occhi grandissimi. “È il momento!”
 

“Non posso crederci. Hai nascosto la mia fiala nel cassetto di Gazza?!”
Peter si strinse nelle spalle e annuì. Per qualche secondo preferì guardarsi attorno, trovando particolare interesse nelle fiaccole che illuminavano quella che avevano ormai battezzato come ‘la loro classe segreta’.
“Avrebbe potuto trovarla!” si lamentò Sirius, “avrei potuto trovarla io durante una detenzione!” continuò, pensando al patto suggellato con Remus proprio lì.
“Ma ti prego!” si difese Peter, seccato, “come se tu svolgessi davvero qualche compito, durante le detenzioni.”
Touché” ammise Sirius, con un sorriso.
“Grazie per la fiducia, comunque.”
“Io sono d’accordo con Pete,” si intromise James, “è chiaramente l’ultimo posto in cui andresti a mettere le mani. Ed è anche buio, secondo me Gazza non lo pulisce da secoli.”
Peter lo guardò con una sfumatura di gratitudine che superava la normale simpatia e sfociava nell’ammirazione più profonda. Quando James aveva un’opinione, generalmente, tempo qualche attimo e questa diventava automaticamente anche quella di Peter. Questa stima lo stava quasi sommergendo.
Sirius soffocò una risata nel naso. “La tua è davvero finita nel dormitorio delle ragazze,” continuò, strizzando l’occhio a James e passandogli la sua fiala. Lui la accettò tra le mani come se il solo fatto di essere stata nel dormitorio delle ragazze gli assicurasse che fosse anche stata con le ragazze. “Ha visto più meraviglie di quante ne vedrai mai, Jamie! Era in un cassetto molto speciale!” lo prese in giro Sirius, scombinandogli ancor di più i capelli, con aria ironicamente tenera.
“Tieni, Pete, la tua era tra i miei panni nello spogliatoio di quidditch,” James tese la fiala a Peter, continuando a tenere gli occhi incollati a quella piena di scritte che aveva tra le mani.
“Scontato,” commentò Sirius.
Peter esitò. “Nei… Nei tuoi panni puliti, vero?”
James alzò gli occhi nei suoi per un attimo, poi abbassò lo sguardo e un sorriso vispo gli alzò un angolo della bocca. “Sì, certo.”
Peter rabbrividì e mollò immediatamente la fiala. James, che a quel punto si era lasciato andare a una vera risata, sgranò gli occhi terrorizzato. Il fatto che la fiala non si ruppe fu un autentico miracolo.
“Mi rimangio tutto,” ribatté Sirius, che non sembrava aver temuto troppo per il futuro della pozione di Peter, “geniale, Jamie. Chissà da quanto tempo non vedono la luce del sole.”
“Scusami, ma che vuol dire ‘puzzola’?” si lamentò James, dando una rapida occhiata alle scommesse di Sirius su di lui. Finalmente si era deciso a leggerle e non a pensare al luogo in cui era stata nascosta la sua fiala.
“Ti basta annusarti… o analizzare i tuoi nascondigli,” suggerì Sirius, dandogli uno spintone.
“Davvero credi che possa essere un orso?” domandò mezzo offeso Peter, rifilando un’occhiataccia a James e aggrottando le sopracciglia. Alla fine aveva accettato il suo destino e si era deciso a esaminare la sua fiala.
“Assolutamente sì, quando dormi vai in letargo! Ah, ho scritto anche un cane.”
“Un cane?”
“Non è proprio vero!”
Sirius, intanto, dopo la sua esclamazione, si era avvicinato di soppiatto all’amico, arrivando alle sue spalle con passo felpato. Cominciò a esibirsi in una serie di versi imbarazzanti che dovevano sembrare quelli di un cane che abbaia. Peter, però, non colse certo la finezza della battuta e preferì trasalire, spaventato e quasi facendosi scappare di mano la preziosa fiala… di nuovo.
“Pete?” domandò Sirius, un sorriso sinistro che, sotto la luce soffusa dell’aula in disuso, faceva quasi paura. “Come mai credi che possa essere un lupo?” Scoprì i denti e morse a vuoto, in una brutta imitazione.
Peter scrollò le spalle e se lo tolse di dosso con una manata. “Hai tutte le caratteristiche dei lupi.”
“Io e Remus non ci assomigliamo per niente,” argomentò Sirius, tornando a sedersi nel loro cerchio e aspettando il parere di James.
“Infatti è Remus a non sembrare un lupo,” rispose lui, dopo averci pensato per un po’.
“Un Animagus può essere un lupo?”
Peter guardò Sirius, aggrottando la fronte come se si fosse improvvisamente reso conto di quanto fosse stupido. “Certo.”
“Sarà, ma di certo, Pete, non sarò un furetto,” si difese il ragazzo, incrociando le braccia al petto come se la cosa fosse dipesa da lui.
James rise e stappò la sua fiala distrattamente, forse un po’ troppo, in una maniera che suonava come un segnale.
Fu un gesto fluido, quasi naturale, ma il battibecco tra Sirius e Peter cessò all’istante e i tre ragazzi si concentrarono sulle pozioni incredibilmente pericolose che avevano tra le mani.
Tutto pareva essere andato bene: il colore era rosso brillante, la densità non troppo elevata e gli ingredienti si erano disciolti e miscelati alla perfezione e senza grumi. L’odore era aspro e frizzante com’era descritto in quei pochi libri che erano riusciti a consultare, eppure la paura faceva sembrare tutto fuori posto.
Avevano passato ore, giorni interi a studiare e informarsi sulle fonti, a controllare che una notizia che trovavano per caso fosse riportata anche in altri testi. Avevano addirittura fatto irruzione nell’ufficio della McGranitt, perché James era convinto che un Animagus meticoloso come lei avesse certamente conservato qualche vecchio trucco e, in effetti, ci aveva visto lungo.
Anche la preparazione della pozione aveva reso tutto più reale, ma mai permanente. In più, il fatto che avessero passato mesi interi in attesa di un temporale aveva contribuito a rendere tutto più divertente e ancor più lontano e impossibile. Sembrava che il temporale non dovesse più arrivare.
Ma a quel punto le cose si erano fatte serie. Da quel momento in poi si sarebbero dovuti svegliare ogni mattina all’alba per mormorare una cantilena che aveva un che di inquietante e ripetere il processo al tramonto. Ogni giorno, senza eccezioni, fino al temporale successivo. Non c’era modo di tornare indietro, il pericolo era a quel punto solido, probabile e irreversibile.
James deglutì rumorosamente, lanciando un’occhiata fiera ai suoi amici, poi sorrise debole ma un po’ nervoso. “Alla salute,” scherzò, una vena di isterismo a colorargli la voce. Sirius lo imitò.
James si portò la fiala alle labbra e cercò di darle un’ultima occhiata mentre mandava giù il contenuto.
Era decisamente stopposo, quasi impossibile da deglutire e il sapore era terribile, era come se quell’odore penetrante di piedi che si trova sempre in un dormitorio maschile gli si stesse impregnando allo stomaco. La testa prese a girargli vorticosamente, chiuse gli occhi e aggrottò la fronte di rimando. Per un attimo, ne fu certo, credette di non poter più respirare.
Si piegò in avanti e portò veloce un mano alla bocca, soffocando un colpo di tosse o la possibilità di rimettere.
“James.”
La voce di Peter gli arrivò ovattata. Alzò una mano per rassicurarlo e cercò di calmarsi: quella roba non scendeva!
“Andiamo, è per Remus,” lo prese in giro Sirius. Aveva palesemente una voce più bassa e provata del solito, ma pareva essersi ripreso. “E poi non è educato vomitare in classe.”
James ci mise qualche secondo in più a tornare in sé, ma, impossibilitato com’era ad aprir bocca anche solo per respirare, si accontentò di mostrargli due dita. Sirius rise.
“Ma a te è piaciuto?” riuscì a parlare, infine, con un filo di voce, adocchiando la fiala vuota di Peter e lo sguardo ampiamente rilassato del ragazzo che ancora la reggeva in mano.
“No,” rispose piatto lui, con la faccia di uno che si stesse interrogando sul motivo per cui i suoi amici avevano deciso di fare a gara a chi le sparava più sceme. “E, onestamente, credevo che fosse Sirius quello esagerato, qui.”
“Pete, era tremenda, non stavo esagerando,” si difese James, quasi lanciandosi nella sua direzione, per un contatto con la realtà. Peter si scostò all’ultimo, con una risata.
“Farò finta di non aver sentito,” si limitò a rispondere Sirius, muovendo una mano come a scacciare una mosca e concentrandosi sulle altre scommesse di Peter sul vetro della sua fiala vuota. “Con questa faccia potrei mai essere un ippopotamo? Avanti, guardami Pete, sono uno schianto.”
James scoppiò a ridere, ringraziando l’Incantesimo Silenziatore che avevano fissato alla porta e alle mura dell’aula prima di iniziare.
Sperò vivamente, anche quella volta, che il temporale successivo non si sarebbe fatto troppo attendere.
 
***
 
“Black.”
La voce della donna era stanca, esausta, mentre pensava, rassegnata, che la quantità di volte in cui aveva esordito in quella classe con quella frase, superava di gran lunga il numero di volte in cui non l’aveva fatto.
Minerva McGranitt sospirò severa, osservando il sorriso sfrontato del ragazzo in seconda fila attraverso gli occhiali. “Credevi che una lettera d’amore ti avrebbe dato accesso diretto ai tuoi G.U.F.O?” domandò, piegando le labbra in una smorfia seccata e preparandosi già a ribattere alla sua successiva uscita.
“Volevo semplicemente augurarle un buon compleanno a modo mio. Nella speranza di poter passare una felice detenzione con lei,” replicò ingenuo Sirius, portandosi una mano al petto quasi costernato. Gli occhi, però, brillavano di divertimento. Provocò una cascata di risatine nella classe, “da soli,” continuò, sull’onda di quel momento di gloria e ammiccando nella sua direzione.
La professoressa aggrottò le sopracciglia, si portò una mano alla fronte e sospirò. “Mi rincresce, ma non centrare il tema di un compito non è punibile con una detenzione,” spiegò, “per quanto sia evidente il motivo dell’errore.”
James Potter si allungò a dare una pacca sulla spalla dell’amico, come se avesse dovuto consolarlo per la mancata detenzione. “La giornata non è ancora finita, professoressa,” si intromise, con un sorriso sghembo.
“Grazie per la soffiata, signor Potter, lo terrò a mente.”
“Vogliamo essere clementi, d’altronde è il suo compleanno,” iniziò James, facendo alzare qualche risata in classe. Sirius scoccò un’occhiata divertita a Marlene e Remus alzò gli occhi al cielo, “quindi ci dica lei l’orario che più preferisce per una bravata, ci faremo beccare,” continuò angelico, dando una rapida occhiata alla classe. “Voi tenete gli occhi aperti, sarà fantastico!”
“Apprezzo la collaborazione, ma adesso, se non vi dispiace, mi farebbe piacere iniziare la lezione senza più disturbi,” concluse la donna, armandosi di bacchetta e posizionandosi dietro la cattedra, per mostrare l’esercizio pratico del giorno. “Se vi fa così piacere farmi un regalo, tuttavia, signor Lupin e… signor Minus,” continuò, faticando a pronunciare l’ultimo nome, “sarebbe gradito se tentaste di dissuaderli.”
Remus serrò le labbra dispiaciuto e si strinse nelle spalle. La professoressa McGranitt gli lanciò un veloce sguardo severo, perché, ultimamente, una parte di lei non faceva che domandarsi cosa ci facesse un ragazzo come lui con Black, Potter e Minus. E il sospetto che avesse molto più in comune con loro di quanto dava a vedere acquistava forza ogni giorno di più.
Quello di una lezione lineare e costruttiva, evidentemente, si rivelò un progetto troppo ambizioso.
 

Era stato memorabile.
Soprattutto per la professoressa McGranitt, che si era ritrovata sommersa di una quantità scandalosa di volantini con sopra stampata la sua faccia e uno scritta che recitava, precisamente: ‘Buon compleanno, Minnie’. Come se questo non fosse stato abbastanza, i puntini sulle ‘i’ del suo nomignolo erano stati sostituiti con dei cuori.
La Sala Grande era esplosa di auguri e, soprattutto, di scroscianti risate. Il preside Silente, per di più, con la solita intelligente ironia, si era anche preso la briga di parlare alla scuola e di fare personalmente gli auguri a una imbarazzatissima e seccata ‘Minnie’, dal momento che i suoi alunni ci tenevano così tanto. Dopodiché, i ragazzi erano finiti in detenzione senza uno straccio di prova contro di loro e Remus, a quel punto della serata, era arrivato a credere che James avrebbe fatto faville come avvocato nella società babbana.
“È che tutto questo non ha senso!” si lamentò, lasciandosi cadere sul divano della Sala Comune, una volta che ebbero terminato cena e festeggiamenti improvvisati, “ci hanno visti fare i volantini?” domandò al pubblico, che quella sera era composto dai suoi tre migliori amici e le ragazze del loro anno, fatta eccezione per Lily e Alice, “no! Ci hanno visti distribuirli?” James fece una pausa a effetto, “ve lo dico io: sempre no! Non è che se siamo famosi per combinare guai, allora la colpa è sempre nostra.”
Sirius ridacchiò. Aveva un braccio che cingeva le spalle di Marlene e si era stravaccato sullo stesso divano su cui James stava facendo la sua arringa. “Ma siamo stati noi, James.”
“Questo loro non potevano saperlo.”
Remus aggrottò la fronte, scoccando una breve occhiata in direzione di Sirius e Marlene, che si erano scambiati un veloce bacio a fior di labbra, “ma gliel’avete letteralmente detto oggi in classe,” ribattè Lupin, il tono appuntito infiacchito dalla distrazione.
“Questo non prova nulla.”
“Prova tutto, James,” si intromise Peter, compiacendosi particolarmente delle risate che provocò in Dorcas e Mary. Marlene era… provvisoriamente impegnata.
“Evans!” chiamò James. La cosa curiosa era che dava le spalle al ritratto che dava accesso alla Sala Comune, ma la sua schiena sembrava avere un particolare radar solo per Lily. Quando entrò nella Sala Comune evidentemente suonò. “per te ci meritavamo una detenzione quadrupla?”
La ragazza si bloccò a metà strada tra il ritratto e le scale che conducevano ai dormitori. “Uhm…” ci pensò su, “no, non direi.”
James rivolse un sorrisetto vittorioso agli amici e alle ragazze. “Visto?”
“Mi avrebbe fatto piacere un’espulsione,” continuò acida, cercando di salvare ogni goccia di sdegno per consegnarla a James.
“Grazie per il pensiero, Lily, ma non lo trovi un po’ eccessivo?” Remus alzò una mano dalla sua poltrona, il sorriso obliquo che evidenziava una cicatrice sul labbro inferiore.
“Ti prego, tu salvati,” lo implorò, addolcendo lo sguardo.
“Ti unisci a noi, Lily?” il tentativo di Marlene non poteva risultare troppo convincente, vicina com’era a Sirius.
James si arruffò i capelli in un gesto che sfiorava la compulsione e si voltò a guardare la ragazza, mordendosi un labbro e sorridendo insieme, come a sfidarla. Lily esitò per un attimo con lo sguardo su di lui, poi scosse la testa e inspirò profondamente, come a cercare di controllarsi per evitare di attaccare di nuovo i suoi testicoli. “Neanche morta, Marlene.” E, con questo, si avviò impettita alle scale del dormitorio.
“È noiosa, cercate di capirla,” commentò lui, stando bene attento a farsi sentire forte e chiaro.
Lily si bloccò a un passo dal primo gradino, inspirando a fondo, di nuovo, e voltandosi di scatto verso James. Non disse molto; a dire il vero non disse niente, si limitò a sfoderare la bacchetta e a puntarla di nuovo contro di lui.
“Ehi, ehi, ehi,” Sirius si alzò con uno scatto dal divano, tirando fuori la sua, di bacchetta, e mirando oltre le spalle di James. “Tu non hai idea di quello che ho dovuto fare l’ultima volta… e vedere.” Peter e le ragazze scoppiarono a ridere.
“Sirius.” Remus si batté una mano sulla faccia e appoggiò il collo allo schienale della poltrona, in un tentativo già fallito in partenza di riprenderlo.
Lily non lo degnò del minimo sguardo, mimando l’espressione di James quasi alla perfezione. “Non sai difenderti da solo?”
“Non farai niente,” la prese in giro lui, canzonatorio. Forse voleva essere preso a pugni, chissà.
“Grande smacco alla tua virilità,” continuò invece lei, tagliente, ignorando apparentemente il suo attacco.
“Almeno i miei amici sono dalla mia parte,” notò infine James, corrugando le sopracciglia con fare impietosito e alludendo all’apparente schieramento che avevano preso le ragazze. Marlene sospirò scettica.
Lily si morse la lingua, poi si voltò, con un mezzo ringhio nascosto tra le labbra, e prese finalmente le scale del dormitorio.
“Bene, io non so come facciate a essere sue amiche,” commentò James, aspettando questa volta che se ne fosse andata davvero. Sirius, intanto, era tornato al suo posto accanto a Marlene.
“Quando non parla con te è molto simpatica,” cercò di difenderla Mary, con una scrollata di spalle e un sorriso timido.
“Oh, non ho nessun dubbio,” ribatté James, poi rivolgendosi a Sirius e Marlene, “e voi due la finite?”
“Geloso?” Sirius abbandonò con una risata le labbra di Marlene e si concesse l’occhiata più provocatoria della serata. Il che era una sfida ardua, considerando l’incredibile vastità di occhiatacce di cui Lily aveva fatto sfoggio poco prima.
“Non ne ho bisogno.”
Remus grugnì, a metà tra un verso annoiato e uno di scherno.
Fu allora che Dorcas, ignara delle conseguenze disastrose che avrebbe scatenato di lì a poco, pensò bene che fosse arrivato il momento di parlare di qualcosa di utile. “Bene,” cominciò con tono pratico, “pensavamo di dare una festa tra un paio di settimane. Il compleanno di Mary è stato ad agosto e ci piacerebbe festeggiarlo.”
“Okay? Oh e… auguri in ritardo” Peter non era sicuro di comprendere, ma sorrise comunque gentilmente a Mary.
“Sì, beh, mi pesa doverlo dire, ma ci serve il vostro aiuto.”
“Ti pesa?” inquisì Sirius, sorridendo appena.
“Enormemente,” confessò Dorcas, ma non trattenne una mezza risata. La bomba aveva preso a ticchettare furiosa.
“Ah, be’, se me lo chiedi così certo che sì,” la prese in giro lui, acconsentendo con una scrollata di spalle.
“Perchè no?” si unì Remus, cogliendo il sorriso e l’assenso anche di Peter.
“Tra due settimane?” domandò James, con un cipiglio preoccupato.
“Sì.”
“Ehm… Non si potrebbe fare la settimana prima… o quella dopo?” James, al contrario dei suoi amici, aveva la fronte aggrottata e guardava con una punta di dispiacere le ragazze. Non succedeva tutti i giorni che James Potter perdesse un’occasione per farsi notare. Scoccò un’occhiata a Sirius e scosse la testa impercettibilmente. Gli venne voglia di alzarsi, spostare Marlene di torno e baciarlo, quando lo vide annuire lentamente, la realizzazione che gli si illuminava negli occhi.
“Oh, beh… è vero, noi abbiamo, cioè, dobbiamo…” Sirius rise e cercò di prendere tempo.
“Io devo tornare a casa,” annunciò Remus, impedendogli di fare altri danni. Come aveva fatto a dimenticare la luna piena? Si detestò da morire per aver messo i suoi amici in una situazione così scomoda: insomma, non era certo compito di James ricordarsi quando lui sarebbe dovuto andare incontro ad atroci sofferenze, dannazione!
“Oh, che… che devi fare?” domandò delicatissima Mary. Peccato che non fu davvero discreta.
“Ha un problema…”
“Un animale.”
Le risposte di James e Sirius arrivarono troppo in simultanea per evitare il danno. Peter osservò i suoi amici con occhi grandi di spavento, non osando parlare per paura di mettere altra carne indesiderata al fuoco.
“Un piccolo problema… peloso,” spiegò James, pratico come se stesse elencando gli elementi di una lista della spesa.
“Un piccolo problema peloso?” Marlene inarcò un sopracciglio.
“Proprio così!” James sembrava averci preso la mano e aver guadagnato sicurezza. “Un coniglio molto aggressivo.”
Remus lo osservava senza accennare alla più minima espressione facciale.
Seguì qualche attimo di terrificante silenzio, prima del verdetto.
“Voi siete strani,” commentò Dorcas, scuotendo la testa scettica e facendo tremare le budella di Remus. “Almeno fate in modo di non bersagliare noi per il prossimo scherzo.”
In quel momento, con una sola, banalissima risposta e, per giunta, senza che se ne rendesse conto, Dorcas diede il via a quattro profondi sospiri di sollievo.
 
***
 
Novembre, 1996
 
Erano anni che non era in terreno così sconosciuto. Le stelle brillavano pigre nel cielo buio ed erano l’unica cosa che potessero davvero mettersi a guardare.
Remus sospirò, cercando di distendere i muscoli atrofizzati e il collo dolorante per la posizione scomoda.
Gettò un’occhiata all’abitazione: le luci erano ancora accese e qualche rumore sorpassava, di tanto in tanto, la barriera delle mura spesse del Mangiamorte a cui davano la caccia.
“Ancora niente?” La voce di Nymphadora Tonks, compagna dell’Ordine, gli arrivò altrettanto contrariata alle orecchie.
Remus scosse la testa.
Tonks lasciò cadere nuovamente il capo contro la pietra del muretto con un grugnito. “Se quel Mangiamorte non si dà una mossa, giuro che mi alzo e…” sembrò pensarci per un attimo, lasciando vagare le mani davanti alla faccia annoiata come a cercare una minaccia sufficientemente spaventosa. “Non lo so,” decise e Remus rise, guardandola di sottecchi fare facce buffe, “gli faccio molto male.”
Incrociò comunque le braccia al petto, mostrandosi più minacciosa. Remus si voltò a guardarla, a quel punto. Quando diceva di essere in territorio nemico non si riferiva affatto all'abitazione del Mangiamorte a cui davano la caccia; intendeva la sensazione destabilizzante di provare qualcosa per qualcuno senza che questi sapesse cosa gli passava per la testa. Una stupida, infantile, paura del rifiuto, ecco cosa.
Gli venne naturale chiedersi se non fosse stato uno stupido a non imparare dai suoi precedenti errori, a non capire, dopo che aveva dovuto processare un’ennesima morte lacerante, che forse l’imbarazzo di un minuto non poteva competere con il rimpianto di una vita.
Non riusciva a farselo entrare veramente in testa.
Arrossì, quando si ricordò che stava ancora fissando Tonks e ringraziò il buio del vialetto per averlo protetto da quell’imbarazzo. Lei, però, era assorta a guardare il cielo.
“Era ancora bellissimo, eh?” parlò all’improvviso, non staccando gli occhi dalle stelle. Remus inarcò un sopracciglio. “Anche dopo Azkaban,” puntualizzò lei e il soggetto della frase gli fu immediatamente chiaro.
Una fitta di dolore gli percorse la schiena.
Decisamente, era la risposta, anche un attimo prima di vedere i suoi occhi spegnersi.
Remus rise a disagio e scrollò le spalle. Oltre al dispiacere, anche una punta di gelosia gli attraversò la mente. “È sempre stato bravo con le donne,” buttò lì, arrendendosi anche lui a guardare il cielo. Quando notò che Tonks non era intenzionata a rispondere si voltò a guardarla, incuriosito. Mai si sarebbe aspettato di vederla letteralmente nera di rabbia.
“Sai che c’è?” iniziò lei, il tono della voce si acuì dall’irritazione e le punte dei capelli scuri iniziarono a prendere colori sempre diversi, “sapresti perfettamente di chi mi sono innamorata se non fossi stato così occupato a piangerti addosso per notarlo,” sbottò infine, scuotendo il capo arrabbiata.
Una felicità inspiegabile si impadronì del petto di Remus, qualcosa che non credeva possibile si fece strada in lui come a dare un senso alla paura che aveva vissuto al Dipartimento dei Misteri qualche attimo dopo una tragedia. Quella… cosa che non era riuscito mai a spiegarsi, quegli odori.
Non poteva crederci, era fuori dalla portata dei suoi sogni, l’idea di sposarsi davvero, di avere una famiglia e… di dover combattere con i pregiudizi.
La gioia durò un secondo.
Una prospettiva terribile fece capolino nella sua testa: avrebbe rovinato la vita di Tonks, costringendola a sopportare una pressione continua di sguardi, parole, sussurri.
Avrebbe approfittato della sua gentilezza, se l’avesse sposata? E se avessero avuto un figlio? Oh, non voleva neanche pensarci, lo spettro della licantropia, del vedere i capelli di Tonks ingrigire per star dietro alle sofferenze del figlio come quelli di sua madre Hope, quando era piccolo e tutto era diventato irreparabile. Era egoista, sbagliato, terribile.
Cercò di stemperare la tensione dando un’altra occhiata alle finestre della casa del Mangiamorte, perché era certo che se fosse stato costretto a restar fermo qualche secondo di più gli sarebbe venuto un attacco di panico. Scoprì, con immenso sollievo, che le luci erano finalmente spente. Si alzò di scatto, spazzolandosi i vestiti con entrambe le mani e facendo cenno a Tonks di seguirlo. Non riuscì a guardarla negli occhi quando parlò: “Via libera.”
“Già,” sussurrò lei, superandolo amara e dandogli le spalle. I capelli non brillavano nel buio di nessun colore sgargiante e Remus sospettò che la cosa non fosse affatto legata a una tecnica di mimetizzazione.
 
***
 
Certe cose si possono anche prevedere con una precisione millimetrica, ma quando succedono nell’arco di un secondo è comunque difficile impedire che accadano.
Quel giorno rientrava decisamente in quella categoria.
James lanciò uno sguardo veloce a Remus e Peter, scosse la testa e lasciò scivolare un braccio sulla spalla di Sirius, aggrottando le sopracciglia come in riflessione. Poi si spostò col corpo in maniera da coprire il più possibile il lato sinistro del corridoio. “Sai, mi chiedevo…”
Sirius mosse una mano a spostarselo di dosso. “James, dovrei essere cieco o totalmente stupido per non capire cosa stai facendo,” ribatté lui, guardandolo di traverso.
Non che James credesse di avere le spalle abbastanza larghe da coprire quattro interi ragazzi di cui uno ben piazzato, ma sperava almeno di non dare la possibilità a nessun polverone di alzarsi nel momento sbagliato. E avrebbe gradito anche un briciolo di gratitudine, a dire il vero, visto che era stato così clemente da aver messo in conto di risparmiare Mocciosus per il bene di Sirius.
“Sto buono,” assicurò lui, dando comunque un’occhiata storta a suo fratello Regulus, che camminava accompagnato da Piton, Mulciber e Avery.
L’errore più grande dei suoi amici fu credergli.
Bastò poco, davvero poco, una risatina di Mulciber che coprì con la mano, un sussurro ai suoi compagni, che, a catena, risero anche loro.
“Che vuoi?” sbottò Sirius, aggressivo e ironico insieme, lo sguardo puntato su quello identico ma più freddo del fratello.
Regulus si guardò attorno spaesato per un attimo, come a chiedersi se fosse seriamente così stupido da attaccar briga sulla base di niente, poi decise che, sì, doveva essere proprio così. “Pensi che giri tutto intorno a te?” gli domandò, lo scherno che traspariva appuntito dagli occhi. “Credevi che ridessimo di te?”
Sirius non parve troppo colpito, scrollò semplicemente le spalle, ma si tradì serrando le mani a pugno. “Ho sentito che sei il nuovo Cercatore, bravo!” lo elogiò, esagerando il complimento con la voce, “Mamma e papà sono felici, sì? Ti hanno già steso il tappeto di fiori?”
James diede una rapida occhiata a Remus, che si limitò a studiare il volto di Regulus.
Il ragazzo soffocò una risata nel naso. “Che c’è? Non sei al centro dell’attenzione per cinque minuti e già sei in crisi? Perché non ne fai un’altra delle tue? Non lo so,” Regulus si guardò attorno, come a prendere ispirazione, “potresti imbrattare i quadri a casa e scriverci ‘Black merda’ col sangue,” elencò, facendo sghignazzare Mulciber e Avery, alle sue spalle, “oppure potresti far trovare dei ragni nel mio letto, perchè no? Oh!” Regulus si illuminò, “senti questa! Puoi portare i tuoi amici a casa.”
Quell’ultima frase sarebbe anche potuta passare in sordina se solo Regulus non avesse fatto l’imperdonabile errore di riservare un’occhiata eloquente a Remus. Lui, però, non si scompose, continuò a studiare il volto del fratello di Sirius come se fosse stato a un passo dal capirci qualcosa.
Sorprendentemente, però, Sirius doveva essere così accecato dalla rabbia da non riuscire a cogliere la direzione del suo sguardo. Il problema era che James l’aveva colta eccome.
Cacciò fuori il fiato con la bocca, a metà tra una risata e un ringhio e mosse un passo per scagliarsi contro i ragazzi. Proprio allo scoccare di quel passo, però, Peter gli afferrò un polso e lo tirò indietro con uno strattone. James lo lasciò fare, ma non staccò lo sguardo da Regulus. Piton, invece, sorrideva come se avesse avuto davanti uno spettacolo molto stupido.
“Siamo diventati aggressivi,” scherzò invece Sirius, il sorriso sfrontato che aveva perso prima rinvigorito a quel punto dall’idea della provocazione, “mi chiedo se avresti avuto il coraggio di dire ‘merda’ da solo e attaccare, senza le guardie del corpo,” Sirius mosse un passo avanti, guardandolo con la tenerezza che si riserva a un nemico facile da battere.
“Potrei dire lo stesso di te,” ribatté lui, muovendo a sua volta un passo avanti e mantenendo il contatto visivo. “Mi chiedo se avresti avuto il coraggio di giocare a fare l’alternativo senza di loro,” sibilò, sminuendo di nuovo i tentativi di suo fratello di distaccarsi da certi ideali: sapeva che quel tipo di cosa funzionava.
“Vero, Reg, ma io almeno li ho scelti,” Sirius fece spallucce, portando piano una mano alla tasca posteriore dei suoi pantaloni. Lo sguardo di Regulus saettò in basso, poi tornò negli occhi del fratello ad ammonirlo.
Sirius si morse il labbro inferiore, concentrato, reggendo il suo sguardo. Inspirò, poi, come quando si sta per fare qualcosa, ma Regulus non seppe mai cosa avesse intenzione di fare.
Uno spintone piuttosto violento costrinse Sirius a fare un passo nella direzione che stavano percorrendo prima di quello sciagurato incontro. Si voltò e Remus si limitò a scuotere la testa e a costringere i suoi amici a continuare a camminare.
“Buona fortuna per la partita,” disse a Regulus, con un sorriso gentile, “sono curioso di vederti giocare,” concluse, prendendo la strada che portava alla Torre di Grifondoro e ignorando bellamente la risata di Piton.
Quella risata gli costò molto cara, perché James, alla fine, scelse di vanificare quel tentativo di pace.
Levicorpus,” pronunciò, dando le spalle al gruppo e voltandosi solo per un attimo a godere della vista di Severus a testa in giù.
Era guerra.






 

Note di El: Ciaoh. Madre, ragazzi, che fatica, questa volta mi ha uccisa.
Allora che dovevo dire? Ah, sì, abbiamo dato il via alla saga "El prende scene dei libri e le riscrive dal punto di vista di un altro personaggio facendo finta che siano inedite", che ha un titolo lungo ma ne vale la pena, non è l'ultima. No, allora, voi non lo sapete ma io sto cercando di prendermi una rivincita contro me stessa con quella prima scena perché l'ultima volta che ci ho provato è venuta una schifezza (cioè, non era questa la scena, era uguale la struttura), vabbè, non vi interessa. Come al solito il mio terzo libro è pezzotto, quindi spero che la traduzione sia ufficiale e che le battute che ho usato le riconosciate altrimenti vabbè. Per la scena di Tonks avverto che è una scena realmente avvenuta, ma nell'originale lei dice "è ancora bellissimo", cosa che per ovvie ragioni di multishipping conciliabilità, qui è stata modificata. Vi lascio una fanart sempre di Alessia Trunfio di questa scena, maga indiscussa quando si tratta dei Malandrini, perché l'ha disegnata e cioè, al capitolo non si adatta troppo bene perché ci sono delle battute in più ma è troppo bella tenete, mi ringraziate poi. Qui.
Un particolare grazie a Ran che mi ha detto dove nascondere le fiale dello spogliatoio e del cassetto di Gazza perché ieri sono entrata correndo nella sua chat tipo "Raaaaaaaan, aiuto aiuto aiuto dove nascondono le fiale? Raaaaan" e Ran ha parlato.
Ah, inoltre, mostrare due dita, col dorso della mano rivolto verso l'altro, in Inghilterra è un equivalente di un dito medio quindi ecco che è quel gesto di James mentre beve la pozione.
Bene, ci vediamo tra 10 giorni. Questo capitolo non mi fa impazzire, ma sono felice perché i prossimi mi sono divertita troppo a scriverli yeee, quindi niente.
Grazie DA MATTI per aver letto!
Adieu,

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 - Puro ***


10. Puro

 




Settembre 1981
 
Il sole sorgeva freddo oltre una coltre di nubi dense e pesanti. La sua sagoma lottava sforzandosi di superare quella barriera e mostrandosi per un pallido disco bollente che si alzava alle spalle della collina.
Il freddo pungeva le braccia di Peter. Aveva quasi voglia di scrollarselo di dosso, di farsi un tè caldo, forse, e di godersi i suoi ultimi momenti tranquilli.
Non se ne pentiva. Era stata una scelta che non aveva mai davvero avuto il lusso di prendere. L’altra possibilità era semplicemente sconsiderata, un’utopia, una maniera stupida di rimanere attaccati al passato. Una visione romantica, quasi tenera, ma che non era più il momento di portare avanti.
Era fiero di sé, a dirla tutta. Era stato capace di prendere una decisione grossa tutto da solo, di ponderare, di analizzare e, infine, di scegliere, di fare di testa sua.
Era una bugia, ovviamente, una parte di lui lo sapeva bene.
Quella non era una scelta, era la forma più vile di paura, ma ormai aveva avuto l’incarico e non c’era più modo di tornare indietro. Silente, l’Ordine, Moody e i suoi amici… be’, gli facevano pena. Provava stima per ognuno di loro, sapeva che erano maghi coraggiosi, abili e intelligenti, ma non si spiegava come facessero a essere allo stesso tempo così ciechi.
Quella era una guerra che non avrebbero vinto.
Il Signore Oscuro era troppo forte, troppo scaltro, troppo deciso e troppo armato per essere abbattuto da un’organizzazione segreta e misera. Un’organizzazione che, d’altronde, aveva riposto la sua fiducia nella spia, nel povero, affidabile e spaventato Peter.
James, Lily e Harry avevano le ore contate e il destino del mondo intero era nelle loro mani.
Peter, dal basso della sua misera paura, si sentiva quasi clemente. Tre vite per la libertà. Solo tre, per un mondo duro, certo, ma uno in cui lui e tutti gli altri sarebbero potuti restare vivi. Un mondo in cui, se tutti si fossero piegati come lui, le morti sarebbero finite. Marlene, Dorcas, i gemelli Prewett, Edgar, Benjy e forse Emmeline… morti inutili, risparmiabili.
Sapeva che avrebbe dovuto sentirsi un vigliacco per la tensione che scorreva da mesi tra Remus e Sirius. Sapeva che sospettavano a vicenda l’uno dell’altro, ma Peter ne era grato, era il motivo per cui tutto sarebbe andato bene, alla fine, il motivo per cui l’unico essere umano al mondo di cui avrebbe dovuto avere paura, quando l’Oscuro Signore avrebbe attaccato, sarebbe stato Sirius.
Lui avrebbe messo i pezzi insieme, Peter sapeva come la pensava, conosceva quella sua maniera eroica e stupida di mettersi in pericolo per amore e lealtà, sapeva che sotto attacco c’era James, non uno qualunque, e sapeva che sarebbe dovuto correre molto lontano per avere salva la vita.
Ma era solo.
E Sirius, quando era solo, era innocuo e vulnerabile, Peter lo conosceva come le sue tasche. Accecato dalla rabbia, nonostante l’abilità a duellare, sarebbe stato un avversario impulsivo e sconsiderato e Peter sapeva dove colpire.
Avrebbe vinto. Ne era sicuro.
 
***
 
Il suono croccante di una mela che veniva morsa schioccò nel silenzio della Sala Comune. James alzò lo sguardo dal suo libro di pozioni e inarcò un sopracciglio guardando Sirius, con la bocca piena.
“Che c’è?”
“Sto studiando,” si lamentò lui, allargando le braccia come a evidenziare il libro aperto davanti a sé.
Sirius scrollò le spalle e si accigliò. “Non posso mangiare una mela?”
Fu il turno di Peter di guardarli entrambi, esasperato. “Tu, smettila di parlare,” intimò a Sirius, “e… James, ha solo morso una mela.”
Sirius, poco incline alla pace, fissò James negli occhi e diede un altro, rumorosissimo, morso alla mela, premurandosi di masticare a bocca aperta, per disturbarlo di più.
“Pensa allo scherzo di stasera,” aggiunse Peter, perché ultimamente dare qualcosa da fare a Sirius era l’unica arma contro una catastrofe.
Il problema era stato il Natale. Il problema era sempre il Natale, anche più dell’estate. Un Natale in cui i rapporti con Regulus erano più aspri che mai e una tensione inspiegabile, ma decisamente oggettiva, cresceva in Sirius, anche quando non era a casa. Era visibile, praticamente vibrava di inquietudine e non riusciva mai a starsene fermo un attimo. Il desiderio di mettersi in mostra e divergere non era mai stato così evidente.
A fargli concorrenza, quel giorno, c’era Remus. Doveva essere molto stressato, perchè altrimenti non si sarebbe potuto spiegare perché fosse entrato nella Sala Comune come se gli avessero appena ucciso il cane e si fosse seduto alla sua poltrona – lasciata come al solito libera – spostando malamente tutti i libri che erano appoggiati sul tavolo su un lato. I libri di James, per la cronaca.
James alzò le mani di scatto e lo lasciò fare, come rassegnandosi a una perquisizione della polizia. Sirius rimase con la mela a mezz’aria, già pronto a darle un morso, ma perplesso all’idea che il rumore potesse disturbare anche il lupo. Peter si limitò a fissarlo, con gli occhi sgranati, preparandosi ad accettare qualunque destino Remus avesse in mente per lui.
Il ragazzo si guardò attorno per un attimo, negli occhi uno sguardo che avevano visto solo in James e Sirius, prima di una ‘grande idea’ delle loro, che mai si era rivelata una grande idea. Remus poggiò le mani sul tavolino. “Allora.”
“Che abbiamo fatto?” tentò Sirius e James gli fece segno con una mano di non fiatare.
“Tu hai voluto fondare un’associazione a delinquere, come ti piace definirci,” puntò un dito contro Sirius e lui annuì, “tu non vuoi perdere occasione per farla pagare a Mocciosus per... qualunque cosa ti abbia fatto,” James sorrise orgoglioso e annuì a sua volta, “e tu vuoi essere certo di sfuggire alle detenzioni quando facciamo uno scherzo.” Peter scrollò le spalle in assenso.
“E quindi?” Sirius si iniziò a rilassare e staccò un altro morso della mela. Gli occhi di Remus saettarono nella sua direzione e… qualcosa lo fece arrabbiare, quando notò che non sembrava rimpiangere quel gesto, anzi, gli sorrideva provocatorio.
“Quindi,” iniziò Remus, distogliendo lo sguardo e lasciando perdere quella sensazione, “non possiamo continuare a farci beccare da Gazza e da quella fottuta gatta.”
“Linguaggio, Lupin,” lo prese in giro Sirius e a Remus tornò di nuovo quella voglia stupida di rimetterlo al suo posto. Fu sicuro di averlo fissato per qualche secondo di troppo, come a sfidarlo.
“Dove vuoi arrivare?” inquisì invece James, che iniziava a gradire la piega che stava prendendo quel discorso.
“Il mantello è davvero utile, ci è servito praticamente per ogni scherzo e ci servirà stasera, ma…” Remus si prese un attimo per dare anche un’occhiata a Peter: era sull’attenti, “ci serve una mappa.”
Ci fu silenzio per qualche attimo, poi Sirius si iniziò a muovere sul divano, correndo addosso a James e battendogli una mano sullo sterno, con un po’ troppa eccitazione. “Questa è un’idea geniale.”
Remus gli sorrise.
“Ci metteremo una vita!” considerò Peter.
“Dobbiamo assolutamente farlo,” convenne James, che non si era troppo scomposto per le maniere brusche di Sirius solo perché era altrettanto euforico, “hai qualche idea?”
Remus sorrise soltanto, aprendo la cinghia della sua cartella e tirando fuori un libro dall’aria piuttosto vecchia dal titolo: ‘libro standard degli incantesimi’. “Incantesimo Homunculus,” annunciò e si beccò nient’altro che tre paia d’occhi confusi, “se applicato su una mappa rivela il nome e la posizione, istante per istante, di chiunque passi nel terreno mappato.”
James sgranò gli occhi. “Questo significa…”
Remus annuì.
“Significa non poter essere più scoperti!” continuò James, meravigliato, “sapere quando un Serpeverde varca la soglia della sua Sala Comune, scoprire ogni password, individuare Mocciosus in qualunque momento, evitare Evans come la peste.”
“Perché sia precisa,” iniziò Peter, cominciando ad annuire e a visualizzare le potenzialità di quell’idea, “dovremo esplorare la scuola come non abbiamo mai fatto e scoprire quanti più passaggi segreti possibili. In pratica non può avere più segreti.”
Remus si alzò e prese a misurare la stanza con passi pensierosi. Era felice, davvero, sapeva che era una grande idea, sapeva che non ci sarebbe più stato modo di fermarli, se ci fossero davvero riusciti. “Pensavo di oscurare il passaggio del Platano Picchiatore, per ovvie ragioni,” spiegò e i ragazzi annuirono tutti in coro, “e sarebbe utile se identificasse i veri nomi di qualunque fantasma o persona che abbia bevuto la pozione polisucco, Piton ci sa fare con le pozioni,” James e Sirius si scambiarono uno sguardo piacevolmente sorpreso.
“Hai pensato proprio a tutto,” lo prese in giro Sirius, dando un’occhiata alle sue spalle, dove in quel momento camminava Remus. Il ragazzo scosse la testa con un sorriso e gli rubò la mela dalle mani.
“Un’altra cosa e ho finito,” iniziò, prendendosi un attimo per dare un morso. James si esibì nella smorfia disgustata più plateale della storia, ma Sirius sorrise, “non so se lo sapete, ma la McGranitt è un Animagus.” Un silenzio tombale scese all’improvviso nella Sala Comune.
Peter deglutì rumorosamente e si schiarì la voce. “E quindi?”
“Quindi la mappa deve essere in grado di riconoscere anche il nome della persona trasformata. Non possiamo rischiare che ci trovi.”
Sirius annuì piano, ma un’ombra titubante gli oscurò la voce. “Va bene.”
Remus sorrise e tornò a sedersi. “Va bene,” ripeté, “non ci resta che esplorare.”
 
***
 
Marlene McKinnon era entusiasta all’idea di essere la migliore amica di Lily Evans ed era anche orgogliosa di riuscire a leggerla e comprenderla anche quando lei faceva di tutto per nascondere i suoi veri sentimenti. Tuttavia, quando quella sera quella stessa Lily tornò nel dormitorio delle ragazze con un diavolo per capello, se non di più, Marlene pensò che l’avrebbe potuto notare chiunque, anche il più indifferente dei passanti, che qualcosa non andava.
Scambiò un veloce sguardo con Dorcas. Entrambe alzarono un sopracciglio all’unisono, come a specchio, poi tornarono a guardare la loro amica, stesa sul letto a faccia in giù, che soffocava urla frustrate.
“Ehm,” tentò Marlene, un principio di sorriso a incurvare le labbra, “va tutto bene?”
“No,” mugugnò Lily da sotto il cuscino.
“Bene, questo l’avevamo capito,” iniziò Marlene e, questa volta, fu sicura che il divertimento trasparisse anche dalla voce. Sperò con tutta se stessa che Lily non pensasse bene di prendersela con lei, così si decise ad aggiustare il tiro. “Ti va di dirci perché?”
Marlene si voltò verso Dorcas a cercare consensi. Non che lei fosse una cima nelle relazioni interpersonali, ma un feedback era sempre gradito. Quando addirittura Dorcas alzò un angolo della bocca, non troppo convinta, Marlene fu certa di poter concorrere alla carica di peggior migliore amica dell’anno, il che suonava già un controsenso da sé.
“Stavo camminando per i corridoi mentre tornavo qui,” Lily, contro ogni aspettativa, si alzò a sedere con uno scatto che fece indietreggiare per un attimo Marlene, convinta di essere a rischio testata. “All’improvviso sono sbucati dal nulla due ragazzi, sono piuttosto sicura che uno fosse Rosier,” continuò Lily e Marlene e Dorcas si scambiarono un’occhiata veloce, inalberandosi.
“Che ti hanno detto?”
Lily sospirò, si portò una mano ai capelli e scosse la testa. “Ultimamente sembrano essere tutti molto decisi a discriminare i Nati Babbani,” disse con un sospiro e una scrollata di spalle, “insomma, so che non è una novità nella società magica, ma non pensavo fosse una cosa così frequente.”
“Non lo è, infatti, non capisco cosa gli prenda,” si espresse Dorcas, inserendosi per la prima volta in quella conversazione, “è dall’inizio dell’anno che sono diventati più insistenti.”
“Tu che hai fatto?” le domandò Marlene, sfiorandole un braccio affettuosamente.
“Be’, io…” iniziò Lily, annuendo e spostando lo sguardo sul letto, decisa, come preparandosi all’ennesimo moto di frustrazione, “stavo proprio per rispondere a tono e, magari, sperare che la finissero una volta per tutte, quando dal nulla decide di farsi avanti un paladino!” Lily allargò le braccia e mise l’accento sulla sua ultima parola, riempiendola di un’ironia che raggiunse forte e chiara le orecchie delle amiche.
Marlene rise, scambiando un’occhiata divertita con Dorcas, “James Potter, immagino.”
“Oh, è qui che ti sbagli,” le sorprese Lily, cedendo a una risata genuina. “Peggio!”
Marlene aggrottò le sopracciglia e la osservò in attesa.
“Sirius Black,” confessò lei, serrando le labbra perché non aveva intenzione di fare la predica a Marlene su quanto non fosse d’accordo sulle sue scelte degli ultimi mesi.
“Cosa? E perché l’avrebbe fatto?” chiese Dorcas, che sapeva benissimo che le loro conversazioni erano intrise di un veleno parecchio diverso da quello che riservava a James.
“Esatto. Perché l’avrebbe fatto?”
Marlene strinse le labbra.
“Senti, lo so che vi trovate bene, che sa essere divertente e tutto il resto,” iniziò Lily, con un sospiro, “ma noi ci detestiamo e quello che ha fatto prima mi è sembrato…”
“Che ha detto?” la interruppe Marlene. Sorrideva, a dire il vero, e scuoteva la testa come a rassicurare l’amica del fatto che non si fosse sentita attaccata in nessun modo.
“Non lo so, ha detto che c’erano mille modi per insultarmi e che il sangue era proprio il più stupido.”
Marlene sorrise, semplicemente. “Voi due andreste davvero d'accordo se la smetteste di insultarvi ogni volta che vi vedete.”
“Certo, Marlene, e Potter è l’uomo della mia vita. Qualche altra battuta da fare?”
Marlene sospirò e alzò gli occhi al cielo, cercando aiuto nello sguardo di Dorcas, che, purtroppo, non sembrava possedere abbastanza informazioni per darle man forte. “Ti sembrerà strano, ma credo ti abbia difeso perché era onestamente toccato dall’accusa di Rosier e chiunque fosse con lui,” spiegò Marlene, seria.
“Sì, facendogli crescere una coda d’asino? Encomiabile.”
“Ha i suoi modi, ma penso fosse sincero. Litiga spesso col fratello per questioni simili.”
Lily aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo. “Ha un fratello?” domandò in un soffio.
Marlene sorrise, perché era certa, sicura, di aver fatto centro, di aver collegato un filo di seta sottile ma importante tra due situazioni simili: Petunia e Lily. Regulus e Sirius. Erano storie ripetitive nella loro unicità. Poi si affrettò ad annuire. Una scintilla provocatoria le si accese nello sguardo e Lily grugnì stremata.
“Ho capito!” sentenziò, muovendo le mani davanti a sé, perché evidentemente non poteva sopportare quel luccichio vittorioso nello sguardo di Marlene. “Grazie, ma resta un insopportabile idiota.”
Marlene le diede un’affettuosa pacca su una spalla, ma non c’era mezzo muscolo del suo viso che non gongolasse. “Buonanotte!” trillò, con un sorriso, dirigendosi finalmente al suo letto.
Che Lily fosse nervosa, in effetti, l’avrebbe potuto notare chiunque, ma nessuno meglio di Marlene avrebbe saputo dove colpire.
 
***
 
James e Remus avevano dato il meglio di loro. Non c’era storia: fino a quel momento non si erano mai spinti così in là, quella sarebbe stata una nuova frontiera. Acque inesplorate si stendevano davanti a loro e nulla era stato tanto difficile quanto contenere l’entusiasmo di Sirius e i tremiti di Peter, quella sera.
Se fossero riusciti a scappare – e ci contavano, a dirla tutta – nessuno avrebbe mai potuto accusarli di una bravata tanto grande. Nonostante la fama, la naturale inclinazione, quello era semplicemente troppo per costringere qualunque professore ad accusarli senza uno straccio di prova.
“Te lo dico per l’ultima volta,” iniziò Remus, in un sussurro che, a voce piena, sarebbe stato molto più deciso, “prova a fare qualcosa nella fase due e alla prossima luna ti trascino nella Stamberga Strillante.”
Sirius alzò gli occhi al cielo. “Non c’è pericolo.”
“Veramente c’è,” si intromise James. Lui, però, non sembrava preoccupato, anzi, aveva tutta l’aria di uno che non vedeva l’ora di mettersi a gridare dall’eccitazione. Peccato che, sotto il mantello dell’invisibilità e con meno di tre centimetri d’aria per respirare, non potesse lasciarsi andare a simili esternazioni.
“Queste cose a James non le dite, quando c’è di mezzo Mocciosus,” si lamentò Sirius, sussurrando arrabbiato da sotto il mantello.
“Perchè io mi so controllare.” James scrollò le spalle e fece volteggiare il mantello ai suoi piedi, per non inciampare.
Che James in realtà non si sapesse controllare era noto a tutti, ma i ragazzi decisero in silenzio che era meglio non sottolinearlo, per colpire Sirius nell’orgoglio.  Peter soffocò comunque una risata nel naso.
“Ahi,” si lamentò infatti, dopo un attimo di silenzio, “quello era il mio piede!”
“Lo so.”
“Ci siamo.” Remus osservò.
“A te l’onore,” incalzò James, allargando un braccio e appiattendosi al muro per lasciar passare Sirius.
Il ragazzo si preoccupò di lasciare un’occhiata drammatica a testa, per i suoi amici, perché quella era una palese presa in giro e sarebbe stata la prima e l’ultima volta che gliel’avrebbe concessa.
Si parò davanti al muro e inspirò seccato.
“Mi raccomando,” lo fermò James, non appena prese fiato per parlare, “dillo come te l’hanno insegnato, altrimenti non funziona.”
“Cosa? Vaffanculo?”
“Ah-ah! Non si dice!” continuò a prenderlo in giro James e Sirius si voltò, ignorandolo anche se continuava a sghignazzare e a dare gomitate divertite a Peter.
Purosangue,” pronunciò Sirius, con aria fiacca, e i mattoni impregnati di umidità dei sotterranei si fecero da parte uno alla volta, scivolando su loro stessi e rivelando una stanza enorme e scarsamente illuminata.
“L’ha detto benissimo!” osservò James, per stemperare la tensione, ma guadagnò soltanto una gomitata nel fianco, prima che sgusciassero all’interno della sala comune dei Serpeverde.
Si presero un attimo per osservare la stanza e un brivido congelato percorse la schiena di tutti.
Remus si voltò a guardare Sirius, accigliandosi mentre provava a capire cosa gli passasse per la testa. Per un attimo, uno solo, si chiese se tutta quella storia dello scherzo fosse una buona idea, soprattutto dopo l’ennesimo racconto monco che Sirius aveva confessato tra un mormorio e un altro sul Natale appena trascorso.
“James,” sussurrò Remus, con un cenno del capo in direzione del grosso divano in pelle che ospitava, come previsto, i bersagli sperati. Lui annuì, sfilando la bacchetta dalla tasca del mantello e puntandola davanti a sé.
Mulciber stava muovendo una mano con fare assorto, con la stessa attenzione di chi, reggendo un calice di vino pregiato, fosse più occupato a chiacchierare. Insomma sembrava un vero cretino.
“Voi che fareste?” domandava invece Avery.
“Ovviamente lo farei,” Bellatrix alzò gli occhi con un sorriso, come a dire che non c’era neanche da pensarci, “sarebbe nettamente meglio.”
Peter e Sirius sorrisero, puntando anche loro le bacchette in direzione del divano, superando i fianchi di James. Lui, però, alzò entrambe le braccia e aggrottò la fronte.
Si voltò a guardare i suoi amici e appoggiò l’indice sulle labbra per non farli parlare, accennò in direzione dei divani, poi batté due volte le dita accanto all’orecchio, come a invitarli ad ascoltare.
“Non lo so,” Rosier scrollò le spalle, “parliamo sempre in via ipotetica, vero?”
“Certo,” rispose secco Wilkes, sulla sottile linea che divideva la tagliente ironia dalla scontata verità, “in via ipotetica.”
“Io trovo che non sia un’idea così folle,” Mulciber scrollò le spalle come se la questione non lo turbasse più di tanto.
Sirius cercò gli sguardi dei suoi amici, a bocca aperta. Sperava con tutto se stesso di non aver capito il fulcro del discorso.
“A volte,” iniziò Severus. Lo sguardo sembrò cadere proprio nel punto in cui i quattro Grifondoro erano nascosti sotto il mantello dell’invisibilità. Si distrasse per un attimo, ma poi scosse la testa e tornò a guardare i suoi compagni, “bisogna semplicemente ammettere che questo mondo non è per tutti.”
Avery e Rosier annuirono convinti e una risata alta e secca sfuggì alle labbra di Bellatrix, prima che posasse una mano sottile e ossuta sui capelli di Regulus. “E tu che dici?”
Remus abbassò lo sguardo e vide distintamente Sirius serrare i pugni. Gli venne naturale sfiorargli la mano per attirare la sua attenzione e scuotere la testa. Strinse attorno al profilo dentellato delle nocche sbiancate.
“Be’, sì…” Regulus si morse un labbro e si guardò attorno, vagamente intimidito. Infine sorrise, cercando di apparire il più sicuro possibile. A Remus ricordò una pallida imitazione di quello di Sirius. “Meglio non… Sì, meglio una società più…” Bellatrix rise, in attesa di un’unica parola chiave che si vedeva già viaggiare nelle menti di tutti: “pura.”
E Sirius si acquietò. Solo uno sguardo deluso per suo fratello. A Remus parve di distinguere il momento preciso in cui prese coscienza del fatto che una divergenza di idee, fosse anche una sola, poteva dichiarare eterna una rottura.
Quello fu l’esatto momento in cui Regulus iniziò a morire.
James sospirò, puntando nuovamente la bacchetta sul divano nero, ma Mulciber prese di nuovo la parola.
“Finalmente, almeno, sta succedendo qualcosa.” Un sorriso gli tagliò le labbra e la luce fioca della sala comune gli colpì il viso come a spezzarlo. I ragazzi, sotto il mantello, si irrigidirono.
“Sono solo voci.” Rosier scrollò le spalle. Sembrava quasi che sperasse che fossero solo voci, a giudicare dal tono.
Avery scosse il capo, con fare drammatico. “Oh, questa volta credo di no. Sta succedendo qualcosa,” confermò, ripetendo le stesse parole di Mulciber come se avesse voluto rendere l’atmosfera più grave e pesante. In effetti ci riuscì eccome.
Remus, a cui tutti davano le spalle, sfiorò la spalla di James e costrinse gli amici a voltarsi in assoluto silenzio verso di lui. Non parlò, ovviamente, non avrebbe potuto, ma scosse la testa e fu abbastanza: quello scherzo non l’avrebbero potuto fare, non quella sera. 
James si voltò solo un attimo verso il centro della sala comune, mordendosi un labbro indeciso, poi tornò a guardare Remus e annuì.
Era un rischio che non potevano correre. I professori, senza prove, non avrebbero mai potuto assegnare punizioni a nessuno di loro, ma i Serpeverde non avevano bisogno di prove.
Uno scherzo sarebbe equivalso a una confessione e, in condizioni normali, non sarebbe neanche stato un problema. Ma in quel caso non avrebbe fatto altro che dir loro che erano stati lì, che avevano ascoltato la loro conversazione e che sapevano. Cosa? Non ne erano sicuri e, con ogni probabilità, si trattava soltanto di Mulciber, Avery e Bellatrix che la facevano più grande di quanto non fosse, che gonfiavano due misere informazioni per farle apparire segrete, esclusive e importanti, ma qualcosa, nell’aria che si respirava, aveva fatto tremare per un attimo anche James. Qualcosa che non stava nelle allusioni di Bellatrix né nei sorrisi sicuri di Mulciber né, tantomeno, nelle pompose ripetizioni di Avery.
Era qualcosa che stava, a dirla tutta, nella maniera in cui Regulus aveva detto ‘pura’.
 
***
 
La notte di Halloween, 1981
 
Udiva il sangue pulsare nelle orecchie. Il ronzio della rabbia respirava incessante nella testa e a ogni passo sembrava di cadere, di sentire le ginocchia sciogliersi e risolidificarsi proprio all’ultimo, un attimo prima di cedere. Una caterva di insulti gli offuscava la testa e non fu neanche così sicuro di averli davvero tenuti tutti per sé.
Era rabbia, la più pura, che bolliva sottopelle come a volerlo bruciare. Era una rabbia pericolosa, di quelle che lasciano esausti, sfiancati. Vuoti. Quella rabbia mischiata al dolore e capace di annientarlo momentaneamente, di bruciarlo addirittura, ma di lasciare intatta la cenere, perché potesse piangerla quando l’effetto intossicante dell’adrenalina sarebbe svanito.
Di tanto in tanto stringeva i pugni, mentre setacciava l’ennesimo vicolo. Non perché fosse teso. Ovviamente era teso, ma non gli sarebbero bastati cento pugni serrati per dimostrarlo. No, semplicemente non era certo di avere pieno contatto con la realtà. A ogni passo perdeva un pezzo di lucidità.
Era tarda sera, qualche passante si voltava a guardarlo, qualche genitore avvicinava a sé suo figlio al suo passaggio. Doveva fare davvero paura.
Be’, ci sperava, perché l’avrebbe fatto a pezzi, ci poteva giurare. Non gli avrebbe lasciato neanche  il tempo di piangersi addosso come faceva sempre, di implorare perdono, di strisciare come un verme a chiedergli scusa.
Quella notte, ne era certo, Peter Minus non sarebbe riuscito a sfuggire ancora alla morte. E avrebbe fatto meglio a ringraziarlo, perché quello era addirittura un regalo.
Quando lo vide gli parve quasi di impazzire. Non seppe bene come avesse fatto a trovarlo, aveva ricordi vaghi di incantesimi e di trasformazioni per un olfatto più efficiente, ma quando lo individuò, di spalle, con le mani nelle tasche che camminava guardandosi ai lati di tanto in tanto, si congelò.
Inclinò la testa su un lato, perché Peter era lì, davanti a lui, e camminava con passo furtivo, in mezzo a una strada qualunque di un villaggio senza nome, in cui maghi e babbani si mescolavano in un pubblico di cui non distingueva i lineamenti. E gli sembrò davvero ingiusto.
Un’ingiustizia che gli scoppiava nel petto, così sconcertante da non essere sicuro di poterla sopportare in un’unica testa.
Peter Minus era adesso un nome e un cognome, non c’era traccia del ragazzino a cui aveva voluto bene, non riusciva più a ricordare come avesse potuto, anche solo per un istante, associare quella sagoma a qualcosa che non fosse odio nella sua forma più sincera.
“Peter Minus.” lo chiamò, il pallido ricordo di un sorriso beffardo che si trasformava naturalmente in un ghigno spaventoso. Quando lo vide voltarsi, gli occhi sgranati e una luce sconvolta nello sguardo, Sirius si sorprese della nitidezza con cui riuscì a provare un’unica emozione totalizzante: la sofferenza.
Non era arrabbiato con Peter, non gli importava niente di lui. James e Lily erano morti, era questo il problema, lui li aveva visti.
Fu quell’immagine, così limpida, il motivo per cui ci mise più tempo di quanto riuscì a realizzare per impugnare la bacchetta.
“Sirius Black!” gridò Peter e Sirius aggrottò la fronte e non ebbe il tempo neanche di registrare le sue parole: “Sirius Black ha tradito James e Lily Potter! È un assassino!”
Vide solo una scintilla vittoriosa nello sguardo di Peter, prima che una luce arancione si sprigionasse dalla punta della sua bacchetta, poi troppe persone urlarono tutte insieme.
Un’onda d’urto lo sospinse all’indietro, facendolo inciampare. L’intero manto stradale, proprio a un centimetro da lui, si scrostò con violenza e si arricciò come un’onda, impedendogli di capire cosa fosse successo oltre il suo naso, ma tutti gridavano in preda al panico.
Il suono di una lama che fendeva l’aria e un urlo atroce, più degli altri… un urlo di Peter fu l’ultima cosa che Sirius udì prima del tracollo.
 
***
 
Un grido acuto si prolungò nel silenzio. Strinse gli occhi e un mugolio gli scappò dalle labbra. Era lontano, ma non abbastanza da disperdersi nel buio. Scosse la testa di scatto, gli occhi saettarono sotto le palpebre, frenetici.
“Remus.”
Una voce lo chiamò. Aggrottò le sopracciglia, ma mantenne gli occhi chiusi. Il vento gli sferzava il viso mentre correva a perdifiato. Affondò i denti in qualcosa di morbido. Un liquido caldo e viscoso gli colò lungo la mandibola. Soffocava, annegava nel sapore ferroso che gli invadeva la bocca a ogni morso. Un senso di disgusto gli arpionò lo stomaco, ma non riuscì a staccarsi dalla carcassa.
“Remus,” il sussurro si fece più insistente.
Aprì gli occhi di scatto, mettendo a stento a fuoco la figura di Sirius, seduto sul suo letto.
“Ti stavi lamentando,” si giustificò.
Remus sospirò, comprendendo finalmente che nessuno urlava, nessuno stava soffrendo, nessuno era morto per colpa sua. Sirius inclinò il viso di lato e strinse le labbra, “mangia,” sussurrò, tendendogli un pezzo di cioccolata con un sorriso.
Remus aggrottò la fronte e guardò stranito il curioso dono del suo amico. “Sirius, è notte fonda,” lo informò, perché evidentemente non era stato in grado di capirlo da solo, “e poi devi smetterla di mettere le mani nei miei cassetti.”
“Guarda che il cioccolato non si mangia solo perché è buono, fa anche bene!” scrollò le spalle e ridacchiò piano, cacciandosi in bocca il cioccolato che Remus aveva rifiutato e infilandosi le scarpe con un gesto fluido. Quando ebbe finito gli lanciò il mantello di James, colpendolo sulla spalla, “vieni o no?” domandò prima di scomparire oltre la cornice della porta.
Remus sospirò affranto, come se l’incursione di Sirius nel suo sogno fosse stata una vera seccatura. In realtà gli era grato per averlo strappato a quell’incubo e non avergli fatto domande.
Si passò una mano sul viso ancora provato, poi si decise a sfiorare il pavimento con i piedi. Si prese qualche secondo per abituarsi al buio e mettere a fuoco le sue scarpe, infine seguì Sirius sulla Torre di Astronomia. Proprio un attimo prima di richiudersi la porta del dormitorio alle spalle, però, si ricordò di avere qualcosa nel suo baule da portare con sé, quella sera.
 

“Interessante istinto suicida,” considerò Remus, liberandosi con un gesto del mantello dell’invisibilità e sedendosi sul loro angolo di Torre, accanto a Sirius. Lui lo guardò confuso. “Sei salito fin quassù senza questo,” si spiegò, alzando il mantello quel tanto che bastava per fargli capire a cosa si riferisse e riponendolo un attimo dopo tra di loro.
Sirius scrollò le spalle. Il Lago Nero brillava sotto la luce fievole di qualche stella. “Sono stato silenzioso.”
Remus rise, volgendo a sua volta lo sguardo al panorama. Lasciò penzolare le gambe oltre il bordo della torre e si appoggiò coi gomiti al parapetto. “Non dormivi?”
Sirius scosse la testa e Remus si limitò ad annuire.
“Ti ho…” iniziò poi, incespicando sulle parole e cercando di riordinare i pensieri. Il fatto che Sirius lo fissasse non lo aiutò granché. “Ti ho preso una cosa,” confessò, tastando l’oggetto che nascondeva dietro la schiena.
Incrociò il suo sguardo incuriosito per qualche secondo e ci fu un momento soltanto in cui si domandò perché diavolo avesse caldo alle guance… e se potessero sudare.
“È una sciocchezza,” si sentì in dovere di aggiungere, mentre gli porgeva un pacchetto sottile e quadrato, guardandosi le mani, ma sorridendo appena. “Insomma, sapevo che sarebbe stato un Natale difficile per te, con Regulus e… e tutto il resto, ecco, quindi ho pensato che questo ti avrebbe potuto aiutare in qualche modo.”
Sirius aggrottò la fronte e sorrise, prendendo tra le mani il regalo e guardandolo sempre più curioso.
Non aspettò un attimo di più, strappò la carta con un gesto secco, stringendo la lingua tra i denti in una maniera un po’ infantile.
Quando ebbe finito, aggrottò confuso le sopracciglia. Remus lo studiava adesso divertito, ogni traccia di imbarazzo svanita come neve al sole.
Sirius inclinò la testa su un lato e attese che la figura stampata sulla carta si muovesse, ma non accadde mai. L’immagine ritraeva un palazzo dai mattoni rossi, illuminato da lampade grandi dalla luce gialla. Delle automobili erano parcheggiate sul ciglio della strada e degli scatoloni impilati riposavano alla base dell’edificio. Un uomo biondo aveva appena varcato la soglia della grande porta verde del palazzo. Poco sopra la sua testa, un’insegna al neon riportava l’iscrizione ‘K. West’. “Non si muove,” notò semplicemente, ispezionando con le dita un lato della scatola che era tagliato.
“Già, non si muove,” convenne Remus, annuendo piano.
Sirius non ci mise molto a cavarne fuori due dischi neri di vinile. Il centro era colorato di un arancione pallido e portava delle iscrizioni che non riuscì a comprendere. Aggrottò ancora le sopracciglia e alzò lo sguardo su Remus. “Ehm…” iniziò, “è… fantastico!”
Remus alzò gli occhi al cielo.
“Bene, allora fammi vedere come si usa,” lo sfidò lui, accennando col capo in direzione del disco.
“Non ho idea di cosa sia,” ammise Sirius, che non ci mise poi molto a cedere.
Remus annuì. “I babbani ci mettono la musica sopra e lo ascoltano. So che forse non avrai modo di ascoltarlo subito, ma… credo davvero che potrebbe piacerti. Questo tizio è diventato subito abbastanza famoso,” spiegò, scrollando le spalle come se non avesse fatto niente di che, “è un po’... Fa quello che gli pare, non ha paura di andare controcorrente, sai…”
Sirius sorrise, improvvisamente incuriosito dallo strano signore che aveva composto delle canzoni misteriose che non poteva ascoltare. Si applicò per comprendere almeno una delle parole assurde che leggeva su quel disco, ma non capì altro che un nome. “David Bowie,” pronunciò.
Remus annuì ancora, ma Sirius lo ignorò, continuando a far scorrere gli occhi avidi sul vinile.
“Devo ascoltarlo,” annunciò, più a se stesso che a Remus.
“È bravo.”
Sirius alzò lo sguardo su di lui per qualche secondo. “Ti ho preso anch’io una cosa per Natale,” annunciò, spezzando lo strano contatto visivo e riponendo il disco nella custodia con una cura fuori dai suoi standard. Con un gesto veloce della bacchetta richiamò un pacchetto rettangolare e un po’ sgualcito, afferrandolo al volo. Lo ripulì ai lati e, con una scrollata di spalle, lo consegnò all’amico. “Una sciocchezza,” spiegò, ricalcando le parole che aveva usato Remus un attimo prima che lui aprisse il suo regalo.
Lui colse il riferimento e alzò gli occhi al cielo, scartando il pacco con cura e tirando fuori un libro sottile. Sorrise, riconoscendo il titolo.
“Lo conosci?” gli domandò Sirius, con un leggero cenno del capo e il solito sorriso sghembo.
Remus annuì. “Non l’ho letto, però.”
“Lo so.”
Remus aggrottò le sopracciglia, ma sorrise, non troppo sicuro di voler sapere perché lo sapesse. Ciò che lo sconvolse, però, fu quello che Sirius disse un attimo dopo.
“Io l’ho letto, però.”
“Tu hai letto ‘le notti bianche’.” Remus non lo domandò, ma lo affermò, come ad accertarsi che la frase suonasse sbagliata anche sulla sua lingua e non solo nella sua testa. “Di Dostoevskij,” continuò, perché semplicemente non aveva senso. “Tu hai letto un libro, prima di tutto?”
Sirius sbuffò. “Dovrebbe essere una di quelle cose pensanti che leggeresti tu, però non potevo regalartelo senza sapere se fosse carino.”
Remus alzò un sopracciglio e lo guardò come se gli fosse spuntata un’antenna aliena sulla fronte, ma Sirius scrollò le spalle e cavò dalla tasca del mantello una delle sigarette che aveva sottratto di nuovo a Marlene. La tenne tra i denti e la accese, mentre Remus continuava a guardarlo attonito.
“Fammi sapere com’è,” disse, semplicemente, tornando a guardare le stelle, ormai ben lontane da dov’erano quando si erano seduti proprio sul bordo della Torre di Astronomia.
Remus annuì colpito, seguendo il suo sguardo.
L’aria frizzante della notte si mischiava ormai a un nuovo odore di tabacco.
 
***
 
La notte di Halloween, 1981 
 
Peter aveva visto un futuro, in quello sguardo grigio. Aveva capito cosa avrebbe dovuto fare non appena si era voltato e aveva incrociato i suoi occhi. Non c’era altro modo, non c’era verso di uscirne. I seguaci del Signore Oscuro gli avrebbero già dato la colpa per la caduta improvvisa del loro Signore, non poteva stare anche dietro a Sirius.
In quell’istante lunghissimo in cui il suo migliore amico mosse la mano verso il mantello per duellare, Peter comprese tutto. Un istante in cui vide chiaramente il futuro, sì, ma quello di Sirius.
Non ce l’avrebbe mai fatta, lo conosceva troppo bene. Aveva il fegato di ucciderlo, ma non la fermezza per riuscirci. Erano gli occhi di un pazzo, quelli che aveva incontrato in quell’istante.
Sfruttò il vantaggio invisibile.
“Sirius Black!” gridò e vide la confusione prevista nello sguardo del ragazzo. Era perso, assolutamente spezzato, un cane bastonato. “Sirius Black ha tradito James e Lily Potter! È un assassino!” e, per la prima volta, fu uno sconfitto come Peter a provare pietà per un vincitore come Sirius.
Confringo,” sussurrò, mirando ai ciottoli sconnessi della strada. Una scossa si liberò dalla sua bacchetta. Non provò niente, quando anche altre persone, attorno a lui, furono travolte dall’esplosione. A stento le vide, mentre un’unica strada si affacciava alla sua mente. Agì prima che potesse ripensarci, d’istinto, come non era affatto abituato a fare, ma aveva già battuto Sirius, a quel punto era pronto a tutto.
Sfruttò la luce accecante dell’esplosione, le nubi di polvere che iniziarono a sprigionarsi dai detriti. Agitò secco la bacchetta e si amputò il dito indice. Urlò fortissimo, non riuscì a evitarlo, sperando che si confondesse tra le altre grida. Chiuse gli occhi, ignorò il sangue che pompava forsennatamente sull’orlo del suo dito e si concentrò sull’immagine di un topo.
Prima che potesse ripensarci, il suo corpo rispose.




 

 


Note di El: Ciao, ciaaaao, ho una buonissima notizia, ye! La cosa dei dieci giorni si sta rivelando miracolosa. Anche con un esame di mezzo riesco a mantenere sempre la stessa distanza di capitoli, questa cosa mi sconvolge, quindi non cantiamo vittoria per un fatto proprio di scaramanzia.
COMUNQUE, io credo che la questione della mela abbia qualcosa da cui prendere ispirazione, perché ce l'avevo scritta come se qualcuno mi avesse dato un'idea, boh. Secondo me c'è un vine. Sì, sono sempre più sicura, deve essere un vine, vabbé. Ah, che poi piccola parentesi su Dorcas e Marlene. A me piacciono un sacco insieme, nel senso che questi hint alla loro intesa sono quello che pensate, però non c'era proprio modo di rendere loro giustizia perchè NON C'HO SPAZIO, REGA, quindi se è possibile trovare un buco per non arronzare lo farò, però ecco non è prioritario. Per farmi perdonare giuro faccio cento giri dal via all'inferno e scrivo un capitolo per ogni giro solo per loro, sigh.
Allora, per la questione REGALI DI NATALE!
David Bowie, i Queen e Sirius sono il pane degli headcanon, quindi anche se è scontato ve lo beccate perché per me non c'è proprio da discutere. Ho tenuto praticamente una conferenza di 7 minuti di audio sul perché questa cosa abbia più senso che non, quindi in attesa che esca il trattato fidatevi. Vabbè, ovviamente scherzo, ma il problema per ora è ascoltarlo. Ah, per chi non l'avesse riconosciuto l'album è quello di Ziggy Stardust, che è uscito nel 1972. Mentre invece le notti bianche inizia ad avere il suo senso, adesso capite perché l'ho letto in rush ;) Per la scelta del libro crediti a Ran che alla domanda "che può voler leggere Remus?" mi ha risposto "qualcosa di russo, quel genere là" e il titolo poteva rimandare al bianco della luna e non solo al fatto di restare svegli. Da qui la scelta.
Chiedo scusa a David Bowie e Dostoevskij che si staranno rivoltando nelle tombe.
Questo è tutto, mi scuso per la scontatezza sull'affinità tra Sirius e Lily ma questo ci passa il governo.
Le note lunghe sono finite e niente signori, grazie mille per aver letto e per essere ancora qui dopo tutti questi capitoli <3
A presto!
Adieu,

El.

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Guizzi nel vetro ***


11. Guizzi nel vetro

 



Dicembre, 1995
 
La nebbia abbracciava il villaggio nel suo alito soffocante. Faceva freddo e un velo di morte si era steso assonnato sui tetti appuntiti, scivolando sulle tegole e colando come liquido sulle mattonelle della strada.
Erano diretti nel posto più tetro di Godric’s Hollow e più Remus avanzava, più aveva paura. Era la solita paura tranquilla che sapeva tenere sotto controllo e che invece quel giorno ribolliva come se qualcuno avesse avuto la brillante idea di appiccare un incendio su una ferita guarita, ma quiescente.
Non era pronto.
E come avrebbe potuto?
Affrontare il dolore una volta era normale, incolpare qualcuno anche di più, ma la verità era venuta giù di colpo, mettendo un nuovo filtro alla realtà e adesso il dispiacere straripava come se l’avesse appena scottato. Chi era mai pronto a dire addio due volte?
“È di qua,” esalò in un sussurro, il suono dei tacchi delle scarpe buone che schioccavano sulla strada come un orologio un po’ irritato. Remus udì l’ansito bagnato del cane di fianco a lui e lo prese per un assenso.
Proprio alla soglia del cimitero c’era una coltre di nebbia più densa, sembrava dissuadere chiunque dall’entrare, gridare che non era affatto il caso, che certe cose era meglio non superarle.
Ecco, che fosse proprio la nebbia a essere diventata così loquace non era sicuro, ma era decisamente più facile da incolpare.
Il cane si mosse per primo, il manto nero che sbiadiva oltre la soglia e via via più all'interno del piccolo cimitero, inglobato dalla nebbia. Remus lo seguì con un sospiro: almeno non era solo.
“Da questa parte,” lo chiamò una voce, mentre Remus si addentrava nel cimitero con la faccia di un condannato a morte.
“Non è sicuro,” ribatté duro, ma senza troppo entusiasmo. Era stanco di stare dietro a Sirius e al suo modo irritante e stupido di mettersi in pericolo.
“Chi vuoi che ci veda? È già tanto se ci vediamo a vicenda,”disse lui, un sorriso accennato a rendere vagamente più luminoso quel posto terribile.
In lontananza, un rubinetto chiuso male lasciava cadere pigro qualche goccia: era un suono assordante nel silenzio della morte.
“Brilla al buio,” osservò Sirius, poi, semplicemente, dando un’occhiata alla tomba di marmo. Era così chiara da spiccare tra le altre, quasi pura, purissima. Sotto i loro nomi, come graffi sulla pietra, c’era incisa una sola frase, essenziale: ‘L’ultimo nemico che sarà sconfitto è la morte’.
Sirius uscì dal suo mutismo possibilmente rispettoso e scoppiò a ridere di cuore. Remus lo guardò metà divertito e metà confuso, chiedendosi se Azkaban non gli avesse fatto sviluppare qualche strano tipo di reazione al dolore.
“Avanti, James puro e candido?” rise ancora, incurvando le sopracciglia ironico, “davvero è così che vuoi essere ricordato? Lily non ha avuto niente da ridire?”
Remus sollevò lo sguardo su di lui, all’erta. Certe cose le sentiva arrivare anche a distanza di anni. Sirius non era diventato improvvisamente allegro e in vena di fare battute, riusciva a percepire il suo autocontrollo raggiungere il limite.
“Oh, avanti, hai lasciato che si atteggiasse anche da morto!”
“Abbassa la voce,” avvertì Remus, dandosi una rapida occhiata attorno.
“Non me ne frega un cazzo!” Sirius rise isterico e Remus lo guardò, studiandolo e scrollando le spalle. Poteva fare quello che gli pareva, per quanto lo riguardava, non stava certo mettendo in pericolo tutti senza curarsi minimamente del dolore che poteva arrecare. Per niente, non era certo il caso. “Sapete che c’è?” continuò, la voce divertita parve spezzarsi in più punti.
“Sirius.”
“C’è che sono stato un idiota, ecco cosa!” gridò ancora, ignorando l’ammonizione dell’amico, “cambiare idea all’ultimo... oh avanti, James, non sono mai stato uno stratega.”
Remus serrò le labbra e mormorò un incantesimo silenziatore, sperando vivamente che aderisse come una bolla al cimitero, poi cacciò le mani nelle tasche e si preparò mentalmente alla vagonata di dolore a cui proprio non avrebbe voluto assistere, ma su cui non aveva alcun potere. Forse, ragionò infine, non era l’atteggiamento impulsivo di Sirius a dargli fastidio, ma il fatto che quella pentola a pressione di dolore stesse per essere scoperchiata dopo anni di soppressione.
“Sarei morto io!” gridò a quel punto Sirius, davvero, di pancia e Remus non si compiacque del suo tempismo con l’incantesimo.
Il labbro inferiore di un amico che era diventato un uomo senza di lui tremò, il sorriso scemò tutto di botto e contrasse le sopracciglia, mordendosi il labbro per smettere di farlo tremare, il dolore di Azkaban che tornava a invecchiargli il viso. “Mi dispiace davvero,” sussurrò, due lacrime ingombranti gli si poggiarono sulle palpebre; guardò quei due nomi come se avessero avuto i loro occhi, poi si inginocchiò. “Mi dispiace così tanto.” Sfiorò con un dito quelle lettere intagliate nel marmo, come se fosse stato abbastanza per sfiorar loro una guancia.
Remus si accostò a lui, sedendosi sui calcagni e inclinando la testa su un lato. Azzardò una mano sulla sua spalla. Sirius si inclinò naturalmente nella sua direzione, a cercare più contatto. “Non è colpa tua,” si limitò a dire, consapevole della debolezza di quell’affermazione.
Sirius sbuffò via una risata strozzata e un po’ di condensa. “Ma è colpa mia!” la mano che prima sembrava accarezzare le lettere dei nomi dei suoi amici a quel puntò batté forte sul marmo. L’eco di quel gesto si espanse attorno a loro in cerchi concentrici. “È interamente colpa mia! Ho proposto io di fare Peter Custode Segreto e io li ho…” quelle due lacrime in bilico persero l’equilibrio una volta per tutte. Arricciò il naso e scosse la testa, come a scrollarsele di dosso, ma non riuscì a impedire che gli scivolassero via dagli occhi, “James era mio…”
“Lo so.”
Sirius annuì, amaro, e fissò con odio la lapide, come se avesse voluto romperla e tirare via i suoi amici dalla terra. La parola ‘fratello’ vagava ancora struggente nell’aria.
“Vuoi lasciare qualcosa?”
Sirius annuì ancora, afferrando la bacchetta. La agitò appena, mogio, e il peluche di un cervo si materializzò sulla pietra gelata.
Remus rise in uno sbuffo. “Calzante,” sussurrò e, con la sua, fece comparire una cerva al suo fianco.
“Quando tutto questo sarà finito…” iniziò Sirius, un velo di imbarazzo a colorargli la voce, “dovremo portarci Harry.”
Remus annuì, deglutendo a fatica, mentre la leggerezza con cui Sirius aveva parlato del futuro gli faceva vibrare il respiro.
Quando tutto sarebbe finito, già, lui ci avrebbe aggiunto un punto interrogativo.
Quando sarebbe finito?
 
***
 
“Ma quando la finirà di fare così?” James allargò le braccia esasperato, mentre cercava qualcosa, anche se Peter non aveva ancora capito cosa. Non era davvero seccato, non avrebbe mai potuto, ma dare la colpa a Sirius, quando era lui a fare tardi, era uno sport che amava quasi quanto il quidditch.
“Ci raggiungerà in infermeria,” Peter si strinse nelle spalle, non troppo interessato alle sorti di Sirius, “o forse ti crea problemi il fatto che sia con Marlene e tu… qui con me?”
James si bloccò con le mani tra le pieghe delle lenzuola, poi alzò lo sguardo su Peter. “Ma... Pete, io adoro stare con te!” gridò, allargando le braccia e avvicinandosi a lui per stringerlo.
“No, no!” Pete si scostò, scappando dalle grinfie dell’amico, “via da me, James, non voglio i tuoi pidocchi.”
“Io non ho i pidocchi!” James si passò una mano tra i capelli, in modo che, se avesse avuto davvero i pidocchi, avrebbe fatto giusto in tempo a liberarli sui letti di tutti.
“Potresti ospitarne un branco.”
“Non so se tanti pidocchi costituiscano un branco,” considerò lui.
“Questo non lo so, ma…” Peter si interruppe, aveva già una mano sul pomello della porta del dormitorio, “mi spieghi cosa stai cercando?”
James si bloccò di nuovo, questa volta con le mani tra le lenzuola di Sirius. “Non trovo il mio mantello, giuro che se lʼha preso Sirius… Ma poi che diavolo ci deve fare di notte?” mormorò.
“Ma adesso non ti serve.” Peter lo guardò per qualche momento, mentre ragionava sulle possibili vie di fuga che il mantello poteva aver adottato in sua assenza. “È un mantello dell’invisibilità,” Peter soppresse una risata, “sarà diventato invisibile.”
James alzò uno sguardo annoiato su di lui, l’espressione quasi sconcertata dall’umorismo del suo amico, poi si lasciò andare a una fragorosa risata. “Questa te la potevi risparmiare.”
Peter ridacchiò, poi prese finalmente la situazione in mano e afferrò James per il colletto della camicia, trascinandolo fuori, “ora dobbiamo andare,” annunciò. Quando non c’era Remus tutto risultava davvero più complicato.
L’amico alzò le mani in segno di resa e si lasciò scortare fuori dal dormitorio dal povero Peter.
 
***
 
Sirius alzò la testa di scatto e per poco, davvero per poco, non colpì il mento di Marlene. Cercò i suoi occhi, storcendo appena il naso insicuro e aggrottando le sopracciglia, chiedendosi se andare a tentativi fosse la scelta migliore in quel caso. Lo sgabuzzino era soffocante, ma la vicinanza era… piacevole davvero. Smise di chiedersi se stesse muovendo la mano nella maniera corretta perché aveva il braccio in una posizione troppo scomoda per preoccuparsene e poi Marlene sospirò tra i denti e si aggrappò alla sua spalla con una mano, scivolando in basso con l’altra.
A quel punto, in realtà, Sirius smise di preoccuparsi di ogni cosa.
Si lasciò sfuggire un mugolio soddisfatto e Marlene rise piano. Si tradì, però, quando sussultò e il respiro le aumentò di colpo. Non aveva mai creduto che quella cosa potesse funzionare al primo colpo.
Sirius aveva la testa leggera. Non aveva più un solo pensiero al mondo, tutto poteva essere concentrato in cinque metri quadri di spazio condiviso e forse rincorrere qualcosa di garantito e immediato era di gran lunga più facile di… tutto il resto.
“Quanto altro tempo abbiamo?” domandò Marlene, ormai ansimava e, anche solo il tono in cui lo disse, fece perdere qualche altra briciola di lucidità a Sirius. “Prima dell’inizio delle lezioni.”
“Credo mezz’ora, possiamo…”si bloccò, totalmente, il calore e l’eccitazione che si condensavano in un’unica consapevolezza fulminante. “Cazzo.”
“Che c’è?” Marlene inarcò un sopracciglio, una punta di fastidio nella voce.
Sirius lasciò vagare lo sguardo in un angolo dello stanzino, a pesare scelte e parole successive. Represse l’istinto naturale di spingersi verso la mano di Marlene, che ancora era ferma sulla patta dei suoi pantaloni. “Okay, ti giuro che questa è la cosa migliore… di sempre,” iniziò, sorridendo sul finale e annuendo a sottolinearlo, “però,” ci mise tutta la sua forza di volontà per prenderle gentilmente la mano e portarsela invece alle labbra, in una replica ironica di un baciamano, “ho dimenticato di fare una cosa importantissima e… devo davvero andare.”
“O-okay,” replicò lei, il cambio d’atmosfera una doccia gelida.
Sirius annuì pratico e si voltò, aprendo la porta di uno spiffero per controllare che nessuno fosse di passaggio.
“Ehm,” Marlene attirò la sua attenzione, prima che potesse scappare, “va tutto bene?”
“Credimi, vorrei davvero…” Sirius si concesse un’occhiata lunga a squadrarla, “continuare, ma devo… James mi uccide se...” concluse, non proprio brillantemente, con una scrollata di spalle.
 
Quando Sirius ebbe abbandonato lo stanzino, Marlene si passò una mano nei capelli, poi rise.
“Quando mai non è James.”
 
***
 
La luce filtrava pigra attraverso le inferriate a rombi dell’enorme stanza. In qualunque altro giorno o anche solo in qualunque altra ora ci sarebbe stato un silenzio immacolato, quasi sacro. Il rumore gentile delle pozioni che gorgogliavano in qualche armadietto e nient’altro.
Be’, forse gli altri frequentatori dell’infermeria lo trovavano pacifico, miracoloso, bellissimo.
Remus lo trovava agghiacciante.
Gli stringeva lo stomaco e lo angosciava nella maniera rassegnata delle abitudini.
Era un’atmosfera desolata, nel senso di dispiaciuta, come se il mondo intero volesse mettergli una mano sulla spalla e sussurrargli rammaricato a un orecchio: ‘mi dispiace, per te non c’è speranza’.
Finché qualcosa, qualcosa che fingeva di respingere e di detestare, non era accaduta.
Remus schiuse un occhio e la debole luce del mattino gli colpì aggressiva le pupille. Per un secondo si chiese agitato se avesse in qualche modo perso la vista.
“Oggi siamo più sexy che mai!” la voce allegra di James e la sua manaccia che gli si poggiava scherzosa una spalla spensero ogni paranoia. Il silenzio soffocante e all’apparenza calmo dell’infermeria era stato squarciato in un secondo da un suono che al mattino di solito detestava.
“Non posso dire lo stesso di te,” replicò Remus in un mormorio, iniziando a mettere a fuoco i volti dei suoi amici. Peter prese posto su una sedia accanto al letto e James optò per una più aggressiva invasione del suo spazio personale, costringendolo a farsi da parte con qualche lamento e piazzandosi sulla brandina.
“Non eri troppo stanco per fare battute?” ribatté James, portando una mano ad arruffargli i capelli. Remus cercò di sottrarsi al suo invadente… affetto.
“Non l’ha mai detto,” gli fece notare Peter.
James alzò gli occhi al cielo e si sistemò gli occhiali con un dito. “Sono comunque migliori delle tue, Pete.”
“Siete qui da meno di un minuto e già mi state facendo venire mal di testa.” Remus puntò i gomiti sul materasso per tirarsi un po’ più su col busto e tentò di distrarsi dal dolore lancinante al fianco continuando a parlare. “Sirius dov’è?”
Lo sguardo di James passò dal divertito all’allarmato in una manciata di secondi. Fece segno a Peter di passargli un cuscino e cercò di posizionarlo dietro la schiena di Remus, facendolo muovere il meno possibile. “È un cretino,” James scrollò le spalle e aggrottò la fronte, cercando di capire se lo stesse effettivamente aiutando, “sta arrivando, però, dovrebbe…”
“Quindi è questo che dici di me quando non ci sono?” Sirius piombò nell’infermeria con la sicurezza e la disinvoltura di chi quella stanza la possedeva e ci organizzava anche partite a poker. “Che sono un cretino?” Aveva una mano sul petto a fingere imperdonabile offesa e la bocca spalancata dallo sconcerto. A tradirlo solo un angolo delle labbra, alzato in un velato sorriso.
“Dico di peggio, quando non ci sei,” commentò James scocciato, negli occhi lo stesso guizzo che tradiva anche lui.
“Ah, ecco, per un attimo ho avuto paura che fossi diventato gentile.”
Peter inclinò la testa su un lato e ridacchiò. “Ti sei dimenticato un pezzo,” disse, accennando con un dito verso la sua camicia, infilata male nei pantaloni della divisa.
Sirius rifilò un’occhiataccia a Peter, mentre si sistemava, e diede un ceffone a James quando iniziò a complimentarsi con sentiti ‘oooh’.
“Stai bene?” indagò ignorandoli e abbassando la testa per incontrare gli occhi di Remus e arruffandogli i capelli con una mano. Lui si scostò e sospirò rassegnato.
“La smettete tutti e due?”
Sirius alzò le sopracciglia sorpreso, guardò James e gli sorrise. Il sorriso gli fu subito restituito, “ah, è così che stanno le cose?”
Remus scambiò un’occhiata confusa con Peter, poi optò per una difesa preventiva, “non il fianco sinistro, la gamba destra e le spalle.”
Sirius non ci pensò un attimo di più e si lanciò sul lato del letto lasciato libero da James. Gli mancò la gamba per un soffio e lasciò scivolare un braccio a cingergli le spalle con una delicatezza che il suo turbolento arrivo non sembrava preannunciare. Remus, dal canto suo, strizzò gli occhi e tirò un sospiro di sollievo, quando scoprì che era rimasto tutto intero.
“Vi ho portato qualcosa,” trillò Sirius, alzando una busta.
“Per l’ultima volta, Sirius, se l’hai preso dal mio comodino,” iniziò Remus, che già scuoteva la testa, “hai rubato, non hai portato qualcosa.”
“Ma come ti viene in mente? Ti sembro il tipo?”
“Sì,” lo intercettò Peter.
“Bene, voi due non avrete niente. James,” Sirius ravanò per lunghi attimi con la mano nella busta, poi lanciò una bottiglia di succo di zucca a James, che la prese al volo, “questa è per te, mio unico vero amico,” poi ne stappò una per sé e, con il contributo del suo unico vero amico, si premurò di berla non staccando gli occhi di dosso a Remus.
Lui, intrappolato tra due fuochi, sospirò e chiuse gli occhi. “Non lo voglio, il vostro succo di zucca.”
James arricciò il labbro superiore, scettico. “Muore dalla voglia,” commentò, osservando Remus come se la sua voglia di succo di zucca trasparisse da ogni fibra del suo corpo.
“Muore dalla voglia,” convenne Sirius.
Si allungò nuovamente verso la busta per un’altra bottiglia di succo di zucca. “Solo perché il lupo è ferito,” concesse poi, tendendogli una bottiglia senza guardarlo neanche.
Remus lo osservò titubante per qualche altro secondo, poi la afferrò quasi strappandogliela di mano.
“Allora,” Sirius lanciò un’occhiata complice a Peter e poi fissò James inclinando la testa di lato, “oggi studi, Jamie?”
James sospirò al nomignolo. Il fatto che venisse usato sempre quando doveva essere preso in giro spiegava perché. “Sì,” mormorò, incrociando le braccia al petto e preparandosi a quello che sarebbe successo di lì a poco.
“Ma che evento!” Sirius sgranò gli occhi e lasciò scivolare nuovamente il braccio sulle spalle di Remus, “Devi aver avuto un interessante incentivo.”
Peter ridacchiò. “Oh, l’ha avuto.”
“Che mi sono perso?” Remus indossò una versione più stanca del sorriso spavaldo degli altri due. “Ti sei già sposato?”
“Non mi conoscete, ragazzi, io non mi sposerò mai, avrò una vita da scapolo. E comunque, tu non avevi sonno?”
“Mi è passato,” Remus scrollò le spalle, il sorriso di Sirius si allargò, dietro di lui, “come per magia!”
“James si vede spesso con Emmeline Vance per studiare,” lo informò Sirius, marcando l’ultima parola e annuendo come se si stesse riferendo a un fatto di cronaca di fondamentale importanza.
James sospirò affranto, ma Remus mise in piedi il più drammatico verso sorpreso che gli riuscì in quelle condizioni. “E che studiate?”
“Anatomia,” si intromise Peter, con il tipico cenno del capo di chi ha passato ore e ore a studiare anatomia con le ragazze… o, almeno, di chi avrebbe tanto voluto. Sirius scoppiò a ridere e annuì, fiero del fatto che i suoi amici avessero deciso di reggergli il gioco.
“Non studiamo anatomia,” si difese James, mentre cedeva a un principio di sorriso, “e poi ci sono sempre anche Alice, Dorcas e Marlene, quando lei non è occupata con i suoi compiti di anatomia.”
Remus rise e si voltò a guardare Sirius. Lui scrollò le spalle disinvolto, ma, stranamente, un sorriso timido gli strisciò sulle labbra. “Secondo voi… se vi trovaste…” Sirius osservò il letto vuoto che avevano di fronte come se gli avesse potuto dare una mano a parlare, “se vi trovaste con una ragazza e la… la lasciaste così,” Sirius arricciò il labbro e aggrottò la fronte, come se si stesse concentrando in una maniera a cui non era abituato.
Non concluse mai la frase.
Ci fu un momento di silenzio, se avessero aguzzato le orecchie sarebbero riusciti a sentire il bubolare dei gufi in cima alla Torre Ovest.
Poi James si sporse in avanti, superando le gambe di Remus e cercando lo sguardo di Sirius. “Hai lasciato Marlene... “ sembrò ragionare sul termine successivo da pronunciare per qualche istante, “così?” 
Sirius alzò gli occhi come se la cosa più urgente che avesse voluto dirgli fosse stata: ‘be’, se vogliamo metterla proprio così’, poi si limitò ad annuire con una scrollata di spalle.
Remus inclinò la testa su un lato. “E tu sei rimasto così?”
Peter scosse la testa e aggrottò le sopracciglia, passando con lo sguardo da Remus a Sirius a James come se stesse assistendo a una partita di tennis a tre.
“Sì,” ammise il ragazzo, prendendo un altro sorso disinvolto dalla sua bottiglia di succo di zucca.
Remus e James si scambiarono uno sguardo veloce. “E perché?”
Sirius era addirittura più concentrato delle rare volte in cui si impegnava davvero a lezione di Pozioni. Aprì la bocca per parlare, ma Peter lo precedette con un timido colpo di tosse, per attirare l’attenzione.
“Scusate, ma…” Peter abbassò lo sguardo, sorridendo quel tanto che bastava per farlo apparire la definizione di imbarazzo, “che significa ‘così’?”
Sirius soppresse una risata nel naso e si chinò in avanti per ridere nel modo più discreto possibile. Remus, invece, fu davvero discreto e James sorrideva con la faccia di uno che la sapeva lunga. In realtà non la sapeva lunga neanche un po’.
“Pete,” iniziò, con la voce impregnata di una risata trattenuta a stento, “si vede che hai copiato i compiti di anatomia.”
 
***
 
Quel pomeriggio Lily era distratta.
Era passata una settimana da quando una strana sensazione le si era posata sull’animo come un velo della più fine fattura.
Si sentiva un po’ soffocare, a dire la verità. Non per come si erano messe le cose negli ultimi tempi, ma per la quantità di ragioni che la spingevano a non potersi sfogare davvero con nessuno. Qualche volta aveva finito addirittura per parlare al suo gufo ed essersene tornata alla Sala Comune con una punta di imbarazzo a tingerle le guance, quando qualcuno era entrato nella Guferia; doveva essergli sembrava davvero fuori di testa.
Fissava il cielo e faceva seguire ai suoi occhi la traiettoria di Marlene sulla scopa, senza però riuscire davvero a concentrarsi sugli allenamenti, né sulle azioni. Aveva pensato che assistere a un allenamento le avrebbe dato una scusa facile e incontestabile per lasciare nel castello i suoi pensieri e godersi un po’ di aria fresca.
Ecco, forse un po’ troppo fresca.
Lassù, tra gli spalti, si gelava.
Si strinse nelle spalle per farsi calore il più possibile, quando lo sguardo le cadde da qualche parte alla sua sinistra. La penultima persona che avrebbe voluto vedere in quel momento si era lasciata cadere poco elegantemente sul suo stesso gradino, ma mantenendo una distanza di almeno tre metri. Penultima, infatti, perché l’ultima la stava già vedendo da una quantità insostenibile di minuti e le sfrecciava davanti di tanto in tanto, commentando qualcosa che – fortunatamente – si perdeva nel vento prima che potesse afferrarla. L’ultima era James Potter, chiaro.
Sirius non disse una parola e puntò gli occhi sul campo, come se non l’avesse neanche vista.
“Cazzo, che freddo,” mormorò, scuotendosi sull’onda di un brivido e affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. Soffiò uno sbuffo d’aria condensata e Lily gli rifilò un’occhiata di sottecchi.
Di colpo quel piano le sembrò una grandissima presa in giro. Aveva davvero pensato che passare delle ore da sola, al freddo, a guardare un allenamento di quidditch l’avrebbe distratta dai suoi pensieri? Era praticamente il modo migliore per passare del tempo da sola senza dovere spiegazioni a nessuno! Quale sarebbe stato il prossimo colpo di genio? Affidarsi a un pensatoio per non pensare?
Il problema era questo: Severus continuava ad allontanarsi ogni giorno sempre un po’ di più, i suoi legami con i compagni Serpeverde erano più che ovvi. Il che sarebbe stato anche un bene, se solo non fossero stati gli stessi che se ne andavano in giro per la scuola a insultare qualunque studente di sangue non puro. Era uno scherzo che non era mai stato divertente e che era diventato per giunta anche aggressivo, negli ultimi tempi.
E poi, Lily aveva smesso di credere alle uscite di James Potter più o meno nel momento in cui aveva esordito, ma, alla luce dei nuovi eventi, trovava plausibile che fosse stato Severus a inventare quell’incubo di incantesimo Levicorpus, anche se in cuor suo sperava che fosse l’ennesimo attacco infondato di James.
Era frustrata, ecco cosa. Parlare con Severus era inutile: era sfuggente e le diceva che era semplicemente paranoica, che si stava lasciando influenzare dalle idee strampalate dei suoi amici e che il loro rapporto non era cambiato di una virgola. Dall’altra parte, se solo provava ad aprirsi con Mary, Dorcas o Marlene, la risposta restava sempre una: ‘Ti prego, liberati di lui, è inquietante,’ il che non era molto d’aiuto. Alice, per quanto si mostrasse aperta all’ascolto, si mostrava comunque silenziosamente in accordo con le altre.
“Evans.”
Lily, così assorta nei suoi pensieri, si voltò di scatto verso Sirius senza alcuna espressione già annoiata piantata in viso. Lui lo prese per un invito a continuare.
“Conosci un modo per ascoltare musica babbana… qui?”
“Hai un disco?” e lui annuì. “Conosci la Stanza delle Necessità?”
Sirius aggrottò la fronte, forse soppesando le parole successive, perché la sua approfondita conoscenza di Hogwarts era stata appena messa alla prova. Scivolò sulla panca per avvicinarsi e, suo malgrado, scosse la testa mesto, con la lentezza di uno a cui quel gesto pesava da morire.
Lily annuì. “Si dice sia da qualche parte al settimo piano. Appare solo per quelli che ne hanno davvero bisogno. Credo ti basti… desiderare di poterlo ascoltare.”
Sirius si mosse a disagio sulla panca, poi sospirò, come se l’intera conversazione lo stesse mettendo a dura prova. “E… di preciso cosa cerco?”
Lily si voltò a guardarlo del tutto e sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere.
“Evans, non provare…”
“Cerchi un giradischi,” lo informò lei, i residui di un sorriso a mettere in evidenza le fossette. “Ci metti il disco sopra e sposti il braccio sul solco… il braccio del giradischi, non il tuo.”
Sirius annuì, cercando di tenere lo sguardo fisso sugli allenamenti. Non la ringraziò, ma le risparmiò la solita battutina sgradevole.
A Lily bastò.
 
 
“Potter.”
Marlene si avvicinò a James con una borraccia in mano e tutta l’aria di una che, più che bere, si era appena fatta una doccia. La coda bionda rimbalzava a ogni passo.
“Volevo chiederti una cosa.”
James alzò un sopracciglio e osservò Gudgeon, in lontananza, radunare la squadra per riprendere l’allenamento. “Dimmi,” annuì pratico, mentre iniziava a fiutare, suo malgrado, dove volesse andare a parare prima ancora che aprisse bocca.
“Hai notato Sirius un po’ strano, ultimamente?”
Bene. Marlene era una che andava dritta al punto. Finse di non avere idea di cosa parlasse e di non sapere nulla sull’incidente di un paio di mattine precedenti. “Non mi pare, no, cretino come al solito,” mentì.
Marlene si morse un labbro e annuì, ma non parlò, anzi, gli fece segno di avvicinarsi al centro del campo, dove Gudgeon si era messo a urlare che avevano passato in pausa sette minuti e trentasei invece che cinque e che avrebbero perso contro i Corvonero, se avessero continuato così.
“Perché?” James le fu dietro, richiamando la sua attenzione. Proprio non ce la faceva a non immischiarsi!
“No, per nessun motivo in particolare, domandavo.”
Lui annuì e alzò lo sguardo sugli spalti. Scosse la testa, chiedendosi cosa diavolo stesse combinando Sirius e, soprattutto, perché fosse così stupido.
“Ah, e… James?” Marlene si voltò nuovamente, ma questa volta un sorriso furbo le alzava un angolo della bocca. “Emmeline voleva sapere se sei interessato a…” Si prese una pausa. Evidentemente aveva fatto qualche faccia che dimostrava che era caduto nella sua trappola, perché poi sorrise vittoriosa. “Se sei interessato a studiare con lei anche domani,” concluse poi, forse James si sarebbe aspettato una piega diversa.
Dissimulò in un attimo, però. “Perché no,” disse, issandosi sulla scopa. Poi si portò una mano tra i capelli e li arruffò, come se non fosse stato in procinto di volare.
 
***
 
La notte di Halloween, 1981
 
Questione di un attimo, stava tutto lì.
L’ostinazione aveva più o meno lo stesso valore della speranza. Zampillava fragile ma inesorabile, scivolava lenta ma inarrestabile. Restava però inutile, quando si trattava di vincere.
Quando si accettava di combattere, di brandire lance, spade e archi, non si metteva mai in conto di tornare vivi, non si assicurava mai e non si prometteva. Neanche ai compagni. Eppure, nonostante gli avvisi, i promemoria continui sulle lettere esili che componevano la parola ‘perdita’, a certe cose non ci si abituava. Certe cose non si mettevano neanche in conto.
Perché sarebbe stato semplicemente troppo demoralizzante abituarsi all’idea di una perdita prima ancora che si verificasse.
Era un’idea disumana.
Non importa a cosa si gioca, la Morte segna sempre in contropiede. La si guarda sconcertati rubare la palla e correre come una forsennata alla rete; la si osserva segnare mentre si corre a perdifiato cento metri indietro.
Questione di qualche attimo, in fin dei conti, stava tutto lì.
Sta tutto lì.
Sirius aveva studiato poco, nella sua vita, ma aveva sempre saputo quello che faceva.
Sapeva come funzionava un Incanto Fidelius, l’aveva visto eseguire, l’ultimo grande scherzo tramato.
Era al cortile, la staccionata bianca appariva tetra, spenta e gelida. Inospitale, in fondo, come non lo era mai stata. La guardava come si guardava il confine di un nemico. E lo era, ormai, perché poteva toccare la staccionata e, si accorgeva con orrore, la poteva anche superare.
L’Incanto Fidelius prevedeva due sole eccezioni: si sarebbe spezzato qualora l’informazione fosse stata rivelata e resa pubblica o avrebbe fatto Custodi Segreti tutti coloro a conoscenza dell’incantesimo, nel caso in cui il Custode Segreto fosse morto.
Sirius non ne era sicuro, ma aver trovato il nascondiglio di Peter in ordine era stato un indizio inquietante sulla fine che aveva fatto l’incantesimo.
 
Remus si sedette sul tappeto del dormitorio e vi poggiò una pergamena grande, piena di segni nei punti in cui era stata ripiegata. “Al di sotto del piano terra ci sono i sotterranei, la classe di Pozioni, lo sgabuzzino con gli ingredienti, la Sala Comune Serpeverde e l’ufficio di Lumacorno. Le stanze dei sotterranei sono numerate, ma non sono potuto entrare ovunque.”
Sirius annuì e prese la pergamena di Remus tra le mani. “Per adesso andrà bene, entreremo nelle stanze per mapparle più avanti. Se abbiamo un po’ di fortuna…” scambiò uno sguardo con Peter e James. Con un po’ di fortuna la forma da Animagus di uno di loro sarebbe risultata utile nella mappatura del castello.
“Mettiamo i sotterranei in basso a destra…” Peter mosse la pergamena di Remus sul tappeto, mordendo distrattamente la punta della sua bacchetta.
“Poi ripieghiamo e passiamo al piano terra,” continuò James, sporgendosi accanto a Peter e posando un’altra pergamena poco più sopra quella di Remus.
Sirius annuì e alzò lo sguardo su James. Aveva i capelli che puntavano in mille direzioni e gli occhi stanchissimi, ma sorrise complice quando, nei suoi occhi, si accese la solita complicità.
 
Quando spinse la porta già socchiusa, un cigolio terrificante rimbombò nel silenzio di Godric’s Hollow. Era una sentenza di morte, una campana di un funerale. Il suo, forse, che si era concesso una famiglia ed era a un passo dallo scoprire di averla persa.
Sulle labbra aveva poggiata una frase che scalpitava per uscire, la necessità di sbuffare con sollievo, di piangere addirittura e di abbracciare James e Lily fino a stritolarli e sussurrare: “Mi avete fatto prendere un colpo”.
Quel sussurro gli rimase bloccato in gola per i successivi quattordici anni, incastrato tra respiri che avrebbero sempre avuto qualcosa in meno. Quel sussurro rimase sospeso nell’ombra di una scintilla un po’ più accesa che sperava gli illuminasse ancora lo sguardo e che, invece, gli brillò negli occhi solo un'altra volta, un attimo prima di morire.
E poi lo vide.
L’intesa era una cosa inspiegabile. Una sorta di condanna, un legame che si stringeva al collo e tirava fino a non poter far altro che accettarla e, in fondo, godersela dal primo istante. Con un pizzico d’egoismo non poté evitare di pensare che, se si fosse concesso di andarsene anche lui, avrebbe evitato di soffrire.
A Sirius non ‘venne un colpo’, come gli sarebbe tanto piaciuto definirlo.
Sperò che il tempo di reazione del suo cervello si allungasse all’infinito, che, semplicemente, si limitasse a non capire, che si stabilizzasse sulla coscienza che aveva di sé e del mondo solo al mattino, in quegli attimi precedenti al vero e proprio risveglio, in cui niente ha senso e ogni morto può rivivere.
Il suo tempo di reazione scadde prima che potesse pensare di afferrarlo e saldarlo in testa. Scosse il capo e forse smise di battere anche le palpebre, poi incrociò le braccia al petto, come se gli fosse toccato un lavoro sporco che non voleva fare. Bisognava essere pratici, in queste situazioni, a quanto pareva.
Gli venne da ridere.
In queste situazioni bisognava essere pratici? L’ultima cosa che gli venne in mente fu quella di essere pratico.
A quel punto, nella sua vita, ne aveva viste tante e mai una volta si era concesso il lusso dell’autocommiserazione. Pensò che non fosse proprio il caso di mettersi a piangere, che doveva mostrarsi forte e immune a qualunque dolore, anche se a guardarlo non c’erano altri che lui.
“Secondo te,” iniziò, in un sussurro, perché non era certo di poter usare la sua voce. Superò James come se non l’avesse neanche visto, come se avesse iniziato a parlare da solo e si diresse verso le scale come aveva fatto mille altre volte. Si tradì soltanto quando gettò l’occhio sul divano e sulla bacchetta inutile lasciata lì, “io adesso come faccio senza di te?”
E, quando per la prima volta da quando aveva incrociato il suo sguardo su quel treno, nessun tono ironico gli rispose di andare a farsi fottere, nessuna mano si alzò ad arruffare i capelli e nessuna risata derisoria diede inizio all’ennesima lotta al miglior duellante, Sirius pensò che avrebbe fatto davvero meglio a stendersi accanto a lui e lasciarsi morire.
Questo finché un pianto non gli raggiunse le orecchie.
Sirius annuì un po’ come a rassicurare James del fatto che se ne sarebbe occupato lui, che non c’era alcun problema, che sarebbe stato responsabile, per una volta, che sarebbe stato adulto.
Poi si preparò alla successiva visione dolorosa.
 
“Per eseguire un incantesimo Homunculus ci vuole del tempo e tanta pratica,” annunciò Remus, dando una rapida occhiata alla quantità imbarazzante di pergamene disposte sul pavimento. Se la professoressa McGranitt le avesse viste, senza leggere cosa vi era scritto sopra, era certo che si sarebbe complimentata con loro. “Ma mostrerà sulla mappa dove si trova ogni persona presente nel castello. Dobbiamo esercitarci su planimetrie più piccole, sia per scongiurare ogni errore sia per verificare che funzioni e mostri tutti.”
James alzò un sopracciglio e l’angolo opposto della bocca. “Sirius, siamo fregati,” annunciò, scuotendo la testa, mentre un sorriso sveglio si faceva largo sul suo viso.
“Proprio fregati.”
Remus aggrottò la fronte, in attesa di spiegazioni.
“L’allievo ha superato i maestri,” James giunse le mani davanti al petto come in profondo rammarico.
“L’attività criminale gli ha dato alla testa.”
“È irrecuperabile.”
“E io, allora?” Peter si inserì nella conversazione fingendo offesa.
“Zitto, Peter,” scherzò Sirius.
“Macché zitto?” si intromise James, con una risata. “Pete è il criminale più pericoloso, qui.”
A quelle parole, un’ondata d’orgoglio gli travolse il petto. Il fatto che fosse stato James a pronunciarle, anche se con una punta di ironia, diede loro molto più valore.
 
Quando salì l’ultimo gradino, il dolore che stava soffocando come una pentola a pressione non scoppiò. Sentiva, in fondo, dolore? Aveva capito che alla sua vita, da quel momento in poi, sarebbe mancata una delle cose che lo teneva in piedi?
Qualunque cosa stesse provando fece posto a un’infinita rabbia. Quello che aveva visto in un primo momento, la casa, la staccionata, la porta e… James, gli erano parse unicamente per quello che erano: disgrazie, immagini strazianti che gli sarebbe toccato processare. Quelle cose non ebbero un nome né un motivo né un mandante, fino a quel momento.
Peter.
Peter era il motivo per cui lui si trovava lì, Peter era il motivo per cui il suo nascondiglio era vuoto.
Svoltò veloce nella stanza da cui proveniva il pianto e si rifiutò categoricamente di abbassare lo sguardo sul secondo amore freddo: aveva bisogno di continuare a essere arrabbiato.
Si diresse come su un binario verso Harry, zigzagando tra pezzi di mobili distrutti e detriti del tetto esploso. Lo prese in braccio, aggrottando la fronte alla vista di una lunga cicatrice insanguinata sulla sua fronte. Non ebbe modo di soffermarsi a esaminarla più di tanto, perché un rumore di passi pesanti echeggiò tra le mura vuote, costringendolo a sfoderare la bacchetta e puntarla verso la cornice della porta.
I passi si avvicinavano di secondo in secondo. Lenti e cadenzati, scandivano il tempo come lancette d'orologio.
In un attimo di lucidità lanciò uno sguardo in basso, per capire dove mettere i piedi e, ignorando la fitta al petto per quello che aveva appena visto, si voltò quasi completamente a dare le spalle alla porta, per fare da scudo a Harry. Non smise di fissarla, però, né di tenere alta la bacchetta.
Era questione di secondi, il cuore gli martellava nel petto, i passi aumetarono di intensità e…
 
“Mi hai fatto prendere un colpo!” gridò James e Remus lasciò cadere la testa all’indietro, prendendo fiato dopo lo spavento e appoggiandosi contro il muro dietro cui era appena sbucato.
“Che ci fai qui?” domandò invece Remus, dando un’occhiata alla pergamena su cui stava mappando il castello.
James tirò fuori la sua e la consultò rapidamente. “Oh, giusto, io ho il terzo piano!” notò, arricciando un labbro e studiando il lato del secondo piano che aveva già ispezionato. “Scusa, mi sono distratto.” Scrollò le spalle e sorrise. “Be’, questo lato è già fatto, prendi questa.”
Remus accettò la pergamena che gli porse James e sorrise a sua volta. “Aspetta che Peter e Sirius sentano come hai gridato quando ci siamo scontrati.”
James sgranò gli occhi e lo fissò, ponderando le sue possibili vie di fuga da quella minaccia. “Non vuoi farlo.”
“Credimi, voglio,” ribatté Remus, “è stato… virile.”
“Remus Lupin.”
“Riesci a farlo di nuovo? Com’era, precisamente?”
James scosse la testa minaccioso, ma consapevole anche di non avere nessun asso nella manica da giocare.
Risultò anche poco credibile, perché in realtà gli stava sorridendo.
 
Rubeus Hagrid sbucò in tutta la sua stazza oltre l’orlo laterale della porta. Aveva gli occhi gonfi e bagnati e la bocca semiaperta come se qualcosa lo avesse sorpreso.
Sirius esalò un respiro pesante e abbassò la bacchetta. Sentì distintamente l’adrenalina scivolargli dalle vene, lasciandolo vagamente… secco.
“È vivo,” pronunciò, voltandosi completamente verso Hagrid e mostrandogli Harry. Poi inclinò la testa su un lato e alzò entrambe le sopracciglia, infastidito: il naso gli pizzicava da morire.
Hagrid aggrottò la fronte e soppresse un singhiozzo. “Lo so, sono qui per lui.”
Sirius si accigliò e strinse Harry inconsciamente un po’ più a sé. “In che senso?” domandò, conducendo Hagrid fuori da quella stanza e scegliendo il corridoio per parlare. Gli sembrava decisamente più dignitoso.
“Ordini di Silente. Starà con i suoi zii.” Hagrid era costernato, come se provasse lo stesso dolore di Sirius nel pronunciare quelle parole, come se non le capisse e si fosse deciso a ripeterle per lealtà.
Sirius rise, una risata alta, forse appuntita. “Toglitelo dalla testa.”
“Lo so che tu… però...” Hagrid si guardò attorno, come se qualcuno o qualcosa avesse potuto dargli una mano a spiegarsi.
“È quello che avrei dovuto fare in caso…” Sirius alzò la voce, ma si bloccò, “In questo caso!”
Hagrid parve un po’ in difficoltà. “Silente…”
“Silente non ha capito cosa è appena successo!”
“Lo sa, mi ha mandato per questo.” Hagrid scosse la testa e unì le sopracciglia in una smorfia dispiaciuta.
“Ascolta,” Sirius scosse la testa pratico, muovendo una mano come a scacciare una mosca, “non ho tempo per stare qui a discutere, devo…”
Hagrid aggrottò la fronte e inclinò il viso su un lato.
“Devo… fare una cosa,” concluse Sirius, evasivo. “Dici a Silente che ho tutto sotto controllo, me ne occupo io, starà con me.”
Sirius si mosse per ridiscendere le scale, ma Hagrid gli si parò davanti dispiaciuto, scuotendo la testa e impedendogli di superarlo. “Lo sai come funziona l’Ordine.”
Il ragazzo lasciò vagare lo sguardo sulle pareti per un attimo, ponderando le sue possibilità a quel punto.
Una loro foto era appesa, un po’ inclinata, a un chiodo al muro. Quattro sorrisi felici lo accolsero in quel ricordo, poi i protagonisti della foto caddero rovinosamente a terra, trascinati da un passo maldestro di Peter.
Trascinati da Peter.
“Va bene,” concesse, accomodando Harry tra le braccia grosse di Hagrid. “tu portalo all’Ordine, io devo andare. Appena finisco questa faccenda parlo con Silente.”
Hagrid annuì e lo lasciò passare.
“È pericoloso andare in giro con lui,” continuò Sirius, scendendo le scale ed evitando un altro paio di occhi di vetro, “prendi la mia motocicletta, è a due passi da qui,” comandò, non lasciandogli troppo tempo per replicare, perché infilò un paio di chiavi nel taschino della camicia di Hagrid, battendogli due volte la mano sul petto, mentre già fissava la porta per varcarne la soglia con il sangue che bolliva nelle vene. Forse avrebbe potuto rimandare ancora un po’ il momento in cui avrebbe fatto la cosa che peggio gli riusciva e che si era sempre rifiutato di fare: elaborare. Forse ammazzare Peter gli avrebbe dato sollievo, pensieri freschi in cui non ristagnare.
“Sirius,” lo richiamò Hagrid, afferrandolo per un braccio e trascinandoselo addosso. “Mi dispiace tanto.”
Fece male i suoi calcoli, purtroppo, perché passò i successivi dodici anni in una testa in cui avrebbe potuto solo ricordare.




 

 


Note di El: ...
Ciao e scusate. Cioè, questo è il primo (e l'ultimo) capitolo in cui i "futuri", non so come chiamarli, eguagliano per quantità i passati. Però sono gli ultimi, vi giuro mi dispiace, mi spavento sempre a piazzare questa roba perché il fandom evita le storie sui malandrini proprio per questo, quindi sorry, però garantisco proprio che mancano due capitoli e poi la storia cambia proprio olè. E comunque la roba futura nei prossimi capitoli non è così, non odiatemi, aaaaaaaa perché mi sto scusando?!
Allora, io non lo so se ci possono stare oggetti babbani nella stanza delle necessità, però non l'ho trovato specificato da nessuna parte e, onestamente, non c'è proprio altro modo, quindi ECCO QUAAA! Va bene, giuro che ricontrollo questo capitolo domani (non ci crede nessuno) perché adesso sto morendo, mi si incrociando le parole mentre le leggo, quindi temo ci sia qualche schifezza, però per ora YEEEE non è ancora mezzanotte e sono in orario!
Grazie per aver letto, davvero <3
Adieu,

El.


 

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Capitolo 14
*** Capitolo 12 - Catena di Eventi ***


12. Catena di eventi





È una storia strana, perché ci siamo sempre spalleggiati, noi, e io non ho mai saputo perché il mondo sia stato tanto aspro da darmi in mano quel regalo così grande solo per il gusto di strapparmelo.
Ci ho pensato spesso e sai che ti dico?
Non ci ho mai trovato alcun disegno, neanche una linea tratteggiata a indicarmi dove cercare.
Ti ho detto che non ho rimpianti, ma ti ho mentito come il più furbo dei bugiardi. Chi si metterebbe mai a discutere la parola di un morto? Per forza mi avresti creduto, ma mi rendo conto di non voler morire da bugiardo.
Non ho abbastanza dita per contare i miei rimpianti.
È questa la verità.
Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che al crescere della gioia cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
È un mondo crudele, credo tu sia stato il primo ad averlo capito ed è per questa ragione che spero, con tutto il cuore, che tu della tragedia ne abbia avuto abbastanza.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza.
Un’altra cosa che spero con tutto me stesso di poterti ancora insegnare è proprio di non aspettare troppo.
Tempi infiniti colmi di trepidazione che si allungano a dismisura, mentre rovisti negli scomparti più interni del tuo petto in cerca di una scintilla, una sola, che sappia darti il fegato di buttarti a capofitto proprio quando tutto, attorno a te, ti grida di lasciar perdere, che è un salto troppo lungo per uno come te.
Spero vivamente che tu sappia distinguere se a bloccarti sia la logica o la più irrazionale delle paure: quella di fallire.
Avessi avuto un anno in più, uno solo, sparso tra gli altri sette su scala così vasta da darmi solo dieci minuti al giorno, l’avrei usato per non aspettare. L’avrei usato per meditare e rendermi conto che l’imbarazzo di un attimo non pesa addosso quanto il rimpianto di una vita.
E forse due anni fa avrei agito.
È che quando si ha il tempo ci si sente invincibili, addirittura inattaccabili, duri come roccia e inamovibili.
È allora che basta un soffio di vento, anche impercettibile, per rompere ogni equilibrio e vedere le sconfitte, gli attacchi e ciò che si può perdere.
 
***
 
Quella mattina assieme al sole era sorta una novità. Il freddo appuntito dell'inverno si era fatto da parte per una giornata e un sole più caldo illuminava il cielo scozzese. Tutti gli studenti di Hogwarts avevano divorato la loro colazione a velocità supersonica per uscire a godere di qualche minuto di quella rarità.
Il cortile era gremito come se la primavera avesse scelto di far visita alla scuola solo per un giorno e Remus, consapevole di poter apparire un po’ noioso, si era portato dietro la copia della Gazzetta del Profeta che aveva iniziato a leggere a colazione, prima che James lo trascinasse fuori quasi di peso.
“Allora, è facile. Stammi a sentire e non fiatare.” Sirius esordì, tenendo una mano in alto come a fermare James e Peter prima ancora che parlassero. Poi si guardò attorno con fare pratico. Quando posò gli occhi su una ragazza Tassorosso, a qualche metro di distanza, sorrise fiero e tornò a guardare James. “Ti sto per mostrare La Tecnica.”
Lui scosse la testa. “Come pensi che…”
“Ah-ah!” Sirius gli poggiò un dito sulle labbra e James sgranò gli occhi un po’ schifato. “Stammi a sentire e non fiatare.”
Peter ridacchiò scettico.
“Oh, sì, stallo a sentire,” si intromise Remus. Si leccò un dito e proseguì a sfogliare il giornale, fingendo disinteresse. “Sa quello che fa.”
“Sta’ a vedere anche tu,” ribatté Sirius, sorridendo vittorioso quando Remus sospirò e smise di leggere, come se guardare… qualunque cosa dovesse fargli vedere, gli fosse pesato da morire.
“Che vuoi fare?” iniziò James, buttando un occhio verso la ragazza Tassorosso, incerto.
“Sta’ attento a tutto quello che faccio,” gli intimò di nuovo Sirius, “James Fleamont Potter,” lo indicò, battendogli il dito sul petto e premendo. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo quando udì il suo secondo nome, “tu sei un bel bocconcino, se ci riesco io ci riesci anche tu,” concluse e, senza aggiungere altro, si avvicinò alla povera Tassorosso.
“Non mi fido di uno che dice ‘bocconcino’!” gli gridò dietro James, ma Sirius non fece niente per mostrargli di averlo sentito.
Nonostante le proteste, i tre gli diedero ascolto e si misero a osservare la scena. In particolare, James inclinò la testa su un lato a braccia conserte e si accigliò, prestando davvero attenzione. Peter lo guardava nervoso, come se fosse stato al posto suo. Remus era annoiato.
I ragazzi, a quella distanza, non potevano ascoltare quello che diceva. Videro solo Sirius scrollare le spalle e gesticolare.
All’improvviso, però, entrambi smisero di parlare.
Lui la guardò fisso negli occhi, poi li abbassò di colpo, inclinò la testa su un lato e lei mimò il movimento.
Remus aggrottò la fronte, come se stesse tentando di nuovo di giocare agli scacchi dei maghi contro Peter, sperando di batterlo.
Sirius alzò di nuovo lo sguardo, sorrise come a disagio e diede una rapida occhiata alla sua sinistra, guardando nulla in particolare, poi le disse qualcosa che la fece arrossire furiosamente. La ragazza aprì la sua cartella e ne tirò fuori una pergamena, che strappò davanti ai loro occhi. 
Remus non gli staccò gli occhi di dosso. Non era colpa sua, c’era qualcosa di magnetico nel modo in cui si era mosso, qualcosa che, in qualche modo, addirittura lo irritò.
“A te,” disse Sirius, tornando con un sorriso da canaglia e un pezzo di pergamena tra le mani.
James lo afferrò con diffidenza e lesse ad alta voce il contenuto del biglietto, “cinque, entrata Torre Grifondoro,” poi fissò le parole per qualche secondo. “Non ci credo.”
Sirius alzò le sopracciglia. Gongolava. “Emmeline cadrà ai tuoi piedi, funziona,” poi si voltò verso Remus e un sorriso furbo gli alzò un angolo della bocca. “Il lupo ti ha mangiato la lingua?”
Remus aggrottò la fronte. “È il gatto,” lo corresse, “il gatto ti ha mangiato la lingua.”
Sirius scrollò le spalle, in quel modo tipico di chi pensa di aver vinto la conversazione. Remus scosse la testa e tornò al suo giornale.
“E adesso?” gli domandò Peter, che sembrava genuinamente entusiasta di tutta quella faccenda di sguardi e occhiatine.
“Adesso cosa?”
“Che fai alle cinque?”
Sirius scrollò le spalle e colse, solo di sfuggita, una scintilla di rimprovero nello sguardo di Remus. Grugnì come se una vera risposta gli fosse costata veramente cara. “Mi inventerò qualcosa.”
Remus smise ancora una volta di leggere la sua Gazzetta del Profeta per concentrarsi su quello che si stava rivelando un autentico cretino. Sollevò le sopracciglia al punto che a momenti si fondevano all’attaccatura dei capelli.
Sirius sospirò. “Mi inventerò qualcosa di credibile?”
Remus decise che il suo giornale meritava sicuramente più attenzione di quella faccenda e smise di attaccarlo con lo sguardo.
Una parte di lui quasi festeggiò, in maniera un po’ infantile, per il solo fatto di aver spento quella fiamma di sicurezza. Normalmente sarebbe stato un pensiero abbastanza triste e meschino da riservare per qualcuno, ma il pensiero di avere avuto davvero potere sull’umore di Sirius faccio-quello-che-mi-pare Black, sotto sotto lo inorgogliva.
Tuttavia, la calma del suo giornale durò veramente poco, perché Peter riprese a costuire quell’arroganza che Remus aveva così meticolosamente fatto a pezzi.
“Vorrei davvero esserne capace anch’io,” iniziò trasognato il ragazzo, “è che non ci capisco niente di relazioni o di… segnali.”
“Li vedrai al momento giusto, Pete,” replicò Sirius, con costruito ermetismo.
“Ad esempio? Tu come l’hai capito che ti piaceva Marlene?”
Quella domanda costrinse Remus ad alzare nuovamente lo sguardo su di loro. A dire il vero, la maniera in cui si era messa la conversazione avrebbe potuto offrire un dettagliato profilo di tutti i suoi amici.
Peter non era stupido e, soprattutto, non era così svampito come voleva far credere. Era un lavoro sporco, il suo, fare la figura dello scemo e dell’incapace solo per estorcere informazioni. Remus ebbe la sensazione che avesse cercato un modo per arrivare a quella domanda sin dall’inizio, scavando proprio sotto la superficie come un topo in cerca di riparo.
L’altra cosa che comprese, mentre quella domanda viaggiava sospesa tra i loro respiri, era che James aveva un ego tanto grande quanto lo era la sua attenzione al benessere dei suoi amici. Il cipiglio che esibì doveva aver preso ispirazione da quello della McGranitt e, allo stesso tempo, da un manuale per fratelli esemplari.
“In che senso?” Sirius rise in uno sbuffo, ma distolse lo sguardo. Quando nessuno aggiunse altro si sentì costretto a riprendere la parola. “Non lo so, è simpatica, ci capiamo. Queste cose qua.”
James scosse la testa e rise. “Stai scherzando, spero! Amico, potresti letteralmente dire lo stesso di me.”
Remus e Peter annuirono e Sirius sembrò pensarci su.
“Okay, mettiamola in un altro modo,” riprese James, con il tono di un genitore che spiega cosa sono i colori ad un bambino, “dimmi cos’ha Marlene di diverso da me.”
Sirius aprì la bocca per parlare, un sorriso furbo che già gli alzava un angolo della bocca e che costrinse James a fermarlo prima ancora che pronunciasse la prima sillaba.
“Fai una battuta a sfondo sessuale e ti ammazzo.”
Sirius sbuffò, ma sorrise un po’ di più. A quel punto, la conversazione era già finita. Il suo punto fermo stava nascosto nell’impercettibile cenno di diniego di Sirius e nella velocità a captarlo negli occhi di James. Annuì, con tutte le informazioni di cui aveva bisogno, e disse solo una cosa: “Sai già cosa devi fare.”
Poi lasciò che la conversazione virasse sul suo ultimo allenamento di Quidditch.
A quanto pareva la futura sfida contro i Corvonero si stava rivelando più complicata che mai dal punto di vista tattico e Gudgeon stilava calcoli su calcoli come se avesse avuto il potere di governare venti e temperature.
James, a essere del tutto onesti, non vedeva l’ora che l’anno giungesse a termine e che Gudgeon conseguisse i suoi M.A.G.O. in modo che il posto da capitano restasse vacante. Diceva che, per questa questione, aveva un certo fiuto.
 
***
 
Tutto iniziò quando, due giorni dopo la bella giornata in cortile, una catena di eventi portò a un interessante finale.
Bertha Jorkins era in quella scuola da esattamente otto anni.
Non era riuscita a passare gli esami del quinto anno e si trovava, a quel punto, a concludere il suo percorso di studi alla fierissima età di diciannove anni appena compiuti.
Bertha ne aveva vista di acqua passare sotto i ponti e, se era vero che non ci si bagnava due volte nello stesso fiume, lei si era accertata almeno di analizzare e conoscere a fondo ogni singola goccia che ne aveva fatto parte... o almeno così credeva.
“Hanno rubato due scope alla professoressa Hooch!” sputò fuori, stando bene attenta a condire il tutto con un gridolino sorpreso abbastanza da far suonare la storia uno scandalo.
A far concorrenza a Bertha Jorkins o, almeno, a calcare le sue orme, era arrivato un cavaliere senza macchia e senza paura che rispondeva al nome di Gilderoy Allock, futuro prefetto della casa Corvonero e arrogante Cercatore, oltre che al centro di numerosi scandali, tutti meticolosamente seguiti e listati dalla stessa Bertha.
Il ragazzo sgranò gli occhi azzurri e si portò una mano alla bocca. “E che ci hanno fatto con le scope?”
“Questo dovresti dirmelo tu.”
“Oh… be’,” Allock sparò le rughe sorprese della sua fronte nella stratosfera, temporeggiando “be’ ecco, vedi... non ne ho idea.”
“Ah no?” proseguì Bertha, un sorriso vittorioso le si espanse sul viso, “perchè a me è parso che a rubare una delle due scope sia stato proprio tu!”
Gilderoy la guardò fisso negli occhi per un attimo, sembrò non voler dire niente per molto tempo, continuare a fissarla come se fosse bastato a farla sparire in un soffio. Alla fine scrollò le spalle. “Mi hai beccato,” concesse, e sorrise come se in fondo la cosa gli provocasse più piacere che preoccupazione; come se, a dirla tutta, avesse sperato di essere visto.
Bertha incrociò le braccia al petto e alzò il mento.
L’ennesimo caso era stato chiuso brillantemente dall’imbattibile detective Jorkins.
 
***
 
“Be’, che posso dire? Sono stato un po’ distratto.”
Gilderoy Allock poteva anche star parlando da solo cinque minuti, ma Fabian e Gideon Prewett ne avevano già abbastanza. Li avevano battezzati come i cinque minuti più lunghi e noiosi della storia e c’era da dire che studiavano Storia della Magia con il professor Binns.
Fabian scosse la testa e diede una leggera gomitata al fratello per attirare la sua attenzione.
“Io e Amalia…” iniziò Gilderoy, poi si interruppe per pensarci un attimo su, “Amelia,” si corresse, con un risolino. “Dicevo, io e Amelia ce l’abbiamo davvero messa tutta per non farci scoprire mentre rubavamo le scope!”
“Dobbiamo fare qualcosa,” sussurrò Fabian, non appena riuscì a strappare suo fratello dallo stato di dormiveglia in cui era piombato.
“Che dovremmo fare? Gonfiargli la testa come James e i suoi amici?” domandò retorico Gideon, battendo le palpebre un paio di volte, per accertarsi di non tornare a dormire.
Fabian lanciò un’occhiata di sottecchi ad Allock. “Sì!” esultò in un sussurro, il che gli risultò particolarmente difficile. “Questa è una grande idea.”
“No, è fuori discussione. Dobbiamo essere più innovativi se vogliamo superarli.”
Fabian si limitò a sbuffare.
“Però sapete, una volta arrivati al limitare della foresta abbiamo sentito uno strano rumore.” Allock qui si esibì in un’espressione di assoluto stupore e meraviglia.
Gideon, così deciso a non copiare gli incantesimi altrui, sospirò affranto e annuì a Fabian, che sorrise vittorioso. Pur di far stare zitto Allock avrebbe fatto uno strappo alla regola. Entrambi i ragazzi sfilarono in silenzio le bacchette dalla tasca.
“Così le ho fatto da scudo, perché la povera Amelia tremava come una foglia e, prima che potessi rendermene conto…” Gilderoy smise di colpo di parlare, in una pausa a effetto che non nascondeva comunque un certo talento, “ecco che lo vediamo!”
Cosa avessero visto, almeno a detta di Allock, Fabian e Gideon non lo seppero mai, perché la testa di Gilderoy prese a crescere e gonfiarsi a una velocità impressionante.
“Che… che sta succedendo?” domandò, mentre la voce prendeva un tono più grave e costretto. Si batté entrambe le mani sulle guance, constatando, con suo sommo orrore, che erano diventate quasi il doppio del solito. Gli occhi rimpicciolirono, mentre ancora cercava di sgonfiare le guance.
Fabian e Gideon se la diedero a gambe levate. Contavano sul fatto che, fino a quel momento, i loro scherzi erano sempre stati spettacolari e mai offensivi e speravano che nessuno avrebbe mai pensato a loro come potenziali aggressori.
 
***
 
A questo punto della curiosa catena d’eventi, Fabian e Gideon decisero di farsi un giro per il castello, un po’ per costruirsi un alibi, un po’ perché il brivido di un incantesimo d’attacco su un pallone gonfiato come Allock li aveva lasciati carichi di energia.
“Forse dovremmo cambiare la nostra etica da combinaguai,” considerò Fabian, girando oltre l’ennesimo angolo del castello.
“Non è una cattiva idea,” gli diede corda Gideon, “le prime volte verrebbero incolpati James e gli altri e, prima che possano sospettare di noi, potremmo smettere di fare scherzi offensivi per un po’ e non destare mai sospetti!”
Fabian annuì con forza e la sua zazzera di capelli rossi lo seguì nel movimento. “Tu mi capisci al volo.”
“A questo proposito,” iniziò Gideon e un sorriso sghembo gli si formò velocemente sul viso, “c’è un incantesimo interessante che conosco da un po’.”
Fabian lo incalzò con un gesto a mostrarglielo.
Gideon si guardò un attimo attorno e poi sfoderò la bacchetta. Chiuse gli occhi e si concentrò.
Accadde tutto molto in fretta, troppo in fretta. Percorrevano uno dei corridoi che costeggiava il cortile interno di Hogwarts, quindi per Gideon fu davvero facile puntare la bacchetta contro un albero oltre uno degli archi e mirare con precisione. “Waddiwasi!” pronunciò e una foglia si staccò da un ramo, prendendo la velocità di un proiettile, che spedì dritto davanti a sé.
Peccato che, a fine corridoio, proprio subito dopo una svolta, comparve Bellatrix Black, scortata dai fratelli Lestrange. La foglia volò nella sua direzione, fendendo l’aria e guadagnando velocità di centimetro in centimetro.
Prima che Gideon potesse accorgersi di star mirando a Bellatrix, la foglia le si conficcò in un braccio, sotto gli strati spessi della tunica.
“Merda,” sussurrò Fabian, che aveva avuto più tempo per registrare la situazione ed era più pronto. “Scappa,” sussurrò, afferrando Gideon per la manica dell’uniforme e trascinandolo via, svoltando per il corridoio da cui erano venuti.
I gemelli Prewett ebbero fortuna. L’incantesimo Waddiwasi era raro, ma anche l’ultima delle loro specialità e Bellatrix sembrava troppo presa dalla sua discussione con Rabastan per badare a chi camminava davanti a lei.
 
***
 
Bellatrix Black aggrottò la fronte, ma non esalò neanche un verso di dolore o di stupore. Abbassò lentamente lo sguardo sulla foglia conficcata nel braccio come se fosse stata un’interessante specie di insetto. La prese tra l’indice e il pollice e la staccò con uno strattone.
“Da dove arriva?” domandò Rodolphus, alzando lo sguardo come un segugio, a guardarsi attorno.
Ma Bellatrix sorrideva. Aveva la lingua tra i denti e osservava il sangue scorrere scuro sulla punta della foglia. “Qualcuno si è divertito!” mormorò, pur sembrando la più divertita nei paraggi.
Alzò lo sguardo di scatto davanti a sé, come se avesse avuto l’abilità di fiutare il colpevole solo pensando di poterlo vedere.
Rabastan aggrottò la fronte e scoprì i denti in sorriso che non aveva niente di autentico e tutto di terrificante. Lo sguardo prese a vagare nervoso in ogni direzione, con gli occhi di uno abituato a guardare ogni cosa nello stesso momento.
“Che succede?”
Proprio alle sue spalle, come se avessero imparato ad accorrere all’odore di sangue, comparvero Avery e Mulciber, seguiti da Regulus, che sembrava solo particolarmente annoiato.
Bellatrix mostrò loro la foglia come una trofeo e un ghigno le si aprì sulle labbra. A un primo sguardo sarebbe potuto sembrare identico a quello di Sirius, ma il modo in cui arricciava il labbro superiore e alzava gli angoli ai lati era molto meno giocoso e decisamente più meschino.
Era una questione di dettagli.
“Chi è stato?” domandò Mulciber, indicando con un cenno del capo la foglia che Bellatrix teneva tra le mani.
Lei si limitò a scrollare le spalle, un sorriso falsamente innocente le strisciò sulle labbra.
Regulus la osservò con attenzione.
“Oh, ma guarda chi si vede!” pronunciò Avery, spiazzando tutti per un momento e gonfiando il petto.
Davanti a loro, al capo opposto del corridoio, erano appena spuntate quattro ragazze.
“Oh, Rabastan?” chiamò Bellatrix, lanciandogli un’occhiata significativa. A dirla tutta, infatti, Bellatrix era stata costretta a iniziare a uscire con Rodolphus perché era il futuro erede della casa Lestrange, ma suo fratello minore, sebbene con qualche rotella fuori posto, era perlomeno un po’ più dinamico e proprio per questa ragione più... interessante. “Sbaglio o sono state proprio loro a lanciarmi quell’incantesimo?”
Lily, Mary, Dorcas e Marlene si erano fermate non appena si erano rese conto del potenziale pericolo in cui si erano imbattute. Si scambiarono uno sguardo veloce, forse speravano di poter avere un dialogo civile.
“Non ti abbiamo attaccata,” ribatté Mary decisa. La voce non tremò e mantenne lo sguardo di Bellatrix.
“Io mi ricordo di sì,” ribatté Rabastan, con un sibilo.
“Oh, è successo,” continuò Mulciber, annuendo e muovendo qualche minaccioso passo in avanti.
Lily si mosse molto piano a sfiorare la bacchetta e fissò gli avversari come a volerne studiare ogni più impercettibile movimento.
Avery, però, abbassò lo sguardo sulle sue mani e rise. Una risata bassa e sinistra, plasmata dal ghigno attraverso cui usciva. “Ma guarda un po’,” iniziò, inclinando la testa su un lato, “una come te che vuole puntare la bacchetta contro uno come me.”
Marlene aggrottò la fronte e soppesò con lo sguardo ognuno degli avversari, prestando particolare attenzione a Regulus. Lo guardò obbedire a un cenno di Bellatrix e sguainare la bacchetta.
Immobilus,” pronunciò Dorcas, la voce calma e fredda e la bacchetta che puntava al petto di Avery.
Ci fu un attimo di silenzio, dopo che fu lanciato. Un silenzio in cui Avery tentò di difendersi troppo tardi e finì per incassare l’incantesimo e immobilizzarsi. I suoi compagni si scambiarono qualche sguardo, come a dividersi le prede.
Bellatrix, in particolare, sgranò gli occhi e un sorriso vittorioso le illuminò lo sguardo, mentre si voltava verso le ragazze. “Ma qui nessuno aveva intenzione di attaccarvi,” ribatté, la voce cantilenante.
Lily sbuffò derisoria e mosse veloce il polso a deviare una luce rossa che era scappata dalla punta della bacchetta di Mulciber. Non aveva idea di cosa fosse e non voleva saperlo. Il ragazzo alzò irritato un angolo della bocca, in una specie di ringhio abbastanza ridicolo.
Fu in quel momento che Lily incontrò lo sguardo di Regulus. Aggrottò le sopracciglia, come se fosse stata sul punto di capire qualcosa, poi scosse la testa e si decise a concentrarsi sugli altri quattro: lui, le suggerì l’istinto, non era un pericolo.
Bellatrix attaccò proprio mentre Lily tentò di disarmarla. Volarono scintille e l’onda dell’incantesimo rimbalzò su entrambe le bacchette, facendo barcollare le ragazze all’indietro. 
In quel momento Rodolphus sussurrò qualcosa e Avery tornò a muoversi. Ringhiò e mosse il collo. Mary l’avrebbe trovato quasi divertente se non avesse puntato la bacchetta contro Dorcas, per restituire il favore.
Rodolphus, invece, non fece molto altro. In verità, in un attimo diede loro le spalle e andò via, il mantello che svolazzava pesante ai suoi piedi e i compagni che gli coprivano le spalle da qualunque attacco.
“Che cosa sta facendo?” domandò Dorcas, mentre respingeva con qualche difficoltà gli attacchi intermittenti e aggressivi di Avery. La mascella tagliente che si muoveva al ritmo dei suoi sorrisetti, mentre fendeva l’aria con i tocchi aggressivi della sua bacchetta.
Lily aggrottò la fronte e scosse la testa, deviando l’ennesima luce rossa di Bellatrix. “Non attaccate, sta andando sicuramente a chiamare qualcuno,” annunciò, combattendo l’istinto di azzannare la sua avversaria, mentre rideva sarcastica.
“Evans, giusto?” Bellatrix alzò un sopracciglio scuro, lo sdegno che traspariva chiaramente dal modo con cui aveva pronunciato il suo cognome. Indegno. “Non è così che si vince un duello.”
Marlene, alla sua destra, espirò pesantemente. Se fosse stata arrabbiata o scocciata, però, Lily non fu in grado di capirlo senza guardarla.
Expulso,” sussurrò Rabastan e una striscia spezzata e bianca si liberò dalla punta della sua bacchetta come se fosse stata un fulmine.
Marlene sgranò gli occhi e si scagliò contro Lily un attimo prima che venisse colpita, cadendo assieme a lei ed evitando l’incantesimo per un soffio. Una ciocca di capelli biondi cadde sul pavimento di pietra e bruciò fino a ridursi in polvere. “Sanguesporco,” pronunciò Rabastan, passandosi la punta della lingua sui denti e ghignando.
Marlene serrò la mascella e si alzò di scatto, non preoccupandosi più di Lily, ma fissando Rabastan negli occhi. “Expelliarmus,” pronunciò, alzando il mento e disarmando Avery e Mulciber insieme. Lasciò cadere le loro bacchette a terra e scosse ancora il polso, appropriandosi di quella di Rabastan. Dorcas puntò Bellatrix, senza lasciarle via d’uscita.
Rabastan non aveva paura, ma aveva smesso di ridere e a quel punto la studiava. Se il suo avversario non fosse stato lei, l’avrebbe senza dubbio intimidito.
“Stai bene?” domandò Mary, raggiungendo Lily e offrendole una mano per alzarsi. Lei annuì e sospirò come se fosse stata colpevole di qualcosa.
Poi Marlene fece una cosa inaspettata: lanciò la sua bacchetta di lato, il suono che produsse nell’impatto sembrò allargarsi nell’aria e amplificarsi.
“Marlene,” tentò di richiamarla Dorcas, ma lei aveva già mosso il primo passo.
Rabastan alzò un sopracciglio, deridendola con lo sguardo, poi incrociò le braccia al petto con aria di sfida.
Marlene non disse una parola; caricò col braccio finché il suo pugno non collise con la guancia di Rabastan, contro i primi accenni sporadici e unti di barba.
Proprio nel momento dell’impatto, Bellatrix sussurrò qualcosa: “Sectumsempra.”
Marlene gridò, allontanandosi di scatto e osservando solo di sfuggita il sangue scuro che scorreva lungo lo zigomo di Rabastan.
Ciò che la confuse, prima che il dolore richiamasse tutta la sua attenzione, fu che aveva la mano coperta di sangue. Troppo, per essere quello di Rabastan. Si morse un labbro e indietreggiò, costringendosi a non urlare e tentando di fermare l'emorragia premendo la mano sana sulle nocche.
Bellatrix schioccò la lingua e scosse la testa. “Non funziona ancora bene,” sussurrò ad Avery e Mulciber, muovendo veloce la bacchetta a recuperare quelle dei suoi compagni e prendendo la stessa direzione di Rodolphus. Non aspettò nessuno, si limitò semplicemente ad andarsene, sapendo per certo che l’avrebbero seguita. “Neanche un pugno come si deve…” considerò, ancora di spalle, e la sua voce rimbalzò sulle mura come vetro rotto.
Rabastan si sfiorò la guancia e osservò il risultato sulle sue mani. Fissò uno sguardo disgustato in quello di Marlene, sputò e le voltò le spalle con sdegno, seguito da Mulciber e Avery.
 
***
 
La luce tenue del pomeriggio filtrava placida attraverso le inferriate a rombi dell’infermeria e, sebbene Marlene avesse una voglia immensa di mettersi a gridare dal dolore, un senso di tranquillità le scivolò nel petto.
Lily non sembrava dello stesso avviso. “Madama Chips…” iniziò, spostandosi di lato e rivelando la sua amica, che gocciolava sangue sul pavimento dell’infermeria.
“Che cosa è successo?” domandò la donna, lanciandosi in avanti e interrompendo qualunque preambolo di Lily per soccorrere Marlene. La ragazza le porse la mano, ancora stretta a pugno, con un sopracciglio alzato e un vago scetticismo.
“Credo sia un incantesimo,” mormorò Marlene, mentre si lasciava trasportare per un braccio sul letto più vicino.
“Oh, lo credo bene!” si innervosì la Medimaga, non tanto con Marlene, ma con il lavoro inutile che quegli studenti amavano propinarle. “Ricordi la formula?”
La ragazza scosse la testa e guardò Lily. Neanche lei seppe fornire informazioni più dettagliate.
La donna mormorò qualche commento irritato e poggiò un panno imbevuto d’acqua sul pugno ancora stretto di Marlene, poi, continuando a borbottare, si diresse in tutta fretta fuori dall’infermeria, forse nello stanzino delle pozioni curative.
“Ciao,” salutò un ragazzo, seduto proprio sul letto di fronte a quello di Marlene. Sembrava stare benissimo, ma gli occhi grandi e scuri avevano un’aria un po’ persa.
“Ciao!” ricambiarono Lily e Marlene, contemporaneamente.
“Bertram Aubrey,” si presentò lui, stendendo una mano davanti a sé in un ironico tentativo di stringere le loro. “Corvonero.”
Marlene ridacchiò e alzò la mano destra, con una scrollata di spalle. Qualche goccia di sangue cadde pesante dalla mano e il ragazzo unì le sopracciglia, in uno sguardo dispiaciuto e divertito insieme. “Marlene,” pronunciò poi, prima di accennare col capo in direzione della sua amica. “Lei è Lily. Grifondoro.”
Lily mosse una mano in segno di saluto e sorrise gentile. “Come mai sei qui?”
Bertram scrollò le spalle e distolse lo sguardo, arrossendo furiosamente un attimo dopo. “Ehm,” iniziò sorridendo e muovendo una mano davanti a sé, “mi hanno… gonfiato la testa.”
Gli occhi di Lily crebbero almeno il doppio del normale. “Ti hanno gonfiato la testa?” domandò, anche se aveva sentito benissimo.
“Be’ sì, ma ora sto una favola!” le informò lui, battendo la mano un paio di volte sul capo e sorridendo smagliante. “Sono solo un po’ assonnato. A te che è successo alla mano?”
“Scusami, chi ti ha gonfiato la testa?” lo ignorò spiccia Lily, le cui guance andavano imporporandosi dalla rabbia di secondo in secondo.
Bertram si morse il labbro inferiore e prese nuovamente ad arrossire. Abbassò lo sguardo e disse, con un filo di voce: “Credo sia stato il tuo ragazzo,” e indicò Marlene col capo. “Ho chiesto a lui e a James un consiglio per un incantesimo scherzoso e non troppo drastico,” iniziò Bertram con una scrollata di spalle, “ma loro hanno pensato di mostrarmelo. Forse abbiamo un’idea diversa di ‘drastico’,” concluse, alzando entrambe le mani e ridacchiando.
“Mi dispiace,” disse Marlene, stringendo le labbra. Lily, accanto a lei, sospirava scocciata a intervalli regolari, ma Marlene la ignorò. Bertram mosse una mano davanti a sé, come a scacciare una mosca.
“Io te l’ho detto che devi cercarti di meglio,” considerò Lily, fissando uno sguardo deciso in quello già annoiato di Marlene. Sorrise, a dire il vero, perché Lily diventava sempre molto buffa, quando tirava fuori quell’argomento. “Il mare è pieno di pesci e tu hai scelto il peggiore!” continuò Lily, che era ormai partita per la tangente, mentre Madama Chips tornava con una decina di pozioni tra le mani.
“Be’, in effetti il mare è pieno di pesci,” iniziò Bertram, che non aveva smesso di arrossire un attimo. Alzò una mano sui folti capelli scuri, grattandosi la nuca a disagio. “Ora, se hai scelto il peggiore non lo so, ma ce ne sono di interessanti, quando non gli gonfiano la testa!” alzò lo sguardo solo per un attimo a incontrare gli occhi di Marlene, poi lo abbassò nuovamente ed espirò come se avesse trattenuto il fiato per gli ultimi dieci minuti di conversazione. Giurò di averlo sentito sussurrare a se stesso: ‘L’hai detto davvero! Sei un supereroe, Berty!'
Marlene arrossì e rise imbarazzata. Quasi non notò Madama Chips che la costringeva a schiudere il pugno e mostrarle le dita. Fiotti di sangue si liberarono dalle giunture delle falangi e Marlene alzò un sopracciglio preoccupata. “Scusa,” si sentì in dovere di dire e Bertram mosse incurante una mano: l’aveva a stento notato.
Madama Chips mormorò qualche incantesimo e il sangue si dileguò in un lampo, lasciando dei tagli profondi sui palmi e sulle nocche, che ripresero in un attimo a sanguinare copiosamente. L’infermiera si accigliò. “Che cosa hai fatto?”
Marlene esitò e prese a borbottare qualche scusa incomprensibile, ma Madama Chips la interruppe quasi subito, portando le mani ai fianchi e scuotendo la testa.
“Dimmelo pure, preferisco mantenere un paio di segreti che vedere un paziente morire dissanguato,” la rassicurò la donna e Marlene pensò che in fondo avesse ragione.
“Ho tirato un pugno,” ammise, lanciando un veloce sguardo a Lily, che annuì, “ma è stato un incantesimo a farmi sanguinare la mano.”
“Sì,” concordò la donna, sfiorando il palmo di Marlene con le dita e annuendo pratica, “inizia a prendere questa,” comandò poi, mettendole tra le mani una boccetta di vetro verde scuro e tornando a borbottare tra sé.
“Hai tirato un pugno?” si intromise nuovo Bertram, sgranando gli occhi e guardandola ammirato.
Marlene annuì.
“Ed è andato a segno?”
Marlene annuì ancora e fu il suo turno di arrossire, quando lo sguardo di Bertram si illuminò ancora una volta.
“Forte!”
“Grazie mille, Aubrey, ma è bene ricordare che non possiamo andare in giro a tirare pugni a chi ci è antipatico, altrimenti i miei letti sarebbero tutti occupati!” rimproverò Madama Chips, passando una pozione dalla fiala tozza a Marlene e gesticolando affinché la bevesse.
Quando Marlene incontrò lo sguardo di Lily, però, fu costretta a fare i conti con il risultato inaspettato che aveva partorito quella infinita catena di eventi iniziata con i pettegolezzi di Bertha Jorkins. Lily, infatti, le sorrideva incoraggiante e si premurava, anche, di condire quel sorriso con varie occhiate plateali in direzione di Bertram Aubrey.
Marlene scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, ma intimamente si scoprì un po' confusa.
 
***
 
Gennaio, 1979
 
James si guardò attorno circospetto. Quando constatò che nessuno gli stava prestando attenzione alzò una mano ad arruffarsi i capelli con aria disinvolta, e indietreggiò verso il tavolo alle sue spalle. Una donna dalla schiena ricurva lo squadrò per un attimo, infine gli sorrise, scoprendo due file di denti neri e spezzati in più punti. Il giovane ricambiò, lasciando trasparire un falso ribrezzo e senso di superiorità.
Quando sfiorò col sedere il tavolo verso cui indietreggiava, vi poggiò una mano e alzò di scatto lo sguardo sulla porta del locale. Sirius, con il volto modificato dalla Pozione Polisucco, ricambiò e aggrottò le sopracciglia bionde. James batté solo le palpebre, ma Sirius parve capire e, come da programma, lasciò scivolare una mano sul pomello della porta, guardandosi ai lati nel mentre.
“Ti porto qualcosa, ragazzo?” il cameriere piombò davanti a James come se fosse apparso dal nulla.
Liquidò la sorpresa e annuì sicuro, spostandosi un ciuffo di capelli lisci e ordinati dalla faccia. “Whiskey incendiario,” ordinò, alzando un po’ il mento e guardando l’uomo con sufficienza. Questo si allontanò borbottando qualche lamentela.
“Insopportabili, vero?” domandò Rodolphus Lestrange, indicando col capo il cameriere che era appena sparito dietro il bancone.
James annuì pur non sapendo esattamente per quale motivo un cameriere che viene a prendere gli ordini risultasse insopportabile agli occhi di Rodolphus.
“Insopportabili,” convenne Rabastan, con voce adrenalinica e correndo con lo sguardo a scandagliare ogni cliente del locale.
James annuì ancora e mise una mano nella tasca del suo mantello senza farsi notare. Alzò ancora lo sguardo su Sirius e scosse il capo in una domanda criptica: Quanto tempo abbiamo?
Sirius lo imitò e scosse la testa a sua volta, picchiettando un paio di volte sul polso con un dito per informarlo che non c’era più tempo. James si voltò ancora verso i fratelli Lestrange e diede una rapida occhiata a Yaxley.
“Che vuoi?” gli domandò lui, provocatorio, e un sorriso viscido gli si aprì sulle labbra.
“Chi è quello?” chiese James, ignorandolo e accennando col capo in un angolo del locale. “Non l’ho mai visto qui.”
I Lestrange e Yaxley tesero il collo per una rapida occhiata e James lasciò scivolare tre sfere dorate nei loro calici di Whiskey Incendiario, poi si voltò verso Sirius e annuì proprio mentre gli ex compagni di scuola tornavano a guardarlo.
Sirius sgranò gli occhi e mosse velocissimo una mano al di sotto del collo, suggerendogli aggressivo di tagliare corto, poi si indicò i capelli.
James recepì al volo, staccò le mani dal tavolo e se le portò in testa, a coprire i ciuffi scuri che tornavano a crescere indomabili. Sirius aprì la porta con un gesto fluido e alzò una mano in segno di saluto. “Riguardatevi!” augurò al locale, mentre gli occhi riprendevano il loro colore naturale e il sorriso tornava insolente. Poi abbassò di colpo la zip del giubbotto di pelle e rivelò una t-shirt con una fenice dorata, che si stagliava fiera su uno sfondo nero. Qualcuno, nel locale, sobbalzò, ma James lo afferrò per un polso e richiuse la porta della bettola con un tonfo.
Yaxley, Rabastan e Rodolphus ebbero solo il tempo di sgranare gli occhi e abbassarli sul loro whiskey, che aveva preso a schiumare copiosamente. Dopo qualche secondo, un fumo pesante si espanse nella locanda con uno scoppio.
 
“Metti in moto,” ordinò James, saltando sul sellino posteriore. In realtà era qualche secondo che Sirius continuava a saltare impaziente sulla pedivella, pregando che un suono, uno qualunque e speranzoso, li salvasse dalla loro irresponsabile uscita a effetto.
“Cazzo,” soffiò, voltandosi di scatto verso la porta ancora chiusa del locale. Gli venne voglia di mettersi a gridare di gioia quando il motore rombò nell’umidità invernale e la motocicletta sfrecciò dopo un attimo lungo il viale.
James esultò e liberò un grido che rimbombò tra i palazzi, l’entusiasmo che si mischiava all’adrenalina mentre Sirius prendeva velocità. Osservò nello specchietto i suoi capelli tornare scuri e lunghi e la Pozione Polisucco esaurirsi definitivamente. Si assicurò al fianco del suo migliore amico con la mano destra e ravanò con la sinistra nella tasca del mantello.
“Che stai facendo?” gridò Sirius oltre la sua spalla, superando il volume del vento. Non c’era una sola inflessione nel suo tono che non fosse ironica.
James sbuffò e cavò fuori dalla tasca gli occhiali. “Non ci vedo,” spiegò inforcandoli e beandosi del vento tra i capelli, che gli ricordava tanto quello di una scopa.
Prima che potessero complimentarsi vicendevolmente per il successo in missione, il cantilenare di una sirena si diffuse alle loro spalle. Luci blu e bianche si stagliarono a intermittenza sulla strada davanti e ai lati della motocicletta e James rischiò un’occhiata alle sue spalle. “Non ci credo,” scosse la testa, “polizia babbana.”
Sirius sbuffò derisorio e prese velocità, scambiando un solo, brevissimo, sguardo d’intesa con James. “Ho sempre sognato un inseguimento!” confessò, saltellando sul sellino e godendosi ogni goccia di adrenalina che gli scorreva nel sangue.
“Più veloce!” gli intimò James, gridando ancora per farsi sentire sopra il vento.
Sirius ridacchiò e James alzò gli occhi al cielo.
“Fai una battuta a sfondo sessuale e ti ammazzo.”
“Ti ricordo che guido io.”
“Me ne farò una ragione,” gridò James, mentre Sirius prendeva una curva strettissima che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque. Quella di James, evidentemente, doveva essere molto resistente.
“Insieme anche nella morte?”
Sempre,” ribatté James, senza esitare neanche un attimo. Sentì distintamente, oltre la sirena, il vento e i motori di altre auto, che Sirius mancò un respiro.
 
Circa un quarto d’ora dopo, la moto svoltò svanendo in una stradina laterale.[1]
“Ma che fai?” domandò James, il silenzio del viale gli concesse di abbassare la voce e riuscire a farsi sentire comunque, “è un vicolo cieco!”
“Lo so, James,” ribatté Sirius, come se il suo amico fosse diventato improvvisamente molto stupido. “Preparati,” lo avvertì poi, lasciando la mano sinistra dal manubrio per dare un paio di pacche sulla spalla destra di James, “e metti su la tua migliore faccia tosta,” riuscì a dire, prima che i fari della macchina nella polizia puntassero i loro occhi luminosi sui ragazzi. Seguì il tonfo di una portiera che veniva chiusa.
“Scendete dalla moto!” tuonò una voce. 
James obbedì, seguito dal suo amico e lesse, quando il proprietario della voce si posizionò sulla stessa linea dei fari, ‘Serg. Fisher’.
“Niente casco!” gridò il sergente, puntando il dito contro di loro. “Superamento del limite di velocità… e di parecchio! E non vi siete fermati per la polizia!”
James alzò gli occhi al cielo e sorrise. “Ci sarebbe tanto piaciuto fermarci per una chiacchiera, ma stavamo…”
“Non fare il furbo, voi due siete nei guai fino al collo!” ringhiò un altro poliziotto che rispondeva al nome di PC Anderson. “Nomi!”
Sirius sorrise vittorioso e fece spallucce. “Nomi?” ripeté, alzando gli occhi come a ricordare qualcosa. “Vediamo… C’è Wilberforce, Bathsheba,” scoccò una veloce occhiata a James e rise, “Elvendork!”
“E il bello di quest’ultimo è che vale per qualunque genere,” continuò James, che aveva capito che la strategia di Sirius era perdere tempo. 
“Oh, ma intendevate i nostri nomi?” domandò il suo amico e Anderson sputacchiò frasi incoerenti e arrabbiate. “Bastava dirlo! Lui è James Potter e io sono Sirius Black!”
“Le cose si metteranno seriamente nere tra un minuto, piccoli…” [2]
Ma James e Sirius smisero di ascoltarlo, perché entrambi alzarono gli occhi su tre figure nuove che erano appena entrate in scena. Rabastan, Rodolphus e Yaxley si avvicinavano di secondo in secondo al vicolo cieco, in groppa alle loro scope.
James e Sirius sfoderarono le bacchette nello stesso istante con un gesto fluido. “Insieme,” sussurrò James.
Wingardium Leviosa!” pronunciarono contemporaneamente i ragazzi e l’auto della polizia si alzò sulle ruote posteriori, sbarrando la strada ai Mangiamorte e facendoli sbattere sul cofano. Le scope dei ragazzi si sfracellarono nell’impatto e Sirius e James scelsero quel momento per saltare nuovamente in sella.
“Grazie mille!” gridò Sirius, superando il baccano del motore che rombava, “vi dobbiamo un favore!”
“Già, è stato bello conoscervi!” gli diede corda James, stringendo i fianchi di Sirius e preparandosi per quello che sarebbe successo di lì a poco. “E non dimenticate: Elvendork è unisex!”
James mosse veloce la bacchetta e l’auto della polizia tornò in strada con un tonfo, stridendo sulle pareti strette del vicolo. Sirius si sollevò da terra e la moto si allontanò e svanì nella fredda notte di gennaio. James scosse un’ultima volta la bacchetta e si preoccupò di lanciare un oblivion sugli sfortunati poliziotti.
“Moody ci scuoierà vivi!” gridò Sirius, oltre il vento.
“‘Cosa avevate in testa?’” lo imitò James, muovendo il capo a scatti e strizzando l’occhio di continuo, “La prossima volta siete fuori, irresponsabili!”
“Ottima imitazione, Jamie!” Sirius lo seguì negli scatti con la testa, che dovevano emulare in maniera forse un po’ semplice l’occhio magico dell’Auror.
“Sì, ma non è di lui che dovremmo aver paura,” continuò il ragazzo, alzando gli occhiali sul ponte del naso.
“Oh, Lily e Remus ci faranno il culo!”
Ma Sirius e James, nonostante la guerra e le imminenti partacce, erano insieme a venti metri da terra, e non sembrava esistere altro posto perfetto.









[1] Questa scena è un prequel scritto da JK Rowling nel 2008, ma il suo è dal punto di vista dei poliziotti. Ecco i link al testo originale e tradotto. Nello specifico, il link al testo originale manda su un sito che NON supporta alcuna forma di transfobia e potete dunque visionarlo senza rischiare di incappare in siti gestiti dalla scrittrice. Quello italiano, invece, è "E a te che sei rimasto con Harry fin proprio alla fine".
[2] "Seriamente nere", in inglese, è scritto "seriously black", che ha pronuncia simile a "Sirius Black".

Note di El: NinoNinoNinoNino (è il suono di una sirena, non è il nome di un signore), boni non vi arrabbiate ragazzi va tutto bene. Attenzione, prima che mi attaccate, pliz, "posso spiegare"! Il fatto che in questa storia sembra che certi atteggiamenti DEPLOREVOLI siano incoraggiati si rifà unicamente al fatto che un fondo di verità ci dev'essere pur stato nei racconti di Severus e dobbiamo tenerne conto e far essere a questi qua un minimo stronzi di tanto in tanto. Questo significa che quello che fa Sirius con la tipa Tassorosso fa schifo, non è incoraggiato, vi giuro volevo fare arrivare Lily a disturbare, ma non mi poteva rovinare "La Tecnica" e Peter era troppo "oh wow", James era James e Remus tra qualche capitolo ci arriva. Ero sola, sorry, però ve lo dico qua, è un cattivone che non meritava quell'appuntamento, ora che ci penso più avanti la faccio tornare e le farò dare un bel pacchero (oh, no, ora sto incoraggiando la violenza, vabbé so ragazzate, tanto Sirius non fa una bella fine quindi diciamo che è stato punito).
Comunque sono felice di presentarvi i magici Gideon e Fabian! Sono i fratelli di Molly e, poiché le loro iniziali sono le stesse di George e Fred, in questa storia sono dei combinaguai (ma gentili, perché i super pranksters sono i Malandrini e nessuno gli toglie il titolo). Comunque il motivo per cui li chiamano "James e gli altri" è che James è più a capo (esteriormente, all'interno del gruppo non c'è neanche bisogno che ve lo dica). Non mi chiedete cos'è questa tresca tra Rabastan e Bellatrix, queste sono le tipiche cosa che non ho in programma di scrivere prima di un secondo prima di buttarle giù. Allora, mi dovete scusare le note lunghe ma io sto aspettando questo momento da una vita. Il momento in cui BERTRAM AUBREY fa il suo ingresso trionfale in questa storia. Non è un OC, nel canon è solo uno a cui James e Sirius hanno gonfiato la testa e non si sa di più, ma ormai è fratm Berty, ragazzi, gli voglio troppo bene, non c'è un motivo, scrissi questa scena e dissi "oh cielo, lo devo piazzare da qualche altra parte, lo adoro". E niente, non vedevo l'ora che uscisse Bertram. Sì, le luci dell'auto della polizia inglese sono blu, ho visto la compilation su youtube "best UK police", quindi se è sbagliato prendetevela con loro (voi non avete idea della quantità assurda di cose su cui mi sono documentata per questa storia, tanto per cominciare i cervi, che animali rumorosi). Questo è tutto, scusate il ritardo e grazie mille per aver atteso e letto!
Ci si vede presto amici (e scusate la lunghezza delle note!)
El.

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 - Non sei solo ***


13. Non sei solo





Settembre, 1995
 
L’acqua scrosciava placida nel lavandino scheggiato e ingiallito dal tempo. Remus bussò un paio di volte sulla porta in legno già socchiusa. Il gesto bastò ad aprirla. Sbirciò nel bagno e con la mano la spalancò definitivamente.
“Ciao,” salutò, appoggiandosi allo stipite e osservando Sirius accennare soltanto col capo nella sua direzione, in un gesto che doveva essere una forma fiacca di saluto.
“Secondo te è la lama giusta?” domandò semplicemente lui, mostrandogli un rasoio a mano libera.
Remus rise piano e annuì. Lo osservò bagnare la lama e spargere una quantità generosa di schiuma da barba su di essa. Alzò un sopracciglio. “Lo sai che non si fa così, vero?” Sirius puntò gli occhi su di lui e assottigliò lo sguardo. Remus sospirò. “Devi mettere la schiuma in faccia e poi raschiare.”
“La posso sempre spalmare con la lama e poi raschiare,” tentò di difendersi, nonostante fosse evidente che non era quello il suo piano iniziale.
Remus incrociò le braccia al petto e gli fece cenno con una mano di proseguire.
Sirius alzò il rasoio e se lo portò a una guancia, ma l’atmosfera ilare di un secondo prima svanì esattamente in quell’istante. La mano gli tremò e Remus aggrottò la fronte e lo osservò più profondamente. Per un attimo gli passò per la testa l’idea di fermarlo, dirgli che poteva farsi male, ma fu quasi più struggente vederlo lasciar cadere la lama nel lavandino.
Questa atterrò con un rumore alto e metallico.
Sirius sbuffò frustrato e alzò una mano a portarsi indietro i capelli. A Remus ricordò James per una frazione di secondo e l’ennesimo spillo gli bucò il petto.
Era una sensazione quotidiana, ormai, quella degli spilli.
Sirius lo costringeva a rivivere giornalmente tutto il dolore che aveva già processato. Non lo odiava per questo, non era colpa sua, d’altronde, ed era piuttosto sicuro che non fosse solo nel suo tour nel dolore passato, ma restava il fatto che adesso Sirius, abituato ad essere solo un ricordo, era diventato una presenza agrodolce con cui fare i conti.
Remus lo stava evitando come un idiota nelle quattro mura della sua casa d’infanzia.
“Vuoi che faccia io?” gli domandò dunque, perché continuare ad associarlo al suo dolore era una maniera stupida di recuperare gli anni passati separati.
Sirius alzò uno sguardo grigio su di lui. C’era qualcosa di spento per sempre dove era abituato a veder brillare una luce accecante e un altro spillo gli perforò il petto. Poi, però, un pizzico di orgoglio gli accese le pupille e Remus riuscì praticamente a vedere la risposta arrogante e negativa che stava per sfuggirgli dalle labbra.
“Non te l’ho chiesto perché sei debole,” gli rispose prima ancora che Sirius potesse verbalizzare qualunque pensiero, “te l’ho chiesto perché è evidente che non ce la fai,” continuò freddo, perché non sarebbe bastata una vita a far dimenticare a Remus come doveva prenderlo e quanto doveva sfidarlo per ottenere quello che voleva da lui.
Tredici anni, in fondo, erano una sciocchezza in confronto a una vita.
“Ce la faccio, ma se stai lì a giudicarmi non ci riesco.”
Remus alzò un sopracciglio e abbassò lo sguardo sul rasoio nel lavandino, con una certa eloquenza. “Non sai nemmeno come si fa, perché non usi la magia?” e, a quel punto, Remus fece il grande errore di tirare fuori la bacchetta.
Sirius alzò una mano e scosse la testa energicamente. “Voglio farlo alla babbana.”
Si guardarono per qualche secondo, occhi negli occhi, poi Remus annuì e rinfoderò la bacchetta. Entrò nel bagno senza aspettare un invito, picchiettò sulla sua spalla, costringendolo a indietreggiare. “Siediti sul gabinetto.”
“Col cazzo.”
“Con la tavoletta chiusa, idiota,” lo prese in giro Remus, ma entrambi ridacchiavano come sintonizzati finalmente sulla stessa lunghezza d’onda.
“Lo sai fare?” domandò Sirius, mentre aspettava sul gabinetto che Remus raccattasse schiuma e rasoio. Prese anche un paio di forbici.
“Lo preferisco anch’io alla babbana,” lo prese in giro lui e alzò le forbici. Remus rispose alla sua occhiata interrogativa scuotendo la testa. “Quanto tempo è passato dall’ultima volta?”
“Poco meno di un anno, credo,” rispose Sirius, con una scrollata di spalle. Dopo Azkaban non doveva aver prestato particolare attenzione al suo aspetto per concentrarsi su Harry, le prossime mosse e come agire. “L’ho fatta con un coltellino svizzero. Non un bello spettacolo.” Remus annuì soltanto e tagliò con le forbici gli eccessi di barba, finché non raggiunse una lunghezza che si potesse radere.
Cadde un silenzio confortevole, durante tutto questo processo. Remus lo sentiva fremere come un cane incapace a star fermo e alzava ogni tanto gli occhi a incontrare i suoi, in uno sguardo un po’ ironico, un po’ affettuoso.
“Ti pesa?”
Sirius alzò un sopracciglio confuso. “Cosa?”
“Stare chiuso qui,” spiegò lui, tornando con l’attenzione alle sue forbici.
“Intendi stare rinchiuso qui?” lo corresse Sirius con un sorriso furbo, “no, mi mancavano le sbarre. E poi è una meraviglia, sono scappato da questa casa perché mi piaceva,” continuò sarcastico, ma sorrise quando Remus alzò un angolo della bocca, ancora concentrato sulle sue forbici. Nell’aria vagava, un po’ in disparte, una frase a metà sul luogo in cui si fosse rifugiato quando era scappato di casa.
“Domanda stupida.”
“Decisamente, professor Lupin.”
Remus soffiò una risata e gli batté un paio di volte una mano su una guancia. “Lavati la faccia,” ordinò e Sirius annuì e, con un sospiro, si alzò.
Remus diluì una quantità più o meno generosa di sapone, fece in modo che schiumasse e aspettò che tornasse a sedersi.
“Sfido!” gridò Sirius, gli occhi che brillavano improvvisamente d’astuzia e un principio di sorriso a togliergli almeno dieci degli anni in più che dimostrava. Remus alzò veloce lo sguardo nel suo e aggrottò la fronte. “Ti sfido a spiaccicarmela in faccia.”
Remus sorrise, ma si incupì. Quel gioco non lo sentiva da più della metà dei suoi anni. “Guarda che è quello che devo fare.”
E, senza aspettare che rispondesse, gli spalmò la schiuma da barba su una guancia. Realizzò troppo tardi che non gli aveva dato propriamente uno schiaffo, ma non era stato neanche troppo delicato. Sirius non sembrò curarsene e continuò a fissare un punto impreciso del muro del bagno.
“L’hai sentita I want to break free?” domandò Remus, all’improvviso, mentre passava diagonalmente la lama sulla guancia di Sirius.
“Ma io sono evaso.” Sirius aprì solo un lato della bocca.
Remus scosse la testa. “Ti sei perso della buona musica, è uscita dieci anni fa,” lo informò. Poi abbassò momentaneamente il rasoio e agitò la bacchetta. La musica di una tastiera ben conosciuta si diffuse nell’aria. Sirius sgranò gli occhi e Remus tornò disinvolto all’opera.
Spalmò un altro po’ di schiuma da barba e lo invitò con un dito ad alzare la testa. Sirius lo assecondò senza badarci troppo, totalmente dipendente dalla musica che stava ascoltando. Senza rendersene conto, iniziò a seguire il ritmo con la testa, quando la voce di Freddie Mercury gli invase le orecchie.
“Sono felice che ti piaccia,” iniziò Remus, fermandosi all’istante e alzando gli occhi su di lui, “ma non credo sia un’idea saggia,” considerò, mostrandogli il rasoio. Sirius annuì e si fermò.
 
Da quel momento in poi il silenzio fra loro fu davvero imbarazzante. Una parte della mente di Sirius si era cocciutamente concentrata sulla musica, ma l’altra si chiedeva perché avesse lasciato che qualcuno condividesse con lui un momento che era diventato inevitabilmente intimo e, soprattutto, come avesse fatto ad abbassare la guardia al punto da non rendersi conto che quel qualcuno era Remus.
Una delle persone – forse l’unica rimasta in vita – che sapesse ancora leggerlo.
Il rumore della porta che si apriva al piano di sotto spezzò la magia. “Ma c’era una riunione, vero?” seguirono un tonfo e qualcosa che si rompeva. “Cazzo.”
Sirius rise piano. “È simpatica,” considerò e Remus alzò un sopracciglio, “Tonks. Mi ricorda un poʼ Marlene.”
Si guardarono per qualche secondo.
“Ho finito,” annunciò Remus. Questa volta, però, lasciò scivolare il pollice sulla guancia liscia, sfiorandogli un angolo delle labbra nel processo.
Sirius si irrigidì e lo guardò negli occhi. C’era qualcosa di straziante nel modo in cui Remus l’aveva toccato e in cui adesso gli fissava le labbra. Non sembrava desideroso di qualcosa, affamato e nemmeno amareggiato, no, quello sguardo, quel tocco, era nostalgico. E si odiava da morire per aver pensato, anche solo per un attimo, che si fosse sentito più a casa in quel tocco che in quelle quattro mura.
“Sfido,” sussurrò di nuovo e Remus alzò lo sguardo di scatto nel suo, “ti sfido a lasciarmi andare.”
 
***
 
“Sfido!” James alzò una mano in aria e puntò il dito contro il cielo plumbeo dell’alba. Sirius grugnì rassegnato e si passò una mano sul lato destro della faccia. “Ti sfido a pulirmi gli occhiali.”
“Non puoi usare ciò che ti fa comodo come sfida, James,” biascicò, spalmando nuovamente la faccia sul petto del suo amico.
“Certo che posso.”
Sirius scosse la testa, consapevole che James poteva sentirlo. “Dove sarebbe la difficoltà?”
“In realtà,” Peter si alzò a sedere di scatto e aspettò un attimo che la testa smettesse di girare, “semplicemente non è così che si gioca a obbligo o verità.”
Per Peter e Remus condividere il dormitorio con James e Sirius era diventato peggio di un incubo, negli ultimi tempi. Tutto era iniziato quando Mary aveva menzionato quel dannatissimo gioco babbano ai ragazzi, spiegandolo male. Davvero male. James e Sirius avevano deciso che sfidarsi a vicenda senza sosta e gareggiare per il maggior numero di sfide portate a termine fosse il senso del gioco e che la parte in cui si chiamava anche ‘verità’ alludesse all’onestà di intenti. A nulla erano serviti i tentativi di Remus e Peter di disinnescare il processo. Era diventata, insomma, una questione di onore.
“Lo dici solo perché non hai le palle di venir sfidato,” ribatté James, che era decisamente troppo arzillo per quell’ora.
Sirius annuì assonnato e alzò un braccio a cingergli le spalle, come a rabbonirlo e costringerlo a tornare a dormire. James poggiò una mano sul suo avambraccio e inclinò la testa in modo che scontrasse affettuosamente con quella di Sirius. Se non li avesse conosciuti bene, Peter avrebbe giurato che provassero qualcosa l’uno per l’altro.
“Ti ho sfidato, però,” si lamentò James, sbadigliando sonoramente.
Sirius sbadigliò a sua volta e, come distrattamente, gli sottrasse gli occhiali dal viso, poi sollevò il braccio e sfruttò l’orlo inferiore della camicia per ripulire le lenti. Peccato che passare tre ore nell’aria umida notturna gli avesse lasciato pulito praticamente solo il colletto della camicia. Senza neanche curarsi di osservare il risultato, piantò nuovamente gli occhiali sul viso già addormentato di James e lì rimasero.
“Missione compiuta.”
Peter sospirò affranto e si lasciò cadere nuovamente sull’erba umida. Il sole si levava sempre più alto oltre le colline e iniziava a superare fastidiosamente anche le palpebre chiuse, impedendogli di continuare a dormire. Non ce ne fu bisogno, a ogni modo.
“Che ci fate qui?”
Una nuova voce si unì all’assonnata mattina. James e Sirius si alzarono a sedere all’unisono e voltarono il capo come degli automi in direzione della voce.
“Remus!” lo salutò il primo, riuscendo a malapena a distinguere la sua sagoma oltre lo strato di fango che ricopriva le sue lenti.
“Remus!” ripeté Sirius, ma il suo tono era decisamente più apprensivo e James lo percepì alzarsi con uno scatto in avanti. Lo imitò, a ogni modo, liberandosi degli occhiali e avvicinandosi ai suoi amici per metterli a fuoco. Anche Peter si alzò, con qualche esclamazione sgomenta e priva di senso.
“Che ci fate qui?” domandò ancora Remus, negli occhi una scintilla di panico che non poté riflettersi in quella allarmata di Peter, nè tantomeno in quella sfocata di James, ma che Sirius colse al volo. “Voi non dovreste… Io sono…”
“Ehi, frena,” James sospirò e alzò una mano, momentaneamente avvilito dalla quantità di cose che si stava perdendo per colpa di Sirius e del suo modo poco ortodosso di lucidare gli occhiali. Si prese tutto il tempo del mondo, forse gustandoselo anche a dovere, per ripulire l’ultima lente infangata, infine inforcò gli occhiali e alzò un sopracciglio alla vista di Remus e di come era appoggiato al tronco del Platano Picchiatore assopito, “ti veniamo a trovare ogni volta in infermeria, qual è la differenza?”
Remus aveva sempre grossi problemi con James e col suo modo semplice e diretto di vedere le cose. Quando parlava sembrava che le cose fossero estremamente ovvie, scavalcabili e che non meritassero la preoccupazione che lui, invece, sembrava legare a ogni cosa. Certe volte questo suo atteggiamento lo irritava, altre lo salvava dalla sua testa. “Perché l’avete fatto?”
Sirius scrollò le spalle. “Hai detto che queste ultime trasformazioni ti stanno lasciando devastato,” spiegò, come se gli stesse ricordando dell’ultimo elaborato di Trasfigurazione della professoressa McGranitt e non delle sue sofferenze mensili.
“E hai detto anche che normalmente, la mattina dopo la luna piena, arrivi da solo all’infermeria,” continuò per lui Peter, che intanto era arrossito e aveva preso a guardarsi le punte dei piedi.
“Abbiamo solo fatto due più due,” concluse James, scrollando anche lui le spalle e scoccando una veloce occhiata a Sirius. “Forse sei troppo stanco per arrivarci da solo, sai,” James rise, di quelle risate grasse che si sentono nelle locande irlandesi allo scoccare della mezzanotte, “con quel tuo piccolo problema peloso!”
Remus lasciò vagare lo sguardo su ognuno dei tre ragazzi per qualche secondo, la vacuità di chi non è sicuro di trovarsi fisicamente dov'è. “Da quanto siete qui?” domandò poi, improvvisamente cosciente delle ferita sanguinante e della faccia smunta e distrutta che doveva avere. Si chiese se i suoi amici stessero reprimendo il disgusto. 
“Ecco, a questo proposito…” iniziò Peter e Sirius sospirò esasperato.
“Non dirglielo,” lo pregò James, ma questa volta fu Peter a scambiare uno sguardo d’intesa con Sirius.
“Qualcuno qui non ha fatto tutti i suoi compiti di Astronomia, dico bene, Pete?” incalzò Sirius e Peter annuì.
“Sempre quel qualcuno,” continuò il giovane, immune alle gomitate sempre più insistenti di James, “ha calcolato l’orario dell’alba seguendo passo per passo l’esempio del libro che, purtroppo, era basato su un calcolo valido per giugno e non per aprile.”
Remus sgranò appena gli occhi stanchi e li puntò su James, non riuscì interamente a sorridere, ma inclinò il capo su un lato. “Siete qui da due ore?”
“Tre,” lo corresse Sirius, “perché meglio anticiparsi.”
Remus aggrottò le sopracciglia e osservò le figure incredibili dei suoi tre migliori amici stagliarsi contro un sole sempre meno timido. Per un attimo, qualcosa alla base degli occhi gli pizzicò le palpebre per uscire, ma ingoiò le lacrime e si sforzò di sorridere. “Grazie,” sussurrò soltanto, perché l’idea che avessero passato del tempo a fare calcoli astronomici solo per lui gli scaldava il cuore in una maniera che neanche le pozioni confortanti di Poppy Chips potevano sperare di raggiungere. “Non dovevate fare...”
“Così tanto? Be’, se questo è tanto…” Sirius sbuffò una risata dal naso e Remus non capì bene perché, soprattutto quando James gli rifilò una gomitata nel costato molto poco scherzosa, prima di riportare l’attenzione su di lui.
“Fai bene a ringraziarmi,” lo prese in giro, avvicinandosi a lui e offrendogli una spalla a cui appoggiarsi. Remus la accettò con un sorriso imbarazzato e permise anche a Sirius di fare lo stesso, “perché quest’idiota qui ha sbavato come un cane sulla mia camicia.”
“Dovresti esserne onorato, Jamie,” Sirius gli resse il gioco, iniziando la lunga traversata verso l’infermeria, con Peter sempre al loro fianco, pronto a dare il cambio a James e Sirius se si fossero stancati. Cosa che non avvenne mai, comunque. “Qui la gente pagherebbe perché gli sbavassi dietro.”
Remus sbuffò irrisorio, ma Sirius gli lanciò un’occhiata preoccupata.
“Stai bene?” domandò.
Lui gli sorrise grato e annuì piano. Mai stato meglio, pensò.
 
***
 
“GIDEON!” James gridò al massimo dei suoi polmoni, superando gli schiamazzi degli spalti.
Una folata di vento gli sferzò il viso e lo costrinse a indietreggiare con la scopa. Osservò le setole di quella di Gideon bruciare centimetri d’aria e superarlo ad alta velocità. Alzò gli occhi al cielo e gli andò dietro, dandosi la spinta con un colpo di reni, il tifo nelle orecchie che lo incoraggiava selvaggio.
“Prewett, passala!” gridò ancora, dribblando senza problemi un Battitore e una Cacciatrice Corvonero. “Egocentrico,” mormorò tra i denti, continuando a stargli dietro.
“Via dall’area di punteggio, Potter!” Marlene diede un colpo ben assestato a un bolide e rischiò un’occhiata qualche metro più in basso.
James sospirò e si fermò a mezz’aria, osservando scettico Gideon volare sicuro verso gli anelli, dando spintoni a destra e a manca ai Cacciatori che tentavano di disarcionarlo o perlomeno fargli perdere la pluffa. Gideon mirò e caricò, incontrando con lo sguardo gli occhi spaventati del portiere Corvonero.
“Parala!” gridò un compagno che tentava di fermare Gideon, ma era impossibile fermarlo senza fare fallo. “Parala, Thomas!”
Il ragazzino sgranò gli occhi, poi li serrò di scatto, mentre tendeva la mano davanti a sé, pregando il cielo che la pluffa non gli finisse in faccia e, forse, pregando anche che non centrasse uno degli anelli. Aprì gli occhi quando gli sfiorò le dita e gliele tirò indietro, superandole e mandando in frantumi una delle sue due speranze: quella che i Grifondoro non segnassero.
Stette a guardare con senso di colpa misto a stupore la squadra Grifondoro che si abbracciava stretta ed esultava.
“10 punti a Grifondoro!” la voce del cronista lo riportò alla realtà. Si dà il caso, infatti, che il cronista in questione fosse proprio lo sfortunato Bertram Aubrey, il ragazzino a cui James e Sirius avevano gonfiato la testa e che Marlene non aveva mai neanche considerato prima dell’incontro che avevano avuto in infermeria.
Marlene si voltò a guardare nella direzione della tribuna dei professori. Alzò un pugno e sorrise, incontrando lo sguardo di Bertram e prendendosi qualche secondo per sfidarlo, visto che era Corvonero. Lui sorrise furbo. “Ricordiamo a McKinnon che dieci punti, in fondo, non sono un boccino e che farebbe meglio a non tirarsela tanto e a concentrarsi!”
“Aubrey!” Vitious e la professoressa McGranitt non aspettarono un attimo per rimproverarlo. Bertram si strinse nelle spalle e li ignorò, perché Marlene adesso stava ridendo e quella risata valeva anche una detenzione.
“Ma chi è?” Sirius, dal suo posto in tribuna Grifondoro, inarcò un sopracciglio e arricciò confuso il labbro superiore.
Peter ridacchiò e fece scontrare le loro spalle. “Forse il ragazzo a cui avete gonfiato la testa?”
Sirius sembrò pensarci un momento su, poi annuì. In realtà ricordava benissimo, più che Bertram, la detenzione che ne era seguita. Lasciò cadere la questione e tornò a prestare attenzione alla partita appena ricominciata. Remus, invece, non aveva ascoltato una parola di quella conversazione. Erano passati due interi giorni dall’ultima luna piena e, sebbene fosse stato dimesso solo quella mattina a causa del peggioramento della sua condizione, ci aveva tenuto a venire lo stesso a tifare per James e tutta la sua squadra. Rapito com’era dal gioco e dalla frustrante incapacità a urlare e fischiare come avrebbe voluto, non aveva prestato troppa attenzione alla faccenda di Bertram.
Greta Catchlove, Cercatrice Grifondoro, aggrottò la fronte e si voltò all’erta a guardare Allock. Poteva sembrare un po’ frivolo e non molto sveglio per un Corvonero, ma era un Cercatore dall’istinto formidabile e il solo fatto che si fosse messo a correre in chissà quale direzione fu abbastanza perché anche Greta si lanciasse alle sue calcagna. Per quanto Allock fosse capace, Catchlove era stata un acquisto preziosissimo per la squadra. 
James Potter, dall’altra parte del campo, annuì energico. “Sì, sì! Non sta bluffando!” ebbe il tempo di soffiare, sfrecciandole davanti all’inseguimento della pluffa. Tagliò la strada al Cacciatore Corvonero che prima tentava tanto disperatamente di dare una svegliata a Thomas, poi gli sottrasse la pluffa con un gesto fluido e pulito.
“Potter si impossessa della pluffa con una semplicità invidiabile!” narrò Bertram, riconoscendo il talento di James con un pizzico di fastidio. “E ora corre come un pazzo verso gli anelli. Mi chiedo se gonfierà la testa anche al povero Thomas!”
Il portiere Corvonero si irrigidì sulla scopa, rendendosi conto che effettivamente dopo quella giocata il Cacciatore avrebbe mirato a lui.
“Quello è un trattamento che riservo solo a te, Aubrey.” James scelse quel momento per passare a razzo davanti alla tribuna del cronista. Gli resse il gioco con un sorriso e proseguì verso gli anelli, evitando da solo, e con una semplicità disarmante, il bolide che lo puntò.
Gli occhi sgranati di Thomas si acquietarono sospettosamente mentre James guadagnava metri. Quella reazione fu abbastanza per confermare che qualcuno lo stava inseguendo.
“Passa!” gridò Gideon, affiancandosi a lui ad almeno una decina di metri di distanza e alzando un braccio.
James strinse la pluffa al petto e rischiò un’occhiata alle sue spalle. Tutti e tre i Cacciatori avversari erano a un passo dal raggiungerlo.
Fabian fu una manna dal cielo, perché il bolide che aveva ripreso a inseguirlo fu spazzato via con un gesto fluido.
“Passala, James!” si intromise Frank Paciock, volando anche lui qualche metro più sotto e osservando la linea che segnalava l’inizio dell’area di punteggio avvicinarsi sempre di più.
“Cazzo, James, passa quella dannata palla!” gridò a pieni polmoni Remus, da qualche parte sugli spalti. In cambio ricevette solo una fitta alla gola.
James lo sentì e gli venne una grandissima e irrimandabile voglia di fargli un dispetto.
E poi, il vento nei capelli era troppo bello, il manico di scopa rispondeva troppo bene ai suoi movimenti, i giocatori che lo inseguivano lo entusiasmavano troppo perché potesse passarla. Si leccò le labbra quasi affamato, estatico. Era un piacere inspiegabile. Il quidditch era un piacere inspiegabile. Non importava più la gloria, l’atteggiamento da cascamorto e un’ostentata abilità in qualunque cosa facesse. Non esisteva altro che la pluffa che stringeva e lo spazio tra la cornice degli anelli e il corpo di Thomas. Lo spazio di un goal. 
Tre ragazzi lo sovrastarono e lo accerchiarono. Passò qualche secondo, non c’era fiato sugli spalti che non fosse sospeso. Anche Bertram aveva smesso di parlare, lasciando un concetto sospeso su una congiunzione a cui non era seguita alcuna frase.
“E ne viene fuori!” gridò Aubrey, spezzando il silenzio per primo, mentre James schizzava in alto, eludendo così in un solo colpo la difesa di tre Cacciatori. Tirò da lassù, l’angolo era improbabile, il fallimento assicurato. Impresse abbastanza forza perché la pluffa scendesse come un proiettile in linea retta, impedendole di incurvare la traiettoria. 
Mentre era ancora a mezz’aria e James sperava che seguisse il piano, incontrò gli occhi di Thomas. Il suo sguardo era per la prima volta determinato, convinto e deciso. Durò solo un attimo, perché il portiere si fiondò per pararla. Sfiorò la pluffa con le dita, tutto era immobile, il tempo era congelato, James guardava la palla a bocca aperta, aspettando che entrasse una volta per tutte o che le dita di Thomas la deviassero.
Infine, la pluffa superò il cerchio di ferro e James segnò uno dei migliori goal della storia di Hogwarts.
“E sono altri…” Bertram si interruppe, passarono troppi pochi attimi perché qualunque giocatore potesse voltarsi a dare un’occhiata. “Corvonero vince a sorpresa 170 a 80!”
L’intera squadra Grifondoro si voltò di scatto al centro del campo. Gilderoy Allock reggeva il boccino d’oro come se fosse stato un anello di famiglia. Incrociò lo sguardo di James e gli sorrise beffardo. Lui scoprì i denti quasi in un ringhio.
Catchlove, dall’altra parte del campo, si teneva sconsolata un braccio, con lo sguardo basso e pieno di vergogna di chi si è fatto fregare.
“Ma che cazzo!” si lamentò una voce inedita. Gudgeon, dalla sua posizione agli anelli, volò al centro del campo per riunirsi alla sua squadra. I calcoli e le tattiche dimenticate per esternare imprecando tutta la frustrazione di una penultima partita.
Marlene sospirò mogia e si voltò verso gli spalti. Bertram, gongolando e con un sorriso vittorioso, scrollò le spalle a fingere compassione.
 
***
 
Due giorni dopo la terribile sconfitta, Sirius sbuffava scettico e rifilava occhiate diffidenti al muro – davvero molto immobile – che si ergeva austero davanti a lui. Abbassò lo sguardo sul regalo che teneva tra le mani. “Vorrei proprio ascoltare questo disco,” sussurrò, inarcando già un sopracciglio e dandosi una rapida occhiata alle spalle per vedere se ci fosse qualcuno, perché si sentiva veramente molto stupido. “Vorrei tanto ascoltare questo disco,” rettificò e osservò ancora i mattoni. “Tantissimo?”
Il muro non si mosse.
Sbuffò, stavolta spazientito. “Certo, perché adesso ti fidi di Lily Noiosa Evans,” mormorò tra sé e diede le spalle al muro perfettamente ordinario a cui stava parlando, “sei imbarazzante. E idiota.”
Si allontanò, oltre che con tutta quell’irritazione, anche con un certo dispiacere. Ci aveva davvero sperato, avrebbe davvero voluto ascoltare quel disco. Era quasi doloroso vederlo sempre lì in giro e non essere capace di fare un tentativo, di dare una possibilità a questo babbano ribelle che rispondeva al nome stranissimo di David Bowie. Be’, no, non era quasi doloroso, era proprio doloroso. Riusciva a distinguere la forma arrotondata sotto le dita, oltre la carta spessa della copertina. Immaginava l’odore esotico ed estraneo che aveva sentito la prima volta e che Remus gli aveva confidato essere vinile. Leggeva i nomi dei pezzi che non poteva ascoltare, parole in una lingua che conosceva, in fondo, ma che sembrava perdere di senso, utilizzata anzi per confondere e, forse, intrigare. E, oh, se era intrigato, non stava più nella pelle, tremava di eccitazione. Ma David Bowie era destinato a restare un mistero.
Di colpo, un rumore alle sue spalle lo distrasse dal suo fastidio. Sentì uno stridio di pietra su pietra e ciottoli che crollavano. Si voltò con le sopracciglia aggrottate e quasi non riuscì a credere ai suoi occhi.
C’era una porta, una porta vera incastrata tra i mattoni!
In un primo momento spalancò la bocca, come se non fosse cresciuto circondato da magia, poi lo sguardo gli si affilò e un sorriso sghembo gli attraversò le labbra.
Non attese un attimo di più, si diede un’ultima occhiata alle spalle e, accertatosi di essere solo, abbassò la maniglia con sicurezza ed entrò nella Stanza delle Necessità. Proprio al centro, su un rialzo in legno che doveva avere l’età della scuola, se non di più, un giradischi luccicava rosso e argento sotto la luce fievole di una fiaccola qualunque. Un divano molto simile a quello della Sala Comune Grifondoro si trovava a un passo dal mobile che reggeva il giradischi.
Sirius si guardò attorno per un attimo, diffidente per natura, poi scrollò le spalle e liberò il primo disco dal suo vestito di carta.
Osservò quello che doveva essere un giradischi per qualche secondo. Ci mise un po’ a capire che era chiuso, e che doveva alzare un coperchio per rivelare il piatto su cui poggiare il disco.
Dieci minuti dopo, col disco in posizione, la scoperta delle casse incorporate, la cravatta praticamente strappata di dosso e una quantità sgradevole di sudore, Sirius sorrise sfrontato e soddisfatto. Alzò il braccio e lo poggiò delicatamente sull’orlo esterno del disco, facendo aderire la puntina al vinile, proprio come gli aveva suggerito Lily.
Aspettò qualche secondo tesissimo in cui il silenzio di un probabile fallimento gli invase le orecchie, poi avvenne una cosa che non poteva chiamarsi in altro modo che magia.
Sembrava provenire da lontano, all’inizio sembravano passi, ma sfumavano in una chiara batteria. Sirius si lasciò cadere sul divano e incrociò le braccia dietro la testa. Chiuse gli occhi e il suono di un pianoforte si alternò ritmico a una voce che sembrava nient’altro che l’epicentro di quella lontananza, del mondo infinito che in fondo non aveva mai visto.
Pensò ai palazzi che circondavano Grimmauld Place e, improvvisamente, gli sembrarono non meno lontani della voce esotica e proibita di David Bowie che veniva da nessuna parte e tutte le direzioni, schizzando da quel disco rotante e che non faceva che ripetere, disperata, che aveva questi cinque anni.
Quando la canzone finì, Sirius assaggiò il silenzio colmo di trepidazione che precedeva la prossima esplosione di suoni e, quando il primo vinile fu esaurito si occupò del secondo con mani tremanti.
Li ascoltò entrambi tre volte, prima di decidersi a liberare la Stanza delle Necessità, soddisfatto e sorpreso, col cuore orgoglioso di una canzone che si chiamava ‘Starman’, e che sentiva in qualche modo sua, e con la soddisfazione nel petto di aver fumato una delle sigarette di Marlene durante le note malinconiche e afflitte di ‘Rock ‘n’ roll suicide’, mentre gli urlava che non era solo.
E in fondo, si rese conto mentre tornava alla sua normalità, aveva ragione: non era solo.
David Bowie era un mago.
 
***
 
Lily Evans doveva essere impazzita.
Guardò la schiena di quello che era a metà tra un amico e un nemico e che, almeno fino a quel momento, era solo.
Inspirò profondamente e annuì risoluta: ormai aveva già deciso, il fatto che stesse succedendo davvero non avrebbe dovuto spaventarla, al massimo farle capire che quella resistenza non aveva ragione d’esistere, che quella tensione non era un suo problema.
Si fece coraggio e parlò: “Lupin.”
Remus si voltò con la fronte già aggrottata, ma quando la riconobbe le sorrise e alzò la borsa di pelle che occupava la sedia alla sua sinistra. La ripose a terra e la invitò con un cenno del capo ad accomodarsi. “Evans,” chiamò, in segno di saluto e la ragazza accettò l’offerta. “Un ripasso di Trasfigurazione?” domandò distrattamente, abbassando gli occhi sul suo libro.
“Veramente cercavo te,” ribatté lei, senza la minima traccia di indecisione nel tono.
Remus alzò lo sguardo di scatto e chiuse piano il libro, dedicandole tutta la sua attenzione, poi sospirò e si passò rassegnato una mano nei capelli. “Okay, ascolta, vedrò quello che posso fare, ma sai com’è James quando…”
Lily scosse la testa e rise. “Non c’entra niente, ma se potessi fare qualcosa per lui ne sarei molto, molto felice.”
Remus si strinse nelle spalle come a dire che per lui non c’era cura e le sorrise incoraggiante.
“Volevo un… un consiglio,” esitò, alzando gli occhi su di lui. Vide distintamente la curiosità danzare nel suo sguardo, ma non disse niente, attese che continuasse. “Riguarda Severus.”
Remus intrappolò la lingua tra i denti e la guardò con una luce che a Lily non parve troppo un rifiuto, ma più un avvertimento. Sembrò pensarci su qualche attimo, poi la incalzò a continuare annuendo. “Sarò sincero,” si limitò a promettere e la schiettezza nel tono le diede conferma di aver fatto la scelta giusta.
Sospirò, l’odore pungente di muffa e carta della biblioteca a ricordarle che era in un luogo sicuro.
“Okay, be’, io e lui siamo sempre stati amici,” iniziò, più a ricordarlo a se stessa che ad aggiornare Remus, “è sempre stato dalla mia parte, mi ha sempre ricordato che valevo qualcosa anche quando non ci credevo neanch’io, è stato il mio primo amico, qui, quando ero circondata da mille facce sconosciute che, per lo meno, sapevano dove eravamo!” Lily sorrise al ricordo, ma si rabbuiò prima di pronunciare le frasi successive, “però lui ultimamente… lo sai chi frequenta.”
Remus annuì, ma non sorrise né la prese in giro. Annuì come si fa davanti a qualcosa di evidente. E Lily aveva bisogno di qualcuno che le facesse notare che, in fondo, le scelte di Severus erano evidenti.
“Abbiamo idee diverse, ormai parlare con lui non è più facile come lo era prima e, quando gli chiedo cosa c’è che non va, non fa che scuotere la testa infastidito e dirmi che me lo sto immaginando io o, peggio, che sto dando troppo ascolto alle ragazze.”
Lily alzò gli occhi al soffitto della biblioteca, in una pausa che le stava dimostrando quanto smettere di rimuginare e arrendersi a parlarne con qualcuno la stesse aiutando.
“E tu gli credi?”
Lily tornò con lo sguardo su di lui, poi lo abbassò, pensando a una risposta sincera alla sua domanda. “No, so cosa vedo.”
Remus scrollò le spalle e alzò un angolo della bocca. “E lo disprezzi?”
Lily sospirò “Resta un mio amico,” ribatté decisa, perché ovviamente il problema non era se credere alle accuse di Severus, ma capire come comportarsi nei suoi riguardi.
Remus sospirò e fece per parlare, poi esitò per un attimo, infine si decise. “Lily,” iniziò, un sorriso gentile che nessuno le concedeva mai quando Severus era il centro del discorso. Fece spallucce e il suo sorriso si trasformò in uno sbuffo ironico, “sei qui perché non sai cosa fare o perché lo sai benissimo?”
Lily ci pensò per un attimo, poi soffiò un respiro confuso.
Remus la studiò per un secondo, con le sopracciglia aggrottate. Un secondo dopo il quale Lily alzò gli occhi al cielo e scrollò le spalle, cedendo a un sorriso consapevole. Lui ricambiò, viaggiando sulla stessa lunghezza d’onda.
Remus non era stato un genio, non le aveva detto niente che non avesse già preso in considerazione, ma, per una volta, qualcuno l’aveva ascoltata senza dare troppo peso al fatto che dall’altra parte del discorso ci fosse Severus Mocciosus Piton. L’aveva preso semplicemente per l’amico che sentiva sempre più distante e, il solo fatto di non sentirsi più tanto sola e di avere qualcuno con cui poter mettere sul tavolo qualche pensiero fastidioso di troppo e analizzarlo senza avvilirsi, l’aveva immediatamente salvata dai pensieri da cui non vedeva l’ora di scappare e che, invece, dovevano solo essere verbalizzati.
Non sapeva perché Remus apparisse sempre così teso, schivo a volte e soprattutto indecifrabile e non aveva neanche voglia di saperlo a ogni costo e abbattere la barriera della sua riservatezza, ma di una cosa Lily era certa: se Remus avesse mai avuto bisogno di aiuto sarebbe stata in prima fila per offrirgli una mano.
Quando si salutarono, varcando da amici la soglia della Torre di Grifondoro per passare per i loro dormitori prima di cena, si sorrisero raggianti. Per un secondo brevissimo gli occhi di Remus presero una tonalità davvero impressionante.
E Severus non era più un problema, perché aveva anche Marlene, Dorcas, Alice, Mary e Remus e, qualunque cosa fosse successa, sarebbe stata sicura di una cosa almeno:
non era sola.
 
***
 
James scambiò uno sguardo velocissimo con Remus e Peter, poi sospirò rumorosamente e picchiettò Sirius sulla spalla. “Questa cosa sta durando troppo.”
Sirius aggrottò la fronte. “Eh?”
“Non scherzo, sta diventando una sofferenza vederti così scemo.”
Sirius lanciò un’occhiata veloce ai suoi amici, ma entrambi sembravano improvvisamente troppo impegnati nell’analisi del loro pasticcio di pollo, il che gli puzzava troppo di complotto. “Ma che problemi hai?”
“Sfido!” iniziò James e Sirius sospirò. “Ti sfido a lasciarla, è diventato uno strazio.”
Lui lo guardò fisso per qualche secondo, poi sbuffò in una risata.
“Davvero, Sirius, io sono tuo amico, il mio compito è dirti la verità quando sei troppo cocciuto per capirla: voi non vi piacete.”
Remus alzò gli occhi di scatto dal suo pasticcio. Oh, ora ha improvvisamente voglia di ascoltare! notò Sirius, con un sorriso.
“E tu questo lo chiami tatto?” domandò Remus, sottovoce.
James scrollò le spalle. “Con lui ci vogliono le maniere forti.”
Remus gli riservò un’occhiata poco convinta, poi scrollò le spalle e tornò al suo pasticcio di pollo come se il suo intervento nella conversazione non fosse mai avvenuto.
Proprio in quel momento Marlene intercettò lo sguardo di Sirius a qualche panca di distanza, indicando col capo le porte della Sala Grande. Sembrava almeno cento volte più seria del solito e quando Sirius annuì, inspirando profondamente come a farsi coraggio, James ebbe la stessa impressione.
Marlene si alzò mormorando qualcosa a Lily e le altre, poi si incamminò verso l’uscita, sfiorandogli una spalla nel tragitto, ma non aspettandolo.
Sirius passò una mano sulla testa di James e gli arruffò i capelli appena puliti. “Dovreste avere un po’ più di fiducia nel mio giudizio.”
James sbuffò scettico. “Vai.”
“Vado,” convenne Sirius, alzandosi in piedi e sorridendo furbo a Remus e Peter, che avevano nuovamente smesso di fissare il pasticcio di pollo.
“Devi, altrimenti me le lasci tutte per l’anno prossimo.”
“Mai, Potter,” Sirius ridacchiò e si lasciò i suoi amici alle spalle, sorridendo a Marlene che lo aspettava alle porte della Sala Grande.
 
“Bene,” iniziò lei, congiungendo le mani e guardandolo solo un attimo negli occhi prima che il suo sguardo la mettesse troppo in soggezione. “Io credo che…”
“Che sia stato divertente,” tentò Sirius.
“Già,” convenne Marlene, “è che noi proprio non…” tentò di incrociare le dita tra loro a più riprese, come se avesse voluto farle incastrare ma quelle proprio si rifiutassero di collaborare.
Sirius annuì energico e sgranò gli occhi: il fatto che potessero incastrarsi era un’autentica follia! “Vero?”
Anche Marlene annuì.
“Bene, è stato facile.” Sirius scrollò le spalle e le sorrise in quel modo storto che all’inizio lei aveva frainteso.
“Amici?”
Il sorriso di Sirius ci mise un battito di ciglia ad affilarsi. “Non così in fretta, McKinnon,” alzò un sopracciglio con quel fare pericoloso che si intonava tanto allo sguardo di James e Marlene si ricordò perfettamente perché era stato così semplice confondere l’affetto con l’attrazione: perché era impossibile non essere attratti da Sirius, in qualche modo.
“Dobbiamo andare sul luogo del delitto, prima.”
 
Fu così che, metri e metri di passaggio segreto dopo, i due ragazzi sbucarono su Hogsmeade, vuota di studenti e professori. La maggior parte dei suoi frequentatori sedeva probabilmente al tepore dei pub sulla via principale. Il cielo di aprile, trapunto di stelle, restituiva una brezza frizzante.
“Tieni,” sussurrò Marlene, tendendogli una sigaretta con un sorriso e dirigendosi al muretto su cui si erano baciati per la prima volta senza che Sirius dovesse farle strada.
Stettero in silenzio per qualche secondo, gustandosi l’aroma pungente del tabacco sulla lingua, ma senza decidersi ad accendere.
Sirius strinse la sigaretta tra i denti e biascicò un incantesimo come meglio poté. La punta della sua bacchetta si illuminò – miracolo! – e tirò una prima boccata soddisfacente. Non accese anche quella di Marlene, però, si chinò in avanti e le rubò un bacio a fior di labbra, veloce, un contatto fuggevole che fece roteare gli occhi a Marlene.
“Hai pareggiato i conti?” domandò lei e Sirius annuì sfrontato.
La risposta sulla loro relazione, forse, era sempre stata lì. Erano troppo simili e questo li aveva fatti avvicinare subito, ma non assicurava una durata promettente a un rapporto che non fosse di pura amicizia. Marlene l’aveva capito quando non aveva saputo trovare alcun aggettivo per descrivere il suo ragazzo che non potesse affibbiare a una delle sue amiche, quando Mary le aveva chiesto se sentiva le farfalle danzare nello stomaco, quando lo baciava, e lei aveva finito per notare che non c’era nessuna farfalla nel suo stomaco e che, piuttosto, il suo corpo si limitava a reagire naturalmente a quei gesti.
“Chi è Bertram Aubrey?” domandò all’improvviso lui, guardandola di sottecchi solo per un attimo e sorridendo sghembo.
Marlene alzò un sopracciglio, restituendogli lo stesso sguardo. “Il ragazzo a cui hai gonfiato la testa.”
“Il commentatore delle partite di quidditch,” la aiutò a elencare Sirius.
Marlene annuì. “Smistato in Corvonero.”
“Ha bisogno di consigli in materia di scherzi.”
“Va matto per i pugni.”
“Oh, sì,” Sirius annuì solenne, poi gli occhi gli brillarono di malizia, “e il prossimo che ti scopi.”
“Sei una piaga, Black,” ma Marlene sorrideva, “te l’hanno mai detto?”
“Pensala come vuoi,” Sirius si alzò dal muretto con un salto e si ripulì i vestiti, “io sono dalla tua parte, anche perché dopo di me dev’essere dura mantenere certi standard.”
Marlene scosse la testa e alzò gli occhi al cielo con un sospiro, fingendo di arrendersi a un destino fatto di ragazzi che non potevano competere con il fascino di Sirius. “Dalle stelle alle stalle,” convenne lei e Sirius scoppiò a ridere.
Le porse una mano, in una caricatura buffa di un cocchiere, e Marlene la accettò fingendo superiorità e lasciandosi scortare nell’anfratto buio che li avrebbe ricondotti a Hogwarts.
Lungo il tragitto, risero come non avevano mai riso prima, insieme.
 
***
 
Giugno, 1993
 
Una, due, tre gocce si infransero contro la pietra, da qualche parte nella cella di qualcuno che non aveva mai visto, ma che aveva sicuramente sentito implorare.
“L’Oscuro Signore tornerà a salvarmi,” un prigioniero rantolò, la voce stanca, delirante, il tono sottile e altalenante. Sembrava voler passare su più ottave e posarsi solo su qualche nota.
Sirius abbassò lo sguardo sul suo braccio, le palpebre che quasi si chiudevano. Pensò che se avesse stretto la mano attorno al bicipite sarebbe riuscito a far toccare il dito medio con il pollice.
I giorni scorrevano in una maniera strana, ad Azkaban. Aveva smesso di contarli anni prima, i solchi sul muro che non significavano più niente.
“Avete sentito?” Un sibilo si fece strada nella pietra e superò il suono della risacca. “Qualcuno è stato scarcerato.” La voce ridacchiò, echeggiando nella torre, col suono di una iena. “Rubeus Hagrid è stato scarcerato.”
Sirius contrasse le sopracciglia e tentò di liberarsi deglutendo della saliva che gli impastava fastidiosa le labbra. Hagrid lo conosceva, aveva la sua motocicletta. “Che anno è?” La sua voce sembrò staccarsi dalle corde vocali, come se si fosse incrostata su di esse troppo tempo prima, abituata solo a gridare e ridere.
“1991,” la voce profonda di un orso gli rispose, forse a un metro da lui, forse a cento.
“Ti fuma il cervello, amico?” rispose subito un uomo con una voce alta e da coniglio, era come se avesse avuto una risata acuta bloccata in gola e sul punto di esplodere, “siamo nel 1993.”
“Coglioni,” si intromise un serpente. Sibilava. “È il 1916.”
“Stammi a sentire,” riprese Coniglio, “questo non ci sta con la testa.”
“1991. 1991 e sto, non rilancio.”
1981 tronchi d’albero si levarono dal fango,” Iena gracchiò, in una melodia alta e stridula, “nel bosco delle liane, che non conosce altro che morte. Ma io ti aspetto, cavaliere, ti aspetto e qui rimango. E che il Signore Oscuro decida la mia sorte.
Le voci accavallate dei prigionieri animali si mischiarono caotiche, come condotte da quella filastrocca canticchiata.
“Fatela finita o vi giuro che vi sgozzo,” Serpente cercò invano di ristabilire l’ordine.
Sirius abbassò lo sguardo sul suo avambraccio sinistro, la melodia di Iena che si ripeteva intossicante nella testa. Unì le sopracciglia in un cipiglio confuso, il respiro che aumentava. La mente offuscata gli fece notare, con orrore, la sagoma di un serpente attorcigliato, contornato di nero.
Batté tre volte le palpebre e il serpente si mostrò scuro e fiero sulla pelle lattea, un teschio in cima e pieno di ombre. 
1981.
“Ho ucciso James e Lily,” sussurrò, sgranando gli occhi e non riuscendo a sorprendersi della facilità con cui ricordò i loro nomi. I ricordi di quella notte, del sangue dei babbani, della distruzione nella strada, si fecero improvvisamente largo nella sua mente.
I mesi passati a studiare, la conversazione con Avery, Mulciber e Regulus avuta in Sala Comune a Hogwarts, la foto di famiglia, quattro volti austeri e saccenti, immobili sulla pellicola perché ai piani alti le si preferiva così. L’eredità e lo sfarzo… il Marchio Nero gli riportò tutto alla mente.
 
1981 tronchi d’albero si levarono dal fango,
Nel bosco delle liane, che non conosce altro che morte.
Ma io ti aspetto, cavaliere, ti aspetto e qui rimango.
E che il Signore Oscuro decida la mia sorte.





 

 


Note di El: Ciaaaaaaao, credevo proprio di non farcela oggi e invece no, ciao, insospettabile.
Non risponderò a domande sul finale ;)
Va bene, comunque allora io devo spendere un attimo qualche secondo per dire che sto ancora ridendo per tutti i video che ho visto su youtube di gente che si fa la barba col rasoio a mano libera, sono tutti simpaticissimi, ve li straconsiglio quando siete tristi. Ah, NO ASPETTATE, ho da dare altri crediti ad Alessia Trunfio. In particolare per la seconda scena, che è fortemente ispirata a questo, che è una situazione diversa ma simile, tipo la luce dietro, cielo, i suoi disegni sono il mare su cui si regge 'sta barca, niente, ok.
Finalmente vi introduco al mitico "sfido!", l'utilità di questo gioco è più o meno la stessa di David Bowie in questa storia: all'appareza inutile, nel profondo la mia grandissima paraculata per ogni cosa. Ah, la canzone non è uscita esattamente nel 1985, ma sarebbe stato irrealistico fargli dire "eh, ti sei perso buona musica, è uscita proprio 8 anni, 7 mesi e 25 giorni fa", capi, concedetemelo.
Alla fine di questa storia voglio un attestato di conoscenza degli usi e i costumi negli anni settanta, comunque, è tutto una specie di "oddio, ma 'sta cosa esisteva già? Ma posso dire questa cosa? Che tipo di giradischi andava di moda in quel tempo?" Niente, vabbé.
Va bene, credo sia tutto, signori, il quarto anno è finito, ci vediamo tra dieci giorni con un capitolo che ci ho messo un mese a scrivere, non so con quale coraggio lo correggerò. Sono super tesa, spero che questi dieci giorni non passino mai e spero che non mi verranno lanciati tutti i pomodori delle dispense di chi è arrivato a 15 capitoli solo per leggere il delirio del sedicesimo. Mi scuso già ora, ma ho delle necessità.
Grazie tantissimo per aver letto ancora un altro capitolo aaaaaaaaa, ALLA PROSSIMA!


 

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 - Me, vecchio ed erede ***


TW: violenza fisica e psicologica. In particolare, la violenza fisica può essere saltata se si salta il pezzo scritto solo in italic.
Altra nota: alcuni avvenimenti canonici sono stati leggermente modificati.






14. Me, vecchio ed erede






Giugno, 1993
 
Il Marchio Nero svettava sulla pelle lattescente, la luce bianca del mattino si faceva strada tra gli intagli sottili nel muro, allargandosi come a volerlo squarciare. Gli mostrò solo più chiaramente il segno sul braccio.
Tutto quel tempo a restare sani per la pura e la cosapevolezza di essere innocente, tutto quel tempo a non farsi spezzare, con la sicurezza ben radicata di essere lì per sbaglio, per uno scherzo cattivo della sorte e per qualche gesto avventato e istintivo di troppo.
Quelle certezze si dissolsero nel momento in cui il dubbio lo portò a chiedersi cosa fossero quegli squarci di ricordi.
E perché, all’improvviso, sembrassero distorti.
“È colpa mia,” un sussurro come un grido, come un marchio di verità e di bugia.
 
***
 
Girava voce che il mondo fosse stato costruito in sette giorni e che servissero sette morti soltanto per salvarlo. A ogni luna piena, sette sacrifici venivano consumati al Tempio della Notte, nella speranza che le anime lise del pianeta potessero redimersi con un solo sacrificio.
Il re Lox credeva che la purezza e la spontaneità del mondo fossero le caratteristiche essenziali per un’offerta e aveva messo una legge infrangibile per ogni cittadino del suo regno. In nessuna circostanza questa legge si sarebbe piegata, se non, s’intende, per se stesso e i suoi quattro figli.
“A ogni famiglia del regno,” scriveva febbrile il re Lox, “sarà richiesto almeno un figlio l’anno. Chi si rifiuterà di obbedire verrà punito con la morte.”
Ogni mese, nel regno, nuovi bambini nascevano e le famiglie vittime di un imprevisto che impediva loro di mettere al mondo una nuova creatura sparivano nel nulla. Ogni mese, nel regno, nuovi bambini venivano mandati a gruppi di sette sul Monte del Vento. A nessuno era concesso di sapere cosa accadesse di preciso sull’altura sventurata, ma, di giorno in giorno, di anno in anno, nuvole nere oscuravano e circondavano la cima del Monte del Vento. I suoi fianchi scuri e inospitali si ergevano possenti fino a scomparire, sfumando tra le nubi sterili.
Ogni mese grida di bambini risuonavano nel regno del re Lox, rimbalzando stridule nella cassa di risonanza della valle.
La notte in cui il fratello di Joy venne portato con la forza sul Monte del Vento, il ragazzo si decise a mettere fine a quel mondo di terrore. Era stato fortunato, Joy, a non essere mai stato selezionato per le spedizioni. Era stato considerato indegno, nato senza talento, incapace di far muovere oggetti con la forza del pensiero. Era nato senza magia.
Fu con quella rassegnazione che si addentrò tra gli alberi spigolosi ai piedi del Monte del Vento.
Ci sono molte storie sulle atrocità a cui assistette, mentre risaliva stancamente il fianco sinistro, sulle creature mostruose che, senza uno straccio di magia, non avrebbe dovuto poter battere. E, per quanto i pareri siano discordanti, su una sola cosa ogni versione non può che convenire: Joy ebbe successo.
Arrivò in cima al Monte del Vento alle prime luci dell’alba e si riparò saggiamente dietro una siepe alta che lo tenesse nascosto, ma non abbastanza da impedirgli di assistere alla scena.
Il fratello di Joy aveva solo qualche mese, sette, per la precisione.
Un calderone d’oro laccato luccicava sotto la doppia luce di una luna in partenza e un sole appena nato. Gli alberi che attorniavano il contenitore avevano le chiome fitte e spesse, ma si fermavano timidissimi a qualche metro da esso, come se mettere le radici in un luogo tanto oscuro fosse stato troppo anche per loro. Era così che la luce piombava dall’alto, solo al centro della radura, colpendo come un riflettore il fiore all’occhiello del Tempio della Notte.
Il re Lox se ne occupava personalmente.
Joy lo osservò appropriarsi del primo neonato, prenderlo tra le braccia, sussurrare un incantesimo e lasciarlo cadere a peso morto nel Calderone delle Anime. Questo prese a dimenarsi e divincolarsi, cercando di evitare, in un istinto primitivo, che la pelle entrasse in contatto con le fiamme dell’Inferno. Il bambino si sciolse davanti agli occhi di Joy, un pezzo dopo l’altro, tra urla atroci, sangue denso e ossa mozzate. Gli occhi ancora illuminati di vita che si guardavano attorno sconcertati come a chiedersi quando sarebbe finito quel supplizio. Infine i bulbi e le iridi si fusero insieme, sciogliendosi nel liquido ora denso e del colore della sua stessa carne.
Quello era il fratello di Joy.
Re, regina e i quattro figli iniziarono a cantilenare una ninnananna distorta, una musica all’apparenza soave e fanciullesca che malcelava una cacofonia. Più i loro toni si alzavano, solenni, più Joy si sentiva stordito.
Gridò, non rispose delle sue azioni. Si scagliò come una freccia contro i governatori e spinse i più vicini nel Calderone, senza neanche badare al fatto che il più grande dei figli del re avesse solo dodici anni. Li mandò tutti tra le fiamme e a stento registrò le urla atroci che si liberarono dai loro polmoni. Provò un senso di profonda soddisfazione, però, nel sentirli sciogliersi, nel vedere le loro carni cuocersi mentre erano ancora vivi e sfracellarsi tra le bolle ardenti dell’Inferno.
L’unico rimasto ancora in piedi era il re Lox, che lo fissava sconcertato come se un animale selvaggio fosse appena entrato nel suo giardino privato a distruggergli il pranzo. L’effetto sorpresa durò poco e Joy si trovò presto in posizione di svantaggio.
“Tu,” ringhiò re Lox, sfoderando una bacchetta lunga e dritta di legno chiaro, che rifletteva la luce tetra dello sposalizio inusuale tra luna e sole, “come osi, tu, un Magonò!”
Joy fu colpito prima che potesse agire. Tentò di schivare l’incantesimo, ma questo lo colpì al centro del petto, scagliandolo indietro con una forza disumana e facendolo inciampare e cadere nel Calderone delle Anime.
L’anima di Joy fu l’ultima sacrificata al Tempio della Notte, per un totale di sette.
Il re Lox trovò moglie nuovamente e fece uccidere ogni singolo abitante del suo regno per dare il via a una razza pura, libera da tradimenti e dalla possibilità che un altro vile essere come un Magonò potesse nascere a inquinare la specie.
Si cerca ancora di risalire alla dinastia di re Lox e, ad oggi, sono solo ventotto le possibilità ancora aperte.
Di una sola cosa, però, siamo certi: esiste una sola razza pura.
 
Walburga Black richiuse il libro e alzò lo sguardo sui suoi figli.
Regulus era un po’ preoccupato, un sopracciglio alzato e gli occhi vigili di chi soppesa le parole e ne valuta la veridicità. Non c’era niente da valutare, secondo lei: quella che aveva letto era una favola istruttiva e la verità era contenuta nella sua ultima frase.
Sirius, di contro, la guardava con gli occhi pigri e superiori di chi non si aspettava niente di diverso. Il suo stomaco e la compostezza mantenuta durante le scene più cruente facevano ben sperare in un futuro radioso e in una successione destinata ad avvenire liscia e senza intoppi. Regulus andava decisamente corretto.
“Le ventotto famiglie a cui si riferisce,” iniziò Regulus, il cipiglio che si sposava malissimo con la tenerezza dei suoi sette anni, “le possibili candidate al cognome del re Lox… sono le Sacre Ventotto?”
Walburga annuì. “Le famiglie di sangue puro. Oltre alla nostra, le più famose comprendono i Malfoy, i Rosier, i Lestrange, gli Avery e varie altre che imparerete a conoscere. Voi potreste essere i discendenti di re Lox senza neanche saperlo, ammesso che la storia non sia solo un mito.” La donna sorrise, una smorfia gentile, una smorfia di plastica.
“Noi?” Sirius si accigliò. Walburga pensò che fosse senza ombra di dubbio perché era impressionato e il vago disgusto che vi aveva scorto doveva essere stato un fraintendimento.
“Fin da subito è bene che impariate che mischiarsi con babbani, o peggio, Nati Babbani e Mezzosangue è un offesa al vostro cognome, alla vostra discendenza e alla storia che porta con sé.”
“Nessuno ha mai infranto le regole?” Gli occhi di Sirius brillarono. Sicuramente un trucco della luce.
“C’è stato chi l’ha fatto, sì.”
“E che succede a chi infrange le regole?”
“Adesso non è più nessuno, morto in solitudine, senza una casa a cui tornare e senza un soldo con cui sopravvivere. Pazzi, deviati, traditori.”
“Non è mai nato un Black Magonò?”
Walburga serrò la mascella. “Sì e ha avuto la punizione che gli spettava per aver infettato la stirpe.”
Sirius si alzò in piedi, le labbra che esitavano attorno a un concetto che stava forse ancora elaborando. “Cosa? Ma non è colpa sua!”
Walburga sospirò, lasciando andare, almeno all’apparenza, il nervosismo e il disappunto. Gli appoggiò una mano sul capo e lo osservò trasalire senza motivo. Non lo rassicurò, però, forse con la paura gli avrebbe fatto capire che non era il caso di pensare certe cose. Gli lisciò i capelli e aggrottò la fronte. “Dobbiamo tagliarli. Non è l’aspetto che uno del nostro rango dovrebbe avere.”
Sirius la guardò solo per un attimo, poi rilassò le spalle e abbassò lo sguardo, sconfitto.
Annuì e lanciò uno sguardo di sottecchi a suo fratello.
 
***
 
“SERPEVERDE!”
Espirò, lo sconforto che gli stringeva le viscere, un vuoto nuovo lo ingoiò.
Espirò, perché quella certezza tanto radicata di essere diverso, di essere migliore, di rischiare senza temere e di lasciare che il coraggio prevalesse sull’ambizione, era appena sfumata a mostrare tutte le illusioni su cui si fondava il castello di carte ingenuo dei suoi undici anni.
Le grida gioiose del tavolo della sua nuova casa gli giunsero all’orecchio ovattate. “Perché...” esalò in un sussurro, senza trovare la forza neanche di farla suonare come una domanda. Si alzò controvoglia e si diresse come un automa verso il futuro che gli avevano costruito e che aveva presuntuosamente creduto di poter abbattere.
“Le tradizioni sono dure a morire!” Bellatrix alzò un braccio a cingere le spalle di Sirius. Non si era ancora diretta al suo tavolo, perché era stata smistata appena prima di lui. L’aveva aspettato, all’apparenza per gentilezza, ma il suo sorriso tradiva la pazienza di un avvoltoio.
Fu accolto da Narcissa e da un ragazzo dal viso lungo e le guance già scavate che rispondeva al cognome di Avery e che gli aveva subito dato un senso di viscido. “Mio padre lavora al ministero, Ufficio Internazionale della Legge sulla Magia,” si affrettò a informarlo, subito dopo le presentazioni. Sirius ebbe la sensazione che fosse un biglietto da visita.
“Mio padre è un coglione patentato,” ricambiò lui, sperando che la libertà di poterlo dire ad alta voce avesse l’effetto sperato. Al contrario, l’amarezza più pura gli invase la bocca e lo costrinse a sbuffare, improvvisamente consapevole che non aveva modo di provare la sua differenza. Avery, accanto a lui, sgranò gli occhi e deglutì come se avesse bestemmiato, poi si voltò in silenzio verso un cugino del quarto anno, chiedendogli come stesse la zia Rose.
 
“Stai bene?”
James Potter, nelle sue vesti rosse brillanti Grifondoro, gli afferrò un braccio appena varcate le porte immense della Sala Grande. Sirius si liberò dalla sua presa con uno strattone e aggrottò la fronte. “Che t’importa?”
“Siamo amici, no?”
Lo erano? Una corsa in treno non suggellava Voti Infrangibili, eppure James sembrava più intenzionato che mai a non lasciarlo andar via. Qualcosa, nel suo sguardo, lo costrinse ad aggrapparsi a lui.
“Non significa niente che sei in Serpeverde,” lo rassicurò e Sirius aggrottò la fronte di nuovo, perché senza alcuna garanzia quel ragazzino aveva sentito il suo cognome e ci aveva letto al contrario la sua voglia di rinnegarlo, “sei tu a scegliere che uomo diventare.”
James parlava come se avesse avuto sulle spalle trent’anni in più e la cosa faceva un contrasto che, sulle prime, lo fece sorridere. “Non hai capito niente, invece.”
Il ragazzino soffocò una risata nel naso. “Questa è una buona scusa.”
Non disse altro, scrollò solo le spalle; poi girò i tacchi e se ne andò. Fu un momento soltanto, un momento brevissimo in cui i capelli scarmigliati di James Potter non erano ancora usciti dal suo campo visivo, e Sirius pensò soltanto che quel ragazzo fosse proprio forte. L’autocommiserazione, all’improvviso, non gli parve più tanto allettante.
 
***
 
Un anno era passato proprio in fretta e alla sua vita, ormai, si era aggiunta una debole crepa.
Nulla che rischiasse di spezzarlo, neanche per idea, era una linea poco più che tratteggiata, che lo divideva esattamente a metà. Da un lato la vita normale, dall’altro la libertà. Che le due cose non coincidessero, non gli era mai sembrato un fatto di particolare rilevanza: era semplicemente così che stavano le cose.
James Potter mosse una mano energicamente dall’altra parte della Sala Grande. Stava anche dicendo qualcosa, con ogni probabilità, ma Sirius non riusciva a sentirlo. A dire il vero, non avrebbe mai neanche avuto la fortuna di voltarsi nel momento giusto, se non avesse sviluppato una specie di intesa con James. Semplicemente, sapeva che quello scoppiato voleva qualcosa da lui e Sirius si affrettò a scuotere la testa altrettanto energicamente e a chiudere gli occhi, come a dirgli che non era per niente entusiasta di averlo rivisto.
Accanto a lui sedevano due ragazzi che durante il primo anno aveva sopportato unicamente perché erano con James. Uno era un certo Peter Minus. Sirius non ricordava il suo volto, neanche a spremersi le meningi. L’aveva visto in Sala Grande qualche volta, ma i suoi ricordi sul suo conto finivano lì.
L’altro ragazzo si chiamava Remus Lupin e aveva qualcosa di interessante su cui non riusciva del tutto a mettere il dito. Peccato che ‘interessante’ non avesse sempre un’accezione positiva. Doveva soffrire di qualche malattia, senza ombra di dubbio, perché aveva la faccia rigata da almeno una decina di cicatrici sbiadite e pareva che passasse troppo tempo a dormire. Sirius sospettava che i suoi genitori lo picchiassero e la cosa, in una maniera un po’ codarda che lo imbarazzava a dismisura, lo metteva così a disagio da desiderare di non averci proprio a che fare.
Cosa ci facesse uno come James con Remus e Peter non se lo spiegava.
“Stai attento.” Narcissa interruppe la sua conversazione a gesti con James, scontrando la spalla con quella di Sirius.
“Che?” domandò lui, ancora troppo distratto, voltandosi a malincuore verso sua cugina e aggrottando la fronte. Il divertimento gli morì sulle labbra all’istante e gli angoli della bocca gli si piegarono istintivamente all’ingiù, seguendo il percorso grave della sua famiglia.
Narcissa diede una veloce occhiata al tavolo Grifondoro e scosse la testa un po’ inorridita, poi tornò a concentrarsi su Sirius. “Tocca a Regulus.”
Sirius sospirò e si concentrò sulla Cerimonia di Smistamento.
“Black, Regulus!”
Un ragazzino dalla carnagione pallida e una folta zazzera di capelli neri si sedette timido sullo sgabello. Un silenzio sospeso scese nella Sala Grande. Sirius se lo ricordava benissimo dall’anno precedente, e riuscì praticamente a leggere il terrore liquido negli occhi di suo fratello, quando lo fissò.
Sirius annuì energico in segno di sostegno. La verità era che non sapeva cosa pensare. Avrebbe voluto vederlo avere l’occasione che lui non aveva avuto? Si sarebbe sentito rassicurato se, invece, avesse portato suo fratello con sé, nel baratro delle responsabilità familiari? Ma, soprattutto, Regulus l’aveva capito che sarebbe stato meglio scappare?
Non ebbe il tempo di capire cosa pensasse davvero, perché il cappello gridò il suo verdetto alla Sala prima che potesse decidersi e, soprattutto, con una rapidità che non lasciava dubbi sul risultato.
“SERPEVERDE!”
Regulus fu accolto al tavolo della sua nuova casa da un boato festoso e, in mezzo a quelle grida, c’erano anche quelle di Sirius, che lo afferrò per una spalla e gli piantò una mano proprio al centro della testa, arruffandogli i capelli.
“Falla finita,” si lamentò Regulus, divincolandosi.
“Che ti avevo detto?” Sirius sorrise, “non ti abbandono.”
Regulus tentò ancora di liberarsi. Questa volta, però, sorrideva. “Un vero peccato, perché sei una piaga.”
Sirius rise sguaiato, stringendo la presa sulle spalle del fratello come a sfidarlo a insultarlo di nuovo. “La tua piaga preferita.”
“Guarda che lo so.” Regulus scattò indietro, liberandosi come se fosse sempre stato in grado di farlo.
Sirius aggrottò la fronte. “Cosa?”
“Io lo so che…” Regulus abbassò la voce di qualche tono, guardandosi furtivo attorno, “che non ci vuoi stare qui.”
Sirius scosse la testa. “Qui a Hogwarts? Ti sbagli!”
Regulus si servì una porzione di purè di patate. “Già,” annuì, quasi rassegnato, “sì, qui a Hogwarts.” 
E Sirius, a quel punto, adottò una strategia infallibile che da quel momento in poi sarebbe stata il suo grande biglietto da visita: pensò che se ne sarebbe occupato poi, che sarebbe arrivato un momento, sempre poi, in cui si sarebbe seduto per pensare a tutte le cose che aveva rimandato e con cui non aveva voluto fare i conti.
Il fatto che quel poi potesse arrivare troppo tardi non gli passò neanche per la testa.
 
***
 
“Non lo so, Pete,” James si passò una mano nei capelli, questa volta senza alcuna intenzione di impressionare qualche donzella, ma solo per semplice frustrazione, “diventare Animagus è una buona idea, sai che lo farei per lui.”
“Una buona idea molto pericolosa.”
James lo guardò confuso, aggrottando la fronte come se gli avesse offerto di mangiare un mattone. Che intendeva? Era semplicemente ovvio rischiare la vita per un amico… no? “È una buona idea,” annuì, ma aveva ancora le sopracciglia unite in una smorfia da meningi spremute, “è solo che non ho idea di come fare…” James si bloccò, scoccando un’occhiata rapida a Peter, che lo guardava con gli occhi di uno che aveva perfettamente capito che avrebbe continuato la frase con ‘da solo’.
“È molto pericoloso. Troppo,” reiterò Peter, per sfuggire a quell’imbarazzo e all’improvvisa tensione.
James sospirò e scosse il capo. “Lo so,” convenne e sbuffò sconfitto, “non so cosa mi sia passato per la testa, lascia stare. Vorrei solo che ci fosse un modo per aiutarlo.” 
“Ci inventeremo qualcosa,” cercò di tirarlo su Peter, ma era incerto.
E in fondo aveva ragione, perché una soluzione a quel piccolo problema peloso non la trovarono mai.
 
***
 
Il tempo era passato in maniera strana, in quegli anni e, arrivato al quinto, quella che all’inizio gli era sembrata una piccola crepa, aveva iniziato lentamente a corrodere Sirius dall’interno, a dividerlo e a strapparlo, lasciandolo confuso a chiedersi cosa lo spingesse dove il suo istinto lo guidava.
Odiava dover pensare.
Odiava starsene da solo con se stesso a struggersi e a chiedersi cosa lo facesse sentire così spaccato e incompreso. Quando gli capitava che i pensieri rischiassero di soffocarlo, che il dubbio gli grattasse l’orecchio sussurrando cose strane, che le domande sulla sua identità, sulla voglia di rivalsa e su quell’assurda tendenza a salutare tutti sgarbatamente e spiccare il volo superassero la sua capacità di metterle a tacere, Sirius faceva una cosa della quale era al contrario sicurissimo: scrollava le spalle e si diceva che non era un suo problema.
A volte si chiedeva se questa voglia matta di scappare da se stesso non facesse di lui un codardo, se, intimamente, non sapesse benissimo che pensare l’avrebbe portato a capire che doveva cambiare vita, ammettere che quello che più voleva era scappare e che non era stato uno stupido capriccio a spezzargli il cuore quando il cappello l’aveva smistato in Serpeverde, ma un vero e proprio presentimento.
Sirius non diede mai modo a quei pensieri di esplodere e fu sempre un passo avanti a loro, precedendoli e reprimendoli perché pensare era da deboli, perché ormai era stato costretto a passare un sacco di tempo con Remus Lupin e lui era uno che pensava un sacco, che tornava sui suoi passi e spendeva una quantità di tempo inutile a pentirsi; e Remus Lupin sembrava proprio un debole.
Sirius non era un debole.
“Oh, puoi dirlo forte!” Mulciber annuiva da almeno dieci minuti di fila e Sirius si ritrovò a sperare che, a furia di annuire, riuscisse anche a spezzarsi l’osso del collo. Avrebbe fatto un piacere a tutti, a se stesso per primo.
Avery, il suo pappagallo di fiducia, lo seguì nella danza dei colli spezzati. “Oh, puoi dirlo forte eccome!”
Wilkes era l’unico con un minimo di cervello. Paradossalmente, questo era un problema. Scambiò un’occhiata veloce con Sirius, reprimendo una risata derisoria. “Lo farei anch’io,” ribatté, quella traccia di ironia venne oscurata per un attimo dalla serietà delle sue parole.
“A me sembra un po’ estremo,” considerò Rosier e la risata alta di Bellatrix risuonò come frammentata in mille lame tra le pareti della Sala Comune Serpeverde.
Sirius aggrottò la fronte e sbadigliò. “La prossima volta avvisa, Bella, metto i tappi per le orecchie.”
Lei alzò un angolo della bocca, provocatoria e indignata insieme.
“Non è estremo per niente,” continuò Mulciber, che si stava facendo portavoce della notizia, ma sembrava più che altro uscito da una pubblicità magica stupida. Solo Avery annuì solenne.
“Black,” chiamò Rosier e Bellatrix, Regulus e Sirius esordirono tutti con un ‘eh?’ decisamente diverso.
Bellatrix non vedeva l’ora di essere chiamata in causa, Regulus aveva la stessa faccia che faceva quando la McGranitt faceva una domanda particolarmente difficile e Sirius si sentiva come se l’avessero legato al divano e costretto ad assistere alla conversazione, cosa non troppo diversa dalla realtà, visto che Bellatrix lo fulminava con lo sguardo ogni volta che sbuffava, cioè ogni cinque minuti.
Rosier accennò con capo nella sua direzione. Forse poteva far finta di non aver capito... “Sirius,” fa niente, “che ne pensi?”
“Da quando vi importa cosa penso?”
“Da quando, infatti?” Bellatrix ridacchiò.
“Per una volta do ragione alla pazza.”
“Ti ammazzo.”
“Sì, in un altro universo, in cui finalmente mi libero di te,” ribatté Sirius acido, e Bellatrix scosse la testa con un sospiro, come se fosse bastato a scrollarselo di dosso per sempre.
“Okay, ma che ne pensi?” Rosier proprio non demordeva.
Sirius si morse un labbro. “Regulus, tu che ne pensi?”
Regulus si guardò attorno con quel suo tipico sguardo disinteressato e indifferente, ma Sirius lo conosceva abbastanza da capire che era teso. “Be’, sì,” annuì infine, sfuggendo allo sguardo del fratello e concentrandosi prima su Avery, poi su Mulciber, Wilkes, Rosier e Bellatrix, in un ordine che doveva aver già stabilito in precedenza e che si impegnava a far sembrare naturale, “Meglio non… Sì, meglio una società più…” Bellatrix sorrise, in attesa di un’unica parola chiave che vedeva già viaggiare nelle menti di tutti: “pura.”
Nella Sala Comune scese il silenzio, il gorgogliare del Lago Nero rimbombava adesso più invadente al di là dei muri.
Sirius schioccò la lingua, rompendo quella tensione come se l’avesse costruita lui. “La penso come Regulus,” sentenziò, guardando Rosier negli occhi e costringendolo ad abbassarli dopo poco più di qualche secondo. “Questo Voldemort,” iniziò di nuovo, sfidando Bellatrix con lo sguardo, perché era l’unica che non l’avesse ancora abbassato, che continuava a fissarlo come in attesa che si tradisse e le desse la scusa per andare a cantare la sua ribellione repressa ai suoi genitori. Ma Sirius non si tradì, perché non era sicuro di potersi ritenere diverso da lei, “questo Voldemort farà quello che gli pare.”
“Ma dai,” Mulciber ridacchiò nervosamente: di colpo gli era passata la voglia di riempirsi la bocca di discorsi adulti. Patetico. “Non puoi saperlo.”
“Già, non puoi,” ribatté Avery. Non doveva piacergli il tono sottomesso di Mulciber.
“E perché no? Se qualcuno non lo ammazza prima non vedo che ostacoli dovrebbe incontrare.”
Regulus aggrottò la fronte, perché per la prima volta non aveva idea di dove suo fratello volesse andare a parare e questa perdita di controllo non gli piaceva per niente, perché non avrebbe saputo come rimediare, per l’ennesima volta, alla sua lingua lunga.
“Quindi secondo te scoppia una guerra?” Wilkes sorrise. Forse la guerra gli piaceva.
“Guarda che serve un esercito per fare la guerra,” tentò Rosier.
Sirius scrollò le spalle. “E secondo te avrà problemi a farsene uno?” Poi li guardò tutti. Uno a uno, perché in fondo bastava un’ideologia.
Bellatrix incontrò il suo sguardo e scosse la testa. Non hai superato la prova, sembrava volergli dire. C’era una vena di indignazione in quella domanda, un scintilla di provocazione e sdegno appena visibile ma che Bellatrix si era allenata a captare. Un moto d’orgoglio si accese in Sirius nonostante tutto. Era uno sguardo che gli avrebbe dato problemi, perché Bellatrix avrebbe fatto senz’altro la spia, ma che, senza volerlo, testimoniava la sua divergenza. 
 
***
 
Erano stati giorni strani e confusi, immersi in una coltre di nubi dense e nere che volevano inghiottire tutto, forse anche il futuro.
Mancava qualcosa, una valvola di sfogo, forse, un’attività divertente e che cancellasse per qualche ora l’alito gelido della guerra, il filtro freddo che sembrava schermare ogni colore che non ricordasse l’angoscia. Ci voleva qualcosa, in quella dannata scuola, un evento, una simpatica digressione, un modo per tenersi occupati, uno scherzo.
Ci voleva James, forse, con cui era sempre facile scambiare sguardi d’intesa, ma che gli veniva allontanato sempre di più, man mano che le responsabilità si mettevano tra loro. E quel giorno, pensare a James fu il suo unico conforto.
Faceva freddo. Gennaio non era stato clemente, così come non lo era stata la visita del Signore Oscuro.
C’erano anche Bellatrix, Narcissa e Regulus, tutti seduti al tavolo lungo in ebano come dei condannati a morte. Bellatrix, in particolare, si guardava attorno con una certa curiosità trepidante, fremendo d’impazienza come si fa da bambini con un regalo di Natale ancora incartato davanti.
Narcissa guardava fisso davanti a sé, gli occhi congelati e uno sguardo imperscrutabile.
Regulus esitava.
Dietro di loro, come guardie del corpo fatte di ombre, c’erano i loro genitori e Sirius aveva l’impressione che fossero lì per assicurarsi che tutto andasse come previsto.
Per un attimo soltanto, quando lo sguardo rosso del Signore Oscuro si posò su di lui, un groppo in gola lo costrinse a pensare che quello non era il suo posto, che non credeva nella supremazia dei maghi di sangue puro, che non voleva ereditare la Nobile e Antichissima Casata dei Black, che si sentiva mancare il fiato se pensava a un futuro cupo e spento con una donna che non amava, che avrebbe continuato a reprimere una curiosità sentimentale che gli premeva di esplorare da due anni, che non voleva quello stupido marchio al braccio e che si sentiva di morire, chiuso com’era in una gabbia non troppo stretta, ma che gli lasciava abbastanza aria perché capisse che era poca.
Qualcosa non quadrava, nel sibilo del Signore Oscuro che pronunciava il suo nome e lo elogiava con voce alta e tremante, congratulandosi per l’imminente ascesa: era una presa in giro. Qualcosa proprio non ne voleva sapere di stare al suo posto, perché lui a diciassette anni non doveva essere lì. Non era un rifiuto, la solita tendenza a dare il massimo per essere diverso, semplicemente tutta questa storia non aveva senso.
Non era andata così.
Aggrottò la fronte e deglutì per liberarsi di quella strana sensazione. Lanciò un’occhiata alle sue spalle e lo sguardo algido di sua madre gli fece venire una voglia incontenibile di sbuffare sonoramente, alzare entrambe le gambe e poggiarle sul tavolo, perché sapeva che la faceva impazzire. Evitò, però, scegliendo di alzare la manica sinistra della camicia e mostrare la pelle ancora intonsa dell’avambraccio al Signore Oscuro.
“Scelta saggia,” gli sussurrò, come se avesse letto i suoi pensieri.
La Cerimonia, qualunque cosa significasse, ebbe inizio.
Il taglio bruciava più del normale, il sangue che zampillava si scuriva di attimo in attimo, spandendosi sulla pelle chiarissima fino a diventare nero, mentre Sirius faceva di tutto per non urlare. Aveva lo sguardo di Bellatrix su di lui e il senso di disgusto alla base dello stomaco si acuì tremendamente. Un unico squarcio verticale rimase aperto all’interno del suo avambraccio e Lord Voldemort agitò la bacchetta con un gesto calmo e sicuro.
Il sangue si rapprese di colpo, come se si fosse asciugato da un istante a un altro. Turbinò fino a disegnare la sagoma di un serpente avvolto su se stesso. Il Marchio Nero si mosse appena per qualche altro secondo, come ad assestarsi sulla pelle. Un verme, un millepiedi, un presagio, un inganno. Infine si fermò, i contorni neri e decisi brillavano di potere e di oscurità.
Quando finì, un solo pensiero prese a pulsare a ritmo di martello nella testa: stava per succedere anche a Regulus.
 
***
 
“Salta su.”
James lo guardava dall’alto con un sorriso enorme che sprizzava tranquillità da ogni dente. Sirius lo invidiò per un attimo, uno soltanto, poi alzò gli occhi su di lui, aggrottando le sopracciglia a schernirlo, “non ci salgo su quella cosa mezza rotta.”
James sospirò seccato e gli tese una mano.
Passò qualche altro secondo in cui si studiarono, come a giocare a chi cedesse per primo. “Come ti pare,” acconsentì infine Sirius, scrollando le spalle e afferrandogli la mano con la destra, per evitare che la camicia si alzasse troppo a mostrare l’avambraccio sinistro.
James scese di quota per permettergli di salire, sorridendo vittorioso.
“Mi raccomando, corri,” gridò Remus dal basso, mentre James iniziava già a guadagnare metri. A dire il vero Sirius non aveva neanche capito che stesse prestando attenzione alla vicenda, anzi, si chiese se non se lo fosse immaginato, perché Remus non aveva mai smesso di leggere il suo libro, mordicchiando una matita. Fu certo di aver sentito bene, però, quando aggiunse: “magari riesci a romperti la testa.”
James ridacchiò e si librò in aria.
“Sei sempre così stronzo?” gli domandò Sirius dall’alto, alzando un sopracciglio.
“Tu sei sempre così stronzo?” 
“Sì.”
Remus scrollò le spalle, alzando finalmente gli occhi dal suo libro e schermando il sole con una mano per guardarlo in faccia, “allora sì.”
James aveva la faccia di uno che se la stava spassando. “Avete finito?”
“Non è colpa mia se il tuo amico ha una scopa in culo.”
Remus scoppiò a ridere e Sirius si irritò. “Io non lo direi a cavallo di una scopa.”
“Ha ragione, amico,” James a stento tratteneva le risate, ma non aspettò la carrellata di insulti che senza ombra di dubbio stavano per uscire dalla bocca di Sirius. Sapeva che non aveva fermato il litigio perché era misericordioso. Semplicemente non ce la faceva più a stare fermo a mezz’aria, doveva volare.
James si mosse in avanti con un colpo di reni, compensò abbassandosi in avanti. Il primo soffio di vento più deciso gli sbatté in faccia, arruffandogli i capelli. Inspirò rumorosamente e a fondo. Sirius non era certo di saper respirare così. Si aggrappò a lui abbastanza in fretta da non gridare di sorpresa.
James volò in un paio di giri che contornavano il campo di quidditch, poi superò in altezza gli spalti, puntando al vuoto. “Lo sai che rischiamo una detenzione, vero?” gli domandò, perché in fatto di infrazioni non lo conosceva poi così bene.
Sirius trattenne una risata nel naso, “cos’è la vita senza un piccolo rischio?”
James rise sguaiato e annuì più volte, sfrecciando oltre il campo di quidditch e oltre il terreno di Hogwarts, sopra le acque placide del Lago Nero.
“Vai più veloce,” gli intimò Sirius, reclinando la testa all’indietro e inspirando un pizzico di quella che non poteva che chiamarsi vita. Le responsabilità e l’oscurità lasciate a terra e scambiate con cinque minuti di libertà. Forse era capace anche lui.
James non se lo fece ripetere due volte. Sfrecciò verso l’alto, per poi incurvare la traiettoria e scendere a spirale avvicinandosi alla superficie del Lago.
Sirius colse il momento in cui sfiorarono l’acqua per sporgersi con un braccio e immergere appena le dita.
“James.”
“Mh-mh.” James prese un’altra boccata di quell’aria geniale che produceva la loro velocità e spinse il capo indietro, per assicurarsi di sentirlo.
Sirius esitò, improvvisamente gli pulsava il braccio sinistro. Quello fu il momento in cui fece una scelta. “Non importa cosa accadrà o cosa sentirai sul mio conto,” iniziò, superando il vento con la voce ma non riuscendo a urlare in nessuna maniera, “io sarò sempre dalla tua parte.”
James si voltò per un attimo a guardarlo, le sopracciglia aggrottate e uno sguardo che stonava troppo con la leggerezza di quel momento. Sirius abbassò involontariamente lo sguardo sull’avambraccio e James lo seguì rapido, per poi risalire sui suoi occhi.
Tornò a concentrarsi sulla direzione della scopa e annuì con un sospiro, gli occhi consapevoli di qualcosa che in fondo non avevano neanche visto. “Lo so.”
Sirius annuì, il peso del suo dubbio su chi fosse e cosa volesse che si alzava come se fosse sempre stato fatto di fumo. Si sentì leggerissimo, così tanto che, se avesse voluto, avrebbe potuto volare senza scopa. “Perché ci abbiamo pensato solo adesso?”
“A cosa?” chiese James.
“Al fatto che se finiamo in detenzione possiamo stare insieme.”
Lui sgranò gli occhi e si fermò a mezz’aria. Si voltò lentamente verso Sirius, un sorriso furbo che già si specchiava perfettamente nel suo.
“Qual è la finestra dell’ufficio della McGranitt?”
Sirius puntò col dito alle loro spalle. James sfrecciò come se avesse voluto andare a sbatterci contro e, poco prima dell’impatto, si esibì in una quantità impressionante di acrobazie pericolose. Sirius fece di tutto per farle sembrare più sconsiderate.
Si sentì tremendamente a posto.
Il cappello si era sbagliato.
 
***
 
“Ho poco tempo.”
Sirius entrò in casa di James e Lily misurando i suoi passi, il pavimento poteva bruciarlo? Remus alzò gli occhi su di lui e lo salutò con un cenno del capo. Aveva le labbra screpolate e lo sguardo iniettato di sangue di chi non dormiva da giorni.
James gli andò incontro, ma non c’era traccia della leggerezza del suo carattere. “Non te ne rubo troppo,” mormorò, continuando ad avere probabilmente la mente altrove. Sirius rischiò uno sguardo in direzione di Lily: lo stava studiando. Per un attimo, temette il verde dei suoi occhi.
“Che devo fare?”
“James, è una pessima idea,” lo avvertì Remus, lo sguardo che lo implorava di dargli retta e una rassegnazione che non lasciava dubbi sul numero di volte in cui l’aveva messo in guardia sulla questione.
“Non lo è per niente,” continuò lui, sembrava aver perso la testa o aver assunto troppa caffeina, i capelli che formavano angoli anche più ardui del solito, “è insospettabile.”
“E un Mangiamorte,” aggiunse Remus, dandogli una rapida occhiata e scuotendo la testa, “ti ricordo che loro li chiamiamo anche nemici.”
Sirius fece schioccare la lingua e, forte delle informazioni che lo schieramento di Voldemort gli aveva dato, ribatté: “E tu sei un lupo mannaro, ti ricordo che loro li chiamano anche mostri.” Sorrise, quando Remus fissò uno sguardo sconcertato nel suo.
“Basta,” dichiarò James, “non avevi poco tempo?”
Sirius scrollò le spalle e lanciò un altro veloce sguardo a Lily e alla diffidenza che aveva negli occhi. Sfruttò quell’attimo di silenzio per spostare la tenda di una delle finestre più vicine e dare un’occhiata in giro: in effetti era già lì da troppo.
“Sarai sempre dalla mia parte, dico bene?” iniziò James e Sirius annuì deciso al ricordo di quelle parole, guardandolo finalmente negli occhi per dimostrargli che era sincero.
Remus sospirò, portandosi una mano tra i capelli e chiudendo gli occhi frustrato. A Sirius sembrò il ritratto dello stress.
Incanto Fidelius,” lo informò James e Sirius si morse un labbro perché riusciva già a tracciare i contorni del piano, “vuoi essere…”
“Il Custode Segreto,” finì per lui, riducendo le labbra a una fessura e prendendosi un attimo per ponderare. James annuì, aveva i sensi all’erta come quelli di un animale pronto a scappare da un momento all’altro. Lo sguardo che gli rivolse, però, era della più profonda fiducia.
“Per lui sarà impossibile trovarci. Non vedrà mai questa casa, mai, né sentirà alcun pianto, risata o respiro all’interno di essa,” spiegò, come se gli fosse servita una lezione, “a meno che…”
Sirius annuì mesto. A meno che il Custode non riveli il segreto.
“Remus è troppo ovvio, lo metterei in pericolo, mentre tu…”
“La mia famiglia lo sa, che ti conosco,” lo avvertì Sirius, dando un’altra rapida occhiata alla finestra e percependo distintamente gli sguardi di Remus e Lily voler scavare nei suoi pensieri.
“Ma non sa quanto.”
Sirius aggrottò la fronte. “Non puoi chiederlo a…” James attese, mentre il resto della frase gli moriva sulle labbra. Sirius stava pensando a qualcuno, qualcuno che sarebbe stato perfetto per quel compito. Insospettabile, che sapeva passare inosservato, qualcuno a cui il Signore Oscuro non sarebbe mai arrivato a pensare, ma il suo nome gli sfuggiva, il suo viso e il suono della sua voce anche di più. “Non avevi un amico… Va bene,” cedette Sirius, perché forse si era sbagliato, forse quella sensazione che mancasse qualcuno non significava niente, forse stava pensando a se stesso.
Qualche ora dopo, il patto era stato stipulato.
 
***
 
Il mattino successivo era il 21 agosto del 1981 e Bellatrix, che adesso rispondeva al cognome di Lestrange, fece il suo ingresso rumoroso nel quartier generale. Bellatrix, in quell’odio, sembrava a casa.
“I traditori del sangue!” gridò trionfale, con uno sdegno lontano addirittura dai toni del suo Signore. “Travers, Dolohov, a casa del lupo mannaro. Lui e McKinnon non devono restare in vita per nessuna ragione. Ammazzate anche i figli.”
Sirius deglutì e osservò Travers e Dolohov annuire e smaterializzarsi in un lampo. Bellatrix rise, una luce negli occhi così sincera che sarebbe stata degna dell’eredità della Nobile e Antichissima Casata dei Black.
Mulciber e Avery fecero un passo avanti. “Noi andiamo dai Potter e…”
“No!” gridò lei, gli occhi sgranati a minacciare di scappare dalle orbite. “No, loro sono del Signore Oscuro.”
Rimandare i pensieri fino alla fine era stato un sogno così luminoso che aveva finito per accecarlo. In una vita in cui scegliere con chi fare amicizia significava scegliere uno schieramento in una guerra, Sirius aveva sempre adottato l’unica strategia che gli aveva fatto credere di poter superare in astuzia quell’ostacolo: non scegliere.
Rimandare il pensiero a poi, consapevole che forse quel poi sarebbe arrivato troppo tardi, a un passo dalla morte sua o di qualcun altro. E Sirius, nelle mura asfissianti del numero 12 di Grimmauld Place, aveva capito che evadere era stata un’utopia, che sperare che un giorno avrebbe trovato la forza di lasciarsi quella casa alle spalle era semplicemente inutile. Nell’aria pesante di tutto quel lusso ci era annegato, confinato in un marchio su un braccio a dimostrare tutto il suo fallimento.
Lo squarcio che lo divideva a metà, quando aveva confessato la residenza dei Potter, si era di colpo ricucito, lasciando una cicatrice lunga e che correva verticalmente a ricordargli che un tempo era stato diviso e che adesso non lo era più.
E, se ‘la storia del calderone delle anime’ era vera e bastava il sacrificio di sette anime per salvare il mondo, Sirius sperò ingenuamente che, almeno, James, Lily e Harry, insieme a Remus, Marlene e i loro figli, potessero essere il suo.
Era stata davvero tutta colpa del cappello? L’aveva deciso lui che Sirius non era diverso come credeva o erano state le sue scelte a plasmarlo, mentre innocente dava la colpa al destino? Le parole di James, a undici anni e con gli stessi occhi colmi di speranza che gli aveva visto l’ultima volta, gli risuonarono in testa come quelle dei ricordi che si hanno solo di una persona già morta.
 
“Non significa niente che sei in Serpeverde. Sei tu a scegliere che uomo diventare.”
 
Sulla sedia lucida della sua miseria, Sirius trovò il modo di sentirsi a posto.
Il capello non si sbagliava mai.
 
***
 
Giugno, 1993
 
“È colpa mia!” gridò, battendo un pugno contro la pietra congelata di Azkaban. I sensi si acuirono, i rumori erano meno ovattati. Si grattò il braccio, prima piano, quasi sfiorando il tatuaggio con la punta delle dita, poi sempre più deciso, fino a scavare con le unghie incrostate sulla pelle sporca, il bisogno di staccarsi a morsi l’avambraccio sempre più impellente.
“Chi è?” Serpente sbuffò nervoso, a qualche cella di distanza.
“Black, credo,” Iena rantolò, ancora provata dopo un incontro ravvicinato coi Dissennatori, la voce sempre intrisa di una certa viscida ironia.
“E ci ha messo, quanto, dodici anni a capire che è colpa sua?” Coniglio ridacchiò. A fare i conti era un asso, a quanto pareva, perché era l’unico che sapesse che giorno era.
“Mi gioco un rene che è impazzito,” si intromise Orso.
“Già è tanto se ne hai uno.”
“James…” Sirius mormorò, mentre le parole si accavallavano tese in un modo troppo simile a quelle di Walburga nei suoi ultimi giorni di vita. “Lily, Remus… io li ho… Ho tradito.”
“Datti una calmata o ti giuro che rompo queste sbarre e vengo a tagliarti la gola,” minacciò Serpente, “tieni, distraiti,” consigliò poi e, dal buio denso di un cella a sinistra, spuntò una copia insudiciata della Gazzetta del Profeta.
“Siamo chiusi qui dentro e non ne usciremo mai,” si lamentò Sirius, afferrando la copia del giornale solo per sventolarla a sottolineare la sua inutilità, “cosa vuoi che m’importi di…” gli occhi gli caddero sulla prima pagina: una famiglia di maghi festeggiava la sua vittoria alla lotteria sfoggiando una serie di sorrisi che, dopo tutto quel tempo passato a soffrire, gli parvero smorfie repellenti. Non erano stati i loro sorrisi a zittirlo, bensì un dettaglio tanto inutile quanto vitale. “Un topo.”
“Ti ho dato quel giornale per farti stare zitto, non per darti a parlare.”
Sirius lo ignorò, gli occhi che si aggrappavano all’immagine come se nella vita non avessero dovuto guardare altro. La realtà gli piombò nuovamente addosso. Di colpo non aveva idea di come avesse fatto a passare dodici anni tra quelle mura.
“Peter Minus è vivo.”
Ricordò mentre le immagini di un tempo sicuramente vero si mischiavano cancellando quella messinscena troppo dolorosa che la sua testa gli aveva proposto.
La stessa rabbia di un tempo gli invase il petto come se fosse scoppiata per la prima volta. Il topo senza un dito che si muoveva sulla spalla di un ragazzo era l’unico motivo al mondo per cui la vita nuova e scintillante che avevano finalmente avuto la possibilità di vivere era sfumata nel dolore.
Gettò uno sguardo rapido sul suo avambraccio. Al posto del Marchio Nero non c’era altro che sporcizia e sangue incrostato. La vita che aveva creduto di avere, la costante sensazione di essersi sentito diviso, chiamato ogni giorno a rinunciare senza obiezioni alla sua libertà, il ritrovarsi a desiderarla sempre più ardentemente, questa libertà, e allo stesso tempo a vederla allontanarsi e, infine, la scelta ultima, l’errore più grande e l’assuefazione… c’era una sola persona che aveva avuto quella vita e non era lui. A distanza di anni Sirius aveva vissuto, almeno nella sua testa, la vita di Regulus Black.
Mentre progettava febbrile la sua fuga da Azkaban, la caccia a Harry e la vendetta su Peter Minus, Sirius affiancò alla rabbia e all’odio per il fratello un briciolo di compassione. 
Un mese dopo se la sarebbe già dimenticata.







 
Note di El: Un po' di tempo fa scrissi nelle note che magari un giorno avrei davvero scritto la storia del calderone delle anime. Giuro che quando l'ho fatto non era in programma. Scusatemi tutti i nomi di tre lettere, ma ho una fissazione, quando tocca a me dare nomi ai personaggi. Sì, comunque, c'è un nome sulla tappezzeria di Walburga cuore di fata che è stato cancellato perché era un Magonò :((
Okay, la finisco di fare finta che questo capitolo non sia un "SCUSAMI, EH?" però vi giuro che è stato la mia morte, la mia croce e il mio "ma chi me l'ha fatto fare?". Starei qui a dare spiegazioni sul perché Peter venga dimenticato nella seconda parte del capitolo, sul perché Remus e Sirius si odino o sul matrimonio improbabile Marlene/Remus, la loro morte e il tradimento senza basi di Sirius... e all'inizio per paura che questo capitolo AU fosse un totale fallimento avevo anche in programma di mettermi a giustificare certe scelte, ma ora sono convinta che sia meglio non farlo, perché l'unico modo che ho per sapere se funziona è proprio non dirlo, quindi vabbé, sono terrorizzata e non penso di avere manco la capacità di mettermi a fare una cosa del genere, ma nel complesso sono soddisfatta. Non del capitolo, di quello no, ma del fatto di averlo finito e di non aver cestinato l'idea. Ad ogni modo spiego però perché questo cambio del canon, giusto perché non c'entra niente con la trama. Di nuovo, per me è una sorta di immagine mistica e divina quella di questo ministro che viene a fare l'ispezione ad Azkaban e allunga un giornale nella cella di Sirius e per fortuna è quello in cui c'è il topo... cioè ma che senso ha? In più la cella di isolamento in una prigione come Azkaban, dove tutti hanno lo stesso destino, mi pare un po' un lusso più che una punizione. In ogni caso ha un po' senso l'idea di un isolamento. Quindi Coniglio, Iena, Serpente e Orso vedeteli come volete, se veri detenuti o manifestazioni di follia.
Con la fifa in corpo mi scuso se questo delirio è stato un po' improvviso e non richiesto e capisco benissimo se adesso mi volete prendere a sassate. In ogni caso, se siete arrivati fin qui, vi ringrazio proprio AAAAAAAH grazie mille bbbbelli per aver letto pure 'sta cosa e vi giuro che dal prossimo capitolo cambiamo proprio tono e inizia il quinto anno -- e sappiamo tutti cosa vuol dire quinto anno yeeeee.
Grazie di nuovo <3

El.

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 - Il più malandrino ***


15. Il più malandrino

 





L'ultimo giorno di agosto
 
“Fermo!” Sirius sgranò gli occhi e piantò una mano sul petto di Remus, spingendolo indietro. Si portò un dito alle labbra per invitarlo a fare silenzio, poi distolse lo sguardo e si guardò attorno furtivo.
Remus annuì in segno di ringraziamento, improvvisamente conscio del pericolo in cui si era quasi cacciato. Si abbassò mantenendo lo sguardo alto e preparandosi a correre nel caso in cui si fosse rivelato necessario. Abbassò gli occhi solo il tempo di raccogliere una pietra, poi tornò in piedi e scandagliò il prato davanti a sé, soppesando il sasso distrattamente.
Sirius si appiattì contro il tronco di un albero e fece segno a Remus di procedere.
Il sasso atterrò innocente in uno spiazzo senza alberi e lì rimase per qualche secondo, gli insetti ronzavano ignari dei respiri mozzati dei due ragazzi qualche metro più in basso.
“Abbassati!” gridò Remus, afferrando Sirius per un polso e strattonandolo verso il basso. Il terreno attorno al sasso esplose all’improvviso, facendolo saltare in aria e rivelando attorno a sé un autentico campo minato.
Remus aggrottò la fronte e cercò di concentrarsi per avere un quadro completo della situazione e comprendere come agire.
Ma Sirius non era della stessa idea. Prima che Remus potesse fermarlo, si liberò dalla mano e si lanciò letteralmente nel campo minato, evitando il terreno a rischio come se avesse seguito un percorso.
Ci voleva molta concentrazione, però, per saltare tra una bomba e l’altra. Forse troppa, così tanta da non lasciargli la possibilità di vedere la canna della pistola che aveva puntata contro.
“Sirius!” Remus cercò di avvertirlo e il ragazzo si voltò a guardarlo, solo per un attimo, prima che i suoi occhi si riempissero di stupore e il proiettile lo colpisse alle spalle, spezzandogli il fiato in gola.
Remus sgranò gli occhi e si portò in fretta una mano al fianco, tirando la pistola fuori dalla fondina e alzando l’arma contro il nemico. Sparò due colpi a sangue freddo, entrambi mirati al petto e lo vide crollare sul prato gridando.
Aspettò qualche attimo, per assicurarsi che nessun altro fosse nei paraggi, poi superò veloce il terreno di bombe e si accovacciò accanto a Sirius, poggiando la pistola accanto alla fondina. Si premurò soltanto di lanciare un’ultima occhiata al cadavere poco più dietro, per essere certo che fosse un vero cadavere. Quando non si mosse, tornò a guardare Sirius. Respirava a fatica, un rivolo di sangue gli colava dalla bocca e Remus aggrottò le sopracciglia, il primo lampo di stupore e preoccupazione gli balenò negli occhi da quando aveva acconsentito a seguirlo in quella missione stupidissima da cui non era riuscito a dissuaderlo. “Sirius…” tentò, confuso su come comportarsi e incredulo alla vista del sangue.
Ma non ebbe il tempo di fargli altre domande, perché lui sgranò gli occhi e prese a fissare allarmato un punto dietro la sua testa. Remus lo guardò per un attimo di troppo, cercando di mettere insieme i pezzi.
Con un ultimo barlume di forza, Sirius afferrò la pistola che il suo compagno gli aveva poggiato accanto, alzò un braccio come se gli fosse pesato più della sua stessa vita e mirò a un soffio dalla testa di Remus. Sparò una, due, tre volte, facendo strillare l’avversario, che stramazzò a terra subito dopo.
“Sirius, ma che…” tentò ancora Remus, la più totale confusione dipinta negli occhi e un angolo delle labbra alzato in meravigliato stupore.
“Le…” Sirius prese fiato e tossì altro sangue. Remus sgranò gli occhi e si guardò attorno, indeciso se chiedere aiuto o cercare uno striscione che gli dicesse ‘ci sei cascato!’, non fece nessuna delle due cose, perché Sirius attirò nuovamente la sua attenzione, alzando una mano sulla sua guancia e costringendo Remus ad aggrottare la fronte, “le stelle sono… bellissime.”
“È… è giorno.”
Sirius annuì, poi la mano scivolò a peso morto dalla guancia, ricadendo tra i fili d’erba alti. Chiuse gli occhi, che tremarono per un attimo sotto le palpebre.
“Sirius,” lo chiamò Remus, scuotendo la testa, “scusami, ma cosa diavolo stai facendo?”
James, steso poco più in là, dove aveva tentato di colpire Remus alle spalle ed era stato sparato dalle eroiche gesta di Sirius, si alzò a sedere contrariato. “E infatti! Se ti sparano devi morire.”
Sirius tenne gli occhi chiusi ancora per qualche attimo, gustando il sapore teatrale della tragedia, poi li aprì seccato e si ripulì dal terriccio del giardino di casa Potter. “Ma non è realistico!”
James si alzò e, con le sopracciglia aggrottate e una smorfia offesa, si diresse dove Sirius era appena morto. “Ma non è realistico neanche che ci metti dieci minuti a morire!”
“E poi hai sparato a James dopo che Peter ha sparato a te,” gli diede man forte Remus, scrollando le spalle, “se ti sparano devi morire. Sono le regole.”
“Grazie a me hai vinto, Lupin, non farglielo notare.”
“Ma che hai in faccia?” domandò James, concentrandosi invece sul sangue che ancora colava sul mento e sul collo di Sirius.
“Me lo sono chiesto anch’io... e mi è preso un colpo.”
“È sangue finto,” spiegò Sirius, infilandosi un dito in bocca e tirando fuori una sacchetta minuscola di plastica sporca, “l’ho trovato in un negozio babbano vicino Diagon Alley. Lo metti in bocca, lo mordi, si spacca... e sembra che sanguini,” spiegò, mostrando quell’intruglio agli amici con un orgoglio che, almeno secondo Remus, era totalmente fuori luogo.
James, però, non fu dello stesso avviso, perché sgranò gli occhi e si avvicinò. “È geniale,” commentò annuendo, come se fosse stato da sempre compito suo decidere cosa fosse degno di essere considerato utile.
Sirius annuì, passando la sacchetta di plastica a James. Remus lo trovò semplicemente disgustoso, ma non interruppe quello scambio di liquidi.
“Pete,” chiamò dunque, lasciando James e Sirius alle loro strane alleanze, “è finito, ti puoi alzare.”
“Mi hai sparato!” si lamentò il ragazzo, alzandosi a sedere e grattandosi un occhio. Puntò un dito contro Remus, che si stava avvicinando a lui con un sorriso.
“Tutto è lecito in amore e in guerra.” Si strinse nelle spalle, poi gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi. Peter la guardò sospettoso per un attimo, poi la accettò.
“Era una vendetta!”
“Mi avresti ucciso, no?”
James si intromise prima che Peter potesse rispondere. “E bravo Cuor di Leone, ‘vai avanti tu’, mi ha detto, poi è morto prima lui.”
“Capirai, Jamie, sei durato tre minuti…” lo attaccò Sirius, poi si bloccò, un principio di sorriso malizioso gli spuntò sulle labbra.
Remus ridacchiò accanto a lui. “La prossima volta impegnati di più, per una performance più…” finse di pensarci un attimo, poi continuò: “soddisfacente.”
James alzò gli occhi al cielo quando Sirius scoppiò a ridere e diede il cinque a Remus. “Davvero originali.”
“Io ho fame,” annunciò Peter, che pensava da tutto il giorno alle girelle alla cannella della madre di James e non aveva tempo per star dietro ai loro doppi sensi, “torniamo dentro?”
James scrollò le spalle e si avviò a passo spedito verso casa, seguito dai suoi amici.
 
***
 
Il paesaggio scozzese scorreva loro davanti in silenzio, come timoroso di disturbare. L’aria di settembre non era poi troppo diversa da quella del giorno prima, ma il solo fatto che le vacanze estive fossero finite l’aveva resa già più fresca.
“Signor Prefetto, lei che dice?” Sirius si allungò col gomito a sfiorare Remus, strizzandogli l’occhio dal basso con un sorriso che già non gli piaceva.
“Dico che non vi stavo ascoltando, ma la risposta è no.”
James rise. “Dovresti darci almeno un po’ di fiducia.”
“Lascia stare, James,” Sirius alzò gli occhi al cielo e tornò a sedersi composto, poi incrociò le braccia al petto, “ormai è un prefetto, ha smesso di fare il malandrino in giro per il castello.”
Peter sapeva che Sirius avrebbe fatto un dramma per la questione delle responsabilità di Remus. Quando erano arrivati a casa di James lo avevano già trovato lì, sprizzante impazienza e trepidazione per la nuova e fantastica carrellata di scherzi che avrebbero messo a punto. Quando Remus aveva tirato fuori la storia del Prefetto, Sirius si era zittito all’istante, un luccichio di paura che Peter non aveva saputo spiegarsi ben chiaro negli occhi. Aveva quindi cercato di non intromettersi troppo nella faccenda, perché Sirius non aveva mai una parola gentile per nessuno, ma per Peter sembrava sempre sforzarsi per trovarne di peggiori.
All’udire di quella strana parola, però, scoppiò a ridere.
“Ma cos’era?” domandò Peter ridendo, interrompendo la mole immensa di informazioni che Sirius aveva preso a snocciolare su David Bowie, il suo babbano preferito e la ragione per cui si era iscritto al corso di Babbanologia, oltre che per il divieto imposto dai suoi genitori, ovviamente.
“Cosa?”
James scoccò un’occhiata complice a Peter e rise con lui. “Malandrino. Te l’hanno insegnata insieme a ‘genuflettere’ e ‘apotropaico’?”
Peter smise di ridere, perché non conosceva quelle parole.
“‘Malandrino’ è una parola normalissima,” si difese Sirius, sorridendo un po’.
“Già,” convenne James, riflettendo a specchio l’ennesimo suo sorriso, poi si rivolse a Remus, “stavamo parlando della mappa. Ci resta solo l’incantesimo difficile che localizza le persone, ma quest’estate io e Sirius abbiamo pensato che fosse troppo rischioso avere una mappa, così, in giro.”
Remus distolse lo sguardo dal paesaggio che correva oltre il finestrino del treno e alzò un sopracciglio. “Sì, è vero, basta che ce la requisiscano una sola volta e abbiamo buttato all’aria un anno di lavoro.”
James annuì. “Potremmo farla sparire.”
“Intendi con l’inchiostro simpatico?” si intromise Peter, alzando un sopracciglio confuso.
“No, come una parola d’ordine che permetta di vederla. Senza quella è solo una pergamena vuota.”
Remus lo guardò fisso per un attimo con quell’espressione strana che aveva solo quando tramava uno scherzo: James la adorava. “Perfetto.”
“Prefetto,” si intromise Sirius e Remus, per la prima volta, gli sorrise. Forte di quell’approvazione, Sirius continuò a esporre il piano. “Ovviamente ci vuole una parola d’ordine anche una volta finita di usare. Qualcosa che faccia sì che l’inchiostro si cancelli di nuovo.”
“Per quella non c’è problema,” lo interruppe Peter, sorridendo furbo. I tre ragazzi aggrottarono tutti le sopracciglia, ma Peter si limitò ad alzare gli occhi poco più sopra la cornice dello scompartimento.
Fatto il misfatto,” lesse James, lì dove tre anni prima avevano inciso e marcato il territorio dell’Hogwarts Express. La cornice tagliata dal vecchio lenzuolo di Walburga Black, che aveva vendicato non molto tempo dopo con un incantesimo ben assestato, si stagliava ancora orgogliosa e grondante polvere, ma miracolosamente intatta.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata complice, poi annuirono.
“Non male.” Remus spezzò quella contemplazione alzandosi dal seggiolino. “Io ho una riunione per gente noiosa e responsabile,” iniziò, guardando Sirius, “ma dobbiamo trovare un modo per proteggerla da chi tenti di usare Revelio, magari insultandolo,” buttò lì, aprendo già la porta dello scompartimento, mentre indossava di fretta il suo mantello, “fatti valere per il malandrino che sei e concludi questa mappa,” intimò ironico a Sirius.
James, però, contro ogni aspettativa, si alzò di scatto e salì in piedi sul seggiolino. “Lupin, tu sei un genio!”
Remus alzò un sopracciglio e cercò un minimo di spiegazione negli occhi di Peter e Sirius.
Non ne trovò.
“La Mappa del Malandrino!”
Sirius sussultò, conscio delle potenzialità infinite di quel nome.
 
***
 
“Noi siamo fregati!” James si ficcò entrambe le mani nei capelli, la voce intrisa di frustrazione e un pizzico di rassegnazione.
Il quinto anno era famoso per essere decisivo.
Il primo cerchio per diventare maghi fatti e finiti si chiudeva con i G.U.F.O, gli esami di fine anno, ma si vociferava che i cambiamenti che portava con sé non si limitassero affatto a un banale pezzo di carta.
E in effetti avevano passato solo una settimana a Hogwarts e già le novità non avevano tardato a mostrarsi.
Tanto per cominciare, Remus non aveva potuto fare a meno di notare che Sirius e James erano tornati in quella scuola come se ne avessero avuto le chiavi. Erano diventati quel genere di ragazzi da cui i genitori ti pregavano di stare lontano e Remus stesso, se fosse stato un genitore, avrebbe senz’altro optato per un simile consiglio. Ma non era un genitore e più loro si davano arie, più lui aveva modo di sfotterli. Era un accordo più che soddisfacente, per lo meno.
Peter, invece, sembrava l’unico fossile della situazione. Non era cambiato molto, se non per una più rilassata attitudine e una tendenza a rispondere per le rime e non scappare dalle conversazioni che pensava di poter perdere. A pensarci bene, in realtà, questo non era un cambiamento da poco e Remus provò a immaginarselo, in un futuro non troppo lontano, sbottare finalmente e concedersi di offendersi o addirittura di sbraitare. Forse sarebbe uscito dall’ombra in cui si era nascosto, forse grazie alla sicurezza contagiosa di Sirius e James, forse invece esattamente per demolirla e liberarsi… di James.
C’era una sola nota stonata in un rapporto che per tutti era inverosimile e che per loro era la cosa più ovvia ed equilibrata del mondo ed era che qualcosa, almeno ai suoi occhi, proprio non quadrava.
Nell’ultima settimana il dormitorio era diventato un posto strano. Un posto in cui libri dalle copertine illeggibili venivano chiusi di scatto quando lui entrava senza bussare, in cui i sussurri tra Peter, James e Sirius cessavano di colpo quando lui era a portata d’orecchio. Era diventato un luogo in cui qualche notte, quando credevano che stesse dormendo, si rintanavano tutti e tre in un solo letto, parlavano concitati per qualche minuto e poi il nulla di un Incantesimo Silenziatore gli rendeva di colpo impossibile capire cosa stessero combinando.
Remus si sentiva lasciato indietro a tutti gli effetti.
Cercava di non darci troppo peso, ma era semplicemente inutile.
Il quinto anno aveva cambiato anche lui, per quanto si ostinasse a negarlo. Le trasformazioni erano aggressive, le ferite troppo profonde per dare la colpa al coniglio assassino e la convalescenza troppo lunga. Iniziava a credere che non ce la facessero più, che non potessero reggere il suo ritmo o stargli dietro quando nuovi fantastici mondi si affacciavano ai loro occhi, uno più divertente di un altro. E come dargli torto? Avrebbe voluto permetterseli anche lui.
Si era anche chiesto se la questione del prefetto non avesse tracciato una linea indelebile a escluderlo da ogni scherzo, se non pensassero che volesse tradirli.
A essere onesti, Remus era arrabbiato.
La paranoia gli diceva che non ne aveva diritto, che non valeva niente e che non poteva concedersi il lusso di prendersela con qualcuno, perché era già fuori dal comune il fatto che uno come lui avesse degli amici. Ma Remus non poteva farci niente; la sicurezza di James e Sirius sapeva essere contagiosa, d’altronde, e lui sapeva di avere tutto il diritto di prendersela con loro.
Remus era furioso.
Lo era con Peter, con Sirius e, soprattutto, lo era con James. James che avrebbe fatto di tutto per far stare bene un amico, che valutava l’amicizia come la forma più schiacciante d’amore, che diceva che sarebbe morto per ognuno di loro tre volte e che, se ce ne fosse stato bisogno, sarebbe resuscitato anche solo per tener loro compagnia.
James, che era l’amico perfetto, si era arreso con lui, ma non aveva perso un attimo a invitare Sirius a stare da lui per il resto dell’estate quando a Grimmauld Place le cose si erano messe male.
E adesso che aveva proclamato che ‘lui e Sirius erano fregati’, Remus sapeva benissimo quale sarebbe stato il loro parafulmini, il loro salvatore lasciato indietro.
“Non so neanche dove mettere le mani,” gli diede ragione Sirius, grattandosi la barba che non aveva e fissando un punto nel vuoto.
“Benvenuti nel mio club, non credevo che vi avrei mai visti,” li prese in giro Peter. Aveva un libro straordinariamente grande appoggiato sulle gambe e sorseggiava del succo di zucca da una cannuccia.
“Non è divertente,” asserì James, tornando con le mani nei capelli, “Pete, non puoi aver vissuto così per cinque anni!”
Peter scrollò le spalle e prese un altro sorso di succo.
“Io… di questa roba non so niente.” Sirius sfogliava sconcertato un libro di pozioni come se gli fossero spuntate orecchie e coda. “Vuol dire che…” iniziò, ma doveva avere un grosso groppo in gola per essere interrotto dalla sua stessa deglutizione.
James aggrottò le sopracciglia e sospirò, “Vuol dire che…” lasciò vagare gli occhi sul suo libro come se fosse stato scritto in cinese.
“Vuol dire che quest’anno dobbiamo studiare?”
Peter scoppiò a ridere, ma James annuì mesto. “Io e te dobbiamo studiare.”
Sirius e James dovevano studiare.
Quello era il loro problema. Per la prima volta in cinque anni non se la sarebbero cavata con un’occhiata agli argomenti del giorno e una più o meno alta attenzione in classe. Avrebbero dovuto studiare.
“Remus,” iniziò Sirius, alzando un sopracciglio come se, in fondo, avesse percepito il suo umore e avesse temuto che di lì a qualche secondo gli avrebbe staccato la testa a morsi, “ci aiuti?”
Oh, adesso avete bisogno di me. Remus sospirò, la voce paranoica nella sua testa ancora troppo testarda per permettergli di sbottare. Annuì, ma serrò la mascella e spostò lo sguardo su James. “Tu hai bisogno di una mano o lasci che chieda lui per te?”
James aggrottò la fronte e scambiò un veloce sguardo con Peter e Sirius, poi annuì piano. “Ehm… se puoi sì, mi dai una mano?”
Remus annuì, poi tornò a guardare Sirius. “Immagino che, come prefetto…”
“Come Malandrino!” si affrettò ad aggiungere Sirius.
“Ah, adesso sono un Malandrino?” un sentore di ironia gli colorava già la voce.
“Il più Malandrino,” assicurò Sirius, “il tuo nome sarà il primo sulla mappa, lo giuro.”
“E il mio l’ultimo!” incalzò James e, sebbene fosse chiaro che quella fosse una sviolinata bella e buona, Remus decise di strappargli qualche altro privilegio.
“Allora quello di Peter è il secondo.”
James e Sirius si scambiarono un’occhiata. “Andata,” convennero all’unisono.
Il sorriso che si aprì sul volto di Peter fu impagabile.
 
***
 
Marlene e Dorcas fissavano il tavolino della Sala Grande con il capo inclinato su un lato e le sopracciglia aggrottate.
“Ma che stanno facendo?” Alice appoggiò la testa tra le loro spalle in punta di piedi e diede un’occhiata.
“Non ne ho idea,” mormorò Dorcas.
“Sarà una specie di rito tribale,” si aggiunse Mary, affiancandosi a Marlene e aggrottando la fronte, “una danza di accoppiamento.”
“Un numero di circo,” scherzò Dorcas, ridendo e incrociando le braccia al petto.
“Sarà che sono stupidi come al solito.”
Ecco Lily! Marlene iniziava proprio a chiedersi dove fosse finita e perché non sentisse ancora l’odore dei suoi insulti nell’aria.
“Bene, vorrei l’attenzione di tutti!” James unì le mani con uno schiocco e salì in piedi sul tavolino, stando attento a non calpestare… cos’erano? Dei cilindri, a un primo sguardo. Aveva la camicia per metà aperta e per metà abbottonata male. Anche a quella distanza, Marlene poteva vedere le ditate e la sporcizia sui suoi occhiali, “quest’anno…”
James fu interrotto da Sirius, che non ebbe affatto la stessa grazia nel salire e infatti fece urtare con un tintinnio qualunque cosa fosse appoggiata sul tavolo. Uno di questi cilindri perse l’equilibrio e cadde oltre l’orlo.
James sgranò gli occhi e sussultò, ma Sirius non degnò di uno sguardo l’oggetto misterioso, quando agitò la bacchetta e lo riportò in piedi senza darci troppo peso.
“Bene, dicevo che a partire da quest’anno capitanerò la squadra di quidditch!” annunciò James, il sorriso smagliante e orgoglioso lasciava trapelare un pizzico d’arroganza, “quindi…” iniziò e fece un cenno a Sirius, accanto a lui. Il ragazzo sorrise irriverente e si sedette sui calcagni, iniziando a raccattare i cilindri di carta e a spacchettarli, “invito su questo tavolino Catchlove, i Prewett, McKinnon, Paciock, amabile prefetto, ti prego, non dire alla McGranitt di stasera!” qualche risata si diffuse in Sala Comune “e, poiché non abbiamo ancora un Portiere e potrebbe essere chiunque, TUTTO IL RESTO DELLA CASA GRIFONDORO!”
“Sul tavolino, James?” domandò Remus, da qualche parte alle sue spalle, mentre spacchettava altri cilindri di carta.
“Sul tavolino, Lupin,” confermò sicuro, ma era già troppo tardi. Sirius era tornato in piedi con tre bottiglie piene di Whiskey Incendiario e Burrobirra corretta.
“Basta parlare,” si intromise, schiacciandogli una bottiglia sul petto e ridacchiando.
“L’avete sentito, no?” incalzò James, un sorriso vispo si aprì sul suo viso. Il vociare nella Sala si era alzato parecchio e ormai tutti si affollavano estatici al tavolino, per reclamare un bicchiere e un po’ di sano divertimento.
Sirius non perse tempo, scrollò le spalle e si levò la camicia con un gesto fluido, raccattando da chissà dove la famosa camicia hawaiana che continuava a sostenere essere meravigliosa. Non si curò di abbottonarla. Solo allora, ovviamente, prese un sorso direttamente dalla sua bottiglia e scese dal tavolo con un saltino.
Remus alzò entrambe le braccia e le lasciò cadere esasperato, quando lo vide dirigersi verso di lui, dove c’erano le scorte di Whiskey e Burrobirra.
“Che c’è?”
Remus scosse la testa e sorrise. “Ma tu non sei al terzo anno?” domandò a un ragazzino che si era appena avvicinato con un bicchiere di carta in mano. Questi abbassò lo sguardo e si morse un labbro. “Torna tra un paio d’anni.”
Il giovane alzò gli occhi al cielo e girò i tacchi con un sospiro.
“Aspetta,” gli sussurrò Sirius, dando una rapida occhiata a Remus e avvicinandosi al ragazzo. Si portò una mano tra i capelli, fingendo disinvoltura, poi inclinò la bottiglia quel tanto che bastava per riempirgli il bicchiere e non farsi notare.
Il ragazzo sgranò gli occhi e un sorriso sorpreso gli alzò gli angoli della bocca. “Grazie!” trillò e Sirius gli sorrise, muovendo una mano veloce e liquidandolo prima che un prefetto li notasse. Lui annuì svelto e se ne andò.
“Ma secondo te sono stupido?” domandò Remus, versando della Burrobirra normale in un bicchiere di un ragazzo del secondo anno.
Sirius scrollò le spalle e gli sorrise, senza aggiungere altro.
 
***
 
“Ma secondo te sono stupida?” Lily avrebbe fatto accapponare la pelle di chiunque, se si fosse avvicinata a quella maniera e, soprattutto, con quella espressione. Avrebbe fatto accapponare la pelle di chiunque ma non quella di James Potter, a quel punto seduto sul tavolino su cui prima era in piedi, mentre prendeva sorsi rilassati dalla sua bottiglia a intervalli regolari.
“No, Evans, non sei stupida di certo,” ribatté lui e l’assenza di insulti lasciò Lily momentaneamente disorientata, “sei solo molto molto molto rompiscatole.” Ah, ecco l’insulto.
“Be', lo dici perché sai già cosa sto per dirti.”
James alzò lo sguardo su di lei, le sopracciglia piegate in una smorfia esausta. “Sì.” Lasciò ricadere la testa mollemente.
“Forse perché sai anche che non puoi organizzare una festa nella Sala Comune e introdurre dell’alcol illegalmente.” Lily incrociò le braccia al petto e gli fissò i capelli in attesa che tornasse a guardarla. Non attese molto, perché James alzò la testa di scatto e un sorriso furbo gli si aprì sul viso.
“Veramente…”
“No,” lo fermò Lily con una mano, “so che ti stai per arrampicare sugli specchi, è inutile, Potter.”
“Sai, Lily,” iniziò lui, alzandosi finalmente e guardandola fisso negli occhi, “io penso che sia davvero una spina nel fianco, questa cosa che sei un prefetto.”
“Premiano le persone responsabili,” replicò incurante lei.
James le sorrise e Lily ebbe la sensazione di essere caduta, per la prima volta, in una trappola e non nel solito tentativo di James di umiliarla. “Già, ma sai come si fa a capire se una persona è responsabile?”
Lily aggrottò le sopracciglia e lo studiò, poi scosse piano la testa, incerta.
James annuì pratico, “una persona responsabile è una persona che ha fatto un numero basso di cose irresponsabili,” spiegò, guardandola con sufficienza, “ma per fare un numero basso di cose irresponsabili ne devi fare almeno una.”
Lily alzò un sopracciglio scettica e si prese un attimo per contemplare lo sguardo sicuro e orgoglioso con cui James aveva proclamato quella verità che faceva acqua da tutte le parti. “Una persona responsabile è una persona che non fa cose irresponsabili e basta,” argomentò Lily, chiedendosi se star dietro alla sua logica fosse una buona idea.
“Ti sbagli, Lily, prima o poi farai una cosa irresponsabile, che ti piaccia o meno,” iniziò James e lei si stupì della naturalezza con cui aveva pronunciato il suo nome: non l’aveva mai fatto, “e ti struggerai, soffrirai da morire. Quindi direi che, visto che prima o poi dovrà succedere, è meglio togliersi subito il dente. Falla adesso, così da domani potrai essere finalmente responsabile a tutti gli effetti!” concluse James, porgendole la bottiglia di Whiskey Incendiario da cui stava bevendo fino a qualche attimo prima.
Lily sospirò, dando solo una rapida occhiata alla bottiglia. “Non puoi organizzare una festa nella Sala Comune con dell’alcol, Potter.”
“Evans,” iniziò lui, una mano sul petto come a rassicurarla di qualcosa di vagamente impreciso e Lily lo guardò per un attimo negli occhi, cogliendo una scintilla di lucidità che cedeva, “questa, in realtà, è una festa privata per la mia squadra.”
“No, Potter, la tua squadra non è composta dall’intera casa Grifondoro.”
“Evans,” cominciò di nuovo e Lily sospirò.
“Potter…”
“Evans, allora,” James poggiò una mano sulla sua spalla. Lily alzò un sopracciglio e la squadrò, ma James aveva già ripreso a parlare, “io non posso sapere chi entrerà con le selezioni, quindi non posso escludere nessuno, purtroppo neanche te.”
“Be’, sappi che io nella tua squadra non entrerò mai.”
“Allora puoi andare, ti libero.”
“Mi liberi?!” Lily scosse la testa si prese la fronte con una mano: parlare con James era estenuante. “Ti ripeto che non puoi…”
“Shh,” la zittì lui, chiudendo gli occhi come se il chiasso gli avesse dato fastidio. Lily lo guardò, chiedendosi se non fosse irrimediabilmente stupido, “ti prego, bevi un po’ e non mi stressare, una volta tanto.”
Lily si diede una rapida occhiata intorno, registrando appena la bottiglia che James le stava porgendo di nuovo. Marlene stava parlando animatamente, muovendo le braccia di continuo come se avesse voluto mimare qualcosa e Dorcas, Mary e Alice bevevano tranquillamente dai loro bicchieri di carta, ridendo di tanto in tanto e dandole corda.
“Sei impossibile,” sentenziò, afferrando la bottiglia con un gesto secco e mandando giù un sorso per non guardare il sorriso vittorioso che si era formato sul volto di James.
“Wow,” commentò lui, quando Lily gli porse di nuovo la bottiglia, dopo un sorso lunghissimo che aveva preso con un po’ troppa aggressività. “Okay, puoi tenerla, se vuoi,” continuò James, riprendendosi dallo shock e alzando finalmente la mano dalla sua spalla. “Hai visto Emmeline Vance?”
Lily aggrottò le sopracciglia. “Ma Emmeline Vance è in Corvonero, non era una festa solo per Grifondoro?”
James sospirò rumorosamente e alzò gli occhi al cielo. “Stai bevendo alcol illegale, Evans,” indicò prima lei, poi la bottiglia. Le diede un paio di pacche sulla spalla su cui aveva tenuto la mano prima, poi parlò ancora: “che prefetto modello saresti, se andassi a denunciarmi in queste condizioni?”
E se ne andò così, lasciando Lily a fissare il vuoto e a chiedersi quanto si dovesse essere infantili per passare tutto quel tempo a cercare di fregarla.
 
***
 
“Non so che voci ti siano arrivate sul mio conto, ma…” Sirius roteò gli occhi e appoggiò un avambraccio contro il muro davanti a lui, riducendo la distanza col viso di una ragazza a qualche mero centimetro, “puoi verificarle da sola,” mormorò in un sussurro, un sorriso sfacciato e gli occhi troppo lucidi.
La ragazza abbassò lo sguardo e si appiattì contro il muro. Sirius sfruttò quel momento per squadrarla e poi cercare i suoi occhi.
Qualche metro più in là, Peter bevve l’ultimo sorso dal suo boccale di Burrobirra e non si preoccupò di reprimere un rutto. “Lo sta facendo di nuovo,” commentò non appena ebbe concluso la sua performance. James si voltò con uno sbadiglio in direzione di Sirius e annuì, alzando una mano ad arruffarsi i capelli.
“Sì,” confermò, prendendosi un attimo per studiare i suoi movimenti, “lo sta facendo di nuovo.”
“Se ci riesce con quella camicia mando giù il resto in un sorso,” si unì Remus, alzando il suo boccale e mostrando agli amici che era pieno per i due terzi.
James ondeggiò un po’ con la testa a studiare la situazione. “Credo che non lo sapremo mai,” commentò, alzandosi con un sospiro. Si fermò un attimo e attese che la testa smettesse di girare.
“Perché?”
James non rispose, si diresse ciondolante da Sirius e picchiettò sulla sua spalla.
“Che c’è?” Sirius alzò lo sguardo su di lui, ma non accennò a muoversi da dov’era. James non lo degnò di uno sguardo.
“Tu sei Glenda Chittock, vero?” domandò alla ragazza, una scintilla di divertimento nello sguardo che mandava all’aria la sua copertura da poliziotto.
“Ehm… Sì,” confermò lei, sostenendo lo sguardo di James solo per qualche secondo, prima di spostare il peso da una gamba a un’altra, evidentemente a disagio.
“Chittock… Chittock… dove l’ho sentito?” iniziò ancora lui, picchiettandosi un dito sul mento. Sirius lo guardava a metà tra il seccato e il curioso. “Oh, sì!” esultò infine, fingendo un’illuminazione che non aveva in fondo mai avuto, “ecco dove l’ho sentito! Proprio una settimana fa, alla Cerimonia di Smistamento!”
Sirius sgranò gli occhi e si ritrasse di colpo, masticando un’imprecazione sottovoce e alzando entrambe le mani in segno di resa. “Hai undici anni?”
Glenda annuì piano.
“Perché non me l’hai detto?”
Ora, Glenda era una ragazza timida ed era stata per lo più imbarazzata in quei minuti, ma qualcosa, nel suo sguardo, cambiò al sentire quella mezza accusa. “Non è che tu me ne abbia dato proprio modo!” lo rimproverò, lisciandosi il mantello e alzando la testa con aria dignitosa, “se proprio lo vuoi sapere, non ho sentito niente sul tuo conto… e spero proprio di non farlo.” Detto ciò, Glenda gli diede uno spintone e prese a dirigersi verso il centro della Sala Grande. “Ah, comunque…” si bloccò poi, voltandosi a mostrargli solo il profilo, “mi sembri un idiota con quella camicia.”
“Se ti importuna di nuovo dillo a me, il mio amico è un prefetto!” le urlò dietro James.
I due intrepidi Grifondoro si fermarono a guardare il punto in cui Glenda Chittock si era persa nella folla e restarono in silenzio per qualche secondo.
“Ha ragione che sembri un idiota con questa camicia,” considerò James, non distogliendo lo sguardo dal punto in cui si erano incantati.
Sirius scrollò le spalle. “Secondo te dovrei toglierla?”
James sospirò e finalmente lo guardò. Sembrava volergli dare una manata in testa e metterlo KO, invece si aggiunstò gli occhiali sul naso e scrollò le spalle a sua volta. “Insieme?”
Sirius non se lo fece ripetere due volte e si spogliò, seguito da James.
 
***
 
“Bene, sfido!”
James pronunciò quella frase mentre si lasciava cadere sul divano della Sala Comune, unendo le mani dietro la testa e fissando lo sguardo non in quello di Sirius, ma in quello di Remus.
“Non posso giocare a un gioco che non esiste,” ribatté lui, scuotendo la testa deciso.
“Non puoi evitare una sfida.”
“Posso, invece, mi basta non darti retta.” Remus scrollò le spalle e gli sorrise, più con pietà che altro.
James annuì e alzò gli occhi al cielo, come se Remus fosse stato semplicemente troppo noioso per essere tenuto in considerazione. “Sirius.”
“Eh.”
“Sfido!”
Sirius si alzò facendo leva sulle braccia e batté il filo della mano sulla fronte. “A rapporto.”
“Con Glenda sei stato sfortunato.”
Sirius scrollò le spalle. “Capirai, cinque anni di differenza.”
Dorcas, poco più in là, rise.
“Lo sapete che non si gioca così a Obbligo o Verità, vero?” si intromise Marlene.
“Buona fortuna,” rispose Peter, mandando giù il primo sorso di una nuova Burrobirra, “sono mesi che cerchiamo di farglielo capire.” Quando realizzò con chi stava parlando, arrossì di colpo.
Lei rise, il che rese tutto molto più complicato. “Se propongono solo sfide, dov’è la verità?”
“Nella sfida, McKinnon,” ribatté James, gli occhi per un momento molto più vispi a riflettere di nuovo quella consapevolezza di essere un passo avanti a loro. “Mi dispiace molto per quello che è successo,” continuò, rivolgendosi a Sirius.
“Vabbè, ma non fa niente, alla fine…”
“Mi dispiace enormemente,” lo interruppe James e Sirius colse il suo sguardo e chiuse la bocca.
Remus aggrottò la fronte e raccolse per un attimo un po’ di lucidità. “James, non mi piace dove stai…”
“Ti sfido a baciare il più Malandrino.”
“Si fa interessante,” si intromise ancora Marlene, che aveva parlato prima ancora che gli altri recepissero il messaggio.
Sirius scosse la testa con un sospiro e appoggiò una mano sulla spalla di James. “Devi stare attento quando formuli le sfide.” Un sorriso obliquo gli strisciò sul viso e gli affilò lo sguardo come prima di un attacco succulento contro Mocciosus o, ancora meglio, Bellatrix o Regulus.
“Sono fuori pericolo,” sussurrò Peter, rischiando uno sguardo alle sue spalle, a cercare quello di Marlene. Se riusciva a parlarci  voleva godersi quel lusso fino all’ultima goccia, “non mi considerano il…” e poi fu interrotto.
Sirius lo baciò sulle labbra, in un momento congelato in cui Peter sgranò gli occhi. Ci mise un po’ a capire cosa fosse successo e quindi a spostarselo di dosso senza eleganza.
“Ma ti sei bevuto anche il cervello?!” Peter si appiattì contro lo schienale del divano, per mettere quanta più distanza possibile tra lui e Sirius che, intanto, se la rideva.
“Io…” James fu interrotto dalle sue stesse risate, “io non ho specificato dove lo dovessi baciare!”
“Mi avresti dato del codardo per sempre, altrimenti,” spiegò Sirius, scrollando le spalle e liberando finalmente Peter.
“Ottimo punto.”
“Ma poi perché sarei io il più Malandrino?!”
Sirius scosse la testa, per nulla colpito dalla sfida di James e compiaciuto, al contrario, di aver avuto la possibilità di fare qualcosa che desse tanto a parlare. “Ti sbagli, Pete,” ribatté, il tono superiore e un sorriso arrogante. Si chinò in avanti ancora una volta con disinvoltura e questa volta gli scappò una risata. “Non posso scegliere.”
E, proprio un attimo prima di sfiorare le labbra di Remus, lui si ritrasse, spostando il viso di lato. “Scordatelo.”
“È la sfida, Remus.”
“È la tua sfida, è un tuo problema.”
Sirius alzò gli occhi al cielo, rammaricandosi per un attimo, mentre lo faceva, perché Remus da vicino era proprio diverso! “Ho bisogno di una mano a superare la sfida.” Non seppe bene perché gli fosse venuta voglia di sussurrarglielo.
“Io non ci guadagno niente, così.”
“Scherzi? Ci guadagni tutto.”
La seduzione non attaccava. Remus scosse la testa.
“Okay, ti va uno scambio?”
Quando Remus non rispose, Sirius si sentì in diritto di continuare e a quel punto aveva una buona ragione per sussurrare al suo orecchio.
“Se mi aiuti, io ti dico perché ti stiamo escludendo, così la smetti di prendertela con James.”
Remus sgranò gli occhi e deglutì a vuoto, la consapevolezza che per una volta il pensiero non gli fosse stato offuscato dalla paranoia gli piombò addosso a riempirlo di sollievo e, un attimo dopo, di terrore, perché quello che temeva era appena diventato vero. “Come sai… Allora lo ammetti.”
“Sì,” rispose semplicemente Sirius e, ormai sicuro della risposta che non aveva neanche pronunciato, gli alzò il viso con un dito, quel tanto che bastava per permettergli di baciarlo.
Fu un contatto rapido, veloce come una folata di vento. Le foglie si sollevarono dal terreno, librandosi in aria a seguire il percorso di un vortice, prima di adagiarsi di nuovo a terra come se non fosse mai successo nulla. Si guardarono per un attimo, fuggevolissimo e che sapeva già di passato, poi Sirius raddrizzò la schiena e si voltò con un sorriso verso James, il sapore di whiskey che si mescolava alla confusione.
“No,” decretò il ragazzo, muovendo già un passo indietro. Ormai la vicenda aveva catturato l’attenzione anche di Mary e Dorcas e, poco più in là, anche di Lily e Alice, “no, non era questa la sfida.”
“Te l’ho detto, Jamie,” lo prese in giro Sirius, avvicinandosi di due passi ogni volta che James ne faceva uno indietro, “devi stare attento a come formuli le sfide,” sorrise, più come uno che sta per ucciderti che come uno che sta per baciarti, “potrebbero ritorcersi contro di te.”
“Hai bevuto troppo.”
“Paura, Potter?” Sirius rise e la reazione nei loro spettatori non tardò ad arrivare. “Dov’è finito tutto il tuo coraggio Grifondoro? Ti fai intimidire da questo? Devo pensare che non sei un vero Malandrino?”
Lo sguardo di James cambiò, passando, per qualche secondo, per una serie di emozioni ben offuscate dall’indecisione, prima di arrestarsi sulla determinazione. “Facciamolo,” decretò, con una gravità tipica di un ubriaco.
“Facciamolo!” ripeté Sirius con lo stesso tono, incrementando una tensione che somigliava molto a quella che si costruiva prima di scoppiare a piangere e che invece assumeva sempre più i tratti di una battuta in una gag comica.
“Fatelo!” gli diede corda Marlene, trattenendo a stento le risate.
“E sia!” fu l’ultima cosa che James disse, prima che Sirius gli si fiondasse addosso prendendogli il viso tra le mani e lo baciasse con uno schiocco che riverberò alto attorno a loro. James alzò le mani in segno di resa e qualunque cosa avesse detto fu smorzata subito a renderla incomprensibile.
“Mai più,” riuscì a commentare alla fine, pulendosi la bocca con il dorso della mano.
“Che schifo,” mormorò Sirius, imitando inconsciamente il suo gesto.
Ma Remus non ricordò quasi per niente cosa successe dopo.
Era un tipo intelligente, imparava in fretta e aveva capacità analitiche davvero fuori dal normale, quando si trattava di previsioni e mosse successive. Questo glielo dimostravano i duelli a lezione di Difesa Contro le Arti Oscure, oltre che la capacità di mitigare, quando poteva, le risse tra i suoi amici e i compagni Serpeverde prima ancora che iniziassero. Però se c’era una cosa che Remus non sapeva prevedere era il caotico criterio di scelte che portava Sirius Black a comportarsi come si comportava. Cioè a caso.
Se i sentimenti lo avessero abituato gradualmente a quello che quell’onda d’urto gli provocò invece in pochi attimi, Remus sarebbe impazzito. E invece non c’era stato nessun percorso, nessuna gentile presa di consapevolezza. La realtà gli era piombata addosso così come tutte le volte in cui Sirius ci aveva messo lo zampino: a caso, dal nulla, lanciata nel cosmo con il solo scopo di gravitare accanto a lui quel tanto che bastava per coglierlo in pieno e poi tornare nello spazio profondo.
Perché il centro pulsante di quella fulminea realizzazione era che, finito un bacio, ne voleva un altro e a farglielo capire non era stato il suo, ma quello con James. Tutto gli gridava di negare quella folle possibilità, quella sbagliata, malata, improbabile sensazione arrivata veloce e dolorosa come quella che aveva provato quando Sirius gli aveva rivelato che sapevano della sua licantropia.
E, quando si leccò le labbra e un sapore nuovo gli invase la bocca, sperò di dimenticarlo per sempre e si preparò a combatterlo. Perché questo gli avevano insegnato a fare quando qualcosa lo faceva sentire diverso: combattere sempre e rinnegare, anche se significava strapparsi la carne di dosso a morsi.
Anche, e soprattutto, se la guerra la faceva con se stesso.
 
***
 
“James?”
Un sussurro si insinuò incerto tra le tende del suo letto e James riuscì solo a sussultare, aprendo gli occhi di scatto e sgranandoli a fissare un punto nel buio. “Ma tu sei impazzito,” mormorò, non mettendo a fuoco la figura di Sirius, nella poca luce che le finestre gettavano nel dormitorio, ma percependola senza problema.
“Chi poteva essere?”
Ma il suo tono sembrava più maturo, più impostato e la voce gli tremò sull’ultima parola. James poteva anche non essersi abituato al buio, ma era abituato a Sirius. Scivolò più lontano da lui e sospirò. “Non ti fare strane idee, quello è stato il primo e ultimo bacio,” disse, sollevato nel sentirlo ridere e insultarlo sottovoce. Batté un paio di volte la mano sul materasso, “muoviti.”
E Sirius non se lo fece ripetere due volte. Scivolò oltre le tende e si sdraiò accanto a James, schiacciando la fronte contro la sua spalla e prendendo un respiro profondo.
James si voltò nella sua direzione con le sopracciglia aggrottate, poi si passò frustrato una mano nei capelli, perché quella era già la seconda notte da quando erano tornati a scuola che succedeva… ed erano lì da una settimana.
“Ti do fastidio?”
“Finché non me lo chiedi no.”
Sirius esitò per un attimo, poi gli rifilò un pugno nel costato. James si ritrasse e alzò subito una mano per ricambiare, ma Sirius lo fermò prima con una domanda. “Durante la cantilena… hai visto qualcosa?”
“Sì, funziona,” confermò James, ritirando la mano e fissando il buio accanto a lui. “Tu?” aggiunse incerto.
“Sì, l’ho visto. L’animale in cui mi trasformerò, intendo.”
“Ti ci rivedi?”
Sirius rise. “Sì, tu?”
“Non lo so, non me l’aspettavo.”
“Qual è?” la vena curiosa nella voce e una risata già appoggiata sulle labbra.
“Non te lo dirò mai, lo vedrai.”
“Sarai un bradipo,” azzardò Sirius, “così noioso.”
“Se non sei una zanzara ci rimango male,” ribatté James, dandogli finalmente uno scappellotto, ma non ritrasse la mano dopo il colpo. Al contrario, invece, gli arruffò i capelli. “Dormi,” sussurrò e Sirius annuì sulla sua spalla, piano.
I ragazzi sprofondarono in un silenzio che la notte era capace di fornire con una discreta facilità. Peccato che nessuno dei loro respiri si regolarizzò.
“Io sono un po’ preoccupato per…”
“James,” Sirius inspirò seccato e James non poté fare a meno di notare che era diventato estremamente facile farlo innervosire, “non devi sempre parlare e fare domande.”
Passò qualche secondo di silenzio. Il tipico silenzio in cui chi sta per parlare sceglie le parole meno dolorose da accostare a una frase già dolorosa. James, però, non era fatto per questi giochi. “Uno di questi giorni ti picchio.”
Sirius scoppiò a ridere, l’ironia che apriva la strada alla certezza della vittoria e alla consapevolezza di poter rimandare ancora un po’ quella conversazione. “Tu provaci.”
“Se ti strozzo risolviamo la tua insonnia.”
“Ti verrò a trovare in veste di fantasma.”
James gli tirò un calcio, Sirius glielo restituì, poi si acquietarono.
“James?”
“Ringraziami e ti soffoco davvero.”
Sirius non aprì più bocca, ma James lo sentì sorridere sulla sua spalla.
Aspettò che Sirius si addormentasse e poi si concesse finalmente al sonno.
 





 

 


Note di El: Ueeee, ciao, scusate l'attesa, cielo, ciaaaaao.
Trucco vecchio quanto il mondo ma non ho resistito alla tentazione di iniziare questo capitolo facendo credere che ci fosse altro angst e cose varie. Però, capitemiii, dopo l'ultimo capitolo credevo fosse facile far credere che posso infilare l'AU dove voglio! Invece no. Secondo me non ci è cascato nessuno. A OGNI MODO, benvenuti nella 'seconda parte della storia', che significa addio attorcigliamenti temporali non richiesti. Ma non possiamo stare qui a dare spiegazioni tipo 'eh, ma da ora c'è più roba per cui deprimersi anche a scuola' perché dobbiamo saltare direttamente alle sette denunce che mi sono arrivate già dopo che Sirius ci ha provato con una undicenne. E dopo che ho fatto bere alcol forte a un tredicenne. Però ho deciso che salterò la tiritera etica in cui mi giustifico perché mi sembra al limite della follia. QUINDI oddio, la sHiP! Ho cambiato idea 76 volte su come fare in modo che Remus aprisse gli occhi e poi "all'improvviso" mi è sembrata la migliore. Sia perché nella vita 'ste cose succedono, ma non se ne legge spesso nelle fic, sia perché per uno come lui mi sembrava il modo migliore per cadere nel panico più totale. Bene. Comunque la scena in cui James e Sirius si credono i più fighi del mondo e si spogliano mi ha fatta mettere le mani nei capelli dal ridicolo almeno 70 volte, poi ho pensato che la mia reazione era proprio quella che volevo che avessero gli altri e quindi l'ho tenuto. Se ci penso rido ancora per il trash. Me ne vado subito, mi dispiace se si inizia a capire un po' troppo che i rapporti di amicizia, in questa storia, stanno totalmente prendendo il SOPRAVVENTO su quelli romantici. Ci vediamo tra 400 anni per capire cosa è successo "d'estate a Grimmauld Place" e grazie veramente un sacco per aver sopportato fino a questo punto tutto ciò, che è un modo contorto di ringraziare per aver letto insomma cose simili vabbé, GRAZIE.

El.

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 - Ingranaggi in armonia ***


TW: sangue, descrizioni crude, Remus ha il ciclo.



16. Ingranaggi in armonia





La luce scivolava oleosa oltre i rigidi riquadri della finestra nella Sala Comune, segnando già la fine della giornata e annunciando terrificante la luna piena. La pazienza di Remus, in aggiunta, sembrava essere messa alla prova più o meno ogni minuto.
“Se continui a distrarti non ti aiuto più.”
Sirius distolse lo sguardo di scatto dalla finestra. “Scusa.”
“Ma che hai?”
Peter alzò la testa dal suo libro e scoccò unʼocchiataccia a Sirius, timoroso che potesse rivelare tutto proprio quando ogni cosa stava per andare al suo posto. “Niente, perché?”
Remus si passò una mano sulla faccia, i nervi a fior di pelle e le sensazioni che si acuivano presero momentaneamente il sopravvento sulla sua lucidità. Mosse l’altra mano di scatto su quella di Sirius, che a quanto pareva era troppo inquieto per smettere di far ticchettare la sua dannata piuma sul tavolo di legno. “Se non stai fermo te la stacco,” e gli strinse la mano in una presa piuttosto dolorosa, per la quale Sirius si mosse a disagio sulla sedia.
“È la seconda minaccia in cinque secondi-aaah,” gemette quando Remus strinse più forte, un attimo prima di lasciarlo andare. Sirius usò l’altra mano per tastare e assicurarsi che fosse a posto. “Tu sei fuori di testa.”
“E tu ti impegni per farmi arrabbiare,” ribatté Remus, a cui venne una voglia a stento reprimibile di tirargli un pugno quando lo sentì ridere.
“Ha ragione,” commentò Peter, ammonendolo con uno sguardo che sembrava avvertirlo anche di qualcos’altro, un monito che Remus non poteva cogliere anche se Sirius gli aveva promesso che gli avrebbe spiegato tutto.
‘Ho detto che ti avrei detto perché ti stiamo escludendo, non che l’avrei fatto subito’, se l’era svignata così, quando l’aveva costretto a parlare.
“Concentrati, tanto lo sai fare già,” gli ordinò Remus con un pizzico di rassegnazione. Il suo aiuto era totalmente inutile, perché James e Sirius erano perfettamente in grado di aprire un libro e capire cosa c’era scritto da soli.
“Se lo so già fare posso anche distrarmi.”
Remus inspirò per rispondere, ma qualcosa gli disse che doveva calmarsi o non sarebbe arrivato col senno intatto alla fine di quella giornata; così espirò pacifico e annuì, “sì, hai ragione, allora perché non vai a farti un giro e smetti di disturbare la Sala Comune?”
Sirius rise e non si mosse da dov’era. Per fortuna, però, non aprì più bocca.

***
 
James richiuse il rubinetto della doccia e si prese qualche altro secondo per respirare il vapore confortante che si alzava pigro verso l’alto, poi liberò la cabina della doccia in cerca dei suoi vestiti.
Era una sensazione bellissima, quella di chiudere gli spogliatoi dopo una lunga doccia a fine allenamento e la vita da capitano migliorava di giorno in giorno. I nuovi acquisti della squadra erano stati strategici e James era sicuro che Gudgeon sarebbe stato fiero di lui e delle sue scelte. E poi gli occhi rispettosi dei compagni erano un premio impagabile. Raccolse il libro che da un mese a questa parte ormai si portava sempre dietro assieme a un boccino e si vestì in fretta, conscio che non mancava troppo tempo alla luna piena e che prima avrebbe voluto fare ancora un’altra cosa.
Si chiuse la porta degli spogliatoi dietro le spalle e intascò le chiavi con un sorriso soddisfatto, prendendo la strada per il castello.
“Hai visto che lo sai fare?”
Una voce sul campo di quidditch attirò la sua attenzione. James si voltò di scatto con le sopracciglia aggrottate e l’immagine che si trovò davanti rischiò di farlo svenire… o di farlo scoppiare a ridere.
Marlene si era trattenuta in campo e con lei c’era l’ultima persona al mondo che si sarebbe aspettato di vedere su una scopa: Lily Evans.
“Non so perché mi sono lasciata convincere!” gridò in risposta lei, volando sicura davanti a Marlene e non riuscendo a nascondere il divertimento.
“Ammettilo, non sai come ringraziarmi.”
Lily assottigliò lo sguardo. “Ripetilo, se hai il coraggio.”
Marlene scrollò le spalle. “Non sai come ringraziarmi,” scandì, iniziando già a indietreggiare con la sua scopa. E fece bene, perché Lily si fiondò a rincorrerla senza perdere un attimo.
James fissava quella scena a bocca aperta, pienamente consapevole di dover risultare parecchio stupido, ma impossibilitato a chiuderla perché lo stupore e l’ammirazione erano semplicemente incontenibili.
“James!”
Si rese conto che Marlene stava volando sempre più in basso dopo qualche secondo di troppo. “Oh, ciao!” salutò alzando una mano, mentre anche Lily volava in quel suo modo a metà tra l’impacciato e l’elegante. James non riuscì a trovare nulla di meglio da dire.
Marlene aggrottò la fronte e seguì il suo sguardo, poi un sorriso troppo simile a quello di Sirius le si aprì sulle labbra. “Non è un problema se stiamo qui altri cinque minuti, no?”
James captò il pericolo e scosse la testa. “No, no, fate pure, nessuno l’ha prenotato per oggi.”
“Ti va di unirti a noi?”
“Cosa?” si lamentò Lily.
E James pensò che aveva delle cose da fare, come cenare, studiare almeno cinque minuti, perdersi per qualche minuto nella foresta proibita per accertarsi di essere ancora in grado di trasformarsi e preparare tutto per la notte; che era proprio impegnato, insomma, e che aveva passato troppo tempo sotto la doccia per perderne dellʼaltro. “Sì, perché no?” rispose con una scrollata di spalle e tirò fuori dalla tasca della divisa un boccino d’oro, mostrandolo alle ragazze, “vi va di correre?”
“Marlene, io ti detesto,” borbottò Lily, “e torno al castello.”
“Quindi lo lasci vincere?” domandò Marlene, tenendo ancora gli occhi su James.
Lily alzò lo sguardo al cielo, come se stesse litigando con se stessa e le sue mille voci interiori. James aprì la bocca per parlare, ma Marlene scosse la testa e alzò un dito, costringendolo a tacere qualunque battuta gli fosse saltata in testa.
“No, non mi arrendo,” sibilò Lily, come se le fosse costato più della sua stessa vita e James corse a prendere una scopa mezza rotta da uno stanzino, perché erano nel suo elemento e gli era venuta una gran voglia di impressionare Lily.

***
 
Sirius e James espirarono profondamente, intralciati da un sorriso che non volevano saperne di togliersi dalla faccia.
“Oh, Remus sarà furioso,” sussurrò Peter, guardando il Platano Picchiatore che si dimenava frenetico nel vano tentativo di colpirli. Tutto era andato secondo i piani, ma Peter era terrorizzato all’idea che lo scarso tempo a disposizione potesse paralizzarlo e impedirgli di trasformarsi prima che fosse troppo tardi. A giudicare dalle facce dei suoi amici, però, era lʼunico a temere questa evenienza.
“Non avrà il tempo di essere furioso,” sussurrò Sirius, prendendo un tiro dalla sua sigaretta e guardando il Platano Picchiatore con una trepidazione assolutamente fuori luogo, per i gusti di Peter.
“Ecco, a proposito di questo,” iniziò Peter, “non credete che trasformarsi proprio all’ultimo sia un po’... ecco, imprudente?”
“Te la stai facendo sotto, eh, Peter?”
“Stai zitto,” si intromise James, gettando un’occhiataccia a Sirius, “Pete, resta vicino alla porta. Se qualcosa va storto e non riesci a trasformarti esci e torna al castello. La trasformazione di Remus non è immediata.”
“O-okay.”
“Però hai tempo per un’altra prova.” James gli sorrise e indicò con un cenno del capo il Platano Picchiatore ancora animato. “Ti ricordi cosa ci disse Remus l’anno scorso?”
Peter inarcò un sopracciglio confuso, ma Sirius rise. “Bell’idea, Jamie.”
“C’è un nodo, alla base, simile a un bottone che ferma l’albero il tempo di passare,” lo informò James, accennando col capo a un punto nel buio, proprio in direzione dell’albero. Peter deglutì a vuoto. “Puoi trasformarti per fare pratica e premere il bottone per noi. Due piccioni con una fava.”
Peter era poco convinto, ma James aveva ragione: il Platano non avrebbe fatto di un animale così piccolo e inoffensivo la sua priorità e, in fondo, un’altra trasformazione, giusto per essere prudenti, non guastava. Annuì finalmente deciso, prese un bel respiro e chiuse gli occhi.
Si concentrò sull’immagine dell’animale di cui avrebbe preso le sembianze, tanto da strizzare gli occhi e serrare i pugni per lo sforzo.
Sirius diede di gomito a James e soffocò una risata. “Sta per esplodere.”
“Mi spieghi che ti prende?!”
Sirius aggrottò le sopracciglia come a chiedergli che volesse dire, ma abbassò lo sguardo, un tiro fiacco alla sua sigaretta.
“Non ho capito che hai in mente.” James scrollò le spalle e diede una rapida occhiata a Peter. Ci mise davvero pochi secondi, in realtà. La sua figura si rimpicciolì, spingendosi in un punto verso il basso, mentre la fisionomia mutava velocemente e la testa si comprimeva allungandosi a formare un muso. Qualche attimo dopo, Peter era diventato un topo.
Corse zampettando in direzione dell’albero, sparendo tra i fili d’erba umidi che venivano via via inghiottiti dalla notte.
“Sono sempre così con Peter.”
James sospirò e si voltò a guardarlo, perché lo conosceva come le sue tasche, ormai, e certe cose non attaccavano più almeno da tre anni. “Qualunque cosa sia, levatela dalla testa. Da ora in poi faremo questa cosa ogni mese.”
“Lo so.”
“Non ho finito,” lo avvertì James e Sirius si voltò per la prima volta a guardarlo, vagamente intimidito da un tono che non l’aveva mai sentito usare con lui. Non fiatò, quindi, e aspettò che continuasse. “Lo so che per te… è difficile quest’anno e tutto il resto,” Sirius sospirò come se l’avessero costretto a stare a sentire l’ennesima predica di un adulto su qualcosa che sapeva già. James lo ignorò, “ma qui non ci sei solo tu. Io ho bisogno di te,” Sirius alzò lo sguardo di scatto su di lui, aggrottò le sopracciglia e lo guardò come se avesse parlato turco, “Peter ha bisogno di te,” continuò, imperturbabile, “e adesso Remus ha bisogno di te.”
Quando James ebbe concluso il suo magnifico discorso di incoraggiamento, il Platano Picchiatore cessò all’istante di dimenarsi e sferzare invano l’aria. Si bloccò in una posa plastica e James mosse il primo passo verso il passaggio.
“Andiamo?” domandò a Sirius, che non aveva ancora smesso di processare quella nuova confessione e si era perso gli ultimi movimenti dell’albero. Si riscosse scrollando la testa e annuì, lanciò la cicca da qualche parte nellʼerba e si ricongiunse a Peter e James.

***
 
“Si può?”
Fu una scena tragicomica, quella che vedeva James spingere con un dito la porta della Stamberga Strillante ed entrare nella stanza come se fosse stata la sua abitudine mattutina. Il cigolio dei cardini non oliati fu l’unico rumore che accompagnò il totale sgomento del silenzio di Remus. Si bloccò con un braccio a mezz’aria, gli occhi impossibilmente brillanti si fermarono su ognuno dei suoi amici come se i loro sorrisi avessero potuto spiegare cosa diavolo ci facessero lì. Poi pensò di dare voce ai suoi pensieri. “Cosa diavolo ci fate qui?”
James si prese un attimo per mettere a fuoco la situazione. Le mura e il pavimento erano graffiati, la porta da cui erano entrati, dall’interno, era rivestita di acciaio e c’erano almeno dieci catenacci che svolazzavano tutt’attorno alla cornice.
Remus scosse la testa e non aspettò una risposta. “Uscite,” comandò, muovendosi per andare verso di loro, ma fermandosi un attimo prima e gesticolando febbrile verso la porta. “Adesso.”
James, Peter e Sirius non si mossero. “Sappiamo quello che facciamo,” ribatté James, alzando entrambe le mani in segno di resa, ma mantenendo alta la guardia.
Adesso,” ripeté incurante Remus, questa volta in un ringhio. Diede loro le spalle e appoggiò una mano contro il muro, respirando profondamente.
I tre ragazzi si guardarono impotenti.
“Remus?” lo chiamò Sirius, muovendo la testa come se questo l’avesse potuto aiutare a vederlo in faccia.
“Vi prego,” sussurrò il ragazzo tra i denti, “devo chiudere la porta,” continuò in un gemito. Non capirono se fosse una supplica o una manifestazione della sua sofferenza.
“Lo facciamo noi, tu…” Peter si diede un altro rapido sguardo intorno, “tu stenditi,” concluse deciso, dopo aver verificato che c’era un letto, poco più in là.
Remus si voltò con uno scatto verso di loro, aggrottando la fronte quando James, addirittura, ribatté: “No, Pete, inutile chiudere la porta, poi come la apriamo?” e gli mostrò le mani, con una risata.
Remus ebbe solo il tempo di chiedersi perché diavolo James stesse ridendo, prima che una fitta lancinante gli trapassasse lo stomaco. Gemette ancora, indicando con un cenno della testa la porta.
“Adesso!” li esortò James, indietreggiando. I ragazzi chiusero gli occhi e si concentrarono. James riuscì solo a cogliere le figure di Peter e Sirius cambiare forma, mentre rimpiangeva ardentemente l’allenamento supplementare con Marlene e Lily. Il panico lo aiutò a trasformarsi.
Fu una vibrazione, quella che gli sconquassò i muscoli, un vento, quello che gli attraversò i polmoni, spezzandogli il fiato in gola. Remus ebbe un attimo brevissimo per elaborare le figure dei suoi tre migliori amici distorcersi e rimodellarsi fino a risultargli irriconoscibili. Al loro posto c’erano a quel punto un topo, un cane e un cervo. L’ennesima fitta gli confuse il cervello a modificare ogni percezione.
La sua testa gli concesse solo un altro spillo di lucidità, giusto il tempo di mandare il chiaro impulso al cervello dell’ennesimo muscolo che si contorceva attorno all’ennesimo osso che si rompeva. Poi fu il buio.
 
Era buia la stanza riscaldata dal radiatore nell’angolo accanto alla porta. Quella notte Remus aveva visto una stella cadente e aveva desiderato in segreto che la sua magia si manifestasse presto.
Suo padre non gli era mai sembrato un uomo infelice, ma erano mesi che la magia gli pesava troppo su ogni lembo del mantello. Mesi in cui si rinchiudeva in una stanza nervoso, passava ore a borbottare, a volte fino a notte fonda, e sembrava aver dimenticato il rito della storia della buonanotte.
Poco male, pensava Remus ogni volta, presto imparerò a leggere comunque. E, quando riusciva a evadere il controllo di sua madre, accendeva la piccola lampadina sul comodino e apriva il primo libro che riusciva a sottrarre alla casa durante il giorno. Ogni notte leggeva parole nuove, concentrandosi spesso sulla velocità e la previsione delle sillabe, oltre che sulla comprensione.
Quella notte ne aveva lette quaranta in mezz’ora, di parole, e, soddisfatto, si era rintanato sotto il piumino invernale con le palpebre pesanti.
Era fiero di sè e, soprattutto, Remus era sicuro di sè, certo, forse un po’ presuntuosamente, che non fossero molti i bambini che erano capaci a quasi cinque anni di fare cose simili.
Certo, suo padre non sembrava più molto felice di essere un mago, ma Remus non faceva che aspettare un segno, uno solo, che gli dimostrasse che aveva ereditato la magia. Avrebbe pagato qualunque prezzo, anche solo per aiutarlo a trasportare quel peso.
 
James non aveva pensato agli occhiali. Non gli era passato nemmeno per la testa che, ovviamente, non si sarebbero trasformati con lui. Di certo non sarebbe tornato in forma umana solo per metterli al sicuro, ecco, meglio sacrificare la vita degli occhiali che la sua, ma si premurò comunque di abbassare il muso da cervo e spostarli con cautela sotto il letto. Sorprendentemente, infatti, l’animale aveva una vista che da umano aveva solo in sogno!
Si voltò a guardare i suoi amici per testare i suoi nuovi occhi miracolosi, ma entrambi fissavano un punto preciso della stanza: quello in cui c’era Remus.
Peter si era fatto piccolo piccolo, per quanto un topo potesse farsi ancora più piccolo, e Sirius fissava come un segugio il suo amico, col corpo proteso in avanti come pronto a scattare verso di lui.
Quando James si voltò verso Remus, capì perché reagivano così.
Un lupo mannaro non era troppo diverso da un lupo comune, salvo per un paio di dettagli che lo rendevano davvero affascinante. Il muso non era allungato quanto quello dei canidi, ma era guardarlo negli occhi, a fare quasi paura. James espirò piano e non distolse lo sguardo. Non c’era modo di sbagliarsi: quello era lo sguardo di Remus. Uno vagamente più primitivo, forse più selvaggio, ma decisamente suo.
Il motivo per cui tutti lo fissavano, però, erano le ferite.
Anche dopo che i ragazzi ebbero scoperto della sua condizione, Remus aveva sempre evitato di mostrarsi scoperto troppo spesso o abbastanza a lungo per permettere loro di notare e ricordare ogni cicatrice. Il pelo scuro si arrestava in certi punti, dove la pelle del lupo era esposta e increspata. Il problema, però, era una cicatrice molto più evidente poco sotto le costole. Un’area di almeno sette centimetri quadrati non ospitava neanche un ciuffo di peli. Al contrario, sembrava accartocciata, strappata via a morsi e deturpata da denti appuntiti ed esperti. La lesione proseguiva quasi fino all’osso del bacino.
James incontrò gli occhi canini di Sirius e, con un’intesa inquietante anche da animali, mossero insieme il primo passo nella sua direzione.
 
Un cigolio strano si intrufolò nel sogno e un vento inspiegabile penetrò nella stanza ad arruffargli i capelli che spuntavano da sotto il piumone. Remus si lamentò nel sonno e si sistemò meglio per contrastare il brivido che gli percorse la schiena.
Qualche giorno prima aveva passato tutto il pomeriggio con suo padre, nell’officina in giardino a riparare vecchi oggetti di metallo di cui non si era mai saputo spiegare il funzionamento. Lyall trovava che fosse un’abitudine dei babbani molto interessante e, negli ultimi tempi, ci aveva preso gusto. Quella notte stava sognando proprio l’officina, avvilendosi di continuo perché nessun oggetto riparato, per quanto ci provasse, sembrava funzionare o muoversi come previsto. La porta dell’officina si spalancò all’improvviso e un’oscurità asfissiante penetrò come fumo nella stanza. Suo padre non c’era più e un rumore di passi segnalava, ticchettando con urgenza sul legno, la presenza di qualcuno.
“Papà?” chiamò nel sogno e gocce di sudore freddo presero a scivolargli sulla schiena, “papà, ho paura.”
I passi non accennavano a disperdersi, anzi il loro suono rimbalzava impazzito sulle pareti dell’officina, inghiottendo la stanza in un unico rumore insopportabile e ritmico, che sembrava far vibrare il capanno come se fosse stato sempre appoggiato sulla corda di una chitarra.
“Papà?”
Il suono cessò di colpo.
L’atmosfera, tuttavia, non accennò a rilassarsi. Il silenzio, se possibile, rese l’aria irrespirabile, sospesa su un presentimento terribile e su un futuro inevitabile che stava per compiersi davanti ai suoi occhi. A Remus, per un attimo, passò per la mente che fosse una situazione troppo estrema per essere reale; riconobbe di essere in un sogno!
Il calore del piumone gli fu asportato brutalmente con un gesto secco e un freddo che sapeva di vulnerabilità si fiondò come vento nell’officina. Un’officina che, Remus non poteva saperlo, avrebbe imparato a conoscere una volta al mese e che in quel sogno sparì di colpo, quando un ansito gli sfiorò un orecchio e scese rapido in basso.
Un grido gli si bloccò in gola, a metà tra sogno e veglia, quando una fitta al fianco sinistro gli fece dimenticare anche il suo nome. Sentì qualcosa di caldo cadere a gocce sul materasso e si voltò di scatto alle sue spalle.
In quel momento, qualunque immagine terribile che avesse mai letto nei libri fu sostituita da un vero e proprio incubo: una figura canina era chinata su di lui e lo stava mordendo! Gridò fortissimo, la seconda volta, quando i denti della creatura affondarono nuovamente nello stesso punto, mentre sentiva la pelle sfilacciarsi e piegarsi sotto il suo peso. Un artiglio del mostro si conficcò nella sua gamba, per tenerlo fermo. Non capì molto altro, mentre sotto di lui il letto si riempiva di sangue come se il suo intero corpo avesse deciso di sciogliersi. Vide distrattamente suo padre spalancare la porta della stanza, con la bacchetta sguainata e uno sguardo di puro e autentico terrore e disgusto dipinto in volto.
Remus vide la creatura - il lupo - alzare lo sguardo e puntarlo sull’uomo, gli occhi praticamente gialli che risucchiavano e irradiavano la luce come catarifrangenti.
Suo padre gridò una serie di incantesimi, evitando il figlio e costringendo il lupo a indietreggiare e schermarsi con qualunque oggetto abbastanza grande da fargli da scudo prima che una maledizione lo rompesse. Remus riuscì a registrare soltanto una luce verde, prima che il lupo scappasse nuovamente oltre la finestra aperta della sua cameretta.
Abbassò lo sguardo sul suo fianco e potè giurare che mancasse un pezzo, che quella fosse carne viva.
Era in una pozza di sangue.
 
Quando Remus andò loro incontro con uno scatto, James fece un passo indietro e poi, sorpreso dal gesto così improvviso, bramì. Sirius e Peter si voltarono verso di lui e James fu sicuro che, se un cane e un topo avessero potuto ridere, avrebbero avuto le loro espressioni.
Il verso del cervo era parecchio strano.
Sirius non ebbe troppo tempo per continuare a ridere da cane, perché Remus lo… annusò. James e Peter studiarono la scena da lontano, in attesa che arrivasse il loro momento di giurare fiducia. Quando Sirius si piegò sulle zampe anteriori, abbassando la testa in segno di sottomissione, James provò il fortissimo desiderio di ritrasformarsi, afferrare la prima macchina fotografica che gli capitasse a tiro e rischiare la vita solo per imprimere su carta il ricordo di quell’evento unico. 
Remus, in effetti, non li attaccò. E, cosa ancor più eccezionale, non si attaccò, anzi, si limitò a studiarli, giocare forse e ululare a volte. Non appena i ragazzi lo notarono più disinvolto nella sua nuova e snella forma lupesca, James infilò uno dei palchi nella fessura della porta socchiusa e la spalancò con la testa.
Con quel gesto, quella notte, diedero inizio a uno dei rituali più emozionanti della loro storia.
Remus non aspettò un attimo di più. Con un’impazienza che non era per nulla tipica del suo carattere, si fiondò oltre la porta come se nella vita non avesse aspettato altro che tre benefattori dalla forma improbabile arrivati a donargli libertà eterna.
Che James, Sirius e Peter, quella notte lo fecero sentire libero, non è però troppo lontano dalla realtà.
Sirius, sul passaggio che dalla Stamberga Strillante portava all’entrata del Platano Picchiatore, abbaiò alle sue spalle, perché era l’unico che riuscisse a stare dietro a lui e al suo imminente bisogno di ossigeno. Corsero senza interrompersi neanche davanti agli ostacoli più insidiosi, fuoriuscendo per il buco nell’albero e fiondandosi nel buio come proiettili, senza avere la minima necessità di bloccare il platano, anzi giocando a evitarlo e a batterlo in velocità.
Sirius vide distintamente un ramo avvicinarsi a un passo dal suo fianco, ma un muso lo spinse con irruenza lontano da lui. Quando i due furono sufficientemente lontani dal Platano, rotolarsi nell’erba umida della notte fu la cosa più istintiva del mondo.
Peter si assicurò di bloccare l’albero e James li raggiunse al trotto, alzando e abbassando il collo in segno di saluto. Sirius si divincolò per liberarsi dal peso del lupo e sgusciò tra le sue zampe, rimettendosi in piedi. Quando tutti e quattro si furono riuniti, il lupo annusò appena il terreno, alzò la testa di scatto e la mosse nella loro direzione, come a invitarli a seguirlo.
Poi si fiondò lungo il fianco della collina, puntando alla Foresta Proibita.
 
Era un bisogno a cui non sapeva sottrarsi, non poteva, più immaginava di non ferirsi, di non azzannarsi a ripetizione, più non riusciva a pensare ad altro. La mente era annebbiata e i sensi all’erta, ogni minimo rumore lo faceva scattare a chiedersi se non ci fosse qualcuno nei paraggi da attaccare. Quando i suoni non svanivano, ma anzi si ripetevano continuamente nel tempo, il lupo si divincolava inarrestabile, cercando di sfuggire alla morsa gelida delle catene. Dopo un attimo tornava a mordere e dilaniare qualunque porzione di pelle che gli capitasse a tiro e, quando anche questo non bastava e le catene diventavano insostenibili, dolorose fino a rischiare di farlo impazzire, Remus le mordeva, cercando di strapparsele di dosso invano e facendosi sanguinare le gengive.
Il mattino successivo avrebbe ringraziato la scarsa forza fisica di un lupo ancora cucciolo per non essersi fatto troppo male, ma sapeva che col tempo le cose sarebbero cambiate, che sarebbe anche potuto arrivare a uccidersi. Quando nelle storie che leggeva a stento a cinque anni si parlava di mostri interiori, figure orrifiche nascoste nell’ombra nate con l’unico scopo di uccidere il loro ospite, Remus immaginava che fossero immagini metaforiche, che nessuno avesse un reale mostro dentro di sé, pronto a ucciderlo e lasciarlo sanguinante sul pavimento dell’officina del proprio padre.
Crescendo aveva capito che agli altri questo non succedeva, che nessun coetaneo veniva rinchiuso dai suoi genitori a ogni luna piena per trasformarsi in una creatura deplorevole e aveva finito per chiedersi se a convivere coi mostri fossero solo quelli che avessero una particolare natura aberrante, che predisponessero di una certa inclinazione alla follia, alla rabbia, che se lo meritassero, insomma. Remus non aveva idea di chi fosse Fenrir Greyback, il lupo che l’aveva morso da bambino, perché Lyall pensava che non sapere l’avrebbe fatto crescere meglio, che non l’avrebbe fatto convivere con l’idea che quella fosse stata una disgrazia evitabile. Lyall tenne relegato nell’egoismo del suo cuore il vero motivo per cui non gli spiegò per molto tempo che era stata colpa sua, che aveva provocato la creatura sbagliata e che lui per primo aveva definito i lupi mannari dei mostri, che quella di Greyback era stata una vendetta. E questo vero motivo era, semplicemente, che non voleva che suo figlio lo odiasse.
Così, quando Remus crebbe e i ricordi della notte del morso sfumarono insieme a quelli del suo sogno, lasciandolo con nessuna domanda e la sola rassegnazione sulla sua condizione, il pensiero infantile che lui se lo fosse meritato, che aveva un’indole sbagliata e da cambiare, continuò inconsciamente a divorarlo.
Ma non per sempre.
 
L’odore del muschio si mischiava a quello bagnato della sera, in un aroma che sapeva di libertà e di autentica trasgressione. I tronchi rugosi del bosco sembravano avere tutt’altro fascino e le percezioni sballate degli animali facevano sembrare l’esperienza come una rinascita. Sorpassarono correndo una pozza non troppo profonda, l’eccitazione palpabile in una specie di estasi dei sensi. All’improvviso, però, Remus arrestò quella corsa di scatto, costringendo gli altri a frenare poco più dietro di lui. Il lupo annusò l’aria in un’attesa che sapeva di sospensione.
Poi successe una cosa strepitosa.
Non ci fu una ragione precisa per cui Remus, nel suo ventaglio limitato di emozioni semplici, sentì la necessità di ululare: era una cosa che non faceva mai. C’era un mito da sfatare, infatti, non era vero che i lupi mannari non conservassero un barlume di consapevolezza, durante le trasformazioni, ed era esattamente per questo che anche il lupo, in fondo, si odiava, sapeva di non poter esistere da solo tanto quanto Remus sapeva di non potersi liberare di lui.
Ma ci fu una ragione precisa, invece, per cui Sirius si voltò verso James e Peter, abbaiò per attirare la loro attenzione e si unì a Remus nell’ululato. James non perse un attimo e fece più rumore che poté, mentre Peter fissò i suoi amici per chiedersi cosa diavolo stessero facendo, prima di rassegnarsi e squittire furiosamente.
Fu in quel momento che capì perché lo stavano facendo.
Suonava tanto come delle porte magiche a battente o come gli ingranaggi a vista di un orologio enorme in una stazione di Parigi. Tutti i lucchetti si chiusero a catena, guidati dalla stessa connessione profondissima, una specie di richiamo che veniva dalla terra a spiegare a delle menti meno offuscate da emozioni complesse e umane che bastava guardare lo sbocciare di un fiore per comprendere il cielo.
Loro erano ovunque.
Ognuno aveva lasciato un segno nell’altro, una macchia forse un po’ noiosa, ma impossibile da lavare via. Una firma che non veniva messa più solo negli scherzi ai danni di Gazza, negli insulti riservati solo ai Serpeverde o nelle storie terrificanti che sapevano raccontarsi di notte, ma nei più fini e stupidi momenti che passavano insieme.
Diventare Animagus per non lasciare solo un amico era stato assolutamente fuori di testa e James lo riuscì a capire solo nella testa di un cervo. Il fatto che l’avessero fatto lo stesso, però, dava i suoi inaspettati frutti. Perché Remus ebbe compagnia e un modo per non farsi male, James si sentì utile e a posto, Sirius provò la rassicurazione eterna di avere una famiglia e Peter si sentì per la prima volta parte di qualcosa; a dimostrare che la meta ultima della Mappa del Malandrino erano sempre stati loro.
Il lupo si voltò a guardarli, gli occhi catarifrangenti che prendevano una nota vagamente più tiepida e meno brillante, poi, con un cenno del capo, li invitò nuovamente a seguirlo.
Insieme.

***
 
“Tutto bene?” Emmeline alzò lo sguardo dal suo libro di Pozioni e poggiò delicata una mano sulla spalla di James. La biblioteca non era solo silenziosa, era anche particolarmente vuota, vista la tarda ora e la pioggia che ticchettava feroce contro le grandi finestre.
James sbadigliò per la terza volta in un minuto e si liberò degli occhiali con un gesto fluido, portando una mano a stropicciarsi gli occhi. Aveva dormito due gloriose ore e ce l’aveva praticamente scritto in faccia. “Sto benissimo,” mormorò piano, concedendo solo una rapida occhiata a Emmeline, che alzò un angolo della bocca in un sorriso scettico.
“Lo vedo.”
Proprio in quel momento il bussare frenetico della pioggia fu interrotto da uno scalpiccio. Lily si infilò nel corridoio in cui stavano studiando i ragazzi con una fretta un po’ buffa, a detta di James.
“Oh, ciao Emmeline,” salutò Lily, alzando una mano. La ragazza ricambiò con un sorriso.
“Evans,” la salutò James e non ottenne risposta. Lily l’aveva certamente ignorato, ma si era anche affrettata a nascondere il muso in un grandissimo libro di Incantesimi, poco più in là. James scrollò le spalle e portò la sua attenzione di nuovo su Emmeline: era la seconda volta che si trovavano a studiare da soli e trovò quest’informazione importante per la prima volta solo in quel momento. Colpa sicuramente del sonno, non c’era dubbio. “Emmeline,” sussurrò, sentendosi pervadere da una certa trepidazione tipica solo di questo genere di momenti. Lei alzò lo sguardo dal suo libro incuriosita, aggrottando le sopracciglia alla vista della nuova luce negli occhi di James.
“Dimmi,” replicò lei, deglutendo piano.
L’aria piovosa della biblioteca sapeva diventare magica. James sorrise storto, poi si stabilizzò col gomito sul suo libro, si resse la testa con la mano e poi… cosa diavolo avrebbe dovuto fare in una situazione simile? Certo, sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma come? Optò per una delle sue grandi doti: prendere tempo. “Questa è… la seconda volta che siamo soli.”
Emmeline soffiò una mezza risata. “Già…”
Non lo stava aiutando per niente.
A quel punto, quindi, James si appellò alla tipica ‘ultima spiaggia’. Una cosa che non avrebbe ammesso mai di aver pensato di fare neanche sotto tortura, una cosa proprio umiliante, fuori di testa e che demoliva in un solo colpo la montagna di orgoglio da cui nasceva la sorgente del fascino di James Potter… o almeno così credeva.
Però, in tempi di crisi, non c’era nulla di male nell’utilizzare un’arma, un piccolo trucchetto che puzzava di cane scemo. Sospirò come se sentisse la risata di Sirius già perforargli i timpani e si arrese all’evidenza: non sapeva che altro fare.
Fase uno. James si morse il labbro inferiore, trattenendo un sorriso. Decretò ufficialmente che il suo imbarazzo stava raggiungendo livelli celesti.
Fase due. Abbassò lo sguardo sulle labbra di Emmeline e la vide trattenere il fiato. 
Fase tre. Sorrise tornando con gli occhi nei suoi e si sporse appena in avanti, quel tanto che bastava per costringerla a coprire la distanza restante e baciarlo.
Era almeno cinquanta volte peggio di come se lo aspettava, a essere del tutto onesti. Non era complicato e la carezza sulla guancia che gli diede Emmeline era anche piacevole, ma aveva immaginato le trombe, la sensazione di stare sott’acqua e le stelle cadenti in cielo e invece era solo un indefinito calore nel petto. Carino, sicuro, ma non abbastanza da lasciarlo senza fiato. Forse era colpa sua e del modo entusiasta con cui conduceva la vita, ma non avrebbe mai scambiato uno scherzo per una sessione di baci con Emmeline. Era bello, però, sentirsi attraenti.
Quando James interruppe il bacio, intercettò lo sguardo di Lily, alle spalle di Emmeline. Lei abbassò gli occhi di scatto, come a fingere che fossero sempre stati incollati al libro e James si chiese per un attimo per quale assurda ragione gli fosse venuto in mente di baciare Emmeline proprio quando non erano soli.
“Ehm…” Emmeline arrossì vistosamente, “è stato… davvero bello.”
Ah, sì?
“Già,” convenne James, con un sorriso. Non ebbe molto tempo per testare di nuovo i magici effetti di un bacio di una ragazza, perché l’incubo da cui scappava da un giorno intero gli si presentò davanti proprio mentre era più vulnerabile.
“Oh, James Fleamont Potter, giusto?” Remus sbucò da dietro uno scaffale, esibendo un sorriso… terrificante.
“Questo è un colpo basso.”
“Grandioso, in qualità di prefetto… ciao Lily e ciao Emmeline,” si interruppe Remus, perché le buone maniere venivano sempre prima delle soddisfacenti strigliate, “in qualità di prefetto ti chiedo gentilmente di seguirmi.”
“Posso declinare la richiesta?”
Sirius e Peter sbucarono anche loro da dietro lo scaffale da cui era comparso Remus, “lascia stare, James, vince lui.”
“Riformulo, allora,” riprese Remus, imperturbabile, “alza quel culo e seguimi, perché ti giuro che questa volta ti faccio a pezzi.”
James deglutì rumorosamente e si congedò da Emmeline, scusandosi a profusione.
“Che avete fatto?” gli domandò Sirius, allusivo, una volta che furono usciti dal silenzio tombale della biblioteca semivuota.
James sorrise vispo e alzò un paio di volte le sopracciglia.
Oh-ooh,” rispose Sirius, imbattibile quando si trattava di essere eloquenti, “hai usato La Tecnica?”
Quando James non rispose, riuscendo a conquistare al massimo un paio di mormorii incomprensibili, Sirius sgranò gli occhi un po’ troppo vittorioso.
“Non ci credo. Pete, Remus, ha davvero usato La Tecnica.”
“Puoi smetterla di chiamarla così?” gli intimò James, riuscendo solo a farlo ridere più forte.
“Ha funzionato, eh? Te l’ho detto, Jamie, è alta qualità. Remus, devi provare anche tu a usare La Tecnica.
“Hai davvero il coraggio di parlargli?” si intromise Peter, che, se avesse avuto ancora la sua coda, l’avrebbe certamente nascosta tra le gambe.
Sirius aggrottò la fronte. “A chi, Remus? Tranquillo, Pete, è tutta scena.”
E, quando Remus non rispose, i ragazzi furono certi del fatto che non fosse affatto tutta scena.

***
 
“Quello che avete fatto non è solo pericoloso, ma anche assolutamente stupido, sconsiderato e assolutamente non necessario.”
“In realtà le ultime trasformazioni sono state dolorose,” si intromise James, “ricordi? L’hai detto…”
“Zitto.”
E James fece come gli era stato ordinato.
“Tra l’altro sono certo che non siate Animagus registrati, questo significa che se fate un solo passo falso finite tutti e tre ad Azkaban.”
La ramanzina sembrò avere effetto solo su Peter, che abbassò lo sguardo pieno di vergogna.
“Andiamo, andrà tutto bene, dov’è il Malandrino che…”
“Sirius, questo non è uno scherzo che vale una detenzione.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo e si appoggiò annoiato contro la porta del dormitorio. Quando Remus sostenne il suo sguardo, si premurò anche di incrociare le braccia al petto e sbuffare.
“Ormai è tardi, amico,” James scrollò le spalle, “dovevi dircelo prima.”
Io prima non lo sapevo!
“E secondo te perché non te l’abbiamo detto? Tra poco ti scoppia la vena sulla fronte!” notò Sirius, “ah, a proposito, era questa la cosa che ti tenevamo nascosta, non c’è di che.”
“In più,” continuò James e Remus ne fu sempre più sicuro: da babbano sarebbe stato un brillante avvocato, “quante ore sei stato in infermeria, oggi? Due? E solo per i dolori della trasformazione.”
A quel punto Remus non seppe cosa dire. Madama Chips era sconcertata dallo stato miracoloso in cui si trovava Remus e gli aveva intimato di continuare su quella linea, qualunque essa fosse, perché funzionava alla grande.
“Da quanto me lo tenete nascosto?” domandò rassegnato. In effetti ormai era fatta, ma questo non sedava la sua rabbia.
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi James sospirò. “Tre anni.”
Remus esitò solo un attimo. “Da quando lo sapete, quindi.”
“Sorpresa!” scherzò Sirius, che era quello che Remus avrebbe voluto uccidere con più ardore. Lo ignorò, per scongiurare ogni attacco violento.
“Be’, è…” Remus si prese un attimo per pesare le sue parole successive, ma non trovò modo di farle suonare come un insulto, “è davvero impressionante.”
“Non siamo gli studenti più brillanti di Hogwarts per niente,” ribatté Sirius, cingendo le spalle di Peter e James con un sorriso impossibilmente luminoso.
“Okay, be’...” Remus arrossì e portò una mano a grattarsi la nuca, a disagio, “sappiate che non vi sto ringraziando, ma… grazie.”
“Oh!” Sirius aggrottò le sopracciglia e si voltò verso James, “crede che l’abbiamo fatto per lui.”
James inspirò a disagio, “che imbarazzo.”
Lo sguardo di Remus fu impagabile. Sgranò gli occhi mortificato mentre la carrellata dei soliti pensieri irrompeva inarrestabile nella sua testa.
“Ci è davvero cascato.”
Sirius li interruppe con una facilità disarmante, che lo portò a credere che non sarebbe sopravvissuto un solo giorno senza di loro – senza di lui.
“Hai visto che faccia?” gli diede corda James e Peter si sentì in dovere di intervenire, perché stavano abusando della pazienza del loro amico.
“Ovviamente l’abbiamo fatto per te, sono solo due idioti.”
“Remus,” iniziò James, questa volta un sorriso genuino gli inondò il viso e la voce si tinse di una serietà rarissima, “non ti libererai facilmente di noi, neanche se ci pregassi di farlo.”
E Remus si chiese come avesse fatto a pensare, anche solo per un attimo, che il peso immenso che James dava all’amicizia potesse essere messo in dubbio. Il silenzio tipico dei momenti particolarmente sentimentali andava spezzato al più presto.
“Questo non vuol dire che non ce l’abbia con voi.”
“Ci risiamo.” Sirius alzò gli occhi al cielo e sospirò pesantemente.
“Pete, scordati che ti scriva i temi di Pozioni e Trasfigurazione.”
“Oh, andiamo!”
“Magari è la volta buona che impari qualcosa,” si intromise Sirius, ottenendo in cambio una bella gomitata nel fianco.
“Tu hai perso la scommessa, sei un cane,” gli ricordò Remus, scuotendo la testa. Il sorriso rilassato di Sirius passò per un attimo su uno nervoso, prima di stabilizzarsi sulla malizia.
“Al suo servizio, signor Lupin, i suoi sei mesi di tempo iniziano ora.”
Remus ignorò il brivido che gli attraversò la spina dorsale e puntò uno sguardo determinato in quello di James.
“Tu scoprirai presto la novità.”
“Cosa?”
“Non siete gli unici ad avere dei segreti.” Remus scrollò le spalle e sorrise.
James l’avrebbe pagata cara.




 
Note di El: Ciao, solite scuse per il ritardo, il fatto è proprio che non sapevo che giorno fosse ieri. Poi altre tre ore e mezza di ritardo per aver fissato una frase senza sapere se tenerla o cestinarla, alla fine c'è, già lo so che poi me ne pento e vengo a cancellarla in segreto tra dieci giorni. In questa storia Marlene c'ha il radar, comunque.
Amici, non buttate le cicche delle sigarette nella terra, qua siamo negli anni '70, c'era una consapevolezza diversa (ed è una storia, dettaglio trascurabile, non c'è nessuna cicca reale. Vabbè in ogni caso Sirius non può essere considerato un esempio da seguire) :((
Amici, cercatevi il bramito del cervo, è un suono diabolico che fa tipo GGGGGGGH veramente insopportabile, ve lo consiglio per addormentarvi. Paradossalmente consiglio le compilation di cervi che cercano di attirare l'attenzione di una femmina, fanno ancora più bordello sono tipo MMMMMMMGHGHHHH. Poi non ho messo una nota perché mi pareva ridicola, ma i palchi sono le corna del cervo, guai a chiamarli corna in presenza dei biologi.
Allora io sono stata tentata giuro di far succedere cose strane di cui pentirsi durante la magika trasformazione, però poi ho desistito perché è proprio una cosa tipica della roba wolfstar, sto fatto che Remus è molto socievole con Sirius (ma come parlo, santo cielo), quindi ci accontenteremo del fatto che si sono rotolati nel fango e nulla di più.
Soffro ogni volta che faccio dire a James "amico", perché mi pare Bugs Bunny "che succede, amico?".
Vabbè, questo è tutto, ragazzi, amici, signori, rispettabili lettori GRAZIE per esservi sorbiti un pezzone senza dialoghi e in generale tutto questo capitolo. GRAZIE di continuare a dare una chance a questa storia caotica e salterina. E pure per i commenti troppo gentili e sclerosi che mi fanno sempre impazzire e bramire.
Ci vediamo prestossss,
Adieu,

El.

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 17 - Il profumo della consapevolezza ***


17. Il profumo della consapevolezza







“Che la penitenza abbia inizio!”
Peter sfiorò con un piede l’acqua gelata e lo ritrasse di scatto in maniera quasi comica. Quella, a dire il vero, era una penitenza solo sua, perché James e Sirius non sembravano tanto contrariati all’idea di farsi un bagno nel Lago Nero in pieno ottobre.
“Vuoi unirti a noi?” James alzò uno sguardo speranzoso in quello di Remus, che invece si era appena seduto all’ombra di un albero e aveva tutta l’intenzione di iniziare una lettura che aveva in programma da molto.
“Lascia stare, Jamie,” Sirius si appoggiò col gomito alla spalla di James e alzò gli occhi al cielo, “lui è un prefetto.”
“E tu sei un perfetto idiota,” lo prese in giro Remus, “io non ho perso nessuna scommessa sulle vostre strane forme da animali, perché dovrei pagare la penitenza?”
“Perché sei noioso.”
“Ah, be’, allora vi raggiungo subito.”
Sirius alzò le sopracciglia, furbo, “davvero?”
“No.”
“Peggio per te.”
E Remus fu costretto a fare i conti praticamente subito con il suo nuovo e luccicante conflitto interiore, perché Sirius gli diede le spalle e si spogliò senza preavviso. Okay, forse il fatto che ci volesse molto più che qualche secondo per sbottonare una camicia era un preavviso più che sufficiente, ma Remus era a disagio.
Quella cosa non aveva uno straccio di senso. Prima di tutto perché si stavano spogliando anche James e Peter e la cosa non gli destava il minimo interesse e poi perché Sirius era tutte le cose che non trovava piacevoli: era irritante, sbavava nel sonno più del normale, si dava decisamente troppe arie, i suoi calzini puzzavano da morire e, per qualche ragione, finivano sempre ai piedi del suo letto e poi urlava troppo. Quindi quello sfarfallamento imprevisto del suo respiro, quando lo aveva baciato, non aveva ragione d’esistere ed era soprattutto, e Remus ci teneva a sottolinearlo a se stesso, casuale o al massimo dovuto al Whiskey Incendiario, che comunque non avevano l'età per bere, per la cronaca. Era stato vittima di una sua controindicazione?
Forse si era sorpreso a guardarlo spesso, si diceva, perché era obiettivamente attraente e provava una vaga e sanissima invidia. Il fatto che non fosse l’unico ragazzo attraente al mondo e, soprattutto, a Hogwarts, era una cosa a cui preferiva non pensare.
La sua logica filava liscia e senza una grinza nella sua testa e anche nei suoi comportamenti, ma aveva una sola, insormontabile, pecca: Remus non aveva alcuna scelta. L’istinto tagliava il traguardo un attimo prima della ragione con l’imprevedibilità tipica soltanto della persona che l’aveva mandato in quel circolo vizioso.
Si risolse, quindi, a fare due cose, in quel tempo in cui i ragazzi scontavano la loro penitenza: iniziare finalmente a leggere 'le notti bianche' e calcolare il tempo in cui alzava gli occhi su ciascuno dei suoi amici, per assicurarsi che fosse uguale per tutti e che Peter e James avessero il loro meritatissimo tempo di visione.
Non mancò di dirsi, anche, che era un grandissimo cretino.
“Chi ha avuto quest’idea?” urlò James, dal lago, tremando e abbracciandosi come se la cosa avesse potuto effettivamente riscaldarlo.
“Tu, idiota,” rispose secco Sirius, schizzandogli la schiena e vanificando qualunque tentativo di James di riscaldarsi.
Il ragazzo imprecò e non perse un attimo, lanciandosi subito alla volta dell’amico per restituirgli il favore e cominciando già a dare manate all’acqua piuttosto violente per raggiungerlo dove veniva battuto in velocità.
“Va bene, va bene!” dichiarò Sirius, alzando entrambe le mani e tuffandosi una volta per tutte di testa, per dichiarare la famosissima immunità agli schizzi.
James alzò gli occhi al cielo seccato e comprese che non poteva far altro che tuffarsi a sua volta, se non voleva diventare lui il bersaglio.
“Peeete?” chiamarono in coro entrambi, una volta saliti a galla fradici.
“Ho freddo,” dichiarò lui, come se fosse stata una giustificazione e non un incentivo ad essere attaccato.
“Si chiama penitenza perché non è divertente.”
“A me sembra che vi stiate divertendo.”
“Nascondiamo meglio il dolore.” James fece spallucce e si avvicinò pericolosamente a Peter.
“Non mi toccare,” lo avvertì lui, tremando come una foglia e ritraendosi istintivamente man mano che James gli si avvicinava. Peter si congelò quando il ragazzo gli si affiancò e alzò un braccio gocciolante in aria. “Non farlo.”
“Un abbraccio,” lo pregò James, come se ci fosse stato spazio per le richieste.
“Dopo.”
“Piccolo,” lo prese in giro lui, posando pianissimo il braccio sulla spalla di Peter e stringendolo lentamente a sé. Lui strizzò gli occhi e sperò di abituarsi presto al freddo, in attesa che quella tortura finisse. James, però, aveva altri piani.
Annuì molto lentamente e non lasciò andare Peter. Un attimo dopo, Sirius lo attaccò con una mitragliata di schizzi che lo costrinsero a sbuffare affranto e a divincolarsi dalla stretta di James, mentre i due ridevano a crepapelle.
 
“Mi spieghi perché l’hai sporcato?”
Sirius lasciò cadere le braccia e la smorfia da ‘persona nascosta in procinto di attaccare’ gli cadde dal viso immediatamente per cedere il posto alla seccatura. Era proprio a un passo dal saltare addosso a Remus con un attacco a sorpresa alle spalle e lui gli aveva appena parlato. “Come hai fatto?”
“L’odore,” rispose distrattamente Remus, lasciando scorrere lo sguardo sulle pagine imbrattate del suo libro.
“Puzzo?” Sirius alzò un braccio e si annusò, poi scrollò le spalle come se la sua eventuale puzza fosse stata un problema con cui dovevano fare i conti gli altri.
“No, lo sento e basta, fa parte del pacchetto del piccolo problema peloso, come vi piace chiamarlo.”
“Che odore ho?”
“Buono,” borbottò Remus, continuando a leggere un attimo e congelandosi quello dopo. Deglutì a vuoto e non staccò gli occhi da una parola che non aveva più senso, un insieme di lettere incomprensibile che lo portò a chiedersi se non stesse leggendo ‘le notti bianche’ in russo.
Sirius trattenne una risata nel naso. “Be’, grazie.”
E Remus fece due cose, a quel punto. Glissò disperatamente da un lato e si concentrò al massimo dall’altro.
Quello era un imprevisto perfetto per testare la veridicità dei suoi sentimenti, per comprendere dove si trovava la linea di confine che separava una paranoia da una verità fulminante. Una parte di lui cercò di ricordargli che non c’era nulla da testare, che il fatto che lui lo considerasse un dubbio
 – e non un problema già riconosciuto – era solo una forma di autodifesa, una negazione bella e buona. Remus, al contrario delle persone che vivevano questo genere di periodi di crisi sotto il nome di ‘Oh, no, ho una cotta per il mio migliore amico maschio’, aveva ben altri problemi: era un sentimento sincero o frutto di un dubbio su cui stava ragionando così tanto da impedirsi di sbrogliarlo?
Il fatto di testarsi così tanto, in ogni caso, era un problema. Perché non sono molte le volte in cui ci si può testare prima di impazzire.
Ed ecco quindi perché una parte di lui aveva anche scelto di glissare.
“Mi spieghi perché l’hai sporcato?” ripeté la domanda, alzando finalmente gli occhi su di lui.
“Cosa?”
“Il libro.”
“Non l’ho sporcato!” si difese Sirius, scuotendo la testa come se l’accusa fosse stata semplicemente ingiusta!
“Ci hai scritto sopra.”
“No, ho sottolineato le frasi che mi facevano ricordare perché lo stessi regalando proprio a te.” Quando Remus lo fissò in attesa che gli desse una vera spiegazione, visto che a quanto pareva quella non era stata abbastanza esaustiva, Sirius aggrottò le sopracciglia e ricambiò il suo sguardo. Tre secondi dopo cedette. “Okay, forse ho anche scritto qualche commento, ma non potevo evitarlo!” Puntò il dito sulla pagina impiastricciata: ‘se dite così, la mia timidezza sparirà subito e allora, addio a tutte le mie strategie!’ Sirius ridacchiò. “Vedi? Tutti usano una Tecnica.”
Remus pensò che avesse leggermente travisato il senso della frase, poi aggrottò la fronte e lesse ad alta voce: “‘Rido perché vi fate del male da solo. Se ci aveste provato, sicuramente ci sareste riuscito, anche se tutto fosse accaduto per strada. Quanto più semplicemente si fanno le cose, tanto meglio.’ Un commento accanto alla pagina recitava: ‘questa è per te, lo vedi che fine si fa a pensare troppo?’
Remus alzò gli occhi al cielo, una punta di irritazione al pensiero che quel commento si adattasse alla perfezione al suo dilemma interiore e che a farlo era stato proprio lui.
Sirius scrollò le spalle e si chinò in avanti, voltando qualche pagina e fermandosi solo quando si ritenne soddisfatto. Tornò al suo posto e aspettò che Remus leggesse il paragrafo che aveva sottolineato.
Sognerò di voi tutta la notte, tutta la settimana, tutto l’anno. E domani verrò qui, verrò immancabilmente qui, in questo posto, a quest’ora e sarò felice ripensando ad oggi. Questo posto mi è già diventato caro. [1]
Accanto a questa manciata di parole sottolineata di rosso, un commento deciso: ‘EHI! Ma questi siamo noi alla Torre!’
“No,” sentenziò Remus, tornando al punto in cui il suo dito faceva da segnalibro, “non ci sono ancora arrivato, non la leggerò.”
Sirius lo guardò come se fosse stato un turista da Marte. “Ma è solo una frase!”
“Non ci sono ancora arrivato,” ribadì, perché evidentemente la prima volta non aveva attecchito nella mente di Sirius, “non voglio ancora leggerlo. Tu ti sei già scocciato di annegare Peter con James?” domandò Remus, accennando col capo in direzione del Lago Nero, dove James, lasciato solo contro Peter, iniziava ad accusare l’assenza di un secondo uomo.
“Polmoni di ferro, quello lì, dammi retta, un giorno ci fregherà tutti.”
Remus lo fissò per qualche attimo. “Tu non fai mai complimenti a Peter.”
“Infatti no, scherzavo,” replicò lui, ridacchiando, “non ha il fegato di fare niente, probabilmente tra poco implorerà James di affogarlo.”
“Stronzo.”
“Sono qui per te!”
E Remus
 – dannato carretto di dubbi e domande che scorrazzava nella sua testa!  – arrossì. Sirius non lo notò oppure preferì non farglielo pesare.
“Devi venire anche tu.”
“Scordatelo.”
“Guarda che è un momento di coesione.”
“Già, con la febbre!”
Sirius rise. “Ti ricordo che una volta al mese corri nudo nel bosco, la febbre ha avuto più occasioni di attaccare.”
“Non ricordarmelo.”
“Anche quello era un momento di coesione.”
“Sirius…”
“Super divertente!”
“No.”
Sirius lasciò scivolare un braccio sulle sue spalle, sperando di non essersi asciugato troppo in quel frangente in cui aveva abbandonato il Lago Nero. “Secondo me non vedi l’ora.”
“Cosa te lo fa credere?” domandò Remus, cercando di sottrarsi a quel contatto perché si stava inzuppando il mantello.
“La tua faccia.” E Sirius avvicinò le labbra al suo orecchio.
“C-che stai facendo?”
“Niente,” ribatté, il tono intriso di quella sua ironia tipicamente ingenua, che di ingenuo non aveva niente.
“Mi sto bagnando,” lo avvertì, seccato, abbassando lo sguardo sul suo mantello. La scelta di parole era stata un po’ infelice, evidentemente, perché Sirius lasciò cadere la scherzosa seduzione e scoppiò a ridere.
“Di nuovo, grazie!”
Remus alzò gli occhi al cielo, il che evidentemente non fu un antidoto alla risata di Sirius, ma solo benzina sul suo fuoco, poi se lo spostò di dosso come se fosse stato il peggiore dei parassiti e si decise a togliersi il mantello. Sirius, di contro, si alzò di scatto come se non fosse appena stato scacciato e si voltò rapido in direzione di James.
Dal Lago Nero, come il mitico e infallibile Cacciatore che era, James diede un’ultima rapida occhiata alle bollicine in superficie che segnalavano la presenza nell’acqua di Peter, lo spinse in basso un’ultima volta e corse gocciolante e luminoso in direzione dei ragazzi.
“È fatta?”
“Cosa?” chiese Remus, aggrottando la fronte. Quell’attimo di confusione gli fu fatale, perché Sirius ebbe il tempo di annuire e sfilargli il gilet con uno strattone, mentre James si preoccupava di rubargli il libro dalle mani e lasciarlo sul prato sotto l’albero. Ancora in camicia e pantaloni della divisa, fu sollevato dai suoi amici e trasportato di peso verso il Lago Nero. “No, ehi, mettetemi giù!”
“Mai!” risero i ragazzi in coro, riuscendo a malapena a contenere i tentativi di liberarsi di Remus.
“No, davvero, ma che… EHI!”
“Tappati il naso!” lo avvertì James, che lo teneva per i piedi e aveva adottato questa buffissima camminata a gambero che lo faceva sembrare sempre sul punto di capitombolare e trascinare giù tutta l’allegra combriccola.
“NO, RAGAZZI!”
“E uno!” contò Sirius.
“E due!” gli diede corda James, dondolando i piedi di Remus come se avesse avuto esattamente tre anni, non di più.
“E tre!” gridarono i ragazzi in coro, lanciandolo, ancora vestito, nel Lago Nero.
Peter sospirò, prendendo aria a grandi boccate e osservando la scena a debita distanza, perché lui non voleva essere vittima dell’ira di Remus. “Almeno non sono più io il bersaglio.”
L'attimo successivo James lo stava ritrascinando sott’acqua.

***
 
La Sala Comune dei Grifondoro aveva una caratteristica interessante: sprofondava in un silenzio tombale a volte e scoppiava nel chiasso più totale certe altre.
A rendere queste due caratteristiche basilari così peculiari, c’era il fatto che questi due stati venivano raggiunti spesso e volentieri a due minuti di distanza l’uno dall’altro, restituendo una sensazione generale di caos a singhiozzo. Nella pratica, un solo sussurro non del tutto sussurrato faceva sentire gli altri autorizzati ad alzare la voce, finché Lily Evans non interrompeva questa catena con un sonante ‘shhhh’. In realtà non era Lily Evans, almeno non sempre, ma ai Malandrini piaceva accusarla.
James, comunque, non ne era influenzato. Aveva le sopracciglia aggrottate nella più profonda concentrazione e reggeva un libro dalle pagine stranamente non ingiallite in una mano e un boccino d’oro nell’altra. Il chiasso attorno a lui era svanito a mettere in risalto uno dei suoi più grandi pregi: l’innata capacità di intestardirsi e perseguire un obiettivo finchè non ne diventava maestro, ignorando tutto il resto. Studiare su quel libro lo faceva sentire veramente stupido, quasi quanto andare a dire in giro che lo stava studiando. Per questa ragione, Sirius non l’avrebbe mai dovuto sapere, ne valeva del suo onore.
James lanciò il boccino in aria e lo guardò ricadere senza vita sul suo palmo, dandosi ancora dello stupido. Poteva praticamente dire che tutta la sua vita girasse attorno alle palle: le pluffe che dovevano centrare gli anelli per fare goal, i bolidi che non dovevano colpirlo per nessuna ragione al mondo, quelle che Lily gli aveva sabotato al terzo anno, quelle che Sirius gli rompeva di continuo. Eppure mai una volta, James, che si impegnava tanto a non farle mai cadere, si era chiesto esattamente perché cadessero né cosa le facesse cadere.
I babbani, invece, se lo erano chiesto e ci avevano scritto un sacco di libri. James sapeva di avere una buonissima squadra e sapeva anche che, con l’aiuto della fisica e di questa misteriosa accelerazione di gravità, sarebbe diventato imbattibile. E quindi si era messo a studiare, perché se nessuno lo costringeva a farlo non era poi una grande tortura.
“Trovato!” esultò Sirius, lasciandosi cadere a peso morto sul divano e invadendo lo spazio personale di James. Non che ne avesse avuto uno, in ogni caso. “Cosa sono quelle lettere? Rune Antiche?” domandò, sbirciando sui compiti del suo amico.
“Che hai trovato?” lo ignorò James, richiudendo il manuale e dando un’occhiata alla pergamena che Sirius teneva tra due dita con orgoglio.
“Incantesimo Proteus,” annunciò, poi si schiarì la voce e mise su un’espressione che imitava alla perfezione quella della professoressa McGranitt.
“Okay, non ho idea di cosa sia.”
“E a cosa servono gli amici?” ribatté Sirius, un sorriso smagliante da venditore di materassi magici, “permette di legare alcuni oggetti tra loro in modo che, incantato uno, si incantino tutti. Devono essere dello stesso materiale e di forma simile.”
“Vuoi che ci coordiniamo le mutande? Ah, no, le tue sono più piccole.”
Sirius rise. “Non vorrei mai avere a che fare con le tue mutande, una volta mi è bastata.” A quanto pareva James non era l’unico a ricordare troppo vividamente l’incantesimo di Lily. “Comunque, unito a una forma visibile di Avensegium, l’incantesimo localizzatore…” Sirius lasciò la frase a metà, in attesa che James cogliesse al volo.
“Vuoi… legare degli oggetti e localizzarli?”
Sirius alzò gli occhi al cielo e sospirò, col sorriso tipico e rassegnato di chi è circondato da idioti. Poi seppellì una mano nella sua cartella e ne tirò fuori due oggetti uguali che lasciarono James più confuso di prima: specchi rettangolari, inutili sia per stare in una tasca di un pantalone che per venire appesi al muro.
“James, perché non hai ancora capito?”
“Se sapessi leggerti la mente adesso sarei un cretino.”
Sirius sospirò. “Almeno sapresti usare La Tecnica… ah, no, ci vuole il fascino.” Si guardarono per un attimo, valutando se quello fosse il luogo più adatto per azzuffarsi, ma Sirius aveva due specchi appuntiti in mano e troppa voglia di mettere in atto qualunque piano avesse in mente. “Questi sono due specchi.”
James alzò le sopracciglia, come a chiedergli se volesse davvero tirarla così per le lunghe.
“Ci si può specchiare.”
Sì, voleva tirarla per le lunghe.
“Poiché potrebbe prenderti un colpo se vedessi il nido d’aquila che hai in testa, ho pensato che potrei essere tanto clemente da doverlo guardare io.”
James aggrottò la fronte, andando oltre l’insulto e cercando di leggere quella che sapeva già per esperienza essere una grande idea.
“Jamie, tu ti specchi, io ti vedo nel mio specchio. Io mi specchio, tu vedi me nel tuo,” presentò Sirius, alzando i due riquadri, “durante le detenzioni continuiamo a vederci e parlarci e tramiamo altri scherzi.”
James abbassò le sopracciglia di scatto e lo guardò sconcertato. “Cioè, usiamo l’incantesimo che hai detto tu…”
“Proteus.”
“Proteus,” riprese James, senza perdere un respiro, “per legare uno specchio all’altro e viceversa, in modo che formino un ciclo chiuso.”
Sirius annuì e sorrise sghembo, perché adorava la velocità di James in questo genere di cose.
“E poi facciamo in modo che la localizzazione sia visibile sulla superficie dello specchio come se fosse uno schermo,” continuò, aggrottando le sopracciglia in concentrazione, “in modo che uno specchio veda quello che dovrebbe mostrare l’altro.”
Sirius annuì ancora e, questa volta, il suo sorriso si allargò.
“Però così non si sente.”
“Pensavo di rendere la localizzazione più ampia cercando qualche altro trucco per l’udito.”
James osservò gli specchi per qualche secondo, poi alzò lo sguardo nel suo e non disse niente per un po'. “Sirius.”
“Eh.”
“Io ti amo.” La faccia da poker di James si aprì in un sorriso e Sirius poggiò una mano sul petto e finse un conato.
“Hai già avuto un bacio, io non timbro nessun cartellino due volte.”
“Non so di cosa stiate parlando e non voglio saperlo,” Peter piombò alle loro spalle, le sopracciglia contratte in una smorfia disgustata. Si accomodò a terra, con la schiena contro la seduta del divano e il libro aperto sul tavolino.
“Le persone con cui esci, adesso, sono cartellini?” Remus scosse la testa e prese posto alla sua poltrona.
“Preferisci pezzi di carne?”
Remus prese fiato per parlare, poi si fermò, scosse la testa, infine disse: “È… disgustoso.”
Sirius scrollò le spalle e sbadigliò. “Facciamo Trasfigurazione?”
“Sì, ci sono gli elaborati per domani,” lo informò Remus. Abbassò lo sguardo sugli specchi abbandonati sul divano e aggrottò la fronte. “A che servono quelli?”
“Devo compiacermi della mia bellezza,” rispose pratico Sirius, come se gli avesse davvero risposto. Considerò per un attimo i due specchi, poi parlò ancora: “due volte.”

***
 
“Sev,” la voce riecheggiò nel corridoio, correndo tra le mura, “una parola?”
Severus indugiò con lo sguardo tra il sospetto dei suoi compagni e la trasparenza di Lily Evans. Gli occhi puliti e liberi dai peccati di cui non si sarebbe mai sporcata e per cui sarebbe morta. “Sì,” acconsentì, annuendo ai ragazzi Serpeverde e invitandoli a proseguire senza di lui. Avery scrollò le spalle e guidò il gruppo lontano da loro. Sottovoce, però, non perse un attimo per insultarla e Severus non poté far niente per fargliela pagare.
Il mantello di Lily svolazzò leggero, mentre si avvicinava a lui, una specie di angelo che non avrebbe mai potuto sfiorare neanche col pensiero. Ma il suo sguardo si indurì. “Ti diverti? Con loro, intendo.”
La guardò per qualche secondo, senza rispondere. Sapeva che, se avesse continuato così, lei in quello sguardo non avrebbe potuto vederci niente se non la più totale indifferenza. “Sì,” rispose infine.
Lily aggrottò le sopracciglia e lo studiò, la testardaggine che scivolava su ogni lineamento a segnare un futuro brillante. “Non ti credo,” sentenziò, incrociando le braccia al petto e sfidandolo a mentire ancora.
Severus scrollò le spalle e distolse lo sguardo, il disinteresse che faceva a gara con la fierezza di Lily. “Tu non vuoi crederci, è diverso.”
“Sei d’accordo con loro su tutto ciò che fanno?”
Severus alzò un sopracciglio. “Quasi su tutto, sì.”
“Ci sei quando attaccano i Nati Babbani?”
“Sì,” replicò atono, sentendosi vagamente rimpicciolire. Severus sapeva di non avere scelta né brillanti prospettive, si era legato mani e piedi e aveva pure scelto le sue corde. Non era una povera vittima degli eventi, ma il suo stesso carnefice e di continuare a frequentare Lily non gli importava più niente, se il prezzo era trascinarla in basso con lui. E non per una stupida questione di cavalleria, ma perché lui nella notte sarebbe sopravvissuto, Lily si sarebbe ammazzata nel tentativo di illuminarla.
“Perché non attacchi anche me, allora? Perché mi risparmi?”
“Perché ti ostini a non vedere ciò che hai davanti agli occhi?”
“Dovrei credere alla recita che sei un tipo oscuro e freddo?”
Severus scosse la testa. “Non è una recita.”
“Io ti conosco meglio di loro.”
“Tu non mi conosci.” E questa, almeno, era la verità. 
Lily alzò le sopracciglia scettica e abbassò lo sguardo. Quando incontrò di nuovo i suoi occhi, qualcosa era cambiato. “Allora attaccami.”
“No.”
“Attaccami,” ripeté lei, sfilandosi velocissima la bacchetta dalla tasca e puntandogliela contro. Piton non sussultò.
“No.”
“ATTACCAMI!” gridò lei e, questa volta, la sua voce che rimbalzava tra le pareti del corridoio non produsse altro che silenzio.
Severus incrociò il suo sguardo rotto giusto il tempo di capire che aveva fatto la scelta giusta, poi le diede le spalle e seguì le orme dei suoi compagni.
Non l’avrebbe mai attaccata.
“Severus…” quando lui non si voltò, Lily deglutì a vuoto e ricacciò indietro le lacrime. “Stupeficium!” aggredì, e il getto di luce lo mancò di qualche millimetro.
Lui si voltò a guardarla, il tempo di confermare che non aveva mai avuto intenzione di colpirlo, poi sparì in un corridoio.

***
 
James lanciò uno sguardo allarmato a Remus. Lui lo colse al volo e sgranò gli occhi. Il messaggio era chiaro: non ce la faccio più.
Avevano appena finito di cenare e si erano messi tutti e quattro pacificamente a studiare in Sala Comune. Di tanto in tanto, a sottolineare la tranquillità che quei gesti abitudinari sembravano così disperatamente suggerire, Marlene o Dorcas passavano a confrontarsi su argomenti studiati ed esercizi. La serata non sarebbe potuta rotolare in maniera più tranquilla, se non per un fulcro di iperattività inarrestabile – davvero inarrestabile – che impregnava l’aria in maniera un po’ pressante.
“Concentrati,” suggerì Remus, spingendo delicatamente il suo gomito contro quello di Sirius e, recuperata la sua attenzione, accennando col capo in direzione del libro che avevano davanti e che sembrava tutto ciò che Sirius non stava guardando.
A James ricordava Rabastan, con gli occhi che correvano in ogni direzione e si affrettavano allucinati e un po’ strabuzzanti verso qualunque sorgente di rumore. Preferì non farglielo notare, in ogni caso: sarebbe stata una mossa poco furba.
Il gruppo sprofondò nuovamente nel silenzio, ma un’interessante catena di sguardi prese a ripetersi a un ritmo forsennato. Remus lanciava occhiate furtive a Sirius, James si univa con le sue inconfondibili occhiate discrete, che di discrete avevano solo il tentativo, e poi James e Remus tornavano a guardarsi. Sirius, invece, tamburellava la gamba impazzita.
Peter alzò lo sguardo con una frase bloccata in gola che gli si leggeva in faccia: ‘stai muovendo pure il tavolo’, ma James gli impedì di verbalizzarla.
“Andiamo.”
Sirius alzò la testa di scatto come se non avesse aspettato altro che un rumore, una voce a bucare il silenzio. “Dove?”
“A spasso,” lo prese in giro, mimando col polso un guinzaglio che veniva tirato. Sirius sospirò. “A mappare il castello,” rettificò James, cercando il fantasma di un sorriso complice sulle labbra del suo migliore amico. Lo trovò sbiadito.
“Questo tema lo dobbiamo consegnare domani!” gli fece notare Peter, sgranando gli occhi, perché un conto era aiutare un amico e un conto era la McGranitt.
“Appunto,” James gli strizzò l’occhio.
Peter batté le palpebre un paio di volte, mostrandogli tutta l’inconsistenza di quella risposta. “Appunto,” ripeté, lanciando un’occhiata di sottecchi e comprendendo, suo malgrado, che Sirius dopo quell’incentivo sarebbe morto piuttosto che finire i compiti.
James sbuffò. “Pete, è solo…”
“Te lo scrivo io,” concesse Remus e James aggrottò la fronte perché quello sì che era inaspettato. Comprese che doveva essere parecchio preoccupato se aveva chiuso un occhio sui suoi doveri di prefetto e aveva usato addirittura un tono seccato con Peter. Il fatto che Remus si fosse preoccupato, fece preoccupare di rimando anche James.
“Non potete andare voi?”
“Ci restano solo le stanze chiuse e più complicate da raggiungere,” gli ricordò James, “Io e Remus abbiamo solo il mantello, tu sei un topo.”
“Sei una noia,” si lamentò Sirius, stiracchiandosi.
Peter lo guardò solo per un attimo, seccato e senza la minima intenzione di muoversi. Remus lanciò solo una veloce occhiata a James e sperò che capisse.
“Sei una noia,” ripeté James e Peter sbuffò sconfitto. Oh, James aveva capito eccome.
“Me lo scrivi tu?” ritrattò Peter, alzandosi e spazzolandosi i vestiti.
Remus annuì.
“Andata.”
 
I ragazzi presero a vagabondare nei sotterranei provvisti di almeno cinque pergamene ciascuno e consultandosi puntando la bacchetta illuminata sulle pergamene d’interesse. Di tanto in tanto, qualcuno di loro ordinava a Peter di trasformarsi in un topo e sgusciare tra gli spifferi che separavano le porte di legno dalla loro cornice di pietra. Era una fortuna che i sotterranei fossero il luogo più soggetto all’umidità, perché i varchi che si creavano lasciavano a Peter la possibilità di non incontrare alcun tipo di problema durante le sue irruzioni.
Il ragazzo generalmente scivolava al di sotto delle porte, dava una rapida occhiata all’interno delle stanze e le catalogava, se l’interesse che suscitavano non era abbastanza da convincerli a fare un'analisi più approfondita.
“Questo castello è infinito,” si lamentò James, superando la soglia dell’ennesima porta lungo quel solo corridoio. Le stanze chiuse a chiave non contenevano nulla di interessante, di solito, solo oggetti dalle forme bizzarre che dovevano essere passate di moda almeno sette secoli prima.
“Per fortuna ci siamo noi,” rispose Sirius, scribacchiando ‘cianfrusaglie magiche’ sulla sua pergamena e dirigendosi sicuro di nuovo verso la porta.
Passarono per stanzini che contenevano materiale per le lezioni di Astronomia, altri artefatti dalla dubbia utilità, scope distrutte e dischi rotanti che non avevano altra funzione se non quella di distruggere la voglia di qualcuno di far girare i propri occhi; finché una porta più ampia e dai cardini di acciaio non si parò loro davanti più imponente e maestosa delle altre.
Dalla serratura in ferro fuoriusciva un soffio di fumo scuro.
Alohomora,” sussurrò James e i sostegni sbatacchiarono contro il legno. La serratura non scattò, la soglia rimase sbarrata, l’incantesimo cadde inutile nel silenzio.
“L-la saltiamo?” propose Peter, un falso sorriso incoraggiante e una supplica negli occhi già pronta a spostarsi sulle labbra.
James e Sirius sorrisero all’unisono, lo sguardo affamato acceso di una curiosità irreprimibile. Peter si voltò speranzoso verso Remus, non scoprendo altro che un bagliore più intenso negli occhi vigili.
“Scordatelo, Pete.”
Era stato Remus a parlare, studiando i lati della porta come a prendere le misure per un piede di porco con cui fare leva per forzarla.
“Io lì sotto non ci passo,” ritentò Peter, questa volta con una buona scusa dalla sua parte. James e Sirius, con uno sguardo, decisero che comunque non sarebbe bastata a dissuaderli.
Sirius prese fiato un secondo prima di James, spegnendo la luce che faceva la sua bacchetta e lasciandoli al buio per qualche secondo.
Incendio,” sussurrò e Remus e Peter ebbero solo il tempo di distinguere un bagliore dorato alla base della porta, prima che James gli parlasse praticamente addosso.
Aguamenti.”
In un attimo, la fiamma che aveva appena iniziato a bruciare il legno alla base della porta si estinse, lasciando una cornice nera e cinque centimetri di vuoto al di sotto.
A essere incredibile, in questo caso, non era stato l’utilizzo di una delle combinazioni di incantesimi più elementari che esistesse, ma il fatto che non si fossero neanche consultati.
“Ora ci passi,” lo incalzò Remus, che doveva aver dimenticato senza ombra di dubbio che lui, in quella scuola, era un prefetto.
Peter sospirò e cedette il passo nuovamente alla sua forma di topo, squittendo annoiato e infilandosi nella fessura che James e Sirius gli avevano gentilmente aperto. Qualche secondo dopo, il rumore metallico di una forzatura annunciò il loro successo. La porta si aprì di qualche centimetro con un cigolio e sfidò i ragazzi a varcare la soglia. James esitò soltanto un attimo, prima di spalancarla.
La stanza era una specie di inventario di pozioni. Lo spazio grande e circolare era per lo più vuoto, se non si contava una scrivania inchiodata a un muro e la sua sedia grande in legno di ciliegio, foderata di verde. Sul tavolo, una miriade di ampolle e fiale giaceva immobile e in bilico in attesa soltanto di avere una scusa per tintinnare. Tutt’attorno, ingredienti bizzarri erano disposti nel caos più totale: erbe dall’odore sgradevole erano sminuzzate e sparse ovunque e pezzetti gommosi si affiancavano a figurette pelose disposte senza alcun criterio. A dominare la superficie da lavoro, però, era un calderone grosso e nero che gorgogliava in sincrono con il Lago Nero, da sempre parente stretto dei sotterranei.
Per il resto, la sala era tutta scaffali.
Sulle mensole, altre ampolle e ciotole giacevano in apparente silenzio, contenenti liquidi dai colori più disparati. Ognuna di esse aveva un laccetto aggrappato al collo che segnalava nome e funzione. Sebbene gli scaffali facessero un buon lavoro per nasconderlo, c’era un dettaglio che rendeva quella stanza affascinante e terrificante insieme. Le pareti, fatta eccezione per quella in cui era incastrata la porta da cui erano entrati, erano fatte di vetro e annegavano la stanza negli abissi del Lago Nero. In pratica, quel posto era un balcone subacqueo!
“Cosa diavolo…”
“Credo che sia il luogo in cui Lumacorno prepara le pozioni da portare a lezione,” li informò Remus, guardandosi attorno, gli occhi sembravano reirradiare brillanti i riflessi di tutto quel vetro.
“Cos’era il fumo?” domandò Sirius, ispezionando la stanza, ma non riuscendo proprio a evitare di lasciar cadere lo sguardo nell’oscurità liquida del lago.
“Il calderone,” segnalò James, avvicinandosi alla scrivania e osservando il fumo disperdersi intossicante in tutta la stanza.
“Non è velenoso, vero?” domandò Peter, rimanendo ancora attaccato con le spalle alla porta, ma sporgendosi in avanti per dare una sbirciata. Ovviamente non vide nulla di più di quello che vedeva prima.
“Chi chiuderebbe mai una pozione velenosa in una stanza?” Sirius rise e Peter sospirò come se gli avessero tolto un gran peso dal petto, poi mosse un primo passo timido all’interno della stanza.
Un liquido perlaceo gorgogliava all’interno del calderone e, proprio sulla sua superficie, quel fumo scuro si alzava in grosse spirali, disperdendosi nella stanza.
“Mhh,” mugugnò James. Chiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia, concentrato, “sa di…” spalancò gli occhi di scatto e si guardò attorno frenetico. I tre ragazzi lo fissarono con un cipiglio confuso a testa, guardandosi anche loro attorno e sperando di capirci qualcosa.
“Di che?” tentò Sirius, annusando l’aria e ritrovando solo un retrogusto di… cos’era, vinile?
“Di…” James si perse di nuovo a occhi chiusi al di sopra del calderone.
“Ha ragione, ha un odore strano,” convenne Remus, tentando di identificare quella specie di sapore dolciastro che gli invadeva il naso e facendo appello alle sue doti da lupo, “sa di…”
Fu una cosa velocissima. I sensi di Remus si sintonizzarono sulla risposta corretta nello stesso istante in cui ogni tassello torno a posto nella sua testa e proprio mentre James dava il suo verdetto.
“Manico di scopa.”
Cane, zenzero.
“Pergamena,” cambiò risposta Remus, mentre la consapevolezza terrificante del suo primo istinto gli cadeva sulle spalle come un macigno.
“Che?” James si voltò di scatto verso di lui e alzò un sopracciglio. “No, sa di scopa senza ombra di dubbio. Al massimo ti posso concedere… cos’è, una rosa?” James ci pensò un attimo su, poi lo sguardo gli si illuminò di realizzazione. “No, un giglio!”
Accanto a Remus, Sirius sbuffò derisorio. “Amortentia,” identificò e Peter alzò lo sguardo dalla sua contemplazione concentrata del pavimento e il suo volto si accartocciò in un’espressione di totale confusione.
“Cosa?”
Amortentia,” ripeté amaro Remus, come se la pozione stessa gli avesse fatto un torto, “è il filtro d’amore più potente al mondo e ha un odore diverso per tutti quelli che si trovano nei suoi paraggi. Sa delle cose che ami di più.”
“E di chi ami di più,” aggiunse Sirius, strizzando l’occhio a Peter.
Remus annuì mesto. “Si studia al sesto anno, evidentemente la useranno tra qualche giorno.”
Peter sgranò gli occhi rapito, lanciando un’occhiata al filtro d’amore come se fosse stata la cosa più bella e pericolosa del mondo.
“Allora, Jamie,” il sorriso che gli rivolse Sirius avrebbe potuto tagliare il cemento, “giglio, dicevi?”
Remus riuscì a concedersi un sorriso.
James abbassò lo sguardo e aggrottò le sopracciglia, mentre vari momenti non troppo distanti nel tempo si affollavano confusi nella sua mente.
“Come Lily Evans?” [2]
“Ma… uno può non saperlo?” L’ingenuità nei suoi occhi fu quasi tenera, ma Sirius non aveva pietà per nessuno, né tantomeno per James.
“No.”
“Sì,” negò Remus, un attimo dopo, scuotendo la testa convinto. Quella gita era nata per aiutare Sirius e si era tramutata in un incubo per lui e James.
“E comunque ci sono un sacco di cose che profumano di giglio,” si difese il ragazzo, dando le spalle al calderone in un tentativo ingenuo di evitare l’odore che emanava.
Da quando era tornato a scuola, quell’anno, tutte le volte che c’era Lily le cose diventavano vagamente più rapide, nella sua testa. Tanto per cominciare, mentre tentava di fregarla e convincerla a bere il suo Whiskey Incendiario, l’aveva chiamata per nome e aveva abbandonato momentaneamente tutta la sua voglia di irritarla sul serio. Poi, quando si era trattenuto in campo con lei e Marlene, aveva provato una voglia quasi straripante di impressionarla. Certo, non era uno che adorava passare inosservato, ma, sotto la luce dello studio di Lumacorno e sotto l’effetto della sua pozione, era impossibile non riconoscere che per tutto il tempo non aveva fatto altro che sperare che Lily lo trovasse fenomenale. Come se avesse avuto bisogno di una conferma, lui, uno dei migliori Cacciatori che Hogwarts avesse mai visto. Per finire, e qui James fu sicuro di aver sgranato gli occhi, il motivo per cui si era improvvisamente interessato a Emmeline e gli fosse venuta voglia di baciarla in biblioteca non gli parve più così inspiegabile, ma chiaro come il sole: Lily era lì e lo stava guardando. “No…” pronunciò, gli occhi persi su uno scaffale che conteneva una fila di pozioni per mettere in ordine i capelli e che su di lui non avrebbero mai funzionato.
“Attento alle mosche, ti entreranno in bocca se continui così,” lo prese in giro Sirius, ridacchiando. Remus non se la sentì di sfotterlo.
James si aggrappò allo sguardo di Sirius e scosse la testa come se un’entità divina in persona si fosse affacciata alle finestre del creato solo per dargli una carezza. “Mi piace Lily Noiosa Evans,” verbalizzò, pronunciando il nomignolo come se non fosse stato offensivo.
“Già,” convenne Sirius, trattando quella questione di cuore con lo stesso peso di un compito in classe: alla leggera. Frugò rapido nei cassetti dello scrittoio e ne cavò una chiave di scorta con un sorriso. La mostrò malizioso ai ragazzi e se la cacciò in tasca come un trofeo.
“Un mese.” James era rimasto impassibile a quel furto.
Tre sguardi interrogativi si posarono su di lui.
“Datemi un mese e la farò innamorare di me.”
Peter ridacchiò, scettico. “Neanche una goccia di quel filtro convincerà Lily Evans a uscire con te.”
“Ridi, ridi,” James sorrise tra sé, lo scettro del mondo in mano e nessuna corona per reclamarlo, “cadrà ai miei piedi.”
“Ne sei così sicuro?” incalzò Sirius, il fiuto per gli affari infallibile tanto quanto quello per i tartufi, da un mese a quella parte.
James annuì.
“Sfido!”
Mentre l’ennesima edizione speciale di obbligo o verità si consumava nella stanza, Remus non si dava per vinto. Una volta al mese si trasformava in un lupo, un cane non era tanto diverso da un lupo e l’odore era ovviamente simile. Forse amava il lupo, amava il suo lato più primitivo, più selvaggio. E i biscotti allo zenzero non erano male!
La sua parte razionale e generalmente vincente gli suggeriva che quello era un livello di negazione ai limiti del logico, ma per una cosa del genere Remus era disposto a diventare stupido.
Sì, a pensarci bene quell’odore sapeva più di pioggia, non proprio di cane, forse la pioggia rilassante che accompagnava un libro e una tazza di tè. Forse non se n’era mai accorto, ma Dorcas o Marlene avevano un profumo simile!
“Questa pergamena puzza così tanto?” Peter si rivolse a Remus e lui si costrinse a fare i conti con il pallore che il suo viso doveva aver assunto e con una smorfia di terrore che poteva essere scambiata per disgusto.
James e Sirius smisero di colpo di litigare per concentrarsi su Remus.
“Pete,” Sirius allargò le braccia e si avvicinò al ragazzo, sorridendogli e poggiando facilmente una mano sulla sua spalla. Lentamente, prese a guidare gli amici via dallo studio di Lumacorno, “devo proprio insegnarti tutto.”
Peter lo guardò come si guarda uno scemo che tenta di sembrare affascinante.
“Tu hai sentito solo odore di Cioccorane?”
“C-come fai a sapere che ho…”
“Immagino di no, anche miele? Marlene profuma di miele.”
Peter scelse solo di arrossire e Remus temette che Sirius avesse imparato in fretta qualche incantesimo che rendesse capaci di leggere nella mente.
“Il nostro amico peloso…”
“Non chiamarmi amico peloso.”
“Il nostro amico peloso, a cui presto troveremo un altro soprannome,” si corresse Sirius, dando una mandata alla serratura, come l’avevano trovata prima di entrare, “deve aver scoperto nuovi istinti animali e adesso se la starà facendo sotto.”
“Ti va di condividere?” domandò James e il braccio che gli poggiò sulla spalla pesò come una lama di ghigliottina.
“No.”
Il discorso senza grinze di Sirius si interruppe per una lunga occhiata sorpresa. “Davvero?”
Remus scrollò le spalle, nessun terrore a increspargli la voce perché si ostinava a convincersi di non avere nulla da nascondere. “Ti giuro.”
Sirius arricciò il labbro superiore e sospirò. “Il lupo gli ha mangiato la lingua.”
“È sempre il gatto che mangia la lingua,” lo corresse Remus, “il detto non è cambiato.”
“Le regole le faccio io.”
E, per quanto a Remus piacesse convincersi del contrario, le regole le stava palesemente dettando Sirius.
 
Finita con un successo la perlustrazione dei sotterranei e la definitiva mappatura dell’intera scuola, fatta eccezione per i passaggi segreti, i ragazzi ripercorsero i lunghi corridoi intrecciati con la maestria che solo una mappa in via di sviluppo poteva concedergli.
Quella sera, che sempre di più si apprestava a scivolare nella notte, James, Remus e Peter compresero appieno perché quel progetto li avrebbe salvati per sempre.
I sotterranei erano dimora di stanze interessanti e spiriti particolari, ma c’era un’altra cosa lì sotto che, più che essere inseguita, andava evitata come la peste. E la loro negligenza a riguardo rese vano il tentativo disperato di James e Remus di sedare l’animo di Sirius.
Quella cosa era la Sala Comune Serpeverde.
Sentirono prima la sua voce e poi la misero a fuoco.
“Giri notturni per il castello?”
Bellatrix si fece avanti nella luce fioca delle lanterne che, nei sotterranei, sostituivano le torce. Il suo sguardo raccoglieva a sé tutta la luce del corridoio, rispedendola frammentata come quella di un cristallo. L’eleganza con cui riservò un’occhiataccia a ciascuno di loro sembrava esserle stata iniettata in vena non appena aveva imparato a respirare.
“Non è ancora notte e io sono un prefetto,” chiarì Remus, con una calma immensa che Peter e James gli invidiarono.
Bellatrix sorrise, lo sdegno che traspariva da ogni increspatura delle sue labbra, mentre si soffermava con lo sguardo su ogni cicatrice come se fosse stata la prova della sua inferiorità. “Fai male il tuo lavoro,” lo prese in giro. La seduzione nel tono era fasulla, la simpatia solo un’occhiata della lama con cui sembravano volerlo trafiggere i suoi occhi.
Quando al fianco di Bellatrix comparvero anche Piton e Mulciber, Remus temette davvero che la questione non si sarebbe risolta con una provocazione di Bellatrix e un augurio di soffocare nel sonno di Sirius. Comprese, anche, che le redini di quella situazione ce le aveva James e questo rendeva totalmente impossibile prevederne l’esito.
Gli fu mostrato comunque, quando James e Sirius si armarono contemporaneamente, prima di venire imitati da quelli che adesso erano palesemente avversari.
“Che facciamo, ci inchiniamo?” domandò Bellatrix, l’ironia spiritata che un giorno avrebbe terrorizzato ogni creatura sul suo cammino.
“Sì, certo,” ribatté Sirius e la prima cosa che fece fu attaccare.
James era un grande amico, capiva al volo Sirius con la rapidità e l’efficienza che Remus gli aveva sempre un po’ invidiato e che Peter gli avrebbe decisamente voluto strappare di dosso, ma non aveva avuto tempo per notare che in quell’attacco c’era qualcosa di diverso, una specie di profondità che Remus colse solo nel tono della voce.
“Sbaglio o finalmente ha capito che sei rivoltante? Ho sentito che non vuole più parlarti.” Era stato James a parlare, un sorriso terribile che riservava solo a Piton. Comprendere che era Lily il centro del discorso veniva facile anche ai muri.
Piton si prese giusto il tempo per fissarlo sconcertato per un attimo, una conferma che lo fece infuriare e che lo spinse a restituire l’attacco e a bypassare la parte della difesa. “Lei non c’entra niente.”
James la prese come una sfida. “Hai il cuore spezzato?”
“Quello rivoltante sei tu.”
“Ti va di scommettere?” James schivò un fascio rosso e lo osservò superarlo giusto il tempo di indignarsi. Remus comprese che, volente o nolente, non avrebbe potuto fare da spettatore. “Scommetto che riesco a prendermi tutto quello che vuoi di più.”
Sirius, accanto a lui, rise, lo sguardo che si accendeva della consapevolezza che poteva concedersi un piccolo sfogo.
James attaccò ancora, non lasciando altra scelta a Severus che quella di difendersi incantesimo dopo incantesimo. Con Bellatrix e Mulciber occupati tra altri fasci di luce, non gli restavano tante alternative.
Remus deviò un attacco con la mano con cui impugnava la bacchetta, con l’altra sfiorò James sulla spalla. “Se non ti calmi è tutto inutile.”
L’esitazione gli costò un ciuffo di capelli. James sbuffò, il peso della ragione che incombeva irritante a ricordargli che prima del suo accanimento su Mocciosus c’erano i suoi amici. Caricò e, con un muro di vento, costrinse Piton a cadere all’indietro, lontano. “Andiamo,” intimò a Sirius, lo sguardo ancora incollato a quello dell’avversario, sfidandolo a rialzarsi e ritentare. Piton si limitò a non abbassare gli occhi, l’odio più profondo che ancora gli oscurava le pupille e gli faceva tremare la mandibola. James, se prima se ne nutriva, a quel punto lo lasciò disgustato. “Andiamo,” ripeté, voltandosi finalmente, certo che quella conversazione muta avesse messo un punto al duello.
“Stai invecchiando,” lo prese in giro Sirius. Se il suo sguardo fosse stato diretto a James, ne avrebbe avuto paura, “io non vado da nessuna parte.”
Bellatrix ridacchiò, “lascialo fare, deve sfogare.”
“Dai, dinne una delle tue, così ti posso cucire la bocca e non sentirmi in colpa.”
Mulciber si sentì in dovere di far valere il suo onore e il suo peso in quel combattimento, quindi pensò che sottolineare le parole di Bellatrix con un attacco fosse una buona idea. La ragazza alzò una mano e scosse la testa.
“Stanne fuori,” intimò, non staccando gli occhi da quelli del cugino, un ghigno spietato le si aprì facilmente sulle labbra. “Io non ho detto nessuna bugia.” Bellatrix alzò entrambe le mani in segno di resa, facendo leva sull’onore e costringendo Sirius a smettere di attaccare. Non dava l’idea di poter vincere, in quello stato, e il fatto che fosse ovvio le dava ancora più potere. “Regulus mi ha raccontato.”
Sirius serrò la mascella, Bellatrix ignorò la sua reazione con studiata noncuranza.
“Un po’ infantile, se vuoi sapere la mia. Nessun rispetto per quello che hai, nessun merito, perfino. E chiami noi viziati? Tutto quello che rinneghi ti spaventa perché lo vedi in te stesso. Ti vanti di aver spezzato la tradizione, di essere tanto diverso e per questo migliore.” Bellatrix lo guardò come se fosse stato la creatura più miserevole sulla faccia della Terra, “Mi sembri più un vigliacco in crisi adolescenziale.”
“Se credi che adesso mi metterò a piangere ferito non hai capito niente.”
Se le parole avessero potuto caricare l’aria d’elettricità, quel metodo sarebbe stato il più efficiente.
Bellatrix scrollò le spalle. “Per me puoi fare quello che vuoi, ti danno troppa importanza, sarebbe molto più facile se ti facessi ammazzare dalle tue idee deviate.”
“Deviate?” Sirius rise. “Voi siete completamente pazzi con quella stronzata del sangue puro e le vostre strane riunioni.”
“Si è fatto tardi.”
Bellatrix ignorò il commento di Remus, “non sei diverso. Lo so che non vedi l’ora che tua madre bruci il tuo nome, ma che ti piaccia o no tu non sei diverso.”
Sirius la fissò, non c’era una sola pagliuzza nei suoi occhi che lasciasse intendere cosa pensava, ma Bellatrix era brava a far credere agli altri che fossero un libro aperto.
“Dopo la scenata estiva, Regulus ti disprezza.”
“Sei ottimista se credi che me ne importi qualcosa.”
Bellatrix si leccò le labbra, “ah, già, l’hai rimpiazzato,” gli sorrise, poi sospirò, l’elettricità che scemava, “la tua scelta è sbagliata e un giorno ti costerà cara. Se credi che usciti da questa scuola m’importerà qualcosa del cognome che hai sporcato, ti sbagli di grosso. Per me diventi un nemico come tutti gli altri.”
James e Remus si scambiarono un’occhiata confusa. Nemico?
“Non vedo l’ora.”





[1] I tre estratti vengono da 'le notti bianche' di Dostoevskij, precisamente dalla prima notte.
[2] Giglio, in inglese 'lily'. Per quanto mi facesse gola il pensiero che James non capisse cosa gli stava comunicando il filtro d'amore, in una situazione realistica, in cui i personaggi parlano in inglese, sarebbe stato abbastanza stupido.

Note di El: Ciao, miei fedeli amici! Dico fedeli perché il mio ritardo è scandaloso e dico amici perché mi prendo troppa confidenza, ok, picchiatemi.
Ora venite a dirmi che tuffarsi non significa dichiarasi immuni agli schizzi, guardate, è un'arma magica, infatti io mi butto sempre per prima perchè sono una rompipalle e mi piace andare a dare fastidio alla gente. Informazione utilissima, so che non vedevate l'ora di saperlo. Torniamo alla storia? Ok.
Scrivere i pensieri di Remus è stato un parto perché non volevo ammorbare né arronzare, quindi spero che sia stato utile? In? Qualche? Modo? A capire che il problema non è tanto se gli piace Sirius quanto se sia vero o il risultato di una sega mentale. Ovviamente è anche una buona dose di negazione, altrimenti l'amortentia non sarebbe stato un problema, ma piuttosto la tanto agognata risposta. Ora io vorrei capire perché lo sto RIPETENDO nelle note. La smetto.
Allora, anche se sarebbe perfettamente sensato accusarmi di una self insertion o come si dice su James che studia fisica, vi faccio al contrario presente che questo headcanon nerd su di lui ha proprio una fetta del fandom e allora ho colto la palla al balzo perché così spieghiamo che è sta presenza scema di questo boccino che sì, ok, serve sicuramente per tirarsela, ma perché il boccino, vista la posizione a quidditch? Quindi ecco a voi, fa un po' ridere, vabbé, ne sto parlando come se fosse una cosa seria. MOVING ON.
Per la battuta di James sulle "mutande piccole" di Sirius pliz no heit. Ovviamente nessuno sta giudicando la virilità di Sirius in base alle sue dimensioni, è solo una tipica battuta stupida che si fa di continuo e che, per amor di realismo, ci stava semplicemente benissimo qua. Nessuno si è offeso, è uno scherzino, si vogliono bene. Ricordo benissimo che il pezzo di Severus e Lily l'ho scritto al posto di fare lezione, colta da un'illuminazione magica tipica solo dei grandi idioti. Comunque porgo le mie scuse per star mettendo molto 'stress' su Sirius, però giuro che c'è un motivo, mi dispiace vedere che mi sfonda un po' i confini con gli altri e si mette sempre in mezzo però veramente scrivendo questa storia mi sono resa conto che tutto ciò che si sa sui malandrini lo innesca praticamente lui quindi pace all'anima sua e ce lo teniamo così.
Cercherò di aggiornare tra di dieci giorni, amici, ma non assicuro niente perché tra dieci giorni sarò in crisi da esame.
In ogni caso vi ringrazio da matti per aver letto e (sì, lo so, lo dico sempre però OH DICO DAVVERO) per essere ancora qui dopo tutto questo tempo. A presto <3

El.

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 18 - Ciò che il vetro non riflette ***


Doveroso warning: è stato condotto uno studio scientifico sul numero di neuroni presenti nella seconda parte del capitolo. Dallo studio è emerso che, su tre personaggi e un gatto, il numero di neuroni totali ammonterebbe a sedici. Sono tutti del gatto.
 


18. Ciò che il vetro non riflette







“Che stai facendo?” James piombò alle spalle di Sirius con Peter e Remus al seguito. Aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa su un lato, dando un’occhiata al giornalino che teneva in grembo. “Che roba è?”
“Sulla musica babbana,” spiegò, non alzando gli occhi da un articolo su un gruppo di gente coi capelli strani – non che James fosse nella posizione di giudicare i capelli di qualcuno – che si chiamava ‘queen’. Sirius voltò pagina prima che il ragazzo potesse cercare la regina Elisabetta in mezzo a quei ragazzi. “Uuh!”
James conosceva quel verso.
Come previsto, alla pagina successiva, un altro tizio coi capelli discutibili indossava un paio d’occhiali aderenti e si reggeva su un mezzo di trasporto babbano che non aveva mai visto. Una motocicletta, ci tenne a specificare Sirius e quello era David Bowie. James scelse di ignorare la piaga in cui sapeva trasformarsi il suo amico quando aveva il suo famosissimo ‘sguardo da groupie’ e tirò fuori la loro ultima opera d’arte.
“Ho legato i due specchi con l’incantesimo Proteus,” lo aggiornò, osservando gli oggetti all’apparenza innocui che aveva fra le mani. “Ho allargato il campo della localizzazione anche all’udito,” continuò, guardando Sirius e aspettando che reagisse. Quando lui lo ignorò, si voltò veloce verso Remus e Peter, chiedendo aiuto.
Loro si limitarono a ridere.
“Poi mi sono fermato a fare quattro chiacchiere con il Calamaro Gigante.”
“Mh-mh.”
James annuì, come se si fosse trattato di una questione seria. “Mi ha detto che sono molto affascinante e mi ha invitato a cena fuori.” Si prese una pausa. “Ho accettato.”
“Bravo.”
James lo fissò impassibile per qualche altro secondo, poi gli rifilò lo scappellotto più potente che riuscì a evocare.
“Ma sei scemo?!” Sirius alzò una mano sulla parte lesa e lo guardò in cagnesco. In questo era un vero talento. “Ti stavo ascoltando!”
“No, ti sei incantato! Tra l’altro su una pagina che ha solo foto!”
“Be’, è David Bowie.” Sirius scrollò le spalle, come se quella fosse stata una risposta esaustiva.
James sbuffò una risata. “Be’, vedi se la tua Tecnica funziona su di lui. Adesso ascoltami.”
Sirius abbassò la sua rivista come se quel gesto gli fosse costato tutta la sua riserva di forza di volontà, poi diede un’occhiata agli specchi. “Funzionano?”
James scrollò le spalle. “Io mi sono impegnato, mentre tu sbavavi dietro moto e cantanti.”
“Lo testiamo oggi?”
James annuì solenne. “Minnie, Gazza o Mocciosus?”
Remus alzò lo sguardo di scatto dalla pergamena su cui stava tracciando una linea d’inchiostro scurissimo. Avevano spostato uno scrittoio al centro del loro dormitorio e avevano dispiegato le pergamene che avevano scelto per la stesura finale della mappa. La mappatura restante del castello, da quando i ragazzi erano diventati Animagi, aveva richiesto pochi giorni di esplorazione approfondita. Era incredibile la quantità di passaggi nascosti che c’era in quel castello! “Ma non avete connesso due specchi?”
“E con questo?” James e Sirius risposero in coro.
“Dovete per forza fare uno scherzo? Non potete… che ne so, separarvi un attimo e accertarvi che vi vediate a vicenda?”
“O fai le cose in grande o non le fai,” rispose Sirius, con una scrollata di spalle. Gli concesse un sorriso sbilenco, poi tornò con lo sguardo su James. “Perché non i Serpeverde? Regulus.”
La complicità nei suoi occhi sbiadì fino a scomparire, l’aria vibrò e cambiò di densità. “Non mi va.”
“Non ti va mai, ultimamente,” sbuffò Sirius, in un mormorio annoiato.
James lo guardò di sottecchi. “A te va solo questo, ultimamente.”
Peter e Remus si scambiarono uno sguardo veloce e tornarono alla mappa, in un tacito accordo a lasciar andare avanti quella conversazione senza intromissioni.
“Sei diventato davvero noioso.”
James sospirò, poi alzò lo sguardo su di lui. “Tra una settimana torniamo a casa per Natale,” lo informò e Sirius alzò gli occhi al cielo perché ultimamente erano diventati tutti parecchio pressanti sulla questione. Quello sguardo non gli impedì di continuare: “mi sembra inutile mettere altra carne al fuoco.”
“A me sembra divertente.”
“Rettifico: è stupido mettere altra carne al fuoco.”
Sirius roteò gli occhi e sbuffò, mai una volta ricambiò lo sguardo di James, però. “È solo uno scherzo.”
“Che facciamo a Gazza, così ci facciamo beccare subito e testiamo gli specchi.” Sirius sostenne il suo sguardo, la negazione che traspariva da ogni pagliuzza come a volerlo trafiggere. A James sembrò solo molto triste. “O così o niente.”
Sirius rise, una di quelle terribili risate taglienti che ultimamente James gli sentiva fare troppo spesso. Sapeva che odiava non avere l’ultima parola e non ottenere quello che voleva e sapeva di essersi lasciato un po’ andare al nervosismo, quindi la risposta di Sirius non lo lasciò troppo sorpreso. “Allora niente. Lo faccio da solo.” Si alzò e si diresse ad ampie falcate verso la porta del dormitorio
“Scordatelo.” Remus sospirò, consapevole che quello che stava per dire avrebbe provocato reazioni drammatiche ed esagerate. Non gli mancò, però, il coraggio. “Se vengo a sapere che qualcuno che fa di cognome Black è finito misteriosamente in infermeria, trovo il modo di farti restare in detenzione fino ai G.U.F.O.” Sirius lo guardò e Remus pensò che, se uno sguardo avesse potuto trafiggere, sarebbe morto impalato da quel gelo. “Come prefetto.”
Si guardarono per qualche secondo, poi Sirius riprese il suo cammino verso la porta e Remus si rese conto di aver giocato sporco.
“Sirius.”
“Che vuoi?” Si voltò di scatto, negli occhi forse la speranza di iniziare una rissa, perché il peso sulle spalle era diventato insopportabile. Remus, però, gli lanciò una chiave.
“Apri la porta con la chiave, poi dici ‘fiordaliso’. È il bagno dei prefetti, schiarisciti un po’ le idee. Se pensi che portarci qualcuno mi farà arrabbiare sei fuori strada, in fondo lo fanno tutti, basta che pulisci. Il quadro avverte gli altri prefetti di non entrare, se è occupato.”
James colse la palla al balzo. “Se dopo ti va ancora di fare uno scherzo a Gazza, ci incontriamo al passaggio segreto che porta a Mielandia. Porto gli specchi.”
Sirius scrollò le spalle e uscì dal dormitorio senza insulti né ringraziamenti.
 
Era una sensazione dilaniante che nessuno voleva capire.
Sirius se la spiegava così e preferiva non andare oltre. Sapeva benissimo di essere nervoso, ogni volta che gli dicevano che giorno fosse lo sapeva un po’ di più, ad essere precisi. La vita era diventata asfissiante, la necessità di tagliare i fili anche di più. Era una cosa che James, Peter e Remus non potevano capire e che non si sarebbe disturbato a spiegare. Guardare il suo mantello rosso era gratificante, sentire urlare sua madre era rassicurante e vedere Regulus storcere il naso come se fosse stato una specie di animale selvaggio era la definizione di soddisfacente, ma non era abbastanza. Il solo fatto di avere ancora un destino, in quella famiglia, dei compiti da svolgere e dei doveri era sbagliato, sminuiva ogni suo tentativo di distanziarsi. Sirius non credeva a nessuno dei suoi familiari, quando gli dicevano che non era diverso da loro. Aveva imparato anni prima che sapevano che ci teneva alla sua divergenza come ci teneva alla sua pelle. Quindi non era stato troppo difficile capire che lo dicevano perché speravano di distruggerlo e rabbonirlo.
Purtroppo non avevano capito niente.
Avrebbero dovuto sotterrarlo per smuoverlo dalla sua posizione.
Sirius svoltò nel corridoio che portava alle scale e sospirò.
Era comunque asfissiante.
Ripetersi che era migliore di loro non bastava più, aveva bisogno di scriverlo sui muri, far esplodere quella casa, strappar loro la dignità. Aveva bisogno di gridarlo al mondo, che era diverso, di riconoscere ufficialmente che non dovevano essere loro a firmargli il permesso per andare a Hogsmeade ogni anno. Improvvisamente sapere di essere diverso non gli bastava più, lo dovevano riconoscere tutti. Era un processo che si era messo in moto il giorno stesso in cui aveva alzato il primo sopracciglio davanti a una delle strampalate idee di sua madre e che si era protratto fino a quando il desiderio di non essere smistato in Serpeverde era sbocciato inconfutabile al centro del suo petto.
Da dopo l’estate questa necessità era esplosa in maniera così devastante da non dargli niente su cui riflettere. Era una decisione che aveva intuito, naturale come il bisogno di nutrirsi e di respirare.
“Posso?” Regulus aveva bussato alla porta della sua stanza. In estate veniva aperta due volte al giorno ed era per mangiare. Non aveva aspettato una risposta ed era sgusciato all’interno, uno squarcio di corridoio lasciato intenzionalmente per privarli di qualsiasi privacy.
“Che vuoi?” Sirius aveva continuato indisturbato a leggere la sua rivista musicale, ma si era irrigidito notevolmente. Regulus aveva solo alzato un sopracciglio, una volta riconosciuto che era un giornale babbano.
“Volevo parlare.”
Sirius aveva sollevato gli occhi annoiato. “Dille che se deve dirmi qualcosa è inutile far venire te. La mia risposta resta no.”
“No, in realtà volevo parlarti io.”
Gli occhi erano saettati alla porta aperta, a dimostrargli che erano evidentemente su schieramenti opposti. Regulus non aveva fatto niente per cambiare le cose.
“Sei cambiato.”
“Tu sei il solito idiota” e Sirius era riuscito praticamente a sentire suo fratello ripetersi all’infinito che doveva mantenere la calma. Uno sforzo notevole che aveva deciso di fargli sudare.
“Ti ricordi quando mi dicesti che saremmo stati sempre dalla stessa parte?”
Sirius aveva sospirato, seccato. “Se sei venuto qui per fare il sentimentale, di nuovo, non funzionerà. Chiedimi quello che mi devi chiedere, io ti metto alla porta e ognuno per la sua strada.”
“Non ci provi neanche a renderti la vita facile.” Regulus aveva quell'aria di sufficienza che gli faceva sempre credere di essere superiore. Sirius era abituato a vederci attraverso e a riconoscere soltanto quanto era codardo.
“Tu non ci provi neanche a complicare un minimo le cose e ottenere quello che vuoi.”
Regulus aveva alzato gli occhi al cielo assieme a un lato della bocca, disgustato. “Dai per scontato che io la pensi come te, che sia come te.”
“Perché tu sei come me. Sei solo troppo vigliacco.”
Le mani di Regulus si erano strette a pugno, la mascella si era serrata di scatto. “Io non sono come te.”
“Quando te ne renderai conto sarà troppo tardi.”
“Non sono come te,” gli occhi ridotti a una fessura e lo sguardo così ferito da sembrare furioso.
“Piangerai con le mani che grondano soldi, mentre ti penti di tutto quello che non hai potuto fare e che io ho fatto.” Sirius aveva smesso di sentire qualunque cosa attorno a sé e sapeva che Regulus si sentiva allo stesso modo. Fu la complicità più ripugnante di tutta la sua vita. “Perché sei come me,” la voce un sibilo, gli sguardi incatenati.
“Io non sono come te.” A Regulus erano tremate le labbra dalla rabbia, il respiro che aumentava di secondo in secondo, il viso a un passo dal suo. “Non lo sarò mai, perché sei tutto quello che non voglio essere,” si era preso una pausa, gli occhi che vagavano distanti sulle pareti imbrattate della sua stanza. A Sirius era venuto per la prima volta il dubbio che avesse ragione, “e perché mi fai schifo.” E poi Regulus aveva firmato quella dichiarazione con uno sputo.
Se esistevano gli interruttori cerebrali, Sirius aveva trovato il suo in quel momento e aveva smesso di pensare. Tutto quello che ricordava di quell’episodio erano i suoi genitori che lo separavano da suo fratello e il suo sangue che gli scorreva sulle nocche, gemello del livido che gli aveva lasciato sullo zigomo.
Per la prima volta in cinque anni, a Sirius fu concesso di passare il resto dell’estate a casa Potter.
Mentre saliva le scale che portavano al bagno dei prefetti, la rabbia si spostò velocemente dai suoi amici alla sua famiglia. Poteva anche credere alla storia che James e Remus tentassero di aiutarlo, ma non capivano che sfogarsi l’avrebbe veramente aiutato, che finire di distruggere la faccia a Regulus gli avrebbe finalmente fatto trarre quel bel sospiro di sollievo che fino a quel momento gli si era bloccato nel petto e che l’aveva costretto a dormire con James almeno tre volte a settimana come una povera ragazzina indifesa. Odiava quella vulnerabilità, ma dormire da solo si traduceva in incubi e avere James accanto gli ricordava che, qualunque cosa fosse successa, non sarebbe stato solo.
Tirò fuori la chiave e si preparò ad inserirla nella toppa, quando una voce assolutamente sconosciuta lo fermò. “Ehm… Black?”
Quando si voltò, un ragazzo più o meno della sua età di cui non conosceva assolutamente il nome alzò una mano in segno di saluto. Alzò un sopracciglio. “Sei?”
“Dirk Cresswell, Corvonero,” si presentò, torturandosi la punta della cravatta con le mani. Conoscere il suo nome non cambiava il fatto che non avesse idea di chi fosse.
“Ti… serve qualcosa?”
Il ragazzo tossicchiò e si schiarì la voce un paio di volte. “Mi chiedevo se quello che dicono in giro fosse vero.”
“Cosa dicono in giro?” Sirius era perplesso. E anche un po’ nervoso. Qualunque cosa volesse questo Dick, al momento non gli importava.
“Che…” Dirk arrossì, il viso assunse una tonalità più scura dei suoi capelli. Se il suo modo di fare non l’avesse messo tremendamente a disagio, Sirius l’avrebbe trovato buffo.
“Che?”
“Sai, che… Non so se sia vero, ecco, quindi non vorrei sbagliarmi e rischiare…”
“Qualunque sia il tuo problema, fai prima a dirlo. Se ti sbagli non lo dirò a nessuno e tu in cambio ti impegnerai a smentire questa voce.”
Dirk annuì deciso e Sirius fu felice di vederlo respirare perché era da qualche secondo che temeva che potesse soffocare e svenire davanti a lui. “Che esci anche coi ragazzi.”
Sirius alzò entrambe le sopracciglia sconcertato e poté praticamente vedere il terrore dipingersi sul volto di Dirk Cresswell.
“No, okay, lascia stare, dovevo immaginarlo. Un patto è un patto, però, quindi non dirlo a nessuno.” Il ragazzo iniziò a muovere le mani energicamente davanti a sé, il colorito congestionato che tornava a invadergli la faccia.
Mentre le labbra di Sirius si muovevano già per dirgli che aveva capito male, un nuovo pensiero gli attraversò la testa con la rapidità di un fulmine. Abbassò lo sguardo sulle labbra di Dirk. Era un bel ragazzo, tutto sommato, e il pensiero lo intrigava parecchio. Comunque fossero andate le cose avrebbe potuto dare la colpa all’istinto, al sopravvento improvviso della voglia di ribellarsi e alla necessità di una valvola di sfogo. Alzò un dito e interruppe il flusso di parole a raffica di Dirk a cui comunque non stava prestando attenzione. “Nessuna uscita romantica,” iniziò, avvicinandosi di qualche passo. Dirk lo fissò confuso e immobile, aspettando che continuasse, “nessuna seconda volta. Volevo farmi un bagno nel bagno dei prefetti.”
Dirk adocchiò la porta alle sue spalle. “T-tu non sei un prefetto.”
“Prendere o lasciare.”
Dirk ci pensò per un secondo, poi coprì la distanza ridicola che li separava e lo baciò sulle labbra.
Sirius si ritrasse istintivamente e il ragazzo attese terrorizzato, cercano una traccia del motivo per cui l’aveva fatto nei suoi occhi. Non gli diede il tempo di trovarla, perché, lentamente, si avvicinò di nuovo e lo baciò, piano, testando le acque.
“Hai mai baciato un ragazzo?” domandò Dirk, prendendo fiato dopo poco e studiando il suo volto.
“Un sacco di volte,” lo rassicurò incurante, inserendo finalmente quella dannata chiave nella toppa, “fiordaliso,” sussurrò e il bagno dei prefetti si mostrò ai ragazzi in tutto il suo splendore. “Se hai voglia di chiacchierare cercati un fantasma.”
Ma Dirk non ne aveva alcuna intenzione. Chiuse la porta dietro di sé e perse un battito quando Sirius si fece scivolare la camicia dalle spalle e riprese a baciarlo.

***
 
Era una sensazione dilaniante che nessuno voleva capire.
Regulus alzò gli occhi stanchi dal suo manuale di Trasfigurazione. Il mondo sapeva di fiori appassiti ed era impossibile pensare che esistesse un sollievo più grande di quello che si provava una volta scivolati finalmente nel sonno. I giorni si fondevano gli uni negli altri come se fossero stati da sempre destinati a stabilizzarsi su quella monotonia. Sapeva benissimo che questo, però, non era vero. Presto le cose sarebbero cambiate, le menti delle persone si sarebbero piegate e montagne intere si sarebbero ritirate al cospetto del Signore Oscuro.
Regulus era certo che se un giorno avesse smesso di soffocare, l’avrebbe fatto annegando nella sua stessa libertà.
Libertà. Una successione di lettere interessantissima e affascinante che non era sicuro di comprendere.
Avery e Mulciber piombarono nella Sala Comune Serpeverde indossando un sorriso a testa e tanta voglia di strapparlo via agli altri. “L’hai sentito?” domandò retorico Mulciber.
“Mio padre è un mago!” Avery agitò le mani in un’imitazione che non doveva rendere giustizia alla persona da cui aveva preso ispirazione.
“Come se me ne importasse qualcosa. Suo padre, chiunque sia, andrebbe punito anche più ferocemente di un Nato Babbano,” decretò Mulciber, al volante di un ideale che non aveva neanche ancora digerito. “Ha sporcato la razza.”
E giù a ridere.
Regulus abbassò lo sguardo sulle nocche insanguinate di Avery; la pelle al di sotto sembrava intatta: erano solo sporche, il sangue non era suo. Un moto di disgusto gli attraversò l’esofago, bruciandogli acido la gola mentre l’immagine del pugno sporco di Sirius si sovrapponeva a quella di Avery e il dolore allo zigomo tornava a pulsare e a ricordargli quell’estate.
Cos’era giusto? Qual era la differenza tra quello che aveva fatto suo fratello e quello che aveva fatto Avery e, soprattutto, chi dei due combatteva per la giusta causa? La fazione migliore era quella che non dava inizio allo scontro o quella con le idee più pulite? E, soprattutto, dov’era la libertà e in che modo si comprendeva se e quando la si poteva raggiungere?
Quando erano piccoli Sirius gli diceva sempre che non credeva nel destino e che la vita si costruiva passo dopo passo, attimo dopo attimo. A Regulus quelle parole avevano sempre affascinato; oggi ne aveva paura. Se fosse esistito il destino non avrebbe avuto tanto a cui pensare, si sarebbe seduto comodamente su una poltrona e si sarebbe goduto lo spettacolo, l’immensa catena degli eventi srotolarsi davanti agli occhi, in attesa di morire. Era il fatto di sapere che c’era scelta e non poterne reclamare il diritto, a farlo impazzire.
Rispettava le scelte di Sirius, le trovava discutibili e non così naturali come lui credeva, ma lo ammirava per aver lottato per averne. Solo, non voleva che lo trascinasse dove neanche lui non era certo di poter andare, voleva solo che gliele presentasse, queste tanto decantate scelte.
Per un attimo soltanto, un istante fuggevolissimo che sembrava appartenere già al passato, Regulus odiò profondamente James Potter e tutto quello che gli aveva portato via.
“Regulus!” Mulciber si approcciò al suo tavolo e poggiò entrambe le mani ai lati del suo libro. “Vuoi sentire cosa abbiamo appena fatto io e Avery?”
Regulus, alzò gli occhi sul ragazzo, le palpebre pesanti, sulle ciglia una stanchezza che non sapeva come gli permettesse di restare ancora sveglio. “Certo.”
Il sorriso che gli rivolse Mulciber era così affilato che avrebbe potuto mangiare anche la morte. Regulus non era certo neanche di saperla masticare.

***
 
James si sedette a terra e appoggiò la schiena contro la statua di Gunhilda, a un passo dal primo passaggio segreto che i Malandrini avessero mai scoperto. Espirò e si chiese seriamente se l’orgoglio di Sirius fosse disposto a farsi da parte almeno per una volta per cedere il posto a un grande scherzo di coppia. Sperò anche che questo orgoglio si desse una mossa a scegliere, perché si stava già gelando le chiappe.
A salvargli il sedere, per così dire, fu Lily Evans, che sbucò da dietro un corridoio mentre James era troppo assorto nei suoi pensieri per sentirla arrivare.
Quando alzò la testa, un cipiglio pensieroso a dividergli ancora le sopracciglia, Lily lo guardava dall’alto, a braccia conserte. “Evans,” salutò, il tono rassegnato di chi sa già che dovrà combattere per la sua libertà.
“Che stai facendo?”
“Dritta al punto,” James si alzò con un sorrisetto, spazzolandosi i vestiti nel mentre e dandosi una rapida occhiata attorno. Sperava vivamente che Sirius venisse, davvero. Solo, non proprio in quel momento.
“È una delle mie tante qualità.”
E James le fece un sorriso strano, che la mise a disagio. “Non ne dubito.”
Lily annuì piano, assottigliando gli occhi e chiedendosi dove volesse arrivare. “Già.”
“Bene,” James unì le mani con uno schiocco e sorrise, “per cosa vuoi incriminarmi? È pomeriggio, ero letteralmente seduto contro una statua e non stavo neanche parlando.”
Lily si guardò attorno diffidente, in cerca forse di un cartello che dicesse: ‘James Potter è colpevole, puoi mandarlo in detenzione’. Non lo trovò. “Sei solo?”
Il sorriso di James assunse un’ombra più astuta e meno innocente. “Sì, ti fa piacere?”
Lily colse quella nota vagamente seducente nel suo tono e aggrottò le sopracciglia. “Ti senti bene? Tu mi odi.”
“Mai stato meglio.”
“È una di quelle tue sfide stupide?”
James alzò un sopracciglio, la sicurezza nello sguardo vacillò. “Stupide?”
“Stupide,” confermò lei, la soddisfazione più dolce nel vederlo abbassare le spalle, sgonfio.
“Non sono stupide,” si difese James, “e comunque no, nessuna sfida, speravo di raggiungere una specie di pace.”
“Una pace.” Lily non gliel’aveva chiesto, l’aveva guardato come se lui le avesse aperto una nuova finestra sulla sua stupidità, consentendole di ammirarne la vastità prima inimmaginabile.
“Una pace,” confermò James.
“E come pensi di raggiungere questa fantomatica pace?” il sarcasmo pervase evidente ogni sua parola. Ancora una volta, James non ne fu colpito.
“Possiamo parlarne davanti a una Burrobirra, la prossima volta che andiamo a Hogsmeade.”
Lily lo fissò, lo sguardo indecifrabile che gli fece credere per un secondo che il suo fascino fosse davvero irresistibile.
“Mi stai chiedendo di uscire?”
James si prese una pausa, poi annuì sicuro. “Sì.”
“Ma non mi odiavi?” A Lily iniziava a fare un po’ ridere. Le era bastata una domanda per metterlo in crisi e fargli perdere quella facciata di arroganza.
“Chi disprezza vuol comprare.”
“Io disprezzo e basta, non voglio comprare,” si limitò a rispondere lei, una scrollata di spalle che sottolineava la facilità di quella risposta. Con un sospiro gli diede le spalle e si diresse verso il corridoio successivo da ispezionare. Si ripromise anche di tornare a dare un’occhiata perché sapeva che da un momento all’altro sarebbe spuntato Black da qualche anfratto, pronto a combinarla grossa.
“Quindi è un no?” James le gridò dietro, poggiando una mano sulla grossa coscia di pietra di Gunhilda come se fosse stato il suo bastone della vecchiaia.
“Sarà sempre un no, Potter,” Lily scosse la testa, un sorriso di falsa compassione e tutta la voglia del mondo di andarsene da lì al più presto.
James mosse un dito a negare. “Cambierai idea.”
Poi Lily scomparve oltre un angolo retto.

***
 
“Hai fatto tardi.”
Marlene non alzò gli occhi dalla sua pergamena. Dorcas continuava a non capire come diavolo facesse a scrivere in una posizione tanto scomoda, ma quando provava a chiederlo lei aggrottava sempre le sopracciglia confusa e le chiedeva a quale posizione scomoda si riferisse.
“Ho fatto tardi,” convenne Lily, lasciandosi cadere sul suo letto del dormitorio e fissando il legno della struttura a cui erano assicurate le tende.
“Come mai?” Marlene accarezzò distrattamente la punta della sua piuma, saggiandone la consistenza soffice tra le dita.
“Ho fatto tre volte un giro nello stesso corridoio.”
Marlene alzò finalmente lo sguardo su Lily e sollevò un sopracciglio. “Sei così disperata che spii gli altri mentre si divertono?”
L’occhiataccia di Lily fu esattamente quella in cui Marlene sperava. “Sì, Bertram Aubrey ci dava dentro.”
Fu il turno di Lily di godersi lo stupore più deluso che attraversò la faccia di Marlene.
“Sto scherzando.” Lily fissò lo sguardo in quello diffidente di Marlene. “Sto scherzando!” reiterò, questa volta concedendosi una risata che fece scuotere la testa a Marlene. “James Potter stava seduto davanti a una statua.”
Dorcas scoppiò a ridere. “E gli sei dovuta passare davanti tre volte per notarlo?”
“Volevo accertarmi che non combinasse qualcosa di strano.”
“Combina sempre qualcosa di strano.”
“Come chiedermi di uscire.” Lily rise e Marlene e Dorcas la imitarono solo per qualche secondo, giusto il tempo di realizzare cosa avesse detto precisamente e quanto fosse assurdo.
Mary, che per tutto quel tempo era rimasta in silenzio a studiare da un tomo di Pozioni, sgranò gli occhi e riuscì a riacquistare compostezza per prima. “Che cosa?”
“Hai capito bene.”
“Secondo me è caduto dalle scale,” commentò Dorcas, nota per il suo realismo, “ma per buone tre, quattro rampe,” aggiunse, perché era sempre meglio abbondare.
Marlene, che aveva notato l’atteggiamento curioso di James durante il loro allenamento amatoriale, qualche mese prima, si limitò ad aggrottare le sopracciglia e mettere su un’espressione pensosa. “Secondo te ha in mente qualcosa?”
“Ha sempre in mente qualcosa,” replicò Lily con un sospiro, poi si lasciò scappare una risata. “Sono felice, però, che mi conosciate abbastanza da non avermi neanche chiesto cosa abbia risposto.”
Mary, Dorcas e Marlene si scambiarono un’occhiata, poi domandarono, in coro: “Hai detto sì?”
“No!”
“Per un attimo ho temuto che fossi caduta anche tu dalle scale.”
Lily puntò i gomiti nel materasso e si alzò a sedere con una risata, poi scosse la testa.
“Forse è un dispetto a Moccio…” Dorcas si interruppe, battendosi una mano sulla bocca e sgranando gli occhi, “un dispetto a Severus Piton,” rettificò e Lily non si sforzò neanche di guardarla di traverso.
“L’ho pensato anch’io.”
“Ma ti odia, che vantaggio avrebbe?” obiettò Mary e Marlene per un attimo si chiese se non sperasse che James la odiasse. Si appuntò mentalmente di prestare attenzione alla faccenda, la prossima volta che si fossero riuniti.
“Scusa, chiedi a Remus Lupin,” propose Marlene, con una scrollata di spalle. “Siete amici e sa sicuramente cosa sta succedendo!”
“Non me lo dirà mai, secondo me lo minacciano per averlo dalla loro parte.”
Marlene rise. “Secondo me lui è il più delinquente. Prova a chiedere, non ti costa nulla.”
“Proverò, ma non è che mi interessi più di tanto.”
Quando Mary sospirò di sollievo, Marlene si ripromise ufficialmente di indagare al più presto.

***
 
“Mi devi fare una statua, mi sono gelato il sedere per te.” James si alzò facendo leva con le braccia sul pavimento freddissimo della scuola, si spazzolò i vestiti e si passò una mano tra i capelli. “La vorrei qui, accanto a quella di Gunhilda.”
Sirius sorrise e lasciò che il braccio di James scivolasse sulla sua spalla, mentre con una mano illustrava la posizione in cui avrebbe voluto erigere il suo monumento. “Vuoi perdere un occhio anche tu?” domandò Sirius, accennando col capo in direzione della povera maga di pietra e la sua mancanza.
“Combina la vista dei miei occhi insieme e ne fai uno,” scherzò James, tirando fuori gli specchi da una tasca nel suo mantello che aveva cucito appositamente per nascondere i loro trucchi. “Ti sei svagato un po’?”
Sirius trattenne una risata nel naso e annuì.
“Voglio chiedere?”
“Non vuoi chiedere,” decretò e James annuì solenne. “Qual è lo scherzo?”
“Mi devi proprio fare una statua,” ragionò il ragazzo, seppellendo nuovamente la mano nella tasca del suo mantello e ravanando per qualche secondo alla ricerca di qualcosa. Nel mentre, Sirius nascose uno dei due specchi per sé.
Quando James ebbe finito di mescolare quella che non poteva che essere una zuppa di fesserie, cavò fuori dalla tasca una piuma, una pallina rossa e una bistecca, alla cui vista Sirius non poté che sgranare gli occhi.
“Esercizio di Trasfigurazione!” gridò James, sfoderando la bacchetta e costringendo Sirius a mantenere la bistecca mentre lui teneva con la mano libera la pallina e la piuma. Afferrò il pezzo di carne con riluttanza e iniziò già a sorridere. “Uno a testa,” proseguì James, puntando la bacchetta sulla piuma. Sirius notò con uno sbuffo divertito che quella era decisamente la penna di Remus. James agitò la bacchetta e, in un attimo, la piuma si trasformò in una coda di gatto, che riatterrò senza vita sul palmo della sua mano, afflosciandosi lungo il braccio.
“Impressionante,” lo prese in giro Sirius, alzando un sopracciglio scettico.
“Grazie, ho studiato tanto.” James parcheggiò la coda nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e si prese un attimo per ondeggiare i fianchi con una risata, poi mostrò la mano provvista di pallina a Sirius. “Hai presente quei campanelli che suonano le frequenze che possono udire solo gli animali?”
Sirius annuì, mentre quelle informazioni andavano a formare i contorni del piano di James.
“Devi trasfigurare la pallina in uno di quelli.”
Sirius lo guardò come se fosse stato stupido. “E come diavolo faccio?!”
“A fare che?”
“A capire se è la frequenza giusta.”
“Sei un cane, no?”
Sirius sospirò, ascoltando solo distrattamente le informazioni sulla frequenza numerica esatta che avrebbe dovuto raggiungere. Sirius si chiese da dove avesse preso tutte quelle informazioni, ma si limitò soltanto a trasfigurare la pallina con un gesto secco e a sfruttare l’ombra della statua di Gunhilda per una trasformazione veloce. James diede una scossa al campanello e lo prese in giro con una carezza tra le orecchie.
“Io l’ho sentita.”
“Io no, va benissimo.” James si riappropriò del pezzo di carne che era stato momentaneamente dimenticato ai piedi di Gunhilda e guardò Sirius fisso negli occhi. “Allora, adesso ti spiego il piano.”
“Mi sottovaluti,” lo interruppe lui, alzando una mano e sorridendo già. “Non mi aspettavo tanta crudeltà da parte tua. Dovrebbe essere su questo piano, ho sentito l’odore.”
James gli sorrise complice e gli porse il campanello. Poi partirono alla volta della loro preda.
 
Sirius si trasformò altre due volte per localizzare l’odore della gatta di Gazza. Quando furono certi che ci fosse solo un angolo a separarli da lei, Sirius lasciò cadere la mano dalla base del campanello e lo scosse. Un miagolio attenuato dalle mura li raggiunse e i ragazzi si scambiarono un’occhiata soddisfatta. Si accovacciarono subito dietro il muro, scegliendo di non sottovalutare l’astuzia della gatta, poi Sirius fece tintinnare nuovamente il campanello e sperò che la curiosità di Miss Purr vincesse sulla prudenza.
Qualche attimo dopo, gli occhi gialli della gatta spuntarono da dietro il muro. Nell’arco di un secondo, James agitò secco la bacchetta e una statua di un mago dalle lunghe vesti strisciò pesante sulla pietra, rivelando una botola, fiore all’occhiello dei loro passaggi segreti. In quello stesso tempo la forma umana di Sirius si sciolse di nuovo in quella di un cane, afferrò la gatta per la collottola e si fiondò nella botola prima ancora che Miss Purr potesse considerare di miagolare.
James sorrise soddisfatto e lanciò un’occhiata oltre la svolta da cui la gatta era venuta. Constatò rapido che nessuno fosse nei paraggi, si sfilò la coda di gatto dalla tasca posteriore e la abbandonò con un lancio nel corridoio, quanto più lontano possibile, poi passò alla bistecca, che abbandonò a qualche metro di distanza dalla coda, nel lungo corridoio.
Aveva pochi altri secondi per il gran finale. Dove c’era Miss Purr, in effetti, c’era sempre anche Gazza e sospettava che a breve l’avrebbe cercata seguendo i suoi passi. Considerate poi le strane abitudini del custode, era probabile che avesse un olfatto migliore di quello di Sirius, quando si trattava della gatta.
Evocò un gesso da una classe vicina e lo afferrò al volo, poi fece sfoggio delle sue migliori abilità artistiche per disegnare la sagoma di un gatto a pochi passi dalla bistecca, infine addobbò il corridoio come una scena del crimine americana e si appostò nuovamente nel luogo in cui si era nascosto con Sirius. Gli scappò una risata. La coda era così finta e la bistecca così simile a una bistecca che l’unico essere umano al mondo che avrebbe mai potuto abboccare a quello scherzo sciatto era proprio Gazza!
“Dolcezza?”
Fu musica per le orecchie di James. Chiuse gli occhi e si concentrò sull’obiettivo: ridere a quel punto sarebbe stato tragico.
Sentì Gazza sussultare e boccheggiare sconcertato. “Cosa ti hanno fatto?!” gridò, poi un tonfo fece capire a James che si doveva essere lanciato a terra in una specie di inchino disperato da tragedia shakespeariana.
James si allontanò dalla svolta quanto bastava per prendere la rincorsa. Era il momento di entrare in azione!
Girò l’angolo fingendo un respiro ansante e un’andatura veloce, sgranò gli occhi alla vista di Gazza, piegato sulla bistecca e la sagoma – bruttissima, si rendeva conto – della gatta e fischiò. “Oh, eccola!” Gli occhi spiritati del custode si alzarono iniettati di sangue su di lui. “Ho cercato ovunque la mia bistecca!”
Gazza sgranò gli occhi, la disperazione che si trasformava in furia, mentre si alzava impotente ma deciso comunque a disintegrarlo.
Prima che potesse aprire bocca, però, Sirius spuntò alle spalle di James, fingendo altro affanno e altra corsa. “La mia coda!” gridò. James lo trovò ridicolo e per questo perfetto. “Ti avevo pregato di non far uscire quella coda dalla nostra stanza!” si lamentò, l’inclinazione al dramma che avrebbe fatto di lui un cantante lirico di rilievo, se solo non fosse stato stonato come una campana. “Quello è un giochetto tra me e te, Potter, gli altri non devono sapere!” mormorò, a voce abbastanza alta da farsi udire forte e chiaro da Gazza.
“VOI!” tuonò lui, le mani frenetiche che cercavano qualcosa a cui aggrapparsi e che speravano vivamente che quella cosa fosse il loro collo. “Cosa avete fatto alla mia amata…”
Prima che Gazza potesse anche solo concludere quel concetto, Miss Purr attraversò il corridoio con una disinvoltura che poco si addiceva alla sua condizione di presunto cadavere e si preoccupò anche di soffiare irritata ai due ragazzi, nei baffi una promessa di una punizione terrificante. Il custode lasciò perdere bistecche, code e sagome e si fiondò a recuperare la sua gatta, stringendola a sé in maniera un po’ goffa e cercando di nascondere agli occhi divertiti dei ragazzi il sollievo che provava.
“Tutto è bene quel che finisce bene,” disse James, una mano poggiata sul cuore e una presa in giro lampeggiante negli occhi.
“Allora, se è tutto a posto, noi andremmo…”
“SCORDATEVELO!” sputacchiò il custode, il dolore che si era trasformato tutto in ira, il volto paonazzo e le guance che si muovevano a scatti. “In giro per il castello oltre il coprifuoco e avete organizzato questa… pagliacciata, questa messinscena!”
“Perché non ti siedi un attimo? Sembri sconvolto,” suggerì James, fingendo apprensione. “Vado a prendere un bicchiere d’acqua.”
“Oh, questa volta non mi scappate!” Lo sguardo di Gazza si affilò, la sicurezza si solidificò nella consapevolezza di averli beccati con le mani nel sacco! James e Sirius si scambiarono un’occhiata afflitta. “Seguitemi, tutti e due!”
E, con il successo in pugno, Gazza li condusse nei corridoi intrecciati di Hogwarts, che conoscevano come le loro tasche, verso la meta che più avevano rincorso: la detenzione.

***
 
La superficie macchiata dal tempo mostrava il soffitto scuro dell’immensa casa terribile in cui era rimasto solo. Ancora una volta. Impotente e in gabbia come lo erano stati James e Lily prima che un suo errore li sotterrasse per sempre sotto le mura di quella casa. Tornò con la mente alle stanze silenziose, gli occhi dei suoi amici ghiacciati, il respiro bloccato per sempre. Il suo stomaco ondeggiò fino a fargli venire la nausea.
La vita gli aveva insegnato tante cose, ma neanche Azkaban l’aveva istruito sulla fragilissima e nobile arte dello starsene con le mani in mano. Afferrò uno dei due specchi e vi guardò attraverso. Il soffitto della splendida abitazione Black era scrostato e si intravedevano le assi di legno che lo tenevano in piedi e le chiazze di muffa agli angoli.
“James.”
Il silenzio oltre lo specchio prese i tratti solidi dell’assenza. Immaginava cosa fosse riflesso nella superficie che puntava alla parete. Il ragazzino sorridente e con la battuta pronta sostituito da un uomo stanco, ex detenuto in una società che lo voleva morto. James non rispose, in giro non c’erano orologi, ma il ticchettio delle lancette gli rispose ritmico in testa come se il tempo stesso si fosse preso il disturbo di venirlo a tormentare.
“James, ti prego.”
Non c’era più nessuno a dirgli di stare calmo, di non lasciarsi accecare dalla rabbia o da qualunque furia che gli scoppiasse nel petto. Non c’era più nessuno a fomentarlo e istigarlo, quando era il momento di entrare in azione.
“JAMES!”
Gridò, la voglia di superare il velo della Morte e strapparle Lily e James prima che potesse fermarlo. Non versò una lacrima, convinto di non esserne più capace. Si era messo a parlare al soffitto e si sentiva patetico, tanto che se si fosse alzato da quella sedia mangiucchiata e avesse scambiato quattro chiacchiere col quadro di sua madre, le avrebbe dato ragione su quanto fosse diventato miserabile.
La tentazione vinse di nuovo sulla logica.

“James?”
 
Una matassa di capelli annodati invase il suo specchio, poi il loro proprietario passò una manica sulla superficie e un sorriso a trentadue denti gli si aprì sulla faccia. “Sirius?”
“Non ci credo che funziona.”
James si diede un’occhiata alle spalle e alzò gli occhi al cielo. “Già, perché tu non hai fatto niente!”
“Appunto.”
Alzò un sopracciglio. “Dubiti delle mie capacità, Black?”
“Costantemente.”
James assicurò lo specchio sullo scrittoio dell’ufficio vuoto di Gazza e si stiracchiò sullo schienale della sedia. “Che fai di bello?”
Udì un fruscio e la visione nello specchio ondeggiò, come se fosse stata liquida, prima di stabilizzarsi su una serie di barattoli contenenti uno strano liquido giallino. Sirius afferrò un oggetto che James non identificò subito, mantenne l’inquadratura sui barattoli e vi immerse un cervello di topo. Questo affondò fino a metà vasetto e si arrestò, fluttuando nel denso liquido giallo.
“Che schifo. Poveri amici di Peter.”
Sirius fece in modo che lo specchio puntasse su di sé e scrollò le spalle. “In effetti avremmo potuto semplicemente separarci e testarli,” disse, ripulendosi le dita sul mantello.
“E dare ragione a Remus? Mai.”
Sirius annuì solenne. “Mai.”
Passò qualche secondo di silenzio, poi James inspirò.
“Ha detto di no.”
Sirius aggrottò le sopracciglia e, per un po’, James udì soltanto il suono di un cervello di topo che si inabissava in un altro barattolo. “Hai chiesto a Evans di uscire?”
“Mh-mh.”
“Ha detto di no?”
“Mh-mh.”
Lo studiò per qualche secondo. “Secondo me ti ci sei fissato proprio per questo.”
“Sarà.”
Sirius scrollò le spalle. “Avanti il prossimo?” Quando James non rispose, si trovò costretto ad alzare gli occhi sullo specchio.
“Non funziona sempre così.” James lo vide abbassare lo sguardo, scettico, in cerca di parole incoraggianti che evidentemente non era in grado di radunare. Inclinò il capo su un lato e lo studiò attraverso lo specchio. “Non ti è mai successo di essere tu a voler uscire con qualcuno?”
“Sì.”
James rise. “Intendo per più di dieci minuti.”
“Ah.”
“Giochi facile.”
Sirius alzò un sopracciglio, un’espressione pensierosa che fece chiedere a James se non fosse lui quello più maturo. “Io gioco facile?”
Lui scrollò le spalle. “Se non vuoi niente, non rischi di perdere niente.”
“E questo colpo di fulmine in ritardo ti ha reso improvvisamente romantico?”
Non rispose, si limitò a fissarlo dall’altro lato dello specchio e Sirius non capì cosa pensasse. A volte, però, gli amici devono soltanto sapere quando piegare la verità.
“Purtroppo per Evans sei troppo cocciuto.” James sorrise. “Dovrà rifiutarti altre cinquanta volte prima di liberarsi di te.”
“E alla cinquantunesima…”
Sirius alzò gli occhi al cielo, teatrale al limite del comico. “Cadrà ai tuoi piedi!”
James si guardò attorno nell’ufficio di Gazza, gli occhi che si muovevano pigri in cerca di qualcosa, lungo i cassetti in legno disposti ordinatamente in una geometria che faceva girare la testa, se la si guardava troppo a lungo. “Ti va un piccolo intrattenimento?”
Sirius grugnì una risata. “Se vuoi spogliarti credo che mi farò intrattenere dai cervelli di topo, grazie.”
“In realtà volevo leggerti le infrazioni dei nostri antenati in fatto di scherzi.”
“Votiamo la migliore?”
Lui annuì. “E la replichiamo prima di partire per le vacanze di Natale, ma più in grande.”
“E se è già straordinaria?”
James si strinse nelle spalle. “Vorrà dire che sarà ancor più straordinaria.”






 
Note di ElUeeeee ciao e scusate il ritardo, volevo aggiornare ieri sera ma poi la mediaset ha avuto la precendenza.
Allora, vi volevo linkare lo sciuting di Bowie sulla motocicletta perché era del '74 e io mi sono sentita morire quando ho visto che tutto tornava, ma non trovo un link ufficiale, ahimè, comunque molto figo, vabbè, fa niente.
La scena a tradimento in cui Sirius parla allo specchio vuoto è ispirata a questa, in cui però è Harry a cercare Sirius nello specchio ;)
Allora una cosa su Gazza. Non dovrebbe ancora avere la gatta a questo punto, soprattutto perché altrimenti sta gatta avrebbe una cosa come 20 anni minimo quando Harry va a scuola, ma non capisco perché privarsi di questa occasione, onestamente, se possono volare le scope ci può stare la gatta. Chiuso, aspetto i pomodori che mi verranno lanciati ma li raccoglierò e me li mangerò. Non è vero, germi argh, però era una risposta da dura.
Parlando di duri, per l'appunto, quello che Sirius pensa di sè stesso e delle debolezze è, per l'appunto, un suo pensiero del cazzo. Quando si definisce una povera ragazzina indifesa o qualcosa del genere, pure è un suo pensiero. Ci tengo a questa cosa perché non gli sarà perdonata nel prossimo capitolo ;)
Poi volevo farvi sapere che Dirk Cresswell è un Nato Babbano e questa cosa è simbolica. E, sempre a proposito del mitico Dirk, su Google Docs si possono commentare paragrafi. Ora penso che dobbiate vedere cosa c'era scritto a fine scena perché è così ridicolo che sento il bisogno di smerdarmi da sola: "Perché se sei Sirius Black le cose o si fanno col botto e ragionandoci esattamente zero secondi o col cazzo fritto che si fanno."
E su queste note vi saluto e vi ringrazio per aver letto perché non so chi siete nè cosa ne pensate dei bomboloni a coca-cola, ma so che avete una pazienza infinita. Quindi grazie dal profondo del cuore.

El.

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 19 - Tre lettere ***


TW: Violenza descrittiva. C'è un paragrafetto dopo la prima metà che contiene implicitissimi sintomi di attacchi di panico, davvero un nonnulla, ma preferisco avvertire. Stay safe! <3

 



19. Tre lettere







“Conta fino a dieci prima di dire qualunque cosa.”
James si era trasformato in una specie di mamma impensierita e aveva guardato Sirius con quegli occhi scuri e ammonitori, il viso inclinato su un lato, le labbra strette. Poi gli aveva dato due schiaffetti su una guancia e l’aveva lasciato andare con una mano su una spalla. Lo sguardo che incrociava casualmente quello di Regulus e un’impercettibile scrollata di spalle.
In tutta franchezza, Sirius non era sicuro che quella preoccupazione fosse necessaria. Sì, sapeva essere spericolato e aveva la lingua lunga, ma ci teneva alla sua pelle ed era consapevole di non dover tirare troppo la corda. Questo non voleva dire che non potesse testarne la resistenza.
Sirius non era riuscito a contare fino a dieci, ma aveva ricevuto delle lettere. Ne aveva contate solo tre, poi il mondo era esploso.

*** 
 
Se stai leggendo queste parole è perché sono morto.
Abbastanza grave? Ci vuole qualcosa di più teatrale? Che ne dici di “lettera dal consiglio di amministrazione per ragazzini problematici e ribelli”? Fa il suo effetto. Dici che i tuoi esultano? Ti sto immaginando in un collegio, costretto a flessioni e castità. Ci sarebbe da sbellicarsi.
In ogni caso, se sei Sirius questa lettera ha fatto il viaggio giusto. Come te la passi? Io sono riuscito a divorare un pudding prima di cena. E ammetto che se ci fossi stato tu ci avremmo impiegato un’ora… dovrei farle io, le flessioni.
Ho pensato di scrivere una lettera anche a Evans. Dici che potrebbe farle piacere o la brucerebbe? Niente di che, è che vorrei sapere qualcosa in più su di lei. Secondo te le farebbe piacere un regalo di Natale? E, sempre secondo te, quando sono diventato così imbarazzante? Ti prego, non dire niente a Remus e Peter.
A proposito di Remus, spero proprio che questo mese non sia troppo dura per lui. Si è abituato a stare con noi e non vorrei che uno squilibrio così drastico lo portasse a farsi più male. Sono preoccupato anche per te, in realtà, praticamente per lo stesso motivo. So che non vuoi sentirlo (o leggerlo), ma è così.
In ogni caso, mi sto esercitando con gli incantesimi localizzatori su una piantina di casa mia e spero di riuscire a diventare abbastanza bravo per il nostro ritorno, così da poterli già applicare sulla appam (leggilo al contrario! Mi serviva un nome in codice). Per ora mi ha segnalato mia madre in un cespuglio. Purtroppo non era vero, si vede che non sono ancora così bravo. Esercitati anche tu, so che hai tempo!
Ora vado a cena! (rimpiango tutto quel pudding)

Baci baci d’oro e d’argento,
Jamesie
 

Sirius ripose la lettera nel cassetto del comodino e si sporse oltre il bordo del letto per darsi un’occhiata allo specchio. Inclinò la testa su un lato, studiando il cipiglio con cui lo stava osservando il ragazzino ben vestito nello specchio. L’ardua impresa di odiare il suo riflesso era stata conseguita con successo!
Sospirò, afferrò lo specchio sul comodino e ci guardò attraverso. Sembravano le mattonelle di un bagno.
“James,” tentò, osservando pazientemente la superficie immobile. “Avanti.”
“Dimmi,” i capelli ingestibili di James Potter comparvero dall’altro lato dello specchio. Sembravano esserglisi afflosciati sulla testa per metà, mentre le punte continuavano ostinate a non contemplare affatto l’idea di restare in ordine.
“Sembri un riccio triste.”
“Tu mi sembri un cretino. Ma che hai addosso?”
“Te lo dico se mi dici che hai fatto.”
James sospirò, si passò una mano in testa e guardò dritto davanti a sé, evitando lo specchio con lo sguardo. Sirius suppose che stesse usando uno specchio vero. “Mio padre è l’inventore di una pozione per capelli ordinati.”
“Sappiamo tutti che sei uno scherzo della natura.”
“Ha provato a usarla su di me.”
Sirius rise. “Un illuso.”
“Hai ricevuto la mia lettera?”
“Mi spieghi a che serve la lettera se abbiamo gli specchi?”
“È romantica. Tu mi spieghi perché sei conciato così?”
Sirius alzò gli occhi al soffitto. Era opprimente in una maniera che solo le case di certi maghi potevano permettersi. “Cena di famiglia.”
James guardò dritto nello specchio, alzando un sopracciglio. “Azkaban sembra più divertente.”
“Già.”
Gli diede una rapida occhiata. “Allenta la cravatta, apri due bottoni alla camicia. Ce l’hai qualche Caccabomba?”
Un sorriso alzò un angolo della bocca di Sirius, mentre obbediva ai consigli di stile di James. “Per chi mi hai preso?”
“Quante?”
Sirius sbuffò. “Tre.”
L’altro annuì pratico e alzò gli occhi come alle prese con un difficile calcolo matematico. “Una nel bagno femminile, una sotto la sedia di Bellatrix e una tienila per sicurezza.”
Un sospiro, poi il ragazzo sorrise, abbassò lo specchio e mostrò a James l’interno della sua giacca. La fodera era strappata in un punto e la sagoma leggera di tre caccabombe premeva gloriosa sul tessuto interno. “Ripeto. Per chi mi hai preso?”
James gli sorrise, trentadue denti e una spietata concorrenza al sole. “Devo andare. Divertiti e non farti scoprire.”
Poi l’immagine nello specchio ondeggiò e si tinse del buio tipico di un cassetto.
 
Il fatto che il temperamento di Sirius non fosse dei migliori non doveva far credere che non avesse pazienza.
Si vantava molto della sua pazienza.
Scoppiava di pazienza, la vendeva al mercato.
Se l’intero numero 12 di Grimmauld Place era ancora in piedi, era tutto merito della sua immensa pazienza e della sua ancor più immensa capacità di turarsi le orecchie e passare sopra a quello che sentiva e vedeva.
Tutte le pazienze, però, avevano un limite.
“Forse non ci siamo capiti.”
La porta sbatté con uno schiocco contro la sua cornice. Nel retro della sua testa, Sirius si chiese se non si fosse addirittura scardinata. “Il punto è che ci siamo capiti benissimo.”
Regulus lo superò con un sospiro stanco e si diresse nella sua stanza. La festa di Natale non era finita prima, il resto della famiglia Black stava ancora brindando festosa, ubriacandosi con l’idromele più buono che fosse mai stato distillato sulla faccia della Terra.
“Credi di avere scelta su come comportarti,” sua madre aggrottò le sopracciglia, con la cura e la dedizione che solo una persona che stava per esplodere poteva fingere così bene. La somiglianza con Bellatrix era allucinante. “Non si tratta più di capricci e negazioni adolescenziali. Queste serate sono importanti ed è inammissibile che alla tua età tu ci costringa ad andarcene prima. Sei immaturo.”
“Non vi ho chiesto di andarcene neanche una volta. Avete fatto tutto voi.”
Le rughe preoccupate sulla fronte di sua madre si distesero, le sopracciglia si abbassarono e le labbra nervose si assottigliarono. “Gli igienici sono saltati in aria mentre la zia Lucretia era dentro, così come la sedia di tua cugina.”
Sirius sorrise. “Non sono stato io.”
Vide la vena sulla fronte della madre rischiare di fare la stessa fine della zia Lucretia. “Hai osato dire…” scambiò uno sguardo indignato con suo marito. Il volto austero di Orion Black rimase impassibile se non per un leggero sdegno a distorcerne i lineamenti. Sirius non gli aveva mai visto indossare smorfie diverse e non aveva mai capito se quella fosse la sua faccia o il riflesso dei suoi pensieri quando lo vedeva. “Hai detto che…”
Si sforzò di non ridere: sua madre sembrava aver difficoltà a ripetere esattamente quello che aveva detto, così pensò di darle una mano. “Che Regulus ha una scopa in culo e che gli piace da morire?”
Walburga trasalì. Non per il linguaggio, ma per la furia. “Con…” sputacchiò, una vista strepitosa che gli sarebbe costata cara, “hai gridato!”
La sala della cena era ammutolita. Gli occhi sgomenti, orripilati, imbarazzati, risentiti degli ospiti ben vestiti si erano posati su di lui come se non avessero mai sentito la parola ‘culo’ in tutta la loro vita sfarzosa. Poi delle stoviglie avevano tintinnato nervose e Walburga aveva attirato l’attenzione degli ospiti su di sé. Un’ombra nera del disagio più furioso le aveva oscurato la faccia, mentre si alzava in piedi. Erano passati sopra la zia Lucretia e la sedia di Bellatrix, ma questo aveva messo in imbarazzo l’intera famiglia e non era stato più possibile dare la colpa a un carattere infantile e un po’ turbolento.
Si erano congedati con la scusa di faccende ministeriali improrogabili di Orion e un mal di testa galoppante di Walburga. Sui volti di alcuni familiari erano apparsi sorrisi comprensivi, pregni di solidarietà, accompagnati ai cenni della più umiliante disapprovazione di quelli che invece non volevano vedere uno sboccato ragazzino arrogante ereditare la Nobile e Antichissima Casata dei Black.
“Mi dispiace,” si scusò Sirius e, sebbene questo non potesse riparare il torto subito, i suoi genitori si scambiarono uno sguardo piacevolmente sorpreso. “Sono stato un po’... offensivo, ne ho parlato come se fosse una cosa da prendere in giro.”
L’atmosfera cambiò all’istante.
“Regulus ha tutto il diritto di infilarsi nel culo quello che gli pare. In fondo, e lo dico per esperienza, stimola la…” puntò l’indice in alto e lo mosse velocemente.
Lo schiaffo fu una sorpresa. Non perché non gli fosse mai capitato, ma perchè al contrario era una punizione un po’ banale.
“Dammene due.”
Era stato suo padre a parlare. Le braccia incrociate al petto e gli occhi che brillavano di ribrezzo come se fosse stato una bestia.
“Altri due buoni motivi, altri due passi falsi e rimpiangerai gli Schiantesimi.”
“Eh?”
“Mi hai sentito.”
Sirius boccheggiò, per la prima volta spaventato non dalla punizione, ma dalla sua assenza. “Che vuol dire che rimpiangerò…”
Suo padre alzò una mano, la mosse verso le scale in un invito ad andare in camera sua, poi lo superò e si lasciò alle spalle l’ingresso. Sua madre lo seguì e, passando accanto a suo figlio, gli poggiò una mano sulla testa. Fredda e distaccata com’era, più che una carezza, a Sirius sembrò un’amara sentenza.

***
 
Buon Natale!
In realtà credo non sia più Natale da un pezzo, ma mia madre si è appropriata del gufo. Per quello che vale, ti posso giurare che la lettera la sto scrivendo il giorno di Natale!
In questi giorni, quando mi sveglio con calma, quasi mi mancano i cuscini in testa e gli agguati. Ovviamente smetteranno di mancarmi non appena torneremo al dormitorio, ma accontentati di questa piccola concessione.
Oggi sono andato a un pranzo di famiglia; è stato divertente, ma c’erano i parenti di mio padre ed è stato anche molto imbarazzante cercare di tralasciare il dettaglio che a scuola faccio volare oggetti e di tanto in tanto so diventare un topo.
Hai notizie di Remus, a proposito? Spero stia bene, era così abituato a spassarsela con noi che deve aver avuto una gran paura delle solite catene. Vedere la luna alta in cielo è stato proprio brutto! James dice che non ha dormito tutta la notte e che si è trasformato in segno di rispetto… esagerato come al solito.
Non dirò che sono preoccupato per te perché già so che troveresti il modo di venirmi a picchiare, ma… stai bene? Si tratta solo di resistere un po’ e tenersi fuori dai guai, tra poco ci rivedremo!
Oh, cena di Natale (ancora cibo!), devo andare. RESISTI!

Pete.
 

“Ho capito!” gridò Sirius, riponendo la lettera nel cassetto e tirandolo nervoso sui suoi binari, “ho detto che sto scendendo!”
Discese le scale con un sospiro. Erano giorni che non veniva chiamato a fare qualcosa che non fosse mangiare. La casa sembrava in fermento, le mura parevano in ascolto, contrariamente a quanto si diceva in giro sulle loro orecchie.
“Che vuoi?”
A sua madre non piacque il tono, ma lo ignorò.
“Vèstiti.”
Sirius si diede una rapida occhiata, poi alzò ancora gli occhi su Walburga. “Ti sembro nudo?”
“Vèstiti bene,” rettificò, la disapprovazione che le colava dagli occhi. Tornò dopo un attimo a passare uno spolverino, fatto probabilmente per spostare l’aria, su qualunque superficie le capitasse a tiro. Non capì perché sua madre si fosse messa a pulire, visto che non era proprio la sua attività di punta.
“Come lo vuole il tè, la regina Elisabetta?” Un’altra occhiataccia, nessuno schiaffo. Sirius iniziava a prenderci gusto.
“Un’altra cena di famiglia.”
“Certo, be’, sicuramente come sono vestito cambierà la loro opinione su di me.”
Sua madre smise di agitare a vuoto lo spolverino e sospirò, decidendo evidentemente che era tempo di una lezione. “Non è una cena come tutte le altre,” disse, gli occhi che brillavano di qualcosa che Sirius non afferrò e che scambiò ingenuamente per esaltazione, “dobbiamo discutere di una faccenda particolare, si tratta del tuo futuro e di quello di tutti noi. Non saremo in molti e ci faranno compagnia altre famiglie.”
“Un esercito,” la prese in giro, alzando un sopracciglio. Quando sua madre non lo rimproverò, Sirius aggrottò la fronte. “Davvero è un esercito?”
“No, ma è il momento di parlare di lealtà” lo considerò per un attimo con lo sguardo, poi arricciò il labbro superiore con sdegno, “forse è meglio se tieni la bocca chiusa.”
“Lealtà a chi, scusa?”
Walburga lo guardò, scegliendo le parole. “Ideali.”
Calò il silenzio per qualche secondo, Regulus sbucò da dietro la porta e Sirius gli lanciò uno sguardo veloce, poi scosse la testa, definitivo. “No.”
“Non mi sono spiegata, allora. Non è un invito.”
“Non m’interessa se mi inviti, io non me ne starò qua a sentire le vostre stronzate sul sangue puro.”
Le narici di sua madre si allargarono, se gli occhi avessero potuto mandare scintille non si sarebbero trattenuti. “Le cose non stanno più come credi. I tempi sono cambiati e noi dobbiamo adattarci, stare dalla parte giusta.”
Sirius colse ancora lo sguardo di suo fratello, il silenzio insignificante e ancora più nauseante delle implicazioni di quel delirio di conversazione. “Io sto dalla parte giusta!” gridò il ragazzo, il pronome enfatizzato come a tracciare una linea tra lui e il resto di quella casa.
Tu,” sibilò la donna, scuotendo la testa categorica, “non scegli da che parte stare. Questa è una guerra e conta chi prende i posti migliori.”
“Vuoi che partecipi alla tua stupida cena?” l’ingenuità dei suoi sedici anni a convincerlo che ‘guerra’ fosse un’iperbole, “Va bene, ma non me ne sto zitto neanche se preghi e la tavola la faccio esplodere mentre parla il più grosso di quegli stronzi.”
Silenzio che si allargava in cerchi concentrici nella casa, linee di confine invisibili che venivano tracciate nello spazio irrisorio di un secondo.
Sirius fu mandato non molto gentilmente a passare il resto della serata nella sua stanza, in cui si ingegnò affinché la musica rimbombasse per bene sulle pareti. Di nuovo, non fu punito e il conto delle infrazioni ancora concesse scese a uno.

***
 
Ciao! O meglio, buongiorno vecchia bigotta che controlla le lettere di Sirius, io sono una creatura della notte. Ovviamente esagero, mica faccio sul serio.
Bene, scusa se non ti ho scritto in pieno periodo natalizio, ma ti giuro che ci ho provato. Però adesso sto benissimo! Più o meno, cioè, magari ti faccio vedere le nuove cicatrici visto che dici che sono ‘da duro’, qualunque cosa significhi… forse suona strano detto così? Non ho la forza di mettermi a scrivere un’altra lettera, fatti bastare questa.
Ah e, ti prego, rassicura James. Ha detto che se non ti sente almeno ogni due giorni manda una squadra di soccorso a casa tua. Gli ho detto che starai benissimo, ma non vuole ascoltarmi.
Parlando di cose serie, una notte rinchiuso in un capanno mi ha schiarito le idee e credo di aver deciso il premio della scommessa, non credere che me ne sia dimenticato!
Ad ogni modo, è vero che ho detto a James che starai benissimo e, ti prego, non prenderla a male, ma mi farebbe piacere se rispondessi a questa lettera. Bastano due righe: “qui tutto bene, ciao” (come vedi non sono neanche due)!
So che nessuno te lo dice spesso, quindi tieni ben presente che ti vogliamo bene. Forse non tutti allo stesso modo, ecco, in realtà è un po' che ci penso, in un certo senso. Non so cosa significihi, non so neanche perché dovresti saperlo tu, però hai presente la festa a inizio anno? Non lo so... Magari poi ne parliamo.

Okay, sono stato abbastanza ridicolo?
Buon Natale in ritardo.

RJL

 
L’ultima lettera rimase chiusa nel cassetto del comodino; i lembi di carta che la tenevano sigillata, mai strappati.
Quando Sirius si fece due calcoli, capì quale fosse stato, per tutto quel tempo, il senso profondo dell’assenza di punizioni e delle sottintese minacce.
Erano scuse.
Bastò una rispostaccia a capovolgere la situazione. E il mondo si tinse di bianco, perché lui andava corretto.
Era una parola interessante, considerò mentre il cielo intero gli cadeva addosso, fischiando nelle orecchie; era un concetto interessante. Riusciva a pensare almeno a mille motivi per cui uno come lui andasse corretto. Certe notti non dormiva, aveva praticato magia avanzata illegale, non rispettava praticamente nessun coprifuoco, aveva perso la verginità a quindici anni, a volte voleva baciare i ragazzi, a volte anche toccarli, non faceva i compiti e non studiava abbastanza. Da quando aveva sentito Drive-In Saturday sognava di andare a un rave[1]. Capiva benissimo che non fossero in pochi a desiderare di correggerlo e riusciva a comprenderne le ragioni, sebbene non le condividesse, ma mai, neanche a voler chiudere un occhio, avrebbe accettato di essere corretto per i suoi ideali.
Per un attimo credette che gli si stessero strappando gli organi interni. Pensò a Remus e immaginò quasi di potersi connettere alla sua sofferenza, al contatto delle tegole del pavimento, al bruciore allucinante agli occhi e la sensazione che il respiro successivo potesse spezzargli la gola e tranciarla di netto.
Era il prezzo della libertà? Il meritato inferno di chi si opponeva? Al contrario, era il futuro?
Negli istanti fragili di quel supplizio, si chiese se anche Remus soffrisse a quella maniera, se non fosse peggio avere un appuntamento certo col dolore. Erano uguali, per essere diversi? Costantemente emarginati in una società che li desiderava normali?
Poi uno scatto lo costrinse a contorcersi e la mente si spense, veloce come se fosse stata da sempre programmata a fare quello.
Desiderò di potersi strappare la pelle di dosso, di trovare il modo di sfracellarsi al suolo e di non sentire più niente.
La vita? Una preghiera? Poteva piangere? L’aveva già fatto? Chi diavolo era e perché non si sentiva più le orecchie? Oh, la morte, che smisurato privilegio! Forse, se l’avesse desiderata tanto ardentemente...
Quando tutto finì fu l’aria, la prima cosa che lo colpì; la stravolgente consapevolezza che respirare era un sollievo e che i polmoni doloranti fossero ancora in grado di reggere il ritmo serrato di un ansito. Il suono della pioggia si aprì un varco nella stanza e la sua improvvisa comparsa gli fece capire che aveva urlato. La gola riarsa glielo confermò.
“Ti è chiaro, adesso?” La voce di sua madre era bassa, impenetrabile. Non sapeva cosa vi fosse dietro e non si preoccupò di indovinarlo. “Questo è un assaggio di quello che succederà a chi sceglierà di combattere. Considerala una lezione.” Lo osservò, la luce fievole della stanza tentava di donare riflessi al buio dei capelli di lei: non conquistò neanche un tenue bagliore. “Hai capito, adesso?” domandò ancora, paziente.
E Sirius, a dispetto del suo orgoglio e del suo coraggio, annuì.
La donna lo imitò, poi lo aiutò ad alzarsi e lui trattenne il disgusto. Lo lasciò andare solo quando fu solo, nella sua stanza, la terza lettera ancora abbandonata nel cassetto e destinata a non essere mai letta.
Gli ci volle un’ora, per capire di cosa avesse bisogno. Alzò lo sguardo sull’orologio alla parete, le mura troppo strette, la stanza che danzava. Erano le due del mattino, un orario sconveniente per quello che aveva in mente. Ma le mani si mossero più rapide dei pensieri e, prima che potesse starsene a riflettere sulle buone maniere, il suo baule era già volato sul letto, assieme ai vestiti, ai libri scolastici e alle sue uniche speranze di non impazzire.
Alla terza maglietta buttata con veemenza nel baule, Sirius si accorse di essere furioso, forse ingestibile, straripante.
Aveva annuito.
Con un solo gesto le aveva detto che aveva capito, che era d’accordo sul fatto che quella fosse una lezione universale, che se la meritava e che era debole, che poteva soccombere e che l’avrebbe fatto. Il disgusto gli risalì per la gola. Lo mescolò al dolore, alla percezione infuriante che aveva le mani pesanti come piombo, la testa che girava, lo stomaco sottosopra e ogni centimetro del suo corpo che gridava a ritmo col dolore.
Non si sarebbe mai piegato.
Quasi non sentì il legno della porta stridere su quello della cornice e lo schiocco della sicura. Quando alzò lo sguardo, gli occhi che incontrò gli sembrarono lontani anni luce dall’essere simili ai suoi.
Regulus alzò una mano e aprì la bocca per dire qualcosa, ma Sirius lo anticipò.
“Che ci fai qui? Canti vittoria? Facile, dopo che non hai alzato un dito. Scommetto che sia stata musica, per le tue orecchie.”
Regulus sospirò, l’aria superiore fece venire voglia a Sirius di spaccargli l’altro lato della faccia, ma poi il ragazzo lanciò un’occhiata al baule sul letto e tornò a guardarlo. Sirius seguì il suo sguardo e lo studiò.
“Sì, congratulazioni, hai appena ereditato questo castello da favola,” lo prese in giro e allargò le braccia come a sottolineare la sua fortuna.
“Sirius…”
“Quale sarà il tuo primo compito? Andare a spifferare quello che sto facendo? Avanti, fallo, aspetto di…”
“Stai zitto!” gridò e sussurrò insieme Regulus, i denti digrignati e lo sguardo che mandava scintille. “Sì, vado a parlare alla mamma.”
Sirius represse una risata e alzò gli occhi al cielo, ma Regulus non sembrò averlo notato o essersene preoccupato.
“Questo vuol dire che hai dieci minuti.” Lo sguardo di Sirius cambiò. Di nuovo, suo fratello sembrò non farci caso. Raccolse un libro da terra e glielo lanciò. “Se hai finito non dovrebbero essere pochi e se la distraggo abbastanza dovrei riuscire a coprire i rumori lungo le scale.”
Sirius lo guardò come se qualcuno avesse cambiato i connotati a suo fratello e gli fosse toccato di memorizzarli nuovamente. I tratti duri del viso per un attimo quasi umani. “Aspetta, tu stai…”
“Vattene” ringhiò Regulus categorico, il tono più simile a qualcuno che lo stesse minacciando di ucciderlo, la voce appuntita a formare angoli a cui nessun quattordicenne dovrebbe mai ambire; e Sirius annuì, perché non gli restava altro da fare. Regulus lo imitò pratico, poi si richiuse la porta alle spalle e scomparve nel corridoio.
Col tempo quel baule, quelle scale e quella soglia si sarebbero trasformati in un vago ricordo, immagini sbiadite che avrebbe contribuito a sciogliere, come un dito su una macchia di inchiostro. Avrebbe ricordato benissimo, però, il freddo pungente che lo colpì una volta superato l’ingresso del numero 12 di Grimmauld Place, che si insinuò tra le pieghe del mantello troppo leggero, facendo breccia nelle ossa ancora distrutte. Sebbene fosse obiettivamente spiacevole, Sirius lo benedisse e scomparve mescolandosi al nero della notte, in cerca di un locale in cui fosse sicuro rischiare un viaggio con la polvere volante.
Nessuno lo vide mai andarsene da Grimmauld Place, convinto che non ci avrebbe più rimesso piede, fatta eccezione per una sagoma nera affacciata a una finestra, sola. Forse era la sua ombra, forse il suo passato, forse la rappresentazione lampante di quello che avrebbe potuto essere.
Tuttavia, quell’ombra si lasciò sfiorare per la prima volta da quel freddo spaccaossa che era la libertà solo in punto di morte, cinque metri sotto la superficie di un lago.
Lo benedisse anche lui, lo ringraziò, godette appieno del suo abbraccio...
E ci annegò.
 
***

Il salotto era immerso nel buio, se non per quelle sottili stringhe di luce che superavano le tende leggere del soggiorno e si infilavano nella stanza, baciando le superfici lisce dei mobili. Fu la staticità dell’ambiente a sorprenderlo. Un silenzio dal retrogusto di serenità e nient’altro, in cui si crogiolò in quegli attimi sospesi, prima che la realtà gli piombasse addosso. Erano le due del mattino passate e fino a prova contraria lui aveva appena violato una proprietà privata.
“James!” chiamò e solo in quel momento si accorse di quanto la sua voce suonasse spezzata.
Gli ci volle qualche altro richiamo per ottenere uno scalpiccio, da qualche parte nella casa. Sirius si torturò le mani nell’attesa che i passi, di qualunque componente della famiglia Potter fossero, lo raggiungessero.
“Sirius?” James si passò una mano nei capelli scarmigliati e lo guardò come quando lui lo svegliava nel bel mezzo della notte per dargli fastidio: un cipiglio assonnato e annoiato insieme. Sirius sperò che anche quella volta potesse essere così facile.
“Ehilà,” scherzò, il solito sorriso furbo troppo tirato per risultare credibile.
Ci volle qualche secondo perché James registrasse il baule e la faccia in penombra del suo amico, poi sgranò gli occhi e gli corse incontro. Il sonno spazzato via dalla preoccupazione. Sirius giurò di aver visto gli ingranaggi nella mente del suo amico correre impazziti per rimettere insieme i pezzi. In realtà aveva paura della prima domanda e della seconda, della terza e della quantità di cose a cui avrebbe dovuto rispondere da quel momento in poi, senza proteste.
Invece James sospirò, gli appoggiò un braccio su una spalla e, prima ancora di pronunciare la prima domanda, lo attirò a sé in un abbraccio.
“James…” Sirius si congelò, fissando un punto impreciso dritto davanti a sé, incapace di chiedergli perché l’avesse fatto. James non rispose, neanche quando Sirius ricambiò la stretta. Lo lasciò andare solo quando si schiarì la gola e mosse le spalle in una muta richiesta di sciogliere l’abbraccio.
“Che ore sono?”
“Le due e mezzo.”
James annuì e si guardò attorno. Sirius ammirò la disinvoltura e la rilassatezza con cui lo fece. Sapeva di accoglienza e di nessun disturbo. “Posso fare solo una domanda?”
Il ragazzo strinse le labbra e gli diede il via libera con un cenno della testa.
“Ti hanno cacciato o sei scappato?”
Sirius abbassò lo sguardo. “La seconda.”
James si accigliò, concentrato come se fosse proprio a un passo dal tirare fuori una pergamena dal nulla e mettersi a scrivere calcoli. “Senti, lo so che non ti piacerà, ma non mi sembri tanto in grado di prendere decisioni, al momento. E onestamente io non so cosa fare.” Si guardarono per un attimo, poi, prima che Sirius potesse chiedergli cosa avesse in mente, James si fiondò su per le scale, illuminò a giorno il salotto con un interruttore e chiamò i suoi genitori a gran voce.
Sirius desiderò di essere inghiottito dal parquet.
“Mamma, c’è Sirius di sotto.”
Il tono ovattato dalle mura l’avrebbe quasi fatto ridere se il terrore non avesse iniziato, senza alcun permesso, a rimescolargli gli organi interni.
“Eh?”
“C’è Sirius di sotto.”
Un fruscio, poi un rumore sul pavimento. “Che stai dicendo?!”
“Ti giuro.”
“Sta bene?”
“Non lo so.”
Una terza voce si unì alla conversazione: era il padre di James. “Che bastardi.”
“Gli hanno fatto del male?”
Un’altra fitta gli arpionò lo stomaco. Ci mise qualche secondo a capire che era calore.
“Non lo riesco a capire.”
“Va bene, metti su il bollitore per il tè, ci parlo io.”
Un rumore sordo di passi si affrettò ritmico lungo il corridoio e proseguì per le scale. Sudore freddo gli bagnò i palmi delle mani, qualcosa si arrampicò alla bocca dello stomaco, stringendo, poi risalì lungo la gola. Non era nausea, la sensazione ricordava più un pugno prolungato. L’aria gli fischiò attorno alle orecchie, la stanza si strinse, percepì il respiro aumentare, ma non sembrava il suo. Il cuore gli martellava in gola, nel petto, tra le tempie, nello stomaco.
“Siediti.”
Euphemia Potter comparve alla base delle scale, una vestaglia stretta mollemente sui fianchi, i capelli legati in una crocchia disordinata e fatta in fretta. Sirius sputò fuori un respiro profondo.
La vide alzare un sopracciglio. Non c’era traccia di nervosismo nei suoi occhi, lo guardava come se fosse sempre stato lì, come se fossero le quattro del pomeriggio e le avesse chiesto un bicchier d’acqua, solo, con un sentore di apprensione in più. “Siediti pure,” ripeté e Sirius si riscosse, le sorrise timido e prese posto a un angolo del divano. “Ti dispiace se ti faccio compagnia?” Il ragazzo scosse la testa ed Euphemia si lasciò cadere al centro del divano, rannicchiandosi in una posizione comoda e disinvolta. “Mela e cannella o Earl Gray?”
Dov’erano le domande? Perché non l’avevano ancora abbandonato su una strada? “Mela e cannella.”
“Ok!” trillò James, dalla cucina.
“Hai rizzato le orecchie, tesoro!” gli urlò dietro sua madre e James scoccò una risata colpevole nel salotto. Lo colpì come una freccia.
“Tu che vuoi, mamma?”
“Fai una sola teiera.” Euphemia si voltò verso Sirius, i tratti del viso addolciti in un sorriso accennato.
Arriva.
Sirius cercò di richiamare alla mente in quale Casa a Hogwarts fosse stato smistato e perché.
“Allora,” iniziò lei, un sorriso incoraggiante chepurtroppo gli fece venir voglia di fare compagnia al bollitore, “ti va di raccontarmi cosa è successo?”
No, pensò mentre annuiva.
Si fece forza. Era da deboli tirarsi indietro. Lui non era un debole, era uno sconsiderato ribelle che era appena scappato di casa come il più duro dei duri, nelle orecchie la musica rock e il desiderio profondo di divorare il mondo.
“Tre possibilità. Due senza punizione, l’ultima no.”
Euphemia Potter alzò un sopracciglio e lanciò un’occhiata alle sue spalle, dove c’era la cucina. Scosse la testa impercettibilmente e Sirius immaginò che James dovesse aver appena iniziato a indietreggiare con quattro tazze in mano, bandito momentaneamente dal salone. Ingoiò il desiderio di voltarsi e sfotterlo.
Le raccontò a grandi linee della cena di famiglia, la riunione delle Ventotto Sacre Famiglie e la questione delle alleanze. La donna trasalì e si irrigidì in quel frangente. Gettò un’occhiata inconscia lungo le scale, forse in direzione di suo marito, poi gli intimò di continuare con un gesto della mano.
“La terza volta non ho… cioè, certe volte ho detto cose peggiori, quindi non credevo…”
Euphemia lo guardò per un attimo, le sopracciglia aggrottate, un cipiglio confuso e una muta richiesta di continuare.
Sirius esitò, abbassò lo sguardo e si chiese quante parole gli sarebbero servite per descrivere ciò di cui voleva evitare il nome. Due parole contro cinquecento e, contro se stesso, scelse le cinquecento.
Prima che potesse iniziare, però, incontrò di nuovo gli occhi della signora Potter e scoprì che aveva trascurato la possibilità che non ci volessero parole, che la sua faccia parlasse per lui. Lei sgranò gli occhi, più di quanto avesse fatto quando aveva accennato alla riunione e lo guardò come se non potesse credere a quello che aveva appena letto nelle sue pupille stanche.
Maledizione Cruciatus
Sirius pensò a cosa dire. Una qualunque cosa che spezzasse il contatto visivo, il rischio di essere guardato troppo dentro. Poteva farcela; era da deboli, tirarsi indietro.
E lui non era debole, era un pazzo, uno sfrontato arrogante che si aggirava per Hogwarts a spezzare cuori e far levitare persone, uno che non aveva bisogno di studiare, che sapeva sempre cosa dire.
Aprì la bocca per parlare e, con sua sorpresa, gli scappò un singulto. Prima che potesse rendersene conto, stava singhiozzando tra le braccia di Euphemia Potter.
Non era un debole, affatto. Era solo un ragazzino di sedici anni.
“Puoi stare tranquillo, non dovrai più tornarci, lì,” lo rassicurò lei, stringendolo come nessuno mai l’aveva stretto. Si chiese se fosse normale, se fosse quello che faceva una madre.
Poi sentì James imprecare dalla cucina.
“Ma che stai facendo?” la voce di Fleamont Potter risuonò ironica nell’altra stanza. Sirius si chiese distrattamente quando fosse sceso.
“Non lo so, mi stava cadendo la tazza.”
Seguì un tintinnio, un sussulto alto da parte di entrambi e un sospiro di sollievo capace di far tremare le mura. Qualche secondo dopo, James e suo padre attraversavano il corridoio con una tazza per mano e il sorriso smagliante di chi aveva appena evitato un disastro.
Sirius si passò rapidissimo una mano sugli occhi, tirò su col naso e si sbrogliò dalle braccia di Euphemia. Quando James gli porse la sua tazza, rifuggì il suo sguardo.
Poi lo udì reprimere una risata e non poté non consegnargli un’occhiataccia ben piazzata. Lo stava prendendo in giro per aver avuto un minimo di pudore!
“Stronzo,” mormorò, “neanche una tazza di tè, sai portare.”
“Linguaggio!” lo riprese Euphemia e James liberò finalmente quella risata che tratteneva da un tempo insostenibile come dieci secondi.
“Ora è anche un problema tuo, dimentica le parolacce.”
E Sirius nascose la faccia nella sua tazza di tè, perché quell’accoglienza così disinvolta nella sua famiglia rischiava di farlo sorridere così tanto da spaccargli la faccia a metà.
 
“Com’è?”
La capigliatura notturna di James che, con sommo rammarico di suo padre, raggiungeva angoli ancor più audaci di quella giornaliera, spuntò da dietro la cornice della porta. Quella era la stanza degli ospiti. Lo era un tempo perché aleggiava una specie di scontata consapevolezza che non lo fosse più.
“Pochi poster,” scherzò Sirius, mollando il suo baule sotto il letto come se fosse tornato a scuola. Dopo il tè improvvisato e una serie di discorsi leggeri e divertenti che avevano incluso aneddoti imbarazzanti sull’infanzia di James, Euphemia e Fleamont Potter avevano lasciato un bacio sulla testa dei ragazzi e avevano dato loro la buonanotte – o quel che ne restava.
“Ancora per poco,” James sbadigliò e si stese ai piedi del letto, reclinando la testa all’indietro e osservando Sirius armeggiare erratico col poco che si era portato dietro. Anche al contrario sembrava nervoso. “Sei libero, adesso,” gli fece notare.
“Sono scappato,” ribatté, il tono amaro. Più che una risposta, suggeriva una correzione, come se una cosa avesse escluso l’altra.
“Appunto, di solito chi scappa poi è libero.”
“Chi scappa è un codardo.”
James continuò a fissarlo al rovescio. Avrebbe chiuso la bocca e gli avrebbe concesso di sbollire prima di riprendere l’argomento, se solo Sirius non avesse continuato in un sussurro che ebbe la sfortuna di raggiungere le sue orecchie.
“Il cappello ha sbagliato.”
A quel punto James si ribaltò sul letto e aggrottò le sopracciglia. La rabbia prese i tratti di un affronto e pareva che il verdetto, anni fa, sullo sgabello della Sala grande, l’avesse emanato lui. “Scusami?”
Sirius si limitò a guardarlo, negli occhi una sfida a contraddirlo. James la notò, ma per lui era come piazzare una trappola e riempirla di avvertimenti: l’effetto era solo ridicolo, la sua capacità di leggerlo nettamente superiore ai trucchetti da quattro soldi che costruiva.
“Ti stai comportando da idiota.”
“Tu non ne sai niente.”
“Ne so abbastanza per capire che non sei un codardo, se hai fatto una scelta. Lo sei se dopo averla fatta ti piangi addosso come un cretino. Hai fatto tanto per non essere come loro e adesso ti fai fregare dal loro lavaggio del cervello. Adesso che non devi più sentirlo!”
“Tu non ne sai niente!” ringhiò di nuovo. Ancora una volta, James non rimase impressionato dall’ostentata aggressività.
“Non ne so niente solo quando ti conviene. Nomina qualcuno che ne sa più di me.”
Sirius aprì la bocca per parlare, sulla lingua una menzogna che serviva solo a ferirlo e che James intercettò.
“Regulus ti avrà sentito gridare, io ti ho sentito piangere nel sonno.” Esitò per un attimo, poi aggiunse: “e ho pianto con te.”
E a quel punto fu James a fare paura. La verità spiattellata senza mezzi termini nell’aria tra di loro, nuda e semplice e imbarazzante. Quando si solidificò, assunse solo i tratti di una profonda fiducia.
Poi James prese un respiro profondo e tentò di calmarsi.
“Lo dirò adesso, poi per me il discorso sarà chiuso,” iniziò ancora, nei loro sguardi un primo assaggio della maturità che avrebbero solo sfiorato, “tu non hai bisogno che ti dica che il cappello non ha sbagliato.”
“Ho pensato…”
James alzò una mano e scosse la testa e gli sembrò che tornassero sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda, quando Sirius annuì.
James era un grande amico. Lo fu quando i loro sguardi si incontrarono per la prima volta sul vagone dell’Hogwarts Express e lo fu quando si salutarono per l’ultima volta, negli occhi una promessa vana di rivedersi presto e la certezza di avere la vittoria in pugno. Ma James, oltre che un grande amico, era anche umano e non avrebbe potuto immaginare, neanche seguendo la migliore lezione di Divinazione del mondo magico, che non l’avrebbe dovuto interrompere. Perché Sirius gli aveva fatto presente le sue perplessità, non quale fosse la loro sorgente e le cose piccole, quando neanche chi le prova le sa interpretare, possono giocare brutti scherzi.
“Ora che sei libero…” iniziò ancora James, scoccandogli un’occhiata divertita quando Sirius si trovò costretto a non poter ribattere, “decidiamo i nostri dieci posti da vedere prima di morire!”
Sirius si stese con un salto accanto a lui. “Sono le tre e mezzo e io non ho avuto una bella giornata.”
James sbatté le palpebre.
“Quindi l’Australia,” continuò Sirius, invitato speciale alla fiera della coerenza.
“L’Antartide.”
Sirius rise. “Vuoi morire assiderato?”
“Morte con vista mozzafiato. Andata.”
“Anche il Brasile.”
James annuì e poggiò la testa su un braccio, il viso voltato verso Sirius. “E la Norvegia.”
“Ma perché questi posti freddi?”
“Perché c’è l’aurora.”
Sirius ci pensò un attimo su e parlò attraverso uno sbadiglio. “Credi che ci sia una società magica, lì?”
James trattenne una risata nel naso, ma uscì fuori infiacchita dalla stanchezza. “Sicuro.”
“Aggiungiamo il Kenya e la Turchia?”
“Sì, allora anche il Giappone e l’India.” Il tono di James era appena udibile e la voce sbatteva flebile contro il suo braccio.
“Andata,” Sirius si prese una pausa, probabilmente appisolato per qualche secondo, “L’Olanda.”
“Manca l’ultima,” sussurrò James, gli occhi ormai chiusi e gli occhiali storti sul naso.
“La Thailandia,” risposero entrambi, in un coro che fece spuntare due sorrisi deboli sui volti assonnati dei ragazzi.
Dieci posti da visitare prima di morire. Il fortissimo eppure esile tentativo di mandare avanti una speranza proprio quando sapevano che qualcosa di terribile stava per abbattersi nelle loro vite con la violenza corrosiva ed estenuante dell’indolenza. Una promessa che sapevano che non avrebbero mai mantenuto e che, in qualche modo assurdo, riuscì a sopravvivere e a trionfare, alla fine.
Si addormentarono stremati sul letto ancora fatto della camera di Sirius ed Euphemia Potter, quando la mattina dopo entrò a svegliarli, li trovò in un’esilarante formazione da combattimento. La gamba destra di James tentava di spingere via Sirius, che invece aveva una mano piantata sulla sua faccia a insozzargli gli occhiali. La donna si limitò a sorridere e concesse loro qualche ora in più di sonno.







[1] Drive-In Saturday, David Bowie, dall'album Aladdin Sane, 1973. Un verso della canzone recita: "it's a crash course for the ravers". Va tenuto conto che, nel 1975, il termine rave non aveva ancora l'accezione in voga negli anni '80, associata alla musica elettronica, ma si riferiva a party selvaggi degli anni '60, in cui i ravers erano personalità particolari e animali da festa. Negli anni '70, questi termini venivano usati ancora in maniera ironica.
Note di El: Ciao, amici miei cari. Allora prima di tutto vorrei sottolineare che sono in poco ritardo, wow. Capitolo di Natale a tre giorni da Natale, GIURO che è un caso.
Poi mi devo subito fiondare sulla roba ciotta. ALLORA io per sto capitolo volevo suicidare il computer. Cioè, ma proprio che ho detto "no, vabbè chiudiamo baracca, appeso tutto. CIAOOOO" poi però della gente molto carina più giù menzionata mi ha fatta scendere dal mio monte di follia. Io questo headcanon super super super famoso della maledizione cruciatus non lo amo, perché toglie a Sirius qualunque colpa e lo fa apparire la povera docile vittima degli eventi. Che è una cosa che non mi piace mai vedere su di lui perché il bello del personaggio sta nella marea allucinante di errori commessi. In aggiunta, nei libri si parla di genitori stronzi ma non di gioco di mani gioco di villani. Vedo già la domanda viaggiare nelle vostre teste: MA SCUSA, perché diavolo l'hai fatto, allora? E la risposta sono i genitori di James. Ci voleva una roba pesantissima per costringere due adulti responsabili ad ADOTTARE un ragazzino scappato di casa e a non dirgli: "no, ma tu stai tutto fumato, ora chiamo subito a casa così ti vengono a prendere". Nel senso che per quanto la storia si concentri sui malandrini non è che possiamo pensare che tutto il mondo sia incosciente come un manipolo di sedicenni, quindi ci voleva un fatto che mettesse d'accordo il "capriccio" di Sirius e la logica. That's it. Allora i dieci posti da visitare prima di morire sono stati gentilmente suggeriti dalle due persone a cui accennavo sopra e che ringrazio a profusione e che sono Juriaka e Ran <3<3 (bona, un cuore a testa)
MO'.
Le note sono già lunghe ma non posso non dire 'sta cosa che èèèèèèè che probabilmente il prossimo aggiornamento si farà un po' attendere. Il motivo è che ci sono altri capitoli già pronti, ma mi ci sto un po' perdendo. Che un meteorite mi colpisca se abbandono questa storia, no, non è per niente questa l'idea, anzi è l'esatto opposto, però mi sta lasciando fortemente insoddisfatta dal punto di vista... qualitativo(?) Detesto quello che scrivo, come esce fuori, quanto è chiaro e quanto mi sembra stilisticamente gradevole e penso che costringermi a continuare per avere sempre lo stesso numero di capitoli da parte possa fare solo male, perché vedo proprio una differenza tra gli ultimi capitoli pubblicati e quelli scritti e mi sto un po' (leggi: un sacco) avvilendo. Mo', questa cosa è recentissima, tipo di due giorni fa quindi magari è tutto inutile, domani sono un treno e tra dieci giorni vi beccate quella bomba a mano che è il capitolo 20, ma ecco per oggi devo rallentare un po' il ritmo e mettermi a scrivere un po' d'altro per sperimentare parole e non sentirmi stagnante.
QUINDI A M I C I, graaaaazie infinite per aver letto 'sto mamozio capitolo+note e per aver sfondato con me la soglia delle 120k parole <3
A prestooo!

El.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 20 - Scelta ***


20. Scelta






Il ritorno a Hogwarts fu turbolento e del tutto ordinario.
O meglio, lo fu finché Sirius e Peter non furono trascinati con irruenza nel corridoio isolato che costeggiava le cucine.
“James, dovremmo studiare!” si lamentò Peter, che rischiava di inciampare e lasciarsi trascinare da lui strisciando per il restante tratto di corridoio che li separava da… ovunque dovessero tanto disperatamente andare. “E io sono…” prese fiato e alzò gli occhi al soffitto di pietra grezza, “sono stanco.”
“Ci siamo” annunciò James a sorpresa, proprio dopo l’ennesimo lamento informe di Peter.
Si arrestarono nel bel mezzo di un corridoio scarsamente illuminato. Non aveva niente di diverso dagli altri e Sirius sospettava che la parete alla loro sinistra fosse quella che confinava con i frigoriferi nelle cucine.
James trasse un respiro profondo e Peter e Sirius si scambiarono un’occhiata: quello era lo sguardo degli scherzi migliori.
“Hai la tua bacchetta?”
Peter si guardò attorno a disagio e immerse una mano nel suo mantello, poi ne cavò fuori un’asta di legno semplice che non gli aveva mai portato tanta fortuna.
“Bene.” Lo sguardo di James si fece serio, gettò la testa all’indietro e non fece più niente. Non diede indizi, non sprecò parole: si mise a pensare, gli occhi che scandagliavano il soffitto da sinistra a destra come se si fosse messo a leggere una guida.
“Ehm…” Sirius scoccò un’occhiata smarrita a Peter “James, tutto…”
“In ginocchio.”
Passò un secondo di silenzio.
“Come scusa?”
Un angolo della bocca di James si alzò in un sorriso furbo. “Inginocchiati.”
Sirius lo guardò fisso, confuso, poi, quando James non accennò a ritrattare, bofonchiò un insulto e fece come gli era stato ordinato. Lui lo imitò dopo qualche secondo, ponendoglisi di fronte.
“Vuoi risvegliare i morti?”
Peter rise isterico, “io devo restare in pie…”
“Mano destra.”
Sirius, ormai arreso, gli porse una mano e attese che James gliela prendesse.
“Pete, la bacchetta, puntala sulle nostre mani.”
Fu mentre Peter faceva come gli era stato ordinato che Sirius realizzò.
“Il Voto Infrangibile…”
“Aspetta…” Peter sgranò gli occhi e considerò allarmato la situazione. “Devo farlo io?”
James rise, a suo agio come se il mondo intero non fosse stato altro che una barzelletta, l'atteggiamento rilassato di uno che si gioca la vita e punta sul cavallo sfavorito. “No, Pete, lo faccio io.”
Il ragazzo lo guardò inebetito e James roteò gli occhi e gli sorrise: forse non era il momento migliore per il sarcasmo.
“Sì, devi farlo tu” gli spiegò paziente e sentì la mano di Sirius fremere sotto la sua.
“Non sono fatto per sposarmi.”
James gli sorrise. “Io sì. Avanti Pete, inizia.”
E, senza ulteriori proteste, dalla punta della bacchetta di Peter si liberò una fiamma brillante e sottile. L’aria leggera che si respirava normalmente nel castello soffocò nel gelo, man mano che la fiamma serpeggiava regale fino alle loro mani. Morì definitivamente quando James prese un respiro e iniziò a parlare in tono calmo e misurato.
“Accetti che ti sia fedele per sempre, da adesso fino al giorno della mia morte, senza che io ti chieda nulla in cambio?”
Sirius sgranò gli occhi e un sorriso sincero si aprì sul volto di James. “Accetto.”
Una corda rossa di fiamme si strinse attorno ai loro polsi in una morsa bollente, contrasto lampante della neve che si posava tranquilla oltre le mura della scuola. 
“Accetti, per amor di equità, di fare lo stesso per me?”
Questa volta Sirius non perse un battito, prima di replicare fermo: “Accetto” e una seconda stringa di fuoco si assicurò ai loro polsi, intersecando la prima a formare una croce.
“E accetti di colmare il vuoto a cui il nostro sangue non arriva e di diventare mio fratello?”
Sembrava quasi infantile, il tono sincero e schietto con cui lui glielo chiese. Una terza stringa vibrò incandescente tra le loro mani, incapace di sopravvivere da sola prima che l’ultima risposta la suggellasse per sempre. A tenerla viva era, però, unicamente Peter. 
“James, sei…”
Il ragazzo scosse la testa rapido e sgranò gli occhi di fretta, indicando con lo sguardo le loro mani intrecciate e la totale ignoranza di quello che sarebbe potuto accadere se non avessero completato la cerimonia.
“Accetto.”
Una luce intensa sostò per qualche attimo tra le loro mani, poi si dissolse rapida, portando con sé anche i segni che fino a qualche attimo prima tenevano legati i loro polsi.
Passarono tre secondi di silenzio, uno per ogni corda appena sciolta, l’aria intrisa di una certa trasgressiva solennità.
Poi Sirius inspirò pesantemente dal naso e si voltò verso i ragazzi. “Io ho fame, facciamo scorta dalla cucina?”
James e Peter annuirono con un sorriso e si fiondarono verso il quadro con la pera immobile che avevano imparato a conoscere così bene negli ultimi anni.
“Ce l’avranno la torta?”
James sorrise. “Sicuro, Pete.”
E Peter annuì, ricambiando il sorriso, sulla lingua appena una goccia di amarezza.
Negli anni successivi avrebbe ringraziato il cielo e chiunque vegliasse sugli esseri umani per essere stato lui a fare da garante a quella promessa. L’avesse suggellata Remus, ogni gioco dʼalleanze e tradimenti si sarebbe dovuto piegare davanti alla forza della verità.

***
 
Un vento inarrestabile sibilava al di là delle grosse finestre dell’ufficio. Cantava una melodia disarmonica, oscura e cacofonica. I tronchi sottili degli alberi più in basso danzavano a un ritmo pericoloso per la loro vita. Più su, dove l’orizzonte incontrava le nuvole, il vento spostava aria secca, preparandola a una bufera in piena regola. Presto la scuola sarebbe stata coperta da un manto di soffice neve e il suono tetro delle armi si sarebbe dissolto piano fino a scomparire.
“Dobbiamo stare attenti,” avvisò Minerva McGranitt, abbandonando la visione spoglia del panorama alla finestra e puntando gli occhi sui suoi interlocutori. Con un gesto abitudinario ed elegante, appoggiò un dito sul ponte degli occhiali disadorni e li tirò su, “è presto per prendere misure drastiche, certo, ma…” uno sguardo per ogni collega, un brivido appoggiato su ogni schiena.
“Dobbiamo proteggere i ragazzi” contestò il professor Vitious.
La curva sottile delle labbra della professoressa si strinse fin quasi a scomparire. “Temo che non sarà possibile, quando la macchia si allargherà fino a qualcuno di loro,” ribatté scettica, osservando il professore sobbalzare appena, in un’inspirazione rapida non audace abbastanza da costringerlo a un passo indietro.
“Questa è un’accusa.”
“Non mi sembra realistico confidare nella loro innocenza. Alcuni dei nostri ragazzi sono maghi adulti. La nostra negligenza potrebbe costare qualche vita.”
Un battito d’ali concitato costrinse la conversazione a interrompersi. Gli occhi neri di Fanny scandagliarono regali la stanza, in previsione di chi avrebbe preso presto parola.
“Non c’è dubbio che sia importante per noi garantire la sicurezza di questa scuola ed evitare l’insorgere di una guerra,” il tono calmo del preside Silente si fece strada nella conversazione. I professori lo ascoltarono in rispettoso silenzio, il solito luccichio brillante negli occhi oscurato da un’ombra, “ma per il momento rispedire gli studenti alle loro case è prematuro.” Qualche testa annuì energica in assenso. “Lord Voldemort è una minaccia quiescente in via di risveglio e il nostro compito, nei prossimi mesi, sarà quello di esercitare cautela.”
Con quelle parole e un paio di sguardi pesanti di chi le ascoltò, la riunione speciale fu sciolta. Il vento stesso sembrava averli ascoltati ed essere già corso a riferire il segreto della loro preoccupazione ai suoi padroni. La prima neve di gennaio iniziò a posarsi inesorabile sui tetti aguzzi della scuola.
Dopo qualche ora, calò il silenzio.
 
***

“Veloci!” Sirius sussurrò, il tono grezzo e urgente.
“Questa cosa è assolutamente fuori di testa, spero che tu lo sappia,” ribatté James, in un sibilo che si impegnò a non alzare di volume.
Ad un cenno della testa di Sirius, entrambi sollevarono il giradischi dal tavolino scarno che la Stanza delle Necessità offriva e lo assicurarono tra le loro mani nella posizione più stabile possibile. Peter annodò i cavi sciolti delle casse e se le caricò in spalla con uno sbuffo.
“Fate presto, il settimo piano è sempre vuoto, se qualcuno si ritrova a passare di qui ci becca di sicuro.” La voce urgente di Remus li incalzò dallo specchio che James gli aveva gentilmente e momentaneamente ceduto. “E non ci credo che avete fatto fare a me il palo.”
“Tu sei un prefetto, fai praticamente questo” ribatté Sirius, sicuro di sé abbastanza da reggere il giradischi con una mano e lo specchio con un’altra. Sorrise alla superficie in quel suo modo storto che faceva alzare gli occhi al cielo a Remus e si sorprese quando notò che, oltre a fissare il soffitto, il suo amico stava arrossendo.
“Quindi è stata Evans a dirti di questa stanza?” trillò James, in un tono così disinvolto da perdere tutta la sua disinvoltura. Sirius pensò che non si potesse essere più imbarazzanti di così.
“Già. E onestamente detesto il fatto che non sia stato possibile metterla nella mappa.”
“Però può tornare utile, sai...” suggerì James, persino il tono disinvolto depose le armi in favore di un sorriso malizioso.
“James…” iniziò Remus, perché non aveva neanche bisogno di vederlo in faccia per intuire la direzione del discorso.
“Fai schifo” finì per lui Sirius.
“La malizia è nell’occhio di chi vede!”
“La malizia è nel tono di chi dice ‘però può tornare utile, sai’ come un maniaco,” lo corresse Sirius, mettendocela tutta per imitare la voce di James nel peggior modo possibile. “Stammi a sentire, abbandona il piano-Evans e fatti una bella…”
“Se non vi muovete vi lascio qui in balia degli altri prefetti.”
“Ti riferisci a quelli che fanno bene il loro lavoro?”
Peter, Sirius e James si lasciarono alle spalle le porte temporanee della Stanza delle Necessità.
“Ci tenete proprio tanto a perdere il vostro palo.”
“No, no!” Sirius ridacchiò allo specchio, un desiderio immotivato di costringere Remus ad arrossire di nuovo si impadronì per un attimo brevissimo del suo petto. Quando non accadde, aggrottò le sopracciglia deluso. “Siamo a due passi.”
E lo erano davvero.
L’idea di sottrarre il giradischi alla Stanza delle Necessità era arrivata come un fulmine a ciel sereno. Sirius non aveva mai avuto bisogno di portarsela dietro, ma a ben pensarci era snervante dover andare ad ascoltare la musica. E poi così anche James, Remus e Peter avrebbero potuto ascoltarla con lui, per la loro gioia. Si erano dunque trovati protagonisti di un furto in piena regola, a scorrazzare per le scale della scuola, fare i conti con i loro capricci e sperare di raggiungere la Torre di Grifondoro senza essere visti. Per fortuna, per quanto riguardava la voce del piano ‘non essere visti’, avevano le spalle coperte.
“Ci avete messo una vita,” si lamentò Remus, tastando il mantello di James in cerca della tasca nascosta e facendo scivolare lì lo specchio..
Sirius alzò gli occhi al cielo e lo ignorò. “Andiamo” e i ragazzi si misero in marcia, pronti a fronteggiare scale volubili e corridoi lunatici.
Proprio sulla soglia del primo gradino, Sirius rivolse un cenno del capo a Peter, detentore dell’assicurazione di non essere visti, per l’appunto. “Pete, il mantello.”
“Che mantello?”
James ridacchiò, “che mantello? Quello dell’invisibilità.”
“E che ci devo fare?”
Sirius scambiò un’occhiata veloce con James, poi inspirò e, tenendo gli occhi chiusi, sussurrò: “Peter…”
“Cosa?”
Cosa?” ribatté acido, “il mantello, lo dovevi prendere tu!”
“Ma non è vero!”
“Sì che è vero, secondo te qual era il piano, rubare un giradischi e suonare le trombe affinché tutta la scuola ci vedesse?”
Peter aggrottò le sopracciglia e abbassò lo sguardo. Non sembrava mortificato come negli anni passati, aveva più la faccia di uno che si stesse mordendo la lingua e ingoiando un boccone amaro. “Il mantello è di James,” si difese in un mormorio. Di nuovo, suonava più trattenuto che offeso.
“Anche la pazienza è la mia, ma…”
“Non c’è problema,” si intromise Remus, in perfetta calma, “voi restate qui, io e Peter andiamo a prendere il mantello.”
James annuì con un sorriso e indietreggiò col giradischi verso l’interno di un corridoio. Contava sull’ombra lunga che la parete di fronte proiettava.
“Ti devi dare una calmata.”
Sirius non rispose, si limitò ad appoggiarsi con la spalla sul muro accanto a James.
“Prima o poi Pete si stancherà.”
“Sa che è il mio modo di volergli bene.”
James alzò entrambe le sopracciglia e ingoiò una risata, “be’, se lo…”
“Cazzo.”
Cazzo, per l'appunto.
Una visione idilliaca, celestiale, angelica e poi terrificante si parò davanti agli occhi di James, quando seguì lo sguardo di Sirius. Ne avevano fatte di cose stupide, ma cambiare la presa sul giradischi e nasconderlo dietro le loro schiene scalò velocemente la classifica. La camminata frettolosa di Lily Evans si arrestò davanti ai delinquenti. Decisa e inamovibile, piantò gli occhi nei loro come se ne avesse avuti quattro.
“Bene.”
Sembravano due bambini colti con le mani nel sacco. Il giradischi spuntava spigoloso oltre i loro fianchi e quei sorrisi disinvolti sembravano tutto meno che innocenti. “Ehilà, Evans, che aria tira?”
Sirius si voltò verso James quel tanto che bastava per trattenere una risata e dargli del ridicolo. Quindi poco, appena la coda dell’occhio. Da bravo amico qual era, decise che sarebbe rimasto in silenzio ad osservare il suo inevitabile tracollo. Non c’era da biasimarlo: quelle erano risate gratis assicurate.
“Tira l’aria della vostra detenzione.”
“Oh, andiamo, è Natale!” e James riuscì a pensare davvero di lasciare il giradischi con una mano solo per portarsela ai capelli e spettinarli.
“Lo era,” lo corresse Lily, inclinando il viso su un lato con lo sguardo tipico di chi mostra pietà per i patetici. “Che state facendo?”
“Io ti contemplo.”
Sirius abbassò la testa e iniziò a soffocare pian piano nelle sue risate. Lily gli lanciò un’occhiata, ma cedette a un sorriso: era obiettivamente ridicolo. James lo scambiò per un incoraggiamento.
“E ho ragione di farlo.”
“Mi sento male per lui.”
Lily scosse la testa e si sporse su un lato, adocchiando il giradischi per intero. A nulla servì l’imbarazzante camminata coordinata che i ragazzi tentarono per non darle mai le spalle.
“Che ci dovete fare con quello?”
Questa volta, Lily alzò un sopracciglio e puntò lo sguardo in quello di Sirius: era stata lei a spiegargli cosa fosse un giradischi, dove trovarlo e come farlo funzionare, un anno prima.
“Secondo te, Evans? Ci giochiamo a carte,” Sirius sorrise e scosse la testa. “Non abbiamo fatto niente di male.”
“Avete rubato dalla Stanza delle Necessità?”
“Non c’è nessun divieto,” si difese Sirius.
“Non c’è neanche nessun invito.”
L’argomentazione era debole, l’esitazione evidente. Lui lo notò e le sorrise, poi abbassò il tono di un’ottava e sentì James fremere accanto a lui, la presa sul giradischi decisamente traballante. “Evans.”
“Scusami?!” lo interruppe James, in cambio ricevette un’occhiataccia.
“Sai che ho nel mio dormitorio?”
Sul serio?
Ma Lily ignorò le proteste di James ed esitò con lo sguardo tra Sirius e il giradischi, poi scosse impercettibilmente la testa.
“Dei vinili. Un sacco di vinili che posso prestarti.”
Lily si umettò le labbra, un’occhiata nostalgica al giradischi, poi incontrò gli occhi del ragazzo, la tensione nei loro sguardi tipica solo degli attimi che precedono un verdetto.
“Voi non mi avete mai vista” annunciò girando i tacchi e prendendo già la strada per le scale.
“Evans?”
Lily si voltò, lo sguardo da prefetto implacabile già rimesso su come se non fosse mai stato abbandonato.
“Esci con me?” James sorrise, snudando i denti e mordendosi la lingua con aria vispa. Sirius pensò che fosse ridicolo. Irrimediabilmente ridicolo. Ridicolo dalla A alla Z, con la lettera maiuscola e un punto a fine parola.
Ma era davvero possibile guardare qualcuno con quegli occhi?
“No” fu la risposta secca di Lily, immune a tutta quella luce.
E così finisce la coinvolgente storia di come un giradischi rosso fiammante sia apparso all’improvviso in un angolo della Sala Comune Grifondoro.

***
 
Fischi. Urla. Il sole invernale batté tiepido sulla guancia esposta, gli occhi socchiusi per riuscire a vedere oltre tutta quella luce. Il mondo, dapprima bianco accecante, a poco a poco acquistò colore. Un respiro profondo si mescolò all’odore del ferro degli anelli, del legno delle scope, dell’impazienza dell’attesa; poi James si voltò, proprio sulla soglia che sfumava il buio a cui i loro occhi erano abituati.
“Sono agguerriti,” annunciò, un braccio appoggiato mollemente sul retro della sua scopa, “hanno perso contro i Serpeverde, a novembre, e non puntano a vincere, ma a fare più punti possibile.”
Un mormorio si diffuse teso tra i ragazzi. James lo ignorò.
“Per questa ragione, Catchlove, occhio al boccino, non devono averlo loro per nessuna ragione al mondo.”
“Potter, è il mio lavoro,” la Cercatrice alzò un sopracciglio e sorrise sicura, negli occhi la fame e l’adrenalina. James la condivideva appieno.
“E quanto sai farlo bene, il tuo lavoro?” la prese in giro, ricambiando l’occhiata di sfida di lei, ma non le lasciò il tempo di rispondere, “così bene da evitare di prenderlo subito?”
A quel punto, l’intera squadra aggrottò la fronte, guardandolo come se fosse diventato stupido. Un sorriso sbilenco si aprì sul volto del ragazzo.
“Come ho detto, loro vogliono punti.”
“Ma se noi vinciamo subito loro non ne…”
“Noi abbiamo vinto contro i Tassorosso, quindi anche loro vorranno recuperare con i punti, nella prossima partita contro i Serpeverde.” Si prese una pausa e si umettò le labbra. “I Serpeverde lo sanno e li conosco abbastanza da sapere che vorranno umiliarli, non solo vincendo, ma stracciandoli anche sul fronte dei punti, non lasciando loro alcuna possibilità di sperare nel torneo. Questo significa che se noi vinciamo questa partita e ci troviamo a competere con i Serpeverde per il primo posto, andiamo solo a scaldare le scope se loro hanno da parte un bel gruzzolo di punti.”
I compagni di squadra sorrisero uno a uno, guardandosi orgogliosi, mentre il piano di James prendeva forma anche nelle loro teste.
“Ricordate,” continuò il ragazzo, si batté un paio di volte un dito su una tempia e si voltò nuovamente verso la luce accecante del campo di quidditch, “ll torneo lo vince chi ha più punti, non più vittorie. Quindi, Catchlove, guadagna un po’ di tempo per farci segnare, voglio vincere con almeno uno scarto di cento punti.” Lanciò un’occhiata al nuovo portiere. Amelia Bones annuì sicura: aveva già capito di dover stare attenta alla sete di punti dei Cacciatori Corvonero. “Tutti gli altri, fate in modo che la strategia non ci si ritorca contro. E attenti: hanno un nuovo Cacciatore e non ho idea di chi sia, è entrato nella squadra poco prima delle vacanze di Natale.”
Con quella promessa, la squadra Grifondoro si avviò al centro del campo, pronta a mettere in atto il suo infallibile piano.
 
“Ma che cazzo…” Marlene spalancò la bocca sorpresa e fissò negli occhi stillanti ironia il non-più-così-ignoto Cacciatore Corvonero. Un angolo della bocca tirato e una mano alzata in segno di saluto.
“Aubrey?!” James diede voce ai pensieri di Marlene, sconcertato a sua volta. Le due squadre si disposero una di fronte l’altra, l’adrenalina già in circolo, in attesa del fischio d’inizio di Madama Bumb.
“McKinnon.” Bertram si levò un cappello immaginario e le sorrise cordiale, “è un piacere anche per me.”
“Tu mi renderai la vita un inferno!” si lamentò Marlene, ma un sorriso indesiderato le corse rapidissimo sulle labbra.
Bertram lo notò.
“In realtà sei tu la Battitrice, qui. Sarai tu a rendermi la vita un inferno.”
“Aspetta, ma se tu giochi a quidditch...” James aggrottò la fronte e lanciò uno sguardo rapido verso gli spalti, “allora chi…”
“Oh, sì, lui…”
Il fischio di Madama Bumb interruppe bruscamente la loro conversazione e la pluffa volò fischiando sopra le teste dei sei Cacciatori.
“Brutto bastardo…” sibilò James, fiondandosi in alto in un tempo disumano e impadronendosi subito della pluffa.
“Potter si impossessa della palla e si fionda come una scheggia verso gli anelli. Un vero talento, devo ammettere. Oh, se solo ne avesse la metà con le ragazze!”
James rise e scosse la testa, il vento che si abbatteva sul suo corpo come se l’avesse voluto aiutare a passare. I nuovi commenti rischiavano seriamente di distruggergli la vita privata, perché avevano tutte le carte in regola per farlo.
“Non ci posso credere.” Peter sgranò gli occhi e li alzò sugli spalti. “Non ci voglio credere. Questa cosa non ha senso!”
“McKinnon scaccia un bolide dalla traiettoria di…” la voce si interruppe, silenzio profondo per un attimo, respiri mozzati. “JAMES, TE LO GIURO, SE NON SEGNI QUA…”
La pluffa sfondò l’aria dell’anello centrale Corvonero.
“Vai così, cazzo!” sussurrò il commentatore nel microfono e l’imprecazione si perse tra gli schiamazzi trionfanti. La professoressa McGranitt si prese tutto il tempo necessario per esultare, poi poggiò una mano sulla spalla del ragazzo.
“Non me ne far pentire, Lupin.”
Lui rise timidamente e scosse la testa. “Mi dispiace.”
“Ma ha detto ‘vai così, cazzo’?” Sirius diede di gomito a Peter e sgranò gli occhi, alzandoli sugli spalti dei professori.
“Sono piuttosto sicuro di sì.”
Sirius lo guardò ricominciare a parlare e scosse la testa, un cenno affettuoso accompagnato da un sorriso e l’ennesimo sussurro che si sciolse nel chiasso infernale degli spalti: “adoro quando fa così.”

***
 
“Assolutamente no.”
La professoressa McGranitt aggrottò la fronte. Distolse lo sguardo e lo lasciò spaziare tra i cassetti stracolmi e i gingilli magici che adornavano il suo ufficio, nella testa un’accozzaglia di parole insensate che sperava di mettere assieme al più presto e in maniera convincente.
Il ragazzo di fronte a lei scosse il capo, rimarcando le sue parole.
“Puoi almeno pensarci?”
“Perché io?” domandò e la velata rabbia nel suo tono strinse il cuore della professoressa. Conosceva quello che c’era dietro e comprendeva il tormento che doveva costituire. “Perché non qualche…” Remus alzò una mano come se una fila di papabili commentatori di quidditch gli si fosse materializzata davanti, “non lo so, qualche carismatico Tassorosso oppure Dorcas! Dorcas Meadowes è una forte. Perché non qualcuno di interessante?”
“Qualcuno di interessante” ripetè Minerva McGranitt, alzando lo sguardo come se si fosse davvero messa a considerare l’idea.
“Già.” Remus sapeva che la sua era ironia, che stava per snocciolare una serie di qualità che non sentiva di avere, costruite all’unico scopo di indirizzare in un’oggettività fittizia la compassione che provavano quelli che credevano che ‘non fosse un mostro’. Mantenne il punto, però, perché lui aveva il coraggio di guardare in faccia la realtà. O almeno così credeva.
“Qualcuno di interessante tipo… i tuoi amici?”
Remus aggrottò le sopracciglia e aprì la bocca per parlare. Si fermò, però, lo sguardo che esitava in quello sicuro della McGranitt. “Tipo i miei amici” confermò lentamente.
La professoressa annuì, un sorriso sicuro le incurvava placido gli angoli della bocca. “Tu non sei interessante come loro?”
Remus si morse un labbro.
“È curioso. Non possiamo negare che tu abbia contribuito in larga parte al notevole incremento di infrazioni in questa scuola, negli ultimi cinque anni.”
“Ecco, riguardo a quello…”
“Soprattutto se consideriamo la posizione di prefetto che ti è stata assegnata e di cui ti sei più volte servito proprio per quelle malefatte, non è così? Vuoi farmi credere che tu sia stato trascinato passivamente dai tuoi amici in giro per il castello o che la lastra di ghiaccio al terzo anno non fosse un’idea tua?”
Remus abbassò lo sguardo, chiedendosi mortificato cosa avesse a che fare la sua fedina penale scolastica con il ruolo di commentatore delle partite di quidditch.
“Non possiamo dire che non sia mancata occasione di farsi conoscere da tutta la scuola, non è così?”
“Be’, io…”
“Non è così?” rimarcò lei, un bagliore vittorioso nello sguardo.
“Sì, è così.”
Lei annuì, lo sguardo severo si addolcì finalmente. “Hai capito perché ti sto dicendo queste cose?”
“Perché…” Remus alzò lo sguardo nel suo, sperando di riuscire a inventarsi qualcosa da dire visto che... no, non aveva idea del perché gli stesse dicendo queste cose, “dobbiamo smetterla di infrangere le regole?”
La professoressa scosse la testa rassegnata, perché Remus Lupin era uno che ce la metteva proprio tutta a non vedere le cose che non voleva vedere, “Ammetto che mi fareste un gran favore, ma non era questo il punto del discorso.”
Remus la guardò. Con un cenno del capo le fece capire che non sapeva rispondere alla domanda.
“Il punto è che non si può tenere un piede in due scarpe, signor Lupin. E mi è capitato di notare che è una cosa che fai spesso. Non si può sempre continuare a non scegliere, per quanto beneficiare da due fonti possa sembrare conveniente. Considerare i tuoi amici interessanti per quello che fanno e rinnegare, per così dire, le cose che fai con loro porta effettivamente a qualcosa? Non vieni punito anche tu?”
Si ritrovò costretto ad annuire.
“Un giorno potresti trovarti nella condizione di dover necessariamente scegliere e non vorrei che fossi impreparato.”
Remus guardò la professoressa McGranitt. L’apprensione nei suoi occhi alludeva a una prospettiva concreta e non a un futuro soffuso e imprevedibile. Se nelle sue parole si riferiva a un’ipotesi, nel suo sguardo c’era una certezza: gli stava dicendo che un giorno si sarebbe trovato nella condizione di scegliere.
Un piede in due scarpe. Umano e lupo. Studente diligente e combinaguai. Assolutamente sincero e segretamente innamorato. Fermo e logico ed emotivo ed empatico. Bloccato perennemente in un dualismo senza preferenze, era effettivamente avvantaggiato?
“Apprezzo molto il consiglio, professoressa McGranitt, ma…” alzò lo sguardo su di lei, improvvisamente timoroso che potesse leggere in lui qualche altro segreto intimo, “tutto ciò che c’entra con la sua proposta?”
Lei annuì pratica, il suo lato materno e accondiscendente che cedeva nuovamente il posto a quella facciata austera. “Definire i tuoi amici interessanti per la loro popolarità mi sembra alquanto ardito, visto che hai contribuito a costruire la vostra fama. Nell’istante in cui hai proposto loro come migliori candidati, più che difenderti, ti sei legato mani e piedi in questa faccenda.”
“Io non credo di avere le competenze…”
“La tua esultanza si potrebbe definire parecchio… colorita. E poi conosci tutte le regole del gioco. Competenza e passione sono le uniche qualità che cerchiamo. Credi di saper scegliere da solo o hai bisogno che chiami i tuoi amici a scegliere per te?”
Lo sguardo di Remus si indurì e la professoressa se ne compiacque. Ah, l’orgoglio, leva efficiente su ogni età, genere e cultura!
“Va bene. Commenterò le partite di quidditch.”
“Benissimo!” la professoressa McGranitt batté le mani soddisfatta e si mosse per accompagnarlo alla porta del suo ufficio, “Bertram Aubrey si occuperà del primo girone del torneo, poi toccherà a te!”
“Va bene, professoressa…” il ragazzo superò la soglia del suo ufficio, “arrivederci.”
“Ah, signor Lupin,” lo spiraglio della porta socchiusa era ancora abbastanza largo perché potesse guardarla almeno in viso, “nessuno dei tuoi amici avrebbe mai potuto commentare quelle partite. Uno gioca, uno verrebbe espulso dopo due minuti e uno sarebbe l’apice della noia. Ci pensi.”
Remus scosse la testa, mormorò un ringraziamento e si richiuse la porta dell’ufficio della professoressa McGranitt alle spalle.
Quattro mesi dopo era sugli spalti migliori dello stadio e ascoltava la sua voce riverberare coinvolta durante la partita.
Era fuori di sé.

***
 
Nella Sala Comune Grifondoro mille voci si accalcavano nell’aria tra schiamazzi e urla di gioia.
“Potter, la tua strategia li ha stracciati!” Marlene teneva un braccio sulle spalle di James e se lo trascinava in giro per la stanza urlandogli nell’orecchio ogni dieci secondi. Se non fosse stato così su di giri si sarebbe reso conto subito di aver perso l’udito.
I Grifondoro avevano vinto contro i Corvonero duecentocinquanta a quaranta, un risultato sconvolgente che aveva visto dieci goal spettacolari prima che Catchlove conquistasse il boccino d’oro.
“La nostra voce fuori campo ci ha portato fortuna!”
Sirius lanciò Remus nella calca con una spintarella sulla schiena e accennò col capo in direzione di James, poi lo seguì. “Parla di te!”
Remus non poteva negare di essere su di giri. Non tanto per la sua imbarazzante performance quanto più per la vittoria schiacciante della sua squadra!
“C’è casino,” commentò Sirius, affermando l’ovvio, “ti va un’incursione alla Torre di Astronomia?”
Remus alzò un sopracciglio e si guardò attorno. L’istinto che con l’adrenalina ancora nelle vene superava in velocità la ragione. “No.”
Sirius inclinò il viso su un lato e aggrottò le sopracciglia.
Quell’istinto gli sbatté deciso contro i denti, bramoso di superare la barriera che costituivano e dire la prima cosa che gli passava per la testa. “No,” ripeté, lo scintillio negli occhi a donar loro una sfumatura più brillante, “devo riscattare la vittoria alla mia scommessa, no?”
Di nuovo, il suo istinto rischiò di straripare in una verità che Remus non voleva ascoltare quando Sirius mollò quell’espressione confusa per una che non riuscì a decifrare. Sembrava che non vedesse l’ora di pagare pegno quando gli sorrise, abbassò la testa in una caricatura di un inchino e replicò piano: “adesso?”
Remus annuì.
“Come ti compiace.”
 
Il secondo piano della Stamberga Strillante rifletteva il buio di una notte qualunque, gli schiamazzi lasciati ad estinguersi in cima alla Torre di Grifondoro.
In quel ronzio, parente del calo drastico di adrenalina, Remus si chiese se non avesse commesso un errore.
“Come mai qui?”
Remus scrollò le spalle e si accomodò sul seggiolino accanto al pianoforte. Ogni volta che uno dei due smetteva di parlare, il silenzio si intrometteva imbarazzante a ricordar loro che avevano un conto da pagare.
Remus si fece forza, affidandosi alla sicurezza che la sua vittoria gli aveva garantito. Aveva deciso quale sarebbe stato il suo premio alcune settimane prima, ma Sirius non aveva mai letto la lettera in cui glielo comunicava.
“Lo sai suonare?”
Remus annuì e la medicina contro il silenzio gli parve improvvisamente così facile da sintetizzare. Posò un dito sui tasti ossidati del pianoforte. Un mi acuto si disperse come fumo nella stanza.
“Fammi sentire qualcosa.”
Pensò a quando lo suonava prima delle trasformazioni. L’inquietudine umida che dettava il ritmo della sua melodia. Si posava sulle spalle e scivolava lungo le braccia incrinando il suono limpido a cui puntavano le sue dita. La paura lo faceva andare più veloce, le dita si accavallavano e mancavano i tasti giusti in favore di quelli che si infilavano assordanti in una canzone che non ne aveva bisogno.
In quel momento, però, il suo polso era fermo, il residuo di quel mi acuto che si arcuava mogio in traiettorie sempre più ampie, fino a scomparire.
Poi una melodia allegra riempì le pareti sinistre della Stamberga Strillante. Un contrasto vagamente angosciante che cercava in tutti i modi di mostrarsi per una promessa. Le dita scivolarono qualche volta sui tasti sbagliati, un sentore di cacofonia momentaneo, che non aveva nulla a che fare con gli orrori che quelle pareti avevano udito in tempi peggiori. Sirius rimase in silenzio per tutto il tempo, vagando per la stanza e scoprendola calma per la prima volta.
Come mai qui?
Remus non ne aveva idea. Quando aveva capito che ci voleva qualcosa di diverso dalla Torre di Astronomia che li aveva legati indissolubilmente nel corso degli anni, non si era anche saputo spiegare cosa fosse cambiato.
La musica si estinse, un silenzio più confortevole si fece strada tra i loro respiri.
“Carina.”
“Voglio che tu mi dica…” iniziò Remus, ignorandolo e sedendo ancora apparentemente calmo sullo sgabello del pianoforte. Sirius si voltò di scatto verso di lui, attento, “che cosa mi avresti fatto fare se avessi vinto tu.”
Il suo cipiglio si sciolse in un sorriso. Distolse lo sguardo e cercò con gli occhi la finestra, passandosi la lingua sulle labbra piano, in riflessione.
Remus lo trovò magnetico. Platonicamente magnetico, è ovvio.
“Sei sicuro? Non ci guadagni niente.”
“Posso scegliere di farlo, ma anche di evitarlo.”
Sirius scrollò le spalle e camminò fino al pianoforte, appoggiandosi quasi sulla tastiera e dando le spalle alla coda. Cercò gli occhi di Remus nella penombra. “Mi stai cedendo la tua vittoria?”
“Guarda che ci guadagno eccome a sapere cosa volevi quando hai scommesso.”
Sirius scosse la testa. “Sono passati due anni, è stato un investimento.”
Remus sollevò un sopracciglio.
“Non ti avrei fatto fare niente. Avrei fatto io qualcosa.”
“Non stai rispettando la richiesta!” Remus alzò la voce, una risata gli scappò dalle labbra. Rimbombò.
“Te l’hanno mai detto che devi smettere di passare la palla agli altri?”
La risata di Remus gli morì in gola. Il famoso piede in due scarpe della McGranitt tornò prepotente a fargli visita.
“Hai vinto la scommessa, puoi chiedermi tutto quello che vuoi e mi chiedi cosa avrei fatto io? Perché non rischi?” Sirius incrociò le braccia al petto e lo sfidò anche con uno sguardo.
C’erano un milione di potenzialità allettanti, in quella vittoria.
Cosa provava davvero per Regulus? Cosa aveva pensato, nello specifico, quando aveva deciso di scappare di casa e perché non era felice, ora che lo aveva fatto? L’avrebbe potuto costringere a fare tutti i suoi compiti per il resto dell’anno. Avrebbe potuto impedirgli di svegliarlo a orari improbabili. Avrebbe potuto reclamare il pieno potere sugli scherzi futuri o una scorta permanente di cioccolato. L’avrebbe potuto obbligare a farsi mettere un guinzaglio e uscire a Hogsmeade o addirittura a parlare come un lord ogni volta che si riferiva a lui. Miliardi di opzioni invitanti gli vorticavano in testa e Remus lo guardò negli occhi e sussurrò la cosa più autodistruttiva che gli passò per la testa. “Fai quello che avresti fatto se avessi vinto. Immagino non ci sia rischio più grande che accettare una delle tue strane idee senza potermi tirare indietro.”
Sirius sbatté gli occhi. Un tempo infinito fatto di respiri muti.
“Io non penso, prima di fare le cose” lo informò.
“Falla finita e leviamoci questo dente.”
Sirius annuì soltanto e non si mosse per qualche secondo. Il silenzio stava urlando, la luce fioca gli colpì un occhio, l’iride quasi bianca in un contrasto netto e vagamente inquietante col buio della pupilla, nessuna sfumatura che ne attenuasse l’impatto.
Poi alzò una mano, se la portò vicino alla bocca e non distolse lo sguardo dal suo, quando ci sputò sopra. Remus alzò un sopracciglio.
“Fallo.”
La curiosità e una specie di elettrica impazienza lo dissuase dal porre domande inutili. Remus alzò una mano, ci sputò sopra e strinse quella di Sirius, proprio come avevano fatto due anni prima, con mille preoccupazioni in meno e consapevolezze diverse.
“Sfido.”
E, per la prima volta da quando quel gioco distorto era nato, Remus annuì.
“Baciami.”
Aggrottò le sopracciglia e lo guardò sorridere. Aveva sentito la tensione, aveva percepito una trepidazione da una meta dubbia, aveva riconosciuto il significato profondo di quel silenzio, ma aveva scelto di ignorare ognuna di queste cose. “Eh?”
“Puoi non farlo, ovviamente.”
E Remus capì che la sfida stava nella scelta. Sempre nella dannata scelta.
Con la luce fioca, il vento che sibilava e un mondo di distanza tra loro e tutti gli altri, Remus non pensò al significato di quella situazione. Le linee di confine tra le cose erano decisamente più sfumate, labili abbastanza perché non dovesse chiedersi cosa distinguesse un bacio da una pacca su una spalla. Era semplicemente naturale, ma era anche fortemente esclusivo. Non avrebbe sentito il sangue rombare nelle orecchie, non avrebbe concesso alle pause di diventare così pesanti, non si sarebbe sentito così nudo a suonare in quella tensione.
Il motivo per cui quella patina aveva attecchito era che era stato Sirius a calarla. Ed era stato sempre lui a dare più spessore a quella sfida di quanto avesse fatto James alla festa di inizio anno.
Fu con immensa soddisfazione che scelse di sporgersi verso di lui e baciarlo, scelse di alzarsi e facilitarsi le cose, scelse di spingerlo con la schiena contro il coperchio del pianoforte e scelse di saggiare le sue labbra con la lingua.
Remus se ne riscoprì rapito. Platonicamente rapito, è ovvio.
Ascoltò l’accordo stonato più melodioso sulla Terra, quando Sirius poggiò una mano sulla tastiera in cerca d’equilibrio.
Lo schiocco delle loro labbra rimbombò tra le pareti martoriate e nelle orecchie di Remus.
“Felice di aver recapitato il tuo premio,” commentò Sirius in un sussurro, allontanandolo piano con una mano sul petto e prendendo un unico respiro in più che riempì Remus d’orgoglio.
“Hai abbandonato quella stronzata della Tecnica.”
Sirius soffocò una risata nel naso, poi risalì con la mano fino al colletto della sua camicia e fece scivolare due dita oltre l’orlo. “Mi serviva?” domandò retorico, ma non lo guardò negli occhi. Sporse la testa di lato, invece, fissando un punto alle spalle di Remus. Con un verso pensieroso, tornò con lo sguardo su di lui, considerandolo come se fosse stato un enigma.
“Che stai…”
Remus fece per voltarsi, ma non concluse mai la frase. Con un colpo di reni – vagamente allusivo, secondo il suo modesto parere – Sirius lo spinse indietro e gli tappò la bocca con un bacio più urgente. Non ebbe più bisogno di voltarsi per ricordarsi che alle sue spalle c’era il letto sfondato e lurido della Stamberga Strillante.
Non c’era niente di platonico nel modo in cui si sentì Remus quando Sirius lo spinse con solerzia sul materasso.
Ci affondò con un sospiro, pienamente cosciente di avergli dato una lama e avergli concesso di accoltellarlo. Ma Sirius lo baciò di nuovo, piano, una promessa al gusto di bugia, e si distrasse solo per sciogliere un bottone della sua camicia.
Una mano di Remus gli bloccò il polso, ferma come non lo era stato il suo cervello.
“Le ho viste un sacco di volte.”
“È diverso” replicò Remus.
“Esatto” Sirius cercò di liberare la mano, “è diverso.”
E, a quanto pareva, limitarsi a ripetere le argomentazioni di Remus riuscì effettivamente a ribaltarle.
Mollò la presa, lasciò cadere la testa sul tessuto ruvido del letto e scelse di lasciar stare tutto, anche la resistenza.
Il dubbio su quello che provava per lui finalmente sciolto come si fa con i nodi più facili: non lo sapeva e andava benissimo così.






 

 


Note di ElUo. Continuavo a chiamare il capitolo "scleta" ora non lo so più scrivere.
Penso sia la novecentesima volta che descriviamo James che sorride come luce, sole, cose belle e luminose. La verità su questa cosa sta qua: crediti a una canzone degli Oasis che si chiama "little James" e ha un verso che fa "thank you for your smile, you make it all worthwhile to us" che ha praticamente plasmato quella che ho deciso essere la sua firma ;)
E da qui vi parlo della mia malattia incurabile: James Potter. Io ce lo piazzerei ovunque, perché per me è tipo il massimo livello di comicità possibile. Mi sono dovuta proprio legare le mani per non far fare a Remus una battuta su James mentre le cose facevano fiùùùù. Per scrivere 'sto capitolo, quando fu, non mi ricordo, un mese e mezzo fa, una serie di reazioni a catena mi ha portata a figure di merda da faccia color peperone e mani nei capelli, così, volevo fare un po' di chiacchiere (con chi, boh, ci sono solo io per ora qui). Quando li ho fatti scommettere mi ricordo che pensai "ok, gli chiede cosa gli avrebbe chiesto", poi ho detto "no, gli chiede di fare quello che avrebbe fatto", poi con una tempistica che non dico perché poi sembrerebbe che sta storia va allo sbando, ho detto "no, facciamo un bel che al mercato mio padre comprò" perché comunque io sono una fan delle cose semplici.
Ora le cose serie, perché sono passati 20 giorni e io mi comporto come se ci fossimo visti l'altroieri al supermercato. Grazie per la pazienza! Le mie turbe su questa storia non si sono del tutto estinte, ma ne ho trovato la causa e sto raddrizzando la situazione. Io sapevo cosa c'era in questo capitolo e nonostante ciò mi sono fatta attendere. Mi dispiace gente, è un brutto tiro in una slow burn, ma senza la giusta ispirazione ci beccavamo la scena originale che era una schifezza senza introspezione proprio allucinante.
Sì, un occhio chiaro è quasi chiarissimo con la luce giusta, NON vi sparate un flash nell'occhio per scoprirlo, grz.
Bene, gente, ci vediamo presto e BUON ANNO ODDIOOOO VEROOOOO
Buon anno e grazie per aver atteso ed essere tornati qui, significa molto per una storia così lunga <3

El

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Capitolo 23
*** Capitolo 21 - Titolo: la Mappa del Malandrino ***


21. TITOLO: LA MAPPA DEL MALANDRINO

 




 
SINGOLO - Data di rilascio: 6 aprile 1976; ore: 10:43 

“Hai fatto?”
Sirius sbuffò e abbassò la testa su quella scatoletta infernale. Rialzò lo sportello con poca grazia ed esaminò l’interno avvilito.
“Hai finito?”
Ecco, quello era l’esatto tono che James riservava solo per le occasioni speciali, ovvero quelle in cui afferrava la sua amata corda e saltava sui nervi di Sirius.
“Hai fi…”
“Ti distruggo” ribatté Sirius, infilando due dita nel meccanismo e scuotendole nella speranza che qualcosa si muovesse. Alzò uno sguardo fulmineo a cercare gli occhi di Remus, poi tornò a concentrarsi sull’inferno fatto oggetto babbano. “Hai visto qualcosa che ti piace?”
Remus non trasalì, non sgranò gli occhi, non perse un battito. Arrossì. “Coglione” mormorò.
“Anche tu sei appassionato di oggetti babbani, Remus?” domandò Peter.
“Ci puoi scommettere” e, proprio mentre Sirius se la spassava alla grande a spese del suo amico, un click incoraggiante sancì il perfetto incastro dei componenti. “Sì!”
“Hai finito?” James per poco non brillò di luce propria e Sirius annuì raggiante, poggiando la macchina fotografica sul cavalletto.
“Okay, ascoltatemi, questa è una catena di montaggio.”
“Questa è una fotografia,” lo corresse Remus, scuotendo la testa a braccia conserte.
“Questa fotografia è una catena di montaggio. Voi vi mettete lì immobili, poi io premo il pulsante e volo verso di voi in un attimo.”
James sgranò gli occhi e guardò la macchina fotografica come se fosse venuta direttamente da una navicella aliena. “Lei fa da sola?”
Sirius annuì solenne. “Si chiama autoscatto.”
“Straordinario.”
“No!” Remus cercò un briciolo di comprensione negli occhi stupefatti dei suoi amici. Quella era una semplice macchina fotografica! “No, è stra ordinario, invece. Vedete oggetti volare ogni giorno e vi stupite per questo?”
“Oh, fidati, questa sorprenderà anche te.”
Con una scrollata di spalle, Remus fu costretto a ridiscendere la collina dei giardini di Hogwarts e fermarsi sullo slargo erboso che aveva indicato Sirius. James e Peter lo seguirono voltandosi continuamente verso la macchina fotografica come se da un momento a un altro si fosse potuta trasformare in un drago venuto ad abbrustolirli.
“Pronti?” strillò Sirius, da dietro il cavalletto.
“Sì!” gridarono in coro i ragazzi, abbracciandosi stretti davanti al paesaggio scozzese di una primavera ancora blanda.
Sirius armeggiò con qualche leva, si prese un attimo per mettere a fuoco, poi il muso della macchina si arrestò. Abbassò il dito da qualche parte sulla cima e corse loro incontro in un turbinio di mantello e capelli. La promessa di non travolgerli affidata al vento e alla clemenza inesistente della gravità.
“Ahi!” si lamentò Peter, quando l’impatto lo costrinse a barcollare.
“Fermi tutti!”
E, per qualche secondo, nessuno si mosse.
La magia babbana si spezzò quando Peter credette che cercare discretamente di muovere un piede e tornare in equilibrio fosse un’idea capace di accontentare i desideri di tutti. Si sbagliò, perché il suolo gli mancò sotto un piede, affondò in una pozza di fango e trascinò giù con sé tutti i suoi amici.
“Non ci credo!”
“Pete!” James si rialzò a sedere, aggiustandosi gli occhiali sul viso. “Cosa diavolo…”
“Be’, non era così che l’avevo immaginata…” Sirius si rialzò dal rovinoso insuccesso con un sorriso e una mano galante per aiutare Remus a tirarsi su. “Però avrei voluto farvi cadere!” si spazzolò il mantello con entrambe le mani e corse come un treno verso il cavalletto, seguito qualche metro addietro dai suoi amici. Una linguetta bianca li aspettava sul lato destro di quell’inferno babbano. Sirius la afferrò tra due dita e tirò con violenza.
“M-ma l’ha rotta?”
Remus ridacchiò e scosse la testa. “Si fa così.”
James aggrottò la fronte incerto e si sporse oltre la spalla del suo amico. “Ma è bianca!”
“Zitto e aspetta,” lo liquidò Sirius con un gesto sbrigativo della mano.
Lentamente, i contorni di montagne e alberi si mostrarono sulla pellicola. Sembrava che una mano incerta si fosse messa a disegnare a matita, sporcando i suoi stessi limiti e ombreggiando tutt’attorno.
“Stiamo davvero guardando un pezzo di carta da cinque minuti” fece loro notare James, ma nessuno smise di guardare la loro fotografia apparire pigra e a poco a poco sempre più nitida.
“Ha finito.”
“Io non vedo niente.”
Sirius alzò gli occhi al cielo e sollevò una linguetta lentamente, sbucciando una pellicola che James non aveva riconosciuto esserci.
Quattro ragazzi sorridevano raggianti a una fotocamera lontana, immobili su uno sfondo di colline scozzesi. Poi, all’improvviso, una figura a sinistra mise un piede in fallo e trascinò giù i malcapitati.
“Non ci credo…” Remus spalancò la bocca sconcertato. L’unico, in quella combriccola, che potesse comprendere l’innovazione. “Come diavolo l’hai modificata per adattarsi alle foto magiche?”
Sirius scrollò le spalle nella tipica noncuranza della falsa modestia, poi cedette a un sorriso orgoglioso. “Segreto.” Si voltò verso James, che osservava la foto rapito, un sorriso affettuoso piantato in viso come se la loro storia fosse già diventata un ricordo. “Vuoi tenerla tu?”
James alzò lo sguardo su di lui, le sopracciglia alzate e l’espressione colpita. Annuì energico e Sirius gli porse la foto.
 
Quella sera stessa finirono tutte le cartucce e il tragitto che dalla Sala Comune portava ai dormitori fu sofferto come quello di una maratona.
“Dammela.”
“No.”
“Sirius.”
“Scordatelo, Jamie, questa” e sventolò una fotografia che ritraeva James e Lily insieme, un attimo prima che lei gli gridasse di lasciarla in pace, “la avrai soltanto quando ci sarai riuscito.”
James sbuffò e cercò un accenno di comprensione nella clemenza del cielo sopra di lui. Gli arrivò alle spalle, invece, quando Remus vi ci assestò una pacca. “Andiamo, mi serve.”
“A fare che?”
“A farmi forza.”
Sirius si fermò a metà scala a guardarlo. Un sopracciglio alzato e gli occhi che esitavano tra la fotografia e la faccia di James. “No. Sarà il premio per la tua sfida.”
“Che sfida?”
“Era una sfida, ricordi? Ti avevo sfidato a conquistare Lily in un mese. Dovresti più che altro ringraziarmi per la proroga.”
“Oh, adesso vuoi anche passare per santo!”
Peter si richiuse la porta del dormitorio alle spalle e lanciò uno sguardo solidale a Remus. Gli fu ricambiato con un’alzata d’occhi.
“Io sono un santo.”
“E io sono Mago Merlino. Andiamo, dammi quella foto.”
“Ora la vedi…” Sirius la sventolò ancora, provocatorio, “ora non la vedi più!” e la foto svanì nel nulla.
“Wow.”
“Sono un prestigiatore.”
“Oppure un mago?” si intromise Remus, disfacendo il suo letto con un sorriso. “Sai, James, forse dovresti cambiare approccio.”
L’imminente azzuffata serale fu posticipata per una coppia di occhiate di autentico scetticismo. “Che vuoi dire?”
“Voglio dire,” Remus sospirò, i suoi sedici anni appesi leggeri a una maturità bordata d’ironia, “che conquistare Lily non mi sembra una mossa astuta” considerò, enfatizzando il concetto che più gli pareva errato.
Sirius alzò gli occhi al cielo e colse quell’occasione d’oro per saltare alle spalle di James. “Ma guarda un po’, abbiamo un Casanova” ironizzò.
James impedì a Sirius di dargli ulteriormente fastidio spingendolo indietro e facendo sì che non portasse a termine il suo attacco infallibile: leccarlo. “Vai avanti.”
Remus si strinse nelle spalle. “Le hai chiesto di uscire, quante, tre volte?”
Sirius scoppiò a ridere. “Magari! Almeno dieci.”
“Esatto,” Remus annuì, “perché all’undicesima dovrebbe cambiare idea? Così la sfinisci soltanto. Non è una fortezza, James, non la devi conquistare” e mimò un paio di virgolette quando pronunciò l’ultima parola, “forse dovresti… corteggiarla?”
“E come diavolo si fa?”
“Non ascoltarlo.” Sirius iniziava a sentirsi il diavoletto sulla spalla del povero essere umano confuso. “Questa roba non ti serve e non funziona davvero.”
“Questa roba è ciò che separa un tipo elegante da un tipo come lui” ribatté Remus, allargando le braccia e accennando col capo in direzione di Sirius.
“Guardalo! Sputa nel piatto in cui mangia.”
Remus gli scoccò un’occhiata e il dormitorio sprofondò in un silenzio diverso per ognuno di loro: confuso per una metà, teso per l’altra. Poi James alzò la testa e aggrottò la fronte. “Che vuoi dire?”
Sirius scosse il capo e fece schioccare la lingua, divertito. “Intendo che mi avete rubato La Tecnica.”
“Io non l’ho mai usata,” si difese Remus, raccogliendo il guanto di quella sfida parallela.
“Mi piacerebbe vederti provare” e Remus lasciò che avesse l’ultima parola solo perché giudicò l’occhiolino un po’ troppo esplicito e conosceva bene i problemi di Sirius a contenersi quando veniva provocato.
“In definitiva, James, se non ottieni la sua stima non otterrai neanche una possibilità.”
Il ragazzo alzò uno sguardo incerto su Remus. Andare in giro a chiedere a Lily di uscire era facile, significava non esporsi, non doversi impegnare per mantenere una conversazione. Contrariamente a quanto si credeva, sbandierare un sentimento in maniera così leggera ne celava le radici e il desiderio molto più del silenzio. Si voltò a guardare Sirius.
“Remus la conosce meglio,” si limitò a rispondere lui, una scrollata di spalle e un’attenta noncuranza, “continuo a credere che sia stupido, ma forse c’è chi tiene davvero a certe cose.”
Remus strinse le labbra, amareggiato e distrattamente consapevole, poi annuì con un’alzata di sopracciglia. “Già, ora dormiamo?”
“Mh-mh,” James sembrava perso in una spirale di indecisione troppo tortuosa perché potesse restare al passo e Peter, rimasto a corto di opinioni durante tutta la durata della conversazione, si limitò ad annuire con uno sbadiglio.
Sirius colse quel momento di stallo per attirare l’attenzione di Remus e indicare con un cenno del capo la porta, in una richiesta muta.
Il ragazzo sgranò gli occhi e mimò con le labbra un ‘ora?’ un po’ nervoso.
Un altro cenno del capo verso la porta, un sorriso da piantagrane e Remus si ritrovò costretto a scrollare le spalle e annuire.
“Buonanotte!” trillò James, poi tirò le tende del suo letto e fu imitato in un batter d’occhio da Peter.
Con tutta la calma del mondo, Sirius si appropriò del mantello di James come se ci fosse stato scritto in realtà il suo nome sopra, afferrò Remus per il polso e lo trascinò giù dal letto.
Mentre il freddo della Sala Comune e poi del castello superava il sottile strato di tessuto del suo pigiama e gli si insinuava nelle ossa, Remus percepì distintamente il sapore della stronzata in cui si era cacciato e si chiese quanto sarebbe durata prima di ridurre tutto a brandelli.
“Dimmi.”
Remus si guardò attorno disorientato e notò che Sirius non si era neanche voltato per parlargli, ma continuava a svoltare in corridoi che lui già non riconosceva più. “Non ho detto niente.”
Il ragazzo si arrestò di colpo, inclinò il capo e si girò finalmente a guardarlo. “Lo senti questo ronzio?”
Ah, ecco spiegato lo strano comportamento, finalmente era impazzito! “Che ronzio?”
Sirius scosse la testa. “Il ronzio fastidioso di te che pensi. Smettila.”
“Di pensare?”
“Già.”
Remus lo fissò per qualche secondo. “So che la cosa potrebbe sorprenderti, ma temo che sia fisicamente impossibile.”
“Sicuro?” Bisognava dare a Sirius almeno un merito. Per quanto Remus sapesse che certe percezioni fossero soggettive, la maniera in cui abbassava il tono e cambiava sguardo in quelle occasioni era universalmente attraente.
Esitò, prima di rispondere: “Sì.”
Sirius rise; un rollio nella gola che era perfettamente indentico e al contempo diametralmente opposto a quello che emetteva quando James faceva una battuta o quando sua cugina ne diceva una particolarmente succulenta. “Io conosco un trucco per non farti pensare.”
E Remus, malgrado le domande e i dubbi ancora pressanti come quelli che gli inondavano la testa a inizio anno, ricambiò il sorriso. “Davvero?”
Sirius lo tirò per il polso che stava ancora stringendo e lo costrinse ad avvicinarsi, poi gli sussurrò all’orecchio: “Vuoi vederlo?”
“Aspetta.”
Sirius aggrottò le sopracciglia e si allontanò dal suo orecchio. Una domanda dipinta in faccia e nessuna intenzione di porla.
“Non lo fai perché credi di farmi un favore, vero?”
Il cipiglio tra le sue sopracciglia si accentuò. “Mi hai mai visto provare pietà per qualcuno che non rispetto?”
Remus scosse la testa.
“Figurati se proverei pietà per qualcuno che rispetto.” Il sorriso furbo di prima tornò a giocargli sulle labbra.
Remus avrebbe voluto sommergerlo di domande, chiedergli, tanto per cominciare, cosa diavolo stessero facendo e perché. Invece lo spinse contro il muro di pietra di un corridoio qualunque e si decise a strappargli quel sorriso dalla faccia.
A Sirius si mozzò il fiato in gola per il colpo, chiuse gli occhi anche prima che le labbra di Remus sfiorassero le sue e mille stelle gli esplosero dietro le palpebre quando finalmente lo baciò; un sapore dolcissimo e l’eccitazione che montava nello stomaco.
“Alla fine di questo corridoio…” iniziò Sirius, le parole interrotte per altri baci e ansiti, “c’è uno stanzino.”
“Che romantico” ribatté Remus, sarcastico, trascinandolo nel lussuosissimo ed esclusivo ripostiglio.
“Preferisci Pete traumatizzato a vita?” Sirius ridacchiò, lasciando che il suo amico lo spogliasse. Le dita ancora incerte sotto il suo scrutinio.
“Preferisco un Incantesimo Silenziatore.”
“Mmh,” disse Sirius, in un mormorio pensieroso che mirava anche ad arrivare alle parti basse di Remus. A giudicare dall’impennata di irruenza, funzionò. “siamo temerari, Lupin.”
“Siamo loquaci, Black.” Per tutta risposta, Remus gli tirò piano la testa all’indietro e vagò con le labbra sulla pelle liscia del collo. Sirius sibilò di piacere, quando lui mordicchiò, stuzzicandolo.
“Se vuoi continuo a parlare,” sussurrò, gli occhi ancora incollati al soffitto e una mano che scivolava tra le gambe del suo amico.
Lo sentì espirare sul suo collo, soffiare sulla pelle umida. Un respiro prolungato, due a scatti, pausa, un altro. L’aveva fatto anche la prima volta e tutte quelle successive. Sirius conosceva i segnali inconsci di Remus, prima che si arrabbiasse, che si intristisse, che sputasse fuori una battuta tagliente o che si trasformasse in un lupo. Adesso conosceva anche quelli intimissimi di quando perdeva il controllo. Abbassò la testa e lo costrinse a guardarlo negli occhi, poi mosse la mano e lo guardò increspare le sopracciglia dal piacere, labbra umide che avrebbe voluto mordere.
Lo trovò intossicante e una parte di lui ne ebbe paura. Strangolò quel pensiero affinché non potesse più toccarlo, poi lo baciò.
Un dubbio sulle labbra che Remus intercettò e travisò.

 
TRACCIA 1 - FELPATO. Data di rilascio: 9 aprile 1976; ore: 19:12

La stanza brillava della luce emessa da piccole lampade e gingilli luminosi sparsi ovunque. Le superfici di legno lucido aiutavano la sensazione persistente di venire accecati da quegli spilli di luce.
Una grossa scrivania dominava la zona, la sua sedia semplice in legno le conferiva un’aria più umile. Proprio nell’angolo a sinistra, un’alzata di cristallo reggeva deliziosi biscotti con gocce di cioccolato, protetti da una campana del medesimo materiale.
Remus ricordò l’ultima volta che era stato nell’ufficio della McGranitt. Era successo sette mesi prima e c’erano spezzoni del suo consiglio che ancora non quadravano, pezzi di informazioni che non era riuscito a rimettere insieme e che roteavano nel vuoto più totale della sua testa.
Si sentiva un idiota.
Un idiota che, tuttavia, aveva preso il coraggio a due mani e aveva scelto di lanciarsi nella seconda cosa più caotica che gli era successa in quei sette mesi.
Voltò lo sguardo alla sua sinistra e incontrò quello divertito di Sirius. Il ragazzo mosse impercettibilmente il capo e aggrottò la fronte, in un muto ma chiarissimo ‘tutto bene?’
Remus annuì per rassicurarlo e si arrese alla realtà dei fatti: era il re dell’autosabotaggio.
E a dimostrarlo era venuta, lampante, a presentarsi la situazione in cui si trovava.
“Ricordami dove hai trovato quest’idea?” Peter si aggirò diffidente per l’ufficio della professoressa come se le pareti avessero potuto prendere fuoco da un momento all’altro e bruciarlo vivo.
“I babbani, ragazzi.” Sirius si accucciò in un angolo della stanza e infilzò un riquadro di carta igienica a strappo su un aggeggio basso e sottile dalla funzione ignota, poi cominciò a srotolarlo e a farne cadere buona parte ai suoi piedi, “sono una miniera d’oro.”
James ridacchiò e si mise subito a lavoro all’altro capo della stanza, seguito da presso da Peter.
Remus, con il suo rotolo di carta igienica in mano e una domanda insistente piantata sotto la lingua sul perché diavolo non stessero studiando, vicini ai G.U.F.O. com’erano, sospirò rassegnato e cercò un punto da cui iniziare a conciare l’ufficio della professoressa McGranitt per le feste.
Oh, che maniera sublime di ringraziarla per l’attenzione e l’empatia mostrata nei suoi confronti!
Dopo soli cinque minuti di srotolare ininterrotto, metà dei pochi metri quadri dell’ufficio era stata coperta dal bianco soave e limpido della carta igienica. Un autentico faro di eleganza, secondo il modesto parere di Remus.
Il piano era filato liscio e senza intoppi. Avevano visto la professoressa McGranitt lasciare il suo ufficio e, pochi secondi dopo, erano sgattaiolati all’interno senza lasciare tracce, silenziosi come solo quattro adolescenti armati di carta igienica sapevano essere.
“Sarà assolutamente spettacolare,” mormorò James, sepolto da qualche parte sotto la sua stessa creazione. Dal tono trasognato, Remus temette che il suo amico fosse ufficialmente impazzito. In effetti, sussurri sognanti a parte, Remus credeva davvero che sarebbe stato assolutamente spettacolare. Era un classico intramontabile, da apprezzare per l’immediatezza e la semplicità. In un certo modo contorto, era fiero dei loro scherzi. Sapevano destreggiarsi alla perfezione tra malefatte semplici come quella e marchingegni complicati da maestri.
“Sarà davvero spettacolare” si ritrovò a concordare lui, un sorriso furbo ad alzargli un angolo della bocca.
La magia si spezzò proprio allora.
Sirius mise il piede in fallo, il che significa in una striscia di carta sospesa che evidentemente aveva creduto meno tesa. Cadde rovinosamente sul pavimento dell’ufficio, trascinandosi addosso la lampada, il mappamondo – purtroppo fatto di ferro – a cui la carta si appoggiava e, per effetto domino, tre tomi di Trasfigurazione. Perfino una cassettiera ondeggiò, pericolosamente vicina a cadere. L’imprecazione che ne scaturì fu ai limiti del legale e nessuno se ne lamentò per pura solidarietà.
“Oggetti che cadono e parolacce sono la forma migliore di silenzio, in effetti,” scherzò James, avvicinandosi al suo amico e porgendogli una mano. Ogni scricchiolio del legno, a quel punto, non sembrava più minacciare di farli scoprire.
“Vorrei vedere te, idiota” si lamentò Sirius, alzando l’oggetto più pericoloso che gli fosse caduto addosso: non il mappamondo di ferro, ma il manuale di Trasfigurazione.
“Discreto come un cane che abbaia a un gatto” lo prese in giro James, ancora. Sirius afferrò la sua mano e fece leva per tirarsi su.
“Be’, tecnicamente io e Minnie…”
“Ammiro il tuo passo felpato.”
“Smettila.”
Remus, che era beatamente tornato a srotolare la sua carta igienica, si voltò per un’occhiataccia. “Se per i signori Ramoso e Felpato non è di troppo disturbo, dovremmo svignarcela prima che ci becchino con un ufficio incartato e i rotoli fra le mani.”
Sirius aprì la bocca per protestare sulla questione ‘soprannome improbabile e troppo sarcastico per la sua dignità in frantumi’, ma fu interrotto da Peter. “Non ci provare, ha ragione. Non finirò in detenzione con i G.U.F.O. alle porte solo perché tu devi lamentarti.”
Con un sorriso rassegnato, Sirius e James sospirarono in coro e afferrarono un amico a testa, separandosi per svignarsela al più presto, ma comunque con moderato stile.
Remus udì distrattamente James chiedere a Peter se fosse riuscito a trasfigurare una bottiglia di Whiskey Incendiario in una splendida donzella. Poi fu distratto dal braccio di Sirius sulle sue spalle e un sussurro all’orecchio: “Sai, so essere molto silenzioso, se devo.”
Il ragazzo si prese del tempo per aggrottare le sopracciglia e guardarlo storto, mentre attraversavano la porta dell’ufficio della professoressa McGranitt. “Tu non sei silenzioso. Mai.”
Sirius alzò gli occhi al cielo e gli sorrise complice, lanciandosi un’occhiata alle spalle e accertandosi che Peter e James fossero fuori portata d’orecchio. “Sai che voglio dire…”
“Sì,” tentennò Remus, con misurato scetticismo, “sì, so cosa intendi. E non sei silenzioso, Felpato. L’altra volta hai rovesciato un secchio nello stanzino, quella successiva un intero scaffale di fiale puzzolenti e non sto accennando ad altri tipi di...”
“Sai che ti dico? Vaffanculo.”
Remus rise.
“E non mi piace quel soprannome!”
“Ormai è tardi, ti si è incollato addosso.”
Sirius si lanciò un’altra occhiata accorta alle spalle e due avanti: non voleva una detenzione neanche lui, in quel periodo dell’anno.
“C’è un’altra cosa che vorrei incollata addosso…”
“Fottiti” ribatté Remus, abbastanza fermo da risultare convincente.
Sirius lasciò cadere il braccio dalla sua spalla e capì di aver creato un mostro nel momento in cui Remus gli strizzò l’occhio.
Remus.
Che gli faceva un occhiolino.
Il mondo si stava decisamente prendendo gioco di lui.

 
TRACCIA 2 - CODALISCIA. Data di rilascio: 13 marzo 1976; Ore: 7:26

“Non lo so, mi sembra un po’ estremo!”
Remus era impresentabile.
E lo sapeva benissimo.
Chi diavolo finiva, cinque minuti dopo aver aperto gli occhi, con una sola manica di maglione infilata nel posto giusto, un barattolo trasparente colmo fino all’orlo di un denso liquido giallino e metà dei capelli appiccicati alla fronte?
Lui, ecco chi. Lui.
“A me sembra divertente.”
“A me sembra che tu qui non ti sia sporcato le mani.”
Sirius si colpì il petto, offeso come se Remus gli avesse insultato la collezione di vinili e le riviste musicali. “Io ce li ho procurati.”
“Non capisco perché debba farlo io!”
“Perché è più divertente” fu la risposta semplice di James. Peccato che fosse carente in fatto di esaustività. “E perché adesso hai sedici anni!”
Remus sospirò e scese a patti con il suo destino. Era effettivamente divertente, ma ammetterlo sarebbe stato un colpo mortale alla sua autorità in quella banda di scalmanati.
Spazientito, si liberò del maglione inutile che stava indossando per metà e stappò quell’intruglio innominabile che teneva tra le mani. Nell’istante preciso in cui lo fece, un olezzo terribile si riversò nel dormitorio.
“Apri la finestra,” ordinò James a Sirius, coprendosi il viso con una mano e stringendo gli occhi.
“Ma non erano sottovuoto per preservarli dalla decomposizione?”
“Penso sia l’odore di questa roba,” suggerì Remus, indicando la sostanza giallina in cui erano immersi i famosi cervelli di topo che Sirius aveva gentilmente assegnato ciascuno ad un barattolo, qualche mese prima. “Sì, decisamente. Non ho idea di cosa sia.”
“Pipì di lumaca?” tentò James.
“Sperma di pipistrello?”
Remus aggrottò le sopracciglia dal disgusto, “grazie, un’immagine idilliaca.”
Sirius annuì magnanimo.
Passò qualche secondo di silenzio, in cui Remus effettivamente annusò l’interno del barattolo. “Aspetta, è davvero sperma di pipistrello?”
“Guarda che ero serio.”
“Che schifo” commentò James, malcelando un mezzo sorriso.
Remus sospirò e, attento a mantenere dritto il barattolo che reggeva in una mano, appoggiò l’altra sulla cima delle coperte di Peter. Gliele tirò via lentamente, non che servisse alcun tipo di delicatezza per non svegliarlo, poi lanciò un’occhiata di avvertimento a James e Sirius e rovesciò sperma di pipistrello e cervello di topo nel letto del ragazzo.
Ecco, forse quello era il genere di cosa che riusciva a svegliare anche uno come Peter.
“L’ha fatto!” trillò James, esaltato al massimo.
Peter fece il grosso errore di sbadigliare e di passarsi una mano appiccicosa e puzzolente sugli occhi.
I tre amici gemettero dal disgusto contemporaneamente.
“Ma che roba…”
Peter aprì gli occhi piano, un po’ del conservante naturale appiccicato sulle ciglia a ostacolarlo. Mise a fuoco le facce da schiaffi dei suoi amici, la loro trepidazione, poi aggrottò le sopracciglia confuso e percepì distrattamente la pelle che tirava laddove le sublimi secrezioni del pipistrello si stavano asciugando.
“Che schifo” commentò poi, il tono stanco rimasto inalterato alla vista di una struttura rosa simmetrica sospettosamente simile a un cervello di topo. Peter aveva mantenuto una calma invidiabile. La mancanza di guaiti, versi mozzi, piagnucolii di qualunque genere era sorprendentemente deludente.
Poi, però, Peter lo notò. A dire il vero lo annusò, prima di notarlo.
“Ragazzi…” iniziò, la consapevolezza profonda che si faceva strada piano tra le sue sopracciglia, mentre si alzava a sedere con uno scatto e si guardava attorno.
“Pete,” Sirius sorrise, lo sguardo che cadeva con un indizio sulla mano destra di Remus. Peter non fu tanto stupido da non seguirlo.
“Ve lo chiederò con calma.”
“Spara, Pete,” James abbassò il capo incalzandolo.
“Che roba è questo liquido?” e quello – oh, quello – sì che era uno squittio.
Remus si schiarì la voce, l’ombra di un sorriso che si appoggiava discreta sulla curva delle labbra. “Potremmo definirlo un particolare prodotto finale della stimolazione di specifiche ghiandole di chirotteri adibite alla riproduzione.”
Peter sollevò un sopracciglio, perso in quel marasma di parole che avevano esattamente la funzione di confonderlo.
“Un pipistrello ci ha dato dentro,” tradusse Sirius e allora Peter ebbe un momento di contemplazione sconcertata del risultato del pipistrello che ci dava dentro spalmato su di lui e un momento successivo in cui radunò quella sostanza con le mani e si alzò dal letto per attaccare.
“NO!”
“Lupin, tu me l’hai versata addosso!”
“No, aspetta, possiamo spiegare!” Sirius alzò entrambe le mani e si interpose tra Remus e Peter. Lui sembrò fermarsi, una mano ancora sollevata che colava liquido sul pavimento e un sopracciglio alzato per invitarlo a continuare... e a dosare sapientemente le sue parole, tra l’altro.
“Questo è un trattamento di bellezza.”
Il sopracciglio di Peter si abbassò all’istante, seccato. “Questa è una presa in giro.”
“No, no, guarda,” Sirius raccolse la soluzione dalle dita di Peter e, prima che il ragazzo potesse difendersi, gli spiaccicò una mano in faccia. “Vedi, rende la pelle liscia liscia.”
Per tutta risposta Peter si avventò su di lui e Sirius fu veloce a saltellare per il dormitorio e sfuggire al suo attacco. 
“Pete, avanti, ti abbiamo portato il cervello di topo per invitarti a conservarti, a prenderti cura di te! Vedi che con…” incespicò, per poco non fu raggiunto da Peter mentre cadeva, “Vedi che con questo trattamento di bellezza ti faremo venire la coda liscia come il culetto di un bambino!”
“Ti ammazzo!”
“Una Codaliscia!” rincarò la dose James, praticamente intoccato accanto alla finestra.
“Andiamo, Codaliscia, lasciati aiutare.”
“Ultime parole?”
“Pace” pronunciò Sirius, alzando entrambe le mani di nuovo e arrestandosi di colpo. Peter non poté che ubbidire per riflesso naturale davanti a tutta quella solennità. “È solo aceto misto a qualche altra schifezza.”
Remus e James alzarono un sopracciglio e parlarono contemporaneamente. “Cosa?”
“È più divertente se tutti credete che sia sperma di pipistrello.”
Peter lasciò cadere le mani. La prospettiva che fosse ‘aceto misto a qualche altra schifezza’ evidentemente più facile da digerire, dato che il più puro sollievo gli si dipinse in viso alla notizia. “E allora perché ce l’hai detto comunque?”
Sirius sorrise, inclinando la testa su un lato. “Perché è ancor più divertente lasciarvi nel dubbio, Codaliscia.”
E, a quel punto, la sostanza giallina che teneva conservati i cervelli di topo di Hogwarts, per Peter, James e Remus, poteva venire da un pipistrello come da una bottiglia d’aceto.
Rabbrividendo, Peter scosse la testa, agguantò un asciugamano e si diresse senza dire una parola a fare una doccia.
James attese congelato per qualche secondo. La rapidità con cui si erano svolte le cose ancora troppo elevata per essere registrata in un battito di ciglia. “Quindi… Era aceto o no?” 
“Temo che non lo saprai mai.”

 
TRACCIA 3 - RAMOSO. Data di rilascio: 16 aprile 1976; ore: 6:17

Un gemito da qualche parte nella Stamberga Strillante, il suono di un respiro lento e regolare. Strisce di luce calda si infilavano dove potevano tra le persiane. James la fissò ondeggiare fievole, calma, bagnandogli l’occhio e la guancia destri col tepore dell
alba.
Troppo presto.
Sbatté le palpebre un paio di volte, pianissimo, un sapore di stantio in bocca che sperò di non aver avuto durante il suo incontro ravvicinato con Emmeline Vance. Si passò la lingua sulle labbra, nel tentativo di raschiare via il saporaccio. Finì soltanto per espanderlo.
“Non dormi?” Sirius gli si affiancò con uno sbadiglio. Se avesse avuto un tazza di caffé fumante in mano e una vestaglia gli sarebbe sembrato sua maestà del Regno di Nessuno. O un pensionato coi sogni di vetro.
“Ho troppo sonno per dormire.” James si lasciò contagiare dallo sbadiglio del suo amico. Gli lanciò un’occhiata di sottecchi, constatò la presenza di graffi e ferite superficiali e scrollò le spalle. “Non devi sempre farti così male.”
Sirius scrollò le spalle. “Dà più retta a me che a voi.”
E James sapeva bene quanto avesse ragione.
Se c’era una persona a cui Remus non dava mai retta era Sirius. E forse Bertha Jorkins, nei tempi in cui spettegolava ancora per la scuola.
Ma la luna gli cambiava la struttura ossea come la fiducia. L’affinità veniva alla luce nella forma scomoda di orecchie a punta e code a ciuffo, ansiti canini e senso dell’olfatto notevolmente sviluppato. Le loro personalità diametralmente opposte scendevano a compromessi per una notte a mostrare a entrambi che potevano essere uguali, che lo erano per forza, se tutto il mondo li vedeva per una condizione e un cognome quando erano molto di più.
“Comunque io mi diverto sempre da matti,” confessò James, un sorriso che cresceva di pari passo alla voglia inspiegabile di avere una tazza di caffè tra le mani e comportarsi davvero come il fratello di sua maestà del Regno di Nessuno.
“Le corna ti donano.”
“Non sono corna,” si lamentò James, roteando gli occhi. Con quella facevano precisamente millemila volte che glielo ricordava.
Sirius ridacchiò piano, attento a non svegliare Remus, che chissà dove aveva trovato la serenità per addormentarsi. “Come le devo chiamare? Capillari ossei? Diramature?” E si avventò con entrambe le mani sulla testa di James, grattando i capelli ingestibili e pregando nel nome di ogni grande mago sepolto che conoscesse di non fare la conoscenza di pidocchi. Fu fortunato.
“Finiscila!”
“Rami di alberi secolari?” Il buon proposito del silenzio abbandonato per una sana scazzottata. “Di’ un po’, Ramoso, come ci si sente a essere un alberello? Le palle dove le appendi?”
“Questa volta ti faccio nero” ribatté James, sorridendo e rispondendo attaccandolo alle braccia, per costringerlo a togliergli le mani dalla testa.
“Ci sono nato, idiota.”
“Grazie, ragazzi.” Una voce ovattata li costrinse a fermarsi. I ragazzi si voltarono di scatto, la bocca spalancata dal dispiacere a farli sembrare più pesci morti che mortificati. Remus si passò una mano sugli occhi e sbadigliò.
“Scusa.” James sollevò un angolo della bocca, colpevole.
“Davvero, Sirius?” continuò Remus, indisturbato. Se ne avesse avuto la forza avrebbe sorriso. “Ramoso? Che razza di soprannome è? L’avresti potuto chiamare ‘cornuto’!”
James e Sirius si scambiarono un’occhiata complice, poi ribatterono insieme: “Non sono corna!”
Remus scosse la testa, annoiato e James aggrottò le sopracciglia. “Ti va se ti aiutiamo a spostarti sul letto?”
“No, voglio stare a terra.”
Sirius rise. “Non vuoi neanche una copertina?”
“Oh, la copertina!” gridò James. Era un miracolo che Peter non si fosse svegliato.
“No.”
“Oh cielo, la copertina!” continuò il ragazzo, il tono acuto motivato unicamente da un cervello delle dimensioni di una nocciolina.
Prima che Remus potesse giurare di ucciderli alla prossima luna, James si affrettò a raccattare una coperta e Sirius si ritrasformò veloce come un razzo in un cane e si diresse a passo baldanzoso – cosa che generalmente fa apparire i cani parecchio ridicoli – verso il suo amico, acciambellandosi proprio sotto il suo braccio.
“James,” si lamentò Remus, alzando gli occhi al cielo mentre lui gli si avvicinava con la promessa non solo di stendergli la coperta addosso, ma di rimboccargliela. “Non sei la mia fottuta balia.”
“Linguaggio, Lupin” scherzò, comportandosi esattamente come una balia.
“Non lo fai neanche per pietà! Lo fai solo per prendermi in giro!”
Sirius, decidendo che era stato ignorato per troppo tempo, gli leccò una mano per attirare la sua attenzione.
Quel giorno imparò che gli scappellotti facevano male anche ai cani.

 
TRACCIA 4 - LUNASTORTA. Data di rilascio: 24 aprile 1976; ore: 9:12

Due secondi. Al massimo, volendo del tutto esagerare, James poteva arrivare a tre. Quello era il tempo di cui necessitava il suo cervello per capire di essere un cervello e riconoscere la linea di confine sottile ma inflessibile tra sonno e veglia.
Allo stesso modo, due erano i secondi – e volendo esagerare non si arrivava neanche a tre – di cui necessitava il cervello di James per concepire l’irritazione nei confronti di Sirius.
“Buongiorno, tesoro.”
James individuò la posizione della sua voce e si voltò a dargli le spalle con un grugnito.
“Ho detto...” Sirius prese fiato e il ragazzo fu costretto a scendere a patti con l’idea che si fosse avvicinato “buongiorno, tesoro.”
“Va’ a farti fottere.”
Una curvatura nel materasso fece notare a James, con suo sommo rammarico, che il letto aveva un nuovo passeggero. “Dobbiamo parlare di una cosa seria” continuò Sirius, incurante dell’offesa. “Anche Pete è sveglio.”
“Pete è sveglio?” biascicò James, un
espressione corrucciata iniziava a lavargli via il sonno dagli occhi. “Ma è sabato!”
“Te l’ho detto che era una cosa seria.”
Con un sospiro, James si mise a sedere. Abbatté una mano sul comodino e la guardò atterrare proprio sulla montatura degli occhiali. Nonostante il colpo, il nodo alle sopracciglia non si sciolse, anzi si intensificò quando la sua vista tornò completamente operativa. Solo allora parlò. “Allora?”
“Abbiamo perso Remus.”
Certo, avevano perso Remus.
Una scuola fatta di dormitori, Sale Comuni, scale invincibili, una dannata Foresta Proibita e incantesimi di protezione… e loro avevano perso Remus. Con un’occhiata al letto dell’amico, James constatò che era effettivamente vuoto. Sirius seguì il suo sguardo e annuì come se avesse passato l’intera mattinata a collezionare indizi.
“Proprio così. Persissimo.”
James sospirò e notò Peter raggiungerli sul suo letto. Il ragazzo si passò una mano sugli occhi e sbadigliò sonoramente. James suppose che fosse stato tirato giù dal letto anche lui non più di un minuto prima. “Si sarà svegliato presto.”
Sirius alzò un sopracciglio. “Primo. Stiamo parlando di Remus. Secondo. Da quanto pensi che sia sveglio io?”
James scosse la testa e cedette al primo sorriso della giornata. “Sei un maniaco.”
Sirius si fece scorrere una ciocca di capelli dietro la spalla. Provocò un’alzata d’occhi. “Solo vivace, Jamie.”
“Magari avrà passato la notte fuori.”
“Ho cercato di dirglielo anch’io.”
Sirius scosse la testa e sospirò. “E dove?”
Si guardarono negli occhi per qualche istante. Il peso delle responsabilità di un adulto che si posava scherzoso sulle spalle di James. “Lo sai come nascono i bambini?”
Il contatto si ruppe, Sirius alzò gli occhi al cielo. “Avanti, davvero non trovi strano che non ci sia?”
“Guarda che sono serio. Ti ricordi l’episodio dell’Amortentia a inizio anno? Remus ha sentito l’odore di qualcuno.”
E, a quel punto, il divario tra le cose che James non sapeva e quelle che Sirius aveva vissuto sulla sua pelle assunse i tratti di una voragine.
Sirius ci aveva pensato così poco, all’Amortentia e le sue maledizioni, che aveva finito per dimenticare quello che all’epoca era stato un siparietto comico, una parentesi interessante sull’alone di mistero che erano i sentimenti positivi che sapeva provare Remus Lupin. Ma adesso che le cose tra loro non erano cambiate, neanche per idea, ma si erano… evolute? – ecco, non sapeva cosa pensare.
Ora, Sirius aveva una certa alta opinione di se stesso e delle sue abilità di seduttore, ma era effettivamente troppo anche per lui sostenere con assoluta certezza che Remus avesse sentito il suo, di odore?
In fin dei conti era stato lui a sfidarlo a baciarlo, lui a spingerlo sul letto della Stamberga Strillante, sempre lui a chiedergli una distrazione quando pensare diventava una prospettiva troppo prossima a concretizzarsi, negli ultimi mesi. E il modo in cui il loro rapporto non era cambiato ma si era evoluto, gli era sempre sembrato casuale, forse addirittura naturale e insignificante. Remus non aveva mai fatto niente per manifestare un qualche più profondo e bruciante desiderio.
Eppure…
“Puzzo?” Sirius alzò un braccio e si annusò, poi scrollò le spalle come se la sua eventuale puzza fosse stata un problema con cui dovevano fare i conti gli altri.
“No, lo sento e basta, fa parte del pacchetto del piccolo problema peloso, come vi piace chiamarlo.”
“Che odore ho?”
“Buono.”
E, invece di una realizzazione, un’epifania inaspettata che gli mostrasse tutto quello che non sapeva, Sirius aggrottò la fronte e non ci capì assolutamente niente.
Tutto ciò che percepì, a un livello di consapevolezza troppo fievole perché potesse prenderne coscienza, fu la lama affilata e amara dell’odio immotivato che provò per la persona sconosciuta di cui Remus aveva sentito l’odore, tra i fumi dell’Amortentia del professor Lumacorno.
“Sai chi è?” domandò Peter, l’esitazione che gli faceva saltellare lo sguardo tra quello di Sirius e quello di James.
“Non ne ho la più pallida idea, Codaliscia.”
James si strinse nelle spalle e ridacchiò. “Ad ogni modo” iniziò, facendo sgusciare i piedi via dalle coperte e cercando le pantofole nascoste da qualche parte nel porcile del pavimento, “ieri ha detto che avrebbe studiato fino a tardi. Tre Galeoni che si è addormentato in Sala Comune. Ci tiene ai suoi G.U.F.O. e manca poco.”
 
Cinque minuti dopo, Remus dormiva beatamente sui libri e James aveva tre Galeoni in più.
“Buongiorno, tesoro.” Sirius si avvicinò di soppiatto all’amico e gli poggiò una mano tra i capelli. Osservò le sue dita affondare nell’oro e si convinse del fatto che facesse lo stesso effetto che faceva con gli altri.
“Ma la smetti?” si lamentò James.
“Ma sono gentile!”
“Sei inquietante” lo corresse, un sorriso furbo si allargava sul viso come cerchi nell’acqua. Sirius lo ignorò.
“È mattino, raggio di sole.”
Remus deglutì a vuoto e strinse gli occhi. “Va’ a farti fottere.”
James sgranò gli occhi e spalancò la bocca, poi sorrise come un matto e sommerse Sirius in una cascata di gomitate spiritose. “L’ha detto anche lui!”
“Coglione” aggiunse Remus in un mormorio, gli occhi ancora serrati ma un sorriso sardonico che strisciava già sulle labbra.
“Molto meglio del mio.” James si strinse nelle spalle e accettò la sconfitta con una disinvoltura che non gli si leggeva spesso sui lineamenti. “Remus, ci chiedevamo che odore avesse per te l’Amortentia che abbiamo incrociato a inizio anno.”
“O il profumo.” Sirius rimpianse la sua correzione mentre questa già viaggiava nella sua gola. Significava almeno cento supposizioni a cui non voleva e non avrebbe pensato. James, però, aveva alzato un sopracciglio e Sirius seguì l’infallibile tattica che prendeva il nome di ‘se dici la cosa sbagliata, continua a ripeterla fino a convincere gli altri che sia giusta’. “Oppure il profumo, sai, potrebbe essere un profumo.
Il sopracciglio di James si arcuò ulteriormente e Sirius ricordò che con questa tattica aveva conquistato soltanto detenzioni più durature.
“Magari la puzza.”
“O magari” Sirius prese tempo, le pause solenni tipiche solo dei saggi e degli idioti, “il profumo.”
“Allora? L’Amortentia, Lupin. Vogliamo saperlo.”
Su questo, almeno, convenivano. Sirius voleva saperlo, disperatamente, e magari spaccare la faccia a chiunque fosse talmente attraente e interessante da riuscire a conquistare uno come-
Remus schiuse un occhio malvolentieri e alzò il busto finalmente, sgranchendosi la schiena con un gemito. “Va’ a farti fottere anche tu” sussurrò a James, un’occhiata per nulla divertita e sciupata dal dolore che dormire in una posizione scomoda per ore gli aveva procurato.
“Siamo di malumore” constatò il ragazzo, fissando il ponte degli occhiali più su sul naso. Lanciò un’occhiata rapida a Sirius, senza muovere la testa. Gli fu ricambiata in tempo reale e con un sogghigno.
“Si potrebbe dire che ci siamo svegliati con la luna storta.”
Remus sospirò e alzò gli occhi al cielo.
“Una luna praticamente rovesciata” gli diede corda James.
“Stortissima!”
“Così storta che potremmo definirci re delle lune storte.”
Sirius allargò le braccia, raccolse la forza e impattò contro il tavolino della Sala Comune, rovesciando libri e spostando oggetti in malo modo. “Facciamo largo al signor Lunastorta!”
James mise le mani attorno alla bocca e benedisse i ragazzi con il migliore suono di sirena amplificato che riuscì a imitare.
L’espressione di Remus non cambiò, si limitò unicamente ad alzarsi, fissare il tavolino storto con occhi vacui e a lasciarsi trascinare dal cataclisma che sapevano diventare i suoi amici anche al mattino.
“Abbiamo molto lavoro da fare, signor Lunastorta!”
“C’è un motivo per cui parlate al plurale da più o meno cinque minuti?” si intromise Peter. Sembrava che un autobus si fosse accanito sulla sua faccia, ma neanche la stanchezza di un risveglio traumatico gli avrebbe impedito di tentare di diluire l’entusiasmo dei suoi amici.
“L’hai appena fatto anche tu, Pete. ‘Parlate’ è al plurale’.”
Remus alzò su Sirius uno sguardo tutto sopracciglia aggrottate e confusione. “L’hai detto davvero?”
“Sì.”
“Forse…” Remus si sporse nella sua direzione, il naso che solleticava il collo di Sirius a tempo col suo respiro “forse dovresti smetterla di usare la bocca per parlare.” 
Il solo segno che Sirius avesse ricevuto il messaggio non fu un sollevamento repentino di sopracciglia o un irrigidimento inspiegabile, bensì un’inspirazione più profonda, a cui seguì un sussurro: “Ho davvero creato un mostro.”
 E Lunastorta cedette alla prima risata della giornata.

 
TRACCIA BONUS - LA MAPPA DEL MALANDRINO

James, nella sua breve vita, non aveva mai avuto un figlio, ma se l’orgoglio che si provava quando lo si vedeva per la prima volta aveva quella forma, sperò di averne uno presto.
Remus posò la piuma sullo scrittoio, al lato della mappa, ed espirò pesantemente. Il terrore di macchiare la pergamena di inchiostro aveva rischiato di non lasciargli più liquidi da sudare. “Bene.”
“Credo di essermi innamorato.”
Peter ridacchiò. “Non è finita. James, ti sei allenato con l’incantesimo Homunculus, vero?”
“Come se l’avessi inventato” garantì lui, la sicurezza che vacillava da qualche parte tra le sopracciglia.
Le luci del dormitorio erano soffuse, la speranza brillava accecante nei loro occhi, mentre James puntava calmo la bacchetta contro la mappa, tra i respiri tesi di un silenzio sospeso. Quando la sua voce, seria e misurata, pronunciò l’incantesimo, l’aria vibrò di trepidazione, paura e cuori che battevano all’impazzata.
James tentò di non pensare a quella volta in cui la piantina grezza della sua casa segnalava la presenza di sua madre tra i cespugli o a quando aveva visto suo padre lanciarsi presumibilmente dalla finestra del secondo piano. Fissò lo sguardo sulla mappa e sperò con tutto se stesso che quel bagliore rosso che l’aveva avvolta fosse la luce magnifica del successo.
Poi l’atmosfera si ruppe, la pergamena intricata riposava come un pezzo di carta qualunque sullo scrittoio.
“Ho fatto una copia, comunque” sussurrò Remus, sorridendo furbo.
Sirius grugnì. “Se ha funzionato va bruciata, Lupin.”
“Allora inizia già a bruciarla.” Era proprio un bisogno innato, per James, quello di sentirsi il re del mondo.
Con mani tremanti, ignorando i commenti inutili dei suoi amici, Peter allungò una mano verso la mappa e alzò l’aletta che la teneva chiusa. Un intrico di corridoi e stanze si mostrò in tutta la sua abbondanza di accuratezza e inchiostro scuro.
“Oh. Fottimi.”
James sogghignò, l’orgoglio che gli pulsava nelle orecchie. “Quando vuoi, Black.”
Sirius passò una mano sull’inchiostro secco, appena dietro i puntini che segnalavano i movimenti delle persone che solcavano i terreni di Hogwarts.
Aveva funzionato.
“Chi c’è in Sala Comune?” domandò Peter, sfogliando gli strati di pergamena della mappa e trovando da solo ciò che cercava. “Mary, Marlene e Lily.”
Sirius si fiondò fuori dalla porta come se la sua forma canina avesse appena sentito odore di biscotto e si affrettò a dare un’occhiata.
“Tutto bene?” Marlene alzò un sopracciglio biondo e lo osservò premersi sconcertato le mani sulla bocca. “Devi vomitare?”
“Marlene, Lily, Mary.” Le ragazze lo guardarono con la stessa faccia che dovevano avere i vicini del dottor Frankenstein quando lo vedevano andare a fare spese di cadaveri. “Io vi amo.”
“Sei molto gentil…”
Ma Sirius era già già corso di sopra, urlando una serie di parolacce irripetibili e allargando le braccia come avrebbe fatto se fosse stato capace di giocare a quidditch e avesse anche vinto il torneo.
“Impressionante, Ramoso,” si complimentò Remus, assestandogli una pacca su una spalla e curiosando tra i fogli di pergamena.
“Rispettabili lupi, piccoli lord diseredati e... Peter” annunciò James, con un sorriso che avrebbe richiesto minuti e minuti di scalpello per essergli sottratto, “sono lieto di annunciare che il castello impossibile da mappare è stato ufficialmente mappato con successo!”
Uno scroscio ridicolo di tre applausi si riversò tristemente nella stanza, ma il sorriso di James non vacillò.
“Bene, ora.” Remus non spiegò cosa sarebbe accaduto ‘ora’, si limitò a cantilenare una serie di incantesimi indistinguibili che seminarono luci e calore sulla mappa per pochi secondi ognuno. Poi si fermò, fece segno ai ragazzi di fare silenzio e pronunciò chiaramente: “Fatto il misfatto.”
Un attimo dopo, ogni traccia d’inchiostro si sollevò dalla mappa e la trama pulita di una pergamena nuova di zecca si stagliò terrificante davanti ai loro occhi. Nessuna sbavatura, nessun segno, nessun corridoio e nessuna persona. Tutto il lavoro di anni era svanito.
Remus alzò lo sguardo su di loro e scrollò le spalle. “Ora dobbiamo scegliere la frase per attivarla.”
“Io sono un Malandrino?” propose Peter.
“E io sono Minnie. Dai, Pete, un po’ di fantasia.”
James ridacchiò e si grattò il mento, in riflessione. “Giuro di usarla per un ottimo scherzo?”
Remus annuì, sorridendo.
“Più teatrale, ragazzi. Giuro solennemente di usarla per un ottimo scherzo” suggerì Sirius, levando un cappello invisibile e inchinandosi profondamente.
“Mi piace.”
“Carina,” concesse Peter.
James annuì energico.
“Jamie, ora potrai braccare Evans ovunque,” scherzò Sirius, dandogli di gomito e ridacchiando.
“Zitto” lo ammonì Remus, alzando già la bacchetta per eseguire l’incantesimo. Come nel caso precedente, era fondamentale che non vi fosse altro suono che le parole d’ordine di protezione per la mappa. Qualunque tipo di interferenza sarebbe stata considerata parte integrante della formula.
“Come un vero pazzo malintenzionato.”
Zitto” ripeté Remus, l’incantesimo che già spingeva sulla punta della sua bacchetta, in attesa di essere liberato.
Sirius sollevò entrambe le mani in segno di scuse e alzò gli occhi al cielo. Poi cinse le spalle di James con un braccio e si accasciò su di lui, sporgendosi con la testa per osservare l’esecuzione.
Un fascio di luce azzurra volò sottile fino alle pergamene intrecciate, spandendosi come burro in padella. “Giuro solennemente…”
“Di non avere buone intenzioni” sussurrò in una risata Sirius, nell’orecchio di James.
La luce si spense, la pergamena fremette e i contorni sottili della presentazione della mappa si stagliarono via via sempre più nitidi sulla carta.
Remus non disse niente, si voltò di scatto a guardare Sirius e sbatté le palpebre molto lentamente.
“Sono curioso. Come hai scambiato ‘zitto’ per ‘parla’?”
“Ehm… non si può annullare?”
“Ti annullerei io.”
“Fammi tuo, Lupin.”
“Posso dire una cosa?” James si liberò dal braccio di Sirius e considerò la mappa con uno sguardo. Si prese una pausa, tre paia d’occhi fisse su di lui. “Giuro solennemente di non avere buone intenzioni… È bellissima.”
“È anche meglio,” convenne Peter, un sorriso smagliante e gli occhi che brillavano.
Sirius alzò e abbassò veloce le sopracciglia, un paio di volte. “Tu che dici?”
Remus sospirò, lo sguardo serio e tanta pazienza. “Non importa cosa dico, ormai è fatta.”
“Sì, ma che ne dici?”
Il broncio si sciolse in un sorriso. Tentò di reprimerlo, ma gli risultò impossibile. “Dico che è geniale.”
Quattro sorrisi complici si incontrarono a metà strada tra i loro sguardi, poi ciascuno dei ragazzi si soffermò a rimirare incredulo quell’autentico capolavoro di inchiostro e passi altrui.

 
I signori Lunastorta, Codaliscia, Felpato e Ramoso
Consiglieri e Alleati dei Magici Malfattori
sono fieri di presentarvi
La Mappa del Malandrino








 

 


Note di El: Ciaaaao, guardate chi è tornatoooo? Okay, voi mi dovete scusare, ma AVEVO UN ESAME (e continuavo a non andare avanti con la storia, forse questa è la causa più importante ma tanto è in parentesi, vedete, ci sono le parentesi, quindi non può essere importante per definizione pff) un esame, dunque... dieci giorni fa... UN ESAME. Va bene, dopo questo siparietto comico passiamo alla struttura da CLOWN che ha questo capitolo. Mi faceva ridere, mi sembrava calzante, ho avuto l'idea all'improvviso e invece di dire "ahahahaha naaaah vabbè" ho detto FACCIAMOLO, ovviamente, poi ho visto che efp mi dava il font e ho capito che era destino. Bene, ciao! Benvenuti al capitolo che mi ha fatta venire la piccola crisi per questa storia. Volevo cambiarlo tutto, tutto tuttissimo, poi l'ho riletto e ho detto "bbbbbabbè, ja, non è così malvagio". Non sarà il migliore di questa storia, ma tanto i migliori devono ancora arrivare in ogni caso. Tra le cose più belle nella mia cronologia legate alla scrittura sarà per sempre ai primi posti la magica ricerca: "sperma di pipistrello". Non cercatelo, è deludente, non ve lo fa vedere ahimé. Per i patiti la macchina fotografica (se ricordo bene, non me lo sono segnato) è una Polaroid automatic 250. Così, avverto. Poi volevo precisare che le date non vanno in ordine cronologico, per questo quando nella prima traccia Remus dice "Felpato, Ramoso" è perché la traccia 3 ha data precedente alla prima. No questions, la disposizione così ha senso per un fatto di equilibrio di luoghi e... sì, vi giuro, battute sessuali. Voi dovete comprendermi. Io ho iniziato a scrivere questa storia i primi di marzo, cioè undici mesi fa e ho shippato wolfstar per ben tre anni senza mai scriverci su... non volevo capire più niente, nei primi 20 capitoli ho dovuto rinunciare a una cosa come 100 doppi sensi, E ADESSO NON PIU' MUAHAHAHAHAHAH non odiatemi, c'era poco altro da aspettarsi da una che usa i veri calendari lunari per una dannata fanfiction.
Quindi niente, a me dispiace da matti se 'sto mamozio infinito (è davvero lunghissimo, mi scuso da morire) sembra vuotissimissimissimo, ma ha delle piccolezze senza le quali non possiamo fare "uuuuuuuuh" nei prossimi capitoli e io adoro l'idea che qualcuno possa fare "uuuuuuuh". Also, spero sia chiaro che la foto che scattano nella primissima scena è quella che Sirius vede a casa di James nel capitolo 11. Inizialmente doveva essere una one shot aggiuntiva, ma non avevo voglia di creare una serie e avevo effettivamente lo spazio per metterla quindi eccola!
Okay, me ne vado che sono proprio una palla. Se mantengo il ritmo che ho ripreso ci vediamo tra 10 giorni, altrimenti tra 20! Grazie ancora per aver letto e per essere ancora qui <3

El.

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 22 - Successo? ***


22. Successo?







Non sapeva chi ci fosse accanto a lui.
Non sapeva se ci fosse qualcuno alle sue spalle né se fosse pronto a guardargliele o a colpirle.
Sapeva solo una cosa, la più importante di tutte. Quella che corse nella forma di un ragno dallo stomaco fino all’orecchio, penetrando come un virus nel suo cervello ed esplodendo in un fischio acuto oltre il quale non distinse alcun suono.
Quel ragno era la rabbia: quella totalizzante certezza di poter sradicare il mondo dal suo asse e trascinarlo all’inferno.
Regulus guardò James Potter negli occhi e caricò.
Concentrò quell’odio in un pugno, fendette l’aria in un sibilo e impattò contro la sua guancia. Fu una soddisfazione il colpo, un piacere il gemito che gli strappò, unʼestasi il sangue sulle nocche.
Non aveva capito quale fosse la differenza tra il pugno che aveva tirato Avery e quello che gli aveva dato suo fratello, non aveva capito che diritto avessero né perché uno dovesse essere più giustificabile dell’altro, ma aveva decisamente capito perché aveva tirato un pugno a James Potter.
Perché l’aveva fatto sentire dannatamente bene.
E quando il suo avversario lo guardò come se fosse diventato stupido e le sue labbra formarono parole che lui non comprese, Regulus sperò ardentemente che ricambiasse, che potessero ufficialmente dare il via a una rissa perché l’adrenalina nelle vene era inarrestabile, perché lui era inarrestabile.
Poi James rispose, le labbra ridotte a una fessura mentre contrattaccava. Regulus fu sicuro di aver sorriso, di aver effettivamente goduto della sensazione di distratto piacere che gli provocò il taglio che James gli aprì sul labbro e di aver decisamente registrato l’impennata di eccitazione quando lo colpì anche lui, liquido sulle nocche e sollievo nel petto.
Dopo il secondo gancio di James diretto al suo stomaco, proprio un attimo prima che l’impatto lo facesse piegare in due dal dolore, Regulus si svegliò. Si alzò di scatto a sedere nella penombra dell’alba del 23 maggio 1976, nel suo letto.
Tremava.
Si asciugò il sudore dalla fronte e lanciò un’occhiata all’abisso del Lago Nero al di là della finestra. Sottili stringhe di luce attraversavano la trama fitta dell’acqua e lo colpivano con angoli imprevedibili. Abbassò lo sguardo sulle sue nocche: il sangue era sparito, la rabbia no.
James Potter non gli aveva mai neanche chiesto quale fosse il suo piatto preferito, ma non si era fatto problemi a infilarsi nelle sue promesse e infrangerle, portandosi via quello che rimaneva; portandosi via l’unica cosa che da bambino aveva sempre dato per scontata: l’amore fraterno.
E quel giorno non si sarebbe preso anche la vittoria.

***
 
“Siete carichi?”
Marlene sorrise raggiante e legò rapidamente i capelli in una coda alta. Le vesti rosse fiammanti Grifondoro svolazzavano attorno ai loro piedi, mentre si riunivano all’uscita degli spogliatoi.
James annuì e sorrise a ognuno di loro, la scopa stretta in una mano e gli occhi che brillavano. “Bene, questa volta nessuna strategia. Stracciamoli.”
Essere drastici, nei discorsi, provocava sempre ovazioni niente male.
“Catchlove.”
“Potter, lo so che devo prendere il boccino, la smetti di ricordarmi sempre qual è il mio lavoro? Non è che ci sia altro che possa fare!” ma Greta, nonostante la seccatura, sembrava divertita.
James scosse la testa. “Non ti devi far fregare. Il Cercatore è forte… e per qualche ragione molto aggressivo” la avvertì, gli occhi persi alla base del tendone e la mente che tornava alla faccia di Regulus Black a colazione, la mascella contratta e il rischio praticamente palpabile che rompesse le stoviglie o le infilzasse nella tavola. James si riscosse, improvvisamente conscio degli sguardi dei compagni di squadra che aspettavano pazientemente che tornasse in lui. “Ma noi siamo più forti.”
Qualche sorriso scettico volò sulle labbra dei compagni.
“Nessuna pietà” scherzò il ragazzo e, con un cenno del capo, li condusse oltre il tendone.
 
Il vento gli sferzava il viso, la primavera batteva gentile sui suoi vestiti, mentre fluttuavano senza peso, sottomessi ai suoi movimenti. Era bello, bellissimo. L'adrenalina era una droga, il mondo si spegneva e la fame diventava straripante.
“PREWETT, DEVI GUARDARE I BOLIDI!”
Ma James si morse il labbro inferiore e si bloccò a mezz’aria, gli occhi ancora incollati su Fabian che a stento registrarono la cosa che gli passò davanti ad altissima velocità. Mandò indietro la scopa di scatto e aggrottò le sopracciglia, confuso giusto il tempo di mettere a fuoco un paio d’occhi che conosceva come le sue tasche e che non aveva mai visto così ostili. “Ma che diamine fai?”
“Cerco il boccino, no?” Regulus alzò un angolo della bocca e seminò le ultime parole nel vento alle sue spalle.
James seguì con lo sguardo la sua scia e si prese un secondo soltanto per domandarsi cosa diavolo gli prendesse. “Il boccino un cazzo, è la terza volta che mi taglia la strada” mormorò scandagliando il campo e cercando una bella situazione per costruire un’azione.
“Sembra che i Serpeverde abbiano optato per una marcatura insolita” commentò Remus atono, nel microfono. James gongolò: era semplicemente evidente che non fosse imparziale come era costretto a sembrare. “Siamo incredibilmente curiosi di conoscerne l’esito.”
James fiutò il sarcasmo e sorrise, individuando una posizione strategica in cui inserirsi e studiando un Cacciatore avversario che sfrecciava da solo verso i loro anelli. Inclinò la scopa in basso e sorrise, spostando il peso del corpo indietro per darsi la spinta. Iniziò la discesa senza frenarsi e mirando al centimetro esatto in cui si sarebbe trovata la pluffa quando avrebbe incrociato l’avversario. Il respiro gli saltò in gola, riallineò la traiettoria e si compiacque dell’assoluto controllo che aveva sul suo corpo e sul guanto d’aria in cui volava.
Dieci metri lo separavano da un furto pulitissimo. Memorizzò i movimenti più probabili del Cacciatore che aveva puntato e si preparò a evitarli.
Cinque metri, il tifo rombava a ritmo col vento.
Tre metri e Regulus gli tagliò di nuovo la strada senza lasciar entrare in contatto le loro scope neanche per errore, ma limitandosi a costringere James a modificare la traiettoria e bloccarsi in aria. 
“Non te ne frega niente del tuo dannato boccino?” sbuffò aggirando la difesa di Regulus, svolazzandogli attorno e ritrovandoselo sempre alla costole.
“So fare due cose insieme.”
“Gideon, intercettalo!” gridò James, in mancanza di altre possibilità. Guardò impotente il Cacciatore correre a fare punto. “Levati.”
Regulus rispose con una spallata, il fianco libero rivolto dove si stava svolgendo l’azione a cui James avrebbe voluto così disperatamente partecipare.
Tentò di evitarlo scendendo di quota e sperando di passare attraverso la sua ombra, ma Regulus seguì il suo sguardo e si abbassò a sua volta. Con un sospiro seccato, James lanciò un’occhiata a Madama Bumb e si assicurò che fosse concentrata sulla guerra tra Cacciatori che gli era preclusa, poi inclinò il manico e, con un colpo di reni, congiunse la sua scopa con quella di Regulus, nel punto più lontano dall’impugnatura del ragazzo. Si sbilanciò in avanti e colpì per costringerlo a ruotare.
“Bastardo” sibilò Regulus, riguadagnando l'equilibrio e facendo collidere la sua coscia sinistra con la destra di James, impedendogli ancora una volta di superare la sua marcatura.
“Lo sai cosa fa un Cercatore?”
“Tu sai cosa fa un Cacciatore?” ribatté Regulus. Strinse i denti e incassò una spallata, “segna.”
“Nessun pazzo marca a uomo un Cacciatore con un Cercatore, idiota.”
Regulus ricambiò un colpo e lo seguì, evitando ancora una volta che sgusciasse via. “Ma tu sei il giocatore migliore in tutta la scuola, no?”
James aggrottò le sopracciglia e allungò il collo in tempo per vedere Frank bloccare l’azione e reimpossessarsi della pluffa.
“Sei migliore di me, no?” continuò indisturbato Regulus e gli assestò una fiancata.
James soffocò una risata nel naso e vide i pezzi tornare a posto. “Non posso fare niente per la tua frustrazione, soprattutto se te la sei cercata.”
“Facile ascoltare una sola campana.”
James non aveva assolutamente voglia di stare ad ascoltare la rabbia repressa del fratello di Sirius. Tutto ciò che voleva era che sparisse dalla sua vista all’istante e lo facesse correre a sfogare quella smania di segnare che stava crescendo fino a esplodere nella trachea, una smania sempre più generale che si stava velocemente trasformando in rabbia. Gli donò una spallata meglio assestata e lo guardò traballare ma non cedere. “Non è un problema mio” scandì, allacciando lo sguardo a quello del ragazzo. “Io e te non siamo amici, Reg.”
Regulus grugnì ironico al soprannome.
“Ascolta, mi dispiace enormemente, ma non posso risolvere i tuoi problemi. Quello che posso fare è stracciarti a quidditch e dimostrarti che niente ti è dovuto.” James sfruttò la frazione di secondo in cui si guardarono fisso negli occhi, la guerra quiescente a tracciare un confine che metteva metri e metri di distanza tra loro e le loro possibilità. Poi sfrecciò in alto e serrò gli occhi forte contro il sole. Regulus alzò la testa per seguirlo e fu accecato dalla luce, costretto a sbandare e a seguirlo alla cieca. “Ti dedico la coppa che vinceremo, Black.”
Poi James puntò alla pluffa e non si preoccupò di guardarsi indietro. Regulus osservò la sua schiena allontanarsi e serrò la mascella. Inspirò in un sibilo, l’aria fresca che tentava di oltrepassare la barriera dei denti. Colse con la coda dell’occhio Catchlove scattare in avanti concentrata. Seguì il suo sguardo e il luccichio dorato del boccino gli ricordò quale fosse il suo obiettivo: stracciare gli avversari. Riorientò il suo manico di scopa nella direzione migliore e si fiondò all’inseguimento.
 
“Potter segna il decimo goal della partita!” la voce di Remus squillò amplificata tra gli spalti dello stadio. La partita andava avanti da due ore e il boccino si palesava per qualche secondo di caotiche rincorse prima di sparire per minuti e minuti. Il sole di mezzogiorno picchiava con violenza sulle teste dei ragazzi e il caldo si apriva veloce la strada per i loro mantelli. “Se arriviamo a quindici nella prossima mezz’ora offrirà un boccale di Burrobirra per ogni goal!”
James aggrottò la fronte e rise, un pugno ancora in alto in esultanza.
Quando il gioco ripartì, la squadra Serpeverde si mostrò subito più aggressiva e fallosa. La risposta Grifondoro fu altrettanto violenta e Madama Bumb era convinta di non essersi mai trovata ad avere gli occhi più aperti di così. Il gioco si fece serrato e veloce, i goal fioccavano ogni minuto più rapidamente, il boccino fu in seguito ricordato dal pubblico come profondamente isterico. La partita vedeva ancora in vantaggio la squadra Grifondoro, ma un paio di punti Serpeverde sarebbero bastati a ribaltare l’umore e l’esito fragile della partita.
James si passò una manica sulla fronte dopo un passaggio parecchio intricato e si fermò a riprendere fiato e osservare l’azione consumarsi in una parata poco più avanti. Grugnì infastidito e alzò gli occhi verso i Cercatori.
“Catchlove e Black si sfidano adesso a venti metri da terra in un testa a testa davvero allucinante. Ma la squadra Serpeverde se n’è accorta?” considerò Remus e gli sguardi del pubblico e dei giocatori si alzarono rapidi sulla battaglia in cielo.
James sfruttò la confusione dei Cacciatori e fece cenno a Frank. Il ragazzo sorrise e tirò la pluffa in una parabola pulita e lunga diretta al capitano. Un Battitore Serpeverde aggrottò la fronte e urlò versi ai Cacciatori stremati.
“Ops” sussurrò Remus nel microfono “vi ho distratti?”
“Coglioni” mormorò James, accingendosi a fare la cosa che gli riusciva meglio: volare come un razzo. Si fiondò verso gli anelli avversari, il baricentro completamente sbilanciato in avanti. Benedisse Marlene e chi l’avesse inventata perché il bolide che aveva deviato sembrava più che intenzionato ad aprirgli un buco nel cranio. Guadagnò metri.
“Qualcuno ha voglia di mettersi in mostra” commentò Remus, “ma Wilkes si riscuote dalla distrazione, recupera tutti gli attimi che ha passato a fissare il cielo con sguardo intelligente e gli corre dietro.”
“Lupin!” la professoressa McGranitt represse un sorriso e lo richiamò.
“Ho detto ‘sguardo intelligente’, mica l’ho offeso!” si difese. In fondo parlare per due ore e mezza sotto il sole cocente scioglieva la lingua.
James rallentò impercettibilmente, l’area di punteggio sempre più vicina. Si guardò alle spalle e notò Wilkes avvicinarsi. Normalmente non avrebbe passato neanche un millisecondo a preoccuparsene, ma gli altri due Cacciatori Serpeverde si stavano avvicinando dall’alto. C’era un limite anche alla magia, in fondo.
Registrò il sorriso sbilenco di Wilkes allargarsi, la linea dell’area di punteggio a non più di due metri da lui. Alzò il braccio che reggeva la pluffa, allargò le dita e alzò la mano, misurando la forza. Colse gli occhi di Gideon e mosse il capo in avanti, un cenno deciso e per chiunque altro indecifrabile.
Il ragazzo annuì e sfrecciò da metà fino all’orlo esterno del campo bombato, sempre più avanti. James sorrise, l’adrenalina che correva nelle vene e il sangue che pulsava frenetico sui polpastrelli che reggevano la pluffa. Tirò indietro il braccio, sperò che mira e forza fossero equilibrate e mandò la pluffa nel vuoto, la punta della scopa che si arrestava a qualche centimetro in linea d’aria dall’area di punteggio.
“Questa è ambiziosa” considerò Remus nel silenzio. Prewett volò in profondità, dritto nell’area di punteggio, i Cacciatori avversari tentarono di reindirizzare disperatamente le loro scope in una traiettoria che fermasse Gideon, ma il ragazzo afferrò la pluffa a mezz’aria e, con un solo movimento, eluse la difesa del Portiere e sfondò l’aria vibrante di tensione dell’anello destro.
Wilkes andò a sbattere con la scopa contro il fianco di James e imprecò a mezza voce. Passò un attimo di silenzioso smarrimento, poi gli spalti Grifondoro esplosero di grida e fomento. James sorrideva come un matto nel suo regno.
“Mi spiace dover smorzare un entusiasmo che, credetemi, farei carte false per esternare” un sorriso nella voce di Remus superò gli schiamazzi, “ma la partita sta per finire.”
Tifosi e giocatori alzarono gli occhi e li puntarono da qualche parte in cielo, a un passo dalle nuvole. Regulus e Greta si facevano strada a spallate nel cielo scivoloso di mezzogiorno. Il boccino perdeva metri, forse impallidiva davanti a due mani protese e decise a vincere.
“Un metro e mezzo” stimò Remus, la tachicardia che scivolava nelle corde vocali.
Regulus spinse il bacino in avanti in un gesto insolitamente imprudente.
“Un metro.”
Catchlove strinse i denti e gli fece perdere il vantaggio, le dita ondaggiarono disperate come se stesse pregando loro di allungarsi.
Il boccino scattò in alto e i riflessi dei ragazzi non si fecero attendere. Le loro mani si persero nella foschia dell’altitudine, poi il luccichio del boccino si spense tra i loro pugni serrati.
Lo stadio ammutolì: qualcuno aveva vinto il torneo della scuola.
L’eco del silenzio si propagò in cerchi concentrici per secondi che si trasformarono in minuti.
La prima cosa che James vide non furono le ali del boccino intrappolate in una morsa, il pugno levato in aria, l’annuncio di Remus.
James vide il sorriso smagliante di Catchlove, poi la sua linguaccia e l’esaltazione gli esplose nel petto.
Alzò la testa verso il cielo, inspirò il silenzio prima degli schiamazzi e gridò a pieni polmoni. Seguì il baccano.
Quando abbassò lo sguardo sugli spalti, alzò un sopracciglio, cercò gli occhi di Lily Evans, schioccò un bacio sul palmo della sua mano e lo soffiò nella sua direzione. La vide alzare gli occhi al cielo, ma stava esultando.
Lo sguardo di James esitò solo un attimo in quello amareggiato di Regulus e una parte di lui immaginò quanto gli dovessero prudere le mani, a un passo dal successo, con le dita già strette sulla vittoria, ma mai abbastanza. Il ragazzo gli rivolse un cenno del capo da lontano, riluttanti congratulazioni. Annuì nella sua direzione e un sorriso debole gli piegò le labbra. Sapeva che qualunque componente della sua famiglia, nessun ribelle escluso, avrebbe preferito una coltellata nello stomaco piuttosto che la compassione di un avversario, ma James non poté fare a meno di dispiacersi per lui.
“PUTTANA LADRA, È STATO MAGNIFICO!” esclamò Remus.
La professoressa McGranitt non lo riprese, perché i Grifondoro avevano vinto il torneo e James Potter aveva quindici Burrobirre da offrire.

***
 
Sirius aveva uno spirito d’adattamento davvero ammirevole. Una volta era caduto dal letto e non si era svegliato, aveva continuato a dormire indisturbato sulle tegole di legno del dormitorio di Hogwarts.
Ma quella sera non c’era spirito di adattamento che reggesse.
Si schiaffeggiò entrambe le guance nel tentativo di non crollare, poi spostò le mani fino agli occhi, fece pressione e si godette lo spettacolo psichedelico e colorato sotto le palpebre chiuse. Finito anche quel metodo fai-da-te di intrattenimento, non gli restò che lamentarsi nella forma irritante di versi mozzi. Perché se lui era annoiato lo dovevano essere tutti.
“Guarda che sei in biblioteca” lo avvertì Remus, costringendolo a guardarlo.
Sirius assottigliò gli occhi per metterlo a fuoco e sospirò. “Sono anche le dieci e mezzo. In biblioteca ci siamo noi e i ragni.”
“Non così vicini ai G.U.F.O. come siamo.”
Sirius sbadigliò e si accasciò sul suo fianco. “Scherzo a Madama Pince?”
“Voglio finire di ripassare.”
Sirius alzò lo sguardo al soffitto. La biblioteca sapeva di muffa, ma aveva un che di confortevole, in qualche modo. Il frusciare periodico delle pagine che Remus sfogliava lo rilassava e gli conciliava il sonno. Si sarebbe sicuramente addormentato sulla spalla del suo amico se solo…
“Ciao” mormorò una voce femminile. Sirius aveva la sensazione di conoscerla. Schiuse un occhio per esserne sicuro e aggrottò la fronte quando riconobbe, oltre alla sua voce, anche il suo viso. Si rimise dritto e diede di gomito a Remus, perché era capace di dimenticare anche le buone maniere quando era teso… e quando si trasformava in una creatura della notte una volta al mese… e quando assisteva a una partita di quidditch.
Forse Remus non era un tipo da buone maniere.
“Oh, Greta!” la salutò lui, una volta che ebbe alzato lo sguardo. Con un gesto disinvolto della mano, Remus invitò Greta Catchlove a sedersi al loro tavolo. “Anche tu sei più concentrata la sera?”
Greta ridacchiò timida, ma non replicò. Sirius aggrottò le sopracciglia e la studiò: era una ragazza spigliata e sveglia e non capiva perché si comportasse in modo tanto insolito. “Complimenti per la vittoria di una settimana fa” si intromise Sirius, un po’ disorientato, “non c’è stato modo per dirlo durante i festeggiamenti. Ci sono decisamente sfuggiti di mano.”
Greta rise al ricordo e regalò un’occhiata grata a Sirius. Lui non ne comprese il motivo.
“Già, ehm…” Greta esitò con lo sguardo in quello un po’ incostante di Remus, “mi chiedevo se fossi libero questo venerdì.”
Remus alzò gli occhi al soffitto e si morse un labbro in riflessione. “Sì, è per qualche ripetizione a uno studente dei primi anni?” Avrebbe voluto decisamente rifiutare per ripassare, ma era già un pessimo prefetto per troppi motivi, non era il caso di aggiungerne altri alla lista.
Greta espirò in una risata e scosse la testa. “No, no, io…” poi inciampò sulle parole.
Sirius, accanto a lui, lasciò scorrere lo sguardo tra i due incredulo. Non sarebbe stato a disagio nemmeno a insaponare i capelli di James, ma doveva ammettere che quella situazione lo faceva sentire vagamente fuori posto.
Remus si limitò ad alzare un sopracciglio confuso e Sirius pensò che non fosse umanamente possibile avere così poca autostima. Gli pestò un piede sotto il tavolo della biblioteca e si schiarì la gola in un messaggio eloquente.
Per lui.
“Sì?” tentò Remus, la realizzazione che si dipingeva sui lineamenti e la stessa, solita informe paura.
Sirius lo guardò, le sopracciglia contratte. Lo conosceva abbastanza da poter rispondere al posto suo ed essere certo di dire esattamente quello che pensava. Almeno credeva. Remus era un tipo prevedibile, il più delle volte- il più delle volte non significava ‘sempre’, però…
“No, intendevo se sei libero per uscire, sai…” Greta sorrise e si guardò attorno come se avesse affisso cartelloni colorati, petali di rosa e palloncini a forma di cuore per rendere più chiaro il messaggio, “con me.”
Sirius lo guardò ancora e si morse la lingua, confuso.
Sapeva esattamente cosa gli passava per la testa. Pensava che non avesse alcun senso, che nascondere la sua condizione a chi si avvicinava troppo a lui era, di fatto, impossibile, che si fosse sbagliata, che potesse essere uno scherzo.
Non avrebbe mai accettato.
“Intendi tipo insieme…”
Greta annuì.
Di’ di no
Fu un pensiero fulminante, che gli corse in testa prima che diventasse abbastanza consistente perché potesse colpirlo e ucciderlo. Sirius esitò con lo sguardo tra Greta e Remus.
La verità era che non ne aveva idea, che non era affatto certo che non avrebbe accettato.
Aggrottò la fronte. Lui voleva che Remus acquistasse sicurezza, voleva, ardentemente, che non si desse così addosso. Tifava per lui, sperava che riconoscesse in se stesso ciò che vedeva lui. Perché diavolo, anche se solo nella sua testa, lo stava sabotando?
“So che hai i G.U.F.O. quest’anno,” iniziò Greta. Remus sorrise, un’occhiata eloquente ai tre libri aperti davanti a lui, “quindi se vuoi possiamo anche solo andare al campo di quidditch” ridacchiò. Remus la imitò.
Sirius sollevò entrambe le sopracciglia, confuso. Era ironia, quella?
Di’. Di. No.
“Sarebbe bello, sei una ragazza divertente e sei davvero brava a quidditch.”
Greta abbassò il capo e sorrise modesta. Si scostò una ciocca di capelli ramati via dal viso.
Di’ di no, di’ di no, di’ di no.
“Ma… ultimamente non sono dell’umore giusto per questo genere di cose.”
Cazzo, sì.
Greta arrossì furiosamente. Annuì più volte. “Sì, sì, capisco benissimo.”
Remus le sorrise e annuì. La osservò lasciare la sedia su cui si era accomodata e guardarsi attorno come se fosse stata in cerca di manuali, piume e cartelle da raccogliere prima di lasciare la biblioteca. Ma non aveva nulla con cui impegnare le mani.
“Grazie comunque, sai…” Greta sorrise, “sei un tipo gentile” scambiò un’occhiata con Sirius. Un saluto? “Se cambi idea sai dove sono.”
Remus annuì, un altro sorriso.
“Cioè, non sai dove sia in ogni momento, almeno non credo?” ridacchiò ancora. “Però, ecco, è un modo di dire.” Greta fece schioccare la lingua. Sirius pensò che volesse sotterrarsi. “Okay, buonanotte!” trillò un’ultima volta, girò i tacchi e non si voltò più neanche per guardarli ricambiare il saluto.
“Con la Mappa sappiamo dov’è in ogni momento, a dire il vero” considerò Sirius, con una scrollata di spalle, non appena se ne fu andata.
“È stato strano, eh?” domandò Remus, gli occhi ancora incollati al punto in cui Greta Catchlove era sparita.
“No” Sirius inarcò un sopracciglio e cercò il suo sguardo, “no, non credo.”
“Mh.”
“Perché le hai detto di no?”
Remus aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo sul libro di Pozioni della biblioteca, ma non lesse una parola. Si succhiò il labbro inferiore in cerca di qualcosa da dire.
Gli occhi di Sirius saettarono verso il basso e il bisogno di essere lui a mordergli le labbra gli bollì nello stomaco. Serrò i pugni e si schiarì la gola per darsi un contegno.
“Non… volevo uscire con lei” esalò Remus, inclinando il viso su un lato. Il lato sbagliato.
Fanculo il contegno.
Sirius si sporse in avanti e gli posò un bacio bagnato sulla curva del collo. Remus aggrottò la fronte e si ritrasse, confuso. “C-che stai facendo?”
“Sei teso per gli esami” sussurrò Sirius al suo orecchio, osservò la sporgenza del pomo d’Adamo viaggiare su e giù sul suo collo “dovresti rilassarti un po’” propose poggiando le labbra sotto il suo orecchio.
Remus rise, incredulo. “Questa non è una scusa originale.”
“Non è una scusa” si difese Sirius, la voce un brivido. Poggiò una mano sulla sua coscia, apparentemente innocente, poi scivolò all’interno. Remus raddrizzò la schiena, un sospiro mozzato gli sfuggì dalle labbra.
“Siamo in biblioteca.”
“Appunto, e tu sei l’unico idiota che è ancora qui.”
“A quanto pare di idioti ce ne sono due” ribatté Remus, agitandosi sulla sua sedia “e potremmo non essere i soli, quindi forse…”
Sirius alzò gli occhi al cielo e fece scattare la mano verso l’alto, spazientito. Sentì decisamente scemare la voglia di Remus di contestare la loro ubicazione. Poi lo baciò, un atipico gesto affettuoso che non era assolutamente un festeggiamento per la mancata uscita con Greta Catchlove.
Assolutamente.

***
 
La Sala Grande sembrava averne divorate altre due e un centinaio di banchi erano disposti in file ordinate al posto delle tavole delle quattro Case.
Il peso di un respiro, una volta espirato, si percepiva, secco nell’aria ansiosa, crollare verso il basso e saltellare sulle corde tese del nervosismo collettivo. Peter tentò di indirizzarlo verso l’alto, osservandolo attorcigliandosi come fumo leggero tra le mura antiche e le vetrate e un soffitto che non si era mai certi di veder finire. Fasci di luce dorata penetravano come ladri su alcuni banchi, costringendo i loro proprietari a sudare almeno il doppio dei loro vicini.
Le ultime settimane erano state un tornado di emozioni e impegni che parevano già depositarsi sugli scaffali tranquilli dei ricordi. Se Peter avesse dovuto scegliere una parola sola con cui definirle avrebbe senza esitazione optato per ‘fermento’.
Tamburellò ansioso la sua piuma sul banco e osservò la clessidra piangere granelli di sabbia senza sosta e troppo veloce.
Sotto una prospettiva semplicistica, si sarebbe potuto dire che in fondo non avessero fatto altro che studiare. Il che era un po’ vero, un po’ escludeva la montagna di palline di carta, risate sommesse, sussurri incomprensibili, lacrime isteriche e momenti fenomenali anche solo per essere stati rubati al tempo dello studio. Peter aveva passato ore in biblioteca, aveva tramato qualche malefatta qua e là grazie alla Mappa, assieme ai suoi amici, ed era anche fiero di comunicare a tutti che, la notte in cui la professoressa McGranitt li aveva sorpresi a girovagare per i corridoi del castello, era riuscito, con un autentico colpo di arguzia retorica, a tirarli fuori da una punizione quadrupla seriamente invalidante, in un periodo così critico.
“Oh professoressa, deve esserci un errore” aveva replicato lui, occhi bassi e mani dietro la schiena. Con un colpo secco della mano aveva pregato che avesse dosato bene la forza sul suo orologio.
“Che vuoi dire, signor Minus?”
“Vede, ci siamo affidati a un orologio pigro” e le aveva mostrato un quadrante che segnava un’ora mancante.
La professoressa aveva puntato uno sguardo diffidente sul ragazzino e l’aveva spostato piano sui suoi accompagnatori, che si erano limitati a una scrollata di spalle ciascuno.
“Sono mortificato, non ricapiterà più” aveva promesso ancora Peter, la supplica nella voce quasi vergognosa.
La donna aveva scosso la testa rassegnata. “Oh, smettila, andiamo, in fondo sono solo venti minuti,” aveva preso una pausa, la minaccia gentile che attraversava le lenti appoggiate mollemente sul naso, “ma adesso filate a letto.”
Peter sorrise raggiante al ricordo e scribacchiò una risposta sul suo compito.
Ma l’attesa per i G.U.F.O. non era stata solo studio matto e disperatissimo e aveva assunto una piega inaspettata nell’ultima settimana. Sussurri, notizie e strane voci erano giunte alle loro orecchie ignare e nessuno era stato capace di dar loro un senso, una forma, anche solo un contenitore in cui categorizzarle.
Ombre.
Sagome nere avevano iniziato a serpeggiare dapprima innocenti nei discorsi, negli attimi di relax e nei gesti.
Complotti, schieramenti, ideali.
Poi un giorno, regolare come ogni altro, la verità più semplice e meno intuitiva era stata scritta nero su bianco sulla Gazzetta del Profeta e passata di mano in mano al tavolo della colazione. C’era da sentirsi stupidi, a rimanere sconcertati da notizie simili.

 
Il Signore Oscuro raduna le forze e punta a un esercito. Sempre più streghe e maghi, assieme a creature magiche di varia specie, si uniscono alle sue fila.

Una mattina qualunque ci si svegliava, nuove ore interminabili di studio promettevano una giornata estenuante e il giornale suggeriva al popolo che una guerra era alle porte e che il mondo magico era in fermento da ben sei anni. Le notizie di maghi famosi e pozioni promettenti spazzate via dai titoli in prima pagina e soppiantate da un dettaglio che tutti avevano deciso di trascurare per sei lunghi anni.
Due giorni dopo, a Glenda Chittock era stato concesso di tornare a casa prima della fine dell’anno scolastico. Peter poteva giurare che avrebbe ricordato per sempre gli sguardi che scambiò con James, Sirius e Remus quando seppero che era perché il padre della ragazzina era stato ucciso.
Non era morto.
Il padre di Glenda era stato assassinato.
Cinque notti portarono via quei ricordi terrificanti, la verità vigile e perenne nel retro delle loro teste, mentre i G.U.F.O. del 1976 iniziavano con la capovolta secca di una grande clessidra e un avviso sul tempo che avrebbero avuto a disposizione per concludere l’esame.
“Serve una mano?” sussurrò Remus, alle spalle di Peter.
Il ragazzo si rese conto di aver passato tutto quel tempo immerso nei suoi pensieri e di essersi morso il labbro inferiore un po’ troppo forte. Lo liberò dalla stretta dei denti e assaporò l’aroma ferroso di qualche goccia di sangue.
“Ancora cinque minuti!” la voce del professor Vitious lo raggiunse all’improvviso e lo fece sobbalzare.
“Pete, una mano?” sussurrò il ragazzo con urgenza, ma Peter scosse la testa.
Con una scrollata di spalle, Remus tornò a rileggere il suo compito, accigliato.
Ben sette banchi più avanti, James Potter si passò una mano nei capelli sconvolti e sbadigliò. Si accertò che il professor Vitious non lo stesse guardando e scoccò un’occhiata quattro banchi dietro di lui.
Sirius accennò col capo nella sua direzione e si dondolò il più fastidiosamente possibile sulle gambe posteriori della sua sedia. La ragazza dietro di lui avrebbe voluto bucargli la testa con la punta della sua piuma.
James alzò gli occhi al cielo e tornò a concentrarsi sul suo compito. L’aveva finito da un pezzo e giudicò che una sola rilettura fosse abbastanza per assicurarsi un buon voto all’esame. Iniziò quindi a tracciare sul bordo esterno del suo foglio di brutta copia sottili linee bombate. Dopo qualche attimo la sagoma rotonda assunse effettivamente i contorni di un boccino d’oro e James prese a ricalcare distratto le iniziali di Lily al centro dell’oggetto. Era patetico? Senza ombra di dubbio. Era da incoscienti? Certo. Questo non voleva dire che si sarebbe fermato.
Sospirò noia e caldo e lanciò un’occhiata rapida alla clessidra, la piuma che ricalcava lenta la L al centro del boccino. Gli ultimi granelli di sabbia si staccarono dall’ansa superiore e...
“Giù le piume!” la voce del professor Vitious corse acuta tra le file dei banchi. Mormorii ansiosi e risposte dell’ultimo minuto volarono sopra le loro teste. “Anche tu, Stebbins! Per favore, restate seduti mentre raccolgo i compiti.” Quasi ogni piuma venne appoggiata con riluttanza sui banchi. “Accio!”
Un centinaio di rotoli di pergamena piombò sulle braccia del professore. Incespicò e, mormorando incomprensibilmente, cadde all’indietro, atterrando goffo sul sedere. L’isterismo e la tensione nella Sala Grande si sciolsero a spese del professor Vitious e qualche studente scoppiò a ridere, qualche altro si precipitò con un sorriso trattenuto a dargli una mano per rialzarsi. 
“Grazie, grazie…” mormorò imbarazzato l’uomo, mantenendo comunque una discreta compostezza. “Molto bene, potete andare!” annunciò alla classe e James afferrò piuma e pergamene di ricambio, con un incantesimo rapido cancellò gli scarabocchi che suggerivano un’imbarazzante realtà sulla sua cotta per Lily Evans e ficcò gli strumenti nella cartella, aspettando che Sirius lo raggiungesse e lo trascinasse fuori dall’aula, con Remus e Peter al seguito.
“Ti è piaciuta la domanda numero dieci, Lunastorta?” domandò Sirius, poggiando un braccio sulle spalle di Remus. 
“Eccome,” rispose lui con un sorriso, la voglia improvvisa di tirare un sospiro di sollievo, “indicate i cinque segni che identificano un lupo mannaro. Un’ottima domanda.”
James ridacchiò e gli diede di gomito. “Credi di essere riuscito a individuarli tutti e cinque?”
“Credo proprio di sì,” replicò Lupin, lo sguardo perso in un certa forzata riflessione. Si avvicinarono alla calca che spingeva per guadagnare la tanto agognata uscita e qualche minuto di relax sui prati di Hogwarts, “Uno: è seduto sulla mia sedia. Due: indossa i miei vestiti. Tre: si chiama Remus Lupin.”
“Be’, io ho indicato la forma del muso, le pupille e la coda a ciuffo,” ragionò Peter, ricordando il momento in cui i suoi pensieri erano partiti per la tangente, lasciandolo con tanta ansia e poca voglia di ragionare, “però non mi è venuto in mente altro.”
Remus gli regalò un sorriso e scrollò le spalle, ma James scoppiò a ridere fragorosamente. “Ma corri in giro con un lupo mannaro una volta al mese!”
“Abbassa la voce…”
“Secondo me l’esame era una sciocchezza,” commentò Sirius, stringendosi nelle spalle. Remus per poco non soffocò quando lo vide strizzare l’occhio a una ragazza allo stesso tempo, “mi stupirei se non prendessi come minimo Eccezionale.”
“Anch’io,” convenne James, annuendo e infilando una mano nella tasca cucita all’interno del suo mantello.
Remus alzò gli occhi al cielo. “Non credete di dovermi un grazie?”
“Hai detto tu stesso che il tuo aiuto serviva a ben poco.”
Il ragazzo si limitò a guardarli, occhi freddi e labbra strette.
James e Sirius si scambiarono un rapido sguardo, poi replicarono in coro: “Grazie, Remus!”
James fece roteare il boccino in aria e, quando questo dispiegò le ali, lo afferrò al volo, prima che potesse correre per i prati verdi e immergersi nel profumo d’estate.
“E quello dove l’hai preso?” domandò Sirius, alzando un sopracciglio verso l’oggetto che reggeva il suo amico.
James ripensò ai suoi studi, alle innumerevoli volte in cui aveva chiuso lui gli spogliatoi. “Sgraffignato,” ribatté con una scrollata di spalle e sorrise tra sé quando sorprese Peter a guardarlo sconcertato, con la coda dell’occhio. Poi si diressero sicuri verso il lago come se ne avessero posseduto le acque, il Calamaro Gigante e tutte le creature che lo abitavano.
Si lasciarono cadere all’ombra di un grosso albero e Remus tirò fuori un libro che non fosse un manuale, pronto finalmente a recuperare le letture lasciate in sospeso. Lanciò una rapida occhiata a Sirius. Osservava stanco gli altri studenti del quinto anno godersi quei pochi respiri di libertà loro concessi, staccando distrattamente qualche filo d’erba ai suoi piedi. Poi si voltò, tirando su col naso, verso James, il suo boccino d’oro e i capelli a cui sembrava non venisse mai lasciata un po’ di tregua. Con una manata in testa, lo costrinse a guardarlo. “Mettilo via,” disse, accennando col capo al boccino, “prima che Pete se la faccia addosso.”
Peter alzò gli occhi al cielo, una chiazza rossa su ogni guancia e il dubbio che dipendesse dall’imbarazzo o dal nervosismo lasciato agli altri. Ma James ridacchiò e, con un’alzata di sopracciglia, rimise il boccino in tasca. “Se ti dà fastidio…”
“Mi sto annoiando,” fece presente a tutti Sirius, lasciando cadere la testa mollemente tra le spalle. “Vorrei che ci fosse la luna piena.”
Remus voltò una pagina e trattenne una risata nel naso. “Magari tu. C’è ancora l’esame di Trasfigurazione. Se ti annoi puoi interrogarmi.”
Sirius reclinò la testa all’indietro e sbuffò annoiato.
“Questo ti tirerà su,” James attirò la sua attenzione, “guarda chi c’è!”
Sirius voltò la testa di scatto e seguì come un segugio lo sguardo di James, “oh, eccellente. Mocciosus…”
Severus Piton spuntò dai cespugli poco più in là, infilandosi indaffarato alcuni fogli di pergamena nelle tasche.
“Tutto bene, Mocciosus?” domandò James, la voce troppo alta per suggerire una pace. Iniziò ad accorciare lentamente le distanze.
Piton alzò lo sguardo su di lui e, in un attimo, schiacciò le sue pergamene nella cartella e afferrò la bacchetta.
Expelliarmus!” attaccò James, prima che potesse anche solo pensare di scagliare un incantesimo per primo. Sirius rise sguaiato, aumentando il numero di spettatori a quella messinscena.
Impedimenta” pronunciò calmo, lo sfottò dipinto sui lineamenti e nella nota più alta nella voce. Lo sfortunato Serpeverde fu scagliato malamente all’indietro.
“Com’è andato l’esame, Mocciosus?” domandò James, avvicinandosi ancora e contando sul gancio che aveva lasciato a Sirius. Lo colse al volo.
“Aveva il naso incollato alla pergamena,” sogghignò, “non riusciranno a leggere una parola, con tutti i segni che ci avrà lasciato.”
Risate senza volto si allargarono attorno a loro. Remus diede un’occhiata agli spettatori, compreso Peter accanto a lui che osservava la scena con un sorriso. Alzò un sopracciglio, il dissenso sparso sul viso.
Piton sgroppò per rimettersi in piedi, ma l’incantesimo glielo impedì. “Aspetta, tu…” ansimò, gli occhi iniettati di sangue fissi in quelli affamati di James, “aspetta e vedrai!”
“Aspettare cosa?” domandò Sirius, il tono fermo, nessuna ironia e tutta la voglia di comunicargli il suo disprezzo, “che cosa farai, Mocciosus, ci userai per soffiarti il naso?”
James inclinò la testa su un lato e osservò il ragazzo imprecare pesantemente. Si umettò le labbra divertito, “Faresti meglio a lavarti la bocca,” ragionò, il tono gentile di un consiglio, “Gratta e Netta.”
Piton, ancora incapace di alzarsi, iniziò a schiumare sapone e rabbia. Ne fu sommerso, il respiro a singhiozzo, l’improvvisa necessità di inghiottire aria mentre il suono delle risate si ovattava lentamente, finché…
“LASCIALO STARE!”
James e Sirius si voltarono di scatto, le sopracciglia aggrottate mentre una furibonda Lily Evans andava loro incontro.
“Tutto bene, Evans?”
Sirius alzò gli occhi al cielo e osservò annoiato il suo amico pavoneggiarsi. Era in corso uno scherzo, dannazione!
“Lascialo stare,” ripeté lei, chiaramente disinteressata a qualunque smanceria del ragazzo. “Che ti ha fatto?”
“Be’... è più il fatto che esiste, non so se mi spiego.”
Cascate di risate seguirono la battuta, ma Lily piantò i suoi occhi verdi in quelli di James, immune alla maniera in cui lui ricambiò lo sguardo. “Ti credi divertente, Potter,” iniziò, il tono freddo, le mani sui fianchi, “ma sei solo un bullo arrogante e prepotente.” Abbassò la voce, assottigliò lo sguardo, “lascialo stare.
“E allora esci con me,” ribatté lui. Lily immaginò che non aspettasse altro che uno spiraglio per ripeterlo, “esci con me e non alzerò mai più la bacchetta su di lui.”
“Non accetterei nemmeno se dovessi scegliere tra te e il Calamaro Gigante” rispose lei, ma Piton non aveva perso tempo e aveva già preso a trascinarsi verso la bacchetta che i due ragazzi gli avevano fatto volare via.
“Ti è andata male, Ramoso,” Sirius si voltò sorridendo nel punto in cui ci sarebbe dovuto essere Piton e sgranò gli occhi. “EHI!”
Ma Piton puntava già la bacchetta contro James.
Successe tutto in un attimo.
Un lampo di luce aprì un taglio sulla guancia del ragazzo. James si toccò la ferita, si guardò le dita e, quando le scoprì insanguinate, aggrottò la fronte. Piton alzò una mano per attaccare ancora. “Ma che…” James lo fissò, lo sdegno e una domanda non posta negli occhi, “Levicorpus!” e Piton prese a penzolare a testa in giù. Dimenticò cosa diavolo l’avesse colpito nel momento in cui notò un paio di mutande grigiastre spuntare da sotto il mantello. “Oh, Mocciosus…”
“METTILO GIÙ!” gridò ancora Lily, superando gli schiamazzi e le risate di quella che era ormai diventata una folla. 
“Ai tuoi ordini!” trillò il ragazzo, scivolando con la bacchetta all’insù e riportandolo gentilmente a terra. Piton si affrettò a rialzarsi, ma il suo tentativo di rivolta fu nuovamente sventato da Sirius.
Petrificus totalus” e il ragazzo si immobilizzò.
Lily scosse la testa, le guance chiazzate di rosso e la furia negli occhi. “Lasciatelo stare!” tuonò, mettendo mano alla sua bacchetta.
James scambiò un’occhiata d’avvertimento con Sirius, poi si voltò verso Lily e parlò piano. “Non costringermi ad attaccarti.”
“Allora liberalo.”
Il ragazzo serrò la mascella, tenne lo sguardo inchiodato a quello di Lily per qualche altro istante, immobile, poi, senza rompere il contatto visivo, mosse la bacchetta in direzione di Piton e mormorò: “Finite Incantatem.”
“Ma dai…” si lamentò Sirius, un sospiro annoiato.
“Ti è andata bene che ci fosse Evans, Mocciosus.”
Piton si rimise in piedi, si spazzolò i vestiti e racimolò tutta la dignità che gli era rimasta. Tentò di mettersela in tasca e farsela bastare. “Non mi serve l’aiuto di una piccola, schifosa Sanguesporco.”
Lily lo guardò negli occhi, cercò l’amico che aveva perso in quello specchio nero e non lo trovò. Deglutì piano, la delusione che faceva a pugni con la rabbia. “Molto bene,” parlò, la voce fredda come ghiaccio e affilata come una lama, “vuol dire che in futuro non mi prenderò la briga di aiutarti. E se fossi in te mi laverei le mutande,” esitò, l’insulto sulla lingua irreprimibile, “Mocciosus.”
Sirius fischiò, ma James aveva preso sul personale la questione del graffio davanti a tutta la scuola, “chiedi scusa a Evans!”
“Non voglio che mi chieda scusa perchè l’hai costretto tu! Voi due siete uguali!”
“Cosa?” James aggrottò le sopracciglia, offeso, “Io non ti chiamerei mai una... tu-sai-cosa!”
Lily scosse la testa, un sorriso cattivo a distenderle le labbra, “Sempre a spettinarti i capelli perché ti sembra affascinante avere l’aria di uno che è appena sceso dalla sua scopa, sempre a esibirti con quello stupido boccino e a camminare tronfio nei corridoi a lanciare incantesimi su chiunque ti infastidisca solo perché puoi… sei così pieno di te che non so come faccia la tua scopa a staccarsi da terra! Mi dai la nausea.”
Detto ciò, un coro di ‘oooh’ che si staccava dalla folla, Lily gli voltò le spalle e se ne andò.
“Che facciamo?” sussurrò Marlene a Dorcas, non troppo distante da lì, indecisa se guardare James e Sirius che si consultavano, Piton che fissava il punto in cui Lily se ne era andata o la ragazza stessa.
“Dovremmo seguirla,” suggerì in risposta Dorcas, sfiorando la spalla di Mary con una mano per attirare la sua attenzione: sembrava particolarmente turbata dalla scena che si era svolta davanti ai suoi occhi.
“Che c’è?”
“La raggiungiamo?” le domandò Dorcas, avvistando Alice, qualche metro più in là, annuire e avvicinarsi.
“Sì, certo,” rispose Mary con un sorriso. Raccolse la cartella di pelle da terra e se la lasciò scivolare su una spalla.
 
“Lily!”
La ragazza si voltò verso la voce. Marlene la stava raggiungendo a passo veloce, sventolando una mano in aria.
“Ehi,” sussurrò quando le fu abbastanza vicina da notare le lacrime incastrate tra le ciglia. Lily cercò di difendersi dallo scrutinio della sua amica guardando da qualche parte alle sue spalle. Dorcas, Mary e Alice stavano risalendo la collina per venirle incontro.
“Risparmiami la storia sulla famiglia di Sirius e il buon samaritano che è stato James perché non mi interessa.”
Marlene alzò entrambe le mani e scosse la testa. “No, no,” assicurò, poggiandole infine sulle spalle dell’amica e percependo la tensione iniziare a scemare, “non sono mai stati così stronzi. Non è stato un bello spettacolo.”
Lily annuì e serrò la mascella, una lacrima corse inarrestabile a rigarle una guancia.
“Perché stai piangendo, però?”
Lily strinse gli occhi e si lasciò scappare una risata amara. “Non sto…”
Marlene alzò un sopracciglio all’istante e questo bastò a interrompere Lily.
“Lui…” Marlene passò un dito affettuoso ad asciugarle la lacrima che aveva tentato tanto disperatamente di reprimere, “mi ha chiamata…”
“Deplorevole” commentò Marlene, semplicemente, uno sguardo rapido in direzione di Dorcas e un insulto nascosto dietro i denti su quanto fosse stupida questa classificazione e questa dannatissima guerra silenziosa.
Lily fu felice di non aver avuto bisogno di spiegarsi. Fu felice di vedere la comprensione formarsi nelle iridi di Marlene e spargersi su tutto il suo viso. E fu felice anche quando lei la coinvolse in un abbraccio. Perché non poteva fare molto, ma poteva dimostrarle che non le avrebbe mai voltato le spalle.
E forse quelle erano le uniche persone per cui valesse la pena piangere.








 

 


El di Note: Così, perché secondo me fa ridere... Capite qual è il problema? Mi affidate i personaggi più burloni della saga ma le mie battute sono "el di note"... Problema vostro.
Comunque questo è l'ultimo capitolo "El cosa cazzo stai facendo", dal prossimo VOLIAMO. Però capite, Regulus ce lo eravamo lasciato un po' indietro, James aveva fatto tutta quella strategia per vincere il torneo e mi dispiaceva non farvelo vedere e c'è bisogno che sia chiara la questione tra Remus e Sirius perché come avrete potuto notare... MANCA QUALCOSA, NO? No? Ma non succede? Succede? Forse è già successo? Lo saltiamo? Non avete capito? Vabbè comunque il punto è che preferisco rallentare il ritmo della storia ma non appendere le situazioni piuttosto che correre al sesto anno e rendere quindi scene vecchie utili più o meno quanto l'autorità di Avery in questa fic. COMUNQUE, quando faccio le menzioni speciali, tipo quella che sto per fare, lo faccio in realtà solo perché mi fa piacere chiacchierare qui, cioè, non sto dando davvero crediti PERO' ci tengo a dire che i "momenti rubati al tempo dello studio" non è mia. Per nulla. La disse una mia professoressa in secondo superiore e io me la segnai su un quadernino perché questa vita la si vive a respirare le parole degli altri e mi è proprio rimasta addosso, ci penso spesso. Godetevi i momenti rubati al tempo dello studio, ragazzi, quella donna li ricordava con affetto.
Comunque voi adesso pensate "wow, hai pubblicato in ritardo e hai pure copiato mezzo capitolo dal libro"
E INVECE NO RAGAZZI, quello è stato l'inizio della fine dei miei due neuroni restanti! No, signori, perché a una certa James diceva una cosa che mi sono categoricamente rifiutata di copiare per un fatto che io non ce la facevo ed era "Ma quanto sei zuccone, Codaliscia?" eeee ci sono pure delle battute in più messe strategicamente dove Harry avrebbe potuto non sentirle guardando il ricordo di Piton. Quindi NO, NON E' STATO UNA PACCHIA, è stato tutto un pregare che non mi sballasse le caratterizzazioni dei personaggi e che non suonasse troppo fuori dal solito (capite che se il canon suona strano ho fatto un lavoro di merda, ma possiamo ritornarci nel prossimo capitolo, mannaggia tutto). Comunque ora me ne vado, onestamente a tratti mi accartoccio su me stessa e crollo quindi non oso immaginare quali schifini qui e lì ci siano. Grazie per aver atteso e letto, bbbbbelli (prego, leggere con la voce di Scorza di Nemo), GIURO DAL PROSSIMO SI AGGIUSTA UN PO', so che non è il top, ma non mi odiate :(
Oke, addio!

El.

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Capitolo 25
*** Capitolo 23 - A un mondo di distanza ***


23. A un mondo di distanza






Qualche nuvola si attardava in cielo, aliti passeggeri di tranquillità soffiavano placidi nell’aria estiva.
Per la prima volta una notizia riguardante la famiglia di Sirius – ex famiglia, ci teneva a specificare James – non fu tragica. O meglio, non nell’accezione che assumeva generalmente quella parola.
Alphard Black, silenzioso e arcigno zio di Sirius, era venuto a mancare da qualche giorno. La sua morte, però, era stata tutt’altro che muta. Il suo clangore si era manifestato sotto forma di denaro. Sul letto di morte, l’ultimo fiato in gola e una sconcertante verità, tutto quello che aveva avuto non era passato nelle braccia forzatamente devastate della sua famiglia, ma aveva incontrato le mani di Sirius e di lui soltanto. Alphard, in vita grande esempio di integrità e fedeltà alla famiglia, aveva salutato la Morte chinando il capo e poi, in ginocchio, stanco e affaticato, aveva mandato a farsi fottere tutti quelli che si era lasciato alle spalle. La generosità elargita al traditore del sangue e ricompensata con l’esplosione della sua esistenza dall’arazzo di Walburga Black.
Era difficile credere che, al di fuori di tutto quel verde e quel caldo avviluppante, potesse crescere qualcosa di così cupo e meschino come una guerra.
Almeno lì, solo per qualche minuto, con la luce che superava le palpebre e le braccia dietro la testa, James pensò che potesse concedersi il lusso di non pensarci.
Prima che potesse pentirsene si addormenò al sole, tra i fili d’erba che gli pungevano la schiena e il terreno che gli inumidiva la maglietta.

“Fottuta stronza.”
Con uno sbadiglio, James si svegliò e alzò la testa, le mani ancora incollate dietro la nuca e una ciocca di capelli che gli ricadeva sugli occhi.
“Ladra infame.”
“Sirius?”
Lui si voltò, il sudore che gli colava ovunque e i capelli appiccicati alla faccia. “Che vuoi?”
James alzò un sopracciglio, l’azione gli provocò una fitta di dolore inaspettata, come se la pelle si fosse indurita fino a diventare di carta. “Che voglio?” domandò, mettendosi a sedere. La testa gli vorticò fastidiosamente per qualche attimo, la voce ancora raschiante, “ad esempio sapere cosa diavolo ci fa un pezzo di ferro nel giardino?”
“Piuttosto alzati e dammi una mano a trascinarla all’ombra.”
James indugiò con lo sguardo tra il suo amico e la cosa, poi si alzò con un sospiro e si avvicinò. “Puzzi da far schifo,” considerò, storcendo il naso.
“Vorrei vedere te, a trascinare questa cosa per mezza Londra” si difese Sirius, cercando un po’ di disperato refrigerio alzandosi i capelli.
James si allontanò cercando di respirare il meno possibile e lo aiutò a trascinare l’ammasso di ferro all’ombra di una quercia poco più in là. “La domanda facile: che cos’è questo schifo?”
Sirius si appoggiò esausto al tronco dell’albero e squadrò la cosa con profondo orgoglio. James aspettava di capire per quale ragione. “Questa bellezza, Jamie,” iniziò un sorriso furbo che strisciava già sul viso, immune allo scetticismo del suo amico, “è una fottuta motocicletta!”
Ora, era evidente che Sirius si aspettasse occhi spalancati, sguardi adoranti e cascate purissime di complimenti, ma da James ottenne solo un sopracciglio alzato e un’occhiata rapida alla presunta moto. “Okay…” iniziò piano lui, “okay, mamma dice spesso di stare attenti alle insolazioni, ma credevo lo dicesse per non farmi correre tutto il giorno in giardino. Questo è un fottuto abominio, Felpato.”
“A giudicare dalla tua faccia starei attento a parlare di abomini e insolazioni.”
James si tastò le guance e si accigliò quando le scoprì roventi. “Vuoi dirmi che diamine è?”
“Te l’ho detto, Ramoso, è una motocicletta. Un veicolo. Dueruote. Motociclo.”
“Questo è un ammasso di rottami. Il che ci porta alla domanda di media difficoltà: dove diavolo l’hai preso?”
Sirius sorrise, canini smaglianti spuntarono oltre il labbro superiore disteso, gli occhi luccicanti di chi non aspettava altro che raccontare una bella storia di cui era protagonista. Si piantò davanti all’aspirante motocicletta e cominciò a decantare: “Camminavo per Diagon Alley per gli acquisti dell’ultim’ora, un’afa allucinante e un disperato bisogno di un goccio d’acqua. Il sole ardeva inclemente sopra la mia testa, la spossatezza mi correva nelle ve…”
“Sirius.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, abbassò la mano alzata in una caricatura di un attore nato e cresciuto in un anfiteatro. “Sono uscito su una strada babbana e sono incappato in un garage. Un tizio la stava smontando per rottamarla. Gli ho chiesto quanto volesse. Mi ha guardato come se fossi venuto ad accompagnarlo nell’aldilà. Quando ha capito che facevo sul serio me l’ha regalata.”
James sospirò e si batté una mano sulla fronte. “Non ci credo.”
“Neanch’io! Da sballo, Jamie.”
“No, non credo a quanto sei stupido.”
Sirius alzò gli occhi al cielo e si avvicinò all’amico quel tanto che bastava per piantare due mani sulle sue spalle e fissarlo negli occhi con uno sguardo a metà tra l’eccitato e il folle. “Ora ho una figlia, amico, devi capire che ho delle responsabilità. E devi darmi una mano a rimetterla a nuovo. Vorrei anche farla volare.”
“Lo sai che è illegale?”
Sirius scrollò le spalle. “Ripetimelo quando ti spuntano le corna e gli zoccoli, signor Animagus Non Registrato.”

“Non sono corna” chiarì James, più per abitudine, ma in fondo suppose che avesse ragione. Sospirò e squadrò il rottame a manubrio che aveva davanti. “Abbiamo due assi di rotazione. Uno al manubrio e uno alle ruote.” Il ragazzo sfiorò l’estremità superiore della moto. “Dobbiamo costruire il manubrio in modo da avere un effetto raddrizzante per contrastare l’attrito. Quindi ci occuperemo di misurare l’avancorsa, in rettilineo. Per il motore, invece, è un autentico casino.”
Sirius si guardò attorno perplesso, gli occhi sgranati e un’insolita certezza di non avere parole. “James…”
Lui lo guardò per un attimo, poi tornò con gli occhi sull’intruglio di ferri.
“Non ho capito un cazzo.”
“Se prendi una pietra sotto le ruote cadi, ma, se la costruiamo bene, la moto ti raddrizza.”
“Forte,” commentò Sirius, sorridendo. James non si curò di chiedergli dove diavolo si fosse procurato un cacciavite e un metro, quando li tirò fuori da una tasca, “e comunque è stata una bella mossa, forse se lo ripeti a Evans te la dà.”
“Cosa?”
“La…” Sirius gli lanciò il metro e sorrise sagace, “possibilità che desideri, ovviamente.”
Sorridendo altrettanto furbescamente, James si chinò e srotolò il metro alla base della ruota anteriore.
E così gli ultimi giorni d’estate si esaurirono tra gite a Londra per comperare pezzi mancanti della moto, ore passate a riflettere per integrare trucchi magici al funzionamento e tanto, tanto sudore e studio.

***

L’anno scolastico iniziò un mercoledì fatto di silenzi e pioggia, sotto il peso di un mantello e la consapevolezza delle possibilità che si stendevano tetre a ogni passo che compivano tra quelle mura. Il conto degli assassinii dei parenti di alcuni studenti si era esteso a sette. Il conto delle uccisioni in nome di un ideale distorto, invece, non era stato reso pubblico.
Quindi, quello che accadde il pomeriggio del 9 settembre 1976, non fu una sorpresa per Mary MacDonald, nè per nessuno di quelli che, in seguito, vennero a sapere della questione.
Camminava tranquilla per un corridoio scarsamente illuminato dalle lanterne incastonate alla parete, il soffio fresco del cielo grigio cupo che penetrava negli intagli sottili che facevano da finestra. Poi un ringhio, una risata e due figure ammantate alle sue spalle.
Mary percepì l’aria tremare, la pelle formicolare sotto i colori brillanti del suo mantello rosso, i capelli rizzarsi sulla nuca. Accelerò il passo con disinvoltura. In fondo non era successo niente, non ancora, la tensione giocava spesso brutti scherzi e la lucidità finiva sempre per pagarne le spese.
“Tu.”
Quello era Mulciber, senza ombra di dubbio.
Mary si congelò, voltandosi lentamente e sentendo le gambe diventare molli. Non c’era verso che le cose potessero mettersi bene. Ripensò a quella volta in cui si era ritrovata a combattere contro alcuni ragazzi Serpeverde nei corridoi della scuola. A Lily, che aveva lanciato incantesimi, a Marlene, che aveva preferito alzare le mani e a lei, che non aveva saputo cosa fare.
Lasciò scivolare una mano in basso, in cerca della sua bacchetta e ne afferrò l’impugnatura. La sua stretta era umida di sudore.
“No, MacDonald,” avvertì una seconda voce. Avery.
“Che volete?” udì se stessa domandare. Si maledì per il fremito nel tono, la paura che crepava il muro stretto della compostezza che avrebbe voluto fingere.
“Parlare soltanto.”
Expelliarmus,” chiamò Avery e la bacchetta di Mary atterrò con un ticchettio ripetuto alle sue spalle prima che potesse anche solo accorgersi di essere stata disarmata.
“Non mi pare che abbiate intenzione di…”
Impedimenta.
L’incantesimo costrinse le ginocchia di Mary a piegarsi, lasciandola in ginocchio alla mercé di Mulciber e Avery e qualunque cosa avessero in mente.
“Voi… siete solo dei mocciosi che giocano a fare la guerra” sputò fuori, lo sforzo nella voce mentre tentava con la sola forza di volontà di rompere i fili invisibili che la tenevano costretta carponi.
“Tu,” replicò Avery, la lingua affilata e lo scherno negli occhi, “sei solo un’inutile Sanguesporco.”
Mary trasalì, la consapevolezza del peso di un insulto simile in un momento simile che attecchiva. “Che volete farmi, quindi? Punirmi? Picchiarmi? Risucchiare la magia che mi scorre nelle vene?”
“Che insolente,” commentò Avery.
“Nelle tue vene c’è merda.”
“La stessa merda che scorre nelle vostre.”
Il volto di Mulciber si contorse dalla rabbia, i lineamenti distorti che si protendevano verso un incantesimo terribile, il peggiore che conoscesse, la punizione per un’onta che affondava le radici nell’onore del suo cognome.
“Dillo” sibilò Avery, la bacchetta puntata contro Mary, lo sguardo di ghiaccio.
“Dire cosa?”
“Di’ cosa sei. Che ti bruci la gola e ti soffochi.”
E Mary capì la parola che avrebbero voluto tirarle a forza dalla lingua. L’insulto peggiore, lettere accostate in una sinfonia dolorosa e che sapeva di ferro, di morte e, purtroppo, di futuro.
Sanguesporco.
Volevano che fosse lei a pronunciarlo.
“Dillo.”
“No.”
Mulciber sollevò la bacchetta. “Everte Statim!”
Mary fu scagliata indietro, la schiena impattò contro la pietra alle sue spalle e la violenza del colpo la costrinse a gemere. La bacchetta era troppo lontana perché il suo corpo ancora paralizzato potesse allungarsi a recuperarla.
“DILLO!”
La testa le ciondolava in avanti, assieme alla tentazione di arrendersi prima che le cose si mettessero troppo male. I corridoi erano così vuoti da permettere ai due di gridare minacce senza un solo timore al mondo.
“Ho detto che devi…”
Expelliarmus, Locomotor mortis!”
Mary si voltò di scatto, gli occhi sgranati dalla rapidità con cui la persona che l’aveva salvata scagliava formule.
“Lily.”
Lei le sorrise, mormorò un incantesimo e la liberò dalle corde invisibili di quello che adesso teneva paralizzati Avery e Mulciber.
“S-stavamo solo scherzando,” si difese Avery e Mulciber alzò gli occhi al cielo. Se avesse potuto, avrebbe senza dubbio dato una gomitata al suo compagno di merende.
“Sì, anch’io.” Lily sorrise angelica, poi scrollò le spalle. “Quanto siete bravi a liberarvi dagli incantesimi in poco tempo? Sono di ronda su questo corridoio, stasera, e il coprifuoco scatta tra cinque minuti.” La ragazza lanciò un’occhiata ai suoi piedi e inclinò il capo su un lato. “Riuscirete a tornare in tempo ai sotterranei?”
“Sporca…”
“Risparmiatelo, Mulciber,” Lily alzò una mano come a zittirlo, “io ho ancora la mia bacchetta in mano e tu sei a terra e incapace di muoverti.” Spinse gentilmente Mary e cominciò a incamminarsi verso la Torre di Grifondoro, “Potete sempre strisciare!”
Poi le due ragazze scomparvero nel buio.
 
La grossa finestra in Sala Comune lasciava passare gli ultimi aliti caldi di fine estate. Qualche libro aperto giaceva ignorato sul tavolo centrale e la maggior parte degli studenti Grifondoro stava abbandonando lentamente la stanza per raggiungere la Sala Grande per cena.
“Poi lo fai passare sotto… sì, così…” James stava mostrando a Marlene e Dorcas come eseguire quello che lui sosteneva essere un nodo da vero marinaio, ma Sirius sospettava che non sapesse neanche scrivere la parola ‘nodo’ senza sbagliare almeno tre volte. Peter, però, sembrava sinceramente impressionato dalla presunta abilità nascosta del suo amico e Remus, com’era giusto, aveva anche lui abbandonato il suo carico di studio di inizio anno in favore non di nodi da marinaio, ma di un meritato pisolino. Solo qualche ora lo separava da un’ennesima notte difficile.
Sirius spese qualche attimo paranoico ad assicurarsi che tutta l’attenzione del gruppo fosse rivolta a James, poi si voltò verso Remus e inclinò il viso su un lato, gli incisivi che affondavano nel labbro inferiore. Si sentiva un maniaco, a guardarlo dormire.
In realtà si sentiva patetico.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla linea dritta del naso, scese sulla curva umida delle labbra. Se aguzzava le orecchie riusciva a sentire il respiro regolare che gli sfuggiva di bocca e sbatteva contro il braccio piegato su cui aveva appoggiato la testa. Serrò i pugni e resistette all’impulso di sfiorargli una guancia con un dito per il puro gusto di sentire la sua pelle contro i polpastrelli.
Era da pazzi, dannazione, da ossessionati.
L’aveva toccato praticamente ovunque, nei loro insignificanti incontri ravvicinati dell’anno precedente. Incontri ai quali erano seguite fughe segrete da qualunque bagno, stanzino, classe inutilizzata in cui si trovassero. Il pensiero gli cadde distrattamente su una possibilità ai limiti dell’assurdo in cui potesse effettivamente guardarlo dormire e svegliarlo con una carezza – una sua carezza.
“Sirius.”
“Sì” il ragazzo sobbalzò e si voltò verso James come se avesse voluto spezzarsi il collo, gli occhi un po’ sgranati dalla disperata necessità di dissimulare.
James aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro, studiandolo. Se c’era uno sguardo da temere era decisamente quello di James. Spostò gli occhi su Remus per qualche secondo e il suo cipiglio si accentuò. “Che ne pensi del nodo?”
Sirius, che non aveva idea della ragione per cui si stesse comportando come un bambino sorpreso con le mani in un barattolo di crema al cioccolato, abbassò lo sguardo sull’ammasso di filo ingarbugliato che James teneva tra due dita e alzò le sopracciglia scettico. “Che fa schifo.”
Dorcas scoppiò a ridere e James alzò gli occhi al cielo, evidentemente poco meravigliato dal suo commento.
“Capisco la tua invidia” lo provocò “in fondo mentre io spiegavo il segreto per un nodo perfetto tu eri distratto a contemp…”
“Lily, Mary” Marlene interruppe il tornado disastroso che James avrebbe senza ombra di dubbio gettato inavvertitamente su Sirius. Si alzò in piedi, attenta, “che cosa è successo?”
James aveva già una battuta per stuzzicare Lily pronta sulla punta della lingua, ma si voltò di scatto, le sopracciglia aggrottate e lo smarrimento negli occhi. Marlene non aveva tutti i torti: Mary e Lily sembravano davvero scosse.
“Non siete ancora andati a cena?” domandò Mary, un sorriso forzato e debole le si aprì sulle labbra.
“James ci stava insegnando a fare i nodi da marinaio” si intromise Peter, l’idea di smorzare la tensione con la leggerezza gli parve improvvisamente poco pratica ed efficiente.
Nessuno rise.
Lily non prese in giro James per l’insolito passatempo. Abbozzò un sorriso e accennò col capo nella loro direzione: un saluto smunto. “Alice?”
Marlene si strinse nelle spalle. “Non è ancora tornata, forse si è già avviata a cena con Frank Paciock, anche se…”
Prima che Marlene potesse ipotizzare dove fosse finita la loro amica, il ritratto che consentiva l’accesso alla Sala Comune si fece da parte. I ragazzi si voltarono contemporaneamente a dare un’occhiata e Alice si fece strada all’interno della stanza, un sopracciglio alzato e una traccia di nervosismo. “Ciao” un tono interrogativo si affiancò al saluto.
James alzò una mano e accennò col capo nella sua direzione.
“Dove sei…”
“Lily,” Alice interruppe Mary prima che potesse concludere la domanda. Se fosse per urgenza o disagio, nessuno riuscì a decifrarlo. Tutta quella fretta di parlare si sciolse in una pausa tesa, “c’è Severus Piton qui fuori, chiede di vederti.”
James serrò i pugni, la voglia di scherzare su nodi e sguardi dissolta in cenere.
“Ho letteralmente appena varcato la soglia della Torre con Mary, è impossibile che non l’abbia visto.” Lily sollevò un sopracciglio, le labbra ridotte a una linea e una tensione familiare che le irrigidiva le spalle in un tremito.
“Fanatico” disse James sottovoce. Lily ricambiò il commento con un’occhiata in tralice, ma non lo riprese.
“Tu non hai nulla da dirgli.” Marlene poggiò una mano sulla spalla di Lily. Poteva percepire il suo nervosismo, ma non poteva trattenerla dal cercare di rimettere a posto le cose anche quando si sfasciavano irreparabilmente.
“Io ho un sacco di cose da dirgli” si intromise James e Lily si limitò ad alzare una mano e zittirlo.
“Non credi di aver già fatto abbastanza?”
Prima che James potesse ribattere che, no, assolutamente non aveva fatto abbastanza, il rumore infernale del tavolo della Sala Grande che strideva sul pavimento di legno si inserì nella conversazione. Sirius si stiracchiò platealmente e liberò il suo angolo di studio. Più che angolo di studio, era stato un angolo di torture. “Io...” articolò male, attraverso uno sbadiglio, “io ne ho abbastanza. Vado a farmi un giro” annunciò con un cenno a Marlene per avvertirla della sigaretta che le avrebbe rubato a momenti.
“Non ti immis…”
“Evans, non me ne frega un cazzo del tuo fidanzatino” biascicò Sirius con la sigaretta tra le labbra. Senza aggiungere altro, abbandonò la Sala Comune, straordinariamente silenzioso.
“Ma che gli prende?” domandò Mary, notevolmente sorpresa dal silenzio oltre la soglia.
“Per qualche ragione è nervoso” rispose James, in una spiegazione che non fu d’aiuto a nessuno.
Lily spezzò il silenzio con un sospiro. “Vado a parlare a Mocciosus.”
La sua risolutezza fu accolta da un’occhiata di disapprovazione di Marlene. Ma Lily non si guardò indietro neanche una volta e superò il ritratto della Signora Grassa come se quello fosse stato semplicemente un compito seccante da portare a termine.
 
Severus dava le spalle al dipinto d’accesso della Sala Comune Grifondoro. Non sapeva come sarebbe andata quella conversazione. Dannazione, non sapeva neanche se ci fossero possibilità che avvenisse! Non gli piaceva l’idea di passare troppo tempo lì davanti, non era saggio e non gli avrebbe portato altro che guai, ma era ora di cena, le probabilità che qualcuno passasse di lì erano praticamente nulle e lui aveva un disperato bisogno di fare un tentativo.
Aveva giurato a se stesso che non si sarebbe mai più azzardato a sperare né a considerare Lily parte della sua vita. L’aveva deciso quando lei gli aveva gridato di combattere, di dimostrarle che le avrebbe riservato lo stesso trattamento che lui e i suoi amici riservavano agli altri studenti Nati Babbani. Un conto era provarci, scappare da lei e da quello che significava, e un conto era farlo davvero, offenderla, ferirla.
Era quello che volevano entrambi, no? Una ragione per ignorarsi.
Ma Severus non aveva retto. Qualcosa dentro di lui si era rimescolata, un’emozione che avrebbe preferito disintegrare, uccidere, bruciare, fondere con l’efficacia certa di una pozione deteriorante. Un’emozione che non poteva permettersi di provare né di nominare.
Quando aveva capito che non poteva ucciderla, ci era sceso a patti. Non l’avrebbe rincorsa, l’avrebbe accontentata con delle scuse e l’avrebbe costretta a farsele bastare.
“Severus” il suono affilato come vetro della voce di Lily lo strappò alle spirali di incertezza in cui avrebbe preferito nascondersi. Si voltò a fronteggiarla, una maschera d’indifferenza che era e sarebbe sempre stata la sua salvezza e la sua rovina. Quel sentimento mutilato alzò la testa e provò a prendere controllo del suo corpo: gli occhi di Lily sembravano evocarlo. “Non ho molto tempo, è quasi ora di cena.”
Lui annuì e abbassò lo sguardo, le redini di se stesso sempre più scivolose. “Volevo chiederti scusa… per quello che ho detto quest’estate. Sai che non lo penso ero…”
“Lo so?” lo interruppe Lily, le braccia incrociate al petto.
Aveva veramente intenzione di ascoltarlo? Aveva, in fondo, bisogno di lui o il motivo che l’aveva spinto da lei non era che il riflesso egoista della luce che non riusciva a sfiorare?
“Lo so, che non lo pensi davvero?”
“Sì,” mormorò lui ed era una bugia che Lily non aveva bisogno di scoperchiare. “Mi dispiace.”
“Non è una formula di un incantesimo, però. Non basta a rimettere insieme i cocci.”
Severus si concesse di guardarla. Non conosceva l’esito di quella conversazione, ma conosceva il triste esito di quella storia – della loro storia. Pensò di godersi gli ultimi sguardi finché poteva concederseli. Osservò la luce fioca delle fiaccole alla parete colpire i suoi capelli in un contrasto brillante, un desiderio insano di passarci in mezzo le dita e sentirne il profumo gli arpionò la gola.
“Io non devo cambiarti, non è mio compito” proseguì lei e Severus percepì le crepe nella sua voce, “ma sappiamo entrambi come stanno precipitando le cose, come funzionano davvero e come finiranno e c’è un mondo di distanza tra me e te. Tu sei venuto a scusarti, Severus, non a riparare le cose.”
Fece davvero male, il modo in cui il suo petto si strinse a quelle parole. Fece così male che avrebbe voluto portarsi una mano al centro, stringere lì, tra le costole, strapparsi il cuore e metterglielo tra le mani.
Ma c’era un mondo di distanza tra loro e non importava quanto allungasse le braccia per raggiungerla, la voragine era impossibile da ignorare. Regalarle il suo cuore sarebbe equivalso a lanciarlo di sotto.
“È vero” ammise lui, il dolore pungente che non accennava a ritirarsi, “mi dispiace davvero, credimi Lily, da morire.”
C’era maturità, nei suoi lineamenti, la bozza tratteggiata di una grande donna che non sarebbe mai stata sua.
“Il tuo cuore è nel posto giusto, ne sono sicura” Lily gli sorrise. Fu la cosa più sincera e più triste su cui avesse mai posato gli occhi “ma non nel mondo giusto.”
Severus batté le palpebre solo una volta eppure, quando riaprì gli occhi, il ritratto della Signora Grassa si stava richiudendo dietro i capelli rossi di Lily. Diede le spalle alla Torre di Grifondoro e sperò che i suoi piedi trovassero da soli la strada per la Sala Grande.
Nel petto gli palpitavano i resti marci del sentimento più antico del mondo, l’unico che non avesse mai imparato a provare. Perché quando ci si dimentica di ricordare che forma ha la speranza, si disimpara ad amare.
 
La prima cosa che Sirius sentì, mentre lasciava scorrere lo sguardo oltre i vetri luridi del bagno maschile, fu uno scalpiccio concitato. Aggrottò la fronte e voltò lo sguardo verso la fonte del rumore. I lavabi non erano visibili da dove si trovava.
Il rumore di un rubinetto che veniva aperto e l’acqua che schizzava lo costrinsero a prendere un ultimo tiro, lanciare il mozzicone della sigaretta oltre la finestra e saltare via dal davanzale. Si fece strada fino ai lavandini e per poco non gli venne un colpo quando riconobbe la succulenta occasione vestita di nero e olio per friggere.
Si appoggiò disinvolto al muro accanto a lui e si piantò un sorriso in faccia, brillante come il lato più esterno di un coltello affilato.
“Mocciosus.”
Fu meraviglioso l’eco che il bagno produsse e fu meravigliosa la sua faccia fradicia e sconcertata, quando si voltò a guardarlo.
“Allora a volte ti lavi.” Sirius accennò col capo all’acqua che ancora si infrangeva sulla ceramica. Osservò Piton mettere mano alla bacchetta, rapido come solo chi è distrutto sa essere. Ma Sirius alzò entrambe le mani, gli angoli della bocca che si sollevavano in un sorriso ancora più grande e che non riusciva proprio a raggiungere gli occhi. “Niente magia. Perderesti.”
Severus serrò la mascella e aggrottò la fronte. “Che vuoi fare, Black? Prendermi a pugni? Parlare?” Nell’ultima domanda concentrò abilmente il veleno che avrebbe voluto fargli trovare nel suo succo di zucca mattutino. “Sappiamo tutti che non è il tuo forte, dico bene? Forse preferisci… gridare?”
E, facile com’era apparso, il sorriso di Sirius svanì. “Scusami?”
Severus annuì soltanto. Una conferma di cui Sirius non aveva bisogno. Alzò gli occhi al soffitto, in cerca di una serenità che doveva mantenere. James gli diceva sempre di controllarsi e, per quanto sapesse che non si riferiva mai a Severus Piton, quando si lasciava andare a certi saggi suggerimenti, Sirius tenne a mente quale fosse il suo posto, quella sera. E non era in quel bagno, con Mocciosus, ma nella Foresta Proibita, a scorazzare liberamente con i suoi amici.
“Devi aver pianto, vero?” Sirius alzò entrambe le sopracciglia, il suo umore inalterato.
“Hai finito?”
“Implorato?” andò avanti Severus, altrettanto indifferente, “devi aver ceduto almeno un po’, eh? Esserti mostrato per quello che sei davvero.”
Il suo cervello si spense, la mente si annebbiò e il bianco acuto e accecante del ricordo gli rovinò addosso.

“Ti è chiaro, adesso?” La voce di sua madre era bassa, impenetrabile. Non sapeva cosa vi fosse dietro e non si preoccupò di indovinarlo. “Questo è un assaggio di quello che succederà a chi sceglierà di combattere. Considerala una lezione.” Lo osservò, la luce fievole della stanza tentava di donare riflessi al buio dei capelli di lei: non conquistò neanche un tenue bagliore. “Hai capito, adesso?” domandò ancora, paziente.
E Sirius, a dispetto del suo orgoglio e del suo coraggio, annuì.

Espirò, come se fosse stato calmo. Non si era mai sentito così lucido quando era fuori controllo.
“Non siamo tutti dei cagasotto inetti come te.”
“Oh, quindi ne vai fiero? La consideri una medaglia, un premio? Ti senti importante e realizzato perché tu e i tuoi amici scappate di notte a fare le vostre strane cose? Credi che io non me ne sia accorto?”
“Certo che te ne sei accorto, sempre col becco negli affari degli altri.”
“Non cerco di essere qualcuno che non sono.”
Sirius si morse l’interno della guancia, un sorriso scettico gli si dipinse in volto. “Fammi il piacere. Come ti fa sentire sapere che non metterai mai le mani nelle mutandine di Lily Evans?”
Severus digrignò i denti e Sirius giurò di poterli sentire stridere. “E a te come fa sentire andare in giro con quel reietto di Remus Lupin? Cos’è, ti fa pena perché è chiaramente malato? Il tuo grande gesto di ribellione?”
Sirius sentì decisamente anche i suoi denti stridere e la sensazione che ne derivò lo fece quasi ondeggiare nell’aria. Non gli importava di far sapere a Severus Piton che le sue parole non erano vere, che aveva degli amici perché era capace di provare amore e lealtà, che la vita se l’era guadagnata e che le sue erano scelte e non capricci. Gli importava solo di non essere lui, a crederci. Aveva annuito, in fondo, c’era stato un momento brevissimo in cui aveva dato ragione a sua madre, in cui si era tradito e tradire se stessi significava anche mentire a se stessi. Tutto ciò che riuscì a capire, in quel momento, fu soltanto che Severus Piton non aveva alcun diritto di sfiorare certe corde e pensò che dovesse pagarla cara e che si meritasse di conoscere la vera paura. “Muori dalla voglia di saperlo? Ti posso accontentare, Mocciosus, è il tuo giorno fortunato.”
Severus lo guardò. Erano vicini, un movimento e avrebbe potuto colpirlo, ma qualcosa nello sguardo di Sirius gli disse che non stava bluffando.
“Il Platano Picchiatore ha un nodo sul tronco che lo immobilizza. C’è un passaggio che porta alla Stamberga Strillante. Vieni a dare un’occhiata stanotte, dopo le dieci.” Gli diede le spalle, la porta del bagno gli sembrava lontana anni luce da lui, ma in qualche modo la raggiunse, si bloccò sulla soglia e disse: “Ricorda di portare un paio di mutande in più per quando te la farai sotto.”
Poi si lasciò alle spalle Severus Piton e le sue bugie.
 
Particelle di polvere fluttuavano nell’aria rarefatta della Stamberga Strillante, assieme a frammenti di tensione. James aggrottò la fronte e respirò quell’aria marcia come se avesse potuto fiutarne la fonte. Remus respirava pesantemente in un angolo: non era sicuro se tentasse di regolarizzare il battito o se sentisse dolore, ma sapeva che per il momento sarebbe stato meglio lasciarlo stare.
Era normale, ordinario, abitudinario.
Ma qualcosa non quadrava. Loro si divertivano, solitamente. Per James, Peter e Sirius quei momenti erano di preparazione al senso di libertà e all’aria pulita che sarebbe seguita.
Non quella sera, però. L’aria era pesante, la trepidazione assente, le mascelle serrate. Si lasciò travolgere solo per un attimo da quel nervosismo e gli venne voglia di mettersi a urlare.
La sua attenzione fu catturata da Remus, che con un grugnito si spogliò. James sapeva che la sensazione di essere a disagio nella sua stessa pelle tendeva a sopraffarlo, correndo in un formicolio snervante e facendogli provare un caldo infernale. Lanciò un’occhiata a Sirius. Fissava Remus come se avesse potuto attaccarli da un momento a un altro. “Ma che succede?”
Sirius aggrottò la fronte, ma non distolse lo sguardo. “Credo manchi poco” ribatté assente.
Remus scosse la testa, frenetico, prendendo a misurare la stanza con passi veloci e irregolari. “Non lo dite” la voce sanguinò in un ansito.
“Respira” lo incoraggiò Sirius, seduto sull’orlo di una sedia dalle gambe mangiucchiate dai tarli e dal tempo: era un miracolo che stesse in piedi.
La premura in genere non gli riusciva bene come la sfrontatezza, ma James notò la nota distante nel suggerimento. Aggrottò la fronte e cercò di ricordare in che altra occasione l’avesse visto così vuoto. James fu distratto da Remus, che batté un pugno contro un muro. Le tegole vibrarono sotto le sue dita. C’era da angosciarsi anche solo a guardarlo. Per completezza, James lanciò un’occhiata all’angolo più lontano della stanza: non c’era differenza tra il colorito di Peter e quello di un lenzuolo.
“Remus” Sirius alzò lo sguardo su di lui, fermo. “Respira.”
Ma James lo capiva. Eccome, se lo capiva. Non era sicuro neanche lui che nella stanza ci fosse ossigeno a sufficienza per tutti e quattro. Gli venne quasi voglia di trasformarsi e sperare che così il tempo scorresse più in fretta, che la Foresta fosse più vicina, la libertà più accessibile.
Manca poco, si ricordò. Un istinto poco scientifico, ma supportato da oltre un anno di abitudine.
Ma il suo istinto fallì, perché non mancava poco.
Remus alzò la testa di scatto e puntò gli occhi sulla porta, un fascio di nervi e preoccupazione. Increspò le sopracciglia e deglutì a vuoto. Sirius si alzò di scatto dalla sedia maciullata e trattenne il fiato per qualche secondo. “Che c’è?”
“Un rumore… un odore.”
Poi successe tutto in pochi secondi.
Remus si accasciò a terra e si lamentò. Un segnale che era sempre stato chiaro e semplice e in seguito al quale i ragazzi si trasformavano. Ma James attese qualche altro secondo, registrò la forma da roditore di Peter, ma incontrò gli occhi ancora molto umani di Sirius. Lui scosse la testa e aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
James ricordò all’istante l’ultima volta che l’aveva visto così: al rovescio, a casa sua, mentre disfaceva i bagagli dopo l’ultima notte infernale a Grimmauld Place, le parole che si accavallavano in un’accozzaglia di insensatezze che James aveva ritenuto più giusto mettere a tacere.
Che le avesse imbottigliate?
“Che hai fatto?”
Sirius lanciò un’occhiata a Remus e non guardò James negli occhi quando rispose: “Era uno scherzo, io non pensavo...”
James percepì i secondi scrosciare e un suono più distinto al piano di sotto. “Che. Hai. Fatto?” scandì e l’ansia gli divorò i polmoni quando sentì le ossa di Remus spezzarsi.
“Mi dispiace.”
Se c’era una sola possibilità che quella notte non finisse in una tragedia, il merito era tutto della capacità d’analisi sotto pressione di James. “Okay, vattene.”
“Col cazzo.”
James lanciò un’altra occhiata a Remus e gli si rimescolarono gli organi interni. “Non era una domanda. Te ne devi andare adesso.”
Ma Sirius si limitò a guardarlo, qualcosa negli occhi che James non sapeva più leggere.
Ci furono dei secondi in cui James non pensò assolutamente nulla: né a cercare un modo per risolvere quella situazione, né alla pressante consapevolezza che mancassero venti secondi alla sua morte, né agli innumerevoli scenari possibili che avrebbero potuto verificarsi in seguito a un solo suo movimento.
E non pensò a nulla neanche quando lanciò un’occhiata a Remus – che non era più Remus – e la parte più istintiva di lui maledisse la sua condizione, le notti che avrebbero potuto passare a dormire, i mille attimi di pace che non si erano mai potuti concedere in nome di una luna che sorgeva e una maledizione che si compiva. La maledizione di Remus, sì, come no, anche la sua. Un pensiero nella forma appuntita e innocua di uno spillo, un fulmine dettato dalla rabbia, ma bastò a farlo sentire in colpa. Se ne pentì e si decise a mettere a posto le cose, il peso di un ruolo che forse non voleva più ricoprire.
Si fiondò oltre la porta e seguì i rumori sempre più vicini di uno scalpiccio, un respiro irregolare. Poi incontrò gli occhi del loro proprietario, iridi che aveva odiato per sei anni e che adesso lo guardavano allarmate e vagamente diffidenti.
Severus Piton.
“Potter, cosa sono questi…”
Una botta sulla porta ricordò a James che non c’erano chiavistelli e serrature all’esterno, che era una porta blindata solo se la si chiudeva. “Te ne devi andare adesso.”
Severus alzò un sopracciglio e allungò il collo su un lato. “Che state facendo?”
James lo ignorò, corse verso la porta e si piantò con la schiena contro di essa: non poteva mascherare l’odore a un lupo, ma poteva chiudergli la porta in faccia. Un altro colpo gli mostrò l’abisso che c’era tra le loro forze, la sua schiena lasciò il legno per qualche secondo. “Se non te ne vai moriamo entrambi, credimi.”
“Questo è un altro dei tuoi giochetti?” Severus – che fosse maledetto anche lui – l’aveva seguito.
No, Mocciosus, questo…”
E poi la possibilità che, se fossero entrambi sopravvissuti a quella notte, il segreto di Remus rimanesse al sicuro, sfumò quando un ululato squarciò la tensione. E l’amplificò.
Severus sgranò gli occhi, la realizzazione sparsa sui lineamenti. James si sporse in avanti per spingerlo il più lontano possibile e perse la presa già insufficiente sulla porta. Questa si spalancò con quello che nei ricordi di James si sarebbe trasformato in un boato.
Questa volta bastò una mano sul petto per convincere Severus a correre. James lo seguì, spingendolo via con una mano tra le scapole. Notò con la coda dell’occhio un cane e un topo cercare di trattenerlo, ma prestò decisamente più attenzione alle zanne del lupo. Abbandonarono la Stamberga Strillante e si infilarono nel passaggio stretto che portava al Platano Picchiatore. James lo afferrò per un polso e iniziò a trascinarlo in un buio che conosceva meglio di lui, lo schiocco di una mandibola che li seguiva a distanze ogni volta diverse.
Quando Severus si voltò a dare un’occhiata, inciampò in un arbusto. La presa di James gli impedì di cadere, ma non lo fermò dal perdere l’equilibrio. “Cosa diavolo…”
“Corri!”
Ma il lupo aveva guadagnato metri importanti. Scattò in avanti, un futuro fatto di sangue e arti mozzati si sovrappose alla visione di James. L’istinto su una scena disgustosa ebbe la meglio e, prima che potesse pensare all’avventatezza delle sue azioni, spazzò con un braccio l’aria davanti alla gola di Severus e impattò contro qualcosa di aguzzo.
Artigli, realizzò quando una fitta si irradiò come fuoco nell’avambraccio, sentì qualcosa di caldo colare sulla pelle.
James voltò le spalle al lupo e si trascinò Severus dietro. Affondò l’altra mano in una tasca e la strinse attorno alla sua bacchetta. “Impedimenta!” gridò alle sue spalle, il sangue rendeva la presa appiccicosa e mille volte più inquietante, ma l’incantesimo andò a segno. Il lupo rallentò fino a renderli più veloci.
Fuoriuscirono dal passaggio del Platano Picchiatore qualche secondo dopo, l’aria fresca della primavera in netto contrasto con il terrore e il sudore di qualche attimo prima. James sbatté il pugno contro il tronco dell’albero e una scossa gli attraversò di nuovo l’avambraccio, gli parve di sentirlo vibrare. Represse un gemito e osservò il Platano immobilizzarsi come se fosse sempre stato un albero dal carattere docile.
“Piton.”
Il ragazzo era pallido sotto la luce della luna. Più pallido del solito. James lasciò andare finalmente il suo polso e trasse un respiro profondo.
“Prova a raccontare a qualcuno quello che è successo stanotte e alla prossima luna piena ti ritrascino qui.” La voce stanca non intaccò l’efficacia della minaccia.
“Lui è…” Severus gesticolò alle loro spalle e James seguì il suo pollice con lo sguardo, “è un mostro! Perché tu eri lì?”
Un moto di rabbia gli arpionò lo stomaco all’insulto e c’era una possibilità che ad alimentarlo fosse l’idea che l’avesse pensato anche lui, solo per un secondo, quando le sue unghie gli avevano aperto uno squarcio sul braccio sinistro. “Fare domande ti ha letteralmente portato quasi a morire, davvero hai ancora la forza di farne?” sputò fuori, acido.
“Perché l’hai fatto?” domandò invece Severus, gli occhi che crollavano irritati sul suo braccio.
James si strinse nelle spalle. “Mi stai sul cazzo, ma l’idea di vederti divorato da un lupo mannaro mi fa un po’ senso.”
Severus distolse lo sguardo e mormorò una protesta sul fatto che l’avesse fatto solo per paura di venire espulso.
James alzò un sopracciglio e si chiese se non avesse commesso un errore a salvargli la vita, qualche minuto prima. “Come ti pare. Non so per quanto durerà l
effetto di quell’incantesimo su un lupo, quindi mi fai il piacere di smetterla di ficcanasare e te ne vai?”
Severus gli regalò un’occhiataccia ben piazzata. Notevole, in fondo, per uno che ci aveva quasi rimesso la pelle. Poi gli diede le spalle e iniziò a correre verso il castello di Hogwarts.
“E ricorda cosa succede se vengo a sapere che c’è qualcun altro che lo sa!”
Severus non si voltò mai indietro.
Con un sospiro, James alzò lo sguardo sulla luna e si figurò la forma di un cervo da qualche parte, nella sua testa. Sentì le sue percezioni cambiare, i colori smuoversi, il respiro diverso, una zampa anteriore inaffidabile. Lasciò spaziare per qualche altro secondo lo sguardo davanti a lui, poi un fruscio del Platano Picchiatore lo esortò a rientrare nel passaggio.
James ignorò il lupo che incrociò lungo la strada e trottò come se nulla fosse fino alla Stamberga Strillante. Individuò la porta di ferro, oltrepassò l’uscio e la chiuse con violenza con uno zoccolo. Poi tornò nella forma di un ragazzo – più comoda e adatta alla comunicazione – e iniziò a chiudere la metà di quei chiavistelli, dando le spalle al resto della stanza. Non aveva bisogno né degli occhiali né tantomeno degli occhi per capire che non era più il solo essere umano in quelle quattro mura.
“Peter dov’è?” domandò a Sirius, dandogli ancora le spalle.
“Da qualche parte lungo il passaggio.”
James annuì e il silenzio si intromise nell’aria tra di loro.
“Abbiamo cercato di trattenerlo, ma non ci ha dato retta, ho…”
“Avete fatto bene, ci ha salvato la vita.”
Il silenzio calò di nuovo, finché James non giudicò il numero lucchetti chiusi sufficiente, poi si voltò verso Sirius, che abbassò lo sguardo sul suo braccio e sgranò gli occhi.
“Ora però vattene.”
“Non è un morso, vero?”

“Sirius, te ne devi andare.”
“So che ho fatto una...”

“Non te lo sto chiedendo!” gridò lui. Serrò i pugni e strinse i denti. “Sono a tanto così dal tirarti un pugno, quindi adesso apri questa porta, ti trasformi, vai da Madama Chips per quei graffi e se non stai morendo dissanguato torni a letto a dormire.”
Lui lo guardò per qualche secondo, una dignità miracolosamente intatta che a James fece salire il sangue al cervello.
“Sirius…”
“Ho capito, va bene.” Alzò entrambe le mani e superò James fino a raggiungere la porta, poi si mise a sferragliare con i pochi lucchetti che il suo amico aveva assicurato. Quando ebbe finito, si lanciò un’occhiata alle spalle e riconobbe gli occhi scuri e ostili di un cervo. Sospirò, cedette il passo alla sua forma canina e lasciò che James gli aprisse la porta con un corno che non era un corno.





 
Di Note El: Ciaaao, è ancora febbraio sono intoccabile!
Vorrei chiarire che studiare un po' di fisica non ti fa costruire una moto, purtroppo.
In questo capitolo ci sono BEN DUE battute sessiste (SCANDALO!) fatte da BEN DUE personaggi positivi (S C A N D A L O). Ho notato che questo è un tema che a quanto pare va chiarito e quindi vi dico che quello che dicono i personaggi in una storia NON rispecchia necessariamente i pensieri dell'autore e, in questo caso specifico, vi assicuro che non rispecchia i miei! Non ci dovrebbe essere motivo di dirlo e invece a quanto pare c'è, quindi pace. Tipico aneddoto senza il quale non riesco proprio a concludere un capitolo: James inizialmente veniva morso... Proprio l'apice della mia stupidità. Capite, l'aveva morso, un branco di lupacchiotti, volevo creare. Bene così, per fortuna me ne sono accorta e mi sono insultata. Benvenuti nella parte che più detesto di questa storia, ci sono stati momenti di pigrizia in cui la volevo proprio saltare, ma no, noi siamo sposati con questa storia e dunque "in salute e in malattia", ragazzi. Che Sirius abbia un autopilota idiota in testa non ci piove e io amo dire che è cretino perché è vero. Questa cosa però mah, io non l'ho mai capita, quindi ho cercato di renderla il più plausibile e IC possibile e spero che vi sia parsa fluida, non so se mi spiego, credibile. E questo è tutto, bella gente. Il motivo per cui 'sta cosa è successa non al quinto anno è che mi sembra cinquemila volte meglio per la coerenza della crescita di James e quindi mi sono aggrappata al cavillo "Sirius ha sedici anni quando succede".
That's all, scusate il ritardo, ma ero rimasta indietro con i capitoli, ho avuto ben due crisi esistenziali e ho passato varie sere a piangere anche il cervello appresso a un libro. Grazie millemilah per essere ancora qui, amici, è un piacere rubarvi tempo prezioso <3
A presto!

El.

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 24 - Verità scomode ***


24. Verità scomode







Una pozione gorgogliava in un angolo dell’ufficio. Bolle d’aria dalle forme irregolari salivano in superficie annoiate, assonnate come segreti promessi al mattino. James si passò una mano tra i capelli, facendo pressione con le dita sulla testa.
Non seppe riconoscere il momento esatto in cui un frusciare d’abiti gli segnalò la presenza del preside alle sue spalle, ma un istinto che si era allenato così bene a reprimere, tra detenzioni e disturbi durante le lezioni, si fece rapidamente strada sulla sua spina dorsale, costringendolo a raddrizzare la schiena e assicurarsi che le maniche del mantello non fossero in disordine.
La soggezione gli impedì di darsi del perdente.
Il professor Silente si sedette all’altro capo della scrivania, un luccichio di pacata ironia nello sguardo. Giunse le mani davanti a sé e inclinò il viso su un lato. “Volevi vedermi?”
James annuì deglutendo e, un attimo dopo, trovò il suo assenso un po’ scortese. “Sì, volevo… Volevo vederla” rettificò, passando distrattamente una mano sul braccio sinistro. Alcune fitte partivano dal gomito e si irradiavano ancora per tutto l’avambraccio, innescate dal semplice sfregamento degli abiti. Gli occhi del professore saettarono sul suo braccio coperto, poi tornarono nei suoi. James ebbe la sensazione che in qualche modo sapesse.
“Dimmi pure” un cipiglio attento sostituì quella luce leggera nel suo sguardo. La rapidità mise James a disagio e lo esortò ad arrivare subito al punto per lasciare quell’ufficio il prima possibile.
“Ieri notte c’era la luna piena.”
“E… hai scoperto qualcosa di interessante?”
James scosse la testa e distolse lo sguardo. “So da quattro anni che Remus Lupin è un lupo mannaro.”
Il preside non parve sorpreso. Per un attimo James si chiese quanto del bosco si vedesse dalle finestre del suo ufficio, se il loro raggio fosse ampio abbastanza da includere anche un cervo, un cane e un topo.
Rabbrividì.
“Severus Piton l’ha scoperto e mi chiedevo se potesse… parlargli, sa, costringerlo a non raccontarlo in giro.”
Silente alzò un sopracciglio e James pensò di dover decisamente aggiustare il tiro.
“Non voglio che la notizia si diffonda e Remus venga espulso. Non se lo merita e non ha mai fatto niente di male. La comunità magica non è esattamente gentile con i lupi mannari…” disse, un’aggiunta che premeva ancora sulla lingua: “soprattutto non in questo periodo.”
Alla sottile menzione della guerra, il professor Silente alzò le spalle e la leggerezza e l’ironia tornarono a illuminargli le iridi chiare. “Incredibili, le cose che si possono scoprire da soli!” commentò con scioltezza, James riconobbe il sarcasmo, capì che fosse diretto a Mocciosus e, per quella volta, decise che sarebbe stato meglio non porsi troppe domande. “Non hai nulla da temere, me ne occuperò io.”
Il tono del preside era rassicurante, gentile come se gli avesse chiesto di spalmare il burro su una fetta di pane. James decise che era arrivato il momento di filarsela. “Grazie mille” disse, il tono chiaro e diretto come quello di un generale, poi puntò alla porta del suo ufficio e si voltò solo per congedarsi: “So che ha altro a cui pensare, quindi scusi per il disturbo” concluse, aprendo la porta con un sorriso imbarazzato e sgusciando all’esterno.
Scorse solo un sorriso sul volto dell’uomo, prima di richiudersi la porta alle spalle, per niente parente di quello che gli aveva regalato James. C’era lungimiranza, nei suoi occhi, il riflesso di qualcosa che vedeva in lui e che James non aveva ancora scoperto. Non sapeva cosa si aspettasse da lui, ma quel sorriso gli fece venir voglia di scoprirlo.

***
 
L’aria estiva di settembre aveva ceduto il posto a una sfumatura più frizzante. All’inizio, Remus aveva notato le coperte tese sui letti vuoti di un’infermeria che si svegliava in ritardo, assieme a lui. Aveva stretto gli occhi e, nel momento esatto in cui l’intorpidimento aveva lasciato il posto agli altri sensi, l’aveva sentito. Un ronzio sottile, che aveva quasi i tratti di una carezza, gli fischiava nelle orecchie. Pensò che fosse troppo presto, che James, Sirius e Peter stessero recuperando qualche ora di sonno prima delle lezioni. Seppe di avere torto quando voltò la testa e trovò gli occhi scuri e stanchi di Peter che lo fissavano.
“Buongiorno” lo salutò il ragazzo, una nota tesa nella voce. Remus lo conosceva abbastanza da sapere che era lì da un po’ e che aveva sperato con tutto se stesso di non trovarsi da solo ad accoglierlo, al momento del risveglio. Per un attimo si dispiacque, considerò l’idea di dargli le spalle e continuare a dormire per salvarlo dall’imbarazzo. Poi un pensiero facile, semplicissimo, davvero evidente gli rovinò addosso: Perché dovrebbe avere paura di parlarmi?
Abbandonò l’idea della farsa e aggrottò le sopracciglia. “Buongiorno, Pete.”
“Come stai?” il ragazzo gli rivolse un mezzo sorriso. Remus apprezzò l’affetto nascosto dietro la preoccupazione.
“Come ogni volta…” Remus ridacchiò, furbo “una pezza.”
Ma Peter non rise con lui.
Remus seguì a quel punto un calcolo molto efficiente, che la parte di lui che non voleva problemi avrebbe rimpianto nei due mesi a seguire: cinque anni di amicizia erano un po’ troppi per perdersi in convenevoli quando l’elefante nella stanza minacciava anche di raderla al suolo. Quindi Remus si fece forza, in ogni senso, e si mise a sedere, appoggiando la schiena sui cuscini soffici del letto che Madama Chips gli aveva praticamente regalato e che, di tanto in tanto, adornava con cuscini extra (il cielo benedicesse quella donna). “Pete…”
Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui, un terrore negli occhi che costrinse Remus a leccarsi i denti e sperare ardentemente di non sentire il sapore ferroso del sangue. Si lasciò scappare un sospiro di sollievo quando non ne percepì.
“Che è successo? Dove sono tutti?”
Peter abbassò lo sguardo sulla rete della brandina. “Sirius ha detto per scherzo a Piton come superare le misure di sicurezza della Stamberga Strillante, poi James ha salvato Mocciosus da…” si interruppe. 
Da me, pensò Remus, il respiro gli si bloccò come un tappo in gola.
“Ora Sirius è in dormitorio e James sta parlando con Silente perché Piton non dica a nessuno quello che ha visto.”
Esattamente quando Peter pronunciò l’ultima sillaba, le porte dell’infermeria vennero socchiuse sfregando sulla pietra grezza. Sirius infilò la testa nella fessura tra i due battenti, li individuò e sgusciò all’interno.
E Remus non seppe cosa pensare.
Era completamente e irrimediabilmente smarrito. Le parole di Peter non si erano ancora legate tra loro a formare una storia che avesse senso, ma la parte più profonda di lui le aveva già messe insieme e provava immensa delusione.
Peter lo salutò con un cenno del capo e, se Remus iniziava a capire i contorni degli avvenimenti che non ricordava, al contrario le emozioni e i pensieri degli altri gli erano totalmente ignoti. E avrebbe voluto disperatamente venirne a conoscenza, perché lui non era capace di farsi da solo un’idea.
“Be’,” Peter ruppe il ghiaccio e azzardò un altro sorriso. Quello era disagio, Remus lo sapeva, e non c’era verso che un sorriso di circostanza diventasse contagioso, “scherzavo, Sirius non è in dormitorio.”
“Riguardo a ieri…” iniziò lui, avvicinandosi. Il ronzio che l’aveva svegliato tornò a invadergli le orecchie. Remus avrebbe voluto chiedergli scusa, per qualche ragione. Non sapeva esattamente perché, voleva solo che tutto quel sovraccarico finisse “è stato davvero… stupido. Molto stupido.”
Peter alzò le sopracciglia e lo guardò. “Questo è… tutto quello che ti è venuto in mente in dieci ore?”
Remus si aspettava che Sirius gli intimasse poco gentilmente di farsi i fatti suoi, ma lui si limitò a mordersi l’interno della guancia e annuire. “Più o meno. Cioè, mi dispiace, dico sul serio.”
Remus annuì, non fu sicuro di averlo sentito, ma trovò la forza di rispondere. “Perché l’hai fatto?” e non era un’accusa, non c’era traccia di polemica nel suo tono, non cercava alcuna miccia, non aveva intenzione neanche di sfiorarla, nonostante Sirius ne fosse pieno. Era genuinamente curioso. Remus aveva creduto per cinque lunghi e bellissimi anni di non meritare i suoi amici, ma non aveva mai, neanche una volta, messo in dubbio la loro sincerità. L’idea che potessero volergli davvero bene gli veniva facile, quando gli parlavano, gli spedivano lettere e anche quando lo prendevano in giro. Se c’era qualcuno che credeva che gli altri aspettassero solo una scusa per abbandonarlo non era lui, non era James e non era neanche Peter.
“Mi ha provocato, non lo so, non riuscivo più a pensare...” Sirius mosse una mano a imitare qualcosa di non ben definito che si agitava nella sua testa. Lasciò cadere lo sguardo su Peter e optò per un’altra risposta. “Ho sbagliato, scusa, sono un coglione.”
E Remus pensò che fosse proprio un coglione e che l’avessero scampata proprio grossa, ma che, in fondo, nessuno si fosse fatto male alla fine. Più che semplice, era un’idea semplicistica, ma Remus non se la sentiva di fargli la guerra. Non perché non ne avesse voglia o perché fosse ancora troppo stanco dalla luna, ma perché non aveva capito cosa pensare. Li aveva messi lui in quella situazione, dopotutto. Certo, non aveva mai espresso il desiderio che mettessero a punto illegalmente una delle trasformazioni più difficili del mondo magico, ma gliene era stato grato, aveva concesso loro di avvicinarsi, conoscerlo e volergli bene. Se erano finiti in quella situazione era colpa sua. Colpa sua che gliel’aveva permesso, che non aveva previsto il rischio estremamente elevato che qualcosa andasse storto, che non aveva accettato che la sua vita era segnata e si era concesso di ambire a qualcosa di più. Colpa sua, in fondo, perché era lui il lupo ed era dunque lui che aveva attaccato i suoi amici. Questo era incontestabile.
Prima che Remus potesse scusarsi a sua volta per essere se stesso, le porte dell’infermeria si aprirono di nuovo. Questa volta, però, non vennero socchiuse, ma furono spalancate.
“Oh, scusate, ho interrotto qualcosa?”
Ora, Remus non aveva ancora visto James dalla notte precedente e a dire il vero non aveva ancora mai visto James così.
“Immagino la simpatica canzone del ‘non pensavo’.”
Remus invidiò tutti i giri di parole che non aveva preso. Sirius si limitò a guardarlo negli occhi e non fiatare e Remus invidiò anche lui per la compostezza.
“A me non importa se tu hai una fogna al posto della bocca, non puoi considerarla il tuo salvagente, non esiste che tu dica semplicemente che sei fatto così perché le cose non sono sempre così facili.”
Remus pensò che una scenata nell’infermeria della scuola fosse l’idea migliore per peggiorare la situazione, così prese parola timidamente, certo del fatto che sarebbe stato ascoltato. “Lo sappiamo tutti che è fatto così, però, non dovremmo aspettarci che…”
James non lasciò gli occhi di Sirius, ma puntò un dito in direzione di Remus e questo bastò a interromperlo. “Lo vedi qual è il problema? Che lui è capace di prendersi la colpa! NON È COLPA SUA!”
“Non ho provato a dire che fosse colpa sua!” E una parte di Remus fu felice di vedere un’emozione addosso a Sirius e non una pacata e attenta diplomazia.
“Lo so che evidentemente non ci hai neanche pensato, ma ti faccio presente che se avessi tradito un’altra persona saresti morto sul posto.” James alzò il braccio destro e accennò col capo in direzione di Peter. Remus non comprese il riferimento, ma provocò un’alzata d’occhi da parte di Sirius. “E te lo faccio presente perché il pensiero non ti ha neanche sfiorato e io lo so!”
“COSA VUOI CHE FACCIA?” Sirius allargò entrambe le braccia, “mi dispiace e dico davvero. Vuoi che mi faccia una calata nell’inferno? Che cammini per un giorno sugli spilli? Mi dispiace! So di aver sbagliato, non mi serve che me lo venga a dire tu, l’ho rimpianto nell’esatto momento in cui l’ho detto, ma non posso tornare indietro.”
James scrollò le spalle. “Un giorno ti ammazzerà, questo modo di fare” replicò pacato, ma notò la scintilla nello sguardo di Sirius.
“ANCHE TU! Anche tu finirai ammazzato da questa stupida voglia di salvare tutti. Non puoi farlo, dannazione, non sei un santo, hai i tuoi fottuti difetti e sono una montagna.”
“No” James scosse la testa e aggrottò le sopracciglia, come se una parte di lui non comprendesse le parole che stava per dire. Si prese una pausa, se avesse avuto un guinzaglio per impedire alle parole che gli premevano sulla lingua di farsi strada fino all’aria tra di loro l’avrebbe tirato e non le avrebbe pronunciate, ma non riuscì a trattenersi dall’aggiungere: “io aggiusto quello che rompi. Perché non c’è niente che tu riesca a non mandare a puttane.”
James si morse un labbro e quella nube di collera gli impedì di capire quanto di quello che aveva detto rispecchiasse i suoi pensieri e quanto fosse solo volto a ferirlo il più possibile.
Sirius aprì la bocca per parlare, la richiuse confuso, poi annuì e inspirò nella forma cordiale di un congedo.
“Questo è davvero stupido…” commentò Remus. E lo pensava, lo credeva con ogni fibra del suo corpo. Era stata tutta una grande colata di stupidità, ma non era stata inutile, perché una parte del punto di James aveva fatto notare a Remus quanto avesse avuto torto ad essersi davvero addossato la colpa di tutta quella vicenda. E in mezzo a quell’imbarazzo totalizzante che non era che il riflesso della nullità che credeva di essere, Remus riuscì a trovare una miccia per accendere la sua, di rabbia. Una miccia che ardeva e che era esplosa, ma che gli aveva lasciato abbastanza cervello per ricordare quanto buio potesse essere il proprio baratro e quanto non augurasse a Sirius di visitare il suo così.
Sirius si voltò verso Remus, sembrava appena disorientato. “Prima che… Puoi dirmi chi è?”
James scambiò un’occhiata confusa con Peter e Remus aggrottò la fronte, scrutandolo smarrito. “Non ho capito.” Odiò la durezza nel suo tono, ma non riuscì a trattenerla.
Sirius si umettò le labbra e annuì. “Sai la…” arricciò il naso e tirò su. Remus aggrottò la fronte, sembrava il gesto che si faceva quando si cercava di captare… un odore.
La realizzazione gli crollò sulle spalle in un modo che non gli piacque. L’Amortentia, gli stava chiedendo che odore avesse per lui!
“Forse non è il caso di parlarne adesso.”
“Remus, devo saperlo. Sto impazzendo.”
Ma Remus sapeva bene quanto fosse assurda l
’idea di rivelare qualcosa di tanto grande proprio in quel momento: l’avrebbe messo nella posizione di doversi spiegare o meglio, si sarebbe sentito in dovere di dare motivazioni e fare precisazioni. E non voleva, non voleva parlare. “Non oggi” replicò con un sospiro e quella fu l’ultima volta, nei mesi a venire, che si trovarono tutti e quattro, svegli, nella stessa stanza.

***
 
Nelle settimane successive, nella scuola regnò il silenzio.
Gli artigli della guerra si conficcavano in una morsa sempre più dolorosa e asfissiante tra le pareti grezze di un intero castello. L’idea che Hogwarts fosse immensa e sicura era stata lasciata agli occhi meravigliati di chi ancora riusciva a veder le scale muoversi e non a chi si concentrava sulle crepe nelle mura.
Assieme alle sparizioni, gli omicidi e la pressione terrificante di un mondo che stava assumendo sempre più i tratti di un incubo, era calato anche un silenzio senza più traccia di aspettativa. Erano scomparsi i fuochi d’artificio dietro gli angoli, si erano dissolti gli scoppi molesti di Caccabombe nei luoghi più improbabili, erano cessate le battute fastidiose durante le lezioni. Tutto ciò che di sorprendentemente divertente poteva salvare quella scuola dagli orrori oltre le sue finestre si era spento nella lentezza raggelante di quella calma.
E Lily Evans quei corridoi, quelle scale, quelle atmosfere e quegli scherzi li conosceva come il retro della sua mano.
Si assicurò che la tracolla della cartella non rischiasse di scivolare via dalla sua spalla e pregustò l’odore rilassante di muffa della biblioteca ancor prima di mettervi piede.
Era stata una ronda veloce, ma a fine settimana non se la sentiva di non definirla anche pesante. Tutto ciò che voleva era un po’ di silenzio, un buon libro e quell’odore.
Sgusciò oltre le porte della biblioteca e svoltò in un paio di corridoi, vedendosi già seduta al suo tavolo appartato.
Quando superò l’ultimo angolo, però, non lanciò la sua cartella in uno spigolo della stanza né si lasciò cadere nell’abbraccio della sua poltrona preferita, ma incontrò una zazzera di capelli neri e due occhi scuri che si alzarono nei suoi assieme a un sussurro che Lily non riuscì a comprendere.
“Oh” fu tutto quello che le venne in mente. Era così abituata a incontrare James Potter impegnato a fare qualcosa che non doveva assolutamente fare che vederlo seduto, due libri aperti davanti a sé e i capelli sconvolti non dall’arroganza, ma dallo studio, non le diede molto altro da dire. “Scusa, cercavo… Di solito mi siedo qui.”
James le parve genuinamente sorpreso. “No, scusami tu, non lo sapevo, te lo giuro, ehm…” raccattò un paio di libri e li infilò velocemente nel suo zaino. “Cerco un altro tavolo.”
“No!” Lily si rese conto troppo tardi di aver gridato. James sgranò gli occhi e si bloccò sul posto, sorpreso non tanto dalla risposta, ma dalla perentorietà nel suo tono. “Cioè, non è il mio tavolo, quindi puoi fare quello che vuoi. Se vuoi restare qui non è un problema.”
James aggrottò le sopracciglia e la guardò come se gli avesse parlato turco.
Lily gli concesse un sorriso e per una volta non lo accompagnò a una dichiarazione di guerra. Spostò due sedie, lasciò cadere la sua cartella su una e si accomodò sull’altra. “Basta che non mi chiedi di uscire.”
James sorrise e tornò con gli occhi sul suo libro. “Neanche una volta, te lo prometto.” Sembrò ripensarci, alzò di nuovo lo sguardo nel suo, la luce gialla della biblioteca che gli accendeva una luce impossibile negli occhi. “Ammesso che tu non voglia che…”
“Potter.”
James rise, nessuna traccia di sarcasmo a striargli la voce. Lily, con suo sommo, enorme, infinito rammarico lo imitò. Sganciò le cinghie della sua cartella e ne cavò fuori un libro, poi gettò un occhio dall’altra parte del tavolo e, con sorpresa, scoprì James realmente impegnato a studiare, una pergamena spessa e bianca abbandonata lontano alla sua sinistra.
“Quella… è un po’ strana per essere vuota, no?”
James alzò gli occhi su di lei. Lily si sentì vagamente in soggezione, solo per un attimo, poi lui seguì il suo sguardo e inspirò, combattuto. “Dici? A me sembra normale.”
“A me no!” Lily riportò lo sguardo su di lui e sgranò gli occhi come se stessero discutendo sul colore del cielo. “Ha almeno venti ripiegature, sembra più rigida della pergamena normale e…” si sporse in avanti, pronta a sfiorarne la consistenza, ma James glielo impedì afferrando la pergamena di scatto, reggendola in mano e fissandola come se non l’avesse mai vista.
“Mi dispiace, a me sembra normalissima” commentò James, infilando la normalissima pergamena nel suo zaino.
Lily assottigliò gli occhi e lo fissò con sospetto. “Cosa state tramando?”
“Che vuoi dire?”
“Sono più di due settimane che c’è silenzio! Onestamente mi aspetto di esplodere mentre dormo da un momento a un altro.”
E Lily non avrebbe potuto immaginare neanche durante la lezione di divinazione migliore del mondo che uno come James potesse seriamente rabbuiarsi. Riguadagnò compostezza pochi battiti dopo, le sorrise, aprì la bocca per risponderle, ma il suo sguardo fu catturato dal libro che Lily teneva ancora tra le mani, più per inerzia che per necessità. Inclinò la testa per scorgerne il titolo. “Oh, ‘le notti bianche’. Remus l’ha letto un anno fa.” Aggrottò la fronte e colse di sfuggita il modo in cui Lily si illuminò. “In realtà ultimamente ce l’ha sempre dietro, vattelo a spiegare.”
“Davvero? Devo assolutamente parlarne con lui!”
James si limitò a sorriderle e annuire. Passò qualche secondo di silenzio, gli sguardi ancora incollati più in una diffidenza pronta a sciogliersi che in una dichiarata contemplazione. Poi James si riscosse, raccattò l’ultimo libro ancora abbandonato sulla scrivania della biblioteca e si alzò. “Devo andare” Lily non riuscì a capire se fosse vero, “se non è un problema, tornerei a questo tavolo qualche altra volta… si può parlare senza essere zittiti.”
Lily si ritrovò ad annuire, un po’ sorpresa all’idea che avessero parlato per tutto il tempo senza venire rimproverati. In effetti non aveva mai condiviso quel tavolo con nessuno per scoprirlo da sola. Prima che potesse rendersene conto, James le aveva già voltato le spalle e si stava allontanando dalla biblioteca. “Scoprirò cos’è quella pergamena. Lo sai, vero?”
James si voltò, una mano che aggiustava gli spallacci del suo zaino e un sopracciglio alzato. “Provaci, Evans, non ci riuscirai mai.”
“Oh, ci riuscirò eccome” la solita vecchia sfida che bruciava negli occhi di entrambi e le conversazioni pacate già lasciate nel passato “e ti punirò molto severamente.”
James aprì la bocca per rispondere a tono, si bloccò a metà strada e scoppiò a ridere così forte che scappare dalle grinfie di Madama Pince a quel punto sarebbe stato un miracolo.
“Che c’è?”
“Era un po’...” James scrollò le spalle e si lasciò scappare un’altra risata.
Lily realizzò solo allora come potesse essere interpretata la sua frase e alzò gli occhi al cielo e, suo malgrado, arrossì. “Non credo che conoscerò mai qualcuno più stupido di te” lo insultò, il principio di un sorriso poggiato però sulle labbra, “Non quel tipo di punizione, idiota.”
“Ora, se hai finito di trattenermi con il tuo flirtare sfacciato, me ne andrei.” 
Lily alzò una mano in segno di saluto, ancora vagamente seccata e abbassò finalmente gli occhi sul suo libro, desiderosa di finirlo presto e discuterne con Remus.
“Ah, ehm… Lily?”
Lei percepì l’imbarazzo improvviso nella voce di lui e lo scoprì anche peggiore quando lo guardò negli occhi.
James esitò per qualche secondo, combattendo con qualcosa che non era certo di voler dire, poi scosse la testa e arrossì. Lily se ne accorse solo perché non l’aveva mai visto così in tutta la sua vita. “Sei… Mi piace quando ti brillano gli occhi.”
Prima che Lily potesse domandargli cosa diavolo gli fosse preso, James era sparito.
Era irritante oltre ogni misura, ma Lily, dopo quella chiacchierata, pensò anche che fosse un mistero. E la sua curiosità aveva dato filo da torcere a ogni mistero su cui avesse posato gli occhi. Non voleva sbrogliare quello di James Potter, neanche per idea, ma una parte di lei se n’era andata con lui, la pergamena nuova di zecca e la verità su chi ci fosse sotto quegli strati di arroganza, boccini d’oro e tentativi di affascinare.

***

Sirius aveva deciso che avrebbe baciato Daisy Hookum quando lei aveva risposto correttamente a lezione di Babbanologia e aveva incrociato il suo sguardo. Lui le aveva sorriso e lei aveva ricambiato.
Daisy, invece, aveva deciso che si sarebbe fatta Sirius Black quando lui, a metà della stessa lezione di Babbanologia, le aveva chiesto con un sorriso storto se avesse una piuma da prestargli. Daisy aveva abbassato lo sguardo sulla piuma che lui nascondeva volutamente male e aveva deciso di concedergliela. La piuma.
Quando la lezione era finita Daisy, che era una Tassorosso diretta e che andava al sodo nella maniera più efficiente possibile, gli aveva chiesto se avesse qualcosa da fare. Sirius, che al contrario era un tipo che ci metteva quattro ore per decidere come fare colazione ma due secondi per fare qualcosa di cui si sarebbe pentito, aveva passato in rassegna i suoi programmi e aveva ragionato sulla sacrificabilità di alcuni. Quello che occupava la maggior parte del tempo era ‘evitare di pensare’, quindi si era fermato a guardare dritto negli occhi scuri di Daisy, le aveva detto che non aveva programmi e si era lasciato condurre in una classe di Babbanologia in disuso non lontano da lì.
Romantico.
E fu così che Sirius si ritrovò spinto contro una parete, a cercare di capirci qualcosa. L’idea che tutto accadesse di fretta gli faceva piacere, lo teneva decisamente occupato. La luce soffusa oltre le vetrate gettava riflessi dorati sui capelli rossi di Daisy. Non sapeva molto di lei, tranne che fosse fiera di essere una Nata Babbana ma che non fosse altrettanto stupida da credere di poter combattere da sola una guerra. La rispettava per questo e rispettava decisamente anche l’urgenza nei suoi gesti e la frustrazione mostrata sui bottoni della sua camicia.
“Cerca di non romperla” si sentì di avvertirla. Per una volta, avrebbe preferito non sbandierare le sue avventure. Non gli importava niente di cosa avrebbe pensato la scuola, ma non voleva tornare in dormitorio con i bottoni strappati. E non voleva chiedersi perché.
“Ah, scusa” ribatté lei, una traccia di ironia a tingerle la voce agli angoli. Sirius sorrise.
Lasciò il problema della sua camicia a Daisy e la costrinse a inclinare la testa su un lato. Scostò una ciocca di capelli ramati via dal suo collo e vi posò un bacio bagnato. Il respiro di Daisy aumentò all’istante e Sirius avrebbe voluto compiacersi dell’effetto immediato di quel tentativo, ma al contrario aggrottò le sopracciglia, confuso da qualcosa di cui non riusciva ad afferrare la forma e le coordinate.
Poggiò un altro bacio più in basso, dettato più che altro dal bisogno di afferrare meglio quel concetto che gli era sfuggito. Alzò le mani e lasciò che Daisy – finalmente ce l’aveva fatta – gli sfilasse via la camicia. Lei, che non aveva mai conosciuto le seducenti tentazioni della procrastinazione, portò la mano in basso e lo toccò. Sirius, in risposta, scese ancor più basso con le labbra e le mordicchiò il collo.
Daisy perse ancora il respiro e Sirius, contro ogni previsione, si innervosì.
Un respiro prolungato, due a scatti, pausa, un altro.
A Daisy non sembrava importare di certe regole. D’altronde, si rendeva conto, ognuno respirava come diavolo gli pareva. Ma qualcosa non quadrava. Era la stessa scomoda sensazione di camminare sottobraccio con qualcuno e avere i passi fuori fase.
Daisy lasciò scivolare una mano oltre l’orlo dei suoi pantaloni e Sirius si allontanò di scatto e batté la testa contro il muro alle sue spalle. Daisy si ritrasse, alzando le mani come se fosse stata sorpresa a rubare, la fronte aggrottata dalla confusione. “Tutto bene?”
“Sì” si affrettò a rispondere lui, massaggiandosi la nuca e sentendosi un cretino. “Cioè, no…”
“Ehm, ti fa male?”
“Non è questo il punto, è che…” L’impatto di quell’agitazione iniziò a pesargli meno, lasciandolo irritato e un po’ in imbarazzo a chiedersi cosa stesse combinando. Troppo tardi per la reputazione, la verità era che non voleva fare niente che avesse lontanamente a che fare col sesso con Daisy Hookum e, a ben vedere, neanche baciarla. “Possiamo fermarci?”
Daisy lo studiò per qualche secondo. “Sì, va bene” sostenne il suo sguardo, forse Sirius vi scorse una traccia di risentimento.
Sospirò e cercò con lo sguardo la sua camicia. Daisy continuò a fissarlo sconcertata mentre si rivestì. Sirius si morse un labbro, decisamente a disagio e fu felice che lei non l’avesse strappata, alla fine. “Allora…” sgusciò via dal muro, recuperò il suo mantello da un banco e si avviò alla porta, mantenendo il contatto visivo “ci vediamo… giovedì, giusto? A lezione.”
Daisy, ancora immobile dove l’aveva lasciata, annuì piano. “Sì?”
“Grande, perfetto. Ti…” aprì la porta della classe e diede un’occhiata ai corridoi. Quanto avrebbe voluto la Mappa, in quel momento! “ti devo una Burrobirra” e con questo sparì in quell’intrico di corridoi impossibile da mappare e che lui aveva mappato.
 
Esattamente dieci minuti dopo, Sirius era nel dormitorio della sua casa e aveva dato un calcio al suo baule perché quel pomeriggio aveva un solo compito da portare a termine ed era distrarsi. Non si stava distraendo.
Il colpo evidentemente segnalò la sua presenza in quella stanza. La tenda rossa del letto accanto al suo venne scostata con un colpo secco e una risata. “James, se non la finisci di sbattere contro… Oh.”
Sirius incontrò gli occhi di Remus e se il tempo avesse potuto trattenere il fiato l’avrebbe fatto. Abbassò lo sguardo sul libro che teneva tra le mani, lo riconobbe: l’unico libro che avesse mai letto, in fondo. Alzò di nuovo gli occhi nei suoi e non gli chiese perché l’avesse ricominciato: aveva paura della risposta. “Me ne sto andando, sono solo passato a prendere una cosa.”
“Sirius, questo è anche il tuo dormitorio, puoi fare quello che vuoi” Remus sospirò come se per lui il tempo avesse continuato a scorrere con il suo solito folle impeto.
“Sono davvero passato solo a prendere una cosa” ribatté e si chinò sul baule a cui aveva appena dato un calcio. Non era passato a prendere proprio niente, in realtà. Se solo Daisy Hookum gli avesse strappato quella dannata camicia si sarebbe salvato afferrando la prima maglietta lì dentro e scappando via di lì.
L’interessante interazione che aveva avuto con lei gli piombò davanti agli occhi come una frana. Alzò lo sguardo su Remus, solo gli occhi che sbucavano oltre il materasso del suo letto.
“Tutto bene?”
Un respiro prolungato, due a scatti, pausa, un altro.
Sirius avrebbe voluto sprofondare nel porcile del suo baule e dimenticarsi di esistere. Annuì, non seppe cosa avesse potuto capire Remus, visto che gli vedeva solo metà faccia. Affondò una mano nel suo baule, finalmente alla ricerca di una cosa specifica che era certo di avere, perché l’aveva sgraffignata esattamente un anno prima da un cassetto su cui non aveva alcun diritto ed era un dannato trofeo.
La fissò riflettere la luce tenue del dormitorio al centro del palmo della sua mano, poi la strinse, nascondendola nel pungo e si alzò.
“Ci vediamo” lo salutò teso. Remus non rispose neanche con un cenno del capo, lo osservò semplicemente superare la soglia della porta del dormitorio e lasciarlo di nuovo solo. Forse Sirius avrebbe voluto parlargli, fargli notare che in fondo loro non avevano mai avuto un confronto, che James aveva parlato per tutti, ma pensò anche che avesse tanti talenti, davvero una valanga, ma che parlare seriamente non rientrasse tra questi. E, inoltre, quello che stava per fare, era già un atto coraggioso abbastanza da bastare per la successiva settimana.
 
A Remus, quando la porta del dormitorio si richiuse con un tonfo, importò ben poco della possibilità – o meglio della certezza – che Sirius avesse visto cosa stava leggendo. In realtà quel libro gli piaceva, davvero, e il fatto che gli mancassero i continui fastidi e le battute indesiderate di Sirius era un’altra questione.
Passò una vita o forse solo qualche secondo, ma Remus fu interrotto nuovamente da un bussare leggero alla porta. Il dubbio su chi dei suoi amici fosse dotato di così tanto rispetto e discrezione da mettersi a bussare venne sciolto prima che potesse puntare tutti i suoi Galeoni su Peter.
Folti capelli rossi spuntarono prima degli occhi della sua proprietaria oltre lo spiraglio che aveva aperto della porta.
“Lily?”
Lei annuì e sgusciò all’interno del dormitorio maschile come se nella vita non facesse altro. “Ti stavo cercando.”
Remus le sorrise e poggiò il libro a faccia in su sulla copertura rossa del letto. “Mi hai trovato.”
Lily si accomodò ai piedi del letto del ragazzo senza fare troppi complimenti. A Remus piaceva il suo essere così entusiasta e disponibile: non si faceva fermare da nessuna etichetta, sapeva quando limitarsi ai convenevoli e quando saltarli a piè pari, leggeva fra le righe, ma restava rispettosa dei limiti degli altri. Lo faceva sempre sentire tremendamente a suo agio e Remus sperava di riuscire a restituire almeno la metà di quello che lei dava a lui.
“Un uccellino mi ha detto...” iniziò Lily, il sorriso che si allargava ogni secondo di più “che stiamo leggendo lo stesso libro! Siamo telepatici!”
Remus le sorrise caldo e abbassò di riflesso gli occhi sul libro. Lily seguì il suo sguardo e annuì raggiante. “E chi sarebbe questo uccellino?”
Lily scrollò le spalle. “James.”
Remus sgranò gli occhi e sbuffò, fingendo seccatura. “Dov’è il suo corpo? Ti serve una mano a nasconderlo?”
“Purtroppo è ancora molto vivo” ribatté Lily, sospirando come se la cosa fosse stata per lei un grosso peso. Remus la osservò afferrare distrattamente il suo libro e rigirarselo fra le mani. Nell’istante preciso in cui questo avvenne, lui si irrigidì e iniziò a pensare a tutti i modi meno evidenti con cui avrebbe potuto sottrarglielo senza farla insospettire. Il problema non era l’autore dei commenti scritti sul libro, ma il loro contenuto. “C’è stato un passaggio che mi è sembrato molto…”
Lily prese a sfogliare la sua copia e, in quello stesso istante, Remus appoggiò la mano su quella di lei e gliela strinse, impedendole di continuare. Lily alzò gli occhi di scatto nei suoi. Verde e sfumature brillanti e disumane si incontrarono nello spazio di uno sguardo che prometteva una conversazione difficile.
“Va… tutto bene?”
Remus le lasciò la mano che stava ancora stringendo, ma non ruppe il contatto visivo. “Sì, è che…”
Non concluse mai la frase. Sentì lo sguardo di Lily su di sé, quando si guardò attorno a disagio. Lei non era una ficcanaso, non lo era mai stata. Non gli aveva fatto domande, aveva sempre silenziosamente accettato il fatto che fosse l’unica a parlare di sé. Non gli aveva mai chiesto di ricambiare, non gli aveva mai fatto pagare ogni pezzo di cuore che lei gli aveva regalato.
Perciò non si arrabbiò, quando Lily sfogliò le prime pagine e lesse l’evidenza di un processo che si era messo in moto molto prima che Remus potesse anche solo distinguerne i tratti, il motivo profondo per cui nessun altro era mai venuto a sapere della particolarità di quel regalo. Era una strada che avevano iniziato ad aprire quando gli era saltato il cuore nel petto perché Sirius gli aveva detto che le sue cicatrici erano da duro; che avevano iniziato a pavimentare quando Remus era passato davanti a una vetrina piena zeppa di dischi e aveva pensato di fargli un regalo; una strada su cui avevano corso troppo e su cui non avevano mai davvero saputo guidare.
Sognerò di voi tutta la notte, tutta la settimana, tutto l’anno. E domani verrò qui, verrò immancabilmente qui, in questo posto, a quest’ora e sarò felice ripensando ad oggi. Questo posto mi è già diventato caro.
Sull’orlo laterale della pagina, una macchia d’inchiostro vecchia recitava ancora chiaramente: ‘EHI! Ma questi siamo noi alla Torre!’
Il danno più grande, realizzò a quel punto Remus, non erano state quelle parole, ma il fatto che lui avesse tentato di nascondergliele, di impedirle di leggerle mostrandogliele per quello che erano: un segreto. Non c’era anima al mondo portata a proteggere il segreto di qualcosa che era alla portata di tutti. 
Lily alzò gli occhi su di lui, piano, incontrò il suo sguardo e sospirò. “Avete litigato? James si è incupito quando ho nominato gli scherzi.”
Remus annuì, conscio del fatto che la perspicacia di Lily Evans sapesse fare di meglio. E infatti...
“Questo è… un genere particolare da dedicare a un amico.”
Remus non rispose e non se la sentì neanche di guardarla.
“Gli altri lo sanno?”
Si lasciò scappare una risata amara, un assaggio di rabbia e delusione che si facevano largo nella sua voce. “Sanno cosa, Lily? Non lo so neanch’io.”
Lei annuì e ignorò il suo tono, perché un amico sa anche quando non prendersela. “Io non so cosa abbia fatto, ma… mi permetti di distruggerlo se ti ha insultato per…”
Remus alzò gli occhi di scatto nei suoi e la guardò portarsi una mano alla bocca e inspirare puro e rarefatto rimpianto. “Cosa” non era una domanda. Era una richiesta.
Lily, che non era stata smistata in Grifondoro per capelli focosi e voglia di mettersi in gioco, abbassò le mani e lo guardò negli occhi decisa. Remus stentava a credere al fatto che ogni volta che qualcuno a cui teneva doveva lasciarsi sfuggire l’insignificante dettaglio più importante della sua vita si dovesse trovare sul suo dannatissimo letto a guardarsi attorno come un cretino che aveva perso la via.
“Il piccolo problema… peloso?”
“Lily.”
“So che sei un lupo mannaro dalla lezione di Difesa Contro le Arti Oscure del terzo anno.”
Remus aggrottò la fronte e spalancò la bocca meravigliato. “E… perché io lo so solo ora?”
“Non è mai stato necessario tirarlo fuori prima e… aspettavo che me lo dicessi tu.” Lily diede un’occhiata all’orologio sul comodino del suo amico e si alzò a malincuore. Una ciocca di capelli le ricadde persistente davanti agli occhi prima che riuscisse ad appuntarla dietro un orecchio.
“Quindi… per te non è un problema?”
Lily rise. Un suono leggero e cristallino che bastò, da solo, a sciogliere parte delle sue paure. “So cosa vuol dire essere diversi nella società magica” si diresse alla porta come se non l’avesse appena spogliato dei suoi due segreti più intimi “e ci si guarda le spalle, Remus. Sempre.” Lily gli regalò un sorriso e fece scattare la maniglia della porta del dormitorio maschile. Remus pensò che avrebbero dovuto mettere a punto un incantesimo anche alle stanze dei ragazzi: le persone come Lily sapevano essere spaventose. “Non so quanto sia utile dirlo a uno che passa il pomeriggio a rileggere vecchie dediche, ma ti ripeterò esattamente quello che dissi a Marlene due anni fa” scrollò le spalle e sperò che le credesse: “meriti di meglio.”
Prima che potesse rispondere, Lily si richiuse la porta del dormitorio maschile alle spalle e Remus restò solo con un libro che era riuscito a ustionarlo e lo sguardo di Lily ancora impiantato nelle cornee.
 
L’imponenza della grande porta di legno e ferro risultava così aggressiva da far sembrare la serratura incastonata tra le tegole fuori luogo.
Che le porte potessero intimidire e mostrarsi ostili, però, era poco probabile. Quando si ha paura di una porta si teme in fondo ciò che vi sta dietro e quella non faceva eccezione.
Sirius non era portato per i tumulti e i rimescolamenti nello stomaco, quindi, quando ebbe la conferma di non essersi sbagliato con i tempi e uno sbuffo di fumo scuro scappò dalle grinfie di quella solennità, la prima cosa che gli venne in mente di fare fu concentrare quel nervosismo in un luogo che non fosse la sua testa, i polmoni o la pancia. Lo sfogò nel pugno, che lo condusse al muro accanto ai cardini. Non sentì il dolore, ma appoggiò la fronte contro il polso e sperò di respirare.
“‘fanculo.” Un sussurro che serviva a ricordargli tutte le palle che non aveva. Affondò la mano illesa nella tasca posteriore dei pantaloni e si chiese se la chiave che ne cavò fuori non si stesse prendendo gioco di lui, con tutti quei riflessi.
Aveva capito troppo presto che a sentirsi invincibili non si guadagnava nient’altro che la consapevolezza lampante della propria mortalità. L’aveva capito, ma non l’aveva mica imparato. Ne sapeva abbastanza, tuttavia, da riconoscere che l’esitazione era per chi non viveva.
Trattenne il fiato, infilò la chiave nella toppa e sgusciò nell’ufficio di Lumacorno come un ladro. Si richiuse la porta alle spalle, ancora in apnea, e passò un secondo soltanto a contemplare pareti di vetro e fiale e ampolle, poi tornò a respirare.
Se c’era una sola possibilità che pensare a Remus gli facesse rimbalzare il fiato solo per il senso di colpa, morì nel momento in cui inspirò odore di cuoio e cioccolato. Maledisse il giorno in cui pensò che trafugare la chiave dell’ufficio fosse un’idea furba, finché non gli tornò in mente che era al sesto anno e che non avrebbe comunque avuto modo di sottrarsi all’Amortentia tanto a lungo, perché le lezioni erano vicine. Meglio essere patetici da soli che rischiare pettegolezzi in una classe, in fondo.
Non gli piaceva stare lì, non saltava di gioia all’idea di fare i conti con i suoi rimorsi: il fulmine di insensatezza che l’aveva colpito quando aveva parlato con Mocciosus o la totale incapacità di dimostrare quanto fosse sinceramente mortificato.
Ma non scappò.
Si sedette sul pavimento di vetro dell’ufficio e non mostrò il minimo interesse nello sciabordio del Lago Nero sotto di lui. Fissò il calderone nel suo sbuffare incostante e gioì dell’imbarazzante verità che aveva un modo triste ma efficiente di continuare a sentire quell’odore per tutto il tempo che voleva.
Comprese in un attimo perché James guardasse Lily in quel modo ridicolo, riconobbe la differenza abissale o forse inesistente tra un sorriso seducente e uno genuino. Restava tutto assolutamente patetico e avrebbe voluto prendersi in giro per sempre, ma la verità era che non gliene fregava nulla, che forse quasi gli piaceva, sentirsi stupido, se la ricompensa era un calore che sapeva di non meritare, ma che in fin dei conti riusciva a scaldarlo.
Chiuse gli occhi e inspirò, sperando di immaginare ciò che non avrebbe mai avuto. Si chiese con quale timbro vivesse sua madre e tutta la sua stirpe, per aver pensato di marcare tutti con l’incapacità di farsi amare o di meritarlo; si chiese se in fondo avessero ragione loro ed era sempre stato così egoista da credersi diverso, a caccia di sentimenti dove sapeva di poterli cercare e fingersi capace a ricambiarli.
Non sapeva dove mettere le mani e la verità era che non l’aveva mai saputo, che gli erano piovuti dal cielo l’affetto di James, l’ammirazione di Peter e il sottile apprezzamento di Remus e se li era presi come un incosciente.
Non c’è niente che tu riesca a non mandare a puttane.
Bruciava perché era vero, in fondo, perché rompere ciò che è fragile è più facile che prendersene cura.
Aprì gli occhi con un sospiro e decretò che quello fosse il suo posto preferito. Il secondo, a dire il vero, perché l’illusione di un odore vale la metà della sua fonte.
Si tirò su a malincuore e si spazzolò i vestiti.
Romantico, forse, ma c’era un limite all’avvilimento e lui l’aveva ampiamente superato. Non c’erano troppi modi di guardare la faccenda: era un bel problema, uno di quelli che aveva l’insana tendenza a gonfiarsi ed esplodere.
E Sirius non era uno che esplodeva con discrezione.
 
Quando James si infilò nell’ennesimo corridoio, considerò l’idea di lasciar perdere. Gettò un’altra occhiata alla Mappa e verificò che Sirius era ancora fermo da qualche parte nei sotterranei. Era sorpreso dal fatto che Regulus fosse intero, che la scuola fosse intatta, che Sirius non avesse finito di distruggersi. Non sapeva se era una bomba a orologeria o il risultato dell’attutimento di quel genere di tristezza.
La verità era che James sapeva, con assoluta certezza, che sarebbero riusciti a trovare un modo per fare funzionare di nuovo le cose, ma era ancora furioso con lui.
Il motivo per cui stava facendo comunque il primo passo, però, era il senso di colpa. Sapeva dove aveva messo le mani, conosceva il modo esatto di farlo a pezzi e aveva creduto che essere arrabbiato gli desse il diritto di sfruttarlo. Non era vero. James iniziava a capire a cosa si riferiva Lily, quando gli aveva detto che se ne andava in giro a colpire gli altri solo perché poteva.
Era stato un colpo basso a cui voleva rimediare.
La distrazione gli fece ridurre i continui controlli alla Mappa, per cui quando svoltò in un altro corridoio e un ragazzo gli si parò davanti indicandolo, James ci mise un po’ a capire che ce l’aveva proprio con lui.
“James Potter.”
Non c’erano più dubbi, a quel punto.
“Scusa, vado di fretta, sto…”
“Solo il tempo di una domanda.”
James non conosceva il motivo per cui il Portiere Corvonero avesse così urgenza di parlargli, ma annuì e lo incalzò con un cenno del capo.
“Tu sei molto amico di Sirius, vero?” Sembrava teso. Il cipiglio tra le sopracciglia chiare non accennava a distendersi.
James annuì di riflesso.
“So che lui mi aveva detto che… insomma, che non sarebbe più successo.”
James inspirò seccato. Forse la bomba era scoppiata e semplicemente non era stato nei paraggi per provarne il contraccolpo. “Che ha fatto, Cresswell?”
Dirk Cresswell non era un ragazzo stupido, ma tendeva a perdere la testa quando era nervoso. Sbuffò in una risata e sgranò appena gli occhi, come a sottolineare una frase semplicemente ovvia. “Me, è quello il punto.”
A James servì un secondo per mettere in fila le parole che Dirk gli aveva sbattuto in faccia con la naturalezza di un fatto noto. Poi gliene servirono altri tre, di secondi, per comprenderne il significato. “Non ho capito, scusa. Si è fatto… te?”
Dirk avvampò con la velocità che James ci metteva a fregarlo davanti agli anelli di quidditch. “Ehm, sai…” e non disse assolutamente niente di più.
“Intendi che voi due avete…”
“Già.”
James lo guardò fisso negli occhi, confuso come davanti a un problema di Trasfigurazione Avanzata. “E… cosa vuoi che gli dica?”
“Che mi piacerebbe rifarlo.” A dispetto delle frasi dirette e senza intoppi, a Dirk stava ancora fumando la faccia.
“Certo, glielo farò sapere senz’altro” James scrollò le spalle e annuì convinto, “sarò il tuo gufo. Nessun problema, amico.”
Dirk gli sorrise, immune o del tutto inconsapevole dell’impercettibile strato di ironia nel suo tono.
“Grazie davvero, Potter, ti devo un favore. Per un attimo ho pensato che non lo sapessi!”
E, con un’ultima pacca su una spalla, Dirk lo lasciò solo a fissare la profondità del corridoio del primo piano.
James si morse il labbro inferiore, perplesso, non distogliendo lo sguardo da un mattone di pietra particolarmente più grande degli altri.
Forse di Sirius non aveva mai capito niente.









 
oeNt iD lENo, James non è vero che non hai mai capito niente, stai sereno, hai tutto sotto controllo però calmati che stai sparando a occhi chiusi.
Ciaaaaaaao, ho fatto tardi perché non il prossimo ma il capitolo dopo proprio non usciva e poiché devo iniziare a chiudere le sottotrame non posso continuare a non avere controllo su questa storia. Allora, come già detto nelle scorse note io odio profondamente quella cosa che gli inglesi chiamano "the prank" (che potenza che è il fandom inglese, btw, scrivi the prank non mi ricordo su quale sito e ti escono i malandrini, cioè so due parole normali, ma l'internet sa cosa stai cercando), però signori, però avevo la conversazione della prima scena scritta sulle note del telefono da una cosa come quindici capitoli e non vedevo l'ora. Comunque voi mi dovreste vedere mentre piglio a parole i forum che hanno tutti i nomi dei personaggi che andavano a scuola in quegli anni in cerca di qualcuno che Sirius si possa fare. E questo non va bene perché è serpeverde e questo non va bene perché è maschio e io voglio una femmina e questo non si può perché l'abbiamo già messo qua a fare il non-so-cosa. Io Hookum non lo so pronunciare, ma amo scriverlo. Se c'è una cosa che amo, però, è improvvisare le personalità di 'sta gente all'ultimo e NON LO SO perché Daisy è così violenta, ragazzi, non lo so, però mi sono affezionata.
COMUNQUE, non vedevo l'ora che arrivasse la scena della chiave perché mi sfrego le mani soddisfatta da quando gliel'ho fatta rubare una cosa come sette capitoli fa e non vedevo l'ora di chiudere questa cosa, così come non vedevo l'ora di dare un senso a questa cosa dei respiri e a Dirk Cresswell. Me le sono giocate tutte in un capitolo :( e vabe. MA PETER DOVE L'ABBIAMO LASCIATO? Lo scopriremo nel possimo capitolo, signori! Il prossimo capitolo che spero non si faccia attendere tanto quanto questo!
Bene, io vi ringrazio proprio da matti mattissimi per essere ancora qui (non nelle note, lettore intelligente che le ha saltate, intendo proprio qui a leggere la storia!) ringrazio anche tutte quelle persone troppo fiduciose che provocano l'impennata di visualizzazioni dopo dieci giorni da quando pubblico il capitolo, vi vedo e mi si riempie il cuore se penso che c'è qualcuno che aspetta con ansia un aggiornamento (oddio, magari è un caso e io mi sono appena resa ridicola. Grandioso, ma tanto non potete saperlo perché non vi conoscete tra voi e non potete affermare che sono pazza muahahahahahah). Va bene, me ne vado però grazie <3

El.

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 25 - Fiducia ***



Nota super piccola: ho ammortizzato, ma presenza di domanda del cazzo. Anni settanta è il movente.

 

 

25. Fiducia

 





Il vento al di là dei finestroni fischiava indolente nel vuoto del tardo pomeriggio. Era una descrizione estendibile anche all’interno della testa di James, dopo le sorprendenti novelle che Dirk Cresswell gli aveva comunicato con la leggerezza della scontatezza.
Era smarrito.
James aveva deciso di perlustrare l’intera scuola in cerca di Sirius per chiedergli scusa per le sue parole, perché la verità era che, per quanto gli dolesse ammetterlo, non ci si abituava a rimanere appiccicati per sei anni e si finiva a non scambiare neanche un saluto a colazione. James aveva bisogno di lui tanto quanto Sirius.
Non era stato cresciuto per seguire una vita prestabilita, ma era stato un bambino parecchio solo. Senza fratelli o sorelle, una scuola in cui fare amicizia, un’orda di bambini con cui giocare a nascondino, non sapeva come sarebbe apparso agli occhi di chi non lo amava già per principio. A undici anni, prima di mettere piede sull’Hogwarts Express e prima di scoprire che un sorriso fatto al momento giusto poteva tirarlo fuori dai guai, la vivacità di James era riuscita a fare posto al dubbio tipico di chi veniva messo per la prima volta sul palcoscenico del mondo, nella speranza di essere adeguato. James si era chiesto se sarebbe riuscito a piacere a qualcuno, se avrebbe trovato il modo di dimostrare che era simpatico, che valeva la pena stare ad ascoltarlo. A dire il vero, James non era neanche stato così sicuro di essere simpatico! La risata di sua madre poteva essere autentica fino a un certo punto: lui l’aveva già conquistata, in fondo, gli era bastato venire al mondo!
Le sicurezze di James non avevano vacillato per molto, ma, quando il ragazzino scontroso sul treno gli aveva sorriso e gli aveva dato silenziosamente la sua approvazione, James era comunque stato felice. Sirius era sempre stato il più desideroso di approvazione, ma c’era stato un momento in cui James aveva avuto paura della sua opinione e non l’aveva mai dimenticato.
Abbassò lo sguardo sulla Mappa e inspirò preparandosi, l’informazione che gli aveva dato Dirk Cresswell momentaneamente dimenticata. Svoltò nell’ultimo corridoio che li separava e ignorò lo sguardo confuso di Sirius, quando accennò col capo nella sua direzione in segno di saluto.
“James?”
“Ti stavo cercando” chiarì lui, mostrandogli la Mappa e riponendola nella scucitura del mantello che gli faceva da tasca.
“Che ho fatto?”
James scrollò le spalle e si appoggiò a una parete. L’uomo nel quadro accanto a lui alzò un sopracciglio indignato. Lo ignorò. “Mi dispiace per quello che ti ho detto in infermeria. Non lo penso davvero, sei un tipo a posto e sei il mio migliore amico.”
Sirius incrociò le braccia al petto e aggrottò la fronte, per l’ennesima volta incapace di fare una delle cose in cui era più specializzato: avere a che fare con James. “Due settimane lontano da me e fai discorsi sentimentali?”
Il cipiglio di James si sciolse per un sorriso veloce. “Dico sul serio. So che mi hai dato retta e che ora credi a tutte quelle cazzate sul fatto che te lo sei meritato, ma la verità è che non avevo neanche diritto di parlare, è un problema più vostro che mio.”
Sirius sospirò. Era davvero seccato? “Sei quasi morto, James” e non lo disse con dispiacere o con rammarico, ma con accusa. “Non puoi venire qui a scusarti e dirmi che sono il tuo migliore amico.”
E James pensò che avrebbero risparmiato tanto tempo e serenità se Sirius avesse imparato anche quando mettere da parte l’orgoglio. Meditò se cambiare approccio e dargli addosso, regalargli la catarsi inutile e la purificazione che forse credeva di meritare, ma James non era portato per la diplomazia e preferiva la sincerità. Soppresse una risata, incurvò le sopracciglia in una smorfia ironica e scosse la testa. “Sei proprio un coglione, lo sai?”
“Ho passato troppo tempo con te.”
James ridacchiò e fissò la parete davanti a sé. Quando sentì Sirius appoggiarsi al muro accanto a lui pensò che fosse il caso di riprendere parola. “Ti perdonerà.”
Sirius scrollò le spalle in risposta. “Magari invece realizzerà di essersi tolto un peso.”
“O magari gli manca qualcosa.”
James non capì perché Sirius si fosse irrigidito come se gli fosse appena stata rivelata una verità sconcertante, ma per qualche ragione gli tornò in mente il probabile delirio senza capo né coda del Portiere Corvonero e pensò che, se tutto doveva tornare come prima, non potessero avere questioni in sospeso.
“Mentre venivo qui…” iniziò James, le sopracciglia aggrottate come se le sue future parole avessero dovuto sorprendere anche lui: “ho incontrato Dirk Cresswell.” Percepì Sirius voltarsi a guardarlo e pensò che, se uno sguardo non poteva tramutarsi in una fiamma ossidrica, di certo poteva mettercela tutta per provarci, “mi ha detto una cosa che non credo di aver completamente capito. Sai se per caso è un bugiardo patologico?”
A James bastò incontrare i suoi occhi per capire che Dirk Cresswell non era un bugiardo patologico.
“Perché non ne so niente?” domandò a quel punto, e la quantità di amarezza che vibrò tra le parole avrebbe potuto accendere una lampadina babbana. “Ah, ho un messaggio per te, comunque. Dice che vorrebbe rifarlo.”
“Ti prego” Sirius rise e inclinò la testa all’indietro.
“Ambasciator non porta pena…” James esitò per un attimo, prima di aggiungere: “porta peni.”
Seguirono brevi attimi di silenzio, poi Sirius nascose il viso tra le mani e scoppiò a ridere.
“Davvero, però, perché non me l’hai detto?”
L’ilarità si sciolse, l’espressione di Sirius cambiò in favore di una corrucciata. “Non è esattamente la cosa che vai a urlare ai quattro venti. Ero nervoso, Cresswell mi ha fermato in un corridoio… Non lo so, pensavo che non sarebbe più successo e che fosse solo la tensione, però…” Sirius non concluse la frase, si limitò a stringersi nelle spalle e lasciar andare la questione come se non fosse più stata un suo problema.
“Forse…” James ridacchiò e Sirius pensò che stesse facendo un grande sforzo di rinvenimento di parole giuste nei tumuli di nulla cosmico che dovevano vorticargli in testa. “Forse tutti quelle riviste musicali dovevano farmi capire qualcosa.”
“Forse” convenne lui, scettico.
“Quindi ora non mi posso più spogliare…”
“James, sei la cosa meno attraente che abbia mai visto in vita mia. Tu sei un animale, non un ragazzo” Sirius aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, come se stesse esprimendo un’opinione su un piatto particolarmente discusso a cena.
James aprì la bocca per parlare, ma guadagnò solo un sorpreso e vagamente offeso: “eeeh”
“Figurati.”
James scelse quel momento per abbandonare il comodo posto al muro e iniziare il lungo viaggio che li avrebbe riportati in Sala Comune. “Quindi non lo sa nessuno?”
Sirius calciò una pietruzza inesistente sul pavimento. James immaginò che fosse un segno di disagio, ma le mani mollemente abbandonate nelle tasche e il viso rilassato gli impedirono d’esserne certo. “Mh, no, credo che Remus l’abbia intuito.”
“Davvero? Come?”
Sirius alzò gli occhi al soffitto e inspirò pesantemente, in riflessione. “Sesto senso?”
“Un grande osservatore.”
E James ebbe la sensazione che Sirius volesse scoppiargli a ridere in faccia.
“Evita di parlargliene, però, potresti metterlo a disagio.”
James decise comunque di prendere quel compito sul serio. “Oh, sì, stanne certo.”
E con un resto di ignoranza che aleggiava pigro tra le loro parole, James e Sirius si diressero con calma alla Torre di Grifondoro, perché un pezzo della montagna poteva esser stato certamente scalato in pochi minuti, ma non aveva niente a che fare con la cima. Ed esultare mille metri sotto il tetto del mondo non era nello stile di nessuno dei due.
 
Peter non aveva frequentato l’intricato marchingegno di incontri fortuiti che aveva portato James, Sirius, Remus e Lily a incrociarsi a turno e scoprirsi sotto luci diverse. Non aveva preso parte a quegli ingranaggi fulminei perché le porte della Verità si erano spalancate davanti ai suoi occhi.
E Peter aveva pensato, letteralmente, che potevano andare a ‘fanculo i dissapori e le delusioni che li avevano squarciati nel modo più crudo, perché aveva assaggiato una fetta di paradiso e non era uno scarto amaro di qualcuno che era senza dubbio migliore di lui.
Chiuse gli occhi contro una luce che lo rendeva comunque cieco e inspirò dal naso.
Lui stava baciando Mary MacDonald! E, se gli era possibile esprimere un’opinione a riguardo, era assolutamente fantastico. Mary schiuse le labbra e Peter la seguì con fiducia in qualcosa che credeva si sarebbe sempre limitato a sognare e mai afferrare.
La verità su quel bacio era che Peter aveva ancora una cotta per Marlene, ma sapeva di non poterla conquistare. Credeva anche che il fatto che fosse stata con Sirius gli avrebbe reso impossibile evitare i paragoni e si era convinto che sarebbe stato meglio per tutti se si fosse limitato a farsela passare. Di Mary, al contrario, non sapeva molto e, anche se Peter non puntava a diventare il suo punto di riferimento e l’isola nel suo oceano, riusciva a sentire, con un pizzico di delusione, che anche lei era lì più per l’esperienza che per il sentimento.
Non avrebbe saputo stimare quanto tempo fosse passato, ma Mary si scostò e riprese fiato. Le fiaccole, da qualche parte nei corridoi, gettavano una luce pigra sulla sua guancia sinistra. Peter abbassò lo sguardo sulle sue labbra lucide e le osservò piegarsi in un sorriso. Un pensiero stupido gli attraversò il cervello come una freccia: era tenera, innegabilmente tenera. Si chiese come avessero potuto attaccarla solo perché i suoi genitori non erano maghi, perché le cose stessero rotolando così in fretta e il cielo si stesse rapidamente tingendo di nero. In mezzo a tutta quella negatività, ci doveva pur essere qualcosa che potesse salvarli tutti. Un incantesimo, forse, oppure una preghiera.
Per un attimo soltanto, in cui Mary inclinò il viso su un lato in una maniera così intima da fargli girare la testa, Peter si domandò dove si sarebbe trovato cinque anni dopo: se con una bacchetta in mano, in prima fila a combattere, o se nella pace irreale e bellissima di un mondo in cui avevano già vinto e si riunivano una volta a settimana per una partita di quidditch o di Scacchi dei Maghi. Gli parve possibile, per un secondo soltanto, con le braccia di Mary ancora allacciate al suo collo, che al mondo restasse sì un sospiro di speranza, ma che fosse abbastanza per metterli tutti in salvo. Si immaginò più grande, più sicuro, più esperto, più spigliato, una forma di autodeterminazione finalmente stretta tra le mani assieme a una torta da portare ai suoi amici.
Per un attimo soltanto, quando trovò il coraggio di sporgersi di nuovo in avanti e rubare un altro bacio a Mary, Peter dimenticò cosa fosse la paura. Sapeva che quella sensazione doveva essere vera, che il cappello ci aveva sì messo cinque minuti e trentadue a smistarlo in Grifondoro, ma che alla fine aveva fatto la sua scelta, che doveva pur significare qualcosa, che poteva essere coraggioso e che l’avrebbe dimostrato.
Baciò Mary con più trasporto e non si sentì più Peter Minus.
Si sentì invincibile.

***
 
Un mese più tardi, James e Sirius riuscivano a scherzare come se la Terra avesse ritrovato il suo asse. E questo era l’unico cambiamento degno di nota. Il motivo per cui tra Remus e Sirius vigeva ancora la regola del gelo era che Remus iniziava a respirare come non aveva mai fatto prima. Nonostante ogni tentativo di dimostrargli che le sue cicatrici erano da duro, che lui era un duro, che non era diverso e che avrebbe vinto al gioco del mondo, Sirius era riuscito a farlo sentire un mostro. Era una conclusione a cui era arrivato perdendo sonno, ore di studio e serenità. Non l’aveva capito subito, ma consigliare a un nemico di entrare nella tana del lupo significava ammettere che ce ne fosse uno.
Aveva sempre pensato che, essendo il primo a considerarsi un disastro, scoprire che gli altri erano d’accordo non avrebbe potuto offenderlo: in fondo già lo sapeva.
Si era sempre sbagliato. La conferma degli altri – di Sirius – bruciava in quel modo aggressivo tipico solo del tradimento o della verità. Nel suo caso, di entrambi.
Eppure non era questo il motivo per cui l’assenza di Sirius aveva fatto tornare Remus a respirare.
Tutto dipendeva da quella maniera delicata e tranquilla con cui ogni suo sentimento sbagliato nei suoi confronti si stesse affievolendo. Più erano lontani, più a Remus veniva facile dimenticare le palpitazioni, il sudore sui palmi delle mani e l’odore intossicante che sentiva quando ancora affondava il naso nell’incavo tra la sua spalla e il suo collo. E gli andava bene così, perché, in tutta onestà, Remus credeva che un problema in meno sulla sua lunga lista facesse un’enorme differenza.
Quel respiro in più che questi pensieri gli avevano regalato, però, gli sarebbe piaciuto goderselo in maniera assai più produttiva.
Questo respiro si interrompeva a notte fonda, quando lo sentiva respirare tranquillo nel letto accanto al suo; si bloccava nella gola quando il suo muro inutile di menefreghismo crollava per un solo secondo, il tempo di uno sguardo mortificato che ricordava a Remus che forse non era stato leale, ma la sua forma da Animagus era pur sempre un cane.
Quel respiro soffocava quando lo sentiva ridere o quando si addormentava in fondo alla classe o quando per sbaglio gli sorrideva.
Remus era patetico e profondamente ipocrita, almeno ai suoi occhi.
E quindi la reazione a quest’accozzaglia di emozioni contrastanti restava la distanza.
Una distanza che l’aveva fatto respirare e che gli stava facendo venire parallelamente voglia di strapparsi il cuore dal petto e farlo calpestare da una mandria di centauri.
In compenso, Remus iniziava a prendere seriamente in considerazione l’idea di correre da Lily e pregarla in ginocchio di dare una possibilità a James e di non lasciarselo scappare, perché, senza l’interferenza che la mera presenza di Sirius costituiva nei loro equilibri, James era stato la cosa migliore mai inventata: una distrazione, un distributore di aneddoti e battute, ma una presenza solida e sicura di cui Remus aveva avuto prova proprio grazie – o per colpa – di quello che adesso chiamavano ‘l’incidente’.
Remus ne era certo: non avrebbe saputo cosa fare senza di lui, ma in quel preciso momento avrebbe voluto strangolarlo.
“Ti sto dicendo che se aggiungi mezzo fagiolo sopoforoso agisce più in fretta!”
Remus alzò gli occhi al cielo e puntò il dito su una pagina del libro di Pozioni sottile fin quasi a sembrare trasparente. “Ma ce ne vogliono esattamente tre, che senso ha cambiare la ricetta?”
“Be’, Lupin” argomentò James e, dietro il broncio seccato, già spuntava un sorriso, “sul libro c’è scritto anche di spremerlo, ma ci è stato consigliato di schiacciarlo col piatto di un pugnale. Ciò che dice il manuale non è legge.”
“Ragazzi, scusate” Peter tentò di intromettersi nella conversazione, un dito alzato e la fronte aggrottata in concentrazione, “cos’è che rende la pozione trasparente, alla fine?”
Fu bellamente ignorato.
“Sì, ma mezzo fagiolo in più cambia il colore della pozione, Potter” Remus doveva ammettere di trovare quella discussione almeno un po’ divertente “e potrebbe portare chi la beve al coma. Sono sopoforosi, capisci?”
“Sai che c’è?” James richiuse con un tonfo il suo libro e alzò entrambe le mani nel gesto tipico di chi finge arresa. “Fa’ la tua pozione come ti pare, io la farò con mezzo fagiolo in più, vediamo chi prende un voto più alto.”
“Forse è l’Asfodelo?” tentò ancora Peter, ma rimase nuovamente inascoltato.
“Andata,” Remus annuì deciso. Tese una mano a James e lo osservò ricambiare la stretta con aria di sfida. “Che vinca il migliore.”
“È la Valeriana” una nuova voce si fece largo nella conversazione da qualche parte vicino al camino. I tre ragazzi si voltarono a guardare Sirius come se avesse detto qualcosa a proposito delle anatre durante una chiacchierata sul tempo meteorologico. “È la Valeriana,” ripeté lui annuendo, “a rendere la pozione trasparente nel Distillato della Morte Vivente, Peter” mimò con un dito un mestolo che mescolava la miscela. “Ad alte temperature appassisce e schiarisce il lilla dei fagioli… dei tre fagioli” chiarì, questa volta con un’occhiata a James che avrebbe voluto sciogliersi in divertimento, ma che si trattenne per le circostanze.
Peter notò la tensione nei loro sguardi e annuì pratico, desideroso che sfumasse presto. “Oh, grazie!” esclamò, forse a voce più alta del necessario. “Ora ho capito.”
Se qualcuno come Marlene, Mary o Dorcas fosse entrato in quel momento e avesse visto Sirius annuire a Peter in maniera gentile, avrebbe immediatamente capito che qualcosa non andava. Lo stesso Peter gli sorrise sorpreso e tornò rapidamente con gli occhi sui suoi compiti, come se quella cordialità avesse potuto scottarlo.
“Mezzo fagiolo fa la differenza” mormorò James, ancora una volta, appuntando qualcosa sulle sue pergamene.
Sirius ingoiò una risata e si alzò dalla sua postazione accanto al fuoco. Prima che James potesse chiedersi se avesse intenzione di sedersi a studiare con loro, lui affondò una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, strinse una sigaretta tra i denti e la sfilò da un pacchetto. Poi, con un cenno del capo in direzione di James, che Remus interpretò come un saluto, sparì oltre il ritratto della Signora Grassa.
Remus ponderò la possibilità di seguirlo, ricordargli che erano le undici di sera e che era vietato uscire dalla Torre di Grifondoro, ma non fece nulla di tutto ciò.
E sapeva che Sirius l
aveva previsto.
 
Ben due ore dopo l’allegra gag comica sul Distillato della Morte Vivente, Remus era nel suo letto, stremato.
Espirò pesantemente dal naso e fissò il soffitto buio della struttura. Non ne distingueva le travi di legno, a dire il vero non avrebbe neanche saputo dire dove finisse il buio inconsistente e dove iniziasse quello del soffitto. Moriva di caldo, ma sapeva che se si fosse scoperto sarebbe morto al contrario di freddo. Aveva sonno, non vedeva l’ora di chiudere gli occhi e concedersi una sana dormita, ma evidentemente era un desiderio troppo ambizioso. Ogni volta che scivolava nell’incoscienza, proprio un attimo prima di percepirsi cedere, Remus apriva gli occhi di scatto come se qualcosa l’avesse spaventato: forse il suo respiro, forse solo i suoi pensieri. Si alzò a sedere a gambe incrociate e affondò il viso tra le mani, amplificò il suo respiro e lo sentì tremare.
Senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, Remus scostò la tenda del suo letto e poggiò i piedi sul pavimento. Il freddo lo aiutò a strapparsi di dosso quel velo di irrealtà tipico solo di chi aveva sostato troppo sul confine tra sonno e veglia. Afferrò il suo mantello, poggiato sulla cassa ai piedi del letto, si infilò le scarpe di fretta e si avviò nell’unico posto che l’avesse mai fatto sentire assolutamente in pace con il mondo negli ultimi quattro anni.
Remus impiegò solo quattro minuti per raggiungere la botola che si apriva sulla Torre di Astronomia e si compiacque delle sue conoscenze accurate su quella scuola.
Peccato che non fosse l’unico ad averne.
Quando alzò il pannello di legno che lo separava dall’esterno della Torre, un vento fresco gli bagnò le guance. Inspirò l’aria pungente della notte e assaporò la maniera ruvida con cui gli percorse la gola. Poi spostò lo sguardo verso il parapetto e scoprì che la notte non era solo sua.
“Sei ancora qui?”
Sirius si voltò di scatto a guardarlo e per poco non urlò di sorpresa, poi espirò profondamente e Remus si chiese perché diavolo non l’avesse sentito arrivare: non era stato un procedimento del tutto silenzioso, dopotutto.
“Sono passate due ore. È l’una.”
Sirius aggrottò le sopracciglia come se la cosa fosse stata in sé sorprendente, ma le circostanze ne avessero attenuato l’impatto. Remus mise insieme le poche informazioni a sua disposizione e capì che era sovrappensiero. Un pensiero su cui si era addormentato, evidentemente, per restare assorto per due ore. Remus avrebbe mentito a se stesso se non avesse ammesso di conoscere almeno metà dei pensieri che gli occupavano la testa.
“Non riesci a dormire?” gli domandò invece Sirius, incurante del tempo che aveva trascorso lì. Tornò con lo sguardo sulle colline che circondavano il Lago Nero, metà sigaretta sembrava correre aiutata dal vento a rimpicciolirsi tra le labbra. Remus non provò neanche a chiedersi quante diavolo ne avesse fumate.
“Non…” Remus si interruppe, domandandosi quanto la sua collera fosse violenta e se Sirius fosse troppo fragile per riceverla. Non gli venne in mente nulla di meglio da dire, però, e ignorò la possibilità di evitare di ferirlo. “Non ne voglio parlare con te.”
Sirius annuì. Gli dava ancora le spalle.
Remus non lo capiva, forse neanche per la metà che sosteneva di comprendere.
“Posso finirla?” Sirius si voltò di nuovo a guardarlo e alzò la mano che reggeva la sigaretta, il modo in cui la luce gli colpì metà del viso fece quasi male. Remus ignorò quella puntura. “Non posso finirla dentro e… onestamente non mi va di buttarla.”
Remus riconobbe una certa strana pretesa, in quella richiesta, una debole rivalsa che lo rendesse almeno degno di qualcosa, di un diritto che la vergogna gli aveva sottratto. Si chiese quanto questo sentimento fosse arbitrario e quanto l’avesse indotto il modo in cui lo guardavano.
Sembrava che si stesse imponendo su di lui, almeno su una cosa, un momento che era suo, sembrava urlare ‘onestamente non mi va di buttarla solo perché tu mi vuoi fuori di qui.’
Erano dignità e orgoglio e un’ombra di irritazione balenò davanti agli occhi di Remus: era arrabbiato con lui, ma non gli aveva mai tolto la sua dignità.
“Fai pure” si ritrovò a rispondere, scrollando le spalle.
Si sedette davanti allo stesso parapetto, il loro.
Calò un silenzio rotto solo dai loro respiri, un promemoria continuo sul disagio che dopo sei anni non avrebbero dovuto provare e che invece annunciava gridando la sua presenza. Remus riconsiderò la rapidità a consumarsi di quella dannata sigaretta e decise di fare conversazione, una distante conversazione. “Hai il mantello di James?”
Sirius espirò in controluce, un cono di fumo che si espandeva in riccioli nel cielo. “No, te l’ho lasciato.”
Remus esitò per un attimo, gli occhi puntati tra le stelle che non brillavano mai come a dicembre. “Io… l’ho lasciato a te.”
“Ah.”
“Già” Remus si concesse solo un’occhiata. Il bisogno di capirlo che faceva a pugni con quel famoso respiro che traeva meglio con la sua distanza. Sirius non distolse gli occhi dalla luna calante, forse in cerca, accanto a lei, di quell’unica stella che non brillava a ottobre.
“Siamo due coglioni.”
“Li fanno sempre in coppia.”
Remus si congelò e si domandò come si potesse essere così ingenui… o forse spontanei. Azzardò un’occhiata in direzione di Sirius con un coraggio che doveva essere alimentato unicamente da una curiosità folle, ma lui non reagì in alcuna maniera.
Prese un ultimo tiro e parlò quasi inalando. “Usalo tu il mantello, io ho un altro posto in cui andare.”
“Sono un prefetto, posso sempre inventarmi qualcosa.”
Remus lo guardò alzarsi e spazzolarsi i vestiti per nessuna ragione in particolare. “Non so se l’hai notato, ma state tutti rigando dritto. Persino James.” Lanciò un’ultima occhiata diffidente alla Torre, come se avesse potuto prendere vita e lanciarlo lei di sotto. “Lasciami fare quello che so fare meglio.”
“La vittima?” Remus parlò senza pensarci, di nuovo, le pile di veleno nella sua testa che si srotolavano all’improvviso.
Sirius si voltò di scatto a guardarlo, una mano già sulla grossa maniglia ovale. Aveva la capacità innata di apparire ferito e orgoglioso contemporaneamente. “Se hai qualcosa da dire perché non lo fai e basta?”
“Perché è totalmente inutile, con te.”
“Oppure perché preferisci far parlare James, perché è più facile non affrontare nessuno.”
Remus rise, amaro.
“Perché preferisci di gran lunga avercela con me, credi che ti faccia quasi bene, che i problemi si risolvano da soli. Forse ti piace solo farmi penare.”
“No, Sirius, ce l’ho con te perché hai sbagliato alla grande e perché se per te ‘vendetta’ significa fare uno scherzo
perchè tu così l’hai chiamato, scherzo  e il centro di questo tuo scherzo sono io, allora cosa sono? Una fottuta attrazione da circo? Un fenomeno da baraccone?”
Remus capì di avere urlato per due ragioni: l’eco metallico nell’aria e la faccia di Sirius.
“Tu… mi dai troppo credito. Non ho pensato a nessuna di queste cose.”
“Ma io sì” disse Remus, il tono della voce di nuovo normale “e, per quanto adesso abbia anche buoni ricordi di quelle notti, non è una bella esperienza romperti le ossa una volta al mese e pregare di non uccidere nessuno. Io pensavo che tu, tra tutti, sapessi bene cosa fossero il dolore e i punti deboli.”
Sirius distolse lo sguardo, le sopracciglia aggrottate come se l’avesse offeso, e Remus represse l’urgenza di spaccargli la faccia soltanto perché sapeva che quando Sirius non sapeva leggere le sue emozioni le traduceva in rabbia.
“Ora hai capito perché non parlo con te?”
Sirius scrollò le spalle e fece schioccare la lingua. “Davvero maturo, mettere in mezzo i miei problemi per farmi sentire più in colpa.”
E, con questo, sparì oltre la botola.
Remus decise che la sua uscita di scena fosse mille volte migliore del proseguimento di quella discussione, perché se fosse rimasto gli avrebbe tolto sicuramente ogni briciola di controllo e la faccia gliel’avrebbe spaccata davvero.

***
 
Hogwarts era un posto magico.
Ora, questa non era una novità. A ben vedere, questa non era neanche un’informazione trascurabile, ma più che altro il motivo per cui tutti loro erano lì.
Quello che intendeva James, quando alle porte di novembre prese coscienza di questo fatto, era che Hogwarts era un posto più magico di quanto lo fosse per definizione.
Le sue giornate ruotavano ormai attorno a una bizzarra routine. Nei giorni standard si svegliava, faceva colazione e si preparava a frequentare le sue classi mattutine e pomeridiane. Nel tempo libero si divideva tra il quidditch, il precario equilibrio di Sirius e il resto dei suoi amici. Qualche volta trovava del tempo per fare anche i compiti. Nei giorni assolutamente surreali e meravigliosi James faceva esattamente le stesse cose, ma con l’aggiunta di quel suo piccolo angolo di magia segreto.
James teneva molto alle tradizioni. Rinunciare a quella dello scherzo di Halloween era stato un duro colpo, per esempio, ma ne aveva trovata una nuova così fragile da farlo più volte desistere dal toccarla per paura che si rompesse.
Era un’intesa di cristallo, quella che si instaurò tra lui e Lily. Un’intesa che li portava a incontrarsi per caso, di tanto in tanto, al tavolo appartato della biblioteca.
Uno sguardo sanciva una pace temporanea e i commenti sarcastici smettevano di pretendere di ferire e diventavano solo scherzosi.
Se il tempo si fermasse, lasciando i pulviscoli immobili nel raggio di sole che li evidenziava e le parole sospese su concetti inutili, James non lo sapeva, ma ci avrebbe scommesso. Il tempo doveva fermarsi, non c’era altra spiegazione. Forse rallentava, al massimo, incastrato nelle iridi di Lily e nei colori che gli si accendevano nel petto.
“Di nuovo qui” lo salutò Lily quel giorno e James alzò gli occhi nei suoi e si chiese se fosse il modo in cui la luce la colpiva o semplicemente lei, a farlo sentire così. Doveva esserci, una parola che spiegasse meglio di cotta cosa fosse quello sfarfallare e sciogliersi nei punti più giusti.
“Ti ho tenuto il posto” scherzò James e Lily, come solo in quell’angolo di mondo riusciva a fare, rise all’evidente battuta: nessuno veniva mai lì.
“Davvero galante.”
“Questo ed altro, damigella.”
Lily alzò un sopracciglio e prese posto di fronte a lui. Il punto era che, fuori di lì, le cose diventavano più difficili: c’erano persone e opinioni e attenzioni diverse e non si sentiva l’esalare di un respiro. Ed era perché da solo forse era decisamente più gradevole che lei appoggiò la testa su una mano e lo studiò. “Come va?”
James annuì e scrollò le spalle. “È solo un po’... difficile.”
“Sei tra due fuochi, eh?” Lily raccolse un libro dalla sua cartella e lo sfogliò in una ricerca distratta dell’argomento di quella sessione di studio.
James annuì.
“Se non li puoi spegnere” iniziò lei e James si crogiolò solo per un attimo nella naturalezza con cui si stavano scambiando consigli di vita “lasciali bruciare.”
James non fu sicuro di comprendere dove volesse arrivare, ma era certo che fosse un ottimo consiglio. “E a te, Evans? Come va?”
Lei gli sorrise soltanto – gli sorrise! –, poi si immersero in una sonnolenta ma in qualche modo efficiente maratona di studio.
Fu solo verso le sei che James iniziò a sentirsi insofferente. Studiare con Lily era un regalo, un sogno, una specie di concessione divina, ma ci dovevano pur essere altre cose allettanti da fare!
“Evans.”
“Mh-mh?” replicò lei, alzando gli occhi solo qualche secondo dopo la sua mezza risposta. Quando incontrò le scintille che gridavano guai nel suo sguardo, aggrottò la fronte con aria interrogativa.
“Ti va un’avventura nella Sezione Proibita?”
James riuscì praticamente a vedere i pensieri che si accavallavano nella testa di Lily, ma si aggrappò alla possibilità che fosse anche intrigata, inguaribilmente curiosa, affamata di brividi in fondo quasi quanto lui.
“Forse è troppo per te, non avrei…”
“Facciamolo” ribatté Lily e James distese le sopracciglia, sorpreso ma non totalmente. Se solo lei non avesse passato tutto quel tempo a odiarlo, pensò, si sarebbero potuti godere molto prima la loro comune sete d’avventura. “Ma io non voglio finire in detenzione.”
“Puoi solo fidarti di me” ribatté lui, alzandosi e assicurando il suo zaino solo su una spalla. Le offrì una mano per invitarla a seguirlo, ma lei lo ignorò e lo precedette, incamminandosi nei corridoi con la sicurezza di chi aveva passato anni a memorizzare la strada per la Sezione Proibita, ma si era sempre fermato alla soglia.
 
I dorsi dei libri sembravano minacciarli. Gli scaffali parevano voler crollare loro addosso e divorarli tra le pagine ammuffite dei loro ospiti. Ma James avrebbe pagato tutti i galeoni del mondo per guardare per sempre il fascino riflesso negli occhi di Lily davanti a tutti quei trasgressivi divieti.
“Questo è sulla Trasfigurazione illegale” constatò lei, la voce appena un sussurro. James si avvicinò a dare un’occhiata allo scaffale in questione, ignorò il suo profumo e sgranò gli occhi incuriosito. Non aveva la più pallida idea, neanche sfruttando tutte le sue immense scorte di fantasia, di quali trasformazioni potessero essere proibite. Con un’occhiata accorta alle loro spalle, alzò un braccio e poggiò un dito sulla cima del dorso del libro.
Lily sgranò gli occhi quando lo sfilò dal suo posto e se lo fece cadere tra le mani. “Ma che fai?!” sussurrò concitata.
James rise piano e lo aprì, attento a far frusciare le pagine il meno possibile e a minimizzare il tonfo che producevano quando le sfogliava a blocchi grandi. “A quanto pare è vietato trasfigurare oggetti di uso comune in armi” mormorò “e persone in animali o oggetti inanimati.”
Lily riconobbe quanto fosse inutile tentare di fermarlo e annuì impressionata, muovendosi verso lo scaffale successivo, in cerca di altri segreti interessanti. Tanto valeva sfruttare la situazione al massimo.
Si bloccò tuttavia, gli occhi sgranati e le labbra schiuse, non appena esitò con lo sguardo su una sezione dolente.
“Evans?”
Quando lei non rispose, James le si affiancò e alzò gli occhi sullo scaffale da cui lei non aveva distolto lo sguardo. Quando riconobbe il tema, aggrottò le sopracciglia e un moto di rabbia gli si accese nello stomaco. “Oh, già… Quello l’ho letto” la informò, indicando uno dei tomi più in alto. Il dorso del libro era scorticato. Lasciava intravedere la copertina nuda e i punti a cui i funghi si erano aggrappati nel tempo.
“Davvero?”
James annuì e afferrò il libro che quattro anni prima Sirius gli aveva messo tra le mani. Quello che al tempo gli era sembrato il peso insostenibile di una lama di ghigliottina, oggi non pesava né più né meno di una grossa bugia.
Lily lo sfogliò direttamente dalle mani di James e a lui parve che, in qualche modo imbarazzante e non del tutto tangibile, lo stesse spogliando di un’intimità che era diventata anche sua, un segreto di cui in qualche modo si era fatto carico nel tempo.
“Se permetti” iniziò James e Lily alzò gli occhi nei suoi e aggrottò le sopracciglia. “Non è vero che i lupi mannari sanno quello che fanno, quando sono trasformati. Lo dicono solo per incolparli in seguito. Perdono totalmente il polso” il braccio sinistro pizzicò là dove le unghie del lupo lo avevano graffiato e quasi ucciso. “E non ho neanche bisogno di dirti che non sono intrattabili.” James rise, ma di disprezzo. “Violenti? Incapaci di ragionare? Lo sembro più io che lui, a dire il vero. Sono tutte cazzate, credimi. Questo libro è stato scritto settemila anni fa, non un anno di meno.”
Lily sorrise e annuì. “Lo so, davvero. Non l’ho mai letto, ma sono certa che sia pieno di pregiudizi.”
James la guardò per un attimo. Sembrò ricordare che l’insulto veniva da un libro scritto effettivamente molto tempo prima e non da Lily. Espirò e cercò di calmarsi. Richiuse il libro con un po’ troppa violenza. “Tutte cazzate” ripeté.
Purtroppo, però, fece l’errore di non rimetterlo delicatamente al suo posto, ma di sbatterlo nella fessura tra altri due libri che reiteravano probabilmente la stessa fuffa. Il testo non sembrò gradire il trattamento e atterrò, invece che al suo posto sullo scaffale, sul pavimento scricchiolante della Sezione Proibita, con un colpo che echeggiò alto forse fino a raggiungere i confini della Luna.
James e Lily si guardarono negli occhi, un’intesa nuovissima, adrenalinica e genuinamente terrorizzata.
“Cosa facciamo?” domandò lei, un attimo prima che la voce di Madama Pince si diffondesse a solo qualche metro di distanza, nell’intrico di librerie e ripiani.
James si guardò attorno. C’era qualche banco stracolmo di libri tra cui potevano provare a mimetizzarsi, ma sarebbe stato poco efficace davanti agli occhi di chi era venuto lì con l’intento esatto di cercare qualcuno che si stesse nascondendo.
“Lily” iniziò lui e abbandonare l’uso del suo cognome aiutò effettivamente a farle percepire l’entità del danno “conosco un modo per non farci trovare, ma devi giurarmi che non lo userai mai e poi mai contro di me.”
I passi di Madama Pince aumentarono di volume, schioccando sul parquet o atterrando sordi dove i suoi tacchi incontravano la moquette.
“Lily, adesso.”
“Sì, va bene, ho capito. Te lo giuro.”
Con un’ultima occhiata esitante, James tirò giù la cerniera del suo zaino e ne cavò fuori un rettangolo di tessuto dal colore smorto: il Mantello dell’Invisibilità. Lily ebbe modo di adocchiarlo solo per un istante prima che James lo facesse volteggiare in aria con una mano e appoggiasse l’altra tra le sue scapole, attirandola a sé. Il mantello li coprì entrambi un attimo dopo, ondeggiando e adeguandosi ai loro corpi. James ebbe solo un attimo per constatare che doveva stargli appiattendo i capelli in una maniera molto poco attraente. Tuttavia, aveva ancora una mano sulla schiena di Lily ed era certo di non esserle mai stato così vicino. Il bilancio, suppose, era positivo.
“Ma cosa dia…”
“Shh” la zittì lui, premendo la mano libera sulle sue labbra. Lily aggrottò le sopracciglia, smarrita ma anche offesa. James ignorò le sue lamentele e si voltò in direzione dei passi della bibliotecaria.
Vide la figura imprecisa della donna materializzarsi davanti ai loro occhi. Registrò appena il fiato di Lily arrestarsi di scatto, da qualche parte sotto la sua mano.
Madama Pince aggrottò la fronte e afferrò il libro caduto con aria sospettosa. Si guardò attorno un paio di volte e James si irrigidì quando i suoi occhi sfiorarono i loro, nascosti sotto il mantello.
Poi la bibliotecaria alzò gli occhi al cielo e allargò le braccia, lasciandosi alle spalle la Sezione Proibita. “PIIIIX!” gridò rassegnata. Gli scaffali ingoiarono il resto delle sue lamentele.
Il poltergeist Pix si materializzò per un attimo davanti agli occhi dei ragazzi. James mimò con le labbra un ‘ti prego’ disperato. Quello fece loro l’occhiolino e si allontanò a prendersi colpe che non erano sue.
Passò qualche secondo di silenziosa tensione, poi James liberò Lily dalla sua stretta e la osservò sospirare di sollievo. “Scusa.”
“Come hai fatto a convincerlo?”
“Pix?” James sorrise “Mi deve un sacco di favori.”
“È un… mantello dell’invisibilità?” domandò scettica Lily. Erano ancora nascosti, per qualche ragione, e solo a qualche centimetro di distanza.
James annuì piano e guardò il tessuto attorno a sé come se fossero state pareti. 
“È così che siete spariti nel nulla un mucchio di volte?”
James annuì di nuovo, forse vagamente più a suo agio, ora che Lily gli aveva ricordato chi era di solito e come si comportava. “Una promessa è una promessa, Evans. Sei stata iniziata a uno degli artefatti più segreti della nostra collezione. Acqua in bocca.”
E, con sua sorpresa, Lily annuì complice.

***
 
Il segno più evidente che a Hogwarts il Natale fosse alle porte aveva molto a che fare con gli Scacchi dei Maghi. Le prove e i compiti da consegnare si esaurivano a velocità diverse, ma che portavano tutte a tagli alle interminabili ore di studio. La leggerezza iniziava a serpeggiare tra le crepe, tra le pagine voltate con noia e negli occhi che si perdevano oltre i vetri delle finestre durante le lezioni.
Quell’anno, tuttavia, festeggiare iniziava a prendere anche il sapore del senso di colpa e i festoni sfoggiavano colori meno brillanti. Era ingiusto, pareva, che mentre la scuola veniva decorata, il freddo e la morte infuriassero oltre le sue mura e il mondo soccombesse sotto il peso dell’inevitabile furia di un uomo solo. Un uomo solo, sì, ma molto convincente.
Neanche il Signore Oscuro, però, poteva impedire ai giorni di scorrere e a una certa strana voglia, forse per questo anche più vitale del solito, di trovarla eccome la gioia, di cercarla con tanto di lenti d’ingrandimento e occhialini, perché in qualche modo era fondamentale e irrinunciabile.
E quindi Hogwarts si tinse di addobbi, alberi e luci e cercò di brillare più intensamente della notte là fuori.
Il primo segno del Natale, puntuale come i gufi delle cattive novelle, erano dunque gli Scacchi dei Maghi.
Peter diventava una dannata piaga.
Non erano molte le cose in cui Peter Minus superava gli altri, ma, quando si specializzava in qualcosa, diventava davvero inarrestabile. Gli Scacchi dei Maghi erano una di queste cose. Tra i Grifondoro e i Tassorosso rimaneva imbattuto, i Serpeverde si tenevano a distanza dai loro tornei e l’unico che riuscisse a tenergli testa tra i Corvonero era Bertram Aubrey. I due continuavano a darsi la rivincita e a perdere a turno e Sirius aveva detto a Peter, un anno prima, che visto che a Marlene piaceva Bertram, l’unico modo per farla innamorare di lui era batterlo. Peter sapeva che lo prendeva in giro, ma il desiderio di vincere era ingovernabile.
Peter, dunque, era indaffaratissimo, nel periodo natalizio, e diventava totalmente cieco ai suoi impegni più incombenti, come ristabilire un equilibrio necessario alla sanità mentale del dormitorio maschile del sesto anno, tanto per fare un esempio. Per lui ‘progresso’ era anche solo il fatto che Sirius avesse capito che per far tornare le cose come prima servivano tempo e riconquista di fiducia.
James, dal canto suo, era stato categorico – e James quando era categorico era anche spaventoso – sul fatto che non avrebbe mosso un dito, che le questioni degli altri dovevano risolverle, per l’appunto, gli altri, e che l’unica questione su cui avrebbe messo bocca sarebbe stata la divisione dello stufato di carne che condividevano a cena. Una divisione molto poco equa, a dirla tutta.
Quindi Sirius e Remus avevano affrontato le loro paturnie quotidiane in maniera matura, ovvero studiando allo stesso tavolo senza rivolgersi la parola. In quella maniera Peter, se avesse distolto l’attenzione dal suo torneo di scacchi, si sarebbe compiaciuto, credendo di vedere un progresso e James avrebbe potuto scuotere la testa rassegnato in quella maniera che credeva lo facesse apparire responsabile e premuroso agli occhi di Lily. Intanto a Sirius veniva un infarto ogni volta che Remus alzava lo sguardo su di lui, confermando, a suo dire, i suoi sospetti sul fatto che vivesse mille volte meglio senza di lui.
La definizione di equilibrio.
Quella sera, però, le partite di Scacchi dei Maghi si erano tenute nella Sala Comune Corvonero e quasi tutti gli studenti Grifondoro che non erano andati ad assistere si erano ritirati a dormire. Remus, convinto come al solito di doversi guadagnare il posto a Hogwarts studiando il doppio di quanto avesse bisogno, non si era accorto che erano in pochi rimasti in Sala Comune e Sirius non gliel’avrebbe certo fatto notare.
Patetici, sì, ridicoli, ovviamente, ma stupidi mai.
Sirius lanciò un’altra occhiata al suo amico e lo vide sbuffare e aggrottare la fronte concentrato.
“Cos’è che non capisci?”
Remus si morse il labbro inferiore e esitò ancora un attimo con lo sguardo sul suo libro, prima che si decidesse a incontrare quello di Sirius. “La differenza tra implementazione e modificazione del DNA.”
Sirius annuì e aggrottò le sopracciglia. L’ultima cosa che voleva era sembrargli saccente, ma stava studiando anche lui Erbologia e quella cosa l’aveva capita. Tutti quei ‘se’ e quei ‘forse’ non erano affatto da lui, quindi si limitò a scrollare le spalle. “L’implementazione è quando, unendo due semi, fai germogliare una pianta rafforzata o fino a quel momento inesistente, con la modificazione del DNA agisci sulle cellule e controlli artificialmente le modifiche.”
Remus distolse lo sguardo confuso per qualche attimo, poi distese la fronte e annuì. Sirius fu sicuro che avesse capito. “Grazie” mormorò tornando con gli occhi sulle sue pagine. La spiegazione se ne prendeva ben quattro per ogni processo, invece Sirius aveva usato solo due frasi. “Ti stai impegnando, eh?”
Lui si strinse nelle spalle e diede un’occhiata ai suoi appunti: un lago di inchiostro e illeggibilità. “Non ho molto da fare.”
“Hai fatto i Pugnaci?” domandò Remus, senza pensarci.
Sirius alzò gli occhi al cielo, in cerca di un ricordo da pescare, poi annuì. “Mi mancano i Formicaleoni, però.”
“Io li ho fatti” ammise Remus, che, al contrario di qualcuno, si preoccupava di leggere i libri seguendo l’ordine delle pagine. “Credi che ci metteremmo di meno se ce li spiegassimo a vicenda?”
“Decisamente” Sirius sorrise furbo. La possibilità di distrarsi ogni trentadue secondi sarebbe stata così scongiurata.
Passarono le ore finali della sera e i primi rintocchi della notte a parlare ed enunciare proprietà di piante dai nomi improbabili. Tendenzialmente avevano proprietà velenose o carnivore, il che non le rendeva un argomento felice di conversazione. I Formicaleoni, gli aveva detto Remus, avevano una linfa che negli uomini aveva proprietà allucinogene e agiva sulle emozioni di chi vi si sottoponeva, poi gli aveva ordinato, come prefetto, di non azzardarsi neanche a pensare di rubarne un po’ dalla serra della scuola perché aveva riconosciuto l’idea accendersi nei suoi occhi; il che, contro ogni previsione, era stato un momento divertente della loro chiacchierata.
La verità su tutto quel parlare di piante e ridere alla vista delle foto esilaranti riportate sul libro, era che loro due erano stranamente compatibili.
Sirius si ritrovò a pensare che la cosa fosse una scoperta, che passare sei anni a tramare scherzi, rispettarsi e condividere un dormitorio e tutte le imbarazzanti realtà che questo comportava non l’avevano mai dimostrato. I Malandrini erano nati perché tutti avevano avuto bisogno di qualcuno con cui condividere aneddoti e fardelli, perché erano costretti a vivere sotto lo stesso tetto e sopportarsi quotidianamente, perché James aveva preso tre persone che non avevano niente in comune e aveva provato a vedere se insieme funzionavano.
E funzionavano.
Non che tutto quello che avevano condiviso fino a quel momento fosse stato frutto di un intervento artificiale come quello sulle piante in Erbologia, ma aveva reso difficile valutare se, nell’immensità di un mondo inesplorato, con oceani a separarli e venti controcorrente, si sarebbero comunque cercati disperatamente, se fossero effettivamente tutti pezzi combacianti di un qualcosa di più grande. Se avessero davvero bisogno l’uno dell’altro.
E la verità era che non riuscivano a stare lontani troppo a lungo, che doveva averlo capito anche Remus, quando non era troppo impegnato a combatterlo.
Forte di una realizzazione quasi spirituale, per uno che di realizzazioni non ci campava, Sirius dimenticò di essere se stesso e commise un errore.
“Ho una domanda” iniziò, dopo che Remus gli ebbe comunicato che allevare un Geranio Zannuto non sarebbe stata una grande idea. Lui mosse una mano come a invitarlo a continuare e quello era esattamente tutti ciò di cui Sirius non aveva bisogno. “Dopo l’ultima partita di quidditch Greta Catchlove non è andata in spogliatoio, ma ti ha aspettato all’uscita degli spalti” gli comunicò, come se Remus non l’avesse saputo. Notò la solita difesa tornare ad oscurare lo sguardo di Remus, ma ormai era troppo tardi per rinunciare.
“Sirius…”
“No, non, cioè…” alzò una mano perché non voleva assolutamente, in nessuna circostanza, che Remus portasse a termine quella frase, qualunque essa fosse. “Solo che, capisci, io non sono proprio uno sconosciuto per te, quindi… esci con qualcuno?”
Non capì se Remus volesse scoppiare a ridere o tirargli un pugno. Si chiese quanto gli ultimi tempi stessero mettendo a dura prova la sua capacità di non rendersi ridicolo e il fatto che non lo sapesse confermò i suoi sospetti.
Oh no, era diventato uno sfigato. Lui, tra tutti.
“Ti interessa?”
Un grazie caloroso a Remus Lupin per non aver neanche risposto e avergli posto la domanda peggiore che potesse concepire. Sirius scrollò le spalle con la massima disinvoltura. Era diventato vagamente stupido, negli ultimi tempi, ma certi talenti non si spegnevano mica davanti a una cottarella e la nonchalance era uno di questi. “No, chiedevo tanto per.”
“Tanto per” gli fece eco Remus, scettico ai limiti dell’irritante.
“Non sono fatti miei” intuì Sirius, anche se erano eccome fatti suoi.
Forse.
Forse no.
E poiché quando si peggiorano le cose la cosa più facile è sempre peggiorarle ulteriormente, aggiunse: “comunque io no, te lo dico anche se non sono fatti tuoi.”
“Va bene.”
“Cioè, neanche cose… senza impegno, tipo…”
Remus alzò una mano e aggrottò le sopracciglia. “Sirius, cosa stai cercando di fare?”
Non lo sapeva assolutamente, mostrarsi più serio, forse? Affidabile? Anni a prendere in giro James per la sua più completa inettitudine, quando arrivava il momento di parlare con Lily e adesso era lui quello che dava il tormento a Remus! Una specie di contorto ciclo di vendette della vita. Si giocò la carta dell’onestà, perché con quella non si sbagliava mai. “Non lo so.”
Remus lo guardò con gli occhi di uno che, invece, lo sapeva eccome. “Si è fatto tardi” annunciò, come se non si fosse fatto tardi almeno due ore prima, poi lasciò il tavolo della Sala Comune.
“Studiamo anche domani?”
E, contro ogni aspettativa, Remus annuì brevemente prima di sparire sopra le scale.
Il bilancio di quei mesi, dunque, per Sirius e James fu solo uno: il modo migliore per guadagnare la fiducia di chi si voleva impressionare era studiarci assieme.
Una tortura.





 

lE id etoNCIAOOOOOO sono tornata non mi odiate lo dico subito così non potete arrabbiarvi ho avuto un blocco disastroso per tirarmene fuori ho dovuto scrivere e pensare ad altro. A farmi tornare la forza di continuare questa storia è stata una rilettura di Text Talk, se non la conoscete è una fanfiction bellissima su ao3 ve la consiglio perché ha ottime caratterizzazioni e ci sono delle frasi che mi fanno sputare polmoni anche dopo averle rilette settantadue volte.
Comunque tornando a noi, imporvvisamente non ricordo più niente di quello che dovevo dire mmmmh. Vabbé questo capitolo è stato cambiato ventimila volte, che ve lo dico a fare, questo è il vincitore per sfinimento. Tra l'altro il computer mi sta dando un sacco di problemi e sto temendo di perdere questa copia del documento quindi lalalala ok funziona. Non sono una fan del troppo drama dello scherzo, quindi adesso vi dico quanti capitoli mancano alla fine della storia così vi fate un'idea sul fatto che non vi ammorberò a riguardo: 8. Ecco, bene. Ok, me ne vado, sono sicura che ci fosse qualcosa di importante da precisare ma vabbé mi verrà in mente.
ASPETTATE FERMI DOVE ANDATE OOOO: Juriaka ha fatto una playlist per questa storia (sto urlando, mentre lo scrivo), sentitela perché se non fosse chiaro Juriaka ha fatto una playlist per questa storia (ed è bellissima). Qua.

Ok, gente, grazie per aver aspettato oltre un mese e per essere ancora qui io sono sconcertata <3

El.


 

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Capitolo 28
*** Capitolo 26 - Effetto farfalla ***


26. Effetto farfalla

 





Quella mattina era diversa da tutte le altre.
Dopo una colazione fatta di auguri, raccomandazioni e promesse per l’anno nuovo, quasi tutti gli studenti di Hogwarts avrebbero finito di impacchettare libri, abiti e tutto ciò che stava nel mezzo e sarebbero tornati alle loro case per le vacanze di Natale.
Remus schiuse un occhio e osservò la luce del mattino infrangersi contro le sue tende, bagnandolo di un tenue bagliore rosso. Sembrava di stare in un guscio dalle pareti inconsistenti, avvolto nella trama rassicurante di un tessuto che presto, però, avrebbe dovuto lasciare.
Capì che era prestissimo quando si fermò ad ascoltare gli uccelli cinguettare oltre le finestre e i respiri regolari e ritmici dei suoi compagni di stanza, nei letti vicini al suo.
Remus odiava le mattine e, soprattutto, odiava essere cosciente prima delle dieci, ma doveva ammettere che quella calma attutita era avvolgente in una maniera quasi magica. Come solo i silenzi di migliore fattura sanno fare, la mattina acquistò ben presto un suo affascinante frastuono e cantò una musica simile a quella della verità.
Remus non l’aveva sentita, in tutto quel tempo in cui si era perso a guardare solo la sua cerchia – il suo branco? –, ma al mattino la guerra faceva più rumore.
Un agglomerato di venti, alte maree, cataclismi, tornadi e frane si stava avvicinando a passo lento ma inesorabile e Remus si sentì irrimediabilmente piccolo, incapace di gestire il temporale che gli sarebbe piovuto addosso, nonostante tutti i suoi tentativi di evitare di pensarci.
Fu uno scatto breve ma fondamentale, veloce come quello di un interruttore, preciso come quello di una sicura, deciso come quello di uno sparo. Fu un click sconvolgente nella sua semplicità.
“Cosa diavolo stiamo facendo?” si domandò in un mormorio, poco più che un sospiro.
Le colpe erano colpe, certo, il dolore restava intatto e forse bruciava fiero come il primo giorno. Era stato deluso, la sua sicurezza e quella degli altri era stata messa a rischio, la sua carriera e le sue possibilità in quel mondo erano state sull’orlo di un precipizio e lo spettro della solitudine era tornato a ricordargli le sue paure nella maniera più vivida e reale con cui gli si fosse mai presentato. Quelle sensazioni erano istintive, forse addirittura sane per uno come lui, ma avevano un problema che non riusciva più a non vedere: Sirius non si era mai messo ad architettare strani complotti per rovinargli la vita. Anche se non l’avesse saputo per certo, Remus gliel’avrebbe potuto leggere negli occhi ogni volta che incrociava il suo sguardo. Questo non cancellava i fatti, ma, in un mondo in cui Lily e Mary erano in pericolo costante, in cui si veniva uccisi perché qualcuno voleva farlo, perché effettivamente c’era uno strano complotto architettato per rovinare a tutti la vita, le sue colpe pesavano di meno.
E anche se Remus non credeva di averla del tutto superata, doveva ammettere che se c’era una cosa che tutti avevano sempre sottovalutato, alla stregua di una battuta, quella era la rabbia di Sirius: quel groviglio di pesi repressi che nessuno lo aveva mai aiutato a portare sulle spalle. Gli sembrò semplicemente stupido non essere stato un minimo previdente da vederlo arrivare.
Con la luce sempre più intensa del mattino Remus non lo perdonò, ma ridimensionò, mise sul piatto della bilancia quello che avevano e quello che avrebbero potuto perdere e capì che anche se si sentivano invincibili, padroni di un mondo che avrebbero potuto rovesciare, erano un mucchio di ragazzi indifesi senza alcuna certezza. Se avevano un’arma, anche solo una, contro tutto quel nero, non era forse l’unione?
E la verità risaltò come una macchia di inchiostro su pergamena nella forma di una domanda senza risposta e per questo più urgente:
Quanto tempo stavano sprecando?

***
 
Le feste natalizie si consumarono in casa Potter a un ritmo che tendeva a lasciare tutti indietro a mangiar polvere.
Sirius, l’anno precedente, si era presentato nel pieno della notte a casa di James con un certo ritardo per i festeggiamenti. Invece, quell’anno, vedere la famiglia Potter al completo aveva fatto uno strano effetto. Euphemia e Fleamont erano due persone splendide e l’avevano accolto come un figlio, ma anche il resto della famiglia di James era stato espansivo. Eppure c’era qualcosa, che all’inizio credeva ingratitudine e che forse in realtà era qualcos’altro – un richiamo?, qualcosa che non gli lasciava credere che quello fosse completamente il suo posto.
James aveva preso qualche svista nella sua innata capacità di leggerlo, ma quella volta l’aveva capito al volo e scorrazzare per il giardino e organizzare malefatte aveva portato un po’ di divertimento tra i toni freddi di quella cosa enorme che neanche gli adulti avevano voglia di nominare. In realtà il metodo di James aveva anche fatto perdere una corda vocale a Euphemia, perché a correre così al gelo, a detta sua, ci si prendeva l’influenza sicuramente.
Quel giorno, a meno di una settimana dal ritorno a scuola, fu la volta dello slittino.
Ora, slittino era una definizione troppo lusinghiera. Erano tre assi di legno dritte unite tra loro ed erano state anche dipinte di rosso il giorno precedente, quando si erano preparati per testare la loro nuova creazione e avevano trovato ad attenderli una bufera fitta come il numero di oggetti non identificati che si potevano trovare nei loro bauli.
Quella mattina, però, era tornato il sereno.
James e Sirius si inerpicarono su quella che avrebbero tanto voluto chiamare collina e che non era nemmeno un dosso, poi depositarono sulla neve quello che avrebbero tanto voluto chiamare slittino e che non era nemmeno un rottame. Infine, si scambiarono un’occhiata afflitta.
“Su questa non scivola neanche una pluffa” considerò James, dando un’occhiata prima allo slittino, poi ai metri di neve che si stendevano inefficienti davanti a loro.
“No, infatti.” Sirius si morse un labbro e si guardò attorno. “Andiamo” comandò poi, spingendo James giù dal leggero rialzo di terra su cui avevano puntato e abbassandosi, allo stesso tempo, a recuperare qualcosa nascosta tra la scarpa sinistra e i suoi pantaloni.
James alzò un sopracciglio quando si voltò a guardarlo e lo vide sorridergli sghembo con la sua bacchetta in mano. Oh, quella era stata la novità più irritante delle vacanze di Natale. Secondo il parere di James, una vera tortura.
Sirius agitò la bacchetta e coriandoli di neve si alzarono dalla loro comoda e soffice posizione per ricadere copiosi sulla collina che iniziava effettivamente ad assomigliare sempre più a una discesa. 
“Certo che ci stai mettendo un po’,” commentò ironico James, dopo qualche minuto di abusiva riorganizzazione della neve del giardino “mi chiedo, ma ti mandano a scuola per perdere tempo?”
A quel punto, il dosso aveva preso più le dimensioni di un colle dal quale si potesse scendere con uno slittino. Sirius non perse tempo. Afferrò le loro assi di legno dai sogni ambiziosi e risalì la collinetta.
Almeno era solida.
James lo seguì e guardò in basso. Un po’ era soddisfatto, un po’ non era sicuro che fosse abbastanza pericoloso.
“Sono il re del ghiaccio” lo informò Sirius, un sorriso arrogante e un fiocco di neve che volteggiava sospeso a qualche centimetro dalla sua mano. “Tu fai la mia principessa?”
“Veramente la moglie del re è la regina” ribatté James e rimpianse la provocazione con un attimo di ritardo.
Sirius fece scattare la mano che reggeva la bacchetta e James si ritrovò in mutande. A nulla servirono i suoi tentativi troppo poco magici di evitare la discesa dei suoi pantaloni.
Gli sfuggì un lamento. Aggrottò le sopracciglia e fece danzare lo sguardo tra la mano con cui Sirius reggeva la bacchetta e i suoi occhi. “Questo” iniziò, alzandosi i pantaloni con un gesto stizzito “è abuso di potere.”
“Questi sono i mesi migliori della mia vita, Ramoso” lo corresse, dondolando lo slittino con un piede. Il legno delle sue assi gemette già solo con quel peso. Nessuno dei due si interrogò su quanto avrebbe protestato quando vi si sarebbero accomodati entrambi. “Ma tu non sei ancora pronto per questo discorso…”
James alzò gli occhi al cielo perché con quella facevano esattamente troppe volte che Sirius faceva quella battuta.
“Lo riprenderemo quando sarai più grande.”
“Tra tre mesi?”
“Me li godrò alla grande.”
Con un cenno del capo di Sirius, i ragazzi si sistemarono sullo slittino. Questo si lamentò – si lamentò fragorosamente – ma non cedette.
“Ah, Jamie, attento!”
Non erano neanche partiti, a dire il vero, si erano solo seduti, ma una palla di neve venuta dal nulla impattò violentemente contro la faccia di James. Il ragazzo grugnì un insulto molto colorito e si sfilò gli occhiali per ripulirli. “Non me ne frega niente se puoi usare la magia” iniziò e Sirius trovò buffo il modo in cui gli occhiali gli avevano protetto solo gli occhi dalla neve, ricoprendogli il resto della faccia a macchie “io prima che torniamo a Hogwarts ti spezzo la bacchetta.”
“Violento… mi piace. Partiamo?” propose Sirius e, con James ancora con gli occhiali tra le mani, puntò i piedi e fece scivolare lo slittino rosso sul lato della loro collina.
James strinse gli occhi e lasciò che fossero le percezioni a raccontargli l’esperienza, visto che non distingueva uno Snaso da un palo della luce. Percepì il cambio di terreno dello slittino, il vuoto sotto di loro e un miscuglio di vento gelido e cristalli di ghiaccio che gli sferzava il viso. Ebbe solo il tempo di chiedersi perché diavolo Sirius avesse costruito la collina con un angolo così improbabilmente ripido, prima che lo slittino prendesse troppa velocità a metà della corsa.
“Oh” fu tutto quello che Sirius riuscì a commentare prima che il glorioso slittino rosso esalasse l’ultimo sofferto respiro e si smembrasse sotto di loro, lasciando che fossero le loro chiappe a portarli a destinazione.
Si ritrovarono lontani un paio di metri l’uno dall’altro, stesi nella neve e nella vergogna del loro fallimento. Si guardarono coperti di gelo e fiocchi bianchi per qualche secondo di dolorante silenzio, poi scoppiarono a ridere così forte che un paio di scoiattoli si affacciarono a dare un’occhiata.
James fu il primo a rimettersi in piedi e dirigersi verso Sirius. Gli porse una mano non certo per aiutarlo a rialzarsi, ma perché reggeva i suoi occhiali e avevano le lenti scheggiate. “Me li aggiusti?” gli domandò dall’alto.
Sirius, a pancia all’aria e probabilmente poco interessato alla strada che la neve si stava aprendo tra i suoi vestiti, alzò una mano e se li fece passare con un cipiglio concentrato. “Ti va una montatura rosa?”
James incrociò le braccia al petto, ma si lasciò scappare una risata. 
“Oh sì, potremmo applicare delle piume rosa pallido qua” suggerì Sirius, indisturbato, muovendo la mano da qualche parte attorno alle lenti “per un look più sbarazzino.”
Risero ancora e Sirius si sentì decisamente misericordioso quando gli aggiustò effettivamente gli occhiali senza liberare il suo estro creativo sulla montatura. James fece l’errore di tendere la mano, perché desiderava ardentemente tornare a vedere, ma Sirius ne approfittò e lo tirò giù afferrandolo per il polso. Si riempì il pungo di una manciata di neve e la infilò a tradimento nello spazio tra la zip del suo giubbotto e la felpa che portava al di sotto.
“Bastardo” sussurrò James, che però aveva i riflessi allenati da anni e anni di bolidi e che comunque gli stava sopra. Sfruttò il vantaggio per attaccare a sua volta perché una lotta nella neve era più subdola e allettante di una normale e infatti, non più di cinque secondi dopo, si ritrovarono entrambi infreddoliti e fradici a cercare di ribaltare le posizioni e farsi evidentemente lo shampoo a vicenda.
Il divertimento durò finché Euphemia Potter non rispose a tutto quel baccano di tegole di legno che si sfondavano e lotte greco-romane in piumini da montagna e si affacciò in giardino, cercando di mascherare il divertimento.
“C’è una sorpresa per voi!”
 
La sorpresa per loro risultò in una palla di neve che si sciolse nella mano di James e una che Sirius lasciò cadere a terra perché fu troppo occupato a essere terrorizzato e sconvolto e confuso e terrorizzato di nuovo per curarsi di una cosa superflua come la gravità.
A rompere il ghiaccio, sebbene il giardino ne fosse pieno, fu Peter, che si fece strada al gelo stretto nel suo piumino caldo e tanta voglia di fare da mediatore. “Ehi!”
Il problema era che Peter non era venuto da solo.
James fu il primo a riscuotersi. “Ciao!” lasciò andare l’impiastro di neve e acqua che gli gelava le mani e corse incontro a Peter e Remus. “Che ci fate voi due qui?” domandò ridacchiando e abbandonando due manate sui loro cappelli.
Euphemia Potter si ritenne soddisfatta del freddo benvenuto e si ritirò in casa, mormorando qualcosa sul fatto che James e Sirius fossero ancora fradici dalla testa ai piedi.
“Io ho chiesto ai miei di farvi una sorpresa!” ribatté Peter, vagamente troppo entusiasta mentre cercava di alleggerire una tensione che, più che nascondere, riusciva solo a evidenziare.
James cercò di fare la stessa identica cosa, ma ci riuscì con maggiore disinvoltura. “Puoi dirlo forte!” poi si voltò verso Remus, increspò le sopracciglia quel tanto che bastava per costringerlo a essere, se non sincero, almeno non bugiardo. “E tu?”
“Mia madre ha sentito quella di Peter tramite gufo, pare. Ha creduto che fossi triste e che stessi sprecando uno dei rari Natali senza luna” si strinse nelle spalle.
“Vado a farmi una doccia” annunciò Sirius, un sorriso di circostanza e un brivido appoggiato sulle spalle di provenienza ignota.
“Non rubare tutta l’acqua calda” lo avvertì James, in una risata che doveva essere contagiosa e che risultò solo ansimante e condensata in una nuvoletta sulle sue labbra.
Sirius schioccò le dita come se il suo piano diabolico fosse appena stato sventato dall’astuzia di James, rivolse a Peter e Remus un sorriso di benvenuto e rientrò rabbrividendo.
“Faremmo meglio a tornare dentro anche noi” parlò Remus, le mani sepolte nelle tasche “stai tremando, Ramoso, il camino è acceso?”
James annuì e guardò Remus farsi strada in casa sua. “Che disagiooo” canticchiò tra sé e sé, schiaffeggiandosi le guance con entrambe le mani.
Peter lo udì a stento. “Ehi, ci sono anch’io a dare una mano.”
“Già, Pete” James sgranò gli occhi in un’ironica ammissione di consapevolezza “già, ci sei anche tu. Siamo salvi!”
Il sarcasmo, Peter notò senza capire, lo colpì meno del solito.
Per tre mesi avevano dormito nello stesso dormitorio, cenato e pranzato allo stesso tavolo e studiato nelle stesse stanze, ma esaurire le vacanze di Natale nella stessa casa aggiungeva una componente volontaria alla loro compagnia, un’intimità che sprizzava imbarazzo da ogni lettera.
 
“James.”
Nel silenzio della notte, le grida delle stelle, lassù, erano poco più che sussurri. Il suono di un respiro era l’unico vero protagonista, accompagnato da qualche scoiattolo che scivolava rapido nel giardino, la neve croccante sotto le zampe.
“James” riprovò comunque Peter, perché nessuna forma di silenzio curava la sua invisibilità.
James lo considerò con uno sguardo, un brivido appoggiato sulle spalle troppo timido per tremare. Peter si sentì abbastanza riconosciuto da proseguire con la sua domanda.
“Perché diavolo non lo stiamo facendo in casa?” sussurrò, come se anche la domanda avesse contenuto il segreto della sua risposta.
“Perché il ghiaccio conserva a lungo, no?” James alzò un sopracciglio e testò la resistenza del fortino toccando uno dei suoi pilastri. “Cementifica” concluse distrattamente, decidendo che sì, il fortino avrebbe retto.
Quello era un fortino quanto le tre assi di legno di quella mattina erano uno slittino. In realtà era una tenda da campeggio, ma James e Peter l’avevano adagiata su una vecchia capanna, spargendo coperte a terra e candele in barattoli appesi al soffitto.
Ovviamente faceva un freddo cane.
E Peter era sinceramente nervoso. Per più motivi.
Il primo era James. James che non ascoltava, che aveva deciso che non avrebbe messo il naso negli affari degli altri ed eccolo che, apri-fila della coerenza, costruiva un fortino e organizzava il ritorno dei malandrini. Peter non si era mai considerato un tipo perspicace né tantomeno esperto di rapporti interpersonali, ma era abbastanza sicuro che quella fosse una mossa molto stupida.
Il secondo motivo per cui Peter era nervoso era Sirius, perché era un cazzone.
Il terzo motivo per cui Peter era nervoso era Remus, perché a volte le cose erano evidenti, cristalline. A volte la devozione era schiacciante e palpabile. E a volte l’assoluzione era una cosa semplice, scritta negli occhi di chi la cercava e nelle scrollate di spalle dei testimoni di quello che era stato un incidente. Così l’avevano chiamato, d’altronde, ‘l’incidente’. C’era un motivo se lui si chiamava Codaliscia, un motivo se James, Sirius e Remus erano Ramoso, Felpato e Lunastorta. Allo stesso modo ‘l’incidente’ si chiamava così per un motivo.
E Peter era stanco della farsa, stanco della consapevolezza che tutto sarebbe tornato come prima, se poi non facevano in modo che avvenisse, stanco di tutte quelle piccole cose che rendevano Sirius mortificato ma comunque orgoglioso, stanco perché non era certo che avrebbero alzato questo polverone, se nell’occhio del ciclone ci fosse stato lui, e non Remus.
“Ho portato i marshmallow” annunciò Sirius, facendosi largo nel fortino.
“Ma non c’è neanche il fuoco” gli fece notare James.
Remus allargò la fessura di tessuto che faceva da porta e abbandonò ai loro piedi una montagna di coperte di pile e plaid.
Perché ovviamente faceva un freddo cane.
“I marshmallow si possono mangiare anche senza fuoco, sai” gli fece notare Sirius, scartando l’involucro e affondando la mano all’interno per prenderne uno. Quando lo addentò, si guardò anche attorno. “Perché mi fissate?”
James lo ignorò. “Ebbene, signori, vi ho riuniti qui stasera…”
“Al gelo” intercettò Sirius. James gli rifilò un’occhiataccia. Sirius gli offrì un marshmallow in segno di pace. Fu prontamente rifiutato.
“Vi ho riuniti qui stasera… al gelo, perché questo è il nostro sesto anno e noi lo stiamo sprecando…”
“James,” Remus sospirò, il fortino forse troppo stretto, la coperta che si strinse addosso forse non calda abbastanza. Rise, ma non era un bel suono “chiuderci in una tenda era la tua grande idea?”
James lo guardò e deglutì, il fallimento del suo goffo tentativo sparso sui lineamenti.
Nei secondi che seguirono, Peter sentì il mondo gridare.
C’erano così tante cose sbagliate in quei due metri quadrati di spazio che avrebbe voluto alzarsi, prendere una pala e raderlo al suolo. Era tutto sbagliato, tutto stupido, tutto mescolato in quella maniera irritante e confusa tipica dei sogni psichedelici che si facevano dopo le abbuffate.
Peter temette di implodere, collassare su se stesso, decadere. Quello, o la parola.
“E cosa lo sarebbe, eh?” mormorò infine, il tono timido, quasi inudibile. Ma quella notte era fatta di stelle che gridavano in sussurri, respiri distinti e scoiattoli che grattavano la neve. E, in notti come queste, anche un mormorio poteva urlare.
Remus lo guardò. Non confuso, non indignato, ma guardingo.
Peter lo detestò.
“Se questa non è una buona idea, mi spieghi quale lo è?” smise di mormorare, la sua voce acquistò sicurezza, tre paia d’occhi bruciavano di sospensione. Era questo il potere? Il silenzio che passava tra uno sguardo e una tua parola? “Perché niente è una buona idea. Niente va bene. Organizziamo gruppi studio e non va bene, ceniamo insieme e non va bene, prendiamo James in giro in dormitorio e ancora non va bene. Costruiamo un fortino e comunque non va bene. Mi spieghi che ci fai tu qui, se niente è una buona idea?” domandò a Remus. Non era aggressivo quanto avrebbe potuto esserlo Sirius con il minimo sforzo, ma quello era il massimo sforzo di Peter e contava di più.
“Io… mia madre ha creduto…”
“Ma tu hai preparato comunque il tuo baule e adesso sei qui! Questa è la cosa più stupida che abbia mai visto in vita mia e lo dico pensando al torneo di Caramelle Tutti i Gusti Più Uno che abbiamo fatto al secondo anno.”
Il fatto che le battute non funzionassero rese Peter un po’ fiero, per una volta.
Sirius scambiò un’occhiata con James.
“Non sono sicuro che la questione ti riguardi fino in fondo” replicò Remus, calmo come le cose pericolose.
Ma Peter non aveva più paura. E Peter, senza paura, era una creatura diversa.
“Forse no,” convenne, “ma resta il fatto che io ho ragione e voi avete torto. E adesso vi dirò come stanno le cose, visto che non vedete oltre il vostro fottuto naso.”
Alla parola ‘fottuto’, pronunciata da Peter, Remus fu costretto a rendergli già metà vittoria.
“Tu” iniziò guardando Sirius “credi che il mondo ruoti attorno ai tuoi drammi, agisci di conseguenza e non guardi neanche dove cadi, ma se qualcuno inciampa sei il primo a farglielo pesare.”
Senza perdere un battito, Peter continuò.
“Anche tu, Remus, credi che il mondo ruoti attorno ai tuoi drammi, ma per motivi così diversi da diventare opposti. Credi che la gente si sieda sull’orlo della sua sedia, che voglia fregarti, che non aspetti altro che tradirti ed è per questo che non hai fatto sconti a nessuno, neanche a Sirius nonostante fosse così semplicemente ovvio che non intendesse arrivare a mettere James, te e Mocciosus in pericolo. Se non lo vedi è perché sei un cretino.”
“Io non ho fatto niente” si difese James, alzando entrambe le mani, quando Peter si voltò a guardarlo.
Io non ho fatto niente.
Già. James gli aveva dato la possibilità di essere uno di loro, ma poi l’aveva soffocato con la sua dannata perfezione. James faceva tutto benissimo, non cadeva mai, non sbagliava mai, aveva sempre il giusto consiglio, era il migliore amico di Sirius, riconosceva il momento perfetto per riunirli, creare ricordi, rinsaldare legami. James non aveva rivali: un campione di quidditch, uno studente brillante, sogni che era nato già sfiorando, una famiglia amorevole e ricca, l’amore e l’ammirazione di tutti. L’ammirazione di Peter.
James aveva un’ombra enorme, infinita, pulita nella sua sincerità e non importava quanto corresse, Peter viveva al suo interno, nascosto in quelle pieghe come se niente al mondo avesse potuto testimoniare il suo valore.
Riconobbe l’irritazione nei confronti di Remus e Sirius e riconobbe quella nei confronti di James. Erano di diversa fattura, una era impregnata di invidia. La vergogna lo costrinse a guardare James negli occhi e annuire.
Lui non ha fatto niente.
E quindi James non ottenne alcuna ramanzina, quella notte, la ottenne in forma di maledizione senza perdono cinque anni dopo.
“Le cose però stanno così: vi credete forti, tutti e tre. Invincibili, inattaccabili, col mondo dispiegato ai vostri piedi. Voi vi credete immortali. E sapete che fanno le persone immortali?” James fu l’unico che mantenne il suo sguardo. “Perdono tempo. Lasciatevi dire da un perdente che tra un anno potremmo essere nascosti da qualche parte sotto terra a nasconderci come topi. Non siete immortali e lo siete ancora meno se il mondo si prepara a una guerra. Non abbiamo idea di quanto tempo abbiamo, ma ci concediamo comunque il lusso di perderlo. Non mi importa se è difficile da vedere, questa è l’unica verità.”
Il bello dei tabù è che pronunciarli ha un effetto devastante, temprato dalle ore del silenzio intessuto loro attorno.
La guerra era uno di questi. 
“Hai ragione” disse Remus, il volume della sua voce fece capire a Peter che a un certo punto aveva alzato la sua, di voce. “Hai ragione” ripeté, perché aveva ragione.
Affrontare i suoi amici era stata una cosa strana. Una cosa che facevano di continuo tra di loro e con lui, ma di cui Peter non era mai stato protagonista. Tornò a percepire il freddo, l’imbarazzo sulle guance quando immaginò se stesso, in replay, dare voce ai suoi pensieri.
Le candele erano accoglienti, le coperte confortevoli, il silenzio magico, ma una domanda aleggiava nell’aria, sporca in una notte che non avrebbe dovuto essere pesante.
Quindi ora che si fa?
“La fiducia” pronunciò James. Aveva la fronte distesa e il tipo di sicurezza di chi sapeva esattamente dove fosse diretto e quanto tempo ci avrebbe messo ad arrivare. “Dobbiamo fare il secondo miglior scherzo della nostra carriera, non c
è altro modo.”
Sirius alzò un sopracciglio. “Il secondo?”
James gli strizzò l
’occhio, uno sguardo furbo per ognuno di loro. “Il primo sarà lo scherzo d’addio a Hogwarts.”
Remus sorrise.
“Andrà così: nessuno di noi comunicherà direttamente se non tramite metodi non convenzionali. Quando saremo insieme, sarà come se lo scherzo non esistesse. Data, modalità, fasi, nomi delle fasi… ogni cosa sarà lasciata agli indizi che lasceremo agli altri, sarà compito di ognuno capire come incastrare le informazioni che ha, dove dare contributo, dove astenersi dal farlo. Se falliamo è colpa di tutti, se vinciamo è merito di tutti.”
Si guardarono.
Morti e vivi nello stesso momento, proiettati in un futuro incerto di cui non avevano le chiavi, un orologio che ticchettava le sue ultime ore, una clessidra che abbandonava i suoi ultimi granelli di sabbia.
Sirius scambiò un’occhiata con Remus. Insignificante, nella grande ragnatela di chiarimenti che avrebbero dovuto voler affrontare, ma Remus annuì e Sirius parlò piano: “Andata.”

***
 
“Lupin.”
James non era venuto al mondo con una sordina. James era venuto al mondo con uno dei sussurri più rumorosi della storia, eppure il primo richiamo restò inascoltato.
“Remus” provò di nuovo, tirandogli un lembo della maglietta e mettendosi a sedere a terra, accanto al materasso là disposto perché gli facesse da letto. “Remus, amico, se sei morto preferisci gigli o rose? Posso ereditare la tua scorta di cioccolata?”
“È mattino?” mormorò Remus, voltando la testa per non dover avere la faccia di James così vicina alla sua. “Perché…” si prese una pausa, forse un’ultima capatina in fase R.E.M. “se non è mattino ti apro la testa contro uno spigolo” concluse, come se non si fosse mai fermato.
“Mi piaci violento” commentò divertito James “ma è ancora notte. Dobbiamo parlare.”
“Parlare è per chi non dorme.”
“Per fortuna siamo entrambi svegli. Andiamo, faccio il tè” e, con questo, James gli tirò le coperte via di dosso e gli afferrò un polso. Remus non si lamentò, ringhiò proprio.
Arrivarono a destinazione trascinandosi ancora in due direzioni opposte, poi James lo costrinse ad acquietarsi facendogli poggiare la schiena contro il mobile della cucina. Lo osservò sospirare e strapparsi il sonno via dagli occhi, sbadigliare e accennare col capo verso il bollitore in una richiesta che era più un ordine. “Mi hai promesso il tè.”
“Oh, già” James si voltò a guardare i fornelli “puoi farlo tu? Non ho gli occhiali.”
Remus sbuffò e iniziò a riempire il bollitore d’acqua. “Che c’è?”
“Vedi in quel cassetto.” James accennò con una mano all’aria davanti a sé, più che a un cassetto. “Sicuro uno ai frutti rossi e i mirtilli, io prendo quello.”
“No…” Remus sbuffò e accese i fornelli “intendevo che c’è? Perché mi hai svegliato nel cuore della notte e mi hai fatto fare il tè?”
“Ah, sì” James annuì risoluto, si passò una mano nei capelli e sbadigliò. L’altra l’affondò nella tasca del pantalone del pigiama a quadri. Sembrava la persona più a suo agio sulla faccia della Terra. “avvicinati un po’, voglio guardarti in faccia.”
Remus alzò un sopracciglio e mosse un passo verso di lui.
“Di più.”
“Vuoi baciarmi?”
James tirò su col naso. “Credimi, in questo momento non ti distinguo da Lily, quindi fa’ attenzione.”
“Eviterò di dirti che non uscirò con te. Rischierei di somigliarle troppo.”
James alzò gli occhi al cielo. “Questa era un colpo basso, Lupin. Ma tranquillo, non mi avventuro su quella sponda del fiume…”
Remus ridacchiò. “Ma come parli?”
Comunque” James mosse un braccio per invitarlo a versare l’acqua nella teiera, poi roteò la mano come a dargli la parola “dimmi la vera ragione per cui sei qui.”
Per fortuna Remus Lupin era un ragazzo all’apparenza molto composto e misurato, perché trasalire a quel punto gli avrebbe procurato un’ustione di secondo grado al braccio con l’acqua bollente. Riuscì in qualche modo a versare l’acqua e lasciare il tè in infusione, tutto sotto lo sguardo fuori fase ma stranamente recettivo di James.
“Sei un pessimo bugiardo… e io ho conosciuto Peter Minus.”
“Non posso mentire se non dico niente.”
James gli sorrise.
“Odio quando fai quella faccia.”
“Quindi ricapitoliamo: tua madre crede che tu sia triste, ti propone di presentarti a casa mia e tu, vista la rilassatissima aria che tira con i tuoi amici, accetti? Non c’è niente che abbia senso, qui. Andiamo, amico, riconosco una fuga da casa, quando la vedo” James incrociò le braccia al petto e lo guardò negli occhi. Non aveva del tutto sbagliato mira, ma aveva lo sguardo che puntava più in profondità, come se stesse guardando oltre gli occhi di Remus e alle sue spalle.
“Ho mandato io il gufo a Peter, l’ho fatto per avere una scusa per andarmene da lì” ammise, stringendosi nelle spalle e sperando che James afferrasse ben poco di quello che il suo viso doveva star comunicando.
James strinse gli occhi e inclinò la testa su un lato. Invece che imporgli di continuare a spiegare, si voltò a dargli le spalle, si avvicinò alla teiera e versò il suo contenuto in due tazze. Poi, solo quando ne ebbe porta una a Remus, disse: “Ti ascolto.”
 
Il calore del periodo natalizio continuava a espandersi nella casa a ondate anche nei giorni successivi ai festeggiamenti.
Remus richiuse il suo libro e sbadigliò, gli occhi sul soffitto della camera in cui era cresciuto ma che in qualche modo non sentiva più appartenere alla sua casa.
Avrebbe tanto voluto spegnere il lumino accanto al letto e scivolare in un bel sonno ristoratore, ma purtroppo il suo organismo aveva deciso che aveva sete.
Sbuffando, tirò le coperte di lato e si avventurò per le scale. Delle voci confabulavano da qualche parte in salotto, la luce accesa di una lampada a stelo bagnava un cono di luce che non arrivava fin sulle scale. Aggrottò la fronte e si mise in ascolto, sforzandosi per distinguere qualche parola in mezzo a tutti quei suoni.
“Sì, ne sono certo, Hope” ammise suo padre. Non poteva vederlo, ma Remus lo conosceva abbastanza da supporre che si fosse appena schiacciato una mano in faccia e la stesse facendo viaggiare un po’ ovunque tra i suoi connotati. Avrebbe voluto prenderlo in giro, ma era un’abitudine che gli aveva passato.
“Magari lui non si è unito agli altri lupi mannari”
E, a quelle parole, tutta la voglia di Remus di sfottere suo padre svanì nel nulla.
“Non sai quanto mi piacerebbe darti ragione, ma Greyback detesta il Ministero della Magia. Aspetta una scusa per schierarsi contro di noi da… be’ da undici anni. Il Signore Oscuro non l’avrà neanche dovuto convincere a unirsi a lui, credo addirittura che sia stato Greyback a cercarlo.”
Greyback. Remus tentò di afferrare il suo nome e associarlo a qualcosa di noto, ma non gli diceva niente. Sembrava un’informazione asportata, un pezzo di sé lanciato in un pozzo perché lo dimenticasse per sempre.
“Tu credi che voglia…”
“Credo che lo vorranno dalla loro parte, sì, ma Greyback non c’entra niente.” Non fu difficile capire che parlavano di lui, ma Remus non ebbe neanche il tempo di chiedersi perché stessero tenendo quella conversazione così segreta che il motivo gli venne fatto sapere esattamente un secondo dopo. E fu terrificante. “I lupi mannari non provano nessun istinto paterno o di responsabilità verso chi mordono. Se Greyback vuole nostro figlio nel suo esercito è per avere un lupo mannaro in più, non certo perché l’ha morso.”
Remus sentì il cervello galleggiare nel cranio, gli occhi fermi nel punto in cui la luce della lampada incontrava il buio che aveva escluso.
Poi fece una serie di cose apparentemente coraggiose, ma in realtà del tutto automatiche. Scese gli ultimi gradini rimasti e raggiunse i suoi genitori come se le loro sagome fossero state mille metri più grandi della sua e avessero potuto calpestarlo. “Hai detto che non sapevi chi mi avesse morso!” Forse gridò, forse sussurrò.
“Remus” suo padre non sembrava arrabbiato per il fatto che avesse origliato, ma sembrava genuinamente sorpreso. Remus lo sapeva soltanto perché lo aveva guardato negli occhi, ma non aveva accesso al resto della sua faccia, era come se la sua messa a fuoco si fosse ristretta, lo stesso buio della lampada a stelo che si disperdeva attorno a tutto quello che guardava.
“Hai detto che non sapevi perché fosse entrato in casa nostra, hai detto che era stato il destino e io ti ho creduto!”
Remus si riscoprì incapace di respirare silenziosamente, percepiva il petto alzarsi e riabbassarsi a un ritmo irregolare, ma non aveva il potere di governarlo.
Vide i suoi genitori scambiarsi uno sguardo, ma non riuscì a leggerlo.
“È… è così” replicò Lyall, un dubbio negli occhi, una speranza che non avesse sentito tutto.
Remus unì le sopracciglia, disperato, forse solo accigliato. “Papà” un ammonimento al retrogusto di supplica “stai mentendo.”
E così Lyall Lupin, noto bugiardo tra quelle mura, invitò Remus a sedersi. Lasciò l’egoismo da qualche parte nell’infanzia di suo figlio e affrontò quello che per anni, Remus glielo leggeva negli occhi, aveva sperato di non dover fare mai.
“Due bambini babbani furono uccisi” lo informò Lyall. Sembrava l’inizio di una delle storie che gli leggeva prima che la magia iniziasse a pesare su ogni lembo del mantello di suo padre, prima del morso, prima della maledizione. Invece era l’inizio della sua storia, la storia di Remus. “Eravamo agli inizi di questa guerra, quando tutta la magia oscura che registravamo era solo un prologo di una storia più spaventosa. Fui assegnato al Dipartimento di Regolazione e Controllo delle Creature Magiche. Qualche tempo dopo, portarono Fenrir Greyback al Ministero per interrogarlo sulla morte dei due bambini. Carla e Joseph, dilaniati” ricordò suo padre.
Sentire i nomi dei protagonisti di questa storia e riscoprirli così estranei gli fece uno strano effetto. Era come conoscere una metà sconosciuta della propria famiglia in ritardo e ritrovarsi a memorizzarne tutti i componenti insieme. Remus lanciò un’occhiata a sua madre: aveva la faccia di una che invece, la sua storia, la conosceva meglio di lui e ne era stata anche più protagonista.
“I lupi mannari sono creature riservate. Sono in pochi a essere registrati al Ministero e Greyback non era uno di quelli. Si presentò in tribunale come babbano, sconvolto e confuso dalle domande sui bambini, ma io riconobbi i segni della sua condizione e chiesi alla commissione di tenerlo in isolamento fino alla notte successiva, quando sarebbe sorta la luna piena. Risero di me. Vedi, non ero mai stato assegnato a un caso così importante, prima d’allora. Di solito mi occupavo di Mollicci e altre creature poco pericolose, quindi non mi diedero retta, mi dissero di tornare a giocare con i miei Velenotteri e io… mi arrabbiai, ero furioso, umiliato e sapevo di avere ragione. Ne ero certo.”
Remus sollevò un sopracciglio.
“Dissi che…” si interruppe, incrociò gli occhi di suo figlio come a scusarsi in anticipo “dissi che quelli come lui erano mostri senz’anima e malvagi. Dissi che meritavano di morire.”
Remus sostenne lo sguardo del padre e sospirò rassegnato. Non lo guardò male, non si lasciò ferire, sospirò soltanto.
“Mi cacciarono dall’aula, Greyback si dileguò e raccontò al suo branco dell’udienza. Ce l’aveva con me, Remus, voleva punire me.”
“Vendetta?” domandò lui, la voce inaspettatamente rauca e lo sguardo che saltava da un genitore all’altro.
Suo padre abbassò gli occhi e annuì mesto.
“Perché lo so solo adesso?” la rigidità che si era impadronita del corpo di Remus, quando aveva udito le prime parole dei suoi genitori sulle scale, si sciolse all’istante. Strinse i pugni e li rilassò, si guardò attorno frenetico, confuso, sentiva il bisogno di muoversi, camminare per la casa, andare a correre, nonostante lo detestasse. “Perché nessuno mi dice mai niente? Ti sembro il protagonista di un romanzo di formazione? Cosa aspettavi? Che la trama andasse avanti per rendere più interessante il colpo di scena? Perché non me l’avete detto?”
“Non ne avevi bisogno, Remus” sua madre allungò una mano verso di lui. Le impedì di accarezzarlo.
“Ne ho bisogno eccome, invece. Credevo di essere sbagliato! Credevo che fosse colpa mia, che me lo meritassi. E invece…” aggrottò le sopracciglia, fissò suo padre negli occhi come se si fosse aspettato una revoca del passato “invece la colpa è tua. Io sto pagando il tuo errore!”
Lyall lo guardò, mortificato fino a voler sparire.
Remus intuì che il motivo per cui la verità gli era stata tenuta nascosta tanto a lungo era esattamente quello: la paura di una reazione simile, il terrore del suo risentimento.
Ma a Remus l’altruismo pesò improvvisamente come un macigno. Un altruismo che, a quanto pareva, si preoccupava di mostrare solo lui in un mondo di egoisti.
Riuscì quasi a vedere una versione più giovane di suo padre alzarsi in piedi in tribunale, pronta a urlare ingiurie. Immaginò di poter arrestare quel momento, come in una delle fotografie di Sirius, congelarlo per sempre e impedire a suo padre di proseguire con quell’accusa.
Si rivide nella sua stanza, le coperte mai imbrattate di sangue, il terrore mai incastrato nella gola. Si immaginò varcare la soglia della Sala Grande di Hogwarts senza neanche una cicatrice, il cortile della scuola vuoto di Platani Picchiatori, l’edificio a Hogsmeade mai ribattezzato ‘Stamberga Strillante’. Immaginò un dormitorio senza bendaggi e cerotti, i lupi mannari nient’altro che creature distanti rinchiuse nelle pagine del libro del terzo anno, notti senza incubi da cui Sirius doveva trascinarlo via. Immaginò le figure animali dei suoi amici sfumare in nient’altro che normalissimi ragazzini che non avevano mai fatto niente di illegale. Immaginò di diplomarsi e avere un tappeto di possibilità dispiegato davanti, si immaginò camminare sicuro nel mondo, la verità in tasca, le sue potenzialità espresse.
Vide tutto quello che avrebbe potuto essere, la persona che suo padre gli aveva impedito di diventare per cinque secondi miseri di errore. Vide la catena di eventi che l’avevano portato su quel divano, quella notte, e non riuscì a sopportare la sua morsa.
“Mi serve un momento” annunciò alzandosi.
“Lascialo andare” sentì sua madre sussurrare a suo padre, mentre abbandonava la stanza e tornava in camera sua.
Non aveva più sete.
 
James poggiò la sua tazza vuota sull’isola della cucina e incrociò le braccia al petto. “Non vuoi cercarlo, vero?”
Remus sollevò un sopracciglio. “Chi?”
“Fenrir Greyback. In qualità di amico mi sento di dirti che sarebbe una gran cazzata.”
“No, no” lo rassicurò Remus. “È solo che…”
James alzò una mano e puntò il suo sguardo fuori fase negli occhi di Remus. Fu comunque preso sul serio. “Mettiamola così: tu non vieni mai morso. Cresci, esci spesso e ti fai un amico. Vai a casa sua, conosci la sua famiglia, giocate a calcio nel suo giardino. Metti il piede male, cadi su un rastrello, questo ti impala. Muori.”
Remus alzò gli occhi al cielo e inspirò come per dire qualcosa. James glielo impedì.
“Oppure tu non vieni mai morso. A sei anni rincorri uno scoiattolo e ti sloghi la caviglia sinistra. Cresci, ricevi la tua lettera di Hogwarts, l’incredibile trama della vita e del caso fa in modo che il primo giorno di scuola del primo anno piova, in fondo basta un battito d’ali di una farfalla, forse la farfalla che hai scacciato con una mano mentre, a otto anni, una notte di luna piena, tu e tuo padre giocavate a quidditch in giardino. Il terreno è scivoloso, la caviglia fa più male quando fa brutto tempo. Ricordi il ramo che cadde alle nostre spalle appena arrivammo a Hogwarts? Ti cade in testa perché sei rimasto indietro zoppicando. Muori.”
James era impassibile, sembrava quasi divertito, ma Remus lo conosceva abbastanza da sapere che non lo era affatto.
“I se e i ma sono per i perdenti. Ti sei immaginato una vita bellissima, eh? Un sogno, una favola per bambini” James scosse la testa. “La verità è che non puoi saperlo, Lunastorta. Hai potere solo sul tuo futuro ed è l’unica cosa di cui valga la pena preoccuparsi.”
Remus avrebbe voluto ribattere, dirgli che queste erano frasi da cioccolatini, che tutti vivevano nel passato, nel rimorso, bloccati nel respiro che aveva cambiato la loro vita, intrappolati nella rete di cause-effetto che non erano stati abbastanza lungimiranti da prevenire.
Eppure Remus non ribatté, perché non riusciva a ricordare neanche una volta in cui James Potter si fosse guardato indietro e si fosse pianto addosso.
“Nah, se tu non fossi come sei saresti un dito in culo e penso che ti odierei da qui fino alla luna. Non voglio un altro Remus” aggiunse una nuova voce.
Remus si voltò di scatto. Sirius scrollò le spalle e sbadigliò, avvicinandosi alla cucina con una disinvoltura che suggeriva che, in quel posto, era a suo agio.
“Hai bevuto il tè di James, eh? Frutti rossi, bah, davvero da gay.”
Remus lo guardò sporgersi verso la sua tazza e constatare che non lo aveva bevuto tutto come James.
“A Remus piace l’Earl Grey con due cucchiaini di zucchero e un goccio di latte” disse a James, che lo guardava divertito con le braccia ancora incrociate. “Sei un pessimo ospite” continuò, padrone ormai di quella conversazione.
“Questo era più da gay” borbottò James.
Sirius ignorò il commento e porse a James i suoi occhiali.
“Aaaah, grazie!”
“Me li sono ritrovati sotto l’ascella. Non so perché.”
Il ragazzo accartocciò la faccia dal disgusto solo per un attimo, poi però li inforcò lo stesso e sgranò gli occhi. “Wow, Remus, adesso ti vedo in alta qualità.”
“Hai sentito tutto?”
Sirius si strinse nelle spalle. “Un pezzo. A volte i sussurri fanno più rumore. Vibrano. Ti dà fastidio?”
Remus ci pensò un attimo su, poi scosse la testa. “Perché avete i pigiami coordinati?” domandò invece. Sirius indossava la maglietta a quadri che andava con i pantaloni di James e viceversa.
I ragazzi si guardarono, confusi. Poi sgranarono gli occhi e urlarono all’unisono: “Ecco dov’era la mia maglietta!”
E forse se Remus si era trovato in quella cucina, alle tre di notte, ad assistere a un esilarante sketch comico, era perché suo padre si era alzato in piedi in tribunale e aveva urlato che i lupi mannari sarebbero dovuti morire.
Forse si era trovato in quella cucina, alle tre di notte, perché da bambino un uomo che per undici anni non aveva avuto un nome l’aveva legato a qualcosa che aveva sempre visto come una malattia.
Forse si era trovato in quella cucina, alle tre di notte, proprio perché la verità gli era stata tenuta nascosta così a lungo. Forse sarebbe stato ‘un dito in culo da odiare da qui fino alla luna’, forse non avrebbe assaggiato il tè ai frutti rossi di James e non avrebbe saputo di doverne essere grato.
Forse tutto quello che aveva non era all’altezza di tutto quello che avrebbe potuto avere, ma, sempre forse, non era malato.
Forse, semplicemente, il punto era che non si era mai accettato.






 
El annota: Questo è il capitolo in cui James Potter è cieco... mi fa troppo ridere perché mi devo cambiare gli occhiali e questo dimostra quanto la storia sia sensibile ai cazzi miei. Comunque ragazzi ridiamo e scherziamo sullo stereotipo che esistano "cose da gay", ma ovviamente non è così, è una battuta tra amici e ve prego prendiamola con leggerezza. Ad ogni modo io AMO il té ai frutti rossi, è il mio preferito.
Ehilààà, comunqueee, ciaoooo, è tutta la vita che voglio chiamare un capitolo così MUAHAH ce l'ho fatta. Ciao, questo capitolo inizialmente durava solo 4300 parole, poi è successo Lyall Lupin. E niente, io quando scrivo fanfiction non penso a come far progredire la storia, cosa far succedere, dove mettere le cose, no, io penso a un modo per far dire almeno a un personaggio la parola 'sbarazzino' e questo è il mio successo. Mado mado mado sono super emozionata perché mancano due capitoli e poi E POI E POI SARA' COME MORIREEEE LA NOTTE CHEEE CHE NON PASSA MAAAAAI LA NOTTE CHEEEE CHE NON PASSA MAAAI a questo proprositoh! I prossimi due capitoli, salvo altri miei squilibri mentali (lo dico come se fossero una rarità), dovrebbero essere gli ultimi che avranno una parvenza di regolarità nell'aggiornamento. Questo perché ci sono due modi per scrivere i successivi: scriverli e basta e scriverli col mood giusto, con l'ispirazione giusta, con il sentimento giusto, con la doccia pre-scrittura giusta e con la testa di chi sa che la correzione è un problema della se stessa del futuro. Ecco, io vorrei scriverli con il secondo modo. Quindi che Silente ce la mandi buona.
Detto ciò i nomi dei bambini li ho scritti prima di mettermici a pensare, però ora mi rendo conto che Joseph è il nome di un personaggio che mi piace molto di un libro che sto leggendo. Giuro, non sono stupida, me ne sono accorta dopo solo perché lo chiamano tipo una volta per nome e tutto il resto delle volte per cognome.
COMUNQUE gente niente ci vediamo presto con il magiko skerzo di ritorno e con le cose che bisogna mettere a posto ;)
Grazie per essere rimasti con me dopo la lunga pausa (e anche per aver letto questa volta eeeh grazie <3)
Adieu,

El.

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 27 - Prima regola dello scherzo ***


27. Prima regola dello scherzo






Tutto iniziò una mattina fredda di fine gennaio.
Qualcuno aveva tinto il mondo di un colore simile a quello della carta di giornale e la neve cadeva in silenzio oltre i finestroni. La mattina sapeva di ghiaccio e di monotonia.
Sirius sbadigliò, si alzò a sedere e si stropicciò gli occhi.
Fuori, il vento ronzava tranquillo e sibilava sui vetri. A volte li faceva vibrare appena.
Un pezzo di pergamena, tagliato così velocemente da rendere visibili gli strati di carta viva sullo strappo, era appiccicato al pilastro sinistro del suo letto. Sirius inclinò il viso su un lato e sbadigliò ancora, aggrottando le sopracciglia mentre si sporgeva per afferrarlo.
Con una scrittura sciatta, opera sicuramente di una mano non dominante, qualcuno che non voleva essere riconosciuto per la sua grafia aveva scritto:

 
Fase 1 – preliminari: sottrarre la chiave d’accesso alle gabbie delle creature magiche.
 
Il primo indizio de ‘la Staffetta dei Malandrini’ era appena stato passato da una mano anonima a un altro anello della catena. Sirius lo nascose nel suo baule perché nessuno potesse scoprirlo per caso. Poi, ovviamente, invece che lasciarsi cadere nuovamente sul materasso e continuare a dormire, afferrò un cuscino e lo lanciò con violenza nel letto alla sua destra.
Un lamento attenuato dai cuscini gli arrivò di rimando, frustrato. “Riprovaci e ti ammazzo” affermò James. Un braccio si alzò dal casino di coperte e plaid che il sonno movimentato del ragazzo aveva creato. Il cuscino tornò al suo proprietario con meno potenza di quella che gli aveva impresso Sirius all’andata, ma abbastanza perché suggerisse un effettivo talento al quidditch.
Sirius non si fece scrupoli e gli lanciò ancora una volta il cuscino addosso.
“Guerra sia” decretò James e si alzò dal letto senza occhiali ma con il peso del corpo già pronto a schiantarsi contro il suo amico.

***
 
Peter aveva ricevuto il suo bigliettino in maniera cattiva e deludente. Era stato nascosto all’interno di una scatola di Cioccorane e questo significava che la sua figurina da collezione era stata rubata, sostituita, dannazione, era stata soffiata!

 
Fase 2 – preliminari: con la chiave che ho nascosto nell’unico paio di mutande pulite che hai, entra nelle gabbie delle creature magiche e ruba un esercito di Folletti della Cornovaglia. Puoi portarli in dormitorio.

Eppure Peter ci aveva messo ben due giorni a portare a termine una richiesta che era certo potesse venire da Remus Lupin solo se avesse voluto vendicarsi della ramanzina che Peter gli aveva fatto due settimane prima. Ma le possibilità che Remus fosse capace di esercitare vendetta erano più o meno quelle che aveva Peter di svegliarsi un giorno e decidere di mettersi contro i suoi amici.
Zero.
O forse zero virgola due.
Quindi Peter fece come l’indizio gli aveva ordinato e pensò con attenzione a quale sarebbe stata la prossima mossa del piano, visto che era compito suo stilare la fase tre. Oh, avrebbe decisamente fatto prendere a James del cibo per quelle povere bestiole. Qualunque fosse il piano, non potevano mica morire di fame. Tutto ciò che restava da fare era decidere come recapitargli il messaggio.
In quel momento, tuttavia, si concentrò sull’unica cosa che contava veramente: affrontare l’imbarazzante realtà di quello che avrebbe fatto a momenti.
Ruotò la maniglia della porta che conduceva al suo dormitorio e notò le tre paia d’occhi dei suoi amici fissare la soglia con sospetto. Non potevano vederlo.
Peter si sfilò attentamente il mantello dell’invisibilità e alzò dalla gabbia l’Incantesimo Silenziatore che vi aveva impresso. Le urla e gli stridii delle creature si diffusero tutte insieme nel dormitorio e James, Remus e Sirius osservarono la scena con condivisa confusione. Uno di loro, però, mentiva.
“Silenziali di nuovo” ordinò Remus, occhieggiando la gabbia e forse rivalutando tutte le sue scelte di vita.
“Ah-ha!” James alzò entrambe le sopracciglia e guardò Remus con una punta di saccenza di troppo. “Prima regola dello scherzo: non parlate mai dello scherzo.”
“Non avremmo dormito neanche un minu…”
“AH-HA! PRIMA REGOLA DELLO SCHERZO!”
Remus cercò comprensione negli occhi di Peter e Sirius. Non gli fu concessa. “Va bene, Ramoso, non c’è una gabbia di Folletti della Cornovaglia nel nostro dormitorio.”
“Così va meglio.”
“Ma se ci fosse…” proseguì Remus e James incrociò le braccia al petto e lo guardò male, “vi ucciderei, se venisse posizionata accanto al mio letto.”
E quindi i Folletti della Cornovaglia finirono tra la cornice della porta e il letto di Peter, perché i ragazzi avevano deciso di comune accordo che, essendo stato lui ad aver effettuato il furto, la gestione degli animali toccasse a lui.
Tremendamente ingiusto.

***
 
La Terra era una macchina crudele per chi non poteva amministrarla.
Se ci si fermava un momento a pensare, ogni singola azione, ogni tensione verso qualcosa poteva essere tagliata di netto dalle lame della morte. A volte la morte bisognava andarsela a cercare, farsi trovare dal pericolo in persona. A volte bisognava semplicemente aspettarla: in un letto di ospedale, in bilico sulla canna di una pistola, alla fine di una storia. A volte, invece, la morte cadeva dal cielo. Fischiettavi per le strade e quella s’annidava su un calcinaccio mal fissato, sull’auto che non avevi visto passare, sul pezzo di carne che non avevi saputo ingoiare, sull’orlo dell’incendio che stava per scoppiare.
A volte era ancora più meschina e si faceva desiderare.
James Potter trovò una declinazione della morte nel rollio geniale della risata di Lily Evans e pensò che gli ‘attacchi di cuore’ fossero chiamati così per un motivo: c’era qualcuno che attaccava e un cuore che incassava. E il suo fu demolito.
Sorrise di rimando, il fantasma della risata di Lily investì le labbra di lui forte come se l’avesse baciata.
Era accattivante in un modo che faceva sembrare la distanza che c’era tra loro una sfida, un ostacolo eroico per cui James era pronto a lottare.
Era bello perché era stato lui a provocare quella risata, anche se a quel punto non ricordava più neanche cosa avesse detto. Le punte delle orecchie andavano a fuoco.
“Potter” Lily arrestò la sua risata, il suo strascico ancora sulle labbra nella forma di un sorriso. Per James la biblioteca tornò ad avere contorni distinti, il loro tavolo era di nuovo pieno di graffi e libri e magia che non aveva niente a che fare con quella che sapeva fare Lily.
James si riscosse e lei scosse la testa. Sembrava divertita e profondamente confusa insieme.
“Occhi sui libri.”
E James annuì e rise, mansueto come mai avrebbe ammesso di essere, davanti ai suoi amici. La risata di Lily gli rimbombava ancora nelle orecchie, anche quando abbassò gli occhi e voltò pagina.
“Ma questo cosa…”
James la vide spostare il suo libro e rivelare la trama del tavolo della biblioteca. Per un attimo pensò che fosse impazzita, che vedere cose che non c’erano fosse un brutto segno anche per i maghi, poi spostò lo sguardo dal tavolo al libro di Lily e lo vide.
Lì, nascosto male tra le prime pagine, c’era appiccicato un pezzo strappato di pergamena.
“Fase cinque…” iniziò a leggere lei, le sopracciglia corrugate in una maniera che James si sarebbe certo soffermato a fissare se non avesse capito immediatamente a cosa alludeva il biglietto.
Si alzò di scatto e la raggiunse in un baleno dall’altra parte del tavolo.
Lily lo guardò, forse un po’ offesa, forse solo un po’ confusa e fu allora che James diede un’occhiata al contenuto dell’indizio.

 
Fase 5 – preliminari: Ciao Lily, mi chiedevo se volessi uscire con me. Parlo sempre di te, dalla mattina alla sera, non chiudo mai la bocca e a volte descrivo ai miei amici il tuo profumo, la fossetta sulla tua guancia e le tue labbra, che vorrei baciare. Mi chiedevo se dopo la biblioteca ti andasse di incontrarci alla serra. Vorrei che portassi tutta la tua polvere magica. (Alle cinque, per cortesia, avrei anche altro da fare.)
Un bacio (che spero di ottenere), James.

 
Quando James ebbe terminato di leggere, Lily aveva già finito da un pezzo. Quel biglietto era un disastro. Stava provando a comportarsi bene con lei: incontrarla in biblioteca, fare battute stupide, dire cose intelligenti, cercare di apparire casualmente attraente… e tutte quelle altre cose difficili. Sospirò, alzò gli occhi al cielo e gli venne una voglia incredibile di commettere un amicidio breve e indolore. Li avrebbe attaccati tutti e tre, in assenza di prove che riconducessero il biglietto incriminato a qualcuno in particolare.
“Non l’ho scritto io” si difese immediatamente e, visti i suoi passati tentativi d’approccio, non sperò neanche di essere creduto. “Te lo giuro, stiamo organizzando uno scherzo e…”
“No, infatti” lo interruppe Lily e, prima che James riuscisse anche solo a fissarla sorpreso, lei continuò: “questa è la scrittura di Marlene.”
“Eh?”
Lily continuò a fissare il biglietto con un cipiglio attento e annuì. “L’ha scritto Marlene, ma non ho idea di cosa significhi.”
“Io… sì” la informò James, grattandosi la nuca con la mano sinistra.
Essere così vicino a Lily confermava la presenza di un ‘buon profumo’ nei suoi capelli. Aah, il mittente del biglietto lo conosceva dannatamente bene!
“Sì?” Lei lo guardò, evidentemente ignara di quella serie infinita di cose che trasformavano James Potter nel goffo idiota che non sapeva come farle la corte.
James ignorò quel rimescolamento di emozioni. “Se ha coinvolto Marlene è stato Sirius” ragionò, lo sguardo di Lily gli bruciava la pelle anche se lui non lo ricambiava. “Tra dieci minuti devo raggiungerlo alla serra.”
“Dobbiamo” lo corresse lei, un sopracciglio alzato e il sorriso da combinaguai che tutti tendevano ad adottare quando James era nei paraggi a combinarla grossa.
“Dobbiamo?” la potenza del fascino di Lily passò in secondo piano. Una cosa erano le cotte e una cosa era ‘la Staffetta dei Malandrini’.
“Il biglietto era sul mio libro” gli fece notare lei “era rivolto a me e l’ha scritto una mia amica. Cosa ti fa credere che sia tuo?”
James esitò, la bocca semiaperta dallo stupore. Quell’indizio era così evidentemente nello stile di tutto ciò che Lily puniva che non poteva credere che stessero lottando per accaparrarselo! “Il fatto che apparentemente il mittente sia io?”
Lily incrociò le braccia al petto. Oh, era brava a mantenere il contatto visivo, ma James era ancor più bravo a farsi guardare. “Quindi mi stai invitando a uscire nella serra?”
“Veramente io ti sto invitando a uscire da un anno e mezzo.” Anche James incrociò le braccia al petto, ma qualcosa gli disse che presto avrebbe perso la loro strana gara di gesti e sguardi.
“Veramente è un po’ che hai smesso.”
“Veramente se vuoi ricomincio.”
“Quindi hai scritto tu questo biglietto imbarazzante? Sono parole tue?”
James esitò. Lily inclinò appena il viso su un lato come a invitarlo a dare voce ai suoi pensieri. “Stai… accettando di uscire con me?”
“No.”
“Allora no, non l’ho scritto io.”
Lily annuì una sola volta, risoluta. “In tal caso dobbiamo andare alla serra.”
“Lily, ascolta…”
Ma Lily non ascoltò proprio niente. Si alzò dalla sedia del loro appartato e segretissimo posto in biblioteca, radunò i suoi libri, fece in modo che il bigliettino non finisse neanche per sbaglio nelle mani di James e infine appoggiò la tracolla della sua cartella in spalla e lo fissò in attesa che si desse una mossa.
James la guardò per qualche secondo, immerso in qualche pensiero informe a cui lei evidentemente non avrebbe mai dato retta, poi alzò gli occhi al cielo e sospirò. “Va bene.”
“Grande. Ah, qui c’è scritto ‘polvere magica’, sai perché…”
Le parole le morirono in gola. James sganciò le fibbie del suo zaino per mettere a posto i suoi libri, scostò un pannello di tessuto all’interno e le mostrò una caterva di piccole bustine trasparenti riempite di polvere colorata. “Andiamo.”
E infatti andarono.
 
Varcarono la soglia della serra numero tre che erano già le cinque e dieci. Mai sottovalutare le dannate scale di quella scuola: non importava quante Mappe del Malandrino possedessi, le scale avevano sempre la meglio.
La luce del pomeriggio non era che un bagliore morente nel cielo quasi scuro di gennaio. La sua sfumatura blu attraversava i vetri isolanti della struttura in getti glaciali, virando su toni più caldi quando questi si scontravano con le lanterne all’interno della serra.
E lì, in mezzo alle piante più fastidiose e interattive dell’intero pianeta, c’erano ad aspettarli Marlene McKinnon e, contro ogni previsione, Remus Lupin.
Il ragazzino che al primo anno aveva offerto un pezzo di cioccolato a James era stato rimpiazzato dal combinaguai dal sorriso strafottente che adesso lo guardava vittorioso con un vaso in mano. Sembrava innocuo. Sembrava.
“Ramoso” salutò cordiale, ma James sapeva che non era cortese, solo malandrino.
Spalancò la bocca sorpreso e passò qualche secondo a dividere il suo sguardo tra quello di Remus e quello di Marlene. “Tu non sei Sirius!”
Remus alzò un sopracciglio. “L’ultima volta che ho controllato avevo le palle” si strinse nelle spalle. “Quindi no, non sono Sirius.”
La sorpresa di James si trasformò in una risata. Lo indicò e scosse la testa, avvicinandosi. “Dannato bastardo.”
“Perché siamo qui?” domandò Lily. Era evidente che fosse decisamente più a suo agio, ora che sapeva che il mittente di quel biglietto non era Sirius.
“Servono braccia in più!” trillò Marlene, che, come Remus, indossava un paio di guanti da giardinaggio e un grembiule già sporco di terra.
In un angolo del grosso tavolo da lavoro, infatti, c’erano già una serie di bulbi, fiori e altri tipi di vegetazione messi in ordine come se i ragazzi si fossero organizzati per venderli.
James aggrottò la fronte e scrutò l’improbabile business. “Che hai in mente?”
“La fase cinque,” Remus sorrise, un brillio nello sguardo che precedeva ogni sacrosanta volta un’idea per uno scherzo parecchio ambiziosa. Contro ogni aspettativa, però, si rivolse a Lily e Marlene, “richiede che voi due non vi lasciate scappare neanche un dettaglio su quello che stiamo per fare.”
Lily lo guardò come se l’avesse visto per la prima volta. E in effetti un conto era sapere che Remus era un criminale per reputazione e un conto era vederlo in azione. “Va bene” replicò Lily, quasi sussurrando e continuando a fissarlo.
Remus guardò Marlene.
“Conta su di me” e lo disse con una disinvoltura che portò James a chiedersi perché non l’avessero mai coinvolta nelle loro malefatte. Riconosceva un talento naturale, quando lo vedeva.
Remus annuì risoluto e guardò James negli occhi. “Dovremo prendere il maggior numero possibile di puffagioli, giunchiglie strombazzanti, fagioli corridori, radigorde e semi di fuoco” elencò guardandosi attorno come se la serra fosse stata sua “poi dovremo riempirli con la polvere colorata che ha portato lui.”

***
 
Una settimana dopo, la scuola era sul punto di implodere.
Sirius, Peter, James e Remus sedevano stravaccati sui divani e le poltrone della Sala Comune, scambiandosi appunti e rileggendo elaborati da consegnare presto, come se a cena non avessero in programma di far cadere il mondo. Prima, però, Sirius doveva correggere i compiti di Peter.
“Ma che diavolo è?”
Peter alzò un sopracciglio, la mano mollemente abbandonata da qualche parte sulla sua bocca, residuo di uno sbadiglio che aveva finito almeno tre minuti prima. “Cosa?”
“‘Ho aggiunto una foglia di Rabarbaro, però poi ne ho messa un’altra perché la pozione era diventata un poco…’” Sirius soffocò una risata nel naso “‘la pozione era diventata un poco brutta e non mi piaceva’. Pete, la tua relazione è atroce!”
Peter scambiò un’occhiata con James e Remus, ma stavano ridacchiando. “Che ha che non va?”
“Che ha che non va? Fa schifo, ecco che ha che non va, non so neanche da dove partire per renderla umana.”
Peter sbuffò, si allungò verso il divano e strappò la pergamena dalle mani di Sirius. Prese a rileggerla con le sopracciglia aggrottate e cancellò le righe incriminate, mordendosi la lingua mentre riscriveva.
“Controlli anche la mia?” domandò James, passando una pergamena di minore dimensione a Sirius.
Lui sbuffò e la accettò con un’alzata d’occhi, ma, quando abbassò lo sguardo sulla grafia di James, una sola macchia d’inchiostro scuro svettava sulla pagina. Sirius sorrise vispo e alzò gli occhi in quelli di James.

 
Fase 9 – subito: Remus ci ha detto una volta che la scuola ha delle tubature nei sotterranei e che si possono far esplodere.
 
“Signori” Sirius si rimise in piedi con il sorriso di uno che non aveva buone intenzioni. Si inchinò profondamente e prese James sottobraccio. “Lavatevi bene i denti nei prossimi venti minuti. Ci si vede a cena.”
E, con questo, i due lasciarono la Sala Comune Grifondoro.
Remus e Peter si guardarono, momentaneamente disorientati, poi Remus sospirò e voltò la testa verso il giradischi rosso fiammante che aveva fatto il suo ingresso trionfale in quella Sala Comune esattamente un anno prima. “Ci portiamo avanti con la fase sette?” domandò poi.
“Sì, ti prego, questa relazione è uno strazio!”
 
“È andata?” James alzò un sopracciglio e si voltò a dare un’occhiata alle sue spalle. Sospirò teso, osservando l’altro ragazzo chinato ancora a terra. “Ehi,” lo richiamò, appallottolando un pezzo di pergamena e lanciandogliela dietro la testa. “Sirius?”
“Ci sono quasi, James, se solo stessi zitto un attimo…” Sirius si curò solo di riafferrare la palla di carta e rispedirla al mittente, ma non lo degnò di uno sguardo.
“Devi darti una mossa, si sta avvicinando…”
“Lo so,” tagliò corto Sirius, alzandosi di scatto e osservando con un po’ di timore la sua opera. “James?”
“Mh-mh?” il ragazzo teneva lo sguardo puntato sulla Mappa e, di tanto in tanto, si sistemava gli occhiali sul naso per la tensione.
“James,” lo chiamò ancora Sirius, cha adesso lo fissava, in attesa di una risposta.
“Che c’è?” domandò lui, seccato, distogliendo lo sguardo dalla Mappa per puntarlo sul suo amico. Si fissarono per un paio di secondi, poi un rumore metallico costrinse James a gettare un’occhiata al tubo incrostato.
Sirius si morse il labbro inferiore. “Corri, se scoppia siamo fregati,” parlò, poi, afferrando il ragazzo per il polso e tirandoselo dietro.
Il corridoio che presero a percorrere di corsa non gli era sembrato così lungo all’andata. Una luce angolata colpiva pigra la svolta che dovevano prendere. “Ha funzionato?” ansimò James, percependo la stretta sul suo polso aumentare di intensità.
“Credo di sì.” Sirius rise divertito, una vena di adrenalina gli striava esaltata la voce e James lo seguì a ruota, mentre i mantelli svolazzavano pericolosamente attorno ai loro piedi.
Svoltarono alla fine del corridoio e salirono le scale di pietra così in fretta che se Gazza li avesse visti li avrebbe messi in punizione solo per quello.
James sussurrò qualcosa alla pergamena, tra gli ansiti, e la infilò in fretta nella tasca posteriore dei pantaloni. Sirius si voltò verso di lui, un sorriso divertito ancora stampato in faccia. Ricambiò l’occhiata, senza alcun bisogno di aggiungere altro e i ragazzi presero a correre più veloce. “Dovremmo farcela,” considerò James, erano praticamente arrivati alle porte della Sala Grande.
“Ce la facciamo sicuro, Potter” lo prese in giro Sirius, fermandosi a riprendere fiato e soffiandosi un ciuffo di capelli via dagli occhi. James poggiò stanco entrambe le mani sulle ginocchia e respirò a fondo, poi alzò lo sguardo su Sirius e sorrise.
Non passò molto prima che i ragazzi si decidessero a entrare. Il solito vociare concitato li accolse non appena varcarono la soglia della porta come se fosse stato impaziente di esplodere.
Peter alzò lo sguardo su di loro, sgranò gli occhi e attese ansioso che James e Sirius li raggiungessero al tavolo dei Grifondoro.
“Un successo,” lo informò Sirius, alzando un angolo della bocca e sedendosi tranquillamente.
James lo imitò e puntò uno sguardo sicuro negli occhi di Peter. “Spero vi siate lavati, stasera, perché non vi consiglio di usare il bagno,” commentò disinvolto, poi, strizzando l’occhio a Peter, che ricambiò con una risata.
“Avanti, non fare l’innocente.” Sirius diede di gomito a Remus, seduto al suo fianco. “In realtà l’idea è tua.”
“L’idea non è mia,” puntualizzò Remus, roteando gli occhi come se l’intera faccenda lo avesse seccato, “io vi ho solo detto che le tubature potevano essere incantate e riempite d’acqua.”
Remus alzò finalmente lo sguardo sui suoi amici, ma un sorriso appena accennato gli incurvava già le labbra.
“Noi ne abbiamo solo tratto fuori il meglio.” Sirius scrollò le spalle e ricambiò il sorriso.
“Se il meglio è allagare la faccia dei nostri compagni…” si intromise James, sbuffando divertito.
Sirius alzò un sopracciglio e gli rifilò una gomitata leggera nelle costole. “Ma da che parte stai?”
“In effetti è una buona idea,” considerò Peter, cacciandosi in bocca una generosa porzione di stufato di carne e patate.
“Avete sentito? Pete è dalla mia parte.”
“Sirius, ho fatto da palo, ma sei scemo? E poi non vedo l’ora di vedere la faccia di Mocciosus quando finalmente sarà costretto a lavarsi.”
“Tu sei fissato.” Sirius alzò gli occhi al cielo e si decise a prestare attenzione al suo stufato. “Ragazzi,” annunciò poi, alzando drammaticamente il cucchiaio, come se stesse elaborando una sentenza di morte, “questo scherzo ce lo ricorderemo per sempre.”
“Puoi dirlo forte” sussurrò Peter. Alzò gli occhi sul soffitto della Sala Grande, il cielo stellato di una notte infinita. Galassie silenziose si mischiavano al vociare inarrestabile dei compagni di scuola. Due mondi diversi collidevano costantemente eppure sapevano di familiarità.
“Quando ve la sentite” disse Sirius, fremendo. Se qualcuno gli avesse avvicinato una lampadina, si sarebbe accesa.
Remus gli sorrise, sfacciato, assolutamente a suo agio col suo disagio. Picchiettò un piede contro qualcosa, sotto il tavolo, e un rumore di ferro gli rispose. “Che c’è, Felpato?”
E poi Peter aprì le danze.
Appoggiò un tocchetto di carota sul suo cucchiaio. Con un dito fece leva sul manico e la carota volò verso l’alto, puntando alle galassie e alle stelle magiche.
Nello stesso momento, Remus si abbassò di scatto sotto il tavolo. Aprì la porticina della gabbia di ferro e un esercito intero di Folletti della Cornovaglia volò a razzo verso l’alto, contendendosi già la carota. Ai fianchi, portavano appesi fiori gonfi e germogli imbottiti. Questi scoppiarono e si ribaltarono quasi all’istante. Polveri colorate tinsero il cielo stellato di tinte sgargianti, piovendo sul pubblico sconvolto come tempeste di sabbia.
“Guardate!” gridò Stebbins, dal tavolo Tassorosso.
Quello fu l’ultimo commento distinguibile nel mare di grida umane e di folletti che ne seguì.
La verità sui Folletti della Cornovaglia era che erano creature efficientissime, quando si trattava di volare in direzioni imprevedibili e seminare caos. L’altra verità sui Folletti della Cornovaglia, però, era che erano creature dannatamente rumorose e Remus aveva fatto in modo che, durante la loro performance, evitassero di sfoggiare le loro scarsissime doti canore.
C’era una persona, però – un babbano – le cui doti canore erano tutt’altro che scarse.
Remus estrasse la bacchetta dalla tasca e la puntò da qualche parte verso l’alto, oltre i Folletti impazziti, oltre il soffitto invisibile della Sala Grande, oltre il primo piano e direttamente al giradischi rosso fiammante. “Sonorus” sussurrò e nessuno strumento musicale anticipò quell’esplosione di voce.
‘Good Old-Fashioned Lover Boy’ dei Queen si diffuse in un istante nella Sala Grande, squillante e pacata insieme come le cose brevi, superando gli schiamazzi degli alunni e quelli dei folletti – che qualche professore aveva silenziato.
“Non ci credo” Sirius si batté una mano sugli occhi e rise “non l’hai fatto.”
Remus si strinse nelle spalle, altrettanto divertito ma non altrettanto incapace a nasconderlo.
“Pronti?” domandò James. Infilò una mano nella tasca del suo mantello e puntò molto discretamente la bacchetta in direzione del soffitto che pioveva ancora polvere colorata. Ruotò il polso in un movimento continuo e fluido e i colori si rimescolarono nel cielo stellato e innaturalmente sgargiante del soffitto.
Sirius si riprese dalla selezione musicale di Remus, sbottonò i polsini della camicia e li riarrotolò sulle braccia.
“Veloce” lo incalzò Remus, rendendo chiaro il suo zampino nella parte di piano che riguardava Sirius.
“Ero sicuro fosse stata un’idea di James!” commentò a bocca aperta. Nessuno lo sentì soltanto perché erano tutti troppo occupati a osservare i colori in cielo arrotolarsi in spirali strette e apparentemente casuali.
“Continuo a sorprenderti” constatò Remus nello stesso momento in cui Sirius sganciò un petardo e lo lanciò in aria.
“A presto” li salutò lui, allontanandosi verso il tavolo Serpeverde con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
Sirius si mimetizzò nello stupore dei compagni, lanciando dove capitava bengala innocui e Caccabombe. Quando qualcuno si voltava per cercare la fonte delle esplosioni, Sirius di solito era già tre metri più in là.
Si avvicinò senza alcun desiderio frustrato di avere con sé il mantello dell’invisibilità. Si avvicinò sfacciato, adrenalinico e innamorato del rischio. Raggiunse il punto in cui Severus Piton osservava il cielo a occhi sgranati, indeciso se rimanere ipnotizzato da quei colori turbinanti o se cercare con lo sguardo James Potter e la sua sicura colpevolezza. La sua distrazione rese il compito di Sirius noiosamente facile: sfilò un foglio di pergamena dalla tasca posteriore destra dei suoi pantaloni, la bacchetta dalla sinistra e sussurrò un incantesimo di Adesione Permanente.
Si allontanò senza il desiderio di infierire, la consapevolezza ancora viva, nel retro della sua testa, di quanto fosse facile per lui perdere il controllo. Lasciò Piton alla sua confusione. Sulla sua schiena, un foglio di pergamena comunicava al mondo: ‘sono banale’.
Sirius lanciò un ultimo petardo qualche metro sopra le teste dei compagni Serpeverde, poi sfruttò il botto per scappare.
Intanto, nel cielo polveroso del soffitto, James aveva iniziato a scrivere oscenità con i colori per poi cancellarle non appena le risate si placavano.
“Che tutti gli studenti facciano ritorno ai loro dormitori!” gridò Gazza al suono dell’ennesimo petardo che scoppiava. “Ho detto…” ricominciò quando nessuno studente accennò a eseguire l’ordine, ma un Folletto della Cornovaglia iniziò a tirargli i capelli.
“Dobbiamo filarcela” avvisò James, la mano ancora nascosta sotto il tavolo, mentre la polvere colorata comunicava alla scuola che Sirius Black offriva lavoretti gratis ogni venerdì.
Peter annuì, la voce di Freddie Mercury rimbombava tra le pareti intonando le note dell’unica canzone breve che Remus aveva deciso di far ripartire ogni volta che terminava.
“Andiamo” acconsentì Sirius.
I ragazzi cominciarono a indietreggiare verso l’uscita. Remus consultava la Mappa, Peter stava bene attento a dove metteva i piedi, Sirius lanciava bombe di fumo per mimetizzarli e James continuava a smuovere la polvere al di sopra dei Folletti.
Nell’istante stesso in cui imboccarono l’uscita, la nube di colore si piegò alla gravità, improvvisamente priva di vita, abbattendosi sulla Sala Grande e imbrattando di colore studenti e professori.
“Non vedo l’ora che si facciano la doccia” commentò Sirius, mentre correvano verso la Sala Comune Grifondoro.
La musica cessò di rimbombare tra le pareti dopo un colpo secco della bacchetta di Remus.
Quella sera, seduti comodamente in poltrona, James, Peter, Sirius e Remus osservarono orgogliosi la sfilata di compagni sporchi di polvere colorata dalla testa ai piedi o fradici dopo una ripulita che, a causa delle tubature manomesse, non era stata troppo clemente.
 
Remus andò a letto quando entrambe le lancette del grande orologio della scuola puntarono a nord.
Espirò pesantemente dal naso e chiuse gli occhi.
Le ronde dei prefetti, quella sera, erano state più scrupolose del solito e si erano protratte fino a mezzanotte perché era probabile che, visto il clima di generale euforia, gli studenti si sentissero autorizzati a darsi alla pazza gioia. Remus immaginava che fosse il rovescio della medaglia, la conseguenza dell’essere due cose insieme e nessuna.
Si voltò su un fianco e infilò una mano sotto il cuscino: non importava che fosse inverno, adorava cercare i lati freschi della federa. Qualcosa, però, ostruì la sua ricerca. Un frusciare di carta, per la precisione.
Remus aggrottò la fronte e sfilò la pergamena mangiucchiata che aveva trovato sotto il cuscino. Si sporse verso il comodino e afferrò la sua bacchetta, illuminandone la punta per leggere.
Rivelò uno schizzo di inchiostro dalla grafia spigolosa e non del tutto chiara:

 
Fase 11 post-coito: Torre di Astronomia, questioni in sospeso.
 
Remus avrebbe voluto impedire al rossore di risalire il collo fino alle guance, ma non se ne accorse in tempo. Scosse la testa per scrollarselo dal viso e afferrò il suo mantello. Infilò la pergamena in una tasca e si richiuse la porta del dormitorio alle spalle cercando di non fare rumore.
 
“Davvero?”
Sirius si voltò di scatto, quando Remus spalancò l’imposta della botola, il suo biglietto stretto tra due dita come se fosse stato pronto a bruciarlo.
“‘post-coito’?” lesse, un sopracciglio alzato e un sorriso di cui Sirius distinse nel buio solo canini sporgenti oltre il labbro inferiore.
“Sarebbe lo scherzo” si difese, stringendosi nelle spalle.
Remus si lasciò cadere con un tonfo sordo al suo fianco, gli occhi che già scrutravano la luna crescente di fine gennaio e le braccia penzolanti oltre il parapetto. Poi si voltò a guardarlo, una guancia che affondava nel freddo della ringhiera.
“Dimmi” sussurrò Sirius, senza ricambiare il suo sguardo ma percependolo bruciare.
“Questa è la tua parte dello scherzo” Remus gli sventolò la pergamena strappata vicino al viso. “Dimmi tu.”
Sirius prese un bel respiro. Bello, ma forse non completo. Poteva farcela. Erano solo due parole semplicissime, uguali a quelle che Remus aveva ripetuto a Peter ben due volte. Due parole veloci, avrebbero sostato nell’aria per un paio di terrificanti attimi e poi si sarebbero diluite fino a scomparire. Però a Remus non le aveva mai dette, andava contro ogni suo più radicato principio. Erano un’ammissione imbarazzante.
Si voltò a guardarlo, la luna crescente sembrava appropriarsi di alcune pagliuzze nei suoi occhi e accenderle come uno spettacolo di lucciole. Le sopracciglia erano rilassate, la guancia ancora schiacciata e divisa in due dalla ringhiera mentre lo studiava. Sembrava anche stanco. Sembrava tutto quello che un Dissennatore avrebbe mai voluto baciare.
Felicità.
Prese un altro bel respiro. Bello e anche completo, perché Remus non era sua madre, non era Regulus e avrebbe accettato la sua ammissione non come una vittoria, ma come un cambiamento.
Solo due parole.
“Avevi ragione” disse infine, mescolandole a un respiro. 
Remus sollevò soltanto un sopracciglio.
“Il problema non è che ho perso il controllo e ho fatto entrare Mocciosus, non è che avete rischiato di morire. Il problema è che io, tra tutti, ti avrei dovuto capire e invece ti ho reso uno scherzo. Poi sono diventato intrattabile e ho detto le cose sbagliate.”
Serrò la mascella, il freddo di gennaio morse a sua volta. Lo guardò come se si fosse aspettato un pugno, un incantesimo, una tortura, un addio. Lo guardò come se fosse stato disposto ad accettare ciascuna di queste punizioni.
Ma Remus non sollevò neanche il viso dalla ringhiera, distolse solo lo sguardo e lo lasciò vagare tra le ombre dei rami adunchi della foresta proibita, sul riflesso della luna nel lago, sul fumo che si arricciava a sbuffi nel camino della capanna di Hagrid.
“Avevo paura di quello che mi avresti potuto dire” continuò Sirius.
Remus annuì. Sirius lo odiò un po’ per la sua apparente confortevolezza.
“Sono pronto a dirti tutte le cose giuste che…” Sirius si interruppe. Sbuffò, si schiarì la voce, poi alzò gli occhi al cielo come se gli astri l’avessero sfidato. “Tutte le cose giuste che meriti.”
Remus rise e Sirius pensò di prendere quel suono, metterselo in tasca e tirarlo fuori ogni volta che le nuvole oscuravano il cielo. “Stai diventando imbarazzante” lo riprese, alzando la testa, lo strascico di quella risata portava a un sorriso. “Ma ho capito e…” abbassò lo sguardo e annuì “grazie.”
Sirius pensò che forse a volte non serviva dire la cosa giusta, ma crederci fino in fondo e mostrarlo apertamente, che forse le persone tendevano ad accettare le scuse solo quando erano pronte a farlo, indipendentemente da quello con cui le si provava a convincere. Pensò agli ingranaggi che si incastravano, alle porte che si chiudevano, quando ululavano insieme e pensò che significasse qualcosa che andava oltre il dormitorio, oltre le scelte e i percorsi, oltre ogni vita che le altre versioni di se stesso avessero mai vissuto.
Pensò che forse, con un pizzico di quell’arroganza che in queste questioni veniva sempre a mancare, quell’amore che gli era piombato addosso da tutte le parti poteva sorreggerlo e poteva anche ricambiarlo. Che forse non era stato lo smistamento in Grifondoro, a testimoniare la sua eterna differenza dalla sua famiglia, ma era stata quell’innata capacità di volere il bene di un altro essere umano ed essere disposti a sacrificare tutto pur di concederglielo.
Forse James amava forte e amava chiaro e forse era capace di farlo anche lui. Di amare urlando.
Sostenne lo sguardo di Remus per qualche secondo di troppo, vibrazioni di possibilità zigzagarono tra i loro occhi e Sirius imparò a non lasciarsi necessariamente guidare dalla più impellente.
Spezzò quel contatto e affondò una mano nella tasca del suo mantello. “Vuoi una?” domandò, offrendogli un pacchetto di sigarette con l’apertura rivolta verso di lui.
Remus guardò i filtri, poi guardò Sirius, poi guardò di nuovo le sigarette. “Fa male” osservò con la praticità di un medico.
“Tra due anni potremmo essere morti.”
Remus alzò un sopracciglio. “Anche domani, se è per questo.”
“Anche tra cinque minuti.”
“Anche adesso” aggiunse Remus, sporgendosi di lato e rubando la sigaretta che Sirius aveva sottratto per sé al pacchetto. Smise di muovere le mani e glielo concesse, poi schioccò le dita e la punta si illuminò nelle mani di Remus.
Sirius lo osservò incavare le guance e prendere un tiro. Distolse immediatamente lo sguardo perché purtroppo aveva diciassette anni e una mente capace di fantasticare.
Remus tossì, prevedibilmente, ma ritentò.
Sempre perché Sirius aveva diciassette anni e una mente capace di fantasticare, la seconda volta decise di non perderselo.
Lo guardò espirare contro la luna, le sopracciglia contratte, una cicatrice su una guancia che avrebbe voluto tracciare con un dito.
Era ingiusto.
Tutto.
Era ingiusta la luce della luna, il mondo che si sgretolava sotto i loro piedi, il tempo che correva. Era ingiusto che i suoi amici avessero sofferto per colpa sua, che non si potesse più essere neutrali in un mondo di nemici e alleati. Era ingiusto che dovessero crescere, che la scuola fosse sempre più piccola, ora che la conoscevano così bene. Era ingiusto morire quando Remus Lupin soffiava nuvole di fumo in controluce, davanti a lui. Era ingiusta quell’intimità che voleva con lui e che non riusciva a sfiorare, perché ne aveva paura.
Era ingiusto perché al mondo restava un sospiro di bene e lui avrebbe potuto respirarlo e poi baciare Remus prima che perdesse di concretezza insieme al fumo.
Essere impulsivi non significava pensare di fare una cosa e farla un attimo dopo, quello significava essere rapidi e non faceva crollare le amicizie.
James era rapido.
Essere impulsivi significava fare le cose e poi pensarci e Sirius viveva in bilico sul confine che separava il sentore di un
idiozia dal salto nel vuoto. Sirius sapeva che su quel confine ci sarebbe morto.
Però per una volta fu impulsivo nello sbilanciarsi inconsciamente in avanti, fu impulsivo nel far scattare lo sguardo in basso sulle labbra di Remus, ma fu rapido a fermarsi, scuotere la testa in un gesto impercettibile al punto da essere l’unico a saperlo e muovere una mano per fingere che quell’improvviso cambio di posizione fosse volto a rubargli la sigaretta dalle mani.
Si guardarono. Remus non capì niente di quella catena di azioni sconclusionate.
Per sicurezza, si allontanò di scatto, e un attimo dopo si lamentò con un verso dolorante.
Sirius abbassò lo sguardo sulla mano che aveva iniziato a scuotere e si sporse oltre il parapetto appena in tempo per notare qualcosa che cadeva dalla torre. “Ti sei bruciato con la sigaretta?” domandò un po’ incredulo un po’ divertito. Molto divertito.
“Non ridere.”
“Eri distratto?” scherzò ancora. Non sapeva su cosa avesse scherzato, onestamente. Remus era distratto? Sì. Era distratto dalla confusione di quello che accadeva? Forse. Era distratto da lui perché era un cretino? Possibilmente. Era distratto da lui perché gli piaceva? Boh.
I mesi di interessante evoluzione del loro rapporto erano serviti esattamente a nulla. Non significavano niente. Sirius aveva vissuto di avventure che non significavano niente, quindi sapeva che non aveva niente in mano, nessuna certezza, possibilmente un momento di follia da cui Remus era rinsavito.
‘fanculo?
‘fanculo.
Che idea terribile.
Si odiò per aver pensato subito a quello che avrebbe voluto con lui, quando aveva appena riguadagnato la sua fiducia. Si odiò per aver desiderato immediatamente di più.
“Non ha un buon sapore.”
“Quindi ti bruci e la butti. Logico.”
Remus scosse la testa e qualunque risposta acuta avesse avuto in mente fu soppressa da uno sbadiglio improvviso.
“Sonno?”
Remus annuì, terminando ancora lo sbadiglio. “Ho fatto il Malandrino e il prefetto, oggi.”
“Dev’essere stata davvero dura” commentò ironico Sirius, alzandosi e porgendogli una mano per aiutarlo. Ignorò la sensazione dello scorrere della loro pelle, ignorò anche quello schifo nello stomaco che James gli aveva descritto una volta e che aveva fatto scoppiare a ridere Sirius. Adesso lo capiva. Che vita ingiusta.
“Sì, dei pazzi hanno ritinteggiato il soffitto della Sala Grande” spiegò Remus, mentre tornavano alla Torre di Grifondoro.
“In realtà abbiamo fatto molto di…”
“Abbiamo?” Remus scosse la testa. “Prima regola dello scherzo: non parlare mai dello scherzo.”
Sirius sospirò, la mano semi-coperta dal mantello che sfiorava quella di Remus di tanto in tanto in scariche elettriche casuali. Ignorò anche quelle con scarsi risultati. “E il fatto che sia stato Peter a pensare al giradischi? Geniale. Oh e anche la pergamena sulla schiena di...”
“Prima regola dello scherzo!” lo interruppe Remus in un sussurro concitato.
Varcarono la soglia della Sala Comune insieme, Sirius continuava a ripetere a Remus fasi della loro bravata che conosceva già. Adorò il modo in cui Remus cercò di zittirlo per scherzo o perché stava alzando effettivamente troppo la voce.






 
NotEl: Ciaaao, vediamo se ricordo tutto quello che devo dire.
Allora, c'è un'inesattezza, ma adesso vi spiego perché ci passeremo sopra. La canzone è uscita a maggio del '77. Il motivo per cui per quattro mesi abbiamo chiuso un occhio è che questa è una CITAZIONE, no non è una citazione è... un omaggio? Omaggio? Pare tutto troppo serio. Vabbè, comunque sono tremendamente assurdamente follemente inimmaginabilmente legata a una fanfiction in questo fandom che si chiama 'we were infinite' (di cui vi esorto a leggere la traduzione in italiano qui su efp o direttamente l'originale in inglese su ao3) in cui appare questa canzone. Volevo proprio con tutta me stessa che facesse la sua timida comparsa qui, soprattutto perché ormai io non la posso più sentire senza pensare a loro e lo devo a quella storia. Sappiate che per il realismo della scena me la sono messa anch'io a ripetizione mentre la scrivevo ed è davvero irritante. Se non la conoscete, un'occhiata al testo vi farà capire il livello di trash. Detto ciò se questa storia non fosse iniziata a uscire ormai quasi un anno fa potrei anche sperare che si sia capito il collegamento, però c'è un paragrafo interamente copiato dal capitolo 0 (ho la sensazione di aver detto una bestemmia, adesso. Questa cosa non si fa, è una regola non scritta, io non dovrei dirlo, ma parliamoci chiaro, bellezze, quando mai mi avete vista seria e professionale? Andiamo, sono una cretina, non raccontiamoci fesserie, non so quello che faccio 24/7).
Sarò onesta, signori, questo capitolo è stato una guerra proprio una carneficina non so come farvelo capire. Un vero cattivone, proprio un boss finale di mario bros, quindi potrebbero esserci sviste cioè, io sono stata attenta, ma mi gioco non lo so "mi gioco" che qualche meravigliosa cavolata sia riuscita a scappare. Grazie per la pazienza, prima o poi verrà avvistata e distrutta.
Ci vediamo prestoh,

El.

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 28 - L'importanza di chiamarsi Sirius ***


28. Limportanza di chiamarsi Sirius







“Ora” sussurrò Sirius. Poi sbadigliò e, nello stesso momento, si infilò in bocca un angolo di tramezzino.
James, accanto a lui, scoppiò a ridere. Il che non sarebbe stato un disastro, se il fatto che stesse sorseggiando del latte non avesse portato a bolle d’aria e brevi soffocamenti.
“Stai… letteralmente facendo colazione.” Remus aggrottò le sopracciglia e fissò Sirius un po’ confuso. “Tu funzioni in modo strano.”
“Grazie.”
“Non era esattamente un complimento.”
Peter ruttò. “Ora.”
“Ora cosa?” Marlene si lasciò cadere sulla panca. La forchetta che penzolava già dalla sua bocca e le uova nel piatto che rimbalzavano con lei.
Marlene aveva questa interessante abitudine di dare il primo morso ancora in piedi e poi sedersi. La sensazione latente era che l’affamassero.
“Contiamo quante volte ognuno di noi pensa al sesso,” parlò James, con naturalezza, la voce smorzata da uno sbadiglio.
“È… la cosa più stupida che abbia mai sentito.”
“È per la scienza” ribatté James. “A fine giornata votiamo il più depravato.”
Sirius scrollò le spalle. “Vuoi giocare?”
Marlene ci pensò un attimo su, una traccia di disgusto sostò tra le sue sopracciglia e gli occhi scandagliarono il soffitto tornato normale della Sala Grande. “Ora” e quattro risate seguirono quell’ammissione.
“Che c’è adesso?” James si infilò un cucchiaio abbondante di cereali in bocca. Nessuno capì perché fosse stato così violento. Sputacchiò qualche goccia di latte nella sua ciotola.
Quattro paia d’occhi lo fissarono, un momento di esitazione, una sospensione innocente.
“Ora!” urlarono in coro tutti.
James alzò gli occhi al cielo e si ripulì la bocca. “Che. C’è. Adesso?”
“Storia della Magia.”
Un grugnito annoiato lasciò le sue labbra. “Ma perché la mettono sempre di mattina?”
“Per farti soffrire di più” ribatté Peter. “Siamo arrivati alla Guerra dei Goblin.”
“Ma l’abbiamo fatta un mese fa” notò James, le sopracciglia aggrottate come a cercare di afferrare un ricordo che chiaramente gli era sfuggito.
“Ah…” Peter addentò una fetta di ciambellone. “La… seconda Guerra dei Goblin, allora?”
“Non esiste” James sembrava indeciso se essere sconcertato dall’ignoranza di Peter o sollevato all’idea di non essere l’ultimo dei casi persi. Sbadigliò. Un secondo ‘ah…’ di Peter si perse tra le risate dei ragazzi e il sussurrare concitato dei tavoli delle altre Case.
Fu in quel momento che Lily Evans apparve alle spalle di Marlene e fece scivolare una mano nel suo piatto. “Te ne rubo una!” annunciò sgraffignando una fetta biscottata. Marlene si limitò a scrollare le spalle e lasciarla fare.
Sirius, gli occhi carichi di aspettativa, guardò James. Remus, le braccia incrociate e un broncio già pronto a manifestarsi, guardò James. Peter, le sopracciglia sollevate in attesa, guardò James. Se avesse potuto, James avrebbe guardato se stesso solo per non sentirsi il pesce fuor d’acqua della situazione.
“Che c’è?”
“Oh, avanti,” Sirius alzò solo un angolo della bocca, uno sguardo vispo che, a quell’ora, potevano permettersi solo lui e Gilderoy Allock. “Non ora?”
James realizzò. Spalancò la bocca e unì le sopracciglia, una mano sul petto a fingere offesa. “Io” iniziò, la mano che abbandonava il suo petto per puntare un dito contro se stesso, “sono un bravo ragazzo, un gentiluomo.”
Si guardarono. Per qualche secondo, non accadde nulla.
James abbassò lo sguardo, fece schioccare la lingua e con riluttanza sussurrò: “È tutta colpa tua.” Un sospiro. “Ora.”
A fine giornata il premio fu vinto, con immensa sorpresa di tutti, da Remus Lupin.

***
 
L’aria primaverile fischiava attraverso i finestroni del corridoio. La luce si infrangeva secca ma non arida sulla pietra, colorando di vita qualunque cosa sostasse nella sua rotta.
Per caso, una di quelle cose fu James Potter. Si arrestò in quel raggio di sole, una mano ad arruffarsi i capelli, la Mappa del Malandrino nell’altra e la faccia accartocciata dalla confusione.
“Ma che diavolo…” sussurrò, dando voce ai suoi pensieri. Mormorò un incantesimo e rintascò la Mappa, poi abbandonò il riflettore sotto cui si era fermato e voltò l’angolo che lo separava dalla fonte della sua confusione.
Come previsto, tre ragazzini che non potevano avere più di dodici anni erano seduti a terra. Uno aveva le gambe distese davanti a sé e le braccia a sorreggerlo poco dietro il sedere. L’altra era seduta a gambe incrociate, la bacchetta in una mano e un’alta coda di cavallo in testa, ed era l’unica Corvonero in mezzo a due Tassorosso. L’ultimo sedeva con le ginocchia al petto, un’aria un po’ spaurita e le mani che gli reggevano la faccia come se fosse potuta cadere da un momento a un altro.
Quando James incontrò lo sguardo sorpreso di quest’ultimo, anche gli altri due si voltarono. “Che ci fate quassù?” domandò James prima che potesse trattenersi. Non è che, proprio lui, potesse permettersi di rimproverare chi non si trovava dove avrebbe dovuto.
Notò la ragazzina con la coda nascondere fiale e altri oggetti dietro la sua schiena.
Il ragazzo sbracato a terra fu costretto a torcere il collo per dargli un’occhiata. Alzò un sopracciglio come se quel corridoio avesse portato il suo nome. Un istinto stupido fece venir voglia a James di dimostrargli che lui era l’unico che potesse reclamare qualunque proprietà con lo sguardo, quando metteva piede in una stanza, perché questo aveva fatto per sei lunghi anni in quella scuola. Non disse niente, però, perché il ragazzino parlò per primo. “Che ci fai tu quassù?”
James non riuscì a non guardarlo male. “Ronde.”
Fu solo in quel momento che notò che stava masticando uno stuzzicadenti. Imbarazzante. “Ah-ah” ridacchiò derisorio “tu non sei un prefetto.”
“Neanche tu.”
“Allora siamo pari” la giovane Corvonero si strinse nelle spalle.
“Lo saremmo” disse James, “se non avessi visto i componenti per una Bomba Urlatrice.”
Quella frase ebbe l’effetto sperato. Perfino il Tassorosso arrogante abbassò lo sguardo e scambiò un’occhiata con la Corvonero. James la considerò una vittoria, prima di rendersi conto che stava facendo a gara di sguardi con un ragazzino.
“Che ne sai che si chiama così?” domandò diffidente quello dall’aria spaurita. A furia di competere per chissà quale proprietà del corridoio, James aveva momentaneamente dimenticato il terzo membro della banda.
“Che ne so?” James domandò, retorico. “Be’, tanto per cominciare l’ho inventata. Piuttosto, come la state facendo, visto che non ci sono ricette?”
I ragazzi si fissarono tra loro, una conversazione muta che doveva suonare più o meno così:
‘Ci fidiamo?’
‘In effetti è un po’ strano.’
‘Secondo me sta bluffando.’
‘Idiota, conosceva il nome della Bomba.’
‘Dobbiamo fidarci per forza.’ 
‘Già, altrimenti ci denuncia a qualche prefetto.’
“Va bene” il ragazzino arrogante si sporse su un lato. James pensò che sarebbe stato un dannato sogno, se si fosse lasciato scappare una scorreggia, invece affondò una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni e ne cavò fuori una pergamena stropicciata. Considerò James per un ultimo secondo di completa diffidenza, poi gli porse la pergamena con una scrollata di spalle. “L’ho presa dall’ufficio di Gazza.”
James alzò un sopracciglio. “Vuoi dire che l’hai rubata” precisò, appropriandosi della pergamena e dando finalmente un’occhiata:

 
AVVISO DI DETENZIONE
STUDENTI: James Potter, Sirius Black
ANNO SCOLASTICO: III
DATA: 26 novembre 1973
PROFESSORE: Minerva McGranitt
RICHIAMO:Con l’aiuto di Black, Potter ha finto uno svenimento durante la lezione di Trasfigurazione. Nel momento in cui gli è stato prestato soccorso, tre urla acute sono scoppiate nella classe. Gli studenti, perfettamente sani, hanno poi sostenuto che l’unico modo per disattivare le urla fosse chiamare gli esplosivi da cui provenivano con il loro nome (Bombe Urlatrici) e sussurrare loro parole dal dubbio decoro. Dopo avermi fatto presente, tramite un biglietto, cosa dire esattamente alle bombe, si sono rifiutati di pronunciare le formule loro stessi e hanno imbastito una gara di limbo con i restanti studenti della classe di Trasfigurazione, chiedendo che, come pegno, il perdente si preoccupasse di disattivare le urla che, durante tutto l’avvenimento appena descritto, si sono perpetuate.
FIRMA: Minerva McGranitt

“Non male” commentò James, ridacchiando e porgendo di nuovo la pergamena al suo ladro.
“Migliorabile” lo corresse quello, alzando gli occhi al cielo. “Sarebbe stato ancor più divertente se la professoressa fosse stata l’unica voce riconosciuta dalle Bombe Urlatrici.”
James alzò un sopracciglio. Era offeso? Sì, decisamente. “No, perché semplicemente non l’avrebbe mai fatto.”
La ragazzina Corvonero alzò un sopracciglio. “Sei Sirius Black?”
James chiuse gli occhi e inspirò a fondo, perché evidentemente questi brufoli ci tenevano a offenderlo. “Ti sembro un idiota?”
Il signor-arroganza alzò un sopracciglio. “Onestamente?”
“Non rispondere” alzò una mano. “Sono James Potter, non avete mai visto una partita di quidditch da quando siete qui? Comunque...” infilò una mano nella tasca segreta del suo mantello e tirò fuori uno specchio. “Sirius” chiamò. Notò con la coda dell’occhio che la ragazza Corvonero aveva tirato fuori di nuovo tutto l’occorrente per le Bombe Urlatrici. Non aveva idea di cosa ci facesse dell’eucalipto, lì. “Sirius” provò di nuovo e l’immagine nello specchio finalmente ondeggiò.
Il dormitorio apparve buio, le tende del letto erano tirate a costringere all’esterno la luce, là fuori. “che vuoi?” rispose Sirius, attraverso uno sbadiglio. Per buona misura, si passò anche una mano sugli occhi, nel tentativo di lavare via il sonno.
“Che ha?”
James strinse gli occhi, come se questo avesse potuto aiutarlo ad ampliare la visione ristretta che lo specchio gli concedeva sul dormitorio. “Era Remus?”
“Sì” James udì un fruscio, “ti presento Remus Lupin, non so se ne hai mai sentito parlare. Viene a scuola con noi, dorme nel nostro dormitorio, ieri ti ha lanciato un cucchiaino appresso, ricordi?” L’immagine nello specchio ondeggiò di nuovo. Remus fece capolino da un angolo dell’inquadratura e lo salutò con una mano. Con l’altra reggeva un libro. Una lampada da lettura sul comodino gettava una luce fioca all’interno delle tende del letto, permettendogli di leggere.
“Perché dormi nel letto di Remus?”
“James, io dormo ovunque.” L’immagine tornò sulla faccia ancora mezza addormentata di Sirius. “Che vuoi?”
James si riscosse e lanciò un’occhiata ai ragazzini. “Abbiamo dei fan” lo mise al corrente, voltandosi per rimanere nell’inquadratura dello specchio e mostrare anche i tre ragazzi.
“Amico, in realtà non ce ne frega niente di voi, vi stiamo letteralmente rubando l’idea.”
James ignorò mister-arroganza perché l’altra opzione sarebbe stata un pugno in testa e diventare violento non rientrava nei suoi obiettivi quotidiani. “Visto? Dobbiamo aiutarli!”
“Non sto scherzando” proseguì il ragazzino, “vi stiamo proprio rubando l’idea.”
“A me sembra che ci stiano rubando l’idea” commentò Sirius.
“Vieni qua e aiutiamoli.”
“Mi sente?” domandò invece Sirius, allungando il collo come se fosse stato di qualche aiuto. “Ehi, stronzo!”
“Bene, me ne occuperò io, torna a dormire.”
Prima che Sirius potesse lanciare altre ingiurie alla sua palese versione più giovane, James nascose nuovamente lo specchio nella sua tasca e si concesse una vera occhiata agli ingredienti che avevano raccattato i ragazzini.
“Non ci serve il tuo aiuto.”
“A dire il vero ci serve eccome” si intromise la ragazza. A James piacque subito. “Non sappiamo neanche da dove cominciare.”
“Secondo me l’eucalipto non c’entra niente” commentò l’altro ragazzo. Di nuovo, James aveva rimosso la sua presenza.
“Non c’entra niente, infatti,” confermò James. “Be’, la brutta notizia è che questi scherzi hanno dei retroscena non altrettanto divertenti.”
I tre ragazzi lo guardarono curiosi e meravigliati per qualche secondo. Tutti e tre, incluso l’odioso. Forse James gongolò.
“Se non studiate non combinate niente” rivelò con un sorriso. “Andiamo in biblioteca?”
E fu così che James Potter, noto combinaguai di prima categoria e collezionista di detenzioni a velocità record, finì per dare inconsapevolmente le sue prime ripetizioni a studenti più giovani: un gesto piccolo che avrebbe rivoluzionato la sua esperienza scolastica.

***
 
“Buondì!”
Sirius avrebbe urlato, ma fu misericordioso abbastanza da decidere di lasciar dormire beatamente il resto del dormitorio maschile.
Sussurrò invece all’orecchio di Remus, canticchiando perché l’intenzione di suonare irritante non svaniva certo se tagliava il numero di amici che importunava.
“È la seconda volta in una settimana che mi svegli così” biascicò Remus, dandogli le spalle perché, davvero, non ne poteva più. Schiacciò la faccia sotto il cuscino perché l’ultima volta era stato attaccato da ogni lato e imparare dai propri errori era la prima regola dei cani e purtroppo solo la seconda degli esseri umani.
“Prego.”
“Non ti stavo ringraziando” ribatté Remus, il tono un sussurro che faceva a pugni con il cuscino per superare la barriera del tessuto. Sirius lo udì comunque. “Che ore sono?”
“Le sei e mezzo.”
Remus grugnì. Avrebbe voluto suonare frustrato, invece sembrò solo sofferente. “Se non te ne vai ti prendo a calci.”
Sentì Sirius ridere e iniziare a scuoterlo con il solo scopo di tormentarlo. Ci stava riuscendo. “Andiamo a Hogsmeade, oggi” gli fece presente, tentando in tutti i modi di sottrargli il cuscino, ma Remus era deciso a non mollare la presa neanche per sogno e mantenne testardamente il punto.
“Ma è ancora ieri.”
“Non è più ieri da sei ore e mezzo.” Sirius non ottenne risposta. Remus lo sentì abbandonare ogni tentativo, sedersi sul materasso e soffiarsi un ciuffo di capelli presumibilmente via dagli occhi. “Remus John Lupin” iniziò, guadagnando in risposta un altro grugnito contrariato, “ti giuro che se mi apri il bagno dei prefetti prima di colazione io ti porto sulla luna.”
Remus aveva i pensieri ancora troppo impigliati nel sonno, per afferrare la vera richiesta di Sirius al primo tentativo. C’era una differenza sostanziale tra ‘aprire’ il bagno dei prefetti e ‘portarlo’ nel bagno dei prefetti. Remus combatteva ancora la parte di se stesso che avrebbe voluto portarlo nel bagno dei prefetti, spogliarlo nel bagno dei prefetti e, arrossendo anche solo al pensiero, anche scoparlo nel bagno dei prefetti. Invece si prese un momento per respirare profondamente, scacciare i pensieri molesti del mattino e concentrarsi su quello che Sirius aveva detto. Portarlo sulla luna? Il primo sorriso della giornata gli spuntò sulle labbra. “Non ho idea di cosa mi succederebbe sulla luna, sai.”
“Vuoi scoprirlo?”
Remus mise finalmente via il cuscino che gli copriva gli occhi e osservò Sirius con un cipiglio pensieroso. “Credo che sia sempre piena.”
Sirius scrollò le spalle e gli sorrise, forse per il cuscino, forse solo perché era felice di vederlo. “Io credo che non abbia senso il concetto di pieno, lassù. Tu chiami la Terra piena?”
“Secondo me vale come piena.”
“Che mi dici dei pianeti da cui la luna non si vede?”
“Avvisami quando trovi un modo per respirare su Urano. Zitto, non dire niente.” Remus sbuffò. “Sono le sei e mezzo.”
“Ma ho la tua attenzione” il sorriso di Sirius si affilò, una complicità che aveva l’elettrizzante componente della potenzialità. “Immaginaci sulla luna, vivremmo una vita da cani.”
Remus sbadigliò e ridacchiò insieme. “Sono piuttosto sicuro che non sia un modo di dire positivo.”
“‘fanculo il modo giusto, io lo dico come mi pare.”
Ah be’, allora sì.
Si guardarono per qualche secondo di silenzio, con una confortevolezza figlia della quantità esorbitante di mattine che avevano passato in compagnia dell’altro negli ultimi sei anni della loro vita, ma anche con una certa tinta di disagio, di consapevolezza e vulnerabilità tipiche solo di chi non ha ancora scoperto le proprie carte e prega di avere una buona mano.
Contro ogni aspettativa, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si stava abituando.
A quattro mesi dal giorno in cui Remus aveva deciso che, una volta perdonati i torti subiti, se li sarebbe anche lasciati alle spalle per una questione di giustizia, qualcosa nel loro modo di relazionarsi si era mossa alla velocità di una lancetta delle ore.
Davvero lenta, dunque.
La verità era che Remus non era più lo stesso, da un po’ di tempo a quella parte. Tutte quelle potenzialità che l’intromissione di Greyback nella sua vita gli aveva portato via, stavano comunque venendo a galla. Era un processo che si era messo in modo quando James aveva visto attraverso le sue cicatrici, quando Peter gli aveva chiesto per la prima volta aiuto con i compiti e, forse, quando Sirius aveva iniziato a guardarlo così.
Un anno prima avrebbe creduto di esserselo immaginato, di aver avuto un picco di autostima, un’evoluzione che andava oltre i suoi malfunzionamenti. Ma quello era un altro Remus: uno che non litigava con suo padre, uno che non sapeva di doversi far valere, di pretendere delle scuse, quando gli erano dovute, uno che non pensava di trascinare James nella serra della scuola a rubare arbusti.
Il nuovo Remus era troppo intelligente per non credere di piacergli. Purtroppo tra credere e sapere con certezza ci passava un crepaccio sottile ma pericolosamente profondo.
Avevano iniziato a giocare all’impiccato, negli ultimi quattro mesi. Si scambiavano lettere di una stessa parola senza sbagliare neanche un’ipotesi né mettere lontanamente a rischio l’omino a un passo dalla corda.
Quell’agglomerato di lettere formava la parola sentimenti.
Era una parola che non si potevano assolutamente permettere, in un mondo che cadeva e Remus non sapeva se la combatteva da sei anni o solo da sei minuti.
E il motivo per cui non se la urlavano in faccia ogni volta che si incrociavano era che Sirius non sapeva cosa significasse e Remus non sapeva neanche se se la meritasse.
Il risultato sconcertante era pura paura della possibilità che vi viveva all’interno, terrore di avere un pezzo di felicità a portata di mano e che potesse però essere una truffa.
“Vuoi le chiavi del bagno dei prefetti?” domandò Remus, ricordando il motivo principale per cui stavano avendo quella conversazione alle fottute sei e mezzo del mattino.
“No?” Sirius gli sorrise in quel modo tipico di quando mettevano a punto uno scherzo molto scenografico e questo risultava ancora più fenomenale di quanto avessero previsto. Forse Remus avrebbe voluto morire guardandolo.
“Sì?”
“Sì.”
Accennò col capo al cassetto del suo comodino. Sirius si sporse in avanti, ma si fermò a un passo dalla maniglia. “Sicuro che posso aprirlo?” gli occhi accesi di ironia “Non ci trovo dentro un album con le mie fotografie?”
Aaaaah, frustrante! Stava scherzando? Non del tutto? Perché gli esseri umani avevano bisogno di fare una cosa tanto stupida come flirtare? E perché sembrava solo l’altra faccia di una bugia? Remus aveva quattro mesi di allenamento, però, ormai non arrossiva neanche più. Ricambiò il sorriso, per quanto i cinque minuti dal suo risveglio gliene concedessero uno. “Stai alla larga dal libro rosso, c’è una ciocca dei tuoi capelli stipata dentro.”
“Maniaco” commentò Sirius, aprendo il cassetto e appropriandosi della chiave.
“Avrei optato per la barba, ma purtroppo…”
“Stronzo” ma rise, “guarda qua, invece, qui ho dei peli.”
Sirius inclinò la testa all'indietro e si indicò qualche punto a caso sotto il mento. Remus alzò un sopracciglio scettico. “Forse è sporcizia.”
Sirius abbassò la testa di scatto e lo guardò male. “Stronzo!” ripeté, ma stavolta ce la mise tutta a fingersi offeso. “Come se tu avessi la barba.”
“Io sono più piccolo.”
Remus ricevette solo un’occhiata poco convinta. “Allora vado” annunciò poi Sirius, sventolando la chiave e lasciando il suo letto.
Remus pensò che fosse proprio un peccato.
“Oh, mh, Remus?” Sirius si fermò a un passo dalla porta. Gettò un’occhiata nei letti attorno come se le tende non gli avessero comunque impedito di accertarsi dello stato di coscienza di Peter e James, poi lo guardò negli occhi. “Oggi, a Hogsmeade, ti va una Burrobirra?”
Remus credeva che il problema di tutto quel giocare e girare attorno alle cose fosse proprio l’inevitabile domanda ambigua a cui rispondere sperando di bilanciare bene la propria, di ambiguità. “Sì, come sempre, no?”
Sirius annuì una sola volta, poi altre tre di fila, una delusione sui lineamenti che forse Remus aveva solo immaginato, un trucco della speranza. “Sì” confermò, aprendo la porta del dormitorio, “come sempre.”
E il cielo sapeva cosa sarebbe accaduto se Remus si fosse limitato ad accettare la proposta senza volersi necessariamente accertare della sua natura.
Wow, era un cretino!
 
La Testa di Porco era uno di quei luoghi poco raccomandabili creati appositamente per i tipi loschi e dalle cattive intenzioni. Si dà il caso che James, Sirius, Peter e Remus rientrassero a pieni voti nella categoria.
In un certo senso.
Ad ogni modo Aberforth li conosceva e li detestava perché, quando mettevano piede nel suo locale, l’atmosfera solitaria di chi non voleva farsi notare esplodeva nel casino che quattro adolescenti erano capaci di evocare anche solo con una parola.
“Oh, no” grugnì l’uomo, quando li vide varcare la soglia del pub.
“Ehilà, Ab!” Sirius alzò una mano, James accennò col capo nella sua direzione in una forma baldanzosa di saluto. “Ci chiedevamo…” Sirius raggiunse il bancone, vi appoggiò entrambi i gomiti e si sporse in avanti, in un falso gesto confidenziale, “hai sei bottiglie di Whiskey Incendiario?”
“Se ce le ho? Certo che sì. Ve le darò? No” ribatté lapidario Aberforth. Non sembrava avere voglia di gestirli, ma la verità era che non sembrava mai avere voglia di gestirli, eppure non venivano mai cacciati. Aberforth, sosteneva James, era la tipica persona che ti trattava male a prescindere dalla simpatia che provava nei tuoi confronti.
Sirius si sporse ancora un po’ verso di lui. “Abbiamo diciassette anni.”
Aberforth lo guardò, poi guardò i suoi tre compagni di merende, poi lo guardò di nuovo. “Ti sembro nato ieri, ragazzo? Vi scolate sei bottiglie da soli, qui?”
“Potremmo.”
“Via dal mio locale” si limitò a ordinare Aberforth.
Il resto della clientela sembrava troppo occupato nelle sue losche faccende per preoccuparsi del baccano.
“Prima devo salutare le capre.”
Il fatto era che c’erano due modi di dissuadere Sirius Black dal fare qualcosa: trovargli un’attività ancora più eccitante a cui dedicarsi o costringerlo con qualcosa di definitivo, come un pugno. Aberforth non aveva intenzione di sprecare energie né per intrattenerlo né per picchiarlo, quindi lo lasciò passare oltre la porta sul retro.
Gli chiuse l’uscio alle spalle e si voltò a fronteggiare i tre ragazzi rimasti.
“Allora…” iniziò Remus. Fu il suo turno di appoggiarsi con disinvoltura al bancone. “Riguardo il Whiskey Incendiario…”
Aberforth sbuffò sonoramente.
 
Sirius respirò primavera e sterco di capre. Si chinò ad accarezzare la schiena macchiata di una. Osservò la sua mano affondare nel pelo, percorrere lo spazio tra le sue orecchie, poi chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, ad accarezzare la capra c’era una grande zampa nera.
L’odore di primavera e sterco era più intenso, più tridimensionale. Sembrava far parte del paesaggio, un’entità concreta nella sua evidenza. Si udì ansimare, mentre radunava le capre e correva nel recinto, giocando a chi era più veloce.
Era una cosa stupida che si concedeva di fare perché le capre erano animali esilaranti, a detta sua, e perché James e gli altri impedivano ad Aberforth di fare irruzione nel suo stesso recinto. Questo significava che Sirius, da quel momento in poi, poteva andarsene in giro per Hogsmeade in forma canina senza farsi scoprire nel bel mezzo di una trasformazione.
Dopo aver fatto vorticare un po’ le capre e, banalmente, averle confuse più di quanto necessitassero, Sirius si allontanò dal retro della Testa di Porco e si avventurò tra le strade marginali del villaggio, l’erba alta gli solleticava le zampe e a volte arrivava perfino a grattargli il collo. Le margherite lo fecero starnutire.
Le case e i negozi iniziarono a diminuire, spuntando come forme di vita rare in un deserto di recinti sfasciati e ciottoli sconnessi, finché non ne rimase solo una.
Una stradina sterrata, costellata di ciuffi d’erbacce, portava fino alla duna su cui sorgeva la Stamberga Strillante. Il tetto appuntito era massacrato più dal tempo che dalle urla dai temibili spiriti che si diceva vi abitassero. Sirius trotterellò fino al grappolo d’alberi non lontano dall’edificio e si immerse nel verde.
Quella era una cosa che preferiva non divulgare troppo.
Il fatto era che dividere un pezzo della propria vita con un cane portava a nuove strane abitudini. Per un padrone di cane, queste erano uscire di casa a orari improbabili, nascondere pastiglie in bocconcini di prosciutto e convivere con la strana palla di pelo acciambellata ai piedi del letto. Per un Animagus, queste erano rotolarsi nel fango – perché era dannatamente divertente –, leccare chiunque lo toccasse e andare a bere nel laghetto vicino alla Stamberga Strillante.
Quel giorno, però, Sirius non si abbeverò nel laghetto vicino alla Stamberga Strillante.
La verità era nascosta da qualche parte nel sangue.
Ed era odiosa.
Ventimila chilometri non sarebbero bastati a spaccare sorrisi simili, angoli delle labbra aguzzi, visi sottili e capelli bui.
Non importava quanto Sirius cercasse di raddrizzarlo, se messo alle strette attaccava allo stesso modo di Bellatrix Black: affondi rapidi e decisi concepiti per la gestione contemporanea di più nemici, colpi dalla mira non perfetta volti a sfiorare e spaventare più che a distruggere.
Non importava quanto Sirius cercasse di correggerlo, se si sentiva minacciato si sedeva nel modo a cui l’aveva abituato Walburga Black: schiene dritte e una patina di opaca sicurezza nello sguardo, menti alti sulla linea pericolosa che separava la superiorità dall’accondiscendenza.
Non importava quanto Sirius cercasse di negarlo, a volte la sua logica seguiva percorsi spaventosamente simili a quelli di Regulus Black: la certezza del successo, il rischio, la grande idea di cercare un ago di solitudine in un pagliaio di gente.
Sulla riva del laghetto nascosto nel mucchio di alberi nascosti sul retro della casa infestata nascosta alla fine di Hogsmeade, c’era nascosto anche Regulus Black, assorto in qualche pensiero a cui Sirius non si sarebbe mai connesso né da cane né da umano.
Si scrollò il pelo con riluttanza, occhieggiando la mano di Regulus galleggiare mollemente nello specchio d’acqua e decidendo che quella volta non avrebbe bevuto.
E poi si guardarono.
Occhi simili che nascondevano segreti diversi.
Regulus tirò su col naso, l’atteggiamento che cambiava in favore di uno più guardingo, un sopracciglio sollevato e il naso all’insù in quella maniera irritante che lo faceva sembrare più un dipinto di famiglia che una persona con dei sentimenti.
Poi, però, quel palloncino di doveri si sgonfiò. Regulus inclinò il viso su un lato e gli sorrise. 
Sirius non si mosse, lo studiò come se fosse stato una preda, indeciso se lasciarlo cadere in qualche trappola o attaccarlo all’istante.
Non fece nessuna di quelle cose, però, perché Regulus protese una mano verso di lui e unì le dita tra di loro sfregandole, come a promettergli qualcosa di buono. Si morse un labbro come se avesse avuto almeno tre anni in meno. No. Si morse un labbro come se finalmente avesse avuto la sua età. “Mi dispiace” confessò, il tono un po’ divertito un po’ rotto da qualche parte sotto la superficie, “non ho niente con me.”
Sirius si avvicinò diffidente, le emozioni semplici che si connettevano a una consapevolezza più complessa di avere un debito con lui e di doverlo ripagare. Annusò la mano di suo fratello in un istinto più animale che di carattere, ma si irrigidì quando lui lasciò scivolare la mano tra le sue orecchie, scuotendola in un grattino aaah, dannazione! davvero piacevole.
“Non hai le zecche, vero?”
Sirius sbuffò in una maniera che, su una bocca e non su un muso, sarebbe suonata derisoria.
Nacque una conoscenza a senso unico piuttosto lunga, fatta di carezze incerte e grattini che provocarono versi di apprezzamento a cui Regulus rise.
Fu quel suono venuto direttamente dalla sua infanzia che fece alzare gli occhi di Sirius in quelli ignari di suo fratello.
Da umano ci avrebbe messo esattamente trentadue millisecondi a mettere insieme i pezzi, ma da cane il fatto che avesse tirato su col naso, parlato con tono rotto e sorriso in maniera così triste non ebbe un senso finché non lo sentì ridere.
Forse Regulus Black era ancora umano abbastanza da piangere da solo davanti a un laghetto brutto nella parte brutta di Hogsmeade.
Si sedettero uno accanto all’altro a fissare l’acqua limpida del lago, la mano di Regulus ancora sulla sua schiena lo faceva sentire in parte ‘può andare’ e in parte ‘mi fai senso’.
“Sei la migliore compagnia che abbia avuto negli ultimi… non lo so, da quando ero piccolo” confessò Regulus.
La matematica del cervello canino di Sirius troppo arretrata per permettergli di riconoscere che, quando Regulus era piccolo, l’unica compagnia che aveva era quella di suo fratello.
Bastò il suono di un ramo che si spaccava da qualche parte a rompere quella magia di ghiaccio. Sirius non tornò a respirare, non aveva smesso un attimo di farlo, in effetti, ma espirò in un ansito, come se per tutto quel tempo avesse mantenuto in alto il diaframma in una sospensione accidentale.
Si scrollò la mano di Regulus di dosso, lo guardò un’ultima volta negli occhi – simili, sempre simili, anche se in quel momento nessuno dei due era umano – poi scappò mimetizzandosi tra gli alberi e cercando con l’olfatto la strada per le capre di Aberforth.
Non vide la delusione sul volto di suo fratello, quando lo seguì con lo sguardo, ma se la portò attaccata al pelo.
 
“James, buon compleanno!”
La prima cosa che James si trovò davanti, quando varcò con i Malandrini la soglia della Sala Comune, fu Mary MacDonald, un sorriso enorme e una traccia di speranza a illuminarle gli occhi. Poi si sporse in avanti e lo abbracciò. James guardò fisso davanti a sé e aggrottò la fronte. Sul viso, al contrario di lei, aveva piantato un sorriso di circostanza. “Wow, grazie!” articolò, aggiustandosi gli occhiali con una mano.
Sirius alzò un sopracciglio e avvistò Marlene, a qualche metro di distanza, che si avvicinava per accoglierli a sua volta. “Che roba è?” le sussurrò all’orecchio, quando fu a portata di mormorio.
Marlene si allontanò da lui e osservò la situazione a braccia conserte, mordendosi un labbro. Non disse niente, incontrò soltanto gli occhi di Sirius e sollevò le sopracciglia in un messaggio eloquente.
“Ti prego” ribatté Sirius, che comunque era abbastanza pettegolo da avere un certo fiuto per quelle faccende, il che rendeva facile cogliere al volo i segnali. “Ti prego, dimmi che a Evans piace Mary, sarebbe uno spasso!”
Marlene si limitò a sottrargli la busta di cartone che aveva in una mano e dare un’occhiata all’interno. “Whiskey di Ogden! Mi chiedo chi te l’abbia fatto provare.”
“Non ricordo con precisione.” Sirius sorrise sghembo, “Se non erro un tempo uscivo con una ragazza fuori come un balcone che me l’ha fatto provare al primo appuntamento.”
“Vuoi dire una ragazza simpatica fuori dal comune!” Marlene tirò fuori una delle bottiglie e la esaminò con cura.
Sirius scosse la testa e proseguì, fingendo di non aver sentito la correzione. “Successivamente” sottolineò con la voce, come se quello che era a un passo dal rivelare fosse stato semplicemente inammissibile, “ha rimarcato la sua cattiva influenza mettendomi in mano una sigaretta.”
“Ribadisco che era una ragazza veramente simpatica e non certo una cattiva influenza!” Marlene rise e tornò con lo sguardo sulle bottiglie di Whiskey Incendiario. “Dove le avete prese, comunque? Nessuno sano di mente venderebbe sei bottiglie a dei ragazzi di Hogwarts.”
“La Testa di Porco. Sappiamo essere molto...” Sirius si strinse nelle spalle, in una pausa drammatica assolutamente non necessaria, poi assottigliò lo sguardo e sorrise furbo “persuasivi, se sai cosa voglio dire.”
“Le abbiamo solo pagate” si intromise Remus, venuto dal nulla, guardando Marlene dritto negli occhi e appoggiando con disinvoltura un braccio sulle spalle di Sirius. “Non siamo stati persuasivi, soprattutto lui che non c’era quando le abbiamo prese” continuò pratico, scuotendo la testa come se nella vita non avesse aspettato altro che fare questo commento.
Marlene sorrise, poco toccata dal drastico calo di ilarità nell’aria. “Non avevo dubbi” ammise, guardandosi attorno. “Vado a radunare tutti!” annunciò e si allontanò urlando a nessuno in particolare che ‘era il momento della festa!’. Un metodo interessante di fomentare le folle.
Remus sciolse lo strano abbraccio. “Ma sai avere una conversazione senza flirtare?”
“Non stavo flirtando!”
Remus lo guardò. Sirius lo guardò. Si guardarono.
Remus sollevò un sopracciglio. Sirius sollevò un sopracciglio. Entrambi sollevarono un sopracciglio.
“OH!” James, probabilmente libero dagli auguri di Mary Macdonald, li raggiunse con tutta la sua voglia di far rumore e stabilire contatti fisici mai richiesti. “È una gara a chi si fissa più a lungo? Il vincitore si scontra con me!”
Contro ogni aspettativa, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si stava ancora abituando.
Remus si ritrovò l’indice di James puntato contro. “Inaspettato. Va bene, sono pronto, amico.” Mosse la testa a destra e sinistra in una caricatura di un pugile pronto a salire sul ring, poi scrollò le mani a mo’ di riscaldamento.
Fu accontentato unicamente perché era il suo compleanno.
La cosa, comunque, non si rivelò essere una particolare seccatura, perché Remus vinse la sfida dopo esattamente tre secondi, tra sussurri strabiliati di James che suonavano tanto come: ‘sa il fatto suo, davvero un valido avversario’.
 
Un’ora dopo il mondo ondeggiava.
“Ti spiego” Sirius era stravaccato sul divano come se avesse affittato l’intero castello, una mano davanti a sé per rimarcare le parole che avrebbe pronunciato di lì a poco, “se tu bevi un goccio di profumo, poi puoi baciare saporito.”
Remus, dalla poltrona che era sua sia da sobrio che da ubriaco, scosse la testa come se avesse sentito la cosa più stupida sulla faccia della Terra. “James, digli che è fuori di…”
“In realtà potrebbe essere una buona idea!”
Negli effetti dell’alcol, Remus trovava una declinazione di pace dei sensi, Sirius mostrava un’abilità potenziata a spararne di grosse e Peter scopriva uno sconcertante senso dell’umorismo. James invece sembrava che avesse fatto l’uomo cannone al circo e fosse ancora lì per raccontarlo con tanto di occhi spiritati. Forse acquisiva una visione periferica ampia al punto da conquistare un grandangolo, nessuno poteva dirlo.
“Non è una buona idea” ragionò Remus. Ragionò sul serio, perché una parte del suo cervello si attivò per trovare un modo per dare senso a quella proposta. “Mh, forse però se lo bevi e lo sputi…”
“Esatto!” Sirius per poco non saltò sul divano.
“Cosa diavolo… NO!” Peter si intromise, allargando le braccia e soffermandosi con lo sguardo proprio su Remus. “Non bevete il profumo! E lo dico perché so che potreste avere questa conversazione anche da sobri!”
“Pensaci, Pete, darebbe un tocco esotico alla situazione.”
Qualcuno che suonava troppo come Marlene-ubriaca – che era una specie animale diversa da Marlene-sobria – urlò da qualche parte nella Sala Comune. Sirius ignorò la logica di Peter e il caos che si consumava attorno a loro. “Bene, è arrivato il momento di comporre poesie all’impronta” annunciò, come se un orologio avesse potuto confermare la realtà di quell’affermazione.
“Tu hai letto un libro in vita tua” gli ricordò Remus, “non puoi comporre poesie, non sai neanche cosa sia una poesia.”
“Grazie per il tuo incoraggiamento, Remus, ne terremo conto durante la stesura.”
“Hai detto che sono all’impronta. Dov’è l’improvvisazione se esiste una stesura?”
Sirius scambiò un’occhiata seccata con James, poi giunse le mani insieme e cercò di sembrare il più possibile costernato. “Bene, Remus non parteciperà al gioco.”
“Farò da giuria” propose, sollevando un sopracciglio e avvicinando un ultimo sorso di Whiskey alle labbra.
“Mettiamola ai voti” ribatté Sirius all’istante. “Chi vuole che Remus John Lupin, guastafeste e distruttore di sogni, faccia da giudice per il concorso di poesie da cui è stato appena bandito?”
James e Peter non alzarono alcuna mano.
“Mi dispiace, Remus.”
“Noi votiamo per lui!” gridò una voce dal fondo della Sala Comune. Marlene, Dorcas, Alice e Mary avevano le mani alzate e tanta voglia di assistere a un litigio basato sulle correzioni e le critiche di Remus.
“Quattro contro tre.”
“No” Sirius alzò l’indice e sorrise sicuro. “James oggi compie gli anni, il suo voto vale due. Siamo pari.”
“Questa regola non ha senso.”
“Il mio voto vale due, amico” James si strinse nelle spalle come se il ragionamento filasse meglio del formaggio in un buon piatto a cena e lui semplicemente non potesse contestarlo.
“Anch’io voto per Remus.” Frank Paciock, un sorriso divertito e un po’ fuori fuoco, alzò il braccio che non teneva appoggiato sulle spalle di Alice.
James si voltò irritato e gli riservò un’occhiataccia poco bilanciata alla situazione. “Sei sicuro? Ti costerà cinquanta flessioni in più in allenamento.”
Frank si strinse nelle spalle. “Sono pronto a qualunque tortura.”
Remus sorrise sornione. “Il voto di James vale improvvisamente tre o possiamo…”
“Iniziamo” tagliò corto Sirius, perché non era ubriaco al punto di accettare una tale quantità gratuita di umiliazione.

Alla quarta poesia, però, era eccome ubriaco al punto di accettare una quantità gratuita di umiliazione.
“La prossima facciamola in coppia” propose, prendendo James a braccetto e concedendosi un attimo per sbadigliare. “Inizio io. La intitoliamo L’importanza di essere seri.”
Remus alzò gli occhi al cielo. “Credo che l’abbia già detto qualcuno, forse...”
“Allora,” James lo interruppe, il rischio che gli occhi gli saltassero fuori dalle orbite sempre più prossimo a smettere di essere un rischio e trasformarsi in una solida realtà, “la intitoliamo L’importanza di chiamarsi Sirius.”
“Plagio[1]” avvertì Remus e Marlene, ancora appostata dall’altra parte della Sala Comune, ridacchiò. Aver permesso a Remus di giudicare il concorso di poesie campate per aria si stava rivelando la migliore scelta del secolo.
“Guarda che è il compleanno di James” si lamentò Sirius.
Ma James non si curò di una cosa piccola e insignificante come un plagio e andò dritto per la sua strada. “La poesia fa così: Chi beve profumo è pazzo.”
Sirius annuì solenne, prima di accodarsi: “Però credo che tu hai un grande cazzo.”
Remus alzò le braccia come se il dio dell’alcol avesse deciso di farlo martire. “Credo che tu abbia un grande cazzo” lo corresse.
“Grazie per la pubblicità, ma preferirei che non interrompessi la nostra poesia con le tue avances da porco.” Sirius osservò con un angolo della bocca sollevato il lento esasperarsi di Remus Lupin, in contrasto con il suo rapido arrossire in zona orecchie. Peter rise sguaiato. “Prego, James, e scusa la pausa inopportuna.”
“Inammissibile. Dove eravamo?” James si schiarì la voce. Remus lanciò una… cos’era? Una spugna coi baffi di Freddie Mercury addosso a Sirius. “Tre metri di pesce, per la precisione.”
Sirius ridacchiò. “Una renna che suona il trombone.”
“Andiamo, amico, un cervo che suona il trombone,” lo corresse James.
“Hai ragione. Un cervo che suona il trombone.”
James non proseguì il loro capolavoro, perché puntò fisso gli occhi da qualche parte. Forse erano davvero rotolati via dalle orbite.
Amici, è questo il suono lunare dell’amore?” Sirius optò per uno sfogo integrale delle sue doti artistiche. “Sto comprando il giudice con le mie parole.”
“Questa non è una rima, è un’assonanza,” interruppe ancora Remus.
Forse se la piantasse di correggermi le rime,” Sirius sorrise, ingenuo al punto da risultare sospetto, “E invece dicesse ciò che non dice…”
“Un’altra assonanza” ribatté impassibile lui.
Sarebbe il caso che di questa fottuta assonanza” continuò imperturbabile, “ne discutessimo chiusi in una sta…
“Ragazzi.” La voce di Peter non vibrò nell’aria ondeggiante dell’ebbrezza. Ferma e decisa, sbarrò la strada a un’ennesima svolta ripida sul percorso costellato di errori che Sirius e Remus amavano percorrere. Forse fu meglio così.
I ragazzi si guardarono per un
altra coppia di secondi, occhi fuori fuoco e labbra lucide. Era impossibile decidere se a separarli fossero tre centimetri di possibilità o tre chilometri di sentimenti incastrati. Non ebbero tempo per accertarsene.
Come previsto, Sirius distolse lo sguardo per primo.
Era una dinamica strana a cui Remus si era abituato.
Quando si voltarono a fronteggiare il problema che Peter aveva segnalato richiamandoli, capirono perché la conclusione de L’importanza di chiamarsi Sirius fosse stata lasciata nelle mani di un solo poeta.
Fissarono tutti e quattro un angolo della Sala Comune troppo buio per non essere intimo e troppo illuminato per venire considerato nascosto. Lì, nella penombra di una festa quasi giunta alla fine, Dirk Cresswell spostò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio di Lily Evans.
“Oh, no” Sirius inspirò tra i denti. Dolore fisico.
Lei sorrise. Lui sorrise. Lei abbassò lo sguardo, le sopracciglia aggrottate da un’adorabile confusione. Lui si sporse in avanti. Lei alzò gli occhi di scatto nei suoi e poi li chiuse, perché lui la baciò.
Un orologio meccanico diede l’allarme e Peter, Remus e Sirius si voltarono contemporaneamente a guardare James.
James, al contrario, non si voltò a guardare proprio nessuno. Tenne gli occhi fissi su quel bacio come se questo fosse bastato a disinnescarlo.
Quindi tornarono tutti e quattro a guardare Dirk Cresswell, il modo in cui le sorrise quando lasciò andare le sue labbra, il modo in cui le sfiorò una guancia con il retro della mano e il modo in cui si congedò con parole inudibili e uscì dalla Sala Comune Grifondoro.
James fissò Lily, sola nella penombra di una festa giunta certamente alla fine. Lily non guardò James, ma si portò una mano alle labbra, forse ricordando il tocco di quelle di Dirk Cresswell.
James prese un solo respiro poco rumoroso, poi parlò, in un sussurro appena udibile: “Ho chiuso. Non funzionerà mai.”
Rilassò le spalle come se l’avessero sgonfiato e perse venti lucciole negli occhi. Poi si alzò più sobrio di come si era seduto e guardò i suoi amici. Non sembrava triste, non sembrava stare per piangere, non sembrava aver perso uno spicchio di cuore.
Sembrava normale.
E normale, addosso a James, era terrificante.
“Malandrini” iniziò, un sorriso vispo gli brillò sul viso, ma era luce artificiale, “tutto questo far poesie mi ha messo un gran sonno, quindi credo che andrò a dormire” sgranò gli occhi ironico come riferendosi a una battuta mai condivisa.
“James…” Sirius iniziò, ma fu interrotto.
“Provate a introdurvi nel mio letto e non arriverete a domani. Mi hai sentito?” L’ultima frase la rivolse specificamente a Sirius.
Si guardarono soltanto, poi James lasciò la Sala Comune.
Peter, Remus e Sirius non fiatarono per qualche minuto.
“Quindi James quand’è triste è così?”
Sirius incontrò gli occhi di Remus. Sembrava che un tornado fosse passato sulla sua faccia, il che, nel caso di Sirius, era una rarità. “Non ne ho la più pallida idea. Siamo in territorio sconosciuto.”
“Oh” fu l’unico contributo di Peter alla conversazione. Fissava ancora il punto in cui Lily Evans e Dirk Cresswell si erano baciati.
“Va bene, io direi che andiamo in cucina, prendiamo il soufflè al cioccolato che gli piace e poi ci introduciamo tutti nel suo letto.”
Peter aggrottò la fronte. “Sirius, ha esplicitamente detto che…”
“Andiamo?” domandò incurante dell’avviso di Peter. “Vorrei arrivare prima che inizi a piangere. Sarebbe... patetico” disse. Il tono incerto lasciava supporre che, fino a un attimo prima, avesse avuto in mente un’altra parola.
“Bastardo” commentò Remus, poi si avviò per primo verso il ritratto della Signora Grassa.
A Peter non restò altro da fare che seguirli.
 
In dormitorio la cosa andò più o meno così:
Sirius spalancò la porta decretando che, dopo un attento tour nei suoi ricordi, James nudo fosse mille volte più appetibile di Dirk Cresswell. Il confronto risultò in una ciabatta in testa, ma James accettò il soufflé, la presenza di Remus e Peter e il cane acciambellato addosso a lui.




[1] Storpiatura del titolo della commedia teatrale di Oscar Wilde "L'importanza di chiamarsi Ernesto/L'importanza di essere onesto". Il titolo originale dell'opera è The importance of being earnest, il che rende possibile il gioco di parole sempre dall'inglese con The importance of being Sirius.

Elnotel: Stupidino e leggero, questo capitolo, eh? Allora ci vediamo nel prossimo :)
Adieu,

El.

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Capitolo 31
*** Capitolo 29 - Nascita e morte (di un amore) ***


29. Nascita e morte (di un amore)

 





Aprile, 1977

Aprile sapeva di addii.
L’orologio emise sette rintocchi, un grido lanciato nel vuoto a segnalare il tempo a un mondo che non ne aveva.
“Ti ho cercato ovunque!”
Remus si voltò a guardare Sirius raggiungerlo dalla collina e correre sul prato. Era una cosa spensierata che suonava stonata e insieme balsamica. Si arrestò sulla costa del Lago Nero e riprese fiato, gli occhi che scrutavano nel vuoto. Era una pozza di fresco tra le montagne, quel lago. Se urlavi queste attutivano i suoni, li facevano sembrare onirici e metallici, provenienti dai versanti invece che dalla tua bocca.
“Mi hai trovato.” Remus gli sorrise e lo osservò sedersi accanto a lui, ravanare con una mano tra le pietruzze della costa, incapace di starsene fermo un minuto neanche se l’avesse minacciato di annegarlo nel lago. In realtà il fruscio delle pietre che si scontravano tra le sue dita aveva qualcosa di rilassante.
Il pomeriggio, sul letto di morte, esalava i suoi ultimi respiri.
Remus lo osservò morire con gli occhi persi sul lago, respirando un’aria feroce che puntava a graffiargli la gola. Pensò che avessero solo un altro anno in quella scuola, che il tempo avesse iniziato a scivolargli tra le dita proprio nel momento in cui aveva creduto che la scuola non sarebbe mai finita.
A volte, quando i ricordi di momenti vivi invecchiavano, si trasformavano in nostalgia. La gioia era una cosa troppo effimera per essere imbottigliata, troppo rapida, fuggevole, istantanea. Eppure Remus avrebbe preferito una vita nostalgica a una vita di rimpianti. C’era stato un momento in cui aveva creduto che il suo futuro sarebbe stato nient’altro che un tappeto di tutte le cose che non aveva potuto fare, di tutti i fallimenti che non aveva potuto evitare e tutte le emozioni intense che non era riuscito a vivere. Dopo sei anni di sorprese, Remus si era scoperto un vincitore contro se stesso, si era riscoperto nostalgico proprio perché aveva dei ricordi.
Il cielo era più scuro, le nuvole più fitte, il tempo sembrava venir divorato da un inchiostro nero permanente, destinato solo a intensificarsi. Non sarebbe arrivato nessun eroe a salvarli. Non avrebbero avuto alcun mantello grande abbastanza da venir drappeggiato su tutte le persone a cui Remus voleva bene. Non avrebbero avuto alcuna Mappa del Malandrino precisa abbastanza da prevenire ogni visita inaspettata. Remus non sapeva cosa fosse la morte, non sapeva che sapore avesse quella degli altri, ma sapeva che l’avrebbe imparato troppo presto.
Se c’era una cosa che tutta quell’oscurità gli aveva fatto notare, tuttavia, era che le stelle brillavano di più in un mondo nero.
“James mi ha fatto fare il Portiere,” lo informò Sirius, all’improvviso, lo sguardo ancora fisso sul lago. “Ha detto che dovevamo passare un po’ di sano tempo tra fratelli, qualunque cosa voglia dire. Se vuoi la mia opinione, voleva solo una scusa per spezzarmi le dita.”
Remus trattenne una risata nel naso. Ci riuscì solo a metà, il resto gli lasciò le labbra in uno sbuffo.
“Tu ridi, ma quel pazzo tira a duecento all’ora. Era più palla avvelenata che quidditch. E si è arrabbiato!” Sirius alzò la voce e l’eco metallico la accolse. Remus pensò che sarebbe stato immensamente liberatorio mettersi a gridare da lì. “Si è arrabbiato perché diceva che non provavo neanche a pararle!” continuò, in un’ingiusta imitazione della voce di James. “Be’, scusami se non provo neanche a pararle, l’ultima volta il mio dito ha fatto così…” e Sirius procedette a tirare indietro la punta dell’indice con la mano sinistra.
“Oh, ti fa male?” domandò Remus, ironicamente tenero.
In cambio ottenne un’occhiataccia. “Sì, cazzo! Guarda qua, ho la mano tutta rossa!”
Remus alzò gli occhi al cielo, poi tornò a guardare il Lago Nero. Senza staccare gli occhi dalla superficie, afferrò la mano di Sirius, se la portò alle labbra e poggiò un bacio tra le nocche. Sentì il suo sguardo bruciargli la pelle per tutto il tempo, disintegrarlo come se avesse superato una linea invisibile che avevano tracciato insieme.
Il fatto era che giocare era bello solo se prima o poi la partita finiva e si potevano incoronare i vincitori.
“Sono guarito” annunciò Sirius, provocando una risata in Remus.
Tornarono a fissare la superficie piatta del lago. Remus aveva ancora la sua mano tra le sue, come se rischiasse di cadere e rompersi. Sentì Sirius espirare sonoramente nello stesso momento in cui allargò le dita e trovò il modo di intrecciarle alle sue, poi mosse il pollice in una carezza impacciata.
“Remus.”
“Sì?”
“Posso baciarti?”
Remus lo guardò, una scintilla ironica si accese nelle sue iridi. “Da quando mi consulti, prima di fare qualcosa?” domandò in un soffio.
Sirius gli fece un sorriso vispo, tipico, generalmente accompagnato a una scrollata di spalle che non arrivò mai. “Da quando so che posso perderti.”
“Questa da che scatola di cioccolatini viene?”
“La smetti di rovinare l’atmosfera?”
“Forse da un biscotto della fortuna?”
Sirius alzò gli occhi al cielo. Remus lo osservò chiudere gli occhi e sporgersi in avanti, deciso quasi in maniera irritante. Lo osservò anche baciare l’aria frizzante di aprile.
Sirius aprì gli occhi di scatto confuso – ferito? Ferito, sì, forse addirittura umiliato.
Ma non ebbe il tempo di fare domande, perché Remus gli prese il viso nella mano libera e lo baciò. Allentò la presa quasi all’istante, ma lasciò la mano sinistra sulla sua guancia, risalì fino allo zigomo e gli sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, poi lo attirò a sé come se già non fossero stati appiccicati.
Lo sentì sciogliersi sotto il suo tocco e seppe che non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Era diverso da qualunque cosa avesse mai provato con lui ed era diverso da qualunque cosa avesse mai provato in tutta la sua vita. Forse l’intimità non si nascondeva nella quantità di pelle che vedevi, ma in quella di anima che indovinavi.
Si sentì sciogliere anche Remus, ma non l’avrebbe mai ammesso a sua volta. Era una questione che aveva a che fare con il suo orgoglio e con l’ego di Sirius.
Poi dimenticò di rimanere composto.
Prese aria solo un attimo e sciolse le loro mani. Tornò a baciarlo meno incerto della prima volta e infatti fu diverso. Fu uno scontro di labbra più violento, più soddisfacente, in realtà fu solo più disperato, perché avevano il mondo contro. Uno scontro che mirava a dimostrare qualcosa di fumoso e impreciso alla fine di una strada su cui avevano corso troppo e su cui non avevano mai davvero saputo guidare, ma che potevano imparare a gestire.
Sirius si sporse verso di lui e Remus si ritrovò con i gomiti piantati nelle pietruzze, improvvisamente sotto il suo peso. Sirius non gli chiese di più, però, non accennò a muovere i fianchi né a disfargli la cravatta né a suggerire quell’urgenza a cui si erano abituati l’anno prima.
Remus lo allontanò qualche attimo dopo, perché tutto il sangue che gli incendiava la faccia rischiava di fargli esplodere qualche vena. Deglutì a fatica e lo guardò negli occhi. Gli accarezzò una guancia con il pollice per prendere tempo. Le altre dita premevano da qualche parte sul suo collo e sentivano il battito furioso sotto i polpastrelli.
“Cane e zenzero” ammise Remus sulle sue labbra. Non l’aveva mai detto ad alta voce e gli sembrò di non averlo fatto neanche in quel momento. Forse non aveva parlato, forse non era lì davvero, forse era distante, in un sogno che non aveva mai sognato.
“Grazie,” Sirius ridacchiò e tutto divenne reale, “è solo un anno che te lo chiedo.”
“Ora hai la tua risposta.”
“Cuoio e cioccolato” ricambiò Sirius con un’alzata d’occhi, come se gli fosse costato più della sua stessa vita, peccato che Remus non gli avesse chiesto di ammettere proprio niente.
Un sentimento era una faccenda delicata e inafferrabile.
Sirius non sapeva cosa significasse e Remus non sapeva neanche se se la meritasse.
Restava il fatto che esisteva ed era ingombrante.

***
 
Luglio, 1995

Luglio sapeva di addii.
L’orologio emise sette rintocchi, un grido lanciato nel vuoto, a segnalare il tempo a un mondo che non ne aveva.
“Ti ho cercato ovunque!”
Sirius si voltò a guardare Remus raggiungerlo dal corridoio a passo rilassato. Era una cosa confortevole che suonava stonata e insieme balsamica. Si arrestò sulla soglia della porta della cucina, gli occhi di Sirius scrutavano nel vuoto di una casa che non aveva mai visto. Era un respiro ben tratto, quella casa. Se urlavi il bosco attutiva i suoni, li faceva sembrare soffi di vento e impressioni provenienti da lontano invece che dalla tua bocca.
“Mi hai trovato.” Sirius gli sorrise e lo osservò sedersi accanto a lui e sfiorare con un dito il legno grezzo del tavolo. Non produsse alcun rumore. In realtà un silenzio così piatto, per la prima volta da sempre, aveva qualcosa di rilassante.
Il pomeriggio, sul letto di morte, esalava i suoi ultimi respiri.
Sirius lo osservò morire con gli occhi persi oltre la finestra, respirando un’aria feroce che puntava a graffiargli la gola. Pensò che potenzialmente avessero troppo tempo, che questo avrebbe sicuramente iniziato a scivolargli tra le dita prima che iniziasse a contarlo.
A volte, quando i ricordi di momenti vivi invecchiavano, si trasformavano in tristezza. La gioia era una cosa troppo preziosa, per essere ricordata, troppo pura, ingenua, debole. Sirius l’aveva sempre cercata, inseguita per istinto naturale, ma la verità era che aveva un prezzo ed era che si poteva baciare. C’era stato un momento in cui aveva creduto che il suo futuro non sarebbe stato altro che nulla muto. Dopo anni di silenzio, Sirius si era scoperto un vincitore contro se stesso, si era riscoperto triste proprio perché aveva assaggiato la felicità.
Il cielo era più scuro, le nuvole più fitte, il tempo sembrava venir divorato da un inchiostro nero permanente, destinato solo a intensificarsi. Non sarebbe arrivato nessun eroe a salvarli. Non avrebbero avuto alcuna promessa affidabile abbastanza da tenerli legati indissolubilmente. Non avrebbero avuto alcuna speranza gialla abbastanza da prevenire ogni momento di profonda e disarmante rassegnazione. Sirius sapeva cosa fosse la morte, sapeva che sapore avesse quella degli altri, ma non sapeva fermarne l’avanzata.
Se c’era una cosa che tutta quell’oscurità gli aveva fatto notare, tuttavia, era che la luna brillava di più in un mondo nero.
“Tè?” gli domandò Remus, all’improvviso.
Era una cosa strana. Ti uccidevano e ti torturavano, ti dilaniavano e ti annullavano, poi un giorno, sull’orlo della follia, vedevi un’immagine stampata su un giornale, diventavi l’assassino in libertà più ricercato del mondo magico, volavi su un ippogrifo e ti ritrovavi un anno dopo in un cottage da qualche parte a nord, tra Manchester e Londra.
E ti offrivano il tè. Il tè!
“Sì, va bene.”
Remus annuì. Lo sbuffare abitudinario del bollitore, il tintinnare quotidiano di tazze e i contenitori dello zucchero – tutto era semplicemente irreale. Era come correre la maratona, tagliare il traguardo e trovarsi immediatamente a cena in un ristorante di lusso a festeggiare. Era come sbattere le palpebre alle undici e scoprire che erano già le cinque del mattino.
Una tazza fumante gli fu piazzata davanti con quella stessa rapidità sconcertante che dodici anni di vuoto assoluto tendevano ad assegnare a ogni altra cosa. Un attimo prima Remus gli proponeva un tè, un attimo dopo poteva già berlo.
Il fumo risalì in onde irregolari verso l’alto. Si arricciavano nei momenti più improbabili, rispondendo a turbolenze e leggi all’apparenza imprevedibili. Il fumo trovò la strada per il suo naso e Sirius sperimentò la prima collisione con il passato.
Si portò la tazza alle labbra e anche una vita intera dopo quella roba era aspra e dolorosa e disgustosa e assolutamente accogliente.
“Da quando bevi tè ai frutti rossi?”
Il problema dei ricordi di tredici anni prima era che tendeva a ricordarli meglio chi non ne avevi altri.
Remus si strinse nelle spalle. “Non ricordo con precisione, ho iniziato…”
“Tredici anni fa.”
Il problema di ritrovare un vecchio amico era che questo sapeva cose che agli era facile nascondere.
“E ora ti piace?”
“Ora non riconosco neanche più il sapore. Sono immune.”
Sirius rise. Era una cosa facile che suonava meno come James e più come il vetro. “Allora te lo dico io. È terribile.”
Remus prese un sorso e lo assaporò platealmente. Poi scosse la testa. “Niente da fare. Monotono, insapore, acqua calda.”
“È un bel posto” commentò dopo un po’ Sirius, ruotando l’indice per fargli capire che si riferiva alla casa.
“È una bettola, ma ha una cantina non male.”
“Per il prossimo mese non ti serve. Ci facciamo un giro nel bosco.”
“Che delinquenza!”
“Che ti aspettavi? Parli con uno che è evaso di prigione.”
Remus per poco non soffocò con il suo té. Sirius sorrise e Remus lo imitò.
Il mondo aveva più di due colori.

***
 
Dicembre, 1977

“Mi rifiuto di crederci.”
Remus, accanto a lui, scrollò le spalle. “È così.”
Sirius incrociò le braccia al petto e scosse la testa energicamente. “No, stai soffrendo del tipico OCHURVAO, te lo leggo in faccia.”
“È russo?”
Sirius si voltò finalmente a guardarlo, incontrando il luccichio ironico delle iridi di Remus. Non dover nascondere l’attrazione era la cosa più comoda del mondo. “No che non è russo.” Quando Remus alzò soltanto un sopracciglio, Sirius decise di cedere al suo lato misericordioso. “Giusto perché sei carino.” Remus non arrossì. Bastardo. “Stai soffrendo del tipico ora che ho un ragazzo vedo amore ovunque.”
Oh no.
Oh, cazzo.
Ragazzo, aveva detto.
Oh no.
Forse Remus non se n’era...
“Eh?”
Sirius si esibì in un
ehm esitante esageratamente lungo. “No, ho detto… Cioè, pensavo che ormai fosse una cosa consolidata. Però posso non dirlo… No, in effetti è stato… lascia stare.”
“No, va bene.”
“Va bene?” Sirius avrebbe voluto avere la decenza di non parlargli praticamente addosso dal nervosismo. ‘Avrebbe voluto’, perché non la ebbe.
Almeno era riuscito a farlo arrossire. Bella vittoria.
“Va bene” mormorò Remus, guardandolo di sottecchi, giusto il tempo per constatare il completo disastro che doveva essere la sua faccia. Bellissima vittoria. “Alla fine si trattava solo di dirlo ad alta voce.”
“Già.”
“Bene.”
Passò qualche attimo di tesissimo silenzio, poi Remus inspirò bruscamente tra i denti e dichiarò così il discorso concluso.
“Comunque non sto soffrendo di nessun…” Remus alzò gli occhi al cielo, come se avesse preso a visualizzare l’assurda frase di Sirius nella sua testa per isolarne più efficientemente le iniziali, “OCHURVAO.”
“Stai soffrendo eccome di OCHURVAO.”
La verità sulla totalità di quella conversazione era che si era svolta in sussurri concitati. Tutta. Interamente. Nessuna parola esclusa, tranne l’
eh?’ sorpreso di Remus, che ad ogni modo non era classificabile come parola.
I ragazzi stettero qualche momento in silenzio, osservando l’ennesimo scambio patetico consumarsi davanti ai loro occhi. James, al tavolo della colazione della Sala Grande, fisicamente a meno di un metro da loro ma spiritualmente nel mondo dello zucchero filato e i pony, accennò col capo in direzione di Lily Evans, in una forma ridicola di saluto. Poi abbassò lo sguardo e sorrise. Sirius lasciò scorrere gli occhi dall’altra parte del tavolo. Incredulo, notò Evans appuntarsi una ciocca di capelli dietro un orecchio, far scattare anche lei lo sguardo in basso e serrare le labbra in un sorriso incompleto.
Sirius guardò Remus, gli occhi sbarrati.
Remus guardò Sirius, l’aria saccente.
“Mi rifiuto di crederci” decretò Sirius, per la seconda volta in cinque minuti.
“Mi sento in dovere di rammentarti,” iniziò Remus e Sirius sentì puzza di presa in giro dall’utilizzo di una parola tanto stupida come ‘rammentare’, “che se l’hai visto anche tu allora soffri di OCHURVAO.”
“Va’ a farti fottere.”
“Con piacere.”
“No, dico davvero, questa cosa non ha senso!” Sirius smise di sussurrare, ma James era troppo preso dall’imbarazzo post-sorriso mattutino per reagire alle sue esternazioni. “Lo odia!”
“Ma no.”
 
In effetti Lily Evans non lo odiava e Sirius lo scoprì nella maniera più inopportuna possibile.
Le finestre erano aperte. Lasciavano passare l’aria frizzante dell’inverno appena iniziato e il buio della sera inoltrata.
Sirius marciò silenzioso lungo il corridoio e, disinvolto come se gli fosse stato dato appuntamento, raggiunse Remus con passo felpato e scivolò con la mano lungo il suo braccio, intrecciando le dita alle sue. Non si curò eccessivamente del salto di tre metri che Remus avrebbe fatto dallo spavento se la sua mano non l’avesse ancorato al suolo.
“Oh, no” si lamentò lui, quando si fu ricomposto.
Sirius era consapevole del luccichio nel suo sguardo e dei guai che portava con sé e si limitò a scrollare le spalle con aria insolente. L’onda di quel gesto raggiunse anche le loro mani allacciate.
“Il motivo per cui queste ronde durano così tanto è che finisco sempre per trovare gente come te.”
“In realtà sono stato io a trovare te.” Sirius alzò gli occhi al cielo, pensieroso. “Ma adesso che James è Caposcuola non puoi andare in pensione?”
“Resto un prefetto.”
“Ricordami perché hanno reso quel delinquente Caposcuola?”
Remus finse di pensarci su. “Perché a differenza di qualcuno dimostra più di dodici anni?”
“Ti prego.”
“È vero. Ha passato la fine dello scorso anno a dare lezioni ai ragazzi più piccoli.”
“Immaginami al suo posto. Avrebbero imparato a far schiumare le orecchie degli amici.”
Remus sollevò entrambe le sopracciglia con fare eloquente.
“Oh…” Sirius ci pensò un attimo su. “Sì, è vero, ma non mi definirei immaturo, più…” ruotò la mano con aria assorta, fingendo che una saggezza profonda gli ruotasse attorno in spirali di maturità “la variabile stocastica.”
“La variabile di ‘stocazzo.” 
Sirius lo ignorò e si ripeté, in tono solenne. “Sono la variabile stocastica.”
“E io sono un prefetto e devi tornare alla Torre di Grifondoro. Adesso.”
Sirius sorrise, furbo. “Altrimenti?”
Remus sospirò rassegnato. Si era messo in trappola da solo come un fesso. Quando Sirius rise, guadagnò in risposta un triplo salto carpiato degli occhi di Remus. “Non lo dico.”
Sirius ebbe la decenza di guardarsi almeno attorno e constatare l’assenza di occhi indiscreti. “Altrimenti mi punisci?” A questo punto della conversazione, non era un caso che si trovassero al sesto piano e a un passo dal ripostiglio più lussuoso di Hogwarts. Sirius spese solo un attimo a compiacersi di se stesso e i suoi loschi piani di adescamento.
“Sì.” Remus sbatté gli occhi, apparentemente imperturbabile. “Sì, nel senso che passi tutta la notte a strofinare trofei.”
Sirius scosse la testa – gliele serviva su un piatto d’argento! – e rientrò di nuovo in possesso della propria mano. La fece scivolare fino al pomello della porta dello sgabuzzino e la spalancò, cedendo galantemente il passo a Remus, come se non lo stesse invitando tra scope da quidditch vecchie secoli e ingredienti per pozioni. Era il ripostiglio più comodo della scuola perché c’era una poltrona. Generazioni di coppie ribelli ancora non erano riuscite a spiegarsi per quale ragione. “Con piacere. Il trofeo sei tu?”
Remus lo guardò chiudere la porta dello sgabuzzino e si sedette alla poltrona prima che l’ultima lama di luce soffocasse e la stanza sprofondasse nel buio. Qualcosa cadde, Sirius imprecò, poi accese la punta della sua bacchetta e la appoggiò su una mensola. Qualche stringa di luce blu illuminò un lato della faccia di Remus. Sembrava divertito e Sirius gli sorrise.
“Ma lo senti?” Remus inspirò a scatti, accartocciò il viso in una smorfia di disgusto.
“Sì, è tipo puzza di sperma di pipistrello.”
Remus scoppiò a ridere. “Stavo per dire veleno per topi, ma come vuoi.”
“Dirò a Peter di non venire qui.” Sirius si sedette sulle sue gambe e lo baciò, piano. Remus schiuse le labbra all’istante e introdusse una mano nel suo mantello, scivolando su un fianco e sfiorando la pelle sotto la camicia con la punta delle dita. Sirius rabbrividì al contatto e si strusciò su di lui.
“Aspetta.” Remus aggrottò la fronte e scostò il viso di lato.
“Che ho fatto?”
“Shh.”
Sirius si mise in ascolto a sua volta. Un rumore debole di passi gli arrivò alle orecchie. “Ma come diavolo l’hai senti…”
“Shh!” ripeté Remus, più urgente, poi si indicò un orecchio, mosse la mano a mimare una bocca e Sirius mise insieme tutte le sue doti creative per capire che la risposta stava nei sensi acuti del lupo.
“Grazie per avermi fatto compagnia” la voce di Lily arrivò alle loro orecchie un po’ ovattata dagli strati di mura che li separavano.
“Ma no, mi fa piacere!” rispose Marlene, l’affetto nel suo tono evidente. “Di che volevi parlarmi?”
“Mh, Remus sarà già andato al settimo piano, giusto?”
Sirius lo guardò e sollevò un sopracciglio, una battuta sulla punta della lingua già pronta a uscire, se solo Evans non avesse deciso di fermarsi proprio a qualche metro dalla porta dello sgabuzzino. Remus scosse la testa e lo ammonì con uno sguardo. Sirius annuì, una traccia evidente di offesa sui lineamenti, perché sapeva benissimo quando essere discreto, grazie tante.
“Sì, sicuro, è tardi.”
Sirius avrebbe voluto ridere fragorosamente.
Passò un momento di silenzio. Lily esitava. “Sputa il rospo.”
“Il fatto è che James Potter non mi chiede più di uscire e non sembra più interessato a me.”
Sirius era certo che il cipiglio scettico di Marlene fosse anche udibile, oltre che visibile, perché giurò di averlo sentito.
“E quindi?”
“E quindi non è strano?” il tono di Lily era leggero, incurante, vittima solo dello scarso allenamento a essere improvvisato.
Sirius alzò gli occhi al cielo e mimò con le labbra: ‘Dirk Cresswell’. Remus sorrise.
“Era più strano che continuasse a provarci dopo che l’hai respinto ogni volta.”
Sirius sgranò gli occhi e annuì, in profondo accordo. Roteò un dito accanto alla sua tempia, mimando le rotelle fuori posto di James.
“Sì, hai ragione.”
Passò qualche altro secondo di silenzio, più denso del precedente.
“Lily.” Marlene parlò con calma, la voce appena udibile, con una porta di mezzo. “Ti conosco da sette anni.”
Evans liberò una risata, trasparì tutto il disagio che il tono leggero di prima aveva scarsamente provato a nascondere. “Già.”
“Se ti chiedesse di uscire diciamo… domani, tu che gli risponderesti?”
Sirius e Remus si guardarono, gli occhi sgranati, le gambe ancora attorcigliate.
“Non lo so. Forse...”
Sirius si schiantò la mano destra sulla bocca e con la sinistra colpì ripetutamente Remus, che invece lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale della poltrona. L’aria nello sgabuzzino sembrava la stessa che si respirava sugli spalti di una partita di quidditch particolarmente avvincente.
“Questa me la devi spiegare.”
“È che non lo so, davvero! Ieri in biblioteca mi ha ripetuto gli ibridi magici e allora io gli ho corretto una cosa e lui ha sorriso e ha urlato che avevo ragione e poi si è appuntato qualcosa sulla sua pergamena, onestamente non ho neanche idea di cosa e… non lo so.” Si lasciò scappare un grugnito esasperato. “Lo detesto, ecco qual è il problema, mi fa così arrabbiare!”
“Lily,” Marlene rispose dopo qualche secondo, il tono indeciso tra una risata e qualche grammo di serietà. Optò per una via di mezzo. “Sei proprio stupida.”
“Ehi!”
“Di’ la verità, la spilla da Caposcuola ti ha fatto perdere la testa.”
“Marlene.”
I passi delle ragazze presero ad allontanarsi verso le scale che portavano alla Torre di Grifondoro.
“E la divisa da quidditch.”
“Marlene.”
“Il fatto che ogni santa mattina si sbrodola con il latte.”
“Che schifo.”
Marlene azzardò un’altra attraente caratteristica di James, ma le sue parole si persero nella distanza. L’ultima cosa che Remus e Sirius riuscirono a distinguere, nell’eco dei corridoi, fu la risata di Lily.
“Comunque,” iniziò Remus. La sua voce nel nuovo silenzio sembrava provenire da lontano, farsi strada a pugni nella densità del buio, “ho messo un Incantesimo Silenziatore. Semplicemente, volevo che mi facessi ascoltare.”
Ecco perché.
Sirius incrociò le braccia al petto, un broncio sulle labbra. “Perché me lo stai dicendo, allora?”
“Per ricordarti che fai sempre casino.”
Sirius increspò le sopracciglia, proprio offeso, ma distese la fronte quando Remus ridacchiò e lo baciò. “Comunque ho un piano.”
“Ma non mi dire.”
“Sarà meraviglioso, dobbiamo aggiornare Pete.”
“Possiamo farlo dopo?”
Sirius sorrise tutto canini e furbizia, mosse appena i fianchi, più un’allusione che un tocco. “Certamente” disse, e aprì un bottone alla sua camicia.

***
 
Marzo, 1996

Sirius lo baciò alla fine di una battuta, un gesto imprevedibile che Remus aveva previsto.
Aveva detto che non aveva mai mentito, neanche un giorno della sua vita, e Remus era scoppiato a ridere, trascinando anche Sirius.
E poi lui lo baciò.
Le dita erano ancora strette attorno al bicchiere di Whiskey, la risata che moriva sulle loro labbra, la sedia che gemeva sotto il cambiamento di peso. Lo baciò come se si fosse chinato a raccogliere una forchetta caduta a terra, come se una sveglia fosse suonata a ricordargli che la vita non aspettava nessuno, specialmente i codardi. Lo baciò come se fosse stato semplicemente ovvio, come se, rileggendo un libro, non ci si aspettasse certo di vedere il finale cambiare.
Remus lo guardò allontanarsi un paio di secondi dopo. Aveva gli occhi ancora chiusi, come se aprirli avesse potuto confermargli che era stato tutto un miraggio. Remus respirò sulle sue labbra e gli assicurò così che il mondo non era ancora crollato. Sirius sollevò piano le palpebre e Remus pensò che non avesse idea di cosa gli passasse per la testa.
Avrebbe voluto disperatamente saperlo, però.
Avrebbe voluto infilargli una mano nelle viscere, ravanare da qualche parte nel famoso secondo cervello e ricordargli come funzionava una cosa innata come la vita. Avrebbe voluto dargli un colpo in testa, asportargli ogni ricordo e guardarlo dormire come gli esseri umani erano nati per fare. Avrebbe voluto trascinarlo di peso via da quella casa, da quella busta di plastica in cui l’avevano costretto a respirare, e guardarlo sgretolarsi nella nebbia e volare via come polvere. Avrebbe voluto ferirlo e mostrargli che sanguinava proprio come tutti gli altri.
Invece Remus strinse la mascella e lo guardò, severo, perché quello che aveva davanti non era un uomo ma neanche il ragazzino con cui era cresciuto. Era una via di mezzo, bloccata da qualche parte nel tempo.
Sirius alzò un angolo della bocca in un sorriso consapevole. Ancora una volta, Remus non aveva idea di cosa, esattamente, fosse consapevole. “Mi guardi come se ti avessi tradito” sussurrò e Remus avrebbe voluto ricordargli che era quello che aveva creduto per la totalità della sua vita adulta.
Invece si sporse in avanti e lo baciò come Sirius non aveva avuto il coraggio di fare.
Deciso e consistente. Non uno sfiorarsi di labbra, non uno scontrarsi di esitazioni. Lo baciò come era giusto che lo baciasse: veramente.
Stringhe di luce strisciavano dalla stanza accanto in tagli sorprendenti, illuminando vetro di bicchieri, angoli di gomiti e pezzi di tavolo. La penombra amplificava il silenzio in un modo che sembrava far rimbombare alti gli schiocchi delle loro labbra.
Remus si scostò il tempo di guardarlo e porgli una sola domanda muta e priva di punto interrogativo. Sirius trovò il modo di rispondere annuendo. “Però” aggiunse e una traccia di furbizia gli oscurò le pupille “possiamo andare nella mia stanza? Ho sempre voluto farlo lì per dispetto a mia madre.”
“Sì,” Remus rise, un suono strano nel buio opprimente di quella casa e di quel tempo, “andiamo.”
Era una stanza buia come tutte le altre in cui Remus non aveva mai messo piede, ma giravano attorno a quella stanza – a quella situazione – almeno da una settimana, ormai. Remus si appiattì contro la porta e lasciò che Sirius gli baciasse una guancia e scivolasse facile lungo la mascella e il collo, in un percorso che funzionava a memoria olfattiva o forse solo a bisogno. Remus ebbe modo di dare un’occhiata alla camera, così.
Era una stanza buia e fuori infuriava il temporale. Dalle sbarre alla finestra entravano striscioline di luna sporca di pioggia e luce di lampioni filtrata di grigio. Colpivano superfici distinguibili a stento, ma distinte abbastanza perché sperassero di non inciampare. Da qualche parte c’era una sedia, da qualche altra un letto. Sulle pareti, se ci si sforzava, si intravedevano vecchi poster e bandiere colorate sbucciate e divorate dagli acari e dal tempo.
Era una stanza buia ed era una stanza non vissuta. Mai come in quel momento Remus sentì, fino in fondo alle ossa, quanto male facesse a Sirius stare lì; in un posto congelato e insieme vittima del tempo, a ricordargli che era anche lui così. Congelato e vittima.
“Sei davvero distratto” gli fece notare Sirius. Non sembrava annoiato, ma si allontanò per un’occhiata. Le iridi riuscivano a catturare una sola goccia di luce, ma bastava per costruirci sopra uno sguardo “se vuoi mi…”
“No, scusa” Remus scosse la testa e sorrise, distogliendo lo sguardo dalla stanza, le pareti e i tempi congelati e concentrandosi su di lui. Lo spinse indietro, dove per caso era riuscito a scorgere il letto. Era troppo grande per una persona e troppo piccolo per due.
“Guarda che lo sento anch’io.”
Remus si abbassò su di lui, lo sentì infilare le dita nei passanti dei pantaloni. Poi si chinò a lasciargli un bacio appena sotto l’orecchio, quasi inconsistente. “Cosa?” sussurrò.
“Il peso.”
Ancora una volta, Remus non fu sicuro di saperlo leggere. Il peso di cosa? Il peso del mondo intero? Il peso di quella casa? Il peso di un amore spento che tentavano disperatamente di riaccendere? Il peso della capacità, di quella guerra, di non finire mai davvero?
Aveva una risposta, però, una risposta sincera e univoca a tutte quelle domande.
“Fai finta che non ci sia.”
Sirius rise in uno sbuffo. Remus riconobbe almeno lo scetticismo. “Va bene,” concesse poi, a sorpresa. Remus riconobbe almeno la fiducia.
“Va bene,” ripeté senza motivo, metà cervello che già cedeva sotto le mani di Sirius, passate dai passanti ai bottoni. Remus morse da qualche parte tra il collo e la mandibola e abbassò i fianchi. Con una mano, sfiorò l’orlo della sua maglietta, le dita si infilarono a sfiorargli la pelle, sentì i muscoli contrarsi dove lo toccava.
Un lampo di luce si intrufolò nella stanza, illuminò un comodino impolverato per una frazione di secondo, poi tornò il buio. Un tuono rimbombò nella notte, rimbalzando tra i palazzi di Grimmauld Place e raggiungendo anche l’apparentemente inesistente numero 12. Per la maggior parte delle persone, quel luogo non esisteva, un errore sotto forma di fantasma tra i numeri 11 e 13. La pioggia rimbalzava sui tetti, si accumulava nelle grondaie, scivolava lungo le finestre e ticchettava sulle pareti in un ritmo urgente e insieme rilassante: un promemoria sommesso della fine del mondo.
Almeno per mezz’ora, però, finsero che nulla esistesse, che neanche loro, in fondo, esistessero: scarti della società, chiusi da soli nella decadenza di un posto che per la maggior parte del mondo non esisteva.
Remus lo baciò piano e a fondo, catturando ogni sospiro sorpreso di Sirius, quando disegnava brividi con la punta delle dita sui suoi fianchi. Contò quattro costole, poi Sirius alzò il bacino di scatto e Remus si dimenticò di continuare a contare.
La verità sui minuti successivi era che furono di dilaniante splendore, una sublime realtà fragile come una ragnatela tesa e nuda nella pioggia, destinata a spezzarsi e per questo bellissima finché resisteva. Per tutto il tempo il cielo, là fuori, continuò a borbottare, lampeggiare e scrosciare.
Remus non ricordava più niente, dopo la condanna ad Azkaban si era costretto a dimenticare ogni cosa: il modo in cui Sirius serrava le palpebre, il sorriso strafottente quando definiva biascicando ‘fottutamente paradisiaca’ qualcosa che Remus faceva, l’increspatura delle sopracciglia, il gemito lungo e basso un attimo prima di venire, la più disarmante tempesta nelle sue iridi, le volte in cui riusciva a chiedergli di guardarlo.
Non ricordava più niente, non avrebbe saputo elencare nessuna di quelle abitudini ad alta voce, ma ogni suo gesto ne aveva miracolosamente mantenuto il ricordo. Sapeva cosa fare per una sorta di automatismo innato.
Il mondo era destinato a cadere, crollare su se stesso, implodere, venire divorato da un’onda alta tre anni luce, collassare in cocci di sogni che ancora non avevano avuto nemmeno il tempo di venir sognati.
Però, però.
Però le persone erano anche capaci di intrecciare le dita a quelle di un’altra mano, di infilare la testa nella curva del collo di un altro essere umano e allora forse, se potevano fare una cosa tanto innaturale come scagliare un incantesimo omicida, potevano fare qualcosa di al contrario innato come amare. Perché il corpo umano era disegnato per fare questo, in fondo: amare. Era scritto nella quantità di guancia che entrava nel palmo d’una mano.
Remus si lasciò cadere accanto a lui sul letto, il buio intermittente del temporale concedeva a lame di luce di tagliare la stanza a metà e ritirarsi subito dopo per l’attacco successivo.
Il letto era ancora troppo grande per una persona e troppo piccolo per due.
Rimasero spalla contro spalla, il sudore che si asciugava nei punti in cui non si toccavano, e rimasero lì a fissare un soffitto che non vedevano, ma che di sicuro li stava soffocando.
La verità su quei minuti, invece, era che fecero solo male. Perché forse, da qualche parte in tutto quel buio, avevano ancora sedici anni e le mani che profumavano del muschio della Foresta Proibita, i polmoni pieni delle corse lungo la collina, l’aria così pulita da sembrare rigida, irrespirabile contro la velocità di una motocicletta che correva. Forse, da qualche parte in tutto quel buio, Remus aveva vent’anni in più e le mani sporche del sangue mensile che sacrificava alla luna, ricolmo di dolore e rancore e rabbia fin quasi a scoppiare e sopravvissuto per miracolo. L’ultimo Malandrino per dodici anni, pallido riflesso della vita che avrebbe potuto avere e che invece gli era scivolata come sabbia tra le dita. Forse, da qualche parte in tutto quel buio, Sirius era più giovane di lui, vittima di una vita che non gli era affatto scivolata tra le dita, ma che era stata invece congelata. Non era che la somma di tutti i ricordi che era riuscito a nascondere alla furia dei Dissennatori e niente di più.
“Cuoio e cioccolato,” sussurrò Sirius, a ridosso di un tuono. Non ansimava più, ma il respiro gli tremò comunque sull’ultima parola.
“Non dirlo. Non puoi saperlo.”
“Lo so e basta.”
È una delle lezioni più difficili da mandare giù, una delle cose più difficili da accettare: a volte amare non basta. Esistono cuori troppo fragili per certi tumulti, storie troppo dolorose, ricordi e corpi irreparabili. A volte amare è un rischio troppo grande.
“Non voglio stare qui.”
“Qui nel letto?”
Sirius rise. Remus lo sentì scuotere la testa energicamente. “No, qui mi piace, credimi. Intendo…” alzò un braccio perché Remus potesse vedere la sua mano ruotare. “Intendo qui.”
“Ne abbiamo già parlato, non puoi…”
“Davvero, non lo dico per lamentarmi o per rendervi le cose difficili. Non mi riferisco nemmeno al fatto che odio questa dannata casa.” Si interruppe. Remus percepì quell’elettricità statica che precedeva sempre una coltellata. Si annidava anche negli istanti sospesi in cui la luna lo chiamava. “È che sappiamo per esperienza che chiudersi in casa e affidarsi a un Incanto Fidelius non è la chiave per la vittoria.”
Remus lasciò quelle parole macerare nell’aria. Questo era il motivo per cui non lo voleva così vicino: apriva ferite cicatrizzate. 
Divorati da un passato pieno di affetti, amici e giorni dorati, erano rimasti in due in un futuro incerto e grigio, una tempesta che infuriava oltre la finestra.
Fuori tempo, fuori fase, fuori ritmo come metronomi regolati per melodie diverse che avevano la fortuna di scoccare all’unisono solo quando il caso glielo concedeva.
Oh, l’universo era stato crudele. Li aveva separati al punto che, una volta riuniti, neanche la colla più potente del mondo potesse nascondere le crepe.
Era il volto desolante di un amore irreparabile.
“Non puoi fare altro, però.”
“Grazie per il premio di consolazione” ribatté Sirius. Non con amarezza, ma con ironia: il ritratto dell’arrendevolezza.
“Quello lo chiami consolazione?”
“Eh,” Sirius ridacchiò. Era un suono che aveva perso ogni traccia di James ed era completamente vetro, “sei un po’ arrugginito, Lunastorta. Hai perso il tocco.”
“La prossima volta toccati da solo.”
Remus lo sentì sorridere anche al buio. “Vuoi guardare?”
C’era qualcosa di rotto, nell’aria. Se fosse tensione o pezzi che non si incastravano più, Remus non lo sapeva. Ma si concesse di ridere attraversando quella crepa, qualunque cosa significasse.
Nessuno dei due parlò più per un po’, ma, inesorabilmente, Sirius si avvicinò un po’ di più al petto di Remus e, senza incontrare proteste, vi appoggiò la testa. Remus si arrotolò una ciocca dei suoi capelli attorno al dito e poi la lasciò cadere.
Il silenzio non urlava più, tagliato di tanto in tanto da un’auto che sfrecciava sulla strada, da quei suoni della notte di cui nessuno si chiedeva mai la provenienza, interrotto dal battito del cuore di Remus che risaliva fin tra le tempie e che Sirius doveva sicuramente riuscire a distinguere in quella posizione.
Voglio scappare da tutto questo, pensò di dire. Oppure Ubriachiamoci di nuovo o Mi mancano i vecchi tempi o Quando ti guardo vorrei mettermi a urlare o Ho paura, me la faccio addosso o Mi mancano James e Lily o Non abbiamo mai avuto abbastanza tempo. Oppure Ti amo ancora.
“Cane e zenzero,” sussurrò Remus in quel silenzio. Sapeva che Sirius non stava dormendo, sapeva che non era sveglio, sapeva anche che l’aveva sentito. Osservò l’ombra della sua testa accoccolarsi più vicino alla sua, vi depositò sopra un bacio, poi si lasciò abbracciare dal sonno.
Se avesse saputo che quello sarebbe stato l’ultimo bacio, forse gliene avrebbe dato un altro.






 
otEiDleN: ci ho messo più tempo a scrivere 'sta scemità che il capitolo.
Weeeeeeee, come va? Questo ritardo è dovuto al fatto che dovevo correggere l'acronimo, quello che sembra russo e che, vi prego, non fatemi ripetere, e ogni volta che ci pensavo dicevo "... vabbé correggo il capitolo domani". Ecco come sono passate due settimane. Ragazzi, mi dispiace, ma veramente non ce la facevo.
Comunque questa cosa poteva essere gestita in 850 modi e io ho scelto il più rischioso, ovvero schiattare tutto in un capitolo. Il fatto è questo: questa storia ha cambiato forma milleduecento volte. Almeno la metà di quello che avete letto finora diverge dal percorso iniziale, ma avrei tradito il senso di tutto se avessi cambiato lo scorrere di questo e i prossimi capitoli. Sono stati plottati insieme al primo (veramente l'ultimo è stato scritto insieme al primo) e volevo rimanere fedele all'idea iniziale. Ho paura ma lo lascio qua comunque AHAHAHAH
Detto ciò amici, grazie per la fedeltà, scusate per l'angst però ci siamo quasi, la fine del tunnel è vicina e non vi preoccupate ché le idiozie non sono finite: questa storia esiste proprio per entrambe.
Grazie mille per aver letto, a questo punto veramente vi vorrei abbracciare uno a uno perché vi siete sorbiti una cosa infinita e io ancora non ci credo, quando leggo numeri diversi da "0" nel quadratino delle visualizzazioni <3
A presto,

El.

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 30 - Cinque minuti e trentadue ***


30. Cinque minuti e trentadue

 






Aprile, 1978

Una scintilla schivò ostacoli d’aria con frenesia, puntando all’obiettivo con deviazioni erratiche. Remus ebbe anche il tempo di aggrottare la fronte, poi orientò la bacchetta sul percorso spezzato della scintilla e la illuminò come se fosse stato possibile farle prendere fuoco. Agitò la bacchetta un’ultima volta e una pioggia leggera riversò a terra la sfera di luce, spegnendola. Rimase solo fumo.
Sirius fece schioccare la lingua. “Avresti dovuto pararla. Ti sarebbe esplosa in faccia.”
“Non sono mica stupido.”
“Tocca a te.” Sirius incrociò le braccia al petto e alzò il mento con aria di sfida.
Attorno a loro, la classe del settimo anno di Difesa Contro le Arti Oscure era stata trasformata in un campo di battaglia. In sé, la cosa non era poi così strana: l’ultimo anno corrispondeva anche al livello più avanzato di incantesimi d’attacco e difesa, la differenza era che nello spirito di tutti c’era qualcosa di disperato. C’erano compagni che grugnivano dallo sforzo, fuoco che crepitava in un angolo, incantesimi che fischiavano a velocità elevatissime, eppure, sotto tutto quel rumore, c’era silenzio. Tutti stavano prendendo quella lezione sul serio, perché l’utilizzo che avrebbero fatto di quelle tecniche non era sconosciuto a nessuno.
A rendere l’atmosfera ancora più pesante era la presenza congiunta del professor Slinkhard e il preside Silente. Quest’ultimo era seduto in un angolo, su una sedia di legno mezza rotta, e scandagliava l’aula come in cerca di qualcosa, ignorando totalmente le urla del professore.
“Secondo te perché Slinkhard è sempre così svitato?” domandò Sirius, quando Remus scagliò un incantesimo semplice, ma di cui aveva omesso la formula. Sirius sgranò gli occhi e parò, contando solo sui suoi riflessi. “Impressionante, sai farli anche senza bacchetta, oltre che non verbali?”
“Non quelli di attacco. Sì, comunque, ha bisogno di una camomilla.”
Sirius scoppiò a ridere, poi tirò un incantesimo in rovescio. Brillò in aria per un attimo, prima di sciogliersi in mille scintille che piovvero addosso a Remus.
“La finisci coi fuochi d’artificio?”
“E Silente?” Sirius ignorò la lamentela e si avvicinò di più al suo avversario. Remus alzò le mani per dichiarare pace momentanea.
“Scout” disse soltanto, fermo.
Sirius sbarrò gli occhi. “Intendi che sta cercando qualcosa?”
“Intendo che sta cercando qualcuno” lo corresse. “Se c’è una guerra c’è anche un esercito. Qualcuno lo dovrà combattere.”
Sirius lo considerò con lo sguardo, dalla testa ai piedi. Remus non capì se lo stesse immaginando al centro di una carneficina o se lo stesse vedendo davvero per la prima volta in tutta la sua vita. “Allora dobbiamo metterci in mostra.”
Remus alzò un sopracciglio, scettico. “Davvero? È questo che vuoi?”
“Che altro potremmo volere?”
Per Sirius – due piedi in due scarpe, presente nel mondo appieno e non a metà, entità unica mai divisa da pensieri contraddittori – semplicemente non c’era altra scelta. Remus avrebbe voluto chiedergli se non avesse paura, almeno un po’, se pensare che Silente stesse pensando di reclutarli per combattere lo facesse davvero sentire completamente estatico e non dannatamente spaventato, se avesse ancora intenzione di divorare il mondo anche se era marcio.
Non gli chiese nessuna di queste cose. La risposta gliela leggeva già nella cenere nelle iridi e nel fuoco che vi avrebbe appiccato.
“Sei sporco qua” lo riportò alla realtà lui. Aveva un dito che spingeva nel suo sterno.
Remus abbassò la testa. “Dove?”
Troppo tardi. Sirius rise, tirò il dito verso l’alto e gli colpì il naso.
“Idiota.”
Sirius camminò indietro e alzò entrambe le braccia. Con una gli puntò la bacchetta contro. “Comunque…” attaccò tre volte di fila, rapido, mirando in punti impercettibilmente sempre diversi per eludere la parata con l’ultimo. Remus si mosse con lui e gli sorrise come a dirgli che non poteva fregarlo. “Hai presente quei due?”
Remus si voltò per seguire lo sguardo di Sirius. Lily e James davano spettacolo. Quando tornò a guardarlo, aveva già gli occhi al cielo. “Ho presente”
“Ma non hai presente il mio piano.”
“Perché ho la sensazione che finirà peggio che male?”
Sirius trattenne una risata nel naso e schivò un colpo senza neanche pararlo. “Perché non ti fidi di me. Il piano si chiama l’Evans.”
Remus rispose con un tornado in miniatura e Sirius lo disperse attorno a sé. “Poi ti chiedi perché non mi fido di te.”
“Andiamo, hai sentito quello che ho sentito io, no? Sono passati mesi e non è successo niente!”
Remus si limitò a sospirare. “Va bene, però lo chiamiamo l’Evànce” concesse infine.
Sirius avrebbe riso vittorioso, ma un attimo dopo si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi da un attacco di Remus. “Sei proprio un bastardo.”
 
***

James avrebbe voluto capire tante cose.
La fluidodinamica era una di queste, ma in cima alla lista spiccavano a caratteri cubitali due voci: il motivo oscuro per cui Remus e Sirius sparivano nel nulla, di tanto in tanto, e l’altro motivo oscuro, ammesso che fosse diverso, per cui i suoi amici si mettevano a sghignazzare all’improvviso e confabulare come se stessero tramando qualcosa.
C’era anche un’altra cosa che avrebbe voluto capire, e questa era una nuova arrivata nella sua lista di domande, ovvero perché la biblioteca fosse improvvisamente sprofondata nel buio.
“Ehm, Potter?” la voce di Lily gli arrivò incerta dal punto in cui l’aveva vista l’ultima volta.
“Non ho idea di cosa sia successo, forse…” tastò il tavolo alla cieca, in cerca della sua bacchetta. Quella, invece, non era nel punto in cui l’aveva vista l’ultima volta. “Tu hai la tua…”
“Non trovo la mia bacchetta!”
Prima che potessero inventarsi qualcosa, James udì un fruscio alla sua destra a cui non avrebbe saputo attribuire una fonte. Le luci si riaccesero nella forma di una serie di dieci candele che formavano fluttuando un semicerchio attorno a loro.
“È…” iniziò Lily, in cerca di parole che corrispondessero ai suoi pensieri.
“Davvero inquietante?” James fornì come opzione. Si voltò verso destra e finalmente riuscì a dare una faccia al fruscio che aveva sentito al buio: al posto della sua bacchetta c’era un mazzo di margherite. Scambiò un’occhiata interrogativa con Lily. “Pix?” tentò poi, ma nessun Poltergeist fece loro visita.
La guardò inclinare il viso su un lato. Una ciocca di capelli le scivolò via dalla spalla e James pensò che non ci fosse luce più bella di quella che facevano quelle candele e il modo in cui le baciava solo una guancia e lasciava in ombra l’altra. I suoi occhi scintillavano come se non avessero aspettato altro che un motivo per farlo. Prese un respiro profondo: se fosse perché non stava respirando o perché con lei farlo sembrava più facile non gli fu chiaro.
Vide qualcosa negli occhi di Lily. Speranza? Aspettativa? Desiderio?
Scacciò quelle fantasie e si concentrò sull’unica realtà su cui avesse davvero posato gli occhi: Lily aveva baciato Dirk Cresswell. Non li aveva mai più visti insieme, non li aveva mai neanche sorpresi a salutarsi e scambiarsi convenevoli. Forse a Lily non piaceva Dirk, ma questo non significava che le piacesse lui. E James era stanco di sperare.
“Be’,” Lily ridacchiò. James captò imbarazzo e lo ignorò. “Potremmo… discutere di nuovi progetti per la scuola.”
“Hai dei progetti?”
“Pensavo a delle lezioni intensive di duelli a frequenza libera, per gli studenti degli anni inferiori al settimo.”
James aggrottò la fronte e ci pensò su, poi scrollò le spalle. “In effetti ci sono un sacco di incantesimi creativi che nessuno tiene in considerazione, quando attacca.”
“Per esempio?”
James si passò distrattamente il pollice sul labbro inferiore, pensieroso. “Ad esempio un Incantesimo Ammutolente, in battaglia, impedisce all’avversario di pronunciare incantesimi. È una cosa facilissima, non ti serve un M.A.G.O. per usarla, ma nessuno ci pensa mai. Se sei messo alle strette e sei al terzo anno puoi proteggerti anche da una maledizione senza perdono, così.”
Lily sembrò sorpresa per un attimo, poi la sua irritante voglia di dubitare ogni cosa premette per uscire. “E gli incantesimi non verbali?”
James sorrise, per nulla irritato dalla critica. “Non tutti i maghi ne sanno fare e soprattutto non con le maledizioni senza perdono. Comunque, prima che l’avversario si renda conto di non poter parlare c’è tempo per disarmarlo.”
Lily avrebbe voluto contestare nuovamente, glielo lesse negli occhi, poi cedette a un sorriso e scosse la testa. “Hai ragione.”
“È una delle mie infinite qualità.”
Lily sbuffò una risata dal naso. “Allora ci stai?”
James si chiese come facesse a non vedere che squadra magnifica formavano, che incredibile armonia di angoli rigidi di lei che lui smussava e caos di lui a cui lei riusciva a dare una forma. “Ci sto” concordò con un sorriso che era certo Lily non avrebbe mai ricambiato.
Fu smentito.
 
***

“Sei veramente brutto.”
Sirius si fermò per qualche secondo davanti allo specchio al quarto piano del castello e inclinò il viso su un lato. Ovviamente non si riferiva a se stesso, aveva gli occhi puntati in quelli del riflesso di James.
“Grazie” mormorò lui, inclinando il viso sullo stesso lato di Sirius e guardandosi negli occhi.
“Oh, no” Sirius si voltò a guardarlo: il vero lui e non il James nello specchio, “hai problemi di autostima?”
“Ho problemi di amici stupidi. Mi spieghi perché siamo qui?”
“Solo per ricordarti che sei brutto.”
Guadagnò un’occhiataccia. Din din.
Quando James non accennò a rispondere con la stessa moneta – e come avrebbe potuto, andiamo? – Sirius roteò gli occhi e, con fare teatrale, afferrò un lembo dello specchio e lo tirò di lato, rivelando un corridoio. “Pronto?”
James sorrise in quel modo in cui sorrideva quando c’era di mezzo Sirius. Sirius sorrise in quel modo in cui sorrideva quando c’era di mezzo James. Si infilarono nel corridoio ampio e profondo. Sirius lasciò scivolare lo specchio al suo posto e il passaggio piombò nel buio. Dal fondo invisibile, come un richiamo, soffiava aria fredda.
Lo percorsero con la disinvoltura di chi l’aveva scoperto e calcato almeno un milione di volte, parlando a loro agio e rincorrendosi quando le battute si facevano più taglienti e a forma di presa in giro.
Sirius fu grato della pace attorno a cui ruotava il loro rapporto. Lo era sempre, ma in quel momento un po’ di più, perché quella che James aveva preso per una semplice escursione era in realtà un complicatissimo diversivo e sapeva che avrebbe funzionato proprio perché la compagnia dell’altro significava rilassatezza.
“Dove stiamo andando?”
“C’eri anche tu quando abbiamo mappato il castello, no? Non lo sai?” Sirius rise al buio. Echeggiò.
“So che stiamo andando a Hogsmeade, ma perché?”
“Ti fidi di me?”
La risposta di James arrivò con un battito di ritardo. Abbastanza in tempo da non mettere entrambi a disagio, abbastanza in ritardo da non perdere il tempo comico. “No.”
“Peggio per te.”
Il vento si impennò, il passaggio si assottigliò nell’ultimo tratto fino a costringere i ragazzi a camminare in fila indiana. Uno scrosciare d’acqua rimbombò tra le pareti. Era impossibile localizzarlo. Fuoriuscirono dal retro di una statua al centro di una fontana, l’acqua zampillava sulle lenti di James, il che risultò in un’imprecazione sussurrata. Sirius rise a voce piena, invece.
Camminarono su dei ciottoli che portavano fino alla cornice della fontana. Erano rialzati, ma non abbastanza da impedire che si bagnassero l’orlo dei pantaloni e dei mantelli, nel tragitto all’interno della vasca.
“Spero ne valga la pena” mormorò James strizzandosi i pantaloni
, una volta approdato a riva.
Sirius ignorò sia la sue parole sia i suoi rimedi contro un’influenza assicurata e si fiondò tra le strade di Hogsmeade come se ne avesse posseduto le chiavi.
 
Ne era valsa la pena, glielo leggeva nella risata.
La strada correva via, lontana come spaventata. Il vento rombava, ronzava, strillava, fischiava, soffiava nelle orecchie e accanto a lui, ma aveva una consistenza più densa di quella che si poteva sperimentare su una scopa. Sirius lo sapeva anche se volare non era il suo forte ed era sicuro che James, seduto sul sellino dietro di lui, stesse facendo gli stessi paragoni.
Respirò quel vento e la promessa che gli sussurrava, qualcosa su un futuro che viveva alla fine di quella strada, immerso tra montagne scozzesi senza nome che avrebbero scalato a mani nude pur di rimanere in vita.
Non importava quello che dicevano Peter e Remus, non importava il clima grave che si respirava a scuola, non importavano le raccomandazioni dei genitori di James, non importavano le opinioni di tutti quelli che, in sette anni di amicizia, avevano detto a James e Sirius che non erano invincibili.
Loro erano invincibili.
“Sto respirando così tanto” James urlò contro il vento, sollevando, in un momento di spericolatezza, le mani dai fianchi di Sirius, “che credo di non respirare.”
Sirius rise, andavano così veloci che la sua risata si sparse su due chilometri.
Erano invincibili perché erano vivi, ed era impossibile negare questa verità a cento all’ora nel bel mezzo del nulla, su una motocicletta che avevano costruito insieme. Non potevano essere altro che vivi, perché erano insieme e il verde degli alberi aveva una tonalità più vibrante, il gracchiare dei corvi un suono più squillante, l’odore di gomma che bruciava l’asfalto aveva sapore di scintille.
Sirius sentì un vuoto nel petto, simile a quello della caduta, ma al gusto di qualcosa che mischiava la velocità alla libertà. Non avrebbe saputo dargli un nome o riconoscerlo in un mare di altre emozioni intense o semplicissime, ma seppe che da vecchio, con pesi, responsabilità e bagagli, avrebbe voluto provare nostalgia di quel momento e di quello specifico incastrarsi di respiri.
Aprì la bocca e per un attimo pensò che avrebbe pianto, invece gridò. Un suono cristallino che rotolò come una risata. Qualcosa gli esplose nel petto, nel bel mezzo di quel vuoto, quando urlò anche James.
“Voliamo?” gli domandò Sirius e avrebbe sentito la sua risposta da qualche parte nel sangue anche se James non l’avesse verbalizzata.
Poi la moto volò.
 
Atterrarono qualche minuto dopo su un promontorio, la notte a un passo dall’annullare i colori in cielo. In lontananza, Hogsmeade era l’unica fonte di luce, perché una collina copriva i tetti appuntiti di Hogwarts.
Sembrava che fosse calato un velo, una coperta trasparente ma filtrante. La differenza fra vita e morte.
Loro due, soli, sull’orlo di quel mondo.
Sirius affondò una mano in tasca e si accese una sigaretta. Guardò James, un’intesa che non aveva mai avuto bisogno di parole, ma lui parlò perché non era proprio capace di evitarlo.
“Non importa cosa accadrà” James gli sorrise come se fosse stato a un passo dallo sganciare una bomba puzzolente, uno scherzo esilarante che avevano messo a punto insieme, “io sarò sempre dalla tua parte.”
Sirius soffiò fuori del fumo e fece schioccare la lingua, come se fosse stato a un passo dallo sganciare una battuta un po’ arguta, un sorriso beffardo che James sapeva di meritare. Invece distolse lo sguardo e disse: “Lo so.”

***
 
Una delle cose più divertenti del mondo, secondo il sadico punto di vista di Sirius Black, era godersi lo spettacolo che sapeva diventare Remus Lupin quando era a disagio per qualcosa per cui nessuno era a disagio.
Quindi, quando Remus tornò in Sala Comune ansimando come un matto per aver corso per quella che Sirius era certo fosse solo una rampa di scale, quasi scoppiò a ridere. E rischiò di farlo davvero quando si ricordò che il motivo per cui si trovava in quella situazione era il loro stupidissimo piano da Cupido.
Non rise, però, perché Sirius ci teneva alla sua vita.
Remus mosse due dita come a invitarli con urgenza a liberare la Sala e Sirius si guardò attorno con disappunto. Tre compagni notturni stavano ancora studiando non troppo lontano da loro.
“Oh no, Peter!” si lamentò, un tono teatrale e decisamente più alto del solito. Peter strabuzzò gli occhi, accanto a lui, e aggrottò la fronte. “Hai dato gas ai motori, eh? Cos’hai mangiato?”
I ragazzi alzarono gli occhi dai loro libri nello stesso momento in cui Peter arrossì. “Io non ho fatto nessuna…”
“Santo cielo, che puzza!” Sirius si rivolse ai compagni Grifondoro come se fossero stati dei superstiti. “Se volete un consiglio, sgomberate prima che arrivi da voi.”
“IO NON HO FATTO NIENTE!”
Ma i tre compagni si alzarono con una tripletta di espressioni di disgusto, imbarazzo e compassione.
Sirius incrociò le braccia al petto e annuì con fare esperto. “È la frase tipica dei colpevoli.”
E, nessuno ne fu sorpreso, i ragazzi lasciarono vuota la Sala Comune.
Remus li raggiunse pratico e, solo con un gesto della mano, indicò loro di nascondersi nella nicchia a muro sulla rampa di scale che portava ai dormitori. Il piano era stato semplice ma funzionale: Sirius aveva evitato per tutto il pomeriggio che James mettesse piede nel dormitorio, mentre installavano le fontane, costringendolo quindi a partire per le ronde senza neanche cenare.
“Ma che ti salta in mente?” sussurrò Peter, arrabbiato. La combo sussurro e rabbia aveva un effetto più buffo che minaccioso.
“Non sapevo che fare, ho improvvisato!”
“E non potevi improvvisare senza coinvolgermi?”
“Oh, andiamo Pete, chi si sarebbe mai messo a urlare ‘attenzione, attenzione! Vi comunico che ho appena reso questa stanza irrespirabile con una scorreggia’? Dovevo dare per forza la colpa a te!”
Remus, nei pochi centimetri quadrati che avevano a disposizione, si voltò a guardarli seccato. Non doveva distinguere molto dei loro visi nel buio – era esattamente il motivo per cui erano nascosti lì, in fondo – ma Sirius fu sicuro che non ne avesse bisogno, per guardarli male. “La smettete? Non funzionerà mai se ci scoprono, cosa che accadrà, se continuate non chiudere la bocca.”
“Scusa” risposero i ragazzi in coro.
Tuttavia il loro infallibile piano non funzionò per un altro motivo. Un motivo di tipo… pratico.
A varcare la soglia della Sala Comune Grifondoro fu solo Lily Evans, in tutto il suo solitario splendore.
Remus, Sirius e Peter la guardarono aggirarsi per la Sala Comune per qualche altro secondo, prima di accettare il fatto che James non sarebbe arrivato nei minuti successivi. Uscirono allo scoperto uno a uno. Venir fuori dalle ombre era una questione che poteva lasciare sconcertati quelli costretti a fare da spettatori, quindi non fu una sorpresa il fatto che Lily fece un salto fin quasi alla Torre di Astronomia.
“Ma da dove saltate fuori?!”
Sirius ignorò la domanda. “Dov’è James?”
Lily lo guardò come se fosse stupido. Sirius pensò che la sua valutazione fosse del tutto sbagliata. “Ha detto che… voleva farsi una doccia, perché?”
“James che si fa una doccia?” intervenne Peter. Il fatto che fosse genuinamente sorpreso la diceva lunga sull’igiene personale del loro amico.
“Già.”
Adesso doveva fare la doccia?”
“Il bagno dei prefetti a quest’ora è molto tranquillo.”
Sirius scosse la testa, come se Lily avesse preso a parlare un’altra lingua. “Ma c’è il coprifuoco!”
“Non ci credo,” Lily si portò una mano al petto, sconvolta, “Sirius Black ha questa parola nel suo vocabolario.” Lui alzò gli occhi al cielo. “Scusa, è che credevo non lo sapessi, visto il numero di volte in cui sei nei corridoi fuori orario.”
Sirius assottigliò gli occhi e la guardò scambiare un’occhiata divertita con Remus, prima di dirigersi verso le scale per i dormitori. Non le rispose a tono soltanto perché Remus lo spinse indietro di peso.
Lily augurò una buona notte a tutti, ricevendo mormorii indistinguibili in risposta.
Quando i ragazzi udirono la porta chiudersi, qualche piano più su, seppero che una giornata intera di complotti e diversivi era risultata comunque in un fallimento.
Per fortuna, però, quando ti chiamavi Remus Lupin avevi sempre un piano B. Quella notte forse Lily e James non si sarebbero dichiarati amore eterno, questo non significava che non ci fosse spazio per altri tipi di confessioni.
 
James rientrò in dormitorio che aveva ancora i capelli umidi. Sirius diceva che quello era il momento esatto in cui prendevano vita e gli impedivano di addomesticarli. Forse aveva ragione e forse glielo avrebbe rinfacciato ancora una volta.
Ma quando varcò la soglia del dormitorio, Sirius non gli rinfacciò proprio niente. Scattò in piedi come se le molle del suo letto fossero state compresse e gridò, a voce un po’ più alta del socialmente accettabile, “Va bene!”
Remus, dal suo letto, sollevò un sopracciglio, cauto. James incrociò il suo sguardo abbastanza a lungo per intuire che lui ne sapeva qualcosa ma non per capire cosa.
“Va bene?” domandò James, chiudendo la porta senza dare le spalle a Sirius. 
“Va bene. È il momento. È giunta l’ora.”
Peter alzò gli occhi dalla sua guida avanzatissima sugli Scacchi dei Maghi. James si ricordò che sapeva leggere. “Volete già andare a dormire?”
“No, c’è stata una… riorganizzazione, una disomogeneità di rapporti interpersonali che va affrontata.” Sirius scambiò uno sguardo con Remus, che invece chiuse gli occhi ed esalò un respiro pesante, sconfitto, esausto, consapevole. Consapevole del fatto che avrebbe dovuto prendere le redini di una situazione che James non aveva capito e di cui cercava indizi in ogni sguardo e tono di voce.
“Puoi parlare in una lingua che capiamo?”
“L’unica lingua che capisci tu, Pete, è quella con cui ti mando a…”
“Davvero?” lo interruppe Remus. “Vuoi insultarlo adesso?”
“Se lo merita.”
“Tu meriti almeno una ventina di detenzioni, ma come vedi non c’è cosa più ingiusta della giustizia.”
“Io continuo a non capire niente” si intromise James. Intanto i suoi capelli stavano prendendo effettivamente vita ed eccoli che già s’apprestavano a sfidare le leggi della gravità.
“E adesso te lo spiego” Sirius distese una mano davanti a sé e rassicurò James come se avesse avuto le chiavi del mondo in tasca e un accesso a ogni porta. In realtà non aveva neanche le chiavi del bagno dei prefetti, per quanto ritenesse questa cosa un oltraggio. “Vi stavo dicendo che a un certo punto nel tempo abbiamo ristrutturato le fondamenta, ricostruito i pilastri, abbiamo riedificato…”
“Non ci credo.”
“Abbiamo tipo cambiato gestione…”
Remus si schiaffeggiò le guance con entrambe le mani e prese il timone di quella nave bucata. “Peter, James, io e Sirius stiamo insieme.”
Poi passarono i secondi. I famosi interminabili secondi che toccavano a tutti quelli che facevano questo genere di confessioni normalissime in un mondo in cui non erano ritenute normali.
Peter tagliò la tensione alzando una mano come a prenotare la parola. Poiché tutti lo guardarono in attesa che la prendesse, si decise a vuotare il sacco: “Sì, no, dicevo… Non siamo sempre tutti insieme? Voglio dire, non ci stacchiamo un minuto. Non posso neanche farmi la doccia senza che mi scambiate il bagnoschiuma con la crema depilatoria.”
Remus sollevò un sopracciglio. “Pete, io ti difendo, ma un po’ te lo meriti.”
Altri tre, quattro, cinque, quindici secondi di silenzio. Forse Remus voleva strapparsi i capelli dalla testa. Forse Sirius non l
avrebbe fatto neanche a pagarlo, ma era teso. Un pochino. Non si notava. Era teso?
“AAAAAAAH!”
Remus guardò James. James guardò Remus. Sirius guardò James. James guardò Sirius. Peter li guardò guardarsi.
“Non sapevo fossi masochista” fu l’unico commento di James, rivolgendosi a Remus con le sopracciglia aggrottate. Sembrava che stesse tentando di capirci qualcosa.
“Una volta al mese per sette anni, adesso a tempo pieno.”
Sirius alzò un dito. “Io sono qui, eh.”
“Da quanto tempo?” domandò Peter.
“Un anno e mezzo di temporeggiamenti.”
James allargò le braccia. “Ma perché io non so mai quello che succede in questo dormitorio?”
“Perché sei un abile osservatore” commentò Sirius, stringendosi nelle spalle.
“Tu credi di sapere tutto, eh? Lo sapevate che Pete ha baciato Mary?”
“Pete ha baciato Mary?” chiese Sirius, forse aveva optato per una dislocazione mandibolare in piena regola, altrimenti non si spiegava.
Remus guardò Sirius e James bisticciare sulle verità nascoste di quel dormitorio e fare battute che avrebbe voluto dimenticare sui lati più intimi della sua relazione, in una dimensione – una bolla – tutta loro in cui potevano essere lupi mannari e innamorati senza finire tra gli emarginati della società. E forse la differenza tra il ragazzino di dodici anni pietrificato davanti alla scoperta che i suoi amici sapevano della sua licantropia e il mago adulto che prendeva parola con sicurezza e la offriva lui, la verità, stava tutta là: nello spazio di una scelta.

***
 
C’era un momento dell’anno preciso e brevissimo, fatto solo per chi sapeva coglierlo. Era il momento in cui il cielo si spaccava, il tepore si infilava tra le crepe fra le nuvole, soffiando sulle cime delle montagne e iniziando a sciogliere testardo la neve da lì. I colori si facevano più vividi, il sole più caldo, ma solo un pochino.
E, quando qualcuno lo notava, poi lo facevano tutti.
La prima persona a vedere la primavera del 1978 fu Lily Evans. Puntò un dito oltre le finestre, qualche minuto dopo la fine delle ultime lezioni della giornata e, per il resto del pomeriggio, le montagne scozzesi furono di tutta la scuola.
I compagni si riversarono nel cortile, al Lago, in cima alle torri e in qualunque posto che non fosse al chiuso. C’era chi aveva rimandato le scampagnate con la sua dolce metà, chi aveva afferrato scope e ginocchiere e aveva eluso i divieti di volare con la scopa per il perimetro della scuola, chi invece amava andare a correre. I Malandrini, invece, avevano l’Evànce.
“Fermo fermo fermo. Alt!” Sirius afferrò James per le spalle e lo costrinse a guardarlo negli occhi. Gettò un’occhiata alle spalle del suo amico e incrociò gli sguardi urgenti di Peter e Remus. Serrò le labbra e mosse due dita in una sollecitazione troppo evidente di fare in fretta!
“Ma che…” James fece per voltarsi, ma Sirius gli schiaffeggiò una guancia e lo costrinse a guardarlo. 
“Ehi!”
“Seguimi.”
Si infrattarono in un muro ad angolo. Sarebbe quasi sembrato equivoco se Sirius non avesse avuto la faccia di uno che era stato costretto a gestire la parte più difficile del piano e a farci anche i conti.
James, spalle al muro, osservò Sirius guardarlo come se stesse prendendo le misure per la bara. “Tutto bene?”
Il ragazzo incrociò le braccia al petto. “No.”
James sollevò un sopracciglio e deglutì confuso. Sirius non aggiunse altro e lui non gli pose ulteriori domande.
“Questo vale almeno una vita di Burrobirre” mugugnò Sirius, affondando le mani in una tasca e tirando fuori una bottiglia di gel e un pettine a denti larghi.
James sgranò gli occhi, inorridito, e scosse la testa energicamente. “Scordatelo. Non ci pensare neanche.”
“Credi che a me faccia piacere? Siamo sulla stessa barca.” Sirius stappò la bottiglia di gel e se ne lasciò cadere qualche goccia sul palmo di una mano. Tante gocce. Quello era James Potter, d’altra parte.
“Ma perché?” la domanda fu posta con la stessa disperazione di un condannato a morte in cerca di grazia.
Sirius non rispose. Sfregò le mani tra loro e fu costretto a lottare con quelle di James e una tonnellata di gel tra le dita. Gli schiacciò una mano in testa e iniziò a pasticciare seguendo precisamente nessun ordine logico. Qualche volta si sentì audace abbastanza da tentare di districare i capelli con il pettine. Al terzo slancio di audacia il pettine si incastrò.
“Secondo te sanno pensare? Hanno libero arbitrio?”
James si arrese alla sua tortura. “Me lo chiedo da diciotto anni.”
“Secondo me sì.” Sirius tirò il pettine via dai suoi capelli. James, a braccia conserte, serrò solo un occhio in segno di fastidio, ma non si lasciò scappare neanche un lamento.
“Sì, infatti.”
“Ci siamo” annunciò Sirius, dopo qualche minuto di silenziosa creazione divina.
Non c’erano per niente, in realtà. I capelli di James consistevano a quel punto di una massa informe spaventosamente simile a un buco nero e una serie di punte impregnate di gel che seguivano gli stessi percorsi casuali di prima ma in maniera più… rigida e appuntita per colpa del gel. In più puzzavano di sostanze chimiche. Il look finale assomigliava a quello di un pulcino artificialmente spelacchiato e lisciato in maniera decente solo su una zona limitatissima.
“Ci sei riuscito?”
Sirius considerò le sue opzioni per qualche secondo, poi annuì deciso. “Sì.”
Non era vero.
James sorrise e a Sirius fece pena.
 
“Oh, Lily!”
Al limitare del cortile lastricato e a pochi passi dal viadotto,
James si avvicinò alla panchina su cui sedeva la ragazza. Lily gli sorrise e lui, mentre si avvicinava e prendeva posto accanto a lei sulla panchina, giudicò tutte le coincidenze della sua giornata come un po’ troppo sospette.
“Che ci fai qui?”
Lily si strinse nelle spalle. “Marlene…” alzò gli occhi dalle pergamene che stava consultando e cercò di trattenere una risata. “Che hai fatto ai capelli?” Un sorriso riuscì a sfuggire ai suoi tentativi di reprimerlo.
James allargò le braccia. “Sirius” offrì come unica spiegazione. A Lily sembrò bastare.
“Senti, per le lezioni intensive…”
Ma, prima che Lily potesse terminare la frase, due fontane di coriandoli esplosero ai due lati della panchina.
C’erano due dettagli interessanti della faccenda: il primo era che due fontane ai lati di una panchina non c’erano mai state, il secondo era che in genere le fontane non avevano niente a che fare coi coriandoli.
“Ma che diavolo…”
Anche James non riuscì a concludere la sua frase, perché un mazzo di gigli bianchi e rosa gli cadde dal cielo meticolosamente impacchettato di azzurro.
C’erano due dettagli peculiari della faccenda: il primo era che i fiori in genere non cadevano dal cielo, il secondo era che impacchettare di azzurro fiori rosa e bianchi era la scelta più stupida che James avesse mai visto fare.
“Lily, ti giuro che io non c’entro nie…”
A quanto pare James e Lily erano destinati a non finire nessuna delle loro frasi. Qualcosa in cielo fischiò, sfidando la gravità e puntando al cielo. Lily si voltò di scatto a dare un’occhiata.
Un’esplosione di fuochi d’artificio disegnò la sagoma di un cuore rosso nel cielo cobalto della prima sera primaverile dell’anno.
Uno strappo di pergamena levitò davanti agli occhi di James giusto il tempo che lo leggesse: “Chiediglielo adesso” poi bruciò su se stesso e si dissolse in una colonnina di fumo, a qualche centimetro dai capelli di Lily, ancora voltata a osservare i fuochi d’artificio.
James si guardò attorno alla ricerca di un oggetto ben identificato che doveva assomigliare alla sagoma dei suoi dannati migliori amici. Cercò di richiamare l’ultima volta che aveva visto il suo mantello dell’invisibilità in giro per il dormitorio e, quando gli saltò alla mente l’immagine del mantello lanciato per metà nel suo baule aperto, fu certo che non li avrebbe mai individuati.
Tornò con gli occhi ai fuochi d’artificio e alla cascata di cuori ridicoli che sapevano più di sfottò che di sostegno.
E poi la verità scoccò. Il suo corpo si orientò sulla risposta corretta un momento prima che anche il suo cervello ne prendesse coscienza. Per questo ebbe un momento soltanto in cui tremò e si chiese perché.
Lily aveva detto che era stata Marlene a portarla lì. Lì dove erano posizionate le fontane. Lì dove erano caduti i fiori. Lì dove la vista sul cielo illuminato dai fuochi era perfetta, incorniciata dalle mura della scuola. Lì dove i Malandrini avevano organizzato uno scherzo alle sue spalle. Se Marlene sapeva di dover portare Lily , era perché il pezzo di pergamena bruciato non era una presa in giro, ma un suggerimento.
Lily si voltò a guardarlo, il viso inclinato su un lato. Sorrideva. “Hai gli occhiali sporchi.”
“Davvero?” riuscì a chiederle lui.
Lei rise e glieli sfilò. A James sembrò di vivere quell’esperienza in terza persona. La guardò strofinare l’orlo della sua camicia contro le lenti. Non si chiese perché non avesse usato la magia. Lily completò l’opera e glieli rimise come se non avesse saputo farlo da solo.
“Meglio?”
No. Erano più sporchi di prima. “Sì.”
Lily lesse tra le righe e scoppiò a ridere.
James pensò ai suoi capelli e a quanto dovesse sembrare brutto accanto a lei. Sul serio, qualunque cosa avesse fatto Sirius non poteva essere un favore.
Quello fu l’ultimo pensiero che il suo cervello riuscì a elaborare, poi fu cristallizzato in favore del black out più totale, perché Lily si sporse in avanti e lo baciò. Poteva aver perso la testa, ma ebbe la prontezza di ricambiare.
Le emozioni di James Potter erano un’accozzaglia di sentimenti semplici o dignitosi abbastanza perché il mondo potesse guardarli. Quelli più complessi, aggrovigliati, inspiegabili e ingombranti venivano abbandonati da qualche parte sul fondo, mascherati da altri privi di profondità.
Tutti sapevano che gli piaceva Lily Evans. Era un battuta, una leggenda, ‘le fatiche di James Potter’, l’aneddoto della scuola, ma nessuno aveva mai visto il desiderio disarmante, quella tendenza verso una felicità che aveva visto, che doveva esistere perché quando la guardava gli sembrava che ne valesse la pena. Qualunque cosa fosse, questa pena – crescere, vivere, arrampicarsi sulle vette del pianeta –, valeva qualcosa se c’era anche lei. Sembrava la strada giusta, sembrava il futuro e sembrava la cosa che ti faceva sorridere quando eri stanco.
Quel bacio fu una dimostrazione matematica.
Era almeno cinquanta volte meglio di come l’aveva sognato, a essere del tutto onesti. James aveva baciato altre ragazze, ma non aveva mai sentito le trombe, le orecchie otturate come sott’acqua, le stelle cadenti in cielo. Altro che trombe, quella fu una sinfonia, mille metri sotto il livello del mare e dieci fottute stelle che esplodevano in cielo.
Quello fu assolutamente fuori di testa, l’ultima striscia per completare un cubo di Rubik.
Qualche secondo dopo, James si scostò. Tirò una bella boccata d’aria e cercò la fronte di Lily con la sua. “Non respiro, credo di star morendo.”
Era buffo. Non doveva essere attraente e virile, ma non gliene poteva fregar di meno: stava per esplodere.
Lily però si mise a ridere e gli rubò un altro bacio sulle labbra. Innocente, sì come no: benzina sul fuoco.
“James?” Lily si tirò indietro e lo guardò negli occhi, un sorriso sulle labbra vispo quasi in maniera irritante. “Speravo di raggiungere una specie di pace.”
Lui sollevò un sopracciglio. In un mondo in cui Lily l’aveva baciato, James non sentì più il bisogno di cercare trucchi per impressionarla. Non sentì il bisogno di impressionare più nessuno, a dire la verità. “Una pace?”
“Una pace.”
James ricordò brevemente la prima volta che le aveva chiesto di uscire, due anni prima. Non fece in tempo a sgranare gli occhi.
“Possiamo parlarne davanti a una Burrobirra, la prossima volta che andiamo a Hogsmeade.” Lily confermò i suoi sospetti.
Ignorò il fatto che avesse scimmiottato la sua voce e decise di stare al gioco. “Mi stai chiedendo di uscire?”
“Sì.”
“Non lo so, Evans, sono Caposcuola, devo controllare la mia…”
“Allora non fa niente, fa’ finta che non abbia detto…”
“NO! SONO LIBERO, quando vuoi. Anche adesso.”
Lily rise, James avrebbe voluto guardarla male, ma il problema era che non riusciva a smettere di sorridere.
“‘fanculo Dirk Cresswell” mormorò attraverso una risata.
“Non ho capito.”
“Niente.”
 
“Gliel’ha chiesto lei?” Sirius sgranò gli occhi e scosse la testa. “Perdente” ma sorrideva.
“Il tuo commento è davvero maschilista” lo riprese Remus. Nessuno aveva capito perché tutti stessero sussurrando.
“Soprattutto perché a te l’ho chiesto io” si aggiunse Marlene, ricordando i vecchi tempi. La parola chiave era ‘vecchi’.
Remus scoppiò a ridere.
“Porca paletta” aggiunse Peter, perché questo era ciò che aveva da dire a riguardo.
“Già” si accodò Marlene.
“L’Evànce è andato in porto. La nave è salpata. L’aquila è tornata alla base.”
Passò qualche secondo di silenzio. La privacy di James e Lily non era un loro problema, evidentemente, perché non si erano spostati di una virgola dal loro nascondiglio.
Alla fine Remus prese di nuovo la parola: “Tu non me l’hai mai chiesto.”
Sirius si voltò a guardarlo, le sopracciglia accartocciate. “Tu non me l’hai mai chiesto.”
Remus non rispose. Sirius addolcì lo sguardo.
“Vuoi uscire con me e portarmi a fare i bisogni, domani pomeriggio?”
“Sai che ti dico? Meglio se non me lo chiedi.”
“Va bene.”
“Va bene.”
Peter sospirò. “Va bene.”

***
 
Marzo, 1998
Peter Minus aveva indossato il Cappello Parlante per cinque minuti e trentadue, ovvero lo stesso tempo che ci aveva messo a crescere.
Generalmente ‘crescere’ era un processo lento e graduale, ma Peter era passato dal tenero ragazzino incapace all’ago della bilancia in una manciata striminzita di secondi. Cinque minuti e trentadue e il domino di cause-effetto si era attivato in direzione della morte di un amico, l’incarcerazione di un altro, il compimento di una profezia, la fine di una guerra e dodici anni da topo.
La verità era che niente, proprio niente, durava solo il tempo in cui si realizzava. Al mondo non era mai esistita alcuna causa, ma solo effetti concatenati. Conseguenze.
Alla fine del mondo sarebbero rimaste fiamme e conseguenze.
La vita galleggiava sempre in medias res: non era che un piombare continuo in circostanze già avviate. Non esisteva un punto di inizio, solo un costante ritrovarsi a metà di una storia. A seconda di dove si iniziava a guardare, gli eventi si srotolavano in una parvenza fitta di dettagli così fini da non lasciare a nessuno il modo di guardare le cose dall’alto e prevederne l’esito, sedotti da distrazioni che rendevano impossibile distinguere il tratto che univa i puntini.
Peter Minus era il prodotto delle conseguenze.
E, alla fine della sua storia, non aveva trovato l’amore.
Alla fine della sua storia c’erano delle scale che portavano in basso, in un buio incompleto. Non si chiese cosa mancasse, a quel buio, non si chiedeva più niente, perché il mondo sapeva di sabbia e di grigio.
Forse avrebbe fatto meglio a farlo.
“State indietro,” disse, la voce tremante e l’inquietudine stipata da qualche parte in un cuore umano e non di leone. “State lontani dalla porta. Adesso entro.”
Quando spalancò la porta, un attimo dopo. Peter vide solo tre sfere luminose fluttuare nel buio. Il silenzio squillava nelle orecchie come un orologio antico.
Gli ultimi cinque minuti e trentadue della sua vita iniziarono nell’istante successivo, quando due paia di braccia gli si scagliarono addosso con violenza ostinata. Una mano gli finì in bocca, un’altra gli strinse quella con cui impugnava la bacchetta.
Questo significava solo una cosa: aveva ancora una mano libera.
Senza rifletterci, Peter la ancorò alla gola del ragazzo davanti a lui. Un silenzio fatto di mani che impedivano di parlare riempì la stanza di gemiti interrotti e gorgoglii.
“Che succede, Codaliscia?” la voce di Lucius Malfoy risuonò dall’alto, un’eco nel corridoio che sembrava porre la stessa domanda più volte.
“Niente!” ribatté Ron Weasley, imitando la sua voce. “Tutto a posto.”
Harry Potter boccheggiava attorno alla morsa della sua mano d’argento, colpendola invano con intensità calante. “Mi vuoi uccidere, Codaliscia? Dopo che ti ho salvato la vita? Sei in debito con me.”
Ma Codaliscia era in debito con tutti, il che significava anche non essere in debito con nessuno. Niente era colpa sua, niente era merito suo. Era il prodotto delle conseguenze che avevano aggrovigliato così stretto il futuro da rendere quel nome – Codaliscia – qualcosa di completamente diverso dal modo in cui era nato.
Era un’altra vita, quella in cui tre ragazzi gli versavano addosso un barattolo di cervelli di topo conservati in una sostanza di cui non aveva mai conosciuto la provenienza, quella in cui quel nome veniva scritto a caratteri eleganti su una pergamena ripiegata più volte, testimonianza della loro grandezza. Era un’altra vita, quella in cui baciava Mary MacDonald senza un briciolo di quella vecchia paura, chiedendosi perché mai dovessero combattere. Una vita in cui scopriva, con amarezza, che lei provava in realtà qualcosa per James, che non era mai riuscito a liberarsi una volta per tutte della sua ombra. Una vita in cui, una volta trovato il coraggio di affrontare i suoi amici, era stato nuovamente oscurato da una nuova, brillante idea di James.
Perfetto, geniale, eccezionale, straripante di onore, amore, vitalità. Un passo avanti ma anche una stupida mano tesa indietro per non abbandonare nessuno.
E adesso stava soffocando suo figlio.
Vide prima gli occhi di Lily guardarlo sorpresi, poi realizzò di aver mollato la presa sulla gola di Harry. Sconcertato a sua volta, cercò di rimediare all’errore divincolandosi con più decisione.
“Questa la teniamo noi, grazie” sussurrò Weasley, sfilandogli la bacchetta dalla mano ancora umana.
Poi Peter percepì qualcosa di metallico muoversi, costringendo il suo corpo a seguirlo a filo. Spostò lo sguardo da Harry Potter alla mano d’argento: le dita erano contratte, come vittime di un crampo. Si mossero verso la sua, di gola, senza che potesse governarle. Poi strinsero.
“No…”
Peter distinse come da lontano Ron e Harry tentare di aiutarlo.
Cadde in ginocchio, la realtà svaniva agli angoli, bruciata come una fotografia non ancora sviluppata quando si scontra con una lingua di luce.
Cinque minuti e sedici e respirare non gli parve più una cosa tanto naturale. Con uno spicchio di coscienza, riconobbe che quella era una punizione, il conto salato che distingueva il lato giusto da quello sbagliato in una guerra: la rapidità con cui un regalo diventava una corda da impiccato.
Cinque minuti e ventuno e la paura si impennò. Questo era quello a cui non si era mai arreso, il punto cruciale della sua paura. In onore della vita aveva sacrificato l’amicizia, rinunciato alla fiducia, all’amore e alla sicurezza. Per sfuggire alla morte aveva riorientato assi terrestri e tradito le sue ombre.
Cinque minuti e trenta e Peter Minus era prossimo a un ricordo, uno scorrazzare di zampette di topo nel cortile della scuola, disperso nella trama di un tempo che esisteva per lui quasi solo all’indietro. Peter, Pete, Codaliscia, Scorza, poi Codaliscia di nuovo, smarrito da qualche parte tra il Voto Infrangibile che aveva suggellato e l’Incanto Fidelius che non aveva onorato.
Cinque minuti e trentuno e Peter non voleva morire. Aveva una paura fottuta. Era una cosa viva, pulsante, fisica. Aveva il volto della delusione, poi del disappunto, poi della rabbia cieca. Si trasformava in quello di tutte le persone che l’avevano ferito, successivamente in quello di tutte le persone che l’avevano abbracciato, consolato, ascoltato, anche solo sfiorato. Infine si trasformava in tutte le persone che lui aveva ferito, in tutte quelle che aveva tradito. Al mondo esistevano gli esploratori, persone speciali che non appartenevano a nessun luogo. Poi c’erano gli opposti degli esploratori: quelli che vivevano con lo zaino in spalla, ma senza alcuna mappa; quelli che scalavano montagne solo nei sogni; quelli che sapevano vivere sulla soglia del via anche per anni, senza mai trovare il coraggio per partire. Non era lui ad avere paura, non l’aveva mai avuta. Possedere qualcosa era un atto troppo forte, troppo decisivo, la quintessenza dell’autoaffermazione. Era sempre stata la Paura ad avere lui e ancora non voleva morire. Non voleva morire. Non voleva morire. Non voleva morire!
Non voleva-
Cinque minuti e trentadue e il mondo si spense.
Peter Minus non era il prodotto delle conseguenze. Era il prodotto delle sue scelte.
Lo siamo tutti.








 
Ntdlciaaaao ma SBAGLIO o è passata una vita? Ma soprattutto perché lo faccio notare? Questo capitolo è stato scritto un anno fa, un mese fa e pure ieri. Immaginate che stress vederlo crollare a pezzi con questa COMICITA' MA CHI ME L'HA CHIESTA.
Voi non avete idea che peso assurdo sia scrivere 'sti capitoli andando cinquantasette volte al minuto a cercare altre scene dei vecchi perché è il momento di riprenderle.
Non ho niente da dire, la direzione è chiara a tutti, la vedete tutti, io forse un po' meno. Mancano tre capitoli e uno sputo e anche se so che state facendo 4-1=3 ci tengo a gongolare dicendovi che invece avete fatto male i vostri conti e che a 200k parole superate mi conoscete abbastanza da sapere che fare previsioni, con le mie cose instabili, ci porterà tutti in un burrone.
That being said, crediti a This is Us. Il concetto del "contrario di un esploratore" è ispiratissimo al loro "il contrario di un astronauta". Crediti pure a The Raven Cycle perché "alla fine del mondo sarebbero rimaste fiamme e conseguenze" è palesemente copiato ispirato a "Segreti e scarafaggi. Ecco cosa rimarrà alla fine di tutto" grazie Maggie le tue metafore sono la mia vita. La scena della moto, invece, è stata rigorosamente scritta ascoltando "io ci sarò" di Max Pezzali perché la ascoltavo quando andavo veloce in macchina.
Bene signori, ci vediamo presto o tardi non lo so, ci vediamo presto se non passo l'esame.
Grazie tantissimissimissimissimo per aver letto e atteso, impazzisco quando penso che qualcuno sta andando davvero fino in fondo con questo delirio.
Adieu,

El.

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 31 - The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars ***


31. The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars

 






Maggio, 1978

James Potter aveva condotto diciotto anni di vita tranquilla.
E adesso non ne voleva più sapere niente.
Aveva vissuto un’intera vita credendo che le cose fossero in un certo modo schematiche.
A cinque anni aveva scoperto la morte, e una figura incappucciata e armata di falce si era affacciata alla sua mente. A volte, nei sogni, la falce cedeva il posto al coltello affilatissimo che vedeva in cucina, ma era pur sempre un’arma. Una tradizionalissima arma.
A dieci anni aveva scoperto l’amicizia, e una serie di ragazzini senza volto ma sorridenti aveva fatto capolino nella sua testa. Immaginava scope da quidditch, palloni da calcio, libri da leggere insieme e bacchette con cui farsi i dispetti a vicenda.
A quindici anni, in fede al suo tradizionalismo, James aveva immaginato l’amore, assieme a due mani intrecciate, petali di rosa, cuori rossi pacchiani e inchiostro sulle lettere sbavato da mani sudate dalla trepidazione.
James non voleva che la morte fosse una signora con la falce, non voleva amici senza volto ma sorridenti e non voleva cuori pacchiani e petali di rosa. Erano solo le prime immagini scontate che gli saltavano in mente per associazione.
Però guardando Lily Evans seduta a un tavolo dei Tre Manici di Scopa, quella voglia di essere la studentessa modello lasciata indietro a Hogwarts per lui, James considerò una nuova associazione: Lily era un respiro. Uno di quelli che scendeva nella trachea in forma di bolle.
Ed era un’associazione così personale, così poco sterile, così comprovata, rispetto alle altre, che l’euforia che gli scoppiò nel petto fu abbastanza per dissuaderlo dal cercarne altre.
Quando una cosa la conoscevi a fondo non avevi bisogno di darle un nome, perché non avevi bisogno neanche di capirla.
“Siamo soli nell’universo?” le domandò a ridosso di un sorso di Burrobirra.
Lily si leccò della schiuma via dalle labbra e aggrottò la fronte. “Questa è la tua domanda?”
James annuì. Le avrebbe dovuto chiedere il colore preferito. Le avrebbe decisamente dovuto chiedere il colore preferito, sarebbe sembrato meno… inconsistente.
“Siamo meno soli di quanto crediamo.”
Un tuono rimbombò tra le pareti, l’acqua scrosciò copiosa oltre la finestra. Sembrava che un dio irritato stesse versando secchiate sul mondo, sperando di distruggerli tutti prima che lo facesse la guerra.
Però James sorrise e Lily lo imitò come se i neuroni specchio fossero stati inventati esattamente per quello: non lasciare che James sorridesse da solo.
“Avete qualcosa in mente in questi giorni?”
James sollevò un sopracciglio e prese un altro sorso di Burrobirra. Si era fatto portare una cannuccia, perché sì. Perché era più comodo, quando si consumavano birre al tavolo, secondo lui, e il fatto che Lily gli piacesse non l’avrebbe frenato dal comportarsi come un ‘povero fesso’, come Remus ci teneva a etichettarlo ogni volta che chiedeva una cannuccia assieme alla sua Burrobirra. “Abbiamo in mente cosa? Chi?”
Lily roteò gli occhi. “Tra venti giorni iniziano i M.A.G.O.” lo informò, come se il nervosismo di Peter, la disinvoltura di Sirius e la residenza permanente di Remus in biblioteca non glielo ricordassero ogni giorno. “La scuola non cadrà a pezzi con una cascata di bombe?”
“Allora, prima di tutto una cascata di bombe è l’idea meno eccitante del secolo. Il che ci porta al secondo punto, ovvero che non hai il talento per venire a sapere se e cosa, nel caso, bolle in pentola.”
“Io ho sradicato Puffagioli fino allo sfinimento, l’anno scorso, per il vostro stupido scherzo! E adesso non avrei talento?” Lily si sporse in avanti, catturò la cannuccia di James tra i denti e gli rubò un sorso per ripicca.
James avrebbe voluto morire lì sul posto. Stecchito, arrosto, impalato, marinato nelle sue stesse lacrime, ma se c’era una cosa che lo esaltava più di Lily Evans che si appropriava della sua cannuccia, era Lily Evans che si irritava a causa sua.  “No.”
Così. Secco. Lily non aveva talento per gli scherzi. Lily, la studentessa più brillante della scuola, non aveva talento per qualcosa. Lily non fu felice di quel no.
Consumate le loro Burrobirre, James fece strisciare la sedia all’indietro e si alzò di scatto. Un sorriso vispo si aprì sul suo viso proprio mentre tendeva una mano davanti a sé e solo a qualche centimetro dal viso di Lily.
“Usciamo di qui?”
“Ma piove!” A James non sfuggì la punta di divertimento nascosta da qualche parte nel tono annoiato a cui lei l’aveva abituato.
“Esatto.”
 
Lasciarono i Tre Manici di Scopa e sostarono esitanti sulla soglia, la schiena premuta contro la porta chiusa alle loro spalle. Si guardarono, una nuova intesa si solidificò tra i loro sguardi. Lily non aveva mai pensato che ne avrebbero mai avuta una liquida, figurarsi solida. James non ci aveva mai sperato troppo seriamente.
Un tuono rimbombò tra le mura di Hogsmeade proprio nel momento in cui Lily annuì e afferrò la mano di James.
Poi corsero lungo il viale principale del villaggio, mano nella mano e via via sempre più fradici. Il suono dei loro passi bagnati si fondeva allo scrosciare della pioggia. Uno scrosciare che li zittiva, li nascondeva, ma non riusciva a soffocare le loro risate.
Quelle, invece, rotolarono alte e rimbalzano tra i palazzi. Erano suoni che sembravano provenire dal passato, colorati di seppia o in bianco e nero, effetti di un Incanto Patronus ben assestato. Invece erano reali, ancora più potenti in un villaggio ammutolito dalla guerra e sottomesso alla pioggia.
“Dove stai andando?” domandò Lily e rise ancora quando James si scrollò la pioggia dai capelli come un cane spelacchiato.
“Seguimi.”
E Lily lo seguì, stanca di chiedersi in quali guai l’avrebbe cacciata ed elettrizzata in quella maniera tipica solo delle cose proibite all’idea di lasciarsi trascinare. C’era qualcosa di elettricamente carico nel lasciarsi condurre da James Potter alle spalle di una casa disabitata, nel concedersi di ammettere di volerlo con ogni fibra del proprio corpo. C’era qualcosa di magico nel cedere. E a quel punto non voleva fare altro.
James si appoggiò al muro della casa a braccia incrociate. Un davanzale, al secondo piano, bloccava traiettorie indesiderate della pioggia e la faceva sembrare nient’altro che una tenda infinita al di là del loro spazio sicuro. Lily mosse un passo avanti per ripararsi. Un passo avanti significava nessun passo di distanza tra loro, anche.
James la guardò soltanto, indecifrabile nel mistero da cui alla fine Lily si era lasciata stregare. Poi lui si sfilò gli occhiali e li ripulì sul mantello bagnato, in un risultato pessimo.
“Lily” iniziò con un sospiro, ancora concentrato sulle lenti. Sembrava seccato, il che significava, secondo il radar che Lily stava ancora calibrando, che lei aveva fatto qualcosa di male o che era molto teso. “So che abbiamo diciotto anni e non otto, ma sarebbe super infantile e fuori luogo se adesso ti chiedessi come uno scolaretto se vuoi essere la mia ragazza?”
Molto teso, decise Lily mentre perdeva definitivamente le testa. Quindi disse la prima cosa che le passò per la testa. “Tu devi sempre correre in tutto quello che fai?” ma rise, perché la verità era che non voleva distruggerlo.
James ridacchiò a sua volta e si strinse nelle spalle, rimettendo 
finalmente gli occhiali. “Sì, Evans. Devo sempre correre. Vuoi essere la mia ragazza?”
Lily sospirò e inclinò il viso su un lato. “Sì” replicò a bassa voce, decisa a sostenere il suo sguardo anche quando lui alzò gli occhi verso l’alto e arrossì.
“Grandioso. Fantastico. Meraviglioso.”
Fu il turno di Lily di alzare gli occhi al cielo. Si sporse in avanti e lo baciò.
Era una sensazione imbarazzante nella sua evidenza, perché Lily pensò che fosse tutto effettivamente grandioso, fantastico e meraviglioso in quella maniera totalizzante che di solito, quando qualcuno provava a descriverla, risultava ai suoi occhi solamente irritante. Le piacque seriamente tutto, in quel momento: la mano bagnata di pioggia di James sulla sua guancia, il calore in contrasto col fresco del temporale, i capelli umidi, i vestiti fradici, le potenzialità e una forza di volontà che non sapeva di avere, la possibilità che si potesse camminare in quella guerra mano nella mano con qualcuno.
Le smancerie le avevano sempre fatto storcere il naso. Non per invidia, non per scetticismo, ma forse perché, da qualche parte nel bagaglio di responsabilità che si era caparbiamente costruita, le erano parse frivole. E Lily Evans, che credeva di dover dimostrare di essersi guadagnata il suo posto in quella scuola ogni singolo giorno della sua vita, era convinta di non potersi permettere alcuna forma di frivolezza. Era certa che la tenerezza fosse un punto debole, uno stereotipo per ragazzine sognatrici e non per future donne coraggiose e fiere.
La maturità stava forse nel riuscire a capire che le cose non stavano così.
Individuare il momento d’inizio di una guerra è relativamente semplice. Basta ascoltare il primo grido di battaglia, la prima lancia conficcata, il primo incantesimo scagliato. Lì gli storici tracciano una linea e a caratteri cubitali buttano giù una data. Rintracciare il momento in cui una guerra finisce è tutt’altra storia. Perché non è affatto nell’ultimo grido di battaglia, nell’ultima lancia conficcata o nell’ultimo incantesimo scagliato. Quello è casuale, indistinguibile tra due o tre, impossibile da localizzare. Il momento in cui una guerra finisce a volte scocca anche prima di quello in cui inizia.
Nel momento preciso in cui Lily Evans imparò ad amare, sotto quel davanzale in un pomeriggio piovoso, diede inizio alla fine della prima guerra magica.

***
 
Un movimento secco del braccio, uno netto del polso e poi la gravità faceva il resto.
Facile.
Facile un corno.
Il sassolino non si preoccupò di saltare sulla superficie del Lago Nero neanche a pagarlo oro. Affondò non appena incontrò l’acqua e sparì in profondità.
“Ho detto,” iniziò James, raccattando una pietra piatta dalla costa e lanciandola nel lago. Saltò cinque volte prima di affondare. “Un movimento secco del braccio, uno netto del polso e poi la gravità fa il resto.”
Sirius alzò gli occhi al cielo, tentò un altro lancio e il sasso affondò nuovamente nel lago.
Peter comparve alle loro spalle prima che Sirius potesse strangolare James. “Tutto fatto” riuscì a comunicare tra gli ansiti. Correre per tutta la scuola non era esattamente tra le specialità di Peter, eppure il compito era stato affidato a lui.
Maledetti.
“Tutto fatto, eh?” gli fece eco Sirius, gli occhi persi da qualche parte sulla superficie del lago, indistinguibile dal cielo con quel buio, se non quelle volte in cui le increspature dei sassolini di James attiravano la luce e svelavano i confini.
James si affiancò a lui a braccia conserte, lo sguardo impigliato tra le cime delle montagne che abbracciavano Hogwarts. “Così pare.”
Peter mosse il piede destro nel terreno bagnato della costa e osservò la punta della sua scarpa affondare solo un po’.
Remus intrecciò le dita a quelle di Sirius, ma non gli prese la mano. Reclinò la testa all’indietro e concesse il suo sguardo al cielo blu profondo della sera. Era uno di quei colori che tendevano a far piombare la terra nel buio ma a lasciare inspiegabilmente al cielo ancora qualche altro istante di blu.
Un anno prima, quando Sirius l’aveva baciato e gli aveva promesso più di quanto avrebbe potuto dargli in cambio, Remus si era chiesto che effetto facesse mettersi a gridare da lì. Non aveva idea del perché anche una cosa così semplice, quando era lui a pensare di farla, doveva richiedergli tutto quel tempo passato a reprimerla e privarsene.
L’arte della negazione era deleteria, ma aveva un solo effetto collaterale positivo: rendeva ciò che si voleva mille volte più bello, perché il tempo passato a privarsene lo impreziosiva.
A cinque giorni dalla luna piena, l’urlo di Remus suonò più come un ululato.
Il Lago Nero, le montagne, il cielo scuro e il fango lo accolsero e vibrarono, l’eco lo trasportò lontano, fino ai confini di una Terra che non aveva mai visto per intero.
I ragazzi non si unirono a lui, ma Sirius gli strinse la mano, Peter sussultò e James espirò come se fosse stato lui, a liberarsi di un peso.
“Che lo Scherzo d’Addio abbia inizio” mormorò James e i Malandrini voltarono le spalle al Lago Nero e si diressero verso il castello.
 
Quando gli studenti di Hogwarts entrarono in Sala Grande per la colazione, la mattina seguente, la trovarono completamente riarredata.
Era stato messo in piedi una specie di set cinematografico che replicava la noiosissima Guerra delle Cicale, famosa per essere la guerra più stupida nella storia del mondo magico. I piatti della colazione erano stati trasfigurati tutti in insetti di vario genere e dimensione e si animarono non appena la Sala Grande si popolò di studenti e professori, sparando coriandoli con cannoni e pistole e ricoprendo la stanza di paillettes invece che di proiettili.
“Ma cosa…” la professoressa McGranitt superò la folla di studenti attoniti sulla soglia ed evidentemente fu presa come esempio. Tutti si riversarono nella stanza per dare un’occhiata alla recita. Urla di guerra di insetti rendevano l’incantesimo di Animazione mille volte più interessante.
Sirius chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo.
“Se non ce la fai posso farlo io” lo avvertì Remus, in un sussurro al suo orecchio.
Sirius, gli occhi ancora chiusi, sorrise storto e fece schioccare la lingua beffardo, poi puntò la bacchetta verso l’alto e l’illusione del cielo nuvoloso che faceva da soffitto si sciolse. “Imbrìs Incanto” sussurrò, poi il soffitto della Sala Grande si colorò di una sfumatura profonda di notte, punteggiata di stelle che, a poco a poco e grazie alle mani esperte di James, presero nomi fantasiosi come se fossero stati sulla cartina di un astronomo ubriaco.
La preferita di Sirius era senza di dubbio quella soprannominata ‘il capezzolo sinistro di Mocciosus’.
Un grappolo di stelle artificiali, però, fu risparmiato all’ingrato compito di portare un nome stupido. Alcune si riorganizzarono nel cielo buio evocato da Sirius affinché formassero un messaggio:
Scherzo interattivo
e, più giù, le istruzioni per giocare:

 
1. Ogni studente e professore è pregato di prendere posto ai tavoli della colazione.
2. Ogni partecipante al gioco è invitato a scegliere una sola delle tre pozioni che si troverà davanti. Solo una di queste è reale, le altre sono un’illusione.
3. Scegliete la pozione reale e il cielo vi sorriderà. Scegliete quella sbagliata e a ridere saremo noi.
4. Divertitevi.

Ogni traccia della Guerra delle Cicale era stata cancellata dalla presenza di numerose file di fiale in gruppi di tre.
Da quel momento in poi fu il caos.
Chi vinse al gioco, stappata la pozione, ricevette un mazzo di fiori con un biglietto personalizzato di auguri e un invito a regalarli. A tutti gli altri, e su scala più grande la cosa di rivelò esilarante, esplose una pozione in faccia. Colori vibranti tingevano espressioni seccate, batuffoli di fumo si levavano verso l’alto a coprire le istruzioni in cielo. C’era chi rideva, chi sceglieva di non giocare, ma poi si lasciava tentare, chi riusciva a mantenere il proposito di tenersi fuori da simili idiozie, ma si lasciava andare a un sorriso nascosto. C’era Regulus Black a braccia conserte e uno sguardo che faceva pendant con il suo cognome. Sirius lo colse, alzò un dito verso l’alto e mimò con le labbra una parola sola: ‘centro’.
Con riluttanza, Regulus si sporse verso le sue tre ampolle e indugiò con un dito sull’orlo di quella centrale.
“Non vorrai farlo sul serio” si intromise Avery, alle sue spalle.
Regulus lo guardò soltanto, negli occhi un misto di disgusto e ammonimento, poi afferrò la pozione centrale e la stappò di colpo.
Per i primi secondi non accadde nulla, poi un mucchio di girasoli giallo intenso sgomitarono per esplodere oltre l’orlo. Regulus si ritrovò a sorreggere un mazzo di fiori. Scartò il bigliettino adagiato tra i petali e ne lesse il contenuto con un cipiglio stanco: ‘Per Regulus. Fratellino, erede e soldato. Il fiore lo regalo io a te, perché so che non hai nessuno a cui darlo’.
Regulus strinse le labbra e abbandonò i fiori sul tavolo. Incontrò lo sguardo di Sirius e, senza un accenno di espressione, lasciò la Sala Grande.
“I responsabili della bravata,” iniziò la professoressa McGranitt dal suo tavolo, con un mazzo di margherite tra le mani, “sono pregati di farsi avanti e accettare l’ultima punizione della loro carriera.”
Il fatto che i colpevoli non fossero un segreto per nessuno, girò in loro favore.
James, Sirius, Peter e Remus salirono in piedi sul tavolo Grifondoro. Remus sollevò entrambe le mani come a consegnarsi, in realtà richiamò il silenzio.
Allora James si schiarì la voce. “Quello a cui avete appena assistito è uno scherzo che concentra incantesimi di livello avanzato per ogni materia obbligatoria di questa scuola. Siamo inoltre onorati di informare il professor Lumacorno che durante la quinta lezione di pozioni, al primo anno, l’incidente della pozione Scacciabrufoli è stato in realtà l’inizio della nostra carriera.”
Il professor Lumacorno scosse la testa e si schiacciò una mano sulla fronte.
Sirius riprese il discorso dove James l’aveva lasciato. “Visto il progresso e l’elevato grado di difficoltà delle nostre bravate, chiediamo al capo della nostra casa – Minnie, andiamo, noi due siamo sempre stati come cane e gatto – di sciogliere le accuse e chiudere un occhio per questi ultimi giorni, visto che il nostro lavoro si conclude oggi.”
“Durante la preparazione di questo scherzo,” continuò James, “abbiamo smarrito un pezzo del nostro cuore. Speriamo vivamente che degli eredi degni lo raccolgano, giurando solennemente di non avere buone intenzioni.”
“Fino ad allora,” lo interruppe Sirius. Scambiò un’occhiata divertita con ognuno dei suoi amici, poi sorrise, sinceramente e senza inganno, e disse: “fatto il misfatto.”
Remus sollevò la bacchetta. Stringhe rosse e oro li circondarono fino a nasconderli completamente, infine i Malandrini scomparvero dalla Sala Grande in un puf di fumo colorato.

***
 
Si passano intere vite a correre, a volte, a scappare dalla verità, a crogiolarsi in un futuro fatto di speranze che nel presente non si fa niente per solidificare. Andrà bene, consigliano, troverai una soluzione.
A volte non esistono soluzioni, è una regola che si impara la prima volta in cui si vede un’equazione.
A volte la chiave sta nel trovare qualcuno che all’equazione impossibile aggiunga un fattore che rimodelli ogni significato. A volte le soluzioni vanno costruite, scavate nella roccia più dura del pianeta, messe insieme in una miriade di pezzi di un puzzle di cui non si conosce l’immagine finale, perché così è più difficile.
Remus Lupin aveva costruito la sua soluzione assieme ai suoi amici, passo dopo passo, compromesso dopo compromesso. Non esisteva una cura al morso del lupo mannaro: lo sapeva lui e lo sapevano i babbani che leggevano favole per bambini. Non esisteva una pozione che ne alleviasse gli effetti né catene che non segassero i polsi. Non esisteva neppure un paraluce per la luna. Ma esistevano James, Sirius e Peter, che si trasformavano in animali una volta al mese per tenergli compagnia e che erano pronti a farlo un’ultima volta, per lui.
“Stasera siamo lupi malinconici” commentò Sirius, affiancandosi a Remus e gettando uno sguardo rapido oltre la finestra, verso la lenta ascesa della luna.
Remus prese fiato per parlare, poi scosse la testa, espirò e tornò a fissare il paesaggio.
“Avanti, dillo.”
“È che…” incrociò gli occhi di James alle sue spalle.
“Acqua?” gli domandò lui, completamente incurante del peso che le ultime volte gettavano su tutto.
“No.”
“Che c’è?” Peter alzò la testa da dietro una sedia, interrompendo la sua artistica tecnica di dispiegare lenzuola e cuscini a terra per i futuri pisolini delle cinque del mattino.
“È che questa è l’ultima volta. La prossima luna è a fine giugno.”
“Sono sorpreso dalle tue capacità di addizionare ventotto.”
Remus concesse una sola occhiata acida a Sirius. “Non è quello che voglio dire” mormorò a denti stretti. Non per la rabbia, però, ma perché la luna, lassù, iniziava a gettare fasci di luce più intensa, filamenti di gravità che Remus aveva attorcigliati ai polmoni e che si traducevano in una spinta, una tensione verso qualcosa che non poteva controllare. Le onde lo stavano già trascinando via.
James gli poggiò una mano su una spalla e gettò anche lui un’occhiata fuori dalla finestra. Non gli disse che sarebbero rimasti amici per sempre, non gli disse che i Malandrini erano un contratto a vita, ma sospirò leggero e scrollò le spalle. “Dobbiamo muoverci a trovare un altro bosco, allora” e fu abbastanza.
Qualche minuto dopo, il guinzaglio della luna iniziò a tirare. Sirius gettò un’occhiata a James e Peter e la loro fretta di trovare un posto adatto agli occhiali di James – l’ultima volta era caduto sopra la scatola in cui li aveva riposti, perché Peter gli aveva inavvertitamente dato un colpo di coda sul muso e lui aveva barcollato all’indietro come un cervo stupido. Con un sospiro, Sirius si riconcentrò su di lui. Remus avrebbe trovato quella preoccupazione silenziosa abbastanza comica, se ogni volta non avesse anche sentito l’urgenza di rovesciare tavoli e strapparsi la carne dalle ossa, allo stesso tempo. Ma la verità era che era molto carino. Non gli chiedeva mai come stava né se avesse bisogno di qualcosa, non gli intimava di stare attento né si preoccupava di dispiacersi per l’imminente dolore, però gli allungava una bottiglia d’acqua o, come in quel momento, gli sbottonava piano la camicia, lento come chi calcola il tempo a mente e non osa parlare per paura di distrarsi.
Remus non gli diceva mai che il contatto fisico, in quei momenti, faceva lo stesso effetto scomodo di quando ci si grattava una porzione di pelle che non prudeva. E non lo faceva perché aveva imparato che condividere il peso di una maledizione con qualcuno significava condividere anche il dolore che portava con sé e accettare che non fosse più il solo a sentire la necessità di lenirlo.
Quando Sirius ebbe finito, strinse le labbra e lasciò che si spogliasse da solo. Lo guardò negli occhi e neanche allora gli disse che gli dispiaceva. “Ti ho portato un osso” disse invece, accennando col capo da qualche parte nel punto in cui James stava costruendo un fortino per i suoi occhiali, sulle labbra il sorriso tipico di chi si voleva far picchiare.
Remus non lo picchiò perché era un tipo equilibrato anche quando non doveva. “Va’ a farti fottere.”
“Così mi ringrazi?”
“Se vuoi domani andiamo a spasso e te lo lancio.”
Sirius finse di pensarci su. “Andata.”
Remus provò a regalargli un sorriso. Non avrebbe saputo collocarlo su una scala da ‘procione schiacciato’ a ‘iena ridens’, ma almeno aveva tentato. “Aspetta, l’hai portato davvero?”
“Sì.”
“Dove diavolo l’hai preso?”
“Dal cadavere del mio nemico.” Remus lo guardò. “L’ultima volta che abbiamo mangiato bistecca a cena.”
Remus avrebbe voluto sfotterlo, ma qualcosa, sul fondo della sua schiena, tirò. I pensieri si offuscarono. Presero la consistenza del dormiveglia, poi di febbre, poi di sogni e infine di melassa. Colarono in una prospettiva bidimensionale, ma non per questo superficiale.
Gli odori si acuirono, i suoni si acuirono, il dolore si acuì, l’unica cosa che non si acuì fu la vista. Macchie di colori sbiaditi si stagliarono su un paesaggio sfocato di cui non ricordava e non afferrava le coordinate, poi presero a girare in spirali che mischiavano percezione a confusione.
Infine, il mondo smise di girare, la bilancia si ricalibrò e le sensazioni aderirono.
Sete.
Non di sangue, non di morte, non di violenza.
Sete di libertà.
 
Remus si svegliò con un dolore pulsante al fianco sinistro. Sopportabile, certo, se non fosse stato per un periodico bruciore nello stesso punto, come se qualcuno gli stesse punzecchiando la ferita.
Voltò il viso di lato con un grugnito, le palpebre ancora socchiuse lo imploravano di lasciarsi andare alle proposte allettanti del sonno. Remus le ignorò, però, perché qualcuno gli stava effettivamente punzecchiando quella ferita. Quel qualcuno era Sirius, armato di un batuffolo di ovatta imbevuta di chissà quale erba magica, ma sicuramente quella che bruciava di più.
“Buongiorno, stasera ci sentivamo selvaggi” la sua voce sorrise.
“Cos’è successo?” domandò Remus, lanciando un’occhiata distratta al taglio, la voce arrochita dalla stanchezza e dalla trasformazione.
“Hai seguito Peter nei rovi, ma avete chiaramente dimensioni diverse.”
Remus sibilò di dolore a un passaggio dell’ovatta su una zona sensibile. Sirius lo guardò negli occhi solo per un attimo, poi tornò a prestare attenzione alle sue ferite.
Remus spostò lo sguardo sul resto della stanza. James e Peter dormivano spaparanzati sulle coperte che la notte prima avevano meticolosamente disposto sul pavimento.
La prima volta che aveva messo piede nella Stamberga Strillante c’erano stati suo padre, Silente e Madama Chips. Ma soprattutto c’era stato lui, che si immaginava chiudere con mani tremanti quella porta piena di chiavistelli e percorrere la stanza avanti e indietro, preda dell’ansia, l’irrequietezza e la paura che precedeva un dolore incomunicabile, prima di perdere il controllo. La prima volta che era stato lì si era immaginato settanta lune piene in solitudine. A soffrire, urlare, disperarsi per non poter accedere a una cosa così umana – e per questo così preziosa – come l’amore, di qualunque tipo e forma.
L’ultima volta che fu lì, invece, Remus guardò Sirius fare una battuta che non sentì, con le mani sporche di sangue e unguenti, e pensò che la vita prendeva svolte inaspettate, così sconvolgenti che svolte era un’iperbole. Erano dannati tornanti ed eliche. I libri presentavano l’amore come un faro pacchiano colmo di cartelli che gridavano ‘QUI’. Il mondo era pieno di storie sbrilluccicose di colpi di fulmine, sguardi provvidenziali, angeli caduti dal cielo, ma la verità era che anche se ti innamoravi della stella più brillante del cielo notturno non era detto che te ne accorgessi subito.
“Non ti fa male, vero?” gli domandò Sirius, lo sguardo furbo mentre premeva dell’ovatta bagnata all’interno di una ferita.
Remus sussultò dal dolore e si lamentò, ma non mancò di trovare il modo di sussurrare imprecazioni a denti stretti. Sirius rise.
A volte l’amore lo vedevi così.
Non nelle luci, non nei colori, non nelle piume dei pavoni, ma nella calma che chi lo accendeva portava con sé. Nella pace, nel silenzio nella testa, nella facilità con cui ogni ronzio nelle orecchie ammutoliva di colpo davanti a un sorriso. A volte semplicemente ne valeva la pena. Valeva la pena innamorarsi e pensare di non poter sopravvivere senza qualcuno anche durante una guerra che per definizione decimava speranze.
“Che c’è?” Sirius non alzò gli occhi.
“Cane e zenzero.” Remus non si era aspettato di essere interpellato, il filtro tra i suoi pensieri e le parole che pronunciava ancora troppo sottile e in fase di costruzione per sperare che facesse il suo lavoro. Sirius spostò lo sguardo nel suo e annuì appena, chiedendo conferma di una cosa che Remus aveva già detto una volta, ma che in quel momento aveva un altro sapore. Aprì la bocca per parlare, ma Remus intercettò la domanda e vi rispose prima che arrivasse: “Davvero.”
Sirius annuì e si sporse in avanti.
“Ehm, alito da lupo.”
“Mhh, selvaggio” poi lo baciò.

***
 
Nuvole nere si arrampicavano sulle cime delle montagne, mozzandone le punte come rasoi. I temporali estivi erano rilassanti, soprattutto alla fine di un anno in cui gli esami non toccavano a lui.
Regulus, seduto in cima a una Torre di Astronomia deserta, in tardo pomeriggio, sospirò e alzò gli occhi verso il cielo. L’inclinazione della pioggia gli consegnò qualche schizzo in faccia. Andava bene, in realtà era bellissimo.
Il cappello parlante aveva parlato: lui apparteneva ai sotterranei, non al cielo. Era un bel viaggio, andare fin lassù, un viaggio che preferivano fare i compagni Grifondoro, senza allontanarsi troppo dal loro dormitorio. I Serveperde preferivano il Lago Nero e uno spiazzo nascosto oltre una roccia pieno di pietruzze sulla costa.
Non sapeva perché fosse lì.
Regulus credeva in quei valori, ci credeva per davvero. Lui era un Serpeverde, ce l’aveva scritto nel sangue e nella personalità. Lui era un Black, ce l’aveva scritto sull’arazzo della madre e nella spocchia. Lui era un Mangiamorte, ce l’aveva scritto nella causa che aveva sposato e nel segno vivo e pulsante sul suo avambraccio.
Non aveva rimpianti, solo nostalgia. Era una sensazione inspiegabile forse connessa alla solitudine. Era una mancanza di qualcosa che non era nel suo passato, ma da qualche parte nel futuro: un segreto che ancora non conosceva. Una nostalgia, però, che non era abbastanza intensa per convincerlo a deragliare.
Aveva delle responsabilità, aveva un’eredità, una storia che i suoi antenati avevano lavorato duro perché lui potesse prendere e far prosperare. Come si poteva voltare le spalle a tutto questo? Come si poteva decidere di giocarsi tutto per rincorrere un istinto a ribellarsi che sarebbe poi scemato con l’età? Come si poteva pensare, anche solo per un attimo, che la famiglia e il sangue potessero essere messi al secondo posto? Erano le uniche certezze, le uniche carte da giocare quando sopraggiungeva la delusione.
Sentirsi parte di qualcosa non era abbastanza, bisognava che qualcuno con più esperienza e conoscenza sul mondo lo approvasse. Come avrebbe potuto lui, a undici anni, sapere cos’era meglio per sé più dei suoi genitori? Perché fare una cosa assurda come diffidare? Cosa avrebbero potuto volere se non il suo bene?
Regulus si sbottonò il polsino sinistro e arrotolò la manica fino a rivelare il Marchio Nero. Avrebbe combattuto chiunque, anche suo fratello, per onorarlo.

***
 
18 giugno, 1996

Esistono i passi avanti. Esistono i passi falsi. Esistono i passi indietro. Esistono i passi incerti. Esistono i passi in più. Esistono gli inciampi.
Esistono anche le orme.
Se la vita non è che un avvolgersi e srotolarsi di scelte e scenari, la sua espressione più pratica è il passo. Che sia quello di troppo o quello mai fatto, che sia quello ideale di una strada metaforica a cui ai poeti piace tanto fare riferimento, il segreto è nel passo.
Se la vita non è che un ammassarsi di passi, la morte sta nella traccia che le persone si lasciano indietro: nelle orme nella sabbia e nel ricordo che custodiscono.
 
“È possibile,” gli sussurrò James all’orecchio con fare cospiratorio, “vivere vite intere in una sola notte. Ma non tutte le notti lo permettono.”
Sirius aggrottò le sopracciglia e si voltò a guardarlo, prendendo un tiro pensieroso dalla sua sigaretta. La verità era che dargli corda era il modo più divertente di prenderlo in giro. “Ah, sì?” domandò espirando solo da un lato della bocca e mantenendo la sigaretta in equilibrio sull’altro.
James annuì solenne. “Quante vite state vivendo, adesso?” chiese poi a tutto il gruppo, allargando il braccio che non aveva attorno al collo di Sirius per sottolineare come il paesaggio notturno fosse evidentemente spettatore di vite sovrapposte.
Con un cipiglio, Remus trangugiò il suo ultimo sorso di birra, poi piantò una mano dietro di sé nel prato e si lasciò sorreggere solo da un braccio. “Vediamo un po’,” cominciò, alzando un dito per contare, “una, la mia.”
“Certo, è chiaro” interruppe James, muovendo sbrigativo una mano come a spingerlo a continuare.
“Due, il lupo.” Remus alzò un secondo dito. “Tre, lo studente diplomato costretto dagli amici a scolarsi tre birre in venti minuti.”
“Il mio preferito” aggiunse Sirius.
“Quattro, il soldato. Cinque, il fesso che si incanta davanti a un paesaggio notturno.”
“Vedi?”
Peter scosse il capo e si lasciò cadere sul prato, intrecciando le braccia all’altezza della nuca. La collina dava su Londra ed era innegabilmente uno spettacolo, ma a volte bisognava puntare a luci più brillanti di quelle che poteva concedere una città. E loro si trovavano solo in cielo. “Queste non sono cinque vite in una notte. Sono sfumature di una stessa persona.”
“Prevedo pioggia, Malandrini!” annunciò Sirius a voce squillante. “Perché sono d’accordo con Pete.”
“Queste sono cinque vite in una” insistette James.
“Perché?” domandò Peter, senza curarsi di alzarsi a sedere per sostenere quella conversazione.
“Perché…” James sorrise. Era uno di quei sorrisi stupidi, assenti ma non spenti. “Non lo so.”
I ragazzi scoppiarono a ridere e James si lasciò trascinare nelle risate.
“Hai bevuto troppo, Ramoso.”
“Ce lo meritiamo, amici. Siamo in bilico fra due mondi!”
Sirius si dondolò sul prato, costringendo James a dondolare con lui, perché avevano ancora le braccia intrecciate. “L’alcol babbano ha uno strano effetto su di te.”
 
Era tutto sbagliato.
Tutto sbagliato. Tutto completamente sbagliato.
Sirius lo sapeva ma non ci faceva caso. I tempi non coincidevano, i gesti degli altri non avevano senso. C’era un quadro più ampio, un piano più grande, anche se non lo conosceva. Il fatto era che c’era sempre stato. C’era stato Regulus Black che diventava un Mangiamorte mentre lui organizzava scherzi per far cadere James dal letto la mattina. C’era stato Regulus che moriva in battaglia, ma non c’erano stati corpi da piangere per i suoi genitori, solo una nube di mistero attorno alle circostanze della sua scomparsa. C’era stato Albus Silente che selezionava a vista membri dell’Ordine della Fenice. C’era stato James Potter che si sposava e faceva un figlio a ventun anni come se avesse iniziato a sentire l’odore del suo tempo che bruciava. C’era stato Peter Minus, incapace di pensare da solo, che faceva il doppio gioco e li batteva tutti sul tempo. C’era stato il ministro che lo incolpava di praticamente ogni sventura nel mondo magico perché non aveva saputo ammettere che i tempi erano cambiati. C’era stato il Signore Oscuro che era tornato per una seconda guerra magica mentre lui si godeva un soggiorno di lusso ad Azkaban.
Remus mise una mano sul pomello della porta. L’ottone non brillava, non c’era luce che potesse riflettere. Prima di ruotarlo si guardò alle spalle. Incrociò lo sguardo di Sirius. Lui mosse le sopracciglia come a pregarlo di darsi una mossa. Tonks, accanto a loro, tossì incalzando Remus a sua volta.
Lui annuì una sola volta. “State attenti” disse, poi spalancò la porta e si fiondarono giù per le scale di pietra. Le dimensioni della stanza non erano stimabili facilmente con tutti quei lampi che correvano nell’aria e la scarsa illuminazione, ma l’eco che produceva anche solo un passo era sufficiente perché sembrasse grande, infinita.
Sirius avvistò Malocchio, disteso a terra e sanguinante. Poco lontano, Dolohov si stava lanciando in avanti verso Harry e Neville, scagliando un incantesimo.
Riuscì a registrare Harry rispondere, ma la cosa non lo dissuase comunque dal fiondarsi contro di lui.
“Accio profe…” iniziò Dolohov, ma non ebbe mai modo di concludere la formula. Sirius gli assestò una spallata e lo guardò crollare a terra. Lui non perse i sensi, però, anzi tirò un incantesimo da lì. Sirius schivò il fascio verde e riuscì praticamente a sentire gli occhi di Harry sgranarsi, dietro di lui. Rispose aggressivo, la collisione dei loro incantesimi mandava scintille nell’aria che si spegnevano non appena toccavano terra. Dolohov ritrasse un braccio all’indietro, come a prendere la rincorsa. Sirius si preparò a parare.
Petrificus totalus!” gridò Harry, da qualche parte in una stanza grande quanto la sua eco.
Dolohov si riversò a terra dritto come un fuso, gli occhi che correvano in mille direzioni.
“Bravo!” urlò Sirius, afferrando Harry per il mantello e tirandolo giù mentre Schiantesimi e altre forme di luci maligne minacciavano di colpirli. “Adesso esci di qui…” Un lampo di luce verde passò vicino alla sua testa. “Harry, prendi la profezia, agguanta Neville e vattene!” si raccomandò un’ultima volta, poi gli assestò una pacca su una spalla e corse verso Bellatrix, all’altro capo della stanza.
“Oh!” trillò lei, entusiasta come solo chi aveva perso la testa poteva permettersi di essere. “Un duello? Che facciamo, ci inchiniamo?”
Ma Sirius non aveva avuto paura di lei neanche un giorno della sua vita. “Sì, certo” acconsentì, e invece attaccò.
Aveva combattuto altre volte contro di lei. Per qualche strano allineamento planetario su cui non aveva mai amato soffermarsi troppo, Sirius sapeva che combattevano alla stessa maniera. La cosa era un vantaggio, perché prevedere le sue mosse era facile. La cosa era anche uno svantaggio, perché anche lei sapeva come colpire.
Bellatrix scagliò un incantesimo e omise la formula. Un fiotto di luce rossa puntò al suo petto, ma lui lo schivò. “Avanti, puoi fare di meglio!” la derise, la sua risata si espanse nella stanza come una goccia caduta sulla superficie di un lago.
Ma, d
altro canto, Bellatrix combatteva come lui: colpi gemelli, forze di azione e reazione. Se attaccava una volta, un secondo dopo aveva già un altro getto tra le mani.
Il secondo lanciò lo colpì al centro del petto, il respiro si intasò da qualche parte nella gola, il divertimento ancora sparso sul viso.
In bilico, sfiorò un alito di seta alle sue spalle.
In bilico.
 
“L’alcol babbano ha un fantastico effetto su di me” commentò James, assecondando i movimenti di Sirius e facendo dondolare anche la testa. “Ho sonno.”
Sirius si lasciò cadere con la schiena all’indietro e trascinò sul prato anche James. Remus si sdraiò accanto a loro e sospirò come se fosse stato lui a reggere il peso della collina e non viceversa.
“Ma guardateci” disse Sirius, gli occhi che esitavano per qualche secondo sulle stelle, prima che si voltasse a incrociare lo sguardo di Remus. James mugugnò qualcosa nella sua spalla. Rimase inascoltato. “stiamo guardando le stelle come quattro sfigati.”
“A te non serve guardare le stelle per essere uno sfigato” commentò Remus, stringendosi nelle spalle. Sirius fece per tirargli un pugno, ma lui lo fermò prima che impattasse, gli aprì le dita e gli piantò un bacio al centro del palmo della mano.
“Secondo voi ora che si fa?”
La voce di Peter giunse incerta, vibrante. Era a due centimetri da tutti loro ma pareva parlare da lontano, da fuori la bolla in cui sapevano rinchiudersi.
Sirius esitò con gli occhi in quelli di Remus. Avrebbe voluto urlargli di scrollarsi via l’incertezza. “Ora si va avanti” rispose, non distogliendo lo sguardo. Remus alzò gli occhi al cielo come se fosse stato stanco di sentire tutti ripeterlo. “Ora si va oltre.”
“Al mondo che ci aspetta” brindò James, biascicando, la testa ancora seppellita nella spalla di Sirius e un pugno sollevato in alto come se stesse reggendo un boccale di birra. Tra le dita non stringeva nulla.
“Al mondo che ci aspetta” risposero i ragazzi in coro.
Quattro pugni vuoti si levarono contro il cielo.
 
Una manciata di giorni sarebbe bastata. Quaranta, per dirne una. Quarantuno, per chi non sapeva accontentarsi.
La morte era una cosa da esibizionisti. Come il giorno del compleanno, ma a rovescio. Tutti gli occhi puntati addosso, nelle pupille riflessa la sorpresa.
L’essere umano nasce certo di due sole cose: che a un certo punto il suo tempo è iniziato e che a un certo punto questo tempo finirà. Eppure non ci sono eventi più sorprendenti a cui assistere dell’inizio o la fine di una vita. Tutti a bocca aperta, gli occhi sbarrati, i menti all’insù. Tutti increduli. Di solito c’è sempre qualcuno che sviene.
Egoisticamente, Sirius pensò che avrebbe voluto quaranta giorni in più. Un numero a caso, ecco, anche uno solo forse sarebbe bastato. Era un concetto semplice, un desiderio: lui non voleva morire. Per arrivare a morire quel giorno aveva fatto i salti mortali. Era inconcepibile morire, per uno che l’aveva fatto già la notte di Halloween del 1981 e poi aveva ripreso a respirare. Erano tutte cazzate quelle sul famosissimo ‘vederlo arrivare’, il treno di vita spesa che presentava il conto con fotogrammi scadenti.
Perché non aveva neanche avuto il tempo di incrociare per un’ultima volta lo sguardo di Remus Lupin.
E perché lui rideva.
Sirius Black sorrideva asimmetrico. Qualcuno diceva che era una paresi facciale, qualcun altro che lo faceva apposta per darsi delle arie. La verità era che non se n’era mai accorto. Un’altra cosa che faceva Sirius Black era vivere in bilico. Aveva passato la vita a poggiare fiale su ripiani inclinati, mettere i piedi nel posto migliore per perdere l’equilibrio e reggere tre libri in pila nella posizione che più li invogliava a ribaltarsi. La verità sul fare le cose in bilico era che non c’era posizione più equilibrata di quella e perciò nulla era mai caduto.
Quando il corpo di Sirius Black incontrò il velo alle sue spalle e una specie di carezza ventosa gli si posò su una guancia, il suo sorriso era simmetrico e il suo equilibrio s’era spezzato, in bilico tra due mondi.
 
“Vivere intere vite in una sola notte…” James si alzò a sedere, il ginocchio destro che reggeva un braccio e la coscia sinistra abbandonata nel prato freddo di rugiada. Il tetto del mondo poteva essere anche un parco panoramico che mostrava Londra, se lo si desiderava abbastanza. “Significa vivere così intensamente da non sentire più nient’altro, essere qualcuno che non si è mai stati e realizzare tutte le potenzialità che non erano mai esistite.”
“James,” Sirius si alzò a sedere e gli poggiò una mano su una spalla. Guardò Londra luccicare davanti a loro, “hai bevuto troppo.”
James si voltò a guardarlo, reclinò la testa all’indietro e si mise a ridere. “Sì,” concordò, “sì, ho bevuto troppo.”
 
Al di là del velo forse c’era ancora uno scherzo da tramare.








 
NoodEl: Ciao, l'esame è andato bene.
Scrivere questo capitolo è stato proprio un atto d'amore nei confronti di questa storia da parte mia perché veramente serve una disciplina olimpionica per il cestinamento di scene e devo vincere una medaglia.

Quindi siamo qui in ritardo perché non volevo ASSOLUTAMENTE che questo capitolo venisse fuori come un compromesso tra l’idea che avevo in testa ormai un anno e mezzo fa e la realtà. Volevo poter dire: ok, non è perfetto, ma non sono stata pigra. Quindi eccoci relativamente presto, se vediamo le cose sotto questa prospettiva.
Allora, per me la cosa più importante di questo capitolo è Lily Evans, ma mi rendo conto che abbiamo priorità diverse. La mia priorità è gestire ‘sta barca bucatissima mamma santa affondiamo.
Comunque io MAI MAAAAAI mi sarei aspettata che The Raven Cycle influenzasse così tanto i fattacci miei, ma mi ha aperto gli occhi con quel modo che hanno due personaggi di dirsi ‘ti amo’ senza dirlo mai, perché hanno una frase e un concetto più forte e incisivo per farlo. Ho visto questa cosa e ho pensato “NOOOOO troppo bello vorrei troppo avere anch’i- OOOOOH CE L’HO ANCH’IO!” quindi non mi prenderò il merito di questa cosa perché era sempre stata davanti ai miei occhi e il mio inconscio la faceva, ma avevo bisogno di capirla.
Detto ciò comunque ho ucciso Sirius, mi ero quasi dimenticata. Mi dispiace, ma voi dovete capire che ho passato una cosa come sette capitoli a dire che faceva le cose in bilico e non potevo non arrivare qua, avrei pianto.
Amici, GRAZIE per avere atteso e GRAZIE dopo l’attesa per aver avuto la voglia anche di leggere, il prossimo capitolo fa ridere, giuro non mi odiate non scappate, grz.
Adieu,

El.


 

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Capitolo 34
*** Capitolo 32 - Frammenti di mondo ***


CW: droghe leggere


32. Frammenti di mondo

 








23 settembre 1979
 
Peter si lasciò cadere a terra con uno sbadiglio, poi addentò un acino d’uva con aria assorta. L’uva sapeva di sciacquone e sogni infranti, ma ciò che contava era l’intenzione.
Poggiò i tre acini rimasti sul tavolo di fronte a lui. Se quel tavolo voleva assomigliare a un kotatsu stava fallendo miseramente, ma almeno era basso, il che significava puntare in alto in materia di kotatsu. Agli altri tre capi del tavolo, uno per ogni acino, sedevano Remus, James e Sirius, planimetrie alla mano.
“Perché ti è rimasta una Caccabomba?” domandò Remus a Sirius, infilandosi una mano tra i capelli e dando una scrollata frustrata.
“Perché l’ultima va messa alla fine nei condotti di aerazione.”
“Sirius” James sciolse un bottone alla giacca “non c’è nessun condotto di aerazione.”
“Davvero? Merda.”
La situazione era questa: quattro giovani uomini in smoking stavano sabotando il matrimonio di uno di loro. Sabotare era la parola che avrebbe scelto chiunque li avesse sorpresi a tramare quel piano, loro avrebbero optato per rendere interessante.
“Me ne occupo io…” intercettò Remus, il contrasto tra l’ordine dei suoi capelli e quello dei suoi abiti ambiva a quello di James Potter più o meno quanto quel tavolino da caffè ambiva a diventare un kotatsu. Sirius alzò distrattamente una mano a dargli una sistemata ai capelli, gli occhi ancora incollati alla planimetria del locale come se uno sguardo avesse potuto cambiarla.
Anche il locale non era un locale, a dire il vero. Era un negozio che si chiamava ‘frammenti di mondo’ e vendeva tutta una serie di gingilli che andavano da teiere cinesi a utensili decorativi brasiliani. La proprietaria era un’amica di famiglia di Mary MacDonald che aveva assistito alla prima manifestazione magica della ragazza e che quindi era a conoscenza del non trascurabile dettaglio che al mondo esistesse la magia.
“Va bene, tu ti occupi delle Caccabombe” acconsentì James, puntando un dito contro Remus per poi deviarlo verso Sirius, “tu puoi gestire da solo i fuochi d’artificio?”
“Qualunque cosa destinata a esplodere è in buone mani con me, Jamie.”
Remus annuì e parlò attraverso un respiro: “questa è la più grande bugia che tu abbia mai detto.”
“Be’, John,” per la cronaca, l’uso del secondo nome di Remus era diventata la cosa più irritante e stupida della loro relazione, più che altro perché Remus non poteva usare il secondo nome di Sirius, perché era anche quello di suo padre. Sarebbe stato strano, “sai che ti dico? Puoi anche…”
Un bussare alla porta sventò ogni attacco verbale di Sirius. I ragazzi si liberarono delle prove delle loro malefatte proprio mentre la testa di Marlene McKinnon faceva capolino all’interno della stanza.
“Che state facendo?” domandò, cessando di essere una testa levitante e facendosi largo, sospettosa, nell’ufficio della signora Liddell, momentaneamente adibito a stanza dello sposo.
“Compere.”
“Il tè.”
“Un pisolino.”
“Sesso.”
Deliberarono i ragazzi nello stesso momento. Nell’ordine presentato: Sirius, Remus, Peter e James.
Marlene sollevò un sopracciglio e cominciò a guardarsi attorno a caccia di prove della loro colpevolezza.
“Abbiamo…” Remus esitò con lo sguardo in quello della ragazza, mettendo su l’espressione sicura di chi riporta uno sterile fatto di cronaca, “fatto sesso prima di un pisolino e ora stavamo comprando del tè.”
Sirius alzò a scopo dimostrativo la teiera cinese che avevano preso in prestito. “Vuoi una tazza di tè?” domandò. Questo era l’effetto che entrare nel regno di una signora Liddell faceva alla gente.
Marlene non si espresse sulla questione. “Va bene, non mi interessa. James, giù tra dieci minuti.”
“Dieci minuti?! Ma non sono pronto!” disse con indosso l’abito e in testa i tentativi falliti di Sirius di dare senso ai suoi capelli. Anche Dorcas era venuta a dare una mano, in quella fase delicatissima, ma aveva per lo più riso di lui. In parole povere, era prontissimo.
Marlene sollevò un sopracciglio, scettica. “Qualunque piano stupido abbiate in mente dev’essere pronto tra dieci minuti.”
Li guardò. 
"Oppure devo essere inclusa."
E con questo se ne andò.
 
***

Il signor Evans era vedovo da otto anni ed età e rimpianti erano sparsi sul suo viso in forma di rughe ed espressioni. Era un uomo che aveva guadagnato poco e perso troppo, ma se c’erano due cose che non aveva mai perso erano la speranza e un pizzico di animo romantico.
Di tanto in tanto, la Morte gli faceva visita per sottrargli qualcuno e lo salutava con un gesto che suggeriva un appuntamento futuro di cui sarebbero stati gli unici invitati. Il signor Evans annuiva ogni volta, confermava la loro promessa con un cenno del capo, e poi le diceva: ‘Non adesso’.
Il signor Evans, quando aveva quindici anni, aveva sognato di vedere il Brasile, l’Alaska e la Cina e poi l’aveva fatto, perché era un tipo determinato. A cinquant’anni abbondanti e un numero di acciacchi che tendevano a invecchiarlo, il signor Evans sognava solo di vedere le sue figlie sposarsi e realizzare i loro sogni, ed era per questo che, da persona determinata quale era, diceva alla Morte: ‘Non adesso’.
Indossava dunque uno dei suoi sorrisi più smaglianti mentre accompagnava sua figlia all’altare.
Quando Lily aveva sei anni e non esisteva altra magia che quella confinata nei libri fantastici che le leggeva, lui aveva sognato quel momento adornato da merletti bianchi, una chiesa sontuosa e un marito composto e radioso che aspettava sua figlia all’altare.
Invece era in un negozio di cianfrusaglie dalle mura tutte storte e un mucchio di ragazzi, compresa sua figlia, si era adoperato a spostare tutti quei gingilli verso le pareti esterne del locale per disporre tavoli, sedie e, in fondo, un arco di fiori di giglio. Il risultato era un po’ eccentrico un po’ esilarante, perché a quel punto milioni di oggetti dall’utilizzo ignoto osservavano lo spettacolo in una calca compatta e variegata. Per un uomo che aveva contribuito a dare alla luce Petunia Dursley, il signor Evans era fuori di sé dalla gioia.
Quel locale brulicava di energia, una carica elettrica che aveva sperimentato solo quando era stato vicino ad altri maghi e streghe e che rivedeva, fievole, anche solo in sua figlia quando era sola. L’uomo in piedi sul palchetto di legno, che da ora in poi chiameremo altare, era in realtà poco più che un ragazzo e non era composto e sobrio come se lo era immaginato quando Lily aveva sei anni, ma era di sicuro radioso. Sorrise a sua figlia come se avesse voluto regalarle il mondo intero e prenderla in giro contemporaneamente e il signor Evans, come il romanticone che era, approvò in silenzio.
Lily sorrise a suo padre e abbandonò il suo braccio per raggiungere il ragazzo sull’altare. James Potter, così si chiamava il giovanotto, chinò il capo in segno di ringraziamento e il testimone strano accanto a lui gli fece l’occhiolino. Il signor Evans non poteva sapere che era fuori come un balcone anche per gli standard del mondo magico e pensò quindi che fosse un rituale da stregoni per scongiurare il malocchio. Visto che voleva che il matrimonio di sua figlia avesse successo, il signor Evans ricambiò l’occhiolino. Sirius Black, così si chiamava il testimone strano, si morse forte il labbro per non scoppiare a ridere. Poi il signor Evans prese posto nella prima fila antecedente ai tavoli.

***
 
Il testimone strano non amava dirlo ad alta voce, perché faceva crollare il suo fascino da playboy, ma era elettrizzato per quel matrimonio. Questo significava che aveva anche usato il cervello. Mentre James decantava le sue promesse, qualcosa su una grotta in Norvegia in cui avrebbe seguito Lily, se lei glielo avesse chiesto, Sirius si spostò discretamente sul lato esterno dell’altare. Marlene, che aveva preso la questione della damigella d’onore più seriamente di tutti, gli lanciò un’occhiata omicida. Sirius sollevò una mano per rassicurarla e Remus lo raggiunse dal basso del palchetto.
Come già affermato, Sirius quel giorno aveva usato il cervello. Invece di rischiare di perdere gli anelli sette volte ogni ora, aveva fatto la cosa più responsabile della sua vita: li aveva affidati a Remus, che glieli lasciò cadere nella tasca destra della giacca e lo guardò negli occhi scuotendo la testa, come a ricordargli anche solo con lo sguardo che era un caso perso. Sirius diede un’occhiata agli invitati per assicurarsi di non avere la loro attenzione.
“Grazie” sussurrò, cercando di muovere le labbra il meno possibile.
“Tu avevi un compito” gli fece presente Remus.
“Invidioso?” lo provocò con un sorriso. “Se ti comporti bene la prossima volta potresti non infilarmelo in tasca, un anello.”
Remus alzò gli occhi al cielo e lo abbandonò all’altare. Letteralmente, ma non propriamente.
“John,” lo richiamò Sirius con un altro sussurro, questa volta più concitato. Catturò il suo sguardo solo il tempo di aggiungere, in tono falsamente superficiale: “stai bene in smoking.”
Il mago che aveva il compito di officiare l’unione fece cenno a Sirius di farsi avanti, lui obbedì chinando la testa e sorridendo sicuro, come se non avesse avuto la tasca vuota fino a due minuti prima.
Gli sposi si scambiarono gli anelli con un sorriso a testa e poi si strinsero la mano. Il mago, qualche passo dietro di loro, ricacciò indietro le lacrime e mosse la bacchetta sulle loro mani giunte con un gesto all’apparenza sbrigativo. In realtà sosteneva che un matrimonio, in quei tempi, fosse la cosa più romantica del mondo e aveva detto a James e Lily che sarebbe stato un onore, per lui, rendere possibile quell’unione. In breve era un altro romanticone.
Una serie di stringhe bianche si avvolsero attorno alle dita degli sposi, poi scoppiettarono fino a dissolversi, rimpiazzate da uno strato sottile di fumo color panna.
I ragazzi si baciarono, piano, tra le grida di festa davanti a loro, poi James, la fronte contro quella di Lily, sussurrò sulle sue labbra: “Scusa.”
Quattro Caccabombe scoppiarono ai quattro angoli del negozio della signora Liddell e tre oggetti dalla forma fallica, abbandonati in precedenza sugli scaffali della vecchia, presero vita e iniziarono a danzare per la sala un metro sopra le teste degli invitati.
Nessuno, mago o babbano che fosse, riuscì a capire di che genere di ninnoli si trattasse.

***
 
“Ti prego.”
“Sta’ tranquillo!”
“No, sono serio, non puoi…”
Sirius si cacciò in bocca l’ultimo assaggio di pollo alla kiev, poi si alzò in piedi e sollevò una mano per richiamare l’attenzione degli invitati.
“Grazie papà Evans per aver parlato prima di me, il suo discorso è stato…” Sirius si prese una pausa a effetto. James si prese una pausa per schiacciarsi una mano afflitta in fronte. Lily avrebbe voluto prendersi una pausa dalla vita. “Illuminante.”
Qualche sorriso si diffuse in ‘frammenti di mondo’: la massima aspirazione di un comico.
“Per coloro che non mi conoscono, io sono Sirius Black,” si portò una mano al petto e sorrise, “il fidanzato di James,” si voltò a guardarlo e gli mostrò il labbro inferiore in segno di ironica tenerezza.
James scosse la testa, ma si lasciò trascinare dalla risata degli invitati.
“Ma non siamo qui per parlare della mia relazione. No, siamo qui per celebrare un’altra storia d’amore!”
James e Lily si scambiarono un’occhiata.
“Sta andando bene!” disse lei, l’osservazione condita con un cucchiaio abbondante di sorpresa.
“Lily è Gesù Cristo.”
“Cazzo” commentò James a denti stretti, chiedendosi perché il testimone fosse Sirius e non Remus.
L’affermazione del giovane strappò un coro di risate ai meno invischiati in faccende religiose.
“No, sul serio, seguitemi. Facciamo un po’ di conti, vi va? Prima di Lily…” il ragazzo ravanò con le mani nelle tasche dei suoi pantaloni. Ne tirò fuori uno strappo spiegazzato di pergamena. “Avanti Lily, per così dire, James ha fatto perdere un totale di milleduecentoquaranta punti alla casa Grifondoro e ha fatto guadagnare un totale complessivo di…” lanciò un’occhiata agli invitati, il tono lasciava intendere l’imminente rivelazione di un’informazione sensibile: “venti punti alla suddetta casa.”
James sorrise, più che altro perché era vero.
Dopo Lily, invece, il mio socio è cambiato. Ragazzi, auguro a tutti, giovani e più anziani, sì dico a te Euphemia!”
“Oh, ma smettila!” arrivò una voce dal fondo della sala. Euphemia Potter sventolava una mano fingendo offesa. E comunque aveva solo cinquant’anni!
“Insomma auguro a tutti di trovare una persona che veda qualcosa di più in voi, un animo nobile sotto una crosta di bravate. E vi auguro che quella persona vi prenda e vi porti via dalla criminalità. Quell’uomo” indicò James, guardandolo solo di sbieco, “quell’uomo è cambiato. Ma ci arriveremo poco alla volta.
“Vorrei partire dalle basi e informare i qui presenti che una sera di qualche anno fa le cose si misero molto male nella Sala Comune Grifondoro. Io stavo vivendo un sincero dramma personale, Remus stava cercando di studiare e Peter aveva mangiato troppo pasticcio di pollo a cena e stava tirando delle bombe di questa portata” schioccò le dita e una Caccabomba esplose da qualche parte nella sala. L’avrebbe preferita nel condotto di aerazione, ma a quanto pareva alla signora Liddell piaceva giocare a fare la tirchia.
“Ma non è vero!” contestò Peter.
“Pete, questo non è un discorso interattivo, quando arriverà il tuo turno racconterai la tua versione.”
“Io non ho un turno.”
“Oh, grazie al cielo” Sirius fece roteare gli occhi, “dicevo che quella sera facemmo la cosa più logica che quattro adolescenti in crisi possano pensare di fare: andammo a scassinare l’ufficio del nostro professore di Pozioni. Ora, per quelli di voi che non hanno familiarità con la magia, respirare in una stanza che contiene una pozione che si chiama Amortentia significa anche sentire l’odore della persona che si ama di più. In termini semplici, se siete innamorati di Peter siete fottuti.”
Il negozio della signora Liddell esplose di risate e Peter allargò le braccia e mimò con le labbra uno sconsolato: ‘ma perché sempre io?’
“Jamie caro si bloccò come un pezzo di legno davanti alla pozione, la guardò sbollire, poi si voltò per comunicarci le liete novelle. Noi stavamo rubando oggetti, discutendo di puzze, il mio amico Remus stava avendo un momento spirituale-olfattivo particolarmente tropicale, ma James si girò, serissimo vi dico, e disse: ‘Mi piace Lily Noiosa Evans’.”
Caos.
Anche le reliquie ultraterrene della signora Liddell risero.
“Se credete che il mio amico sia un cafone lasciate che vi dica come Lily ha ammesso il suo interesse alla sua damigella d’onore. Io c’ero, ero nello stanzino accanto.”
“Perché diavolo eri in uno stanzino?” si intromise Lily.
“Che t’importa perché ero in uno stanzino? Siamo qui per sfottere te. E comunque non so come farvelo capire: questo non è un discorso interattivo. Ad ogni modo, Lily si lanciò in una spiegazione dettagliata dell’incontro ravvicinato che aveva avuto in biblioteca con James, il che avrebbe dovuto destare raccapriccio negli animi più forti, e infatti Lily concluse quella che era una palese dichiarazione d’amore con un diplomatico e soprattutto veritiero: ‘Mi fa così arrabbiare, lo detesto!’, il che, se conoscete Lily, è un segno di amore eterno.”
Lasciò che gli invitati si adeguassero al leggero cambio d’atmosfera che aveva imposto a quel punto solo con uno sguardo. Quando fu soddisfatto della qualità più seria del loro silenzio, riprese la parola.
“Con questo in mente, io ho portato con me una cosa, una specie di reliquia, un reperto archeologico.”
Sirius prese a tastare la giacca e le tasche dei pantaloni. James e Lily si scambiarono un’occhiata che doveva tradursi in qualcosa di simile a: ‘Ne sai qualcosa?’, ‘assolutamente no’.
“Trovata!” Sfilò dal taschino interno del gilet un rettangolo di carta dai bordi bianchi e lo guardò per un attimo di sincera riflessione, prima di voltarlo e mostrarlo agli invitati. “Questa è una foto degli sposi che ho scattato il 6 aprile del 1976. Potete notare James che si rende ridicolo e Lily che realizza di essere importunata e si prepara a disintegrarlo: i loro habitat naturali, insomma.”
I parenti risero, ma fu un suono più esitante, più indeciso. Perché James, dal suo tavolo, guardava Sirius come se avesse avuto in mano un’arma carica.
“James voleva questa fotografia a tutti i costi, avrebbe fatto carte false, ma io lo ignorai. Gli dissi che l’avrebbe avuta solo se ci fosse riuscito. O incorniciata e appesa sulle mura di una casa in cui c’era anche Lily o dimenticata a prendere polvere in una scatola a casa mia.” Sirius si voltò verso James e gli sorrise. Poi lanciò la foto in alto e mosse un dito più volte per tenerla in aria mentre fluttuava verso di lui. “È tua, amico.”
James la afferrò al volo e unì le sopracciglia colpito, dividendo il suo sguardo tra Sirius e la fotografia. L’aria era satura di quella sorta di commozione che si diffonde quando tutti gli indizi trovano senso in una soluzione, quando il tempo dà valore alle cose e in nessun’altra circostanza.
“Ma ora basta sentimentalismi, vi ho mai detto di quella volta in cui Lily incantò le palle di James?”
La sala ululò di risate.
“No, comunque dico davvero, ho visto poche persone non mollare mai come quei due: James nella sua disperata conquista di Lily e Lily nella sua altrettanto disperata negazione di quegli stessi sentimenti. Anzi, ‘fanculo le ‘poche persone’, non ho mai conosciuto nessuno tanto ostinato” ammise Sirius, indicando con una mano James e Lily, seduti poco dietro di lui. “Auguro a ciascuno di voi di trovare qualcuno che vi guardi come James guarda il suo riflesso.” Sirius sollevò il suo bicchiere tra le risate degli invitati. Con quel gesto, invitò tutti a fare lo stesso. “Salute e figli Bambi, ragazzi!”
 
***

La vocina perfezionista nella testa di Lily Potter, nata Evans, per una volta si acquietò fino a sparire. Era un puntino nel cielo, un suono che correva a mille chilometri all’ora e si esauriva in una stella.
Poggiò il capo su una mano e osservò volti familiari e sconosciuti danzare nel bel mezzo di un ricettacolo di ciarpame.
Nonostante l’ambiente improbabile, Lily sorrise. Quel luogo raccontava una storia, in realtà ne spifferava così tante che, se si aguzzavano le orecchie, si poteva udire costantemente un brusio.
‘Frammenti di mondo’ non era un luogo magico, la sua proprietaria non era una strega e nessuno di quegli oggetti, che la donna sapesse, era un manufatto un tempo nelle mani di un mago, eppure i suoi frammenti vibravano. Le pareti sbilenche si arcuavano con le gobbe rivolte all’esterno, come a invitare il maggior numero di persone e oggetti possibile, il maggior numero di storie.
Lily colse con lo sguardo una dozzina di candele che levitavano sopra le loro teste, le osservò mischiarsi alle luci della sala, le punte delle bacchette e i riflessi negli occhi degli altri.
Sembrava di essere in un sogno, uno di quelli a occhi aperti, però. Una delle versioni idealizzate della realtà che gli esseri umani si divertono a costruire indipendentemente dal grado di disillusione che si trascinano dietro. Forse la voce nella sua testa si era schiantata nell’atmosfera perché tutto questo non era vero, forse stava immaginando, pensando intensamente, forse stava leggendo un libro o ascoltando una canzone di John Lennon. Forse Lord Voldemort in persona l’aveva uccisa e la Morte, contro ogni aspettativa, le aveva proposto un ventaglio di sogni e possibilità inespressi.
Lily abbassò gli occhi su Marlene e Sirius che ballavano in pista. Lei alzò un braccio per consentirgli di fare una piroetta. Li guardò ridere e sperò che non morissero mai. Lavorò sul fissare quell’immagine con nitidezza nella sua testa perché potesse ricordarla in caso...
Sentì qualcuno sprofondare nella sedia accanto alla sua e respirare pesantemente. Lily non tornò indietro dal suo stato contemplativo finché quel qualcuno non poggiò la mano sopra la sua.
“Tutto bene?”
Inspirò di colpo dal naso e si voltò verso la voce. James aveva gli occhiali un po’ pendenti su un lato e la testa inclinata dall’altro. Quando incontrò i suoi occhi sorrise furbo e sincero in parti uguali. “Sì, mi stavo… guardando attorno.”
James annuì con l’aria di uno che la sapeva lunga. Si sfilò la giacca e la lasciò cadere sullo schienale della sedia, poi si liberò anche della cravatta e si sporse verso di lei. “Ti va di scappare?”
“Eh?”
James raccolse il suo sguardo confuso e annuì. “Ti va di scappare? Solo per qualche minuto.”
Ma, James, questo è il nostro matrimonio! avrebbe detto la voce e poi lei. Non possiamo scappare dal nostro matrimonio, cosa penserebbero tutti?
“Sì, ti prego” sputò fuori, come se le fosse venuto dal cuore, come se non avesse passato gli ultimi minuti a guardare con tenerezza la scena davanti a sé. Non aveva motivo per desiderare un po’ di tempo da sola con James, ma senza la voce non aveva neanche bisogno di cercarne uno.
Lui si guardò attorno con aria cospiratoria. Sembrava che da un momento a un altro avrebbe tirato fuori un bazooka o un jolly da un mazzo. Poi le prese la mano e la condusse sul retro di ‘frammenti di mondo’. Sulla strada per la porta sfiorò la spalla di Sirius, gli fece un cenno e alzò l’indice davanti alle labbra.
James le cedette il passo, galante e ironico in parti uguali, poi la porta si richiuse alle loro spalle e con essa morì ogni suono.
Sorrideva come un matto.
“Che c’è?”
“Sei proprio una tipa responsabile.”
“Siamo scappati dal nostro matrimonio” gli fece notare Lily.
“Una persona responsabile è una persona che ha fatto un numero basso di cose irresponsabili, ma per fare un numero basso di cose irresponsabili ne devi fare almeno una.”
“Una persona responsabile è una persona che non fa cose irresponsabili e basta” ribatté Lily, la sensazione scomoda e intrigante di un déjà-vu si fece strada nella sua espressione.
James sollevò un sopracciglio.
“Ma è stato divertente.”
James scoprì i denti in un sorriso grande come se avesse vinto alla lotteria, come se il mondo intero avesse deciso di cadere ai suoi piedi.
Il giorno in cui Lily aveva ricevuto la sua lettera per Hogwarts e sua sorella Petunia si era messa a sbraitare e strillare che era uno scherzo della natura, una specie di mostro che aveva infettato la loro famiglia, sua madre aveva bussato leggera alla porta della sua stanza. Lily aveva alzato la testa dal cuscino umido di lacrime proprio nel momento in cui l’uscio si era schiuso. “Non entrare” aveva detto inutilmente, perché sua madre si stava già facendo strada nella stanza in ombra.
“Oh, Lily” aveva sussurrato, abbracciandola stretta. “Tu sei speciale.”
Lily aveva fatto una smorfia. Come se ‘speciale’, da quel giorno in poi, fosse diventato un insulto, più che una promessa.
“Un po’ più di come lo eri ieri” aveva aggiunto sua madre, inaspettatamente. Poi le aveva spazzato via una lacrima da una guancia “ma un po’ meno di quanto lo sarai domani.”
Lily aveva sorriso, una piega triste delle labbra umide di muco, lacrime e saliva.
“E sei più bella quando sorridi” aveva proseguito sua madre, lasciandole un bacio sulla fronte. “Dico davvero” aveva aggiunto, stroncando sul nascere lo scetticismo sparso sui lineamenti di sua figlia, “non importa se siamo a un gala o abbiamo appena passato un’ora a sollevar pesi. Non importa se ci trucchiamo o se ci siamo appena svegliati. Non c’è niente da fare, siamo proprio tutti più belli quando sorridiamo.”
Era vero che il mondo intero era caduto, nel tempo, ai piedi di James Potter.
C’era stata Glenda Chittock che, dopo essere stata salvata dagli approcci di Sirius, aveva sperato che lui la notasse. C’era stata Emmeline Vance che gli aveva dato il suo primo bacio. C’era stata la ragazzina Corvonero a cui aveva dato ripetizioni e lezioni di scherzi che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Poi ovviamente c’era stata Mary MacDonald, venuta fuori in ritardo perché Marlene e Sirius non avevano mai parlato. Ma il punto era che tutti cadevano ai piedi di James Potter. Anche suo padre e Minerva McGranitt. Anche Albus Silente, qualche volta, e soprattutto Sirius Black. Anche Severus Piton, se si voleva tener conto del significato letterale dell’espressione ‘cadere ai piedi’.
E anche lei, almeno un milione di volte.
James fece schioccare la lingua e le prese una mano. “Vieni con me” disse, e Lily andò con lui.
Era ovvio, cristallino come acqua di fiume, trasparente e per questo impossibile da vedere se non a posteriori. Era perché erano tutti più belli, quando sorridevano. E James sorrideva quando era a disagio e quando veniva colto con le mani nel sacco. Sorrideva quando era felice e quando credeva che Lily non lo sorprendesse a guardarla. A volte, prima di attaccare in battaglia, sbuffava derisorio e poi rideva dei suoi avversari. Altre volte le diceva che andava tutto a meraviglia, che aveva tutto sotto controllo, e le sorrideva un attimo prima di piangere. Altre volte ancora, e queste erano le sue preferite, James si svegliava con metà dei capelli che desiderava spiccare il volo e Lily si alzava sulle punte per appiattirli. Lui sorrideva consapevole a metà di uno sbadiglio. Una volta Sirius si era trasformato in corsa per prendere con la bocca un bastoncino, solo che questo gli era caduto in testa. James si era accasciato a terra dal ridere e Lily l’aveva amato.
James era famoso per amare Lily, era una cosa che sapevano tutti e che si era persa nel tempo tra un aneddoto e la sua versione più veritiera, ma Lily amava James discretamente, in un modo che accendeva la luce in una stanza e tutti cercavano la lampadina senza guardare la candela. James, però, aveva sempre saputo dove guardare.
Tranne in quel momento, perché un ramo lo colpì in fronte.
“Ma che cazzo!”
Lily scoppiò a ridere. “Se mi dicessi dove stiamo andando ti aiuterei a trovare la strada, ma no! Dobbiamo perderci nei boschi. E se avessi paura dei boschi? Guarda che è una paura vera. Non hai mai visto il mio molliccio, James, potrei starmela facendo sotto. Hai idea di che aspetto abbia una macchia di pipì su un vestito da sposa? Te lo dico io, ha l’aspetto di pipì su un vestito da sposa! E lo so perché sono…”
A Lily mancarono le prese in giro. In realtà le mancò ogni genere di parola. Il boschetto sul retro di ‘frammenti di mondo’ s’era aperto in una radura, gli alberi più solitari si ergevano scuri contro il cielo borbottante di un pomeriggio nuvoloso, buio abbastanza perché le vedesse.
Al centro della radura uno sciame di lucciole danzava in scie di luce, a ritmo del gorgogliare costante di un fiumiciattolo non lontano da lì.
“Perché…” chiese lei in un respiro più che una domanda.
“Mh?” Lily percepì James, accanto a lei, voltarsi a guardarla.
“È ancora pomeriggio, perché è… È magia?”
Non era una domanda metaforica, un interrogativo profondissimo sul significato dell’amore. Era proprio una domanda pratica.
James ridacchiò e la spinse gentilmente più vicino. Solo un po’, abbastanza perché potessero avere l’illusione di nuotare in un cielo stellato.
“Lily” sussurrò lui, perché parlare a tono normale sembrava poterli trascinare via da quei sogni, “lo sai che si illuminano per accoppiarsi? Quella lucciola sta urlando all’altra: ‘scopiamo?’ e quella: ‘sì, mmmh, vieni qui, bel lucciolone’.”
Lily sospirò rumorosamente. “Davvero poetico.”
“Ci accoppiamo anche noi?”
Lily lo guardò solo per un attimo, chiedendosi se la poesia stesse nei paesaggi mozzafiato o nella capacità di James di rovinarli con una parola. “Davvero patetico” si corresse infine.
Lui scoppiò a ridere e forse lo fecero anche le lucciole.

***
 
Sirius schioccò le dita e ne puntò uno contro il signor Evans. Sembrava il richiamo forzatamente amichevole di un capo spietato o l’ammonimento di un marinaio esperto al suo mozzo. Il signor Evans sgranò gli occhi e si indicò, come ad accertarsi che ce l’avesse con lui. Sirius, intanto, s’era avvicinato e gli aveva pure lasciato cadere un braccio sulle spalle.
“Signor Evans” lo salutò con un sorriso storto, mentre Remus, rimasto indietro, raggiungeva l’improbabile coppia con la macchina fotografica tra le mani, “è il momento della sua intervista.”
Il signor Evans, gli occhi ancora sgranati e la mente che notava senza sosta quanto fossero stravaganti questi maghi, divise il suo sguardo imbambolato e un po’ confuso tra Sirius e Remus.
“Quella è la telecamera” gli venne in aiuto Sirius, che comunque lo vedeva un po’ in difficoltà.
“Quella è… una macchina fotografica” argomentò il signor Evans. 
“Si sta divertendo, signor Evans?” domandò Sirius, ignorando la precisazione e posizionando il pugno chiuso sotto il mento del padre di Lily a mo’ di microfono.
“Sì, è una cerimonia stravagante” ribatté lui, fiero di aver trovato un modo per usare quella parola senza offendere nessuno, “anche se è da un po’ che non vedo gli sposi.”
“Oh, mi rende proprio la vita facile, signor Evans!” trillò Sirius, il braccio ancora mollemente appoggiato sulle spalle dell’uomo. Riportò il falso microfono su di sé e guardò dritto in una telecamera che non riprendeva. Remus rise. “Perché è il momento del QUIZZONE!” Sirius disse QUIZZONE proprio tutto in maiuscolo.
“Il quizzone?”
“No, il QUIZZONE,” lo corresse lui. Come già detto, era tutto in maiuscolo. “Attenzione papà Evans, perché si sta giocando ben cento galeoni.”
Il signor Evans sgranò gli occhi come se la questione fosse diventata d’improvviso spinosa per lui. Aveva sentito Lily nominare questi fantomatici galeoni, nel corso degli anni, ma non era mai riuscito a capire come convertire la valuta in sterline. Amava sentirli nominare, però, perché si sentiva un pirata in spedizione per terre lontane. E il signor Evans aveva amato tanto viaggiare.
“Gli sposi sono andati: a) a raccogliere mele candite nel bosco; b) a stanare scoiattoli per arrostirli per gli ospiti; c) a prenotare un biglietto di sola andata per la Malesia; d) a ingravidare un Pollodoro.”
Il signor Evans si accigliò. “Che cos’è un Pollodoro?”
“Oh, il Pollodoro,” Remus si sporse oltre il lato destro della macchina fotografica. Lasciò che il suo dito scivolasse sul pulsante di scatto in un gesto distratto e per questo facilmente identificabile come premeditato. Il signor Evans strizzò gli occhi per il flash. “Il Pollodoro è una rarissima specie di pollo magico che ha la particolare funzione di…”
“Di fare uova d’oro?”
“No, è il piumaggio del pollo a essere d’oro. Ha la particolare funzione di piantare erbacce al posto dei tulipani. In Olanda è noto come L’incubo d’oro. Una vera seccatura, mi dia retta.” Non era vero. Il Pollodoro non esisteva.
“Oh!”
Remus collezionò la foto che aveva scattato e diede un’occhiata di prova, ma era ancora bianca.
“Forza signor Evans!” lo incalzò Sirius, “il QUIZZONE ha altri partecipanti da intervistare!”
“Oh, mi dispiace, la mia risposta è la a. Raccogliere mele candite.”
Sirius scambiò un’occhiata con Remus, espirando attraverso labbra semichiuse in un’esternazione drammatica di delusione. “Ma come, signor Evans, le mele mica nascono candite!”
“Ma io pensavo…”
“Però!” lo interruppe Sirius, alzando un dito e allacciando uno sguardo furbo a quello rassegnato di Remus. Lui scosse la testa e guardò per finta attraverso la macchina fotografica, perfettamente conscio della stupidità di quello che stavano facendo ma troppo divertito per fermare Sirius, quando dava spettacolo così. “Noi cosa siamo, signor Evans?”
“Maghi?” provò lui, incerto. Come se l’epicentro della sua incertezza non fosse stato proprio quello: che erano tutti maghi.
“E allora signor Evans, complimentoni! La risposta a è la risposta corretta e lei ha vinto il QUIZZONE! Avanti il prossimo.”
Sirius abbandonò il signor Evans lì dov’era e si diresse a passo spaventosamente deciso in direzione di Arthur e Molly Weasley.
“Mi ha preso in giro per tutto il tempo, eh?” domandò il signor Evans a Remus, prima che lui potesse raggiungere il suo ragazzo dai prossimi intervistati.
“Mi dispiace dirle di sì.”
Invece che offendersi, il signor Evans alzò gli occhi al cielo e sbuffò divertito dal naso. “Maghi,” commentò tra sé, dirigendosi verso il tavolo col vino rosé, “proprio stravaganti.”
Remus guardò Sirius e il signor Evans allontanarsi in due direzioni opposte, abbassò la macchina fotografica e, per un attimo soltanto, si chiese come fossero passati da una riunione tattica dell’Ordine a quella sottospecie di gag comica in meno di quarantott’ore, poi si decise a muoversi e lasciarsi la conversazione mistica tra Sirius e il padre di Lily alle spalle.
Lo raggiunse giusto in tempo per afferrargli il polso e impedirgli di sferrare il prossimo attacco molesto. “Abbiamo intervistato praticamente tutti. Da Emmeline Vance a Marlene, passando per la madre di James, Caradoc, Fabian e Gideon, metà Ordine e anche il cappello di Elphias Doge” sussurrò Remus, aprendo a ventaglio le foto che aveva scattato di ognuno a scopo dimostrativo. “Quanta fantasia hai?”
“John,” iniziò Sirius con un gesto plateale e platealmente stupido della mano, “sei stato a letto con me, conosci già la risposta a questa domanda.”
Poi Arthur Weasley cadde ostaggio del QUIZZONE.
“Per me è la c” rispose deciso dopo un po’. Continuava a ripetere a Sirius che non aveva tempo per queste chiacchiere, che voleva parlare un po’ con il signor Evans e fargli delle domande circa la pila e il suo sistema idraulico. “La c, sì. James e Lily si sono trasfigurati in botti di vino francese.”
Din din din!” gridò Sirius, alzando in alto un calice di vino. Remus non aveva capito quando fosse entrato in suo possesso. In quel momento, scattò una foto. “Felicitazioni, Arthur, è la risposta esatta. Hai vinto anche tu il QUIZZONE!” Mollò la sua spalla e tracannò il resto del bicchiere in un solo sorso, inclinandolo a un angolo che gli avrebbe fatto una doccia, se non avesse bevuto tanto in fretta. Poggiò il calice su un tavolo vicino e si puntò la bacchetta al collo, poi amplificò la voce: “Va bene. Ragazzi, è il momento della corsa coi sacchi!”
Solitamente, Remus avrebbe covato il desiderio di prendere Sirius da parte, metterlo seduto su una sedia e ordinargli di non muoversi di un millimetro, condendo il tutto con una minaccia stupida. Quel giorno, però, Remus sorrise e seguì a trasfigurare le federe dei cuscini delle sedie in sacchi, perché avevano bisogno di quel genere di leggerezza e perché Remus era innamorato al punto di sembrare patetico.
Proprio in quel momento, spuntò dal nulla una bambina che gli trotterellò tra i piedi, gridando qualcosa circa la fine dell’arcobaleno.
“Dora!” gridò un uomo biondo al suo seguito. Dava l’idea di un padre che dormiva troppo poco ma che amava alla follia il motivo delle sue occhiaie. “Scusami,” gli si rivolse poi, non del tutto dispiaciuto.
“Sei Ted Tonks, giusto?” gli domandò Remus. Lui annuì energicamente. “Ti spiace se faccio una proposta a tua figlia?”
Questa volta Ted Tonks annuì ancor più energicamente di quella precedente. Doveva essere una bambina parecchio impegnativa.
“Vuoi partecipare alla corsa coi sacchi?”
 
Quando James rientrò con Lily in ‘frammenti di mondo’, suo padre cadde con la faccia a terra.
James aggrottò la fronte e, prima che potesse chiedere perché Fleamont stesse indossando un sacco con la stampa di uno stallone biondo sopra, il padre di Lily li raggiunse di corsa e disse: “Non ci avete portato neanche una mela candita?”
“Non ho capito.”
“Aspettate, che mela candita? Non eravate a fare surf con le Giunchiglie di Mare?” domandò Gideon che, al contrario del signor Evans, non stava scherzando.
“Le giunchiglie sono un fiore, Gideon” gli fece presente Lily.
“Ci sei quasi, ci sei quasi!” gridò Sirius da qualche parte sullo sfondo. Stava incitando Dorcas a muovere il suo sacco più in fretta. “OH, CAZZO ABBIAMO UN SORPASSO ALL’ULTIMO! Molly Weasley strappa il primo posto dalle mani di Dorcas Meadowes!” concluse, gli occhi ancora sulla gara mentre raggiungeva James e Lily alla porta sul retro.
“Ti lascio la situazione in mano per mezz’ora e questo è il risultato” commentò James quando lo ebbe a portata d’orecchio.
Sirius sembrò fraintendere il punto del discorso. “Mica male in così poco tempo, eh?”
“Dove sono Remus e Peter?” chiese Lily. La vera domanda era: dove sono le voci della ragione?
“Oh, si stanno preparando per la semifinale di corsa col sacco.”
“Ovviamente” ribatté James, trattenendo una risata. “Come hai convinto Remus?”
A quel punto Sirius si guardò intorno nella sala finché non adocchiò il tavolo a cui erano seduti a pranzo. “Lo vedi quello?” domandò, cercando di angolare il braccio affinché puntasse nella direzione corretta, agli occhi di James. “È vino rosé e fa miracoli.”
Lui rimase impassibile e Sirius poggiò solidale una mano sulla sua spalla.
“Non ti devi offendere, Jamie, non mi sarei mai potuto dimenticare di voi” disse, e poi fece spuntare dal nulla due sacchi coordinati, uno con un cervo dal naso rosso, uno con una cerva con le ciglia lunghe.
James guardò i sacchi e poi il suo amico, affondò con la faccia tra le mani e infine parlò, il suono attutito dall’ostacolo e da un sospiro: “Sirius, io ti amo, veramente. Ti amo.”
Ricevette in risposta una pacca tra le scapole e una risata fragorosa. “Lo so, lo so. Adesso andate.”
La corsa coi sacchi, però, non la vinse nessuno, perché Fabian si classificò primo con il suo sacco a motivi floreali, finché non scoprirono che l’aveva truccato con la magia.

***
 
Remus diede un’occhiata al piatto che teneva in mano, poi al tubo di scolo, poi di nuovo al piatto e infine incollò lo sguardo alla grondaia.
Sospirò.
Con la mano libera si arrampicò lungo il tubo, sfruttò la geometria bizzarra di ‘frammenti di mondo’ e si issò sul tetto tenendo in bilico il piatto. Depositò il bottino tra le tegole color ruggine e la grondaia e finalmente si sedette, puntando i piedi perché l’attrito gli impedisse di scivolare giù.
“Sì, ma che ha scritto?” stava chiedendo Lily, scuotendo Marlene per un braccio.
Sirius si voltò a guardarlo e gli diede il bentornato con un impercettibile cenno del capo e un invito a prendere un tiro. Remus afferrò lo spinello tra due dita e inspirò. Trattenne il fumo da qualche parte tra la bocca e la gola e lasciò scorrere lo sguardo sul cielo rosa e arancio della sera. Bruciava. Il tramonto come l’erba. Il cielo come la terra.
Mentre l’edizione matrimoniale di giochi senza frontiere si era tenuta nel negozio della signora Liddell, fuori era venuto a piovere. Nessun temporale aveva scosso cielo e terra, nessun fulmine aveva minacciato di fracassare la campana di vetro di incantesimi e speranze in cui si erano rintanati, ma una brezza leggera aveva portato gocce impalpabili d’acqua, sussurri oltre le finestre. La temperatura era scesa solo di qualche grado e il prato, più che fradicio, era spruzzato di un fresco più vicino a rugiada che pioggia. Il tramonto si era presentato vestito di colori caldi e nuvole lilla.
Seduti sul tetto, il mondo sembrava più aperto. Non era l’altezza a fare il trucco, ma il fatto che non ci fosse superficie più alta su cui arrampicarsi per chilometri. La canna fumaria del negozio si stagliava contro nuvole arricciate e aria più fredda, un’ombra che faceva da guardiano.
Remus si strinse nella giacca del suo completo e non gli dispiacque constatare che faceva un po’ troppo freddo per il suo abbigliamento. Non era gelo che gli mordeva le ossa e gli faceva desiderare un camino e un té caldo, più una brezza che gli ricordava che era lì e che sentiva freddo abbastanza perché le tegole del tetto gli fossero ruvide sotto i polpastrelli. Prese un altro tiro mentre già si allungava verso James per passargli la canna.
“Ha scritto che trovare un modo per mandare la lettera era stato difficile, ma che erano settimane che non pensava ad altro. Ha detto che vorrebbe vedermi, prendere una Burrobirra, aggiornarci sulla nostra vita dopo la scuola.”
Lily sorrise. Remus non era attratto da Lily, ma la guardò scostare una ciocca di capelli dietro un orecchio e pensò che fosse una visione quasi intima a cui assistere. Indossava una specie di sottoveste con le spalline che lo portò a chiedersi se non avesse proprio freddo, lei. Non sembrò curarsene quando disse: “Dovresti dirgli di sì. Dopotutto, se stiamo imparando qualcosa è che non sappiamo quanto tempo abbiamo in questa vita, ma di certo non abbastanza per avere rimpianti.”
Marlene sorrise debolmente, la luce giocò a rincorrere l’ombra sul suo viso e la rese più reale, tridimensionale. Remus non era attratto da Marlene, ma pensò che fosse davvero una bella ragazza. Aveva quel genere di viso che ti faceva venire voglia di farla sorridere per scoprire se aveva le fossette. Sembrava che chiedesse la tua simpatia e che al contempo ti mostrassi degno di meritare la sua. Aveva qualcosa di selvaggio, in quell’aria di attenta trasandatezza, e sembrava sempre malinconica quando era in silenzio. Più volte Remus le aveva chiesto se stesse bene e lei si era voltata a guardarlo confusa e gli aveva domandato cosa volesse dire. Remus non aveva mai capito se fosse brava a liquidare la tristezza che non riusciva a nascondere, se fosse semplicemente vittima del suo sguardo languido o se saltasse dall’una all’altra possibilità senza segni distintivi.
“Fa’ in modo che la morte ti trovi viva” sentenziò Remus, lo sguardo già lontano dagli occhi di Marlene e incollato a un cielo che danzava tra giorno e notte.
Passò un secondo di silenzio in cui le parole di Remus parvero le più profonde mai pronunciate sulla faccia del pianeta Terra e i suoi compagni del sistema solare, poi Peter iniziò a ridere per primo e gli altri lo seguirono.
Il fatto era questo: Remus aveva preso due tiri adesso e dieci prima che scendesse a rifornire il tetto di cibo, il che spiegava anche il motivo di un rifornimento così urgente. La festa era finita da un po’, gli ospiti erano tornati a casa e ‘frammenti di mondo’ ora ospitava solo un frammento degli invitati: loro. James li aveva portati sul tetto, Peter aveva creduto che non li avrebbe retti, Marlene aveva tirato fuori due spinelli, Lily si era emozionata come un bambino davanti ai regali di Natale, Sirius gli aveva detto di non contare i tiri e Remus li aveva contati.
Erano dodici come gli apostoli, come tre per quattro, come il magnesio, come il Sagittario, come i numeri dell’orologio, come il soldato, come gli dei dell’Olimpo.
Poi Sirius gli spiaccicò in faccia parte della glassa della torta che aveva portato su. Remus, impassibile, pulì con un dito quella a cui non arrivava con la lingua e lo leccò. Si dimenticò di ricordarsi che era un gesto interpretabile come sessuale.
“Però non ha tutti i torti” stava dicendo James a Marlene, la luce arancione filtrava tra i suoi capelli scarmigliati e gli conferiva un’aria quasi eterea. Remus non era attratto da James, ma pensò che fosse un grande con tutte quelle contraddizioni, seduto sul tetto con un vestito elegante e una canna tra le mani, un anello nuziale al dito e i capelli un casino. Gli fece pensare a una cosa simile alla spensieratezza e pensò anche che non si fidava delle sue gambe per raggiungerlo dall’altra parte del tetto, ma se James si fosse alzato e lo avesse abbracciato, Remus per una volta non l’avrebbe mandato via come un insetto noioso. “Dovresti dargli una possibilità.”
“Bertram Aubrey è un tipo a posto” si intromise Peter. Remus non era attratto da Peter e non lo fu neanche quando si girò a guardarlo esprimere la sua opinione sulla vita sentimentale di Marlene, però era un bravo ragazzo. Aveva quel modo impacciato di essere discreto che risultava tutt’altro che sobrio. Remus l’aveva visto alzare angoli di un tappeto che ospitava più di quattro angoli e buttarci sotto tante delusioni. Sospettava che il segreto stesse nell’idea che fossero stupide. Credeva che Peter non se ne andasse in giro a dire: ‘mi piaceva Marlene, ma mi sentivo un perdente e mi paragonavo a Sirius’ perché era certo che avrebbero riso di lui o che l’avrebbero preso per scemo. Remus pensò che gli dovesse un po’ di comprensione, che se Peter non se la sentiva di parlare di certe questioni era colpa loro, che Sirius e James facevano un sacco di casino e il fatto che Peter non facesse altrettanto non doveva farlo sentire meno grato nei suoi confronti. Forse Remus se la prese un po’ con se stesso.
“Rispondi alla sua lettera” disse James allora, scivolò col gomito via dal suo ginocchio e lasciò penzolare la gamba oltre il tetto. Da quella angolazione sembrò galleggiare nei rami del bosco lì vicino. “Vedetevi in un posto sicuro.”
“Tipo quale?” ribatté Marlene. Era una domanda stupida, constatò Remus mentalmente, conoscevano tantissimi posti sicuri. Marlene voleva solo una scusa per rendersi la vita difficile, cercava un modo per rendere quell’incontro un ‘non c’è niente che me lo impedisca’ piuttosto che un ‘farò di tutto perché accada’.
“La Testa di Porco?” Sirius fornì come opzione, il tono interrogativo lasciava intendere che aveva visto attraverso l’atteggiamento difficile di Marlene proprio come Remus.
Lei annuì, poco convinta.
“Se vuoi ci mascheriamo e ci appostiamo tutti nei tavoli vicini” continuò lui. Marlene rise, ma il fatto che le battute virassero su una proposta del genere svelava la triste realtà del loro tempo.
“Sarebbe esilarante” commentò Lily, mentre Marlene scuoteva la testa.
A Sirius tornò la canna, la inclinò in direzione di Remus come a offrirla prima che ne usufruisse. Lui scosse la testa e sbadigliò. Senza pensarci troppo, si sdraiò sul tetto, piegò una gamba perché l’inclinazione delle tegole non gli desse l’illusione continua di star scivolando via come un pesce appena catturato, poi appoggiò la testa nel grembo di Sirius e, nel momento in cui lui distrattamente gli infilò una mano tra i capelli, Remus chiuse gli occhi.
Quando inspirò, pensò di essere sulla costa del Lago Nero. Sentì le tortore che volavano da un angolo a un altro della Foresta Proibita, le voci deboli intrappolate nelle mura del castello di Hogwarts, il fumo del camino della capanna di Hagrid, l’odore di adrenalina del campo di quidditch, lo scricchiolio fievole delle assi di legno della Stamberga Strillante, il gorgogliare di Burrobirra dei Tre Manici di Scopa.
“Scommetto che se mi butto da qua sopra riesco a volare” disse James, a metà di una conversazione che Remus non stava ascoltando. Gli credette, però, era possibile.
Lily scoppiò a ridere. “Scommetto che sei fatto.”
“Io ho fiducia in te, Jamie” disse Sirius.
“Grazie, sapevo di aver fatto la scelta giusta a sposare te.”
Sirius scoppiò a ridere così forte che Remus aprì gli occhi e lo guardò dal basso. Sembrava che non potesse invecchiare. Remus provò a immaginarlo con venti, trent’anni in più. Provò a mettergli attorno una casa vissuta, una tazza di tè con metà dei suoi anni, una pila di libri accumulati che non aveva letto, una pila di vinili accumulati che aveva sentito ognuno tante volte quanti erano i giorni che aveva vissuto. Riusciva a vedere tutti questi dettagli, ma non riusciva a metterci in mezzo una versione di Sirius che avesse più di vent’anni.
Seguì la linea storta che gli portava un angolo della bocca più in alto dell’altro. Avrebbe voluto alzare una mano e sollevargli l’angolo pigro con un dito, chiedergli se veramente non se ne accorgesse. Lo osservò scuotere il capo appena all’indietro per liberarsi di un ciuffo di capelli negli occhi. Avrebbe voluto sollevare un braccio e dargli una mano. L’assottigliarsi dei filtri di Remus e il conflitto tra le cose che avrebbe voluto fare, lo portarono ad alzare davvero una mano, ma a limitarsi a pizzicargli una guancia tra due nocche.
Sirius abbassò lo sguardo su di lui e l’innocenza nel suo sorriso si trasformò in una promessa di guai.
Remus era attratto da Sirius, ma a volte credeva che si sarebbe fatto ammazzare e aveva paura di svegliarsi una mattina e dover convivere con quel vuoto. Ci pensava spesso, aveva dei momenti in cui lo guardava e aveva l’impressione di star prestando i suoi occhi alla versione di sé che nel futuro avrebbe consumato quel ricordo. Non era solo il risultato del pensiero della guerra sempre nel retro della sua testa, era anche la vertiginosa sensazione che stare con Sirius significasse vivere intensamente il presente. Il presente durava meno d’un istante, mentre il passato e il futuro si allungavano in direzioni opposte e solide. Remus a volte doveva scendere da quel precipizio, guardarlo da fuori: dal passato o dal futuro. E, visto fuori dal suo tempo, Sirius era più fuggevole e quindi più attraente, una visione privata fatta per chi non sbatteva le palpebre.
“Lo facciamo adesso?”
Ah, e comunque Remus, oltre che filosofo di paese, era anche fatto in quel momento, quindi c’era una parte del suo cervello che non stava pensando al presente, al futuro, ai precipizi metafisici, no. Stava pensando che se lo voleva scopare.
Quindi gli sorrise come un idiota e annuì, perché la domanda era interessante.
Sirius annuì a sua volta e spostò il peso su un lato del bacino, il che fece muovere anche la testa di Remus. Affondò una mano nella tasca posteriore dei pantaloni e ne tirò fuori un bottone rosso, di quelli che si vedevano nei film e che il cattivo non arrivava mai a premere.
“No, aspetta, non ho capito” intercettò Remus, che, davvero, aveva fatto cose strane per Sirius – tranne il sesso acrobatico, perché qualunque cosa che avesse ‘acrobatico’ nel titolo non faceva per Remus – ma il bottone rosso proprio non gli dava alcuna idea.
“I fuochi” sussurrò Sirius e Remus si ricordò che erano su un tetto e che non erano soli.
“Ah.”
Sirius capì la natura dell’equivoco, ovviamente. Un po’ perché più il tempo passava, meno Remus aveva bisogno di parlare. Un po’ perché Sirius era uno stronzo e rendeva le sue frasi ambigue quel tanto che bastava per mettere tutti in dubbio e uscirne comunque innocente. Sorrise, a Remus venne di nuovo quell’urgenza di alzargli l’angolo lento della bocca.
Poi il cielo scoppiò e per poco i ragazzi non sfondarono il tetto dallo spavento.
Remus ascoltò James scoppiare a ridere e proclamare che lasciare che Sirius gestisse i fuochi d’artificio era stata l’idea migliore del mondo. Sirius, rapidissimo, ribatté facendogli presente che lo diceva ora che era contento del risultato e si ritenne offeso per la scarsissima fiducia che avevano riposto in lui. Remus ascoltò questi scambi ma non li vide, perché, steso sul tetto, non riusciva a staccare gli occhi dal cielo e dai colori infuocati che si mischiavano a quelli ormai pastello degli ultimi aliti di tramonto.
Sembrava la fine del mondo.
Presto sarebbe sceso il buio e ciò che i fuochi d’artificio non illuminavano sarebbe esploso nei colori freddi ed effimeri degli incantesimi più letali. Il mondo andava a fuoco, prima solo sulla terra, ora anche in cielo.
Lacrime gialle si lanciarono verso l’alto e piovvero in picchiata dopo aver raggiunto il loro punto più alto.
“Sai, dovresti accettare il complimento e stare zitto” disse James, una risata incastrata nella gola.
“Sai,” ripeté Sirius, in una caricatura della sua voce. Remus lo sentì molto più vicino, la conversazione sembrava avvenire una parte dentro una parte fuori dall’acqua, “dovresti sapere che non ho problemi ad accettare i complimenti. Il tuo era un insulto, Ramoso. Adesso ringraziami per aver ricreato il primo bacio tra te e Evans e…”
Remus, fatto, sfatto e confuso, sentì comunque il bisogno di correggerlo, ma non ne ebbe modo, perché 
qualcuno lo anticipò e tutti si schierarono con James.
“È Potter” lo corresse Lily e Remus non aveva bisogno della sobrietà né di uno sguardo per sapere che James aveva l’orgoglio stampato in faccia.
“Oh, non dovevi dirlo, Lily” ribatté Sirius, “lo sai che da oggi in poi ti chiamerò sempre…”
Le ultime parole di Sirius vennero soffocate da uno scoppio nel cielo. Peter li aveva avvertiti sul fatto che gli ultimi sarebbero stati un po’ più violenti.
“Stavo dicendo che da oggi in poi…”
Nelle uniche volte in cui aveva preso parte alla conversazione, Remus aveva dispensato perle di saggezza e frainteso allusioni sessuali, quindi ovviamente era arrivato il momento di una bella saggezza sessuale. “Stai parlando troppo, davvero, mi stai facendo venire mal di testa” si lasciò scappare, biascicando. Afferrò Sirius per la camicia, lo spinse verso il basso e lo baciò. Onestamente fu uno schifo: avevano mangiato torta insieme ad antipastini al prosciutto, l’erba seccava la bocca che era uno splendore e Remus si rese conto di avere una tegola che premeva per prendere il posto della sua colonna vertebrale.
Però.
I fuochi d’artificio gli scoppiavano nelle orecchie e i loro amici esultavano come se il mondo avesse avuto una data di scadenza.
E ce l’aveva.
Sembrava la fine del mondo perché era la fine del mondo e Remus pensò, ammazzatemi adesso.
Un colpo di pistola, al centro del petto. Un fuoco d’artificio che non si estingueva prima di raggiungere terra ma lo trafiggeva come una lancia illuminata, da parte a parte, con la punta che prometteva di aprirlo in due. Il tetto che si sfondava veramente e un pezzo di antiquariato russo che lo impalava tra le scapole. Avrebbe baciato anche il sangue di Sirius per dimostrargli che non era nero.
Ammazzatemi adesso, avrebbe urlato, ma che non sia un incantesimo.
Qualunque cosa, pur di non dover guardare gli altri morire.
Giuro che se sono l’ultimo… e il pensiero si interruppe perché Remus non lo sapeva. Non sapeva cosa avrebbe fatto se fosse rimasto solo di nuovo, se fossero scomparsi tutti da quel tetto, se fossero scesi uno per volta 
 scusate, faccio rifornimento di torta e torno su  mentre aveva ancora le loro risate e la loro voglia di mangiare il mondo nelle orecchie e negli occhi.
Invece di piangere, pregare il dio dei dodici tiri affinché non gli togliesse l’unica cosa buona per cui avesse mai lottato, mentre baciava Sirius con la guerra sotto quel tetto e il fuoco sopra, Remus scoppiò a ridere sulle sue labbra.
Allentò la presa sulla camicia di Sirius e lo lasciò tornare dritto dopo aver deposto un bacio asciutto sulla sua guancia.
“Fottuta puttana,” mormorò, lasciando ricadere il braccio sugli occhi.
Aveva sempre avuto un piede in due scarpe, ma aveva imparato a camminarci e se non poteva camminare poteva chiudere gli occhi, strizzarli e alzare un dito per prenotare la parola. Il mondo sarebbe finito girando, spazzandoli tutti via, e la sua testa l’aveva già capito, ma Remus aveva un’ultima cosa da dire, a questo mondo, chiedendo in prestito una replica a tutti quelli che dovevano sempre avere l’ultima parola.
“Qui nessuno muore.”








 
E l d i N o t e: Wewe bellezze mediterraneeeeh… Scusate, non so perché l'ho detto.
Oggi è primo settembre, ma non un primo settembre qualunque, ah-ha. Oggi è il primo settembre, cinquant’anni dopo il primo giorno dei malandrini! YUPPIE-YE. Credete che mi sia impegnata a postare oggi? Si vede che non avete capito proprio niente, il caso è dalla nostra parte!
Quindi detta la prima idiozia, passiamo al momento spirituale-affettivo. La storia delle interviste agli invitati del matrimonio e la corsa coi sacchi sono, per la prima volta, ispirati a fatti veri, una specie di saluto a quattro amici che sono esistiti davvero e che avevano le chiavi della scuola e se ne andavano in giro a combinare danni.
Detto ciò io ho finito gente, scusate per l’attesa e scusate pure se questo capitolo è un altro po’ più lungo della somma degli altri, credetemi ho anche tagliato tanto. Grazie per aver atteso e per aver letto nonostante tutto.
Ci vediamo presto con l’ultimo capitolo e, una settimana dopo, l’epilogo! Grazie ancora per essere stati qui <3
Adieu,
 
El.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 33 - Il tempo che ci resta ***


33. Il tempo che ci resta

 







Ottobre, 1981

Il sole era sporco di grigio e filtrava putrido attraverso gli intagli nella tapparella, facendosi largo oltre le tende in un bagliore appena accennato sulla moquette. Sopra le loro teste, la pioggia ticchettava insistente, bussando sul tetto come aghi di cielo pronti a fendere e distruggere il loro segreto.
James sbatté le palpebre e sollevò il capo quanto bastava per permettere solo all’avambraccio di liberarsi. Poi poggiò nuovamente la testa sul bicipite e guardò Lily, addormentata e in penombra, a qualche centimetro da lui. Lasciò scivolare una mano tra i suoi capelli, li mosse appena perché la luce ne rivelasse riflessi nuovi e osservò le labbra appena schiuse, come attorno a una parola dolce ancora intrappolata nella gola. Arrotolò un ciuffo di capelli ramati attorno all’indice e guardò la spirale che aveva creato smantellarsi non appena la lasciò andare sul cuscino.
Era una cosa che faceva, guardarla dormire, perché era anche una cosa rara. C’era un mondo diverso, dietro le sue palpebre, un universo che forse era addirittura peggiore di quello in cui vivevano, ma che almeno poteva cambiare solo con un pensiero.
Era una cosa che faceva anche lei, guardarlo dormire. James lo sapeva perché qualche volta si era svegliato con una mano di Lily che gli accarezzava una guancia, o con un dito, delicato come una piuma, che cercava di sciogliere il nodo di tensione tra le sue sopracciglia.
“Che hai sognato?” gli chiedeva quando apriva gli occhi e la metteva a fuoco all’istante, come se avesse fatto parte del suo dormire.
“Che vivevamo tutti in un fienile in Olanda” rispondeva a volte. “Che Sirius comprava un cavallo e lo chiamava Elvendork” replicava altre, in un sussurro. “Che la terra era fatta di gomma da masticare e camminavamo rimbalzando” ammetteva ridendo rauco altre ancora.
Ma James era spento.
Non divorava più il mondo solo con uno sguardo, non dominava più i cieli in groppa a una scopa, non camminava più per i corridoi della scuola come se avessero portato il suo nome.
James era spento. Non si era spento. Spegnersi presupponeva una scelta, una presa di posizione. James era spento perché l’avevano spento, chiuso in una cella strepitosa, perché era con Lily e Harry, ma pur sempre una cella.
Lasciate un uccello in una gabbia con lo sportello aperto e a questo sembrerà solo di essersi messo al sicuro, chiudete lo sportello e non ci sarà fibra del suo corpo che non desidererà di scappare.
Quella mattina rubò qualche minuto dai sogni di Lily. Aveva un fascino che non credeva si sarebbe mai trovato ad ammirare se non a cent’anni, con la morte che soffiava sul collo. Sembrava avere tre anni in meno, l’età che aveva quando si erano messi insieme. Non era cambiata molto. Le lentiggini erano sempre nello stesso posto, la cicatrice sbiadita e invisibile non si era mossa dalla guancia. La prova di quei tre anni stava nel riflesso nei suoi occhi, nel modo in cui la luce rimbalzava e colpiva le sue pupille, nella maniera con cui le sopracciglia si abbassavano sulla curva di un pensiero e gli angoli della bocca si piegavano verso il basso. Con quella prova, James si ricordava che in quei tre anni si erano sposati, avevano avuto un figlio ed erano stati condannati a una cosa più meschina della morte: la sua fuga.
“Buongiorno” sussurrò Lily, concedendosi un respiro profondo, gli occhi ancora chiusi.
La prova di quei tre anni non stava nel riflesso nei suoi occhi, realizzò James quella mattina, perché anche così Lily aveva di nuovo ventun anni.
La prova di quei tre anni stava nel suono che facevano i sogni quando venivano infranti.
“Buongiorno” la voce di James sorrise.
Lily aprì gli occhi per non perderselo, perché ne valeva sempre la pena. “Harry dorme?”
James annuì, felice che quel silenzio fosse solo loro. “Mi sono procurato del cioccolato.”
“Ha un anno, James, e poi noi non possiamo uscire di casa” replicò Lily, la voce infiacchita dalla sonnolenza, ma sorrideva.
“E quindi?” il ragazzo sciolse quell’abbraccio a metà e lottò contro le coperte. Quando fu libero, si sporse oltre l’orlo del letto e raccolse da terra un secchio. Lo scosse perché i dolci al suo interno rivelassero la loro presenza con un fruscio, poi si voltò a guardarla e sorrise come un matto. “Lo faremo in casa. È la notte di Halloween!”
Lily alzò gli occhi al cielo, ma non riuscì a reprimere un sorriso.
“Dolcetto o scherzetto?” domandò lui, facendo ondeggiare le sopracciglia divertito.
“Non puoi fare alcuno scherzetto!”
“Oh, Lily” il sorriso sincero di James scivolò su uno furbo. “Stai parlando con il re degli scherzi, ho sempre un asso nella manica.”
Si sporse in avanti e le rubò un bacio più lungo di quanto aveva inteso all’inizio.
“E poi” continuò, sfilandosi con disinvoltura la maglietta del pigiama, “Halloween è sempre dalla parte di un malandrino.”

***

Settembre, 1979 

La Hope Valley si trovava sul confine a nord-est del Derbyshire e aveva un paesaggio da mozzare il fiato. Era tutta prati verdi, monti e cespugli di lavanda: stringhe viola che facevano capolino nel prato come spettatori intransigenti ma in un certo modo rassicuranti. Il sole di giugno filtrava tra fili d’erba color paglia e si lasciava tagliare da cime che sembravano allontanarsi, man mano che ci si avvicinava.
L’aria, da quelle parti, era rarefatta.
Non era l’altitudine, era più il sentore di essere sull’orlo di qualcosa.
Sarebbe stato un posto delizioso in cui venire a fare un gita. In un’altra vita lui, il resto dei Malandrini e le ragazze si sarebbero avventurati per quei prati verdi, sempre più in alto, a giocare a trovare il punto più panoramico da cui osservare la vallata. Avrebbero impacchettato sandwich di pollo in stupide carte colorate e si sarebbero sentiti come la compagnia dell’anello, a camminare e vagare e camminare ancora.
Ma Remus fu costretto a scartare di lato, rapido. Un incantesimo gli sfiorò meschino un orecchio, in un sibilo simile a una frustata.
Era giorno, pomeriggio inoltrato. Forse erano le sette, ma il sole era già prossimo a tramontare.
Avevano iniziato a sparare da lontano, colpi lenti e arcuati come bengala la notte di Capodanno. Non una gentilezza degli avversari, neanche per idea, più un’ostentazione delle loro possibilità, un grido al retrogusto saccente di: ‘guarda che so fare!” Non un avvertimento, no, una minaccia.
Erano lì perché l’Ordine stava facendo il suo lavoro egregiamente, perché erano a caccia dei luoghi, in giro per l’Inghilterra, in cui il Signore Oscuro doveva aver nascosto una tanto discussa e poco confermata arma segreta. Se la conferma era da qualche parte, ragionò Remus, era in quell’attacco, nella maniera con cui i Mangiamorte stavano impedendo loro di scendere di quota.
Calò il silenzio, uno di quei veli dalla trama spessa e asfissiante. Era un silenzio sospeso, quello che sostava su una corda di violino un attimo prima che incontrasse il crine di cavallo di un archetto. Era un silenzio completo, quello che riempiva una stanza e lasciava così poco spazio per respirare che pareva di galleggiare nel cotone. Era un silenzio totalizzante, quello che si incontrava, magico, nell’occhio del ciclone.
Quattro figure ammantate scivolarono via dalla curva di una collina, la lavanda frusciò muta a ritmo coi loro vestiti.
Poi fu rumore.
Tutti attaccarono. Getti verdi e rossi e blu si mischiarono al giallo di scintille e mantelli turbinanti. Remus udì Alice gridare e scagliare un getto viola. Non aveva idea di cosa fosse ed era troppo occupato a schivare e attaccare per accertarsene dalle condizioni del suo avversario.
Era ingiusto, ovviamente. Lo era sempre. Erano in inferiorità numerica. Dieci contro cinque, per la precisione, ma il fatto era che il Signore Oscuro, in questa fase, puntava sul numero e non sulla qualità dei suoi guerrieri. Puntava a un esercito, a un mare di gente vestita e marchiata di nero, a dei sostenitori che lo vedessero come un dio, il simbolo della paura, la fine del mondo, qualunque cosa che emanasse potere e sembrasse forte abbastanza per ridisegnare il mondo magico.
E quindi dieci contro cinque non era impossibile.
Remus sorrise, poi tirò un incantesimo ad ampio raggio e stordì due dei suoi avversari. Agitò la bacchetta e attirò a sé le loro. Li guardò negli occhi quando le spezzò e gliele lanciò contro con una violenza di cui, da ragazzo, aveva sempre avuto paura.
“Lily, serve una mano?” domandò gettando un’occhiata nella sua direzione. Qualcosa nelle tenebre nel cielo preannunciava rinforzi. Non i loro, però.
“Ma ti pare? Ce la…”
Tutt’a un tratto, gli avversari rimasti in piedi indietreggiarono e si arrestarono a una distanza che faceva sembrare tutte quelle figure ammantate in piedi su una collina un rito di iniziazione, più che una battaglia. Nel tempo in cui i ragazzi si scambiarono occhiate confuse, un altro seguace si avvicinò lentamente a loro, affiancandosi agli altri.
Remus lanciò un’occhiata di sottecchi a James, perché lo sentì inspirare ed espirare profondamente. Capì cos’era perché gli entrò nelle vene e si diffuse come veleno fin sulla punta delle dita.
Era paura, nella sua forma più annichilente.
Non era un altro seguace. Non era neanche un seguace.
James attaccò.
Senza cerimonie, senza attendere tutte quelle stupide elucubrazioni che finivano sempre per costare la vita ai cattivi nei libri.
L’avversario respinse l’attacco come se fosse stato marmellata colata per errore sulla sua camicia pulita: sdegno e noncuranza si scontrarono e poi si fusero in un solo gesto elegante.
“Ci si inchina prima, ragazzo. Sapevo che la qualità dei vostri insegnamenti fosse drasticamente calata, ma non credevo che si fosse estesa anche alle buone maniere” parlò il Signore Oscuro.
James se ne infischiò, e questa volta anche Lily, Alice e Frank. Attaccarono tutti e quattro come guidati da un’intesa che Remus doveva essersi perso.
Prima che se ne rendesse conto, Remus stava di nuovo al centro di getti caleidoscopici e sibili che sussurravano solo morte e dolore. Non sapeva dove colpiva, mentalmente non teneva il passo, ma il suo corpo si muoveva per lui e non doveva governarlo.
“Andiamo, andiamo, andiamo” sussurrò in una preghiera a Sirius, Fabian e Gideon. Scartò di lato ed evitò per un pelo un impatto con un Mangiamorte che, per lo slancio a vuoto, cadde a terra e attaccò dal basso in tempo record.
Poi un’esplosione a valle attirò l’attenzione dei nemici. Remus gongolò per un attimo di inappropriato orgoglio, perché il piano era suo.
Lord Voldemort rivolse uno sguardo furioso ai suoi cinque avversari, poi si umettò le labbra secche con un gesto rapido della lingua.
Prima che i ragazzi dell’Ordine potessero attaccare, i Mangiamorte e il loro Signore si ritirarono, scomparsi nel nulla e rimpiazzati da aria carica ancora della loro magia.

Erano i primi giorni difficili di un’estate che stava per cedere il posto all’autunno. Quella breve battaglia nella Hope Valley, nel settembre del 1979, fu la terza e ultima volta che Lily e James e Frank e Alice combatterono contro Lord Voldemort, incontrando le condizioni di una profezia non ancora pronunciata. Poi i tempi si complicarono e l’Ordine adottò approcci più tattici.
Nel buio di una stanza in un cottage tra Manchester e Londra, dieci anni e un numero vertiginoso di cicatrici dopo, Remus si chiese egoisticamente cosa sarebbe successo se al posto di Lily o James avesse combattuto chiunque altro, quel giorno. Se un dolore a una caviglia, una ferita precedente, un’altra missione avessero potuto cambiare le loro vite o se avessero cambiato invece la profezia.
Quanto di quello che era accaduto era una scelta e quanto, invece, era destino?

***

Settembre, 1981

“Abbiamo poco tempo.”
Sirius si fece strada in casa di James e Lily con la mascella serrata. Abbandonò il cappotto sull’appendiabiti e si passò nervoso una mano tra i capelli.
“Non ce ne serve tanto in ogni caso” lo informò James. Aveva un’aria rilassata, ma a un occhio esperto non poteva sfuggire la rassegnazione.
Peter, seduto sul divano e dritto come un fuso, aveva tutto l’opposto di un’aria rilassata. Sirius lo guardò come se avesse voluto prendergli le misure, ma James sembrò non farci caso.
“Silente ci ha spiegato tutto, dobbiamo solo eseguire l’Incanto Fidelius e poi…”
E poi cosa? Ci salutiamo?
“Remus dov’è?” domandò Lily all’improvviso. Se ne stava appoggiata al ripiano della cucina come a supervisionare. Sembrava la versione terrificante e adulta delle loro dinamiche scolastiche.
“Non lo so.”
James scosse la testa. “Secondo me ti sbagli, dovrebbe essere qui, dovrebbe sapere.”
“Meno siamo e meglio è comunque, no?” ribatté Sirius, un velo di rabbia gli oscurava il tono.
“Io mi fido di tutti voi” confesso James, cercando il suo sguardo.
Sirius abbassò gli occhi, Lily si guardò i piedi. Nessuno vide il colorito abbandonare per sempre la faccia di Peter Minus.
“Sono felice di sentirtelo dire,” iniziò Sirius, teso. “Perché non sarò io il Custode Segreto.”
Lily soffocò una risata nel naso. “Non ti fidi neanche più di te stesso? Tu hai perso la testa, nell’ultimo anno.”
“Una volta capito dell’incantesimo non ci metteranno molto a fare il collegamento. Giochiamo d’astuzia. Possono farmi quello che vogliono, ma non possono arrivare a voi se si concentrano sul farmi parlare quando non sono io il Custode Segreto.”
James aggrottò la fronte. “Silente ha detto che il segreto non può essere estorto in ogni caso, che, se il Custode parlasse sotto tortura, non funzionerebbe.”
“Fidati di me, per una volta…”
“Mi sono sempre fidato di te, ma non ha senso!”
“Non conosciamo le loro armi, per quanto ne so potrebbero usare la Pozione Polisucco, diventare te e farmi parlare per sbaglio. Oppure un ricatto, un controincantesimo di cui non sappiamo niente, non ne ho la più pallida idea! Ma se il Custode Segreto è Peter…”
“IO?”
“Tutto questo non ha senso, tu…”
“Ha ragione” si intromise Lily, a braccia conserte. Allacciò lo sguardo a quello di Sirius e annuì lentamente. “Avete fatto esplodere fuochi d’artificio e Caccabombe per sette anni e la McGranitt quasi dimenticava ogni volta di punire anche Peter. È più sicuro per tutti. Ovviamente se anche lui è d’accordo…”
Tre paia d’occhi si posarono impazienti su Peter. Lui mormorò un’insensatezza, poi annuì e alzò lo sguardo in quello di James. “Va bene per me. È… è davvero meglio per tutti.”
Sirius annuì, pratico e nervoso come se fosse stato reduce da una maratona di caffeina. “Questo scambio resta tra noi quattro, non deve uscire da qui.”
James annuì, Sirius poteva vedere l’idea prendere forma anche nella sua testa e convincerlo di secondo in secondo.
“Allora io vado.” Sirius riprese il suo cappotto dall’appendiabiti e diede loro le spalle, mentre raggiungeva la porta. Si appoggiò con una mano alla maniglia e la tirò in basso, poi si voltò. “Ci vediamo dall’altra parte, ragazzi.” Sorrise si allontanò da Godric’s Hollow.
 
***

Ottobre, 1981
 
La fotografia era un po’ storta su un lato e dava l’impressione di stare su una barca. Pareva che le onde la trasportassero da un lato all’altro del muro e sembrava che qualcuno avesse scattato una fotografia di una fotografia conservata sottocoperta.
James guardò se stesso e i suoi amici cadere per la milionesima volta nel cortile della scuola. L’avevano scattata i primi di aprile del loro quinto anno, quando Sirius aveva deciso di modificare una macchina babbana e darle qualcosa di magico. James era stato entusiasta di quella foto. Era cresciuto tra scope volanti, aste di legno che mandavano scintille e coriandoli incandescenti, ma nulla gli era parso un miracolo quanto l’amicizia e la nascita di suo figlio. E quella fotografia era la prova della prima.
Quando la patina bianca che nascondeva la foto si era diradata, svelando loro quattro che cadevano sulla collina, a James per poco non era caduta la mandibola dalla sorpresa. Gli altri non l’avevano capito mica, che cosa significava!
Allora noi dall’esterno siamo così.
Si era guardato allo specchio tante volte, aveva guardato qualcuno dei suoi amici guardarsi allo specchio, ma c’era qualcosa di magico nel guardare i fili che lo legavano agli altri con tanta chiarezza.
James inclinò il viso su un lato, seguendo la direzione della fotografia storta, poi alzò un dito e la raddrizzò.
Lily spuntò alle sue spalle proprio in quel momento e gli poggiò una mano su una spalla. “Sei stanco?”
James rispose con un grugnito d’assenso, continuando a fissare la fotografia senza vederla, con la testa ancora storta.
“Mi sembra di impazzire” confidò lei. Aveva fatto scivolare la mano sul suo petto e aveva appoggiato il mento sulla spalla da cui aveva cominciato. James continuò a guardare dritto davanti a sé, da qualche parte in quello strappo temporale. “Vi adoro entrambi, dico sul serio. Ma non ricordo se la torta di mele l’abbiamo fatta ieri o un mese fa. Ho pulito due volte il piano cottura perché credevo di averlo fatto una settimana fa, l’ultima volta. Prima volevo mettermi a leggere, poi mi sono ricordata che il libro l’ho finito ieri.”
James annuì attraverso un sospiro.
“Ho finito le cose da raccontarti il terzo giorno. Quando vedo un uccello sul davanzale mi sembra di avere in mano un tesoro: qualcosa di cui parlare a cena. Conservo la storia tutto il giorno, me la ripeto in testa per renderla il più avvincente possibile, impaziente di venirtela a dire. Ti amo, ma se mi racconti di nuovo di quella volta in cui ti si è incastrato il caschetto rosa in testa mi butto giù.”
“Pensavo di avertela detta…”
“Solo un paio di volte” intercettò Lily, annuì sulla sua spalla. “Non è così.”
James non sorrise.
“E noi siamo qua, a guardare gli uccellini, sparare stelle filanti la domenica, leggere e cucinare torte di mele, in attesa che ci vengano a dire chi è il nuovo morto. Intanto il tempo passa tutto uguale e quelle foto ci ricordano che non era questa la vita che quei ragazzi immaginavano per loro, quando sognavano di lasciare la scuola.”
James dimenticò la contemplazione distratta della fotografia e rischiò uno sguardo preoccupato oltre la sua spalla. Di nuovo, non sorrise.
“Mi sembra di guardarci invecchiare prima del tempo, a volte.” Confessò Lily così, senza peso. James tornò a guardare la foto e arricciò il naso un paio di volte.
Quel genere di tristezza era diventato una costante. Da quando avevano iniziato a nascondersi e a fare sul serio a riguardo, da quando avevano salutato Peter, Sirius e tutto il contatto umano che non fosse reciproco, avevano iniziato ad avere quei momenti a distanze sempre più ravvicinate. All’inizio scappavano l’uno dall’altra, si proteggevano per non dover subire due volte lo stesso dolore, una volta avevano anche finito per urlarsi contro.
Poi avevano imparato ad aiutarsi.
“Facciamo una torta di carote? È una settimana che mi va.”
“Oggi è Halloween. Non volevi festeggiare?”
James annuì, sulle labbra un broncio ironico.
Lily ridacchiò. “Ti prometto che la facciamo domani, però.”
“Oh, Lily” lui si voltò finalmente a guardarla. La circondò con le braccia e alzò gli occhi al cielo. “Non vorrei stare chiuso in casa con nessun altro, credimi.”
Le lasciò un bacio veloce sulle labbra, poi si scostò.
“È ora della lezione di scopa di Harry.”
James fece per andare di sotto, ma Lily lo afferrò per un braccio. “Ha un anno. E questa casa non è un campo da quidditch.”
“Queste due cose già le so.” Lily sollevò le sopracciglia. James si diede un’occhiata attorno e poi si avvicinò, come se avesse voluto accertarsi di essere lontano da orecchie indiscrete. “Non possiamo rischiare che giochi come Sirius. Ne va del mio onore, Lily. Non sto scherzando, se mio figlio è una schiappa, io muoio.” Lily rise, il suono si diffuse alto e cristallino tra le mura di una casa invisibile. James sorrise di rimando. “Lily, non sto scherzando! Quindi adesso se vuoi scusarmi…” accennò con lo sguardo alla mano di lei ancora stretta attorno al suo polso.
Lily però smise di sorridere, rinsaldò la presa e lo guardò dritto negli occhi. “Stai bene?”
“Che vuoi dire?”
Lily spostò lo sguardo sulla fotografia appesa al muro solo una volta, poi tornò su di lui, un sopracciglio sollevato eloquentemente.
“Sì” e lo disse in tono quasi interrogativo, come se l’ipotesi di Lily fosse stata completamente infondata. Scrollò il braccio e riprese possesso del suo polso. “Sai cosa mi farebbe stare veramente bene? Una torta di carote.”
Lily gli sorrise. Era un sorriso che diceva, questa volta chiudo un occhio. Poi lo seguì di sotto, perché James, durante quelle lezioni, si limitava a spostare solo gli oggetti fragili da sopra le mensole e quindi Lily doveva occuparsi anche di quelli pesanti ma non fragili, visto che una volta avevano fatto cadere una padella sul gatto.
La padella non si era fatta male, il gatto neanche, a dire il vero, ma gliel’aveva fatta pagare con un broncio che era durato giorni.
 
Quando scese la sera, il contrasto tra il buio e le luci gialle della casa sapeva di decisione e accoglienza.
James si lasciò cadere accanto a sua moglie sul divano e sospirò rilassatissimo. Fece vagare una mano sul viso di suo figlio, in braccio a lei, e gli accarezzò una guancia, sbadigliando.
Le lezioni di volo erano sempre uno spasso per entrambi, ma James ne usciva zuppo di sudore e stanco morto.
Chiuse gli occhi per un attimo, la testa abbandonata sullo schienale imbottito. “Secondo te, dopo, dovrei continuare?” domandò a Lily, gli occhi chiusi contro la luce artificiale appesa al soffitto. Per un attimo desiderò di spegnerla e affidare l’illuminazione della stanza all’abat-jour, ma non aveva intenzione di alzarsi né di verbalizzare quel pensiero.
Sentì gli occhi di Lily su di sé, quando parlò. “Continuare cosa?”
“Il quidditch. Potrei studiare per diventare Auror, abilitarmi, giocare a quidditch a livello professionale e fare l’Auror a carriera finita.”
Schiuse un occhio solo per trovarsi davanti il sorriso di Lily. “Mi sembra un’ottima idea.”
James sorrise a sua volta. “Tu che vuoi fare dopo la guerra?”
Lo disse come se al posto di ‘guerra’ avesse potuto dire qualunque altra cosa. Tu che vuoi fare dopo cena? Che film vogliamo vedere al cinema? Quale camicia mi sta meglio, quella rossa o quella blu?
“Non ci ho pensato.”
“Non ne hai bisogno” James scrollò le spalle. “Con i tuoi voti non devi preoccuparti di non essere accettata da nessuna parte! Puoi fare letteralmente qualunque cosa, ti basta desiderarla.”
Lily gli sorrise. Il motivo stava da qualche parte fra l’imbarazzo e la naturalezza con cui James aveva parlato.
“Non c’è niente che desideri?”
A Lily sembrò assurdo. Parlavano di futuro quando si stavano nascondendo per assicurarsene uno. Parlavano di futuro come due bambini durante la merenda e intanto lei aveva un figlio tra le braccia e una fede al dito. “È che tutto quello che ho sempre sognato da piccola non ha mai tenuto conto della società magica. Quando sono arrivata a scuola, ho continuato a non immaginare concretamente null’altro di magico al di là dei suoi confini!”
“Non devi lavorare nella società magica, se non è quello che vuoi. Sei brillante più o meno in ogni mondo, Lily.”
“Però” lo sorprese lei, un sorriso furbo che si spandeva in viso, mentre si concedeva un sogno piccolo e innocuo, “c’è una cosa in particolare che non mi dispiacerebbe proprio tentare!”
James sollevò un sopracciglio. “Ah, sì? E cosa?”
Lily si strinse nelle spalle. “Te lo dico...” iniziò, sporgendosi in avanti e rubandogli un bacio sulle labbra. Lui registrò e tentò di ricambiare quando lei si era ormai già alzata in piedi, “dopo aver messo Harry a letto.”
James sorrise e chiuse nuovamente gli occhi. “Lily” chiamò, la voce impastata di quella sonnolenza tipica della confortevolezza, “hai visto la mia bacchetta?”
Lei si fermò a un passo dal primo gradino, alzando gli occhi al cielo per richiamare il ricordo alla mente. “No, non credo.”
Lo sentì sbuffare dal divano e fare per alzarsi.
“Se è per la luce, la spengo io” lo fermò, schiacciando un dito contro l’interruttore. Il salotto piombò nel buio, le luci della strada si infilavano a strisce, illuminando porzioni casuali della stanza.
“Sei un angelo” lo sentì mormorare, sprofondando nuovamente nei cuscini del divano. “Dopo torni qua e mi dici i tuoi progetti?”
Lily ridacchiò. “Sì” disse piano, e non fu certa che l’avesse sentita. 
Quindi si incamminò di sopra.
James chiuse gli occhi e si chiese se non fosse da sfigati crollare così sul divano. Non aveva in mente di passare la notte lì, gli sarebbero bastati solo cinque minuti per ricaricarsi. Ci si stancava molto più facilmente quando bisognava restar fermi in un posto ad aspettare.
I pensieri iniziarono a confondersi, a sovrapporsi a quelli vorticosi che precedevano i sogni. Dietro le palpebre, visualizzò una grossa porta in legno in mogano senza serratura. Avvicinandosi, scoprì che era intagliata. Ricami di legno stretti e bruschi si sovrapponevano e si avvolgevano su loro stessi, ma erano tutti ornamentali. Nessuno di quei tagli suggeriva la possibilità di una chiave da infilare, un meccanismo da attivare, un pomello da ruotare. James sentì bussare, all’altro capo della porta. Era un suono sempre più insistente, quasi violento.
Non sembrava che qualcuno volesse essere liberato, non sembrava una richiesta d’aiuto. Pareva che, dall’altra parte della porta, qualcuno volesse…
Aprì gli occhi di scatto.
La porta era falsa, il suono era vero.
Si alzò col cuore in gola.
“Lily” disse, il tono fermo perse consistenza ai bordi. Odiò sentirlo trasformarsi in quello di un animale in trappola. Si avviò verso l’ingresso senza pensarci due volte. Il cuore urlava che era un bambino venuto a fare dolcetto o scherzetto, la testa gli ricordava che non era possibile. Fu la passeggiata verso la porta più lunga della sua vita.
Fu anche l’ultima.
La porta si aprì con uno schianto nello stesso istante in cui lui si voltò indietro per gridare: “Lily, prendi Harry e corri! È lui. Vai, scappa! Io lo trattengo...”
La voce non sembrava la sua, la casa non sembrava la sua. Aveva paura, ma non per lui. Si portò una mano su un fianco e si riscoprì in pantaloni di tuta, senza tasche e senza bacchetta. Una sola emozione gli rovinò addosso con la potenza di un incantesimo di cui già sentiva il sapore. Non era frustrazione, non era impotenza o senso di colpa.
Era nostalgia.
Del cortile di scuola e del viso adulto di suo figlio. Della casa in cui era cresciuto e dei primi capelli bianchi di Lily.
Guardò Lord Voldemort nei suoi occhi rossi e pensò che suo figlio sarebbe morto, che Lily sarebbe morta. Indietreggiò e sperò che fossero scappati. Forse sarebbe potuto arrivare alla sua bacchetta in tempo, forse avrebbe potuto seguire Lily e Harry all’esterno, nell’aria fredda di fine ottobre. Non importava che avesse già la punta della bacchetta del suo avversario puntata contro, non importava che questi avesse già separato le labbra, sull’orlo di una parola.
Poteva fare tutto, no? Lui era invincibile.
Poteva seguirli all’esterno. Non avrebbe dovuto dare retta a Sirius. Puzza di foglie secche. Riesco ad arrivare alla bacchetta. Ci riesco di sicuro. Voleva seguirli fuori. Lo voleva con ogni fibra del suo corpo. Cosa avrebbe voluto fare Lily in futuro? Non glielo aveva detto. Avrebbe voluto alzare le mani, chiamare un time out, come se fosse stato un gioco. Avrebbe potuto provare. Forse la guerra era falsa. Sfido, pensò, avanti, fallo. Era come il quidditch? Se cadeva potevano fermare il gioco. Non si poteva veramente morire. Ma poi così? Così come un idiota? Scrollò una mano, invano. D’altronde, non era mai stato bravo con gli incantesimi senza bacchetta. Voleva seguire Harry e Lily all’esterno. Attraverso la porta aperta riusciva a percepire l’aria fredda di ottobre entrare a ondate, la stessa aria che avrebbe potuto respirare se posse riuscito a…
Si fermò, smise di indietreggiare e udì il sibilo dell’espirazione. Scoprì che il Signore Oscuro era già a metà formula, una striscia verde scalpitava alla fine della sua bacchetta.
Non era mai stato un vigliacco e non lo sarebbe stato allora.
Lo guardò e respirò profondamente per l’ultima volta. Era un padre, era un figlio, era un marito, era un amico, era diplomato, era un adulto, ma la sua espressione non doveva tradire più di undici anni.
 
“È libero qui?” domandò un ragazzino, infilando la testa nello scompartimento.
Il treno sbuffò incalzante e James non consultò la passeggera che viaggiava con lui e annuì stringendosi nelle spalle. Gli aveva detto che si chiamava Lily e poi si era stropicciata gli occhi e aveva smesso di parlare.
Il ragazzo entrò senza aggiungere altro, un sorriso sbrigativo poggiato sulle labbra. Si diede un’occhiata alle spalle e chiuse la porta della cabina come se avesse scongiurato così l’attacco di un Molliccio.
James lo guardò sedersi di fronte a lui e inspirare pesantemente tra i denti. Si guardò attorno, passando velocemente in rassegna con lo sguardo la ragazzina dai capelli rossi e l’arredamento scarno dello scompartimento, poi si concentrò su di lui. “Sirius Black,” disse, piazzando una mano sotto il suo naso.
“Black?” disse James, sollevando un sopracciglio e fermandosi con il palmo a un passo dal suo. Il cognome gli ricordava qualcosa. “Sei ricco?”
Sirius fece una smorfia, poi annuì piano. “Diciamo così” disse poi, uno sguardo di ghiaccio lo sfidò a stringere quella mano e farla finita una volta per tutte. James pensò che i suoi occhi potessero pietrificarlo, ucciderlo sul posto, leggergli l’anima e i segreti. Faceva un po’ paura, ma qualcosa nel suo petto gli fece desiderare di piacergli.
“James Potter” disse, accettando la mano, “perché sei qui?”
Il viso di Sirius si aprì in un sorriso. “Sto scappando” confessò, con aria di modesta noncuranza.
James si limitò a sorridergli, poi il treno sbuffò ancora un paio di volte, la sirena trillò e i ragazzi si misero in viaggio, lasciandosi cullare dallo sferragliare costante delle ruote sui binari.
Dopo solo qualche minuto di campagna sconfinata, cieli azzurri e nuvole di zucchero filato, un ragazzino dai capelli scuri quasi quanto i suoi ma non altrettanto puliti, infilò la testa nella loro cabina. Senza dire una parola, fece scorrere la porta quel tanto che bastava per farsi largo nel loro scompartimento e si lasciò cadere senza troppe cerimonie nel sedile accanto a quello di James.
“Non voglio parlare con te” sussurrò la ragazzina con i capelli rossi seduta di fronte a loro. James si rese conto solo in quel momento che aveva pianto. Lanciò un’occhiata di sottecchi al ragazzo seduto accanto a lui, come se fosse stato responsabile dell’umore di Lily.
“Perché?” domandò quello, mantenendo la voce bassa come se la cabina fosse stata grande abbastanza da nascondere le sue parole agli altri passeggeri.
James e Sirius si scambiarono un’occhiata curiosa.
“Tunia mi… mi odia perché abbiamo aperto la lettera di Silente.”
“E allora?”
“Allora è mia sorella!” sbottò lei, alzando la voce.
“È solo una…” il ragazzo si strinse nelle spalle. Per un attimo James temette che gli scivolassero dei pidocchi via dai capelli. C’era qualcosa in lui che non gli piaceva proprio. La voce forse, oppure l’atteggiamento, il modo in cui parlava a Lily. Magari il solo fatto che avesse qualcosa di cui parlare con lei. “Ma ci stiamo andando!” esclamò poi. A James non piacque neanche il suo sorriso. “Ci siamo. Stiamo andando a Hogwarts!”
Era un’osservazione parecchio stupida da fare, secondo il suo modesto parere, quindi James alzò un sopracciglio e colse lo sguardo di Sirius, abbozzando un sorriso.
“Speriamo che tu sia una Serpeverde.”
James non resse un attimo di più. “Serpeverde?” domandò, voltandosi finalmente verso di loro. “Chi vuole diventare un Serpeverde? Io credo che lascerei la scuola, e tu?”
Sirius, che fino a quel momento non aveva fatto altro che scambiare sguardi divertiti con lui, si strinse nelle spalle come se la cosa gli importasse ben poco. A James piaceva quell’aria disinvolta che lo portava a sedersi come se più che prendere posto si stesse stravaccando, ma c’era qualcosa nella sua postura rilassata che non quadrava. “Tutta la mia famiglia è stata in Serpeverde.”
“Oh, cavolo” commentò James. “E dire che mi sembravi uno a posto!”
“Forse io andrò contro la tradizione” Sirius scrollò le spalle. Era più o meno la duecentoventinovesima volta che lo faceva. “Dove vorresti finire, se potessi scegliere?”
James levò una spada immaginaria, un gesto plateale che non aveva provato mille volte allo specchio, ma che aveva sperato di avere l’occasione di fare. “Grifondoro, culla dei coraggiosi di cuore! Come mio padre.”
Il ragazzo seduto accanto a James fece un suono a metà tra uno sbuffo e una risata.
“Qualcosa che non va?”
“No,” rispose quello. James pensò che se gli avesse aperto la testa e avesse saltato sui suoi nervi, gli avrebbe dato meno fastidio. “Se preferisci i muscoli al cervello…”
“E tu dove speri di finire, visto che non hai nessuno dei due?” intervenne Sirius. James sperò vivamente che diventassero amici. Gli venne naturale scoppiare a ridere.
“Andiamo, Severus, cerchiamo un altro scompartimento” mormorò disgustata Lily, alzandosi. 
James ebbe il tempo di gridare loro un ‘ci si vede, Mocciosus’ dietro, prima che sparissero nel corridoio del treno.
I ragazzi rimasti si guardarono per un attimo solo, prima di scoppiare a ridere.
E, proprio così, la miccia prese fuoco.
Qualche anno dopo, Sirius aveva detto a James che crescere era una cosa da vecchi, e che loro invece avrebbero dovuto spassarsela. 
Crescere era una faccenda complessa. Qualunque cosa ci fosse alla fine di quella strada, fin da quando si iniziava a percorrerla si sapeva una sola cosa: il percorso era costellato di errori. Commetti i più gravi, e potresti non giungere mai alla meta. Ci si trovava spesso a chiedersi come riconoscere questi inevitabili errori, tutti questi equivoci, fallimenti, parole e gesti ammassati a formare un ostacolo.
La soluzione al dilemma era ovvia, un trucco vecchio quanto il mondo, la risposta che rendeva così ostica la matematica: più la soluzione era semplice, meno la vedevi.
Per riconoscere un errore bisognava assaggiare un successo.
Se esistevano successi, nel percorso che portò James Potter a morire a metà di un pensiero la notte di Halloween del 1981, il primo fu Sirius Black.
Rise con lui su quel treno e fu aderenza.
Era il primo di un’infinità di lucchetti che si chiudeva, la chiave in una toppa, il pezzo del puzzle mancante, una scintilla che si accendeva sul finire di una stella filante. Era un’esplosione, ma sommessa. Era una domanda, resa certezza.
L’amore a prima vista esiste, solo che nessuno pensa mai di pubblicizzarlo in tutte le sue declinazioni. Di queste, l’amicizia è la più fraintesa. 
James era salito su quel treno entusiasta ed era stato pure fortunato. Non aveva mai avuto un amico, fino a quel momento, ma non c’era bisogno di esperienza per capire certe cose. L’intesa era una cosa inspiegabile. Una sorta di condanna, un legame che si stringeva al collo e tirava fino a non poter far altro che accettarla e, in fondo, godersela dal primo istante.
La porta dello scompartimento scivolò sui suoi binari ancora una volta. Un ragazzino che doveva certamente avere undici anni, ma sembrava averne insieme molti molti di meno e molti molti di più, si congelò sul posto. “Credo di aver sbagliato cabina…” mormorò, tirando la testa all’indietro come per guardare quelle adiacenti e cercare la sua. James ebbe modo di notare una cicatrice che partiva dalla base della mandibola e scendeva in un percorso irregolare, infilandosi sotto il colletto della camicia già appuntata.
“Credo di sì” confermò Sirius.
Il ragazzino tornò a guardarli e dovette leggere qualcosa di brutto nei loro occhi, perché abbassò la testa di scatto, a disagio. “Sì, scusate” mosse un passo indietro, e fece di nuovo scorrere la porta finché non si chiuse.
“Come diamine ha fatto a sbagliare? È l’ultima cabina del treno.”
James si strinse nelle spalle. “Forse è pazzo. Mi sembrava avere qualcosa che non andava.”
“Puoi dirlo forte. Io con uno così preferirei non avere a che fare.”
James annuì e lasciò cadere lo sguardo per un attimo sul paesaggio che scorreva oltre la finestra. “Ehi, vuoi una Cioccorana?” domandò a Sirius, infilandosi una mano in tasca per tirarne già fuori due.
Sirius sorrise e annuì deciso.
“Se esce Gunhilda di Gorsemoor però me la dai? Mi manca.”

***
 
La felicità è una cosa molto più complessa di quanto si legga sul volto di un bambino che ha appena imparato a sorridere, è molto più insidiosa, è molto più rischiosa. È quel tipo di forza impetuosa, meravigliosa e terribile come un’onda e discreta come la specie d’uccello che gli ornitologi ancora non hanno scovato.
C’è chi si diletta a stanarla, chi l’ha trovata e convive oggi col rischio di perderla.
Se si aguzzavano le orecchie, alcuni muri a Hogwarts erano disponibili per raccontar storie. Non era vero, naturalmente, erano impressioni, tracce e orme che non avevano niente a che fare con la magia.
Erano ricordi.
Figli di un tempo che sapeva di essere stato inclemente e che cercava di farsi perdonare come meglio poteva.
Teneva in vita spettri e fantasmi, ricordi di quello che avevano vissuto, mentre continuavano a gridare nei corridoi ormai distrutti che loro erano stati lì, che avevano fatto la storia. Che lì avevano riso, che avevano sussurrato. Avevano percepito così finemente da poterci affilare sopra un coltello, avevano pagato ricordi e scambiato esperienze, ignari di un mondo che alla fine li avrebbe piegati.
Era un mondo che avevano avuto in pugno, che avevano creduto di avere in pugno, mentre questo si dispiegava alle loro spalle in tutta la sua disarmante crudeltà. Era un mondo disonesto, a cui non avevano fatto proprio niente per essere destinati a tanto dolore, se non sostare sull’orlo.
Anche se le cose a volte non andavano come programmato, c’era sempre spazio per non sprecare neanche un attimo, appropriarsene invece e strapparlo alle lancette.
Stava tutto nel trovare un modo per poter dire, alla fine, di aver vissuto. Anche e soprattutto, mentre ci si lasciava il mondo alle spalle.








 
Notl: Diventerò via via più sentimentale in queste note, è inevitabile.
RAGAZZI, questo capitolo è stato difficilissimo da scrivere, pensare, MA SOPRATTUTTO correggere e mettere qua. Non mi lamento, però, non mi aspettavo nulla di diverso. Quando ho finito di scrivere questa storia, un paio di giorni fa, ero abbastanza tranquilla, ma ora che la vedo finire veramente ammetto di sentirmi un po' mancare la terra sotto i piedi. MA NON SIAMO QUI PER PARLARE DI ME.
Allora gente io questa volta non so bene che dire, ci sto troppo dentro, mi sembra tutto piatto e senza emozione ma mi sembra il minimo dopo aver letto e riletto 'sta roba duecento volte, quindi non sarò io a giudicare. Il capitolo è pieno di easter eggs, robe del passato, e fatti simili perché io non mi so proprio mantenere, se li trovate tutti non lo so vi posso dire 'bravi' di più non posso fare, però se mai dovessimo vederci vi darò una bella cosa, non lo so, una barretta kinder tipo.
Enough, non so che dire, se non mi fermo adesso divento un fiume in piena. QUINDI vorrei finire la storia entro settembre (così, personal goal), quindi ci vediamo con un epiloghino, un fatteriello per cui vorrete picchiarmi, tra sette giorni, il 30, se non finisce il mondo prima.
A questo punto io vi ringrazio dal profondo del cuore per essere arrivati alla fine e se pensate che le note del prossimo capitolo saranno così brevi siete dei poveri illusi.
Ma sul serio, grazie :')

El.

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 34 - Mappa ***


34. Mappa

 






Aprile, 2001

Harry Potter aggrotta la fronte e scosta la polvere dalla pila di libri che non ha mai notato. Occuparsi delle cose dei morti è un compito che spetta a chi è cosciente di non star violando alcun divieto.
Con un sospiro si siede a terra e soffia via altra polvere dal primo volume.
Poi ne esamina uno dopo l’altro, lentamente, dividendoli in tre sezioni: quelli troppo rovinati per essere letti, quelli da tenere per sé, quelli da dare a Teddy.
Afferra quella che potrebbe essere una copia di ‘le notti bianche’ di Dostoevskij. È difficile dirlo, perché il titolo è praticamente illeggibile, consumato da dita e tempo. Lo lancia nella pila di quelli da buttare, ma l’occhio gli cade su un angolo di pergamena, stretto e dimenticato tra le pagine. Sfoglia il libro per liberarlo e incontra parole stampate che si mischiano inaspettatamente a inchiostro e commenti sciolti e sbiaditi da macchie di caffè, acqua, forse lacrime. Alla fine, Harry si trova tra le mani l’involucro intatto di una lettera. La carta sembra essere molto più giovane del libro che la ospita.
Voltandola, sgrana gli occhi e registra distrattamente la sua bocca spalancarsi:

A Harry James Potter, ovunque tu sia.

Senza pensarci due volte – e perché dovrebbe? La lettera è sua – Harry rompe il sigillo e si ritrova in mano due pezzi di carta piegati più volte. Afferra quello che recita: Leggimi e apre la prima lettera con mani tremanti.
 
La morte sa di sale.
A dire il vero non lo so per esperienza diretta, ma mi ci sono avvicinato spesso e so con certezza che ha quel sapore. Me lo aspetto, lo vedo arrivare. Credevo fosse colpa delle lacrime, ma non ho sentito la morte ogni volta che ne ho versate, è un sapore più aspro, non saprei spiegarlo.
Qualcuno dice che la morte puzzi di gomma.
Non mi è mai capitato di sentirne l’odore, a essere sinceri, però forse puzza più di pioggia, di panni bagnati intrisi di fango. Forse ho solo visitato troppe bare.
Che sotto le mani sembri sabbia è praticamente una certezza. Hai presente quella sensazione infinita di soddisfazione, quando hai corso tanto verso una meta precisa e finalmente afferri il tuo trofeo? La morte sa di quella decadenza amara, della vittoria che ti si scioglie così, tra le mani. Che come sabbia ti passa tra le dita e ti ritrovi all’improvviso con niente in mano dopo un’immensa fatica. Non so se sia ironico, in un certo senso, ma è proprio dopo aver vinto che, tempo qualche attimo, e ho conosciuto quella sabbia. La morte ha certamente questa consistenza fuggevole. Ci metterei la mano sul fuoco.
Che la morte abbia l’aspetto di una signora con la falce non direi affatto. Forse un uomo, alto ma incurvato, forse solo il volto del tuo carnefice, forse una luce o una nube di gas, forse è solo un velo. Di una cosa sono certo: la vedi senza dubbio arrivare.
Se c’è una percezione che proprio non le sono riuscito a dare direi che è il suo suono, sarebbe bello se cantasse, non c’è dubbio, ma renderebbe tutto più nostalgico, aumenterebbe il nodo che ho in petto. E poi non spiegherebbe la serenità sui volti di chi muore. Forse urla e basta, forse ti fa arrabbiare perché tu non ti accorga che sta succedendo, forse ha il suono di un incantesimo, forse di uno sparo.
So che vorresti non pensare a tutto questo, te lo dovresti lasciare alle spalle, ma ci sono tante cose che non sai e che nessuno ha mai conosciuto così a fondo per poterne parlare.
Questa è una bella storia, una bella storia che è finita male.
Una sola cosa, però, mi sento di dirti:
Io non ho rimpianti.
Spero che quando leggerai queste parole sarà tutto finito. Spero che riuscirai a provare sollievo, in qualche modo, lo spero per te, dico davvero. 
Perché certe cose, anche se ti spezzano l’anima, finiscono in qualche modo per avere una loro funzionalità.
Sono sicuro che avrai appreso i più importanti valori che un essere umano possa seguire e rispettare. C’è chi li comprende solo in punto di morte, ma, vedi, sono pochi quelli che ci riescono in tempo per farsi cambiare.
Io provo un enorme rispetto per quelle persone, lo so perché ho avuto la possibilità di conoscerne qualcuna e mi sono reso conto solo nel punto di morte di un altro che c’era qualcosa di più, oltre alla vista oltre il mio naso.
Spero che lo capirò anch’io quando arriverà il momento, perché non ci sono riuscito quando ero in tempo per cambiare.
Spero con tutto me stesso che, quando leggerai queste parole, ti potrai rendere conto che hai in mano un tesoro, anche se sei circondato da vetri rotti.
Ti chiedo espressamente di non mollare, anche se sei stanco, perché mi fido ciecamente di te e ne ho conosciuto solo un altro col tuo fegato. Altri due, a dire il vero. Mi è sembrato assurdo vedere che c’era rimasto ancora qualcuno con certe qualità, ma loro erano lì, davanti a me, a dimostrarmelo sempre. 
Spero soprattutto che tu non ne abbia già pianti troppi.
E prego, anche dalla terra, che tu non abbia rimpianti.
È una storia strana, perché ci siamo sempre spalleggiati, noi, e io non ho mai saputo perché il mondo sia stato tanto aspro da darmi in mano quel regalo così grande, solo per il gusto di strapparmelo.
Ci ho pensato spesso e sai che ti dico?
Non ci ho mai trovato alcun disegno, neanche una linea tratteggiata a indicarmi dove cercare.
Ti ho detto che non ho rimpianti, ma credo di averti mentito come il più furbo dei bugiardi. Chi si metterebbe mai a discutere la parola di un morto? Per forza mi avresti creduto, ma mi rendo conto di non voler morire da bugiardo.
Non ho abbastanza dita per contare i miei rimpianti. È questa la verità.
Ci siamo trovati sotto un cielo – certo, era simulato, ma questo conta poco – e ti avrei raccontato la storia più bella del mondo, quella che nessuno si prende mai la briga di raccontare perché la tranquillità e la pace forse non fanno la fama. Peccato che al crescere della gioia cresceva la più complessa e particolare delle emozioni: la fiducia.
Questa storia è tragica e il mio più grande rimpianto resta quello di averci creduto.
È un mondo crudele, credo tu sia stato il primo ad averlo capito ed è per questa ragione che spero, con tutto il cuore, che tu della tragedia ne abbia avuto abbastanza.
Forse, semplicemente, per noi non c’era speranza.
Un’altra cosa che spero con tutto me stesso di poterti ancora insegnare è proprio a non aspettare troppo.
Tempi infiniti colmi di trepidazione, che si allungano a dismisura, mentre rovisti negli scomparti più interni del tuo petto, in cerca di una scintilla, una sola, che sappia darti il fegato di buttarti a capofitto proprio quando tutto, attorno a te, ti grida di lasciar perdere, che è un salto troppo lungo per uno come te.
Spero vivamente che tu sappia distinguere se a bloccarti sia la logica o la più irrazionale delle paure: quella di fallire.
Avessi avuto un anno in più, uno solo, sparso tra gli altri sette su scala così vasta da darmi solo dieci minuti al giorno, l’avrei usato per non aspettare. L’avrei usato per meditare e rendermi conto che l’imbarazzo di un attimo non pesa addosso quanto il rimpianto di una vita. E forse due anni fa avrei agito.
È che quando si ha il tempo ci si sente invincibili, addirittura inattaccabili, duri come roccia e inamovibili.
È allora che basta un soffio di vento, anche impercettibile, per rompere ogni equilibrio e vedere le sconfitte, gli attacchi e ciò che si può perdere.
Ti scrivo questa lettera perché voglio ringraziarti. Perché ho avuto la fortuna di conoscerti e di vederti cresciuto, ma anche perché ho ricordato a tutti, spesso, di non scambiarti per tuo padre ed è ironico che alla fine sia stato tu a rimproverarmi e a chiedermi di non scappare, facendomi assaggiare un’altra fetta di felicità.
Ho sempre disprezzato i cliché e le storie prevedibili, eppure eccomi a dirti che, se stai leggendo queste parole, è perché sono morto. Ho sempre trovato che fosse un frase un po’ macabra e non così affascinante, ma in questo caso è così che stanno le cose.
Nel mio periodo a Hogwarts ho conosciuto tre ragazzi che mi hanno cresciuto e con cui ho condiviso tutto. Questa storia d’altronde non ti è nuova. Mi piace pensare che ci sia un posto, fuori dalla logica e i calcoli, in cui quei momenti sono congelati o si verificano in continuazione. Un posto in cui non sono ancora stati elaborati piani meschini ed equivoci e dissapori. Mi piace pensare che, se stai leggendo queste parole, è perché adesso io sono in quel posto.
Per questo, se qualcuno fosse corso ad avvertirmi, quando a undici anni ho incrociato i loro sguardi, credimi, oggi sarei comunque qui, a contare gli stessi errori.
Quello che nessuno sa, Harry, è che Lunastorta, Codaliscia, Felpato e Ramoso sono morti tutti la stessa notte, il 31 ottobre del 1981, ammazzati da un mondo che non era pronto a lasciarsi rovesciare dalle loro mani arroganti, un mondo che aveva morso prima che potessero farlo loro. Quello che rimane è storia, frammenti, respiri rubati alla morte.
Ma io sono grato, Harry, oltre ogni misura, per aver preso quei frammenti e averne fatto un uomo, un marito e poi un padre. So che chiedo troppo, ma dai un occhio a mio figlio per me, che non si metta nei guai.
Non ho molto da lasciarti, se non un ultimo insegnamento:
C’è tanto oltre quello che conosci, un mondo che hai il tempo di esplorare, perché so che leggerai queste parole, perché so che vincerai questa guerra.
Nella vita ho fatto poche cose buone, ma la prima è stata una mappa. Te ne propongo un’altra adesso. Non quella della scuola, una un po’ più grande. La troverai nella busta, assieme a questa lettera. Ho cerchiato con un pennarello rosso dieci zone sulla Terra. Sono un sogno, avventure quiescenti dei due peggiori criminali che Hogwarts abbia mai ospitato (e sai bene che il Signore Oscuro in persona ha varcato quelle soglie). Era il loro scherzo più scenografico: quello che non hanno mai fatto.
Mi scuso per quelle dal clima così rigido, ma non ero lì a supervisionarli, la notte in cui li scelsero. Cerchiane altre, esplora il mondo.
Noi saremo con te, in ogni passo.
Hai passato abbastanza guai per una vita intera.
E c’è molto di più.
 
Lunastorta
1 maggio, 1998



 
FINE




 

Note di El: Come si inizia a finire? Questa è la storia più lunga e complessa che abbia mai scritto nella mia vita. Generalmente a metà di una long mi scoccio, perdo interesse e la finisco solo perché non voglio sentirmi in colpa ogni volta che la vedo. Ho avuto paura mille volte di trovarmi nella stessa situazione con questa e invece siamo rimaste amiche fino all’ultima parola. Ho scritto gli ultimi capitoli gustandomeli, perché sapevo che avrei potuto riempirmi la testa plottando seguiti folli, capitoli speciali e storie parallele, ma questa stava finendo ed era un punto (che non ho messo ahah) che sarebbe stato definitivo.
Ho iniziato a scrivere i primi capitoli tra marzo e aprile del 2020, che penso sia stato il momento produttivo della maggior parte di quei folli pazzi malati che prendono un computer (o un quaderno, se sono ancora più folli pazzi) e pensano bene di passare ore a delirare parole. Venivo da un momento complicato della mia vita e quel congelamento mondiale completo mi ha fatto dimenticare anche gli strumenti per riconoscere di stare male. Non voglio dire che questa storia mi ha salvata, perché è un tipo di sentimentalismo che non mi appartiene e che non sono neanche sicura di poter usare in questo caso. MA era effettivamente l’unica cosa che avessi la forza di fare. E avere la forza di fare qualcosa implica anche la voglia di fare qualcosa. Quindi questa storia non mi ha salvata, ma alla brutta domanda: “provi ancora interesse per qualcosa?” mi ha impedito di rispondere no.
OK DETTO QUESTO:
Se state per cercare disperatamente i capitoli in cui avete letto i pezzi di lettera vi aiuto io e sono 1, mura, 5, percorsi e 12, catena di eventi.
Questo coso doveva essere una mini-long di 10 capitoli brevi. Bene. I contaparole di Nocturne Alley e ao3 non mi aiutano, ma avete letto tra le 220.000 e le 230.000 parole, non so neanche visivamente a quante pagine di libro corrispondano ma so che sono tantissime. Per questa ragione, un grazie enorme a Ran, che più di un anno fa ha condiviso con me lo sclero fuori misura per gli sconfitti della saga e mi disse “VAI SCRIVILA” e a Kodama_ per avermi iniziato a dire che non stava nella pelle prima ancora che decidessi quando iniziare a postarla e che è rimasta davvero fino alla fine, ascoltandomi quando mi stressavo per questioni che non ricordo neanche più e consigliandomi quando non sapevo cosa fare. Un grazie immenso anche a tutti quelli che nel tempo hanno lasciato un commento, un’aggiunta in una lista (VI VEDOH) e un grazie ancora più grande anche a chi sta leggendo questo pippone allucinante ed è arrivato alla fine senza mai farsi vedere/sentire. Non “vi vedoh” ma “vi immaginoh” e non mi dovete niente neanche ora, spero solo che vi siate divertiti <3
Va bene bbbbelli (LA VOCE DELLA TARTARUGA DI NEMO, RAGAZZI) veramente grazie, non sto piangendo perchè altrimenti non vedo cosa scrivo però grazie a tutti, per saluti e chiacchiere ho un profilo facebook (Elena Wander, è linkato su quello di efp, sopra la bio)
Grazie a tutti e a presto (dico davvero)!

El.

AH ASPETTATE QUA, DIMENTICAVO, quando mi andrà revisionerò i primi capitoli. In un anno il mio stile non ha subito nessun cambiamento radicale, ma ci sono delle piccole differenze che mi disturbano un sacco. Quindi prima o poi potrebbe spuntare un fatto nell’introduzione tipo “REVISIONATA”. In generale, penso che non sarà cambiato proprio niente di visibile.

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