Do you want to know what lies behind the mask

di LilithGrace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Intro ***
Capitolo 2: *** Cap I ***
Capitolo 3: *** Cap II ***
Capitolo 4: *** Cap III ***
Capitolo 5: *** Cap IV ***
Capitolo 6: *** Cap V ***
Capitolo 7: *** Cap VI ***
Capitolo 8: *** Cap VII ***
Capitolo 9: *** Cap VIII ***
Capitolo 10: *** Cap IX ***
Capitolo 11: *** Cap X ***
Capitolo 12: *** Cap XI ***
Capitolo 13: *** Cap XII parte I ***
Capitolo 14: *** Cap XII parte II ***
Capitolo 15: *** Cap XIII ***
Capitolo 16: *** Cap XIV - E X T R A ***



Capitolo 1
*** Intro ***


Ciao a tutti!
Ho ambientato questa ff durante i l’arco narrativo del ritorno di Jason Todd a Gotham City.
Non mi sono basata solo sul fumetto “Under the Hood” o solo sul film “Under the Red Hood”, bensì ho fatto un mix tra i due, prendendomi anche qualche piccola ‘licenza poetica’. XD
Nel corso della storia ci saranno anche riferimenti alla miniserie “Lost Days” che parla di come Jason ha affrontato il periodo che intercorre tra la sua resurrezione e il suo ritorno a Gotham (ovviamente sarà segnalato).

Vorrei spendere due parole sul mio OC: per il personaggio di Grace Lilywhite mi sono ispirata a Major Lilywhite, della serie tv “iZombie”. Come lui, infatti, la mia Grace è un assistente sociale che farebbe di tutto pur di difendere e proteggere i ragazzi di cui si occupa. Ho deciso di mantenere il cognome di Major poiché la sua traduzione (azzardata) è “giglio bianco” e rivedo il mio pg nel significato simbolico del giglio bianco (tra i vari significati, mi sono soffermata in particolare sui significati di purezza, lealtà e amore che ritroverete nei suoi gesti e comportamenti); è una ragazza introversa, impulsiva e determinata, ma anche profondamente ferita cosa che spesso la porterà ad avere delle vere e proprie crisi, arrivando anche a dubitare di sé e delle sue capacità.

Spero che questo “esperimento” possa essere di vostro gradimento e chiedo scusa a chi è molto più esperto di me in fumetti e universo DC, essendo che per me è ancora tutto da scoprire.
Jason è il mio personaggio preferito quindi mi sono concentrata un po’ di più su di lui e la sua storia (perdonatemi eventuali errori). ^^”

Le critiche, ovviamente, sono ben accette purché siano costruttive <3
Basta chiacchiere e vi lascio alla lettura di questo primo capitolo.
Grace ^^

***

L’età adolescenziale è quel momento della vita in cui si transita dall’essere bambino, all’essere adulto. È in quell’età che si iniziano a fare le prime esperienze, le prime vere scelte importanti.
È durante l’adolescenza che si inizia a fare i conti con una realtà che non sempre è rose e fiori: i primi amori, le prime delusioni. Si inizia a prendere consapevolezza della morte, ci si comincia ad interrogare su cosa ci sia dopo di essa e si inizia a combattere con un macigno tanto astratto quanto pesante: il lutto.
Il lutto è uno di quegli eventi che ti tormenterà per sempre e che, nonostante si possa provare ad elaborare, non riuscirai mai a lasciartelo alle spalle… piuttosto impari a conviverci.        


Ho conosciuto il mio primo amore, all’età di quindici anni. Il suo nome era Jason.
La sua perdita per me è stata una bella botta ed ancora oggi, dopo cinque anni, difficile da accettare.
I miei, per aiutarmi, mi consigliarono di vedere uno specialista, ma mi sono sempre rifiutata… volevo rimanere chiusa in me stessa perché odiavo l’idea di qualcuno che potesse scavarmi nel profondo, mi faceva sentire vulnerabile.
L’unico aiuto valido è stato quello di JayJay, il mio cagnolone: a furia di parlargliene, ho imparato a convivere con il suo ricordo.

Ormai sono una ragazza indipendente, vivo in un piccolo appartamento nel centro di Gotham.
Lavoro come tirocinante presso una struttura di recupero per ragazzi definiti banalmente dalla società difficili: ragazzi che hanno intrapreso la strada della tossicodipendenza, ragazzi che hanno frequentato compagnie sbagliate… io? Io li ascolto, li rassicuro, li sprono a migliorarsi.

In particolare, ho legato con una ragazza di nome Judith, con cui ho instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia; scoperta la sua tossicodipendenza, la famiglia l’ha completamente abbandonata a sé stessa. Io sono l’unica persona su cui può contare.
È stata lei a parlarmi la prima volta di un certo Red Hood, presentandomelo come nuovo super criminale della città, colui che aveva preso il comando sui giri di droga e armi di Black Mask.
Era pulita da quattordici mesi e il fatto che fosse così informata su questo nuovo giro di droga mi aveva fatto nascere il sospetto che si fosse cacciata nuovamente nei pasticci.



°°°
 
“Posso parlare con il vostro capo?”
Nessuna risposta, ma solo un doloroso strattonamento all’interno di una sala, mani saldamente legate dietro la schiena ed una bellissima pistola puntata alla tempia.
Questo atteggiamento impulsivo non si addiceva ad una ragazza di vent’anni che si occupava di tenere i ragazzi fuori dai guai.


Tutto era confuso nella mia testa, iniziai a ripercorrere tutti i momenti che mi avevano portato a compiere quel gesto: Judith, la sua tossico dipendenza, la paura che fosse tornata a drogarsi, la paura di aver fallito di nuovo.  
I miei pensieri furono interrotti da un rumore di passi, passi leggeri nonostante la massa notevole, giacca da motociclista e un elmetto rosso.
“A cosa devo la sua visita?”, mi chiese con tono piuttosto tranquillo.
“Preferirei parlarne in privato senza la presenza dei suoi uomini. Può perquisirmi, non troverà microfoni, cimici, armi né registratori. Sono venuta di mia volontà e per di più sono sola”. Con un cenno fece uscire il suo sottoposto. Mi schiarii la voce: “So che probabilmente non gliene fregherà nulla, ma ci provo lo stesso tanto non ho nulla da perdere a parte la vita. So da fonti molto vicine a me che governa il traffico di droga di Gotham… sa’, lavoro in un centro frequentato da ragazzi in difficoltà, situazioni difficili a casa o con problemi di tossicodipendenza. Sono molto giovani e volevo chiederle se può tenere il suo favoloso traffico lontano dai miei ragazzi… so anche che per lei potrebbero essere prede facili, ma hanno un futuro… potrebbero avere una vita normale ed io voglio che loro siano felici”.
Si girò verso di me ed ovviamente la mia faccia interrogativa non gli era sfuggita: “Hai avuto coraggio a venire qui da me sola, senza armi…”
Si avvicinò con andatura sicura e nel mentre aveva estratto da una custodia legata alla coscia un coltello con una lama ondulata, un kriss malesiano, che già stavo immaginando nel mio stomaco.
Chiusi gli occhi istintivamente e iniziai a borbottare qualcosa tipo: “lo sapevo, ho detto a Jason di essere un emerito imbecille e poi mi sto facendo ammazzare anche io. Perfetto. Ma che esempio sto dando?”.
Aprii gli occhi e mi stupii del fatto che in realtà mi avesse solo liberata dalle corde: “quindi tu vorresti che io dicessi ai miei uomini di non spacciare ai ragazzi, dico bene?” annuii e basta.
Non ebbi il coraggio di replicare. “Come ti chiami?” mi chiese: “Grace Lilywhite”.
Si bloccò per un istante. Non che stesse facendo chissà cosa, ma notai una certa tensione nei suoi movimenti: “non mi saprei come ricambiare il suo favore perché non ho nulla... Già, non ho nulla… ho sbagliato a venire qui” dissi con tono agitato: “Non dirò a nessuno dove si trova e su questo può credermi… sa’ qual è il mio punto debole, sa’ il mio nome e non farei nulla che possa nuocere ai miei ragazzi… uno non sono riuscita a salvarlo e la cosa mi tormenta ormai da cinque anni” feci per alzarmi, ma mi bloccò il polso con una presa salda, troppo salda per la mia pelle delicata. Avrei voluto dirgli che mi stava facendo male, ma non osai. “In cambio del favore, mi basta il tuo silenzio”.
Liberò la presa, non dissi nulla, mi voltai e tornai a casa di corsa.


Una volta sul letto, mi trovai a fissare la parete a riflettere su ciò che avevo fatto e a domandarmi fino a che punto mi sarei spinta per proteggere i miei ragazzi.
Iniziai a pensare, a riflettere, a maledirmi per aver scelto quella vita che probabilmente sarebbe iniziata a pesarmi prima del tempo a causa della mia troppa sensibilità.
Sospirai e cercai di incoraggiarmi, a dirmi che quel che avevo fatto quella scelta per evitare che altri ragazzi perdessero di vista definitivamente la loro vita.
Riaffiorò il ricordo di Jason, di come ci eravamo conosciuti e di come la sua morte mi aveva portata a scegliere quel lavoro.

Uno dei miei hobby è sempre stato leggere, mi piaceva andare in una biblioteca piuttosto tranquilla, una di quelle aperte ad ogni ora del giorno e della notte. Ricordo ancora che aspetto aveva la prima volta che l’ho visto, con i suoi capelli corvini, occhi verdeazzurri, qualche livido qua e là… Era seduto a leggere nell’angolo più appartato e silenzioso, un posto che piaceva anche a me occupare.
Mi accomodai accanto a lui con il mio libro e questo semplice gesto aveva attirato la sua attenzione: parola dopo parola, giorno dopo giorno, diventammo inseparabili. Decidemmo che quello sarebbe stato il nostro posticino segreto, il luogo dove ci saremmo recati quando avremmo sentito l’uno la mancanza dell’altro.
Poi quei piccoli lividi iniziarono a diventare vere e proprie tumefazioni sul viso, sul corpo…labbra spaccate. Più chiedevo spiegazioni, più mi venivano negate. Iniziai a pensare che avesse cominciato a frequentare brutte compagnie o che il suo temperamento impulsivo l’avesse fatto mettere nei pasticci.
Poi la sua morte.
Il suo funerale.
Dio, il suo funerale… non ricordo molto di quel giorno, solo che ero terribilmente arrabbiata e che avrei voluto dire qualcosa, ma riuscii a dire solo che era morto con un ridicolissimo taglio di capelli e che il loro colore era un nero così dannatamente intenso da sembrare… finto? Sì, sembravano tinti e che l’avrebbero preso in giro anche all’aldilà.


 

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Capitolo 2
*** Cap I ***


“Cos’hai fatto al polso?” una voce familiare mi si avvicinò con aria preoccupata: “Buongiorno anche a te Jonathan”. Jonathan era il mio amichetto del cuore, siamo praticamente cresciuti insieme e abbiamo frequentato la stessa università. Mi guardò con fare curioso misto a preoccupato: “sono serio, cos’hai fatto al polso?”
“Quale polso?”, ironizzai.
Sospirò: “Grace, il polso sinistro… c’è un bel livido se non te ne fossi accorta. Non dirmi che hai ricominciato con le arti marziali”.
Non feci in tempo a rispondere che mi interruppe: “So che sei andata da Judith sabato sera, mi ha scritto… è successo qualcosa al ritorno?”
“Judith mi ha parlato di un nuovo super criminale che gestisce il traffico di droga e…”
“e lasciami indovinare, hai pensato bene di fare un giro ed indagare su chi fosse e sei finita in qualche pasticcio… mh?”.
Accennai un sorriso e lo guardai: “Ho pensato bene di fare un giro, indagare e andare direttamente a parlare con lui”.
Rimase impietrito: “Cioè, tu sei andata da sola da Red Hood per chiedergli gentilmente di non spacciare? Dico, ma sei impazzita? È psicopatico… sai come ha fatto a sottomettere il giro di Black Mask? Non sei più una bambina e non puoi più giocare alla piccola detective…”
“Fino a ieri non sapevo neanche che fosse in circolazione un tizio con un elmetto rosso, quindi credo tu possa immaginare che non sappia minimamente come abbia fatto a sottomettere Black Mask e poi, come fai a sapere che intendessi proprio Red Hood?”.
Rimase un momento interdetto, come un bambino colto a fare qualche marachella e mi fece cenno di seguirlo. Ci sedemmo ad un tavolino della sala del caffè e iniziò a bisbigliare: “Ha ucciso e decapitato tutti i bracci destri dei boss di Gotham e va in giro con un’accidenti di AK-47. È un cecchino, mercenario… è un killer, come ti è venuto in mente?”, istintivamente mi toccai il collo e deglutii rumorosamente: “In realtà abbiamo parlato e basta”.
Rimase con la bocca aperta: “sa’ come ti chiami immagino”. Annuii. Sospirò. “Gli hai detto anche il tuo lavoro”, annuii di nuovo: “ha tutte le informazioni che gli servono per trovarti, ucciderti e decapitarti”. Lo fissai e feci NO con la testa: “ti sbagli, ha chiesto in cambio solo il mio silenzio e, non illuderti, il livido me l’ha fatto involontariamente e poi sai che sono delicata”, lo tranquillizzai: “Sai che mi vengono i lividi anche se per sbaglio urto qualcosa di soffice e dovresti saperlo”.

°°°

Erano circa due settimane che Judith mancava ai nostri incontri: al telefono non rispondeva e a casa non c’era.
I dubbi iniziarono ad assalirmi: e se il mio sesto senso non si fosse sbagliato? Se fosse tornata a drogarsi davvero?
Iniziai a cercare compulsivamente tutti i numeri degli ospedali di Gotham: Jonathan chiamò quello più vicino ed assunse un’espressione seria e scura: Judith era ricoverata per una dose massiccia di droga. A quelle ultime parole iniziai a sentire ovattato, come se stessi perdendo la percezione di ciò che mi stava accadendo intorno. Iniziai a muovermi automaticamente verso l’unico posto dove avrei potuto trovare informazioni su Red Hood.
Seguii le indicazioni ed entrai in quello che doveva essere un altro dei suoi covi, un vecchio magazzino abbandonato, vicino alla stazione.
Non c’era nessuno a parte lui: “ti avevo chiesto di tenere il tuo cazzo di traffico lontano dai ragazzi, in cambio hai voluto solo il mio silenzio ed ho mantenuto la mia parola. Tu, invece, cosa fai? Lasci vendere la tua schifosissima droga ad una ragazzina di sedici anni ora ricoverata in ospedale per overdose” gli stavo urlano contro e neanche mi accorsi che per la rabbia iniziai a piangere.
Prima che potessi riprendere a parlare, sentii chiamare forte il mio nome. Jonathan mi aveva seguita ed ora mi stava abbracciando, ignorando completamente con chi stessi litigando.
Cercò di farmi tranquillizzare e riacquistai un po’ di lucidità: “ora andiamo a trovare Judith, ha chiesto di te… ti aspetta. Tu però smettila di essere così impulsiva, ok? Cosa insegniamo ai ragazzi? Di riflettere prima di agire”. Mi sorrise e mi prese per mano, come farebbe un papà con la propria figlioletta.



Passai il weekend in totale solitudine, ciò che era appena accaduto mi aveva, come dire, scosso? Sì, scosso era la parola giusta, tutta questa situazione stava riaprendo ferite che pensavo fossero ormai cicatrizzate.
Erano anni che non avevo un atteggiamento del genere, un atteggiamento che anni prima avevo deciso di accantonare.
Sentii vibrare il telefono:
 Sms: -“Stasera sei ufficialmente invitata a cena a casa mia, c’è una bella sorpresa per te. Jonathan <3”

Non ero amante delle sorprese e non ero neanche dell’umore giusto, ma mi alzai ugualmente dalla mia scrivania e mi infilai un jeans e una camicia semplice.
Arrivai a casa di Jonathan e suonai al suo campanello. Ad aprirmi non fu il padrone di casa, bensì Dick Grayson, un vecchio amico in comune: “Dick… ma che ci fai qui?” non riuscii a contenere la contentezza e l’abbracciai subito.
Chiacchierammo davanti a delle pizze calde, birre fresche e tante tante schifezze.
“Sai che ha pensato di fare la signorina qui davanti?”
“Chi ha insultato? Qualche dirigente?”, Dick riusciva a rendere comica qualsiasi situazione.
Non pensavo che Jonathan cacciasse quell’argomento quella sera.
“No, magari. Ha pensato bene di insultare e mandare a quel paese Red Hood”.
Dick mi fissò, con espressione preoccupata.
“Che c’è? Non ha mantenuto una promessa e mi sono arrabbiata, tutto qui”, presi la bottiglia e sorseggiai tranquillamente la mia birra.
“Sai a lui cosa gliene frega delle tue promesse?”
“Quindi ci hai parlato più di una volta…”, chiese Dick.
“Sì, ben due volte e sono sopravvissuta ad entrambe, quindi è tutto fumo e niente arrosto o can che abbaia non morde..”
“Jason è morto per fare il coglione e tu eri sprezzante del pericolo proprio come lui… per questo andavate piuttosto d’accordo… siete sempre stati sarcastici e impulsivi, ma a differenza sua, tu hai sempre avuto un po’ di buon senso… cerca di mantenere il tuo autocontrollo la prossima volta o farai la sua stessa fine”, mi rimproverò Jonathan.
Dick mantenne la sua espressione preoccupata per tutta la serata, come se volesse dirmi qualcosa, ma non poteva.




Note dell'autrice: nello scorso capitolo ho dimenticato di inserire i DISCLAIMER: Alfred Pennyworth, Bruce Wayne/Batman, Dick Grayson/Nightwing e Jason Todd/Red Hood sono personaggi appartenenti all'universo DC.

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Capitolo 3
*** Cap II ***


Sms: -“Domani ti aspetto a villa Wayne per la colazione. Dick.”

Un messaggio che suonava quasi imperativo, che non ammetteva repliche.
L’indomani mattina mi svegliai verso le sette. Troppo presto? Forse, ma da sempre ero una maniaca della puntualità e preferivo arrivare con qualche minuto di anticipo e aspettare, piuttosto che arrivare con qualche in ritardo.
Mi feci una bella doccia e cercai nel mio armadio un qualcosa che fosse adatto all’occasione: scartai almeno quattro possibili abbinamenti tra jeans, gonne e magliette, decidendo poi alla fine di indossare un vestitino di lana lilla, colore che adoravo, ma che non apprezzavo particolarmente su di me. Anzi, trovavo facesse letteralmente a cazzotti con la mia pelle color porcellana e i capelli castani.

Guidai fino alla villa spaccando il secondo e mi trovai a scambiare due chiacchiere con il giovane Grayson nel salotto della lussuosa villa; mi sembrava quasi strano tornare lì a gustare la famosa colazione di Alfred, erano passati anni dall’ultima volta.
“Sapevo fossi impulsiva, ma non credevo così tanto da andare da sola a cercare Red Hood… non ti sei mai chiesta perché non abbia mai reagito ad una sola parola?”
“Evidentemente non faccio abbastanza paura e credo mi trovi insignificante, figurati... Mi ha dato la giusta importanza”, risposi con nonchalance mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Non hai notato nulla di strano?”
“A parte il fatto che si fa chiamare Red Hood, mentre in realtà indossa un elmo?”
Alfred sogghignò appena e si scambiò un’occhiata fugace con Dick.
Dick si schiarì la voce: “Sì, a parte questo dettaglio irrilevante”
“Beh a parte quello, posso dire che è molto sicuro di sé. Con me non si è comportato da mostro, ma Jonathan mi ha raccontato della storia delle decapitazioni… ma ti dirò, non ci credo molto, forse se l’è inventato di sana pianta solo per farmi spaventare”.
“Ci è riuscito?”
“Non direi visto che poi sono andata lì ad insultarlo…non ho avuto paura”
“Immagino si riferisse a questo Jonathan ieri sera…”
“Beh io e Jason eravamo piuttosto simili sotto alcuni punti di vista…”
La mia affermazione non lo convinceva affatto. Si scambiò di nuovo un’occhiata veloce con Alfred al quale rispose solo con un cenno.
Mi guardò: “Parli mai di Jason apertamente?”
“Dove vuoi arrivare?”, sentii tutto il mio corpo irrigidirsi a quella domanda.
“Parli mai di Jason con qualcuno?”
“Andiamo Dick, è acqua passata…”, mi sentivo in trappola, iniziava a mancarmi l’aria.
“Lo fai?”
“Non ho motivo”, questo era il muro che ho sempre costruito con il mio psicologo. Facevo proprio così, più cercava di farmi aprire, più mi chiudevo. È stato inevitabile.
“Non riesci a farlo neanche ora... e dimmi, sai com’è morto Jason?”
“Non lo so, so solo che è morto”
“Dicono sia morto per asfissia dovuta al fumo…”
“Sapevo fumasse una volta ogni tanto, non così tanto da morirci… grazie per avermelo detto, anche se non mi sembra combaci molto con l’insinuazione fatta da Jonathan ieri sera”, punto per me.
“Noto del sarcasmo, altro punto in comune con la testa calda… In realtà, è stato picchiato in un edificio abbandonato e poi quell’edificio è stato fatto esplodere”
“Beh allora doveva aver infastidito le persone sbagliate… tu pensa, deve averla fatta davvero grossa per costringere il grande Bruce Wayne a inventare una storia alternativa alla sua morte… così impara a stare al posto suo, cretino”
“Stai incolpando lui per la sua morte? Credi meritasse di morire in quel modo?”
“Tu mi stai solo provocando… Ti prego Dick, smettila… Sai perfettamente che a volte era troppo anche per me”
“Rispondimi. Meritava di morire? Se l’è meritato? Se l’è cercata?”
rimasi in silenzio.
“Rispondimi!”  alzò la voce e non era da lui.
“Jason era un coglione. Jason era arrogante, pungente, provocatorio. Jason era sempre arrabbiato per chissà quale strana ragione. Se gli chiedevo come si fosse spaccato il labbro, mi rispondeva solo che non erano affari miei, ma ormai è tre metri sottoterra. Cosa vuoi che mi importi?
Mi sono rifiutata di sapere come fosse morto, mi sono rifiutata di nominarlo e fidati che è già stato molto presentarmi al funerale e dire anche solo due parole su quel taglio di capelli assurdo che portava.
Aveva un caratteraccio, ma non meritava di morire… era solo un ragazzino in fondo. Probabilmente non sono stata brava neanche io, non gli ho messo un limite. Ho deciso di smetterla con le stronzate solo quand’è morto lui… Probabilmente non avevo aperto bene gli occhi perché con me era sempre tranquillo.
Sappi solo che se ci fosse un modo per far resuscitare i morti, sarei io stessa a riportarlo in vita e sarei la prima a spaccargli la faccia per poi rispedirlo da dove è venuto perché non doveva morire…”
Dick ascoltò pazientemente il mio sfogo: “Stai meglio?”
“Abbastanza… Ma non hai ancora risposto alla mia domanda: come mai mi stai interrogando in questo modo?”
“Perché si è presentato un problema”
“Ooook, ma mi stai spaventando”
“Comincio col farti una domanda: che genere di cose facevate tu e Jason?”
“Ma che domanda è?” sbuffai: “Mi piaceva visitare posti inquietanti, case abbandonate, boschetti vicino ai cimiteri… tutto qui. Poi gli ho insegnato qualche mossa di judo e lui mi ha insegnato come liberarmi da una presa ai polsi, fine. Molto del nostro tempo libero lo passavamo così”.
“Perché hai parlato di mettergli limiti?”
“Perché col senno di poi ho capito che potevamo davvero finire in guai seri, andare in posti sbagliati nei momenti sbagliati. Tutto qui?”
“Tutto qui. Volevo solo ti sfogassi un po’, ti ho visto tesa ieri…”
“Grazie Dick, davvero… Mi sento già meglio” mentii al ragazzo e gli regalai un sorriso.

Sentimmo suonare al campanello: si presentò Jonathan con una busta gialla in mano, senza mittente, con solo il mio nome. L’aprii nonostante trovassi la situazione abbastanza imbarazzante e… c’era una prova del DNA, c’era scritto che c’era una corrispondenza del 100% tra il Dna di Jason e il Dna di Cappuccio Rosso. Scherzo di pessimo gusto. Li fissai e sbattei i fogli sul tavolino di fronte a dove erano seduti: “Cosa sono? Non mi piacciono questi scherzi…. Volete prendervi gioco di me? Anzi no, forse è stato quel cretino con l’elmo rosso. Avrà fatto un po’ di indagini e avrà capito che il mio tallone di Achille è Jason. Cosa vuole?”
“Irascibile, impulsiva e a tratti irrazionale…proprio come Jason”, sussurrò Dick.
“Cosa?”
“Ti stai comportando come Jason…”,
“Per fare come stai facendo tu, il tuo grandissimo amico di avventure è passato a miglior vita! Cosa vorresti fare, eh? Andar lì, dirgli di togliersi l’elmo e poi?” aggiunse Jonathan.
“Cosa stai dicendo?” mi zittii per un istante, la mia testa iniziò a ricomporre i primi pezzi di un enorme e complicato puzzle: “Non stai negando che sia lui e poi… tu sai che non è morto di asfissia… tu… tu hai sempre saputo come stavano le cose. Come nella sala del caffè a lavoro quando ti ho detto che Judith mi aveva accennato qualcosa su un nuovo supercriminale e tu hai subito parlato di Cappuccio Rosso…”
Jonathan mi fissò incapace di rispondere.
“Tu lo sapevi… per questo mi hai seguita, non perché pensavi potesse farmi del male, perché eri preoccupato che potessi riconoscere una persona che pensavo fosse morta cinque anni fa… ed è per questo che neanche tu hai avuto paura. Tu cosa c’entri? Dick e tu? Eravate fratelli adottivi, ma come c’entri in questa storia? Come avete capito tutto ciò?”
Jonathan si schiarì la voce: “Stiamo giocando a carte scoperte e forse è meglio che ti spieghi tutto… sono un informatore di Nightwing, il primo Robin… Jason è stato il secondo Robin ed ecco spiegati i lividi e fratture di cui non voleva parlarti.
Le dinamiche della morte sono più o meno quelle che ti ha detto prima Dick: aveva ritrovato sua madre biologica e aveva deciso di incontrarla. Non sapeva che lei fosse in contatto col clown e poi è bastato solo che indossasse il costume da Robin… La madre lo portò in un capannone, il Joker l’aveva picchiato con un piede di porco e poi ha fatto saltare in aria… nonostante lei l’avesse tradito, fece di tutto per cercare di salvarla a costo di rimetterci la vita. È vero che non aveva un carattere facile, ma…”
Non gli diedi modo di finire il discorso che avevo già il mio cappotto addosso.
Uscì in fretta e furia, sentivo la rabbia salire e l’unico mio pensiero era quello di voler prendere a pugni la causa di tutti i miei problemi: inspirai ed espirai più volte, cercando di riprendere il controllo mettendo in pratica ciò che mi avevano insegnato in una di quelle sedute collettive per affrontare meglio il dolore di un lutto, ma con scarsi risultati.
Riacquistata un po’ di lucidità, mi misi al volante e tornai a casa.

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Capitolo 4
*** Cap III ***


Decisi che questa situazione non avrebbe avuto ripercussioni sul lavoro, né sull’amicizia con Jonathan; il suo era un modo come un altro per difendermi da un fantasma funesto che non mi aveva dato pace negli anni più belli della mia vita.
Wow, sono stata amica di Robin e neanche me ne ero accorta… Probabilmente ci sarei potuta arrivare.
No, non è vero. Stavo mentendo a me stessa, di nuovo, stavo cercando di addossarmi la colpa di qualcosa di cui non ero causa, come se mi servisse per forza puntare il dito contro di me. Se avessi saputo della sua seconda vita sarei stata capace di 'salvarlo'? 
Presi il mio smartphone e iniziai a scrivere una bozza di quello che doveva essere un messaggio per il mio amico. Dopo mille correzioni ero giunta alla versione definitiva:

“Ciao Jo,
so di non essermi fatta sentire per qualche giorno, ma avevo bisogno di metabolizzare tutto… forse la cosa che più mi ha spiazzata è stata la storia dell’uccellino, quella mi ha sconvolta.
A parte gli scherzi, volevo solo dirti che so che hai agito solo per proteggermi e, conoscendoti, so che sarai stato in ansia per me. La mia assenza ti avrà portato a pensare al peggio, ma sappi che sto bene, non mi sono mossa da casa mia neanche per mangiare…
A proposito di mangiare, venite a cena da me tu e Dick? Vi cucinerò il miglior cibo cinese del mondo <3
A voce parleremo meglio. Vi aspetto.”



Premuto il tasto invio, attesi con impazienza una risposta che non tardò ad arrivare: un semplice “ci saremo” che però valse più di qualsiasi altra risposta.


Ci ritrovammo lì a chiacchierare, chi con una bella porzione di ravioli alla griglia, chi con i noodles, come se la serata dell’altro giorno non ci fosse stata, come se stessimo ripartendo da zero.
“Dunque, come avete potuto tenermi nascosta questa cosa? È la cosa più figa del mondo dopo la notizia che mio fratello era riuscito a preparare un toast senza far saltare in aria la cucina… ho insegnato una tecnica di Judo ad un piccolo pettirosso. Roba da matti!”, scoppiai a ridere di cuore e loro fecero lo stesso.
“Poi il piccolo pettirosso potrebbe averla insegnata a Batman. Batman potrebbe aver imparato qualcosa da te… non ti lusinga la cosa?”, chiese Dick.
“Molto, appena lo becco in giro gli chiederò di ringraziarmi… a proposito: come avevo accennato a Jonathan, non sono andata a cercare Red Hood. Non mi interessa vederlo, né sentirlo; quello non è Jason, è solo il suo involucro. Per quanto mi riguarda potrebbe anche star ascoltando questa conversazione, ma non mi importa. Tanto se è Jason, sa già dove vivo e se non lo è, lo scoprirebbe comunque”
“Ti vedo più tranquilla…”, sussurrò Jonathan accarezzandomi la spalla.
“Beh ora che so che Jason non era un coglione qualunque, credo che il mio scheletro nell’armadio sia meno pesante. Grazie per aver scelto di dirmelo alla fine…”
“Non gli chiederai di togliersi l’elmo?”
Sbuffai di gusto: “Conoscendolo, avrà ancora quei capelli, quella faccia e se legge ancora i romanzi classici, posso affermare con assoluta certezza che farà qualcosa di assurdamente drammatico, tipo…”
“...tipo tenere la maschera di Robin sotto il casco”.
“Esatto! Ma ditemi, voi che l’avete visto… ha ancora quei capelli? E il viso com’è?”
I due si guardarono con intesa e sorrisero, come per dire «almeno questo glielo possiamo concedere, basta bugie ed omissioni»: “Sì” cominciò Jonathan, “ha esattamente la stessa faccia da schiaffi, solo che ormai ha vent’anni e quindi ha i tratti del viso più maturi, quasi da uomo”, ascoltavo totalmente assorbita dalla voce di Jo, come una bambina che ascoltava la sua storia preferita narrata da un cantastorie.
La serata proseguì tra scherzi e risate, così com’era iniziata: dopotutto era impossibile non ridere con Dick, aveva sempre la battuta pronta, qualche frase demenziale o gioco di parole altrettanto demenziale.

Quando mi trovai da sola, mi soffermai a pensare su come potesse essere ora il viso di Jason, basandomi sulla descrizione del mio amico. Cominciai ad interrogarmi su come fossero i suoi occhi, se erano ancora così tanto verdeazzurri e limpidi da parlare da soli o se erano diventati come quelli degli psicopatici dei film.
Ogni volta che ripesavo alla storia della decapitazione, non potevo far a meno di ricollegarlo ad Hannibal Lecter o al tipo di “Shining”, ero sicura che il vecchio Jason non avrebbe mai ucciso nessuno. Mai.

Come si suole dire, la curiosità è donna ed essendo tale, ero anche abbastanza contraddittoria: avevo detto di voler ricordare Jason come quando aveva sedici anni, ma ora invece ero curiosa di vedere com’era a vent’anni. Per scacciare quel pensiero assurdo, uscii di casa e andai nel nostro posticino segreto, mi avrebbe aiutato a mantenere un bel ricordo di quel ragazzo adolescente un po’ scapestrato.
Mi mancavano quelle pareti, quell’odore tipico delle biblioteche, di fogli ed inchiostro; andai nel corridoio dei classici della letteratura inglese e mi imbattei nello spazio dedicato ad una delle mie scrittrici preferite: Jane Austen.
Presi “Orgoglio e Pregiudizio” e mi sedetti per terra, ai piedi degli scaffali.
Avvertii un’ombra, una presenza dietro di me e non tardai a capire chi fosse. Un bel po’ prevedibile.
“Perché ti fai chiamare Cappuccio Rosso e non Elmetto Rosso? Oppure Caschetto Rosso… sai, sembri Cappuccetto Rosso, la bimba con la mantellina che va dalla nonna e viene mangiata dal lupo. Perdi di credibilità… a confronto le mie ciabattine a coniglietto fanno più paura. Anzi no, mia madre fa più paura… sì, lei fa più paura decisamente”.
“Non ho venduto io la droga alla ragazza”.
“Certo, ci sto credendo”.
“Quelli che vendevano la droga accanto al liceo, a Kellington Avenue, non saranno più un problema. Le mie direttive erano altre e loro non le hanno seguite”.
Mi bloccai e chiusi il libro rumorosamente: “Avrai sicuramente decapitato anche loro…”.
“Vuoi i particolari?”
“Non vorrei vomitare la cena su di te, potrebbe rovinarsi quel copricapo idiota che indossi… non vorrei perdessi del tutto la tua già poca credibilità”, volevo ferirlo, pungerlo nell’orgoglio. Perché volevo trattarlo male? Non ne avevo la più pallida idea, volevo solo che sparisse di nuovo, lontano da me, dal mio mondo, la mia città.
“Il fatto che stia portando pazienza non significa che tu debba insultarmi a tuo piacimento”
“Beh che ci vuoi fare, sono particolarmente infastidita dalla tua presenza, hai disturbando la mia lettura”.

Sentii un click e notai dei movimenti dietro di me.
Si era tolto l’elmo.
Non ebbi il coraggio di voltarmi.
Sentii una presa forte al mio braccio, tanto forte da farmi voltare, ma tenni il viso basso e gli occhi nascosti. Con l’altra mano mi alzò il viso costringendomi a guardarlo. Mi venne un colpo. I capelli erano gli stessi, corvini e ribelli, gli occhi erano espressivi come ricordavo ed esprimevano rabbia, frustrazione, dolore ed anche tristezza, delusione; il viso era come lo ricordavo, ma più maturo… da uomo, come mi aveva detto Jonathan.
I miei occhi non riuscivano a smettere di guardarlo, erano spalancati e increduli.  Si staccò poco dopo, riprese il casco e andò via… solo allora ricominciai a respirare.

Composi un messaggio a Dick: -“Avevate ragione, ha ancora quel taglio assurdo di capelli”.

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Capitolo 5
*** Cap IV ***


Piansi tutta la notte, così tanto da avere difficoltà a prendere sonno.
Mi alzai più di una volta cercando di scacciare via quella morsa di malessere che in passato ero riuscita a confinare in qualche angolo remoto del mio cervello.
Mi trovai a fissare la parete del mio piccolo salotto, pieno di foto: ce n’erano di mie da piccola, del periodo liceale ed anche quello universitario.
In particolare mi soffermai su una piccola polaroid che avevamo scattato io e Jolyne, ad una festa scolastica. Jolyne era la Jolene di Dolly Parton: capelli ramati, occhi verdi e risata cristallina…. Insomma, i genitori non potevano scegliere nome migliore per lei.
Frequentavamo insieme il corso di scienze e ricordo ancora che quel giorno fu proprio l’ultima lezione che avevamo seguito prima di precipitarci a casa sua, emozionate per la festa d’istituto. Perdemmo l’intero pomeriggio a vedere video sul pc senza preoccuparci di poter far tardi…
poi una telefonata, Jonathan.
Da lì a poco sarebbe arrivato da noi e saremmo andati insieme a scuola.
Tra varie risate e imitazioni di quel che avrebbe potuto dire il poverino, indossammo in gran fretta i nostri abiti scelti accuratamente, per fortuna, quasi una settimana prima: lei indossava un vestito verde di velluto, in tinta con i suoi occhi ed io uno nero, sempre in velluto, con un piccolo scollo a barca.
Quella sera, fu la sera in cui Jason mi baciò la prima volta. Davanti a tutti. Che vergogna.
Era seduto vicino l’ingresso della sala, un po’ nascosto: stava fumando e non era permesso.
Lyn, così la chiamavo io, intravide una sua conoscenza e con la scusa, ci lasciò soli facendomi un occhiolino: era il suo modo per darmi coraggio.
Mi avvicinai e mi fece spazio e mi accomodai accanto a lui.
Non erano servite parole, semplicemente ci trovammo l’uno di fronte all’altro: i nostri sguardi si incatenarono reciprocamente all’altro, Jason lasciò cadere la sigaretta senza neanche spegnerla e a quel punto totale blackout. Con un movimento rapido e deciso, ma delicato, con un braccio avvolse le mie spalle, mentre con la mano libera mi prese una guancia e mi baciò le labbra; schiuse gli occhi cercando un segno d’approvazione da parte mia e poi mi baciò di nuovo… il mio primo, vero, bacio in assoluto.
Ricordo ancora che avevano il sapore di menta e tabacco, erano morbide nonostante le piccole crosticine di quelle ferite che, in fin dei conti, trovavo affascinanti.
Mi trovai a sorridere a quel tenero ricordo; poi il mio sguardo proseguì fino ad una foto con Jonathan, la foto del diploma. Poi ce n’erano altre come quella, sempre con lui o in gruppo: feste, campeggio, piccoli viaggetti e presto sarebbe arrivata anche la nostra foto della laurea. Ormai mancava pochissimo.
In ognuna, nonostante tutto, sembravo allegra.
Ero diventata brava a sorreggere quel peso, a sorridere e a mantenere le apparenze.
“Fanculo”, imprecai ripensando a tutti quei momenti che non ero riuscita a vivere con il massimo della spensieratezza, a tutte quelle volte che ero andata al cimitero a dire una preghiera ad un Dio che non ero sicura esistesse affinché si prendesse cura di Jason, a tutte quelle volte che ero andata a portare un fiore ad una tomba vuota.

Fischiai per richiamare JayJay, avevo bisogno di lui.
Niente.
Lo richiamai più e più volte, decidendomi poi ad alzarmi e tornare nella mia camera da letto: lo trovai sul letto accoccolato sulle gambe dell’ultima persona che avrei voluto incontrare in quel momento.
“È violazione di domicilio e lesa privacy, sai?”, incrociai le braccia al petto con fare spazientito.
“Il tuo cane non è un buon cane da guardia, o sbaglio?”
“No, non lo è. Ed ora se non ti dispiace, vorrei rimanere sola con lui”, così dicendo schioccai le dita e il cane mi raggiunse in un batter d’occhio, scodinzolante.
“Fai quello che devi fare, sono solo venuto a riposarmi un po’”, si distese sul letto, “ho avuto un gran da fare prima”
“Chissà chi altri hai minacciato…”
“Peggio”
“Ma davvero credi che voglia darti asilo? Ma sei fuori di testa? Non costringermi a chiama—” mi interruppe piuttosto bruscamente, scattando in piedi.
“Chi vorresti chiamare? Jonathan, Dick, Batman o magari il nuovo piccolo Robin?”
Rimasi in silenzio, effettivamente aveva ragione. Odiavo quando aveva ragione.
Tornai sul divano insieme a JayJay, maledicendo il ragazzo.


Era notte inoltrata ed ero piuttosto stanca di arrangiarmi a casa mia sul divano.
Ero decisa più che mai a svegliare il mio ospite per mandarlo via.
“Senti, è ora che tu vada…”, dormiva profondamente.
Mi accomodai accanto a lui e mi presi tutto il tempo per studiare i lineamenti del viso e del corpo accontentandomi di pochi raggi lunari: la pelle era segnata da tante piccole cicatrici non troppo evidenti, era alto, aveva il fisico massiccio di chi si era allenato duramente per anni.
Poggiai istintivamente la mano sul suo viso, incurante del fatto che avrebbe potuto reagire istintivamente.
Sospirò ed aprì lentamente gli occhi.
Si sollevò a mezzo busto.
Ci osservammo, proprio come quella sera.
Distolsi lo sguardo solo per qualche istante, giusto il tempo di togliergli quell’insulsa maschera che indossava sotto il casco.
A parole non eravamo mai stati troppo bravi, neanche da ragazzini.
Ci guardammo negli occhi e passai entrambe le mani tra i suoi capelli, mentre lui intrecciò le sue dita tra i miei.
Le nostre labbra si toccarono nuovamente dopo tanto, ma avevano lo stesso sapore di allora; i nostri baci erano caldi e bollenti. Sapevano di occasioni mancate, tempo perso, di amore ed anche di rabbia. Noi, chi per un motivo chi per un altro, eravamo sempre arrabbiati e forse era questo che ci legava: ci capivamo più di chiunque altro.
Ci spogliammo famelici di scoprire ogni angolo del nostro corpo perché, in fin dei conti, non avevamo avuto modo: le sue labbra percorsero perfettamente i contorni del mio viso, scendendo lentamente lungo le linee disegnate dalla mia stessa muscolatura tesa sino alle clavicole, che accarezzò con la punta del naso.
Mi guardò dal basso, ancora una volta, cercando un mio segno di approvazione.
Mi morsi un labbro istintivamente e lui ne colse perfettamente il significato proseguendo il suo viaggio di perlustrazione sino ai seni. Sentivo le sue mani su di me, su ogni angolo, anche quello più remoto: volevo abbandonarmi a quella piccola follia, il mio unico assaggio di un ricordo ormai marchiato a ferro nel mio cuore e nella mia mente; aprii leggermente le gambe, accogliendolo tra esse e lasciai che la mia fantasia ci riportasse indietro nel tempo e permetterci di vivere quell’momento a quando eravamo poco più che adolescenti, quando meritavamo di vivere la nostra prima volta.

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Capitolo 6
*** Cap V ***


Le prime luci dell’alba mi fecero sobbalzare e con grande sorpresa mi trovai ancora stretta tra le braccia del nuovo pazzo criminale di Gotham. Avevamo passato tutta la notte insieme.
“Perché sei così arrabbiata con me?”, mi chiese a bruciapelo.
“Da quanto sei sveglio?”
“Da un po’…”, sussurrò accarezzandomi i capelli.
Mi voltai verso di lui: “Sono arrabbiata con te perché mi hai lasciata sola quando avevo bisogno di te…” respirai profondamente “poi hai avuto la brillante idea di resuscitare”
Sorrise amaramente: “Pensi che per me sia stato facile?”
“Non lo so… Ancora non ho avuto occasione di chiedertelo. Com’è stato?”
“Non mi va di parlarne…”, si allontanò leggermente, quanto bastava per potersi mettere a pancia in su.
“Scusa…”
Mi guardò posando le sue iridi verdeazzurre su di me in un modo quasi dolce: mi guardava così quando voleva rassicurarmi dopo un piccolo litigio o quando facevo considerazioni o domande scomode. Si passò una mano tra i capelli e sbuffò fingendosi scocciato.  
Mi riavvicinai a lui, poggiando la testa sul suo petto e ripercorrendo con le dita alcuni dei segni rossi lasciatogli la notte precedente: “Almeno non fumi più”.
“No, quello no… che poi non avevo il vizio, fumavo una volta ogni tanto”
Sorrisi soffermandomi con lo sguardo sulle sue labbra: “Giusto per andare controcorrente” e ci baciammo di nuovo. Ancora ed ancora, ricominciando da dove avevamo interrotto qualche ora prima.


Mi riaddormentai pesantemente, mi sentivo al sicuro ed in pace con me stessa. Finalmente.
Sentii bussare insistentemente alla mia porta.
Indossai velocemente la biancheria intima e il pigiama.
Andai ad aprire e mi ritrovai faccia a faccia con il dottor Stabler, il mio psicologo.
Lo feci accomodare: “Disturbo? Mi trovavo in zona e ho pensato di passare a trovarti e fare due chiacchiere…”, annuì semplicemente e prima di iniziare con lui una qualsiasi tipo di conversazione, con la scusa di volermi dare una sistemata, mi allontanai.
“Jason, non puoi stare qui...”, sussurrai al ragazzo ancora nudo sotto le coperte.
“Ormai ho scelto di riposare sempre qui”, mi rispose con la voce ancora assonnata.
“Ho visite...” cercai di svegliarlo scuotendogli un po’ le spalle. Fece finta di non sentire, ne ero consapevole. Sbuffai rassegnata: “Ok va bene resta, ma non muoverti di qui e non fare rumore, te ne prego…”

 Mi lavai velocemente, tornando poi dal mio ospite: “JayJay è piuttosto silenzioso, vero?”
“Già, è un pessimo cane da guardia…”
“Come stai? Ormai sono passati un po’ di anni dal nostro ultimo incontro… dalle foto sembra quasi che tu abbia voltato pagina”. Accusai il colpo.
Mi schiarii la voce: “Lei sa che non è così, come io so che lei mi sta psicanalizzando anche ora…”
Rise sottovoce: “Già… visto che lo sai, che ne dici di parlarne un po’ per bene senza i soliti giochini? Ormai sei adulta e sai affrontare la realtà”
Di certo non potevo dirgli che il mio incubo era tornato in vita: “Va bene…”
Cominciò a studiare tutti di me, dai gesti all’ intonazione della voce: “Ho notato che hai ancora appeso al muro il tuo famoso discorso, quello da dire al funerale, in bella vista. Perché? Non è ora di toglierlo?”
“Per ricordarmi che non sono stata capace di dire quelle parole prima di dirgli addio. Le leggo quasi tutti i giorni ad alta voce e spero che gli arrivino, ovunque sia…”, nell’altra stanza.
“Sei troppo dura con te stessa, non ne hai colpa. Avevi solo quindici anni… Da quanto non vai al cimitero?”
“Da qualche mese…”, tanto ormai è inutile andarci.

La chiacchierata durò circa un’oretta e con grande sorpresa spaziammo molto con gli argomenti; parlammo dei miei studi, dei capelli verdi che mi feci per una stupida scommessa… forse questa volta ero stata io più disponibile e aperta ad un confronto con lui.  Salutai e ringraziai il signor Stabler chiedendogli se ci saremmo potuti rivedere in futuro per altre chiacchierate. Sempre tra amici.




Mi voltai per tornare nella mia stanza e ritrovai Jason poggiato allo stipite della porta: stava passando compulsivamente la mano sulla lama del coltello che portava sempre con sé, come per controllare se la lama fosse ben affilata.
“Anche da morto ero la tua croce…”
Lo guardai: “Beh, da vivo sei pure peggio quindi…”, incrociai le braccia al petto indispettita. Non era possibile che non riuscivamo ad avere una sola conversazione decente.
“Ho una domanda per te, anzi forse due e so che risponderai ad entrambe sinceramente, sai so essere molto persuasivo”
Camminò verso di me con quel maledetto pugnale in mano.
“Perché hai mentito allo psicologo?”, mi chiese.
Rimasi interdetta: “Non ho mentito allo psicologo, cosa vai a pensare… non si può mentire ad uno psicologo”.
Mi puntò con molta calma il coltello tra l’angolo della mandibola e la giugulare. Chiusi gli occhi d’istinto e sentii il mio cuore ammutolirsi di colpo, come se avesse smesso di battere.
“Ti ho detto di non mentire e tu lo stai facendo. Non sei mai andata al cimitero e non sei neanche venuta al mio funerale, per questo hai il discorso per me appeso al muro. Posso leggerlo o ti dispiace? Sono curioso di sapere quante belle parole hai scritto”
“Come fai a dire che non ero al tuo funerale se eri morto? Eri chiuso in una dannatissima bara… Sicuro che fossi morto davvero?”
“Non fare dell’ironia, perché ti avverto che sto iniziando a perdere la pazienza con te”, staccò dal muro il foglio, non curandosi di strapparlo o rovinarlo.
Lasciai che lo leggesse e decisi di assecondarlo in tutto: sorrideva a quelle parole, forse ne era compiaciuto. No, forse le trovava divertenti.
Mi arresi al fatto che ormai quel barlume di ragione che sembrava aver riacquistato era stato inghiottito nuovamente dal suo folle rancore.


 

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Capitolo 7
*** Cap VI ***


Raggiunsi Jonathan a casa sua senza neanche chiedere se fosse a casa o meno. Anzi, avevo deciso il tutto talmente in fretta da non rendermi neanche conto di avere il pigiama sotto la giacca; entrai in casa sua, senza neanche salutarlo, dopo aver suonato al suo stupido campanello non so quante volte:
“Contatta Nightwing, mi serve parlare con lui. Stasera.”
Si passò una mano tra la chioma bionda e perfettamente liscia: “Non credo sia il caso”
“Jo, devo parlargli di Jason… è urgente”
Sbuffò e prese il suo telefono, contattando il giovane eroe; era abituato alle mie scenate e sapeva che non me ne sarei andata senza aver ottenuto quello che volevo.
Non ci mise troppo ad arrivare.
“Ciao, sono –“
“So chi sei, mi hanno già detto tutto”, la interruppe senza però essere scortese: “Di cosa volevi parlarmi?”
Mi schiarii la voce: “Tu sei stato il primo Robin, giusto?”
Il mio interlocutore annuì. Proseguii: “Bene, cinguettate?”
“E’ rilevante?”
Sghignazzai sotto i baffi: “No, ma ho sempre voluto dirlo. Ma se preferisci posso raccontarti la vicenda rimanendo in tema. Credo che un piccolo passerotto abbia detto troppo…”
“Pettirosso…” sussurrò Jonathan.
“Ah sì, giusto. Scusa. Tornando a noi: conosci il pettirosso Todd, vero?”
Annuì.
“Allora sai bene che a volte aveva parlantina. Spesso in realtà”
“Sì, era piuttosto irritante”, ammise.
“Sappi che quell’uccellino oggi ha parlato troppo. Ho notato delle incongruenze con ciò che dice di sapere lui e ciò che è realmente successo. Credo che qualcuno gli abbia fatto il lavaggio del cervello…”
Ora avevo tutta la loro più completa attenzione.
“Spiegati”, si intromise Jonathan.
“Devo spiegare tutto tutto o posso omettere qualcosa di dubbia rilevanza?”
Mi bastò incrociare lo sguardo del mio amico per un decimo di secondo per capire che dovevo dire tutto o quasi. Diciamo che decisi di risparmiare i dettagli piccanti.
“È passato da me perché aveva qualcosa da dirmi. Mentre era lì è passato a trovarmi anche il dottor Stabler”
“Cosa?”, chiese Jonathan.
“Già e mi ha chiesto di poter parlare come vecchi amici, tirando fuori i suoi classici discorsi. Jason è rimasto buono buono nell’altra stanza, ma una volta che il dottore è andato via, ha cominciato ad accusarmi di essere una bugiarda, che non ero mai andata a trovarlo e che non ero stata al funerale. La mia domanda è: come può fare queste affermazioni? Ho in mente due scenari possibili: il primo è lui non sia mai morto davvero, ma credo che il signor Wayne e Alfred non siano così polli da non accorgersi se qualcuno è vivo o morto; Il secondo è che ci sia una fonte che l’ha tenuto aggiornato su Gotham per tutto il tempo. Per essere così alto, avere quei lineamenti, dev’essere uscito dalla bara molto tempo fa. Giusto?”
I due rimasero imbambolati, evidentemente ero stata brava.
Mi alzai di scatto: “Ora devo parlare con il cavaliere Oscuro” mi rivolsi a a Nightwing “Riesci a contattarlo?”
“Frena Grace, frena l’animo”, mi bloccò Jonathan: “calmati un attimo… ragiona…”
“No Jo, non ragiono. Quello non è il mio Jason e posso pure accettarlo, mi va bene pure che sia tornato a fare un po’ di casino, per quello ci sono loro” indicai il ragazzo mascherato: “ma non mi va bene che abbiano oscurato ciò che riguarda me, che prima di essere la sua fidanzatina, ero una sua amica. Devo sapere cos’ha fatto in questi anni o non troverò pace… Voglio parlare con Batman, per piacere”.
“D’accordo” rispose secco Nightwing “avrai il tuo incontro”.



Il giovane vigilante, ex Robin, riuscì a combinare un incontro prima del previso.
La sera stessa, per la precisione.
Ci saremmo incontrati soli, solo io e lui. Un tête a tête con l’uomo Pipistrello era il mio sogno fin dall’adolescenza.
Arrivò silenzioso come non mai, mi accorsi della sua presenza solo per l’ombra proiettata sul cemento: ammetto che di persona metteva davvero molta soggezione.
“La ringrazio per quest’incontro, davvero”, rimase in silenzio, un silenzio che risuonava come un invito a continuare: “Non so se sa chi sono, ma salterò i convenevoli perché immagino che Nightwing abbia già fatto la sua parte. Ho bisogno di sapere la verità su Jason Todd, dal principio… voglio ricostruire gli avvenimenti che vanno dalla sua morte ad oggi… e, non mi fraintenda, lo faccio per me e la mia salute mentale”.
“Perché?”
“Perché mi sono accorta di non sapere nulla sul mio ragazzo. Cioè, formalmente stavamo insieme… dice che dovrei considerarlo ex?”, sorrisi accennando una risata per sdrammatizzare.
Strappai un sorriso anche al vigilante: “Di cosa hai bisogno?”
“Mi deve raccontare tutta la sua storia, fornirmi documenti e mi deve anche spiegare una cosa: come faceva a sgattaiolare fuori ogni notte senza far capire nulla a Bruce Wayne? Capisco che avesse un caratteraccio, ma fossi stata il suo paparino al quinto labbro spaccato, l’avrei ricoverato o chiuso in casa per il resto dei suoi giorni. Non so se mi spiego”.
Si accorse che la mia era più una domanda retorica che una vera e propria supposizione e si limitò ad annuire.
Come d’accordo, ci saremmo poi incontrati l’indomani mattina nella sua umile dimora.

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Capitolo 8
*** Cap VII ***


Con la scusa di dover andare a parlare con Bruce Wayne di una cospicua donazione fatta al centro, riuscimmo ad incontrarci senza destare troppi sospetti.
Ci accomodammo nel suo studio.
“Sei molto sveglia, complimenti”
“In realtà l’ho capito perché ho pensato che un genitore attento si accorgerebbe se il figlio uscisse in calzamaglia ogni sera… In realtà so anche che Nightwing è Dick, ma ho preferito fingere di non saperlo. Per lui è bastato fare uno più uno”, presi il mio portatile: “bene sono pronta, mi dica tutto.”
“Meglio se scrivi a mano o, meglio, se cerchi di ricordare tutto a mente… potrebbe entrare nel tuo pc. Sicura di non avere una cimice addosso?”
Sbuffai: “che impiccione.”
Riposi il mio computer accuratamente nella custodia e mi armai di carta e penna: “Le assicuro che non avrebbe avuto modo”
Proseguì: “Cosa sai tu di Jason?”
“So che era suo figlio adottivo. Del suo passato poco o nulla a dire il vero…. Non me ne parlava quasi mai ed io non ho mai chiesto”
Si poggiò col tutto il peso sullo schienale della sua sedia in pelle, girandosi leggermente verso la finestra: “Incontrai Jason la prima volta nella Crime Alley. Per sopravvivere rivendeva ruote e cerchioni di auto… era riuscito a smontarli dalla batmobile. Era scaltro, ma a lungo andare sicuramente sarebbe diventato un criminale”, fece una piccola pausa prima di proseguire: “Lo adottai e lo introdussi al ruolo di Robin sperando di arginare quel suo animo ribelle ed evitare che prendesse una strada sbagliata.
Poi per un periodo decisi di sollevarlo dal suo incarico notturno per alcune divergenze in campo lavorativo e in quello stesso periodo era venuto a conoscenza che la donna con cui aveva vissuto fino ai dodici anni circa, non era sua madre biologica che, invece, era viva in Etiopia. Così partì da solo per il continente africano. Lo raggiunsi e l’aiutai a rintracciarla e... ”
“… il resto credo di saperlo”, lo interruppi.
Rimanemmo in silenzio per un po’.
“Credo che non sia rimasto morto per troppo tempo…” cominciai: “Una volta ero andata al cimitero e ho trovato degli operai che trafficavano con la terra… mi dissero che c’erano stati dei trafugatori di tombe. Volevo venirvi a chiamare, ma mi assicurarono che eravate stati informati.”
“All’epoca non ne sapevamo nulla, ma poi siamo stati stesso noi a verificare ed effettivamente la tomba di Jason era vuota. C’erano dei sensori di movimento, me ne sarei accorto se qualcuno avesse provato ad aprire la tomba dall’esterno… ma non sarebbero scattati che fosse stata aperta dall’interno…”
“Si può verificare con un software o ricerca superavanzata incrociata con ospedali o altre strutture, se sono stati avvistati ragazzi mezzi morti che corrispondono a Jay?”

Dedicammo l’intera mattinata a far ricerche, finché non trovammo una corrispondenza risalente a circa cinque anni fa, in un ospedale a diciotto miglia da Gotham: capelli corvini, occhi azzurri, alto più o meno sul metro e sessanta, più morto che vivo; emorragia cerebrale, cranio sfondato, sterno rotto, polmone collassato ed altre fratture… a contarle erano all’incirca una quarantina. A darci la conferma che si trattasse di lui era un appunto fatto a penna dal neurologo dell’equipe che si era interessato al caso: l’unica cosa che diceva era Bruce, il nome di suo padre.  Sentii un magone a leggere quella cartella medica.

“Come può aver recuperato così bene? Cioè, era morto cerebralmente… l’unica spiegazione è un coma farmacologico indotto con un qualche siero magico o non saprei…”
“Un qualcosa del genere esiste, si chiama Fossa di Lazzaro. È utilizzata dal capo della lega degli assassini, Ra’s al ghul”
“E lui come ci è arrivato da Ra’s al Ghul?”
“Non lo so…”
“Deve essere stato molto tempo con lui, però…”

Si era fatto tardi, era ora di tornare a casa.
Il fedele maggiordomo mi accompagnò alla porta: “Alfred, uno di questi giorni mi piacerebbe parlare anche con lei, sarà sicuramente più oggettivo e poi ancora non riesco a capire perché Jason sia così convinto che non sia andata al funerale… Tu lo sai che c’ero, mi hai vista…”
Sospirò.
Capii che c’era dell’altro, ma per il momento scelsi di non indagare ancora.
Tempo al tempo.


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Non ci demmo alcun appuntamento.
La tomba di Jason era un luogo dove, quando ero poco più di una ragazzina, avevo trovato rifugio più di una volta: confidavo i miei stati d’animo ad una lastra di marmo, come se parlassi con lui e proprio come allora, mi ero seduta per terra con la schiena sulla lapide, avvolta nel mio cappotto scuro.
“Ero sicuro fosse qui signorina. Negli anni l’ho visto spesso seduta in quel modo.”
Sorrisi e mi alzai cercando di pulirmi il più possibile dalla terra: “Bel posto per un incontro”
“Tocca a noi parlare, ora”, disse iniziando a passeggiare. Camminammo in religioso silenzio, accompagnati solo dal suono della ghiaia sotto i nostri piedi.
Fu lui ad interromperlo, con quel garbo che da sempre lo contraddistingueva: “Ricordo quando la vidi la prima volta alla villa, capii subito che era una ragazzina sveglia e capace di tener testa a Master Jason… non faceva altro che parlare di lei e di quanto fosse brava nelle materie scientifiche, di quanto fossi sempre curiosa. Mi disse che il suo sogno nel cassetto era fare il medico legale”
“I morti parlano molto di più dei vivi, poi però si cresce e si cambia idea…”
Sospirò e capì che era il momento di toccare l’argomento per cui avevamo scelto di incontrarci: “Era arrogante, senza paura, sfacciato e dotato, aveva del talento… era un partner ideale per Master Bruce. L’aveva tolto dalla strada e per evitare diventasse un criminale, l’aveva reso Robin.
Crescendo, Master Jason diventava sempre più violento, come se il suo istinto di sopravvivenza prendesse il sopravvento in missione e spesso sentivo che veniva rimproverato per uso eccessivo della forza. Uno degli episodi che ricordo meglio, forse il primo, fu quando ruppe la clavicola ad uno scagnozzo di un tale di cui non ricordo il nome, un potenziale testimone che forse avrebbe potuto parlare, ma era talmente in stato di shock che si rifiutò. Se ne susseguirono altri anche più violenti. Presto Master Bruce si rese conto che non era come Master Dick…. Aveva una punta di crudeltà. Era pericoloso”.
Non ebbi il coraggio di dire nulla, sentivo solo una terribile sensazione di oppressione.
“Ha mai sentito parlare di Felipe Hernandez?”
“Lo stupratore che si è suicidato buttandosi dalla finestra?”
“La sua morte fu archiviata come accidentale. Master Bruce crede invece che sia stato Jason a spingerlo dal decimo piano; era riuscito a sfuggire alle autorità e al giovane assistente del Pipistrello non era andata giù. Non si fidava a lasciarlo solo, così chiese anche a Batgirl di controllarlo in sua assenza e lei concordò sull’uso eccessivo di violenza… raccontò che in una missione, dove scoprirono un giro di contrabbando di sigarette, aveva arpionato la mano di uno dei malviventi con un fucile da pesca. Qualche mese fa, Master Jason ha voluto incontrare Master Bruce proprio qui, accanto alla sua tomba. Ha attaccato Master Tim e gli ha quasi tagliato la gola. Ho saturato io stesso quella ferita ed è stato allora che abbiamo riesumato la bara… era intatta, sembrava uguale a quella che avevamo utilizzato, ma non era la stessa ed era vuota. L’ha fatta sostituire.”
Rimasi esterrefatta, mi erano venuti i brividi e la mia testa cominciò a girare al solo a pensiero che potesse essersela presa con un ragazzino: “Pensavo di stare con un ragazzo per bene. A volte aveva modi un po’ arroganti, ma non ci davo peso e i miei amici possono confermare che fosse, almeno con noi, un pezzo di pane. Ho sempre detto che il mio Jason non avrebbe mai ucciso nessuno, né fatto del male; ho fatto delle scelte per onorare la sua memoria… sto onorando la memoria di un criminale vivo e vegeto che mi ha presa per il culo”, calciai un sassolino per il fastidio: “Ho sempre pensato che fosse solo esuberante, ma invece era un mostro sotto mentite spoglie.”
“Credo invece che il suo affetto per lei fosse sincero”, cercò di tranquillizzarmi.
“Io credo invece che non abbia mai mostrato la sua vera natura, si è nascosto come gli esseri più infimi, quelli della peggior specie…”
“Non aveva motivo di mostrare il suo lato peggiore con lei, forse riusciva a tenere a bada il suo lato oscuro. Da lei si sentiva capito, in sua compagnia non aveva bisogno di sopravvivere…
“E la storia del funerale? Come la giustifichiamo?”
“Per quella storia, mi duole dirlo, ma avete ragione entrambi: si sono celebrati due funerali, uno privato con sua madre ed uno aperto agli amici stretti. Probabilmente la fonte non sapeva del secondo funerale…”
Mi fermai di colpo e fermai il mio sguardo su di lui, incredula: “Quindi vorresti dirmi che ho fatto un discorso ad una bara vuota? Quello non era il funerale di Jay?”, mi passai nervosamente le mani tra i capelli, sussurrando ripetutamente oddio. La mia testa stava letteralmente scoppiando, iniziavo a non sopportare più nulla di questa storia. Respirai profondamente: “Alfred, diresti al signor Wayne che mi ha fatto piacere far parte per qualche ora del suo team, ma che per me è giunto il momento di dire basta?”, sospirai nervosamente “Non posso permettermi di impazzire, non posso permettermi di cedere quando ho decine di ragazzi che contano su di me. Non posso permettere a Red Hood di rovinarmi ancora la mia vita, non voglio permetterglielo.
Per me Jason sarà sempre un pezzo importante della mia vita, per questo voglio che resti un bel ricordo… mi taglio fuori, non voglio sapere altro. È vero, avevo detto che avrei scoperto la verità per me, ma per me è sufficiente.
Pensavo fosse impazzito come gli zombie di Pet Sematary, invece meritava di essere rinchiuso fin dalla nascita perché è sempre stato così.
Se ha fatto determinate cose da adolescente senza un minimo di senso di colpa, non oso immaginare cosa abbia fatto e cosa possa arrivare a fare ora. Preferisco non rovinare la mia idea di lui”, lo abbracciai con grande affetto.
Avevo gli occhi rossi, avevo bisogno di piangere, ma ancora una volta mi imposi di non farlo: “Grazie, però, di avermene parlato. Verrò volentieri a prendere un the da te, presto!”
Mi sorrise, capì che non era momento di insistere.

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Capitolo 9
*** Cap VIII ***


Salve, in questo capitolo ci sono dei riferimenti alla miniserie "Lost Days".
Spero che la mia storia vi stia piacendo,
buona lettura!



***

Mi sentii tappare la bocca.
Una lama sul collo.
“Sei sempre stata piuttosto coraggiosa e se non fossi stato io il coglione con l’elmo? Cosa avresti fatto? Sai che potrei tagliarti la gola? Mi sembra di aver capito che faccia piuttosto male”
“Prima spiegami perché ora sei tu ad avercela con me, poi potrai farlo e cerca di farlo bene perché ti ricordo che sono emofobica. Preferirei morire senza essere schifata dal mio stesso sangue e rimanere con quella sensazione angosciante per il resto dell’eternità. Anzi, già che ci sei stato, com’è il paradiso? Carino?” feci finta di riflettere: “No, forse sei stato all’inferno, ma sei talmente stronzo che anche l’inferno ti ha risputato.”
“Ti ho visto parlare con Alfred… il mio paparino ti ha mandata a cercare?”
“Non essere stupido, ché non lo sei” rimasi un attimo in silenzio: “La tua fonte ti ha tenuto aggiornato solo su alcune cose a quanto pare”, azzardai. Non disse nulla, evidentemente l’idea di un qualche informatore non era poi così strana.
Allentò la presa, mi voltai verso di lui.
Lo fissai e gli diedi uno schiaffo in pieno viso, non si mosse: “Questo è perché ti sei permesso di puntarmi due volte un coltello contro. Aspettatene altri, abbiamo alcuni conti in sospeso. Non sei l’unico vendicativo, non dimenticartelo.”
Alzò entrambe le mani, accostandole al mio viso.
Mi voltai leggermente senza però spostare completamente il mio corpo: ero combattuta, una parte di me non voleva mi toccasse, l’altra voleva sentire ancora il suo calore.
Mi avvolse in un abbraccio, strusciando il naso sulla mia guancia.
Fece per baciarmi, ma mi scostai.
Non mi costrinse. Anzi, mi lasciò andare.

Mi legai i capelli in uno chignon molto morbido, presi indumenti puliti e mi chiusi in bagno.
Lasciai riempire la vasca con l’acqua bollente e mi immersi: quella sensazione di calore misto a dolore mi faceva star bene.
Tutto ciò doveva essere stato interpretato come un invito.
Jason si era completamente spogliato ed entrò in vasca con me.
Mi rannicchiai in un angolo, coprendo le mie vergogne, un po’ imbarazzata… non volevo mi guardasse ancora.
“Non entrerai mai più in questa casa, non voglio più saperne di questa storia. Sono stanca. Ho fatto tanto per imparare a convivere con la mia testa e i miei pensieri.
Sei tornato e mi hai scombussolato. Prima di tutto adesso credo che la mia vita sia una grandissima bugia a causa tua, secondo ho capito a malincuore che non ti conoscevo affatto… Non credevo fossi capace di uccidere e far del male”.
“Mi ha preso con sé la lega degli assassini…”
“E questo cosa c’entra? Non è una giustificazione…”
“Mi avevi chiesto cosa avessi fatto in questi anni... Mi hanno addestrato loro. Ero morto cerebralmente e tutto ciò che facevo era frutto della memoria dei miei muscoli o dell’istinto. La figlia di Ra’s al ghul, Talia, mi ha buttato in una delle pozze di Lazzaro che mi ha curato le ferite e ripristinato la mente. A lei devo tutto quello che so ed è stata lei a dirmi ciò che succedeva a Gotham, di Bruce ed il nuovo Robin e questo mi ha fatto male, più di quanto pensassi. Ero già tornato una volta con l’intento di uccidere mio padre e ci ero quasi riuscito, come ero quasi riuscito a uccidere Joker, ma ho preferito aspettare; non sarebbe bastata una semplice morte a darmi pace, dovevano soffrire. Poi Talia mi ha detto che sarebbe stato meglio solo punire Bruce per non avermi vendicato e che la morte, per lui, sarebbe stato solo un sollievo. Anzi, di punirlo per me e per lei. Di te non mi ha mai detto nulla, non sapevo che fine avessi fatto… credevo fossi andata via, perché tu hai sempre detto di voler andar via da questa città di merda”
Ascoltai attentamente ed ora avevamo anche l’identità del suo informatore, Talia al Ghul.
“Sei l’ennesimo elemento che sta distruggendo questa città”
“La sto ripulendo”
“Non si ripulisce col sangue… non sei diverso da tutti gli altri assassini che ci sono e la cosa assurda è che sei sempre stato così ed io non me ne sono mai accorta”
“Uccido solo chi avvelena Gotham”
“Qual è stato il prezzo per aver utilizzato la fossa? A cosa hai dovuto rinunciare?”
Non rispose.
“Sei solo un sociopatico. Adesso parli così, ma un domani potresti cambiare idea ed assalire qualcuno che potrebbe averti infastidito per sbaglio, così come hai fatto prima con me. Non sei stabile mentalmente. E poi non ti sembra ti abbia leggermente manipolato questa Talia? Punire qualcuno per te e per lei? Chi è lei per te e chi è Bruce per lei, mh?”
Prese le mie braccia delicatamente e mi portò tra le sue gambe. Schiena contro petto, aveva un qualcosa di romantico.
Mi baciò la fronte.
“Ti ho causato un bel po’ di problemi”
“Smettila di fingere di preoccuparti per me e delle conseguenze delle tue azioni perché non te ne frega sul serio… ti ricordo che sei un sociopatico e la sociopatia è un disturbo antisociale della personalità”
Mi feci piccola contro di lui.
Gli presi una mano e l’osservai in ogni minimo dettaglio: a parte qualche segno più chiaro, erano curate e la mia mente iniziò a farsi domande strane e forse un po’ macabre, del tipo se avesse mai ucciso a mani nude.
Scacciai quei pensieri: “Ci sono cose che forse neanche tu sai di me”
“Cosa?”, mi chiese accarezzandomi il collo e le spalle con una mano, mentre lasciava che l’altra venisse studiata dai miei occhi.
“Effettivamente, per un periodo, sono andata via da Gotham. Quando avevo sedici anni, i miei ritennero opportuno trasferirsi fuori città, ma compiuti i diciotto sono tornata qui, da sola. Non riuscivo più a vivere sotto lo stesso tetto con mia madre.
In realtà ha iniziato a darmi il tormento già da quando ne avevo dodici di anni perché non ero la figlia perfetta, ero scapestrata, ribelle, avevo spesso idee bizzarre come avere documenti falsi per entrare alle feste… questa era la mia natura, ma alle spalle avevo un’educazione e dei principi che mi bloccavano dall’andare oltre certi limiti. Iniziai ad avere problemi di ansia e a grattarmi per il nervosismo provocandomi delle ferite. Ho ritrovato alcuni miei diari qui, uno di quelli segreti, e su una pagina trovai scritto che ero stanca delle sue continue umiliazioni. L’avevo metabolizzato talmente bene da dimenticarlo oppure in fondo sapevo che mia madre voleva solo aiutarmi, ma allora non lo capivo.”
Mi voltai e iniziai a guardarlo negli occhi: “Forse è per questo che ero sempre arrabbiata, proprio come te, mi sentivo in gabbia perché non mi sentivo libera di mostrare il mio vero Io… forse non siamo poi così diversi…”
Socchiusi gli occhi e lui avvicinò le labbra al mio collo, baciandolo lentamente arrivando a metà della gola, dove meno di un’ora prima aveva poggiato la lama ondulata.
Risalì con la punta della lingua sino alle mie labbra, coinvolgendomi in un bacio carico di passione.
Mi fece mettere a cavalcioni su di lui ed i nostri corpi iniziarono a danzare a ritmo della stessa musica, una di quelle ritmate e sensuali; per la casa riecheggiava solo il suono dell’acqua in agitazione e di nostri sospiri di piacere.

Raggiungemmo l’apice quasi insieme e rimanemmo stretti l’uno all’altro senza proferir parola, il nostro silenzio era cullato solo dai nostri respiri ancora un po’ affannati e dal suono di qualche bacio che ci concedevamo su qualsiasi lembo di pelle ci capitasse a tiro.
“Sai che ancora devi rispondermi?”
“A cosa?”
“Devi dirmi chi è Talia per te, oltre ad essere colei che ti ha reso un po’ fuori di testa.”
Sospirò piuttosto rumorosamente passandosi una mano tra i capelli corvini e umidi: “Diciamo che c’è stata dell’intimità tra me e lei.”
Alzai di scatto la testa verso di lui: “Quindi tu ti sei fidato di una che probabilmente potrebbe essere tua madre, che ti ha molestato, ti ha addestrato per essere un carnefice e…”
“Non mi ha molestato… So per certo fosse innamorata di Bruce.”
“Quindi ti sei fatti abbindolare da una che potrebbe essere nostra madre, che ti ha addestrato e che ha fatto sesso con te per ripicca nei confronti di un altro uomo. Oh wow Jason, sei proprio intelligente. Forse la sprangata in testa ha fatto più danni del previsto, danni che neanche la fossa è riuscita a curare”, mi alzai nervosamente dalla vasca, cercando di andare via. Me lo impedì bloccandomi per un braccio, facendomi tornare su di lui.
“Tu lo sai vero che non puoi arrabbiarti per questo? Non c’era un finché morte non ci separi e se anche ci fosse stato sono legalmente morto, anzi lo sono ancora”
“Pensi che sia gelosia la mia? No zuccone, non mi arrabbio per quello, ma perché sei tanto furbo ed intelligente da architettare piani complessi, omicidi senza lasciare alcuna traccia e poi ti fai raggirare da una che ti dice di punire qualcuno per entrambi? Sei stato un po’ ingenuo. Ti ha persuaso dall’ucciderlo perché faceva comodo a lei, perché lei lo amava, ma ti ha messo ugualmente in guerra per non farti un torto, tenerti buono e non farti perdere la fiducia in lei. E credimi, lei sapeva perfettamente che eri e sei svitato e la cosa la preoccupa.”
Iniziò a cambiare espressione del viso, stava di nuovo per cedere alla rabbia, ma ciò non mi impedii di continuare: “Ti ha messo in testa di non essere stato vendicato, che c’era un nuovo Robin e quindi hai dedotto di essere stato sostituito. Cristo, Jay, ma come hai potuto pensare a solo una di queste cose? Non si ricambia mai con la stessa moneta e tu non potrai mai essere sostituito da nessuno… te la sei presa ingiustamente con un ragazzino che probabilmente ha vissuto nella tua ombra e che probabilmente ti credeva anche uno tosto… ti rendi conto che questo non sei tu?”
“Parli proprio come lui”, si alzò dall’acqua ed uscì dalla vasca. Si asciugò velocemente e si rivestì, andando via pochi istanti dopo.
“Tanto sono io quella che non vuole più rivederti fino alla fine dei suoi giorni! Fingi che sia morta ed io farò lo stesso con te!”
Non mi importava se mi avesse sentito o meno.
Rimasi ancora nell’acqua non badando al fatto che si stesse raffreddando
.

   

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Capitolo 10
*** Cap IX ***


Buongiorno a tutti!
Prima di tutto, ci tenevo a ringraziare immensamente chi sta dedicando del tempo alla mia storia. <3
Volevo cogliere l'occasione di fare un piccolo appunto e precisazione su questo e alcuni dei prossimi capitoli.
C'è consapevolezza da parte mia che il personaggio i Harley Quinn non è presente nell'arco narrativo di "Under the hood", ma ho deciso di introdurla ugualmente nella mia storia in quanto Harley sarà una spalla per la mia Grace, una delle figure centrali e più importanti per la sua crescita personale.
Ci tengo a sottolineare che la Harley in questione è della mia amica Longgriffiths, quindi le varie interazioni e dialoghi sono stati scritti a due mani.
Longgriffiths, grazie per aver sopportato le mie crisi esistenziali, per avermi appoggiata e consigliata XD 

Detto ciò, vi lascio alla lettura del capitolo, che sarà un po' più breve rispetto ai precedenti e ai prossimi poiché è di 'transizione'.
Buona lettura!


***

Dopo il mio ultimo incontro con Jason ero più che convinta a di non voler andare oltre in questa faccenda. Era stato indubbiamente bello rivederlo, ma per me stava diventato tutto troppo grande.
Decisi di tornare alla mia vita esattamente da dove l’avevo interrotta, prendendomi cura dei miei ragazzi; evitavo il discorso anche con Jonathan che, dal canto suo, aveva rispettato la mia scelta. Spesso notavo cercasse di dirmi qualcosa, aggiornarmi, ma riuscivo a stroncare il tutto prima ancora che aprisse bocca.
Nonostante i miei tentativi, però, avevo sempre una sorta di spettro oscuro che mi seguiva ovunque andassi, ricordandomi che non era tutto ok nella mia testa. Anzi, era tutto dannatamente confuso e sbagliato e il non sapere ed il non avere pace, erano tra le cose che più detestavo al mondo.
Finita la mia giornata lavorativa, decisi di andare nell’ufficio del capo e chiedergli di potermi dare alcuni giorni di riposo e di acconsentire ad un permesso per lavorare da casa per un periodo.
Avevo deciso di passare un paio con la mia famiglia ed i restanti sola con me stessa.


Scrissi un breve messaggio a Jonathan e lo pregai di avvertire anche Dick, Alfred e il signor Wayne e che non sarei stata reperibile per nessuno, tranne che per chiamate ed e-mail lavorative.

Chiamai anche il dottor Stabler, con cui feci un brevissimo incontro in cui spiegai i miei stati d’animo da quando avevo scelto il mio percorso di studi. Gli raccontai di come mi ero buttata a capofitto nello studio, su mille progetti e di come ero riuscita a creare un legame d’amicizia e stima con tutti i ragazzi del centro.
Gli raccontai di come mi sentissi un’ancora di salvezza per loro, facendomi sentire appagata, e di come loro lo erano stati per me. Gli raccontai di quando l’idea della morte mi aveva sfiorata, ma che per fortuna era solo un pensiero passeggiero di chi aveva ricevuto una cantonata in un’età piuttosto delicata. Gli confidai, inoltre, che dopo quell’episodio, l’idea della morte mi era totalmente indifferente.
Lo resi partecipe delle decisioni prese poche ore prima ed espresse tutta la sua preoccupazione, pensando stessi vivendo una sorta di ricaduta. Effettivamente i miei gesti potevano essere fraintesi, avendo pianificato tutto nei minimi dettagli, dal saluto ai miei amici, al voler trascorrere del tempo in famiglia di mia spontanea volontà, fino a volermi isolare per aver modo di riflettere sulla mia vita.
Lo tranquillizzai.
Non volevo farla finita, assolutamente, volevo solo prendermi del tempo per lavorare su me stessa, concedermene altro per affrontare ciò che avevo rimandato per anni. Prima o poi, questo momento sarebbe arrivato e lo sapevamo tutti.  


Dopo aver trascorso due giorni piacevoli con i miei genitori, organizzai una bellissima gita con mio fratello al museo di storia di Gotham: ogni volta che entrava in quel posto, era felice. Il reparto che preferiva era quello sulle armi, che ripercorreva l’evoluzione dell’uomo e di queste dalla preistoria ai tempi moderni.
Lasciai che il mio sguardo percorresse ogni millimetro di quel posto, beandomi di quel profumo inebriante delle teche di legno e lo sguardo felice di una delle persone più importanti della mia vita.
Mi soffermai distrattamente su una vetrina con all’interno armi provenienti dal sud est asiatico: c’era un pugnale simile a quello di Jason; forse le conoscenze di mio fratello mi sarebbero state utili.
“Matt, cos’è quello? Mi ricorda il corno di un unicorno!”, sorrisi vedendolo tornare verso di me.
“Quello è un pugnale indonesiano… è un pezzo molto interessante, c’è tutta una teoria che riguarda l’anima, ma non sono molto informato. Posso solo dirti che le onde che vedi dovevano essere sempre dispari e in base al numero si può dedurre a quale casta appartenesse chi la possedeva. Più si era importanti, più erano lavorate e impreziositi da materiali provenienti da terre oltre oceano. Ad oggi, il numero di onde punta solo ad infliggere quanti più danni.”
“Wow, bello… molto interessante.”
Dopo averlo riaccompagnato a casa, tornai a Gotham: era giunto il momento, per me, di affrontare i miei demoni: dovevo scegliere se combatterli o imparare da loro.
Avevo detto al signor Pennyworth che avrei preferito mantenere un bel ricordo di Jason, ma non sarei stata in grado di farlo sapendo ciò che aveva in mente e di vivere serenamente; mi sarei sentita sporca di sangue e sarei stata colpevole, anzi complice, di un delitto che forse avrei potuto evitare.
Per poter fermare lui e la sua vendetta, avrei dovuto pensare come lui e soprattutto comportarmi come lui e cercare l’unica persona, che non fosse Batman o Nightwing, in grado di aiutarmi e se questo avrebbe significato avere una probabilità del novantanove percento di morire, beh ci avrei provato ugualmente.

Gli obbiettivi di Jason erano umiliare Batman, portargli via il nuovo Robin e Gotham, e uccidere Joker. Poco male per una mente come la sua, avrebbe potuto pensare cose peggiori.

Black Mask era solo un escamotage per togliere la città al suo vigilante e dimostrargli di essere migliore di lui: era riuscito ad abbassare il tasso di criminalità, ma il punto marcio della situazione erano i suoi modi. Erano troppo… troppo, punto.
Il povero Tim Drake aveva già subito abbastanza, non era riuscito ad ucciderlo, ma ci era andato vicino.
L’unico tassello mancante era il suo assassino.


Escludendo a priori l’idea di andare direttamente dal Clown, ci sarei potuta arrivare tramite qualcuno che gli era vicino o quasi. L’unica soluzione era cercare Harley Quinn. 

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Capitolo 11
*** Cap X ***


Buonasera!
Questo capitolo è stato scritto a due mani con Longgriffiths che non smetterò mai di ringraziare sia per la disponibilità, sia per la pazienza e sia per aver dato un pizzico in più di follia alla mia storia.
Buona lettura!


***  

Trovare Harley Quinn non era un’impresa titanica, ma per potermi avvicinare a lei, dovevo essere convincente, avere con un obbiettivo che stuzzicasse il suo interesse e soprattutto una moneta di scambio che ne valesse la pena.
Soldi? No, sicuramente avrebbe chiesto una cifra oltre le mie possibilità… L’unica cosa che avrei potuto darle in cambio, era la famosa cartellina gialla datomi da Dick e Jonathan qualche tempo fa.
Di certo non potevo giocare a carte scoperte fin da subito, così decisi di prendere alla larga la mia richiesta… infin dei conti erano tutti collegati: Black Mask-Jason-Joker. 

Mi feci una bella doccia, indossai un tubino nero, tacchi a spillo e mi truccai con una sottile linea di eyeliner, mascara e rossetto rosso.
Mi ritrovai proiettata in una delle realtà più stravaganti di Gotham: uno dei bar più lussuosi della città frequentata da gente ricca, facoltosa e immischiata in affari sporchi. Mi mossi silenziosamente, cercando di carpire quante più informazioni: Jay era sulla bocca di tutti, stava eliminando qualsiasi spacciatore della zona, fino ad arrivare anche a quelli più importanti.

Adocchiai tra la folla una delle creature più belle che avessi visto in vita mia: bella, sensuale come non mai, pelle di porcellana e crini biondi tendenti al platino che ricadevano in morbidi boccoli sulla schiena, impreziositi per sei pollici dalle punte in su, da tinte per niente conformi a quella che era la normalità.
Feci un lungo respiro e mi avvicinai a lei, sicura di me: “Signorina Quinn? Potrei parlarle?”
Mi guardò dall’alto in basso, non ero un viso conosciuto in quegli ambienti. Cercai di non far trasparire esitazione: “E tu chi diamine sei?” La sirena smise di bere il suo whisky e raccolse la ciliegia all'interno del bicchiere dal picciolo, portandosela alla bocca mentre attendeva la mia risposta.
A casa avevo pensato ad alcuni scenari possibili e, fortunatamente, c’era anche questo. Infatti, ebbi la risposta pronta: “Qualcuno che sta per offrirle un lavoro che sicuramente non potrà rifiutare”.
“Senti senti… ”, il giullare alzò un sopracciglio sollevando un angolo delle labbra carnose e lucidate di magenta.

Mi guardò incuriosita con una evidente punta di divertimento e accettò di scambiare quattro chiacchiere con la sottoscritta.
Dopo essersi recata al bancone principale, la vidi sporgersi verso un uomo in cravatta e gilet preparava dei cocktail, e riferirgli poche sillabe, ci recammo in un privé, di quelli blindati e sorvegliati. Ciò che succedeva o si diceva tra quelle quattro mura, rimaneva lì.
Harley prese posto su un divanetto di fronte a me accavallando le gambe, senza curarsi della gonna che indossava, sollevata in quel gesto fin quasi a scoprire il colore della biancheria.
Aspettava che le parlassi.
“Vorrei chiederle di tenere d’occhio Black Mask. Sa, il suo giro mi disturba e non poco e conoscere le sue mosse mi aiuterebbe a salvaguardare la mia attività. Mi importa solo che ci sia discrezione e nessun omicidio, solo uno scambio di informazioni”.
Tirai fuori la famosa busta gialla la misi sul tavolo: “In cambio potrei dirle l’identità di Red Hood. Qui ci sono tutti i suoi dati e le prove del DNA.
Lei è al corrente che è il nuovo super criminale di Gotham, no? Vuole distruggere Black Mask togliendogli tutto, ma immagino sappia anche questo. Quindi se noi sapremo ciò che farà Black Mask, sapremo anche cosa potrebbe fare Red Hood. So come pensa e avremo alte possibilità di prevedere ogni sua mossa. Se fermeremo Black Mask, fermeremo anche Red Hood. Se riusciremo a mettere fuori dalla malavita di questa città entrambi, io sarei felice e lei diventerebbe la Regina indiscussa. Che ne dice?” Iniziò a ridere, una risata fredda e senza emozioni, afferrando la cartellina. La aprì senza esitazione, gettando uno sguardo a tutti i fogli del fascicolo prima di ridarmi attenzione.
“Non mi sembra che questo sia il tuo primo giorno a Gotham, non cercare di manipolarmi. Io sono già la regina, questa è una cosa che dovresti sapere tu. Ho smesso di chiedermi, perché generalmente quando sono donne ad ingaggiarmi, gli omicidi sono esclusi dall'accordo. Ma fammi capire come gira quella testolina.”
Harley mi rimise davanti la cartellina, sporgendosi verso di me come un leone in procinto di attacco:
“Mi stai consegnando l'identità di Red Hood chiedendomi di non uccidere lui, o ti riferisci agli spacciatori di Romy? Perché se sai come pensa uno di noi, o lo combatti o gli sei vicino, e se vuoi che questo super criminale, che potrebbe minacciare il mio stato di potere a lungo termine ne resti incolume, non vedo perché smascherarlo di fronte a me.”

La guardai dritta negli occhi e pregai alla mia testa di pensare il più velocemente possibile.
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia, è una frase di Sun Tzu del libro ‘L’arte della guerra’. Se sa chi è Red Hood, sarà più facile per entrambe… Nessun’altro deve morire per mano sua. E con nessuno, intendo nessuno, dai pesci piccoli a quelli grandi.”
“Risparmiami queste stronzate da quarantenne sessualmente frustrata, che aspetta ancora nel miracolo di un mondo migliore per sviare l'attenzione da quanto faccia schifo la sua vita. E non parlare come se stessi dando lezioni del mestiere a me. Te lo dico ora e che sia l'ultima volta, che cosa sei venuta a fare?”
Feci una piccola pausa, dosando allora le parole da usare: “Con tutto il rispetto, signorina Quinn, il problema qui non sono io e non è neanche ciò che gira nella mia testa perché, le assicuro, ho solo buone intenzioni; il problema è ciò che c’è nella testa di Red Hood e, mi creda, non c’è nessuno a parte me che può saperlo. È un mistero anche per chi l’ha cresciuto e addestrato, è molto imprevedibile, instabile…è sociopatico e lei sa benissimo di cosa sto parlando. Lei è un ex psichiatra, giusto? Lei sa cosa comporta la sociopatia. Posso descriverle il suo modus operandi, so che armi usa e quale preferisce tra quelle che ha. Posso dirle altezza, peso, colore dei capelli, occhi, da chi e come è stato addestrato… posso dirle tutto su di lui, ma la prego, mi dia una mano e mettere fine a questa carneficina.”
Presi dalla mia borsa il tesserino di riconoscimento universitario e allungai verso la mia interlocutrice.
Lo sguardo di Harley era ora attento. Il viso si era rilassato così come il resto del corpo, mentre raccoglieva il tesserino analizzandolo, e spostando lo sguardo dall'oggetto a me.
“Facciamo così, mi psicanalizzi e verifichi lei stessa che non sto mentendo e che non sto cercando di manipolarla. Giocherò a carte scoperte: sono Grace Lilywhite, ho vent’anni e sono un’aspirante assistente sociale.”

“Vent'anni. Più o meno, l'età del criminale che ti sta dando rogne, eh? C'è un motivo particolare, come credono tutti sia stato per me o è solo volontà di ferro, per cui una ragazzina ha scelto di stare in mezzo a tossici e degrado? Perché sei presa da un'evidente sindrome da burnout. Tenti di addossare la colpa a Red Hood per la tua incapacità o fallimento anche temporaneo, nei confronti del lavoro che stai svolgendo. Hai tutte queste informazioni su di lui. Studiava con te ed è impazzito strada facendo e ti dà noia che invece di aiutarti, mandi a monte tutto? Perché mi sembra una questione più personale che professionale. Specie perché se fosse davvero per evitare la tomba ai tuoi assistiti non t'importerebbe della vita di uno per quella di mille, o non saresti venuta a delegare il compito a una terrorista.”

La sua sfacciataggine iniziava ad infastidirmi e il mio lato più sfrontato stava facendo a pugni col mio buon senso: “La ragione per cui ho scelto di stare in mezzo a tossici e degrado è perché credo fermamente che tutti meritino una seconda possibilità. La maggior parte dei miei assistiti sono adolescenti che riversano nella polverina magica tutte le loro frustrazioni e le colpe di chi non è stato in grado di apprezzarli.” Feci un respiro profondo: “Ha ragione, ho fallito, ma non con i miei ragazzi, ma con quello che era il mio fidanzatino al liceo. Non faceva uso di droghe, ma era una testa calda… mi ero addossata la colpa della sua morte perché involontariamente avevo assecondato il suo essere senza paura perché anche io ero così e non riuscendo a metabolizzare la sua morte come accidentale, ho preferito puntare il dito verso me stessa. Poi il mio senso di colpa è svanito perché in realtà la storia era ben più complessa di quel che potessi minimamente immaginare e la colpa di tutto era solo ed unicamente del Joker.”
Harley si bloccò per qualche secondo.
La sua mente mulinellò in un vortice di confusione fino a quando le sinapsi non collegarono.  Dopo pochi attimi, batté le palpebre e indurì la sua espressione riducendo gli occhi a fessure: "E tu ti presenti da Harley Quinn sostenendo che tutti meritino una seconda possibilità? Tesoro, non hai la minima idea di quanto altro hai da piangere. Joker ha spezzato parecchie anime, comprese quelle in corpi ancora vivi, ma se finisci laggiù è soltanto colpa tua."
Le parole vennero fuori dalle sue labbra come se stesse spuntando fiele. Comprendeva il suo stato, e fu navigando nei ricordi bui, che quasi si spense.

A quelle parole, il mio lato ‘Todd’ uscì fuori allo scoperto, non ne potevo più. Criminale o meno, mi aveva stancata. Sbattei entrambi i palmi sul tavolino e mi alzai chinandomi verso di lei: “Allora credo di non essermi espressa bene, caro arlecchino. Red Hood è Jason Todd, Robin 2.0, il piccolo pettirosso morto assassinato brutalmente dal Joker. Ora, per non si sa quale motivo, è tornato in vita e vuole uccidere colui che l’ha mandato all’altro mondo a soli quindici anni.”
Sentii le guance avvampare e il labbro tremare per il nervosismo: “Per quanto io detesti Joker per quello che gli ha fatto, non voglio che lui viva il resto dei suoi giorni con il vuoto che lascia la vendetta e non voglio diventi un mostro o almeno più di quanto non lo sia già.”
"Mia cara Grace. Se vuoi sostenere un discorso serio con me tesoro, tieni i nervi saldi o ti faccio ingoiare il tesserino, prima di tutto. Dimmi, hai mai tirato su una striscia di polvere bianca, o hai solo visto i tuoi assistiti con i disturbi post-traumatici della dipendenza?"
Harley alzo un sopracciglio in attesa.
Inspirai ed espirai più e più volte prima di sedermi nuovamente: “Ho solo visto i disturbi post-traumatici della dipendenza, mai vissuti. È una domanda pertinente?”
"Sì. La droga e gli omicidi ti danno la stessa sensazione di libertà, potenza, eccitazione. Quando l'effetto svanisce ti accorgi di non essere mai stato così bene, di volerne ancora, sempre più sangue. Un tossico non può fare a meno della droga per il suo corpo. Un uomo, non può liberarsi del desiderio di uccidere quando ha superato quella linea. A meno che non smetta da solo di volerlo. Mi hai rivelato la sua identità perché io lo protegga da Joker, e lo tenga allo stesso tempo lontano da lui. La droga, Black Mask, sono tutte stronzate, e anche il fatto che giocavi a carte scoperte, e che non cercavi di manipolarmi. Le hai scoperte adesso. Dammi un motivo, per il quale dovrei aiutarti, se mi hai presa per il culo, ed io lo farò senza volere niente che la vecchia identità del secondo Robin in cambio."
Sentii i miei occhi riempirsi di lacrime calda e amare, probabilmente erano quelle che non ero mai riuscita a tirar fuori, quelle che avevo custodito più gelosamente di tutti da quel dì, quelle che avevano il sapore del mio dolore, della mia rabbia: “Avevo quindici anni quando se n’è andato ed io non ho mai superato la sua morte. Ho avuto strani pensieri per tutto questo tempo, dal volerlo raggiungere al volerlo riesumare per tenerlo sempre accanto a me. Non ho permesso a nessuno di aiutarmi perché credevo che fossi io la causa, che si fosse ritrovato in uno dei posti che frequentavamo di nascosto al momento sbagliato quindi mi son detta ‘diavolo Grace, potevi esserci anche tu con lui e invece hai preferito fare i compiti’. Volevo diventare un medico, ma ho rinunciato per aiutare chi, come lui, aveva la tendenza a cacciarsi sempre nei guai. Poi è tornato ed io non avevo idea che fosse lui inizialmente… anzi, fortuna era lui perché avevo fatto la stronzata di andare a chiedere ad un narcotrafficante di non spacciare ai ragazzini. Poi mi è stata data la cartellina che le ho consegnato ed è stato allora che ho scoperto anche della sua seconda vita e come fosse realmente morto… mi si sono riaperte tutte le ferite che pensavo di aver curato. Mi sono accorta di amarlo ancora e, a quanto pare, la cosa è ricambiata. Non so se il suo sia amore in senso stretto, ma so per certo che prova dell’affetto per me… Se dovesse far del male ancora, non sarei in grado di stargli accanto e a quel punto sarebbe stato meglio che fosse rimasto tre metri sottoterra. Ho scoperto cose sul suo conto che avrei preferito non sapere, ma continuo a ripetermi che non è poi così crudele… Non voglio che tu difenda Red Hood da Joker, ma vorrei che tu difendessi Joker da Red Hood, così da aiutarmi a poterlo amare senza remore perché, se dovesse arrivare a compiere la sua vendetta, non riuscirei a guardarlo con gli stessi occhi… sta avendo la sua seconda possibilità e non voglio che la sprechi.”
Harley ascoltò il suo monologo in religioso silenzio, guardando all'insù, e sbuffando sonoramente, per niente annoiata dalle parole udite.

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Capitolo 12
*** Cap XI ***


Era notte fonda, circa le quattro, e mi trovai a fissare il mio tesserino con su scritto il numero di referenza di Harley Quinn.
I pensieri che affollavano la mia mente in quel momento erano come sarebbe andata a finire? Stavo facendo la cosa giusta? Cosa ne sarà di me? Ma soprattutto: mi sarei potuta fidare della dottoressa Quinzel? Una vocina interiore mi suggeriva di ritirarmi da questa sottospecie di crociata che avevo iniziato perché non sarebbe finita bene, un’altra mi diceva di proseguire e andare avanti perché in fondo quella era la mia natura, così come quella di Jay.
Scacciai via le mie due coscienze e mi concentrai sul presente, così iniziai a fare mente locale su tutte le informazioni che avevo su Jason e con un colpo di reni mi alzai dal letto e accesi il mio portatile. Bruce aveva detto che era una specie di baby-criminale. Se avessi cercato sul database del centro presso cui lavoravo, che era su scala nazionale, avrei potuto sicuramente trovare qualcosa sul suo conto; il database era collegato anche a carceri minorili e centri d’adozione, ma su di lui nessuna informazione a parte che sua mamma era morta d’overdose e che suo padre, un certo Willis Todd, era un piccolo criminale ucciso da TwoFace.
Qualcosa non quadrava: o non era mai stato beccato o qualcuno aveva ripulito la sua fedina penale… un Robin sporco non sarebbe stato credibile e soprattutto non avrebbe avuto accesso alla Gotham Accademy anche se figlio adottivo di Bruce Wayne.

Riflettendoci, a Gotham c’era un riformatorio dove, si diceva, che il Pipistrello portasse tutti i monelli di strada per essere rieducati.
Se Jason avesse frequentato quel posto, chi gestiva la struttura sarebbe stato in grado di dirmelo.
Feci qualche ricerca ed uscì che questa scuola era gestita da una simpatica vecchietta australiana, Faye ‘Ma’ Gunn, che in realtà invece di rimetterli in riga, li addestrava per diventare dei gangsters ed ora si trovava in prigione.
Dovevo pensare come un criminale e in fondo, come disse Harley Quinn, non era il mio primo giorno a Gotham. Dovevo uscire dai miei nuovi schemi e tornare un po’ la ragazzina spericolata di cinque anni fa.
Senza neanche accorgermene era ormai l’alba e mi preparai per andare al trovare la maestra di scuola.
Prima di poter andare lì, aprii una vecchia scatola che avevo sotto la scrivania dove tenevo alcune foto o oggetti che preferivo tenere sott’occhio.
Rovistai all’interno alla ricerca del mio documento falso ed anche una vecchia foto di Jason: ce n’erano un bel po’, in verità, alcune gliele avevo scattate mentre facevamo qualche gita delle nostre. Scelsi quella dove si vedeva meglio in viso, era seduto su un muretto diroccato, sigaretta tra le dita, mentre era concentrato a guardare un non so cosa su di un albero. Era davvero carino, più di quanto non ricordassi.
Sorrisi e la misi in una cartellina insieme ad alcuni carte falsificate di uno studio di un medico legale.

Arrivai al penitenziario di Gotham, mostrai il mio documento e mi feci condurre nella cella della signora Gunn: “Buongiorno, sono Leighton Lang, potrei farle qualche domanda?”
Non ebbi risposta, solo un sorriso oserei dire beffardo.
Misi la cartellina sul tavolo e l’aprii e le mostrai la foto: “Conosceva Jason Peter Todd?”
Guardò la foto attentamente: “Chi lo vuole sapere?”
“Assistente del medico legale. Sappiamo che frequentava la sua scuola per bravi ragazzi.”
“Chi lo sa…”
“Attenta a quel che dice, signora Gunn. Il ragazzo in questione è morto e stiamo lavorando al caso. Anni fa la sua morte fu archiviata per asfissia, ma sono emerse nuove prove e stiamo cercando di risolvere questo increscioso evento. Lei sta scontando una pena di appena cinque anni per rapina a mano armata e coinvolgimento di minori. Contando che i giudici sono stati molto clementi con lei, povera vecchietta indifesa, sarebbe un vero peccato beccarsi l’ergastolo per omicidio premeditato, ora che le mancano pochi giorni… quindi riformulo la domanda: frequentava la sua scuola per giovani criminali?”
Mi guardò e sbuffò: “Sì, ma per poco tempo. Avevamo preparato un colpo, ma scelse di stare dalla parte dei buoni, contattando Batman e facendomi sbattere in galera. Non è morto per mano mia.”
“Vorrebbe dirmi che non ha contatti all’esterno?”
“I miei alunni sono alcuni in un carcere minorile, altri sono stati processati come adulti e sono, dunque, i questa stessa struttura…”
“D’accordo. Tornando al piccolo Todd… Secondo lei, sarebbe potuto diventare un criminale?”
“Tra i migliori, probabilmente, ma questo non potremo mai saperlo. Sebbene avesse determinate qualità ed una certa attitudine, quando si è giovani si può cambiare, ciò che non cambia è l’inclinazione e… sa che l’acqua ha memoria?”
“Cosa vuole dirmi?”
“Siamo fatti per il 78% di acqua e il nostro corpo non dimentica. Avrebbe potuto rigare dritto, ma in momenti di difficoltà, avrebbe reagito ancora come un criminale, per sopravvivere. Prima o poi, quella natura riemerge e sta alla persona stessa scegliere se assecondarla o meno. L’ultima volta che l’ho visto, come ho già detto, fece la sua scelta di stare con il bene. Non so altro.”
“Metterò a verbale, signora Gunn. La ringrazio per il suo tempo.”

Così ebbi la conferma che era un delinquente di strada, sbattuto in riformatorio e che non solo non mi avevano detto tutto, ma addirittura i miei sospetti che gli avessero ripulito la fedina penale erano più che certi.

Ora mi serviva un esperto di armi.
Al centro di Gotham c’era uno dei negozi più grandi e rinomati di armi antiche e moderne e chi lo gestiva era un vecchio conoscente, essendo che andavo spesso lì con mio fratello.

Andai diretta da lui: “Buongiorno Sam! Senti, mi dovresti fare un favore grande quanto una casa. Non come la mia, sarebbe troppo piccolo. Pochi giorni fa sono stata al museo con Matt e come sai, adora collezionare spade medioevali. Vorrebbe ampliare la sua collezione e a breve sarà il compleanno; ho notato che ha sviluppato un certo interesse per quella specie di pugnale ondulato… com’è che ha detto che si chiamava...”, feci finta di pensare, aspettando che fosse il venditore a rivelarmi il nome “Un Keris malese, immagino”
“Ma le sai tutte! Proprio quello! Dai, fammene vedere qualcuno e raccontami un po’ di quest’arma, almeno farò bella figura e… se chiederà, io non sono mai stata qui e non ho mai chiesto nulla, intesi?”, gli feci un occhiolino ed annuì: “Sei una brava sorella maggiore…”, andò nel retro del negozio cominciando a parlare e cercando l’oggetto di mio interesse: “il Keris o Kriss è un’arma originaria di Giava, ha la lama detta a biscia, molto molto affilata. La sua forma consente di provocare lacerazioni asimmetriche difficili da far rimarginare anche con punti di sutura”, tornò da me con un magnifico pezzo intarsiato con impugnatura d’avorio: “Proprio per questa caratteristica, le esecuzioni erano per lo più effettuate sulle spalle: si recideva la succlavia e fino ad arrivare al cuore, dall’alto. Se si voleva far soffrire di più o estrapolare informazioni, si infilava frontalmente appena sotto la clavicola… era parecchio doloroso”, sfoderò il pugnale facendomi vedere le due esecuzioni differenti.
Sorrisi e lo pagai dicendogli che ci avrei pensato io ad impacchettarlo.

L’ultimo tassello che mi sarebbe tornato utile per iniziare a formulare quel che poteva essere solo lontanamente un piano, era capire chi accidenti fossero Ra’s al ghul e Talia al ghul

Cercai sul web la lega degli assassini e tutto ciò che girava intorno a questa setta erano solo racconti sui loro addestramenti leggendari e che il loro fine ultimo era quello di distruggere il male e la corruzione utilizzando qualsiasi mezzo. Wow, chissà dove l’avevo già sentita questa…
Comunque nulla di certo, a parte il significato di Ra’s al Ghul, re dei Ghul, sovrano dei demoni.
Nulla sulle fosse di Lazzaro. Quello di cui ero assolutamente certa, era che quella fonte aveva totalmente alterato la psiche di Jason e, da quest’idea che mi ero fatta, dedussi che doveva esserci uno scambio equivalente, il principio dell’alchimia secondo cui per ottenere qualcosa bisognava darne in cambio un’altra con il medesimo valore.

 

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Capitolo 13
*** Cap XII parte I ***


Grazie ancora alla dolcissima Loggriffiths <3


Erano circa le cinque e mezza del pomeriggio, presi il mio tesserino universitario e digitai il numero lasciatomi da Harley Quinn.
Provai a rintracciarla più di una volta, ma nulla.
Presi il mio zainetto e scesi velocemente di casa.
Aprii il portone e incontrai Jonathan sotto: “Jo, cosa ci fai qui? Che sorpresa!”
“Sono preoccupato per te, ti stai comportando in maniera strana e così ho pensato di venire a trovarti…”
Era tenero quando si preoccupava per me: “Dai, saliamo un attimo che ti offro un bel caffè… tanto dovevo solo fare delle fotocopie, ma quelle posso farle più tardi!”, mentii. Non potevo dirgli ancora cosa stavo combinando, era prematuro e, in un modo o nell’altro, me l’avrebbe impedito.
“Stai bene?”, mi chiese guardandomi con fare premuroso. Alzai lo sguardo su di lui e in un flash rivissi tutta la mia infanzia, l’adolescenza, i momenti dolorosi ed anche quelli felici, il diploma e lui era sempre lì con me e il solo pensiero che Jason potesse fargli del male, mi procurò un dolore immenso.
“Sì…”, gli indicai la parete piena di foto: “Vedi quello spazietto vuoto? Lì ci andrà la foto della nostra laurea. La voglio appendere dove tutti potranno guardarla e dire che sono davvero la persona più fortunata del mondo ad averti…”
Rise sommessamente: “Non esagerare, poi arrossisco”
Presi il mio cellulare e iniziai a vedere gli orari dei treni: “Ti ricordi quando ero nervosa per chissà quale motivo e tu, per farmi distrare, mi avevi proposto di prendere un treno per una meta totalmente a caso? Ti va di rifarlo?”
“Ma cosa dici… non abbiamo più diciassette anni ed io non sono nervoso. Anzi, siamo grandi abbastanza per poter parlare senza filtri, non credi?”, rise divertito.
“Dai, ti prego, nessun secondo fine, è solo per sentirci giovani! Vivi a pochissimi metri da qui… vai a prendere uno zaino, io prenoto il treno e l’albergo… Andiamo a Star City.”
Mi guardò con fare finto spazientito, ma si vedeva lontano un miglio che l’idea allettasse anche lui.
Non feci in tempo ad annuire energicamente fingendomi felice di quell’idea, che Jonathan era già fuori casa.
Preparai anche io un piccolo borsone con dei vestiti alla rinfusa, mi serviva solo per non insospettirlo.


Erano le 21.58 e il treno sarebbe partito da lì a breve.
Mi alzai dal mio posto e lasciai lì il mio bagaglio: “scusami, vado un attimo in bagno…”

Che scusa banale!
Scesi dal vagone e aspettai che le porte si chiudessero definitivamente prima di allontanarmi: il viaggio l’avrebbe tenuto occupato almeno per un paio d’ore.
Scappai velocemente dalla stazione e come previsto, il mio amico mi chiamò: “Sei rimasta chiusa nel bagno? Devo venirti a salvare?”
“No Jo, non serve… Non sono sul treno. Non eri tu quello nervoso, ma io… Ti prego, stai lontano da Gotham per un po’ di giorni…”
“Cosa stai farfugliando?”
“Ti ho detto di stare lontano da questa città.”
“C’entra Jason? Cosa sta pensando quel pazzo? Dick mi aiuterebbe…”
“Fidati di me, ci sono cose che neanche Dick può risolvere…”
Sospirò, non l’avevo convinto: “Posso aiutarti, lo sai…”
“Ti raggiungerò tra un paio di giorni, promesso. Nel mentre aiutami a distanza… cercami tutti quello che sai sulla fossa di Lazzaro, Ra’s al ghul, Talia al ghul e la lega degli assassini.”
“E’ una leggenda Grace.”
“Usa il computer di Dick, sicuramente troverai altro al di fuori della leggenda.”
“A cosa ti serve?”
“Per la tesi, fammi queste ricerche per la tesi ed io ti citerò tra le fonti bibliografiche, ok?”
“Ok… farò finta di crederci. Comunque, potevi dirmi tutto dall’inizio, non serviva fare questo teatrino.”
“Non sei l’unico ad avermelo detto. Ora devo andare, ci sentiamo.”

Chiamai un taxi con un cenno e diedi all’autista l’indirizzo di una via vicino al bar dove avrei trovato la mia… collega? Sì dai, fingiamo sia così.
Raggiunsi l’edificio ed entrai, mostrando nuovamente il mio documento. Mi lasciarono entrare nonostante il mio abbigliamento casual e poco elegante, ma riuscii comunque a passare piuttosto inosservata.
Mi guardavo intorno alla ricerca disperata del giullare, mentre le mie orecchie captavano informazioni.
Notai in lontananza la sua chioma platinata e mi avvicinai a lei: “Lilywhite a suo servizio, ho quello che ci serve…”
Harley rigirava un anello al mignolo, mentre compilava il foglio di un blocchetto che teneva appoggiato al tavolo accanto al cellulare. Ogni tanto, accendeva il display per controllare eventuali messaggi e sbuffava quando lo schermo dava solo un'immagine pulita. Quando alzò gli occhi su di me, chiamata in causa, sembrò sollevata e spazientita al tempo stesso.
"Ragazzina, non potevo rispondere, ero… in compagnia di qualcuno che non abbiamo bisogno che si immischi. Ho notizie anch'io. Che cosa mi hai portato e come hai fatto ad averlo, e parla a voce bassa."
“Non lo stai chiedendo davvero.” Dissi eccitata: “Ti stupirò.”

Aspettai pazientemente che la bella donna mi conducesse nello stesso privé che occupammo nel nostro primo incontro. Ci sedemmo l’una di fronte l’altra.
Harley la stava squadrando da capo a piedi: “Sì, miss Quinn, so di essere parecchio diversa dall’altra volta e so di sembrare una delinquente vestita così, ma questo è il mio vero stile… quello dell’altra volta era il vestito che ho comprato per la laurea… a proposito, sei invitata.”
"Beh, sembri una hipster in realtà, potrebbero lanciarti le monetine al marciapiede.", rise senza alcuna cattiveria
Prelevai dalla mia borsa gli innumerevoli fogli disordinati su cui avevo scritto ogni cosa e il pugnale: “Ha un pugnale di questo tipo. Ha anche armi da fuoco, ma preferisce di gran lunga quelle da taglio. Lo so perché sgozza e decapita mezzo mondo…”, dissi porgendoglielo gentilmente: “Ah, il mio è più bello del suo. Mi è costato mezzo stipendio… Dunque, partirò dal principio: sono stata nel carcere di Gotham a trovare Ma Gunn, la vedova che gestiva il riformatorio e indovina? Red Hood l’aveva frequentato, ma…” e sottolineai il MA “in nessun database c’è un riferimento ad un suo probabile arresto, né un’impronta digitale, né una denuncia. Ciò mi fa pensare che il Pipistrello abbia ripulito tutto il suo passato… Se mi vuoi chiedere come sono riuscita a farla parlare… beh, sappi che mi sono finta un’assistente di un inesistente medico legale e l’ho minacciata dicendole che le avrei fatto dare l’ergastolo se non avesse collaborato. Poi, sono stata nel negozio d’armi e con la scusa di voler regalare a mio fratello questo delizioso coltellino per il compleanno, me lo sono fatta descrivere dal negoziante in tutto e per tutto. Dulcis in fundo, Jay mi ha detto di essere stato addestrato dalla Lega degli Assassini e che la sua informatrice è Talia al ghul, figlia del capo dei capi…ti suona familiare?”
Ascoltò con attenzione tutta la storia, interrompendomi solo qualche volta per integrare quel che stava apprendendo.
“Quanta fatica sprecata...” esordì mentre rigirava il pugnale tra le mani. Non era certo l'idea del lago di sangue e delle decapitazioni che le faceva storcere il naso, essendo abituata a fracassare i crani della gente con una mazza da baseball o un martello. Sembrò molto soddisfatta del mio modus operandi e lo capii dal modo in cui mi batteva le mani, sorridendomi.
Ma quando l'ultimo nome le solleticò le orecchie, le pupille di Harley s'ingrandirono fin quasi a raggiungere metà dell'iride. Dal fondo della gola, emise un verso di approvazione, troppo simile a quello delle sue iene dopo un banchetto.
"Ma non mi dire! Ohw, se solo avessimo due tazze di latte e cereali sarebbe un pigiama party perfetto. Dovevi venire molto prima da me, ragazzina, da quel cervello si può ricavare oro puro! Ma adesso è il momento che tu sappia una cosa. Ho tenuto d'occhio come mi hai chiesto, i movimenti del Clown, e i traffici di Black Mask. Con gioia, posso dirti che ho spezzato le dita a due degli spacciatori come concordato, non è stato difficile reperire i nomi dei tuoi ragazzi e occuparmi di loro, oltre a questo. Non credo siano mai stati più puliti di così. Inoltre Romy ha ucciso tutti i suoi secondini essendo che, a quanto pare, il tuo amore liceale gli abbia fatto trovare il suo braccio destro morto, legato nel suo ufficio e con un telefono in bocca." Affermò bevendo il contenuto di un drink che aveva portato con sé.
“Ho fatto un ottimo lavoro con loro…”, affermai portandomi drammaticamente una mano sul petto, fingendo di commuovermi: “Brava Grace, brava davvero” mi complimentai con me stessa: “Già sarei potuta venire, ma sai ho dovuto sistemare un po’ di cosucce, tipo il lavoro e tipo una personcina di nome Jonathan, il mio migliore amico… l’ho spedito a Star City, dove Jason non può trovarlo.
Il tizio del negozio di fumetti mi diceva sempre che sarei probabilmente diventata una serial killer e che mi avrebbero rinchiusa ad Arkham”, ammisi con un punta di orgoglio
Continuò, poi, interrompendo la mia messa in scena discutibile: "Joker era impegnato in alcuni affari. Roba grossa, anche per lui. Noi siamo insieme nella Legione del Destino, non è complicato stargli appicciata, anche se, mi è costato un grande sforzo mentale non affondargli la faccia nella centrifuga della sala rinfresco, e far finta che mi piacciano ancora le sue moine. Da ieri manca. Mi sono allarmata, l'ho cercato dappertutto, sono tornata qui per reperire notizie. Sembra sparito.”

Tornai subito seria: “In che senso non si sa più nulla di lui da ieri? Cioè, tu vorresti dirmi che ho commesso inutilmente crimini federali e comunque Jason ha pensato più velocemente di me e me l’ha fatta per una manciata di ore? Cazzo. È tutta colpa di quella setta maledetta…”
Mi alzai nervosamente, camminando su e giù per la sala, sotto lo sguardo vigile della Regina.
Uscii senza dir nulla e andai al bar, tornando dopo pochi minuti con un bicchierino con qualcosa di forte: “Ora sai che facciamo? Io bevo tutto di un sorso questo coso che ho preso, poi prendo il pugnale e vado a prendere a calci in culo quello stronzo cibo per vermi, ok? Ok. Tu non me lo impedirai e sappi che non ho mai usato un coltello, ma credo punterò agli occhi. Al mio tre. Uno…due…” non finii il conto e buttai giù tutto il rum.
Afferrai il pugnale ed uscii nuovamente dalla sala.
Tornai indietro notando che la Quinn non mi stava seguendo: “Ma cosa fai? Non mi fermi? Andiamo, sarei carne da macello…”, iniziai a piagnucolare sedendomi pesantemente sul divanetto, accanto a lei.
Harley posò sbigottita gli occhi su di me. Non riusciva -o non voleva-, a nascondere una certa punta di divertimento sul viso.
“Lo sai, è così che Suor Assunta nel collegio in cui sono cresciuta recitava la guida del cammino di Mosè nel deserto". Alzò lo sguardo al cielo, sospirando pesantemente, nel tipico gesto che faceva quando era cosciente del fatto che a breve, qualcuno sarebbe morto se non fosse intervenuta. E stavolta, non era sola. Mi diede dei colpetti sulla coscia, alzandosi e stringendosi i codini.
“La mia Lamborghini correrà mooolto veloce. Fai pipì, potrebbe scapparti.” Sorrise facendo cenno di seguirla.
Fatta la tappa obbligatoria alla toilette, la seguii sino alla sua auto, estrosa proprio come lei.
Di certo non saremmo passate inosservate e sinceramente la cosa non mi dispiaceva affatto. Prima di salirci a bordo, mi fermai a riflettere per un momento a ciò che stavo per fare e a ciò che avevo fatto fino ad ora, e mi accorsi che non ero mai stata meglio. L’adrenalina, il violare la legge, tutto ciò in fondo faceva davvero parte di me: “Ma allora ci vieni alla mia laurea? Sarai fiera di me… Ah, posso chiamarti zia Harley?”
“Certo che ci vengo. Ma non citarmi, o non sarai presa di buon occhio.”
Harley fece un occhiolino, ingranando la marcia e schizzano nel tramonto di Gotham. Mi girai verso di lei, sicura di me come non mai: “Sii la mia maestra.”. A quelle ultime parole, tirò il freno a mano e girò il volante per infilarsi in un vicolo, dopodiché lo tolse, e senza smettere di sfrecciare allungò una mano per scompigliarmi i capelli: “Sapevo che prima o poi, avresti perso il senno che ti mancava. Vediamo se ne sei in grado, di essere la mia apprendista.”
“Tu lo sai vero che Jason mi ucciderà per questo?”, dissi ridendo, lasciandola giocare con la mia chioma “ovviamente non letteralmente”, aggiunsi.
Si fermò, uscendo dalla macchina per farmi segno di dettare la guida.
“Hai idee, su dove trovarli prima che ci ritroviamo a seppellirli sul serio entrambi?”, mi chiese mentre ci davamo il cambio. Salii e ingranai la marcia, concedendomi di non rispettare neanche la metà della segnaletica. Guidai senza sosta sino porto, cercando di pensare quanto più velocemente possibile: “Jason punta molto sul senso di colpa di Batman e l’idea gliel’ha data quella vecchia strega di Talia, gli ha messo in testa che non è stato vendicato e blablabla, lasciamela trovare e romperò il culo anche a lei. Te l’avevo detto che hanno scopato?” Alle mie battute sprezzanti, Harley ride soddisfatta godendo della mia sfacciataggine: “Più divertimento per noi quando la prenderemo.”
Feci un grande respiro, provando a concentrarmi: “Dunque, un posto che collega Batman e Jason, nel cuore di Gotham…. Forse il posto dove tutto è cominciato, dove ha incontrato Batman… ma dove è cominciato…lo so, me l’hanno detto, ma non mi viene in mente…” Chiusi gli occhi spremendomi le meningi; battei forte le mani: “Ci sono! La Crime Alley, Jason è lì!”
Sorrise soddisfatta e beffarda: “Potrai usarlo quello” Affermò indicandomi con un cenno del capo il kriss che avevo nello zaino, “Ma adesso ti serve qualcosa di veloce, di efficiente. In caso di pericolo. Non porti gli occhiali, vero?” Chiese, tirando fuori dallo stivale una pistola ed infilando all'interno i proiettili. Amore e odio, incisi sul tamburo dell'arma.
“Non vorrai puntare quella  contro Jason… Ha tutto antiproiettile, pure le mutande a momenti… Comunque, no fortunatamente...” Vedendo la mia partner prendere la pistola, mi chinai leggermente in avanti cercando a tentoni il pugnale, avendo intenzione di portarlo comunque con me: era una cosa intenzionale, avrei dovuto combatterlo ad armi pari: “Non avrò il coraggio di darlo a mio fratello se dovessi accoltellare qualcuno…”

“Tesoro, ho sparato a un bastardo che ha anche l'anima antiproiettile, so usarla questa! Ma abbiamo detto niente sangue, quindi spariamo solo se necessario. E no. Non devi pensare a nessuno. Amici, familiari. Li devi lasciare fuori da quello che fai, quando lo fai. Se ti fai trascinare dai sentimenti è… difficile.”
Per un attimo gli occhi di Harley parvero vacui, privi di vita. E poi, si riprese additando un edificio: “Ci siamo quasi.”
Nel vederla così mi venne da abbracciarla, ma aveva ragione non dovevo farmi trascinare dai sentimenti.
Parcheggiai alla bene in meglio e scendemmo entrambe dall’auto. Poco distante da noi notammo la batmobile: “Devono essere qui da qualche parte…”

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Capitolo 14
*** Cap XII parte II ***


Buonasera, scusate per il tremendo ritardo nell'aggiornamento, ma ho avuto un piccolo incidente di percorso AHAHAH
Anche per questo capitolo, ringrazio di cuore la mia amorina Longgriffiths <3
Buona lettura! 


***

Sentimmo delle voci provenienti da un palazzo disabitato: effettivamente era una scelta ovvia, Jason non avrebbe coinvolto nessun’altro nel suo ‘conto in sospeso’, faceva tanto il menefreghista, ma in fondo non lo era poi così tanto.
Entrai lentamente nell’edificio e seguita da Harley, senza accorgermi però di star trattenendo il fiato: “Ragazzina, ho detto che li devi lasciare fuori, non che li devi nascondere quindi non giocare a fare la tostona e che nulla può scalfirti. Hai quasi vomitato l'altra sera dal piangere quando mi parlavi di tizio.” Sussurrava, tenendo alta la pistola e camminando in modo da non far sentire neanche un passo. Stretta alla parete del muro, Harley teneva una mano sul mio petto per potersi parare tra me e una qualsiasi improvvisa minaccia: “Non ricordarmelo… Tizio è stato un po’ stronzo e mi ha fatto un pelino arrabbiare perché si è fidato stupidamente di una brutta, bruttissima persona. Con o senza fossa di Lazzaro, se ci fossi stata io, non sarebbe andata così... E poi non ho vie di mezzo, zietta. O scoppio in lacrime o mi chiudo totalmente.”
Passo dopo passo, salimmo più piani sino a sentire chiaramente le voci dei tre uomini: Joker era tenuto in ostaggio da Jason che, nel mentre, stava mettendo Batman davanti ad una scelta: avrebbe dovuto sparare al Clown o altrimenti l’avrebbe fatto lui.
“Merda...”, sussurrai “Harley, a Tizio che sta tenendo in ostaggio il tuo ex ragazzo piacciono molto gli esplosivi. Dove potrebbe averli nascosti?”
“Io metterei gli esplosivi, laddove vorrei creare dei danni. Per esempio, se facessi esplodere un edificio con qualcuno dentro vorrei che la scientifica dovesse ricostruire i brandelli del corpo per seppellirlo. Io li metterei nelle fondamenta, oppure, addosso alla vittima. O, a portata di arma da fuoco. Tu che lo conosci bene, dove pensi li abbia messi?” Disse, mentre ascoltava la fredda risata senza anima del Joker, e quasi avvertiva la rabbia di Jason e la tensione del Cavaliere Oscuro.

Iniziai a guardarmi intorno e il mio sguardo si soffermò su un camino… Già il camino, avrei scommesso qualsiasi cosa che li aveva messi lì: facili da nascondere e massimo danno alla struttura. I miei occhi continuarono a viaggiare analizzando scrupolosamente ogni mattonella di quella dannata stanza.
Picchiettai leggermente sulla spalla della mia bodyguard: “Ti concedo di guardargli il sederino solo perché ha lì il detonatore.”, affermai indicandole l’oggetto nella tasca posteriore dei pantaloni.

Non feci in tempo a terminare la frase che il Pipistrello scelse di non accontentare la richiesta di Jay e da lì fu una manciata di secondi: sparo, tizio per terra, Joker che rideva e che cercava di ferire Bruce.
Harley mi fece scudo col suo corpo e mi tappò la bocca sapendo in anticipo che avrei urlato come mia nonna alla vista di una lucertola.
L’attimo di distrazione mi fece perdere di vista il detonatore. Fu l’arlecchino ad accorgersi che era finito nelle mani sbagliate.
Prima che potesse intervenire, la presi per un polso: “Dobbiamo andare via di qui!”
“Grace, moriranno tutti e tre se non facciamo qualcosa! Altro che sangue, non ci saranno neanche le ossa!”
“A questo punto non mi importa più… non voglio morire qui.”
Harley spostò lo sguardo da me alla stanza che occupavano i tre, provata. E fu allora che si accorse di essere ancora e indecentemente, troppo simile a Joker. Voleva che morisse. Ma voleva ucciderlo lei, e solo lei, a costo di salvarlo da qualcun altro. Ma il desiderio di liberare sé stessa dalla dipendenza, e di istruire qualcuno che di rimando l'aiutasse ad essere meno orribile, si mescolò alla consapevolezza che ci sarebbero stati cinque cadaveri se non andavano via. Lanciò qualche imprecazione piuttosto blasfema, e mi spinse: “Vai, corri, non ci pensare più corri e basta!”
Corremmo a pardifiato fino al suo bolide: le mani mi tremavano a tal punto da non riuscire a prendere decentemente in mano la chiave, non ero in condizione di guidare. Le passai velocemente alla mia collega, avevamo i minuti contati, se non secondi addirittura: salimmo in macchina e mise in moto, partendo con una sgommata in retromarcia.
“Sappi che non ti avrei permesso di rimanere lì e non l’avrei permesso neanche a me stessa… Ho promesso a Jonathan che ci saremmo laureati insieme e tu che saresti venuta alla mia proclamazione.”
“Certo, mi auguro solo che non finirai un giorno per guardare la laurea appesa al muro, senza poterla usare per rendere giustizia al culo che ti fai per prendertela.”
Ansimò la bionda prima che l'esplosione esordisse nell'aria.
Fummo abbastanza lontane da non essere coinvolte nell’esplosione, ma abbastanza vicine da sentirne il boato.
Dopo qualche metro, arrestò del tutto il motore, tenendo lo sguardo in avanti. Il boato le aveva scosso le membra suo malgrado: “Sul serio, quando stai con me dobbiamo fare in modo che non ti riconoscano. Potresti rovinarti la carriera.” La guardai ancora un po’ ansimante per la corsa. Spostai i capelli dal viso, mettendoli dietro le orecchie: “Hai ragione, dovrò cercare di far combaciare questa mia nuova vita con il resto e probabilmente dovrei trovarmi anche un nome d’arte…”, accennando un lieve riso.
“Sì, ti chiameremo The lost sheep. Allora, vuoi aspettare di vederlo in televisione domani, o vuoi controllare che siano stati tutti sviscerati a dovere di persona?”
Iniziai a mordermi compulsivamente il labbro inferiore, riflettendo: “Andiamo a controllare… questa volta devo affrontare la realtà.”


Entrambe avevamo un conto in sospeso, ed era ora di presentarsi al destino senza esitazioni.
Ritornammo velocemente nel luogo dell’esplosione che in meno di mezzora sarebbe stato pieno di tipi in divisa blu; calammo velocemente dall'auto osservando i danni che l'esplosione aveva causato e il fuoco che in alcuni punti divampava.
Mi incamminai in solitudine tra le macerie, cercando di udire qualsiasi suono potesse vagamente ricordare un segno di vita.
Sentii tossire e imprecare, e poi lo vidi lì, seduto mentre si manteneva un fianco.
Mi avvicinai a lui senza preoccuparmi di fare troppo rumore: “Sei felice, ora?”, gli chiesi guardandolo con una punta di delusione.
Alzò lo sguardo su di me e accennò un sorriso strafottente, di quello che avrebbero mandato su tutte le furie chiunque.
“Lieta che tu trova divertente tutto ciò, ma cos’altro potevo aspettarmi da uno come te? Secondo Robin, secondo Red Hood e sempre, solo, la seconda scelta di qualcuno…”
Mi accovacciai di fronte a lui e mi allungò una mano, come per toccarmi. Glielo permisi: “Vuoi ripulire Gotham ed essere un Batman migliore di lui, ma un Batman migliore non avrebbe messo a repentaglio la vita di nessuno…”
Respirava a fatica, ma ciò non gli impedì di rispondermi: “Il palazzo era disabitato, vuoto”
Presi il pugnale e glielo portai all’altezza degli occhi: “Sei accecato dalla rabbia e dalla delusione, non avresti guardato in faccia niente e nessuno, solo ora me ne sono resa conto. Ciò ti rende non diverso da Joker o da qualsiasi altro malvivente da cui vorresti ripulire questa città… avrei dovuto fer-”
A distrarmi dalla mia ramanzina fu la voce del mio mentore.
Harley, che fino a quel momento era stata in silenzio ad esplorare la zona, iniziò a tossire palesemente senza sentirne il bisogno fisico: “Tutto ciò è molto commovente. Lo avete notato vero che il Pipistrello è scomparso?” Con quella scusa, dopo aver lanciato una furtiva occhiata al ragazzo vivo per miracolo, mi allontanò da lui per potermi parlare senza essere ascoltata. Si avvicinò al mio orecchio e mi disse in un sussurro quasi impercettibile: “Il clown è vivo, l'ho trovato in mezzo alle macerie, svenuto, ma respira ancora. Non lo deve vedere o sarà stato tutto inutile, questo gran colpo di culo. Portiamolo via, e tu non fare mai niente che potrebbe essere il più grande errore della tua vita.” Mi intimò avvicinandosi a Jay, battendo forte le mani come alla fine di una bella commedia teatrale:
“Molto bene, molto bravo! Adesso però ce ne andiamo di qui, mh? Tieni le manine bene in vista, so che conosci la procedura.”
Gli strizzò l'occhio sarcasticamente, facendomi segno di aiutarla a farci uscire tutti e tre incolumi e prima dell'arrivo della polizia.

Scocciata, mi abbassai nuovamente all’altezza di Jason: “Non ti azzardare a fare passi falsi altrimenti ti lascio morire dissanguato, sono stata chiara?”, accennò un lieve segno di assenso. Ci caricammo il corpo del ragazzo quasi a peso morto, barcollando fino all’auto, alternando un passo, uno sbuffo e un quanto pesi.
Mi girai indietro, puntando il mio sguardo severo sul malconcio: “Hey Jay, sai una cosa? Anche se siamo simili, io non oltrepasserò mai quella linea e sai questa come si chiama? FORZA DI VOLONTA’.”
Tornai a sedermi composta e mi rivolsi ad Harley: “Portiamolo da me, non se ne parla di andare in ospedale…”
Fui grata alla mia guru per non avermi posto domande, se non per chiedermi dove abitassi.
Raggiungemmo la mia casa a tempo record e mi aiutò nuovamente a trasportare il ragazzo mascherato fino al mio appartamento, adagiandolo sul letto.
“Fai come se fossi a casa tua, prendi tutto quello che vuoi”, dissi lasciandola nel salotto.

Una volta poggiatolo lì, Harley lo lascio nelle mie grazie, fermandosi su una poltrona.
Conoscendola, non avrebbe cercato nemmeno di origliare, ma essendo consapevole che fossi in compagnia di un criminale avrebbe sicuramente tenuto comunque salda la pistola, in caso di precauzione.
Camminò per il salotto incuriosita dell'arredamento e dalle tante foto che adornavano le pareti.
Le osservò con sincero interesse tutte, non sapendo tenere le mani a posto. Era un brutto vizio, doveva toccare.
Non facendosi ripetere due volte l'invito, dopo un quarto d'ora aprì un paio di ante del mobilio in cerca di biscotti. Trovò di meglio: patatine fritte in confezioni extra. Gli occhi le si illuminarono e un sorriso le comparve in volto mentre stringeva quel mega pacco come se avesse vinto un Oscar, e lo aprì lentamente gustando il profumo di formaggio con cui erano aromatizzati i bastoncini salati.
Accese la televisione, e indirizzò il canale sulle ultime della sera. Era troppo presto.
Decise di fondarsi sui cartoni animati che le tenevano compagnia di notte, cartoni che le sue coinquiline non sopportavano.
Sgranocchiò il suo snack praticamente stesa sui braccioli della poltrona, ridendo di gusto delle scene demenziali infantili.
Si pulì le dita succhiandole, o strofinandosele addosso di tanto in tanto.
Dopo un po' troppo silenzio, si accigliò.
“Tutto bene da quelle parti?”
“Sopporta bene il dolore, tranquilla…”, risposi continuando a ricucire alla meno peggio lo squarcio sulla spalla del mio paziente.
Fino a quel momento non fiatammo, non c’era molto da dire.
“Strano che tu non stia vomitando”, disse per rompere il ghiaccio.
“Si chiama adrenalina… La mia mente è focalizzata sul salvarti la vita, appena avrò terminato quest’opera d’arte, sverrò. Tieniti pronto a prendermi, altrimenti mi verrà una commozione cerebrale.”
Infilai lentamente l’ago facendolo passare tra i due lembi di pelle. Avvertii una leggera tensione e un sospiro strozzato di dolore: “Jay, rilassati, ho finito, mi manca l’ultimo.”
“Volevi fare il medico… ho realizzato il tuo sogno, vedi? Non sono poi così male…”
“Volevo fare il medico legale ed avere a che fare con i morti… ma considerando che sei legalmente morto, sì ci sei riuscito.”
Tagliai il filo e mi ripulii le mani con un fazzoletto imbevuto.
Gli porsi un antidolorifico ed un bicchiere d’acqua, accomodandomi accanto a lui: “Senti, non voglio dirti che ciò che fai sia sbagliato perché mentirei. Non voglio neanche dirti che non stia funzionando, perché mentirei ancora… ma devi capire che a tutto c’è un limite. Non puoi dire di voler salvare Gotham per poi sporcarla per i tuoi interessi, devi scegliere da che parte stare. Non voglio farti la predica sui tuoi metodi anche se non sono tra i più pacifici e sai già che non li condivido. Non li giudicherò, ma quello che mi preme dirti è che tu non sei un carnefice… tu sei meglio di così.” Allungai la mano verso la sua e la strinsi: “Quando ti verrà da spaccare il cranio a qualcuno, pensa a questa conversazione… ci sarò per te, come ho sempre fatto e non mi importa quante volte passerai la linea prima di capire quanto, delle volte, non occorra farlo, io sarò lì pronta a prenderti a calci nel sedere e a ricordarti che Jason Todd non è un mostriciattolo pestifero. Abbi un metro di giudizio, ok?”
Rimase interdetto da ciò che gli avevo appena detto, ma sembrava averne preso nota.
Gli diedi un bacio sulla fronte e mi alzai e raggiunsi con passo poco sicuro Harley nell’altra stanza, chiudendomi la porta dietro.
“Har-”, non riuscii a pronunciare il nome completo che caddi con un tonfo pesante sul pavimento. L’ultimo ricordo nitido che avevo era quello della bionda che accennava ad un sorriso che non tardò a sparire.
Harley gettò praticamente l'intera confezione di patatine in aria incurante di averne addirittura tra i capelli e nella scollatura del vestito, fiondandosi in terra e poggiando come prima cosa, la mia testolina mora sulle sue ginocchia cercando di non ricordare l'inquietante rumore della sua testa sbattere sul pavimento. Controllò le pulsazioni del cuore poggiandomi due dita al lato del collo, mi diede qualche buffetto sulle guance cercando di non attirare l'attenzione del ragazzo imbottito di pillole nell'altra stanza: “Grace? Grace? Coraggio bambina bella, torna qui, mi senti?”
Chiamò il mio nome in un tono poco più alto della norma, anche se leggermente in falsetto, e si sporse al tavolino solo per raccogliere un vasetto porta fiori, lanciando via la rosa bianca e vuotando tutto il contenuto liquido dritto sul mio viso, scuotendomi nel mentre. “Niente panico, sei addestrata per questo!” si ripeteva come un mantra, sbuffando ugualmente per il panico.
“Dai, sveglia!”

Sentendo lo scroscio d’acqua fredda in viso mi alzai di scatto urlando “Ci sono!”
Harley mi si avvicinò facendomi segno con un dito sulle labbra di far silenzio: “Sto bene, è che sono sensibile al sangue e-e-e lui ne aveva tanto addosso e…” mi soffermai a riflettere sino ad avere gli occhi lucidi: “Chissà quanto avrà sofferto quando è stato picchiato dal Joker...” Alzai lo sguardo sulla bionda “…e chissà quanto avrà sofferto quando si è accorto che sua mamma l’aveva venduto… e quando si è reso conto che era spacciato”
“Tesoruccio, quando guardi in faccia una come me, uno come lui, associ la capacità di assassinare a sangue freddo, le pratiche di tortura e la vita senza rimorsi da fuggitivo o carcerato, o a una vita di lenzuola profumate e coccole?”
Le sopracciglia dell'arlecchino schizzarono in alto, e la voce divenne più dura.
“Siamo stati presi tutte a pedate nel culo, dalle persone in generale. E non mi riferisco a 'mamma sono grande e voglio uscire per conto mio, buh.”
Accentuò quella frase con il tono acuto di una bambina pestifera: “I miei genitori adottivi mi hanno venuta alla mafia per la taglia sulla mia testa all'epoca, dopo che mio padre biologico mi ha scaricata in collegio, ti pare che mi sia abbattuta? No, mi sono chiusa le ferite, e alla vista del sangue mi ci sono abituata. Fallo anche tu, o riponi l'arma.”
Feci per alzarmi e mi buttai pesantemente sul divano: “Come si fa a far del male ai propri figli? Non me ne capacito… mi verrebbe voglia di abbracciarvi. Posso abbracciarti?”
“Provaci a tuo rischio e pericolo, se ti contagi e ti cresce qualche pustola non te la prendere con me poi.”
 La strinsi forte a me, come una bimba che stringe la propria bambola di pezza preferita: “E comunque, io preferirei le lenzuola profumate e coccole, ma non si può avere tutto nella vita.”
Mi schiarii la voce e la richiamai con un psss, come per rivelarle un segreto: “Senti, con me non è troppo schizzato di testa. A livello psichiatrico come lo interpreteresti?”, sussurrai per non farmi sentire.
Dopo aver raccolto quel che rimaneva delle patitine, offrendone anche alla sua interlocutrice, la bionda masticò volgendo gli occhi al cielo in maniera riflessiva: “Io penso che ti associ a qualcosa che, sia nel periodo d'oro che in quello buio, lo faceva a suo modo star bene, e che quindi non scateni l'ira funesta che detta la sua sociopatia attuale, perché ha ancora un barlume mentale di sanità stabile nel quale rientri tu, probabilmente lo leghi alla sua umanità.”
Presi la patatina e iniziai a masticarla guardando un punto fisso, ascoltando attentamente le parole dell'ex psichiatra: "Credo che sia totalmente andato per via della fossa di Lazzaro.... tu ne sai qualcosa? E poi non mi è andato a genio che sia andato a letto con Talia. Gli ho detto di non essere gelosa, ma ho mentito. Anzi, in quel momento mi aveva dato più fastidio che lui l’avesse fatto per dispetto… poi mi ha dato fastidio anche per orgoglio personale" sospirai rumorosamente "Che casino! Non so se ho fatto bene, ma gli ho detto che non mi importa quanto sbaglierà, io ci sarò per lui e sarò sempre pronta a ricordargli che i suoi modi sono un tantino estremi… ma a me non importa che lui uccida, ma vorrei che avesse un criterio.” Mi stesi portando la testa sulle sue gambe "a me non fa paura... Sono pazza anch’io?"
“Ho sempre trovato la mente una macchina prodiga.” Cominciò: “Così complessa, così perfetta. La macchina più importante della natura umana. Il mio obiettivo è sempre stato capire, quando e come si perde qualche rotella, e perché poi sono cazzi amari per rimetterla a posto. L'amore e la paura hanno tante facce, alle volte complementari. Una risata che per te può essere il suono più inquietante al mondo, per me era come il canto di una fenice.” Le passò una mano tra i capelli distrattamente, assumendo un tono serio: “Come il dolore e il piacere, divisi da una linea così sottile che quasi non ti accorgi di aver superato, se non troppo tardi. Nel caso, troppo tardi tradotto in inglese vuol dire quando hai accettato che chi ami, si comporti nell'esatto opposto modo che vorresti tu. Ma la vita è fatta di scelte. Il tuo cervello è sano e dalle nostre parti esiste qualcosa che si chiama ultimatum.”
Mi alzai nuovamente e riabbracciai la bionda con affetto, perché grazie a lei avevo fatto la mia scelta: "Credo di aver capito da che parte stare. grazie...", le sorrisi e mi commossi: "Credo starò sempre dalla sua parte, a costo di mettermi contro Batman e tutta la Justice League.... lui ha dei buoni propositi. Con questo non cerco di giustificarlo, però voglio cercare di capirlo... cosa che gli altri forse non riescono o vogliono fare."
“Brava ragazza!”
Guardò l'orologio masticando rumorosamente gli snack, divertita ed evidentemente contenta per l'ultima affermazione della giovane collega, scattando quasi in piedi.
“Okay, prima che Pam e Selina mi diano per dispersa assieme al Joker, e più che a una fuga d'amore penserebbero a un brutale omicidio, torno a casa. Immagino che il ragazzino disturbato resti qui, vero?”
Mi portai una mano sul viso leggermente imbarazzata: “già….”.
Si alzò e si avviò verso la porta.
“Ti scrivo per la laurea”, sorrisi e la lasciai andare.

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Capitolo 15
*** Cap XIII ***


Buon pomeriggio a tutti!
Questo capitolo potrebbe essere quello conclusivo di questa Long, sebbene pubblicherò un quattordicesimo capitolo “extra”, non utile ai fini della storia, ma sarà solo d’arricchimento.
Le avventure di Grace e Jason non finiscono qui, ovviamente.
Grazie a chiunque mi abbia supportato e spero sia stata di vostro gradimento e soprattutto spero di aver resto giustizia ad un personaggio tanto bello quanto controverso come Jason Todd.
Vi abbraccio!

***


Era il gran giorno, IL giorno mio e di Jonathan.
La nostra proclamazione ci sarebbe stata in pomeriggio; erano presenti, oltre alle nostre famiglie, anche il signor Wayne, Dick, Tim e Alfred e non nascondo che avrei voluto fossero presenti anche Jay e la mia zietta Harley. Anche con un invito, però, sapevo non sarebbero venuti… come biasimarli? Per renderli partecipi di questo traguardo, scelsi di scrivere due lettere, una per ognuno, riportando ciò che avrei detto loro se fossero stati presenti.

Per i festeggiamenti, avevamo prenotato in un ristorante molto importante a Gotham.
Jonathan indossava un bellissimo completo blu con camici bianca, io il famoso tubino nero, decolleté e una giacca color cipria e prima di raggiungere il resto del gruppo al ristorante, chiesi al mio amico di accompagnarmi a consegnare personalmente le lettere ai diretti interessati; nel tragitto, gli spiegai per filo e per segno tutto quello che era successo negli ultimi tempi, di come mi ero sentita, di quello che avevo scelto di essere. Mi abbracciò con affetto come era solito fare “Sapevo avresti fatto questa scelta, sei troppo affezionata a lui per lasciare che faccia cazzate e poi, in fondo, sei sempre stata un po’ pestifera. Ti sarò vicino anche io… dopotutto, tu potrai pure proteggere Jay, ma chi proteggerà te? Il nostro gruppetto ha sempre funzionato così e credo lo farà per sempre, a prescindere dal crimine… e sia chiaro, questo non dovrà uscire con Dick, altrimenti di additerebbe come doppiogiochista!”
Credo di non essere stata mai così grata di avere un amico come lui, prezioso come pochi al mondo.

Arrivammo fuori il famoso bar di lusso dove avevo incontrato la prima volta una delle sirene di Gotham e chiesi al buttafuori di poter consegnare la busta bianca a miss Quinn.
Le fu recapitata mentre era seduta al tavolo a sorseggiare il suo alcolico preferito. La prese tra le mani e l’aprì:

“Cara zietta,
mi sarebbe piaciuto averti alla mia proclamazione perché se sono la donna che sono ora, lo devo anche a te. Sono felice tu abbia accettato di prendermi sotto la tua ala protettiva perché ho davvero bisogno di qualcuno che mi addestri, o meglio che eviti che io mi faccia ammazzare, e mi voglia bene perché so che in fondo me ne vuoi.

Ti ringrazio per avermi aiutata in un momento particolare, un momento dove neanche Jonathan, che mi conosce meglio dei miei genitori, sarebbe stato in grado di farlo. Avevo bisogno di qualcuno che mi scavasse dentro, più di uno psicologo. Più di uno psichiatra.
Grazie anche per avermi aiutata a portare Jason a casa perché mi rendo conto che non è proprio un peso piuma. Immagina me, sotto di lui, nei momenti intimi… per quanto possa sorreggersi, sempre che leggero non è e il problema non migliore se cambiamo posizione… Ma va beh, di questo ne parleremo di persona.

Ti voglio bene, Grace

PS: Ho scelto il mio nome d’arte… sarà Renegade e sarà in onore di colei che ha rinnegato ogni sano principio per seguire, assecondare, aiutare, amare e rendere la vita impossibile ad un pazzo criminale che però non è poi così pazzo e criminale, ha solo una visione tutta sua della giustizia.  

PPS: il costume sarà rosso e grigio. Non discutere.”

 
La prossima meta era il nascondiglio di Jason che non avevo la più pallida idea di dove potesse trovarsi, essendo che lo cambiava ogni volta: “Dove posso trovare il cattivone?”
“Se non lo sai tu…”
“Sai come funziona la fossa di Lazzaro… lo sai con certezza”, gli dissi continuando a camminare al suo fianco.
“Uno, come fai a saperlo? E due, cosa c’entra?”, mi chiese incuriosito.
“Hai usato il pc di Dick e hai avuto accesso anche alle fonti di Batman. E poi l’hai detto anche tu prima: sapevi che avrei scelto questa strada e che mi avresti protetta e quindi hai monitorato Jason da quando ti ho spedito a Star City.”
Sorrise cingendomi le spalle, avevo fatto centro: “Che cervellona che sei! Lo trovi esattamente dove dovrebbe stare”
“Al cimitero?”, scoppiai a ridere di gusto.
“Come sei macabra, no! I suoi nascondigli sono sempre gli stessi, fa a rotazione e sono posti abbandonati… faccio prima a portartici.”



Mi condusse in una palazzina diroccata non troppo lontano dal luogo in cui eravamo appena stati ed entrammo furtivamente.
Mi guardavo intorno, stando sottobraccio a Jonathan e camminando sicura sui miei tacchi.
Si palesò davanti a noi, senza nulla che potesse coprirgli il viso.
Salutò Jonathan con un cenno e si avvicinò a me: “Ti sei portata la scorta?”
“Tranquillo, non mi fai così paura da portarmi il bodyguard dietro… comunque, tieni Jay, è per te. Leggila con calma e leggila bene, mi raccomando.”
“Ma che dolce che sei…”, disse con tono ironico.
“Se fossi stato una personcina a modo, saresti potuto venire alla proclamazione senza costringermi a scrivere di mio pugno questa lagna… Se non la vuoi, me la riprendo”, feci per riprenderla e lui la scostò con fare possessivo: “No, la leggerò.”
“Bravo. Noi andiamo… Adieu!”
Mi voltai per andare via, ma sentii che Jonathan aveva fatto resistenza: “Ti raggiungo tra un attimo, ok?”
“Sì…”, uscii lasciandoli soli.
Mi misi in posizione tale da poter origliare, ero curiosa di sapere cosa voleva dirgli.
“Siamo sempre stati amici, io e te… Ammetto di averti accusato di essere un pazzo, ma l’ho fatto solo per proteggerla. Rivederti dopo tanto, l’avrebbe fatta male.”
“Tu l’hai sempre protetta, troppo”
“Tu non c’eri e non puoi saperlo perché non ti è stato detto ciò che ha, abbiamo, passato e sono sicuro che lei non ti abbia detto nulla.
Non sai quante volte mi ha chiamato nel cuore della notte chiedendomi di dormire con lei perché aveva fatto un incubo; non c’eri quando ha supplicato affinché qualche forza mistica la facesse chiudere in qualche centro di igiene mentale per potersi far dare delle medicine per dormire; e tu non c’eri quando si sentiva in colpa perché sentiva di comportarsi come se solo lei avesse subito una perdita e non io o Peyton. E comunque, anche tu l’hai protetta, troppo…” sottolineò il troppo “in fondo sei stato Robin anche con lei. Se non ci fossi stato tu in certe situazioni, sicuro si sarebbe rotta qualcosa” rise sottovoce “E’ stata davvero male, al funerale non ha spiccicato parola. Fissava la bara e sussurrava ‘stupido idiota, giuro ti spacco il naso quando ti rivedrò all’Inferno’ perché era arrabbiata e guardandoti oggi, credo non abbia avuto il coraggio di farlo. Per quello che vale, sappi che c’eravamo tutti, nessuno escluso… Non farti ammazzare di nuovo, che in questi cinque anni mi sono giocato tutte le carte vincenti per poterla tenere su… E sappi che l’odio verso Alexandra ce l’ha ancora.” Rise e gli diede una pacca sulla spalla, salutandolo.
Mi raggiunse e andammo diretti alla nostra festa; Jason aspettò che ce ne andassimo prima di aprire in totale solitudine la lettera:

“Ci tenevo a dirti che ho sempre adorato i tuoi capelli neri e arruffati; sono sempre stata affascinata dalle crosticine che avevi sulle labbra o qualche piccolo livido, ma non te l’ho mai detto per non cascare nel cliché del ‘oddio, mi piace un cattivo ragazzo’ come ad Alexandra, anche se, ai miei occhi, non avevi nulla di cattivo… certo avevi i tuoi momenti di stronzaggine, ma chi non li ha? Ho sempre pensato che la tua arroganza, il tuo essere scontroso ed arrabbiato (solo nell’ultimo periodo), fosse solo un meccanismo di difesa e, conoscendoti oggi e conoscendo tanti particolari di cui prima ignoravo l’esistenza, forse non avevo poi così tanto torto… difendevi te stesso da gli altri e in parte anche me e gli altri da una verità scomoda… Ho scoperto cose su di te che mi hanno scioccata, ma nonostante tutto, per me sei ancora il piccolo Jason di un tempo, quello che mi accompagnava ovunque e con cui non mi importava di litigare, perché sapevo che non sarebbe bastato a dividerci e poi avevo promesso di starti accanto comunque, anche solo come amica e che ti avrei preso a calci nel sederino se fosse stato necessario. L’importante per me era non perderti.
La tua fonte, Talia, non ti ha parlato di tante cose e non posso biasimarti per essere stato arrabbiato anche con me, avrei fatto lo stesso, ma questo già lo sai perché siamo due zucconi.

A casa ti ho mentito quando ti ho detto di non provare gelosia, anche se infondata, come mi hai fatto giustamente notare tu, ma è più forte di me. Penso dipenda dal mio orgoglio; tu non hai sbagliato nulla, sono io ad avere l’animo romantico (so che potrebbe suonarti strano, ma ho una visione dell’amore tutta rosa con brillantini ed unicorni): avrei voluto essere la tua prima volta, avrei voluto fosse speciale per entrambi. Questo si ricollega alla seconda bugia che ti ho detto affermando che sei una seconda scelta, perché credimi non lo sei per nessuno, soprattutto per me; per me sarai sempre il mio primo amore, il mio primo bacio ed anche la mia volta. Ok, questo non te l’aspettavi, ma sappi che ho giocato alla vedova con voto di castità fino a quando non sei tornato in vita (ironia della sorte, io non ho mai creduto che i morti potessero tornare in vita), quindi tra i due, tu eri il più esperto yu-hu. Mi dispiace se non ti ho soddisfatto, ma pazienza, potrai sempre richiedere il secondo round a chi di dovere. (nb: questa è ironia)
Adesso che so cosa ti è successo, non sai cosa darei per poter prendere il tuo dolore e farlo anche mio per poterlo sopportare insieme… o per poter tornare indietro nel tempo ed impedirti di partire, a costo di litigare, menarti e tornare ad essere un’amica-come-prima.
Credo di amarti ancora e per me non sei orribile perché se lo fossi stato davvero, mi avresti linciato anni fa. Grazie per essere stato paziente, ora mi rendo conto del tuo enorme sforzo. (nb: è ironia anche questa. So che la odiavi, ma ora te ne becchi una bella dose… hai anni di arretrati <3)



Ci becchiamo in giro, tra un omicidio ed un altro.
Grace

PS: Scusami per tutte le volte che ti ho dato dell’Elfo o del Passerotto Volante.”




Arrivammo al ristorante in perfetto orario e cenammo tutti insieme seduti allo stesso tavolo: il menù era a base di carne, dall’antipasto al secondo, vino rosso e un piccolo buffet di dolci.
Avevamo fittato la sala del locale anche per il dopocena; i camerieri spostarono tavoli, sedie e mettemmo musica di ogni genere aprendo le danze.
Inserii una serie di tracce latine nella playlist appositamente per la mia amica Peyton, in particolare ‘El mismo infeliz’, una bachata sensual che scelse di ballare con Dick.
Mi avvicinai sottecchi a Jonathan indicandogli con un cenno il ballo piuttosto spinto nella quale si erano cimentati i nostri amici: “Eh Grace, ci sono cose che non sai…”
“Cosa? Sono una coppia?”, chiesi sorpresa.
“No, sei troppo romantica…”
“Vanno a letto insieme?”, chiesi alzando un sopracciglio curiosa.
“Già. Ti ricordi quando hai preteso di vedere Nightwing?”, annuii “Ecco, era con lei quella sera, ecco perché era piuttosto serio…”, ridacchiai sotto i baffi “Ops, spero di non averli interrotti!”
“Tu lo sai che tra meno di mezzora spariranno chissà dove per…”
Guardai stupita Jonathan: “Ti prego, non dire altro!”
Scoppiammo a ridere entrambi.
Dopo gli ultimi eventi, mi sentivo finalmente libera, libera di potermi godere la mia felicità, libera dai fantasmi del passato, libera dalla persona in cui mi ero trasformata per far finalmente largo al mio vero IO: benvenuta, Renegade.

 

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Capitolo 16
*** Cap XIV - E X T R A ***


Buonasera a tutti!
Questo è il capitolo extra di cui vi ho parlato nel capitolo precedente. È più breve rispetto agli altri, ma ho voluto aggiungerlo ugualmente per inserire un momento leggero e di complicità tra Grace e Jason.
Spero che la storia sia stato di vostro gradimento e, davvero, vi ringrazio per averla seguita.
Le avventure di Grace, ovviamente, non finiscono qui!
Un abbraccio!


***

Festeggiammo fino all’alba e, ormai totalmente stremati, Jonathan mi riaccompagnò a casa: salii pigramente fino al mio appartamento.
Mi sfilai le scarpe lanciandole un po’ a caso nell’ingresso, lanciai il cappotto sul divano e la prima cosa che mi venne in mente di fare fu quella di prendere una delle polaroid che ci eravamo scattati durante la serata e metterla nel posticino che avevo lasciato libero.
Ce n’eravamo scattate un numero spropositato e tra tutte avevo scelto quella dove avevamo entrambi dello spumante in mano, mi sembrava di buon augurio.
Raggiunsi la mia stanza camminando un po’ barcollante a causa del dolore ai piedi e mi buttai sul letto ancora vestita: “che palle, non mi va di struccarmi”, sussurrai tra me e me.
“Ed invece faresti bene, altrimenti si potrebbe irritare la pelle…”, una voce familiare mi rispose dall’ombra di un angolo della mia stanza. Sentii il materasso pendere da un lato e capii che chi si era intrufolato nella mia casa era ormai uscito allo scoperto.
Mi alzai e mi misi seduta sul letto anche io ed alzai lo sguardo attendendo con pazienza che la mia vista si adattasse alla stanza scura.
Era di schiena e aveva in mano il foglio con le righe che gli avevo scritto e consegnato qualche ora prima: “Congratulazioni per la laurea… Ho letto la tua lettera, grazie per le belle parole che non hai detto”.
Il suo sarcasmo, dio mio glielo ficco dove non batte il sole. Nel naso, per la precisione, essendo che porta sempre un casco. Perché penso a queste cose nei momenti meno opportuni?
“O magari le ho dette, ma tu non le hai sentite”, mi avvicinai a lui e poggiai una mano sulla sua spalla: “o magari ne ho dette altre che lì non ho scritto… Chissà!”
Si avvicinò a me e mi accarezzò il viso togliendomi qualche ciocca ribelle: “Potrei sempre chiederlo a Jonathan”. Gli cinsi il collo, alzando gli angoli della bocca: “No, non puoi e sappi che non te lo direbbe mai”, mi baciò con passione e dolcezza allo stesso tempo, un bacio che da lui non mi sarei aspettata, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti.
Mi alzò lentamente il vestito: “Fai l’amore con me?”, mi chiese sottovoce sulle mie labbra.
Annuii: “Solo se metterai da parte la tua rabbia per il tempo che trascorrerai con me…”
Sorrise: “Posso provarci…”
“No, ritenta. Te l’avevo detto che so essere una piattola fastidiosa, quindi se non dirai che sarai un docile agnellino, resterò impalata qui. Immobile.”
Sbuffò, divertito: “D’accordo, sarò bravissimo ok?”
“E’ così che parli ai cattivi? Perché non sei convincente neanche un po’!”
Fece finta di pensare: “Forse è per questo che non mi stanno a sentire e poi mi tocca ucciderli…”
“Probabile… ”
Non rispose più alle mie provocazioni, mi baciò portandomi sul letto con sé, sdraiandomisi accanto; con una mano mi alzò il vestito, andando alla ricerca dell’elastico degli slip che spostò abbassandoli cominciando a toccare la mia intimità lentamente. Sussultai. Socchiusi le labbra, sentendo il mio respiro farsi sempre più affannato.
Ci baciammo l’uno desideroso dell’altro, interrompendoci solo per spogliarci a vicenda, fino a ritrovarci completamente nudi, uno di fronte l’altro; mi sdraiai e lo tirai su di me: “Sì, voglio fare l’amore con te e non solo stanotte...”.


 

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