In the face of death

di Heliconia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** How it began ***
Capitolo 2: *** The facts ***
Capitolo 3: *** How it ended ***



Capitolo 1
*** How it began ***


Note♫♪ dell’autrice
Dunque, caro lettore: la cosa è andata più o meno così.
Una notte mi ritrovo a leggere "Le ferite originali" di Eleonora C. Caruso – aka CaskaLangley – e sono talmente presa dalla storia che penso: Cavoli… Ora ho voglia di scrivere qualcosa anch'io.
A darmi la spinta finale, però, è stato Davide Mina: vittima numero uno della mia momentanea fissa per l’antica Grecia e primo lettore di questo delirio notturno – che è, a sua volta, il primo racconto di senso compiuto battuto al pc dopo secoli.
(Per questo, ragazzuoli, vi dico GRAZIE. Avete salvato centinaia di alberi dalla mia furia foglivolanticida).
Se hai visto Fate/Stay Night “Unlimited Blade Works”: perdona eventuali incongruenze, please.
Se hai letto il poema che non spoilererò, ma che avrai già intuito se fai parte della categoria sopracitata: sì, ho riscritto alcuni pensieri e azioni dei personaggi, per meglio adattarli alla storia e alla presenza stessa del protagonista. Tuttavia, come potrai notare, mi sono mantenuta fedele alla loro indole e all’opera da cui sono tratti.
Se non conosci Fate/Stay Night “Unlimited Blade Works” e hai intenzione di vederlo: ti consiglio di non leggere, per evitare spoiler. Qualora tu voglia procedere comunque, non potrò che esserne felice!
Enjoy!

Parole: 2987
Citazione: “Che cos'è un eroe? È un individuo dotato di un grande talento e straordinario coraggio, che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica se stesso per salvare gli altri, ma soprattutto... che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.” ~ dal film Lo chiamavano Jeeg Robot
 


 
1
 
 





«Fateli uscire, non hanno fatto niente!»
«Zitto! Di’ solo un’altra parola e ti taglio la lingua, verme!»
Bastava anche solo un sospiro perché quell’omone butterato si scagliasse su di lui con tutta la sua furia. Gli vomitava addosso insulti e imprecazioni a denti stretti, mentre nei suoi occhi sfavillava un represso impeto di morte. Se avesse potuto stringerlo tra le mani, lo avrebbe sicuramente ammazzato.
Ciononostante, il giovane continuava a richiamare la sua attenzione, protetto dalle stesse sbarre che lo imprigionavano. La sua presenza gli era più sopportabile della solitudine, che lo costringeva a fare i conti con la propria colpa…
Non sono riuscito a salvarli.
Lo chiamò ancora.
«Liberateli, sono stato io!»
E quello si fiondò di peso sulle sbarre. Non lo vide nemmeno arrivare. Perse l’equilibrio e, dacché era accovacciato, cadde seduto nel tentativo di sfuggirgli. L’uomo si abbassò alla sua altezza e gli sputò in faccia.  
«Zitto, schifoso!! Hai capito?! Ti taglio quella cazzo di lingua, ti taglio tutta quella cazzo di testa!!»
La bestialità che gli trasfigurava il volto lo fece retrocedere definitivamente verso il fondo della cella. Rimase lì per giorni, con la schiena schiacciata contro la parete di pietra, senza muovere un muscolo, sperando che l’oscurità di quel buco lo rendesse invisibile.
Smise di dormire. Da tempo, non gli davano più da mangiare. Meditava sulla forma di quel posto: così basso da impedirgli di stare in piedi, lungo a malapena due passi, stretto al punto da rendere impossibile ogni movimento. Quando si rassegnò alla supplica delle sue membra indolenzite e si distese, con i piedi rivolti verso il ferro e la testa premuta contro il muro, ebbe la sensazione di trovarsi in una bara. Forse la cella aveva quella forma apposta: per far sentire il prigioniero morto prima ancora di essere giustiziato.
La guardia non si avvicinò nemmeno una volta, né per insultarlo né tantomeno per assicurarsi se fosse ancora vivo. Il giovane restò così anche quella mattina, quando lo trascinarono fuori afferrandolo per le caviglie: immobile come un cadavere.
Lo portarono in corridoio. Provarono a metterlo in piedi, ma il suo corpo si era rammollito, come se lo scheletro e i muscoli che lo sorreggevano si fossero di colpo liquefatti. Lo schiantarono sul pavimento. Iniziarono ad urlare, poi qualcuno lo colpì con un calcio nelle coste. Solo a quel punto si ricordò di essere ancora vivo e sussultò, stretto nella morsa del dolore.
Gli ammaccarono la faccia, gli pestarono le mani; la punta di uno scarpone gli spezzò le dita. Pianse, urlò, finché la voce non gli morì in gola. Cercò di difendersi con le braccia, come un bambino che tenta di fuggire invano dalle ombre che lo terrorizzano nel cuore della notte.
Un grido frenò la furia dei soldati, che lo lasciarono sul pavimento, trincerato nel suo gomitolo di carne lacera. Sentiva una fitta tremenda all’addome e immaginò che qualcuno lo avesse pugnalato con una lama, ora lì, conficcata nelle viscere. Poteva percepirla, ne delineava la sagoma ad ogni doloroso respiro, ne era così consapevole che avrebbe potuto replicarla. Non aprì gli occhi per appurarsi della sua esistenza, ma tastò lì dove gli faceva più male per cercare di estirparla. Sentì il sapore ferroso del sangue e si rese conto, nell’istante in cui qualcosa premette contro la sua bocca, che gli avevano rotto i denti. Si distese prono e, dopo aver indugiato ancora un po’, si mise carponi. Intanto si rigirava le schegge sulla lingua, l’unico movimento che riuscisse a compiere agevolmente. Cercò di espellerle piano, socchiudendo appena le labbra, ma quelle scivolarono via in un rivolo di saliva che si spalancò in un getto di vomito. Barcollò.
Due soldati lo sollevarono, tenendolo per le ascelle. Un ronzio gli sfondò i timpani, gli pervase le ossa del cranio. Una vampata di calore gli investì il viso; non riusciva a respirare bene né ad aprire l’occhio sinistro. Provò uno strano conforto, nell’allontanarsi dallo schifo che aveva appena rigettato… L’incarnazione definitiva della sua sconfitta.
Lo aiutarono ad attraversare il corridoio. Fu raggiunto da un gorgoglio di voci che si fece passo dopo passo sempre più ostinato, fino a trasfigurare in un mugghio inquietante che gli fece tremare le gambe. Il suo animo rassegnato vacillò. Non ebbe il coraggio di proseguire oltre, al che i soldati combatterono la sua riluttanza alzandolo definitivamente da terra. Il caos lo annebbiò.
Lo misero sulla scala e, senza neanche rendersene conto, cominciò a salire. Quando fu in cima, li vide. Alcuni di loro piangevano. Altri cercavano di mantenere di fronte alla fine un contegno traballante, ma non riuscivano a trattenere del tutto i singhiozzi. Altri ancora si erano rintanati nella propria mente, dove avevano scavato pozzi talmente profondi da dare le vertigini persino alla morte, che impaziente si era già concessa una fugace occhiata prima che il boia ne mollasse le redini.  La vita aveva già abbandonato gli occhi di costoro; molto probabilmente i più simili ai suoi.
Cercò di inseguire il senso di tutto quel dolore, nelle maglie ruvide della corda che si avvicinavano al suo viso. Cercò di rincorrerlo, nella memoria che cominciava a diradarsi.
Il senso di quella colpa.
Di quell’ideale.
Di tutti quei sacrifici.
E all’improvviso…
 
Una fitta alla schiena mi rimestò i pensieri. Ero lì, acquattato con gli altri arcieri tra i merli delle mura.
Prendevo parte al massacro che si consumava davanti alle porte serbando, in un angolo segreto della mia mente, la preghiera che nessun altro nemico provasse ad avvicinarsi. Non volevo che altra gente morisse per mano mia.
Corsi lungo la colonna vertebrale con le dita, sul punto che mi doleva e oltre, ma non trovai nulla. Tirai un sospiro di sollievo. Mi feci ancora più piccolo e guardai verso la città: era da lì che mi avevano colpito. Il che mi lasciava perplesso.
Ma ecco un soldato, con una pietra in mano. Subito la lasciò cadere, paonazzo in volto.
«N-necessito udienza…!» disse, stringendosi nelle spalle.
Ed io lo raggiunsi con un balzo, incalzandolo con una smorfia.
«Non potevi aspettare? Non so se hai notato, ma c’è una guerra là sotto!»
Stupefatto per il mio gesto atletico, l’uomo si prostrò con urgenza, implorando il mio perdono. Lo squadrai da capo a piedi, con un ghigno soddisfatto. Il suo corpo alto e forte si era fatto tutto a un tratto minuscolo, eclissato dallo scudo di cuoio nero gettato dietro le spalle.
«E va bene, concesso. Sentiamo, con chi ho il piacere di parlare?»
Alla mia domanda tolse immediatamente l’elmo, mostrando i lunghi capelli neri legati dietro la nuca, il viso sbarbato, gli occhi scuri ed espressivi.
«Ettore. Figlio di Priamo, Re di Troia. Lode a te!»
Oh, cavoli…
«Lode… anche a te.»
Mi invitò a camminare all’interno della città ed io mi limitai ad annuire, senza aggiungere altro. Mi scrutò con un leggero disagio, una o due volte, ed io cercai in tutti i modi di evitare il suo sguardo. Ciononostante, esibiva un portamento regale, ben più deciso rispetto a quello di suo fratello Paride, che avevo avuto modo di incontrare in precedenza. L’arciere, pur essendo rinomato in tutta la Grecia per la sua abilità, era additato come un essere vile e codardo, un uomo senza carattere. Al cospetto del suo valoroso fratello, l’immagine che avevo di lui mi apparve ancora più insipida.
«Dunque…»
Dopo una manciata di minuti, Ettore rallentò il passo fino a fermarsi. A giudicare dal modo in cui torturava l’impugnatura della lancia, sembrava molto teso.   
«Onorato Febo!»
«…Eh?»
Silenzio.
«Eh-ehm… Febo Sminteo!»
«Non ho capito…»
Sospirò, lanciandomi un’occhiata incerta. Posò lo scudo e la lancia a terra e, dopo aver tirato un profondo respiro, allargò le braccia. 
«Mio signore Apollo, di Tenedo possente imperatore! Se hai a cuore questa città, che con grassi sacrifici ti ha giovato, ebbene: odimi. Voglia, quest’oggi, veder la mia bella sposa riabbracciar il suo marito e il mio pargolo…»
«…A-Apollo?»
La solennità di Ettore si smontò di colpo. Scrollò le spalle, con uno sguardo stralunato e uno sbuffo trattenuto a fior di labbra. 
«Senti, voglio affrontare uno dei loro a duello per risparmiarci una carneficina», tagliò corto. «Voglio finirla qui, oggi»
Esitai, confuso.
«Oh… Beh… dillo subito, no?»
«Mi serve la tua benedizione.»
Ma che…?
«Ehm… Va bene.»
«…Va bene?»
«Si, insomma, sei tu che comandi, fa’ quello che vuoi!»
«Oh… Grazie.»
«Prego.»
Altro silenzio.
«Hai già pensato a qualcuno?»
«Sarà l’avversario a scegliere.»
«Capisco…»
«…Ho, ad ogni modo, scrutato e riflettuto a fondo sui figuri che animano la guerra stamani.»
Ma perché gliel’ho chiesto?
«Manca il Pelide Achille: colui che ha sterminato intere legioni nell’Egeo, imponendo il grande nome suo su ben undici città e dodici isole. Molto probabilmente, Menelao si proporrà al posto di costui; ma Agamennone non gli permetterà di battagliare. Il cuor suo stracolma di fraterno ardore verso il Re degli Achei, che sarà per giunta stremato, giacché poco avvezzo alla battaglia.»
«Si… Ha senso....»
«Ci sarebbe, perlopiù, Ulisse. Uomo astuto: voglia il fato liberarci dalle perverse spire del suo ingegno! Ma non credo accetterebbe questa sfida in particolare. Aiace di Telamone, monumentale: lui potrebbe farlo!»
Chissà perché “monumentale” non mi ispira…
«E, possa tu assistermi, sono pronto ad affrontare una prova simile per il bene del mio popolo. Non sottrarrò altri uomini alle famiglie di Troia, quest’oggi! Li proteggerò, costi quel che costi!»
Ripetei nella mia mente quelle parole. Costi quel che costi
«Pensavo, non sarebbe meglio se…»
D’improvviso, un grido animalesco mi fece sobbalzare. Ettore non si mosse. Mentre le mie orecchie sussultavano ad ogni scontro di scudi o sfavillio di lame, le sue erano allenate a procacciarsi forme nascoste di quiete nel rumore. Guardai verso le mura, immaginando Aiace che spazzava via, in un sol colpo, decine di soldati con quelle braccia robuste come travi. Allontanandoci il caos si era affievolito, ma quel ruggito era riuscito a raggiungerci e ci ricordò che, a breve, saremmo dovuti tornare ai posti di combattimento.
«Dicevo… Se davvero lui accettasse la sfida come dici, non potrebbe essere un problema? È grosso, anche troppo per te.»
«Egli è imponente, vero, ma poco sveglio da quel che ho potuto osservare. Voglia tu imbrigliare la fortuna e renderla a me favorevole con la tua somma benedizione. Ti renderò in dono la mia vittoria!»
Tirai un sospiro, nella speranza di non mandarlo a morire col mio benestare. 
«E va bene, Ettore.»
Lui continuava a guardarmi, come in attesa.
«Si, insomma va’, fa’ quello che vuoi, io sono con te!»
Solo a quel punto, sfoggiò un sorriso smagliante.
«Grazie, Febo Apollo. Grazie!»
«Ma non ringraziarmi, d’ora in avanti… E non ti inchinare, lascia perdere!! Non fare così, su, andiamo…!»
 
Uscì correndo dalla città e abbassò la lancia, segnalando così ai suoi di deporre le armi. Il furore della battaglia si spense all’istante e, in quel momento stesso, prese la parola.
«Oggi ho deciso di andare incontro al mio destino!» esordì e, quando dichiarò il suo intento, i soldati di entrambe le fazioni si ritrovarono a condividere la medesima sorpresa. A incrociare gli sguardi come nel chiedersi: “ma è impazzito?”
Ettore aveva previsto tutto: i suoi attori si mossero con una puntualità impressionante; tranne uno. Aiace di Telamone. Proprio quando la pantomima da lui minuziosamente calcolata stava per volgere al termine, costui venne meno al suo ruolo e, sul campo, calò un lungo e imbarazzante silenzio. Agamennone si allontanò da Menelao, furente di rabbia per il suo esercito di conigli, e raggiunse un gruppetto di guerrieri. Questi, dopo un breve mormorio, si fecero avanti uno dopo l’altro. Li fissai: nessuno di loro sembrava davvero all’altezza di Ettore, tranne pochi che parevano, in ogni caso, preoccupati.
Aiace li sovrastava in tutta la sua possanza, senza esprimere alcun intento. 
Il principe, stupito e nel contempo compiaciuto, viaggiò con lo sguardo da un uomo all’altro, finché uno strano figuro non si avvicinò ad Agamennone, chiedendogli l’elmo. Vi buttò all’interno una manciata di sassi e la agitò.
«Deciderà la sorte!» disse.
Pescò e, senza neanche guardare il risultato, si avvicinò direttamente ad Aiace. Il guerriero strinse il sasso nella sua mano, grande il doppio rispetto a quella del commilitone, e sogghignò prima di sbirciarlo e gettarlo a terra.
«Mia la fortuna, amici miei» urlò, «oggi schiaccerò il glorioso Ettore! A me le armi!»
Scorsi chiaramente la smorfia amara con cui si avviò a riceverle. Il soldato del sorteggio e Ulisse si scambiarono uno sguardo soddisfatto. Un giovane arciere, con indosso un arco e una faretra troppo grandi per il suo corpo minuto, si lanciò verso Aiace e gli strinse il polso. Il gigante si abbassò e gli scompigliò i capelli. Lo sguardo carico di tenerezza.
«Sta’ tranquillo, andrà tutto bene.»
I compagni fissarono la scena infastiditi. Lui non se ne curò.
Ebbi una sorta di déjà-vu.
Due macchie sbiadite.
Il pallore cadaverico di una, piccola e fragile, e la gargantuesca stazza dell’altra, pervasa da una ferocia senza fine.
La disparità dei loro corpi imperfetti, grande quanto la forza del loro legame.
Un topolino e il suo orso. Tagliati fuori dal mondo, uniti da un affetto che loro soltanto erano in grado di comprendere.
Era un ricordo o solo una sensazione distorta? Non potevo saperlo.
 
«Nessuno avrebbe mai sfidato Ettore, la cui forza fa tremare persino Achille lo sterminatore, di sua spontanea volontà!»
«Vero, anch’io ho udito della sua indicibile potenza!»
«Commisurata a quella di voi troiani, forse!»
«Siete proprio sicuri che Achille non tremi di noia, di fronte al vostro Ettore?»
Il campo mormorava, intanto che i due si preparavano a combattere. Il principe osservò in silenzio Aiace che, inalberando la sua lancia e l’improbabile scudo, ghignava come un leone che stava per fare un sol boccone della sua preda.
«Veglia su di me, Arco d’Argento.»
Gettò quelle poche parole lì, nella polvere. Poi si allontanò, ineluttabile come una foglia che si stacca da un ramo in autunno e vola via. Le medesime meccaniche muovevano gli eroi come lui verso un duello come quello. In fondo, che cos'è un eroe se non un individuo dotato di un grande talento e straordinario coraggio; che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica sé stesso per salvare gli altri; ma soprattutto... Che agisce quando ha tutto da perdere e nulla da guadagnare? Ettore non poteva evitarlo. Rischiare la vita per il suo popolo era il suo compito. Combattere contro Aiace era il suo destino.
«Ettore!!» lo istigò quello. «Scoprirai che ci sono eroi ben più valorosi di Achille tra gli achei!»
«Zittò e combatti!» si limitò a rispondere lui.
Inspirò forte. Gli occhi appuntiti, arpionati sull’avversario. 
Caricò la sua lancia. Vidi i suoi muscoli tendersi all’inverosimile… Tirò.
La lama squarciò l’aria con una tale veemenza da farla vibrare. Neanche la vidi partire. Andò a conficcarsi nello scudo di Aiace, penetrò il cuoio coriaceo che lo ricopriva, ma non arrivò a colpirlo. Silenzio.
Gli occhi del gigante tremarono per un brevissimo istante. Gli occhi di tutti lo fecero.
Il giovane arciere smise di respirare. 
Aiace rinvenne e subito carico il suo colpo… Ettore impallidì. Quando l’avversario lanciò, il principe si gettò di lato. Il suo scudo cadde al suolo in mille pezzi. Non avrebbe potuto evitare la lancia, se non in quel modo. Gli achei trattennero un grido.
Tutti tranne il ragazzo, che se ne stette ad osservare indignato. 
Lo guardai per un attimo e, subito, mi intercettò. Non smise più di fissarmi. Mal celava un’amara trepidazione. Glielo lessi subito in faccia: nelle labbra serrate a fatica da un morso che stava per sanguinare, negli occhi carichi di frustrazione. Così aggrappati ai miei da farmi provare disagio. Di tanto in tanto si scollava da me per seguire le mosse di Aiace, come per vegliare su di lui. Poi tornava a cercarmi. Difficile definire il confine tra l’odio smisurato per Ettore e la totale adorazione per quel mostro: entrambi palpabili, come se li stesse sbandierando ad alta voce. Quel corpo minuscolo, una muscolatura appena accennata, capelli ricci e grandi occhi chiari, non appartenevano ad un guerriero. Ma io? Perché guardava me?
«Bastardo!!»
Un urlo ci calamitò di nuovo sulla battaglia. Di colpo, le lance erano sparite per fare spazio alle spade. Due soldati afferrarono gli sfidanti per le braccia, tentarono invano di bloccarli.
«Non è ancora finita!!» urlò Aiace, mentre Ettore lentamente si riebbe e fissò il sole. Stava tramontando: anche in guerra, la notte andava rispettata. Digrignò i denti.   
Quando entrambi si furono calmati, presero a ciarlare come due buoni avversari che si rispettano l’un l’altro e a scambiarsi doni. Il principe sfilò trionfante tra i suoi uomini, con una cintura stretta tra le mani, e il mio cuore si colmò di orgoglio.
Sì, un eroe era proprio quel genere di persona: quella che da sempre speravo di diventare. Un individuo che non si lascia frenare dalle proprie incertezze, ma agisce con il solo ed unico scopo di salvaguardare il suo prossimo, gettandosi anche nelle imprese più assurde. È lo splendore coraggioso di questa sua missione a guidarlo nelle avversità, a rendergli onore, a fargli sopportare ogni fatica, ogni dolore. È lì il senso del suo sacrificio, tutto lì: nel bellissimo pensiero di offrire la propria vita agli altri. Ignaro delle perdite che affronta ad ogni battaglia, noncurante del guadagno: la sua mano è ferma, la sua mente è lucida. Nessun dubbio è tanto grande da compromettere il suo credo. Egli è il suo credo.
Aiace tornò tra gli achei con una magnifica spada e, mosso da un impeto incontrollabile, l’arciere gli andò incontro e lo abbracciò. L’uomo poggiò una mano sulla sua schiena, coprendola tutta come uno scudo, mentre con la coda dell’occhio invitò gentilmente chiunque lo stesse fissando a levarsi di torno.
 



 

Note finali♫♪
Piccola delucidazione sul contesto storico: all’epoca vigeva la cosiddetta “cultura della vergogna”: il parere dell’opinione pubblica contava più di qualunque altra cosa e determinava il passaggio dallo status di eroe a quello di codardo. Ergo, rifiutare una sfida era un comportamento Disonorevole con la D maiuscola; motivo per cui i soldati si sono fatti di colpo tutti avanti, pur essendo titubanti, dopo aver “chiacchierato” con Agamennone. Anche Aiace, eroe che non scende a patti con nessuno – compresi gli dei – non è immune a questo modo di pensare.
Per quanto riguarda il giovane arciere – il cui nome verrà rivelato più avanti, – egli è molto legato al gigante, come avete potuto vedere e come vedrete ancora. Ho cucito su di loro, al di là del déjà-vu di Archer, l’immagine di Ilya e Berserker. È una riscrittura che mi è riuscita molto naturale e spero non ti abbia fatto storcere il naso.
Gli appellativi dati da Ettore ad Archer sono gli stessi usati dal sacerdote Crise, per invocare Apollo nel primo libro dell’Iliade. Da momento solenne a comico è stato un attimo…
Detto questo: grazie per aver letto il primo capitolo di In the face of death!  

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Capitolo 2
*** The facts ***


Note♫♪ dell’autrice
Tredici traci trotterellanti tra i troiani♪…
Bentornato e grazie per aver proseguito la lettura! Come avrai ben intuito dal capitolo precedente, per scrivere la storia ho consultato il poema originale e altri testi, tra cui l’Iliade di Alessandro Baricco. Piccola nota doverosa, giacché vi è all'interno del testo qualche citazione sparsa, opportunamente rielaborata. Ovviamente, non mancano citazioni tratte anche dall'anime e, in particolare, dalla ballata di Archer.
Per quanto riguarda la storia: entriamo ora nel vivo della guerra. Tieniti forte and… Enjoy!

Parole: 5593
Citazione: Chiunque può essere un eroe, anche un uomo che fa una cosa semplice e rassicurante, come mettere un cappotto sulle spalle di un bambino per fargli capire che il mondo non è finito.” ~ dal film Batman Il Cavaliere Oscuro - Il Ritorno.


2





Nel buio della tenda, scorsi delle luci fare su e giù per il campo. Ettore aveva deciso per la prima volta di festeggiare, facendo portare nella pianura carne e vino. Preferii starmene in disparte e dormire un po’. Sebbene uno spirito eroico non ne abbia realmente bisogno, stento a farne a meno. Necessito di un gesto che giustifichi lo stato letargico in cui mi inducono i pensieri della notte: così densi da viaggiarmi davanti agli occhi, in un’escalation di scene frammentarie che mi estraniano dalla realtà. Difficile capire se si tratti di pure elaborazioni della mia mente o ricordi che, in teoria, non dovrei più avere.
«Gli dei, dunque, possono sognare?»
Mi rigirai sulla branda con uno scatto fulmineo. E me lo ritrovai davanti, disteso sul fianco.
«C-che ci fai tu…?»
«Perdonami, onorato Febo. Sono venuto a chiamarti e ho avuto bisogno di coricarmi un attimo.»
Aveva il viso arrossato dal vino, gli occhi languidi. Uno sguardo beota.
Nei giorni trascorsi dopo il duello davanti alle porte Scee, non avevo mai visto quell’uomo. Il solito Ettore era sempre composto e rassicurante. Celava, sotto un’espressione bonaria incorniciata da modi umili e gentili, l’acume di un combattente esperto. La battaglia gli infuriava nelle vene, ma lui la impacchettava in un sorriso sornione. Quell’individuo, invece, mi rivolgeva un ghigno beffardo. Era fastidioso alla vista, il contrasto tra la grandiosità del suo corpo scultoreo e la sua pochezza mi innervosiva.
«Cosa vedi mentre dormi?»
«Quello che vedono anche gli esseri umani.»
Sbadigliò. Si prese un attimo per osservarmi.
«Ne dubito, hai il sonno beato di un pargolo.»
«Mi stavi fissando mentre dormivo…?» sibilai.
Sgranò gli occhi e fece per alzarsi.
«Oh. Ti ho forse…»
«Si.»
«Non volevo…»
«Lasciami dormire.»
«Volevo offrirti del…»
«Non mi va.»
«Va bene…»
Lentamente, rotolò su sé stesso e si mise prono.
«Ti attendo fuori, qualora dovessi cambiare idea…»
Non risposi. Mi limitai a guardarlo, mentre tentava goffamente di sollevarsi sulle braccia. Sospirai. Mi misi in ginocchio e provai a metterlo seduto, cingendogli il torace. Lui oppose resistenza e rise, afferrandomi le braccia.
«Non so cantare…»
«Cosa?»
«Si dice che la voce di Achille sia tanto soave da commuovere voi dei…»
Mi arresi. Ubriaco fradicio com’era, non rispondeva più di sé stesso. Lo aiutai a sdraiarsi sulla branda e mi sedetti accanto a lui.
«Ma non mi dire!»
«Se ti tratterrai in ascolto mentre canta, troverai naturale non riuscire a distoglierti da lui, nemmeno per un istante. E anche il mondo intero parrà fermarsi, per non perdere neanche una nota. Io non sono capace. Non una donna o un fanciullo mi guarderebbero come viene guardato Achille, mentre canta. E poi non ho capelli color del miele e pelle rosea… Femminea è la sua bellezza. Meravigliosa. A me pare sia persino più bello di Elena, che di Zeus è il cigno prediletto. E infatti, si dice che Achille sia stato partorito da una dea; venerabile Nereide, Teti, la più bella tra le sue sorelle.»
«Capisco…»
Mi fissò ancora e più a lungo, come se volesse aggiungere altro.
«Ettore, vuoi essere bello e intonato come Achille?» Risi.
Ma lui si fece di colpo serio.
«No. Vorrei essere potente come Achille.»
Stavo per ribattere, ma subito m’incalzò.
«Voi dei e i vostri figli avete tutto: bellezza, forza, intelligenza. Io vi invidio. Se avessi avuto il vostro potere, giorni fa avrei potuto mettere fine a questa guerra affrontando un solo uomo, così da salvarne centinaia. E questa notte starei dormendo beato, come fate voi.»
Gli occhi gli brillavano, ma non per il vino. Era commosso.
«Apollo, imperatore. Non mi concederesti il…»
«Lo farei volentieri, se potessi.»
Si morse il labbro. Mi voltò le spalle, stringendo il suo corpo in una posa contrita.
«Desidero solo un finale buono per tutti...» mugolò. «Mio fratello è certamente dalla parte del torto, ma non posso cedere la dolce Elena al marito. Condannerei il mio popolo all’onta della vergogna. Io stesso verrei cantato come “Ettore il codardo”. Una simile onta macchierebbe per sempre il nome della mia discendenza… Di mio figlio, Astianatte… Lui non lo merita… Rendetelo, o dei, ben più grande del padre che – vi prego – allontanate dalla sventura, a cui il suo debole animo lo attira…! Or dunque, ci tocca combattere, Arco d’Argento… Ma a che prezzo…? Fare strazio degli innocenti di entrambi gli eserciti, in nome di due altrettanto valide ragioni…? È questa la giustizia…?»
Vederlo così mi stringeva il cuore. Il suo piglio sicuro, tutta la risolutezza di cui era capace anche nei momenti più drammatici… che fosse quello, in realtà, il vero Ettore?
«Stai facendo tutto il possibile.»
«Tutto il possibile… Non è abbastanza…»

Il ragazzo giunse nel deserto, in quello sprazzo vagamente urbanizzato. Infuriava il caos; tra lo svolazzio di mimetiche e turbanti non c’era modo di capire chi fossero i militari e chi i civili. Gli ordini erano precisi, eppure si ritrovava spesso a vagare per il campo stordito, senza sapere esattamente cosa fare. In verità, non accettava per niente il compito che gli era stato assegnato: combattere; uccidere degli uomini per salvarne altri. Era in fin dei conti il ciclo naturale delle cose, ma lui lo rifuggiva con tutto sé stesso. E così, si ritagliò uno spazio per coltivare l'intento di vedere l'intera umanità unità in un lieto fine, come nei suoi sogni più rosei.
Tra una carneficina e l'altra, prestava soccorso a bambini, donne e anziani. Distribuiva beni di prima necessità e si ritrovava, spesso, a cucinare per coloro che non avevano più un tetto sotto cui pranzare insieme con la propria famiglia. Ben presto, si sparse la voce in città e la gente cominciò a cercarlo. Non chiese mai nulla in cambio: la felicità altrui era la sola cosa che desiderava. La sola cosa che gli importasse veramente. Ma un giorno, lo stesso esercito che lo aveva reclutato catturò lui e un gruppo di civili, accusandoli di cospirazione. Per tentare di salvare questi ultimi, confessò.
«Si, sono stato mandato dal nemico. E ho agito da solo.»
Lo torturarono, più e più volte. Ma quella gente fu trattenuta.
«Sono solo! Loro non c’entrano niente, ve lo giuro!»
Non servì a nulla.
Fu allora che decise di giocarsi il tutto per tutto. Riuscì a liberarsi e inveì come un pazzo contro l’esercito. Sebbene fosse diventato un mago molto forte, i soldati ebbero la meglio: era troppi per lui. Ma, prima ancora di quegli infami, fu il suo stesso ideale a vincerlo. Non voleva fare del male a nessuno, non aveva senso. Era tutto frutto di un malinteso: voleva che se ne convincessero. Ma così non fu.
Allora sentì di aver tradito tutti.
Di aver tradito tutto ciò in cui credeva.
E si infuriò con sé stesso.
Era solo un piccolo uomo che stringeva tra le mani un pugno di mosche, nella speranza che un giorno si trasformassero in farfalle.
Non era degno di essere un paladino della giustizia. Forse, non lo sarebbe mai stato davvero.
La sua era e sarebbe rimasta, per sempre, una stupida fantasia.
Coloro che lo circondavano avrebbero continuato a morire e lui non avrebbe potuto fare niente per impedirlo. Anche quelle persone, che aveva difeso con immensa fatica, sarebbero state vittime della sua impotenza.
Erano lì.
Sulla forca.
Lo guardavano.
Non poteva aiutarle…
Non poteva fare niente…

«Per gli dei!»
Mi svegliai. Quell’invocazione mi fece scattare in piedi. Ettore, che fino a pochi attimi prima ronfava sulla branda, era sparito. Mi fiondai subito fuori dalla tenda e vidi l’intero accampamento in subbuglio. Uomini che, nel buio lambito da qualche barlume di luce, si allontanavano verso il campo di battaglia imbracciando armi e scudi. Più il sole si levava alto, più lo scintillio delle corazze bronzee e delle lame si faceva intenso e mi stordiva.
«Che sta succedendo? Dov’è Ettore?»
Imprecazioni, urla, vocii spezzati dall’angoscia. I troiani presero a calci le braci su cui avevano arrostito la sera prima, tra vino e canti. Sguardi perplessi, facce smarrite. Lasciarono in massa l’accampamento e io li seguii, incerto sul da farsi.
Gli achei erano già schierati davanti a noi. Dietro di loro, il muro che avevano così fieramente costruito notti addietro, con tanto di torri e fossato; il confine della bella città improvvisata dentro cui li avevamo costretti, come topi intrappolati nella loro stessa tana. Ora la sua sagoma ci sovrastava con il suo sinistro influsso, assumeva per la prima volta i contorni di una vera e propria fortezza. Faceva quasi paura. I nemici avevano formato oltre il fossato un secondo muro fatto di carne e bronzo, ancora più minaccioso. Le loro lame pregustavano già le membra dei troiani e li attendevano come squali, nell’oceano d’erba sospinto dal vento che profumava di tamarisco. Agamennone ci osservava, l’auriga e i suoi cavalli erano già sull’assetto di guerra.
Continuai a cercare Ettore. Mi parve di vederlo per un breve istante, ma poi sparì di nuovo. Era come un sole che appariva e scompariva tra le nubi, un astro sfuggente. Ebbi come l’impressione che questo attacco, più di altri, stesse mettendo a dura prova i suoi nervi. Dava indicazioni agli uomini, lo sentivo sbraitare, ma alla fine tacque e subentrò un nitrito, seguito da un fitto scalpitare di zoccoli. Era salito sul carro. Vidi l’elmo, il pennacchio che ondeggiava sulla sua testa, e lo raggiunsi.
«Perché gli uomini sono così agitati?»
Non mi guardò, ma la rabbia gli adombrò il viso.
«Maledetti siano quei bastardi! Hanno preso Reso, regale condottiero; gli hanno squarciato la gola. Quegli animali, che Zeus li fulmini! Hanno preso lui e tredici traci; i suoi cavalli, belli come le cavalcature di voi dei, spariti. E non v’è traccia di Dolone.»
Aggrottai la fronte.
«Dolone? Parli del tizio a cui hai ordinato di intrufolarsi nell’accampamento nemico, promettendogli in cambio i cavalli di Achille?»
«Sì: più che equini, figli nati dal copular del drago della Colchide e di una giumenta. Solo guardarli mi fa accapponare la pelle.»
Ooookay… Solo una domanda, perché?
«So a cosa stai pensando: di viltà era reo come di stupidità immane. Avrebbe potuto tradirci.»
«Hm, infatti…»
La tensione lo stava logorando. Disegnai in una voluta argentea l’arco, che da tempo immemore mi seguiva in ogni battaglia, e lo sollevai sulla mia testa. Da semplice arma, in quel momento, divenne l’emblema della mia fedeltà verso quell’uomo.
«Anche quest’oggi le mie frecce sono al tuo servizio, Ettore. Qualunque cosa tu decida di fare, io sono con te!»
Le mie parole sembrarono dargli la carica giusta. Ci scambiammo uno sguardo d’intesa, prima che la perfetta geometria delle file nemiche si sfaldasse. Il principe si affrettò ad aggiungere qualcosa, poi si lanciò all’attacco.
«Se tu sei con me Sminteo, vinceremo di sicuro!»
«Ma… Dannazione, non chiamarmi più così!!»
Agamennone si schiantò con la sua possente stazza contro due soldati, impalandone uno con la lancia e facendo a pezzi l’altro con la spada. Era lontano, ma i suoi ruggiti ci investirono con una ferocia disarmante. Gli achei, rinnovati nella furia da ogni suo ordine, ci spinsero verso la pianura. Le ultime fila retrocessero e balzarono in un gesto disperato verso le mura della città, lasciandoci interdetti. Allontanandosi, si lasciarono dietro una scia di urla e un tanfo cadaverico, che li rendevano simili a buoi insanguinati che scampavano al macello.
Di colpo, la voce di Ettore tuonò nella mattanza. Si tuffò letteralmente dal carro per inseguire i soldati che fuggivano, sotto lo sguardo turbato del suo auriga.
«Serrate i ranghi!! Muovetevi!»
Dopo averli minacciati e aggrediti, si ritrovò a tessere le file con rinnovata pazienza. Il suo corpo era impastato di terra, sangue e sudore. I suoi occhi erano lucidi; le lacrime solcavano il putridume che gli insozzava le guance. Eccolo: il volto dell’estraneo nella tenda; il volto pervaso dal rammarico e dai dubbi.
«Oggi ci prendiamo le navi! Che io sia maledetto, se non do fuoco a quei bastardi!»
L’armatura era squarciata in più punti, ma ancora reggeva e poteva fermare molti altri colpi. Tuttavia, era intimamente disarmato. Nudo, di fronte al suo rinnovato destino.
Me ne resi conto prima ancora di udire quelle parole; mentre vedevo i suoi occhi ardere della stessa veemenza con cui investiva gli achei e i loro alleati. Forse ci aveva riflettuto su proprio durante la notte. Forse, semplicemente, non ne poteva più.
Ettore… Il principe disposto ad immolarsi pur di proteggere tutta quella gente da un ingiusto massacro, senza alcuna distinzione tra amici e nemici. Colui che, dopo il duello con Aiace, aveva continuato ad uccidere col magone. Quello stesso Ettore, alla fine, si era arreso all’idea che quella strada lastricata di cadaveri fosse la sola da percorrere.
Sì, pensava ancora che Menelao meritasse di riavere con sé Elena e che i suoi uomini, gli eroi più grandi di tutta la Grecia, non dovessero morire per l’idiozia di Paride. Tuttavia, era stanco di cercare la soluzione di quel rebus. Si sarebbe limitato a difendere il suo popolo, l’esercito, Astianatte. E basta.
Per salvare qualcuno, bisogna sacrificare qualcun altro: eccola, la grande contraddizione del nostro ideale. Aveva deciso, infine, di farla sua.
Afferrò quindi l’afflizione, che si era portato dietro fino a quel momento, per scagliarla lontano.
Prese a calci l’ombra del fallimento, che gli era stata ogni giorno col fiato sul collo; quel tumore che gli premeva dentro e non lo faceva rilassare neanche un istante.
Stava aprendo la carne.
Bucando e afferrando quel tormento con le dita.
Ancora uno sforzo.
Tirava…
Stava per estirparlo…
Un fischio spezzò il flusso dei miei pensieri.
«Attento!!»
La lancia volò verso la sua testa.
Si scansò, perse l’equilibrio…
Il pennacchio sull’elmo si avviluppò, come una bandiera scossa da un uragano.
In un millesimo di secondo, il suo corpo volò via dal carro e si schiantò nel fango.
Fintanto che colpiranno me, non sentirò alcun dolore.
Continuerò a combattere, anche con decine di spade conficcate nel mio corpo.
Finché nessun’arma riuscirà a penetrare le mie difese, la mia forza non sarà scalfita...
«Ettore…!!»
Il grido salì lungo la gola e mi esplose nella testa...
Non si muoveva.
La calca mi impediva di raggiungerlo. Tremavo all’idea che qualcuno potesse portarlo via, spogliarlo della sua armatura e delle armi…
Dovevo recuperarlo…
Dovevo impedire a quelle bestie di banchettare sul suo corpo esamine…
Una freccia mi sibilò accanto all’orecchio. Il sangue nelle vene si raggelò all’istante, bloccandomi sul posto. Alle mie spalle, un guerriero acheo lanciò un grido di dolore. La punta si era conficcata nel suo piede. Mi voltai e lo vidi.
Paride… La corda dell’arco che ancora vibrava.
Quante cose avrei voluto dirgli…!
«Seguimi!» mi ordinò.
«Ma…!»
«Non c’è più tempo, muoviti!!»
Sgranai gli occhi inferocito. Dovevamo continuare a combattere… Non potevo lasciarmi sopraffare dalla collera. Dovevo cercare di trattenermi.
Mi voltai ancora una volta, alla ricerca di Ettore. Ma era già sparito.

Le file troiane si stavano riversando come scarafaggi nel fossato e Paride ci si buttò in mezzo. Difficile capire se per combattere o sfuggire al suo avversario, che cercava di raggiungerlo zoppicando, tra orribili imprecazioni.
Gli arcieri achei, protetti dagli scudi, puntarono verso di noi.
Non esitai.
Tesi, combattendo contro il tremore delle dita che non riuscivano a bilanciare la freccia. Era un gesto semplice, ripetuto migliaia di volte.
Ero in tilt.
Ettore, nel fango…
Colpii. Gli scudi si sfracellarono nell’implosione scintillante dei dardi.
Ettore, immobile…
Colpii ancora. Decine di uomini caddero al suolo, come tronchi abbattuti dal vento. Brandelli di cuoio e visceri calarono un manto lugubre sugli elmi dei troiani.
Poi, vidi lui.
Mi fissava con i suoi occhi chiari, di nuovo pervasi da quella frustrazione. Quel non detto a cui non sapevo dare un volto, ma che ci aveva infine connessi.
Tese la corda e scoccò. Le frecce volavano rapide, come la lancia del principe contro lo scudo di Aiace. Non sbagliava un colpo. Il suo talento mi lasciava senza parole… Ma lo avrei spezzato comunque. Avrei spezzato quell’essere perverso. Quella macchina da guerra. Quel messaggio nascosto nei suoi occhi, che non volevo più interpretare.
Mirai…
Un ruggito mi fece sussultare.
Aiace, alle sue spalle. Reggeva sulla sua testa un macigno due volte più grande di lui. Gli uomini, di sotto, lo fissarono increduli…
Mollai l’arco e mi fiondai lì.
Corsi più veloce che potevo, spintonando e intrufolandomi nella calca.
Il gigante aderì al parapetto, facendo forza sui possenti muscoli delle gambe. Già pregustava lo schianto, le membra spappolate dei troiani, il pasticcio di carne e sangue che si sarebbe rimestato sotto la pietra… E la lasciò cadere.
No…!
Un urlo si levò dal fossato.
Mi ci tuffai dentro.
Non ne ero affatto sicuro, ma era la nostra unica possibilità…
Tesi la mano verso l’alto.
Cinque spire disegnarono gli scudi, impilati l’uno sull’altro. Opalescenti, violacei. La consistenza vitrea che ispirava tutto fuorché la capacità di respingere quell’enorme proiettile. Sarebbero stati abbastanza contro una lancia… Ma per quello…
Il masso impattò sul primo scudo. Lo infranse.
Le urla dei soldati, stretti intorno a me, si intensificarono.
Non dovevo mollare.
Forza...!!
Crepò il secondo. Spinsi forte, con tutta la potenza magica di cui disponevo.
Il secondo strato saltò.
La spinta di ritorno mi investì come il rinculo di un fucile. Mi tremarono le gambe.
Strinsi i denti, fino a sentire il sangue inondarmi la bocca, fino a non udire altro che un fischio penetrarmi i timpani, spaccarli, fino a cancellare il fossato, la guerra, Ettore, tutto il casino che mi infuriava intorno… E scoppiò. Il macigno scoppiò non appena ebbe scalfito il terzo scudo.
Ceneri e schegge investirono i soldati, che dopo un breve silenzio lanciarono un grido di giubilo. Rilassai i muscoli e mi lasciai cadere tra di…
Dolore.
Aveva atteso che abbassassi la guardia per colpire.
Il ragazzo dagli occhi chiari. Mi aveva trapassato la spalla.
Rovinai tra i cadaveri dei soldati abbattuti. Mi accorsi solo in quel momento che stavamo camminando su di loro; erano diventati tutt’uno col fango e la polvere. La punta, che guizzava fuori dalla carne, fu spinta dentro dall’impatto col suolo. Una fitta atroce.

Guardai verso di lui.
Non riuscivo ad urlare…
Non riuscivo più a muovermi…
Mirò di nuovo…
«Teucro!!»
L’urlo di Aiace lo bloccò. Subito, i troiani mi protessero con i loro scudi. Riuscii appena ad intravedere due uomini che, approfittando della situazione, avevano cominciato a scalare il muro. Il ragazzo ne ferì uno al braccio, veloce come un fulmine, e questo ci cadde addosso. L’altro non demorse: continuò a salire e, come le radici avventizie di un’edera, si aggrappò al parapetto là dove si ergeva una delle porte. Iniziò a tirare. Non lo vedevo più. Udii un rovinare di mattoni.
«Allora, volete che prenda il muro da solo?! Sbrigatevi!»
Lo aveva fatto a pezzi. Impossibile… O forse no. Forse avevamo bisogno proprio di quel miracolo e un dio – uno vero – ci aveva assistiti.
Afferrai la freccia, impregnata del mio sangue, e senza esitare nemmeno un secondo strinsi i denti e la spezzai. Scostai gli scudi e materializzai di nuovo l’arco.
«Aiutiamolo!»
Un tumulto di uomini si avventò sulla breccia. Teucro fu subito supportato dagli altri arcieri e da Aiace, che lo coprì col suo immenso scudo. La nostra squadra si apprestò a raggiungerci, scortata da Paride.
Tesi la corda.
Cercai, con tutte le mie forze, di ignorare il dolore…
Scoccai.
Portai a segno decine di colpi, permettendo alla maggior parte dei nostri di proseguire incolume.
Gli achei ci superavano di numero e in potenza.
Non riuscivo a fermare tutte le frecce, che piovevano addosso ai soldati da ogni angolo.
Stavo perdendo troppo sangue…
«Troiani, alle navi!!»

Spalancai gli occhi, incredulo.
Quella voce…
Apparve dal nulla e si avventò contro la porta con una pietra affilata. Un enorme mattone che, spezzandosi, si era trasformato nell’arma del nostro trionfo. Nessuno poteva fermarlo. Stava frantumando i cardini. Teucro puntò verso di lui. Esplosi un colpo sopra la sua testa e, stordito, il ragazzo si ritrovò catapultato a terra. Gemetti… La ferita si era allargata in uno squarcio, ma non aveva importanza… Lui era ancora vivo.
Ettore, il nostro comandante, era lì.
Aiace afferrò subito Teucro per un braccio e, insieme, sparirono nella confusione.

La porta cadde e i troiani si fiondarono dentro. Si riversarono come un fiume nel campo acheo; Ettore e i guerrieri più forti in cima al gruppo. Per quanto affrettassi il passo, non riuscivo a stargli dietro. Ero esausto… Riuscivo appena a camminare. Un alone scuro mi stava offuscando la vista…
L’uomo che aveva scalato il muro mi raggiunse. Da vicino era una montagna umana, la versione più contenuta e meno minacciosa di Aiace. Senza perdersi in cerimonie, mi issò sulla sua spalla.
«Ma che…?!»
«Sarpedonte, mio signore! Ho avuto spesso il sospetto che un dio stesse combattendo al nostro fianco, ma non immaginavo di ritrovarmelo davanti in carne ed ossa!»
Sospirai… A che pro disilluderlo? Ormai ci avevo fatto l’abitudine. Me ne restai lì, a penzolare come un sacco di patate, finché gli uomini non si fermarono di colpo. Gli chiesi di mettermi giù.
«Vuoi le nostre navi? Allora preparati, perché le difenderemo fino alla morte!»
Mi avvicinai e lo vidi.
Uno scudo, mastodontico come la porta dilaniata, si frappose fra noi e il nostro traguardo.
Proprio lui, il gigante di Telamone, ci aveva subito raggiunti. Ma dov’era Teucro?
«E allora sii tu a prepararti» ringhiò Ettore, «perché stai per andarle incontro!»
Era la battaglia decisiva. Il regolamento dei conti.
Il principe caricò la lancia e, di nuovo: un colpo micidiale, ben assestato – ancor più di quello che vidi sotto le mura troiane. Aiace non ebbe nemmeno il tempo di scansarsi.
La lama si conficcò dritta nel suo petto…
Ma non cadde. Né mostrò segni di cedimento.
No. Rise, gli occhi pieni di grinta trasudavano una gioia senza pari. La ferita non perdeva sangue.
Ettore ne fu terrorizzato. Indietreggiò… Quello era un mostro.
Capii subito a cosa stava andando incontro…
Mi lanciai davanti a lui.
Un botto.
«Sminteo!!»
Le ossa di tutto il corpo mi scricchiolarono.
Rotolai via.
Un rivolo di sangue scivolò giù, lungo la tempia.
Udii di colpo grida, stridii di lame, uno scalpitio convulso di passi.
Provai ad alzarmi, ma mi girava la testa…
La guerra intorno a me ronzava.
I soldati vorticavano.
Ricaddi in avanti.
Si stava facendo buio…

Perché?
Ancora quella voce.
Perché continui ad agire senza alcun riguardo per la tua vita?
Diventa sempre più difficile farla tacere.
Perché rischi di ammazzarti tutte le volte?
Chi sei? Ho il tuo nome sulla punta della lingua…
Sei proprio un idiota, Shi__
La luce spezza le tenebre. Il fuoco incendia le torce.
Il fuoco incendia la città di Fuyuki.
Grida, nel tramestio. Delle voci lontane.
Non appartengono alla guerra.
Provengono da un passato remoto, che non si è ancora compiuto.

Un guardiano della deterrenza non ha ricordi, ma nella sua stessa essenza permane sempre qualche piccola parte della sua vita passata. Scene inscindibili dallo stesso ideale che incarna.
Io mi ricordo di te. Buona parte della tua vita mi sfugge, sì, ma ho conservato quei pochi indizi in cui risiede la genesi del nostro antico legame.
Ed ecco perché, nonostante tu sia ormai andato e la memoria di te si sia disintegrata da eoni negli anfratti del tempo, mi sei rimasto dentro. Come una macchia di vernice che – per quanto gratti forte – non va mai via.

Eccoti.

Un attimo prima stai dormendo tranquillo, col piumone tirato fin sopra la testa. Un attimo dopo, un boato spaventoso ti risucchia in una dimensione aliena; che è in realtà la stessa in cui hai sempre vissuto, ma così messa non la riconosci. Vorresti muoverti, ma non puoi: hai le gambe bloccate. Il torso schiacciato da un cumulo di detriti. Puoi permetterti appena di respirare. Inali fumo che ti brucia i polmoni.
Non piangere, non è colpa tua. È che non sei mai stato preparato ad affrontare la vita. Nessuno ti ha mai detto che questa continua: anche quando il tuo cantuccio, imbottito di amore e certezze, si schianta in mille pezzi. Né ti è stato rivelato che, anche a sette anni, si può morire.
Fino a quel momento, ti sei sempre limitato a ridisegnare ex novo gli angoli di realtà che non potevi vedere, annullati dalla luce abbagliante che ti è stata sparata in faccia dalla mamma di notte, quando la pregavi di non lasciarti solo con i tuoi fantasmi. Hai ridefinito ciò che trovavi spaventoso con la tua immaginazione, hai creato ponti e connessioni tra gli eventi per dargli un senso che non ti facesse salire la stessa ansia del buio. L’ansia del vuoto incontrollabile, delle cose ignote. E infine tutto, nella tua ingenua visione del mondo, ha acquisito un senso; persino ciò che ti sembrava illogico. Il tuo segreto è non perdere il filo, l’intima connessione tra le cose. Semplice, no?

Come puoi vedere, ricordo bene come la pensi.
Nella tua realtà, le case non vengono mangiate dalle fiamme.
Le mamme e i papà non muoiono carbonizzati.
I figli non vengono schiacciati dal soffitto delle loro camerette.
I polmoni ti stanno per scoppiare, insieme a tutto il resto del corpo; ma tanto riuscirai a venirne fuori, perché è ovvio: i bambini non possono morire. Non possono, no? Insomma, è scritto a caratteri cubitali nel manuale delle tue verità. E allora aspetti.
Aspetti.
Aspetti.
Aspetti.

Quando è notte, ti piace mettere insieme i pezzi delle giornate trascorse a muoverti con cautela tra una decisione dovuta e un desiderio. Tra la maldigerita consapevolezza di essere diventato un ometto e la voglia di fare i capricci come quando eri piccolo. È ingiusto che i tuoi genitori abbiano smesso di trattarti come allora... Ti viene quasi voglia di ripercorrere a ritroso i pochi anni della tua vita e riportare tutto alla normalità.
Quanta tenerezza che mi fai.
Forza, mettiti a fare quel gioco. Il destino, intanto, sta raccattando idee per tirarti fuori da lì. È così che funziona, no? I bambini non muoiono. Tieni gli occhi aperti, non addormentarti e aspetta.
Intanto, si è insinuato in te un dubbio che spezza il filo della tua infallibile logica: lacerandolo, dividendolo in miliardi di minuscoli pezzetti che si polverizzano fino a svanire del tutto, come se non fossero mai esistiti. Se tu venissi salvato, un’altra persona verrebbe lasciata indietro?
Se qualcuno corresse a salvare te, qualora tu riuscissi a restare in vita per un attimo in più – l’attimo necessario, - qualcun altro potrebbe perdere il proprio?
Ti senti in colpa.
La tua egoistica voglia di continuare a respirare, impedendo ad altri di continuare a farlo, ti contrae in una smorfia. È un dolore a cui non riesci ancora a dare un volto, che ti instupidisce al punto da minare il tuo istinto di sopravvivenza. Salvateli pensi, perché non è giusto. Non è possibile. Non me lo spiego questo male, perché esiste? Le loro vite sono importanti, non lasciate che finiscano. Io non sono nessuno, non ho fatto niente per meritare di essere qui.
Il destino non tarda a rispondere e ti manda una luce. Non è come quella della cameretta. È l’inizio di tutte le incertezze. È la vita stessa che ti tende la mano, con la più grande di tutte le cattiverie. È il caos che risponde. Qualcuno ti stringe forte e piange, al che impari che anche gli adulti possono disperarsi. Che chiunque può essere un eroe, anche un uomo che fa una cosa semplice e rassicurante, come mettere un cappotto sulle spalle di un bambino per fargli capire che il mondo non è finito.
Ma, nel contempo, dimentichi cosa significhi essere felice.
Non c’è stato giorno, dopo allora, in cui non ti sia sentito castigato con la tua sopravvivenza.
Hai combattuto una guerra in cui ti sei offerto alla morte decine, centinaia di volte senza pensarci, per metterti in pari con coloro che non ci sono più. E, non contento, sei andato oltre con altre decine e centinaia di guerre. Ma non ti sei mai arreso. No, hai continuato a disseppellire i fantasmi che hai distorto nella tua mente; che ti hanno trascinato con il loro continuo vociare lungo il percorso malato tracciato davanti a te. Le tue tenere idee da bambino sono diventate il leitmotiv della sua ridicola adolescenza… E, come se non bastasse, il più insensato di tutti i tuoi pensieri. La sintesi ultima delle tue manie, offertati su un piatto d’argento dall’uomo che ha firmato la tua condanna. La punizione definitiva per aver osato sopravvivere ai tuoi genitori.
Diventare un paladino della giustizia.
Diventare un eroe, per salvare la vita degli altri.
E la tua, senza fare rumore, è scivolata con un ultimo rantolo nell’oblio...

«Sminteo!!»
Spalancai le palpebre. Tornai al presente.
Una mano si tese verso di me ed io, quasi per inerzia, allungai la mia. Senza neppure aspettare che la afferrassi, questa mi acciuffò per trascinarmi sul carro. Sfrecciammo via, verso le navi.
«Resisti, ce l’abbiamo quasi fatta! Ormai manca poco…!»
Mi sforzai di tenere gli occhi aperti. E lo vidi.
Tese l’arco verso di me.
Non verso Ettore; verso di me.
Un rivolo di sangue gli rigava la guancia, come una lacrima. I suoi occhi chiari come il cielo sfidavano il furore delle fiamme.
Un millesimo di secondo.
Feci appello alle ultime forze che mi restavano.
Brandii l’arco.
I cavalli continuavano a correre all’impazzata verso di lui.
Non si muoveva da lì.
Non scoccava.
Allora fui io a farlo.
La freccia beccò in pieno il flettente superiore, la corda e metà dell’arco schizzarono via.
Lui fu sbalzato via dal colpo, ma subito si rimise seduto. Ci guardava, ci pugnalava letteralmente con gli occhi, ma non accennava ad alzarsi.
«Che stai facendo…?!»
Tolsi le redini all’auriga e virai.
Gli sfrecciammo accanto.
Incrociai, per un istante, il suo sguardo inviperito.
E il suo grido velenoso mi colpì in pieno.
«Perché mi hai tradito?!»
L’auriga riprese il controllo del carro e incitò i cavalli.
Mi voltai a fissare Ettore, trattenendo un gemito di dolore.
«Che intendeva…?»
Lui sospirò.
«Allora è vero.»
«Cosa?»
«Voi dei non ascoltate le nostre preghiere.»
Teucro, l’arciere più forte di tutti gli achei. Come avevo fatto a non pensarci prima?
Scrollai le spalle e sogghignai.
«Noi dei siamo fatti così: accettiamo solo un eroe alla volta nel nostro fan club» dissi, senza pensarci troppo.
«Fan…?»
«Lascia stare, te lo spiegherò un’altra volta.»

Infine, il fuoco arse gli scafi e infuriò contro il cielo: l’unico spazio, fino a quel momento, inviolato dalla guerra. E proprio quando credemmo di avere in pugno il nemico, un carro si fece largo tra le fiamme. Il soldato a bordo ordinò a degli uomini di spegnerle, scagliò quelli a suo seguito contro i troiani. L’auriga frustò i suoi mostruosi cavalli.
Glorioso, nella sua scintillante armatura.
Una visione ultraterrena.
Achille.
Sarpedonte provò a braccarlo, ma cadde sotto la sua lancia.
Quel maledetto gli squarciò il petto, gli strappò via il cuore. Poi riprese la sua corsa, volteggiando sul campo di battaglia come un avvoltoio.
Chiunque gli passasse accanto, girava largo o veniva freddato all’istante.
Mieteva una vittima dietro l’altra.
Infilzava.
Spaccava.
Squartava.
Era veloce, troppo veloce.
I troiani fuggivano via, nessuno osava affrontarlo Uno alla volta, sarebbero caduti per mano sua.
Agii d’istinto, prima ancora che Ettore potesse parlare. Mirai.
Achille mi intercettò.
Accadde tutto in un millesimo di secondo…
Saltò subito giù dal carro.
Si mise sulla nostra traiettoria.
Afferrò un sasso.
Gli fummo addosso prima ancora di rendercene conto e, all’improvviso il nostro auriga sbalzò via. Il suo sangue schizzò sulla faccia di Ettore, che cercò di afferrarlo per i capelli. I cavalli sbandarono.
«Cazzo…!!»
La freccia andò a vuoto. Ci lanciammo in quel medesimo istante, mentre le creature si schiantavano contro la calca. Ettore recuperò il cadavere del suo uomo e, con un’occhiata furente, fulminò Achille.
Era lì, che ci attendeva. Con un ghigno superbo, svelò il suo misfatto; poi ringhiò contro il principe come una iena, pronto a sottrargli la carogna. Tirò via quel corpo come fosse una bambola di pezza. Voleva la sua armatura. Ettore lo trattenne.
«Mollalo, bastardo…!»
E lo mollarono entrambi. Furono i soldati ad azzannarlo, al che non lo vidi più.
Achille approfittò di quell’istante per sguainare la spada… Ma un urto violento lo spinse in avanti. Si accasciò in ginocchio. L’elmo gli balzò via dalla testa.
I lunghi capelli si riversarono sul suo viso.
Erano… scuri.
Lo fissai. Ettore stesso esitò, incredulo… Ma poi gli si avvicinò e sorrise. Gli occhi brucianti di vendetta. La sua preda perdeva sangue dalla bocca.
Qualcuno l’aveva colpita alle spalle, indebolendola per lui.
Senza indugiare un solo istante, le infilzò il ventre.
Vidi la luce agitarsi negli occhi del soldato e sentii di impazzire…
«Patroclo… è stato lui a mandarti, ammantato delle sue vesti?»
Quello rise.
«Non ha più importanza ormai… Tu, Ettore, da adesso sei morto che cammina. Egli verrà e ti ucciderà.»
Tutto il campo s’immerse in un silenzio innaturale.
Quel ragazzino dai capelli scuri fissò a lungo il suo omicida, coi suoi occhi grandi... Finché non si spensero.




Note finali♫♪
Un minuto di silenzio per Patroclo. Piccolo angelo (cit.).
Detto questo: ladies and gentlemen, eccolo finalmente: il leggendario Rho Aias di Archer! Sarà stata la musica, la grafica, non lo so… So solo che mi sono commossa un casino, quando l'ho visto apparire nella serie; momento epico.
Domande che tutti i fan si saranno posti: perché “Rho Aias”? E cosa simboleggia il fiore? Aias si riferisce, ovviamente, ad Aiace di Telamone. Su Rho invece ci sono varie ipotesi, tra cui quella del diminutivo di Rhoiteion: città dove è stato seppellito il corpo dell’eroe, da cui – secondo la leggenda – è nato un fiore di ibisco. Beh, direi che tutto combacia alla perfezione, che ne dici?
Scrivendo questo capitolo ho fantasticato più volte su un episodio in cui, prima di tornare sui suoi passi, Archer visita la tomba di Aiace e, per rendere un ultimo omaggio al temibile guerriero, decide di intitolargli a buona ragione lo scudo e di aggiungervi l’ibisco… Chissà, magari sarà per un’altra fic.
Ovviamente, piccolo riferimento alla Colchide: anche lì, fantasticherie varie su come inserire Medea nella trama… Ma ho dovuto desistere. Troppa carne a cuocere per una sola storia.
Che dire, caro lettore: grazie ancora per la tua attenzione!

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Capitolo 3
*** How it ended ***


Note♫♪ dell’autrice
Eccoci arrivati al terzo ed ultimo capitolo. Uno di quelli che ti fanno sbroccare pesantemente e, anche quando li pubblichi, non sei mai sicuro che vadano bene al cento per cento. Quindi, per non modificarli all'infinito, li lasci andare ♥ onde evitare che finiscano direttamente nel cestino. Anche stavolta, piccolo riferimento ad un'opera molto interessante: "La canzone di Achille" di Madeline Miller.
Beh, caro lettore: spero di regalarti un buon finale!
Enjoy!

Parole: 1420
Citazione: “Quello che la gente ama più dell’eroe è vederlo cadere.” ~ dal film Spiderman.


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«È stato un onore conoscerti, Sminteo.»
Ettore raccolse le ultime forze che gli erano rimaste. Infilò l’elmo, prese la lancia…
«Perché lo affronti? Sai già di non avere speranze!»
E si immobilizzò.
Non avevo mai osato fronteggiare il suo sguardo con tanta impudenza, né avevo mai alzato la voce con lui. Ne fu intimorito.
«È sconvolto, ti farà a pezzi!»
«Lo so.»
La sua voce tremava. Guardava me, ma puntava a qualcos’altro, oltre il mio corpo. Cercava un appiglio, un’ancora di salvezza. Qualunque cosa potesse tirarlo fuori da quella dannata situazione.
«Se mi tirassi indietro, allo scherno degli achei si aggiungerebbe il disappunto dei troiani. E sai già…»
«So già quanto questa storia mi abbia stancato, Ettore…! Disappunto, disonore, al diavolo! Tuo figlio? Non se ne fa nulla del buon nome di suo padre, stai dando fin troppa importanza alla cosa!! Lascia che chiunque la veda come vuole, se decidi di salvarti la vita! Non farti uccidere per difendere Astianatte dalle malelingue del tuo popolo!»
La collera annebbiò di colpo il suo sguardo…
Non avrebbe permesso a nessuno, neanche a me, di definire insulso ciò che aveva difeso con tutto sé stesso.
«Troppa importanza…? Oh, Apollo imperatore: gloria a te e a tutti gli olimpici, fino alla fine dei tempi! Che grande invidia per voi, o eterni ignoranti delle logiche di noi uomini, condannati a calpestare questa terra riarsa dalla vanità e dal sangue! Se mi sottraessi a questa sfida, sarebbe per me come morire ugualmente…»
La lancia vibrava nella sua mano.
Si avvicinò.
Indietreggiai…
Cosa stava facendo…?
«Non è forse meglio perire nel corpo, che estendere ad un innocente la fine del proprio nome? E per cosa, poi? Vivere nella reciproca miseria? È come l’invisibile Patroclo, riabilitato dal buon cuore di Re Peleo, che vuoi vedere il mio Astianatte? Un ultimo fra gli ultimi?»
Mi fermai. Dietro di me c’era il muro.
Lui mi sovrastò con la sua ombra.
La lama scintillò accanto alla mia gola.
«Se per te e per quelli come te questo non significa nulla, allora gloria a te, che vivi un’esistenza tanto leggera…!! Ho vissuto e morirò come protettore delle genti, difensore della giustizia e – costi quel che costi – lo farò finché potrò ancora respirare!! Persino di fronte alla morte, non smetterò mai di onorare il mio credo! Pur ammettendo la mia inettitudine, le limitazioni del mio essere niente più che umano, il meschino compromesso… Continuerò a porre la mia vita al servizio degli altri. Del mio popolo, di Astianatte, di chiunque griderà a gran voce il mio nome! E che il fato mi punisca pure per questo: giacché come falena che corteggia una torcia, mi sono ostinatamente lanciato in questa fulgida luce, noncurante delle mie ali fragili! Sono pronto: anche oggi, sia compiuto il mio destino!»
Al diavolo la lama che mi lambiva la pelle…
Dovevo farlo ragionare.
«A tuo figlio non importa un accidenti del tuo ideale… Prendilo con te, prendi tua moglie, e fuggite lontano da qui. Potrai vivere felice accanto a loro, anziché fare la parte dell’eroe che muore.» Scosse il capo e si ritrasse.
Nel rilassare i muscoli, emisi un gemito che lo fece sogghignare.
«Oibò, Sminteo… Vivere da esuli, come Giasone e l’atroce Medea con i loro pargoli? Come ti ho già detto, non comprendi le logiche di noi uomini. È così che deve andare.»
«Credimi, le comprendo fin troppo bene… Per questo ti dico che sono sbagliate.»
Sorrise ancora e si allontanò da me. Poi, però, indugiò un attimo sulla soglia.
«Patroclo era il suo therapon. Lo sapevo, ma l'ho ucciso comunque. Speravo di… Non lo so. Non più. Achille ora vuole solo la mia testa e non lo biasimo per questo. Or dunque, è per mano mia che muoio oggi. Non sua.»
Non riuscii a trattenermi…
«Idiota…!»
Lasciai scorrere le lacrime.
Mi rivolse un ultimo sguardo, carico di amarezza…
E mi disse addio.

Un guardiano della deterrenza accorre laddove un disastro mette a rischio l’equilibrio del mondo. Una guerra, per esempio. Egli è la mera incarnazione di un ideale: salvare l’umanità ad ogni costo, anche quando rischia di sparire per mano di sé stessa.
Quello straccio di personalità che si ritrova gli permette di interagire con le persone; maschera il suo essere nient’altro che un automa, dando loro l’impressione che possa capirle, provare empatia o addirittura sentimenti. Il modo in cui si comporta è un riflesso della sua vita passata: dell’individuo designato da Alaya come eroe per le proprie gesta e per quel nobile ideale tanto, che sopravvive alla morte del corpo e foggia il guerriero eterno.
Un guardiano della deterrenza è nulla: un signor nessuno a metà tra uno spettro e un elementale.
Sconosciuto alla morte, non noto alla vita.
Eccolo, il tuo capolavoro.
Vi hai apposto la tua firma quel giorno stesso. Il giorno in cui hai stretto il patto col mondo e sei stato consacrato come eroe. Non avresti mai potuto proteggere qualcuno con il tuo scarso talento nella magia; certo, avresti potuto tenere al sicuro le persone intorno a te, sarebbe stato già abbastanza… Ma no. Tu hai sempre voluto di più. Hai creduto che essere un guardiano della deterrenza avrebbe messo a tacere quella voce, insinuatasi nel tuo cervello come un parassita…
Salvali dall’incendio del mondo, anche a costo di morire…
Indovina? Non è stato così.
Quella voce mi tiene ancora sveglio la notte.
Perché io non salvo. Io uccido.
Sono lo spazzino dell’umanità.
Un nulla eterno che vaga nel tempo e nello spazio, sballottolato a destra e a manca tutte le volte che quest’umanità schifosa rischia la pelle…
Un nulla assoluto, perché legato al niente…
Mi hai condannato a combattere in eterno, per qualcosa in cui non hai mai creduto fino in fondo. Per una soluzione infantile ad un trauma irrisolto...!
Non è stata la crudeltà del mondo a farti soffrire. Hai sempre avuto in te – solo in te – la radice del male che ti ha torturato per tutta la vita! Ma anziché estirparlo, hai deciso di farlo proliferare… Ti sei sottomesso come un cucciolo indifeso a quella bestia, che hai allevato per anni con devozione: quel surrogato di un pensiero autonomo: il desiderio cretino dell’uomo che ti ha salvato.
Diventare un paladino di giustizia. Un difensore dell’umanità.
Ti sei sentito smarrito al punto da ammettere questo veleno nella tua vita, pur di non rimanere solo con te stesso.
Mi hai costretto a diventare il simulacro della tua pazzia.

Quel giorno, quando percorsi le scale…
Nel momento in cui fui in cima alla rampa e sollevai lo sguardo, un dolore che non avevo preventivato mi uccise, prima ancora che potessero essere i soldati a farlo.
So che lo hai sentito. Hai fatto di tutto per ignorarlo.
In quella folla di cani inferociti, che si agitava all’interno del cappio, riconobbi i volti a me cari. Le persone che avevo aiutato sul serio. Le stesse che avevo udito lodarmi, piene di ammirazione, con la parola “eroe”.
Ma si sa, pensai. Alla fine, quello che la gente ama di più dell’eroe è vederlo cadere.
Una rabbia inedita s’impossessò di me. Avevo dato tutto, avevo dato la mia stessa vita… In cambio, avevo ricevuto solo sospetti, odio, tradimento. Quei volti disgustosi a cui avevo sorriso, senza mai preservarmi, con tutta la sincerità di cui ero capace…
Erano riusciti a scamparla. Almeno loro.
Era la mia missione, no? Salvare le vite altrui.
Ne ero felice.
O forse no...
Ovvio… Come avrei potuto? Che assurdità!
È questo che significa essere un eroe, secondo la tua prospettiva! Essere pugnalato alle spalle dal prossimo, combattendo contro sé stessi per non reagire…!
Io… Sono stato io…!
Io ho messo il coltello nelle loro mani e gli ho indicato dove colpire…
Io ho tradito me stesso, con il mio ideale contraddittorio…
Io ho lasciato andare in malora tutta la mia vita…
È colpa mia se non ho più una vita…!


Al diavolo.
Al diavolo te e tutta la popolazione mondiale!
Puoi anche dare in pasto ai cani, quel tuo eroismo da quattro soldi...!
Non rimarrò in questo inferno un secondo di più.
Non assisterò ancora alla rovina degli uomini, pervaso da questa insulsa impotenza…
È per proteggerli che un guardiano della deterrenza viaggia in ogni luogo. In ogni epoca.
Là, dove una calamità mette a rischio l’equilibrio del mondo.
Là, dove infuriano… Guerre come quella.
Non posso svincolarmi dalle tue manie, Shirou…
Ma posso sempre estirparle alla radice.



Note♫♪ finali
Come ci segnala la Miller nel suo libro, il therapon è il compagno d'armi del principe, legato a lui da un giuramento di amore e sangue. Più di un semplice consigliere o alleato: un'anima affine, il più intimo tra gli amici, se non addirittura un amante – come nel caso di Achille e Patroclo. Ettore non ignora la gravità delle sue azioni, è anzi consapevole di aver virato bruscamente verso la rovina di tutto l'esercito; giacché Achille reagisce immediatamente alla morte dell'amato, sterminando molti troiani.
Nell'opera originale, sono Priamo ed Ecuba a pregare il figlio di non combattere: non solo per permettergli di riabbracciare la sua famiglia, ma per non lasciare il popolo in balia degli achei dopo la sua morte. Ettore ovviamente rifiuta, per preservare quell'onore che proprio il suo popolo potrebbe infangare: c'è chi potrebbe tacciarlo di codardia.
Beh, caro lettore: spero di aver dato una buona reinterpretazione dei fatti e di aver creato un buon parallelismo tra Archer ed Ettore (vale, ovviamente, la nota del primo capitolo).
L'Iliade è quel genere di opera che andrebbe riletta dopo gli anni delle superiori, dove il 70% delle volte te la fanno odiare almeno quanto la combo di zanzare e afa del mese di Luglio. Il mio consiglio è: dalle un'occhiata e fa' lo stesso con i libri e i saggi di altri autori. Ti assicuro, ne varrà la pena. Inoltre, spendi qualche secondo in più su Aiace e Teucro, che sono proprio dei bei personaggi.
Stessa cosa vale per UBW: difficile rimanere indifferenti di fronte ad un personaggio ben costruito come Archer: così fermo nelle sue idee da far sembrare, talvolta, gli altri Servant delle scialbe caricature di sé stessi. Se non hai ancora visto l'anime, ti consiglio vivamente di farlo. E se sentirai l'irrefrenabile voglia di passare al lato oscuro, rilassati: è tutto nella norma.
Alla prossima!

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