Sfumature

di AdelaideMiacara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premessa ***
Capitolo 2: *** NERO - Assenza ***
Capitolo 3: *** VIOLA - Eccentrico ***
Capitolo 4: *** ARANCIONE - Divertente. ***
Capitolo 5: *** VERDE - Fresco ***
Capitolo 6: *** ROSA - Delicato. ***
Capitolo 7: *** LILLA - Vibrante ***
Capitolo 8: *** MAGENTA - Determinato ***
Capitolo 9: *** AZZURRO - Enigmatico ***
Capitolo 10: *** GIALLO - La quiete ***
Capitolo 11: *** ROSSO - La tempesta ***



Capitolo 1
*** Premessa ***


La nostra quotidinità è caratterizzata dalla presenza dei colori: la maggior parte di noi è in grado di cogliere anche le sfumature più impercettibili. Ciò che forse non tutti sanno è che in realtà i colori non esistono, o meglio non esistono come li vediamo noi. I nostri ricettori ottici declinano delle radiazioni elettromagnetiche, trasmettendo al cervello una data quantità di informazioni che vengono elaborate in quelli che comunemente chiamiamo colori.
Nello specifico, i ricettori riconoscono solo tre lunghezze d'onda della luce, cioè rosso verde e blu. È dalla combinazione di questi tre colori primari che scaturiscono le migliaia sfumature che conosciamo, l'unione che genera il bianco mentre l'assenza definisce il nero.

Se però proviamo a discostarci dalle spiegazioni scientifiche, sappiamo bene come il colore abbia un'importanza fondamentale nelle nostre vite, nelle diverse culture, sappiamo che sono proprio quelle sfumature a dare carattere a ciò che ci circonda. Il colore è associato a significati, emozioni, stati d'animo, e da persona a persona fa sì che cambi la percezione delle cose.

C'è chi dice che nella vita sia tutto bianco o nero. Caldo o freddo. Giusto o sbagliato. Eppure mi chiedo: come si fa a schierarsi completamente da una parte della barricata senza tenere in conto dei moltissimi fattori che determinano una situazione? Come si può prendere in considerazione un solo punto di vista e assumerlo come scienza infusa? Io credo che la bellezza delle storie stia proprio in tutti i particolari che le compongono, nei retroscena, nei profili psicologici ed emozionali dei protagonisti. Il mio compito qui è quello di raccontare lo stretto legame tra le emozioni che proviamo e i colori che vi associamo.

Questa storia è la dimostrazione che non sempre tutto va secondo i nostri piani, nonostante la precisione a regola d'arte, l'organizzazione, c'è sempre un 1% di probabilità che tutto vada in fumo, è la dimostrazione che giocare con il fuoco ci fa scottare. Ma questa storia è anche rivincita, crescita personale attraverso la comprensione delle sfumature: quando non sappiamo come cambiare una situazione, ciò che ci può aiutare è cambiare punto di vista.
Il nero costituisce l'assenza dei colori e definisce il punto di partenza della nostra storia, al momento inesistente, che prenderà forma durante la lettura con la nascita dei colori, per terminare con il bianco: l'unione di tutti.

Non ci resta che affrontare questo viaggio. E si prega di allacciare le cinture.

 

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Capitolo 2
*** NERO - Assenza ***


Sottolineo un'altra volta la stessa riga con l'evidenziatore rosa, cercando di fare attenzione a non includere parole che ritengo di troppo. Il dono della sintesi purtroppo non è tra le mie carte, anzi: sono ben nota per dilungarmi nei discorsi, anche quando scrivo testi, per questo spesso e volentieri rischio di andare fuori tema.

Volgo lo sguardo alla mia fotocopia ormai sommersa dalle strisce rosa storte che più che evidenziare una sintesi del contenuto non fanno altro che aumentare la mia confusione, mentre sento un principio di mal di testa farsi strada pian piano più prepotentemente.

«È tutto importante.» dico sbuffando verso la mia migliore amica, anche lei chinata sul suo cumulo di fogli con la testa tra le mani. «è inutile continuare ad evidenziare, non posso fare il riassunto del riassunto.» sentenzio infine, sfilando il foglio di Chiara da sotto la sua cascata di capelli e mi alzo finalmente dal grande tavolo di legno dell'Aula Magna. A meno di due giorni dall’inizio del progetto possiamo considerare il nostro piano di studio last minute più che fallito, ma d’altronde chi ci conosce sa che non siamo noi se non ci riduciamo agli sgoccioli per prepararci.

I muscoli indolenziti mi fanno accusare le ultime tre ore passate riversata su questi testi senza nemmeno prendere una pausa, perciò quale migliore scusa per fare una passeggiata? È il caso di rifare le fotocopie, penso tra me, sarà meglio avviarsi verso la copisteria. Mentre lascio la mia amica accasciata sulla grande scrivania, camminando lentamente per il corridoio che porta alle segreterie mi accorgo di essere l'unica persona a circolare tranquillamente, come se non ci fossero le lezioni. Ma in verità ho il mio alibi: quest'anno la Goldsmiths University di Londra ha lanciato un progetto in ambito culturale che coinvolge i migliori atenei della città, che hanno selezionato gruppi molto ristretti di studenti per ogni facoltà. Il progetto è all'apparenza semplice ma nasconde una complessità niente male: ad ogni università viene assegnato un monumento, luogo di cultura della città e gli studenti dovranno improvvisarsi guide turistiche, ognuno ben dotato del materiale adeguato a un tale impegno. Non a caso, io e Chiara rientriamo nel fortunato gruppo di colleghi della Goldsmiths! Un po' per i talenti nei rispettivi ambiti, ma specialmente per la nostra abilità maggiore: riuscire a guadagnarci la stima e l'amicizia di professori e soprattutto collaboratori scolastici. Infatti se tra i professori vantiamo l'occhio buono da parte di due/tre di loro, in questi tre anni abbiamo riscosso una gran fama tra il personale delle segreterie, biblioteche e tutti gli altri organi solitamente dimenticati dell'università grazie al nostro carattere e il nostro modo di fare.

Sono più quelli che ci odiano rispetto a quelli che ci amano, ma questo in verità è grazie quell’idiota di mio fratello e dei suoi amici.

Persa tra i miei pensieri, mi ritrovo davanti la copisteria e chiedo del signor Shoe, quel povero vecchio costretto a subire le nostre costanti pressioni e indicibili richieste ma che puntualmente scatta per accontentarci.

«È mai possibile che sei sempre qui?!» domanda esasperato, più a se stesso che a me, alzando le braccia verso il cielo. Dimenticavo forse di dire che negli ultimi tempi abbiamo notato segnali di cedimento mentale sia nel signor Shoe ché nella signora Mary, la sua complice, come la chiamiamo noi. Tutto ciò ovviamente per colpa nostra, per questo il "povero" tecnico ha smesso di riservarci privilegi e inizia ad inacidirsi. E fa anche bene.

«Signor Shoe, ho bisogno di fare delle fotocopie... la prego! È per The ArtCity!» replico, con le mani congiunte per simulare una preghiera. Ho già detto che il nome del progetto è The ArtCity? Nota: a tratti dimentico di dire cose importanti. Da qualche anno a questa parte, l’intero corpo docenti della Goldsmiths escogita nuovi progetti e iniziative per motivare gli studenti a partecipare attivamente alla vita del campus, regalandoci qualche credito che, sommati agli altri acquisiti grazie agli esami, potrebbe permetterci di vincere una borsa di studio. È ovvio e sottointeso che, in tre anni di università e salti mortali per partecipare a questi progetti, una borsa di studio io non l’ho vista nemmeno da lontano. La sola partecipazione al progetto prevede due crediti formativi di base; in più maggiori saranno le recensioni che i turisti lasceranno presso degli appositi tablet in ogni stand davanti i vari siti, maggiore sarà il numero di crediti che verrà attribuito ad ogni gruppo.

Il signor Shoe, come ogni anziano che conosco, inizia a farmi la paternale sull'importanza di preservare il toner della stampante, e la carta non si spreca, e anche gli altri studenti devono poter stampare, e devo iniziare a farmi pagare, e così via. Tutto regolare finché non sbuca un pischello dalle mie spalle che cerca di intromettersi nella conversazione per attirare l'attenzione di Shoe e, non l'avesse mai fatto, accidentalmente pesta la punta del mio piede sinistro giusto con tutto il suo carico corporeo. Mi sembra un ottimo pretesto per esagerare e lamentarmi proprio come piace a me.

«Sta' attento! Perché non guardi dove metti i piedi, pischello?» sbraito contro quest'ultimo, cercando di ignorare Shoe che se la ride sotto i baffi. Ulteriore dimenticanza: bisogna sapere, per conoscermi, che a quanto pare il mondo ce l'ha con me e fa di tutto per farmi innervosire. Il tipo borbotta qualcosa ma non gli do minimamente ascolto mentre tento di convincere il mio vecchio a farmi un’ultima fotocopia.

«Sono finiti i fogli Sam, niente da fare. Torna a lezione.» conclude in maniera sbrigativa, facendomi sengo con la mano di andare via. Ma proprio quando sto per gettare la spugna e lasciare la stanza, sento sussurrare: «Signor Shoe, a dire la verità io dovrei stampare un file, non è che per caso...?».

Per tutta risposta, il vecchio lo guarda sorridendo e si avvia immediatamente verso la scrivania, afferrando dalle mani del ragazzo la pendrive con il suo file da stampare. E allora parliamoci chiaro, volete farmi diventare nera! Come un fiammifero appena acceso faccio dietrofront scagliandomi verso la scrivania dove si è appena adagiato Shoe, mentre smanetta con il computer.

«Tu, ingrato! Ti ho accudito per tre anni, caffè ogni mattina, mi ripaghi in questo modo?» lo accuso, lanciando anche occhiate fulminanti verso quell'altro prepotente che fa finta di niente, lo sguardo in aria.

«Andiamo Davis, sono finiti i fogli, hai visto? Non posso più stampare niente. È uscito solo l’ultimo foglio, quello del ragazzo.» risponde il tecnico sorridendo, quasi contento del dispetto che mi sta facendo, e alimentando ancora di più i miei nervi.

Prima di uscire dalla stanza mando un’occhiata di rancore a entrambi, notando che anche il ragazzo se la ride sotto i baffi, il ché mi fa imbestialire ancora di più. Come se non fosse già abbastanza stressante fare le corse per recuperare il lavoro arretrato per il progetto, allo stesso tempo stare al passo con le materie e non solo, anche mandare avanti un gruppo di giornalismo! Non per vantarmi, ma il mio ruolo in questa situazione è abbastanza centrale: frequentando il corso di Giornalismo ed essendo a capo della redazione del terzo anno, la maggior parte dellle decisioni ricade proprio su questa testolina già di per sé provata.

Tornando sconfitta in aula magno ritrovo pressoché la stessa situazione che ho lasciato poco prima, se non che Chiara ha trovato da qualche parte la forza di ripetere la prima parte del suo pezzo. Il nostro gruppo per il progetto, come in generale nella vita, è formato da noi due più mio fratello Harry e i suoi amici Lucas e Cooper, che ormai sono entrati a far parte dei nostri cuori. In questa occasione, questo gruppo di svitati casinisti (me compresa) saranno le guide turistiche niente di meno che del Marble Arch!

Chiara frequenta il corso di Teatro, del quale tra l’altro è ai comandi, e tra un copione e l’altro non ha trovato il tempo per prepararsi come si deve, perciò ogni giorno boicotta le lezioni per studiare e ripetere fino allo sfinimento, lasciando anche momentaneamente le redini del suo gruppo a un’altra collega.

Non possiamo dire la stessa cosa per la restante parte del gruppo di lavoro, che sono riusciti sia a coinciliare lo studio delle proprie materie con il progetto.

Poi ci sono io che faccio tutto e non concludo nulla, iscrivendomi a cento iniziative diverse e abbandonandole quasi tutte, gestisco il gruppo di Giornalismo con il quale stiamo stendendo un articolo su The ArtCity e nel frattempo sono indietro con lo studio proprio per questo! Insomma la persona più confusa che esista alla Goldsmiths ma che si trova sempre in mezzo alle situazioni, ma soprattutto in mezzo ai casini.

«Quell'idiota di Shoe non mi ha fatto le fotocopie.» annuncio entrando dentro la grande aula vuota, se non fosse per quell'unica persona minuta nel fondo, ancora accasciata sulla grande scrivania in legno.

«Sam, ti prego, facciamo una pausa!» mi implora Chiara con gli occhi scavati e le occhiaie causate dalla perdita di sonno. Annuisco mentre sto già mettendo via i miei libri e il resto delle mie cose nella borsa, non vedo l’ora di tornare a casa e stare comoda nella mia stanza a pensare a quanto sia indietro con lo studio.

 

Passeggiando tra i viali del campus, passiamo in rassegna le varie villette che sono le nostre residenze, ognuna contrassegnata da un grande numero dipinto in nero sulla facciata anteriore, fin quando non arriviamo davanti la Quinta, ovvero casa nostra.

Qui troviamo subito un casino generato da mio fratello e gli altri nostri coinquilini, Lucas e Cooper, che raramente ormai vedo frequentare le lezioni perché essendo al sesto anno si stanno concentrando sulla stesura della tesi. O almeno, questo è quello che dicono di fare, perché noi che ci viviamo possiamo assicurare che non fanno altro che rompere le scatole dalla mattina alla sera, facendo casino e lasciando spazzatura in giro per casa. Insomma, i coinquilini perfetti, e inserisco anche mio fratello Harry in questa categoria.

Nonostante i loro numerosissimi difetti e nonostante io li abbia minacciati più volte di farli sbattere fuori dalla casa, la verità è che non li cambierei mai con nessuno: oltre ad essere una garanzia di divertimento, sono anche degli ottimi amici e dei bravi ragazzi, ma soprattutto dei compagni di avventure e guai. Più guai, che avventure.

Racconto loro l’inconveniente con il signor Shoe, ottenendo come risposta solo un “anche io vorrei incontrare una bella ragazza in segreteria ogni tanto” da parte di mio fratello.

«Scusa, Harry, e quando ho detto che era un bel ragazzo? Effettivamente non l’ho nemmeno guardato in faccia, tanto ero arrabbiata.» preciso, mentre tornano i nervi tesi pensando alla scena. A tal proposito, non ho ancora la mia nuova fotocopia. Non mi resta che prendermi di coraggio, sconfiggere la pigrizia, attraversare il campus e andare alla tipografia che sta dalla parte opposta della strada rispetto al nostro cancello d’entrata. Il solo pensiero mi sfinisce, ma il dovere chiama. Raccolgo le mie ultime forze e la mia borsa, e insieme alla mia fidata pendrive mi incammino verso la tipografia.

Questi tre anni che ho trascorso alla Goldsmiths sono stati in assoluto i migliori finora, questo college è diventato la mia vera casa e i miei amici sono la mia famiglia. Camminando nel parchetto tra le vie, mi rendo conto di conoscere alla perfezione quasi ogni angolo di questo posto, il ché mi dà una certa sicurezza sia mentale ché di attitudine nei confronti degli altri.

Spesso, per l’appunto, mi si rimprovera di essere troppo presuntuosa e arrogante, specialmente nel mio modo di pormi con i docenti; la verità è che io non ho mai accettato gli abusi di potere da parte degli insegnati e mai da nessuno i piedi in testa, e questo è il motivo principale per cui finisco nei casini. Un motivo secondario, ma non per questo meno importante, è semplicemente il divertimento di trasgredire le regole, ma soprattutto farlo con i miei amici.

Arrivo davanti la tipografia immersa tra i pensieri: la piccola fila di persone davanti mi rincuora perché pensavo di trovare molta più confusione a quest'ora! Se tutto va bene in pochi minuti posso ottenere l'ennesima fotocopia e tornare verso casa per dedicarmi a un altro pomeriggio di studio matto e disperato. Promemoria per il futuro: imparare ad organizzare il materiale e ottimizzare i tempi.

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Capitolo 3
*** VIOLA - Eccentrico ***


Odio il martedì. Non quanto il lunedì, sia chiaro, ma in genere qualsiasi giorno infrasettimanale che non sia il venerdì mi provoca il disgusto. Principalmente per la fatica di svegliarmi sempre alle 7, sempre nella stessa casa rumorosa e piena di gente che al mattino non sa starsi un po’ zitta.
Trascino le mie gambe pesanti per il corridoio principale dell’edificio con gli occhi socchiusi a causa del bruciore che provocano le luci bianche dei faretti sul tetto. Miracolosamente, ieri io e Chiara siamo riuscite a portarci avanti con tutto il materiale per il progetto che inizierà venerdì, al costo però di perdere le nostre usuali ore di sonno fondamentali e riducendoci come due zombie deambulanti. Camminando lentamente e a testa bassa, mi imbatto in una matricola che si scontra senza pietà e rimbalza quasi perdendo l’equilibrio.
«Ragazzino, sta’ attento a dove metti i piedi!» gli sbraito contro, aggiustandomi la maglietta. «Sono diventata una calamita per caso?»
Il ragazzo spalanca gli occhi e, trattenendo le risate davanti al mio nervosismo, indietreggia leggermente e dice: «S-Stasera alla Nona del campus ci sarà un p-party, tutti gli studenti del college sono invitati. È una festa a tema “hippie”, divertiti!» recita quasi urlando, prima di scappare via lanciando qualche volantino per aria. Quello che mi stupisce, oltre allo strano terrore nei suoi occhi alla mia vista, è questa frenesia che specialmente i giovani hanno al mattino. Sono appena le 9 e hanno già tutta questa energia? Si vede che il tempo passa in fretta, chissà forse ero così anche io al primo anno. Afferro uno dei volantini gialli da terra e lo leggo in mente.

 
“Questa sera, dalle 9.30 fino al coprifuoco la Nona del campus ospiterà il primo party del semestre e totalmente a tema hippie! Tutti gli studenti sono invitati, a patto che rispettiate il dress code. J.W.”

Cerco di passare in rassegna l’intero corpo studentesco per individuare i ragazzi della Nona che in questo momento mi sfuggono, ma oltre i due famosi scoppiati e un amico di mio fratello nessuno risponde alle iniziali di J. W. Sarà un nome d’arte? Probabile, ma in questo momento non è la mia preoccupazione maggiore. Ritrovatami davanti la porta dell’aula che ospita la lezione di matematica il dilemma è questo: seguire o non seguire? Forza Sam, ti sei svegliata alle 7, ce la puoi fare. Ma proprio quando sto per appoggiare la mano sulla maniglia della porta mi ricordo che non sono ancora riuscita a stendere nemmeno un terzo dell’articolo da consegnare entro venerdì sul progetto The ArtCity. Se da un lato mi sembra un’ottima scusa per allontanare la mano dalla maniglia che apre la porta della sonnolenza, allo stesso tempo non posso negare di sentire in fondo al mio cuore un minimo di senso di colpa per tutte le lezioni che sto saltando in questo periodo. Ma nella mia scala gerarchica, il gruppo di giornalismo resterà sempre più in alto rispetto alla matematica.
Quando arrivo al terzo piano dell’edificio centrale del college, i corridoi sono semideserti, se non per qualche inserviente che fa avanti e indietro dallo stanzino delle scope alla macchinetta del caffè, e viceversa. La stessa desolazione la trovo nell’aula dedicata al giornale e dove io e il mio gruppo ci ritroviamo abitualmente almeno tre volte a settimana per revisionare i rispettivi articoli. Non posso assolutamente lamentarmi sui miei colleghi: oltre ad essere tutti simpatici e talentuosi, la maggior parte di loro sono anche capaci di seguire tutte le lezioni e restare al passo con le materie, in modo da mantenere una buona reputazione del gruppo intero agli occhi di tutti. Mi siedo alla mia solita scrivania dove mi attende il vecchio grosso computer fisso che ancora non si sono decisi a cambiare dopo anni di lamentele al personale delle segreterie. Come da routine, e ringraziando il cielo, controllo le mie mail e mi accorgo di averne ricevuta una nuova dalla professoressa Greater ieri sera, cioè la coordinatrice del corso di Giornalismo in generale che supervisiona costantemente il nostro gruppo e la maggior parte dei progetti dell’università.

Gentili studenti partecipanti al progetto The ArtCity, ho il piacere di comunicarvi che stiamo rinforzando la nostra cavalleria. Oltre al gruppo già prestabilito, si aggiungerà un altro gruppo di studenti alla manifestazione, data la crescente richiesta di guide turistiche presso i siti assegnati alla Goldsmiths. È un’ottima occasione non solo per socializzare, ma anche per alimentare un pizzico di sana competizione. Buon lavoro.”

Leggendo queste parole sento un piccolo principio di mal di testa insinuarsi nella mia tempia sinistra, mentre roteo gli occhi in un profondo respiro. Il proseguire delle giornate, come si può notare, non fa altro che minacciare la mia capacità di intendere e di volere: aggiungere un altro gruppo di ragazzi a questo punto significa soltanto diminuire per tutti le possibilità di vincere la borsa di studio! Mentre i primi due anni li ho trascorsi lamentandomi e protestando con i professori, la vecchiaia mi ha resa meno combattiva, ma di sicuro non meno lamentosa. Stringendo i denti, scorro tra le cartelle del computer in cerca della mia personale dove si trova la prima bozza dell’articolo. Nel frattempo apro gli articoli che finora mi sono stati consegnati dai ragazzi del gruppo per revisionarli. Come dice la Greater, un lavoro senza revisione non è un buon lavoro, per cui meglio rimboccarsi le maniche e, armata di pazienza, inizio a leggere i vari documenti.
Quando finisco di leggere – e correggere – l’ultimo articolo sul progetto sento gli occhi che stanno per cadere dalle orbite per quanto bruciano. Mi allontano dalla scrivania con una spinta sulla mia sedia girevole con le rotelline, la migliore della stanza, stiracchiando ogni muscolo possibile da questa posizione. Con gli occhi ancora semichiusi controllo l’orario sul display del cellulare: le 11 in punto. Ho trascorso le ultime due ore a fare revisioni, il ché mi fa sentire meno in colpa dato che il mio articolo è ancora a mare. Decido di abbandonare momentaneamente la scialuppa, chiudendo dietro di me la porta a chiave con un mezzo sospiro di sollievo. A quest’ora il gruppo di Chiara dovrebbe essere in teatro per le prove del loro spettacolo, decido di andare a trovarla. Dopo aver sceso le scale, mi incammino verso l’ala est della scuola a grandi passi, diretta verso l’auditorium. Una volta arrivata alla fine del corridoio davanti a me si presenta l’uscita di emergenza, solitamente vietata in situazioni di normalità, ma che ormai da tempo costituisce il mio passaggio segreto per arrivare più in fretta sia al teatro ché alla palestra. Bisogna ingegnarsi anche quando si è pigri. Una volta uscita fuori dall’edificio, percorro la passerella di mattoni coperta da una tettoia in vetro fino ad arrivare all’uscita di emergenza dell’auditorium, che apro lentamente, e che mi fa sbucare esattamente in fondo alla sala nella navata di sinistra. In punta di piedi, cercando di non farmi notare, mi siedo in una delle poltrone rosse dell’ultima fila, mentre cerco di capire cosa stanno facendo sul palco. Chiara sta cercando di sistemare correttamente gli attori, ognuno alle proprie postazioni, le mani tra i capelli.
«Tu! Ho detto schema a “W”! Sai che è da settembre che ci lavoriamo, eh? Che lavoro sprecato!» impreca dietro un ragazzo che ha sbagliato la sua postazione. A questo punto non riesco a trattenere le risate, cosa che coinvolge anche la maggior parte dei ragazzi sul palco e alla fine riesce ad ammorbidire anche Chiara.
«Tu che ci fai qui?» inizia quest’ultima, alzandosi da dietro la sua scrivania bianca sotto il palco.
«Quello che faccio tutti i giorni,» replico sorridendo e alzando le braccia « niente!». Mi alzo per andarle incontro, mentre i ragazzi alle sue spalle si dileguano strappando una pausa non autorizzata dal Comandante.
«Dovresti essere con il tuo gruppo a preparare l’articolo, lo sai.» rincalza lei, con la sua solita faccia da rimprovero. È sempre stata quella più diligente.
«Dovrei, sì.» le rispondo, sedendomi sopra la sua scrivania bianca. «e tu dovresti dire ai tuoi attori che forse li ucciderai prima delle prove generali.». A questa mia ultima affermazione entrambe ridiamo, almeno per un attimo sono riuscita ad allentare la pressione di questo spettacolo. Ho già detto che cosa andrà in scena? Dalle prime settimane di settembre già Chiara aveva tutto in mente: riprodurre in versione teatrale n’opera letteraria di Giovanni Verga, cioè Rosso Malpelo. Non ho ben capito perché giusto questa, ma le novità non fanno mai male, e finché è contenta lei siamo tutti fuori pericolo.
«Comunque, my dear, non sono venuta a disturbarti per nulla. Stasera alla Nona c’è una festa, ci andiamo?» le propongo istintivamente, tirando fuori dalla borsa il volantino che ho raccolto stamattina presto da terra. Lei prende il foglio dalle mie mani, scrutandomi con aria divertita, per poi scrutare ciò che c’è scritto.
«A dire la verità, per stasera avevo in programma una serata depressa alla confraternita della dodici con Amie…» ammette, senza nascondere il ghigno che le sta nascendo sulle labbra. Amie è la sua coinquilina che studia Storia dell’Arte, abitano nella Settima insieme ad altri due ragazzi che fanno parte del mio gruppo di giornalismo.
«Bene, allora dì a Amie che se vuole stasera noi andiamo a una festa.» le annuncio sorridente, strappando il volantino giallo dalle sue mani, ormai ridotto malissimo. «e se non vuole, peggio per lei. Ci vediamo più tardi, dear.» concludo, con un bel bacio sulla guancia e mi avvio verso l’uscita del teatro. Tra progetti, lezioni, esami ultimamente non abbiamo avuto nemmeno il tempo di respirare: una festa è quello che fa al caso nostro. Che sia per festeggiare la riuscita del progetto o il suo fallimento, l’importante  è festeggiare.

Ore 10 p.m.

«Giuro che sono pronta!» urlo dalla mia camera al piano di sopra. Da un quarto d’ora circa mio fratello e quegli altri imbecilli non fanno altro che pressarmi, ma non hanno capito che sui volantini l’orario è sempre indicativo? E poi, è sempre meglio arrivare quando c’è già gente per farsi notare meglio. Se non fosse per questi stupidi vestiti da figlia dei fiori…
«Sam, non rompere le palle! Siamo in ritardo già di mezz’ora!» urla in risposta Cooper dal piano di sotto. Vorrei ricordare al caro Cooper che se non fosse per me che ho convinto Harry e Lucas, di sicuro non avrei portato con me solo lui che era l’unico entusiasta di questa festa.
Mentre scendo le scale, ogni gradino mi sento sempre più ridicola avvolta da questi vestiti colorati e scoordinati tra loro, per non parlare della coroncina di fiori sulla testa… e chi avrebbe mai detto di vedermi con una collana col simbolo della pace! Io, proprio io, la pace! Ma ad attendermi alla fine delle scale c’è Lucas, che con il suo fischio che accompagna puntualmente ogni mio qualsiasi cambio d’abito, mi prende per la mano e mi fa girare per guardarmi bene.
«Ok, ok, va bene così.» interrompe Harry, fingendo di essere geloso e intromettendosi tra me e Lucas. «Possiamo andare adesso? Chiara ci raggiunge alla Nona.»
Durante tutto il percorso per arrivare da casa nostra alla Nona – meno di cinque minuti – non facciamo altro che lanciarci battutine sui nostri outfit, rimpiangendo di essere usciti, talvolta minacciando di tornare a casa a guardare una serie tv. Vedo persone sparse per i viali con la nostra stessa direzione e vestite anche peggio di noi! Menomale che c’è sempre qualcuno da prendere in giro in questo campus, altrimenti mi annoierei sempre. Una volta arrivati davanti veniamo colti dal solito senso di insicurezza mista al senso di vergogna per essere usciti dalla nostra comfort zone e alla pigrizia, e lì troviamo Chiara ad aspettarci.
«Io propongo di tornare a casa. Siamo ancora in tempo!» dico loro ridendo, ma parlando piuttosto seriamente, tra i consensi generali tranne quello di mio fratello che mi fulmina con lo sguardo.
«Allora, ascoltatemi bene…» inizia, passandosi una mano tra i suoi capelli morbidi nervosamente. Si vede proprio che siamo fratelli. « mi avete fatto vestire come uno scoppiato, con queste infradito scomodissime e mi avete fatto camminare da casa mia fino a qua, quando non volevo nemmeno venire! Adesso noi entriamo subito, anzi entrate prima voi!» conclude, soddisfatto del suo discorso, per poi spingermi violentemente dentro la Nona. Dietro di me, uno dietro l’altro, mi segue la carovana dentro uno scenario ormai consueto all’interno del campus: musica a tutto volume, la casa semidistrutta, alcol e gente buttata ovunque. Niente male per essere solo le 10:15. Decido di prendere la situazione in mano: con Chiara piantiamo in asso i ragazzi davanti l’ingresso, sperando che se la cavino da soli, e ci avventuriamo per la casa in cerca del laboratorio di alcol, la cucina. In tutte le stanze la luce è soffusa e i padroni di casa hanno deciso di esagerare con l’incenso, che Chiara prontamente ha chiamato “Vincenzo” davanti a persone sconosciute provocando le loro risate. E, quasi dimenticavo, con il buio pesto tutti gli invitati indossano gli occhiali tondi come quelli di John Lennon. Che originalità! In cucina lo scenario apocalittico è, da regolamento, sempre più accentuato rispetto alle altre stanze: gente che si bacia e si palpa qua e là, gente che beve come se non ci fosse un domani, e le due vecchiette del paese che guardano i giovani dalla persiana e li giudicano – io e Chiara.
Una volta riuscite a prendere le nostre birre senza versarcele addosso rispettivamente, torniamo nel cuore della festa: il salone. Qui tutto sembra più pacato, ma in realtà è un effetto delle luci viola soffuse, perché le persone continuano a far baldoria vicino la consolle del dj. Noto con piacere che l’impianto della Nona è migliore rispetto ad altre case che hanno tenuto feste in questo primo semestre; se durante i primi tempi non ci perdevamo nemmeno un evento del campus, adesso per fortuna siamo diventati un po’ più selettivi. Meglio una festa fatta bene ché due disastrose, no? Ci facciamo strada in mezzo alla pista verso le casse, quando incrocio lo sguardo di Harry. Dimenticavo: nei party come questo, solitamente, la regola è fare finta di non conoscersi per evitare di farci fare brutte figure a vicenda. E infatti, come da protocollo, giro lo sguardo ma questa volta mio fratello mi afferra per un braccio e mi trascina verso la consolle, dove ci sono anche Cooper e Lucas con Nick, un altro loro amico che abita proprio qui.
«Che cosa vuoi?» gli chiedo, cercando di liberarmi. «Pronto?! Noi non ci conosciamo!» continuo, cercando approvazione da parte di Chiara, anche lei confusa quanto me ma abbastanza divertita.
«Ora taci» mi intima mio fratello a denti stretti, poi rivolgendosi al ragazzo che fa il dj: «Lei è mia sorella Sam, e lei la nostra amica Chiara». Guarda un po’ come cambiano le carte in tavola! Da sconosciuti a fratelli è un attimo, solo mi domando da quando in qua Harry cerca il mio supporto per fare amicizia.
«Ciao» rispondo seccata, rivolta verso il ragazzo nella penombra che nemmeno riesco a guardare bene in viso. Lancio un’occhiata divertita a Chiara, anche lei come me è stranita dal comportamento dei ragazzi che stasera non hanno paura di fare brutta figura a causa nostra.
«Ma io ti conosco!» risponde il dj, sempre dalla sua penombra, quando sto per girare i tacchi. Ne approfitto per avvicinarmi e scorgere meglio i tratti del ragazzo: capelli neri rasati, occhi scuri, mai visto prima.
«Io no. Ora se permettete…» replico scrollando le spalle, ma questo tizio mi ferma ridendo. Oggi tutti hanno voglia di bloccarmi in qualche modo, ma perché? Lo volete capire che non mi piace il contatto fisico? Ognuno alla debita distanza, grazie, e nessuno si farà male.
«Sono il ragazzo delle fotocopie! Ricordi?» continua, sempre ridendo. Cerco di collegare nella mente le parole “ragazzo” e “fotocopie” con qualche immagine nella mia memoria danneggiata, ma…
«Ma certo! Sei lo stronzo che mi ha pestato il piede!» rispondo, improvvisamente colta da un lampo di genio, con tutta l’acidità che mi contraddistingue. Mentre il ragazzo inizialmente sconvolto scoppia a ridere, mio fratello furioso mi porta via, rimproverandomi per il mio comportamento. Mi dispiace, fratello, ma prima o poi avrei dovuto dirgliene quattro.
 
La serata prosegue abbastanza bene, contro le mie previsioni scettiche. Per la prima volta dopo tanto tempo siamo riusciti a stare tutti insieme e a divertirci, mettendo momentaneamente da parte i pensieri delle ultime settimane. Così che, mossa da un’improvvisa gentilezza, decido di accontentare Harry e andarmi a scusare con il ragazzo della consolle. Lo raggiungo, accerchiato da gruppo di ragazze che gli fanno gli occhi dolci, e quando richiamo la sua attenzione lui le manda via gentilmente.
«Senti, ti volevo chiedere scusa per quello che ti ho detto…» inizio imbarazzata, e mi giro verso Harry e i ragazzi alle mie spalle. Ho dimenticato il discorso, lo sapevo! «E poi?» sussurro verso di loro, mentre vedo Lucas rosso per le risate, Harry per la rabbia.
«Tranquilla, me lo sono meritato.» risponde lui sorridendo, mentre inizia a mettere via la sua strumentazione.
«Come ti chiami?» gli chiedo incuriosita. Nel frattempo Chiara mi ha raggiunta, è pronta a dirmi di andare a casa.
«Jay.» risponde il dj, con un sorrisetto malizioso mentre si passa una mano sopra i capelli. La mia unica risposta è una bella scrollata di spalle: sono già troppo stanca pure per essere cattiva. Alzo i tacchi e insieme ai miei amici torno verso casa.
 

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Capitolo 4
*** ARANCIONE - Divertente. ***


La festa di ieri sera, tutto sommato, non è stata molto male. Il problema è il risveglio: il mal di testa e i capogiri che ti accompagnano per tutta la giornata, insieme alla classica frase “non andrò più ad una festa durante la settimana”. Capita anche che il programma didattico della giornata sia di una noia assoluta, fatta a posta per riprendersi dalla sbronza: il tuo piccolo banchetto si trasforma improvvisamente in un comodissimo cuscino sul quale accasciarsi, e la scomodissima sedia di plastica nera si trasforma in una poltrona di lusso. E aiuta anche il fatto che la prima lezione della mattina sia Storia e tu sia arrivata stranamente puntuale: 60 fantastici minuti di sonno. Per concludere in bellezza, aggiungiamo al quadro un vecchio professore di stampo accademico severo con balbuzie. Mentre l’aula piano piano si riempie io sono già mezza sdraiata sul banchetto e, quando lascio cadere pesante la testa sulle braccia incrociate, la mia fronte sbatte con prepotenza contro il bracciale con le borchie che indosso da quando Lucas me l’ha regalato il primo anno. Trattengo la voglia di imprecare con la mattinata nel momento stesso in cui entra in aula il professore, che si accorge dei miei tentativi di mantenere la calma con un bel pugno sul banco. I colleghi intorno a me mi guardano, alcuni sconvolti, altri ridono e basta.
«Buongiorno anche a lei, signorina Davis. Di ottimo umore anche oggi!» mi saluta il professore Trailman balbettando, senza nemmeno nascondere il suo divertimento davanti la mia goffaggine. Ecco, questo è proprio uno di quelli che non mi sopporta! In risposta faccio un cenno con la testa e torno ad adagiarmi sul banco, mentre il professore inizia a sistemare le sue carte. Nemmeno il tempo di iniziare la lezione e io sono già in un’altra dimensione: ripercorro i ricordi del party di ieri sera passando in rassegna le facce note che ho incontrato durante la serata, ma soprattutto la figura totalmente nuova del dj che abita alla Nona con Nick, altro membro componente della banda di mio fratello, e gli altri due Scoppiati. Ma ancora una volta il mio sonno viene turbato: da un messaggio che mi è appena arrivato apprendo che Chiara è dietro la porta dell’aula che mi aspetta per fare colazione. Davanti al bivio sonno/cibo solitamente scelgo di dormire, ma questa volta la colazione ha un bonus a suo favore che è Chiara, dunque raccolgo le mie cose e scappo via dall’aula cercando di passare inosservata per quanto possibile. Quando mi chiudo la porta dell’aula alle spalle ritrovo la mia migliore amica sorridente e già iperattiva alle 9 del mattino.

«Chia, per favore, meno felicità.» le chiedo mentre la saluto, ricevendo in risposta una risatina accompagnata da una spinta. Le devo volere davvero bene per non averle ancora alzato le mani, ma lei è così: impossibile non amarla.
«Sembri una barbona, Sam.» risponde lei con il suo solito tatto, nascondendo una risata. «Dai, andiamo a fare colazione che ti riprendi. E appena ti riprendi scrivi subito l’articolo!» dice con aria di rimprovero. La mia mente finalmente si illumina: l’articolo! Ieri ho passato due ore a correggere quelli dei miei compagni di team e non ho minimamente pensato alla stesura del mio. A soli tre giorni dall’inizio del progetto… «e poi oggi c’è la gita.»
Nuovamente la mia mente si illumina. «La gita?» le chiedo, corrugando la fronte. La gita, la gita… quale gita? Dovrei seriamente iniziare a prendere qualche integratore per questa mia povera memoria.

«Andiamo al Saint James Park, ricordi? Birdwatching.» replica Chiara, iniziando a perdere la pazienza. Io purtroppo la capisco, mi metto nei suoi panni, ma che ci posso fare?

«Ma che sarebbe Birdwatching?» le chiedo mentre sbadiglio. Di questa escursione la mia testa è priva, non ricordo nemmeno un accenno al riguardo.

«Guardare gli uccelli, Sam, gli uccelli! Ma non le segui mai le lezioni?» risponde ridendo e  agitando la testa in segno di dissenso. Mi unisco anche io alle sue risate anche se la risposta è abbastanza banale: non ricordo nemmeno quale sia l’ultima lezione che ho seguito per davvero! Borbotto una lamentela sottovoce mentre camminiamo verso la caffetteria del college che si trova in un padiglione vicino il teatro, che negli ultimi tempi è diventata il nostro quartier generale.

Ed è nel corridoio dell’ala est dell’edificio centrale della Goldsmiths che sembra sia appena iniziata una sfilata di moda: appoggiate alle pareti ci sono delle ragazze, per lo più del primo anno, che lasciano spazio al modello che sta attraversando la passerella facendo finta di non notare tutti gli occhi puntati su di lui… ed è proprio lui, il dj della Nona, il ragazzo delle fotocopie, che sfila davanti una moltitudine di ragazze fuori dalle aule appositamente per guardarlo e che ci passa davanti salutandoci con un occhiolino, per poi continuare la sua sfilata mentre tutti lo seguono con gli occhi. Il novellino dall’atteggiamento spavaldo che cammina come se il college fosse di sua proprietà non ha ancora chiaro che la moda del bad boy è passata qualche anno fa, e attacca solo con le ragazzine. Ma soprattutto non ha capito che salutare noi, per lui, è un onore! Come si permette a snobbarci?
«Dai Sam, lascia stare…» dice Chiara ridendo, sia per l’imbarazzante passo felpato sfoggiato dal volto nuovo, ma principalmente per la mia espressione perplessa e critica. Che maleducazione. «per esser figo è figo» continua poi la mia amica una volta uscite dall’edificio, mentre ci avviamo verso la caffetteria.

«Scusami, ma tu non eri innamorata persa dell’amico biondo di mio fratello?» le domando incrociando le braccia e lasciandomi andare a una risata che mi libera momentaneamente dalla maschera della ragazza acida. Entrando dentro la caffetteria veniamo accolte dal consueto odore di dolci misto all’odore del caffè, indispensabile per attivare i nostri neuroni. Il locale è decorato da tante piccole piantine finte che urtano il mio gusto, le pareti dipinte nei toni pastello e i tavoli in ferro battuto verniciati di bianco. Siamo quasi le uniche ad essere qui.

«Chi, Nick?» chiede in risposta, togliendo lo sguardo dai documenti che nel frattempo ha tirato fuori dalla sua borsa e appoggiato sul solito tavolino infondo al locale, vicino la finestra. «Dai, Sam, stavo scherzando. È ovvio che mi piace ancora Nick, secondo te lascio uno come lui per mettermi con un tipo del genere? Sembra così arrogante.»

«Prima di lasciarlo dovreste stare insieme, dear.» ribatto scherzando con la mia solita nota pungente, in modo da meritarmi la seconda spinta della giornata da parte di Chiara. La mia migliore amica è ormai follemente innamorata di Nick, il ragazzo della Nona che costituisce l’ultimo componente del gruppo di Harry, e che a mio parere ricambia ma è troppo timido per farsi avanti. Mentre Chiara inizia a ripassare dalle sue fotocopie, io ordino per entrambe due caffè e due croissant, per poi ritornare al foglio bianco che mi aspetta sul tavolino.

È con grande orgoglio che la Goldsmiths University di Londra presenta il progetto finanziato dal complesso University of London The ArtCity

Rileggo ciò che ho scritto più volte velocemente, ma cancello tutto. È palesemente una frase scritta in fretta e senza voglia, e non posso permettermi di far trasparire questo da un articolo così importante. Per una buona mezz’ora continuo a scribacchiare qualche frase che cancello subito dopo, il foglio ormai pieno di scarabocchi ai margini, mentre Chiara ripete senza sosta. Finalmente riesco a comporre un pezzo più interessante:
La Goldsmiths University di Londra è orgogliosa di presentare il progetto per la prima volta inaugurato quest’anno, “The ArtCity”. Con grande felicità l’amministratore della città ha consegnato a gruppi ristretti di studenti delle università più prestigiose le simboliche "chiavi della città" per la prima edizione del progetto.
L'Amministrazione Comunale, insieme agli Enti Gestori dei monumenti e dei luoghi adottati, li hanno affidati agli studenti affinché possano studiarli per conoscerli e promuoverne la conoscenza, affinché possano prendersene cura col proprio impegno, restituendoli a tutta la comunità cittadina con la consapevolezza di una riscoperta cittadinanza.
In questa edizione, intitolata "Londra tra profumi, colori, suoni e memoria", non si adotteranno soltanto i monumenti ma ad essere adottata sarà l'intera città. Il nostro obiettivo è quello di costruire la comunità scolastica andando oltre l'attività del singolo istituto scolastico, perché l'attività culturale ed il piacere che essa porta sono vani se non finalizzati a costruire il futuro. Gli studenti e tutta la comunità universitaria di Londra uniscono al meglio il piacere delle attività culturali con la costruzione di un futuro che vede partecipe ed attiva tutta la città.
E' una grande sfida, che unisce tutti i distretti e circoscrizioni. 
"The ArtCity" avrà una dimensione internazionale, nazionale e multietnica. Internazionale e nazionale perché aperta ai turisti, grazie a eventi musicali e spettacoli disseminati in ogni quartiere. Multietnica perché saranno protagoniste non solo le università ma anche le comunità presenti nella nostra città di Londra, una città aperta all’integrazione.
 
Guardo fiera il mio piccolo capolavoro che sono riuscita a partorire in dieci minuti dopo un’ora di scarabocchi e mi volto elettrizzata verso Chiara: «È perfetto! Finalmente ho finito!» mi compiaccio, mettendole il foglio pasticciato sotto il naso. Chiara passa in rassegna velocemente il foglio, gli occhi che saltano da un lato all’altro del foglio.
 
«È un po’… striminzito.» ammette, facendo una smorfia con la bocca. Io tiro un sospiro di sollievo: questo è il massimo livello di complimento che si possa ricevere dalla donna di ghiaccio, quindi mi ritengo soddisfatta del mio lavoro.
 
«Devono anzi ringraziarmi di averlo già scritto!» replico, mentre metto via tutti i miei documenti sparsi facendo attenzione a non urtare la tazza traboccante di caffè. Ci manca soltanto di versarci il caffè sopra!
 
«Averlo già scritto?! Oggi è mercoledì, sai quando inizia il progetto?» domanda, sbattendo il libro di storia dell’arte sul tavolino bianco. Devo cercare in tutti i modi di trattenere le risate per non provocare la sua ira, la guardo riflettendo… quand’è il progetto? «Sabato e domenica, Sam! Ed entro domani devi consegnare l’articolo alla professoressa Greater, che lo manderà in stampa per il giornale dell’università! E menomale che sei tu che frequenta Giornalismo…» prosegue, roteando gli occhi e alzandosi dalla sedia. La seguo ridendole dietro mentre proseguiamo verso l’uscita della caffetteria, quando ci imbattiamo nuovamente nel dj-modello che a quanto pare ha la nostra stessa attitudine a saltare le lezioni.
 
«Avevi ragione.» le dico, dopo aver dato meglio un’occhiata al tipo in piedi davanti il bancone del caffè mentre gioca con il suo cucchiaino, «niente male il tipo».
«Scommetto che lo abborderesti con piacere se non dovessi fare sempre la dura, my dear.» mi punzecchia Chiara con il suo sorrisetto malizioso, che può significare soltanto guai.
 
«Assolutamente no!» protesto, scacciando via con la mano il solo pensiero di omologarmi alla massa di ragazze che sicuramente ha già ai suoi piedi. «Semmai al contrario, a lui piacerebbe!»
 
«Facciamo una scommessa» dice a un certo punto, mentre camminiamo lentamente il percorso che dall’auditorium porta al padiglione principale del college. Ecco qua, sapevo che se ne sarebbe uscita con una genialata del genere! Io e Chiara siamo migliori amiche da quando eravamo delle ragazzine e abbiamo sempre avuto il vizio di sfidarci, specialmente nelle scommesse. E le conseguenze non sempre sono state gioiose. «Visto che sostieni che un tipo così ci proverebbe con te, se entro una settimana riesci a farlo crollare ai tuoi piedi… per il prossimo mese ti aiuterò a darti tutte le materie che vuoi!» spiega soddisfatta il suo piano.
 
«Tu sei pazza! Guarda che io scherzavo, cretina.» rispondo ridendo davanti al suo ghigno malefico, rendendomi conto che invece lei non scherza affatto. E io non sono solita a tirarmi indietro davanti a una sfida.
 
«Facciamola lo stesso. E se perdi, sarai costretta ad aiutarmi a farmi notare da Nick in tutti i modi!» conclude, e siamo già arrivate davanti la classe di Francese che abbiamo in comune. La guardo con lo stesso sorriso malizioso che mi ha rivolto lei finora, ben consapevole della difficoltà della sfida. Sam, sei ancora in tempo per ripensarci, in fondo sono cose che facevate da ragazzine…
 
«Andata. Sei malefica.» sentenzio infine, entrando finalmente nell’aula già piena di studenti. Alla fine, che sarà mai? Solo un’altra scommessa fatta con Chiara che ci procurerà tante risate, come al solito.
 
*
 
Qualche ora dopo aver pronunciato la sentenza di morte di quel briciolo di dignità che mi è rimasto, ci ritroviamo in un vecchio pullman gremito di studenti dai 19 anni in su che non più abituati a fare i bambini quando si fanno le escursioni scolastiche, se non fosse per i soliti rompipalle delle ultime file: io e i miei amici. C’è Amie, la coinquilina di Chiara, che ci prova con Harry da diversi mesi ormai e lui ricambia; Chiara seduta accanto a me che cerca di separare me e Lucas che ci tiriamo schiaffi e calci alla cieca; Nick accanto a Lucas che non riesce a riprendersi dalle risate; Cooper seduto qualche posto più avanti con altri suoi amici. Si vede che siamo gente matura, no?
Il pullman si ferma finalmente davanti i cancelli del Saint James e, mentre gli studenti delle file davanti aspettano educatamente il loro turno per scendere dal veicolo, tra di noi scoppia la guerra a chi scende per primo. All’ingresso del parco, oltre alcuni nostri professori, c’è una guida turistica ad aspettarci che ci spiega in sintesi in cosa consiste l’attività di oggi, mentre mi arriva una gomitata da parte di Chiara.
 
«Guarda un po’ chi c’è…» dice puntando il dito verso il gruppo di ragazzi davanti i cancelli intenti ad ascoltare la guida. Bingo! Obiettivo individuato, il dj è tra di noi. Individuo tra la folla i capelli sempre fuori posto di mio fratello e mi avvicino di soppiatto, fin quando non sono abbastanza vicina per farlo spaventare e saltare in aria come una femminuccia, facendo voltare le teste di tutti i presenti verso di lui. Trattengo il respiro per non scoppiare a ridere.
 
«Senti, come si chiama il tuo amico, quello moro? Quello che ieri sera faceva il dj?» gli chiedo sussurrando per non attirare l’attenzione. Mio fratello sbuffa infastidito.
 
«Sei una stupida, Sam! Comunque si chiama Jay, perché? Lo sai che ti ha messo gli occhi addosso da ieri?» risponde lui, dandomi una spintarella. Ma sono diventata un sacco da boxe per caso?
 
«Fratello mio, mi dai una grande notizia, un’ottima notizia!» replico entusiasta, lasciandogli lo stampo di un bacio sulla fronte mentre corro verso la mia amica. Il gioco sembra iniziare con le carte giuste, questa volta farò vedere a Chiara di cosa sono capace.
 
Dopo esserci divisi in due gruppi, la guida porta il gruppo dove siamo noi in uno spiazzale in pietra con la vista su Londra occidentale e il resto del St James Park, e dopo averci fornito una brochure sugli uccelli che possiamo trovare in questo periodo qui dentro – con tanto di descrizione – assaliamo tutti i cannocchiali messi a disposizione. Anche io faccio le corse per accaparrarmi uno dei cannocchiali vicino la balconata rialzata che sporge sopra un’altra balconata che si trova a livello del terreno, dove il secondo gruppo di studenti punta diversi binocoli tra i rami dei grandi alberi del parco. Il cannocchiale che ho preso d’assalto lo utilizzo per spiare il gruppo distante, più che per i volatili. Passo in rassegna tutte le persone: i ragazzi del corso di Teatro di Chiara, Amie la coinquilina, James e Meredith della Settima, Jay della nona… obiettivo centrato: il ragazzo cerca di sistemare le lenti del binocolo che gli è stato affidato senza nascondere una certa difficoltà, indossa la tracolla.
 
«Davis, sai che gli uccelli si osservano verso il cielo e non puntando verso il parco?» vengo riportata alla realtà improvvisamente dalla professoressa Wires di Sociologia dell’ambiente, facendomi trasalire.
 
Le rispondo senza staccare lo sguardo dai movimenti del ragazzo delle fotocopie: «Ho altri uccelli da guardare, per adesso, se non le dispiace!». Nel momento stesso in cui finisco di pronunciare la frase mi rendo conto di che cosa ho detto, ma soprattutto a chi mi sono rivolta! Tento di trattenere le risate mentre sento in sottofondo la professoressa che borbotta sconvolta qualche rimprovero, e mi accorgo che proprio in quel momento dal parco sottostante Jay punta il binocolo nella mia direzione divertito. Istintivamente lascio la presa dal cannocchiale che ritorna nella sua posizione eretta e mi volto di scatto verso la Wires che continua a minacciarmi di prendere provvedimenti disciplinari, mentre riesco soltanto a pensare di essere stata colta in flagrante. Se c’è un’altra cosa a cui non ho accennato è la mia perenne tendenza alle pessime figure, sia in ambito accademico sia sentimentale. Ma è ovvio che al momento il tonfo al cuore non è dettato dalla battutina che ho appena lanciato a una professoressa, bensì dal farmi scoprire mentre spio il nuovo modello del campus. Intravedo Chiara che se la ride liberamente con Harry e i ragazzi: my dear, vedremo quando vincerò la scommessa come riderai!

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Capitolo 5
*** VERDE - Fresco ***


Giovedì. Nella stanza del secondo piano a destra delle scale, la mia, regna la pace con la luce soffusa filtrata dalle finissime tende bianche che ho scelto appositamente per non aggravare l’operato che il tempo cupo e grigio londinese solitamente compie. Oggi stranamente dalle finestre entra un fascio di luce dorato che si scaglia contro il pavimento ai piedi del mio letto, il ché mi fa alzare di buon umore. Con gli occhi ancora socchiusi controllo l’orario sul display del telefono lasciato sul comodino alla mia destra: le 9:30. Un ottimo compromesso. Oggi niente lezione, dopo due settimane infernali finalmente una tregua: alle 11 ci aspetta la rappresentazione teatrale del gruppo di Chiara. Il mio solito passo trascinato della mattina mi accompagna fino alla cucina del piano terra, dove ci sono già Lucas e Harry che fanno colazione e parlano superando di molto la soglia dei decibel che riesco a sopportare appena sveglia.

«La finite di starnazzare?» dico loro con uno sguardo rabbioso, mentre mi unisco al tavolo già imbandito per la colazione. Una delle cose che mi consola dal comportamento di questi ragazzi è la loro media abilità nel cucinare: se fosse per me, potremmo morire tutti di fame.

«Bambina, non dovresti prepararti per lo spettacolo di Chiara? Noi in dieci minuti siamo pronti e non abbiamo intenzione di aspettarti.» risponde acido Lucas tentando un baciamano, che prontamente respingo con uno schiaffetto.

«E sentiamo, perché mai dovrei iniziare a preparami adesso? È ancora presto.» replico infastidita, roteando gli occhi. Sto già conversando troppo per i miei gusti.

Harry e Lucas si guardano divertiti, mio fratello abbassa la testa verso la sua tazza giocando con il cucchiaino. «Sam, sono le 10:30. Tra mezz’ora inizia lo spettacolo.» continua Lucas. Sentendo queste parole sgrano gli occhi e per poco non mi va di traverso il tè: come sarebbe?! Il mio coinquilino dagli occhi azzurri come il cielo non riesce più a trattenere dalle risate mentre si alza dalla sua sedia per lasciare la stanza. Borbottando qualche “stronzi” e “potevate avvisarmi”, corro subito verso la mia stanza lasciando mio fratello continuare la sua merenda tra le risate.

 

In tempi record, quando alle 11 la campanella dell’auditorium strilla io mi trovo miracolosamente già alle sue porte insieme ai miei amici, spingendo qua e là qualche ragazzo davanti a noi per velocizzare l’entrata ed assicurarci i posti migliori. E più che lo spettacolo, noi fremiamo per vedere o addirittura sentire Chiara sclerare da dietro le quinte, e conoscendola è molto possibile che accada. Accanto a me si accomoda Amie, con la quale negli ultimi tempi stiamo formando un trio consolidato, pronta anche lei a prendere in giro gli attori dall’inizio alla fine dello show. Le luci si spengono e l’occhio di bue viene puntato sul palco, al centro del sipario chiuso: da adesso massima concentrazione.

Circa un’ora dopo, però, la concentrazione è tutt’altro che massima: Harry dorme, Cooper è arrivato dieci minuti fa e parla continuamente con Lucas provocando un brusio di sottofondo fastidiosissimo, l’unico concentrato realmente è Nick. Quando lo sguardo si posa su quest’ultimo mi percorre un brivido quasi di terrore: avevo dimenticato la scommessa fatta ieri. Distolgo lo sguardo scotendo la testa quando il sipario si apre ed escono tutti gli attori, facendo l’inchino di rituale; dopodiché fa il suo ingresso Chiara sorridente e, mentre l’auditorium fa un applauso composto, noi sfoghiamo l’ultima ora passata in silenzio con gridolini e standing-ovation. Lei ci sorride fiera, facendo un ultimo inchino e scomparendo dalla scena. Alle nostre spalle sono tutti già scappati fuori, persino i professori, quando Chiara ci raggiunge.

«Non sono stati bravissimi?» ci chiede orgogliosa del suo lavoro, mentre insieme ci incamminiamo verso l’uscita. Senza pensarci annuiamo, Amie le risponde «Meravigliosi, direi». E anche questa la possiamo depennare dalla lista di cose importanti da fare, adesso ci resta solo il progetto. Camminando sotto il porticato che conduce all’ala est dell’edificio, alla nostra sinistra poco davanti a noi notiamo il ragazzo delle fotocopie intento a provarci con una ragazza, appoggiato con la schiena contro un albero, quando la ragazza lo liquida e si allontana roteando gli occhi. Davanti a questa scena io, Chiara e Amie non possiamo che ridere, senza nemmeno provare a nasconderci mentre ci avviamo verso l’uscita d’emergenza per entrare.

«Beh? Cosa c’è da ridere?» tenta di difendersi lui con nonchalance, incrociando le braccia. Noi nemmeno rispondiamo e siamo già dentro, ciascuna diretta verso le proprie lezioni. In verità io prendo solamente la scusa per fare una passeggiata prima di tornare verso l’esterno, dove mi aspetta la lezione di Scrittura Creativa.

La professoressa Overmay, l’unica delle donne che mi sta veramente simpatica dopo la Flower di inglese, usa svolgere le sue lezioni nella palestra al coperto del campus, sfruttando lo spazio disponibile come “fonte d’ispirazione”. Con questa insegnante in particolare ho instaurato un forte legame, anche di amicizia, a livello di chiederle consigli personali in qualsiasi momento di necessità, ma è una con cui non puoi sbagliare: tutti i caffè che puoi portarle, tutti i pianti in sua presenza, non saranno mai sufficienti per comprarti un 30 perché con lei si deve lavorare sodo. Quando arrivo dentro la palestra è ancora poco popolata ma decido ugualmente di prendere la mia postazione accanto ad alcuni miei colleghi del gruppo di Giornalismo, seduti per terra in cerchio. Mano a mano il cerchio si va allargando e, per qualche scherzo del destino, nella metà opposta proprio davanti a me è seduto a gambe incrociate Jay Wilson, amico di mio fratello, dj della festa, ragazzo delle fotocopie, indossando un paio di Rayban scuri che abbassa lentamente quando si accorge che lo sto scrutando. Resisto alla tentazione di abbassare lo sguardo: in questi casi bisogna dimostrare sicurezza. Ma questo contatto visivo viene interrotto bruscamente dalla Overmay che si piazza al centro del cerchio umano, in piedi, e prende parola.

«Dunque, prendete i vostri quaderni.» inizia, girando lentamente all’interno del cerchio e guardandoci a turno negli occhi. «Oggi lavoriamo su un livello diverso: quello musicale. Vi fornirò degli mp3 con una sola canzone, uguale per tutti, e a fine lezione me li restituirete. Scrivete quello che vi passa per la testa, non c’è alcun vincolo tematico. Buon lavoro.» conclude, facendosi strada attraverso due ragazzi seduti mentre i suoi assistenti ci distribuiscono gli mp3, che pensavo fossero andati fuori produzione ormai qualche anno fa. Quando arriva il mio turno faccio partire la canzone senza titolo, mai sentita prima. Mi guardo intorno, osservo di sfuggita i volti dei miei colleghi già intenti a scrivere i loro pensieri, posando infine lo sguardo fuori dalle finestre. Da una delle alte finestre rettangolari entra un timido ramoscello su cui è aggrappata disperatamente un’unica foglia di un verde brillante. Allora scrivo:

Se per un attimo provassimo a fermarci e ad osservare ciò che abbiamo intorno, ci accorgeremmo non solo che il mondo non gira intorno a noi, ma anche che i piccoli dettagli spesso sono quelli che fanno la differenza. Mentre scrivo, con la coda dell’occhio guardo quell’unica foglia che affaccia dentro la palestra dalla finestra, una bellissima tonalità di verde. Nonostante Londra sia una grande metropoli, una città industriale, siamo abbastanza fortunati da godere di alcuni grandi spazi verdi all’interno della nostra città. Il verde è un colore vivo, attivo, vivace, è associato alla giovinezza. Solo gli inguaribili ottimisti possono cogliere un tocco di verde in tutto ciò che li circonda, ma non semplicemente il colore, bensì lo stile di vita e il modo d’essere legato a questo colore. Il verde è anche il colore della speranza: quando speri fortemente in qualcosa, in qualcuno, ogni riferimento a questo colore diventa un amuleto in favore della fortuna. Forse perché questo colore infonde sicurezza e spensieratezza al contempo ci siamo così affezionati. E anche io, nonostante sia una cinica rompipalle, pessimista e sarcastica, spero in qualcosa. Perché no, un cambiamento o una novità. È come quando tutto crolla e vorresti solo un abbraccio di quelli che non hanno bisogno di parole di contorno. Spero in un pizzico di verde in più.

In una mezz’oretta riesco a buttare giù questo pensiero, senza frenarmi troppo. La cosa bella di queste lezioni è che riesco stranamente ad esprimere le mie emozioni senza effettivamente togliere la mia maschera, perché tutto quello che scrivo su questo quaderno giallo rimane tra me e la professoressa Overmay. Inoltre mi diverte più delle altre materie perché sono libera di utilizzare tutte le penne colorate del mio astuccio senza dare conto e ragione a nessuno. Manca ancora mezz’ora alla fine della lezione ma consegno ugualmente il quaderno e l’mp3 alla professoressa, dopodiché afferro una delle sedie bianche in plastica vicino la parete e mi vado a sedere sotto quel ramoscello per contemplarlo un attimo ancora, più da vicino. Sento un’altra sedia strisciare alle mie spalle, per poi stopparsi proprio davanti a me.

«Ciao» mi saluta la voce che ha appena trascinato la sua sedia di fronte la mia. Alzo lo sguardo: è niente di meno che il ragazzo delle fotocopie, che ormai sembra stia diventando una persecuzione. Mi trattengo dallo sbuffare solo perché nel momento stesso in cui incrocio il suo sguardo, mentre mi sorride, ricordo della scommessa con Chiara. Sapevo che me ne sarei pentita.

«Ciao» rispondo, cercando di ricambiare il sorrido. Piccolo appunto: non sono molto brava a fingere, specialmente quando le persone non mi fanno un’immediata simpatia, quindi spero che questo sorriso abbozzato non somigli più a una smorfia… «com’è andata?» domando.

«Bene, direi.» risponde grattandosi la nuca, «in verità è la prima volta che lo faccio. Nel mio corso, questa è una materia a scelta dell’ultimo anno e non sono abituato a… scrivere i miei pensieri, ecco.» prosegue imbarazzato, sempre sorridendo, generando in me un primo sentore di fastidio viscerale che ti danno quei ragazzi che già conosci perfettamente dalla prima parola che ti rivolgono: lo stronzo che si finge angelo.

«Senti, ti posso fare una domanda?» mi chiede dopo qualche secondo di silenzio, non riuscendo evidentemente a ressistere alla sua curiosità. In risposta, mi avvicino di poco con la sedia a lui accigliata, accennando un sorrisetto. «Girano alcune voci nel college su di te... e su Lucas Taylor...» ammette in modo scherzoso, sostenendo il mio sguardo. Cerco di resistere alla tentazione di andare in escandescenza per l'intromissione di un perfetto sconosciuto nei miei fatti privati.

«Si sbagliano.» rispondo freddamente mantenendo la stessa espressione che avevo prima che mi facesse la sua domanda, per non far trasparire il mio fastidio. Non che possa negare in effetti, perché durante il primo anno di college tra me e Lucas c'è stato di più che semplici voci. Un rapporto così intenso e così puro allo stesso tempo che non si può definire né d'amore né di fratellanza, come ci siamo definiti noi stessi: anime gemelle senza carnalità. Per il nostro bene reciproco abbiamo troncato tutto nel giro di qualche mese e siamo rimasti amici da allora, con le debite distanze. «Mi piacerebe tanto sapere da dove provengono queste voci.» continuo, appongiandomi allo schienale freddo della sedia e incrociando le gambe.

Interviene a salvare dalla difficoltà Jay il suono della campanella, che ci riporta alla realtà da cui ci eravamo momentaneamente allontanati. Insieme ci alziamo e riportiamo le sedie dov'erano messe prima, mentre un gruppetto di ragazze dalla parte opposta della palestra ci manda occhiate. Quanto vorrei dir loro di stare tranquille...

«Parteciperai a The ArtCity, giusto?» mi domanda il dj della Nona, cercando di aggrapparsi a una conversazione che stava per morire dopo l'intervento di Lucas Taylor.

«Certo che sì!» rispondo con entusiamo, cercando di accantonare la sua indiscrezione per concentrarmi sul mio obiettivo: questo ragazzo entro una settimana deve essere pazzo di me e non ho idea di come fare. «In verità devo ancora consegnare il mio articolo alla Greater domani pomeriggio... sono in estremo ritardo.» proseguo, utilizzando la psicologia inversa: cerchiamo di portare lui a buttarsi, in caso contrario interveniamo noi. Dove per noi si intende io e le mie altre mille personalità.

Camminando sotto il porticato che dalla palestra coperta porta verso l'ala est dell'edificio, Jay si ferma improvvisamente, costringendo anche me a fermarmi. «Ho un'idea.» dice, gli occhi che brillano, «che ne pensi se domani pomeriggio ti accompagno io dalla Greater? E poi ci facciamo un giro.»

Questa proposta su due piedi mi spiazza: da un lato la fortissima convinzione che mi stia prendendo in giro per chissà quale ragione, dall'altro il sollievo dato dal fatto che me lo abbia chiesto io e non spetti a me invitarlo. «Mi sembra un'ottima idea.» replico con un occhiolino.

Quando, una volta separatami da Jay, arrivo davanti l'aula dove si tiene Grafica mi fermo prima di entrare per mandare un messaggio a Chiara:

Inizia a preparare gli argomenti, tesoro. Domani ho un appuntamento.”

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Capitolo 6
*** ROSA - Delicato. ***


«Devi assicurarti che l’appuntamento vada da schifo. Chiaro?»
«Perché?»
«Come perché? Sam deve perdere la scommessa a tutti i costi. Sai che divertimento?»

 

Il pomeriggio successivo mi ritrovo davanti la porta dell’ufficio della Greater, alle 16 spaccate, in compagnia di Jay Wilson per consegnare il mio – modestamente – stupendo articolo sul progetto The ArtCity. Ci scambiamo uno sguardo fugace prima di bussare nervosamente sulla porta chiusa; dalla stanza, la voce della professoressa ci invita ad entrare.
«Davis, finalmente! Iniziavo a dubitare che saresti venuta.» inizia la Greater rivolgendomi un sorriso che in realtà cela un rimprovero, ma che riesce a trasparire senza mezzi termini dal suo sguardo.  Dopodiché quest’ultimo si posa su Jay, un passo dietro di me. «Wilson! Che cosa ci fai qui?» gli chiede curiosa.
«Ho accompagnato Sam.» si giustifica lui, cercando di non mostrare il suo lieve imbarazzo. La Greater lo osserva con un sorrisino, poi si volta nuovamente verso di me.
«Hai l’articolo?» mi chiede, il gomito appoggiato sulla scrivania mentre stringe tra il pollice e l’indice l’estremità del suo mento. Da sotto gli occhiali dalla montatura rossa, un po’ troppo stravagante per un personaggio così inquadrato, lo sguardo inquisitore cerca di interpretare le mie espressioni per cogliere anche la minima ansia riguardo il mio stesso lavoro. Annuisco, schiarendomi la gola con un colpetto secco di tosse, ed estraggo dalla mia grande borsa nera amica di avventure la versione cartacea del mio articolo, ben conservata dentro una carpetta blu. Mentre la professoressa lo scorre velocemente con gli occhi, mi giro lentamente verso un Jay immobilizzato contro la porta dell’ufficio che alza i pollici in segno di incoraggiamento con un sorriso timido.
Ok, stop: facciamo un passo indietro. Un’ora fa ero in piedi davanti la finestra della mia stanza con i brividi e i crampi allo stomaco per il nervosismo, in preda al pentimento più profondo che abbia mai provato negli ultimi venti anni, parlando al telefono con Chiara. Se da un lato sono abituata a gestire l’ansia da scommessa con la mia migliore amica da diversi anni, cosciente di andare in contro a potenziali figure di merda o anche fallimenti, questa volta la situazione era aggravata dal fattore X che mai mi era importato più di tanto: il soggetto in questione. Si, perché nei pochi incontri che ci sono stati in questi giorni con il ragazzo delle fotocopie quest’ultimo ha dato segno di avere quel tipico modo di fare che io repello, quell’attitude da fighettino vanitoso che mi fa venire una voglia di prenderlo a calci immensa. Lì in piedi nella mia stanza, rigida davanti la finestra, ho giurato a Chiara che gliel’avrei fatta pagare.
Questa sensazione di rifiuto mista ad ansia sparisce nell’istante in cui vedo i pollici in su di Jay accompagnati da quello stesso sorrisetto antipatico, mentre subentra un’altra sensazione, molto più pericolosa: la lampadina.
«Ottimo.» la voce della Greater mi riporta alla realtà, mi giro di scatto verso di lei. «Puoi andare. Mi raccomando, siate puntuali domani.» ci saluta, noi ci congediamo in fretta uscendo da quella stanza dove si stava per creare un’atmosfera per me scomoda. Mentre ci addentriamo nei corridoi riprendo il controllo del mio corpo, portando nuovamente il controllo nelle mie mani. Non so da dove provenga, ma almeno una dote me la devo riconoscere: la capacità di gestire al meglio quasi tutte le situazioni in cui mi ritrovo e manipolarle a mio favore. Più comunemente nota come l’arte di cavarsela. Nel corso della mia adolescenza fino ad oggi ci sono stati momenti in cui tutto sembrava perduto e sono riuscita invece a salvarmi in curva: ad esempio l’esame di stato per il diploma, per cui non avevo studiato niente di niente e sono riuscita ugualmente a sostenere un colloquio più o meno degno, se non per Francese – le mie uniche parole in merito sono state “professoressa, non so un cazzo” in confidenza a quella di Inglese. E questo da un lato è perché ho un minimo di carisma, una forte componente ironica ma soprattutto io rappresento l’1% in tutte le sue sfaccettature. Avete presente, ad esempio, quando si parla di un farmaco che al 99% dei casi è funzionante e non causa controindicazioni nei pazienti? Io sono quell’1% che ti incasina. Sono l’1% di probabilità di non studiare per bene per un esame e riuscire comunque a passarlo con 28. Sono la prova vivente dell’uno su un milione. Quindi, che sarà mai gestire questo appuntamento con il dj? E poi diciamocelo, so anche farmi piacere in fondo.
«Ti dispiace passare un attimo dalla palestra? Devo fare una cosa.» mi chiede Jay, interrompendo il flusso di pensieri sulle mie avventure/sventure. Acconsento e stiamo già camminando verso l’ala est del padiglione dove alla fine ci aspetta il maniglione antipanico rosso.
«Da piccola usavo chiamarlo maniglione antipatico…» confesso spontaneamente, provocando le sue risate, mentre spingo quella grande leva rossa. Appena mettiamo piede fuori rimango sbalordita: nei giorni di pioggia come questo solitamente non attraverso questa parte del college, e solo adesso mi sto accorgendo dei giochi d’acqua che si formano lungo tutto il porticato che collega l’edificio alla palestra, e successivamente all’auditorium. Dalla lunga tettoia concava in vetro, da entrambi i lati scivolano tante piccole cascate che si infrangono nel terreno, creando una bellissima passerella d’acqua.
«Oh Dio, Jay! Guarda!» mi volto verso di lui indicando le pareti d’acqua, notando nel suo viso la stessa espressione sorpresa da bambino che mi fa sorridere: non sono l’unica a meravigliarsi ancora delle piccole cose.
«Andiamo a vedere.» dice lui, afferrandomi prima per le spalle e spingendomi in avanti, poi iniziando letteralmente a correre verso la palestra. Si volta a guardarmi. «Tanto non mi prendi!»
Mi lascio scappare una risata spontanea e, roteando gli occhi, colgo la sfida: corro verso di lui più per acchiapparlo ché per raggiungerlo, fortunatamente a quest’ora non ci sono lezioni né in palestra né in teatro. Noncuranti che qualcuno ci possa vedere dalle finestre dell’edificio principale, corriamo come due ragazzini sotto la passerella d’acqua – Jay scivolando ogni tanto su qualche pozzanghera, io che cerco di prenderlo ma sono costretta a fermarmi per le guance doloranti dalle risate.
«Jay basta, ti prego, le guance mi fanno male…» gli dico ridacchiando, quando il dj si ferma poco prima della porta della palestra, dopo che abbiamo fatto il giro completo intorno a questa correndo e starnazzando. Lui si avvicina, con un leggero affanno.
«Non dirmi che ti ho già stancata.» mi provoca, con un pizzicotto sull’avambraccio destro. Io, che prima di questa frase ero leggermente piegata dalle risate con entrambe le mani appoggiate sui fianchi, torno seria e alzo lentamente il viso simulando uno sguardo omicida.
«Ti piacerebbe.» replico ridendo, dopodiché mi fiondo su di lui che prova a sfuggirmi, afferrandolo dal cappuccio della sua felpa nera. «Preso! Ti ho in pugno, Jay Wilson!» e –  pronunciata quest’ultima minaccia –  salto sulle sua schiena a cavalcioni, abbassandogli il cappuccio davanti gli occhi.
«Ah sì?» borbotta, le mani strette ai miei polpacci mentre fa finta di sbandare a causa della mancanza di vista. Io non posso far altro che ridere del suo modo così spontaneo di giocare da bambino e al tempo stesso da adulto che sta facendo divertire una bambina sulla sua schiena. «Se io non vedo, allora non vedrai nemmeno tu.» continua. In un primo momento non afferro al volo questa sua affermazione, ma realizzo tutto in pochi secondi mentre si dirige spedito verso un lato della passerella, dove c’è il flusso continuo d’acqua. Sgrano gli occhi incredula e tento di divincolarmi, ma la sua stretta è così forte che alla fine riesce a trascinarmi con sé sotto la cascata che ci investe entrambi. Lancio un gridolino tra le risate, aggrappata con tutte le mie forze al collo del ragazzo delle fotocopie, dimenticandomi che qualche momento fa nella stessa situazione probabilmente avrei voluto staccarglielo. Jay gira, balla, entra ed esce di continuo dalla tettoia e siamo già colati dalla testa ai piedi da un pezzo, ma continuiamo. Io faccio finta di volare, allargando le braccia, mentre lui canta: «Wouldn’t it be nice if we could wake up in the morning when the day is new?  And after having spent…».
Il maniglione antipanico si spalanca, facendoci abbandonare la piccola gioiosa e fuori luogo realtà costruita su due piedi dal niente da due ragazzi in un giorno di pioggia. Jay mi fa scendere dalle sue palle, io sposto una ciocca di capelli bagnati dal viso. Dalla porta spunta il signor Shoe che rimane a fissarci per qualche secondo. Io e Jay ci scambiamo uno sguardo, ridendo sotto i baffi e… riprendiamo a correre come prima, sotto lo sguardo sconvolto del tecnico delle segreterie che non proferisce parola. Ci infiliamo di fretta dentro la palestra entrando dalla porta degli spogliatoi, come se fossimo dei ricercati costretti a scappare, bagnati dalla testa ai piedi. Quando chiudiamo la porta dietro di noi e ci lasciamo scivolare ai lati delle pareti opposti, restiamo per un attimo a guardarci con la stessa complicità con cui, qualche minuto fa, ballavamo sotto la pioggia. In questo momento, essere qui mi sembra il passatempo più divertente degli ultimi mesi. Con la coda dell’occhio vedo, attraverso la porta vetrata degli spogliatoi, una persona affacciata da una finestra dell’edificio che scruta nella nostra direzione. Alzo leggermente la testa, sembrerebbe…
«Chiara!» quasi urlo, rendendo un pensiero parola senza nemmeno accorgermene. Lei si accorge invece di essere stata scoperta e scompare sotto la finestra, probabilmente sbattendo da qualche parte perché è così che Chiara funziona e ci potrei mettere la mano sul fuoco, pur non avendola vista. Jay guarda il soffitto con aria colpevole, cercando di trattenere un sorriso, mentre dalla finestra del college si leva piano un pollice in su con lo smalto rosa. Tento di indagare lo sguardo del dj che mi sfugge, avvicinandomi e spostandogli il viso. Lui, senza dire nulla, si limita a farmi una linguaccia incrociando le braccia. Roteo gli occhi mentre mi alzo dal pavimento bagnato a causa nostra.
Lui ancora seduto per terra mi guarda dal basso. «Dovremmo andare.» gli dico, strizzando il mio maglioncino mentre cerco di ricompormi e assumere l’atteggiamento confidenziale ma distaccato che avevo quando io e Jay ci siamo incontrati prima di andare all’ufficio della Greater. «Domani è il grande giorno, devo ripassare.» mi giustifico quasi istintivamente, e gli porgo una mano per aiutarlo ad alzarsi. In un primo momento lui sembra quasi deluso, ma qualcosa nei suoi occhi cambia nel giro di pochi istanti. Oh no… la lampadina.
«Aspetta, anche io devo ripassare! Possiamo farlo insieme…» inizia, mentre io già cammino fuori dal corridoio degli spogliatoi diretta verso la palestra. Diciamo che per i miei gusti ho socializzato abbastanza per un solo giorno. Ho bisogno di riposo. «Possiamo andare alla Nona. Ci sto io con un paio di ragazzi, ma non daranno fastidio.» continua seguendomi, mentre mi prende a braccetto e usciamo dalla porta principale della palestra. Ma quant’è vecchia la scusa di andare a studiare a casa di lui? Sento di nuovo il rifiuto farsi strada tra le mie membrane cerebrali, provocandomi i brividi e la pelle d’oca. Sam, resta concentrata, pensa alla scommessa. È tutto nelle tue mani, sei tu a decidere le sorti di tutto questo.

Camminando per il viale del campus che porta alle residenze ho già assentito alla proposta di Jay, cerco di reprimere la solita nota di pentimento, ci accorgiamo che ha da poco smesso di piovere. I vestiti inzuppati si attaccano alla mia pelle facendo trapassare il leggero venticello che penetra nelle mie ossa come tante piccole lame quando arriviamo davanti la Nona. Jay, senza chiavi, suona alla porta e aspettiamo che qualcuno dei suoi coinquilini ci venga ad aprire – ma quando succede quasi giro i tacchi e vado via. Dall’interno della casa si espande musica techno che fa traballare le mensole e gli oggetti sopra di esse, bell’atmosfera per studiare! Prendo un respiro profondo, mi faccio strada dentro questo appartamento infernale e dall’entrata del soggiorno sbuca fuori Daniel Mason, il simpaticissimo quanto intelligente coinquilino di Jay – ovviamente sono ironica.
«C’è una ragazza! Wilson ha portato a casa una ragazza!» esclama entusiasta questo mentre batte le mani, facendo affacciare dall’ampio soggiorno anche Nick e l’altro elemento di cui non ricordo nemmeno il nome.
«Non ne hai mai vista una, vero, Mason?» replico, spostandolo dalla mia traiettoria e provocando le risate degli inquilini della Nona. Anche io rido sotto i baffi, dando le spalle a Jay. Quest’ultimo prende il controllo della situazione: approfittando del momento di distrazione entra in salotto e spegne la radio, spiegando ai soggetti che dobbiamo studiare e di non far scappare l’unica ragazza che abbia accettato ad entrare dentro quella casa. Su questo concordo. Dopodiché torna da me e, con un occhiolino, mi chiede di seguirlo su per le scale. Mentre salgo i gradini sento tornare quel nervosismo che avvertivo prima di scendere oggi pomeriggio per incontralo, brividi e crampi allo stomaco.
Entriamo nella seconda stanza sulla sinistra, tutta al buio, e per come metto piede dentro inciampo su qualcosa abbandonato per terra, aggrappandomi alla maniglia della porta ancora aperta. Cercando di non cadere urto un mobile abbastanza instabile dal quale, sopra una pila di libri, cade una tazza che afferro con un’agilità mai vista negli ultimi vent’anni. Il cuore a mille.
«Che riflessi!» si complimenta il ragazzo delle fotocopie, dopo aver finalmente acceso la luce.
«Non dirmi che è una prova che sei solito fare alle ragazze che entrano in questa stanza.» gli dico scherzando, «non credo che tutte sappiano gestire questa dose di imbarazzo.». In verità, con la luce accesa, la sua stanza non è disordinata e non è nemmeno male – direi ben arredata, se pensiamo alle solite camere maschili che ancora risentono del mobilio comprato dai genitori quando avevano dieci anni.
«Tu la sai gestire?» domanda lui una volta seduto sul suo letto, mentre spinge verso di me una sedia girevole da ufficio in pelle nera. Alzo gli occhi al cielo sorridendo, perché il ragazzo non mi conosce e non può sapere con chi sta parlando.
«Non immagini cosa sono in grado di gestire.» rispondo. Occhi negli occhi, mi rendo conto della malizia nella mia frase solo dopo averla detta, e nel frattempo Jay stava già ridendo. «Ora passiamo alle cose serie. Sono qui per studiare.»
Lui non risponde e si alza dal letto per andare verso l’armadio. Dalle ante aperte afferra due felpe, lanciandomene una. «Cambiati, sei fradicia.» ed esce dalla stanza chiudendosi la porta dietro. Tocco la mia felpa rosa: è davvero fradicia. Mi guardo intorno, insicura se farlo o meno… ora o mai più.
 
Contro ogni pronostico io e Jay riusciamo veramente a studiare. A causa della stanchezza sbagliamo o dimentichiamo qualcosa, ma a tratti mentre il ragazzo parla e mi ripete il suo pezzo di discorso non posso fare a meno di osservarlo bene: i capelli neri rasati, gli occhi color cioccolato, la mano tatuata che ogni tanto distrattamente sfiora le sue stesse labbra nei momenti di indecisione. Scrollo la testa allontanando questi pensieri: resta concentrata, Sam.
«Jay, ci dobbiamo fermare.» lo interrompo mentre parla, lanciando le fotocopie sulla scrivania. «Non connetto più.»
«Ci sto.» conviene il ragazzo, imitando il mio gesto e alzandosi di scatto dal suo letto dove gradualmente si era adagiato sempre di più fino quasi a distendersi. «Guardiamo un film?» propone poi. Annuisco sorridendo mentre sistemo le mie cose nella borsa e insieme scendiamo le scale verso il soggiorno dove fino a un’ora fa si stava tenendo un festino techno. Ora, come magicamente, i tre coinquilini di Jay sono spariti lasciando nella stanza una pace inusuale.
Senza aspettare il permesso, mi lancio sul vecchio divano piazzato al centro della stanza – che non ricordo di aver visto la sera della festa – e così fa anche Jay dopo aver preso il telecomando dalla scrivania che invece ricordo bene, perché quella sera funzionava da consolle. Iniziamo a scorrere l’infinità di proposte di Netflix che spaziano da film strappalacrime a thriller psicologici, da serie tv adolescenziali a documentari di ogni tipo. Nell’indecisione scegliamo un film mai visto da entrambi.
«Jay, spegni la luce.» gli chiedo, mentre tolgo le scarpe e incrocio le gambe sul divano. Non c’è bisogno che mi dicano di fare come se fossi a casa mia, questo è il minimo considerando lo stress psicologico di questo pomeriggio. Mi stringo nella felpa nera di una taglia troppo grande che recita un’unica piccola scritta bianca ad altezza clavicola “Je m’en fous”.
«Stai iniziando a rompere le palle, Sam!» risponde con un colpo di cuscino, scappando poi velocemente verso l’interruttore. Guarda tu ‘sto maleducato! Parlare così alla prima – e ultima – donna che accetta di entrare in questa topaia!
«Che ingrato! Se non ci fossi stata io oggi tu nemmeno avresti studiato!» replico, ricambiando il suo colpo di cuscino una volta che torna al divano. Jay si siede accanto a me, poco più vicino di prima, e passa il braccio destro intorno alle mie spalle nonostante le mie resistenze e mi tira verso di sé. Io mi arrendo, appoggiandomi sul suo petto e allungando le gambe nella parte opposta del divano. Per quanto possa essere ambigua come situazione, essendo un primo appuntamento, non sento alcun disagio nel contatto fisico con Jay adesso. Un po’ come quando, qualche ora fa, correvamo sotto la pioggia.

Quando il film finisce, sia io che Jay abbiamo perso la cognizione del tempo – ma soprattutto abbiamo seguito con attenzione si e no per dieci minuti. La restante parte del tempo l’abbiamo passata a ridere e sfottere i personaggi, lamentarci su quanto fosse scontata la trama e tremendi gli attori. Mi alzo dal divano controvoglia, divincolandomi dal suo braccio che ormai non avvertivo più.
«È stata una bella giornata, Jay. Ora devo andare.» dico stiracchiandomi dopo aver guardato l’orologio: sono le otto e a momenti alla Quinta si cena. Per tutta la durata di questo appuntamento ho vissuto come staccata dalla realtà, o meglio, in una realtà parallela in cui non esisteva nessuno se non il ragazzo delle fotocopie accanto a me, mentre adesso sono tornata nel mondo vero. Quest’ultimo si offre di accompagnarmi fino a casa e accetto, qualche minuto in più in sua compagnia non mi ucciderà se sono stata bene tutto il giorno.
«Allora…» inizia, una volta arrivati davanti la Quinta. Quasi mi dispiace separarci. «Ci vediamo domani mattina.» sussurra, giocando con il lacci della felpa che mi ha prestato – incosciente che non la rivedrà mai più.
Quando entro dentro casa, e chiudo la porta alle mie spalle, resto ferma per qualche secondo appoggiata ad essa mentre nella mia testa si insinua un pensiero fastidioso per il mio orgoglio. Esco il cellulare dalla borsa, mando un messaggio a Chiara: “i crampi allo stomaco sono diventati farfalle”.

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Capitolo 7
*** LILLA - Vibrante ***


La sveglia suona alle 7.30 strappandomi con violenza dal mondo dei sogni, dal quale non vorrei mai uscire. Con un solo occhio aperto e l’altra metà della faccia schiacciata sul cuscino, raggiungo a tentoni con la mano il telefono posato sul comodino e spengo lo strillo compulsivo – l’unico in grado di destarmi. Nonostante sia sabato e io solitamente a quest’ora mi vado a coricare, riesco a trovare una piccola forza dentro di me per alzarmi e scendere in cucina a fare colazione: oggi finalmente inizia il progetto. Al piano terra trovo già Harry e Cooper intenti a preparare la colazione, sono colpita dal fatto che siano riusciti ad alzarsi senza fare storie… e anche prima di me.
«Di chi è questa felpa?» mi domanda mio fratello, sedendosi accanto a me. Mi strofino gli occhi, mentre lancio uno sguardo alla felpa che avevo completamente dimenticato di stare indossando. Ho dormito con la sua felpa.
«Di Jay.» rispondo, strofino gli occhi.
«Jay cosa?» chiede Lucas, entrando in cucina già allegro e attivo al mattino, saltellando verso il frigorifero. Io voglio sapere come ci riesce, non è umano.
«A quanto pare c’è un flirt tra mia sorella e il nuovo arrivato Jay…» annuncia trattenendo le risate Harry, forse ha deciso di urtarmi stamattina. No problem, ognuno pagherà le proprie conseguenze.
«Non so nemmeno quanti anni ha.» ammetto, mentre aspetto che si raffreddi il caffè. Sono ancora troppo addormentata per reagire, non ho le forze. «E poi ti ricordo che è una scommessa…»
«Una scommessa?» interviene nuovamente Lucas dalla sua postazione a capotavola, sgranando gli occhi e celando un sorrisino malvagio. Ognuno di noi ha dei posti assegnati sia a tavola ché sul divano e vanno religiosamente rispettati. «Non credo che a Jay farebbe piacere saperlo…» continua, alzandosi dalla sedia e facendo per uscire dalla stanza.
«Lucas Taylor!» urlo, quasi mi va il caffè di traverso, poi lo seguo correndo verso le scale. «Lucas, ti scongiuro, non dirgli niente! Non oseresti… cosa vuoi per stare zitto?»
Lui si gira a guardarmi, qualche scalino più in alto di me, scombinandosi i capelli. «Cosa voglio?» ripete, sorridendo con malizia, «Non lo so, ci devo pensare.». detto questo, mi lascia in asso sulle scale entrando nella sua stanza – proprio di fronte la mia. Resto qualche secondo immobile con la bocca spalancata e le braccia allargate, pensando a cosa potrebbe succedere se Jay venisse a sapere della scommessa. Salgo le scale per andare nella mia stanza, è il momento di prepararsi per questa giornata che inizia già con una meravigliosa nota. Mando un messaggio a Chiara:
“Lucas sa della scommessa e vuole dire tutto a Jay. Non so cosa fare.”
“Meglio per me. Sbrigati che io sono quasi pronta.”
“Stronza.”
Scelgo velocemente dei vestiti dall’armadio e corro in bagno prima che qualcuno lo possa occupare, così mi sveglio definitivamente con l’acqua ghiacciata in faccia. Sarà una lunga giornata.
 
Alle 9 in punto io e il mio gruppo di Giornalismo siamo già ben piazzati nel nostro stand ai piedi del Marble Arch alle prese con i primi gruppi di turisti del giorno. La maggior parte di noi si dedica alla rassegna stampa nella parte interna del gazebo bianco adibita a redazione, supervisionata da me medesima, mentre qualcun altro si dedica all’info point. Gli altri stand, in particolare quello di Arte e Design, sono quelli che si dedicano maggiormente alle spiegazioni. In questo intravedo da lontano Chiara con Amie e… Jay. Un primo tonfo al cuore. In effetti non gli ho nemmeno chiesto che corso frequenta e non nascondo di sentirmi leggermente in colpa. Quando si accorge del mio sguardo scrutatore mi sorride da lontano, per poi lasciare il suo gruppo e venire verso di me. È fatta Sam, complimenti, meglio del previsto.
«Buongiorno.» mi saluta, abbracciandomi. A primo impatto resto congelata, non essendo abituata al contatto fisico e respingendolo ogni volta che ne ho la possibilità, ma cerco di sciogliermi ricambiando l’abbraccio. «Quando hai la pausa?»
«Io e il mio gruppo abbiamo mezz’ora di pausa alle 11. Tu?» rispondo, mettendo una mano sopra gli occhi per coprirmi dai raggi del sole. E pensare che un tempo avevo un bel paio di occhiali da sopra, prontamente rotti da Chiara che ci si è seduta di sopra.
«Anche io. Non sapevo che avessi un gruppo tutto tuo…» commenta, dandomi un pugnetto sulla spalla. Modestamente, caro, siamo i migliori.
«E io non so nemmeno che corso frequenti.» replico sorridendo, «abbiamo tanto da dirci, caro ragazzo delle fotocopie.». Alle sue spalle, vedo Lucas nello stand di Fotografia spiarci con le braccia incrociate e lo sguardo malizioso. Secondo tonfo al cuore. Questo ragazzo ha deciso di rovinarmi, e farmi vivere nell’ansia – non vincerà. «Scusami, devo tornare dal gruppo. Ci vediamo dopo, ok?» lo liquido sempre con tutta la gentilezza possibile. Spero di riuscirci per non sembrare una pazza almeno, visto che ieri sono stata tutt’altro che fredda con lui. Jay mi asseconda, stampandomi un bacio sulla fronte prima di fare retromarcia e tornare dal suo gruppo.
Roteo gli occhi mentre mi avvicino verso lo stand di Giornalismo, quando una ragazza di un altro gruppo che conosco di vista mi ferma.
«Stai con Jay Wilson?» chiede con un sorrisetto malizioso. Avremo parlato si e no due volte in totale. La squadro per bene prima di prendere fiato e rispondere un «fatti i cazzi tuoi» proveniente dal cuore, lasciandola incredula e continuando verso il gazebo bianco.
Mi lancio sulla prima sedia libera nel fondo dello stand, ben nascosta al pubblico, appoggiando i piedi su uno dei tavoli pieni di cartelle. Questa storia della scommessa mi sta stressando più del previsto, per non parlare del ricatto di Lucas, e delle sconosciute che mi domandano del dj…
Nel mio angolino nascosto mi viene a trovare Chiara, che inizia a ridere appena mi vede accasciata senza forze.
«Ridi poco, ho già vinto la scommessa cara!» le dico, afferrando dalla scrivania un cappellino abbandonato da qualcuno e tirandoglielo.
«In che senso? Si è dichiarato?» domanda, appoggiandosi accanto i miei piedi sul tavolo.
«Non ancora, ma si vede che è cotto!» rispondo, facendo finta di vantarmi. In effetti, anche se è ancora presto, il piano procede a gonfie vele e il ragazzo sembra abbastanza preso.
«Mi dispiace baba, ma fin quando non verrà a dirti “mi sono innamorato di te”, la scommessa non l’avrai vinta! E la vedo dura!» sentenzia alzandosi dalla sedia e lanciandomi il cappellino di prima.
Io rimango stizzita, aggrottando la fronte. «Ma in una settimana non potrà mai dirmi che si è innamorato di me, ragiona!» protesto inizialmente, scendendo le gambe dal tavolo e poggiando i piedi per terra mentre lei si allontana verso l’uscita dello stand. Poi la lampadina. «L’hai fatto apposta! Che stronza!» l’accuso, indignata. Chiara, in risposta, scoppia a ridere con la sua risata acuta e alza i tacchi. Non temere cara, se non vincerò la scommessa avrò comunque la mia vendetta.
 
Guardo freneticamente l’orologio ogni due minuti. Le 10 e 59, ci siamo quasi.
«Un minuto e andiamo in pausa, ragazzi!» annuncio ad alta voce al mio super efficiente staff, che risponde con un sospiro di sollievo unanime. Ma una volta scoccate le 11 in punto, i furboni scappano chi da una parte chi dall’altra, lasciandomi sola nel gazebo. Ci stanno prendendo gusto a farmi i dispetti! Dovrei aspettare che torni qualcuno per andare via.
Da lontano vedo Jay avvicinarsi sorridendo, mentre dietro di lui si fa strada Lucas con aria minacciosa. Senza pensarci due volte inizio a camminare a grandi passi verso di loro, e non appena arrivo vicina ad entrambi do una spinta al ricattatore seriale, facendogli perdere l’equilibrio e cadendo per terra. Prendo Jay a braccetto, lasciando Lucas sull’asfalto, mentre ci allontaniamo.
«Facciamo un giro?» propongo al ragazzo, ancora divertito per la caduta del mio coinquilino.
Mi allontano con Jay dal monumento, fregandomene sia di Lucas ché dello stand, tanto ci sono abbastanza professori a controllare il perimetro. Merito una pausa!
«Hai fame?» mi chiede quando superiamo finalmente la folla davanti il Marble Arch.
«In effetti sì.» rispondo, fortunatamente non sono mai stata una di quelle ragazze che si vergogna a mangiare davanti i ragazzi. Tengo troppo ad ingozzarmi.
«Perfetto, ti porto in un posto.» replica lui, prendendomi per mano e trascinandomi letteralmente dalla parte opposta del marciapiede, dove sono parcheggiati tanti motorini a schiera. Non mi dire…
Jay si avvicina ad uno di questi, uno scooter completamente nero al quale toglie la catena, apre la sella ed estrae due caschi, dopodiché lo mette in moto.
«Avanti, sali.» mi incoraggia, passandomi uno dei caschi. Lancio uno sguardo d’intesa, poi salto a bordo del bolide mentre allaccio il casco cromato.
Con uno scatto Jay dà gas e iniziamo a sfrecciare per le vie di Londra, insinuandoci nel traffico mattutino, facendo lo slalom tra i veicoli in coda. Con le braccia incrociate intorno al suo collo mi godo il viaggio, felice di sentire dopo tanto tempo il vento che si infrange sul viso.
In pratica, è inutile continuare ad uscire con lui, tanto la scommessa l’ho già persa. Potrei anche lasciarlo in tredici all’istante, inventarmi una scusa ed evitare l’ansia di essere scoperta o il darmi da fare per passare del tempo insieme. Però il problema, fondamentalmente, è che non voglio. Cioè, mi piace stare con lui. Se dovesse venire a conoscenza della scommessa non so come potrebbe reagire, ma in verità non so nemmeno come reagirei io.
Dopo un poco arriviamo davanti un piccolo café in cui non sono mai stata. Quando entriamo veniamo accolti da un invitante odore di caffè, cornetti e ciambelle. Potrei restarci per sempre, in effetti.
Ordiniamo due cornetti e due espressi e ci sediamo in uno dei tavoli vicino le finestre, lontano dalla porta.
«Com’è andata con i turisti?» mi chiede, girando il cucchiaino nella sua tazzina di caffè amaro.
«Benissimo, ho fatto parlare solo il mio gruppo, io mi sono nascosta.» ammetto addentando il croissant, seguita dalle sue risate.
«Anche io facevo ripetere gli altri ragazzi, me ne sono lavato le mani.» replica.
«Almeno tu hai solo il turno di oggi. Io, Chiara e Amie ci saremo anche domani. Non sai che noia, mi viene da piangere solo a pensarci.» mi lamento, per l’ennesima volta. Effettivamente, posso capire quanto certe volte possa essere pesante la mia compagnia, ma non temete ragazzi perché non vi costringo. Siete voi che decidete di restare, e quindi subire i miei lamenti e i miei guai.
«Domani verrò a trovarti, non ti preoccupare. E magari riuscirò anche a farti scappare prima.» si offre, io annuisco sorridendo. Il tavolino al quale siamo seduti affaccia su una finestra che dà su un vicoletto pieno di piante e vasi di fiori colorati.
Mi piace stare in compagnia di Jay. Devo vincere questa scommessa a tutti i costi, non mi importa di nient’altro.

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Capitolo 8
*** MAGENTA - Determinato ***


La domenica mattina, nonostante io non sia credente, per me è sacra. Il solo fatto di svegliarmi senza puntare la sveglia è già un’esperienza di puro piacere, se poi penso al fatto di non aver alcuna consegna per l’indomani perché giustificata dal progetto… godo. Quando però prendo definitivamente conoscenza, ancora sdraiata nel mio letto, mi ricordo della discussione di ieri sera con quell’idiota di Lucas. Siamo stati almeno mezz’ora a litigare, più che altro io lo pregavo di non dire nulla a Jay della scommessa e minacciavo allo stesso tempo di rovinargli la vita. Decido di alzarmi prima che mi venga mal di testa e mi ritrovo in uno stranissimo silenzio. Mentre scendo le scale mi guardo a destra e sinistra, immersa in questa pace sospettosa e anche un po’ inquietante. Mai, da quando vivo con questi animali, una domenica mattina è stata così tranquilla. La casa è stranamente vuota.
Decido di chiamare Harry, mentre mi siedo pesantemente sulla mia sedia.
«Pronto?» risponde lui, sento un brusio di sottofondo.
«Dove sei? Sono sola» lo informo infastidita. Mi lamento sempre del fatto che lui e i ragazzi facciano casino ma non piace stare sola, specialmente in questa casa senza di loro non ha senso.
«Io e i ragazzi ci siamo andati a fare una passeggiata. Pensavo non volessi essere svegliata…»
«Va bene» rispondo prima di attaccare la chiamata, senza nemmeno lasciarlo replicare. Sanno benissimo quanto mi piaccia sfruttare le belle giornate come questa, e soprattutto ieri sera – nonostante fosse sabato sera – siamo rimasti tutti a casa, quindi avrei potuto svegliarmi senza problemi. Lasciamo stare. Potrei chiamare Amie e Chiara, oppure vedere cosa fa Jay…
Come prima cosa devo fare colazione, però. Con le poche forze che mi accompagnano, mi avvicino verso il frigo e tiro fuori la confezione di latte, mentre dallo stipetto in alto prendo la scatola di cereali. Non sarà la stessa colazione cucinata da Cooper, però andrà benissimo. Quando mi accomodo nuovamente, mando un messaggio a Chiara.
 
S:«Che programmi hai per stamattina?»
 
Dopo qualche minuto il telefono appoggiato sul tavolo vibra.
 
C:«Al momento sono con tuo fratello e gli altri. Pensavo che venissi anche tu…»
 
Roteo gli occhi, ancora più nervosa di prima, e lancio il telefono sul tavolo. Ma vibra nuovamente.
 
C:«Tra mezz’ora c’è una partita al campo di football, raggiungici. Giocano anche le nostre bestie.»
 
Inizialmente la proposta non mi convince molto. Ma che altro ho da fare? Certo, in verità ci sarebbe un’altra opzione…
 
S:«Buongiorno, raggio di sole! Che stai per fare?»
 
J:«Intendi che stiamo per fare. Io andrò a giocare una partita, e tu sarai la mia cheerleader.»
 
Sorrido istintivamente, mettendo da parte la tazza di latte dato che all’improvviso mi si è chiuso l’appetito. Non rispondo al messaggio di Jay, piuttosto corro verso la mia stanza per prepararmi, lasciando un casino nella cucina.
Qua arriva la parte bella: che mi metto? Apro l’armadio freneticamente, iniziando a scavare tra i vestiti. Ho capito di avere molti vestiti, ma neanche un bell’outfit. La sfida è quella di sembrare la ragazza del quarterback senza sembrare una stupida. Che poi, in verità non so nemmeno quale posizione occupa Jay quando gioca, ma non fa niente. Mentre continuo a scavare, sento il telefono vibrare sul letto, dove lo avevo lanciato qualche minuto prima.
 
L:«24.»
 
È un messaggio di Lucas, ma stento a capirne il significato. Sembra più una minaccia.
 
S:«Che vuoi dire?»
 
L:«24 anni. Ai ai…»
 
Continuo a fissare il messaggio senza capire che cosa intende Lucas, penso che anche lui stia iniziando ad impazzire. Non che prima fosse normale, però…
Oh no, ci risiamo. La lampadina. Ieri mattina, prima di scendere per andare al Marble Arch, ho detto di non sapere nemmeno quanti anni avesse Jay. Quello stronzo di Lucas mi sta torturando psicologicamente, ma non l’avrà vinta.
Afferro dall’armadio un body bianco semplice a bretelle e una gonnellina leopardata con i volant, giusto per rimanere sobria, infine le converse bianche che ormai si stanno distruggendo e vado in bagno a cambiarmi. Lascio i lunghi capelli castani mossi liberi dall’elastico in cui erano costretti e, dopo aver improvvisato un make up semplice, mi decido a scendere.
 
Arrivo al campo di football del college con la canzone “Wouldn’t it be nice” dei The Beach Boys che spacca le cuffiette, canticchiando allegramente mentre da lontano vedo già le mie amiche sedute sugli spalti. Dei ragazzi nessuna traccia, probabilmente i nostri campioni si stanno preparando e come al solito impiegano più tempo di noi.
Mentre mi faccio strada tra le persone sento qualcuno borbottare “ecco la ragazza di Wilson” e mi blocco istintivamente. Respira, Sam, non è il momento di iniziare una rissa. Procedo verso Chiara e Amie intente a litigare per l’ultimo popcorn della confezione, e mi chiedo come facciano a contendersi sempre il cibo. Dalle nostre postazioni in prima fila la visuale è perfetta: siamo così vicine che è molto possibile prendere una pallonata, ma siamo anche la cosa più simile a delle cheerleader di tutti gli spalti. Da sotto i miei occhiali da sole neri a gatta scruto le persone intorno a me con un sorriso spavaldo, non so chi sia stato prima a parlare ma può dirlo forte, presto sarò la ragazza di Wilson e avrò vinto la scommessa.
Tra le chiacchierate con Martin del mio gruppo di giornalismo e le punzecchiate continue delle ragazze sul cibo, dalla palestra al coperto vediamo spuntare le due squadre organizzate all’ultimo minuto per questa amichevole di una domenica mattina primaverile. Il pubblico femminile alle mie spalle inizia ad emettere gridolini e a fare commenti alla vista di tutti questi ragazzi coperti dai caschi e dalle protezioni, che li fanno sembrare molto più duri di quanto non siano in realtà. Mi scambio con le ragazze uno sguardo divertito e cerco di individuare nella squadra rossa, la nostra, mio fratello e i ragazzi. Esco dalla borsetta nera il telefono per scattare una foto e mi accorgo di avere un messaggio di qualche minuto fa non letto.
 
J:«Voglio vederti fare il tifo per me. Sono sicuro che mi riconoscerai.»
 
I ragazzi in campo prendono posizione e resto stupita dal fatto che abbiano messo quella femminuccia di Taylor in difensiva, sicuramente lo avrà deciso autonomamente. Voglio proprio vedere il primo colpo che riceve. Insieme a lui c’è Cooper, cosa che ha un senso almeno dato il suo fisico; Nick in posizione di corridore, plausibile visto il tipo iperattivo; Jay come ricevitore; infine, udite udite, Harry è il quarterback. Questo sarà un bello spettacolo.
Mentre io e le ragazze siamo in preda alle risate per i ruoli discutibili dei ragazzi, l’arbitro suona il fischietto facendoci saltare in aria e dando inizio alla partita. Subito vediamo Lucas accasciarsi per terra fingendo un qualche fallo, mentre Nick inizia a scorrazzare per tutta la lunghezza del campo. Harry, dal canto suo, si è fatto fregare la palla un attimo dopo averla presa.
Tra le urla generali dagli spalti, un «Forza Nick!» gridato da Chiara mi lascia stupita allo stesso modo di Amie, complimentandoci per il coraggio improvviso.
Ed ecco che la palla passa a Jay, schiva gli avversari grazie alla protezione di Cooper, un momento… cerco di mettere a fuoco il suo caschetto dove c’è scritto qualcosa con un pennarello nero.
«Sam!» dice Amie, indicando lo stesso particolare di cui mi sono accorta anche io. «C’è scritto SAM!!» urla la mia amica, alla quale sia io che Chiara rispondiamo urlando allo stesso modo, nello stesso momento in cui Jay segna il primo punto a favore della nostra squadra. Saltiamo in piedi gridando e battendo le mani, non proprio con lo stesso stile delle cheerleader, ma credo che apprezzeranno lo sforzo. La platea, semideserta di per sé, si divide in due fazioni: quella che festeggia insieme a noi e quella che resta composta, tifando per l’altra squadra.
Mentre i ragazzi si abbracciano e si spingono, com’è solito per loro dimostrare affetto, Jay in mezzo alla folla indica verso di noi, che un attimo prima stavamo saltando e festeggiando, mentre adesso non capiamo cosa succede.
«Sam, cazzo, svegliati! Indica te!» dice Chiara, dandomi una gomitata sul fianco. Anche questo è il nostro modo di dimostrare affetto. Ora io non so come appariamo da lontano, ma sicuramente in questo momento Jay sta vedendo tre ragazze felici e scoordinate che saltellano mandandogli baci e facendo cuori con le mani.
 
Un’ora dopo il primo punto segnato dal ragazzo delle fotocopie, la nostra squadra è stata miseramente battuta dagli altri che erano evidentemente più bravi. Insieme alle mie amiche, vado verso gli spogliatoi della palestra al coperto per consolare i nostri campioni, e li troviamo all’esterno ancora con indosso le uniformi. Mi avvicino a Jay, che quando mi vede posa il caschetto per terra e mi viene in contro, abbracciandomi.
«Sei stato bravo, campione» lo consolo, con un pugnetto sulla spalla, «la prossima volta ci penserete due volte a mettere Harry come quarterback»
Harry mi lancia uno sguardo assassino, mentre il resto della squadra se la ride.
«Per non parlare di Taylor alla difesa…» continuo, poi strizzo l’occhio a Jay.
«Vado a cambiarmi. Ci vediamo più tardi» mi saluta lui, per sparire dentro gli spogliatoi.
Dei ragazzi, resta solo Lucas fuori insieme a me, Chiara e Amie, e si avvicina lentamente verso di me.
«Alla difesa farò schifo, forse hai ragione…» inizia, con il suo solito sorriso malizioso. Poi si volta e cammina verso gli spogliatoi. «Ma non mi hai mai visto all’attacco». Con un occhiolino entra dentro la palestra coperta, lasciandoci fuori nel panico.
Senza pensarci troppo, mi fiondo dentro seguita dalle ragazze, con tutti i ragazzi mezzi nudi che protestano.
«Da quando non vi piace più avere delle ragazze davanti mentre siete mezzi nudi?» chiede Chiara ironicamente, non posso che darle ragione. Ultimamente si sono rammolliti. Dalle docce sento la voce di Lucas chiamare Jay.
«Sam, no…» dice Amie, cercando di farmi ragionare, ma dopo uno sguardo di intesa con Chiara corriamo insieme verso le voci.
«Taylor!» lo sgrido, mentre li vedo parlare avvolti solo da un asciugamano in vita. Credo che questa rientri nelle più belle figure di merda che abbia mai fatto, ma ne vale sicuramente la pena.
«Cosa posso fare per te?» domanda lo stronzo, incrociando le braccia. La faccia di Jay è a metà tra il sorpreso e l’interessato di questa situazione, cerco di evitare il suo sguardo. Momento di silenzio: e ora come mi giustifico?
«Nulla» rispondo, sorridendogli, improvvisamente colta da un’idea geniale. «Solo ti volevo avvertire che il prato è pieno di formiche».
Così concludendo, lascio la stanza con i due ragazzi visibilmente confusi, mentre le mie amiche già ridono. Senza farci vedere dagli altri, rubiamo i pantaloni e le scarpe di Lucas, calze comprese, e lasciamo gli spogliatoi.
 
Sotto il gazebo bianco dello stand di giornalismo si è creata una cappa insostenibile, esco un attimo a prendere aria fuori. Una giornata afosa come questa non si vedeva da diversi mesi, e per molti turisti e cittadini stessi è un’ottima occasione per fare un giro in città e visitare i monumenti. In più è domenica, quindi oggi abbiamo il pieno. Osservo la moltitudine di persone girare intorno l’arco, scattare fotografie, i miei colleghi accalappiare recensioni, Chiara intenta a spiegare il monumento a un gruppo di turisti cinesi, quando da dietro un paio di mani si posano sui miei occhi, impedendomi di vedere.
 
«Non ti rendi conto di essere privilegiato, caro Wilson» dico istintivamente sorridendo, lasciando il ragazzo stupefatto.
«Come hai capito subito che ero io?» mi chiede, alzando gli occhiali da sole scuri sulla testa.
«Semplice» rispondo, «nessuno sano di mente che mi conosca, anche solo di vista, si permetterebbe mai di toccarmi senza rischiare la vita. Per questo sei privilegiato».
Il ragazzo scote la testa ridendo, alle sue spalle intravedo Chiara guardarci divertita.
«Cosa avrò mai fatto per meritare questo privilegio?»
Faccio finta di pensarci su. Beh, forse perché ho fatto una scommessa su di te, e sono praticamente obbligata a uscire con te e comportarmi da ragazza con una cotta…
«Chissà. Che vuoi fare?» chiedo, rubandogli gli occhiali dalla testa e indossandoli.
«Io ho intenzione di ronzarti intorno mentre tu lavori» inizia, poi tentenna, «tu hai intenzione di lavorare, giusto Sam?»
Quest’ultima frase mi fa sorridere. Si vede che il ragazzo inizia a capire un po’ di più chi si trova davanti. «Hai dimenticato che sono il capo, qui. Andiamo a farci un giro» replico, dopodiché mi guardo intorno per vedere se siamo sotto gli occhi di qualche insegnante. Via libera! Afferro Jay per una mano e corriamo via dallo stand di Giornalismo, per andare dal lato opposto del Marble Arch. Ci avviciniamo a una bancarella che vende macchine fotografiche usa e getta. Fortunatamente, ogni tanto mi si accende la lampadina. Ne compro una e costringo Jay a fare uno shooting da veri turisti vicino l’arco, attenti a non farci scoprire.
Gli scatto una foto di nascosto mentre è distratto, e penso a quanto sia facile stare in compagnia di Jay nonostante sia una costrizione. Che poi, parliamoci chiaro, se fosse stata davvero una costrizione non lo avrei mai fatto, perché odio tutto ciò che è imposto. Guardo il ragazzo delle fotocopie fare lo stupido con un cappellino preso in prestito a un turista per fare una foto, e mi sembra di conoscerlo già da una vita, pur non sapendo ancora niente di lui.
Si avvicina verso di me, il solito sorriso smagliante, e prende la macchina fotografica per scattare una foto insieme.
«Chi sei in verità tu?» gli chiedo, guardandolo profondamente negli occhi. Lui sorride, e sospira.
 
 
«Allora, com’è andata?»
«Sinceramente? È così brava a recitare che per un attimo ho pensato che facesse sul serio. Ma adesso non me ne frega più niente»
«Finalmente hai capito! E ora che intendi fare?»
«Voglio continuare con questa messa in scena, fino a giovedì, quando perderà la scommessa. Voglio che si innamori prima lei e che ci rimanga fregata al posto mio.
»
«Stai attento a non farti rimbalzare la palla contro.»
«Non lo farò. Sembra perfetta, ma non lo è per niente.»


 
** Popolo di EFP, lasciatemi un feedback per favore! a presto **

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Capitolo 9
*** AZZURRO - Enigmatico ***


Si ricomincia. Dopo aver spento la mia fastidiosissima sveglia, ancora mezza addormentata, sento dal piano di sotto i ragazzi fare casino già alle 7 e sono convinta di non potercela fare oggi. Per una volta, che sarà mai saltare le lezioni? Visto e considerato che nelle ultime settimane sono andata al college solo per figura e ne ho frequentate la metà. Mentre chiudo di nuovo gli occhi, la porta della mia stanza si spalanca.
«Sam, alzati, è già tardi!» mi rimprovera Lucas, seguito da mio fratello. Quale parte del cartello “Lucas Taylor non può entrare” appeso dietro la mia porta non è chiaro? Mi alzo dal letto scattando, afferro il cuscino e inizio a picchiarlo. Non ho intenzione di continuare a sopportare la violenza psicologica di questo ragazzo e le sue minacce. Harry mi blocca, levandomi il cuscino, e fa uscire il guastafeste dalla camera.
«Odio anche te» gli dico, sedendomi ai piedi del letto e strofinandomi gli occhi. È possibile, di tanto in tanto, iniziare una giornata in santa pace? Come se il lunedì non fosse già abbastanza duro di per sé.
«Seriamente ce l’hai con Lucas perché vuole spifferare tutto a Jay?» domanda lui, lanciando il cuscino sul letto. Lo fisso con sguardo interdetto, poi continua «Credevo che per te fosse solo una scommessa».
«Per me è solo una scommessa. Ma come faccio a vincere se interferite?» replico infastidita, poi mi alzo e vado verso l’armadio in cerca di vestiti. Oggi volevo soltanto dormire, ma stiamo partendo alla grande. Harry esce silenzioso dalla mia stanza, chiudendo dietro di sé la porta. Scenderò da sola, non ho voglia di parlare con nessuno, e le ragazze probabilmente sono già lì ad aspettarmi.
Quando arrivo davanti l’ingresso dell’edificio, diversi gruppetti sostano davanti l’entrata, noto i volti confusi ed entusiasti degli studenti mentre mi avvicino. C’è aria di novità. Scorgo tra la folla Chiara e Amie discutere con Jason e Martin del gruppo di Giornalismo.
«Buongiorno!» mi urla una voce all’orecchio alle mie spalle. Mi giro sconvolta, pronta alla mia prima scenata della settimana, ma mi fermo appena vedo il volto coraggioso che si è permesso a gridarmi nell’orecchio di lunedì mattina.
«A te» rispondo a un Jay sorridente, «ma tutta questa confusione?».
«I ragazzi della confraternita del dodici hanno proposto di organizzare un mash up e girarlo qui, dentro il college» mi spiega, mentre camminiamo verso l’entrata. L’idea non è male, certo i soggetti che offre la Goldsmiths non sono il massimo – noi compresi – ma forse può uscirne fuori qualcosa di carino. «Almeno resterà un ricordo degli studenti peggiori che questa università abbia mai conosciuto» continua il ragazzo, a questa affermazione rido spontaneamente. Non ho nulla da obiettare, onestamente siamo stati e siamo ancora terribili, forse sempre peggio. Quando noi non ci saremo più, chi tormenterà il signor Shoe? E la signora Mary? E gli abusi ai professori? Non ce la faccio, troppi ricordi.
«Hanno chiesto a me, Mason e Cooper di mixare qualche brano, il tutto non deve durare più di dieci minuti complessivamente. È una cosa grossa da organizzare, stiamo cercando di convincere il professore Camp» continua il suo discorso Jay, io lo assecondo nonostante sia abbastanza scettica. Tutto ciò che richiede un grande impegno in termini di socialità è al di fuori della mia portata, purtroppo.
«Chi l’ha proposto?» domando, sforzandomi di attivare il cervello. Si sa che a quest’ora per me è già tanto camminare, figuriamoci conversare.
«James Collins e Primrose Hill» risponde lui con una risatina. Mi volto a guardarlo accigliata.
«La collina, Primrose Hill?» gli chiedo seriamente interdetta. Lui in risposta scuote la testa ridendo e, con un bacio sulla fronte, si congeda per entrare nell’aula di Design. Piccolo appunto: dopo quasi una settimana passata ad uscire ogni giorno con il signor Wilson, ho scoperto finalmente che frequenta il corso di Design.
Poco più avanti mi aspettano le mie amiche fuori la classe di Francese, con aria seccata.
«Sto arrivando, sto arrivando, oggi stiamo insieme...» mi imita Amie, riprendendo le parole che le ho detto al telefono stamattina prima di arrivare.
Sbuffo. «Ma dai, solo perché sono entrata con lui… oggi davvero stiamo insieme, ricordate? Escursione alla Cattedrale!» dico avvicinandomi e abbracciandole entrambe. Dovrebbero ringraziare quel ragazzo, specialmente Chiara che in anni di amicizia non mi ha mai vista così solare di mattina presto.
«Non è questo» inizia quest’ultima, incrociando le braccia «è che adesso non stai più con noi per stare con Jay Wilson. È assurdo!» esclama esasperata. Io la guardo confusa.
«Proprio tu non puoi parlare! Sai benissimo… » replico, poi abbasso la voce guardandomi intorno, «sai benissimo perché lo faccio. E poi l’altro giorno siete uscite con i ragazzi senza dirmi niente!». Alle mie proteste le ragazze roteano gli occhi, evidentemente sono io quella che non capisce, anche se non mi sembra di aver sbagliato nulla. Entriamo in aula prima che la professoressa Sage si possa lamentare e prendiamo gli ultimi posti disponibili, in seconda fila. Non proprio il massimo.
La Sage ci invita ad improvvisare una presentazione di noi stessi, rigorosamente in francese, davanti tutti gli studenti e sceglie come cavia un collega di Amie. Questo si piazza al centro dell’aula, ben visibile a tutti, ed esordisce con un “Je m’appelle Jean et j’aime la pomme de terre”.
«Cioè?» domando alle mie amiche in lacrime, che capiscono il francese molto meglio di me.
«Peccato che nessuna te la dà!» risponde qualcuno dalle ultime file, mentre io continuo a non seguire il filo del discorso. Sipario.

Nel bel mezzo della lezione, quando stavo per addormentarmi piegata sul banchetto, sento vibrare il telefono nella borsa. Lo tiro fuori con la testa ancora appoggiata, è un messaggio.

J: «Che fai di pomeriggio?»

Sorrido istintivamente. Mi dispiace, caro Jay, ma oggi non ho come scappare dalle grinfie delle mie streghe.

S: «Sono con Amie e Chiara, non mi posso proprio liberare… la Cattedrale di Saint Paul ci aspetta!»

J: «Magari verrò a salvarti. Sempre se le tue amiche mi lasceranno avvicinare a te…».

Continuo a tenere la testa abbassata per non mostrare la mia espressione soddisfatta, e contenta allo stesso tempo. Che succede, Jay, è vero che non si può stare lontani da Sam Davis? Ok, confesso: stanotte non ho dormito, ho passato tutta la notte a parlare al telefono con Jay, fino alle 5 del mattino. Mi sono sentita di nuovo una liceale, parlare dei nostri interessi e scoprire di avere così tante cose in comune – a partire dalle serie tv preferite, Chuck ovviamente vince su tutte, fino all’ossessione per Harry Potter. Ma in verità, man mano che ci addentravamo nella notte, la conversazione prendeva una piega sempre più intensa e confidenziale. Jay mi ha raccontato dell’università che frequentava prima, della città in cui è cresciuto, e dalla sua fama da heartbreaker. Mi è sembrato così sincero, così vero, in un modo in cui non mi sarei mai immaginata potesse mostrarsi. Mi sono chiesta, e mi chiedo adesso di nuovo, cosa ho fatto per meritarmi che mi aprisse il suo cuore. E soprattutto mi sono chiesta perché, nonostante la sua apertura nei miei confronti, io non riesca a fare lo stesso. A meno che il ragazzo non stia complottando con qualcuno per scoprire cosa mi piace, e finge di avere gli stessi interessi. Ma certo! È così fuori di testa per me che sta facendo di tutto per conquistarmi!
Dovrei solo accettare l’idea di aver perso la scommessa.

 

Ore 16 in punto.

La Cattedrale di Saint Paul si erge immensa in tutta la sua bellezza davanti i miei occhi. Insieme alle ragazze giriamo intorno scattando foto da ogni angolazione, ogni tanto ci fermiamo vicino qualche guida turistica per ricavare informazioni utili. Questa gita in verità è un compito, con il gruppo di Giornalismo dovremo scrivere un articolo sulla storia della Cattedrale e mi servono anche delle foto. Meglio avere tanto materiale su cui lavorare.
«Andiamo da Starbuck’s?» propone Amie, nel mezzo dello shooting alla chiesa. Nello stesso istante mi arriva un messaggio, e so già da chi proviene. Le guardo, colpevole: è arrivato il momento della verità.
«Io… veramente…» inizio, distogliendo lo sguardo e cercando le parole giuste per non mandarle in escandescenza.
«Sam, non dirmi… ti prego, no» dice Chiara, spazientita, mentre si passa una mano sulla fronte.
«Non è colpa mia, giuro! Cioè, era di passaggio… potevo mai dirgli no?» mi giustifico. Scusa pessima, quelle due non sono stupide. Ma come posso giustificare il fatto che ho invitato anche lui in un pomeriggio di sole amiche? Stavolta sono davvero colpevole.
«Tu preferisci stare con lui ché con noi, ammettilo!» sentenzia Amie, con l’approvazione di Chiara.
«È assurdo!» replico io, «non capisco come possiate pensare una cosa del genere, sapete benissimo che non è vero!»
«Lo diciamo per te, Sam. Chi ci sta rimanendo fregato in questa storia, sei tu, non Jay» conclude la mia amica, la stessa che mi ha spinta a fare questa scommessa, dopodiché se ne vanno lasciandomi da sola su una panchina del cortile della Cattedrale ad aspettare il ragazzo delle fotocopie. Come posso dargli torto, alla fine? Hanno ragione. La scommessa è stato uno sbaglio fin dall’inizio, ma avrei potuto fermarmi in qualsiasi momento. Forse non ho il coraggio per ammettere la verità…
Alzo lo sguardo e vedo Jay entrare nel cortile. In questo momento è l’ultima persona con cui vorrei stare.
«Hey!» mi saluta una volta vicino, con il solito bacio sulla fronte. Sento un tonfo al cuore. Si siede a cavalcioni sulla panchina in pietra dove sono seduta anche io. «Senti, stasera con un paio di ragazzi andiamo a parlare con Camp per il mash up, vieni con me?» propone, facendo gli occhi dolci. Io non riesco a trattenermi e mi lascio scappare uno sbuffo, facendolo stranire.
«Non vorrei essere fuori posto… » cerco di riprendermi, mentre gli accarezzo lo guancia. Lui mi sorride, quasi timidamente, guardandomi negli occhi. «È importante per me, Sam. Ho bisogno di te» dice, prendendo la mia mano dal suo volto e stringendola. Poi, iniziando a vedere i miei tentennamenti, sfoggia un sorrisone. «E poi non sarai fuori posto, sei con me!».
«Va bene, va bene, ho capito, verrò a questa stupida riunione» mi arrendo infine, come se fosse possibile fare altrimenti con questo ragazzo. Prendo la macchina fotografica per fargli vedere le foto che ho scattato, la stessa che abbiamo comprato insieme nella bancarella ai piedi del Marble Arch. Devo ricordarmi di fare sviluppare tutte quelle foto che abbiamo fatto insieme.«Sarà meglio andare, a momenti chiudono i cancelli» gli dico, dopo aver controllato l’orario dallo schermo del telefono. Questa è la prima volta che sono con Jay e ho altri
pensieri per la testa: le parole delle mie amiche. So bene a cosa vado in contro stando con lui, ma chi dice che debba per forza uscirne scottata? Vale la pena provare.

«Oh merda» il ragazzo mi toglie le parole di bocca quando arriviamo davanti il cancello principale del cortile, trovandolo chiuso. Entrambi ci giriamo a guardarci, scoppiando a ridere, più per disperazione ché per divertimento. «Ci hanno chiusi dentro! E adesso come facciamo?» esclama il ragazzo, passandosi una mano sulla testa. Questo non era il momento giusto per aggiungere del pepe…
Mi guardo intorno cercando una via d’uscita, ma purtroppo i cancelli sono due e sono entrambi serrati, le recinzioni non sono abbastanza alte da nasconderci alla vista dei passanti che potrebbero tranquillamente denunciarci per essere qui dopo l’orario di chiusura. Ed ecco la lampadina!
«Facile. Scavalchiamo» affermo, andando verso le inferriate. Jay, inizialmente perplesso, non ha altra scelta se non quella di seguirmi. Inizio a scrutare la ringhiera, cercando di capire come fare, visto che da lontano sembrava più facile. Jay, dal suo canto, mette un piede qua e un piede là ed è già a metà dell’opera.
«Hai detto tu che era facile» commenta, facendomi una linguaccia dall’alto. Questo ragazzo non ha ancora capito che oggi non ho voglia di scherzare, e se voglio lo faccio volare da lì sopra. Ok, Sam, è più semplice di quanto pensi. Il trucco è non entrare nel panico, e non dare nell’occhio. Imito i movimenti di Jay, mandando qualche occhiata omicida di tanto in tanto, mentre lui se la ride beatamente.
«Accorro in suo aiuto, damigella!» proclama il cavaliere già dall’altro lato della recinzione, mentre io in cima non ho idea di come scendere. Grazie, caro, potevi pensarci un’ora fa. Jay tenta di prendermi in braccio, schivando i colpi che cerco di sferrare alla cieca perché “ce la faccio da sola”, e finisce per prendermi come Shrek fece con la principessa Fiona, ovvero la meglio nota presa a sacco di patate.
«Mi fai sentire proprio come una principessa» commento ironicamente, mentre il ragazzo mi deposita letteralmente su una panchina, ridacchiando.

 

Alle 21 Jay si fa trovare fuori casa mia e insieme raggiungiamo il gruppo di ragazzi che ci aspetta davanti la Terza per andare da Camp, tra i quali Nick, Cooper, Daniel Mason e l’altro coinquilino di Jay di cui non ricordo mai il nome. E poco mi interessa. La depressione da sconfitta sta prendendo il sopravvento e non riesco a godermi il momento, ogni volta che guardo Jay penso a cosa succederà quando scadrà il tempo della scommessa. A quel punto, nessuno mi obbliga più a uscire con lui.
Quando arriviamo davanti l’entrata dell’università, troviamo già piazzati davanti ad aspettarci il professor Camp con due ragazzi, che dovrebbero essere James Collins e Primrose Hill. Quando il professore si accorge della mia presenza si acciglia con un sorrisino.
«Davis! Che ci fai tu qui? Chi ti ha costretta?» domanda affabile, mentre il resto del gruppo è troppo impegnato a chiacchierare entusiasta del mash up per ascoltarci. Solo Jay presta attenzione a questa conversazione, ai suoi occhi, stranamente amichevole: in effetti, il professor Camp è uno di quelli che conosce me e i ragazzi come le sue tasche, e soprattutto sa che a causa della mia pigrizia mortale non parteciperei mai ad un’iniziativa del genere.
Entriamo nell’edificio deserto e buio, come non lo vedevo da qualche mese. Fare irruzione nel cuore della notte rientra nella nostra top 10 delle attività da fare alla Goldsmiths quando siamo annoiati, ma ultimamente siamo stati troppo impegnati. Procediamo fino all’aula informatica dell’ala ovest al piano terra, dove ognuno di noi siede nelle postazioni individuali, ognuna dotata di computer, mentre Jay e il gruppetto di dj lavorano sul computer centralizzato – quello che solitamente usa il professore. Con mio grande disgusto siedo accanto al terzo coinquilino di Jay, Jhonny Nesbitt – ecco come si chiamava! - attenta a parlargli il meno possibile.
«Perché sei così snob?» mi chiede questo, masticando una chewingum con la bocca aperta. Non ti sei forse risposto da solo?
«Preferisco definirmi selettiva» taglio corto, rivolgendo tutta la mia attenzione ai ragazzi in piedi davanti a noi, tra cui il mio. Amico, chiaramente, il mio amico.
Mason clicca play e fa partire il remix, tutta l’aula è concentrata ad ascoltare. Devo ammettere, contro il mio scetticismo, non è niente male: successi del passato si mescolano in armonia con hit del momento, i ragazzi sembrano così soddisfatti mentre osservano le nostre facce. Quando Jay mi guarda speranzoso rispondo con un sorriso e alzando i pollici in su.
Camp rimane silenzioso una volta terminato il remix, osservando i ragazzi quasi perplesso.
«Come posso dirvi no? È andata» dice infine, generando gridolini e saltelli in tutta l’aula. Io resto come gelata da tutta questa agitazione, ragazzi che si abbracciano e provano a farlo anche con me, che prontamente li schivo. Va bene l’entusiasmo, ma non troppo.

 

A fine serata, quando ci congediamo dal gruppo del mash up, Jay mi riaccompagna alla Quinta continuando a parlare del video e di quanto poco tempo ci sia a disposizione per organizzare bene tutto. A chi lo dici, fratello. Io cerco di non distaccarmi troppo dalla conversazione e non cadere nei miei pensieri, rispondendo freddamente e di tanto in tanto facendo qualche domanda per fingermi interessata. Sam, torna in te…
«Domani sera hai impegni?» mi chiede, una volta arrivati davanti la porta di casa. Fingo di pensarci su.
«Di che si tratta?» rispondo, cercando di nascondere un sorriso.
«Sorpresa».
Cerco di protestare mentre il ragazzo mi spinge verso la porta di casa e suona al campanello.
«Ma io voglio sapere!» insisto. La porta della Quinta si apre, alla soglia c’è Harry che rotea gli occhi quando ci vede comportarci come due quindicenni. Jay mi saluta con un abbraccio, dopodiché si allontana prima che io possa continuare a insistere per saperne di più su domani sera, e io entro in casa. All’ingresso c’è un grosso armadio nel quale teniamo dei pigiami d’emergenza, tipo quando dimentichiamo di stendere quello appena lavato, esattamente come nel mio caso adesso. Ne afferro uno a caso, senza curarmi di chi sia il proprietario, e salgo verso la mia stanza.
Mancano soli tre giorni alla fine della scommessa e, anche se mi sento sconfitta e giù di morale, credo proprio che continuerò a uscire con Jay. Riesce sempre a portarmi indietro da lui quando cerco di allontanarmi…


 

«Certo che te la porti dappertutto, eh. Proprio non ci puoi stare lontano per un po’?»
«Non è così, lo sai, solo che mi diverte, cioè, mi piace stare insieme a lei. E poi, scusa, che fastidio ti da?»
«Oh, ma nessuno. Solo, non ti fissare troppo. Stai attento.»
«Parli come se fosse una cosa negativa.»
«Jay, sei più confuso di lei»

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Capitolo 10
*** GIALLO - La quiete ***


Questo martedì, stranamente, inizia con una nota positiva. L’orario delle lezioni è cambiato e gran parte della mattinata la passo insieme a Chiara e Amie grazie alle materie in comune. L’ultima lezione invece, Scrittura Creativa, mi capita con Jay.

Come al solito, ci sediamo per terra nella palestra al coperto in cerchio, questa volta Jay si siede accanto a me. Però, Sam, guarda in una settimana che progressi hai fatto: l’ultima volta era seduto proprio di fronte a te.

La professoressa Overmay si piazza al centro del cerchio, reclamando silenzio, mentre ognuno di noi tira fuori il proprio quaderno. Quello di Jay è giallo come il mio.

«Bene» inizia la professoressa, «oggi lavorerete in coppia. Tema: fogli di carta. Sbizzarritevi». Dopo averci assegnato il compito, si allontana dal cerchio per raggiungere gli insegnanti di educazione fisica che si lamentano del mal tempo. Non ho afferrato esattamente il senso del tema, ma quando sto per proporre a Jay di fare coppia, lui mi precede.

«Noi siamo insieme» dice, poi apre il mio astuccio senza permesso e fruga dentro, per estrarre una penna nera.

«E chi l’ha deciso?» fingo di protestare, strappando il porta penne dalle mani. Oggi che penna scelgo?

«Io, adesso» ammette scrollando le spalle, poi continua «facciamo così: io scrivo qualcosa su di te e tu su di me, e infiliamo qualche paragone forzato con i fogli di carta, che te ne pare?»

«Mi sembra geniale».

Abbasso lo sguardo sul mio foglio e inizio a buttare giù qualcosa:

 

“Fogli di carta. I fogli di carta possono essere paragonati bene alle persone; loro, come noi, hanno una storia. Ci sono i fogli scritti da cima a fondo, rigo per rigo, quelli che non bastano mai per scrivere tutto quello che ti passa per la testa, quelli che finiscono così in fretta che nemmeno te ne rendi conto. Ci sono anche quei fogli scritti per metà, spazi chilometrici lasciati tra una parola e l’altra per prendere spazio, il testo che arriva a metà pagina stentando, perché non si sa proprio cosa scrivere. O almeno, si sa, ma non come farlo.
Infine, ci sono i fogli completamente bianchi. Come quelli di un compito in classe a sorpresa, quando vuoi scrivere qualcosa ma non sai come iniziare, quando preghi tutti i santi esistenti di darti la frase iniziale, che poi da sola ce la puoi fare. I fogli in bianco lasciati così apposta.

Ecco, il mio partner di Scrittura Creativa per questa giornata, Jay Wilson, per me è un po’ come un foglio di seconda categoria. Ovvero un foglio scritto a metà, con scarabocchi ai bordi e gli errori cancellati, un foglio con le parole una distante dall’altra per occupare spazio. Un foglio con i cuoricini agli angoli e gli insulti a fine pagina, con disegnini random nelle parti lasciate in bianco.

Ormai passo ogni giorno con Jay Wilson da una settimana, ma ci sono volte in cui credo di conoscerlo bene e altre dove mancano pezzi.

Jay Wilson è un foglio di carta scritto a metà, perché mi sembra sempre che voglia tenermi nascosto un aspetto X della sua personalità, perché i suoi comportamenti hanno troppe lacune. Che un momento è spiritoso, allegro, coinvolgente, eccentrico, e un momento dopo diventa silenzioso, sempre per conto suo, misterioso, asociale e anti-umanità, un po’ come me.

Sembra voler apparire una persona diversa da quella che è, insicurezza e timidezza che si alternano a vivacità e arroganza. Mi piace ogni tanto osservare le persone e i loro comportamenti, ma da quando ho conosciuto Jay il mio interesse verso il genere umano è diminuito ancora di più, e insieme ad esso anche la voglia di fingersi sociali e non svogliati.

Io, ad esempio. Io non so che tipo di foglio sono. Sono così terribilmente in contrasto con me stessa giorno e notte, con le mie emozioni e pensieri discordanti che mi fanno venire un mal di testa da uscirne fuori e una maggiore avversione nei confronti della società e della sottoscritta. Uno bravo, ma bravo bravo, mi direbbe che sono affetta da ansia o depressione o persino bipolarismo, che dovrei curarmi, parlarne.

Eppure io, ne sono certa, ho un altro problema. Io non ho le palle di fare niente, non mi va, vorrei poter star sempre chiusa in camera mia per non dover affrontare nessuno, niente. Io scoppio di vita, vorrei vorrei vorrei..ma non faccio mai. E allora mi distruggo.
Mi sento come un foglio che potrebbe essere usato per una lettera d'amore capace di cambiare la vita a due persone, e un momento dopo come un foglio su cui, invece, si scrive un numero di ristorante, che non serve a niente. Vorrei dare di più, ma di più di chi? Di quanto? Vorrei essere migliore, ma di chi? Di me stessa? Sarò mai abbastanza? Mi lascerò mai passare?”.

 

Alzo lo sguardo dal foglio contrariata, sbuffando. Come spesso succede quando un minimo mi apro ed esprimo ciò che penso, entro in uno stato di rassegnazione mista a delusione. E soprattutto, il mio egocentrismo non manca mai: dovevo parlare di Jay, e ho finito per parlare di me stessa.

La campanella dell'ultima ora suona e mi costringe a consegnare il quaderno giallo alla professoressa, seguita da Jay.

«Perché questo muso lungo?» mi chiede, mettendosi davanti la mia traiettoria e iniziando a camminare all'indietro. Solo una tua caduta può a questo punto rallegrare la giornata!

«Ho scritto male» rispondo, roteando gli occhi. «Mangiamo insieme?» propongo poi, mentre ci avviamo fuori dalla palestra verso il campus. Lui tentenna.

«A dire la verità... non posso» dice, nascondendo un sorriso furbo. Lo guardo alzando le sopracciglia. Dove ha trovato il coraggio di rifiutarmi? Non replico, mentre mi saluta per andare via, verso l'uscita del college. Beh, tanto meglio, posso passare del tempo con le mie amiche.

Io, Amie e Chiara ci incontriamo davanti la Prima del campus e decidiamo di andare a pranzare da qualche parte fuori dal college per cambiare aria. Passeggiamo per le vie di New Cross in cerca di qualche posto dove fermarci a mangiare, fin quando non ci fermiamo davanti un bistrot.

«Allora, come va con Jay?» mi chiede Amie, accendendosi una sigaretta.

«Jay è abbastanza insopportabile, ma il piano Jay va alla grande!» mento spudoratamente, desiderando che Amie spenga la sua sigaretta proprio nel centro della mia fronte. Il piano Jay non può andare peggio di così. Mancano solo due giorni...

«Sam, guarda» dice Chiara, dandomi una gomitata, la voce tremante. Mi giro verso di lei confusa e la vedo indicare dentro il bistrot.

«Chiara, la devi smettere di guardare il culo ai camerieri, sei molesta» le dico ridendo, mentre mi avvicino alla vetrata per guardare meglio dentro. Quanto vorrei non averlo fatto... sgrano immediatamente gli occhi, poi mi volto verso le mie amiche con la bocca spalancata.

«Dimmi ancora una volta perché sei venuta a pranzare con noi, ti prego» chiede ironicamente, io mi lascio coinvolgere dalle loro risate. Da un lato sollevata, adesso posso giustificare Jay per aver rifiutato il mio invito.

Decidiamo di cercare un altro posto e continuiamo a camminare per le vie del quartiere. Non so perché Jay non mi abbia detto che lavora in quel bistrot stamattina, invece di fare il vago, ma da una parte sto iniziando a rassegnarmi alla mania che questo ragazzo ha di cercare di essere misterioso.

«Devo ammettere che la versione cameriere è molto sexy» inizia Amie.

«Tu non eri tutta presa da Harry?» le chiedo roteando gli occhi, mentre entriamo dentro un altro ristorante incontrato lungo la strada.

«Ma lo sono» replica lei, prendendo posto in un tavolo libero, «forse non ti è chiaro, io e tuo fratello usciamo insieme, ma tu sei troppo impegnata con Wilson per accorgertene».

Alzo le sopracciglia, cercando di nascondere un sorrisino. Sapevo che questi due prima o poi sarebbero finiti insieme.

«Di pomeriggio andiamo al parco» annuncio, sviando il discorso di Amie, «dovete aiutarmi a studiare per il nuovo articolo».

 

Nonostante le mie amiche siano delle autentiche rompipalle, accettano sempre di aiutarmi nella stesura degli articoli. Non che abbiano scelta, in verità.

Quando arriviamo al parco il tempo è della nostra parte: il cielo limpido senza traccia di nuvola e la temperatura calda creano l'atmosfera perfetta tra i grandi alberi che popolano lo spazio verde, e decidiamo di sederci per terra all'ombra di uno di questi. Tiro fuori dalla solita borsa la macchina fotografica, che Chiara afferra subito, e una videocamera presa in prestito dalla scuola per fare qualche ripresa.

«Sam, qua c'è una foto tua e di...» inizia Chiara, ma subito si interrompe fissando un punto non tanto lontano da noi. Con la videocamera ancora appoggiata sul mio occhio destro mi volto in quella direzione, e quasi la lascio cadere per terra soffocando un gridolino.

«Jay!» esclamo, scoppiando a ridere subito dopo. Le ragazze, un attimo prima con la bocca spalancata, mi seguono a ruota davanti allo spettacolo gratuito offerto da Jay che si fa trascinare correndo da tre grossi cani al guinzaglio. Inizio a riprendere la scena con la videocamera, anche grazie ai miei sussulti verranno fuori delle riprese non proprio in HD, quando Jay si accorge di noi e si lascia scappare i guinzagli. Impreca, correndo dietro i cani, mentre io continuo a registrare. Bel modo per concentrarsi sullo studio!

«È incredibile come, in un modo o nell'altro, in ogni momento della giornata tu debba sempre avere a che fare con Jay Wilson» commenta Alice ridendo.

Annuisco distrattamente e, dopo aver stoppato la registrazione, guardo il filmato insieme alle ragazze, quando la videocamera mi viene sottratta dalle mani dallo stesso Jay arrivato di soppiatto alle spalle.

«Quel video va cancellato!» protesta, iniziando a correre intorno agli alberi vicini per scappare, mentre io lo rincorro.

«Jay, ti giuro che nessuno lo vedrà mai! Quella videocamera è della scuola!» gli urlo dietro, cercando di acchiapparlo. Lui si ferma di botto e, non avendo i riflessi pronti, mi schianto contro la sua schiena e cado rovinosamente a terra. Sento le guance dolorare per quanto forte sto ridendo, mentre in sottofondo sia le ragazze che Jay si divertono della mia goffagine.

«Restituiscimi la videocamera, Jay» intimo con il tono più minaccioso che riesco a imitare, ancora seduta sull'erba falciata del parco.

«A una condizione: cancellerai questo video e non dirai a nessuno dell'accaduto» risponde beffardo, poi mi tende una mano per aiutarmi ad alzarmi da terra. Io mi sollevo rifiutando il suo aiuto e, a braccia incrociate, mi avvicino fino ad essere faccia a faccia.

«E tu dovrai spiegarmi perché ti fai trascinare avanti e indietro da tre cani per tutto il parco» gli dico, poi mi accorgo che i cani sono spariti, «a proposito, hai perso qualcosa?»

Jay si guarda intorno, improvvisamente il terrore nei suoi occhi, e prima di sparire risponde solo: «Lo saprai stasera».

Con la videocamera tra le mani, mi giro confusa verso le mie amiche che mi restituiscono lo stesso sguardo interrogativo.

«Hai sempre una scusa per non studiare» mi rimprovera Chiara, ancora seduta sotto l'albero di prima, lanciandomi una penna. «Adesso concentrati»

 

Jay mi fa sapere con un messaggio che vuole incontrarmi a mezzanotte in punto sul tetto della palestra, precisando di vestirmi elegante. E anche se la curiosità mi sta lentamente divorando, sono le 23.40 e io sono ancora stesa sul divano del soggiorno a guardare la serie tv Chuck in pigiama.

«Tu non dovevi uscire con Jay?» mi chiede Cooper entrando nella stanza e sedendosi sul bracciolo del divano.

«La sposa si fa sempre aspettare» replico scherzando, ma evidentemente Cooper non riesce ad afferrare il mio sarcasmo perché resta in silenzio con lo sguardo confuso.

«Sto scherzando, Coop» aggiungo con un pugnetto sul braccio.

Dopodiché trovo il coraggio di alzarmi dal divano e salire verso la mia stanza per prepararmi. Non so cosa Jay abbia in mente, ma mi aspetto qualcosa di grosso che valga la pena per violare il coprifuoco, ad esempio un'improvvisa dichiarazione d'amore che mi faccia vincere la scommessa. Scaccio via questo pensiero quando avverto lo stomaco contorcersi e apro l'armadio in cerca di qualcosa di abbastanza elegante da indossare. Il primo vestito che cattura la mia attenzione è fatto di tulle rosso, con le spalline incrociate sulla schiena, uno dei miei preferiti in assoluto ma che non ho ancora avuto l'occasione di indossare. Ha ancora l'etichetta attaccata. Senza pensarci troppo lo sfilo e lo indosso, sono già abbastanza in ritardo.

Guardo il cellulare: il display segna le 23:58 e un messaggio di Jay dice che è già sul posto ad aspettarmi. Di nuovo il mio intestino torna a farmi lo strano scherzo di ogni volta e cerco di reprimere l'idea delle famose farfalle mentre vado per aprire la porta di casa, ma vengo fermata da mio fratello.

«Dove credi di andare vestita così a quest'ora?» dice nascondendo un sorrisino e cercando di assumere un tono autoritario. Inutle, Harry, non sei nato per fingere.

«Che sei falso» rispondo, scombinandogli i capelli, poi esco finalmente dalla Quinta che sembrava restringersi sempre di più con il passare dei minuti. All'aria aperta finalmente si respira, ma questa volta scelgo di prendere i sentieri secondari alle spalle delle abitazioni per arrivare in palestra, in modo da non dare nell'occhio.

Mentre mi avvicino sempre di più non riesco ad immaginare a cosa stia andando in conto; magari mi farà trovare un tavolino al centro del tetto con una bottiglia di vino rosso, il tutto circondato da tante candele per terra e lungo il corrimano? Eppure, da quel che ho potuto capire di Jay, non mi sembra un tipo così romantico.

Quando arrivo davanti la porta della palestra che dà agli spogliatoi la trovo socchiusa, deve averla lasciata così Jay. Entro nell'edificio completamente al buio e in cui l'unico rumore è il picchettio dei tacchi che ho dovuto mettere per colpa di qualcuno, andando verso l'ufficio dei coach, da dove si accede al tetto. Queste cose le ho scoperte durante gli anni ogni volta che con il gruppo organizzavamo serate clandestine, ma non ho idea di come faccia Jay a sapere tutto ciò. Con il cuore in gola salgo la stretta rampa di scale che finisce su un piccolo pianerottolo con un'unica porta in metallo, quella che sbuca sul tetto. Coraggio Sam, ormai sei arriva fin qui, devi andare avanti. Apro la porta intimorita, e quando mi ritrovo sul tetto mi accorgo che non c'è nessun tavolo, nessun vino, nessuna candela. Niente di niente, se non uno splendido Jay Wilson ad aspettarmi splendido in giacca e cravatta. Qui le cose si fanno serie.

«Allora è questa la sorpresa?» chiedo scettica mentre mi avvicino a lui. Ancora la sensazione di stretta allo stomaco non è andata via, anzi è solo aumentata. In compenso il panorama che offre il tetto della palestra, nonostante non sia un edificio molto alto, è splendido: una distesa di luci traccia un piccola mappa di una parte di Londra, mentre in lontananza si riesce a distinguere il Big Ben.

«No, la sorpresa non è questa» risponde il dj della Nona, le mani dentro le tasche dei pantaloni, «ma ti ho chiesto di venire qui per andare insieme. E dovrò bendarti»

Non riesco a trattenere una risatina, ma mi accorgo dalla sua espressione che non sta per niente scherzando. Beh, diciamo che non sono mai stata brava a giocare a mosca cieca, poi conoscendo i miei riflessi...

«Non ti fidi di me?» mi chiede, avvicinandosi piano. Come posso dire di no? Jay sembra leggermi nel pensiero, e continua: «beh, dovrai iniziare a fidarti». Esce dalla tasca dei pantaloni una benda nera, cercando un conferma da parte mia. È troppo tardi per tirarsi indietro Sam, forza.

Acconsento ad essere bendata e, mentre sento il cuore scoppiare, iniziamo a scendere la stretta scaletta a tentoni. Il mio unico desiderio, in questo momento, è non cadere rovinosamente.

Camminiamo per i vialetti del campus, fin quando non sento Jay aprire il cancello principale, e inizio a preoccuparmi. Continuo a chiedere dove stiamo andando ma non vuole darmi alcun indizio e camminiamo per almeno 10 minuti fin quando non ci fermiamo.

«Sei pronta?» domanda, sento nel tono di voce una nota entusiasta. Annuisco, sospirando. Quando Jay scioglie la benda, i miei occhi impiegano qualche momento per abituarsi alla luce fioca di alcuni lampioni. Man mano che metto a fuoco riconosco una grande piazza vicino il college dove solitamente vengono allestite le fiere, e quello che mi trovo davanti mi lascia senza parole. È una enorme, coloratissima mongolfiera.

«Dimmi che stai scherzando» dico incredula, strofinando piano gli occhi per non sbavare il trucco. Non credo ai miei occhi!

«Ti sembro uno che scherza?» risponde fingendosi offeso. Devo dire la verità? Sì.

«Come riesci a stupirmi sempre?» chiedo, più a me stessa che a lui. Jay risponde con un occhiolino, poi mi prende per mano e mi guida verso la mongolfiera, dove ci attende il pilota. Io credo di essere dentro un sogno, continuo a guardarmi intorno, osservo i colori sgargianti della mongolfiera, poi Jay, e non riesco a capire cosa ho fatto per meritarmi tutto questo. E per una volta nella vita, in senso positivo.

Saliamo a bordo su quello che assomiglia molto a un enorme cesto della biancheria e mentre Jay mormora qualcosa al pilota io afferro la ringhiera – piccolo appunto: diciamo che soffro un po' di vertigini.

«Devi spiegarmi come hai fatto... i cani, il bar... devi spiegarmi...» borbotto nervosamente mentre il ragazzo mi si avvicina, e lentamente la mongolfiera prende quota. Le luci della piazza diventano sempre più piccole mentre ci leviamo in aria e la città di Londra si stende maestosa sotto i nostri piedi.

«Volevo fare qualcosa di speciale e mi hanno consigliato una mongolfiera, ma come facevo a pagare il servizio per una sera? Così mi sono improvvisato cameriere e dog sitter» mi spiega, parlando velocemente e nascondendo un po' di imbarazzo dietro un sorriso. «Hai cancellato il fimato?» domanda prima che possa commentare.

«...sì. Certo» mento, annuendo poco convinta. Quel video è troppo bello, davvero, come posso cancellarlo? Lui se ne accorge e sbuffa, roteando gli occhi.

«Andiamo, Jay, rimarrà tra me e te!» esclamo ridendo. Jay si avvicina sempre di più, inarcando le sopracciglia. Il mio cuore perde un battito.

«Tra me e te?» mormora a un soffio dal mio viso, facendomi perdere l'uso della parola. Il mio sguardo salta dai suoi occhi alle sue labbra e poi di nuovo indietro, incapace di muovermi.

«Sì... tra me e te... e Chiara e Amie» replico tutto d'un fiato, provocando le sue risate.

Mentre la mongolfiera scende lentamente verso la piazza, Jay mi indica una coppia che esce correndo dal Luna Park lì vicino. La ragazza tiene in mano un bastoncino di zucchero filato ed è piegata dalle risate, mentre il ragazzo cerca di riprendere fiato appoggiato ad un lampione.

«Ma quello è mio fratello!» quasi grido ridendo, afferrando il braccio di Jay e scuotendolo forte, «...e Amie!» sgrano gli occhi, mentre osservo la mia amica che non riesce a respirare dalle risate, seguita da mio fratello. Devo ricordarmi di farle i complimenti quando scenderò da qui.

Dopo poco scompaiono in direzione del college, e Jay si avvicina di nuovo.

«Sam, devo dirti una cosa...» inizia, spostandomi una ciocca di capelli dal viso. Se qualche minuto fa il mio battito cardiaco si era stabilizzato, adesso lo sento di nuovo scoppiare.

La suoneria del mio telefono rompe il silenzio e rovina l'atmosfera. È Amie.

 

«Che cosa vuoi?»

«Sam, ci hanno scoperti!»

«Che vuol dire ci hanno scoperti?!»

«Che la Greater ha visto me e Harry rientrare adesso e sta controllando tutte le case per vedere se mancano altri studenti»

Sento il sangue abbandonare il mio corpo mentre inizio a sudare freddo. Mi giro verso Jay.

«Va bene, stiamo arrivando»

 

Chiudo la telefonata e inspiro profondamente.

«Jay, la Greater ha scoperto Amie e Harry rientrare dopo il coprifuoco e sta controllando le case, dobbiamo tornare!» gli dico preoccupata, lui come me perde colorito in viso.

Uscire dopo il coprifuoco significa guai seri e non possiamo permettercelo. Jay mi mette un braccio intorno al collo, costringendomi ad avvicinarmi.

«Hey, tranquilla, ce la facciamo. Ce n'è di strada prima della Nona!» cerca di rincuorarmi.

«Jay, io sto alla Quinta, non alla Nona» rispondo bruscamente. Lui non commenta, credo che abbia capito che sono abbastanza suscettibile al momento.

 

Dopo qualche lunghissimo minuto di attesa infernale finalmente tocchiamo terra e corriamo verso il campus, io rigorosamente senza scarpe, e quando arriviamo il cancello principale è ancora socchiuso.

«Jay, sono stata benissimo!» gli urlo dietro mentre corro verso la Quinta senza nemmeno salutarlo. Arrivata sul retro di casa mia mi arrampico in fretta su una scala metallica che porta alla finestra della stanza di Lucas, fortunatamente aperta, e mi fiondo dentro. Atterro direttamente sul suo corpo, dato che il suo letto è posto proprio sotto la finestra, svegliandolo in preda al panico. Lascio sbattere le sue imprecazioni mentre corro verso la mia stanza, sentendo movimento al piano inferiore, e subito mi infilo nel letto coprendomi fino alla testa.

Dopo qualche istante la porta si spalanca e accendono la luce. Mi volto, fingendomi assonnata, e con gli occhi socchiusi osservo la professoressa Greater immobile sulla soglia.

«C'è qualche problema, professoressa?» le chiedo in un sussurro. Dietro di lei vedo Lucas sospirare di sollievo.

«No, Sam, solo un controllo. Buona notte» risponde lei, e quando si chiude la porta alle spalle finalmente tiro anche io un profondo sospiro. Anche questa volta te la sei cavata.

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Capitolo 11
*** ROSSO - La tempesta ***


"I signori Wilson, Davis e consorti sono desiderati in presidenza".

Dagli altoparlanti posti in ogni corridoio della scuola risuona la voce metallica di un ragazzo che non riconosco, fermando il tempo alla Goldsmiths mentre tutti gli studenti ci mandano occhiatine furtive.

"Sì, sì, scusi prof... i fratelli Davis, Amie e Jay in presidenza, avete capito"

Si corregge qualche istante dopo la voce, immediatamente sento un vuoto allo stomaco mentre mi giro a guardare Amie, confusa quanto me. A causa della mia visita giornaliera dovrò purtroppo rinunciare a seguire la lezione di Matematica, ma me ne farò una ragione. Ci incamminiamo insieme verso la presidenza, dove proprio davanti la porta d'entrata troviamo già Harry e Jay ad aspettarci, quest'ultimo con aria funebre.

«Prima volta?» domanda Amie sbadigliando, Harry ride di sottecchi. Lui annuisce tentando di nascondere il suo nervosismo dietro un sorrisetto, ma ormai questo ragazzo non ha più segreti per me: riesco a leggere le sue emozioni senza alcun problema, anche le più impercettibili sfumature.

«Il preside è uno dei nostri, tranquillo. Sai quante volte ci siamo stati qui dentro?» tenta di rassicurarlo Harry, mentre la porta si apre e sbuca fuori la testa della professoressa Greater che ci invita ad entrare. Si va in scena.

Il preside, seduto dietro la sua scrivania in legno massiccio con le braccia conserte, si lascia scappare uno sbuffo alla nostra vista, dopodiché si strofina una mano sopra gli occhi mentre noi ci avventiamo su di lui per salutarlo calorosamente come un amico di vecchia data. Mentre i ragazzi si accomodano sulle poltroncine disposte dal lato vuoto della scrivania, mi avvicino alla macchinetta del caffè, facendo cenno al professore.

«Sì, grazie, Davis» risponde lui, cercando di mantenere un tono professionale davanti a un Jay evidentemente confuso e preso alla sprovvista. In effetti è una situazione abbastanza strana vista da fuori, ma una volta entrati nella nostra comitiva ci si deve fare l'abitudine.

Porgo il caffè caldo al professore e aspetto che sia pronto il mio, appoggiandomi al vecchio tavolino che sorregge la macchinetta, mentre il preside inizia a parlare.

«Allora ragazzi, voglio essere chiaro con voi. In questi anni vi ho coperto molte volte, in alcuni casi non avrei dovuto nemmeno chiudere un occhio, ma la vostra simpatia mi ha sempre convinto a proteggervi come dei figli» inizia, mettendo da parte alcune carte e guardando negli occhi ciascuno di noi. «Purtroppo stavolta non posso fare finta di niente. Un comportamento del genere non è accettato alla Goldsmiths University, e credo che questa sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso».

Prendo il mio caffè e mi siedo accanto ai miei amici, allarmata dalla piega che sta prendendo il discorso.

«Mi scusi, non seguo il filo del discorso... che significa tutto questo?» interviene Amie, iniziando a sfregare nervosamente le mani sotto la scrivania.

«Significa che ho i video delle telecamere di sicurezza e testimoni che vi hanno visto rientrare nel college in piena notte» annuncia severo. Dopodiché gira il suo laptop verso di noi e fa partire un filmato dove si vede chiaramente che io e Jay usciamo, seguiti qualche minuto dopo da Harry e Amie. Sto per avere un mancamento. Sento la pressione sanguigna abbassarsi gradualmente, mentre tutto quello che riesco a fare è soltanto girare la testa a rallentatore per guardare negli occhi mio fratello, che mi restituisce la stessa espressione terrorizzata.

«Siete espulsi» sentenzia il preside in tono severo, una frase che nella mia testa risuona come un eco. La prima reazione spontanea di tutti noi è quella di scoppiare a ridere e tirare un sospiro di sollievo.

«Che simpatico! E pensare che stavo per crederci...» commento, fingendo di asciugare una lacrima sulla guancia e riprendendo finalmente a bere il mio caffè.
 

Al contrario, il preside ci restituisce il suo sguardo più duro e freddo. «Sono serio, ragazzi, siete espulsi. Desidero parlare quanto prima con le vostre famiglie per spiegare le motivazioni, ed entro una settimana dovete lasciare il college» sentenzia infine. Il caffè che stavo bevendo mi va di traverso rischiando di affogarmi, e mentre i ragazzi restano immobili a fissare il professore a bocca aperta, Amie cerca di prendere in mano la situazione.

«Preside, lei non può... la Goldsmiths è la nostra casa!» esclama agitata, cercando approvazione nei nostri sguardi.

«Noi siamo i suoi migliori studenti!» interviene Harry, la voce spezzata, facendoci voltare tutti a guardarlo scettici. «Beh, magari non proprio i migliori in ambito accademico, certo... sono più le lezioni che saltiamo rispetto a quelle che seguiamo, però... sicuramente siamo i più divertenti...» inizia a balbettare, Amie gli sferra una gomitata per evitare di peggiorare la situazione. Jay, nel frattempo, continua a guardare terrorizzato a turno prima Harry, poi me, poi Amie e infine il professore.

Non può essere vero. Sicuramente il caro vecchio preside ci sta prendendo in giro, vuole farcela pagare per tutte le stronzate che combiniamo, non può mica espellerci... quanto vorrei che tutto questo fosse solo un brutto sogno! Quanto vorrei tornare ad essere spensierata su quella mongolfiera con Jay Wilson...

Dopo qualche attimo di silenzio, il Preside prende in mano la situazione.

«Ascoltatemi. Voglio vedere al più presto le vostre famiglie, dopo il colloquio con loro vi dirò la mia ultima parola. Per adesso, siete ancora studenti della Goldsmiths» dice quasi sbuffando, mentre sento il peso che fin'ora avevo sul petto sollevarsi sempre di più e lasciare entrare l'aria nei polmoni. Mi lascio scivolare contro lo schienale della sedia e sento una mano poggiarsi sul mio ginocchio sinistro e stringerlo lievemente. Mi giro verso Jay, adesso meno pallido di prima, e rispondo con un sorriso nascosto mentre il preside ci liquida dal suo ufficio.

Così, io e Harry ci separiamo dagli altri due e raggiungiamo la palestra quasi correndo dall'eccitazione per la lezione di Educazione Fisica. Direi che dopo tempo immemore è il caso di partecipare all'allenamento di oggi, considerando che sono quasi stata espulsa.

«E comunque non è ancora detta l'ultima parola» dice Harry, aggiustando i lacci delle sue scarpe da ginnastica, «aspettiamo a festeggiare». Dopodiché si unisce ai ragazzi primi della fila che già corrono lungo il perimetro del campo da pallavolo, mentre io cerco di raggiungere l'estremità opposta, composta dai più lenti e negati del corpo studentesco.

«Davis, vai dietro tuo fratello!» mi urla alle spalle il professore, facendomi saltare in aria. Sam, ti prego, sii lucida: rischi già l'espulsione. Obbedisco sbuffando e corro dietro il primo della fila, nonché il rompipalle di mio fratello, nonché cocco del Coach. Anche se non si direbbe, Harry ha un buon profilo universitario: salta la metà delle lezioni che saltiamo solitamente io e le ragazze, prende ottimi voti e quasi tutti i suoi professori lo adorano. Certo, manca un po' di simpatia, ma ci sono io in compenso.

Mentre corro, un pensiero scomodo mi passa per la testa... oggi è mercoledì. Significa che domani è giovedì! Significa che ho perso la scommessa e sono nella merda! Mi fermo di colpo, urtando diversi ragazzi e corro via dal campo diretta verso l'aula di Francese. Devo assolutamente parlare con Jay.

Fuori la porta dell'aula mi fermo, riprendendo fiato, poi busso due volte ed entro in scena.

«Buongiorno» inizio guardandomi intorno per individuare Jay, «la professoressa Greater ha urgente bisogno di Wilson» improvviso rivolgendomi alla professoressa Sage di Francese, una vecchietta minuta e sgorbutica, dagli occhiali con le lenti più spesse che abbia mai visto.

Il ragazzo delle fotocopie, confuso, si alza senza fiatare dal suo posto e sfila verso la porta, poi insieme lasciamo l'aula.

«Sai cosa vuole la Greater?» mi domanda mentre ci camminiamo per i corridoi in direzione dell'aula magna, io gli mando uno sguardo perplesso.

«La Greater?» chiedo, Jay a sua volta inarca le sopracciglia. «Ah! Niente, volevo solo stare un po' con te» mi affretto a rispondere ridendo. Ottimo, Sam, direi che da adesso la tua preoccupazione non sarà più la scommessa, bensì dimostrare che possiedi ancora un minimo di cervello.

Jay sorride, mettendomi un braccio intorno alle spalle, arrivando al grande tavolo ovale, dove ci sediamo tranquilli come se fossimo in caffetteria.

«Oggi pomeriggio che facciamo?» domando schietta.

«A dire la verità, oggi non ci sono tutto il giorno» ammette dispiaciuto, afferrando la mia mano. Jay, ti sembra il momenti di impegnarti tutta la giornata e lasciarmi sola? «Di pomeriggio lavoro al bar e di sera vado a cena da mio padre... sai, torna stasera a Londra, è da tanto che non lo vedo».

Mentre Jay parla sentiamo la porta dell'aula aprirsi lentamente, per vedere spuntare sulla soglia due ragazze, una delle quali riconosco come la mia vicina Emily, una ragazza abbastanza simpatica per quanto poco ci abbia parlato. Anche lei all'ultimo anno come Jay.

«Vieni con me stasera!». La voce di Jay mi riporta alla realtà.

«Da tuo padre?» domando insicura, giocherellando con la sua mano. Chissà se la presentazione ai genitori vale come vittoria della scommessa...

«Sì, giusto per stare assieme» replica soddisfatto, dandomi una pacca sulla coscia e saltando in piedi, «Ora che ci penso, dovremmo andare dalla Overmay a prendere i nostri quaderni». Ignorando le mie proteste di pigrizia e minacce di pianto isterico riesce a tirarmi su dalla sedia e trascinarmi fino all'ufficio della professoressa Overmay al secondo piano.

Bussiamo alla porta e, quando riceviamo il permesso, entriamo nella piccola stanza piena di registri e fascicoli di ogni genere sparsi ovunque con la professoressa che ci osserva da dietro la sua scrivania.

«Certo che voi due siete sempre insieme, eh?» commenta maliziosa ancor prima di salutarci. Noi rispondiamo con delle risatine imbarazzate.

«In verità siamo venuti a ritirare i nostri quaderni» risponde in fretta Jay, indicando tra i documenti la pila di quaderni colorati sulla scrivania. Tra tutti, quelli che spiccano maggiormente sono i nostri, entrambi di un giallo acceso. Prendiamo i quaderni dalla professoressa, che continua a guardarci con l'aria di chi ne sa qualcosa in più, e ci affrettiamo a lasciare lo studio.

Camminando per i corridoi, incontriamo il professor Camp che ci blocca non appena ci vede.

«Ragazzi, stavo cercando proprio voi» esordisce, frase che solitamente non accompagna buone notizie quand'è riferita a noi. Io e Jay ci scambiamo uno sguardo interrogativo. «Vi volevo avvisare che, a causa degli ultimi avvenimenti...» tentenna, guardandoci a turno negli occhi, «non potrete partecipare al mash up. Mi dispiace, so che ci tenevate, ma ho le mani legate».

Se a primo impatto la mia reazione è quella di sospirare sollevata, grata di non dover partecipare a questo stupido video che mi costringerebbe ad avere interazioni con altre persone, il mio pensiero va subito a Jay, inerme con la bocca spalancata.

«Ma non è giusto, io ho mixato gran parte di quel mash up!» protesta deluso, mentre il professor Camp scote la testa dispiaciuto e si allontana senza aggiungere altro. «Questa scuola non vuole darmi tregua...» continua borbottando. A chi lo dici, caro mio.

«Jay...» inizio, cercando le parole giuste per poterlo consolare, ma la verità è che per la prima volta mi sento impotente. Jay sembra immerso nel suo mondo, sconfortato, e siamo costretti a separarci per andare alle rispettive lezioni. La giornata prosegue di bene in meglio.

 

Finite le lezioni, mi ritrovo con il mio gruppo di Giornalismo nella nostra aula per discutere rapidamente dell'ultimo progetto affidatoci dalla Greater.

Faccio vedere ai ragazzi le foto scattate alla cattedrale di Saint Paul dal mio pc e una bozza di articolo steso a tempo perso durante la mattinata, con scarsi risultati visto il livello di tensione.

«Bene, le foto le abbiamo, e fortunatamente Internet è un meraviglioso pozzo di informazioni, ma badate bene: non voglio niente di scopiazzato. Voglio una ricerca dettagliata e professionale, nessun copia incolla, voglio spirito critico!» chiarisco, facendo avanti e indietro per l'aula, sperando che i miei colleghi non notino il mio nervosismo. «Jackson si occuperà dell'editing delle fotografie, Ellie tu penserai al layout e le altre componenti grafice» continuo, guardando nello specifico il ragazzo col cappellino verde e la ragazza bionda in prima fila. «Per il resto, uniremo le menti e scriveremo fino allo sfinimento. In fondo siamo 22, qualcosa di buono ne dovrà pur uscire fuori!» concludo, coinvolgendo il gruppo in una risata per scaricare la tensione. Una volta terminata la riunione, raccolgo in fretta le mie cose per sfrecciare verso la Quinta, dove mi aspettano le prove di preparazione in vista della serata a casa del padre di Jay. Inizio a sentire i crampi allo stomaco aumentare gradualmente man mano che mi avvicino alla porta di casa, dove già mi aspettano le mie amiche in supporto psicologico.

Il salone della Quinta, in questo modo, si trasforma in una vera e propria passerella, dove sul divano tutti gli spettatori – Amie, Chiara, mio fratello, i ragazzi, persino Nick! - giudicano ogni scelta di abbigliamento, e la sottoscritta modella è in preda a un attacco d'ansia. Il primo completo, sotto consiglio di Chiara, è composto da un body nero smanicato e una gonna a fiori a vita alta.

«Ti sta una merda» dice Amie spassionatamente, gesticolando come per mandarmi via dalla stanza e provocando le risate dei ragazzi, che prontamente fulmino con lo sguardo e tacciono.

Il secondo outfit, scelto dalla stessa Amie, mi fa rabbrividire ma comunque sono costretta a sfilare per non farla offendere.

«Devo commentare?» domanda sarcasticamente Chiara, ormai l'obiettivo non è più aiutare me nella ricerca dell'outfit perfetto, ma insultarsi a vicenda.

In fondo all'armadio trovo un vestitino bianco con lo scollo halter e la schiena leggermente scoperta, stretto sulla vita e morbido dai fianchi in giù. Sperando con tutto il cuore che mi entri, lo sfilo dalla gruccia e, dopo averlo forzato ad entrare, scendo nuovamente in salotto per essere accolta da un silenzio tombale.

«Splendida!» esclama Nick annuendo in segno di approvazione, le mie amiche acconsentono.

«È troppo elegante! Non va bene» obietto, facendo qualche giro e specchiandomi nella finestra. Lancio un'occhiata a Lucas, in memoria dei vecchi tempi, che fino ad ora è rimasto silenzioso. Lui risponde con un sorriso e un pollice all'insù. Non convinta, torno con le ragazze nella mia stanza e continuiamo a provare diversi abbinamenti, fin quando raggiungiamo un compromesso: un pantalone nero aderente a zampa d'elefante, una camicia bianca a body e dei sandali con tacco neri semplici. Fine, non ne voglio sapere più niente, sono già troppo stressata. Il tempo sembra scorrere troppo velocemente, nonostante sia ancora pomeriggio, e la mia ansia non fa che peggiorare. E se facessi una delle mie solite figure davanti al padre di Jay? Se non gli piacessi? Il mio monologo interiore viene interrotto dal suono di una notifica del mio cellulare.

 

"Vengo a prenderti alle 20.30, miss. Non farmi apettare."

 

Sorrido, restando a fissare il display del telefono per qualche secondo, per poi alzare lo sguardo e incontrare quello investigativo delle mie amiche.

«Jay viene a prendermi alle 20.30, mi ha scritto» dico loro, traboccante di pressione. Chiara propone di andare a prendere un gelato e, per accontentare più un mio desiderio di distrazione, in meno di dieci minuti siamo già fuori il campus in direzione della prima gelateria che incontriamo nel quartiere.

Sono ancora le 17 e io non so cosa fare tutto questo tempo lontana da Jay, con quest'ansia addosso. Quando siamo insieme il tempo vola e non facciamo altro che ridere e scherzare – cosa che succede anche con le mie amiche, ma con lui è... diverso.

«Dovresti farti le sopracciglia. E i baffetti» osserva Amie, sedute in uno dei tavolini fuori dalla gelateria. Roteo gli occhi, mentre Chiara ridacchia divertita.

«Possiamo farti una maschera di bellezza?» domanda quest'ultima, più per il piacere di usarmi come cavia ché per rendermi effettivamente presentabile. Acconsento, comunque, per il bene comune.

Quando ritorniamo a casa mia, mi fanno accomodare sulla sedia girevole della mia stanza per iniziale il rituale. Lego i capelli in una coda di cavallo e, per precauzione, indosso anche una fascia per capelli, in caso i due geni del male dovessero sporcarmi.
Chiara tira fuori dalla sua borsa una bustina violetta, che deve contenere quella che è la maschera di bellezza. Inizia a spremere fuori il contenuto violaceo della bustina e, aiutata da Alice, comincia a stenderlo sul mio viso. Mettendo da parte i vari tentativi di infilarmi la crema dentro il naso o nella bocca, a fine stesura mi guardo allo specchio e osservo con preoccupazione il mio viso colorato di viola dalla maschera di dubbia provenienza.

«Se succede qualcosa alla mia faccia, ci andrai tu stasera da Jay a spiegare perché gli ho dato buca» minaccio Chiara in preda ad una risata isterica, mentre Amie tenta di rimanere seria per evitare che possa prendermela anche con lei.

Gloriosamente riesco a superare la prova ceretta, maschera e sopracciglia senza cicatrici, macchie o aloni rossi sul viso, il ché è un ottimo traguardo inaspettato. Indosso fieramente il mio completo come se mi stessi preparando per andare al patibolo e, una volta pronta, scendo in salone dagli altri, dove aspetterò Jay.

«Quindi... ti porta dal padre? Non sarà troppo presto? Da quant'è che state insieme?» mi chiede Cooper non appena mi lancio sul divano, accigliato.

«Non stiamo insieme, Coop!» lo riprendo sgranando gli occhi, come se non sapesse che non bisogna parlare di impegno in mia presenza! «È solo per stare insieme» aggiungo in fretta ammiccando. Nel frattempo, Lucas fa il suo ingresso nella stanza in silenzio e si siede sulla poltrona distante da noi, nonostante il resto del divano accanto a me sia tutto libero.

«Cazzo, Lucas, ce ne vuole ad avere più aria funebre della sottoscritta» lo punzecchio, mentre lui non distoglie lo sguardo dal televisore. «Pronto? Sto parlando con te!»

Lui finge di tornare alla realtà e si gira lentamente verso di me. «Ah, sei ancora qua?» risponde, gelido. Alzo un sopracciglio guardandolo sconcertata.

«Hai deciso di rovinarmi la serata prima ancora che cominci?» replico, usando il suo stesso tono. Sam, ti prego, non iniziare a scaldarti.

Lui non ha il tempo di replicare perché, nello stesso istante, bussano alla porta d'ingresso. Immediatamente dimentico le parole di Lucas sentendo un tonfo al cuore e un vuoto allo stomaco, scatto in piedi e afferro la borsa dal divano, per poi correre verso la porta. Nella piccola sala d'ingresso trovo Harry.

«Taylor è geloso, lascialo stare» mi dice, stampandomi un bacio sulla fronte, «sei bellissima». Gli sorrido in risposta e, finalmente, apro la porta: davanti ai miei occhi ho uno splendido Jay Wilson, più sorridente che mai. Dopo esserci salutati, mi informa che saremo a casa di suo padre in 20 minuti con la sua macchina.

«Ma cammina?» gli domando alla vista della sua macchina, che si presenta più come un rottame.

«Lo scopriremo» risponde, aprendomi la portiera del lato passeggero da vero gentiluomo. Se sono psicologicamente pronta a sostenere la serata che mi si presenta davanti? Anche questo, lo scopriremo.

 

Rispettando la tabella di marcia arriviamo nei pressi della collina di Primrose Hill dove sorge villa Wilson, una casa a dir poco spettacolare. Il panorama mozzafiato è accompagnato da un grande giardino pieno di piante e fiori di ogni tipo, una piscina e un patio decorato da lanterne e luci sul soffitto, per non parlare degli interni! Già dall'arredamento della sua stanza alla Nona avevo capito che Jay avesse gusto, e casa sua rispetta le aspettative che mi ero fatta. Il padre, Richard, da qualche anno ormai si è trasferito a Brighton per lavoro, ed è dotato dello stesso umorismo del figlio, mettendomi da subito a mio agio. Gradualmente sento la tensione scendere e posso finalmente rilassarmi e godermi la serata.

A cena finita, ci ritroviamo io e Jay in cucina, lui lava i piatti mentre io lo aiuto a sparecchiare.

«Che programmi hai per domani? Abbiamo tutto il giorno libero, c'è la disinfestazione del cortile» mi chiede voltato di spalle, io mi avvicino appoggiandomi con la schiena contro il bancone moderno.

«Credo proprio nessuno, come al solito» rispondo, «Dove hai intenzione di portarmi?» aggiungo in fretta, dando per scontato che Jay voglia passare – o sprecare – un altro giorno della sua vita insieme a me.

«Cosa ti fa credere che io voglia stare con te domani?» mi domanda, ridendo sotto i baffi. Inarco le sopracciglia, guardandolo storto.

«Fammi pensare...» inizio, passandogli uno strofinaccio per asciugarsi le mani, «forse il fatto che nonostante io sia una cosiddetta rompicoglioni 24 ore su 24, che ci capita di litigare spesso per scemenze, che ti ho fatto espellere dall'università, che mi rifiuti di farmi chiamare con i tuoi stupidi nomignoli davanti i miei amici, non ti sei mai rifiutato di passare del tempo con me. E sinceramente, certe volte mi chiedo anche il perché».

Lui annuisce, ridendosela liberamente.

«Ammirevole, potrei commuovermi» risponde, posando lo strofinaccio sul bancone e avvicinandosi di nuovo a me, «Mmm, ascolta... conosco un bel posto vicino Parliament Hill Fields. Pensaci: io, tu, il panorama notturno di Londra, sulla collina illuminata solo dalle stelle e dalla luna...».

Note: mi chiamo Sam e non sto andando in iperventilazione. Mentre si avvicina sempre di più trattengo il respiro. «E poi ti porto a pattinare, che ne dici?» conclude.

«Penso che sia un'ottima idea» acconsento, a un soffio dal suo viso, cercando di mantenere un tono della voce neutro.

Prontamente, nella stanza irrompe il padre di Jay, facendoci scattare quasi ai lati opposti della stanza, io faccio finta di sistemare qualcosa dando le spalle. Quando ci lascia di nuovo da soli, ci lasciamo andare in una risata liberatoria.

Finite le nostre faccende casalinghe, decidiamo di congedarci da Richard Wilson e tornare alla Goldsmiths – sono già le 23.30 e non ci conviene sforare il coprifuoco un'altra volta.

«Jay, per tutta la serata ho pensato, dato che tuo padre adesso è a Londra, non dovrebbe sapere della storia dell'espulsione?» gli chiedo quando siamo già al cancello principale, aspettando che la guardia di turno ci apra.

«A dire la verità ci ho pensato anche io, ma ho voluto evitare di fare scenate davanti a te» risponde lui, adesso di nuovo cupo. A dire la verità, sto morendo di sensi di colpa: per me, per Amie e Harry, ma soprattutto per Jay. La sua opportunità di diventare qualcuno dentro la Goldsmiths, grazie alla Goldsmiths, molto probabilmente è svanita per la mia mania di trasgredire le regole.

Una volta lasciata la macchina, ci incamminiamo nel vialetto verso i nostri appartamenti, mano nella mano ed entrambi pensierosi.

«A che pensi?» mi chiede, schioccandomi le dita davanti agli occhi per svegliarmi, una volta arrivati davanti la Quinta. Guardo il display del telefono: è quasi mezzanotte. Mancano pochi minuti alla fine della scommessa, lo stupido gioco che ha incasinato tutti i miei piani, e la mia testa.

«Grazie di tutto, Jay, come al solito» gli dico, abbracciandolo, «è stata una bellissima serata e mi sono davvero divertita». Adesso è il suo turno di guardare il display del cellulare, per poi sospirare e tornare a guardarmi negli occhi.

«Manca un minuto alla mezzanotte... ci pensi che ci siamo conosciuti solo una settimana fa? Sembra passata una vita» inizia, tenendomi sempre stretta. A chi lo dici. «E pensare che quando ti ho vista per la prima volta mi stavi sul cazzo... ed ero anche felice che Shoe non ti avesse fatto le fotocopie, lo ammetto».

Rispondo con uno sguardo omicida, ma quando sto per ribattere, posa un dito sulle mie labbra per fermarmi. Forza Sam, niente è ancora perduto, puoi farcela!

«Volevo dirti una cosa che mi tengo dentro da un po' di tempo, e credo che dovresti sapere che...» continua. Quando ormai le nostre labbra si sfiorano chiudo gli occhi e mi lascio baciare, un bacio che entrambi desideriamo da giorni e che è sempre stato interrotto, un bacio che dovrebbe sapere di vittoria ma invece sa di una profonda sconfitta personale. Jay si stacca lentamente dalle mia labbra, incrociando per un attimo il mio sguardo, poi si avvicina al mio orecchio destro, mentre il mio corpo è come immobilizzato.

«...so della scommessa» sussurra infine. La mia mente impiega qualche secondo più del dovuto per elaborare quello che ho appena sentito, mentre inizio a sentire le gambe tremare e il mondo crollarmi addosso.

«Q-quale scommessa...» balbetto nervosa, Jay si stacca dall'abbraccio e posso finalmente vedere bene il suo viso attraversato da un'espressione mai vista finora.

«Sai benissimo di che cosa parlo, Sam» replica, con un sorriso amaro, allontanandosi mentre cammina all'indietro. Uno dei suoi vizi.

«Jay, posso spiegarti...» inizio, entrando nel panico.

«Non ho bisogno di spiegazioni, è tutto chiaro. Vuoi sapere la verità sul tuo conto? Sei una fifona, non hai un briciolo di coraggio, neanche quello semplice e istintivo di riconoscere che a questo mondo ci si innamora. Tu ti consideri uno spirito libero, ti rifugi dietro stupide scommesse per paura che qualcuno possa rinchiuderti in una gabbia» ribatte alterato, il tono della voce che si alza mentre le parole che ha aspettato con ansia di sputarmi contro escono ancora più avvelenate di quanto lui si aspettasse, «E sai che ti dico? Che la gabbia te la sei costruita da sola, ed è una gabbia dalla quale non uscirai, perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa. Abbiamo chiuso, Sam» conclude, poi si volta per andarsene, ma una forza irrazionale dentro di me riesce a muovere le mie gambe un attimo prima pietrificate per andare verso di lui e fermarlo.

«Jay, tutto quello che hai detto è la pura verità» dico, la voce tremolante, «e questo perché come hai saputo leggermi tu in così pochi giorni non c'è mai riuscito nessuno. Ma ti giuro, e devi credermi, che non è stata tutta una montatura. La ragazza che si divertiva con te era vera, i miei sentimenti per te sono veri, è iniziato come un gioco ma tu per me non lo sei mai stato!». Le parole escono così velocemente dalla mia bocca che io stessa mi stupisco di come stia parlando a cuore aperto, cercando di trattenere le lacrime. Con la coda dell'occhio vedo le luci della Quinta accendersi.

«Io ricordo ogni singola cosa fatta insieme di questa settimana, Sam. Dal primo appuntamento organizzato con Chiara, fino a quando ti ho portato su una maledetta mongolfiera per stupirti!» esclama, ormai fuori di sé. Con le mani fra i capelli, lo imploro mentalmente di non gridare, di calmarsi, ma di nuovo non riesco a fiatare. «Come posso fidarmi di te?!»

«Non pensare, neanche per un secondo, che io ti abbia preso in giro, Wilson. Volevo convincermi di stare facendo tutto questo per la scommessa ma non era così, e lo sapevo benissimo, anche se non volevo ammetterlo...» replico, mentre alle spalle sento il rumore di una porta e dei passi sul vialetto, «lo sapevano tutti, lo sapeva Chiara, mio fratello, Lucas, tutti i ragazzi sapevano...». All'improvviso realizzo. Come ho fatto a non capirlo prima?

«Lucas Taylor ti ha detto della scommessa, vero?» gli domando, improvvisamente gelida.

«Non me ne frega niente né di Taylor né della scommessa! Il punto è che io sapevo di questa presa in giro fin dal principio ma ho continuato perché stare con te mi faceva stare bene, ma non sapevo mai con quale delle tue personalità stessi parlando. Ho chiuso» sbotta, ignaro che la mia mente sia sempre più dissociata dalla realtà. Asciugo una lacrima sulla guancia mentre vedo davanti a me Nick e Harry intenti a trattenere Lucas dal riempire Jay di botte, e finalmente il mio cervello riprende a funzionare. Rumore, sento solo rumore indistinto, mentre focalizzo il mio obiettivo. Mi scaglio contro Lucas Taylor con la poca forza che ho in corpo, facendolo inciampare e cadere per terra e iniziando a picchiarlo con scarsi risultati, perché ogni volta che alzo una mano questa inizia a tremare e perde le forze, mentre le lacrime mi impediscono di vedere distintamente intorno a me. Mi sento sollevare da terra: è Cooper che mi tiene così stretta da farmi male e mi trascina verso casa.

«Ti odio, Taylor! Hai rovinato tutto un'altra volta!» gli urlo contro, ma Lucas rimane immobile per terra a fissarmi con la bocca spalancata.

Rumore. Cooper mi trascina fino alla mia stanza, mi accompagna fino al letto. Ancora rumore. Non vedo niente e non riesco a capire quello che il mio amico mi dice, sento solo un grande dolore nel petto. Solo rumore.

 

 

 

 

«Allora, come ti senti?
«Di merda, Cooper, come dovrei sentirmi? In fin dei conti abbiamo passato dei bei momenti insieme, ma non sono un premio che si vince alla lotteria. Semplicemente, non mi sta bene il suo gioco. Credo che prima o poi tutti e due ce ne faremo una ragione.

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