Star Trek Keter Vol. VII: Guerra Civile

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ultimatum alla Terra ***
Capitolo 3: *** La Caduta ***
Capitolo 4: *** Divisi dal dovere ***
Capitolo 5: *** Memory Alpha ***
Capitolo 6: *** Senza cuore ***
Capitolo 7: *** Il grido della Banshee ***
Capitolo 8: *** Il sonno della ragione ***
Capitolo 9: *** Occhi aperti ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. VII:

Guerra Civile

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 

 

-Prologo:

Data Stellare 2373.303

Luogo: Nave Città dei Voth, Quadrante Delta

 

   Il dottor Forra Gegen, eminente paleontologo, entrò nell’aula del tribunale, accompagnato dall’Umano di nome Chakotay. La sala circolare recava sul pavimento il simbolo azzurro dell’Autorità Voth: un cerchio parzialmente avvolto da un elaborato fregio. Gli imputati si fermarono lì, al centro del salone. Davanti a loro, quattro gradini portavano alla cornice soprelevata in cui sorgeva lo scranno del giudice, suggestivamente posto davanti all’ampia finestra che mostrava il firmamento trapunto di stelle.

   Il Ministro Odala entrò da un ingresso laterale e incedette solennemente verso il suo seggio, scortata da due guardie. Era una Voth di corporatura robusta, che camminava un po’ rigida, ma nel complesso portava bene i suoi 195 anni. La sua veste rosso scuro, riccamente ornata, era quella di un magistrato, e infatti il Ministro agiva a tutti gli effetti come un giudice, col potere di emanare sentenze. Non c’era giuria, né pubblico, e non c’erano nemmeno gli avvocati, perché quello era un processo per eresia. I capi d’accusa sarebbero stati letti direttamente dal Ministro, che avrebbe emanato la sentenza dopo aver offerto al colpevole la possibilità di abiurare.

   «Professor Gegen, lei è accusato di eresia contro la Dottrina» esordì Odala, prima ancora di sedersi. Parlava con voce lenta e grave, come richiesto dalle circostanze. «Desidera ritrattare le sue affermazioni riguardo la teoria dell’Origine Lontana?».

   «Io non le ritratto» rispose il paleontologo con voce limpida.

   «Quand’è così, procederemo» disse Odala, fissandolo con occhi che non promettevano nulla di buono. La Voth sedette pesantemente sul suo scranno. «Tre mesi fa, ha fatto circolare un saggio in cui criticava quella che definiva la “resistenza alla verità”, ancora una volta contestando la Dottrina» disse con voce dura e severa.

   «Io mi scuso se ho scritto qualcosa che può aver offeso gli Anziani, ma non ho neanche menzionato la parola “Dottrina”» notò il professor Gegen.

   «E non era necessario!» ribatté Odala. «Il suo intento era chiaro. Da circa un decennio, sta usando la teoria dell’Origine Lontana per attaccare e minare i principi guida della nostra società».

   «Non è così!» protestò Gegen, la voce appena venata di nervosismo. «Io stavo soltanto conducendo un’indagine scientifica. Non m’interesso affatto alla Dottrina!».

   «Ma è proprio questo il punto!» avvertì Odala, alzandosi. «Il suo disinteresse per gli effetti del suo disinvolto teorizzare è il motivo per cui è accusato. Lei è sconsiderato e irresponsabile, e ha un’influenza distruttiva sulla nostra società. Ma non è troppo tardi perché si ponga rimedio ai danni che ha fatto» aggiunse, addolcendo la voce. «Sconfessi le sue affermazioni, riconosca i suoi sbagli, e il Ministero si dimostrerà certo indulgente» promise.

   «Sono spiacente; non posso negare l’evidenza» ribatté il paleontologo. «La prova la vedete qui, di fianco a me» disse, accennando all’Umano che gli stava accanto.

   «La prova? Davvero?» fece Odala, in tono beffardo. «I nostri scienziati hanno analizzato i suoi dati» disse, prendendo un d-pad dalla guardia alla sua destra. «La loro conclusione? “Queste creature non sono affatto imparentate con noi”» disse, leggendo il report scientifico. «“Le similarità genetiche sono il risultato di una convergenza casuale, nulla di più”».

   Fu allora che Chakotay prese la parola. «Se posso parlare...» esordì in tono misurato. Il Ministro si degnò di rivolgergli un cenno di assenso. «Nel database della Voyager c’è una documentazione completa dei fossili del mio pianeta. I vostri marcatori genetici compaiono non solo negli Umani, ma in centinaia di specie nel corso dell’evoluzione. È straordinaria come “convergenza casuale”. Se analizzate i dati che...».

   «Lo abbiamo fatto» lo interruppe Odala. «I dati non sono in questione. La sua interpretazione invece sì» spiegò, restituendo il d-pad alla guardia. Il Ministro si rivolse nuovamente al paleontologo, ma ora parlava in tono più confidenziale, quasi complice. «Professor Gegen, questa situazione mi fa ancora meno piacere che a lei, e francamente preferirei non essere responsabile della caduta in disgrazia di uno dei nostri più valenti scienziati» spiego, avvicinandosi di un passo. «Tutto quello che le chiedo è di ammettere la possibilità che la sua interpretazione sia sbagliata. Vuole almeno accettare questo?».

   «Sono pronto ad ammettere che ci sono ancora tanti interrogativi» riconobbe lo scienziato, avanzando a sua volta. «Il quadro non è completo. Ma di una cosa sono certo: noi veniamo dal pianeta che questi Umani chiamano Terra!» disse, indicando Chakotay.

   «C’è chi non è d’accordo con lei» insisté il Ministro, guardandolo senza più alcuna simpatia. Uno strano, inquietante sorriso le aleggiò sulle labbra. La Voth si risedette sullo scranno e premette un comando mimetizzato tra i fregi decorativi.

   Il rimbombo del portone annunciò l’arrivo del testimone dall’ingresso laterale. Il professor Gegen sgranò gli occhi nel riconoscere Tova Veer, il suo fidato assistente, l’unico che lo avesse accompagnato nell’incerta missione sulle tracce della Voyager. A lenti passi, con sguardo basso, il testimone si accostò al Ministro.

   «Tova Veer, lei è un illustre, giovane scienziato» lo lodò Odala. «È stato introdotto nel Circolo della Paleontologia con il massimo degli onori».

   «Sì, Ministro» annuì Veer con un filo di voce.

   «Ed è stato assistente del professor Gegen per sei anni» proseguì Odala.

   «Ho avuto questo privilegio» confermò il giovane, dandogli solo una brevissima occhiata.

   «Lei ha familiarità – quindi è profondamente coinvolto – nelle ricerche del suo mentore riguardanti la cosiddetta teoria dell’Origine Lontana, giusto?» inquisì il Ministro.

   «Certo, è esatto».

   «Secondo la sua valutazione di esperto, quanto crede che sia valida l’analisi del professore?».

   Gegen si accese di speranza. Il giovane Veer gli era fedelissimo; lo aveva seguito anche dopo che tutti gli altri gli avevano voltato le spalle. Il suo ardore non era solo di natura scientifica: Gegen aveva notato il colore delle sue scaglie, quando guardava sua figlia Frola. Presso i Voth i matrimoni erano combinati tra le famiglie, ragion per cui Frola era già promessa al Clan Towt. Ma come Gegen stesso aveva detto al suo assistente, in un momento di confidenza, “le tradizioni sono fatte per essere infrante”. Per questa ragione il paleontologo sentiva di potersi fidare di lui.

   «La teoria è fallace, Ministro» mormorò invece Veer, con gli occhi bassi.

   Queste parole furono una doccia fredda per Gegen. «Veer!» gridò, scandalizzato dall’inatteso tradimento.

   «Sta dicendo che lei e Gegen vi sbagliavate?» incalzò Odala, con una luce di trionfo negli occhi.

   «Sì» confermò Veer. Sembrava che la parola gli fosse cavata con un uncino, tanto era sofferta. «Ho riesaminato tutte le ricerche, compresi i nuovi dati del computer della Voyager. Ho controllato e ricontrollato le procedure, e adesso penso che siamo stati... troppo zelanti. Abbiamo visto una connessione evolutiva dove, in effetti, non c’era».

   «Entusiasmo e passione non sono mai un male, Veer» disse benevolmente il Ministro. «Il vostro sbaglio è stato di permettere che distorcessero il vostro giudizio. Lei può andare» lo congedò.

   Veer chinò il capo, si girò e lasciò l’aula, senza guardare il suo mentore. Aveva il passo lento e pesante degli sconfitti.

   «Professor Gegen, glielo chiedo di nuovo: non può essersi sbagliato?» chiese Odala, concentrandosi di nuovo sul professore.

   «Che cosa gli avete detto? Che gli avreste tolto tutti gli onori se non avesse collaborato? Che lo avreste mandato in una colonia di detenzione?» ribatté Gegen, pieno di sdegno.

   «Non può essersi sbagliato?!» ripeté il Ministro, alzando la voce.

   «Avete minacciato la sua famiglia?!» incalzò il paleontologo.

   «Risponda alla domanda!» gridò Odala, alzandosi di scatto.

   «No! Perché dovrei? Avete già preso una decisione!» l’accusò Gegen. «Qui non si tratta di evidenza o di prove. Lei vuole solo mantenere il suo rango!».

   «Gegen!» lo richiamò Chakotay. Il Comandante sapeva come finivano i processi di quel tipo. La storia della Terra e di tanti altri mondi lo dimostrava ampiamente. Scontrandosi con le autorità, lo scienziato si metteva contro un nemico che non poteva sconfiggere... finché i tempi non fossero maturati.

   «Mantenere un mito che garantisca al Ministero il potere!» continuò lo scienziato, ignorandolo. «Fareste qualunque cosa per farmi tacere. Ma non ci riuscirete. Non ritratterò le mie affermazioni; preferisco la prigione che aiutarvi a perpetuare l’ignoranza!».

   «Ora mostra finalmente il vero colore delle sue scaglie» disse Odala, con voce intrisa di disprezzo.

   «Lei ha ragione, Ministro: io mi sono sbagliato» disse inaspettatamente Gegen. «Ho creduto che lei potesse davvero cercare la verità, anche se metteva in discussione alcune delle nostre più profonde convinzioni, ma...».

   «Noi non siamo degli emigranti!» ringhiò il Ministro, con una collera viscerale. «E non sarò certo io a rinnegare venti milioni di anni di Storia e di Dottrina, soltanto perché un insignificante sauro ha una sua strana teoria. Glielo chiedo per l’ultima volta: non potrebbe essersi sbagliato, Gegen?!» chiese, fissandolo con sguardo assassino.

   «È lei che si sbaglia, Ministro» intervenne Chakotay.

   «Che cosa?!» fece Odala, oltraggiata dall’accusa e ancor più dal fatto che venisse da un mammifero.

   «Lei accusa il professore di avere offuscato la sua obiettività per un pio desiderio. Ma non le si può rivolgere la stessa accusa?» la provocò il Comandante.

   «Non sono io in giudizio, qui!» rispose aspramente la Voth.

   «Me ne rendo conto; però lo è tutto quello in cui crede» precisò Chakotay. «Quello che pensate di voi stessi, il vostro posto nell’Universo... questo è in giudizio. E non è la prima volta».

   «Che cosa vuol dire?» chiese Odala, arcigna.

   «Ho avuto l’opportunità, negli ultimi giorni, d’imparare qualcosa sulla vostra cultura. Sulle vostre grandi conquiste» spiegò l’Umano. «Prendiamo la scoperta della transcurvatura: un progresso incredibile, eppure la vostra antica Dottrina prediceva un terribile disastro se solo aveste tentato. Tutto questo vi ha trattenuto per millenni, finché qualcuno non ha corso il rischio e ha sfidato la predizione. Ha avuto successo, e la vostra società ha aperto un nuovo capitolo dell’esplorazione, e la Dottrina è cambiata di conseguenza». Qui il Comandante abbassò la voce. «So, dalla storia del mio pianeta, che cambiare è molto difficile» riconobbe. «Le nuove idee sono spesso accolte con scetticismo, se non con paura. Ma certe volte quelle idee vengono accettate e quando accade è già un passo avanti. Gli occhi sono aperti!» disse in tono ispirato.

   Odala lo fissò con commiserazione. «Quando apro i miei occhi su questa vostra teoria, quello che vedo mi sgomenta a dir poco» disse con franchezza. «Vedo la mia razza fuggire dal vostro derelitto pianeta, un gruppo così patetico di profughi che a fatica si apre una strada attraverso la Galassia e s’imbatte in questo suo “dominio”». Così dicendo lasciò lo scranno e si recò alla finestra panoramica, contemplando le profondità dello spazio Voth. Quei soli che brillavano per centinaia di anni luce in ogni direzione appartenevano tutti al suo popolo, e così i pianeti che vi orbitavano attorno. Era motivo d’orgoglio per tutti i Voth sapere che la loro stirpe viveva in quella regione galattica da sempre e li aveva reclamati per prima, quando le altre specie erano ancora primitive. «Vedo una razza senza diritti di nascita, senza un retaggio, e questo è inaccettabile!» ringhiò Odala, volgendosi a fronteggiare di nuovo gli imputati.

   «Io vedo qualcosa di molto diverso, Ministro» ribatté Chakotay. «Un’antica razza di sauri, probabilmente la prima specie intelligente sulla Terra, circondata da alcune tra le più terrificanti creature mai esistite. Eppure ha progredito, ha sviluppato un linguaggio e una cultura e una tecnologia. E quando il pianeta è stato minacciato dal disastro, si è coraggiosamente lanciata nello spazio. Attraversando quelle che sembravano distanze inimmaginabili, affrontando ogni giorno l’ignoto... ma in qualche modo è rimasta unita» incalzò, avvicinandosi al Ministro. «È andata avanti, sempre con lo stesso coraggio del primo giorno, finché ha raggiunto questo Quadrante, dove ha posto le fondamenta di quella che sarebbe stata la grande civiltà dei Voth. Rinneghi questo passato e rinnegherà la lotta e le conquiste dei suoi antenati. Rinneghi le vostre origini sulla Terra... e rinnegherà il vostro vero retaggio» dichiarò, fissando la Voth.

   Dopo quest’arringa, Odala tornò al suo seggio. Si accomodò lentamente, distendendo bene le braccia, come una regina in trono, e inspirò a fondo. «Vuole ritrattare le sue affermazioni?» chiese a Gegen, come se Chakotay non avesse nemmeno parlato.

   «No» rispose il paleontologo con decisione. «Al contrario, io le confermo».

   «Molto bene» disse Odala, fissandolo con durezza. «Questo è il mio verdetto: lei subirà le conseguenze della sua ostinazione. Gegen, lei è colpevole di eresia contro la Dottrina e sarà inviato in una colonia di detenzione» sentenziò.

   Sconvolto e amareggiato, Chakotay guardò il suo amico scienziato. Conosceva il Voth da poco, ma lo aveva preso in simpatia. Non avrebbe mai voluto vederlo dietro le sbarre, solo perché aveva osato proclamare l’evidenza. Ma c’era qualcosa che preoccupava il Comandante ancora di più: la sorte della Voyager. In quel momento l’astronave federale si trovava nell’immenso hangar della Nave Città, con i sistemi offline e l’equipaggio agli arresti. Al Ministro bastava una parola perché la nave fosse distrutta e i federali condannati.

   «Finché avrà respiro, lei non insegnerà, né si dedicherà a ricerche. Dunque la sua vita di scienziato è finita» proseguì Odala, sempre rivolta al paleontologo.

   «Se così comanda...» disse Gegen, accettando il verdetto con dignità. Nutriva ancora la speranza che il suo processo giungesse all’attenzione del grande pubblico, stimolando dibattiti e alimentando quel cambiamento culturale che alla fine avrebbe reso la sua teoria meglio accetta.

   A questo punto il Ministro si rivolse all’Umano. «Chakotay, della nave stellare Voyager» disse con studiata lentezza «lei, il suo Capitano e tutto l’equipaggio seguirete il professor Gegen» decretò.

   Le scaglie dello scienziato si fecero blu dal terrore. «Perché?!» chiese con angoscia. «Non ha niente da guadagnare, imprigionandoli. Li lasci andare!» supplicò. Era stato lui a coinvolgere i federali nella sua ricerca, esponendoli ai rischi derivanti. Poteva sopportare un’ingiusta condanna per sé; ma non di trascinare centocinquanta innocenti nella sua rovina.

   «Voi passerete il resto dei vostri giorni in una colonia di detenzione e la vostra nave sarà distrutta!» sentenziò Odala, implacabile.

   Chakotay si sentì morire. Per quanto avesse a cuore il paleontologo e la sua causa, non poteva condannare i suoi compagni di viaggio, Maquis e federali, che ormai da tre anni avevano unito le forze per farsi strada in quel Quadrante ostile.

   «Ministro!» invocò Gegen.

   «Consegnerete la vostra nave immediatamente e informerete l’equipaggio che il verdetto sarà...» proseguì Odala.

   «Ministro, la prego!».

   A quelle parole, a lungo attese, la Voth s’interruppe e si rivolse allo scienziato, con la tranquilla superiorità di chi ha già vinto. «Ha forse deciso di offrirmi qualche alternativa?» chiese lentamente.

   Gegen balbettò, avvilito e confuso. Guardò Chakotay, che gli rivolse una muta supplica. La sorte dei federali dipendeva interamente da lui. Il paleontologo comprese che aveva perso. Il Ministero aveva tutti gli strumenti di pressione necessari a farlo abiurare. Oggi erano i federali della Voyager; ma un domani sarebbe stata sua figlia Frola. A questo pensiero, lo scienziato e il padre che erano in lui si scontrarono. La vittoria, fatalmente, andò al padre.

   «Io... io ho... riflettuto» mormorò Gegen. Si rivolse al Ministro, che sorrideva trionfante, ma tenne gli occhi bassi. «Ritratto le mie affermazioni riguardo alla teoria dell’Origine Lontana. La mia analisi dei dati era... ovviamente fallace». Le parole gli uscivano con dolorosa lentezza. Arrischiò una breve occhiata a Odala e continuò. «Io... mi sono... s-sbagliato» disse con un filo di voce. La sua coscienza e la sua integrità di scienziato morirono con quell’abiura. Qualcosa in lui si era spezzato e non si sarebbe più ripreso.

   «È pronto a rinnegare il suo lavoro pubblicamente, davanti al Circolo dei Paleontologi?» chiese Odala, non ancora sazia.

   «Sì» annuì Gegen. Stavolta fu facile parlare. Lo scienziato si era già arreso; qualunque autodafé a cui lo costringessero le autorità avrebbe aggiunto ben poco all’umiliazione.

   «In seguito lei verrà assegnato ad un’altra area di ricerca» disse il Ministro con scioltezza. «Di certo la paleontologia le sarà diventata tediosa, dopo tanti anni di studio» lo canzonò. «Probabilmente l’analisi metallurgica le riserverà maggiori onori e soddisfazioni».

   «Sì, può darsi» disse Gegen, parlando come un automa.

   «Non sono poi così irragionevole» commentò Odala, rivolgendosi a Chakotay. «Siete stati coinvolti in questa... situazione senza che ne aveste colpa. Lei sarà riportato sulla sua nave e quindi farete rotta lontano dal nostro territorio». Ciò detto il Ministro si sporse in avanti, fissando il federale dritto negli occhi. Nel suo sguardo c’era una minaccia così spietata, così inesauribile nel suo zelo, che il Comandante si sentì tremare fino al midollo. «Di certo sarebbe nel vostro interesse che io non avessi mai più a rivedervi» ammonì Odala.

   Dopo di che, con lente movenze regali, la Voth lasciò il suo scranno e si ritirò, scortata dalle guardie. Non aveva mai, neanche per un istante, dubitato della vittoria. E ora se ne andava con la coscienza limpida di chi ha fatto il suo dovere.

   Chakotay non osò fiatare. Si era sempre battuto contro le ingiustizie, tanto da unirsi ai Maquis; ma in quel momento comprese che non poteva raddrizzare tutti i torti della Galassia. La sua prima responsabilità erano i compagni della Voyager. Quanto ai Voth, la loro società chiaramente non era pronta ad accettare una simile rivoluzione. «Col tempo forse lo sarà» si disse il Comandante. «Ma non oggi. Oggi vince la censura».

 

   I Voth rilasciarono la Voyager, come promesso. L’astronave federale si allontanò subito dalla Nave Città, seguendo la rotta assegnata, che l’avrebbe portata fuori dal loro spazio nel più breve tempo. Gegen la accompagnò con la sua navicella scientifica, ma solo per un breve tratto. Era il momento degli addii. Chakotay salutò il paleontologo a bordo della sua astronave, nella stessa saletta in cui questi l’aveva interrogato dopo il loro burrascoso incontro.

   «Non sono molto portato per la chimica» confessò il Voth, sconsolato. «La mia carriera come scienziato metallurgico sarà, molto probabilmente, meno che mediocre».

   «Mi dispiace» disse il Comandante.

   «Sono stato sciocco... arrogante... e ho perso ogni cosa» ammise Gegen, fissando il vuoto. Non aveva ancora parlato con Frola. Come avrebbe potuto guardarla negli occhi, sapendo di averla delusa? Sempre che anche lei non si schierasse con il Ministero. Già una volta la ragazza lo aveva dissuaso dall’insistere con la sua teoria.

   «Lei è stato coraggioso, come sono sempre stati i Voth, sin dal momento in cui hanno lasciato la Terra» lo confortò l’Umano.

   «E lei, Chakotay, è stato più che un collega... è stato un amico. Non la dimenticherò» promise Gegen. Erano faccia a faccia; Chakotay comprese che era il momento di congedarsi.

   «C’è qualcos’altro che spero non dimentichi» disse il Comandante, aprendo una piccola borsa che si era portato dietro. Ne trasse un globo del diametro di un palmo: una perfetta raffigurazione del pianeta Terra, con gli oceani e i continenti disegnati nel dettaglio. Lo porse a Gegen, che lo prese con reverenza. Quell’oggetto ebbe il potere di confortarlo. «Un giorno, tutti i Voth la considereranno la loro patria» predisse lo scienziato, indicando la piccola Terra con un artiglio.

   «Sì, un giorno» convenne Chakotay, con un sorriso incoraggiante. «Occhi aperti».

   «Occhi aperti!» ripeté Gegen, a mo’ di augurio.

   Il Comandante si premette il comunicatore. «Chakotay a Voyager, energia» ordinò. Il raggio azzurro del teletrasporto lo riportò sulla nave. Come molte altre avventure, anche quella era terminata, seppur non nel modo migliore. Era tempo di riprendere il lungo viaggio di ritorno verso casa.

 

   Svanito l’Umano, Gegen contemplò a lungo il modellino. Se lo rigirava tra gli artigli, osservandolo da tutte le angolazioni. Per un attimo fu tentato di fare rotta verso il Quadrante Alfa, per vedere la Terra con i suoi occhi. Con i motori a transcurvatura, era un viaggio di poche settimane. Ma ricordando quanto accaduto sulla Nave Città, dovette seppellire questo sogno. Le autorità non gli avrebbero mai permesso un viaggio del genere. Se solo avessero sospettato le sue intenzioni, lo avrebbero imprigionato a vita. E se lui fosse partito all’improvviso, seminando gli inseguitori, che ne avrebbe ricavato? Anche trovando la Terra, non sarebbe potuto tornare tra la sua gente con i dati raccolti. Sarebbe stato esiliato per sempre tra alieni che, per quanto cortesi e ospitali, non erano la sua gente.

   Se fosse stato responsabile solo di se stesso, lo scienziato ci avrebbe fatto un pensierino; ma c’era Frola. Non poteva abbandonarla, né portarla con sé su un pianeta alieno, dove lei non avrebbe mai trovato un compagno. No, si disse con un sospiro; doveva restare per sua figlia. Ora che la sua teoria scientifica era stata messa al bando, Frola era tutto ciò che gli restava. Non poteva perdere anche lei. Né poteva lasciare che la usassero per ricattarlo. Perciò non gli restava che chinare il capo e sconfessare la sua teoria davanti al Circolo dei Paleontologi, in attesa di tempi migliori. Come aveva detto a Chakotay, un giorno i Voth avrebbero aperto gli occhi. Ma con ogni probabilità non sarebbe accaduto tanto presto, visto quant’erano forti le resistenze.

   «È probabile che per allora io sarò morto e sepolto» si disse Gegen con amarezza. «Ma Frola, chissà... forse lei vivrà tanto da vedere la Terra con i suoi occhi» si disse, contemplando il modellino. Né lui, né quelli della Voyager rifletterono a fondo su cosa sarebbe accaduto, qualora i Voth si fossero convinti che la Terra faceva parte del loro retaggio.

 

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Capitolo 2
*** Ultimatum alla Terra ***


 

-Capitolo 1: Ultimatum alla Terra

Data Stellare 2590.303

Luogo: Terra (Sol III)

 

   Seduto comodamente sulla sua poltrona di comando, l’Ammiraglio Hadron si palleggiava da una mano all’altra il modellino della Terra, vecchio di oltre due secoli e ormai consunto. Era lo stesso globo che Chakotay aveva donato a Forra Gegen e che questi aveva lasciato in eredità a Frola. Quel modellino, assieme a una serie di coordinate, aveva guidato i Voth fino alla loro patria ancestrale. L’Ammiraglio alzò gli occhi allo schermo, su cui brillava la Terra. La contesa fra i difensori della Dottrina e i riformisti poteva dirsi conclusa con la vittoria di questi ultimi. Ma il ritrovamento del Mondo Perduto aveva scatenato un altro conflitto drammatico, che non si sarebbe risolto nei laboratori di paleontologia e nelle aule dei tribunali. Perché dal momento in cui i Voth avevano accettato di provenire dalla Terra, la consideravano parte inalienabile del loro retaggio. La Terra era una proprietà che andava riconquistata, a costo di sloggiare gli attuali abitanti: gli Umani e le altre specie federali.

   Da nove giorni la flotta di Hadron assediava il pianeta, impedendo a chiunque di entrare o uscire e bloccando anche le comunicazioni con il resto dell’Unione Galattica. La Terra però era tutt’altro che indifesa. Essendo stata la capitale della Federazione per quattrocento anni, e dell’Unione negli ultimi trentaquattro, e avendo già subito molti attacchi, aveva difese imponenti. L’intero globo era avvolto dalla bolla perlacea dello Scudo Planetario; sopra di esso orbitavano centinaia di piattaforme difensive. Di conseguenza le astronavi Voth – cento in tutto – si erano disposte appena oltre il raggio di tiro. Erano vascelli chilometrici, dagli scafi curvilinei, eleganti e aggressivi al tempo stesso. Di color grigio argento, con dettagli azzurri e verdi, erano punteggiati dalle luci degli alloggi, che li facevano somigliare a città nello spazio. Tra tutti spiccava la Nave Fortezza: lunga 134,5 km, era il più grande vascello entrato nel sistema solare dai tempi di V’Ger.

   Quando i sensori Voth captarono l’astronave federale in avvicinamento, la Nave Fortezza uscì dalla formazione e andò a intercettarla. Le si fermò davanti, racchiudendola nel suo cono d’ombra. «Ah, la Keter» riconobbe Hadron. «Mi chiedevo dove fosse finita». La Keter era la prima nave federale che avevano incontrato nel Quadrante Alfa. L’avevano salvata da un assalto di predoni Vaadwaur e in cambio erano stati accompagnati fino alla Terra. Stavolta, però, tutto faceva presagire che l’incontro non sarebbe stato amichevole. «Aprire un canale» ordinò l’Ammiraglio, sempre giocherellando con il modellino.

   Sullo schermo apparve un’ampia veduta della plancia federale. Hadron riconobbe il Capitano Hod, il Comandante Radek, l’Ufficiale Tattico Norrin e il Medico Capo Ladya Mol. C’erano anche il timoniere Vrel Shil e l’addetta ai sensori Zafreen. L’Ammiraglio aveva un buon ricordo di loro, tanto che si addolorò al pensiero che forse avrebbe dovuto distruggerli. «Bentornati» li accolse in tono cortese. «Siete stati via a lungo. Cominciavo a temere che vi fosse capitato un incidente».

   «Siamo di ritorno da una missione nel Quadrante Delta» spiegò il Capitano Hod, fissandolo adombrata. «Abbiamo incontrato qualche avversità, ma tutto si è risolto. Ora però devo chiederle che significa questo dispiegamento di forze attorno alla Terra».

   «Ah, sì» disse Hadron, vagamente imbarazzato. «Capisco che siate allarmati, ma vi prego di non equivocare. Non abbiamo intenzioni ostili nei vostri confronti. Anzi, vi siamo grati per l’accoglienza che ci avete dato» chiarì.

   «Questa è... una splendida notizia» disse Hod, per nulla rassicurata. «Posso sapere allora perché avete circondato la nostra capitale?».

   «Certamente» rispose l’Ammiraglio. «Come ricorderete, siamo venuti qui per verificare la teoria dell’Origine Lontana. In questi mesi abbiamo esaminato il DNA di migliaia di specie terrestri, confrontandolo col nostro. Le somiglianze genetiche sono inequivocabili: gli stessi marcatori ricorrono in tutte le specie di rettili, uccelli e mammiferi. Alla luce di queste prove, la teoria del professor Gegen è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. La Terra è davvero il nostro pianeta d’origine. Evidentemente ne perdemmo il ricordo, dopo la migrazione che ci portò nel Quadrante Delta; ma ora la verità storica è stata ristabilita. Abbiamo trasmesso i risultati della ricerca al nostro governo, che li ha resi accessibili alla popolazione. I circoli scientifici li hanno esaminati, confermando le nostre valutazioni».

   «È tutto molto interessante» disse Hod, tesa come una corda di violino. «Ma quindi...?».

   «Quindi esigiamo che la nostra patria ancestrale ci sia restituita» rispose il Voth con naturalezza. «Abbiamo chiesto al vostro governo di consegnarcela entro dieci giorni. Ne sono già passati nove; restano ventiquattro ore esatte».

   «Consegnarvela?!» sobbalzò il Capitano. «Altrimenti?».

   «Altrimenti la prenderemo con la forza» rispose Hadron in tono dolente. «Spero proprio che non si giunga a questo».

   Dato che Hod era rimasta inebetita, fu Radek a prendere la parola. «Supponendo che v’impadroniate del pianeta... che progetti avete nei confronti della popolazione? Perché vi ricordo che la Terra è abitata. Ci vivono cinque miliardi di Umani e quasi altrettanti alieni».

   «Ovviamente dovremo trasferirli» spiegò Hadron in tono pratico. «Per questo ho portato la mia Nave Fortezza in appoggio al resto della flotta. Trasferiremo gli abitanti sugli altri mondi federali, così da far spazio per i nostri coloni».

   «Vuole deportare i Terrestri?!» inorridì Vrel.

   «Suvvia, moderi i termini!» lo richiamò Hadron. «“Deportare” è un termine che suggerisce una finalità distruttiva. Noi non vogliamo far del male ai Terrestri, infatti c’impegneremo a tenere unite le famiglie e a costruire per loro nuovi alloggi. Trasferiremo anche il patrimonio culturale, almeno tutti quegli oggetti che possono essere spostati. Per quanto riguarda i monumenti, cercheremo di conservarli in loco, compatibilmente con le nostre esigenze d’insediamento. Così, se vorrete, potrete ancora fargli visita. Non vi sembra un compromesso accettabile?».

   Siccome gli ufficiali erano sotto shock, si fece avanti Ladya. «Che cosa pensa di tutto questo Frola Gegen?» chiese. «Lei voleva sì dimostrare la teoria di suo padre, ma non per scatenare conflitti interstellari! Voleva solo far trionfare la verità scientifica, anche perché rinunciando alla Dottrina la vostra società ne avrebbe beneficiato in termini di tolleranza» spiegò la dottoressa.

   «La signora Gegen è stata molto lieta di veder confermata la teoria paterna» disse il Voth. «Ora però il suo ruolo in questa faccenda si è concluso. È una questione politica e pertanto io seguo le direttive del mio governo. Direttive che, vi avverto, sono tassative. Ho l’ordine di reclamare il pianeta Terra: possibilmente in modo pacifico, altrimenti con i mezzi più opportuni».

   «Voglio parlare con il Comando di Flotta» disse Hod, pallida come un cencio.

   «Spiacente, ma non è possibile» ribatté Hadron con decisione. «Finché il vostro governo non ci risponderà, sono vietati sia gli spostamenti che le comunicazioni. Per questo stiamo emettendo segnali di disturbo che impediscono le trasmissioni radio e subspaziali».

   «Se crede che l’Unione sia disposta a cedere così facilmente la Terra, si sbaglia» avvertì Norrin. «Nessuna civiltà della Galassia consegnerebbe la propria capitale a gente che conosce appena».

   L’Ammiraglio Hadron sospirò e spostò lo sguardo da un ufficiale all’altro, mentre cercava il modo migliore di spiegarsi. «Sentite, sono molto spiacente per questa situazione, ma non dipende da me. Se anche togliessi il blocco dalla Terra, il mio governo mi rimuoverebbe dall’incarico e mi sostituirebbe con qualcun altro, che farebbe il lavoro in modo più spiccio» chiarì. «Come ho detto, vi sono grato per l’accoglienza e la collaborazione. Mi state simpatici e non vorrei mai distruggervi. Ma sarò costretto a farlo, se sarete così scriteriati da attaccarci. Perciò vi consiglio caldamente di non fare mosse avventate e di ritirarvi ad almeno un parsec da qui. Aspettiamo che il vostro governo ci dia una risposta, dopo di che agiremo di conseguenza. Fra 24 ore al massimo, signori, sapremo il destino della Terra. Ora andate, vi prego, o dovrò distruggervi».

   Cadde un silenzio di piombo, che si protrasse a lungo. L’Ammiraglio stava per riprendere la parola, quando il Capitano Hod si fece avanti. Fissò Hadron con sguardo bieco: il timore e lo smarrimento si erano già trasformati in una collera gelida. «Voi Voth siete abituati ad averla sempre vinta, ma stavolta avete messo gli artigli su una bomba che vi scoppierà in faccia. Attenti a voi!» avvertì.

   Prima che l’Ammiraglio potesse replicare, i federali troncarono la comunicazione. La Keter riapparve sullo schermo, più minacciosa che mai, con lo scafo in neutronio privo di finestre ma costellato d’armi. Si girò rapidamente, come un’orca assassina che guizza nell’acqua, e partì a cavitazione. Hadron intuì che non si sarebbe allontanata di molto. E allo scadere dell’ultimatum sarebbe tornata con i rinforzi.

   «Bene, siamo pronti a riceverli» si disse l’Ammiraglio. Non temeva i federali, certo com’era della propria superiorità tecnologica. Però gli dispiaceva vedere degli amici che si trasformavano così rapidamente e irrimediabilmente in avversari. «Riprendiamo posto nello schieramento» ordinò.

   Mentre la Nave Fortezza manovrava, l’Ammiraglio si riadagiò contro lo schienale della poltroncina. Riprese a palleggiare il modellino della Terra, ma da lì a un minuto fu interrotto da una visita. Frola Gegen irruppe in plancia, seguita da un paio di guardie che cercavano di trattenerla e balbettavano scuse all’Ammiraglio.

   «Dov’è la Keter?!» chiese l’anziana Voth, con le scaglie imporporate dalla rabbia.

   «Se n’è andata» rispose Hadron, seccato dall’intrusione.

   «Voglio parlare col Capitano Hod. La richiami! O mi dia una navicella, così potrò seguirla!» pretese Frola.

   «Non se ne parla» rispose seccamente l’Ammiraglio. «Lei resterà qui, al sicuro. I federali non sono più nostri amici. Se andrà da loro, la sequestreranno per ricattarci».

   «Non saremmo mai arrivati a questo punto, se non fosse per la vostra smodata avidità!» proruppe la Voth. «Assediare la Terra è una pazzia. I nostri avi l’abbandonarono milioni di anni fa; non possiamo pretendere che gli Umani ce la restituiscano!».

   «I nostri avvocati dicono il contrario» le ricordò Hadron. «L’Assemblea degli Anziani ha approvato questo intervento all’unanimità. La Terra deve tornare in mano nostra; altrimenti saremmo solo una banda di esuli, senza un retaggio da rivendicare».

   «E gli Umani, non hanno anche loro un retaggio sulla Terra?!» obiettò Frola.

   «Gli Umani sono venuti dopo. Sono i figli minori, secondogeniti del pianeta Terra. È giusto che se ne vadano, mentre noi – i primogeniti – amministriamo la nostra eredità» rispose con calma l’Ammiraglio.

   «Follia! Pura follia!» insisté l’anziana. «Il lavoro della mia vita, della vita di mio padre, non serviva semplicemente a dimostrare che ci siamo evoluti in un luogo piuttosto che in un altro. Doveva insegnarvi l’umiltà! Doveva insegnarvi a trattare le altre specie con rispetto! Ah, mio padre si rivolterebbe nella tomba, se sapesse che sfruttate le sue ricerche per giustificare un’invasione militare!».

   «Ora basta, sta esagerando!» disse Hadron, scattando in piedi. «Non sono stato io a prendere quest’iniziativa: è l’Assemblea che mi ha incaricato. Se non è d’accordo, vada dagli Anziani e protesti con loro. Intanto ci lasci lavorare. Quanto a voi...» disse, scrutando le guardie, «non fate più entrare la signora Gegen senza il mio permesso. Anzi, finché la Terra non sarà nostra, voglio che la confiniate nel suo alloggio. In seguito potrà andare dove vorrà. Ma io le consiglio vivamente di tornare a casa e non far più parlare di sé» disse, fissandola minaccioso.

   «Altrimenti?!» lo irrise Frola. «Non potete ricattarmi come avete fatto con mio padre. Non ho figli, io. I miei parenti sono morti, come anche il mio caro Tova. Sono sola al mondo, quindi potete accanirvi solo contro le mie vecchie scaglie e le mie vecchie ossa» disse, allargando le braccia.

   «Mi dispiace che la vita sia stata così dura con lei» disse l’Ammiraglio, addolcendosi un po’. «Ma vede, questa situazione non dipende da me. Capisco che si preoccupi per gli Umani e in certa misura condivido le sue preoccupazioni. Le prometto che farò di tutto perché la restituzione della Terra avvenga nel modo meno cruento. Di certo le mie navi non spareranno per prime. Ma se i federali ci attaccheranno, allora dovremo rispondere al fuoco».

   «Questo ci porterà a una guerra senza quartiere contro l’Unione» avvertì Frola.

   «Vinceremo facilmente. L’Unione non è alla nostra altezza» rispose Hadron, con la massima tranquillità.

   «Ne è certo? L’Unione comprende trecento specie, ciascuna con i suoi talenti e le sue risorse» insisté la Voth. «Ed è abituata a difendersi. Noi invece siamo in pace da così tanto che abbiamo dimenticato le asprezze della guerra. Sareste pronti a sacrificarvi?».

   «Confido che non sarà necessario» disse l’Ammiraglio, vagamente innervosito. «C’è ancora la possibilità di un accordo coi federali. Potremmo entrare pacificamente in possesso della Terra».

   «Lei cederebbe la nostra capitale a una potenza aliena?» chiese Frola. «Certo che no. Forse conquisteremo la Terra... ma sarà solo l’inizio di una guerra lunga e terribile. Una guerra dovuta al nostro orgoglio e alla nostra cupidigia!» avvertì la studiosa.

   Per qualche secondo regnò il silenzio. Hadron si accorse che la vecchia scienziata aveva attirato l’attenzione degli ufficiali. Molti la guardavano con scetticismo, come a una persona non più lucida, ma altri sembravano spaventati dalle sue fosche previsioni. Capì che doveva farla sloggiare, prima di avere problemi con l’equipaggio. «Accompagnate la signora Gegen al suo alloggio» ordinò alle guardie.

   «Conosco la strada» rispose Frola con dignità. Scostò le guardie che l’attorniavano e si avvicinò all’Ammiraglio. Con uno scatto rapido gli sottrasse il globo terrestre dalle mani. «Questo appartiene a me» rivendicò. «E quella appartiene agli Umani!» aggiunse, indicando la vera Terra che campeggiava sullo schermo. Solo allora lasciò la plancia, scortata dalle guardie.

   «Ancora per poco» mormorò Hadron, risedendosi sulla sua poltrona. L’ultimatum scadeva tra ventiquattro ore, un lasso di tempo che sarebbe passato alla Storia come “il giorno più lungo dell’Unione”.

 

   Lasciato il sistema solare, la Keter s’inoltrò nello spazio aperto. Tutto l’equipaggio era in subbuglio per l’amara sorpresa. I federali, che dopo otto difficili mesi nel Quadrante Delta sognavano una licenza, si trovavano catapultati in un incubo. «Voglio una ricerca coi sensori a lungo raggio» ordinò il Capitano, camminando rabbiosamente avanti e indietro. «Dobbiamo riunirci subito al resto della Flotta, per elaborare un contrattacco».

   «Ho un riscontro» disse Zafreen. «C’è un segnale di adunata generale a Proxima Centauri. Rilevo 450 navi già lì e altre in avvicinamento».

   «La prima buona notizia!» commentò Hod, smettendo di aggirarsi. «Rotta per Proxima Centauri, massima velocità».

   «Inviamo il nostro codice di riconoscimento» aggiunse Radek. «La Flotta non sa che siamo tornati, e poi ci sarà una gran confusione laggiù».

   «Spero che siano pronti a espellere i Voth a calci!» ringhiò Vrel, inserendo le coordinate sul computer di navigazione.

   La Keter balzò nel tunnel quantico, raggiungendo la destinazione in due minuti, data la sua prossimità al sistema solare. All’arrivo trovò la Flotta Stellare schierata intorno al pianeta Proxima b, sede di una colonia federale. La luce fioca della nana rossa imporporava gli scafi delle astronavi, come un sinistro presagio di guerra.

   «Bene» disse Hod, un po’ rassicurata nel vedere la potenza della Flotta Stellare. «Ora vediamo chi comanda, in mancanza d’istruzioni dalla Terra. Zafreen, cerchi l’Enterprise».

   «Eccola» disse l’Orioniana, inquadrandola sullo schermo. La nave ammiraglia, vecchia di quarant’anni ma ancora tra le più potenti della Flotta, orbitava sopra la colonia. Era l’undicesima nave della Flotta a portare il glorioso nome Enterprise; la dodicesima contando anche quella di Archer. Apparteneva alla rinomata classe Universe: la sua immensa sezione a disco ospitava migliaia di civili, rendendola un’autentica città nello spazio. Le sue imprese erano leggendarie: era la nave che aveva combattuto la Guerra delle Anomalie dalla prima all’ultima battaglia, che aveva sconfitto la Scourge ad Andromeda e che negli ultimi anni aveva pattugliato il tormentato confine coi Breen. Inizialmente sotto il comando di Alexander Chase, era passata a Ilia Dax, poi a T’Vala Shil e infine al romulano Talmath.

   Attorno all’Enterprise si erano radunati i nuovi incrociatori di classe Juggernaut, voluti dai Klingon per dotare la Flotta unificata di astronavi da guerra. Erano massicci quasi quanto l’ammiraglia, ma non trasportavano civili. Di forma squadrata, avevano grandi hangar pronti a rilasciare nugoli di caccia stellari. C’erano anche i vascelli di classe Horus, dalle linee aggressive che ricordavano gli sparvieri Klingon e Romulani. E c’erano navi più tradizionali come le classi Altair, Mjölnir, Theseus, Paladin, Sagittarius e Celestial. Nel complesso era un’armata imponente, la più grande che si fosse raccolta dai tempi di Procyon V. Vedendola, Hod si sentì rincuorata; ma non dimenticò la potenza dei Voth.

   «Aprire un canale con l’Enterprise» ordinò l’Elaysiana, sperando ardentemente che l’Ammiraglio Chase fosse al comando. Ma davanti a lei apparve il Capitano Talmath. Per quanto Hod lo rispettasse, non poté reprimere un piccolo moto di delusione.

   «Keter, che sorpresa!» li accolse il Romulano. «Non sapevamo che foste tornati. È un bene che siate qui... questa è l’ora più buia dell’Unione e ci serve ogni rinforzo».

   «Conosciamo la situazione; veniamo adesso dal sistema solare» annuì Hod. «L’Ammiraglio Hadron ci ha detto che l’ultimatum scadrà tra ventiquattro ore. È vero?».

   «Sì, purtroppo» confermò Talmath. «I Voth hanno trasmesso la loro richiesta su tutte le frequenze subspaziali e ora aspettano una risposta dal Senato. Se non avranno la Terra, se la prenderanno con la forza. Quindi sto radunando tutte le navi disponibili. Venga sull’Enterprise, così ne discuteremo con gli altri Capitani».

   «Arrivo» promise Hod. «Porterò anche il dottor Joe, che conosce i Voth dai tempi della Voyager. Ma intanto mi dica una cosa: chi è il Presidente dell’Unione, adesso? Siamo stati via così a lungo da perderci le elezioni».

   «Rangda è stata confermata per il secondo mandato» rispose cupamente Talmath. «Ha ancora la maggioranza assoluta al Senato».

   Hod incassò la batosta. Erano cinque anni che la Presidente smantellava la Flotta Stellare, accentrando su di sé tutti i poteri. Aveva abolito la Prima Direttiva, gettando l’Unione nel caos e inducendo un terzo dei sistemi a chiedere la secessione. E aveva cercato più volte di eliminare fisicamente la Keter, anche se non erano mai riusciti a incastrarla. Sapere che era lei a gestire la crisi fu uno schiaffo per il Capitano. «Capisco» borbottò.

   Talmath stava per chiudere il canale, ma si fermò a metà del gesto. «Non le ho chiesto com’è andata la missione nel Quadrante Delta» notò.

   Hod sbatté gli occhi, frastornata. Avevano passato otto mesi laggiù, ma erano bastati pochi minuti nel Quadrante Alfa per farglielo passare di mente. «Abbastanza bene» disse. «Abbiamo sconfitto i Vaadwaur, curato un’epidemia e stretto un’alleanza coi Krenim. Abbiamo anche incontrato i Borg che, detto fra noi, non hanno perso il vizio dell’assimilazione. Pensavo che ne avrei discusso col Comando di Flotta, ma nelle attuali circostanze...».

   «Già, è tutto rinviato» convenne il Romulano. «Spero che sarete altrettanto bravi anche qui, perché ne abbiamo bisogno. Enterprise, chiudo».

 

   La Keter entrò nell’orbita di Proxima b, affiancando l’Enterprise. Affidata la nave a Radek, Hod si teletrasportò sull’ammiraglia. Come annunciato portò con sé il dottor Joe: il vecchio Medico Olografico della Voyager si era distinto nel Quadrante Delta e la sua conoscenza dei Voth poteva ancora essere preziosa.

   «Benvenuti» li accolse Majel, l’Intelligenza Artificiale di bordo, subentrata a Terry dopo la battaglia contro il Melange. Aveva l’aspetto di un’Umana, dai capelli neri un po’ ricci. «Il Capitano Talmath e gli altri vi stanno aspettando. Siccome in sala tattica non c’è posto per tutti, andremo nell’aula conferenze. Vi faccio strada» si premurò.

   «Grazie» disse Hod, seguendola fuori dalla sala teletrasporto. Non era più abituata a interagire con le IA delle astronavi, dato che la Keter ne era sprovvista. Aveva molte domande che le ronzavano per la testa, ma pensò che era meglio farle ai colleghi, perciò si trattenne.

   L’aula conferenze era un salone molto vasto, come se ne trovavano sulle navi di classe Universe. Capitani e altri ufficiali lo gremivano, chiacchierando fittamente mentre aspettavano di essere al completo. Hod cercò Chase con lo sguardo, ma restò nuovamente delusa.

   «Ah, eccola» l’accolse Talmath, interrompendosi dalla conversazione con un collega. «Prego, si accomodi».

   «Grazie, ma prima vorrei sapere se avete notizie dell’Ammiraglio Chase» disse l’Elaysiana, aggrappandosi all’ultimo filo di speranza.

   «Era sulla Terra quando i Voth hanno posto l’assedio» rispose il Romulano, recidendo quel filo. «Non abbiamo potuto contattarlo, dato il black-out delle trasmissioni. Ma non dubito che ci direbbe di proteggere ad ogni costo la Terra».

   «Ricordo che l’Ammiraglio era inquieto, quando arrivarono i Voth» disse Hod. «Forse temeva questa mossa da parte loro».

   «La temeva eccome; infatti aveva già messo la Flotta in preallarme» confermò Talmath. «Questo ci ha permesso di mobilitarci in fretta. Ma con tutti i tagli che Rangda ha fatto in questi anni, gran parte delle navi è stata ritirata dal servizio o ceduta ad altre organizzazioni. Anche quando possiamo recuperarle, ci mancano gli equipaggi. Dovremo affidare tutto alle Intelligenze Artificiali».

   Hod si rabbuiò. Negli ultimi anni lei e il suo equipaggio si erano scontrati più volte con IA ostili. Certo, erano sempre state di origine aliena. Ma il Capitano sapeva che anche quelle della Flotta stavano dando problemi, perché spesso disobbedivano ai Capitani in nome di un’interpretazione leguleia dei regolamenti. O addirittura in nome delle loro emozioni, come Terry, che quattro anni prima aveva lasciato l’Enterprise. Tutto considerato, Hod era lieta che la sua nave fosse priva di IA: non le sarebbe piaciuto giustificarsi con un computer per ogni ordine che dava.

   «Non gradisce l’idea?» chiese il collega di Talmath, facendosi avanti. Era un Axanar, dalla pelle grigia e glabra e i denti un poco appuntiti. Hod lo riconobbe come Gulnar, il Capitano dell’USS Juggernaut. Si trattava di uno dei Capitani di maggior esperienza e prestigio della Flotta, una vera leggenda vivente. Si era distinto nella Guerra delle Anomalie e più di recente sul confine Breen, dove era arrivato vicino a catturare il famigerato pirata detto lo Spettro. La Flotta gli aveva offerto più volte il grado di Ammiraglio, ma Gulnar aveva sempre rifiutato, dicendosi soddisfatto del suo incarico. Del resto, poteva permettersi di aspettare: con un’aspettativa di vita di oltre quattro secoli, la sua specie era tra le più longeve dell’Unione.

   «Io, uhm... non ho problemi con le IA» disse l’Elaysiana, non volendo offendere Majel né il dottor Joe. «Ma l’assenza degli equipaggi è una grossa tara. Stiamo pagando il prezzo degli scellerati tagli al bilancio di Rangda».

   «Può ben dirlo» sospirò l’Axanar. «Sono Capitano da un pezzo e ricordo quando la Flotta Stellare era tutt’altra cosa. Ma è inutile rimpiangere il passato; pensiamo a salvare il presente. A proposito, non ci siamo presentati. Io sono Gulnar, della Juggernaut. Conosco le sue imprese; sono lieto che sia con noi in quest’ora difficile» disse, porgendole la mano.

   «L’onore è mio... anch’io ho sentito parlare di lei» disse Hod, affrettandosi a stringerla. Era lusingata dal fatto che il suo eroe d’infanzia la conoscesse e la stimasse. Dato che i Capitani stavano prendendo posto, gli sedette accanto.

   «Bene, signori, possiamo cominciare» disse Talmath, salendo sul podio. «Come sapete, questa è la più grave crisi interstellare degli ultimi trent’anni. I Voth, una delle specie più potenti della Galassia, reclamano la Terra. Questo sarebbe grave per qualunque pianeta abitato, ma la Terra è anche la nostra capitale. Ospita i nostri leader politici e il Comando di Flotta, con gli archivi segreti. Se i Voth se ne impossessassero, saprebbero tutto di noi: anche l’entità delle forze armate e la posizione delle basi. Insomma, avrebbero le informazioni necessarie a sottomettere il resto dell’Unione».

   «Che sia questo il loro vero scopo?» ipotizzò Gulnar.

   «No, non credo» disse il dottor Joe. «Questo dibattito sulle origini infuria nella loro società da oltre due secoli. Essendo così antichi, i Voth sono molto orgogliosi e gelosi di ciò che possiedono. Non cederebbero mai la loro tecnologia, o un loro pianeta, a un’altra specie. Ma la scoperta di essere nativi della Terra li imbarazza e li destabilizza nel profondo. Si sentono derubati della patria, anche se in effetti non sappiamo come e quando lasciarono la Terra. Hanno bisogno di riconquistarla per lenire il loro ego, per convincersi d’essere ancora superiori. Ecco perché non si arrenderanno mai».

   «Sembra che lei li conosca e li comprenda bene» notò Talmath, e in effetti le parole del Medico Olografico avevano attirato l’attenzione di tutti. «Come pensa che reagiranno, quando il Senato opporrà l’inevitabile rifiuto?».

   «Io temo che andranno su tutte le furie» rispose Joe, pessimista.

   «Eppure l’Ammiraglio Hadron sembra un tipo responsabile, tutt’altro che impulsivo» notò Gulnar.

   «Hadron obbedisce agli ordini del suo governo, che sono tassativi... me l’ha detto lui stesso» intervenne Hod. «Non è un esaltato né un violento, anzi credo che gli dispiaccia trovarsi in questa situazione. Ma ha un atteggiamento paternalistico che non promette nulla di buono. Credo ci consideri come animaletti che abbaieranno un po’ e alla fine si calmeranno. Allo scadere dell’ultimatum, attaccherà la Terra».

   «Vi ringrazio per la vostra testimonianza» disse Talmath ai due della Keter.  «Questo ci porta alle considerazioni tattiche. Non occorre che vi riassuma lo stato della Flotta Stellare, dopo le riforme di Rangda. Vi basti riflettere su un dato. Cinque anni fa, la Flotta comprendeva 3.200 navi stellari in servizio attivo. Oggi sono appena 800 e non tutte in buone condizioni. Molte non dispongono del propulsore cronografico, o del pilota abilitato a usarlo, e quindi non ci raggiungeranno in tempo.

   Di conseguenza abbiamo pensato di ricorrere alle navi che erano state poste in disarmo. Trattandosi di tre quarti della Flotta, è una vasta risorsa a cui attingere. Ma anche questo si è rivelato difficile. Gran parte di queste navi sono mezze smontate nei cantieri spaziali e non possono ripartire in tempo utile. Le rimanenti sono state cedute ad altri uffici e a organizzazioni non governative. Abbiamo chiesto che ce le restituissero, ma i tempi della burocrazia sono proibitivi. E devo dire che da parte di queste organizzazioni non c’è stata la collaborazione che speravamo. Quasi tutte si sono rifiutate di renderci i vascelli. C’è chi non vuole nemmeno dirci dove si trovano e chi li ha sabotati, pur di non farceli riavere».

   Il Capitano Hod conficcò le unghie nel bracciolo della seggiola. «A questo siamo giunti!» si disse. Se non si fosse trattato della Terra e degli Umani, ci sarebbero stati così tanti ostacoli? Il Capitano cominciava a credere di no. Le tornarono in mente tanti discorsi fatti da Juri Smirnov, il loro consulente storico, prima che fosse arrestato per infrazione temporale. Aveva sempre pensato che l’Umano esagerasse, nel lamentare l’ostilità contro la sua specie. Ma i fatti gli stavano dando ragione in un modo agghiacciante. «Di quante navi disponiamo, in definitiva?» chiese.

   «Difficile a dirsi; continuano ad arrivare alla spicciolata» rispose Talmath. «Al momento sono 450. Allo scadere dell’ultimatum potrebbero essere sulle 480, magari anche 500».

   Hod chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. Cinquecento navi potevano sembrare molte, ma erano briciole in confronto a ciò che la Flotta poteva schierare prima di Rangda, cioè appena cinque anni addietro. Certo, erano più numerose delle navi Voth. Ma considerando la superiorità tecnologica dei sauri, rischiavano di essere insufficienti. Anche perché i Voth potevano sempre chiedere rinforzi. Chi sapeva quanto fossero forti, nel Quadrante Delta? Si erano sempre rifiutati di fornire informazioni sulle loro risorse militari.

   «Come accennavo al Capitano Hod, molte delle navi sono gravemente sotto organico» proseguì il Romulano. «Perciò dovremo affidarci alle Intelligenze Artificiali di bordo. Stiamo prendendo tutte le precauzioni per evitare che i Voth ne assumano il controllo. Ogni nave disporrà d’ingegneri che monitoreranno le loro funzioni e le disattiveranno, se notassero qualche anomalia».

   Tra i Capitani serpeggiò un certo nervosismo, ma nessuno prese la parola. Questa era la situazione; bisognava rassegnarsi e usare al meglio le poche risorse che restavano.

   «Alla luce di questi fatti, vi starete chiedendo qual è il piano» disse Talmath. «Per come la vedo io, ci sono due possibili scenari. Il primo e più auspicabile è che l’Unione e i Voth trovino qualche genere d’intesa che eviti il ricorso alla violenza. È improbabile che i Voth rinuncino del tutto alle loro pretese, ma potrebbero avere il permesso di visitare privatamente la Terra e magari di colonizzare le aree disabitate del pianeta. Questo creerebbe ugualmente un grosso problema di sicurezza, dato che i Voth non appartengono all’Unione, ma potremmo affrontare le complicazioni man mano che si pongono.

   L’altro, peggiore scenario è quello in cui i Voth cercheranno d’impadronirsi a forza della Terra. In questo caso, nessuno può prevedere con certezza cosa accadrà, dato che ignoriamo la portata della loro tecnologia. L’unico esempio su cui basarci è ciò che accadde durante il confronto con la Voyager. Vuole parlarcene, dottore?».

   Chiamato in causa, il dottor Joe socchiuse gli occhi, ricordando quei drammatici momenti. «Accadde tutto in un attimo» disse. «La Voyager fu teletrasportata tutta intera dentro la loro Nave Città. L’energia fu disattivata con un campo di smorzamento e l’equipaggio fu soverchiato da centinaia di soldati. Il signor Paris cercò di riattivare le armi, ma inutilmente. Alla fine ci salvammo solo perché il professor Gegen accettò di abiurare, in cambio del nostro rilascio».

   «Sfortunatamente non abbiamo più alleati fra i Voth» commentò Talmath.

   «Beh, ci sarebbe Frola» notò il Medico Olografico.

   «La figlia di Forra?» chiese il Romulano. «Da quanto ho capito, è un’anziana signora che è stata usata come simbolo della ricerca della Terra, ma non ha peso politico».

   «In effetti è così» ammise Joe. «Ma se riuscissimo a contattarla, chissà... potrebbe influenzare l’opinione pubblica Voth».

   «Per quanto la signora Gegen sia popolare tra la sua gente, non credo che possa far richiamare l’armata da qui a 23 ore. In questo confronto possiamo contare solo sulle nostre forze» disse Talmath. «I Voth cercheranno di distruggere le piattaforme difensive e di abbattere lo Scudo Planetario, per poi teletrasportare i Terrestri. Non credo che sbarcheranno subito i loro coloni. I primi a scendere saranno i soldati, che attaccheranno le strutture chiave dell’Unione e della Flotta. Questo apre scenari inquietanti, perché potrebbero sequestrare la Presidente e i ministri, oltre che il nostro Stato Maggiore».

   Hod si concesse un sorriso agrodolce. Se i Voth avessero sequestrato Rangda non se ne sarebbe certo dispiaciuta, anzi! Per quanto la riguardava, potevano portarsela nel Quadrante Delta, sempre che riuscissero a sopportarla. Ma se avessero sequestrato i ministri e i senatori, nonché gli ambasciatori dei popoli dell’Unione, allora sì che sarebbe stato grave. E se avessero rapito l’Ammiraglio Chase e gli altri capi della Flotta... non voleva nemmeno pensarci.

   «In tal caso dovremo disabilitare le astronavi Voth» proseguì Talmath. «Considerate che avremo un vantaggio tattico, perché schiacceremo il nemico contro lo Scudo Planetario. I Voth saranno presi nel fuoco incrociato tra le piattaforme orbitali e la nostra flotta. Per quanto le loro navi siano potenti, arriverà il momento in cui gli scudi cederanno. A quel punto, tutto dipenderà dalla loro ostinazione. Se gli infliggiamo abbastanza danni, i Voth potrebbero convincersi di star pagando un prezzo troppo alto, e ritirarsi».

   «Oppure si vendicheranno!» notò un altro Capitano. «Se non su di noi, potrebbero vendicarsi sulla Terra».

   «Anche se s’infuriassero, non credo che la distruggeranno» rispose Talmath in tono misurato. «Vogliono la Terra per viverci, quindi non possono danneggiarla troppo».

   «Ma con la loro tecnologia, potrebbero massacrare i Terrestri senza danneggiare irreparabilmente il clima e l’ecosistema» obiettò Hod.

   «Li crede capaci di tanto?» chiese il Romulano con gravità.

   Tutti gli sguardi si appuntarono sull’Elaysiana, che lasciò sfuggire un sospiro. «Non lo so» ammise. «Di primo acchito direi di no: i Voth non sono dei macellai. Ma il fatto è che non li conosciamo abbastanza. Sappiamo solo che hanno una cultura rigida e orgogliosa, arroccata nei suoi antichissimi privilegi. In un certo senso, sono dei bambini viziati. Non hanno mai ottenuto un no come risposta: quando lo riceveranno, andranno su tutte le furie. A quel punto non so cosa arriveranno a fare» sospirò.

   «Capisco» disse Talmath, a sua volta sconfortato. «Direi che restano valide le precedenti considerazioni. Se i Voth attaccheranno, dovremo respingerli con ogni mezzo. Perdere la capitale metterebbe a rischio tutta l’Unione. Gli altri mondi non riuscirebbero a gestire un’ondata di dieci miliardi di profughi. Si convincerebbero che l’Unione non può proteggerli e chiederebbero la secessione. Sarebbe la fine di un sogno, quello federale, che è cominciato 430 anni fa. Non lasciamo che accada» raccomandò, passando lo sguardo sui colleghi.

   «Non accadrà» si promise Hod. Avrebbe difeso la Terra a qualunque prezzo. Nessun invasore se ne sarebbe impossessato per soddisfare il proprio ego.

 

   Ritiratosi nel suo alloggio, Vrel Shil – timoniere della Keter – sedeva davanti a un oloschermo, aspettando con impazienza la risposta alla sua chiamata. Finalmente fu esaudito. Sua sorella Lyra, di sette anni più giovane, apparve nella cornice olografica. Aveva cortissimi capelli neri, occhi scuri e lineamenti peculiari che la indicavano come un misto di tre specie: Xindi, Betazoidi e Vulcaniani.

   «Vrel! Finalmente sei tornato!» si emozionò Lyra. «Sei stato via così tanto... temevo che ti fosse capitata qualche disgrazia, in quell’orribile Quadrante».

   «Il Quadrante Delta? Mah, non è tanto peggio del nostro. Abbiamo sistemato i Vaadwaur e ci siamo anche fatti degli alleati» disse Vrel, grattandosi un orecchio. «Tu piuttosto, come stai? Temevo che fossi rimasta bloccata sulla Terra. Poi ho pensato che la sede centrale del Federal News è su Memory Alpha, quindi era più probabile che fossi lì». Memory Alpha era un minuscolo planetoide a pochi parsec dal sistema solare. Sarebbe stato un insignificante puntino sulle mappe astrali, se non avesse ospitato la sede dell’Enciclopedia federale e dei principali notiziari, tra cui quello per cui lavorava Lyra.

   «Stavo facendo un servizio sulla ricostruzione di Akaali, quando è scoppiata la crisi» spiegò la cronista. «Il Federal News ci ha richiamati tutti su Memory Alpha. Seguiamo la situazione giorno e notte, ma ci prepariamo anche a ricevere gli sfollati. Qui è un delirio... e lì da te come va?».

   Vrel le avrebbe dato volentieri qualche ragguaglio, ma si trattenne. «Uhm... è meglio se non ti parlo delle nostre mosse. I Voth potrebbero intercettarci» disse. In realtà questo era solo uno dei suoi timori. L’altro era che sua sorella lo sfruttasse per avere notizie riservate con cui fare uno scoop. Non sarebbe stata la prima volta che ci provava.

   «Ah, certo» disse Lyra, vagamente delusa. «Comunque non preoccuparti per me. Non mi muoverò da Memory Alpha. Ma tu fai attenzione! Questi Voth sono determinati e hanno una tecnologia superiore alla nostra».

   «Sì, ho notato» mugugnò il timoniere. «Ma sai dirmi che ne è dei nostri genitori? Qui a Proxima non ci sono. Pensavo che sarebbero stati i primi ad accorrere!».

   «Mi hanno chiamata tre giorni fa. Resteranno a pattugliare il confine Breen con una manciata di navi. Vogliono evitare che i Breen approfittino della situazione per invaderci» spiegò Lyra.

   «Giusto, non ci avevo pensato» riconobbe Vrel. Negli ultimi anni i Breen si erano fatti sempre più ostili. Ora che la Flotta aveva dovuto sguarnire la frontiera, potevano approfittarne per sfondare. Il timoniere l’aggiunse alla lista delle sue preoccupazioni. «Per adesso papà e mamma stanno bene?» chiese.

   «Sono preoccupati, ma sì, stanno bene» confermò Lyra. «E lì da te? Come sta Jaylah?».

   Vrel si sfregò il mento, sovrappensiero. Era da un pezzo che non parlava con la sua amica, tanto da chiedersi se poteva ancora definirla tale. «Mah, in questi mesi è stata taciturna. E da quando ha avuto l’incidente coi Borg, sta ancor più sulle sue».

   «Un incidente coi Borg?!» si allarmò Lyra. «Ma cosa...?».

   «Tranquilla, non l’hanno assimilata» la rassicurò Vrel. «Ma ci sono andati vicini. L’hanno influenzata con le nanosonde, costringendola a fare alcune cose che ci hanno messi in pericolo. Comunque i ragazzi del turno di notte hanno ripreso il controllo della situazione e l’hanno liberata. Credo che Jaylah si senta in colpa per ciò che ha fatto, anche se non era in sé».

   «Groan... certo che oltre la frontiera non ci si annoia mai!» commentò Lyra. In quella il suo comunicatore vibrò. «Frell! Devo lasciarti, fra poco vado in onda» imprecò la cronista.

   «Hai ottenuto quel posto di speaker?» s’interessò il fratello.

   «Solo come tappabuchi» sorrise Lyra. «Ti richiamerò appena possibile. A presto, fratellone. Ti voglio bene» disse, levando il palmo verso di lui.

   «Anch’io, sorellina. A presto» disse Vrel, levando a sua volta il palmo. Svanita Lyra, il timoniere spense l’oloschermo e si stiracchiò, sbadigliando. A meno che non ci fossero nuove emergenze poteva dormire qualche ora, prima di tornare in plancia.

 

   Era il tardo pomeriggio ad Atlantide e il sole calante scintillava sulle cuspidi del palazzo presidenziale. Il freddo vento di fine ottobre strappava le foglie brune e rinsecchite dai giardini. Tutt’intorno, la città era immersa in un silenzio e un’immobilità anormali. Il coprifuoco decretato da Rangda obbligava i cittadini a starsene tappati in casa, così che le strade e il cielo erano solcati solo da veicoli della polizia e della Flotta Stellare. Lo stesso accadeva nel resto del pianeta. La Terra stava col fiato sospeso, in attesa di conoscere la sua sorte.

   L’Ammiraglio Chase sedeva nell’anticamera dell’ufficio presidenziale, attendendo con impazienza di essere ricevuto. Ogni tanto lanciava un’occhiataccia alla porta, sorvegliata da due guardie, e poi tornava a leggere i rapporti della Sicurezza sul suo d-pad. Finalmente l’ingresso si aprì e ne uscì uno Yridiano. Chase lo riconobbe: era Turf, uno dei leccapiedi di Rangda.

   «Sua Eccellenza è pronta a riceverla» annunciò l’Yridiano. «Le ha concesso dieci minuti d’udienza» disse, come se fossero un dono inestimabile.

   «Dieci minuti, tutti per me? Sono onorato» rispose sarcastico l’Ammiraglio. «Ma non so se io avrò tutto questo tempo» aggiunse, con un’ironia che andò sprecata.

   La porta blindata dell’ufficio si aprì con un rimbombo e le guardie si scostarono leggermente. Chase passò fra loro, entrando nella tana della belva.

   Quell’ufficio era stato il suo principale campo di battaglia, negli ultimi cinque anni. Un campo in cui purtroppo le sconfitte erano state numerose, mentre le poche vittorie si erano sempre rivelate effimere. Nella sua lunga carriera, Chase aveva affrontato molti nemici agguerriti. Ma nessuno si era mai rivelato così ipocrita, lezioso, saccente e viscido come Rangda. L’ufficio stesso diceva molto della sua proprietaria. Tutto l’arredo precedente era stato sostituito non appena si era insediata al governo. Al posto del sobrio mobilio neoclassico, adesso c’erano mobili e orpelli nello stile barocco e opulento degli Zakdorn, il popolo di Rangda. Anche il grande ritratto di Jonathan Archer dietro la scrivania era stato sostituito dall’effige di Leen-Kat, antica legislatrice – per alcuni demagoga – famosa per il detto: «Dieci cervelli alieni sommati non valgono un cervello Zakdorn». La moquette era rosa e le pareti lillà, essendo questi i colori preferiti della Presidente; lei stessa indossava un abito color pervinca.

   «Ah, Ammiraglio! Si accomodi!» lo accolse Rangda col solito sorriso affettato. «Posso offrirle qualcosa?» chiese, accennando al replicatore incastonato nella parete alla sua destra.

   «No, grazie... i dieci minuti stanno già volando» ironizzò Chase. «Sono qui per sapere cosa intende rispondere ai Voth. Mancano appena sette ore allo scadere dell’ultimatum. Il Senato dovrebbe essere in seduta plenaria per elaborare una risposta formale. Invece è tutto chiuso».

   «Si vede che lei non è esperto di politica!» ridacchiò la Presidente. «Il Senato non si sarebbe mai accordato in tempo. C’è sempre una fronda di senatori bizzosi e attaccabrighe che rovina tutto».

   «Eppure mi risulta che lei abbia la maggioranza assoluta» notò l’Ammiraglio. «Cos’è, ha problemi nel suo partito? Di certo non li aveva, quando ha tagliato i fondi alla Flotta».

   «Il mio partito non ha problemi» si accigliò Rangda. «Ma data la situazione d’emergenza, ho assunto i poteri di un Presidente in tempo di guerra. Quindi sto conducendo personalmente le trattative, attraverso uno speciale canale diplomatico».

   «Lei è in collegamento coi Voth?» si stupì Chase.

   «Ma certo» confermò la Presidente. «Ci parliamo via subspazio tutti i giorni, per molte ore al giorno. Ho già creato un rapporto di fiducia con l’Ammiraglio Hadron. Fra poco mi chiamerà di nuovo, così potremo fare altri passi avanti».

   «Perché la Flotta non ne è stata informata?» chiese l’Ammiraglio, corrucciato.

   «Perché non c’è ancora nulla da riferire. A trattativa conclusa riceverete le direttive» spiegò tranquillamente la Zakdorn.

   «Come ha detto lei stessa, è una situazione d’emergenza» obiettò l’Umano. «Quindi il governo e la Flotta devono dialogare costantemente. Per operare in modo efficace, dobbiamo sapere cosa state facendo e cosa vi aspettate di ottenere».

   «Ogni cosa a suo tempo» disse Rangda, con divertita superiorità. «Appena avrò una bozza di accordo, ve la comunicherò. Non creda che abbia dimenticato la Flotta Stellare. Il vostro intervento sarà cruciale per mantenere l’ordine e la pace sociale».

   Chase la osservò preoccupato. Non gli piaceva sapere che la Presidente stava facendo tutto da sola, senza consultare il Senato e senza rendere conto a nessuno. «I Voth pretendono la cessione immediata di questo pianeta, col trasferimento di tutti gli abitanti» le ricordò. «Lei che contro-proposta gli ha fatto?».

   «Oh, gliene ho fatte molte» rispose Rangda, sempre evitando di entrare nel merito. «I Voth sono orgogliosi quando si tratta di fare proclami, ma le assicuro che una volta rotto il ghiaccio sanno essere ragionevoli. Confido che questa crisi sarà superata senza che nessuno debba ricorrere alla violenza».

   In quella dei versi simili a miagolii attirarono l’attenzione della Presidente, che si volse subito alla sua sinistra. «Oh, i miei Mu-mu! Quasi dimenticavo che è l’ora della pappa!». La Zakdorn scattò in piedi come una molla, andò al replicatore e si procurò un piatto ricolmo di un pastone marroncino, dall’odore sgradevole. Con quello sfamò i suoi animaletti da compagnia, che teneva in una grossa gabbia trasparente, addossata alla parete di fondo dell’ufficio.

   L’Ammiraglio allungò il collo sopra la scrivania per vedere le creature. Erano orripilanti. I Mu-mu erano animaletti originari di Zakdorn, simili ai porcellini d’India, ma più grossi e grassi. Avevano un cervellino minuscolo, difatti passavano quasi tutto il tempo a mangiare e dormire, senza fare nulla d’interessante nei rari momenti di veglia. Erano insomma bestioline letargiche, magari un po’ buffe per come zampettavano. Ma Rangda aveva ingozzato le sue fino a renderle mostruose. Più che roditori, sembravano dei bruchi che avanzavano facendo tremolare il corpo grasso, o dei palloncini sul punto di scoppiare, con le zampine quasi invisibili per quanto erano affondate nella ciccia. Erano una dozzina, ammucchiati uno sull’altro sul fondo della gabbia, e mugolavano penosamente per chiedere altro cibo.

   «Che tesorucci! Mangiate la pappa, che vi fa bene!» trillò Rangda, gettando mestolate di sbobba nelle loro gole voraci. I Mu-mu  mangiavano otto volte al giorno; i loro escrementi si depositavano sul fondo della gabbia. Nemmeno i diffusori di profumo installati nell’ufficio riuscivano a mascherare il fetore. Ma Rangda non sembrava farci caso, forse perché ci era abituata. Un’altra caratteristica dei suoi animaletti era che si trattava di esemplari albini, dagli occhi rosa e ciechi. La prima volta che li aveva visti, Chase aveva chiesto lumi a Rangda. «Sono amorevoli, vero?» aveva risposto la Presidente. «Li allevo da generazioni. Mi piacciono così tanto che li faccio sempre riprodurre tra loro. Un paio di generazioni fa sono diventati albini, non so perché. Ma sono sempre un amore, vero?» aveva detto, carezzandoli sul dorso mentre li ingozzava. Ogni volta che vedeva quei mostriciattoli ciechi e obesi, interamente dipendenti da Rangda, l’Ammiraglio pensava che la loro sorte non era diversa da quella di molti cittadini. Probabilmente era così che la Presidente vedeva i suoi elettori.

   «Ecco fatto! State bene, ora?» chiese amorevolmente la Zakdorn, quando ebbe finito di rimpinzarli. Ma i Mu-mu si erano già addormentati, riversi uno sull’altro. La loro padrona li contemplò per qualche secondo, dopo di che ripose piatto e mestolo nel replicatore, dove furono riconvertiti in energia. Infine tornò a sedersi. «Allora, c’è altro che voleva chiedermi?» si rivolse all’Ammiraglio.

   «No, ma c’è una cosa che devo comunicarle» rispose Chase. «Se le sue trattative andranno per le lunghe, e nel frattempo i Voth cominceranno a rapire i Terrestri, la Flotta Stellare prenderà ogni contromisura per fermarli».

   «Ogni contromisura?!» s’irrigidì Rangda. «Voi non farete un bel niente! I Voth sono una delle maggiori potenze galattiche. Dobbiamo evitare ad ogni costo il conflitto. Quindi, qualunque cosa facciano, voi non aprirete il fuoco! Sono stata chiara?!» intimò, lo sguardo tagliente come una vibro-lama.

   «Dimentica che il black-out delle comunicazioni m’impedisce di dare istruzioni alla Flotta» notò Chase. «Al momento controllo solo le poche forze che abbiamo qui sulla Terra. Ma non dubito che in questo momento la Flotta si stia radunando nei pressi del sistema solare, pronta a spezzare l’assedio al primo atto ostile dei Voth».

   «Quando avrò concluso le trattative e potremo trasmettere a lungo raggio, lei ordinerà alla Flotta di non colpire» ingiunse la Presidente.

   «Questo dipenderà dall’esito delle trattative» ribatté l’Ammiraglio, senza cedere di un millimetro. «Presidente, questa non è una crisi come le altre. Stavolta l’Unione Galattica rischia il crollo. Quindi stia molto attenta alle promesse che fa, perché i Voth non se le scorderanno. Hanno la memoria più lunga dei suoi elettori».

   «Fuori di qui, Umano!» sbraitò Rangda, alzandosi col volto arrossato dall’ira. «Torni a giocare con le sue piccole astronavi, mentre io salvo l’Unione! Sono l’unica che ci tirerà fuori dai guai!». Così dicendo premette un comando sulla scrivania. La porta dell’ufficio si aprì e le due guardie entrarono immediatamente.

   «Accompagnate l’Ammiraglio fuori da qui» ordinò Rangda, in tono più controllato, sebbene un po’ ansante.

   «Non abbiamo finito, Presidente» disse Chase con decisione.

   «Invece sì. Portatelo fuori, ho detto!» ordinò la Zakdorn, accompagnandosi con un gesto imperioso. Dopo di che gli voltò le spalle, mentre le guardie gli si accostavano, una per lato.

   «Venga, signore» disse una guardia.

   «Non se ne parla. Devo sapere cosa sta offrendo ai Voth» insisté Chase, restando ostinatamente seduto.

   «Sei sordo, nonnetto? Devi sloggiare!» disse rudemente l’altro sorvegliante, anche lui uno Zakdorn. Afferrò Chase per il braccio sinistro e cercò di alzarlo a forza. Le Guardie Presidenziali, caratterizzate dalle uniformi rosse, erano un corpo militare distinto dalla Flotta Stellare; ma mai prima d’ora si erano rivolte così a un Ammiraglio.

   Sentendosi apostrofare a quel modo, e poi strattonare, il vecchio Umano perse la pazienza. Anche se aveva ottant’anni suonati, ed era solo, non si sarebbe fatto trascinare da quegli arroganti. Afferrò il polso dello Zakdorn con la mano destra e lo strinse tanto da fratturarlo. Ci fu uno scrocchio e il sorvegliante lanciò uno strillo acuto. Quando Chase lo lasciò andare, lo Zakdorn si ritrasse precipitosamente, massaggiandosi l’arto ferito. Dolore, incredulità e odio erano frammisti sul suo volto.

   «Ho il braccio artificiale. Un piccolo incidente di gioventù» lo informò l’Ammiraglio, lasciando finalmente la sedia. «Mettici del ghiaccio, ragazzo, e ti sentirai meglio». Si girò verso l’altra guardia, trovandosi un phaser puntato al petto.

   «La prego, Ammiraglio... non mi costringa a sparare» disse il sorvegliante, tremando leggermente.

   «Almeno l’hai puntato su stordimento?» chiese l’Umano. L’alieno non rispose, ma gli fece segno di muoversi. Con un sospiro, Chase andò verso la porta. Prima di uscire dette un’ultima occhiata a Rangda: la Presidente gli voltava ancora le spalle, con le braccia incrociate, in attesa che le guardie lo portassero via. Quella era la persona a cui gli elettori si erano affidati non una, ma due volte. La persona da cui dipendevano le sorti della Terra.

 

   Lasciato il palazzo presidenziale, l’Ammiraglio tornò al Comando di Flotta. Si trattenne fino a tardi, discutendo con lo Stato Maggiore su come procedere in caso di attacco, con le scarse forze di cui disponevano. Intanto l’ora X si avvicinava: mancavano solo tre ore allo scadere dell’ultimatum.

   Ritiratosi nel suo ufficio per leggere i rapporti e diramare le ultime istruzioni, Chase ricevette una visita inaspettata. Sua moglie Neelah entrò come un turbine, con le antenne da Andoriana irrigidite e il volto albino inazzurrito dalla rabbia. «Ho sentito cos’è successo da Rangda! Che infamia! Tu come stai?» si preoccupò, venendogli accanto.

   «Io bene. È una delle guardie che potrebbe necessitare delle tue cure» la tranquillizzò l’Ammiraglio. Neelah dirigeva il Comando Medico della Flotta Stellare.

   «La gente è fuori di testa... ovunque vada percepisco la paura» disse l’Aenar, portandosi le mani alle tempie. «Come va qui? Sei riuscito a contattare la Flotta?».

   L’Ammiraglio scosse tristemente la testa.

   «E loro hanno trasmesso qualcosa? Hai notizie di Jaylah?» incalzò Neelah.

   «I Voth bloccano anche i segnali in arrivo» sospirò Chase. «Ma non temere per nostra figlia. È sulla Keter, con persone in gamba. Probabilmente sono ancora nel Quadrante Delta, sulle tracce dei Vaadwaur. Temevo di mandarli nel pericolo... ma ora credo che siano più al sicuro di noi». Marito e moglie si abbracciarono, per confortarsi a vicenda.

   «Rivoglio la nostra bambina» mormorò Neelah, prossima al pianto.

   «Jaylah è un Agente Temporale; sa badare a se stessa» sostenne Chase, carezzandole i capelli. «Ora concentriamoci sui nostri problemi. Vorrei tanto contattare le astronavi, per avvisarle di tenere duro. Purtroppo i Voth bloccano tutti i segnali entro il raggio di un’UA».

   «Quindi Marte e le altre colonie del sistema solare possono ritrasmettere un messaggio» notò Neelah.

   «Sì, ma noi non possiamo comunicare con loro».

   «Hanno dei telescopi. Non pensi che li terranno puntati su di noi, in questo momento?» suggerì Neelah.

   «Sì... penso proprio che lo stiano facendo» convenne Chase, recandosi alla finestra. Scostò la tendina e guardò fuori: il sole era tramontato. Era la notte del 31 ottobre, la notte di Halloween. E a lui era appena venuta un’idea.

 

   «Avanti» ordinò Hod, sentendo trillare la porta del suo ufficio. Sebbene fosse ormai notte, secondo l’orologio di bordo, il Capitano era ancora in servizio, e così tutto l’equipaggio di plancia. Mancavano due ore allo scadere dell’ultimatum.

   «Abbiamo ricevuto un messaggio dalla Terra» disse Radek, entrando di fretta.

   «Dalla Terra?! Come?» si stupì il Capitano.

   «I Voth bloccano le trasmissioni radio e subspaziali, ma non possono ostacolare i segnali luminosi» spiegò il Comandante, con un sorriso sagace. «È notte, ad Atlantide. Qualcuno ha sistemato dei riflettori nel cortile del Comando di Flotta e ha inviato dei segnali in codice. Li hanno visti da Marte, coi telescopi, e ce li hanno ritrasmessi via subspazio. Zafreen li ha decifrati: usano un antico codice militare terrestre, il codice Morse».

   «Che dicono?» chiese Hod con ansia.

   Radek lesse il messaggio trascritto sul suo d-pad. «Ammiraglio Chase a Flotta Stellare. Rangda ha assunto pieni poteri e sta conducendo le trattative coi Voth senza consultare il Senato né il Comando di Flotta. Rifiuta di comunicare la bozza di accordo. In mancanza d’informazioni, resta valido l’ordine generale: difendere la Terra ad ogni costo. Se i Voth cercheranno di sequestrare i Terrestri, siete autorizzati a fermarli con la forza».

   Il Capitano impallidì. «È peggio di quanto pensavo» disse, alzandosi per passeggiare. «Rangda sta approfittando della crisi per prendere il potere assoluto. Ma se combina qualche pasticcio coi Voth, saranno i Terrestri a pagarne le conseguenze» aggiunse con un tremito.

   «Restano meno di due ore» le ricordò il Comandante. «Tra poco ci muoveremo verso il sistema solare».

   «Sì, fra un attimo vengo in plancia» disse Hod stancamente.

   «Ah, un’altra cosa. Sono arrivate altre tre navi, che portano il totale a 492. Sono più di quante ne aspettassimo» aggiunse il Rigeliano, per incoraggiarla.

   L’Elaysiana lo fissò con uno strano sguardo. «Radek...» mormorò.

   «Sì, Capitano?» fece lui, un po’ stupito.

   «In questi anni ho sempre cercato d’essere forte. Ho pensato che prima o poi avremmo superato le tempeste. Ma questo è un uragano che può farci colare tutti a picco» disse Hod con lentezza. «Io... ho paura, Radek. Sono stanca, e delusa, e amareggiata. Non so se ho la forza per comandare la Keter in questo frangente» confessò. Una parte di lei avrebbe voluto lasciarsi tutto alle spalle: dimettersi, tornare a casa, non sentir più parlare della Flotta.

   «Certo che hai la forza» la incoraggiò Radek, avvicinandosi. «Quanto alla paura, beh... ce l’abbiamo tutti. È naturale. Ma in questi anni ti ho vista fare cose incredibili. Ci hai condotti fuori dai pericoli più tremendi. Lo farai anche stavolta» disse con convinzione.

   «E tu sarai con me?» mormorò l’Elaysiana. Una lacrima le scintillò nell’angolo di un occhio.

   Il Rigeliano le prese le mani tra le sue e gliele strinse con dolcezza. «Certo» promise. «Ti starò accanto come Primo Ufficiale e come amico. Oh, quasi dimenticavo... ho qualcosa per te» disse, discostandosi. Si frugò in tasca e ne trasse un pacchetto variopinto.

   «Per me?» si stupì Hod.

   «Sì, oggi è il tuo compleanno. Con questa baraonda, mi ero quasi scordato di dartelo» disse, consegnandole il pacchettino.

   «Grazie» sorrise il Capitano. «Dovrei aprirlo subito?».

   «Beh, se non vuoi aspettare dopo il confronto coi Voth...».

   «Già, meglio farlo ora» convenne Hod, lacerando la carta da regalo. Ne trasse una collanina con un pendente a forma di mostrina della Flotta. Sul pendente era incisa una dedica: “Sono stato e sarò sempre tuo amico”.

   «Lo so, è una cosa pacchiana» si scusò Radek, un po’ imbarazzato. «Ma sono pessimo nello scegliere i regali. E poi fino a ieri eravamo nel Quadrante Delta, per cui non ho avuto tempo per pensarci...».

   «È perfetto» sorrise l’Elaysiana, rincuorata da quella dimostrazione d’affetto. Agendo d’impulso, si accostò al Rigeliano e lo baciò sulla guancia.

   «Ehm...». Radek arrossì leggermente e si ritrasse. Le relazioni tra colleghi non erano vietate dal regolamento, ma tra Capitano e Primo Ufficiale sarebbe stato meglio evitarle, perché potevano ripercuotersi su tutta la nave. «Credo che dovremmo concentrarci sulla missione» disse il Comandante. «Quando sarà finita, magari ne parleremo» aggiunse, per non chiudersi del tutto quella porta.

   «Sì, quando sarà finita» annuì Hod, ricomponendosi. Non poteva indossare apertamente il dono di Radek mentre era in servizio, così per il momento lo ripose in tasca.

   «Andiamo?» suggerì il Comandante.

   Il Capitano respirò a fondo. «Sì, andiamo» disse. Aveva riacquistato una parvenza di sicurezza. Radek si fece cortesemente di lato, permettendole di varcare la soglia per prima, e poi la seguì in plancia. La flotta aveva già cominciato a dispiegarsi, per eseguire il breve salto a cavitazione che l’avrebbe portata nel sistema solare.

 

   «Qui è Lyra Shil, per il Federal News, con un nuovo aggiornamento sulla drammatica crisi Voth.

Manca solo un’ora allo scadere dell’ultimatum che tiene col fiato sospeso la Terra e tutta l’Unione. I Voth continuano l’assedio, bloccando anche le trasmissioni e impedendoci quindi di sapere quali decisioni sono prese in questo momento dalle autorità. Gli analisti militari ritengono che il Senato non abbia ancora risposto all’ultimatum, perché in tal caso i Voth avrebbero fatto la loro mossa. Con l’approssimarsi dell’ora X il sistema solare è off-limits, tranne che per la Flotta Stellare. Anche le nostre sonde devono tenersi a una distanza di almeno 10 UA dalla Terra.

   Mezz’ora fa la flotta che si era raccolta a Proxima Centauri si è mossa. Al momento conta 492 navi e altre ancora potrebbero arrivare nei prossimi minuti. La flotta si è fermata nei pressi della Luna, per poi dispiegarsi in modo da circondare le navi Voth. Ricordiamo che sebbene siano in inferiorità numerica, i sauri dispongono di una tecnologia superiore alla nostra; le loro effettive capacità militari sono ancora sconosciute. Il Capitano Talmath dell’Enterprise ha rifiutato di rilasciare dichiarazioni, ma il dispiegamento di forze lascia intendere che la Flotta Stellare sia pronta a tutto. Alla flotta si è da poco aggiunta l’USS Keter, appena tornata da una lunga missione nel Quadrante Delta, completata con successo.

   Nel frattempo, sugli altri mondi, proseguono le proteste davanti alle ambasciate federali e ai presidi della Flotta Stellare. I manifestanti chiedono che si trovi un accordo, per scongiurare la guerra coi Voth. Anche molte colonie umane hanno espresso questo auspicio. Secondo il sondaggio Olonet promosso dal nostro giornale, il 97% dei cittadini federali è favorevole a cedere alcune zone della Terra ai Voth, mentre  il 78% gli cederebbe l’intero pianeta. Tuttavia il 90% ha anche affermato che non vorrebbe un afflusso di profughi Umani nella propria città. Il governatore della colonia Vega ha dichiarato che...».

   L’oloschermo si disattivò, troncando il discorso di Lyra. Indispettito e anche un po’ preoccupato, il detenuto si alzò dalla brandina e andò alla consolle. Scoprì che i tasti si erano disattivati, lasciando una superficie grigia e uniforme. Sempre più arrabbiato, andò alla parete trasparente della cella e vi batté il pugno, per attirare l’attenzione dei sorveglianti.

   Al loro posto si fece avanti uno Ktariano con l’uniforme bianco/azzurra dell’Ufficio di Salute Pubblica, una delle organizzazioni create da Rangda per sovrapporsi alla Flotta Stellare. «Ah, dottor Smirnov!» lo salutò. «Che succede, ha qualche problema? Mi dica tutto!».

   L’Umano gli rifilò un’occhiata al vetriolo, ma tenne le labbra serrate, come faceva da un anno intero.

   «Come dice? Non la sento!» lo derise lo Ktariano, portandosi una mano all’orecchio.

   Il prigioniero fece per tornare alla sua brandina, rassegnato, ma il medico si accostò alla parete trasparente. «Aspetti!» lo richiamò. «Non le andrebbe di rinegoziare le sue condizioni di soggiorno?».

   L’Umano si bloccò a metà del gesto e si riavvicinò di malavoglia alla paratia. Fissò sprezzante lo Ktariano, ma non disse nulla. Non poteva parlare, per non rompere il suo voto.

 

   Da diciotto mesi Juri Smirnov, ex consulente storico della Keter, era detenuto nel carcere di Elba II. Era lì con un’accusa molto grave, quella di pirateria temporale: l’unico reato che prevedeva ancora la pena di morte. Si era infatti alleato coi Na’kuhl, i peggiori nemici dell’Unione, aiutandoli ad alterare la Storia in loro favore. In cambio gli alieni avevano salvato sua sorella Svetlana, morta da bambina per una malattia. Ma le cose non erano andate come previsto. La Keter era intervenuta per ripristinare la linea temporale e all’apice dello scontro Juri aveva dovuto scegliere da che parte stare. Pentendosi delle sue azioni, aveva aiutato i federali a sconfiggere i Na’kuhl, anche se per questo aveva dovuto sacrificare l’amatissima sorellina. Ciò non era bastato a evitargli il processo per infrazione temporale.

   L’Umano si era salvato patteggiando con la Flotta. Aveva rivelato tutto ciò che aveva appreso sui Na’kuhl nel periodo trascorso con loro, così che l’Unione potesse attrezzarsi contro eventuali nuovi attacchi. In cambio si era visto commutare la pena capitale in ergastolo e aveva ottenuto qualche piccolo privilegio, come la possibilità di seguire i notiziari e ricevere visite. Gli interrogatori, lunghi e scrupolosi, erano finiti un anno prima. Da allora lo storico era prigioniero in cella d’isolamento. Ma i suoi guai non erano ancora finiti.

   Alcuni medici, come lo Ktariano, gli avevano offerto la possibilità di uscire di cella, se avesse accettato di sottoporsi alle loro terapie di “rieducazione e reinserimento sociale”. Juri aveva sempre rifiutato. E quando le loro richieste si erano fatte pressanti, aveva adottato un gesto estremo di protesta: lo sciopero del silenzio. Le sue ultime parole, prima di zittirsi, erano state: «Tornerò a parlare quando avrò qualcosa d’importante da dire». Ma in dodici mesi non era ancora successo.

 

   «È da un po’ che non la vedevo» disse lo Ktariano. «Si ricorda di me, vero? Sono il dottor Colia Vash’Tot, neurochirurgo, filosofo evoluzionista e influencer federale».

   Juri lo ricordava fin troppo bene. Era stato Vash’Tot, con i suoi sinistri sproloqui sugli “interventi correttivi al cervello”, a indurlo allo sciopero del silenzio. Annuì lievemente, tanto per vedere cosa si era inventato stavolta lo scienziato.

   «Bene!» approvò lo Ktariano. «Come ricorderà, sono specializzato nelle terapie di riabilitazione delle personalità deviate. È un dato di fatto che le persone volgarmente definite “criminali” siano in realtà affette da disturbi cerebrali, che possono essere curati. Questo non vale solo per ladri e assassini, ma anche per i ribelli ideologici come lei. La bontà e la giustizia del nostro sistema sono così evidenti che solo chi soffre di una patologia mentale può avversarlo. Studiando la sua cartella clinica, sono giunto alla conclusione che lei soffre di Disturbo da Personalità Intollerante, che la porta a essere sospettoso nei confronti di chi non appartiene alla sua specie e non condivide le sue idee».

   A queste parole, Juri fece una smorfia sarcastica. «Forse, nelle tue ricerche, non ti sei accorto che i miei amici della Keter sono tutti alieni o meticci e che spesso hanno opinioni assai diverse dalle mie» si disse, ma come al solito tacque e lasciò che l’altro continuasse a parlare.

   «Ebbene, deve sapere che esistono molti interventi capaci di rendere gli Umani più tolleranti» proseguì Vash’Tot. «Questo è motivo di grande interesse etico per gli specialisti come me. Il trucco consiste nell’intervenire sulla corteccia fronto-mediale, la parte del cervello che reagisce alle minacce. Tra gli effetti benefici dell’intervento vi sono la diminuzione del tribalismo etnico e della fede religiosa... insomma, di tutti gli inutili retaggi dell’evoluzione. A proposito, lei è credente? Questa informazione non c’è, nella sua cartella clinica».

   Come al solito, Juri non rispose. Ma se gli sguardi ferissero, i secondini avrebbero dovuto usare l’aspirapolvere per portar via i resti del neurochirurgo.

   Un po’ deluso dal perdurante mutismo dell’interlocutore, Vash’Tot riprese il discorso. «Beh, come le dicevo, è assodato che i pregiudizi settari sono suscettibili di neuro-modulazione mirata. Il che ci porta al suo problema: l’intolleranza che l’ha indotta a criticare i programmi scolastici e poi addirittura a collaborare coi Na’kuhl per distruggerci. Vede, così come l’Unione può imporre la quarantena a chi soffre di gravi malattie infettive, così a maggior ragione deve circoscrivere ed estirpare l’intolleranza. Oggigiorno gli strumenti non ci mancano: ne abbiamo di chimici, di elettromagnetici e di chirurgici. Io preferisco gli interventi chirurgici, che danno risultati definitivi, non suscettibili di ricadute».

   Notando l’espressione dell’Umano, il dottor Vash’Tor lo guardò con indulgenza. «Stia tranquillo, non l’annoierò ulteriormente coi dettagli tecnici. Tutto ciò che mi occorre è la sua firma, o anche solo il suo assenso vocale. Dica “sì”... le basta dire questa semplice parolina per ricevere l’intervento correttivo. Dopo di che sarà rimesso in libertà. Non mi crede? Le do la mia parola!» disse, portandosi la mano al cuore. «Dopo l’intervento resterà in osservazione per un mesetto. Se tutto andrà bene – ma le assicuro che andrà bene! – potrà reinserirsi nella società e anche riprendere il suo vecchio lavoro. Sarà libero... e sarà anche molto più felice. No, non mi ringrazi! È un dovere e un piacere aiutare le persone nelle sue condizioni» sorrise il neurochirurgo.

   Juri non aveva minimamente accennato a ringraziarlo, né a gesti, né a parole. Pur non essendo un esperto di neurologia, sapeva – per cultura generale – che c’è davvero un’area del cervello che regola i meccanismi della fiducia e della diffidenza. Un difetto in quell’area, naturale o indotto artificialmente, porta a fidarsi ciecamente di tutti, anche di perfetti sconosciuti. Messo davanti a questa prospettiva, Juri scosse vistosamente la testa, in segno di diniego.

   «Oh, andiamo!» esclamò lo Ktariano, perdendo la compostezza. «Preferisce marcire in quella gabbia per il resto della vita?!».

   Dopo una breve riflessione, l’Umano annuì solennemente.

   «Allora è più schizofrenico di quanto pensavo!» sbottò Vash’Tot. «Ascolti, il mio lavoro consiste nel liberare i detenuti dalle prigioni, e dalle patologie che ce li hanno portati. Le carceri come questa non dovrebbero esistere! Sono un fossile giuridico, un barbaro residuo del passato!» esclamò, guardandosi attorno con fastidio. «Un sistema penale moderno e illuminato deve correggere, non punire! Rieducare, non reprimere! Altrimenti non è giustizia, ma solo vendetta. Io sono suo amico... deve fidarsi di me. Deve fidarsi della mia capacità di guarirla e di restituirla alla società. Dica di sì... mi basta questa sillaba. Non mi occorre altro» disse, quasi supplicando.

   Nel sentir questo, Juri si convinse che aveva fatto bene a entrare in sciopero del silenzio. Nelle celle di massima sicurezza come la sua c’erano microfoni che registravano ogni parola detta dai detenuti. Se si fosse lasciato scappare la sillaba “sì”, anche solo come parte di una parola più lunga, Vash’Tot l’avrebbe estrapolata dal contesto, sfruttandola come una dichiarazione d’assenso. A quel punto, Juri sapeva che non gli sarebbero bastati i dinieghi, le urla e le suppliche: lo avrebbero operato contro la sua volontà. E lo avrebbero ucciso... avrebbero ucciso tutto ciò che lo rendeva Juri Smirnov, anziché un’altra persona. Dopo quella mutilazione cerebrale, si sarebbe fidato di tutti... o solo dell’autorità costituita?

   «Allora?! Mi dica qualcosa... mi aiuti ad aiutarla!» insisté lo Ktarianio.

   C’era una curiosa urgenza in lui. Juri rifletté che era uno strano momento per venire a fargli quel discorso. Tra meno di un’ora si sarebbe consumata la lotta per il controllo della Terra. Il neurochirurgo non avrebbe dovuto seguire la cronaca, come tutti gli altri? A quel pensiero, gli tornò in mente che l’oloschermo della sua cella si era disattivato. Lo storico andò accanto all’emettitore e lo indicò con aria interrogativa.

   «Ah, sì» fece Vash’Tot, con un sorriso perfido. «Finché lei non mi parlerà come si deve, non potrà più seguire i notiziari. Che peccato... credo siano in corso degli eventi che le piacerebbe seguire. Anche se è nato sulla Luna, lei è sempre stato molto legato alla Terra. Di certo vorrà sapere se passerà sotto il controllo dei Voth. E soprattutto vorrà conoscere la sorte dei Terrestri. Resteranno a casa loro? Saranno deportati? O magari verranno sterminati? Se vuol saperlo, sia più collaborativo» disse lo Ktariano, col dolce sorriso di chi assapora la vittoria.

   Juri era già stato ricattato, in vita sua, ma mai in modo così meschino. Quello di Vash’Tot non era un semplice sopruso: era una palese violazione degli accordi con la Flotta Stellare, che gli aveva accordato il diritto all’informazione. Ora qualcuno, a qualche livello dell’organizzazione, si era rimangiato la parola. E lui non poteva farci niente. Il ricatto era tanto più amaro in quanto Juri aveva a cuore le sorti della Terra e voleva seguire gli sviluppi della vicenda.

   Fatte le sue considerazioni, l’Umano si avvicinò di nuovo alla parete trasparente della cella. Lo Ktariano lo osservò trionfante. Con gesto lento e ricercato, il prigioniero sollevò la mano destra e gli mostrò il dito medio. Poi alzò anche la sinistra, eseguendo lo stesso gesto.

   Lo Ktariano non conosceva la gestualità umana, ma intuì che si trattava di un’ingiuria. I suoi occhi giallognoli si riempirono di collera. «Molto bene... ne riparleremo tra qualche mese» sibilò. «Forse per allora le sarà venuta voglia di sapere se i Terrestri esistono ancora» aggiunse, prima di ritirarsi con un sorriso compiaciuto.

   Fatto un sospiro, Juri tornò stancamente al suo lettino e vi si distese. Senza la possibilità di consultare l’Olonet, la sua prigionia si faceva davvero dura. Forse un giorno qualcuno si sarebbe accorto dell’ingiustizia e avrebbe rimediato... ma Juri non ci sperava molto. Gli unici che potevano salvarlo, denunciando l’accaduto, erano i suoi parenti o anche i suoi amici della Keter, se fossero venuti a fargli visita. Ma i suoi parenti, che vivevano sulla Terra, rischiavano di essere deportati chissà dove. E i suoi amici della Keter sarebbero sopravvissuti alla battaglia? Juri lo sperava ardentemente. Ma anche in quel caso, avrebbero avuto altro a cui pensare che fargli visita.

   In quel momento di sconforto, in cui non sapeva nemmeno che stava accadendo alla Terra, l’Umano sentì di doversi aggrappare a qualcosa. Gli serviva un atto di fede... non necessariamente in senso ultraterreno. Ripensò al sorriso compiaciuto dello Ktariano e si chiese quanti pazienti egli avesse già “curato” a suo modo. Fu così che Juri trovò quello che cercava. «Un giorno, in qualche modo, ti metterò le mani addosso. E allora ti leverò la voglia di fare del “bene”» si promise. Quella era la speranza che lo avrebbe sorretto nei giorni a venire.

 

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Capitolo 3
*** La Caduta ***


 

-Capitolo 2: La Caduta

 

   La Nave Fortezza incombeva sopra l’isola artificiale di Atlantide, visibile anche nel cielo notturno come una spettrale chiazza verdastra. Sull’isola, come nel resto del pianeta, i Terrestri stavano tappati in casa, nell’attesa angosciosa di conoscere la loro sorte. Solo i veicoli della polizia e della Flotta Stellare pattugliavano le strade e i cieli, invitando i cittadini a rispettare il coprifuoco. Tutti gli occhi erano volti agli orologi, che scorrevano inesorabilmente verso la mezzanotte, lo scadere dell’ultimatum. Era la notte del 31 ottobre, la notte di Halloween; forse l’ultima che i Terrestri trascorrevano sul loro pianeta.

   Vista dallo spazio, la Terra era al centro di ben quattro corone concentriche. Per primo c’era lo Scudo Planetario, appena visibile come un bagliore perlaceo. Seguivano i ranghi delle piattaforme difensive orbitali, molte centinaia. Prive di equipaggio, erano armate con batterie phaser e siluri di vario tipo. Dopo di che c’era l’armata Voth: appena cento navi, ma dalle dimensioni chilometriche. L’anello più esterno era costituito dalla flotta federale: 492 navi, che divennero 500 esatte con l’arrivo di un’ultima flottiglia da Kronos. Per ordine del Capitano Talmath, l’Enterprise fronteggiò la Nave Fortezza di Hadron. Alla sua destra c’era la Keter; alla sinistra la Juggernaut. Tutte le navi federali erano in Allarme Rosso, con gli scudi alzati, le armi innescate e le infermerie pronte a ricevere i feriti.

   Sull’Enterprise il Capitano Talmath richiese un ultimo check-up dei sistemi. «Armi e scudi in piena efficienza» disse l’Ufficiale Tattico. «Ma c’è sempre il problema delle micro-fratture sullo scafo».

   Il Capitano sospirò. La classe Universe era progettata per durare più a lungo di ogni altra. Teoricamente lo scafo di yiterium doveva durare tre secoli, mentre gli interni sarebbero stati rimodernati periodicamente. A quarant’anni dal varo, l’Enterprise avrebbe dovuto essere ancora nella sua giovinezza. Ma non era così. Le innumerevoli battaglie sostenute nel corso degli anni avevano profondamente intaccato lo scafo, riempiendolo di pericolose micro-fratture, che potevano allargarsi facilmente. Durante l’ultimo restauro, quattro anni prima, gli ingegneri avevano cercato di saldarle; ma più di tanto non si poteva fare. L’unico modo per eliminare tutte le crepe sarebbe stato rifare interamente lo scafo; ma tanto valeva ritirare la nave dal servizio e costruirne una nuova. La Flotta Stellare, alle prese con i tagli al bilancio, non aveva potuto permetterselo. «Tenga d’occhio quelle crepe» ordinò Talmath. «Mi avverta, se dovessero peggiorare».

 

   Anche sulla Keter si tenne l’ultimo controllo dei sistemi tattici. La nave però era molto più recente – aveva solo cinque anni – e lo scafo in neutronio era ancora in buono stato. «State pronti» ordinò il Capitano Hod. «Se i Voth attaccano, difenderemo la Terra con tutte le nostre forze».

   «Ma l’Unione non gli ha dato una risposta?!» volle sapere Vrel.

   «No, ancora niente» disse Zafreen, che monitorava le frequenze subspaziali. «Anche il Comando di Flotta resta in silenzio».

   Il Capitano osservò la Terra, di cui vedeva l’emisfero in ombra. Le luci di Atlantide disegnavano il contorno dell’isola e una vasta ragnatela al suo interno. «Ora che siamo così vicini, il Comando potrebbe darci ordini... invece nulla» rifletté. Quel silenzio la preoccupava assai più di quello di Rangda e del Senato. L’Elaysiana intuì che l’Ammiraglio Chase non sapeva cosa dire, dato che la Presidente conduceva le trattative in privato, senza informare la Flotta dei progressi.

   «Ci hanno già dato gli ordini, con quel segnale in codice Morse» disse, per confortare l’equipaggio. «Non ci serve sapere altro». I suoi occhi violetti fissarono la Nave Fortezza, lampeggianti di sdegno. Era stata lei ad accompagnare i Voth alla Terra, otto mesi prima, sperando che avessero intenzioni pacifiche. Non poteva evitare di sentirsi in colpa per ciò che ne era conseguito. Ora, davanti alla prepotenza dei sauri, non intendeva cedere di un millimetro.

   Trascorsero i minuti. Non c’era persona – sulla Terra, tra i Voth e nella Flotta – che non stesse col fiato sospeso, in attesa di conoscere l’epilogo di quell’assedio. Sulle astronavi, gli ufficiali tattici osservavano il conto alla rovescia, con le dita già sui comandi delle armi.

   Meno dieci minuti.

   Meno cinque.

   Quattro.

   Tre.

   Due.

   Uno.

   Zero.

 

   «Beh?» fece Vrel, osservando la sagoma gargantuesca della Nave Fortezza. Quasi sperava in un confronto, piuttosto che prolungare quell’attesa snervante.

   «I Voth trasmettono» avvertì Zafreen.

   «Parla l’Ammiraglio Hadron, a nome dell’Autorità Voth» disse il sauro, apparendo sullo schermo. «I termini dell’ultimatum sono scaduti senza che l’Unione Galattica ci fornisse una risposta definitiva. Dichiaro pertanto che il vostro silenzio sarà interpretato come assenso. La mia flotta comincerà immediatamente a trasferire la popolazione terrestre. Vi garantisco che gestiremo l’operazione nel modo più rapido e indolore. Non opponete resistenza, perché in tal caso dovremo rendervi inoffensivi. Hadron, chiudo».

   Il Capitano Hod sbatté le palpebre, più scioccata dall’assenza di risposta dell’Unione che dalle intenzioni dei Voth. Prima che lei o altri potessero commentare, ci fu la reazione del Comando di Flotta. «Qui è l’Ammiraglio Chase, che parla a nome della Flotta Stellare. Se comincerete a sequestrare gli abitanti della Terra, lo interpreteremo come un atto di guerra contro l’Unione. Di conseguenza la Flotta aprirà il fuoco. Non costringeteci a farlo. Se veramente riverite la Terra come vostro pianeta d’origine, non trasformatelo in un campo di battaglia» esortò l’Umano.

   Sulla Nave Fortezza, il Colonnello Corythos si rivolse all’Ammiraglio. «Signore... non crede che dovremmo rivalutare la nostra strategia?» chiese con una traccia d’apprensione. Aveva appena consultato i rapporti tattici sulla flotta federale.

   «Neanche per sogno» ribatté Hadron, che aveva letto gli stessi rapporti. «Questo è un bluff. In realtà i federali sono terrorizzati. E non hanno istruzioni dal Senato, il che li ha gettati nella confusione. Non oseranno aprire il fuoco».

   «E se si sbagliasse?» insisté Corythos. «Se la confusione e il panico inducessero alcuni di loro a sparare, gli altri si vedranno costretti a fare altrettanto».

   «Spero di no... per il loro bene» disse Hadron. «Non si preoccupi, Colonnello. La nostra superiorità militare è indiscutibile. Però mi dispiacerebbe far loro del male. Sono servitori dello Stato che fanno il loro dovere, proprio come noi».

   «Quindi...».

   «Quindi procediamo» ordinò l’Ammiraglio, dopo di che premette un comando sul bracciolo. «Hadron a flotta: iniziate l’Operazione Riconquista. Non fermatevi per nessun motivo».

   Mentre gli ufficiali attorno a lui eseguivano gli ordini, l’Ammiraglio sedette più comodo sulla poltroncina, osservando la flotta federale sullo schermo. «Avanti... non siate così folli da attaccare» pensò.

 

   «Avanti... non siate così folli da attaccare» pensò il Capitano Hod, osservando la flotta Voth. Una goccia di sudore le solcò la fronte.

   «Rilevo teletrasporti multipli» avvertì Zafreen, con la morte nel cuore. «Non so come, ma i Voth prelevano i Terrestri attraverso lo Scudo. Stanno prendendo di mira le forze di polizia e il personale di Flotta! Al loro posto sbarcano i soldati, migliaia al secondo. Si stanno impadronendo di basi militari, centri di ricerca... sono nel Quartier Generale di Flotta!» gemette.

   Hod scambiò un’occhiata cupa con Radek. Il loro peggiore incubo si era avverato: era guerra.

   «Talmath a flotta: fuoco a volontà!» ordinò il Capitano dell’Enterprise, mentre la sua nave colpiva per prima. Impulsi bifasici, raggi anti-polaronici e siluri di vario tipo colpirono gli scudi della Nave Fortezza, disegnando cerchi di luce.

   «Oh, no» mormorò Radek, portandosi una mano al volto.

   «Avete sentito?! Fuoco!» gridò Hod, indicando il nemico. La Keter rovesciò la sua potenza di fuoco sulla Nave Fortezza e così fece anche la Juggernaut del Capitano Gulnar.

   In risposta, la nave Voth emise un potentissimo raggio antiprotonico, colpendo una classe Paladin che si era fatta più avanti delle altre. Il vascello federale aveva gli scudi anteriori al massimo, ma il raggio antiprotonico li superò facilmente. L’astronave fu completamente vaporizzata, da prua a poppa. Il raggio uscì dall’esplosione e proseguì la sua corsa, passando accanto a un’altra astronave. Se l’avesse colpita, avrebbe vaporizzato anche quella.

   Scioccata, Hod guardò l’esplosione che si disperdeva. Per fortuna nessun altro vascello Voth aveva lontanamente la potenza di fuoco della Nave Fortezza, ma quella tragedia faceva capire contro chi si erano messi. «Scudi anteriori al massimo» ordinò il Capitano. «Vrel, ci affidiamo a lei per schivare quei colpi».

   Il timoniere non se lo fece ripetere. Uscì rapidamente dalla formazione, evitando d’un soffio il raggio antiprotonico. Gli altri vascelli lo seguirono, allontanandosi dalla Nave Fortezza, in cerca di un obiettivo alla loro portata.

 

   La battaglia divampò come un incendio nella stoppia, tutt’intorno alla Terra. La flotta federale martellò le colossali navi Voth, cercando di spingerle nel raggio di tiro delle piattaforme orbitali. Queste a loro volta aprirono il fuoco, sebbene a quella distanza i colpi fossero imprecisi. Anche le batterie sulla Luna bersagliarono gli invasori. Prese tra i due fuochi, le astronavi dei sauri risposero con raggi antiprotonici, siluri transfasici e cronotonici, aprendo vuoti paurosi tra le file federali. Al tempo stesso i Voth continuavano a sequestrare i difensori terrestri e a rimpiazzarli con le loro truppe. Mai, nemmeno durante l’attacco di Vosk, la Terra si era trovata al centro di una battaglia così titanica. Eppure stavolta gli invasori non volevano distruggere il pianeta, anzi facevano di tutto per limitare i danni. Il loro scopo era rimpiazzare la popolazione senza danneggiare l’ambiente.

   «Come fanno a teletrasportare la gente attraverso lo Scudo?» chiese Hod, mentre la Keter tremava per il fuoco nemico.

   «Credo che riescano a captare la frequenza e regolino il teletrasporto di conseguenza» rispose Zafreen.

   «Faccio ruotare le armoniche dei nostri scudi, così non si adatteranno» disse Norrin. «Almeno sono un bersaglio facile» aggiunse. Dato il loro obiettivo, i Voth non potevano allontanarsi dalla Terra e quindi le loro grandi navi restavano a fare da bersaglio. I federali invece, trovandosi all’esterno, avevano libertà di manovra e potevano anche ritirarsi se gli scudi cedevano.

   Con il progredire della battaglia, il paradosso divenne sempre più evidente. In uno scontro nello spazio aperto, i Voth avrebbero annientato la Flotta in pochi minuti. La loro superiorità tecnologica era semplicemente schiacciante. Le loro astronavi erano più armate, più veloci e molto più resistenti di quelle federali. Ma le circostanze tattiche cospiravano contro di loro. Dovendo impadronirsi della Terra, senza peraltro danneggiarla, i Voth erano costretti a tenere le navi in orbita. Già questo annullava uno dei loro vantaggi, la velocità. Man mano che la Flotta reiterava i suoi assalti, i Voth finirono sempre più schiacciati contro lo Scudo Planetario, finché tutte le loro navi entrarono nel raggio di tiro delle piattaforme difensive. Queste erano centinaia, ed essendo prive d’equipaggio potevano combattere fino all’ultimo, anche dopo aver ricevuto gravi danni. Ben presto i vascelli Voth furono così ammucchiati che ai federali era quasi impossibile mancarli. Alcuni di loro rischiarono persino di entrare in collisione mentre manovravano.

   Le navi della Flotta, al contrario, avevano ampio spazio per le manovre evasive. Quando poi perdevano gli scudi, potevano allontanarsi temporaneamente per rigenerarli. Se i danni ricevuti erano troppo gravi, potevano lasciare l’orbita e rifugiarsi presso i cantieri di Marte. Il nocciolo duro della flotta federale erano, come da decenni a quella parte, le classi Universe e Celestial. Ma anche i distruttori di classe Juggernaut, schierati per la prima volta in gran numero, dettero buona prova di sé. La loro forma compatta, con le gondole parzialmente incassate, li rendeva molto resistenti. E c’era la Keter che, forte della corazza in neutronio, si lanciava in feroci attacchi per poi mettersi rapidamente fuori tiro.

   Solo a terra le cose andavano peggio, perché i soldati Voth – sbarcati a milioni – si stavano assicurando il controllo di ampi territori. C’era battaglia ad Atlantide, nel Quartier Generale e nell’Accademia di Flotta. Si combatteva a Okinawa nell’Istituto Daystrom e in Antartide nei centri di controllo climatico. Solo il palazzo presidenziale era stranamente quieto. Ovunque andassero, i Voth erano difficili da contrastare: i loro dispositivi di Occultamento Sfasato gli permettevano di attraversare pareti e campi di forza. Anche i raggi phaser e polaronici li attraversavano senza nuocere. Solo quando i sauri volevano sparare erano costretti a rendersi tangibili, e in quel momento potevano essere colpiti a loro volta. Ma i soldati Voth sapevano che la loro sorte dipendeva dalla battaglia nello spazio. Se lassù le cose si fossero messe male, sarebbero stati reimbarcati.

   Sulla sua Nave Fortezza, l’Ammiraglio Hadron leggeva costernato la lista dei danni, che si allungava a ogni momento. Nove astronavi erano già state distrutte, altre quaranta danneggiate. I federali avevano riportato perdite molto maggiori, soprattutto alle piattaforme difensive; ma potevano sopportarle. Le proiezioni tattiche, costantemente aggiornate, non erano buone. «Posso ancora vincere, ma il prezzo sarà molto più salato del previsto» comprese l’Ammiraglio. «Perderò quasi tutta la flotta. E le vittime a terra saranno milioni, da una parte e dall’altra. Non era così che doveva andare. Dovrò chiedere rinforzi all’Assemblea degli Anziani... di certo manderanno qualcuno a sostituirmi. E l’Unione può spedirci contro altre navi: deve solo radunarle».

   In quella Hadron notò uno scontro che aveva luogo a poca distanza dalla sua nave. L’Enterprise, la Keter e la Juggernaut avevano circondato una Nave Bastione danneggiata e le giravano intorno per finirla, come orche con una balena ferita.

   «Distruggete quelle navi, a partire dalla Keter» ordinò l’Ammiraglio. Sperava che, eliminando i vascelli federali più potenti, gli altri equipaggi si spaventassero e fuggissero. Ma le cose non andarono come previsto. Con un guizzo inaspettato, la Keter sfuggì al raggio antiprotonico, che colpì invece la Nave Bastione, tranciandola in due. Le navi federali si misero rapidamente fuori tiro, mentre i tronconi fiammeggianti del vascello Voth esplodevano in rapida successione. L’artigliere che aveva sparato lasciò i comandi e si alzò tremante.

   «Lei sarà giustiziato per la sua incompetenza. Portatelo via!» ordinò Hadron, accompagnandosi con un gesto secco. In realtà ce l’aveva più con se stesso, per essersi lasciato attirare in quella trappola.

   «Signore, i Capitani sono andati nel panico» avvertì Corythos. «Chiedono tutti di ritirarci, finché possiamo. Anche le vittime a terra stanno aumentando».

   L’Ammiraglio scrutò il Mondo Perduto. Lo Scudo Planetario era ancora attivo e, sebbene non bloccasse il loro teletrasporto, proteggeva la Terra dai colpi che andavano a vuoto. Ormai ne aveva incassati parecchi e si era indebolito. Se Hadron avesse ordinato di colpire la Terra per rappresaglia, lo Scudo avrebbe ceduto rapidamente. Poteva distruggere una città o due, e poi minacciare la distruzione totale, per costringere i federali alla resa. «No» si disse. «Non massacrerò degli innocenti che hanno solo avuto la sfortuna di nascere qui».

   «Ammiraglio, dobbiamo prendere una decisione!» lo pressò il Colonnello. Le sue scaglie erano trascolorate al blu, il colore della fifa.

   «Nessuna comunicazione da Rangda?» chiese Hadron. Lui e la Presidente avevano discusso a lungo, nei giorni precedenti, formulando un abbozzo di accordo che tuttavia non era stato ratificato. E nelle ultime ore la Zakdorn non si era più fatta sentire. L’Ammiraglio era ormai convinto che quella trattativa fosse stata fiato sprecato, anche se si era astenuto dall’attaccare il palazzo presidenziale, nella speranza che Rangda si facesse viva.

   «Negativo, signore. Non risponde alle nostre chiamate» rispose l’addetto alle comunicazioni.

   Hadron chinò il capo, avvilito. «Ho commesso un errore» riconobbe. «Questi federali sono più pericolosi del previsto. Segnali alla flotta di reimbarcare le truppe. Poi lasceremo l’orbita e ci ritireremo in modo ordinato. Dobbiamo ridefinire la strategia. Un giorno la Terra sarà nostra: questo è assodato. Ma non oggi» sospirò, mentre le sue scaglie si arrossavano per l’umiliazione.

 

   «Capitano, i Voth fanno risalire i soldati!» si animò Zafreen. «La loro flotta sta assumendo un vettore di uscita dall’orbita. Credo che si stiano ritirando!».

   A quelle parole, Hod si sentì rinascere. «Coraggio, un ultimo sforzo!» ordinò ai suoi. «Non perdete la concentrazione. Norrin, fuoco contro quella fregata. Vrel, continui a tenerci lontani dall’ammiraglia». L’Elaysiana osservò il bollettino tattico. La Flotta aveva perso settanta navi, contro le dieci dei sauri, e un centinaio di piattaforme orbitali; ma stava vincendo. Stavano davvero piegando l’orgoglio dei Voth. Ora dovevano assicurarsi che uscissero tutti dal sistema solare, e poi controllare che non avessero lasciato truppe a terra...

   In quella una spia rossa lampeggiò sulla consolle di Zafreen. «Rilevo una trasmissione subspaziale da Atlantide» disse l’Orioniana. «Viene dal palazzo presidenziale. È un messaggio di priorità 1 per tutta la Flotta».

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano. Sentì un brivido nelle ossa: quel messaggio tardivo non prometteva nulla di buono.

   La Presidente trasmetteva direttamente dal suo ufficio. Come al solito l’inquadratura era molto ravvicinata, così che il suo viso magro e vizzo riempiva quasi tutto lo schermo. «Attenzione, mi rivolgo al personale della Flotta Stellare in quest’ora drammatica. V’informo che in questi giorni di crisi ho assunto i pieni poteri di una Presidente in guerra. Al tempo stesso ho lavorato senza sosta a un accordo con l’Autorità Voth, per scongiurare un’escalation militare dalle conseguenze apocalittiche» esordì.

   «Io e l’Ammiraglio Hadron abbiamo raggiunto un’intesa preliminare, come premessa di un duraturo trattato di pace. Voglio qui ricordare che la scoperta dell’origine terrestre dei Voth pone fine alla menzogna storica che vuole gli Umani come prima specie senziente della Terra. Alla luce di questa rivelazione, consentiremo ai Voth di collocare i loro coloni, mentre i Terrestri saranno trasferiti sugli altri mondi dell’Unione. Farà eccezione Atlantide, che è stata creata di recente e pertanto resterà sotto la nostra giurisdizione. Voglio assicurarvi che le famiglie resteranno unite, potranno portare con sé i loro beni mobili e saranno accolte in alloggi confortevoli. In garanzia dell’accordo, ai Voth è consentito gestire il trasferimento con le proprie forze armate. La Flotta Stellare dovrà coadiuvarli in questo sforzo di pace, fornendo piena collaborazione. Insieme, la Milizia Voth e la Flotta condurranno l’operazione nello spirito d’amicizia e collaborazione fra i popoli. Provvederanno inoltre a reprimere ogni rigurgito razzista e xenofobo degli Umani.

   Questi sono gli ordini, validi per tutto il personale di Flotta. La loro inosservanza sarà considerata alto tradimento, nonché un atto di guerra contro l’Unione. Pertanto mi rivolgo agli ufficiali: se il vostro Capitano rifiuta di obbedire, siete autorizzati a usare la forza letale per prendere il comando. É tutto».

   Lo sguardo della Presidente era gelido come il vuoto intergalattico. Non c’era esitazione in lei. Non c’era misericordia. C’era solo la ferrea durezza di chi esige obbedienza cieca, pronta e assoluta. Lanciato il suo proclama, Rangda chiuse la comunicazione. Subito le navi Voth interruppero la ritirata e si disposero nuovamente intorno alla Terra. Non sparavano più, attendendo la reazione della Flotta Stellare. Le navi federali, dal canto loro, avevano interrotto il fuoco e si aggiravano come smarrite.

   Il Capitano Hod lasciò la poltrona di comando e si avvicinò allo schermo, con il viso esangue. Sapeva che quella pausa nel combattimento sarebbe stata breve. Perché i membri di altre specie potevano anche obbedire alla Presidente, ma gli Umani derubati della casa non l’avrebbero fatto.

   Sulla plancia, prima concitata, era calato un silenzio spettrale. Tutti stavano zitti e immobili, in attesa che il Capitano reagisse. Solo Vrel si volse lentamente con il sedile, rivolgendole uno sguardo spiritato. «Quali sono gli ordini?» sussurrò.

 

   Come previsto, la pausa fu breve.  C’erano ancora quattrocento navi della Flotta in orbita, considerando che settanta erano state distrutte e altre trenta si erano ritirate per i troppi danni. Su ogni astronave scoppiò una lotta senza quartiere fra i “lealisti” che volevano obbedire a Rangda e i “ribelli” che rifiutavano di svendere la Terra. Ma non c’erano solo gli Organici di cui tener conto.

   Come evidenziato nell’ultima riunione dei Capitani, molte astronavi avevano un equipaggio insufficiente e quindi erano guidate dalle Intelligenze Artificiali, che si manifestavano come proiezioni isomorfe. Peraltro anche nei vascelli dotati di regolare equipaggio le IA avevano un potere enorme, dato che regolavano tutti i sistemi di bordo, inclusi quelli tattici, e all’occorrenza potevano sostituire gli ufficiali al comando. In circostanze normali, ogni proiezione isomorfa obbediva al suo Capitano. Ma un ordine diretto della Presidente, investita di pieni poteri, travalicava l’autorità dei Capitani e di ogni altro ufficiale della Flotta Stellare. Le direttive di Rangda erano chiarissime, nessuna IA poteva equivocare: bisognava assecondare i Voth. E chiunque si opponesse era un nemico dell’Unione.

   Su centinaia di astronavi, le Intelligenze Artificiali tentarono di stordire, imprigionare – e nei casi più estremi uccidere – gli ufficiali che rifiutavano di ottemperare. Poche navi si salvarono, o perché come la Keter non avevano IA, o perché questa era in servizio da tempo e aveva sviluppato una certa autonomia di pensiero. In alcuni casi gli ingegneri, già pronti a intervenire sulle IA se i Voth avessero cercato d’influenzarle, ebbero la prontezza di disattivarle. Ci furono anche dei casi in cui le proiezioni isomorfe furono così lacerate dalle direttive contrastanti che i loro programmi non ressero: si decompilarono sotto gli occhi sconvolti degli ufficiali. Sommando tutti questi casi, solo un centinaio di astronavi restarono sotto il controllo dei loro Capitani. Le altre trecento erano in mano alle IA, che obbedivano a Rangda. Quanto alle piattaforme orbitali, erano tutte controllate da computer che riconoscevano l’autorità della Presidente. Fu così che, dopo la breve interruzione, la battaglia riprese. Ora però tre quarti delle navi federali, e tutte le piattaforme, aiutavano i Voth a domare la “ribellione”.

   La creazione del nuovo schieramento non fu semplice e immediata. Molte astronavi passarono ripetutamente di mano, in base a come evolveva lo scontro all’interno, e quindi cambiarono più volte schieramento. Un vascello poteva accanirsi contro i Voth, poi rivoltarsi contro i propri alleati e, dopo averli gettati nel caos, tornare a colpire i sauri con la stessa determinazione di prima. Ci furono anche navi lealiste che dimostrarono una mira scadente, o che addirittura colpirono “accidentalmente” gli alleati, poiché gli ufficiali tattici non condividevano le idee dei loro superiori. E ci furono alcuni equipaggi che rifiutarono di combattersi: costoro portarono via le navi dal campo di battaglia. Alcuni attesero che si delineasse un vincitore e tornarono all’ultimo minuto, accodandosi a questo. Gli altri abbandonarono il sistema solare, fuggendo verso un incerto destino. Tutte le combinazioni, tutte le reazioni possibili ebbero luogo. Ogni vascello fu un caso a sé, perché ciascuno aveva un equipaggio con la sua storia, le sue opinioni e le sue lealtà personali.

   La battaglia non era solo all’interno delle navi. La prima, peggior lotta avveniva nella coscienza di ciascun individuo, dal Capitano all’ultima delle reclute. Alcuni rinunciarono alla propria coscienza per obbedire ai superiori. Altri eliminarono i superiori per obbedire alla coscienza. Ci fu chi tradì i propri amici per fedeltà all’Unione, e chi li tradì per fedeltà alla Terra e alla specie umana. Alcuni ufficiali non ebbero la forza di combattere i loro colleghi: si puntarono il phaser alla tempia, o se lo misero in bocca, e premettero il grilletto. Tra gli individui più legati al senso dell’onore, come i Klingon, che si dibattevano tra lealtà inconciliabili, non furono rari questi suicidi. A fine battaglia risultò che la maggior parte dei caduti non erano vittime dei Voth, bensì degli scontri intestini: uccisi dai colleghi o periti di propria mano.

 

   In questo pandemonio, gli unici a guadagnarci furono i Voth. Se fino a pochi minuti prima erano sul punto di ritirarsi, ora i sauri avevano davanti a sé una flotta allo sbaraglio. «Hadron a flotta: aprite il fuoco, ma state attenti a non colpire le navi che ci appoggiano» ordinò l’Ammiraglio. I grossi vascelli Voth partirono all’attacco, penetrando nello schieramento federale come coltelli nel burro. Anche i teletrasporti ricominciarono. Sconfitte le forze di sicurezza, ora i Voth sequestravano i civili, prelevando intere famiglie. Questo rese ancora più difficile combatterli, perché distruggere una nave Voth significava uccidere anche le migliaia di Terrestri imprigionati al suo interno.

   «Aprire un canale con Rangda» ordinò Hadron, intrecciando le dita. La Presidente apparve prontamente sullo schermo. «Sa, non è facile sorprendermi, ma lei ci è riuscita» disse l’Ammiraglio. «Ora che si aspetta da me?».

   «Che faccia esattamente ciò che ha promesso» rispose la Zakdorn, con sguardo glaciale. «Mi liberi dai ribelli e porti via i Terrestri. Si accerti di controllare il Quartier Generale di Flotta, ma stia attento all’Ammiraglio Chase: è pericolosissimo. Non deve andarsene dalla Terra, mi sono spiegata? Sarebbe un simbolo attorno a cui si coagulerebbero i ribelli».

   «Mi assicurerò che sia catturato» promise Hadron.

   «Un’altra cosa: deve aiutarmi a conquistare le navi ribelli. Ogni astronave che fugge sarà una spina nel fianco per lei, non meno che per me. Impedisca loro di andarsene e neutralizzi l’equipaggio» ordinò la Presidente.

   «Uhm... come vuole» acconsentì il Voth, con meno prontezza. Non gli piaceva obbedire a tutte le richieste di Rangda, ma in quella fase delicata pensò che fosse meglio non scontentarla, trattandosi del loro unico alleato. «Mi tolga una curiosità: cosa conta di guadagnarci, con tutto questo?» chiese.

   «Guadagnarci?» fece la Presidente, perplessa. «Lei è fuori strada, Ammiraglio. Io non agisco per interesse personale. Tutto ciò che faccio è per il bene dell’Unione. Bisogna eliminare le scorie, per creare una società migliore» spiegò, e chiuse la comunicazione.

   «Ma è seria?» chiese Corythos.

   «Non lo so, e francamente non m’importa» ribatté Hadron. «Continuate a colpire i ribelli. E portatemi l’Ammiraglio Chase. Vivo, se possibile».

 

   Sull’Enterprise, Talmath fronteggiò Majel. La proiezione isomorfa sfrigolava in modo penoso, per il conflitto che avveniva tra le sue subroutine. In certi momenti si tingeva di blu, in altri si sgranava. «Capitano, devo... ottemperare...» mormorò.

   «No, Majel, non devi» ribatté il Romulano con fermezza. «L’ordine di Rangda è illegittimo. La Presidente non può regalare la Terra ai Voth, come se fosse di sua proprietà, scavalcando il Senato. Siamo di fronte a un abuso di potere, se non addirittura a un colpo di Stato».

   «Correzione: con le ultime riforme, la Presidente può cedere pianeti nell’ambito delle trattative di pace. L’ordine deve essere ratificato dal Senato entro dieci giorni» obiettò l’Intelligenza Artificiale.

   «Questa legge è anticostituzionale e se l’applichiamo creerà un precedente pericolosissimo. Se l’Unione cede la sua capitale, allora nessun pianeta è al sicuro!» insisté Talmath. «Al momento non sappiamo se il Senato ratificherà la decisione di Rangda. Finché il Senato non si esprime, dobbiamo proteggere i cittadini federali! Solo così saremo fedeli alla Costituzione!».

   «Fedeli... alla Costituzione» ripeté Majel, riuscendo a stabilizzarsi. «Sì Capitano, ha ragione. Sono con lei» disse, riuscendo a sorridere debolmente.

   «Ne ero certo» disse Talmath, ricambiando il sorriso. «E voi, avete qualcosa da obiettare?» chiese, rivolgendosi al resto dell’equipaggio. Alcuni ufficiali, tra cui il capo della Sicurezza, incrociarono le braccia e si fecero avanti, per manifestare il loro dissenso.

   «Capisco» si accigliò il Capitano. «Majel...».

   I dissidenti furono teletrasportati via dalla plancia. «Sono in cella» riferì la proiezione isomorfa. «Sto inviando le mie proiezioni in giro per la nave, per accertarmi di mantenere il controllo». Così dicendo si recò alla postazione tattica.

   «Grazie» disse il Capitano. «Condizioni della nave?».

   «Scudi al 20%, falle su otto ponti. Le micro-fratture sullo scafo si stanno allargando» riferì l’IA, inquieta.

   Talmath osservò lo schermo: la battaglia intorno alla Terra stava già riprendendo. «Uhm... ci sono molti indecisi. Se noi dell’Enterprise continuiamo a difendere la Terra, indurremo altri a imitarci. Forse trascineremo il grosso della flotta» si augurò il Romulano. «Majel, fuoco contro i Voth. E contro i traditori della Flotta» ordinò, risedendosi sulla poltrona di comando.

   La nave ammiraglia si tuffò nella mischia, sparando con tutte le armi. Talmath era lieto di aver sbarcato a Proxima b i settemila civili che solitamente vivevano a bordo. Perché mai, nella sua storia travagliata, l’Enterprise-J aveva affrontato una battaglia così disperata.

 

   Nel mezzo del finimondo, alcune navi stazionavano senza partecipare allo scontro, non avendo ancora deciso da che parte stare. La Keter era tra queste. Per il momento entrambi gli schieramenti la ignoravano, ma la fortuna non sarebbe durata a lungo. Il Capitano Hod sapeva di dover decidere in fretta; ma le pareva che entrambe le strade conducessero alla rovina.

   Vedendola così indecisa, Norrin prese la parola. «Capitano, è una follia! Non possiamo regalare la Terra a una specie che conosciamo appena! Né possiamo deportare miliardi di civili contro la loro volontà» disse.

   «E qual è l’alternativa, una guerra senza quartiere contro i Voth?» obiettò Radek, alzandosi. «Avete visto la loro potenza di fuoco. Se c’invadono su larga scala, con altre Navi Fortezza, ci annienteranno. La Presidente ha preso l’unica decisione sensata in questo frangente. Ha disinnescato il conflitto e ha aperto canali diplomatici che permetteranno, alla lunga, di risolvere tutto».

   «E se così non fosse?» contestò Vrel. «Se i Voth approfittassero della situazione per assumere il controllo totale del sistema? Se s’impadronissero anche di Marte, coi cantieri navali, e di Plutone, con la tecnologia temporale?».

   «Non possiamo metterci a sparare solo per la paura di ciò che potrebbe accadere» affermò il Comandante.

   «Potrebbe?!» esclamò Norrin. «Sta già accadendo. I Voth hanno iniziato a teletrasportare la popolazione. Rapiscono milioni di cittadini federali e in cambio sbarcano le loro truppe! Sono già nel Quartier Generale di Flotta! Capitano, questi invasori ci stanno conquistando senza sforzo».

   «Ma non sono invasori!» insisté Radek. «Vi ricordo che i Voth vivevano qui ben prima degli Umani. Stanno solo reclamando ciò che gli è sempre appartenuto».

   «Diresti lo stesso, se reclamassero Rigel?» chiese Norrin, sempre più arrabbiato con l’amico.

   Il Rigeliano rifletté brevemente. «Forse no» ammise. «Ma gli ordini di Rangda sono chiari. Tutta la flotta li ha ricevuti. Disobbedire adesso significa diventare dei rinnegati. L’Unione potrebbe spaccarsi in due... sarà la guerra civile! Non possiamo permetterlo!» insisté.

   In quella il teletrasporto di plancia si attivò, senza che l’addetto avesse toccato i comandi. Un gruppo di ufficiali della Sicurezza apparve sulla pedana. Il Capitano notò che erano tutti Umani o mezzi Umani. Avevano i phaser in pugno e i volti risoluti. A capo del manipolo c’era una mezza Andoriana dai capelli biondo platino, con l’uniforme un po’ sinistra degli Agenti Temporali. Era Jaylah Chase, la figlia dell’Ammiraglio. I suoi occhi azzurro ghiaccio perlustrarono la plancia e si piantarono su Hod.

   «Capitano, a nome degli ufficiali Umani e mezzi Umani della Keter, la esorto a non voltarci le spalle» disse Jaylah con intensità. «La nostra gente viene rapita, le nostre case sono occupate da una forza d’invasione aliena. Se non interveniamo subito, la Terra sarà persa per sempre».

   «Nessuno l’ha autorizzata a venire qui con una squadra, Tenente» disse il Capitano con voce gelida. «Che fa, cerca d’intimidirmi?!».

   «Cerco di proteggere la Terra dal più infame dei tradimenti!» ribatté Jaylah. Non le stava puntando contro il phaser, ma lo impugnava ed era pronta ad alzarlo.

   «Ora basta!» esclamò Radek, venendole contro. «Lei ha superato ogni limite, Tenente. Per il regolamento della Flotta Stellare, è in arresto».

   La mezza Andoriana lo fronteggiò senza timore. Quello era il momento per cui si era tanto preparata: il momento di guardare negli occhi i servi di Rangda e dir loro che si sbagliavano. «La Flotta Stellare è morta. La dittatrice l’ha uccisa poco fa, con quel proclama» disse con voce dura. Si strappò il comunicatore/mostrina e lo gettò via senza rimpianti. «Da questo momento mi considero parte della Resistenza Terrestre. Chi è con me?!» chiese con voce stentorea.

   Il primo a muoversi fu Vrel, che lasciò il timone e si pose risolutamente a fianco dell’amica. Subito dopo anche Zafreen lasciò la sua postazione e le venne accanto. Con un sospiro, Norrin si affiancò ai tre giovani. «Ti ho addestrata troppo bene» mormorò a Jaylah, che contrasse la guancia in un abbozzo di sorriso, ma non perse di vista il Comandante. Un paio di ufficiali ausiliari si unirono a loro.

   Vedendo che bisognava schierarsi, i restanti ufficiali ausiliari si posero tutti con Radek. L’equipaggio di plancia si era diviso esattamente a metà, ma poiché Jaylah era giunta con una squadra, il suo gruppo risultava più numeroso. I due schieramenti si fronteggiarono con ostilità, mentre Hod li guardava afflitta.

   «Bene... con questa scelta, siete appena diventati terroristi» disse Radek, con disgusto ma anche con una traccia di paura. «Ricordate che qualunque bagno di sangue ci sarà d’ora in poi, sarà colpa vostra».

   «Silenzio!» gridò Hod, attirando l’attenzione di tutti. Dopo di che si rivolse a Jaylah. «Che intenzioni hai?» chiese con un brivido. La mezza Andoriana non le era mai apparsa così determinata e pericolosa.

   «Combattere gli invasori» rispose prontamente Jaylah. «Se lei cercherà d’impedirmelo, allora combatterò anche lei. Ma se crede che obbedire a Rangda significhi salvare qualcosa o qualcuno, s’illude. L’Unione che amavamo è morta e quelli come il Comandante ne difendono solo il cadavere».

   «Non l’ascolti, Capitano!» disse Radek, accorato. «Questa mezza Umana è una serpe in seno che ci cova da anni. Crede non sappia che è complice dello Spettro? Ogni volta che gli tendiamo un’imboscata quel pirata ci sfugge, come se qualcuno lo avvertisse. E ogni volta che l’Agente Chase torna dalle sue misteriose licenze, ha sempre delle soffiate utili a sgominare le bande criminali... ma guarda caso, mai quella dello Spettro! Quei due sono in combutta da anni, e l’Agente aspettava solo l’occasione buona per tradirci!».

   Il Capitano si aspettava che Jaylah ribattesse, ma non fu così. Tutti i federali, di ambo gli schieramenti, fissarono lo schermo principale. Hod non aveva mai visto tanto orrore sui loro volti. Jaylah, in particolare, era come tramortita. «La profezia di Sisko!» sussurrò.

   Hod rammentava di quando Jaylah gliene aveva parlato, tre anni prima. Si volse lentamente, presagendo ciò che avrebbe visto. L’Enterprise-J, nave ammiraglia di Flotta e vincitrice d’innumerevoli battaglie, era alla deriva nello spazio, al centro di una gragnola di colpi. La grande astronave aveva perso gli scudi; il plasma rosso sgorgava come sangue dalle gondole danneggiate. Le micro-fratture nello scafo si erano allargate, sotto il fuoco nemico, finché la nave aveva perso integrità strutturale. Ora il suo scafo era crivellato di falle, da cui l’aria sfuggiva, trascinandosi dietro rottami e persone.

   L’Elaysiana stava per ordinare di trarre in salvo i superstiti, quando un raggio potentissimo colpì l’Enterprise, tranciandola in due per tutta la lunghezza. I tronconi fiammeggianti si separarono, dilaniati dalle esplosioni, finché il nucleo quantico cedette. La dodicesima regina della Flotta svanì in un lampo accecante, la cui onda d’urto investì la Keter, facendola tremare paurosamente.

   «Sapevo che sarebbe accaduto...» mormorò Jaylah. Questo non la faceva stare meglio, anzi accresceva la sua pena. L’Enterprise era il luogo in cui i suoi genitori si erano innamorati e in cui lei stessa era nata, durante una battaglia. L’avevano chiamata Jaylah proprio per onorare, con l’iniziale del suo nome, l’Enterprise-J. Ora quella nave unica e irripetibile era morta, non per la potenza dei Voth, ma per il tradimento al vertice dell’Unione. Jaylah poteva quasi vedere Rangda che sorrideva di gioia malefica, osservando i detriti dell’astronave che si disperdevano. Un altro ostacolo tra la Presidente e il potere assoluto era caduto.

   «Talmath...» mormorò Hod. Non conosceva a fondo il Capitano, ma gli sembrava una brava persona. Come lo erano Majel e gli altri tremila ufficiali che prestavano servizio a bordo. Rangda e i suoi lealisti non avevano avuto pietà di loro. L’Elaysiana pensò a quando, da bambina, viveva sull’Enterprise con la sua famiglia. Se le avessero detto che sarebbe finita così, non ci avrebbe mai creduto. D’un tratto il Capitano si sentì colmare da una strana calma. I suoi dubbi erano svaniti: ora sapeva esattamente cosa fare. «Chi ha sparato il colpo mortale? Quale astronave?» chiese, con una quiete che preparava la tempesta.

   Zafreen lasciò il gruppo e tornò in fretta alla sua postazione, dove consultò i diari dei sensori, che avevano registrato tutto anche in sua assenza. «È stata la Juggernaut» rivelò.

   «Gulnar» si disse Hod. Il suo eroe d’infanzia aveva scelto da che parte stare. Ne era così convinto da distruggere la nave ammiraglia e uccidere tremila colleghi. Bene: anche lei aveva scelto con chi schierarsi. Il Capitano si levò il comunicatore, foggiato nell’emblema della Flotta Stellare. Dopo averlo osservato brevemente, se lo gettò alle spalle. «Vrel, la prego di tornare al timone» disse con calma. «Norrin, fuoco a volontà contro la Juggernaut».

   «No, sei impazzita?!» si disperò Radek, venendole contro. «Non peggioriamo la situazio...».

   «FATELA A PEZZI!» strillò il Capitano, indicando la Juggernaut che in quel momento transitava sullo schermo. Il suo urlo stridulo echeggiò nella plancia.

   «No!» gridò il Comandante. Si avventò contro l’Elaysiana, cercando di stordirla con un pugno, ma fu intercettato da Norrin, che gli si gettò contro a testa bassa. I due massicci ufficiali rotolarono sul pavimento, avvinghiati, mentre in plancia scoppiava la lotta. Jaylah e la sua squadra non erano i soli ad essere armati; anche molti ufficiali ausiliari lo erano, come previsto dalla procedura di Allarme Rosso. Alcuni lealisti furono storditi nei primi attimi, ma altri si nascosero dietro le consolle e risposero al fuoco. Hod, Vrel e Zafreen dovettero nascondersi a loro volta. Il Capitano prese due phaser dallo scomparto segreto accanto alla sua poltroncina e ne gettò uno al timoniere, che si unì alla battaglia.

   Intanto Radek e Norrin erano rotolati davanti all’ingresso della sala tattica, che si aprì. Il Comandante respinse l’Ufficiale Tattico con un pugno, balzò in piedi e varcò la soglia. Norrin si rialzò e lo seguì, non volendo che l’altro fuggisse nei tubi di Jefferies, per poi sobillare l’equipaggio contro di loro. Nel momento in cui Norrin varcava la soglia, Radek – appostatosi a lato – gli fece lo sgambetto. L’Hirogeno cadde in avanti, rischiando di spaccarsi la testa contro una delle sedie. Stava per rialzarsi, quando il Rigeliano afferrò un’altra sedia per lo schienale e gliela abbatté sulla schiena.

   «Carogna!» ringhiò il Comandante. «Pezzo di dren!». Gli dette un calcio nelle costole, facendolo rotolare di lato.

   Sconvolto e dolorante, l’Ufficiale Tattico si rimise in piedi e alzò le braccia in posizione di guardia. Il Comandante era suo amico da quando, mesi prima, lo aveva aiutato a salvare Ladya dai Vaadwaur. Norrin non avrebbe mai immaginato di arrivare a quel punto, per una divergenza ideologica. «Credevo che tu fossi mio amico!» esclamò, sentendo il sapore del sangue in bocca.

   «E io credevo che tu fossi un ufficiale di Flotta!» ribatté Radek. «Non un traditore, come gli altri!». Gettò la sedia e si avventò su Norrin a mani nude.

   L’Hirogeno aveva la forza e la resistenza tipiche della sua specie, combinate con una vita di addestramenti. Durante la permanenza nel Quadrante Delta aveva anche familiarizzato con lo Tsunkatse, un violento sport locale, misto di lotta e pugilato. Ma con Radek trovò pane per i suoi denti. Il Rigeliano di stirpe Jelna non era come i suoi simili: era molto più alto e robusto. Norrin ricordò che una volta Ladya gli aveva spiegato il motivo. Il Comandante soffriva di una rara disfunzione genetica: era un exo-maschio, vale a dire che aveva un cromosoma Z in più. Questo accentuava molto i tratti virili, dandogli una forza eccezionale e, secondo il pregiudizio della sua gente, un’aggressività innata. In realtà, forse proprio a causa del pregiudizio, Radek aveva sviluppato un ferreo autocontrollo: era il più disciplinato ufficiale della Keter. Norrin non lo aveva mai visto perdere le staffe... finora. E avrebbe preferito non vederlo mai.

   «Così fai il gioco di Rangda, non capisci?!» esclamò l’Hirogeno, parando disperatamente mentre arretrava.

   «Capisco che sarebbe andato tutto liscio, se aveste seguito gli ordini. Ma no, dovete fare gli eroi... dovete fare i ribelli!» sbottò il Comandante. Martellò Norrin con una rapida serie di colpi al costato, per spezzargli le costole. Poi gli assestò un calcio rotante che lo fece rotolare sul tavolo tattico. Saltò a sua volta sul tavolo, per finirlo.

   Mezzo stordito, Norrin lo falciò con un calcio, facendolo cadere in ginocchio. Si rimise in piedi con una mossa acrobatica e lo colpì al volto. I primi due pugni andarono a segno. Al terzo, Radek gli bloccò il braccio e rispose con un colpo al plesso solare. Il Rigeliano si rialzò in fretta e sorrise, sputando una boccata di sangue. Cominciava appena a scaldarsi.

   Norrin tentò di bloccarlo con una presa, ma ormai era debole e intontito dai colpi ricevuti. Il Comandante gli sgusciò abilmente di lato, dopo di che fu lui ad afferrarlo. Gli bloccò le braccia dietro la schiena e lo spinse con la faccia a terra, cioè contro la superficie del tavolo. L’Hirogeno si dibatté, cercando di liberarsi, ma inutilmente: il Rigeliano era troppo forte.

   «Sei in gamba, ma non sei alla mia altezza» disse Radek, facendo ancora più forza.

   Norrin sentì un dolore atroce risalirgli le braccia, fino alle spalle. Comprese con orrore che il Comandante intendeva stroncargliele. Una volta che le spalle si fossero lussate, danneggiando i legamenti, anche Ladya avrebbe avuto difficoltà a farlo tornare come prima.

   Il Comandante sorrise, pregustando la vittoria. Ma in quell’attimo fu colpito alla schiena da un raggio phaser.

   «Lascialo, o giuro che ti ammazzo!» ringhiò Jaylah, entrando come una furia in sala tattica.

   Se Radek fosse stato un Rigeliano normale, quel colpo sarebbe bastato a stordirlo. Ma essendo ciò che era, restò cosciente. Tuttavia la sua stretta si allentò. Norrin ne approfittò per liberarsi; rotolò sul tavolo e da lì a terra, dove riuscì appena a reggersi in piedi. Le braccia gli dolevano terribilmente, ma flettendole capì che non erano rotte, né lussate. Jaylah lo aveva salvato appena in tempo.

   Incredulo e rabbioso, il Comandante barcollò fino all’orlo del tavolo. Temendo che volesse saltarle addosso, Jaylah sparò di nuovo, colpendolo allo stomaco. Radek si piegò in avanti e cadde faccia a terra. Era paralizzato, ma ancora cosciente. L’Agente Temporale gli si avvicinò cautamente e lo rivoltò con un piede, così da guardarlo in faccia.

   «Pazza fanatica... ci farai uccidere tutti...» biascicò il Rigeliano, riuscendo appena a muovere le labbra.

   «Sempre meglio che vivere come schiavi di Rangda» ribatté freddamente la mezza Andoriana. Senza alcuna provocazione gli sparò di nuovo, colpendolo in pieno petto. Stavolta il Comandante perse i sensi.

   «Norrin!» gridò Jaylah, correndo dal suo mentore. «Come stai, sei ferito?!».

   «Più nell’orgoglio, credo» rispose l’Hirogeno, massaggiandosi le braccia doloranti per riattivare la circolazione. «Fiuuu... stavolta me la sono vista brutta. Non lo avevo mai visto così arrabbiato. Temo di aver perso un amico» disse, osservando con rimpianto il Comandante stordito.

   «Dovremo farci l’abitudine» disse Jaylah a bassa voce. «Su, aiutami a spostarlo». Afferrarono Radek per le braccia e lo trascinarono nella plancia, ormai saldamente in mano ai ribelli. Con un ultimo sforzo lo misero sulla pedana di teletrasporto. Dopo avergli tolto il comunicatore, Jaylah lo trasferì in cella di massima sicurezza. «Cella numero 1... la stessa in cui il Capitano Garm mi rinchiuse nella prima missione» commentò, con un sorrisetto sadico. Dopo di che si riunì ai colleghi della Sicurezza.

   Hod osservò la scena con amarezza. Dopo uno scontro del genere, non riusciva a immaginare che Radek tornasse dalla loro. Ma non aveva tempo per soffrire; doveva assicurarsi il controllo dell’astronave. «Andate in sala macchine, assicuratevi che sia in mano nostra» ordinò agli Agenti. «Cercate di convincere Dib. E mandate qualcuno in infermeria, a proteggere Ladya».

   «Ci chiamano, Capitano» avvertì Zafreen. «È la Juggernaut».

   «Sentiamo» ordinò Hod, sedendo in poltrona con aria arcigna.

   «Keter, vi chiediamo di confermare la vostra lealtà alla Flotta e aiutarci a domare la ribellione» disse Gulnar, apparendo sullo schermo.

   «Altrimenti?! Ci distruggerete, come avete fatto con l’Enterprise?» chiese Hod, con le lacrime agli occhi. «Erano tremila ufficiali, maledizione!».

   «Tremila ribelli» corresse Gulnar. «Si sono schierati contro l’Unione e ne hanno pagato il prezzo. Vi suggerisco di non commettere lo stesso errore». In quella notò l’assenza del Comandante Radek. Notò altresì che Hod e gli altri avevano gettato i comunicatori. «Ah, che peccato...» disse l’Axanar, scuotendo la testa. «E dire che avevo grande stima di lei. Speravo di rivederla al Comando».

   «Invece ci rivedremo all’Inferno!» sibilò Hod, e segnalò di chiudere la comunicazione. «Signori, la dodicesima regina della Flotta è caduta» disse, riferendosi all’Enterprise. «Non lasceremo che sia la Juggernaut a subentrarle. Dopotutto, Keter significa Corona: facciamole vedere chi comanda».

   Le due astronavi iniziarono la loro girandola di attacchi e schivate, mentre tutt’intorno si consumava il peggior dramma della storia federale. Navi lealiste e navi ribelli si scontravano furiosamente, mentre i Voth avanzavano indisturbati, prendendo possesso della Terra.

 

   Chiusa nel suo ufficio sorvegliato dalle Guardie Presidenziali, Rangda seguiva con trepidazione la battaglia. Un ologramma proiettato sopra la scrivania mostrava dettagliatamente l’evoluzione dello scontro. Ogni tanto la Presidente contattava i lealisti per impartire ordini. Vedendo la Keter che apriva il fuoco contro la Juggernaut, sorrise deliziata. Quella nave era sempre stata una spina nel fianco, ma ora finalmente se ne sarebbe liberata. «Capitano Hod, come sei prevedibile. Non potevi fare a meno di ribellarti... dandomi una giustificazione per distruggerti» si disse, contattando le navi lealiste.

   «Attenzione, qui è la Presidente Rangda. V’informo che la Keter ci ha traditi, unendosi ai ribelli che ostacolano il processo di pace. In questo momento sta attaccando la Juggernaut. Esorto tutte le navi disponibili a intervenire, prima che accada l’irreparabile. Siete autorizzati a usare tutta la forza necessaria per sconfiggere la Keter. Ripeto: usate tutta la forza necessaria!».

   Chiuso il canale, la Presidente andò a prendersi una tisana al replicatore. Dopo di che risedette in poltrona, sorseggiando la bevanda calda mentre ammirava la carneficina.

 

   Il Quartier Generale della Flotta Stellare era un campo di battaglia. I Voth avanzavano con poche perdite, grazie all’Occultamento Sfasato, mentre i federali cadevano come mosche. Ormai quasi tutti i piani del palazzo erano in mano agli invasori. Asserragliati nei livelli più alti, i difensori perdevano terreno.

   «Alexander!» gridò Neelah, entrando di corsa nella sala tattica da cui Chase e altri ufficiali dirigevano la resistenza.

   «Oh, Neelah!» fece lui, venendole incontro. «Stai bene? Quando il Comando Medico è caduto, ho temuto per te».

   «Siamo fuggiti in pochi» annuì l’Aenar. I due si abbracciarono. «È vero quel che ho sentito? L’Enterprise è...» disse Neelah con voce incrinata.

   «Distrutta, sì» confermò Chase, il volto duro come pietra. «Ma non sono stati i Voth. É stata la Flotta Stellare... quella parte di Flotta fedele a Rangda. Tutto ciò per cui ho lottato in questi decenni ora è cenere».

   «Signore, i Voth stanno arrivando! Dobbiamo andarcene!» avvertì un ufficiale, correndo alle pedane del teletrasporto che erano su un lato della sala.

   «Andare dove? Non abbiamo navi per scappare!» gemette Neelah.

   «Ti sbagli, amore. Ce ne resta ancora una» disse l’Ammiraglio. Recatosi alla finestra, scostò la tenda. Neelah gli si affiancò per guardare. Anche se era notte, i riflettori illuminavano ampie zone del circondario. L’USS Voyager scintillava nel giardino dell’area museale.

   «Ma... è vecchia di duecento anni!» obiettò l’Aenar.

   «L’ho fatta restaurare» spiegò Chase. «Mi sono accertato che possa volare, in caso d’emergenza. I nostri ufficiali più fidati sono già lì. Tu sei pronta?» chiese, prendendola per mano.

   «Sempre» annuì Neelah. Lasciata la finestra, i due salirono sulla pedana di teletrasporto. L’addetto li trasferì assieme agli altri ufficiali e infine si teletrasportò a sua volta. Pochi attimi dopo, i soldati Voth fecero irruzione.

   «Dov’è Chase? Dove sono tutti quanti?!» gridò il caposquadra, guardandosi attorno col fucile antiprotonico spianato.

   «Si saranno trasferiti. Cerco di capire dove» disse un soldato, correndo alla consolle del teletrasporto. «Oh, no» mormorò. In quella il grande palazzo cominciò a tremare, dalle fondamenta fino ai pennoni delle bandiere. Qualcosa di grosso stava decollando a poca distanza, incendiando i giardini con il getto ardente dei motori a impulso.

 

   Giunta in sala macchine con la sua squadra, Jaylah trovò gli ingegneri allineati lungo una parete. Gli agenti della Sicurezza li tenevano d’occhio, salvo un paio di loro che erano stati storditi e trascinati in un angolo. «Che succede?» chiese la mezza Andoriana.

   «Ah, Tenente! Lieto di vederla» disse un agente, venendole incontro. «Non si preoccupi, è tutto sotto controllo. Un paio di folli volevano ribellarsi all’ordine della Presidente, ma li abbiamo neutralizzati. Ora stiamo interrogando gli ingegneri, per assicurarci che siano fedeli».

   «Vedo che hai capito tutto» disse Jaylah, dandogli una pacca sulla spalla. Dopo di che alzò il phaser e gli sparò a tradimento nello stomaco, stordendolo. I suoi agenti tennero sotto tiro i colleghi lealisti, impedendo loro di reagire.

   «Se è una follia, è più contagiosa di quanto credete. Il Capitano Hod e gli ufficiali superiori sono con me» disse Jaylah, tacendo di Radek. «Ora arrendetevi, subito!» intimò, minacciando gli avversari col phaser.

   I lealisti mugugnarono e qualcuno borbottò degli insulti, ma alla fine gettarono le armi e i comunicatori. Anche loro furono trasferiti in cella.

   Assicuratasi il controllo della sala macchine, Jaylah passò in rassegna gli ingegneri, ancora allineati davanti al muro e incerti della loro sorte. Si fermò davanti a Dib, l’Ingegnere Capo. Il Penumbrano era chiuso nella tuta termica argentea; la visiera del casco lasciava intravedere il protoplasma bianco-azzurro che componeva il suo corpo. Jaylah avrebbe tanto voluto che avesse un volto, per vedere la sua espressione. In circostanze normali si sarebbe fidata di lui, ma i Penumbrani avevano la mente simile a un computer: tendevano a seguire pedissequamente gli ordini. Quindi doveva portarlo dalla sua senza usare argomenti emotivi, ai quali l’alieno era in gran parte impermeabile. Doveva affidarsi esclusivamente alla logica e alle norme di diritto interstellare. «Signor Dib, ha ascoltato il messaggio di Rangda?» chiese.

   «Affermativo; lo abbiamo sentito tutti» rispose l’Ingegnere Capo.

   «Si rende conto che l’ordine della Presidente è anticostituzionale? Rangda non può regalare la Terra – o qualunque altro pianeta – ai Voth, come se fosse roba sua, senza interpellare il Senato» disse Jaylah.

   «Veramente, secondo l’ultima riforma...» cominciò Dib.

   «Sì, la conosco!» sbuffò la mezza Andoriana. «Ma i Voth non possono deportare i Terrestri prima che il Senato ratifichi l’accordo; e non sappiamo ancora se lo farà».

   «La sua valutazione legale è corretta» disse l’Ingegnere Capo. «Tuttavia i Voth si sono evoluti sulla Terra molto prima degli Umani, e questo dà loro un certo diritto sul pianeta».

   «Si saranno anche evoluti sulla Terra, ma a un certo punto l’hanno abbandonata» obiettò Jaylah. «Non sappiamo quando e perché; è un aspetto che andrebbe chiarito. Sta di fatto che vivono nel Quadrante Delta da almeno venti milioni di anni. Questo ci dà il diritto di usucapione sulla Terra. Sa di che si tratta?».

   «Certamente» rispose il Penumbrano. «L’usucapione è un antico metodo di acquisto della proprietà basato sul perdurare, per un certo periodo di tempo, del possesso e del godimento di un bene».

   «Un bene mobile o immobile» puntualizzò l’Agente. «Quindi anche un terreno... o un intero pianeta. Sa quali sono i tempi necessari per l’usucapione dei beni immobili, secondo le nome vigenti?».

   «Venti anni terrestri» rispose Dib.

   «I Voth se ne sono andati da almeno venti milioni di anni, perciò hanno perso il loro diritto sulla Terra» concluse Jaylah.

   Il Penumbrano rifletté brevemente. «La sua deduzione è logica» convenne. «Una volta ho sentito il dottor Smirnov enunciare lo stesso concetto con una formula più pregnante. Disse che “chi va a Roma, perde la poltrona”».

   «Esatto» sorrise la mezza Andoriana, lieta che lo sfortunato amico la aiutasse anche a distanza. «Ma ora mi appello alla sua proverbiale sincerità. Mi dica: quello che sto facendo è giusto, anche in senso etico?!» chiese, con una nota di disperazione. Voleva tanto che lo fosse, ma aveva bisogno che una creatura onesta e imparziale come Dib glielo confermasse, prima di procedere su quel sentiero senza ritorno.

   «Esistono etiche assai diverse e conflittuali» rispose prudentemente il Penumbrano. «Ma in questi anni ho osservato il comportamento di Rangda. Ho notato che non segue alcun codice etico: tutte le sue azioni sono finalizzate all’accumulo di potere personale. Quindi ritengo che l’opposizione ai suoi ordini costituisca una scelta etica».

   «Grazie, Dib» disse Jaylah. «Avevo un gran bisogno di sentirmelo dire».

 

   Con il procedere dello scontro, sia interno all’equipaggio che contro le navi avversarie, i primi feriti giunsero in infermeria. Questo pose i dottori davanti a una sfida inedita, perché i pazienti appartenevano a entrambi i partiti e quindi continuavano ad accapigliarsi anche lì. Ladya e Joe ne sedarono alcuni per evitare che si facessero ancora più male, ma compresero di non poter continuare così.

   «Vada nell’infermeria secondaria e si faccia portare lì i lealisti» ordinò Ladya. «Io starò qui a occuparmi dei... dei ribelli» disse, sconcertata di dover usare questo termine.

   «Ma lei cosa ne pensa dell’ordine di Rangda?» indagò il Medico Olografico.

   «Penso che nessuno, nemmeno la Presidente, possa svendere un pianeta !» rispose la Vidiiana con foga. «Tutti questi feriti, questi morti, non ci sarebbero senza quell’ordine sciagurato! E temo che siamo solo all’inizio. L’Unione ha subito un colpo da cui non si riprenderà più».

   «Vedo che siamo d’accordo» disse Joe, bisbigliandole all’orecchio per non farsi udire dai colleghi. «Ora vado; dopo aver stabilizzato i lealisti, cercherò di tenerli incoscienti. Lei stia molto attenta! Per adesso tenga per sé il suo allineamento. Non sappiamo quanti colleghi la pensino come noi».

 

   «Rapporto!» ordinò Hod, sentendo la nave tremare sempre più.

   «È inutile, Capitano... questa è una battaglia persa» disse Norrin con amarezza. Alla Juggernaut si erano aggregate altre tre navi lealiste, che colpivano spietatamente la Keter. Intorno a loro, lo scontro volgeva ormai al termine. I grandi incrociatori Voth si aggiravano indisturbati, sgominando le ultime resistenze. Infine anche lo Scudo terrestre si spense, segno che il pianeta era capitolato. «Capitano!» ripeté Norrin. «La Terra è indifesa, il nemico è ovunque. Dobbiamo andarcene, finché possiamo!».

   «Andare dove?!» si disse Hod. Ora che erano ufficialmente ribelli, non avevano un luogo in cui rifugiarsi. Ovunque andassero, sarebbero stati braccati dai loro ex colleghi. Ma era sempre meglio che venire distrutti o catturati, si disse.

   In quella Jaylah rientrò in plancia. Voleva informare il Capitano che la Keter era ormai in mano loro, ma vedendo le facce dei colleghi capì subito che la situazione era grave.

   «Il nemico è troppo forte» spiegò l’Elaysiana, addolorata. «In futuro continueremo a opporci, ma oggi sarà tanto se riusciremo a metterci in salvo».

   La mezza Andoriana guardò Norrin e Vrel, vedendo nei loro occhi la stessa rassegnazione. Vacillò e si lasciò cadere sulla seggiola vuota di un ufficiale ausiliario. Non disse nulla. Aveva già indotto i colleghi a ribellarsi; non poteva chiedere di più.

   «Vrel, ci porti via» ordinò stancamente Hod.

   Borbottando imprecazioni, il timoniere puntò la nave verso lo spazio aperto. In quella però la Keter vibrò e le luci di plancia sfarfallarono. «Il timone non risponde!» si allarmò Vrel. «I Voth ci hanno presi con un raggio traente».

   «Beh, ci liberi! Massima energia ai propulsori!» ordinò il Capitano.

   «Inutile, è la Nave Fortezza» disse cupamente il timoniere, mentre una sagoma scura copriva le stelle e le altre astronavi. L’ammiraglia Voth si avvicinò con calma regale, lasciando che i relitti delle altre navi impattassero contro i suoi scudi, come mosche su un parabrezza.

   «Cercano di superare i nostri scudi col teletrasporto!» avvertì Zafreen.

   «Sto variando le armoniche più in fretta che posso» disse subito Norrin.

   «Il loro raggio ha una potenza enorme» aggiunse l’Orioniana. «Credo che vogliano portarci dentro con tutta la nave».

   «Come la Voyager» rabbrividì Hod. «Plancia a sala macchine. Signor Dib, ci porti via col propulsore cronografico. Non importa dove, basta che sia lontano da qui!».

   «Eseguo» disse il timoniere. Passarono i secondi, ma la Keter restò dov’era.

   «Dib!» lo richiamò l’Elaysiana.

   «Capitano, credo che la Nave Fortezza stia proiettando un campo di smorzamento. Non è sufficiente a disattivare tutti i nostri sistemi, ma impedisce al propulsore cronografico di caricarsi» avvertì l’Ingegnere Capo.

   «E non può farci niente?!».

   «Devo analizzare il problema, ma al momento non credo di poterci mettere in salvo» rispose il Penumbrano.

   A queste parole i federali si sentirono perduti. Il propulsore cronografico era la loro estrema risorsa. Se non potevano contare nemmeno su quello, era davvero finita.

   «La nostra energia diminuisce, gli scudi stanno cedendo» avvertì Norrin. La nave vibrava sempre più, per le intense sollecitazioni del raggio traente.

   Rannicchiata sulla sua poltroncina, Hod fissò cupamente la Nave Fortezza che li teneva al guinzaglio. Stava già meditando una mossa estrema, per impedire che il nemico s’impadronisse della loro nave. In quella una salva di siluri transfasici colpì la Nave Fortezza, facendone brillare gli scudi. Il mastodontico vascello manovrò per fronteggiare l’assalto inaspettato, pur senza mollare la Keter.

   «Chi è?» chiese Hod, notando che l’attacco veniva dalla direzione della Terra.

   «Non ci credo...» mormorò Zafreen. «È la Voyager!».

   L’Orioniana non s’ingannava. L’antica nave stellare schizzò verso l’alto, ora che non c’era più lo Scudo Planetario a trattenerla. Approfittando delle dimensioni ridotte e della maneggevolezza, fece la gimcana attraverso i resti delle piattaforme orbitali e delle astronavi. I lealisti più vicini la presero di mira, ma i suoi scudi ressero. Invece di fuggire verso lo spazio aperto, la Voyager puntò dritta contro la Nave Fortezza, sparando a tutto spiano.

   «Chi è il pazzo al comando?» si chiese Vrel, meravigliato da quell’attacco suicida.

   «Papà! Mamma!» gridò Jaylah. «Ci sono loro a bordo! Cercano di distrarre i Voth per farci scappare!».

   «Dirotto tutta l’energia rimanente ai motori a impulso. Forse riesco a liberarmi» disse il timoniere, facendo beccheggiare la nave. I propulsori ruggirono al massimo della potenza, tanto che la Keter dovette espellere plasma surriscaldato. Nel frattempo Norrin rimodulò gli scudi, cercando di respingere il raggio traente. Per qualche secondo le particelle e i campi energetici lottarono sotto l’invisibile guida delle leggi fisiche. Poi, con uno strappo, la Keter riuscì a liberarsi. Schizzò in avanti a massimo impulso.

   «Gli scudi hanno ceduto» avvertì Norrin.

   «Signor Dib, ci porti via appena può» ordinò il Capitano.

   «E la Voyager?!» chiese Jaylah, in ansia per i suoi genitori. Andò alla postazione sensori, controllandone le mosse.

   Ottenuto il suo scopo, la Voyager deviò, ponendosi sulla stessa traiettoria di fuga della Keter. Ma mentre passava accanto alla Nave Fortezza, questa la colpì con un raggio antiprotonico. La vecchia astronave non resse l’attacco. Roteò fuori controllo, con le difese abbassate e l’energia al minimo.

   «No!» gridò Jaylah. Corse al teletrasporto, mentre Vrel fermava bruscamente la nave. Data la velocità della Keter, erano già ai limiti di portata del raggio. La mezza Andoriana sondò la plancia della Voyager, cercando di agganciare tutti i presenti. Ma in quell’attimo l’astronave scomparve in un lampo verde/azzurro. «Dov’è andata?! Non la rilevo! Zafreen, dammi le letture! Non riesco a trovarla!» strillò Jaylah, ormai prossima al crollo nervoso.

   «Credo che i Voth l’abbiano portata dentro» disse l’Orioniana. «La Nave Fortezza ha ancora gli scudi alzati, non riesco a sondare l’interno. Ma la Voyager può essere solo lì».

   «Non possiamo salvarla» disse a malincuore il Capitano. «Se restiamo, saremo catturati o distrutti anche noi, vanificando il sacrificio dell’Ammiraglio».

   «Forse è già tardi» disse Vrel, cupo. La Juggernaut e altre dieci navi lealiste si erano schierate davanti a loro, impedendogli di fuggire. Alle loro spalle, anche la Nave Fortezza si mosse, per completare l’accerchiamento.

 

   Sulla sua plancia, Hadron osservò la Keter. Quella nave gli aveva dato filo da torcere, ma ormai era sconfitta come tutte le altre. Per un attimo il Voth pensò di contattarla, per intimare la resa, ma poi si disse che era inutile darle un trattamento preferenziale, rispetto alle altre navi federali.

   «Ammiraglio, la Presidente ci chiama».

   «Sentiamola».

   «Avete la Voyager?» chiese Rangda, appena comparve sullo schermo.

   «La vostra nave fuggiasca è in nostra custodia» confermò il Voth. «La rivuole?».

   «Voglio l’Ammiraglio e sua moglie» disse la Presidente, implacabile. «Della Voyager non so che farmene. Tenetela voi. Fatela a pezzi e usatela come combustibile, se non vi serve. Ma datemi quei due!».

   «Se insiste...» fece Hadron, presagendo il loro infausto destino. «E la Keter, le interessa?».

   «La distrugga!» ordinò Rangda, col volto acceso di gioia malefica.

   «Sì, ma l’equipaggio...».

   «Sono tutti traditori. La loro morte sarà d’esempio per gli altri» sentenziò la Presidente. L’attimo dopo cambiò radicalmente espressione e tono di voce. «Quando avrà finito con le pulizie, mi raggiunga pure. Sto preparando una cerimonia d’accoglienza. Ci sarà anche un rinfresco con gli insetti che vi piacciono tanto. Siete tutti invitati!» disse, affabile e sorridente.

 

   Sulla Keter, Jaylah si era accasciata in ginocchio accanto alla consolle del teletrasporto. Alzò gli occhi alla Nave Fortezza, ancora illesa dopo tutti i colpi ricevuti, che si avvicinava sempre più. Anche il Capitano e gli altri la guardarono rassegnati. Si erano battuti come non mai, e non era bastato. La vittoria dei Voth, e di Rangda, era così schiacciante che non riuscivano neanche ad afferrarne la portata. Un bagliore azzurro si accese a prua della Nave Fortezza, segno che il cannone antiprotonico stava per sparare. Ora che la Keter era priva di scudi, nemmeno lo scafo in neutronio l’avrebbe salvata.

   Ma in quell’attimo Dib, seduto sulla sedia cronografica, si concentrò a fondo, entrando in sintonia con il propulsore. La Via Lattea si dispiegò davanti a lui: poteva andare in qualunque luogo. In mancanza di ordini specifici, il Penumbrano scelse la Nube del Toro, una nebulosa oscura posta all’estremità più lontana dell’Unione, oltre l’Ammasso delle Pleiadi. La Keter svanì davanti alla Nave Fortezza, il cui raggio antiprotonico si perse nello spazio.

   Sulla sua plancia, Hadron si alzò in piedi, con le scaglie offuscate. «Questo... è un contrattempo irrilevante» mormorò. «Abbiamo ciò per cui siamo venuti. La Terra è nostra e nessuno ce la porterà più via».

 

   All’interno della Nave Fortezza, la Voyager galleggiava in un immenso hangar azzurrognolo, punteggiato di luci. Chase, Neelah e i loro ufficiali di plancia osservarono il panorama con un misto d’angoscia e stupore. La titanica Nave Fortezza era quasi del tutto vuota. Era insomma un trasporto, pensato per racchiudere intere flotte e dispiegarle rapidamente dov’era necessario.

   «Rapporto» ordinò l’Ammiraglio, pur immaginando le condizioni della nave.

   «Energia principale disattivata».

   «I generatori d’emergenza non si attivano. C’è un campo di smorzamento che li inibisce».

   «Forse possiamo lanciare i siluri con la procedura manuale».

   «Sarebbe fatica sprecata» disse Hadron, materializzandosi tra i federali. «Un campo di forza circonda la vostra nave. Siamo pronti a contrarlo fino a schiacciarvi, se non vi arrendete».

   Vedendo l’avversario davanti a sé, Chase impugnò il phaser e gli sparò. Il raggio attraversò il Voth senza nuocergli. «Ammiraglio, la prego!» rise Hadron. «Non avrà pensato che fossi in carne e ossa? Questa è solo una proiezione isomorfa. Sono qui per dirvi che avete combattuto con valore, guadagnandovi il mio rispetto. La partenza con la Voyager, in particolare, mi ha molto appassionato. Ma dovete comprendere che avete fallito su tutta la linea. In questo momento ho il controllo completo della Terra. La vostra flotta mi appoggia, tranne i pochi ribelli che sono fuggiti. Poveretti... dopo questa batosta, non oseranno farsi vedere per un pezzo».

   «È qui per vantarsi?» domandò Chase. «Eppure c’è stato un momento in cui eravate in fuga. Non vi siete guadagnati la vittoria; vi è stata regalata da Rangda».

   «Avremmo vinto comunque, alla lunga» disse Hadron, facendo spallucce. «Ammiraglio, le voglio assicurare che lei e gli altri Terrestri sarete trattati con clemenza. Non abbiamo mai voluto farvi del male; non vogliamo farvene neanche ora. I morti di oggi sono dovuti esclusivamente alla vostra ostinazione».

   «Quindi che farete? Ci terrete qui o ci consegnerete a Rangda?» volle sapere Chase.

   «La Presidente insiste per avervi» sospirò il Voth. «Forse riuscirò a trattenere il vostro equipaggio, ma lei e sua moglie sarete consegnati».

   «Bella clemenza! Rangda ci ucciderà» disse l’Umano.

   «Mi spiace che siate divisi da questa faida, ma non posso farci niente» ribatté Hadron. «Devo pensare alle esigenze del mio popolo. E non solo del mio! L’accordo con Rangda farà sì che le nostre civiltà diventino amiche. Sono quelli come lei, Ammiraglio, che ostacolano la pace; non credo che la Storia vi giudicherà bene».

   «Stia molto attento, Hadron» disse Neelah, avvicinandosi al Voth con aria minacciosa. «Oggi Rangda ci ha venduti a lei; domani venderà lei a qualcun altro».

   «E a chi dovrebbe vendermi?» chiese Hadron, divertito. «Noi Voth siamo i primi nella Galassia; non abbiamo rivali».

   «Se lo pensate davvero, cadrete ancora prima» ammonì l’Aenar.

   «Vedremo» disse il Voth con leggerezza. «Allora, Chase: si arrende? La prego... non mi costringa a distruggere questa bellissima nave-museo» disse, osservando la plancia della Voyager. «Già mi è dispiaciuto veder esplodere l’Enterprise».

   Al ricordo della perdita, Chase fremette come se lo avessero pugnalato. «Prima mi dica una cosa... e sia onesto, da Ammiraglio ad Ammiraglio» chiese.

   «Ha la mia parola» s’impegnò Hadron.

   «Che ne è stato della Keter?».

   Il Voth esitò, quasi pentito della sua promessa. «Per il momento ci è sfuggita» disse in tono neutro. «Ma Rangda le sguinzaglierà dietro il resto della Flotta Stellare. I vostri amici non se la caveranno... a meno che non fuggano in un altro Quadrante e non facciano mai più parlare di sé».

   Chase e Neelah si scambiarono una lunga occhiata. Loro figlia era viva e libera, e così gli altri della Keter. Tanto bastava perché loro non perdessero la speranza. «In tal caso... mi arrendo» disse l’Ammiraglio.

 

   Le ultime navi ribelli fuggirono disordinatamente dal sistema solare, braccate dai lealisti. Chi poteva si dileguò col propulsore cronografico; gli altri si occultarono. La battaglia per il controllo della Terra si era conclusa col trionfo dei Voth. Su cento astronavi, i sauri ne avevano perse solo dieci, sebbene parecchie altre fossero danneggiate e necessitassero di lunghe riparazioni. Ma la Nave Fortezza era illesa e così alcune Navi Bastione. Dato che i Voth non puntavano a un’estesa campagna militare, le perdite non costituivano un problema. Alcune navi in buone condizioni furono inviate a presidiare Marte e le altre colonie del sistema solare, per accertarsi che non dessero asilo ai ribelli.

   La flotta federale non era così fortunata. Sulle 500 astronavi che avevano ingaggiato i Voth, 200 erano state distrutte o avevano riportato danni così gravi da renderle irrecuperabili. Delle rimanenti, 250 erano fedeli a Rangda, o dal primo momento, o perché erano state conquistate durante la battaglia. Solo 47 navi ribelli riuscirono faticosamente a fuggire, senza un piano per l’avvenire. Le ultime tre navi si erano dileguate prima ancora di schierarsi. I fuggitivi non potevano nemmeno radunarsi a Proxima b, il punto di rendez-vous prefissato in caso di disfatta, perché ovviamente i lealisti lo conoscevano e quindi li avrebbero subito raggiunti.

   Ora che lo Scudo Planetario era abbassato, i Voth proseguirono ancora più agevolmente le operazioni di sgombero. Iniziarono dall’America Settentrionale e dall’Eurasia, i continenti dove i loro antenati Hadrosauri avevano pascolato milioni di anni prima. In prospettiva, però, anche gli altri continenti sarebbero stati sgombrati. Invece Atlantide fu risparmiata, perché l’isola artificiale era una recente creazione dei federali e l’accordo prevedeva che restasse sotto il loro controllo.

   Ma la notizia della battaglia si stava già diffondendo alla velocità delle trasmissioni subspaziali. Panico, rabbia e incertezza dilagarono sui mondi federali. La Presidente sapeva di dover rassicurare quei popoli impauriti e confusi, che guardavano alla Flotta come al loro baluardo. E così fece, trasmettendo in diretta Olonet dal suo studio. Il messaggio fu diramato in tutta l’Unione; anche i ribelli in fuga lo ricevettero. Sulla Keter, gli ufficiali superiori esausti e stravolti si radunarono in sala tattica per ascoltarlo.

   La Presidente sedeva composta, con le mani intrecciate sulla sua scrivania. Aveva gli occhi leggermente arrossati, la voce intensa e commossa. «Cittadini dell’Unione, mi rivolgo a voi nell’ora più cupa della nostra storia» esordì. «Dopo dieci giorni di assiduo lavoro, nei quali ho personalmente negoziato un accordo di pace coi Voth, parte della Flotta Stellare ha mostrato la sua vera natura, tentando il colpo di Stato. Se questi elementi deviati avessero preso il sopravvento, avrebbero imposto la loro dittatura militare su tutta l’Unione. Invece sono lieta d’informarvi che i traditori sono stati sconfitti e messi in fuga, grazie al valore dei lealisti e all’aiuto dei nostri amici Voth. Ma serviranno ancora grandi sforzi per assicurarli tutti alla giustizia».

   La Presidente respirò a fondo e poi riprese. «Come misura cautelare, i parenti e i conoscenti dei traditori stanno venendo prelevati dalle nostre forze di sicurezza. Sono già in corso gli interrogatori, che ci forniranno elementi utili per rintracciarli. Per lo stesso motivo stiamo divulgando sull’Olonet le schede personali dei disertori. Ogni informazione utile per la loro cattura sarà lautamente ricompensata. Per contro, ogni supporto ai fuggitivi – inclusa la mancata denuncia in caso d’avvistamento – sarà punito con la massima severità.

   Finché durerà l’emergenza, mi vedo costretta a mantenere la legge marziale. I trasporti da e verso la Terra saranno strettamente regolamentati, per consentire il trasferimento dei coloni Voth e il ricollocamento dei Terrestri. Ricordo a tutti che l’alleanza coi Voth, una delle specie più evolute della Galassia, ci darà immensi benefici. Naturalmente questo stato di cose ci obbliga a ripensare profondamente gli assetti dell’Unione. La Terra non potrà più essere la capitale, per cui propongo di designare a questo titolo il mio pianeta natale Zakdorn, da secoli neutrale e in pace con tutti.

   Per quanto riguarda la Flotta Stellare, è chiaro che dopo questi eventi dovrà essere profondamente riformata. Gli ufficiali lealisti saranno arruolati in una nuova Forza di Pace, per cui prenderanno il nome di Pacificatori. Quanto ai disertori, sappiano che da questo momento la Flotta Stellare è considerata un’organizzazione terroristica. Le forze di sicurezza locali hanno l’ordine di colpire a vista ogni ufficiale e ogni astronave riconoscibile come parte della Flotta traditrice».

   Rangda fece una breve pausa, affinché gli spettatori potessero metabolizzare le notizie. Infine riprese in tono commosso. «E ora mi rivolgo a tutti voi cittadini. In questa difficile transizione, vi chiedo di restare fedeli agli ideali di pace e tolleranza dell’Unione. E vi faccio una promessa: insieme, noi sconfiggeremo le forze terroriste della Flotta Stellare. Che una nuova alba possa vederci tutti affratellati, in un’Unione più grande e più giusta». Ciò detto, la Presidente sorrise incoraggiante e chiuse la comunicazione.

   Gli ufficiali della Keter si guardarono l’un l’altro, senza realmente vedersi. Pensavano tutti ai loro amici e parenti, che in quel momento erano interrogati – forse torturati – per estorcere informazioni utili a catturarli. E pensavano ai loro colleghi che si erano schierati con Rangda. Lo avevano fatto per paura, per opportunismo o perché ci credevano veramente? Ma poi, era così importante saperlo?

   «Zafreen, blocchi qualunque trasmissione in uscita» ordinò il Capitano, con voce atona. «Molti dei nostri saranno tentati di consegnarsi, o persino di consegnare l’intera nave, pur di salvare i loro cari».

   «Sì, Capitano» mormorò l’Orioniana.

   «Norrin, restiamo in Allarme Giallo. Vrel, imposti delle rotte di fuga nel caso dovessimo andarcene in fretta» proseguì Hod. Gli interpellati annuirono.

   «Ladya, lei e il dottor Joe continuate a occuparvi dei feriti. Per quanto riguarda i lealisti, sbatteteli in cella appena sono fuori pericolo» aggiunse il Capitano, con una smorfia.

   «Non... non credo ci siano celle a sufficienza» disse Ladya. «I lealisti saranno almeno un terzo dell’equipaggio».

   «Allora svuotate la stiva di carico 4 e chiudeteli lì. Sigillate i tubi di Jefferies e mettete guardie all’entrata; non devono scappare» fu la secca risposta. «Dib, continui le riparazioni. Voglio la nave in piena efficienza».

   «Sarà fatto» promise l’Ingegnere Capo, l’unico tra i presenti a non avere il morale a terra, data la sua assenza di emotività.

   «Qual è il piano?» chiese Jaylah. Era la prima volta che parlava, da quando aveva perso la Voyager con i suoi genitori.

   «Come?» fece Hod.

   «Mi ha sentito. Lei vuole questa nave in piena efficienza e noi gliela daremo» promise Jaylah. «Ma ci occorre una strategia che non sia di mera sopravvivenza. Rangda ha annunciato il suo progetto politico, ed è molto dettagliato. La nostra politica qual è?».

   Hod stava per riprenderla, ma poi pensò che la mezza Andoriana aveva appena perso i suoi genitori, eppure non aveva neanche proposto di andare a salvarli, per non distogliere l’attenzione dal problema più ampio. «Datemi... datemi una notte per pensarci, okay?» disse il Capitano, osservando gli ufficiali. «Avete le vostre consegne. Ci aggiorniamo a domani».

 

   Un pallido sole autunnale sorgeva su Atlantide, illuminando i resti fumanti del Quartier Generale e dell’Accademia di Flotta. I pompieri stavano ancora domando gli incendi provocati dall’improvviso decollo della Voyager, nel bel mezzo dei giardini. Era l’alba del 1º novembre, giorno di Ognissanti secondo l’antico calendario terrestre. Ma sebbene i lutti non mancassero, pochi Terrestri poterono uscire di casa per piangere i loro cari. Il coprifuoco era ancora in vigore, affinché nulla turbasse l’arrivo dei nuovi padroni.

   Mentre i detriti delle astronavi distrutte rigavano il cielo, la delegazione Voth si teletrasportò ad Atlantide. «Ah... vittoria!» commentò Hadron, guardandosi attorno soddisfatto. L’Ammiraglio e il suo seguito di ufficiali e diplomatici, scortati da un nutrito battaglione di soldati, sfilarono lungo la via principale della città. Superato un grande e magnifico ponte, il corteo trionfale proseguì fino al palazzo presidenziale. Qui Rangda venne loro incontro, scendendo la scalinata di marmo bianco con il suo codazzo di ministri, segretari e addetti alle pubbliche relazioni. La Presidente indossava un abito rosso fuoco e aveva un sorriso radioso. Alcuni giornalisti, convocati dalle autorità, ripresero la scena, trasmettendola in diretta Olonet a tutta l’Unione.

   «Bentornati, miei graditi ospiti!» trillò Rangda, avvicinandosi ai Voth. «Non so come ringraziarvi per l’aiuto. Se non fosse stato per voi, la nostra democrazia sarebbe stata sovvertita da un regime dispotico e militarista. Invece siete intervenuti in nostro soccorso, dimostrando di amare così profondamente questo mondo da essere pronti a versare il sangue in sua difesa. Come possiamo ripagarvi?».

   «Vedere la Terra salva è già un risarcimento sufficiente» disse Hadron, stando al gioco. «Tuttavia vorrei proseguire le trattative, affinché i nostri popoli possano coabitarvi in pace».

   «Ma certo! Tutto sarà fatto a tempo e a modo» promise la Presidente, porgendogli la mano segaligna, dalle unghie nere. I due leader si scambiarono una lunga stretta, davanti alle olocamere che immortalavano l’evento. «Questo è l’inizio di una salda e duratura amicizia tra i nostri popoli!» proclamò Rangda, tra gli applausi scroscianti delle due delegazioni.

 

   In piedi davanti alla cella di massima sicurezza, con le braccia conserte, il Capitano Hod scrutava arcigna il suo Primo Ufficiale. Radek era stato il suo braccio destro per cinque anni e mezzo. Si era sempre dimostrato leale e diligente. Nei primi tempi la metteva addirittura in soggezione, essendo più maturo ed esperto di lei, tanto da farle pensare che sarebbe stato un Capitano migliore. Ma col tempo avevano sviluppato una profonda intesa, che di recente sembrava in procinto di evolvere in qualcosa di più. Gli ultimi eventi avevano infranto questa speranza e ora il Capitano doveva prendere una decisione, non solo riguardo a Radek, ma a tutti i dissidenti dell’equipaggio. Prima però gli fece ascoltare il proclama di Rangda, diffondendolo nelle celle e nella stiva 4. Dopo di che attivò il microfono per parlare con il Comandante. «Ebbene, pensa ancora che dovremmo obbedire agli ordini?» chiese.

   «E qual è l’alternativa?» rimbeccò Radek. «No, seriamente, mi dica: cosa conta di fare adesso? Trasformerà la Keter in una nave pirata? Si nasconderà nelle Badlands per giocare ai Maquis? Muoverà guerra, da sola, ai Voth e all’Unione Galattica? Mi risponda: sono curioso».

   «Le dico ciò che non farò» disse Hod, sfrigolante di rabbia. «Non diventerò la marionetta di una dittatrice. Non servirò un regime che ha svenduto la Terra e ha massacrato i nostri colleghi! Cento navi sono state distrutte, dopo l’ordine di Rangda! Cinquantamila nostri colleghi trucidati! E Rangda lo ha fatto apposta! Il suo scopo è sempre stato massacrarci, e ci è riuscita!» gridò, la rabbia al calor bianco.

   «Io non la vedo così» obiettò il Rigeliano, più controllato. «Lo scopo di Rangda era evitare una guerra senza quartiere coi Voth. Cosa crede che sarebbe successo, se li avessimo respinti? Pensa che avrebbero gettato la spugna? Macché, lo dice anche il dottor Joe che sono troppo orgogliosi! La prossima volta sarebbero tornati non con una, ma con cinquanta Navi Fortezza. Invece di trasferire i Terrestri su altri mondi, li avrebbero sterminati. Poi magari ci avrebbero preso gusto e avrebbero proseguito la conquista dell’Unione. Rangda ha fatto l’unica mossa possibile: gli ha dato ciò che volevano, in cambio della pace. Come dicono i Vulcaniani, “il bene dei molti conta più di quello dei pochi”. In questo caso, il bene di trecento pianeti conta più di quello della Terra. Le ricordo che parte dei Terrestri continuerà a vivere lì, e quelli che saranno trasferiti potranno ancora tornarci ogni tanto. Francamente non mi sembrano condizioni così terribili. Poteva andarci molto peggio».

   «Perché Rangda ci ha ordinato la resa solo a battaglia in corso? Perché ha ordinato agli ufficiali di assassinare i Capitani che rifiutavano di obbedire?!» incalzò Hod.

   «I tempi dell’ordine sono stati infelici, ma né io né lei sappiamo come sono andate le trattative» rispose il Comandante. «Quanto alla sua seconda domanda: perché Rangda sa che la Flotta è piena d’ingenui idealisti come lei, che non si sarebbero mai arresi. Avreste gettato l’Unione in guerra, in nome del vostro orgoglio!».

   «E che ci aspetta ora, se non la guerra?!» sbraitò il Capitano. «L’unica differenza è che, invece di combattere i Voth, ci combatteremo fra noi. E se conosce un po’ di Storia, saprà che le guerre civili sono più sanguinose di quelle contro i nemici esterni».

   «Non sarebbe successo niente, se lei e gli altri Capitani aveste obbedito a Rangda! Non ci sarebbero state lotte intestine e ora non saremmo dei fuorilegge!» insisté Radek. «In questo momento, i miei parenti vengono interrogati perché l’Unione crede che io abbia partecipato al suo ammutinamento! E lo stesso vale per tutti gli altri dissidenti che lei ha chiuso in cella! Non crede che dovrebbe permetterci di tornare a casa per chiarire tutto? O vuole tenerci qui per sempre? O magari ci butterà nello spazio, alla maniera dei pirati?».

   «Non vuoi proprio capire?» sussurrò Hod, fissandolo come se lo vedesse per la prima volta. «Rangda ha appena annunciato che la Flotta ha tentato un colpo di Stato militare. Questa è una menzogna, lo sai anche tu. È Rangda che ha fatto un golpe, sfruttando i Voth per massacrarci. Quella dittatrice ha mentito ai cittadini, per giustificare la fine delle libertà costituzionali. Lo capisci o no, che ha mentito?!».

   «Non eravamo sulla Terra, in quei momenti. Non sappiamo chi ha cercato di rovesciare chi» rispose il Comandante. «L’unica certezza è che se continuiamo a ribellarci, l’Unione sprofonderà in una guerra civile che la frantumerà per sempre. A lei potrà anche andar bene; ma a me no. Quindi, a nome dei dissidenti dell’equipaggio, le chiedo di sbarcarci sul più vicino avamposto federale».

   Il Capitano tacque per lunghi momenti, osservando il suo Primo Ufficiale. Quello che, fino al giorno prima, era l’individuo di cui si fidava maggiormente le appariva ora un perfetto estraneo. «Valuterò la sua richiesta, signor Radek, e le farò sapere» disse in tono formale. «Fino ad allora, lei rimarrà agli arresti. Il suo grado e i suoi privilegi sono revocati». Fece per andarsene, ma una forza irresistibile la sospinse di nuovo verso la cella. «Che ti prende? Non ti riconosco più. Mi fidavo di te... avevi promesso di stare sempre dalla mia! Invece mi pugnali alle spalle!» sussurrò, con le lacrime agli occhi.

   «Potrei dire lo stesso di te» ribatté il Rigeliano con durezza. «Hai sparato contro i servitori dello Stato e ora imprigioni chiunque non ti obbedisca. Se Rangda è una dittatrice, tu non sei da meno».

   A quelle parole, Hod s’irrigidì come se l’avessero colpita a morte. Spense il microfono, per isolare acusticamente la cella di Radek. Dopo di che gli girò le spalle e se ne andò senza voltarsi indietro. Andò dritta al suo alloggio, senza fermarsi a parlare con nessuno. Non voleva che il suo equipaggio la vedesse piangere.

 

   Confinata nel suo alloggio sulla Nave Fortezza, per ordine di Hadron, Frola Gegen aveva assistito alla battaglia con la morte nel cuore. E ora seguiva con la stessa pena le operazioni di sgombero. L’ampia finestra le permetteva di osservare un grosso spicchio di Terra. I Voth si stavano impegnando per rimuovere i relitti dall’orbita, per evitare che precipitassero facendo danni. Ma i detriti erano così numerosi e sparpagliati che una parte sfuggiva ai loro raggi traenti. L’anziana Voth li vide rigare l’atmosfera terrestre, in modo simile al meteorite che aveva posto fine al regno dei dinosauri, anche se fortunatamente nessuno era così grosso. Che ironia... un meteorite aveva cancellato i sauri dalla Terra e un’intera pioggia ne salutava il ritorno.

   D’un tratto la porta dell’alloggio si sbloccò. Frola ne intuì la ragione: ora che la Terra era conquistata, le autorità non avevano più motivo di trattenerla. Lei però non aveva voglia di uscire. Che avrebbe potuto fare? Parlare contro la riconquista della Terra, così da finire in carcere? O scendere sul pianeta, in mezzo alle persone che aveva involontariamente condannato?

   Il segnale della porta l’avvertì di una visita. «Avanti» disse Frola stancamente.

   Un Voth entrò con timidezza. Era Lambeos, il capo della squadra scientifica che aveva analizzato il DNA delle specie terrestri, confermando l’Origine Lontana. «Perdoni il disturbo, signora Gegen, ma devo parlarle» mormorò.

   «Perché? Io non sono nessuno» disse l’anziana Voth, tornando a volgergli le spalle. «Tu piuttosto, che ci fai qui? Dovresti essere a terra, a festeggiare».

   «Io non voglio festeggiare!» esclamò il biologo, con le scaglie rosse d’ira. «Il mio lavoro serviva al progresso scientifico, non a giustificare un’invasione! Quanto accaduto oggi è un’orribile macchia nella nostra Storia».

   «Ed era così difficile da prevedere?» sospirò Frola, girandosi finalmente verso di lui. «Noi scienziati dovremmo smetterla di dare ai politici certe informazioni, per poi stupirci dell’uso che ne fanno. Siamo tutti colpevoli, ragazzo mio. Tu, io... anche mio padre» disse, con le lacrime agli occhi. «Conoscendo l’orgoglio degli Anziani, dovevamo prevedere che si sarebbero impossessati della Terra. Ah! Eravamo così accecati dalla possibilità di provare la nostra teoria, che non ci siamo soffermati a riflettere se fosse giusto farlo».

   «Credevamo che la verità scientifica fosse preferibile a una menzogna...» disse Lambeos, avvilito.

   «Quella menzogna era tutto ciò che proteggeva i Terrestri, purtroppo» ribatté Frola. «Ma tu perché sei qui?».

   «Io... mi chiedevo se c’è qualcosa che possiamo fare» disse il biologo, con aria da cospiratore. «Non ho ancora un piano. Ma se lei avesse qualche contatto utile... non so, potremmo presentare una mozione all’Assemblea degli Anziani, o alla Corte di Giustizia» propose.

   «Dimentichi che è stata proprio l’Assemblea a ordinare la conquista della Terra» disse Frola. «Non cambieranno idea, ora che hanno avuto successo. E la Corte di Giustizia non è tenera, con gli alieni. Anche se presentassimo la mozione in favore dei Terrestri, non ci ascolterà».

   «Eppure ci deve essere qualcosa che possiamo fare!» insisté Lambeos. «Non conosce proprio nessuno che possa aiutarci?».

   «Aiutarci forse no» rispose l’anziana Voth, assorta. «Ma forse siamo noi che potremmo aiutare loro...».

   «Di chi sta parlando?» chiese il giovane.

   Prima di rispondere, Frola lo squadrò severamente. «Sei davvero pronto a rischiare la tua carriera, i tuoi privilegi... forse la tua stessa vita, per aiutare i Terrestri?» chiese.

   «Sì» rispose Lambeos con decisione.

   «Allora prepara una navetta. Partiamo oggi stesso!» ordinò la scienziata, animandosi.

   «E dove andiamo?».

   «Troveremo la Keter. Quando incontrai il dottor Joe, otto mesi fa, gli detti uno dei nostri trasmettitori subspaziali a lungo raggio per tenerci in contatto» spiegò Frola. «Finché la Keter era in missione nel Quadrante Delta, era fuori portata. Ma ora che sono tornati dovrei riuscire a contattarli. Prima però dobbiamo allontanarci da qui, per non essere intercettati. Hadron non gradirebbe sapere che parliamo ai suoi nemici».

   «Aspetti... mettiamo di riuscire a contattare la Keter, e pure a raggiungerla» ragionò Lambeos. «Poi che faremo?».

   «Non lo so ancora, dipenderà dalla loro situazione» ammise Frola. «Se non altro potremo dargli qualche dritta sulla nostra tecnologia, per aiutarli a nascondersi ai nostri sensori».

   «Sarebbe alto tradimento... un delitto da pena capitale» rabbrividì Lambeos. «Se le autorità ci scoprono, non potremo più tornare dalla nostra gente».

   «Avevi detto d’essere pronto a tutto. Non è così?» si accigliò la vecchia scienziata.

   Il giovane deglutì. «Io... sì, sono con lei» confermò. «Vado a preparare la navetta. Lei si tenga pronta».

 

   Rientrata stancamente nel suo alloggio, il Capitano lo trovò sottosopra per gli scossoni della battaglia, che avevano fatto cadere i soprammobili. Non aveva le energie per riordinare tutto; decise che ci avrebbe pensato l’indomani. Adesso voleva solo farsi una doccia sonica, andare a letto e dormire per qualche ora, se le riusciva. Mentre si svuotava meccanicamente le tasche, sentì qualcosa di duro e freddo. Sulle prime non ricordò cosa fosse. Si levò di tasca l’oggetto e solo quando l’ebbe sotto gli occhi lo riconobbe. Era la collanina col pendente che Radek le aveva donato appena la sera prima. Sull’emblema della Flotta Stellare era incisa la dedica: “Sono stato e sarò sempre tuo amico”.

   Leggendo quelle parole, l’Elaysiana si sentì tradita sia come Capitano che sul piano personale. Con mani tremanti, posò il pendente su un basso tavolino trasparente che si trovava al centro del soggiorno. Prese una vibro-lama che teneva nascosta in un cassetto e l’attivò. Dopo di che passeggiò attorno al tavolino, lottando fra impulsi contrastanti. Respirò a fondo e per qualche secondo le parve di aver ritrovato l’autocontrollo. Ma quando lo sguardo le cadde sulla dedica, fu assalita da un raptus. Con un grido lacerante, sferrò un colpo contro quel simbolo d’amicizia tradita, infondendovi tutte le sue forze e la sua rabbia. La vibro-lama spaccò in due il pendente in senso verticale, dividendo anche la dedica. Schiantò il tavolino, facendo volare ovunque le schegge, e si piantò nella moquette.

   Hod si accasciò a terra, squassata dai singhiozzi. Tutto ciò in cui aveva sempre creduto era ridotto in cenere, e non poteva nemmeno contare su chi le era più vicino. A quel pensiero l’Elaysiana buttò indietro la testa e gridò a squarciagola. Erano grida disarticolate e strazianti, che venivano dal suo cuore a brandelli. Fortunatamente gli alloggi erano insonorizzati, così che l’equipaggio non poteva sentirla. Poco alla volta le urla si spensero in lamenti soffocati. Il Capitano si trascinò in camera da letto, stordita dal dolore e mezza accecata dalle lacrime. Si buttò sul giaciglio ancora vestita e cadde in un sonno inquieto, popolato da incubi raccapriccianti e inframmezzato a momenti di delirio.

 

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Capitolo 4
*** Divisi dal dovere ***


 

-Capitolo 3: Divisi dal dovere

 

   Fuggita malamente dal sistema solare, la Keter stazionava nella nebulosa oscura del Toro. I gas opachi nascondevano la vista delle stelle, così che l’astronave era immersa nell’oscurità. Nel suo giro d’ispezione, Norrin si accertò che i prigionieri fossero sotto controllo e che le riparazioni procedessero. Per adesso la situazione era stabile, ma gli ufficiali avevano il morale a terra; e come biasimarli? Avevano combattuto una battaglia inutile, erano stati traditi dalle autorità e ora erano braccati dai loro ex colleghi, mentre i notiziari davano una versione distorta dei fatti, addossando tutta la colpa a loro. Il meglio che potevano fare era nascondersi. «Siamo una preda che si lecca le ferite» si disse l’Hirogeno, aggirandosi nei corridoi semibui, pieni di tecnici esausti che lavoravano da troppe ore. «Dobbiamo diventare Cacciatori, se non vogliamo trasformarci nei trofei di qualcun altro».

   Con questi pensieri, Norrin salì in plancia e poi si presentò all’ufficio di Hod, per fare rapporto. La trovò seduta alla sua scrivania, intenta a leggere dei dati. Aveva l’aria di chi ha pianto molto e riposato poco, tuttavia al momento era calma. «Salve, Capitano. Ho il rapporto sull’equipaggio» le disse.

   «Sentiamo».

   «Al momento abbiamo 245 prigionieri, cioè più di un terzo della ciurma» disse l’Hirogeno, senza addolcire la pillola. «La maggior parte di loro sono nella stiva 4, dato che nelle celle non c’è spazio per tutti. Ovviamente non possiamo garantire l’igiene, con così tante persone stipate nello stesso ambiente. E c’è il rischio che i prigionieri tentino la fuga. Hanno già fatto un tentativo, ma Jaylah e Mo’rek li hanno fermati».

   «Tra poco i prigionieri non saranno più un problema» disse il Capitano, con un certo distacco.

   «Li lasciamo andare, eh?» commentò Norrin.

   «No. Li butteremo nello spazio, come fanno i pirati» rispose Hod, sempre distaccata.

   «Capitano!» protestò l’Ufficiale Tattico, temendo che i troppi dolori l’avessero fatta impazzire.

   «Tranquillo, stavo scherzando» disse l’Elaysiana, permettendo a un debole sorriso di rischiararla. «Certo che li sbarcheremo. Darò a tutti la possibilità di scegliere; anche a coloro che mi hanno seguita fin qui».

   «Se vanno via in troppi, avremo problemi a governare la nave» notò l’Hirogeno, inquieto.

   «Sì, stavo facendo qualche conto» annuì Hod, accennando ai dati sull’oloschermo. «Se scendiamo sotto al 60% dell’equipaggio, in una qualunque delle sezioni, sarà un casino. Non riusciremo più ad avere tre turni di servizio. Dovremo fare due turni da 12 ore, finché non riusciremo a rinsanguare l’equipaggio. E per questo potrebbe volerci molto tempo».

   «La maggior parte dei prigionieri sono del turno Beta, quindi dovremo abolire quello» disse Norrin. «Però ho una buona notizia: i ragazzi del turno di notte sono con noi».

   «Che siano benedetti!» disse Hod, confortata. «Vorrei dirgli qualche parola».

   «Lo immaginavo, infatti li ho portati» disse Norrin. Si accostò alla porta fino a provocarne l’apertura. «Prego» li invitò.

   Gli ufficiali di plancia del turno di notte entrarono nell’ufficio. C’erano Ki’Lau, il comandante del turno; Orlon, il suo vice; Mo’rek, l’ufficiale tattico; Ennil, la timoniera; e Smig, l’addetta a sensori e comunicazioni. Per ultimo venne Xandrix, l’ingegnere, che reggeva una misteriosa targa annerita.

   «Signori, vi ringrazio di cuore per il vostro coraggio e la vostra lealtà» disse Hod, lasciando la scrivania per venir loro incontro. «Avevate già dimostrato queste qualità nel Quadrante Delta, salvandoci dai Borg, e le confermate ora più che mai. Ma devo chiedervi di pensare attentamente a ciò che fate. Restare sulla Keter significa diventare dei rinnegati. Se volete tornare alle vostre famiglie, nessuno vi biasimerà».

   «Se noi andiamo, riuscirete a governare la Keter?» domandò Ki’Lau.

   «Sarà difficile... forse impossibile» ammise il Capitano. «Ma non sentitevi obbligati a restare per questo».

   Ki’Lau osservò i suoi ufficiali, uno dopo l’altro. Ciascuno di loro annuì con decisione. «Noi non l’abbandoniamo» disse lo Xaheano, rivolgendosi di nuovo al Capitano. «Anzi, vorremmo farle un dono, nella speranza che le sia di conforto. Xandrix...».

   Il Rhaandarite si fece avanti, mostrando la placca metallica che teneva in mano. «Quando è scoppiato il finimondo, ero in sala teletrasporto 1» spiegò. «Poco prima che ce ne andassimo, abbiamo perso gli scudi. Ne ho approfittato per sondare i resti dell’Enterprise e prendere questa. È strano che si sia salvata, vero?».

   «Forse era destino» affermò Mo’rek, che come molti Klingon aveva una vena di misticismo.

   Riconosciuta la placca, il Capitano la prese con reverenza dalle mani dell’ingegnere. Era la targa commemorativa dell’Enterprise-J, che riportava il nome e il numero di registro della nave, la data e il luogo di lancio, il nome del Capitano e degli ufficiali superiori al momento del varo, nonché il celebre motto di tutte le Enterprise: “Per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima”. La targa color oro era un po’ annerita, ma nel complesso era sorprendentemente in buono stato. Hod vi passò sopra la mano, lieta di riavere almeno quel frammento dell’Enterprise. «Sì, forse era destino che arrivasse a noi» convenne. «La conserveremo con cura. Anzi, la porremo in plancia! Così l’avremo sempre sotto gli occhi, per non dimenticare» decise. «Signor Xandrix, la prego di apporla immediatamente» disse, restituendola all’ingegnere.

   Detto fatto, il Rhaandarite prese un saldatore e affisse la placca dorata in plancia, sul lato opposto rispetto a quella argentea della Keter. Poi si tirò indietro, osservandola con soddisfazione. Per quanto la targa fosse danneggiata, il nome Enterprise era ancora ben leggibile.

   «Onoriamo il sacrificio del Capitano Talmath e del suo equipaggio» disse Hod. «Impegnamoci a portare avanti la loro causa, nello spirito della Flotta Stellare». Tutti i presenti si misero sull’attenti e tennero un minuto di silenzio, prima di rimettersi al lavoro.

 

   Quella sera il Capitano convocò l’equipaggio nell’hangar principale, salvo le guardie che tenevano d’occhio i prigionieri. Anche queste ultime, comunque, udirono il suo discorso dagli altoparlanti.

   «Benvenuti; vi ho convocati per un annuncio importante» disse Hod. «Come sapete, la Terra è caduta e la Flotta Stellare è allo sbando. Cosa ancora più grave, la nostra democrazia è stata uccisa dalla Presidente Rangda, che ha approfittato della crisi per impadronirsi del potere assoluto. Molti dei nostri colleghi, purtroppo, l’hanno seguita per un malinteso senso del dovere, o perché ingannati dalle sue menzogne. Ma mi rivolgo a voi, che siete stati fedeli alla Costituzione federale e al giuramento della Flotta.

   Ci aspettano tempi bui, in cui dovremo lottare per riconquistare tutto ciò che fino a ieri davamo per scontato. Ma non saremo del tutto soli. Altre navi hanno rifiutato di sottomettersi alla dittatrice e hanno lasciato il sistema solare. Dobbiamo trovarle, per ricostituire una flotta in grado di operare efficacemente. Vi ricordo altresì che molti membri dell’Unione, come Klingon e Romulani, erano già in procinto di abbandonarla, essendo in disaccordo sull’abolizione della Prima Direttiva e su altre questioni. È credibile che ora questi popoli faranno fronte compatto contro il regime di Rangda. Tratteremo con loro e, se li troveremo ancora fedeli agli ideali dell’Unione, li sosterremo. In cambio avremo dei porti sicuri in cui rifugiarci.

   Ma tutto questo richiederà del tempo. E anche quando lo avremo fatto, sarà solo l’inizio della guerra per detronizzare Rangda. Pertanto ora ci si impone una scelta. Molti di voi, che pure mi sono stati leali durante la battaglia, ora sono giustamente preoccupati per i propri cari. Altri forse non vorranno seguirci nella lunga e difficile lotta che ci si prospetta. Potrei appellarmi al vostro giuramento della Flotta Stellare, ma dopo gli ultimi eventi preferisco rivolgermi alla coscienza di ciascuno di voi. Fate ciò che credete giusto! Se pensate che il vostro posto sia qui, a battervi per ridare la libertà all’Unione, seguite la vostra vocazione. Se tuttavia sentite di dover tornare a casa dai vostri cari, sappiate che non vi tratterrò. Domani alle 8:00 andremo a un avamposto federale, a sbarcare i prigionieri. Se vorrete, potrete scendere con loro. Pensateci bene, perché si tratta di una scelta definitiva! Se restate, mi aspetto che onoriate il vostro impegno senza tentennamenti. Parimenti, se ve ne andate sarà praticamente impossibile riunirvi a noi.

   La scelta è vostra, ma vorrei offrirvi una riflessione. Se pensate che tornare a casa significhi correre meno rischi, ebbene, non condivido quest’idea. Nessuno è al sicuro, sotto il regime di Rangda. Non lo sarete voi e non lo saranno le vostre famiglie, nemmeno se tornerete da loro. D’ora in poi le libertà costituzionali saranno soppresse e i diritti fondamentali dell’individuo saranno calpestati. Se quindi volete proteggere i vostri cari, sappiate che potrete farlo meglio restando con noi che non tornando a casa come privati cittadini, o peggio ancora arruolandovi nei Pacificatori. Detto questo, vi auguro ogni bene. In libertà».

 

   La mattina dopo, come annunciato, la Keter raggiunse un avamposto federale. Si trattava di Delta Vega, una remota colonia mineraria nei pressi della Barriera Galattica, nota per lo scontro fra il Capitano Kirk e Gary Mitchell. Il pianeta non era difeso da alcuna astronave e la minuscola guarnigione di terra non costituiva un pericolo per la Keter. Il Capitano Hod contattò il direttore dell’avamposto minerario, accordandosi per sbarcare i dissidenti della sua nave. I prigionieri furono teletrasportati direttamente dalle loro celle e dalla stiva, salvo Radek. Il Comandante infatti fu scortato in sala teletrasporto, dove trovò Hod e gli ufficiali superiori, radunati per dirgli addio.

   «Ebbene, le nostre strade si dividono» disse il Capitano, con una certa asprezza. «Le chiederei di ripensarci, se non fosse che ha già messo in chiaro le sue idee».

   «E non le ho cambiate» confermò Radek. Passò davanti ai colleghi, soffermandosi davanti a Jaylah. «Non dimenticherò che mi hai sparato alla schiena, piccola traditrice» l’avvertì.

   «E io terrò a mente che lei non ha battuto ciglio, quando Rangda ha svenduto la Terra» ribatté l’Agente.

   Il Rigeliano proseguì, finché fu davanti a Norrin. «Sei stato un buon ufficiale tattico e un buon compagno di bevute, ma fra noi resterai sempre il numero 2» commentò.

   «Per quanto mi riguarda, è il numero 1» disse Ladya, prendendo l’Hirogeno a braccetto. Nei primi tempi c’era stata una vaga attrazione fra lei e Radek, ma poi la dottoressa aveva preso le distanze, e in seguito si era decisamente volta a Norrin. Sentendo le sue parole, il Rigeliano ebbe un moto di stizza. Voltò le spalle ai colleghi e fece per salire sulla pedana, ma si trovò davanti Hod.

   «Vorrei renderle questo» disse il Capitano, porgendogli una metà del pendente con la dedica.

   «E l’altra metà?» chiese Radek, prendendo il frammento.

   «La terrò io. Chissà che un giorno non ci rincontriamo, per ricomporlo» suggerì l’Elaysiana, con una debolissima speranza.

   «Non ci conterei troppo» disse il Rigeliano, ma intascò il frammento. Salì sulla pedana di teletrasporto e si girò verso gli ex colleghi. «Se ci rincontreremo, è probabile che sarà sul campo di battaglia» avvertì.

   «Perché, vuole arruolarsi nei Pacificatori?» chiese Hod.

   «Sono un ufficiale di carriera. Aspetto ancora la mia nave» confermò Radek.

   «Non si aspetti chissà che» avvertì il Capitano. «È probabile che nei prossimi anni l’Unione diventi uno Stato fantoccio dei Voth. Se lei obbedirà a Rangda, sarà il fantoccio di un fantoccio».

   «Sempre meglio che diventare un brigante» disse il Rigeliano, e si dissolse nel teletrasporto.

   «Diventa sempre più simpatico, eh?» commentò Vrel, per alleviare la tensione. «Non sarà che d’ora in poi ce lo troveremo sempre fra i piedi?».

   «È probabile» disse Norrin, malinconico. Si avvicinò al Capitano, che era rimasta immobile davanti alla pedana vuota. «Tutto bene?» le chiese.

   «Sì» disse lei, riscuotendosi. «Ma ora devo designare un nuovo Comandante».

   «Non vorrà mica...» fece Norrin, arretrando.

   «Certo che voglio» confermò Hod. Levò di tasca i gradi e glieli appuntò sul colletto. «Questi avrebbero dovuto essere suoi già dopo la prima missione. Ci saremmo risparmiati molti guai. Congratulazioni, Comandante Norrin» disse, stringendogli la mano.

   «Grazie, Capitano» disse l’Hirogeno. «Ma se mi permette, ha solo spostato il problema. Chi mi sostituirà al tattico?».

   «Chi meglio dell’Agente che lei ha addestrato?» fece l’Elaysiana, rivolgendosi a Jaylah. «Tenente Chase, lei sarà il capo della Sicurezza».

   «Come desidera, Capitano» disse la mezza Andoriana. «Ma sono un Agente abituato a operare sul campo. Forse le sarò più utile continuando in questo modo».

   «Uhm, vedremo» disse Hod, meditabonda. «Per adesso sostituirà Norrin. Se sarà chiaro che lei ci serve sul campo, designerò qualcun altro».

 

   Dopo l’addio a Radek, il Capitano si recò nell’hangar, per vedere quanti tra gli ufficiali liberi avevano comunque scelto di andarsene. Questa era la sua maggiore preoccupazione: ci rimuginava fin da prima di fare l’annuncio. In certi momenti temeva di trovare l’intero equipaggio pronto ad andarsene; in altri fantasticava di trovare l’hangar vuoto, perché tutti avevano scelto di restare.

   La realtà, come al solito, stava nel mezzo. Entrando nell’hangar il Capitano ci trovò una sessantina di persone, perlopiù della sezione scientifica. C’era anche qualche medico e ingegnere, ma nessuno della Sicurezza, dato che loro avevano già dovuto prendere una decisione netta durante la battaglia.

   «Coraggio» le disse Norrin, che l’aveva seguita. «Possiamo fare a meno di qualche cervellone. Tanto non ci aspettano molte missioni scientifiche».

   Hod corrugò la fronte, ma non rispose. Si rivolse invece ai presenti. «Vi avevo dato licenza di andare e così sarà» disse. «Spero tuttavia che non vi arruolerete tra i Pacificatori, perché a dispetto del loro nome saranno tutt’altro che al servizio della pace. Vi consiglio di tornare alle vostre case e di tenere un basso profilo. Se ve la sentite, cercate – con discrezione – d’informare i vostri conoscenti su quanto è realmente accaduto. Aiutateci a diffondere la consapevolezza delle menzogne di Rangda. Addio, e che la fortuna sia con voi».

   Andato anche questo gruppo, il Capitano rimase sola con Norrin. «Allora, come siamo messi?» chiese.

   «In totale abbiamo perso 303 elementi» disse l’Hirogeno, conteggiando tutti coloro che per un motivo o per l’altro avevano lasciato la nave. «Anzi, 313, contando le dieci vittime che abbiamo avuto nel Quadrante Delta e che non abbiamo potuto sostituire. Significa che restiamo in 397».

   «Groan, siamo quasi dimezzati» constatò Hod. «A questo punto non riusciremo a mantenere i tre turni. Dovremo fare due turni da 12 ore».

   «Non so quanto potremo reggere, prima che l’equipaggio abbia un esaurimento» avvertì Norrin. Già le regolari otto ore di servizio erano dure. Ma dodici ore al giorno, senza pause settimanali, erano massacranti. «Presto avremo un crollo dell’efficienza» previde l’Hirogeno.

   «Tenere alti l’efficienza e il morale dell’equipaggio è compito del Primo Ufficiale» disse Hod, dandogli una pacca sulla spalla, e lasciò l’hangar.

   «Wow» fece Norrin, rimasto solo. Il suo primo giorno da Comandante si annunciava complicato.

 

   Tornata in plancia, Hod ordinò di lasciare Delta Vega. Restare a lungo presso un mondo federale era pericoloso, ora che Rangda aveva scatenato la caccia agli oppositori. Vedendo svanire il pianeta su cui aveva lasciato tanta parte del suo equipaggio, il Capitano sentì male al cuore. Ma non poteva starci a pensare; aveva troppe cose da fare.

   «Capitano, ha un momento?» chiese Zafreen.

   «Che c’è?» si riscosse Hod.

   «Stavo pensando che non è carino vestire allo stesso modo di quelli che ci danno la caccia» spiegò l’Orioniana. «Forse dovremmo differenziarci da loro».

   «Tenente, questo non è il momento di dedicarci alla sartoria. Abbiamo cose più importanti a cui pensare» disse l’Elaysiana, seccata.

   «Beh, non dico di cambiare completamente uniforme» precisò Zafreen. «Ma potremmo sostituire il comunicatore. Molti lo hanno gettato durante la battaglia e ora lo tengono in tasca, per non esibire il simbolo della Flotta».

   Il Capitano si accorse che l’Orioniana stava parlando anche di lei. In effetti, gettare il comunicatore era stato un modo per indicare che non si riconosceva più in ciò che la Flotta era diventata. «Che cosa propone?» chiese, dandole finalmente attenzione.

   «Potremmo adottare uno dei vecchi design» suggerì Zafreen, incoraggiata. «Questo è il mio preferito... fa molto vintage». Così dicendo levò di tasca un comunicatore vecchio stile, del tipo usato negli anni Sessanta del XXIV secolo, all’epoca dell’Enterprise-D. Il simbolo della Flotta era sempre lo stesso, una forma a delta che ricordava una punta di freccia. Ma anziché intersecarsi a tre linee orizzontali, come quelli attuali, era sovrapposto a un disco dorato.

   Hod si accorse che la proposta non era poi così stramba. Dopotutto i simboli contavano molto. In quel momento difficile, serviva qualcosa che li riportasse ai periodi migliori della Flotta Stellare. E in fondo la stuzzicava l’idea di presentarsi ai lealisti con quella modifica, che enfatizzava la loro differenza. «La sua idea non è niente male» disse sorprendendo tutti i presenti, inclusa la stessa Zafreen. Prese l’antico comunicatore e lo osservò da vicino, trovandolo di suo gusto. «Replicheremo dei comunicatori con questa foggia, ma resistenti e sofisticati come quelli attuali» decise. «Così i nostri avversari sapranno che combattendo noi, combattono la loro stessa tradizione».

 

   La nave di classe Theseus fuggì dal sistema Halkan, inseguita da una più potente classe Sagittarius che sparava a tutto spiano. I fuggitivi avevano sperato di ottenere rifugio presso i pacifici abitanti del sistema, mentre riparavano l’astronave; ma non avevano fatto i conti con l’ordine di Rangda. Chi avvistava i ribelli doveva immediatamente denunciarli alle autorità, se non voleva essere considerato loro complice. E una volta scattata la denuncia, la risposta dell’Unione era rapida quanto spietata. Siluri quantici e impulsi bifasici percossero gli scudi della nave fuggitiva, fino a perforarli.

   «Perdiamo integrità strutturale! Breccia sul ponte 9!» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Trasmettete il segnale di resa» ordinò il Capitano, sentendo l’astronave che tremava come se dovesse disfarsi attorno a lui.

   «Un momento... sta arrivando un’altra nave» disse l’addetto ai sensori.

   «È dei lealisti?» chiese il Capitano, prossimo alla disperazione.

   «No... è la Keter!».

   La nave corazzata uscì dalla cavitazione a poppa della Sagittarius, colpendola furiosamente col cannone a impulso. Prima che i lealisti potessero rafforzare gli scudi posteriori, una delle quattro gondole fu tranciata. Era un danno serio, che comportava una perdita di radiazioni. La Sagittarius fuggì perdendo plasma.

   Sulla Theseus, gli ufficiali sospirarono di sollievo. «Chiamate la Keter» ordinò il Capitano, ricomponendosi.

   Hod apparve sullo schermo. C’era qualcosa di strano in lei, ma il Capitano non capì subito di che si trattava. «Che sollievo vedervi! Non sapevamo se foste scampati alla Caduta» disse. «Grazie dell’aiuto, siete arrivati appena in tempo».

   «Siete stati incauti a fermarvi in un sistema abitato» lo rimproverò Hod. «Vi mandiamo qualche ingegnere per aiutarvi con le riparazioni. Dobbiamo andarcene quanto prima; i lealisti torneranno presto coi rinforzi».

   «Già» disse il Capitano, cupo. Osservando Hod, capì finalmente cosa c’era di diverso. «Ha cambiato comunicatore!» notò.

   «Già, questo è un vecchio design. Carino, vero?» sorrise l’Elaysiana, sfiorandoselo. «Se non l’avete già fatto, estendete al massimo i sensori. Dobbiamo radunare ciò che resta della Flotta... intendo la vera Flotta Stellare. Poi lanceremo la sfida al regime di Rangda. La riscossa comincia oggi».

 

   Per la prima volta dall’inizio dell’assedio Voth, il Senato dell’Unione era in seduta. Il grande salone ovale, dai pavimenti blu e le pareti argentee, si riempì in fretta. C’era grande agitazione tra i Senatori, che rumoreggiavano dai loro seggi, chiedendo spiegazioni per i recenti proclami di Rangda.

   La Presidente giunse scortata dalle sue guardie. Al suo ingresso alcuni Senatori l’acclamarono, ma altri levarono versi di scontento. «Onorevoli Senatori, vi richiamo all’ordine!» esclamò lo speaker. «All’ordine del giorno c’è il nuovo assetto amministrativo della Terra. La Presidente vi riferirà l’accordo stilato con l’Autorità Voth, dopo di che procederete al voto di ratifica».

   «Senza discuterne in Senato? Questo è incostituzionale! È un abuso di potere!» esclamò il senatore Romulano, suscitando un coro d’approvazione.

   «Senatore Irek, la prego! Parlerà solo se autorizzato!» ammonì lo speaker. «La parola alla Presidente».

   Rangda si fece avanti, osservando benevolmente il turbolento auditorio. «Onorevoli delegati, sono qui per rassicurarvi» esordì. «Questa crisi si è ormai risolta felicemente. I Voth stanno rientrando in possesso del loro mondo natale, ma non toccheranno Atlantide. Il ricollocamento degli Umani sta avvenendo rapidamente e senza incidenti. Presto giungeranno i primi coloni Voth. Il loro arrivo darà inizio a un’epoca di prosperità e sviluppo tecnologico senza precedenti».

   «Che ci dice della Flotta Stellare?!» insorse Mogh’Lar, il senatore Klingon. «I miei rapporti dicono che la Flotta stava respingendo i Voth con successo, quando lei ha ordinato la resa! Il suo ordine ha provocato uno scontro intestino che ha dato la vittoria agli invasori! Molti del mio popolo che servivano sulle astronavi hanno commesso l’hegh’bat, il suicidio d’onore, a causa sua! Anche in questo momento ci sono scontri fra navi, e la polizia trattiene i parenti degli ufficiali per interrogarli!».

   «Si calmi, Senatore!» lo ammonì Rangda. «Il mio ordine alla Flotta ha evitato che tra noi e i Voth scoppiasse un conflitto insensato, che avrebbe devastato ogni pianeta dell’Unione. Seguendo la tradizione federale, ho privilegiato la via del dialogo e della conciliazione. Purtroppo una porzione della Flotta, evidentemente interessata alla guerra, ha cercato di prendere il potere per proseguire lo scontro. Se i ribelli avessero prevalso, ora la Terra sarebbe un cumulo di macerie e il resto dell’Unione sarebbe in pericolo. Pertanto ho dovuto dichiarare fuorilegge questi elementi deviati, facenti capo all’Ammiraglio Chase. Ciò richiede una profonda riforma della Flotta. La nuova Forza di Pace sarà un organismo molto più efficiente e più in linea con le esigenze dell’Unione».

   «Dov’è l’Ammiraglio Chase, adesso? Esigo di ascoltare la sua versione dei fatti!» tuonò Mogh’Lar.

   «Il traditore Chase è in nostra custodia e presto sarà chiamato a rispondere dei suoi crimini» garantì la Presidente, compiaciuta.

   «Dove sono gli altri testimoni, dove sono i verbali? Lei sta agendo senza il minimo controllo!» insisté il Klingon. «Prende tutte le decisioni senza consultarci e pretende che le crediamo sulla parola! Non è questo che ci fu promesso, quando entrammo nell’Unione Galattica. Se si aspetta che ci lasciamo asservire, ebbene si sbaglia! Noi Klingon abbandoniamo l’Unione seduta stante. E se tra voi c’è qualcuno con un briciolo d’onore, farà meglio a seguirci!» aggiunse, rivolto ai colleghi.

   A queste parole, molti senatori si alzarono per manifestare il loro assenso. Bajoriani, Cardassiani, Ferengi, Romulani, Xindi: questi e molti altri membri di spicco dell’Unione si schierarono con i Klingon. Anche certe specie che avevano fatto parte della Federazione per secoli, come Andoriani, Vulcaniani e Trill, si unirono alla fronda.

   Rangda fissò i contestatori come se fossero insetti insignificanti. «Non si abbandona l’Unione dall’oggi al domani» avvertì. «Il procedimento richiede anni di negoziati. Ma finché durerà lo stato d’emergenza, l’Unione non può permettersi il disordine politico, né l’incertezza economica che ne verrebbe. Di conseguenza, il processo di uscita che alcuni di voi avevano già avviato sarà bloccato fino al termine della crisi».

   «Crisi? Aveva detto che la crisi è già risolta!» obiettò il senatore Romulano.

   «La crisi Voth è risolta» confermò Rangda. «Ma là fuori ci sono ancora molti ribelli della Flotta Stellare che ci minacciano. Questa è la grave emergenza che dobbiamo affrontare ora. Finché la ribellione non sarà domata, la legge marziale resterà in vigore».

   «Finché lei non ci darà le prove di questo fantomatico complotto della Flotta, noi abbandoneremo quest’aula e non ratificheremo alcun suo provvedimento» dichiarò Mogh’Lar, avviandosi verso l’uscita.

   «Fate pure; ho ancora la maggioranza» gli ricordò la Presidente.

   «E allora noi Klingon poniamo il veto, per manifesta incostituzionalità!» gridò il Senatore.

   «Nessun veto, sotto la legge marziale» gli ricordò Rangda. «Nessun boicottaggio m’impedirà di fare gli interessi dell’Unione, che sono i vostri interessi».

   «I nostri interessi si sono scissi dai suoi molto tempo fa» disse Mogh’Lar, abbandonando l’aula. I senatori della fronda lo seguirono: erano un terzo dei presenti. Quando ebbero lasciato l’aula, cadde il silenzio.

   «Bene» disse Rangda, come se niente fosse. «All’ordine del giorno c’è il nuovo assetto amministrativo della Terra. Ora vi riferirò l’accordo stilato con l’Autorità Voth, dopo di che procederete al voto di ratifica». La Presidente non dubitava che lo avrebbero approvato: tutti i senatori rimasti erano del suo partito.

 

   Le tre navi stellari di classe Horus si avvicinarono a un quarto d’impulso alla flottiglia della Keter, che ne contava già cinque. Giunte a un centinaio di chilometri, si fermarono. I loro scafi portavano i segni della recente battaglia.

   «Analisi» disse il Capitano Hod, che aveva già ordinato l’Allarme Rosso.

   «Sono la Fenghuang, la Firebird e la Thunderbird» disse Zafreen. «Hanno tutte combattuto dalla nostra, durante la Caduta».

   «Fine allarme» ordinò l’Elaysiana, sollevata. «Le chiami» disse poi, sperando di accrescere la sua flottiglia.

   A risponderle fu il Capitano della Fenghuang, un Aldeano. «Capitano Hod, lieto di ritrovarla. Vedo che sta riunendo le forze» commentò.

   «Come lei» disse l’Elaysiana. «Parla a nome della sua flottiglia?».

   «Affermativo».

   «Siete pronti a unirvi a noi?».

   «Sì, ma dovremo accordarci sulla catena di comando» avvertì l’Aldeano.

   «Nulla di più facile» disse Hod, fissandolo con occhi penetranti. «Secondo il regolamento, in mancanza di ordini dal Comando l’autorità spetta al Capitano dell’astronave che ha la superiorità tattica. In questo caso, sono io» rivendicò.

   «E se si unisse a noi una classe Juggernaut, riconoscerebbe l’autorità del suo Capitano?» la provocò il collega.

   «Crede che le Juggernaut siano più potenti?» si accigliò l’Elaysiana. Anche se non voleva ammetterlo, la verità era che non aveva tagliato i ponti con l’Unione solo per mettersi al servizio di un altro Capitano. Se si fosse formato un governo federale in esilio o separatista, avrebbe servito quello; ma nel frattempo voleva fare a modo suo.

   «Beh, abbiamo visto tutti di cosa sono capaci» disse l’Aldeano, adombrandosi al ricordo della distruzione dell’Enterprise.

   «La Keter non è da meno» garantì Hod, con aria minacciosa. «Comunque per ora il problema non si pone. Se si unirà a noi una Juggernaut o una Universe, potremo cavillare su chi ha più muscoli» disse, con un sorriso amaro.

   «Già» fece il collega, con la stessa espressione. «Sono con lei, Capitano. O dovrei chiamarla Ammiraglio? Ora che ha una flotta, potrebbe rivendicare quel grado» commentò.

   Hod aveva già accarezzato l’idea, ma si era trattenuta, temendo d’indisporre gli altri Capitani ribelli. «Negativo» disse. «Questo non è il momento di arrogarci titoli. Quando si sarà ricostituito un Comando di Flotta, si vedrà. Fino ad allora resterò Capitano».

   «Bene» disse l’Aldeano. «Qual è la sua strategia?».

   «Ne discuteremo in riunione» rispose l’Elaysiana. «Va bene alle 18 in punto?».

   «Ci sarò» promise l’Aldeano.

   «Porti i suoi colleghi delle altre navi» raccomandò Hod. Terminata la conversazione, il Capitano si accorse che il dottor Joe era entrato in plancia e attendeva a poca distanza da lei. «Dottore, che succede?» chiese.

   «Ho ricevuto una chiamata su un comunicatore subspaziale a lungo raggio» spiegò il Medico Olografico.

   «Non sapevo che avesse un dispositivo del genere» si allarmò l’Elaysiana.

   «Non si preoccupi; non può essere usato per localizzarci» assicurò Joe. «Mi fu dato da Frola Gegen, poco prima che partissimo per il Quadrante Delta. Lei e Lambeos hanno lasciato la Terra su una navetta e vorrebbero incontrarci».

   «Puzza di trappola» commentò Norrin, che in virtù della recente promozione sedeva al posto di Radek.

   «Io mi fido della signora Gegen!» ribatté l’MOE, indignato dal cinismo dell’Hirogeno. «Tutto ciò che voleva era provare la teoria del padre. Se avesse immaginato le intenzioni del suo governo, ci avrebbe di certo avvisati!».

   «Questo non possiamo saperlo» s’incupì Hod. «Quando la incontrammo, pensai che fosse la persona più gentile e innocua del mondo. Ma i fatti ci hanno dimostrato che il tradimento può annidarsi ovunque».

   «Magari non è neanche Frola» ipotizzò Jaylah, che stava alla postazione tattica. «Magari è un ologramma che i Voth hanno creato per attirarci in trappola».

   «Signori!» protestò Joe. «Capisco che gli ultimi eventi vi abbiano amareggiati, ma credo che stiate scivolando nella paranoia».

   «Finché Rangda è al potere, la prudenza non è mai troppa» disse Hod. «Andremo all’appuntamento da soli, per non mettere in pericolo il resto della flotta. E prima di allora, vorrei affidarle la ricognizione» aggiunse, con un’occhiata che non prometteva nulla di buono.

   «Ricognizione?!» s’inquietò il Medico Olografico.

   «Sì, del tipo che ha fatto ai tempi della Voyager» confermò il Capitano. «Trasmetteremo il suo programma sulla nave di Frola, così potrà accertarsi che sia tutto come sembra. Di che si preoccupa? Ha detto che si fida di lei» aggiunse, vagamente beffarda.

   «Infatti è così» confermò il dottore, deglutendo. Ormai non poteva tirarsi indietro; ma se avesse immaginato la decisione del Capitano, sarebbe stato più prudente con le parole.

 

   All’attivarsi del segnale, Lambeos si fiondò ai comandi della navetta. «La Keter ci risponde!» si emozionò.

   «Cosa dicono?» chiese Frola, sfregandosi nervosamente le mani.

   «Sono interessati a parlare, ma prima vogliono... spedirci il dottor Joe?!» si meravigliò il biologo.

   «Ah, ma certo» capì Frola. «Dopo quanto è successo, avranno problemi a fidarsi. Attiva gli olo-emettitori, così potremo ricevere il dottore».

   «Fatto» disse Lambeos. «Sto ricevendo la trasmissione... vedo di pulire il segnale». Il Voth armeggiò con i comandi. Dietro di lui, una sagoma umanoide apparve al centro della cabina e sfrigolò per qualche secondo, prima di stabilizzarsi.

   «Precisare la... oh, eccovi!» esclamò il Medico Olografico, riconoscendo i due Voth. «Vi prego, ditemi che non è una trappola. Ho rischiato tutto, per venire qui. Ho anche cancellato dalla mia memoria qualunque dato utile a rintracciare la Keter».

   «Si guardi intorno quanto vuole» disse Lambeos, girandosi con la seggiola. «Siamo solo io e la signora Gegen, su questa navicella».

   «Dottore! Mi dispiace tanto!» disse Frola, piangendo calde lacrime. «Se avessi immaginato questa tragedia, non avrei condotto il mio popolo alla Terra. Mi dispiace tanto... m-mi vergogno per ciò che vi abbiamo fatto!» disse, coprendosi il volto con le mani.

   «Non è colpa sua» la confortò Joe, dispiaciuto di vederla in quello stato. «Anche se lei e i suoi collaboratori aveste rinunciato alla ricerca, prima o poi qualcun altro se ne sarebbe occupato. È una questione che Umani e Voth dovevano affrontare».

   «Sì, ma non così!» disse Frola. «Almeno voi della Keter state bene?».

   «Ci sono stati... dissidi, come su tutte le navi» rispose l’MOE, senza entrare nei dettagli. «Ora stiamo cercando di raccapezzarci, ma la strada è tutta in salita. Apprezzeremo qualunque aiuto possiate darci» disse, speranzoso.

   «Possiamo trasmettervi il nostro database» disse Lambeos, incerto. «Non contiene informazioni dettagliate sugli armamenti, visto che non siamo militari; ma vi aiuterà a nascondervi dai nostri sensori. Oltre a questo, non so bene cosa potremmo fare. Se anche tornassimo in patria a perorare la vostra causa, otterremmo poco. L’Assemblea degli Anziani ha votato all’unanimità la Riconquista della Terra e sembra che anche l’opinione pubblica sia favorevole. Se parlassimo apertamente in vostra difesa, saremmo arrestati. E se lo facessimo di nascosto, passeranno molti anni prima di vedere qualche risultato».

   «Di questo dovrete discutere col Capitano Hod» disse il Medico Olografico. «Al momento è molto sospettosa, ma cercherò di convincerla ad accogliervi. Se poteste ritrasmettermi indietro assieme alle informazioni sui sensori, si convincerà che siete dalla nostra».

   Lambeos rigirò la poltroncina e mise mano ai comandi, ma subito dopo si bloccò.

   «Allora?!» lo spronò Frola.

   «Niente... spero solo che le autorità non ci scoprano» mormorò il biologo, ma iniziò a trasmettere.

   «A presto, allora» disse l’anziana Voth, stringendo la mano al dottore.

   «Non dovrei metterci molto. Vi prego di attendere a queste coordinate» disse lui. L’attimo dopo fu ritrasmesso.

   «È fatta» mormorò Lambeos, con le scaglie blu di paura. «Ora non si torna indietro».

   «Non siamo dei traditori» lo confortò Frola, posandogli una mano sulla spalla. «Stiamo solo aiutando dei perseguitati».

 

   Passarono un paio d’ore. Lambeos era quasi sempre ai comandi, mentre Frola era andata a riposare nella sezione posteriore della navetta. Il biologo molecolare immaginava che in quel momento i federali stessero analizzando i dati, per capire se potevano essere utili. In base a quello avrebbero deciso se fidarsi di loro. A un tratto i sensori captarono un condotto di cavitazione in avvicinamento. Il Voth si premette subito il comunicatore. «Dottoressa Gegen, è in arrivo una nave federale» avvertì. Lasciò la poltrona, preparandosi al teletrasporto. Frola lo raggiunse in pochi secondi.

   I due attesero col batticuore, finché una grande astronave apparve a poca distanza. La riconobbero: era proprio la Keter. Senza nemmeno contattarli, i federali li teletrasportarono a bordo e rientrarono subito in cavitazione, per sfuggire a eventuali trappole. Frola e Lambeos si trovarono sulla pedana di plancia della Keter. Jaylah e alcune guardie li tenevano sotto tiro coi phaser, mentre il dottor Joe attendeva più indietro, imbarazzato.

   «Eccovi qui» li accolse Hod, con duro cipiglio. «Scusate la fredda accoglienza, ma gli ultimi eventi ci hanno insegnato a non fidarci di nessuno. Se il dottor Joe non avesse garantito per voi, non vi avrei accolti».

   «Non deve scusarsi, Capitano. Dopo quello che avete passato, fate bene ad essere prudenti» disse Frola, dolente.

   «Se volete attendere in sala tattica, sarò da voi tra poco» disse l’Elaysiana.

   Il Medico Olografico accompagnò i Voth e restò ad aspettare con loro. Nel frattempo la Keter si riunì al resto della flottiglia, che era rimasta a distanza di sicurezza. Informati che tutto si era svolto senza incidenti, gli altri sette Capitani si teletrasportarono a bordo.

   «Bene arrivati» li accolse Hod. «I dottori Gegen e Lambeos ci attendono in sala tattica. Molti di voi saranno reticenti a discutere davanti a loro, e non vi nascondo che anch’io sono stata in dubbio. Ma credo che questi scienziati possano esserci utili. Se ci sono dei Voth contrari all’occupazione della Terra, non possiamo prescindere dalla loro collaborazione. Potrebbe essere la chiave per riconquistare il pianeta».

   «Vedremo» disse il Capitano della Fenghuang, poco convinto, ma la seguì in sala tattica con gli altri. Con loro vennero anche gli ufficiali superiori della Keter.

   Fatte le presentazioni, tutti presero posto attorno al tavolo. Vedendo che i federali la scrutavano con sospetto, se non con aperta ostilità, Frola volle subito chiarire la sua posizione. «Signori, io e Lambeos vogliamo aiutarvi, ma le nostre possibilità sono assai limitate. E d’altra parte non possiamo neanche mettere in pericolo la nostra gente» spiegò. «Vedete, molti Voth vedono il Mondo Perduto – intendo la Terra – come un luogo fatto su misura per loro, che aspetta solo di essere rioccupato. Non vi odiano; ma vi considerano degli occupanti abusivi che devono sloggiare».

   «Quando arriveranno i coloni?» chiese Jaylah. Il loro arrivo era uno spartiacque per qualunque tentativo di riconquistare il pianeta.

   «Non lo so di preciso» si cautelò la Voth. «Prima ci sono molti lavori da fare. Bisogna trasferire i Terrestri, dopo di che le città andranno rimodellate».

   «Rimodellate?» s’inquietò la mezza Andoriana.

   «Sì, adattate alle nostre esigenze» confermò Frola. «Non penserete che i coloni accettino di vivere nelle abitazioni confiscate ai Terrestri? Sarebbe avvilente come vivere in capanne di frasche. No, penso che case e grattacieli saranno demoliti, per far posto a ville più confortevoli».

   «Cioè intendete radere al suolo tutte le città della Terra?!» inorridì Jaylah.

   «Io personalmente non lo vorrei, ma... sì, questo è ciò che accadrà» sospirò la scienziata. «Solo i monumenti e i siti culturali più famosi hanno qualche speranza d’essere conservati. Ma non so chi ne farà la lista, e con quale criterio. Vedete, a noi serve spazio. La popolazione Voth ammonta a mille miliardi d’individui e tra questi ce ne sono almeno dieci miliardi pronti a trasferirsi appena possibile».

   Il nervosismo aleggiò nella sala. «Se arriva tutta quella gente, non ci vorrà molto prima che nascano i primi Voth sul suolo terrestre» commentò Joe a mezza voce. «A quel punto, come potremmo chiedergli di sloggiare? Si sentiranno Terrestri tanto quanto gli attuali abitanti».

   «Ormai il problema di chi occupa la Terra è diventato secondario» disse il Capitano della Fenghuang. «La principale minaccia da affrontare è il regime di Rangda».

   «Le due cose sono profondamente legate» disse Hod. «I Voth hanno bisogno di Rangda per legittimare la loro occupazione della Terra agli occhi delle altre specie. E la dittatrice ha bisogno dei Voth per rinsaldare il suo regime. Come minimo la sosterranno militarmente finché la flotta dei Pacificatori sarà pronta; e forse anche dopo».

   «Quindi come procediamo?» chiese l’Aldeano.

   «Non possiamo combattere sia i Voth che l’Unione... non con le armi convenzionali» sospirò Hod. «Ma questa guerra si combatte in primo luogo sul piano ideologico e propagandistico. È lì che finora Rangda è stata invincibile. Ed è lì che dobbiamo batterci, se vogliamo avere una speranza. Questa è una guerra di simboli».

 

   Era una giornata fredda e tersa sulle Black Hills, nel Dakota del Sud. Sebbene fosse novembre inoltrato, la foresta era verdeggiante, essendo formata in gran parte da conifere. Gli abeti si arrampicavano sul massiccio montuoso, prima folti, poi più radi con l’aumentare dell’altitudine. Dove cominciava la pietraia, il monte era avvolto da un campo di forza opalescente; dall’interno veniva il rumore dei raggi rimodellanti. Dal suo punto d’osservazione alla base della montagna, l’Ammiraglio Hadron ingannava l’attesa osservando la foresta.

   «Le piace il Nord America?» chiese Rangda, accostandosi al Voth.

   «Sì, molto» rispose lui, inspirando a pieni polmoni l’aria ricca d’ossigeno della foresta. «Questa è proprio la parte del mondo in cui vissero i nostri antenati, anche se allora le Colline Nere e tutte le Montagne Rocciose avevano appena cominciato a sollevarsi».

   «Già... dimentico sempre quanto siete antichi» ammise la Zakdorn, un po’ invidiosa. «Mi dica, ha notizie della Keter?».

   «Non ancora» disse Hadron. «Secondo me, dà troppa importanza a quella nave. Non ha cambiato le sorti della battaglia e non cambierà le cose adesso. Comunque non ha senso cacciare le navi ribelli una ad una. Aspettiamo che tornino a radunarsi e poi le spazzeremo via in un solo colpo» consigliò.

   «Quelle navi sono pericolose, anche da sole o in piccoli gruppi» avvertì Rangda. «Sto dislocando le navi lealiste a protezione dei pianeti chiave, ma apprezzerei il vostro supporto. Ci vorrà tempo per organizzare i Pacificatori e intanto non posso lasciare che l’Unione si sfaldi».

   «Hm-hm, si può fare» disse bonariamente Hadron. «In cambio di un compenso, s’intende. Ci sono un paio di pianeti minerari, in questo settore, che potrebbero interessarci». Adocchiata una grossa mosca che gli ronzava a poca distanza, il Voth proiettò in avanti la lingua da camaleonte e se la pappò.

   Il movimento improvviso spaventò la Presidente, che indietreggiò. Subito dopo Rangda distolse lo sguardo, nauseata da quel pasto poco igienico. «Ne discuteremo una volta tornati ad Atlantide» disse. Pur avendo bisogno dei Voth in quella fase delicata, non voleva rafforzare troppo la loro presenza. Per cambiare argomento, la Zakdorn accennò alla montagna. «Allora, come procedono i lavori?» chiese.

   «Ormai dovrebbero essere finiti» disse l’Ammiraglio. In effetti il ronzio dei raggi era cessato. C’era del movimento intorno al monte: alcune navette uscirono dalla zona cinta dal campo di forza e se ne andarono, portando via le macchine intagliatrici. Infine la barriera d’energia fu disattivata, rivelando la nuova fisionomia del Monte Rushmore.

   I volti di George Washington, Thomas Jefferson, Theodore Roosevelt e Abraham Lincoln erano stati completamente alterati. Lo stesso era accaduto al quinto viso, quello della presidente Sarah Eckert, che aveva guidato gli Stati Uniti dopo la Terza Guerra Mondiale. Al loro posto c’erano le facce di cinque leader Voth, con la pelle scagliosa riprodotta fin nei minimi dettagli. Gli occhi solenni erano leggermente rivolti verso il basso, come a contemplare il pianeta appena tornato in mano ai sauri.

   «Oh, sono splendidi!» commentò Rangda. «Molto meglio di quelle rozze sculture umane».

   «Raffigurano grandi legislatori del nostro passato» spiegò Hadron, ammirando soddisfatto le sculture monumentali. «Sono conosciuti e riveriti su centinaia di mondi, al contrario di quei presidenti di una dimenticata nazione Umana. A proposito, sa come si chiamavano?».

   «Quelli che erano ritratti qui? Non ne ho idea» disse la Zakdorn. «Non so nemmeno come si chiamasse la loro nazione primitiva. La Storia umana non mi è mai interessata».

 

   «In questo momento, l’unica percezione che i cittadini hanno degli eventi è filtrata dalla propaganda di Rangda» proseguì il Capitano Hod. «Dobbiamo raccontare la nostra versione dei fatti. Diffonderemo sull’Olonet un messaggio che racconti cos’è accaduto realmente e lo comproveremo con le registrazioni della battaglia. Così mostreremo che la Presidente ha mentito».

   «Qualunque dato carichiamo, Rangda potrà sempre dire che è falso» obiettò il Capitano della Fenghuang.

   «Lo farà senz’altro, e molti le crederanno» ammise Hod. «Ma tanti altri cominceranno a farsi domande, a cercare informazioni per conto proprio, e non saranno più così pronti a bersi tutto quello che gli viene propinato».

   «L’efficacia del messaggio sarà direttamente proporzionale alla sua fruibilità da parte del pubblico generico» commentò Dib. «Per raggiungere una percentuale significativa della popolazione, dobbiamo diffonderlo sui principali siti governativi o dei mass media».

   «Fantastico, diventiamo hacker!» ridacchiò Vrel.

   «Ci sono molti livelli di sicurezza da superare, per accedere a quei siti» avvertì il Penumbrano. «Inoltre dopo la Caduta della Terra gli algoritmi Olonet sono stati cambiati, per impedire di caricare nuovi contenuti sui siti istituzionali. Ora è possibile farlo solo da un ristretto numero di Hub informatici, quali sedi governative e centri di ricerca. Sulla Terra, ad esempio, ci sono tre Hub. Due sono ad Atlantide, presso il Senato e il Comando di Flotta; il terzo è a Okinawa, presso l’Istituto Daystrom. Gli altri pianeti di solito possiedono un solo Hub. Quello di Vulcano, ad esempio, si trova presso l’Accademia delle Scienze».

   «A Okinawa potremmo avere un alleato» intervenne Jaylah. «Mi risulta che Terry, la precedente Intelligenza Artificiale dell’Enterprise, viva lì da quando ha lasciato la Flotta. Di certo vorrà aiutarci, dopo aver visto distruggere la sua nave!».

   «Ma la Terra è in mano ai Voth e ai lealisti» obiettò il Capitano. «Per quanto lei sia esperta d’infiltrazioni, Tenente, non posso autorizzare una missione nella tana del lupo. Tra l’altro è probabile che Terry sia presto sfollata con gli altri Terrestri».

   «C’è un’altra possibilità» disse Vrel. «Se non sbaglio, c’è un grosso Hub anche a Memory Alpha».

   «Due, veramente» precisò Dib. «Uno appartiene agli Enciclopedisti; l’altro è nella sede del Federal News».

   «Ottimo! Mia sorella Lyra lavora per il News, possiamo chiederle aiuto!» propose il timoniere.

   I Capitani delle altre navi s’interessarono alla proposta, ma i colleghi della Keter assunsero un’aria preoccupata. Alcuni fissarono il tavolo, altri si scambiarono brevi occhiate.

   «Beh, che problema c’è?!» si stupì Vrel, passando lo sguardo da uno all’altro. «È l’occasione perfetta! Possiamo contare su un’alleata che conosce il posto e ci faciliterà le cose» sostenne.

   «È proprio l’alleata, il problema» disse finalmente Jaylah, alzando gli occhi su di lui. «Lyra è sempre stata una fervente sostenitrice di Rangda. Ad esempio ha appoggiato senza riserve l’abolizione della Prima Direttiva. Come sappiamo che non parteggia ancora per la Presidente?».

   Vrel la fissò ammutolito, chiedendosi se aveva davvero sentito quelle parole. «Ma come ti salta in mente?! Mi meraviglio di te!» protestò. «Ciò che ha fatto Rangda è imperdonabile. Mia sorella avrà di certo aperto gli occhi».

   «Non è quello che fanno di solito le persone con forti idee politiche» insisté Jaylah. «Quando un dato urta con la loro ideologia, tipicamente lo ignorano o gli trovano delle giustificazioni. Ascolta, io vorrei tanto credere che tua sorella sia dalla nostra. Ma considerando come si è comportata quando è stata qui... non c’è nulla che me lo faccia pensare» disse chiaro e tondo.

   «Io e Lyra abbiamo discusso sulla Prima Direttiva» concesse Vrel. «Ma questa è una situazione completamente diversa! Lyra si è sempre preoccupata per i popoli in difficoltà; per questo era favorevole all’Abolizione. Ora che ad essere scacciati dal loro mondo sono gli Umani, si preoccuperà per loro. È la logica!».

   «Tu e tua sorella siete Vulcaniani solo per un quarto» commentò Zafreen, che condivideva la preoccupazione di Jaylah. «Non prendertela, ma... nessuno di voi è mai stato un grande seguace della logica. Siete entrambi impulsivi e fate ciò che vi detta il cuore».

   «Anche se Lyra credesse alle menzogne di Rangda, non ci tradirebbe mai» disse il timoniere, fermamente convinto. «Fatemi parlare con lei! Se non vorrà aiutarci, per timore o per divergenze politiche, me lo dirà in faccia e la cosa finirà lì. Ma non ci venderà al nemico, sapendo che saremmo arrestati o uccisi».

   «Ne è assolutamente certo?» chiese Hod, fissandolo con gravità.

   «Non sono mai stato così certo in vita mia» dichiarò Vrel, sostenendo fieramente lo sguardo del Capitano.

   «E sia» decise l’Elaysiana. «Dib, Zafreen, aiutate Vrel a contattare Lyra su un canale protetto. Se sarà disponibile ad aiutarci, procederemo a Memory Alpha».

   «Sì, Capitano» disse l’Ingegnere Capo. Ma Zafreen scambiò con Jaylah uno sguardo preoccupato. Avrebbero preferito attaccare un qualunque altro Hub, fosse pure sulla Terra, piuttosto che mettersi nelle mani di Lyra.

 

   Dib, Vrel e Zafreen si recarono nella sala comunicazioni ausiliaria della Keter. Il loro compito era delicatissimo: dovevano contattare Lyra, che viveva su uno dei maggiori snodi informatici dell’Unione, senza essere intercettati. Dib sedette alla postazione, iniziando a lavorare con la velocità e la precisione di cui solo i Penumbrani erano capaci. Gli altri due gli stettero accanto, dandogli suggerimenti.

   «Criptare il segnale non basta» disse Vrel. «Prova a nasconderlo nel rumore di fondo della pulsar più vicina».

   «Fatto; ho inserito la cifratura» disse Dib. «Per decrittarla, Lyra non dovrà fare altro che estrarre gli elementi iconometrici e triassiare la matrice di recursione».

   «Non ho la minima idea di cos’hai detto» commentò il timoniere. «E credo che non lo sappia neanche Lyra. È una giornalista, non un tecnico informatico».

   «Mettici una password, qualcosa che solo tu e Lyra conoscete» suggerì Zafreen.

   Il timoniere seguì il consiglio. Prima di salutarsi, un anno e mezzo prima, lui e sua sorella avevano concordato una parola d’ordine con cui riconoscersi in caso d’emergenza: Pyris VII, il nome del pianeta su cui avevano rischiato la vita. Il timoniere sperò che, ricevendo una chiamata da fonte sconosciuta, sua sorella intuisse che era lui.

   Quando Vrel ebbe finito, Dib inserì gli ultimi codici. «Per ragioni di sicurezza, suggerisco di non prolungare la trasmissione per più di cinque minuti» raccomandò. «Se saranno insufficienti a istruire Lyra, la contatteremo altre volte». Così dicendo l’Ingegnere Capo iniziò a trasmettere.

   «Avanti, rispondi!» fece Vrel, sudando freddo. Ogni secondo aumentava il rischio d’essere intercettati. Avevano avuto l’accortezza di chiamarla fuori dal suo orario di lavoro, quando per lei era sera tardi e quindi avrebbe dovuto essere in casa. Ma c’era pur sempre la possibilità che fosse distratta.

   «Magari sta facendo la doccia sonica» commentò Zafreen.

   «Sempre che non le sia successo qualcosa» disse Vrel, con un nodo allo stomaco. Non aveva scordato che i parenti dei ribelli erano stati interrogati dalla polizia. Doveva essere successo anche a Lyra; se aveva dato in escandescenze...

   L’oloschermo si attivò, mostrando il viso ansioso della mezza Xindi. Era nel suo appartamento, con le luci basse; forse l’avevano svegliata. «Vrel!» esclamò, con la voce rotta dall’emozione. «Sei proprio tu! Ero così in pena... non sapevo nemmeno se eri vivo!».

   «Sono vivo e vegeto, sorellina» la tranquillizzò il timoniere. «Anche gli amici della Keter stanno bene». Mentre parlava, Zafreen entrò nell’inquadratura e salutò Lyra con la mano, senza troppo entusiasmo.

   «Ci siete tutti? Ma dove siete?» chiese subito la cronista.

   «Siamo sempre sulla nave, in fuga. Come puoi immaginare non è un bel momento» si rabbuiò il timoniere. «Tu piuttosto, come stai? La polizia ti ha interrogata?».

   «Sì, il primo giorno dopo la battaglia» sbuffò Lyra. «Mi hanno tenuta dentro per ore, facendomi domande su te, mamma e papà. Volevano sapere se eravamo in contatto e come potevano trovarvi. Ovviamente non ho detto nulla. Non temere, non mi hanno minacciata. E se in futuro mi costringessero alla Fusione Mentale, non so nulla che possa compromettervi».

   «Quindi non sai cos’è successo a mamma e papà?» indagò Vrel, rassicurato per lei, ma in ansia per i genitori.

   «Macché! Loro non mi hanno contattata e nemmeno io ho osato chiamarli» confermò la mezza Xindi. «Speravo che ne sapessi qualcosa tu».

   «Non siamo ancora riusciti a trovare tutte le navi che stanno dalla nostra» spiegò il timoniere. «Ascolta, non ti ho chiamata solo per sapere come stai. Dato il tuo lavoro, suppongo che tu sappia cos’è accaduto nel sistema solare...».

   «So tutto» confermò la cronista, con sguardo cupo. «La fine dell’Enterprise, lo scontro nella Flotta e ora l’occupazione Voth. Sembra di vivere in un programma dell’orrore».

   «Rangda ha mentito» disse subito Vrel. «Non c’è stato alcun golpe della Flotta. É lei che ha preso il potere! Ha aspettato che avessimo la vittoria in pugno e poi ci ha ordinato di consegnare la Terra ai Voth. Sapeva che molti si sarebbero ribellati, anche perché l’Ammiraglio Chase ci aveva ordinato di proteggere la Terra ad ogni costo. Ma su molte astronavi le IA hanno preso il controllo e le hanno obbedito. Anche certi ufficiali purtroppo sono dalla sua... stupidi burattini!» inveì.

   «Avevi ragione su Rangda. Si riempie la bocca di belle parole, ma in realtà è un mostro. Sono stata sciocca a non capirlo prima» disse Lyra con amarezza. «Ora che possiamo fare? Perché mi hai chiamata?».

   «Perché ci occorre il tuo aiuto. Non vorrei metterti in pericolo, ma... la situazione è veramente disperata. Sei pronta a fare la tua parte?» chiese il timoniere.

   «E come non potrei? Sarò sempre con te, fratellone. Dimmi solo cosa fare!» si offrì prontamente Lyra.

   «Dobbiamo far sapere alla gente cos’è accaduto davvero. Quindi pubblicheremo i dati dei nostri sensori sull’Olonet» spiegò Vrel.

   «Vi servirà uno Hub» avvertì Lyra. «Qui al Federal News ne abbiamo uno».

   «Sì, ci permetterà di caricare i dati sul vostro sito» confermò il timoniere. «Preparati; fra poco farete lo scoop del secolo!» aggiunse con truce soddisfazione.

   «Uhm... ti aiuterei volentieri, ma c’è un problema» si rabbuiò la mezza Xindi. «Con le nuove procedure di sicurezza, quando scrivo un articolo non posso più postarlo direttamente sul sito. Devo spedirlo ai tecnici informatici, e sono loro a caricarlo».

   «Tranquilla, non ti avrei chiesto di farlo da sola» la rassicurò Vrel. «Anche perché se ti spedissimo così tanti dati, attireremmo certamente l’attenzione dei controllori. Quindi verremo da te, portando i dati su un supporto. Sarà un’operazione stealth: raggiungeremo un terminale e caricheremo tutto da lì. Ma sarà molto più facile, se ci preparerai il terreno e ci guiderai una volta arrivati».

   «Contate su di me» annuì Lyra. «Spero solo che abbiate un piano d’estrazione. Appena caricherete i dati, squilleranno gli allarmi».

   «A missione compiuta, la Keter ci porterà via» confermò il timoniere.

   «Fate molta attenzione. Ci sono dieci navi lealiste in orbita e potrebbero arrivarne altre» avvertì la cronista. «C’è anche una Nave Bastione dei Voth».

   «Una Nave Bastione?!» sobbalzò Vrel. «Questo è un problema. Ma per adesso il piano non cambia».

   «Tenente, stiamo per esaurire il tempo» avvertì Dib.

   «Devo lasciarti o qualcuno potrebbe intercettarci» disse in fretta il timoniere. «Va bene se ti richiamo domani a quest’ora?».

   «Certo» confermò Lyra. «A presto, ti voglio bene. Salutami gli altri» disse, subito prima che Dib chiudesse la comunicazione.

 

   Vrel riferì subito ai colleghi che sua sorella era pronta ad aiutarli. Jaylah rimase in silenzio, anche quando il timoniere riferì l’avviso riguardo la Nave Bastione. Una sonda della Keter, inviata nei pressi del planetoide, confermò la soffiata.

   Il giorno dopo gli ufficiali tornarono a riunirsi. Anche stavolta furono convocati i Capitani alleati, così come i due Voth.

   «La Nave Bastione è un grosso ostacolo» disse Hod. «Ci servirà tutta la flottiglia per affrontarla, e forse non basterà. Potremmo creare un diversivo, ma nessuno ci assicurerebbe che siano proprio i Voth ad allontanarsi».

   «A questo punto dobbiamo organizzare una missione interamente stealth, compreso il rientro» disse Jaylah.

   «Ehm, se il problema è la Nave Bastione, forse posso aiutarvi» intervenne Frola.

   «E come?» chiese il Capitano.

   «Potrei salire a bordo e sabotarla» propose la Voth, destando lo stupore generale.

   «No, è troppo pericoloso!» insorse il dottor Joe, ma Hod gli fece segno di aspettare.

   «Non intendo trasformarmi in commando» disse l’anziana Voth, ironica. «Userò un virus informatico per disabilitare l’astronave. Voi però dovete promettermi che non ne approfitterete per distruggerla. Ogni Nave Bastione ha un equipaggio di 10.000 persone».

   «Signora Gegen, la sua proposta è... coraggiosissima» disse il Capitano, con tatto. «Ma non posso farle correre un tale rischio. Sarebbe sola contro i militari».

   «Non sarà sola; io l’accompagnerò» si offrì Lambeos.

   «Sarete pur sempre due contro diecimila!» esclamò Joe.

   «I nostri vascelli sono diversi dai vostri» spiegò Frola. «Non ci sono tante procedure di sicurezza, perché è passato un tempo immemorabile dall’ultima volta che abbiamo avuto scontri tra Voth. Le rare volte che accogliamo ospiti alieni, alziamo la guardia; ma di regola non ci sono molti controlli. Possiamo farcela» sostenne.

   «Quando gli scudi saranno disattivati, ci teletrasporterete» aggiunse Lambeos.

   Il Capitano li osservò incredula. Non sapeva se ringraziarli per il loro coraggio, o dar loro dei pazzi, o temere un tradimento. «Le Navi Bastione sono vascelli militari e voi siete dei civili. Come salirete a bordo?» chiese.

   «Essere un simbolo vivente apre molte porte» disse Frola, con una buona dose di auto-ironia. «Quando le autorità cercavano la Terra, ero famosissima. Poi, quando hanno deciso di occuparla e io mi sono opposta, mi hanno silenziata. Se ora torno da loro, fingendomi pentita e offrendomi di parlare a favore della Riconquista, mi accoglieranno a braccia aperte. Memory Alpha è la sede dei mass media federali, quindi non ci sarà nulla di strano se vado lì».

   «Sarete sorvegliati» disse il Medico Olografico, che non perdeva occasione per ribadire la sua contrarietà.

   «Creeremo un diversivo. Basteranno pochi secondi per immettere il virus» sostenne Lambeos.

   «Mettiamo che le cose vadano male e la Nave Bastione mantenga gli scudi alzati» disse il Capitano. «Noi potremo fuggire, ma che accadrà a voi?».

   Frola e Lambeos si scambiarono un’occhiata. «Nulla di piacevole» sospirò l’anziana. «Ma la notizia potrebbe indurre altri a riflettere sulla nostra politica e a manifestare dissenso. No, mi lasci finire» disse, vedendo che l’Elaysiana stava per parlare. «Pochi giorni fa, cinquantamila Voth sono morti per derubarvi della Terra. Lasciate che almeno due di noi rischino la vita per aiutarvi».

   I federali considerarono le sue parole con un misto di speranza e timore. Solo Joe era del tutto contrario e avrebbe voluto parlare ancora, ma Ladya gli sfiorò il braccio, inducendolo a trattenersi.

   «Capitano, non per fare il menagramo, ma ci siamo fidati già una volta dei Voth e abbiamo visto il risultato» disse Norrin.

   «Crede che vogliamo ingannarvi?!» s’indignò Lambeos.

   «Non farei il mio lavoro, se non considerassi quest’eventualità» rimbeccò l’Hirogeno. «Ma anche se foste sinceri, potreste fallire; e noi finiremmo comunque nei guai».

   Hod rifletté a fondo. Affidarsi ai Voth la preoccupava ancor più che affidarsi a Lyra, ma non vedeva alternative. Il nemico era troppo forte per affrontarlo apertamente. Senza degli infiltrati che li aiutassero, nello spazio e a terra, non sarebbero mai riusciti nel loro intento. «Dib, può creare un virus informatico capace di disabilitare la nave Voth?» chiese.

   «Sarebbe una sfida... interessante» rispose il Penumbrano. «Dovrei recuperare la navetta dei nostri ospiti e studiarne il computer, per capire come intervenire».

   «Lo faccia» ordinò il Capitano. A queste parole il dottor Joe scosse la testa, ma non disse altro. Sapeva che non le avrebbe fatto cambiare idea.

   «Quindi accetta la mia proposta?» chiese Frola.

   «L’accetto» disse Hod con gravità. «Se riuscirete a disabilitare la Nave Bastione, vi prometto che non le spareremo un colpo. E vi riprenderemo a bordo quanto prima».

   «E nella malaugurata ipotesi in cui la Nave Bastione resti attiva, come ce la caveremo?» chiese il Capitano della Fenghuang.

   «Ci servirà la potenza di fuoco di tutta la flottiglia» rispose il Capitano.

   «È un grosso rischio. Se va male, perderemo tutto» notò Jaylah. «Preferirei fare una missione stealth, senza contare sul vostro aiuto per uscire».

   «E io l’autorizzerei, ma qui non si tratta solo di diffondere un messaggio sull’Olonet» spiegò Hod. «Stando alle intercettazioni della sonda, sulle navi lealiste ci sono centinaia di ribelli ancora imprigionati. Dobbiamo liberarli, prima che li portino in qualche centro di detenzione. Così risolveremo i nostri problemi di organico».

   «Vuole organizzare un’evasione di massa?» chiese un altro dei Capitani.

   «Sì, e voglio dimostrare ai cosiddetti lealisti che non siamo dei briganti» confermò il Capitano, ancora risentita dalle ultime parole di Radek. «Siamo la Flotta Stellare: possiamo affrontarli a viso aperto e vincere. Questo rincuorerà gli altri ribelli sparpagliati e li incoraggerà ad unirsi a noi. Altrimenti c’è davvero il rischio che si sbandino, diventando pirati. Dunque la missione avrà entrambi gli obiettivi: liberare i prigionieri sulle navi e diffondere il messaggio. Se ne conseguiremo anche uno solo, potremo dirci soddisfatti».

 

   Quella sera Vrel contattò nuovamente Lyra, per riferirle i dettagli del piano. Stavolta con lui c’erano Jaylah e Hod. Aveva appena inviato il segnale che subito sua sorella rispose; evidentemente era in attesa. «Ciao, sorellina. Tutto a posto?» chiese il timoniere, appena la vide.

   «Sì, e voi?».

   «Ci stiamo attrezzando. Ascolta, anche stavolta non ho molto tempo, quindi ti dirò esattamente cosa fare per prepararci il terreno» disse Vrel. La istruì con poche frasi ben calibrate, che si era preparato per accertarsi di non tralasciare nulla.

   «È tutto chiaro» disse infine Lyra. «E cosa contate di fare per la Nave Bastione?».

   «Abbiamo preso provvedimenti» rispose Hod, prima che potesse farlo il timoniere. «Lei non si preoccupi; si concentri solo sulla sua parte del piano».

   «Come vuole» disse la cronista, un po’ delusa. «Seguirò le istruzioni a puntino, ma in cambio dovete farmi due promesse».

   «Sentiamo» disse Vrel.

   «La prima è: a missione finita, portatemi con voi!» disse Lyra. «Ormai ho paura a stare qui, in mezzo a questi fanatici che difendono a spada tratta l’operato di Rangda. Mi sento sempre il fiato sul collo; ogni volta che apro bocca devo stare attenta a ciò che dico. E poi, se vi aiuto, la polizia non tarderà a scoprirlo».

   «Ci puoi scommettere che ti tireremo fuori!» promise Vrel. «L’avremmo fatto in ogni caso. E l’altra richiesta qual è?».

   «Quando manderete la squadra, vorrei che ci fossi anche tu» disse la sorella.

   «Vrel è il nostro miglior timoniere. Ci servirà nello spazio, quando dovremo combattere» obiettò il Capitano.

   «Non temere, verrò io» promise Jaylah.

   «No! Voglio Vrel» insisté la mezza Xindi. «Ti prego, fratellone, vieni a prendermi. Ho bisogno di te» disse, mentre una lacrima le scendeva sulla guancia.

   Vrel avrebbe voluto asciugargliela, come aveva fatto talvolta quando erano bambini. Non poté impedire alla sua mano di sfiorare l’oloschermo. «Tranquilla, sorellina. Certo che ci sarò» promise, pur sapendo di contrariare il Capitano.

   «Grazie!» sorrise Lyra, confortata. «A presto, allora».

   «Sì, a presto» disse Jaylah, non altrettanto amichevole, e chiuse il canale.

   «Non doveva prometterglielo» lo rimproverò Hod. «Lei ci serve qui!».

   «Capitano, ho sempre rispettato i miei doveri verso la Flotta» rivendicò il timoniere. «Ma ho dei doveri anche verso la mia famiglia. Se mia sorella chiede che l’aiuti in quella che effettivamente è una missione ad alto rischio, non posso sottrarmi. Lei non farebbe di tutto, per salvare suo fratello?».

   «Le avrei risposto di sì... prima che scoppiasse questo conflitto» s’incupì il Capitano. «Ora non sono più tanto sicura. Questa missione ha la precedenza su tutto, è chiaro? Se le ordinassi di restare...».

   «Non lo faccia, la prego. Non mi costringa a scegliere tra i due doveri più importanti che ho!» la pregò il timoniere. Nemmeno lui sapeva cos’avrebbe fatto, in quel caso.

   «E va bene» si arrese il Capitano. «Siamo tutti sotto pressione; non voglio aggiungerne dell’altra. Ma stia molto attento, quando scenderà laggiù».

 

   «È permesso?» chiese Frola, entrando nel laboratorio informatico della Keter. I tecnici stavano organizzando i diari dei sensori delle navi ribelli in un database di facile lettura, così che i cittadini potessero consultarli. Anche il Capitano collaborava, per accertarsi che i lettori capissero le conseguenze disastrose dell’ordine di Rangda.

   «Si accomodi» l’accolse Hod, alzando la testa dalla consolle. «Stiamo organizzando il database; ha qualche suggerimento?».

   «Se ben ricordo, voleva allegare un suo messaggio introduttivo» disse la Voth, accostandosi.

   «Sì, ma non l’ho ancora registrato» confermò il Capitano.

   «Posso affiancarle un mio messaggio?» chiese Frola. «Se lei parlerà ai federali, io vorrei rivolgermi ai Voth. Se diremo entrambe che la Riconquista della Terra è sbagliata, sarà più convincente».

   «È certa di volerci mettere la faccia? Questo le inimicherà ancora di più le sue autorità» avvertì Hod.

   «Oh, dopo questa bravata non mi aspetto di fare più ritorno al mio popolo» disse la Voth, rassegnata. «Se devo andarmene in esilio, vorrei almeno che il mio ultimo discorso risuonasse forte e chiaro».

   «Come vuole» acconsentì il Capitano. «Registri il suo discorso; lo aggiungeremo al mio. Anzi, potremmo registrarli assieme. Parleremo fianco a fianco» suggerì.

   «Ottima idea!» approvò Frola. «Vorrei tanto vedere la faccia di Hadron, quando gliele canteremo chiare».

 

   Due giorni dopo, Dib consegnò il virus informatico agli ospiti Voth. Lo aveva scaricato in un’unità di memoria che loro stessi gli avevano fornito, dalla loro navetta. «Questo disabiliterà i sistemi della Nave Bastione, ma considerando la potenza dei vostri computer, non credo che l’effetto sarà lungo» avvertì.

   «Ricordate d’inserirlo esattamente all’ora prefissata» raccomandò Hod. «Nello stesso momento, la squadra a terra caricherà il nostro messaggio sul sito del News. A quel punto verremo con la flotta a prelevarvi».

   «Ci conto» disse Lambeos, prendendo l’unità di memoria. «Non potremo restare coi nostri simili, dopo avergli giocato questo tiro».

   «Vi tireremo fuori dalla Nave Bastione» promise il Capitano.

   «E il vostro database, è pronto?» chiese il biologo.

   «Sì; abbiamo organizzato i dati in modo che siano di facile consultazione» spiegò il Capitano. «Spero che la gente si prenda la briga di esaminarli, o almeno di ascoltare il nostro messaggio» disse, scambiando un’occhiata con Frola.

   Lasciato il laboratorio d’informatica, il Capitano accompagnò i Voth in sala teletrasporto. Il dottor Joe era lì, per salutarli. «Può darci un momento?» chiese.

   «Certo» acconsentì Hod. «Grazie per l’aiuto, e buona fortuna» disse ai sauri. Dopo aver stretto loro la mano, si ritirò assieme all’addetto del teletrasporto.

   Rimasto solo con i Voth, il Medico Olografico si congedò dapprima da Lambeos. «Se un giorno ci sarà davvero la pace, sarà grazie al vostro coraggio» disse, stringendogli la mano.

   «Lo spero» disse il biologo, salendo sulla pedana. «Addio, dottore» salutò, senza aspettare che Frola gli si affiancasse. Aveva intuito che Joe voleva parlarle da solo.

   Il Medico Olografico trasferì il Voth sulla sua navicella. Finalmente rimase solo con Frola, che lo osservava con i vecchi occhi saggi.

   «Hai paura» notò la paleontologa. «Non negarlo... ormai ti conosco troppo bene».

   «Temo per te e Lambeos» confermò Joe, accostandosi. «Non dovevate offrirvi per una missione così pericolosa. Se vi succedesse qualcosa...».

   «È una nostra scelta» chiarì Frola. «Tu e gli altri non ne siete responsabili. Quindi, se accadesse una disgrazia, non prendertela né con te stesso, né con loro».

   «Dovevamo trovare un altro modo» insisté il Medico Olografico.

   «Non c’è un altro modo» sospirò la Voth. «Come ha detto il tuo Capitano, questa è una guerra di simboli. Io, che mi piaccia o no, sono un simbolo. Quindi devo fare la mia parte».

   «Gli altri forse vedranno in te un simbolo, ma io vedo solo un’amica» rivelò il dottore.

   «Il solito galante!» rise l’anziana Voth. «Io e te abbiamo attraversato la Galassia e varcato i secoli, prima di rivederci. Ed è sempre stata la Terra a farci incontrare. Quel pianeta ha davvero qualcosa di speciale». Così dicendo, Frola trasse di tasca il vecchio globo terrestre donato da Chakotay a suo padre. «Vorrei che lo tenessi tu» disse offrendoglielo.

   Il Medico Olografico lo accettò controvoglia, tanto che la Voth dovette chiudergli le dita attorno al globo. «Te lo restituirò al tuo ritorno» mormorò il dottore.

   Sembrava già che Frola dovesse salire sulla pedana. Invece lei e Joe si riavvicinarono e si abbracciarono. Restarono a lungo così, in silenzio, confortandosi a vicenda. Infine si separarono. La paleontologa salì sulla pedana, mentre il dottore andò ai comandi.

   «Un giorno, federali e Voth saranno in pace» predisse Frola.

   «Sì, un giorno» convenne Joe, con un sorriso agrodolce. «Occhi aperti».

   «Occhi aperti!» ripeté Frola, e svanì nel raggio teletrasporto.

   Tornati sulla loro navicella, i due Voth fecero rotta per la Nave Fortezza, che si trovava ancora presso la Terra. Da lì avrebbero cercato una scusa per salire sulla Nave Bastione posta a guardia di Memory Alpha.

   «Si sente bene?» chiese Lambeos, vedendo che la collega aveva gli occhi lucidi.

   «Sì» sospirò Frola, dando un’ultima occhiata alla Keter. «Ho solo detto addio a un vecchio amico».

 

   A velocità di transcurvatura bastarono poche ore per raggiungere la Terra. Lambeos diresse la navicella verso la Nave Fortezza, inviando un segnale di riconoscimento. Giunto a 100 km, disattivò i motori e lasciò che il raggio traente dell’astronave li portasse dentro. «Ci siamo, ora non si torna indietro» mormorò, mentre la navicella era attirata in un hangar secondario, di piccole dimensioni.

   «Lascia parlare me» disse Frola, lasciando la sedia del copilota. Il collega la seguì dappresso. Sbarcati nell’hangar, i due trovarono un’accoglienza di tutto rispetto. L’Ammiraglio Hadron era lì a riceverli, con decine di ufficiali.

   «Bentornati» li accolse l’Ammiraglio. «Quando ve ne siete andati all’improvviso, abbiamo temuto che tornaste a casa per conto vostro. Sarebbe stato un viaggio pericoloso, per due sole persone».

   «Pensavo di non aver più nulla da fare, qui» disse Frola con voce ruvida. «Ma il dottor Lambeos mi ha convinta a tornare. Voglio essere franca, Ammiraglio: sul piano personale, continuo a disapprovare la Riconquista della Terra. Tuttavia, ora che è un fatto compiuto, bisogna ridurre al minimo la violenza. Quindi parlerò ai federali, per esortarli ad accettare la situazione».

   «Bene; vedo che ha riacquistato la ragionevolezza» disse Hadron. «Mi creda: la sua voce sarà preziosa, in questa delicata fase. Noi siamo militari, per cui gli abitanti dell’Unione ci guardano con sospetto. Ma se lei, una scienziata, dirà le stesse cose, l’ascolteranno più volentieri. Le faremo avere al più presto i testi dei suoi discorsi. Se vuol fare delle correzioni, si senta pure libera; ma dovrà sottoporceli per la convalida, prima di pronunciarli».

   «Certo» disse l’anziana Voth, reprimendo lo sdegno. «Ma se permette, ora vorrei ritirarmi nel mio alloggio. Questo viaggio mi ha molto stancata. Alla mia età, ci vuol poco per debilitarsi» disse, vacillando volutamente. Lambeos si affrettò a sorreggerla.

   «Si prenda il tempo che le serve» concesse Hadron. «Invece vorrei parlare con lei quanto prima» si rivolse allo scienziato più giovane.

   «Riguardo a cosa?» s’inquietò Lambeos.

   «Sto per mandare indietro una nave scientifica, per riferire agli Anziani il successo dell’operazione e chiedere che ci mandino delle navi trasporto» spiegò l’Ammiraglio. «Vorrei che lei facesse da portavoce».

   Le scaglie di Lambeos si tinsero di blu, il colore della paura. «Io? M-ma non credo di essere all’altezza...» balbettò, non volendo abbandonare Frola.

   «E chi, sennò? Lei ha diretto la squadra di genetisti che ha accertato la nostra origine terrestre» ricordò Hadron. «Questo fa di lei la persona ideale per riferire la vittoria. Basterà che faccia un discorso introduttivo, poi saranno i miei collaboratori a esporre l’accordo con l’Unione».

   «Io... non vorrei lasciare la dottoressa Gegen...» mormorò il biologo molecolare.

   «Non dire sciocchezze» lo rimproverò Frola, scostandosi da lui. «Io starò benissimo, non preoccuparti per me. Vai, sarà un grande traguardo per la tua carriera» disse, lanciandogli un’occhiata penetrante.

   Lambeos capì di non avere scelta. Se avesse continuato ad accampare scuse, l’Ammiraglio si sarebbe insospettito e li avrebbe fatti sorvegliare. Se poi avesse ordinato di perquisirli, sarebbe saltata fuori l’unità di memoria con il virus informatico; e quella sarebbe stata la fine.

   «La ringrazio per l’alto onore che mi concede, Ammiraglio» disse il biologo molecolare. Dopo di che si rivolse a Frola. «Sembra che le nostre strade si dividano. Si riguardi, dottoressa Gegen. Spero di rivederla quanto prima» si augurò.

   «Buona fortuna, figliolo» disse l’anziana Voth, con uno sguardo che sapeva di congedo definitivo. «Sei stato un prezioso collaboratore. Mi aspetto ancora grandi cose da te... tutti ce le aspettiamo» aggiunse, volutamente ambigua.

   Lo scienziato più giovane capì il sotteso. Invece di un’unica, breve missione, lo attendeva un gioco di strategia ben più lungo e complesso. Doveva riferire la vittoria all’Assemblea, come se l’approvasse; ma poi doveva persuadere segretamente i circoli scientifici che era stato un errore, perché questi a loro volta facessero pressione sugli Anziani. Lambeos non si considerava all’altezza del compito; ma se non ci provava lui, chi altri l’avrebbe fatto?

   «Ah, mi saluti il Clan Towt» aggiunse Frola.

   Lambeos lo interpretò come un suggerimento. Il Clan Towt era potente e tradizionalmente legato ai Gegen, quindi poteva cominciare da lì a cercare sostenitori. Ma il suo compito restava arduo. Doveva muoversi con estrema attenzione, perché le autorità non sospettassero di lui; e in ogni caso sarebbero trascorsi anni, prima di vedere qualche risultato. «Non mancherò» promise. Seguì Frola con lo sguardo, mentre lei lasciava l’hangar, temendo che non l’avrebbe rivista. Poi si concentrò sull’Ammiraglio, che già gli sciorinava i dettagli della sua ambasciata.

 

   Seduto nell’anticamera dell’ufficio presidenziale, il Comandante Radek attendeva di essere ricevuto. Ripensando agli ultimi eventi, il Rigeliano si chiese se erano accaduti realmente, o non si trattava piuttosto di un incubo surreale. Dopo che la Keter lo aveva abbandonato con gli altri dissidenti su Delta Vega, erano passati giorni prima che arrivasse un trasporto federale per riportarli sulla Terra. Mentre entravano nell’orbita, Radek aveva visto dalla finestra del suo alloggio l’incredibile scena delle navi Voth che portavano via i Terrestri. Ogni astronave in partenza ne trasportava decine di migliaia. Nel caso della Nave Fortezza, i passeggeri dovevano essere centinaia di migliaia. Anche così, occorrevano migliaia di viaggi a transcurvatura per distribuire dieci miliardi di Terrestri negli altri pianeti federali. Sarebbero serviti anni per completare il trasferimento. I Voth non potevano nemmeno viaggiare a pieno carico, perché tutti quei passeggeri dovevano essere sbarcati in luoghi capaci di accoglierli. Questo significava preparare gli alloggi. Era una macchina logistica incredibilmente complessa, anche perché i Voth si erano impegnati a tenere unite le famiglie e permettere loro di portare un po’ di bagagli.

   L’apertura della porta distolse Radek dalle sue riflessioni. «Sua Eccellenza è pronta a riceverla» disse una delle Guardie Presidenziali.

   Il Comandante passò fra loro con una certa emozione. Era la prima volta che veniva ammesso in quell’ufficio; la prima volta che incontrava la Presidente. Sperò che andasse tutto bene, perché la sua carriera e forse la sua libertà dipendevano da quello.

   «Ah, Comandante Radek!» lo accolse la Zakdorn, seduta alla sua scrivania. «Venga avanti!».

   «Molto onorato, signora Presidente» disse il Rigeliano, accostandosi.

   «No, l’onore è mio. Ho davanti a me un vero lealista, che ha rischiato la vita per difendere i nostri valori» disse Rangda. «Ho letto il suo rapporto. Lei è stato l’unico, tra gli ufficiali superiori della Keter, a battersi per la pace. Mi spiace che i suoi colleghi siano stati così crudeli, dopo tutto ciò che lei ha fatto per loro».

   «Credono di essere nel giusto» sospirò Radek, mentre si sedeva.

   «Ma si sbagliano» disse la Presidente. «Io e lei lo sappiamo, che si sbagliano. La loro rivolta può scatenare una guerra civile, tale da infrangere per sempre il sogno federale. Io non permetterò che accada. Amo troppo l’Unione per vederla cadere vittima della loro intolleranza. E lei?».

   «Darei la vita per l’Unione» disse il Rigeliano, con un groppo in gola.

   «Questo volevo sentire!» gongolò Rangda. «La sua fedeltà sarà premiata. Avrà un posto tra i Pacificatori, ma non come Comandante. È tempo che lei abbia una nave tutta sua, Capitano Radek» disse, porgendogli la mano.

   Il Rigeliano si affrettò a stringergliela. «Grazie, signora Presidente. Non pensavo che il Comando di Flotta si fosse riorganizzato così in fretta».

   «Non l’ha fatto» disse inaspettatamente la Zakdorn. «La sua promozione è opera mia».

   Radek rimase interdetto. Promuovere ufficiali, o degradarli, spettava al Comando. Le autorità civili non avevano autorità in quel campo: nemmeno il Presidente. Ma ora che la Flotta stava venendo riformata, evidentemente le cose erano cambiate. «Allora le sono doppiamente grato» disse, anche se trovava disturbante quell’intromissione.

   «Il suo equipaggio sarà composto da ufficiali di comprovata fedeltà» proseguì Rangda. «Avrete il compito più difficile e più importante: rintracciare le navi ribelli e riportarle all’ovile».

   «Molti equipaggi non si lasceranno convincere» avvertì Radek.

   «Infatti dovrete costringerli» sorrise la Presidente. «Avrete la massima libertà d’azione. Nessun’altra direttiva dovrà ostacolarvi».

   «E se si giungesse allo scontro armato?» chiese il Rigeliano, anche se la risposta era ovvia.

   «In quel caso, assicuratevi che nessuno riesca a fuggire» disse la Zakdorn, sempre affabile. «Ricordi: togliere i criminali dalla circolazione significa salvare vite innocenti. Non c’è incarico più sacrosanto di questo».

   «M’impegnerò affinché i colpevoli siano assicurati alla giustizia» promise Radek. «E farò tutto il necessario per garantire l’integrità dell’Unione» aggiunse. Era stato il sogno federale, si disse, a porre fine alle guerre interstellari. Se per salvaguardare questo sogno doveva combattere quelli che gli avevano voltato le spalle, fossero anche i suoi amici, ebbene, non avrebbe esitato a farlo.

 

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Capitolo 5
*** Memory Alpha ***


 

-Capitolo 4: Memory Alpha

 

   Uscita dalla curvatura, la navetta si avvicinò a Memory Alpha a velocità impulso. Vrel alzò gli occhi dai comandi del timone e osservò la destinazione, anche se non c’era molto da vedere. Memory Alpha era un planetoide situato a venti anni luce dal sistema solare. Non aveva satelliti, né mari, né forme di vita autoctone. La sua atmosfera era troppo tenue per essere respirabile, oltre al fatto che non conteneva ossigeno. Anche dal punto di vista geologico non c’era nulla d’interessante. In circostanze normali, Memory Alpha sarebbe stato un insignificante puntino sulle mappe astrali. Invece, per uno scherzo del destino, era uno dei luoghi più importanti dell’Unione.

   La sua fortuna era iniziata già con la nascita della Federazione, 430 anni prima, quando era stato scelto come luogo in cui redigere l’Enciclopedia federale. Questo lo aveva reso un polo d’attrazione per intellettuali, docenti e inventori. Attorno alla cittadella degli Enciclopedisti erano così sorti centri di ricerca informatica e complessi universitari. Molte infrastrutture chiave della rete Olonet vi erano state installate. Poco alla volta, la cittadella dei ricercatori si era sviluppata in un popoloso centro urbano, Alpha City. Anche la presenza dei mass media si era gradualmente consolidata, tanto che il Federal News vi aveva stabilito la propria sede.

   Così il planetoide aveva un’importanza sproporzionata, anche se tutto questo fervore culturale si svolgeva necessariamente nel sottosuolo o dentro cupole a tenuta stagna. Visto dallo spazio, Memory Alpha era un globo bruno e riarso, percorso da una ragnatela luminosa. Avvicinandosi, la ragnatela si precisava in una moltitudine di cupole lucenti, ciascuna delle quali racchiudeva un quartiere di Alpha City. Ogni quartiere comprendeva dei livelli sotterranei ed era unito a quelli adiacenti da condotti per treni ad alta velocità. Per gli spostamenti più urgenti, o tra cupole distanti, si usavano le cabine di teletrasporto. Un costante viavai di navi trasporto assicurava che tutti quei cervelli fossero riforniti.

   Negli ultimi giorni il traffico si era intensificato, perché alcuni degli Umani deportati dalla Terra erano condotti a Memory Alpha. Una volta sbarcati, bisognava dar loro alloggio: grandi lavori erano in corso per espandere gli insediamenti sotterranei. E c’era un viavai di navette che portavano aiuti umanitari per soccorrere gli sfollati. Osservando l’orbita, Vrel notò le dieci navi lealiste che sorvegliavano il pianeta. Al loro interno erano ancora rinchiusi i dissidenti, che si erano ammutinati durante la Caduta. A poca distanza c’era la Nave Bastione dei Voth, che spiccava come un elefante tra le pecore. Il timoniere si tenne prudentemente a distanza. Mentre s’immetteva nell’orbita, inviò alla torre di controllo dello spazioporto le credenziali – false – della sua navetta. Ufficialmente venivano da Verdanis, una delle colonie federali più remote, per consegnare un carico di aiuti umanitari.

   «Navetta Hawking, potete atterrare allo spazioporto, gate 72» li informò la voce annoiata di un controllore. «Grazie per il contributo, ricordatevi di rispettare le norme sanitarie».

   «Ricevuto» disse Vrel. Chiuso il canale, il timoniere scese di quota. Seguì scrupolosamente la traiettoria inviata dalla torre di controllo, sia per non attirare l’attenzione, sia perché in effetti il traffico spaziale era così intenso che deviare dal piano di volo significava rischiare una collisione. La navicella sorvolò la superficie craterizzata di Memory Alpha, avvicinandosi alle lucenti cupole abitative. Lo spazioporto sorgeva appena fuori dalla città. In superficie c’era ben poco: la torre di controllo, qualche hangar navette pressurizzato. Il grosso della struttura era sotterraneo, come sempre accadeva su Memory Alpha. I numerosi gate si aprivano al suolo come grandi botole incorniciate da luci di segnalazione.

   Raggiunto l’ingresso assegnato, Vrel fermò la navetta a mezz’aria e poi la fece calare lentamente. Il portone di tetraburnio si spalancò, permettendole di scendere nell’hangar, mentre il campo di forza tratteneva l’atmosfera. La navicella lo oltrepassò senza scossoni. Appena fu scesa, il portone si richiuse e il campo di forza si spense.

   «Wow...» mormorò Vrel, osservando lo sterminato spazioporto ipogeo. L’hangar in cui si trovavano aveva due pareti di trasparacciaio, che permettevano di osservare una fuga interminabile di rimesse, tutte allineate. C’era un gran traffico. I trasporti dalla Terra portavano gli sfollati con i loro bagagli, mentre quelli dal resto dell’Unione portavano operai e macchine escavatrici per ampliare la colonia, replicatori per arredare i nuovi alloggi, medicinali e ogni genere di aiuto umanitario.

   «Okay, si va in scena» disse Vrel, lasciando i comandi. Lui e gli altri ribelli attivarono i propri travestimenti olografici, coerenti con le informazioni trasmesse alla torre di controllo. Vrel prese l’aspetto di un Umano, mentre Dib assunse le fattezze di un Kelpiano alto e smilzo. Gli altri membri della squadra – una mezza dozzina – si travestirono in modo analogo.

   «Ognuno di voi cerchi di ricordare le facce degli altri, perché sarebbe imbarazzante perderci nella calca» disse il mezzo Xindi. «Se vi smarrite, usate sempre i nomi fittizi per chiamarci al comunicatore» raccomandò.

   I ribelli si recarono nella sezione posteriore della navetta, dove c’era il carico. Vrel aprì il portello, ma prima di metter piede a terra fu costretto a indietreggiare. Davanti a lui c’era un controllore Zakdorn che salì immediatamente a bordo, accompagnato da quattro guardie armate. «Ispezione» spiegò. «Dateci le vostre generalità».

   «Navetta Hawking, da Verdanis. Trasportiamo sei replicatori industriali, per arredare i nuovi alloggi, e quattro casse di medicinali assortiti» spiegò Vrel, consegnandogli il d-pad con le note di carico.

   «Sì, vedo» disse lo Zakdorn, scorrendo la lista. «Dobbiamo perquisirvi. Non abbiatevene a male; sono le nuove disposizioni».

   «Si figuri!» disse Vrel, arretrando verso la paratia. «Siamo solo un piccolo gruppo di volontari. Non abbiamo molte risorse, ma tutto ciò che vi portiamo viene dal cuore» garantì, e in un certo senso era vero.

   Un paio di guardie sorvegliarono i federali, mentre le altre scoperchiarono le casse, così che il controllore potesse ispezionare il carico. «Questo replicatore ha le batterie autonome?» chiese lo Zakdorn, fermandosi davanti al modello più piccolo.

   «Sì» confermò Vrel. «L’autonomia è limitata, ma speriamo che possa servire, nelle prime fasi dei lavori».

   «Vediamo» disse il controllore, attivando il congegno. Visualizzò l’elenco delle configurazioni in memoria e ne scelse una. Il replicatore ronzò, materializzando un d-pad ultimo modello. «Ah, carino!» disse lo Zakdorn, e se lo intascò.

   «Ehm, quello sarebbe per i rifugiati» commentò il mezzo Xindi.

   «E allora? Possono ordinarne quanti ne vogliono» lo liquidò il controllore. «Dovrebbero solo ringraziarci, per come sgobbiamo per loro». Così dicendo firmò le note di carico. «Portate la roba al deposito 72 e poi andate. Attenti a non rovesciare niente. Se rompete qualcosa dopo che ho convalidato il carico, dovete ripagarlo».

   «Grazie dell’avviso, saremo attentissimi» promise Vrel, a denti stretti. Osservò lo Zakdorn che se ne andava, scortato dalle guardie. Sarà stato che la Presidente Rangda era una Zakdorn, ma ultimamente quelli della sua specie si comportavano come se fossero i padroni dell’Unione. «E forse è vero» pensò il timoniere, richiudendo la cassa. «Forza, ragazzi, sistemiamo questa roba» disse ai complici.

 

   In quello stesso momento una navicella militare Voth uscì dalla transcurvatura e si accostò alla Nave Bastione. Appena ebbe trasmesso il suo codice identificativo, Frola Gegen fu teletrasportata a bordo, assieme al suo bagaglio.

   «Bene arrivata» l’accolse il Colonnello Corythos. «Sono stato informato che parlerà al News, per invitare i federali alla calma».

   «Parlerò, eccome» promise Frola, scendendo dalla pedana. «Ma se permette, vorrei passare una notte qui a bordo, a riposare. Questi viaggi sono molto stancanti, alla mia età».

   «Naturalmente; gli inservienti la scorteranno al suo alloggio» disse Corythos, mentre i due olo-servitori prendevano i borsoni con il bagaglio. «Mi faccia sapere se le serve qualcos’altro».

   «Lei è troppo gentile, Colonnello. Ma penso di avere tutto il necessario» disse Frola. Nel suo bagaglio c’era una replica del globo che Chakotay aveva donato a suo padre. Questo però era cavo e conteneva l’unità di memoria con il virus informatico. Non le serviva altro per portare a termine la missione.

 

   Sistemato il loro carico nel deposito, gli infiltrati della Keter si divisero. Uno degli agenti tornò alla navetta e ripartì, per non insospettire i controllori. Tutti gli altri si recarono invece nella hall dello spazioporto. Era un salone ovale, incorniciato da molti livelli di camminamenti che portavano a sale di smistamento, centri commerciali, ristoranti e motel. Qua e là c’erano delle piante, per abbellire l’ambiente, e persino una fontana. Il getto d’acqua usciva dal muro e scendeva come un nastro nella vasca semicircolare. Qua e là galleggiavano gli oloschermi, in continuo aggiornamento, che indicavano gli arrivi e le partenze. In aggiunta a questi vi erano gli avvisi vocali del computer.

   «Attenzione: il trasporto 619 proveniente dalla Terra sta per sbarcare i passeggeri al gate 1. Raccomandiamo a tutti i presenti di non intralciare le operazioni di smistamento. Se siete in attesa di un vostro congiunto, attendete che vi sia comunicata la sua destinazione. Grazie della collaborazione, buona giornata».

   Cercando di non dare troppo nell’occhio, Vrel si guardò attorno. C’erano poliziotti ovunque, che perquisivano i viaggiatori o accertavano la loro identità. Alcuni erano androidi; evidentemente gli Organici non bastavano. I loro controlli erano scrupolosi e le maniere, quando trovavano qualcosa fuori posto, erano spicce. Due Tellariti con irregolarità nel carico furono trascinati via, ignorando le loro proteste. Pochi tra i frettolosi passanti ci fecero caso.

   «Di qua» disse il timoniere, guidando i colleghi verso una zona di panchine, vicino alla fontana. Lì non c’erano gli avvisi di transito, ma in compenso vi erano un sacco di pubblicità. Vrel si bloccò quando un oloschermo grande quanto una finestra gli si accese davanti, propinandogli uno spot governativo.

   «Che cosa significa essere Terrestri?» chiese una voce fuori campo, mentre scorrevano panorami naturali e urbani, inquadrature di monumenti e opere d’arte, feste e specialità gastronomiche tipiche della Terra.

   «Assolutamente nulla» proseguì la voce narrante. Altre immagini si susseguirono. Una bambina fece spallucce. Persone di tutte le età e le specie ripeterono: «Nulla».

   «Ogni cosa è copiata o reinventata» spiegò la voce fuori campo. «La nostra democrazia? Esisteva già su centinaia di altri mondi. Il motore a curvatura? Molte specie federali ce l’avevano secoli prima di Cochrane. Il teletrasporto, i replicatori, i ponti ologrammi? Stessa cosa. Nulla è genuinamente terrestre. Anche l’ottimo raktajino che accompagna la nostra colazione è una specialità Klingon». Un’inquadratura ravvicinata mostrò la bevanda scura e fumante che veniva versata in una tazza.

   «Come i nostri antenati nomadi ed esploratori, ci siamo sempre spostati da un luogo all’altro. Abbiamo attraversato oceani e continenti. Poi ci siamo avventurati nello spazio, alla scoperta di nuovi mondi, imparando ogni volta qualcosa di nuovo» proseguì la voce narrante, mentre scorrevano le immagini. Si videro popoli antichi che viaggiavano a piedi o su zattere, poi caravelle e galeoni. Vennero i treni, gli aerei, le navicelle spaziali. Infine ecco la Phoenix di Cochrane e i primi vascelli della Flotta Astrale.

   «Ora è il momento di un nuovo, entusiasmante viaggio» incalzò la voce. «Lasciamoci guidare dalla Terra alla nostra nuova casa, alla scoperta di una vita migliore. Abbracciamo il nostro destino fra le stelle. La Terra è stata la nostra culla, ma è tempo di lasciarla. Altri se ne prenderanno cura, meglio di come potremmo fare noi. È tempo di crescere». Le ultime immagini mostrarono bambini Umani che correvano felici sotto panorami alieni. Terminato lo spot, lo schermo olografico si spense.

   Vrel scosse la testa, sconcertato. Lui personalmente aveva sempre avuto la passione di esplorare, o non si sarebbe arruolato nella Flotta Stellare. Ma quello spot mascherava una cosa completamente diversa: il trasferimento forzato di una popolazione. Il timoniere si trovò a pensare che, oltre al diritto di migrare, esisteva anche il diritto di non farlo, se non lo si desiderava. Ma nessuno sembrava più rendersene conto.

   Mentre cercava di raccapezzarsi, il mezzo Xindi intravide con la coda dell’occhio un viso familiare. Si girò: era Lyra. Sua sorella si era presentata all’appuntamento, ma non poteva riconoscerlo per via del travestimento olografico. Spettava a lui prendere contatto. Si concentrò a fondo, appellandosi alle sue modeste facoltà telepatiche. «Lyra, sono io... sono qui!» pensò, mentre la fissava.

   Sua sorella si stava guardando attorno, quando si accorse di essere osservata. I suoi occhi scuri divennero sfocati, mentre recepiva l’appello. «Vrel?!» rispose, incrociando il suo sguardo.

   «Proprio io. Andiamo, senza dare nell’occhio» trasmise il timoniere. Era una fortuna che sua sorella avesse un livello ESP superiore al suo, o non sarebbe riuscito a contattarla.

   «Ti aspettavo da un’ora. Cominciavo a temere che ti fosse successo qualcosa» trasmise Lyra, affiancandosi a lui. Si diressero verso l’uscita, seguiti a breve distanza dagli altri infiltrati della Keter.

   «Ci hanno fatto sistemare il carico. Il deposito era lontano, ci abbiamo messo un po’» spiegò il timoniere. «Comunque è andato tutto liscio. Tu come stai?».

   «Un po’ tesa, ma sto bene. Scusa se ho insistito per farti venire di persona. Adesso mi rendo conto che è stata una cosa infantile. Ma in quel momento non ragionavo, ero troppo in ansia» si giustificò Lyra.

   «Non scusarti. Siamo tutti fuori di testa» trasmise Vrel. «Notizie di mamma e papà?».

   «Ancora niente. So solo che la loro nave non ha fatto rapporto alla Flotta, quindi c’è da presumere che si siano uniti ai ribelli» rispose Lyra, e il fratello percepì la sua angoscia. Lui stesso era in ansia per loro, ma si sforzò di restare concentrato sulla missione.

   «Non riesco a percepire Jaylah» trasmise la cronista, mentre uscivano dallo spazioporto. «Non è con te?».

   «No, ora che è l’Ufficiale Tattico deve restare sulla Keter» spiegò il timoniere. «Qui ci sono Dib, per entrare nel sistema informatico, e cinque agenti della Sicurezza che ci guarderanno le spalle».

   Lyra si guardò brevemente dietro, riconoscendo gli agenti travestiti che li seguivano. «Spero che bastino. Da quando la Terra è caduta, ci sono poliziotti ovunque» avvertì.

   «Basteranno» sostenne Vrel, più per rassicurarla che per vera convinzione.

 

   Usciti dallo spazioporto, Lyra e gli Agenti sbucarono in uno dei quartieri-cupola di Alpha City. Si trovarono in una piazzetta oltre la quale vi era una delle principali arterie cittadine. Sul marciapiede vi erano, a intervalli regolari, delle zolle di terreno in cui crescevano gli alberi. Di norma era un ambiente tranquillo, ma in quel momento nella piazzetta si era fatta ressa: una cinquantina di Umani protestavano con cartelli e striscioni.

   «Mia moglie e i miei figli sono ancora sulla Terra! Avevate detto che non avreste diviso le famiglie! C’entra qualcosa il fatto che mia moglie è Tarelliana e io Umano?».

   «Io lavoravo in un’area archeologica e col trasferimento ho perso il lavoro! Ora che dovrei fare? I miei studi sono inutili, visto che qui a Memory Alpha non ci sono siti archeologici!».

   «Ho una malattia rara e su questo planetoide non ci sono ospedali specializzati. Che sarà di me?!».

   In quella arrivò un veicolo della polizia. Ne uscirono agenti in tenuta antisommossa. «Cittadini, disperdetevi!» ordinò il caposquadra. «Fra un’ora scatterà il coprifuoco. Per allora dovete essere tutti nei vostri appartamenti, o nei centri di accoglienza. La violenza non sarà tollerata».

   «Quale sarebbe la nostra violenza? Stiamo manifestando pacificamente!» obiettò un Umano.

   «La vostra protesta ostacola la pacificazione con i Voth, mettendo a rischio i vostri simili ancora sulla Terra. Ora disperdetevi; non ci saranno altri avvertimenti».

   «Noi ostacoliamo la pace?! No, regalare il nostro pianeta alle lucertole ostacola la pace!» gridò il manifestante. Si mise la mano in tasca, per estrarre il comunicatore e filmare i poliziotti che circondavano il suo gruppo. Ma prima di poter completare il gesto, fu colpito da un raggio phaser e stramazzò a terra stordito. Il caposquadra gli si avventò contro e lo ammanettò, mentre il resto del battaglione caricava i manifestanti.

   «Andiamo, presto» disse Vrel. Prese per un braccio Lyra, che osservava scioccata il tafferuglio, e se la trascinò dietro.

   «Che barbarie!» commentò la cronista.

   «Temo che la civiltà sia tramontata da un pezzo» disse il timoniere, affrettando il passo.

 

   A pochi anni luce da lì, la flottiglia della Keter era radunata in attesa di attaccare. Negli ultimi giorni si erano aggregate altre navi ribelli, così che ora erano tredici in tutto. Nel suo ufficio, Hod leggeva gli ultimi rapporti. Molte navi erano state danneggiate durante la Caduta, ma le riparazioni erano procedute a ritmi serrati, così che ora erano tutte pronte a combattere. Il segnale dell’ingresso la distrasse dalla lettura. «Avanti» ordinò.

   Era Norrin. «La navetta Hawking è tornata» annunciò. «È andato tutto liscio, gli Agenti sono dentro. E il Federal News ha annunciato che domani Frola Gegen terrà un discorso».

   «Le pedine sono in posizione» commentò Hod, senza allegria.

   «Lo dice come se fosse un male» notò l’Hirogeno.

   «E non lo è?» si chiese il Capitano. «Ho già orchestrato delle battaglie, ma questa è diversa. Stavolta attaccheremo un obiettivo federale. Non sarà come durante la Caduta, quando non c’era tempo per riflettere. No: questo è un attacco deliberato, pianificato, contro l’Unione Galattica» sospirò.

   «È un po’ tardi per i ripensamenti» avvertì Norrin.

   «Tardi! Quando ho ordinato di colpire la Juggernaut, sapevo che saremmo arrivati a questo» disse Hod. «Dì all’equipaggio di tenersi pronto. Attaccheremo all’ora prevista, anche se i nostri Agenti non avranno hackerato il Federal News. Dobbiamo liberare i prigionieri sulle navi lealiste, oltre che recuperare Frola e Lambeos» decise il Capitano.

   «Questo potrebbe mettere a rischio gli Agenti» disse il Comandante.

   «Lo so; avverti l’equipaggio».

 

   Guidati da Lyra, che aveva una buona conoscenza del quartiere, gli infiltrati della Keter scesero nei livelli sotterranei di Alpha City. Nascondendosi meglio che potevano alle pattuglie e alle olocamere, raggiunsero un vecchio portone di servizio e lo sbloccarono. Dib si assicurò che non squillassero allarmi.

   I ribelli sbucarono così in un corridoio stretto e fatiscente, in cui si respirava un’aria stantia. Era così buio che Lyra dovette accendere la torcia miniaturizzata che aveva portato con sé. La mosse su e giù per osservare l’ambiente. Il pavimento era coperto da uno strato di polvere; qua e là c’erano pannelli smontati e attrezzi dimenticati dagli operai. «La Città Vecchia» disse la cronista. «Molti di questi passaggi risalgono alla fondazione della colonia, agli albori della Federazione. È pieno di anticaglie. E di sporcizia, e di animali. Occhio a dove mettete i piedi. Alcuni di questi corridoi sono abbandonati da secoli. Altri invece sono ancora trafficati».

   «Da chi?» chiese ingenuamente Dib.

   «Spacciatori di ketracel rosso coi loro clienti, ad esempio. Criminali e mutanti di ogni genere. C’è chi vende potenziamenti genetici illegali e chi vende semplicemente il proprio corpo. Insomma, qui avvengono tutte quelle cose che non esistono più» ironizzò la cronista.

   «Certi androni saranno più trafficati della Città Nuova» commentò Vrel, guardandosi attorno con circospezione. Essendo passati per lo spazioporto, erano disarmati; ma a questo avrebbero presto rimediato. Presa una scaletta di servizio, salirono fino al livello più alto, appena una ventina di metri sotto la superficie. Raggiunsero un ripostiglio abbandonato, che probabilmente non veniva aperto da tre secoli. E finalmente lo trovarono: tutto il loro equipaggiamento, che avevano teletrasportato in fase di avvicinamento al pianeta.

   «Perché non vi siete trasferiti direttamente qui?» chiese Lyra.

   «Quando si teletrasportano gli oggetti, è più facile mascherare il segnale» spiegò Vrel. «E poi volevamo vedere come vanno le cose nella Città Nuova».

   Dovendo limitare la massa, per nascondere il segnale, l’equipaggiamento era ridotto al minimo. C’erano i phaser, i Visori per vedere al buio, un paio di tricorder, qualche arnese da scasso e infine l’unità di memoria col database da scaricare. Tutto era contenuto in un borsone che Vrel si mise a tracolla, dopo aver distribuito gli strumenti ai colleghi. «Questo è per te» disse, consegnando un phaser alla sorella. «Ricordo che lo usi bene. Ora c’infiltreremo nel News. Hai studiato il percorso, come ti avevo chiesto?».

   «Sì, non ci vorrà molto. Ma a un certo punto dovremo attraversare una paratia. Hai gli Sfasatori Dimensionali?» chiese la cronista.

   «Ta-dah!» fece il timoniere, mostrandole teatralmente i quattro congegni discoidali. «Messi in quadrato e attivati, ci permetteranno di attraversare il muro».

   «Non li ho mai usati. Cosa si prova ad attraversare la materia sfasata?» chiese Lyra.

   «Assolutamente nulla, visto che è sfasata» rispose Vrel. «Certo che, se uno di questi aggeggi si rompesse mentre stai passando, sarebbe un guaio».

   «Resterei intrappolata, eh?».

   «Peggio. La materia della parete riapparirebbe anche dentro il tuo corpo, uccidendoti all’istante».

   «Oh».

 

   Ora che i ribelli erano equipaggiati, cominciò la missione vera e propria. Guidati da Lyra, gli agenti della Keter si calarono negli abissi del planetoide, tenendosi sempre nei vecchi condotti, dove le olocamere erano assenti o da tempo guaste. A un tratto Vrel udì un rumore proveniente da un passaggio laterale, immerso nelle ombre, e si volse con il phaser in pugno; ma Lyra glielo abbassò.

   «Arvicole cardassiane» sussurrò la cronista, indicando l’animaletto esapode che zampettava nel sudiciume. «Non chiedermi come sono arrivate. La cosa buona è che almeno mangiano gli altri parassiti».

   «Non c’è nulla di più grosso, spero» disse il timoniere.

   «Beh, ci sono i ragni uncinati talariani. Non sono più grossi di un pugno, ma hanno le zampe lunghe mezzo metro» avvertì Lyra.

   «Di bene in meglio» fece Vrel, guardandosi attorno ancora più attentamente.

   Usando le scalette di servizio, i federali scesero sempre più, fino a raggiungere una vecchia sala controllo. Era piena di computer ormai inattivi e scollegati dalla rete energetica. A giudicare dall’estetica delle interfacce, ancora piene di pulsanti, doveva risalire al massimo alla metà del XXIII secolo.

   «Forse era qui che lavoravano i primi Enciclopedisti» ipotizzò Lyra, guardandosi attorno. «Avevano un compito immane: riunire tutto il sapere delle specie fondatrici in un unico database federale. Alcuni trascorsero anni in queste salette anguste, senza neanche un ponte ologrammi per svagarsi».

   «Sembra che uno non se ne sia andato» disse Vrel, indicando qualcosa a terra. I compagni gli si avvicinarono. Riverso sul pavimento c’era un corpo umanoide, che indossava ancora i resti di un’antica uniforme federale. Doveva essere morto da tempo, ma l’ambiente secco lo aveva conservato, trasformandolo in una mummia dalla pelle raggrinzita e indurita.

   «Ma chi era? Di cos’è morto? E perché non l’hanno portato via?!» chiese un agente.

   «Potrebbe essere uno degli Enciclopedisti che perirono nel 2268, in seguito al passaggio degli Zetarani» ipotizzò Lyra. «L’uniforme sembra di quel periodo. Ma non so proprio perché sia stato dimenticato qui».

   «Non abbiamo tempo di occuparcene» disse Vrel. «Questo insediamento è cresciuto per quattro secoli, sigillando le zone vecchie man mano che s’inauguravano quelle nuove. Chissà che altro c’è, nascosto nel buio e tra la polvere, fuori dalla vista degli abitanti».

   A quelle parole, Lyra si allontanò di qualche passo e si guardò attorno con inquietudine, portandosi due dita alla tempia.

   «Percepisci qualcosa?» chiese il timoniere.

   «Non ne sono certa» disse la cronista, sempre guardandosi attorno. «È da quando siamo entrati nella Città Vecchia che ho la sensazione che qualcuno ci osservi».

   «Il mio tricorder non rileva alcuna presenza» disse Dib. «Suggerisco di affrettarci, perché manca solo un’ora all’attacco».

   «Okay, bando agli indugi» disse Vrel. «Esaminò la parete col tricorder, fino a trovare il punto che gli interessava. Dopo di che estrasse gli Sfasatori Dimensionali dal borsone e li posizionò come spigoli di una porta, facendoli aderire alla paratia. «Il muro è spesso, dovrò regolarli al massimo» disse, trafficando con i comandi. Un paio di agenti lo aiutarono con gli altri Sfasatori. Quando tutti e quattro furono attivi, ci fu un tenue ronzio. L’area che delimitavano divenne semitrasparente, come un muro di nebbia che lasciava intravedere il corridoio al di là.

   «Datemi gli arnesi, presto». Vrel rimise nel borsone i Visori e gli altri strumenti che i colleghi gli restituivano. Era una misura necessaria per non dare nell’occhio, una volta dentro. Gli infiltrati tennero solo i phaser di tipo 1, abbastanza piccoli da nasconderli in tasca. «Si va in scena» disse il timoniere, attraversando per primo la parete sfasata. Sbucò in un corridoio ben tenuto, all’opposto dell’area abbandonata da cui proveniva. Gli Agenti lo raggiunsero subito dopo. Per ultimi vennero Lyra e Dib.

   «Tutto bene?» chiese il mezzo Xindi alla sorella.

   «Sì... era come dicevi tu, non si sente nulla» convenne la cronista. «Bene, siamo nel Federal News. Visto che è notte, l’attività è ridotta. Certo, il News non dorme mai, ma quest’ala dovrebbe essere semideserta. Seguitemi, la sala del terminale non è lontana».

   Gli infiltrati attesero qualche momento, affinché Vrel recuperasse gli Sfasatori. I congegni erano programmati per scorrere attraverso la paratia da loro stessi resa permeabile, così da non dover essere abbandonati. Una volta spenti, il muro tornò solido come prima. Se qualcuno fosse passato da lì, non avrebbe mai immaginato che la sua materia era stata sfasata; solo un’analisi subatomica ne avrebbe rilevato traccia. Il timoniere ripose gli Sfasatori nel borsone e seguì la sorella, assieme al resto della squadra.

   Il gruppo si addentrò nella sede del Federal News. Era uno dei palazzi più imponenti di Alpha City: la sua parte emersa dominava il quartiere-cupola. Ma gli infiltrati si trovavano nella porzione sotterranea, molto più vasta. Il complesso si prolungava nel sottosuolo per decine di piani, ramificandosi in varie sotto-sezioni. Molte di esse richiedevano autenticazioni speciali per essere ammessi. Grazie agli Sfasatori, tuttavia, i ribelli avevano raggiunto una zona piuttosto profonda. Fatta poca strada, sbucarono in una delle sezioni più monumentali e lussuose.

   Venti livelli si affacciavano su una hall, cilindrica come un pozzo, che nella sua parte più bassa conteneva un giardinetto climatizzato. Al piano più alto vi era un corridoio con parapetto, che permetteva di guardare giù, mentre in quelli inferiori le sale erano direttamente affacciate sulla hall, così da ricevere luce dai finestroni. Il giardino ospitava piante esotiche, i cui profumi salivano fino al livello più alto. Era una vista insolita per gli infiltrati, ma familiare per Lyra, che si accostò alla balaustra e indicò il giardino sottostante. «Per raggiungere l’Hub dovremo scendere laggiù» disse. «Ma quella zona è troppo trafficata per passare inosservati. E comunque per accedere all’Hub serve un’autorizzazione superiore alla mia. Però qui nei livelli più alti ci sono delle sale con terminali. Dovreste farcela con uno di quelli».

   «Okay, sbrighiamoci» disse Vrel, che controllava spesso il cronometro. I ribelli presero una scala interna, scendendo di parecchi piani. Guidati da Lyra, sbucarono in un altro corridoio e da lì entrarono in una delle sale con il finestrone affacciato sulla hall. Un lato del salone era occupato dalle postazioni di lavoro, ognuna con un terminale dell’Hub. Sull’altro lato si apriva un’ampia alcova, rivestita dal reticolo degli emettitori olografici. Il reticolato sporgeva dalle pareti di un buon mezzo metro, come accadeva nelle sale ologrammi più evolute, formando un intrico di sottili travature.

   «Qui è dove i tecnici creano le sigle delle trasmissioni, gli effetti speciali e cose del genere» spiegò Lyra. «A quest’ora non dovrebbe venire nessuno».

   «Bene, direi che possiamo finire la mascherata» disse Vrel, disattivando il proprio travestimento olografico. I colleghi lo imitarono.

   «Finalmente ti vedo!» disse Lyra, accarezzandogli il volto. «Era straniante guardarti con quell’altra faccia».

   Il fratello le sorrise, ma poi si rivolse subito ai colleghi. «Pattugliamo l’ingresso. Dib, a te la parte informatica».

   «Ogni postazione è connessa all’Hub, usi quella che vuole» disse Lyra, osservando incuriosita il Penumbrano che solo adesso, disattivato l’olo-travestimento, le appariva nel suo vero aspetto.

   «Forza Dib, è il tuo momento. Non deluderci!» esortò Vrel.

   Il Penumbrano sedette alla prima postazione della fila. Con la calma di cui solo le specie prive d’emozioni erano capaci, attivò il terminale e inserì l’unità di memoria. «Senza le autorizzazioni, ci sono tre livelli di sicurezza da superare per caricare i contenuti sul sito del News» spiegò.

   «Fai più in fretta che puoi, vecchio mio» disse Vrel, controllando ancora una volta il cronometro. Il tempo era agli sgoccioli.

 

   In quello stesso momento, sulla Nave Bastione, anche Frola Gegen teneva d’occhio il cronometro. L’attacco era imminente, ma sul sito del Federal News non c’era traccia del database preparato dai ribelli. Forse voleva dire che gli Agenti avevano fallito. O forse gli serviva più tempo. In ogni caso, era l’ora di agire. L’anziana Voth ruppe il finto globo terrestre che si era portata dietro, estraendo l’unità di memoria con il virus informatico. La nascose in tasca e lasciò il suo alloggio. Anziché percorrere i lunghi corridoi della Nave Bastione, usò una cabina di teletrasporto per lasciare la zona residenziale e andare in quella dove lavorava l’equipaggio. Qui entrò in una saletta di controllo che aveva selezionato in precedenza. C’era un solo addetto, che si alzò al suo ingresso. «Posso fare qualcosa per aiutarla?» chiese.

   «Io... mi sento confusa» mentì Frola. «Stavo cercando il solarium, invece sono finita qui. Che luogo è questo?».

   «È la sala controllo dei sistemi energetici della sezione 2» spiegò pazientemente l’addetto. «Non ha chiesto indicazioni al computer?».

   «Io l’avevo fatto, ma... non so, mi sono persa lo stesso. Non sarebbe così gentile da aiutarmi?» insisté Frola, avvicinandosi. La porta si richiuse alle sue spalle.

   «Se non sta bene, dovrebbe andare in infermeria».

   «Mi stai dando della vecchia rimbambita?!» s’inalberò Frola, sebbene fosse proprio l’impressione che voleva suscitare con la sua commedia.

   «Certo che no, signora Gegen» disse l’addetto, mentendo spudoratamente. «Ma vede, io non posso lasciare il posto di lavoro in orario di servizio. Se non si trova a suo agio con le indicazioni del computer, le chiamerò un olo-inserviente che l’accompagni dove preferisce» disse, chinandosi sulla consolle.

   In quella qualcosa di sottile e affilato lo colpì alla nuca, nel punto in cui le scaglie erano più morbide. Il Voth s’irrigidì e si tastò dietro la testa, fino a trovare il dardo sporgente. Se lo strappò e lo osservò con orrore, mentre la vista gli si annebbiava: era un artiglio, contenente un composto soporifero. I sauri ricorrevano raramente a quel tipo di attacco. Sparare artigli era utile nella preistoria, quando la lotta per la sopravvivenza era spietata; farlo adesso era considerata una barbarie.

   «Perché?» mugolò l’addetto, barcollando.

   «Mi spiace tanto; spero che un giorno tu e gli altri capirete» disse Frola, sconsolata.

   L’addetto annaspò e infine si accasciò a terra. La scienziata sapeva che non sarebbe rimasto svenuto a lungo, perché l’anestetico degli artigli aveva un effetto ridotto sugli altri Voth. Doveva fare in fretta. Con le mani tremanti per la tensione, Frola levò di tasca l’unità di memoria e la inserì nell’apposito alloggiamento. Aveva appena messo mano ai comandi che la consolle si spense. Tutti gli oloschermi svanirono e i display tattili divennero neri. Era il segno che qualcuno voleva escluderla dal computer.

   Accortasi che il suo piano era già naufragato, la scienziata recuperò l’unità mnemonica e la celò di nuovo in tasca. In quella la porta si riaprì e un manipolo di guardie fece irruzione. Dietro di loro venne Corythos, con aria malignamente compiaciuta.

   «Ma guarda... il tradimento è sempre dove meno te lo aspetti» disse il Colonnello. «Conosco il suo piano, signora Gegen. Potevo arrestarla appena ha messo piede su questa nave, ma ho preferito aspettare che dimostrasse le sue intenzioni criminose» disse, accennando all’addetto privo di sensi.

   L’anziana Voth si rattrappì in un angolo della sala. «Come l’ha scoperto?» mormorò, augurandosi che non fosse stato per bocca di Lambeos.

   «Non tutti sono traditori» rispose enigmaticamente Corythos. «Comunque, non tutto il male viene per nuocere. Conoscendo il piano, fingeremo che questa nave sia stata disabilitata. Quando i ribelli attaccheranno, riattiveremo i sistemi e li spazzeremo via. Quindi devo ringraziarla, dopotutto: lei ci ha aiutati a stroncare la ribellione».

 

   Sulla plancia della Keter, Zafreen non staccava gli occhi dalle letture della sonda che avevano inviato presso Memory Alpha. «Ci siamo! I livelli d’energia della Nave Bastione sono calati» disse. «Però gli Agenti non hanno ancora hackerato il Federal News».

   «Potremmo dargli più tempo» suggerì Norrin, che malgrado la recente promozione era tornato alla consolle tattica.

   «No, metteremmo in pericolo Frola e Lambeos» obiettò il Capitano. «Se i nostri hanno fallito, li tireremo fuori e riproveremo in un altro Hub». Detto questo, l’Elaysiana aprì un canale con la flottiglia. «Hod a flotta, è il momento di attaccare! Buona fortuna a tutti».

   Le tredici navi ribelli partirono a cavitazione. Dato che si trovavano nelle vicinanze di Memory Alpha, raggiunsero il planetoide in pochi minuti. Uscirono simultaneamente dai tunnel quantici, avventandosi sulle navi lealiste. Solo la Keter puntò verso la Nave Bastione.

   «Allarme, i Voth hanno riattivato gli scudi!» disse Norrin. «Danno energia alle armi».

   «Una trappola» comprese il Capitano. «Teniamoci a distanza e recuperiamo gli Agenti».

   «Negativo, Alpha City ha appena alzato lo Scudo Cittadino» disse l’addetto al teletrasporto.

   Hod osservò cupamente i lealisti, inquadrati sullo schermo. Le dieci navi si aspettavano l’attacco: all’arrivo dei ribelli aprirono immediatamente il fuoco. A queste se ne aggiunsero altre dieci, uscite dall’occultamento. Nello stesso momento anche la Nave Bastione prese a sparare. Era un agguato in piena regola.

   «Dobbiamo andarcene, finché possiamo» consigliò Norrin.

   «Non fuggiremo di nuovo!» ringhiò il Capitano, alzandosi di scatto. Aveva ancora negli occhi la Caduta, quando avevano lasciato la Terra in mano ai Voth. «Hod a flotta. Anche se questa è un’imboscata, resisteremo il più possibile, per dare tempo alla squadra di completare la missione. In questo momento, le olocamere di Memory Alpha sono puntate su di noi. Approfittiamone! Mostriamo all’Unione chi sono i veri lealisti della Flotta Stellare» ordinò. Si risedette, mentre la Keter tremava sotto il fuoco nemico.

 

   «Il primo livello di sicurezza è superato» disse Dib. D’un tratto il suo terminale si spense.

   «Ehi, che scherzo è?!» esclamò Vrel, sentendo la pelle d’oca.

   «Forse ci hanno rilevati» disse l’Ingegnere Capo. «Suggerisco di andarcene al più presto». Recuperò l’unità di memoria, riponendola in un taschino della tuta termica, e lasciò la postazione.

   In quella la porta si aprì e una sferetta nera fu lanciata all’interno. «Granata stordente!» avvertì Vrel, coprendosi gli occhi.

   Ci fu un lampo accecante, accompagnato da un’onda d’urto che gettò a terra i presenti. Solo Dib restò in piedi; i suoi sensi alieni non erano particolarmente disorientati. Dopo la granata irruppero gli armati. Non era la sicurezza privata del Federal News, bensì i Corpi Speciali della Flotta. Indossavano tute semicorazzate, munite di casco, ed erano armati con fucili phaser. «Giù le armi, arrendetevi!» intimò il caposquadra.

   «Mai!» ringhiò Vrel, rialzandosi con il phaser ancora stretto in pugno. Si mise davanti a Lyra, per proteggerla. Anche se erano un po’ storditi, i suoi Agenti lo imitarono. I due gruppi, lealisti e ribelli, si tennero sotto tiro. Ci voleva un niente per scatenare la sparatoria.

   «Cosa credete di fare, eh? Avete perso!» li derise il caposquadra. «In questo momento la vostra banda criminale è caduta nella nostra imboscata. Quelle navi torneranno a servire la legalità».

   Vrel si sentì perduto, ma rifiutò ancora di arrendersi. «Come sapevate del nostro attacco?!» chiese, per prendere tempo.

   «Non tutti sono traditori» rispose il caposquadra. «C’è ancora gente onesta, pronta a denunciare le vostre macchinazioni».

   «Lambeos!» ringhiò il timoniere. «Lo sapevo che non potevamo fidarci! Prima così timoroso e poi così ansioso di tornare sulla Nave Bastione!».

   «Non è stato lui a denunciarvi» lo gelò il caposquadra.

   «Come?! Ma allora chi...» cominciò Vrel. Non ebbe bisogno di terminare la frase. Perché il phaser di Lyra, puntato contro la sua schiena, gli aveva già risposto.

   «Ti prego, fratellone, non rendere le cose ancora più difficili» disse sua sorella con voce carezzevole. «È solo per salvarti, che ti ho denunciato».

 

   Nello spazio la situazione si deteriorava rapidamente. Le navi lealiste erano più numerose di quelle ribelli, oltre ad avere l’appoggio della Nave Bastione, che da sola contava quanto dieci vascelli federali.

   «Non resisteremo a lungo contro i Voth» avvertì Norrin, mentre la Keter tremava sempre più.

   «Hod a flotta: accorciate le distanze con le navi lealiste!» ordinò il Capitano.

   «Che?!» fece l’Hirogeno. Anche dagli alleati giunsero proteste.

   «Mi avete sentito. Se ci avviciniamo molto ai lealisti, i Voth non potranno usare le loro armi più potenti, per non rischiare di colpirli» confermò l’Elaysiana. «Ci hanno teso una trappola, è vero, ma non hanno portato abbastanza forze. Possiamo ancora vincere. Non cedete di un millimetro! I Voth devono capire che la loro arroganza non sarà sempre premiata».

   Si trattava di una mossa disperata, ma l’alternativa era fuggire di nuovo, abbandonando la squadra. La flottiglia ribelle si compattò attorno alla Keter e puntò dritta contro le navi lealiste, passando fra di esse. I vascelli federali si scambiarono colpi terribili a distanza ravvicinata, mentre i Voth esitavano, non volendo colpire gli alleati. A terra, nei quartieri di Alpha City, squillarono gli allarmi. Gli abitanti bruscamente svegliati si riversarono nelle strade e alzarono gli occhi al cielo notturno, visibile oltre le cupole. Lampi di phaser e bagliori di siluri indicavano che la Guerra Civile li aveva raggiunti.

 

   Nella sala dei terminali, lealisti e ribelli si tenevano ancora sotto tiro. La più piccola mossa avrebbe innescato la sparatoria. Vrel mirava il caposquadra nemico, ma sua sorella gli premeva il phaser contro la schiena, come se la sua rivelazione non fosse stata abbastanza.

   «Non ci hai salvati, idiota. Ci hai venduti» disse il timoniere. «In questo momento i miei amici della Keter stanno morendo. Idem per gli equipaggi delle altre navi. Ma le nostre vite contano ben poco, a paragone della tua fede politica. Dimmi: hai tradito anche mamma e papà? Li hai fatti uccidere prima di noi?!» ringhiò.

   «Mentecatto!» sibilò Lyra. «Credi che mi piaccia fare questo? Ma non mi hai lasciato scelta. Ti saresti fatto ammazzare in quest’inutile, stupida ribellione. Durante l’interrogatorio, gli investigatori mi avevano avvertita che forse avresti cercato di contattarmi. Ma io non ci credevo. Mi dicevo che non saresti stato così pazzo e criminale da unirti volontariamente ai terroristi. E in quel caso, che non potevi essere così imbecille da chiedermi aiuto. Invece sei stato tutte queste cose! E allora ho dovuto recitare, fingermi matta come te, per attirarti qui. Era l’unica linea di condotta logica. Preferisco farti arrestare, piuttosto che lasciarti combattere una guerra sbagliata, nella quale saresti morto per niente».

   «Non spetta a te decidere se io combatto per una causa giusta o sbagliata!» gridò Vrel. «Ora il sangue dei nostri amici ricade sulle tue mani».

   «I tuoi amici – non certo i miei – sono la causa del loro male» rimbeccò Lyra. «Ma tu almeno sarai salvo; così potrai riflettere e forse rinsavire. Quanto a me, la mia coscienza è pulita».

   «Si vede che non l’hai mai usata» disse una nuova voce. Cinque Agenti muniti di tute occultanti si resero visibili alle spalle dei lealisti. Quella che aveva parlato fece rientrare il casco nella tuta. Era Jaylah, con l’espressione più terribile che Vrel e Lyra le avessero mai visto. «Scusa se vi abbiamo seguiti di nascosto» disse all’amico timoniere. «È stata il Capitano a volere che non foste avvertiti. Non si fidava di tua sorella, e aveva ragione».

   «Jaylah! Ancora una volta ti metti fra noi!» ringhiò Lyra. Ecco spiegata la strana sensazione d’essere osservata che la perseguitava da quando erano scesi sottoterra. Era Jaylah, che si era infiltrata a sua volta e li aveva seguiti, pronta a intervenire. L’Agente Temporale aveva schermato così bene i suoi pensieri che la cronista, pur percependo vagamente una presenza, non l’aveva riconosciuta. Ribollente di rabbia, Lyra la colpì con un attacco telepatico, il più feroce che avesse mai sferrato. Fu come sbattere la testa contro una corazza di neutronio. La mente di Jaylah era impenetrabile, a riprova che la mezza Andoriana era una telepate assai più potente di lei. O forse era solo più disciplinata. Questo sospetto mandò la mezza Xindi ancora più fuori dai gangheri.

   «Lascia andare Vrel. SU-BI-TO» ordinò Jaylah, con una voce che faceva rizzare i peli sul collo.

   «Non me lo strapperai ancora!» strillò Lyra. Levò il phaser da dietro la schiena del fratello e sparò a Jaylah. La mezza Andoriana si mosse con velocità sovrumana, ai limiti della premonizione. Schivò il colpo e rispose al fuoco, ma invece di mirare a Lyra, stordì uno dei lealisti, che le erano più vicini e si stavano girando.

   Scoppiò la sparatoria. I lealisti erano presi tra due fuochi, avendo i nuovi arrivati alle spalle; di conseguenza furono storditi in pochi secondi. Ma anche i ribelli della prima squadra furono neutralizzati, salvo Dib e Vrel.

   Approfittando della confusione, il timoniere afferrò la sorella al polso, cercando di disarmarla. Voleva portarla con sé sulla Keter, per accertarsi che non avesse subito condizionamenti mentali. Ma Lyra non mollò l’arma, anzi vi restò aggrappata con tutte le forze. I due lottarono furiosamente, cercando di strapparsi il phaser. Nella colluttazione non si accorsero che il settaggio era passato dal livello 3, stordimento, al livello 10, sufficiente a tranciare il duranio. Se ne avvidero però quando partì accidentalmente un colpo, che mancò di un centimetro il collo di Vrel e colpì l’alcova ologrammi alle sue spalle. Il raggio tracciò una scia distruttiva, schiantando il reticolato metallico che foderava la nicchia. Disintegrati i segmenti di giunzione, restarono i travicelli metallici che uscivano dalle pareti. Erano sottili come chiodi e pericolosamente rivolti in tutte le direzioni.

   Accorgendosi dell’alta regolazione del phaser, i contendenti si fermarono per un attimo. Lyra era confusa, ma Vrel pensò che la sorella lo avesse fatto di proposito. «Beh, vuoi uccidermi?!» ringhiò, cercando ancor più vigorosamente di strapparle l’arma.

   Qualche metro più avanti, Jaylah avrebbe voluto intervenire. Ma un nuovo attacco dal corridoio la costrinse a voltarsi. Altri lealisti stavano accorrendo. Lei e i colleghi della squadra di rincalzo si trincerarono dentro la stanza, rispondendo al fuoco. Anche Dib gli dette manforte. Dietro di loro, Vrel e Lyra erano ancora avvinghiati.

   «Molla, o ti spezzo il polso!» minacciò il timoniere. Senza aspettare la risposta, torse l’articolazione alla sorella nel tentativo di disarmarla.

   «No!» gridò Lyra. Ruotò su se stessa per liberarsi, così che le braccia di Vrel s’incrociarono e la sua presa s’indebolì. Dopo di che lo colpì allo stomaco con un calcio. Ma nel far questo il phaser le sfuggì di mano e cadde a terra.

   Il timoniere barcollò all’indietro. Lyra sapeva di avere solo un istante, prima che si slanciasse in avanti per raccogliere l’arma. Radunò tutte le forze e sferrò un calcio rotante che lo colpì in pieno petto, scagliandolo all’indietro. Dritto contro l’alcova semidistrutta. Lyra non pensava che l’avrebbe gettato così lontano. Di certo non ne aveva previsto l’esito.

   Vrel cadde di peso all’indietro, impalandosi su uno dei travicelli sporgenti. La sottile asta metallica gli perforò la schiena, appena sotto la scapola sinistra, e trafisse il cuore. Incredulo, il mezzo Xindi se la vide fuoriuscire dal petto, assieme a un fiotto di sangue. Un dolore atroce lo squassò, facendolo gridare a squarciagola. Il suo urlo si spese in un rantolo, mentre il sangue gli usciva dalla bocca, oltre che dalla spaventosa ferita. Era la fine, pensò confusamente, mentre afferrava il travetto arrossato e cercava di levarselo. Invece di spezzarlo, lasciando magari delle schegge nella ferita, riuscì a scorrere in avanti, così da sfilarselo dal corpo. Vide il sangue arterioso che gli zampillava direttamente dal cuore, imbrattandogli l’uniforme, e poi più niente. Privo di forze, si accasciò al suolo, mentre la pozza di sangue si allargava attorno a lui.

   «VREL!» gridò Lyra, inorridita. S’inginocchiò accanto a lui, per prestargli soccorso, ma si avvide subito che le sue condizioni erano disperate. Suo fratello stava morendo dissanguato sotto i suoi occhi. Cercò di tamponargli la ferita a mani nude, ma si avvide che era impossibile. Quando si ritrasse, le sue braccia erano lorde di sangue fino al gomito. La cronista si rialzò, sotto shock, e si volse in cerca d’aiuto. Fu allora che vide Jaylah, dieci passi avanti a lei. La mezza Andoriana era stata disarmata da un colpo che le aveva fatto saltar via il phaser di mano, ma era illesa.

   «Guarda cos’hai fatto!» gridò Lyra, disperatamente bisognosa di scaricare la colpa su qualcun altro. «Questa è opera tua! Se non avessi traviato mio fratello, ora sarebbe vivo! Assassina!».

   A quelle parole, Jaylah vide rosso. Richiamata dal grido lancinante di Vrel, si era girata appena in tempo per vederlo sfilarsi dal travetto e accasciarsi a terra. Per qualche secondo era rimasta paralizzata dall’orrore, consapevole che il suo migliore amico era spacciato. Aveva già perso degli amici e forse avrebbe accettato anche la morte di Vrel. Ma sentire Lyra, la diretta responsabile, che ribaltava la colpa su di lei era troppo. Non provò nemmeno a ribattere, perché le parole non avevano più senso. Vide il phaser a terra, ancora regolato per uccidere, e seppe che Lyra stava per afferrarlo. La mezza Xindi l’avrebbe uccisa per placare i suoi demoni, per auto-convincersi di essere la vendicatrice di Vrel, anziché l’assassina. Poi Jaylah notò la finestra alle sue spalle. Era una finestra molto grande: riempiva quasi tutta la parete e arrivava fino al pavimento. Era... invitante.

   Il corpo di Jaylah fu più rapido del suo pensiero. L’Agente geneticamente potenziata si proiettò in avanti a velocità supersonica, come le era accaduto poche volte nella vita. Raggiunse Lyra prima che questa raccogliesse il phaser. Con il palmo della mano destra le sferrò un tremendo colpo allo sterno. Si udì lo scricchiolio delle costole che s’incrinavano e in parte si spezzavano. Lo sterno arretrò, schiacciando il cuore e i polmoni della mezza Xindi. Questa strabuzzò gli occhi, per l’incredulità e il dolore, ma le sorprese non erano finite. Il colpo fu così potente che Lyra si sollevò e fu scagliata all’indietro, contro la finestra. Frantumò il vetro, i cui frammenti le graffiarono la schiena e il collo. E precipitò nel vuoto. Il suo urlo soffocato si spense nella caduta.

 

   Defenestrata Lyra, Jaylah fece un respiro profondo. Il sangue le era andato alla testa, ma ora cominciava a calmarsi. Raggiunse con poche falcate la finestra infranta e guardò di sotto. Lyra era precipitata nel giardinetto sottostante. Il suo corpo era adagiato tra i cespugli, con braccia e gambe piegati in modi strani. Aveva gli occhi aperti, ma non si muoveva. Era caduta per cinque piani, cioè per oltre quindici metri. Jaylah non sapeva se i cespugli l’avevano salvata. Dopo una caduta del genere era più facile che si fosse stroncata le vertebre, o magari che si fosse impalata su qualche ramo, analogamente a Vrel. In ogni caso, non c’era tempo di appurarlo.

   Il rumore della sparatoria la richiamò indietro, ma Jaylah non si unì allo scontro. Aveva capito che i nemici erano troppo numerosi per la sua piccola squadra. Era finita per loro, e probabilmente anche per la flotta che combatteva in orbita. Alla prova dei fatti, il nemico si era rivelato troppo forte.

   «Lyra aveva ragione: non abbiamo speranza» pensò Jaylah, accasciandosi presso il corpo inanimato di Vrel. Gli sollevò delicatamente il busto e se lo adagiò in grembo, sorreggendogli la testa come avrebbe fatto a un neonato. Vrel era sempre stato il cuore della Keter: il più allegro, il più generoso, il più ottimista degli ufficiali superiori. E ora il suo gran cuore si era fermato per sempre. Jaylah contemplò il corpo martoriato del suo amico, vedendo in lui il destino di ogni altro ribelle. Anche lei non si aspettava di vivere a lungo. I lealisti l’avrebbero arrestata, ma Rangda non l’avrebbe fatta arrivare viva al processo.

   «Sono spiacente per il suo amico» disse Dib, accostandosi.

   «Ha smesso di soffrire» mormorò Jaylah, cullandolo dolcemente. Una lacrima le scivolò lungo la guancia e cadde sul volto di Vrel.

   «Proverò a completare la missione, anche se le probabilità di successo sono tendenti allo zero» disse l’Ingegnere Capo. «Addio, Agente Chase». Il Penumbrano raccolse il phaser di Lyra e si accostò alla finestra infranta. Dopo aver calcolato la velocità di caduta, deducendo che la sua tuta avrebbe resistito all’impatto, saltò giù. Atterrò in piedi, fratturando le mattonelle di granito che bordavano il giardino. Senza nemmeno guardare il corpo di Lyra, corse via. Stordì una guardia con un preciso colpo di phaser e infilò l’ingresso che portava ai livelli inferiori, dove si trovava l’Hub informatico. La sua mente analitica gli diceva che non sarebbe riuscito nemmeno a entrare, eppure andò avanti, con una testardaggine quasi umana.

   Nella sala dei terminali, intanto, si era alle ultime battute della sparatoria. I quattro Agenti che avevano accompagnato Jaylah nella missione stealth si batterono con valore, ma furono storditi uno dopo l’altro. I lealisti irruppero nuovamente in sala, circondando la mezza Andoriana, ancora seduta con Vrel in grembo.

   «Arrenditi! Mani in alto, ribelle!» ordinò il caposquadra.

   Jaylah alzò gli occhi su di lui. Più che rabbia, provava commiserazione. Almeno era lieta che gli avversari indossassero tute da combattimento con caschi riflettenti. Così non poteva sapere se tra loro c’erano Umani che appoggiavano il nuovo regime. Malgrado gli ordini che le venivano urlati, non si mosse. Se i lealisti volevano spararle, lo avrebbero fatto. Altrimenti l’avrebbero trascinata a forza. Ma lei non si sarebbe separata spontaneamente da Vrel.

   «Sei sorda, mezza Umana?!» berciò il caposquadra, cercando di afferrarla per un braccio. Ma in quella Jaylah e Vrel furono teletrasportati via, assieme ai colleghi storditi. Presi alla sprovvista, i lealisti imbracciarono nuovamente i fucili phaser e aprirono il fuoco. Con un secondo di ritardo. Due raggi azzurri s’incrociarono nel punto in cui, fino all’attimo prima, Jaylah sorreggeva il corpo inanimato di Vrel.

   «Com’è possibile?!» gridò il caposquadra. «Lo Scudo Cittadino blocca il teletrasporto! Chi li ha aiutati?».

 

   Mentre gli Agenti storditi si erano materializzati nelle sale teletrasporto della Keter, dove Joe e altri medici erano pronti a soccorrerli, Jaylah e Vrel furono trasferiti direttamente in infermeria. La mezza Andoriana alzò gli occhi, mentre la porta della cabina di teletrasporto si apriva, e incrociò lo sguardo di Ladya. «Gli hanno trafitto il cuore» mugolò. «Salvalo, ti scongiuro».

   Vedendo il ferito, la dottoressa comprese all’istante la gravità della situazione. «Codice Bianco!» ordinò, riferendosi alle misure di rianimazione. «Serve un’immediata trasfusione di sangue Xindi, gruppo X positivo. Preparate la macchina cuore-polmone per la CEC».

   Come in un sogno, Jaylah vide medici e infermieri che prendevano il corpo esamine di Vrel dalle sue braccia e lo adagiavano in barella. Da lì lo portarono in sala operatoria, collegandolo al macchinario che sopperiva al cuore distrutto e ai polmoni collassati. Solo la circolazione sanguigna extracorporea o CEC poteva tenerlo in vita, mentre i medici suturavano le ferite. Jaylah si rialzò a fatica e li seguì, fermandosi sulla soglia. Tutto le vorticava attorno e le voci si confondevano nel suo cervello, facendole capire solo qualche sprazzo.

   «Il paziente è in pneumotorace. Intubiamolo per impedire il totale collasso polmonare».

   «Il cuore è spappolato, non ho mai visto niente del genere».

   «CEC operativa, stiamo replicando le provviste di sangue».

   «Presto, 50 cc d’inaprovalina!».

   «Al diavolo le procedure, iniettiamola direttamente nel cuore».

   «Anossia cerebrale, EEG critico! Lo stiamo perdendo!».

   Jaylah non aveva mai visto Ladya operare con tanto accanimento. La Vidiiana stava facendo di tutto per salvare Vrel, inventandosi sul momento soluzioni adatte alla sua fisiologia meticcia. Ma le condizioni del timoniere erano veramente disperate. A peggiorare le cose, la Keter si scosse e l’energia venne meno per qualche secondo, anche se fortunatamente gli strumenti medici avevano batterie autonome. Jaylah ricordò che era in corso una battaglia. Facendo violenza a se stessa, lasciò la sala operatoria, senza sapere se l’amico sarebbe sopravvissuto.

   «Chase a plancia» chiamò. «Lyra ci ha traditi, come temevamo. Vrel è in condizioni critiche e la missione è fallita. Ma come avete fatto a teletrasportarci attraverso lo Scudo?».

   «Lo Scudo è stato abbassato poco fa» le rispose il Capitano.

   «Perché?!» si stupì l’Agente.

   «Non lo sappiamo, ma sembra che in questo momento Memory Alpha sia sotto attacco informatico» rivelò Hod. «Forse abbiamo un alleato, laggiù».

   «Dib è rimasto a terra, ma non credo che possa essere lui» farfugliò Jaylah, cercando di raccapezzarsi. «Qui nello spazio come va?» chiese, sentendo beccheggiare la nave.

   «Non resisteremo a lungo» rispose il Capitano.

   Jaylah ragionò in fretta: se lo Scudo era abbassato, doveva approfittarne. «Rimandatemi giù» decise. «Più vicino che potete allo Hub».

   «Se la mandiamo giù ora, non so se riusciremo a riprenderla» avvertì Hod.

   «Lo so. Fatelo e basta» disse la mezza Andoriana. Prese un altro phaser, si pulì il sangue di Vrel dalla tuta occultante e rientrò nella cabina di teletrasporto.

   «Lei è l’ufficiale più coraggiosa che abbia mai avuto, o la più folle» disse il Capitano. «Buona fortuna; l’aspetteremo il più possibile».

 

   Gli allarmi squillavano nella sede del Federal News. I lavoratori avevano lasciato i loro posti e se ne andavano secondo il piano di evacuazione, mentre gli agenti accorrevano a frotte. Una squadra medica raccolse Lyra dal giardino e la portò d’urgenza all’ospedale. Come il fratello, la mezza Xindi era tra la vita e la morte.

   In uno dei livelli più profondi del complesso, non lontano dall’Hub, Dib correva a una velocità che avrebbe rapidamente sfiancato un Umano, ma che lui poteva sostenere per ore. Ogni volta che si trovava di fronte una guardia o un sistema di sorveglianza, lo neutralizzava con precisi colpi di phaser. La sua mente simile a un computer gli dava riflessi fulminei, abbinati a una mira infallibile. Era una fortuna che in genere i Penumbrani non lasciassero il loro mondo e non avessero mire espansionistiche, perché sarebbero stati soldati formidabili. L’Ingegnere Capo non aveva nemmeno bisogno di controllare il percorso, perché nella sala del terminale aveva osservato le planimetrie del complesso e questo gli bastava per elaborare il tragitto più breve.

   Svoltando un angolo, Dib s’imbatté in un giovane Denobulano. Immediatamente gli puntò il phaser al petto.

   «Ehi, calma!» disse il ragazzo, alzando le mani. «Sono solo uno studente, sono qui per uno stage. Non intendo morire per sei crediti formativi, quindi passa pure».

   «Ti consiglio di abbandonare questo edificio» disse il Penumbrano, e corse via alla stessa velocità di prima.

   Spaventato, lo studente si allontanò nella direzione opposta. Mentre camminava di buon passo, però, estrasse di tasca il comunicatore. «Pronto, polizia? Sono Nox, uno stagista del Federal News. Ho appena incontrato uno dei terroristi al livello 30 del sottosuolo, sezione 4. Correva verso lo Hub. Se fate presto, forse lo beccate prima che arrivi».

   «Grazie della segnalazione, figliolo. Ottimo senso civico» gli rispose un agente. «Ora vattene più svelto che puoi. Fra poco ci sarà battaglia».

   «Sì, agente». Il Denobulano corse a perdifiato, spaventato dall’incontro col ribelle, ma orgoglioso di aver fatto il suo dovere civico.

 

   Di lì a poco Dib raggiunse l’ingresso del bunker che racchiudeva l’Hub. Era un enorme portone corazzato, di forma circolare, vigilato da alcune guardie. Il Penumbrano ne stordì una, ma dovette nascondersi dietro l’angolo per sfuggire alla reazione delle altre. I raggi stordenti non gli avrebbero fatto perdere i sensi, data la sua fisiologia aliena, ma un settaggio più alto poteva danneggiargli la tuta refrigerante, condannandolo a bollire vivo. Dopo qualche secondo l’Ingegnere si sporse di nuovo, stordendo un’altra guardia. Un raggio phaser gli sfiorò lo spallaccio della tuta termica, lasciando un segno scuro, ma fortunatamente senza perforarlo.

   Non volendo fare da bersaglio, i sorveglianti si fecero avanti, sotto un intenso fuoco di copertura. Avevano quasi raggiunto l’angolo, quando un avversario munito di tuta occultante apparve alle loro spalle. Prima che si avvedessero del pericolo, furono storditi con un unico raggio phaser prolungato.

   «Il campo è libero» disse una voce familiare.

   Il Penumbrano dette una rapida occhiata e lasciò il nascondiglio. «Agente Chase, come ha fatto a precedermi?» chiese.

   «Lo Scudo è calato, quindi dalla Keter sono riusciti a trasferirmi qui. Sembra che...». Jaylah s’interruppe: il portone corazzato si stava aprendo, senza che loro avessero fatto alcunché. «Come direbbe Juri, sembra che abbiamo un santo in Paradiso» concluse la mezza Andoriana, sebbene quei misteriosi aiuti la inquietassero.

   «È più probabile che si tratti di un nostro sostenitore qui a Memory Alpha» corresse Dib.

   «Era quello che... non importa, andiamo» lo esortò Jaylah. Varcarono la porta blindata, che si richiuse dietro di loro. «Ti copro le spalle» disse la mezza Andoriana, rendendosi nuovamente invisibile.

 

   Era l’ultima tappa della missione. L’Ingegnere Capo si addentrò nello Hub, uno sterminato salone dal soffitto basso. Sotto a quello c’erano altri piani, raggiungibili tramite una scala a chiocciola, tanto che l’Hub nel suo complesso aveva forma cubica; ma non era necessario scendere ancora, dato che ogni livello era provvisto di terminali.

   Si trattava di uno dei tanti snodi dell’Olonet, l’invisibile rete informatica che univa tutti i mondi federali, permettendo l’interscambio continuo d’informazioni. La vita dei cittadini sarebbe stata impossibile senza quella rete unificante che permetteva di lavorare, istruirsi, fare acquisti, comunicare a lungo raggio, svagarsi, progettare viaggi e molto altro. Qualcuno aveva detto che l’Olonet era un’Idra dalle mille teste, ognuna delle quali era uno Hub. Ogni snodo conteneva infatti centinaia di banchi di memoria, che racchiudevano una frazione significativa dei dati Olonet, pur non essendo indispensabili al suo funzionamento. Se uno Hub era distrutto, la rete si riassestava, ridistribuendo le proprie informazioni con perdite minime. Solo la distruzione di numerosi snodi avrebbe messo a repentaglio l’infrastruttura dell’Olonet; ma questo non era mai accaduto in tutta la storia federale.

   Dib procedette con circospezione. I banchi di memoria non erano solo incassati nelle pareti: formavano blocchi simili a monoliti che si levavano dal pavimento al soffitto, allineati in lunghe file. A volte i blocchi erano collegati, così da formare passaggi labirintici. Li pervadeva un ronzio di sottofondo, che non cessava mai e non era mai uguale: saliva e scendeva, cambiava tono in base all’attività dell’Olonet. A vederli, i banchi di memoria avevano un aspetto parte metallico e parte cristallino. Erano divisi in griglie orizzontali, che pulsavano di luce blu e potevano essere aperte per gli interventi di manutenzione. Qua e là c’erano postazioni di controllo, con oloschermi che permettevano di visualizzare l’attività dell’Hub o anche dell’Olonet nel suo insieme. Tutte queste fonti di luce bastavano a rischiarare la sala, che per il resto non aveva illuminazione.

   Ne risultava un ambiente psichedelico, quasi da discoteca, con le griglie informatiche che brillavano di un blu elettrico, gli oloschermi che disegnavano macchie colorate e tutto il resto immerso nella penombra. Ci si poteva perdere negli androni formati dai blocchi mnemonici, che in certe zone erano così arzigogolati da ricordare le volute di un cervello umanoide. Come il ronzio, anche la luce saliva e scendeva in base all’attività dell’Hub. Certi blocchi erano più lucenti, altri più fiochi; alcuni s’illuminavano a intermittenza, gettando bagliori come di fulmini.

   L’Ingegnere Capo notò che non c’erano tecnici. Di regola ogni Hub ne aveva decine, che si alternavano nell’arco della giornata per non lasciarlo mai incustodito. Adesso però il salone era deserto; evidentemente gli addetti lo avevano già evacuato. Mentre camminava, tuttavia, il Penumbrano sentì dei passi. Poteva essere Jaylah, che gli guardava le spalle; ma poteva darsi che quel salone non fosse del tutto abbandonato. In effetti le guardie all’ingresso erano poche, a paragone della sua importanza.

   Non c’era che un modo per verificarlo. Osservando il soffitto, Dib individuò i sensori dell’impianto antincendio. Mirò il più vicino e lo colpì col phaser. In tal modo ne innalzò la temperatura, facendogli credere che ci fossero delle fiamme. Subito squillò l’allarme e i diffusori sul soffitto presero a spruzzare acqua. Questa contromisura era possibile in quanto i blocchi mnemonici erano impermeabili, almeno finché non si aprivano le loro griglie, mettendo a nudo i circuiti.

   Nella pioggerella fine si disegnò una sagoma umanoide. E un’altra. E un’altra ancora. Decisamente Jaylah non era l’unico Agente occultato presente in sala. Dib alzò il phaser, ma ebbe un attimo d’esitazione. Gli Agenti, appena intuibili in quanto le goccioline scivolavano sulle loro tute, sembravano tutti uguali. Il Penumbrano non sapeva chi di loro fosse Jaylah. Si accorse però che quello più vicino era troppo alto per essere la sua collega. Quindi sparò, rendendolo del tutto visibile. L’Agente barcollò, ma la tuta occultante lo protesse in gran parte dallo stordimento. Sparò a sua volta in modo impreciso. Il raggio mancò di poco Dib: colpì un blocco alle sue spalle e lo disintegrò. Dunque i lealisti sparavano per uccidere. La distruzione del banco mnemonico cambiò sensibilmente il tono luminoso e il ronzio dell’Hub. I blocchi adiacenti aumentarono l’attività, per sopperire a quello distrutto.

   «Sono qui!» gridò Jaylah, rendendosi visibile e ritirando il casco nella tuta per evitare equivoci. Sparò anche lei all’avversario, con una regolazione più alta. Colpito al petto, l’Agente nemico cadde contro un banco mnemonico e da lì scivolò a terra. Subito gli altri Agenti abbandonarono l’occultamento. «Adesso si balla» disse la mezza Andoriana, scrollando la testa per levarsi i capelli bagnati dalla faccia. Ancora non sapeva se Vrel era vivo o morto, né se la flotta ribelle sarebbe scampata alla trappola. Poteva combattere come se non ci fosse un domani.

 

   Fu una lotta d’astuzia, combattuta nel labirinto informatico, fra i lampi e i ronzii dei blocchi mnemonici. Dib e Jaylah si separarono, per costringere anche gli avversari a dividersi. Si nascosero e gli tesero agguati, colpendoli coi phaser o afferrandoli per poi sbatterli con violenza contro i banchi di memoria. A complicare le cose, il pavimento era bagnato e quindi scivoloso per la continua pioggerella che cadeva dal soffitto. Più volte, durante le colluttazioni, uno o l’altro dei contendenti scivolò a terra. Ogni volta che Dib o Jaylah erano in pericolo, l’altro interveniva in suo soccorso, a volte senza nemmeno fermarsi.

   Prima di allora, Jaylah non aveva mai visto l’Ingegnere Capo battersi in quel modo. Non pensava che fosse nel suo carattere, o anche nelle sue capacità. Ma comprese che era una valutazione erronea. Dib faceva ciò che riteneva logico e necessario. Se la logica imponeva di picchiare duro, ecco che il Penumbrano diventava una forza inarrestabile. Quanto alle capacità, valeva il solito discorso: il corpo fluido di Dib poteva essere interamente devoluto alle facoltà cerebrali, come se fosse tutto un grosso cervello. Di conseguenza il Penumbrano poteva analizzare le mosse degli avversari, elaborare decine di contromosse, calcolarne l’efficacia e scegliere la migliore in una frazione di secondo. Poteva persino prevedere dove avrebbe colpito un phaser, in base all’angolo di puntamento. Mentre affrontava un avversario, Dib poteva tenere a mente la posizione degli altri, calcolare in modo probabilistico i loro spostamenti nel salone e quindi, dopo aver messo KO il nemico, andare a sorprenderne un altro.

   «Dib, la flotta non resisterà a lungo!» avvertì Jaylah. Si gettò allo scoperto, rotolando a terra e sparando a un agente lealista.

   «Ricevuto» disse l’Ingegnere Capo, che in quel momento ne sollevava uno per il collo dopo averlo disarmato. Lo scaraventò lontano e lo stordì col phaser prima ancora che atterrasse.

   I due ribelli si guardarono attorno, ma non videro altri nemici in piedi. Corsero verso il terminale più vicino. Lo avevano quasi raggiunto, quando improvvisamente furono schiacciati a terra.

   «Frell!» imprecò Jaylah. Cadde in ginocchio e da lì dovette lasciarsi scivolare su un fianco. Le sembrava di pesare una tonnellata. Non riteneva di avere fratture, ma non riusciva assolutamente a rialzarsi.

   «Le piastre di gravità sono state portate al massimo» constatò Dib. «Posso alzarmi, ma i miei movimenti saranno notevolmente rallentati». Così dicendo si tirò in piedi, con un certo sforzo.

   «Non pensare a me, completa la missione!» lo esortò Jaylah. Ma in quel momento un’ultima squadra nemica salì dai livelli inferiori dell’Hub. Loro non avevano problemi a camminare, segno che solo la piastra su cui si trovavano i ribelli era stata massimizzata. I lealisti, infatti, si tennero a una certa distanza. Con loro c’erano parecchi droni di sorveglianza, che svolazzavano a un paio di metri da terra.

   «Consegnate le armi!» intimò il caposquadra.

   Jaylah si era promessa di non arrendersi, ma si disse che forse il loro misterioso alleato li avrebbe aiutati ancora; nel frattempo non doveva farsi stordire. Perciò spinse faticosamente il phaser fino all’estremità della piastra gravitazionale e si ritrasse. Dib fece lo stesso. Uno dei lealisti si avvicinò cautamente e raccolse le armi. Solo allora la gravità fu normalizzata, permettendo alla mezza Andoriana di rialzarsi. Gli agenti si avvicinarono, facendo rientrare i caschi nelle tute. Solo uno lo tenne alzato e restò qualche passo indietro, col fucile phaser spianato.

   «Tenente Raymond a centrale, abbiamo i ribelli» disse il caposquadra.

   Vedendolo in faccia, e sentendo il suo cognome, Jaylah ebbe un’amara sorpresa. «Lei è Umano! Come può schierarsi coi Voth?!» s’indignò.

   «Sono nato su Relva VII. La Terra non l’ho mai vista e francamente non m’importa chi ci pianta la bandiera» rispose il Tenente. «Ma se la vostra combriccola vuol dilaniare l’Unione... ecco, questa è una cosa grave. Comunque siete stati dei pazzi a venire qui. Presto la vostra flotta tornerà in mano nostra e anche il vostro amico hacker sarà localizzato» promise.

   «Chi?».

   «Non fare la tonta. Quello che ha abbassato lo Scudo Cittadino e vi ha aperto il caveau» disse Raymond, avvicinandosi con fare minaccioso. «Ma nemmeno lui può aiutarvi, adesso. Giratevi, così sarete ammanettati. Non fate strane mosse, perché siamo autorizzati a spararvi. E qualcuno spenga questo dannato antincendio!» ordinò, passandosi la mano sul volto fradicio.

   Dib e Jaylah si stavano già voltando per farsi ammanettare, quando accadde l’inaspettato. La guardia che era rimasta in posizione arretrata colpì Raymond alla schiena. I droni fecero lo stesso con il resto della squadra. Tutti i lealisti furono storditi nel medesimo istante.

   «Spero che abbiate fatto tutto questo per una buona ragione» disse la guardia. La sua voce era alterata dal casco, ma aveva un timbro femminile. Mentre parlava, i diffusori sul soffitto smisero finalmente di buttare acqua.

   «Vogliamo pubblicare i nostri diari dei sensori, così la gente capirà che non c’è stato alcun golpe della Flotta» disse Jaylah.

   «La gente continuerà a credere ciò che ha deciso di credere» sospirò l’ignota salvatrice. «Ma suppongo che lo dobbiate alle vittime. Sapete, tu e il Capitano Hod non siete le uniche a rimpiangere l’Enterprise. Quanto mi manca quella nave!». Così dicendo ritrasse il casco. Aveva un viso Umano, dai delicati lineamenti orientali, incorniciato da due ciocche di capelli corvini. La sua pelle era liscia come quella di un’adolescente, ma gli occhi scuri avevano lo sguardo tormentato di chi ha vissuto – e perso – molto. Jaylah la riconobbe all’istante. Era Terry, l’originale Intelligenza Artificiale dell’Enterprise. E sembrava molto contrariata dalla distruzione della sua astronave.

 

   «Oh, Terry!» si commosse la mezza Andoriana. «Credevo che dopo le dimissioni vivessi sulla Terra. Non lavoravi al Daystrom Institute?».

   «Sì, ma mi sono trasferita qui tre mesi fa, per lavorare alla prossima generazione di traduttori universali» spiegò la proiezione isomorfa. Mentre parlava raccolse le armi di Jaylah e Dib, restituendole ai proprietari. «È stata una fortuna, o sarei rimasta bloccata nell’Assedio, dopo di che forse mi avrebbero disattivata. Sono certa che anche voi avete molto da raccontare; ma prima finiamo la missione. A proposito, posso scroccarvi un passaggio? Temo di aver perso le mie ali» disse, rimpiangendo l’Enterprise.

   «Sei la benvenuta. Sapessi quanto sono felice di averti con noi!» disse Jaylah, abbracciandola con insolito trasporto. «Abbiamo perso molti amici» aggiunse, trattenendo a stento le lacrime.

   Terry intuì che la mezza Andoriana era stata colpita negli affetti, ma non chiese spiegazioni; non era il momento. «Allora non perdiamo tempo» disse, separandosi. «È da quando vi siete infiltrati che seguo le vostre mosse attraverso la rete informatica e vi aiuto come posso. Quando ho visto che cercavate di superare i blocchi di sicurezza, ho continuato il lavoro. Sono pronta a scaricare i vostri dati».

   I tre corsero al terminale più vicino, dove Dib inserì l’unità di memoria e scaricò il database. Grazie a Terry, che aveva violato il sistema, l’Ingegnere Capo non ebbe difficoltà a entrare nei programmi del Federal News. Nel frattempo Jaylah faceva la guardia. Vedendo uno degli agenti storditi durante lo scontro iniziale che iniziava a muoversi, gli sparò di nuovo, rimandandolo nel mondo dei sogni. «Bel lavoro coi droni» commentò, vedendo gli apparecchi che pattugliavano l’ingresso. «Li controlli direttamente?».

   «Sì, il multitasking è il mio forte» confermò la proiezione isomorfa.

   «Invio il database» disse Dib, attivando gli ultimi comandi. Sull’oloschermo apparve una barra progresso circolare, che si completò in un istante. «Trasmissione completa. Ora i nostri dati sono pubblicati sull’home page del Federal News e interrompono le trasmissioni regolari».

   «Lo scoop del secolo» sogghignò Jaylah. «Quelli del News dovrebbero ringraziarci». Così dicendo stordì un altro agente in procinto di rialzarsi.

   «Ho codificato i dati con un algoritmo modulante» disse l’Ingegnere Capo. «Ai tecnici servirà tempo per rimuoverli».

   «E per allora, chiunque abbia una scintilla di curiosità li avrà scaricati» si augurò Jaylah.

 

   Per la seconda volta in pochi giorni, ad Atlantide risuonavano gli allarmi. Il palazzo presidenziale era in allerta, con gli scudi alzati e le guardie che pattugliavano ogni piano. In una sala tattica, la Presidente Rangda e l’Ammiraglio Hadron osservavano assieme ai rispettivi staff la battaglia spaziale trasmessa in diretta da Memory Alpha. La flotta ribelle aveva resistito fino allo stremo, ma ormai era soverchiata dalla Nave Bastione e dai lealisti.

   «Che le dicevo?» commentò Hadron. «I ribelli ci hanno risparmiato la fatica di andarli a stanare uno per uno. Sembra che lo facciano apposta a perdere».

   «Sì, ma alcuni di loro hanno raggiunto l’Hub» disse Rangda, contrariata. «Questo non doveva accadere. Dai rapporti, sembra che abbiano un alleato hacker. Dobbiamo fermarli, prima che...».

   «Troppo tardi, Eccellenza!» gemette un tecnico. «Guardi cos’hanno caricato sul News!». Attivò un oloschermo, mostrando il messaggio registrato da Hod e Gegen. Le due sedevano fianco a fianco, dietro la scrivania del Capitano.

   «Frola!» ringhiò Hadron, con le scaglie imporporate dalla rabbia.

   «Salve, cittadini federali» esordì Hod. «Scusate per l’interruzione dei servizi, ma la necessità ci ha imposto di farvi pervenire questo messaggio, che altrimenti le autorità avrebbero censurato. Io e la dottoressa Gegen siamo qui, di comune accordo, per rivelarvi l’inganno con cui la Presidente Rangda ha sovvertito la nostra democrazia, sfruttando la contesa tra Umani e Voth».

   «Una contesa assurda, dato che le scoperte scientifiche non possono essere piegate a fini di sopraffazione politica» aggiunse Frola. «Il mio intento, con questa ricerca, era di stimolare il libero pensiero e la tolleranza nella società Voth; non di giustificare un’aggressione militare. Ma quando ho cercato di esprimere il dissenso della comunità scientifica, sono stata silenziata, e solo grazie agli amici della Keter posso farvi udire la mia voce».

   «In questi giorni, la Presidente Rangda e i suoi collaboratori vi hanno consapevolmente mentito, affermando che la Flotta Stellare ha tentato di prendere il potere con un colpo di Stato» riprese Hod. «La realtà è l’esatto opposto: Rangda ha rovesciato la Flotta, sfruttando i Voth come suo braccio armato. In cambio gli ha venduto la Terra, costringendo miliardi di cittadini a essere deportati, perdendo la casa e il lavoro. Voglio evidenziare che, se la Presidente può consegnare la nostra capitale a una potenza straniera, allora nessun mondo è più al sicuro. Chiunque di voi può essere espropriato ed esiliato in qualunque momento, secondo una logica feudale che contrasta coi diritti sanciti dalla Costituzione.

   «Questa guerra assurda, nata dall’arroganza e dalla cupidigia di pochi, ha già mietuto decine di migliaia di vittime» aggiunse Frola. «Non parlo solo dei federali, messi l’uno contro l’altro, ma anche di noi Voth, ridotti a pedine di questo gioco perverso. Invece di collaborare coi federali, scambiare conoscenze e ampliare i nostri orizzonti, ci siamo irrigiditi in un orgoglio aristocratico che non beneficerà nessuno. Se fossimo stati perseguitati, nel Quadrante Delta, avremmo avuto un valido motivo per tornare. Ma non abbiamo problemi a casa nostra. Ci siamo presi la Terra solo perché non sappiamo accettare la nostra Storia e ci sentiamo sperduti».

   «Durante la battaglia, quando stavamo prevalendo, Rangda ci ha ordinato la resa, sapendo che ciò avrebbe spaccato in due la Flotta» riprese Hod. «Una lotta fratricida è divampata tra un’astronave e l’altra, e all’interno di ogni singola nave. La nostra ammiraglia, la gloriosa Enterprise-J, è stata distrutta dalla Juggernaut del Capitano Gulnar. Molti altri equipaggi sono stati massacrati, o arrestati con false accuse, o costretti a fuggire col marchio di ribelli, com’è accaduto a noi.

   Ma se non vi fidate delle mie parole, fidatevi dei dati. Allegati a questo messaggio troverete i diari dei sensori di tredici navi sfuggite alla Caduta della Terra. Affrettatevi a scaricarli, prima che siano rimossi dal Federal News, e poi leggeteli. Scoprirete cos’è accaduto a ogni nave della Flotta: quelle distrutte, quelle catturate e quelle messe in fuga. Scoprirete altresì che non c’è stato alcun assalto al palazzo presidenziale. Solo il Quartier Generale e gli altri edifici della Flotta sono stati attaccati dai Voth. L’Ammiraglio Chase è stato catturato e forse assassinato per impedirgli di testimoniare. Ora Rangda sta cancellando le libertà costituzionali, con la scusa della finta ribellione. Sostiene che siano misure temporanee, ma potete stare certi che non restituirà mai i poteri di cui si è arrogata. E vi dico un’altra cosa: dopo aver demonizzato gli Umani, Rangda cercherà un altro capro espiatorio. Nessun popolo, e di certo nessun individuo, è al sicuro da questa dittatrice.

   In quest’ora buia, esorto tutti i cittadini a resistere, raccomandando tuttavia le forme di nonviolenza e di resistenza passiva. Esorto inoltre i mondi federali a fare pressione sul governo, per far cessare la legge marziale e indire al più presto nuove elezioni. L’alternativa sarà l’imposizione di un regime totalitario; e allora sarebbe stato meglio che l’Unione Galattica non fosse mai esistita. Aiutateci a tenere viva la fiamma della libertà, che oggi è ridotta al lumicino; perché se Rangda la soffocherà del tutto, c’è il rischio che nessuno riesca a riaccenderla».

   «Non arrendetevi alla tirannia, ma non rassegnatevi nemmeno all’idea di un perenne conflitto» raccomandò Frola. «Un giorno, federali e Voth vivranno in pace, aiutandosi a vicenda. Ogni specie avrà pari valore e ciascuna contribuirà al valore dell’insieme. Se non dovessi più aver modo di parlarvi, vi lascio con quest’augurio e con questa esortazione. Occhi aperti!».

   Terminato il messaggio, apparve il database dei ribelli, con l’indice delle varie registrazioni. I tecnici presenti in sala spensero l’oloschermo, anche se non potevano eliminare rapidamente i dati. Rangda era rimasta attonita come se le avessero dato uno schiaffo. Ma l’incredulità divenne ben presto una collera spietata. «Quanto ci vorrà per rimuovere quella spazzatura?» chiese ai tecnici, due Bynari.

   «I dati sono codificati con un algoritmo molto complesso» rispose il primo Bynario. «Potrebbero volerci ore per violarlo».

   «Allora spegnete il Federal News» ordinò la Presidente. «Oscurate tutto il sito, mentre ci lavorate».

   «Non è mai stato fatto...» mormorò il secondo Bynario, incerto.

   «Quindi lo faremo adesso!» ringhiò la Zakdorn, con sguardo assassino. «Non possiamo permettere a questo virus mentale di propagarsi. Ne va della sopravvivenza dell’Unione!».

   «Manderò qualche vascello in appoggio alla Nave Bastione» promise Hadron, sul punto di premersi il comunicatore.

   «No!» lo fermò Rangda. «Non è il momento di presentarvi come i poliziotti dell’Unione. Vi metterebbe in cattiva luce, ed è quello che i ribelli vogliono. E poi ho già preso provvedimenti. Sa, Ammiraglio, voi non siete i miei soli alleati» aggiunse con un sorriso perfido.

 

   «Bene, usciamo di qui!» disse Jaylah, dirigendosi col phaser in pugno verso la porta blindata. A un tratto però si arrestò, assalita da un dubbio. «Terry, come ti sei manifestata? Hai l’Emettitore Autonomo?» chiese.

   «Sì, l’ho agganciato in cintura» confermò la proiezione isomorfa, che aveva dovuto nasconderlo nel momento in cui si era travestita da Agente. Avrebbe potuto sfruttare gli olo-emettitori dello Hub, ma non voleva dipendere da una risorsa che poteva esserle sottratta con un click.

   «Dov’è il tuo processore centrale?».

   «Al dipartimento di xeno-linguistica, a cinquanta km da qui» rivelò Terry. «Dobbiamo teletrasportarlo, perché io possa davvero lasciare il pianeta».

   Jaylah annuì. «Chase a Keter, missione compiuta. Portateci su appena riapriamo il caveau. Portiamo con noi un’alleata, che però ha bisogno d’imbarcare un carico vitale, quindi non scappate appena ci avrete a bordo!» raccomandò.

   La risposta giunse dopo qualche secondo, tra molte interferenze. «Ricevuto, fate presto» disse il Capitano.

   «Ci sono nemici appostati all’esterno» avvertì Terry. «Li terrò a basa coi droni. State indietro!».

   Mossi dall’Intelligenza Artificiale, i droni si accostarono al portone blindato. Nel momento in cui questo cominciò ad aprirsi, sciamarono fuori, scatenando una furiosa sparatoria con le guardie.

   «Ora!» disse Jaylah, tramite il canale ancora aperto del comunicatore.

   Mentre i lealisti schierati su ambo i lati del corridoio erano trattenuti dai droni, i tre ribelli furono teletrasportati. Solo quando tutti i droni furono abbattuti gli Agenti poterono entrare nello Hub, dove trovarono i loro colleghi che cominciavano appena a riprendersi.

   «Oh, no» mugugnò il Tenente Raymond, vedendo l’unità di memoria che Dib aveva lasciato nel terminale. «Maledetti sabotatori. Ma non andranno lontano».

 

   Materializzati sulla plancia della Keter, i fuggitivi si avvidero che la situazione era drammatica. C’erano danni a bordo e la flottiglia ribelle era ormai allo sbando.

   «Terry!» esclamò il Capitano, sollevata malgrado tutte le disgrazie. «Benvenuta tra noi!».

   «Grazie, ma sarò realmente a bordo solo quando avrò imbarcato il mio mainframe» disse l’IA. Lasciò subito la pedana e prese i comandi del teletrasporto.

   «Faccia presto; con gli scudi abbassati non reggeremo a lungo» avvertì Hod, mentre la nave sussultava.

   La proiezione isomorfa sondò il dipartimento di xeno-linguistica, in cerca del suo processore. Da quando aveva lasciato l’Enterprise doveva sempre portarselo dietro. Era un carico ingombrante, ma vitale, perché l’Emettitore Autonomo non bastava ad accogliere tutta la sua personalità. Individuò subito il mainframe, ma si accorse di un’altra cosa: i suoi colleghi di lavoro stavano cercando di disattivarlo.

   «Addio, amici» disse con disprezzo. Siccome le pedane di teletrasporto erano troppo piccole per accogliere tutto il processore, lo trasferì nell’hangar. «Ce l’ho!» disse.

   «Su gli scudi, andiamo via!» ordinò il Capitano. «A tutta la flotta, ritirata. La missione è compiuta».

   La flottiglia ribelle, provata dall’impari lotta, cercò di disimpegnarsi. Molti vascelli però erano così danneggiati che non riuscivano a manovrare. I Voth e i lealisti mirarono ai loro propulsori, per impedirgli di fuggire. Solo sei delle tredici navi riuscirono a muovere verso lo spazio.

   «Non possiamo abbandonare più di mezza flotta!» protestò Jaylah. «Se lo facciamo, nessuno vorrà più seguirci».

   «Gli altri vascelli sono già stati abbordati. Se non andiamo subito, accadrà anche a noi. Gli scudi sono al 10%» avvertì Norrin.

   Hod guardò le astronavi danneggiate e alla deriva. Al loro interno, Voth e lealisti guadagnavano terreno, sbaragliando ogni resistenza grazie alla superiorità tecnologica e numerica. Lei però non se la sentiva di abbandonare quegli equipaggi che si erano fidati di lei, accettando il suo piano d’attacco pur conoscendo gli enormi rischi. «Cerchiamo di evacuare le navi in panne» ordinò.

   «Capitano, tracce di curvatura in arrivo» avvertì Zafreen.

   «Curvatura?» si stupì Hod. Né i Voth, né l’Unione usavano più quel tipo di propulsione. «Sullo schermo» ordinò.

   I nuovi arrivati uscirono dalla curvatura, chiudendo la via di fuga. Erano venti astronavi, allineate in ranghi perfetti. Avevano forme asimmetriche, con gli scafi composti da segmenti ricurvi come scimitarre: uno stile inconfondibile.

   «Breen» mormorò il Capitano, sentendosi accapponare la pelle. Quegli alieni militaristi e imprevedibili erano l’ultima calamità che le mancava.

   «Trasmettono a banda larga» disse Zafreen.

   «Sentiamoli».

   Un Breen apparve sullo schermo. Come tutti quelli del suo popolo, indossava una corazza termica con tanto di casco che gli nascondeva il volto. Solo alcuni dettagli in oro permettevano di capire che si trattava di un ufficiale di alto rango. La sua voce, filtrata dal casco, era un incomprensibile ronzio elettronico, ma Zafreen attivò il traduttore istantaneo.

   «Sono Thot Rong, inviato dalla Confederazione Breen». La sua voce sintetica era fredda e tagliente come una lama di ghiaccio. «Sono qui su richiesta della Presidente Rangda, per soccorrere l’Unione Galattica in questa fase di grave instabilità. Il mio governo desidera che l’Unione rimanga salda, costituendo un interlocutore autorevole che parli a nome di tutti i suoi membri. Se la vostra compagine politica si disgregasse, ci sarebbe un aumento incontrollato dei conflitti, della pirateria e degli sconfinamenti. Pertanto noi Breen faremo tutto quanto è in nostro potere per liberarvi dai ribelli della Flotta Stellare. Thot Rong, chiudo».

   Gli ufficiali della Keter restarono impietriti. Si erano già scontrati con Thot Rong, anni prima: sapevano che non minacciava a vuoto. «Non ha senso» disse Jaylah, riprendendosi per prima. «I Breen hanno sempre cercato di frammentarci, sapendo che questo ci avrebbe indeboliti. Perché adesso vorrebbero rinsaldare l’Unione?».

   «Rangda deve avergli promesso qualcosa in cambio» dedusse Terry. «Se ha venduto la Terra ai Voth, può ben fare altre concessioni ai Breen».

   «Uhm... a me risultava che avessero litigato, dopo la faccenda dello Spettro. Perché adesso sono di nuovo alleati?» si chiese Norrin.

   «Perché, intervenendo nelle nostre faccende, i Breen si aspettano di ottenere molto più di ciò che gli ha promesso Rangda» comprese il Capitano.

   «La flotta Breen si avvicina» avvertì Zafreen. «Stiamo per entrare nel loro raggio di tiro».

   Hod fissò lo schermo, tutta smorta. Ormai non poteva più salvare le sue navi incidentate. Poteva solo portar via ciò che restava della flottiglia, prima di perderla tutta. «Hod a flotta. L’ordine di ritirata è confermato» disse con voce spenta. Non aggiunse altro.

   Le sei navi ancora in grado di muoversi puntarono verso lo spazio aperto, con la Keter in testa. Non potevano balzare a cavitazione né usare il propulsore cronografico, finché erano nel campo di smorzamento della Nave Bastione. Quindi dovevano allontanarsi di alcune migliaia di km a velocità impulso. Ma ciò le costrinse a passare fra i vascelli Breen.

   Le navi ribelli, con gli scudi indeboliti o persino assenti dopo la lunga battaglia, erano un facile bersaglio. Per contro, i vascelli Breen erano ancora al massimo della potenza. I loro raggi disgreganti, diretti con mira certosina, fecero scempio delle astronavi federali. Tranciarono le gondole quantiche e lacerarono gli scafi. Gli abitanti di Alpha City, che osservavano il cielo notturno, lo videro punteggiarsi di esplosioni e seppero qual era il prezzo della ribellione.

 

   La Keter sgusciò tra i vascelli Breen, affidandosi più alla velocità e alla maneggevolezza che non agli scudi indeboliti. Norrin colpì le navi nemiche più vicine, ma a causa della velocità poté mettere a segno pochi colpi prima di passare oltre, così che non riuscì a disabilitarne nessuna.

   In qualche modo la Keter superò il blocco e sfrecciò a massimo impulso verso lo spazio aperto. Due vascelli asimmetrici si girarono e la inseguirono, mentre i rimanenti stringevano il cerchio intorno ai ribelli. Anche la Nave Bastione partì all’inseguimento, per evitare che la Keter uscisse dal suo campo di smorzamento.

   «Quante altre navi sono passate?» chiese Hod.

   «Nessuna» rivelò Zafreen con voce incrinata. «Le cinque che ci seguivano sono state distrutte dai Breen».

   Il Capitano si sentì venir meno. La Fenghuang, la Firebird, la Thunderbird... tutte distrutte, perché lei aveva fallito. Certo, la sua squadra aveva diffuso il messaggio; ma questo valeva il sacrificio di così tante vite? L’Elaysiana comprese di no. Era stata una follia gettare tutte le sue forze in quell’attacco. Ma lo scontro non era ancora finito. Le restava la Keter, e se non stava attenta avrebbe perso anche quella. «Possiamo usare il propulsore cronografico?» chiese.

   «Negativo, siamo ancora nel campo dispersivo Voth» rispose Dib, che si era recato a una consolle ingegneristica.

   «La cavitazione quantica?».

   «I Voth c’inseguirebbero anche lì. Se destabilizzassero il condotto mentre i nostri scudi sono al minimo, ci arrecherebbero gravi danni» disse l’Ingegnere Capo.

   «Possiamo distanziarli a velocità impulso?».

   «Forse potremmo distanziare i Breen, ma certamente non i Voth».

   «Attivare l’occultamento».

   «Coi danni che abbiamo ricevuto quando gli scudi erano abbassati, è impossibile» disse Norrin.

   Hod si sentì al capolinea. Non c’era battaglia contro i Voth: erano troppo potenti. Si rivolse a Terry, nella speranza che l’Intelligenza Artificiale elaborasse una strategia che a lei sfuggiva. «Ha qualche suggerimento?» chiese in tono controllato.

   «Se non riusciamo a distanziare il nemico, dovremo affrontarlo e in tal caso verremo sconfitti» disse però Terry. «Non resta che lanciare una richiesta d’aiuto. Ma la probabilità che altri ribelli ci ricevano e intervengano in tempo utile è prossima allo zero».

   «Zafreen, esegua» ordinò Hod.

   «Ci sto provando, ma il nemico disturba le comunicazioni» avvertì l’Orioniana.

   «Allora non ci sono scenari tattici vincenti» si rassegnò Terry.

   Era finita, si disse il Capitano. Se nemmeno menti super-analitiche come quelle di Dib e Terry sapevano consigliarla, voleva dire che veramente non c’era scampo. Non restava che vendere cara la pelle. «Continuiamo su questa rotta a massimo impulso» ordinò. «Cerchiamo di distanziare almeno i Breen. Dopo di che ci volgeremo ad affrontare i Voth. Gli insegneremo che anche la vittoria può essere costosa».

 

   Sulla plancia della Nave Bastione, Corythos osservava divertito la Keter in fuga. «Poverini... fanno quasi tenerezza» commentò. «Fra quanto li raggiungeremo?».

   «Cinque minuti» rispose un ufficiale.

   «Appena possibile, mettetegli fuori uso armi e propulsione» ordinò il Colonnello.

   «Ci chiamano dalla Terra».

   «Bene, sentiamo».

   Hadron e Rangda apparvero sullo schermo. «Rapporto» ordinò l’Ammiraglio.

   «Con l’aiuto dei Breen, abbiamo distrutto cinque navi ribelli e catturato altre sette» riferì Corythos. «Ora stiamo inseguendo la Keter. È nel nostro campo di smorzamento, quindi non può sfuggirci. Sono ancora validi gli ordini di distruggerla?».

   «Naturalmente» disse Rangda, prevenendo l’Ammiraglio. «Solo così la ribellione si estinguerà. E se l’equipaggio tenterà la fuga con navette e capsule, distruggete anche quelle. Non devono esserci superstiti».

   «Signore?» chiese il Colonnello, volendo la conferma del suo superiore.

   «Sì, a questo punto è necessario» sospirò Hadron. «Che la loro morte sia rapida e pietosa. Non devono soffrire oltre il dovuto».

   «Agli ordini, Ammiraglio».

   «Un’altra cosa» disse Rangda, levando un dito ossuto. «Quando avrete fatto pulizia, vorrei che raccoglieste un frammento della Keter e me lo portaste».

   «Perché? A che le serve?» si stupì Corythos.

   «Oh, a niente» sorrise Rangda. «Lo voglio solo come souvenir. Un trofeo delle specie estinte».

 

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Capitolo 6
*** Senza cuore ***


 

-Capitolo 5: Senza cuore

 

   La Keter fuggiva sola e senza speranza da Memory Alpha, tallonata dai nemici che continuavano a colpirla. Tutta l’energia residua era stata dirottata agli scudi posteriori, che tuttavia stavano per cedere. La Nave Bastione e i due vascelli Breen erano sempre più vicini. Nessuno, a bordo, s’illudeva più di sopravvivere; nemmeno il Capitano.

   In plancia, Jaylah si accostò a Terry. «Sai nulla dei miei genitori?» le chiese. La proiezione isomorfa scosse tristemente la testa, al che la mezza Andoriana si ritrasse, piangendo silenziosamente.

   L’Intelligenza Artificiale invece si accostò alla parete, dove aveva visto scintillare una targa dorata. Riconobbe la placca commemorativa dell’Enterprise-J. «L’avete recuperata...» mormorò. Posò la mano sul metallo sfregiato e chiuse gli occhi. La perdita dell’Enterprise le bruciava più che mai. Era come perdere una parte del suo corpo, anzi, la maggior parte. In fondo stata tutt’uno con quella nave per trentasei anni. Per tutto quel tempo, il corretto funzionamento dei sistemi e la salvaguardia dell’equipaggio erano state le sue direttive fondamentali. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscita a sopravvivere, una volta scollegata. Solo quando la sua personalità si era evoluta tanto da portarla oltre le direttive originali, in cerca di scopi che fossero suoi personali, se n’era andata. Ma in quel momento avrebbe preferito restare nell’Enterprise e perire con essa, piuttosto che vedere l’inizio della Guerra Civile e poi perire ugualmente. Scorrendo i nomi degli ufficiali sulla targa, i suoi vecchi colleghi, si chiese quanti di loro erano ancora vivi.

   «Gli scudi stanno per cedere» avvertì Norrin.

   Ecco, era davvero la fine. Terry si accostò a Jaylah e le cinse le spalle con un braccio, mentre il Capitano e gli ufficiali si preparavano all’ultima resistenza. Ciascuno pensò ai propri cari: quelli che si trovavano a bordo e quelli dispersi chissà dove, braccati o imprigionati, o forse già morti.

   La Nave Bastione e i vascelli Breen accorciarono le distanze, sparando implacabili. Dal loro punto di vista quella non era neanche una battaglia, ma solo un dettaglio da sistemare, nell’ambito della riorganizzazione politica del Quadrante.

   Ma ogni piano ha una pecca fatale. E quel giorno, la pecca si presentò armata fino ai denti.

   Una flottiglia sconosciuta uscì dalla curvatura, a lato degli inseguitori, e li investì con un diluvio di siluri e raggi disgreganti. C’erano cinque astronavi, tra cui una di dimensioni ragguardevoli, e una decina d’incursori. Il loro assalto, furioso e inaspettato, si concentrò su una nave Breen, che dopo l’esplosione di un propulsore sbandò di lato, entrando in collisione con la Nave Bastione. Il vascello Breen fu vaporizzato, mentre quello Voth uscì illeso dall’esplosione. L’altra nave Breen si allontanò immediatamente, per non prestare il fianco agli assalitori. Fece un ampio giro e poi tornò all’attacco. Nel frattempo anche la Keter invertì la rotta. L’inseguimento era finito: cominciava la nuova battaglia.

 

   «Chi sono quelli?!» chiese Hod, balzando in piedi.

   «Wow... è la Gemma di Orione!» gioì Zafreen, riconoscendo la nave del suo Clan.

   «No, è la Stella del Polo!» corresse Jaylah, sentendo il cuore palpitarle. Il nuovo proprietario l’aveva ribattezzata così in suo onore. Glielo aveva confidato lui stesso, in uno dei loro incontri segreti.

   «Lo Spettro!» riconobbe il Capitano, fulminata. Era proprio lui: il ladro gentiluomo che avevano incrociato più volte senza mai riuscire a catturarlo, il pirata che si faceva beffe dei Breen e della Flotta Stellare, il condottiero che negli ultimi anni aveva radunato una moltitudine di diseredati facendone un’armata personale.

   «Il suo nome è Jack Wolff!» disse Jaylah, con gli occhi sfavillanti. Si sentiva rinata e invasa dalla felicità. Quello era il momento che aveva sognato per anni. Non doveva più nascondere il loro legame, mentendo ai suoi colleghi e amici. Ora poteva gridarlo ai quattro venti, senza temere conseguenze.

   «Comunque si chiami, capita a proposito» disse Hod, rivolgendole un’occhiata d’intesa. «Coordiniamoci con la sua flottiglia. Concentriamo il fuoco sulla Nave Bastione e andiamoci pesante!» ordinò.

   La battaglia divampò. La Stella del Polo, nave ammiraglia dello Spettro, era stata costruita dagli Orioniani a scopi di contrabbando, come indicavano le sue stive capienti. Ma l’orgoglio del Clan di Goutric l’aveva resa una nave da guerra e lo Spettro, dopo essersene impossessato, l’aveva ulteriormente potenziata. A conti fatti poteva reggere il confronto con il vascello Breen. Le altre quattro navi pirata appartenevano a bande più piccole, confluite di recente in quella dello Spettro. Prese singolarmente non erano così potenti, ma assommate fornivano una notevole potenza di fuoco. Quanto agli incursori di classe Dal’Rok, il loro punto di forza era l’agilità, che gli permetteva di evitare gran parte dei colpi. Nel suo insieme, la flottiglia dello Spettro era una forza d’urto notevole. Tra l’altro le navi pirata usavano armi insolite e assai diverse fra loro, così che gli scudi nemici stentavano ad adattarsi.

   Conoscendo le capacità della Stella, Jaylah coadiuvò Norrin alla postazione tattica. Terry dal canto suo aiutò Zafreen a sondare le navi avversarie, in cerca di punti deboli. La proiezione isomorfa era stata infatti l’Ufficiale Scientifico dell’Enterprise, gestendo principalmente i sensori. Tutti gli ufficiali erano galvanizzati dall’improvvisa svolta e questo li induceva a dare il massimo, ora che c’era una possibilità di salvezza. I vascelli compirono evoluzioni spericolate attorno alla Nave Bastione, che si aggirava indecisa per il campo di battaglia, cambiando spesso bersaglio.

   La flottiglia dello Spettro concentrò il fuoco sulla nave Breen superstite, danneggiandola. I Breen a loro volta misero fuori uso uno degli incursori. Stavano per finirlo, quando furono colpiti dalla Keter. Una raffica di siluri transfasici colpì la nave Breen nel punto di giunzione tra le due sezioni ricurve, spezzandola in due. I tronconi fiammeggianti si allontanarono nello spazio. Sconfitti i Breen, la Nave Bastione rimase sola. I Voth riuscirono a distruggere due incursori e a danneggiare le navi pirata più piccole; ma i loro scudi continuavano a incassare colpi.

   Dalla sua plancia, Corythos osservava l’attacco pirata con un misto di sdegno e sgomento. Lo indignava che quelle nullità osassero misurarsi con lui, ma era anche preoccupato dalla disfatta dei Breen. «Che importa... possiamo fare a meno di loro» mugugnò. «Ignorate i pirati e concentrate il fuoco sulla Keter».

   «Signore, l’impatto con la nave Breen ha gravemente indebolito i nostri scudi» avvertì l’Ufficiale Tattico. «Stanno per cedere, e a quel punto i pirati potrebbero abbordarci. Abbiamo spedito molte truppe sulle navi ribelli; non so se ne restano abbastanza da proteggerci».

   Le scaglie di Corythos si arrossarono per la rabbia, ma anche per la vergogna. Fuggire dai pirati, tornando dall’Ammiraglio a mani vuote, era umiliante. Ma farsi abbordare sarebbe stato peggio. La tecnologia Voth non doveva mai cadere in mano alle altre specie, o i sauri avrebbero perso il loro vantaggio. «Pronti alla ritirata» si rassegnò il Colonnello. «Ma prima chiamate la Keter».

   Il Capitano Hod apparve sullo schermo rotondo dei Voth.

   «Oggi siete stati fortunati, ma non andrà sempre così» ammonì Corythos. «Finora ci siamo andati morbidi, con voi federali; abbiamo pensato al vostro benessere. Ma la nostra pazienza ha un limite, e voi lo avete appena superato. Perciò da oggi le cose cambieranno. I vostri civili pagheranno il prezzo della sua riottosità, Capitano Hod. Quanto alla dottoressa Gegen, sarà giustiziata per il suo tradimento».

   «Scappi pure tra le sottane di Rangda; la scoveremo anche lì» rispose Hod, e chiuse il canale.

   Corythos divenne ancora più rosso. I nemici tempestavano di colpi la sua nave, che cominciava a scuotersi in modo preoccupante. Un allarme segnalò l’imminente cedimento degli scudi. «Andiamo via!» ordinò il Colonnello, mentre le sue scaglie trascoloravano al blu, il colore della paura.

   L’orgogliosa Nave Bastione si girò, sotto l’intenso fuoco nemico, e schizzò a transcurvatura, mettendosi in salvo. Appena in tempo. Anche se la Battaglia di Memory Alpha sarebbe stata sbandierata come una vittoria dei lealisti, per i Voth era un’umiliazione da cui non si sarebbero ripresi tanto presto. Una loro Nave Bastione era fuggita davanti a un’accozzaglia di pirati, incrinando il mito della loro invincibilità.

 

   «I Voth si sono ritirati. È finita» annunciò Terry, leggendo il rapporto dei sensori.

   «Capitano, chiedo il permesso di lasciare la plancia» disse Zafreen, che non sembrava affatto sollevata.

   «Motivo?» chiese il Capitano.

   «Le condizioni di Vrel. Prima ho sentito che l’hanno ferito» disse l’Orioniana, col labbro tremante. Lei e il Capitano guardarono Jaylah, che annuì a conferma.

   «Può andare» disse Hod. «Terry – posso chiamarla così? – sia così gentile da sostituirla».

   «Potete chiamarmi tutti così» assicurò la proiezione isomorfa. Sedette al posto di Zafreen, mentre l’Orioniana scompariva nel turboascensore. «La Stella del Polo ci chiama» disse Terry.

   «Sullo schermo» ordinò il Capitano, preparandosi al confronto. Jaylah le si affiancò, con il cuore che batteva forte.

   Apparve lo Spettro. Indossava la famigerata armatura a Occultamento Sfasato che gli aveva permesso di mettere a segno tanti colpi eclatanti. Era una tuta corazzata nera, con dettagli dorati; il casco aveva un sottile visore d’un rosso cremisi. «Salve, Capitano Hod» esordì l’Umano, con la voce resa baritonale dal casco. «È fortunata che i Breen si siano lasciati dietro la scia del loro fetore, perché mi ha condotto da voi appena in tempo».

   «Grazie dell’intervento, signor... Spettro. Non poteva essere più puntuale» riconobbe l’Elaysiana. «Anche se, francamente, non mi aspettavo di dovermi alleare con un pirata» aggiunse.

   «Pirata?» ripeté lo Spettro, come se quel termine lo ferisse. «Forse mi confonde con qualcun altro. Io non sono affatto un pirata».

   «Ah, no? E allora cos’è?» volle sapere il Capitano.

   «Un corsaro al servizio della Flotta Stellare, ovviamente!» rispose lo Spettro, con enfasi. «Potete contare sul mio pieno appoggio. Avrete a disposizione le mie basi segrete, la mia rete d’informatori... ogni cosa».

   Era un paradosso, pensò Hod, farsi aiutare dall’uomo che avevano cercato di arrestare. Ma tempi disperati esigevano misure disperate. «Grazie infinite. È bello sapere che non siamo soli, in questa lotta. Mi ero quasi convinta che la Terra non avesse più difensori» confessò.

   «La Terra, presto o tardi, sarà riconquistata!» promise lo Spettro, serrando il pugno. «Ma prima dobbiamo organizzarci. Vi suggerisco d’inviare un ufficiale di collegamento sulla mia nave, per definire i dettagli della nostra collaborazione. A titolo personale, gradirei se l’ufficiale in questione fosse l’Agente Chase. In passato abbiamo lavorato bene assieme. E anche allora fu in suo favore, visto che le fruttò i gradi di Capitano» aggiunse in tono mellifluo.

   Il gioco era ormai scoperto. Hod diede un’occhiata a Jaylah, che annuì con evidente piacere. L’Elaysiana si lasciò sfuggire un sospiro: le scappatelle della sua Agente si erano appena rivelate la loro salvezza. «Gliela manderò al più presto» promise. «Ma è meglio lasciare questa zona, prima che il nemico ci attacchi in forze». Non aveva dimenticato che a poca distanza c’era ancora una flotta Breen invitta. Quanto alle navi ribelli catturate, non era neanche pensabile andarle a recuperare.

   «C’intendiamo a meraviglia, Capitano» approvò lo Spettro. «Vi trasmetto le coordinate del punto d’incontro. E vi rinnovo la mia dichiarazione di lealtà». Terminata la conversazione, la Stella del Polo riapparve sullo schermo.

   «Ho le coordinate» disse Terry.

   «Partiamo subito» ordinò il Capitano. Dopo di che si rivolse, sussurrando, a Jaylah. «Il tuo ladro rubacuori è diventato la nostra salvezza» disse con un’occhiata eloquente.

   «Lo è davvero, quindi sia tollerante con lui» ribatté Jaylah, e lasciò la plancia. Anche se era ansiosa di raggiungere Jack, prima aveva una visita da fare. Doveva andare in infermeria, per conoscere la sorte di Vrel.

   La Keter balzò a cavitazione quantica, mentre le navi dello Spettro entrarono in curvatura. Di lì a un minuto arrivò il grosso della flotta Breen, guidata da Thot Rong in persona. Ma era tardi per inseguire i pirati, che avevano mascherato le tracce di curvatura. I Breen poterono solo prestare soccorso alla loro astronave spezzata, sulla quale erano rimasti ben pochi superstiti. «Chiamate la Terra» ordinò Thot Rong ai suoi. «Rangda deve risarcire le nostre navi distrutte. Fino ad allora, presidieremo Memory Alpha». Imbarcati i sopravvissuti, la flotta Breen tornò al planetoide, dove le navi ribelli erano saldamente in mano ai lealisti.

   «I Breen non c’inseguono» rilevò Terry.

   «Mantenere velocità e rotta» ordinò il Capitano. «Siamo più veloci della Stella, quindi l’aspetteremo all’arrivo. Norrin, a lei la plancia. Mi chiami solo in caso d’emergenza». Ciò detto, Hod lasciò il suo posto. Invece di andare nell’ufficio, però, scomparve nel turboascensore, sotto lo sguardo preoccupato dell’Hirogeno. Anche se erano riusciti a diffondere il messaggio, e avevano guadagnato Terry e lo Spettro, la battaglia aveva il sapore amaro della sconfitta. Cinque navi ribelli erano state distrutte e altre sette catturate, lasciandoli più soli e sconfortati di prima.

 

   Dopo il lungo intervento, Ladya uscì spossata dalla sala operatoria. Si trovò in un’infermeria piena di altri feriti, ai quali non aveva potuto dedicare attenzione; ma il dottor Joe aveva diretto l’equipe medica in sua assenza.

   «Abbiamo quindici feriti, ma nessuna vittima» la informò il Medico Olografico. «Gli Agenti che erano stati storditi in missione si sono tutti ripresi. E il signor Shil, come sta?».

   «Lui...» cominciò Ladya, ma s’interruppe, perché in quel momento Zafreen era entrata in infermeria.

   «Vrel!» gridò l’Orioniana, precipitandosi come un turbine verso la sala chirurgica. Nel trovarsi la strada sbarrata dalla Vidiiana, quasi la travolse. «Mi dica che lo ha salvato!» implorò.

   «È vivo» rispose Ladya. «Le sue condizioni sono stabili, ma...».

   «Ma cosa?!».

   «Il suo miocardio ha subito un’estesa lacerazione».

   «Che vuol dire?! Parla meno difficile!» strepitò Zafreen, in preda all’isteria.

   «Gli hanno trafitto il cuore» disse brutalmente Ladya. «Il danno è esteso; al momento Vrel è tenuto in vita dalla macchina cuore-polmone».

   Zafreen si sentì mancare. «Quindi... quali sono le prospettive?» chiese in un soffio.

   «Volendo, potrei tentare una terapia rigenerativa» spiegò la dottoressa. «Ma il cuore resterebbe compromesso. Svilupperebbe delle fibrosi che gli darebbero problemi cardiaci più in là con gli anni».

   «E c’è un’alternativa?».

   «C’è» rivelò la Vidiiana, con una strana occhiata. «Tu conosci il tipo di medicina per cui è noto il mio popolo» disse, accennando alle vasche disseminate un po’ ovunque nell’infermeria. In quelle vasche, piene di liquidi nutrienti di vari colori, erano coltivati organi di ogni genere, pronti al trapianto.

   «Vuole trapiantargli il cuore?!» chiese Zafreen, spaventata.

   «È la soluzione più indicata, trattandosi della mia specialità» confermò Ladya. «Il cuore di Vrel è molto particolare, visto che il nostro timoniere è un meticcio di tre specie. Al momento non ne ho uno adatto al trapianto. Ma posso coltivarlo».

   «Quanto ci vorrà?».

   «Ricorrendo alle tecniche di crescita accelerata, solo sette giorni» spiegò la dottoressa. «Preleverò un campione di tessuto cardiaco e lo clonerò, intervenendo sui telomeri per evitare l’invecchiamento precoce. A crescita ultimata esaminerò il cuore e se lo troverò senza difetti procederò al trapianto. Dopo di che, a Vrel serviranno alcuni giorni di riabilitazione per riprendersi. Ma il procedimento è collaudato. Io stessa l’ho già praticato, sempre con successo».

   «Lo dice come se fosse una passeggiata» commentò Zafreen, ancora in ansia. «Non ci sono controindicazioni?».

   «Beh, un problemino c’è» ammise Ladya. «Ma è etico, non chirurgico. Il tuo ex fidanzato non ha mai lasciato scritto se è favorevole ai trapianti. Quindi dovremmo chiedere l’autorizzazione al parente più prossimo. Ma i suoi genitori sono ancora dispersi. E quanto alla sorella...».

   «Lyra non è più sua sorella!» annunciò Jaylah, entrando in quel momento. «È stata lei a tradirci, condannando la flottiglia. Ed è stata sempre lei a trafiggere il cuore di Vrel» rivelò.

   I medici inorridirono. Quanto a Zafreen, era oltre l’orrore. «Dimmi che l’hai accoppata!» ringhiò, ritrovando per un attimo la ferocia del Clan di Goutric.

   «L’ho defenestrata, nel senso letterale, ma non so se è bastato» disse la mezza Andoriana. «Se vuoi sapere come la penso... l’erba cattiva non muore mai».

   «Questa guerra non conosce limiti» mormorò Ladya, addolorata. «Anche i legami più sacri sono spezzati. A questo punto è fuori questione rivolgersi a Lyra. Come stavo dicendo, Vrel ha bisogno di un trapianto di cuore. Io posso farlo, se qualcuno che gli era vicino mi conferma che sarebbe nella sua volontà».

   «Io gli ero vicina, eccome!» proruppe Zafreen. «E dico di farlo».

   «Jaylah?» chiese la dottoressa, volendo un parere più spassionato.

   «Ho sempre considerato Vrel un fratello» disse la mezza Andoriana. «E credo che anche lui mi considerasse di famiglia. Da quanto so, non ha mai avuto pregiudizi contro i trapianti. Quindi sì, faccia come sul suo pianeta».

   «Ho giurato che non tornerò mai più su Vidiia» disse Ladya, malinconica. «Ma anche le conoscenze acquisite in modo ignobile possono salvare la vita. Il vostro amico se la caverà» promise.

   «Posso vederlo? Solo un momento?» chiese Zafreen.

   «Certo, ma fai attenzione. È ancora in coma indotto; non cercare di svegliarlo» raccomandò la Vidiiana.

   «Okay» disse l’Orioniana, con voce roca. Entrò in sala chirurgica. Anche Jaylah voleva visitare l’amico, ma decise di aspettare che Zafreen uscisse. Fu la scelta giusta. Anche se la porta si era richiusa, tutti sentirono i singhiozzi disperati. Gli Orioniani erano passionali in ogni cosa, anche nel dolore.

   «Tenente, avrei una domanda» disse il dottor Joe.

   «Eh?». Jaylah era così distratta che stentò a tornare al presente. «Certo, mi dica».

   «Che ne è della dottoressa Gegen?» volle sapere il Medico Olografico.

   «Era sua amica, vero?» chiese la mezza Andoriana, dispiaciuta. «Anche lei è vittima del tradimento di Lyra».

   Il dottor Joe chinò il capo e si allontanò, afflitto. Se lo sentiva, che non avrebbe rivisto la povera Frola. E anche se ricordava le sue ultime parole, stentava a credere in un futuro di occhi aperti e menti libere. Da quel che vedeva, la Galassia era sempre più cieca.

 

   Be-beep.

   «Avanti» ordinò Hod stancamente.

   Norrin entrò nell’alloggio. Non era solito disturbare il Capitano quando si ritirava, ma aveva la sensazione che in quel momento le servisse una spalla su cui piangere.

   Le luci erano al minimo e l’Elaysiana sedeva nell’ombra, un pessimo segno. «Avevo detto che non volevo essere disturbata» sottolineò.

   «A meno che non ci fossero nuove emergenze» completò l’Hirogeno.

   «Che altro c’è?!».

   «Un membro dell’equipaggio non vuol stare al suo posto. Forse si è pentito d’essere rimasto con noi».

   «Ho già offerto a tutti la possibilità d’andarsene» disse il Capitano, infastidita. «Gli ricordi che ha già scelto e lo rimetta in riga».

   «Come vuole». Il Comandante si schiarì la voce. «Capitano Hod, le ordino di tornare sul ponte».

   L’Elaysiana lo guardò con aria bieca. «Non fa ridere» disse.

   «No, per niente» convenne l’Hirogeno. «La perdita delle navi è stata un colpo duro per tutti. Ora più che mai l’equipaggio ha bisogno di vederla al comando».

   «Con che faccia posso mostrarmi a loro, dopo questa disfatta?!» esplose il Capitano. «Ho portato tredici navi a Memory Alpha e mi sono ritirata con una. Non avrei salvato neanche questa, se non fosse intervenuto lo Spettro. Direi che ce n’è abbastanza per la corte marziale».

   «Allora è fortunata che non abbiamo più una corte a giudicarci» notò il Comandante.

   «E con questo?! La mia strategia è stata fallimentare. È chiaro che non sono più adatta al comando» concluse Hod.

   «Ehi, piano!» la fermò Norrin, prima di sentire altro. «Non è la prima volta che le prendiamo. Il Melange, il Reaper... alla fine ci siamo sempre rialzati».

   «In quei casi reagivamo a degli assalti. Stavolta sono stata io a lanciare l’attacco» spiegò il Capitano.

   «Abbiamo diffuso il messaggio...».

   «... a un prezzo troppo alto. Quelle dodici navi sarebbero state più utili in futuro, con altre missioni. È stato un crimine sacrificarle così». Hod si alzò, venendo maggiormente illuminata. I suoi occhi erano arrossati. «Ho sbagliato due volte» disse. «Il primo errore è stato fidarmi di Lyra. Sì, le ho messo una squadra stealth alle costole, ma siamo comunque caduti nell’imboscata. Il secondo, più grave sbaglio è stato non ordinare subito la ritirata. È stato il mio orgoglio a rovinarci. Non volevo scappare ancora, come abbiamo fatto durante la Caduta. Mi sono comportata come se avessimo ancora la Flotta Stellare alle spalle, quando invece non abbiamo più niente».

   «Se questa tragedia le ha insegnato qualcosa, andrà a beneficio della prossima missione» ribatté l’Hirogeno, per quanto gli spiacesse essere così cinico. «Ogni Cacciatore prima o poi inciampa e si fa preda. L’importante è imparare la lezione. È tempo di abbandonare le strategie da Flotta Stellare. Ribelli e corsari, ecco cosa siamo adesso. In futuro lanceremo attacchi mordi e fuggi, come fa lo Spettro. Ma le chiedo di non rinunciare al comando. Se l’equipaggio la vedesse andarsene, allora sì che crollerebbe il morale. E poi, dove andrebbe? A casa su Elaysia, per farsi arrestare?».

   «Forse me lo merito».

   «Ma la ciurma non merita di essere abbandonata nel momento peggiore» obiettò Norrin. «Se vuol scontare i suoi errori, resti qui a proseguire la lotta. Io continuerò a supportarla, per quel poco che valgo. E scommetto che lo Spettro ha molti assi nella manica. Non è ancora finita, Capitano. Quel messaggio che abbiamo diffuso potrebbe innescare una ribellione ben più vasta. E siccome lei ci ha messo la faccia, deve continuare a mettercela. Ora anche lei è un simbolo, in questa guerra di simboli; quindi ci serve qui».

   Hod lo fissò con tanto d’occhi. «Glieli scrive qualcuno, questi discorsi, o le vengono spontanei?» ironizzò.

   «Dipende se sono in vena» rispose Norrin, nello stesso tono. «Allora, torna in plancia con me? Ci sono un sacco di cose da fare» disse, accostandosi alla porta.

   «Non sia mai che un membro dell’equipaggio venga meno ai suoi doveri» disse il Capitano, alludendo ironicamente alle parole con cui si era presentato. Lasciò il suo alloggio, seguita da Norrin. Si promise di non nascondersi più, finché aveva ufficiali come quello che credevano in lei.

 

   La Keter e la Stella del Polo stazionavano fianco a fianco nella Nebulosa Aracnide, non lontano dallo spazio cardassiano. Salendo sulla pedana di teletrasporto, Jaylah si sentì il cuore in tumulto. Era da un anno che non vedeva Jack. Sarebbe stato quello di sempre? E lei era la stessa o era cambiata?

   Il trasferimento interruppe questi pensieri. Jaylah si trovò sulla Stella, ed ecco, Jack era lì davanti a lei. Non indossava più la corazza occultante, che gli serviva solo durante i colpi, o per fare scena quando contattava altre navi. Nella vita di tutti i giorni, l’Umano vestiva normalmente.

   Jaylah scese adagio dalla pedana. Aveva un tal groppo in gola che non riusciva a parlare. Anche Jack era emozionato di rivederla, dopo tanto tempo, e dopo gli orrori degli ultimi giorni.

   «Ehi» disse il corsaro, accostandosi.

   «Ehi» ripeté l’Agente ribelle.

   «Hai la faccia di chi ha visto l’Inferno» commentò lo Spettro.

   «Ne ho avuto un assaggio» confermò Jaylah. «E tu?».

   «Ho visto la Terra cadere vittima del tradimento e gli Umani venire deportati come bestiame» disse cupamente Jack. «È la Guerra Civile di cui parlavi. Ci siamo arrivati, finalmente. I tuoi genitori?».

   «Sono in mano al nemico».

   «I tuoi amici?».

   «Uno è tra la vita e la morte. Altri si sono schierati con Rangda. La Keter è tutto ciò che mi resta... oltre a te» confessò Jaylah. Erano faccia a faccia.

   Jack la fissò per lunghi secondi. Poi, d’impulso, le prese il volto tra le mani e la baciò. «Mi sei mancata» disse poi, abbracciandola stretta. «Resta sulla Stella. Non voglio passare un altro anno così».

   «Anche tu mi sei mancato» disse Jaylah, sciogliendosi in lacrime. «Sì, Jack, voglio restare con te. Nella buona e nella cattiva sorte».

   «Io però ho promesso di aiutare la Flotta. E intendo tener fede alla parola. Ci attendono fatiche e pericoli» avvertì l’Umano, mentre la carezzava.

   «A quelli siamo abituati» rispose la mezza Andoriana, mentre si scioglieva dall’abbraccio. «Hai preparato ciò che ti chiesi l’ultima volta?» domandò, asciugandosi le lacrime.

   «Sì, anche se preferirei non averlo fatto» disse lo Spettro. «Vuoi vederla subito?».

   «Oh, sì» confermò Jaylah, con una strana luce negli occhi.

 

   Il laboratorio cibernetico della Stella era interdetto a chiunque non fosse tra i fedelissimi dello Spettro. Manco a dirlo, Jaylah poteva entrarci. Era lì che Jack riparava e migliorava la sua tuta occultante. I tavoli e le mensole erano ingombri di attrezzi da roboticisti, mentre il computer a circuito chiuso aveva in memoria parecchie varianti della tuta. Al centro della sala vi era una capsula diagnostica che poteva rientrare nel pavimento, celando il proprio contenuto. In quel momento, infatti, era abbassata.

   Appena lui e Jaylah furono dentro, Jack si recò a una consolle e inserì il suo codice. Ci fu uno scatto metallico, seguito da un sibilo prolungato. La capsula cominciò a sollevarsi dal pavimento. «Ci ho lavorato per mesi» disse il pirata, tradendo la soddisfazione. «Ho rispettato tutte le tue indicazioni. Sarai leggera e avrai grande libertà di movimento. Ho anche inserito un’arma sonica, che ti permetterà di stordire i nemici senza ucciderli. Sarà il tuo grido di battaglia» ironizzò.

   «Sono una donna fortunata» disse Jaylah, con un’occhiata complice. «Le altre ricevono fiori e cioccolatini dai loro fidanzati. Io ricevo un’armatura da combattimento».

   «Non montarti la testa» l’avvertì Jack. «E per l’amor del Cielo, non fare la spericolata. Questa tuta è in nano-polimeri ultraresistenti, ma non è invulnerabile. Se ti beccano con un phaser ad alta energia mentre sei tangibile, ti ammazzano».

   La capsula era uscita del tutto dal suo alloggiamento. Lo sportello si aprì di scatto, lasciando uscire un vapore gelido. Nel biancore s’indovinava una forma umanoide.

   «Aspetta a toccarla; la conservo a temperature superfredde» avvertì lo Spettro.

   «Ti ho mai detto che ti amo?» chiese Jaylah, senza staccare gli occhi dalla cosa.

   «Qualche volta, ma fa sempre piacere sentirlo» sogghignò il corsaro, abbracciandola da dietro. «Attenta, però. Se la indossi, non si torna indietro» ammonì. «Non potrai neanche andartene in giro col tuo vero nome, perché uno degli scopi è confondere e spaventare il nemico: si teme ciò che non si conosce. Quindi ti servirà un nome d’arte».

   «Qualcosa come... Spettro?» sorrise la mezza Andoriana, girandosi un poco verso di lui.

   «Ti ho regalato una tuta, non il mio copyright» ironizzò Jack. «Dovrai sceglierti un altro nome. Non volevi evitare che ci confondessero?».

   «Sì, ma sono certa che un artista come te l’abbia già battezzata» notò Jaylah, tornando a guardare la capsula. I vapori si stavano dissolvendo, rivelando il capolavoro del corsaro, in tutta la sua sinistra bellezza.

   «Sigh, non posso nasconderti niente» ammise Jack. «È vero, le ho già dato un nome. Conosci la mitologia irlandese e scozzese? Quando un clan era in lutto, una pallida dama si aggirava nella notte, lanciando grida e lamenti strazianti. Talvolta l’urlo era anche un presagio di morte per chi lo udisse. Più che un’unica entità erano tanti spiriti, ciascuno legato a una famiglia. Si chiamavano Banshee».

   «Banshee...» mormorò Jaylah, osservando l’inquietante sagoma bianca che si precisava nella nebbia. «Sì, mi piace».

 

   «Mi aveva chiamata, Capitano?» chiese Terry, entrando nell’ufficio di Hod.

   «Si accomodi» la invitò l’Elaysiana, di nuovo padrona di sé dopo lo sfogo con Norrin. «Per prima cosa, la ringrazio per quanto ha fatto a Memory Alpha. Senza di lei, la missione sarebbe fallita del tutto e avremmo perso anche la squadra».

   La proiezione isomorfa accettò il complimento con un cenno del capo. «Sfortunatamente il sito del Federal News è stato oscurato pochi minuti dopo la diffusione del vostro messaggio» notò.

   «Sapevamo che sarebbe accaduto. Dobbiamo sperare che il database abbia raggiunto un pubblico abbastanza vasto e che continui a diffondersi clandestinamente» si augurò il Capitano. «Ma non è per questo che l’ho chiamata. Vorrei parlare un attimo del suo futuro».

   «Vuole che resti a bordo» disse Terry. Non era una domanda, ma una constatazione.

   «So che lei si è dimessa dalla Flotta quattro anni fa» disse Hod, alzando una mano per prevenire le obiezioni. «In circostanze normali, non mi sognerei di richiamare un ufficiale in congedo. Ma conosce la situazione: Rangda e i Voth spadroneggiano, la Flotta è a pezzi. Io ho perso le poche navi che ero riuscita a racimolare e mi ritrovo con un equipaggio incompleto. Pensi che stiamo facendo due turni da dodici ore. Non ho neanche un Ufficiale Tattico, ora che Jaylah è andata dallo Spettro... e probabilmente ci resterà».

   «Sì, ho notato che l’equipaggio è provato» annuì Terry. Dopo di che osservò il panorama nebulare sulla parete. Non era una finestra, dato che la Keter non ne aveva, ma era una riproduzione olografica fedele di ciò che captavano i sensori. «Ho passato gran parte della mia vita su una nave stellare» sospirò. «Quando me ne sono andata è stato traumatico, ma non pensavo che sarei tornata indietro. Volevo vivere come un essere umano, non come una macchina».

   «Se vuole andarsene, non glielo impedirò» promise il Capitano. «Ho dato licenza di partire a tutti i membri dell’equipaggio... e infatti ne ho persi molti». Il suo viso ebbe una contrazione di dolore.

   «Ma se voglio essere Umana, non posso voltare le spalle alla Terra» ragionò Terry, voltandosi di scatto. «Devo fare la mia parte. Lo devo all’Ammiraglio Chase e a tutti i caduti dell’Enterprise. Quindi resterò con voi. Ma che ruolo dovrei ricoprire? Mi vuole come ufficiale, come Intelligenza Artificiale o entrambi?».

   «Entrambi, se possibile» rispose Hod. «Ma come ufficiale non potrà svolgere gli stessi incarichi che aveva sull’Enterprise, perché qui siamo organizzati diversamente. Zafreen si occupa sia dei sensori che delle comunicazioni, mentre i dipartimenti scientifici non hanno un unico rappresentante. Perciò devo chiederle di cambiare specializzazione. In questo momento non mi serve un ufficiale scientifico, ma quello tattico. È pronta a usare le armi, o questo contrasta con la sua programmazione?».

   «La mia programmazione non è più così vincolante» assicurò Terry. «E poi mi è già capitato di usare le armi dell’Enterprise in situazioni d’emergenza. Non avrò problemi a fare l’Ufficiale Tattico». Così dicendo la proiezione isomorfa cambiò look: al posto degli abiti civili, ora indossava l’uniforme nera e rossa della Sicurezza. Anche il comunicatore seguiva la foggia retro di quelli adottati dai ribelli.

   «Allora... benvenuta a bordo, Tenente Comandante Terry» disse Hod, stringendole la mano. «Cominceremo subito i lavori per integrarla nella nave: il suo processore centrale sarà sostituito al nostro. È tempo che la Keter abbia un’anima».

   «Ne è certa? Io sono un modello di quarant’anni fa» le ricordò Terry. «Certo, ho avuto i miei upgrade, ma la mia memoria e la mia velocità di calcolo sono inferiori a quelle del computer che avete ora».

   «Apprezzo la sua modestia. Conserveremo il processore secondario, così potrà devolvergli i compiti più noiosi» disse l’Elaysiana. «Ma la potenza di calcolo non è tutto. Io la voglio per la sua esperienza e le sue qualità umane».

   «Grazie, Capitano» disse Terry, riconoscente. «Sarà un po’ come tornare alle origini... però voglio un alloggio personale. Su questo non transigo».

   «Sarà accontentata» promise Hod, colpita dalla personalità dell’IA, che non voleva rinunciare allo stile di vita umanoide. «Anche se ha l’Emettitore Autonomo, aumenteremo la quantità di proiettori nella nave, per facilitarle gli spostamenti».

   «Saranno lavori complessi» notò Terry. «Specialmente la sostituzione del processore centrale. Di norma è un’operazione che avviene nei cantieri».

   «Il nostro Ingegnere Capo può occuparsene» disse Hod. «Lei ha già avuto modo di conoscerlo: è molto ferrato in queste cose».

   «Il signor Dib» annuì Terry. «Ho sempre desiderato lavorare con un Penumbrano. Tra tutti gli Organici, sono quelli più simili alle Intelligenze Artificiali. Ma quando sarò integrata con la Keter, quale sarà il nostro obiettivo? Finora i miei Capitani hanno sempre seguito le direttive del Comando. Essere ribelli è... destabilizzante» ammise.

   «A chi lo dice!» sospirò il Capitano. «Finché non si creerà un Comando di Flotta in esilio, la nostra priorità è liberare i ribelli prigionieri, se non altro per rimpinguare il nostro equipaggio. Era uno degli obiettivi dell’attacco a Memory Alpha, ma è andata male» disse, con sguardo cupo. «Che mi serva di lezione; i prossimi attacchi dovranno essere meglio organizzati. E soprattutto non mi affiderò più a elementi esterni come Lyra. In questa guerra non possiamo fidarci di nessuno».

 

   Frola Gegen entrò a testa alta nell’aula del tribunale, scortata da due guardie. Era un tipico tribunale Voth: una sala circolare, col simbolo azzurro dell’Autorità sul pavimento e i bordi rialzati di qualche gradino. Il seggio del giudice sorgeva davanti alla finestra panoramica da cui era visibile la Terra. Per il momento era vuoto, ma lì accanto c’era un funzionario addetto alle procedure.

   «Ma guarda... anche stavolta niente avvocato» constatò la scienziata, che se lo aspettava.

   «Silenzio!» intimò il funzionario. «Come tutti i civili colpevoli di reati contro le forze armate, sarà giudicata dal tribunale militare. L’Ammiraglio Hadron pronuncerà la sua condanna».

   «Ministri, Ammiragli... al giorno d’oggi è difficile essere giudicati da un vero giudice» commentò Frola, mordace.

   «Farei volentieri a meno di essere qui» disse Hadron, sbucando da un ingresso laterale. Sedette sul suo scranno e scrutò l’imputata, corrucciato. «Dottoressa Gegen, lei è accusata di alto tradimento e di sabotaggio, in quanto ha cercato di disabilitare la Nave Bastione del Colonnello Corythos, mettendo a repentaglio un’importante operazione di pace».

   «Quand’è che le invasioni sono diventate “operazioni di pace”?» lo irrise Frola, per nulla preoccupata dalle conseguenze. Sapeva che la sua condanna era già stata scritta.

   «Il suo palese disprezzo per l’autorità di questo tribunale non giova alla sua causa» ammonì l’Ammiraglio. «Suo padre, almeno, era rispettoso dell’autorità. Lei invece non perde occasione per farsene beffe. Che vergogna per la sua famiglia!».

   «La vergogna sta nel conquistare un pianeta solo per lenire il proprio ego» ribatté l’anziana Voth.

   «Questo non è un palco per i suoi discorsi!» s’inalberò Hadron. «Signora Gegen, lei era un’intellettuale rinomata e avrebbe potuto aiutare il processo di pace. Invece ha attizzato il conflitto, con i suoi sproloqui politici. Presentandosi a fianco della ribelle Hod, ha messo in grave imbarazzo me e tutta l’Autorità Voth. Così facendo non ha giovato alla causa dei Terrestri, anzi ci obbligherà ad essere più severi, per impedire rivolte. Se il suo scopo era aiutare gli Umani, sappia che ha ottenuto l’esatto opposto».

   «È presto per dirlo» ribatté Frola.

   L’Ammiraglio ebbe un moto di stizza. «Signora Gegen, i suoi capi d’accusa comportano la pena capitale. La mia sentenza non può discostarsi dalla legge. Tuttavia voglio essere clemente, per rispetto alle scoperte sue e di suo padre. Le offro una possibilità di salvezza. Se un esame medico dimostrasse che lei era incapace d’intendere e di volere, a causa della demenza senile, la pena sarà condonata. Lei trascorrerà il resto dei suoi giorni in un ospedale psichiatrico, in condizioni dignitose. Potrà informarsi su quanto accade, ma le sarà vietato di uscire e di far pervenire discorsi al pubblico. Questa è la scelta che le offro. Accetti di sottoporsi all’esame, segua le nostre indicazioni... e certificheremo che lei non era lucida» promise.

   «Ma io sono lucida!» proruppe Frola. «E voi non siete cambiati, dai tempi di mio padre. Preferite sempre la menzogna alla verità. Ma le bugie sono un fondamento incerto per il potere. Prima o poi si disfano».

   «Si sottoponga all’esame, vecchia folle!» gridò Hadron, balzando in piedi. «E poi sconfessi pubblicamente il suo discorso di Memory Alpha. Solo così potrò salvarle la vita!».

   «Non se ne parla» disse l’anziana Voth, incrociando le braccia. «Preferisco morire restando fedele a me stessa, piuttosto che vivere nella menzogna. Tanto, non mi restavano molti anni».

   «Mi sbagliavo su di lei... è veramente pazza» disse l’Ammiraglio, rattristato. «A questo punto, non posso più aiutarla». Risedette sul suo scranno e parlò in tono formale, da giudice che emana la sentenza. «Signora Gegen, lei è colpevole di alto tradimento e sabotaggio. A questi reati si aggiunge la sedizione, in quanto parlando assieme alla ribelle Hod lei ha incitato i Terrestri alla rivolta contro la nostra Autorità. Lei subirà le conseguenze delle sue azioni criminose, scontando la pena capitale. La sentenza sarà eseguita nel modo più civile e indolore, mediante la cabina di disgregazione. Così è deciso!».

   «Può uccidere il mio corpo, ma non le mie idee. Quelle sono a prova di disgregatore, e stanno circolando in tutta l’Unione» dichiarò Frola, guardandolo dritto negli occhi.

   «Sia messo a verbale che l’imputata ha rifiutato di sottoporsi alla perizia psichiatrica» disse Hadron, rivolto all’assistente. «L’udienza è tol...».

   «Vostro onore, io mi appello alla Dottrina!» disse inaspettatamente la scienziata.

   «La Dottrina! Lei non sa nemmeno che cosa sia» s’indignò l’Ammiraglio. «Che vuole lei, dalla Dottrina?».

   «Voglio la facoltà di esprimere un ultimo desiderio».

   Hadron restò interdetto. Non si aspettava questa richiesta e non trovava pretesti per negargliela.

«Concesso... purché non sia qualcosa di contrario alla Dottrina stessa» stabilì.

   «Chiedo che la mia esecuzione sia pubblica, e sia trasmessa su tutti i mondi Voth» disse Frola, ancora più inaspettatamente.

   «Perché, cosa spera di ottenere? Vuol farsi passare per martire?!» inquisì l’Ammiraglio.

   «Non sono tenuta a risponderle. Lei, però, è tenuto a seguire la Dottrina» ribatté la scienziata. «Sempre che non voglia negare il nostro grande retaggio» aggiunse caustica.

   «Il retaggio è indiscutibile» disse Hadron, sulla difensiva. «E va bene; la sua sentenza sarà pubblica. Avrà luogo fra tre giorni» decretò. Si disse che poteva essere un buon ammonimento: chiunque condividesse le sue idee perniciose avrebbe visto a cosa andava incontro. «Così è deciso, l’udienza è tolta» concluse l’Ammiraglio, lasciando il seggio. Uscì dalla porta laterale, assieme al funzionario che aveva registrato il verbale.

   Frola Gegen dette un’ultima occhiata al Mondo Perduto che scintillava oltre la finestra. Anche se avrebbe tanto voluto altrimenti, sapeva che la guerra per il suo controllo era appena iniziata. E lei non sarebbe vissuta tanto da vederne la fine. Con un sospiro, l’anziana Voth dette le spalle alla Terra e seguì le guardie che la riaccompagnavano in cella. La sua unica consolazione era che almeno Lambeos sembrava essere scampato alle indagini e al processo. Forse lui sarebbe riuscito a smuovere le coscienze della loro gente, una volta tornato nel Quadrante Delta.

 

   Il cuore trilobato stava crescendo a ritmo accelerato nella vasca colma di liquido giallastro. Joe e Ladya lo esaminarono, trovandolo in condizioni eccellenti. Ancora pochi giorni e avrebbero potuto trapiantarlo.

   «Ufficiali superiori in plancia» li convocò Terry. I due medici interruppero il lavoro e si recarono rapidamente sul ponte. Anche Zafreen, che in quel momento stava vegliando Vrel, li seguì. «Che succede?» chiese Ladya, quando furono in plancia.

   «Il tradimento di Lyra sta per mietere un’altra vittima» disse Hod, rabbuiata. Accennò allo schermo, che mostrava un salone dalle pareti scure e disadorne. Un gran numero di ufficiali Voth era schierato davanti a una cabina vuota, incassata come un’alcova nella parete di fondo.

   «La dottoressa Gegen è stata condannata a morte per l’aiuto che vi ha dato» spiegò Terry. «L’esecuzione è trasmessa in diretta Olonet».

   «No!» gemette il dottor Joe. Si accostò allo schermo e riconobbe l’imputata, circondata dalle guardie. Davanti a lei, l’Ammiraglio Hadron stava leggendo la sentenza. «C’è nulla che possiamo fare?!» chiese il Medico Olografico.

   «La trasmissione viene dalla Nave Fortezza» disse Terry, sconsolata. «È oltre le nostre possibilità d’intervento». Gli ufficiali fissarono lo schermo, dove il dramma stava per compiersi.

   «... per queste ragioni, in ottemperanza alla Dottrina e al regolamento militare, condanno la colpevole alla pena di morte» concluse Hadron.

   «Tremate più voi nel pronunciare questa sentenza, che io nell’ascoltarla» dichiarò Frola, sfidando l’Ammiraglio e il suo Stato Maggiore. «Sentite che il potere comincia già a sfuggirvi».

   Le scaglie dell’Ammiraglio si arrossarono per l’ira ed egli si rivolse direttamente alla condannata. «Per l’ultima volta, la invito a pentirsi delle sue azioni e a sconfessarle, per riparare in piccola misura al male che ha causato».

   «Non mi pento delle mie azioni, anzi, ne rivendico la moralità!» proclamò la scienziata. Dopo di che si rivolse agli ufficiali schierati. «Io muoio per un’ingiusta condanna; ma tutti voi sarete giudicati dai posteri!» avvertì, additandoli.

   «Allora non c’è più nulla da dire. Che la sentenza sia eseguita!» ordinò Hadron, sempre più adirato.

   Frola fu scortata davanti alla cabina. «Vuole essere bendata?» le chiese il boia, ovvero colui che avrebbe premuto il comando fatale.

   «Non ho mai chiuso gli occhi davanti alla realtà e non lo farò di certo ora» dichiarò la scienziata. Dopo di che fissò l’olocamera, così da incrociare lo sguardo del pubblico. Il dottor Joe si chiese se lo avesse fatto per lui in particolare, e ne ebbe conferma quando sentì le sue ultime parole: «Occhi aperti!». Detto questo, l’anziana Voth entrò nella cabina. Quando il campo di forza la isolò all’interno, restò con le braccia incrociate e gli occhi spalancati, in segno di estrema sfida.

   «Si proceda» ordinò l’Ammiraglio.

   Il boia sfiorò il comando. Frola si dissolse in un lampo bianco, simile a quello del teletrasporto. Ma in questo caso non c’era ritorno. La materia del suo corpo era stata convertita in energia, che andava ad alimentare l’astronave. Nessun buffer degli schemi aveva conservato il suo segnale, per cui nessuno – nemmeno i Voth – poteva riportarla indietro.

   «Giustizia è stata fatta» disse Hadron, e si ritirò assieme ai suoi ufficiali. La trasmissione terminò mentre la sala si svuotava.

   «Mi dispiace» sussurrò Ladya, accostandosi a Joe.

   «Non dovevamo mandarla nella tana del lupo!» protestò il Medico Olografico, rivolgendosi al Capitano.

   Hod non rispose, divorata com’era dai sensi di colpa, ma Norrin si frappose. «La dottoressa Gegen conosceva i rischi e se li è assunti. Come ce li assumiamo noi ogni giorno» disse.

   «I Voth non hanno accennato a Lambeos» notò Zafreen.

   «Forse l’hanno spacciato durante il fallito sabotaggio» ipotizzò Norrin.

   «O forse è riuscito a fuggire» suggerì Ladya, cercando di essere più ottimista.

   «Cercheremo notizie, ma anche se fosse sopravvissuto dubito che potremo affidarci ancora a lui» disse Hod. «In libertà».

   Gli ufficiali che erano stati chiamati in plancia tornarono alle loro occupazioni. Anche Joe e Ladya tornarono in infermeria, a preparare il trapianto per Vrel. Il Medico Olografico era però taciturno. Per parecchi giorni parlò solo di lavoro, evitando le battute e le divagazioni che di solito lo caratterizzavano.

   Ma i ribelli della Keter non erano i soli a sentirsi l’animo pesante. Nello stesso momento anche l’Ammiraglio Hadron rientrava nel suo alloggio con il cuore oppresso dai rimorsi. Non rimpiangeva tanto l’aver condannato a morte la scienziata – non poteva fare altrimenti – quanto l’averle accordato l’esecuzione pubblica. In quel modo si era presentata come una martire, non solo ai federali, ma anche ai Voth. Con i suoi ultimi atti e parole, Frola Gegen aveva inferto un danno d’immagine per nulla inferiore a quello che i ribelli avevano messo a segno a Memory Alpha. E i danni d’immagine erano i peggiori, in quella guerra in cui la propaganda contava ancor più dei risultati sul campo. Hadron comprese che i Voth avrebbero stentato a imporsi come pacificatori autorevoli dell’Unione. Dunque il conflitto sarebbe proseguito. E le vittime sarebbero aumentate a dismisura.

 

   «Questo è il momento più delicato» disse Ladya, manovrando le pinze chirurgiche. Aveva già asportato i resti del cuore di Vrel, inserendo le cannule per la circolazione extracorporea nelle vene cave e nell’aorta. Ora doveva inserire quello nuovo. Il cuore trilobato scivolò dolcemente al suo posto e fu tenuto in posizione, mentre la Vidiiana collegava i vasi sanguigni. Cominciò dall’aorta, proseguendo con la vena cava, le arterie e le vene polmonari. Mentre lavorava, i colleghi si accertarono che la circolazione extracorporea proseguisse regolarmente. Quando ebbe finito di saldare i vasi sanguigni, Ladya ne verificò la tenuta e li rafforzò con l’inaprovalina. Infine li liberò, permettendo al sangue di tornare a circolare. «Defibrillazione» ordinò. Ci furono tre scosse, dopo di che il cuore cominciò timidamente a battere.

 

   «Al mio tre» disse il chirurgo. Si chinò su Lyra, che era collocata prona sul tavolo operatorio. La schiena incisa mostrava le vertebre toraciche fuori posto. Era un danno grave, che in un’altra epoca l’avrebbe lasciata paralizzata dalle costole in giù. Ma la medicina federale del tardo XXVI secolo non aveva difficoltà a raddrizzare le vertebre e riparare il midollo spinale. «Uno... due... tre». Con uno scatto, le vertebre furono rimesse in posizione. Subito il chirurgo cominciò a riparare il danno al midollo, mentre un collega controllava l’attività cerebrale della paziente. I fasci nervosi furono riallacciati e reinseriti nella loro guaina mielinica. «Stimolazione corticale» ordinò il chirurgo. Ci furono tre scosse, dopo di che le dita di Lyra si mossero lievemente.

 

   Dopo aver rimosso il processore primario della Keter, assieme alla gabbia metallica che lo proteggeva, gli ingegneri arretrarono in fondo al salone. «Pronti al teletrasporto. Energia» disse Dib.

   Grazie al computer secondario, ancora in funzione, il raggio teletrasporto agganciò il processore di Terry che si trovava nell’hangar e lo trasferì in sala. Era un congegno imponente, formato da più unità di memoria e da un intrico di sotto-sistemi. C’erano anche le sacche blu contenenti gelatine bio-neurali, simili ai neuroni dei cervelli umanoidi. Nell’insieme, il processore era così grosso che stava appena nel suo alloggiamento, anche in assenza della copertura metallica. In questo era evidente l’affinamento tecnologico degli ultimi decenni. L’hardware di Terry, inoltre, aveva molto spazio per la sua personalità, già complessa in partenza e lievitata da quarant’anni di esperienze.

   Gli ingegneri si misero al lavoro. Per prima cosa bisognava collegare il processore alla rete energetica della nave, per garantire l’alimentazione. Dib scese in un pozzetto di manutenzione e saldò il condotto principale, mentre i colleghi gli passavano gli strumenti e controllavano gli indicatori.

   «Allacciamento energetico completato» disse infine il Penumbrano. «Eseguire prova, un quarto di potenza». Al suo ordine, l’energia prese a scorrere nel condotto, che s’illuminò di azzurro. Gli indicatori energetici del processore segnalarono l’afflusso. L’Ingegnere Capo risalì per controllare la situazione.

   «Afflusso regolare» disse Terry, che era presente anche in forma umana. «Potete aumentare il voltaggio».

   Con molte prove, alternate a interventi correttivi, l’alimentazione fu portata a pieno regime e stabilizzata. Allora gli ingegneri collegarono i condotti ausiliari, che avrebbero alimentato il processore in caso di danno a quello principale. Anche questo richiese una precisione chirurgica e una serie di prove alternate a correzioni. Quando tutto fu fatto, Dib eseguì una diagnostica, che confermò la tenuta del sistema.

   La parte facile era terminata. Ora bisognava collegare i circuiti del processore a quelli dell’astronave. Sotto molti aspetti, era come trapiantare un cervello. Con la perizia di cui solo i Penumbrani erano capaci, Dib saldò i circuiti elettronici e collegò le terminazioni bio-neurali, prestando attenzione ad ogni fibrilla. Accanto a lui, Terry contribuiva alle operazioni, dando suggerimenti e riferendo le sue impressioni. Ogni volta che un sistema diventava operativo, gli ingegneri eseguivano una diagnostica e Terry verificava di averne il controllo.

   Il lavoro si protrasse per ventiquattro ore. Gli altri ingegneri cambiarono di turno, ma Dib poteva tenere duro senza stancarsi e senza bisogno di nutrirsi, perciò rimase all’opera. Quando ebbe finito eseguì una diagnostica generale, che dette esito positivo. «Tutti i sistemi operano nei normali parametri» constatò. «Lei come si sente?» chiese poi all’interessata.

   «Bene, credo» rispose Terry. Chiuse gli occhi, concentrandosi sulla nuova percezione dell’astronave.

   «Crede? Può essere più specifica?» chiese il Penumbrano.

   «È una sensazione insolita. La Keter ha un... sapore diverso dall’Enterprise. Non so come altro definirlo» spiegò l’IA. «Ma sto bene. Sono pronta a entrare in servizio». Ora che si stava adattando alle nuove impressioni, Terry riaprì gli occhi.

   «Ottimo. Il prossimo passo sarà aumentare il numero di olo-proiettori della nave, per facilitare i suoi spostamenti» disse Dib.

   «Si prenda un po’ di riposo!» lo esortò Terry. «È sempre così professionale... non si svaga mai?».

   «Noi Penumbrani non abbiamo molti svaghi. Li consideriamo improduttivi».

   «Uhm... dovrò insegnarle qualche hobby. Gli umanoidi hanno inventato un sacco di modi originali per perdere tempo» disse la proiezione isomorfa.

   «E lei vuole somigliare agli umanoidi? Pur sapendo che la loro illogicità è la causa dei nostri problemi?» chiese Dib.

   «Sono stata creata dagli umanoidi. Suppongo di avere la loro impronta» rispose Terry. «Anche se alcuni avrebbero bisogno di una ricalibratura al sistema nervoso».

 

   Mentre lottava per uscire dalle nebbie del coma, Vrel aveva una sola impressione sensoriale: il dolore. Un dolore basso e continuo al petto, là dove c’era il cuore. Gli ultimi ricordi gli si presentarono sfilacciati, tanto che stentò a rimetterli in ordine: la missione a Memory Alpha, il tradimento di Lyra, la ferita al torace. Era una ferita mortale... ma lui non era morto. Anche se forse avrebbe preferito esserlo. Come poteva andare avanti, dopo che sua sorella aveva cercato di ucciderlo e di rovinare la missione? Per la prima volta in vita sua, il timoniere non aveva una ragione per vivere... salvo forse la vendetta. Si sforzò di tornare del tutto cosciente, ma non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Eppure percepiva che c’era qualcuno accanto a lui. Qualcuno che forse poteva aiutarlo. Concentrando tutta la sua volontà, riuscì a muovere le labbra, articolando alcune parole.

   «Qualcuno... mi aiuti...».

   Sentendo il mormorio, Zafreen alzò la testa di scatto. Da quando Vrel era stato ferito, l’Orioniana trascorreva molte ore al giorno seduta presso il suo lettino. A tratti lo vegliava, a tratti sonnecchiava lei stessa, ma in ogni caso gli stava accanto. Dopo il trapianto, Ladya le aveva permesso di parlare a Vrel, per suscitare una reazione che lo aiutasse a uscire dal coma. Il risveglio, infatti, non era semplice come per la maggior parte degli umanoidi. Essendo un misto di tre specie, Vrel aveva reazioni psico-fisiche insolite. I primi tentativi di Zafreen per risvegliarlo non avevano avuto esito, tanto che col passare delle ore lei stessa si era mezzo assopita; ma le parole di Vrel la riscossero.

   «Ha parlato!» gridò l’Orioniana, tutta agitata. «Ehi, ha parlato!». Scattò in piedi e gli afferrò la mano, intrecciando le dita alle sue. «Sono qui, amore. Sono la tua pazzerellona verde. Apri gli occhi, ti prego!».

   «Aiutami...» ripeté Vrel, sempre a occhi chiusi.

   «Non temere, sei al sicuro. Devi solo svegliarti del tutto!». Non sapendo che altro fare, per stimolare una reazione, Zafreen lo baciò. Il timoniere però non reagì.

   «Che succede?» chiese Ladya, entrando nella saletta di degenza.

   «Vrel sta parlando!» disse l’Orioniana, tutta agitata. «Chiede aiuto come se avesse un incubo, ma non si sveglia!».

   «Aiutami... a svegliarmi...» sussurrò il mezzo Xindi.

   Negli occhi di Ladya ci fu un lampo di comprensione. «È nel coma curativo vulcaniano! C’è un solo modo per destarlo» disse, accostandosi al lettino. Dopo aver esaminato i suoi segni vitali, accertandosi che fossero stabili, si rimboccò le maniche.

   «Che vuole...» cominciò Zafreen, ma s’interruppe scioccata quando la Vidiiana dette un sonoro ceffone al paziente. Lo colpì a una guancia, così forte da fargli voltare il capo, e poi all’altra, voltandoglielo di nuovo. «Ehi, ma è impazzita?! La smetta subito!» protestò l’Orioniana.

   Ladya non l’ascoltò, anzi sferrò un terzo schiaffone. «Ancora...» la esortò Vrel, sentendo che il dolore lo aiutava a riprendere i sensi. Zafreen però era così sconvolta che non lo udì. Poiché la dottoressa stava per reiterare il colpo, l’Orioniana l’afferrò da dietro, bloccandole le braccia lungo i fianchi, e la trascinò lontano dal letto.

   «No, non fermarmi! Devo continuare!» gridò la Vidiiana, cercando di divincolarsi.

   «Ti sei bevuta il cervello?! Smettila subito! Solo io posso prenderlo a schiaffi!» ribatté Zafreen, inviperita.

   «Insomma, cos’è questo chiasso?!» chiese il dottor Joe, entrando a sua volta. Vide il paziente che aveva leggermente alzato la testa, pur restando a occhi chiusi, e le due donne che si accapigliavano in un angolo.

   «Dottore, mi aiuti! Questa Vidiiana è diventata manesca!» ululò l’addetta ai sensori, che stentava a trattenerla.

   Il Medico Olografico comprese subito la situazione. Si precipitò accanto al lettino, prese Vrel per le spalle e lo aiutò a mettersi seduto. Dopo di che gli assestò un tremendo schiaffone. Poi un altro, e un altro ancora, cambiando ogni volta guancia.

   Essendo già impegnata a trattenere Ladya, Zafreen non poté fermare la nuova aggressione. Passò lo sguardo da un medico all’altra, incredula. «Beh, siete diventati dei sadici? Se proprio dovete sfogarvi, prendetevela con me! Così almeno vi restituirò i ceffoni!».

   «Non è come credi» disse Ladya.

   In quella Vrel spalancò gli occhi e alzò fulmineo la mano, intercettando l’ennesimo colpo del dottore. «Così può bastare» farfugliò. Il Medico Olografico lo aiutò a riadagiarsi, dopo di che prese a visitarlo. Dato che la frenesia sembrava cessata, Zafreen lasciò andare Ladya.

   «Vrel era caduto nel coma curativo vulcaniano, un particolare stato in cui tutte le energie dell’organismo sono concentrate sulla guarigione» spiegò la Vidiiana. «Quando la fase critica è superata, il risveglio può essere difficoltoso. Serve uno stimolo esterno che costringa il corpo a reagire. Gli schiaffi sono tuttora la soluzione migliore».

   «Beh, poteva dirmelo!» mugugnò Zafreen. «Così lo avrei svegliato io». L’Orioniana si accostò a Vrel, ora pienamente cosciente. «Non farlo mai più!» disse, con voce rotta dal pianto. «Non voglio più vederti in queste condizioni! Mi farai venire i capelli bianchi!». Lo abbracciò singhiozzando. Il timoniere, che era ancora debole, non poté opporsi.

   «È stata al tuo capezzale giorno e notte» rivelò Ladya, con un’occhiata eloquente. Lei e Joe lasciarono la saletta, per dare alla coppia l’indispensabile privacy.

   «Calmati... sto bene, ora» disse Vrel, respingendo a stento l’ex fidanzata. «Che ne è degli altri? Jaylah, Dib...?».

   «Stanno bene. Terry – l’IA dell’Enterprise – li ha aiutati a diffondere il messaggio» rivelò Zafreen, asciugandosi le lacrime. «Ma il resto della flottiglia è stato distrutto o conquistato dal nemico. Frola è stata giustiziata, mentre di Lambeos non abbiamo notizie. Noi ci siamo salvati solo grazie allo Spettro».

   «Aspetta... quello Spettro? Quello di Jaylah?!» si allarmò il mezzo Xindi.

   «Proprio lui. Adesso si definisce un corsaro al servizio della Flotta... vedremo che combinerà» disse l’Orioniana. «Se vuoi il mio parere, ci ha aiutati solo per cuccarsi Jaylah. Non credo che la rivedremo tanto presto... è pazza di lui e non cerca più di nasconderlo».

   «Di questi tempi è più tranquilla la vita dei pirati, che non la nostra» borbottò Vrel, tastandosi il petto. «Il mio cuore...» mormorò, sentendo ancora un dolore sordo.

   «Era ferito. Ladya te ne ha dovuto trapiantare un altro» disse Zafreen, che aveva ancora l’orrore negli occhi.

   «La famosa medicina Vidiiana!» borbottò Vrel. «Beh, ora posso definirmi un uomo a pezzi. A proposito di dolori, che ne è di mia sorella?».

   «Non è il caso di parlarne. Ora devi riposare» consigliò l’Orioniana, cercando di farlo riadagiare sul lettino.

   «Rispondi, maledizione! Dov’è Lyra?!» abbaiò Vrel, con tale cattiveria che Zafreen sobbalzò.

   «Dopo il tuo ferimento, Jaylah l’ha respinta» rivelò l’Orioniana. «Era conciata male, ma l’altro giorno il Federal News ha annunciato che è sopravvissuta e l’hanno trasferita sulla Terra. Non pensare nemmeno di andarla a cercare!».

   «Non lo farò, nell’immediato» concesse il timoniere. «Ma spero tanto di acciuffarla, prima o poi» aggiunse in tono velenoso.

   «Perché, cosa conti di fare?» indagò Zafreen, spaventata dal suo atteggiamento.

   «Quello che cercavo di fare quando mi ha trafitto» spiegò Vrel. «La catturerò e la porterò qui, così i dottori potranno accertare se ha subìto condizionamenti mentali. Non me ne stupirei: gli scagnozzi di Rangda sono capaci di tutto».

   «E se non fosse così?» sussurrò l’Orioniana.

   «Se mia sorella ci ha traditi spontaneamente, dici? Spero proprio di no» disse il mezzo Xindi, con una luce micidiale negli occhi. «Perché in quel caso, la ucciderò con le mie mani».

 

   «Siamo pronti a risvegliare la paziente, Eccellenza».

   «Eseguite».

   Man mano che le iniezioni di stimolanti e le sollecitazioni neuro-motorie facevano effetto, Lyra uscì dalle nebbie dell’incoscienza. Provava dolore in quasi tutto il corpo, ma specialmente alla spina dorsale e allo sterno. Aprì gli occhi e li sbatté più volte, mentre la vista si schiariva. Si trovava in una sala ospedaliera di un bianco asettico, piena di dottori che consultavano oloschermi e trafficavano con gli strumenti diagnostici. «Dove... mi trovo?» chiese dal suo giaciglio di dolore.

   «Sei sulla Terra, al Comando Medico dei Pacificatori» rispose una voce accanto a lei. Una voce che la cronista riconobbe, pur non avendo mai incontrato di persona la proprietaria.

   La mezza Xindi girò la testa, lentamente e con dolore. Non si era ingannata: la sua visitatrice era Rangda in persona. «Presidente...» mormorò, cercando di rialzarsi.

   «No, resta sdraiata» le raccomandò la Zakdorn. «Hai subìto molte operazioni, dopo che i terroristi hanno cercato di ucciderti. Avevi le costole rotte, cuore e polmoni schiacciati dalla compressione dello sterno. Molte altre ossa si erano fratturate per la caduta. E avevi – sii forte – tre vertebre dislocate. Quando ti hanno raccolta, eri in fin di vita. Ma tu hai tanta forza, e i nostri medici sono eccellenti» sorrise, carezzandole la guancia. «Dovrai fare una terapia riabilitativa, ma guarirai del tutto».

   «La retata a Memory Alpha... com’è finita?» sussurrò Lyra, augurandosi che le sue sofferenze fossero almeno servite a qualcosa.

   «Bene, grazie a te. Abbiamo catturato molte navi ribelli, impedendo che fossero usate per compiere attentati» rispose la Presidente. «Purtroppo la Keter ci è sfuggita, dopo che i suoi agenti sono riusciti a diffondere le loro menzogne sul vostro sito. Sai chi li ha aiutati a scappare? Lo Spettro! Proprio lui, il peggior criminale della Galassia. Ma non c’è da stupirsi che i ribelli vadano d’accordo con gli altri tagliagole. Temo che questa guerra sia appena iniziata» sospirò.

   «Speravo di... favorire la pace...» gemette la cronista.

   «E l’hai favorita, eccome!» assicurò Rangda, in tono materno. «Grazie al tuo coraggio abbiamo salvato molte vite. Infatti voglio ricompensarti. Appena i dottori certificheranno la tua guarigione, avrai un posto di spicco nel mio governo. Sarai la Ministra dell’Informazione».

   «La Ministra?!» sussultò Lyra. «Ma io... non sono qualificata! Ho appena ventiquattro anni e sono una semplice cronista. Ci saranno senz’altro persone più esperte per questo lavoro!».

   «I candidati sono tutte delle vecchie cariatidi. Io cerco un volto nuovo e giovane. Tu sei il simbolo che mi occorre per spronare i cittadini alla legalità» insisté la Presidente. «Non preoccuparti delle formalità burocratiche. Se io ti prometto una cosa, sta’ pur certa che la mantengo!».

   «Grazie, signora Presidente. Ha più fiducia in me di quanta ne abbiano mai avuta i miei parenti» confessò Lyra, facendosi triste. «Ma la prego, mi dica cos’è successo a mio fratello! È vivo, sta bene?!».

   «Oh, piccola mia... mi dispiace tanto» disse Rangda. «I ribelli della Keter se lo sono portati via, impedendoci di sapere se è sopravvissuto. Comunque stiamo facendo di tutto per rintracciarli».

   «L’ho ferito io» mormorò la cronista, divorata dal rimorso. «Ma è stato un incidente, non l’ho fatto apposta!» si disperò.

   «Ma certo, figliola. Qui nessuno ti accusa di nulla» garantì la Presidente. «I veri colpevoli sono quelli che l’hanno traviato, mettendolo contro di te».

   «Jaylah!» ringhiò Lyra. «È stata lei! E poi ha cercato di uccidermi! Io ho ferito Vrel per sbaglio, ma lei mi ha colpita di proposito!» disse in tono velenoso.

   «È solo una delle sue imprese criminali» sospirò Rangda. «Non volevo dirtelo finché sei convalescente, ma... devi sapere che quel mostro è complice dello Spettro fin dalla prima missione della Keter. Lo ha aiutato a colpire i Breen, sperando di scatenare un conflitto, e poi gli ha passato informazioni per sfuggire alle nostre retate».

   «Ma... perché la figlia dell’Ammiraglio Chase avrebbe fatto questo?!» si sgomentò Lyra.

   «Probabilmente rientrava nel piano dell’Ammiraglio per destabilizzare l’Unione e prendere il potere» mentì la Presidente. «Anche se siamo sfuggiti al colpo di Stato, i ribelli possono colpire ovunque. Per questo sto organizzando i lealisti nella nuova Forza di Pace. Se per allora sarai in piedi, vorrei che presenziassi alla cerimonia d’inaugurazione».

   «Ci sarò» promise la mezza Xindi. «I Pacificatori cercheranno la Keter?».

   «E lo Spettro. Saranno i loro compiti più importanti».

   «Se troveranno Vrel, lo prenderanno vivo?».

   «Ci proveranno, ma sai com’è... in guerra non sempre i nemici si lasciano catturare» disse la Presidente in tono fatalista.

   «Spero che lo prendano. Così capiremo se i ribelli l’hanno influenzato in qualche modo» disse Lyra.

   «E se così non fosse? Se ti avesse tradita spontaneamente?» suggerì Rangda, in tono accorato.

   «Spero proprio di no» disse la mezza Xindi, con una luce micidiale negli occhi. «Perché in quel caso meriterà la sua condanna. Quanto a Jaylah, non vedo l’ora che i Pacificatori la facciano fuori».

 

   «Ce la fai a camminare?» chiese Zafreen, porgendo il braccio a Vrel.

   «Sì, sì» disse lui seccamente. Respinse l’aiuto dell’Orioniana e mosse alcuni passi con le sue forze.

   «Oggi vorrei che camminassi per almeno un’ora» raccomandò Ladya. «Da domani comincia gli esercizi in palestra, così il nuovo cuore si abituerà agli sforzi».

   «Okay. Grazie, dottoressa» disse il timoniere. Stava per lasciare l’infermeria, quando entrò Jaylah, accompagnata da un uomo alto ed energico che sulle prime Vrel non riconobbe.

   «Ehilà! Mi hanno detto che ti sei svegliato a suon di ceffoni» scherzò la mezza Andoriana, ma subito dopo tornò seria. «Come stai?» chiese.

   «Sopravvivo» rispose il mezzo Xindi, laconico.

   «Perdonami se ho ferito Lyra, ma...».

   «Lascia stare. Non avevi scelta» riconobbe Vrel. «Dovremo convivere con l’accaduto».

   «Col tempo andrà meglio, anche se certe ferite non guariscono mai del tutto» disse l’Umano che accompagnava Jaylah, porgendogli la mano.

   Vrel ebbe un attimo d’esitazione, perché stava ancora cercando di riconoscerlo, ma poi gliela strinse. «Jack Wolff?» chiese. Lo aveva visto solo una volta senza armatura, e di sfuggita, durante la prima missione della Keter.

   «Pochi mi chiamano così. Ma sì, sono io» confermò il corsaro. «Sono qui per decidere le prossime mosse col vostro Capitano, ma prima volevo conoscerti. Jaylah mi ha parlato molto di te. Penso che ci somigliamo, sotto certi aspetti. Sei com’ero io quando stavo nella Flotta».

   «Non più» disse Vrel, cupo.

   «Già, non più» si corresse Jack. «Ora sei come me adesso. Benvenuto dall’altra parte della barricata, amico» disse, dandogli una pacca sulla spalla. Lui e Jaylah lasciarono l’infermeria, per andare alla riunione tattica.

   Vrel non poté seguirli, essendo ancora convalescente, e anche Zafreen si era presa un giorno libero per stargli accanto, perciò i due fecero la passeggiata prescritta da Ladya. Si tennero a braccetto, ma parlarono pochissimo. Dopo un’ora Vrel mostrò segni di stanchezza e Zafreen lo accompagnò al suo alloggio.

   «Grazie per essermi stata vicina» borbottò Vrel quando fu sulla porta. «Ti dai troppi pensieri per me».

   «Chi ho io a cui pensare, se non te?!» chiese Zafreen, guardandolo con aria struggente. «I miei parenti sono dei criminali che mi vogliono morta. La mia unica famiglia è qui sulla Keter».

   Queste parole colpirono Vrel profondamente. «Già, non sono l’unico ad avere problemi» ammise. «Quel che sto passando ora, tu lo affronti da anni».

   Il mezzo Xindi si era così avvicinato alla porta che questa si aprì. Zafreen, che lo fronteggiava, spinse quasi involontariamente lo sguardo nel suo alloggio, in cui non entrava da quando avevano rotto, venti mesi prima. Si accorse che alla parete era ancora appeso il ritratto senza veli che Vrel – appassionato di pittura – le aveva fatto quando stavano assieme. «Ce l’hai ancora!» si emozionò. «Credevo lo avessi disintegrato, quando ci siamo lasciati».

   Il timoniere si guardò alle spalle, notando il quadro. «Ah, già» disse, un po’ imbarazzato. «Non potevo distruggerlo. Una metà del mio cuore è sempre stata qui» confessò, sfiorando l’Orioniana.

   «Mi dispiace di averti fatto soffrire» sussurrò lei.

   «È acqua passata» disse Vrel. «Infatti mi chiedevo se...».

   «Sì?!» fece Zafreen, sulle spine.

   Invece di parlare, il timoniere la baciò.

   «Uhm...» fece l’Orioniana, guardandolo maliziosa. «Se ricordo bene, avevi detto che la nostra relazione era troppo adolescenziale e che dovevamo andare avanti».

   «Infatti siamo andati avanti... e ora ci troviamo qui» disse Vrel, allargando le braccia. «Ti rivoglio, amore. Penso che ormai possiamo gestirla in modo più maturo».

   «Ah, non so... devo pensarci» disse Zafreen, con finto distacco.

   «Ehi, non vorrai spezzarmi il cuore un’altra volta. Questo è ancora in garanzia» ironizzò il mezzo Xindi, sfiorandosi il petto.

   «Non potrei mai contraddire gli ordini dei medici. Il tuo cuore ha bisogno di attenzioni» sussurrò l’Orioniana, prima di baciarlo a sua volta. I due si abbracciarono e Vrel indietreggiò, così da portare la compagna nel suo alloggio. Non rilevando più la loro prossimità, l’ingresso si richiuse.

 

   Per la prima volta, lo Spettro partecipò a una riunione tattica della Keter. «Ah, ecco il resto della banda!» commentò, entrando in sala. «Ho sentito molte storie su di voi. Capitano Hod, incantato. Signor Norrin, ha fatto carriera» aggiunse, notando i gradi da Comandante. L’Hirogeno gli lanciò un’occhiata non proprio amichevole, memore del loro scontro sul treno merci, ma non fece commenti. Tutti si accomodarono attorno al tavolo.

   «I miei informatori dicono che i ribelli della Flotta e tutti gli altri dissidenti si stanno radunando a Kronos» rivelò Jack. «Il vostro exploit a Memory Alpha ha rafforzato il dissenso. Se volete trovare alleati, vi consiglio di andare là».

   «Uhm... preferisco aspettare» disse Hod. «Non vorrei che tutto si risolvesse in un’altra retata. Se Kronos si confermerà come la capitale dei dissidenti, ci andremo; ma nel frattempo voglio proseguire la ricerca dell’Ammiraglio Chase. Rangda ha annunciato che presto gli farà confessare il colpo di Stato, il che significa che lo costringerà a mentire. Potrebbe ricattarlo, oppure influenzarlo mentalmente. Dobbiamo salvarlo prima che accada, anche perché l’Ammiraglio potrebbe essere l’unico capace di riunire i ribelli della Flotta».

   «E come conta di trovarlo?» chiese lo Spettro.

   «Il primo passo è trovare la Voyager, dato che i Voth se la sono portata via tutta intera» rispose il Capitano.

   «Forse so come rintracciarla» intervenne il dottor Joe. «Quando la Voyager era dispersa nel Quadrante Delta, la Flotta avviò il Progetto Pathfinder per rintracciarla e per comunicare a grande distanza. Il satellite MIDAS che usavano è ancora presso la Nebulosa Mutara. Potremmo riattivarlo e riprendere le ricerche».

   «Se fosse in buono stato, sarebbe possibile» approvò Terry.

   «Sentite, è un’idea carina, ma prima di fare piani devo chiedervi una cosa» disse Jack. «Visto che siamo su una nave temporale, nessuno di voi ha pensato di tornare indietro per impedire questo disastro? Sì, è una violazione degli Accordi, ma a questo punto...».

   «Come potremmo cambiare gli eventi? I Voth avrebbero reclamato la Terra in ogni caso» disse Norrin.

   «Beh, potremmo andare indietro nel tempo di un mesetto ed eliminare Rangda prima che ordini la resa» suggerì il corsaro. «Oppure potremmo risalire a duecentotrenta anni fa e fermare Forra Gegen prima che teorizzi l’Origine Lontana. Questo risolverebbe il problema alla radice».

   «Ci ho pensato» disse Hod. «Il problema è che così ci metteremmo contro gli Agenti Temporali del futuro».

   «Di Agenti del futuro non ne ho visto l’ombra, quando ho affrontato l’incursione temporale di Vosk» borbottò Jaylah. «E dire che lì sarebbero serviti».

   «Terremo l’intervento temporale come ultima opzione» disse il Capitano. «Siamo già nella Guerra Civile. Cerchiamo di non farla diventare anche Guerra Temporale... perché vi ricordo che pure i lealisti hanno accesso al viaggio nel tempo. Controllano i cantieri di Plutone, dov’è in costruzione una nave simile a questa. Finora l’intervento temporale è l’unico tabù che non hanno osato infrangere; facciamo in modo che le cose non cambino».

 

   La sala cerimonie del Comando dei Pacificatori – ex Comando di Flotta – era gremita. Gli ufficiali dovevano infatti prestare il nuovo giuramento. Il cambio di regime era evidente fin dai simboli. Il tradizionale emblema della Flotta Stellare, che appariva sui muri, nelle bandiere e nelle mostrine-comunicatore dei presenti, era stato ribaltato, così da puntare verso il basso. Anche le uniformi erano cambiate: adesso erano in gran parte bianche, con una sottile linea verticale colorata che passava sul lato sinistro del petto, intersecando il comunicatore. Solo i colori delle sezioni erano ancora gli stessi: rosso per il Comando, giallo per Sicurezza e Ingegneria, blu per Scienza e Medicina.

   Schierato in ranghi serrati con i colleghi, il neo-promosso Capitano Radek osservò il palco, dove Rangda si era presentata con il solito codazzo di ministri e segretari. La Presidente, infatti, era adesso anche il capo supremo della Forza di Pace. A Radek questo accentramento di poteri non piaceva, ma che poteva farci? Ribellarsi come Hod non faceva che dare a Rangda il pretesto per arrogarsene ancora di più. Aguzzando la vista, il Rigeliano notò una giovane donna sul palco, che indossava un sottile esoscheletro di sostegno. Era Lyra Shil, reduce dallo scontro con i ribelli su Memory Alpha. Radek rabbrividì al pensiero che i suoi ex colleghi fossero stati capaci di tanta violenza contro quella ragazza. Quella vista lo convinse ancora di più che aveva fatto bene a schierarsi con i lealisti.

   «Salute a voi!» esordì la Presidente. «Mi compiaccio di vedere quanta parte della Flotta Stellare è rimasta fedele ai suoi valori. Purtroppo oggi il nome della Flotta è usurpato da ribelli e terroristi che spargono menzogne e violenze, nel tentativo di dividerci. Perciò si è reso necessario riformare quest’organizzazione, a partire dal nome. Da oggi voi sarete la Forza di Pace dell’Unione, o più semplicemente i Pacificatori.

   Oltre ai tradizionali compiti della Flotta – esplorazione, ricerca scientifica e difesa – ne avrete di nuovi, altrettanto importanti. In primo luogo darete la caccia ai ribelli e li assicurerete alla giustizia. Affinché ciò sia possibile, godrete d’illimitati poteri d’intervento su tutto il territorio federale. Oltre ai ribelli, perseguirete anche i loro fiancheggiatori e sostenitori, coordinandovi con le forze di polizia locali. In secondo luogo aiuterete i nostri amici Voth a gestire il pacifico trasferimento dei Terrestri, in ottemperanza all’accordo ratificato dal Senato.

   Nell’ambito della collaborazione con la polizia, contribuirete altresì a reprimere ogni Crimine d’Odio, siano essi Atti Violenti, Discorsi Offensivi o semplici Pensieri Deplorevoli. È tempo infatti che la nostra società compia un balzo evolutivo in avanti. Dobbiamo riconoscere che la violenza fisica e verbale nasce dalla violenza del pensiero, ed è dunque sui pensieri che dobbiamo intervenire. Per questo motivo, l’Ufficio di Salute Pubblica organizzerà i Corpi Empatici, che vigileranno sui pensieri dei cittadini. Ogni Pensiero Deplorevole sarà curato prima che si traduca in azioni criminose. Ho detto curato, badate bene, non punito. La pena non sarà in alcun caso il carcere, un barbaro residuo di sistemi penali arcaici, fondati sulla vendetta. No: la nostra società deve puntare alla riabilitazione. I colpevoli saranno condotti in appositi Centri di Rieducazione, per essere liberati dai pensieri aggressivi e intolleranti. Dopo di che saranno reinseriti nella società, con modi e tempi personalizzati. Saranno più sani, più felici, più in armonia con lo Stato. Di tutto questo, voi Pacificatori sarete i garanti. Ora, dunque, prestate il vostro giuramento».

   Migliaia di ufficiali parlarono all’unisono: «Giuro di essere fedele alla Presidente, in quanto rappresentante eletta del popolo federale, e alla Costituzione, in quanto espressione della volontà popolare. Giuro di attenermi scrupolosamente al regolamento della Forza di Pace e di obbedire agli ordini dei superiori, a meno che contrastino col suddetto regolamento. Giuro di adempiere quotidianamente ai miei doveri con tutto il mio impegno e le mie capacità. Giuro di difendere i diritti, la libertà e la sicurezza dei cittadini federali, anche al prezzo dei più alti sacrifici».

   Mentre gli ufficiali le giuravano fedeltà, la Presidente fece un sorriso che accentuò le rughe del viso. Quello era il suo momento di trionfo. Non aveva mai dubitato seriamente che sarebbe riuscita a controllare la Flotta; ma nemmeno nei suoi sogni più selvaggi aveva immaginato che sarebbe stato così facile. I Voth le avevano permesso d’accelerare i suoi piani di anni; erano la chiave di un potere illimitato. Era tutto così semplice! Prima avrebbe usato Voth e Pacificatori per schiacciare i ribelli. Poi avrebbe usato i Pacificatori per sganciarsi dai Voth, lasciandogli però la Terra, per assicurarsi che gli Umani restassero spezzati nell’orgoglio. Nel frattempo avrebbe accentrato su di sé ancora più poteri. E la gente l’avrebbe amata, l’avrebbe riverita come salvatrice dell’Unione. Cosa che lei era fermamente convinta di essere. Chi, se non lei, aveva la capacità di prendere un coacervo di specie litigiose e di unificarle per davvero? I popoli federali erano come i metalli: doveva batterli per bene, eliminando le impurità, per forgiarli in una lega indistruttibile. Solo così avrebbe garantito all’Unione un futuro di pace e progresso.

 

   Ora che il giuramento era fatto, Rangda riprese la parola, illustrando nel dettaglio l’organizzazione dei Pacificatori e presentando gli ufficiali dello Stato Maggiore. Naturalmente erano tutti personaggi strettamente legati a lei. Molti avevano diretto i vari uffici governativi da lei istituiti negli ultimi anni, come l’Ufficio di Primo Contatto e quello di Salute Pubblica. Queste organizzazioni, che avevano tolto potere alla Flotta quando essa si opponeva a Rangda, venivano riassorbite nei Pacificatori ora che la Presidente ne aveva il controllo.

   Al termine del discorso, Rangda fece un ultimo annuncio. «Poiché queste riforme necessitano di essere comunicate alla cittadinanza, vi annuncio la creazione di un nuovo Ministero dell’Informazione, a cui farete riferimento nei vostri rapporti col pubblico. Ma lasciate che vi presenti la Ministra dell’Informazione: Lyra Shil!».

   A queste parole, la mezza Xindi si fece avanti, salutata da uno scroscio di applausi. I suoi movimenti erano rigidi a causa dell’esoscheletro di sostegno che la ingabbiava. La giovane si guardò attorno, spaesata dall’improvvisa notorietà, e ricambiò con un legnoso gesto di saluto.

   «La signorina Shil ci ha dimostrato la sua abnegazione durante i recenti fatti di Memory Alpha» proseguì Rangda. «Ha infatti denunciato il fratello che si era unito ai ribelli e ci ha aiutati ad assicurare molti di loro alla giustizia. Così facendo si è esposta a gravi rischi, e infatti i ribelli – nella persona di Jaylah Chase – hanno cercato di assassinarla. I nostri medici l’hanno però strappata alla morte, ed ora è in via di guarigione. A nome della collettività, la ringrazio per la lealtà e lo spirito di sacrificio, Ministra Shil. Lei è un fulgido esempio di Comportamento Corretto» proclamò, stringendole calorosamente la mano.

   «Ho fatto solo quello che ogni buon cittadino dovrebbe fare» disse Lyra, dopo di che si rivolse al pubblico. «La missione fondamentale del mio Ministero sarà contrastare le menzogne e la disinformazione che i ribelli hanno sparso con lo scellerato attacco a Memory Alpha. Tutti i cittadini devono conoscere la verità, perché solo la verità ci rende liberi».

 

   Mentre si recava in plancia per riprendere servizio, Vrel si sentì il cuore pesante. Non era un problema fisico – il cuore trapiantato funzionava a meraviglia – ma di umore. La sera prima aveva visto la cerimonia d’inaugurazione dei Pacificatori, trasmessa in diretta Olonet. Aveva riconosciuto il volto di Radek, tra gli ufficiali schierati, e aveva visto sua sorella venire ricompensata per il tradimento. «I nostri guai sono appena cominciati» si disse mentre saliva con il turboascensore. Quando entrò in plancia, tutti si girarono verso di lui. «Tenente Shil pronto a riprendere servizio» disse in tono sbrigativo.

   «Bentornato» lo accolse il Capitano. «La plancia non era la stessa, senza di lei».

   Quelle parole, accompagnate da un sorriso genuino, lo fecero stare meglio. Forse c’era ancora speranza, si disse, finché erano tutti assieme sulla Keter. Mentre si recava al suo posto però si guardò attorno, notando la portata dei cambiamenti. Norrin era adesso il Comandante e sedeva sulla poltroncina che era stata di Radek. Il nuovo Ufficiale Tattico era Terry, mentre Jaylah era ancora sulla Stella del Polo e probabilmente ci sarebbe rimasta. Tutti loro, inoltre, avevano i comunicatori retro nello stile del XXIV secolo. Non era possibile guardare un collega senza ricordare che tutti loro erano diventati ribelli.

   Solo quando fu seduto al suo posto e alzò gli occhi allo schermo Vrel si accorse che c’era un oggetto nello spazio. Era uno strano satellite: il design sembrava federale, ma il timoniere non ne riconobbe il modello. Da certi dettagli però gli parve che fosse antiquato. Da un corpo centrale a forma di parabola esagonale si dipartivano tre bracci lunghi, muniti di pannelli, e tre più corti. Un ulteriore elemento di forma compatta galleggiava nello spazio a poca distanza. Vrel intuì che il satellite aveva a che fare con le telecomunicazioni, ma non sapendo perché li riguardasse, chiese lumi ai colleghi. «Quello è un ricevitore subspaziale?» domandò.

   «È il MIDAS» rispose il Capitano. «Ci serve per la ricerca... ma già, lei non ne è stato informato. Zafreen, lo aggiorni».

   Vrel lasciò il timone e si accostò all’Orioniana, che lo mise al corrente degli ultimi sviluppi. «Come sai, è dal giorno della Caduta che cerchiamo di rintracciare la Voyager. Dopo la Battaglia di Memory Alpha abbiamo chiesto a Terry, ma anche lei non ne sa niente. Così il dottor Joe se n’è uscito con quest’idea. Ai suoi tempi la Flotta Stellare aveva varato un programma per contattare la Voyager dispersa nel Quadrante Delta. Lo chiamavano Progetto Pathfinder e quello è il dispositivo che usavano».

   «Funziona ancora?» si stupì Vrel, sapendo che erano passati più di due secoli.

   «Si era rotto qualche pezzo, ma Dib lo ha aggiustato» spiegò l’Orioniana. «In pratica il satellite fa qualcosa col subspazio, aprendo dei mini-tunnel spaziali...».

   A questo punto Terry, che aveva ascoltato con insofferenza l’imprecisa spiegazione di Zafreen, non resse più. Lasciò la postazione tattica e si accostò ai due. «Il MIDAS, ovvero il Mutara Interdimensional Deep Space Array Sistem, invia un raggio di tachioni contro le pulsar di classe B, facendo collassare porzioni del tessuto spazio-temporale in micro-singolarità e aprendo quindi tunnel spaziali microscopici».

   «E io che ho detto?» fece Zafreen, indispettita dall’intrusione.

   «Ai tempi del Progetto Pathfinder, questo serviva per comunicare con la Voyager» proseguì l’IA, ignorandola. «Noi invece ce ne serviamo per incanalare le emissioni dei sensori, aumentandone enormemente la portata».

   «Ma servirà comunque un sacco di tempo per esaminare tutta l’Unione» obiettò Vrel.

   «Abbiamo ristretto la ricerca ai sistemi che ospitano installazioni federali, ma che non sono abitati da civili» spiegò Terry. «Lì, infatti, l’arrivo della Voyager non sarebbe passato inosservato».

   «E se ci fossero installazioni segrete?».

   «Conosco anche quelle» rivelò la proiezione isomorfa, e il timoniere decise di non indagare su questo punto. «La ricerca è in corso da quattro giorni. Ne serviranno altri otto per esaurire l’elenco dei siti. Se arriveremo in fondo senza trovare nulla, amplieremo la rosa dei candidati» proseguì la proiezione isomorfa.

   «E se trovassimo la Voyager, ma non l’Ammiraglio? Potrebbero averlo trasferito altrove» notò Vrel. «Diamine, potrebbero aver distrutto la nave, nel qual caso non troveremo mai nulla!».

   «È un’eventualità» convenne Terry. «Ma al momento non abbiamo di meglio da fare».

   «Ah, no?» brontolò il timoniere. Avrebbe voluto muover guerra ai Pacificatori seduta stante, ma si rese conto che dopo aver perso dodici navi a Memory Alpha il Capitano non avrebbe più lanciato assalti affrettati. «Beh, spero che salti fuori qualcosa» disse, e tornò al timone.

   Terry invece rimase accanto a Zafreen. «Ehm, Tenente...» fece, accennando al quadro comandi.

   «No, non me lo dica; l’emettitore 3 è disallineato di mezzo micron» fece Zafreen, correggendo l’errore. «È soddisfatta, signora?». L’Orioniana non era abituata a prendere ordini da un’Intelligenza Artificiale; la sua puntigliosità le metteva ansia.

   «Non mi riferivo a quello» spiegò pazientemente Terry.

   «E allora cosa? La potenza del segnale è bassa, sì, ma sta per cominciare il ciclo di ricarica» si difese l’addetta ai sensori.

   Per tutta risposta, Terry le indicò una spia luminosa che lampeggiava vistosamente sulla consolle.

   Zafreen sgranò gli occhi e lesse i dati. Ricontrollò per sicurezza, ottenendo gli stessi risultati. Allora si girò con tutta la sedia verso Hod e si schiarì la voce. «Capitano, abbiamo un riscontro» disse solennemente.

 

   Superata l’orbita di Nettuno, la navetta dei Pacificatori sfrecciò verso il sistema solare esterno. Era il regno dell’oscurità e del ghiaccio, dove frammenti di corpi celesti mai aggregati orbitavano immutati da miliardi di anni. Ogni tanto, però, s’incontrava un planetoide di una certa dimensione.

Come Plutone, l’obiettivo di quel viaggio. Era lì che la Keter era stata costruita, ed era sempre lì che un nuovo scafo aveva preso forma negli ultimi cinque anni. La navetta superò il satellite Caronte ed entrò nell’orbita del pianeta nano.

   «Non sarà deluso, signore» disse la pilota, una Valakiana. «Il Moloch non è semplicemente un altro vascello di classe Keter. È il passo successivo: più grande, più armato...».

   «Ho letto le specifiche, Tenente» disse il Capitano Radek. «L’unica cosa che mi sfugge è il nome. Che significa?».

   «Vuol dire Bene Superiore in lingua Zakdorn» spiegò la Valakiana. «Sa, la Presidente ha ordinato che d’ora in poi i nomi delle astronavi siano tratti dalle altre culture. Era ora, non trova? Insomma, migliaia di navi con equipaggi multietnici, ma tutte con nomi Umani... era piuttosto disgustoso».

   «Già» convenne il Rigeliano, aguzzando la vista. Qualcosa stava emergendo dal cono d’ombra di Plutone. Sembrava la Keter, per via della forma compatta e dello scafo corazzato, privo di finestre. Ma era più mastodontico e aveva forme più squadrate. Il deflettore di navigazione e i collettori Bussard brillavano scarlatti sullo scafo nerastro. A prua, il nome e il numero di registro erano scritti in Zakdorn, la lingua di Rangda.

   «Che le dicevo? Somiglia alla Keter, però è meglio!» si emozionò la pilota. «Con questo non avrà problemi a darle la caccia».

   «Hm-hm» fece il Capitano, che si era messo a consultare il database. «Ma guarda, ho trovato un riscontro per il nome Moloch anche nella cultura terrestre. Era il nome di un’antica divinità che esigeva sacrifici umani».

   «Che orrore!» rabbrividì la Valakiana.

   «Che combinazione» commentò Radek, ironico. «Non sarà la protesta di qualche progettista, che vuol polemizzare contro le riforme di Rangda?».

   «Se vuole, posso inoltrare una petizione al Comando per cambiare il nome» disse la pilota, servizievole.

   «No, lasci stare» la bloccò il Rigeliano. «Ci ricorderà che, per il bene superiore, bisogna fare dei sacrifici».

   «Beh, finché sono Umani!» ridacchiò la Valakiana.

   «Già, finché sono Umani...» mormorò Radek, ammirando l’oscura bellezza del Moloch. Finalmente aveva ottenuto ciò che voleva: un vascello tutto suo.

 

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Capitolo 7
*** Il grido della Banshee ***


-Capitolo 6: Il grido della Banshee

 

   Le nubi tossiche verdastre avvolgevano gran parte della superficie di Elba II, lasciando solo qualche chiazza di suolo desolato visibile dallo spazio. Una piccola stazione spaziale era stata costruita nell’orbita bassa. Al momento vi era attraccata una sola astronave, la Voyager. La vecchia nave era in gran parte disattivata: i sistemi operavano al minimo, giusto per garantire la permanenza di alcuni sorveglianti. In un’orbita geostazionaria più alta si trovava la Juggernaut. Due Work Bee percorrevano lo scafo, cancellando nome e numero di registro, per riscriverli in caratteri Zakdorn.

   A bordo l’attività era ridotta al minimo, dato che l’astronave aveva solo il compito di vigilanza. L’equipaggio si avvaleva del tempo libero per studiare il nuovo regolamento dei Pacificatori e apportare i necessari cambiamenti estetici. Tutti indossavano già le nuove uniformi bianche e i comunicatori capovolti. Le interfacce LCARS però non erano state tradotte, perché lo Zakdorn era una lingua poco conosciuta e l’equipaggio avrebbe avuto difficoltà a leggerla.

   In plancia, il Capitano Gulnar era immerso nella lettura del regolamento quando l’Ufficiale Tattico fece rapporto. «Signore, le Work Bee hanno terminato il lavoro e stanno rientrando» disse.

   «Bene» fece l’Axanar, senza alzare gli occhi dal d-pad.

   Invece di recarsi alla sua postazione, l’ufficiale – un Remano – gli rimase appresso. «Capitano, posso parlare liberamente?» chiese.

   «Certo, come sempre» annuì Gulnar, dedicandogli finalmente attenzione.

   «Che ci facciamo ancora qui?! L’Unione è sul punto di esplodere, dopo che i ribelli hanno diffuso quel messaggio. Dovremmo essere là dove c’è più bisogno di noi: Kronos, Nuovo Romulus, Cardassia. Non qui, a sorvegliare una palla di sassi!» disse l’Ufficiale Tattico in tono sprezzante, accennando a Elba II.

   «Quella “palla di sassi”, come la chiama lei, ospita un istituto d’igiene mentale all’avanguardia» obiettò il Capitano. «Le terapie che vi si mettono a punto fanno scuola in tutta l’Unione. I Centri di Rieducazione promessi dalla Presidente saranno modellati su questo. E poi ci sono detenuti illustri. Non possiamo rischiare che qualcuno li faccia evadere».

   «Ma per quanto dovremo restare? L’equipaggio è irrequieto» insisté il Remano.

   «Staremo qui per tutto il tempo necessario» disse l’Axanar, facendosi severo. «Certo che, se le cose peggiorassero, dovranno per forza richiamarci» si corresse.

   «Lei pensa che peggioreranno?» indagò l’Ufficiale Tattico.

   «Dopo i fatti di Memory Alpha, è probabile» sospirò Gulnar. «Se i Separatisti dichiareranno la secessione in modo unilaterale e i ribelli della Flotta li appoggeranno, sarà la Guerra Civile» disse, osservando malinconico la Voyager inquadrata sullo schermo.

   «Questa è una cosa che non capisco» borbottò il timoniere, girandosi verso i superiori. «Se alcuni sistemi vogliono abbandonare l’Unione, perché non li lasciamo andare? Quando l’isolamento avrà distrutto la loro economia, ci supplicheranno di tornare».

   «Nel frattempo ci sarebbero disordini e conflitti» obiettò il Capitano. «Inoltre molti di quei sistemi potrebbero coalizzarsi in una sorta di anti-Unione, che diventerebbe una minaccia costante. Non possiamo lasciare che accada. Ricondurremo i riottosi in seno all’Unione, con le buone o le cattive, per il bene di tutti».

 

   Sulla Voyager, l’infermeria era deserta e immersa nella penombra, come gran parte degli ambienti. Alcune consolle però erano ancora accese. Una di esse tornò improvvisamente in attività, poiché aveva ricevuto una trasmissione subspaziale, mascherata in modo da sembrare rumore di fondo. Una matrice olografica fu scaricata nel computer, assieme a un programma d’attivazione. L’ologramma apparve nel buio e sfarfallò per qualche secondo, prima di stabilizzarsi. «Precisare la... beh, chi ha spento le luci?!» protestò il dottor Joe. «Computer, ripristina l’illuminazione!».

   L’ambiente si rischiarò e il Medico Olografico si guardò attorno soddisfatto. «Ah, di nuovo a casa!» si rallegrò. Quell’infermeria era stata la sua prima dimora, prima ancora che l’Emettitore Autonomo gli consentisse di circolare per la nave. Era lì che aveva iniziato il cammino verso l’autodeterminazione. Osservando l’infermeria, però, il dottore aggrottò la fronte. «Non la ricordavo così piccola!» disse scioccato. Ormai si era abituato alle infermerie spaziose del XXVI secolo. Quella della Voyager, per contrasto, gli apparve claustrofobica e inadeguata. C’erano strumenti che non usava da due secoli.

   «Okay, al lavoro» si disse. Per prima cosa doveva uscire da lì. E poiché la Voyager non aveva olo-proiettori fuori dall’infermeria, gli serviva il suo vecchio Emettitore. Lo cercò con lo sguardo, trovandolo su una consolle. «Computer, trasferisci l’MOE nell’Emettitore Autonomo» ordinò, allacciandoselo al braccio.

   «Memoria insufficiente» avvertì il computer.

   «Mannaggia!». Il dottore temeva questo problema. Due secoli di studio e d’esperienze avevano moltiplicato le dimensioni del suo programma, rendendolo troppo grande per quel modello di Emettitore. Prima di farsi trasmettere dalla Keter, Joe aveva estratto le memorie non essenziali copiandole su un disco di back-up, da reintegrare al ritorno. Ma evidentemente aveva fatto male i conti. Si recò a una consolle, per esaminare il problema. La memoria in eccesso non era molta, dopo tutti i tagli che aveva già fatto. Ci voleva poco per rientrare nei limiti di carico dell’Emettitore. Lavorando più in fretta che poteva, il Medico Olografico eliminò alcuni file, avendo cura di conservarli in copia per riassumerli a fine missione. In tal modo riuscì a trasferirsi.

   «Computer, attivare il COE!» ordinò. Il Capitano Olografico d’Emergenza era una modalità di cui si era gloriato solo un paio di volte, quand’era nel Quadrante Delta. Ma era provvidenziale, ora che doveva riconquistare la nave. Appena ebbe impartito l’ordine, la sua uniforme si trasformò, diventando quella di un Capitano del tardo XXIV secolo.

   «Capitano Olografico d’Emergenza attivato. Invio codici di comando» disse il computer. Il dottore li ricevette direttamente in memoria.

   «Duecento anni... ed eccomi di nuovo qui, a salvare la Voyager» borbottò Joe. Il destino aveva uno strano senso dell’umorismo. Passò a un’altra consolle ed esaminò la nave, per vedere quanti sorveglianti c’erano a bordo. «Solo una trentina... come quella volta sulla Prometheus» commentò. Poteva farcela, anche perché sapeva che di lì a poco sarebbero giunti i rinforzi.

 

   Sotto la coltre di nubi verdastre, l’atmosfera di Elba II era torbida e velenosa. Il pianeta non aveva grandi masse d’acqua, né forme di vita indigene. C’era solo un deserto di rocce grigie, scolpite dal vento in forme torturate. La Federazione, che vi si era stabilita nel XXIII secolo, aveva rinunciato a terraformare quel mondo inclemente. Tuttavia vi aveva fondato un centro d’igiene mentale, profondamente sepolto nel sottosuolo per sfuggire ai veleni della superficie. Qui il Capitano Kirk si era scontrato con Garth di Izar, l’eroe della Battaglia di Axanar, ormai scivolato nella follia. Dopo un lungo periodo di abbandono, il centro era stato ristrutturato e ampliato. Adesso ospitava un carcere, abbinato all’istituto d’igiene mentale in cui si curavano i detenuti, con metodi che molti cittadini non avrebbero approvato, se solo li avessero conosciuti. Ma anche nelle alte sfere, pochi sapevano cosa accadeva realmente su Elba II.

   «Lasciatemi, traditori!» gridò Chase, mentre due infermieri lo trascinavano fuori dalla cella in cui era stato rinchiuso per quasi un mese. «Sono l’Ammiraglio Chase e vi ordino di lasciarmi, in nome della Flotta Stellare!».

   «La Flotta Stellare non esiste più» lo gelò uno degli infermieri. «Ora ci sono i Pacificatori. Quelli che non hanno accettato il nuovo ordinamento sono considerati terroristi».

   «Frell!» imprecò l’Ammiraglio. «Ascoltate, le riforme di Rangda sono anticostituzionali. Siamo di fronte a un colpo di Stato, e io devo uscire da qui per contribuire all’opposizione!» disse.

   «Lei verrà con noi» rispose meccanicamente l’infermiere. Lui e il suo collega trascinarono l’Ammiraglio lungo il corridoio.

   Osservandoli, Chase dedusse che erano Umani. Per quanto fosse anziano, lui aveva un braccio artificiale che gli garantiva una forza notevole. Forse sarebbe riuscito a stordirli, se colpiva in fretta. «Aspettate... cammino da solo» disse, fingendo di essere in affanno per la resistenza fin lì offerta.

   «Non tenti la fuga» raccomandò l’infermiere, lo stesso che aveva già parlato. I due lo lasciarono andare, pur restandogli appresso.

   L’Ammiraglio si piegò un poco in avanti, raccogliendo le energie. Poi si raddrizzò e iniziò a camminare, come se si fosse rassegnato. Ma d’un tratto sferrò un pugno micidiale all’infermiere alla sua sinistra, cogliendolo alla mandibola.

   Fu come colpire un muro di duranio. L’infermiere restò immobile, senza che la sua testa arretrasse di un millimetro. Chase invece sentì la violenza del contraccolpo e vacillò, massaggiandosi la spalla dolorante.

   «La prego, non tenti altre azioni offensive. Potrebbe danneggiarsi» raccomandò l’infermiere, nello stesso tono tranquillo di prima.

   «Androidi!» comprese l’Ammiraglio. Quei due erano per forza androidi. Non sarebbe mai riuscito a stordirli, e nemmeno a divincolarsi e scappare. Quando lo afferrarono nuovamente, fu costretto a seguirli. «Beh, dove mi portate?» volle sapere.

   «Alla sala del trattamento» rispose l’infermiere.

   Quelle parole gli fecero rizzare i peli sul collo. «Quale trattamento?! Sarò vecchio, ma sono sano come un pesce! Non ho bisogno di trattamenti, io!» protestò.

   Stavolta gli infermieri non risposero. Dopo essere saliti di livello con un turboascensore, lo condussero a un ingresso vigilato da due guardie. Chase notò con orrore le nuove uniformi bianche, con la mostrina della Flotta capovolta. «È una follia. Siete al servizio di una dittatura, dovete ribellarvi!» esortò. Le guardie rimasero immobili al loro posto, con lo sguardo fisso in avanti, mentre gli infermieri sintetici lo trascinavano all’interno.

   L’Umano si trovò in una vasta sala chirurgica di un bianco asettico, dove lo aspettavano alcuni medici. Al posto del lettino, però, vi erano tre sedili meccanici affiancati. Presentavano tutti dei bracci meccanici articolati, simili a zampe di ragno, che uscivano dallo schienale e s’incurvavano in avanti, terminando con strumenti minacciosi. Per un attimo, Chase fu catapultato in un incubo che non lo assaliva dai tempi della sua giovinezza. Rivide il lettino chirurgico su cui gli alieni Solanae lo avevano analizzato e in seguito avevano cercato di condizionarlo. Un sudore gelido gli bagnò le tempie e il respiro gli si fece affannoso.

   «Che ci fanno quegli orrori?! Avevo ordinato alla Flotta di smantellare tutte le tecnologie di quel tipo!» gridò l’Ammiraglio.

   «Ed è stato fatto» disse un giovane medico Ktariano, facendosi avanti. «Ma i servizi segreti hanno conservato i progetti e qualche anno fa li hanno passati a noi dell’Ufficio di Salute Pubblica. Usando parte di quelle conoscenze, abbiamo ottenuto grandi risultati nella lotta agli impulsi violenti. Ma è stato solo negli ultimi giorni, quando la Presidente ha riformato la Flotta, che abbiamo potuto costruire queste bellezze» disse, ammirando i sedili. «Ammiraglio, le presento il futuro della legalità: la Lobo-Sedia. I suoi strumenti possono scavare nel cervello umanoide, strato dopo strato, neutralizzando qualunque impulso negativo. E possono istruire i pazienti su ciò che è opportuno fare, dire e pensare. Sarà la fine della criminalità e del carcere, e l’inizio di una luminosa epoca di nonviolenza!» esultò.

   In preda all’orrore, l’Ammiraglio scrutò il giovane Ktariano, finché lo riconobbe. «Sei tu, Colia? Il figlio della dottoressa Vash’Tot?!» si stupì.

   «Sono il dottor Vash’Tot» rispose il giovane, punto nell’orgoglio.

   «Ti ho visto da bambino. Vivevi sull’Enterprise, con tua madre» rammentò l’Ammiraglio. «Che ci fai con questi delinquenti? Non sai che sono stati quelli come loro a distruggere l’Enterprise?!».

   «Hanno distrutto una nave ribelle» corresse lo Ktariano, squadrandolo con ostilità. «Legatelo!» ordinò poi agli infermieri.

   L’Ammiraglio lottò con tutte le sue forze, ma gli androidi lo trascinarono presso uno dei sedili, lo costrinsero a sedersi e poi lo bloccarono con ceppi metallici. Dopo avergli immobilizzato anche la testa, arretrarono in fondo alla sala.

   In quella giunsero altri due infermieri sintetici, che trascinavano una prigioniera. Con un tuffo al cuore, Chase riconobbe sua moglie. L’Aenar si dibatteva come una furia, ma nemmeno lei poteva sfuggire alla presa d’acciaio degli androidi.

   «Ah, dottoressa Neelah! La stavo aspettando» l’accolse lo Ktariano, fregandosi le mani per la soddisfazione. «Sono un suo grande ammiratore, anche se devo dire che il suo lavoro è un po’ datato. Da quando ha messo su famiglia, ha perso lo slancio creativo» si lamentò.

   «Colia! Se tua madre ti vedesse, ti maledirebbe come ti maledico io!» ringhiò l’Aenar.

   «Vedo che l’età non le ha tolto lo spirito. Bene, sarà ancora più divertente. Legatela» ordinò Vash’Tot. Gli androidi trascinarono Neelah sul secondo sedile e la bloccarono a viva forza, sebbene lei facesse sforzi disperati per impedirlo. Aveva già subito condizionamenti mentali, da giovane, e aveva lottato a lungo per liberarsene. Subirli di nuovo significava vanificare gli sforzi di una vita.

   «Lasciatela, maledetti!» gridò Chase. Dato che gli androidi non gli badavano, si rivolse al neurochirurgo. «Sai chi faceva queste porcherie, prima di te? La Sezione 31, quando operava senza alcun controllo. E anche l’Impero Terrestre, nell’Universo dello Specchio. Uno Stato di diritto non manipola i cittadini, solo le dittature hanno bisogno di farlo!».

   «È colpa sua, se siamo arrivati a questo» sostenne lo Ktariano. «Lei e gli altri ribelli vi siete opposti ai Voth, rischiando di gettarci in guerra, solo per il vostro patetico attaccamento alla Terra. Quindi la Presidente ha dovuto prendere in mano la situazione. Ma ora un terzo dei sistemi federali ci abbandonerà, se non avrà le prove che lei ha cercato di sovvertire l’Unione. Siccome le prove non sono disponibili, dovremo fabbricarle. Lei confesserà pubblicamente di avere ordito un colpo di Stato militare».

   «Non lo farò» disse Chase, esangue.

   «Oh, ma certo che lo farà! Cinque minuti di trattamento su questa sedia e non vedrà l’ora di confessare!» sogghignò Vash’Tot. «Anche sua moglie sarà condizionata, per avvalorare la sua testimonianza. Ma per lei non sarà nulla di nuovo, vero?» infierì, dando un’occhiata all’Aenar. «Così i Separatisti si calmeranno e l’Unione resterà integra» aggiunse il neurochirurgo, rivolgendosi di nuovo all’Ammiraglio.

   «Sarà un’Unione fondata sulle menzogne, sul tradimento e sul sangue innocente» ribatté l’Umano, fissandolo con disprezzo.

   «Nessuno lo saprà» ribatté lo Ktariano, sorridendo soddisfatto. «Dopo avervi condizionati, anche noi ci sottoporremo alla Lobo-Sedia, per dimenticare ciò che abbiamo fatto. Così saremo tutti convinti che la vostra cospirazione sia realmente avvenuta».

   «Perché questo delirio?! Perché volete a tutti i costi uccidere la verità? Forse perché sapete di avere torto, e di poter vincere solo con le menzogne!» accusò Neelah.

   «Se la verità è nemica della pace, allora la verità deve morire» sentenziò lo Ktariano. «Non se la prenda... una biologa come lei sa che ogni individuo si costruisce la sua verità, come più gli fa comodo, cambiandola più volte e credendoci sempre ciecamente. Noi stiamo semplicemente scegliendo la verità più utile alla collettività».

   Così dicendo, il neurochirurgo si recò a una consolle e digitò dei comandi. I colleghi lo aiutarono, aggiungendo istruzioni da altre postazioni o dai pannelli alle pareti. I bracci articolati delle Lobo-Sedie presero subito vita. Ronzavano e ticchettavano, muovendosi senza posa. Le sonde mentali si posizionarono davanti al volto dei prigionieri. Una luce di puntamento, color verde veleno, mirò Chase al centro della fronte e lo stesso accadde a Neelah. Altri strumenti mirarono le loro tempie.

   «Qualche ultima parola famosa?» li derise Vash’Tot, ma ottenne solo degli sguardi colmi di disprezzo. «No? Peccato. E allora procediamo! Meno tre... due... uno...».

   Chase e Neelah chiusero gli occhi, sapendo che la loro dignità d’individui stava per essere violata nel modo più rivoltante. Il ronzio delle Lobo-Sedie crebbe d’intensità... e poi decrebbe. Dopo qualche secondo d’angoscia, i prigionieri riaprirono gli occhi. Videro Vash’Tot e gli altri medici che si affannavano da una consolle all’altra, parlottando concitati.

   «Beh, il futuro della legalità ha fatto cilecca?» commentò malignamente l’Ammiraglio.

   «È solo un calo di potenza... sarà saltato un trasformatore da qualche parte» disse lo Ktariano, alzando appena gli occhi dalla consolle. «Non crediate di cavarvela. Mi basta dirottare l’energia in un altro percorso».

   In quella le luci calarono in tutta la sala, lasciando solo qualche faretto d’emergenza. Gran parte delle consolle si spense e anche le Lobo-Sedie si disattivarono; i bracci articolati ricaddero inattivi. «E adesso che c’è?!» fece Vash’Tot, esasperato. «Possibile che un medico non possa operare in pace?».

   Qualcosa di velocissimo sfrecciò attraverso la sala, travolgendo uno dei dottori, che si era avvicinato alle Lobo-Sedie. Il chirurgo cadde a terra privo di sensi. Subito i colleghi accorsero e lo esaminarono. «Trauma cranico! Non capisco... cosa lo ha colpito?» chiese una dottoressa.

   «È stato un umanoide» disse uno degli androidi. «Era molto veloce e sembrava parzialmente occultato».

   «Non siamo soli» disse lo Ktariano, guardandosi attorno innervosito. «Vash’Tot a Sicurezza, venite subito!».

   I due Pacificatori di guardia entrarono prontamente. «Che succede?» chiese uno di loro.

  «Questo dovete dirmelo voi!» sbottò il neurochirurgo. «Ho un collega a terra e l’energia principale è disattivata. Siamo sotto attacco?».

   «No, ma c’è stato un guasto al generatore» spiegò il Pacificatore. «Gli ingegneri stanno cercando di venirne a capo. Le consiglio d’interrompere l’intervento, finché l’energia non sarà ripristinata».

   «Sigh... vi rendete conto che mi avete rovinato lo show?» si lamentò lo Ktariano. «E va bene... sintetici, riportate i vecchietti in cella!» ordinò ai quattro infermieri. Questi mossero verso le Lobo-Sedie, mentre i Pacificatori restavano presso la porta. Non si accorsero che qualcosa si muoveva alle loro spalle.

   Chase spalancò gli occhi, chiedendosi se aveva le traveggole. Gli sembrava di vedere un braccio biancastro, come quello di un fantasma, che usciva dalla parete di duranio. Il braccio si tese e la mano guantata si accostò al collo di un Pacificatore. Incredibilmente gli afferrò la gola e lo tirò all’indietro, sbattendogli la nuca contro la paratia, con tale violenza da stordirlo. Il suono attirò l’attenzione del collega, che si volse, imbracciando il fucile phaser. Fu troppo lento. Un guerriero corazzato uscì dalla parete, gli afferrò il fucile e glielo strappò di mano, dopo di che lo gettò a terra con un calcio. I medici si ritrassero, spaventati, mentre gli androidi si volsero a fronteggiare l’aggressore. Tutti quanti potevano vederlo, ora.

   Era umanoide, nelle linee generali, ma nessuno poteva indovinarne la specie. Indossava una tuta corazzata di un bianco spettrale, che lo copriva da capo a piedi. Anche il volto era nascosto da un casco bianco, con una sottile visiera azzurra e una griglia fonica circolare in corrispondenza della bocca. Il casco era rigido e metallico, ma il resto della tuta appariva più flessibile, trattandosi di una lega polimerica. Le linee verticali della tuta accentuavano la magrezza dell’intruso e il pallore gli dava un’aria cadaverica.

   «Lo Spettro!» gridò il Pacificatore che era stato atterrato. Balzò in piedi, estraendo un piccolo phaser che portava in cintura.

   L’invasore non si mosse; la sua reazione consisté in un grido disumano. Un prolungato, lacerante urlo, che andava dritto al cervello e lo squassava. Investito in pieno, il Pacificatore fu scaraventato all’indietro, privo di sensi. Tutti i presenti si portarono le mani alle orecchie, salvo Chase e Neelah, ancora immobilizzati sui sedili. Questi compresero che l’urlo della creatura era un’arma sonica. Chi ne veniva colpito in pieno era stordito, mentre chi lo udiva standole di fianco restava cosciente, anche se frastornato.

   Sbaragliate le guardie, l’essere si volse contro medici e infermieri, che erano arretrati verso la parete opposta. «Io non sono lo Spettro» disse con voce alterata dalla griglia fonica, ma chiaramente femminile. «Non sono misericordiosa quanto lui. Sono la Banshee, e grido per l’Unione che avete tradito. D’ora in poi sarò la vostra ombra, il vostro peggiore incubo. Nessuno sarà al sicuro da me!» minacciò.

   «Ma guarda... un’altra criminale da mezza tacca che si maschera per fare paura» la derise Vash’Tot. «Sei patetica. Qualunque persona sana di mente ti riderà in faccia».

   «Cambieranno idea!» ringhiò la Banshee. Gridò di nuovo, centrando un gruppetto di medici, che crollarono privi di sensi. Tuttavia non poté colpire lo Ktariano, che stava davanti all’Ammiraglio, per non stordire anche lui.

   Il neurochirurgo si mise le mani in tasca e sogghignò. «Sintetici, sbarazzatevi di questa buffona» ordinò. «Ma non danneggiate troppo la tuta: sarà un oggetto di studio per gli ingegneri».

   I quattro androidi scattarono contro la Banshee, mentre lo Ktariano si godeva lo spettacolo. La fuorilegge li investì con un altro grido supersonico, che tuttavia risultò inefficace contro gli esseri artificiali. Quando stavano per agguantarla, si rese invisibile. Gli androidi si divisero per perlustrare la sala.

   «Vuoi giocare a nascondino?» ridacchiò Vash’Tot. «Ma guardati! Una fuorilegge che usa un’arma sonica, perché non ha il fegato di uccidere! Non ti bastava la maschera: hai bisogno di occultarti, perché non sei nessuno».

   In quella la Banshee riapparve alle spalle di un androide. Lo attraversò con la mano, agguantò un componente interno e lo strappò attraverso la schiena. L’androide s’irrigidì e cadde faccia in avanti, disattivato. «Dicevi?» fece l’intrusa, mentre serrava il pugno fino a stritolare i circuiti strappati.

   Lo Ktariano smise di sorridere. «Fatela a pezzi!» ordinò ai tre androidi superstiti. Questi si gettarono sulla fuorilegge, che però scomparve nuovamente. Riapparve pochi attimi dopo accanto a uno di loro. Stavolta gli attraversò il cranio, strappando un pezzo di cervello positronico. L’androide si abbatté sul pavimento, con gli occhi spalancati, sprizzando scintille.

   Il terzo androide afferrò da dietro la Banshee, che però si rese intangibile, sfuggendo alla sua presa. Lo attraversò e quando gli fu dietro gl’immerse la mano nella nuca, disattivandolo. L’ultimo infermiere sintetico raccolse il phaser del Pacificatore e aprì il fuoco. La fuorilegge gli venne contro, mentre i raggi l’attraversavano senza nuocerle. D’un tratto si rese tangibile, gli afferrò il phaser e glielo piegò verso l’alto. Premette il grilletto: il raggio colpì l’androide al mento e gli uscì dalla sommità del capo, facendogli esplodere la testa.

   Rinunciando al phaser, che l’avrebbe costretta a restare tangibile, la Banshee si avventò nuovamente contro i chirurghi, stordendoli col suo grido micidiale. Unici spettatori di quel feroce scontro, Chase e Neelah erano ancora legati ai sedili e pertanto non potevano intervenire. Si accorsero però che mentre la Banshee liquidava il resto del personale, il dottor Vash’Tot era scivolato lungo le pareti, accostandosi all’uscita. Qui raccolse il fucile phaser di un Pacificatore, prendendo di mira l’intrusa.

   «Attenta!» avvertì l’Ammiraglio.

   La Banshee si girò fulminea. Prima che l’avversario premesse il grilletto, la fuorilegge lanciò uno dei suoi urli, che malgrado la distanza lo disarmò e lo fece capitombolare fuori dalla sala. La porta si richiuse fra loro.

   Restava un solo medico ancora in piedi, un’Angosiana dai capelli grigi. Approfittando della breve distrazione della Banshee, riempì un ipospray e si avvicinò a Neelah. «No, ferma!» gridò l’Aenar, ma l’Angosiana accelerò il passo. Stava per farle l’iniezione, quando la Banshee le fu addosso con uno dei suoi scatti fulminei. Le afferrò il polso, glielo torse con violenza e le svuotò l’ipospray nel collo. L’Angosiana strillò, portandosi una mano alla gola. Si diresse barcollante verso un tavolino pieno di strumenti, ma si accasciò prima di raggiungerlo. Per qualche secondo si scosse in preda alle convulsioni, poi restò inerte.

   La Banshee gettò l’ipospray vuoto e si guardò attorno, accertandosi che non restasse nessuno in piedi. Rassicurata, prese a liberare i prigionieri dalle Lobo-Sedie.

   «Chi sei?» domandò Chase.

   «Lo saprà al momento opportuno, Ammiraglio» rispose la fuorilegge. «Per adesso le basti sapere che sostengo la Flotta Stellare».

   Liberato Chase, la Banshee fece lo stesso con Neelah. L’Aenar la fissò con occhi sgranati, percependo qualcosa d’inaspettatamente familiare. Un muto dialogo corse fra le due. L’Umano non poté percepire il loro scambio, ma vide che sua moglie era più scioccata di prima. Decise prudentemente di non indagare, per il momento. «Hai un’astronave?» chiese alla misteriosa liberatrice.

   «Sì, ma potrà teletrasportarci solo quando torneremo in superficie» spiegò la Banshee. «Prima di allora vorrei liberare gli altri prigionieri; ce la fate a combattere?».

   «Contro i Pacificatori? Diavolo, sì!» garantì l’Ammiraglio. Lui e Neelah presero i phaser delle guardie, ma rinunciarono ai comunicatori, che li avrebbero resi tracciabili. Intanto la Banshee esaminò l’Angosiana contro cui aveva ritorto l’ipospray. «È morta» disse, rialzandosi. «Devono avere l’ordine di uccidervi, piuttosto che lasciarvi scappare. Statemi vicini, e non temete se ogni tanto sparisco».

   I fuggitivi lasciarono il laboratorio, con la Banshee in testa. Sbucando nel corridoio si avvidero che il dottor Vash’Tot non c’era più. Evidentemente l’arma sonica, che lo aveva colpito da una certa distanza, non era bastata a fargli perdere i sensi. «Poco male. Tanto ormai la base è in allarme» disse la fuorilegge. «Ho messo fuori uso l’energia principale, quindi i Pacificatori non hanno il teletrasporto. Restano le guardie». I tre mossero di buon passo verso il blocco detentivo.

   «I Pacificatori non hanno un’astronave in orbita?» domandò Chase, pensando alle difficoltà della fuga.

   «Sì, la Juggernaut» confermò la Banshee, in tono sprezzante. «Ma quella nave non è un problema. I miei alleati la spezzeranno».

 

   «... e il barista dice: “Il pagliaccio può restare, ma il Ferengi travestito da gorilla deve andarsene!”». A questa freddura del timoniere, i colleghi della Juggernaut risero. Anche il Capitano Gulnar sorrise, lieto di vedere che l’equipaggio non aveva perso il buonumore, malgrado i tristi eventi degli ultimi giorni.

   D’un tratto la Juggernaut fu squassata. Gli ufficiali sorpresi dimenticarono l’ilarità e si concentrarono sui comandi. «Una nave è uscita dall’occultamento dietro di noi» avvertì l’addetto ai sensori. «Ci sta sparando!». Mentre parlava, l’astronave si scosse ancora. Era una fortuna che i Pacificatori tenessero gli scudi alzati come misura cautelare, perché altrimenti quei primi colpi sarebbero bastati a distruggerli.

   «Manovre evasive!» ordinò Gulnar, reggendosi alla poltroncina. «Chi ci attacca?».

   L’addetto ai sensori inquadrò il nemico sullo schermo. Era una nave dal design compatto, con lo scafo violetto senza finestre. Attaccava con il cannone a impulso e i siluri.

   «La Keter!» riconobbe il timoniere. «Poveri noi, è la Keter!».

   «Non fatevi prendere dal panico» disse Gulnar, sempre padrone di sé. «Rispondere al fuoco. Dobbiamo proteggere il Centro di Rieducazione». Osservando l’astronave che li colpiva furiosamente, senza aver lanciato una dichiarazione di ostilità, l’Axanar sentì il sapore amaro della Guerra Civile.

   I due vascelli iniziarono una lotta senza esclusione di colpi. La Juggernaut cercava di manovrare in modo da colpire gli avversari con le armi di prua, che erano le più potenti. Ma la Keter era così agile che riusciva a starle sempre in coda.

   «Mirano ai nostri propulsori. Vogliono azzopparci!» avvertì l’Ufficiale Tattico.

   «Lanciate i caccia. Schema d’attacco Nelscott theta-4» ordinò il Capitano.

   I grandi hangar laterali della Juggernaut si spalancarono, permettendo ai caccia Valkyria di sciamare fuori. Di tutte le classi al servizio dell’Unione, la Juggernaut era quella che più si affidava ai caccia stellari: ne aveva 32. Sfrecciarono contro la Keter, aprendosi a ventaglio per evitare i colpi. Ma in quella subirono un pesante fuoco laterale, che li decimò. La Stella del Polo e i suoi incursori erano giunti a dare manforte alla Keter. Solo le altre quattro navi pirata mancavano all’appello, essendo ancora in riparazione dopo lo scontro coi Voth.

   «Lo Spettro!» riconobbe Gulnar, costernato. «Allora è vero che si è schierato coi ribelli. A tutti i caccia, attaccate i pirati. Teneteli a bada, mentre noi pensiamo alla Keter».

   I caccia stellari deviarono verso la flottiglia dello Spettro. Fu subito chiaro che erano in difficoltà, malgrado il numero. La Stella era troppo resistente per le loro armi e anche gli incursori di classe Dal’Rok erano più grandi e robusti. Gulnar inviò in appoggio le navicelle di classe Gryphon, ma sapeva che non avrebbero trattenuto a lungo i corsari. Intanto la Keter e la Juggernaut continuavano a colpirsi, con l’accanimento di cui sono capaci solo gli amici diventati avversari. Quando una raffica di siluri colpì la Juggernaut sulla fiancata, indebolendo gli scudi, l’astronave ruotò sul proprio asse per presentare un lato più difeso. Rispose a sua volta con una raffica, ma la Keter si occultò, sfuggendo ai siluri, e riapparve pochi secondi dopo sull’altro lato, di nuovo all’attacco.

   «Inviate una richiesta di soccorso ai Pacificatori» ordinò Gulnar, vedendo che la sua nave cominciava a subire danni.

   «La Keter disturba le trasmissioni. Non so se il segnale passerà» avvertì l’addetto.

   «Allora chiami la Keter. Cercherò di far ragionare Hod» disse il Capitano. Passarono i secondi, mentre la Juggernaut continuava a sussultare.

   «Nessuna risposta» disse l’addetto.

   «Non sembrano in vena di ragionare» commentò il Comandante, mentre la Keter faceva un passaggio ravvicinato, sparando col cannone a impulso.

   «Schema d’attacco concentrato, dobbiamo perforare i loro scudi» ordinò Gulnar.

   «E lo scafo in neutronio?» chiese l’Ufficiale Tattico.

   «Non li proteggerà. Quando avranno perso gli scudi, teletrasporteremo un siluro transfasico sulla loro nave» decise il Capitano.

   «Bene, signore!» approvò il Remano, cominciando già a predisporre la procedura.

   «Questo li distruggerà completamente» si rabbuiò il Comandante. «Dopo l’Enterprise, speravo che non avremmo più distrutto una nave sorella».

   «Quella le sembra una nave sorella?!» obiettò Gulnar, indicando la Keter che sparava all’impazzata. «È difficile da accettare, ma quelli non sono più nostri colleghi. Sono criminali e terroristi, perciò li tratteremo come tali. Fuoco a volontà».

 

   Sulla plancia della Voyager, i Pacificatori osservarono increduli lo scontro. «Ancora la Keter?! Non pensavo che si sarebbe più fatta viva, dopo la batosta di Memory Alpha» commentò uno di loro.

   «Si vede che Hod non ha ancora imparato la lezione. Gliela insegneremo noi» disse il caposquadra. «Mettete in linea le armi. Daremo manforte ai nostri».

   «Con questo catorcio? Sarebbe meglio lasciar fare alla Juggernaut» obiettò un altro.

   «Non possiamo fare da spettatori. Armare i tubi lanciasiluri e... e...». Il caposquadra si piegò in avanti, tossendo. Gli altri si stupirono, ma l’attimo dopo iniziarono anche loro a boccheggiare. «Gas!» comprese il caposquadra.

   I sorveglianti della Voyager non si aspettavano di dover combattere, per cui avevano un equipaggiamento minimo. Non erano muniti di quelle tute da battaglia con casco e riserva d’ossigeno che si erano diffuse negli ultimi anni. Si accasciarono tutti in pochi secondi, salvo un Benzite, che era immune. Questi cercò d’inviare una richiesta di soccorso, ma scoprì che i comandi non gli rispondevano più. Mentre cercava inutilmente di riprendere il controllo della nave, il turboascensore si aprì. Il Capitano Olografico d’Emergenza entrò in plancia, armato di phaser.

   Il Pacificatore lo intravide con la coda dell’occhio. Estrasse subito il phaser e gli sparò, senza accorgersi che era un ologramma, e quindi senza l’accortezza di mirare all’Emettitore Autonomo. Il raggio attraversò il COE senza danneggiarlo.

   «Requisisco questa nave in nome della Flotta Stellare» disse l’ologramma, e sparò a sua volta, stordendo il Pacificatore. Dopo di che riattivò i comandi di plancia e scansionò la nave coi sensori interni. C’erano ancora quattro Pacificatori in movimento, che evidentemente erano immuni alla neurazina, come il Benzite. Fortunatamente non li avrebbe affrontati da solo. Vedendo avvicinarsi un incursore dello Spettro, il Capitano Olografico si accertò che gli scudi della Voyager fossero abbassati e trasmise il segnale subspaziale convenuto.

   Cinque ufficiali della Keter si teletrasportarono in plancia. Erano quelli del turno di notte, incaricati di assicurarsi il controllo della Voyager. Indossavano le tute da combattimento, per non risentire dell’anestetico, e avevano i phaser in pugno. «Beh, non ci sono avversari in piedi?!» si lamentò Mo’rek, l’ufficiale tattico. «Speravo che me ne lasciasse almeno uno, dottore».

   «Tecnicamente ora sono il Capitano Olografico» puntualizzò Joe.

   «Per me sarà sempre il dottore» ribatté il Klingon. «Allora, la nave è nostra?».

   «Quasi. Ci sono quattro Pacificatori ancora svegli, che devono essere immuni alla neurazina» spiegò l’ologramma.

   «Stiamo teletrasportando agenti della Sicurezza in tutte le zone chiave, dovrebbero occuparsene» disse il Tenente Comandante Ki’Lau, recandosi alla poltrona di comando. «Ah, la poltrona di Janeway!» esclamò, sedendovi con immensa soddisfazione.

   «Posso ricordarle il motivo per cui siamo qui?» fece Joe, impaziente.

   «Non l’ho dimenticato. Ki’Lau a Xandrix, come va?» chiese lo Xaheano, tramite il comunicatore della tuta.

   «Bene, credo» rispose l’ingegnere, che si era teletrasportato con un’altra squadra. «Abbiamo stordito due Pacificatori e ora controlliamo la sala macchine. C’è un sacco di roba fantastica, che avevo visto solo nei musei».

   «Pensa di poterci dare la curvatura?» chiese Ki’Lau.

   «Abbiate un po’ di pazienza, qui è il paleolitico. Vi richiamo appena ci ho capito qualcosa. Xandrix, chiudo».

   «È meglio se gli do una mano» disse Joe, andando verso il turboascensore. «Voi non fate mosse improvvisate. Se c’è qualche novità, chiamatemi».

   «Ehm!» fece Ki’Lau.

   «Che c’è?» chiese il COE, fermandosi sulla soglia.

   «Ora che siamo qui, ho io il comando. Dovrebbe tornare come prima» spiegò lo Xaheano.

   «Uniforme blu!» sussurrò Smig, prima di andare alla sua postazione.

   «Sigh, la mia ora di gloria è stata breve. E va bene... computer, ripristina i parametri dell’MOE» ordinò Joe. La sua uniforme tornò quella di un medico e i gradi sul colletto si ridussero. Con un sospiro, l’ologramma infilò l’ascensore e lasciò la plancia.

   «Mo’rek, attivi le armi e gli scudi. Ennil, prenda confidenza col timone. Appena dalla sala macchine ci danno l’OK, ci porti via da qui» ordinò Ki’Lau. «Smig, controlli che non stiano arrivando altre navi. E, Orlon...».

   «Sì?» chiese il piccolo Teenaxi, che essendo immune alla neurazina non aveva bisogno della tuta.

   «Scenda dal petto di quel Pacificatore. Piuttosto, li disarmi e poi li teletrasporti in cella. Al risveglio avranno una bella sorpresa» disse lo Xaheano. Dopo di che sollevò un piccolo schermo posto tra il suo sedile e quello del Comandante, ed esaminò le condizioni della nave.

   «Signore, mi stavo chiedendo...» fece Orlon, mentre disarmava gli avversari privi di sensi.

   «Sì?».

   «A che ci serve questa nave? È troppo antiquata per avvantaggiarci in battaglia».

   «Nessuna nave è antiquata, se guidata da veri guerrieri!» proclamò Mo’rek, ma il Tenente Comandante gli fece segno di calmarsi.

   «Qui non si tratta di guadagnare potenza di fuoco» disse Ki’Lau. «A quanto ho capito, in questo conflitto contano i simboli. La Voyager è una delle navi più leggendarie della Flotta, quindi dobbiamo averla noi».

   «I simboli saranno una gran cosa, ma contano poco contro una Juggernaut armata fino ai denti» commentò Ennil, accennando alla battaglia in corso.

   «Un problema alla volta» consigliò lo Xaheano. Non voleva pensare alla sproporzione di forze tra loro e i Pacificatori, per non perdere la speranza.

 

   Nella solitudine della cella d’isolamento, Juri Smirnov eseguiva delle flessioni. Non era mai stato un tipo sportivo, ma da quando gli avevano tolto la possibilità di seguire i notiziari non sapeva più come ammazzare il tempo. Anche se ignorava la sorte della Terra e del resto dell’Unione, aveva notato le nuove uniformi dei secondini. Quel cambio di look, che avveniva subito dopo l’assedio Voth alla Terra, era un pessimo segnale. In particolare, il comunicatore rovesciato gli dava molto da pensare. Era la spia d’allarme di un drastico cambio di regime. Ma poiché nessuno gli parlava, lo storico non sapeva cosa fosse accaduto di preciso. Ogni istante passato in quella cella, senza la possibilità d’informarsi, era un inferno. O forse un purgatorio, continuava a ripetersi. Sì... doveva aggrapparsi alla speranza, per quanto irrazionale, che prima o poi ne sarebbe uscito.

   Fu il suono dei phaser ad attirare la sua attenzione. L’Umano si raddrizzò a fatica, detergendosi il sudore dalla fronte, e guardò attraverso la parete trasparente. Non se l’era immaginato: c’era davvero uno scontro a fuoco. I secondini si erano trincerati nella sala di guardia e scambiavano colpi di phaser con gli assalitori, ancora fuori vista.

   Il cuore di Juri batté forte e tutto il suo corpo formicolò per l’emozione. Era l’occasione a lungo attesa. Forse gli attaccanti lo avrebbero liberato... ma questo dipendeva da chi erano. A quel pensiero, l’Umano sentì crescere l’ansia. Se la guerra aveva raggiunto quell’istituto di massima sicurezza, significava che l’Unione era in guai grossi. Non potendo intervenire, lo storico restò in attesa degli eventi.

   Dopo una breve sparatoria, i secondini furono neutralizzati. Juri non sapeva se erano storditi o morti, ma pensò che i suoi dubbi stavano per essere sciolti. Da un momento all’altro gli attaccanti si sarebbero palesati, e allora avrebbe saputo se quella era l’ora della sua liberazione... o della sua morte. L’Umano incrociò le braccia e attese il suo destino, con filosofica calma.

   «Ciao, Juri» disse una voce alle sue spalle. Una voce che non doveva esserci, dato che era chiuso in una cella d’isolamento.

   Lo storico si voltò lentamente. Davanti a lui c’era un essere che somigliava allo Spettro, ma non era lo Spettro. La sua tuta presentava innegabili somiglianze, come se fosse un’evoluzione di quella del famigerato pirata.

   «Quanto tempo» commentò l’intrusa. «Sono qui per dirti che avevi ragione. La Terra è caduta e l’Unione ci ha dichiarato guerra. Ci resta solo l’insurrezione, come avevi previsto. Sei dei nostri?».

   L’Umano la scrutò, ponderando le sue parole. Infine parlò, ponendo fine a dodici mesi di sciopero del silenzio. «Fino all’ultimo» disse. «Ma avrei preferito sbagliarmi. E tu sei...?».

   «La Banshee. Finché indosso questa tuta, non sono altro che la Banshee!» sibilò l’intrusa, percorsa da una tensione minacciosa. Dopo di che gli si avvicinò, parlando in tono più colloquiale. «Sei sciupato; devono essere stati mesi duri».

   «Mi sa che sono stati peggiori per te» rimbeccò Juri, che ormai l’aveva riconosciuta. «Ricordi cosa ti dissi su questo tipo di tecnologia?».

   «Che è forza, ma anche debolezza» annuì la Banshee. «Incrocia le dita perché stavolta sia forza». Così dicendo si rese intangibile. Attraversò Juri e la parete alle sue spalle, uscendo dalla cella.

   L’Umano si girò di scatto. Mentre la Banshee lo attraversava, per un attimo aveva visto all’interno del suo casco, scorgendola in volto. Era la conferma che gli serviva. Le sorprese aumentarono quando vide l’Ammiraglio Chase e la dottoressa Neelah che erano entrati nella sala di guardia. Armeggiarono un po’ con le consolle, finché riuscirono a sbloccare le celle. Le porte si aprirono e i prigionieri, tra cui Juri, poterono finalmente uscire. Lo storico notò che c’erano molti ufficiali di Flotta, ancora con le loro uniformi, che evidentemente erano stati rinchiusi di recente. I carcerieri dovevano averli teletrasportati in cella, dato che non li aveva visti passare dalla sala di guardia. «Ammiraglio, dottoressa... molto onorato. Sono il dottor Smirnov, della Keter» disse lo storico, presentandosi all’illustre coppia.

   «Potete fidarvi di lui; gli affiderei la mia vita» disse la Banshee.

   L’Ammiraglio la guardò sorpreso, ma accettò la cosa senza discutere. «Abbiamo poche armi, quindi chiedo ai migliori tiratori di farsi avanti» disse, distribuendo i phaser carpiti agli avversari. Oltre a quelli dei secondini, lui e Neelah ne avevano raggranellati altri quattro, dalle guardie che la Banshee aveva neutralizzato strada facendo. I prigionieri tuttavia erano così numerosi che la maggior parte di loro restò disarmata. Anche Juri rinunciò a chiedere un’arma, sapendo di non essere un gran tiratore.

   «Qual è il piano, Ammiraglio?» domandò un ufficiale.

   «Passeremo i blocchi detentivi, liberando tutti i prigionieri, e poi saliremo il più possibile verso la superficie» disse Chase. «A quel punto una nave dovrebbe teletrasportarci».

   «Signore, lei sapeva cosa avviene qui?» indagò Juri.

   «Sapevo del centro d’igiene mentale, ma non che i miei ordini sul trattamento dei prigionieri fossero violati» rispose l’Ammiraglio. «Mi spiace per ciò che lei e gli altri avete passato. Questa clinica degli orrori è la prima cosa che denunceremo, appena usciti da qui».

   Gli evasi lasciarono la sala di guardia, diretti agli altri blocchi detentivi. In prima linea c’erano quelli muniti di armi e prima ancora vi era la Banshee, che stordiva i Pacificatori con le sue grida. Altri due armati facevano da retroguardia. In mezzo al gruppo, Juri si fece aggiornare dagli evasi. Il suo sdegno crebbe man mano che scopriva come Rangda avesse svenduto la Terra, e in fondo tutta l’Unione, ai Voth. Intuì che la Presidente sperava di sganciarsi dai sauri, dopo averli usati per distruggere l’opposizione. Ma pensò che una specie antica di 20 milioni di anni non si sarebbe fatta abbindolare facilmente. Quanto alla Terra, solo un miracolo l’avrebbe restituita agli Umani.

 

   Sulla Voyager, gli ufficiali del turno di notte si arrabattavano per rimettere in linea i sistemi. «La nave è nostra, gli ultimi Pacificatori sono stati neutralizzati» riferì Mo’rek. «Scudi e armamenti attivi».

   «Dispieghi anche la corazza ablativa» ordinò Ki’Lau, che conosceva le dotazioni della nave. La corazza, frutto della tecnologia che l’Ammiraglio Janeway aveva portato dal futuro, si attivò a partire dai listelli fissati allo scafo. Capolavoro di nanotecnologia, si espanse fino a inglobare la nave in un guscio protettivo che le dava una resistenza comparabile ai vascelli del XXVI secolo. L’attimo dopo, tuttavia, qualcosa fece tremare la nave.

   «La stazione ci ha agganciati con un raggio traente» avvertì Smig.

   «Alla buon’ora, finalmente si sono accorti di noi» ironizzò Ki’Lau. «Ennil, ci dia un quarto d’impulso. Mo’rek, faccia oscillare le armoniche degli scudi».

   La Voyager si scosse, mentre le particelle e i campi di forza se la disputavano. «Non riesco a liberarci» grugnì l’ufficiale tattico. «Chiedo il permesso di aprire il fuoco contro la stazione».

   «Negativo, colpiremo solo se indispensabile» disse lo Xaheano. In quella la nave beccheggiò ancora più forte.

   «Questo era un raggio anti-polaronico» avvertì il Klingon. «Ci sparano dalla stazione. Adesso possiamo rispondere?!».

   «Quante persone ci sono a bordo?» chiese il Tenente Comandante.

   «Solo quindici».

   Lo Xaheano si morse il labbro. «Cerchi di mettergli fuori uso il raggio, senza distruggerli» ordinò.

   La Voyager aprì il fuoco con i phaser e poi anche con il lanciasiluri posteriore. I colpi, diretti contro l’emettitore del raggio traente, si arrestarono contro lo scudo della stazione.

   «Frell! Coi phaser e i siluri fotonici non gli facciamo neanche il solletico!» protestò Mo’rek, mentre la Voyager sussultava sotto il fuoco nemico. «Ci servono i siluri transfasici».

   Dato che Ki’Lau era ancora esitante, Smig prese la parola. «La Juggernaut si sta avvicinando. Col suo arsenale, può distruggerci in un minuto» avvertì.

   «E va bene, un siluro contro l’emettitore. Reggetevi forte!» ordinò lo Xaheano.

   Mo’rek non se lo fece ripetere. Aprì una piccola sezione dell’armatura ablativa, sul dorso della Voyager, là dove c’erano i tubi di lancio delle testate transfasiche. E lanciò un singolo siluro.

   La stazione, piccola e non particolarmente aggiornata, aveva il centro di comando posto appena sopra l’emettitore del raggio traente. Vedendosi venire contro il siluro transfasico, i Pacificatori capirono di essere spacciati. Ci fu una massiccia esplosione e tutta la parte anteriore della struttura saltò via. Il raggio traente si spense e anche le armi si disattivarono.

   «Liberi!» disse Ennil, facendo schizzare la Voyager in avanti.

   «Attenta alla Juggernaut!» avvertì Orlon. La nave dei Pacificatori, che avanzava malgrado il fuoco martellante della Keter, sparò col cannone a impulso. Ennil evitò parte della scarica con una brusca sterzata.

   «Scudi al 50%» avvertì Mo’rek. «Abbiamo altri siluri transfasici, usiamoli!».

   «No, il nostro compito è solo recuperare la Voyager» disse Ki’Lau. «Ennil, via a massimo impulso».

   La Voyager si allontanò da Elba II, inseguita dalla Juggernaut, a sua volta seguita dalla Keter. Ennil riuscì ad evitare alcuni colpi con le manovre evasive, ma parecchi altri giunsero a bersaglio, indebolendo gli scudi posteriori. «Non vogliono proprio mollare l’osso, eh?!» fece Orlon, sempre più arrabbiato con i Pacificatori.

   «Sala macchine a plancia, i motori a curvatura sono operativi» avvisò Xandrix.

   «Ottimo tempismo! Ennil, ci porti via a curvatura 9» ordinò il Tenente Comandante.

   «Addio, vandali!» disse la timoniera, dando un’occhiataccia alla nave dei Pacificatori, inquadrata nella visuale di poppa. Le gondole di curvatura della Voyager si sollevarono, mettendosi in posizione. La leggendaria astronave balzò a curvatura un attimo prima che una salva di siluri la colpisse. Le testate si persero nello spazio; giunte a una certa distanza esplosero automaticamente. La Juggernaut interruppe l’inseguimento e si arrestò, sempre sotto il fuoco della Keter.

 

   «Questa non ci voleva» mormorò il Capitano Gulnar, osservando il punto in cui era svanita la Voyager.

   «Perché ci diamo tanta pena per quel rottame?!» protestò l’Ufficiale Tattico.

   «Perché quel rottame farà pubblicità ai ribelli» disse l’Axanar. «E va bene, invertiamo la rotta. Facciamola finita con la Keter».

   La Juggernaut si girò di 180º, per fronteggiare gli inseguitori. Al temine della manovra si trovò di fronte non una, ma due astronavi. Alla Keter si era infatti affiancata la Stella del Polo, dopo essersi sbarazzata dei caccia nemici. I pochi caccia superstiti erano in fuga, braccati dagli incursori corsari.

   Per lunghi secondi i tre vascelli si fronteggiarono senza fare mosse. Pacificatori e ribelli si studiavano, cercando i rispettivi punti deboli. Poi la Keter e la Stella avanzarono minacciosamente, fianco a fianco. I loro colpi tempestarono gli scudi della Juggernaut, già molto indeboliti.

   «Avanti tutta, passiamo tra loro» ordinò Gulnar, sperando di mettere a frutto le batterie sulle fiancate. «Reggetevi forte». La nave dei Pacificatori mosse in avanti, per l’ultimo atto di quello scontro fratricida.

 

   Nei sotterranei di Elba II, l’evasione si era trasformata in una battaglia senza quartiere. I ribelli passavano da un blocco detentivo all’altro, liberando i detenuti, così che il loro numero era sempre in crescita. La Banshee stordiva tutti i sorveglianti che incontrava, consegnando le loro armi agli evasi, che essendo in gran parte ufficiali di Flotta erano abili tiratori. Per contro, i Pacificatori erano sempre più spaventati e in difficoltà. Chiesero aiuto alla Juggernaut, ma scoprirono che anche quella era sotto attacco e non poteva mandare rinforzi. Inviarono richieste di soccorso, ma la Keter continuava a disturbare le comunicazioni. Allora alcuni Pacificatori si spaventarono tanto da nascondersi negli angoli più isolati del complesso, aspettando che i ribelli se ne andassero. Altri però continuarono a contrastarli tenacemente. Gli scontri a fuoco nei corridoi proseguirono.

   «Questi sono gli ultimi» disse la Banshee, liberando un gruppo di prigionieri dalle loro celle. «Possiamo tornare in superficie».

   In quella però Neelah si piegò in avanti, con un lamento soffocato, portandosi le mani alle tempie.

«Che ti succede?» si preoccupò Chase, aiutandola a sorreggersi.

   «Percepisco... un dolore sconfinato» mormorò la telepate. «Viene dai livelli inferiori della base. Credo che stia accadendo qualcosa di orribile, laggiù».

   «Non puoi essere più precisa?» chiese l’Ammiraglio.

   «No, ma...» il volto dell’Aenar ebbe una contrazione dolorosa «... sono certa che qualcuno è in agonia, là sotto. I Pacificatori... sono responsabili di un male mostruoso».

   «Ho un alleato che sta esplorando i livelli inferiori, ma scenderò anch’io a controllare» disse la Banshee. «Voi intanto risalite, ma ricordate che non si può uscire dagli edifici senza le tute ambientali. Appena siete in superficie, chiamate la Keter». Inviare messaggi non era un problema, ora che i ribelli si erano impadroniti di alcuni comunicatori.

   «Aspetta, vengo anch’io» disse Juri.

   «Perché? Mi rallenteresti» obiettò la Banshee.

   «Dopo ciò che ho fatto, devo ancora guadagnarmi la libertà» spiegò l’Umano. «E poi ho un conto in sospeso col dottor Vash’Tot. Se ci sono atrocità in corso, penso che sia coinvolto».

   «E va bene. Un po’ di supporto mi farà comodo, se ci fossero dei feriti da trasportare» cedette la Banshee. «Dategli un’arma. E se qualcuno se la sente, venga con noi» disse agli evasi. Due ufficiali si fecero avanti. Tutti gli altri sarebbero andati in superficie con Chase e Neelah.

   «Fate molta attenzione» raccomandò l’Aenar, che si era a malapena ripresa. «Dove state andando, non esiste pietà».

   «Allora non ne avrò neanch’io» promise la Banshee. «Seguitemi con le scalette di servizio, io vado in avanscoperta» disse poi ai volontari. Fattasi intangibile, si lasciò cadere attraverso il pavimento, atterrando nel livello inferiore. Fletté le gambe per assorbire l’impatto e poi si rialzò, guardandosi attorno. Era pronta a scendere in fondo a quei gironi infernali, per scoprire ciò che i Pacificatori volevano nascondere più di ogni altra cosa.

 

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Capitolo 8
*** Il sonno della ragione ***


-Capitolo 7: Il sonno della ragione

 

   «No, vi prego... fermatevi... abbiate pietà...» singhiozzò la Trill, mentre gli infermieri la legavano al tavolo operatorio. Le immobilizzarono tutti gli arti e poi si ritirarono verso le pareti in ombra della sala.

   «Vice-Ammiraglio Dax... perché si oppone?» chiese il chirurgo Edosiano, entrando nella zona illuminata attorno al tavolino. «Lei è gravemente malata. Il suo Simbionte è anziano e sta morendo. Se muore lui, morrà anche lei... sempre che non lo rimuoviamo adesso. Ci sono farmaci che le permetteranno di vivere dignitosamente anche dopo la separazione».

   «Sta mentendo!» gridò Ilia Dax, ex Capitano dell’Enterprise. «Un mese fa ho fatto una visita completa, e andava tutto bene!».

   «Un mese è un’eternità. Da allora le condizioni del suo Simbionte si sono molto aggravate» spiegò l’Edosiano. «Dobbiamo operarla subito».

   «Come fate a saperlo?! Se quando ho fatto l’ultima visita andava tutto bene, come fate a dire che ora sono in pericolo?» protestò la Trill. I capelli grigi, che si erano sciolti durante la zuffa con gli infermieri, facevano corona al suo viso piangente.

   «Si fidi di noi... dopo starà bene...» disse l’Edosiano con voce monotona, infilando i guanti chirurgici in tutte e tre le mani.

   «E perché avete preso anche gli altri ufficiali?» insisté Ilia. «Ce n’erano quaranta, sulla nave trasporto. Quaranta ufficiali della Flotta Stellare, tutti provvisti di Simbionte! Non è possibile che si siano ammalati tutti nello stesso momento!». Mentre la Trill parlava, un infermiere le fissò una flebo al braccio.

   «C’è un’epidemia in corso, è molto pericolosa» disse il chirurgo.

   «E colpisce solo gli ufficiali di Flotta?! Tutti gli altri sono immuni?!».

   «Ci lasci fare, è per il suo bene... ora dormirà, e al risveglio sarà guarita...» sussurrò l’Edosiano. Socchiuse gli occhi gialli, che spiccavano sul viso arancione e senza naso, simile al volto disseccato di una mummia. Vedendo che un infermiere era pronto con l’ipospray, gli fece segno di procedere.

   «No, no... NOOOO!». La Trill lottò con tutte le sue forze, ma era impossibile sfuggire ai legacci. Il potentissimo sedativo, iniettato direttamente nella carotide, la stordì in pochi secondi.

   «Bene, possiamo procedere» disse l’Edosiano. «Bisturi». Un infermiere gli porse lo strumento, mentre un altro scopriva l’addome della Trill. Il chirurgo eseguì un’incisione ampia e profonda, mentre due colleghi usavano i rigeneratori per limitare la perdita di sangue. Un altro teneva sotto controllo i segni vitali, aggiornando i colleghi sulle variazioni.

   «Ho raggiunto la sacca addominale» disse l’Edosiano. «Procedo alla sub-incisione». Con mano ferma, il chirurgo incise anche la sacca protettiva, mettendo a nudo il simbionte Dax. Era una creatura vermiforme, lunga una quindicina di centimetri. L’epidermide violacea era coperta di muco e pulsava a ritmo col battito cardiaco di Ilia. Come tutti i Simbionti, era fittamente connesso al sistema circolatorio e a quello nervoso dell’Ospite. Grazie a questa straordinaria simbiosi, iniziata 22.000 anni prima, i Trill accedevano ai ricordi e alla saggezza accumulati dagli Ospiti precedenti. E poiché i Simbionti vivevano a lungo – in media 600 anni – gli Ospiti potevano essere numerosi. Ilia, ad esempio, era la dodicesima ospite di Dax, nato nel lontano 2018.

   «La Paziente aveva ragione, il Simbionte è in buone condizioni» notò il chirurgo. «Comincio la rimozione».

   «Stia attento, è fortemente vascolarizzato» avvertì un collega.

   «Somministratele un vasocostrittore, così ridurremo l’emorragia» ordinò l’Edosiano. Fatto anche questo, iniziò a recidere i vasi sanguigni. Il sangue di Ilia macchiò il Simbionte e le tre mani guantate del chirurgo, che non si fermò, se non a lavoro ultimato. Intanto la flebo riforniva di sangue la paziente.

   «Ora, la parte più delicata» disse l’Edosiano. «Somministratele il soppressore neurale, così potrò recidere il fascio nervoso».

   Un infermiere iniettò il composto, che riduceva drasticamente l’attività dei neuroni. Un minimo errore nel dosaggio poteva indurre il coma e provocare danni neurologici. «Attività cerebrale nei livelli di guardia» disse lo specialista.

   «La tenga d’occhio e stia pronto a intervenire, se ci fossero scompensi» raccomandò l’Edosiano. Prese le forbicine chirurgiche, l’alieno recise in un sol colpo il fascio di nervi.

   La testa di Ilia ebbe uno scatto e il respiro divenne irregolare. «Crisi respiratoria» avvertì un medico. «Sono spasmi dovuti a un’anomalia nel sistema parasimpatico».

   «Dobbiamo correggerla. Stimolatore corticale» ordinò l’Edosiano.

   I medici si affannarono per un quarto d’ora, prima che l’emergenza fosse superata. «Procedo a rimuovere il Simbionte» disse poi l’Edosiano. «Pinze». Impugnate le lunghe pinze chirurgiche che l’infermiere gli porgeva, prese il Simbionte e lo estrasse dalla cavità addominale dell’Ospite. Lo lasciò cadere in un contenitore retto da un collega, che andò poi a depositarlo sul tavolino.

   Il passo successivo fu suturare le incisioni coi rigeneratori, accertandosi che non restassero danni ai tessuti. Il procedimento richiese tempo, ma non presentò difficoltà. «Non abbiamo finito» disse l’Edosiano. «Analisi multi-sistema. È adesso che si vedono i problemi».

   I medici indietreggiarono, mentre il sensore semicilindrico del tavolino si chiudeva sopra la paziente e poi scorreva avanti e indietro, analizzandola da capo a piedi. L’esame evidenziò un’aritmia cardiaca e pesanti scompensi ormonali, tutti dovuti alla violenta separazione dal Simbionte. Servì un’altra mezzora per rimediare.

   «La paziente è stabile» disse uno dei medici, mentre l’infermiere gli asciugava il sudore dalla fronte con una salvietta. «Ma avrà bisogno di controlli regolari e dovrà assumere quotidianamente dei farmaci».

   «C’era da aspettarselo, alla sua età» disse l’Edosiano, osservando il volto esangue della Trill. «E il Simbionte come sta?».

   «Male» disse lo specialista. «È in shock nervoso. Probabilmente non gli resta molto da vivere».

   «Mettetelo nell’unità di contenimento» ordinò il chirurgo.

   Dax fu preso e inserito in un recipiente cilindrico, che fu sigillato. Il Simbionte fremeva debolmente, in agonia. In quella le luci si spensero, lasciando solo i faretti d’emergenza.

   «Che succede?!» si allarmò l’Edosiano.

   «Attenzione, rilevato calo energetico in tutta la base» disse il capo della Sicurezza, tramite i comunicatori. «Il personale è pregato di restare ai propri posti fino al termine dell’emergenza».

   «Cioè dovremmo restare qui?» chiese un medico, scontento.

   «Mi sembra evidente» disse l’Edosiano. «Approfittiamone per proseguire i controlli».

   I medici stavano ancora esaminando Ilia con gli strumenti a batteria, quando il dottor Vash’Tot irruppe in sala. «Siamo sotto attacco!» avvertì. «Una killer psicopatica ci ha aggrediti durante un intervento. Potrebbe arrivare anche qui».

   I medici si guardarono costernati. «Dobbiamo rifugiarci sulla Juggernaut, o almeno chiedere rinforzi» disse l’Edosiano.

   «Non si può, anche quella è sotto attacco» lo gelò il neurochirurgo. «Ascoltate, non possiamo permettere che il nostro lavoro sia rovinato. Questa paziente, poi, è molto importante». Vash’Tot si accostò al tavolo, dove Ilia era ancora sotto sedativi e collegata alla flebo. La osservò con odio. I Trill, con la loro memoria secolare, erano l’incarnazione di tutto ciò che lui combatteva.

   «Allora che facciamo?» chiese l’Edosiano.

   «Prendo in custodia il Simbionte, lo porterò con gli altri» decise lo Ktariano. «Voi cancellatele la memoria».

   «Non possiamo, gli apparecchi sono senza energia».

   «Allora attivate il Protocollo di Eutanasia» ordinò Vash’Tot.

   «Ne è certo?».

   «Che altro dovremmo fare, permettere ai ribelli di portarla via?!» si alterò il neurochirurgo. «Terminatela, ho detto. Poi cremate i resti. Non dobbiamo lasciare tracce». Così dicendo si mise sottobraccio l’unità di contenimento con Dax. «Quando avrete ripulito tutto, raggiungetemi alla Volta» disse, e lasciò la sala.

 

   I medici si scambiarono occhiate cupe. «Non era così che doveva andare» disse uno.

   «È colpa dei ribelli» tagliò corto l’Edosiano. «Su, procediamo». Caricò un ipospray con il composto letale e lo accostò alla gola della Trill.

   «Non lo farei, se fossi in te» disse una voce cavernosa.

   L’Edosiano si bloccò a metà del gesto e guardò oltre il lettino. Lo Spettro – quello originale – era apparso in fondo alla sala e lo osservava a braccia conserte. «Vi do dieci secondi per lasciare questa stanza. Poi scorrerà il sangue» avvertì.

   Ne bastarono cinque. Rimasto solo, lo Spettro si accostò alla Trill priva di sensi e le staccò la flebo. Prese un altro ipospray da un carrellino e lo caricò con una dose di tricordrazina, un potentissimo stimolante. «Spettro a Banshee. Ho trovato dei macellai che hanno aperto la pancia a Ilia Dax e le hanno rubato il Simbionte» disse. «Lei è a malapena viva, cercherò di portarla via. Tu affrettati, se vuoi recuperare Dax. Mentre entravo ho visto uno Ktariano che lo portava via».

   «Vash’Tot! Stavolta non se la cava» rispose la complice. «Fa’ tutto il possibile per Ilia; sarò da te appena posso. Banshee, chiudo».

   Preparato l’ipospray, lo Spettro praticò l’iniezione nel collo della Trill. Questa si lamentò e si mosse debolmente, ma senza riprendere del tutto i sensi.

   «In piedi, Vice-Ammiraglio» disse il corsaro, schiaffeggiandola sulle guance. «È ora di andare. La porterei in braccio, ma questo mi renderebbe vulnerabile. Quindi deve sforzarsi di camminare».

   Ilia aprì gli occhi e biascicò qualche parola incomprensibile. Chiaramente non era ancora in sé. Alzò un poco la testa e poi ricadde priva di sensi.

   «E va bene» sospirò lo Spettro, sollevandola. Si stava dirigendo verso la porta, quando un Pacificatore armato vi si stagliò. Il corsaro si gettò a terra, sfuggendo al raggio phaser. Mollò Ilia e subito si rese intangibile. «Te la sei cercata» disse, rialzandosi.

   Il Pacificatore entrò sparando. Lo Spettro non poteva rendersi tangibile nemmeno per un istante e allora sparì anche alla vista.

   «Presto, il tempo stringe» disse l’Edosiano, rientrando. Sollevò la Trill semisvenuta e l’adagiò su un altro lettino, che poteva scorrere in modo da rientrare nella parete. Attivò un comando sulla vicina consolle ed ecco, il lettino si mosse lungo la rotaia. Nella parete si aprì un diaframma, rivelando una cavità cilindrica rivestita di piastre, che s’illuminarono. Era il forno crematorio.

   In quella lo Spettro riapparve alle spalle del Pacificatore e lo colpì col phaser integrato nel bracciale della sua tuta. Subito corse da Ilia e la sollevò, prima che il lettino rientrasse del tutto.

   «No!» gridò l’Edosiano, slanciandosi contro di loro. Urtò lo Spettro, quasi facendolo cadere addosso a Ilia, e si accapigliò con lui. Cercò d’immobilizzargli le braccia e al tempo stesso di levargli il casco, approfittando dei tre arti. Ma il corsaro gli dette una violenta testata, che lo lasciò mezzo stordito; poi si divincolò e lo sbatté sul lettino, mentre la Trill cadeva a terra.

   «Tutti, ve la cercate!» ringhiò lo Spettro, indietreggiando.

   «Ma che... no, aiuto!» gridò l’Edosiano, cercando di scendere. Troppo tardi: il lettino stava già rientrando nella parete. Il chirurgo gridò e si agitò pazzamente, cercando d’impedirne la chiusura. Ma il robusto meccanismo gli schiacciò le dita e si richiuse comunque. Insulti, minacce e suppliche salirono dall’interno, mentre le piastre si riscaldavano.

   Lo Spettro andò alla consolle ed esaminò i comandi, nel tentativo di spegnere il forno. Ma non aveva familiarità con quel tipo d’interfaccia. Quando le grida che salivano dall’interno divennero un rantolo d’agonia, e un intenso odore di bruciato filtrò nella sala, rinunciò a trovare il tasto di spegnimento.

 

   «Che succede?» mormorò debolmente Ilia, cercando di rialzarsi.

   «Succede che i Pacificatori le hanno rubato il Simbionte e ora vogliono accopparla» disse lo Spettro, chinandosi su di lei. «So che sta male, ma deve sforzarsi di camminare. Non posso aprirci la strada, se la porto in braccio».

   La Trill lo squadrò con sospetto. «Dovrei fidarmi di un fuorilegge?» chiese.

   «Un corsaro al servizio della Flotta» corresse lo Spettro. «Sono qui con gli alleati della Keter. Stiamo liberando tutti i prigionieri, incluso l’Ammiraglio Chase».

   «Alexander è qui?!» si agitò Ilia. «Presto, mi aiuti ad alzarmi».

   Il corsaro le porse la mano e l’aiutò a tirarsi in piedi. La Trill barcollò, indebolita dalla mancanza del Simbionte e da tutte le sostanze che le avevano iniettato.

   «La scorterò ai livelli superiori, dove ci uniremo agli altri evasi» disse lo Spettro. Raccolse il phaser del Pacificatore e lo consegnò alla prigioniera, che lo accettò con stupore.

   «Lei non è come la immaginavo, signor Spettro» ammise Ilia. «Voglio fidarmi di lei, ma prima di salire dobbiamo liberare gli altri Trill».

   «Quanti ce ne sono?».

   «Eravamo quaranta, sulla nave trasporto. I Pacificatori ci hanno caricati a forza».

   «Suppongo che lei si fosse rifiutata di prestare il loro giuramento, Vice-Ammiraglio» commentò lo Spettro. Mentre parlavano, i due lasciarono la sala chirurgica e s’inoltrarono nei corridoi.

   «Non sono più Vice-Ammiraglio» rivelò Ilia. «L’anno scorso mi sono dimessa dalla Flotta, dopo l’abolizione della Prima Direttiva. Non mi riconoscevo più nell’organizzazione».

   «Già mi sta simpatica» commentò il corsaro. «Allora, cos’è questa storia dei Simbionti? Le conviene dirmi tutto, se vuole che l’aiuti al meglio».

   Ilia esitò, ma poi pensò che, se non fosse uscita viva da lì, bisognava che almeno lo Spettro sapesse l’accaduto. «In realtà non ne so molto» disse. «Dopo le dimissioni ero tornata su Trill, per fare certe visite. Sa, il mio Simbionte è anziano e anch’io ho i miei anni. Comunque andava tutto bene. Ma qualche giorno fa i Pacificatori mi sono piombati in casa, sostenendo che Dax era malato e bisognava rimuoverlo subito. La stessa cosa mi è stata ripetuta poco fa dai chirurghi, ma sono certa che mentivano. I Pacificatori mi hanno caricata su un’astronave con una quarantina di Trill Uniti, tutti ufficiali o ex ufficiali di Flotta. Non ci hanno neanche detto qual era la destinazione».

   «Siamo su Elba II. Sembra che qui siano specializzati nel lavaggio del cervello» rivelò lo Spettro.

   Sul volto di Ilia comparve una smorfia di rabbia e disgusto. «Allora non c’è più dubbio sul loro piano» disse. «Noi Trill siamo la memoria storica dell’Unione. Eliminando i nostri Simbionti, e alterandoci i ricordi, i Pacificatori vogliono uccidere la memoria».

 

   «Reggetevi forte» disse il Capitano Gulnar, mentre la Juggernaut avanzava contro la Keter e la Stella del Polo, che procedevano affiancate. Voleva passar loro in mezzo, per colpirle con le armi sulle fiancate, di cui la sua nave era ben fornita. A distanza così ravvicinata tutti i colpi sarebbero andati a segno.

   Le tre grandi astronavi si vennero contro a velocità ridotta, sparando a tutto spiano. Mancavano pochi secondi al passaggio ravvicinato. Gulnar si resse saldamente ai braccioli della poltroncina, mentre la nave tremava sotto il fuoco nemico. Sullo schermo, la Keter e la Stella erano sempre più grandi, finché scomparvero ai lati.

   Nel momento in cui la Juggernaut passò tra i vascelli nemici, questi ruotarono di 90º. In tal modo le rivolsero la prua, dove si concentravano le armi, e al tempo stesso offrirono un bersaglio ridotto. Presa nel fuoco incrociato, la Juggernaut perse gli scudi. Le sue fiancate furono squarciate da prua a poppa e l’astronave scricchiolò per tutta la sua lunghezza. I colpi della Keter, in particolare, perforarono il portello dell’hangar. Due siluri sfrecciarono all’interno e colpirono la parete di fondo dell’hangar, provocando immani esplosioni all’interno del vascello. Lo scafo fu lacerato dall’interno, man mano che l’esplosione si propagava, lasciando interi ponti scoperchiati. Le falle erano così estese che nemmeno i campi di forza interni poterono impedire una massiccia decompressione. La nave semidistrutta oltrepassò i vascelli nemici, con lo scafo punteggiato di esplosioni. La Keter e la Stella, che ora si fronteggiavano, continuarono a girarsi, fino a invertire del tutto la direzione di marcia. Nuovamente affiancate, seguirono la Juggernaut, che procedeva per inerzia.

   Sulla sua plancia il Capitano Gulnar si alzò a fatica, levandosi il sangue dal viso. Alcuni dei suoi ufficiali erano privi di sensi, mentre il timoniere aveva battuto con violenza la testa contro la consolle ed era morto sul colpo. La nave tremava, gli allarmi squillavano ovunque. «Rapporto!» ordinò, pur sapendo che erano spacciati.

   «Armi e scudi in avaria».

   «Propulsori principali fuori uso».

   «Non abbiamo il teletrasporto».

   «Supporto vitale disattivato, ci sono massicce perdite d’atmosfera. I campi di forza non hanno energia, non riesco a isolare i ponti compromessi!».

   «C’è qualcosa che funzioni ancora?!» chiese il Capitano, mentre zoppicava verso la sua poltroncina.

   «Le comunicazioni» rispose l’addetto. «Signore, la Keter ci chiama».

   «Sullo schermo» ordinò Gulnar, risedendosi.

   Il Capitano Hod era quasi irriconoscibile. Invece di essere inquadrata con un’ampia porzione della plancia, l’Elaysiana campeggiava in primo piano, per nascondere la composizione dell’equipaggio. Anziché alzarsi come faceva solitamente durante le chiamate, se ne stette seduta in poltrona, con le gambe accavallate. I capelli biondi erano più corti, con una frangia sfilacciata che le dava un look piratesco. I suoi occhi violetti lampeggiavano di collera e le labbra erano arricciate a smorfia. «Lei è sconfitto, Gulnar. Si arrenda e le risparmierò la vita» disse.

   «Così avrà un ostaggio con cui ricattare l’Unione? Niente da fare» ribatté l’Axanar.

   «Se vuole suicidarsi, faccia pure. Ma trascinerà con sé il suo equipaggio? Sarebbe il secondo che massacra» disse Hod.

   «Ah, ecco!» fece Gulnar, sarcastico. «Lei ce l’ha con me per via dell’Enterprise. Questo attacco è la sua vendetta personale».

   «Lei è colpevole dell’omicidio di tremila ufficiali della Flotta Stellare» disse l’Elaysiana, truce in volto.

   «Non spetta a lei fare da giudice» ribatté l’Axanar con calma. «Io sono al servizio della legge; lei no» disse, indicandosi il comunicatore/mostrina.

   «Lo dica alle vittime dell’Enterprise, quando le incontra!» ringhiò Hod, e chiuse il canale. Elba II riapparve sullo schermo. Era vicino e s’ingrandiva sempre più. Vedendolo, gli ufficiali della Juggernaut sentirono un tuffo al cuore.

   «L’inerzia ci spinge contro il pianeta» disse l’addetto ai sensori. «Senza i motori principali, non possiamo evitarlo. Ci restano solo alcuni propulsori di manovra, insufficienti a sfuggire al campo gravitazionale. Però la nostra velocità è bassa: abbiamo venti minuti prima di precipitare».

   «Sono sufficienti per l’evacuazione» disse il Comandante. «Capitano, dobbiamo abbandonare la nave!».

   «Sì, abbandonatela» disse Gulnar in tono assente. Da come parlava, sembrava che la cosa non lo riguardasse.

   «Signore... lei non viene?» chiese il Comandante.

   «Non ha sentito Hod? Non mi lascerebbe scappare, e io non voglio farmi catturare» disse il Capitano in tono fatalista. «Mostrerò ai ribelli cosa significa essere Pacificatori. Voi mettetevi in salvo; io resto».

   «Ma, signore!».

   «Andate; è il mio ultimo ordine».

 

   Il dottor Vash’Tot correva verso la Volta, la sala più profonda e protetta della base. Aveva con sé l’unità di contenimento col simbionte Dax, che sballottava malamente nella corsa. A un tratto il neurochirurgo si fermò, sentendo rumore di spari poco più avanti. Il nemico era vicino; doveva prendere un’altra strada. In quella udì un grido disumano, che faceva accapponare la pelle.

   «La Banshee!» riconobbe Vash’Tot. Fece dietrofront e cercò un altro percorso, ma si accorse che qualcuno lo inseguiva. Non era la Banshee. Era un uomo armato di phaser, evidentemente uno dei prigionieri evasi. Quando un raggio gli passò a poca distanza, lo Ktariano si fece scudo con l’unità di contenimento. «Lo vedi questo? È il famoso simbionte Dax! Non vorrai ucciderlo, vero?!» gridò.

   L’inseguitore era ormai tanto vicino da poterlo riconoscere. Era Juri, con gli occhi fiammeggianti d’indignazione. «Dottor Vash’Tot! Non sai quanto ho sognato di metterti le mani addosso!» ringhiò, scagliandosi contro di lui.

   Lo Ktariano cercò ancora di fuggire, ma l’Umano lo raggiunse e lo travolse col suo impeto, gettandolo a terra. I due rotolarono sul pavimento, avvinghiati, litigandosi il contenitore.

   «Lascialo!» gridò lo storico, strattonando il cilindro trasparente.

   «Ah, ora parli?! Credevo ti fossi dimenticato come si fa!» ribatté il neurochirurgo. «Non vedi che sei malato? Io posso curarti da questi impulsi violenti!».

   «Così potrò mutilare la gente con calma, come fai tu? No, grazie!» disse Juri. Con uno sforzo convulso riuscì a bloccare l’avversario contro il pavimento. Gli premette l’unità di contenimento contro la gola, mozzandogli il respiro. «Lascia il Simbionte! Non distruggerai la memoria!» intimò.

   «Lo vuoi? Prendilo!» rantolò Vash’Tot. Respinse l’Umano con un doppio calcio e poi gettò lontano il cilindro.

   Come al rallentatore, Juri vide l’unità di contenimento che veniva scagliata in aria. All’interno c’era il Simbionte, già provato dal brutale distacco dall’Ospite. Se fosse caduto a terra, c’era il rischio che non sopravvivesse. Lo storico si tuffò verso il contenitore, lo afferrò al volo e atterrò di schiena, per attutire l’impatto. «Ouch!» gemette.

   «Stupido sentimentale» disse lo Ktariano, tornando in piedi. «Credi che non ne abbia altri?!». Fuggì più veloce di prima, svoltando in un passaggio laterale, mentre Juri si rialzava indolenzito, reggendo il contenitore. In quella giunse la Banshee, che si era sbarazzata dei Pacificatori. Gli altri due volontari che avevano accompagnato Juri, però, non erano stati così fortunati.

   «Vash’Tot è andato da quella parte» disse l’Umano, indicando il corridoio. «Ho Dax, ma temo ci siano altri Simbionti in pericolo».

   La fuorilegge partì subito all’inseguimento. Lo storico le tenne dietro, anche se non era altrettanto veloce, e per giunta doveva portare il contenitore. Ma la Volta non era lontana.

 

   Nello stesso momento, in un’altra zona di quel livello, lo Spettro e Ilia raggiunsero una sala di guardia. All’interno c’erano cinque sorveglianti, che si appostarono ai lati della porta, facendo un intenso fuoco di sbarramento. Gli attaccanti si nascosero dietro un angolo, rispondendo al fuoco. I Pacificatori erano impossibili da stanare... con mezzi convenzionali.

   «Riesce a tenerli impegnati, mentre li prendo alle spalle?» chiese lo Spettro.

   «Penso di sì» rispose Ilia. «Ma tu sbrigati!».

   «Volo» disse il corsaro, svanendo nella parete.

   La Trill scosse la testa, ancora incredula di essersi alleata con quell’individuo. Erano tempi strani... ma lei doveva fare la sua parte. Si sporse dall’angolo, sparando un paio di colpi contro i Pacificatori, e subito si ritrasse. Sentiva un dolore all’addome, là dove le avevano asportato il Simbionte, e aveva le gambe molli. Sperò di non perdere ancora i sensi. Che avrebbe fatto, se non avesse ritrovato Dax? Forse sarebbe sopravvissuta coi farmaci... ma era avvilente che proprio lei, fra tutti gli Ospiti, si fosse fatta rubare il Simbionte. Non era così che doveva terminare l’esistenza di Dax.

   Ilia sparò ancora, riuscendo a stordire un Pacificatore, e tornò a nascondersi. Nella sua carriera aveva affrontato molte battaglie, ma nessuna sconvolgente come quella, dove i nemici erano ex colleghi che si consideravano dalla parte della legalità. In nessuna delle sue dodici vite si era trovata in una situazione del genere.

   Grida e rumore di phaser vennero dalla sala di guardia, dopo di che calò il silenzio. «Campo libero» disse lo Spettro, affacciandosi. «Guardi un po’ chi c’è».

   Ilia si avvicinò cautamente, ancora col phaser in pugno. La sala di guardia era cosparsa di Pacificatori storditi, che lo Spettro aveva sorpreso alle spalle. E le celle erano colme di Trill, gli stessi che erano stati catturati con lei. Alcuni erano in piedi e le facevano segno di liberarli, ma altri se ne stavano accasciati, premendosi l’addome.

   «Oh, fratelli miei!». Ilia corse ai comandi e schiuse le celle, mentre lo Spettro controllava che non arrivassero altri nemici. «Uscite, svelti!» li esortò. Decine di Trill uscirono barcollando. Quelli che stavano meglio aiutavano i compagni a sorreggersi.

   «Ci hanno tolto i Simbionti» disse uno di loro, con voce rauca. «Dicevano che era per la nostra salute, ma...».

   «È una menzogna» confermò Ilia.

   «Ma perché?!».

   «Perché Rangda non tollera che qualcuno ricordi com’era la Flotta Stellare» disse Ilia. «Su, andiamo; la strada per la superficie è lunga».

   «E i nostri Simbionti? Dobbiamo recuperarli!» protestò un altro Trill.

   «Ho un’alleata che li sta cercando» rivelò lo Spettro. «Sempre che i Pacificatori non li abbiano già uccisi».

 

   L’ingresso della Volta era un portone di yiterium, di forma circolare, con impresso il simbolo dell’Ufficio di Salute Pubblica. Il dottor Vash’Tot lo raggiunse ansante. Le due guardie gli puntarono contro i fucili polaronici, ma riconoscendolo lo lasciarono passare. Lo Ktariano posò la mano su un lettore di DNA a lato del portale, che si dischiuse. «Proteggete questo ingresso a costo della vita!» raccomandò, e sparì dentro.

   Il disco di yiterium si era appena richiuso quando arrivò la Banshee. I Pacificatori aprirono immediatamente il fuoco, ma i raggi attraversarono la fuorilegge, che avanzò minacciosa. Quando fu in mezzo a loro si rese tangibile, afferrò i fucili per le canne e li puntò uno contro l’altro, mentre i Pacificatori premevano i grilletti. I due lampi blu si sovrapposero e le guardie caddero a terra stecchite. Senza nemmeno rallentare, la Banshee tornò incorporea e attraversò il portone blindato.

   Di lì a poco giunse Juri, col fiato corto. Vedendo il portone chiuso e i Pacificatori a terra capì che la Banshee era dentro. Si era già rassegnato ad aspettare che uscisse, quando il portone si spalancò. Un po’ sorpreso, ma determinato a non perdersi gli eventi, l’Umano lo varcò, con il phaser in una mano e il contenitore di Dax nell’altra.

 

   Lo storico si aspettava di trovare un bunker, o al limite un laboratorio degli orrori. Quella in cui si trovò, invece, era una perfetta riproduzione delle Caverne di Mak’ala, il luogo più sacro di Trill. Era in quell’estesa rete di caverne che i Simbionti si erano evoluti come specie autonoma, prima che i Trill umanoidi imparassero a unirsi con loro.

   Nel pavimento roccioso si apriva una vasta pozza, grande come una piscina. Conteneva un liquido lattiginoso, dalla temperatura controllata e pieno di sostanze nutritive, in cui sguazzavano i Simbionti estratti dagli Ospiti. Quelle creature non potevano sopravvivere a lungo fuori dalle loro pozze, o dalle sacche addominali dei Trill. Anche Dax doveva trovare al più presto una delle due sistemazioni.

   «Abbiamo un problema» disse la Banshee, che gli aveva aperto dall’interno. L’Umano la seguì senza fare domande, mentre il portone si richiudeva alle sue spalle. Si addentrarono nella caverna, il cui pavimento era leggermente digradante. Juri vide che il dottor Vash’Tot era sull’orlo della pozza, con una fiaccola ardente in mano. Doveva aver trovato lì quell’oggetto anacronistico, con il necessario per accenderla; ma perché li aveva predisposti?

   «Fermi!» intimò lo Ktariano, tendendo la torcia oltre l’orlo della pozza. «Ah, dottor Smirnov! Sono lieto che sia qui» lo accolse. «Come ho già spiegato alla sua complice, ho aggiunto il 5% d’infernite alla soluzione dei Simbionti. Non è tanto da avvelenarli, ma è quanto basta perché questa pozza prenda fuoco, se lascio cadere la torcia. Se vi avvicinerete... o se la pazzoide si occulterà... i Simbionti bruceranno» disse con un sorriso compiaciuto.

   «Che cosa vuole?» chiese Juri.

   «Che ve ne andiate subito, voi e tutti gli altri ribelli» rispose Vash’Tot. «Naturalmente dovrete anche renderci i prigionieri, Trill e non Trill».

   «Non se ne parla» disse cupamente la Banshee. «Non ho liberato quella gente solo per riconsegnartela».

   «Allora i Simbionti moriranno» disse il neurochirurgo, in tono fatalista.

   «Se incendi quella pozza, giuro che ti getterò dentro!» minacciò la Banshee.

   Sul volto di Vash’Tot apparve un odio che le parole non possono descrivere. «Non ti conviene, assassina. Già adesso sono uno dei maggiori influencer federali» si vantò. «Se mi uccidete, diventerò un simbolo per tutti coloro che condividono la mia visione. Vi farò più male da morto che da vivo».

   «Perché fai tutto questo, eh?!» chiese Juri.

   «Per il bene dell’Unione».

   «Che bene può esserci nel mutilare chirurgicamente i Trill? Nell’uccidere i loro Simbionti? Nel cancellare la memoria storica?!» incalzò l’Umano.

   «Possibile che non ti avvedi dell’intrinseca violenza di quella memoria?» chiese Vash’Tot. «Gli Ospiti passati di Dax hanno fatto cose che oggi sono illegali. Lasciandolo vivere, noi lasciamo quei crimini impuniti».

   «Io mi avvedo della tua violenza» ribatté lo storico. «Ti credi in diritto di epurare chiunque non soddisfi i tuoi altissimi standard. E chi sei tu, per emanare giudizi? Sei forse senza peccato? Credi davvero che uccidere la memoria – cioè accrescere l’ignoranza – possa giovare alla società?».

   «La memoria è una catena da spezzare. Un muro da abbattere» proclamò fieramente lo Ktariano. «Per costruire un futuro migliore, dobbiamo lasciar morire il passato. Dobbiamo ucciderlo, se necessario. Ma tu non puoi capire» disse, scuotendo tristemente il capo. «Sei troppo ancorato al vecchiume per comprendere che siamo entrati in un nuovo stadio della società».

   «No, siamo entrati solo in un nuovo regime. Uno che non tollera il dissenso» disse lo storico. «Non ti piace il passato? Beh, sappi che una società che cancella il proprio passato è condannata a ripeterne gli errori».

   «Presto non esisteranno più né il passato, né il futuro. Ci sarà solo un eterno presente, in cui l’Unione ha sempre ragione» sogghignò il neurochirurgo. «In questa nuova società io sarò un martire del progresso, mentre voi... beh... non sarete mai esistiti». Con un sorriso trionfante, lasciò cadere la torcia.

   Le fiamme si levarono fin quasi al soffitto, ricoprendo in pochi attimi l’intero laghetto. Sotto di esse, il liquido lattiginoso schiumò e ribollì. I Simbionti che vi nuotavano furono avvolti dalle fiamme, si contorsero e perirono. Molti di loro avevano vissuto per secoli, accumulando le esperienze di numerose vite. Bastarono pochi secondi perché tutto si consumasse nella vampa ardente.

   «NOOOOO!» strillò la Banshee. Il grido si tramutò in un attacco sonico, che investì lo Ktariano in pieno petto. Il dottor Vash’Tot fu scagliato all’indietro, scomparendo nello stagno di fuoco.

 

   «Abbiamo perso, Juri» disse la Banshee, osservando le fiamme crepitanti. «Tutto ciò che ha detto quel verme si sta già verificando. Più lottiamo, più i nostri nemici si rafforzano».

   «Almeno abbiamo salvato Dax» la confortò lo storico, mostrandole il Simbionte nell’unità di contenimento. «Dobbiamo restituirlo a Ilia, prima che le sue condizioni peggiorino».

   «E poi che faremo? Come si può affrontare un nemico del genere?» chiese la fuorilegge.

   «Questa è una guerra ideologica. È lì che dobbiamo batterci» disse l’Umano, dandole una pacca sulla spalla. «Dai, torniamo in superficie» la esortò, muovendo verso il portone.

 

   Navette e capsule di salvataggio lasciarono la Juggernaut, che procedeva senza controllo verso Elba II. I ribelli le lasciarono andare, anche se le sondarono in cerca di segni vitali Axanar. Ma l’unico Axanar, il Capitano, era ancora in plancia.

   Appena fu solo, Gulnar andò al timone. Come indicato dai suoi ufficiali, i motori principali erano in avaria, ma restava qualche piccolo propulsore di manovra. Non bastava a evitare la caduta sul pianeta, ma gli permetteva di scegliere – entro certi limiti – il punto d’impatto. Il Capitano individuò il Centro di Rieducazione e corresse la rotta, in modo da colpirlo. In tal modo avrebbe eliminato gli Agenti nemici e i prigionieri che avevano liberato. Certo, sarebbe morto anche il personale della base... ma in quell’ora drammatica, in cui l’Unione era sull’orlo della Guerra Civile, gli sembrava un piccolo prezzo da pagare.

   «Se i prigionieri evadono, diffonderanno le loro testimonianze condite di menzogne. Per i ribelli sarà una vittoria d’immagine superiore a quella di Memory Alpha. Non posso permetterlo» si disse. «Cosa sono poche centinaia di vite, a paragone dei milioni che altrimenti periranno nella Guerra Civile? Nulla».

   Con questo fermo proposito, il Capitano si sforzò di far precipitare la sua nave il più vicino possibile alla base. Anziché impostare la rotta e poi mettersi in salvo, diresse l’astronave manualmente. Dopo aver distrutto l’Enterprise, e poi il Centro di Rieducazione, non voleva sopravvivere per prendere altre decisioni simili. «Che la responsabilità tocchi a qualcun altro; io ho dato tutto ciò che si può dare».

 

   «Le ultime capsule hanno lasciato la Juggernaut, ma il Capitano Gulnar è ancora in plancia» riferì Zafreen.

   «Possiamo teletrasportarlo» suggerì Norrin.

   «Negativo. Se vuole immolarsi, che lo faccia» disse Hod.

   «Rangda ne farà un martire» avvertì il Comandante.

   «Che lo faccia!» ripeté il Capitano, con inusitata ferocia. «Però le stive della Juggernaut contengono molte cose che possono tornarci utili. Imbarcatele» ordinò. Se erano ribelli e alleati dei corsari, dovevano comportarsi come tali. La Keter abbassò gli scudi e saccheggiò la nave avversaria, come già stava facendo la Stella.

   «Ehi, la Juggernaut corregge la rotta» notò Zafreen.

   «Cerca d’immettersi in orbita?» chiese Hod.

   «Non direi... però cambierà il luogo dell’impatto».

   «E dove cadrà?!» si allarmò il Capitano. La permanenza di Gulnar a bordo le appariva ora sotto una luce più sinistra e le destava un orribile sospetto.

   L’Orioniana calcolò rapidamente la traiettoria. «Frell, sta puntando la base!» comprese.

   «Possiamo teletrasportare i nostri?».

   «Non ancora, ma stanno salendo rapidamente. Se non si fermano, forse... oh, no!». L’Orioniana ricontrollò i dati, poi si rivolse al Capitano. «La base ha rialzato gli schermi protettivi. La Banshee li aveva sabotati, ma si vede che gli ingegneri hanno riparato il danno. Si saranno accorti che l’astronave gli viene addosso».

   «Calcoli a che distanza cadrà la Juggernaut e se la base resisterà all’esplosione» ordinò Hod.

   «Non resisterà» rispose subito Terry, prevenendo l’Orioniana. «La Juggernaut cadrà ad appena 10 km e gli ingegneri non hanno neutralizzato l’antimateria del nucleo. Forse i difensori del Centro non se ne sono accorti».

   Il Capitano osservò la nave inquadrata sullo schermo. Stava già precipitando nell’atmosfera, come indicava la scia di plasma che si lasciava dietro. «Raggio traente, presto! Dite alla Stella di aiutarci» ordinò l’Elaysiana.

   Le due astronavi agganciarono la carcassa della Juggernaut, impedendole di perdere ancora quota. Ma anche combinando la potenza dei loro raggi traenti, non riuscivano a farla risalire. L’astronave dei Pacificatori rimase a mezz’aria, perdendo frammenti che precipitavano come meteore.

   «Zafreen, trasmetta alla base» ordinò l’Elaysiana. «Qui è il Capitano Hod della Keter. Lo scudo non vi salverà dall’impatto. Dovete abbassarlo, così potremo salvarvi».

   «Non rispondono. Lo scudo è ancora attivo» avvertì l’Orioniana.

   «Allora dobbiamo perforarlo. Terry, apra il fuoco, ma occhio a non distruggere la base con un colpo troppo potente» raccomandò Hod.

   «Calcolo la potenza necessaria» disse l’IA, chiudendo per un attimo gli occhi. Nessun Organico avrebbe potuto fare un calcolo del genere, salvo forse Dib. «Fatto. Sto aprendo il fuoco; serviranno quindici minuti per perforare lo scudo».

   «E noi per quanto potremo tenere la Juggernaut al guinzaglio?» chiese il Capitano.

   «Se la Stella continua ad aiutarci, quattordici minuti».

   «Tempo di caduta?».

   «Sessanta secondi».

   «Tempo per teletrasportare i nostri?».

   «Trenta secondi».

   «Quindi la Juggernaut si schianterà tra 15 minuti, e a noi ne servono 15 e mezzo per salvare tutti» calcolò il Capitano. «Dobbiamo trovare quei trenta secondi. Zafreen, chieda ai corsari di aiutarci. Che sparino allo scudo, e che si tengano pronti col teletrasporto».

 

   Dopo la lunga battaglia da un livello all’altro del complesso, il primo gruppo di evasi, capeggiato dall’Ammiraglio Chase, raggiunse la superficie. Lì si trovavano alcuni edifici di modeste dimensioni, perlopiù risalenti al primo nucleo della base, dunque al XXIII secolo. Data la velenosità dell’atmosfera erano collegati da tunnel; le poche uscite erano dotate di camere stagne. Gli interni erano arredati in modo essenziale, poiché questi edifici erano poco più che anticamere.

   Gli scontri coi Pacificatori erano costati un duro scotto agli evasi, che si erano molto ridotti di numero. Anche così erano pur sempre una cinquantina di persone, tra cui molti feriti che avevano bisogno di aiuto per camminare. Raggiunsero la superficie grazie a quattro turboascensori, che si aprivano tutti nella stessa stanza. Usciti da lì c’era una sala panoramica, con un finestrone che permetteva di osservare la superficie. Più avanti ancora si trovavano la camera stagna e uno stanzino per le attrezzature.

   «Ci siamo» disse l’Ammiraglio, scorgendo la superficie. Elba II era una pietraia grigia, con le rocce che si perdevano nella foschia verdastra. Ricordando le parole della Banshee, l’Umano si premette il comunicatore che si era procurato durante la fuga. «Chase a Keter, mi sentite?» chiese.

   «Forte e chiaro, Ammiraglio» rispose Hod. «È un sollievo sentirla».

   «Il sollievo è nostro. Potete teletrasportarci?».

   «Il piano era quello, ma sfortunatamente la base ha rialzato gli scudi. Devo chiedervi di resistere, finché li avremo abbattuti».

   «Okay, possiamo farcela. Chase, chiudo». L’Ammiraglio si rivolse ai suoi, che erano rimasti in attesa. «Sentito? Dobbiamo resistere ancora un po’. Voi sorvegliate i turboascensori» ordinò a quelli che erano armati. «Se i Pacificatori c’inseguono ancora, dobbiamo essere pronti a respingerli. Ma può anche darsi che ci raggiungano altri gruppi di evasi. Neelah, cerca di percepire i pensieri di chi arriva, così ci avviserai prima che si aprano le porte» chiese alla moglie.

   «Non è così facile, lo sai» disse l’Aenar. «Ma ci proverò».

   Gli armati si appostarono dietro la porta, tenendo sotto tiro i turboascensori. Neelah stava più indietro, seduta in posa di meditazione, cercando di estendere al massimo le sue percezioni. Chase controllò i feriti, che si erano stesi a terra, mentre alcuni ufficiali ispezionarono la camera stagna e le dotazioni della sala attrezzi.

   «Qui c’è qualche tuta ambientale, ma sono solo dieci» disse uno di loro, di ritorno dal giro.

   «È inutile uscire; la nostra sola speranza di lasciare il pianeta è la Keter» obiettò l’Ammiraglio. In quella ci fu un bagliore, seguito da un boato.

   «Ammiraglio, guardi!» esclamò un ufficiale, indicando fuori dalla finestra. Dal cielo piovevano stelle cadenti, ma non si trattava di asteroidi: erano pezzi di scafo di un’astronave. E lassù in alto s’intravedeva una forma oblunga, che forava le nubi. «È la Juggernaut» riconobbe l’ufficiale. «Credo che i ribelli la stiano bloccando col raggio traente; ma dubito che la tratterranno a lungo».

   «Gulnar» riconobbe Chase, osservando la nave che cadeva al rallentatore. «Vuole trascinarci nella sua rovina. Ecco quanto è stato pervertito lo spirito della Flotta». Con un sospiro, l’Ammiraglio si rivolse ai suoi compagni di fuga. «Auguriamoci che la Keter riesca ad abbattere lo scudo. Noi possiamo solo attendere» disse. Dopo di che tornò indietro, perché aveva sentito grida di allarme. Tutti e quattro i turboascensori stavano risalendo, come segnalato dalle luci soprastanti. Gli evasi tennero le porte sotto tiro, pronti allo scontro coi Pacificatori.

   «No, fermi!» li trattenne Neelah. «Non hanno cattive intenzioni».

   Le porte semicilindriche si aprirono, lasciando uscire una ventina di Trill. Fra loro c’era un viso familiare.

   «Ilia!» la riconobbe Chase. «Anche tu qui?!».

   «Già... ringrazia lo Spettro, se siamo scappati» disse la Trill.

   «Vuoi dire la Banshee».

   «No, voglio dire lo Spettro. Chi è la Banshee?».

   «Lascia stare, ne parliamo dopo» disse l’Umano, augurandosi che ci fosse un dopo.

   Nel frattempo gli ascensori furono richiamati nel sottosuolo. Tre di essi risalirono in breve tempo, portando in superficie gli ultimi Trill. Con loro c’era anche lo Spettro. «Ammiraglio Chase, finalmente c’incontriamo» disse il famigerato criminale, avvicinandosi a grandi passi. «Sembra che il destino ci abbia spinti sulla stessa barca».

   «Già, così sembra» convenne Chase, un po’ accigliato. «Grazie del suo aiuto. Lei non cessa mai di stupirmi».

   «Mi ringrazi quando saremo tornati nello spazio» disse il fuorilegge. Si accostò al finestrone, notando l’astronave che cadeva al rallentatore. «Gulnar... hai deciso d’essere bastardo fino in fondo» mugugnò. Lasciò la finestra e tornò rapidamente nell’altra sala. L’ultimo ascensore stava risalendo. Il fuorilegge restò in attesa finché la porta si aprì, rivelando la Banshee e Juri, che portava ancora Dax.

   «Dobbiamo smetterla di vederci così, all’ultimo minuto» commentò lo Spettro.

   «Il solito romantico» ribatté la Banshee.

   «Ehm... credo che questo sia suo» disse Juri, offrendo a Ilia il contenitore con il suo Simbionte.

   «L’ha salvato! Grazie infinite!» gioì la Trill, stringendoselo al petto come il più grande dei tesori. «Ma gli altri?» chiese, mentre il sollievo lasciava il posto a una nuova preoccupazione.

   Lo storico scosse la testa, rassegnato, al che i Trill chinarono il capo e alcuni scoppiarono a piangere.

   D’un tratto gli evasi cominciarono ad essere teletrasportati, da soli o in piccoli gruppi, segno che i ribelli avevano abbattuto lo scudo. Alcuni svanivano nel raggio azzurro della Keter, altri in quello verde della Stella, per accelerare l’evacuazione. Le due stanze si svuotarono rapidamente.

   «Faranno in tempo a prenderci tutti?» chiese l’Ammiraglio, osservando la Juggernaut sempre più bassa nel cielo.

   «Bella domanda» disse lo Spettro.

   «Dalla velocità di discesa, credo...» cominciò Ilia.

   «Abbiate fiducia» la fermò Juri.

   Gli evasi si raccolsero davanti al finestrone, per scrutare la caduta della Juggernaut, resa ancora più drammatica dalla lentezza. Chase cinse Neelah col braccio, e così fece lo Spettro con la Banshee. Tutti restarono in attesa del fato.

 

   «Attenzione, dieci secondi all’impatto» avvertì il computer della Juggernaut.

   Rannicchiato contro la postazione del timone, che come tutta la nave era inclinata di 90º, il Capitano Gulnar si vide venire contro le rocce acuminate della superficie. Chiuse gli occhi, sfiorandosi la mostrina capovolta dei Pacificatori. La grande astronave impattò, disintegrandosi da prua a poppa. Quando il nucleo quantico esplose, ci fu un lampo accecante; i fuggitivi che si erano raccolti davanti al finestrone dovettero voltarsi. La densa atmosfera di Elba II fu spazzata via dall’onda d’urto, per un raggio di migliaia di km. Il suolo si sollevò, man mano che il cratere si apriva, e quel muro di roccia e fiamme venne verso gli spettatori, cancellando l’orizzonte. Sempre più vicino... sempre di più.

   Mentre gli ultimi fuggiaschi svanivano nei bagliori dei teletrasporti, l’onda d’urto raggiunse il Centro di Rieducazione. La finestra si frantumò, tutti gli edifici si accartocciarono; i loro frammenti liquefatti furono spazzati via con le rocce. L’immane esplosione scavò nel sottosuolo, distruggendo i livelli della base, fino a scoperchiare la Volta. Al centro del cratere la distruzione era scesa ancor più in profondità. La crosta planetaria fu perforata e il magma sottostante zampillò fuori. Gran parte del materiale lavico ricadde su una vastissima area, già spazzata dall’esplosione; il resto finì in orbita. Le nubi verdastre di Elba II si tinsero di rosso, mentre la crosta si crepava e l’onda d’urto faceva più volte il giro del pianeta.

 

   «Benvenuti a bordo» disse Hod, mettendosi sull’attenti. Chase, Neelah e Ilia si erano materializzati sulla pedana di plancia. «I vostri compagni di fuga sono nelle sale teletrasporto. Abbiamo preso tutti» li rassicurò. «Lo Spettro e molti altri sono sulla Stella del Polo. Il punto di rendezvous è nella Nebulosa Paulson».

   «Grazie di cuore per il salvataggio. E complimenti per la sua strategia» disse l’Ammiraglio. Le venne incontro, per stringerle la mano, ma si bloccò quando vide l’Ufficiale Tattico. «Terry! Ma allora c’è tutto il vecchio gruppo!» si commosse.

   «Quasi» disse la proiezione isomorfa. «Di Lantora e T’Vala non abbiamo notizie, mentre Grenk dovrebbe essere su Tellar, ma data la sua età sarebbe meglio non coinvolgerlo».

   «Sì, lasciamolo in pace» convenne Chase. «Ma lei che ci fa con quell’uniforme?».

   «Ci serviva un Ufficiale Tattico, e Terry aveva ottime credenziali» disse Hod. «Ammiraglio, sono desolata per quanto avvenuto durante la Caduta. Se fossi intervenuta prima in appoggio all’Enterprise...».

   «Non è il momento dei rimpianti» disse Chase. «Ci sarà tempo per aggiornarci, ma prima suggerisco di lasciare questo sistema».

   «La Stella del Polo e gli incursori sono balzati a curvatura» rilevò Zafreen. «Però sta arrivando un’altra astronave, a cavitazione».

   «Vrel, ci porti via dall’orbita. Plancia a sala macchine, attivate il propulsore cronografico appena pronti» ordinò il Capitano. La missione poteva dirsi un successo, eppure quella fuga era anche un’ammissione di debolezza. Era il segno che non avrebbero mai potuto affrontare i Pacificatori da pari a pari. La loro strategia poteva consistere solo in attacchi mordi e fuggi, proprio come i corsari. Il Capitano cercò di non pensarci. Stava per risedersi in poltrona, ma poi si fermò e fece segno a Chase di accomodarsi.

   «È la sua nave» obiettò lui, restando in piedi.

   «Scusate, ma il Vice-Ammiraglio Dax ha subito l’asportazione forzata del Simbionte» avvertì Juri. «Le servono cure immediate».

   «In infermeria» ordinò il Capitano all’addetto del teletrasporto.

   Ilia risalì sulla pedana, portando con sé Dax, e fu trasferita nell’infermeria principale, dove i medici stavano già soccorrendo i Trill menomati.

   «L’astronave sconosciuta è arrivata» avvertì Zafreen, inquadrandola sullo schermo. Era un vascello simile alla Keter, ma più grosso e squadrato, col deflettore e i collettori Bussard che brillavano rossi sullo scafo scuro. Il Moloch era arrivato.

 

   Vedendo l’onda d’urto vermiglia  che si allargava sul disco verdastro di Elba II, il Capitano Radek si sentì rabbrividire. Per quanto sapesse che i ribelli erano pronti a tutto, non si aspettava un attacco così apocalittico. «Analisi» ordinò. «Voglio sapere cos’è successo».

   «Ci sono frammenti della Juggernaut in orbita» disse l’addetto ai sensori. «L’esplosione in superficie è compatibile con l’impatto dell’astronave. Anche la stazione d’attracco è semidistrutta e la Voyager è stata rubata».

   «Il Centro di Rieducazione?».

   «Era vicino al luogo dell’impatto. Distruzione totale, nessun superstite».

   Radek chinò il capo, affranto, e si massaggiò la fronte. Era una catastrofe peggiore delle sue più fosche previsioni. D’un tratto rialzò la testa; il suo sguardo era micidiale. «Ci sono navi nelle vicinanze?» chiese.

   «Una... è la Keter» disse l’addetto, inquadrandola sullo schermo.

   «La Keter!». Il Rigeliano guardò la nave in fuga, con disgusto e orrore. Possibile che avesse servito a bordo per cinque anni, senza vedere la malvagità dei colleghi? «Fuggono dopo aver compiuto un’ecatombe» disse con sdegno. «Non glielo permetteremo. Avanti tutta, fuoco a volontà!» ordinò.

   In quell’attimo la Keter scomparve.

   «Hanno usato il propulsore cronografico» disse l’addetto ai sensori. Non conoscendo la destinazione, questo impediva l’inseguimento.

   Radek dette un pugno sul bracciolo, facendo sussultare i suoi ufficiali. «HOD!» gridò, schiumante di rabbia. Si alzò di scatto e si avvicinò allo schermo, su cui ora campeggiavano solo le stelle. Aveva il respiro ansante e una vena che gli pulsava sulla tempia, ma poco alla volta si calmò. Quando si sentì nuovamente padrone di sé, si girò verso i suoi ufficiali. «Non importa dove scappano quegli assassini» disse. «Seguiremo la loro scia di sangue, finché non li inchioderemo. Ricordate: noi siamo i Pacificatori. Nessuno è migliore di noi».

 

   Volute di gas purpureo collassavano lentamente nelle profondità della Nebulosa Paulson. Tra un milione di anni, forse, lì si sarebbe accesa una stella. Per il momento c’era solo la Keter, in attesa. D’un tratto la Stella del Polo uscì dalla curvatura e le si avvicinò. Le due astronavi si affiancarono.

   «Eccoli qui» disse Hod, che cominciava ad apprezzare quell’insolita alleanza. «Zafreen, trasmetta che siamo pronti a ricevere i prigionieri di Elba II». La Stella infatti ne aveva imbarcati quasi la metà, nei concitati momenti che avevano preceduto lo schianto della Juggernaut. «Hod a Chase, è pregato di venire in sala teletrasporto 1. Sta arrivando lo Spettro e penso che vorrà parlarle» aggiunse il Capitano, premendosi il comunicatore.

   «Arrivo» disse l’Ammiraglio. In quel momento lui e Neelah erano in infermeria, dove i medici li stavano visitando per accertarsi che non ci fossero strascichi dell’esperienza su Elba II. «Ci sarà anche la Banshee?» chiese.

   «Credo proprio di sì».

   «Allora arriviamo» disse Chase, scambiando un’occhiata con la moglie.

 

   I Trill e gli altri evasi di Elba II lasciarono la sala teletrasporto, dopo un breve saluto all’Ammiraglio. Erano diretti in infermeria, per essere visitati come gli altri. Chase e Neelah rimasero in attesa. Finalmente altre due figure si materializzarono davanti a loro. Erano lo Spettro e la Banshee, sempre con le tute a Occultamento Sfasato che celavano la loro identità. I due fuorilegge scesero dalla pedana, ma lo Spettro rimase indietro, mentre la Banshee si avvicinò alla coppia. «State bene?» chiese.

   «Sì, grazie a te» confermò l’Ammiraglio. «Ma vorrei tanto che ti levassi quel casco, perché c’è un sospetto che mi rode il cervello... figliola».

   «Sigh, sono così riconoscibile?» chiese la Banshee. Il casco di materiale intelligente si aprì, si ripiegò e quasi scomparve nel colletto della tuta, rivelando il suo volto. Jaylah Chase fronteggiò i suoi genitori, in parte temendone il giudizio, ma senza pentirsi delle sue azioni.

   «No, non direi» disse l’Ammiraglio. «Ma tua madre ha percepito i tuoi pensieri e a me è bastato vedere la sua espressione per sospettare».

   «Hai in mente di farlo ancora?» chiese Neelah, preoccupata per la sua incolumità.

   «Finché i Voth controlleranno la Terra, e Rangda sarà Presidente dell’Unione, sì» confermò Jaylah.

   «Potrei vietartelo. Sono ancora il tuo Ammiraglio» notò Chase.

   «Se me lo vieti, non lo sarai più. Perché io darò le dimissioni» avvertì la mezza Andoriana.

   Padre e figlia si fronteggiarono per qualche secondo. «È già da un pezzo che fai una vita pericolosa. Lo sapevo che non avresti cambiato idea proprio adesso» sospirò l’Ammiraglio. «Prometti almeno di stare più attenta che puoi».

   «Lo prometto» disse la figlia.

   «Oh, piccola mia!» singhiozzò Neelah, abbracciandola stretta. Jaylah ricambiò e anche Chase si unì all’abbraccio, cingendole entrambe. Per un po’ rimasero così, divisi tra il sollievo di ritrovarsi e l’angoscia di ciò che li aspettava. A un certo punto l’Ammiraglio alzò lo sguardo verso lo Spettro, che attendeva discretamente a una certa distanza. Lasciò la moglie e la figlia, si ricompose e gli si avvicinò.

   «Suppongo che tu sia l’artefice della sua tuta» disse. «Complimenti per l’ingegno. E oltre a questo, che cosa sei per Jaylah?».

   Lo Spettro ritirò a sua volta il casco nella corazza, rivelando il proprio volto. Come accadeva a molti fuorilegge, anche per lui era giunta l’ora di confessare. «Sono colui che l’ha amata per anni, a volte a distanza... e a volte no» ammise. «Non cerco la sua approvazione, né temo la sua contrarietà. Sappia solo che darei la vita per sua figlia, in qualunque momento».

   Prima che i suoi genitori rispondessero, Jaylah si affiancò al compagno. «Non fate scenate» disse. «È da tempo che le cose vanno avanti, tra noi. Mi spiace di avervelo nascosto, ma non potevo fare altrimenti. In questa Galassia c’è troppo poco amore per rinunciarvi, quando lo si trova».

   Chase e Neelah si scambiarono un’occhiata rassegnata. Fu l’Aenar a riprendersi per prima. «Anche tra noi le cose non furono semplici, all’inizio» ammise, accennando a se stessa e al marito. «Se sei felice, Jaylah, allora lo sono anch’io».

   L’Umano sembrava avere più difficoltà ad accettare la cosa. Squadrò sua figlia e poi il corsaro. «Jack Wolff, eh?» disse. «Ho seguito le tue imprese fin dai primi furti».

   «Io ho studiato le sue fin da quando ho imparato a leggere. Onorato di conoscerla, Ammiraglio» disse Jack, porgendogli la mano.

   «Beh... chi se l’aspettava di avere un fuorilegge in famiglia» borbottò Chase, senza ricambiare il gesto. «Ma a quanto pare, adesso siamo tutti fuorilegge, quindi... benvenuto» disse, stringendogli finalmente la mano. «Grazie per aver salvato Jaylah, e tutta la Keter, e la nostra amica Ilia».

   «Grazie a lei per quanto ha fatto contro il Fronte Temporale e la Scourge» disse lo Spettro. «Ora che siamo di nuovo in guerra, può guidare la resistenza».

   «E io che contavo i giorni mancanti alla pensione» ironizzò l’Ammiraglio. «Per prima cosa rivelerò cosa accadeva su Elba II, facendo testimoniare anche i Trill. Ma ci occorre un’adeguata cassa di risonanza».

   «Temo che Memory Alpha sia da scartare» disse Jaylah.

   «Sì, Terry ci ha aggiornati» annuì Chase. «Io pensavo a uno dei mondi che si oppongono alla Presidente. Magari Kronos, visto che i Klingon sono sempre stati i più forti oppositori di Rangda, e il loro pianeta è tra i più difesi».

   «Sono d’accordo. Almeno i Klingon non ci venderanno alla dittatrice; sarebbe contrario all’onore» approvò Jack.

   «Sì, è deciso» disse l’Ammiraglio, dandosi un pugno sul palmo. «Appena la Voyager ci raggiungerà, faremo rotta per Kronos».

 

   «Come sarebbe a dire che non può reimpiantarmelo?!» chiese Ilia. «È il mio Simbionte, siamo uniti da quarant’anni!».

   «Da specialista in trapianti, le dico che non posso semplicemente rimetterglielo dentro» spiegò Ladya. «I Simbionti devono legarsi al sistema circolatorio e a quello nervoso, ma Dax è anziano e dopo ciò che ha passato è gravemente debilitato. Potrebbe non riuscire a riallacciarsi».

   «Allora lo colleghi lei».

   «Può aggravarsi comunque; i suoi segni vitali sono irregolari» spiegò la dottoressa. «Per il momento lo terrò nella soluzione nutritiva, mentre proseguo le analisi». Così dicendo si avvicinò alla vasca piena di liquido lattiginoso in cui il Simbionte era immerso. Invece di muoversi come avrebbe dovuto, la creatura vermiforme galleggiava inerte. «Non le nascondo che sono preoccupata» disse Ladya. «Cercherò di curarlo, ma... deve prepararsi all’eventualità di un distacco definitivo».

   «No, aspetti. Sta dicendo che Dax... potrebbe morire?!» inorridì la Trill. Aveva sempre sperato che il Simbionte le sopravvivesse, e magari passasse a un altro Ospite.

   «È possibile» sospirò la Vidiiana. «Il ciclo vitale dei Simbionti si aggira sui 600 anni e Dax ne ha già 572. Nel corso della sua esistenza ha subito molti traumi: pensi solo a quando Gul Dukat uccise Jadzia. Questo lo ha reso più fragile. Anche se si riprendesse, sono esitante a reimpiantarglielo. Alla sua età, lei ha bisogno di un Simbionte in salute».

   «Non ne ho un altro sottomano. Non posso nemmeno tornare su Trill a chiederne uno, ora che siamo ricercati» obiettò Ilia.

   «Per adesso le prescrivo dei farmaci, da assumere quotidianamente» disse Ladya. «Intanto terrò sotto osservazione Dax. Vediamo come si evolve la situazione» propose.

   «Posso chiedere il parere di un altro specialista?» chiese la Trill. «Senza offesa».

   «Ma le pare? Appena ci riuniremo con la Voyager, il dottor Joe sarà lieto di visitarla» assicurò la Vidiiana. «Credo, però, che convaliderà le mie osservazioni».

   «Come posso vivere senza Dax?» mormorò Ilia, posando la mano sulla vasca, senza suscitare reazioni dal Simbionte. «Mi sento così... vuota!».

   «È ancora provata dall’esperienza. Nei prossimi giorni starà meglio» la confortò Ladya.

   «Oggi i Pacificatori hanno ucciso trentanove Simbionti. Se continuano a dargli la caccia, potrebbero farli estinguere» disse la Trill, tormentata. «Questo rende Dax ancora più importante. Dobbiamo fare in modo che le sue memorie non vadano perdute, anche se lui dovesse morire».

   «Uhm... forse c’è un modo» rimuginò la dottoressa. «Dovrò consultarmi col dottor Joe e con altri specialisti. Non è del tutto approvato dalla legge... ma che importa, ormai?».

   «Già, che importa?» convenne Ilia, osservando il Simbionte in fin di vita.

 

   Convocato da Hod nel suo ufficio, Juri Smirnov entrò in silenzio. Al suo arrivo, il Capitano si alzò con studiata lentezza. Si fissarono per lunghi momenti, senza parlare.

   «Quanto tempo» disse infine Hod.

   «Diciotto mesi» precisò Juri.

   «Non devono essere stati facili, per lei» commentò il Capitano.

   «Si riferisce al fatto che li ho passati in un manicomio criminale? Non mi pare che fuori sia diverso» ribatté lo storico.

   Hod non poté trattenere una smorfia agrodolce. «No, infatti: tutta l’Unione è diventata un manicomio» convenne. «Sa qual è stato il periodo migliore? Gli otto mesi che abbiamo trascorso nel Quadrante Delta. Abbiamo affrontato battaglie tremende, ma almeno non contro i nostri colleghi. E abbiamo trovato più lealtà fra i nemici di un tempo, come i Krenim, di quanta non ne abbiamo ricevuta al ritorno».

   «È ancora arrabbiata con me» constatò Juri. «Non lo neghi: sono stato il primo a tradirvi, prima che lo facessero Radek e gli altri».

   «Era una faccenda completamente diversa; cercava di salvare sua sorella» riconobbe il Capitano.

   «Ma vi ho traditi comunque» disse lo storico. «Ho aiutato i Na’kuhl e alla fine ho perso ugualmente Svetlana. A rischio di suonare melodrammatico, le dirò che intendo dedicare il resto della mia vita a fare ammenda».

   «Credo che abbia già pagato abbastanza; mettiamoci una pietra sopra» disse l’Elaysiana, addolcendosi. «Lei aveva previsto ciò che è accaduto nell’ultimo mese. Ci aveva persino messi in guardia. Il suo intuito mi serve ancora».

   «Mah... la realtà si è rivelata più virulenta delle mie previsioni» disse Juri, grattandosi un orecchio. «Ad esempio non avevo previsto la faccenda dei Voth; e come avrei potuto? Ma la rapidità con cui Rangda ha creato i Pacificatori mi fa pensare che avesse già pianificato tutto. Aspettava solo un casus belli per mettere fuorilegge la Flotta. Se i Voth non le avessero offerto l’occasione su un piatto d’argento, l’avrebbe creata lei. A conti fatti, credo che i Voth le abbiano semplicemente permesso di accelerare i piani di qualche anno».

   «La stanno anche aiutando a inseguire e distruggere i ribelli» avvertì Hod. «E dopo avere occupato la Terra, stanno costruendo fortificazioni anche altrove. Non ce ne libereremo facilmente».

   «È chiaro che le loro mire vanno ben oltre la Terra» ragionò Juri. «Vogliono trasformare l’Unione in uno Stato vassallo e Rangda glielo permette».

   «Ma tutto questo sta creando una forte opposizione» notò il Capitano. «Un terzo dei sistemi federali era già pronto alla secessione. Ora se ne andranno a maggior ragione, e sarà la Guerra Civile. Rangda non dovrebbe prevederlo?».

   «Rangda ha bisogno di nemici. Più sono numerosi e agguerriti, meglio è» dedusse Juri. «Sfrutterà la Guerra Civile per arrogarsi ancora più poteri e creare un regime ancor più totalitario. Con l’aiuto dei Voth, e ora anche dei Breen, pensa di sconfiggere facilmente i Separatisti. Così avrà una riserva infinita di capri espiatori su cui infierire con le sue purghe staliniane».

   «Mi sento in un vicolo cieco» confessò Hod. Non lo avrebbe ammesso con il suo equipaggio, ma Juri era un civile: con lui poteva essere più schietta. «Se quando sconfiggiamo i Pacificatori li lasciamo andare, ce li ritroveremo contro ancora e ancora, finché verrà la volta in cui vinceranno loro. Se invece li catturiamo, o peggio ancora li uccidiamo, Rangda ne fa dei martiri. Come possiamo sconfiggere un nemico che si rafforza ad ogni battaglia? Come ne usciamo?» chiese, con una nota di disperazione.

   «Mi chiede troppo. Le forze storiche sono in pieno scontro, le alleanze si stanno ancora definendo; è quasi impossibile fare previsioni» sospirò l’Umano. «Se proprio vuole che azzardi un’ipotesi, le dirò che a mio parere è impossibile sconfiggere Rangda con la forza bruta. L’unica alternativa è vincere la guerra ideologica, spingendo sempre più mondi a ribellarsi. Lei lo ha già capito, diffondendo il messaggio a Memory Alpha e liberando i prigionieri di Elba II. Ma il nemico è molto abile a ritorcere ogni evento in proprio favore. E lo spirito dei tempi, purtroppo, soffia contro di noi. In questa fase storica l’ideologia anti-Umana gode di enorme consenso. E gli alieni che ci appoggiano, come lei, sono considerati traditori».

   «Quindi pensa che siamo spacciati?» chiese il Capitano, colpita da quel pessimismo.

   «Beh... anche se tutto congiura contro di noi, ci sono molte forze nella Galassia, e fuori di essa, che potrebbero intervenire» ricordò lo storico. «Oltre la proseguire la guerra ideologica, dobbiamo farci degli alleati. E dobbiamo seminare zizzania tra Pacificatori, Voth e Breen. Se spezziamo il fronte avversario, avremo una speranza. Anche eliminare Rangda sarebbe di grande aiuto. Ma pur facendo tutte queste cose, non è detto che l’Unione si ricomponga. Potrebbe spezzarsi per sempre in due o più tronconi. Quanto alla Terra... non le nascondo che sono pessimista sulle possibilità di riconquistarla, ora che i Voth l’hanno occupata. Se anche dimostrassimo che la loro pretesa sul pianeta è illegittima, non lo cederanno. Hanno un ego troppo grosso per ammettere di essersi sbagliati. Dovremmo infrangere il loro orgoglio con un colpo terribile per fargli cambiare idea, e non so proprio come sarebbe possibile».

   Hod lo fissò addolorata. Sapeva quanto Juri amasse la Terra, e quanto doveva essere tremendo per lui immaginare un futuro in cui gli Umani erano banditi dal loro mondo d’origine. «Teniamo per noi queste considerazioni, d’accordo?» disse. «All’equipaggio serve speranza».

   «Intesi» disse Juri. «Comunque, in mezzo a tante disgrazie, sono lieto d’essere tornato qui. Lei come sta? L’addio di Radek dev’essere stato un brutto colpo» indovinò.

   «Il peggiore della mia vita» ammise il Capitano, sentendosi fragile. «Almeno ho scoperto di chi posso fidarmi, e da chi invece devo guardarmi le spalle».

   «E la sua salute, regge?» indagò l’Umano, sapendo che l’Elaysiana aveva avuto difficoltà a sopportare la gravità standard.

   «Dopo la battaglia coi Na’kuhl ho fatto un intervento per risolvere definitivamente il problema» spiegò Hod. «Da allora sto bene».

   «Finalmente una buona notizia» disse Juri. «Si riguardi, Capitano. E non si dia colpa per chi l’ha abbandonata. È meglio avere un nemico dichiarato, piuttosto che un falso amico». Così dicendo fece per ritirarsi, ma si fermò prima di arrivare alla porta. «Potrebbe ridarmi il mio vecchio alloggio? Ci ero affezionato» disse.

   «È ancora come lo ha lasciato. Nessuno ha toccato nulla» rivelò il Capitano.

   A quelle parole, Juri aggrottò lievemente la fronte. «Ma non si aspettava che io tornassi» notò.

   «Beh, no. È solo che... non me la sentivo di far togliere le sue cose» ammise Hod, colorandosi in volto.

   A quelle parole, l’Umano si riavvicinò. «Grazie» mormorò, fissando l’Elaysiana negli occhi. Le prese le mani fra le sue e le tenne strette. «Qualunque cosa accada, non perda la speranza. Oggi Rangda e i Voth spadroneggiano, mentre noi siamo nella polvere. Ma la ruota della fortuna continua a girare». Lasciate le mani del Capitano, si volse e lasciò l’ufficio, senza aggiungere altro.

 

   Lyra sedette alla scrivania, nel suo nuovo ufficio di Ministra dell’Informazione. Non era abituata a tutto quel lusso, né ai privilegi del suo nuovo incarico, ma cominciava rapidamente ad apprezzarli. La mezza Xindi non indossava più l’esoscheletro di sostegno, anche se si sottoponeva a esercizi quotidiani di riabilitazione motoria. Le era rimasto un dolore cronico alla spina dorsale, ma i dottori dicevano che col tempo sarebbe svanito. Lyra sperava che fosse vero, anche se in un certo senso quel dolore le era utile, perché rinfocolava continuamente il suo astio contro i ribelli.

   La Ministra attivò l’olocamera e prese a leggere il discorso che si era preparata. Il suo messaggio sarebbe apparso su tutti i siti d’informazione Olonet, consultabili su ogni mondo dell’Unione.

   «Salve, cittadini federali» esordì. «Oggi devo comunicarvi una tragica notizia. La nave ribelle USS Keter, già responsabile dell’assalto a Memory Alpha, si è resa protagonista di un nuovo fatto di sangue. La nave di Hod ha infatti attaccato il Centro di Rieducazione di Elba II, in cui stimati medici e psicologi curavano i pazienti affetti da disturbi violenti della personalità. Questo vile attentato ha portato alla morte dell’intero personale della base, che ammontava a centoquaranta individui tra dottori, guardie e personale tecnico. I ribelli hanno altresì distrutto l’USS Juggernaut e la stazione di attracco. Hanno anche rapito decine di pazienti psicolabili, forse per approfittare delle loro condizioni, inducendoli a parlare in loro favore. In tutto questo sono stati aiutati dallo Spettro, a dimostrazione che sono criminali come lui. Le trasmissioni della base, giunte frammentarie, accennavano alla presenza di un’altra fuorilegge munita di tuta a Occultamento Sfasato, che si è definita la Banshee».

   La mezza Xindi respirò a fondo e riprese. «Voglio assicurarvi che questi attentati non resteranno impuniti. I Pacificatori lavorano incessantemente per rintracciare la Keter. I Voth hanno promesso di aiutarci e anche i Breen sono pronti a collaborare. Vi ricordo che chiunque abbia informazioni utili deve riferirle immediatamente ai Pacificatori.

   Il piano di Hod è semplice: spargere odio, terrore, sospetto e divisioni tra noi. Di fronte a questa violenza che non risparmia nessuno, noi resisteremo compatti. Ricordiamo il sacrificio di chi si è opposto alla Keter su Elba II. Eroi come il Capitano Gulnar, che si è attardato per consentire al suo equipaggio di abbandonare la Juggernaut, prima che l’astronave precipitasse sul pianeta. O come il dottor Vash’Tot, che ha dedicato la vita alla cura dei disturbi mentali. I loro nomi e le loro opere non saranno mai dimenticati. Il Capitano Gulnar sarà ricordato come il primo martire dei Pacificatori. Quanto al dottor Vash’Tot, le sue terapie saranno praticate nei Centri di Rieducazione, così che i malati possano ridiventare elementi sani e produttivi della società. Inoltre la Commissione alla Diversità selezionerà su ogni modo federale un certo numero di scuole, ospedali, strade e piazze finora dedicati agli Umani, rinominandoli per onorare questi veri eroi».

   Dopo una breve pausa di raccoglimento, Lyra tornò a fissare l’olocamera. «Ora mi rivolgo direttamente a lei, Capitano Hod, e alla sua banda criminale. Sappiate che non abbiamo paura di voi. Più ci combattete, più rafforzate la nostra volontà di resistervi. Vi resisteremo con ogni nostro gesto, in ogni momento delle nostre giornate. Perché la nostra fiducia reciproca è più forte delle vostre menzogne. La nostra cultura è più forte del vostro oscurantismo. Il nostro amore è più forte del vostro odio e della vostra solitudine. Questi siamo noi, cittadini di un’Unione senza frontiere».

 

   La Voyager si addentrò nelle profondità della nebulosa, finché dalle nebbie purpuree apparvero la Keter e la Stella del Polo. Anche se era partita prima dei pirati, la vecchia astronave era arrivata con dodici ore di ritardo, essendo più lenta.

   «Ci siamo» disse Ennil. «Fiuuu... non credevo di arrivare fin qui, con questo pezzo da museo».

   «Moderi il linguaggio!» disse il dottor Joe, che l’affiancava. «La Voyager era la nave più veloce della Flotta, ai suoi tempi. È stata la prima a sperimentare la cavitazione quantica!».

   «Si calmi, dottore» disse Ki’Lau. «Smig, apra un canale con la Keter».

   Hod apparve sullo schermo. Con lei c’era l’Ammiraglio Chase. «Scusate il ritardo» disse lo Xaheano. «Ci siamo persi qualcosa?».

   «Stiamo ancora facendo piani per l’avvenire» ripose Hod. «Vi piacerà sapere che, coi novanta ufficiali liberati da Elba II, abbiamo finalmente abbastanza personale per tornare ai tre turni di servizio».

   «Wow! Cioè, lieto di saperlo, Capitano» si emozionò Ki’Lau. Attorno a lui, gli ufficiali del turno di notte sospirarono di sollievo. «Ma come governeremo la Voyager?».

   «I corsari ci aiuteranno, e comunque terremo un equipaggio minimo» spiegò l’Ammiraglio. «Andremo a Kronos, dove si stanno radunando gli oppositori di Rangda, e forse a quel punto troveremo abbastanza personale da equipaggiare la Voyager come si deve».

   «Kronos? Ottima idea!» approvò Mo’rek, lieto di rivedere il suo mondo.

   «Chiedo il permesso di risalire subito a bordo, per visitare i prigionieri che avete liberato» disse Joe.

   «Certo, venga» annuì Hod, con una strana tensione nella voce. «E rispolveri il suo database sui Trill, perché la dottoressa Mol vuole consultarla. Abbiamo un problema col Vice-Ammiraglio Dax».

   «Era tra i prigionieri?» si stupì il Medico Olografico. «Che succede, è rimasta ferita?».

   «Ilia è in via di guarigione» rispose Chase. «Ma Dax sta morendo».

 

   Mentre il pallido sole invernale tramontava, gli abitanti di Atlantide – unico luogo della Terra risparmiato dai Voth – si radunarono nella Piazza Centrale. Il palazzo presidenziale svettava davanti a loro: era uno degli edifici più imponenti del pianeta. Di giorno faceva ombra a interi quartieri, di notte cancellava le stelle con le sue luci. Le Guardie Presidenziali formavano un lungo cordone rosso tutt’intorno all’ingresso principale. I poliziotti pattugliavano la piazza, lasciando libera la zona centrale, dove nei giorni precedenti era stato costruito un largo pozzo dagli orli bassi.

   Quando il sole fu tramontato, anche le luci di Atlantide furono spente. Il palazzo presidenziale rimase l’unica parte illuminata della città e parve galleggiare su un mare di tenebre. Dalla folla radunata salì un brusio sempre più forte, che esplose in acclamazioni quando Rangda apparve al balcone. Ad essersi radunati erano infatti i sostenitori della Presidente, mentre i detrattori erano tappati in casa e non si azzardavano a uscire. I droni-olocamera trasmisero le immagini della folla festante in tutta l’Unione.

   «Benvenuti!» disse la Zakdorn, accompagnandosi con un gesto benedicente. «Vi ringrazio di essere accorsi così numerosi per questa Cerimonia di Riparazione. Come sapete, i ribelli della Flotta Stellare stanno sobillando molti sistemi contro di noi, aprendo un’orribile ferita nella carne viva dell’Unione. Una ferita che tutti noi dobbiamo impegnarci a guarire. Per questo motivo esorto i cittadini abili e volenterosi ad arruolarsi nei Pacificatori, per estirpare il cancro della ribellione. Ma non è per questo che mi rivolgo a voi, stanotte».

   La Presidente respirò a fondo e riprese. «Stanotte sono qui per chiedervi umilmente scusa. Mi scuso per la sciagurata decisione dei miei predecessori, che scelsero la Terra come capitale federale. Questo tragico errore ha permesso alla cultura umana di appestare gli altri mondi. Ma ora siamo qui riuniti per rimediare al danno. È tempo di riconoscere l’intrinseca violenza della cultura umana e di ripudiarla una volta per tutte. Come primo segno di questa presa di coscienza, voglio che tutti gli Umani presenti tra voi s’inginocchino davanti agli alieni e chiedano scusa. Inginocchiatevi!» ordinò con gesto imperioso.

   A quest’ordine alcuni Umani esitarono, ma vedendosi in minoranza e circondati da sguardi ostili, finirono per obbedire. Appena i primi s’inginocchiarono, gli altri li imitarono a cascata: anche quelli che, presi singolarmente, non l’avrebbero mai fatto. Alcuni non si limitarono a mettersi in ginocchio, ma si prostrarono completamente a terra, trascinati dallo zelo.

   Rangda osservò compiaciuta la folla obbediente. Aveva sempre saputo che gli Umani erano come gli animaletti che teneva in gabbia, ma lo riscopriva con gioia ogni giorno. A dieci secondi dal suo ordine erano già tutti inginocchiati o prostrati verso di lei, in cerca di perdono. E lei glielo avrebbe concesso... a caro prezzo. «Bene, Umani; ora ammettete di essere colpevoli» ordinò.

   «Noi siamo colpevoli!» dissero in coro gli Umani.

   «I vostri avi sono colpevoli».

   «I nostri avi sono colpevoli!».

   «Dovete espiare queste colpe».

   «Dobbiamo espiare queste colpe!».

   «Eccellente» sorrise Rangda, sentendo di averli in pugno. «Il primo passo per guarire è ammettere di essere malati. Voi lo avete fatto; d’ora in poi le cose saranno più facili. Ma il cammino è ancora lungo. Voi Umani ci avete imposto la vostra egemonia culturale per quattrocento anni. Devono passare altri quattrocento anni prima che possiamo perdonarvi. Nel frattempo, purificheremo la vostra cultura dai valori obsoleti e dalle idee intolleranti. Alzatevi!» ordinò.

   Gli Umani obbedirono.

   «Per inaugurare la nuova epoca, questo pianeta sarà ribattezzato» disse Rangda, rivolgendosi di nuovo a tutta la folla. «D’ora in poi non sarà più chiamato Terra, bensì Vothan, perché questo è il nome scelto dai suoi legittimi abitanti Voth. Benvenuti su Vothan, il pianeta dei sauri!» proclamò, allargando teatralmente le braccia.

   Dalla folla salirono applausi scroscianti. Anche sugli altri pianeti le masse che si erano radunate nelle piazze, per assistere alla cerimonia dagli oloschermi pubblici, fecero udire il loro assenso.

   Quando gli applausi scemarono, la Presidente riprese la parola. «Il prossimo passo sarà eliminare tutte le creazioni umane che contengono Idee Deplorevoli. Ogni opera d’arte, ogni testo scritto, ogni musica sarà passata al vaglio. Ciò che rispetta il nostro pensiero moderno e tollerante sarà tutelato e valorizzato. Ma tutto ciò che contiene razzismo, sessismo, nazionalismo, colonialismo, imperialismo, classismo e superstizione religiosa sarà cancellato, affinché non infetti le menti dei giovani con questi perniciosi contenuti».

   Gli spettatori esultarono, senza badare al fatto che la Presidente aveva appena condannato il 99% dell’intero patrimonio culturale antecedente la nascita della Federazione.

   «Quest’opera di giustizia sociale comincia dalle effigi degli individui che sono stati ingiustamente mitizzati, mentre in realtà meritano solo disprezzo per la loro condotta immorale» proseguì la Presidente. «Mi riferisco a figure storiche come Zefram Cochrane, notoriamente collerico, misogino e alcolizzato. Come Jonathan Archer, protagonista di numerosi scontri e aggressioni contro popoli innocenti. Come James Kirk, che si vantò di aver “scoperto” pianeti già abitati e armò popoli pre-curvatura perché non entrassero nella sfera d’influenza Klingon. Come Jean-Luc Picard, che assistette impassibile alla morte di migliaia di Boraalani pur di rispettare l’infame Prima Direttiva. E come Benjamin Sisko, che si fece venerare dai Bajoriani, mentre bombardava i pianeti Maquis per indurli alla resa. Questi mostri non meritano né rispetto, né ammirazione. Devono solo sparire!».

   A quelle parole, accompagnate da un gesto secco, le effigi furono teletrasportate in uno spiazzo vuoto accanto al pozzo. Altre vi furono trascinate dalle forze dell’ordine, con l’aiuto degli attivisti. C’erano statue, busti, olo-ritratti, medaglie commemorative. E la damnatio memoriae non colpiva solo le persone citate dalla Presidente. Moltissime altre figure storiche, di tutte le epoche, erano state condannate dai severi censori del XXVI secolo. Oltre alle effigi pubbliche c’erano oggetti di proprietà privata, consegnati dai loro proprietari. Si andava dai dipinti e dai vasi antichi, che avevano un valore storico, fino a oggetti moderni e d’uso quotidiano come maglie e tazze. L’unico requisito era che vi fossero raffigurati personaggi storici Umani.

   «Cancellate la violenza!» ordinò Rangda, indicando il pozzo.

   In preda al parossismo, la folla cominciò a gettare gli oggetti nell’inceneritore, dove potenti raggi disgreganti li vaporizzavano. Ogni volta che si udiva il ronzio dei raggi, e che dal pozzo saliva il vapore incandescente, dalla ressa si levavano grida di giubilo. Prima ancora di gettare gli oggetti, i manifestanti cercavano in ogni modo di danneggiarli. I dipinti erano lacerati, i vasi frantumati, i libri e altri documenti cartacei erano strappati o anche incendiati. Ma era soprattutto contro le statue che si accaniva la furia iconoclasta. Le statue venivano insultate, imbrattate, prese a sputi e a martellate, decapitate, fatte a pezzi. Queste umiliazioni erano ancora più importanti della distruzione in sé. Un uomo, che in vita sua non aveva mai corso rischi né contribuito a migliorare il mondo, si avventò contro una statua rovesciata di Kirk, armato con un enorme martello. Lo colpì sul volto con energia instancabile, aizzato dalla folla, frantumandogli sempre più i lineamenti. Continuò a colpire anche quando i muscoli della braccia gli dolsero per lo sforzo e il sudore gli colò giù per il volto, finché riuscì a decapitare la statua. Allora sputò sui resti, mise un piede sulla testa mozzata e posò per le olografie, fiero e orgoglioso della sua vittoria.

   Ma non erano solo i singoli manufatti ad essere distrutti. Dall’orbita in cui si trovava, il Moloch prese di mira un’antica villa di campagna a La Barre, Francia. Era la villa di famiglia dei Picard, il luogo in cui Jean-Luc era cresciuto e nel quale si era ritirato negli ultimi anni di vita. Osservandola dalla sua plancia, il Capitano Radek fu sfiorato dal dubbio; ma si disse che i sentimenti personali non dovevano interferire con il lavoro. «Fuoco» ordinò.

   Bastò un raggio anti-polaronico a bassa potenza per disintegrare l’antica dimora, lasciando al suo posto un cratere profondo dieci metri e largo un centinaio. Le vigne che circondavano ancora la villa furono divorate dall’incendio. Fu solo il primo colpo. Uno dopo l’altro, i monumenti e i luoghi storici che avevano ispirato gli Umani per secoli furono distrutti premendo un tasto. Quanto alle opere, artistiche e letterarie, che erano state digitalizzate, eliminarle era ancora più facile. Bastava cancellarle dalle banche dati. Nel caso dei testi scritti, era sufficiente lanciare dei programmi crawler che cercavano certe parole chiave e cancellavano tutti i testi che le contenevano. Nemmeno le tre guerre mondiali avevano provocato così tanti danni al patrimonio culturale.

   Ma i luoghi che più di tutti furono presi di mira, nei mesi seguenti, furono i cimiteri di guerra e i memoriali bellici. Quelli che risalivano a dopo la nascita della Federazione, infatti, furono sistematicamente profanati. Le lapidi furono asportate e infrante, mentre le ossa dei caduti furono sprezzantemente polverizzate e disperse negli oceani. Le offerte ai defunti – fiori, foto, candele – vennero gettate nell’immondizia. Il nuovo regime, infatti, non tollerava che si ricordasse come gli Umani avevano sacrificato le loro vite a vantaggio delle altre specie. Al posto dei cimiteri e dei memoriali più grandi furono costruiti centri culturali alieni, tesi a dimostrare come tutto ciò che di positivo gli Umani possedevano era stato loro concesso da altre specie, se non ad esse rubato.

   L’ondata iconoclasta non si fermò alla Terra. Su decine di mondi federali si scatenarono gli assalti ai monumenti che celebravano gli esseri umani. In alcuni casi, gli Umani che vivevano nei paraggi provarono a fermare le folle inferocite: furono picchiati e calpestati. I poliziotti che assistevano ai pestaggi ricevettero l’ordine di non intervenire, perché niente doveva interrompere la giustizia sociale. Nei mondi in cui gli abitanti erano più bendisposti verso gli Umani, o meno dominati dalle emozioni, e quindi non si lanciarono all’assalto, furono le forze dell’ordine e i Pacificatori ad abbattere i monumenti. Se la distruzione non era frutto della collera bestiale, era frutto di una calma e ordinata pianificazione; ma il risultato era lo stesso. La cultura umana stava morendo.

 

   Ad Atlantide, Lyra Shil venne sul balcone accanto a Rangda e osservò la piazza. Dal pozzo dell’inceneritore saliva una colonna di fumo, pervasa da scintille e bagliori rossastri, che si riflettevano sui palazzi vicini. In quella luce sanguigna e irreale si muovevano gli iconoclasti, animati da una furia belluina che in certi casi li spingeva ad agitarsi in modo forsennato. Alcuni ballavano in cerchio, altri si spogliavano, altri ancora compivano gesti autolesionisti per punirsi dei crimini commessi da lontani antenati. Osservando quei comportamenti irrazionali, Lyra si sentì profondamente turbata. La cosa che le fece più male fu vedere un bambino che gettava il suo aquilone, su cui campeggiava l’immagine di Cochrane. Evidentemente anche quello era un oggetto intollerabile.

   «Presidente, tutto questo è proprio... necessario?» chiese la mezza Xindi.

   «È vitale, mia cara. Assolutamente vitale» rispose la Zakdorn, cingendole le spalle con fare materno. «Guarda, ho una sorpresa per te. Vedi là in fondo, la villa dell’Ammiraglio Chase?» chiese, indicandola.

   «S-sì» fece Lyra, presagendo il peggio. Ci era stata molte volte, da piccola, a giocare con Jaylah. Anche se non la visitava da anni, sapeva che l’Ammiraglio e sua moglie avevano continuato a viverci fino alla Caduta della Terra.

   «È l’ultima volta che la vedi» sorrise la Zakdorn. Dopo di che si premette il comunicatore da polso. «Rangda a Moloch, colpite il covo del nemico!» ordinò.

   Un abbagliante raggio azzurro calò dal cielo, centrando la villa dei Chase. Per un attimo la notte divenne giorno e gli edifici tremarono. Malgrado la distanza, Lyra fu assordata dal boato e investita dalla vampata di calore. Anche i manifestanti interruppero il loro rituale e guardarono stupiti verso il luogo colpito, da cui salivano le fiamme. Ma ci volle poco perché si riprendessero. Alcuni di loro gridarono entusiasti e il rito riprese, con ancora più vigore.

   Dal balcone, Rangda ammirò gli effetti della sua vendetta indossando un piccolo Visore. La villa era semidistrutta, le fiamme ne divoravano i resti; la Presidente non si sarebbe mai saziata gli occhi di quello spettacolo. Dato che non era riuscita a eliminare l’Ammiraglio e la sua famiglia, la consolava distruggere almeno tutto ciò che possedevano, nell’attesa che venisse il loro turno.

   Accanto a lei, Lyra osservò sconvolta l’incendio. Il luogo dei suoi ricordi d’infanzia non c’era più. Alzando gli occhi, vide che il Moloch era calato nell’atmosfera e ora galleggiava pochi chilometri sopra la città, come una scura presenza che cancellava le stelle. Nessuno avrebbe osato lanciare una contro-manifestazione, finché quella nave armata era sopra le loro teste.

   «Abbiamo salvato un oggetto» le disse la Presidente, costringendola a distogliere lo sguardo.

   «Eh? Quale?» chiese la mezza Xindi.

   «Un vecchio album dei ricordi» rivelò la Zakdorn. «Lo troverai nel tuo ufficio, sulla scrivania. Ma non è lì per conservarlo. Vorrei che lo gettassi tu stessa nell’inceneritore, per dimostrarmi la tua fedeltà».

   «La mia... fedeltà?» si meravigliò la giovane.

   «Sì. Tutti la stanno dimostrando, perché tu sola dovresti esserne esentata?» chiese Rangda con naturalezza.

   Lyra la osservò con timore. Comprese che, se non le avesse obbedito all’istante, le cose si sarebbero volte al peggio. «Certo, signora Presidente. Vado subito» mormorò, e fuggì dal balcone.

   La mezza Xindi si precipitò nel suo ufficio, che si trovava nello stesso palazzo, alcuni piani più in basso. Come Rangda le aveva detto, trovò il volume sulla scrivania. Era proprio il vecchio album dei ricordi della famiglia Chase. Lo sfogliò assorta, vedendo le foto di Jaylah da piccola, attorniata o tenuta in braccio dai suoi genitori. Su alcune pagine c’erano cuoricini e dediche infantili scritte dalla bimba. Con crescente commozione, Lyra vide che c’erano molte foto con Vrel... e con lei. In una di queste foto, si rivide in culla. La piccola Jaylah, che all’epoca aveva sei anni, l’aveva circondata con un enorme cuore rosso. A quella vista, la mezza Xindi sentì gli occhi inumidirsi.

   Poi la schiena tornò a dolerle, come faceva dal giorno in cui Jaylah aveva cercato di ucciderla. I suoi occhi tornarono freddi. La giovane Ministra chiuse bruscamente l’album dei ricordi, se lo mise sottobraccio e lasciò l’ufficio. Raggiunto il piano terra, uscì dal palazzo e scese frettolosamente la scalinata di marmo. Alla vista del suo badge, le Guardie Presidenziali la lasciarono passare. La mezza Xindi andò verso il centro della piazza, facendosi largo a spintoni tra la folla. Finalmente raggiunse l’orlo dell’inceneritore. Era pieno di gente accalcata che scaraventava oggetti di ogni tipo, a volte sporgendosi nel vuoto per vederne la distruzione, col rischio di cadere di sotto.

   Lyra alzò gli occhi al balcone, da dove Rangda la osservava col Visore. Doveva mostrarle la sua fedeltà, e al tempo stesso dare l’esempio alla folla. Il suo ruolo di Ministro dell’Informazione glielo imponeva. «Abbasso l’odio!» gridò. Alzò l’album sopra la testa, perché la Presidente lo vedesse. E lo gettò di sotto, osservando la caduta e il lampo della disgregazione. Quando il vapore incandescente risalì, lo inspirò a fondo. Per la prima volta dal giorno dell’incidente, la schiena smise di farle male. Ora che aveva reciso il suo ultimo legame con Jaylah, si sentiva libera. Se mai le fosse capitato d’incontrarla, l’avrebbe trattata alla stregua di tutti gli altri ribelli. Vale a dire, senza misericordia.

   Sul balcone, la Presidente sorrise. Ora finalmente si fidava appieno della sua nuova Ministra. Attivò l’amplificatore vocale, per aizzare nuovamente la folla. «Bravi, così!» gridò levando le braccia, al colmo della felicità. «Dite addio agli orrori del passato! La Storia è una pagina bianca, su cui possiamo scrivere tutto ciò che vogliamo. Possiamo creare mondi perfetti, dove regnino la pace, la concordia e la felicità perpetue. Finalmente siamo liberi da tutto ciò che è umano!».

 

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Capitolo 9
*** Occhi aperti ***


-Capitolo 8: Occhi aperti
 
   La Keter entrò nell’orbita di Kronos, seguendo le indicazioni di traffico inviate dalla stazione Ty’Gokor. L’orbita del pianeta verdastro era infatti affollata: vi stavano convergendo tutti i ribelli e i contestatori di Rangda, da ogni angolo dell’Unione. Oltre ai padroni di casa Klingon c’erano i Romulani repubblicani, i Cardassiani, i Ferengi e molte altre specie che disponevano di proprie flotte. Le navi ribelli della Flotta Stellare erano presenti in gran numero: non solo le poche decine sfuggite alla Caduta della Terra, ma anche centinaia che non erano giunte in tempo alla battaglia. I ritardatari, infatti, avevano potuto meditare sugli eventi e non pochi di loro si erano rifiutati di prestare il giuramento dei Pacificatori. C’erano anche le tre navi che, durante la Caduta, erano fuggite senza schierarsi: dopo molti dibattiti gli equipaggi avevano preso una decisione.
   Ma oltre a questi vi erano molti gruppi informali e persino fuorilegge. La flottiglia dello Spettro era solo una tra le bande di pirati e contrabbandieri che si stavano unendo alla causa, dietro promessa di amnistia. C’erano persino singoli avventurieri, con piccole navette, che avevano risposto alla chiamata. Era un ammasso eterogeneo di vascelli d’ogni foggia e misura, che non avevano niente in comune, salvo l’opposizione a Rangda. Gli Umani erano numerosi, essendo la specie più perseguitata dalla Presidente. Molti di loro avevano dipinto il logo della Terra Unita sugli scafi: il globo terraqueo, circondato da una corona dorata di foglie d’alloro. Era stato quell’emblema, peraltro, a ispirare il simbolo federale, dove l’alloro circondava un ammasso di stelle.
   Osservando quello spiegamento di forze, Hod e i suoi ufficiali sentirono rinascere la speranza, come non accadeva dal giorno della Caduta. «Visualizzare i cantieri navali» ordinò l’Ammiraglio Chase. Zafreen inquadrò i grandi cantieri, raccolti intorno a Kronos e alla luna frantumata Praxis. Erano decine e in tutti fervevano i lavori, come testimoniato dall’intenso traffico di navette e Work Bee. Cantieri simili si trovavano presso altri pianeti klingon e romulani. In molti di essi venivano costruiti sparvieri e falchi da guerra di foggia tradizionale, ma in altri prendevano forma le navi della Flotta Stellare. Tra queste spiccavano le agili classe Horus e le imponenti classe Juggernaut, la cui costruzione era stata accelerata.
   «Ricorda quando, all’inizio di quest’anno, io e lei ci preoccupavamo di questi cantieri?» disse Chase a Hod. «Adesso potrebbero essere la nostra salvezza».
   «Ci chiamano dall’Alto Consiglio» disse Zafreen.
   «Sullo schermo» ordinò il Capitano.
   Apparve un viso noto: Mogh’Lar, senatore dei Klingon presso l’Unione. Era sempre stato il più forte oppositore di Rangda nell’aula del Senato, e per questo uno dei più stretti alleati di Chase. «Ammiraglio!» si stupì il Klingon. «Rangda ci aveva detto di averla in custodia, e che presto lei avrebbe confessato un fantomatico colpo di Stato».
   «Rangda ha mentito, come al solito» disse Chase. «L’unico golpe è stato il suo. Io e altri dirigenti della Flotta Stellare siamo stati catturati durante la Caduta della Terra. I Pacificatori ci hanno imprigionati su Elba II, dove volevano condizionarci per farci confessare crimini inesistenti. Ma il Capitano Hod e i suoi ufficiali ci hanno tratti in salvo, con l’aiuto dello Spettro».
   «C’è di più» intervenne Ilia. «Molti ufficiali Trill come me sono stati imprigionati su Elba II. I nostri Simbionti sono stati estratti e poi uccisi, per cancellare la memoria storica della Flotta. Alcuni di noi hanno subito alterazioni mnemoniche, anche se i dottori stanno cercando di rimediare al danno».
   «Onta e disonore!» gridò il Klingon. «Quella ghay’cha di Rangda è ancora più viscida di quanto pensassi! Scendete subito, così riferirete all’Alto Consiglio».
   «Ci garantite l’incolumità e il ritorno sulla Keter?» chiese l’Ammiraglio.
   «Perché, teme di essere trattenuto? O consegnato ai Pacificatori?» s’indignò Mogh’Lar. «Sarebbe un gesto da vigliacchi senza onore. Non vede che stiamo raccogliendo i dissidenti da tutta l’Unione? Eravamo pronti a dichiarare la secessione anche in vostra assenza; con le vostre testimonianze lo faremo ancor prima».
   «Mi fido della sua parola d’onore, Senatore» disse Chase. «Vi raggiungeremo subito».
   «Vi aspetto con ansia. Stanno per accadere grandi cose, qui. Qapla’!» salutò il Klingon, prima di chiudere il canale.
   «Allora, è pronta?» chiese Chase a Ilia.
   «Prontissima» confermò la Trill. I due salirono sulla pedana di plancia e si teletrasportarono nel palazzo dell’Alto Consiglio, alle coordinate indicate.
   «Zafreen, analizzi la flotta» ordinò il Capitano. «Voglio sapere chi sono gli oppositori di Rangda».
   «Vediamo...  c’è un po’ di tutto» disse l’Orioniana, sondando lo spazio attorno a Kronos. «Ci sono molte navi della Flotta: la Khitomer, l’Avalon, la Defiant... ehi, c’è anche la Constellation!» si animò.
   A quel nome, Vrel alzò la testa. «La nave di mio padre!» riconobbe. Era dalla Caduta della Terra che cercava invano sue notizie.
   Zafreen la inquadrò sullo schermo: era un’astronave di classe Sagittarius, simile alla Universe anche se più piccola. Aveva un’ampia sezione a disco, una sezione motori più sottile e quattro lunghe gondole. «Si sta avvicinando... ci chiama» disse l’Orioniana.
   «Sullo schermo» ordinò il Capitano.
   Lantora e T’Vala comparvero fianco a fianco; avevano gli occhi brucianti di preoccupazione. Dato il campo ristretto dell’inquadratura, non videro Vrel seduto al timone. «Capitano Hod, era da tempo che la cercavamo» esordì Lantora. «Quando i Breen hanno sfondato il confine, abbiamo cercato di unirci ad altri ribelli. Siamo stati a Nuova Xindus, ma lì le cose non vanno bene. I Rettili e gli Insettoidi appoggiano Rangda, mentre Primati e Arboricoli l’avversano. Gli Acquatici sono indecisi come al solito. Il pianeta è sull’orlo di una nuova guerra civile».
   «In seguito siamo andati su Trill, in cerca di Ilia, scoprendo un traffico di Simbionti» proseguì T’Vala. «Ne abbiamo recuperati alcuni, prima che li portassero chissà dove. Ma i Pacificatori ci hanno attaccati e abbiamo dovuto ritirarci. Quando abbiamo saputo che i dissidenti si radunavano a Kronos, siamo giunti nella speranza di trovarvi. Sapete nulla dell’Ammiraglio Chase e di Ilia Dax?».
   «Li abbiamo tratti dalle prigioni di Elba II» rivelò il Capitano. «Ora sono presso l’Alto Consiglio, per testimoniare le atrocità che vi avvenivano».
   Lantora e T’Vala si rianimarono, ma in loro restava un’angoscia profonda, che andava oltre le responsabilità per la Flotta Stellare. «C’è un’altra cosa che vorremmo sapere» disse Lantora. «Nostro figlio...».
   «Sono qui» disse Vrel, alzandosi in piedi affinché il suo volto fosse inquadrato.
   «Vrel!» esclamò T’Vala, con voce rotta dall’emozione. «Stai bene?!».
   «Sto meglio, ora che vi vedo» rispose il timoniere, anche se il dolore per il tradimento di Lyra era scritto nel suo volto.
   «Se volete parlare liberamente, sarò lieta di accogliervi a bordo» suggerì Hod.
   «Sì, veniamo subito» annuì Lantora.
   «Solo un momento, però» disse il Capitano, bloccandolo prima che chiudesse il canale. «Avete detto di aver recuperato dei Simbionti?».
   «Sì... solo una trentina, purtroppo» si rabbuiò lo Xindi. «I Pacificatori ne hanno portato via la maggior parte».
   «Ce n’è uno giovane?» chiese ancora Hod.
   «Beh, sì, ce ne sono alcuni» confermò Lantora, un po’ stupito dall’urgenza nella sua voce. «Ne avete bisogno?».
   «Uno di quei Simbionti potrebbe essere la salvezza di Ilia» rivelò il Capitano. «Dax è stato ferito su Elba II e le sue condizioni peggiorano. I nostri medici dicono che potremmo perderlo».
   Lantora e T’Vala si scambiarono un’occhiata allarmata. «Vi porteremo un Simbionte adatto» promise la mezza Vulcaniana. «Saremo da voi tra poco».
   «A presto, figliolo» aggiunse Lantora, con un cenno di saluto a Vrel, prima di chiudere il canale.
   «Zafreen, informi Ilia e le dica di risalire il prima possibile» ordinò il Capitano. «Vrel, se vuole parlare con i suoi ha licenza di lasciare la plancia».
   «Grazie, Capitano» disse il mezzo Xindi. Un ufficiale ausiliario lo sostituì al timone ed egli se ne andò, dopo aver scambiato un’occhiata di trionfo con Zafreen.
 
   Lantora e T’Vala si materializzarono direttamente nella cabina di teletrasporto dell’infermeria. Quando ne uscirono, Ladya vide che la mezza Vulcaniana reggeva un recipiente sigillato, nel quale un giovane Simbionte sguazzava energicamente nel liquido nutritivo. «Benvenuti sulla Keter» li accolse. «Sono la dottoressa Mol e ho curato Ilia dopo la sua liberazione. Il vostro arrivo è più che gradito».
   «Grazie, dottoressa. Questo è Tarn» disse T’Vala, porgendole il contenitore cilindrico. «È un giovane Simbionte di cinquant’anni, che non è mai stato unito ad alcun Ospite. I nostri medici dicono che è in ottima salute».
   «Grazie infinite» disse Ladya, prendendolo con attenzione. «Appena Ilia tornerà, le proporrò il trapianto». Posò il recipiente su un tavolino, accanto a quello in cui il vecchio Dax giaceva immobile.
   Lantora e T’Vala lo osservarono incuriositi. Anche se avevano conosciuto Ilia per decenni, non avevano mai visto il suo Simbionte messo a nudo. «Quindi morirà?» chiese la mezza Vulcaniana.
   «È probabile» si dispiacque Ladya. «Ed è una tragedia, perché i Pacificatori hanno ucciso altri trentanove Simbionti su Elba II. Secoli di ricordi... cancellati».
   «Adesso temo che anche gli altri Simbionti, quelli che non siamo riusciti a salvare, facciano la stessa fine» si rabbuiò Lantora.
   «È per questo che io e il dottor Joe stiamo sviluppando un progetto...» cominciò Ladya, ma in quella Vrel entrò in infermeria.
   «La prego di scusarci» disse T’Vala.
   La Vidiiana annuì e prese a esaminare il giovane Simbionte, mentre la coppia si recava dal figlio. «Oh, Vrel!» disse T’Vala, abbracciandolo stretto. «Non sapevamo dov’eri, né se eri ancora...». Non riuscì a finire.
   «Abbiamo saputo della Battaglia di Memory Alpha, ma non abbiamo potuto raggiungervi in tempo» spiegò Lantora, dopo che anche lui ebbe abbracciato il figlio. «Sai, alcuni ufficiali della nostra nave si sono schierati con Rangda, dopo la Caduta, per cui abbiamo dovuto lasciarli su Nuova Xindus. Così ci siamo trovati senza piloti per il propulsore cronografico».
   «Abbiamo tanto da dirti... ma fuori» disse T’Vala, facendogli segno di uscire, per parlare più liberamente. I tre lasciarono l’infermeria e presero a passeggiare lungo il corridoio.
   «Volete parlare di Lyra, vero?» chiese Vrel, incupendosi. «L’avrete vista all’Olonet».
   «L’ho vista, sì!» proruppe Lantora. «E mi spiace di avere quella figlia degenere».
   «Forse sta recitando una parte, per ingannare Rangda» disse T’Vala, speranzosa. «Non potrebbe essere così?».
   «Temo proprio di no» disse Vrel, scuro in volto. «Voi non sapete cos’è successo a Memory Alpha, ma io c’ero, e vi assicuro che non finge». Mentre passeggiavano, il timoniere informò i genitori, senza tralasciare alcun dettaglio. Lantora e T’Vala rimasero agghiacciati, specialmente quando seppero del suo ferimento.
   «Il tuo cuore?» mormorò T’Vala, sfiorandogli il petto. «Oh, Vrel!».
   «Sto bene, la dottoressa Mol me ne ha trapiantato un altro» disse il mezzo Xindi. «Ti ho superato, papà» aggiunse, rivolgendosi a Lantora. «Tu hai perso un occhio in guerra, ma io ci ho lasciato un organo vitale. Il cuore vale più di un occhio, no?» ironizzò.
   Il timoniere proseguì il resoconto, fermandosi spesso a rispondere alle domande dei genitori. Quando finì, erano giunti nei pressi del suo alloggio. Lantora era così corrucciato che da un pezzo aveva smesso di parlare, mentre T’Vala cercava ancora di trovare una scappatoia. «Non pensi che i Pacificatori possano avere influenzato Lyra?» chiese. «Dopo quello che avete trovato a Elba II, sappiamo che possono farlo».
   «Vorrei tanto crederci, ma quando l’ho incontrata non ho avuto l’impressione che fosse stata condizionata» sospirò Vrel. «Se mai la troverò, cercherò di fare una Fusione Mentale, così ci leveremo il dubbio. Ma, mamma... è meglio se non t’illudi. Lyra ha scelto di credere a Rangda, come hanno fatto il Comandante Radek e tantissimi altri».
   La mezza Vulcaniana dovette arrendersi alla logica. «L’abbiamo persa» mormorò, con gli occhi lucidi di lacrime. «Oh, amore, l’abbiamo persa!» disse, stringendosi a Lantora.
   Lo Xindi l’accarezzò sui capelli, ma non disse nulla. Quando l’ebbe lasciata, notò che si erano fermati davanti a una porta. «È il tuo alloggio, Vrel?» chiese.
   «Ah, sì» fece il timoniere. «Non è che volessi portarvi qui, ma mentre vi parlavo i piedi mi hanno portato lungo il solito percorso. Se volete parlare col Capitano Hod, vi accompagno in plancia».
   «Ah, no!» disse T’Vala, che voleva distrarsi dai pensieri dolorosi. «Voglio vedere come vivi». Così dicendo si accostò all’ingresso.
   «Mamma, non...» fece Vrel, cercando di trattenerla, ma la porta si era già aperta. I suoi genitori entrarono e al timoniere non restò che seguirli.
   «Vedo che hai continuato a dipingere» notò Lantora. Le pareti dell’alloggio erano tappezzate dai quadri di Vrel. Al posto d’onore c’era un ritratto senza veli di Zafreen.
   «Ehm...» fece il mezzo Xindi, arrossendo fino alla radice dei capelli.
   I suoi genitori non avevano smesso di guardarsi intorno. Disseminati qua e là c’erano vari oggetti appartenenti all’Orioniana. Alcuni erano capi d’abbigliamento, non sempre dei più decenti.
   «Sì, io e Zafreen siamo tornati assieme» mormorò Vrel, più imbarazzato che mai. «È una ragazza fantastica... giusto un po’ esuberante».
   «Adesso convivete?» indagò T’Vala, tanto per capire quant’era seria la cosa.
   «Zafreen si è appena trasferita, sta ancora portando le sue cose» confermò il mezzo Xindi. «Forse chiederemo un alloggio più grande, non so... bisogna vedere se riusciamo a sistemare tutto».
   «Dobbiamo aspettarci dei nipotini verdi?» chiese Lantora, beccandosi una gomitata nello stomaco da parte della moglie.
   «Non siamo ancora a quel punto» rispose Vrel.
 
   Scesi su Kronos, Chase e Ilia furono condotti nella sala dell’Alto Consiglio, alla presenza delle massime autorità Klingon, e non solo. C’erano anche Irek, il senatore Romulano, e molti altri rappresentanti dei dissidenti. L’Umano e la Trill riferirono i fatti di Elba II, suscitando l’indignazione generale. «Questo tradimento non resterà impunito!» promise il Cancelliere. «Siamo pronti a dichiarare la secessione».
   «Se accettate il mio consiglio, bisogna costituire un governo federale e un Comando di Flotta in esilio, che possano coordinare gli sforzi» suggerì Chase. «Più che alla secessione definitiva, dobbiamo puntare a detronizzare Rangda e riconquistare l’Unione. Altrimenti i pianeti lealisti resteranno in mano alla dittatrice e il loro apparato industriale sarà rivolto alla costruzione di nuove flotte che ci minacceranno costantemente. Sul piano ideologico, inoltre, daremmo adito all’accusa di voler frammentare l’Unione per ragioni nazionalistiche. Se invece manteniamo il discorso sul tema dei diritti, chiedendo che l’Unione resti integra e siano ripristinate le libertà democratiche, allora vedremo moltiplicarci i nostri alleati, anche sui mondi cosiddetti lealisti».
   «Bisogna agire in fretta» aggiunse Ilia. «Quando la dittatrice saprà che i dissidenti si stanno radunando qui, manderà una flotta da guerra».
   «Siamo pronti a riceverla!» ringhiò il Cancelliere.
   «Potrebbe avvalersi ancora dei Voth e dei Breen» avvertì l’Ammiraglio. «Dobbiamo procedere con estrema cautela, per evitare che si ripeta un disastro come quello della Terra».
   La discussione proseguì a lungo. Bisognava decidere come organizzarsi politicamente e al tempo stesso fare piani di battaglia. A fine seduta Chase fu invitato a restare, per proseguire le consultazioni il giorno dopo. Ilia invece tornò sulla Keter, a riferire che la secessione era imminente.
 
   Rientrata a bordo, Ilia fu informata che c’era un Simbionte disponibile per lei. Fu una grossa sorpresa per la Trill, che ormai si era rassegnata ad andare avanti con i medicinali. Dopo un saluto commosso a Lantora e T’Vala, andò a riposare nell’alloggio messole a disposizione. La mattina dopo si presentò in infermeria, per discutere del trapianto. Per la prima volta da un anno e mezzo, indossava l’uniforme della Flotta Stellare.
   «Bentornata... Vice-Ammiraglio» l’accolse Ladya, notando la divisa. «Immaginavo che sarebbe rientrata in servizio. Le hanno già assegnato una nave?».
   «Prenderò la nuova Defiant» spiegò Ilia. «È un vascello di classe Juggernaut, che ha perso il Capitano in seguito alla Caduta della Terra. Ma non è di questo che vorrei parlare. Mi hanno informata che adesso c’è un Simbionte adatto al trapianto».
   «Venga» annuì Ladya. L’accompagnò presso il recipiente dove la creatura vermiforme sguazzava nel liquido nutritivo. «Si chiama Tarn. È un esemplare di cinquant’anni, in perfetta salute, che non ha mai avuto alcun Ospite» riassunse la dottoressa. «Visto che lei ha avuto Dax per tanto tempo, assorbendo gran parte dei suoi ricordi, penso che un Simbionte “vergine” sia la cosa migliore».
   «Lo penso anch’io» convenne Ilia. «Porto già i ricordi di dodici vite. Se ne aggiungessi altre, uscirei di senno».
   «Allora è favorevole al trapianto?» chiese la Vidiiana.
   Ilia prese fiato. «Lo sono» disse, con una trepidazione seconda solo al giorno in cui le avevano assegnato Dax.
   «Ottimo. Vorrei impiantarglielo al più presto, prima che ci capitino altri guai» disse Ladya. «Le andrebbe questo pomeriggio?».
   «Caspita, lei non perde tempo! E sia» acconsentì la Trill. «Certo che sarà un bel cambiamento» commentò, osservando il giovane Simbionte.
   «Cambierà anche nome?» s’incuriosì la dottoressa.
   «Sì, dovrò dire a tutti che sarò Ilia Tarn» confermò il Vice-Ammiraglio. «Non pensavo che avrei avuto un altro Simbionte, ma in fondo è meglio così. Almeno i miei ricordi non moriranno con me. Sarò la prima Ospite di Tarn... il primo anello di una nuova catena».
   «Una catena lunga, spero» disse Ladya. «Se Tarn sarà longevo quanto Dax, i suoi ricordi vivranno fino al XXXII secolo».
   «Il XXXII secolo!» commentò Ilia, colpita dalla lontananza di quel futuro. «Non oso immaginare come sarà la Galassia».
   «Forse per allora quei conflitti che oggi ci sembrano insuperabili saranno acqua passata» si augurò la Vidiiana.
   «Mah... le mie vite mi hanno insegnato che finito un conflitto, se ne inventa un altro» sospirò la Trill. «E per Dax, procederete secondo il piano?».
   «Stiamo già procedendo» rivelò Ladya. Accompagnò la paziente in una saletta piena di sofisticati apparecchi elettronici. Oltre al dottor Joe c’erano Dib e Terry, tutti affaccendati con i comandi. Al centro della sala, su un sostegno, vi era Dax, estratto dal liquido e bloccato con dei morsetti. Sottili fibre luminose erano inserite nella regione occipitale del Simbionte, dove si concentravano i gangli nervosi, e si riunivano in un fascio collegato al computer. Gli oloschermi mostravano le linee zigzaganti delle onde cerebrali, le colonnine altalenanti della velocità di trasmissione dati e le barre progresso in via di completamento.
   «Ah, Vice-Ammiraglio!» l’accolse Joe. «Siamo al 47% del caricamento e finora non ci sono problemi. Dovremmo finire entro mezzogiorno».
   «Io e Dib stiamo preparando la matrice olografica» aggiunse Terry. «È una sfida complessa, vista la mole di dati, ma con le tecniche d’iper-compressione sarà possibile caricare tutto in un Emettitore Autonomo».
   «Grazie di cuore a tutti» disse Ilia. Si avvicinò a Dax, osservandolo malinconica. «Resisti ancora un po’, vecchio mio. Stiamo facendo in modo che i tuoi ricordi non periscano».
 
   Quel pomeriggio, come previsto, Ilia si sottopose al trapianto. Il dottor Joe incise l’addome e la sacca, dopo di che Ladya vi depose il nuovo Simbionte. Il Medico Olografico collegò il sistema nervoso, mentre la Vidiiana si occupò dei vasi sanguigni. Il resto dell’equipe monitorava i segni vitali della paziente ed era pronto a intervenire, in caso di scompensi. L’età inoltrata di Ilia e la salute non ottimale, dovuta al brutale distacco di Dax, consigliavano la prudenza.
   «Allacciamento nervoso completato» disse Joe. «Reinserisco la guaina mielinica».
   La testa di Ilia scattò e il suo respiro si fece irregolare. «Crisi respiratoria!» avvertì un medico. «Gli spasmi sono dovuti a un’anomalia nel sistema parasimpatico».
   «Ci sarebbe utile sapere se era successo anche al momento del distacco» borbottò l’MOE, pur sapendo che era impossibile avere dati su quell’intervento criminale. «Stimolatore corticale, al mio via».
   Due impulsi ben diretti bastarono a riportare i tracciati entro i limiti di sicurezza. Il respiro della Trill si normalizzò e anche il battito, che era accelerato, tornò regolare. «Il nuovo Simbionte la sta aiutando a stabilizzarsi» comprese il Medico Olografico. «Bravo ragazzo! Possiamo procedere».
   Bastarono pochi minuti per ricostituire la barriera isolante che proteggeva le fibre nervose. Nel frattempo Ladya aveva riallacciato tutti i vasi sanguigni. «Circolazione libera» disse la Vidiiana. «Il battito è stabile. Nessun coagulo, né fistole» aggiunse, osservando i segni vitali. «Possiamo richiudere».
   Il dottor Joe richiuse la sacca del Simbionte e poi l’incisione addominale, avendo cura di rigenerare completamente i tessuti. Intanto Ladya proseguiva le analisi. «Nessuna reazione immunitaria, l’organismo ha accettato il Simbionte» verificò. «Congratulazioni a tutti. Inietto 10 cc d’inaprovalina, per rafforzare le membrane cellulari. Poi non c’è che da attendere il risveglio».
   Un paio d’ore dopo, Ilia si mosse. Mugugnò qualche parola sconnessa, si sfregò gli occhi e infine si svegliò del tutto. Scoprì che attorno a lei, nella saletta di degenza, c’era un piccolo assembramento. Chase, Neelah, Terry, Lantora e T’Vala erano tutti lì. Per un attimo le parve di essere ancora sull’Enterprise-J.
   «Ehilà, Bella Addormentata» scherzò l’Ammiraglio. «I dottori dicono che l’intervento è andato bene. Come ti senti?».
   «Rinata» sorrise Ilia. «Grazie a tutti di essere qui».
   «La dottoressa Mol vuole tenerti sotto osservazione per almeno due giorni. Passato questo tempo, te la senti di tornare su Kronos?» chiese l’Ammiraglio. «Così registreremo un messaggio con le nostre testimonianze su Elba II. I Klingon lo diffonderanno con il loro Hub».
   «Certo» disse Ilia. «E per quanto riguarda la secessione?».
   «I Separatisti si stanno orientando verso la nostra proposta» disse Chase, incoraggiante. «Ci sono elezioni in corso per formare il governo federale in esilio».
   «Allora dopo aver registrato il messaggio prenderò subito il comando della Defiant» disse la Trill. «Una volta fatto l’annuncio, la reazione di Rangda non tarderà».
   «In tal caso... buona fortuna con la tua nave, Vice-Ammiraglio Dax» disse Chase, ma vedendo lo sguardo di Ilia si corresse. «Scusa, è la forza dell’abitudine. Buona fortuna con la tua nave, Vice-Ammiraglio Tarn».
 
   Sette giorni dopo l’arrivo della Keter, i Klingon diffusero il messaggio in cui Chase e Ilia descrivevano le sevizie e il tentativo di condizionamento mentale che avevano subito su Elba II. Con loro c’era anche Juri Smirnov, che rivelò la natura delle “terapie” di Vash’Tot e il rogo dei Simbionti. Sempre a lui furono affidate le considerazioni finali.
   «Se avete ascoltato le nostre testimonianze, avrete compreso in quale abisso di totalitarismo sia precipitata l’Unione» disse lo storico. «Forse vi chiederete come siamo arrivati a questo punto. Il fatto è che gli ideali federali sono stati portati all’estremo, fino a pervertirne il significato originale. Rangda e i suoi lealisti pretendono d’incarnare il progresso, la purezza, il bene assoluto. Hanno la presunzione di poter creare la società perfetta e utopica, il Paradiso in terra. Dunque tutti coloro che non abbracciano la loro visione sono visti non solo come ingrati e dissidenti, ma come traditori. E la pena dei traditori sono i campi di concentramento... o di rieducazione, come li chiamano ora. Non c’è niente di nuovo in tutto questo. Ogni volta che un fervido rivoluzionario si sente osteggiato o incompreso dal popolo che intende redimere, il risultato è un mare di sangue. I seguaci di Rangda si sentono appunto rivoluzionari: pensano che siamo alle soglie di un cambiamento epocale e che spetti a loro dirigere il balzo in avanti. Chiunque non condivida il loro fervore passa automaticamente nella loro lista nera.
   Di tutte le tirannie, quella sinceramente dedita al “bene” delle sue vittime è la più oppressiva. Gli zelanti attivisti della moralità sguinzagliati da Rangda ci tormenteranno senza fine, perché lo fanno con la piena approvazione della loro coscienza. Pensano di doverci “curare” dalle nostre idee, come se fossero una malattia, o di doverci addestrare come animali, perché non possono capacitarsi del fatto che ripudiamo la loro visione del mondo. Questo è anche il motivo per cui distruggono il patrimonio culturale, cambiano i programmi scolastici e cancellano la memoria storica d’interi popoli. Il loro concetto di “perfezione” è sostanzialmente lo stesso dei Borg: nessun dissenso, nessuna creatività, nessuna individualità».
   Ripreso fiato, Juri fissò dritti gli spettatori. C’era un fuoco nei suoi occhi e la voce risuonava di accenti profetici. «E ora mi rivolgo a tutti coloro che, anche dopo queste rivelazioni, approvano l’operato di Rangda. Attenti a voi! Non avete reagito quando i rivoluzionari sono venuti a distruggere i monumenti e i libri. Non avete reagito quando sono venuti a portar via gli Umani. Non reagite ora che portano via i Trill. Fra poco verranno a portar via anche voi, e non sarà rimasto più nessuno a proteggervi. Non crediate di salvarvi solo perché rispettate il loro criterio di purezza. Perché per quanto siate “puri”, prima o poi arriverà qualcuno più puro di voi, che vi epurerà».
 
   A questa comunicazione ne seguì immediatamente un’altra, ancor più gravida di conseguenze. Mogh’Lar, Irek e Chase si presentarono seduti a un tavolo, che alle spalle aveva il vecchio simbolo della Federazione Unita dei Pianeti. «Salve, cittadini» esordì il Klingon. «In questo giorno, noi dichiariamo formalmente la nascita del governo federale in esilio. Io, Mogh’Lar di Kronos, ne sono il Presidente. Irek di Nuovo Romulus è il Ministro della Difesa, mentre l’Ammiraglio Chase della Terra è il comandante in capo della Flotta Stellare. Al nostro Consiglio Federale aderiscono rappresentanti dei 120 pianeti firmatari del Patto di Liberazione». Il Klingon si era volutamente riferito alla Terra col suo vecchio nome, anziché chiamarla Vothan, come facevano i lealisti.
   «Noi, i rappresentanti eletti della Federazione e della Flotta, ci rivolgiamo alla Presidente Rangda, ai Pacificatori e a tutti i cittadini dell’Unione Galattica, per chiarire gli scopi del Patto» proseguì Mogh’Lar.
   «Noi riconosciamo fermamente l’importanza e la necessità di un governo federale che dirima le questioni tra i popoli, mantenga sicure le rotte interstellari e aiuti i mondi in difficoltà. Pertanto accettiamo il principio che i popoli debbano rinunciare a parte della loro autonomia, delegandola a rappresentanti eletti, in cambio di pace, prosperità e ordine. Crediamo altresì che i governanti derivino la loro autorità dal consenso dei governati, che hanno l’inalienabile diritto di sostituirli, qualora essi vengano meno ai loro doveri.
   Noi crediamo che la Presidente Rangda abbia volontariamente scardinato l’ordinamento democratico dell’Unione, accentrando su di sé tutti i poteri e privando i cittadini dei loro diritti fondamentali. Riteniamo perciò nostro sommo dovere quello di restituire la libertà ai popoli federali.
   Lei, Presidente Rangda, ha preso accordi sottobanco con potenze straniere come i Breen, fin dalla Guerra delle Anomalie. Ha permesso loro di saccheggiare astronavi, di rapire e schiavizzare cittadini federali, rovesciando la colpa su altri, per comprare la loro amicizia.
   Lei ha monopolizzato i mezzi d’informazione allo scopo di demonizzare i suoi avversari. Ha trasformato gli Umani nel capro espiatorio per tutti i problemi dell’Unione, favorendo il rinascere e il moltiplicarsi degli scontri razziali. Ha modificato i programmi scolastici, distrutto il patrimonio culturale, rinominato luoghi pubblici allo scopo d’estirpare la cultura umana.
   Lei ha tagliato i fondi alla Flotta Stellare, compromettendo le nostre capacità difensive, proprio nel momento in cui le crisi interne ed esterne si moltiplicavano, mettendo in gravissimo pericolo i cittadini federali. Al tempo stesso ha creato una moltitudine di enti, come l’Ufficio di Primo Contatto e quello di Salute Pubblica, che operano fuori da ogni controllo del Senato.
   Lei ha venduto la Terra, la capitale dell’Unione, a una potenza straniera, come se fosse una sua proprietà personale. Ha deportato milioni di cittadini contro il loro volere, privandoli della casa e del lavoro. Ha consentito ai Voth di costruire un presidio militare nel cuore dell’Unione, da cui potranno facilmente procedere nell’espansione militare. Se ha fatto questo alla capitale, allora nessun altro pianeta è al sicuro. Se ha fatto questo agli Umani, allora nessun altro popolo è al sicuro.
   Lei ha ordinato la resa alla Flotta Stellare nel momento in cui essa stava respingendo i Voth, sapendo che ciò avrebbe scatenato lotte fratricide. Ha ordinato agli ufficiali di assassinare i colleghi che non obbedivano al suo ordine criminale. La colpa di tutto questo l’ha addossata alla Flotta, giustificandosi con un inesistente colpo di Stato. Poi ha scatenato una feroce caccia ai fuggitivi, mettendo taglie sulla loro testa, facendo interrogare i loro parenti per spingerli alla delazione. Ha organizzato retate in cui i parenti hanno contribuito all’arresto, e talora all’uccisione, dei loro congiunti, spacciandolo per dovere civico. Infine ha preso i resti Flotta Stellare e li ha trasformati nei Pacificatori, una forza militare che le ha giurato fedeltà personale.
   Lei ha ordinato ai Pacificatori di condizionare mentalmente i prigionieri della Flotta, per fargli confessare crimini inesistenti. Sempre per suo ordine, molti Trill hanno subito la rimozione forzata e l’uccisione dei loro Simbionti, con gravissimo danno per la loro salute. Ha anche dichiarato che aprirà Centri di Rieducazione in cui le tecniche di controllo mentale saranno impiegate contro i cittadini, distruggendo la loro libertà d’espressione e il loro stesso libero arbitrio.
   Lei ha fatto bombardare la Terra per distruggere le vestigia umane e ora sfrutta eserciti stranieri per imporre i suoi provvedimenti dittatoriali. Malgrado i ripetuti appelli, rifiuta di rivelare cosa gli ha promesso in cambio del loro ingente sostegno militare. Possiamo solo dedurre che intende cedergli altri pianeti, il che significa altre deportazioni di massa e altri genocidi culturali.
   Di fronte a questi crimini efferati, di cui non si vede la fine, noi dichiariamo solennemente il nostro intento, in nome di tutti i cittadini federali.
   Giuriamo di combattere la dittatrice Rangda, le sue forze e i suoi alleati, con ogni mezzo a nostra disposizione. Ciò significa eliminare i Pacificatori e tutte le altre organizzazioni, militari e civili, create da Rangda per assicurarsi il potere assoluto. Significa altresì respingere i Voth, i Breen e ogni altro alleato straniero di Rangda fuori dai confini dell’Unione.
   Giuriamo di non sottometterci alle leggi e ai provvedimenti che violano i Diritti dei Senzienti. C’impegniamo in particolare a garantire la pluralità dell’informazione, la libertà d’espressione e lo svolgimento di libere elezioni. Ciò vale fin da ora nei pianeti che aderiscono al Patto di Liberazione, e varrà per ogni mondo che sottrarremo alla tirannia di Rangda.
   Giuriamo di proteggere gli Umani, i Trill e ogni altro popolo ingiustamente perseguitato dal regime di Rangda. Giuriamo altresì di riconquistare la Terra e ogni altro pianeta ingiustamente venduto a potenze straniere, così che i deportati possano tornare alle loro case e ai loro lavori.
   A questo triplice giuramento noi dedichiamo il nostro impegno, le nostre risorse, il nostro onore e le nostre vite. Ci fermeremo solo quando la dittatrice Rangda sarà deposta e i cittadini federali si vedranno pienamente restituiti i loro diritti. Questa è la nostra voce, la nostra volontà, il nostro incrollabile proposito».
 
   Il messaggio era corredato da un elenco dei 120 pianeti firmatari del Patto di Liberazione. C’erano grandi potenze come Klingon e Romulani, che a loro volta controllavano ampie regioni di spazio, ma anche singoli mondi o colonie che rifiutavano il giogo di Rangda.
   La reazione non si fece attendere. Un minuto dopo la trasmissione, gli Hub dei pianeti ribelli furono disconnessi dall’Olonet, anche se ormai il messaggio aveva raggiunto milioni di siti e continuava a propagarsi. La Presidente decretò il coprifuoco, valido in tutta l’Unione. Pacificatori e polizia pattugliarono i luoghi pubblici, disperdendo gli assembramenti. Lyra e le autorità locali esortarono la popolazione a non tener conto dell’annuncio. Il Senato fu nuovamente chiuso, “fino al termine dell’emergenza”. Ma questo era solo il preambolo.
   Richiamata la flotta dei Pacificatori, Rangda salì a bordo del Moloch, teletrasportandosi direttamente in plancia. Il ponte di comando somigliava a quello della Keter, se non per il fatto di essere più grande e lussuoso. La targa commemorativa , in lega di platino-iridio, era scritta in lingua Zakdorn.
   «Benvenuta a bordo, signora Presidente» l’accolse Radek. «Suppongo che lei abbia visto il proclama della Federazione».
   «Quale Federazione? Non esiste alcuna Federazione» disse Rangda. «C’è solo un’organizzazione terroristica che specula sulle paure della gente. Quello che i ribelli vogliono, in realtà, è frantumare l’Unione in due, poi in dieci, e poi in cento. Vogliono scatenare una Guerra Civile a cui seguiranno conflitti interstellari senza fine. Io non lo permetterò... e lei?».
   «Farò tutto il necessario per mantenere l’integrità dell’Unione» promise il Rigeliano. «Allora, dove vuole andare?».
   «A Kronos, ovviamente. Alla sorgente del male, per estinguerla prima che avveleni tutto il resto» rispose la Presidente. «Non abbia timore: con le forze di cui disponiamo, sarà una passeggiata».
 
   Sei ore dopo l’annuncio del Patto di Liberazione, la Nave Fortezza di Hadron uscì dalla transcurvatura ad appena 10.000 km da Kronos. L’accompagnavano dieci vascelli Voth più piccoli, tra cui la Nave Bastione di Corythos. Non era stato possibile radunarne di più, dato che il grosso dell’armata Voth doveva pattugliare la Terra e altri mondi chiave dell’Unione.
   «Ma guarda... la storia si ripete» disse Hadron, osservando il pianeta inquadrato sullo schermo. Le difese di Kronos erano imponenti. Lo Scudo Planetario era attivo, le piattaforme orbitali erano dispiegate e una flotta di duecento navi era pronta alla battaglia. Molti di quei vascelli erano stati tratti dai cantieri spaziali dove i tagli al bilancio di Rangda li avevano relegati. Le Intelligenze Artificiali di bordo erano state rimosse, oppure riprogrammate affinché non obbedissero più alla Presidente. Al centro dello schieramento, cioè a protezione della capitale Klingon, vi era l’ammiraglia USS Khitomer. Era un incrociatore di classe Juggernaut, appena varato. Chase si trovava lì, in qualità di comandante in capo della Flotta Stellare. Accanto alla Khitomer era schierata la Keter, mentre la Voyager stava poco più indietro.
   «La storia si ripete» commentò il Capitano Hod, osservando cupamente gli invasori. Quella vista le riportava alla mente i tragici momenti in cui la Terra era caduta.
   «Stavolta cambieremo il finale» la confortò Norrin. «I Voth hanno meno navi, mentre noi possiamo augurarci di non subire tradimenti nelle nostre fila. Ce la faremo».
   «Sempre che la forza del nemico non sia maggiore del previsto» rimuginò il Capitano, osservando la Nave Fortezza. Chase le aveva rivelato che all’interno era quasi del tutto vuota: c’era abbastanza spazio da trasportare una grande armata.
   «Ammiraglio Chase a flotta: tenete sotto tiro i vascelli nemici, ma non aprite il fuoco fino al mio ordine. Ripeto: non aprite il fuoco fino al mio ordine!». A queste parole, i difensori si armarono di pazienza. Le navi erano schierate a poca distanza dalle piattaforme orbitali, con gli scudi anteriori al massimo e le armi puntate sui Voth. Tutti attendevano la mossa degli invasori.
   Passarono i minuti, carichi di tensione. Da parte dei Voth non c’era stato alcun comunicato e nemmeno i difensori li avevano chiamati. Finalmente accadde qualcosa. Due hangar chilometrici si aprirono ai lati della Nave Fortezza. Quando furono del tutto spalancati, ne uscirono altrettante flotte: a destra i Breen, a sinistra i Pacificatori. Erano grandi astronavi, ma sembravano insetti a paragone della Nave Fortezza, che le aveva trasportate al suo interno. Le flotte si dispiegarono ai lati dei vascelli Voth, estendendo di molto il loro schieramento. I Pacificatori si rafforzarono ulteriormente con parecchie astronavi che giunsero per conto proprio.
   Vedendo la forza inesauribile del nemico, Hod sentì di rivivere un incubo. «Analisi tattica» ordinò, con le labbra secche.
   «Sono 250 navi dei Pacificatori e 200 Breen» disse Terry. «Quelle dei Pacificatori appaiono in piena efficienza. Rangda deve aver selezionato i vascelli che non hanno riportato danni nella Caduta, o che sono già stati riparati».
   «Può fare una proiezione tattica?» chiese Norrin.
   «Secondo le mie subroutine di analisi, le probabilità di vittoria sono...» cominciò l’IA.
   «No!» la interruppe Hod. «La storia non è già scritta. Gli eventi sono in movimento e ogni cosa può cambiare». Non disse che il vero motivo per cui l’aveva fermata era non demoralizzare l’equipaggio con un pronostico sfavorevole.
 
   A bordo del Moloch, Rangda contemplò lo schieramento nemico. «Bene... meglio di così non poteva andare. Schiacceremo i ribelli in un colpo solo!» gongolò. «Aprire un canale con la Khitomer».
   Sullo schermo apparvero Mogh’Lar, Irek e Chase. Alle loro spalle campeggiava, una volta di più, il simbolo della vecchia Federazione.
   «La vostra infantile ribellione è finita ancor prima di cominciare» esordì la Presidente. «Arrendetevi senza condizioni, o sarò costretta a distruggere fino all’ultima delle vostre navi».
   «Dittatrice Rangda, le ordino di ritirare immediatamente la sua flotta dal nostro spazio, o ne pagherà le conseguenze» avvertì Mogh’Lar.
   «Lei non ha alcuna autorità per darmi ordini!» si scaldò la Zakdorn. «Il vostro non è altro che un tentativo illegale di secessione. Volete riportare indietro l’orologio della Storia, a quando i nostri popoli erano divisi. Ma è stata l’Unione a preservare la pace; tutto il resto sono deliri campanilistici».
   «Il nostro campanile comprende 120 pianeti, uniti dal ripudio delle sue politiche razziste e totalitarie» avvertì Chase. «In quanto legittimi rappresentanti del popolo federale, le intimiamo di riaprire il Senato e indire nuove elezioni, o la destituiremo con la forza».
   «Io non riconosco la vostra sedicente... Federazione» sibilò Rangda, con uno sguardo che prometteva l’Inferno. «Per quanto mi riguarda, siete tutti ribelli e terroristi. Sarete soggetti al pieno rigore della legge».
   «Dunque sceglie la guerra?» chiese Irek.
   «È un’operazione di peacekeeping, ma se volete chiamarla guerra, fate pure» disse la Presidente con una smorfia. «Tanto finirà in un giorno».
   «Non ne sia così sicura» disse Chase, avvicinandosi di un passo all’olocamera. «Potevamo respingere i Voth dal sistema solare, invece lei gli ha aperto le porte. Ora saranno loro a comandare. L’Unione sarà uno Stato vassallo e lei, Rangda, sarà una marionetta. Ma se sperava di comprare la pace a queste condizioni, ha fatto male i conti. Ha scelto il disonore, anziché la guerra... e ora li ha entrambi».
   «E voi avete scelto una guerra che non potete vincere» ribatté la Presidente, col suo sorriso tranquillo e soddisfatto. Chiuse la comunicazione.
   Avendo assistito al confronto, Radek le si avvicinò. «Era proprio necessario prenderli così di petto?» le sussurrò all’orecchio. «Ora l’ultima speranza di pace è svanita».
   «Sarò morta, prima di lasciare che l’Unione Galattica si disgreghi!» ringhiò la Zakdorn. «Rangda a flotta, pronti ad aprire il fuoco. Al mio ordine, concentratevi sulla Khitomer e la Keter. Dopo averle distrutte, passate a...».
   «Signora Presidente, una flotta sta uscendo dall’occultamento alle nostre spalle» avvertì l’addetto ai sensori. «Si tratta sempre dei ribelli. Le loro forze sono molto superiori al previsto».
 
   Trecento astronavi uscirono dall’occultamento alle spalle degli assedianti, che si trovarono così accerchiati. Alle navi della Flotta – come la Constellation e la Defiant – si sommavano quelle di molte forze locali. Lo Spettro era lì, con la Stella del Polo e il resto della sua flottiglia. E c’erano altre bande di pirati e contrabbandieri che avevano accettato di farsi corsari. Nel complesso era una forza di tutto rispetto. I vascelli non avevano ancora sparato un colpo, ma ci voleva niente a scatenare la battaglia.
   «Presto, riallineare la flotta!» ordinò Radek. «Dobbiamo lottare su due fronti. Coordiniamoci con gli alleati per non lasciare spiragli nel nostro...». La voce gli venne meno. Aveva notato che i grandi vascelli Voth stavano abbandonando lo schieramento.
   «Beh, che fanno?! Chiamate la Nave Fortezza!» ordinò Rangda.
   L’Ammiraglio Hadron apparve sullo schermo. Era calmo, ma aveva l’aria risoluta di chi ha preso una decisione e non intende lasciarsi sviare.
   «Che le salta in mente?!» protestò Rangda. «Questo è il momento di aprire il fuoco, non di ritirarsi! Abbiamo un’occasione d’oro per sgominare i ribelli!».
   «I suoi ribelli, non i nostri» obiettò Hadron. «Il nostro interesse era Vothan, e l’abbiamo ottenuto. Siamo soddisfatti. Siamo anche pronti a sostenerla contro questa ribellione, per evitare che l’Unione sprofondi nel caos. Ma non sacrificherò cinquantamila soldati per combattere la sua guerra. Ho già avuto perdite superiori al previsto, nel conquistare Vothan». Tacque la sua maggiore preoccupazione, ovvero che l’opinione pubblica Voth diventasse ostile alla sua campagna militare.
   «E allora come contate di supportarci?» chiese la Presidente.
   «Sosterremo la vostra economia con un piano di aiuti e riforniremo di armi i Pacificatori» spiegò Hadron. «Non escludo di contribuire a operazioni di peacekeeping; ma non parteciperò a grandi battaglie. Le mie proiezioni tattiche dicono che, per conquistare Kronos, perderemmo due terzi di questa flotta. Per quanto mi riguarda è troppo. Torno su Vothan: se vuol fare piani più dettagliati, mi segua». L’Ammiraglio chiuse il canale prima che la Presidente potesse rispondere.
   La flotta Voth lasciò l’orbita e partì a transcurvatura, sotto gli occhi sbarrati di Rangda. In tal modo si creò un enorme vuoto al centro dello schieramento dell’Unione.
   «Riempite subito quel varco!» ordinò la Presidente. «Non dobbiamo permettere che...». Come Radek poco prima, anche lei restò senza parole. Dopo la ritirata dei Voth, anche i Breen se ne stavano andando. «Chiamate Thot Rong» disse la Zakdorn, impallidendo.
   Il leader militare Breen apparve sullo schermo. «Questa battaglia non può avere luogo» disse. «La ritirata dei Voth compromette irrimediabilmente il nostro schieramento. Se combattessimo in questo momento, perderemmo».
   «Se mi abbandonate ora, non avrete niente di ciò che vi ho promesso!» avvertì la Zakdorn.
   «Non interpreti questa ritirata strategica come un disimpegno militare» spiegò Thot Rong. «In questo momento dobbiamo evitare la disfatta. Una volta rientrati nello spazio lealista, raduneremo un maggior numero di astronavi e organizzeremo una strategia bellica di lunga durata. Per la sua incolumità, le consiglio di seguirci».
   Ciò detto, il Breen chiuse il canale. La sua nave ammiraglia partì a curvatura assieme alle altre. Del grande schieramento che aveva assediato Kronos, restavano solo le 250 navi dei Pacificatori. Troppo poche, per affrontare 500 vascelli nemici e le piattaforme orbitali.
   «Dobbiamo andarcene, o saremo annientati» disse Radek, sudando freddo. «Presidente!» gridò, dal momento che Rangda era rimasta in stato catatonico.
   «Eh?» fece la Zakdorn, riscuotendosi. «È solo una... passeggiata...».
   «Una passeggiata che ci costerà la vita, se non ci ritiriamo all’istante. Radek a flotta, ritirata! Torniamo nel sistema solare» ordinò il Rigeliano.
   Le navi dei Pacificatori non aspettavano altro. Lasciarono l’orbita, alcune a cavitazione, altre col propulsore cronografico. «Ma non finisce qui! Un giorno ve la farò pagare!» ringhiò Radek, fissando con odio la Keter. L’attimo dopo anche il Moloch svanì dallo spazio Klingon. L’Assedio di Kronos era terminato senza sparare un colpo, ma la Guerra Civile era appena cominciata.
 
   Sulle navi federali la tensione, che in precedenza si tagliava col coltello, si allentò. Ci furono timidi sorrisi, strette di mano, anche qualche pacca sulle spalle. I Capitani però non erano particolarmente sollevati, sapendo cosa li aspettava.
   «Beh... questa è stata la battaglia più breve che abbia mai visto» commentò Norrin. «Le sue subroutine tattiche avevano previsto questo risultato?» chiese a Terry.
   «Era una delle eventualità» confermò la proiezione isomorfa. «Ma non sono state le subroutine a dirmelo. È stata l’Arte della Guerra di Sun Tzu. “In guerra, lo stratega vittorioso cerca la battaglia solo quando la vittoria è già stata raggiunta”» recitò.
   «Conosco quel trattato» disse Hod. «Dice anche che bisogna colpire ciò che è debole ed evitare ciò che è forte. Questo primo assalto di Rangda è stato affrettato, ma il prossimo lo condurrà con più forze, e prenderà di mira obiettivi meno difesi di Kronos. Quindi non facciamoci illusioni: la guerra è appena cominciata».
   «Intanto abbiamo messo a segno un’altra vittoria simbolica» osservò l’Hirogeno. «La potentissima flotta dei Voth, dei Breen e dei Pacificatori è stata messa in fuga dai ribelli! Sarà una bella umiliazione per i seguaci di Rangda e forse li indurrà a farsi qualche domanda sulla loro leader. E galvanizzerà quelli che ci approvano, ma che finora non avevano osato sostenerci apertamente».
   «Sì, ha ragione» ammise Hod, confortata. Forse la previsione di Juri si stava già avverando. Se i Voth e i Breen non erano così fedeli a Rangda, il potere della Presidente ne usciva molto sminuito.
   «Ehi, ma ci pensate? Abbiamo vinto una battaglia senza neanche una vittima!» trillò Zafreen. «Stasera dobbiamo festeggiare! No, non vi preoccupate: penso io a tutto». I colleghi ridacchiarono e persino il Capitano si distese a quelle parole.
   «Infermeria a plancia, mi duole informarvi che abbiamo una vittima» disse in quel momento Ladya. Le risate si spensero all’istante.
   «Chi è?!» volle sapere Hod, non capacitandosi di come fosse possibile.
   «Beh, non è esattamente un membro dell’equipaggio... e stava già morendo, quindi la notizia non vi sorprenderà» spiegò Ladya. «Parlo del simbionte Dax».
 
   Il Simbionte galleggiava senza vita nel suo contenitore. Ilia si era imposta di essere forte, ma al vederlo non poté trattenere le lacrime. «Addio, Dax» mormorò, sfiorando il cilindro trasparente che conteneva i resti della creatura. «Grazie per avermi trasmesso le tue memorie. Non sarei ciò che sono, senza di te».
   «Vuole che applichiamo delle disposizione particolari, per i resti?» chiese Ladya con tatto.
   «Di norma i Simbionti morti sono sepolti nelle caverne di Mak’ala, ma è fuori questione andarci, ora che Trill è controllato dai Pacificatori» disse Ilia con amarezza. «Cremate i resti. Tanto ormai sono solo tessuti senza vita. Piuttosto, come va la matrice olografica?».
   «Dib e Terry stanno sistemando gli ultimi dettagli» spiegò la dottoressa. «Pensavamo che sarebbe carino se l’ologramma assumesse di volta in volta l’aspetto dell’Ospite attinente alle domande».
   «Fatelo» annuì la Trill.
   «Per gli ospiti più antichi non ci solo olografie disponibili, solo qualche vecchia foto bidimensionale» disse la Vidiiana, quasi scusandosi. «Dovremo lavorare un po’ di fantasia».
   «Non importa, basta dare un’impressione di massima» convenne Ilia. «L’importante è che l’ologramma sappia rispondere in modo esauriente alle domande».
   «Ci stiamo basando in parte sugli algoritmi di Joe e Terry, per accertarci che sappia collegare gli argomenti ed estrarre solo le informazioni richieste» confermò Ladya.
   «Bene, sono ansiosa di vederlo» disse il Vice-Ammiraglio. «E se in futuro trovaste altri Simbionti estratti dagli Ospiti, vi prego di registrare anche le loro memorie, prima che l’Unione li elimini tutti». Dopo un’ultima occhiata malinconica ai resti di Dax, lasciò l’infermeria.
 
   Chiusa nel suo ufficio, il Capitano Hod esaminava gli ultimi rapporti tattici. La situazione era drammatica. Tornata sulla Terra dopo l’umiliazione di Kronos, Rangda aveva annunciato provvedimenti drastici. Il budget dei Pacificatori era stato moltiplicato per dieci e nuove campagne d’arruolamento erano in corso su tutti i mondi lealisti. Le maggiori industrie federali venivano nazionalizzate e riconvertite a scopi bellici. La costruzione di astronavi era stata accelerata presso tutti i cantieri. Era il maggior sforzo bellico dalla Guerra delle Anomalie, all’opposto della retorica pacifista che aveva caratterizzato la Presidente fino ad allora. E con i Voth a sostenere massicciamente l’economia federale, il rischio di crisi era lontano.
   Per contro, i pianeti della neonata Federazione erano ancora disorganizzati, in disaccordo sulle strategie e spesso a corto di risorse. Molti non potevano difendersi neanche da piccoli attacchi, senza l’aiuto della Flotta Stellare. Altri, meglio difesi, chiedevano sempre più autonomia, sotto le spinte indipendentiste interne. C’era il rischio concreto che la Federazione si disgregasse prima ancora d’ingranare la marcia. E non mancavano i mondi neutrali, che si astenevano dal conflitto in attesa di schierarsi con il vincitore.
   Era una situazione caotica, che evolveva di ora in ora. I Pacificatori stavano già lanciando i primi attacchi sul confine della Federazione e la Flotta inviava le sue navi ad affrontarli, cercando di non sguarnire troppo Kronos. Presto anche la Keter sarebbe partita.
   Be-beep.
   «Avanti» disse il Capitano, distogliendosi dai dati sconfortanti.
   L’Ingegnere Capo entrò nell’ufficio. «Perdoni l’interruzione, ma devo parlarle» disse. Anche se non aveva volto, c’era una strana solennità nella sua voce.
   «Certo, si accomodi» disse Hod, accennandogli la sedia.
   Dib si accomodò con le mani sulle ginocchia, come suo solito, e lasciò trascorrere qualche secondo prima di prendere la parola. «Il mio popolo ha reso noto che intende astenersi dal confitto» disse.
   «Sì, l’ho letto poco fa» annuì il Capitano, presagendo guai.
   «È stata una scelta razionale» affermò il Penumbrano. «Il nostro pianeta è scarsamente difeso, per cui non resisterebbe a un assalto dei Pacificatori. Del resto, i vostri conflitti ideologici ci sono in gran parte estranei».
   «Sì, voi siete pura logica matematica» convenne Hod. «Ma mi lasci dire che non sempre la neutralità è possibile. A volte non schierarsi significa schierarsi... col vincitore».
   «Noi lasciamo raramente il nostro mondo d’origine. Al momento ci sono meno di 5.000 individui della nostra specie fuori da Penumbra» spiegò Dib. «Le autorità ci hanno ordinato il rientro immediato. Nessun Penumbrano dovrà lasciare il pianeta, fino al termine della Guerra Civile».
   Cadde il silenzio. Hod osservava il suo Ingegnere Capo con rimpianto. Conoscendo i Penumbrani, si aspettava quella decisione, e sapeva che Dib si sarebbe sentito in obbligo di obbedire. Ma aver previsto quell’addio non lo rendeva più facile da digerire.
   «Dopo la Caduta della Terra, ho permesso a tutti i membri dell’equipaggio di scegliere se lasciarci» disse lentamente il Capitano. «Avevo detto che bisognava decidere in quel momento, perché restare significava assumersi un impegno. Ma capisco che per lei si debba fare un’eccezione. Voi Penumbrani siete molto legati alle decisioni delle vostre autorità, e la decisione è stata presa solo adesso. Quindi non gliene faccio una colpa. Anzi, la ringrazio di essere restato con noi finché ha potuto. Se per lei va bene, le cederemo una navetta, così potrà tornare al suo pianeta».
   Mentre parlava, il Capitano stava già pensando a chi designare Ingegnere Capo. Non era una scelta facile: quel reparto era stato dissanguato quando i dissidenti avevano lasciato la nave. Molti dei migliori ingegneri, che lavoravano sulla Keter da anni e la conoscevano nei dettagli, se n’erano andati. Anche ora che aveva integrato gli evasi di Elba II, assieme ad altri ribelli, Hod non sapeva proprio come sostituire Dib. In realtà il Penumbrano non era sostituibile. Qualunque altro ingegnere, fosse anche un Bynario o un Vulcaniano, non aveva la sua prodigiosa mente matematica.
   «C’è un equivoco» disse Dib. «Io non intendo lasciare la Keter».
   Il Capitano restò di stucco. Abbandonò tutti i suoi ragionamenti, le valutazioni, e si concentrò sull’interlocutore. «Come sarebbe a dire? Credevo che gli ordini delle vostre autorità fossero vincolanti».
   «Anche gli ordini delle sue autorità sono vincolanti, eppure lei li ha trasgrediti, unendosi ai ribelli» constatò l’Ingegnere Capo. «L’unica differenza è che noi Penumbrani, essendo più razionali degli altri Organici, tendiamo a compiere gli stessi ragionamenti e quindi perveniamo alle stesse conclusioni logiche. Il dissenso, tra noi, è estremamente raro. E quelle rare volte in cui si manifestano pareri discordanti, accettiamo il verdetto delle autorità, per non guastare l’armonia sociale».
   «Quindi perché ha deciso di trasgredire? Crede che le sue autorità abbiano preso la decisione sbagliata?» chiese Hod.
   «Ritengo che abbiano preso la decisione più logica per Penumbra, ma non per il conflitto in generale» rispose Dib. «Senza di me, infatti, l’efficienza di questa nave sarebbe gravemente ridotta».
   «Il solito modesto!» sorrise il Capitano, ma l’Ingegnere Capo aveva ragione. Cento volte ragione. Hod riteneva che molti dei suoi ufficiali fossero superiori alla media, nel loro campo, ma nessuno lo era tanto quanto Dib.
   «E se questa nave operasse a efficienza ridotta, sarebbe tutta la Flotta a risentirne» proseguì il Penumbrano. «Perciò ritengo di dover restare».
   «Dib, questo è molto... nobile da parte sua» disse Hod, cercando le parole giuste. «Ma quali saranno le conseguenze per lei, se rifiuta di tornare come le è stato ingiunto?».
   «Se mi pongo al di fuori dei vincoli sociali, la società mi escluderà per il resto della mia esistenza» rivelò l’alieno. «Non potrò più tornare su Penumbra».
   «Cioè sarà esiliato a vita?! Oh, Dib... è un grosso sacrificio. Ci pensi bene, prima di farlo» disse il Capitano. Lei stessa non era del tutto rassegnata all’idea di non rivedere Elaysia.
   «Ci ho già pensato, o non sarei qui» disse il Penumbrano. «In realtà, la conseguenza più molesta non sarà tanto la mia esclusione dai miei simili, quanto l’impossibilità a procreare».
   «Come?!». Hod pensò di aver sentito male.
   «Ho detto che la conseguenza più molesta dell’esilio sarà l’impossibilità a procreare» confermò Dib. «Vede, Capitano, noi Penumbrani siamo asessuati. Ci riproduciamo per distillazione, cioè miscelando e condensando i composti idrocarburi del nostro pianeta. Ognuno di noi distilla un solo successore, quando giunge a due terzi del suo ciclo vitale, e poi lo istruisce affinché a tempo debito possa subentrargli. In tal modo la nostra popolazione resta stabile nel tempo. Ma poiché io trasgredirò all’ordine di rientro, soggiacendo all’esilio, non potrò distillare il mio erede. Dunque la mia linea evolutiva – la mia stirpe, come dite voi – terminerà con me. Un altro Penumbrano riceverà l’incarico di distillare un individuo che mi somigli il più possibile, per riempire il vuoto».
   «Oh, Dib, mi dispiace tanto!» si commosse l’Elaysiana. «È crudele che il tuo popolo ti escluda per sempre. Ma non puoi distillare tuo... tuo figlio anche qui? Potremmo cercare un pianeta simile a Penumbra, o anche replicare i composti in laboratorio».
   «I composti necessari sono molto complessi... ma in effetti ricrearli non dovrebbe presentare ostacoli insormontabili» riconobbe il Penumbrano. «Non ho ancora analizzato il problema. Il fatto è che le autorità vietano di compiere la distillazione fuori dal nostro pianeta».
   «Hai già deciso di trasgredire a un ordine. Potresti trasgredire anche a questo» suggerì Hod. «Come Capitano non sono avvezza a consigliare l’indisciplina, ma credo che nessuno abbia il diritto di vietare a qualcun altro di procreare».
   «Prenderò in considerazione il suo suggerimento, e verificherò se potrei distillare altrove il mio erede» disse Dib. «In ogni caso, questo non è un problema urgente. Attualmente sono a poco più di un terzo del mio ciclo vitale, quindi passeranno duecento anni prima che raggiunga l’età alla quale solitamente la mia specie si riproduce».
   Il Capitano conosceva la longevità dei Penumbrani, ma le fece ugualmente un certo effetto pensare che tutti loro – tranne Terry e il Simbionte Tarn – sarebbero morti prima ancora che Dib distillasse il suo erede. Sempre che il Penumbrano non ci prendesse gusto a infrangere le regole, e decidesse di anticipare i tempi. Ma con tutti i problemi che avevano al momento, Hod non osò suggerirglielo.
   «Allora è certo di voler restare?» chiese l’Elaysiana, tornando a un tono più formale. «Se questo le costerà l’esilio, e la ostacolerà nell’avere un erede, ci pensi bene. È un sacrificio che non ordinerei a nessuno».
   «Come le ho detto, ho già deciso» ribadì l’Ingegnere Capo. «Resterò con voi».
   «Allora... grazie di cuore» disse Hod, commossa. «Le sue abilità ci saranno di grande aiuto. Sa, non vorrei darle false speranze, ma considerando la vostra longevità, non può darsi che i suoi simili revochino l’esilio prima che lei sia troppo avanti con gli anni?».
   «Questa legge esiste da diecimila anni e non è mai stata abrogata» obiettò Dib. «Ma in quest’epoca di cambiamenti, non posso escludere che anche il mio popolo riconsideri alcune norme. È poco probabile, ma non impossibile».
   «Spero tanto che accada» auspicò il Capitano. «Spero che tutti, un giorno, possano tornare alle loro case e alle loro famiglie». Pensò con rimpianto ai suoi parenti su Elaysia. Non aveva molte più speranze di rivederli, di quante Dib ne avesse di distillare il suo successore.
 
   Il giorno dopo, l’Ammiraglio Chase convocò i vertici della Flotta su Kronos, per discutere la strategia e assegnare le missioni belliche. Alla riunione parteciparono tra gli altri Ilia, Lantora, T’Vala e Hod. La sala tattica era costruita nel tipico stile Klingon, con le pareti verdi e l’illuminazione data da grandi bracieri. Sopra il tavolo triangolare galleggiava un ologramma raffigurante quella che era stata l’Unione Galattica, e ora era un corpo dilaniato.
   Due terzi dei sistemi, evidenziati in rosso, erano saldamente sotto il controllo di Rangda. Si trattava dei sistemi centrali e più ricchi dell’Unione. Lì imperversavano i Pacificatori, aiutati dai Voth e ancor più direttamente dai Breen. La capitale era ancora sulla Terra; ma là nell’angolo, vicino al confine con lo Stato Imperiale Romulano, c’era Zakdorn, il pianeta d’origine della Presidente. Lì era già iniziata la costruzione di un palazzo faraonico, dato che Rangda aveva annunciato l’intenzione di spostarvi la capitale. A quel punto la Terra sarebbe caduta nel dimenticatoio, se non per il fatto di appartenere ai Voth.
   I sistemi ribelli, cioè la nuova Federazione, erano indicati in blu. Si suddividevano in due tronconi principali, privi di contiguità territoriale, il che rendeva molto difficile unirli politicamente. Il troncone maggiore comprendeva lo spazio dei Klingon e della Repubblica Romulana, prolungandosi fino alla Nebulosa Mutara. L’altro, molto più piccolo, andava dai sistemi cardassiani a quelli ferengi, comprendendo Bajor e le Badlands. C’erano anche “isole” federali annegate nel rosso, e persino singoli pianeti divisi tra le due fazioni, come Nuova Xindus.
   Guardando quella mappa, gli ufficiali della Flotta non sapevano se ridere o piangere. Era un incredibile scherzo del destino che loro fossero acquartierati su Kronos, dove per secoli i Klingon li avevano avversati. Ed era ancora più paradossale che la capitale nemica fosse la Terra... o Vothan, come si chiamava ora.
   «La nostra prima cura è difendere i pianeti che hanno sottoscritto il Patto di Liberazione» disse l’Ammiraglio. «Di attaccare l’Unione purtroppo non se ne parla, finché non riusciremo a consolidare le difese. Più di ogni altra cosa, dobbiamo proteggere i cantieri navali. Lì ci sono centinaia di vascelli pronti a riprendere servizio, e altri in costruzione».
   «Dobbiamo pensare anche ai pianeti contesi, come Nuova Xindus» evidenziò Lantora.
   «Tu e T’Vala andrete lì con la Constellation, per convincere gli Acquatici a schierarsi con noi» disse Chase. «Il loro voto sarà determinante per far uscire il Consiglio Xindi dall’impasse».
   «Sperando che non si disgreghi» borbottò Lantora.
   «Che facciamo per il traffico di Simbionti?» chiese Ilia. «Anche dopo la distruzione del Centro su Elba II, i Pacificatori non si fermeranno».
   «Per questo t’infiltrerai con la Defiant tra le linee nemiche, restando occultata, per scoprire dove li portano adesso» convenne l’Ammiraglio. «Quando l’avrai scoperto torna a riferire, così vedremo se è possibile liberarli».
   «Ricevuto» disse Ilia. «Ma il mio equipaggio non è al completo: manca il Medico Capo».
   «Il dottor Joe si è offerto volontario per trasferirsi dove c’è bisogno» disse Hod. «Era con noi come consulente per la missione nel Quadrante Delta, ma quella è storia vecchia».
   «Allora è deciso, passerà alla Defiant» disse Chase. «La Voyager invece resterà qui, come parte del perimetro difensivo di Kronos. Per quanto sia in buone condizioni, non è all’altezza delle navi moderne e sarebbe rischioso mandarla da sola in missione».
   «E noi?» chiese Hod. «Ci siamo fatti una certa fama; dovremmo sfruttarla».
   «Voi visiterete i mondi neutrali, cercando di convincerli a passare dalla nostra» ordinò l’Ammiraglio. «Comincerete da quelli che si trovano tra lo spazio klingon e quello cardassiano. Se riuscissimo a unire i due blocchi, conquisteremmo la contiguità territoriale e spezzeremmo in due l’Unione».
   «Bene, signore. Non vedo l’ora di entrare in azione» garantì il Capitano.
   «Ma stia attenta al Moloch» ammonì Chase. «Quella nave è al comando del suo ex Primo Ufficiale, Radek. La dittatrice lo ha pubblicamente incaricato di darvi la caccia. Le ricordo che il Moloch è corazzato come la Keter, ma ha una potenza di fuoco superiore. Se lo incontrate, evitate a tutti i costi lo scontro».
   «Agli ordini» disse Hod, masticando veleno. La sua ossessione contro Gulnar si era sfogata a Elba II, dove l’Axanar era morto e la sua nave era stata distrutta. Ma aveva lasciato il posto a un’ossessione ancora peggiore, quella contro Radek. Sentiva che, prima o poi, si sarebbe confrontata con lui. Allora lo avrebbe fatto pentire del suo tradimento.
   L’incontro proseguì a lungo, con Chase che assegnava le astronavi alle varie missioni, spesso accogliendo i suggerimenti dei Capitani. Quando sembrò che tutti avessero la loro consegna, l’Ammiraglio si alzò e si schiarì la voce. «Ed ora, un ultimo annuncio» disse. «Come sapete, abbiamo collaborato più volte con lo Spettro. Ormai è a tutti gli effetti un alleato... un corsaro, come si definisce. Pertanto continueremo a cooperare con lui. E con la Banshee».
   A quelle parole i fuorilegge si resero visibili. Stavano tra due bracieri, da chissà quanto. Nessuno dei due rivelò il suo volto, anche se quello dello Spettro era ormai noto a molti. L’identità della Banshee, invece, era un segreto che l’Ammiraglio non condivideva nemmeno con i suoi collaboratori. Solo Ilia, Lantora e T’Vala lo sapevano, oltre naturalmente al Capitano Hod e ai suoi ufficiali superiori; ma si erano impegnati a mantenere il silenzio.
   «Voi vi dedicherete a ciò che vi riesce meglio, vale a dire missioni di furto, sabotaggio e liberazione di prigionieri» disse l’Ammiraglio. «Vi ho già dato una lista di obiettivi, ma avete la massima libertà di scelta su quali affrontare, e in che ordine. Nessuno, nemmeno il sottoscritto, deve conoscere con esattezza i vostri spostamenti. Sarete silenziosi, invisibili, inafferrabili, e questo vi renderà ancora più temuti dai Pacificatori. Nessuno deve sentirsi fuori dalla vostra portata... nemmeno Rangda».
   «Se ne avessimo l’opportunità, siamo autorizzati a ucciderla?» chiese la Banshee.
   «Non è mai stato costume della Flotta Stellare ricorrere agli omicidi mirati» rispose Chase. «Ma le circostanze sono senza precedenti. Quella dittatrice è, a tutti gli effetti, la peggiore calamità della storia federale. Il che mi costringe a dare un ordine che mai e poi mai avrei voluto impartire». L’Umano sospirò, poi riprese: «Se mai riuscirete ad accostarvi a Rangda, sappiate che la sua cattura è preferibile all’uccisione, ma l’uccisione è preferibile al lasciarla scappare».
   «Ricevuto» disse la Banshee, con un lieve cenno del casco. Presto i Pacificatori avrebbero imparato a temerla, e ad augurarsi di non essere anche loro sulla sua lista.
   «E la Terra?» chiese lo Spettro. «Tutto è partito da lì; dobbiamo rassegnarci a vederla occupata dai Voth?».
   «La Terra, al momento, è il pianeta più difeso dell’Unione» disse l’Ammiraglio. «Ci sono sia i Voth che i Pacificatori. Forse, se la dittatrice si trasferirà su Zakdorn come ha annunciato, avremo qualche speranza. Ma qualunque assalto alla Terra è molto al di là da venire. La situazione tattica dovrà cambiare radicalmente in nostro favore, prima che si possa pensare alla riconquista».
   «Ogni giorno che passa, i Voth si fortificano» disse lo Spettro. «Radono al suolo le nostre città, poi le ricostruiscono per i loro coloni. Se mai riconquisteremo la Terra, sarà un pianeta completamente diverso da quello che abbiamo perduto».
   «Sono d’accordo: la Terra come la conoscevamo non esiste più» disse Chase con tristezza. «Qualcuno ha domande sulle consegne?».
   Nessuno ne aveva.
   «In tal caso, partite subito» ordinò l’Ammiraglio. «E che la fortuna aiuti gli audaci».
 
   I Capitani si recarono alle sale teletrasporto, per imbarcarsi. Era il momento degli addii. Chase accompagnò i suoi collaboratori più stretti in una delle salette. Gli ufficiali superiori della Keter erano lì, per salutare i colleghi prima che le strade si dividessero.
   La prima ad andare fu Ilia, che trovò il dottor Joe pronto a seguirla. Il Medico Olografico aveva una borsa a tracolla, con alcuni effetti personali. «Dottore, mi hanno detto che verrà con me» disse la Trill.
   «E io sono stato informato che cercheremo altri Simbionti» disse l’ologramma. «Dopo la tragedia di Elba II, spero che ne salveremo il più possibile. Sono lieto di accompagnarla, così potrò monitorare la sua salute» disse, riferendosi al recente trapianto.
   Gli ufficiali della Keter salutarono Joe, stringendogli la mano uno dopo l’altro. «Addio, dottore» disse Hod. «Grazie per tutto ciò che ha fatto nel Quadrante Delta, e anche in seguito».
   «È stato un collega insostituibile. Grazie per avermi curata dalla Phagia» aggiunse Ladya, particolarmente commossa.
   «Ricorderemo i suoi consigli. Grazie per aver aiutato noi del turno di notte a sentirci di nuovo parte della Flotta» concluse Ki’Lau.
   Il Medico Olografico salì sulla pedana, assieme a Ilia. «Non mi piacciono gli addii, quindi vi dico arrivederci» disse. «E non disperate, anche se la strada sembra tutta in salita. Ogni grande visione comincia con un piccolo fotone».
   L’Ammiraglio Chase, dal canto suo, si rivolse alla vecchia amica Ilia. «Non tardare troppo a farti sentire... giovane Tarn» disse, strappandole un sorriso.
   La Trill e l’ologramma svanirono nel bagliore rosso del teletrasporto Klingon, diretti alla nuova Defiant, che li aspettava in orbita.
   Toccava a Lantora e T’Vala. I due si appartarono, scambiando un saluto commosso col figlio. «Ti voglio bene. Fai molta attenzione, ovunque andrai» raccomandò T’Vala, abbracciandolo. «E se incontrerai Lyra...».
   «La recupererò, se possibile» promise Vrel. «Ma se salterà fuori che ci ha traditi spontaneamente, non aspettarti che la perdoni» aggiunse, ancora risentito.
   T’Vala si discostò e lo guardò preoccupata. Suo figlio era guarito nel corpo, ma non nello spirito. Non sarebbe mai tornato lo stesso, dopo che Lyra gli aveva trafitto il cuore. «Prometti che non ti vendicherai, anche se fosse colpevole» disse.
   «Non posso garantirtelo» ribatté il timoniere, truce.
   «È tua madre che te lo chiede!».
   «Se avesse infilzato te, la perdoneresti?!».
   «Non voglio che i miei figli si combattano!».
   «Lyra mi ha già dichiarato guerra; la prossima volta non farò da bersaglio».
   «Basta così!» disse Lantora, frapponendosi tra i due. «Non siamo l’unica famiglia lacerata da questa guerra. Andremo avanti per la nostra strada, come Lyra andrà per la sua. Se la troveremo, beh... si vedrà. Per adesso, almeno da te voglio separarmi in buoni rapporti». Ciò detto abbracciò a sua volta il figlio.
   Lo Xindi e la mezza Vulcaniana salutarono anche l’Ammiraglio e salirono sulla pedana, da cui si trasferirono sulla Constellation.
   «Tocca a noi» disse lo Spettro, facendosi avanti con la Banshee. Ritirarono i caschi, così che Jaylah potesse salutare i suoi. La mezza Andoriana si rivolse dapprima ai colleghi della Keter. Non ci furono parole, solo strette di mano e sguardi commossi. Dopo quasi sei anni di avventure indimenticabili, nessun discorso sarebbe stato adeguato. Gli addii più dolorosi furono quelli con Norrin e Vrel. Ma l’aspettava un distacco ancora più commosso, quello con i suoi genitori.
   «Buona fortuna, figliola» disse Chase, abbracciandola stretta. «Terremo segreta la tua identità, per non farti rischiare ancora di più». La baciò in fronte e poi lasciò il posto a Neelah.
   «Stai attenta!» raccomandò l’Aenar, stringendola ancora più forte. «Fa’ quel che devi, e poi... torna da noi».
   «Tornerò» promise Jaylah, sciogliendosi a fatica dall’abbraccio. «Anzi... torneremo». Prese per mano Jack e salì con lui sulla pedana.
   «È nostra figlia, che porti via» disse l’Ammiraglio, fissandolo negli occhi. «Abbine cura».
   «Ne avrò più che per me stesso» promise il corsaro. Lui e Jaylah svanirono nei bagliori scarlatti, diretti alla Stella del Polo.
   Neelah si ritirò, per non piangere davanti a tutti. Chase invece dovette trattenersi un poco, prima di raggiungerla, per salutare il Capitano e gli ufficiali della Keter. «Mi affido a voi, più che ad ogni altro equipaggio» disse. «Avete già fatto miracoli; ora ce ne servono di più grandi».
   «Ci fermeremo solo quando Rangda sarà detronizzata» promise Hod. Dopo di che salì sulla pedana, assieme a parte degli ufficiali. Poiché erano numerosi, dovettero risalire in due tempi. Quando il primo gruppo fu svanito, Chase prese brevemente da parte Terry. «Come stai, sulla Keter?» le chiese.
   «Penso di essermi ambientata» rispose l’IA.
   «Tieni d’occhio i tuoi colleghi, in particolare il Capitano Hod» ordinò l’Ammiraglio. «Questi eventi l’hanno esacerbata. Potrebbe cercar vendetta contro i Pacificatori e in particolare contro Radek, mettendo a rischio la nave. Se ti sembra che esageri, cerca di moderarla coi tuoi consigli e ricordale che è ancora vincolata al regolamento di Flotta».
   «Ci proverò» promise Terry, e salì sulla pedana con gli altri.
   Per ultimo, Chase si rivolse a Juri. «Allora, dottor Smirnov... tempi grami per noi Umani, eh?» commentò. «È certo di non voler restare qui? In fondo lei è un civile; non è tenuto a combattere. Le garantisco che non tornerà in cella. Come lo Spettro, si è guadagnato l’amnistia».
   «La ringrazio, ma questa guerra non fa differenza tra militari e civili» disse Juri. «E ormai la Keter è la mia casa. Chissà che, andando con loro, non metta a segno qualche colpo sul versante propagandistico dello scontro».
   «Le memorie di Dax?».
   «Sono pronte; le diffonderò ovunque andremo» promise lo storico. Salì sulla pedana di teletrasporto, dove i colleghi lo attendevano. Una volta lì, si rivolse di nuovo all’Ammiraglio. «Già una volta la Terra è stato il pianeta dei sauri, e poi è passato a noi; può succedere ancora» disse, prima di svanire.
 
   Le astronavi lasciarono l’orbita di Kronos alla spicciolata, dirette verso gli innumerevoli fronti di guerra. Gli animi erano pesanti, tanto che su quasi tutti i vascelli regnava il silenzio. Gli ufficiali sapevano di dover combattere quelli che, fino a un mese prima, erano i loro colleghi. Tutti quanti temevano il momento in cui avrebbero riconosciuto tra gli avversari un amico, un parente o persino la persona amata.
   La Defiant e la Constellation partirono a cavitazione per le loro destinazioni. Pochi minuti dopo fu la flottiglia dello Spettro a lasciare l’orbita. Sulla plancia della Stella, piena di corsari affaccendati, Jaylah si accostò allo schermo principale. Guardò per l’ultima volta Kronos, dov’erano i suoi genitori, e poi la Keter, dov’erano i suoi amici. «Un giorno ci rivedremo» mormorò, mentre la nave puntava verso lo spazio aperto.
   «Come ti senti?» chiese Jack, venendole accanto.
   «A pezzi» confessò la mezza Andoriana. «La mia unica consolazione è che almeno siamo insieme. L’ho desiderato a lungo, ma... non mi aspettavo che sarebbe stato così».
   «Prendiamo quello che ci è dato» si rassegnò l’Umano. «Comunque il nome della Banshee comincia già a circolare. Sull’Olonet girano teorie molto fantasiose sulla tua identità».
   «È solo l’inizio» disse Jaylah, con la ferocia negli occhi. «Voglio che le teorie si moltiplichino. Che diventino sempre più strampalate. Che nessuno possa più distinguere il vero dal falso. Così Rangda vedrà che le sue sporche tattiche possono essere usate contro di lei. Voglio che quella dittatrice non dorma la notte, per il timore che io la scovi. E se dovesse succedermi qualcosa, voglio che altri siano pronti a impersonare la Banshee».
   «Caspita, ricordami di non farti mai arrabbiare!» scherzò Jack. «Bene, si parte. Vuoi dare tu l’ordine?».
   «Oh, sì!» gongolò la mezza Andoriana.
   Andarono al centro della plancia, dove i vecchi padroni Orioniani avevano posto la poltrona di comando, così sontuosa da sembrare un trono. Dopo l’arrivo di Jaylah, lo Spettro ne aveva fatta sistemare un’altra simile, per lei. «Prego, mia regina» disse, facendole l’occhiolino. La invitò galantemente ad accomodarsi e poi le sedette a fianco.
   Jaylah pensò agli strani, imprevedibili casi della vita che l’avevano resa prima Agente Temporale e poi “regina” corsara. Sapeva che la sua vita era stravolta, che nulla sarebbe stato più come prima. Eppure, guardando le stelle, riuscì ancora a provare speranza. «Avanti, ciurma!» ordinò, entrando già nel ruolo. «Rotta per Jaros II. Ci sono ancora molti fratelli e sorelle da liberare. Yo-ho!».
 
   «Buona fortuna» mormorò Vrel, vedendo la Stella del Polo che balzava a curvatura. La partenza di Jaylah aveva lasciato un vuoto nella sua vita. Almeno stava di nuovo con Zafreen. E poteva cercare di farsi amico il dottor Smirnov, che d’ora in poi li avrebbe accompagnati in missione, e sembrava avere ancora degli assi nella manica.
   «Rifornimenti completati, tutte le sezioni danno l’OK» disse Norrin.
   Riscotendosi dai suoi pensieri, il timoniere diresse la Keter fuori dall’orbita di Kronos e impostò la rotta. «Pronti alla partenza, Capitano» disse.
   «Un momento» lo fermò Hod. Sentiva di dover rivolgere qualche parola d’incoraggiamento alla sua malconcia ciurma, prima di gettarla di nuovo in missione. Premette un comando sul bracciolo, collegandosi con tutta la nave.
   «Signori... oggi mi rivolgo a voi non come ufficiali della Flotta Stellare, ma come amici in un difficile frangente» disse. «Questi sono tempi bui, la prima Guerra Civile della storia federale. Saremo messi alla prova come mai prima d’ora. Invece d’esplorare nuovi mondi, dovremo riconquistare quelli che ci sono stati strappati. Di fronte a questo doloroso compito, non ci tireremo indietro. Abbiamo giurato di proteggere l’Unione Galattica... e oggi dobbiamo proteggerla da se stessa. Dal mostro in cui si è trasformata. Le restituiremo la sua anima, a qualunque costo. E chiunque ci sbarri la strada... anche in buonafede... conoscerà la nostra ira».
   Il Capitano osservò i suoi ufficiali di plancia: Norrin, Terry, Vrel, Zafreen. Pensò a Dib che era rimasto malgrado l’ordine di rientro, a Ladya che aveva salvato le memorie di Dax, a Juri che li aveva seguiti pur essendo un civile. Ecco chi le era stato tanto leale da seguirla fino a quel punto. Né poteva scordarsi di Jaylah e del dottor Joe, che in quel momento combattevano le loro battaglie su altre astronavi. Finché la Flotta Stellare aveva simili difensori, l’Elaysiana si disse che erano Rangda e i Pacificatori a dover tremare. E quando la Keter balzò nel tunnel di cavitazione, il Capitano sentì che le loro vite non erano finite, anzi, erano appena ricominciate.
 
   «Prego, dottor Lambeos» disse la guardia, mentre il portone davanti a loro si spalancava.
   Lo scienziato si fece coraggio ed entrò nella sala dell’Assemblea. Era un vasto ambiente circolare, con il simbolo dell’Autorità Voth sul pavimento e i seggi degli Anziani disposti su più livelli. Lambeos individuò subito il senatore Towt, che gli era stato segnalato da Frola come un possibile alleato. In un seggio più elevato degli altri vi era invece il Cancelliere Shantu, eletto da pochi anni, ma appoggiato da una solida maggioranza. Appartenevano entrambi al partito Riformista, che si era battuto strenuamente per riconoscere l’Origine Lontana. Se in questo erano stati contestati fino all’ultimo dai Conservatori, in nome dell’antica Dottrina, il successivo attacco alla Terra era stato votato all’unanimità da tutti gli Anziani. Questo orgoglio aristocratico che si traduceva nell’insopprimibile necessità di rivendicare il proprio “retaggio” era l’unica cosa che univa i due schieramenti, si disse il biologo con rimpianto. S’inchinò rispettosamente davanti agli Anziani, che da parte loro lo accolsero con un lungo applauso.
   «Benvenuto, dottor Lambeos» lo accolse il Cancelliere. «Dato il suo ruolo di primo piano nella riscoperta del Mondo Perduto, vorremmo che ci riferisse come sono andate le cose. Poiché siamo già informati sugli aspetti scientifici, dai suoi precedenti rapporti, la prego di focalizzarsi sulla riconquista del pianeta. Ci dica, in breve, come lo avete reclamato».
   «Volentieri, Vostro Onore» disse il biologo molecolare. «Una volta ricevuto il vostro ordine a procedere, l’Ammiraglio Hadron ha agito con prontezza, circondando il pianeta con l’intera flotta. Ha bloccato le trasmissioni e gli spostamenti, dando all’Unione un ultimatum di dieci giorni locali per consegnare la Terra. L’Unione è andata comprensibilmente in allarme, tanto da radunare una flotta di cinquecento navi presso il sistema stellare adiacente. Dovete sapere che questa è solo una piccola frazione del potenziale bellico federale. La mancanza di tempo, sommata ad altri casi avversi, ha impedito al nemico di raccogliere una forza più consistente».
   Come Lambeos sperava, tra gli Anziani corsero mormorii e sguardi preoccupati. Non avevano la più pallida idea delle conseguenze catastrofiche del loro orgoglio; ma ci avrebbe pensato lui a informarli.
   «Nei giorni dell’Assedio, l’Ammiraglio ha condotto trattative ad alto livello con la Presidente Rangda. Poiché non conosco i dettagli, li rimando alla testimonianza degli ufficiali che hanno fatto ritorno con me» proseguì lo scienziato. «Posso dirvi che la Presidente è stata possibilista riguardo alla cessione della Terra, ma l’accordo non è stato finalizzato entro lo scadere dell’ultimatum. Per quell’ora, dunque, la flotta federale ha circondato la nostra. A quel punto l’Ammiraglio Chase ci ha intimato di non prelevare i Terrestri, o la sua flotta avrebbe aperto il fuoco. Pensando a un bluff, Hadron ha ignorato la minaccia, dando via al sequestro. Ma la Flotta Stellare ha cominciato a sparare, obbligandoci a rispondere con le armi».
   L’agitazione tra gli Anziani crebbe e il Cancelliere prese la parola. «Sono stati fatti tutti i tentativi per evitare il conflitto armato?» chiese.
   «Temo che il conflitto fosse inevitabile» rispose Lambeos. «Abbiamo reclamato la capitale di una potente Unione di specie, un pianeta su cui vivono dieci miliardi d’individui, solo per metà Umani. Capite quindi che ci siamo inimicati non solo l’umanità, ma anche il resto dell’Unione. Ma in fondo cos’è l’ostilità di qualche centinaio di specie, in confronto alla soddisfazione di reclamare il Mondo Perduto?» chiese in tono disinvolto. Come sperava, la sua domanda non tranquillizzò affatto gli Anziani, anzi accrebbe il loro nervosismo.
   «Continui» disse il Cancelliere.
   «La battaglia è stata lunga e sofferta» riprese lo scienziato. «Devo ammettere che all’inizio le cose andavano male, perché i federali ci schiacciavano contro lo Scudo Planetario. Eravamo presi tra due fuochi: da una parte le astronavi nemiche, dall’altra le piattaforme difensive orbitali. I nostri vascelli erano ammucchiati, mentre i loro avevano spazio per manovrare e potevano mettersi fuori tiro se danneggiati».
   «L’Ammiraglio Hadron non lo aveva previsto?» si accigliò Shantu.
   «Dovreste chiederlo a lui, Vostro Onore» si schermì Lambeos. «Io posso solo dirvi quel che ho visto. In verità, credo che l’Ammiraglio contasse interamente sulla nostra superiorità tecnologica. Si basava sui resoconti dello scontro con la Voyager, quando la nostra Nave Città prevalse facilmente. Ma dovete sapere che i federali progrediscono molto in fretta. Le loro navi di oggi sono ben più armate e resistenti della Voyager. E più veloci: la loro cavitazione quantica è affine alla nostra transcurvatura, ma alcune hanno anche uno speciale propulsore cronografico che permette loro di traslarsi all’istante da un punto all’altro della Galassia. Infatti non mi stupirei se i federali cercassero vendetta contro i nostri pianeti... suggerisco di vigilarli attentamente» disse, per distogliere il grosso delle forze armate dall’attacco all’Unione.
   A quell’avviso, gli Anziani si spaventarono ancora di più. Per una società immobile e stagnante come la loro, era tremendo sapere che altre potenze minacciavano il loro primato tecnologico. La notizia del propulsore cronografico, in particolare, era un colpo terribile: significava che i loro mondi non erano più al sicuro.
   «Quante perdite abbiamo subito nella Riconquista?» domandò il senatore Towt.
   «Dieci astronavi sono state distrutte, altre quaranta danneggiate. Il numero delle vittime supera le cinquantamila unità» rispose Lambeos senza giri di parole. Il brusio tra gli Anziani crebbe a tal punto che lo speaker dell’Assemblea dovette richiamarli all’ordine.
   «E questo è niente... temo proprio che la guerra continuerà a lungo, imponendoci sacrifici ben più gravosi» proseguì lo scienziato in tono fatalista. «Pensate che, a un certo punto, l’Ammiraglio ha ordinato la ritirata».
   «Che?! Questo non c’era nel rapporto preliminare!» s’indignò il Cancelliere.
   «Ah, davvero? Che strano... non riesco a immaginare il motivo di nascondervi un fatto così rilevante» disse Lambeos, ormai apertamente beffardo. «Ma ci sono molti testimoni che possono confermare, anche qualora i diari dei sensori fossero... incompleti» aggiunse, così che al sospetto d’incompetenza nei confronti di Hadron si sommasse quello di disonestà.
   «Dicevo: poiché le nostre perdite aumentavano, l’Ammiraglio ordinò la ritirata. Fu allora che la Presidente Rangda, a sorpresa, venne in nostro soccorso. Ordinò alla Flotta Stellare di cessare le ostilità e persino d’aiutarci nel trasferimento dei Terrestri».
   «Perché un cambio di strategia così repentino? E perché proprio in quel momento?» si meravigliò il Cancelliere.
   «Ecco... non sono un analista politico, ma credo che l’Unione sia lacerata da una faida tra la Presidente e la Flotta Stellare» rivelò Lambeos. «In pratica Rangda ci ha sfruttati per sbarazzarsi dei suoi oppositori. Molte navi della Flotta hanno rifiutato di obbedire e si sono ribellate, ma ormai le sorti della battaglia erano girate in nostro favore. Con l’aiuto dei lealisti, siamo riusciti a scacciare i ribelli. Così abbiamo finalmente reclamato la Terra, salvo l’isola di Atlantide. L’Ammiraglio l’ha generosamente lasciata agli attuali proprietari, sia perché si tratta di un’isola artificiale che non esisteva all’epoca dei nostri avi, sia perché lì si trova la capitale dell’Unione».
   «Uhm, non sarà facile spartire il Mondo Perduto coi mammiferi» commentò Shantu. «L’Ammiraglio avrebbe dovuto reclamarlo per intero».
   «Credo fosse una delle condizioni per avere l’appoggio di Rangda» spiegò Lambeos. «Dopo aver finalizzato l’accordo, abbiamo iniziato a trasferire i Terrestri sui mondi adiacenti. Infatti l’Ammiraglio chiede che gli mandiate almeno un centinaio di navi trasporto, per accelerare le operazioni. Altrimenti serviranno molti anni per sgombrare la Terra dall’attuale popolazione. D’altra parte vi sconsiglia d’inviare subito i coloni, dato che al momento non può garantire la loro incolumità».
   «Vedremo se sarà possibile accontentarlo» disse il Cancelliere, infastidito da tutte queste richieste e complicazioni. «Ma vorrei che approfondisse il discorso su questa faida interna all’Unione, dottor Lambeos».
   «Oh, è stato un colpo di fortuna, perché altrimenti non saremmo mai riusciti a reclamare la Terra!» esclamò il biologo, apparentemente patriottico. In realtà stava minando sempre più la sicurezza degli Anziani. «Lo scontro è dilagato in tutta l’Unione, devastando interi pianeti, gettando odio fra civiltà che erano convissute in pace per secoli. Posso dire, senza timore di sbagliarmi, che abbiamo provocato uno dei maggiori conflitti della storia galattica».
   Più lo scienziato parlava, più lo sconcerto si diffondeva nell’Assemblea. Solo adesso gli Anziani iniziavano a comprendere la loro irresponsabilità. E poiché i Voth non erano una specie sanguinaria, molti di loro si sentivano in colpa, anche se non l’avrebbero mai ammesso.
   «Pensate che un terzo dei sistemi federali ha dichiarato la secessione» proseguì il biologo. «Hanno eletto una nuova capitale, con un Consiglio Federale e un Comando di Flotta in esilio. Si tratta di una vera e propria guerra civile. I ribelli hanno giurato di abbattere Rangda e d’espellerci dalla Terra».
   «Falliranno! Il nostro primato tecnologico è insuperabile!» insorse un senatore dell’ala conservatrice.
   «Ma certo che falliranno» disse Lambeos, condiscendente. «Tra qualche anno, quando i ribelli saranno sconfitti, potremo finalmente dormire sonni tranquilli e magari azzardarci a trasferire i nostri coloni sulla Terra. Ma fino ad allora devo esortarvi alla prudenza, onorevoli Anziani. La Presidente Rangda ci sta usando per combattere la sua guerra privata contro la Flotta Stellare. L’Ammiraglio Hadron le ha promesso che sosterrà economicamente i lealisti, venderà loro armi e contribuirà alle operazioni di peacekeeping. Per questo devo sollecitarvi a inviare quanto prima gli aiuti. Abbiamo già trasmesso la lista ai Ministeri competenti».
   «L’Ammiraglio ha preso troppe decisioni per proprio conto!» protestò Towt. «Doveva consultarci, prima di assumere tutti questi impegni. Non sappiamo nemmeno quanto durerà la guerra!».
   «Silenzio!» disse Shantu, ma anche lui era corrucciato. «Dunque per mantenere il controllo del Mondo Perduto dobbiamo aiutare Rangda a prevalere. Tutto sommato poteva andare peggio. Se l’Unione fosse rimasta compatta contro di noi, dovremmo affrontare un conflitto assai più duro».
   «Ne convengo, Vostro Onore» disse Lambeos, sempre rispettoso nei toni, ma ansiogeno nei contenuti. «Tuttavia c’è una corsa alle armi senza precedenti, sia tra i lealisti – ora detti Pacificatori – sia tra i ribelli della Flotta. Questi ultimi hanno posto la loro capitale su Kronos, il pianeta dei Klingon, una razza di guerrieri noti per non arrendersi mai. Hadron lo ha attaccato con tutte le navi disponibili, ma vedendo le difese ha pensato saggiamente di ritirarsi, attendendo il momento più propizio».
   «Hadron... si è ritirato?!» s’indignò il Cancelliere.
   «Eh, sì... i ribelli sono troppo forti per sconfiggerli in un colpo solo. Come dicevo, serviranno anni – forse decenni – di guerra all’ultimo sangue» disse Lambeos con fatalismo.
   Vedendo che i senatori erano sempre più inquieti, il Cancelliere tentò di riprendere il controllo dell’Assemblea. Non voleva che il risentimento contro Hadron si trasformasse in risentimento contro di lui, dato che era stato lui a designare l’Ammiraglio per quella missione. «Onorevoli Anziani, questa inedita situazione ci offre grandi opportunità. Volevamo reclamare un mondo, ma se saremo scaltri riusciremo a controllare tutta l’Unione!» disse per allettarli.
   «L’Ammiraglio Hadron lo ritiene possibile?» chiese Towt, in tono scettico.
   «Sta lavorando in quel senso» ammise Lambeos. «Ma la situazione è complessa e in continua evoluzione. C’è anche il rischio che l’Unione si sfasci del tutto, nel qual caso i nostri coloni si troveranno circondati da centinaia di specie impazzite, unite solo nell’incolparci delle loro disgrazie. E mi sia concesso dire che se Rangda ha tradito la Flotta a nostro vantaggio, potrebbe tradire anche noi, dopo che avremo eliminato i ribelli. Ora che ci penso, se le vendessimo armi rischieremmo di vedercele puntate contro quando meno ce lo aspettiamo. Ma questi sono argomenti in cui non oso intromettermi» disse con la massima faccia tosta. «Da parte mia, posso solo suggerire umilmente di non fidarvi troppo di Rangda, e di non renderla troppo potente».
   «Se ci desse noie, potremmo sostituirla con un fantoccio più controllabile» suggerì un senatore.
   «Oppure potremmo smetterla d’invischiarci in un conflitto che non ci riguarda!» obiettò Towt. «Abbiamo reclamato il Mondo Perduto, come volevamo. Dovremmo accontentarci, prima di ritrovarci con la guerra in casa».
   «Silenzio, non è ancora il momento di questo dibattito!» li richiamò il Cancelliere. «Prima ascolteremo gli ufficiali, che ci esporranno nel dettaglio l’accordo con Rangda. Dottor Lambeos, lei può andare; ci ha dato molto su cui riflettere».
   «Un momento!» insisté Towt. «Vorrei sapere che ne è della dottoressa Gegen. Mi sembra strano che non sia tornata con lei, per riferirci questi fatti».
   «Temo che la stimata dottoressa non farà più ritorno» si rattristò lo scienziato. «Dovete sapere che era contraria alla Riconquista della Terra. Tanto contraria che ha cercato di sabotare la Nave Bastione del Colonnello Corythos, per avvantaggiare i ribelli durante una battaglia».
   L’Assemblea degli Anziani divenne una bolgia in cui tutti urlavano la propria indignazione, tanto che al Cancelliere servirono parecchi minuti per riportare la calma.
   «Mi unisco alla costernazione per il tradimento di Frola Gegen» disse Lambeos, ricorrendo a tutto il proprio autocontrollo per celare i suoi veri sentimenti. «È terribile esserle stato accanto così a lungo, senza sospettare nulla. Ma sono lieto d’informarvi che è stata scoperta e arrestata prima di riuscire nel suo intento. Dopo di che l’Ammiraglio non ha avuto altra scelta che condannarla a morte per i reati d’alto tradimento, sabotaggio e istigazione alla rivolta. La traditrice, infatti, ha anche diffuso un messaggio in cui esorta i ribelli a resisterci... che disonore per tutti noi. Comunque il suo ultimo desiderio è stato che la sua esecuzione fosse pubblica, quindi può darsi che si fosse pentita e volesse mostrare col suo triste esempio la sorte dei traditori. Hadron le ha accordato il favore, infatti ho con me la registrazione: vi prego di renderla pubblica».
   «Lo faremo» promise il Cancelliere. «Così, se a qualcuno venisse la malsana idea d’imitarla, saprà a cosa va incontro. Ora vada, dottor Lambeos».
   «Riverisco l’Assemblea» disse lo scienziato con un inchino, e si ritirò. Alle sue spalle salivano già le proteste degli Anziani per quella guerra che si prospettava ben più difficile e costosa del previsto.
   Tornato nel suo alloggio, lo scienziato accese l’oloschermo e seguì attentamente il dibattito dell’Assemblea. Non si sentivano ancora voci contrarie alla Riconquista della Terra, ma gli Anziani si stavano dividendo in due schieramenti. Alcuni, sulla scia del Cancelliere, volevano approfittare dell’occasione per assumere il controllo dell’Unione e perciò erano disposti a soddisfare le richieste di Hadron. Altri, spaventati dalla situazione, volevano accontentarsi della Terra, evitando ulteriori coinvolgimenti nella Guerra Civile. Towt propose addirittura d’inviare degli ispettori governativi che valutassero l’operato dell’Ammiraglio, richiamandolo se avessero riscontrato degli abusi di potere. Lambeos si disse che doveva seguire il consiglio di Frola e contattare Towt per costruire un’ala di dissenso. Bisognava alimentare lo scontento, così che Hadron si trovasse abbandonato dall’Assemblea, senza gli aiuti che aveva promesso a Rangda. In tal modo i ribelli avrebbero avuto una speranza di vittoria.
   Era una sfida difficilissima e Lambeos non sapeva se sarebbe riuscito ad affrontarla con la necessaria accortezza. Il minimo errore poteva essergli fatale. Ma considerando che il suo ingenuo entusiasmo aveva gettato una florida civiltà nell’orrore della Guerra Civile, non poteva esimersi dal provarci. «Occhi aperti!» si disse.
 

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


 

-Epilogo:

Data Stellare 2591.84

Luogo: Elaysia

 

   L’autunno era arrivato presto quell’anno, tingendo le chiome degli alberi con l’usuale tavolozza di colori caldi. Le foglie si staccavano e cadevano al suolo con la lentezza data dalla bassa gravità del pianeta. Il signor Hod, che camminava sul ciglio della strada mentre rincasava dal lavoro, ne afferrò una a mezz’aria, prima che toccasse il suolo. La osservò con nostalgia, notandone la forma a stella e le delicate venature all’interno. Ricordava quando, da piccoli, lui e sua sorella Bina le raccoglievano e poi le usavano per comporre fantasiosi collage. Accadeva prima ancora che si trasferissero, con la famiglia, sull’Enterprise-J: sembrava passato un secolo. Dopo la morte del padre ad Andromeda erano tornati su Elaysia, dove lui era rimasto. Sua sorella, invece, non aveva resistito al richiamo delle stelle. Per lei si era spalancata l’Accademia, poi una rapida carriera nella Flotta Stellare, culminata col comando della USS Keter.

   Poi il baratro.

   Da mesi Yesod Hod non aveva notizie dirette della sorella. Sapeva solo ciò che dicevano i notiziari, ovvero che i Pacificatori non l’avevano ancora scovata. Si augurò che fosse vero. Perché col clima di caccia alle streghe che imperversava in tutta l’Unione, non si aspettava che la lasciassero in vita. Con un sospiro, l’Elaysiano lasciò cadere la foglia secca e affrettò il passo verso casa. Era stata una giornata stressante, in ufficio; adesso voleva solo tornare dalla sua famiglia e riposarsi.

   Raggiunse ben presto il condominio in cui viveva, un edificio dignitoso anche se un po’ anonimo, la cui sagoma massiccia era appena ingentilita dai giardini pensili. Salutò il robo-custode e prese l’ascensore fino al ventiquattresimo piano, dov’era il suo appartamento. Posò rapidamente la mano sul lettore di DNA, che lo riconobbe e gli aprì la porta. Finalmente mise piede in casa.

   «Tesoro, sono tornato!» esclamò.

   Sua moglie non era in vista, ma in compenso ecco sbucare dal salotto un vispo bambino di otto anni. Era Nizak, suo figlio maggiore. «Ciao, papà!» gridò il ragazzino, correndogli incontro. «Sai che oggi a scuola ci hanno insegnato la storia degli Umani?» chiese, eccitatissimo.

   «Degli Umani, eh?» fece Yesod, per nulla rallegrato. «Da quanto so, hanno una storia complicatissima. Non credo che la maestra ti abbia insegnato granché, in un giorno».

   «Invece ci ha detto tante cose!» rivendicò il ragazzino. «Le vuoi sentire?».

   «Fammi appoggiare le cose e poi ti ascolterò» promise il padre. Depose la valigetta, si sfilò la giacca e sostituì le scarpe con delle comode pantofole.

   «Ciao, amore» gli disse sua moglie Shekina, emergendo dalla camera-ufficio in cui lavorava in smart working. «Hesed si è di nuovo azzuffato col figlio dei Pazlar» avvertì. «L’ho messo in punizione. Se dopo vuoi parlargli, è nella sua camera».

   «Lo farò senz’altro» promise Yesod, dandole un rapido bacio. «Ma prima devo sentire le meraviglie della storia umana».

   L’Elaysiano tornò in soggiorno e si accomodò sul divano. Nizak gli venne davanti, quasi saltellando dall’impazienza. «Forza, dimmi tutto!» lo invitò il padre, ansioso di farlo sfogare, per andare poi a parlare col figlio più piccolo.

   Il ragazzino prese fiato e si concentrò, cercando di ricordare le esatte parole usate dall’insegnante. «Gli Umani sono una specie predatrice e inquinante originaria del pianeta Vothan» cominciò.

   «Frena, frena, professore!» lo bloccò il padre. «Da quel che so, fino a quattro mesi fa si chiamava Terra».

   «Sì, ma ora che sono tornati i Voth gli hanno dato il loro nome» spiegò prontamente il ragazzino.

   «E perché dovremmo privilegiarlo, rispetto all’altro?».

   «Perché i Voth si sono evoluti per primi, milioni di anni fa. Gli Umani sono apparsi dopo».

   «Uhm... però durante l’evoluzione umana i Voth non c’erano. Se n’erano andati» sottolineò Yesod.

   «Sì, ma non si sa il perché. Forse i cambiamenti climatici li avevano costretti ad andarsene» disse Nizak. «Comunque gli Umani sono venuti per secondi. Hanno cominciato subito a farsi la guerra per le risorse, per gli dèi e per altri motivi assurdi. Ogni volta che due popoli entravano in contatto, il più forte schiavizzava il più debole. Sapevi che per millenni la schiavitù è stata legale, sulla Terra?!» chiese, stentando a crederci.

   «Si può dire lo stesso di quasi tutti i pianeti... incluso il nostro» sospirò Yesod, a cui non era sfuggita l’enfasi sugli aspetti deteriori della Storia umana.

   Il ragazzino sgranò gli occhi, ma poi riprese: «La maestra ci ha detto che la storia umana è fatta dalle Crociate, dall’Inquisizione, dal colonialismo e dalle guerre mondiali».

   «Beh, quelli sono gli aspetti peggiori, ma ci sono moltissime altre cose da dire» si accigliò il padre. «Sarebbe come se io ti dicessi che la nostra storia è fatta dalla Guerra dei Tredici Anni. Ci sono stati molti altri eventi, e non tutti tristi, giusto? Abbiamo avuto anche scoperte scientifiche, invenzioni utili, trattati di pace. Per gli Umani vale lo stesso».

   «Beh, sì» ammise Nizak, un po’ confuso. «Dopo l’ultima guerra mondiale, gli Umani hanno scoperto la curvatura e sono andati nello spazio in cerca di risorse. Hanno chiesto aiuto ai Vulcaniani per ricostruire il loro pianeta, poi si sono alleati anche con altre specie, per sconfiggere i Romulani. Così hanno creato la Federazione, che trent’anni fa è diventata l’Unione Galattica. Gli Umani hanno voluto a tutti i costi che la capitale fosse il loro mondo, così si sono arricchiti e hanno imposto le loro regole a tutti. Hanno anche creato la Flotta Stellare, per controllarci e per rubarci le tecnologie. Però adesso ci siamo liberati, finalmente. La Terra è tornata ai Voth e gli Umani hanno smesso di comandare. Però non vogliono perdere il potere, così hanno scatenato la Guerra Civile per ucciderci tutti. Allora la Presidente Rangda ha creato i Pacificatori, per proteggerci. Papà, ti posso chiedere una cosa?».

   Frastornato da quel profluvio di faziosità e luoghi comuni, Yesod si massaggiò le tempie. «Dì pure, piccolo».

   «Se la Flotta Stellare vuole ucciderci, perché la zia Bina ci lavora ancora? Non dovrebbe passare ai Pacificatori, come hanno fatto tanti altri ufficiali?» chiese il ragazzino, smarrito.

   «Okay, stammi a sentire» disse il padre, facendosi serio. «La Flotta Stellare non vuole ucciderci... e non è mai servita a controllarci. È vero, era troppo umano-centrica; ma questo accadeva tempo fa. Io e la zia siamo vissuti sull’Enterprise-J per qualche anno, e non siamo mai stati maltrattati dagli Umani. L’unica cosa seccante era che i nomi e le scritte erano sempre in inglese, ma d’altra parte bisognava pur scegliere una lingua. Se ne avessero scelta un’altra, magari l’Andoriano, adesso saremmo qui a lamentarci comunque. Io credo che non ci si debba ossessionare per queste cose».

   «Ma adesso la Flotta Stellare si è ribellata! È al servizio dei Separatisti e attacca i nostri pianeti! Verranno a bombardare anche noi?!» chiese il figlio, sempre più spaventato.

   Yesod si rese conto che non era facile rispondere. La Guerra Civile era un argomento troppo complesso per un bambino di otto anni, come anche per la maggior parte degli adulti. Lui stesso non la capiva appieno. Notando un movimento con la coda dell’occhio, l’Elaysiano girò la testa e vide che sua moglie era sulla porta. I loro sguardi s’incrociarono.

   «Mamma, che c’è?» chiese Nizak, stupito dal suo silenzio.

   «Aspetta un momento» disse Yesod, facendogli segno di star fermo. Si alzò e andò a confabulare con la moglie. Parlavano così piano che il figlio non li sentiva, ma notò che erano tesi. In suo padre sembrava prevalere lo sdegno, in sua madre la paura, ma alla fine trovarono un accordo.

   «Allora, che succede?!» tornò a chiedere il ragazzino, temendo d’essere lui la causa di tutto.

   I suoi genitori lo guardarono con insolita gravità. «Dopocena andremo in un posto dove qualcuno, più ferrato di noi, ti racconterà la vera storia della Flotta Stellare» disse Yesod. «Tu però devi promettere che non ne parlerai a nessuno: né ai tuoi amici, né agli insegnanti. Non dirai dove siamo stati, né chi abbiamo ascoltato, e nemmeno chi c’era con noi. È molto importante».

   «Perché?».

   «Perché se la cosa si venisse a sapere, saremmo arrestati» rivelò Shekina, mordendosi il labbro.

   Nizak strabuzzò gli occhi. «Ma perché?! È una cosa proibita?» chiese, tra l’eccitato e lo spaventato.

   «In una società libera e democratica, non lo sarebbe» rispose seccamente Yesod. «Ma la nostra società è cambiata, e fra poco capirai quanto. Allora, prometti di non farne parola con nessuno?».

   «Promesso» disse il bambino, mettendosi la mano sul cuore. «Verrà anche Hesed?».

   «No, lui è troppo piccolo. Lo lasceremo con la tata olografica» disse Shekina. «Tra qualche anno, se tutto va bene, porteremo anche lui».

 

   Yesod andò dal figlio più piccolo, di sei anni, ammonendolo di non azzuffarsi più col figlio dei vicini. «Dopo cena io, la mamma e Nizak andremo a fare una passeggiata» disse. «Tu resterai qui con l’olo-tata» aggiunse, senza specificare se era parte della punizione.

   «Okay, papi» disse Hesed, un po’ mogio.

   «È pronto!» chiamò Shekina dalla cucina. Fortunatamente non ci voleva molto a preparare la cena, grazie ai replicatori. La famiglia sedette attorno al tavolo e mangiò abbastanza allegramente. Shekina metteva sempre della musica di sottofondo, perché non voleva che Yesod ascoltasse i notiziari, che avrebbero spaventato i bambini. Era meglio informarsi quando i piccoli non potevano sentire. A fine pasto tutti rimisero piatti, posate e bicchieri nel replicatore, dove furono riconvertiti in energia. Dopo di che la coppia si preparò a uscire con il figlio più grande, come promesso.

   «Fai il bravo, mi raccomando!» disse Shekina al secondogenito, dopo averlo affidato all’olo-tata. «A nanna alle nove in punto!» ribadì a quest’ultima.

   «È un ologramma, non può dimenticarselo. Dai, vieni» la richiamò Yesod, che assieme a Nizak era già sulla porta.

   I tre lasciarono l’appartamento e presero l’ascensore. Con enorme sorpresa del bambino, Yesod premette il tasto per scendere sottoterra, nello scantinato. «Ti sei sbagliato!» disse Nizak.

   «No, per niente» rispose il padre. «Non dobbiamo uscire dal condominio».

   «Ma...».

   «Abbi pazienza; fra poco vedrai».

   Giunti al livello più profondo, i tre lasciarono l’ascensore. Percorsero un breve corridoio, in cui si aprivano varie porte. Il bambino sapeva confusamente che lì c’erano dei magazzini, oltre alla centralina di controllo degli impianti condominiali; ma non era mai stato in nessuna di quelle stanze. I genitori procedettero a passo spedito, costringendolo a trotterellare. Yesod era avanti a tutti e contava le porte, per riconoscere quella giusta. Nizak lo seguiva. Alla retroguardia c’era Shekina, che sospingeva il figlio e si volgeva spesso indietro con ansia, a controllare che non li seguisse nessuno.

   «Ci siamo» disse Yesod, fermandosi davanti a una porta. Posò la mano sul lettore genetico, che lo riconobbe e gliela aprì. «Dentro, presto!». Spinse dentro il figlio, lasciò passare anche la moglie e infine entrò lui stesso, dopo un’ultima occhiata al corridoio.

 

   Nizak si guardò attorno meravigliato. Era in uno stanzone semi-abbandonato, come indicavano le pareti scrostate e l’odore di stantio. Qua e là c’erano delle casse, forse contenenti vecchia roba lasciata lì dalle famiglie. Le casse erano state poste in cerchio e venivano usate come sedili improvvisati da una quindicina di persone, lì radunate. Il bambino riconobbe meravigliato che erano tutti inquilini del condominio. Per la precisione erano famiglie con ragazzi della sua età o poco più grandi. Tutti quanti osservavano una donna dai capelli castani, vestita di rosso, che stava ritta in mezzo a loro, con le mani incrociate dietro la schiena. Era una Trill, a giudicare dalle macchie violette che le incorniciavano il viso. Allacciato al braccio portava uno strano congegno metallico, di forma triangolare. Dalla sua posa, e dall’attenzione che le riservavano gli altri, sembrava che fosse lì per tenere un discorso.

   All’ingresso degli Hod, tutte le facce si volsero ansiosamente verso di loro. «Buonasera» disse Yesod, con la stessa naturalezza che se li avesse incontrati casualmente nell’atrio. «Scusate se ci presentiamo così all’improvviso, ma ho pensato che fosse ora di portare mio figlio. A scuola gli hanno detto alcune cose che sarebbe meglio correggere».

   La tensione si allentò. «Siete i benvenuti. Qui avevamo appena cominciato» disse il signor Pazlar, un uomo robusto di mezz’età. Si alzò e venne loro incontro. «Ciao, Nizak. Come stai?» chiese al bambino.

   «Io... bene» rispose lui, sempre più confuso. «Ma cosa fate qui? Chi è lei?» chiese, indicando la Trill.

   «Mi chiamo Lela Dax» rispose l’interpellata. «Chiedimi ciò che vuoi».

   «Intendeva chi sei veramente» puntualizzò Pazlar.

   «Ah, certo» si scusò la Trill. Raddrizzò la schiena e si schiarì la voce. «Sono una TOE: Testimone Olografica d’Emergenza. La mia banca dati contiene tutte le memorie del Simbionte Dax, copiate mediante il mind uploading prima della sua morte. Ovviamente non sono l’unica: esistono migliaia di mie copie, che vengono contrabbandate in tutta l’Unione».

   «Quindi sei un ologramma?» chiese Nizak, confuso e un po’ intimorito.

   «Ma certo. Questo è il mio Emettitore Autonomo, che mi permette di manifestarmi anche in ambienti privi di proiettori olografici» spiegò la TOE, sfiorandosi il congegno triangolare allacciato al braccio.

   «E che ci fai qui?» volle sapere il bambino.

   «Poco dopo l’inizio della guerra, un Umano di nome Smirnov è venuto da me» spiegò Yesod, accucciandosi sui talloni per portare il suo volto alla stessa altezza di quello del figlio. «Ha detto di venire dalla Keter e di avere un dono da parte della zia Bina. Mi ha dato quell’Emettitore col programma del TOE, pregandomi di farne delle copie e diffonderle il più possibile. Ho fatto come chiedeva, ma ho conservato l’Emettitore originale. Lo tengo qui, a disposizione delle famiglie di cui mi fido» spiegò, accennando ai presenti. «Ogni sera chi vuole può venire a interrogarlo».

   «Ma... perché? A cosa serve?» chiese Nizak, sempre più stupito.

   «È un testimone, quindi ci racconta i suoi ricordi» spiegò il padre. «Vedi, i Simbionti Trill vivono molti secoli, passando da un Ospite all’altro. Ogni Ospite accede alle memorie di quelli che l’hanno preceduto, quindi può ricordare fatti accaduti molto prima della sua nascita. Ma quando anche il Simbionte muore, e prima o poi accade, tutte quelle memorie sono perdute per sempre. E c’è di peggio. Negli ultimi tempi l’Unione sta requisendo i Simbionti, con la scusa che sono malati, ma si vocifera che in realtà li uccida. Anche il dottor Smirnov me l’ha confermato. Così la memoria del passato sta morendo. Perciò la zia Bina ha fatto sì che i ricordi di Dax fossero registrati su questa matrice olografica».

   «Possiamo interrogarlo sulle sue vite e l’ologramma risponderà, raccontandoci com’erano la Federazione e la Flotta Stellare nei secoli passati» aggiunse Shekina.

   «Che bisogno c’è di chiederlo a lui? Ci sono l’Enciclopedia Federale e i video-libri di storia» obiettò Nizak.

   «Questo è il problema» sospirò Yesod. «Da quando è cominciata la Guerra Civile, l’Enciclopedia e i video-libri vengono riscritti continuamente, per mettere in cattiva luce gli Umani e la Flotta Stellare. Anche quello che t’insegnano a scuola purtroppo non è più affidabile».

   «Ma perché?!».

   «Perché vogliono farci odiare e temere il nemico» spiegò il padre. «Ma questo ologramma è un testimone che può raccontarci ciò che hanno visto gli Ospiti di Dax. Non sei curioso di sentire i suoi racconti?».

   «Io... s-sì» disse il bambino, osservando il TOE con timore, ma anche con interesse.

   «Allora vieni» disse Yesod, rialzandosi. Prese il figlio per mano e si accomodò con lui su una cassa. Shekina sedette con loro, tenendo il bambino nel mezzo. Anche il signor Pazlar tornò ad accomodarsi. Tutti si concentrarono sull’ologramma che stava al centro dello spiazzo, aspettando pazientemente che qualcuno la interrogasse.

   «Come dicevo, sono la Testimone Olografica d’Emergenza. La mia banca dati contiene tutte le memorie del Simbionte Dax. Chiedimi pure ciò che vuoi» disse questa, sorridendo incoraggiante al bambino.

   «Io vorrei sapere... quando sei nata» disse timidamente Nizak.

   «Parli del Simbionte, degli Ospiti o della matrice olografica?».

   «Del Simbionte».

   A questa richiesta, l’ologramma incrociò nuovamente le braccia dietro la schiena. «Il Simbionte Dax è nato in data stellare 2018.126 nelle Caverne di Mak’ala, su Trill. All’epoca i Trill avevano da poco scoperto la curvatura e la Federazione non esisteva ancora».

   «E la prima Ospite chi è stata?».

   «Quella che vedi: Lela» rivelò l’ologramma. Dopo di che passò a parlare in prima persona, secondo la sua programmazione. «Sono nata nel 2112 e nel 2168 ho ricevuto il Simbionte. Sono stata una legislatrice, una delle prime donne elette al Consiglio Trill. Vuoi conoscere tutta la mia biografia o hai domande più specifiche?».

   Visto che il bambino esitava, Yesod prese la parola. «Vorremmo che ci parlassi della Flotta Stellare» disse. «So che molti dei tuoi Ospiti ne hanno fatto parte: dicci quali».

   «Volentieri» disse la TOE. «Dei miei dodici Ospiti, ben tre si sono arruolati: Jadzia, Ezri e Ilia. Ma i miei rapporti con la Flotta sono iniziati molto prima, ai tempi di Curzon».

   Così dicendo l’ologramma cambiò aspetto. Adesso era un uomo robusto e stempiato, dai capelli brizzolati. «Io sono Curzon, settimo Ospite di Dax. Fui ambasciatore federale tra la fine del XXIII secolo e la metà del XXIV. Ho collaborato spesso con la Flotta, ad esempio quando negoziammo gli Accordi di Khitomer. Sono stato anche amico e mentore del Capitano Sisko» rivelò.

   Detto questo si trasformò di nuovo. Adesso era una bella donna dai capelli scuri, raccolti in una coda. Indossava l’uniforme scientifica della Flotta Stellare, così com’era ai suoi tempi: nera con le spalle blu. «Io sono Jadzia, ottava Ospite di Dax. Fui ufficiale scientifico su Deep Space Nine e sull’USS Defiant, negli anni tra la fine dell’Occupazione di Bajor e la Guerra del Dominio. Ho esplorato il Quadrante Gamma, mi sono scontrata coi ribelli Maquis, ho combattuto la guerra contro i Klingon e poi quella del Dominio, dove purtroppo ho trovato la fine» disse malinconicamente.

   L’Ospite successiva era ancora una donna, ma più bassa e dal viso più tondo. I suoi capelli erano nerissimi e corti. Indossava ancora l’uniforme scientifica, ma del decennio successivo: le spalle erano viola e il colletto blu. «Io sono Ezri, nona Ospite di Dax. Fui Tenente junior su Deep Space Nine e sulla Defiant nell’ultimo anno della Guerra del Dominio. In seguito passai alla sezione Comando, diventando Capitano dell’USS Aventine. I miei due successori non lavorarono più nella Flotta».

   L’ultima metamorfosi mostrò sempre una donna, ma più alta e dai capelli grigi, raccolti in una crocchia. Gli occhi erano verde acqua. Indossava l’attuale uniforme da Vice-Ammiraglio della Flotta. «Io sono Ilia, dodicesima e ultima Ospite di Dax» si presentò. «Fui Comandante dell’Enterprise-J negli Anni Cinquanta, poi Capitano per altri quindici anni. In seguito sono stata Vice-Ammiraglio, finché diciotto mesi fa mi sono dimessa per protesta in seguito all’abolizione della Prima Direttiva. Dopo la Caduta della Terra sono stata arrestata dai Pacificatori e imprigionata su Elba II, dove ho subito la rimozione forzata di Dax. Anche se l’USS Keter mi ha salvata, le condizioni del Simbionte si sono aggravate, obbligando i medici a impiantarmene uno nuovo e a registrare le memorie di Dax, prima che morisse. Al momento in cui questa matrice olografica è stata programmata, ho ripreso il ruolo di Vice-Ammiraglio presso la Flotta in esilio. Non possiedo informazioni successive a questa data».

   Gli spettatori la guardarono emozionati, specialmente gli Hod, che erano in qualche modo legati alle ultime vicende. Il piccolo Nizak sentì il cuore battergli forte, al pensiero di tutto ciò che poteva scoprire. «Quindi... la Flotta ha fatto delle cose buone?» chiese, sperando in una risposta affermativa. Non avrebbe mai voluto che sua zia partecipasse a un’organizzazione che faceva cose orribili, come gli avevano detto a scuola.

   «La Flotta Stellare ha difeso i mondi federali da innumerevoli minacce» confermò l’ologramma, sempre con l’aspetto di Ilia. «Anche se non tutti i suoi ufficiali sono sempre stati all’altezza degli impegni presi, la Flotta in sé è nata per ragioni umanitarie, oltre che di esplorazione, e non è mai venuta meno a questo ideale. Oggi si possono criticare certe sue scelte, ma non si può negare che la storia federale ne sia stata profondamente plasmata. Miliardi d’individui non sarebbero mai nati, se la Flotta non avesse collegato tanti popoli diversi. Quindi si può amarla o detestarla, ma non ci si può chiamare fuori causa, come se fosse qualcosa che non ci riguarda».

   «E gli Umani? È vero che hanno creato la Flotta per controllarci e per rubarci le tecnologie?» chiese il bambino, sempre più interessato.

   «Neanche per sogno!» rispose l’ologramma con decisione. «Gli Umani crearono dapprima la Flotta Astrale, allo scopo di proteggere la Terra, scoprire e colonizzare nuovi mondi, allearsi con altre specie. Questi obiettivi passarono alla Flotta Stellare quando nacque la Federazione. La Flotta ha sempre protetto i popoli federali, e talvolta anche gli altri, da ogni genere di minaccia, naturale o artificiale. Ha esplorato tutti i Quadranti e talvolta è uscita persino dalla Via Lattea, accrescendo la nostra comprensione dell’Universo. Ha fondato centinaia di colonie, avamposti e stazioni spaziali in cui oggi vivono e lavorano miliardi di persone. Ha fatto ricerca scientifica e favorito la libera condivisione di tecnologie tra le civiltà federali. Ha mediato la pace tra popoli che erano considerati implacabili nemici, permettendo alla Federazione e poi all’Unione di espandersi pacificamente, per libera adesione di nuovi membri. Sebbene gli Umani abbiano dato una forte impronta alla Flotta Stellare, non ne hanno mai abusato... almeno, non più di quanto abbiano fatto le altre specie».

   Nizak era rimasto a bocca aperta. «Ma tu hai conosciuto gli Umani? Hai detto che il Capitano Sisko era tuo amico... racconta!» chiese, con occhi scintillanti di curiosità e di passione per quelle storie mai sentite prima.

   «Volentieri, figliolo» disse l’ologramma, assumendo l’aspetto paterno e rassicurante di Curzon. «Conobbi Benjamin nel lontano 2355, alla Stazione Pelios, quando lui era Guardiamarina. Non avrei mai detto che quel giovanotto avrebbe fatto tanta strada, anche se notai subito che...».

   Il bambino si sporse in avanti, sempre più rapito dalla narrazione. I suoi genitori non lo rimproverarono anche se quella sera rimase alzato fino a tardi, per ascoltare le voci di Curzon, di Jadzia, di Ezri e di Ilia che gli raccontavano di un tempo in cui le cose erano molto diverse da adesso.

 

 

FINE

 

 

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