Oltre i Confini... di eia (/viewuser.php?uid=76092)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** LA CASA DEGLI ORRORI ***
Capitolo 3: *** LA COSA GIUSTA DA FARE ***
Capitolo 4: *** RICORDI ***
Capitolo 5: *** DOMANDE INOPPORTUNE ***
Capitolo 6: *** DUBBI E PAURE ***
Capitolo 7: *** ESSERCI ***
Capitolo 8: *** CONGETTURE ***
Capitolo 9: *** LANCIARE IL SASSO E RITRARRE LA MANO ***
Capitolo 10: *** REGALI E SORPRESE ***
Capitolo 11: *** STRANI DISCORSI ***
Capitolo 12: *** IL BAULE DEI RICORDI ***
Capitolo 13: *** NON CHIAMARMI DAVI... ***
Capitolo 14: *** QUEL QUALCOSA IN PIÙ' CHE... ***
Capitolo 15: *** epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
dello spazio e del tempo
PROLOGO:
Mi
chiamò un venerdì pomeriggio, sul tardi, era
già buio.
Di tutte le persone
che nel corso degli anni si erano allontanate da me, lui era
l’unico con cui non volevo più avere contatti.
Era stato il mio
grande amore o meglio, l’unico uomo che io avessi mai amato:
ma ci eravamo presi e lasciati così tante volte, e sempre
per colpa sua, che quel sentimento si era trasformato in una condanna.
Lo amavo ancora, ne ero pienamente cosciente, ma non potevo permettere
a me stessa di ricaderci. Ne sarei uscita un’altra volta
piegata.
Lasciai squillare
il telefono fissando il display, stringendo i pugni e i denti,
imponendomi di non prenderlo nemmeno in mano.
Mi resi conto che
stavo muovendo la testa leggermente, a ritmo con la musica che
procedeva senza intoppi. Per lui avevo scelto, come suoneria, la sigla
di Madagascar perché lo avevamo visto insieme, anni prima,
qualcosa come un miliardo di volte. Ci piaceva perché ci
rispecchiava: lui vestiva perfettamente i panni di Martin, la zebra,
con la sua voglia di fuggire dallo zoo e io quelli di Gloria,
l’ippopotamo, per la mia decisione ma anche per
l’accondiscendenza con cuoi accettavo tutto quello che mi
succedeva attorno. Anche se lui diceva spesso che ero più
come Melman, la giraffa malaticcia, dato che avevo la borsa
dell’acqua calda sempre a portata di mano.
Sentire quella
canzone divertente mi tolse il fiato. Non so quante volte
l’aveva scimmiottata lui per me…
Ricordo il sospiro
profondo che feci quando il telefono smise di suonare. Restai a
fissarlo per qualche minuto, sperando che non arrivasse un messaggio
che mi avvisava di avere una comunicazione in segreteria.
A riscuotermi ci
pensò il telefono sulla mia scrivania.
Il suo numero
lampeggiava sul display… Erano tredici anni che aveva quel
numero. Glielo avevo regalato io, il primo Natale che avevamo
festeggiato insieme, come coppia.
Non sapevo nemmeno
che avesse il numero del mio ufficio, non mi aveva mai chiamato
lì. Doveva essere qualcosa d’importante. Ma lo
stesso dubitai sul da farsi.
Alla fine, dopo
innumerevoli squilli, risposi. Non dissi nulla, non ne ero capace.
“Giada!?
Giada sono nei casini! Ho bisogno di aiuto!”
Le lacrime mi
oscurarono la vista: quella era la chiamata che avevo sempre temuto di
ricevere. Lui con le sue difficoltà economiche, con quel
giro di amicizie sbagliate, con il suo carattere istintivo e sfrontato,
un po’ da guerriero… sapevo che prima o poi si
sarebbe messo nei guai, nei guai seri.
E se ora, dopo
quasi tre anni di silenzio, chiamava me per aiutarlo, doveva proprio
essere nella merda fino al collo.
Non
riuscì a dire granché, era così
agitato che gli tremava la voce e il respiro pesante, come dopo una
lunga corsa, spezzava le parole già storpie.
Non capii molto ma
mi mise il cuore in pace sapere che non era in una centrale di polizia,
che non era sotto la minaccia di un’arma e che non era
morente in un letto d’ospedale. A quanto avevo capito mi
stava chiedendo più che altro un consiglio su cosa fare o
non fare in quel momento. Non mi aveva detto molto, ma era chiaro che
era una situazione incasinata, che c’era un problema serio.
Mi disse che non poteva parlarne al telefono, mi chiese se potevo
raggiungerlo e mi diede un indirizzo.
Già
mentre ne prendevo nota storsi la bocca. Non era casa sua, ma era
comunque nel suo vecchio quartiere, quello stesso quartiere che anni
prima, ai tempi della nostra prima storia, ai tempi delle superiori,
aveva faticato a mostrarmi.
Abitavamo nella
stessa città e le nostre case erano entrambe in rioni di
periferia solo che la mia era la periferia ricca, quella fatta di poche
vie e poche case, con enormi spazi verdi, con case enormi, ben tenute,
spesso sfarzose e con giardini enormi in cui era facile perdersi.
Mentre la sua era la periferia povera. Quella in cui le case sono
stipate in poco spazio, quella in cui il degrado era
all’ordine del giorno, quella in cui trovavi facilmente tutto
quello che era illegale.
Naturalmente i
nostri quartieri, come gli altri in città avevano dei nomi
illustri, per ricordare un santo o qualcosa che aveva reso quel posto
un tempo famoso, ma per tutti erano il Prada, il mio,
in onore al grande marchio e lo
zoo, il suo, perché le case e la gente che ci
viveva ricordavano proprio quel posto.
Non ero
sicura di
voler andare ma le sue parole, la sua voce e il solo fatto che mi
avesse cercato dopo tutto quel tempo perdi più in ufficio,
mi fece desistere.
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Capitolo 2 *** LA CASA DEGLI ORRORI ***
dello
spazio e del tempo
Capitolo 1: la
casa degli orrori
Scesa in garage,
valutai quale macchina prendere e alla fine optai per il Suv. Era
robusto e mi sembrava più sicuro e in più aveva i
vetri oscurati. Quel quartiere non mi era mai piaciuto e quella
macchina non sarebbe passata inosservata ma almeno potevo sperare di
non essere riconosciuta.
Non dovetti nemmeno
impostare in navigatore, come facevo di solito, conoscevo la strada a
menadito, c’ero andata così tante volte in passato.
Lo zoo si estendeva
lungo una statale quindi il traffico era caotico sempre, ma a
quell’ora era quasi impossibile muoversi.
Svoltai nella prima
viuzza che trovai, per non dover girare poi in quella che mi avrebbe
portata a passare davanti casa sua. Mentre controllavo il nome della
via sulla targa stinta, notai i primi sguardi incuriositi e ringraziai
il mio istinto per aver scelto quel mezzo, le altre macchine avrebbero
attirato ben più attenzioni.
Procedevo piano non
sapendo bene dove andare e intanto cercavo di non badare ai cumoli
d’immondizia ai lati della strada, alle finestre rotte
inchiodate in qualche modo, alle pareti scrostate e alle grosse catene
messe ai cancelli e alle porte.
In tanti anni non
era cambiato niente.
Incrociai una
traversa e per fortuna era quella che mi avrebbe portato a
destinazione. Controllai il numero civico sul foglio e poco
più avanti mi fermai. La casa non era diversa dalle altre,
lo stato di degrado non avrebbe dovuto stupirmi così tanto
ma m’inchiodò al sedile.
Avevo sempre
sperato che Davide fosse cambiato negli anni, che stare con me gli
avesse fatto capire che vivere in quel modo non era giusto.
Credo che a suo
tempo quelle case fossero state progettate come villette a schiera e
forse in origine erano anche carine. Ora erano una fila di celle grigie
coi piccoli giardini divisi da alti muri, grigi pure quelli. In quello
in cui i miei fari puntavano il loro fascio di luce riconobbi uno
scivolo arrugginito a cui mancavano i primi tre gradini…
quindi non facilmente utilizzabile da un bambino, e dei palloni sparsi
nell’erba, anche se era un po’ troppo alta per
essere considerata un giardino o un’aerea giochi.
A giudicare dai
giocattoli in quella casa doveva esserci dei bambini, di cinque o sei
anni… ma non potevano essere di Davide, in quegli anni stava
ancora con me...
Trattenni il
respiro e mi strinsi una mano sul cuore. Sperai con tutta me stessa di
non scontrarmi con una triste realtà che avrebbe spazzato
via tutti i bei ricordi del tempo con lui, che ancora conservavo
gelosamente nel mio cuore.
Non avevo mai messo
in dubbio la sua fedeltà. Ero sempre stata sicura del suo
amore.
Si, è
vero, in dieci anni c’erano state pause, anche lunghe, ma ero
sicura che quando stavamo insieme fossimo entrambi concentrati su di
noi. Non poteva aver avuto dei bambini con un’altra, non
mentre stavamo assieme! E se anche li avesse avuti quando eravamo
separati lo ritenevo abbastanza intelligente da informarmi!
A riportarmi coi
piedi per terra fu la figura poderosa di un uomo alla porta
d’ingresso. Dietro di lui filtrava la luce della stanza
rendendo ben visibile il profilo massiccio del suo corpo ma oscurando i
lineamenti del viso.
S’incamminò
verso di me, attraversando il giardino, aprì il cancelletto
che stridette esageratamente e solo una volta sotto la luce del
lampione riconobbi gli zigomi alti, la mascella squadrata e il taglio
corto dei capelli. Prima che mi raggiungesse rimandai indietro le
lacrime, lo sconforto e la paura e assunsi un’espressione
neutra, scostante e superficiale, la stessa che assumevo quando
affrontavo qualche cliente in ritardo coi pagamenti.
Aprii la portiera e
l’aria fresca della sera mi fece rabbrividire. Mentre lui
faceva il giro della macchina mi domandai se non avesse freddo con solo
quella maglia di cotone addosso. Aveva le maniche lunghe, ma io
indossavo già una giacchetta imbottita e sotto portavo anche
la canottiera. Non ero io ad essere esagerata, era la fine di settembre
ed eravamo già in autunno!
Stranamente non
disse niente, si limitò a guardarmi per un attimo prima di
abbassare lo sguardo.
Davide non era mai
stato così remissivo. Nemmeno con me.
“Cosa
c’è?” chiesi, più duramente
di quel che volevo in realtà.
“Devi
venire dentro… non so come spiegarti…”
L’idea di
entrare in quella casa mi nauseava.
Casa sua, quella in
cui abitava quando stavamo assieme, non mi aveva mai fatto schifo,
anche se da fuori era molto simile a quella. Sua madre, Marta, era una
donna semplice a cui piaceva però tenere la casa pulita e
tutto in ordine. Non a caso aveva lavorato per anni in casa mia come
donna della pulizie. Infatti era così che avevo conosciuto
Davide e me ne ero innamorata.
“Non ho
fatto l’antitetanica di recente, sei sicuro che possa
fidarmi?”
Mi
guardò per un attimo facendo un mezzo sorriso. Poi annui.
Sospirai e feci un
passo verso la casa, lui subito mi precedette.
“Non
toccare il cancello… di questo non sono sicuro.”
Disse schernendomi, ma non raccolsi la sua battuta e infilandomi le
mani in tasca e varcai il cancello che lui teneva aperto.
Una volta doveva
esserci un passaggio con le beole o con delle pietre di altro genere,
magari bianche o di un bel grigio chiaro, lievemente lavorate, ora
sembrava un mosaico dal colore imprecisato tra il marrone e il nero il
cui collante era fuggito a gambe levate. Più volte i tacchi
mi s’infilarono tra le varie fessure rischiando di farmi
cadere.
Davide mi prese per
un braccio e mi sostenne fino alla porta. Odiavo quel contatto, sentivo
il suo calore filtrare tra i vari strati dei vestiti. Mi chiesi
perché non avevo cambiato le scarpe, in ufficio ho una
scarpiera e so per certo che dentro ci sono anche delle scarpe da
ginnastica. Ma poi pensai che l’abbinamento non avrebbe avuto
senso: tailleur grigio antracite e scarpe da tennis bianche. Meglio i
tacchi e il rischio di caduta su quello strano vialetto
d’ingresso che apparire sciatta.
Mentre varcavo la
soglia, di quella che sarebbe stata la casa dei miei incubi per molte
notti, pensai che però avrei potuto indossare
un’armatura, così non mi sarei nemmeno accorta
dell’aiuto che mi aveva dato.
La stanza che mi
trovai di fronte doveva essere un soggiorno/ingresso, una volta. Ora
era il caos più assoluto. Il divano, di cui non vedevo
nulla, era ricoperto di vestiti. Maglie e pantaloni da uomo, gonne,
camicie e abiti succinti da donna e vestiti per bambini, sia maschili
che femminili. Appallottolati, stropicciati come fossero lì
in attesa di essere stirati. Ma era chiaro che non vedevano un ferro da
stiro da tempo immemore.
Una vetrinetta
contro la parete aveva i vetri così sporchi che non riuscivo
nemmeno a vedere cosa ci stava dentro: cosa, un tempo, qualcuno aveva
voluto esporre agli occhi dei suoi ospiti.
Davanti al divano
scorsi un tavolino da caffè, o forse solo un piano
d’appoggio, una scatola, non so bene
cosa… era carico di riviste di moda, posacenere
stracolmi di cicce di sigarette ed altro e pile di dvd. Avvicinandomi
di un passo sul tappeto consunto e macchiato di non so cosa, scoprii
che mischiati ai titoli di cartoni animati ce n’erano altri
che richiamavano la pornografia.
“Dio, ti
prego… non dirmi che ti sei riprodotto!! E che i tuoi figli
vivono in questa merda!”
Non rispose e
questo mi spinse a guardarlo. Teneva lo sguardo basso, colpevole.
Sentii la rabbia
montarmi dentro, salirmi in gola, pungermi gli occhi.
A quel punto non
era più solo il tradimento che mi feriva ma il coraggio che
aveva di chiamare quel posto “casa” e farci vivere
dei bambini! Come aveva potuto cadere così in basso?
“Vieni…”
disse aprendo una porta.
“No!
Cazzo! Davide! Non voglio fare un altro passo in questo porcile! Altro
che antitetanica! Qui rischio malattie come il vaiolo e la peste! Come
cazzo fai a vivere qui? E come cazzo puoi far vivere così i
tuoi figli?!” stavo urlando, decisamente.
Gli avrei anche
messo le mani addosso se solo non avessi avuto paura di allontanarmi
dalla porta d’ingresso, la mia unica via di salvezza!!
Si voltò
a guardarmi e qualcosa balenò nei suoi occhi.
Tornò sui suoi passi e mi si piazzò di fronte.
Troppo vicino. Quei
suoi occhi chiari mi facevano sempre lo stesso effetto, anche ora che
ero furiosa e scioccata.
“Uno
solo! Ho avuto solo un figlio con la stronza che vive qui. E io non
vivo qui. Ho fatto quello che dovevo a suo tempo, l’ho
riconosciuto e gli ho dato il mio cognome, e tutti i mesi verso un
assegno. Ho chiesto di portarlo via da qui, ma quello stronzo di
avvocato mi ha detto che lei è la madre e che la custodia
spetta a lei. E per sentirmi dire qualcosa che già sapevo mi
ha chiesto centocinquanta euro!”
Restai a guardarlo,
ammutolita.
“Ma ora
c’è un problema… e io non so dove
sbattere la testa. Ho chiamato te perché tu… sei
intelligente e io non ho altri soldi da buttare. Puoi
aiutarmi?”
Dato che non
rispondevo si allontanò di qualche passo, passando entrambe
le mani sulla testa rasata. Era un gesto che faceva quando si sentiva
incastrato.
“Ti prego
Giada… non è per me… ma lui
è piccolo e non si merita nulla di tutto questo.”
Mi
spezzò il cuore in due. Ma non per la delusione o per il
dolore che avevo provato prima, ma per l’infinita dolcezza
delle sue parole.. Questo era il Davide che avevo conosciuto, amato,
voluto per me. La sua parte più vera…
Senza dire nulla
varcai quella porta che aveva aperto poco prima. Era un corridoio. A
illuminarlo c’era solo una lampadina che pendeva dal
soffitto. L’odore in quel posto era orribile.
“Non
toccare niente, non posso assicurarti che non rischi
un’infezione.”
Aprì
un’altra porta ma prima di spalancarla si voltò
verso di me.
“Qui
c’è la causa del problema, non entriamo, voglio
solo che tu veda coi tuoi occhi.”
Detto questo spinse
leggermente la porta e accese la luce.
Dall’interno
giunsero dei gemiti, dei lamenti ma nessuno disse nulla. Ma il tanfo
che m’investì mi provocò un conato di
vomito.
Era la stanza
padronale, con il letto matrimoniale e vecchi mobili coi ripiani di
marmo. Sembrava la stanza di mia nonna. Sul letto c’erano tre
persone, una ragazza e due uomini, entrambi di colore. Il letto era
sfatto e loro erano nudi. La stanza era nel caos.
“Il
comodino.” Disse sottovoce Davide.
Affilai lo sguardo
e mi concentrai sull’unico comodino presente.
Ho visto un sacco
di film polizieschi per non sapere di cosa si trattasse. Droga. Polvere
bianca. Eroina. Erano strafatti ecco perché non si erano
lamentati più di quel tanto per l’intrusione.
“Sono
vivi… vero? Tutti, intendo…”
“Fino a
mezz’ora fa, si. Ho tastato i polsi e… si erano
vivi. Ho fatto delle foto… ma non so cosa
farmene.” Chiuse la porta e tornammo indietro di qualche
passo. Sull’altra parete c’erano due porte, una
fece finta di non vederla mentre impugno la maniglia di quella dopo.
“Quella
lì è il bagno, ma è meglio che non
vedi cosa ci sta dentro… lì potresti davvero
prendere qualche brutta malattia.”
La stanza che mi
mostrò era la peggiore di tutta la casa. Era la cameretta.
La puzza mi fece
indietreggiare di un passo e solo in un secondo momento misi a fuoco il
materasso steso sul pavimento. E sopra quello un bambino piccolissimo,
magro da far paura, con il viso sporco. Indossava un pigiama troppo
grande per lui, da bambina.
“Lo
voglio portare via da qui ma non posso farlo. Se lei si sveglia e non
lo trova parte una denuncia e se si scopre che l’ho preso io,
senza dire nulla va a finire che vado io nei cazzi e magari mi
costringono a darle altri soldi. Che lei spende tutti in droga e
vestiti. O peggio ancora scatta un’ordinanza restrittiva e io
perdo tutti i miei diritti. Per lui sarebbe la fine.”
Senza dire una
parola, senza staccare gli occhi da quel fagotto avvolto in lenzuola
sudice, recuperai il cellulare ma prima che potessi digitare qualsiasi
numero, lui mi fermò.
“Non
posso denunciarla. L’avvocato mi ha detto che se lo faccio,
lui finisce in un istituto e poi in affido. Io lo voglio con me,
ma… seguendo le vie legali non posso averlo: ho un lavoro
fisso ma faccio i turni. Non ho una casa mia, vivo ancora con mia madre
e a casa ci sono anche mia sorella con i bambini, siamo già
in troppi e per lui non ci sarebbe spazio. Se metto tutto in mano alla
legge me lo tolgono di sicuro.” Mi guardava negli occhi e
riuscivo a leggere la sua disperazione.
Abbassò
lo sguardo sul bimbo e sospirò.
“L’ho
visto domenica e stava bene… certo è sempre
troppo magro, ma quando vengo qui… è sempre
allegro e abbastanza pulito… E la casa non è mai
stata così… fatiscente. Certo, non l’ho
mai vista tanto pulita, ma Nadia non è mai stata in buoni
rapporti coi detersivi o lo straccio per la
polvere…”
Avevo tante domande
in testa ma le lasciai tutte in un angolo. Ora dovevo solo occuparmi di
quel povero angelo su quello schifo di materasso.
Davide aveva tutte
le buon intenzioni ma aveva paura di metterle in atto, di rischiare
qualcosa di troppo… era sempre stato questo il suo grande
difetto. Aveva sempre avuto grandi potenzialità ma la paura
di cambiare troppo, di rischiare lo aveva sempre fermato, facendolo
regredire fino alla zona sicura, quella vecchia, già vista
mille volte. Non a caso viveva ancora con sua madre e stavano ancora in
questo schifo di quartiere. Con la pensione di Marta e due buste paghe
potevano permettersi un appartamento ovunque, lontano da qui, ne ero
certa!
“Di chi
è questa casa? Dei suoi? Che fine hanno fatto i suoi? Ha
parenti?”
Mi
guardò sconcertato poi rispose a tutte le mie domande. Il
risultato fu che lui e la sua famiglia erano i parenti più
prossimi del bimbo. So che la legge in Italia funziona solo in certi
versi, per fortuna io avevo i mezzi per farla girare a mio favore. O a
quello di Davide, in questo caso. Ma lui doveva fare una scelta, quella
stessa scelta che non aveva mai avuto il coraggio di fare.
“Hai
chiesto il mio aiuto. Se vuoi che ti aiuti si fa a modo mio.”
Dissi mostrandogli il telefono.
“Giada…”
“Sei
egoista fino a questo punto? Devi pensare al meglio per lui. E
se…” mi bloccai mordendomi la lingua, non potevo
dirgli certe cose, non potevo ricadere nella vecchie discussioni di
sempre.
“E
se…?” incalzò lui. Mi guardava in un
modo che mi fece capire che sapeva benissimo dove stando andando a
parare.
“Lascia
perdere. Ma fai la cosa giusta.”
“E
secondo te la cosa giusta è lasciare che lo portino
chissà dove? Magari finisce in un posto peggio di
questo!”
Ecco, sempre le
solite paure. E ancora, a distanza di anni, gli sfuggiva qualcosa che
aveva sempre avuto davanti agli occhi.
Me. Ero proprio
lì davanti a lui, per dargli una mano e lui ancora pensava
di essere solo.
Se avesse avuto la
forza di guardarsi dentro ora non sarebbe un operaio turnista che non
può prendersi cura del figlio. Non vivrebbe più
con sua madre e avrebbe potuto aiutarla ad andarsene dallo zoo.
“La tua
cecità ti porta sempre a nasconderti nel tuo
angolo…”
“Cosa…?
Ancora! Forse ho fatto una stronzata a chiamarti, pensavo che potessi
aiutarmi, ma tu sei ancora qui a rinfacciarmi i miei errori!”
“Abbassa
la voce!” dissi tirandomelo dietro chiudendo la porta alle
sue spalle. Mi piangeva il cuore lasciare quel cucciolo in quello
schifo ma dovevo convincere Davide che era la cosa migliore far
intervenire le forze dell’ordine.
E lasciare il
piccolo lì, anche se era una cosa crudele, era la soluzione
migliore. Solo se avessero visto in che condizioni stava, avrebbero
fatto davvero qualcosa. Era lo stesso ragionamento che aveva fatto lui
quando mi aveva chiamato.
“Non sto
parlando di te o di me o del nostro passato. O forse si, ma
più in generale. Se tu avessi lasciato uscire
quell’uomo che ho visto in te anni fa e che vedo
tutt’ora, non saresti qui ora e tuo figlio non sarebbe in
quel letamaio!”
Le mie parole lo
zittirono e lo calmarono. Sapeva che avevo ragione.
“La cosa
giusta da fare è chiamare i carabinieri. Denunciare quella
troia che fa vivere il tuo bambino in queste condizioni. Si, stanotte
lo porteranno via, e credo che lo porteranno in ospedale
perché se non te ne sei accorto è denutrito e non
mi stupirei se avesse qualche infezione.”
Abbassò
lo sguardo sulle sue scarpe e trattenne il respiro. Lo stavo ferendo ma
forse era la cosa giusta da fare: mostrargli la realtà per
quella che era, senza tralasciare nulla. Mettendo a nudo anche tutte
quelle cose che avevo sempre dato per scontato. Non ero stata capace di
farlo a suo tempo, perché ero sicura che l’amore
potesse abbattere tutti i muri, ma stavolta non si trattava di noi, ma
di un piccolo essere indifeso.
“La cosa
giusta da fare è farsi aiutare. E tu, di aiuto ne hai
bisogno, ora più che mai. Quando avrai finito qui, quando
tutti se ne saranno andati, andrai a casa tua a prendere le tue cose,
tutte. E quando dico tutte intendo proprio tutte! Non stai andando in
soggiorno da qualche parte, ti stai proprio trasferendo!”
“Ma
Giada! Dove?! Io non ho un posto…”
Non diedi
importanza alle sue parole come se non avesse detto nulla.
“Quando
ti chiederanno dove possono trovarti gli darai il mio indirizzo. E a
casa ricordati di dire ai tuoi di dire a chiunque glielo chiede che
vivi da me da qualche tempo.”
Strabuzzò
gli occhi e spalancò la bocca.
“Non
vivrai con me, tranquillo. Ma la dependance ha abbastanza spazio per
ospitare te e il bambino. Ora devo andare, devo chiamare il mio
avvocato e fargli preparare tutte le carte che servono per assicurati
la custodia del piccolo e, se righerai dritto, anche l’affido
un domani.”
Mi volta per
raggiungere la porta d’ingresso ma lui mi fermò.
“Giada…
io…” disse tentennando, stringendo la mia mano tra
le sue.
“Non lo
faccio per te. Certo i nostri trascorsi hanno il loro spessore e tu non
sarai mai uno sconosciuto perdente ai miei occhi. Ma tra noi la cosa
è morta è sepolta. Quello che conta ora
è il tuo bimbo che, come hai detto tu, non si merita nulla
di tutto questo.”
Uscii da quella
casa come fossi inseguita da un demone, quasi fuggendo. E in parte era
così.
Non sono mai stata
una con le fette di salame sugli occhi, ho sempre saputo che ci sono
persone disagiate, ma quella casa… quello che
c’era in quella casa era indescrivibile.
Quella ragazza
aveva deciso di rasentare il fondo. La droga, il sesso, la sporcizia,
il disordine erano affari suoi… ma come poteva fregarsene in
quel modo di quel piccolo esserino?
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Capitolo 3 *** LA COSA GIUSTA DA FARE ***
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Capitolo 4 *** RICORDI ***
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Capitolo 5 *** DOMANDE INOPPORTUNE ***
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Capitolo 6 *** DUBBI E PAURE ***
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Capitolo 7 *** ESSERCI ***
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Capitolo 8 *** CONGETTURE ***
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Capitolo 9 *** LANCIARE IL SASSO E RITRARRE LA MANO ***
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Capitolo 10 *** REGALI E SORPRESE ***
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Capitolo 11 *** STRANI DISCORSI ***
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Capitolo 12 *** IL BAULE DEI RICORDI ***
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Capitolo 13 *** NON CHIAMARMI DAVI... ***
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Capitolo 14 *** QUEL QUALCOSA IN PIÙ' CHE... ***
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Capitolo 15 *** epilogo ***
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