La battaglia che non cambiò nulla (o quasi)

di AlsoSprachVelociraptor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Morioh ***
Capitolo 2: *** 1 - Orlando, Stati Uniti ***
Capitolo 3: *** 2 - Cape Canaveral & Liverpool ***
Capitolo 4: *** 3 - Cape Canaveral ***
Capitolo 5: *** Morioh & Cape Canaveral ***
Capitolo 6: *** 5. La Bassa ***



Capitolo 1
*** Prologo - Morioh ***


Mercoledì 21 marzo 2012, Morioh, Giappone.
 

Il cielo sopra Morioh era incredibilmente limpido, mentre i colori della notte si versavano lenti nel rosso tramonto giapponese.

Koichi non aveva tempo per guardare il cielo, e contare i gabbiani che volavano sopra la sua testa con un fare nervoso. Insolito.

Forse stava davvero per succedere qualcosa di epocale, e forse Koichi ne sarebbe stato un testimone diretto.

I suoi occhi, a breve, avrebbero visto qualcosa di irripetibile, incredibile e impossibile. Lo sapeva. Ma non ci sperava.

Passò una mano tra i capelli ispidi della ragazzina davanti a lui. -Mi raccomando, Mao, conto su di te.-

La strana ragazzina dalla lunga coda arrotolata alla propria gamba annuì con la decisione e l'ingenuità che solo una ragazzina di quattordici anni poteva avere. -Koichi signor, farò lo!- cantilenò. Aveva sempre parlato al contrario, aveva sempre avuto la coda, ma questo non importava. Importava che fosse una fantastica babysitter per i figli di Koichi e Yukako, che fosse educata e coraggiosa. E lo era, eccome!

Mao sussurrò degli incoraggiamenti al bambino dai capelli scuri e arruffati che era aggrappato alla sua maglia. Gli occhi violetti del bambino erano pieni di lacrime.

Il cuore di Koichi sembrava diversi rompere in mille schegge nel vedere suo figlio più piccolo così triste.

-Torna presto.- borbottò Tamotsu, dal viso rosso peperone di chi si sentiva troppo grande per piagnucolare.

Non lo era, avrebbe voluto dirgli. C'è ancora tutto il tempo del mondo per crescere.

Dietro di lui anche la sorella maggiore piagnucolava.

Koichi non ce la fece e, in uno scatto di emotività, si piegò sui suoi due figli e li strinse tra le braccia, e non seppe per quanto tempo perché avrebbe voluto non staccarsi mai da loro.

Qualcosa nel suo cervello, nel retro del suo cranio gli diceva NON PARTIRE. RIMANI CON LORO, ma non poteva dargli ascolto.

Jotaro lo aveva chiamato in Florida, negli Stati Uniti per "risolvere un problema" e non poteva davvero rifiutarsi.

"Sei uno dei portatori di Stand più forti in circolazione. Sei diventato un abile stratega, e le tue abilità sono evolute. Il mondo ha bisogno di te."

Sulla punta della lingua di Koichi, quando ricevette quella chiamata da Jotaro poche ore prima, si erano formate delle parole che fortunatamente e sfortunatamente non erano uscite dalla sua bocca. La mia famiglia ha bisogno di me. Mia moglie Yukako e i nostri due figli. Mia sorella e i suoi figli. L'ospedale di Morioh dove lavoro, i miei pazienti hanno bisogno di me.

Ma Koichi aveva annuito, abbassato la testa e aveva riempito frettolosamente un borsone da palestra di pochi vestiti di ricambio, non sapendo quando (e se) sarebbe tornato.

Porta poco. La faccenda ormai è agli sgoccioli. Non starai via molto disse Jotaro.

Negli occhi violetti di Yukako leggeva la sua stessa oppressiva sensazione di fine del mondo che provava lui.

Assurdo, un pensiero davvero incredibile. La fine del mondo prevista dai Maya era per il 21 dicembre, non per il 21 marzo.

Yukako si piegò appena sul marito per dargli un lieve bacio sull'angolo delle labbra. Lei odiava mostrare emozioni in pubblico, ma quella sensazione nello stomaco era forte in lei quanto in Koichi.

Una grossa mano impattò sulla spalla di Koichi, e il sorriso un po' tirato di Okuyasu non fece altro che rendere Koichi ancora più a disagio.

-Morioh è nelle nostre mani, tu va' tranquillo!- disse col suo tono gentile ed energetico. Il tramonto rosso sangue si rifletteva nei suoi lunghi capelli argento.

Era ora di andare.

Koichi aveva chiesto a Jotaro perché non avesse chiamato anche Okuyasu per quella missione in Florida, ma Jotaro aveva sbuffato contro la cornetta e accampato qualche scusa. Era palese che non si fidasse di lui, delle sue capacità e soprattutto della sua intelligenza.

-È solo perché non lo conosci bene, Jotaro. In questi tredici anni lui...-

-Non mi importa, Koichi. Vieni qui ad Orlando e vedi di sbrigarti.-

Koichi passò un ultima volta lo sguardo sugli abitanti di Morioh a cui più era legato. La sua amata moglie Yukako e i loro due figlioletti di a malapena cinque e due anni, Manami e Tamotsu. La loro babysitter figlia di amici Mao, uno dei loro più grandi alleati e amici di sempre Okuyasu, Yuuya che assieme a Yukako gestivano il Fairy Godmother Aya, uno dei più rinomati saloni di bellezza di tutto il Giappone occidentale. Anche Hazamada era lì a fare il tifo per Koichi, e lo stesso Rohan aveva "fatto un salto", così aveva detto. Era passato lì per caso, ovviamente. Nulla di programmato, figurarsi.

Per qualche motivo, tutta Morioh avvertiva una strana pressione sulle proprie spalle e su quelle di Koichi, come se l'intervento di quel loro cittadino potesse cambiare, in qualche modo, il corso dell'intero destino.

Per qualche motivo, tutta Morioh avvertiva una strana pressione sulle proprie spalle e su quelle di Koichi, come se l'intervento di quel loro cittadino potesse cambiare, in qualche modo, il corso dell'intero destino

NOTE:

(Se non la ricordate, Mao è la bambina che appare nella short novel DNA di Rohan Kishibe)

Ciao a tutti! DH sta finalmente tornando, non siete emozionati?

Per i più giovani, o quelli che non se la ricordano più, "Le Bizzarre Avventure di JoJo parte 7.1: Dangerous Heritage" è stata una storica fanpart italiana tra il 2015 e il 2017 scritta da... me. Una me molto più giovane e che scriveva papiri interminabili invece che capitoli.

Dopo 6 anni dalla prima stesura (novembre 2014) e a 5 dalla prima pubblicazione (maggio 2015), ho deciso di rimodernarla completamente e riscriverla da capo. E di aggiungervi prequel per completezza.

La pubblicazione avverrà per il 2021, ma per mettervi un po' la pulce nell'orecchio e per rendere più chiaro cosa ne sarà del "nuovo DH", ecco a voi il primo prequel, che racconta degli avvenimenti del 2012 che porteranno alla storia principale, ambientata nel 2018.

Buona lettura! 

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Capitolo 2
*** 1 - Orlando, Stati Uniti ***


Aeroporto Internazionale di Orlando, Stati Uniti
 

Koichi aveva avuto un sonno agitato in aereo, se quello era anche solo vagamente definibile "sonno". Era più un riposare gli occhi farcito di brutti presentimenti e disagio dallo stare seduto in uno scomodissimo sedile di seconda classe, prenotato in tutta fretta.

Fuori dall'aeroporto di Orlando c'era una limousine, e l'uomo che la guidava, vestito in tutto punto come nei film, aveva tra le mani un cartello con scritto proprio "Koichi Hirose".

Non era un'idea di Jotaro. Ne era sicuro.

Ad aspettarlo assieme all'autista fuori dalla limo, vi erano due uomini che quasi si stavano dando la schiena. Entrambi appariscenti in maniere quasi opposte ed entrambi erano conoscenti di Koichi.

Uno in maniera più piacevole dell'altro.

Un uomo alto e magro aveva i lunghi capelli dorati pettinati in perfetti boccoli che ricadevano sul suo completo bianco e candido, a risaltare come rifiniture d'oro come su una perfetta e bellissima statua di marmo.

L'altro era ben più alto e massiccio, ben più di quanto Koichi ricordasse. Koichi riuscì a fatica a riconoscerlo, mentre gli si avvicinava. Si stava pettinando i corti capelli bruni, quando i suoi occhi svogliati si posarono su Koichi. Allora il suo viso, da quella fredda maschera di disinteresse che aveva sempre indossato, anche nel lontano 1999, si trasformò in un ampio sorriso.

-Koichi!- gridò Josuke, quasi correndo verso di lui.

L'istinto di Koichi gridava di non muoversi, che non erano più sedicenni e avrebbero dovuto tenere le distanze, ma non ce la fece e si fiondò tra le braccia del suo migliore amico che non vedeva da dieci anni, e il suo abbraccio fu ricambiato con altrettanta forza. Una stretta calda e familiare e che, sinceramente, a Koichi era mancata. Josuke gli era mancato, davvero tanto.

Se da ragazzino puzzava di dopobarba scadente, ora l'odore era persino peggio, anche se palesemente di marca.

-Koichi, non sai che casino!- borbottò Josuke, staccandosi da lui. -E non sai che strazio.-

-È un piacere anche per me incontrarti di nuovo, Koichi.- disse Giorno, in tono sarcastico e con un orribile accento né italiano né giapponese. Koichi gli rivolse un mezzo sorriso, e non riuscì a fare altro.

Anche solo guardando Giorno Giovanna, il peso sul suo stomaco si faceva più pesante. Se incontrare di nuovo Josuke l'aveva fatto stare meglio, l'aura dorata che quell'uomo sembrava emettere non faceva altro che disturbarlo. Anche Josuke sembrava disturbato, ma era difficile da dire.

Con gli anni aveva dovuto fare decisamente pratica a mascherare ancora di più le sue emozioni, perchè il suo viso era tornato rigido e imperscrutabile. Koichi poteva evincere che no, Giorno non stesse simpatico nemmeno a lui. Ma d'altronde a Josuke erano sempre state simpatiche ben poche persone, e da quel punto di vista non sembrava cambiato affatto. Il cuore di Koichi era un po' più leggero ora, seppur di poco, nel sapere che non era completamente da solo in quella missione.

-Il Signor Jotaro ha convocato noi tre per una missione che lui ritiene di vitale importanza. Ma sarà lui a spiegare tutto di persona.- continuò Giorno, mentre l'autista gli teneva aperta la portiera della vettura e lui, con grazia, vi ci entrava e prendeva posto.

-Jotaro è in macchina che aspetta.- tradusse Josuke, e Koichi notò nel suo accento una vaga inflessione anglosassone.

Gli anni erano davvero passati per tutti.

Koichi constatò di persona che sì, ad aspettarlo nella limo c'era proprio Jotaro, invecchiato e stanco. Vaghi capelli bianchi sparivano sotto il cappello che portava, e lo sguardo duro era contornato da occhiaie scure e rughe di pura stanchezza.

-Finalmente ci siete tutti. So che entrambi avete fatto una lunga strada per arrivare qui. Vi ringrazio.-

L'aereo di Josuke, partito dall'Inghilterra, era atterrato non più di qualche ora prima di quello di Koichi e così aveva avuto modo di conoscere Giorno.

A giudicare dal tono con cui ne aveva parlato, non era stata un'esperienza emozionante.

-La fondazione Speedwagon si sta occupando da qualche mese di questo padre Pucci, il cappellano di una prigione qui in Florida. Sembra avere dei collegamenti con Dio, e sta progettando qualcosa a Cape Canaveral. Jolyne è già sul posto, e noi siamo in ritardo.-

Jotaro stava parlando con una strana durezza nella sua voce, una tensione che Koichi non aveva mai sentito, nemmeno mentre stavano dando la caccia ad un serial killer.

-Un italiano che c'entra coi vampiri? Già non mi piace.- farfugliò Josuke, guardando con una nota di astio Giorno, che gli scoccò uno sguardo d'odio che sembravano frecce dorate di rabbia, seduto di fronte a lui sulla limousine.

Koichi schiaffeggiò una coscia di Josuke, tentando di zittirlo. I poteri di quel Giorno erano straordinari undici anni prima, non osava immaginare ora... e Josuke era uno dei portatori di stand più forti del mondo, chissà quei due cosa avrebbero combinato in uno scontro diretto.

Non volle immaginarlo. I suoi intestini continuavano ad attorcigliarsi nel suo ventre, e si chiese se fosse il jet-lag, o forse il fatto che non aveva mangiato, o l'idea di uno scontro.

-Cape Canaveral, eh? Cosa vuole fare, lanciarsi nello spazio?-

La frase ironica di Josuke non fu accolta come si aspettava. -Forse. Probabile.- rispose invece Jotaro.

Il silenzio scese sulla limousine.

-What a nutcase...- Fu l'unica risposta di Josuke.

Jotaro tossì un paio di volte nel silenzio. I suoi polmoni sembravano stanchi, il rumore raspante del suo respiro affaticato che faceva sentire Koichi come se a lui stesso mancasse il respiro.

Il raspare del respiro di Jotaro venne amplificato dal raspare del motore della limousine.

-Salvatore, tutto bene?- chiese spontaneamente Giorno, voltandosi verso il vetro che separava le due parti della limo. L'autista, Salvatore, si voltò verso Giorno con un'espressione indecifrabile sul viso che sembrava... paura. Folle, pura, che gli attraversava le pupille con forza bruta.

-L'auto... è come se stessi guidando su per un pendio. L'auto non va avanti, sta venendo tirata indietro!-

Salvatore aprì la portiera dell'auto, ma con forza si richiuse e l'uomo ci rimase quasi incastrato in mezzo se il grosso braccio brillante di Crazy Diamond non l'avesse fermata in tempo.

Salvatore cadde giù dall'auto, come se davvero qualche vento strano lo stesse portando via con sé. Cadde perpendicolare al terreno pochi metri indietro, dove la limousine finiva.

-C'è davvero una forza. Qui davanti si sente benissimo.- disse Josuke, dando un esempio. L'Arbre-Magique stava pendendo verso la loro direzione e non verso il basso, e Crazy Diamond lo sfilò dallo specchietto retrovisore.

Venne come attratto verso il vetro, ma appena prima di finire nella zona dove i Joestar e Koichi erano seduti, cadde finalmente in senso verticale, verso il terreno.

-Una forza gravitazionale.- aggiunse Giorno.

-Pucci.- fu la risposta finale di Jotaro a una domanda che nessuno aveva avuto il coraggio di domandare fino a quel punto. Indicò davanti a loro, verso la strada che stavano percorrendo. Sullo sfondo si stagliava Cape Canaveral.

-Deve essere il suo stand. Deve essere lui, dobbiamo sbrigarci. Io sento Jolyne, è ancora viva...-

Ma ancora per quanto? furono le parole che Jotaro omise. Koichi le sentì, forte e chiare nella sua testa. nemmeno lui sarebbe stato capace di pronunciare quella frase, se avesse parlato di uno dei suoi figli. Sentì Josuke indurirsi al suo fianco, a sua volta. Il terrore era palpabile, la paura che fosse troppo tardi non solo per lei ma per l'intero mondo era ormai una tangibile opzione.

Uno stand capace di modificare le forze universali nel giro di così tanti chilometri, e chissà cos'altro.

-Ok, ma come facciamo a raggiungerlo? La macchina non si muove.-

Josuke aveva ragione, ma Koichi sapeva come fare. -Echoes act 4!-

E l'ultima evoluzione di Echoes apparse, verde scintillante e con più occhi di quanti Josuke ne ricordasse.

Echoes alzò le braccia e un campo magnetico si sprigionò attorno a loro, cambiando la gravità di nuovo e riapplicandola al terreno. -Con Echoes act 4 ho la capacità di cambiare a mio piacimento la direzione della gravità, e persino di annullarla- spiegò Koichi. -Ma il raggio massimo del campo gravitazionale è di cinque metri. La limousine è troppo lunga, quasi la metà ne rimarrebbe fuori e sarebbe colpita dalla gravità modificata da Pucci.-

La risata di Josuke gelò il sangue nelle vene di Koichi. -Di questo me ne occupo io.-

Crazy Diamond era molto più grosso di quanto Koichi ricordasse, e la corazza sul suo corpo si era trasformata in veri e propri diamanti, scintillanti su quella imponente figura.

Con un grido che strideva come unghie su una lavagna, o diamanti su un vetro, lo stand colpì la limousine.

Nulla di particolarmente strano. Fu strano vedere le sue dita di diamante perforare la lamiera dell'auto come burro, aprirla a metà con ancora tutti passeggeri a bordo e strapparne via un pezzo, e poi un'altro, e quando il risultato lo soddisfò la colpì con tanta forza da farla tremare.

Le onde d'urto sul tettuccio dell'auto deturpata sembravano gocce d'acqua in un mare calmo, un mini terremoto che si concentrava su di loro.

Koichi quasi cadde in avanti, sul terreno che si era aperto sotto i loro sedili per colpa delle modificazioni che Josuke stava portando all'auto.

Si aggrappò al corpo di Jotaro, ma lo scostò con una manata. Allora si aggrappò al braccio esile ma forte di Giorno, che non solo accettò di buon grado Koichi, ma lo aiutò con Golden Experience a non cadere di sotto.

Forse Koichi si era sbagliato su Giorno. Forse non era quell'orrorifica macchina di conquista e potere che aveva creduto per tutti quegli anni.

I pugni di Crazy Diamond erano diventati così veloci da essere invisibili nel loro movimento. Si abbattevano sulla lamiera, che sembrava fondersi sotto le nocche scintillanti dello stand di Josuke, formando una limousine ben più corta senza quel pezzo che aveva strappato via.

-Come hai fatto a fondere la lamiera?- chiese Koichi, fuori di sé dalla sorpresa, dalla paura e dal non aver dormito in aereo per più di diciassette ore consecutive.

-Sta muovendo le molecole della lamiera, generando un calore istantaneo che fonde i due pezzi di ferro assieme.- rispose Jotaro, con il suo viso ancora tirato e senza nessuna emozione se non l'apprensione.

L'auto fu presto conclusa, una limousine mozzata e malmessa ma che funzionava ancora, e ora ci stava tutta nei tre metri di raggio di Echoes act 4.

Giorno si alzò solo per tentare di scivolare tra i sedili posteriori, mettendosi al posto di guida e accendendo la limousine. Andava.

-Ho collegato nel frattempo tutti i cavi elettrici e di serbatoio trasformandoli in rami, ma mi devi una limousine nuova, Higashikata.-

Josuke si risedette sui pochi rimasti sedili posteriori, con un sorriso tirato. Stava scherzando o era serio? Prima che potesse chiedere, però, Giorno pigiò con forza sull'accelleratore e partì con violenza. 

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Capitolo 3
*** 2 - Cape Canaveral & Liverpool ***


Cape Canaveral, Stati Uniti
 

Pucci ricaricò la pistola che gli era miracolosamente piovuta dal cielo. O meglio, dal lato. Si sarebbe dovuto riabituare a questa nuova gravità.

Aveva finalmente messo nel sacco Jolyne Kujo. Lei sola era riuscita a rendere vani gli effetti mortali di C-Moon, lei sola era riuscita, fino a quel punto, a mettergli i bastoni tra le ruote.

Non sarebbe più successo. Finalmente Pucci avrebbe creato un mondo nuovo, giusto, sano, migliore. E se Jolyne Kujo doveva morire perchè succedesse, andava bene. Un sacrificio che era disposto a compiere. Sacrificarne una (e anche particolarmente fastidiosa) per salvare un intero universo dal peccato, dal male, dall’ingiustizia.

Ne valeva decisamente la pena.

La pistola tremava tra le sue mani. Calma, Enrico. La fine- no, l’inizio di tutto sta per accadere. Sta per accadere davvero. Tutti i tuoi sforzi stanno finalmente valendo, i tuoi sogni stanno per avverarsi, il destino… il destino sta per…

Sentì troppo in ritardo il suono di sgommate, un motore al limite della sua potenza e delle grida. Pensò si trattasse di qualche ultimo povero disperato che cercava di sfuggire alla sua gravità, quando il muro al suo fianco venne sgretolato da una serie di pugni e quella che forse era stata un tempo una limousine lo investì in pieno.

L’auto continuò la sua corsa, incurante del prete che si contorceva e si incastrava in profondità nei cavi penzolanti e nella struttura incerta dell’auto.

Jotaro si scagliò fuori dalla portiera posteriore dell’auto mentre ancora doveva frenare del tutto, buttandosi al fianco della figlia. Jolyne era ferita, ma era salva.

Josuke e Koichi uscirono a loro volta dalla ex-limousine, e Josuke battè con forza un pugno sulla lamiera martoriata dell’auto. -Jeez, brutto criminale, ma chi cazzo ti ha insegnato a guidare?-

Koichi si sentiva come se gli avessero staccato il cranio dal collo e poi gliel’avessero riattaccato con il nastro adesivo all’estremità sbagliata della spina dorsale. Avevano sfondato il muro del museo di Cape Canaveral, e…

Koichi sentì dei gemiti provenire da sotto l’auto.

Avevano investito qualcuno?

Koichi rimase completamente immobile. Qualcuno era morente sotto la loro auto ed era, ancora una volta, colpa sua.

-Non preoccuparti, era solo quel Pucci.- lo rincuorò Giorno con la sua voce atona. Oh beh. Molto meglio. -Continua a camminare, o usciremo dalla tua gravità. Sbrigati.-

Koichi fu costretto a seguirlo, allontanandosi dall’auto.

Jolyne, con l’aiuto di suo padre, si rialzò in piedi. Le si affiancarono un bambino biondo e un uomo dai lunghi capelli lisci, che sembravano conoscere Jotaro ma Koichi era più che sicuro di non averli mai visti. Allora era quella la figlia di Jotaro?

-Vi presento mia figlia- disse velocemente ai tre nuovi uomini. -E due suoi amici.-

-Io in realtà…- tentò il ragazzo dai capelli lunghi, ma un rumore di lamiere non gli fece finire la frase.

Da sotto l’auto, grazie all’aiuto di un malmesso stand verdastro, Pucci stava strisciando via. Lo stand teneva l’auto sollevata e tirava i tubi e i fili e le lamiere tra cui era incastrato l’uomo.

Era vivo!?

Iniziò a galleggiare nell’aria grazie al suo stand. Forse. Grazie alla gravità che C-Moon gli permetteva di controllare a suo piacimento, forse.

-Josuke, lanciagli quella marmitta!- gridò Jotaro tutto ad un tratto, indicando Pucci con l’indice tremante. -Colpiscilo! Non devi permettergli di arrivare troppo in alto!-

Il primo istinto di Josuke fu di ignorare Jotaro e fare di testa sua, ma nella voce dell’uomo c’era stato un qualcosa che lo fece obbedire. Non era la sua solita vaga saccenza, o quel tono quasi marziale che lo contraddistingueva. Era più… disperazione, forse? Dunque Josuke afferrò la marmitta caduta da quel catorcio che era rimasto dell'auto e la lanciò con tutta la sua forza verso Pucci.

Era ora.

Star Platinum venne evocato alle spalle di Jotaro, e fermò il tempo come previsto dal piano dell'uomo.

Prese un tubo scheggiato che aveva trovato per terra poco prima. Era stato strappato via con forza da qualcosa a cui era attaccato, e quel bordo era rimasto appuntito e seghettato. Perfetto per accoltellarvici Pucci.

Jotaro, mentre il tempo era ancora fermo, lanciò quel tubo con forza a sua volta, forse fin troppa forza, finendo ben vicino al viso del prete. Una volta che il tempo tornerà a scorrere normalmente, Pucci scanserà la marmitta lanciata da Josuke, ma non si aspetterà il tubo, era il piano di Jotaro.

Mentre stava per riattivare il tempo, Jotaro vide Pucci muoversi. I suoi occhi saettare verso il tubo, le sue dita tremare come quelle di C-Moon alle sue spalle.

Cosa?

Oh no.

E il tempo riprese a scorrere, C-Moon afferrò il tubo e scansò con una manata frettolosa la marmitta.

Jotaro aveva davvero messo troppa forza in quel tubo, perché Pucci, afferrandolo, salì di quota in pochissimi istanti.

-Grazie, Jotaro! Le coordinate sono proprio queste!- gridò Pucci, prima che in cielo si formasse un secondo sole, attorno al prete.

Liverpool, Regno Unito
 

-JoJo, è pronto!-

Il pranzo era servito, anche se era decisamente tardi. L’una passata, quasi le due, ma Jo era tornata tardi da scuola e Bert era stato occupato tutta la mattina con faccende personali.

Badare a una ragazzina ventiquattr’ore su ventiquattro era più estenuante di quanto credesse. Era abituato agli strani orari della famiglia Joestar, per cui lavorava dal 2004 ormai, da quando si erano trasferiti lì a Liverpool, e il signor Joestar era un ventenne universitario che non poteva badare alla figlia, JoJo una bimba sola e Bert stesso era un povero adolescente con un bisogno disperato di soldi.

Il padre di JoJo (anche lui si chiamava JoJo, o qualcosa del genere) era un uomo parecchio giovane, sulla trentina, per una figlia già adolescente.

Iniziò a servire l’Hotpot nei due piatti, il suo e quello della ragazzina. Beh, anche tra Bert e suo padre c’erano solo sedici anni di differenza. Ma i Joestar erano una nobile, antica famiglia del più alto ceto sociale del Lancashire, non il sottoprodotto delle più dismesse case popolari dei sobborghi di Liverpool come lui. JoJo era stata adottata dal ricco ereditiere che era suo padre, mentre i genitori di Bert erano solo due ragazzini che non avevano ben chiaro ancora come funzionavano i preservativi.

Ma anche se i Joestar erano una famiglia così ricca e famosa (e che mancava da così tanti anni in città), Bert non si sentiva trattato come qualcosa di inferiore da sfruttare. La paga da babysitter che il signor Joestar gli offriva era più che decente, meglio di qualsiasi lavoretto il giovane Bert si sarebbe potuto trovare.

E JoJo non era così difficile da tenere a bada.

-Jo..?- la chiamò di nuovo il ragazzo.

-Sono qui- e la voce della ragazzina gli arrivò dal fianco, non dalle scale. Bert quasi fece volare in aria il piatto di hotpot che aveva appena servito. Jo aveva l’orribile reputazione di sbucare da ogni luogo senza nessuna precauzione, come per magia. Di solito, però, la ragazzina mora era molto maldestra e i suoi passi facevano rumore sul parquet di cui era pavimentata la villa dei Joestar.

-Da quanto eri qui?-

-Da un po’- rispose lei con un sorrisetto bastardo sul viso delicato, sedendosi al suo posto con un movimento aggraziato. Bert adagiò la forchetta tra le patate e notò che erano fin troppo morbide. Sembravano più un purè che tagliate a spicchi.

-Peccato, è stracotto.-

-A me piace.- rispose JoJo, mangiando con gran velocità dal suo piatto, come al solito, mentre gli occhiali da sole le scivolavano continuamente giù dal naso a forza di masticare troppo velocemente.

Jo parlava poco, era vero. Il padre della ragazza aveva detto che il suo nome, giapponese, poteva avere due letture e quell’altra voleva dire “silenziosa” (almeno credeva), ma Bert l’altro nome non riusciva proprio a metterselo in testa. Shi… qualcosa... “Jo” era più facile. E poi con il suo cognome, Joestar, aveva una bella assonanza e poteva chiamarla JoJo. Era un nomignolo carino.

-JoJo, mangia piano. Non corre da nessuna parte.- la ammonì Bert, iniziando a mangiare a sua volta. Jo non sembrò ascoltarlo davvero, come sempre.

Bert stappò la bottiglia di cola e la passò a JoJo, che tentò di versarsela nel bicchiere. Quando ci finì dentro, però, dal vetro si poteva benissimo vedere che non avesse più bollicine al suo interno.

-Ma si è sgasata!- si lamentò lei. La bevve lo stesso, ed esagerò un verso di disgusto. -Non mi piace sgasata!-

-Ma l’ho appena aperta, hai visto?-

Bert si alzò per andare a prendere un’altra bottiglia, perchè sapeva che JoJo non l’avrebbe bevuta sgasata, e cosa poteva fare? Era pagato per tenerla a bada, d’altronde.

Il signor Joestar era andato in America per delle “questioni di famiglia” e aveva assegnato l’intera gestione della casa al povero Bert.

Prese un’altra bottiglia dallo scantinato, ma quando tornò su, si accorse che c’era un’atmosfera… diversa. Sembrava più tardo pomeriggio che appena le due. Il cielo si stava già scolorendo, e il sole, anche attraverso le nubi su Liverpool, creava ombre lunghe che non si addicevano affatto al primo pomeriggio.

Jojo si era trasferita sul divano in soggiorno, abbandonando a metà il bis che si era versata nel piatto.

Rimaneva anche un po’ a Bert da finire il suo piatto. Quando tentò di portarsi la forchetta alla bocca però si accorse dell’atroce odore che il cibo aveva preso.

Si stava putrefacendo?-

-Che cazzo succede?- gridò Bert quando la lampadina sulla sua testa si spense in una miriade di luccichii.

Corse sul divano, al fianco della ragazzina che non aveva fiatato. Si teneva le braccia attorno alle gambe flesse al petto e il viso tra le ginocchia, e la sua pelle aveva preso quella strana trasparenza di cui suo padre l’aveva avvertito.

I Joestar lavoravano per questa fondazione scientifica ultratecnologica fondata da un londinese qualche secolo prima. C’era una sede anche lì a Liverpool e il signor Joestar ci lavorava. Sapeva delle incredibili tecnologie, tanto da sembrare quasi poteri magici. Sapeva che JoJo poteva diventare invisibile, e che non se ne sarebbe dovuto preoccupare. Era talmente rumorosa quando si muoveva che avrebbe potuto rintracciarla anche se completamente invisibile.

Bert le passò le braccia attorno, abbracciandola come meglio poteva. Non sapeva quanto le sue dinocciolate e scarne braccia potessero darle sollievo, ma dal modo in cui lei si aggrappò al suo collo, forse più di quanto Bert credesse.

Alla televisione il giornalista della BBC faceva fatica a stare dietro alle notizie, e i fogli si accumulavano sul suo bancone. -Sta succedendo qualcosa di strano a Cape Canaveral, Florida!- cercava di dire, sempre interrotto da qualcosa di nuovo che stava accadendo.

-Papà è lì!- sussurrò Jojo.

Fuori dalla finestra, era già notte inoltrata.

-Ce la caveremo, JoJo.- sussurrò Bert contro i capelli della ragazzina tremante tra le sue braccia. Anche lui stava tremando. Dal terrore, dalla consapevolezza che qualcosa stava succedendo, ma dall’incertezza di cosa stesse davvero succedendo.

-Ce la caveremo tutti, in un modo o nell’altro…-

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Capitolo 4
*** 3 - Cape Canaveral ***


Cape Canaveral, Stati Uniti
 

Se non fosse stato per la mano di Josuke ben ancorata al suo polso. Koichi era sicuro che sarebbe stato sbalzato via da quell'esplosione.

E nel cielo non c'era più Pucci, né il suo C-Moon, e la lamiera era già caduta a terra, senza far rumore.

-È morto?- chiese Jolyne. Quanta ingenuità in una sola frase...

Jotaro scosse la testa, ma non disse altro. Era colpa sua. Era solo colpa sua se Pucci era riuscito a passare a quella forma ben più forte di sé stesso, se aveva finalmente ottenuto il Paradiso.

Koichi non lo odiava. Jotaro come avrebbe potuto prevedere quello che era successo? Che Pucci avrebbe visto le azioni di Jotaro mentre Star Platinum fermava il tempo, che avrebbe usato la forza dei Joestar a suo favore?

-Lo sento qui attorno.- mormorò Giorno, appena più rigido del solito. Anche Josuke lo sentiva, poteva vederlo dai suoi occhi azzurri che scattavano da una parte all'altra.

Koichi non sentiva e non vedeva nulla. Alzò gli occhi al cielo e non trovò il sole. Che anche lui fosse sparito come Pucci?

Si accorse con orrore che il sole c'era eccome, ma ben basso sull'orizzonte, a dipingere il cielo di già con qualche colore caldo.

Erano passati pochi minuti dalle dieci di mattina quando erano arrivati a Cape Canaveral. Non poteva già essere l'ora del tramonto.

-Il tempo...- sussurrò Koichi, mentre qualcosa scattava al loro fianco alzando il vento.

-Vi vedo confusi, non avete capito il vero potere di Made in Heaven?- fece la voce di Pucci, troppo vicina a loro.

Jotaro strinse Jolyne con un gesto rigido e pieno di terrore, mentre si schiacciavano in centro alla pista di atterraggio.

-Made in Heaven ha il potere completo della gravità, e del tempo, e dell'universo- continuò Pucci. Koichi controllò il l'orologio al suo polso, ma le lancette sembravano essere impazzite. -ho aumentato la velocità del tempo di trenta volte. Io sono trenta volte più veloce, e voi siete troppo lenti per anche solo capire dove io mi t...-

Un suono simile a un'esplosione falciò l'aria, e tutti poterono vedere Pucci rotolare al terreno a una velocità incredibile, atterrando diversi metri davanti a loro. Sull'asfalto era rimasta la scia di sangue del suo viso contro il cemento.

-Crazy Diamond ti vede.- disse Josuke rompendo il silenzio.

Koichi capì all'istante perchè solo Koichi e Josuke, di tutti i guerrieri di Stand di Morioh, erano stati chiamati. Echoes aveva il potere sulla gravità, e Crazy Diamond era lo stand più veloce, dai riflessi più acuti e i pugni più distruttivi, tanto rapidi da bucare il muro del suono.

Le nocche scintillanti di Crazy Diamond erano macchiate di sangue già secco. Pucci si rialzò abbastanza velocemente per un pugno del genere, e inciampando un paio di volte riprese a muoversi velocemente come prima.

-Higashikata!- gridò Pucci, attorno e sopra e vicino a loro. Ora l'uomo era così veloce che la sua voce proveniva da ogni direzione. -Tu sarai il primo a morire! E poi la tua famiglia, e poi tutti voi Joestar!-

Koichi quasi schiacciò Giorno indietro, allontanandolo da Josuke, i cui capelli, prima perfettamente pettinati indietro, stavano iniziando a rizzarsi sulla testa. Oh no. Koichi sperava che quella parte del carattere di Josuke fosse cambiata, e invece...

-La mia famiglia?-

-Tua figlia. Non di sangue, ma anche lei è una sporca Joestar. E farà la tua stessa fine.-

Pucci alzò un braccio e lo abbassò ad una velocità a malapena percettibile. Josuke sembrò non importarsene, non importarsene della lunga ferita che gli si era aperta tra pollice e indice fino al gomito e afferrò, in qualche modo, il polso di Pucci.

-Tu non farai del male a Shizuka. Tu non lo farai!-

Crazy Diamond brillava di una luce strana, e ognuno della miriade di pugni che colpirono Made in Heaven in pieno torace fecero lo stesso, orribile suono di jet che rompono il muro del suono.

Pucci cadde ancora a terra, ma Koichi si accorse con orrore che le braccia di Josuke sembravano completamente sbrindellate per i colpi ancora più veloci dei suoi di Pucci. Solo la mano di Koichi su una di quelle ferite lo fece riprendere, con un grido di dolore.

Pucci era ancora a terra, viola dalla rabbia in viso e grondante di sangue, l'uniforme squarciata sul petto sanguinolento. -Basta! Basta, il destino ha detto che VOI dovete morire! VOI dovete perire!-

Josuke si inginocchiò a terra sotto la spinta gentile di Koichi.

-Tranquillo, Koi. Tutto bene.- gli fece Josuke, dal viso dolorante e stanco ma l'espressione gentile, come quella di tanti anni fa. -Crazy Diamond si è un po' evoluto in questi anni, e ora le mie ferite hanno la capacità di rigenerarsi un po' più velocemente del normale... ma non credo di poter più sferrare pugni del genere. Sono stremato.-

Nei suoi occhi, per un solo istante, vide un'onda di amara tristezza. -Shizu non ha mai visto Morioh. Devo presentarle la mamma, e tu e la tua famiglia, e Okuyasu...-

Il sangue si stava seccando appena sgorgava dalle sue ferite, e una di quelle era tanto profonda che poteva vedere l'omero sotto essa. -Questo capodanno saremo tutti assieme a Morioh.- gli disse Koichi. -E ci presenterai Shizuka per bene. Io le presenterò i miei figli.-

Si sentiva forte, ora. Si sentiva capace. Avrebbe protetto la sua famiglia e i suoi amici, costi quel che costi. -Andremo a mangiare da Tonio, Jos! Tu e Shizuka, io e Yukako e i nostri Manami e Tamotsu. E Okuyasu, e Yuuya, Mikitaka e anche Rohan! Saremo tutti insieme, tutti finalmente insieme di nuovo!-

Pucci lanciò un altro attacco contro di loro, e Jotaro riuscì a proteggere Jolyne ma per un pelo.

Jolyne gridò e il suo pugno andò a vuoto, ma attorno al suo polso si formò un bracciale di sangue e la ferita era arrivata fino all'osso, quasi a staccarle di netto il braccio, mentre Jotaro si accartocciava a terra sotto il colpo di Pucci.

Era stato colpito al viso, tagliandoglielo di netto, ma... Jotaro si rimise seduto, mentre Jolyne lo aiutava ma lo teneva anche per le spalle, spingendolo verso il basso perchè non si rialzasse.

-Perchè sei ancora vivo, Jotaro? Il mio colpo era micidiale! Avrebbe dovuto ucciderti, uccidervi tutti!- gridò Pucci ancora da un punto indecifrabile.

-Perchè anche io ho il potere della gravità, e i tuoi colpi sono meno efficaci nella mia zona di gravità modificata!- gli rispose Koichi, a voce alta, fiero e determinato. Se Made in Heaven davvero giocava tutto sulla gravità, allora Echoes act 4 aveva almeno la possibilità di renderlo un po' meno mortale.

Notte e giorno avevano già fatto il loro corso sopra le loro teste.

-Tu, biondo! Giovanni o qualcosa del genere, ti chiami così, no?- gridò distintamente Jolyne, mentre aspettava che Crazy Diamond curasse il padre. Un braccio di Josuke era tornato già funzionante, mentre l'altro pendeva ancora mollemente lungo il suo fianco.

In quel tempo, nemmeno il potere curativo di Crazy D sembrava funzionare al meglio, e non riuscì a chiudere completamente né la ferita sull'occhio di Jotaro, dalla linea dei capelli fino alla mandibola, né le braccia di Jolyne. -Biondo, perchè non hai ancora fatto niente? Sbrigati, siamo in pericolo!-

Giorno era rimasto fermo tutto il tempo, era vero. Stava palesemente aspettando. Ma cosa?

Una gocciolina di sudore freddo scese dalla sua tempia lungo il suo zigomo pallido. -Non credo di potere.-

-Che cazzo stai dicendo? Non puoi?!- gridò ancora Jolyne, mentre a fatica Koichi parava un'altro attacco di Pucci, diretto proprio a lui. Tentò di azzopparlo, ma la gravità di Echoes deviò il colpo che si diresse sul suo fianco.

Sentì il sangue schizzare e scivolare bollente lungo la sua pelle e lì incrostarsi, secco e duro, e il dolore lancinante del sangue che già si cristallizzava dentro la ferita come schegge a infierire nel dolore. Ma Giorno ancora non si mosse.

-Non sono stato io a chiamarlo qui come voi due.- ammise Jotaro nel silenzio. Jolyne sembrava dover impazzire da un momento all'altro, e Koichi a malapena riusciva a sentire la voce di Jotaro, così lontana nella sua mente annebbiata dal dolore...

Anche Jolyne tentò di colpire Pucci con un calcio ben piazzato di Stone Free, ma nel voltarsi lui evitò la mossa e la colpì sulla schiena, in un punto impensabile. Jolyne però rimase in piedi, al fianco di Koichi, guardando chissà dove, cercando di parare i colpi di qualcuno di troppo forte.

Sia Jolyne che Koichi sentirono il tocco incerto di Crazy Diamond fermare un po' l'emorragia.

-Io sono stato chiamato qui da Pucci. Dal potere di Dio. Io... io non sono come voi.- continuò Giorno, la sua voce mesta e pesante come una pietra tombale sulle loro anime. Quella brutta fitta di disagio che aveva sentito quando era arrivato all'aeroporto si ripresentò di nuovo.

Pucci rise attorno a loro.

Tutti sapevano che i prossimi colpi sarebbero stati fatali. Pucci era diventato ancora più veloce, ben più di Crazy Diamond, e poteva muoversi anche durante il tempo fermato da Star Platinum.

-Basta così, Koichi.- disse finalmente Giorno.

-Cosa?-

-La barriera gravitazionale. Annullala.-

Lo sguardo di Koichi dardò da Giorno a Jolyne, sconvolta quanto lui, a Jotaro e a Josuke e poi di nuovo a Giorno. -No! Lui ci..!-

Giorno negò. -I poteri di Pucci derivano da quelli di mio padre Dio. Se c'è qualcuno che può modificare, distruggere o creare il destino che ha architettato Pucci, quello sono solo io. Io non sono come voi, è vero, ma non sono sicuramente come lui. Annulla la barriera.-

Koichi lo fece. Jolyne gridò e prese Koichi per il braccio e lo pregò, lo scongiurò di attivarla di nuovo, ma Koichi...

Perchè si sentiva così? Sentiva che doveva disattivarla.

Semplicemente doveva.

-Il figlio prediletto di Dio, Giorno Giovanna..-

Pucci si materializzò davanti a lui, mentre Giorno continuava a camminargli contro.

-Il destino mi sta definitivamente dicendo che mi servi anche tu per creare un nuovo mondo.- fece Pucci. Sangue fresco colava dal suo naso e dai buchi che Crazy Diamond aveva creato tra i suoi denti, e tra la pelle olivastra il viola delle botte improvvise e che non credeva di ricevere era sempre più visibile.

-Sei sicuro ci sia solo un destino, Enrico?-

Dietro Giorno, l'aura dorata di Gold Experience Requiem illuminò la notte e anche il dì che seguì pochi istanti dopo. -Tu hai ottenuto il Paradiso, ma io ho l'Inferno alle mie spalle.-

Pucci iniziò a correre, la sua velocità sempre più esagerata, mentre gli zoccoli di Made in Heaven battevano duri sulla pista.

Giorno si mise le mani in tasca, fingendo una scioltezza e tranquillità che non aveva. Erano forse lacrime, quelle nei suoi occhi?

Gold Experience Requiem protese le mani in avanti, aspettando.


 

La forza inarrestabile di Made in Heaven contro l'immovibile ed eterno Gold Experience Requiem.


 

Quando le mani degli stand si toccarono, fu luce.

 

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Capitolo 5
*** Morioh & Cape Canaveral ***


Morioh, Giappone

 

Aveva da poco ristrutturato la facciata della sua villa, ma l’intonaco rovinò a terra, a pochi centimetri da suoi fiori. 

Quell’ultima ristrutturazione era costata abbastanza, quasi tutti i risparmi che lui e Keicho aveva accumulato fino a tredici anni prima e Okuyasu aveva così gelosamente custodito, ma ne era valsa la pena. Aveva diviso l’enorme villa in due, la parte più piccola e comoda spettava a lui e il resto, più lussuoso e complesso, a chiunque avrebbe voluto abitarvi e pagargli l’affitto. Per ora nessuno.

Okuyasu si era tenuto quasi tutto il giardino tuttavia, perchè il suo lavoro e la sua passione riguardava il giardinaggio e i fiori e non avrebbe avuto senso il contrario.

Il rumore e la luce improvvisa dalla finestra svegliarono Okuyasu ben prima delle grida dei vicini. Il suo sonno, da sempre, era stato agitato e leggero ma quel giorno sembrava voler dormire per sempre.

Stava succedendo qualcosa.

Alzandosi dal letto e rivestendosi in fretta e furia, notò che il bicchiere d’acqua che aveva lasciato sul comodino si era completamente svuotato, eppure non l’aveva proprio bevuta quell’acqua, ne era più che sicuro. C’erano ancora le tracce del livello dell’acqua, come se fosse evaporata in un botto.

Uscì di casa, notando dei vicini in casa che gridavano.

-Cos’è successo?- chiese bonariamente, piegandosi a salvare i fiori dai calcinacci caduti dalla sua casa. -Un altro terremoto?-

Okuyasu si sporse a prendere il vaso d’argilla, che si sfracellò tra le sue mani, ricoprendole di terra. L’orchidea al suo interno, tuttavia, sembrava sana e non intaccata dall’ennesima pazzia che stava avvolgendo Morioh.

Nel riappoggiare l’orchidea a terra notò che un frammento di vaso gli si era conficcato nel palmo della mano destra, la mano di The Hand, ma il sangue si seccava istantaneamente, appena usciva dalla ferita.

Si strappò dal taglio la scheggia.

Luce. Movimenti veloci. Stelle.

Era stata una visione? Si alzò e notò che i vicini non gli avevano risposto. L’alba stava già solcando l’orizzonte e il cielo si stava schiarendo a una velocità pazzesca. 

Pazzesco, impossibile, e forse legato proprio a quella chiamata di Jotaro per Koichi. Si chiese se anche Josuke era là, e chissà se era diventato più forte ancora o se aveva ancora quel ridicolo, gigantesco pompadour sulla fronte. Se si ricordava di lui. Se sarebbero ancora andati d’accordo loro due, dopo dieci anni senza vedersi né sentirsi.

In quel treno di pensieri che stava deragliando verso qualcosa che non c’entrava assolutamente col fatto che il mondo sembrava andare troppo veloce, si accorse tuttavia del vecchio cellulare nella tasca che stava suonando e vibrando con insistenza.

-Pronto?-

-Okuyasu! Stai bene!-

Era la voce concitata di Yukako, e se anche lei era preoccupata vuol dire che la situazione era davvero al limite del ridicolo. O al limite del mortale. Entrambi, notò Okuyasu, mentre il chiodo del cartello “VENDESI APPARTAMENTO” che aveva piazzato davanti al cancelletto di metallo si stava arrugginendo di fronte ai suoi quattr’occhi occhialuti.

-Credo…-

-In che senso?-

Okuyasu si sentiva confuso, ma chiunque lo sarebbe stato durante un’apocalisse. Il mondo stava davvero finendo allora, come aveva detto Koichi. Stranamente non si sentiva nervoso.

Il cartello “VENDESI” cadde a terra.

-No, nulla. Koichi si è fatto sentire?-

-Il problema è questo! Non ho sue notizie da… che cazzo di ore sono ora?!-

Okuyasu non avrebbe potuto risponderle in nessun modo perchè mentre chiamava, sul suo Nokia 3300 non poteva vedere l’orario. Suppose non sarebbe servito a molto, ora.

-Di’ qualcosa, Oku!-

Ma Okuyasu non si sentiva di dire niente. Aprì la bocca per parlare, per chiederle come stavano i bambini, ma un altro calcinaccio cadde e questo lo fece a una velocità impercettibile.

Si infranse sulla testa di Okuyasu e Yukako sentì solo un rumore sordo, e un gemito strozzato di dolore.

 

Okuyasu sognò stelle e pianeti che vorticavano lenti nel loro valzer infinito spaziale. 

Sognò un uomo biondo e uno dai capelli bianchi in un equilibrio perfetto da cui dipendeva l’universo….

No, non l’Universo. Solo quell’universo in particolare.

Sognò di piangere e sognò il palmo della sua mano intagliato, intarsiato da sottili filamenti di ogni colore mentre il Sistema Solare ruotava attorno a lui. Sognò di portare tutti i pianeti Terra sulle spalle.

“È davvero la fine?” si ritrovò a chiedere Okuyasu.

“Non esistono la fine e l’inizio dove esiste solo l’equilibrio.” ebbe come risposta.

-Oku! Oku, svegliati!-

Okuyasu riaprì gli occhi nel mondo reale. Non c’erano più le stelle e i pianeti a vorticare attorno a lui ma solo Yukako a un palmo dal suo viso, i capelli tutti spettinati e sporchi di polvere. -Sei vivo!-

Si tirò a sedere. Effettivamente era vivo. Ma era vivo per davvero?

 Al suo fianco c’erano anche i figli di Yukako, e la più grande, la bionda Manami, lo abbracciò con apprensione. 

Okuyasu fece per non toccarla con la sua mano destra per non sporcarle il vestitino di sangue, ma si accorse di non avere una ferita sulla mano. Eppure era sicuro di essersi tagliato…

-I vicini hanno detto che ti è caduto un calcinaccio in testa mentre eri in chiamata con me. Siamo venuti appena abbiamo potuto.-

-Cos’è stato… quello?- chiese Okuyasu.

Yukako sapeva a cosa si stava riferendo con “quello”. Il tempo velocizzato, la notte e il giorno a seguirsi a pochi minuti di distanza…

Yukako negò, cullando il figlio più piccolo addormentato tra le sue braccia. 

-Non lo so. Koichi non risponde alle chiamate, Hayato è in contatto con la Fondazione ma non sta ricevendo neanche lui risposte. Credo dovremo aspettare per sapere qualcosa in più…-

In cielo l’alba di chissà quale giorno stava schiarendo l’universo sopra di lui, nascondendo quelle stelle beffarde che l’avevano preso in giro fino a quel momento.

Cape Canaveral, Stati Uniti

 

Koichi rialzò la testa dal cemento su cui era appoggiata. Quando si era sdraiato a terra? Cos’era successo?

Tutto ciò che ricordava era luce. Calda, bollente, poi gelida, poi il buio e poi… 

Il tramonto aveva dipinto di rosso il cielo della Florida. Tra l’arancione, qualche nuvola nera si muoveva lenta e avvertiva che presto sarebbe piovuto, forse. Koichi ricominciò a sentire il fianco pulsare appena tentò di muoversi, il sangue caldo, fitto e lento sgorgargli dall’apertura e sporcargli il maglioncino che Yukako tanto amava.

Yukako, a Morioh. La sua missione lì negli Stati Uniti.

Pucci?

Si rialzò come poteva, e sul terreno c’era il suo sangue e quello di Josuke svenuto al suo fianco, Jolyne e Jotaro feriti a pochi metri e… due uomini che subito Koichi non riconobbe.

Sotto di loro una bruciatura sull’asfalto, come quella di un’esplosione o di… di cosa, di preciso? Cos’era successo nello scontro tra Giorno e Pucci?

Giorno e Pucci, erano proprio loro due riversi sul suolo, immobili come cadaveri. Forse morti.

Josuke si risvegliò poco dopo, le sue braccia già non più sanguinanti. Davvero, Crazy Diamond era cresciuto tantissimo come stand e ora permetteva anche al suo portatore di guarire prima dalle sue ferite. Jolyne e Jotaro seguirono, anche se Jotaro molto più a fatica di tutti gli altri. 

Pucci e Giorno, nulla. Nemmeno un segno di vita da loro. Nessuno osò avvicinarsi per timore e reverenza. 

Poi un altro rumore forte e Koichi credette si trattasse ancora di altro- cosa ancora? Un altro stand? Nemici in agguato? Non avrebbe potuto combattere. Si sentiva le gambe molli come budini, e stava perdendo un volume esagerato di sangue, troppo anche solo per alzarsi in piedi.

Ma era solo un enorme elicottero nero, con una ruota disegnata sulla lamiera.

La fondazione Speedwagon!

-Jolyneee!- gridò una ragazza praticamente saltando giù dall'elicottero. Atterrò sulla pista grazie al suo stand verde e arancione, e corse verso Jolyne, abbracciandola e alzandola da terra. -Hermes!- sbraitò Jolyne a sua volta. Era felice, ma dolorante. -Credevo tu fossi..!-

-Sono caduta fuori dal campo gravitazionale di Pucci, ma ho incontrato quelli della Fondazione fuori dall'area. Quando Emporio e Anasui ci hanno raggiunto e il campo è smesso tutto ad un tratto, siamo corsi qui!- spiegò la ragazza dalle trecce scure, aiutando Jolyne a rimettersi in piedi. Le sue gambe erano ancora però deboli e ricadde a terra. Anche il bambino di prima e il ragazzo dai capelli rosa raggiunsero Jolyne, tutti felici e contenti, come se nulla fosse successo, nulla fosse cambiato.

L'elicottero atterrò. 

Quelli della fondazione si avviarono verso ciò che rimaneva di quel catorcio che un tempo era la lussuosa limousine di Giorno, per raccogliere tutte le prove di quello che era successo quel giorno. I media internazionali non avrebbero dovuto saperne nulla. Ripulivano tutto prima dell'arrivo dei giornalisti, facevano sempre così ed erano dei maestri.

La limousine era ancora lì, come se nulla fosse mai successo, ferma in quel posto e uguale. Al suo interno c'erano ancora il borsone di Koichi e la valigia di Josuke.

Però Koichi non sapeva se si sentiva lo stesso di prima… 

-Signor Hirose…- mormorò un giovane componente della Fondazione, allungandogli una mano per aiutarlo ad alzarsi. Stavano tutti venendo portati sugli elicotteri. -I giornalisti e i curiosi saranno presto qui. Dobbiamo andare.-

Notò che degli addetti montavano su barelle Giorno e il prete, mentre controllavano battito e respiro. Altri scendevano a ripulire il sangue. 

Nessuna prova.

-Sí, scusami, andiamo.- rispose Koichi, prendendo la sua mano.

 Jotaro non aveva detto una parola, e Jolyne aveva parlato tutto il tempo anche per lui.

Josuke si era subito attaccato al cellulare, le lacrime evidenti nei suoi occhi sempre così solitamente freddi, mentre parlava in un marcato e strettissimo inglese con qualcuno.

-Im ok Shizu, im ok… are you? Bertie, is he alright too?-

Koichi sapeva che Josuke aveva adottato la neonata invisibile che lui e Joseph Joestar avevano trovato molti anni prima a Morioh, e sapeva che si era anche trasferito nel Regno Unito per studio o lavoro, ma non era a conoscenza di tutti i dettagli. Lui e Josuke non si erano parlati più molto da quando Josuke aveva deciso di lasciare Morioh nel 2002 per trovarsi una nuova vita, per abbandonare quella vecchia, semplicemente per trovare sé stesso. Nella piccola, monotona Morioh lui non ci si trovava più. La solita routine, le solite persone, il peso di sua madre sempre più esigente sulle spalle, l’eredità di suo nonno che lui non voleva portare avanti, e forse anche la gravità di quella via di mezzo tra una  relazione e una intimissima amicizia tra lui e Okuyasu che a Josuke era sempre andata stretta.

Si erano sentiti poche volte in quei dieci anni, sporadicamente su Skype e per telefono, poche frasi, forse sempre più distanti.

Koichi a sua volta era stato impegnato. Si era fidanzato con Yukako dai tempi della scuola, quando Josuke era ancora lì a Morioh con loro, e lui e Yukako avevano deciso di sposarsi presto, il prima possibile.

Koichi studiava alla città di S, abbastanza lontana da Morioh, e quel periodo della sua vita non era stato affatto facile, tra la vita da pendolare e studente di psichiatria e la vita da pianificare assieme alla sua fidanzata.

Ma ce l’aveva fatta! Si era laureato in psicologia e successivamente anche in psicoanalisi comportamentale, aveva sposato Yukako e avevano avuto due bellissimi figli. Avevano preso una casa a Morioh, Koichi si era meritato uno studio tutto proprio all’ospedale di Morioh e Yukako era riuscita a riaprire il salone di bellezza della cara Aya. Mancava a tutti in città, e quelli che erano ragazzini quando lei venne uccisa da Kira erano ora adulti che intendevano portare avanti la sua eredità.

Koichi e sua moglie e i suoi figli avevano vissuto una vita tranquilla, perfetta, nella periferia calma e benestante. Koichi non poteva desiderare di meglio.

Ma Koichi era un portatore di Stand, aveva deciso di partecipare alle bizzarre avventure in cui lo tirava sempre dentro la Fondazione Speedwagon, ed era ora lì, mezzo dissanguato e delirante su un elicottero dopo uno scontro che avrebbe sancito la fine del mondo se fosse stato perso.

Giorno e Pucci aprirono finalmente i loro occhi. Pucci era stato legato, ed erano pronti a ucciderlo se necessario. Ma nel suo sguardo c'era solo terrore. -Chi siete? Dove sono?- sussurrò, con solo un filo di voce. 

-Sei ancora al servizio di Dio?- chiese Jotaro, e nello sguardo del prete si formò la confusione più totale. -Certo che lo sono… io sono un sacerdote, e il Signore è il mio pastore. La prego, mi dica dove mi trovo, mi fa così male la testa…-

Il silenzio crollò su di loro. 

Pucci aveva perso la memoria.

Giorno non aveva parlato ed era subito sprofondato in un altro sonno profondo, e poco dopo anche Pucci lo seguì. Che anche Giorno avesse perso la memoria?

-Chiamate subito Kishibe, che venga qui alla svelta. Solo lui può dirci cosa è davvero rimasto della loro memoria o se c'è qualcos'altro da eliminare.- ordinò Jotaro all'uomo che si trovava alla ricetrasmittente, che sembrava però impegnato.

-Hai sentito? Ho detto di chiamarlo ora…-

-Signor Kujo! È importante, è successa una cosa..! Com’è possibile?-

Jotaro sembrò riscuotersi da quella sua aura autoritaria, e un minimo di rabbia si accese nell'unico occhio che gli era rimasto. -Adesso? Che cosa può esserci di più importante di questo?!-

-In Italia, nel nord… c’è stato un terremoto di magnitudine strepitosa, che ha aperto la terra in due, è un’apertura talmente profonda da aver rotto anche la crosta terrestre in quel punto! E dentro sembra esserci qualcosa di… incredibile! Non posso crederci!-

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Capitolo 6
*** 5. La Bassa ***


Città di “La Bassa”, nord Italia

 

La macchina fotografica fece un’altro scatto. La donna dai lunghi capelli viola rimase a guardare il collega con uno sguardo ben poco comprensivo. -Perchè non butti quella macchinetta? È più vecchia di te. Prenditene una nuova, di quelle digitali, sono più comode.-

Il ragazzo biondo rise tra sé e sé, aggiustando il fuoco della vecchia fotocamera. -Sono un giornalista all’antica, Minerva, lo sai. Mi piacciono queste vecchie cose. Lavoro anche con una vecchia!-

-Sborat.- rispose Minerva in dialetto labassese, con una faccia tutto tranne che offesa e un vago sorriso sulle labbra colorate da un rossetto nero. Nestore rise a sua volta, scattando un’altra fotografia all’enorme voragine che si era aperta nel mezzo della campagna labassese.

Non succedeva mai nulla nella enorme ma desolata città di La Bassa, posizionata nel sudest della Lombardia e nel bel mezzo della Pianura Padana. Certo, la concentrazione di portatori di Stand in quella cittadina era una delle più alte in tutto il mondo e ogni tanto qualche scontro si accendeva tra i ragazzini che ancora non sapevano controllare le loro abilità e nemmeno i loro cervelli, ma oltre a quello, La Bassa era probabilmente una delle città più noiose d’Italia.

Nestore Bennutti e Minerva Matuzia, che lavoravano per la Voce di La Bassa, lo sapevano bene. Tutto ciò che di solito scrivevano sul loro settimanale erano gare di trattori, ortaggi particolarmente grossi e storie di ladruncoli che venivano malmenati da "forze trasparenti" mentre cercavano di derubare anzianotti della zona.

-La Fondazione Speedwagon ci ha chiesto di esaminare la zona per conto loro. Il sindaco li ha chiamati e noi siamo i loro emissari in terra Labassese ora, a quanto pare.- continuò Mia, mentre Nestore si avvicinava lentamente al bordo del precipizio.

Quella principale era una scarpata enorme, un'apertura nel terreno alta chissà quanti chilometri.

Delta Machine apparve al fianco di Nestore, l'occhio-fotocamera al centro del corpo quadrangolare dello stand che brillava e sembrava scattare fotografie.

Dei fogli uscirono da un sottile buco sul fianco dello stand, e Nestore li prese senza darci troppo peso, come da routine ben collaudata.

Delta Machine aveva la capacità di conoscere e registrare ogni dato che la sua macchinetta fotografica riusciva a mettere a fuoco.

-Un buco di… quattro chilometri di profondità?-

Il silenzio calò su entrambi. Quattro chilometri era qualcosa di ineccepibile. Quattro chilometri era l'altezza del Monte Bianco, metà del diametro di La Bassa.

-Diobo'...- fu tutto quello che Nestore riuscì a dire per rompere quel silenzio che Minerva sembrava interessata a perseverare. 

-Come facciamo ad arrivare in fondo? Delta Machine ha un raggio di pochi metri e il tuo Pallas Athena non supera i cinque metri, forse dieci. Sto bagái è talmente profondo che Delta Machine non riesce nemmeno a capire cosa ci sia sul fondo!-

Minerva iniziò a guardarsi attorno, mentre scibacchiava sul suo taccuino. 

La faglia si era aperta in piena campagna in seguito a un disastroso terremoto avvenuto il giorno prima. Forse. Il tempo era stato un po' confuso e né lei né nessun altro a La Bassa avrebbe saputo dire quanto tempo era passato. I cellulari segnavano che oggi era il ventidue marzo duemiladodici, e tanto bastava.

Non c'erano abitazioni lì intorno e solo una stradina bassa di campagna era stata tranciata in due dagli enormi tagli nel terreno. Adiacente alla stradina, come di consuetudine, c'era un vecchio canale d'irrigazione la cui acqua si stava riversando nella faglia aperta.

I tagli erano quattro, forse cinque, tutti paralleli tra di loro, ma solo quello centrale spiccava per larghezza, lunghezza e profondità.

-Dovremmo controllare gli altri. Forse c'è qualcosa che ci può aiutare a scendere…-

-Magari una bella scala!- ridacchiò Nestore alzandosi e raggiungendola. 

Minerva non parlava. Quando Nestore le si accostò e notò l’enorme scalinata che spuntava da uno dei tagli minori attorno alla faglia più grande, imprecò a bassa voce in stretto dialetto labassese.

Pallas Athena, lo stand di Minerva, faceva abbastanza luce da permettere ai due di vedere dove stavano mettendo i piedi.

Gli scalini erano vecchi, vecchissimi, forse di epoca etrusca o romana data la fattura e rovinati dal tempo e dalle scosse. In alcuni punti si interrompevano e continuavano metri più in basso, e i due giornalisti dovevano fare ricorso ai loro stand per scavalcare quelle fosse e rotture improvvise nel terreno.

-Agh’la faghi pö- mormorò Nestore con quel poco di fiato e voce che gli erano rimasti nel suo corpo magrolino e poco atletico. Minerva davvero non sapeva come avesse retto fino a lì.

Nestore parlava spesso l’antichissimo dialetto labassese, benchè fosse un ragazzo estremamente colto e dalle spiccate doti verbali. Lui diceva che era perchè non voleva dimenticare le sue origini e la sua storia. Era importante avere un luogo da chiamare “casa”, sapere di fare parte di qualcosa, diceva lui. Minerva rideva e diceva che le sue sembravano stupidate quelle ma, sotto sotto, lo trovava saggio. Quasi poetico.

-Sai chi ci vorrebbe qui? Mia cugina, Zarathustra.- esordì Nestore, parlando a fatica col fiatone. -Lei ha uno stand nell’occhio, le permette di vedere tutto… sai… infrarossi, ultravioletti, calore, quelle robe lì. Avremmo dovuto chiamarla con noi.-

Minerva non gli rispose subito, perchè era troppo impegnata a guardare dove metteva i piedi e a storcere il naso. -Tua cugina, la ragazzina strana con un’occhio tutto rosso? Ma non ha quattordici anni? Lasciala stare, poverina, è una bambina. Nessuno di quell’età dovrebbe prendersi una responsabilità del genere.-

Camminavano da un tempo indeterminato e che sembrava interminabile. Bella differenza da quando, prima del terremoto, il tempo sembrava essersi tanto accelerato da confondere la notte col giorno. Difficile da dire già di suo nella nebbiosa e misteriosa La Bassa, sempre circondata e stritolata in una nebbia così fitta da confondere il buio con la luce e non far passare nessuno dei due sulla città.

-Potenzialmente queste sono quattro chilometri di scale, ovvio che sei stanco. Ancora un piccolo sforzo, Bennutti, avanti.- lo ammonì Minerva. Lei ci teneva a lui, anche se era sempre un po’ dura e severa con Nestore.

Lei era stagista all’università di La Bassa quando Nestore si stava laureando in giornalismo, qualche anno prima. Lei già scriveva per qualche giornalino e lui era un giovane studente che voleva sfondare. Fecero amicizia naturalmente.

Pallas Athena indicò con il suo braccio-lancia la fine delle scale, qualche metro sotto di loro. Le scale erano ancora rotte, questa volta in modo molto più drammatico, creando uno spacco di metri tra la fine delle scale e l’inizio di una specie di passerella di pietra.

Nestore, che prima sembrava morente, ora si era ripreso del tutto. Facendo leva con Delta Machine, si preparò a saltare quei metri.

-Aspetta!- lo ammonì ancora Minerva. -Non sappiamo se è sicuro! E se crollasse sotto al tuo peso?-

-Beh- ridacchiò Nestore, pronto a lanciarsi nel vuoto. -Mia nonna Medea l’ha sempre detto che la nostra famiglia il rischio e il sacrificio ce l’abbiamo nel sangue, assieme a quell’energia strana.-

E Nestore saltò davvero e atterrò con i piedi su quella pedana di sanpietrini. Era stabile, ma lui meno, scivolò sulle pietre bagnate e cadde in avanti con le ginocchia e le palme delle mani.

Era al buio perchè Minerva era rimasta indietro. Grazie a Pallas Athena saltò la fossa, e atterrò tra i veli luminosi che ricoprivano il suo Stand.

-Hai trovato qualcosa?- chiese la donna, avvicinandosi a lui. Sembrava avere qualcosa in mano.

Le pietre sul terreno erano sporche di terra e bagnate dall’acqua del fosso che si era rotto, chilometri sopra di loro, e riversava l’acqua di qualche fiume della zona nella pozza. Beh, almeno stava pulendo la zona, e anche l’oggetto strano in pietra che Nestore teneva tra le mani sporche di terriccio e fango.

-Nestore? Cos’è?-

-Questo c’è nel libro che quella donna strana inglese ha dato a mia nonna.- iniziò a spiegare Nestore. Tra le mani non aveva un oggetto singolo, ma più diversi pezzi di quello che forse anni, secoli prima era stato un qualcosa di unico. Iniziò a tentare di rimettere i pezzi a posto, aiutato dal suo stand alle sue spalle, che stava scannerizzando con precisione millimetrica tutti i vari pezzi. -Ti spiego. Molti anni fa, quando il fratello maggiore di mia nonna morì, una donna che diceva di essere “la sua maestra” portò questo antico libro alla nonna, dicendo di leggerlo, proteggerlo e darlo alle prossime generazioni. E c’erano diversi disegni di un oggetto strano… una roba maya, qualcosa del genere.-

Tra le mani sapientemente guidate di Nestore, l’oggetto prese pian piano una forma specifica. Una bocca da cui spuntavano due grossi canini, una spirale sulla fronte e due orbite cave.

-Una maschera di pietra?-

Nestore la riappoggiò nell’acqua, e quasi sembrò vibrare al contatto con liquido. Forse era solo suggestione, forse erano solo entrambi molto stanchi.

-Vedi se ce ne sono delle altre in giro. Questa situazione non mi piace.- le chiese Nestore, con un tono che suonò nelle orecchie di Minerva come un campanello d’allarme.

Dall’elmo di Pallas Athena la luce filtrava abbastanza da permetterle di vedere qualche metro attorno a lei. C’erano tanti frammenti per terra, e roccia scavata attorno a loro, a formare una grotta perfetta. Delle radici di pietra solcavano le pareti, e Minerva le seguì incuriosita, continuando a scrivere e descrivere tutto ciò che vedeva sulla sua piccola agenda tascabile.

Quasi inciampò su una grossa pietra sul terreno, ma quando guardò in basso si accorse che aveva la forma di una testa. Una statua? Vicino ad esso, mezzo tronco, una gamba e un braccio, tutti di pietra cesellata e levigata alla perfezione.

Alzò lo sguardo. Un albero di roccia, un pilastro gigantesco che sorreggeva l’intera grotta, e appeso ad esso come frutti di un albero maledetto una miriade di maschere di pietra, quasi tutte rotte.

Incastonato al centro del pilastro, il resto dell’uomo di pietra.

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