Sangue su Chernobyl di FrenzIsInfected (/viewuser.php?uid=822976)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 1 *** 1 ***
Primo capitolo
1
Dytyatky, Ucraina.
7 Novembre 2009.
Frontiera della Zona di Esclusione di Chernobyl.
09:47.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova.
Il gruppo deve raggiungere la città di Chernobyl.
Un
cielo grigio copriva quell’angolo di mondo conosciuto come Oblast’ di Kiev. Le
nuvole, accompagnate da una leggera brezza, non facevano presagire un imminente
miglioramento. Le piogge autunnali dei giorni precedenti avevano coperto di
pozzanghere l’asfalto della strada statale che conduceva in uno dei posti più
pericolosi d’Europa e del mondo intero: la Zona di Esclusione di Chernobyl.
Il
silenzio innaturale che regnava sulla via era spezzato soltanto da un furgone
che procedeva spedito verso nord.
Ad
un tratto, il mezzo iniziò a rallentare, per poi fermarsi del tutto. L’autista
imprecò.
«Che succede, Anatoli?» chiese
una voce maschile dietro di lui.
«Benzina
finita, signori. Ho fatto male le mie valutazioni» rispose l’uomo al volante,
un contadino robusto sulla sessantina, col volto segnato dalle rughe.
«E
adesso?» fece la giovane donna mora in mimetica al suo fianco.
«Si
prosegue a piedi. Non siamo distanti dal nostro obiettivo.»
«Sentito,
Irina? Si scende» disse un’altra voce maschile nel vano posteriore.
«Non
sono sorda, papà» rispose una voce femminile, stizzita.
Dal
mezzo uscirono sei persone, quattro uomini e due donne, armati con fucili
d’assalto e pistole. Ognuno di loro volse il proprio sguardo nell’area
circostante, costituita da immensi campi un tempo coltivati, ora lasciati
all’abbandono.
«Hai
preso anche Masha?» domandò uno degli uomini, di mezza statura e tarchiato, a quella
che doveva essere Irina, una ragazza dai lunghi capelli biondi dall’aspetto
quasi fanciullesco.
Lei
annuì, mostrandogli il piccolo orsacchiotto bianco che teneva in mano.
«Niente
zombie. Per ora» disse il più giovane dei quattro uomini, un ragazzo smilzo con
i tratti tipici da slavo, sistemandosi lo zaino in spalla.
«Per
ora, Boris. Per ora» ripeté la donna con la mimetica, scartando un lecca-lecca.
Anatoli
Zelenko posò gli occhi poco lontano, in direzione di un piccolo agglomerato di
case di campagna. Erano nelle vicinanze di Dytyatky, il paesino dove viveva.
«Chi
l’avrebbe mai detto che sarei stato contento di rivedere questo posto un’ultima
volta?» sussurrò.
Due
mesi prima, il famigerato “virus Z” era uscito allo scoperto. Non si sapeva da
dove fosse arrivato e chi l’avesse portato. Alcuni davano la colpa ai russi,
altri agli americani, altri ancora a qualche scienziato pazzo. Quello che tutti
poterono constatare, però, fu che in una trentina di giorni il mondo si ritrovò
ad essere popolato per più di tre quarti da morti viventi.
Tre
settimane prima, a Kiev, Anatoli stava vendendo i prodotti della sua terra al
mercato, quando gli zombie iniziarono ad arrivare dai quartieri a sud della
città. L’uomo cercò di fuggire a bordo della sua station wagon, ma,
nella fuga generale, fu colpito da un’auto della Militsiya che stava andando a
respingere i non morti. A bordo, insieme al conducente, c’era l’agente Vassili
Karavaev, un trentaduenne di Bila Cerkva, da poco trasferito a Kiev. L’uomo
soccorse Anatoli, e fece per portarlo al campo medico dell’esercito più vicino,
ma al momento di risalire in auto, si accorse che il suo collega era morto
nello schianto, e si era già trasformato. Così, i due fermarono un’auto,
ordinando al conducente di raggiungere il cordone sanitario più vicino. A
bordo, c’erano Sergei Kabakov, un quarantenne di Ivankov, sua figlia Irina, ventiseienne,
e l’amico coetaneo di lei, Boris Volkov. Giunti sul posto, trovarono il caos.
La zona era già stata raggiunta dai non morti, e l’esercito stava lentamente
soccombendo sotto la superiorità numerica e la velocità d’azione degli zombie,
che si rivelarono essere più veloci e aggressivi di quelli “romeriani”. Nel
trambusto generale, una giovane sergente dell’esercito, Olga Petrova, cercava di
respingere come meglio poteva l’orda, mentre vedeva i suoi commilitoni morire
uno dietro l’altro. Vassili trovò il coraggio di uscire dalla macchina e
prestarle soccorso, aiutandola a mettere fuori gioco gli zombie. La donna seguì
poi il poliziotto a bordo dell’auto di Sergei, e la fece rannicchiare nei
sedili posteriori della macchina, sopra le gambe degli altri passeggeri. In
quelle condizioni, sotto consiglio di Vassili, trovarono rifugio al centro di
addestramento della Militsiya a Stoyanka, poco fuori Kiev, evacuato dopo
l’arrivo degli zombie. Lì, Olga, che era anche dottoressa, curò Anatoli, mentre
il resto del gruppo prendeva armi e munizioni e decideva il da farsi. Ognuno di
loro proveniva da città differenti dell’Oblast’ di Kiev, con la soldatessa e
Vassili che avevano l’ordine di proteggere qualunque civile con cui fosse in
contatto, fino al ricongiungimento con altri membri dell’esercito o della
Militsiya. Boris, che quel giorno aveva visto i propri genitori morire per mano
degli zombie mentre passeggiava con loro assieme a Irina e Sergei, chiese di
essere portato a Katyuzhanka, sessanta chilometri a nord di Kiev. Magari il
nonno, un veterano della seconda guerra mondiale, era riuscito a fregare anche
gli zombie. Anatoli viveva più a nord, ma non aveva nessuno a casa ad
aspettarlo, e ottenne il permesso di Boris per unirsi a lui, assieme a Vassili
ed Olga. Sergei e Irina, invece, sarebbero tornati a Ivankov, una ventina di
chilometri a nord-ovest di Katyuzhanka, dove abitavano, rifiutando l’aiuto del
poliziotto e della soldatessa. Il giorno seguente, all’alba, il gruppo fece un
pezzo di strada assieme, per poi dividersi quando Boris e i suoi compagni
giunsero a destinazione. Clamorosamente, nonno Yuri e nonna Luba erano
sopravvissuti al passaggio degli zombie, e il veterano, per difendersi, aveva
tirato fuori il suo vecchio Mosin, con il quale aveva ucciso centinaia di
tedeschi a Stalingrado e Berlino. Lì, Vassili e Yuri insegnarono a Boris come sparare,
usando una Makarov presa a Stoyanka. Olga, invece, passò gran parte del tempo a
cucinare con Luba, preparando provviste per un eventuale viaggio. I maschi
vennero mandati nei supermercati vicini a prendere cibo, acqua… e lecca-lecca
alla menta, per i quali la soldatessa andava matta. Questo clima idilliaco durò
solo due settimane. Un giorno, una mandria di zombie giunse a Katyuzhanka, costringendo
il gruppo a fuggire a bordo di un furgone. Luba e Yuri coprirono la fuga del
nipote e degli altri ospiti, che si diressero a Ivankov, dove salvarono Sergei
e Irina, braccati da un gruppo di non morti che stava diventando sempre più
grande. Dopo essersi allontanati, e aver chiesto consiglio ad Anatoli,
quest’ultimo ebbe un’idea tanto pericolosa quanto potenzialmente geniale.
«Zombie
a ore dodici» disse Olga, spostando il lecca-lecca con la lingua.
Il
sestetto aveva da poco oltrepassato una vecchia pensilina, giungendo in uno
spiazzo devastato. Un autobus era stato abbandonato, e, attorno ad esso, una
decina di zombie vagava confusa. Più avanti, un cancello con due sbarre
ostruiva il passaggio. Sparsi, vi erano diversi cartelli di pericolo.
I
sei, appena furono abbastanza vicini, aprirono il fuoco sui non morti,
abbattendoli con facilità.
Boris
si girò verso Sergei, non avendolo sentito sparare.
«Siete
stati troppo veloci» disse l’uomo, alzando le spalle.
«O
forse non hai voluto sparare.»
«Piantala,
ragazzino. Non farmi la predica.»
«Che posto è questo? Ci
sono diversi colleghi della Militsiya» chiese Vassili, guardando i cadaveri.
«Benvenuti al "Checkpoint Dytyatky". Il primo dei posti di controllo della Zona. Per quanto riguarda i cadaveri... prendetegli
le munizioni. Io andrò a cercare dei dosimetri» fece Anatoli, dirigendosi
verso il posto di controllo accanto al cancello.
«Dosimetri?
Non vorrai mica dire…»
«Sì,
Sergei. Entriamo nella Zona di Esclusione.»
«Sei
pazzo, per caso? È pericoloso!» esclamò il padre di Irina.
«Più pericoloso degli zombie? Non credo proprio» rise Boris.
«Chernobyl
non è mai stata evacuata dopo il disastro.» intervenne il poliziotto. «Potremmo trovare altri soldati e membri della Militsiya
lì.»
«Un
motivo in più per andare» aggiunse Olga.
Anatoli
tornò dal posto di controllo con il bottino, distribuendo gli strumenti di
rilevazione agli altri.
«Lasciate
che vi guidi» disse. «Oltre a essere un
contadino… sono uno stalker.»
Stalker,
in quel luogo, era il termine che veniva usato per
indicare le persone che si introducevano illegalmente nella Zona di
Esclusione
per svariati motivi. Chi per rubare oggetti contaminati e di valore
storico, altri solo per vedere posti non normalmente visitati dai
nascenti tour operator della Zona.
«In
altri tempi, ti avrei arrestato immediatamente» disse Vassili. «Ma, in questa
situazione, non posso far altro che ringraziare il cielo. Fai strada.»
Anatoli
accennò un breve sorriso, e scavalcò il cancello, iniziando a guidare il gruppo
nella Zona di Esclusione.
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Ciao, gente!
Era da un po'
che volevo scrivere una storia ambientata a Chernobyl,
specie dopo la visione della miniserie HBO. Mi sono informato a lungo e
a fondo su quei fatidici giorni del 1986, e su come sia la Zona oggi.
Spero di aver ricostruito fedelmente le ambientazioni descritte.
I fatti si
svolgono nel 2009 per un mero fattore estetico: infatti, in quell'anno,
non erano ancora iniziati i lavori per il NSC (New Safe Confinement),
l'immensa struttra che avrebbe ricoperto l'ormai vecchio sarcofago
costruito pochi mesi dopo il disastro e avrebbe costretto alla
demolizione anche l'iconico camino bianco e rosso.
Voglio
ringraziare zenzero91, organizzatrice del contest "Gli ultimi di noi"
nel forum di EFP, senza la quale questa storia non avrebbe mai visto la
luce.
Alla prossima,
Frenz
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Capitolo 2 *** 2 ***
Primo capitolo
2
Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
7 Novembre 2009.
Strada senza nome.
13:21.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova.
Il gruppo prosegue il suo cammino verso Chernobyl.
Il
silenzio regnava attorno al gruppo. Per tre ore, gli unici rumori che sentirono
fu il fruscio delle foglie mosse dal vento e il cigolare di alcuni alberi che
si piegavano. Ogni tanto qualcuno apriva bocca, ma, in quel clima di tensione
generale, nessuno aveva voglia di lasciarsi andare.
L’unico
che, nonostante tutto, aveva voglia di parlare, era Sergei.
«Ehi,
vecchio!» esclamò verso Anatoli. «Quanto manca?»
Il
contadino si voltò, continuando a camminare e reggere il suo AK-74.
«Ancora
un’oretta. Chernobyl è a cinque chilometri.»
«Possiamo
almeno fare una pausa?» sbuffò Boris. «Stiamo camminando da tre ore.»
«Non
qui in mezzo. La strada sarà relativamente sicura, a livello di radiazioni, ma
non lo è se vogliamo difenderci dai non morti.»
«Cosa
proponi, allora?» chiese Vassili.
«Siamo
nelle vicinanze di ciò che rimane del villaggio abbandonato di Zalissia.
Possiamo fermarci lì, e poi proseguire verso il paese.»
«Può
andare» proferì Olga.
Anatoli
tornò a guardare avanti. Dopo qualche momento di silenzio, Vassili riaprì la
bocca.
«Allora,
Anatoli… perché facevi lo stalker?»
chiese.
«Portavo
cibo e provviste ai samosely. Ho saputo da qualche vicino di casa che
lavorava nella Zona dell’esistenza di queste persone, per la maggior parte
anziani, che sono tornate a vivere nelle proprie case all’interno della Zona, nonostante
sia proibito. Per il governo ucraino non esistono, è come se fossero fantasmi.
Ma ci sono. Così, quando tornavo da Kiev, facevo un giro nell’area della Zona a
nord di Dytyatky, per aiutare quei poveretti.»
«Come
fai a conoscere questa strada, allora, se per fare i tuoi giri passavi per i
campi?» domandò Irina.
«Da
piccolo accompagnavo mio padre a Chernobyl, per vendere frutta e verdura. Il
disastro alla centrale ci ha quasi fatto finire sul lastrico, tutto il nostro
raccolto era diventato radioattivo. Siamo riusciti a vendere nuovamente solo
dopo la caduta dell’URSS.»
«Se
non altro non siete rientrati nella zona da evacuare» intervenne Vassili.
«Credimi,
giovanotto, avrei preferito ricominciare da zero con un trasferimento forzato a
Kiev» rise amaramente Anatoli. «Ma avevo un’attività di famiglia, con una
moglie e un figlio da mantenere. Quando ho divorziato, ero ormai troppo in là
con gli anni. Così ho continuato a fare il contadino. E lo stalker.»
Il
gruppo virò a destra, lasciando la strada. Dopo aver percorso qualche centinaio
di metri, il gruppo si ritrovò davanti quello che restava di Zalissia. Tra il
fogliame e gli alberi, si ergevano diverse abitazioni abbandonate. Alcune erano
poco più che ruderi, mentre altre erano rimaste, seppur rovinate dal tempo e
con i vetri distrutti nel tentativo di allontanare le radiazioni, tali e quali
a come erano state abbandonate nel 1986. Ciò che rimaneva di un parco giochi
era coperto da rampicanti e fogliame, divorato dalla ruggine.
«0.18
microsievert… è poco, per essere all’interno della Zona» annunciò Boris,
impugnando il suo dosimetro.
Anatoli
si guardò intorno, per poi rivolgere lo sguardo al gruppo.
«Okay,
sembra tutto tranquillo. Mangiamo un boccone e risposiamoci un’oretta» disse.
Un
rumore, seguito da un ordine, fece gelare tutti.
«FERMI!
NON MUOVETEVI O SPARO!»
«Gettate
le armi e fate un passo indietro» ordinò la voce.
Il
gruppo obbedì.
«Che
succede, Vassili?» chiese Boris, tremante.
«Tranquillo,
Boris. Ci pensiamo io e Olga» sussurrò l’agente.
«Chiunque
tu sia, non devi avere paura. Sono il sergente Olga Petrova, dell’esercito ucraino,
e con me c’è l’agente Vassili Karavaev della Militsiya» fece la soldatessa, guardandosi
attorno.
«Non
siete dei civili di Chernobyl… e nei reparti di stanza qui non c’è nessuna Olga
Petrova e nessun Vassili Karavaev! Che cosa ci fate qui?» continuò la voce.
«Abbiamo
l’ordine di scortare questi civili in un luogo sicuro. È una situazione di
emergenza!» disse pacatamente Vassili.
Ci
fu qualche secondo di silenzio, poi, i membri del gruppo poterono tirare un
sospiro di sollievo.
«Va
bene… esco fuori. Ma restate immobili» continuò il tizio nascosto.
Un
rumore di passi sulla loro sinistra li fece voltare. Da una casa, un soldato
dell’esercito ucraino avanzava con un fucile da cecchino Dragunov puntato verso
di loro.
«Qualcuno
di voi è stato morso?» chiese.
Tutti
scossero la testa. L’uomo abbassò l’arma.
«Venite.
Non è sicuro restare fuori» fece.
I
presenti recuperarono le proprie armi, seguendo il soldato nella casa dove era
nascosto.
«Io
resto di guardia» mugugnò Sergei, appoggiandosi fuori dall’ingresso.
«Come
ti chiami?» chiese Olga, rivolta al soldato.
«Feodor
Kovalenko. 61ma divisione di fanteria. Siamo stati mandati a Chernobyl assieme
ad alcune unità della Militsiya un mese fa, per difendere la città e la
centrale nucleare dagli zombie»
I
sei si sedettero a terra, tirando fuori le proprie provviste. Olga lanciò via
il bastoncino del lecca-lecca, e passò un barattolo di cetrioli sottaceto al
commilitone, che ringraziò con un cenno.
«Cos’è
successo qui?» domandò Irina, appoggiando l’orsacchiotto Masha sulle gambe. Il
soldato sospirò lievemente, iniziando il suo racconto.
«Una settimana fa, abbiamo
perso i contatti con il checkpoint a Dytyatky, e, poche ore dopo, Chernobyl è
stata invasa. I miei commilitoni sono stati sopraffatti, e i civili uccisi o
fuggiti. Due giorni fa, io e altri quattro soldati siamo stati mandati a
recuperare cibo e altro materiale di prima necessità abbandonato durante la
fuga. All’inizio sembrava che la situazione fosse tranquilla, vedendo pochi
zombie in giro. I bastardi, però, si erano solo spostati all’interno degli
edifici. Gli spari hanno attirato gli altri...»
Feodor
lasciò cadere qualche lacrima.
«Come
sei riuscito a fuggire?» domandò Vassili.
«Mi
sono gettato da una finestra. Fortunatamente, su quel tratto di strada non
c’erano molti zombie, e sono riuscito ad allontanarmi senza essere seguito. Ho
corso tra gli alberi finché non sono finito qui. Non avevamo delle radio con
noi, e io non mi sono mai mosso dalla base. Sono rimasto qui, in attesa di una
pattuglia di ricognizione. Ma siete arrivati voi.»
«Avete
degli avamposti?» chiese Olga.
«Ne
avevamo uno a Chernobyl, prima che cadesse. Gli altri due sono alla centrale
nucleare e a Pripyat. Quello principale è a Chernobyl-2, l’ex città
militare sovietica vicina alla stazione radar Duga. C’è una strada che
collega quella principale con la base militare, ma non è sicura, con tutti
quegli zombie in giro. Fuori dalle vie asfaltate la radioattività varia, ma,
detto francamente, tra i due mali preferisco quello che non sento e non vedo.»
«Come
ci arriviamo, però? Nessuno di noi sa dove sia» fece sconsolata Irina.
«A
Dytyatky ho preso una mappa della Zona dall’ufficio del checkpoint» annunciò
Anatoli, iniziando a frugare nello zaino.
Dopo
qualche secondo, la estrasse e la posizionò a terra. Olga tirò fuori una
bussola dalla tasca.
«Dobbiamo
proseguire dritti in direzione nord-ovest da qui per una decina di chilometri. Saremo
lì prima che cali il sole» disse.
Sergei
corse dentro, interrompendoli.
«Arrivano.»
Ognuno
di loro preparò lo zaino in fretta e furia. Irina impugnò la sua Makarov,
tenendo Masha con l’altra mano. Olga scartò a tempo record uno dei suoi
lecca-lecca e se lo mise in bocca, uscendo insieme agli altri.
Un
gruppo di zombie, in lontananza, stava avanzando verso di loro. I loro versi spezzarono
il silenzio della Zona.
«Prima
o poi devi dirmi cos’ha di speciale quell’orsacchiotto» fece Boris,
avvicinandosi a Irina.
I
due si scambiarono un rapido sguardo. Il ragazzo cercò di goderselo il più
possibile, perdendosi nei suoi occhi azzurri.
«Promesso»
sussurrò lei.
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Capitolo 3 *** 3 ***
Primo capitolo
3
Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
7 Novembre 2009.
14:33.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina Kabakova,
Pvt. Feodor Kovalenko.
Il gruppo deve raggiungere la stazione radar Duga prima che cali il
sole.
Il
gruppo riuscì, con un po’ di fortuna, a lasciare Zalissia senza farsi notare
dai non morti, oltrepassare la strada principale e far perdere le proprie
tracce in mezzo agli alberi. Camminarono per quasi un’ora in mezzo a immensi
campi incolti, restando a debita distanza dalle vie principali e prestando
attenzione alle radiazioni. In più di un’occasione, i loro dosimetri iniziarono
a far baccano, schizzando da 0.20 a 20.93 microsievert per ora.
«Anatoli,
qual è il motivo di questi picchi improvvisi?» chiese Vassili, osservando i
valori aumentare.
«Materiale
radioattivo sepolto, molto probabilmente. È così che i liquidatori si
liberavano dei mezzi e degli edifici contaminati» rispose il vecchio.
Si
fermarono solo per riposare in un boschetto, riprendendo fiato e studiando la
propria posizione, appurando che si trovavano all’incirca a metà strada.
«Permetti
una domanda, Sergente?» chiese ironico Vassili, guardando Olga.
La
soldatessa si tolse l’elmetto, passandosi una mano sui capelli.
«Parla,
agente» rispose lei, a tono.
«Per
quale strano motivo, nel bel mezzo dell’apocalisse, non fai altro che scartare
lecca-lecca alla menta?»
«Preferirei
non dirlo. Rideresti di me.»
«Ti
garantisco che non lo farò.»
«Per
quello che può valere la parola di un membro della Militsiya…» borbottò Sergei.
Vassili
lo sentì, ma non disse nulla.
«Mi
aiutano a concentrarmi mentre sparo. E a scaricare la tensione. Sul serio» ammise
la soldatessa.
Il
poliziotto alzò le spalle.
«Che
problemi hai con la Militsiya?» domandò Feodor.
«Fatti
i cazzi tuoi, soldatino» disse Sergei con strafottenza. «Diavolo, sei con noi
solo da poche ore e già rompi i co…»
All’improvviso,
il soldato lo afferrò e lo scagliò a terra.
«Non
ti rivolgere più a me in questo modo, chiaro?»
«Smettetela,
tutti e due! Ci manca solo che vi mettiate a litigare per delle cazzate»
intervenne Olga. «Ascoltami bene, Sergei. In questo mondo sono rimasti due tipi
di persone: i vivi e i morti. E intendo continuare a stare con i primi. Me ne
frego di ciò che ti ha fatto la Militsiya in passato. Ora conta il presente.»
Dei
versi, in lontananza, attirarono la loro attenzione.
«Okay,
andiamocene. Kovalenko, Anatoli, in testa» ordinò la soldatessa.
Vassili
aiutò il padre di Irina a rialzarsi, passandogli il suo AK-74, prima di tornare
dietro ad Olga.
«Fai
meno lo stronzo, papà» sussurrò Irina, oltrepassandolo con Boris.
Sergei
fissò il gruppo avanzare, maledisse tutti i militari e i poliziotti del mondo,
e li seguì.
«Laggiù.»
Feodor
indicò un immenso agglomerato di cavi e acciaio distante pochi chilometri che
si ergeva per centinaia di metri sopra la linea degli alberi. L’antenna del
progetto Duga.
«A
cosa serviva?» domandò Boris.
«A
rilevare missili lanciati dagli americani. Roba da Guerra Fredda.»
I
sette ripresero il loro cammino nel bosco, disseminato di tronchi e piante
selvatiche, facendo attenzione a dove mettevano i piedi.
«In
che condizioni è la base, Kovalenko?» domandò Olga.
«Come
tutti gli altri edifici della Zona, sergente. Pessime» rispose Feodor con
sarcasmo. «Però i cancelli garantiscono una protezione sufficiente… e, cosa più
importante, hai un tetto sulla testa.»
«Ho
sentito dire di esperimenti sul controllo mentale fatti con le frequenze
emanate da quella ferraglia» intervenne Anatoli. «Quando ero giovane, si parlava spesso di cosa facessero i militari
nella “città nel bosco”.»
«Andiamo,
Anatoli, sono tutte fav…»
BANG!
Un
colpo, in lontananza, li fece fermare.
Dei
ruggiti, assieme ad altre raffiche, ruppero il silenzio. Feodor gelò.
«Gli
zombie stanno attaccando la base!» esclamò, iniziando a correre.
Il
gruppo scattò in direzione degli spari, cercando di non inciampare in eventuali
ostacoli. Ai loro lati, iniziarono a spuntare degli infetti.
«Sparate
solo quando sono a pochi metri da voi! Risparmiate le munizioni!» urlò Olga,
togliendosi al volo il lecca-lecca per poi rimetterselo in bocca.
Anatoli
coprì Feodor mentre si metteva a tracolla il Dragunov, permettendogli di estrarre
la sua pistola e freddare un paio di zombie che si erano avvicinati troppo.
Olga
e Vassili si coprivano a vicenda, sparando con le rispettive armi. Irina,
sempre con Masha in mano, ne fece fuori altrettanti con la sua Makarov,
supportata da Boris.
In
fondo, l’unico che non sparava era Sergei, che preferiva allungare il calcio
dell’AK-74 sulle teste dei non morti.
«Sergei,
puoi premere il grilletto, lo sai?» urlò Boris, non sentendo alcuno sparo.
«Zitto
e corri, ragazzino!» gli rispose l’uomo, mandandone a terra un altro.
Gli
spari, col passare dei minuti, si facevano sempre più vicini, così come i ruggiti
dei non morti.
Ad
un tratto, Feodor vide qualcosa sulla destra, e svoltò.
«Quella
è la strada per l’antenna! Ci siamo quasi!» annunciò.
Olga
e Vassili si fecero superare da Boris e Irina, fermandosi ad uccidere gli
zombie lasciati vivi da Sergei.
«Vassili,
resta con lui. Ha già fatto troppi danni per oggi» ordinò la soldatessa.
«Grazie
mille, sergente. Mi ci voleva, un po’ di compagnia» sghignazzò il padre di
Irina.
I
sette, col passare dei minuti, videro l’enorme antenna farsi sempre più vicina,
e solo quando le furono a poche centinaia di metri si resero conto delle sue effettive dimensioni.
«KOVALENKO!»
Due
cecchini si erano arrampicati sulle passerelle per la manutenzione
della struttura, e uno di essi stava agitando un braccio.
«Chesnakov!
Che succede?» urlò il soldato.
«Alcuni
zombie hanno scavalcato il cancello e sono entrati! Eliminate quelli
all’ingresso, noi vi copriremo da qui!»
Il
soldato guidò il resto del gruppo verso l’obbiettivo, trovandosi poco dopo
davanti ad esso. Decine di zombie cercavano di sfondare gli enormi cancelli
verdi facendo pressione su di essi.
«Fuoco!»
ordinò Olga.
I
sette furono un plotone d’esecuzione quasi perfetto, svuotando i loro
caricatori sulle teste degli aggressori, colti alla sprovvista. I ritardatari
vennero freddati dai cecchini sull’antenna. Poco dopo, un soldato si presentò
al cancello.
«Kovalenko,
sei vivo! Ma… chi è con te? Dove sono Kostevych, Mykolenko, Petryak e Siminin?»
domandò, guardando i civili.
«Svatok,
taci e apri questo maledetto cancello.»
Svatok si spaventò per
quell’aggressività improvvisa, e si sbrigò a far entrare il gruppo.
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Capitolo 4 *** 4 ***
Primo capitolo
4
Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
7 Novembre 2009.
Ex base militare sovietica Chernobyl-2.
16:52.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova, Pvt. Feodor
Kovalenko.
Il gruppo ha raggiunto la stazione radar Duga.
«Kovalenko!»
Un
ufficiale dell’esercito ucraino si avvicinò al gruppo di civili, mentre attorno
i superstiti gettavano i cadaveri oltre i cancelli, separando ex zombie dai
soldati caduti, ai quali venne sparato un colpo in testa per impedirne la
trasformazione.
Feodor
si mise sull’attenti, ma venne immediatamente messo a riposo.
«Dov’è
il resto della tua squadra, soldato?» domandò l’ufficiale.
Il
soldato riassunse quanto successo negli ultimi giorni, fino all’arrivo dei
civili, presentandoli al graduato, il capitano Aleksey Yaremchuk.
«Desolato
conoscervi in queste circostanze, signori. Cosa vi porta nella Zona di
Esclusione?» chiese, stringendo loro la mano.
«Abbiamo
l’ordine di scortare questi civili in un luogo sicuro» spiegò Olga. «Ci era
giunta voce che all’interno della Zona ci fossero militari, e che l’area, a
discapito delle radiazioni, sia relativamente sicura.»
Yaremchuk
si passò una mano dietro la testa.
«Temo
di avere brutte notizie per voi» sospirò. «Questa base è ad uso esclusivo
dell’esercito ucraino. I civili e la Militsiya, assieme a qualche soldato, sono
tutti a Pripyat. Non potete restare qui.»
Anatoli
sgranò gli occhi.
«Capitano,
non so se si rende conto, ma tra qui e Pripyat ci sono almeno venti chilometri,
e il sole inizierà a calare tra non molto» sbottò.
«Non
potete darci un passaggio con i vostri mezzi? Raggiungeremo la destinazione in
men che non si dica» propose Irina.
«Non
adesso. Domattina alcuni dei miei uomini andranno a Pripyat per consegnare
provviste ai civili. Vi daranno un passaggio» rispose il capitano.
Il
gruppo annuì.
L’uomo,
accompagnato da Feodor, li condusse poi verso gli alloggi, attraverso ciò che
restava della città militare. Giunti sul posto, Yaremchuk si congedò.
«Riposatevi.
Avete camminato abbastanza per oggi. Grazie per aver riportato indietro il mio
uomo.»
«Dovere,
signore» fece Boris, con una nota di timore.
Il
capitano fece per andarsene, ma tornò sui suoi passi.
«Sergente
Petrova, i tuoi nuovi ordini sono questi: una volta che avrai scortato i civili
e il poliziotto a Pripyat, resterai a sorvegliare la città con le altre forze
armate.»
Olga
annuì.
Feodor
strinse la mano a ognuno di loro, congedandosi.
«Vi
ringrazio infinitamente, mi avete salvato la vita. Buona fortuna per il vostro
viaggio» disse, salutandoli un’ultima volta.
«Anche
a te, soldatino» fece Sergei, allungandogli la mano.
Kovalenko
ricambiò la stretta, e lasciò riposare il gruppo.
«Furto
e rapina.»
Sergei
aveva rotto il silenzio, di nuovo. I sei avevano cucinato del cibo con dei
fornelli da campo nella camera, cenando in cerchio.
«Come?»
fece Vassili, guardandolo.
«Ecco
perché ce l’ho con voi sbirri. Prima che tutto questo scoppiasse, per mantenere
gli studi di Irina e mia moglie, ero ricercato per furto e rapina. Talvolta,
andavo anche a rubare pezzi di ricambio dai mezzi parcheggiati al cimitero dei
veicoli di Rassokha.» disse il padre di Irina.
«E
allora come mai non spari? In anni di furti e rapine non puoi non aver mai
sparato un colpo. Cavolo, lo fa pure Irina.»
«Sono
un ladro, non un assassino. Non ho mai usato armi nemmeno per spaventare chi
derubavo. Quanto a Irina… a diciotto anni ha iniziato ad andare a sparare al
poligono di tiro di Ivankov. Non avevo dubbi che sarebbe diventata
un’eccellente tiratrice.»
«Cosa
ti ha spinto a farlo? A rubare, intendo» domandò Anatoli.
Irina
prese il suo orsacchiotto in mano, guardando Boris e il resto del gruppo.
«Avevo
promesso che ti avrei spiegato il perché mi sto portando dietro Masha. Ed ecco
qui: io e mio padre… abitavamo a Pripyat, prima dell’incidente alla centrale
nucleare. Tra le poche cose che sono riuscita a prendere prima di lasciare
l’appartamento, c’era quest’orsacchiotto. È il mio portafortuna» disse.
Nella
stanza, per pochi momenti, calò il silenzio. Sergei raccontò cosa visse in quei
fatidici giorni del 1986.
«Prima
del disastro, ero un operaio della fabbrica Jupiter. Producevamo
componenti elettroniche, e fornivamo segretamente semiconduttori all’esercito
sovietico. Vivevamo in un appartamento al sesto piano di una palazzina in Via
dello Sport. La mattina del
26 aprile, mentre portavo Irina a spasso, vidi molte macchine della polizia, e
i poliziotti avevano mascherine antigas. Solo la sera dissero che c’era stata
un’esplosione al reattore. Il giorno dopo, all’ora di pranzo, passò un blindato
dell’esercito con un altoparlante, in cui veniva ordinata l’evacuazione
temporanea di Pripyat. Mia moglie e mia figlia furono portate a Kiev, ma
riuscirono a tornare a Ivankov, dai suoi genitori, pochi giorni dopo. Io fui
chiamato per fare il liquidatore, venendo assegnato alla decontaminazione. Ricordo
che le mascherine diventavano marroni dopo pochi minuti. Non ci dissero nulla
delle radiazioni, e non ci diedero nemmeno dei dosimetri per capire quanta
merda stessimo assorbendo. Quando finii il mio periodo, mi dissero che mi
avrebbero dato un vitalizio di 200 rubli al mese… ma non ho mai visto l’ombra
di un quattrino in tredici anni. Ho rischiato la vita per loro… ma, invece di
ringraziarmi, mi hanno rovinato.»
«Mi
avevi promesso di portarmi al luna park, ricordi? Volevo fare un giro sulla
ruota panoramica…» aggiunse Irina.
Il
padre di quest’ultima fece scendere qualche lacrima. Vassili gli mise una mano
sulla spalla, cercando di confortarlo.
«Chiuderete
il cerchio, Sergei. E tu, Irina, riporterai Masha a casa. Andrà tutto bene» disse.
A
cercare di allentare la tensione ci pensò Boris.
«Beh,
signore e signori, credo faremo meglio a dormire un po’» fece, stendendosi su
un vecchio materasso. «Domani non ci aspetta una passeggiata, e voglio vedere
con i miei occhi posti che ho visto solo su Call Of Duty e S.T.A.L.K.E.R.»
Gli
altri sorrisero, quasi amaramente, e seguirono il suo consiglio.
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Capitolo 5 *** 5 ***
Primo capitolo
5
Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.
8 Novembre 2009.
Ex base militare sovietica Chernobyl-2.
10:34.
Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili
Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina
Kabakova.
Il gruppo deve raggiungere Pripyat.
Le
nuvole continuavano ad aleggiare nel cielo sopra la Zona. Il gruppo di
sopravvissuti si stava preparando a lasciare la base di Chernobyl-2, controllando
armi, munizioni e provviste. Ad attenderli, al cancello, c’erano Yaremchuk,
Kovalenko e Svatok, vicino a un furgone modello UAZ-452 già carico e un pick-up modello Tarpan Honker.
«Signori,
quando volete, i miei uomini sono pronti a partire» annunciò il capitano. «Non
volevo rimandare Kovalenko fuori, dopo quello che ha passato, ma ha insistito
per voler ricambiare il favore. Svatok invece conosce la Zona meglio di tutti
noi. Un suo vecchio amico era una guida turistica, ed è venuto qui spesso.»
L’uomo
salutò il gruppo, augurando buona fortuna a tutti.
«Un’ultima
cosa. Arrivano rapporti da Pripyat che parlando di non morti provenienti dalla
Foresta Rossa con livelli di radioattività elevata. Se i dosimetri iniziano a
urlare più del solito, correte» aggiunse, prima di andarsene.
Feodor
si fece avanti.
«Svatok,
prendi con te Irina, Sergei e Boris nell’Honker,
e vai in testa. Sergente Petrova, agente Karavaev, Anatoli, voi verrete con me
sull’UAZ» disse, entrando nel mezzo.
Il
gruppo prese posto nei mezzi assegnati, poi i due soldati fecero cenno ai
commilitoni di aprire il cancello, lasciandosi l’imponente antenna alle spalle.
«Irina…
cosa ricordi di Pripyat?» domandò Boris, poco dopo aver lasciato la base.
«Poco
o nulla. Avevo tre anni quando ce ne siamo andati.»
«Probabilmente
ti ricordi il Palazzo della Cultura, l’hotel, la piscina e il luna park.»
intervenne Svatok.
«Sì,
ora che ci penso. L’Hotel Polyssia e il Palazzo della Cultura, l’Energetyk…
erano enormi. E papà mi portava spesso alla piscina Lazurny, dove c’era
la vasca olimpionica. Facevamo certe nuotate… e dopo, con mamma, andavo al Raduga,
il centro commerciale, a fare la spesa. Del luna park ricordo solo la ruota
panoramica, che sarebbe dovuta aprire in occasione della Festa del Lavoro.
Volevo farci un giro, e papà non faceva altro che ripetermi “ci andremo quando
torneremo”. Senza sapere che non saremmo più tornati.»
«Bei
tempi, Boris… erano bei tempi» sospirò Sergei, guardando fuori dal finestrino.
«Avete
avuto modo di ritornarci?»
«Ci
sono famiglie di ex abitanti che visitano Pripyat nella ricorrenza
dell’anniversario. Ma io e Irina non ci abbiamo più messo piede dal 1986. Era
una bella città… e non ho voluto rovinare i miei ricordi.»
«Ti
piacerà anche la Pripyat del 2009. Vedrai.»
I
due mezzi impiegarono una decina di minuti prima di reimmettersi sulla strada
principale, mettendo a dura prova gli ammortizzatori in quel viale che non
riceveva manutenzione dall’abbandono della stazione radio, nel 1989. Una volta
arrivati alla fine di esso, Svatok diede una rapida occhiata in giro.
«Zombie!»
fece Sergei, indicando verso destra.
Un
gruppetto di non morti, provenienti probabilmente da Chernobyl, vagava in
lontananza.
«Non
sembrano essersi ancora accorti di noi. Ma faremo bene a stare all’erta. Gli
uomini hanno paura delle radiazioni, gli zombie no» disse Svatok, voltando a
sinistra.
«Che
intendi dire?» chiese Boris.
«L’area
che stiamo per attraversare è altamente contaminata. Passeremo a pochi metri
dalla Foresta Rossa, dove, nel giorno del disastro, gli alberi subirono un
fallout radioattivo. Il colore delle foglie divenne rosso, e le piante
morirono. Anche oggi, a distanza di ventitré anni, l’area presenta livelli di
radioattività eccessivamente alti.»
I
passeggeri dell’Honker continuarono a
osservare guardinghi il circondario. La fitta vegetazione ai lati della strada
poteva nascondere senza problemi un ingente numero di zombie.
Un
chilometro dopo, la strada iniziò a curvare, fino a diventare nuovamente un
rettilineo. Ai lati di essa, la vegetazione iniziò a farsi meno fitta,
lasciando spazio ad ettari di campi incolti puntellati da alberi. All’orizzonte,
qualcosa catturò l’attenzione di Boris.
«Laggiù!
La centrale nucleare!»
Col
passare dei secondi, i quattro videro sempre più nitidamente il monumentale camino
rosso e bianco della centrale di Chernobyl. Sotto di esso, chiusi nel Sarcofago,
c’erano i resti del reattore numero 4.
Sergei
strinse la mano a Irina, che teneva come sempre Masha tra le mani. Non erano
mai stati così vicini a casa da anni.
«Non
penso sia stata una buona idea.»
Vassili
aveva rotto il silenzio. Kovalenko guardava nervoso i lati della strada,
gettando occhiate fugaci sullo specchietto retrovisore, alla ricerca di zombie.
«Che
cosa?» biascicò Olga, col lecca-lecca rigorosamente in bocca.
«Mandare
Sergei nell’Honker. Se gli zombie ci attaccano, spetta a loro difenderci. E quel
tizio non ha mai sparato un colpo in vita sua.»
«Non
penso che sia una cattiva persona.» intervenne Anatoli. «Scommetto che, nel
momento del bisogno, saprà sorprendere chi non gli ha dato fiducia.»
«Lo
spero per lui. Quell’uomo merita un po’ di redenzio…»
La
radio di Feodor si accese, propagando la voce di Svatok.
«ARRIVANO!»
Dal
lato sinistro della strada uscirono una ventina di zombie urlanti, che
iniziarono a seguire i due veicoli.
«Non
sparate!» continuò il conducente dell’Honker via radio. «Possiamo seminarli,
non sono tanti. Il problema, forse, verrà tra poco, quando arriveremo ai ruderi
di Kopachi.»
Arrivati
nei pressi del villaggio parzialmente demolito, le paure del soldato si
rivelarono fondate. All’altezza del memoriale eretto a ricordo del paese che
non c’era più, i soldati e i civili trovarono decine di zombie che, alla vista
dei mezzi, si lanciarono all’inseguimento, unendosi ai precedenti inseguitori.
«Kovalenko,
sorpassami! Se le cose dovessero mettersi peggio di così, fungeremo da esca»
ordinò il conducente dell’Honker, che venne sorpassato dopo pochi secondi
dall’UAZ.
Col
passare dei secondi, il numero dei non morti che gli stavano alle calcagna aumentava.
A momenti, i loro versi sovrastavano il rumore dei mezzi.
Poco
dopo aver oltrepassato il cartello che indicava la fine dell’ex villaggio, un
bivio apparve agli occhi di Feodor.
«Svatok,
dobbiamo dividerci! È l’occasione buona!» esclamò in radio, iniziando a voltare
verso destra.
«No!
Quella strada porta ai cantieri dei reattori 5 e 6. Finiremmo per portarli
troppo vicini alla centrale!» urlò il commilitone, costringendolo a sterzare
bruscamente per infilarsi sulla strada a sinistra.
«Allora
trova una soluzione in tempo, Svatok! Se siamo così vicini alla centrale, vuol
dire che non abbiamo molta strada da fare per raggiungere Pripyat.»
Kovalenko
iniziò a sudare. Non intendeva morire. Non dopo esser scampato a morte certa il
giorno prima.
A
Olga non sfuggì lo sguardo impanicato del commilitone, che peggiorò non appena
arrivarono al confine sud della Foresta Rossa, sentendo il dosimetro di Vassili
iniziare a fare baccano.
«Oh,
cazzo.»
Il
poliziotto, tra gli alberi, vide spuntare i famigerati zombie radioattivi. Il
dosimetro urlava sempre di più.
«Svatok,
siamo nella merda!» urlò alla radio Kovalenko.
«Aprite
il fuoco! Ho un’idea!» esclamò l’altro.
Il
gruppo mise le armi fuori dai finestrini e iniziò a sparare. I passeggeri dell’Honker riuscirono a sfoltire, seppur di
poco, il gruppo degli inseguitori, e, con grande sorpresa di tutti, Sergei
aveva preso a sparare col suo AK-74.
«NON
AVRETE MAI MIA FIGLIA, STRONZI!» urlò, accoppando uno zombie dietro l’altro.
«Che
ti dicevo, Vassili?» rise Anatoli.
Due
chilometri più avanti, il gruppo trovò l’ennesimo bivio, ma stavolta non
avevano dubbi su quale strada prendere. Una stele di marmo bianco con la
scritta Pripyat 1970 indicava verso sinistra.
L’urlo
che sentì Kovalenko dalla radio qualche secondo dopo lo spaventò.
«PREMI
QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI! CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!»
Feodor
non se lo fece ripetere due volte. Affondò il piede sul pedale e sfrecciò sul
rettilineo. Dallo specchietto retrovisore, fece appena in tempo a vedere
l’Honker svoltare a sinistra, su una strada secondaria, prima che il dosso
formato dal ponte che aveva appena passato, rimasto nella leggenda come Ponte
della Morte, gli ostruisse la visuale.
L’UAZ
continuò a sfrecciare lungo il viale disseminato di lampioni arrugginiti, fino
a quando non iniziarono a vedere la sagoma di alcuni palazzi stagliarsi sopra
gli alberi.
«Che
spettacolo» sussurrò Olga.
La
città era stata invasa dalla foresta. La natura sovrastava il cemento, e i
palazzi si ergevano in condizioni fatiscenti. All’epoca era una città modello
dell’URSS, quasi un paradiso terrestre all’ombra dell’atomo. Ma ora, in pieno
autunno, ventitré anni dopo il suo abbandono, Pripyat apparve ai loro occhi per
com’era: lo scheletro di un’epoca passata così lontana e vicina al tempo stesso.
Un
checkpoint, un cartello col nome della città, delle barriere di filo spinato e
un paio di militari accolsero Feodor, Olga, Anatoli e Vassili tra le rovine
dell’atomgrad rimasta ferma nel tempo alle ore 14 del 27 aprile 1986.
«Benvenuti
a Pripyat, signori.»
In lontananza, si sentì
un’esplosione.
continua...
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Sì, signore e signori. A causa del limite di parole del contest,
ho dovuto concludere col colpo di scena finale la storia.
State tranquilli, però. Il sequel è in fase di scrittura,
arriverà per settembre/ottobre e sarà ancora una volta
una mini-long.
Vi ringrazio infinitamente per avermi seguito fin qui.
Alla prossima,
Frenz
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