Un vasetto di pesche e una promessa

di Kaiidth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: La sentenza ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: La vergogna ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: La promessa ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: Il peccato ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: La sentenza ***


Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico. 
Note dell'autrice:
I capitoli di questa fanfiction (a parte i primi tre) non seguono sempre un ordine cronologico, poiché il lavoro intero può essere definito come un insieme di immagini - sprazi di vita - dei personaggi e di ciò che è loro accaduto da un certo momento in poi. Per questi motivi all'inizio di ogni nuovo paragrafo trovate delle date a cui, vi consiglio, di prestare attenzione per avere un riferimento cronologico. Ogni data va letta nel normato AAAA/MM/GG. Ho cercato di essere fedele ai personaggi - che, specifico, sono quelli della Kelvin Timeline - anche se ho dato una mia personale visione di tutti loro. Spero che vi piaccia e, se vi va, spero mi lasciate un commento per farmi sapere cosa ne pensate. 
Ringrazio infinitamente Giacomo, il mio fidanzato, per essersi prestato come Beta e per assecondare tutte le mie fantasie. A lui è dedicata questa fanfiction!
***

“You taught me the courage of stars, before you left
How light carries on endlessly, even after death
With shortness of breath, you explained the infinite
How rare and beautiful it is, to even exist”
Saturn – Sleeping at last
 

La sentenza

 
2246.5.3 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim aprì gli occhi quando un raggio di sole penetrò dalla finestra e si riversò su di lui. Mugolò assonnato, con la voglia di dare le spalle al caldo raggio di luce e ritornare a dormire, ma sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata la signora Kuida a svegliarlo e intimargli di prepararsi. Valutò che alzandosi in quel preciso momento avrebbe avuto il tempo di darsi una pulita e vestirsi senza doversi sbrigare in soli cinque minuti.
Si alzò a sedere sul letto e si stiracchiò sbadigliando sonoramente, era sudato e le lenzuola gli si erano appiccicate addosso durante la notte. Odiava il caldo.
Si diresse verso il bagno e si liberò dei propri indumenti per buttarsi sotto la doccia fredda, represse una smorfia di disgusto quando il getto d’acqua lo colpì sulle spalle. La sostanza non poteva essere definita davvero acqua, era per lo più melmosa e veniva replicata. Tarsus IV era un pianeta mediamente caldo, tuttavia nonostante le risorse idriche non fossero scarse, la vera acqua veniva usata solo per bere, mentre per l’igiene personale o per altro veniva usata acqua replicata.
Cercò di lavarsi velocemente ed uscì dalla doccia asciugandosi e dirigendosi in camera per indossare dei vestiti puliti. Mentre si allacciava le scarpe sentì il rumore di passi che si abbattevano sul pavimento di linoleum fuori dalla porta seguito, dopo pochi secondi, da un tonfo contro la porta.
“James Tiberius Kirk hai cinque minuti per prepararti, dopodiché dovrai essere scortato alla mensa comune per la colazione”
“Arrivo” si limitò a urlare di rimando.
Finì di indossare i suoi vestiti e si spostò di nuovo in bagno per lavarsi i denti. Si guardò allo specchio dove fu fissato dai suoi stessi occhi azzurri accompagnati da profonde occhiaie scure e si passò una mano tra i capelli biondi per aggiustarli come meglio poteva. Aveva sempre avuto dei capelli ribelli, impossibili da gestire, e da quando era arrivato su quel pianeta aveva semplicemente smesso di provare a tenerli in ordine. Così come aveva smesso di tenere in ordine la sua vita.
Era un ragazzino, aveva solo dodici anni e, per quanto il pianeta Tarsus IV non fosse male, avrebbe preferito essere a casa sua, sulla Terra. Certo, non che a casa le cose andassero bene, sua madre non era mai presente, serviva sulla nave USS Farragut come Capo Ingegnere e le sue missioni la portavano sempre nello spazio, suo fratello Sam aveva deciso di andarsene e di lasciarlo solo.
“Non so come si fa ad essere un Kirk. Dimmelo tu, come ci riesci?”
Erano state le ultime parole che George Samuel Kirk, il suo amabile fratello, gli aveva rivolto. E lui non aveva saputo come rispondere, non sapeva come facesse ad essere un Kirk. Lui era Jim, solo Jim e nemmeno questo sembrava bastare.
Lui non lo sapeva, perché non conosceva neppure l’uomo da cui aveva ereditato quel cognome: George Kirk. L’uomo che era stato capitano per soli venti minuti e aveva salvato oltre duecento vite tra cui quella di sua madre e la sua. Ma quell’uomo era morto, esploso nello spazio, e tutto quello che Jim sapeva gli era semplicemente stato raccontato, ancora e ancora e ancora, fino alla nausea, fino a che non aveva imparato ad odiare quell’uomo.  
Quando aveva dato di matto, rubando la vecchia Corvette di suo padre, per ribellarsi allo zio Frank, il tutore suo e di suo fratello, aveva voluto fare semplicemente qualcosa per provare che lui non era solo un Kirk. Lui era Jim, solo Jim.
Ma questo non era più rilevante, suo zio aveva deciso, dopo la disavventura con l’auto, di inviarlo alla colonia su Tarsus IV, lì i minori problematici venivano seguiti da sociologi, insegnanti ed assistenti sociali, così da poter essere rieducati alla vita in società. O Tarsus, o la prigione.
Finì di prepararsi e si avvicinò alla porta della sua stanza, aprendola. La signora Kuida lo guardò con le labbra strette in una linea sottile.
“James, vedo che oggi sei puntuale. Seguimi, prego”
Jim represse un sospiro rassegnato, non voleva irritarla, le punizioni in quell’istituto erano decisamente dure – lo aveva imparato a proprie spese, poco dopo il suo arrivo – e la signora Kuida era tra le peggiori.
Doveva resistere per almeno due anni, dopodiché sarebbe stata riesaminata la propria condotta e sarebbe potuto tornare sulla Terra. Doveva solo essere buono, essere un Kirk.
 
 
 
2246.5.3 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Chi di voi sa dirmi la densità del pianeta Antares V?” chiese la signorina Taylor ad una classe poco attenta di ragazzini. Il silenzio calò su di loro, nessuno sembrava propenso a rispondere.
Jim conosceva la risposta, ovviamente, ma non voleva esporsi. Era lì da tre mesi, ormai, abbastanza da aver imparato che quella strana residenza era piena di ragazzi poco raccomandabili, ragazzi che per i più svariati motivi avevano violato la legge, e che i cervelloni non erano visti di buon occhio.
“Allora? Nessuno?” continuò la Taylor con un sorriso incoraggiante.
Era una bella donna, ancora nel fiore degli anni, con i capelli scuri racchiusi in uno chignon dietro la testa, un paio di occhi verdi e grandi accompagnati da un sorriso splendente. Jim si chiese come sarebbe stato averla come madre, di sicuro sarebbe stata una madre migliore della sua.
“Otto” rispose qualcuno, ridacchiando.
“Otto? Otto, cosa? Non è una risposta” sbuffò l’insegnante camuffando egregiamente la sua irritazione.
“Otto virgola sette grammi al centimetro cubo” si ritrovò a dire Jim, prima di pensare, prima di frenarsi. Avrebbe voluto prendersi a schiaffi da solo.
“Benissimo James! Risposta corretta” sorrise la signorina Taylor.
“Si, bravissimo James” sussurrò qualcuno dietro di lui.
Un brivido di terrore attraversò la schiena di Jim, era tardi per riavvolgere il nastro.
Se solo non avesse scaraventato quella dannata Corvette giù dal burrone.
 
Una campanella squillò segnando la fine delle lezioni mattutine e l’inizio dell’ora di pranzo.
Jim prese il suo PADD e si avviò verso l’uscita, gli altri ragazzi stavano uscendo, capitanati dalla signorina Taylor. Jim arrivò alla porta dell’aula ma poco prima di attraversarla fu trascinato all’indietro e, senza nemmeno avere il tempo di voltarsi, fu sbattuto a terra. Vide un’ombra abbassarsi su di lui e un sorriso cattivo poco lontano di suoi occhi.
“Allora, Jimmy, ci vuoi fare l’onore di dirci qual è la densità di Antares V? O la sua massa? O la sua temperatura? Sei un cervellone, vero? Cos’è, speri di andare a lavorare su Vulcano?”
Jim non rispose, si sentiva paralizzato e terrorizzato da quel ragazzo. Era almeno due volte più alto e grosso di lui che era piuttosto gracile. Inoltre non si era mai ritrovato in una scazzottata, dunque non sapeva davvero come fare a botte.
“Io…” iniziò, senza sapere cosa dire.
“Tu? Tu cosa? Eh? Vuoi farci passare per idioti?”
Ma voi siete idioti, pensò internamente, ma non osò continuare.
Vide una mano alzarsi e d’istinto chiuse gli occhi per non dover guardare mentre quel ragazzino lo picchiava per aver risposto correttamente ad una domanda.
Ma il colpo non arrivò, al suo posto arrivò una voce “Che cosa ci fate ancora qui? Siete attesi al refettorio, muoversi!”
Era la signorina Taylor, constatò Jim, aprendo gli occhi.
“Si, signorina. Stavamo aiutando James a rimettersi in piedi, perché era inciampato” rispose il ragazzo accanto a lui, gli rivolse un’occhiata cattiva prima di mettersi in piedi.
Jim si alzò lentamente e aspettò che gli altri se ne andassero, strinse al petto il proprio PADD e si trascinò lentamente verso la mensa.
Solo due anni.
 
“Avete sentito? Sono in arrivo degli studenti da Vulcano, inizieranno ad insegnare a noi delle medie”
La ragazza accanto a sé stava parlando animatamente con altre due amiche. Jim le guardò per un momento, prima di rivolgere lo sguardo alla zuppa abbandonata nel suo vassoio, che attendeva di essere mangiata.
Odiava il cibo in quel posto, molto probabilmente per via dell’acqua che usavano per cucinare, ma aveva tutto un sapore viscido, acre. Suo zio Frank non era mai stato un asso a cucinare, ma il cibo – qualunque cibo – sulla Terra aveva un sapore migliore di questo.
Nonostante tutto, non gli mancava Frank, i suoi insulti, le sue botte, le serate in cui tornava a casa ubriaco fradicio e lui e Sam si nascondevano in camera, sotto le lenzuola, per non stargli tra i piedi.
“Cosa? E perché dovrebbero mandare quei computer umani in questo buco di merda?”
Jim ingurgitò un cucchiaio di zuppa, una smorfia di disgusto gli comparve sul volto, ma continuò a mangiare. Non poteva alzarsi senza aver prima svuotato il suo piatto, lì su Tarsus IV non era possibile sprecare il cibo.
“Siamo in una colonia spaziale, in un territorio che non permette l’agricoltura e l’allevamento di bestiame, le risorse sono limitate. Qui non sprechiamo neppure un chicco di riso” gli aveva detto la signora Kuida il primo giorno, dopo che si era rifiutato di mandare giù la sua cena. Ovviamente non gli era stato detto in maniera gentile, niente in quel posto era gentile.
“Che ne so, io! Sarà sicuramente divertente provare a fargli perdere la calma” rise la ragazza accanto a lui.
Vulcaniani.
Magari, pensò Jim, la presenza di quei Vulcaniani avrebbe cambiato le cose, magari tra loro ci sarebbe stato qualcuno con cui fare amicizia, qualcuno che non era stato mandato lì dopo aver rubato, ucciso, truffato. Qualcuno che non cercasse di picchiarlo per il solo fatto di aver risposto correttamente ad una domanda.
Magari.
Magari.
 
 
 
2246.5.12 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Il Governatore Kodos sta per fare un annuncio, ragazzi per favore, mettetevi in fila e raggiungete la mensa” ordinò la signorina Shenna. La classe, fino a poco prima assopita, si riscosse e un sottile brusio iniziò a propagarsi tra gli altri ragazzi.
“Chissà che cosa ci dirà”
“Forse ci lascerà andare a casa, forse siamo stati tutti perdonati”
“Forse è successo qualcosa sulla Terra”
Jim si alzò lentamente e seguì la fila fino alla mensa. Nessuno parlava con lui e gli andava bene. In cuor suo sperava che qualcuno di loro avesse ragione, che li avessero perdonati tutti e che sarebbero stati mandati di nuovo alle loro case.
Frank, ecco chi lo aspettava. Ma era meglio di questo posto di merda.
Raggiunsero la mensa insieme ai ragazzi delle altre classi accompagnati dai loro insegnanti. C’erano tutti, doveva essere qualcosa di importante.
Jim si rese conto di non aver mai visto il Governatore Kodos, nonostante gli adulti ne parlassero spesso con un tono reverenziale, era curioso di vedere l’uomo che guidava la colonia.
I suoi pensieri furono interrotti dall’immagine dalla riproduzione olografica di un uomo che si propagò al centro della mensa. L’uomo che Jim vide aveva un fisico asciutto, alto e indossava una divisa blu con l’insegna del Pianeta cucita sulla spalla destra, il suo volto appuntito era incorniciato da capelli scuri e riccioluti. Sembrava giovane, non mostrava di avere più di quarant’anni e Jim si sorprese di questa constatazione, poiché lo aveva immaginato più anziano. Di solito i politici erano sempre dei vecchi noiosi e con problemi di peso.
“Cari cittadini e visitatori di Tarsus IV” cominciò “vi ringrazio per la vostra attenzione e vi prometto che la comunicazione sarà breve. Come sapete, per lunghi anni questo Pianeta ha vissuto nel benessere e nella pace, la Flotta Stellare ci ha sempre protetti, ma noi unendo le forze siamo riusciti a creare qualcosa di più di una semplice colonia, siamo riusciti a creare un Pianeta quasi del tutto indipendente e unico”
Jim lo fissava attentamente, nonostante le belle parole e il sorriso dipinto sulle labbra, c’era qualcosa negli occhi del Governatore che non lo convinceva. Il sorriso non raggiungeva gli occhi scuri, che restavano freddi e impenetrabili, come gli occhi di un predatore.
“Tuttavia, dipendiamo ancora dalle risorse di cui la Flotta ci rifornisce con cadenza annuale. Nonostante i nostri tentativi di trasformare la terra per renderla adatta all’agricoltura, attualmente possiamo solo affidarci ai rifornimenti che la Flotta ci invia. È proprio questo il motivo che mi spinge ad essere qui, oggi, per informarvi con rammarico di un increscioso avvenimento. È stata recentemente scoperta la presenza di un fungo esotico, non originario del Pianeta sul quale cui viviamo, le spore di questo fungo non sono pericolose per l’uomo, quanto per il cibo. Quest’oggi abbiamo scoperto che più della metà delle risorse nei nostri magazzini sono andate completamente distrutte”
Qualcuno alle spalle di Jim inspirò rumorosamente, ma lui non si girò, continuando a fissare la figura al centro della stanza che manteneva una postura rilassata. Nonostante il Governatore li stesse informando sulla distruzione del loro cibo, manteneva una calma surreale.
“Abbiamo già inviato comunicazione alla Flotta Stellare affinché provveda a rifornirci quanto prima delle risorse necessarie e affinché ci supporti nell’eliminazione della minaccia. Sarà studiato il fungo e le sue spore, per determinarne la provenienza, chiunque sia stato a portare questo batterio sul nostro Pianeta, sarà severamente punito. Sarà fatto quanto possibile affinché si giunga ad una soluzione nel più breve tempo possibile, in modo che nessuno tra voi possa soffrire”
Nessuno.
In modo che nessuno tra voi possa soffrire.
Il Governatore li aveva semplicemente aggiornati sulla situazione attuale, e lo aveva fatto rassicurandoli di non preoccuparsi di nulla.
La mensa, fino ad allora ammutolita, si animò del vociare degli studenti e degli insegnanti, sentì qualcuno mormorare “Dovremo razionare il cibo dell’istituto”.
Non sembrava esserci davvero qualcosa di cui preoccuparsi.
Eppure Jim non riusciva a non sentirsi dannatamente preoccupato.
 
 
 
2246.5.16 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Buongiorno a tutti, vi presento Solok, è Vulcaniano ed è qui insieme ad altri studenti di Vulcano per supportare la vostra e le altre classi durante le lezioni. Solok e gli altri Vulcaniani fanno parte di uno speciale programma creato dal Dipartimento dell’Istruzione Interplanetaria per far sì che oltre all’apprendimento scolastico, possiate apprendere anche usi e costumi di altri popoli”
Jim osservò il ragazzo Vulcaniano che sostava accanto alla signorina Taylor.
Era la prima volta che vedeva un Vulcaniano, se non si consideravano le fotografie olografiche relative al Primo Contatto e altri grandi avvenimenti storici nella la lunga relazione tra la Terra e Vulcano.
Solok stava fermo, con la schiena tesa e le braccia abbandonate lungo i fianchi, aveva capelli corti, quasi rasati e lunghe orecchie che terminavano a punta. Non era il primo alieno che vedeva, e neppure il più strano, tuttavia c’era qualcosa in Solok che lo rendeva particolare. Forse la completa mancanza di espressione sul suo volto, si disse Jim.
“Bene, Solok, che ne dici se per il tuo primo giorno qui con noi, ci parlassi di Vulcano e condividessi informazioni sul tuo Pianeta, così che tutti possano conoscere meglio il posto dal quale provieni?”
Solok volse il suo sguardo inespressivo sulla signorina Taylor, che di rimando sorrideva mestamente, e annuì.
“Molto bene. Il mio nome è Solok, eviterò di esporre il mio nome completo poiché sarebbe illogico pensare che voi possiate comprenderlo pienamente o, ancora, riprodurlo. La lingua Vulcaniana è una lingua complessa per molti popoli non originari. La Stella Solare di Vulcano è Quaranta Eridani A, e all’interno del sistema annoveriamo pianeti come Andoria, Betazed e Tellar. Il pianeta percorre un’orbita troiana attorno al sole insieme al proprio gemello T’Kuth, difatti ogni sette punto due anni i pianeti si incontrano ed è possibile osservare il Pianeta T’Kuth dalla superficie di Vulcano. Il periodo di rotazione orbitale ammonta a centosettantasette punto sei giorni standard con un gradiente orbitale di zero punto cinquantasei AU”
Jim continuò a fissare Solok, la sua voce era monotona senza alcun tipo di cadenza o ondulazione, non c’era alcuna enfasi nelle sue parole. Parlava come se le informazioni fossero già tutte registrate nella sua testa, come se non avesse la necessità di fermarsi a formulare una frase prima di parlare. Era interessante ma allo stesso tempo inquietante.
Forse sono davvero dei computer umani, pensò.
 
 
 
2246.5.22 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Ragazzi in ordine, senza correre! Tornate subito alle vostre stanze” la signorina Kah cercava di mantenere la calma, ma le sue mani tremavano e i suoi grandi occhi azzurri erano pieni di terrore.
Jim era confuso, non sapeva che cosa stesse succedendo.
Pochi minuti prima era scattato l’allarme dell’istituto e Solok, che quel giorno stava tenendo una lezione di storia Terreste, aveva smesso di parlare e si era girato a guardare l’insegnante, senza alcuna espressione sul volto. Lei, però, aveva assunto un’aria terrorizzata mentre scattava in piedi correndo ad aprire la porta della classe, nel corridoio avevano già cominciato a passare i primi insegnanti seguiti dai propri ragazzi.
L’allarme era assordante e ora tutti si ritrovavano a muoversi velocemente verso i propri dormitori. Jim riuscì a dare un’occhiata veloce verso la finestra e notò tre colonne di fumo che si alzavano verso il cielo. Sembrava che ci fossero state delle esplosioni o che fossero scoppiati degli incendi, molto probabilmente c’era stato un attacco contro la colonia di Tarsus IV.
Fu spinto da qualcuno dietro di lui che gli urlò “Cammina, stronzo!”
Si rimise in marcia il più velocemente possibile. Attorno a lui si alternavano voci, qualcuno urlava, altri piangevano. L’allarme sembrava diventare sempre più assordante ad ogni passo verso il dormitorio, di secondo in secondo la sua intensità aumentava. O forse era solo la sua immaginazione.
Voltò l’angolo prima delle scale che lo avrebbero condotto ai dormitori, ma non riuscì a mettere neppure un piede sul primo gradino. Qualcuno lo afferrò per una spalla e lo fece voltare bruscamente, vide un uomo, alto, con un fucile sonico puntato verso di lui.
Jim sgranò gli occhi, il cuore sembrò fermarsi e il sangue ghiacciarsi nelle vene, che diavolo stava accadendo?
“Vieni con me, moccioso!” gli urlò l’uomo.
Aveva la divisa rossa delle guardie di Tarsus IV, la riconosceva poiché quando era arrivato alla colonia era stato accolto dai militari che lo avevano scortato fino all’istituto. Erano venuti a prenderlo? Che cosa aveva fatto?
Si guardò intorno, cercando di capire che cosa potessero volere da lui le guardie, ma notò che c’erano molti altri soldati e che non era l’unico ragazzo ad essere stato fermato. I militari stavano scortando tutti fuori, ad attenderli c’era un hovercraft di quelli che usavano sulla Terra per muoversi tra le città.
Fu trascinato fuori, senza tante cerimonie. Quell’uomo era forte e la presa sul suo braccio faceva male.
Ma che cazzo succede? pensò.
Non riusciva a parlare, era troppo scioccato per farlo, si rese conto che la sua gola era secca e la sua lingua sembrava incollata al palato.  
Fu gettato in malo modo sul veicolo, e qualcuno lo accolse con un calcio alla gamba destra, spingendolo verso un sedile “Siediti e stai fermo”. A parlare era stata una donna con un fucile in mano, lo guardava con occhi più freddi del ghiaccio e l’espressione più dura del marmo.
Era una donna e lo stava minacciando.
Era una donna.
Mamma, pensò.
Si sedette e notò che sull’hovercraft c’erano altri ragazzi come lui, erano tutti immobili, alcuni tremavano e altri piangevano terrorizzati. Nessuno di loro parlava. Scorse la signorina Taylor e un ragazzo Vulcaniano. Non era Solok, però. Avrebbe voluto chiedere a loro che cosa stesse accadendo, avrebbe voluto parlare o urlare ma non poteva, non ci riusciva.
Un’altra guardia tornò lanciando sul mezzo un altro ragazzo, Jim lo guardò e con sorpresa si accorse che era Son, il ragazzo che quasi due settimane prima lo aveva minacciato in classe. Son venne spinto rovinosamente a terra e la donna soldato gli regalò un calcio alla schiena. Il ragazzo urlò, si lamentò e provò a rialzarsi.
“Vai verso il tuo sedile e non fiatare, altrimenti te la vedrai con il mio fucile” disse la donna.
Son si girò molto lentamente, la guardò in cagnesco per qualche secondo prima di sputarle in faccia “Muori, brutta cagna!” urlò, fece forza sulle braccia e si slanciò verso di lei per aggredirla.
Non fece in tempo a toccarla che una guardia fuori dall’hovercraft puntò il fucile verso di lui, ci fu un raggio di luce rossa accompagnata da un suono gutturale e Son cadde a terra con gli occhi aperti e la bocca ancora ferma in una smorfia di rabbia e dolore.
Son era morto e Jim tremò, perché quel ragazzo aveva cercato di picchiarlo solo poche settimane prima, quel ragazzo era stavo vivo pochi secondi prima. E ora era morto, in un urlo muto dipinto sul suo volto per sempre.
 
“La rivoluzione è stata un successo, ma la sopravvivenza richiede misure drastiche. La vostra esistenza è una minaccia per il benessere dell’intera comunità. Le vostre vite significano una morte lenta per i restanti membri di valore della colonia. Per questi motivi non ho alternative se non condannarvi a morte. La vostra esecuzione è stata ordinata e firmata da Kodos, Governatore di Tarsus IV”
Jim fissò il podio con gli occhi sgranati, intorno a sé era accalcata una moltitudine di persone che tremavano, piangevano, gemevano di dolore. Erano in molti, troppi, sembrava che l’intera colonia fosse stata portata in quella piazza per ascoltare quelle parole folli. Il Governatore Kodos era in piedi sul podio, una figura piccola in lontananza, eppure Jim poteva giurare di sapere che sguardo avesse, quale fosse la luce nei suoi occhi. Se si fosse avvicinato, sapeva che avrebbe visto lo stesso sguardo di pochi giorni prima, solo freddo calcolo, durezza e impenetrabilità.
Gli occhi di un predatore.
Non ho alternative se non condannarvi a morte.
Il respiro si fece pesante, continuò a guardarsi intorno e notò qualcuno dei ragazzini dell’istituto, si stringevano tra loro, alcuni piangevano, avrebbe voluto raggiungerli per stare con loro, ma non lo avrebbero voluto lì. Lo avrebbero rifiutato proprio come avevano fatto all’istituto. Si rese conto di essere completamente solo.
Sarebbe morto da solo.
Represse le lacrime che minacciavano di sfuggire al suo controllo, non voleva piangere, non voleva crollare e darla vinta alla bestia che li fissava dall’alto del podio. Non avrebbe lasciato che vincesse lui, doveva essere qualcosa da fare, un modo per fuggire da quell’assurda situazione.
Aveva dodici anni, non poteva morire in quel modo!
Si guardò intorno, la piazza era circondata dai grandi edifici della colonia e qualche villa di lusso, in lontananza la vallata era accerchiata dalle montagne.
Pensa, Jim.
“Seguite le squadre di sicurezza, se resisterete non farete altro che velocizzare la vostra esecuzione” Kodos scese dal podio e si allontanò velocemente.
Le squadre che sostavano intorno alla piazza, facendo scudo alle persone raccolte al suo centro, si mossero e iniziarono a raccogliere gruppi di persone per portarli nel luogo della loro esecuzione.
Qualcuno iniziò a correre per scappare dalle guardie, altri cercarono di emularli e ben presto le squadre di sicurezza iniziarono a sparare sulla folla per sedare ogni tentativo di rivolta. Jim non ci pensò due volte e iniziò a correre verso l’uscita est della piazza, era quella più vicina a lui ed era orientata verso le montagne. Corse trattenendo il respiro, come se sotto i suoi piedi la terra si fosse aperta e ci fossero solo fiamme. Corse per salvarsi la vita. Corse come se fosse ancora in quella dannata Corvette sulla Terra e volesse lanciarsi giù dal burrone.
Qualcuno lo spinse e cadde con la faccia a terra, venne calpestato e urlò dal dolore ma cercò di farsi forza e alzarsi in fretta oppure sarebbe stato schiacciato da centinaia di piedi. Il sangue gli colava sul volto, non sapeva da dove fuoriuscisse ma, si rese conto, non importava, devo correre! Correre!
Si rialzò e ricominciò a correre, le urla erano assordanti, le mani lo spingevano via dalla sua meta e i laser gli sfrecciavano accanto.
Lo avrebbero ucciso. Lo avrebbero ucciso comunque, quindi tanto valeva correre nel tentativo di salvarsi.
Qualcuno lo urtò e si ritrovò a barcollare di nuovo, sarebbe caduto se una mano non lo avesse trattenuto per il braccio. Jim si voltò pronto a liberarsi ma ciò che vide fu solo un ragazzino Vulcaniano che lo guardava e lo tratteneva.
Jim lo fissò confuso, un senso di sollievo gli si propagò nel ventre, aveva temuto che fossero le guardie ad averlo raggiunto. L’altro gli fece segno di avviarsi verso l’uscita della piazza.
Un laser sfrecciò a pochi centimetri dal volto del Vulcaniano e Jim si riscosse, si piegò in avanti cercando di proteggersi la testa con le mani e annuì all’altro.
Dovevano correre, correre più velocemente possibile.
Correre. Corri! Corri, Jim!
E corsero, veloci come lampi, sgattaiolando tra le gambe della gente, gli spari dei fucili, le urla, le lacrime e i corpi.
I corpi!
Corsero e raggiunsero il muro che separava la piazza dal primo anello della città, vi si appiattirono contro come a voler diventare un tutt’uno con questo. L’uscita, come era ovvio, era sorvegliata dalle squadre di Kodos, i due ragazzi si resero conto che non sarebbero mai riusciti a passare di lì.
Jim guardò l’altro ragazzino, erano in trappola e i militari li avrebbero trovati a breve per giustiziarli.
Il Vulcaniano non lo guardava, aveva lo sguardo concentrato mentre osservava l’ambiente circostante, si voltò verso il muro e si piegò sulle ginocchia.
“I canali di scolo, siamo entrambi adeguatamente sottili da passare”
Jim lo guardò confuso, poi capì cosa gli era appena stato detto. I canali di scolo servivano a far defluire l’acqua durante la stagione delle piogge sul Pianeta, quell’acqua veniva raccolta, filtrata e riutilizzata. Forse potevano farcela, annuì al Vulcaniano.
L’altro ragazzo afferrò le sbarre della grata di ferro ai piedi del muro e con forza la tirò verso di sé, quando questa fu liberata dal suo supporto agilmente il Vulcaniano infilò la testa e le braccia nel passaggio e vi si calò velocemente. Jim non ci pensò due volte e fece lo stesso.
Corri, Jim, si disse mentre cadeva nel vuoto e nel buio dei canali di Tarsus IV.
 
Jim cadde a terra stremato, respirò affannosamente con gli occhi chiusi. Le gambe gli facevano male e non sarebbe riuscito a fare un altro passo neppure raccogliendo le poche energie che gli erano rimaste.
Cadde sulle ginocchia aggrappandosi al muro accanto a lui.
“Non possiamo restare qui, abbiamo percorso solo tre punto cinquantasei chilometri. Quando noteranno che la grata è stata rimossa sapranno che siamo scappati e ci seguiranno”
Jim represse un’occhiataccia al Vulcaniano. Non voleva litigare con lui e neppure perdere del tempo prezioso, ma non riusciva a muoversi e il solo pensiero di riprendere a camminare gli faceva girare la testa.
“Non ce la faccio, sono troppo stanco” disse mentre si metteva seduto, abbandonando la schiena contro il muro.
“Voi Terrestri siete deboli” disse l’altro.
“Beh scusami Vulcano, puoi lasciarmi qui se sono un peso per te” grugnì di rimando.
L’altro non disse altro, rimase in piedi a guardarsi intorno con le mani abbandonate lungo i fianchi e la schiena rigida.
“Perché ci stanno uccidendo? Perché?” mormorò a sé stesso. Avrebbe voluto piangere, ma non poteva permetterselo.
“Le risorse alimentari sono limitate, rovinate dalle spore di un fungo esotico –” rispose il Vulcaniano.
“Sì, lo so questo! L’ho capito” Jim poggiò anche la testa contro il muro, avrebbe voluto chiudere anche gli occhi, ma non lo fece “ma perché ucciderci? Il Governatore aveva chiaramente detto di aver comunicato con la Flotta Stellare e che ci avrebbero aiutati”
L’altro ragazzo si voltò a guardarlo, lì nel buio era difficile vedere davvero “Tuttavia, e queste sono solo mere ipotesi, la Flotta Stellare sta tardando e le risorse per tutti i coloni sono terminate. A fronte di questo è evidente che, per permettere la sopravvivenza di almeno metà della colonia, il Governatore abbia deciso di decimare l’altra metà. Questa scelta è stata fatta secondo il principio dell’utilità. Chi è più utile viene lasciato in vita, chi meno utile, viene ucciso”
Jim sorrise amaramente “Da come ne parli sembra che concordi con lui”.
“Sto semplicemente riportando i fatti. Ed ora dovremmo continuare a muoverci, sono passate due punto zero sei ore standard. Sono le ore diciotto e dovremmo cercare un modo per raggiungere le montagne”
“Si, si hai ragione” sospirò il terrestre facendosi forza per alzarsi, le gambe doloranti però non volevano saperne di muoversi.
“Sei fisicamente impedito” accertò il Vulcaniano.
“Sì, sono stanco. Puoi andare avanti, nel caso non dovessero trovarmi allora ti cercherò”
L’altro scosse il capo e si avvicinò a Jim. Nel buio non era facile capire che cosa stesse facendo l’altro ragazzo, ma ben presto Jim capì che lo stava semplicemente prendendo in braccio, per portarlo di peso verso la loro meta.
“Che diavolo… no! Lasciami. Non puoi portarmi così, ti stancherai e sarà finita per entrambi!”
“Devo ricordarti che i Vulcaniani sono tre volte più forti dei Terrestri. Inoltre così facendo raggiungeremo più velocemente la nostra meta, e non ti lascerò qui”.
 
Era ormai buio quando raggiunsero l’imboccatura del canale alla fine del quale si estendeva un tunnel che terminava la sua corsa in una rientranza nel terreno, questa era coperta da una grata sottile e, molto probabilmente, serviva da filtro per l’acqua piovana che fluiva nel condotto. I due attraversarono velocemente il tunnel e riuscirono a trovare una scala che conduceva in alto dove un’altra grata li attendeva.
Una volta usciti si resero conto di essere oltre le mura della città e, guardandosi intorno, si accorsero di trovarsi ai piedi di un bosco.
Tarsus IV era un pianeta di classe M, molto simile alla Terra e i boschi e le montagne, seppure composti da una flora e una fauna diverse da quelle terrestri, le ricordavano vivamente.
“Siamo usciti” sospirò Jim.
“Esatto” gli fece eco il Vulcaniano.
Jim respirò a pieni polmoni cercando di dimenticare il tanfo e l’odore acre dei canali da cui erano appena usciti, ora dovevano cercare un posto in cui stare che fosse abbastanza lontano dalla città.
“Dovremmo entrare nel bosco” disse guardando il compagno. Si rese conto di non sapere neppure il suo nome, nonostante quel ragazzino lo avesse aiutato più di una volta quel giorno.
“Come ti chiami, a proposito?”
Il Vulcaniano lo guardò, inarcò un sopracciglio prima di riprendere a guardare il bosco “Il mio nome sarebbe difficile da comprendere e da pronunciare per un Terrestre”
“Beh, dovrò pur chiamarti in qualche modo. Se non me lo vuoi dire allora scegli almeno un modo in cui potrei chiamarti. Io mi chiamo Jim, ma puoi chiamarmi J”.
Il Vulcaniano annuì, prima di incamminarsi verso il bosco “Mi chiamo S’chn T’gai Spock, ma puoi chiamarmi Shin”.
Jim gli fu subito dietro.
 
Camminarono per minuti o forse ore, ormai non lo sapevano più neanche loro. Beh, forse Shin lo sapeva, sembrava sapere sempre tutto. Il percorso che avevano scelto era in salita, la debole luce della luna di Tarsus IV era di poca utilità poiché la vegetazione era così fitta da non lasciarla filtrare. Erano in un buio del tutto accecante senza considerare anche la stanchezza, la fame e la paura che li aveva accompagnati per tutto il giorno. E nonostante fossero vivi c’era qualcosa che sembrava presagire che stessero solamente prolungando la loro agonia prima della morte.
Shin si fermò all’improvviso guardando fisso di fronte a sé, Jim gli fu accanto subito dopo ma poco prima di chiedere il perché si fosse fermato l’altro alzò una mano per zittirlo.
Molto probabilmente, pensò Jim, il suo amico stava percependo qualcosa, i Vulcaniani avevano un udito molto più sviluppato rispetto ai Terrestri.
“C’è acqua a uno punto sette chilometri da qui. Nel bosco, attualmente, oltre a suoni appartenenti alla fauna locale non sembrano esserci altri esseri umani. Tuttavia, date la mia stanchezza fisica e mentale, potrei sbagliarmi. In questo caso il tasso di errore potrebbe essere –” ma Jim lo interruppe bruscamente.
“No, nessun tasso di errore. C’è acqua, al momento preoccupiamoci di una cosa alla volta. Potremmo avvicinarci all’acqua e alle prime luci del mattino proseguire verso la fonte, potrebbero esserci delle grotte o qualcosa del genere”.
Shin alzò un sopracciglio, la sua espressione rimase tuttavia immutata “Molto bene. Da questa parte” disse, prima di incamminarsi verso il suono dell’acqua.
“Shin” iniziò Jim, mentre camminavano verso la loro meta, i passi trascinati e il respiro pesante “volevo ringraziarti per quello che hai fatto oggi. Per avermi portato nei canali con te e per non avermi lasciato lì. Scusami se a volte sono brusco, io…” non sapeva come continuare. Lui cosa? Era semplicemente spaventato, terrorizzato, confuso, arrabbiato. Ecco perché a volte era brusco. Eppure quel ragazzo Vulcaniano lo aveva aiutato e lui non aveva fatto altro che trattarlo male.
Il verso gutturale di un uccello notturno spezzò il silenzio.
“Non c’è motivo di ringraziarmi, né di scusarti. Sei emotivamente compromesso dopo gli avvenimenti di quest’oggi”
Jim sorrise “Emotivamente compromesso?
L’altro annuì con un solo movimento del capo.
“A volte voi Vulcaniani parlate in modo strano”.
L’altro non rispose, continuando a camminare.
“La nostra unica colpa è essere vivi, dunque? È per questo che Kodos ci vuole uccidere? Per l’unico, semplice, dannato motivo che siamo vivi?”
L’uccello continuò con il suo verso simile a quello di una civetta. Era molto probabilmente un Korl, un rapace tipico dei boschi di Tarsus IV, Jim lo aveva studiato all’istituto.
“È esatto. Nonostante io non convenga sulla moralità delle azioni del Governatore, è tuttavia una scelta dettata dalla logica. Per poter permettere la sopravvivenza della colonia, è necessario decimare la sua popolazione”.
“Significa che per te è giusto che siamo stati condannati a morte? No, Shin, no! Non lo accetto. Chi può giudicare quanto vale una vita? Se la mia vita è più o meno importante di quella di un altro? Chi può giudicare la mia vita o la mia morte?”
“Eppure voi terrestri avete una lunga storia di condanne a morte. Se ricordo bene l’ultimo Stato ad aver abolito la pena di morte, è stato il Giappone solo duecento anni fa”.  
“Ma siamo cambiati! Inoltre questo non ci rende tutti uguali, tutti favorevoli alla pena di morte. Io non posso e non voglio che la mia vita venga giudicata! Non così”.
Shin non parlò più e i due continuarono a camminare ancora per molto tempo.
 
Quella notte i due ragazzi dormirono e non sognarono, dormirono pur rimanendo svegli. Fu la notte più lunga e la notte più fredda della loro vita.
Dormirono ascoltando i suoni del bosco, dormirono ascoltando lo scorrere dell’acqua nel ruscello.
Non c’era niente che potessero fare, nessun posto dove andare.
Solo quella mattina Jim si era svegliato nella sua stanza all’istituto, solo quella mattina aveva mangiato alla mensa, aveva mandato giù il cibo senza alcuna voglia, aveva odiato il suo essere lì. Solo quella mattina era stato un ragazzo problematico in un istituto per ragazzi problematici. Ma era stato un ragazzo.
Un ragazzo.
E ora? Ora cos’era?
Sei un fuggitivo, ora. Sei un fuggitivo su un Pianeta che non è la Terra, sei un ricercato e se ti trovassero ti ucciderebbero.
Era un fuggitivo che lottava per la sua vita, che lottava contro la morte.
Nel buio della foresta, tra i versi dei Korl, lo scrosciare dell’acqua e il respiro leggero di Shin, non era altro che un fuggitivo e questo pensiero lo tramortiva come un colpo alla testa.
Nel buio e silenzio gli ritornarono in mente, con una vividezza disarmante, le immagini di quella giornata trascorsa, le parole del Governatore, le urla e i pianti e gli spari. La gente che scappava, i corpi di chi era stato colpito. I corpi. Aveva visto bambini, anziani, adulti, erano solo corpi ora, solo corpi pronti a decomporsi.
E lui aveva solo dodici anni. Solo dodici anni.
“Ma la sopravvivenza richiede misure drastiche”
Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, voleva ricacciare indietro l’immagine di Kodos, nella sua divisa da Governatore, che parlava alle sue vittime dal podio.
“La vostra esistenza continua ad essere una minaccia per il benessere dell’intera comunità”
E allora?
E allora? si chiese Perché devo essere ucciso? E allora? Perché qualcun altro deve essere ucciso?
“Per questi motivi non ho alternative se non condannarvi a morte”
A morte.
Ripensò a Son che quella stessa mattina aveva lottato, scagliandosi contro il soldato e che era morto dinanzi a lui, con gli occhi sgranati.
E allora?
Una vita non dovrebbe valere nello stesso modo di quella di un altro? Perché io valgo di meno? Perché dovrei?
Ma non c’erano risposte.
Rilasciò un sospiro tremulo mentre continuava a tenere gli occhi chiusi e il cuore pesante.
“E allora?” mugugnò con la voce spezzata.
E allora?
“Non voglio morire. Non voglio morire solo perché ho avuto la colpa di vivere”.
Non si guardò intorno, pianse con gli occhi chiusi, pianse in silenzio. Pianse tutte le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento.
Pianse perché era buio, pianse perché era ora.
Pianse perché non avrebbe più potuto piangere da quel momento in poi. Avrebbe dovuto lottare, come aveva fatto Son. Avrebbe dovuto lottare o morire.
Lottare o morire.
“La mia vita vale quanto quella di un altro” sospirò.
“La tua vita vale, J, quanto quella di un altro” gli rispose un sospiro.
E quello fu il suo unico, grande, conforto. La voce di Shin.
 
continua... 
Grazie per aver letto sin qui.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: La vergogna ***


Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico. 


“I'll use you as a warning sign
That if you talk enough sense then you'll lose your mind
And I'll use you as a focal point
So I don't lose sight of what I want
And I've moved further than I thought I could
But I missed you more than I thought I would”
I found – Amber Run
 

La vergogna

 
2246.5.23 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Spock aprì gli occhi e si accorse che era ormai quasi l’alba. Le stelle nella volta celeste iniziavano a diradarsi, coperte dal chiarore del giorno che a breve avrebbe inondato il cielo.
Si guardò intorno e vide che J era disteso accanto a lui in posizione fetale, stava dormendo profondamente. Nessuno dei due aveva riposato quella notte, troppo confusi e impauriti per potersi abbandonare al sonno.
Spock continuò a fissare l’altro ragazzo e i suoi capelli biondi scompigliati, il corpo tremante, non avrebbe voluto svegliarlo ora che era riuscito ad addormentarsi davvero, ma non c’era altra scelta.
Aveva paura, non si vergognò ad ammetterlo a sé stesso. Aveva avuto paura, un’emozione che era sfuggita al suo ferreo controllo mentale e lui aveva lasciato che quella paura lo attanagliasse per tutta la notte.
Era illogico avere paura, era illogico lasciare che prendesse il sopravvento.
Ma non aveva potuto fare a meno di provare.
Si rese conto che era stata la vergogna verso sé stesso e la sua paura ad impedire di rivelare il suo vero nome, il nome che tutti usavano per chiamarlo. Lo aveva solo brevemente citato, ma aveva detto a J di chiamarlo Shin. Aveva avuto paura e aveva provato vergogna e questo Spock non poteva permetterlo era un disonore per lui e per suo padre.
J si mosse, distogliendolo dai suoi pensieri e lui lo guardò mentre l’altro si metteva seduto lentamente, sbadigliando.
“Buongiorno” bofonchiò il Terrestre “è quasi l’alba, eh?”
“Esatto. Dovremmo incamminarci verso la fonte del ruscello, nel mentre potremmo guardare se troviamo del cibo nel bosco”.
“Si” J si alzò e si incamminò verso il ruscello sciacquandosi il volto e bevendo. Spock, no, Shin, lo emulò, conscio del fatto che avrebbero dovuto sterilizzare l’acqua prima di berla. Tuttavia non era possibile pensare di accendere un fuoco, il fumo si sarebbe visto e le guardie avrebbero saputo dove cercare.
“Andiamo” disse J.
Lo sguardo negli occhi del Terrestre era diverso quella mattina, ben lontano dallo sguardo terrorizzato che Shin aveva visto il giorno prima. Non sapeva come interpretare quella nuova espressione che gli era completamente estranea.
“Shin, secondo te quando arriverà la Flotta? Ormai dovrebbero essere in viaggio verso Tarsus IV”
“È un calcolo che non sono in grado di fare. Non sappiamo se hanno ricevuto la comunicazione del Governatore, inoltre non possiamo sapere se siano a conoscenza della scelta di Kodos di decimare la popolazione”
Jim ci pensò su, le sopracciglia aggrottate nella concentrazione “Quindi secondo te potrebbero non arrivare mai?”
“Forse”
Si sentiva frustrato dalla mancanza di informazioni, dall’impossibilità di conoscere come sarebbero andate le cose da lì in poi. Ma non poteva farci niente.
Era arrivato su Tarsus IV da una settimana, i suoi genitori avevano insistito perché facesse parte del Programma del Dipartimento dell’Istruzione Interplanetaria, in particolare sua madre che sperava potesse imparare a relazionarsi con altri popoli oltre che con la gente di Vulcano.
Doveva sedare le sue emozioni, si disse, doveva mantenere saldi i suoi scudi mentali e pensare lucidamente, era un Vulcaniano e doveva comportarsi come tale.
“Shin” J frenò di colpo i suoi passi, negli occhi uno sguardo che Shin non riconobbe sembrava un insieme di terrore, frustrazione e sconfitta. J stava indicando un albero poco lontano, molto probabilmente un albero di Kuwat, una pianta che fioriva ovunque sul Pianeta. Il Kuwat dava dei frutti piccoli e dolci, simili all’uva terrestre ma più dolci e con una buccia dura intorno alla polpa.
Shin guardò l’albero e i suoi frutti e capì subito il motivo dello sguardo di J. I frutti erano bruciati, totalmente appassiti.
I due si avvicinarono per osservare meglio, sembrava che tutti i frutti avessero subito la stessa sorte. La buccia completamente marcia, così come la polpa al suo interno.
“Le spore” sussurrò, più a sé stesso che all’altro, “hanno, di certo, distrutto ogni risorsa presente sul pianeta. Tutto il cibo, non solo quello rifornito dalla Flotta Stellare”.
J lo guardò con gli occhi sgranati “Quindi non c’è niente? Non possiamo mangiare nulla? Tutto il cibo è semplicemente finito?”
Shin annuì.
Tutto il cibo.
Non avevano nulla da mangiare, era andato tutto distrutto.
 
L’intuizione di J si rivelò corretta, la fonte del ruscello era una cascata che sgorgava dalle rocce più alte della montagna, intorno ad essa, seminascoste dalla vegetazione riuscirono a scovare una serie di grotte nella parete rocciosa.
“Avremo acqua a volontà” constatò J, tuttavia Shin avrebbe voluto rispondere che molto probabilmente anche l’acqua poteva essere avvelenata dalle spore. Avrebbe dovuto monitorare le loro condizioni entro quarantotto ore.
I due entrarono in una caverna più piccola, era umida ma ben coperta dal resto della vegetazione, guardandosi intorno non notarono tracce di animali.
“Ieri ho chiaramente sentito il verso di un Korl. Dunque gli animali non sono stati avvelenati dalle spore, giusto?”
“Esatto. Non ha avuto effetti sulla biologia degli esseri viventi presenti sul pianeta” confermò Shin.
“Dunque potremmo cacciare, giusto? Quali animali sono presenti su Tarsus IV?”
Shin soppresse un fremito e un senso di disgusto. I Vulcaniani non mangiavano carne, non uccidevano animali e lui non poteva nutrirsi di quegli esseri.
Eppure.
Eppure aveva fame e tutto il cibo sembrava essere perduto.
“Dovremmo tornare in città” disse, senza rispondere alla domanda dell’altro.
“Cosa?”
“Quando siamo stati portati via le scorte di cibo dell’istituto non erano ancora in stato di decomposizione, sarebbe ragionevole pensare che il cibo conservato o replicato subisca un processo di decomposizione più lento” spiegò con calma.
“Ma… la città. Sarebbe meglio cacciare, restare qui nei boschi” si lamentò J.
Shin abbassò lo sguardo.
Ma lui non voleva cacciare. Non voleva uccidere e non voleva mangiare esseri viventi.
“Perché? Dimmi, qual è il vero motivo per cui vuoi tornare in città?” lo sguardo dell’altro era indagatore, sospettoso.
Shin non voleva dirgli la verità e svelare la sua vergogna, la sua debolezza. Non voleva aprire sé stesso ad un perfetto estraneo.
Eppure.
Eppure.
“Sono Vulcaniano. Noi non mangiamo carne” disse flebilmente.
J inarcò un sopracciglio e per un momento, un attimo fugace, sembrò voler dire qualcosa. Poi si voltò e uscì dalla grotta camminando verso la cascata.
“Allora andremo in città”.
 
 
 
2246.5.27 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Shin osservò il sole mentre tramontava dietro le montagne, il cielo era macchiato da un rosso acceso che sfumava nel rosa delle pesche. Le aveva mangiate qualche volta poiché erano dei frutti che a sua madre piacevano e che ordinava dalla Terra ogni anno.
Tenne a bada il brontolio del suo stomaco cercando rifugio nella sua mente, doveva placare la sensazione di fame con gli esercizi di respiro controllato che suo padre gli aveva insegnato.
Tuttavia la logica, negli ultimi giorni, sembrava vacillare e con essa anche lui.
Avevano deciso di spingersi fino alla città ma non avevano ancora trovato il coraggio di muoversi dal rifugio. Quello era un luogo sicuro, non ancora battuto dalle squadre di Tarsus IV, sebbene non potessero essere certi di trovarsi al sicuro avevano deciso di restare, nonostante sarebbe stato logico continuare a muoversi, nessuno dei due aveva abbastanza energie per spostarsi regolarmente e non volevano allontanarsi dalla fonte d’acqua.
Tarsus IV era un pianeta caldo, non come Vulcano, ma le temperature erano molto alte e l’acqua era rara, una risorsa che non poteva andare sprecata. Di ruscelli come quello accanto al quale si erano fermati ve ne erano solamente cinque su tutto il Pianeta e rifornivano la colonia con l’essenziale per potersi idratare bevendo.
L’acqua dei ruscelli veniva raccolta nelle cisterne della colonia e veniva distribuita a tutti i coloni. Il controllo dell’acqua e del cibo forniva al Governo del Pianeta un potere assoluto.
Per fortuna, anche se la fortuna non era davvero una causa diretta, l’acqua non era stata avvelenata dalle spore dei funghi esotici e loro potevano almeno fare ricorso a quell’ultima risorsa.
Ma il cibo.
Un Vulcaniano adulto, nel pieno delle forze poteva resistere cinque punto sei mesi senza mangiare e continuando ad idratarsi regolarmente, un adulto Terreste nel pieno delle forze poteva resistere due punto due mesi. Tuttavia Shin non era un Vulcaniano adulto nel pieno delle forze, era solo per metà Vulcaniano e non era forte come la media dei suoi simili. Avrebbe resistito circa tre punto uno mesi, ma anche di meno, considerando le condizioni fisiche e psicologiche in cui si trovavano.
Tuttavia J, nonostante cercasse di mostrarsi forte ai suoi occhi, sapeva di non poter resistere per più di un mese.
Dovevano mangiare.
Shin, no, Spock, il tuo nome è Spock, si disse, non pensava che la fame potesse avere degli effetti così disastrosi sulla sua disciplina mentale. Erano passati quattro giorni da quando aveva mangiato per l’ultima volta, eppure la stanchezza e la fame lo stavano destabilizzando. E sarebbe andata ancora peggio se non avessero trovato un rimedio.
“Shin, hey” si avvicinò J mentre si strofinava gli occhi con i palmi delle mani, aveva riposato per tutto il giorno poiché per entrambi era difficile dormire di notte “penso che stasera dovremmo scendere verso la città”
Shin annuì, lo aveva pensato anche lui.
“Si, durante la notte sarà più facile passare inosservati. Suppongo che abbiano istituito dei posti di blocco e che le squadre stiano pattugliando il perimetro della città così come il secondo e il terzo anello nei boschi. Durante la notte dovremmo, con le dovute cautele, avere il cinquantasei punto trentanove percento di probabilità in più rispetto al giorno”
J sbuffò una risata “Sai, potresti essere più conciso nel dire le cose”
Shin non rispose, si limitò ad alzare un sopracciglio, un riflesso involontario del suo corpo, come gli accadeva spesso negli ultimi giorni.
“E se ci prendessero, invece?” J si sedette accanto a lui “Che cosa ne sarebbe di noi?”
“Sarebbe logico pensare che verremmo giustiziati così come anticipato il giorno della condanna”
Rimasero in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri. Ognuno a contemplare i rischi che avrebbero corso scendendo in città, ritornando nella tana del lupo per la loro stessa necessaria sopravvivenza.
“Io non voglio morire. Ho paura” sussurrò J, dopo un po’ “Non voglio morire Shin”.
Non voglio morire.
Era così chiara la paura del Terrestre, così palese, di fronte agli occhi del Vulcaniano. L’espressione negli occhi del ragazzino biondo era di nuovo quella di cinque giorni prima, in quella piazza, circondati dalle urla e dagli spari e dai corpi.
E lui? Cosa voleva lui?
La morte era un’inevitabile tappa della vita stessa, uno stadio finale da raggiungere con la certezza matematica che aveva creato l’intero universo e la vita stessa. La morte era una meta logica nel percorso dell’esistenza dal suo stadio iniziale a quello finale, nella trasformazione della materia.
Eppure lui era un essere vivente, un essere senziente, ed aveva emozioni seppur controllate dai dettami della disciplina logico-mentale. Era vivo.
Vivo.
Che cosa voleva lui?
Che cosa vuoi, Spock?
“Anche io ho paura di morire”
Illogico.
 
J si appiattì contro il muro mentre cercava di trattenere il respiro che di tanto in tanto fuoriusciva sotto forma di un sospiro tremolante.
Shin invece si piegò leggermente oltre il bordo per dare un’occhiata veloce alla villa e ai dintorni. L’immagine che gli si parava davanti era quella di un’abitazione molto probabilmente disabitata, le finestre erano aperte e tutte le luci erano spente, inoltre non si sentiva alcun suono provenire dal suo interno.  
Dalla sua posizione non riusciva a vedere la porta d’ingresso, ma era logico pensare che la villa fosse disabitata probabilmente perché i suoi inquilini dovevano essere tra i condannati di Kodos.
La villa era modesta, un solo piano, qualche finestra e il tetto non ancora completo, a completare il quadro si stagliava un piccolo giardino sul lato est della struttura, ma il piccolo angolo verde non veniva curato da molto tempo, a giudicare dall’erba che cresceva alta.
“Dovremo scavalcare e appiattirci al suolo” Spiegò a J, ritornando alla stessa altezza dell’altro “Strisceremo per tre punto sette metri e arriveremo alla parete nord dell’edificio. Entreremo dalla finestra aperta. Dovremo fare tutto in due punto otto minuti” terminò.
J prese un profondo respiro e annuì “Okay, scavalcherò prima io, poi tu mi seguirai. Fai in fretta, non devono vederci”.
Il biondo si aggrappò al muro inserendo le mani nelle crepe tra i mattoni e si diede slancio con i piedi per iniziare a salire. J si muoveva veloce e silenzioso, nonostante la stanchezza fisiche e le blande energie che possedeva dopo giorni di digiuno.
Il muro non era molto alto, non avrebbero avuto difficoltà, la parte difficile era quando sarebbero stati in cima poiché sarebbero stati esposti alle potenziali guardie che perlustravano la città.
Quando l’altro saltò giù dal muro, atterrando dall’altra parte con un tonfo sordo, Shin iniziò a salire.
Le crepe del muro erano affilate e le sue mani troppo sensibili, era un Vulcaniano e i suoi polpastrelli erano direttamente connessi alle sue sinapsi mentali che regolavano le sue capacità telepatiche. Tuttavia non poteva fermarsi ora, avevano rischiato troppo per essere lì e dovevano cercare del cibo.
Quando atterrò anche lui si acquattò al terreno e seguì J nell’erba alta, verso il muro della casa.
Riuscirono ad arrivare alla finestra aperta e ad issarsi nella casa deserta attraverso la finestra aperta, atterrarono in uno spazio buio, illuminato parzialmente solo dalle luci esterne della città. Si guardarono intorno e capirono di trovarsi in quello che doveva essere stato l’alloggio di un bambino, la stanza era spoglia con solo qualche mobile contro le pareti e pochi giocattoli di peluche gettati alla rinfusa sul pavimento. Al centro della stanza era posizionata una culla, i due ragazzi si guardarono prima di avviarsi al centro della stanza.
Il primo ad affacciarsi oltre il bordo della culla fu J che sgranò gli occhi e si portò le mani alla bocca emettendo un suono gutturale, forse per trattenere un urlo. Shin lo guardò stranito per poi affacciarsi anche lui. La visione che lo accolse fu quella di un neonato con il naso schiacciato, il viso peloso e rugoso, piccolo e tarchiato. Era un neonato Tellarite, in evidente stato di decomposizione. Il foro bruciacchiato al centro del petto evidenziava che era stato colpito con un fucile sonico.
J si aggrappò al suo braccio guardandolo con gli occhi inumiditi e il respiro corto. Shin riusciva a percepire lo sconforto e la tristezza del Terrestre, ma si accorse di non sapere che cosa dire al riguardo. Nonostante cercasse di sedare le proprie emozioni si rese conto di non essere indifferente a ciò che aveva visto e pensò che forse, un po’ delle emozioni che riusciva a percepire dal contatto con J, erano anche sue.
Shin si concentrò per rinforzare i propri scudi mentali e reprimere le proprie emozioni che lottavano selvaggiamente per risvegliarsi e divorarlo lentamente. Non poteva lasciarsi andare, si disse, era un Vulcaniano e doveva mantenere alta la sua disciplina mentale.
Ma quello era un neonato ed era stato assassinato per alcuna colpa, se non quella di essere nato su Tarsus IV. La sua logica vacillò insieme a lui ma si fece forza mentre J si riscuoteva e lo prendeva per mano cercando di condurlo in un’altra stanza. Il contatto con le mani di J era strano, per lui che non aveva stretto mai la mano di altri se non quella di sua madre, non poteva definirlo un disagio. C’era qualcosa in quel semplice tocco che lo aiutava a trovare una stabilità e a rinforzare la propria disciplina mentale, quel semplice scambio di pelle era come un baricentro che lo teneva in piedi impedendogli di collassare su sé stesso.
Percorsero un breve corridoio fino ad arrivare alla cucina della villa, J lo guardò con gli occhi ancora umidi e si limitò a sussurrare “Prendiamo tutto quello che possiamo e andiamocene via di qui”.
Iniziarono a cercare nelle dispense, tra i cassetti, ovunque, la maggior parte del cibo era stato avvelenato dalle spore, tuttavia Shin riuscì a trovare un vasetto di pesche sciroppate ancora in buone condizioni.
Si voltò verso J che provava a trafficare con il replicatore di cibo, tuttavia tutto il cibo che veniva replicato si avariava nel giro di pochi secondi. Shin annuì confermando le teorie che lo avevano accompagnato a lungo nelle notti dopo la condanna: il cibo replicato non era immune alle spore dei funghi, sembrava anzi che ne fosse influenzato maggiormente. Pur volendo replicare tutto il cibo possibile la colonia non sarebbe stata salva, il Governatore Kodos doveva aver vagliato anche questa ipotesi prima di emettere la sentenza.
“J” mormorò Shin mostrandogli il vasetto di pesche.
Il Terrestre lo prese in mano e lo guardò con gli occhi tristi prima di restituirglielo “mangiale tu, Shin. Sono tue” gli disse.
Shin scosse il capo “sono nostre
J si lasciò sfuggire un sorriso amareggiato “sono mortalmente allergico alle pesche, morirei il secondo dopo averle inghiottite”
Shin inspirò profondamente mentre un senso di vuoto si propagava al centro del suo torso, tentò di ignorarlo ma non ci riuscì. Forse erano emozioni, forse era tristezza per quel momento così ingiusto.
Se avesse provato emozioni, molto probabilmente Shin, Spock, avrebbe provato tristezza, rabbia, disperazione. Se avesse provato emozioni allora non avrebbe mangiato quelle pesche, ma le avrebbe lasciate lì a marcire a causa delle spore perché era impensabile mangiare qualcosa di così dolce, con un senso di colpa così amaro.
Ma aveva fame, aveva fame, ed era logico, logico logico logico, mangiare quelle pesche.
Aprì il vasetto e diede le spalle a J, tuffò la mano nello sciroppo senza pensare, senza considerare che i Vulcaniani non mangiano con le mani e prese due fette di pesca gettandosele in bocca, con rabbia, con disprezzo, con tristezza.
Se solo avesse provato emozioni.
Ma non le provava.
 
Entrarono in un’altra casa poco lontano dalla prima ma anche in questa tutto il cibo era stato completamente distrutto dalle spore. Shin si sentiva meglio, forse più sazio, forse più vuoto, ma meglio di quando era arrivato in città.
Ma J non aveva ancora mangiato nulla, l’unico cibo che avevano trovato erano state le pesche e lui non le aveva potute toccare.
I due controllarono per la casa, era un edificio su due piani una casa piccola ma ben tenuta, nessuna stanza per neonati solo una camera da letto e una forse per gli ospiti. I due controllarono ovunque, ma di cibo non c’era l’ombra.
J sospirò abbassando il capo e Shin gli si avvicinò poggiando una mano sulla sua spalla, non sapeva perché ma non se lo chiese. Era giusto, era ora.
Un suono dall’esterno li mise in allarme e i due scapparono al piano di sopra cercando di fare meno rumore possibile, si infilarono nella camera da letto chiudendosi in un armadio. Trattennero il respiro sentendo altri rumori provenire dall’esterno, sembravano avvicinarsi e più si avvicinavano e più assumevano la forma di parole “- da questa parte”.
Qualcuno stava salendo le scale, qualcuno si avvicinava e li avrebbe trovati e uccisi lì come avevano fatto nella piazza, come avevano fatto a quel neonato.
Li avrebbero uccisi lì in quell’armadio.
J si strinse a lui e poggiò il capo sui palmi delle mani, Shin chiuse gli occhi e cercò rifugio nella sua mente.
“Mi sembrava che venisse da questa parte, diamo un’occhiata” la voce che aveva parlato era di un uomo.
Nell’armadio era buio l’aria era asfissiante e la paura era una corda che premeva intorno alla gola.
“Non vedo nessuno, forse sarà stato fuori”
“No, veniva da qui, saranno quei dannati fuggitivi del cazzo. Avranno fame”
I passi si avvicinarono all’armadio e si confusero con il suono dei battiti dei loro cuori.
Erano rumorosi, erano evidenti. Chi mai avrebbe potuto non sentirli?
Sembravano urlare “siamo qui! Venite a prenderci”.
“Vediamo un po’ qui”
E Shin strinse forte le palpebre. Non doveva avere paura, la paura uccide la mente, la paura uccide la mente, la paura uccide –
“keow”
Shin aprì gli occhi.
keow”
“Ecco il tuo fuggitivo! Un cazzo di Freok” urlò qualcuno.
“Che cosa?”
“Eccolo qua! Era un Freok a fare rumore”
Sentirono il fucile sparare, il suono del laser che penetrava la carne e poi i passi si allontanarono.
I due ragazzi ripresero a respirare, lentamente, con paura e rassegnazione, ma respirarono.
Erano vivi.
J fu il primo ad uscire e a dirigersi verso la porta, accanto ad essa il corpo esanime di un Freok, troppo simile a un gatto terrestre o a un Tribolo ma con testa senza orecchie e senza coda.
Shin guardò J e fu guardato di rimando, la risolutezza dipinta sul volto.
“No”
No.
“Si”
 
Shin si sciacquò la bocca nel ruscello, la risputò, la sciacquò di nuovo.
Andava avanti da molto, troppo, ma quel sapore non andava via.
Il sangue non andava via.
Era troppo.
Madre, padre, perdonatemi.
Vulcano, perdonami.
Era illogico chiedere scusa, era illogico provare repulsione, disgusto, tristezza per sé stesso.
Era illogico rifiutare il sostentamento quando c’era la fame.
Ma aveva mangiato quella carne fresca, dura, insanguinata. E aveva provato piacere.
Piacere.
Perdonatemi.
Perdonatemi.
“Perdonatemi”
 
Quella notte la caverna era più silenziosa e vuota che mai. Il bosco era un incubo avvolto nelle ombre e nelle tenebre e nella bocca il sapore del sangue era vivo, nauseante, reale.
Quella notte non avrebbero dormito, non avrebbero sognato, non avrebbero sperato.
Quella notte non avrebbero pianto.
J si avvicinò a lui e gli si stese accanto, gli poggiò una mano sulla spalla e lo guardò con un’espressione vuota “Scusami, Shin. Scusami” sussurrò nel silenzio, con una delicatezza tale da non spezzarlo “Vorrei poter fare di più, vorrei fare meglio. Scusami”
Shin scosse il capo e lo guardò in quegli occhi azzurri che anche nel buio sembravano troppo chiari, troppo grandi, troppo spenti.
Non avrebbero potuto fare altro, era più grande di loro, più forte di loro. Non avrebbero potuto fare niente.
“Domani torneremo in città” disse semplicemente.
J annuì e si accucciò a lui.
“Domani andrà meglio, vero?”
E Shin non avrebbe dovuto rispondere, perché era un Vulcaniano e i Vulcaniani non mentono.
“Si, domani andrà meglio”.
 
 
 
2246.5.30 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Non urlare!” J sussurrò a denti stretti il comando “Non urlare, ho detto! Non vogliamo farti niente”
Il bambino continuò a mugolare nonostante la bocca occlusa dalla mano del Terrestre.
Shin guardò J, la preoccupazione dipinta negli occhi azzurri dell’altro, il bambino spaventato tra le sue braccia. Era un bambino Terrestre e doveva avere circa nove anni.
“Non possiamo portarlo con noi” mormorò.
No, non potevano. Perché era solo un bambino, era ingestibile ed era un’altra bocca, altra fame, altra frustrazione. Non potevano.
Il bambino smise di agitarsi e rimase impalato a fissarlo con i grandi occhioni scuri pieni di lacrime.
“Non lo lascerò qui” rispose J “Non lo abbandonerò. Morirà se lo lasceremo”
Sì. Sarebbe morto e forse sarebbe stato meglio.
Vorresti essere morto, Spock?
“Tuttavia-”
“Nessun tuttavia! È solo un bambino e noi non lo lasceremo qui!”
Shin represse un sospiro, a volte J era fin troppo risoluto, controbattere non avrebbe portato a niente, era determinato a tenere quel bambino, la discussione era finita.
“Vado a cercare del cibo” tagliò corto Shin, cercò di evitare il senso di fastidio e irritazione che gli crescevano dentro. Era illogico provare quelle sensazioni e lui non provava emozioni, lui le sedava. Come sedava la fame, la sete, la paura, il terrore, il disgusto. Lui non provava niente, lui copriva con la logica e con la mente.
Eppure era da un po’ che non riusciva a sedare.
Vorresti essere morto, Spock?
Un Vulcaniano che veniva confuso dalle sue stesse emozioni, era una vergogna per la sua specie e per suo padre.
“Tu sei figlio di due mondi, Spock” gli aveva detto Sarek solo pochi mesi prima, ora sembrava che fossero trascorsi secoli.
Figlio di due mondi e appartenente a nessuno di questi.
Troppo Vulcaniano per la Terra e troppo Terrestre per Vulcano.
“Shin, ora tu sei Shin e sei su Tarsus IV” si disse, perché era quello ciò che contava. Era quella la verità e non aveva spazio per i dubbi sulla sua natura. Ora c’era solo la fame, J e la fuga. Ora c’era solo Tarsus IV, un Pianeta intero che lottava contro di loro.
Iniziò a cercare il cibo nelle credenze della cucina, in un sacchetto trovò cinque noci che non erano state bruciate dalle spore a vedere la buccia integra. Cinque noci era tutto quello che avevano.
Aprì un cassetto e vi trovò un set di coltelli da cucina, ne prese due e li portò con sé al piano di sopra.
Dovevano andare a caccia.
 
J era seduto accanto a lui, la schiena poggiata alla parete della caverna, l’unico suono intorno a loro era lo scosciare dell’acqua della cascata. Erano ormai le prime luci dell’alba e loro erano tornati da solo un’ora.
Avevano diviso le noci tra Shin e Kevin, il bambino che avevano trovato, J non aveva mangiato nulla poiché era allergico anche alle noci.
I due non parlavano, ma restavano vicini, la sola presenza dell’altro era come una ninna nanna confortante, sicura. Non avevano più nessuno, solo loro stessi.
“So che cosa pensi, che è stato un errore portarlo con noi. Ma io non potevo lasciarlo, capisci? Non potevo abbandonarlo lì” disse il Terrestre, guardando la parete di fronte a sé.
“Non hai mangiato, le tue forze fisiche sono ormai ridotte al tredici punto sette percento” rispose Shin, non c’entrava con il discorso, o forse sì, non lo sapeva. Ma non sapeva che altro dire, era frustrante.
“Parlami di Vulcano, Shin. Che cosa mangiate lì?”
Il Vulcaniano inspirò chiudendo gli occhi, non voleva pensare alla sua casa, non voleva pensare al cibo, non voleva pensare a sua madre e suo padre, a I-Chaya, il suo Sehlat, non voleva pensare.
Ma J ne aveva bisogno e forse anche lui ne aveva bisogno.
“La zuppa di Ploomek” iniziò Shin “il Ploomek è un tubero e viene cotto insieme ai principali legumi di Vulcano. Esiste la variante verde aggiungendo i nodi di sh’rr o quella arancione dove si cuoce il Ploomek insieme ai rigonfiamenti radicali del Kasa” ricordò l’ultima volta che aveva mangiato la zuppa di Ploomek, ne rimembrò il sapore sulla lingua, il sugo denso che scendeva nella sua gola, il sapore quasi dolce del tubero. Voleva piangere, voleva ridere, voleva tornare a casa.
“Io vorrei un Hamburger, pieno di salsa barbecue e cipolle, darei un braccio per mangiarne uno in questo momento” sospirò J.
“Mi piacerebbe bere tè speziato, invece” concordò Shin.
J si voltò a guardarlo a lungo prima di scoppiare a ridere, le labbra distese in un sorriso vero, reale e non le smorfie amare che aveva imparato a mostrare da ormai tre settimane. Rise con le lacrime agli occhi, rise e pianse.
Shin non si interrogò sullo strano comportamento, non parlò di logica, non si rintanò nella sua mente. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalla risata vera, tragica, triste di J.
Non si chiese nulla, perché sapeva. Un angolo delle sue labbra si piegò all’insù e in quello strano, tragico, momento, si permise di sorridere senza provare vergogna per sé stesso.
 
 
 
2246.6.10 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Per favore, Shin, ti prego, posso andarci io!”
Shin lo osservò risoluto poiché non intendeva cedere alle suppliche dell’altro.
“Kevin non si fida di me, ti seguirebbe e vi metterebbe entrambi in pericolo. È logico che tu resti con lui e che vada io”
Al diavolo la logica! Non posso permetterlo, se… se ti succedesse qualcosa, io-” J si passò una mano sul volto, rassegnato, frustrato, affamato.
“Non mi succederà nulla. Tornerò prima dell’alba” tagliò corto Shin portandosi il coltello alla cintura, entrambi avevano recuperato pochi oggetti utili dalle case in cui erano stati. Per lo più coltelli da usare come armi e dei sacchi da appendere alla cintura e da riempire nel caso in cui avessero trovato del cibo.
Quando aveva imparato a promettere? I Vulcaniani non promettevano nulla e non affermavano senza avere la certezza delle loro parole.
Eppure su Tarsus IV non c’era certezza di nulla, neppure di essere vivi. Erano scheletri senza più passione, erano corpi mossi dalla fame, dal bisogno e dal desiderio.
Eppure voleva promettere e voleva farlo per J che ormai non mangiava da troppo tempo.
Quando si era legato così tanto a quel ragazzino? Perché lo considerava un punto di riferimento?
“Sai anche tu che non c’è certezza! Andremo insieme, Kevin starà buono qui, glielo farò promettere”
“No. La discussione è chiusa in questo momento. Andrò da solo e tu resterai qui con Kevin”.
 
Camminò stancamente fino alla recinzione che circondava la città. Evidentemente lui e J non erano i soli fuggitivi presenti sul Pianeta, così le guardie di sicurezza avevano innalzato una recinzione elettrica intorno alla colonia per impedire altre incursioni notturne. Per due notti lui e J avevano cercato una breccia, la prima notte erano andati via a mani vuote, mentre solo alla fine della seconda notte erano riusciti a trovare una falla nel sistema di protezione.
Molto probabilmente anche altri l’avevano trovata, ma non era importante fintanto che si potessero spingere a cercare del cibo.
Avevano provato a cacciare nei boschi ma la selvaggina era scarsa ed entrambi erano dei pessimi cacciatori, le case abbandonate ormai erano state perlustrate tutte anche dagli altri fuggitivi. Era ormai quasi del tutto finito il cibo che potevano trovare. Per Shin era chiaro che fosse arrivato il momento di rubarlo a chi ancora ne aveva. Tuttavia il pensiero di persone che vivevano tranquillamente nella colonia e che si cibavano, lo irritava sempre di più. Non riusciva a spiegarsi come avessero fatto a conservare quel cibo, perché non era stato distrutto insieme alla restante parte? Era un’equazione che non riusciva a risolvere e questo lo distruggeva. Se solo avesse capito forse avrebbe potuto salvare tutti e tre loro.
Avanzò con cautela verso il magazzino delle scorte alimentari, doveva essere sicuramente sorvegliato e lui sapeva di dover trovare un modo per eludere la sicurezza ed entrare.
I suoi pensieri furono confermati dalla presenza di tre guardie armate che sostavano di fronte all’entrata principale. Non aveva mai visitato il magazzino, non sapeva neppure che cosa aspettarsi dentro l’edificio. Se dentro ci fossero state altre guardie lo avrebbero preso e lui avrebbe lasciato J da solo. Però doveva tentare, era una questione di vita o di morte.
Vita o morte, Spock.
Girò intorno all’area riparandosi dietro al muro di contenimento, cercò di avanzare fino al retro per accertarsi che vi fosse la possibilità di entrare.
E c’era.
Proprio in cima, sul tetto, c’era una finestra chiusa.
La finestra era a dieci punto sessanta metri d’altezza, avrebbe dovuto arrampicarsi. Era un rischio, lo sapeva bene, ma non poteva fare diversamente.
Vita o morte.
Vita
o morte.
Si avvicinò cautamente all’edificio e decise di servirsi della grondaia per arrampicarsi, era leggero dopo tutti quei giorni passati senza mangiare e non avrebbe fatto eccessivo rumore. Iniziò a salire e a pensare agli occhi di J quando sarebbe tornato con il cibo.
 
Shin non credeva davvero a quello che era successo. Stringeva il sacco di iuta dietro le spalle, era pieno di cibo, era riuscito nel suo intento!
Nonostante tutto era deluso dall’impossibilità di conservarlo al di fuori del magazzino, gli scienziati che lavoravano per Kodos avevano capito che una camera di compressione, agendo sulle molecole del cibo per agitarle ed eccitarle continuamente, avrebbe impedito che le spore vi si attaccassero bruciandolo completamente. Era stata un’intuizione logica ed efficiente che però non aveva impedito la morte dell’altra metà dei coloni.
Ma ora non aveva importanza perché aveva il cibo per sé, J e Kevin. Avrebbero dovuto consumarlo velocemente, ma era già un risultato. Un punto di inizio.
Continuò a risalire la montagna, era debole e si accorse che il respiro si faceva sempre più pesante passo dopo passo, era affaticato e senza forze ma si sentiva bene per la prima volta dopo settimane.
Superò il tronco caduto che ormai usavano come punto di riferimento per raggiungere la caverna, stava seguendo il torrente e tra due punto tre ore sarebbe stato da J.
“Dove vai figlio di puttana? Quel cibo è nostro!” ringhiò una voce alle sue spalle.
Non fece in tempo a voltarsi che un pugnò si scontrò con il suo viso e lui cadde di spalle atterrando sul sacco dietro la sua schiena.
L’impatto lo confuse ma cercò di rimettersi velocemente in piedi.
“Bastardo! Vieni qui!” qualcuno lo strattonò per i capelli e questo gli fece venire l’impulso di urlare, ma non poté farlo perché il respiro gli si era bloccato nei polmoni.
“Ah sei una feccia di Vulcano. Pensavamo di averli uccisi tutti” rise l’uomo che lo tratteneva per i capelli.
Shin lo guardò cercando di rimanere impassibile, normalmente avrebbe potuto lottare con lui, conosceva cinquantadue stili diversi di combattimento e la sua forza equivaleva ad un uomo Terrestre adulto. In condizioni ottimali. Ma non mangiava un pasto proteico da quasi un mese ed era stremato dallo sforzo di quella sera, non avrebbe mai potuto lottare.
Un’altra figura si avvicinò a loro ridendo “Guarda che occhi, e c’è chi dice che questi non provano nulla. È terrorizzato” a parlare era stata una donna giovane, con lunghi capelli neri e un sorriso sprezzante.
“Dai, uccidilo e riprendiamoci il cibo” tagliò corto la donna.
“Ma no, perché non ci porti dai tuoi amichetti invece? Sicuramente hai dei complici, per chi avresti preso tutto quel cibo, ben sapendo che ti avrebbe rallentato?”
Era vero, l’uomo aveva capacità deduttive impressionanti. O forse erano solo le sue capacità ad essere completamente piombate allo stato di inefficienza assoluta dovuta alla mancanza di cibo.
“Allora? Sono qui vicino i tuoi amici? Perché non ce li fai conoscere?” ghignò l’uomo.
Shin mosse il braccio libero verso il coltello appeso alla sua cintura, doveva fare in fretta, doveva essere veloce come la luce.
“Avevo… avevo fame” disse, mentre muoveva il braccio verso la cintura “Sono da solo”.
Aveva imparato a mentire proprio bene.
I Vulcaniani sanno mentire e anche bene.
Il braccio gli fu bloccato dalla donna “Che pensi di fare, bastardo? Credi davvero che ti lasceremmo prendere quel coltello?”
L’uomo lo spinse a terra e gli tolse il coltello dalla cintura.
“Andiamo Zrog, è inutile perdere tempo con questa feccia. Uccidiamolo e riportiamo il cibo indietro”
L’uomo dal nome Zrog sorrise malignamente e gli staccò il sacco dalla schiena.
“Dov’è che i Vulcaniani hanno il cuore? Dove noi abbiamo il fegato, vero? Beh, mi piacerebbe proprio pugnalarti dritto lì in mezzo”
La guardia lanciò il sacco alla collega “Riportalo indietro, credo che resterò un po’ qui per divertirmi con questo bel faccino Vulcaniano”.
La donna roteò gli occhi al cielo “Cazzo, sei malato” e si incamminò con il sacco sulle spalle.
Shin vide il cibo, il loro cibo allontanarsi, avrebbe voluto piangere per la delusione, per la rabbia, per la tristezza. Era il cibo che avrebbe mangiato se solo fosse stato più attento, più cauto, più veloce. E invece era debole, così come la sua mente era debole. Non era più nemmeno un Vulcaniano.
“Allora, iniziamo a usare questo tuo coltellino magico?” rise Zrog.
Shin lasciò andare un mezzo sospiro, tanto valeva accettare la morte. Aveva fatto tutto il possibile per restare vivo e aveva protetto J e Kevin. Si disse che era stata una fortuna che i due lo avevano trovato lontano dal loro accampamento.
Fortuna.
Vide l’uomo aprirgli una mano e il coltello abbassarsi verso i suoi polpastrelli.
No, pensò terrorizzato.
“I Vulcaniani hanno dei polpastrelli molto sensibili, vero? Sono legati alla vostra telepatia” rise Zrog mentre la lama del coltello penetrava al centro del palmo e scendeva verso l’indice.
Shin urlò, non riuscì a trattenere il suo urlo di dolore, la testa cominciò a fare male e a bruciare come se vi fosse scoppiato un incendio. E lui non poteva spegnerlo, non poteva spegnerlo.
Zrog incise un altro polpastrello, Shin continuò a urlare.
Uccidimi, uccidimi.
Pianse, urlò, pianse ancora e ancora e ancora.
Era come morire e rinascere per morire di nuovo.
La sua testa era una melma incandescente di dolore.
Sentì solo la risata dell’uomo, il suo sospiro compiaciuto, la vista gli si annebbiò e sperò che stesse svenendo perché almeno non avrebbe sentito dolore.
Nella confusione del momento riuscì a notare l’uomo che si slacciava la cintura dei pantaloni e gli sorrideva malignamente.
Uccidimi.
Shin chiuse gli occhi ma il dolore alla testa era così forte, così forte, si sentiva accaldato, sentiva come se stesse bruciando interamente. Urlò ancora mentre l’uomo gli incideva un altro polpastrello e gli apriva le gambe.
Non sapeva se la sua tunica fosse stata slacciata, non sapeva che cosa stesse facendo l’altro. Sentiva di stare morendo e quel dolore, quel dolore lo stava uccidendo.
Sentì un vago rumore in lontananza, respirò pesantemente, pianse ancora e forse svenne. Forse no.
Gli sembrò di vedere J, gli sembrò che il peso di Zrog non fosse più sul suo corpo.
Uccidimi, uccidimi.
Pianse.
Svenne.
Non riuscì a vedere lo sguardo di J mentre stringeva il coltello insanguinato nelle proprie mani, non riuscì a vederlo nel buio, un ragazzo piccolo e affamato che aveva ucciso un uomo, per salvarlo.
Non vide nulla, non sentì nulla. Per un attimo non sentì neppure fame.
Solo dolore, solo fuoco, solo buio.
Uccidimi.
 
continua...
Grazie per aver letto fin qui.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3: La promessa ***


Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico.
Note dell'autrice: 
siamo arrivati alla fine della prima parte della storia, da qui in poi ci sarà un cambio di scenario e la storia si muoverà molto più velocemente nel tempo e nello spazio. Spero che vi stia piacendo. Baci!
P.S. ascoltate le canzoni che pubblico ad inizio capitolo, se potete, perché ogni capitolo nasce dalla canzone corrispondente :)


“Vows are spoken to be broken
Feelings are intense words are trivial
Pleasures remain so does the pain
Words are meaningless
And forgettable”
Enjoy the silence – Joseph William Morgan
 

La promessa

 
2246.6.15 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim poggiò la fronte contro il muro e chiuse gli occhi, era stremato, erano giorni che non riusciva a dormire e Kevin piangeva affamato.
Non sapeva che cosa fare, era confuso e solo. Shin era stato una costante fino a quel momento, l’unico a dargli la lucidità necessaria per lottare e ad infondergli coraggio, con lui aveva sperato che le cose potessero andare meglio e anche se erano state solamente mere illusioni Jim ci aveva creduto.  
E ora? Shin era disteso in un’incoscienza senza fine, erano giorni che il Vulcaniano non si muoveva e non si svegliava. Quella notte lo aveva riportato alla caverna, a fatica aveva trascinato quel corpo dolorante, l’amico aveva urlato per tutto il tempo, a volte aveva cercato di divincolarsi dalla sua stretta. Quando erano arrivati al loro accampamento, però, l’altro aveva chiuso gli occhi ed era crollato in un sonno dal quale ancora non si era svegliato.
Jim aveva provato a medicargli le ferite alla mano, ma non aveva potuto fare molto, se non strappare uno dei loro sacchi e con la stoffa creare un bendaggio di fortuna. Ora non sapeva che cosa fare, si sentiva totalmente inerme.
Inutile.
“Non importa cosa vuoi tu. Non sei nessuno” glielo aveva detto Frank il giorno in cui aveva deciso di gettare quella stupida Corvette giù dal burrone, il giorno in cui suo fratello Sam se n’era andato. E forse era vero, lui non era nessuno, non serviva a niente e non importava il suo volere.
Eppure… eppure Shin doveva svegliarsi, non poteva abbandonarlo ora, non dopo quello che avevano passato per arrivare fino a lì.
“J?” chiamò Kevin, Jim si avvicinò al bambino e gli si sedette accanto abbracciandolo. Sapeva che il piccolo era affamato e che quella fame lo stava divorando dall’interno, ma non poteva fare niente, non poteva uscire a cercare cibo dopo quello che aveva fatto, non poteva lasciare Shin in quello stato di incoscienza e Kevin totalmente da solo. Era solo un bambino.
E se non fosse più tornato? Che ne sarebbe stato di loro due?
Allo stesso tempo non poteva restare lì.
Erano passati giorni da quando aveva ucciso quell’uomo, molto probabilmente il suo corpo era già stato ritrovato e i militari si erano già messi sulle tracce di chi lo aveva assassinato. Si chiese cosa sarebbe successo se la loro ricerca li avesse condotti alla caverna.
“J mi racconti una storia?” chiese Kevin, aveva grandi occhi nocciola pieni di tristezza e paura. Avrebbe fatto di tutto per proteggerlo, si disse.
Ma lui ora si sentiva inutile.
Inutile.
Proprio come aveva detto Frank.
“In una caverna sotto terra viveva uno hobbit. Non era una caverna brutta, sporca, umida, piena di resti di vermi e di trasudo fetido, e neanche una caverna arida, spoglia, sabbiosa, con dentro niente per sedersi o da mangiare: era una caverna hobbit, cioè comodissima” iniziò a raccontare e sperò di poter essere come uno dei suoi eroi, come uno dei protagonisti di quei romanzi che tanto amava: impavido, gentile e valoroso.
 
 
 
2246.6.18 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“Kevin ho bisogno che tu faccia una cosa molto importante per me. Lo farai?” chiese Jim mentre il piccolo Kevin lo guardava terrorizzato.
“Dimmi che lo farai” continuò insistentemente.
“Cosa? Ti prego non andartene. Ho paura del buio” si lamentò il piccolo.
Jim si passò una mano sul volto stanco “Devo scendere in città per cercare del cibo e tu sei l’unico che può restare qui per vegliare su Shin”
Kevin guardò il Vulcaniano disteso per terra, inerme, il petto che si alzava e si abbassava al ritmo regolare del respiro.
“Voglio venire con te, J, ti prego”
Jim scosse il capo “No, non posso portarti. Hai un compito molto importante, devi controllare Shin e se si sveglia devi dire dove sono andato e che non deve preoccuparsi perché tornerò molto presto”
Il bambino sembrò pensarci su prima di annuire debolmente e biascicare un “okay” poco convinto.
Jim si avvicinò al corpo disteso di Shin e gli si inginocchiò accanto, il Vulcaniano era rilassato in quel suo sonno continuo, forse era in coma, forse non sentiva più la fame, forse era morto. Ma Jim non voleva pensare che fosse morto, voleva solo sperare di tenerlo ancora con sé e di poterci parlare il prima possibile. Era il suo unico amico, il suo punto fermo e non poteva pensare di perderlo.
“Ti prego, ti prego cerca di svegliarti. Ovunque tu sia cerca di ritornare, starò via per poco, ma ti prego non morire” gli sussurrò all’orecchio appuntito prima di lasciargli un bacio sulla fronte ed alzarsi.
Doveva ritornare in città.
 
Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato in città e non sapeva che cosa aspettarsi. Shin non aveva potuto dirgli nulla sulla sua ultima spedizione, sapeva solamente che qualcuno lo aveva seguito e aveva cercato di ucciderlo.
Gli vennero in mente le immagini della notte in cui Shin era stato aggredito, le risate del militare mentre torturava il suo amico, le urla disperate, i gemiti e lui che si avvicinava silenzioso, estraeva il coltello dalla cintura e, raccogliendo tutte le forze nel suo corpo, affondava la lama nel collo morbido ed esposto della guardia.
Il coltello non aveva trovato nessuna resistenza, la carne si era aperta sotto il metallo e il sangue aveva iniziato a zampillare dalla gola come un fiotto impazzito più scuro della notte. Mentre fissava il fiotto di sangue le sue mani avevano cominciato a tremare e lui si era vagamente reso conto del coltello macchiato stretto nel pugno. Per un attimo si era bloccato senza sapere che cosa fare, aveva guardato l’uomo afflosciarsi al suolo e lui era rimasto fermo e confuso. Aveva ucciso un uomo. Aveva ucciso.
Scosse il capo per cercare di allontanare quelle immagini dalla sua mente come se bastasse quel gesto a cancellarle, in cuor suo sapeva che non le avrebbe mai dimenticate. Lui era ormai un assassino e questo suo peccato non sarebbe mai stato perdonato.
Avvicinandosi alla città scorse delle luci in lontananza e delle voci che rimbombavano nell’aere, come se fossero amplificate. C’erano altri suoni, altri rumori e sembrava che l’intera colonia fosse sveglia.
Tremò al solo pensiero di dover fare retromarcia e ritornare alla caverna a mani vuote.
“-il cibo è stato consegnato ai restanti coloni di Tarsus IV, chi tenterà di rubarlo sarà giustiziato pubblicamente nella Piazza Centrale. A voi fuggitivi, dispersi tra le montagne, sappiamo che ci siete ma non vi abbiamo seguito poiché sarà la fame ad uccidervi o a farvi uscire allo scoperto. Io sono qui, vi aspetto
Era la voce del Governatore Kodos e le luci che aveva visto poco prima erano le innumerevoli riproduzioni olografiche del suo discorso.
Vi aspetto.
Se solo avesse potuto avvicinarsi a Kodos, pensò sfiorando il coltello appeso alla sua cintura, allora forse non avrebbe esitato ad ucciderlo. Solo pochi giorni prima aveva ucciso quell’uomo senza pensarci due volte.
Era diverso, stavi proteggendo Shin.
Sarebbe riuscito ad uccidere a sangue freddo?
Forse sì, forse no. Ormai non riconosceva più sé stesso.
Secondo quanto riportato dal messaggio registrato, tutte le provviste erano state distribuite ai coloni, dunque avrebbe dovuto infiltrarsi in una casa abitata – e molto probabilmente sorvegliata – per riuscire a trovare del cibo.
Si fece forza e decise di continuare a camminare, non aveva molta scelta e doveva mangiare.
La fame era un perenne dolore, una costante presenza che gli stringeva il corpo in una morsa fredda e lo divorava lentamente dall’interno. Non poteva più resistere e nemmeno gli altri potevano. Era finita, doveva tentare.
Si addentrò tra i vicoli della colonia che portavano al cuore della città, le grandi ville decorate lasciavano intendere di essere abitate da persone importanti, di sicuro lì avrebbe trovato i membri di valore della comunità.
Camminò furtivamente tra le strade, le ville illuminate dalle luci erano protette dalle squadre di sicurezza, era impossibile avvicinarsi o pensare di entrare. La zona era completamente sorvegliata ed era un rischio anche solo essere lì. Doveva pensare ad altro, farsi venire un’idea. Doveva lottare o morire.
Continuò a camminare per cercare un punto qualsiasi in cui potersi infilare ma prima di proseguire per attraversare la strada venne attratto da un sibilo frettoloso. Si acquattò ancora di più contro il muro mentre si guardava intorno con circospezione. Era paralizzato dalla paura.
Pochi secondi dopo sentì un bisbiglio e poi un altro e un altro ancora, sembrava che qualcuno stesse parlando, si rese conto che i suoni provenivano dall’angolo alla sua sinistra e lui era indeciso se proseguire o scappare il più lontano possibile da lì. Si disse che di certo non potevano essere delle guardie o non avrebbero bisbigliato, il che poteva fare di quelle persone dei fuggitivi come lui, affamati come lui. E se lo avessero aggredito?
Sentì la paura aumentare nel suo petto ma si rese conto di trovarsi ad un bivio e l’unica altra scelta, oltre il palesarsi, era tornare indietro a mani vuote.
Si fece coraggio e continuò a camminare seguendo i bisbigli.
“Sei una testa d’asino! Come pensi di entrare?”
Ora le voci erano distinguibili e colui che aveva parlato si trovava ad una distanza minima, appena svoltato l’angolo lo avrebbero visto.
Decise di restare ancora nascosto e di anticipare la sua presenza, si fece coraggio e inspirò profondamente prima di bisbigliare con quanta più enfasi possibile “Hey”.
Le voci si zittirono e per qualche secondo nessuno rispose.
E se fossero state delle guardie che gli stavano tendendo una trappola?
“Hey, mi chiamo J, voi… voi chi siete?”
Pregò con tutto sé stesso di non aver sbagliato e di non aver firmato la propria condanna a morte con le sue stesse mani.
“Sei un fuggitivo?” gli rispose poco dopo la voce di una ragazza, o almeno sembrava, in quei sussurri non riusciva a distinguere neppure il proprio tono di voce.
“S-si”
Sentì un mormorio indistinto, poi dei passi. Avevano deciso di uscire allo scoperto e lui era da solo, con un coltello come arma e senza forze.
Strinse spasmodicamente il coltello e lo tenne fermo davanti a sé ma nell’ombra prodotta dalle luci delle strade riuscì a vedere una figura poco più bassa di lui, esile e con folti capelli ricci. Era una ragazzina.
“Metti giù quel coso, K’rut” sibilò l’altra, agitata.
Jim notò che dietro la figura comparivano altre tre persone, anche loro giovani, molto probabilmente avevano la sua stessa età.
Abbassò lentamente il coltello ancora insicuro sulla propria incolumità.
“Io… io sono J. Siete da soli?” chiese cercando di tenere a freno il tremolio nella propria voce, non voleva apparire spaventato.
“Si” parlò la ragazza “siamo soli. Io mi chiamo Julia, loro sono Tom e Solok”
Solok.
Solok.
“Tu… tu sei un Vulcaniano! Eri all’istituto, eri stato assegnato alla mia classe”
Il vulcaniano si fece avanti, parzialmente illuminato dalla luce artificiale Jim vide che era completamente diverso dopo quasi un mese passato nella fame e nella fuga. Era magro e pallido, aveva i capelli più lunghi e disordinati, gli abiti consumati. Gli altri ragazzi non erano in una situazione migliore.
Si disse che lui, Shin e Kevin non avevano un aspetto migliore, ma almeno erano puliti grazie alla vicinanza al ruscello.
“Ci sono altri tre ragazzi che ci aspettano sulle montagne. Se sei da solo puoi unirti a noi” rispose il Vulcaniano, senza davvero rispondere alla sua domanda. O aveva semplicemente affermato qualcosa di evidente.
“Io non sono solo, ho degli amici che mi aspettano, siamo accampati in una grotta sulle montagne, noi… io sono sceso per cercare cibo. Il mio… ah, amico, Shin, è Vulcaniano, è stato ferito e sta molto male. Credo sia entrato in coma o qualcosa del genere”
Julia si fece avanti “J, giusto? Mi dispiace per il tuo amico. Purtroppo qui non c’è modo di recuperare del cibo, abbiamo fatto il giro di tutto il quartiere e le ville sono… impenetrabili
Jim sospirò affranto, aveva immaginato quanto sarebbe stato difficile ma non credeva che fosse impossibile. Eppure non era solo, ora c’erano altri con lui e forse, forse avrebbe potuto pensare a qualcosa.
“Sentite, volete recuperare il cibo? Facciamo un patto: io vi aiuto e voi aiutate me e i miei amici” iniziò a parlare, gesticolando animatamente “c’è una villa a pochi metri da qui, ci sono passato poco fa, è la più esterna e la più vicina al buco nella recinzione elettrica. Dal momento che conosciamo la breccia nella recinzione sarà facile uscire velocemente. Se uno di noi distraesse le guardie e scappasse il più velocemente possibile gli altri potrebbero sfruttare la distrazione per entrare, saccheggiare e scappare” spiegò animatamente.
“Tuttavia il capro espiatorio sarebbe inseguito non solo dalle guardie assegnate alla villa, ma anche da quelle che pattugliano le strade” si intromise Solok.
Jim annuì “Lo so, ma è un rischio che bisogna correre. Solok è logico tentare di tornare con del cibo o morire provandoci”
“Trovo la tua logica fallace”
“Ma è un buon piano” si intromise Tom con un sorriso sghembo “se solo potessimo fidarci di te”
Jim grugnì di disappunto “Ancora non vi fidate di me? Sentite, ho dei ragazzi che mi stanno aspettando, uno in coma e l’altro ha nove anni. Ho davvero bisogno di portare loro del cibo”
“Così come noi” rispose Tom.
“E allora credetemi! Farò io da esca, mi farò seguire e ci incontreremo tra le montagne. Uscendo dalla breccia andate ad ovest, camminate esattamente per due punto sei chilometri troverete un tronco caduto, lì vi attenderò io”
I ragazzi si guardarono tra loro, senza parlare, Julia annuì – doveva essere lei la leader del gruppo – e ritornarono a voltarsi verso di lui.
“Va bene, J, affare fatto. Ci incontreremo al tronco. Muoviamoci ora”.
 
Durante il primo anno alle scuole medie, sulla Terra, Jim non aveva avuto molto interesse negli sport, gli piacevano la corsa ad ostacoli e gli sport fisici di lotta ma non era mai entrato in qualche squadra, né aveva praticato gli sport seriamente. Aveva spesso passato il suo tempo libero a leggere, studiare, guardare il cielo e le stelle.
Molto spesso aveva fantasticato su suo padre e sull’uomo che era stato, a bordo di una nave spaziale, con sua madre al proprio fianco mentre viaggiavano verso nuove e ignote avventure.
Non era mai stato attratto dagli sport sebbene fosse fisicamente in forma e avrebbe potuto eccellere se solo ci avesse messo abbastanza impegno.
Eppure ora non era così, ora che l’adrenalina scorreva nelle sue vene facendo pompare il suo cuore due volte più velocemente, ora che le sue gambe si muovevano veloci e i suoi piedi sembravano non toccare il suolo, ora che scappava da morte certa, beh, ora gli sport non gli erano mai sembrati più utili.
Correva, Jim, come aveva corso il giorno della condanna, correva per salvarsi, per salvare; se i ragazzi avevano avuto successo allora avrebbe portato del cibo a Kevin e Shin. Allora avrebbe fatto qualcosa di buono.
Uno dei laser gli sfiorò il braccio, ma lui non si fermò, riuscì a gettarsi sotto la breccia della rete elettrica e a rialzarsi in fretta per dirigersi verso le montagne.
Il dolore al braccio cominciò a pulsare ma lui non lo degnò neppure di uno sguardo, continuò a correre, invece, perché doveva tornare indietro, doveva tornare a casa.
 
Arrivò al tronco e vi si nascose dietro. Se i ragazzi avevano avuto successo, allora sarebbero stati lì più o meno dopo un’ora dal suo arrivo. Sperò di non essersi sbagliato su di loro e che non decidessero di tradirlo.
La sua sopravvivenza dipendeva dalla fiducia che aveva riposto in quei tre sconosciuti e anche se lui non era bravo a fidarsi – Shin era un’eccezione – aveva voglia di sperarci con tutto sé stesso.
 
Dopo quasi un’ora e trenta minuti Jim notò delle figure avvicinarsi al punto d’incontro. Erano tre figure e non sembravano adulte. Sentì il cuore leggero e per poco non pianse.
Per poco, pensò, asciugandosi una lacrima.
 
I quattro ragazzi camminarono a lungo in direzione della caverna in cui Shin e Kevin erano rimasti. Avrebbero proseguito insieme per due punto otto chilometri, dopodiché Julia e Tom sarebbero andati a prendere gli altri ragazzini che erano rimasti al loro rifugio, mentre Solok e Jim – insieme al cibo che avevano recuperato – avrebbero proseguito per la fonte del fiume e li avrebbero aspettati alla caverna.
Nonostante avessero considerato che stare insieme poteva essere una scelta pericolosa, poiché se anche uno di loro fosse stato catturato e torturato avrebbe potuto mettere in pericolo tutti gli altri, avevano decretato che una squadra numerosa era anche una squadra più forte. Valeva la pena correre il rischio. Jim guidò il piccolo gruppo nel silenzio della notte interrotto solo dai loro respiri affannati e dai passi che si abbattevano sul sottobosco. Nella sua mente continuava a pensare a Shin e al modo per riportarlo indietro, ovunque fosse e qualunque cosa stesse accadendo al suo corpo.
 
“È in uno stato di trance indotta dalla mente, i Vulcaniani entrano in uno stato mentale di calma in grado di curare le proprie ferite mortali. Tuttavia, considerando il suo svantaggio, ha poche speranze di uscire da solo dallo stato in cui la sua mente si è rintanata” spiegò Solok mentre osservava attentamente Shin.
Jim scosse il capo, era troppo confuso per riuscire ad afferrare tutte le parole del Vulcaniano, ma si azzardò a chiedere “Tu potresti curarlo? Potresti riportarlo indietro?”
L’altro lo guardò a lungo, con uno sguardo imperscrutabile, prima di rispondere “Sono fisicamente e mentalmente debole, sarebbe meglio evitare l’intervento”
“Ti prego, Solok, ti prego. Riportalo indietro se… se non ci provi potrebbe anche non svegliarsi mai. Io… io ho bisogno di lui
Si vergognò quasi delle proprie parole ma non poteva fare a meno di pregare, chiedere che l’altro riportasse indietro Shin. Era il suo unico amico, la sua costante, il suo punto focale. Senza di lui si sentiva solo e non sarebbe andato avanti. Non ce l’avrebbe mai fatta.
“Perché ti preoccupi tanto per un Vulcaniano? La tua enfasi è peculiare”
Non poteva costringere Solok a capire ed accettare la sua disperazione ma doveva insistere, doveva fargli capire che per lui Shin era importante.
“Lui… lui è mio amico. Lui mi ha salvato la vita più volte e… io ho davvero bisogno che lui sia al mio fianco” biascicò abbassando lo sguardo.
Solok si spostò accanto a Shin, portandosi in ginocchio, si chinò sul viso del giovane e portò quattro dita in punti diversi sul suo volto “Molto bene, J, proverò a portare indietro il tuo amico”.
 
Erano passate diverse ore da quando Solok aveva poggiato le mani sul volto di Shin, Jim non riusciva a definirle con precisione, tuttavia queste erano volate quando nella caverna avevano fatto la loro comparsa Julia e Tom insieme a tre ragazzini piuttosto spaventati, erano molto piccoli – probabilmente della stessa età di Kevin – e nessuno dei tre aveva detto ancora una parola. Julia gli aveva detto i loro nomi: John, Shran e Anton. Shran era Andoriano e sembrava il più piccolo e spaventato.
Tom e Jim avevano finalmente messo le proprie mani sul cibo che avevano raccolto, i tre ragazzi avevano fatto un ottimo lavoro nella villa. Ascoltando il loro racconto Jim si disse che, oltre alla bravura, erano stati davvero fortunati. Ovviamente se si poteva considerare fortuna il rubare del cibo su un pianeta infettato da spore velenose, mentre il Governatore gli dava la caccia dopo averli condannati a morte.
La fortuna, si disse Jim, era un concetto davvero strano.
Illogico, avrebbe detto Shin.
Tuttavia Tom gli aveva raccontato che quando erano entrati nella villa non avevano trovato nessuno, molto probabilmente i suoi inquilini erano fuori e le uniche persone preposte a sorvegliare il cibo erano le guardie che Jim aveva distratto. Solok aveva velocemente creato un sacco strappando le tende della cucina e i tre avevano intercettato il compressore dove erano stati riposti gli alimenti destinati a quella famiglia. I tre non avevano avuto il tempo di girare per l’abitazione, ma Tom suppose che dovesse appartenere a gente molto ricca, considerando il mobilio pacchiano e la grandezza del posto.
“Quello che non capisco” li interruppe Julia “è il perché Kodos non faccia altro oltre a cercare di ucciderci tutti e suddividere il cibo rimanente”
“Beh, per loro saremmo delle bocche da sfamare in più e, considerando che siamo la feccia di questa comunità, per lui è logico eliminarci e permettere la sopravvivenza dei più valorosi” rispose Jim, mentre metteva da parte una scatola di fagioli precotti cercando di frenare l’istinto che gli diceva di aprirla e divorarla, senza pensarci due volte.
“Certo, questo l’ho capito. Ma J, è assurdo, metà del cibo della colonia è andato distrutto ormai sarà passato un mese, quanto ancora durerà il cibo rimasto? Perché Kodos non ha cercato di chiedere aiuto piuttosto che pensare a decimare la popolazione?”
Jim scosse il capo “Una cosa non esclude l’altra. Forse Kodos ha davvero chiesto aiuto e forse non ha ottenuto risposta. Per questo motivo ha preso in considerazione l’esecuzione. O forse no, non lo sapremo mai immagino”.
Jim pescò due confezioni dal sacco improvvisato e osservò attentamente il cibo tra le sue mani, il suo cuore perse un battito e lui si trovò ad inspirare profondamente e cercare di non dare nell’occhio. Strinse le due confezioni e si disse che doveva tenere quelle due scatole solo per sé, avrebbe dato via tutte le sue razioni di cibo, ma doveva tenere quel cibo solo per sé.
Un basso mugolio li distrasse tutti, Solok stava aprendo gli occhi e sul volto di Shin era comparsa una smorfia di dolore. Jim non ci pensò due volte prima di infilare le due scatole nel sacchetto che portava appeso alla cintura, ci infilò anche il coltello e si alzò in fretta.
“Cosa sta succedendo? Ce l’hai fatta? L’hai guarito?” chiese a Solok mentre questi si rimetteva in piedi.
“Suppongo che gran parte del lavoro l’abbia fatto la sua stessa mente, ha fermato l’emorragia di sangue dalla mano così che non costituisse un pericolo mortale per lui, in ogni caso ho stimolato la sua mente e dovrebbe essere in grado di svegliarsi tra poco”
Jim sospirò tutto il suo sollievo e si trattenne dal saltare su Solok per abbracciarlo.
Si disse che, tutto sommato, per quanto strano fosse il concetto di fortuna, in quel momento gli piaceva davvero essere fortunato.
 
 
 
2246.6.19 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Shin sedette ancora un po’ sul bordo parallelo alla cascata, guardava l’acqua gettarsi nel torrente che sinuoso si muoveva tra le montagne cercando di raggiungere la città. Prima dell’arrivo dei coloni, la città era stata un lago, tuttavia quando i primi pellegrini avevano pianificato la colonia, avevano deciso di prosciugarlo e raccogliere l’acqua del pianeta nei serbatoi che circondavano la vallata.
Jim fissò per un po’ l’amico prima di uscire dalla grotta e avvicinarsi a lui, tutti gli altri stavano ormai dormendo e anche Solok – che fino a poco prima aveva meditato – si era assopito. Erano gli unici due ancora svegli, ma ora che Shin si era svegliato Jim si rese conto di non voler dormire per niente al mondo.
Avevano cercato di mangiare quanto più cibo possibile, quella sera stessa gran parte di quello che avevano rubato sarebbe stato bruciato dalle spore velenose.
“Hey” disse, sedendosi accanto all’amico.
Shin lo guardò ma non disse nulla, si limitò a voltarsi di nuovo verso il torrente.
Molto probabilmente se non fossero stati dei fuggitivi su un Pianeta maledetto quel momento sarebbe stato un momento felice, tra due amici che condividevano un pomeriggio di tranquillità.
Ma erano solo dei fuggitivi su un Pianeta maledetto.
“Io… so che forse sto sbagliando ma-”
“Grazie per avermi salvato quella notte” lo interruppe Shin guardandolo di nuovo.
Jim scosse il capo “Non devi. È stata solo fortuna”
Fortuna.
“No, non lo è stata. Hai ucciso quell’uomo e se non lo avessi fatto lui avrebbe ucciso me” mormorò il Vulcaniano.
Jim annuì guardando gli alberi che circondavano la grotta e la scarpata, le radici facevano capolino tra le rocce del dirupo e in basso, verso il ruscello, ondeggiavano steli d’erba mossi dalla brezza e dal flusso dell’acqua in movimento.
“Sono un assassino, ora”
“No, non lo sei. Lo hai fatto per proteggere la mia vita”
Nessuno dei due parlò, il silenzio si innalzava tra di loro accompagnato dai rumori del bosco, e non era fastidioso e neppure opprimente, era un caro amico che li cullava nel dolce dolore che stavano vivendo.
“Noi Vulcaniani non uccidiamo. Non prendiamo la vita degli altri esseri viventi, per noi la vita è tanto sacra quanto abominevole toglierla. È il motivo per cui non mangiamo la carne” continuò.
Jim annuì di nuovo “È questo che sono, dunque? Un abominio?”
Shin lo fissò intensamente “Sono davvero pochi i casi in cui un Vulcaniano potrebbe uccidere. Per proteggere un familiare o per proteggere il proprio compagno. Quella notte tu mi hai protetto e facendolo hai tolto la vita, è un debito che non potrò mai ripagare. Tuttavia io ti sono riconoscente per ciò che hai fatto”
Jim chiuse gli occhi e respirò lentamente.
Non sapeva che cosa provare in quel momento, sentiva che sarebbe potuto precipitare nello sconforto in qualsiasi momento se si fosse fermato a pensare davvero a ciò che aveva fatto.
Ma non poteva farlo, non poteva crollare e trascinare tutti dietro con sé. Doveva resistere e farlo con tutte le forze che possedeva. Avevano una notte ancora lunga davanti ma doveva pur spuntare il sole prima o poi.
Riaprì le palpebre e sorrise “Ho un regalo per te” sussurrò portando le mani al sacco appeso alla cintura, si guardò intorno prima di estrarre due scatole in silicone e tenderle all’amico.
Shin le prese e le osservò a lungo.
La prima volta che Jim aveva visto un Vulcaniano aveva pensato che molto probabilmente avessero ragione coloro che li consideravano dei computer umani. Sul loro viso non c’era l’ombra di un’espressione, nessuna emozione, neppure nella loro voce. Quando aveva rivisto Solok, a distanza di un mese dalla condanna, il Vulcaniano non aveva lasciato trasparire nessuna emozione sul suo volto pallido. Tuttavia Shin era diverso, e questo Jim lo aveva notato dal primo giorno in cui l’altro gli aveva salvato la vita.
Shin guardava le scatole e forse per chiunque altro il suo sarebbe stato un volto privo d’espressività o di emozione, ma non per Jim che vide quei grandi occhi scuri riempirsi di emozione, le palpebre abbassarsi leggermente, un tremolio del labbro, la presa irrigidirsi sulle due confezioni.
Quando Shin lo guardò il suo volto era tutt’altro che una lastra di impassibile freddezza e mero calcolo, ma era un dipinto bellissimo di emozioni umane, rispetto, gratitudine, commozione, tristezza, gioia.
Jim sorrise mentre Shin mormorava “È zuppa di Ploomek”.
Il Terrestre annuì e di getto circondò l’altro con le proprie braccia, toccò un corpo solido, troppo sottile, troppo magro e con troppe ossa esposte. Eppure era solido e vivo. E anche se erano solo dei fuggitivi su un Pianeta maledetto quel piccolo momento di pace apparteneva solo a loro e lo stavano vivendo intensamente.
 
 
 
2246.6.24 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
Jim strinse al petto il piccolo Kevin mentre piangeva disperato, lo cullava tra le braccia da ormai un’ora. Gli altri ragazzi erano appiattiti contro le pareti della caverna con le mani premute sulle orecchie e gli occhi chiusi.
Shin era seduto accanto a lui e guardava fisso la parete di roccia che aveva di fronte come se potesse trovare una spiegazione al delirio in cui stavano vivendo.
Un boato si propagò fuori dalla caverna, la terra tremò e sembrò che l’intero Pianeta stesse vibrando con lei, Julia rilasciò un urlo spaventato e si strinse contro Shran. Solok lanciò un’occhiata fuori dalla caverna e sebbene il suo sguardo non lasciasse trasparire alcuna emozione, Jim sapeva che il Vulcaniano era preoccupato e spaventato.
Tutti loro erano tutti spaventati, anzi, erano terrorizzati.
“Non voglio morire, J, che cosa succede?” piagnucolò il piccolo Kevin.
Jim inspirò profondamente e scosse il capo, si voltò a guardare Shin prima di trovare il coraggio di parlare “Non lo so, Kev, non lo so cosa succede. Ma noi siamo lontani dalla città. Siamo al sicuro, qui”
Shin lo fissò di rimando con i suoi occhi scuri profondi e impenetrabili. Si guardarono a lungo e seppero, comunicarono, perché era evidente che ciò che aveva detto era solo una menzogna. Sapevano benissimo che cosa stava accadendo ma non volevano terrorizzare ancora di più i ragazzi più piccoli e forse dirlo ad alta voce avrebbe terrorizzato troppo anche loro.
Era passata una settimana dalla loro ultima incursione in città, in quei lunghi giorni avevano patito la fame ma non avevano osato rischiare. Erano senza forze, così deboli da aver perso anche la capacità di soffrire.
Era chiaro. Così chiaro da fare paura, così chiaro da far tremare la terra.
Il cibo su Tarsus IV era ufficialmente finito.
Ed era lì che la ribellione dei civili aveva inizio.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell'altra parte” iniziò Jim e tutti gli occhi si puntarono su di lui.
Erano diretti al cielo? Erano diretti alle tenebre?
Erano diretti alla luce?
Nessuno di loro lo sapeva e nessuno di loro se lo chiedeva da tempo. Erano soli, affamati, stanchi, in un inferno senza fine costruito solo per loro, nove ragazzini al di là del tempo.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore.
Shin lo guardò, i suoi occhi scuri brillarono nel buio, lo sondavano mentre Jim continuava a raccontare. Le sue parole erano un unguento per la paura, una distrazione dall’abisso che li stava inghiottendo.
Continuò a parlare fino a che un’altra bomba esplose distruggendo la quiete.
Continuò a parlare e lo fece finché non ebbe più le forze per continuare a parlare.
 
 
 
2246.6.26 calendario della Flotta Stellare, Pianeta Tarsus IV
 
“J! J, corri! Corri! Stanno arrivando! Dobbiamo scappare” urlò Anton uscendo dalla caverna. Il ragazzino Terrestre era pallido, troppo magro, aveva le guance scavate e gli occhi cerchiati di nero gli davano l’aria di uno spettro, uno di quelli che Jim aveva visto solo nei film olografici.
Il bambino si scontrò contro di lui e per poco non caddero entrambi giù dalla rupe.
“Che succede?” chiese allarmato.
“Stanno arrivando! Ci sono delle persone, Tom li ha visti mentre perlustrava la zona, dobbiamo andarcene! Hanno i fucili”
Sentirono degli spari poco lontano, Jim constatò che erano abbastanza lontani da dargli un po’ di vantaggio ma troppo vicini da metterli in guardia. Scapparono entrambi verso la caverna dove gli altri ragazzi si stavano preparando per partire.
Non avevano niente con loro, se non le carcasse dei corpi denutriti che si trascinavano stancamente dietro.
“Andiamo! Risaliremo la montagna e cercheremo riparo dall’altra parte” disse “dobbiamo dividerci, così non saremo catturati tutti se dovessero arrivare a noi. Julia, Tom, prendete Shran e John e risalite verso ovest, Solok prendi Kevin e Shin e risalite a nordovest. Io resterò indietro e cercherò di depistarli creando false tracce”
Shin si fece avanti con lo sguardo determinato ma Jim alzò una mano dinanzi a sé “Non accetto proteste! Sei ancora debole dopo le ferite che hai riportato, è logico che sia io a depistarli. Ci incontreremo dall’altra parte”
Solok li fissò entrambi ma J non riuscì a leggere l’espressione del Vulcaniano, poi annuì “Dobbiamo andare”.
Jim si avvicinò a Shin e gli prese le mani tra le sue, il Vulcaniano sussultò sgranando gli occhi “Ci ritroveremo. Non importa come, non importa dove, ci ritroveremo. Tornerò da te”
Shin lo guardò come se fosse combattuto tra la voglia di obbedire e quella di abbatterlo per poterlo trascinare con sé ma alla fine si arrese e annuì anche lui.
Jim lo abbracciò, erano giorni che quel gesto continuava a ripetersi e nessuno dei due aveva detto nulla al riguardo. Quando si abbracciavano era l’unico momento in cui entrambi riuscivano a trovare un po’ di leggerezza e pace in quell’inferno in cui stavano precipitando.
“Resta vivo” sussurrò Jim prima di lasciarlo andare.
 
Cosa succede? Pensò, aprendo gli occhi.
Era steso a terra, gli faceva male il petto e sentiva le gambe pesanti, cercò di mettere a fuoco la vista ma sembrava che una patina rossa fosse calata sul suo viso e gli impedisse di vedere.
Provò a mettersi seduto ma si sentì spingere di nuovo a terra, c’erano mani intorno a sé che lo stavano toccando e sondando ogni centimetro del suo corpo.
Respirò a fatica, lo avevano colpito alla schiena e molto probabilmente avevano continuato a picchiarlo dopo che era caduto incosciente, ora sentiva i polmoni bruciare.
Aveva cercato di seminarli, di depistarli quanto più possibile, correndo impazzito per lasciare false tracce dietro di sé ma lo avevano raggiunto e ora lo tenevano inchiodato al suolo come fosse un oggetto inanimato o un pupazzo inerme. Era senza forze, era affamato, era stanco e forse, forse, era pronto a morire.
Che lo avessero pure ucciso, pensò, non gli importava più. Era ormai troppo tardi.
Aveva mandato via tutti, li aveva salvati dall’arrivo delle bestie, il suo compito era finito e lui poteva anche morire. Pensò a Shin, ai suoi occhi scuri e profondi, al suo sguardo risoluto, agli abbracci che si erano scambiati, alle parole non dette.
Ripensò al giorno in cui avevano trovato le pesche, al giorno in cui avevano mangiato il Freok, ripensò a quando avevano trovato Kevin, agli abbracci dati, alle parole dette, ripensò alle loro mani unite, allo sguardo del Vulcaniano quando gli aveva teso la zuppa di Ploomek confezionata. Ripensò al militare che aveva ucciso per proteggere Shin, al suo sangue che zampillava dalla ferita. Ripensò a tutto e a niente, era pronto a morire.
Era stato davvero il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l'epoca della fede e l'epoca dell'incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l'inverno della disperazione. Avrebbe solo voluto parlare, avrebbe solo voluto dire addio.
Ma le parole non erano necessarie, erano solo di troppo.
Scusami, Shin pensò Jim, sembra proprio che non riuscirò a raggiungerti, alla fine.
Sentì un colpo abbattersi contro la tempia destra, emise un suono alieno, irriconoscibile, ma non poteva fare nient’altro. Le orecchie fischiarono e il rosso accecante sui suoi occhi sembrò aumentare la propria intensità, divenne sempre più caldo, più denso, più scuro. Finché non divenne buio e poi svenne.
 
Aprì gli occhi e si trovò disteso sotto un cielo grigio mentre una pioggia di cenere lo ricopriva e il fumo denso gli entrava nei polmoni avvolgendoli dolorosamente.
Provò a respirare profondamente ma fu colpito da un colpo di tosse così forte da fargli scendere le lacrime.
Si guardò intorno mentre cercava di mettersi seduto, era sicuramente stato portato in città, riconosceva le case intorno a sé ma era stato abbandonato in qualche stradina secondaria. Forse lo avevano creduto morto e lo avevano gettato via come un corpo senza più alcun valore.
Si alzò lentamente a sedere e per un attimo la sua mente non riuscì a registrare ciò che i suoi occhi stavano guardando, percepì solamente la cenere che gli cadeva sul volto. Poi si rese conto, si guardò intorno e vide.
Era circondato dai corpi, tutto intorno a sé c’erano corpi distesi, immobili, con gli occhi sgranati e senza vita, le bocche ancora semiaperte e le membra disarticolate.
Un conato di vomito gli risalì alla gola e dovette lottare per mantenere giù la bile, non avrebbe potuto vomitare nient’altro. La puzza di fumo lo stava avvolgendo e gli occhi pizzicavano dall’aria rarefatta, doveva provare ad andare via da lì. Doveva scappare. Si fece forza sulle braccia per portarsi carponi, era stremato e il petto faceva male come se avesse una lama infilata direttamente nello sterno, ma cercò di trovare le energie per mettersi in piedi.
Si alzò lentamente e traballò per un po’ prima di mantenersi in una posizione relativamente stabile.
Cammina, Jim, ora cammina.
Cercò di muovere le gambe ma queste non rispondevano ai comandi del suo cervello, sembravano immobilizzate.
Sentì degli spari provenire da un’altra parte della città e sapeva di doversi allontanare da lì o sarebbe stata la fine per lui, così decise di reggersi alle mura per potersi dare la spinta necessaria a muovere le sue articolazioni. Camminò il più velocemente possibile, nonostante riuscisse a fare pochi passi per volta, ma doveva continuare a lottare.
Non sapeva dove stesse andando e neppure che cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, era troppo debole per scalare la montagna ma non poteva restare in città dove sarebbe stato troppo esposto. Non sapeva che cosa stesse accadendo, che cosa fosse successo, ma era certo che i civili si stavano ribellando al Governatore e alle sue forze militari e forse lo stesso esercito si era ormai ammutinato.
Era una lotta all’ultimo sangue, una lotta in cui tutti combattevano contro tutti e lui era proprio al centro.
Camminò ancora, non sapeva quanta strada avesse percorso fino a quel momento, tutto quello che sapeva era che aveva necessità di fermarsi, di crollare, di morire lì.
Inciampò contro un gradino e cadde battendo la testa, era così stanco, così debole.
Debole.
Si accorse di essere ai piedi di una gradinata, tentò di guardare in alto e vide il palco, il podio dove Kodos aveva tenuto il suo discorso il giorno della condanna. Lasciò andare una risata amara, incredula, arrabbiata.
“Sono ritornato qui, alla fine” sussurrò, ma il solo movimento delle labbra gli provocò un altro conato di vomito.
Tentò di rimettersi in piedi ma con scarsi risultati, crollò di nuovo contro le scale.
Sospirò chiudendo gli occhi, non c’era più nulla da fare, era finito.
Sorrise e si distese in maniera malconcia sulla scala, avrebbe aspettato lì la morte mentre guardava un cielo plumbeo ricoperto dal fumo e mentre la fame lo mangiava lentamente dall’interno, il sangue gli bagnava il volto e la solitudine gli faceva compagnia come una vecchia amica.
Avrebbe aspettato solo la morte, nient’altro.
Non puoi fare più niente, Jimmy.
Chiuse gli occhi e si abbandonò al dolore e al piacere, si rilassò immaginando la fine, immaginando il suo corpo freddo e immobile, la pace che lo avrebbe atteso alla fine della sua vita.
Ricordò Shin e sorrise, in quell’unico, stanco istante, si disse che nonostante tutto, aveva avuto fortuna. L’ultimo pensiero fu l’immagine di Shin, poi svenne e non seppe più nulla, non sentì più niente.
Svenne e non sentì i passi che si muovevano velocemente verso di lui, non vide la tenente Kenzo avvicinarsi a lui con gli occhi sgranati mentre guidava una squadra di soccorso verso il palazzo del Governatore Kodos.
Non vide nulla, non sentì nulla, non disse nulla.
Le parole erano davvero irrilevanti.
 
 ...continua
Grazie per aver letto fin qui.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4: Il peccato ***



Disclaimer: Star Trek non mi appartiene, quanto scritto è tutto frutto della mia fantasia e tutti i contenuti sono creati per diletto senza alcun fine economico.
Note dell'autrice: 
perdonatemi per il ritardo e per il mancato aggiornamento della scorsa settimana, purtroppo il lavoro ha portato via gran parte del mio tempo e non ho potuto dedicarmi alla pubblicazione. Spero che la storia vi stia piacendo, vi consiglio di tenere sotto controllo le date stellari all'inizio di ogni paragrafo poiché da qui in poi non ci sarà un crescendo cronologico, piuttosto un insieme di pezzi di vita mescolati tra passato, presente e futuro. Fatemi sapere cosa ne pensate e buona lettura!

“Angels with silver wings
Shouldn't know suffering
I wish I could take the pain for you
If God has a master plan
That only He understands
I hope it's your eyes He's seeing through”
Precious – Depeche Mode
 

Il peccato

 
2255.5.22 calendario della Flotta Stellare, San Francisco, Accademia della Flotta Stellare
 
Spock digitò velocemente sulla tastiera le rimanenti stringhe di codice prima di avviare il test-retest che avrebbe studiato a fondo il programma durante la notte. Si aspettava che l’indice di affidabilità fosse del novantanove punto nove percento con uno scarto dello zero punto uno percento.
Avviò velocemente il programma e si alzò dalla sedia per dirigersi verso l’uscita del suo ufficio.
Era diventato Comandante Istruttore all’Accademia della Flotta Stellare da due punto quattro mesi e il primo compito che gli era stato affidato riguardava la progettazione del test finale che i cadetti del Dipartimento Comando avrebbero dovuto sostenere prima della loro promozione. Spock si era dedicato totalmente alla progettazione teorica del test, che aveva presentato agli Ammiragli e ai Direttori di dipartimento, e tutti avevano acconsentito alla sua proposta, intimandogli di renderla operativa entro l’inizio del successivo semestre accademico. Aveva ancora tre punto diciassette mesi dinanzi a sé ma si era deciso ad ultimarlo subito così da potersi concentrare su alcuni esperimenti che intendeva portare a termine collaborando con il laboratorio di Fisica.
Scese le scale infilandosi la giacca che sua madre gli aveva regalato in virtù del suo compleanno, nonostante fosse primavera inoltrata sulla Terra, la temperatura si aggirava ancora sui ventisei gradi e Spock, che era abituato ad un’atmosfera molto più calda, continuava a soffrire il freddo.
Mentre camminava ricordò il volto di sua madre quando gli aveva regalato la giacca che ora indossava, era stato il giorno del suo compleanno l’anno stesso in cui lui aveva rigettato l’ammissione all’Accademia delle Scienze Vulcaniane ed era partito per studiare all’Accademia della Flotta Stellare. Nonostante Spock non festeggiasse il suo compleanno – né alcuna altra ricorrenza – sua madre Amanda continuava ad insistere nel volerlo omaggiare regalandogli oggetti di valore.
Tuttavia, nonostante continuasse a ricordarle che per lui era illogico celebrare qualcosa come la nascita, non aveva mai contestato i modi di fare della donna, in quanto umana, inoltre lui stesso era per metà Terrestre. E forse proprio in virtù della sua metà umana, anche se trovava che alcune ricorrenze fossero illogiche, non poteva evitare di partecipare egli stesso– ogni anno – alla celebrazione di una ricorrenza.  
Mentre scendeva pensò che quel giorno era esattamente il giorno in cui avrebbe ripercorso con la mente gli eventi del suo passato che non riusciva ad ignorare. Entrò nel suo appartamento, che si trovava nell’ala Ovest dell’Accademia ed era riservato agli istruttori, si tolse la giacca e procedette verso la cucina. Quasi meccanicamente aprì il proprio frigo e la prima cosa che prese fu un barattolo di zuppa di Ploomek preconfezionata, successivamente si avviò verso una dispensa per estrarne un vasetto di pesche sciroppate.
Si lavò le mani e si sedette al tavolo della cucina.
Era illogico, si disse, mentre apriva il barattolo di zuppa.
In primo luogo la zuppa di Ploomek doveva essere cucinata e mangiata calda, inoltre quel cibo gli riportava alla mente un periodo della sua vita che aveva superato ormai da tempo e che non aveva senso continuare a ricordare. Continuare a pensare al passato non era di alcuna utilità per la sua vita presente e per il futuro, aveva imparato da esso – sicuramente – e ne aveva tratto insegnamenti ed esperienze che lo avevano formato nel suo percorso di crescita, dunque non c’era alcuna necessità di richiamarlo alla mente ogni anno, così come continuava a fare.
Ma per quanto insensato potesse essere il suo comportamento, quella ricorrenza era l’unico giorno in cui si permetteva di abbracciare il suo lato umano. Mangiava la zuppa di Ploomek fredda così come gli era stata fatta mangiare da un ragazzino Terrestre un giorno di molti anni prima.
J.
Spock continuò a mangiare ricordando il momento in cui il ragazzino gli aveva teso quei due barattoli come se fossero stati la cosa più preziosa al mondo, come se neppure le loro vite fossero state più preziose di quel cibo. Spock ripensò agli occhi azzurri del ragazzo e al suo sorriso amaro, ai suoi capelli ribelli e al suo sguardo determinato.
Aprì il barattolo di pesche, dopo aver terminato la zuppa, e lasciò andare le posate per mangiare usando le mani. Nonostante fosse Vulcaniano e le sue mani non dovessero toccare il cibo, non poteva evitare, in quel preciso giorno ogni anno, di mangiare quel frutto in quel modo. Lo faceva come aveva fatto anni prima quando aveva dato le spalle a J in una cucina abbandonata su Tarsus IV, come aveva fatto quando aveva per la prima volta tradito qualcuno che stava soffrendo. A distanza di anni, si disse, il sapore delle pesche non era migliorato e mangiarle gli provocava ancora una sensazione di disgusto per sé stesso.
J non aveva potuto mangiarle, ma lui sì.
Era illogico.
 
2255.5.22 calendario della Flotta Stellare, Riverside, Iowa
 
Jim sedeva sul letto nella sua camera, aveva le mani poggiate sul volto e respirava con calma. Era appena tornato da una sfiancante giornata di lavoro e si sentiva stanco come poche altre volte, quando si era svegliato, quella mattina, non aveva avuto bisogno di sapere che giorno fosse perché lo aveva avvertito dentro di sé. Per tutto il giorno non era riuscito a concentrarsi sul lavoro ed era tornato a casa distrutto sia fisicamente che psicologicamente. Ogni anno aspettava quel particolare anniversario per potersi sfogare, fare qualcosa che potesse cancellare dalla mente i ricordi del suo passato e del tempo che aveva trascorso sul Pianeta Tarsus IV. Anche quell’anno, come tutti gli altri anni, avrebbe guidato fino al bar più lontano dalla fattoria in cui viveva e avrebbe bevuto, avrebbe rimorchiato qualcuno – chiunque - con cui passare la notte e l’indomani sarebbe andata meglio.
Sapeva che il suo era un comportamento sbagliato e che continuare a rifiutare ciò che era accaduto poteva essere solo deleterio per il suo benessere psicofisico, ormai se lo ripeteva da anni, ma sapeva anche che nulla sarebbe cambiato e che avrebbe continuato a comportarsi in quel modo. Erano passati anni ma il dolore era ancora vivido dentro la sua mente e nel suo corpo.
Gli venne in mente il giorno del suo salvataggio sul pianeta, dopo essere stato salvato dalla squadra dell’allora Tenente Kenzo era stato condotto sulla nave stellare insieme agli altri sopravvissuti della colonia, ma lui era rimasto incosciente per tutto il tempo e si era risvegliato quando ormai era già sulla Terra.
Una volta sveglio aveva chiesto a chiunque di rintracciare gli altri sopravvissuti, aveva chiesto di Shin – di cui non sembrava esserci traccia – e di Kevin e gli altri ragazzi.
Tuttavia non gli era stato detto nulla su chi fosse sopravvissuto e chi no, forse per privacy, forse perché non avevano voluto turbare la sua psiche già fragile di suo, Jim aveva chiesto di fare ricerche più approfondite, aveva pregato l’Ammiraglio, che era andato a parlare con lui, di cercare quel Vulcaniano, ma la Flotta Stellare aveva messo a tacere in fretta la storia del massacro di Tarsus IV.
Aveva a lungo pensato di andare su Vulcano per cercare di persona il suo amico ma sua madre glielo aveva impedito e Jim aveva dovuto affrontare cinque lunghi anni di stress post traumatico.
Ricordò i momenti che aveva vissuto in quei primi cinque anni dopo il massacro, di quando si svegliava nel pieno della notte nella fattoria buia e, come guidato da una forza estranea, si dirigeva in cucina, apriva il frigo e iniziava a rimpinzarsi di tutto quello che poteva. Beveva il latte, mangiava il bacon, succhiava le uova direttamente dal guscio. Più volte aveva rischiato di morire a causa delle sue allergie, trangugiava il cibo senza nemmeno guardarlo, e se solo sua madre Winona non lo avesse tenuto costantemente sotto controllo allora sarebbe morto da un pezzo.
Era stato un percorso lungo e graduale, aveva visto terapeuti per parlare della sua esperienza sul Pianeta – tuttavia aveva tenuto per sé la notte in cui aveva ucciso il militare a sangue freddo - era stato seguito da un nutrizionista esperto, eppure solo dopo molto tempo aveva ricominciato a comportarsi normalmente, come un qualsiasi ragazzo della sua età.
Dopo il diploma aveva pensato di iscriversi all’Accademia della Flotta Stellare, aveva dei buoni voti – ottimi, in realtà – e non avrebbe avuto alcun problema ad essere accettato. Però alla fine non lo aveva fatto, li aveva odiati tutti per essere arrivati troppo tardi, per non aver impedito il massacro e per aver permesso la sofferenza di Shin e Kevin. Dopo nove lunghi anni ora, si disse, aveva trovato una sua stabilità, lavorava come meccanico in una piccola officina in città, e gli andava bene, non ambiva a niente di più. Ormai aveva ventidue anni ed era chiaro che la sua vita sarebbe stata a Riverside.
Dopo il massacro su Tarsus IV, Winona era tornata a casa prendendosi un congedo e aveva cacciato Frank dopo aver saputo tutto quello che accadeva in sua assenza. Tuttavia non era stato Jim a parlarne con sua madre, pensava che dopotutto Sam ancora la sentisse, ma lui non aveva più alcun contatto con suo fratello. Da qualche anno, però, Winona aveva ripreso a viaggiare tra le stelle e lui era rimasto completamente da solo in una fattoria troppo grande per un uomo solo.
Scosse il capo cercando di fare mente locale, non doveva perdersi troppo nei suoi pensieri o ne sarebbe rimasto intrappolato, si alzò per dirigersi a fare una doccia, quella sera sarebbe andato al bar e avrebbe bevuto, rimorchiato qualcuno e avrebbe dimenticato Tarsus IV e la promessa che non aveva mai mantenuto con Shin.
Ci ritroveremo. Non importa come, non importa dove, ci ritroveremo. Tornerò da te
 
 
 
2249.1.22 calendario della Flotta Stellare, Shi’Khar, Vulcano
 
“Spock! Spock! Devi svegliarti, torna indietro! Sei su Vulcano, sei a casa!”
Spock sentì una voce che lo chiamava con disperazione ma non si voltò a vedere chi fosse, non era la voce di J e dunque non era rilevante. Continuò a correre tra gli alberi mentre costeggiava il ruscello, non sapeva dove fosse l’altro ma doveva fermarlo e riportarlo indietro con sé. Era stato folle a lasciarlo indietro, era inutile tentare di depistare chiunque li stesse cercando, sarebbero dovuti scappare insieme e se li avessero raggiunti allora avrebbero ucciso così come avevano fatto con il militare che lo aveva aggredito nei boschi.
Doveva correre, doveva muoversi, non c’era tempo e J poteva essere in pericolo, potevano averlo trovato e aggredito o, peggio, ucciso.
Ringhiò tutta la sua rabbia al pensiero che qualcuno potesse toccarlo, sfiorarlo, ucciderlo. J era suo amico, J era suo compagno e lo avrebbe protetto al costo della vita.
Cosa stai facendo, Spock? Stai provando emozioni?
“Spock! Fermati! Sarek, prendilo!”
Sentì altre voci ma continuò a correre, il bosco era buio e lui non vedeva neppure dove stava andando, sapeva solo che doveva seguire il torrente, doveva trovare J e farlo prima che fosse troppo tardi. In quel buio era difficile vedere ma sapeva che nel momento in cui J fosse stato vicino lui sarebbe stato in grado di percepire la sua presenza. Non aveva bisogno di vederlo.
Quando fu avvolto da due mani possenti iniziò a scalciare e a dimenarsi, non poteva lasciare che lo prendessero, doveva… doveva…
“J! Lasciatemi! Lasciatemi! Devo trovare J” urlò, con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Urlò e si dimenò, forse pianse ma si rese conto che non gli importava più.
“Spock! Svegliati, sei instabile, devi rinforzare gli scudi mentali e ritornare a pensare lucidamente
Spock ansimava dalla folle corsa, dal dolore, dalla paura.
“Spock, sono Sarek, tuo padre. Ora entrerò nella tua mente e tu ritornerai alla realtà”
No.
No.
“No” sussurrò.
Non poteva permetterlo, non poteva restare fermo lì. Doveva trovare J o lo avrebbero ucciso. Sentì le mani spostarsi sul suo volto, intorno a sé non vedeva nessuno c’era solo il buio della notte e gli alberi del bosco.
“Lo uccideranno” ansimò.
Lo uccideranno.
 
 
 
2257.8.6 calendario della Flotta Stellare, San Francisco, Accademia della Flotta Stellare
 
“Comandante, Signore, abbiamo terminato la stesura del paper sulla variazione linguistica andoriana in merito al Mito di Thirishar ed effettuato le comparazioni linguistiche con le scritture Aenar”
Spock annuì verso la donna che gli si parava di fronte lanciandogli uno sguardo fiero e compiaciuto. Lavorava con lei da alcuni mesi ed era affascinato dalle sue capacità intellettive e la sua predisposizione per la xenolinguistica. “Molto bene, cadetto Uhura” rispose mentre prendeva il PADD che lei gli stava tendendo “Revisionerò il Paper e lo invierò alla Commissione Xenolinguistica per la pubblicazione. Suppongo che sia interessata a parlarne agli studenti del primo anno del corso”
Gli occhi della donna si illuminarono di gioia mentre le sue labbra si stendevano in un leggero sorriso soddisfatto “Ne sarei onorata, Signore”.
Spock annuì di nuovo prima di voltarsi per uscire dal laboratorio di xenolinguistica e tornare nel suo ufficio dove avrebbe dovuto esaminare i test d’ammissione dei nuovi cadetti, poco prima di uscire, però, il cadetto si schiarì la voce e lo fermò richiamando la sua attenzione.
“Signore”
Spock si voltò a guardarla e notò che ora il suo sguardo era cambiato, aveva abbandonato la soddisfazione di prima e sembrava teso e ansioso.
“C’è altro che desidera aggiungere?” la intimò lui. Spock aveva notato la tendenza dei Terresti a non andare dritti al punto quando avevano bisogno di qualcosa, la trovava irritante, poiché su Vulcano gli usi erano totalmente opposti. Ma un vecchio detto Terrestre recitava “Quando sei a Roma, fai come i romani” e lui aveva imparato anche ad assecondare la nobile arte del chiacchiericcio e dei convenevoli.
“Signore, volevo chiederle… avrebbe piacere a cenare con me questa sera?”
Il cadetto Uhura aveva parlato velocemente e con un tono nervoso tuttavia, notò il Vulcaniano, la donna non aveva abbassato lo sguardo – come molti Terrestri erano soliti fare dopo aver fatto o detto qualcosa che provocava loro disagio. Uhura lo guardava sì, con ansia, ma anche con determinazione.
Spock conosceva la determinazione, l’aveva vista molte volte dipinta sul volto di un ragazzino Terrestre che era stato su Tarsus IV con lui.
La donna che aveva davanti era molto diversa, però, da quel ragazzo, aveva la pelle scura dal colore dell’ebano e i capelli ancora più scuri, i suoi occhi erano profondi e in quegli occhi non c’era paura ma solo una profonda determinazione e, quando rivolti verso di lui, avevano un velo di ammirazione.
Era una donna piacevole, constatò lui, sia fisicamente che mentalmente. Il suo intelletto era affascinante così come le sue idee nel campo della xenolinguistica.
Lei si mosse leggermente facendo un passo verso di lui “Se pensa che la mia richiesta sia inopportuna, Signore…”
“Accetto la sua compagnia a cena, questa sera, cadetto Uhura” la interruppe.
Lei sembrò valutare per un attimo le sue parole prima che il suo viso si distendesse e un sorriso sereno si facesse largo incorniciando i suoi occhi scuri.
Spock si voltò e uscì dal laboratorio ripensando al fatto che aveva appena acconsentito ad un approccio di natura romantica da parte della donna. Non era, tuttavia, infastidito dalla propria risposta all’avance poiché conosceva l’altra da tre anni ed aveva imparato ad apprezzare le sue abilità in diversi ambiti, non solo linguistici. In passato era stata preziosa nell’analisi delle registrazioni circa il serial killer conosciuto come Il Dottore, era inoltre piacevole da guardare e dunque era per lui una scelta logica acconsentire a conoscerla in ambito personale oltre che professionale.
Dopo il suo ritorno dal Pianeta Tarsus IV la sua mente aveva rigettato ogni legame e dunque anche il suo legame combinato con T’Pring era stato spezzato involontariamente, i suoi genitori avevano deciso di non ricostruirlo e Sarek stesso aveva trovato logico che fosse lui stesso a scegliere, quando sarebbe guarito, il proprio legame.
Uhura era una scelta logica e, si disse internamente – provando solo una leggera vergogna nel pensarlo – era anche una scelta che gli piaceva.
 
 
 
2250.11.1 calendario della Flotta Stellare, Riverside, Iowa
 
“Jim, per favore abbassa il coltello. Ti prego”
Jim guardò sua madre Winona, dentro di sé sapeva chi gli stava davanti e gli parlava con calma, ma non riusciva a fare quello che gli veniva chiesto. Non poteva.
Vedeva il militare piegato sul corpo di Shin, con il suo peso lo tratteneva al suolo e con il coltello gli stava incidendo dei solchi sul palmo della mano. Nella sua mente si susseguivano le urla dell’amico, sentirle era devastante e vederlo soffrire in quel modo lo distruggeva.
“Lascialo andare” sibilò adirato.
Sua madre represse un sussulto “Io… io non ho preso nessuno Jim. Siamo solo noi qui, ti prego, ti prego ritorna in te”
Jim respirò ancora più velocemente sbuffando aria dal naso come un toro inferocito, era sull’orlo di un baratro e a breve avrebbe ucciso di nuovo, avrebbe affondato la lama nel collo dell’uomo e avrebbe protetto Shin. Anche a costo della sua vita, lui sentiva di doverlo proteggere anche a costo di morire.
“Devi. Lasciarlo. Andare.” Urlò adirato prima di gettarsi verso la figura brandendo il coltello in alto, pronto a colpire, pronto ad affondare la lama, pronto ad uccidere.
“JIM! Basta!” urlò la donna.
Poco prima di abbassare la lama si fermò, sentì la propria mente vacillare e la stanza intorno a lui iniziò a volteggiare furiosamente. Non era su Tarsus IV, era nella cucina della fattoria e quella che aveva davanti era sua madre in lacrime che lo fissava con gli occhi azzurri pieni di spavento.
Si riscosse e gettò il coltello mentre la stanza continuava a roteare intorno a lui, o forse era lui a girare come impazzito. Non lo seppe perché dopo solo pochi secondi i suoi occhi non videro più nulla e lui svenne battendo la testa contro il tavolo della cucina.
 
 
 
2256.7.25 calendario della Flotta Stellare, San Francisco, Accademia della Flotta Stellare
 
Jim si chiese che diavolo ci fosse di sbagliato in lui per continuare ad attrarre su di sé tutte le sventure possibili. Si era allenato per sei mesi al fine di affrontare il test in Tattica di comando avanzata ed era riuscito ad essere selezionato come leader del Team Delta per poter guidare la missione. Teoricamente la missione doveva essere solamente un’esercitazione controllata in un ambiente supervisionato ma si era rivelata tutt’altro.
Trattenne un’imprecazione per non farsi vedere preoccupato da Braxim, il suo compagno di squadra, l’unico Xanno dell’Accademia. Era un buon compagno che eseguiva tutti i suoi ordini ma mancava di creatività nelle situazioni più inaspettate, Jim però sapeva come affrontare le situazioni disperate, lo aveva già provato una volta sulla propria pelle.
“Kirk devi sbrigarti ad uscire da lì, altrimenti vi ritroverete in trappola” disse una voce attraverso l’auricolare che Jim indossava.
“Grazie, uh, Kelly è quello che sto provando a fare” rispose lui mentre cercava una leva per aprire il tombino sotto i loro piedi. Era una situazione così simile a quella che aveva già vissuto da essere quasi comica.
James Tiberius Kirk: l’uomo che attirava tragedie. E che fuggiva nelle fogne.
“Kelly non è il mio nome, sii serio ora”
Jim sorrise e si avviò verso il palazzo di cristallo alla sua destra, le porte erano affiancate da file – ad entrambi i lati – di bandiere su cui erano stampati i vessilli dei Pianeti della Federazione, si attaccò ad un’asta e fece forza per schiodarla dal muro.
“Forza Brax, aiutami!” urlò al compagno di squadra.
L’alieno gli fu subito accanto e iniziò a tirare con forza verso il basso e dopo pochi secondi l’asta cedette.
“Sai Uhura, dovrai dirmi il tuo nome prima o poi, dovrò pur chiamarti in qualche modo quando saremo fidanzati” indicò a Braxim il tombino.
“Non capiterà mai, Kirk, nemmeno nei tuoi sogni” rise lei, sprezzante.
Iniziarono a fare forza per sollevare il pesante cerchio di metallo e, quando questo fu spostato, avanzarono velocemente verso le fogne.
“Nei miei sogni bagnati non sei solo la mia fidanzata” rise lui e si lanciò nel buio senza attendere la risposta di lei.
 
“Qui è Jim Kirk che parla al Team Delta attraverso il canale di comunicazione interno. Le nostre comunicazioni verso l’esterno sono disturbate a causa dell’attuale collocazione mia e del cadetto Braxim. Abbiamo rilevato una moltitudine di esemplari di piante aliene che prolificano nei canali di scolo del quartiere Haight-Ashbury, l’ordine è di non avvicinarsi per nessun motivo agli esemplari alieni rilevati, non studiateli e non collezionate campioni. Potrebbero contenere spore velenose e uccidervi. Kirk, chiudo”
Chiuse il comunicatore sperando che il messaggio registrato arrivasse all’intero team e che nessuno dei cadetti decidesse di avvicinarsi alle piante che li circondavano.
“Andiamo, Brax, dobbiamo uscire di qui e ritrovare gli altri”
Lo Xanno lo fissò accigliato “Kirk, potrebbero essere fatali per l’intera città se non crescono solamente qui. Dovremmo collezionarle e portarne un campione ai laboratori”
Jim ci pensò su prima di scuotere il capo “Hai ragione ma non possiamo prenderle senza nessuna protezione, se fossero velenose ci ucciderebbero all’istante. Ho motivo di credere che queste piante non siano nate qui di loro spontanea volontà e che il Dottore abbia qualcos’altro in mente” iniziò a camminare verso est dove il condotto si incrociava con quello proveniente dal quartiere di Chinatown, con un po’ di fortuna sarebbero risaliti in una zona neutrale dove non erano stati posizionati ordigni esplosivi.
La squadra d’emergenza dell’Accademia stava arrivando e loro dovevano ricongiungersi con il resto del team prima di poter uscire dalla zona protetta che era stata eretta per il test.
“Ma se uccidessero anche tutti gli altri?”
“Se non usciremo vivi da qui non potremo informare nessuno!” si agitò Jim “E allora chi avvertirà l’Alto Comando di quello che sta accadendo qui sotto?”
Aveva alzato la voce e ora Braxim lo fissava poco convinto ma Jim sapeva che cosa stava dicendo, era sicuro di sé, e aveva davvero tutta l’intenzione di impedire qualsiasi attentato stesse progettando il Dottore, ma prima doveva avvertire l’Alto Comando.
Lo Xanno annuì leggermente e iniziò a seguirlo.
Jim camminò in silenzio cercando di trattenere una risata amara, era nelle fogne circondato da piante potenzialmente mortali, era tutto troppo simile per non essere palesemente una presa in giro.
 
“Bones! Attento!” urlò Jim mentre sparava alla sfera metallica che si dirigeva a tutta velocità verso McCoy.
“Che diavolo era quella cosa?”
“Naniti, ti pungono alla testa e ti uccidono istantaneamente ma conservano i tuoi organi così che il dottore possa raccoglierli, sono frutto delle piante che crescono nei canali di scolo” rispose lui guardandosi velocemente intorno.
“Cos… ma è orribile, Jim! Che diavolo ci fa quel pazzo con gli organi che raccoglie?”
Jim non rispose, non sapeva neanche lui che risposta dare a quella domanda, sapeva solo che il Dottore era da qualche parte nell’edificio e loro dovevano trovarlo.
“Ce ne saranno altri, teniamo gli occhi aperti!”
McCoy grugnì tutto il suo disappunto “Dannazione, Jim sono un dottore non un militare”.
I due iniziarono a salire le scale ma un brusio attirò la loro attenzione e poco prima di voltare verso la rampa successiva videro un insieme di Naniti arrivare a tutta velocità verso di loro. Jim sgranò gli occhi e senza pensarci si voltò verso l’amico e lo atterrò per proteggerlo con il suo corpo, l’impatto li fece ruzzolare giù dalle scale.
Ma perché finisco sempre sull’orlo della morte?
 
 
 
2258.6.30 calendario della Flotta Stellare, San Francisco, Accademia della Flotta Stellare
 
Spock si impose di mantenere la calma mentre fissava il cadetto che – a soli due punto sei metri da lui – sembrava volesse sfidarlo con un insieme di affermazioni del tutto illogiche e fuori argomento.
“Le sue argomentazioni escludono la possibilità di uno scenario senza via d’uscita” rispose con calma come se stesse parlando ad un bambino Terrestre.
Il cadetto Kirk sorrise sprezzante “Non credo negli scenari senza via d’uscita”
Spock inarcò un sopracciglio, era perplesso dall’attitudine dell’altro, e sentiva di esserne anche vagamente infastidito; ricordava il cadetto in questione, lo aveva valutato durante il test di Tattica di comando avanzata il giorno in cui il Dottore aveva deciso di uscire allo scoperto attivando i Naniti per assimilare gli organi degli abitanti di San Francisco. Aveva valutato positivamente l’attitudine del cadetto Kirk e ora non comprendeva la sua completa mancanza di logica e ragione di fronte ad una situazione così semplice.
“Allora lei non solo ha violato le regole ma ha anche fallito nel comprendere la lezione principale”
“Per favore, mi illumini di nuovo” sorrise l’altro
Spock si disse che il cadetto stava chiaramente cercando di suscitare un’emozione in lui, irritazione o rabbia, ma non ci sarebbe riuscito.
“Lei tra tutti dovrebbe sapere, Cadetto Kirk. Un Capitano non può ingannare la morte”
Gli occhi azzurri di Kirk furono attraversati per un attimo da uno sguardo di stupore e dolore, Spock lo notò anche se fu un momento così breve da fargli dubitare che quello sguardo fosse mai esistito.
“Io tra tutti” il cadetto scostò i suoi occhi blu e guardò in basso di fronte a sé.
“Suo Padre, il Tenente George Kirk, assunse il comando della sua nave prima di essere ucciso in battaglia, non è forse così?”
Il cadetto sorrise amaramente e il suo volto ora rappresentava un insieme di emozioni mescolate tra loro che Spock non riusciva a leggere. Pensava che, dopo sei anni trascorsi sulla Terra avesse imparato a conoscere le emozioni umane e a saperle leggere, ma quel cadetto era sfuggente e imprevedibile.
Per un attimo, un solo attimo, l’uomo che aveva davanti gli ricordò un ragazzino Terrestre dai grandi occhi azzurri con il volto carico di emozioni contrastanti che gli stringeva le mani e gli prometteva che sarebbe tornato.
Ma quello non era J, si disse, prima di continuare a parlare.
 
 
 
2263.4.19 calendario della Flotta Stellare, Base stellare Yorktown
 
Jim guardò il portello d’areazione di fronte a sé mentre veniva trascinato via dalla corrente d’aria. Sapeva che non ci sarebbe stato molto da fare e ben presto sarebbe finito nello spazio profondo, in pochi nanosecondi il suo intero corpo si sarebbe ghiacciato e lui avrebbe smesso di vivere, prima di disintegrarsi tra le stelle.
Considerò che quello era un bel modo di morire, molto meglio della sua reale morte nella camera radioattiva del nucleo sull’Enterprise. Effettivamente aveva sempre vissuto una vita sul limite tra la vita e la morte, aveva cercato di fare del suo meglio e di proteggere quante più persone possibili. Anche questa volta ce l’aveva fatta perché Kral era morto e lui aveva salvato Yorktown.
Sentì la voce di Bones propagarsi nell’auricolare ma non prestò molta attenzione alle sue parole, voleva morire felice e senza pensare al dolore che si stava lasciando dietro. Neppure tre giorni prima aveva presentato la sua candidatura per la posizione di Ammiraglio sulla Base Stellare che aveva appena salvato, eppure sapeva che il suo posto non era a terra ma tra le stelle. Era stato solo nell’infinità dello spazio che lui aveva trovato un po’ di pace. Nonostante avesse sofferto a lungo, nonostante i pericoli che avevano corso e nonostante fosse stato più e più volte sull’orlo della morte, sapeva che solo sull’Enterprise aveva trovato un po’ di sicurezza e un posto da chiamare casa. Era stato un Capitano e aveva fatto del suo meglio per proteggere il suo equipaggio, forse avrebbe potuto fare di più ma aveva dato tutto sé stesso alle quattrocento vite che servivano sotto il suo comando.
C’è qualcosa che non faresti per la tua famiglia?, gli aveva chiesto Khan pochi anni prima.
La sua risposta era no.
Vide il portello dell’aria avvicinarsi sempre di più e si preparò ad essere scaraventato fuori, chiuse gli occhi e attese la fine. Una fine che, tuttavia, non avvenne perché le mani di Spock si chiusero intorno al suo braccio destro e lui, guardando il Vulcaniano, vi si aggrappò con tutte le sue forze. Si guardarono intensamente prima che Jim fosse scaraventato all’interno dell’ape aliena al sicuro.
Respirando velocemente guardò il suo primo ufficiale con un sorriso sollevato e malinconico “Che cosa farei senza di lei, Spock?”
Ma forse, forse avrebbe dovuto chiamarlo Shin.
 
 
 
2259.10.17 calendario della Flotta Stellare, USS Enterprise NC – 1701
 
“Signore, è meglio che venga qui. Meglio sbrigarsi”
La voce del Comandante Scott tremò all’interno della plancia che fino a pochi secondi prima aveva esultato per il mancato impatto sulla Terra.
Spock si guardò velocemente intorno e notò che il sorriso di tutti si stava spegnendo e che lo guardavano scioccati, come se sapessero.
Senza pensare a ciò che faceva si ritrovò ad alzarsi dalla Poltrona di comando e a precipitarsi fuori dalla plancia verso il turboascensore, vide distrattamente che Nyota lo fissava con un’espressione confusa e triste e che era indecisa se seguirlo o meno. Le porte del turboascensore si chiusero prima che lei potesse decidere e Spock si sentì sollevato che lei non lo avesse seguito, lì in quello spazio angusto che camminava lento verso il Ponte O lui si sentiva come un animale in gabbia pronto a sbranare chiunque si fosse trovato dall’altra parte quando le porte si fossero aperte. Era un comportamento insensato ma non voleva pensare alla logica, non in quel momento, non aveva alcun interesse a mantenere i suoi sentimenti sotto il suo severo controllo mentale.
Non ora che aveva capito e che finalmente sapeva.
Le porte si aprirono e lui iniziò a correre verso la camera di controllo del nucleo, doveva fare in fretta, prima che fosse troppo tardi.
Meglio sbrigarsi, aveva detto Scott e lui stava cercando di farlo, di fare del suo meglio perché non poteva perderlo di nuovo.
 
“Come sta la nostra nave?” il volto di Jim era una maschera di dolore e sofferenza, i suoi grandi occhi blu erano iniettati di rosso e Spock provò un dolore fisico a vedere quel colore limpido svanire dietro la patina di sangue scarlatto.
Le sue cellule si stavano disintegrando e con il passare dei secondi si scioglievano sotto il peso delle radiazioni. Spock si ritrovò a reprimere un sussulto ma non riusciva a fermare il suo corpo che tremava a quella vista, era troppo, troppo.
“Fuori pericolo. Ha salvato l’equipaggio”
Non riconosceva più la sua voce, non aveva più il controllo del suo corpo. Spock tremava e qualcosa dentro di lui lottava per uscire ma lui non sapeva cosa.
J, J!
“Ha usato ciò che voleva contro di lui. È stata una bella mossa” le labbra di Jim si muovevano a fatica ma il Terrestre continuava a resistere e a sorridere.
“È ciò che lei avrebbe fatto”
“E questo… questo è ciò che lei avrebbe fatto. Era l’unica soluzione logica” sussurrò Jim prima di prendere un respiro profondo e tossire.
Spock si trattenne dal battere i pugni contro il vetro, voleva distruggerlo e liberare il suo Capitano da quella tomba radioattiva.
“Ho paura, Spock. Mi aiuti a non averne. Come fa a scegliere di non provare emozioni?”
Spock sentì le lacrime liberarsi dai suoi occhi e scendere lente sulle guance, provava un vuoto dentro che lo stava divorando ed era peggiore di qualunque cosa avesse mai provato prima d’allora. Né la fame, né la paura, né la sua stessa morte. Quello che stava vedendo e vivendo era devastante e lo stava uccidendo lentamente.
“Non lo so. Ora non ci sto riuscendo” sussurrò con la voce spezzata dal pianto.
Jim gli sorrise debolmente e Spock si ritrovò a sperare che l’altro riuscisse a capire e a vedere quello che stava provando, perché se non lo avesse fatto allora non aveva senso, non aveva senso provare delle emozioni così intense da fare male. Era inutile.
“Voglio che tu sappia perché non ti ho lasciato morire. Perché sono tornato indietro per te”
Spock iniziò a respirare velocemente, le sue mani contro il vetro tremavano.
Avrebbe potuto dirlo in quel momento, far sapere a Jim, no J, che alla fine aveva mantenuto la sua promessa di tornare indietro. Far sapere a quello che era stato un ragazzino su Tarsus IV, un cadetto ribelle dell’Accademia e il Capitano dell’Enterprise che, in realtà, era tornato indietro molte volte per salvarlo, lo aveva fatto su Tarsus IV, lo aveva fatto nella battaglia contro Nero, lo aveva fatto nel vulcano su Nibiru, lo aveva fatto ora mettendo in gioco la sua stessa vita.
Avrebbe potuto dire quella semplice verità e liberare entrambi da un peso che si portavano dietro da troppo tempo. Ma non riusciva a dirlo, sentiva che non era giusto rivelarlo in quel modo. Non era ora.
“Perché tu sei mio amico” disse, invece.
Jim si mosse leggermente, il volto concentrato nel raccogliere le poche energie rimaste, portò una mano a toccare il vetro che li separava. Spock lo fissò prima di poggiare il suo palmo dall’altra parte del vetro, la mano aperta nel ta’al, il saluto Vulcaniano.
Jim osservò qualcosa con curiosità mentre il suo corpo veniva scosso dai brividi della morte che lo stava portando via da loro, via da lui.
Spock non si rese conto di aver poggiato la sua mano rovinata, contro il vetro, le cicatrici che dal palmo si dipanavano verso i polpastrelli erano l’ultima cosa che Jim Kirk aveva visto prima di morire.
 

continua...

Grazie per aver letto fin qui.

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