Sacrifical Lion

di Spoocky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Disclaimer: il film ed i personaggi appartengono agli aventi diritto, la sottoscritta non guadagna nulla dalla scrittura di questo testo.

Buona lettura ^^


Una fitta bruma si levava dal mare, avvolgendo le paratie e le vele della nave, su fino alle crocette.
A bordo regnava il silenzio, fatta esclusione per i cigolii del legno e gli scricchiolii delle cime. Il sole si accennava appena a sorgere, come dimostrava una caligine lattiginosa a tribordo.
I marinai Burke e Lexon stavano di guardia al mascone di dritta, passandosi una pipa scrutavano nella nebbia.
Il primo prese un tiro profondo e lo rilasciò con un sospiro.

“A che pensi?” chiese l’altro, preoccupato.
“Penso a questo schifo di viaggio, ecco a cosa penso. Sarebbe che ci troviamo proprio in una situazione merdosa, dico io.” E sputò oltre la paratia.
Rimasero per qualche istante in silenzio, lo sguardo perso nella caligine salmastra.
Fu di nuovo Lexon a rompere la quiete: “E lo Sfregiato?”
“Che vuoi sapere?” Brontolò l’altro, mordicchiando il beccuccio della pipa.
“Non lo si vede da tre giorni e non so che fine ha fatto.”
Burke sputò di nuovo oltre il mascone: “Sarebbe che sei proprio una testa di legno, se mai ne ho vista una! Come diavolo fai a non sapere cos’è successo?”
“Scusa tanto ma non è che uno riesca a vedere poi molto stando giù dal segaossa con la testa mezza fasciata!”
“Quel che è vero è vero, perdio.” Trasse una profonda boccata di fumo prima di proseguire “Quando quei bastardi di mangiarane si sono rivoltati contro di noi e ci hanno presi alla sprovvista, lo Sfregiato non ha perso tempo a dare ordini contorti. Ha spedito tutti ai propri posti e si è lanciato subito nella mischia. Perdio! Dovevi vederlo! Ha combattuto come un leone, senza cedere per un momento. Ha scovato subito quel bastardo leccapalle che si era spacciato per il medico francese e gli è piombato addosso come una tigre. Aveva una forza spaventosa che ha spinto tutti noi a seguirlo senza paura: sembrava avere la vittoria in tasca!”
Burke fece un’altra pausa per tirare dalla pipa e Lexon ne approfittò per chiedere: “E com’è successo che…”
“Porco il demonio! Dammi un momento che ci arrivo, no? Al diavolo! Che stavo dicendo?”
“Che lo Sfregiato è saltato addosso al mangiarane leccapalle.”
“Ah! Giusto! A dir la verità non ho visto bene cos’è successo in quel momento ma poco dopo quella scoreggia francese aveva le spalle inchiodate all’albero di trinchetto e la spada dello Sfregiato attaccata alla gola. Al che lo Sfregiato gli ha ringhiato qualcosa nella sua lingua e ha quello ha deposto le armi. Allora si sono fatti sotto i fanti di marina che lo hanno messo ai ferri e hanno riportato tutti i mangiarane ancora vivi di sotto. Solo che poi lo Sfregiato ha fatto per rinfoderare la spada e all’improvviso è diventato bianco come un fantasma. Manco si era accorto che il mangiarane gli aveva sparato addosso! Si sarebbe spiaccicato a terra se Rogers non lo avesse preso e non se lo fosse caricato in spalla per portarlo nella cabina grande.  Sulla mia parola: un fiume di sangue! Gli scorreva dal fianco giù fino allo stivale e continuava a scivolarci dentro. E non un lamento, bada. Non un fiato! Si è anche bendato da solo perché quel leccapalle imbecille del segaossa non era in grado di farlo per lui. Me l’ha detto Rogers, che ha visto tutto.”

Lexon emise un fischio ammirato, poi qualcosa attrasse la sua attenzione: “Guarda là! Quella sagoma a tribordo!”
La nebbia si andava diradando e i marinai riconobbero la polena della Surprise: “Suonare la campana! Avvisate Hogg! Sono riusciti a trovarci, finalmente!”
“Lo Sfregiato aveva ragione.” Commentò Burke con un sorriso, per poi sputare un’ultima volta oltre la paratia prima di raggiungere il suo posto in coperta.
 


La Surprise aveva impiegato quasi una settimana a raggiungere l’Acheron. Pur priva dell’albero di mezzana, la fregata francese aveva il vantaggio del vento e una tempesta mal concepita aveva portato gli inglesi fuori rotta di diverse miglia prima che il vento girasse e consentisse loro di riguadagnare terreno.
In quei giorni il capitano Aubrey si era sforzato di essere quanto più calmo ed ottimista possibile ma con il passare dei giorni la sua preoccupazione per i membri dell’equipaggio di preda, in particolare per il neo promosso capitano Thomas Pullings, aumentò esponenzialmente. L’unico a rendersene conto fu Stephen. Anche se il capitano non si era confidato nemmeno con lui lo vedeva incupito e chiuso, decisamente più cupo del solito.
Per salvare le apparenze, o per garantire a sé stesso un margine di normalità, aveva mantenuto l’abitudine dei loro duetti serali, ma era sempre distratto e stonava molto più del solito.

Nemmeno Stephen, tuttavia, aveva compreso appieno la profondità della sua preoccupazione, che si manifestò in tutta la sua importanza una mattina a colazione, quando Mowett entrò per avvisarli che avevano finalmente avvistato l’Acheron ed erano sulla sua scia.
Senza nessun avvertimento, Jack balzò via dal tavolo e corse con il tenente sul ponte di coperta, senza nemmeno finire il caffè.
Anziché precipitarsi sul cassero, dove sapeva sarebbe stato d’intralcio, rimase a sorseggiare il suo caffè e a guardare fuori dai vetri della cabina. Nel profondo sapeva che le preoccupazioni di Jack erano le stesse che attanagliavano lui: avevano timore per il benessere dell’equipaggio di preda, soprattutto per il neo promosso capitano Thomas Pullings, al quale entrambi erano sinceramente affezionati.
Senza saperlo lo avevano mandato nella fossa dei leoni, con il capitano francese sotto mentite spoglie che avrebbe potuto rivoltarsi contro di lui in qualsiasi momento.
Jack non poteva sapere come stessero realmente le cose ma Stephen ne era stato al corrente fin da subito e da giorni si martoriava la coscienza per non averlo avvertito in tempo.
Sperava solo che non fossero arrivati troppo tardi e che le scarsissime capacità mediche di Higgins si fossero dimostrate sufficienti ad evitare il peggio in caso contrario.
Altrimenti non sarebbe mai riuscito a perdonarsi.
 


Giunto sul cassero, Jack si sorprese nello scoprire che l’Acheron avesse issato il segnale di soccorso e ordinò a Boyle di issare il segnale segreto.
Mentre attendevano la risposta, si accorse che la fregata catturata aveva terzarolato per permettere loro di accostarsi ed incrociò lo sguardo preoccupato di Mowett. Il tenente era pallido e tirato, nonostante non aprisse bocca Aubrey gli lesse in viso tutta l’ansia per la sorte dell’equipaggio e del suo amico più caro. Gli diede una discreta pacca su una spalla per confortarlo.

“Signore! Rispondono al segnale!” squittì la voce stridula di Blackney, e Jack puntò di nuovo il cannocchiale: la risposta era corretta.
Prima che potessero tirare un sospiro di sollievo,  il capitano puntò il cannocchiale sul cassero della preda, dove qualcuno si stava sbracciando per attirare la sua attenzione. Mise a fuoco la figura nella speranza che fosse il suo secondo ma gli sprofondò il cuore nel petto quando si accorse che era il signor Hogg, che Pullings aveva preso a bordo come ufficiale nocchiero e secondo in comando.

Quando furono a portata di voce non lasciò spazio ai convenevoli: “Che diamine è successo?” gridò, con più forza di quanta avesse intenzione di usarne.
Il suo tono era talmente duro che il baleniere fece un passo indietro: “Una disgrazia, signore. Nessuno lo sapeva. Quello che credevamo fosse il dottor De Vigny era in realtà il capitano Palmière. Erano passati appena due giorni dalla nostra partenza che i prigionieri si sono ammutinati. Il capitano Pullings ha lottato con immenso coraggio e grazie a lui li abbiamo respinti ma è rimasto ferito insieme a molti dei nostri e devo avere l’ardire di chiedervi se potete mandare il dottore a visitarli in infermeria.”
Aubrey annuì: “Passaparola per il dottore! Signor Blackney, allestire una passerella. Signor Mowett, a voi il comando.”
“Sissignore.”
“Sissignore.”

Non appena la passerella fu pronta Jack l’attraversò a passo di carica, balzando sul ponte dell’Acheron con un cipiglio che intimorì i marinai più della battaglia vera e propria.
La sua agitazione era palpabile mentre faceva scorrere lo sguardo sul ponte di coperta, cercando tracce di sangue sulle travi, che non trovò. Vide invece diversi segni di lame e proiettili sul legno, molti più di quanti ne ricordasse.
Approfittò di quella breve ispezione per riguadagnare la propria compostezza. La sua espressione era indecifrabile e la voce ferma quando si rivolse di nuovo al nocchiero: “Dov’è il capitano Pullings?”
“Nella sua cabina, signore. Se volete seguirmi vi porto da lui.”
 


"Devo avvertirvi, capitano: è molto debole e molto, molto sofferente." Hogg si fece da parte e gli permise di entrare nella cabina.
Jack si scoprì rispettosamente il capo entrando nella stanza del malato e depose la feluca sullo spoglio tavolo da pranzo. La branda era nascosta da una tenda in tela da vele e la scostò senza fare rumore. Quello che vide gli strinse il cuore: non poteva credere che quello fosse lo stesso Tom Pullings che aveva congedato meno di una settimana prima.

Il suo viso era smunto ed emaciato, la pelle secca contratta per la sofferenza. Aveva un alone bluastro intorno alle palpebre serrate e le labbra, screpolate e rotte in più punti, erano ritratte in una smorfia di dolore che lasciava intravedere il bianco dei denti stretti. Il magro torace sussultava in movimenti erratici che sfociavano in brevi ansiti stentati. Giaceva immobile, le mani strette sulle coperte all'altezza del ventre, il capo abbandonato sul cuscino.
Dal suo giaciglio provenivano  gli odori acri del sudore e della sofferenza, uniti ad un altro vago effluvio a lui sconosciuto ma la cui somiglianza con il puzzo della carne andata a male gli lacerò il cuore nel petto.
Un marinaio gli stava passando uno straccio sulla fronte, asciugando le piccole perle di sudore freddo che vi si andavano formando. Quando lo vide entrare ripose la pezzuola in una bacinella, lo salutò ed uscì rispettosamente.
Aubrey ricambiò il saluto con un cenno del capo e si accostò al capezzale dell’ infermo.

Si chinò su di lui ma questi non diede segno di aver notato la sua presenza, eccetto trasalire perché scosso da una fitta che gli mozzò il respiro. Sopraffatto dalla compassione, Jack aggiustò la coperta sul suo petto nudo. Nel farlo gli cadde lo sguardo sulle mani del giovane e vide che erano ancora segnate sulle nocche dalle profonde ferite subite nella battaglia contro i Francesi.
Senza fermarsi a riflettere su quello che stava facendo le coprì per un istante con le proprie e le strinse leggermente: "Tom." chiamò, la voce poco più di un sussurro "Tom, riuscite a sentirmi?"
Non ebbe risposta se non un altro sussulto che fece scoprire i denti al ferito e un gemito strozzato. Dovette stringere le palpebre per reprimere le lacrime ma si sforzò di lasciare le mani tremanti del suo secondo.
Una ciocca di capelli era scivolata sul volto sofferente di Pullings e la scostò con un gesto delicato. Ne approfittò per posargli le nocche su una tempia, ma dovette ritrarle subito: era rovente.

Prima che potesse fare altro, venne interrotto da una raffica di improperi in Irlandese e si ritrasse dalla branda.
Alle imprecazioni si sostituì presto il viso di Stephen, che stava ingiuriando qualcuno alle proprie spalle: "Gesù, Giuseppe e Maria! Cosa vorrebbe dire che non gli avete dato del laudano? Certo che ha dato di stomaco: gli avete dato una dose eccessiva. Dio mio! Avete idea del dolore che si prova con una ferita del genere?"
Per esperienza, Jack fece un passo indietro e lo lasciò avvicinare al ferito.
Stephen gli rivolse un cenno distratto ed inforcò gli occhiali, aggrottando subito la fronte e sussurrando per non farsi sentire dal ferito: "E' anche peggio di quanto pensassi."
Il cipiglio di Jack, già cupo, si rabbuiò ulteriormente: "Mi addolora sentirtelo dire, fratello. Ne sei proprio certo?"
"Il colorito è pessimo." Confermò Stephen, e stese una mano sottile sulla fronte madida del suo paziente, strappandogli un gemito. "E la febbre è molto alta… ma il respiro è regolare ed anche il polso." aggiunse avvolgendo le dita intorno ad una mano pallida e contratta "Forse si può ancora fare qualcosa.”

Higgins provò a balbettare qualcosa ma Stephen lo fulminò con lo sguardo non appena socchiuse le labbra: “Non voglio sentire una sola sillaba da voi, infame ciarlatano! Non dopo aver visto le condizioni pietose dei vostri pazienti. Andatemi a chiamare l’uomo che si è occupato di lui in questi giorni, piuttosto: ha fatto un lavoro di gran lunga migliore del vostro.”
L’assistente se ne andò a capo chino ma Maturin non gli tolse gli occhi di dosso fino a che non si chiuse la porta alle spalle.
Solo allora tornò a dedicarsi al suo paziente.

Da come Tom stava disteso, piegato sul fianco destro e con le mani strette al ventre, capì che doveva essere ferito all’addome e che qualunque manipolazione di quella zona gli avrebbe causato un dolore intenso. Del resto, veniva egli stesso da un calvario simile e sapeva esattamente come ci si sentisse.
“Diamo un’occhiata a questa ferita.” Mormorò.
Jack, che in quelle situazioni si sentiva a disagio e fuori luogo, fece per allontanarsi ma Stephen lo intercettò: “Padeen è rimasto di sotto a cambiare le medicazioni. Mi aiuteresti a tenerlo fermo?”
Aubrey ebbe un momento di esitazione ma, dopo una rapida occhiata al volto sofferente del giovane, si riebbe ed annuì: “Che cosa devo fare?”
“Mettiti qui, di fianco a me. Tienigli le braccia e premilo contro la branda se dovesse agitarsi. Cerca di non fargli male ma non esitare a mettere forza se dovesse essere necessario.”

Stephen sollevò con delicatezza le coperte e le rimboccò sui fianchi del ferito, mettendo a nudo le bende che gli avvolgevano il torace appena sotto al diaframma. La medicazione aveva una macchia aranciata in corrispondenza del fianco destro e l’odore nauseante che Jack aveva avvertito all’inizio si fece più forte.
Maturin soffocò a stento un’imprecazione: “Il proiettile è ancora dentro.” Sibilò a denti stretti, cercando di trattenere la rabbia.
“Come fai ad esserne così sicuro?”
“L’aspetto e l’odore sono quelli di una ferita in suppurazione: per questo sta così male. Preparati a tenerlo.”
Con grande sorpresa di Jack, Tom non mosse un muscolo mentre il medico palpava la medicazione all’altezza della ferita, nemmeno quando l’essudato macchiò ulteriormente la fasciatura. Invece sussultò e gemette quando tastò l’addome scoperto e l’altro fianco.
Lo spasmo fu così intenso che Aubrey dovette pesarglisi addosso per tenerlo sul lettuccio, ma Stephen attese che si calmasse prima di sciogliere le bende: “Piano, ora. Tranquillo.” Mormorò al suo paziente e il capitano lo vide esercitare una particolare delicatezza nelle sue manovre.

L’odore peggiorò ancora e la ferita si presentò in tutta la sua gravità quando anche l’ultima garza venne scollata. Era stata suturata grossolanamente e i labbri avevano assunto un colore malsano, a metà tra il grigio ed il violaceo, che proseguiva in una zona gonfia ed arrossata per poi scemare in lividi che si diramavano sul costato e nel pallore del ventre piatto, teso per il dolore.
Borbottando tra sé in Latino, Stephen tastò i labbri lividi della lacerazione. Di nuovo provocò uno spurgo di essudato ma nessuna reazione evidente.
Man mano che le sue dita si allontanavano dal foro del proiettile il dolore sembrava peggiorare e giunse al parossismo quando tentò di palpare il fegato. Il giovane emise un gemito strozzato, un suono inarticolato e gutturale, e sobbalzò nel vano tentativo di rannicchiarsi per proteggere il fianco ferito.
Non ne aveva le forze e l’ostacolo posto dalle mani di Jack fu sufficiente a tenerlo fermo.
Stephen si preoccupò di riaccomodarlo sui cuscini e di coprirlo di nuovo, con un’attenzione che sfiorava la tenerezza: “Basta così, per ora. Lasciamogli riprendere fiato.”

Bussarono alla porta ed entrarono in fila Higgins, Padeen con la valigia degli strumenti, e il possente marinaio che Jack aveva trovato al capezzale di Pullings.
I primi due vennero spediti da Stephen a disporre il tavolo operatorio al centro della stanza e al terzo venne chiesto di presentarsi.
L’uomo salutò: “Il mio nome è Rogers, signore. Stan Rogers. Ero imbarcato sull’Albatros come fiociniere, ma sarebbe che prima sono stato anche assistente del chirurgo e quando il capitano è rimasto ferito mi ha chiesto di aiutarlo. Cioè, non è che voglio parlar male di nessuno, io.”
“Parlate pure, marinaio.”
“Ecco, signore, sarebbe che ho accompagnato io il capitano nella cabina quando si è ferito ma il signor Higgins non riusciva ad estrarre il proiettile, così lo ha ricucito. Ma non riusciva a bendarlo e allora il capitano lo ha mandato via e si è medicato da solo, poi mi ha ordinato di restare con lui ed assisterlo. E io ho accettato perché non è che servissi a granché altrimenti.”
“Scusate se v’interrompo, signor Rogers. Vorreste spiegarmi come si è evoluto il decorso nei giorni successivi?”
“Come dite, dottore? Ah. Certo. Cioè: all’inizio non sembrava tanto male. Si vedeva che soffriva ma fino a quella sera ha continuato a dare ordini lo stesso, steso sul tavolo con la testa su un asciugamano. Ha mangiato un po’ di minestra e quando è crollato l’ho messo a letto. La mattina dopo aveva la febbre, ma ha voluto comunque accertarsi che fosse tutto in ordine. Ha bevuto dell’acqua e mangiato del porridge. Gli ho cambiato le bende ma si vedeva che la ferita non era a posto e non riusciva neanche a sedersi da solo. Higgins gli ha dato del laudano ma si vede che era troppo perché ha vomitato subito e da allora non gliene ha più portato. Il giorno dopo non alzava neanche la testa e ha solo bevuto dell’acqua. Ieri ha bevuto qualcosa e ha detto qualche parola ma tra il dolore e la febbre non è che riuscisse a fare poi molto. Oggi non ha ancora aperto gli occhi, che io sappia. Ho detto bene?”
“Avete detto bene, sì. Molte grazie, anche a nome del capitano Pullings.”
“Avete fatto un buon lavoro, marinaio. Ne terrò conto.”
Allora il canadese si concesse un breve sorriso: “Sissignore. Grazie, signore.”
“Dottore… scusate. Dottore, siamo pronti per cominciare.”
“Stephen, allora penso sia il caso che...”
“Resta pure, fratello, se vuoi. Come ti ho detto qualche giorno fa: un paio di mani ferme in più non guasterebbero.”
Jack sorrise e annuì prima di sfilarsi il cinturone della sciabola, la giacca e rimboccarsi le maniche: “Lasciami giusto controllare che sia tutto a posto sul ponte.”
 


Quando Jack rientrò nella cabina Rogers e Padeen avevano adagiato Tom sul tavolo ricoperto di tela da vela e lo stavano avvolgendo con delle coperte, secondo le indicazioni di Stephen.
Il giovane era del tutto inerte e sembrava non rendersi conto delle cure che gli stavano riservando. Era immobile eccetto che per i movimenti erratici del torace e i brividi che lo scuotevano.

Stephen fece cenno al capitano di avvicinarsi: “Vieni, fratello. Mettiti qui a capotavola. Bisogna tenergli su la testa: appoggiatela sulla spalla, così, e con il palmo reggigli la fronte. Adesso con l’altra mano prendi la sua e fagli piegare il gomito in questo modo: ho bisogno che quel braccio rimanga fuori dal campo operatorio, e stringerti la mano potrebbe aiutarlo a sopportare il dolore.  Padeen, tu pesati sulle gambe e fai in modo che non scalci. Rogers, voi tenetegli l’altro braccio e i fianchi: attento a non fargli male e fate attenzione che respiri. Higgins voi preparatevi a tamponare la ferita. Bene, signori, cominciamo. ”

Jack dovette distogliere lo sguardo mentre il bisturi scivolava sulla carne infetta, separandone i lembi con una precisione spietata: non si sarebbe mai abituato a quel dolore inflitto con consapevole freddezza, a quella violenza controllata, così diversa da quella repentina del campo di battaglia.
Nella stanza si diffuse l’odore acre della putrefazione ed Aubrey non poté trattenere una smorfia di disgusto, ma Pullings restava immobile tra le sue braccia respirando appena e la sua mano pallida era inerte nella sua.
Maturin esercitò una leggera pressione sui labbri gonfi della ferita per drenare il pus che vi si era accumulato dentro prima di cominciare ad estrarre meticolosamente brandelli di tessuto necrotico mentre Higgins tamponava l’emorragia.
Più andava in profondità, tuttavia, più aumentava la sofferenza del suo paziente, che aveva iniziato a tremare e sudare copiosamente, stringendo i denti sul morsetto di cuoio per impedirsi di gridare mentre la sua mano la sua mano si contraeva su quella di Aubrey.
Ad un certo punto il colorito era tanto peggiorato che Stephen dovette fermarsi e sfilargli per un momento il morsetto di bocca, mentre Padeen gli sollevava le gambe e le frizionava vigorosamente.
Il giovane si calmò solo quando Jack cominciò a parlargli nell’orecchio, raccontandogli della battaglia di Abukir per distrarlo.

Dopo un’ora di lavoro certosino, riuscirono ad avere il quadro completo della ferita: “Il proiettile ha danneggiato la costola e lesionato il fegato, che però si sta già rimarginando, i principali vasi sanguigni sono intatti.” Mormorò Stephen “Adesso arriva la parte difficile. Signor Higgins, sollevate quella costola prego.”
Per Tom fu un dolore insostenibile: inarcò la schiena e dalle sue mascelle serrate proruppe un grido gutturale mentre la sua mano si contraeva spasmodicamente su quella di Jack. Il suo viso sbiancò del tutto e le guance si bagnarono di lacrime di dolore.
Aubrey cercò di consolarlo come poteva, ma più l’intervento proseguiva, più il dolore peggiorava.
Finalmente Stephen riuscì a scovare la pallottola deformata nei pressi della cistifellea e la estrasse con uno scatto secco del polso. Pullings venne scosso da uno spasmo e si accasciò tremante contro il petto di Jack, che gli sfiorò appena i capelli per tranquillizzarlo.
Accertatosi di non aver lasciato frammenti di osso o tessuto nella ferita, Stephen imbevve delle garze di aceto e spirito di vino, usandole poi per tamponare e pulire l’interno della lacerazione.
Solo allora ne richiuse i labbri e li sigillò con le suture.
Una volta finito fece cenno agli assistenti di allontanarsi e Aubrey poté riadagiare il giovane sul tavolo, dopo aver sfilato il morsetto dalle sue labbra esangui.

Maturin si era lavato le mani e si stava preparando a rinnovare la medicazione quando Pullings sollevò una mano e gli sfiorò debolmente un polso. La prese nella sua e si sorprese nel notare che gli occhi del giovane erano socchiusi.
Si chinò su di lui e lo sentì pronunciare un “Grazie.” appena udibile, mentre il suo viso stremato si distendeva in un lieve sorriso.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


Disclaimer: I personaggi riconducibili all'opera originale non mi appartengono e non ne possiedo i diritti.

Ringrazio tutti coloro che hanno avuto, e spero abbiano ancora, la pazienza di seguire questa storia dai tempi di aggiornamento biblici.
Siete dei tesori! ^^
Buona lettura e una gita alle Galapagòs a tutti! 



Pullings non riprese conoscenza nei due giorni successivi all’intervento e per tutto il tempo il dottore non si allontanò dal suo capezzale. La febbre era ancora alta e lo faceva soffrire molto: sudava freddo, tremava, e ogni tanto si agitava sotto le coperte in evidente disagio. Solo gli impacchi freddi e le frequenti spugnature sembravano dargli sollievo.
Apriva gli occhi solo quando Stephen lo scuoteva per dargli da bere, da mangiare, o per somministrargli le medicine, alleviando il suo dolore con piccole dosi di laudano scaglionate durante la giornata. Nemmeno in quei brevi momenti, tuttavia, sembrava essere al corrente di quanto stava accadendo.

Interrogato a riguardo da un Jack al colmo della preoccupazione, Maturin si limitò a scuotere la testa: “Bisogna avere pazienza. E’ un sonno così: di chi è senza forze. Ha passato l’inferno negli ultimi giorni e gli serve tempo per riprendersi.”
Aubrey si chinò sul ferito e gli prese una mano per fargli sentire la propria presenza: “Per il resto come sta?”
“Ha ancora la febbre, anche se sembra essere scesa un poco. Ma la ferita ormai spurga solo lodevole pus ed è molto migliorata, sia nell’aspetto che nella velocità di guarigione. Credo che il peggio possa dirsi passato, adesso dobbiamo solo aspettare che si svegli.”
Pur riponendo la massima fiducia nelle capacità mediche dell’amico, Jack non poté impedirsi di stringere i denti per la preoccupazione: “E’ ancora molto pallido.”
Nelle parole di Stephen non c’erano rimprovero o giudizio, solo pacata comprensione: “Mio caro, lo saresti anche tu se ti fossi ritrovato con una ferita simile: al di là dell’intervento ha perso molto sangue e sarebbe comunque molto debole. La scelta era tra lasciarlo morire per quella ferita o dargli una speranza. Come hai detto tu: questo è il minore tra i due mali.”
Allora Jack si volse verso di lui con un sorriso: “Ani-mali, Stephen.”
Il medico restituì il sorriso con un cenno del capo e tornò alle sue letture, lasciando al capitano il tempo necessario a ricomporsi.

Aubrey si raddrizzò e si aggiustò la giacca prima di allontanarsi dalla branda e fare un cenno a Stephen di seguirlo, perché non voleva turbare il povero Tom se avesse ripreso i sensi proprio in quel momento.
Tanta discrezione era in lui del tutto atipica, così come era atipico il suo tono basso e circospetto: “Hai poi parlato con, beh, con quella persona?”
Maturin si sfilò gli occhiali e si stropicciò gli occhi con un sospiro: “Anche volendo non avrei potuto: la situazione qui è troppo delicata ed è necessaria una veglia costante. Non posso nemmeno sottrarmi ai giri di visite in infermeria. Del resto, se andassi proprio io ad interrogarlo credo capirebbe come stanno le cose e non è certo opportuno. Tu non sai se abbia parlato con qualcuno in questi giorni?”
Fu il turno di Jack di scuotere il capo con rassegnazione: “Hogg non ha saputo dirlo e Tom non è certo in condizione di fare rapporto in questo momento.” sbuffò “Bah, al diavolo! Ho cincischiato anche troppo! E’ ora di far valere la massima di Nelson e puntare dritto sul nemico. Ed è proprio quello che farò, perdio!”
“Non t’invidio: non è un compito semplice.”
“Nessuno può saperlo meglio di te, fratello.” Sorrise mesto Jack nel recuperare la feluca “Meglio che vada, adesso: certe cose bisogna risolverle subito. Abbi cura di lui, mi raccomando.”
“Come sempre, mio caro. Buona fortuna!”
Aubrey si chiuse la porta alle spalle, lasciando Stephen alla sua veglia.

Il medico chinò lo sguardo sul libro che aveva in grembo, una raccolta di osservazioni sulla fauna del Pacifico redatto da un ufficiale al seguito di Cook, e si rese conto di aver perso del tutto la concentrazione. Con un sospiro rassegnato si sfilò gli occhiali e si massaggiò le palpebre prima di piegarsi in avanti ad osservare il suo paziente.
Il volto di Pullings, smagrito dai patimenti, era arrossato per la febbre e il suo respiro era sottile ed accelerato. Gli avevano raccolto i capelli in un codino ma alcune ciocche erano sfuggite dal nastro, ed il sudore gliele aveva appiccicate alla pelle.
Quando lo vide deglutire con una smorfia Maturin intuì che avesse sete e ripose il libro.
Su un tavolino accanto alla branda avevano disposto una caraffa d’acqua, zucchero e succo di limone. Ne versò un bicchiere e passò un braccio sotto la nuca sudata del ferito per sollevarla, sostenendogli la mandibola con il palmo.

Sentendosi scostare i capelli dal volto, il giovane socchiuse gli occhi con un gemito. Le pupille erano piccole e lucide, lo sguardo perso e confuso. Niente di più diverso dalla sincera gratitudine che lo aveva illuminato sul tavolo operatorio.
Stephen gli rivolse un sorriso rassicurante: “Salve, Tom. Vorreste farmi la cortesia di bere un po’ d’acqua?”
Inclinò il bicchiere verso le labbra aride del giovane, bagnandole appena. Pullings però sembrava non capire cosa stesse succedendo e rimase a fissarlo, sussultando per un brivido febbrile.
“Coraggio, mio caro.” Insistette il medico “Dovete bere per rimediare alla perdita di sangue.”
Troppo debole per fare altro, Pullings sbatté appena le palpebre ed inclinò un poco la testa verso il bicchiere.
Doveva essere terribilmente assetato, ma non riuscì a gestire altro che alcuni lenti, piccoli sorsi, dosati dal polso esperto di Stephen che insistette il più possibile: “Tutto. Sforzatevi di berlo tutto.”
Non passò molto prima che la sua fronte bollente si posasse sul braccio che lo sosteneva, dimostrando che non era in grado di resistere oltre.

Posato il bicchiere, Maturin gli poggiò un palmo sulla tempia per saggiarne il calore e lo fece sussultare: “Piano, adesso. Tranquillo.” Gli sussurrò per abitudine, prima ancora di rendersene conto.
Lo riadagiò con delicatezza sul cuscino e tamponò il suo volto arroventato con una pezzuola fresca, finché le rughe di dolore intorno ai suoi occhi non si attenuarono ed il suo respiro rallentò.
 

“Piano. Fate piano.”
“Sforzatevi di bere, capitano. La febbre vi fa bruciare.”
“E lascialo coperto, leccapalle scimunito! Non vedi come trema?!”
“Non vi agitate, signore. E’ la febbre che vi fa bruciare.”
“State giù, capitano. Vi si riapre la ferita!”
“Porca di una puttana sfondata! Questo liquido merdoso ha bagnato tutta la medicazione.”
“Tom, riuscite a sentirmi?”
“Vieni, fratello. Mettiti qui a capotavola. Bisogna tenergli su la testa.”
“Le gambe, Padeen! Alzagli subito le gambe!”
“A quel punto Nelson diede il segnale di attacco e le navi si disposero in formazione.”
“Coraggio: è quasi finita. Siete stato bravo.”

Ave Maria, Gratia plena, Dominus tecum.
“Mangiatene ancora, Thomas. Dovete recuperare le forze.”
Benedicta tu in mulieribus, et benedictus frctus ventris tui, Jesus.
“Resistete, Tom. Abbiamo bisogno di voi.”
“Vieni via, fratello. Non affatichiamolo.”
Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus.
“Ecco qui, mio caro, questo allevierà il dolore.”
Nunc,
“Calmo. Calmo. E’ la febbre. Avete avuto un incubo per la febbre.”
Et in hora mortis nostrae.”
“Tutto. Sforzatevi di berlo tutto.”
Amen.”

Quelle ed altre voci si susseguivano nella mente di Pullings in un caos indistinto.
Ciascuna di esse aveva qualcosa di famigliare ma non riusciva ad abbinarle a nessuno dei volti indistinti che gli aleggiavano davanti. Il calore della febbre aveva preso in ostaggio la sua testa, rendendola tanto dolente e pesante da fargli confondere sogni e realtà.
Non era neppure più sicuro di essere ancora vivo. Una parte di lui era certa di trovarsi all’inferno, dove la sua anima sarebbe bruciata in eterno, straziata da un dolore senza fine.

Serbava ricordo dei primi momenti: l’agonia del tragitto fino alla cabina, aggrappandosi ad un marinaio per non cadere scivolando nel suo stesso sangue, Higgins che lo ricuciva ad una qualche maniera ma non riusciva a bendarlo. Ricordava di avergli strappato le bende di mano e di essersele avvolte da solo intorno all’addome, nonostante il dolore e la debolezza. Ricordava quella prima notte insonne ed il malessere del mattino dopo, ma da quel momento in poi era precipitato in un vortice indistinto di luci ed ombre, con il dolore come unico compagno.
Ad un certo punto gli era parso di sentire le voci del capitano e del dottore e gli era sembrato di vederli, chini su di lui.

Avrebbe voluto credere che fossero davvero lì, che i suoi calcoli per rintracciare la rotta della Surprise fossero corretti, ma la sua mente stravolta interpretò quelle presenze come allucinazioni. Mentre lottava per trovare un’origine alle mani che gli reggevano la testa per dargli da mangiare e da bere, che gli cambiavano le medicazioni con una delicatezza affatto marinaresca, che stringevano le sue per calmarlo e scostavano ciocche fradice di capelli dalla sua fronte. Anche quelle mani avevano qualcosa di familiare: piccole, bianche, le dita segnate e contratte in modo strano.
Ricordava di aver alzato gli occhi e di aver incontrato un volto preoccupato. Qualcosa dentro di lui gli aveva suscitato un moto d’affetto per quell’omino pallido, dai capelli cortissimi e gli occhi chiari, ma non riusciva a ricordare chi fosse, né capiva perché si trovasse lì.
 

Man mano che si faceva strada nel ventre della nave, diretto verso la cella in cui avevano confinato il capitano Palmière, l’umore di Jack s’incupì sempre di più.
Il cuore gli batteva tanto forte da sentirselo rimbombare nelle orecchie e aveva stretto tanto i denti da sentire dolore. Le mani gli sudavano e avevano iniziato a tremare per la rabbia repressa. Se le ficcò dritte in tasca, per nasconderle il più possibile e per impedirsi di prendere a pugni qualcosa pur di sfogarsi.

Quando arrivò davanti ai due fanti di marina che sorvegliavano l’ingresso la sua espressione era tanto grave da farli impallidire.
A quello dei due che dovette aprire la porta tremavano tanto le mani da far tintinnare le chiavi.

Li superò senza una parola, entrando con passo fermo nella stanzetta semibuia.
Palmière era seduto ad un tavolino, unico arredo della stanza. Sembrava stare scrivendo una lettera ma non appena entrò Jack si ricompose e si alzò in piedi, inchinandosi in segno di riguardo.

Aubrey replicò con un fermo cenno del capo, un gesto a malapena accettabile, ma non aveva alcuna intenzione di mostrare riguardo o rispetto per un tale traditore.
Tale astio non era provocato dal suo espediente, dato che lui stesso aveva usato un travestimento per trarlo in inganno, ma dal fatto che il suo prezioso subordinato stava rischiando la vita a causa sua.
Nonostante il prigioniero avesse un aspetto quantomeno miserabile: lacero, scarmigliato e decisamente sporco, con la barba lunga di una settimana, Jack sentì una furia omicida pervaderlo. L’addome gli si contrasse in una morsa e le mani gli si strinsero a pugno.
Pur essendo disarmato sapeva che, se gli fosse saltato addosso, l’altro non avrebbe avuto possibilità di fuga: con le spalle al muro non avrebbe avuto speranza. Sarebbe bastato mettergli le mani al collo e stringere un poco per mandarlo all’altro mondo.

Poi gli tornò in mente il viso pallido e sofferente di Tom Pullings e la tempesta omicida si sedò quasi del tutto. Il suo inestimabile primo tenente, così buono e onesto, non avrebbe voluto che il suo mentore si macchiasse di una simile colpa, ma soprattutto sarebbe stato ingiusto nei suoi confronti privarlo della possibilità di affrontare con onore il suo avversario e rivendicare la propria vittoria.
In cuor suo infatti sapeva che Pullings non era l’indifeso agnello sacrificale che i suoi sensi di colpa avevano dipinto. Era un combattente di tutto rispetto, secondo tutti i marinai aveva lottato come una furia ed Aubrey non stentava a crederlo: lo aveva formato lui in quel modo.

Aveva dunque un’espressione dignitosa e composta quando rivolse di nuovo lo sguardo al capitano francese. Qualcosa nei suoi occhi doveva aver tradito la sua tensione perché l’altro incurvò le spalle, come a volersi fare più piccolo, e abbassò lo sguardo nel tendergli la mano: “Il mio nome è Clemènt Palmière, capitano della nave corsara Acheron, al servizio di sua maestà Napoleone Bonaparte. Servo vostro, capitano.”
Nel ricambiare la stretta, Jack non si sorprese della buona padronanza che il suo interlocutore aveva dell’inglese: grazie a Stephen lui e Pullings sapevano che si era rifugiato a Boston durante il Terrore e fino a quando non era stato graziato da Bonaparte ed era salpato con l’Acheron.

Non volle prolungare il contatto più del necessario e, dopo aver fatto cenno al francese di sedersi, gli si pose di fronte con le mani sui fianchi: “Sono il capitano Jack Aubrey, capitano dell’HMS Surprise della Marina Reale di Sua Maestà Britannica.”
“Lieto di fare finalmente la vostra conoscenza ufficiale, capitano Aubrey.”
“Vorrei poter dire altrettanto ma mi scuserete se ammetto che non è così.”
“E’ del tutto comprensibile. Mi sono comportato in maniera oltremodo sleale con il vostro secondo in comando. Il comandante Thomas Pullings, se non vado errato.”
“E’ corretto. Dovrete rispondere a lui delle vostre azioni quando si sarà ripreso.”
Sul volto del francese, fino a quel momento impassibile, si dipinse un’ espressione sconcertata: “Dunque è ancora vivo.” Con grande sorpresa di Jack trasse un sospiro di sollievo e si accasciò sulla sedia “Sono davvero lieto di sentirlo: la perdita di un ufficiale tanto abile e competente, oltretutto così giovane, sarebbe stata incalcolabile.” Gli occhi gli s’inumidirono e la voce gli tremava quando proseguì: “Posso avere l’ardire di chiedervi come sta?”

Al cospetto di quella che percepì come un’immensa sfacciataggine Jack venne pervaso dall’impulso di afferrare la sedia e fracassarla addosso al suo interlocutore. Come davanti a Stephen diversi anni prima, anche in quel momento si trattenne all’ultimo e riuscì a rispondere con un secco: “Vivrà. Non certo grazie a voi.”
Palmière incassò il colpo senza battere ciglio, riconoscendogli la ragione con un cenno del capo: “Nonostante ciò, sono davvero molto sollevato nel sapere che si riprenderà. Voi non mi crederete ma i miei sentimenti sono sinceri.” Il suo sguardo abbandonò il viso di Jack per concentrarsi sulla fiamma tremula della lanterna di fronte a sé: “Durante tutta questa caccia disperata ho pensato spesso che foste simile a me, nel modo di combattere e forse anche di comandare. Non mi ero però reso conto di quanto ci assomigliassimo davvero fino a questo momento.” Trasse un respiro profondo per ricomporsi “Ricordate quel giovane ufficiale? Era steso sul tavolo dell’infermeria quando mi trovaste.”
“Quando vi spacciaste per DeVigny? Sì, lo ricordo: aveva la gola squarciata da un proiettile.”
Il capitano annuì mestamente: “Eduard Lambért. Era il mio secondo in comando. Lo conoscevo fin da quando era un ragazzo ed allievo ufficiale: da allora mi ha sempre seguito fedelmente. Aveva attraversato l’Atlantico per servire ancora una volta sotto il mio comando. E io l’ho portato a morire.” Strinse le labbra si strofinò gli occhi arrossati con una manica “Sono contento che al vostro secondo non sia accaduto lo stesso. In quel momento, quando me lo sono trovato di fronte, non pensavo ad altro che ucciderlo. Per eliminare un nemico pericoloso, certo, ma anche per infliggervi quello stesso dolore che ho provato io. Ora però, non so nemmeno per quale motivo, sono solo contento che sia vivo e che continuerà a vivere nonostante tutti i miei sforzi.”

Sopraffatto da quella rivelazione inaspettata, Jack si trovò del tutto spiazzato.
Calarono alcuni istanti di silenzio teso prima che, tremando per la rabbia e lo sforzo disumano di non sfracellare il francese contro la paratia, girasse i tacchi e se ne andasse sbattendo la porta.
I fanti di marina sobbalzarono di nuovo nel vederlo passare ed istintivamente si ritrassero, sopraffatti dal timore che incuteva l’ imponente figura del capitano quand’era tanto adirato.

L’ira lo aveva sopraffatto al punto tale che gli occhi gli bruciarono e si riempirono di lacrime, e strinse i denti tanto forte da farsi male.
Continuava a pensare a Pullings, al suo sguardo incredulo per la promozione ed al sorriso che gli aveva illuminato il volto subito dopo. Poi lo rivedeva tremante tra le sue braccia mentre si sforzava di non gridare e si aggrappava a lui con tutte le sue forze.
Non poteva immaginare che qualcuno potesse fargli tanto male solo per vendicarsi di lui.
Non riusciva ad ammetterlo neppure a sé stesso ma quella nuova rivelazione lo faceva sentire ancora più colpevole nei confronti del suo secondo.
La rabbia si tramutò in dispiacere, ed il dispiacere nell’angoscia profonda di rivederlo per accertarsi che fosse ancora vivo.
Risalì i ponti a grandi falcate ed entrò nella cabina senza bussare.

Con sua enorme sorpresa, Tom era più dritto nella branda. Era ancora terribilmente pallido, ma aveva gli occhi aperti. Vedendolo entrare il suo volto smagrito venne illuminato da un sorriso che parve cancellare ogni traccia di sofferenza: “Signore!” lo salutò con voce arrochita e spenta, ma non meno gioiosa.
 

Jack si era allontanato da pochi minuti e Stephen aveva appena riadagiato Pullings nella sua branda quando accadde l’imprevedibile.
Il respiro del giovane comandante accelerò all’improvviso e cominciò ad agitarsi sotto le coperte, nel tentativo apparente di togliersele di dosso.

Maturin scattò subito e accorse al suo fianco: “Calmo, Tom. Non vi agitate: potreste riaprire la ferita.”
Non appena le sue mani si posarono sulle spalle nude del ferito si accorse che aveva iniziato a sudare profusamente. Gli occorse un momento per capire che, no, i suoi sensi non lo stavano ingannando: era iniziata la defervescenza.
“Tranquillo, Tom. Vi aiuto io.” Con pochi gesti precisi liberò il ferito dalle coperte in cui si era attorcigliato e le gettò a terra, lasciandolo con solo un lenzuolo attorno ai fianchi e sulle gambe per rispetto al suo pudore.
Pullings si accasciò ansimando sul guanciale e Stephen prese a tamponare il suo corpo sudato con una spugna bagnata, per dargli sollievo dal calore.
Si concentrò sul volto ed il collo, dove sapeva per esperienza veniva percepita una maggiore sofferenza.
Di lì a poco ebbe un’altra, ancor più gradita sorpresa.

Il giovane, pur comprensibilmente disorientato, aprì gli occhi e gli si rivolse con voce flebile: “Dottore? Siete voi?”
Sorridendo amabilmente, Stephen gli scostò una ciocca di capelli dalla tempia: “Sì, mio caro. Sono proprio io. Come vi sentite?”
“Stanco.” Sussurrò Pullings e aggiunse, deglutendo a fatica, “Ho molta sete.”
Il medico gli sollevò la nuca dal cuscino e gli accostò la tazza alle labbra, aiutandolo a sorbirne lentamente il contenuto prima di farlo stendere di nuovo.
Lo osservò con attenzione: era pallido e sembrava ancora molto debole ma, per la prima volta da che lo aveva rivisto, pareva essere lucido.
“Volete che vi aiuti a tirarvi un po’ su?” gli chiese, vedendolo un po’ sacrificato in posizione sdraiata.

Il comandante parve esitare un momento e una mano gli scivolò sulla ferita come a proteggerla, poi però annuì debolmente.
Maturin gli fece passare un braccio intorno alle spalle e, con l’altra mano, gli sorresse il fianco mentre lentamente lo tirava a sedere.
Nonostante tutte le precauzioni, la procedura non fu comunque indolore e una serie di lamenti soffocati arrivò comunque all’orecchio del dottore, che riadagiò il ferito sui cuscini con la massima cautela, aiutandolo poi a coprirsi con il lenzuolo.
Il volto pallido del comandante aveva assunto una tonalità grigiastra, i masseteri erano contratti e la fronte imperlata di sudore freddo. Stephen intinse una pezzuola nella bacinella e, dopo averla strizzata, l’usò per tergergli viso e collo, suscitandogli un sospiro di sollievo.

Aveva appena strizzato di nuovo la pezza quando una serie di passi pesanti annunciò una figura di notevoli dimensioni in avvicinamento.
Poco dopo un tesissimo Jack Aubrey piombò nella cabina, per arrestarsi di colpo incrociando lo sguardo del suo secondo, il cui volto si distese in uno di quei suoi sorrisi tanto allegri da illuminare lui e chi lo circondava: “Signore!”, lo accolse con gli occhi lucidi.
 

La rabbia che aveva pervaso l’animo di Jack si dissolse come neve al sole mentre attraversava il breve spazio che lo separava dalla branda di Pullings.
Notò con la coda dell’occhio che una mano del giovane giaceva abbandonata sul lenzuolo al suo fianco, mentre l’altra era posata sul suo ventre. Senza soffermarsi a ragionare sull’appropriatezza o meno del suo gesto coprì quest’ultima con la sua e le diede una stretta calorosa, attento a non pesarsi sulla ferita per non procurargli dolore.
Senza interrompere il contatto, ricambiò il sorriso commosso del suo secondo: “E’ bello vedervi sveglio, Tom.”
“Grazie, signore.” Ed era davvero un bel cambiamento vedere i suoi denti bianchi comparire tra le sue labbra distese per la felicità e non contratte per il dolore.
“Come vi sentite?”
“Un po’ acciaccato, signore. Ma sono ancora vivo.”
“L’importante è quello. Il dottore dice che vi rimetterete completamente.” Dovette interrompersi, sopraffatto dalla commozione che gli spezzò la voce, ed abbassò gli occhi perché gli si stavano inumidendo.
“E’ stato così brutto?” Chiese il giovane, con un filo di voce.

Aubrey non rispose, ma Stephen annuì: “Cosa ricordate?”
“Ricordo... dolore. Dal petto, alla pancia e fin sotto il ginocchio mi sembrava di andare a fuoco. Sembrava che mi stessero avvolgendo le budella con l’argano come il cavo di un’ancora. Non so se mi spiego.” Ansò, e quel paragone suscitò nel capitano una risata, a cui rispose con un sorriso prima di proseguire “Ricordo Higgins che mi frugava dentro per cercare la pallottola, ma senza riuscirci.” Deglutì “Dopo avermi ricucito gli tremavano talmente le mani che non riusciva a bendarmi. E così... ho fatto da solo. Poi più nulla. Ricordo delle voci, dei volti, e quel dolore fortissimo che non ne voleva sapere di smettere. Il resto è buio.”
“Abbiamo rischiato di perdervi.” Confermò Stephen “Eravate davvero in una brutta situazione quando siamo arrivati. Ma, grazie a Dio, ora state meglio.”
Pullings gli rivolse un sorriso divertito da sopra la spalla di Jack: “Anche grazie a voi, dottore.”
Stephen sorrise di rimando e gli fece un breve inchino: “Ho fatto il possibile.”
Notando che la voce del giovane si era arrochita di nuovo, Aubrey gli versò una tazza d’acqua e lo aiutò a sorbirla a piccoli sorsi.
Era ormai evidente che Pullings stesse lottando per restare sveglio: il viso gli si era fatto più disteso, le palpebre scivolavano pesanti sui suoi occhi stanchi, e la sua testa era pesante tra le mani del suo capitano quando la depose con delicatezza sul cuscino.

Stephen stava per invitare Jack ad allontanarsi per lasciar riposare il suo paziente, quando quest ultimo rivolse al loro un’ultima domanda: “Come ci avete trovati?”
Aubrey rivolse lo sguardo verso l’amico, che annuì con un sospiro rassegnato: “Fa’ pure, intanto che è sveglio e tranquillo.”
Prima di rispondere, però, Jack bagnò di nuovo la pezzuola e continuò a passarla sul viso del suo ufficiale mentre gli parlava: “Abbiamo seguito quella che ipotizzavo fosse la vostra rotta. Purtroppo una tempesta ci ha costretti a deviare, ma appena si è calmata abbiamo ripreso la ricerca. In realtà, vi abbiamo raggiunto più facilmente del previsto: pensavo foste molto più a Sud.”
Fu di nuovo il turno del giovane comandante di sorridere: “Quella sera, una volta sedata la rivolta, sono riuscito a calcolare e tracciare una rotta per intercettarvi, prima di svenire.”

Pullings esalò le ultime parole con un sospiro e crollò sul cuscino, ansando leggermente, gli occhi chiusi.
Aubrey avrebbe voluto parlargli ancora a lungo, raccontargli della discussione con Palmière, complimentarsi con lui della vittoria, ma vedendolo così provato si risolse di attendere finché non fosse stato più in forze.
Non avrebbe avuto comunque la possibilità di farlo in quel momento: il comandante si era addormentato appena aveva posato il capo sul cuscino.
A differenza dell’incoscienza tormentata dei giorni precedenti, tuttavia, il suo volto era sereno e rilassato, il respiro lento e regolare. Un vero sollievo dopo i lunghi giorni di angoscia e sofferenza.

Qualche ora più tardi Aubrey tornò sulla Surprise con il cuore più leggero.
Si recò direttamente nella sua cabina ed iniziò a ribaltare casse e cassetti alla ricerca di un oggetto particolare. Alle sue spalle, Killick ebbe un bel da fare a raccattare roba a casaccio ed imprecargli dietro, lamentando un disordine a suo parere indegno di un ufficiale ed accusandolo di stare trasformando il suo alloggio in una stalla.
Sordo alle sue proteste, Jack non si diede pace finché non trovò quello che stava cercando. Lo raccolse e se lo mise sotto braccio.
Uscì dalla cabina rapido come vi era entrato, diretto all’officina del fabbro di bordo.

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


Disclaimer: non è cambiato nulla, in tutto questo tempo, soprattutto i miei bilanci sono sempre in perdita.

Dopo quasi un anno, finalmente anche questa storia ha raggiunto il suo lieto fine.
Un sentito ringraziamento a tutti coloro che mi hanno supportato e, soprattutto, sopportato fino a qui: senza di voi non avrei combinato nulla.
Buona lettura! ^^



“Quand’è che sarebbe successo dunque?”
“Bill Lexon, te l’ho già detto e te lo ripeto: sarebbe che sei proprio una testa di legno, sarebbe!”
“Testa di legno sarai tu, Peter Burke! E sarebbe anche che non hai mica risposto alla domanda!”
“Porco demonio! Devi aver battuto forte la testa da bambino. Perché altrimenti non c’è verso per essere così duro di comprendonio, vacca merda! E passa bene quello straccio: c’è ancora una macchia lì.”
“Tu passami il sapone e vedi come te la faccio sparire! E rispondimi, porca troia sfondata!”
“E va bene, se significa che poi mi lasci in pace. E’ successo ieri sera, poco dopo la seconda guardia del pomeriggio. Bonden e un paio d’altri sono scesi giù per riparare non so cosa, ed è allora che è successo.”
“Sarebbe che le hanno date al mangiarane, no?”
“Così pare. Per vendicare lo Sfregiato, dicono.”
“Beh, è una buona cosa. No?”
Prima che Burke potesse rispondere Hogg si materializzò alle loro spalle sbraitando: “Non vi è permesso battere la fiacca! Meno chiacchiere e più sapone, signori! Meno chiacchiere e più sapone!”
 


“Non posso credere che siano stati in grado di combinare un disastro simile! Proprio non me ne capacito!” Sbottò Jack mentre litigava con un polsino che non voleva saperne di stare dritto.
"Dannazione, Stephen! Una cosa del genere non doveva proprio succedere!"
"Non ti facevo così preoccupato per le sorti di quell'uomo, fratello." Borbottò il medico senza distogliere lo sguardo dal trattato di Linneo che stava studiando.
"Non lo sono per niente!” Lo riprese Jack, raddrizzandosi il panciotto con un colpo secco “Di lui m'importa meno che delle alghe sulla carena. Nulla mi farebbe più felice di vedere quel bastardo… senza offesa per te, fratello, ridotto ad una poltiglia informe su una paratia! Ma prova ad immaginare quanto sarà difficile spiegarlo all'Ammiragliato. Dannatamente difficile, perdio! Almeno l'avessero ammazzato! Mi avrebbero risparmiato un sacco di problemi! Ma no! Neanche quello sono riusciti a fare!"
Con un sospiro rassegnato, Maturin si sfilò gli occhiali ed accantonò il libro: sapeva che, con l’amico di quell’umore, proseguire la lettura sarebbe stato impossibile. Trasse quindi un sorso dalla tazza fumante di fronte a sé e, guardandolo al di sopra di essa, lo apostrofò: “Gioia, non vorrai forse – Dio non voglia – suggerire l’assassinio di un prigioniero?”
Jack gli rivolse uno sguardo allibito: “Giammai! Volevo solo dire che… beh… insomma, se dovesse capitargli un incidente non ne sarei più dispiaciuto del dovuto. Ecco.”
“Certo.” Confermò Stephen, sorseggiando il suo caffè “Certo.”
Aubrey lo guardò male ma, capendo di starsi addentrando su un terreno pericoloso, decise prudentemente di cambiare discorso: “Piuttosto,” riprese mentre s’annodava la cravatta con nonchalance “dimmi di Pullings: come sta?”
Maturin ripose la tazza e si raddrizzò sulla sedia, strofinandosi il ponte del naso come faceva quando era sovrappensiero: “Nel complesso, non sta male. Anzi: si sta riprendendo meglio di quanto avrei sperato. Ma è ancora molto debole e, per quanto sia ansioso di riprendere servizio, ho dovuto raccomandargli di aspettare ancora prima di ritornare ad attendere ai suoi doveri. E’ bene che riposi il più possibile, anche se ora sembra non sia successo nulla di grave, la convalescenza sarà ancora lunga. Non posso nemmeno escludere una ricaduta, se dovesse sforzarsi troppo.”



L’oggetto di tale conversazione in quel momento era seduto al tavolo nella sua cabina, con indosso solo la camicia da notte e la giacca da tenente drappeggiata sulle spalle.
La sua mano era scossa da un tremito quasi impercettibile mentre finiva di redigere il rapporto sugli eventi che avevano portato al suo ferimento. Per dominare quel tremito aveva impiegato quasi il doppio del tempo di norma necessario, ma si riteneva comunque soddisfatto del risultato, dato che si trattava del primo incarico ufficiale che era riuscito a portare a termine dopo la malattia.
Certo, il dottore non sarebbe stato d’accordo ma lui si sentiva abbastanza in forze da svolgere almeno quel piccolo impiego e non si sentiva in colpa per non aver rispettato le sue disposizioni.
Firmò il rapporto e, deposta la penna nel calamaio, vi soffiò sopra per accelerare l’assorbimento dell’inchiostro.
Mentre riordinava le carte prese un sorso dalla tazza di tè che si era fatto preparare per colazione. La bevanda era ancora calda e molto zuccherata, secondo le disposizioni del dottor Maturin che gliene aveva prescritte tre tazze al mattino ed altrettante la sera. Insieme al tè gli era stata servita una coppetta di marmellata di fragole, dono del capitano Aubrey per la sua convalescenza, che costituiva il suo alimento principale in quel periodo.

Dopo tre giorni di quella poltiglia zuccherosa, per quanto buona fosse, alternata a tè e ciotole di minestra, Pullings aveva iniziato a stufarsi e ad anelare cibo vero. Il dottore si era opposto con tutte le sue forze: gli aveva spiegato che doveva assolutamente consumare alimenti leggeri e molto zuccherati per favorire la rigenerazione del suo fegato lesionato, insistendo sul fatto che marmellata e tè fossero per lui la scelta migliore.
Suo malgrado, il comandante si era trovato a dovergli dare ragione quando due soli biscotti al miele – finora l’unico alimento solido che gli fosse concesso – gli avevano fatto salire la nausea.
Quella mattina aveva sgranocchiato solo uno di quei dolcetti infidi e già si sentiva pieno. Un fatto strano per un giovane che, di norma, poteva divorare anche un pollo intero con tanto di contorno e avere ancora spazio per il dolce.
Le riflessioni sul cibo passarono in secondo piano mentre, sorseggiando il suo tè, prese a rileggere con calma il suo rapporto in cerca di eventuali refusi o strafalcioni.

Era arrivato a metà della terza pagina quando bussarono alla porta.
Posò la tazza e si aggiustò la giacca sulle spalle prima di mettersi più dritto sulla sedia, movimento che lo costrinse a soffocare un gemito.
Stringendo i denti contro il dolore, si sforzò di mantenere la voce il più ferma possibile mentre invitava l’ospite ad entrare: “Prego, avanti.”

“Ciao, Tom. Lamb ha finito le riparazioni e sta iniziando a passare la vernice...” Mowett si sfilò il cappello nell’entrare ma, quando lo vide seduto al tavolo, il suo viso perse ogni traccia di cortese formalità e strabuzzò gli occhi: “Per tutti i Santi! Che diavolo ci fai alzato?!”
Pullings ebbe il suo bel da fare a cercare di rassicurare l’amico, ma questi attraversò la cabina a grandi passi fino a posargli una mano sulla spalla e a guardarlo preoccupato: “Non dovresti essere in piedi, amico mio. Il dottore dice che è ancora troppo presto.”
“Non sono in piedi, infatti.” Gli rispose Pullings con un sorriso angelico “Me ne sto qua seduto comodo e tranquillo, come puoi ben vedere.”
La sua ostentata innocenza riaccese l’ira funesta del tenente, che si lasciò andare ad uno scroscio d’imprecazioni irripetibili.
Tom iniziò a ridere, ma presto venne sopraffatto da una fitta lancinante che lo costrinse a piegarsi in due con un grido strozzato.
Subito Mowett lo afferrò per le spalle e, accucciatosi di fronte a lui, lo sorresse impedendo che cadesse: “Capisci, ora? Questa era la mia preoccupazione.”
“Non preoccuparti, Will. Sto… sto bene.” Balbettò Pullings a denti stretti.
“E io sono un olandese! Guardati, Tom: tremi come una foglia.” Posò il palmo sulla fronte pallida dell’amico, madida di sudore freddo “E sei anche tutto sudato. Così non va bene! Devi rimetterti a letto subito.”
Il tenente prese l’amico per i gomiti e fece per sollevarlo dalla sedia, ma subito le ginocchia dell’altro cedettero e cadde tra le sue braccia con un grido. Strofinando la schiena di Pullings per calmarne i singulti, Mowett lo riadagiò con cautela sulla sedia, dove ricadde con il capo ribaltato all’indietro e annaspando.

In quel momento la porta della cabina si spalancò, rivelando un furioso dottor Maturin.
“Gesù, Giuseppe e Maria!” Esordì con un grido mentre avanzava a passo di carica verso i due ufficiali “Lo sapevo che non dovevo lasciarvi da soli! Tipico di voi marinai! Sempre pronti a pontificare su come terrazzolare[1] questa o quella vela e agghindare[2] i pennacchioni[3] ma possano cascarmi entrambi gli occhi se vi vedrò mai usare un po’ di buon senso!”
Strillando ed imprecando era arrivato ai due giovani, i quali avrebbero potuto tranquillamente redarguirlo in virtù del loro grado ma se ne stavano muti e rassegnati, gli occhi bassi e le orecchie arrossate.
Il dottore li squadrò entrambi dall’alto in basso prima di apostrofare il tenente: “E voi, William Mowett! Vergogna e disonore! Cosa vi è saltato in mente di farlo alzare?!”
A quel punto intervenne Pullings, la cui voce roca sovrastò appena gli strilli del medico: “Lui non c’entra, dottore. E’ rimasto sul ponte tutta mattina ed è arrivato solo ora.”
Il suo tentativo di placare l’animo di Stephen ottenne solo di farlo infuriare ancora di più: “Non pensate di darmela a bere, Thomas Pullings! E’ impossibile che vi siate alzato da solo in quelle condizioni!”
“Infatti.” Ansò il comandante, coprendosi il fianco ferito con un palmo “Infatti è stato Rogers ad aiutarmi. Gliel’ho ordinato.”
“Oh Santissima Vergine! Vi ha dato di volta il cervello?!”
“Pensavo che…”
“Voi non dovete pensare, santo cielo!” gridò il dottore “Voi dovete fare quello che vi dico e basta! Perché se io non so nulla di alberi, alberini ed alberetti voi non sapete nulla di medicina. Dico male?”
“No, dottore.”
“No, dottore.”

Notando con soddisfazione di aver riportato i due giovani insubordinati all’obbedienza, Stephen si rabbonì. La sua voce era tornata al consueto tono cordiale quando si chinò sul suo paziente: “Adesso, fatemi dare un’occhiata a quella ferita.”
Pullings sopportò con pazienza che il medico gli sollevasse la camicia da notte e ne trattenne un lembo per coprirsi pudicamente l’inguine. Maturin sciolse le bende e tolse le garze con delicatezza: la ferita si presentava asciutta e pulita: una linea ordinata di suture scure sulla pelle arrossata.
Quando però tentò di palpare la zona circostante per controllare se vi fossero delle secrezioni, il suo paziente sussultò con un sibilo di dolore.
“Vi fa molto male?” Chiese Stephen, improvvisamente preoccupato.
“Solo quando mi muovo. Per il resto, sento tirare i punti e un dolore sordo, in profondità.”
Sfilandosi gli occhiali, Maturin annuì: “E’ normale. Significa che le ferite interne stanno guarendo. Almeno siete riuscito a non strapparvi i punti, è già qualcosa.” Si rialzò con un sospiro “Coraggio, William. Aiutatemi a rimetterlo a letto.”

Insieme, Stephen e Mowett intrecciarono le braccia con quelle di Pullings all’altezza del gomito e gli sorressero la schiena.
“Quando volete, Tom.” Lo avvertì il medico “Fate piano, mi raccomando.”
Il comandante annuì con un cenno incerto del capo e, aggrappandosi a loro, cercò di alzarsi ma i suoi piedi nudi scivolarono sul pavimento di legno, provocando uno stiramento della ferita che gli strappò un gemito.
“Piano.” Lo incoraggiò Maturin, aiutandolo a tenersi in equilibrio “Piano.”
“Appoggiati a me, Tom. Coraggio.” Mowett cinse la vita dell’amico con un braccio e lo strinse a sé, lasciando che gli si pesasse addosso e sostenendolo mentre Stephen lo guidava con calma verso la sua branda.

Lasciandosi sorreggere da Mowett, Pullings percorse con una lentezza esasperante i pochi passi che lo sparavano dalla sua branda. Lì l’amico lo sollevò di peso, strappandogli un lamento nonostante tutta la cautela esercitata, e lo depose nel lettuccio.
Gli sfilò la giacca dalle spalle e lo aiutò a stendersi senza sforzare troppo l’addome mentre Maturin lo avvolgeva con le coperte.
Quando fu disteso sul dorso, Stephen gli prese il polso e gli misurò la temperatura posando un palmo sulla sua fronte pallida: “Vi siete stancato abbastanza, per stamattina. Cercate di riposare, adesso. Tornerò a cambiarvi le medicazioni dopo il giro di visite in infermeria.”
“Grazie, dottore.” Sussurrò Pullings, cercando di non far capire quanto il breve esercizio lo avesse provato.
“Non preoccupatevi, dottore.” Incalzò Mowett, posando una mano sulla spalla del comandante “Resto io con lui. Starò attento che non si sforzi.”
“Mi raccomando.” Li squadrò Stephen con uno tono in cui la minaccia non era nemmeno troppo velata, prima di uscire dalla porta.
 


Stephen si era allontanato da circa mezz’ora e Mowett aveva posato la coppetta di marmellata in grembo a Pullings, che ne stava mangiando pochi cucchiai controvoglia quando bussarono alla porta.
Prima che il tenente potesse dire nulla, Pullings si mise più dritto sui cuscini e si riappropriò della sua giacca: “Prego. Entrate.”
Mowett lo guardò storto ma si limitò a posare la marmellata sul tavolo senza dire una parola, consapevole del ruolo ufficiale che stava rivestendo il suo amico in quel momento.
All’inizio non videro nessuno e pensarono ad un errore, poi uno smarrito Lord Blackney iniziò a farsi strada nella cabina con malcelata esitazione.

Pullings sorrise nel vedere il suo allievo dopo tanto tempo e lo invitò ad accomodarsi: “Da questa parte, signor Blackney. Prego, avvicinatevi.”
“Sì, capitano.” Rispose il ragazzino, con un tono più fermo di quando lo aveva lasciato, avvicinandosi con la feluca sotto braccio “Il capitano Aubrey manda i suoi omaggi, signore.”
“Grazie, signor Blackney.”
“Bene, signore. Il capitano manda anche a dire che ha fissato la punizione ai sei colpi della guardia del pomeriggio, se siete d’accordo.”
Prima di rispondere, Pullings si voltò verso Mowett. Il suo sguardo conteneva la domanda implicita sullo stato della vernice a quell’ora: “Per allora anche la seconda mano dovrebbe essersi asciugata, signore.” Gli rispose William pacato.
“Molto bene. Signor Blackney, i miei omaggi al capitano Aubrey ed i sei colpi della guardia del pomeriggio vanno benissimo. Cercherò di presenziare dal ponte dell’Acheron, naturalmente se il dottore sarà d’accordo.”
“Sì, signore. I vostri omaggi ed i sei colpi vanno bene, signore.”
“Perfetto. Vi sarei grato, inoltre, se voleste portare al capitano il mio rapporto sugli eventi dei giorni scorsi: lo trovate sul tavolo in bella copia con i fogli numerati.”
“Bene, signore.” Rispose il ragazzino. Fece per voltarsi verso il tavolo ma all’ultimo esitò e rimase a fissare negli occhi il suo superiore: “Permesso di parlare, signore?”
“Permesso accordato, signor Blackney.” Sorrise il giovane comandante.
“Signore.” La voce di Blackney, fino ad allora ferma e decisa, si fece improvvisamente incerta “Volevo dirvi che…” fece un respiro profondo e si raddrizzò “Mi dispiace per il vostro ferimento, signore.”
“Vi ringrazio, signor Blackney. La vostra premura è molto apprezzata. Ma non preoccupatevi: mi sento già molto meglio.” Sorrise il comandante “Permettetemi piuttosto di esprimervi il mio cordoglio per la perdita del signor Calamy.”
Il ragazzino parve molto toccato dalle sue parole. Arrossì e chinò il capo: “Grazie, signore.”
Era tanto vicino che Pullings riuscì ad allungarsi a sufficienza da posargli una mano su una spalla e a rivolgerglisi con aria complice: “Vedete quei biscotti sul tavolo, signor Blackney?”
“Sì, signore.”
“Bene. Prima di uscire prendetene quanti volete.”
Il viso del piccolo s’illuminò con un sorriso che andava da un orecchio all’altro: “Dite davvero, signore?”
“Riempitevi pure le tasche, signor Blackney.” Sorrise Pullings, e lo congedò.
Il ragazzino corse al tavolo, prese il rapporto e se lo mise sottobraccio prima di procedere a fare incetta degli odiati dolcetti.

Prima di uscire si voltò a salutare e ringraziare, ma non appena si chiuse la porta alle spalle Mowett fulminò l’amico con un’occhiataccia.
Pullings fece spallucce: “Beh, che c’è? Siete forse dottore in medicina, William Mowett?” brontolò, facendo il verso al dottore.
Il tenente dovette soffocare una risatina: “Vedi di non farti sentire dal dottore.” Mormorò.
Prima che Pullings potesse controbattere, tuttavia, la porta si spalancò di nuovo e un gracidio irritato proruppe nella cabina: “Cos’è che non dovrei sentire io, signor Mowett?”
 


I sei colpi della guardia del pomeriggio si appropinquavano  inesorabili e Jack stava rassettandosi l’uniforme nella sua cabina.
Lo stato delle cose era quanto più lontano possibile da quel che avrebbe desiderato: Stephen era rimasto sull’Acheron e, per non abbandonare il capezzale di Pullings, lo aveva lasciato nelle mani di Killick che gli aveva spazzolato ed intrecciato i capelli nel suo solito modo rude, strappandoglieli a ciocche, il polsino della camicia ancora non voleva saperne di stare dritto e non aveva in mente neppure lo straccio di un discorso da fare all’equipaggio.
Aveva passato tutto il giorno a scervellarsi senza approdare a nulla e l’assenza del suo più fidato amico e consulente lo rendeva ancora più incerto sulle parole da usare.
Senza la sua eccezionale capacità di mediazione e la sua arguzia oratoria come avrebbe potuto persuadere i suoi uomini a credere in qualcosa di cui non era convinto nemmeno lui?
Bussarono alla porta e la sua risposta fu più secca di quanto avrebbe immaginato.

Barrett Bonden entrò comunque, ma sembrava stranamente esitante e timoroso.
“Coscienza sporca, signor Bonden?” lo apostrofò Aubrey.
Il volto del timoniere assunse un’espressione d’ostentata innocenza: “Io, signore? No, per nulla.”
“Mpfh.” Annui il capitano, non del tutto convinto “E cosa ci fate qui, potrei saperlo?”
“Signore, sarebbe che sono venuto ad avvisare che sul ponte è tutto pronto. Ecco”
“E perché non me lo ha detto Mowett?”
“Beh, signore, perché… perché…”
“Va bene. Va bene. Andate al vostro posto. Sto arrivando.”
“Sì, signore.”
 


Nel corso della lettura degli Articoli di Guerra, Jack sollevò a più riprese lo sguardo per intercettare una qualche occhiata o aria colpevole da parte dei suoi uomini.
Non vide nulla, sebbene ci avesse provato diverse volte e ad intervalli imprevedibili: ogni volta incrociò lo sguardo dei suoi marinai, fisso invariabilmente verso l’orizzonte. Gli parve che avessero persino smesso di battere le palpebre.
Certo, isolato nel suo angolino, Goffo Davis stava ridacchiando, ma era impossibile stabilirne il motivo: poteva benissimo trovare esilarante un nodo scorsoio o una sartia, conoscendolo.
Non aveva una visuale chiara del ponte dell’Acheron ma poteva immaginare che la situazione non fosse diversa. Questo lo irritò ancora di più
Terminata la proclamazione del testo sacro della Marina, più venerato a bordo della Bibbia, Jack si trovò a dover proclamare la punizione. Poiché, sebbene avesse sospetti più che fondati sull’identità dei maramaldi, formalmente non esisteva un colpevole e poiché il reato in questione non era contemplato in nessuno degli Articoli di Guerra, si risolse a proclamare un richiamo verbale.

Squadrò per l’ennesima volta i suoi marinai, ciascuno di essi con lo sguardo ostinatamente fisso verso l’orizzonte, e si schiarì la voce.
“Ebbene,” esordì “presumo che il motivo di questa assemblea sia chiaro a tutti. Se tuttavia così non fosse, mi permetto di schiarirvi le idee: sebbene non sia esplicitamente proibito dagli Articoli di Guerra, è una realtà inconfutabile che maltrattare un prigioniero di guerra, arrivando addirittura alle percosse, è un atto oltremodo scorretto. Anche se il suddetto prigioniero è francese.” A quella, si udirono una serie di risatine più o meno soffocate, che cessarono non appena fulminò il suo uditorio con uno sguardo inequivocabile “Trovo questo comportamento indegno di marinai arruolati su una nave di Sua Maestà. Me lo aspetterei da un branco di terrazzani in una bettola ma mai e poi mai in un equipaggio scelto come il nostro. E’ oltremodo indegno, soprattutto, che il lavoro non sia stato eseguito correttamente. Sono profondamente deluso dal vostro comportamento: dei marinai esperti come voi dovrebbero sapere che non si lascia un compito a metà. Quello che si comincia si dovrebbe finire per tempo. Prima che sia troppo tardi e la questione diventi irrimediabile, come in questo caso.”  Fece un’altra pausa, incontrando di nuovo quegli sguardi vacui e fissi “Bene, questo è quanto. Tornate ai vostri posti.”

Si congedò così, moderatamente soddisfatto e convinto dell’efficacia del suo discorso.
Trasse un sospiro di sollievo nel chiudersi alle spalle la porta della cabina: espletata quella formalità, poteva dedicarsi a ciò che davvero gli premeva.
 

Qualche braccio più a tribordo, Tom Pullings si agitava nella sua branda.
Si era ritrovato nudo ed impossibilitato a muoversi per qualche motivo a lui oscuro. Davanti a lui il dottore, chino sul suo ventre scoperto, stava affilando un coltello: “Cercate di stare calmo, signor Pullings. Sarà tutto finito prima che ve ne rendiate conto.”
Con il respiro accelerato dalla paura, il comandante si sporse in avanti per cercare di capire con cosa stesse trafficando Maturin. Poco mancò che perdesse i sensi: la ferita sul suo addome era ridotta ad un ammasso informe di suture accatastate, da cui trapelavano rivoli di sangue e pus maleodorante.
Si sentì mancare, ma subito un paio di braccia forti gli circondarono il torace: “Coraggio, Tom. Presto sarà tutto finito.”
Riconobbe la voce del capitano, ma non ebbe tempo di provare conforto perché subito dopo la lama del bisturi iniziò a farsi strada nella sua carne, scatenando un dolore tanto atroce da costringerlo a gridare con tutto il fiato che aveva in gola.
Per quanto lo spettacolo fosse orribile, non riusciva a distogliere lo sguardo dal dottore, ora sporco di sangue fino ai gomiti, che rovistava nel suo corpo. Il dolore e l’orrore giunsero al parossismo e gridò di nuovo.
Gli parve di avvertire il tocco di uno straccio umido sulle tempie, come se qualcuno glielo avesse premuto addosso, ma non riuscì ad impedirsi di gridare per la terza volta. Avvertì il calore umido delle lacrime sulle guance, ma il dolore che provava era tanto forte da surclassare persino la vergogna.
Avvertì di nuovo il contatto con l’impacco freddo e sussultò, a malapena cosciente di una voce che lo chiamava con insistenza.
Con uno sforzo sovrumano riuscì a concentrarsi su quella voce e, finalmente, riaprì gli occhi.
Sobbalzò sulla branda e trattenne a fatica un urlo quando si vide davanti il viso del dottore.

Subito però Stephen alzò le mani, mostrandogli di non essere una minaccia, e solo quando il suo respiro ansante iniziò a rallentare si permise di posare i palmi sulle sue spalle tremanti.
“Va tutto bene, Tom. Avete avuto un incubo, ma ora è passato. E’ tutto a posto. Tutto a posto.”
Lo aiutò a ridistendersi con cautela e riprese a passargli la pezzuola sulla fronte, asciugando il sudore freddo che la imperlava.
Pullings rimase a fissare il vuoto per qualche minuto prima di sussurrare: “Ho rivisto tutto.”
“Tutto cosa, Thomas?”
“Tutto. Voi che mi aprivate per cercare il proiettile, la voce del capitano e il dolore...” Sussultò come per una fitta “Di nuovo quel dolore terribile.”
Strizzando lo straccio nella bacinella, Stephen annuì: “E’ comprensibile: avete passato dei momenti difficili.”
“La cosa strana, però,” proseguì Pullings con un brivido, lo sguardo sempre perso nel vuoto “è che non ricordo nulla. Solo… frammenti. La vostra voce, le vostre mani, forse, la voce del capitano.” Chiuse gli occhi e scosse il capo con un sospiro che era quasi un gemito “Io ci provo. Mi sforzo di ricordare, ma è tutto così confuso. Non so più cosa è vero e cosa no.”
Sprofondò di nuovo nella branda, coprendosi sconsolato il volto con le mani.
Stephen si chinò su di lui e gli pose una mano sulla spalla: “Non agitatevi, mio caro. E’ del tutto normale: eravate molto debole e avevate la febbre alta. Non fate sforzi inutili. I ricordi torneranno da sé ma non fatevi un cruccio se non dovessero farlo. Non sono eventi di cui sia gradevole o comunque utile serbare memoria.”

Pullings annuì con un cenno tremante del capo e Stephen lo tirò a sedere prima di porgergli un bicchier d’acqua per aiutarlo a calmarsi.
Stephen tenne una mano sulla schiena del giovane mentre beveva, carezzandola con leggerezza per sciogliere le contratture dei muscoli dorsali. Il comandante aveva appena cominciato a rilassarsi quando un bussare deciso alla porta lo fece sobbalzare di nuovo.
Accertatosi che il suo paziente non stesse per svenire di nuovo, Stephen si diresse all’uscio quasi a passo di marcia, pronto ad aggredire chiunque fosse venuto a turbare la quiete di cui il povero Pullings aveva tanto bisogno.

Nemmeno il sorriso gioviale che gli rivolse Aubrey servì a placare il suo umore: “Che diavolo ci fai qui, Jack? Non hai una nave da comandare da qualche parte?”
“Ce l’ho, fratello. Ce l’ho e lo sai bene. Ma, sai, sono venuto qui per questo.”
Se Jack sperava che l’involto oblungo che teneva sotto braccio producesse un qualche effetto benevolo sul dottore, le sue speranze s’infransero come i marosi sulla scogliera di Capo Horn: “Qualunque cosa contenga quell’involto, fosse anche il tanto decantato ‘corno di unicorno’, non è un motivo sufficiente per venire qui a disturbare. Pullings è esausto: ha bisogno di riposare e la tua presenza qui non lo aiuterà di certo.”
“Permettimi di contraddirti, fratello. Credo che gli farà bene vedere quello che gli ho portato. Dopotutto, dici sempre che rasserenare lo spirito aiuta il corpo a guarire prima.”
“Non credo di aver mai proferito una frase simile.” Lo raggelò Stephen ma, conoscendolo, capì che non era intenzionato a cedere e che avrebbe dovuto assecondarlo per levarselo di torno “Dato che sei così insistente e convinto di voler aiutare, ti lascio cinque minuti. Bada bene, però: non un secondo di più. E, per favore, vedi di non affaticarlo. E’ già abbastanza provato.”
“Hai la mia parola: non lo disturberò più del necessario.”
Per sua fortuna, Stephen si fidava a sufficienza da permettergli di entrare e restare solo con Pullings.

Il giovane comandante era seduto nella branda, con la schiena poggiata ai cuscini e le coperte accartocciate in grembo.
Stephen non aveva esagerato: Pullings era molto pallido, in viso appariva tirato e stanco.
Eppure, sebbene la mano che tese verso di lui tremasse ancora, non mancò di riservargli un sorriso aperto e sincero: “Buon pomeriggio, signore. Sono felice di vedervi.”
La mano del giovane comandante scomparve tra quelle del capitano, che la avvolsero in una stretta calorosa: “Anche a me fa piacere vedervi, Tom. Come state?”
“Meglio, signore,” sorrise il giovane “Grazie.”
“Ne sono molto lieto. Posso accomodarmi?” Chiese Aubrey, indicando la sedia accanto alla branda.
“Certo, certo. Prego.”

Il capitano sedette e si pose in grembo l’involto che era venuto a portare.
Per un momento rimasero entrambi in silenzio, uno alla ricerca delle parole giuste da dire, l’altro troppo timido per prendere parola ed impossibilitato dal regolamento ad iniziare una conversazione con un suo superiore.

Aubrey riuscì a fare ordine nei propri pensieri e si mise più dritto sulla sedia, guardando negli occhi il suo secondo: “Innanzitutto permettetemi di porgervi le mie più sentite congratulazioni per la vostra vittoria, comandante Pullings.”
Il sorriso del giovane divenne più ampio, ma i suoi occhi s’inumidirono di lacrime e aveva la voce rotta dalla commozione quando rispose: “Grazie, signore.”
“Non sprecate fiato a ringraziarmi, signor Pullings.” Lo redarguì bonariamente Jack “Non è da tutti affrontare un attacco a sorpresa del genere e uscirne a testa alta: è solo merito vostro se l’Acheron è ancora in nostro possesso.”
“Vi ringrazio, signore.” Sussurrò Pullings, e chinò il capo, per nascondere il rossore che gli stava avvampando le guance.
Jack gli appoggiò una mano sulla spalla e gli diede una stretta: “Il dottore non vorrebbe che vi parlassi di certe cose. Dice che non state ancora abbastanza bene, ma io credo che dobbiate saperlo, dato che riguarda voi.”
“Parlate pure, signore. Vi ascolto.” Dagli occhi del comandante traspariva una fiducia assoluta e commovente.

Aubrey parlò a lungo, senza omettere alcun dettaglio ma avendo la delicatezza di osservare le reazioni del suo interlocutore per accertarsi di non turbarlo più del dovuto.
Pullings mantenne un silenzio assorto per tutto il tempo. Il suo volto pallido era solcato da linee di concentrazione, le mani immobili sulla tazza che teneva in grembo e gli occhi fissi sul viso del suo superiore.

Solo quando Jack ebbe finito distolse lo sguardo da lui e, dopo un breve istante di silenzio, proruppe in un sentito: “Quel fottuto mangiarane leccapalle figlio d’una gran troia!”
Non si accorse di aver pronunciato quegli epiteti ad alta voce finché Aubrey non scoppiò a ridere. Allora avvampò, si coprì la bocca con una mano e chinò il capo: “Vi chiedo perdono, signore. Mi è uscito così…”
“Via. Via.” Lo tranquillizzò Jack “Non avreste potuto trovare espressioni migliori per descriverlo.”
“Se non altro.” Sorrise Pullings “Adesso si spiegano molte cose. Vedete, da che quell’uomo è entrato in infermeria ho capito che c’era qualcosa che non quadrava. Ogni volta che visitavo i feriti, trovavo i suoi pazienti messi quasi peggio di quelli di Higgins, e penso che anche voi vi rendiate conto di quanto sia difficile.” Prese un sorso d’acqua “Ma non era solo questo: quando lo incrociavo, mi guardava in un modo strano. Non la solita ostilità che hanno i prigionieri di guerra, ma qualcosa di peggio, capite?”
Jack annuì.
“Ecco. Quando poi quella mattina si sono sollevati, me ne sono accorto subito perché mi ero alzato verso la fine della seconda comandata, appena sono arrivato sul ponte quel tale ha cercato subito lo scontro diretto. In quel momento non mi sono reso conto del motivo, pensavo che ce l’avesse con me perché ero al comando. Mi sono accorto dopo di chi fosse, quando ho visto come lo guardavano i suoi uomini. Non mi sono sentito tranquillo finché non l’ho inchiodato all’albero. Anche se poi…”

S’interruppe e, portandosi una mano sul fianco leso, si distese sui cuscini.
Lasciandogli riprendere fiato Jack, gli sfilò la tazza ormai vuota dalle mani, posandola sul comodino al capezzale per risparmiargli lo sforzo. Vedendo però che il giovane faticava a calmarsi gli pose una mano sul braccio e gli diede una stretta affettuosa per rassicurarlo.
Quel raro gesto di cameratismo bastò a riscuotere Pullings dai suoi cupi pensieri e a fargli rivolgere un sorriso mesto al superiore.

“C’è un altro motivo per cui sono venuto a trovarvi, questa sera.” lo informò deponendogli in grembo l’involto che si era portato dietro “Quando ci siamo separati, qualche giorno fa, ho dimenticato di porgervi il mio regalo per la vostra promozione.”
La sorpresa lasciò il giovane del tutto senza parole e Jack si commosse nel vedere che gli tremavano le mani mentre scioglieva l’incarto.
“Oh, signore!” Tom aveva gli occhi lucidi e la voce rotta mentre faceva scorrere le dita sul dono inaspettato: la Five Balls d’ordinanza del suo superiore, tutta tirata a lucido e con l’elsa a testa di leone che riluceva nella penombra della cabina.
“L’ho fatta sistemare e riaffilare dal fabbro di bordo.” Spiegò il capitano “Me la diedero quando venni promosso comandante ma, come sapete, non la uso spesso. Ci tenevo che l’aveste voi: l’uniforme non fa il marinaio, o qualcosa del genere, ma la spada sì.”
Per la prima volta da quando si erano allontanati, Jack si sentì davvero con il cuore in pace, quando vide un sorriso illuminare il volto del suo secondo. Lo stesso sorriso di pura gioia che gli aveva visto quando lo aveva chiamato “Capitano Pullings” per la prima volta.
 

Trascorsero alcune settimane prima che la Surprise e l’Acheron raggiungessero finalmente Valparaiso e, sbrigate le formalità del caso, giunse il momento di sbarcare i prigionieri.
Ad attenderli sul molo c’era un intero plotone di giubbe rosse, che li avrebbe tenuti sotto sorveglianza fino al momento del rimpatrio.
Per ultimo, incatenato, non sbarbato e con una serie di lividi e bozzi a deturpargli il viso, conseguenze di altre misteriose cadute nella sentina, venne fatto salire in coperta Palmière.

Dopo aver passato un mese nella stiva, il capitano francese ebbe bisogno di un momento per riabituarsi alla luce del sole. Quando però alzò gli occhi verso il cassero di quella che era stata la sua nave il suo sguardo incrociò quello severo del capitano Aubrey, che lo squadrava minaccioso da dietro la balaustra.
In piedi al suo fianco, altrettanto imponente e grave, stava il comandante Pullings.
Sebbene sembrasse più magro dall’ultima volta che lo aveva visto, quest’ultimo sembrava non presentare alcun segno della ferita che gli aveva inferto, tanto da fargli dubitare che il proiettile lo avesse effettivamente colpito. Al pari del suo comandante, il giovane portava l’uniforme con rigida fierezza, compresa la spada dall’elsa dorata a testa di leone che gli pendeva dal fianco.
Proprio mentre il francese passava loro davanti, senza distogliere gli occhi da lui, Aubrey posò una mano sulla spalla del suo secondo, che gonfiò il petto ed alzò il mento, sostenendo con fierezza lo sguardo del nemico, che non ebbe altra scelta se non chinare il capo e sbarcare, ammettendo ancora una volta l’ennesima sconfitta.
- The End -
 
[1] Terzarolare
[2] Ghindare
[3] Pennoni

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