La duchessa - Atto II

di Shadow writer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Mina vagante ***
Capitolo 3: *** Un piccolo favore ***
Capitolo 4: *** Ricordi dal passato ***
Capitolo 5: *** Noah ***
Capitolo 6: *** Incontri inaspettati ***
Capitolo 7: *** Perdono ***
Capitolo 8: *** Conseguenze ***
Capitolo 9: *** Emily ***
Capitolo 10: *** Punto di rottura ***
Capitolo 11: *** Passaggio di testimone ***
Capitolo 12: *** Camille ***
Capitolo 13: *** La fine ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


► Nota: questa storia è la seconda parte di La duchessa




Prologo


 
 
Alexander guardava il proprio riflesso nel tavolo di metallo della sala interrogatori. I segni del tempo rigavano la superficie e distorcevano la sua immagine, ma era ancora abbastanza pulita da mostrargli il suo volto stanco con la barba chiara che ricopriva le guance pallide.
Era dimagrito e non aveva bisogno di uno specchio per saperlo. Spesso si sentiva debole e affamato, ma con il tempo ci aveva fatto l’abitudine.
Cominciò a chiedersi perché l’avessero portato nella sala interrogatori se nessuno si stava facendo vivo, quando udì un rumore di passi provenire dalle sue spalle.
La porta doveva essere aperta – non riusciva a vederla perché era ammanettato al tavolo – e sentiva nitidamente i suoni che provenivano dal corridoio.
Il ritmo di quei passi gli attraversò il corpo e in un lampo capì che lo aveva già sentito. Lo aveva sentito quando lei scivolava fuori dal letto di notte per andare a prendere un bicchiere d’acqua. Quando lo raggiungeva mentre cucinava, abbracciandolo da dietro e posando la guancia sulla sua schiena. Quando saliva le scale e lui la sentiva dall’interno, tanto erano sottili le pareti.
I passi arrivarono dietro di lui, gli girarono attorno, prendendosi più tempo del dovuto, e finalmente gli si fermò di fronte.
Alex avrebbe voluto evitare il suo sguardo, toglierle almeno la soddisfazione di avere la sua attenzione, ma c’erano troppe cose che voleva sapere e poteva farlo solo guardandola negli occhi.
Lei si mosse in avanti, verso il tavolo, e il vestito in velluto scarlatto che indossava si mosse come un abito regale. Si crogiolò dell’attenzione che lui le stava dando, prima tirare la sedia per lo schienale e sedersi lentamente.
«Ben ritrovato, Alexander» gli disse, pronunciando le parole quasi lettera per lettera.
Lui strinse i denti e lei dovette notarlo perché sul viso le si dipinse un ghigno trionfante. L’idea di avere un certo effetto su di lui – anche se si trattava di odio – pareva eccitarla.
«So cosa stai pensando» continuò lei, mentre con fare disinvolto si sistemava i lunghi capelli dietro alle spalle. «È stato molto scortese da parte mia non farmi viva negli scorsi mesi, ma sono stata molto impegnata.»
Alex sentiva che il suo respiro era accelerato improvvisamente, percepiva come i polmoni si riempivano e svuotavano con rapidità, e questo era un chiaro segno che stava perdendo la lucidità.
Era stato allenato a parlare in modo calmo e razionale durante i processi e i dibattiti pubblici, quando gli animi si scaldano troppo velocemente. Era stata la sua capacità di autocontrollo - raggiunta a fatica e molto esercizio – a determinare molti dei successi della sua vita. Nella vita privata rimaneva irascibile, ma se c’era qualcuno che era in grado di fargli perdere ogni freno, si trattava di Emily.
Il volto della ragazza ondeggiò davanti ai suoi occhi.
«Sono qui dentro per colpa tua» sputò e la vide sbuffare, incrociando le braccia al petto come una bambina imbronciata.
«Mio caro, si è trattato solo di un’incomprensione». Allungò una mano sul tavolo per sfiorare quella di Alex, ma lui le sottrasse di scatto, per quanto le catena a cui erano attaccate le manette glielo permettesse.
«Un’incomprensione?» ripeté scandalizzato. «Tu lo chiami così, mentre io trascorrerò un anno in carcere!»
Emily roteò gli occhi con fare teatrale e sbuffò ancora: «Stai vedendo il bicchiere mezzo vuoto, caro. Dovresti dire che grazie a me trascorrerai solo un anno qui.»
La giovane aveva cambiato tono di voce e aveva pronunciato l’ultima frase con un forte accento britannico. Alex la fissò in silenzio e lei sbuffò per la terza volta, come se tutta quella storia l’annoiasse mortalmente.
«Tu!» sbottò Alexander, con gli occhi sgranati.
«Sì, io» replicò lei. «Non c’è di che.»
Lui la fissò ancora per qualche istante esterrefatto. L’ultima volta che aveva sentito un accento così marcato era stato quattro mesi prima, durante il processo. Un membro della giuria gli aveva posto alcune domande e lui aveva notato che nonostante fosse ormai un cittadino americano non aveva perso quella pronuncia. 
Alexander pensò che avrebbe dovuto smettere di stupirsi per le vette che raggiungeva il potere di Emily. O meglio, di Cassandra, della duchessa.
Fare un patto con un criminale? Molti lo avrebbero fatto per l’ebrezza che se ne ricavava. Comprare i voti per un candidato sindaco? La vicenda non era nuova a Tridell. Ma comprare un membro della giuria? Gli affari di Emily dovevano essere maledettamente più oscuri di quanto avesse pensato.
«Ti stanno trattando bene là dentro?»
La domanda della giovane lo riportò alla realtà, in quella sala della prigione dove era ammanettato ad un vecchio tavolo di metallo.
Quando era entrato in carcere, tutti gli avevano detto di stare attento. Lui era stato dalla parte di coloro che spedivano in prigione e ci sarebbe stata la fila per le vendette. Alexander aveva avvertito fin da subito gli sguardi biechi che gli lanciavano, le facce minacciose che lo seguivano nei corridoi, gli insulti bisbigliati sottovoce in qualsiasi lingua. C’era un gruppo di carcerati in particolare che lo seguiva sempre ovunque. Si trattava di due uomini massicci dalle braccia tatuate. Generalmente si tenevano distanti, ma se qualcuno degli altri si avvicinava troppo, loro si facevano avanti e tutti si volatizzavano.
Questa coppia bizzarra pareva incutere un certo timore a tutti, ma non avevano mai dato segno di voler aggredire Alexander. Si era chiesto a lungo quale fosse il motivo e numerosi sospetti senza conferma gli avevano attraversato la testa.
Ora, guardando Emily con quel suo sguardo fiero e il mento alto, tutto si fece chiaro.
«Perché farmi rinchiudere se stai spendendo così tanto per migliorare il mio “soggiorno”?» le domandò.
Lei si strinse nelle spalle. «Te l’ho detto, si è trattata di un’incomprensione. E poi nessun costo, mi sto solo facendo pagare.»
Alexander scosse il capo, con gli occhi fissi sul tavolo di metallo.
Non guardarla, si disse, non fare il suo gioco.
«È stato un piacere, ma è proprio tempo che me ne vada» gli disse lei e, mentre si rialzava, aggiunse.
«Non preoccuparti, ci rivedremo presto».
Alex non aveva bisogno di guardarla per sapere che aveva dipinto sul viso quel suo sorriso compiaciuto che molti scambiavano per gentilezza, quando invece si trattava di soddisfazione perché tutto era andato come lei lo aveva previsto.
«Mi hai rovinato la vita, Emily» sputò e questa volta alzò gli occhi, per incendiarla con lo sguardo.
Lei non batté ciglio.
«Non ci vedremo presto, anzi, spero che non ci vedremo mai più» aggiunse e quasi si stupì per la durezza del suo tono. Era rinchiuso tra quelle quattro mura da mesi e non era neanche a metà della sentenza. Aveva avuto tempo di accumulare rabbia e dolore e gli era bastato vedere il volto della responsabile per capire che non si era ancora rassegnato.
Le labbra di Emily si tesero in un sorriso, ben diverso dal precedente. C’era dell’amarezza in quell’espressione, ma allo stesso tempo la consapevolezza di essere in una posizione di forza. Gli si avvicinò e, lentamente, sollevò una mano e gli accarezzò una guancia. Lui la trafisse con gli occhi, ma non si mosse.
«Cerca di rimanere vivo, tesoro. Ho promesso a Noah che presto incontrerà il suo papà.»
Gli diede un buffetto, con fare materno, e senza attendere alcuna replica se ne andò da dove era venuta.
 
 




 
°°°


 
Angolo scrittrice

Ciao!
Innanzitutto, voglio ringrazire chi ha seguito la prima parte della storia, sia silenziosamente, sia facendomi avere un'opinione a riguardo. Grazie di cuore a tutti voi <3

Ed ecco finalmente la seconda parte di La duchessa! Per ora vi lascio solo il prologo, in modo che possiate aggiungere la storia tra le seguite/preferite/da ricordare: così non vi perderete i successivi aggiornamenti :)
Per i prossimi capitoli ci vorrà ancora del tempo. I capitoli sono ultimati, ma non la revisione, a cui voglio dedicarmi nelle prossime settimane (o magari mi basteranno solo pochi giorni, chi lo sa xD... p
roprio per questa mia scarsa capacità organizzativa, sarebbe utile salvare la storia ahah). Quando comincerò a pubblicare i capitoli, li aggiornerò il più regolarmente possibile. 
Nel frattempo, potete farmi sapere cosa ne pensate del prologo! :)

Spero a prestissimo,

M.

 

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Capitolo 2
*** Mina vagante ***






Mina vagante


 
 
 
Roman leggeva su una poltrona vicino alle vetrate che conducevano sulla terrazza, godendo della luce naturale che filtrava attraverso le tende chiare. Se ne stava con le gambe che pendevano da un bracciolo e la schiena appoggiata sull’altro, e si sorreggeva il mento con la mano.
Un rumore di passi decisi che picchiavano sul pavimento lo informò che Emily era entrata nella stanza. La vide piazzarsi davanti a lui. «Mi dispiace interrompere le tue attività intellettuali, ma non credi ci siano altre stanze in questa casa?»
Roman sollevò gli occhi dalla pagina e squadrò Emily come se fosse lei ad occupare la sua camera e non viceversa.
«Da tutte le altre riesco a vedere il tuo caro fidanzato che passeggia nel giardino» le disse con una smorfia.
Emily alzò gli occhi al cielo sbuffando. 
«È un male che dobbiamo sopportare, e lo sai anche tu.»
Roman chiuse il libro e, togliendo le gambe dal bracciolo, si raddrizzò. «La mia sopportazione ha raggiunto il limite. Quando potremo liberarci di lui?»
Emily si avvicinò alla vetrata e scostò leggermente la tenda per dare un’occhiata al giardino al piano inferiore.
«Resisti ancora un poco, caro. Quello stronzo egocentrico è una gallina dalle uova d’oro e finché ce l’ho tra le mani ho intenzione di spremerlo fino in fondo.»
Roman sbuffò e tornò ad accasciarsi sulla poltrona, solo la piega delle sue labbra lasciava intuire quando fosse contrariato.
Facendo frusciare il suo abito, Emily si voltò di scatto e uscì dalla stanza. Percorse in fretta il corridoio delle camere e scese da una scala secondaria fino al giardino sul retro della villa.
Dopo una prima distesa di erba smeraldina, alcune siepi ben potate creavano simmetrie nel resto del parco. Roman le aveva proposto di realizzare un labirinto in stile rococò, per farlo ammirare agli ospiti dalle terrazze della villa, ma Emily aveva preferito una disposizione più semplice ed elegante.
Gabriel se ne stava davanti ad un piedistallo e guardava due uomini che, sudando sotto il tiepido sole, erano impegnati a sollevare la statua candida di una donna.
Emily lo raggiunse e affiancò, seguendo la direzione del suo sguardo.
«Un lavoro sublime» commentò Gabriel, mentre la donna veniva raddrizzata sul piedistallo. Si voltò verso Emily e da quella distanza lei riuscì a vedere le lentiggini leggere sulla sua pelle chiara.
«C’è ancora un posto libero laggiù – il giovane indicò un piedistallo vacante poco lontano – che ne dici di una statua per celebrare la nostra unione, tesoro
Emily fece una risata secca e gli si avvicinò, guardandolo negli occhi color ghiaccio. Erano così vicini da sentire il respiro dell’altro sul volto e lei gli posò il palmo aperto sul petto.
«Scordatelo» sibilò e fece per allontanarsi, ma Gabriel la prese per il polso e la tirò nuovamente verso di sé.
«Siamo fidanzati da un anno, non sarà il caso di dare segni della nostra unione?»
Emily si liberò dalla sua stretta, ma non si allontanò e lo guardò fisso negli occhi.
«Le regole del nostro patto erano chiare fin dall’inizio. Non spenderò con te più tempo di quanto mi sia richiesto e sicuramente non spenderò soldi per una statua la cui vista mi sarebbe odiosa.»
Gabriel si portò una mano al cuore con fare melodrammatico, come se le sue parole lo ferissero profondamente.
Emily si alzò in punta di piedi e si piegò verso il suo orecchio, per bisbigliargli: «Ricordati che tutto quello che vedi qui mi appartiene, te incluso.»
Gli lanciò un ultimo sguardo eloquente e ritornò verso la villa, dove sapeva che Gabriel non avrebbe potuto seguirla. Era stata chiara nella divisione degli spazi. Lui avrebbe avuto la dépendance dall’altro lato del giardino e l’accesso nella villa gli era permesso solo quando c’erano ospiti.
Per quanto le scocciasse ammetterlo, Roman aveva ragione. Gabriel era una mina vagante e la sua presenza era un rischio, ma Emily non aveva ancora finito con lui.
 
 
 
***
 
 
Richard Leroy aveva una passione per gli scacchi. Ci giocava una volta a settimana in un vecchio club di cui faceva parte da anni. 
Si sistemava sempre allo stesso tavolo vicino alla finestra che affacciava sul campo da golf, su una poltrona di velluto marrone e la scacchiera sul tavolo in legno scuro.
La sala era generalmente silenziosa, gli altri presenti leggevano giornali o fumavano sigari parlando sottovoce di affari e politica.
«Devo ammettere che sono rimasto sorpreso quando hai finalmente accettato il mio invito ad una partita» disse Richard, squadrando l’avversario del giorno. Suo figlio Gabriel indossava una camicia azzurrina e una giacca di una tonalità più scura, abbinata con i pantaloni eleganti.
«Non potevo rifiutare per sempre» rispose l’altro con un sorriso, «so quanto tieni agli scacchi.»
Prima che potessero continuare la loro conversazione, iniziarono a giocare.
Richard studiava la scacchiera con la tranquillità di chi compie un’azione ormai naturale. Dietro ai suoi occhi chiari, la mente ragionava in modo pacato e senza fretta sulla strategia migliore.
Anche Gabriel prendeva tempo per le proprie mosse, ma il leggero tremore della sua gamba destra rivelava un certo nervosismo.
«Giocare a scacchi ha numerosi vantaggi» gli disse il padre, mentre attendeva la sua decisione. «Oltre a migliorare le capacità strategiche, ti permette di liberare la mente nel tempo di una partita e dimenticare le preoccupazioni.»
«A quanto pare permette anche di impartire lezioni di vita» commentò ironico Gabriel e mosse il suo cavallo. Il padre lo eliminò rapidamente con un alfiere e risollevò gli occhi verso di lui.
«Che cosa ti preoccupa così tanto da non lasciarti concentrare?» gli domandò.
Il tremore della gamba di Gabriel aumentò ed entrambi lo notarono. Il giovane si posò una mano sulla coscia e cercò di assumere una posa rilassata, poggiando la schiena sulla poltrona.
«Mi chiedevo se quel fondo per il college… insomma, se io potessi avere ancora accesso a quel fondo».
Richard lo studiò per un istante, sondando il volto appuntito del figlio.
«Hai intenzione di riprendere gli studi?» 
Per quanto desiderasse una risposta affermativa, l’uomo non vi riponeva alcuna speranza. La condotta del giovane negli ultimi anni aveva dimostrato che considerasse un’istruzione meno rilevante di un orologio di lusso. 
Gabriel scosse il capo. «No, e mi dispiace darti questa risposta, ma dato che la mia vita sta prendendo una giusta piega, vorrei usare quei soldi per iniziare una carriera.»
Richard lo squadrò in silenzio per qualche istante, poi proruppe in una grassa risata che attirò non pochi sguardi verso di loro. Si scusò con un cenno e tornò a guardare divertito il figlio, che nel frattempo aveva assunto un colorito pallido.
«Non dire stronzate, Gabriel. Non sei fidanzato con una donna di buona famiglia e ben inserita nella società, ma con un enigma vivente che probabilmente nasconde più crimini che scheletri nel proprio armadio. Io non la chiamerei una “giusta piega”.»
Le labbra del giovane erano diventate una linea sottilissima. Era evidente che la conversazione non stesse andando dove voleva, ma suo padre non aveva finito. Dopo essersi fatto portare un bicchiere di whiskey, riprese, piegandosi in avanti e abbassando la voce: «Lasciami indovinare per cosa ti servono quei soldi. Festini? Droga? Donne? O, più probabilmente, per saldare i debiti derivanti da tutte le precedenti categorie?»
Gabriel serrò i denti e strinse i pugni, deciso a non mostrarsi sconfitto in un confronto che aveva perso fin dall’inizio.
«Perché non chiedi i soldi alla donna con cui vivi? Perché non chiedi alla duchessa?» riprese il padre in tono canzonatorio. 
Il giovane sbuffò, scuotendo il capo.
«E poi cosa? Farle vendere i miei organi al mercato nero?» replicò. «Mi tiene tra le sue mani come un burattino, non posso chiederle anche questo.»
Richard fissò per un momento quegli occhi azzurri così simili ai propri eppure così diversi.
«Sei mio figlio e io tengo a te, ma non ti aiuterò a portare avanti questo stile di vita autodistruttivo.»
Gabriel fece una risata di scherno, mentre il suo volto si arrossava. L’accaldarsi dei toni aveva di nuovo attirato le attenzioni dei presenti, che spostavano gli occhi dai propri giornali per lanciare uno sguardo fugace e scocciato a chi li disturbava.
Gabriel fece un cenno di saluto con un sorriso derisorio a uno dei presenti e Richard si voltò velocemente per scusarsi con chiunque suo figlio stesse schernendo. Robert Henderson distolse gli occhi dalla scena per tornare a conversare con gli altri due uomini intorno al suo tavolo.
«Mi disprezzi, eppure io sono qui, libero e immacolato, mentre il figlio di quell’uomo è in carcere da un anno» commentò Gabriel.
Richard lo schernì con una risata: «Non paragonarti ad Alexander Henderson. Lui ha lavorato duramente e se è finito in carcere è perché ha pestato i piedi alla persona sbagliata. È stato fregato, mentre tu, semplicemente non ti sei ancora fatto beccare.»
Il giovane cominciò ad agitarsi, muovendosi sulla poltrona come se scottasse.
«Stai dicendo che Henderson è più innocente di me?» sputò, con uno sguardo di fuoco.
«Non posso parlare per Alexander, ma conosco te».
Gabriel scattò in piedi e la poltrona su cui era seduto strisciò sul parquet con uno stridore fastidioso.
«È sempre un piacere giocare a scacchi insieme, padre» disse, a denti stretti, e si diresse a grandi passi verso l’uscita, senza voltarsi indietro.
 
 
Gabriel aveva perso il conto dei bicchieri che aveva scolato. Il suo corpo era abituato a quelle quantità e, purtroppo, era solo a metà strada verso l’annebbiamento totale. Si sentiva ancora troppo lucido per i suoi gusti.
Aveva trovato quel pub in una delle numerose fughe dal club che tanto piaceva a suo padre e da allora era il suo punto fisso per ubriacarsi dopo l’ennesima discussione con Richard. Anzi, l’ultima, si augurò mentre prendeva dal bancone il bicchiere che il barista aveva appena sostituito con il precedente vuoto.
«Il prossimo lo offro io».
Una voce bassa e maschile lo fece voltare alla sua sinistra, dove un uomo alto e ben piazzato aveva appena preso posto sullo sgabello al suo fianco. Aveva i capelli rasati e una folta barba scura copriva parte del suo volto, ma dove la pelle era libera si potevano scorgere alcune cicatrici biancastre.
Quando gli passò un nuovo bicchiere pieno, Gabriel vide che le sue mani erano ricoperte di tatuaggi.
Prese un respiro profondo e lanciò un’occhiata alle proprie spalle. Il pub era poco affollato, ma c’era comunque una decina di persone. Se era venuto per ammazzarlo, lì dentro era al sicuro.
«Senti, chi ti manda? Lawrance? Flores? Chiunque sia, avrò tutto il più presto possibile.»
L’uomo piegò le labbra in una smorfia e Gabriel intuì che quello era il suo modo di mostrare che era divertito.
«Seriamente, chi ti manda?» gli domandò ancora.
L’altro scosse il capo. «Non sono venuto a chiedere soldi, ma a fare un’offerta.»
Gabriel si raddrizzò e strinse gli occhi, per osservarlo meglio. 
«Di che tipo?»
«Mi servono informazioni. In cambio di contanti».
L’offerta suonò invitante alle orecchie del giovane e il suo sorrisetto non lo nascose, ma aveva imparato a diffidare da ciò che scintillava.
«Che tipo di informazioni?»
«Sulla duchessa».
Gabriel non si scompose. Poteva immaginarlo. Tanti gli avevano chiesto dettagli sulla sua misteriosa “fidanzata”, ma lui era sempre stato riservato. O almeno, prima di quel momento nessuno aveva offerto banconote in cambio.
«Oh, Cassandra!» esclamò. «L’amore della mia vita, il raggio di sole che ogni mattina mi fa alzare dal letto, il sorriso che scalda il mio cuore. Perché dovrei tradire la fiducia della mia donna?»
L’uomo non parve impressionato dalla sua recita.
«Siete fidanzati da un anno senza alcun accenno di matrimonio. Si può presuppore che si tratti di un’unione di facciata. E di interesse» gli disse infatti, imperturbabile.
«Il mio cuore brucia per lei e il mio amore non può essere sminuito ad una semplice formalità quale il matrimonio» replicò il giovane, imbronciando il viso.
L’altro parve scocciarsi per il prolungarsi della conversazione. 
«Anche l’amore ha un prezzo e sono certo che potremo stipulare un buon accordo. In caso contrario, ti posso lasciare a Lawrance, Flores e tutti gli altri.»
Sentire quei nomi fece rabbuiare Gabriel e gli fece tornare in mente che, in effetti, non aveva possibilità di scelta.
«Quali informazioni servono?» domandò, in tono più serio.
L’uomo parve soddisfatto dal nuovo tono della conversazione.
«Qualsiasi cosa possa farla affondare. Qualsiasi punto debole, qualsiasi breccia nel suo sistema inespugnabile, qualsiasi tassello senza il quale crollerà.»
Gabriel si prese il proprio tempo per pensarci, anche se la risposta era ormai chiara. Quando fece un cenno di assenso, l’uomo si frugò nelle tasche del cappotto ed estrasse un vecchio cellulare che gli passò.
«C’è un solo numero in rubrica, chiamami quando avrai delle informazioni e ci accorderemo su dove trovarci.»
Gabriel annuì e fece sparire il cellulare nella tasca interna della giacca.
L’uomo si alzò, ma il giovane lo bloccò: «Aspetta. Chi ti manda?»
L’altro fece di nuovo quella smorfia che doveva essere un sorriso. «Questo a te non importa, Leroy.»
 
 
 













 







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Capitolo 3
*** Un piccolo favore ***




Un piccolo favore


 
 
L’aria era pervasa da profumi costosi e chiacchiere inconsistenti.
La villa in cui si teneva la cena “intima” di un centinaio di persone era di proprietà di un preside universitario ormai in pensione, la cui moglie aveva una passione per organizzare ritrovi per membri dell’alta società. Si vantava di avere un certo occhio nel distinguere chi provenisse da una famiglia altolocata e gli invitati alle sue cene si sentivano lusingati quando erano circondati da persone rinomate e ben conosciute.
Camille sorseggiava il suo champagne da un angolo, nella vaga speranza di mimetizzarsi con la tenda a stampa floreale che c’era al suo fianco. Evitava di incrociare qualsiasi sguardo per non dare a nessuno la possibilità di iniziare una conversazione.
Suo padre non attese uno scambio di sguardi per attraversare la sala e fermarsi accanto a lei.
«Tesoro, ne abbiamo parlato prima» le disse sottovoce in francese. La stanza era piena di gente che si credeva raffinata a studiare francese e pianoforte, quindi il signore Lefebvre non poteva parlare liberamente neanche nella propria lingua madre.
«Questa festa è piena di giovani non sposati che farebbero la fila per corteggiarti».
Camille lo guardò in silenzio, un’occhiata lunga e priva della dolcezza che caratterizzava ogni suo gesto. Questo era il suo modo di dimostrarsi disturbata.
«E io caro padre, ti ho ripetuto che sono una donna sposata e sarebbe sconveniente mostrare interesse verso altri uomini» replicò, prendendo subito dopo un altro sorso di champagne.
Suo padre le si mise davanti e la guardò dritta negli occhi. Le rughe sulla sua fronte ne manifestavano la preoccupazione. 
«Tesoro, so che quando Alexander tornerà ti sembrerà di poter riprendere il matrimonio da dove lo avete interrotto, ma non sarà così. Alexander non godrà mai più della credibilità che aveva prima e questo peso ricadrà su di te. Fidati di me, Camille, sei ancora in tempo per salvarti.»
Lei sospirò e posò con delicatezza una mano sul braccio del padre. Quando mosse il capo, i suoi capelli biondi ondeggiarono, spargendo il profumo nell’aria.
«Non sei riuscito a convincermi in questo anno e non ci riuscirai ora. Non ho bisogno di essere salvata da un matrimonio pieno di amore. Non mi importa quello che la gente penserà di Alexander, ma mi importa di essere la moglie che gli ho promesso di essere su quell’altare, finché morte non ci separi.»
Suo padre dovette notare il colorito che le sue guance avevano preso e con un suono a metà tra uno sbuffo e un sospiro lasciò cadere la conversazione, consapevole che non avrebbe portato nessun frutto.
«Mi auguro solo che tu stia compiendo la scelta giusta. Dopo un anno di carcere, Alexander sarà cambiato e nulla sarà come prima.»
Lei fece un cenno di assenso e, nascondendosi dietro al calice, distolse lo sguardo, nel tentativo di estraniarsi da quella conversazione e da quel luogo.
Non rimase sola a lunga, perché una figura le passò davanti per poi bloccarsi, come colpita da una visione inaspettata. Si trattava di un giovane uomo alto e snello, con i capelli scuri ben pettinati all’indietro e gli occhi di un azzurro brillante che indagavano il volto di lei. Si guardarono per qualche istante in silenzio, prima che lei dischiuse con sorpresa le labbra e mormorò un attonito: «Tristan?»
Sul viso dell’altro si aprì un grande sorriso. «Credevo ti fossi dimenticata di me».
Si piegò in avanti per salutarla con due baci e le narici di Camille furono invase dal suo profumo intenso. La donna si riprese dalla sorpresa e si concesse una risata sincera.
«I miei ricordi di te sono troppo cari per essere dimenticati» aggiunse, cercando sul volto di Tristan i tratti del suo amico d’infanzia.
La prima cosa che la colpì furono le stesse iridi color mare che le ricordavano delle estati trascorse in Costa Azzurra, nell’albergo della famiglia di Tristan. I due avevano anche studiato insieme per un certo periodo, fino a che la bancarotta dei suoi genitori aveva costretto Tristan a trasferirsi e finire le scuole superiori lontano da Parigi. Camille non lo vedeva da allora. Si erano parlati ancora al telefono, ma non erano mai riusciti ad incontrarsi. Le loro vite erano andate avanti nonostante la grande amicizia che avevano condiviso da bambini.
«Spero di non disturbarti. Mi sembra che questa sera tu non abbia voglia di stare in mezzo alla folla» le disse.
Lei sorrise. «Un vecchio amico non c’entra nulla con la folla che sto evitando. Perché non troviamo un luogo tranquillo e mi racconti tutto quello che mi sono persa?»
Gli occhi di Tristan si illuminarono e fece un entusiastico cenno di assenso, mentre le porgeva il braccio. Camille lo accettò di buon grado e si lasciò condurre in una sala adiacente meno affollata. Riuscirono a prendere posto su alcune poltrone dall’aspetto confortevole e un cameriere sostituì i loro bicchieri vuoti con altri nuovi.
Camille si sforzò di tenere la conversazione su Tristan e gli rivolse una domanda dopo l’altra per non dargli il tempo di porle domande a sua volta. Scoprì che aveva riacquistato l’albergo di famiglia e che si trovava a Tridell per affari, ma forse si sarebbe trattenuto più a lungo se il suo soggiorno sarebbe stato proficuo. La donna notò che Tristan aveva ancora l’abitudine di sorridere con lo sguardo schivo quando qualcosa lo imbarazzava e che, a volte, sembrava lo stesso ragazzino impacciato con cui scorrazzava sulle spiagge del sud della Francia, quando le sue mani si muovevano più del dovuto o la sua gamba tremava nervosamente. I suoi modi erano gentili e delicati, parlava di sé solo quando era lei a incoraggiarlo e non c’era arroganza o superbia nel suo modo di fare.
«Mi dispiace non essere riuscito a venire al tuo matrimonio» le disse ad un certo punto, cambiando direzione della conversazione. 
Camille si irrigidì involontariamente, ma il suo sorriso rimase largo e luminoso. Un anno prima Tristan aveva risposto al suo invito declinandolo, ma lei non si era sentita offesa. Le avrebbe fatto piacere rivederlo, ma i suoi ospiti erano stati comunque numerosi e non avrebbe potuto rincrescersi di ogni assenza.
«In quel periodo ero impegnato con le trattative per riacquistare l’albergo. Sai quanto ci tenesse la mia famiglia» aggiunse lui.
«Nessun problema» gli disse. «Sono felice di poterti vedere ora.»
Lui prese un sorso dal calice, con gli occhi persi in un punto indefinito tra il bracciolo della poltrona di Camille e il parquet. Quando tornò a guardarla, aveva un sorriso timido stampato sul volto.
«Come sta tuo marito?» le chiese con fare cauto. «Alexander, giusto?»
Lei annuì. Gli occhi di Tristan erano leggermente sgranati, con le ciglia scure allungate verso l’alto, mentre la scrutava in attesa di una sua reazione.
«Sta bene. Tra qualche giorno potrò riabbracciarlo.»
«Mi è dispiaciuto davvero sentire…» l’uomo esitò un istante, per assicurarsi che lei non fosse troppo a disagio. Il silenzio della donna lo fece proseguire: «…del suo arresto.»
Camille lo ringraziò con un cenno del capo, poi commentò, in tono più vivace: «Sono sicura che gli farà piacere conoscerti! Ti piace ancora giocare a tennis?»
Tristan annuì.
«Allora organizzerò una partita, così potrete incontrarvi e passeremo del tempo insieme» la voce della donna aveva preso una nota entusiasta e anche lui si lasciò coinvolgere da quell’entusiasmo.
«Non vedo l’ora» le disse, senza smettere di sorridere.
 
 
 
***
 
 
Noah frugava nella sua pila di giochi alla ricerca del pezzo mancante del puzzle ed Emily lo fissava seduta insieme a lui sul tappeto, con un sorriso sul volto.
Il bambino aveva le guance arrossate e i capelli arruffati e a lei sembrava un’opera d’arte.
«Avete fatto pace?» le domandò Roman, che leggeva poco distante sullo stesso tappetto, ma steso su di una coltre di cuscini per stare più comodo. Lanciò un’occhiata alla giovane scostando leggermente il libro.
«Certo» rispose Emily con un sorriso, ma prese subito un respiro profondo.
Aveva saputo fin dall’inizio che non sarebbe stato semplice, ma non credeva che avrebbe fatto così male. Noah ormai si era abituato e lei aveva cercato l’aiuto dei migliori esperti di psicologia infantile per assicurarsi che stesse bene. Eppure, c’erano ancora alcuni momenti in cui faceva i capricci e, come tutti i bambini, aveva il perverso potere di dire la cosa peggiore nel momento peggiore. Per Noah si era trattato di pestare i piedi per terra e gridare: «Non è vero che sei la mia mamma! Sei cattiva! Voglio andare via!».
Razionalmente Emily sapeva che era solo un’esplosione momentanea e che suo figlio non credeva a quelle parole – lui stesso glielo aveva assicurato poche ore più tardi, quando si era infilato nella sua camera da letto e con la testa china aveva farfugliato che gli dispiaceva e che non era vero. «Sei la mamma più bella del mondo» le aveva detto, cingendole il collo con le sue braccia e addormentandosi con il mento sulla spalla di lei. Ma la giovane non riusciva a cancellarsi dal petto quella sensazione di opprimente dolore che l’aveva schiacciata nell’udire per la prima volta quelle parole. Era ripiombata nella stessa situazione di terrore di quando le avevano portato via Noah e lei non aveva potuto far altro che rimanere a guardare, impotente.
Non importava l’abito di seta che indossava in quel momento, o la ricchezza del tappeto su cui sedeva, o il numero di camerieri che lavorava per lei. Dentro era la stessa ragazzina spaventata senza nessuno al mondo.
Nessuno tranne Roman, si corresse con un sorriso, guardandolo alzarsi in piedi per dirigersi verso la porta della stanza dove avevano bussato. Dopo aver scambiato due parole sussurrate sulla soglia, lo sentì tornare verso di lei e accucciarsi al suo fianco.
«Non immaginerai chi vuole parlarti».
Emily si voltò a guardarlo sbattendo le palpebre, perplessa. «Di sabato mattina?»
Lui annuì, con un sorriso ironico che fece comparire una fossetta sulla sua guancia.
«Camille» le disse e lei corrugò la fronte.
«Lefebvre?»
«Henderson» la corresse e lei fece una smorfia.
«Quella donna non ha brunch di ereditiere viziate a cui partecipare a quest’ora?» si lamentò mentre si alzava in piedi. «Noah, la mamma torna subito, con te rimane Roman, okay?»
Si avvicinò al bambino e gli lasciò un bacio sulla fronte.
«Mi stai estromettendo dal potere per relegarmi al ruolo di babysitter?» si lamentò lui, ma Emily lo zittì con uno schiocco di labbra e si diresse verso la porta.
Al di fuori l’attendeva il maggiordomo che aveva bussato e si lasciò condurre da lui verso l’ingresso.
Camille indossava un ampio cappello di paglia e, dall’alto della scalinata, quella fu la prima cosa che Emily vide. Una circonferenza chiara che faceva avanti e indietro sul suo pavimento di marmo. Da sotto al cappello comparivano i pantaloni a palazzo color acquamarina e i tacchi dello stesso color paglia.
«Che sorpresa» esordì la padrona di casa, cominciando a scendere le scale solo quando si fu assicurata di avere l’attenzione dell’altra.
Camille alzò gli occhi verso di lei e il suo volto comparve da sotto il capello, con un sorriso che metteva in mostra i suoi denti perfetti.
«Mi dispiace essermi presentata senza nessuno preavviso» si scusò subito, andandole incontro.
Non appena Emily posò i piedi sul pavimento, si rese conto della notevole differenza di altezza con l’altra, che con i tacchi la superava di più di venti centimetri.
Si raddrizzò e le rivolse un sorriso trattenuto. «Se ogni visita avesse un preavviso, la vita sarebbe banale».
Le fece cenno di seguirla e la condusse in una piccola sala adiacente all’ingresso. Mentre Camille prendeva posto su una delle due poltrone disposte intorno al tavolino, Emily chiese al cameriere di portare loro qualcosa da bere.
«Cosa posso fare per te, Camille?» chiese la padrona di casa, non appena due bicchieri di limonata furono posati davanti a loro.
Di solito Emily adorava crogiolarsi nell’attesa dei suoi interlocutori, ma in quel momento non aveva voglia di inutili preamboli. Doveva saperlo, ora, cosa ci facesse quella donna nel suo palazzo.
«Io…mi dispiace davvero comparire così e spero di non recarti alcun disturbo…» cominciò l’altra, ma dovette vedere lo sguardo palesemente impaziente della duchessa, perché affrettò le sue parole. «Mio marito, Alexander, esce dal carcere tra due giorni. So che le cose non torneranno ad essere come prima, ma vorrei aiutarlo e rendergli la vita più facile, se possibile.»
Emily trattenne a stento un sorrisetto storto e si allungò per prendere la sua limonata. La sua mente si figurava il momento in cui avrebbe detto ad Alex che la sua mogliettina era strisciata da lei a chiedere aiuto. Già vedeva il panico nelle iridi ambrate di lui.
«So che l’anno scorso sei stata un’alleata preziosa durante la campagna elettorale e mi chiedevo se potessi chiederti un altro favore.»
La duchessa sentì un fermento nel suo stomaco e una sensazione di ebbrezza che le andò alla testa.
«Sei fortunata» replicò e si passò la lingua sulle labbra, come assaporando quel momento. «Si dà il caso che concedere favori sia la mia specialità».







 
 

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Capitolo 4
*** Ricordi dal passato ***


Ricordi dal passato
 



Il giorno era arrivato.
Lo aveva immaginato tante volte, steso sulla sua brandina con gli occhi fissi sul soffitto grigio della cella. La sua mente aveva creato scenari ipotetici su come tutto si sarebbe svolto, su come sarebbe tornato un uomo libero. Alexander si sentiva eccitato come un ragazzino e allo stesso tempo terrorizzato.
Aveva vissuto come un’ombra durante l’anno precedente e temeva che quella sensazione di vuoto interiore lo avrebbe seguito anche una volta tornato un uomo libero.
L’attesa lo stava logorando. Sapeva che ci sarebbero state carte da firmare e che mancavano alcune ore alla sua liberazione, ma era impaziente. Lo avevano lasciato in uno stanzino scarsamente illuminato, dove gli avevano permesso di cambiarsi, e nessuno si era più fatto vivo per qualche decina di minuti.
Quando finalmente vide la maniglia della porta abbassarsi, ricevette il primo schiaffo in faccia dalla realtà. Ancora non poteva dirsi un uomo libero e già una vecchia conoscenza gli si palesava, prima di tutto sotto forma di una voce irritante.
«Spero che tu sia vestito, ma in ogni caso nulla che io non abbia già visto» disse la voce mentre la porta si apriva e rivelava la figura della duchessa sulla soglia.
Lei gli lanciò un’occhiata, quasi delusa di vederlo già coperto, poi entrò nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.
«Cosa ci fai qui?» ringhiò lui, stringendo i pugni. «Credevo di essere stato chiaro. Non voglio avere nulla a che fare con te.»
Emily rise e si appoggiò al tavolo su cui stava piegata la tuta che Alexander si era appena tolto.
«Sai qual è il segreto di un buon matrimonio?» gli chiese e lui sentì chiaramente di star perdendo la pazienza. Le orecchie presero a ronzare e il sangue gli andò alla testa.
«Non ho più voglia di ascoltare le tue stronzate» le disse trapassandola con lo sguardo.
Emily inclinò il capo, incuriosita e divertita dalla conversazione. I suoi capelli ondeggiarono, una cascata di ricci scomposti che le ricadeva sul petto e sulle spalle.
«La comunicazione, Alexander. La comunicazione».
Si staccò dal tavolo per andargli incontro e lui rimase saldo nella sua posizione. Non avrebbe indietreggiato di fronte a una ragazzina.
«Sono stanco» le disse in tono fermo, ma lei continuò ad avanzare fino a che non fu sotto al suo naso.
«Di me?» lo istigò la giovane e subito il suo volto si illuminò con un sorriso. «Sembra che al tuo matrimonio manchi della comunicazione, caro. Camille è venuta da me e mi ha implorata di aiutarla. Di aiutare te a riprendere in mano la tua vita. Sa che sei un uomo troppo orgoglioso per accontentarti di vivere nell’ombra della maldicenza. Vuole che io ti reinserisca nell’alta società.»
Fece una pausa e gli posò una mano sul petto, facendosi ancora più vicina. Alex le afferrò il polso e scacciò la mano, ma lei non fece una piega. Continuò a guardarlo negli occhi con aria divertita.
«Ironico, no? Vuole che la ragazzina povera aiuti l’ereditiere a rientrare nel mondo da cui era scappato».
Emily risollevò la mano e la portò sulla guancia di lui, per accarezzargliela come si farebbe con un amato. Questa volta lui la lasciò fare, ma il suo volto era di marmo.
«La vita si prende gioco di noi, Alexander, credimi».
«E a te riesce bene distruggere quella degli altri».
Lei roteò gli occhi e si staccò da lui, poi si diresse verso la porta.
«Non crederti migliore di me» gli disse, voltandosi leggermente, ma senza guardarlo. «O vuoi spiegarmi perché tua moglie dopo un anno non sa che sono stata io a farti finire in prigione?»
Si ruotò quanto bastava per lanciargli un’occhiata fugace da sotto le ciglia scure. «Anche i segreti distruggono la vita delle persone, Alexander.»
Attese per un secondo una risposta che non arrivò, così con un sospiro se ne andò.
 
Lo fecero uscire un’ora più tardi. Non appena mise piede fuori dal perimetro del carcere, notò l’auto nera di suo padre. La portiera si aprì e ne uscì una figura sottile fasciata da un abito di un bianco accecante sotto il sole flebile di quel giorno. Un colpo di vento fece ondeggiare la gonna e lei sembrò un’immagine vaga tratta da un dipinto impressionista.
Mentre gli correva incontro, Alexander si accorse che si trattava di Camille e quando lei gli si gettò al collo, la strinse a sé, inspirando il suo profumo che non sentiva da troppo tempo. 
Camille si scostò quanto bastava per guardarlo negli occhi e lui si accorse che stava piangendo.
«Mi sei mancato» gli sussurrò e lo baciò.
Alexander si lasciò andare a quel bacio, accarezzandole i capelli lisci.
«Anche tu» le sussurrò a fior di labbra.
Tenendosi per mano, si diressero verso l’auto.
Robert Henderson non si scomodò a scendere, ma rimase sul sedile del passeggero e quando gli altri due furono saliti, fece cenno all’autista di partire.
«Ben tornato tra di noi, Alexander» fu il suo unico commento. Il figlio gli rispose con un cenno del capo.
Per tutto il viaggio, Camille rimase seduta vicino a lui, con la testa appoggiata alla sua spalla e un braccio che gli circondava il petto.
Lui cercò di lasciarsi cullare da quella sensazione piacevole, ma non riusciva a togliersi dalla testa l’incontro con Emily di quella mattina. Camille era davvero andata a parlarle? Se così fosse stato, comunque non gli avrebbe detto nulla, ma lui sapeva che sua moglie non era il tipo di persona che poteva mettersi in affari con la duchessa e uscirne incolume. Camille era troppo ingenua e tendeva a vedere il meglio in ogni persona.
Ma c’era qualcos’altro che stava martellando la sua testa minacciando un acuto mal di testa. Emily aveva ragione. Perché lui non aveva detto nulla a Camille? Non lo aveva fatto fin dall’inizio, ma non è così che si comportano marito e moglie.
Strinse i denti e cercò di distrarsi guardando fuori dal finestrino. Non riusciva a smettere di pensare a cosa ne sarebbe stato del loro matrimonio.
 
 
 
 
***
 
 
 
Mentre inspirava l’odore del terriccio appena sistemato, Roman pensò che era impaziente per l’arrivo della primavera. Adorava passeggiare nel giardino fiorito e lasciar vagare il suo sguardo sulle piante ben potate o le sculture che Emily aveva fatto sistemare lungo le siepi.
Si fermò di fronte alla statua bianca di una donna coperta da un leggero velo, che poco nascondeva delle sue forme. Con il braccio destro sorreggeva un’anfora, ma il suo volto puntava nella direzione opposta, con gli occhi che scrutavano l’orizzonte.
«C’è qualcosa nella sua espressione che non mi convince»
La voce veniva dalle sue spalle, ma Roman non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere il proprietario. Rimase a fissare la statua e, mentre sentiva i passi avvicinarsi, pensò che avrebbe dovuto chiedere a Emily di mettere il veto anche sul giardino. Non voleva correre il rischio di incappare in Gabriel ogni volta che usciva per fare una passeggiata.
«Nessuno ti costringe a guardarla» replicò, cercando di rimanere calmo.
Vide Gabriel entrare nel suo campo visivo a sinistra, ma non si prese la briga di distogliere lo sguardo dalla donna di marmo.
«Non capisco l’origine del tuo astio nei miei confronti» commentò il nuovo venuto. Roman sapeva che lo stava fissando, ma non gli diede la soddisfazione di ricambiare lo sguardo.
«Sei l’incarnazione di ciò che vorrei sparisse da questo mondo, Leroy. Non prenderla sul personale» replicò sarcastico. 
«Ma abbiamo così tanto in comune!» protestò l’altro come un ragazzino in punizione.
Roman si voltò a guardarlo e incrociò i suoi occhi di ghiaccio.
«Non potremmo essere più diversi» gli disse con una smorfia di disgusto.
«Entrambi teniamo alla cara duchessa» ribatté Gabriel, come per provare il suo punto.
Roman scoppiò a ridere, scuotendo il capo. Non aveva né la voglia né le forze di replicare.
«Io e lei non siamo così diversi» aggiunse Gabriel.
Roman gli rivolse uno sguardo bieco e si accorse che gli occhi dell’altro non lo stavano più guardando, ma si erano spostati su qualcosa alle sue spalle. Si voltò e notò che le vetrate del patio che affacciava sul giardino erano aperte, lasciando intravedere all’interno la figura di Emily che passeggiava con Noah tra le braccia.
Roman tornò a guardare Gabriel e notò che aveva stampato sulle labbra un sorrisetto che non prometteva niente di buono.
Non fece in tempo a parlare, perché un cameriere li raggiunse e gli disse che qualcuno lo stava aspettando. Roman nascose la sorpresa davanti a Gabriel, ma si sottrasse volentieri alla sua presenza seguendo il cameriere verso il palazzo.
Come tutti gli ospiti inattesi e sconosciuti, anche questo era stato fatto accomodare nel salotto rosso, una piccola stanza vicino all’ingresso dove erano sistemate alcune poltrone intorno ad un tavolo da caffè. 
«Ha detto di chiamarsi Isabel Lopez e di voler parlare con Roman Deleon» gli riferì il cameriere. Lui fece un cenno di assenso e lo ringraziò prima di entrare nella stanza.
Isabel Lopez era una donna di media statura dalla pelle di bronzo e i capelli color pece raccolti in una coda di cavallo. Indossava ancora il cappotto e se ne stava vicina alla spessa tenda color carminio che oscurava l’unica finestra della stanza.
Sul tavolino erano già stati sistemati due bicchieri e alcune bottiglie di vetro che lasciavano intravedere il contenuto di colori diversi.
«Posso offrirle qualcosa da bere?» domandò Roman avvicinandosi al tavolo. Aveva bisogno di prendere tempo per cercare di ricordare se avesse già visto la donna e intanto le lanciò un’occhiata fugace. Lei teneva le mani nelle tasche del cappotto, ma tutto della sua posizione lasciava intuire una certa tensione, come se fosse pronta a scattare da un momento all’altro.
«No, grazie» rispose. Aveva una voce bassa e calda.
Roman versò un bicchiere per sé e le chiese: «Vuole accomodarsi?»
Lei sbatté le palpebre, poi fece un cenno di assenso e cominciò a sbottonarsi la giacca.
«Certo»
Quando si tolse il cappotto, rivelò che al di sotto portava una camicia chiara e dei pantaloni blu che le davano un’aria formale. Sistemò la giacca sulla sedia e prese posto di fronte a Roman.
«Devo indovinare il motivo della sua visita o mi grazierà con una risposta?» le chiese lui, scrutandola.
Era abbastanza certo di non aver mai visto la donna prima. Il suo portamento, i suoi occhi luminosi, i tratti decisi del suo volto, erano qualcosa che non avrebbe dimenticato facilmente. Ancora non era riuscito a leggerla. Era così riservata da apparire impenetrabile.
«Certo» ripeté lei e frugò nella tasca interna del capotto. Quando ne estrasse un distintivo, Roman si sentì impallidire. «Detective Lopez, sono qui per farle alcune domande.»
«La mia gentile padrona di casa non apprezza molto le visite a sorpresa della polizia. Forse dovrebbe parlare prima con lei, per non correre il rischio di offenderla» replicò lui e si portò il bicchiere alle labbra per prendere un sorso.
«Da quello che mi risulta la casa è intestata a lei, Roman Deleon.»
Deglutì il drink a fatica. Qualcuno ha fatto i compiti, pensò.
«Quindi credo che non ci sia motivo di scomodare la duchessa». Pronunciò quel titolo con un velato disprezzo e sarcasmo.
Roman la fissò impassibile. «Ancora non mi ha detto perché è davvero qui».
Lei prese dalla sua borsa una cartelletta. L’aprì, ne estrasse una fotografia e la mostrò all’altro. Era il ritratto di un uomo di mezz’età, con i capelli ingrigiti e le rughe che incorniciavano i suoi occhi.
«Ha mai visto quest’uomo?»
Roman lo fissò per qualche istante, con la fronte corrugata, poi scosse il capo.
«Dovrei?» chiese, riportando lo sguardo sulla detective.
L’espressione di lei gli fece capire che non gli credeva.
«Si chiamava Andrew Bellingham ed è stato assassinato otto anni fa in casa propria» gli disse, tenendo la fotografia di fronte a sé.
Roman rise: «Quindi lei è venuta qui per parlare di un omicidio avvenuto otto anni fa? Avete chiuso tutti i casi più recenti e non vi resta altro da fare?»
La donna gli mostrò un sorriso palesemente falso, poi ripose la fotografia nella cartelletta.
«Sono emerse nuove prove e gli eredi hanno chiesto di riaprire il caso.»
Rimasero a fissarsi per un istante in silenzio.
«Lei sembra giovane, detective Lopez, e immagino che sia all’inizio della sua carriera. Le voglio dare un consiglio: impuntarsi su un caso impossibile non la aiuterà a fare strada.»
«Non ho bisogno di nessun consiglio» replicò lei secca.
Roman scrollò le spalle e si alzò in piedi. «Dunque, non abbiamo altro da dirci»
La donna capì che la stava congedando e che non avrebbe detto una parola di più.
Si rimise il capotto e si diresse verso la porta.
«Jacob l’accompagnerà all’uscita» le disse Roman indicando il cameriere che aveva atteso all’esterno del salotto. 
«Non si disturbi, mi ricordo la strada» replicò lei.
Roman fece cenno a Jacob di seguirla ugualmente e attese fino a che non vide entrambi sparire alla fine del corridoio.
Una volta rimasto solo poté rilassare i pugni e si accorse che le sue mani tremavano. Con il respiro affannato, si affrettò verso il bagno più vicino e aprì il lavandino. Riempì le mani di acqua gelida e se la gettò sul volto, poi alzò gli occhi e guardò il proprio riflesso nello specchio. Era pallido e quegli occhi sgranati gli davano un’aria terrorizzata.
Prese un respiro profondo, mentre cercava l’asciugamano, e cercò di calmarsi. Dopo cinque anni con Emily aveva capito che poteva concedersi un minuto di panico e poi doveva tornare un freddo calcolatore per progettare la mossa successiva. Alla duchessa riusciva alla perfezione, era una maestra nel soffocare i sentimenti e lasciare posto ai piani, ma lui non riusciva ad essere insensibile come lei.
Si sentì afferrare dal panico e si coprì il volto con le mani.
 
 
***
 
 
Il pub puzzava di birra e, anche se fuori c’era ancora chiaro, più di un cliente sembrava ormai completamente schiavo dei fumi dell’alcool.
Gabriel prese posto sullo sgabello e ordinò da bere. Si lanciò un’occhiata alle spalle, ma vide solo gente ubriaca senza alcun interesse nei suoi confronti. Doveva immaginarselo che l’avrebbe fatto aspettare. Voleva sottolineare la sua superiorità, voleva ribadire che lui, Gabriel Leroy, sarebbe strisciato fino a quel pub ogniqualvolta avesse avuto bisogno di soldi, ma che non aveva alcun potere.
Lo lasciò attendere meno di quanto Gabriel si aspettasse. Sentì la porta aprirsi e lo vide entrare.
Era nuovamente vestito di nero dal capo ai piedi, con il volto nascosto dalla folta barba e gli occhi in ombra sotto il cappello nero di feltro. Teneva una mano in tasca e una stretta su una valigetta di pelle.
Gabriel scese mollemente dallo sgabello e gli tese la mano. L’uomo gli rivolse uno sguardo scettico, ma non la strinse.
«Sarà meglio che tu abbia qualcosa» gli disse rudemente e ordinò da bere. Prese posto al suo fianco e si mise la valigetta sulle gambe, ma continuò a tenere saldamente l’impugnatura.
«La scarsa considerazione che la gente ha di me sta cominciando a diventare offensiva»
L’uomo gli rivolse uno sguardo di pietra e Gabriel capì che era tempo di cominciare a parlare. Fece un sorrisetto.
«Se volete distruggere la duchessa, il suo punto debole è il bambino, Noah.»
 
 


 

 

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Capitolo 5
*** Noah ***


Noah
 


L’uomo lo guardò con l’aria di chi non è convinto.
«Spiegati».
Gabriel prese un respiro profondo. Era preparato.
«Dovevo dei favori a Cassandra, così l’anno scorso lei ha chiesto – o forse è meglio dire, ha pretesto – che annunciassimo il nostro fidanzamento.»
«Fin qui nulla di nuovo» commentò l’altro sbuffando.
«Ci sto arrivando» replicò Gabriel scocciato. «Una delle sue prime richieste fu di ottenere l’affidamento di questo bambino, Noah, dopo che la coppia che lo aveva adottato era risultata inadatta.»
L’uomo lo interruppe per chiedere spiegazioni e lui scrollò le spalle: «Una questione di droga, ma non mi stupirebbe se anche questa fosse stata una trovata della duchessa. In ogni caso mi chiese l’aiuto di mio padre che in quel momento aveva ripreso la posizione di sindaco dopo lo scandalo di Alexander Henderson.»
Gabriel fece una pausa, poi si lasciò scappare una risata: «Tridell è proprio la città degli scandali, no?»
L’impassibilità dell’altro lo spinse a continuare.
«Feci ciò che mi era stato chiesto e credo che quello fu l’ultimo favore che ottenni da mio padre. Io non so quanto lei conosca Cassandra, ma se pensa che io sia un caso disperato, è perché non ha mai visto lei.»
Scosse il capo e trangugiò il contenuto del suo bicchiere, poi si allungò sul balcone per ordinarne un altro.
«Spiegati meglio» lo incalzò l’uomo.
«Quando mi disse che voleva il bambino, non feci domande ed eseguii. Qualsiasi cosa lei faccia è frutto di un piano ben calcolato e, conoscendola, non mi ha stupito che fosse disposta ad utilizzare un bambino per ottenere i propri scopi.»
Gabriel si lanciò uno sguardo alle spalle. Il pub era occupato dagli stessi uomini ubriachi che non badavano a loro. Ruotò lo sgabello e si piegò leggermente in avanti, verso il proprio interlocutore. Lo sguardo gli cadde su quel lembo di pelle nuda tra le maniche e i guanti, su cui serpeggiavano diversi tatuaggi.
L’uomo si piegò a sua volta in avanti e, quando parlò, il suo fiato di tabacco accarezzò il volto di Gabriel.
«Continua»
Il giovane sospirò. «Non ho accesso al palazzo della duchessa e lei non mi ha mai fatto avvicinare al bambino, ma ci sono alcune cose che so. Noah non esce mai, frequenta una sorta di classe composta da bambini figli del personale o di parenti del personale. Se vuole il mio parere, la duchessa ha costruito una gabbia dorata intorno a lui.»
«Non voglio il tuo parere. Voglio fatti» ribatté l’altro.
Gabriel sollevò le sopracciglia e prese un sorso dal suo bicchiere.
«Non è chiaro?» rise. «Noah non era una pedina di un piano più complesso, era la meta.»
L’uomo non rispose subito e quella constatazione rimane sospesa nell’aria, pesando sulle loro teste.
«Ora puoi anche lasciare la valigetta» commentò il ragazzo ammiccando.
L’altro gli rivolse un’occhiata scocciata.
«Stai scherzando? Cosa pensi che me ne faccia di questa storia lacrimevole? Che ci scriva un romanzo?» replicò, stringendo a sé la valigetta. Poi si frugò nel cappotto ed estrasse una busta, che cacciò nelle mani di Gabriel.
«Questa è una prima parte. Modesta, come modeste sono state le tue informazioni. Portami qualcosa di più concreto e avrai il resto.»
Non aspettò la sua replica, ma scese dallo sgabello e uscì rapidamente dal locale.
Gabriel si infilò la busta in tasca e ordinò un altro drink.
 

 
 
***
 

 
 
Era una domenica soleggiata e fresca, ma nonostante il cielo sereno l’unico campo da tennis occupato era quello in cui giocavano Camille e Tristan. I due, vestiti completamente di bianco, scivolavano sul terreno fendendo l’aria con le racchette e rispedendo la palla all’altro lato con un sibilo.
Alexander li guardava dalle gradinate deserte, mentre sorseggiava il drink che lo staff aveva portato loro. Ad un sedile di distanza da lui sedeva il signor Lefebvre, che guardava la figlia giocare con aria compiaciuta.
«Mi sei sempre piaciuto, Alexander» gli disse ad un certo punto, interrompendo il silenzio che era calato tra loro da quando era cominciata la partita. «Ma ti devo confessare che mi sono dannato per cercare di convincere Camille al divorzio».
Alex gli lanciò un’occhiata. Non era sorpreso dalle parole dell’uomo, dal momento che le sue intenzioni erano state piuttosto prevedibili, quanto piuttosto dal candore con cui glielo aveva riferito.
«Senza offesa» aggiunse l’uomo, guardandolo con fare affabile.
L’altro scosse il capo. «No, sono certo che anche io avrei fatto lo stesso.»
Nel campo sotto di loro, Camille segnò il punto ed esultò con un saltello che fece svolazzare la sua gonna candida. Tristan corse a raccogliere la palla, poi le gridò qualcosa in francese ridendo. Subito il match riprese.
«L’amore che Camille prova per te è più forte del buon senso».
Alexander prese un respiro profondo e si concesse un altro sorso del suo drink prima di parlare.
«Per il suo bene, anche io vorrei che non fosse così».
Il signor Lefebvre espresse il suo consenso con un vigoroso cenno di assenso, poi mosse il bicchiere che reggeva in direzione del campo da tennis, dove i due concorrenti si stavano stringendo la mano.
«Tristan è un bravo ragazzo. Se Camille dovesse considerarlo come piano B, io non mi opporrei».
Alex rivolse un lungo sguardo all’uomo. Aveva sempre conosciuto la parte affettuosa e benevola di Gerald Lefebvre, ma sapeva che nel suo ambiente lavorativo aveva la fama di essere un avvoltoio. Squartava le sue prede con un’impassibilità glaciale.
«È per questo che si trova qui? Per tentare Camille a lasciarmi?»
Gerald si voltò stupito verso di lui, poi sul suo volto si aprì un sorriso sincero.
«No, Alexander, non sono così meschino. Se avessi dovuto scegliere un tuo sostituto, Tristan non sarebbe stato il primo della lista. La sua famiglia ha una storia di fallimenti bancari che non lo rende molto più appetibile di un ex carcerato.»
Alex incassò il colpo stringendo i denti e piantando convulsivamente le unghie nei palmi delle mani. 
Prese un respiro profondo e disse: «Come sta la signora Lefebvre?»
L’uomo lo guardò, con un sorrisetto glaciale. Aveva capito che stava solo cercando di rispedirgli una battuta pungente.
«Bene» replicò allegro. «Il freddo di Calais le sta ricordando le amenità a cui ha rinunciato. Credo che sarà un’esperienza… formativa.»
In quel momento Tristan e Camille li raggiunsero, con le racchette ormai chiuse nei loro contenitori. 
«Di cosa state chiacchierando qui?» domandò la ragazza, prendendo posto al fianco di Alexander e facendo passare il braccio sulle spalle di lui per sporgersi verso il padre. Tristan prese posto nella fila di fronte alla loro, ma si voltò in modo da non dover dare loro la schiena.
«Cose noiose che ci hanno distratto dalla partita» rispose il signore Lefebvre. «Chi ha vinto?»
Camille lanciò un’occhiata a Tristan e poi scoppiò in una risata cristallina. «Ovviamente io, cher papa».
Gerald si lasciò andare a un’esclamazione di gioia e orgoglio per la figlia. Rimasero a parlare della partita per qualche minuto, poi un cameriere comparì per annunciare che il ristorante aveva cominciato a servire il pranzo, se erano interessati.
Camille e Tristan si diressero prima verso gli spogliatoi e Alexander li seguì per accompagnare la moglie fino a davanti la sua porta.
«Sembri molto felice oggi» le disse, trattenendola qualche istante di più. Tristan era già scomparso nello spogliatoio maschile, mentre il signor Lefebvre era andato a riservare il tavolo per il pranzo.
Camille lo guardò con un volto così luminoso da confermare le sue parole. I suoi occhi brillavano e le sue labbra erano tese in un costante sorriso.
«Oh, è una così bella giornata!» esclamò infatti. 
«Non sai quanta gioia mi dia vederti così» replicò lui con sincerità. Sapeva che per la donna non era stato facile vivere nel mezzo degli scandali e delle cattiverie che la gente diceva sul loro conto, ma Camille era rimasta salda al suo posto senza cedere di un millimetro. Neppure davanti alle proteste del suo cher papa.
«C’è un’altra cosa che potresti fare per rendermi ancora più felice…» aggiunse lei, quasi sottovoce e con lo sguardo sfuggente, ma senza smettere di sorridere.
«Qualsiasi cosa» sussurrò, prendendole il mento tra le dita e costringendola a guardarlo negli occhi.
Camille era l’unica cosa pura rimasta nella sua vita e Alexander non voleva rinunciare a trattarla con il rispetto che meritava.
«Questa sera un pittore che mi piace molto sarà in città, ad una festa». Camille sbatté le palpebre sulle sue iridi azzurre prima di continuare: «Mi piacerebbe molto andarci. Posso invitare anche Tristan, così ti terrà compagnia mentre riempirò di domande quel pittore».
Alexander rise e fece un cenno di assenso. «Certo».
Lei si sporse in avanti e gli lasciò un bacio veloce sulle labbra, poi corse nello spogliatoio per cambiarsi.
 
 
 
 
Quando l’auto si fermò davanti al suo albergo, Tristan stava già aspettando sul ciglio del marciapiede.
Salì e salutò Camille con due baci e Alexander con una stretta di mano.
«Camille dice che finalmente vedrò la vita sociale di Tridell» commentò rivolgendosi all’altro uomo.
Alex fece un cenno di assenso: «Goditela finché non scopri quello che nasconde ogni persona.»
Camille lo puntellò con il gomito. 
«Non possiamo cominciare la serata con questa negatività!» fu il suo rimprovero, mentre gli rivolgeva uno sguardo imbronciato. 
Lui sospirò, poi si rivolse a Tristan: «Perdonami. La mia disillusione mi sta portando a dipingere tutto più nero di quanto sia in realtà. Sono sicuro che sarà una bella serata.»
Tristan sorrise, comprensivo, e Alexander pensò che aveva un’aria da principe delle favole, con quel suo volto pulito e l’aria innocente. Non lo stupì che fosse un vecchio amico di Camille, i due avevano lo stesso temperamento pacato e l’atteggiamento spontaneo. Ripensò alla conversazione che aveva avuto con il signor Lefebvre quella mattina. Gerald aveva negato ogni suo coinvolgimento nella ricomparsa del vecchio amico e Alexander gli credeva, ma se davvero Camille avesse preferito Tristan a lui, lo avrebbe capito. Quando si erano conosciuti, a Londra, non erano altro che due giovani studenti  più o meno ingenui che cercavano la strada per la propria felicità e credevano di averla trovata l’uno nell’altra. Ma quei tempi erano ormai lontani e Alexander non riusciva a smettere di pensare alle persone che erano diventati.
Cercò di scacciarsi quei pensieri dalla testa e si allungò per prendere la mano di Camille e portarsela alle labbra e lasciarle un bacio leggero. 
Lei gli sorrise, radiosa. Camille lo amava davvero tanto.
Il viaggio volò e Alexander si accorsero che erano arrivati solo quando l’auto si fermò. Scese per primo e gli bastò uno sguardo per raggelarsi.
«Cosa ci facciamo qui?» chiese a Camille mentre sentiva il sangue che gli andava alla testa.
La donna spostò lo sguardo verso il grande palazzo della duchessa, dove le luci accese al piano superiore indicavano che la festa era già cominciata.
«Qual è il problema?» domandò lei, sbattendo le palpebre. «Il pittore è ospite di Cassandra.»
Alexander si ritrovò addosso due paia di occhi che attendevano una risposta per la sua freddezza. Non poteva fare una scenata davanti a Tristan, mentre dire a Camille che sapeva del suo colloquio con la duchessa significava dover spiegare molte cose sulla propria relazione con Emily.
Prese un respiro profondo e disse deciso: «Andiamo.»
Si diressero verso l’ingresso del palazzo, dove un maggiordomo prese i loro cappotti e li fece accompagnare nella grande sala del piano superiore. Era la sala in cui si erano rivisiti per la prima volta un anno prima, quella con una parete occupata da un grande affresco di Circe circondata da belve addomesticate. Gli invitati erano numerosi e un gruppo più corposo degli altri fece intuire ad Alexander che molti erano interessati all’ospite d’onore.
Camille non mostrò alcun immediato interesse di cercare il pittore di cui aveva parlato, ma piuttosto si trattenne a chiacchierare con chiunque incontrasse. L’uomo cominciò a sospettare che la loro presenza alla festa fosse piuttosto legata al patto che Camille aveva stretto con la duchessa: un primo passo per reinserirlo nella vita sociale di Tridell. Glielo confermava il modo in cui la donna cercava di coinvolgerlo in ogni conversazione, non risparmiandosi negli elogi nei suoi confronti. Camille era nel suo ambiente naturale, incantava le persone con la sua bellezza e i suoi modi e Alexander non dubitò che chiunque sarebbe stato persuaso della sua innocenza se era la donna a perorare la sua causa.
Doveva trovare Emily e dirle di lasciar perdere sua moglie. Qualsiasi favore chiedesse in cambio, se ne sarebbe occupato lui. Non si sarebbe mai perdonato un eventuale coinvolgimento di Camille negli affari della duchessa.
«Devi conoscere la padrona di casa!» esclamò la donna in quel momento, rivolgendosi a Tristan. «È deliziosa.»
Alexander soffocò una smorfia. Gli venivano in mente molti modi per descrivere Emily, ma “deliziosa” non era uno di quelli.
«Devo avere un sesto senso per quando la gente parla di me» commentò una voce alle loro spalle, facendoli voltare come una sola persona.
La duchessa indossava un abito dorato che la faceva brillare sotto le luci dei lampadari. Il vestito partiva dal collo alto e scendeva in maniche morbide che la coprivano fino ai polsi. Una cintura dello stesso tessuto dell’abito le stringeva la vita sottile e la lunga gonna cadeva morbidamente fino a terra, rivelando la forma delle sue gambe attraverso il lungo spacco. Stranamente portava i capelli raccolti in uno chignon voluminoso, da cui erano strati estratti alcuni ricci che le incorniciavano il volto.
Alexander le rivolse uno sguardo glaciale, ma dentro di sé si sentì sorpreso per il suo aspetto elegante. Non l’aveva mai vista in modo trasandato da quando si erano ritrovati, anzi, ma in quel momento sembrava più adulta, più donna.
Salutò Camille con un sorriso gentile ma trattenuto e strinse la mano a Tristan guardandolo fisso negli occhi. Scambiarono qualche parola di circostanza, fino a che la padrona di casa disse: «Posso rubare tuo marito per qualche istante?»
Camille rivolse uno sguardo ad Alexander e rise: «Certamente, ma devo avvertirti: questa sera è di cattivo umore.»
Emily spostò gli occhi su di lui e, anche se sul suo volto era ancora dipinto un sorriso cordiale, c’era una certa durezza nella sua espressione.
«Nulla che io non possa gestire» commentò impassibile, poi tornò a rivolgersi in tono educata agli altri due: «Vi consiglio di provare le tartine con il salmone. Stasera lo chef ha superato se stesso.»
Camille lasciò un bacio leggero sulla guancia di Alexander, poi si allontanò con Tristan.
«Non verrò da nessuna parte con te» chiarì non appena gli altri due furono abbastanza lontani.
La facciata di Emily crollò per un momento mentre alzava gli occhi al cielo con aria scocciata. «Ti direi di non rovinare la tua reputazione, Alexander, ma forse è un po’ tardi per quello.»
Gli fece cenno di seguirla, ma lui rimase piantato dov’era.
«Non mi fido di te e non farò nulla di quello che mi chiedi perché non posso sapere quale siano le tue vere intenzioni» le disse, in modo secco.
Emily gli si avvicinò, così vicina che le bastò sussurrare per farsi sentire: «Se non vieni con me chiamo la sicurezza e ti faccio sbattere fuori dal mio palazzo, insieme a Camille e il suo amichetto. E mi assicurerò che nessuno degli ospiti si perda la scena.»
Alex strinse i denti e sentì la rabbia montargli dentro.
«Hai fatto un patto con lei. Questo lo distruggerebbe.»
Emily rise fragorosamente e, muovendosi, il suo abito scintillò. «Sappiamo quanto sia malleabile la tua dolce sposa. Non è lei che mi preoccupa.»
Gli fece di nuovo cenno di seguirla e questa volta lui non oppose resistenza. Si lasciò condurre fuori dalla grande sala e attraverso un lungo corridoio dove si trovavano altri invitati. Si assicurò di camminare a qualche passo di distanza dalla duchessa per non rendere palese che stessero lasciando la festa insieme.
Quando si spostarono in una zona isolata, cominciò a guardarsi intorno con aria sospetta. Emily tirò dritto senza esitazioni, fino a fermarsi davanti ad una delle tante porte che li circondavano. Bussò in modo secco e subito la porta si aprì, rivelando una giovane donna a cui la padrona di casa ordinò: «Puoi prenderti dieci minuti di pausa.»
Lei annuì e con passo rapido sparì nel corridoio da cui erano arrivati loro.
Alexander la seguì con lo sguardo fino a che svoltò e solo in quel momento si accorse che Emily era entrata nella stanza. Si affrettò a seguirla e si trovò in una sorta di camera da letto rischiarata solo da una debole abat-jour. Emily se ne stava accucciata a terra, al di là del letto che occupava il centro della stanza.
Alexander si avvicinò cautamente e sentì la giovane dire: «Te lo avevo promesso e io mantengo sempre le promesse.»
Lei lo cercò con gli occhi e gli fece gesto con la mano di avvicinarsi. L’uomo eseguì, non senza qualche esitazione, mentre Emily riprendeva a parlare: «Ecco, ti avevo detto che ti avrei portato il tuo papà.»
Alexander sentì un tuffo al cuore quando vide gli occhioni sgranati di Noah che scrutavano il suo volto. Era seduto su un tappeto, circondato dai suoi giocattoli, e aveva un’aria vagamente intimorita.
«Tu sei il mio papà?»
 
 



 

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Capitolo 6
*** Incontri inaspettati ***


Incontri inaspettati


 
 
Alexander si assicurò che Noah si fosse addormentato e rimase a guardarlo qualche istante più a lungo, con il cuore che gli batteva in modo incontrollabile nel petto. Non voleva andarsene, non voleva smettere di stare al suo fianco e assicurarsi che fosse al sicuro, che dormisse bene, che nulla potesse turbarlo, ma sapeva che prima o poi sarebbe dovuto uscire dalla stanza.
Noah era stato molto più pacifico di quanto avesse potuto immaginare.
«Mi dispiace averti fatto aspettare» gli aveva detto Alexander sedendosi sul tappeto al suo fianco. Il bambino aveva sollevato gli occhi dai suoi giocattoli e gli aveva rivolto un’espressione per nulla turbata. C’era un che di serioso nel suo portamento che contrastava con la sua età.
«La mamma mi aveva detto che eri impegnato e che non vedevi l’ora di potermi conoscere».
Sentirgli chiamare Emily “mamma”, aveva provocato in Alexander una sensazione strana. Era come se ancora non avesse realizzato del tutto che quello era suo figlio. Suo e di Emily. Il carcere non è esattamente il luogo ideale in cui pianificare come crescere tuo figlio che non ti conosce insieme alla tua ex che dirige un impero criminale.
«Che cosa stai facendo?» gli aveva chiesto e Noah aveva spiegato i dettagli della costruzione che aveva avviato con i giocattoli. Alexander aveva ascoltato con interesse e lo aveva aiutato a completare la sua opera. Quando gli sbadigli del bambino si erano fatti incontrollabili, lo aveva convinto a mettersi a letto.
«Di solito la mamma rimane fino a che non mi addormento» erano state le parole biascicate di Noah, già in preda al sonno.
«Certo» lo aveva rassicurato Alexander e aveva atteso seduto sulla poltrona accanto al letto.
Quando Noah dormiva già da qualche minuto, gli lanciò un ultimo sguardo e si diresse in corridoio, dove trovò la stessa giovane donna che Emily aveva congedato al loro arrivo. La donna lo salutò con un timido cenno del capo e, quando lui si fu allontanato, rientrò nella stanza. Alexander pensò che Emily doveva essere almeno paranoica quanto lui nei confronti del bambino e la cosa lo confortò.
Ripercorse a ritroso il corridoio, ma dovette sbagliare a svoltare perché si trovò in una zona che non aveva visto prima. Cercò di orientarsi, ma la festa era troppo lontana perché il suo rumore potesse fargli da bussola.
Decise di muoversi ad istinto nella speranza di trovare la giusta direzione. Quel palazzo era un labirinto. Tutti i corridoi gli parevano uguali, con il pavimento di parquet scuro e numerosi quadri appesi alle pareti alternati a lampade a forma di candelabri. La luce era debole e più di una volta dovette strizzare gli occhi per cercare di scorgere la fine del corridoio.
Stava cominciando a perdere la pazienza, quando sentì un rumore di passi leggeri avvicinarsi di fronte a lui. Accelerò per andare incontro al suo possibile salvatore e quando fu abbastanza vicino per vedere di chi si trattasse, notò sul volto dell’altra persona la stessa sorpresa che doveva apparire sul suo.
Si trattava di una donna non troppo alta, di origine latina a giudicare dai tratti del suo viso e dalla pelle color bronzo nell’oscurità del corridoio. Indossava un normale completo di pantaloni eleganti a palazzo e giacca che l’avrebbero fatta apparire anonima in qualsiasi contesto.
Lei lo avevo riconosciuto, constatò Alexander a giudicare da come i suoi occhi si erano sgranati, ma lui non aveva idea di chi fosse.
«Mi sono perso» le disse. Aveva deciso di giocare la carta della nonchalance. «Come si ritorna alla festa?»
La donna strinse le labbra e indicò alle spalle di Alexander.
Lui ringraziò con un cenno del capo e si avviò rapidamente distanziandosi da lei. Cominciò a sentire l’allegro vociferare poco distante e si lasciò guidare da quei rumori, così presto si trovò di nuovo nell’ala della casa dedicata all’evento. Nel frattempo, nuovi ospiti erano arrivati e le sale si erano riempite in fretta.
Alexander riconobbe qualche volto familiare, ma piuttosto che fermarsi ad elemosinare simpatie decise di mettersi a cercare Camille. Mentre sondava lo spazio con gli occhi, notò Roman, che non aveva ancora visto dall’inizio della serata. Non ci aveva fatto caso prima, ma realizzò che era strano non vederlo al fianco di Emily.
Per un attimo gli sembrò che Roman lo guardasse, ma si accorse che i suoi occhi puntavano ben più lontano. Lesse un’imprecazione sulle sue labbra e si voltò per vedere cosa avesse suscitato quella reazione. Gli occhi di Roman erano fissi sulla donna che Alexander aveva incrociato nel corridoio.
Si rivoltò nuovamente verso di lui in tempo per vederlo avvicinarsi ad alcuni degli uomini in nero che avevano la funzione di guardie. Disse loro qualcosa, indicando la donna, e due di essi subito si diressero verso di lei e la scortarono verso l’uscita, nonostante le sue proteste.
Il tutto avvenne in modo così veloce e discreto che nessuno se ne accorse. Alexander cercò nuovamente Roman per tentare di scoprire di più, dato che ormai la donna era troppo lontana, ma Roman intercettò il suo sguardo e gli rivolse un’espressione dura. Pareva così irritato da essere pronto a scacciare anche lui dal palazzo.
«Adoro l’effetto che le feste fanno alle persone».
Una voce vicina al suo orecchio costrinse Alexander a distogliere lo sguardo e spostarlo sul suo interlocutore. Era un giovane alto, ben vestito nel suo completo color carta da zucchero che faceva risaltare gli occhi della stessa tonalità. C’era un che di sbarazzino nel suo aspetto e lo faceva apparire fuori luogo in quell’ambiente in cui tutti si davano arie. Forse erano quei capelli non del tutto pettinati, o la spruzzata di lentiggini sul suo volto, oppure l’atteggiamento spigliato.
«Sembra che durante una festa tutti dimentichino le buone convenzioni che tanto ostentano» continuò il giovane, guardando Alexander come per chiarire che stava parlando proprio con lui. Non c’era nessun altro abbastanza vicino a loro perché ci fosse equivoco.
«Con la stessa leggerezza di un bambino, la gente assume atteggiamenti che normalmente sarebbero degni del più veemente biasimo» aggiunse ancora e Alexander era sul punto di interrompere bruscamente la conversazione, quando si accorse di conoscere il giovane. Non aveva mai fatto particolarmente caso a lui, anche se era stato il figlio del suo avversario politico, ma il suo nome era diventato importante dopo l’annuncio del fidanzamento con la duchessa.
Gabriel Leroy piegò le labbra in un sorriso beffardo. «Per esempio, durante una festa la padrona di casa potrebbe allontanarsi nell’oscurità delle stanze private insieme ad un uomo sposato e dalla fedina penale non pulita.»
Alexander non si lasciò scalfire e lo derise a sua volta: «Forse la gelosia ti fa immaginare cose che non succedono.»
Gabriel fece una risata secca. «Non insultiamo le nostre intelligenze, Henderson. Essere gelosi della duchessa è come sentire la mancanza di qualcosa che non è mai stato tuo in primo luogo.»
L’altro gli diede un’amichevole pacca sulla spalla: «Mi dispiace che la tua relazione sia così triste.»
Non gli concesse tempo di aggiungere altro e si allontanò rapidamente. Vide Emily dall’altro della sala e tirò dritto verso di lei. La ragazza stava parlando con un paio di persone che lui non conosceva, ma non se ne preoccupò. Le si avvicinò, così vicino che solo lei riuscì a sentirlo sussurrare: «Dovresti stringere il guinzaglio al tuo fidanzato.»
Non le lasciò il tempo di replicare e subito se ne andò. Quasi riuscì a immaginare l’espressione scocciata sul volto di lei.
Troppe cose erano successe quella sera e lui era ancora troppo sobrio. Afferrò un bicchiere da un cameriere che passava e, mentre ne prendeva un lungo sorso, pensò che doveva decisamente trovare Camille.
 
 
 
 
***
 
 
 
Gabriel si portò una mano al mento, con fare pensieroso, e sfoderò il suo sguardo più sornione mentre sbatteva lentamente le palpebre sugli occhi cerulei. 
La donna di fronte a lui, una giovane dal volto rotondo incorniciato da un caschetto con frangetta, non la smetteva di parlare della sua passione per i romanzi d’amore dell’Ottocento e Gabriel stava per aver addormentarsi a forza di fare cenni di assenso a cose di cui non capiva nulla, interrompendola ogni tanto solo per sottolineare quanto condividesse le sue opinioni.
Tracy Kindell era una giovane insicura e romantica, che scriveva storie d’amore inverosimili di cui era la protagonista in un piccolo quadernino rosa che portava anche al lavoro. Generalmente si trattava di incontri casuali nel piccolo supermercato dove faceva la spesa ogni venerdì sera, oppure straordinarie comparse di file di pretendenti che distruggevano la sua monotona routine di impiegata d’ufficio. 
Gabriel la studiava da più di una settimana e solo quando era riuscito a mettere le mani sul fantomatico quadernino rosa aveva potuto pianificare una linea di azione. D’altronde, partiva avvantaggiato. Chi meglio di lui poteva incarnare il principe azzurro bello, ricco e affascinante che salvava Tracy da una vita di periferia?
Si erano incontrati per caso in quel piccolo supermercato, un venerdì sera, e Gabriel aveva accidentalmente fatto cadere la borsa della spesa della povera Tracy. Alcune confezioni si erano rotte, rovesciando il contenuto sul cemento del parcheggio. Mentre l’aveva aiutata a portare gli alimenti superstiti verso l’auto, Gabriel aveva preteso di ripagarla offrendole il pranzo il giorno successivo e Tracy aveva accettato, cercando di nascondere le gote infiammate nel bavero della giacca.
«Non ho mai conosciuto nessuna come te» sospirò Gabriel, allungando la mano per sfiorare quella di lei sul tavolo. La donna avvampò e lui si scusò, dicendo che non sapeva cosa lo avesse preso.
«Nel mio ambiente le donne sono così fredde e senza carattere. Tu sei così diversa, Tracy» si giustificò e le rivolse uno sguardo intenso.
Lei cercò di nascondere il grande sorriso imbarazzato dietro al bicchiere da cui prese un sorso.
«Non mi hai ancora detto di cosa ti occupi» gli disse poi, cercando di sviare la conversazione.
Gabriel sospirò e si guardò attorno, con aria circospetta.
«Di solito cerco di non dirlo ad un primo appuntamento – lanciò un lungo sguardo alla donna godendosi il modo in cui il rossore si diffondeva sul suo volto – ma sono un investigatore privato».
Tracy sgranò gli occhi e le sue labbra si aprirono a formare un cerchio perfetto.
«E stai lavorando a qualche caso ora?» gli chiese, poi si affrettò ad aggiungere: «Non devi dirmelo, se è segreto.»
Gabriel non riuscì a trattenere un sorriso spontaneo. Dio, quella ragazza era così stupida.
Si prese il suo tempo per rispondere, osservando con piacere come il desiderio cresceva sul volto di lei.
«Ho ricevuto un incarico questa mattina» ammise infine. Lesse negli occhi di lei un’implorazione a continuare. La accontentò: «Riguarda un bambino dato in adozione e una faccenda del genere.»
«Oh» disse solo Tracy e lui aggiunse: «Sono solo all’inizio, sarà un lungo lavoro che mi terrà molto impegnato».
Le rivolse uno sguardo greve e nessuno parlò per qualche istante. Arrivò il cameriere con i dolci e rapidamente la conversazione riprese in toni più leggeri. Gabriel ammise che anche lui era un amante dell’earl grey e lo beveva tutti i pomeriggi alle cinque.
«Meglio ancora se con un buon romanzo britannico a farmi compagnia» aggiunse e Tracy si illuminò. La donna tornò a guidare – o monopolizzare – la conversazione e Gabriel si dedicò a fingersi interessato fino a che non fu ora di andarsene.
Pagò lui per entrambi e usò i contanti che gli aveva dato l’uomo del pub, suscitando non poca ammirazione in Tracy per lo spessore del portafoglio. Poi la accompagnò verso la sua auto, dato che si erano trovati direttamente al ristorante.
La donna frugò nella borsa per un minuto buono alla ricerca delle chiavi. Era così impacciata che Gabriel ebbe l’impulso di strapparle la borsa dalle mani e rovesciarne il contenuto a terra per fare più in fretta.
«È stato un bellissimo pranzo, Tracy» le disse, avanzando leggermente.
La vide trattenere il respiro, schiacciata contro la portiera della sua auto e con gli occhi sgranati puntati su di lui.
«Anche per me lo è stato, Patrick»
Lui si trattenne dallo storcere il naso a quel nome.
«Sarebbe bello se noi…ecco…» cominciò la donna cercando il suo sguardo ma allo stesso tempo evitandolo.
«Mi piacerebbe molto rivederti presto» tagliò corto lui e rimediò alla bruschezza con un grande sorriso. «Ma come ho detto, questo nuovo incarico mi occuperà a lungo e Dio solo sa quando potrò nuovamente avere un minuto libero per vederti, per quanto lo desideri.»
La donna parve sciogliersi a quelle parole e Gabriel gongolò. Finalmente qualcuno che cadeva per i suoi melodrammi.
Si chinò in avanti e le lasciò un bacio leggero sulla guancia. Tracy profumava di sapone e violette.
«Non voglio trattenerti più a lungo» le disse e fece per allontanarsi ma lei allungò una mano e lo fermò per il braccio.
«Aspetta».
Gabriel si voltò, sorpreso per quel gesto così deciso. Quando guardò Tracy si accorse che aveva il fiato corto e i suoi occhi brillavano di una sicurezza che non aveva visto fino ad ora.
«Forse posso aiutarti a risolvere il caso dell’adozione.»
Gabriel dovette usare tutta la sua forza di volontà per assumere un’aria sorpresa e sopprimere il sorriso di trionfo che minacciava di rovinare tutta la sua messinscena.
 

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Capitolo 7
*** Perdono ***


Perdono
 




Nonostante fosse inverno, era una serata magnifica. Il sole aveva brillato per tutto il giorno nel cielo fino al tramonto, quando, scivolando dietro ai palazzi sull’orizzonte, aveva regalato una visione di luce dorata. 
Alexander e Camille lo avevano guardato attraverso le vetrate del ristorante, dove avevano deciso di concedersi una cena romantica a lume di candela. Faceva ancora troppo freddo per mangiare all’aperto, ma grazie al vetro avevano l’impressione di trovarsi direttamente nel parco che circondava il locale. Proprio di fronte a loro scorreva un fiume che aveva prima riflesso i colori accesi del tramonto e ora andava scurendosi insieme al cielo. Nella sala del ristorante c’era un’atmosfera quieta ed elegante, creata dalla musica classica che faceva da sottofondo alle conversazioni scambiate con voce pacata.
«I signori gradiscono un dessert?» chiese il cameriere e lasciò loro la lista.
Al di là del foglio, Alexander lanciò l’ennesimo sguardo a Camille. Ricordò che quando lei andava a trovarlo durante l’orario di visita, la donna spiccava in mezzo alla stanza con la sua aria angelica ed eterea. Camille era di una bellezza così pura che poco si adattava all’ambiente squallido del carcere. 
Eppure, Alexander si chiese come potesse apparire ancora più splendida quella sera. La donna indossava un abito di maglina grigio chiaro, che partiva con un collo alto ma scendeva aderente, mettendo in mostra la sua silhouette perfetta.  
«Quando la smetterai di avere quello sguardo triste?»
Alexander si riscosse e mise a fuoco gli occhi di Camille fissi su di lui. 
Le sorrise. «Scusami, ero solo pensieroso.»
«Lasciami indovinare… pensavi a quanto sei dispiaciuto per l’anno appena trascorso?»
Lui abbassò lo sguardo sul menù e non rispose, perché la donna aveva fatto centro.
«Quante volte dobbiamo ancora parlarne?» continuò lei e allungò una mano per stringere quella dell’uomo sul tavolo. «Tutto ciò che mi importa è essere qui con te, ora.»
Il cameriere tornò per prendere le loro ordinazioni e portare via i menù.
«Voglio guardare al presente. E ora sono così orgogliosa di te.»
Alex le rivolse un’espressione scettica, ma le strinse a sua volta la mano sul tavolo.
«Orgogliosa?» ripeté sbuffando.
Camille sorrise e i suoi occhi brillarono tanto quanto i diamanti che portava alle orecchie.
«Il volontariato che stai facendo ti fa onore» gli spiegò e Alex capì che si riferiva al corso che faceva nel carcere una volta a settimana. Aveva deciso di iniziarlo quasi per caso, quando aveva realizzato che molti dei suoi compagni avevano molto di più da offrire di quanto la gente ritenesse. Ne aveva parlato una volta uscito con alcune associazioni che si occupavano dei diritti dei detenuti e loro avevano accettato con entusiasmo, anche se sempre con meno entusiasmo di quello che aveva mostrato suo padre.
«Ottima idea, Alexander. In men che non si dica tornerai nelle buone grazie di questa città» era stata la sua reazione e lui non aveva replicato. Se Robert Henderson credeva ancora nella sua carriera di politico, non sarebbe stato lui a infrangere i suoi sogni.
Finirono il dolce e decisero di passeggiare un poco lungo il fiume, sotto alla luce aranciata dei lampioni che costeggiavano la strada. 
Camille era chiusa in un cappotto panna e avvolta da una voluminosa sciarpa di lana. Prese sottobraccio Alex e si misero a camminare così vicini l’uno all’altra da scaldarsi con il calore dei loro corpi.
«C’è una cosa a cui sto pensando da tempo» esordì lei e lui si bloccò, per lanciare un’occhiata al suo viso. La donna gli sorrideva in modo fiducioso.
«Non spaventarti» fece una risatina e lo costrinse a proseguire la camminata. Faceva troppo freddo per rimanere fermi a lungo.
«Non fare pause, mi sto preoccupando.»
Lei rise ancora, ma subito aggiunse: «Stavo pensando che, dal momento che nessuno di noi due ha bisogno di lavorare, potremmo concentrarci sul fare qualcosa di positivo. Per gli altri.»
Alex corrugò la fronte, in attesa che lei aggiungesse altro. Avvertiva la cautela con cui la donna stava scegliendo le parole per spiegarsi meglio.
«Mia mamma si è sempre occupata di beneficenza e l’ambiente non mi è nuovo, quindi per me non sarebbe un problema dedicarmi a quello. E tu potresti continuare con il tuo corso in carcere e lavorare come avvocato pro bono.»
Lui sospirò: «Sai che mi hanno revocato la licenza. Non posso più praticare la professione.»
Dirlo ad alta voce risultò più amaro di quanto pensasse. Studiare legge era stata una scelta fortemente incoraggiata da suo padre, ma dopotutto ad Alexander piaceva essere un avvocato.
Camille scrollò le spalle: «Certo, ma non per sempre, almeno fino a che non proverai la tua innocenza.»
Alex pensò che la donna a volte poteva essere davvero ingenua.
«O comunque puoi sempre aiutare le persone in difficoltà con la tua consulenza e mettendoli in contatto con gli avvocati che conosci. Alex, non perdi tutto ciò che sapevi solo perché ti hanno revocato un pezzo di carta.»
Camille non aveva tutti i torti. Nei suoi anni di carriera aveva visto molta gente in difficoltà e sapeva che a volte un solo consiglio di un professionista poteva salvare dalla disperazione.
La donna si staccò da lui e gli si mise davanti, per poterlo guardare negli occhi con le mani sul suo petto.
«Alexander» esordì con energia, «ti sto chiedendo, per favore, di lasciare andare il passato.»
Lui sospirò e lei gli portò una mano sul volto, accarezzandolo.
«Non ha senso portare rancore per tutto quello che è successo. Devi perdonare gli altri e soprattutto te stesso. Credi di poterlo fare?»
Alex la guardò negli occhi. Se non avesse sentito la sua mano fredda sulla guancia, avrebbe potuto giurare che si trattava di un angelo. Camille non poteva appartenere alla sua stessa realtà. Forse non era ingenua, ma era troppo matura per un mondo pieno di vendette e corruzioni.
«Fallo per me» aggiunse sottovoce.
L’uomo sospirò e fece un cenno di assenso. Sua moglie aveva ragione. Serbare rancore per il passato avrebbe solo rovinato il loro futuro. Forse avrebbe impiegato del tempo a perdonare se stesso, ma c’era certamente qualcuno con cui poteva cominciare. Quasi riusciva a vederla, in cima alla sua scalinata di marmo, che lo guardava dall’alto con l’espressione di chi lo aveva aspettato a lungo.
«Hai ragione» mormorò a Camille. «È arrivato il momento di ricominciare.»
 
 
***
 
 
In un altro frangente, Roman avrebbe realizzato che Isabel Lopez aveva un certo fascino. Il suo modo di fare così deciso e duro contrastava con i tratti dolci del viso e rendeva chiaro quanto la donna avesse dovuto combattere in un ambiente così chiuso e maschilista come quello della polizia.
In quel momento, però, Roman provava un senso di rabbia che gli bruciava nel petto mentre la donna gli rivolgeva domande a cui dava risposte secche e laconiche.
Quando aveva ricevuto la telefonata per dirgli che era richiesto in centrale per rispondere ad alcune domande, per un momento aveva avuto la tentazione di fare come avrebbe fatto Emily nei casi estremi: chiamare un avvocato e fare scena muta davanti alla polizia. Ma sperava di risolvere la questione senza il bisogno di essere indagato e di sicuro senza il bisogno di arrivare ad un processo. A quel punto sarebbe stato impossibile tenere la duchessa all’oscuro e Roman non aveva alcuna intenzione di coinvolgerla.
«Lei lavorava come portinaio per Andrew Bellingham la sera in cui è stato ucciso, o sbaglio?» gli stava dicendo Isabel Lopez.
Roman le rivolse uno sguardo di ghiaccio, ma annuì.
«Ora, vorrei capire come un ragazzo passi dal lavorare come portinaio a possedere un palazzo».
«Non sapevo di essere qui per consigli di carriera» ribatté tagliente lui e la detective tornò sui propri passi.
«Ho finito con le domande, per oggi. La scientifica sta analizzando del sangue trovato su un oggetto nella camera da Bellingham, credo ci risentiremo quando avremo i risultati.»
Roman le rivolse un sorriso falso e si diresse rapidamente fuori dalla stanza e poi direttamente in strada. Per evitare che voci giungessero ad Emily, non aveva potuto chiedere all’autista di accompagnarlo e ora avrebbe dovuto chiamare un taxi. Guardò un autobus passare e ripensò ai tempi in cui si sarebbe sognato di prendere un taxi, figurarsi un’auto privata.
Quando l’autobus si spostò, notò una cabina telefonica dall’altro lato della strada. Senza pensarci due volte, attraversò ed entrò nella cabina. Conosceva il numero a memoria e lo digitò in un attimo.
«Allô, qui est à l'appareil?» gli rispose la voce femminile dall’altro capo.
«Perché lo stai facendo?» domandò brusco. Ci fu un secondo di silenzio e, quando la voce parlò di nuovo, Roman poté sentire una nota divertita nel suo tono.
«Che piacere risentirti, chéri». Roman riusciva quasi a vedere le sue labbra piegate in un sorriso crudele.
«Smettila con queste stronzate. Perché lo stai facendo?» insistette duro.
Lei rise: «E me lo chiedi anche? Voglio semplicemente rovinarti la vita come tu hai rovinato la mia.»
Roman aprì la bocca ma si trattenne e prese un respiro profondo prima di parlare.
«Hai fatto tutto da sola e sai perfettamente che quando avranno analizzato il sangue mi arresteranno.»
«È la mia speranza.»
Lui avvertì il suo respiro cominciare a farsi affannoso e si sentì come sul punto di piangere.
«Questo è il motivo per cui ho diffuso quel video. Ho aperto il mio cuore a te, Liliane, e a te non è mai importato nulla.»
«Perché non chiedi aiuto alla tua duchessina?» lo schernì lei e, prima che Roman potesse replicare, riattaccò.
Lui rimase immobile, con la cornetta ancora attaccata all’orecchio e gli occhi vacuamente fissi sul tastierino.
 
 
 
***
 
 
 
Emily spinse il cancello e quello si aprì con un cigolio lugubre.
Davanti a lei si apriva una grande area verde che sarebbe sembrata un parco, se non fosse stato per le lapidi che punteggiavano la distesa smeraldina. In contrasto con la tinta accesa dell’erba, il cielo aveva un colore plumbeo che minacciava tempesta.
La ragazza inspirò l’aria che sapeva di pioggia e si strinse la sciarpa al collo.
Lentamente si diresse verso il sentiero che conosceva a memoria. Avrebbe potuto farlo ad occhi chiusi e così camminava con gli occhi fissi sulla punta delle sue scarpe e la mente immersa nei pensieri. Proseguì per qualche minuto, con il vento che le fischiava nelle orecchie e le scompigliava i capelli. Rialzò lo sguardo solo quando ebbe raggiunto la sua meta e una presenza inaspettata la fece bloccare a qualche metro dalla lapide. Davanti a lei stava un uomo alto e vestito di nero, che le dava la schiena.
Emily fece un passo avanti e la ghiaia sotto ai suoi stivali scricchiolò, facendo voltare l’altro.
Quando riconobbe il suo volto, la ragazza si sentì ancora più esterrefatta.
«Alex?» chiese, come se non riuscisse a credere ai propri occhi.
Lui strinse le labbra in un sorriso di circostanza e fece un cenno di assenso. I suoi occhi poi caddero sul bouquet di fiori che lei teneva tra le mani e si scostò per lasciarle modo di avvicinarsi alla lapide e deporli.
«Cosa ci fai qui?» domandò lei, senza muoversi. Un colpo di vento arruffò le chiome di entrambi prima di placarsi.
«Sapevo che saresti venuta, come ogni anno» replicò lui semplicemente, ma Emily non si schiodò.
«Perché?»
La giovane cominciò a sentire il suo cuore accelerare mentre nel suo corpo si propagava quella leggera adrenalina che si scatenava quando sapeva che doveva reagire e non lasciarsi sopraffare. In quel contesto, lei era debole e in svantaggio. Alex era davvero così perverso da voler fare la sua mossa davanti alla tomba di sua nonna nel giorno del suo compleanno?
«Perché so quanto è importante per te» rispose lui con semplicità e fece ancora un passo indietro per lasciarle modo di avanzare verso la lapide e deporre i fiori.
Emily mosse solo gli occhi per seguirlo.
«Nessun secondo fine» aggiunse Alex come se potesse leggerle il pensiero. Si passò una mano tra i capelli e sospirò. «Diciamo che ho guardato indietro e mi sono accorto che ci sono molte cose per cui devo ancora fare ammenda.»
«Sei qui per fare un’offerta di pace?» domandò lei e finalmente avanzò verso la lapide per deporre i fiori.
Alexander aspettò che lei finisse di guardare la fotografia di sua nonna prima di parlare: «Puoi vederla così. Ma non pensare che sia solo per quello. So quanto questo giorno sia importante per te e volevo esserci.»
Emily lo guardò di sottecchi, come se cercasse di capire quanto sincero fosse.
«Ti ho dato tante colpe Em, ma molte erano solo reazioni a delle mie pessime scelte»
Lei continuò a fissarlo con le palpebre socchiuse. Era chiaro che stesse cercando di capire se fidarsi o meno. Rimase così senza parlare per qualche secondo, poi stirò le labbra in un sorrisetto. D’altro canto, si vantava di conoscere Alexander meglio di chiunque altro e sapeva che non avrebbe mai detto quelle parole se non ci fosse stata un’intenzione sincera da parte sua.
«Immagino vorrai un po’ della torta, quindi» gli disse e il volto di lui si illuminò.
Emily frugò nella borsa ed estrasse il contenitore di plastica che conteneva il dolce. Ne estrasse una parte per sé e poi lo tese ad Alex.
Da quando sua nonna era morta, Emily andava a trovarla il giorno del suo compleanno e ogni volta preparava la sua torta preferita. Una parte la mangiava lei, una parte la dava ad Alex – che l’aveva sempre accompagnata – e lasciava una fetta vicino ai fiori.
I due rimasero di fronte alla tomba in silenzio, fino a che Alex si accorse che la ragazza stava piangendo. Le lacrime le rigavano il volto e le sue spalle tremavano. Le passò una mano sulla schiena e la strinse a sé. Emily appoggiò il capo sul suo petto e cercò di frenare i singhiozzi.
«Dicono che il tempo curi ogni ferita» mormorò lei tremando. «Ma mi manca, ogni giorno, e fa così male.»
Si sfregò le guance.
«A volte penso che sia l’unica persona al mondo che mi abbia mai davvero amata e mi chiedo che senso abbia vivere in un modo senza di lei». Le lacrime continuavano a rigarle il volto, nonostante cercasse di rimanere salda.
«Non dire così» le sussurrò Alex mentre abbassava lo sguardo verso di lei. Accoccolata contro di lui come un pulcino sembrava così piccola e indifesa. «Pensa a Noah, come farebbe senza di te? E Roman? Roman ti ama a tal punto da sacrificare se stesso per te. Come farebbero senza di te?»
Emily non rispose, ma continuò a piangere.
«E neanche io vorrei vivere in un mondo senza di te, Em».
Lei alzò di scatto il capo e incrociò le iridi color ambra di Alex. Lo fissò con gli occhi sgranati, un po’ spaventati, un po’ incerti.
Tornarono a guardare la lapide senza parlare fino a che i primi segni della tempesta li raggiunsero. Dapprima il vento si fece turbinante, li aggredì con una furia improvvisa mentre gli alberi intorno a loro ondeggiavano pericolosamente. In un attimo arrivò anche la pioggia, da subito scrosciante.
Presero a correre verso l’uscita e il cielo fu squarciato da un lampo mentre in lontananza sentirono i tuoni.
La serie di imprecazioni che lasciarono la bocca di Alexander spinse la ragazza a seguire la direzione del suo sguardo, per scoprire che l’unica auto del parcheggio era stata distrutta da un albero caduto. Il tronco l’aveva colpita nella parte centrale, accartocciando la carrozzeria come se si trattasse di una lattina.
«Come sei arrivata?» le gridò lui per sovrastare il suono sempre più fragoroso del temporale, mentre la trascinava sotto alla piccola tettoia vicino al cancello del cimitero.
Lei roteò gli occhi: «Lo sai che prendo sempre il pullman».
Alex aprì la bocca, sorpreso. «Hai fatto tre ore di viaggio dal tuo palazzo?»
Lei scrollò le spalle, poi assunse un’aria scocciata: «Immagino non passeranno bus con questo tempo. Quindi cosa facciamo?»
L’uomo si guardò intorno, passandosi una mano sul volto fradicio. All’improvviso la sua espressione si accese.
«C’è quella piccola pensione qui vicino, ti ricordi?» 
Emily annuì, stringendosi nel capotto madido di pioggia. 
«Andiamo lì a scaldarci e mangiare qualcosa fino a che non finisce questa stramaledetta tempesta.»
Alex le passò una mano sulle spalle, come se così facendo riuscisse a farle da scudo con il proprio corpo, e insieme si avviarono verso la pensione.
Lungo la strada gli alberi vibravano percossi dal vento e presto la pioggia sopra di loro si trasformò in grandine. Accelerarono il passo e in meno di una decina di minuti riuscirono a raggiungere il vecchio edificio in mezzo al nulla.
Non appena misero piede nell’ingresso, li accolse il calore piacevole di una stufa accesa. Davanti alla porta era sistemato un balcone di legno dall’aspetto consunto e da lì si intravedeva la tavola calda sul retro. Tutto lì dentro dava l’idea della casa di una vecchia signora, a partire dai quadretti appesi alle pareti fino ai tappeti sul pavimento.
«Desiderate una camera?» domandò loro l’uomo al di là dal balcone. Aveva un’aria annoiata e per nulla impressionata dalla tempesta che si stava scatenando all’esterno.
Alexander lanciò un’occhiata ad Emily, che stava tremando per il freddo nei suoi vestiti fradici, nonostante si fosse sistemata vicino ad una stufa.
«Sì, e un tavolo per cena» gli disse e si avvicinò per pagare. Quando tornò dalla ragazza, lei gli rivolse un’espressione perplessa.
«Hai bisogno di farti una doccia calda e di asciugare i vestiti» le disse. «Dopo cena chiameremo un taxi, ma intanto hai bisogno di scaldarti.»
Lei gli rivolse uno sguardo non convinto, ma i brividi che le stavano attraversando il corpo parvero persuaderla a prendere la chiave che le veniva tesa.
«Ti aspetto al bar» le disse Alex e la guardò sparire sulle scale che conducevano al piano superiore.
 
 
 
Quando Emily entrò nel ristorante, la cena era già stata servita a molti tavoli e su un piccolo palco di legno, una band stava suonando una vecchia canzone jazz.
Alexander la stava aspettando in un tavolo appartato, con un bicchiere di vino rosso in mano. Nel vederla arrivare, sgranò leggermente gli occhi.
La ragazza indossava un semplice abito che le arrivava a metà coscia e degli stivali neri. Aveva coperto le spalle nude con la sua sciarpa di lana che l’avvolgeva come uno scialle e i capelli le cadevano liberi sulla schiena. Senza abiti elaborati e una schiera di servitori intorno, nessuno avrebbe potuto dire che quella ragazza era la donna più potente di Tridell.
«Non fare quella faccia» sbuffò lei sedendosi al tavolo. «Mi hai vista in condizioni peggiori.»
Alex rise, mentre lei afferrò la bottiglia di vino per versarlo nel suo calice.
«Ehi, attenta, non è proprio leggero» l’avvisò lui ed Emily roteò gli occhi.
«Lo avevo immaginato, hai già la faccia rossa» ribatté lei. «Ancora due bicchieri e non capirai più niente.»
Alexander rise ancora, scuotendo il capo. «Se non mi avessi fatto aspettare così a lungo, non avrei dovuto cercare compagnia nel vino.»
In quel momento arrivò il cameriere per prendere le loro ordinazioni e, quando se ne andò, i due rimasero in silenzio a guardare la band che suonava.
Il cibo arrivò in fretta e li scaldò più di quanto non avessero fatto le stufe e il vino, che pure continuava a riempire i loro bicchieri.
Mentre mangiavano, Alexander le chiese di parlare di Noah e lei non si risparmiò di raccontare tutto quello che era successo in quell’anno. Solo a nominare il bambino, i suoi occhi brillavano e cominciava a gesticolare animatamente.
Quando ormai avevano terminato il dolce, la band cominciò a suonare una vecchia canzone e qualcuno si mise a ballare davanti al piccolo palco.
Alex lanciò un’occhiata ad Emily e si accorse che stava battendo le mani a ritmo, con un sorriso enorme aperto sul volto. Lei incrociò il suo sguardo e il suo volto si illuminò.
La band finì la canzone e subito ne cominciò un’altra e nuove persone si aggiunsero alla sala da ballo improvvisata.
Ridendo, Emily si alzò in piedi e continuò a battere le mani energicamente. Si voltò verso Alex e gli fece cenno di imitarla, ma lui declinò scuotendo il capo. Lei lo motteggiò con un sorriso.
«Io vado a ballare» disse poi e, lasciando la sciarpa di lana sulla sedia, si infilò in mezzo alla gente che si dimenava davanti al palco.
Alex rimase al tavolo, sorseggiando il suo vino rosso troppo intenso e seguendo quel corpo dalle curve ancora troppo familiari nella sua testa.
Emily scivolava tra la gente con disinvoltura, flettendo il suo corpo in armonia con la musica. I suoi capelli, ancora ricci e gonfi per la doccia, volteggiavano nell’aria prima di ricadere sulla sua schiena. La giovane buttò il capo indietro e alzò le braccia in cielo, poi le riabbassò e si percorse il corpo con le mani, in modo lento e sensuale. La musica riprese vigore e lei tornò a saltare, con il volto che sprizzava gioia.
Imprecando in mezzo ai denti, Alex svuotò il bicchiere di vino in un sorso e raggiunse la sala da ballo.
Emily non si accorse subito della sua presenza e continuò a ballare da sola per qualche secondo. Lui le si avvicinò lentamente e, quando fu abbastanza vicino, le posò le mani sui fianchi.
Lei sussultò e si voltò di scatto, ma quando vide che si trattava di lui gli prese le mani e le premette con più forza sulle sue anche, poi gli gettò le braccia intorno al collo.
Emily profumava di pioggia e di sapone. E di vino. Mentre danzava tra le sue braccia, Alex si sentì inebriato da lei e dai suoi profumi e dall’energia che il suo corpo sprigionava. Emily gli accarezzò i capelli e lui involontariamente si irrigidì, ma lei non parve neanche rendersene conto e continuò a ballare.
La canzone finì e la successiva cominciò con un ritmo più lento e pacato. La gente intorno a loro cominciò a formare coppie, che ondeggiavano lentamente insieme alla melodia. Così fecero anche loro e si trovarono a ballare quella musica dolce guardandosi negli occhi.
Nonostante fosse inverno, Alex notò delle leggere lentiggini sul naso di Emily e si accorse che le sue labbra avevano lo stesso color ciliegia che vedeva nei suoi sogni. La giovane alzò lo sguardo, facendo vibrare le lunghe ciglia scure e Alex si trovò a guardare direttamente dentro le sue iridi cesellate. Gli occhi di Emily erano di un color muschio che diventava brillante se colpito dal sole.
Lui era così assorto dalla contemplazione di quelle iridi che quasi non si rese conto di quello che stava facendo. Si era piegato in avanti e le sue labbra avevano cercato quelle di Emily, come implorando un bacio.
Lei si scostò di scatto, con un’espressione allarmata, ma tenne le braccia intorno al collo di lui. Rimasero immobili, come entrambi paralizzati, entrambi fingendo che quel leggero sfioramento non avesse provocato un incendio dentro di loro.
Emily tremò leggermente – Alex riuscì a sentirlo perché teneva ancora le mani suoi fianchi di lei – poi, di getto, si lanciò in avanti e cercò a sua volta le labbra dell’uomo.
Questa volta nessuno dei due si sottrasse e il bacio li infiammò ancora di più. Le mani di Alex percorsero la schiena di lei e raggiunsero i suoi capelli selvaggi.
Il vino cominciò ad avere effetto e offuscò improvvisamente la mente dell’uomo. Sapeva di star ballando con Emily, fino a che realizzò che in realtà si trovava sulle scale che portavano alle camere al primo piano. Emily camminava davanti a lui e lo teneva per mano, conducendolo dolcemente con sé.
Quando entrarono nella camera, Alex sentì di nuovo le labbra di lei sulle proprie e tutto il corpo della ragazza che premeva su di lui. Il vino e il profumo di lei gli annebbiarono la mente e cancellarono completamente la sua razionalità.
Mentre lasciava una scia di baci sul collo di Emily, le sue mani cercarono la zip del suo abito. L’abbassò delicatamente, sentendo il suo desiderio che aumentava centimetro dopo centimetro.
Quando il vestito scivolò a terra e Alex sfiorò la pelle bollente della ragazza, lei lo afferrò per la camicia e lo tirò verso il letto.
Forse se non avesse bevuto tutto quel vino, Alex si sarebbe fermato. Avrebbe potuto dare la colpa al modo in cui il corpo di Emily aderiva perfettamente al suo oppure a quanto gli sembrasse bella quella sera, con i capelli selvaggi e gli occhi caldi. La verità era che entrambi lo volevano e nessuno dei due aveva la forza per fermarlo.
 
 
 

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Capitolo 8
*** Conseguenze ***




Conseguenze
 
 

 
Gabriel si rigirò tra le mani il foglio rosa su cui la scrittura svolazzante di Tracy aveva con cura segnato il nome: “Emily Rodak”, seguito da un indirizzo della periferia di Tridell. 
Fuori dal taxi, i grandi palazzi del centro avevano lasciato posto a condomini rettangolari o catapecchie in rovina. Sull’altra corsia non scorrevano più berline nere, ma auto bottate e vecchi motorini. 
Il taxi si fermò tra due edifici in mattoni che una volta dovevano essere stati rossi, ma l’inquinamento li aveva tinti di un colore grigiastro. Gabriel ricontrollò l’indirizzo che aveva tra le mani. Quando Tracy gli aveva teso il foglietto con gli occhi brillanti, lui si era per un istante chiesto se si dovesse sentire in colpa per aver manipolato la giovane ad accedere al registro delle adozioni del centro dove lavorava. Era stato così convincente che lei si aspettava ancora di essere invitata ad un altro appuntamento. 
Il taxista gli riferì il prezzo e Gabriel abbandonò ogni senso di pentimento. La sua testa era tornata concentrata su un unico obiettivo. A malincuore tese delle banconote all’autista e si appuntò mentalmente che avrebbe dovuto presentare il conto all’uomo barbuto del pub. La busta che gli aveva fornito qualche giorno prima era già diventata parecchio più leggera e molti di quei soldi erano stati spesi per portare avanti le sue ricerche.
Dopo aver pagato, scese dal taxi e mentre quello ripartiva, si prese un attimo per studiare il condominio. Una piccola scala scrostata conduceva alla porta d’ingresso e lì accanto un uomo in canottiera, nonostante il freddo invernale, stava fumando con aria distratta.
Quando Gabriel si avvicinò, l’uomo lo seguì con lo sguardo, ma non si mosse. Lo osservò mentre il ragazzo cercava il nome “Emily Rodak” tra quelli elencati sul citofono, invano. Alla fine, si decise a suonare quello dell’appartamento 24, come era indicato sul foglietto rosa.
La porta del palazzo si aprì vibrando e Gabriel ne approfittò per infilarsi all’interno. Salì lentamente le scale, disseminate di volantini stropicciati e borse di plastica. Quando raggiunse il quarto piano – con il fiato corto – notò che la porta dell’appartamento 24 era socchiusa.
Si avvicinò e suonò il campanello, cercando di sbirciare all’interno. La porta si spalancò, rivelando una donna di mezz’età dai capelli scuri raccolti in una coda disordinata. Indossava un top striminzito e un paio di pantaloncini corti e attaccato alla sua gamba stava un bimbetto con un ciuccio in bocca.
«Tu non sei John» gli inveì addosso la donna.
«No, sto cercando Emily Rodak».
«E allora cosa ci fai davanti alla mia porta?» gridò lei, gesticolando. «Cosa vuoi da me?»
Gabriel fece un passo indietro, intimorito. Cercò di valutare rapidamente cosa fare. Le informazioni che gli aveva dato Tracy erano sicuramente corrette, ma quella donna non sembrava conoscere la madre di Noah.
«Insomma, Ali, lascia in pace questo povero ragazzo» commentò una voce dalle scale ed entrambi si voltarono.
Una vecchia signora stava salendo, con una mano aggrappata al corrimano e una che reggeva una grossa borsa della spesa. 
«È lui che è entrato spacciandosi per John!» gracchiò Ali.
«Non mi sono spacciato per nessuno» protestò Gabriel mostrando le mani in segno di difesa. «Sto cercando Emily Rodak, credevo abitasse qui.»
La vecchia raggiunse l’ultimo gradino e si fermò per riprendere il fiato. Posò la borsa a terra e raddrizzandosi si rivolse all’altra donna: «Visto, Ali? Ora è tutto risolto.»
Ali lanciò ad entrambi uno sguardo poco convinto, poi sbuffò e sbatté la porta.
«Io… mi dispiace se ho creato qualche problema» farfugliò Gabriel sfoderando lo sguardo più innocente che sapesse simulare. Guardò la donna, poi si allungò per sollevare la borsa al posto di lei.
«Lasci che l’aiuti» le disse e lei gli rivolse un sorriso riconoscente.
«Quindi cerchi Emily?» gli domandò e Gabriel non riuscì a nascondere il proprio interesse.
«Sì, la conosce?»
La donna cercò nella giacca le chiavi di casa e si avvicinò alla porta di fronte a quella in cui era scomparsa Ali.
«La conoscevo. Onestamente, non credevo che avrei mai sentito quel nome mai più.»
Fece scattare la serratura e aprì la porta.
«Perché?»
La donna si voltò e lo squadrò.
«Ho ricevuto da dei parenti l’incarico di rintracciarla» si giustificò Gabriel e la vecchia parve immediatamente convinta dalle sue parole, perché gli sorrise e gli chiese con gentilezza di portare in cucina la borsa della spesa.
«La mia schiena non è più quella di una volta» si giustificò e Gabriel rise: «Tutto quello che le serve.»
Quando ebbero finito di sistemare i prodotti nella piccola cucina, la donna gli offrì un tè per sdebitarsi e lui accettò con simulato entusiasmo.
«Emily, Emily…da dove cominciare?» commentò lei sedendogli di fronte, con la tazza tra le mani.
«Sa dove posso trovarla?»
La donna scosse il capo, facendo schioccare la lingua.
«Da quando se n’è andata, anni fa, non l’ho più rivista.»
Tra di loro calò il silenzio. Gabriel valutò se uscire dalla casa, dato che la donna non sembrava poterlo aiutare, ma prima che giungesse ad una decisione, la vecchia riprese a parlare.
«Emily era una povera ragazza, sai? Non aveva nessuno al mondo da quando sua nonna se ne era andata. Eppure, c’era qualcosa in lei, una sorta di luce interiore che la faceva sembrare diversa da tutti gli altri disgraziati che vivono in questo palazzo.»
Gabriel non parlò, ma prese un sorso del suo tè. Era ancora bollente e si scottò la lingua, ma nascose una smorfia dietro alla tazza, in attesa che la donna riprendesse a parlare.
«Ero pronta a scommettere che lei ce l’avrebbe fatta a lasciare la periferia e a diventare qualcuno in città, soprattutto dopo che si è trovata quel ragazzo.»
«Quale ragazzo?»
Gabriel ipotizzò che se non poteva rintracciare Emily Rodak, avrebbe potuto seguire tutte le tracce che portavano a lei.
La donna fece un gesto con la mano: «Un ragazzo alto, biondo, bello come un divo. Ti assicuro che non ho mai capito come uno come lui fosse finito in una topaia del genere. Quel ragazzo era nato ricco, si vedeva da miglia di distanza.»
«Si ricorda il suo nome?»
La vecchia corrugò la fronte e rimase in silenzio per qualche istante, pensierosa. Si picchiettò sulla tempia: «Mi dispiace, ma anche la mia memoria non è più quella di una volta.»
Lui le rivolse un sorriso tirato. «Non c’è un problema. Quindi loro due stavano insieme?»
La donna annuì e sorrise. «Sì, e come erano innamorati! Sempre insieme, sempre sorridenti e gentili! Non avresti potuto trovare coppia più felice in tutto il quartiere. Ancora non capisco perché lui sia scomparso».
Gabriel sbatté le palpebre e ripeté: «Scomparso?»
Lei fece un cenno assenso e mescolò il suo tè con il cucchiaino. «Un giorno era qui ad aiutarmi con le faccende di casa e il giorno dopo non c’era più. Emily ha sofferto tanto tanto. Non è più stata la stessa da allora e poi se ne è andata anche lei».
«Se dovessi continuare a cercarla, dove potrei recarmi?» tentò lui e la donna scrollò le spalle, poi ci pensò un attimo e si corresse: «Ricordo che spesso andava a trovare la nonna al cimitero. Magari lì sapranno dirti qualcosa di più.»
Gabriel guardò la sua tazza. Era ancora mezza piena, ma sentiva che quella donna non aveva più nient’altro da dirgli. Se si affrettava forse sarebbe riuscito ad andare al cimitero se nessuno lo richiedeva altrove. Sapeva di non potersi assentare troppo a lungo dal palazzo.
Stava per congedarsi dalla vecchia, quando lei esclamò: «Oh, aspetta un attimo!»
Si alzò in piedi e lo lasciò da solo nella piccola cucina. La sentì rovistare nella stanza accanto, poi tornò indietro con qualcosa di piccolo e bianco tra le mani.
«Questa l’avevamo scattata a Natale, quasi me l’ero dimenticata. Magari ti può aiutare.»
La donna gli tese una polaroid che ritraeva lei stessa abbracciata ad una giovane ragazza. Gabriel si sentì raggelare. 
«Questa è Emily?» chiese, come per assicurarsi di non sbagliare.
La donna annuì, sorridendo e lui tornò a guardare la fotografia, anche se gli era bastata una semplice occhiata per riconoscere il volto della duchessa.
 
 
 
***
 
 
 
Alex si svegliò quando un fascio di luce calda, filtrando dalle veneziane, gli colpì il volto. Sospirando, si stiracchiò leggermente e si accorse di essere solo nel letto. Di scatto spalancò gli occhi e si mise seduto, mentre metteva a fuoco la piccola stanza della pensione. Le immagini ondeggiarono un poco davanti ai suoi occhi e la testa gli pulsava come a ricordargli di tutto il vino che aveva bevuto la sera precedente. Stava ancora allineando i ricordi della serata, quando la porta del piccolo bagno, di fronte al letto, si aprì e ne emerse Emily. Era già vestita di tutto punto, con il cappotto sulle spalle e quell’aria da duchessa dipinta sul volto.
«Buongiorno» gli disse con disinvoltura, mentre si piegava a raccogliere la camicia di Alexander da terra e gliela lanciava. «Ti consiglio di vestirti in fretta. È il momento di tornare a casa.»
Lui prese la camicia tra le mani, ma rimase a fissarla ancora per qualche secondo. Emily sollevò le sopracciglia, interrogativa.
«Quindi questo era il tuo piano dall’inizio?» le chiese.
Se possibile, le sopracciglia di lei si sollevarono ancora di più, passando dall’interrogativo all’allibito.
«Come scusa?» gli diede l’opportunità di riformulare.
«Appena hai visto l’occasione in questa pensione, l’hai colta. Cosa vuoi? Distruggere il mio matrimonio? Il tuo piano era provocarmi sensi di colpa nei confronti di mia moglie?»
Emily rimase immobile, con gli occhi sgranati e la voce muta. Il silenzio che calò tra loro era carico di tensione.
«Alex, hai fatto tutto da solo» mormorò poi, sottovoce e con le labbra che tradivano un leggero tremolio.
Lui fece una smorfia: «Risparmiami la recita, Em. Con te nulla succede per caso, ma tutto è frutto di un lucido piano programmato in anticipo. Ti aspetti che io creda che non l’avevi previsto?»
Emily cominciò a respirare a fatica e la vista le si appannò. 
«Come avrei potuto prevedere il temporale? E l’albero sulla tua auto?» replicò con un filo di voce.
Lui scrollò le spalle, poi prese ad infilarsi la camicia: «Come ho detto, hai colto l’occasione.»
La ragazza si voltò, rovente in viso, afferrò il bicchiere d’acqua sul tavolo vicino a lei e lo lanciò verso Alexander, contenuto e contenitore.
«Sei uno stronzo!» gli gridò a gran voce e, mentre lui le inveiva contro di risposta, dicendo che era una pazza, si lanciò fuori dalla porta e poi giù dalle scale.
Fuori dalla pensione c’era già il suo autista ad attenderla. Lo aveva chiamato appena sveglia con l’intenzione di tornare in centro – insieme ad Alexander – alle prima luci dell’alba.
«Dove andiamo, signora?» le chiese l’autista.
«A casa» rispose lei. «Ti prego, portami a casa.»
Non appena l’auto si mise in moto, Emily chiuse lo sportello che la metteva in comunicazione con il guidatore, e si sfregò furiosamente le guance per cancellare le lacrime.
 
 
Quando raggiunse il palazzo, le lacrime erano ormai secche, ma un generale senso di tristezza e dolore le artigliava il petto. Riusciva ancora a sentire il tono accusatorio di Alexander e vedere la sua espressione di condanna. Lui la disprezzava. Aveva costruito la figura della duchessa per gli altri, per tutti quelli che non l’avevano conosciuta prima, ma non credeva che anche l’uomo che amava sarebbe rimasto accecato da quell’immagine costruita.
Entrò nel palazzo strascicando i piedi, stanca. Aveva dormito sì o no un paio di ore e tutto ciò che voleva in quel momento era abbracciare Noah e dirgli che le era mancato, ma era ancora presto e il bambino stava dormendo.
Se c’era qualcuno che poteva essere sveglio a quell’ora, era Roman. Emily si stava dirigendo verso la camera di lui, quando notò che la porta della libreria era aperta. Si affacciò sulla soglia e lo vide in piedi vicino alla finestra, approfittando della luce naturale per leggere alcuni fogli che aveva tra le mani.
Lei bussò sulla porta e il ragazzo distolse gli occhi dalla lettura per portarli su di lei. Le rivolse uno stanco cenno di saluto.
«Non hai idea di cosa sia successo ieri sera» esordì Emily, entrando nella stanza e lasciandosi cadere sul divano che stava di fronte al camino.
«Ora non ho tempo» replicò lui, mentre riordinava i fogli che aveva in mano con altri che aveva posato sul davanzale.
«Non hai tempo?» ripeté lei sorpresa. «Negli scorsi giorni ti ho malapena visto.»
Lui alzò gli occhi al cielo. «Ti risulterà difficile crederlo, ma non tutto in questo mondo ruota intorno a te, Emily.»
Con più ore di sonno e un risveglio meno traumatico, la ragazza avrebbe di certo avuto più autocontrollo, ma in quel momento non riuscì a ragionare con freddezza.
«Ironico che tu lo dica nel mio palazzo» replicò a gran voce, scattando nuovamente in piedi. «Mentre indossi gli abiti di seta che io ti ho procurato»
«Dio, sei così stronza a volte» ribatté lui irritato.
Emily assunse un’espressione sorpresa, poi fece una risatina: «Be’, sai dov’è la porta. Se questo posto non ti è più gradito, non sarò certo io a trattenerti.»
Roman la guardò un istante, come incerto, poi sbuffò e lasciò a grandi passi la libreria. 
Non appena fu uscito, la ragazza si sentì come se con lui se ne fosse andato anche tutto l’ossigeno della stanza. Crollò nuovamente sul divano, priva di forze, e chiuse con decisione gli occhi come nella speranza di svegliarsi da quel brutto sogno.
 
 
 
***
 
 
Isabel Lopez sentì la porta della centrale chiudersi alle sue spalle e improvvisamente la stanchezza accumulata nelle ore precedenti le cadde addosso. Aveva lavorato tutta la notte seduta alla sua scrivania e il solo pensiero la fece sbadigliare nuovamente.
Si diresse verso la propria auto e, mentre si avvicinava, notò che il muso si piegava in una forma diversa dal solito. Girò intorno all’auto e imprecò a denti stretti. Sopra alla ruota destra, la carrozzeria era completamente ammaccata, rendendo poco sicuro utilizzare la vettura. Qualcuno l’aveva colpita e non aveva avuto neanche la decenza di lasciare un biglietto.
Isabel sarebbe potuta tornare nella centrale e chiedere le riprese delle telecamere di sorveglianza del parcheggio per identificare il colpevole, ma era troppo stanca e non si sentiva pronta ad affrontare tutto questo. Rimandò il processo a dopo la sua dormita e si diresse indolente verso la fermata dell’autobus. 
Cercò di rimanere sveglia mentre attendeva sotto alla pensilina e, quando il suo bus arrivò, crollò sul primo sedile disponibile. Decise di mandare un messaggio a Joey della sorveglianza, per chiedergli di controllare i video di quella notte e di prepararle quello in cui la sua auto veniva colpita, in modo da poterlo visionare più tardi.
Aveva appena premuto “invio”, quando il suo cellulare vibrò, segnalando l’arrivo di un nuovo messaggio. Era sua madre, che la informava dell’aumento del prezzo mensile per le cure di suo fratello. Isabel strabuzzò gli occhi alla vista della nuova cifra. Ebbe un capogiro nel constatare che ora metà del suo stipendio sarebbe andato all’ospedale in cui si trovava Juan. 
Stava pensando che la vita aveva proprio uno strano senso dell’umorismo quando Joey le rispose che aveva controllato le riprese e l’auto che aveva colpito la sua era un SUV di cui non si riusciva a leggere la targa. Sarebbe stato più difficile risalire al proprietario, ma Isabel confidò nelle proprie abilità investigative. In ogni caso, questo non ci voleva, non nel pieno di un’indagine.
Scese dall’autobus e dovette percorrere quasi un miglio per raggiungere il palazzo in cui si trovava il suo appartamento. L’ascensore era ancora rotto, così fu costretta salire a piedi fino all’ultimo piano. 
Aveva lasciato le tapparelle abbassate e, quando entrò nell’appartamento, lo trovò immerso nella penombra. Si tolse la giacca e si diresse verso il piccolo salotto. Accese la luce, per poco non lanciò un grido. 
Seduto sul suo divano, impeccabile nel completo dalle stampe barocche oro e scarlatte, stava Roman Deleon.
Isabel si paralizzò sulla porta che separava il corridoio dal salotto. Sapeva che se si fosse allungata sarebbe riuscita a raggiungere il mobile in cui aveva riposto la pistola d’ordinanza.
Roman la guardava impassibile, con un sorriso appena accennato sulle labbra morbide. Se ne stava seduto comodamente tra i cuscini, con le braccia aperte poggiate sullo schienale.
«Vengo con buone intenzioni» le disse, senza scomporsi.
«Sei indagato per omicidio e commetti un reato di infrazione. Non una mossa intelligente» replicò lei, cercando di apparire disinvolta mentre tutto il suo corpo era pronto a scattare verso la pistola.
«Ho una proposta per te e avrai la facoltà di scegliere se è intelligente o meno» ribatté lui. Lentamente si portò una mano verso la giacca e le mostrò l’interno come per metterlo bene in vista. Dalla tasca interna estrasse una busta e la posò sul tavolino di fronte a lui. Compì tutto con grande cautela, come per non allarmare la donna.
«Che cos’è?» chiese lei in tono duro.
Roman posò una scarpa lucida sul bordo del tavolino e lo spinse per avvicinarlo alla donna.
«Un assegno» rispose.
Lei lo studiò per qualche secondo, poi, con aria circospetta, avanzò quando bastava per afferrare la busta, poi retrocedette fino alla porta. Aprì la busta e scoprì che Roman non aveva mentito: si trattava di un assegno la cui cifra le fece girare la testa.
«Irrompi in casa mia e cerchi di corrompermi» replicò, stringendo gli occhi. «Continua a sfuggirmi come tutto questo possa essere intelligente».
Roman le rivolse un sorriso affabile, ma che non raggiunse i suoi occhi color nocciola.
«Avrei potuto mandare qualcuno a minacciarti, ma non è quello che voglio. Quell’assegno è un’offerta di pace. Non vorrai far mancare al povero Juan le cure di cui ha bisogno?»
A sentirlo nominare il fratello, Isabel si raggelò. Improvvisamente ripensò alla propria auto, colpita da un SUV non ritracciabile e al fatto che l’incidente fosse accaduto lo stesso giorno in cui avevano aumentato il costo delle cure di Juan. Non era una coincidenza.
«Tu» sputò, in tono accusatorio.
Roman non si scompose. «Quello che ti chiedo è semplice, Isabel. Chiudi il caso, lascia cadere le accuse.»
Lei lo fissò con odio. Ormai avrebbe voluto avventarsi contro di lui e prenderlo a pugni, anche senza bisogno di ricorrere alla pistola. Odiava la corruzione, odiava la disonestà e odiava il fatto di star veramente considerando l’offerta di Roman Deleon. Avrebbe voluto prendere l’assegno che ancora teneva tra le mani e stracciarlo di fronte al volto imperturbabile di lui, ma la verità era che quella cifra avrebbe risolto molte cose. Avrebbe pagato l’affitto a sua madre, avrebbe coperto le cure di Juan per un anno, le avrebbe permesso di riparare la sua auto…
Strinse i pugni, stropicciando un poco quel pezzo di carta.
Roman si alzò in piedi, senza fretta, e le mostrò le mani, come per dimostrarsi innocuo.
«Ti lascio un giorno per pensarci. Dopodiché non posso assicurarti che non compariranno nuovi danni e nuovi costi»
Isabel strinse i denti e lo guardò avvicinarsi. Roman era più alto di lei e pesava decisamente di più, quindi un eventuale scontro fisico non sarebbe stato alla pari, sebbene lei sapesse come difendersi. L’altro però non pareva per nulla intenzionato a farle del male.
Isabel arretrò nel corridoio, verso la cucina, e Roman attraversò la soglia dirigendosi verso l’ingresso. Le chiavi erano ancora inserite nella serratura, così non ebbe problemi a farla scattare. Non uscì subito, ma lasciò la porta chiusa alle proprie spalle e si voltò verso la donna.
«Se la cosa può essere di una qualche consolazione, sono davvero innocente. Non ho ucciso io Andrew Bellingham.»
Isabel non parve colpita, anzi, continuò a guardarlo, poco convinta. Roman sospirò: «Tutto questo – fece un gesto vago con la mano – le minacce, l’irrompere in casa, non è il mio stile e mi dispiace, ma non avevo scelta.»
Lei fece una smorfia. «Lo stai dicendo perché sai che le prove ti incastrano. Ho ricevuto oggi i risultati dell’analisi del sangue e il DNA coincide con il tuo.»
«Che immagino ti sarai procurata durante quel giretto per il palazzo durante la festa» ribatté Roman e l’espressione sul volto di lei gli diede conferma delle proprie parole.
«Sì, il DNA coincide con il mio» constatò sospirando ancora, «ma non l’ho ucciso io. Non sono un assassino.»
Per un istante, Isabel parve convinta dalle sue parole perché una luce di incertezza brillò nei suoi occhi.
«Sembra quindi che tu sappia chi sia il vero colpevole» si affrettò a dire, mentre Roman posava la mano sulla maniglia per andarsene.
Lui tornò a guardarla, con gli occhi scuri indecifrabili.
Fece un cenno di assenso: «Sì, ma non ha importanza. Ormai è morto anche lui.»
«Lo hai ucciso tu?»
Un guizzo sul volto di Roman ne tradì l’irritazione.
«Come ho già detto» scandì con una certa durezza, «non sono un assassino.»
«Eppure il DNA coincide» Isabel non demorse.
Roman strinse le labbra al punto di farle impallidire, poi sbuffò: «Se ti fa sentire meglio, il DNA coincide perché Andrew Bellingham è stato ucciso da mio fratello. Gemello.»
Isabel sgranò gli occhi a quella rivelazione, incerta se crederci o meno.
«Rafael Deleon è morto sette anni fa» ribatté lei e fu il turno di Roman di dimostrarsi sorpreso, anche se era prevedibile che la detective avesse fatto ricerche sulla storia familiare degli indagati.
«Io sono Rafael Deleon» le disse con voce monocorde. «Non ero io a lavorare come portinaio da Bellingham, ma il vero Roman, mio fratello. L’unica persona al mondo a conoscere questa storia era Liliane Lefebvre, che, come certamente saprai, ha un buon motivo per avercela con me.»
Il giovane fece per andarsene, ma parve ripensarci ancora e si voltò verso Isabel.
«Ti ho raccontato questa storia per aiutarti a fare la scelta giusta. Non deludermi».
Le lanciò uno sguardo lungo e pesante e nessuno fiatò, dopodiché aprì la porta e se ne andò.









 







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Capitolo 9
*** Emily ***


Emily
 



Per la prima volta, Emily si sentiva nauseata dalle persone che la circondavano. Per la prima volta, non riusciva ad evitare di notare la volgarità con cui il notaio guardava la scollatura della signorina Fedorovna né le sfuggivano le labbra innaturalmente gonfiate di silicone della donna stessa. Trovava insopportabile il modo in cui il detective Alton ingigantiva le proprie imprese o come il giudice Samson accennava a informazioni non accessibili al pubblico solo per sottolineare la propria posizione di potere.
Stranamente, l’unica persona che le appariva sopportabile tra quelle sedute al tavolo era Gabriel. Lei conosceva il vero carattere che si nascondeva dietro al suo volto innocente e lo stesso giovane lo lasciava talvolta trasparire con un sorrisetto sfacciato. La dissimulazione in lui era un gioco, non una pretesa.
Emily spostò gli occhi sulle vetrate, guardando il parco del suo palazzo che si estendeva al di là del vetro. Avrebbe voluto lanciarsi al di fuori e correre lontano da quel gruppo di persone che stava sotto al suo tetto. Intorno alla tavola sedeva la rappresentazione di tutte le classi di Tridell, accomunate da un unico e grande amore per il denaro e il potere.
Constatando di non poter sfuggire a quella tortura, Emily riportò lo sguardo suoi propri ospiti e si finse interessata alla conversazione. Con un senso di nausea crescente, pensò che le uniche persone che avrebbe voluto lì con lei, in quel momento la detestavano. Alexander la disprezzava per la manipolatrice che effettivamente era e Roman pareva stanco di sottostare alle sue regole. Nonostante l’irritazione che questa consapevolezza le provocava, la giovane sapeva di non poterli biasimare. Anche lei si detestava a volte.
«Emily!»
Un brivido l’attraversò, mentre spostava gli occhi su Gabriel che aveva parlato. Gli rivolse uno sguardo interrogativo.
«La contessa Fedorovna ci ha augurato di avere figlie femmine e mi ha chiesto come vorrei chiamare la prima» spiegò lui, rivolgendole uno sguardo fin troppo penetrante.
«Emily?» ripeté lei storcendo il naso e Gabriel fece un cenno di assenso, senza distogliere gli occhi dal suo volto. 
«Un nome banale, per non dire noioso» continuò lei e scosse una mano nell’aria con finta nonchalance, anche se sentirglielo dire era stato come un colpo al cuore. Che Gabriel sapesse qualcosa? Il giovane era tornato a parlare disinvolto con l’altra donna ed Emily scacciò il pensiero.
Sopportò ancora per qualche minuto la maschera della padrona di casa ospitale, poi decise di scaricare il compito a Gabriel e, con la scusa di non sentirsi bene, raccomandò al “fidanzato” di prendersi cura dei presenti mentre lei si ritirava nelle proprie stanze.
Una volta salita al piano superiore, si diresse verso la camera di Noah, che ancora dormiva per il suo pisolino pomeridiano. Si sedette sul tappeto accanto al letto e, appoggiandosi al materasso, si perse nella contemplazione del volto del bimbo.
«So di essere un poco inquietante» mormorò, ma lui era così immerso nel sonno che non dette segno di aver udito le sue parole. 
«Sei bellissimo» continuò lei, perdendosi nel guardare la sua pelle diafana, il naso piccolo e le labbra rosse leggermente dischiuse da cui respirava. Se qualcuno le avesse chiesto cosa fosse il paradiso, Emily sapeva che nulla avrebbe potuto essere meglio che vedere il proprio figlio felice. 
Allungò una mano e, con delicatezza, gli sistemò una ciocca di capelli chiari che cadevano sulla sua fronte.
«Sono sicura che diventerai bello come tuo padre» gli sussurrò dolcemente. «E spero che erediterai il suo buon cuore, ma mi auguro che imparerai a prendere decisioni migliori delle sue.»
Noah si stiracchiò, sospirando, e lei tacque.
Lentamente vide il bambino svegliarsi e sollevare lentamente le palpebre che celavano gli occhi color ambra.
«Mamma» le disse non appena l’ebbe messa a fuoco.
Emily gli sorrise e Noah allungò le braccia verso di lei, come implorando un abbraccio. Lei non esitò e si stese sul letto al suo fianco. Lo accolse tra le braccia, inspirando il suo buon profumo, e lo strinse fino a che non si addormentarono entrambi.
 
 
 
***
 
 
Gabriel lanciò un’occhiata al cancello davanti a sé, oltre al quale si estendeva la grande distesa di erba del cimitero. Erano trascorsi due giorni da quando era stato al vecchio appartamento di Emily e finalmente aveva trovato il tempo di fare visita al cimitero.
Emily, ripeté mentalmente, come assaporando quel nome, così comune, così poco straordinario, a differenza della sua portatrice. Da quando lo aveva scoperto, Gabriel guardava alla giovane in modo diverso. Si sentiva come se avesse scoperto la sua vera natura, come se riuscisse a vedere al di là della seta e dei pizzi dei suoi abiti e la vedesse, nuda, per quello che era. Nient’altro che una ragazzina povera e disperata che aveva fatto ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere. Nessuna remora lo trattenne quando aprì il cancello e si infilò all’interno del cimitero, perché sapeva che Emily avrebbe fatto lo stesso. Tutti devono pur sopravvivere e, per farlo, Gabriel doveva distruggere lei.
Una volta entrato nel cimitero, notò sulla destra la casupola del custode. Si avvicinò, sbirciando all’interno del vetro rovinato della finestra, ma non vide nulla, così decise di bussare due colpi secchi sul legno della vecchia porta. 
Quella si aprì bruscamente, rivelando un uomo non più giovane, dal volto coperto da una barba imbiancata. Il custode lo squadrò, in attesa di una spiegazione.
«Salve, io sto cercando una tomba…» si frugò nelle tasche e gli tese il nome della nonna di Emily che si era segnato.
L’uomo gli fece cenno di attendere e scomparse dietro alla porta. Quando si ripresentò gli diede brevemente indicazioni per raggiungere la sua destinazione. 
Gabriel lo ringraziò con un cenno del capo e fece per andarsene, ma un’idea lo trattenne. Estrasse da un’altra tasca una fotografia della duchessa che si era procurato – con grande difficoltà, dato che non ne esistevano in circolazione – e la mostrò all’uomo.
«Può dirmi se l’ha mai vista?»
L’uomo la scrutò per qualche istante con le sopracciglia cespugliose aggrottate.
«Sì» rispose, con grande gioia del ragazzo. «Alla pensione che c’è in fondo alla strada. Puoi chiedere là se la conoscono.»
Senza riuscire a trattenere un sorrisetto trionfante, Gabriel ringraziò ancora e decise di dirigersi verso la pensione.
Dovette camminare quasi una ventina di minuti e rimpianse di aver congedato il taxi non appena aveva raggiunto il cimitero. Fare attività fisica non era decisamente tra le sue cose preferite, soprattutto non in quella strada sperduta in mezzo al nulla.
Vide la pensione da lontano, una vecchia casa mal verniciata e con il tetto che aveva bisogno di una seria sistemata. All’entrata lo accolse un uomo dall’aria annoiata, che non distolse neanche gli occhi dal libro che stava leggendo quando gli chiese come poteva essergli utile.
«Vorrei sapere se ha mai visto questa donna» domandò Gabriel allungando la fotografia di Emily.
Con fastidio, l’uomo spostò lo sguardo dal libro all’immagine e poi sul suo interlocutore.
«Sì, ha alloggiato qui pochi giorni fa.»
Gabriel sgranò leggermente gli occhi, colto alla sprovvista da quella risposta. Si chiese se la duchessa fosse una cliente abituale.
«C’era qualcuno con lei?» chiese ancora e l’uomo gli rivolse un’espressione sospettosa.
«Perché vuoi saperlo?»
Il ragazzo sospirò e prese alcune banconote dal portafoglio, per poi farle strisciare sul bancone verso l’uomo. Da come l’altro tese il collo, capì di avere la sua attenzione. Ritirò la mano e lasciò le banconote in bella vista sul legno. Rapido come un fulmine, l’uomo le prese e le fece sparire dall’altro lato della reception.
«Sì, un uomo. Alto, con i capelli chiari e vestito bene. Credo sia uno famoso, perché aveva un aspetto familiare»
Gabriel sentì un leggero formicolio attraversarlo. Coincideva con la descrizione che aveva fatto la vecchia. Doveva trattarsi del padre del bambino. La sua mente cominciò a galoppare e si chiese se la duchessa avesse un qualche affare amoroso con lui. Non l’aveva mai considerata una tipa sentimentale, men che meno una da relazione.
«Sa dirmi altro? Magari ricorda il nome dell’uomo?»
L’altro scosse il capo e Gabriel si lasciò scappare un verso di frustrazione.
«Però ho la fotocopia della sua carta d’identità nel registro delle prenotazioni.»
Le parole dell’uomo gli stamparono sul volto un sorriso ebete. L’altro gli fece capire che visionare il registro era ben più costoso delle banconote che aveva appena intascato e Gabriel si affrettò a strisciarne altre sul bancone di legno.
L’uomo si abbassò per rovistare tra i cassetti, fino a che estrasse un grande quaderno ad anelli nero e lo passò al ragazzo.
«Mentre lascio sbadatamente in bella vista il registro delle prenotazioni, vado al bar a bermi qualcosa» gli disse e si allontanò per dirigersi verso la zona ristorante poco lontano.
Gabriel non perse tempo e cominciò a sfogliare quelle pagine alla ricerca di un volto che potesse coincidere con quello che stava cercando. La maggior parte delle fotografie ritraevano uomini anziani o camionisti che sostavano in quella pensione in mezzo al nulla per necessità.
D’un tratto la sua attenzione fu attratta da un volto diverso dagli altri. Si trattava di un uomo di mezz’età, che dalla fotocopia in bianco e nero sembrava avere capelli chiari e un’aria affascinante. Gabriel non aveva mai sentito il suo nome e per un attimo si chiese se fosse proprio quello l’uomo che stava cercando. Incerto, decise di guardare anche le poche pagine rimanenti e voltò il foglio.
I suoi occhi caddero su una nuova fotografia e lui rimase a fissarla, come paralizzato. La sua mente corse alla scena che aveva visto alla festa nel palazzo della duchessa. Si era anche preso la briga di andare dal responsabile e fargli notare che non si addiceva ad un uomo sposato sparire da una festa in compagnia di un’altra donna. 
Si diede dello stupido per non esserci arrivato prima. La vecchia gli aveva detto che si trattava di un giovane alto e biondo, con l’aria da divo e quella era l’esatta descrizione del ragazzo d’oro di Tridell, dell’uomo che aveva vinto e perso la carica di sindaco in meno di due giorni e che dopo un anno di carcere era ricomparso nelle sale dell’alta società come se nulla fosse successo.
Gabriel accarezzò la fotografia con un sorrisetto.
 
 
 
 
 
 
Walt Morris scese dall’auto che lo aveva accompagnato e fece cenno all’autista di aspettarlo al solito posto, mentre si dirigeva verso il pub. Non amava particolarmente gli incontri con quel ragazzino viziato di Leroy, ma il dovere era dovere e lui sapeva svolgere il proprio lavoro celando gli eventuali sentimenti di disprezzo che provava.
Si fermò un istante davanti alla porta a vetri del pub per controllare il proprio riflesso. Il cappello nero di feltro era ben sistemato sulla sua testa rasata e la lunga barba nera appariva in ordine.
Spinse la porta e si immerse nel locale che odorava di birra e sigarette. Gabriel Leroy lo attendeva al balcone, già attaccato ad un bicchiere dal contenuto denso e scuro. Il ragazzino sedeva mollemente su uno sgabello e, nonostante se ne stesse con i gomiti sul balcone e la schiena leggermente curva, c’era comunque una certa grazia nella sua posa. Walt ipotizzò che si trattasse di un privilegio di quelli che nascevano ricchi e imparavano a muoversi nel mondo come se la loro presenza fosse un beneficio offerto agli altri. Non risultavano mai sgradevoli all’apparenza e questo era il loro potere.
Gabriel si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso storto che l’uomo non ricambiò.
«Spero sarai pronto a lasciarli tutti» lo accolse il ragazzo, ammiccando verso la valigetta che Walt stringeva tra le mani.
L’uomo non cambiò espressione e prese posto sullo sgabello accanto a lui. «Vediamo se le tue informazioni ne valgono la pena.»
Il sorriso dell’altro non vacillò mentre si preparava a parlare.
«Il vero nome della duchessa è Emily Robak. È lei la madre del bambino e ho i documenti dell’ufficio adozioni per provarlo. Questo spiega il suo attaccamento ossessivo.»
L’uomo lo fissò in silenzio, poi chiese: «Perché il bambino era in adozione se lei gli è così attaccata?»
Gabriel gli raccontò del quartiere che aveva visitato e del palazzo in cui Emily aveva vissuto. 
«Certamente non navigava nell’oro ai tempi. Forse non ha avuto altra scelta» concluse e Walt fece un cenno di assenso.
Stava decidendo se lasciare direttamente la valigetta o consegnargli solo parte del denaro che conteneva, quando l’espressione sul volto di Gabriel gli fece capire che non era finita.
«C’è dell’altro» gli disse infatti. «Non indovinerai mai chi è il padre del bambino».
Walt gli rivolse uno sguardo scocciato. «Non sono venuto per risolvere indovinelli.»
Gabriel si guardò attorno, circospetto, poi si piegò in avanti e gli sussurrò il nome nell’orecchio.
L’uomo rimase immobile e lo fissò in silenzio, come per assicurarsi che avesse detto la verità.
«Ne sei sicuro?» gli domandò poi.
Il ragazzo fece un vigoroso cenno di assenso. «Dopo essere stato alla pensione dove lui e la duchessa hanno passato la notte, sono tornato dalla vecchia con cui avevo parlato e le ho mostrato una fotografia. Mi ha confermato che si trattava proprio di lui.»
Walt tacque. 
Gabriel gli passò una mano davanti agli occhi e l’uomo tornò in sé, scoccandogli un’occhiata infastidita.
Gli tese in modo brusco la valigetta e disse: «Questi sono tuoi. Ma potremmo avere ancora bisogno di te, mi farò vivo io.»
Detto ciò, si alzò dallo sgabello e uscì dal locale. L’auto lo attendeva con il motore già acceso. 
«Portami dal capo» disse all’autista e, con un cenno di assenso, quello si infilò nella strada trafficata.
In pochi minuti raggiunsero l’alta cancellata che circondava la villa del capo. L’auto si infilò per la strada asfaltata che superava l’ampio giardino ben curato e raggiunse il parcheggio sotterraneo del palazzo. 
Walt si diresse verso le scale riservate al personale, che conducevano direttamente davanti allo studio del padrone di casa. Salì rapidamente i gradini e, quando raggiunse la porta di legno massiccio, bussò in modo deciso.
«Avanti» gli rispose una voce al di là della porta.
Walt scivolò all’interno e notò che l’uomo gli dava la schiena mentre, seduto comodamente sulla sua poltrona, osservava il giardino dall’ampia vetrata opposta alla porta.
«Che notizie mi porti, Walt?» domandò il padrone, con quel suo modo di parlare subito di affari che lo caratterizzava.
«Vengo dall’incontro con Gabriel Leroy.»
«Ah» esclamò l’uomo, «ogni volta mi stupisco che quel ragazzino riesca a vedere un altro giorno senza che le droghe lo uccidano. Cosa ti ha detto?»
«Ha confermato che il punto debole della duchessa è il bambino, Noah. È suo figlio biologico.»
Il silenzio dell’altro lo spinse ad andare avanti.
«Il vero nome della donna è Emily Rodak e pare sia cresciuta in un contesto piuttosto umile, per non dire degradato».
Il padrone continuò a tacere, ma ruotò leggermente la poltrona verso la porta e Walt scorse il suo profilo scuro contro la luce che veniva dalla finestra.
«Leroy è riuscito a risalire al padre del bambino e ha anche le prove per dimostrarlo. Si tratta di Alexander.»
Il capo si voltò completamente verso di lui e il suo sguardo trafisse Walt con una tale intensità da farlo trasalire. Ma quella reazione prevedibile.
«Alexander?» ripeté l’uomo al di là della scrivania e Walt annuì.
«Mio figlio» aggiunse l’altro e Walt non poté far altro che osservare il volto di Robert Henderson mentre accettava quest’informazione.









 




 
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Capitolo 10
*** Punto di rottura ***




Punto di rottura
 
 


 
Il profumo della primavera era nell’aria, Roman riusciva a percepirlo mentre passeggiava per le vie del parco. Passò accanto ad un cespuglio di camelie e si fermò per un istante ad ammirare i colori vivaci tra l’erba smeraldina appena bagnata dalla rugiada del mattino. Prese un respiro profondo, cercando di assaporare ogni profumo che giungeva alle sue narici, prima di riprendere a camminare.
La sua meta era la collinetta sulla cima del parco, da cui si riusciva a vedere tutta la città. 
Il sentiero si fece in salita e per un istante si chiese perché non avesse pensato di mettere scarpe più comode dei mocassini in pelle. Cercando di non scivolare sulla ghiaia umida, mantenne un buon passo con gli occhi rivolti verso la boscaglia che celava la cima.
Incontrò poche persone. Gli unici presenti parevano gli sportivi che correvano prima di andare al lavoro, ma il sole era sorto da poco e, a parte rare eccezioni, Tridell era ancora completamente addormentata.
Si immerse in un punto dove la boscaglia si faceva più fitta, poi il sentiero svoltava a destra, conducendo all’unica panchina che era stata sistemata sulla cima. Da quella distanza, i grattacieli non erano altro che parallelepipedi dalle facciate specchiate che riflettevano il cielo pallido del primo mattino.
L’unica panchina era occupata, ma Roman non si stupì. Dopo tutto, si trovava in quel parco proprio perché l’aveva fatta seguire e sapeva che tutte le mattine si recava in quel punto.
Isabel Lopez sedeva con lo sguardo rivolto verso l’orizzonte da cui si era da poco sollevata la palla infuocata del sole. Teneva gli occhi socchiusi, mentre il suo volto era accarezzato dai primi pallidi raggi del giorno.
Roman la osservò per qualche istante da lontano, in silenzio, poi riprese a camminare e le si avvicinò.
Isabel non si scompose, neanche quando lui si sedette sulla panchina al suo fianco.
«Mi chiedevo quando avresti smesso di mandare i tuoi servi e ti fossi presentato di persona» gli disse, senza guardarlo. Non c’era rabbia né risentimento nelle sue parole, solo una normale affermazione.
«Semplice precauzione» replicò lui. «Sono venuto a ringraziarti per aver chiuso il caso ed eliminato le prove contro di me.»
Isabel sbuffò. «Non mi hai dato molta scelta.»
Roman non disse nulla, ma si mise a seguire la direzione dello sguardo di lei. Pensò che la città pareva molto più bella dall’alto. Non si vedeva la corruzione che correva dentro quei palazzi, i senzatetto che dormivano sotto i ponti, la violenza che dilagava nelle strade… da lassù, tutto era immerso nel silenzio e nella luce delicata del mattino.
«Perché mi hai raccontato quelle cose?» gli domandò la donna, voltandosi a guardarlo. Roman sentì il peso dei suoi occhi scuri su di sé.
Sospirò. Non aveva senso nascondere alcunché. «Mi sono rivisto in te, detective Lopez. So cosa significhi fare dei sacrifici per il bene della famiglia. Mio fratello è sempre stato debole di salute ed era compito mio occuparmi di tutto.»
Isabel non distolse lo sguardo. «Da quello che mi risulta, sotto il nome di Rafael Deleon sono segnati diversi crimini minori. È questo che intendi con “occuparmi di tutto”?»
Di nuovo, la sua voce non nascondeva accuse, ma si limitava a porgli una domanda.
Lui annuì e Isabel aggiunse ancora: «E quando lui è morto hai pensato che fosse meglio prendersi la sua identità con una fedina penale immacolata.»
Roman si voltò a guardarla e i loro occhi si incrociarono. Nessuno dei due distolse lo sguardo per qualche secondo, quasi si sfidassero, poi Roman sospirò e abbassò gli occhi.
«Mio fratello non era una brava persona, ma non meritava di essere distrutto dalla sua malattia. Spero che riuscirai a salvare il tuo» disse soltanto.
Fu il turno di Isabel di prendere un respiro profondo. La donna tornò a guardare il sole, sempre più lontano dall’orizzonte e luminoso.
«Hai detto che l’unica a conoscere la tua vera storia era Liliane Lefebvre. L’amavi davvero, o sbaglio?»
Roman non rispose, ma il modo in cui la sua mascella si irrigidì fu piuttosto eloquente.
«Quindi nemmeno la duchessa conosce il tuo vero nome?»
A sentire quelle parole, lui si voltò di scatto, allarmato. Si trovava in un momento di vulnerabilità e solo quell’accenno di Emily lo aveva messo involontariamente sulla difensiva. Fu come se all’improvviso qualcuno gli avesse tirato un secchio di acqua gelida in faccia, facendolo ripiombare nella realtà. Cosa diavolo gli era saltato in mente? Cercare il conforto di una detective? Solo perché avevano qualcosa in comune, non significava che quella donna non avrebbe colto la prima occasione per metterlo in manette.
Si alzò bruscamente in piedi e, senza salutare, si allontanò a passi rapidi.
«Aspetta!» sentì Isabel gridare, ma non si voltò. «Rafael!»
Quel nome gli provocò un brivido lungo la schiena, ma continuò a camminare. Ormai non gli apparteneva più da troppo tempo.
 

 
 
***
 
 

 
Non appena l’auto si fermò davanti all’ospedale, Emily spalancò la portiera e si diresse a grandi passi verso i gradini che salivano all’ingresso. Sapeva già verso quale reparto dirigersi, così prese l’ascensore e fissò i numeri digitali che indicavano il piano mentre tamburellava nervosamente le dita sulla coscia. L’infermiere che era salito con lei, la guardò di sottecchi, ma non fece commenti.
Quando le porte si aprirono, si lanciò all’esterno e i suoi passi decisi risuonarono tra le pareti azzurrine del corridoio, mentre la gonna dell’abito le frusciava sulle gambe.
Il risveglio di quella mattina era stato a dir poco traumatico. Si era appena seduta per fare colazione con Noah, quando una chiamata l’aveva informata dell’incidente.
«Stanza 409» le avevano detto, ed Emily si fermò davanti a quella.
La porta era socchiusa e non sentì alcuna voce all’interno, così la spinse e avanzò all’interno. L’odore di medicinali e disinfettante le invase le narici. La stanza era immersa nella penombra a causa delle veneziane abbassate e un rumore di macchinari era l’unico suono che si udiva.
Solo uno dei due letti era occupato e la sagoma di un corpo si intravedeva sotto al lenzuolo bianco. Alcuni tubi per la respirazione rendevano impossibile vedere il volto dalla distanza a cui si trovava Emily.
Accanto al paziente stava un medico che, quando si accorse della presenza di un’intrusa, si voltò di scatto, come per redarguirla, ma una volta riconosciutala ammutolì.
«Come sta?» domandò Emily senza togliere gli occhi da quel corpo.
Il dottore esitò un istante prima di rispondere. «Per ora è stabile, ma si è trattato di un brutto colpo.»
«Mi hanno detto che l’auto è distrutta» continuò lei e l’uomo annuì: «Sì, il camion l’ha colpita in pieno. È una fortuna che fosse vivo quando sono arrivati i soccorsi.»
Emily raccolse le forze e avanzò ancora, fino a che fu abbastanza vicina per vedere il volto pallido e tumefatto di Gabriel. Lo fissò per qualche istante in silenzio, rabbrividendo ogni volta che vedeva un livido sulla sua pelle chiara, poi chiese al dottore di tenerla informata e si voltò per uscire dalla stanza. L’odore di medicinali e il senso di morte che si respirava in quella camera la stavano nauseando.
Quando tornò nel corridoio, notò due persone sedute fuori dalla porta. Non aveva mai avuto occasione di conoscerli ufficialmente, ma sapeva che si trattava dei genitori di Gabriel. Sua madre, una donna dal viso dolce, contornato da una chioma biondo-rossiccia, le rivolse gli occhi sgranati e pieni di lacrime. 
Emily la fissò impassibile, mentre il signor Leroy si alzava e le si avvicinava. Le fece cenno di seguirlo a pochi passi di distanza, al riparo dalle orecchie della moglie.
«Mi sorprende vederti qui» le disse l’uomo.
Lei strinse gli occhi. Richard Leroy aveva amministrato Tridell per anni e lei non aveva mai messo in dubbio che l’uomo sapesse quanto di poco spontaneo ci fosse nel fidanzamento del figlio. Era un uomo intelligente, dopo tutto.
«Non so cosa Gabriel le abbia detto di me, ma di sicuro vederlo in fin di vita è l’ultima cosa che vorrei.»
Lanciò un’occhiata alla porta della camera e l’uomo parve sinceramente sorpreso della sua apprensione.
«Mi dispiace» aggiunse Emily e lui fece un cenno di assenso, ma tenne gli occhi sul volto di lei.
«Dicono che avesse dell’alcol in circolo. Non molto, ma abbastanza per impedirgli di fermarsi allo stop» le disse l’uomo e alla giovane non sfuggì il tono di scetticismo che celavano le sue parole.
Intuì che entrambi stavano pensando alla stessa cosa: Gabriel non sapeva guidare e non si era mai messo dietro al volante di un’auto in vita sua.
 
 
 
Il viaggio di ritorno a casa non fu piacevole. Tanto era chiaro che il signor Leroy avesse intuito tutto, altrettanto era evidente che la moglie fosse all’oscuro di come funzionavano le cose. Emily doveva metterla in soggezione, perché le si era avvicinata con aria circospetta, ma poi l’aveva stretta a sé, sussurrandole nell’orecchio: «Vedrai che andrà tutto bene.»
La ragazza aveva ricambiato la stretta, dato che la donna sembrava averne bisogno più di lei. La madre di Gabriel era una bella donna, ma numerose rughe le circondavano gli occhi stanchi ed Emily si era chiesta quante di queste fossero dovute alle preoccupazioni che il figlio le aveva dato negli anni. Credeva davvero che il ragazzo si fosse sistemato con lei e che presto si sarebbero sposati. Una cosa era certa: per quanto fosse uno stronzo narcisista, Gabriel non meritava di essere su quel letto d’ospedale.
Durante il viaggio di ritorno al palazzo, Emily non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo di Richard Leroy. I suoi penetranti occhi azzurri l’avevano scrutata, come per capire se ci fosse la sua responsabilità dietro a quell’“incidente”. Era questo che Emily non riusciva a rimuovere. Non dubitava che in passato Gabriel avesse fatto incazzare qualche persona con cui era meglio non scherzare, ma tutti sapevano del suo fidanzamento. Un torto a lui equivaleva a un torto alla duchessa e poche erano le persone che se lo sarebbero potuto permettere.
E poi c’era la questione della patente. Viziato fin dalla nascita, Gabriel non aveva mai avuto bisogno di imparare a guidare perché aveva sempre avuto al suo servizio uno stuolo di autisti privati. Di certo non si sarebbe messo a farlo mentre era ubriaco. Perché prendersi la briga quando avrebbe potuto semplicemente chiamare un taxi?
Guardando i grattacieli scorrere fuori dal finestrino, mentre si facevano più radi e declinavano verso la periferia, Emily si convinceva sempre più che il signor Leroy avesse intuito tutto: suo figlio era solo un pedone sulla scacchiera, ma il vero obiettivo di chi aveva inscenato quell’incidente era lei, la regina.
 
Quando poté finalmente rimettere piede nel palazzo, pensò che tutto quello che voleva era passare la giornata con Noah. Magari lo avrebbe portato nella piscina sotterranea e avrebbero potuto giocare nell’acqua.
«Avete avuto notizie da Roman?» domandò al maggiordomo quando entrò nell’atrio. 
L’uomo scosse il capo: «No, signorina.»
Emily non dovette neanche sforzarsi di nascondere il proprio disappunto, perché in quel momento sentirono suonare il campanello. Questo significava che qualcuno era stato fatto entrare dal cancello e in quel momento si trovava davanti al portone d’ingresso.
Emily fece cenno all’uomo di aprire la porta – non si era mai fidata a installare un sistema automatizzato, così il grande portone di legno che occupava gran parte dell’atrio, di fronte alla scalinata di marmo, doveva essere aperto a mano. 
La giovane si diresse verso l’apertura e, con sua sorpresa, si trovò davanti un uomo di mezz’età alto e corpulento, accompagnato da una decina di poliziotti, come le uniformi di tutti loro mettevano in evidenza.
«Capitano Grayson» salutò Emily senza scostarsi dalla porta per farlo entrare. «A cosa devo questa visita a sorpresa?» gli chiese, enfatizzando quanto non fosse un ospite gradito.
L’uomo tese le labbra in un sorriso che, a differenza di quello di Emily, almeno si sforzava di non palesare tutta la sua falsità.
«Possiamo accomodarci?»
Emily si guardò alle spalle e vide che poco distante c’era il maggiordomo, pronto a ricevere i suoi ordini.
«Sono piuttosto impegnata al momento. Credevo che avesse ricevuto il suo stipendio questo mese».
Il sorriso della ragazza si spense, riservandogli uno sguardo di ghiaccio. Si era assicurata di non abbassare la voce, in modo che anche tutti gli agenti alle sue spalle sentissero che il capitano prendeva mazzette da lei.
Il collo taurino dell’uomo si tese, ma lui non si mostrò intimidito. «Mi dispiace, ma questi sono ordini che vengono dall’alto.»
Emily strinse gli occhi. «Quanto in alto?»
Il capitano le mostrò un sorriso di sfida. «Così in alto che i tuoi soldi sporchi non ci possono arrivare.»
La giovane indietreggiò, di scatto, e fece cenno al maggiordomo di chiudere la porta. Questo si affrettò ad eseguire, ma il capitano Grayson la bloccò con una manata e mettendo il proprio corpo massiccio nel mezzo.
Emily lo guardò con gli occhi sgranati, mentre un senso di rabbia le montava dentro. Quell’uomo la stava sfidando.
«Forza ragazzi» ordinò infatti agli altri agenti e rapidamente due di quelli lo aiutarono a spalancare il portone, mentre gli altri si riversavano nell’atrio.
«Cosa diavolo pensate di fare?» sbottò Emily, inviperita. «Grayson, se non ritiri immediatamente i tuoi soldatini dal mio palazzo, ti faccio finire a spazzare le strade!»
L’uomo non parve per nulla intimorito da quelle minacce, anzi, sorrideva divertito. 
«Non agitarti, tesoro, possiamo fare le cose con le buone.»
«Hai perso quell’occasione irrompendo in casa mia» sputò lei, velenosa. Il maggiordomo rimaneva poco distante, in attesa dei suoi ordini,  ma c’era poco che potessero fare contro undici poliziotti armati.
Grayson rise, scuotendo il capo. «Voglio essere un gentiluomo e fare un altro tentativo. Ora, potresti gentilmente dirmi dov’è il bambino?»
Emily sentì il sangue defluire dalla sua faccia e le gambe farsi molli. Un improvviso giramento di testa la fece sentire sul punto di svenire, ma si sforzò di rimanere lucida e cosciente, mentre stringeva i pugni con tale forza da sentire le unghie conficcarsi nei palmi.
«Di quale diavolo di bambino stai parlando?» replicò in tono duro.
Il capitano sospirò, ma non smise di sorridere. «Ho dieci agenti che possono setacciare l’intero palazzo in meno di due ore. Oppure puoi dirmi dove si trova e risparmiamo tempo a entrambi».
Emily scoppiò a ridere. Una risata dirompente e un poco isterica. «Ti sembra questo il luogo adatto ad un bambino? Sei nel posto sbagliato e sinceramente mi avete già fatto perdere troppo tempo.»
L’uomo sbuffò e si diresse verso la scalinata di marmo. Emily rimase immobile, con i muscoli in tensione, ma circondata com’era non vi era nessuna direzione in cui potesse scappare. E decisamente non sarebbe riuscita a seminare quello squadrone.
Grayson posò un piede sul primo gradino e guardò in su, verso il piano superiore. Poi, con in aria beffarda, mise le mani intorno alla bocca e, rivolto verso l’alto, gridò: «Noah!»
Emily ebbe uno spasimo e scattò verso di lui. Fu solo un passo, una gamba portata più avanti dell’altra verso il capitano, ma per l’uomo fu abbastanza.
Lei si accorse del proprio errore e impallidì.
«Dov’è il bambino?» le chiese ancora mentre si avvicinava lentamente, come un predatore che si prende il proprio tempo prima di avventarsi sulla preda.
«Hai detto “ordini dall’alto”» replicò lei. «Chi ti ha mandato?»
Grayson la guardò con i suoi occhi piccoli e maligni. «Non mi sei mai piaciuta, duchessa. Sempre con quell’aria arrogante di chi crede di essere migliore degli altri, quell’atteggiamento altezzoso da reginetta. Chiunque mi abbia mandato, ha deciso che sei troppo in alto e che è il momento di farti precipitare nuovamente nella fogna da qui provieni». L’uomo le si fermò davanti e le puntò l’indice contro, premendoglielo nella carne sotto alla clavicola. Emily soppresse una smorfia di dolore. 
«Quello è il posto adatto a te.»
La ragazza afferrò il dito dell’uomo con entrambe le mani e glielo torse in modo innaturale, prima che quello riuscisse rapidamente a liberarsi e a sferrarle uno schiaffo violento. Lei cadde a terra, picchiando i palmi delle mani sul pavimento duro. Un dolore intenso si diffuse dai polsi e dal fianco su cui era precipitata.
«Ho provato ad essere un gentiluomo, piccola, ma non mi lasci altra scelta.»
Fece cenno a due agenti di sollevarla e, nonostante lei scalciasse e si divincolasse, quelli le ammanettarono un polso al corrimano della scalinata. Intanto altri due agenti trattenevano il maggiordomo poco distante.
«Grayson prova solo a muoverti nel mio palazzo, che ti pentirai di essere nato!» tuonò Emily.
L’uomo rise e si posizionò davanti a lei. «Darò la chiave per quelle manette a qualcuno di quei servetti quando avremo trovato il bambino.»
Emily lanciò un grido e cercò di avventarsi contro di lui, ma le manette la tirarono indietro con la stessa forza con cui lei si era lanciata in avanti, facendola cadere a terra.
«Patetica» commentò lui. 
«Patetico sarai tu quando mi sarò liberata!» 
L’uomo rise ancora, facendo tremare il suo petto imponente. 
«Forza, all’opera. Usciremo dal retro» disse poi rivolgendosi agli agenti, che rapidamente si divisero e scomparvero alcuni nei corridoi laterali e alcuni su per le scale. Uno di loro portò con sé il maggiordomo, tenendogli la pistola puntata nel fianco.
Grayson tornò a rivolgersi alla ragazza per l’ultima volta: «Quando qualcuno verrà a liberarti, saprai che il bambino avrà lasciato il palazzo con noi.»
Lei cercò ancora di colpirlo, ma il capitano si allontanò, senza degnarla di un altro sguardo.
Non appena rimase sola, Emily sentì il panico comincia ad artigliarla da dentro e lanciò un grido, che risuonò nell’atrio deserto, senza risposta.
 
 
L’attesa la stava facendo impazzire. Il suo polso destro, ancora imprigionato nelle manette, era arrossato e sul punto di sanguinare da tanto si era dimenata nel tentativo di liberarsi. L’ira e il dolore avevano ormai completamente offuscato la mente. Aveva gridato, disperata, ma nessuno era accorso in suo aiuto. Gli scenari che la sua immaginazione stava producendo la mandavano fuori di testa. Dov’era Noah? Cosa stava facendo? Lo avevano trovato? Era così disperata che si guardò attorno alla ricerca di qualcosa di tagliente. Nella sua follia, era pronta a tagliarsi la mano pur di liberarsi.
Non aveva fatto tutto questo per tornare nella stessa, terrificante situazione. Noah era suo figlio, aveva lottato per esercitare questo diritto e avrebbe lottato di nuovo. Non era una ragazzina spaventata, non era una perdente. Era la duchessa e la sua ira avrebbe carbonizzato tutti quei miserabili, travolgente e irrefrenabili come la lava di un vulcano.
Un rumore di passi sui gradini attirò la sua attenzione e si voltò di scatto, raddrizzando la schiena, ma rimanendo seduta a terra con la mano ammanettata in alto.
Vide che si trattava dello stesso maggiordomo che era con lei prima. Ogni passo dell’uomo le risuonava nel petto come un proiettile. Pregò che fosse venuto a dirle che Noah era in salvo. Sì, era così. La bambinaia che si prendeva cura di lui quando Emily non c’era doveva aver ricevuto la notizia che la polizia era nel palazzo e lo aveva portato in salvo. Le cose erano andate così, Emily se ne stava convincendo.
L’uomo la raggiunse e si chinò di fronte a lei.
«Sta bene? Dimmi che sta bene» lo supplicò, priva di forze.
Lui non rispose, ma le mostrò cosa teneva tra le mani: era la chiave delle manette.
Emily crollò sui gradini e lanciò un altro grido di dolore.
 
 






 







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Capitolo 11
*** Passaggio di testimone ***




Passaggio di testimone
 


 
Il suono prolungato della campanella segnalò che l’incontro era terminato. Lentamente e non senza qualche lamentela, gli uomini si alzarono in piedi, riordinando le sedie che avevano posto in cerchio al centro della stanza. Alexander li aiutò a sistemare lo spazio e attese che ognuno di loro lasciasse la stanza, non prima di averlo salutato con un semplice cenno del capo o con una battuta ironica.
Generalmente, chi si prendeva più confidenza lo chiamava “Alex”, ma era stato difficile guadagnarsi le simpatie di quei carcerati che avevano acconsentito a seguire i suoi incontri. La maggior parte lo faceva solo perché la partecipazione dimostrava buona condotta e avrebbe potuto portare ad una riduzione della pena, ma avevano imparato in fretta che quello spazio di libertà che avevano poteva anche essere piacevole. Durante il suo periodo in cella, Alexander si era accorto che molti dei suoi compagni non erano delle cattive persone, ma avevano compiuto cattive scelte. Dare loro due ore a settimana in cui potevano esprimersi liberamente su un foglio, con colori e immagini, senza l’intermediazione delle parole, permetteva a questi uomini di guardare dentro se stessi e di conoscersi per chi veramente erano.
Salutò i poliziotti che incrociò nei corridoi e si diresse verso l’uscita. L’aria della sera era fredda, un poco pungente, e gli solleticò il naso mentre prendeva un respiro profondo.
I giorni precedenti erano stati un inferno. Fin da quando era tornato a casa, dopo la notte passata con Emily, si era chiesto con quale coraggio sarebbe riuscito a guardare negli occhi Camille. Doveva parlarle, essere sincero con lei, ma sapeva che prima di tutto doveva essere sincero con se stesso, anche se non aveva ancora capito quale fosse la verità dei suoi sentimenti. Non poteva parlarle prima di averlo chiarito dentro di sé. 
Fortunatamente, la moglie lo aveva sollevato dall’orribile fardello di dover stare con lei mentre era tormentato dai sensi di colpa, dato che aveva passato gran parte delle giornate in chiamata con sua madre o altre persone che potessero aiutarla nell’organizzazione della beneficenza a cui voleva dedicarsi.
Se Camille quindi era, almeno per il momento, un motivo di minore disturbo, Alexander non riusciva a togliersi dalla testa il modo in cui aveva trattato Emily quando si era svegliato nel letto della pensione. A posteriori, aveva capito che la sua reazione rabbiosa era destinata a se stesso, per essersi comportato come un vile traditore, ma la ragazza era stata un capro espiatorio più facile e accettabile rispetto al prendersi le proprie responsabilità.
Una cosa era certa: Alexander si sarebbe dovuto tenere lontano da entrambe fino a che la sua mente non fosse tornata lucida e razionale.
Mentre si dirigeva verso la stazione del bus – aveva deciso di usare quello per raggiungere la prigione – era così immerso nei suoi pensieri, che non si accorse dell’auto scura che lo aveva affiancato.
Solo quando quella cominciò a muoversi a passo d’uomo, lui la notò e vide che si trattava dell’auto di suo padre. Infatti, il finestrino posteriore si abbassò e dall’interno venne la voce di Robert Henderson: «Su, non farti implorare. Sali».
Alex sapeva che aveva ben poche possibilità di sfuggire al pressante genitore, così aprì la portiera e si infilò all’interno. Si era appena seduto sul sedile di pelle quando l’autista, senza bisogno di indicazioni, accelerò e si diresse verso la strada principale.
Suo padre sedeva al suo fianco e gli rivolgeva uno sguardo che sarebbe parso affabile ai più.
«Cosa succede?» domandò subito Alexander e l’uomo sorrise: «Non posso dare un passaggio al mio figlio preferito?»
Alex sbuffò. «Un uomo che ammette di avere un figlio preferito non è una persona degna di fiducia».
L’altro scrollò le spalle. «Cosa ci posso fare? Anche con la fedina penale sporca rimani il mio preferito. Ai tuoi fratelli manca quella fiamma che arde in te, Alexander».
La luce di un lampione entrò nell’auto come un fascio luminoso e colpì gli occhi penetranti di Robert.
«Una fiamma che potrebbe fare grandi cose, se giustamente incanalata, ma che, se lasciata a se stessa, potrebbe portarti a smarrire la giusta strada, come è successo in passato».
«Vorrai dire “giusta per te”» replicò lui e il padre, se lo sentì, lo ignorò.
«Sai che avevo grandi piani per te, ma hai compiuto alcune scelte contestabili. Non posso darti la colpa di tutto, anzi, sarebbe stato compito mio guidarti verso ciò che è giusto.»
Fece una pausa e un leggero sospiro, poi tornò a guardare il figlio, con uno sguardo carico di significato: «C’è una cosa che non posso sopportare ed è che il sangue del mio sangue cresca in modo degenerato.»
Alexander alzò gli occhi al cielo e lo sguardo gli cadde fuori dal finestrino.
«Abbiamo superato l’incrocio che porta al mio appartamento» fece notare.
«Lo so, ti sto portando a casa mia».
Il giovane strinse i denti. Non aveva elementi per supporre quale fosse il motivo di quell’incontro inaspettato.
«È successo qualcosa?»
Suo padre non rispose, ma rimase per qualche istante in silenzio con gli occhi rivolti davanti a sé. Dietro al suo profilo marmoreo, scorrevano le sagome fredde e rigide dei grattacieli.
Alexander pensò a Camille, a casa da sola. Se la immaginava stesa sul divano, mentre leggeva un libro o guardava un vecchio film. Avrebbe dovuto avvisarla che sarebbe tornato più tardi, ma di solito l’autobus impiegava quaranta minuti a riportarlo a casa, quindi lei non aveva ancora motivo di preoccuparsi.
«Quando il video che ti ha incriminato è stato rilasciato, ho capito che qualcuno ti voleva fuori dai giochi».
Suo padre aveva ripreso a parlare, questa volta senza veli o battutine. 
«Il mio primo sospetto è stato Richard Leroy, dato che era l’unico che ci avrebbe guadagnato dal farti fuori politicamente, ma non è il suo modo di fare. Leroy è un giocatore di scacchi, gli piace vincere con l’astuzia, non con l’inganno.»
Avevano ormai raggiunto l’alta cancellata che circondava la villa di Robert Henderson e l’auto rallentò leggermente per dare tempo ai battenti di aprirsi. Mentre il profilo della casa illuminata dal basso si faceva sempre più vicino, l’uomo riprese a parlare: «Paul Jefferson mi ha parlato di come avete cercato l’aiuto di quella che molti chiamano “la duchessa” e non la smetteva di blaterare accuse su di lei».
A sentire quelle parole, Alexander rabbrividì e si irrigidì involontariamente. In automatico il suo corpo si era messo sulla difensiva. Stava cominciando a preoccuparsi di dove volesse arrivare il padre.
«La tua dolce Camille ha confermato l’esistenza di questa “alleanza” e una serie di ricerche mi ha portato a capire che dietro alle accuse di Jefferson c’era un fondamento».
L’auto si infilò nell’ampio garage che ospitava le diverse vetture di Robert Henderson. Il padrone di casa non parlò, fino a che non furono scesi dall’auto e si furono avviati verso le scale che conducevano ai piani superiori.
«Una volta confermati questi sospetti, ho pensato che dovevo fare qualcosa» la voce di Robert risuonò nella tromba delle scale. Superarono il primo piano e continuarono a salire fino al secondo.
«Ho sempre ignorato quella ragazzina patetica con la tendenza all’esibizionismo e non mi sono mai avvicinato a lei, ma se credeva di poter incastrare mio figlio e uscirne impunita, le avrei fatto capire come funzionava il mondo».
Alexander si bloccò e puntò gli occhi sgranati verso l’alto, dove la sagoma di suo padre, che lo precedeva, bloccava la luce della lampadina.
«Che cosa hai fatto?» chiese con un filo di voce.
Robert parve fiutare la sua paura e la cosa gli provocò una risata. «La donna si è rivelata fin dall’inizio impenetrabile, così ho cercato l’aiuto di qualcuno vicino a lei che fosse disposto a consegnarmi i suoi segreti».
Alex rimase immobile per qualche istante, di fronte alla porta che suo padre aveva aperto per condurlo nel corridoio del secondo piano. Non riusciva a capire chi mai avrebbe potuto tradire Emily. Un brivido gelido gli fece accapponare ogni centimetro della sua pelle.
L’altro gli fece cenno di continuare a seguirlo e ripresero a camminare sul parquet scuro del corridoio.
«Quello che non mi sarei aspettato era un tuffo nel passato» commentò Robert e si voltò verso il figlio per squadrarlo con occhi arcigni, impedendo con il proprio corpo di proseguire.
«La ragazzina fastidiosa che ti ha fatto finire il carcere aveva già cercato di rovinarti la vita, anni fa. Devo dire che mi ha stupito non poco constatare che sia riuscita ad uscire dalla topaia in cui viveva».
Alexander rimase in silenzio e si sforzò di non lasciare trasparire alcuna emozione dal volto. Se suo padre avesse voluto cercare una qualche conferma dalle sue espressioni, non gliel’avrebbe data. Dentro di sé, però, sentiva agitarsi un turbinio di pensieri a cui doveva dare ordine prima che fosse troppo tardi. Suo padre aveva la tendenza ad esercitare un controllo maniacale e oppressivo su tutto ciò che gli interessava, ma forse c’era ancora qualcosa che non sapeva, forse c’era ancora qualcosa che Alex poteva proteggere sottraendolo allo sguardo del genitore.
Ogni speranza cadde nel momento in cui Robert aprì una delle porte che si affacciavano sul lungo corridoio. Alexander riconobbe che si trattava della sua vecchia camera. Anche se le pareti erano state riverniciate di un bianco asettico, c’era ancora il suo letto, affiancato da un’ampia scrivania su cui aveva passato lunghi pomeriggi a disegnare bozzetti.
Tra il piumone voluminoso, era avvolto un corpicino esile immerso nel sonno. Alex fece un passo avanti, sperando con tutto il proprio cuore di essere ingannato dalla propria vista. Forse stava vedendo qualcosa che non era vero. Forse quello che dormiva nel suo vecchio letto non era davvero Noah. 
Avanzò ancora verso il bambino, con il cuore in gola e il respiro trattenuto, come irrimediabilmente attratto da lui, ma qualcosa lo trattenne. Suo padre gli aveva afferrato un braccio impedendogli di proseguire. Lo strattonò indietro, abbastanza perché mettesse piede fuori dalla soglia, e la porta della camera si richiuse davanti al suo naso.
Afferrò la maniglia con entrambe le mani, ma Robert aveva già fatto scattare la serratura e aveva repentinamente sottratto la chiave.
Alexander si voltò per fronteggiarlo, consapevole che gli sarebbe bastata una spallata ben assestata per far crollare la porta, ma notò che altre due figure erano comparse nel corridoio, alle spalle di suo padre. Si trattava di due uomini alti e corpulenti, probabilmente pronti a lanciarsi avanti e tenerlo fermo.
«Noah sta dormendo. Non mi sembra carino disturbarlo.»
Robert parlò con una freddezza glaciale, nonostante il sorriso fievole che increspava le sue labbra.
Alex strinse i pugni. Se anche fosse riuscito a sfondare la porta al primo colpo e afferrare il bambino, non avrebbe avuto alcuna possibilità di uscire dalla camera senza farsi prendere. Conosceva suo padre fin troppo bene, non era uno a cui piacesse correre rischi.
«Tu non hai idea di quello che hai fatto» mormorò, trafiggendolo con lo sguardo.
Il sorriso dell’altro si allargò. «Come ho detto, Alexander, sei il mio figlio preferito e voglio solo il meglio per te, sia in ambito lavorativo che familiare. Vieni.»
Gli posò una mano sulla schiena e con malcelata pressione tra le scapole lo costrinse a seguirlo per tornare da dove erano venuti. Il rumore di passi alle loro spalle rivelava che i due uomini li stavano seguendo.
«Perché non porti Camille a pranzo domani? È da una vita che non la vediamo e a tua madre farebbe davvero piacere».
Lui non rispose e continuò a stringere i pugni. Si muoveva spinto dal padre, mentre tutto il suo corpo tendeva verso la cameretta.
«Sono certo che con una buona dose di retorica, a tua moglie non dispiacerà accogliere in casa un povero orfanello di genitori ignoti. Dopotutto, la sua famiglia è sempre stata un’amante delle azioni benefiche».
Alexander si bloccò e guardò negli occhi suo padre. Nonostante fosse più alto di lui, la posa e il fisico vigoroso di Robert lo facevano ancora sentire come un ragazzino.
«Tu non hai idea di quello che hai provocato» gli ripeté sondando con lo sguardo quei pozzi vacui sul volto dell’altro. «Le hai sottratto la sua cosa più preziosa e ora cercherà in ogni modo di distruggerti.»
Suo padre proruppe in una risata grassa che riecheggio nel corridoio. «Che ci provi! Mi divertirò ancora di più a schiacciarla come un insetto.»
L’uomo si ricompose e si mise davanti al figlio, assumendo un tono, se possibile, ancora più autoritario. «Ora vai a casa e fatti una bella dormita. Con il nuovo giorno magari recupererai più razionalità e capirai che questa è la scelta migliore per entrambi. Come ho già detto, non posso sopportare che il sangue del mio sangue cresca in modo degenerato.»
Si fece ancora più vicino, piegandosi verso l’orecchio del figlio. «Per quanto corrotto, il sangue di Noah discende dal mio, ergo quel bambino mi appartiene non meno di quanto appartenga a quella cagna».
Gli diede una pacca sulle spalle, con fare che voleva essere incoraggiante, e ordinò ai due uomini di accompagnarlo di sotto chiedendo ad un autista di riaccompagnarlo a casa.
Alexander si lasciò guidare come un automa verso il parcheggio. Il suo corpo seguiva quegli uomini, mentre la sua mente lavorava, più rapida e fugace di quanto la sua carne poteva essere.
Salì in auto e come in trance raggiunse il proprio palazzo. Scese dal veicolo, ma quello non partì subito. Entrò nell’atrio e dalle vetrate notò che la sagoma nera era ancora ferma davanti all’ingresso. Intuì che suo padre aveva dato ordine di assicurarsi che entrasse in casa.
Salutò il portinaio e si avviò verso le scale. Una volta raggiunto il primo piano, attraversò l’ampio corridoio illuminato dai lampadari dorati su cui si affacciavano le porte degli appartamenti e, camminando con passo felpato sui tappeti che coprivano il marmo chiaro, raggiunse l’uscita secondaria. Si guardò alle spalle, ma tutto era deserto e avvolto nel silenzio, così spinse la porta e si lanciò giù per le scalette strette e buie. Quell’uscita secondaria era stata concepita per le personalità importanti che avrebbero abitato quel palazzo signorile nel pieno centro di Tridell e sbucava in una via poco frequentata e malamente illuminata sul retro dell’edificio.
Da lì, Alexander si diresse con passo rapido verso il quartiere adiacente e, una volta assicuratosi di essere abbastanza lontano da casa, si permise di cercare un taxi. La via era vuota, così non gli fu difficile riuscire a fermarne uno.
«Le raddoppio la tariffa se ci arriva in meno di mezz’ora» disse all’autista dopo avergli dato l’indirizzo. Quello recepì al volo e non si risparmiò con l’acceleratore. Zigzagando nel traffico raggiunse in fretta la periferia.
Alexander guardava fuori dal finestrino nervosamente, cercando di tenere a freno il tremore della gamba. 
Vide il palazzo della duchessa da lontano. Illuminato dai faretti, brillava simile ad un diamante in mezzo all’accozzaglia di edifici scuri.
Come promesso, lasciò un’abbondante mancia al taxista e si lanciò fuori dall’auto non appena questa si fermò davanti al palazzo. Suonò il campanello e la telecamera si accese sparandogli sul volto una luce biancastra.
«Devo parlare con lei. È urgente!»
Il cancello si aprì con un sibilo e lui si infilò all’interno. Con passi lunghi, quasi correndo, percorse il sentiero circondato da alberi che conduceva al grande portone d’ingresso. Lo trovò aperto, con un maggiordomo ad aspettarlo.
«Mi segua» gli disse quello e con un passo che ad Alexander parve fin troppo lento lo condusse al piano superiore. Lo lasciò davanti ad una porta socchiusa e, con un piccolo inchino, si congedò.
Non si premurò di bussare e si lanciò nella stanza. Si trattava di una piccola biblioteca, con le pareti ricoperte di scaffali, e l’ambiente era rischiarato dal fuoco che bruciava nel caminetto. Sopra al caminetto era sistemata una bicicletta, mentre di fronte ad esso c’era un divano su cui si distingueva, contro le fiamme luminose, la sagoma scura di qualcuno comodamente seduto.
«Emily, dobbiamo parlare. Si tratta di Noah» esordì in modo prorompente.
La figura si voltò a guardarlo e Alexander, abituandosi in quel momento all’oscurità della stanza, si accorse che non si trattava della duchessa.
«Spero di non averti deluso troppo» commentò Roman raddrizzandosi. «Emily non è in casa».
Alexander esitò un istante, poi avanzò verso di lui. «Dove si trova? È importante. Se lei mi sta evitando per… per quello che è successo, lo capisco, ma questo riguarda Noah.»
Roman corrugò la fronte e non parlò per qualche secondo.
«Tratterrò la curiosità di chiederti cosa sia successo tra voi. Credo che Noah sia con Emily, non lo avrebbe mai lasciato da solo.»
«Mio padre ha preso Noah. Ti prego, ho bisogno di parlare con lei» insistette Alex e l’espressione di sorpresa che si dipinse sul volto di Roman gli rivelò che l’altro non stava fingendo, era veramente all’oscuro di tutto. 
«Da quanto non la vedi?» gli chiese e questa volta Roman indugiò. Gli lanciò un lungo sguardo, come se stesse ponderando la propria risposta.
«Qualche giorno» disse in tono titubante, poi il suo volto si fece pensieroso. «È tornata la mattina dopo che era stata a fare visita alla tomba di sua nonna e da allora non l’ho più vista.»
Alexander realizzò che era lo stesso periodo di tempo da cui non la vedeva lui. Un senso di colpa gli attanagliò il petto. Tutto era precipitato da quando si era svegliato nel letto di quella pensione. Se non l’avesse aggredita verbalmente come aveva fatto, forse Emily sarebbe stata lì con loro in quel momento.
«Comunque negli scorsi giorni era casa, aveva degli appuntamenti e se li avesse saltati lo avrei saputo» proseguì Roman.
«Allora perché non l’hai vista?»
L’altro gli lanciò uno sguardo bieco. «Sono stato impegnato.»
Consapevole che non sapeva nulla in più di prima, Alexander si lanciò sfuggire un verso di frustrazione. 
«Se tuo padre ha Noah, dobbiamo presuppore che Emily abbia tutte le intenzioni di vendicarsi» continuò Roman alzandosi in piedi. Dietro di lui, il caminetto continuava a crepitare avvolgendo la legna nelle fiamme ardenti e tingendo la stanza di una luce rossastra.
«L’unica cosa che le ha sempre impedito di superare il limite è stata la sua razionalità» proseguì e Alexander pensò che i loro concetti di “limite” dovevano essere differenti.
«Ma senza Noah, non ragiona lucidamente» concluse al posto di Roman e l’altro annuì, aggiungendo: «So di cosa è capace e, sinceramente, ho paura. Se l’avversario è tuo padre, avrà bisogno di aiuto e chi potrebbe darglielo di certo non si muove nella legalità.»
«Ormai le riesce piuttosto bene stare nel mondo criminale».
Roman scosse il capo e gli rivolse uno sguardo grave. «No, questa volta potrebbe superare ogni limite. Dobbiamo trovarla e fermarla prima che sia troppo tardi. Tu puoi gestire tuo padre?»
Alexander annuì: «Il suo piano è quello di farmi avere l’affidamento di Noah, in modo che io possa crescerlo insieme a Camille. Ci ha invitati a pranzo domani.»
L’altro assimilò la notizia in silenzio, con un’espressione concentrata e lucida.
«Per il momento assecondalo. Io mi occupo di Emily».
Alexander si sentì fremere dentro dall’impazienza. Avrebbe voluto rimanere, mettersi all’opera subito e aiutare Roman, ma quello non era il suo mondo. Quello era il mondo della duchessa e solo il suo braccio destro avrebbe potuto muovervisi con la sua stessa disinvoltura.
Roman lo condusse in un’altra stanza – uno studio arredato da mobili in legno scuro ben sigillati – e gli tese un cellulare usa e getta.
«Rimaniamo in contatto con questo» 
Alexander lo prese e lo fece sparire nella giacca con una naturalezza che aveva smesso di impressionarlo. Mentre ritornava verso l’atrio, mandò un messaggio a Camille per dirle che suo padre l’aveva trattenuto, ma che stava tornando a casa.
Raggiunse il portone d’ingresso e si voltò per salutare Roman. Il giovane lo guardava dall’alto della scalinata di marmo, con quell’aria impassibile e lucida da degno erede della duchessa.
 
 

 






 







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Capitolo 12
*** Camille ***




Camille



 
 
Camille si svegliò quando i raggi del sole le raggiunsero il viso. Aprì gli occhi e notò che il materasso al suo fianco era vuoto.
Stiracchiandosi si alzò in piedi e si diresse verso la cucina. Alexander sedeva al tavolo con una tazza di caffè tra le mani e uno sguardo pensieroso perso nel vuoto. Nel sentirla entrare, spostò gli occhi su di lei e le sorrise.
«Non ho sentito la sveglia» gli disse.
«L’ho spenta prima che suonasse» replicò lui mentre si alzava in piedi per preparare il caffè anche per lei.
Camille prese posto di fronte a dove era stato seduto, ma si voltò a guardarlo mentre armeggiava in cucina.
«Sei andato a letto tardi eppure ti sei svegliato prima del suono della sveglia. C’è qualcosa che ti preoccupa?»
Lui le portò la tazza e le lasciò un bacio sulla fronte, accarezzandole dolcemente i capelli. «No, è tutto a posto. Mio padre ci ha invitati a pranzo.»
Camille lo osservò mentre le si sedeva di fronte e tornava a sorseggiare il proprio caffè. Il volto di Alexander non tradiva alcuna emozione, eppure c’era una certa stanchezza nel suo sguardo. La donna si sentì in colpa. In quei giorni era stata così impegnata da essere a malapena riuscita a parlare con lui. Come aveva predetto il padre di Camille, era stata un’illusione credere di poter tornare alla loro vecchia vita come se nulla fosse. Rimaneva quell’anno che avevano trascorso distanti, vivendo una vita sospesa, in attesa, in cui comunque erano successe cose che li avevano segnati. Decisamente non come dovrebbe essere un primo anno di matrimonio.
Camille avvicinò la tazza alle labbra e ci soffiò sopra delicatamente. Si disse che dopo il pranzo avrebbe proposto ad Alexander di andare via per qualche giorno, solo loro due. Avrebbe fatto bene ad entrambi.
«Se c’è qualcosa di cui vuoi parlare, sai che io sono qui» gli disse.
«Lo so» Alex le sorrise, poi aggiunse: «Grazie».
 
Non appena la figura imponente della villa dei suoi genitori comparve davanti a loro, Alexander cominciò a sentire un nodo in gola e un peso schiacciargli il petto. Roman gli aveva lasciato un messaggio quella mattina per dirgli che aveva fatto sistemare due auto intorno alla villa di suo padre, nel caso ne avesse avuto bisogno. Nel ripensare a quelle parole, Alexander prese un respiro profondo.
Camille guardava fuori dal finestrino con noncuranza. I capelli fini e biondi le ricadevano lisci sulle spalle e le labbra, tinte di un rossetto rosa, erano tirate un sorriso sereno.
L’auto li lasciò davanti all’ingresso, dopodiché fece inversione e tornò da dove era venuta.
Robert Henderson e sua moglie li attendevano nella sala da pranzo, dove il lungo tavolo di legno di noce era già apparecchiato con il servizio più elegante.
Alexander salutò sua madre con un abbraccio e due baci sulle guance. La sentì stringerlo a sé in modo più forte del dovuto, quasi volesse trattenerlo ancora contro il proprio petto. Non la biasimò. A causa della presenza ingombrante di suo padre, non si vedevano molto, ma Elizabeth Henderson era una donna buona e mite, che amava i propri figli con un trasporto che tendeva a cancellare le loro colpe e difetti.
«Sei dimagrito?» gli domandò, tastandogli il braccio. Lui scrollò le spalle e la conversazione non ebbe seguito, perché Robert chiamò lui e Camille, conducendoli verso la stanza adiacente. Si fermarono sulla porta e l’uomo si voltò per parlare.
Mentre fissava il volo austero di suo padre, Alexander smise di ascoltare qualsiasi menzogna si stesse inventando. Guardava la sua bocca sottile parlare dei Fairbanks e del bambino senza famiglia, ma la sua mente non stava realmente processando quelle informazioni. Tutto il suo corpo era teso nell’intento di captare qualsiasi segnale della presenza di Noah intorno a lui.
Sentì Camille aggrapparsi a lui e rivolgergli gli occhi chiari sbattendo lentamente le sue lunghe ciglia.
«Cosa ne pensi?» gli mormorò sottovoce, in un bisbiglio che a malapena raggiunse le sue orecchie. La ruga tra gli occhi della donna rivelava apprensione e timore.
Alexander rispose con l’unica cosa che gli era concessa in quel momento: «Mio padre ha ragione».
Camille, seppur riluttante, fece un lieve cenno di assenso nei confronti di Robert e lui aprì la porta che conduceva al salottino accanto alla sala da pranzo.
Sull’ampio tappeto persiano che copriva il parquet della stanza, stava seduto Noah, che giocava con quelle che Alexander riconobbe come macchinine che gli avevano regalato da piccolo.
Non appena sentì il rumore della porta aprirsi, il bambino alzò il capo. 
Il suo volto, di fronte a quegli estranei, era perplesso, ma quando riconobbe Alexander, sorrise.
«Ciao papà».
 
 
 
 
Sedettero a pranzo nei posti che Robert aveva assegnato loro. I padroni di casa da un lato del tavolo, mentre gli ospiti sedevano di fronte a loro, con Noah a capotavola tra Robert e Alexander. Quest’ultimo era stato sottratto dall’impiccio di dover spiegare perché il bambino lo avesse chiamato “papà” da una battuta di Camille: «Lo hai visto ieri sera e già ti si è affezionato!»
Alexander aveva sorriso e annuito. Non avrebbe saputo pensare una scusa migliore.
Il pranzo cominciò senza ulteriori indugi. Tutti erano impazienti di avere una scusa per distrarsi.
Camille porgeva domande cordiali e caute a Noah, come saggiando il terreno. Alexander non avrebbe saputo interpretare la sua reazione alle rivelazioni del padre. Di sicuro Camille non era entusiasta all’idea di un cambiamento così radicale imposto dall’esterno. Accogliere un bambino più o meno sconosciuto in casa non era un compito semplice, eppure la donna si era mostrata indulgente fin da quando Robert aveva accennato alla questione. Alexander sospettò che si trattasse del suo nuovo spirito votato alla beneficenza e all’aiutare il prossimo. Forse fino a una settimana prima avrebbe fatto più fatica a digerire la novità, ma in quel momento guardava Noah con sguardo benevolo, accogliente.
Mentre le portate scorrevano davanti ai suoi occhi, Alexander cominciò a rilassarsi e ad unirsi alle conversazioni con maggiore disinvoltura. 
Prima del dolce, fecero una breve pausa. Camille si scusò e andò in bagno, Robert prese una telefonata di lavoro ed Elizabeth si mise a passeggiare per la stanza, fino a fermarsi di fronte alla grande finestra che si affacciava sul giardino.
«Mi ricordo quando da qui guardavo te e i tuoi fratelli giocare insieme» commentò rivolta verso Alexander, poi si perse nella contemplazione del paesaggio.
Noah, come se avesse colto che si trattava di un momento libero, tirò Alexander per la manica della camicia per avere la sua attenzione.
«Quando posso vedere la mamma?» gli domandò, sondandolo con i suoi occhi color ambra.
Alex gli prese la mano. «Presto. Resisti ancora un poco.»
Noah corrugò la fronte con fare che l’uomo trovò dolce e adorabile. «Quel signore ha detto che è mio nonno. È vero?»
Controvoglia, Alexander dovette annuire. «Sì, è mio papà, quindi tuo nonno. So che sembra tutto strano ora, ma le cose si sistemeranno presto, te lo prometto.»
Una piccola vocina nella sua testa gli suggerì che era meglio non promettere cose di cui non era troppo sicuro.
Camille tornò dal bagno e dopo poco li raggiunse nuovamente anche Robert. La tavola si ricompose e presto arrivò il dolce.
 
 
Dopo pranzo, il padrone di casa li convinse a spostarsi nel salotto dove si trovava Noah quando erano arrivati. Il bambino tornò sul tappeto a giocare con le macchinine e Alexander si sedette con lui. Robert fumava un sigaro seduto su una poltrona in pelle marrone, mentre le due donne chiacchieravano tra loro sull’ampio divano bianco.
D’un tratto, ad interrompere la quiete del primo pomeriggio, un uomo vestito di nero si affacciò alla porta del salotto. Alexander lo riconobbe come uno dei collaboratori di suo padre e infatti, non appena lo vide, Robert si alzò in piedi e gli si avvicinò. L’uomo gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, poi, ad un cenno di assenso dell’altro, sparì nuovamente nel corridoio.
«Signore» disse Robert voltandosi verso le donne che interruppero le loro chiacchiere per guardarlo. «Spero mi perdonerete, ma un affare urgente mi chiama. Cercherò di essere da voi il prima possibile».
Il suo sguardo indugiò un istante troppo a lungo su Alexander prima di lasciare la stanza, cosa che convinse il figlio ad alzarsi e seguirlo rapidamente. Raggiunse il corridoio in tempo per vedere il padre infilarsi in una stanza poco distante, che Alexander ricordava fosse un altro salotto da dove guardavano la televisione quando erano piccoli. Lui e i suoi fratelli trascorrevano intere serate litigando su cosa guardare in TV e alla fine veniva l’ora di andare a letto.
Seguì Robert all’interno, lo vide prendere il telecomando e digitare un canale preciso. Lo schermo del televisore, incorniciato dai mobili scuri entro cui si trovava, si accese mostrando la pubblicità di una bibita energetica.
«Cosa succede?» domandò Alexander.
«Ora vediamo» fu la laconica risposta.
La pubblicità terminò e riprese il programma da domenica pomeriggio che andava in onda a quell’ora. Alexander riconobbe la presentatrice, una cinquantenne bionda che aveva una passione per le storie lacrimevoli e che era tra le più seguite in città.
«Bentornati con noi!» salutò sfoderando la sua dentatura di un bianco brillante con lo sguardo fisso in camera. «Oggi siamo in diretta in compagnia di un’ospite davvero speciale. Molti di voi la conoscono come la donna più misteriosa di Tridell, ma è qui con noi per raccontarci la sua vera storia.»
L’inquadratura si allargò e Alexander la vide. 
Sulla poltroncina azzurrina accanto a quella dell’host, un poco a disagio nel suo abito dorato. Tutto il fascino che emanava dal vivo risultava appiattito attraverso la camera, facendola apparire come una ragazzina fin troppo elegante.
«Diamo nuovamente un caloroso benvenuto ad Emily Rodak!» esclamò la presentatrice e un brivido attraversò la schiena di Alexander. 
Il suo nome. Ora tutta Tridell sapeva il suo vero nome.
Qualcosa vibrò nella tasca dei suoi pantaloni e, badando che suo padre non si voltasse, estrasse il cellulare usa e getta. “Ho trovato E.” diceva il messaggio di Roman e seguiva il numero del canale televisivo.
Non mi dire, pensò Alexander. Fece sparire il cellulare quando suo padre si voltò e a sua volta estrasse un telefono verso cui cominciò ad inveire, dicendo che voleva qualcuno agli studi di registrazione che fermasse quella pagliacciata.
«Nella prima parte della trasmissione, Emily ci ha raccontato la sua storia, quella di una ragazza che si è vista privata del suo più grande amore, il figlio appena nato» riprese la presentatrice con una vena patetica nella voce. Si voltò verso l’ospite: «Dopo dure battaglie legali, finalmente sei riuscita a ricongiungerti con il piccolo Noah, un anno fa. La domanda è: perché sei qui con noi oggi?»
Emily si raddrizzò e sollevò il mento, assumendo una posa più sicura di sé, più a proprio agio. In un attimo, dal senso di disagio che emanava fino ad un secondo prima, calò rapidamente nel personaggio. Poco importava che ormai tutti sapessero la sua storia, quella che vedevano sullo schermo era senza ombra di dubbio la duchessa.
«La mia storia non è ancora finita, Erin» cominciò in tono deciso ma pacato. «Due giorni fa un manipolo di poliziotti si è introdotto illecitamente in casa mia. Mi hanno ammanettata, in casa mia, mentre frugavano per le stanze alla ricerca di mio figlio.»
Emily fece una pausa drammatica e prese un respiro profondo. «Lo hanno portato via, senza neanche permettermi di parlare o di vederlo.»
Si fermò ancora e abbassò lo sguardo, poi deglutì vistosamente come se le parole che stava per pronunciare le costassero fatica. La presentatrice la tolse dall’impaccio: «Chi avrebbe potuto farti una cosa del genere?»
«Alex?»
Alexander si voltò di scattò, con i nervi a fior di pelle. Camille era sulla porta del salotto e guardava all’interno con un’espressione tra l’incuriosito e il perplesso.
«Ho fatto alcune domande e… credo che la famiglia del padre del bambino abbia a che fare con questo atto di violenza».
La voce di Emily lo colpì alle spalle come uno schiaffo. Camille parve riconoscere la voce e allungò il collo, facendo un passo avanti, per riuscire a vedere meglio lo schermo.
«Chi è il padre del bambino?» domandò la presentatrice.
Alex avrebbe potuto lanciarsi avanti, afferrare Camille e spingerla fuori dalla stanza, ma era comunque troppo tardi. Lei aveva fatto un altro passo in sua direzione, con lo sguardo fisso sullo schermo. I suoi occhi erano sgranati, leggermente sorpresi e confusi da tutta quella sensazione. Dovette riconoscere la persona sul televisore, perché una luce di curiosità le illuminò il volto.
«Suo padre è…» una leggera esitazione, troppo ben calcolata per essere spontanea, «Suo padre è Alexander Henderson.»
Gli occhi di Camille si sgranarono e poi saettarono sui suoi alla ricerca di un diniego. Scandagliò il marito con lo sguardo, in attesa di una spiegazione che negasse quell’assurdità che aveva appena sentito provenire dalla TV.
Alex prese un respiro profondo, ma non negò.
«È vero» boccheggiò Camille terrorizzata. Non era una domanda e lui non tentò di dissuaderla.
«Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscì a dire.
 
 

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Capitolo 13
*** La fine ***




La fine
 



Mentre fissava lo sguardo terrorizzato di Camille passare attraverso l’ostile per approdare al disgustato, Alexander capì che la resa dei conti era arrivata. Aveva cercato di prendere tempo per fare le cose bene, ma la realtà gli si scaraventò sul volto in un secondo con la potenza di una palla di piombo. Credere che ci fosse un buon modo di rivelare il suo passato era stata un’illusione. 
Camille si voltò e scappò fuori dalla stanza. Alexander la seguì rapidamente nel corridoio, mentre nel salotto suo padre continuava a sbraitare al telefono che era inammissibile che quella porcata fosse ancora in televisione. 
Affacciandosi sul corridoio, una nuova consapevolezza lo colpì. Quella era la sua occasione, poteva prendere Noah e, mentre suo padre era impegnato, portarlo fuori dalla villa, verso le auto che Roman aveva fatto sistemare. Ma questo piano escludeva un’altra cosa, che era irrilevante solo se non si considerava come avrebbe influito pesantemente sulla sua vita: se non avesse sistemato in quel momento le cose con Camille, non avrebbe avuto un’altra possibilità. 
Salvare Noah significava perdere per sempre la moglie.
In un millisecondo, la sua mente gli proiettò l’immagine di quel caffè di Portobello in cui le aveva parlato per la prima volta. E poi la Torre Eiffel, davanti alla quale le aveva chiesto di sposarlo. E il suo sguardo dolce, il modo gentile che aveva di sorridere e di poggiargli una mano sul petto per poi accarezzargli la guancia. Il suo cuore puro, i suoi occhi mai maliziosi, la semplicità e la schiettezza che metteva nelle parole. E il modo in cui lei rideva quando lui diceva qualcosa di buffo, con gli occhi socchiusi e una mano sollevata per coprirsi la bocca, con educazione. Pensò al suo profumo, a come lui aveva aspettato con ansia la domenica per poterla vedere quando era in carcere. Pensò a quanto era bella il giorno del matrimonio, pensò a tutti i progetti che avevano fatto insieme. Pensò che lei era la stata la donna della sua vita, ma lui, di vite, ne aveva avute due. Camille era la moglie perfetta per quello studente modello che aveva seguito le orme del padre, ma non aveva cancellato del tutto il figlio ribelle che era scappato di casa.
Mentre la sua mente pensava a queste cose, le sue gambe si erano già mosse con decisione e rapidità. Aprì la porta con un colpo secco, facendo sobbalzare la madre seduta sul divano.
«Gesù, Alexander, potresti essere più delicato!» lo rimproverò, con un tono che cercava di essere autoritario su qualcuno che era ormai lontano dal suo controllo.
«Ti voglio bene mamma» replicò lui e le diede un bacio veloce sulla guancia, chinandosi verso di lei, poi si voltò e sollevò Noah che stava ancora giocando sul tappeto.
«Stringimi forte» gli sussurrò e il bimbo si aggrappò al suo collo.
Tornò nuovamente verso il corridoio e con passo rapido e felpato si diresse verso le scale secondarie. Sentiva ancora suo padre al telefono, ma non ci avrebbe messo molto a notare la sua assenza. 
Corse giù per i gradini, sorreggendo Noah con un braccio e aggrappandosi al corrimano con l’altro.
«Dove andiamo?» gli chiese il bimbo, così vicino all’orecchio che il suo respiro glielo solleticò.
«Ora ti porto dalla mamma.»
Spalancò la porta che si affacciava sul giardino e cominciò a correre sull’erba verso la recinzione sul retro della villa. Se fosse passato dall’ingresso principale avrebbe attirato troppo l’attenzione. Doveva solo raggiungere il vecchio cancellino dalla serratura interna guasta. Quando ancora viveva lì, lo usava per sgusciare fuori indisturbato e lo lasciava aperto per poter rientrare senza essere visto.
Mentre correva con Noah aggrappato a lui, udì un grido, uno solo. Riconobbe subito proprietario e provenienza della voce: si trattava di suo padre che urlò il suo nome dalla finestra del piano superiore.
Se possibile, Alexander accelerò, appena prima di sentire una serie di passi alle sue spalle e un ringhio di cani.
Imprecò mentalmente, immaginando quanti uomini gli stessero alle calcagna, accompagnati dai doberman che suo padre si vantava difendessero la casa.
Raggiunse il cancellino difettoso e vi si lanciò contro con tutta la sua forza per spalancarlo, ma quello non si mosse e gli provocò un dolore intenso al braccio con cui lo aveva colpito.
Qualcuno lo aveva sistemato.
«Papà, quegli uomini sono quasi vicino a noi».
Quasi ringhiando per la frustrazione, Alex si voltò e vide che Noah non si sbagliava. Li avevano quasi raggiunti.
Cominciò a correre parallelamente al muro di recinzione, puntando verso l’albero che sorgeva poco distante. Se fosse riusciti ad arrampicarvisi sopra, sarebbe potuto saltare al di là del muro di recinzione.
«Noah, ora devi stringermi ancora più forte» sussurrò, quasi senza fiato e sentì le braccine del bimbo aggrapparsi a lui con ancora più energia.
Alexander afferrò una sedia e la posizionò davanti all’albero, poi prese la rincorsa, saltò sulla sedia e da lì si diede la spinta per allungarsi verso il ramo più basso del grosso dell’albero. Mentre le sue mani si schiantavano con la corteccia, sentì la camicia strapparsi.
Noah emise un sospiro preoccupato, ma non parlò, e intanto Alexander cercò di spingere le gambe verso il fusto, in modo da fare leva appoggiandoci contro le suole delle scarpe e portare il resto del corpo sul ramo.
I doberman lo avevano ormai raggiunto. Uno di loro era salito sulla sedia che aveva usato come trampolino e gli abbaiava contro, alternando ringhi a latrati minacciosi.
Alex riuscì a sistemarsi sul ramo e, muovendosi in avanti a cavalcioni, con Noah ancora ben attaccato a lui come un koala, si spinse verso la sua estremità, quella che raggiungeva il muro di recinzione.
In modo un poco sgraziato e con il cuore in gola per il timore di cadere, riuscì ad allungare le gambe e appoggiare i piedi sulla cima del muro. Posò le mani sul ramo e, pur tenendosi aggrappato ad esso, cercò di spostare il resto del corpo sul muro. I primi uomini lo avevano raggiunto e capì non c’era più tempo per le cautele. Si lasciò cadere sgraziatamente sul muro, che era largo poco più di una trentina di centimetri, e guardò al di là, sulla strada. 
Si trovava più in alto di tre metri e non sapeva come scendere senza fare del male al figlio.
Udì le voci degli uomini alle sue spalle, incalzanti, così decise di far sedere il bambino sul bordo, raccomandandogli di stare attento, e di lanciarsi per primo. Lo fece senza esitazioni – non ne aveva il tempo – e quando cadde sul duro asfalto, un dolore lancinante gli attraversò le caviglie, prima che le ginocchia si sfregassero a terra e quella sofferenza superò la precedente.
Barcollando, si alzò in piedi, verso Noah, che ancora lo guardava dall’alto del muro. Sembrava una bambola da quella distanza, con quel corpicino piccolo e fragile.
«Buttati, ti prendo io!» lo incitò, allungando le mani verso l’alto. Non c’era rischio che lo mancasse.
Leggendo il dubbio sul volto del bimbo, Alexander si rese conto che suo figlio non aveva nessun motivo di fidarsi di lui. Lo aveva visto due, tre volte in tutta la sua vita e l’unica garanzia che lui fosse veramente suo padre veniva dalle parole di Emily.
Noah cancellò ogni sospetto quando si lanciò in avanti, ad occhi chiusi, e atterrò tra le braccia dell’uomo, che subito se lo strinse al petto e cominciò a correre verso la fine della strada privata che scorreva sul retro della casa.
Come promesso, una grossa auto nera lo attendeva.
Alex non si premurò neanche di controllare chi guidasse e si lanciò all’interno.
«Portatemi da lei» implorò. «Vi prego, portatemi da lei».
 
 
 
Fino a qualche settimana prima, mai avrebbe sospettato di provare una tale sensazione di sollievo nel vedere il palazzo della duchessa comparire davanti a lui. In carcere si era esercitato ad odiare qualsiasi cosa la riguardasse, dai suoi abiti lunghi ai ricci dei suoi capelli, dal rumore dei suoi passi alla posa altezzosa del mento, eppure, in quel momento non c’era odio nel suo cuore. E neppure risentimento o rancore, ma solo il febbricitante bisogno di vederla e di dirle che suo figlio stava bene. Il loro figlio. 
L’auto lo lasciò davanti all’ingresso e quando raggiunse l’atrio, con Noah ancora aggrappato al collo e un poco frastornato nonostante le parole rassicuranti che gli aveva rivolto, trovò Roman ad accoglierlo.
Il giovane indossava uno dei suoi eleganti completi di seta colorata e, quando li vide, sul suo volto si aprì un sorriso. «Venite. È appena tornata».
Li condusse su per le scale e attraverso i corridoi. Non si fermò davanti alla porta chiusa, ma la aprì, facendoli entrare in quella che pareva una camera da letto.
Emily se ne stava in piedi vicino al letto e guardava al di fuori delle vetrate che occupavano una parete della stanza. Indossava ancora l’abito dorato che si era visto in televisione e si torceva tra le mani un lembo di tessuto.
Nell’udire che qualcuno era entrato nella stanza, si voltò di scatto e il suo volto preoccupato si illuminò di un grande sorriso.
Si lanciò in avanti, facendo frusciare la veste, che la seguì come la coda di una cometa.
«Mamma!» gridò Noah tendendo le manine in sua sua direzione. 
Emily lo afferrò al volo quando lui si protese dalle  braccia di Alexander. La giovane lo strinse al petto e gli baciò il capo.
«Mi sei mancato tantissimo» gli sussurrò tra i riccioli.
«Anche tu!» esclamò Noah. «Non mi piace tanto la casa del nonno»
Emily lo tenne premuto contro di sé e lanciò uno sguardo verso la porta dove erano rimasti Roman e Alexander.
“Grazie” disse con le labbra e senza suono a quest’ultimo. Lui le sorrise.
La ragazza camminò per un po’ nella stanza, mormorando nell’orecchio di Noah e ridacchiando insieme a lui. Quando finalmente lo rimise a terra, Roman allungò una mano in sua direzione: «Vieni con me, andiamo a vedere se è c’è qualche torta in cucina.»
Il bimbo cercò un cenno di assenso sul volto della madre e, una volta ottenutolo, trotterellò dietro a Roman prendendolo per mano.
Tra Emily e Alexander, rimasti soli, calò un silenzio imbarazzante.
«Grazie» ripeté lei, questa volta ad alta voce. «So che non è facile andare contro tuo padre».
«Non è neanche stata una vera scelta. Era la cosa giusta da fare» replicò lui, guardandola negli occhi.
Lei spostò nervosamente il peso da una gamba all’altra, facendo piccoli passetti come per rilasciare la tensione. 
«Mio padre mi ha detto che qualcuno ti ha tradita e gli ha procurato tutte le informazioni su Noah» disse lui improvvisamente.
Lei sgranò gli occhi. «Chi potrebbe essere tanto stupido…?». Tacque un istante, pensierosa, poi riportò lo sguardo su Alexander e disse, decisa: «Gabriel».
«Dobbiamo occuparci di lui prima che faccia altri danni.»
Fece per uscire dalla stanza, ma notò che Emily era rimasta immobile, concentrata su qualcosa.
Quando lo guardò ancora, la sua espressione aveva un che di grave. «Credo che ci abbia già pensato tuo padre».
Allo sguardo interrogativo di Alexander, aggiunse: «Gabriel è in coma. Un camion ha colpito l’auto in cui si trovava, ma c’erano alcuni elementi sospetti.»
Lui le rivolse una lunga occhiata e quando si rese conto della serietà del suo tono, il suo volto si fece preoccupato. Sapeva che suo padre era un uomo pericoloso, ma davvero fino a quel punto? 
Mentre lui rifletteva, Emily si era spostata nuovamente verso la vetrata e guardava al di là. Alexander la vide sospirare e decise di raggiungerla.
«Em» la chiamò e allungò una mano che sfiorò la stoffa dorata, «voglio scusarmi per come mi sono comportato nella pensione. Non avevo nessun diritto di trattarti come ho fatto. La rabbia che ho riversato su di te era destinata solo a me stesso. Ero io il traditore, io quello che non riusciva ad accettare di aver commesso un errore così grande.»
Emily lo fissò con gli occhi grandi e le labbra strette, come spaventata dalle sue parole.
«Credi che quello che è successo sia stato un errore?» fu ciò che riuscì a sussurrare poi.
Alexander scosse il capo. Le si mise di fronte e cercò le sue mani, per stringerle tra le proprie, in modo deciso, ma dolce.
«No, sposare Camille è stato un errore. Tenerle il mio passato nascosto e continuare a vivere come se avessi due vite non intersecabili fra di loro è stato un errore. Quando l’ho conosciuta, ero convinto che non ti avrei più rivista e sposare lei sembrava la cosa migliore che potesse capitarmi».
Fece una pausa, come se stesse scegliendo le parole giuste, poi avanzò di un passo verso di lei, senza lasciarle le mani.
«Tu sei stata la cosa migliore, Em».
Lei inclinò il capo e fece una smorfia amara. «Intendi la me del passato».
Alexander non la contraddisse. «Non possiamo negare che le vicende degli ultimi anni ci abbiano segnato e, inevitabilmente, siamo diventati diversi dalle persone che eravamo. Ma quei due giovani che vivevano in un monolocale fatiscente sono ancora vivi, da qualche parte nel fondo dei nostri animi. Li abbiamo ridotti al silenzio cercando di soffocarli, ma non li abbiamo uccisi».
Emily deglutì e a lui parve intimorita da quelle parole.
«Non sto dicendo che possiamo comportarci come se gli ultimi cinque anni non fossero mai avvenuti, sarebbe un errore grandissimo. Non posso negare di aver amato Camille e di averla voluta sposare, per un certo periodo di tempo».
L’espressione della giovane ora si era fatta cauta, sulla difensiva.
«Ma possiamo provare, d’ora in poi, ad evitare di commettere nuovi errori» concluse Alexander.
Lei rimase a guardarlo per qualche istante, poi scivolò via dalle sue mani e superò la vetrata, immergendosi nella luce dorata che accarezzava l’ampia terrazza. Al di là delle tende chiare, l’uomo la guardò raggiungere la balaustra e appoggiarsi ad essa.
Attese qualche secondo prima di unirsi a lei.
Quando lo sentì avvicinarsi, Emily si voltò per affrontarlo.
«Forse mi conosci da abbastanza tempo per sapere che ho sempre un piano» esordì e Alexander sentì il proprio battito cardiaco accelerare. «E oggi siamo all’inizio dell’ultima fase».
Fece una pausa, prese un respiro profondo e lo guardò negli occhi: «Me ne vado. Insieme a Noah».
Gli lasciò qualche secondo, forse per metabolizzare ciò che aveva detto, prima di riprendere: «Fin dall’inizio era mia intenzione lasciare Tridell e questo personaggio ingombrante di “Cassandra”. Non avevo pianificato di rivelare all’intera città la mia storia e la mia identità, ma questo mi dà ora un motivo in più per volermene andare. Non voglio crescere Noah in un palazzo enorme e vuoto né voglio che i suoi amici siano bambini accuratamente selezionati da me. Voglio che abbia un’infanzia normale, lontano da Tridell, dagli scandali e anche dalla duchessa».
Esitò e si voltò leggermente verso il giardino al di sotto della terrazza. Noah e Roman erano usciti in quel momento dal palazzo e si stavano rincorrendo sull’erba.
Li guardò con un sorriso sulle labbra, poi tornò a rivolgersi ad Alexander, che non aveva distolto lo sguardo da lei.
«Voglio partire subito e sei il benvenuto se vorrai venire con noi. Sei suo padre».
Lui la osservò in silenzio, ascoltando le voci entusiaste che venivano dal giardino. Il sole splendeva alle spalle di Emily e faceva sembrare infuocati i suoi capelli.
Per quanto gli avesse appena detto di voler essere una persona normale, Alexander pensò che ci fosse un che di regale, per non dire divino, in lei.
Le sorrise.
 
 
 

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


 
EPILOGO
 
Sei mesi dopo
 
Era quasi il tramonto. Il sole sfiorava appena l’orizzonte, rischiarando le spighe dorate che coprivano i campi a perdita d’occhio. Il cielo era di un blu intenso e l’aria era così calda che non si udiva nessun rumore nella campagna, ad eccezione delle cicale che frinivano instancabili. 
Il loro canto di gruppo era interrotto solamente dal rombo dell’auto che percorreva l’unica strada tra i campi, sollevando un gran nuvolone di polvere dal terreno non asfaltato. La berlina nera, che probabilmente era partita con una carrozzeria lucida come il petrolio, appariva in quel momento di un grigio spento tendente al giallognolo. L’autista imprecava mentalmente per le buche che mettevano a dura prova le sospensioni dell’auto, sballottandolo su e giù nell’abitacolo.
Ondeggiando a sua volta per la strada dissestata, Roman guardava la distesa bionda attraverso il vetro del finestrino oscurato. Si stava chiedendo se, viste le premesse, avesse portato degli abiti adeguati all’ambiente. Forse dei sandali sarebbero stati più adatti.
Finalmente la strada si fece più larga, fino a terminare davanti ad un grande casolare in pietra chiara. L’auto si fermò e l’autista si affrettò ad aprire la portiera al passeggero, per poi spostarsi ad estrarre il suo borsone dal baule.
Roman gli disse che non era necessario aiutarlo a portarlo dentro e lo congedò, accordandosi per farsi tornare a prendere due giorni più tardi.
L’uomo eseguì rapidamente e in un attimo aveva fatto retromarcia per imboccare di nuovo la stradina polverosa da cui erano venuti.
Roman osservò l’auto sparire tra il grano giallo e, quando tornò a guardare il casolare, notò che qualcosa era cambiato. Qualcuno era uscito dall’edificio e stava di fronte a lui, a guardarlo con una mano sulla fronte per fare ombra sugli occhi. Lui avanzò, trascinando il borsone e la figura si fece più chiara.
Si trattava di una donna con addosso un abito a fiori lungo fino al ginocchio. Intorno alla vita era stretto un grembiule chiaro che copriva la parte davanti del vestito. I piedi erano infilati in un paio di ciabatte color cuoio, mentre sul petto le ricadeva, scomposta, una lunga treccia morbida.
Quando Roman fu abbastanza vicino, lei lasciò ricadere la mano con un cui si faceva ombra e allargò le braccia.
Lui sorrise. «Quel grembiule è per farmi credere che cucini?»
Anche l’altra ricambiò il sorriso. «Tentar non nuoce».
Roman avanzò ancora e lei lo imitò, quasi correndo e poi si tuffò verso di lui, stringendolo in un abbraccio. Lui lasciò cadere a terra il borsone e la strinse a sua volta, affondando il capo nei suoi capelli. Odoravano di sole e fiori di prato.
«Mi sei mancato» disse la ragazza, scostandosi leggermente dall’abbraccio per poter scrutare il suo volto.
«Anche tu, Em».
Emily lo prese per una mano e lo condusse all’interno della casa. Passarono attraverso una porta sulla parete rivestita di pietre chiare e si trovarono in una stanza piccola e scura, rispetto alla luce dell’esterno. 
Guidato da una stanza all’altra, Roman si accorse che la maggior parte di esse si affacciavano su un ampio cortile interno, da cui proveniva gran parte della luce naturale mediante finestre che occupavano un’intera parete. Raggiunsero delle scale di legno strette e scricchiolanti e, una volta arrivati al piano superiore, Emily gli mostrò camera sua.
Era una stanza piccola e arredata con la semplice eleganza delle case di campagna. Il copriletto, sebbene vecchio stile, profumava di sapone e del vento che lo aveva fatto asciugare. L’unica finestra, piuttosto ampia, affacciava sull’esterno, restituendo la vista delle colline che si spandevano a vista d’occhio sempre più dorate sotto la luce del sole.
Roman lasciò il borsone su una robusta scrivania di legno e tornò con Emily al piano inferiore.
Questa volta, entrarono in quella che doveva essere la cucina. Una parete era occupata da una grande porta-finestra che conduceva al cortile interno e lasciava entrare una gran quantità di luce calda. Sebbene un poco antiquati, i mobili avevano un’aria fresca, forse grazie alla vernice bianca che aveva ricoperto l’originale color legno. Sui fornelli, c’erano due grosse pentole e una di queste emetteva vapore fischiando.
Emily imprecò e si lanciò verso di essa. Abbassò il fuoco e scostò il coperchio.
Quando si voltò a guardare Roman, lui le rivolse un sorriso beffardo.
Lei alzò gli occhi al cielo. «Hai ragione, di solito non cucino mai, ma questa volta ho fatto le prove e mi sono attenuta alle precise istruzioni che mi sono state date, quindi credo che sarà commestibile».
«Non saprei» ridacchiò lui, «non sei mai stata una che si attiene alle regole».
Emily sbuffò in modo troppo teatrale per non essere divertita. Si diresse verso la porta finestra e la aprì litigando qualche istante con essa, che pareva incastrata, poi fece cenno a Roman di seguirla.
Il cortile interno si componeva di diverse zone. Vicino alla cucina, sotto ad un pergolato, era sistemato un grande tavolo già apparecchiato. Su di una tovaglia a quadri rossi e bianchi, spiccavano i piatti di ceramica candida. Sopra ad esso, era appesa una striscia di lampadine ancora spente.
Davanti al tavolo, c’era un rettangolo d’erba e poco più in là, scavata nel terreno, una piccola piscina piena d’acqua. In un angolo, invece, era sistemata della legna per un falò e intorno ad esso c’erano diverse poltroncine dall’aspetto confortevole.
«Siediti pure qui» gli disse Emily tirando una sedia del tavolo. Lui ubbidì e la ragazza sparì nuovamente in cucina. La sentì armeggiare – e imprecare – ai fornelli. Ci fu poi un rumore di pentole che venivano mosse e sbattevano tra di loro e quando tutto tornò silenzioso, Emily ricomparve con una grossa zuppiera tra le mani. La posò maldestramente sul tavolo e tirò un sospiro di sollievo.
«Vedo che te la cavi bene anche senza aiutanti» commentò ironico Roman e lei lo fulminò con lo sguardo.
«Non credevo fosse possibile disabituarsi a vivere senza cuochi e camerieri» sbuffò e si lasciò cadere sulla sedia al fianco dell’ospite.
«Dobbiamo aspettare per cenare» gli disse poi e diresse lo sguardo verso un’apertura ad arco dall’altro lato del cortile. Il grosso portone in legno che normalmente avrebbe dovuto chiudere l’arco era spalancato, lasciando intravedere al di là i campi infuocati dal tramonto.
«Il nuovo passatempo è dipingere paesaggi» spiegò Emily tenendo sempre lo sguardo fisso sull’arco.
Presto, all’interno di esso, comparvero le sagome scure di due persone, illuminate da dietro dalla luce del sole.
Una era alta e dalle spalle larghe e portava sotto un braccio quello che sembrava un cavalletto e sotto l’altro due tele. La figura più piccola che trotterellava al suo fianco teneva tra le braccia una borsa di stoffa. Quando entrarono nel cortile e smisero di essere colpiti dalla luce rossa, le loro figure si fecero visibili.
Noah indossava una maglietta macchiata d’erba e dei pantaloncini corti, mentre ai piedi portava delle scarpe di tela sporche di terra. Al suo fianco, Alexander, pareva un divo anche con quella camicia di lino impolverata e i pantaloni di stoffa morbidi.
Lasciarono ciò che ingombrava loro le braccia in un armadietto di legno e si diressero verso il tavolo.
«Fermi dove siete!» gridò Emily scattando in piedi. «Andate almeno a lavarvi le mani».
Noah non riuscì a trattenersi e corse verso Roman per saltargli al collo, mentre Alexander, dopo aver salutato l’ospite, si diresse verso una fontana poco distante per lavarsi le mani e sciacquarsi il volto impolverato.
Dopo che si furono lavati, Emily concesse loro di sedersi a tavola e cominciò a servire il contenuto della zuppiera.
«Hai fatto un buon viaggio?» domandò Alexander a Roman. L’altro annuì. «Sì, anche se avete preso alla lettera l’idea di allontanarvi da Tridell».
«Be’, ne vale la pena per assaggiare la famosa zuppa di Em» fu la replica ironica di Alexander che rischiò di ricevere un mestolo in testa dalla giovane.
«In realtà, è il papà quello bravo a cucinare» mormorò Noah sottovoce a Roman, bisbigliando per eludere le minacce di Emily.
Quando tutti furono serviti, cominciarono a mangiare. 
Durante la cena parlarono della nuova vita di campagna iniziata sei mesi prima, con il loro trasferimento in quel casolare in mezzo ai campi. Alexander raccontò di quando aveva portato a casa due galline dal villaggio più vicino - «A dieci minuti di bicicletta» disse indicando vagamente con il braccio la direzione da prendere per raggiungerlo – ed Emily aveva minacciato di farlo dormire in cortile se non le avesse riportate indietro. Alla fine, le avevano tenute e anche lei si era affezionata a loro, soprattutto grazie alle uova che trovava ogni mattina.
Noah parlò in tono entusiasta dei bambini che aveva conosciuto, in particolare due fratelli che vivevano in una fattoria poco distante. Disse che aveva munto le mucche insieme a loro e poi avevano potuto bere il latte tutti insieme. Parlarono dei colori del paesaggio, l’oro del grano, il cielo turchino, la terra di un marrone caldo e il verde degli stagni. 
«Io e il papà li dipingiamo sempre!» concluse Noah, mostrando una macchia di tempera che gli era rimasta sul braccio.
«Dopo facciamo il bagnetto» si inserì subito Emily.
 
 

Alexander insistette per occuparsi lui di far fare il bagnetto a Noah e metterlo a dormire, così Emily e Roman si spostarono sulle poltroncine intorno al falò che era stato acceso. Le fiamme rosse del fuoco si perdevano nell’aria e gettavano un chiarore caldo intorno. Il sole era ormai tramontato da un pezzo e, nel cortile, l’unica fonte di illuminazione artificiale erano le lampadine appese sopra alla tavola.
Emily e Roman si erano sistemati uno di fianco all’altra, ciascuno con un calice di vino rosso da sorseggiare guardando la danza del fuoco. 
«Mi sembra che tu ti sia sistemata bene qui» commentò Roman guardandola di sottecchi. 
Lei sorrise. «Sì, è un luogo felice».
«Com’è stato tornare a. vivere con Alexander?»
Emily gli rivolse un’espressione maliziosa. «Sapevo che me lo avresti chiesto. All’inizio ero preoccupata. Tutti gli anni che abbiamo vissuto distanti, tutto ciò che ci siamo fatti a vicenda, avrebbero potuto pesare su di noi e sul nostro rapporto, ma la verità è che è bastato guardarci negli occhi per ricordarci quanto ci amavamo e quanto di quell’amore ancora ci fosse in noi».
Prese un sorso di vino, poi continuò: «Ovviamente non sono mancate le discussioni, ma sempre su faccende futili. La nostra voglia di far funzionare questo» le sue mani fecero un vago gesto nell’aria e, nel calice, il vino ondeggiò, «ci ha permesso di superare tutto».
Roman allungò una mano e la posò su quella di Emily. 
«Ti brillano gli occhi» le sussurrò e lei li roteò.
Bevve ancora del vino e le sue guance, forse per effetto delle fiamme, presero un colorito scarlatto. Si voltò verso di lui, appoggiando la schiena ad un bracciolo e il calice sull’altro. «E tu come stai?»
Roman si strinse nelle spalle. «Non c’è male. Il palazzo è un poco silenzioso senza di te, ma sempre magnifico».
Emily rise, ma presto il suo volto tornò serio e i suoi occhi si fecero penetranti. Si piegò in avanti, così che non ebbe necessità di alzare troppo la voce per chiedere: «Ora vuoi dirmi cosa provoca quella ruga tra i tuoi begli occhi bruni?»
Lui sbuffò. Credere di celare qualcosa a chi ha vissuto con lui per anni era un autoinganno, soprattutto se si trattava di Emily. Roman aveva sempre sospettato che quella ragazza avesse almeno dieci sensi.
«Come avevi previsto, dopo la tua partenza c’è stato un vuoto di potere che molti hanno cercato occupare».
Lei sollevò le sopracciglia, incentivandolo a continuare. Aveva già sentito questa parte per telefono. «Per questo eravamo preparati e la situazione è stata gestibile». Fece una pausa e prese un respiro profondo. La fiamma che si rifletteva nelle sue iridi scure ondeggiò mentre spostava gli occhi in quelli di Emily.
«È sorto un nuovo problema» annunciò.
Lei sfilò la mano da sotto la sua e gliela posò sopra in atteggiamento che voleva essere confortante.
«Ma tu sei il mio erede e sei sempre stato al mio fianco. Non dubiterei mai di te».
Roman scosse il capo e un guizzo nella mascella tradì il suo nervosismo.
«Ero la tua ombra, Emily, ma tu sei sempre stata il volto di quello che facevamo. Le nostre parole avevano potere solo quando uscivano dalla tua bocca, non mentre le decidevamo dietro le quinte».
Lei strinse gli occhi. «Cosa mi stai dicendo?»
«Che questo non lo posso fare da solo. Ho bisogno della duchessa».
Emily lo fissò per qualche istante in silenzio e l’unico rumore intorno a loro fu il crepitio dolce del fuoco e il frinire lontano e ormai stanco delle cicale. Poi gettò il capo indietro e rise di gusto. La sua risata riecheggiò per il cortile, coprendo gli altri suoni. Quando tornò a guardare Roman, c’era un che di ferino nelle sue iridi infuocate. Il suo volto era raggiante e le labbra a stento trattenevano un sorrisetto di soddisfazione.
«Insomma» cominciò, sporgendosi ancora verso di lui, «dopotutto non sono tagliata per la vita di campagna».
 
 










 







 
ANGOLO AUTRICE


Ciao a tutti!
Devo ammettere che l'idea di concludere questo secondo atto un poco mi emoziona (è passato quasi un anno dall'inizio della pubblicazione della prima parte), ma non sono riuscita a resistere e al posto di una conclusione definitiva ho preferito lasciare un finale aperto.
Questo perché mi sono accorta che il II atto doveva concludersi qui, ma ci sono ancora molti elementi che non ho avuto spazio di affrontare in modo esaustivo.


 
TERZO ATTO?
 
Forse vi state chiedendo quale sia stata la sorte di Gabriel? Oppure se Roman sarà mai felice? E cosa ci sia nel suo misterioso passato? O magari qualcuno (molto molto attento e perspicace) si è domandato quale fosse il senso della presenza di Tristan, l'amico d'infanzia di Camille?
In ogni caso, le vostre domande avranno risposta... una volta che avrò finito di scrivere il terzo (e presumo ultimo) atto!
Vorrei poter fornire con esattezza una data di pubblicazione, ma essendo ancora un work in progress non ne ho proprio idea.
Come avevo fatto per questa seconda parte, ho deciso di ripubblicare l'epilogo che avete appena letto come primo capitolo di La duchessa - Atto III, in modo che chi sia interessato possa aggiungere la storia tra le seguite/da ricordare.
Non so se questo sia il metodo più efficace, quindi se avete consigli su come rendere la cosa più piacevole e pratica, sarò felicissima di sentirlo.


 
E RINGRAZIAMENTI!
 
Voglio ringraziare ancora tutti quelli che sono arrivati fino a qui, sia silenziosamente sia facendomi sapere le loro opinioni.
Grazie di cuore a tutti!
Sapere che qualcuno apprezza il frutto di fatica e ore di lavoro, oppure che è disposto a fornire un consiglio per migliorarlo, fornisce una grandissima forza e motivazione. 
Scrivere questa storia mi è piaciuto moltissimo e spero che sia stato altrettanto piacevole per tutti quelli che l'hanno seguita.

Mi avvio a concludere questo spazio autrice che sta diventando forse troppo lungo. Ci tenevo a dire tutto il necessario dato che non so tra quanto ci risentiremo su questa storia T-T
Mi sono affezionata molto alle vicende di Emily, Alexander e tutti gli altri, quindi non sono pronta a lasciarli tanto presto. Spero di ritrovarvi prossimamente in La duchessa - Atto III.

Grazie a tutti e a presto!

M.

 
Potete trovarmi anche su instagram e wattpad!

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