Per le vie di Firenze - Caterina

di Restart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 - Finale ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


15 dicembre 2015
Caterina stava fissando un punto indefinito davanti a sé. Gli occhi erano spenti, stanchi, stanchissimi per la solita litania che Maria, sua suocera, attaccava un giorno sì e l’altro pure. Ormai era una forma che si era consolidata, ma che Caterina non reggeva più. Per l’ennesima volta ringraziò Stefano per averla tenuta il più lontano possibile da lui e dalla famiglia che avevano costruito insieme. Alza gli occhi al cielo per pochi secondi. Stè, aiutami, pensò mentre lei blaterava a proposito di una recensione su una rivista che aveva letto. Il libro di Stefano, il terzo e ultimo, era uscito da due settimane e ancora Maria non si era data pace. Non se la sarebbe mai data, pensò Caterina. Quello che aveva fatto il figlio era troppo riprovevole. Troppo, per una famiglia come la loro.
«Sei una zoccola, una malafemmina: non hai saputo proteggere mio figlio, che hai fatto in questi anni, eh? Oltre che a traviarlo, siamo chiari. Mio figlio non è stato più lo stesso. Me l’hai rovinato». A quel punto Caterina si sentì in dovere di ribattere. «Maria, Stefano era un uomo adulto e capace di intendere e di volere. Le ha volute lui quelle pagine, lui ha voluto pubblicare quel libro»
«Ma che vai dicendo? Lui non può volere niente, sei tu che vuoi sciupare la memoria di Stefano, zoccola!». Caterina non ce la faceva più. Se l’era sentito ripetere centinaia di volte, eppure quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Basta Maria, basta. Sono stanca delle tue chiamate, stanca delle tue minacce. Vieni qui, confrontati con me, se hai il coraggio. Non telefonarmi più» chiuse la chiamata prima che l’altra potesse dire una parola. Si sentiva sfinita. Spezzata. Non ce la faceva più a combattere quella battaglia, non ce la faceva più a sentire quella voce tarlarla ogni giorno. Le faceva mettere in dubbio tutta la sua vita, il suo matrimonio, suo figlio, il suo amore per Stefano e tutto quello che lui le aveva fatto promettere, in primis quel libro per cui lei andava così fiera. Anche Stefano ne era molto orgoglioso, ne era sicura.
Le sue amiche la raggiunsero quando cercava di ricacciare dentro le lacrime di sfinimento. Non poteva cedere. Quel giorno era solo per Mia, per il suo abito, per il suo matrimonio. Lei non poteva cedere. «Tutto bene Cate?» lei accennò un mezzo sorriso e propose di continuare, di raggiungere il negozio.
Si lasciò inebriare da quel poco di spumante che si era fatta versare, dal bianco che la circondava e facendole venire in mente quel vestitino svolazzante che era stato il suo vestito da sposa. Le fece venire in mente quel giorno troppo caldo di settembre, quel municipio senza condizionatore, la felicità incontrollabile. Le venne in mente lo sguardo che le riservava Stefano: brillante, luminoso, pieno d’amore. Si rese conto che quello sguardo Stefano non l’aveva mai abbandonato. Mai. Caterina al ricordo di quel giorno divenne improvvisamente più felice, più leggera.
*
Un rumore gracchiante interruppe la conversazione con Viola. Prese il cellulare: Andrea. Il suo cuore improvvisamente sprofondò: aveva paura di quello che avrebbe potuto dirle. Aspettò qualche secondo prima di rispondere. Uscì fuori, col cellulare stretto al petto e i muscoli tesi talmente tanto da rendere i suoi movimenti meccanici, finti.
«Caterì, sto arrivando a Firenze. Incontriamoci subito» la voce profonda dell’uomo non aspettò che lei dicesse qualcosa. Era sferzante, tagliente, come una lama.
«Proprio ora?» il suo tono tradì la tensione che scorreva in lei. Sapeva che lui a Firenze non poteva significare niente di buono.
«Non posso aspettare» la voce di Andrea si era addolcita, capendo che la sua precedente uscita era stata a gamba tesa. Caterina non chiese altro. Inventò una scusa per le sue amiche e si allontanò a grandi passi.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


1999
Caterina scese dal treno a corsa: se non fosse andato alla velocità della luce sarebbe arrivata sicuramente in ritardo. Gli anfibi neri cominciavano già a grattugiarle i talloni e lei si maledisse: mai mettere gli anfibi nuovi in situazioni al limite. Ma erano così belli, così lucidi, le stringhe nuove, pronti a essere indossati. Non trovava mai una situazione perfetta: per andare in università sarebbe significato maciullarsi i piedi, e lo stesso per uscire, visto che ai suoi amici piaceva farsi tutta Firenze a piedi e non stare seduti in un bar. No. Troppo facile. Perciò aveva un paio di scarpe da ginnastica bianca che ormai chiedevano pietà e un paio di anfibi neri intatti, bellissimi, scomodissimi.  Perciò due giorni prima, quando era andata a casa di Gabriele, a Viareggio, aveva messo quegli anfibi nuovi e bellissimi. Si sentiva Winona Ryder. Giovane carina e disoccupata. Ci aveva fatto il callo, o forse sarebbe meglio dire che si era spaccata le caviglie. E correre per raggiungere la facoltà sarebbe significato far finire i piedi in un bagno di sangue.
Presa dalla fretta, Caterina si era anche dimenticata di fare colazione e aveva lo stomaco che le faceva talmente tanto male che probabilmente sarebbe caduta a terra da un momento all’altro. Controllò l’orologio della stazione: erano le nove e dieci. Si sentì avvampare per la vergogna e la rabbia di non aver saputo leggere l’ora. Poi la consapevolezza del cambiamento dell’ora da legale a solare la schiaffeggiò potentemente. Aveva fatto le corse per poter essere in facoltà alle dieci e mezza, era sicura di essere in ritardo mostruoso e non si era resa conto che l’ora era stata cambiata. Anzi, era proprio convinta che avessero sbagliato tutti e che il suo orologio mezzo scassato fosse l’unico ad avere ragione. Improvvisamente con tutto quel tempo libero da riempire, decise che la soluzione migliore sarebbe stata quella di prendere almeno un cappuccino. Il suo piccolo bar di fiducia in via de’ Servi aveva i migliori cornetti alla crema di tutta la città e quando vi entrò il profumo di paste fresche la fece sbarellare. Al primo morso di cornetto stava già infinitamente meglio. Si sedette più comoda sulla sedia e non fece nient’altro che godersi quel momento di solitudine.
Troppo presto.
Un ragazzo poco più grande di lei si era piazzato proprio sulla sedia davanti alla sua: Caterina non poté far altro che arrossire per l’imbarazzo di trovarsi uno sconosciuto pronto alla conversazione. La guardava sorridente dietro quegli occhiali da nerd.
«Ciao, disturbo?» Sì. Pensò velocemente. Si sistemò sulla sua sedia e si schiarì la voce. Un flebile “no” le uscì dalla bocca.
«Non per altro, eh, ma ci sono tutti i posti occupati e questo è l’unico momento in cui riesco a prendermi dei momenti di solitudine, poi tutto il giorno a correre dietro o ai professori dell’università, alle lezioni, oppure ai clienti del bar dove lavoro. Dieci minuti, giuro. Poi levo le tende» dette un morso alla sua pasta e sorrise a Caterina, col naso impolverato dallo zucchero a velo. Lei si sentì inondata da tutte quelle informazioni. Si limitò ad annuire debolmente, continuando a sorseggiare il suo cappuccino. Speriamo non attacchi bottega.
«Comunque, visto che siamo così vicini, sarà giusto presentarsi, che dici? Stefano» le porse la mano. Lei allungò la sua e strinse piano, timida, sperando che lui non si accorgesse di quanto umidiccia fosse la sua, per via della vergogna. «Caterina» la mano di Stefano era morbida, liscia, calda.
«Bello Caterina, nome importante. “Pura” in greco. Sai che è un nome da regine?» lei annuì, nuovamente, a scatti. Non una parola riusciva a trovare la via d’uscita. Nessuna. Era sempre stata una persona timida, siamo d’accordo, eppure non aveva mai avuto questi blocchi davanti alle persone. Sembrava quasi che la personalità di Stefano l’avesse sovrastata. Gli occhi azzurri, il sorriso simpatico, la mano morbida, l’accento napoletano.
«Cosa studi, Caterina? Cioè, studi?» nel frattempo lui continuava a parlare e mangiucchiare la sua pasta, guardando la ragazza fissa negli occhi, come se cercasse di leggerla. Lei, non riusciva a sostenere lo sguardo e cercava di sviare.
«Storia dell'arte» rispose a fior di labbra, inghiottendo un altro sorso di cappuccino. Lui sembrò illuminarsi, ancora più di prima.
«Ma è fantastico! Io faccio Lettere, ma la tua facoltà mi è sempre interessata, anche perché in una città come Firenze, così ridondante di arte, come fai a non volere conoscerla tutta, da cima a fondo? Sai cosa mi piace pensare? Che proprio in queste vie, queste vie dove cammino io ogni giorno, un po’ svogliato, un po’ di corsa, ci camminavano Leonardo, Dante, Michelangelo! È un pensiero infantile, però mi fa stare bene, mi rende felice di aver scelto questa città per studiare» le rivolse un altro sorriso conciliante e a questo giro Caterina riuscì a sciogliere un po’ di quei fili che la tenevano stretta, impettita, sulle sue.
«Anche io la penso così. Pari pari» lo disse ancora troppo debolmente rispetto a come voleva, però sentì una parte della tensione andare via. Stefano sembrò captare questo cambiamento in lei e i suoi occhi ebbero uno strano scintillio. «Bene. Sono contento. Mi piacerebbe che tu potessi farmi da guida turistica uno di questi giorni, eh? Ti andrebbe?» aveva sganciato il pezzo da novanta. La vide fremere un poco, cercare un appiglio esterno. Caterina non voleva dirgli di no. Avrebbe voluto gridare sì, ma si sentiva bloccata. Non aveva mai avuto un appuntamento prima d’allora. Si era sempre bloccata.
Ora non c’era più tempo di bloccarsi. Doveva agire.
«Certo, lasciami il tuo numero o nome, qualcosa via». Il suo tono di voce è finalmente uscito, constatò Stefano con un mezzo sorriso. Strappò un pezzo di quaderno e scrisse tutto quello che le poteva interessare.
«Ci vediamo in giro Caterina» le rivolse un ultimo sorriso conciliante e se ne andò, accodandosi ad un gruppo di ragazzi che molto probabilmente non conosceva nemmeno. Caterina rimase a guardare fuori stringendo tra le mani quella carta ruvida dove c’erano gli scarabocchi più importanti della sua vita. Ma questo lei ancora non lo sapeva.
*
Caterina spostò il peso da una gamba all’altra, continuando a guardare Stefano con le mani incrociate sul petto e le labbra serrate. Non c’era niente da identificare, codificare in lui. Era tutto alla luce del sole. Parlava di tutto quello che gli passava per la testa. E lo faceva sempre con quel sorriso dolce, simpatico. Caterina si chiese quando si sarebbe sentita tradita da lui. Sentiva il sospetto proprio dietro l’angolo. E questo lo rendeva tesa, la bloccava: non a caso non era mai riuscita ad andare oltre il terzo appuntamento. Non era volontariamente fredda e scostante, ma quella stretta allo stomaco che le prendeva ogni volta che un ragazzo interessato si faceva avanti, la terrorizzava, la gelava. Non si spiegava come mai. Non c’erano traumi, non c’era niente imputabile come causa alla sorgente. No. Solamente un’incondizionata paura di lasciarsi andare, di non avere il controllo su tutto. Stefano la faceva sbarellare. Lui non meditava su quello che diceva. Lui parlava. Lui era acuto senza riflettere. Lui era libero. Lei intrappolata in se stessa. Lui era un passo avanti a lei, sempre. Anche in quel momento lui era riuscito a trovarsi il suo punto d’osservazione perfetto per la Venere di Botticelli, mentre lei era rimasta indietro, ostacolata dalla folla.
Stefano se ne accorse dopo qualche minuto: era immerso nella contemplazione estasiata. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile rendere tanta grazia in pittura. Cercò Caterina alle sue spalle e le fece cenno di venire accanto a lui, per godersi meglio il dipinto. Ma lei fece intendere che c’era qualcosa che le impediva di progredire, di andare avanti. Fu lui a retrocedere di qualche passo, mettendosi al suo fianco. Le loro spalle si sfiorarono per un attimo: Stefano poteva sentire il profumo dello shampoo di Caterina. Lei si sentì ancora più paralizzata da quella vicinanza. Stropicciò con le mani umidicce quella brochure che le avevano dato all’ingresso. Manteneva gli occhi fissi in quelli della Venere. Il corpo fremeva. La mano calda di Stefano scivolò fino al suo polso e l’accarezzò. Caterina fremette ancora. E continuò a fremere anche quando lui cercò di stringerle la mano. Si staccò bruscamente da Stefano.
«Andiamo nell’altra stanza, ti va?» lo disse cercando di tenere il tono più fermo possibile, cercando di guardarlo seriamente negli occhi. Lui parve ferito per come l’aveva rifiutato, ma annuì comunque e la seguì.
Fecero tutto il museo: Caterina teneva le distanze, ma rispondeva con tutta sicurezza alle domande di Stefano. E non erano mai poche. Quando arrivarono in cima, sulla terrazza, il cielo ormai era rossastro. Avevano passato un intero pomeriggio dentro gli Uffizi ed erano esausti. Il tempo permetteva ancora di godersi il tramonto all’aperto, senza correre a cercare un posto dentro cui rinchiudersi. Presero un caffè insieme e parlarono di tutto quello che passava per la mente di Stefano. Tutti gli argomenti: cucina, arte, scuola, università, amici. C’era solamente una cosa a cui Stefano non accennava mai: Napoli. Era proprio il suo tasto dolente, l’unica domanda di Caterina che era rimasta senza risposta. Quando gli aveva chiesto come fosse la sua città, Stefano si era limitato ad accennare un piccolo sorriso nostalgico e a sussurrare che fosse bellissima. Inspiegabile a parole.
«Io ti faccio da guida a Firenze, tu mi farai mai guida a Napoli?» Stefano, per la prima volta da quando si erano conosciuti divenne improvvisamente di marmo. I suoi occhi divennero lucidi.
«Certo, se ci andremo» tutto il suo dolore era concentrato in quel periodo ipotetico. Caterina non poteva sapere che stare in Toscana, a centinaia di chilometri da casa per Stefano era una sofferenza indicibile, eppure necessaria se voleva stare bene. Questo paradosso l’avrebbe appreso con gli anni al suo fianco. Stefano non era riuscito a trattenersi e stava piangendo. A Caterina un po’ stupì con quanto poco interesse per gli altri potesse fare una cosa del genere in pubblico. Come di getto gli prese le dita, cercando di potergli dare un supporto, un salvagente. In pochi attimi si era vista sgretolare una figura che le sembrava talmente forte da poter vincere tutto. E si sentiva in parte in colpa. L’aveva trascinato nell’abisso e sentiva suo dovere aiutare a venire a galla. Stefano sbatté un paio di volte gli occhi per realizzare quello che lei stesse facendo: strinse più forte, cercando tutto l’aiuto possibile.
*
2000
Caterina aveva invitato Stefano alla grigliata del 25 aprile a casa di Tommaso. Caterina aveva scoperto che Stefano era nello stesso corso di Massimo. E che erano amici prima che lei lo conoscesse. Lui era pieno di amici. Lei ne aveva pochi, ma era sicura fossero quelli buoni. Quelli che durano per una vita. Lo aveva capito guardando felice la tavolata davanti a sé. Gente diversa, gusti diversi. Guardò ammirata Stefano: era entrato in sincronia con tutti, tutti gli volevano già bene. Era il suo migliore amico. Sul serio. Ma da qualche tempo ormai, i suoi sentimenti per lui sembrano essere cambiati. Se ne era accorta. Sentiva che le piaceva stare al suo fianco. Le piaceva studiare insieme a lui, passare del tempo insieme. Le piaceva andare a Boboli con lui, sedersi sul prato e rimanere lì, in silenzio, ognuno nel suo proprio mondo, col proprio libro in mano, ma con la certezza che l’altro fosse lì, presente.
Stefano le sorrise, facendole passare le dita sul dorso della mano. Durò un secondo, poi lui tornò sulla conversazione accesa con Marco e Massimo. Caterina voleva chiedergli di mettere ancora le dita sulla sua mano, gli voleva chiedere di accarezzarla ancora, di sorridergli ancora. Sentiva quest’energia dentro che per lei era completamente nuova, completamente inaspettata. Ma sentiva il peso del rimpianto, per aver lasciato scappare il momento, opprimerla, farle mancare il respiro.
Da quel momento in poi si rinchiuse nel suo bozzolo sicuro, fremendo.
Appena tutti si alzarono da tavola lei si andò a nascondere sotto il ciliegio maestoso. Sperava che nessuno la vedesse, nessuno si accorgesse di lei. Voleva affogare nella vergogna. Ma le sue speranze rimasero inattese. Stefano era al suo fianco.
«Sei rintanata di nuovo» aveva iniziato ad usare qualche termine toscano e il suo sforzo per impararne il più possibile lo rendevano buffo.
«Non mi sono rintanata. Avevo bisogno di qualche minuto sola» disse lei mentre si tirò su frettolosamente e pulendosi l’abito azzurro. Ma non aveva fatto i conti col fatto che si sarebbe trovata davanti agli occhi cristallini di Stefano. Lui percepì il disappunto di lei nel non aver calcolato tutto passo per passo, come era suo solito. Caterina capì di essere ad un bivio: poteva fare un passo audace, come non ne aveva mai fatti, oppure continuare nel suo cammino di occasioni perse.
Fece un passo nella direzione del ragazzo, la sua mano passò dietro la nuca e lo fece avvicinare. Le loro fronti si sfioravano, i loro nasi erano a contatto, poteva sentire i respiri caldi di Stefano. Avvicinarono le labbra insieme, come colpiti da una spinta sconosciuta e improvvisa. Era quella la scelta giusta. Caterina lo comprese non appena lui le avvolse le braccia attorno alla vita e la fece accostare ancora di più al suo corpo.  Caterina si sentiva al settimo cielo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2015
Era a quel pomeriggio, passato nei giardini della villa Conti, a cui pensava Caterina, mentre si dirigeva alla stazione. Non seppe spiegarsi come mai. Però come un lampo quell’immagine di lei e di Stefano stretti sotto il ciliegio l’aveva colpita di botto, rendendola improvvisamente turbata. Un ricordo. Era tutto quello che poteva avere di lui. Nient’altro. Non lo poteva più sfiorare, non lo poteva più sentire ridere, non lo poteva più sentire argomentare, non lo poteva più vedere. Le rimaneva solo un’immagine sfuocata nella sua mente. E le sue parole impresse sulla carta. E basta.
Non voleva che nessuno le portasse via quelle pagine. Avrebbe lottato con le unghie e con i denti per tenersi quelle poche pagine che riuscivano a renderlo corporeo, renderlo vero davanti ai suoi occhi.
Andrea era già arrivato. Caterina lo aveva visto da lontano. Era impossibile non notarlo. La sua statura lo faceva spiccare. E poi il giubbotto di pelle, vecchio, consunto, gli occhiali da sole. Teneva le braccia incrociate e lo sguardo puntato nella sua direzione. Era cambiato. Era invecchiato. Delle pieghe gli circondavano gli occhi. Delle leggere striature grigie graffiavano i suoi capelli scuri.
Prima di avvicinarsi a lui rimase qualche secondo a guardarlo: era diverso da Stefano. Era chiuso, schivo. La sua figura non mostrava la gentilezza del fratello. Era un tipo losco da cui sarebbe stata alla larga se avesse potuto. O almeno se non l’avesse conosciuto così bene.
«Caterì» la voce profonda di Andrea le arrivò ben chiara. Si era avvicinato: poteva sentire l’odore pungente del suo profumo. Lo stesso, dopo tutti quegli anni. «Come stai?» sentì vera apprensione e preoccupazione nel suo tono. Caterina lo confortò con un sorriso conciliante, mettendogli una mano sulla spalla.
«Qui stiamo bene, grazie. Dimmi invece come mai sei arrivato qui da Napoli». Andrea mantenne il suo cipiglio imperturbabile. Scrollò le spalle, schiarendosi la voce.
«Andiamo in un posto dove siamo solo noi. È un discorso importante» le prese delicatamente il gomito e la invitò a camminare, a seguirla. Conosceva Firenze come le sue tasche. E sapeva quale fosse il posto in cui Caterina era più a suo agio. Aveva bisogno che rimanesse più tranquilla possibile.
*
2003
Stefano entrò velocemente in camera di Caterina con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all’altro. Aveva per lei la notizia più bella del mondo.
Caterina ne aveva già ricevuta una di notizia. La peggio del mondo. La peggio che poteva ricevere in un momento del genere, quando il suo mondo era in bilico. Si era stesa sul letto guardando la pala girare debolmente. Era il luglio più caldo di sempre. E così l’aveva trovata Stefano: a fare la stella marina sulle lenzuola.
«Caterì, ti hanno presa! Ti hanno presa Caterì, ma ci pensi? We, Caterì, hai capito? Il tuo sogno sta per realizzarsi» l’aveva baciata sulla fronte, le aveva tolto i capelli dal viso. Ma Caterina non era felice. Anzi. Il suo volto era terreo. Si era paralizzata.
Aveva lavorato tanto per quello che sognava da una vita, aveva lavorato tanto per entrare dentro l’Opificio. Poteva finalmente diventare una restauratrice. Ma quando era stata proprio ad un passo dalla vittoria, il mondo le era caduto addosso.
«Sono incinta Ste’» aveva detto piano, cercando di soffocare il pianto. Anche lui si era congelato. Respirava male. Avevano venticinque anni, ancora molto da fare prima di potere fare una famiglia insieme. Erano troppo giovani. Non avevano soldi propri. Non avevano una casa. Non erano sposati. Guardò Caterina: non era giusto per lei. Non era giusto. Non ora.
«Che facciamo?» gli aveva chiesto lei, la voce intramezzata dai singhiozzi. Stefano si era fatto serio.
«Se vuoi andare in clinica, chiamo subito» le accarezzava il mento col pollice e cercò di mettere in ordine con le idee. «Se lo vuoi tenere, ci arrangeremo. Ce la faremo. Siamo una squadra fortissima noi, no? Dobbiamo portarci a casa la Champions» la baciò sulla fronte e poi aveva appoggiato la sua guancia su quella di Caterina.
«Posso frequentare finché reggo, ma dopo il parto, dovrai tenere tu il bambino. Non posso perdere troppo tempo. E per il momento possiamo vivere da mio fratello. Lui e Anna hanno una casa abbastanza grande. Ma ora è il momento per finire quel benedetto libro. Non puoi rimandare Ste’. La posta in gioco è troppo alta perché tu perda tempo al bar a filosofeggiare» il tono duro, lo colpì. In positivo. Caterina sapeva essere estremamente autoritaria e organizzata nelle condizioni di disastro. La baciò d’impulso sulle labbra per la contentezza. Alla fine, sarebbe diventato padre.
*
Giulio nacque all’alba di un gelido giorno di metà febbraio dell’anno successivo. Caterina sperava che almeno in quella situazione la famiglia di Stefano sarebbe venuta a Firenze. Eppure, non sapeva ancora che faccia avessero. Nessuno. In particolar modo la madre. Caterina aveva sentito Stefano supplicarla al telefono, piangendo come un bambino. Lei gli aveva perfino attaccato in faccia. Lui era tornato nella stanza d’ospedale con gli occhi arrossati e, dopo aver accarezzato delicatamente la mano di Caterina si era buttato al suo fianco, credendola addormentata. Ma lei era sveglia, con la rabbia che le cresceva. Perché volevano fare quello al figlio, al fratello? Perché farlo soffrire tanto? Perché ostracizzarlo? Cosa aveva fatto male? Alla fine, cedette alla stanchezza e chiuse gli occhi.
Si svegliò di soprassalto e si accorse che c’era qualcuno nella stanza. La figura snella e alta era appoggiata alla porta del bagno e guardava da lontano Giulio.
«Chi sei?» Caterina andò direttamente al dunque, tra il terrorizzato e il guardingo. Ma l’uomo non si scompose al tono duro della ragazza. Fece un mezzo sorriso ironico, guardandola con quegl’occhi gelidi, d’un azzurro che fecero fremere Caterina dal terrore che incutevano.
«Sono Andrea, il fratello di Stefano» perfino il marcato accento napoletano non convinceva Caterina. Non c’era niente in quell’uomo che potesse ricordare il fidanzato. Andrea aveva i lineamenti marcati, duri, i capelli scuri, le sopracciglia folte, aggrottate e il naso prominente. Stefano entrò in quel momento: era al settimo cielo.
«Caterì, hai conosciuto mio fratello» strinse il braccio dell’uomo contento, come se avesse paura che potesse sfuggirgli. Era vero. Stefano temeva che l’unico membro della famiglia che si era palesato dopo tutto quel tempo potesse scappare, tornare a Napoli. O peggio: che fosse un’illusione causata dalla stanchezza. Tutto questo Caterina lo percepiva. Come percepiva l’amore per Stefano che faceva brillare gli occhi di quell’uomo che per lei era ancora sconosciuto.
«Posso prendere il piccino?» chiese allora Andrea, avvicinandosi cauto al lettino. Caterina acconsentì con un meccanico movimento della testa. Le mani abbronzate presero delicatamente il bambino e lo alzarono. Andrea si portò il nipote al petto con una dolcezza che stonava con tutta la sua figura. Gli canticchiava una ninna nanna in napoletano che Caterina non conosceva. Le sembrò una situazione quasi irreale: quella figura tanto minacciosa, tanto ruvida, spigolosa riusciva ad emanare così tanta delicatezza, così tanto amore. Stefano non era per niente stupito: conosceva suo fratello, l’unico della sua famiglia che non gli aveva voltato la schiena. Non ne aveva avuto certezza fino a quel momento, ma era passato. L’importante che fosse lì con loro, con suo figlio in braccio. E quell’immagine di lui con Giulio in braccio se la sarebbe portata dentro il cuore per sempre.
Andrea inalò a fondo quel profumo dolciastro che solo i neonati emanavano e si chiese se anche lui sarebbe stato in grado di costruirsi una famiglia un giorno. Avrebbe mai trovato l’amore? Si sarebbe mai sciolto? Era ancora impossibilitato a provare dei sentimenti. Si morse il labbro inferiore evitare di piangere. Con il pollice carezzava quel pugnetto rosso e pensava che forse quello era il massimo che poteva avere. E doveva goderselo il più possibile. O almeno gli sarebbe piaciuto goderselo il più possibile, ma l’immagine di sua madre che lo diseredava lo tormentava. Lui non era forte come Stefano, lui non ce l’avrebbe fatto a vivere solo, lontano da Napoli. Quella città, quei luoghi erano la sua linfa vitale.
«L’avete chiamato come nonno?» chiese di punto in bianco, mantenendo i suoi occhi di ghiaccio fissi sul viso del piccolo. Stefano diventò subito rosso, mentre Caterina si lasciò sfuggire un risolino divertito.
«No, come Giulio Cesare» disse lei, studiando la reazione di Andrea. Lui si fece scappare una risata. Era cristallina. «Hai pensato a Giulio Cesare ma non a tuo nonno?» guardava Stefano, ancora più rosso, ancora più in difficoltà.
«Non dirlo a mammà, per favore. Dille che è per il nonno. Magari cambia idea e viene a vederlo» l’ultimo pezzo Stefano lo disse piano, timoroso. Andrea aveva stretto le labbra e aggrottato le sopracciglia. Sapeva che sua madre non si sarebbe spostata da Napoli.
«Certo Ste’» fece una pausa, riportando gli occhi su Giulio. «Mammà ti vuole bene Ste’. Si pena per te ogni giorno. Ma lo sai com’è. Troppo orgogliosa per chiedere scusa. Non prenderà mai un treno per venire. Scendi tu. Lo so che ti manca Napoli, lo vedo, lo percepisco» stava dando le spalle a Caterina, come se lei non fosse in grado di concepire quelle complesse dinamiche familiari. In parte era vero. Ma Andrea voleva anche nascondere le lacrime alla ragazza. Già era difficile mostrarsi così debole di fronte al fratello.
Avevano un rapporto particolare quei due: Stefano era più grande di due anni, eppure erano cresciuti insieme, come se fossero gemelli. Avevano condiviso tutto, sapevano ogni segreto dell’altro. Ma era tutto cambiato da quando Stefano era scappato, era stato mandato via. Lui aveva sedici anni. Da quel giorno in poi l’aveva visto di rado, pochi giorni, e solo, esclusivamente a Firenze. Stefano non era più sceso in otto anni. Gli faceva troppo male tornare a casa, tornare in città.
«Perché non rimani qualche giorno qui?» domandò il più vecchio cambiando improvvisamente discorso. Andrea si schiarì la voce e si girò nuovamente verso Caterina, guardandola con un sorriso ironico, forse chiedendo un supporto. Lei sorrise, cercando di provvedere al sostegno che lui cercava.
«Ste’, non posso, lo sai» sussurrò, evitando gli occhi del fratello. Caterina notò essere quello l’elemento che veramente li rendeva simili. Quell’azzurro limpido, purissimo. Andrea posò finalmente Giulio nella culla, ma rimase a guardarlo, carezzandolo piano col pollice.
«Andrè, rimani qualche giorno, te ne prego. Ci farà piacere. So che lo vuoi». Andrea lo voleva, lo voleva con tutto se stesso. Sentiva lo sguardo crudele e bruciante di sua madre addosso: lo rendeva debole. Lo faceva sentire piccolo. Sentiva la sua voce giudicarlo, sentiva la sua voce denigrarlo, spiegandogli tutte le ragioni per cui era sbagliato rimanere al fianco del fratello. La solita litania che gli ripeteva da otto anni: sull’azienda, sulla reputazione, sulla figura che aveva fatto Stefano e che lui non poteva permettersi di sbagliare. Perché l’avrebbe ereditata lui l’azienda di suo padre. Lui sarebbe stato il capo. Lui avrebbe portato avanti il nome di famiglia, un nome nobile, come continuava a ripetere ossessivamente Maria.
Ma lo sguardo implorante di Stefano lo faceva struggere. E per la prima volta decise di mettere da parte la razionalità e il dovere, per dedicarsi ai sentimenti, annichiliti in una parte remota di sé. L’avrebbe fatto molte altre volte.
«Va bene, qualche giorno» l’abbraccio di Stefano lo travolse, facendolo barcollare. Andrea si fece scappare una risata. La gioia dell’altro era contagiosa, dirompente. Anche Caterina si sentì felice. Quell’uomo sottile e spigoloso era la chiave per aprire la porta del passato e delle origini di Stefano.
*
Stefano chiese a Caterina di sposarlo il giorno del suo compleanno. Era agosto. L’aveva fatto sotto il ciliegio a casa di Tommaso, dove si erano dati il loro primo bacio. L’aveva fatto mentre Giulio scalpitava in braccio a suo zio Marco perché voleva ritornare nelle braccia di suo padre. Caterina non l’aveva nemmeno lasciato finire. L’aveva stretto in un abbraccio che significava cento sì.
*
Quella sera Caterina non riuscì a prendere sonno. Non era la felicità, ne era sicura. C’era un pensiero che le martellava in testa, che le impediva di dormire. Una domanda.
«Ste’» lo svegliò smuovendolo. Lui si alzò faticosamente e inforcò gli occhiali.
«C’è da prendere Giulio?» chiese lui con la voce impastata dal sonno. Faceva fatica a tenere gli occhi aperti e guardare chiaramente Caterina. Lei si torturava le mani. Era quello il momento. Ora o mai più, ripeteva ansiosamente.
«No, è qualcosa di importante però» prese la mano di Stefano e la strinse, come se potesse passargli un po’ della sua schiettezza, un po’ della sua sicurezza. «Ho solo bisogno di chiarezza. Perché tua madre ti ha disconosciuto?». Stefano non sembrò nemmeno stupito da quella domanda. Era come se l’aspettasse. L’aspettava da tanto tempo. Ma Caterina aveva sempre avuto paura a porla: paura della risposta, paura che i suoi timori iniziali si sarebbero confermati. Che lui l’avrebbe lasciata sola. E che lei non sarebbe riuscita ad avere un altro amore come quello.
Lui si sistemò meglio a sedere e riposizionò meglio gli occhiali sul naso. Una parte di sé temeva che Caterina lo ripudiasse come sua madre. Che lo abbandonasse. «La questione è semplice: amo le donne come amo gli uomini. A mia madre questa cosa non va giù. Non le andava giù che andassi a giro per la mano con un ragazzo. Non le andava che lo baciassi, che lo portassi in casa. Mi disse che ero un disonore per la mia famiglia. Mi fece andare via di casa. Per questo non torno mai a Napoli. Tutta la vergogna che mi aveva fatto sentire, ritorna sulle mie spalle. E non posso sopportarlo. Non sono abbastanza» guardava fisso Caterina negli occhi. Il labbro gli tremava, ma quello era il terrore che lei potesse allontanarlo. Non poteva più vergognarsi di quello che era.
Caterina sentiva la bocca secca. La testa non riusciva a pensare. C’era solamente un forte ronzio. D’impulso si alzò e andò in cucina, lasciando Stefano spiazzato. Le mattonelle gelide erano un toccasana per l’afa estiva. Si versò un bicchiere d’acqua che bevve d’un fiato e poi si appoggiò al bancone della cucina. L’anellino all’anulare brillava debolmente. Era arrabbiata con Stefano per averglielo nascosto così a lungo. Lui apparve in quel momento: teneva le braccia incrociate e le labbra strette. Era così simile ad Andrea in quel momento, nella penombra.
«Perché non hai detto niente prima?» lo guardava seria, cercando di sopprimere le sue emozioni.
«Non volevo perderti. Sei troppo preziosa Caterì» la voce di Stefano era sottile, quasi impercettibile. Ma riusciva a sostenere lo sguardo di Caterina. Lei sbuffò piano, incrociando le braccia al petto. Improvvisamente si sentì stupida: come poteva biasimarlo? Come poteva tenergli il muso? Stefano era sempre la persona per cui si era innamorata. Era sempre quel ragazzo con gli occhiali che l’aveva approcciata maldestramente nel bar cinque anni prima. Era sempre lui. Niente cambiava.
Fece qualche passo verso lui e fece scivolare le mani fino al polso, proprio come aveva fatto lui al museo. Sciolse le sue braccia e gli prese la mano. Le loro dita s’intrecciarono.
«Non nascondermi mai più, va bene? Non mi perderai mai. Non lo permetterò». L’abbracciò forte, stringendo a sé quel corpo magro, inalando quel profumo così pungente, così familiare.
*
Il 3 settembre del 2004 era un giorno molto afoso. Un battito del ventaglio. E poi un altro. Non poteva sudare Caterina. Un altro battito del ventaglio, altri due. Ora lo faceva ondeggiare in maniera frenetica. Marco lanciò un’occhiata divertita alla sorella.
«Stefano è riuscito ad arrivare più tardi della sposa» commentò Marco, mangiandosi l’ennesima nocciolina. Caterina la dovette dare vinta a lui: il fidanzato era conosciuto per non essere puntuale. Mai. In quella saletta d’aspetto del municipio erano in pochi e in religioso silenzio: si sentiva solamente il frusciare dei ventagli che in maniera provvidenziale Anna aveva comprato il giorno precedente. C’erano solo la famiglia e gli amici stretti. Maria era riuscita a rifiutare sdegnosamente anche quell’occasione. Caterina scacciò l’idea di quella donna dalla mente con una smorfia. Non meritava Stefano. Se a lei non importava conoscere la famiglia che Stefano si stava costruendo, a Caterina non importava conoscerla. Loro sarebbero vissuti bene lo stesso. Alla grande.
A fine agosto il libro di Stefano era stato pubblicato ed era diventato un grande successo di critica. Aveva raggiunto il sogno. Anche Caterina ce la stava facendo. Un passo dopo l’altro. Era impiegata in un museo, ma per il momento andava bene. Era la migliore nel corso di restauro. Era sicura che se avesse continuato a lavorare come aveva fatto fino a quel momento avrebbe raggiunto i suoi obiettivi. Non aveva dubbi. Puntava in alto e nessuno l’avrebbe fermata.
Stefano arrivò a corsa, con Andrea a seguito, con passo misurato, rilassato, come se non fossero in ritardo di mezz’ora. «Scusa Caterì, l’editore mi ha tenuto troppo al telefono» la baciò sulla guancia e la invitò ad alzarsi. «Andiamo a fare il grande passo».

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


2006
La musica classica riempiva la stanza. Caterina chiuse gli occhi e fece sì che le note dolci l’accogliessero come in un abbraccio. Rimase con la testa alzata per diverso tempo, finché non si sentì completamente ispirata. Il dipinto di fronte a lei versava in condizioni terribili. Le croste l’avevano reso irriconoscibile. Lei era certa che ci fosse ancora della bellezza sotto il tempo che era passato. Si trovava in una chiesa di un piccolo paese di collina: era il suo primo lavoro da restauratrice ufficiale. Un’estate intera passata in collina a fare quello che più amava. Controllò Giulio con un’occhiata veloce: era seduto in giardino con un gruzzoletto di pennarelli di fronte sé. Andrea era steso al fianco del nipote: con una mano teneva un libro, mentre con l’altra carezzava lentamente la schiena di Giulio. Avevano un carattere molto simile loro tre. Erano schivi, insicuri, prudenti, sempre troppo prudenti. Per questo condividevano un’ammirazione profonda legata a forte attrazione per Stefano, ai loro antipodi.
*
Lo sguardo di Caterina nei confronti di Andrea era diventato improvvisamente preoccupato: appena due sere prima l’aveva visto arrivare sconvolto in quella piccola casa. Si era accasciato sul divano e l’aveva guardata con gli occhi pieni di rabbia e dolore. Non aveva aspettato che lei chiedesse niente. «Carla mi ha lasciato» pronunciò con una voce impregnata di amarezza, di frustrazione. Per la prima volta nella sua vita non aveva nemmeno ripensato alle ripercussioni che quella notizia avrebbe potuto avere su sua madre e sul futuro dell’azienda. Per la prima volta si era solamente preoccupato di quello che ne sarebbe risultato nella sua vita, nella sua felicità. Sembrava condannato: un lavoro che lo opprimeva, una famiglia che era un orizzonte che si allontanava ogni passo in avanti che lui faceva. Caterina era rimasta bloccata sulla sedia in cui si trovava: non riusciva a trovare nemmeno una parola di conforto. La sua mente era andata in cortocircuito. Scattò in piedi. «Ti porto un caffè». Non si aspettò nemmeno una risposta e si avviò velocemente in cucina. Le mani le tremavano. Si sentiva come bloccata: non era in grado di esprimere solidarietà e supporto per Andrea. Avrebbe solamente voluto dare voce a tutte le tensioni, tutti i dispiaceri che le dilaniavano il corpo. Sembravano chiusi in una scatola che lei non voleva aprire, o che semplicemente aveva il terrore di aprire. Perché così facendo sarebbe significato farsi guidare da altro che non fosse la sua razionalità. Prese un respiro profondo. Il liquido scuro aveva iniziato a scendere dalla macchinetta e, col suo profumo, ad impossessarsi della stanzetta.
Andrea bevve il caffè a piccoli sorsi: ad ognuno corrispondeva la volontà sempre maggiore di riprendere il controllo. Di tornare alla sua solita tranquillità. Respirò profondamente.
«Pensavo di trovarci Stefano» disse guardandosi attorno.
«È in tournée per il libro. Oggi era a Bologna» spiegò Caterina rimettendosi a lavorare a quel piccolo quadretto. Un mare in tempesta, il cielo scuro, una striscia di terra sottile, quasi impercettibile. Era per un privato, fuori dalla commissione ufficiale per la chiesetta del paese. Lo faceva nei momenti di relax, fuori dal trambusto del giorno, quando Giulio richiedeva una costante attenzione.
Andrea annuì e portò lo sguardo fuori dalla finestra: delle nubi scure coprivano la vallata e il vento cominciava a tirare sempre di più. Si alzò girando per la stanza, osservando ogni fotografia appesa alla parete, ogni pezzo d’arredamento. Erano tutti di stili ed epoche diverse, buttati lì dentro per cercare di riempirla. Pareva che ogni persona che ci aveva vissuto negli ultimi anni avesse voluto lasciarvi traccia di sé, del proprio passaggio. Il suo occhio attento si posò su Caterina: la sua schiena era curvata in avanti, la testa, gli occhi che seguivano il movimento turbinoso delle onde. La luce corrotta che proveniva dalla lampadina allo stremo copriva la donna di chiaroscuri, rendendola ambigua. Andrea indugiò su quella figura fin troppo a lungo. Si morse il labbro per camuffare la vergogna.
«Posso dormire qui?» chiese tornando davanti a lei, seduto alla finestra. Il vento che lo colpiva era piacevole. Rendeva meno pesante l’afa che si percepiva in quella stanza. Caterina non sollevò nemmeno gli occhi. Si limitò ad inarcare un sopracciglio.
«Quel posto è consigliato per una fantastica cervicale di prima mattina. Oppure puoi scegliere un mal di schiena. La posizione li offre entrambi allo stesso prezzo» constatò sarcasticamente lei. Andrea si lasciò scappare una risata. La prima di quella giornata funesta. Anche Caterina percepì il suo rilassarsi. Alzò il viso e lo guardò con un sorriso conciliante. «Certo che puoi dormire qui. Puoi rimanere quanto vuoi, lo sai» abbassò nuovamente gli occhi e si rimise a lavorare. Pennellate lunghe, grumose, una dopo l’altra. L’immagine stava pian piano riprendendo vita. Osservò il suo lavoro con profonda ammirazione. Gliel’aveva chiesto una signora del posto, bussando alla porta due settimane prima. Aveva gli occhi lucidi mentre spiegava l’importanza per lei di quel quadro: era di suo marito che dipingeva nei momenti di vuoto. E il mare in tempesta era l’ultimo che aveva fatto prima di morire. Le aveva detto che guardare quel quadro le faceva percepire lui al suo fianco. Ma la casa era vecchia, la muffa mangiava le pareti e aveva attaccato il quadro. Caterina aveva accettato senza pensarci due volte. La signora andava a visitarla ogni giorno, ammirando i lenti progressi.
Andrea era di nuovo alle sue spalle. Rimaneva in piedi e respirava piano per non disturbarla. Il suo sguardo gelido le faceva venire i brividi, dei brividi che partivano dalla schiena e che la scuotevano tutta. Fece finta di niente, intingendo con lentezza il pennello nella boccettina. Andrea si sedette poco dietro di lei.
«Hai voglia di fare una passeggiata dopo? Magari ci prendiamo un gelato» gli chiese, continuando a dipingere.
«Volentieri»
«Bene, dammi dieci minuti. Vai a preparare Giulio» gli indicò la stanza attigua da dove provenivano delle voci gracchianti del televisore di almeno dieci anni prima.
*
Erano soli nella piazza del paese. Si sentiva solo il vociare provenire dal terrazzo del circolo e lo scrosciare della fontana. Giulio si era seduto su uno scalino di pietra e si stava gustando una coppetta di gelato. Caterina era al suo fianco e con la coda dell’occhio lo controllava costantemente. Andrea era difronte a lei, concentrato sul suo gelato. Si era quasi sdraiato su quello scalino: il busto sorretto dal gomito spinto contro la pietra, le gambe allungate sciolte. Sembrava la persona più rilassata del mondo, ma era una copertura. Non aveva ancora detto niente. E Caterina moriva dalla voglia di chiedergli spiegazioni. Si schiarì la voce per attirare l’attenzione del cognato. Lui alzò gli occhi, aggrottando la fronte.
«Lo so che volevi sfogarti con Stefano, ma puoi parlare liberamente anche con me» disse con un sorriso dolce, un sorriso contagioso. Il lampione illuminava Caterina di una luce dorata, una luce degna di lei, non come quella nella stanza in cui lavorava. Modellava ogni parte del suo corpo, accentuava la componente dorata dei suoi capelli, quella sera raccolti in uno chignon morbido, basso. Non era mai riuscito a sentirsi completamente a suo agio con lei. Possedeva un qualcosa che lo faceva stare scomodo. Si mise composto, incrociando le caviglie. Evitava lo sguardo di Caterina, sviava, cercando un appiglio nella piazza deserta.
«Carla aveva un altro. È rimasta incinta. E ha deciso che amava più lui di me. Che si era sposata con me solo per i soldi della mia famiglia» fece una pausa. Guardava il gelato sciogliersi nelle sue mani. Ancora non riusciva ad alzare gli occhi verso la cognata. «Mi sono sentito un verme, uno straccio. Mi vedeva solo come un sacco di monete da cui attingere. Nient’altro. Un oggetto da usare» si schiarì la voce e con un morso rabbioso finì il gelato. Si alzò di scatto, dirigendosi verso la fontana per bere un sorso d’acqua fresca. Se ne passò anche un po’ sul viso, forse per camuffare le lacrime che avevano vinto e ora rigavano il suo volto. Ma Caterina se ne era accorta. Lo guardava da lontano, ma poteva ben notare gli occhi arrossati. Si assicurò che Giulio fosse occupato dal libro pieno di disegni colorati e andò davanti ad Andrea. Poteva sentire il suo profumo agrumato.
«Non ti meritava Andrea. Devi guardare avanti. Non lasciarti tagliare le gambe da una situazione. Sei più forte della circostanza, lo so. È giusto piangere, è giusto liberarsi. Non devi tenerti tutto dentro. Ma poi devi anche ripartire. Non ti devi arrendere» gli mise una mano sul braccio nudo. La pelle era ruvida, secca. «E poi ricordati che te una famiglia ce l’avrai sempre. Stefano, Giulio, io. Ci puoi contare». Caterina fece scivolare la mano e la riportò lungo il suo corpo. D’impulso essa si strinse in un pungo. Lo vide anche Andrea che aveva il viso abbassato dalla vergogna e dallo sconforto. E allora alzò la testa. Si guardavano negli occhi. Le iridi verdi di Caterina contro quelle azzurre di Andrea. Gli mancò il respiro, ma cercò di non darlo a vedere.
«Grazie Caterì» lo pronunciò a fior di labbra, lasciandosi andare poi in un sorriso che subito illuminò il suo viso. Lei alzò le spalle, fingendo che tutto quello che gli aveva detto non fosse costato uno sforzo immane. «Faccio il possibile». Giulio li aveva raggiunti. E cercava di arrampicarsi sulla figura altissima dello zio. Andrea lo notò e lo fece salire sulle spalle.
*
Stefano arrivò cinque giorni dopo Andrea. Gli mancava solo una città in cui andare per la promozione. Napoli. Per questo aveva bisogno di riprendere fiato per due giorni prima. Aveva sperato che quella tappa saltasse, ma ogni speranza era vana fin dall’inizio. Arrivò a Giulitta il pomeriggio dopo pranzo, col caldo. Giulio dormiva accanto ad Andrea, stesi sul prato, all’ombra di un grande ciliegio. Caterina, invece, lavorava. Quando lo vide gli saltò in braccio. Non lo vedeva da due settimane e le erano sembrate un’eternità. Il profumo che portava sempre la colpì, le entrò nelle narici, fino a farla quasi piangere. Stefano rideva. «Mi soffochi». Ma Caterina fece finta di non sentire. Affondò il volto nell’incavo del collo.
«We, Caterì, ma non scappo mica» continuava a ridacchiare e lei lo assecondò.
«Quanto puoi rimanere?» Stefano controllò l’orologio pensoso. «Fino a domattina sul presto. Ho il treno da Firenze alle undici» si schiarì la voce, mentre a lunghe falcate si diresse verso la finestra. Caterina lo seguì appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Non ho molta voglia di andarci» disse piano, continuando a guardare la vallata davanti a sé. Voleva rimanere lì con sua moglie, con suo figlio, con suo fratello. Ma dentro di sé covava una domanda, una domanda da porgere a Caterina. Un rischio.
«Verresti con me? Solo noi due» i suoi occhi azzurri si erano spostati su di lei. La supplicavano. Ma non poteva lasciare tutto così come se niente fosse e partire. Era il suo primo lavoro. Doveva fare tutto alla perfezione.
«Ste’ lo sai che non posso farlo. Chiedi ad Andrea, no?» Stefano si strinse nelle spalle e guardò preoccupato il fratello. Lo aveva chiamato qualche giorno prima, cercando aiuto. Ma aveva dovuto attaccare perché era a cena con dei giornalisti. E quando aveva cercato di ricontattarlo Andrea sembrava una persona completamente diversa. Era quasi sollevato.
«Carla l’ha lasciato per un altro. Quando è arrivato qua l’altra sera era a pezzi. Non riusciva a connettere. Ci ho parlato io. Ma deve tornare a Napoli. Non può rimanere qui e fare finta che niente sia successo. Deve ricominciare a lavorare, deve ricominciare a vivere» la serietà con cui Caterina parlava lo affascinò, come aveva sempre fatto. Era brava a sistemare le vite degli altri. Le piaceva dirigere tutte le persone che erano nella sua vita. Stefano annuì grave. «Vi farà bene passare del tempo insieme» gli dette un bacio sulla guancia e si rimise a lavoro.
«Caterì, non credo di farcela laggiù senza te» era sempre in piedi davanti a lei, a guardare nel giardino. «Non credo di farcela».
Le labbra di Caterina si strinsero fino a diventare bianche. Non poteva essere sempre perfetto. Stefano poteva essere fin troppo cocciuto e infantile delle volte. Respirò rumorosamente e si rimise a lavorare. Lui si accovacciò accanto a lei. «Non puoi lasciare neanche per due giorni? Solo due. Che ti potrà mai fare il prete? Ti scomunica?» Caterina gli lanciò un’occhiata di fuoco.
«Ste’, mettiamo in chiaro una cosa. Non posso mettere in pausa la mia vita per farti da mamma, per tenerti la mano e accompagnarti a Napoli perché hai paura di tua madre. Sei un adulto, sei padre. Devi andare laggiù e farli schiattare tutti d’invidia. Devi essere superiore. E io più che farti discorsi motivazionali non posso fare altro. Devo lavorare. È importante per me» lo aveva lasciato senza parola. La gola secca, gli occhi fissi su di lei che lo sovrastava. Caterina era riuscita a fare liberarsi che la tenevano allacciata qualche anno prima. Era libera. Era indipendente. Era una donna matura, fatta e finita. E lui se ne stava innamorando di nuovo.
*
Andrea era partito con Stefano alla fine. Caterina gliel’aveva chiesto quasi scocciata. E lui aveva capito che cominciava ad essere di troppo. Li aveva osservati allontanarsi appoggiata allo stipite della porta: lo sguardo corrucciato e le braccia incrociate al petto. Il lungo viaggio verso casa lo trascorsero principalmente in silenzio. Nessuno osava fiatare, nessuno osava accennare ai propri problemi, cercare di risolvere dandosi dei consigli. Stefano sembrava offeso, deluso dal comportamento della moglie. Andrea portava ancora addosso le ferite inferte dalla propria moglie.
Solo quando arrivarono alle soglie della Campania, Andrea accennò ad una conversazione. «Pensi di venire a vedere mammà?» aveva domandato timidamente, lanciando al fratello degli sguardi fugaci. L’altro era rimasto in silenzio a lungo, con gli occhi fissi sulla strada davanti a loro. L’arsura faceva ribollire il cemento, rendeva la vista opaca.
«Non lo so, Andrea» rispose semplicemente, accendendosi una sigaretta. «Caterina crede che io sia in grado di stare davanti a lei. Crede che io sia superiore. Ma se devo essere sincero, non ne sono sicuro. Per niente. Prevedo di crollare» si portò le mani al volto e cercò di tranquillizzarsi. «Come ci ha manipolato bene quella donna. Ci ha rovinato la vita» lo disse con freddezza, cinismo, ma era solamente una maschera. Ribolliva dalla rabbia. Come poteva una madre comportarsi in quel modo con i figli? Erano stati traviati. Erano stati ostracizzati. E ritornare nella tana del lupo per lui significava anche riportare alla luce sentimenti che credeva di aver sepolto molti anni prima. Era riuscito a sortirne in tempo. Era riuscito a riprendere in mano la propria vita. Era riuscito a diventare quello che voleva. Come diceva Caterina, era un uomo fatto e finito. Doveva essere in grado di stare in piedi davanti alla madre, fissarla negli occhi, non avere paura del suo controllo.
Guardò Andrea. Suo fratello non era riuscito a fuggire dalla famiglia. Si era preso tutte le responsabilità, si era preso tutti i fardelli. Si era ritrovato con una vita che non gli apparteneva. La vita che doveva essere sua, di Stefano. Era diventato un uomo chiuso, schivo, timoroso. Temeva costantemente di fare un passo falso. Era ossessionato, terrorizzato dall’idea di sbagliare. Andrea non evadeva mai i suoi confini, confini autoimposti. Per questo era rimasto sorpreso, ma allo stesso tempo preoccupato, nel vederlo in Toscana. Forse qualcosa in lui stava cambiando.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Alla fine, Stefano si decise ad incontrare sua madre. Lo aveva fatto solamente per fare un piacere ad Andrea. Si era presentato il giorno successivo alla presentazione del libro. Era apparso sulla soglia di casa nel pieno pomeriggio. Era un caldo asfissiante. Il sole gli bruciava la pelle chiara. La camicia di lino ondeggiava debolmente, seguendo l’andamento del leggero venticello che arrivava dal mare. Sentiva l’ansia attanagliarli lo stomaco. L’aria era ancora più rarefatta per lui: respirava pesantemente. La testa gli pulsava, il cuore gli stava schizzando in gola. Per un attimo desiderò non essere andato là. Desiderò aver preso quel treno per Firenze, aver fatto finta di niente, essere tornato alla propria vita. Non sarebbe cambiato nulla. Lui avrebbe continuato a vivere ignorando la sua famiglia, sua madre avrebbe continuato a disprezzarlo. Eppure, i piedi erano fissi nel terreno. Doveva fare quei passi in avanti. Doveva togliersi dalla pesante e pressante presenza di sua madre. Doveva svoltare pagina. E per farlo era necessario entrare in quella casa antica, dolorosamente familiare. Lanciò un’occhiata all’interno: niente era cambiato. L’arredamento antico, il pavimento con i motivi geometrici, le pareti zeppe di quadri. Non c’erano foto in casa loro. Non c’erano mai state. Stefano fece battere le nocche nel portone di quercia. Un rumore di tacchi a spillo riempì la casa. La figura di sua madre era apparsa dall’enorme sala da pranzo. Non era cambiata. L’abito rigido, sartoriale, i capelli tirati all’indietro, il trucco leggero. Le mani nodose sfoggiavano solamente due fedi. La ridondanza della casa non era ravvisabile in Maria. Non espresse il minimo segno di sorpresa: lo sapeva fin dentro le ossa che il figlio sarebbe tornato. E si era preparata.
«Ciao», la voce di Stefano ostentava sicurezza. Teneva gli occhi fermamente legati a quelli azzurri della madre, la schiena ben dritta. Ma le mani erano strette in pugno. Un dettaglio che a lei non passò inosservato. Sorrise ironica.
«Alla fine hai deciso di onorarmi con la tua presenza» gli passò avanti e si diresse verso il salotto, invitandolo in maniera sprezzante a seguirla. E lui lo fece. Quando Maria si sedette sulla sua poltrona prediletta, lui cercò in tutti i modi di starle il più lontano possibile.
«Quindi a cosa devo la tua visita?» chiese freddamente lisciandosi delle pieghe inesistenti sulla gonna. Stefano si schiarì la voce prima di aprire la sua borsa. Ne estrasse una foto: Caterina e Giulio si abbracciavano e sorridevano nella direzione dell’obiettivo. Erano così simili: i capelli castani chiari, gli occhi verdi. Giulio sfoggiava i suoi primi denti. Mostrò la foto alla madre.
«Questa è Caterina, mia moglie. Fa la restauratrice, ed è bravissima nel suo lavoro. Lui è Giulio. Ora ha due anni e mezzo, questa foto è di qualche mese fa. Eravamo a casa di alcuni nostri amici. L’ho chiamato Giulio come tuo padre, ma penso te l’abbia detto Andrea» posò la foto sulle ginocchia della madre e poi tornò a sedersi. «Sono disposto a perdonarti per come mi hai fatto sentire e per tutto quello che mi hai detto. Possiamo fare finta di nulla» gli si era formato in gola. Alla fine, voleva solamente che sua madre gli volesse bene. Non pretendeva un rapporto affiatato come quello che Caterina aveva con la sua, oppure quel legame così forte che c’era tra lei e Giulio. Gli bastava solamente poter pensare che la propria madre c’era. Che lei accettava quello che era.
Maria non toccò nemmeno la fotografia. La guardava con la bocca serrata in una smorfia e gli occhi stretti. Alzò lo sguardo gelido verso il figlio.
«Ti piacciono sempre gli uomini?» bastò quella domanda per comprendere che a sua madre non interessava niente di lui. Non le interessava della carriera, della famiglia. Non era possibile tornare indietro con lei.
«Sì» il mento alto, gli occhi fissi su di lei.
«Allora non abbiamo nient’altro da dirci» concluse lei freddamente, posando la fotografia sul piccolo tavolo accanto a lei. Lui fremette. Tutta la rabbia che aveva accumulato in quasi dieci anni stava pian piano scivolando via da sé. Una situazione nuova si presentava. Indifferenza. Se lei non poteva accettarlo, allora lui avrebbe fatto finta che non esistesse. Puntò le iridi chiare in quelle della madre e sorrise amaramente. Stefano poteva finalmente sostenere un duello con sua madre. «Non mi vergogno di quello che sono, né delle relazioni che ho avuto. Ma se per te, tutto quello che sono, tutto quello che ho fatto è motivo di imbarazzo non abbiamo nient’altro da dirci» Si alzò, indossò gli occhiali e si avviò verso l’uscita. Ma prima si fermò sulla soglia della porta e mandò un’altra occhiata a quella donna.
«Mi dispiace per te. Hai scelto una vita solitaria» e se ne andò.
*
Prima di lasciare la città cercò il fratello. Si era liberato di un fardello ed era tempo che anche lui lo facesse. Andrea era chiuso nel suo ufficio. Seduto alla scrivania lucida stava giocando con la sua fede. Quando Stefano entrò senza bussare fece un salto impaurito. Prese la fede di fretta e la strinse in un pugno.
«Ho finalmente visto mamma» si sedette difronte al fratello: aveva una luce nuova negli occhi. Si sentiva una persona diversa. «Ci siamo chiariti una volta per tutte. Ti sbagliavi Andrè, a lei non importa niente di come sto, non le importa di Caterina, non le importa di Giulio. A lei non importa nemmeno di te. Allontanati da lei. Ti sta manipolando, ti sta trattando da fantoccio. Meriti più di tutto questo. Lo so»
Andrea non disse niente. Strinse ancor di più l’anello: il metallo premeva contro la carne della mano, si stava facendo male. Voleva veramente ascoltare Stefano. Voleva scappare. Voleva costruirsi una vita nuova proprio come aveva fatto lui. Lo voleva con tutto se stesso. Ma allo stesso tempo il fardello delle responsabilità lo avvolgeva, non gli lasciava via d’uscita. Il terrore di trovarsi senza niente lo immobilizzava. Come poteva anche solo pensare di lasciare una vita di agi per buttarsi nell’ignoto? Un nodo enorme gli impediva di respirare. Era dilaniato nel profondo.
«Non posso lasciare Napoli, così, come se niente fosse. Ho un’azienda da gestire. E poi, lei è sempre nostra madre. Non posso abbandonarla» gli costò molto dire quelle cose, ma era sicuro che fossero le più corrette. E furono inaspettate per Stefano. Incassò il colpo con un sorriso di circostanza. Non poteva fare altro per Andrea. Ormai non era più un bambino di quattro anni che contava esclusivamente su di lui. Aveva ventisei anni. Era in grado di decidere per sé.
«Bene. Allora non abbiamo nient’altro da dirci. Ti aspetto a Firenze, sempre che tu voglia venirci a trovare» allungò la mano e l’altro la strinse in maniera vigorosa. Forse troppo.
Quello che Stefano non sapeva era che Andrea non era mai uscito dal guscio di quel bambino di quattro anni. Aveva ancora bisogno del fratello maggiore, della sua linfa vitale. Non si sentiva in grado di procedere. Non si sentiva in grado di decidere per sé. E si era appena rinchiuso in se stesso, fingendo di avere il controllo. In realtà aveva solo paura.
*
Andrea non tornò in Toscana quell’estate. E nemmeno l’estate successiva. Si era caricato di lavoro, si era rinchiuso in una bolla di doveri. Aveva seguito ciecamente ogni cosa che sua madre gli ordinava. Aveva anche divorziato da Carla. Quando aveva saputo che lei si era risposata, si era rintanato ancora di più nelle scartoffie. Non aveva avuto più vita fuori da quell’ufficio. Era dimagrito, le guance si erano infossate, gli occhi azzurri erano opachi.
Poi una sera di ottobre aveva ricevuto una chiamata. Era di Stefano. L’ennesima nell’ultimo anno. Le aveva rifiutate tutte. La sua decisione era una ferita bruciante, ancora fresca dopo tutto quel tempo. Era tentato di rifiutare anche quella telefonata. Ma poi si ricordò essere il compleanno del fratello. E per un attimo pensò che forse potesse immergersi in quella bella vita che conduceva un’altra volta.
La voce dall’altra parte era quella di Caterina. Per un attimo l’immagine della cognata gli si materializzò davanti agli occhi: aveva i capelli raccolti, il vestito bianco, di cotone, proprio come la sera che avevano passato insieme a Giulitta.
«Ciao, Andrea, come stai? Stefano soffre la tua mancanza. Perché non vieni qualche giorno in su? Ti dobbiamo far conoscere una persona». Andrea era immobilizzato. Non riusciva a comporre una frase di senso compiuto.
«Chi?» la voce era strozzata: cercava di non lasciarsi andare, di rimanere stoico.  
«Lucrezia. È nata tre giorni fa» Caterina lo disse semplicemente, lasciandolo spiazzato. Come un flash gli venne in mente quando l’aveva conosciuta per la prima volta, proprio la sera in cui era nato Giulio. Ricordava ancora vividamente la gioia che l’aveva colto non appena aveva ricevuto quella notizia. Era salito in macchina, aveva guidato tutto il giorno.
«Sono contento per voi» la sua voce era gelida. Caterina incassò il colpo.
«Grazie. Be’, ci sentiamo allora» la delusione impregnava la voce roca della ragazza. Non attese nemmeno che lui dicesse altro. Chiuse la chiamata. E lui rimase a guardare il vuoto sentendosi inutile. Si sentì peggio di uno straccio. Capì di aver sbagliato tutto nell’ultimo anno. Avrebbe dovuto seguire Stefano. Avrebbe dovuto fare il salto.
Come un automa si diresse verso la macchina. Ma quella sera non tornò a casa. Imboccò l’autostrada.
*
Arrivò a Firenze in piena notte. La città era deserta. E ancora sconosciuta. Parcheggiò appena poté, preferendo camminare. Si sapeva orientare meglio. Si sentiva l’eco della musica da discoteca, delle voci. Un gruppo di ragazzi bevevano birra sulle scale davanti al duomo. Girò verso San Lorenzo: le strade cominciavano ad essere sempre più familiari. Il portone di casa di Caterina era all’imbocco di via San Gallo. Stefano era affacciato alla finestra a fumare. Aveva i capelli più corti, non indossava più gli occhiali. In un primo momento non riconobbe il fratello. Ma bastò un attimo in più. Il viso acquistò luce propria. Gli fece cenno di salire. Non lo fece arrivare neanche a metà scale che gli corse incontro per abbracciarlo.
«Non sai quanto mi sei mancato» affondò il volto nel petto di Andrea. Anche lui era al settimo cielo. «Anche a me sei mancato». Stefano gli sorrise. «Devi vedere Lucrezia» lo invitò a salire ancora, suggerendogli di fare piano. Ma quando entrarono Caterina e Lucrezia erano già in piedi. La donna si illuminò non appena vide Andrea. La trovò bellissima. Portava i capelli sciolti che ondeggiavano ad ogni suo movimento, e una vestaglia verde che faceva risaltare il colore dei suoi occhi. La bambina che teneva in braccio aveva un lungo ciuffo di capelli scuri. Caterina la teneva stretta al seno, cercando di farla smettere di piangere.  
«Andre la vuoi prendere?» nella voce di lei c’era una punta di sfinimento. Era la prima sera fuori dall’ospedale e si era già alzata due volte. Stefano faceva il possibile, ma Lucrezia non si calmava se non con lei. E darla al cognato sarebbe stato un azzardo, ma aveva bisogno di riposarsi. Lui accettò volentieri, portando avanti le braccia con un sorriso. Lucrezia era così simile a Stefano: il nasino leggermente ricurvo, la bocca carnosa. Strillava con una forza sovrumana, dimenandosi tra le sue braccia. Andrea iniziò a camminare per tutta la casa, avanti indietro; nel frattempo Caterina si era stesa sul divano.
Riuscì a calmarla solamente quando iniziò a canticchiare la stessa ninnananna che aveva cantato a Giulio. Quella volta Caterina seguì la melodia con interesse e partecipazione: gliel’aveva insegnata lo stesso Andrea, dichiarando che era l’unica cosa che si ricordava di suo padre. Solo quelle parole, quella voce profonda, morbida. Era troppo piccolo per ricordarsi altro.
Stefano rimase serio. Il padre se lo ricordava. Ricordava il suo sguardo torvo, scuro, la voce massiccia con cui gli dava ordini. Gli occhi scuri lo mettevano sempre a disagio. Ricordava anche come si comportava con sua madre. Era il padrone lui, e la sua famiglia doveva essere perfetta, perfettamente ai suoi ordini. Aveva sei anni quando era morto. E non aveva versato nemmeno una lacrima. Si era ripromesso che non sarebbe diventato come lui. Si sarebbe impegnato a diventare migliore. Con Andrea aveva un rapporto diverso. Per un attimo pensò che per Andrea fosse stato meglio crescere senza padre, piuttosto che con uno come quello. E l’immagine di suo fratello dondolare dolcemente Lucrezia glielo confermò.
«Andrè, quanto rimani?» l’altro alzò gli occhi sorridendo. «Il più possibile Ste’». E subito tornò a dedicarsi alla bambina.
*
2008, 3 dicembre
Firenze si stava imbiancando. Per la prima volta Giulio e Lucrezia vedevano la neve. Erano appiccicati alla finestra della grande sala nella casa dei nonni. Giulio teneva una mano dietro alla schiena della sorellina per evitare che si ribaltasse. Ma lei non aveva bisogno di supporti. Le manine erano ben strette allo schienale del divano e scrutava con attenzione il giardino che cambiava colore. Gli occhi azzurri, freddissimi, erano quelli di Stefano, così come i capelli con quel ciuffo castano che le ricadeva sulla fronte. Aveva iniziato a dire pochissime parole, ma era sempre molto chiara, diretta.
Caterina era seduta dietro a loro e lavorava. Stavano organizzando una cena per la sera dopo, un modo per riunire tutto il gruppo. E per festeggiare il ritorno di Mia. Ma non era impresa facile. Lei era sicura di aver superato la sua relazione con Max. E Caterina sperava che fosse veramente così, anche perché nel frattempo Max si era sposato con Anita e avevano avuto un figlio, Federico. Caterina aveva chiesto anche ad Andrea di raggiungerli, ma non aveva avuto ancora risposta. Sbuffò. Non l’aveva mai entusiasmata l’idea di fare l’organizzatrice, troppo stressante. Troppe responsabilità.
Il suo telefono squillò, rompendo la quiete. Numero sconosciuto.
«Caterina Pacini?» la voce dall’altro capo del telefono arrivava male. Era disturbata dal suono delle sirene. Il suo cuore iniziò a battere talmente forte che era sicura che le uscisse dal corpo. Iniziò a sudare freddo. Il peggiore degli scenari si stava lentamente costruendo davanti ai suoi occhi «Sì».
«Signora, suo marito ha avuto un incidente». Sei parole. Un disco si ruppe. Il suo cuore smise di battere per una manciata di secondi. La voce continuava a spiegare, ma Caterina capiva poco. Ormai sentiva solo un fischiare nelle orecchie che le impediva di recepire tutto quello che le stava attorno.
«Signora, ha capito? Suo marito ha perso la vita. Mi dispiace moltissimo» era troppo fredda quella voce. Era meccanica. Sembrava stesse recitando. Caterina sentì la terra mancarle sotto i piedi. In un attimo era stesa sul pavimento.
Quando riaprì gli occhi incrociò quelli di sua madre. Erano rossi, gonfi. Tremava. «Cate, Cate, come ti senti?» le teneva la testa in grembo e le accarezzava la guancia. Le lacrime della madre gocciolavano sul suo viso, ma lei non riusciva a sentirle. Non sentiva niente del suo corpo.
«Caterina quelli dell’ospedale hanno chiamato ancora, sei svenuta la prima volta. Ci sta parlando il babbo. Ti accompagna lui a Careggi, va bene? I bimbi te li tengo io» Caterina annuì in silenzio, con gli occhi vuoti, spenti. La sua mente era affollata, pesante, una potente emicrania le rendeva difficile anche tenere le palpebre aperte. Anche parlare le sembrava un’azione complicatissima.
Suo padre l’accompagnò fino all’ospedale. Varcò le porte dell’ospedale in silenzio, tenendo lo sguardo basso, fisso sulle punte delle scarpe.
Stefano era steso su un lettino gelido, in una stanza altrettanto gelida. Caterina sentì i brividi correrle lungo la schiena e farla scuotere tutta. Non riusciva a fare altro che guardare quel corpo da lontano. Quello non era suo marito. Non era l’uomo di cui si era innamorata.
Non vi si avvicinò. Non lo fece mai. Fu suo padre a parlare coi medici. Fu suo padre a confermare che quel cadavere era l’uomo migliore del mondo. Il suo uomo. La sua roccia. Caterina si mordeva le labbra talmente forte da farle sanguinare. Era bianca. Era debole.
Aveva paura.
Una paura che le attanagliava le ossa, che l’aveva resa non umana. Semplicemente vegetale. E quando il medico si zittì, lei girò i tacchi e uscì dall’ospedale. Voleva solo morire. Voleva andarsene con Stefano. La vita le sembrava inutile. Vuota.
Quando suo padre la raggiunse Caterina era seduta sulla panchina all’esterno.
«Caterina vuoi che chiami io la sua famiglia?» suo padre le aveva stretto la mano. Era fredda. La sua famiglia. Scosse la testa.
«Me ne occupo io. Chiamo subito» si alzò e attraversò la strada. Aveva bisogno di restare sola.
Andrea non rispose subito. Il telefono squillò a lungo prima che lei potesse sentire la sua voce.
«Caterì scusa se non ho risposto all’invito, sono stato un po’ indaffarato in questi giorni. Comunque sì, vengo. Parto domattina sul presto così passiamo il pomeriggio tutti insieme, eh? Che ne dici?» Lei inspirò profondamente. Comunicare la morte di Stefano l’avrebbe resa vera. L’avrebbe resa tangibile. E ne era terrorizzata.
Spiegò tutto ad Andrea con estrema calma, lentezza. Lui non disse niente. Non la salutò nemmeno. Attaccò il telefono senza farla finire di parlare. Il vuoto dentro lei si stava piano piano riempiendo di viscido dolore.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


 
Caterina non si alzò dal letto per due giorni. Non si rese conto del passare del tempo. La finestra aperta il 5 dicembre mattina rivelava quello che accadeva fuori. Firenze fuori continuava nella sua vita indisturbata, indifferente, spocchiosa. La neve candida la rendeva ancora più regale. Caterina si rigirò nelle lenzuola e guardò il lato vuoto a fianco a sé. Non avrebbe mai pensato che dormire sola, sapendo che lui non sarebbe mai tornato, sarebbe stata la cosa più difficile. La vocina di Giulio le arrivò lontana. Eppure, era proprio davanti a lei, al lato del letto. I capelli color miele ritti in capo, gli occhi ancora appiccicati dal sonno.
 «Mamma posso venire qui con te?» Caterina lo fece accoccolare contro di sé e se lo strinse al petto. A sentirlo così vicino la rilassò. Lui sprofondò nell’abbraccio della madre.
«Il babbo?» lo domandò con un tremolio della voce. Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Sua madre era svenuta, non si alzava dal letto, i nonni non facevano altro che disperarsi. E poi suo zio Andrea era arrivato dal niente e non gli parlava come al solito. Anzi lo guardava a lungo, e poi piangeva.
Caterina inghiottì a fatica. «Sei un bimbo grande giusto?» gli prese il mento e lo obbligò a guardarla. Il verde dei suoi occhi era così profondo, così bello. Giulio annuì.
«Bene, ne sono certa» prese un profondo respiro e pensò quale fossero le parole più adatte. Pensò a tutti quei bei discorsi melensi che aveva sentito nei film, ma le sembrarono tutti eccessivi. E allora pensò che la semplicità potesse essere la risposta più giusta. «Il babbo non torna più. Ora siamo solo noi e Lucrezia» gli sorrise, ma lui era profondamente turbato. Le sopracciglia chiare avevano formato un cipiglio.
«A Lucrezia come gli si dice?» Caterina rimase senza parole. Lucrezia. Quella che ne avrebbe sofferto di più. Almeno loro potevano dire di averlo conosciuto, mentre lei non avrebbe mai potuto farlo.
«A Lucrezia lo diremo con calma» disse piano lei, stringendolo ancora.
*
Caterina si preparò con estrema lentezza. Osservò a lungo il suo volto, bianco, smunto. Le occhiaie profonde, i capelli spenti. Prese la sua bustina con i trucchi in mano ma lo riposò subito. Non aveva le forze. Non aveva le forze per fare niente. Andrea entrò in camera. L’aspetto non era curato come al solito. Aveva la barba di qualche giorno. Cercò il viso di Caterina.
«Come facciamo Andrè?» la voce della donna era debole, soffocata. Andrea aveva un groppo in gola che non lo faceva respirare. Si limitò ad alzare le spalle. Fece qualche passo nella stanza e il suo sguardo si posò sul comodino di Stefano. Libri, riviste, gli occhiali e il suo profumo. Era rimasto tutto immobile. Era stato Stefano a buttare alla rifusa quelle cose, senza cura. Ed erano diventati dei reliquiari.
«A pensare che qualche giorno fa era qui, tranquillo, a lavorare all’ultimo libro mi prende un male che non mi fa respirare. Non vale. Non vale» lei si accasciò sulla sedia della scrivania. Non poteva andare al funerale. Non poteva dirgli addio. Non si sentiva pronta.
Andrea le prese la mano tra le sue. Tremava. Anche lui non voleva crederci. Anche lui voleva rimanere nella convinzione che Stefano non fosse morto.
«Penso che sia la cosa più giusta andare a salutarlo per l’ultima volta» lo disse con poca convinzione. Non faceva altro che chiedersi perché, perché proprio Stefano, perché lui che aveva una vita così piena? Avrebbe preferito trovarcisi lui stesso in quell’auto.
Andrea e Caterina evitarono di guardarsi negli occhi, tenendo il volto in basso.
«Sì, hai ragione» Caterina si alzò e si lisciò l’abito. «Gli dobbiamo questo» fece alzare anche il cognato.
*
Maria arrivò quando ormai la cerimonia era finita. Era apparsa nella chiesa semivuota. Il rumore dei suoi tacchi rimbombò. Ad Andrea, seduto su una delle panche in fondo, gelò il sangue a sentire quel suono così terribilmente familiare. Ma non riuscì a fare niente se non seguirla con lo sguardo. Maria raggiunse Caterina all’altare e le dette due freddi baci sulle guance. Mormorò delle condoglianze per poi dedicarsi solamente a Stefano. Cercava di trattenere le lacrime, ma era tutto troppo doloroso. Averlo lasciato andare via, lontano da lei, l’aveva ridotto così, l’aveva ucciso. Sentiva la colpa gravarle sulle spalle.
Caterina non fiatò. Si limitò ad osservare torva quella donna allo stesso tempo sconosciuta, ma anche così dolorosamente familiare. Maria stava pregando sottovoce.
Quando ebbe finito, lanciò un altro sguardo contrito a Caterina e si avviò all’uscita. Andrea la aspettava appena fuori dalla porta.
«Ma’» le prese il polso e la invitò a seguirlo in un angolo più riparato dallo sguardo di tutte quelle persone presenti. Caterina li seguì.
«Maria, sono grata che sia venuta» le tese la mano, pronta a fare la pace. Ma la donna non si mosse.
«Era pur sempre mio figlio. Dovevo salutarlo, nonostante avesse scelto una vita disonorevole» indossò nuovamente gli occhiali. Fece un passo in avanti, ma Caterina le impedì di procedere.
«Venga a casa, a conoscere i bambini. Per favore. Stefano aveva sempre voluto che conoscessero anche la loro famiglia napoletana» cercò di sorridere, ma l’altra sembrava una statua.
«Ho un treno da prendere. Ho degli impegni a casa mia. Non posso perdere altro tempo» si fece posto e si allontanò. Non c’era più niente da fare. O quasi.
Andrea le corse dietro. «Ma’, per favore, vieni a vedere i bambini. Lucrezia è così simile a Stefano» le aveva preso la mano, aveva cercato di tirarla dietro. Maria era però irremovibile.
«Andrè non perdere tempo con questa gente. Non è la tua famiglia. Io sono la tua famiglia. E poi non fare finta di essere responsabile. Non sai vivere lontano da me, lo sappiamo entrambi. Lo si è visto con quello che è successo con Carla. Mi porto ancora la vergogna appresso. E dovresti farlo anche te, fesso. Ci vediamo a casa».
Da quelle parole Andrea ne uscì completamente annichilito. Finalmente la realtà gli era sbattuta in faccia. Finalmente poteva vedere chiaramente attorno a sé. Guardò la madre allontanarsi e in quel momento prese la decisione più rivoluzionaria di tutta la sua vita.
*
Quella sera a casa di Caterina si erano riuniti tutti i suoi amici. Cercavano in ogni modo di tenerle compagnia, farla stare un po’ meglio, ma lei si sentiva sola. Pensava solamente al futuro che le si prospettava: avrebbe dovuto crescere due figli completamente da sola. Non importava quanto tutte quelle persone potessero essere presenti, a loro sarebbe sempre mancato un pezzo. A lei sarebbe sempre mancato un pezzo. E nessuno riusciva a comprenderlo. O semplicemente non volevano pensarci. La guardavano con gli stessi occhi con cui si guarda una statua di cristallo in bilico. Un elemento pronto a cadere, a frantumarsi. Non era ancora riuscita a piangere. Anche piangere sarebbe significato renderlo vero e quindi tutto quello che la impauriva del futuro si sarebbe reso ancora più tangibile.
Approfittò di un momento di concitazione per sfuggire agli occhi di Anna, sua cognata. Si rifugiò in camera da letto, aprì la finestra e inspirò a fondo l’aria fredda di quella sera dicembrina. Un gruppo di studenti passava sotto casa, dirigendosi a lezione. Chiudendo le palpebre poteva tornare a quel periodo felice della sua vita. Quel periodo in cui aveva conosciuto Stefano. Per un attimo pensò che se non l’avesse mai conosciuta probabilmente non sarebbe morto. Non avrebbe dovuto fare quella strada poco illuminata col buio e con la neve. La sua auto non avrebbe sbandato. E lui sarebbe stato vivo.
Ma quello Stefano non sarebbe stato il suo Stefano.
E allora si sentì fortunata ad averlo conosciuto, ad aver condiviso con lui i dieci anni migliori della sua vita. Di aver condiviso molte gioie. Di averlo amato, di avere sentito il suo profumo sulla sua pelle a lungo.
Per la prima volta, Caterina pianse.
*
Rimase chiusa in camera finché non sentì andarsene tutti. Non aveva voglia di incontrare ancora gli sguardi colmi di pietà che le relegavano da giorni. Non voleva stare anche peggio di come stava. Giulio era seduto a tavola con un enorme ciotola di cereali e mangiava con gusto. Accanto a lui, Andrea era crollato addormentato, con la testa sul tavolo stesso. Lucrezia, nel suo seggiolone, sgranocchiava dei biscotti.
«Mamma, lo zio si è addormentato come fa sempre Lucrezia» aveva constatato giocosamente Giulio. Caterina accennò ad un sorriso. Si mise a sedere con loro, scrutandoli. Avrebbe voluto essere leggera come loro. Avrebbe voluto smettere di pensare, di angosciarsi, di mangiare una tazza di cereali senza pensare a come sarebbe stata la sua vita da quel momento. Ma solamente preoccupandosi di come impegnare la serata, se guardare la tv o giocare.
Andrea si scosse improvvisamente, accigliandosi. Stava sognando. Un incubo. Caterina posò allora gli occhi su di lui. Era un fantasma. Il volto pallido come non era mai stato, le prime rughe che gli solcavano il volto si erano rese improvvisamente più profonde. Per la prima volta dopo giorni era riuscito a dormire.
Un’altra scossa.
Si svegliò. Aveva le palpebre pesanti, le occhiaie profonde, i capelli scomposti.
«Buongiorno zio» lo aveva salutato dolcemente Giulio, posando la sua manina liscia su quella nodosa dell’uomo, facendolo sorridere. Un sorriso che era costato un’immane fatica.
Spostò lo sguardo su Caterina: era stanca, scostante, non riusciva nemmeno a reagire alle richieste di attenzione di Lucrezia. Abbassò le palpebre e pianse in silenzio. Andrea le prese il volto con la mano, facendo in modo che lo guardasse. Ma Caterina si abbandonò a quel tocco, fingendo che quella mano fosse quella di Stefano. Che ci fosse lui a consolarla. Crollò nel petto di Andrea, ora piangendo forte, rumorosamente. Tutto quello che si teneva dentro da giorni stava tornando fuori e lei voleva sentirsi di nuovo bene. Lui era in una situazione che non si sentiva in grado di gestire. Pesanti lacrime uscirono anche dai suoi occhi: ma erano diverse da quelle della donna. C’era la rabbia nelle sue.
Quando Caterina si rese conto dell’abbraccio, cercò di ricomporsi. «C’è da mettere i bimbi a letto» disse frettolosamente mente si puliva il viso. Prese Lucrezia in braccio e uscì dalla cucina.
*
Caterina ritornò in cucina molte ore dopo, guidata dalla fame. Erano giorni che non mangiava. Andrea si era nuovamente addormentato sul tavolo: si sentiva un estraneo in casa di suo fratello. Eppure, era quella che più si avvicinava ad una vera e propria casa. Non se la sentiva di tornare a Napoli, da sua madre. Non dopo tutto quello che gli aveva detto. Ma il suo sonno era leggero: i passi di Caterina lo fecero alzare di scatto.
«Come mai ti sei messo qui? Potevi andare nella camera degli ospiti» constatò piano lei, evitando il suo viso. Andrea alzò le spalle. Come spiegarle la sua situazione? Ma soprattutto, come avrebbe fatto a dirle tutto quello che era successo il giorno? Che voleva restarle accanto perché era l’unica cosa che più gli ricordava Stefano? Che quella casa lo faceva sentire ancora vicino? Come poteva dirle che anche il solo sentire il profumo del fratello là dentro lo faceva stare appena meglio?
Non sapeva che per Caterina era lo stesso. Rivedeva il marito negli occhi di Andrea. E il sapere che lui se ne sarebbe andato nel giro di qualche giorno l’affossava ancora di più. Voleva chiedergli di rimanerle accanto. Ma la vergogna era troppo forte, come era troppo forte il terrore che lui potesse dirle di no.
Perciò rimasero in silenzio a lungo, con i propri tormenti interiori, le loro tensioni, i loro timori. Non si guardavano, non si avvicinavano. Erano come due isole. Solitarie, silenziose, frammentate.
Solo quando Andrea fece per alzarsi, Caterina gli prese la mano, quasi d’impulso. I loro sguardi si allacciarono. Avevano bisogno l’uno dell’altro. E non necessitavano parole per dirselo. Parlavano la stessa, silenziosa, lingua.
*
I primi due mesi furono funesti. Caterina apprese che la vita senza Stefano era ben peggiore di quanto avesse mai potuto immaginare. C’era costantemente un vuoto da colmare. C’era costantemente una voce che non si sentiva. Non si sentiva più, non si sarebbe mai più sentita. Era solamente una melodia che risuonava nella sua mente continuamente. Certe volte diventava talmente assordante da estraniarla dal mondo che le girava attorno.
Andrea temeva quei momenti. Era come se Caterina scomparisse, le scivolasse dalle mani. Non recepiva più niente, non comunicava. I suoi occhi diventavano oscuri, terribili, la bocca si serrava. Anche lui avrebbe voluto sparire, ma sulla sua coscienza pesavano anche i destini dei due bambini. Si era caricato dell’immane responsabilità di aiutare a crescere i due figli di suo fratello.  
Piano piano era diventato lui l’unico in grado di tranquillizzare Lucrezia nelle sue crisi di pianto, o risollevare l’animo di Giulio quando d’improvviso si ammutoliva. E occuparsi di loro, della casa, gli impediva di impazzire, gli impediva di pensare costantemente a Stefano.
Gestiva poi l’azienda di famiglia da Firenze, appoggiandosi anche a Bruno, l’amministratore rimasto a Napoli.
Anche Caterina cercò di soffocarsi con il lavoro. Accettò una commissione dopo l’altra, occupandosene fino a tarda notte. Dormiva poco, dormiva male. Non vedeva quasi più i suoi amici, la sua famiglia. Praticamente non uscì di casa per due mesi.  
Erano diventati degli automi.
Ma il giorno peggiore si prospettava essere quello del compleanno di Giulio. Caterina lo andò a svegliare, soffocandolo di baci, ma lui non rispose. Rimaneva sotto le coperte, il viso coperto di lacrime.
«Non voglio fare niente senza il babbo» mugolava in maniera così struggente che a Caterina si spezzò il cuore. Tentò di convincerlo in tutte le maniere, ma lui non accennava a muoversi. Andrea si affacciò alla porta con Lucrezia in braccio. «Hai bisogno di una mano?» si avvicinò, facendo sedere la bambina accanto a sé, sulla coperta, ai piedi del letto. Lei gattonò verso il fratello e gli dette un bacio sul naso. Rimase lì, sdraiata, sorridendogli, e guardandolo con una profonda ammirazione che le faceva brillare gli occhi azzurri. C’era tutto Stefano in quello sguardo. Lo capirono tutti, ma soprattutto lo capì Giulio. Gli parve avere il padre davanti. A Caterina vennero le lacrime agli occhi. Fino a quel momento non si era resa conto di quanto Lucrezia avesse rubato al padre.
«Andiamo a prendere le paste al bar, eh Giulietto?» Andrea tirò giù le coperte e finalmente il piccolo non si oppose, anzi saltò al collo dello zio. Era finalmente il bambino vitale che era sempre stato.
Passarono la giornata tutti e quattro insieme, giocando, scherzando, come se niente fosse. Per la prima volta dopo parecchio tempo tornarono a ridere. Tornarono a vivere.
*
Quella sera Andrea e Caterina rimasero soli in salotto, stesi sul divano, con le coperte sulle spalle. Si evitavano, in religioso silenzio.
Ma ad un certo punto Caterina aveva alzato gli occhi dalla sua lettura e aveva guardato Andrea vagamente divertita. Come un lampo le era venuta in mente la sera della nascita di Giulio, quando si conobbero per la prima volta.
«Ma te lo ricordi che avevo paura di te?» Andrea la osservò in maniera interrogativa. Poi sembrò capire e gli scappò una risata.
«Temevi che fossi un camorrista» ricordò, chiudendo il libro e avvicinandosi a lei. «Solo quando è arrivato Stefano ti sei un poco rasserenata, ma mica tanto eh?» Caterina ridacchiò. Effettivamente la figura di Andrea nella penombra le aveva fatto venire i brividi.
«Sembravi un killer. Col giubbotto di pelle, lo sguardo cattivo, così» aggrottò le sopracciglia con una smorfia che cercava di imitarlo, ma fallì ed entrambi si misero a ridere. Ma il riso scemò tanto velocemente come si era creato. Lo sguardo di Andrea si perse davanti a sé. Per entrambi l’immagine di Stefano si era resa immediatamente palpabile.
«Era così felice di vederti. Aveva paura di essere diventato un senza famiglia» disse Caterina, scrutando il profilo dell’uomo. «Sai che tuo fratello aveva un’ammirazione profonda per te? Ti credeva tutto quello che lui non era: un gran lavoratore, serio, uno con la testa sulle spalle» Andrea ridacchiò, ora guardandosi le mani. Non riusciva a credere che Stefano, che aveva tutto quello che lui sognava, lo invidiasse, anche se parzialmente.
«Era un’immagine distorta di me» asserì piano, quasi parlando a sé.
«Io non credo sai? Sei uno che ama prendersi cura degli altri, sei ligio al dovere, ma non obbedisci ciecamente. E sai come lo so? Per tutto quello che stai facendo per noi» posò la mano sulla spalla di Andrea e gli sorrise dolcemente. Lui girò il volto verso di lei, perdendosi nel brillare verde dei suoi occhi. Un luccichio, invece, illuminò i suoi. E Caterina se ne rese conto. Ne ebbe paura. Si alzò di scatto, piegando la coperta.
«Via, è ora di andare a letto, buonanotte» e se ne uscì in maniera frettolosa.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


I mesi che seguirono furono determinati da profondi alti e bassi. Caterina riusciva ad alternare momenti di forte carica, di energia, voglia di vivere, ad un profondo malessere che le impediva ad avere rapporti sociali. Perfino occuparsi dei figli era una sfida. Anche per Andrea non era sempre facile. Soprattutto gestire i bambini, diventati sempre più irascibili e incontrollabili.
La prima domenica di aprile, un timido e tiepido sole fece capolino, illuminando le strade petrose di Firenze. Andrea si era affacciato alla finestra, con un caffè in mano e scrutando la luce posarsi sulle case, sulle vie. Per un attimo desiderò essere ancora a Napoli, con il mare cristallino brillare, un sole caldo, che brucia la pelle. L’aria era fin troppo inquinata. Fin troppo per i suoi gusti.
Quei pensieri innocenti subito divennero pressanti e il desiderio di vedere il mare fu improvvisamente insostenibile. In quattro mesi non era mai uscito veramente dalla città. Andò a bussare in camera di Caterina sperando che fosse in piedi. Un mugolio sommesso rispose.
«Caterì, se oggi andassimo al mare? Una bella passeggiata, far respirare un po’ di aria buona ai bambini» lei si alzò poggiandosi sui gomiti.
«Non lo so, io non me la sento. Vai tu con i bambini» si gettò nuovamente tra le coperte e affondò la testa nel cuscino. Andrea rimase qualche secondo in piedi alla porta, tentato dall’idea di convincerla. Il timore lo bloccò e lo convinse ad uscire, in silenzio.
Al mare andarono loro tre. Era impossibile distinguere quale fosse il più emozionato. Lucrezia canticchiava gioiosa in una lingua inventata, dimenandosi tra le braccia dello zio, mentre Giulio guardava ammirato fuori dal finestrino. I luoghi correvano velocemente davanti a sé ed erano tutti così splendidamente diversi, nuovi.
Il mare poi li fece emozionare come non mai. Fu difficile trattenerli da non andare dentro l’acqua. In particolar modo Lucrezia ne sembrava particolarmente attratta. Si agitava nelle braccia dello zio affinché lui non restasse fermo sul telo steso sulla sabbia, ma perché la portasse là, a vedere le onde toccare dolcemente la riva e ritirarsi. Li portò sulla battigia, là dove l’acqua bagnava le punte dei piedi. La gioia che animava la bambina era la stessa che aveva sempre visto nel proprio fratello. Lucrezia lo invitava a imitarla, a zampettare nell’acqua bassa, schizzandosi i pantaloni, ma ridendo di gusto. Anche Giulio li seguiva, finalmente spensierato.
Negli anni Andrea avrebbe pensato spesso a quel momento: un misto di nostalgia, dolore e dolcezza l’avrebbe avvolto, facendolo rifugiare in una bolla da cui non avrebbe mai voluto uscire.
*
Giugno
Da un paio di mesi, Caterina aveva imparato a rifugiarsi in un angolo del giardino di Boboli. Là, immersa nel verde, il profumo dei fiori che la stordivano, poteva sentirsi fuori dal mondo. Poteva fuggire, poteva fingere di non avere compiti, responsabilità. Poteva fingere di non essere vedova. Passava il tempo facendo schizzi su un taccuino che le aveva regalato Stefano e che non aveva mai usato.
Un pomeriggio fu raggiunta da Andrea con i bambini. Un puro caso. Lo vide arrivare da dietro un albero, Giulio tenuto a poca distanza, Lucrezia per mano. Doveva piegarsi un po’ per poter raggiungere la manina paffuta della nipote e forse sarebbe stato più comodo tenerla in braccio, ma lei non voleva sentire ragioni. Le piaceva poter fare come i grandi, come suo fratello. Giulio si illuminò nel vedere la madre.
«Scusa Caterì, non sapevo che tu fossi qui» Andrea era sinceramente dispiaciuto. Sentiva il bisogno di uscire, di far uscire i bambini, farli divertire all’aria aperta. Caterina in un primo momento si era lievemente innervosita, ma poi aveva eclissato. Non c’era motivo. Fece cenno di lasciar perdere e invitò Andrea a sedersi accanto a lei sul prato.
«Hai fatto bene a portarli qui. A Giulio piaceva venirci con Stefano» ricordò Caterina, continuando a disegnare con mano svelta, sicura. Ritraeva ciò che vedeva davanti a sé, le stesse distese di prato, gli stessi alberi, le stesse colline dietro. S’intravedeva perfino la cupola in lontananza. Ma in primo piano c’era un uomo seduto che sorrideva. Sembrava essersi messo in posa per una fotografia. Aveva i capelli scuri tenuti lunghi, gli occhiali e con l’indice teneva il segno di un libro che stava leggendo. Niente era cambiato nello sfondo, ma davanti a loro mancava il personaggio principale. Il protagonista. Dello schizzo e della loro vita. Caterina e Andrea erano semplicemente personaggi secondari.
Non parlarono: rimasero solo seduti uno accanto all’altro, ognuno occupato dai propri tormenti interiori. Andrea giocava con Lucrezia, mentre Giulio cercava di imitare Caterina.
Si rivolsero le prime parole sulla via del ritorno a casa, quando i bambini erano crollati tra le loro braccia e camminavano tra le vie di Firenze che splendeva sotto la luce dorata del tardo pomeriggio.
«Pensavo di andare a Giulitta quest’estate. Farà bene a loro cambiare un po’. La città diventa invivibile. Hanno bisogno di essere liberi» comunicò Caterina. Era stata una decisione che le era costata ben poco. Ritornare in quei luoghi sarebbe stato fare un tuffo nel passato, un ritornare ai momenti felici della sua vita. E poi non ce la faceva a vivere in quella casa che le ricordava Stefano. non ce la faceva a stare in quella città che nascondeva in ogni suo angolo un istante della sua vita passata accanto al marito. Le avrebbe fatto bene.
Andrea si limitò ad acconsentire. Avrebbe acconsentito a tutto pur di vederla stare meglio. Anche se poco.  
*
Caterina si svegliò la mattina del suo compleanno con la sola voglia di dormire ancora, almeno finché non fosse stato il giorno dopo. Erano passati solamente cinque anni da quando Stefano le aveva chiesto di sposarlo, ma sembrava passata una vita. Avevano deciso di vivere insieme, di invecchiare insieme. Ma lui non era riuscito a stare al patto. Se ne era andato troppo presto. Era quasi arrabbiata per questo.
Si alzò e aprì la finestra. La vallata si apriva davanti a lei, l’aria frizzante dell’alba la colpì, facendola rabbrividire. Non era la stessa casa che avevano sempre affittato. Era nel paese, il giardino era molto più piccolo, ma andava bene comunque. Per Giulio era meglio perché poteva trovarsi meglio con i loro amici. Lucrezia invece aveva fatto amicizia con la vicina, un’anziana signora di Milano, con la passione per i dolci. Così la bambina passava interi pomeriggi a casa sua, osservando i movimenti veloci di Ottavia, scattanti, estremamente abili. Era stato difficile per Caterina lasciare la figlia con quella donna, perciò per qualche settimana la seguiva, la teneva stretta in braccio, controllandola con sguardo ansioso. Non si fidava di nessuno, solo di Andrea. Ma poi si era sciolta, convinta dalla bontà dell’anziana. Così nei momenti di solitudine poteva dedicarsi completamente al lavoro che le avevano commissionato alcuni signori del posto. Si stava pian piano rasserenando.
Ma quel giorno avrebbe preferito che non arrivasse comunque. Non aveva voglia di festeggiare niente. Il suo compleanno l’anno precedente era stato perfetto. Chiudendo gli occhi poteva rivivere ancora dei momenti di inclassificabile gioia: era circondata da tutte le persone che amava, amici, parenti, ma soprattutto lui. E lui quell’anno non c’era. Non ci sarebbe più stato.
Giulio entrò in calma tenendo stretto tra le dita un muffin. Andrea apparve alla porta con Lucrezia in braccio. Avevano tutti lo sguardo assonnato, ma sorridevano. Cantarono sottovoce, all’unisono. Per quell’attimo Caterina si dimenticò di tutti i suoi pensieri, di tutti i ricordi legati a quel giorno. Soffiò sulla candelina, desiderando che quella gioia, quella leggerezza, fossero eterne.
*
Quella sera trovò il regalo di Andrea sul cuscino. Fece passare la carta ruvida sulle mani, sfiorò il fiocco rosso fuoco. L’aprì con delicatezza. Un taccuino e una scatola di matite. Un biglietto le accompagnava.
Per una nuova vita, una vita piena di colore
Caterina si rese conto tardi di sorridere tra le lacrime. Quella doveva essere la sua nuova ripartenza.
*
Nei mesi successivi, Caterina riprese a vivere. Un passo alla volta, piano piano. Non fu sempre facile. Ogni tanto sentiva la voce di Stefano e quello la faceva estraniare dal mondo. Era come un canto delle sirene. Lei ne rimaneva ammaliata, attratta, non recepiva niente. Entrava in un luogo in cui era sola, sola con lui. Lo poteva percepire, lo poteva toccare. Diventava la sua isola felice.
Ma poi arrivò dicembre, accompagnato da un vento forte, che non permetteva di rimanere in piedi. E quel dicembre Andrea non ce la fece a rimanere in piedi. Era passato un anno. Lui non era ancora riuscito a colmare quella mancanza.
La mattina del 3 dicembre scomparve. Lasciò un biglietto a Caterina e poi prese un treno. Il vento glaciale era sferzante, un guerriero imbattibile. Ma lui non si ferì. Il dolore che si portava dentro era più forte. Era arrabbiato con se stesso. Credeva di essere riuscito a metabolizzare, ad andare avanti con la propria vita, ma non si era reso conto di aver solamente vestito gli abiti del fratello per annullare le distanze tra loro. E tutta l’angoscia che aveva soffocato per un anno era venuta fuori quella notte, all’improvviso, prendendolo alla sprovvista e asfissiandolo. Sentiva il bisogno di respirare.
Il mare davanti a sé era burrascoso, scuro, terribile. Non c’era nessuno sul pontile, solo lui. Se ne stava seduto su quella panchina fredda tenendo lo sguardo fisso sulle enormi onde. Il forte odore di iodio perforò le sue narici e lo inebriò fino a fargli quasi perdere i sensi. Dal cielo un fragore risuonò prepotentemente. Ma lui non lo sentì. Cercava in ogni modo di avvicinarsi a Stefano. Quel giorno più del solito. Rimase là seduto per delle ore, non lo mosse niente, nemmeno l’acqua scrosciante.
Dei tacchi accompagnarono il rumore della pioggia che ticchettava sul terreno. Poi una figura si piazzò davanti a sé. Caterina era avvolta dall’ombra: i suoi capelli erano improvvisamente scuri, gli occhi sembravano pozze di pece. Stringeva l’ombrello talmente forte da renderle le nocche pallide.
«Andrè, che stai facendo?» il tono pretendeva di essere spesso, minaccioso, ma era solo impaurita. Aveva paura che anche lui la lasciasse. Era stato uno dei suoi principali punti di riferimento in quell’ultimo anno. Era anche grazie a lui se aveva ricominciato a respirare. Lo aveva creduto invincibile. E quello che si trovava davanti in quel momento non era lo stesso uomo che le era stato accanto nell’ultimo anno. Era un fantasma. Le si era sbriciolato in un momento, proprio davanti ai suoi occhi. Tutte le sue ansie erano venute a galla e l’avevano sopraffatto.
«Ho finto Caterì. Io non sono forte. Non ce la faccio senza Stefano» la rabbia lo stracciava, faceva in modo che tirasse fuori il dialetto più stretto, sporco, incomprensibile per Caterina. «Quando era stato mandato via di casa era diverso. Sapevo che lui c’era, anche se lontano. Ma ora dov’è? Ora è morto, ora non torna. E non va bene, non va bene» buttò la testa tra le mani e cercò di contenere la rabbia. Caterina gli si mise accanto, riparandolo con il suo ombrello, anche se ormai si era bagnato fino all’osso. Tremava.
«Andrè devi imparare a chiedere aiuto. Ti sei rintanato in te stesso. Ti sei occupato di tutto, senza lasciare spazio alle tue emozioni, impedendo loro di venire fuori. Stai implodendo. Ci dobbiamo sostenere a vicenda. Non possiamo crollare. Non credo che lui ci avrebbe permesso di richiuderci in noi stessi» gli prese il viso con la mano e lo invitò a guardarla. Fu doloroso leggere in quelle iridi azzurre tutto quel male che credeva solamente proprio. «Siamo una squadra fortissima noi, no? Dobbiamo portarci a casa la Champions». Gli prese la mano e la strinse con forza. Lui si abbandonò a quella stretta, sicuro di aver trovato un porto sicuro
Rimasero su quella panchina ancora a lungo, guardando il mare in tempesta, una tempesta che si portavano dentro.
*
Marzo 2010
Caterina si schiarì la voce, guardando dubbiosa i volti curiosi delle sue amiche. Aveva persino paura delle sue stesse parole. Prese un respiro profondo.
«Un uomo mi ha invitato ad uscire» gettò tutto fuori, velocemente, come si fa quando si strappa un cerotto. Veloce e indolore. Ricevette due reazioni contrastanti. Se Mia sembrò contenta, Viola ci andò con i piedi di piombo.
«Cate non penso che noi siamo le persone giuste per dirti cosa fare. Credo che tu debba quello che preferisci, quello che ti senti. Se non ti senti, rifiuta. Capirà» non faceva una piega. Ma Caterina non riusciva a comprendere se era pronta o meno. Non riusciva a distinguere il dolore che la teneva salda all’immagine di Stefano dalla sua naturale, intrinseca paura di aprirsi. «Io non lo so. È passato un po’ di tempo, ma non so se sono ancora pronta a rimettermi in gioco» parlò sinceramente.
«E allora diglielo. Se ci tiene ti darà il tuo spazio. Sennò vuol dire che hai fatto la scelta più giusta» Viola le accarezzò la mano, riservandole un sorriso dolce, contagioso.
*
Quando rientrò a casa erano le dieci passate. C’era un silenzio quasi inquietante. Si aggirò per le stanze, cercando Andrea o i bambini. Li trovò addormentati sul proprio letto. Lucrezia era nel mezzo e stringeva al petto il braccio dello zio. Giulio invece dava loro le spalle, abbracciato al proprio pupazzo e il dito che gli stava scivolando dalle labbra. Caterina sbatté due volte le palpebre come se volesse catturare quell’immagine, renderla una fotografia che si sarebbe portata sempre dietro. Si stese accanto a Giulio, passandogli la mano tra i capelli fini, accarezzando le guance piene, morbide. Lui si scosse a quel tocco.
Lo sguardo della donna scivolò poi alla figlia. Era tranquilla tra le braccia tra Andrea. Lo era sempre stata. Avevano un rapporto speciale quei due. Quando lo guardava, negli occhi di Lucrezia era facile leggerci una profonda ammirazione. Era la sua roccia. Era il suo punto di riferimento. Anche lui aveva una predilezione per la bambina, molto probabilmente per i caratteri che stavano diventando sempre più affini.
Quella sera, osservandoli addormentati, Caterina, per la prima volta, si accorse anche della profonda somiglianza che li avvicinava. Il colore degli occhi di Lucrezia era lo stesso pungente azzurro che aveva Andrea. Ma non era solo una questione di somiglianza fisica. Lei prendeva dallo zio anche le caratteristiche più forti, come la testardaggine, il forte senso del dovere, ma anche una profonda sensibilità che nascondeva sotto una corazza. Allungò il braccio per darle una carezza: la mano corse dal naso fino alla schiena, finché non si scontrò col corpo di Andrea. Al contatto una leggera scossa partì dalla punta delle dita, dipanandosi dentro di sé. Sorrise.
Stavano bene.
*
Luglio
Caterina organizzò una piccola festa a sorpresa per il trentesimo compleanno di Andrea. Erano tornati anche quell’anno nella casa nel cuore di Giulitta. La vicina milanese l’aveva aiutata con la torta. Aveva invitato i suoi amici. Aveva convinto Massimo a tenere Andrea fuori di casa il più possibile. L’aveva portato al mare. Gabriele si era occupato di preparare da mangiare per tutti. Lei invece si era impiegata nel preparare quel piccolo giardino con festoni e palloncini.
Stava osservando orgogliosa quello che aveva organizzato quando aveva sentito la voce profonda di Andrea arrivare dal parcheggio. Si nascosero, ma furono sabotati dal ridacchiare divertito di Lucrezia. Fu lei la prima a saltare al collo dello zio per fargli gli auguri. Lui era al settimo cielo. Non riusciva a smettere di sorridere. Gli facevano male le guance. D’ogni parte si girasse c’era qualcuno pronto a salutarlo, a baciarlo, ad abbracciarlo. Ancora non riusciva a comprendere come fosse stato in grado di meritarsi tutto quell’affetto. Ma con lo sguardo cercava solamente una persona.
Caterina lo osservava contenta dal fondo del giardino. Andrea si meritava tutto quello e tanto altro. Organizzare quella piccola festa era solamente una parte del pagamento.
L’abbracciò per ultima. Lei circondò il suo collo, lui avvolse le sue braccia attorno alla vita. Andrea aveva addosso il profumo pungente di Stefano. Lo portava ogni giorno indosso da più di un anno. Era il suo modo per averlo sempre vicino. A Caterina brillarono gli occhi dalle lacrime. Lui le mormorò un grazie.
«E’ il minimo che potessi fare» gli sorrise, facendo passare il pollice sulla fossetta che gli solcava la guancia destra. A quel tocco così intimo, loro sguardi s’intrecciarono per un momento, un momento lunghissimo. Un momento interminabile. E bellissimo.
*
Quando tutti se ne andarono, rimasero solamente loro quattro in giardino. Caterina era seduta sulla panchina e teneva in grembo la testa di Giulio, profondamente addormentato. Lucrezia dormiva sul lettino di fronte alla madre, avvolta in un pareo. L’aria era piacevolmente fresca.
Dopo aver salutato gli ultimi ospiti, Andrea si sedette sulla panchina, portandosi le gambe di Giulio sulle sue. Cercò Caterina con lo sguardo: si scrutarono a lungo, entrambi con un sorriso dipinto sulle labbra, gli occhi che brillavano sotto la luce della luna e si un lampione lontano.
Le loro dita scivolavano sul corpo di Giulio e si scontrarono. Ci fu un attimo di esitazione. E poi si strinsero.
«Grazie per tutto» disse piano Andrea. E dentro quel grazie ne erano raccolti così tanti da non poter essere quantificati. Ma era soprattutto un grazie per essergli stata al suo fianco, di averlo accolto nella sua famiglia. Per averlo fatto sentire parte di un qualcosa.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


3 dicembre 2010
Caterina osservava i lineamenti di Stefano: erano passati due anni, la ferita che si portava dietro aveva appena iniziato a rimarginarsi. Nei momenti di maggiore sconforto, chiudeva strette le palpebre e cercava di immaginarselo davanti proprio come il giorno in cui l’aveva conosciuto. Riusciva a vedere gli occhiali rotondi, i capelli scuri, lucidi, l’azzurro delle iridi. Ma non appena allungava le mani per sfiorarlo, lui svaniva.
Pulì l’immagine con le punte delle dita e un sorriso malinconico le sfuggì dalle labbra. Scene di una vita passata insieme a quel ragazzo si susseguivano nella sua mente e rendevano meno doloroso quel giorno. Chiuse gli occhi per immergersi meglio in quel flusso dolceamaro di ricordi.
Un prurito al naso la fece ridestare. Giulio le teneva davanti al viso un mazzolino di fiori freschi e l’invitava a prenderli per metterli nel vaso. Caterina però prese direttamente il figlio in braccio e fece in modo che fosse lui a compiere quell’azione.
Era la prima volta che lo portava alla tomba del padre. Era passato abbastanza tempo affinché anche lei riuscisse ad andarci senza avere un crollo nervoso. Giulio si era comportato in modo estremamente maturo per un bambino di quasi sette anni. Caterina poteva notare quanti elementi di Stefano riuscissero a venire fuori in lui. La calma, ma allo stesso tempo l’entusiasmo per tutti gli elementi della vita.
Un pesticciare dei sassolini la fece voltare di scatto: Lucrezia stava correndo nella loro direzione tenendo in mano un fiore un po’ sgualcito. Andrea la seguiva a breve distanza, facendo attenzione che non cadesse. Ripose il fiore nelle mani della madre con un sorriso soddisfatto.
Erano vicini, ma in silenzio, pensando al massiccio impatto che aveva avuto Stefano nelle loro vite. E di quanto ancora ne facesse parte.
*
Febbraio 2011
Piazzale Michelangelo era affollato. Tutti stavano aspettando il tramonto. Ma Caterina era riuscita ad arrivare in tempo e posizionarsi sul muretto, con lo sguardo fisso sulla sua città. Era una giornata fin troppo calda per essere fine febbraio. Tirava un filo di vento, abbastanza per rendere il cielo limpido. La luce aranciata s’intersecava, s’insinuava nel blu profondo, creando un gioco unico al mondo. Erano anni che non raggiungeva San Miniato a piedi. Era una giornata primaverile, ma il caldo opprimente annunciava l’imminente estate. Era stata una fatica non da poco, ma gli aveva promesso che non si sarebbe pentito di quello che avrebbe trovato una volta giunti fin lassù. Era sempre il 2000 e stavano insieme da poco. Lui portava ancora i capelli lunghi, gli occhiali tondi da intellettuale. Tempo dopo le avrebbe rivelato che a guardarla seduta sul muretto del Piazzale, con il vento che le faceva muovere i capelli biondi, avrebbe avuto l’ispirazione per scrivere il suo primo romanzo. Lei era Imma: con tutte le sue contraddizioni, con tutti i suoi timori, con tutti i suoi punti di forza. Quello doveva rimanere un segreto tra loro. Caterina si era ripromessa più volte che non l’avrebbe condiviso con nessuno. Nemmeno con i suoi figli.
Delle mani nodose scivolarono lungo le sue braccia, avvolgendola in un abbraccio. Dei capelli scuri le grattarono la guancia destra, delle labbra carnose le baciarono con delicatezza il collo.
Caterina si girò: due profondi occhi chiari la scrutavano. Sorrise.
«Ti ho preso una cioccolata calda» le porse la tazza di cartone che lei accettò con un cenno della testa. Lui si sedette accanto a Caterina, portando lo sguardo sulla città davanti a loro. Lui aveva addosso un profumo dolce, morbido, un profumo che la faceva sentire al sicuro. Giacomo era stato parte importante della sua ripartenza. L’aveva aspettata per quasi un anno. Aveva aspettato che lei fosse stata pronta a condividere la vita con qualcun altro, che fosse pronta a superare il lutto. Sapeva che non l’aveva ancora pienamente superato. Le ferite, i tagli erano ancora vivi. Ma non le facevano più male come prima. Stava iniziando a conviverci.
Giacomo la guardava ammirato. I capelli color miele che ondeggiavano appena sopra le spalle, gli occhi puntati sull’orizzonte, d’un verde profondo, quasi lo stesso colore degli alberi davanti a loro. Si era innamorato di lei non appena l’aveva vista, circa un anno prima. Lei era seduta alla Loggia dei Lanzi, un gelato in mano sebbene fosse sempre febbraio, avvolta in un cappotto che le lasciava libera solamente la parte superiore del viso. Tutti i paradossi di Caterina erano racchiusi in quell’immagine. E lui era affascinato da ognuno di quelli.
Nessuno dei due si avvicinò all’altro: rimasero lì, vicini ma distanti, coscienti e confortati dal fatto che ci fosse l’altro a lato.
«Jack» la voce roca di Caterina lo fece voltare. Non si guardarono a lungo. Ma l’intensità messa nello sguardo era palpabile. Lei si sporse un po’, i loro nasi si sfiorarono. Fu allora che sentì la giusta spinta per baciarlo. Era il suo primo bacio dopo Stefano: l’emozione l’aveva fatta fremere debolmente, perciò Giacomo l’aveva stretta in un abbraccio come a confortarla. Lui c’era. Lei poteva contare su di lui. Ed era qualcosa che arrivava forte e chiaro.
*
Maggio 2011
Per la prima volta in quasi tre anni, Andrea stava tornando a Napoli. Non è possibile descrivere in maniera definita le emozioni che provava. Un misto di paura, eccitazione, tensione, il tutto mischiato con una quantità immane di gioia. Era la sua città, era la sua linfa vitale. Gli era mancata come l’aria. Gli erano mancati i colori, i profumi, la musica. Non si sarebbe trattenuto a lungo, giusto il tempo necessario per risolvere un paio di questioni di lavoro. Ma erano abbastanza. Abbastanza per inebriarsi nuovamente della sua città.
Si era portato dietro anche Lucrezia e Giulio. Voleva far vedere loro il posto da cui veniva Stefano, dove lui amava passare il tempo, dove amava nascondersi. Avrebbe voluto che anche loro si innamorassero di quella città, che ne sentissero i flussi, proprio come lui e suo fratello. Aveva perfino deciso di evitare sua madre. Niente e nessuno poteva rovinargli quei due giorni. Dovevano essere perfetti.
Guardò fuori dal finestrino del treno, ripensando alla sera precedente. Giacomo era venuto a cena da loro per la prima volta. Si era chiuso in sé, timoroso di ogni aspetto. Ma poi aveva visto lo sguardo di Caterina illuminarsi appena lui era entrato e aveva capito che non c’era bisogno di essere preoccupato. Lei stava bene. E lui, che desiderava sempre il meglio per lei, non poteva che essere felice. Si meritava il mondo. E lui avrebbe fatto di tutto per procurarglielo.
Lucrezia si arrampicò su di lui e si gettò assonnata sul suo petto. La strinse in un abbraccio. Gli parve di tornare alla prima sera che l’aveva conosciuta. Si appisolò ripensando a quei momenti felici.
Andrea passò tutta la mattinata in ufficio, controllando con la coda dell’occhio che Lucrezia e Giulio si comportassero per bene. Ma loro erano due bambini straordinariamente tranquilli e educati. Entrambi avevano preso il meglio dei due genitori. Ma se Giulio stava tirando fuori il carattere di Stefano, Lucrezia era il calco di Caterina. Ferma, risoluta, determinata. Perse qualche secondo nell’osservarla disegnare con le labbra strette tra i denti e le sopracciglia scure aggrottate. I movimenti erano quelli della madre, identici in maniera quasi impressionante. Andrea sorrise tra sé. Aver guidato fino a Firenze quella sera era stata la sua miglior decisione.
Decise di premiarli portandoli al mare. Non avevano visto altro mare che quello scuro di Viareggio. C'era una caletta a Posillipo che aveva rubato il suo cuore quando era giovane. Ce l'aveva portato Stefano un giorno di maggio proprio come quello: il sole era scottante, l'odore di salsedine aveva impregnato i suoi capelli, i suoi vestiti, le pagine dei libri.
Ora stava a lui invece far scoprire quel piccolo angolo ai figli di Stefano. Lanciò loro un’occhiata furtiva: erano totalmente catturati dalle sfumature di blu e di verde davanti a loro.
Entrarono a piccoli passi nell'acqua fresca, quasi fredda. Lucrezia si strinse ad Andrea, chiedendo in via del tutto eccezionale di prenderla in braccio; con l'altro prese Giulio. Rimasero a lungo immersi nell'acqua cristallina, parlando, ridendo. Si sentivano leggeri, si sentivano al sicuro.
Cenarono nel piccolo bar là vicino. Erano soli su quella piccola terrazza che guardava al mare. L'aria era rinfrescata dalla brezza leggera, la pelle tirava per il sale, il profumo dei pini si confondeva con quello delle schiacciate calde. Niente era cambiato. Ad Andrea sembrò essere tornato indietro di quindici anni. Lui e Stefano erano seduti in quello stesso punto, uno davanti all'altro, in silenzio, lasciando parlare solo il vento. Per questo Andrea quasi s'infastidì quando il fratello attaccò un monologo che avrebbe voluto non sentire. Stefano, invece, non riusciva più a tenersi il segreto. Aveva bisogno di dirlo a qualcuno. Si era innamorato. Per l’ennesima volta quell'anno. Ma era sicuro che quella fosse la persona giusta. Riuscì a catturare la completa attenzione di Andrea solamente quando gli disse che aveva perso la testa per Marcello, un loro vicino. Per la prima volta in vita sua Stefano era completamente sincero. Con gli altri e con se stesso. Era anche la prima volta che si innamorava di un uomo. Ma non sapeva che sarebbe stata l’unica. L'unico uomo della sua vita. Quando Stefano finì di parlare, un silenzio inquietante cadde tra loro. Temeva la reazione del fratello. Andrea respirò profondamente. E poi domandò se almeno fosse ricambiato. Stefano si emozionò talmente tanto che lo abbracciò d'impulso. Il suo appoggio era tutto quello di cui aveva bisogno.
A ricordare Stefano, Andrea si oscurò in volto. Un profondo magone lo assalì. Cerco di consolarsi stringendo a sé Lucrezia che era crollata addormentata sul suo petto.
«Le fai male a stringerla così forte» per un attimo lui non si rese conto chi avesse parlato. Gli bastò girare lievemente lo sguardo per incontrare quello profondo della cameriera. Gli sorrideva: un sorriso candido in estremo contrasto con la carnagione già molto abbronzata. Andrea ricambiò con un sorriso imbarazzato. Lei si avvicinò. «Hai dei figli bellissimi» disse osservando ammaliata I due bambini, entrambi addormentati. A lui scappò una risata sommessa, ma comunque intrisa di dolore. Non era la prima volta che qualcuno credeva fossero suoi. La somiglianza c'era, vero, ma non se la sentiva di continuare la farsa.
«Sono di mio fratello» la ragazza annuì. «Hai una sintonia unica con questi piccirelli, oltre al fatto che ti somigliano in maniera impressionante; per questo sono andata sul sicuro». Si sedette accanto a Giulio e gli accarezzò la schiena in maniera delicata. Andrea rimase immobilizzato: quella sua estrema confidenza gli era totalmente estranea.
«Mi piacciono tanto i bambini. Ne vorrei un paio tutti miei» parlava mentre osservava affascinata Giulio. Ai suoi occhi era il bambino più bello che avesse mai visto. «Ma per fare dei bambini bisogna essere in due, giusto? Io sono sola. E lo sarò a lungo» la malinconia che veniva fuori dalla sua voce era la stessa che sentiva lui. Percepiva chiaramente quello che sentiva lei. Aveva i suoi stessi desideri. Avrebbe voluto farle capire tutto ciò, ma non sapeva come muoversi. Avrebbe voluto prenderle la mano, ma temeva che fosse troppo presto. Perciò rimasero lì, in silenzio, condividendo dei tormenti senza saperlo. Fu lei a rompere di nuovo il ghiaccio.
«Io sono Eva» gli porse la mano e lui la strinse, esitante. A quel tocco sentì una leggera scossa sui polpastrelli. Alzò di scatto gli occhi e incrociò quelli di lei: era una scossa che avevano percepito entrambi. «Andrea». Gli fece un sorriso così bello che se lo sarebbe ricordato per tutta la vita.
*
Dicembre 2011
Un timido sole cercava di riscaldare Firenze, ma era troppo freddo. Il vento gelido s’insinuava da tutte le parti, faceva tremare Caterina chiusa nel suo cappotto nero. Camminava veloce, gli occhi fissi davanti a sé, le mani a stringere un piccolo mazzolino di fiori. Giacomo l’aspettava appoggiato alla macchina, fumando una sigaretta e guardando il cielo. Per la prima volta da giorni era finalmente una bella giornata. Avrebbe voluto godersela, ma Caterina quel giorno non era in vena di fare niente. Erano passati tre anni e l’immagine di Stefano aveva iniziato a sfuocarsi ai contorni. Non riusciva più a sentire la sua voce in maniera distinta, il suo profumo andava confondendosi con altri. Se ne era resa chiaramente conto solo quella mattina, quando aveva aperto gli occhi e lui non era stato il suo primo pensiero, come lo era sempre. Perciò Caterina avrebbe passato tutta la giornata portandosi dietro uno stralcio di quella rabbia contro se stessa che non l’avrebbe mai abbandonata.
Si fece accompagnare al cimitero e ci passò tutta la mattina, osservando la fotografia di Stefano. Gli parlava, raccontandogli dei loro figli, di quanto crescessero, di quanto Giulio stesse diventando sempre più simile a lui, invece Lucrezia rimaneva un’incognita per tutti loro. Passando ancora la mano sulla fotografia, una piccola lacrima scese sul suo viso. Non era giusto che lui non avesse potuto conoscerli per bene, non era giusto che a lei non fosse stato permesso di continuare a vivere al suo fianco, a ridere insieme, a parlare, a discutere. Le era stato tolto troppo presto.
Guardò Giacomo lontano, mentre parlava al cellulare. Aveva ben poco in comune con Stefano. Era più riservato, più riflessivo, più logico. Ma era riuscito a stregarla. E non era stato un compito affatto semplice, visto la sua storia complicata. Nascondeva una dolcezza, una cura per lei che l’avevano fatta sentire al sicuro. Per la prima volta si domandò se fosse destinata a stare al suo fianco, ma con sua grande sorpresa, pensando al futuro, non riusciva a vedere nient’altro che un enorme punto interrogativo. Lo stesso punto interrogativo che vedeva da tre anni.
Si diresse verso l’uscita non prima di aver accarezzato nuovamente la guancia di Stefano, sussurrando parole di addio. Il ghiaino che scricchiolava sotto i suoi piedi fece alzare lo sguardo di Giacomo che la accolse con un caldo sorriso e un dolce abbraccio.
*
Andrea guardava trasognante l’acqua dell’Arno brillare sotto di sé. Si sistemò meglio a sedere e chiuse le palpebre, godendosi quel poco di sole dicembrino, che gli riscaldava il volto. Stefano gli aveva rivelato che quello era il suo posto preferito in tutta la città. Era affollato, era caldo, ma la vista che si apriva davanti era spettacolare, riusciva a tranquillizzarlo. Perciò Andrea quella mattina, dopo aver portato Lucrezia e Giulio a scuola, si era rifugiato là. Caterina l’aveva visto uscire in silenzio, senza nemmeno rivolgerle il solito sorriso. Ma era sicura di dove si sarebbe andato a nascondere. Lo faceva spesso, soprattutto negli ultimi tempi.
Sentì una leggera pressione sul viso: due mani morbide e calde avevano coperto gli occhi, una voce profonda, leggermente roca, aveva sussurrato al suo orecchio, due labbra premettero sulle sue. Un profumo di rose misto a quello del mare lo travolse. Due iridi scure lo osservavano: Eva sorrise prima di baciarlo di nuovo.
«Cosa ci fai qui?» Andrea chiese, piacevolmente sorpreso. Eva si limitò ad alzare le spalle. «Sorpresina» ripose, abbracciandolo da dietro, appoggiando poi il mento sulla spalla. «Ho immaginato ti servisse un po’ di supporto e svago oggi» Andrea si era abbandonato a quella stretta, inspirando a lungo il profumo dolce di Eva.
«Mi ha fatto piacere vederti qui» disse piano. Raccolto nelle braccia della ragazza si sentiva al sicuro: lei era stata una boccata d’aria fresca, l’aveva aiutato ad uscire piano piano dalla bolla che si era costruito da solo e in cui si era rifugiato dopo la scomparsa di Stefano. E poi Eva lo riportava a Napoli, lo riportava alle sue radici, radici che sentiva di aver perso a Firenze.
Eva si issò sedendosi al fianco dell’uomo, appoggiando la testa sulla sua spalla. «Ho pensato a quello che hai detto sai? Non sarebbe una cattiva idea. L’unico problema sarebbe mia madre. Potrebbe non rivolgermi più la parola» Andrea si lasciò scappare una mezza risata. «In tal caso entreresti nel club» le baciò la fronte. Non parlava con sua madre da tre anni ed era come si fosse tolto un peso.
*
Gennaio 2012
Andrea aveva aspettato Caterina fino a tarda notte. Doveva parlarle, doveva dirle che se ne sarebbe andato, che sarebbe tornato a Napoli, sarebbe andato a vivere con Eva. Rimandava quella conversazione da troppo tempo. Quando lei rientrò non si rese nemmeno conto che Andrea era seduto al tavolo della cucina, con la sola luce della luna ad illuminare debolmente la stanza. I lineamenti marcati diventavano più taglienti, gli occhi azzurri brillavano nella penombra. Un brivido le percorse la schiena: le sensazioni che aveva provato la prima sera che l’aveva incontrato erano ancora vividi.
«Cosa ci fai in piedi?» si avvicinò, gli fece passare la mano sulla spalla, sentendo forte la scossa che l’aveva stupita tempo prima. Ormai ci si era quasi abituata. Anzi, cercava proprio quel contatto per stare meglio. Avere Andrea al suo fianco la faceva stare bene.
«Torno a Napoli, Caterì» disse piano, cercando di soffocare le emozioni mordendo dolorosamente l’interno della guancia. Lei non fece una piega.
«Ah, per quanto? Una settimana?» mentre parlava Caterina andò in camera per togliersi gli abiti che aveva indosso da tutto il giorno e per indossare il pigiama caldo. Andrea la seguì, a debita distanza, tenendosi sempre lontano. Gli occhi erano fissi sul pavimento, le dita che si tormentavano, il cuore pesante, pressato da quella notizia che non avrebbe voluto darle. Ma doveva fare quel passo.
«No Caterì, per sempre. Vado a vivere con Eva» la voce di Andrea era estremamente sottile, soffocata dal terrore. Caterina si gelò: non si sarebbe aspettata quella notizia. Credeva di aver trovato finalmente un bilanciamento perfetto nella sua vita, una vita che le sembrava finita appena tre anni prima. Il fatto che Andrea se ne andasse, la rendeva nuovamente e terribilmente instabile. Si dovette sedere, volgendo all’uomo uno sguardo ferito.
«Ci mancherai profondamente» sussurrò, ma voleva chiedergli di non andare. Voleva chiedergli di rimanere con lei. La famiglia che si erano creati era perfetta, funzionava bene. Se l’erano detti molte volte, magari scherzando, ma entrambi erano seri nel pronunciare quelle parole. Ma quella notte, avvolti nella penombra, non riuscivano a dirsi altro. Ogni supplica di rimanere insieme, di continuare a condividere la vita insieme rimaneva avulsa dentro di loro. Per la prima volta entrambi compresero che quella gioia che li riempiva ogni volta che erano insieme, fosse forse qualcosa di più. Ma erano terrorizzati dall’idea di dirlo a parole, la vergogna era insopportabile. Andrea fece un passo indietro.
«Per favore, rimani qui. Rimani qui con noi» la voce di Caterina era debole, supplichevole. I loro occhi si cercarono: l’azzurro gelido di Andrea era illuminato da un velo di lacrime. Prese un profondo respiro e fece qualche passo nella direzione della donna.
«Caterì, non posso rimanere qui. Non posso farlo a te, non posso farlo a me, non posso farlo a Stefano. Sono arrivato ad un punto in cui non posso celare i sentimenti che provo, non posso continuare a guardare che tu vai avanti, mentre io sono bloccato nel passato, io che ti…» fece una lunga pausa, evitando lo sguardo della donna. «Non posso danneggiare la memoria di mio fratello, non posso tradirlo, io non posso…» ma non riuscì a continuare. Forse la vergogna, forse la coscienza. Andrea non lasciò nemmeno parlare Caterina. Uscì dalla stanza a grandi falcate e lei rimase appesa ad un filo.
Caterina quella sera si vide sbattuta in faccia tutta la verità e dovette fare i conti con i propri sentimenti. Capì che quella connessione che aveva instaurato con Andrea era più profonda di un semplice legame familiare. Capì che la sua ripartenza non era stato Giacomo. Era stata quella persona che le era stata accanto per più di tre anni, che l’aveva aiutata a raccattare tutti i pezzi, che l’aveva accompagnata nei momenti bui.
E ora si stava allontanando e lei sarebbe stata sola.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Andrea ed Eva accennarono all’idea del matrimonio in una mattina di maggio. L’aria era già calda, il sole filtrava dalle persiane scrostate e scolorite dai raggi e dalla salsedine. Eva teneva la testa sul petto di Andrea, ascoltando il ritmo accelerato del suo cuore: era facile percepire la sua tensione, era facile percepire che voleva chiederle qualcosa di importante. Alzò la testa, obbligandolo a guardarla negli occhi color cioccolato. «André, tu ci pensi mai a sposarti?» l’aveva anticipato, fortunatamente. Lui si lasciò scappare un piccolo sospiro di sollievo accompagnato da un debole sorriso.
«La mia prima avventura col matrimonio non è stata proprio il massimo» Eva gli accarezzò la guancia, fermandosi sulla fossetta che segnava la guancia sinistra. «Io non voglio farlo, André. Io non ci credo. È solo un pezzo di carta» Andrea fece passare il suo braccio attorno alla vita nuda della ragazza, avvicinandola ancora di più a sé. Il contatto della pelle morbida di lei sulla sua lo faceva sentire sicuro. Lo faceva stare bene. «Non ci dobbiamo pensare allora» lo disse piano, in un sussurro, un sospiro solo loro. Sarebbero stati bene ugualmente.
*
Luglio 2013
Caterina era seduta sul bordo della piscina, i piedi immersi nell’acqua fresca, il sole che le bruciava la pelle candida, le faceva risaltare le lentiggini sul viso. Con la coda dell’occhio guardò Giacomo steso al suo fianco: la sua pelle si stava scurendo, mettendo in risalto il colore delle iridi. Sembrava un modello uscito da Vogue. Tenevano le mani intrecciate come due giovani innamorati. Il vociare dei bambini faceva loro da sottofondo, insieme al leggero sciabordio dell’acqua della piscina. Erano tutti riuniti a festeggiare i trent’anni di Viola. Erano passati dieci anni dall’ultima volta in cui erano così tanti. Dieci anni. Fu doloroso per Caterina ricordare quanto fosse cambiata la sua vita in una decade. E fu doloroso notare che l’unica persona che mancava era proprio Stefano. Nessuno dei suoi amici era riuscito ad apprezzare ed accogliere appieno Giacomo, non quanto Andrea. Perciò era stato invitato anche lui. Non lo vedeva da un anno e mezzo. Era sempre attento nello scegliere i giorni in cui andare a trovare Giulio e Lucrezia. L’estate precedente li aveva portati con sé una settimana nella sua casa ad Amalfi. Erano tornati contenti, abbronzati e con gli occhi colmi di eccitazione. E quando lo zio aveva promesso loro che li avrebbe portati anche quell’anno, non si erano trattenuti nella gioia.
Caterina si rese conto dell’arrivo di Andrea dai gridolini di Lucrezia. La bambina era schizzata fuori dalla piscina in un lampo e aveva raggiunto le braccia forti dello zio. Lo abbracciò talmente forte da farlo diventare paonazzo. Accanto a lui Eva guardava quella scena con un sorriso smagliante, pieno di emozione. Caterina li guardò da lontano, con un misto di contentezza e di vaga invidia. Erano così belli, così affiatati. Accanto ad Eva, Andrea sembrava perfino più giovane. Era cambiato: i capelli scuri erano più lunghi del solito, una leggera barba copriva il suo viso.
Lui fece finta di non vedere Caterina, ma era la prima persona che aveva cercato con lo sguardo. Era più bella di quanto ricordasse: i capelli schiariti dal sole, l’abito di lino che le arrivava alle ginocchia, il verde degli occhi messo in risalto dai gioielli smaltati di color smeraldo. Cercò in tutti i modi di fermare quell’immagine nella sua mente, preservarla nel tempo.
Si salutarono con due leggeri baci sulle guance. Quel contatto fu sufficiente a riattivare tutti gli scombussolamenti del passato. Ma ormai erano sentimenti appartenenti al passato stesso. Non potevano più riportarli alla luce. Dovevano proseguire nelle loro vite.
*
Mantennero un rapporto discostato, formale per tutto il giorno. Solamente nel primo pomeriggio, quando erano tutti a riposare all’ombra di due grandi querce, poterono conversare da soli, aggiornarsi sulle loro vite. Era strano anche il solo pensare che erano tornati ad essere estranei, dopo aver convissuto per tre anni. Per tre anni avevano imparato ogni aspetto dell’altro, ogni difetto, ogni preferenza. Una parentesi anomala nelle loro vite.
Si erano stesi sulle poltroncine di vimini sotto il pergolato, il profumo della lavanda a circondarli, il leggero chiacchiericcio che proveniva dal giardino misto al cinguettare di alcuni uccellini.
«Come stanno i bambini?» fu Andrea a rompere il ghiaccio: questo sorprese Caterina, visto che lui non lo faceva mai. Doveva essere trascinato in una conversazione. Ma decise di non farci caso.
«Bene, grazie. Anzi, aspettano che tu chieda loro di venire da te» Andrea sorrise, spostando lo sguardo su di lei.
«Per me possono starci tutta l’estate lo sai. Possono venire giù con me ed Eva nei prossimi giorni» una strana eccitazione si avvertiva nella sua voce: sembrava ansioso di dire qualcosa a Caterina. Lei se ne rese conto, rivolgendogli un’occhiata interrogativa.
«Eva è incinta, Caterì. Siamo al settimo cielo» il viso di Andrea sprizzava gioia da ogni punto. Finalmente poteva avere anche lui la famiglia che aveva sempre desiderato. Una famiglia sua, un figlio suo. Si era ripromesso che avrebbe tenuto il segreto finché la compagna non si fosse sentita pronta, ma con Caterina non riusciva a non essere sincero. Lei si spinse in avanti, stringendolo in un abbraccio di sincera gioia. Sentirla nuovamente vicina lo fece stare perfino meglio. Caterina, così stretta a lui si sentì nuovamente sicura. Andrea era il suo porto sicuro. E le ci erano voluti anni per comprenderlo.
*
Eva strinse delicatamente tra le sue dita la piccola mano paffuta e rosea di suo figlio. Sorrise. Non riusciva a quantificare la gioia che sentiva in quel momento, sperando che durasse all’infinito. Era nella sua bolla felice. Andrea la abbracciava, la baciava sul collo, passava il pollice sulla guancia del bambino. Era tutto perfetto. Era tutto perfetto.
Era tutto perfetto.
Se lo ripeté troppe volte.
I contorni si fecero sfumati, la luce sempre più chiara, accecante. Un sogno.
Aprì gli occhi: la mattina era già inoltrata. Sentiva la mano di Andrea stringere debolmente la sua. Non c’era nessun bambino. Non ci sarebbe stato.
L’odore di disinfettante era pungente, il candore attorno a lei, fastidioso. Le lenzuola che le si erano appiccicate addosso erano ruvide, la grattavano la pelle nuda delle gambe. Andrea la guardava con una tale pietà negli occhi che la fece stare perfino peggio. Strinse più forte la mano, cercando di tirarsi su il morale. Per tirarlo su un po’ anche a lui.
«Vuoi qualcosa da bere?» Eva riuscì a malapena annuire piano. Andrea si alzò con delicatezza, facendo attenzione a non svegliare né Giulio né Lucrezia, crollati addormentati addosso a lui.
Quando uscì da quella stanza d’ospedale riprese a respirare in maniera regolare. Il pensiero della notte appena passata lo tormentava, gli faceva venire il voltastomaco. Gli occhi di Eva ricolmi di lacrime, le sue braccia strette al collo, la voce che si faceva così fine, così debole da non riuscire a riconoscerla. Attraversò la via per raggiungere il bar. Mentre aspettava il suo turno chiamò Caterina.
Lei fu svegliata dal suono della sua suoneria. Per la prima volta dopo anni era riuscita a dormire fino a tardi. Pioveva a Firenze, facendo sì che l’aria fosse improvvisamente più fresca, vivibile. Giacomo dormiva ancora profondamente al suo fianco.
«Caterì» la voce di Andrea era spessa, profonda, rauca. Sentì un brivido salirle lungo la schiena, come se percepisse che c’era qualcosa che non andava. «Caterì, devi venire a prendere i bambini il primo possibile»
«Hanno fatto qualche danno? Stanno bene?» Silenzio. Un respiro lungo.
«Loro stanno bene, sì. È stata male Eva stanotte. È meglio se vieni a prenderli, per favore» era facile capire che Andrea era sul punto di crollare, sul punto di lasciarsi andare in pianto.
«Va bene, cerco di arrivare il prima possibile». Andrea chiuse la chiamata. Caterina rimase a fissare la parete vuota davanti a lei. Non era giusto. Non era giusto che per chissà quale scherzo del destino Andrea fosse costretto a soffrire così, ogni giorno sempre di più.
*
A Eva servì molto tempo per recuperare. Non era più la stessa persona. Era diventata un fantasma che si aggirava per i corridoi della casa che condivideva con Andrea. Ma la maggior parte del tempo lo passava seduta al tavolo del terrazzo, guardando il mare e l’orizzonte per lunghissimi pomeriggi. Evitava Andrea in ogni modo: che fosse uno sguardo o una carezza. E per lui era lo stesso. Erano diventati due stranieri che condividevano un tetto, un letto.
Una mattina nessuno dei due trovò il coraggio di alzarsi dal letto. Si davano le spalle, respiravano piano, rimanendo soli nelle loro proprie isole. Ma un singhiozzo interruppe il silenzio: Andrea era crollato. Aveva cercato di soffocare, sperando che il crollo arrivasse più tardi possibile, come era successo con Stefano. Ma era stata proprio la sua storia a farlo sbarellare. Eva, presa alla sprovvista agli inizi, abbracciò il compagno, affondando la testa nell’incavo del collo, cercando di inspirarne il profumo intenso.
«Non possiamo continuare così. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro» lo sussurrò al suo collo, lasciandoglici un bacio leggero. Andrea si limitò a restare in silenzio e osservare il mare che si intravedeva fuori dalla finestra.
«Ti amo» lo disse piano, ma lei sentì alla perfezione. Sorrise, baciandogli la spalla. «Anche io».
*
Febbraio 2014
Andrea si presentò alla casa di Caterina in tarda serata. Erano dieci anni che si conoscevano, erano dieci anni che aveva preso in braccio Giulio per la prima volta. Ora il nipote era cresciuto, era cresciuto somigliando sempre di più al padre di quanto non ci si aspettasse anche solo guardandolo: i capelli chiari e gli occhi verdi erano il calco di Caterina, ma il desiderio di conoscenza, la curiosità erano di Stefano.
Caterina sorrideva con una luce negli occhi che era totalmente nuova. Andrea non la vedeva così felice da anni. Ed era sicuro che non fosse solo per il compleanno del figlio.
La risposta non tardò ad arrivare: l’anello al suo anulare era fin troppo chiaro. Si sarebbe sposata. Si sarebbe sposata di nuovo, a sei anni dalla morte di suo fratello. Avrebbe avuto una nuova famiglia con un altro uomo. Andrea cercò di mostrarsi il più contento possibile per lei. Ma c’era qualcosa che lo tratteneva e sperava che lei non se ne rendesse conto.
Solo tornando a casa il giorno dopo si rese conto quale fosse il problema. Quel sentimento che provava dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lei era così profondo, così viscerale che non poteva essere catalogato come semplice affezione.
Ma era tardi. A lui non rimaneva altro che guardare la vita di Caterina andare avanti senza di lui.
*
Ma Andrea non poteva comprendere quanto fosse stato difficile per Caterina accettare quella richiesta. Andrea non conosceva il peso che lei si portava dietro, la consapevolezza che Stefano faceva seriamente parte del suo passato, che nel suo presente e futuro ci sarebbe stato un altro uomo. Un’altra esperienza. Caterina sentiva come se stesse tradendo Stefano. L’aveva accettato per timore di ferire i sentimenti di Giacomo, aveva accettato per il timore che sarebbe stata sola per tutta la vita. Era quella la sua paura più recondita, più oscura. Aveva paura della solitudine. C’era sempre stato il marito a riempirle la vita, a riempirle le giornate e ora che lui non c’era, sentiva un vuoto incolmabile.
Solamente in pochi momenti della sua vita da vedova non si era sentita sola. Dei piccoli attimi che custodiva nel suo cuore e che non avrebbe rivelato a nessuno.
Forse Giacomo non era la persona che l’avrebbe aiutata. Forse Giacomo non era la persona giusta. Ma era la strada sicura. E lei sceglieva sempre la strada sicura.
*
Gennaio 2015
Caterina passò la mano sui maglioni di Stefano e cercò di captarne l’odore che nascondevano. Si sentiva a malapena, ma a lei bastava per stare meglio, per sentirsi meno in colpa. Le piaceva credere che il marito la supportasse. Che supportasse la sua intenzione di rifarsi una vita, una vita con un altro uomo. Un altro marito, un’altra casa. Era stato difficile per Giacomo convincerla a lasciare la casa in centro per la sua villa appena fuori Firenze, sulle colline. Gli ci erano voluti mesi. Alla fine, lei aveva ceduto.
Mettere tutto quello che rimaneva di Stefano in qualche scatolone fu un’impresa di indicibile sofferenza. Ogni elemento le ricordava un momento della loro vita insieme, dell’uomo che lui era stato, l’uomo meraviglioso che aveva amato come nessuno mai. Come non avrebbe mai amato nessuno. Quel maglione blu che indossava la prima volta che l’aveva portato agli Uffizi. La camicia bianca che indossava il giorno del primo bacio, il 25 aprile di quindici anni prima. Il completo del matrimonio. I terribili occhiali da vista che si era comprato poco prima dell’uscita del suo primo libro. La giacca che indossava la sera in cui gli aveva detto di essere incinta di Lucrezia. La maglietta che aveva indosso il giorno prima dell’incidente. A quella era particolarmente legata. La prese tra le mani, stringendo forte, proprio come se lui fosse là, davanti a lei. Non si rese conto delle lacrime agli occhi, o forse fece finta di non interessarsene. Avrebbe lasciato quella casa, quelle pareti che nascondevano una vita passata, vissuta accanto all’amore della sua vita.
Con la coda degli occhi, notò una piccola scatola nera nel fondo dell’armadio. Fu una sorpresa immane: in sette anni non si era mai resa conto di quella scatola, nonostante aprisse l’armadio costantemente, giusto per fare un tuffo nel passato, per sognare di avere Stefano davanti a sé.
La presa con le mani che le tremavano. Aveva scoperto un tesoro. Al suo interno c’erano dei quaderni buttati alla rifusa. Dei diari. Tutta la vita di Stefano messa nero su bianco.
Ma quella che vi era raccontata era una storia che lei non conosceva. Una storia d’amore. Una seconda. Una parallela alla propria. L’ultima pagina annotata era del 4 ottobre 2007. Un incontro.
Sentì una ferita lacerarla all’interno. Sperò che fosse tutta un’invenzione, che quel nome fosse solo frutto dell’inventiva del marito. Eppure, era pienamente cosciente che si stava solamente illudendo.
Quell’uomo, suo marito, era uno sconosciuto. «Alla fine ci sei riuscito a farmi male, Ste’» una costatazione terribilmente dolorosa fu quella che uscì dalle sue labbra.
Si perse tra quelle parole per tutto il pomeriggio, soffrendo pagina dopo pagina, parola dopo parola, lasciandosi scivolare il tempo addosso.
Quando fuori era già buio da un pezzo, Caterina riemerse dalla lettura. C’era solo un nome che le ronzava in mente. Marcello. L’altra vita di Stefano. La vita nascosta di suo marito. Ed era pronta a conoscerla.
*
Andrea sentì il telefono squillargli mentre stava uscendo dall’ufficio. Aveva fatto tardi, terribilmente tardi. Si era perso in un mare di carte e non era riuscito a venirne a galla.
«Ciao Andrea, come stai? Puoi parlare? Ti devo chiedere qualcosa di importante» la voce di Caterina era ferma, risoluta. Si era decisa che non avrebbe lasciato trasparire nessuna emozione. Nessuna. A costo di lacerarsi l’interno della bocca.
«Sì, certo, dimmi pure» Silenzio. Caterina stava misurando le parole per evitare di risultare inopportuna.
«Sai chi è Marcello?» questa volta fu Andrea a non rispondere. Il silenzio che si era creato tra loro era inquietante. Andrea sapeva e Caterina ne era certa.
«Caterì, perché vuoi sapere?»
«Andrea, per favore, rispondimi. Non girarci attorno. Voglio un nome, voglio un recapito» la sua voce era estremamente dura, come mai l’aveva sentita Andrea.
«Ok, Marcello era il nostro vicino di casa. Ti posso mandare il suo numero per messaggio. Ma per favore, qualunque cosa tu voglia chiedergli non lo importunare. Comunque io ho il numero di casa sua, non l’ho più visto. Magari cerco di parlare con sua madre, me lo faccio dare»
«Grazie» e chiuse la chiamata.  
Parlare con quell’uomo divenne la sua ossessione per quel giorno, per il giorno dopo, e per tutti quelli successivi. Sapeva che non si sarebbe data pace fino a che non l’avesse visto.
Andrea la richiamò la mattina dopo. «Vive a Roma, ti mando il numero. Mi raccomando Caterì» il suo tono accondiscendente, preoccupato la fece innervosire ancora di più. Respirò a fondo, cercando di soffocare tutti le emozioni sotto uno strato di apatia, durezza.                              
«Non sono una bambina che deve essere accudita Andrea. Mi so gestire. So cosa faccio. Grazie per tutto» la sua voce era diventata spessa, profondamente rauca. Irriconoscibile.
Tutta lei era cambiata negli anni. Aveva perso buona parte dell’insicurezza che aveva a vent’anni. Era una donna cresciuta, matura. Aveva imparato a vivere nel mondo. E non aveva più peli sulla lingua. Per nessuno. Andrea l’aveva realizzato per la prima volta dopo quella chiamata. E la nuova Caterina non gli dispiaceva.
«Va bene, ci sentiamo. Stammi bene Caterì».

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 - Finale ***


Marcello aveva dato appuntamento a Caterina in un bar in Via Vittorio Veneto. Era tardo pomeriggio, aveva lavorato per tutto il giorno e voleva solo che quell’appuntamento durasse il meno possibile. Per questo aveva scelto un posto vicino casa. L’aspettava fuori, a uno di quei tavolini che stavano arrugginendosi, una sigaretta tra le labbra, gli occhi nascosti da un paio di lenti scurissime. Era una giornata strana, la luce dorata che bagnava Roma al tramonto era meno intensa del solito. Il freddo era pungente, fin troppo per rimanere fuori a bere qualcosa. Caterina si fece annunciare dal ticchettare dei suoi stivali sull’asfalto. Marcello si tirò in piedi e stese la mano, formale, serioso. Non riusciva a nascondere il suo essere a disagio.
Caterina si sedette e ordinò una cioccolata calda. Il silenzio che soggiornava tra loro era pesante. Marcello si accese un’altra sigaretta non appena ebbe finito la prima. Cosa voleva quella donna, torturarlo? Farlo sentire in colpa? Le lanciò uno sguardo indagatorio da dietro gli occhiali. Lei sembrava agitata almeno quanto lui. E infatti Caterina lo era. Come cominciare un discorso? Come chiedere di Stefano, della loro relazione senza sembrare una bacchettona?
«Mi scusi, ma ho una certa fretta. Mi aspettano a casa. Di cosa voleva parlare?» Marcello si era spazientito. Il tono duro, tagliente, sferzante, fece svegliare Caterina. Annuì e rovistò nella borsa alla ricerca del quaderno di Stefano. L’ultimo. Lo posò sul tavolo, facendolo scivolare nella direzione dell’uomo di fronte a lei. Lui non capì. Perché essere tanto criptici? Voleva fargli perdere la pazienza?
«Stavo facendo ordine nel mio armadio e ho trovato questo. Stefano ha segnato tutti i punti fondamentali della vostra relazione su dei diari. Nero su bianco. Li ho letti» la voce di Caterina era ferma, risoluta, secca. Si era preparata il discorso in macchina, si era ripromessa che non avrebbe balbettato, che non sarebbe crollata. Doveva rimanere ferma, stoica.
Marcello, invece, si era sbriciolato in un attimo. Rivedere la scrittura di Stefano dopo tutto quel tempo lo rendeva estremamente debole, senza difese. Gli sembrò per un momento di sentire la voce dell’uomo sussurrargli nell’orecchio, le sue dita sfiorarlo, accarezzarlo. Si portò la mano alla bocca, cercando di soffocare il pianto. Guardò quella donna davanti a lui: non accennava a mostrare alcun sentimento, sebbene il labbro superiore che fremeva leggermente la tradì.
«Cosa vuole che le dica? Che ho amato Stefano con tutto me stesso? E poi che farà? Mi attaccherà perché sono un uomo, perché ho rovinato la vostra bella apparenza? Eh?» era sulla difensiva, quasi impaurito. Temeva che lei si comportasse come Maria. Ma Caterina negò con un movimento secco della testa.
«Non posso cambiare il passato. Non posso neanche dire che però mi ha fatto male venire a conoscenza di una seconda vita di Stefano. Lo amavo con tutta me stessa, ero certa che lui avesse occhi solo per me. È stato doloroso sapere che lui non pensava solo a me. Ma sacrificherei tutto per riaverlo al mio fianco. Per rivederlo ridere, per sentirlo parlare nuovamente. Mi rimangono solo le sue parole su dei pezzi di carta. Solo quelle fanno in modo che lui diventi percepibile ai miei occhi…» ma Caterina non riuscì a continuare. Marcello sembrò essere colpito da una spada, una spada che l’aveva ferito diritto al cuore. Fu allora che lei realizzò che l’uomo non sapeva della morte di Stefano. In lui rivide tutto quello che aveva provato lei più di sei anni prima. Tutto quel dolore, quell’amarezza a impregnare ogni cellula del corpo. E perché no, anche quel pizzico di senso di colpa, un fardello che si portava dietro da quella notte. Marcello chiese un minuto per sé. Si tolse violentemente gli occhiali, passandosi le mani sul volto. Poi si alzò di scatto, facendo alcuni passi avanti indietro sul marciapiede, attirando le attenzioni di alcuni curiosi che si trovavano allo stesso bar. Poi tornò a sedersi, fissando gli occhi arrossati su quelli verdi di Caterina.
«Quando è successo?» la voce era sottile, flebile. Tremava.
«Sono passati sei anni ormai. Incidente stradale» Marcello mise la testa tra le mani e pianse in silenzio. Sei anni. Nessuno dei due riuscì a proferire parola per molto tempo. Solo quando lui riuscì a ingoiare qualche lacrima, tornò a guardare Caterina.
«Sembrerà una reazione stupida. La capisco. Dopo tutti questi anni. Ma sa, dopo che Stefano mi ha lasciato, sono andato a lavorare all’estero, cercando di tagliare i ponti con tutto quello che mi legava con Napoli, con l’Italia. Non volevo sapere niente di lui» il rimorso lo abbracciò, lo soffocò. Quel sentimento di asfissia se lo sarebbe portato dietro per molto ancora. Prese l’ennesima sigaretta e infilandosela in bocca guardò gravosamente Caterina. «Credevo che lei fosse venuta a farmi una storia sul fatto che suo marito aveva avuto un amante, per di più, uomo» un mezzo sorriso amaro che replicò anche lei con un’alzata di spalle.
«Non le nascondo quanto ci sia stata male nello scoprire che Stefano conduceva una doppia vita. Ma ormai sono passati troppi anni» constatò, deviando lo sguardo su qualunque altra cosa che non fosse lo sguardo di Marcello. Mentiva. Sapere che suo marito l’aveva ingannata a lungo la faceva sentire uno straccio.
«Beh, immagino. Comunque, non è giusto dire che avevamo una storia. Ho visto Stefano per l’ultima volta poco prima che gli nascesse Lucrezia. E prima di quello pochi altri incontri. Mi creda Caterina» con una mano prese la sua, mentre con l’altra alzò il piccolo quaderno nero riempito dalla calligrafia di Stefano. «Mi aveva parlato una volta dell’intenzione di scrivere una storia che fosse in parte autobiografica, che fosse un urlo al mondo intero di quello che lui fosse nel profondo. Io non so se ha letto tutto. Ma il mio ruolo è rilegato prettamente alla gioventù. Lei era il grande amore di Stefano. Non parlava d’altro che di lei. Dei vostri figli. Io ero una prostituta con cui condividere un letto per poche ore» Caterina fu portata a credergli. Percepiva sottopelle una profonda fiducia per quell’uomo sconosciuto. Ma lui era sconosciuto fino ad un certo punto: avevano condiviso un amore, lo sentiva più vicino di quanto non fosse.
«Marcello, Stefano le ha mai detto che intenzioni avesse con questa storia?» lo chiese con una voce sottile, fragile, completamente diversa da quella con cui si era posta prima. Marcello accennò ad un debole sorriso.
«Caterina, lo pubblichi. Non tema niente e nessuno. Mai» le baciò con dolcezza le nocche e se ne andò, sicuro che non ci fosse nient’altro da aggiungere.
*
Dicembre 2015
Andrea aveva condotto Caterina dentro Boboli. Era rimasto in silenzio, procedendo con passo svelto, sicuro, verso il posto preferito dalla donna: il giardino botanico. Era deserto quella mattina: il freddo aveva convogliato i turisti dentro i musei, lasciando gli spazi aperti ai solitari e ai romantici. Ma Andrea e Caterina non erano nessuno dei due. Si sedettero su una panchina in disparte, nascosta agli occhi degli altri.
«Mia madre è seria, Caterì. Ha intenzione di distruggerti. Dice che le hai rovinato del tutto la reputazione con quel libro» Andrea era serio, terribilmente serio. Ma ormai Caterina non temeva più quella donna, ormai era cresciuta abbastanza per tenerle testa. Lo sapeva, ne era certa.
«Andrea, non capisco perché tu abbia fatta tutta questa strada per dirmi questo. Non c’è assolutamente bisogno che tu mi protegga da tua madre. Non la temo. Figurati. Torna alla tua vita, per favore. Torna da Eva». Pensò di alzarsi, ma vide l’uomo fremere. C’era qualcosa che lo tormentava.
«Io e Eva ci siamo lasciati. Ha avuto un altro aborto» prese una pausa, lasciando che le lacrime venissero fuori. «Non ce la facevamo più neanche a guardarci». Gli occhi dolci e solari di Eva si erano oscurati terribilmente dopo il secondo aborto. Aveva perso tutta l’energia che la caratterizzava. Non lo voleva più vicino. Tirò su col naso, cercando di ricomporsi. «Ma non è per questo che sono qui, Caterì» dal suo zaino tirò fuori un quaderno nero, identico a quelli che erano nascosti in casa di Caterina. A lei per un attimo mancò il respiro. Temette che quello fosse una sorta di confutazione a tutto quello che gli aveva detto Marcello.
«Sono poesie» la rassicurò Andrea. «Poesie per tutte le persone con cui Stefano è entrato in contatto. Ma i personaggi principali sono tre: tu, mia madre e Marcello. Pensavo che tu le volessi» dette il libriccino in mano a Caterina. «Io vorrei che fossero pubblicate».
«Dove le hai trovate?» chiese estasiata Caterina, mentre sfogliava le pagine lievemente ingiallite.
«Nella scrivania di Stefano ad Amalfi. Era là che lui andava quando ti diceva che aveva bisogno di ispirazione. Ed è là che mi sono nascosto anche io dopo la separazione da Eva. È stato un caso» ma Caterina prestava poca attenzione a quella storia. Un altro pezzo di Stefano che tornava a sé, un altro pezzo di lui che non conosceva e che le permetteva di riviverlo sulla propria pelle. Mentre scorreva tra le pagine, tra le parole scritte di fretta dal marito, poteva sentire chiaramente la sua voce leggermente acuta, recitare ogni singolo vocabolo. D’impulso abbracciò Andrea.
«Grazie, è un regalo meraviglioso» lui le strinse dolcemente le braccia attorno alla vita, inspirando a fondo quell’odore fresco, familiare. Quante notti aveva sognato di poterla abbracciare di nuovo, di rivedere da vicino i suoi occhi brillare. Caterina era rinata dalle proprie ceneri. Si era ricostruita pezzo per pezzo, da sola, con grande forza di volontà. E sentiva il cuore scoppiargli nel petto al solo pensiero che lui l’avesse, solamente in una piccola quantità, aiutata in questo processo. Ritrovare i quaderni di Stefano era stato lo scatto definitivo per permetterle di trasformarsi.
Anche lei comprese chiaramente quanto bene le facesse essere là stretta al petto di Andrea. Lui la comprendeva. Ma Caterina fu bloccata da lei stessa. Temeva di essere respinta, temeva che lui non se la sentisse. Temeva di trovarsi col cuore spezzato. E dopo tutto quello che era successo preferì sentirsi al sicuro. Preferì la strada di Giacomo. Con lui non sarebbe mai stata male.
«Caterì, però bisogna sempre tenere di conto che mia madre potrebbe andare su tutte le furie, peggio ancora che per il libro» il tono di Andrea era impregnato del terrore vero e puro. Rivedeva il gelo dello sguardo della propria madre che lo fissava mentre gli esponeva le sue intenzioni per Caterina, le sue intenzioni per il libro. Non posso permettermi che passi l’immagine di un figlio così sciagurato. Un uomo. Parla di un uomo. Per non parlare di me. Di come mi descrive. Non permetterò che quella donna lucri sul passato di Stefano. Su un passato indegno oltrettutto. Chiamo subito l’avvocato.
«Caterì, quella donna ti vuole rovinare. Non le interessano nemmeno i bambini. Le interessa solo di se stessa. Le interessa solo della sua reputazione» la voce dell’uomo tremava. Con la perdita di Eva si era rinchiuso nelle proprie insicurezze, si era estraniato dal mondo, diventando il fantasma dell’uomo che era riuscito piano piano a costruirsi. Un processo lunghissimo, durato degli anni, spazzato via in così poco tempo. Era stato un incapace figlio, un incapace marito, un incapace padre. O meglio: un mancato padre. L’unica cosa che era riuscito a fare era lavorare. Un lavoro stancante, aberrante. Un lavoro che non lo soddisfaceva. Ma tutti quei tormenti, era intenzionato a tenerseli dentro. Non voleva dirli a lei, non voleva caricarla delle sue ansie. Dei suoi timori. Delle sue insicurezze.
«Andrea, devi stare tranquillo per me. Ho tutto sotto controllo» lei era risoluta, sicura di sé: ma lui sembrava non sentirla, avulso nei suoi pensieri.
«Tutto bene Andrea?» la mano di Caterina poggiata sul suo braccio mandava delle scariche elettriche talmente forti che era impossibile che lei non le sentisse. Alzò lo sguardo e accennò un sorriso finto. Le scariche c’erano. Come c’era ancora al dito di Caterina l’anello di fidanzamento. E lui non poteva fare altro che farsi da parte. Come aveva sempre fatto in tutti quegli anni.
«Ora tutto bene».
*
Caterina teneva in mano il cellulare di Giacomo con la mano tremante. Un’altra donna. Come era riuscita a farselo sfuggire? Ma soprattutto perché sentiva questo strano sollievo dentro sé?
A Giacomo si gelò lo sguardo quando entrò nella stanza. Era appena uscito dalla doccia, l’asciugamano stretto attorno ai fianchi, l’acqua che scivolava sul petto abbronzato.
«Caterina lascia che ti spieghi» la voce era sottile, poco convinta. Caterina posò il telefono sul tavolo con delicatezza, con lo sguardo basso. «Non voglio spiegazioni. Hai fatto bene. Non funzionavamo.» La sua era una costatazione dolorosa, seppur veritiera. Non funzionavano. O meglio, non volevano funzionare. Dopo tre anni di fidanzamento non erano ancora riusciti a fissare una data per il matrimonio. Caterina credeva che il problema fosse il suo passato, mentre ora più che mai era sicura che fosse il futuro. Non vedeva nessun futuro al fianco di Giacomo. Nessun futuro che valesse la pena condividere.
«Forse hai ragione» lui non riuscì a dire nient’altro. Il senso di colpa era pressante, ma in un certo qual modo si sentì anche libero con poco sforzo. Caterina si sfilò l’anello e lo poggiò nel palmo umido di Giacomo con un sorriso.
«Ci vediamo» disse piano e se ne andò. Il tutto parve ad entrambi surreale, ma allo stesso tempo perfettamente giusto.
*
Giugno 2016
Era una giornata fresca quella in cui Caterina giunse a Napoli. Era per lei solamente la seconda volta che raggiungeva la città, la prima che la vedeva di giorno, nel suo splendore barocco. Lucrezia e Giulio erano al suo fianco. Andrea li aspettava appena fuori dalla stazione: il sole gli aveva schiarito i capelli, scurito la pelle. Era rinato, un’altra volta. Sembrava aver trovato il suo equilibrio. Quando vide arrivare Caterina, un sorriso dolce gli si dipinse sulle labbra. La donna spiccava tra la folla sudaticcia: indossava un abito rosa pallido, i capelli miele tagliati sopra le spalle e lasciati sciolti in onde morbide. Non appena Lucrezia lo scorse gli saltò al collo: non era cambiato niente tra loro, i sentimenti di profonda stima e amore che sentiva per lo zio non erano mutati.
«Lù così non lo fai respirare» aveva detto Caterina ridacchiando e cercando di farla desistere. Si avvicinò talmente tanto ad Andrea che i loro sguardi si allacciarono: era tanto che non succedeva, era tanto che Caterina non sentiva quella stretta alla gola. Una stretta comune, una stretta condivisa anche da lui. Nessuno dei due aveva ormai dubbi sui propri sentimenti, ma non riuscivano a fare quel passo in avanti e renderlo chiaro.
Li portò a fare un breve giro turistico in auto prima di raggiungere casa di Maria. Era Caterina che si era imposta: le avrebbe fatto vedere i bambini, sì, ma era intenzionata anche a parlarci finalmente vis à vis, e presentarle il libro di poesie di Stefano. Un pezzo dell’anima dell’uomo era riuscito ad incastonarsi in quei versi. Più che nei suoi romanzi, Caterina percepiva tutta l’essenza del marito in quelle parole, percepiva la sua voce morbida. Passò con delicatezza le dita sulla copertina rossa e sorrise dolcemente. Si era immaginata le braccia dell’uomo circondarla, come era solito fare. Si era immaginata sussurrarle ti amo nell’orecchio.
La macchina si fermò e lei si destò dalla sua fantasia. La villa polverosa si apriva davanti a lei in tutta la sua magnificenza barocca. Ma a osservarla bene, i difetti venivano alla luce: le finestre divorate dalla salsedine, il giardino che non riusciva a verdeggiare, le incrostazioni dell’intonaco.
Maria li aspettava sul portone d’ingresso. Lo sguardo accigliato era sottolineato dalla matita nera. La sua figura era completata dai severi capelli corvini e gli abiti scuri. La somiglianza con Andrea era tutta lì, ma anche tutta lì terminava. Il buon cuore non l’aveva sicuramente preso da lei. Caterina la osservò torva per qualche secondo prima di scendere dall’auto. Non lo dava a vedere, ma aveva il cuore in gola e le mani che le tremavano per l’ansia. Scese con calma apparente, con la stessa calma con cui salì i gradini di pietra ed entrò in quella casa inquietante, ma allo stesso tempo affascinante. La donna la invitò ad entrare con un gesto sprezzante, quasi sofferto. Quando furono finalmente sedute una di fronte all’altra, Caterina estrasse il libro dalla borsa e glielo porse. Un lampo sembrò passare per gli occhi di Maria. Strinse le dita ossute attorno alla pelle rossa del libro.
«Non sono stata abbastanza chiara? Vuoi veramente gli avvocati? Lo sai che a me non serve niente. L’altra volta Andrea si è opposto. Ma questa volta non esiterò» ma Caterina non fu scalfita da quelle parole. Sorrise debolmente.
«Chiedo solamente che lo legga. Prima di portare avanti azioni legali o simili. Legga quelle parole. Ne riparliamo appena finisce» si alzò senza aggiungere altro, raggiungendo Andrea che l’aspettava appoggiato allo stipite della porta. Richiamò con voce chiara i figli e se ne andarono, non lasciando mai il contatto visivo con Maria.
Andrea guidò fino a casa sua ad Amalfi. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto, lui con gli occhi fissi sulla strada che ribolliva, lei con lo sguardo perso fuori dal finestrino a rimirare quei paesaggi che non conosceva, ma che risplendevano sotto il sole estivo. Giulio chiese di mettere un po’ di musica, angosciato dall’anomalo silenzio che vigeva nell’abitacolo. Non riusciva a comprendere come mai la madre di fosse oscurata d’improvviso. Non si spiegava come mai quella donna anziana che l’aveva squadrato a lungo, aveva un’influenza tanto forte sia su di lei che su suo zio. Catalizzava su di sé tutta l’attenzione, li rendeva silenziosi, preoccupati, li rendeva angosciati.
Caterina rifletteva sulla possibilità di pubblicare ugualmente quel libro: sarebbe significato trovarsi Maria alle calcagna con un paio di avvocati al guinzaglio pronti a mordere. Pronti a portarle via tutto quello che aveva. Si domandò se ne valesse la pena: avrebbe potuto perdere la casa, avrebbe potuto perdere tutto, forse perfino i suoi figli. Sperò con tutta se stessa che Maria leggesse quelle parole, che le apprezzasse, o che almeno non le disprezzasse. Sperò che la lasciasse celebrare il marito come preferiva.
Arrivarono a casa di Andrea nel tardo pomeriggio, stanchi e affamati, ma per Giulio e Lucrezia il sonno ebbe la meglio e crollarono sul divano in un secondo. Caterina invece si perse per i corridoi stretti e freschi di quella casa così imponente, così splendidamente rimasta a qualche anno addietro nel tempo. Comprese subito come mai Stefano vi ci si rifugiasse: ogni singolo pezzo di quell’abitazione era fonte di ispirazione continua. Ogni oggetto aveva la sua storia che necessitava d’essere raccontata.
Il suo giro terminò sull’ampia terrazza che guardava il mare: Andrea era seduto là con un bicchiere di vino tre le mani e gli occhi fissi sull’orizzonte che stava diventando sempre più aranciato. Si sedette accanto a lui.
«Pensi che Maria ci passerà sopra?» gli chiese con voce flebile. Andrea rimase in silenzio a lungo.
«Forse sì» era sola speranza la sua: la madre poteva essere imprevedibile, eppure sotto la pelle sentiva che forse era la volta buona che passava sopra tutto. Che avrebbe finalmente accettato Stefano per quello che era. Voleva tenersi quelle speranze solo per se stesso: non voleva darne di false e vane a Caterina.
La mano di lei cercò quella di lui: la strinse con quanta più forza poteva. Aveva bisogno di quel contatto più che mai. Sentire nuovamente quel contatto ad Andrea fece più che bene: il suo cuore si riempì improvvisamente, le guance si arrossarono, le labbra si piegarono in un sorriso quasi involontario. Era nel suo posto preferito al mondo, era con la sua persona preferita al mondo. Quel momento cariche di ansie e preoccupazioni sarebbe stato uno di quelli che Andrea si sarebbe portato dentro per sempre.
*
Cara mamma,
Ti scrivo pur sapendo che non leggerai mai queste parole. Sono nove anni che non ti vedo. Sono nove anni che non ti parlo. Sono nove anni che mi manchi. Nonostante il tuo comportamento, io sto ancora rimpiangendo il giorno in cui mi sono allontanato da Napoli, mi sono allontanato da te. Ieri sera è nato mio figlio Giulio. Per la prima volta mi sono sentito realmente responsabile per qualcun altro. Non ti sto a spiegare l’emozione enorme che ho provato nel tenerlo tra le mie braccia. So che capisci. So che tu hai provato le stesse emozioni. Sono sicuro che farei di tutto per lui, farei di tutto per proteggerlo dal mondo esterno. Proprio come volevi fare tu. Ma poi ho anche capito che avrà bisogno non solo di protezione, ma anche degli strumenti per affrontare il mondo. E io e Caterina siamo i primi a doverglieli dare. Voglio di poterlo crescere nell’amore, nell’accettazione di sé. Tu hai avuto paura, lo capisco. E per questo io ti perdono. Ti perdonerò per sempre.
In attesa di rivederti di nuovo, di mando un grande abbraccio.
Ste’.
Maria chiuse quella lettera e la ripose nel cassetto del comodino. Tutto quello che Stefano aveva scritto era vero. E quelle parole erano diventate dei marchi di fuoco sulla sua carne. Un pentimento insopportabile, un fardello che si sarebbe portata dietro per il resto della propria vita. Era sempre stata certa, fino a quel momento, di aver agito nella maniera giusta. Era sempre stata sicura che quello di limitarlo fosse il modo corretto per proteggere il figlio. Anche a costo di vederlo lontano. Si portò le mani al volto e cercò di ricacciare dentro le lacrime. Non poteva fare più niente ormai. Era troppo tardi. Stefano non poteva più ascoltare nessuna sua parola. Aveva avuto paura, una paura che era diventata incontrollabile.
Aprì nuovamente il cassetto del comodino e prese il libro che le aveva portato Caterina. L’aveva letto in un pomeriggio. Così come aveva consumato velocemente anche gli altri. Aveva sentito la necessità, nel tempo, di dover conoscere quel figlio che non era più suo. E non lo era per colpa sua. Sentì quindi il dovere morale di fare la sua piccola parte, potergli dare la possibilità di dire addio al mondo in maniera definitiva, lasciando però ben marcata la sua impronta, seppur piccola, nella storia.
*
Maria chiamò Andrea in piena notte. Lui scattò in piedi, impaurito al suono del cellulare. L’ansia non terminò nemmeno quando vide il nome della madre brillare sullo schermo.
«Pronto?» la voce era impastata dal sonno, non riusciva a tenere gli occhi aperti. Nel frattempo, Caterina era accorsa dalla stanza accanto.
«Passami Caterina» nel tono severo e spesso di Maria si celava un filo di preoccupazione. Andrea allungò il cellulare alla donna di fronte a sé.
«L’ho finito. Per me puoi farci tutto quello che vuoi.» Caterina sentì il cuore esploderle nel petto: un sorriso si dipinse sul suo volto, talmente tanto grande che sembrò toccarle entrambe gli orecchi.
«Grazie Maria, grazie. Arrivederci» l’altra non rispose nemmeno, ma a lei non importava. Le bastava solo quel beneplacito. Abbracciò d’impulso Andrea, stringendolo tra le sue braccia pallide.
«Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta» si ripeteva piano, ma a lui parve che lei stesse cercando di dirlo a Stefano. Era così: Caterina sentì la gioia che la riempiva mescolarsi con l’angoscia, con il desiderio che potesse dirlo al marito, per poterlo vedere sorridere di nuovo. Chiuse gli occhi, cercando di contenere le lacrime e l’immagine di Stefano divenne nuovamente nitida. Lui era tornato, era finalmente tornato al suo fianco.
«Grazie Caterì» era tornato quello che aveva visto per la prima volta nel bar in via de’ Servi: gli occhiali chiari, i capelli corti, le labbra leggermente screpolate per il freddo. Lui c’era, lui ci sarebbe sempre stato. E ora doveva continuare con quella consapevolezza.
Si staccò dall’abbraccio con Andrea e lo guardò profondamente negli occhi: Stefano era anche lì, in quell’azzurro tanto chiaro. Prese il suo volto tra le mani, facendo passare delicatamente il pollice sulla guancia macchiata di una leggera barba scura.
«Che c’è Caterì?» la voce profonda di Andrea le giunse lievemente ovattata. Avvicinò il volto al suo, facendo sfiorare la punta dei nasi. Chiusero entrambi le palpebre, inspirando a lungo il profumo dell’altro, assaporando a lungo quel momento che avevano temuto a lungo. Ma poi le labbra di Caterina si portarono in avanti, toccando appena quella di Andrea. Si fermò, impaurita. Era la scelta giusta? Aprì gli occhi, osservando il volto dell’uomo nella penombra. Stava per fare il passo più azzardato della sua vita. Ma non poteva più mentire a se stessa, non poteva più sopprimere quello che sentiva.
Allora lo baciò.
*
Andrea osserva la schiena nuda di Caterina, lievemente bagnata dalla luce dell’alba. Una brezza leggera arriva dal mare, facendo ondeggiare le tende bianche. A lui pare di essere in paradiso. Caterina si gira dolcemente e arriccia le labbra. Andrea fa scivolare il pollice sul volto appena abbronzato della donna. Lei, a quel tocco, sorride beatamente. Vorrebbe fermare il tempo, vorrebbe vivere quel momento all’infinito. Sono anni che non si sente così bene.
Gli prende la mano, bacia delicatamente le nocche e finalmente lo guarda negli occhi: quegli occhi che sono pungenti e forti come quelli di Stefano, eppure più sfumati, i confini meno marcati. Andrea è così: senza definizione, sfumato, sfuggente. Non riesce a capirlo appieno, ma ha tanto tempo per farlo. Il resto della vita.

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