Ghunum Mànan

di beavlar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sangue sporco ***
Capitolo 3: *** Richieste nella roccia ***
Capitolo 4: *** Il dovere di un re ***
Capitolo 5: *** Casa ***
Capitolo 6: *** Il dovere di una regina ***
Capitolo 7: *** Sotto le stelle ***
Capitolo 8: *** "E a cosa appartiene il vostro?" ***
Capitolo 9: *** Donami uno sguardo ***
Capitolo 10: *** Fuoco e elfi ***
Capitolo 11: *** Fuori Erebor ***
Capitolo 12: *** Preghiere inascoltate (parte 1) ***
Capitolo 13: *** Preghiere inascoltate (parte 2) ***
Capitolo 14: *** I Valar ti odiano quanto io ti amo. ***
Capitolo 15: *** Il fabbro ***
Capitolo 16: *** Zabd-ê ***
Capitolo 17: *** Sentimenti celati ***
Capitolo 18: *** AVVISO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo









 
Il sole ormai era dietro l'enorme Montagna Solitaria, i suoi raggi illuminavano a malapena la scena che si svolgeva sotto di essa, mentre le urla di guerra e il rumore dei colpi sugli scudi creava una nenia che perfino gli dei avrebbero smesso di ascoltare, come le preghiere dei guerrieri ormai caduti sul campo di battaglia.
Gli orchi erano ammassati gli uni sugli altri mentre sovrastavano le ultime truppe naniche rimaste e le poche decine di elfi rimasti fedeli, non a Thranduil ma a sé stessi e al loro onore. Combattevano sotto gli occhi non curanti del loro signore, la sua battaglia era già finita, mentre quella del Re sotto la Montagna era appena cominciata.
Thorin si tirò dritto sopra la lastra di ghiaccio mentre nella penombra l'orco pallido si avvicinava tenendo nella sua mano un enorme blocco di pietra collegato a una catena che gli risaliva il braccio ancora intero fino alla spalla.
La neve gli batteva sul viso mentre avanzava lentamente verso Azog, quasi come a tenerlo indietro, per evitargli quella battaglia che quasi certamente avrebbe decretato la sua disfatta, ma per gli dei, avrebbe ucciso il fautore della sua collera.
Alzò lo sguardo per un attimo verso i restanti resti della torre, lì i corpi di Fili e Kili giacevano in un misto di pietra, neve e sangue. Il suo battito accelerò e poté sentire chiaramente un ruggito risalire verso la sua gola accompagnato da un intenso dolore al petto.
I suoi nipoti non c'erano piu'.
La sua famiglia spazzata via da un unico essere che ora caricava Thorin trascinando il blocco di pietra. Il re facendo uscire un ruggito carico di dolore, schivò il colpo e poi un altro cercando di affondare la sua lama nella carne dell'avversario. I colpi erano forti e il ghiaccio sotto i due cominciava a spezzarsi, creando delle lastre di ghiaccio che non resero il combattimento piu' facile per Thorin che dovette piu' volte evitare di assestare qualche colpo per non rischiare di cadere nelle acque gelate.
La mano gli tremava mentre l'orco ruggente cercò di assestargli un colpo verso le gambe che lui schivò andando in avanti e ferendo allo stomaco l'orco, che con un giro del braccio, gli ferì il viso dalla fronte all'occhio. Thorin gemette e percepì il sangue scendergli verso la gola e il pettoche gli si alzava e si abbassava sempre piu' velocemente. Sapeva di non poter resistere al lungo e che se non avesse sopraffatto a momenti Il Profanatore, non ci sarebbe piu' riuscito. La stessa situazione accadeva a decine di metri sotto di lui dove gli eserciti continuavano a decimarsi senza avere la meglio sull'altro.
Con l’affanno Thorin guardò l'orco che si teneva lo stomaco ormai lacerato e che con un ghigno guardava giù dalla ormai gelata cascata osservando le sue truppe decimare quelle dei nani e delle razze che combattevano al loro fianco. Alzò lo sguardo e avanzò lentamente Thorin con sguardo trionfante.

"Non verrà distrutta solo la tua stirpe, nano, ma anche tutta la tua razza!" ghignò a spunto del sangue nero dalla sua bocca deforme "Garuga!" urlò iniziando a muoversi velocemente vero Thorin, che digrignò i denti e tenette la spada con entrambe le mani dandosi forza e pronto per la difesa.

Lo sguardo era diritto verso gli occhi della bestia e l'occhio ormai sporco di sangue dalla sua fronte si aprì meglio per guardare il nemico.
L'orco lanciò un urlo che fece tremare anche le viscere di Thorin, ma sopra di esso un altro suono non un urlo, un corno, sovrastò anche la paura del re, che osservo l'orco bloccarsi e guardare dietro di lui mentre con gli occhi spalancati mentre un secondo rombo del corno sconosciuto risuonava nell'aria. Il momento era perfetto, Thorin caricò in avanti e con un unico fendente trapassò il ventre dell'orco da parte a parte gettandolo sul ghiaccio e sovrastandolo con il suo corpo.
"Per la mia gente, per i miei nipoti, per mio nonno, per Erebor" ruggì tra le labbra il nano sovrastando con il suo peso l'orco e guardandolo negli occhi mentre gli occhi di quest'ultimo sbattevano per l'ultima volta.
Tutto il dolore, la rabbia e la sofferenza di Thorin si riversarono in quel fendente mentre urla e rumori di zoccoli facevano da sottofondo al momento e un terzo suono di corno rimbombò nella valle.
Thorin alzò lo sguardo dal cadavere del nemico guardando anche lui giù nella valle e sgranando gli occhi vedendo centinaia di soldati nanici scendere dal pendio per finire gli orchi rimasti. Rimanendo in ginocchio sul freddo ghiaccio e scostandosi dal cadavere di Azog si spostò per guardare meglio la valle aggrappandosi alle rocce accanto a lui.
Seguì con gli occhi la direzione di provenienza delle truppe fin sopra la collina. Da essa i nani correvano verso la battaglia, ma un dettaglio catturò il suo sguardo, un dettaglio che lo lasciò perplesso: un destriero nero si poneva alla guida delle truppe e su di esso, anche se
con la vista sfocata, Thorin riuscì a vedere una donna con in mano un corno bianco nanico nelle mani che guardava la battaglia e urlava incitando i nani a combattere.

"Per Ere..! Per la ...gna! Per il ...ro Re!" riuscì a udire Thorin ma i suoni diventavano lontani e i suoi respiri sempre piu' pesanti e faticosi.

Si gettò di fianco al cadavere dell'orco guardando il cielo per qualche secondo e poi voltando la testa verso i corpi dei suoi nipoti che troppo giovani avevano perso la vita solo per seguirlo.
Il senso di colpa lo trafisse nel petto come una lama e lasciando una singola lacrima fuoriuscirgli dagli occhi, si lasciò andare sentendo le tenebre avvolgerlo.
L'ultima cosa che sentì furono i gridi delle aquile e quelle di Bilbo che urlava il suo nome mentre il buio cadeva su di lui accompagnato dal suono del corno che gli aveva salvato la vita.











Grazie a tutti se siete arrivati fino a qui, e spero che questo breve prologo, anche se babale, abbia stuzzicato la vostra curiosità. Per motivi logici sono dovuta uscire dal canone, prendere piu' tempo e cambiare quindi anche dei dialoghi. Le mie conoscenze sul mondo di Tokien sono relativamente ampie ma anche in questo caso mi concederò delle libertà sia per la storia, sia per i meccanismi del mondo, dovrò infatti spesso descrivere situazioni che non sono state approfondite dallo stesso autore. Grazie e al primo capitolo. :)

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Capitolo 2
*** Sangue sporco ***


capitolo revisionato

Sangue sporco




 






Sentiva delle voci in lontananza, come sussurri. Non riusciva a distinguere i toni, era solo un rimbombo meccanico nella sua testa, flebili sussurri leggeri come piume. Non avevano nemmeno senso. Una parola poteva significarne cento, come cento potevano significarne solo una. Thorin non vedeva niente, l'oscurità continuava ad avvolgerlo, non una luce non un segno, niente che lo potesse far uscire da quel buio.
Le voci continuavano, più alte adesso, più scandite erano le parole e, quasi come se stesse risalendo dalle profondità di un lago, Thorin riuscì a sentire il suo respiro mentre le sue mani si avvinghiavano a quelle che a primo tocco gli sembrarono pellicce.
Il corpo gli doleva in una maniera indicibile, ogni respiro gli sembrava una coltellata ben assestata, e quando tentò di aprire gli occhi, per identificare dove si trovasse ma una luce intensa lo investì facendoglieli socchiudere di nuovo.
Gli occhi si abituarono lentamente ai colori e alla luce, pesanti come macigni, faceva difficoltà ad aprirli, ma da piccole chiazze sfocate sopra di lui riuscì lentamente a identificare le forme.
Tessuti verdi blu erano sopra e intorno a lui, un odore acre di sangue gli investì le narici, non gli ci volle molto a capire che fosse il suo.
Con la coda dell’occhio captò uno scintillio, la sua armatura, lacerata e sporca di sangue era posta accanto al suo giaciglio e accanto ad essa, Orcrist sporca di sangue scuro era poggiata su uno sgabello.
Il dolore e la confusione che gli annebbiavano la mente furono sostituiti dalla consapevolezza di quello che era successo, lo aveva ucciso, aveva ucciso Azog.
Ma a quale prezzo… una muta angoscia prese possesso di lui, frammenti di immagini gli tornarono alle mente, il ghiaccio, il sangue, i volti di Fili e Kili nella neve. Dalle labbra socchiuse uscì un sospiro lento e gutturale, non doveva finire così, non poteva essere finito tutto così. Era tutta colpa sua, solo sua.
Fissò intensamente la lama sporca, mentre il mondo attorno a lui scompariva, e le figure dei due suoi ragazzi gli si presentavano davanti come spettri lontani. Non li avrebbe piu’ rivisti, non li avrebbe piu’ sgridati, non avrebbe piu’ raccontato loro le grandi gesta dei re del passato. Solo una lacrima si lasciò scappare  solo questo poteva permettersi.
 
“Kili…Fili…” un lamento silenzioso gli uscì dalla bocca.
 
I loro volti cominciarono a sparire rapidamente lasciando spazio di nuovo a la sedia con sopra la sua spada, mentre una voce lo stava riportando alla realtà.

"Thorin, Thorin mi senti? Bofur chiama Òin, per piacere, per l’amor del cielo."
Si ridestò lentamente ruotando leggermente la testa ancora con gli occhi semi socchiusi guardò sopra di sé e  con sua grande sorpresa mastro Baggins con gli occhi quasi lucidi lo guardava  sorridendo.
“Thorin, Thorin guardami, rimani vigile Thorin.”
 
Percependo la sua mano stringersi intorno al suo braccio aprì un po’ di piu' gli occhi e mosse la sua mano libera verso la mano con cui gli teneva il braccio lo hobbit. Era reale? Qualcosa in quel momento era reale? La battaglia era vinta? Con quel minimo di forza che riuscì a usare gli strinse leggermente l’avambraccio guardandolo negli occhi.

"È finita?" Riuscì soltanto a chiedere aprendo finalmente gli occhi e annaspando per l’aria che gli mancava, ma una fitta intensa gli fece serrare la mascella e stringere gli occhi.
“Accidenti!” Gemette.

Bilbo lo strinse ancora di piu' al braccio annuendo velocemente mentre guardò preoccupato verso il petto del nano.


"Si Thorin, si è finita, ora sta fermo, per piacere" Disse preoccupato tenendogli il suo braccio giù “Òin sarà qui a momenti, non sei ancora in forze ti prego sta fermo.”
Insistette e Thorin dovette accettare l’idea che non muoversi era l’idea migliore.
Guardò con occhi pieni di orgoglio, ma come uno pugno in pieno petto le immagini di Fili e Kili gli tornarono alla mente, facendolo accasciare ancora di più sul cuscino.

"Fili, Kili..." sussurrò guardando Bilbo e lasciandogli il braccio piano, mentre quest'ultimo sospirò e trasformo in suo sorriso in un’espressione malinconica.
Bilbo scosse la testa e lasciò andare il braccio al nano e lì capì che era davvero finita. Tutto lo era, la guerra ma anche la sua discendenza, tutto per Erebor.
Distolse lo sguardo dall’hobbit mordendosi il labbro pesando a sua sorella, se avesse potuto, non glielo avrebbe mai detto, non era abbastanza forte da affrontare un lutto del genere. Non di nuovo.

"Eccomi Bilbo eccomi, oh Thorin sei sveglio finalmente." La voce di Òin gli fece alzare lo sguardo verso l’entrata, distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri.
“Spostati per favore.” Si rivolse a Bilbo che annuendo velocemente si andò allontanò dal letto, ma rimanendo ben attento ai movimenti di Thorin.
Impacciato, il vecchio nano si avvicinò al letto tenendo la cornetta nel suo orecchio stringendo nell'altra una sacca che poggiò delicatamente a terra.
Con il braccio non immobilizzato dalla fasciatura, cercò di tirarsi su a sedere, il suo orgoglio aveva sempre la meglio sul suo buon senso. Velocemente però il vecchio nano scosse la testa. “No no fermati, Thorin, non hai ancora recuperato le forze.”
 
“Òin sto bene.” Lo rassicurò ma fu tradito da un gemito gutturale che gli scappò mentre si metteva a sedere che per quanto avesse provato a non emettere gli era sfuggito.
Bilbo alzò gli occhi al cielo. “Se continui a muoverti ti farai del male già piu’ di quanto ti sia stato inflitto.”
 
“Ho detto sto bene.” Ribatté con un tono che non ammetteva repliche, e anche se ci fossero state, non le avrebbe ascoltate. Stringendo gli occhi infatti con un ultimo sforzo si mise a sedere con la schiena poggiata allo schienale del letto.
 
Notò lo sguardo di Bilbo rassegnato e mentre Òin si accingeva a slegargli le bende che gli ricoprivano il petto, Balin e Dwalin, uno accanto all’altro, entrarono nella tenda  ansimando leggermente.
Guardandolo intensamente facendo chiudere il tessuto dietro di loro e con un breve inchino con la testa si misero un pungo sul cuore attirando la sua piu’ totale attenzione che si spostò dal fastidio delle bende che venivano tolte a loro.

 "Mio re." Dissero all'unisono prima di guardarlo di nuovo negli occhi sorridendogli, Balin piu’ del fratello che con le braccia al petto faceva passare lo sguardo su di lui.
“Ancora per poco però se non si lascia medicare.” Rise scostandosi dall’uscita e muovendosi piu’ al centro della stanza.  Thorin non disse nulla ma per tutta risposta lasciò la testa poggiarsi ancora di piu’ all’indietro respirando piu’ lentamente.

"State bene?" chiese rivolgendogli uno sguardo serio ma pieno di orgoglio, orgoglio non per sé ma per la sua gente.

I due annuirono mentre Òin dal canto suo, provava con gentilezza e cura a togliere tutte le bende dal suo petto.
"Stiamo tutti bene, qualche graffio ma niente che non possa guarire" gli rispose Dwalin girandosi leggermente di spalle permettendogli di vedere un taglio dietro al collo.

"Tu ci hai fatto preoccupare ragazzo.” disse invece Balin mettendosi le mani dietro la schiena e avvicinandosi al capezzale.
 
"Le ferite non sono gravi, ma solo molto dolorose. D’altro canto, sei stato incosciente per molto.”
aggiunse Òin rimuovendo l’ultimo strato di tela sul suo petto. Riuscì finalmente a guardarsi il petto e mordendosi il labbro si rese conto della veridicità delle sue parole. Un taglio enorme gli deturpava il  petto, mentre contusioni viola piu’ grandi di un braccio gli facevano da contorno, senza contare la spalla che a mala pena riusciva a muovere.


"Un taglio da parte a parte ragazzo e due costole rotte, pochi minuti  di indugio e non avresti più respirato, senza contare la spalla slogata". Disse guardandolo per poi sorridere tristemente sotto la barba.
“Ma niente piega un Durin.” aggiunse trionfante con un tono quasi di trionfo, ma lui non si sentiva così trionfante. Il pomo d’Adamo gli si alzo e gli si abbassò mentre cercò di parlare.

"I miei nipoti..."

"Avranno una degna sepoltura, Thorin." lo interruppe Dwalin guardandolo serio e  poggiando una mano sulla spalla di Balin per poi avvicinarsi ancor di più al suo capezzale, mentre Ori non riuscendo a guardarlo in volto, gli annodava l’ultimo giro di bende pulite sul petto.
"Sono morti da eroi e come eroi verranno celebrati." Gli assicurò non riuscendo a controllare ma malinconia che gli fece tremare leggermente la voce.

"Erano dei bravi ragazzi e dei bravi guerrieri, l'intera terra di mezzo dovrà saperlo!" Ruggì mettendosi seduto sul lato del letto ma non potendo sommettere questa volta un gemito di dolore, che però si confuse con il dolore che provava nel profondo del suo petto, un dolore inguaribile.
 
“Thorin fermo per l’amor del cielo…” Bilbo non riuscì a finire la frase che Thorin di tutta risposta si alzò dal letto reggendosi alla colonna di legno accanto al suo letto.
 
"Anche gli elfi lo dovranno sapere, tutti loro!" Ruggì profondamente ansimando mentre la mano lo sorreggeva.

A quelle parole Balin si morse il labbro interno scosso. Suo fratello lo notò, lanciandogli un’occhiata severa, mentre Thorin che non li guardava si dirigeva lentamente verso il tavolo in mezzo alla stanza con i vestiti puliti, trattenuto per un braccio da Òin .
Balin o era, estremamente nervoso, tirato come un filo di un arco. Si dovette mordere  la lingua, non era il momento di rivelare alcuni dettagli, non ora, non ancora, soprattutto per come aveva reagito, non era affatto il momento.

Dwalin nel frattempo porse la camicia blu poggiata su una sedia e Thorin annuì in ringraziamento facendosela passare sopra la testa trattenendo l’ennesimo gemito di dolore,  lasciando fuori solo il braccio con la fasciatura. Un silenzio innaturale gli fece alzare lo sguardo verso i due fratelli ormai davanti a lui e poi verso Òin che non osava guardalo negli occhi mentre velocemente ripuliva il tavolo dove le bende ancora macchiate di sangue erano poste. Qualcosa non tornava un’improvvisa preoccupazione si fece avanti nel suo petto
 
“Cosa non mi dite?”

"I-io credo che sia meglio che vada ad avvertire gli altri del tuo risveglio, saranno felici di vederti." disse Bilbo alzandosi velocemente dallo sgabello su cui si era appollaiato, osservando gli scambi in silenzio. Scappò furtivo dalla tenda senza neanche degnarlo di uno sguardo. Era un Hobbit, doveva occuparsi di cose da hobbit, la politica non era il suo forte nossignore, non voleva averci nulla a che fare. L’importante per lui era solo che il suo amico fosse vivo, il resto poteva aspettare un altro giorno.

Thorin osservò di sottecchi Bilbo uscire dalla tenda, quel comportamento non era da lui nessuno dei comportamenti dei presenti lo era. Qualcosa non andava, lo percepiva, guardò Balin avvicinandosi reggendosi la spalla dolorante

"C'è qualcosa che dovrei sapere?" pausa "Balin?" gli domandò avvicinandosi, e sentendosi chiamato quest'ultimo sospirò e alzò lo sguardo da terra per fissarli nei suoi.
Non era questo il momento non lo era fatto, ma gli occhi del giovane nano non ammettevano repliche o omissioni. Scoraggiato sospirò scuotendo la testa.


"Il clan Nerachiave è venuto in nostro soccorso, negli ultimi istanti della battaglia. Sono stati il motivo della vittoria Thorin."

Thorin si addrizzò di colpo, i Nerachiave, aveva inviato un corvo anche a loro, a Telkar dei Monti Gialli. Aggrottò le sopracciglia confuso ricordando il corno e la giovane donna sul cavallo nero che guidava le truppe naniche. No, no, era certamente una nana, non un’umana, la mente gli deve aver giocato brutti scherzi.
 
“Telkar Nerachiave è qui?”

"Telkar non c'è." Si affrettò a dire Dwalin prima che Balin potesse rispondere. " Ha...mandato un emissario, qualcun altro come comandante delle sue forze e come sua voce di conseguenza" rispose guardando il suo re.
Thorin riuscì a captare un punto di frustrazione nel suo tono. Stava per aggiungere altro,chiedere altro, ma la mano di Dwalin si posò sulla sua spalla.

"Mio re, c'è tempo per tutto, consigli, assemblee e politica. Ma questo momento è solo tuo, va bene…” pausa ”Thorin Scudodiquercia?" Gli chiese guardandolo negli occhi e Thorin annuì mettendogli una mano sulla sua lasciando che le domande si andassero a nascondere nel fondo della sua mente.
"Solo nostro" aggiunse e guardo Dwalin e Balin con un sorriso leggero.
 








Camminò a lungo per il campo di battaglia, aiutava i vari eserciti a caricare i propri morti sui carri. Anche se il dolore al petto non era passato e ogni movimento gli costava uno sforzo disumano, non poteva stare in una tenda a guardare mappe e carte mentre un tale dolore giaceva di fronte alle porte di Erebor. Erebor che ora andava ricostruita, non solo fisicamente ma anche simbolicamente.
Sale, corridoi dovevano diventare nuovamente il rifugio per la sua gente. Il fetido odore di Smaug doveva uscire non solo da quella città ma anche dal suo, dove aveva generato la sua follia. Nessuno, neanche Bilbo disse nulla al nano riguardo agli avvenimenti antecedenti alla battaglia. Non una parola. Nessuno lo ritenne responsabile anche se lui si sentiva in obbligo verso la lealtà che i suoi compagni gli avevano dimostrato, anche quella di Bilbo che alla fine si era dimostrata la più efficace. Ma ogni gesto gli ritornò alla mente, mentre la frenesia l’aveva colto, aveva fatto così tanti errori, così tanti erano morti, per la sua cupidigia, i suoi nipoti erano morti per la sua caparbietà.

I cadaveri degli orchi vennero ammassati su un lato della montagna, nessuno li era venuti a reclamare, perché la loro guerra non c'era mai stata, erano solo pedine su una scacchiera più grande. Man mano gli davano fuoco e il loro odore orrendo si espandeva su tutta la valle.
Gli elfi furono veloci, coprirono i loro carri con veli leggeri mentre alcuni di loro intonavano canti dolorosi e strazianti, anche con quel poco che riuscì a capire, la tristezza gli oscurò il cuore. Molte vite elfiche erano state gettate da un re, che non voleva altro che le sue gemme bianche. Thorin non poteva sapere che non poteva odiare Thranduil come lui odiava sé stesso in quel momento. Ma gli elfi se ne facevano davvero qualcosa del suo rancore? Le ragioni di Thranduil non erano state diverse dalle sue. Tutto questo doveva finire il continuo rinfacciarsi di avvenimenti doveva finire. Kili sarebbe stato d’accordo con lui. Aveva visto a Bosco Atro come guardava quell’ elfa, li aveva sentiti parlare oltre le sbarre, quando pensavano che nessuno li ascoltasse. Gli avevano raccontato cosa aveva fatto per lui a casa dell’Ammazzadraghi, quando persino lui lo aveva abbandonato lei c’era. Se Kili amava davvero quell’ elfa e l’ elfa lo amava a sua volta perché tutto questo?

Gli uomini invece degli elfi erano molto lenti, su ogni cadavere almeno una donna piangeva, figli singhiozzavano tenendo le membra dei loro padri mentre venivano posti sui carri. Una giovane donna si tratteneva il grembo mentre teneva la mano di un uomo sul campo di battaglia. A quelle scene Thorin non si sarebbe mai abituato.
Nani dai Monti Ferrosi e dei Monti Gialli si aiutavano a vicenda a montare le grandi pire nel mezzo della valle, ma del consigliere di Telkar c’era traccia. Non che non avesse provato a richiedere la sua presenza piu’ volte, ma ogni volta che chiedeva Balin ma anche a qualsiasi altro, sviavano il discorso.
I nani, così come lui, si dimostrarono orgogliosi anche nel loro dolore. Non piangevano, non cantavano, non un suono usciva dalle loro bocche, ma come fece Thorin guardando le salme di Kili e Fili sulle tavole di marmo all'interno dell'androne palazzo, piansero lacrime invisibili e silenziose all'ombra della montagna.

La cerimonia funebre fu veloce, troppo veloce, come se tutti volessero dimenticare, volessero svegliarsi.
Avvenne la sera stessa della fine della battaglia, pire per i caduti furono allestite tra Dale e la Montagna, uomini e nani posto alle due estremità del campo di battaglia guardavano silenziosi l’accensione delle pire. Il silenzio regnava per la valle, niente se non il rumore del corno rimbombava pesante come un macigno dello spazio, come un tuono prima di una tempesta.   
 
Thorin si trovava in cima alla balconata di Erebor con la corona in testa e intorno tutta la sua compagnia, che si era stretta in un silenzio tombale guardando i corpi dall’alto di Fili e Kili che venivano lentamente tramutati in polvere. Con ogni fiammata che si alzava, un pezzo di lui veniva portato via, ogni fiammata che si alzava era un monito, un monito per non far più’ riaccadere quello che era successo. Con forza strinse il reggipetto della balconata, digrignando i denti. Non lo avrebbe piu’ permesso, mai piu’.
Gandalf al lato della balconata lontano dalla compagnia, con accanto solo Bilbo, sussurrava parole antiche, tristi, ma piene di significato, che avrebbero accompagnato i caduti e purificato i loro spiriti.
Con gli elfi già via, ebbe l'onere di sporgersi dal dorso del balcone leggermente e cominciare il canto funebre che avrebbe portato le anime di tutti loro nelle Aule di Mandos, con i loro padri. Bilbo osservava Thorin, come le sue mani fossero diventate bianco allo stringere del marmo, anche se lo stava nascondendo, anche se con poco successo, sapeva che qualcosa gli si muoveva nella testa. Sapeva che qualcosa si era irrimediabilmente spezzato, non aveva richiesto l’Arkengemma, non era tornato nella sala del tesoro neanche una volta dopoché si era ridestato. Osservò il suo viso statico, non un’ emozione lasciava trasparire, se non lo avesse conosciuto avrebbe detto che era rimasto il Thorin che lo stava per buttare giù dal bastione, ma la sua voce lo tradiva, piu’ roca, piu’ lenta di quella che non fosse già.   
Durante quel canto percepì, silenziosa e invisibile, il dolore di tutti i suoi compagni sulla schiena, pesante come un macigno.
Bofur stringeva la spalla a Bifur mentre quest’ultimo sospirava profondamente osservando il fumo salire alto. Ori, così giovane e con il carattere così poco temprato da perdite lasciò che delle silenziose lacrime gli attraversassero il suo viso, mentre i suoi fratelli lo guardavano rattristati standogli piu’ accanto possibile, si ritrovarono tutti e tre a pensare la stessa cosa,  
Le parole di Thorin erano intonate e andavano a tempo con il vento leggero delle prime ore della sera. I suoi occhi fisse sulle pire dei suoi eredi, a cui aveva fatto patire il suo onere in egual misura a quello che appesantiva lui. 
Come successe quando sconfisse Il Profanatore, il suo sguardo si mosse verso una figura in lontananza, lontana da tutti che osservava la scena, giù nella valle, una figura con un lungo vestito nero. La vide voltando solo leggermente la testa per guardare l’orizzonte mentre il suo canto continuava e si volgeva al termine.  Non riusciva, così come sulla torre quella mattina, a definire i suoi lineamenti, o la sua razza, ma era lei, era sicuro fosse lei.
Voltò lo sguardo solo pochi attimi di nuovo verso le pire e in quel frangente la figura era sparita, di nuovo.
Finì il canto e rimase in silenzio alcuni minuti sentendo gli altri nani dietro di lui silenziosamente lasciare la balconata. Le pire continuavano a bruciare, e il suo sguardo per quanto ci provasse non riuscì a staccarsi da essere.

“Sarebbero fieri di te Thorin, hai riconquistato la loro casa. Non volertene.” Bilbo si avvinò a lui silenziosamente e con riguardo. Aveva sempre considerato il suo tatto eccessivo, ma in quel momento gli sembrò la cosa piu’ opportuna.
 
“Ora tu tornerai a casa, non è così mastro Baggins?” gli chiese voltando leggermente la testa verso di lui scostandosi leggermente dalla balconata, allentando la presa sulla pietra.
“Ai tuoi libri, alla tua poltrona, al tuo giardino.” Il sorriso di Bilbo si fece triste, mentre tirando su col naso guardò altrove, come se lo avesse messo a disagio.
“Sono quasi tentato di non lasciarti andare via Mastro Scassinatore.”
 
Quella non era casa di Bilbo.
Era profondamente triste di fronte a quella realtà, lo aveva accompagnato durante il suo viaggio, senza pretendere nulla in cambio. E lui cosa gli aveva dato? Nient’altro che disprezzo e sospetto.  quella non era casa sua, per tutto il viaggio lo aveva fatto quasi impazzire con i suoi continui lamenti. Lo aveva odiato profondamente, perché Bilbo aveva ciò che a lui era stato tolto. I libri per lui erano la forgia, il suo giardino, i corridoi immessi nella montagna, la sua poltrona, il suo trono.  

“Ma so anche che questa non è casa tua.”  Bilbo si voltò verso di lui con un sorriso triste e gli occhi quasi lucidi; mentre come aveva già ben visto durante questi mesi, quando era nervoso, si dondolava sui piedi.
 
“Pianterò il mio albero” disse tristemente e annuendo con la testa ” e sotto di esso, mi ricorderò di voi… di tutti voi…di te…Thorin, tu, tutti voi, io…” Scosse la testa affranto prima di prendere fiato e puntare gli occhi nei suoi “quello che sto cercando di dirti è che io… Io non vi dimenticherò mai.”
 
Quelle parole furono come una carezza gentile nell’animo di Thorin. Non seppe cosa provò esattamente, ma la gentilezza dello hobbit la sua fedeltà gli rubarono un sorriso triste.
Neanche noi gli avrebbe voluto rispondere, ma il suo orgoglio ebbe la meglio ancora una volta. Bilbo, ringraziando Aulë, sembrò capire infatti annuì di rimando sorridendo.
 
“La mia avventura è finita, sissignore.” Disse dondolandosi sui talloni e guardando in basso non sorreggendo lo sguardo del re “Ma mi porterò dietro tutti voi, ci sarà sempre un posto per dei nani a casa Beggins”. Disse guardando finalmente Thorin negli occhi sorridendogli.


Thorin ridacchio con le labbra chiuse e annui allo hobbit mentre guardava l’orizzonte.
“E ci sarà sempre un posto nel regno di Durin per un hobbit” ammise Thorin e in amicizia si voltò e lo strinse sorridendo in modo malinconico “Sei parte della famiglia Bilbo.” Gli sussurrò allontanandosi e mettendogli una mano sulla spalla mentre lo hobbit annui tristemente guardando verso il basso.

“Partirò all’alba, la strada è lunga e Gandalf mi accompagnerà, almeno per un tratto si spera” disse verso Thorin “Saluterò gli altri domani, tu invece suppongo avrai da fare, Re Sotto la montagna.” Gli sorrise e fece un breve inchino, maldestro, poco regale, un inchino da Hobbit che fece sorridere il re ancora di più mentre le pire illuminavano la montagna.
 








La mattina dopo si svegliò molto tardi , ma dopo mesi si risvegliò in un letto, il suo letto.
Non aveva dormito sogni tranquilli, la ferita sul petto gli doleva, ogni movimento che compiva era una fitta e i suoi incubi non avevano certo aiutato.
Visioni di oro e fuoco avevano ossessionato la sua mente, aveva sperato che con la ripresa di Erebor gli incubi lo avrebbero lasciato in pace, ma non era stato così, per tutta la notte lo avevano assillato, facendolo piu’ volte svegliare bagnato di sudore e ansimante.
Si mise lentamente seduto sul letto con il viso tra le mani facendo dei lunghi respiri e passandosi poi entrambe le mani nei capelli alzandosi, con tale velocità che una fitta terribile alla spalla lo fece spostare in avanti.
 
Drack!” ruggì dal dolore tenendosi con una mano sul muro e un'altra la fasciatura intorno al petto. Così non avrebbe risolto nulla, avrebbe dovuto dare retta a Bilbo e rimanere a letto. Maledizione a sé stesso e alla sua testardaggine. Ansimante si dirette verso lo specchio e con un gemito si tirò dritto osservando il petto nudo coperto solo dall’enorme fasciatura. La slegò lentamente, con cautela, facendo dei grandi respiri ogni volta che sentiva una piccola fitta. Le bende non erano macchiate di sangue e questo era un bene, la medicazione non si era mossa. Con fatica fece fare un ultimo giro alla fasciatura e si avvicinò allo specchio. La ferita non era ancora chiusa del tutto, ma non secerneva liquidi, era pulita, gli ematomi però, sulla spalla e sulle costole erano viola e ben evidenti. Capì il motivo di tanto supplizio mentre si rigirava nel letto, piu si muoveva, piu’ quel dolore non avrebbe avuto fine.
Si avvicinò a passi decisi verso la cassettiera al suo letto e ne tirò fuori una benda pulita. Non si sarebbe rifasciato tutto il petto, non ne aveva intenzione alcuna. Lo avrebbe solo rallentato e appesantito, annodò i due capi esteri creando un cerchio con la stoffa, per poi passarselo dietro al collo e sotto l’avambraccio come sostegno per la spalla dolorante. Ora arrivava il difficile, vestirsi senza rovinare tutto. Indossare una camicia non gli sembrò mai cosi complesso, mentre indossare le brache gli costo due gemiti di dolore e il doppio di imprecazioni.
 
Alzò poi  lo sguardo verso le pareti, ornate di fregi dorati incastrati nella pietra, non si era fermato ad osservarle la notte prima, prima di addormentarsi, e avrebbe dovuto, così tanti ricordi gli tornarono alla mente.
Le antiche camere reali erano state la sera prima illuminate permettendo al giovane re di risiedere nelle stanze dei suoi padri.
L’aria era pesante, sentiva già il peso della sua razza sulle sue spalle, già il peso dell’essere re, per essere chi era sempre stato destinato ad essere.
Scese le lunghe scale dopo aver indossato il lungo mantello e la corona. Mentre camminava per i corridoi che lo dovevano portare giù verso l’androne principale di Erebor si guardava intorno, con aria incredula mentre le prime fiaccole illuminavano finalmente le sale della montagna e i ricordi gli passarono alla mente. La sua vita prima del crollo del suo mondo era diversa, molto diversa, ora la luce del fuoco doveva riprendere non solo il palazzo ma anche l’animo indurito di Thorin.

Scese la ultima rampa di scale approdando al lato della sala principale. Nell’androne del palazzo, sopra il pavimento d’oro erano state montate tende momentanee per i nani della compagnia. La sala era ghermita di nani che trasportavano travi, pietre e lanterne. La rinascita della città dei nani era cominciata. Non riuscì a nascondere un sorriso alla vista  ghermita di nani. Aveva così tanto desiderato questo momento che piede oltre la scala tutti i nani intorno a lui si fermarono e lo guardarono, per poi lentamente mettersi una mano sul cuore per rispetto. Thorin guardò verso di loro annuendo per poi cercare Balin con lo sguardo schivando i nani operosi, facendo cenni con il capo a risposta di “Salute re Thorin” o “Mio re”.
Arrivò fin quasi all’uscita di Erebor prima di trovare Balin che in mezzo all’enorme corridoio guardava su dando indicazioni a Bifur che insieme a Nori, legati con delle corde trattenuti da Glòin e Bofur, stavano cercando di riposizionare lo stemma di Durin sopra l’arcata dell’entrata. Thorin si avvicinò da dietro al vecchio nano, mentre questo era distratto e si schiarì la gola, facendo sobbalzare Balin.

“Oh, mio caro ragazzo! Felice di vedere che tu ti sia svegliato, stavo per farti mandare a chiamare.” disse girandosi verso Thorin per poi riguardare su’ dando delle indicazioni.

“Non sono piu’ giovane come allora, come l’ultima volta che siamo stati in queste sale.” Storse la bocca leggermente affiancandosi a Balin che non staccava gli occhi da. “E non ho dormito sogni tranquilli.” Aggiunse serio lanciando un’occhiata verso il vecchio nano che annuì serio.
“Ancora quegli incubi?” Annuì evitando lo sguardo preoccupato dell’anziano nano accanto a lui. Si preoccupava troppo, lo aveva sempre fatto. “Sto bene Balin.” Gli disse secco, non volendo approfondire l’argomento, che poi sarebbe comunque arrivato a toccare dei punti dolenti per entrambi.
Balin sospirò scuotendo la testa, non tornando sull’argomento ma lanciando un’occhiata verso le sue spalle.
“In ogni caso sei in perfetto orario, tra un paio d’ore comincerà il consiglio per gli accordi ragazzo.” Thorin si girò verso dove aveva guardato il nano di fronte a lui, verso la porta che si trovava a diversi metri sopra le loro teste.   

“Potrebbe essere piena di sorprese” sussurrò sperando che Thorin non lo sentisse, ma lui lo sentì e bene anche. “Il tuo primo evento politico come Re Sotto la Montagna!” aggiunse come per cancellare l’affermazione di prima in modo frettoloso mentre Thorin sospirò guardando il tavolo girando leggermente la testa.
“Spero di essere un buon re come mi hai insegnato” disse no staccando gli occhi dall’enorme sedia che sovrastava per altezza le altre intorno al tavolo.

“Lo sarai giovane lo sarai” annuì Balin e Thorin sospirò scuotendo la testa, arrendendosi, avevano la fiducia in lui, quando lui stesso non aveva in quel momento.

Nelle ore seguenti, l’intero androne era stato ripulito, i nani non indispensabili all’consiglio erano stati mandati all’esterno a riparare i danni dovuti da Smaug mentre molti altri erano stati mandati come emissari fuori dai confini di Erebor, per far tornare a casa i nani rimasti sparsi nelle Terre Selvagge e nei luoghi piu’ remoti della Terra di Mezzo.
Nella sala del consiglio faceva da fulcro un enorme tavolo di granito verde, venuto fuori dalla roccia, grandi sedie erano poste intorno ad esso ,e  mentre la sala si riempiva volti di nani che erano lì per sentire il volere del re, e il re era lì per sentire il volere dei loro portavoce.
Guardò la sala mentre i suoi compagni intimoriti si misero infondo ad essa con la schiena poggiate sulle enormi colonne verdi scure, solo Balin osò avvicinarsi di piu’ verso il tavolo e annuì al re guardando giù brevemente in segno di rispetto.
Thorin poggio una mano sul tavolo facendola scorrere per tutta la sua lunghezza, lì per molto tempo erano state prese le piu’ grandi decisioni dei suoi padri, quel tavolo e quella sala erano seconde solo alla sala del trono per importanza nel cuore di Thorin.
Un soffio gelido che arrivò da infondo alla sala che gli fece guizzare lo sguardo verso l’enorme porta che si spalancava
Thranduil, insieme a due guardie Elfiche, oltrepassò la soia della sala, con le mani incrociate dietro la schiena e lanciando occhiate verso ogni angolo della stanza girando con il lungo collo la testa.  Per quanto si fosse ripromesso di rimanere diplomatico, non riuscì a controllare le sue emozioni,  digrignò i denti, odiava anche solo vederlo nelle sacre stanze ma gli doveva molto, glielo doveva alla sua gente e ai caduti che Thranduil aveva mandato al macello per i suoi affari personali. Ma lui era stato forse diverso?
 Per quanto gli fosse difficile ammetterlo, senza l’aiuto degli elfi, anche se circostanziale, e dei loro archi, la battaglia sarebbe stata perduta.
Il lungo mantello verde strusciava per terra nel silenzio generale e mentre si avvicinava verso il tavolo e fece un lieve inchino che Thorin percepì fu fatto solo per dovere, non per lealtà.

“Re sotto la montagna” disse mentre rialzava leggermente il capo “Spero che la mia permanenza in questa sala non sia motivo di agitazione nei tuoi sudditi, come vedi ho solo due guardie con me” aggiunse tirandosi su con la schiena e guardando verso i nani intorno alla sala, che tenevano fermamente le mani sulle loro asce e spade legati alla cintura.

Thorin lanciò un’occhiata all’elfo e gli indico la sua sedia “Hai così poca fiducia in me, Thranduil?” chiese guardandolo di sottecchi, tenendosi la spalla sotto l’enorme mantello di pelliccia, ricevendo un’occhiata sinistra da Balin che disapprovò la sua affermazione mentre Bofur scuoteva la testa guardando Thorin, consapevole che certe cose non sarebbero mai cambiate molto probabilmente. Ci si ritrovò a pensare in maniera malinconica sperando invece in un possibile rappacificamento tra due razze che fin troppo a lungo avevano lottato troppo.
Thranduil  ghignò avvicinandosi alla sua destra lentamente. “Re Sotto la Montagna, potrei porti la stessa domanda.” E lanciandogli un’ultima occhiata si sedette lentamente accanto a lui ringraziò incrociando le gambe facendo segno alle sue guardie di mettersi dietro di lui.

Durante il piccolo dibattito Bard era entrato, non scortato, da solo, guardandosi intorno alla sala con occhi spalancati, osservando le gigantesche mura verdi che circondavano la sala. Thorin non disse niente mentre lo osservava, non potendo capire cosa provasse un umano di fronte alla grandezza di Erebor, probabilmente una emozione che si prova una volta nella vita. Bard guardò poi verso Thorin e con la testa guardò verso il basso verso il pavimento senza dire nulla. A quest’ultimo, Thorin, senza dire una parola indicò solo la sedia accanto a quella di Thranduil. Non era sicuro di entrambi, ma nessuno ci sarebbe riuscito stando al suo posto, dopo tutto quello che era accaduto solo a pochi metri da quelle sale.
Il suo sguardo si posava prima su uno e poi sull’altro fino a che la porta in fondo alla sala venne aperta facendo un frastuono che rimbombò per alcuni minuti dentro tutta Erebor.
Dain con i suoi guerrieri entrò nella sala allargando le braccia guardando il cugino.
Melhekhul!” urlò in modo fiero facendo un inchino fin troppo teatrale, e ridendo si avvicinò entusiasta a Thorin stringendolo in una stretta fraterna.

“La corona ti dona cugino.” Disse avvicinandosi a scrutandolo dall’alto in basso strappando a Thorin un leggero sorriso. Si soffermò sul mantello blu e gli diede una pacca sulla spalla. “I mantelli pomposi un po' meno, ma mi ci potrò abituare” rise e poi si girò verso Thranduil e Bard “Oh guarda chi abbiamo qui un piccolo elfo dei boschi e l’ucciso di draghi!” Sghignazzò poggiando entrambi i pugni sul banco scatenando occhiataccia di Thranduil. “Decine di nani sono morti per i vostri insulsi giochetti, voi makk an E ha’- “

“Dàin!” Ruggì Thorin “No.” Asserì Thorin assottigliando lo sguardo poggiando le mani sul tavolo guardandolo. “Mi hai capito cugino?” Gli chiese ancora fulminando Dàin con uno sguardo che non ammetteva repliche mentre. L’altro annuì mettendosi seduto accanto a Thorin che nel frattempo dovette resistere a qualsiasi impulso di sguainare la Fendi Orchi legata alla sua cinta.

“Si, cug- mio re” si corresse guardando Thorin che ancora in piedi lo sovrastava. Lentamente si sedette al suo posto a capotavola del consiglio poggiando la schiena sull’enorme schienale in pietra. Spostando gli occhi duri da Dàin verso Dwalin che crucciato dall’avvenimento era vicino alle porte.

“Il consigliere di Telkar Nerachiave e i suoi uomini, dove sono?” chiese Thorin spazientito dopo lo scontro dei due seduti al suo fianco. Serrò la mascella, mentre Dwalin scuoteva la testa guardando la porta chiusa in confusione mentre il silenzio aleggiava nella sala. A romperlo una leggera risata di Thranduil, quasi uno sghignazzo che fece girare Thorin confuso e spazientito.

“Qualcosa che vi turba?” chiese Thorin mentre le vene vicino al suo collo si allargavano, spazientito. Una risata di un elfo rivolta a lui no, poteva accettare tutto ma essere sminuito per la sua intelligenza da un elfo no.

“Consigliere?” chiese guardando di sottecchi il re dei nani “Mithrandir ti ha detto che era un consigliere? O meglio i tuoi compagni te lo hanno riferito?” disse girando di nuovo il suo lungo collo verso il re poggiando la sua testa sulla mano poggiata al bracciolo. “Il vostro caro cugino? Anche lui ha usato questo termine?” chiese nuovamente Thranduil ghignando.

Thorin guardò prima Balin che velocemente abbassò lo sguardo e poi Dàin che si strinse nella sua sedia tenendo la sua ascia con entrambe le mani ferma sulle sue gambe facendo diventare i suoi occhi due fessure.
“Un abominio che non avrebbe neanche il diritto di entrare in queste sacre sale.” Ringhiò serrando la mascella continuando a non guardare Thorin. “Sangue fetido e marcio” aggiunse continuando a non guardare verso Thorin. Bofur velocemente si avvicinò a Thorin che non poteva notare gli sguardi colpevoli dei suoi compagni intorno alla sala, come loro non potevano notare il suo mentre la collera montava.

“Thorin, no…”  Bofur non fece in tempo a mettersi accanto al re e a finire la frase che le porte infondo alla sala si aprirono e da queste entrarono una decina di nani seguiti da qualcosa che Thorin non avrebbe mai neanche pensato o potuto immaginare nelle sue notti piu’ buie.
Un bisbigliare faceva da sottofondo mentre una ragazza alta poco meno di lui avanzava guardando di fronte a sé. Un lungo vestito di diverse sfumature di verde, scuro come il marmo di Erebor, avanzò nella sala. Una placca di ferro le cingeva la vita, intarsiata con piccoli disegni geometrici bronzei e argentei. Le spalle scoperte mostravano una fila di rune naniche tatuate partire dal polso per finire verso la spalla da dove cominciavo le lunghe maniche aperte del vestito. Orecchie leggermente a punta erano visibili da dietro i lunghi capelli bruni e mossi intrecciati, ma lasciati sciolti.  Thorin apri leggermente la bocca con centinaia di quesiti nella mente mentre i bisbigli diventano silenti nelle sue orecchie. Osservò senza muovere un singolo muscolo la ragazza fare un lungo inchino guardandolo dritto negli occhi con i due pozzi scuri.

“Ghìda, figlia di Telkar mio signore” disse la ragazza con tono marcato “Melhekhel” aggiunse rialzandosi lentamente. In quell’esatto momento Thorin posò lo sguardo vicino alla vita della ragazza, spalancò ancora di piu’ poggiando una mano sul tavolo che nel frattempo era diventata bianca per quanto stretta.
Un corno bianco.
Era lei.







Drack=Cazzo (Cavolo)
Melhekhel=Mio re
Melhekhul=Mio signore






 





Angolo Autrice
Ecco il primo lungo e pieno capitolo. Ho dovuto trattare diversi elementi, diverse parentesi che dovevano essere chiuse dal canon e non è stato semplice devo dire. Ho soprattutto cercato di includere piu' nani possibili, o almeno quelli che sicuro nel canon rimarranno a Erebor. Ho cercato anche di far rimanere il più possibile Thorin fedele all'originale del film. Mi scuso per la descrizione finale un po' fuori luogo, ma le presentazioni di nuovi personaggi non mi riescono mai particolarmente bene. Vi prego ditemi cosa ne pensante e soprattutto se pensate ci siano dei difetti gravi che potranno essere corretti nel corso dei capitoli, soprattutto a livello di personaggi e di caratterizzazione. Al prossimo capitolo. :)
 

 

 

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Capitolo 3
*** Richieste nella roccia ***


Richieste nella roccia












 
Il sole ormai era oltre la Montagna Solitaria, i raggi flebili illuminavano la penombra formatesi sul campo di battaglia, le urla e i rumori di scudi si erano interrotti lasciando solo spazio a una desolazione di corpi nell’ erba. Ghìda camminava per il campo di battaglia guardando verso il basso, scrutando uno singolo volto distogliendo lo sguardo appena riconosceva qualcuno delle sue file.

Occhi taglienti la oltrepassavano. La camicia tenuta su dal corpetto sembrava sempre piu’ stretta sotto quegli sguardi. Sentiva quelli dei nani su di lei, come quelli degli elfi, che osservavano ogni sua piccola mossa, e sentivano ogni suo piccolo respiro. I piccoli gruppi che assistevano i feriti si fermavano ogni volta che gli passava accanto, con sguardi schivi e pieni di odio la osservavano dall’alto in basso. Ma lei, guardava dritta, appena sentiva una maledizione in nanico rivolta verso di lei la ignorava continuando a camminare.

“Sangue sporco” senti ruggire piu’ chiaramente delle altre da un nano che le passò accanto mentre si dirigeva nella parte opposta al suo cammino verso l’entrata lacerata della montagna.

A'lâju Mahal” sentì urlare da infondo alle linee dei nani mentre alcuni che si trovavano fra lei e il cammino sputavano per terra. Le mente di Ghìda non rimembrava un solo momento della sua vita in cui quella parola non fosse stata usata nei suoi confronti, era il suo nome, piu’ di quello che le apparteneva.

Strinse la mascella mentre il suo sguardo era fisso in avanti cercando di evitare lo sguardo dei nani che le paravano il cammino. Muovendo piano la testa, avvertita da un leggero movimento, vide gli elfi silvani fissarla da infondo la valle, vicino alla parete accanto alla montagna. A differenza dei nani questi però non urlarono o dissero nulla, la guardarono solo in maniera contorta, mentre altri sussurravano tra loro.

L’autocontrollo della ragazza era rigido, in altri tempi si sarebbe voltata e avrebbe camminato via, in altri ancora piu’ remoti avrebbe cominciato a correre con una lama nelle mani. Ma non ora, non qui, non in quei suoi anni di vita. Una parte di sé sapeva che un solo passo falso le sarebbe costato la vita. Si strinse solo il lungo mantello verde sulle spalle continuando a camminare sperando che almeno in quella situazione le malelingue dei nani non fossero unicamente per lei e che le loro forze si concentrassero sui feriti e non su di lei. Ma si accorse molto presto che la sua speranza era stata vana.

“Non muoverai un solo passo in piu’ bastarda elfica” Dàin le si parò davanti come una roccia solo a pochi metri dall’entrata della montagna, allargando le spalle e gonfiando il petto “non hai il diritto neanche di sostare di fronte a queste porte!” Ruggì il nano con il volto rivolto verso di lei colmo di disprezzo.

Ghìda si irrigidì guardandolo e muovendosi leggermente verso sinistra cercando di superarlo ma quest’ultimo non ne volle sapere e con piu’ fermezza le si parò nuovamente davanti. Un sospirò oltrepasso le labbra della ragazza.

“E io non sono venuta a discutere con te Dàin figlio di Nàin”

“Tu ti dimentichi con chi stai parlando sporca mezzo sangue!” fece Dàin empio di rabbia puntando l’ascia verso il petto di Ghìda che prontamente portò invece la sua mano verso l’elsa della sua spada sul fianco sotto il mantello quasi in maniera meccanica. Dàin non era un tipo diplomatico, per quelle volte che lo aveva incontrato sui Monti Gialli, non vi era mai stata con lui una discussione finita in modo pacifico e la situazione anche in quel caso non era delle migliori. Qualsiasi nano, bestia o elfo avrebbe voluto incontrare ma non lui.

“Vai via da qui o giuro sui Valar che ti fracasso quella testa da folletto che ti ritrovi” fece avvicinandosi ancora di piu’ continuando a puntarle sua ascia sul petto, mentre lei teneva alta la testa facendo dei respiri profondi, notando come tutti i nani che si erano allontanati da lei ora si stavano raggruppando tenendo anche loro le mani sulle proprie armi.

Il fiato di Dàin ormai soffiava sul suo volto guardandola con freddezza mentre lentamente lei tirava su la lama, pronta a qualsiasi movimento del nano di fronte a lei.

“Dàin, basta così!” una voce ben conosciuta alla ragazza le fece alzare lo sguardo verso l’alto. Un alto vecchio con mantello e cappello borbottando si avvicinò ai due.

Gandalf.

“Non è così che ci comporta con degli alleati, ora se possiamo finirla con le sciocchezze ci sono cose piu’ importanti a cui pensare” aggiunse in tono austero guardando prima Dàin e poi lei puntando in suo bastone ancora piu’ nel terreno.
Non era calma non ancora da poter lasciare la sua elsa.

“Non sono affari che ti riguardano stregone grigio, lei non farà un passo in piu’. Non è un nano. Non è niente!” Sibilò tra i denti Dàin con disprezzo sputando per terra. Quel gesto la fece irrigidire. Strinse ancora di piu’ il pugno sul pomo della lunga lama bianca. Il suo proposito di rimanere calma si infranse, lanciò un’occhiata d’ odio verso il nano, il quale non notò come la ragazza stava lottando on sé stessa per rimanere calma.

“Ciò non toglie che non sei tu, Dàin, signore dei Colli Ferrosi, il signore di Erebor” aggiunse con calma Gandalf mettendosi di fianco a loro.

Ghìda notò la mascella di Dàin scattare, mentre riluttante abbassava l’ascia e indietreggiava dal suo viso, e solo al suo movimento tutti gli altri nani intorno a lei fecero lo stesso. Lei d’altro canto percepì un leggero calore mentre la mano di Gandalf le si poggiava sulla spalla facendola immediatamente rilassare e lasciare la lama. La sola presenza dello stregone l’aveva sempre fatta calmare, era sempre stato così, fin da quando ne ha memoria.

“Molto bene” sussurrò Dain senza staccare gli occhi da lei. Fece un breve segno con la testa ai nani che le si trovavano intorno che si allontanarono continuando i loro affari. Cosi come il signore dei nani di fronte a lei che con un ultimo sguardo truce si allontanò oltrepassandola, mettendosi la sua enorme ascia sulla spalla. Un sospiro le uscì dalle labbra guardando su verso lo stregone.

“Certe cose, sono come la pietra, immutabili e quasi indistruttibili, mia signora” disse lo stregone guardandola ragazza rivolgendole uno sguardo gentile, che però la fece sentire tutt’altro che rasserenare. Anzi la fece irrigidire e chiudere ancora di piu’.
Si scostò dal tocco dello stregone per poi muovere leggermente la testa mo’ di saluto ma niente piu’, non era piu’ una bambina da tanto e Gandalf, almeno così pensava lei, continuava a non capirlo.

“Sono venuta a porre i miei omaggi e quelli del mio clan a Re Thorin” disse rigida.

Lo stregone sobbalzò leggermente e si scansò dalla strada permettendole di vedere l’entrata della montagna. Lì un gruppo di sei nani laboriosi, con un hobbit stavano entrando e uscendo in maniera serrata da una tenda trasportando bende insanguinate che poi gettavano nel fuoco.

“Il re credo che adesso non sia in condizioni di parlare” disse sedendosi su una delle pietre che fungevano da ponte per arrivare all’entrata della montagna. “Ma puoi parlare con me” aggiunse tirando fuori da sotto il suo lungo mantello una pipa di legno.
Ghìda scosse la testa guardandolo sapendo perfettamente dove volesse arrivare e le domande che le avrebbe voluto porre.

“No, devo andare dai miei uomini” asserì velocemente e si voltò pronta a incamminarsi di nuovo verso il campo di battaglia.

“Dov’è tuo padre Ghìda?” la domanda la fece bloccare lì sul posto mentre un filo di vento le sposto i capelli mossi e scuri sul lato della spalla.

“Ai Monti Gialli, ha mandato me per condurre il nostro esercito. Abbiamo incominciato a marciare su Erebor appena il corvo è arrivato”. Le si digrignarono denti pensando a come l’argomento, che stava cercando di evitare, le si era posto davanti. “Perché devi sempre non dargli fiducia?” sussurrò voltando leggermente la testa. Suo padre non era un buon padre, non lo era mai stato, ma era sempre suo padre. “Sono qui perché ha fiducia in me!” disse voltando il viso ancora verso lo stregone continuando a dargli la schiena.

Gandalf noto l’astio negli sui occhi e sospirò tenendo il bastone con entrambe le mani. I suoi occhi si fecero sottili mentre la studiavano, sapeva bene che la lealtà verso suo padre, per quanto insensata, non si sarebbe piegata neanche alle sue parole.

“Molto bene” disse austero alzandosi dalla roccia e rimettendo apposto la pipa sotto il mantello facendo per entrare dentro la montagna.

“Non è come pensi tu…” sussurrò flebilmente girandosi anche con il torso verso il mago che si era fermato e la stava guardando sorreggendosi al lungo bastone. “Ha solo mandato me, non c’è altro” aggiunse.

L‘animo di Ghìda sperava fermamente fosse così, non c’era motivo di mentirle, non per una guerra così lontano e fuori da i loro confini.

Lo sperava.

Gandalf notò come, da freddi come il ghiaccio, gli occhi della ragazza diventarono profondamente tristi e le sorrise gentilmente avanzando verso di lei pronto a dirle qualche parola di conforto.

“Gandalf, mi duole interromperti ma…” un nano da dietro Gandalf interruppe le parole dello stregone, bloccandosi istantaneamente quando vide la ragazza.
Lo sguardo del nano lei lo conosceva bene, e come se non fosse accaduto nulla si ricompose diventando agli occhi dello stregone di nuovo un blocco di ghiaccio.

“Devo andare ora. I miei soldati hanno bisogno di me” aggiunse senza far trasparire, la malinconia che scatenò il singolo sguardo di quel nano con la lunga barba bianca. “Namaarie, Mithrandir”.

Con un breve cenno del capo Ghìda cominciò a tornare verso il suo accampamento, profondamente turbata dallo stregone. Non era piu’ una bambina, non doveva, non aveva il diritto, non piu’ non dopo tutti quegli anni. Non dopo tutto ciò che aveva passato.

Gandalf la osservò fissa sospirando. Il dolore che quella ragazza provava e il suo essere così unica, l’aveva sempre fatto rattristare. In 3000 anni, raramente aveva preso una persona tanto a cuore.

“L-lei è..”

“Si mastro nano, la figlia di Telkar” Gandalf interruppe Balin prima che finisse di porre la domanda. Quest’ultimo guardò la ragazza sconcertato e con gli occhi sbarrati mentre si allontanava da loro con passo lento così come era arrivata.

“Pensavo fossero solo voci, non è possibile.”

“Molti lo pensavano, la sua esistenza è stata lungo nascosta dal padre” gli disse austero voltandosi verso di lui a sospirando “Dopo 120 anni l’ha fatta uscire dai confini dei Monti Gialli. Ma il suo arrivo qui, in questo momento, mi danno da pensare” disse a voce bassa. Balin sposto gli occhi dalla ragazza per poi fissare Gandalf confuso.

“Cosa intendi?”

“Non lo so ancora mastro nano” disse Gandalf sospirando lanciata un’ultima occhiata verso Ghìda che nel frattempo in lontananza aiutava a trasportare i feriti verso le tende improvvisate, costruite poco dopo la fin della battaglia, sul campo verde.

“E finché non lo saprò Thorin non deve saperlo. I suoi trascorsi con gli elfi non sono ideali.” Finì guardando di nuovo Balin e poggiandogli una mano sulla spalla chinandosi leggermente. “Prendi tempo, se conosco Telkar Nerachiave sarà qui entro due di notti. Se tutto va come spero, arriverà prima del consiglio di alleanza”. Lo sguardo dello stregone era serio verso Balin che annuì sospirando.

“Non è facile nascondergli le cose, soprattutto cose di questo genere Gandalf. Il ragazzo, così come suo nonno, non gradisce le menzogne”

“Lo so, ma bisogna provarci. Non so quali siano i suoi sentimenti per gli elfi, bisogna evitare qualsiasi tipo di incidente. Le alleanze sono ancora troppo deboli” insistette “le sue preoccupazioni saranno molte appena sveglio, non diamogliene altre.” Lo stregone alzò lo sguardo dietro la spalla di Balin e notò come il gruppo di nani della compagnia si era fermato a metà strada tra la tenda di Thorin e il focolare. Probabilmente li guardavano da quando Ghìda se n’era andata. Il mago sospirò distogliendo da loro lo sguardo e lanciando un’occhiata a Balin che notando lo sguardo del mago oltre le sue spalle aveva già capito cosa fosse accaduto.

“Confido in te Balin, non una parola sulla ragazza” Disse di nuovo serio per poi tirarsi su con la schiena.

“E se lo venisse a scoprire da solo?” Chiese Balin incrociando le braccia al petto guardando Gandalf con un sopracciglio alzato tutt’altro che tranquillo.

“Dobbiamo solo sperare la prenda dal lato positivo”.
 
 







Il silenzio regnava da ore ormai nella valle sotto la Montagna. Le pire che fino a poche ore prima incendiavano con la loro luce il buio erano diventate ormai mucchi di cenere sulla terra. Nessun canto fu udito dopo la veglia, nessun ricevimento per i caduti.

Le perdite erano state troppo numerose per poter anche solo pensare di gioire per la vittoria. Durante il funerale quella sera aveva appreso che i due eredi al trono erano morti, le loro pire si innalzavano al centro della valle. I due nipoti di Re Thorin. Non conosceva i loro volti, troppo in alto per poterli vedere in viso, ma ricordava benissimo quello di Thorin.

Due profondi occhi azzurri che guardavano le fiamme. La corona sul suo capo. Il suo canto triste.

Mai le era capitato di vedere un funerale di dei principi e mai gli era capitato di udire una voce cosi roca e intrinseca di dolore. Per quei pochi minuti per tutta la valle era rimasta immobile, anche il vento non aveva piu’ soffiato come per ascoltare il Re Sotto la Montagna. Guardò il cielo stellato sopra di lei abbandonandosi all’acqua che l’abbacchiava stringendosi le ginocchia al petto. Gli elfi dicevano che gli Ainur avevano creato le stelle cantando. Se Thorin Scudo di Quercia fosse stato un Ainur probabilmente quella sera ne avrebbe creata una lontana e flebile, pallida quanto calda.

Sospirando Ghìda lascio la sua schiena adagiarsi ancor meglio alla roccia che spuntava dal pelo dell’acqua del lago. Anche molti suoi compagni erano morti, molti nani… molti elfi.
Istintivamente guardo verso le sue braccia passando la mano sulla fila di rune di uno di questi. Quanti anni erano passati? Ottanta? Cento? Non riusciva a ricordarlo di preciso, ricordava solo lo sguardo empio d’ira di suo padre e il dolore acuto subito dopo.

Riscrisse lentamente ogni singola runa sul suo braccio, accarezzandosi la pelle ‘Baruk Khazâd. Khazâd ai-mênu’. Queste le parole di cui continuava a rifinire il contorno nell’acqua. Poteva immaginare le parole dure che le avrebbe rivolto il padre se l’avesse vista rimuginare sul passato. Il passato per lui era un macigno da distruggere, il passato era quello che aveva portato lei alla nascita. La sua unica figlia. La sua unica erede. La sua bastarda.
Se fosse nata nana sarebbe stato diverso? Se sua madre fosse stata una nana ora sarebbe da un'altra parte? Sarebbe a casa sua, libera, amata dal suo popolo? E se invece fosse nata elfa ora sarebbe sdraiata su un candido telo a pregare la luna, sempre eterna e bellissima?  A intonare melodie per i Valar, gioendo del suo essere prescelta tra le razze?
Spesso si ritrovava a pregare nella notte, nel suo letto, quando nessuno la poteva vedere. Pregava tutti i Valar: Manwë,Varda,Ulmo,Aule, li pregava tutti, qualcuno doveva sentirla. Qualcuno doveva essere colui che l’aveva creata. Ne nana, ne elfa. Un incrocio impossibile e maledetto.

Scosse la testa tristemente scacciando quei pensieri andando sotto l’acqua fredda tenendo la testa all’indietro. Risalì subito dopo prendendo un grande respiro e si tirò su dall’acqua. Velocemente prese la bianca pelliccia posata a terra e vi si avvolse stringendo le spalle. Punto gli occhi dritto verso Erebor che come da monito si ergeva sopra la sua testa, ricordandole il consiglio del giorno dopo e da come quel consiglio pieno di nani ed elfi sarebbe stato la sua prova.
 
 
 

~




“Non hai l’autorità o il sangue per entrare in questa sala mezz’elfo” urlò Dain alzandosi dalla sedia guardandola mentre si rialzava dal suo inchino. Ghìda si strinse il vestito fulminando Dain con lo sguardo e tirando su la schiena. Non gli avrebbe lasciato disonorarla di fronte a tutti.

“Mio padre è uno dei sette re dei nani, in sua assenza essendo io sua unica erede faccio le sue veci Dàin figlio di Nàin” sibilò non smuovendosi di una virgola da dove si era inchinata di fronte a Thorin Scudo di quercia. Non abbassando neanche mai lo sguardo dal nano dai capelli rossi, che furioso scostò la sedia da vicino il tavolo con una spinta alzandosi.

“Solo perché sei uscita fuori dalle sue palle non ti rende un nano. Tu non lo sei!” urlò furibondo sbattendo il suo martello sul tavolo. Grida di approvazione si alzarono da la maggior parte dei nani nella stanza. Per lei non fu altro che ricever un altro schiaffo, era vero, non era un nano, e probabilmente non lo sarebbe mai stata. Non hai loro occhi.

“Mezzosangue!”

“Sporca elfa!”

“Maledizione dei Valar!”

Le urla diventavano sempre piu’ alte mentre lei rimaneva immobile, senza dire nulla, osservando Dàin che carico di quelle parole si fece leggermente avanti verso di lei. La scena era la stessa della mattina precedente, ma in questo caso le grida erano piu’ forti e i nani molti di piu’.

ATKÂT!” un ruggito sovrasto tutte le voci portando il silenzio nella sala.
Thorin era esploso, alzandosi dalla sedia. L’intera sala lo guardava intimorita. Bofur che nel frattempo era rimasto accanto a lui indietreggio immediatamente tornando vicino a una delle grandi colonne.

Ghìda lo guardò.

I suoi lineamenti erano duri e gli occhi di ghiaccio la trafissero come una lama facendole saltare un battito. Mai aveva percepito un tale sgomento, una tale prestanza, neanche da suo padre. Questo la fece ancora di piu’ intimorire ma non lo diede a vedere, continuando a fissare il re dritto negli occhi.

Aspettarono tutti col cuore in gola, nervosi; la parola di Thorin era diventata legge e lui lo sapeva bene.

“Sedetevi” si rivolse a lei a indicando la sedia accanto a Dàin con un del braccio. Perfino Dain non osò contraddirlo mettendosi seduto silenziosamente e poggiando le mani sul tavolo.

Thorin lo fisso intensamente per alcuni secondi aspettando un eventuale parola di troppo del cugino che non arrivò. Dunque, si mise seduto e fece un breve cenno con la testa alle guardie infondo alla sala per far chiudere le porte.

“Io voglio le mie gemme, Thorin Scudo di Quercia” esordi nel silenzio piu’ profondo della sala Thranduil che muovendo il lungo collo fisso Thorin. “È l’unica cosa che voglio e l’unica cosa che mi ha fatto sacrificare i miei soldati sotto la pietra di questa montagna”. Thorin lo guardò per un’istante e poi guardo giù verso il tavolo di pietra.

Balin era speranzoso del suo buon senso. Se gliele avesse rifiutate un’altra volta, solo gli dei potevano sapere cosa sarebbe potuto accadere.
Il re, continuando a guardare giù, fece un lungo sospiro incrociando le dita sul tavolo annuendo con la testa per poi guardare Thranduil.
“Avrai le gemme di Lasgaren” disse con voce dura e con un tono talmente limpido che non creò il dubbio neanche nell’animo di Thranduil. Che chinò leggermente la testa verso di lui in segno di ringraziamento.

“Accordo raggiunto dunque, non chiedo altro Re sotto la Montagna” disse le ultime parole con un tono talmente stucchevole che alle orecchie di Thorin non sembrarono un vero titolo ma una beffa.

“Non giocare con la mia pazienza Thranduil” ruggì guardandolo e posando il suo avambraccio sul tavolo avvicinandosi al re degli elfi. Il suo tono era cambiato in maniera radicale, da accondiscendente a fiero. Era diventato re, ma era ancora lo stesso nano che aveva oltrepassato fuoco e acqua per avere indietro il suo regno. I nani lo seguivano per questo “Mai sotto questa montagna” aggiunse trapassando lo sguardo dell’elfo che lo guardava in volto con aria indifferente. Ghìda si guardo attorno e analizzo gli sguardi di tutti i nani, come lo guardavano. Per loro non era re solo perché un figlio di Durin, era re perché tutti i nani presenti lo stimavano, era il loro re.

“Molto bene” disse Thranduil staccando gli occhi dal volto di Thorin e tagliando cosi come una lama il silenzio pesante che si venuto a creare. “Non c’è motivo che io rimanga qui, quello che desideravo l’ho ottenuto” disse alzandosi per poi smuoversi il mantello con una mano.

“Ti lascio ai tuoi affari Re sotto la montagna” ripeté di nuovo portando Dwalin infondo alla stanza a tirare su la sua ascia da terra guardando di sottecchi il Signore della Foresta.
Ghìda fisso Thranduil mentre si sistemava e muoveva i primi passi verso l’uscita, per poi distogliere lo sguardo immediatamente.

Cin are ú a orod plual ered sui hain

Alzò di scatto lo sguardo di nuovo verso Thranduil che si era voltato verso di lei e le aveva proferito quelle parole a pochi passi dalla porta di pietra. La stava osservando, guardando in viso, per poi posare per una frazione di secondo, che a lei sembrò un’era, gli occhi sui suoi tatuaggi.

Staccandosi da quel alone di freddezza che l’aveva fatta apparire come un blocco di pietra di fronte all’intero salone si toccò istintivamente il braccio sinistro sotto il tavolo.
Scostando lo sguardo da lei Thranduil lasciò la stanza facendo di nuovo un breve inchino verso di lei questa volta, gesto che fece rimanere basiti tutti i nani nella stanza, compreso Thorin.

Leggeri sussurri si levarono dalle file dei nani che nel frattempo la fissavano ininterrottamente, chiedendosi cosa le avesse detto, di così segreto da dirlo in elfico. Quello che non sapevano veramente era che se lo avesse detto in lingua comune, molto probabilmente tutti nani presenti sarebbero stati d’accordo con le sue parole.
Thorin la guardava, passo il suo sguardo sul viso della ragazza, notò come il suo cambio di espressione quando l’elfo le rivolse la parola, così come il suo cambio di postura. Lei alzò lo sguardo e lo direzionò verso di lui, da che aveva preso emozione, ritornò di ghiaccio.
Aggrottò le sopracciglia, facendo un lungo sospiro e sistemandosi di nuovo indietro verso lo schienale della sedia. Ghìda d’altro canto non tolse la mano dai suoi tatuaggi, non fece trasparire la pesantezza che aveva avvolto il suo cuore. Non prestò neanche attenzione per i minuti a seguire fissando un punto indefinito sull’enorme tavola di marmo verde. La sua mente era oltre la sala, su’, per montagne e boschi, per poi scendere nelle profondità della terra.

Bard, il portavoce di Dain e Ponte Lago Lungo aveva cominciato a parlare, si era alzato dalla sua sedia pretendendo che Thorin gli desse la parte del tesoro che gli era stata promessa prima della liberazione della montagna.
Ori si avvicinò lentamente verso Dwalin che guardava la riunione poggiato al muro infondo alla sala con le braccia allungate sull’enorme ascia che ora era poggiata a terra.

“Cosa le avrà detto?” Gli sussurrò mentre si avvicinava sempre di piu’ a lui per non farsi sentire da orecchie indiscrete.

“Non lo so, ma lei non mi piace” grugni sottovoce senza scostare gli occhi da Bard che continuava a ripetere a Thorin di come avesse ucciso il drago e di come si meritava il tesoro di Erebor. “Se quell’umano non la smette di elogiare la grandezza del suo cazzo gli spacco l’ascia in testa” sussurrò Dwalin grugnendo.

“Per-perché il signor Gandalf ci ha proibito di dire a Thorin di lei?” sussurrò Ori ancora vicino all’orecchio di Dwalin.

“Non lo so e non mi interessa, si deve solo levare di mezzo!” cercò di tagliar corto Dwalin, ma il giovane nano non non voleva saperne e si avvicinò ancora più adesso poggiando quasi il mento sulla spalla.
“Sai se la guardo bene potrebbe passare per una nana, non ha la barba, ha le orecchie a punta, ma potrebbe, con un po' di-"

Dwalin rigirò verso l’alto e per poi girarsi verso Ori stringendo così forse l’ascia da far diventare le sue nocche bianche.
“No Ori! Silenzio! Non si diventa nani ci si nasce!” controbatté Dwalin sempre mantenendo la voce bassa “Non sarà mai una nana!” Bard aveva finito il suo discorso e Thorin gli aveva accordato una parte del tesoro, ma non gli sarebbe stato dato tutto insieme.  Erebor, così come Dale, doveva essere ricostruita e riabitata, il tesoro di Smaug serviva alla gente della montagna ora piu’ che mai

“Ma non è neanche un elfo...”

“Basta così!” ruggì, anche se la sua voce, per quanto si fosse sforzato era diventata ancora piu’ alta facendo girare un paio di nani di fronte a loro. “Vai ora, il gorak ha finito” disse voltando finalmente la testa verso il nano accanto a lui.

Bard si avvicinò verso la porta e Dwalin la aprì fissandolo mentre la attraversava, senza dire una parola in piu’. Il loro tesoro era diventato la meta preferita di tutta la Terra di Mezzo, si chiese se prima o poi anche gli uomini di Gondor sarebbero venuti a reclamarne una parte, solo per il semplice fatto di esistere sotto lo stesso cielo. Dwalin non fece in tempo a richiudere la porta che un rumore assordante, di metallo lo fece bloccare guardando fuori. Decine di Nani, in armatura si dirigevano verso la porta, nani con un simbolo che Dwalin riconobbe, una delle sette famiglie, i Nerachiave.

Il rumore fece ridestare Ghìda dai suoi pensieri, portando il suo sguardo sulle decine di nani che entrarono dalla porta.  Alla loro guida un nano con i lunghi capelli e una folta barba nera, vestito da cerimonia con una scintillante armatura di metallo nanico, rifinito con intarsi di gemme di ogni sfumatura di blu.

Ghìda scattò tirando su la schiena a fissando il nano con la bocca semi aperta mentre la foschia di pensieri che si era creata nella sua testa lasciava spezio allo sgomento.

“Padre” sussurrò tra sé e sé irrigidendosi potendo sentire il cuore arrivarle fino alla gola, non lasciandole neanche la forza di parlare.

 “Re Thorin, figlio di Thràin, figlio di Thròr, Re Sotto La Montagna” Telkar avanzò verso il tavolo rivolgendo un lungo inchino verso Thorin, fin troppo profondo e solenne. I pendagli dorati intrecciati nei capelli del signore dei Monti Gialli tintinnarono mentre si tirava su dal profondo inchino.

Balin deglutì osservando la scena.Gandalf aveva detto il vero dunque, era arrivato, con qualche ora di ritardo, ma alla fine era vento ad Erebor, anche se la figlia era presente per svolgere le trattative politiche.
A Balin capitò una sola volta di vedere Telkar, ancora un giovane signore dei nani, quando venne in visita ad Erebor prima dell’attacco di Smaug.  Rispettato dalla sua gente e temuto dai suoi nemici aveva già, in pochi anni di dominio sui Monti Gialli, espanso le miniere costiere di Elcar per leghe, portando il suo regno a una ricchezza tale, che persino Thròr, possessore già della regina delle gemme, era invidioso delle pietre che uscivano dalle sue miniere.
Per anni dopo la conquista di Erebor non si ebbero che voci dalle coste dell’est, voci di una ricchezza che aumentava sempre di piu’ e di un matrimonio con una principessa elfica. Ma nessuno si sarebbe mai neanche lontanamente aspettato che quel matrimonio avesse dato qualcosa piu’ importante di oro e gemme a Telkar, una beffa agli elfi e agli dei. Balin strinse la mascella osservando come Thorin osservava il signore dei nani, se non lo avesse conosciuto abbastanza, avrebbe detto che il chino che fece con la testa non nascondeva nulla, ma sapeva che stava studiando il signore dei nani chino di fronte a lui.

“Non vi aspettavamo piu’ Telkar, figlio di Tolkur” constatò Thorin guardandolo seduto infondo al tavolo e muovendo leggermente la testa in segno di saluto verso il vecchio nano. Quest’ultimo ridacchiò e fece segno a uno dei suoi soldati che gli prese il lungo mantello che portava dalle spalle.

“Non avevo intenzione di venire, giovane re, il mio volere era in mani sicure” la sua voce si era fatta piu’ stucchevole e guardò verso Ghìda. Conosceva quello sguardo, e non presagiva nulla di buono. Suo padre doveva essere a centinaia di leghe da dove era lei. La sua sola presenza nella sala le provocava un peso sullo stomaco che non le permetteva di respirare.

“Ma le donne sono volubili, è quindi più saggio pensare da soli agli affari di un certa importanza” disse poggiando una mano sul tavolo difronte a lei mentre con l’altra le scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Al solo contatto rabbrividì, il tocco di suo padre era duro, non quello che si aspetta da un padre, non un tocco amorevole. Una farsa stava giostrando una farsa. Alzò lo sguardo verso di lui mentre sentiva la sua mano indietreggiare dal suo viso. I nani intorno a lei non potevano sapere, ma lei lo conosceva troppo bene, glia aveva visto usare gli stessi modi, le stesse lusinghe anche altre volte.

“Penso che sia il momento che tu vada figlia mia” un tono che non ammetteva repliche gli uscì dalle labbra. La vera voce di suo padre.  Con i veri occhi di suo padre. Le due macchie nere la guardarono dritta negli occhi non ammettendo repliche, facendole stringere i denti. Sostenne il suo sguardo in silenzio per qualche secondo per poi annuire con la testa.

“Si padre” rispose lei, senza staccare lo sguardo dal su, anche se tutti nella stanza notarono il suo cambio di tono improvviso. Dapprima freddo e deciso, era diventato pura pietra, una cantilena che sembrava avesse recitato migliaia di volte. Si alzo dalla sedia e fece un passo indietro lasciando spazio a suo padre per permettergli di sedersi al suo posto.

“Portatela fuori” disse con tono netto senza neanche rivolgerle uno sguardo mentre si sedeva. Uno dei soldati di suo padre si avvicinò verso di lei e le prese il braccio. Un leggero gemito di sgomento le usci dalle labbra alla sensazione di stretta intorno a al suo braccio.

“Posso andarmene da sola…” Si scrollò la mano del soldato di dosso tirando indietro il braccio “..padre”. replicò lanciando uno sguardo vero di lui seduto al posto dove lei era prima. La furia e la vergogna le montavano da dentro la pancia. Il suo onore e la sua parola non sarebbero andati buttati al vento, solo per una recita.

Si mosse a al centro della sala e fissò il re di Erebor negli occhi chinandosi toccando quasi con il ginocchio per terra. “Mio re” riverì per poi alzare gli occhi su di lui. La stavano guardano come poco fa, con gli occhi limpidi ma taglienti come lame elfiche. Il petto le si bloccò di nuovo. La regalità che emanava Thorin Scudo di Quercia non era niente che avesse mai provato prima. Lui le fece un breve cenno con la testa dandole il consenso di andarsene. Lei volto quindi la schiena e si diresse verso la porta procedendo fuori dalla soglia. Un sospiro eterno le sfociò fuori dalle labbra lasciandosi andare con la schiena sul muro accanto alla porta, mentre due statue di guerrieri nanici, alte fino al soffitto la guardavo giudicatori.



 





“Figlie femmine, difficili da gestire!” Rise tra se e se, allungandosi verso il tavolo prendendo un boccale di birra dal centro di questo. Dal singolo istante da cui la figlia era uscita dalla stanza, il signore dei Monti Gialli aveva cambiato nuovamente umore.

“A che punto eravate arrivati gentili signori dei nani?” ridacchiò guardando Thorin. “Spero di essere arrivato in tempo per discutere delle mie richieste per l’aiuto che ti ho concesso, Thorin Scudo di Quercia”.
Thorin non era in vena di ridere sopra la situazione, da quando era finita la battaglia, non aveva sentito altro che richieste, il capo dei Nerachiave doveva sbrigarsi.

“Arriviamo al punto, cosa vuoi da me?” La sua domanda fece sorridere Telkar che ghignando leggermente si allungò alzo dal tavolo tenendo con una mano il boccale di birra e bevendone un sorso. “Re di Erebor, non intendo privarti di oro, terre o qualunque bene materiale tu abbia”.  Thorin lo osservò mentre sogghignando sorseggiava un altro sorso della sua birra mettendosi in piedi dal lato opposto del tavolo di pietra. Così ora si potevano guardare faccia a faccia. Gli occhi del nano anziano erano puntati dritti verso i suoi.

Bevve un altro sorso dal boccale per poi poggiarlo sul tavolo cosi come le sue mani. La forma del suo viso era cambiata di nuovo, guardava Thorin con gli occhi con cui prima guardava la figlia, diretti, privi di empatia, occhi di chi sapeva ciò che voleva.

“La cosa che voglio è un’unione. Ti offro in cambio del mio aiuto la mano di mia figlia, Re Sotto La Montagna”

 
 
 
 




 


A'lâju Mahal= Disgrazia dei Mahal
Namaarie= Addio
Baruk Khazâd. Khazâd ai-mênu= Le ascie dei nani. I nani sono su di voi.
AtkÂt= Silenzio
Cin are ú a orod plual ered sui hain= Non ti accetteranno mai
Gorak= Idiota









 
ANGOLO AUTRICE
E infine, dopo decine di cambi di narrazione e di eventi, vi presento il secondo capitolo. E' stato molto difficile muoversi negli eventi, volevo infatti da principio integrare questo capitolo in quello precedente o farlo diventare una seconda parte del primo capitlo, ma i cambi di prospettiva erano troppi e credo che avrebbe creato confusioni. Cosa ne pensate? Sto cercando di rendere i nuovi personaggi il piu' meno caricaturali possibili, anche se gli ibridi elfi/nani/uomini sono stra abusati. L'idea originale era che fosse una mezz'elfa (umano elfo) che negli scritti di Tolkien sono presenti, ma appena ho cercato informazioni mi sono inbattuta in diverse discussioni che affermavano che i nani e gli elfi, non sono potessero avere prole, in quanto creati da due dei diversi.
Bhè che dire, ditemi cosa ne pesante, se Ghìda è un personaggio che vi sta simpatica, antipatica, le vostre supposizionie e tutto quello che vi passa per la testa, davvero. Mi fa molto piacere leggere le recensioni per migliorare o cambiare degli aspetti che ritenete errati. Il dizionario infondo verrà messo da adesso fino alla fine della storia. Molte parole sono prese da forum, quindi se errate vi chiedo umilemente perdono.
Ringrazio poi Elfosnape, per la recensione, ho cercato di correggere tutto a mano questa volta, senza lasciare che word mi sistemasse tutto in automatico, anche per i nomi dei nani. Ho sistemato anche gli errori nel capitolo prima.
Grazie e al prossimo capitolo.
 

 
 

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Capitolo 4
*** Il dovere di un re ***


Il dovere di un re

 
 





 
“E’ da ore che sono lì dentro!”

“Tre per essere esatti, Dwalin, e non penso usciranno presto” precisò Glòin tagliandosi un pezzo della carne di cervo che avevano in mezzo al tavolo. “Un matrimonio è un affare serio” precisò di nuovo portandosi il boccale di birra alla bocca prendendone un sorso per pulirsi poi con la barba.

“Quanto gli ci vuole a rifiutare?” si corresse guardando Glòin scuro in volto. “Non c’è ragione per la quale debba accettare una simile condizione!”

“A me lei piace” esordì da capotavola Ori mentre scarabocchiava sul suo enorme tomo rosso. Vi ci aveva annotato tutto, dall’inizio della loro avventura, all’incontro con gli elfi, fino alla presa della montagna.

“Per me accetterà” la testa di Bofur uscì da sotto il piano del tavolo.
Se n’era stato sdraiato sulla panca del tavolo da quando erano usciti cacciati dalla sala del consiglio.
Quando Telkar aveva fatto la sua richiesta a Thorin, si era alzato un simile trambusto in sala, che nessuno riusciva neanche a capire se effettivamente i diretti interessati della conversazione stessero ancora parlando. Maledizioni in tutte le sfumature di Khuzdul uscirono dalla bocca di tutti nani presenti. Dàin si infuriò talmente tanto da minacciare apertamente il signore dei Nerachiave.
L’aveva presa come l’ennesima offesa di un signore dei nani a un altro signore dei nani. 

A Thorin non fu lasciata scelta che far uscire tutti i presenti continuando la discussione con Telkar Nerachiave da solo. Era stato vietato a chiunque di entrare nella sala fino a che lui non fosse uscito e la contrattazione finita.
I nani presenti nella sala erano tutti andati in differenti direzioni, i nani dei Monti Gialli erano tornati nel loro accampamento ai margini della montagna o aspettavano vicino all’uscita del loro signore. I soldati di Piediferro d’altro canto, furono rimandati a eseguire le proprie mansioni per la città regno di Erebor, o ad accogliere, insieme al loro signore, il numero sempre piu’ crescente di nani che tornava alla Montagna Solitaria. Rispettando i voleri di Thorin, Dàin non aveva provato neanche una volta a entrare nella sala, anche se si poteva facilmente notare l’ira e la frustrazione che provava a non poter partecipare all’incontro.

I nove nani della compagnia si erano invece rifugiati in quelle che era un tempo la grande sala delle cerimonie e dei banchetti.
Una sala dalle dimensioni gigantesche, con decine e decine di lunghi tavoli intagliati dalla pietra verde. Un enorme camino, custodito da due signori dei nani nati dal marmo infondo alla sala. Bifur e Dwalin lo riaccesero, con non poca difficoltà, facendo illuminare i fregi dorati che facevano il giro del salone.
Se quelle pareti avessero potuto parlare avrebbero raccontati di canti, balli, gesta gloriose, di re, e probabilmente avrebbero anche parlato di Dwalin, il mastro nano, che continuava sempre di piu’ a scurirsi in volto.

“Thorin non ha eredi fratello, non piu’ almeno” esordì Balin che era rimasto in disparte a fissare le fiamme nel camino, dando le spalle al tavolo dei nani.
Rimuginava da ore sulle parole di Gandalf, e sulla proposta di Telkar, cercando di rimettere insieme i pezzi, ma così come le fiamme che non smetteva di guardare, questi sfuggivano dalla sua comprensione.

“E con questo?” chiese Dwalin fissando la schiena del fratello e buttando giù un altro sorso dal suo boccale sbattendolo sul tavolo “Dàin ha tutto il diritto di pretendere il trono dopo la mote di Thorin, anche lui è un Durin.”

“Lo seguiresti come re?” Balin si era voltato a guardare Dwalin “Sappiamo tutti come sia un valoroso guerriero ma è fin troppo irruente, porterebbe Erebor ad essere sempre sul piede di guerra.”
Dwalin sospirò scuotendo la testa non volendo sentir ragione alcuna pur avendo già visto piu’ volte e in diverse circostanze come le parole del fratello fossero veritiere. Dàin era valoroso quanto Thorin ma mille volte piu’ irruente. E se Thorin era poco diplomatico Dàin lo era ancora meno.

“Ciò non toglie che non sia costretto a sposarla.”

“E quante altre nane conosci di stirpe regale in età da marito Dwalin?” puntualizzò Bofur tirandosi totalmente su’ dalla panca di pietra e mettendosi seduto.

“O nane disposte a sposarsi aggiungerei caro Bofur” si aggiunse conversazione Dori che massaggiandosi le piccole treccine della barba si era appena messo seduto al posto che prima era di Dwalin che ancora nero in volto, aveva cominciato a camminare su e giù accanto al tavolo stringendo il boccale con la mano.

“Le nane legate alle famiglie reali dei sette clan sono poche o quasi tutte sposate o troppo lontane dalla linea di sangue per il controllo del proprio clan” sospirò Balin smettendo di guardare le fiamme nel camino avvicinandosi e sedendosi accanto a Ori che non staccava gli occhi dal lavoro minuzioso che stava realizzando sulle pagine del suo tomo. “I Monti Gialli e le miniere costiere di Elcar sono i giacimenti di gemme piu’ grandi a sud dell’Illithien”
 
“Lei non è neanche una nana!” Asserì Dwalin fermandosi dal suo vagare per la stanza e guardano Balin con astio. “Non lo è, è solo un… qualcosa!” ruggì e serrò la mascella. I nani rimasero increduli difronte alla sua frustrazione. “Per quanto ne sappiamo potrebbe anche non essere l’erede di Telkar. E si fottessero lui e le gemme di Elcar!”

Il silenzio si dilatò per la sala mentre Balin rimase in silenzio, immerso nelle sue domande e incertezze.
Thorin non aveva mai pensato di prendere moglie, o aveva mai dato segni, dopo la presa di Erebor, di desiderare qualcuno al suo fianco. Si era sposato alla causa, viveva per rivedere il giorno in cui la montagna sarebbe stata liberata e il popolo dei nani di nuovo al suo interno.
Amava la sua gente, la amava così profondamente da essere riuscito a far rischiare la vita a tutti i nani presenti… e non solo. Balin scosse la testa e si guardo i guanti logori. 
Fili e Kili erano come figli per Thorin, li aveva cresciuti come suoi dopo la morte del padre Vili, ai confini delle terre selvagge, per mano di un branco di orchi. I due fratelli non lo avevano mai conosciuto, o nel caso di Fili, erano troppo piccoli per ricordarselo, e presero Thorin come loro figura paterna. Tutto era in sua funzione, ogni nuova arma che imparavano a maneggiare, ogni nuovo oggetto che riuscivano a forgiare, erano in onore di loro zio. Thorin d’altro canto provò in tuti i modi di restituirgli quell’affetto che tanto ricercavano, ma Balin sapeva che non era lo stesso, non sarebbe mai stato lo stesso.
Ricordava perfettamente come Dìs non uscì di casa per giorni e non rivolse la parola né a Thorin né ai suoi figli per settimane quando scoprì che i suoi figli sarebbero partiti con suo fratello.
‘Oh, Dìs’ pensò continuando a guardare in basso stringendosi le mani l’una nel altra tristemente.

“Se lui deciderà di prenderla in moglie, dovremmo accettare la sua decisione.” Interruppe il silenzio pesante Bofur che con due dita si sistemò i lunghi baffi. Notò Dwalin che con le braccia incrociate studiava un punto indefinito sul pavimento.

“Un elfo sul trono di Erebor, un elfo come erede del sangue della nostra gente?" si crucciò Bifur.

“Un elfo di discendenza reale” aggiunse Bombur guardando di sottecchi il cugino smettendo di mangiare.

“Un mezz’elfo, Bofur, un mezz’elfo, c’è differenza mio caro. Anche se la sua regalità la fa sembrare tale, c’è del sangue di nano in lei.” Tento di precisare Dori, mentre i suoi occhi erano concertati a studiare il lavoro minuzioso di suo fratello.

“Sapete, una volta ai Monti Azzurri incontrai un nano…” cominciò a raccontare Glòin chinandosi leggermente sul tavolo, passando lo sguardo per tutti i nani, come l’inizio dia fiaba che stava per essere raccontata a dei bambini “era seduto accanto a me in una delle taverne di Nogrod…”

“Allora eri sicuramente così ubriaco che stavi parlando con il tuo riflesso mentre pisciavi”

“Se non mi interrompessi Dwalin, magari potrei finire!” lo riprese indispettito  schiarendosi poi la voce, mentre Dwalin rigirava gli occhi annoiato.

“Allora stavo dicendo… ah sì! Era seduto accanto a me, un nano che diceva di essere un mercante, commerciava dai Monti ferrosi fino ai Monti Gialli, e mi disse di aver visto una dama elfica girare per la città caverna di Elcar, disse che era vestita da nano ma era sicuramente un elfo, mi racconto che un giorno la vide addirittura brillare come una stella, la stella di Durin la chiamò. Disse che era sempre scortata, non si faceva mia vedere in volto, e che tra i nani del posto veniva chiamata Gunum Mànan"

“Brillare come una stella? Ma per favore, quella non brillerebbe neanche nella sala delle formaci accanto al fuoco! È una mezz’elfo, non la stella di Durin, citrullo.”
 
“E’ una mezz’elfo, e quindi?” Sospirò alzando gli occhi al cielo Bofur “Bilbo è un mezz’uomo, per quanto hobbit, ma non sono state fatte tutte queste storie quando è entrato nella compagnia.”
Il tono di Bofur era molto serio, così serio che i nani presenti si crucciarono lievemente.

Dwalin si avvicinò a Bofur con il dito puntato verso il suo viso e si mise di fronte a lui con poggiando un pugno sul tavolo.
“Bilbo era un compagno, un membro di questa compagnia, un amico, per Thorin e noi tutti.” Serrò la mascella “Non era il mezzo per la continuità della stirpe dei Durin e non doveva essere la nostra sovrana!”

“Perché odi tanto gli elfi?!” Domandò Bofur alzandosi dalla panca guardando il nano furioso difronte a sé.

“E invece perché a te piacciono tanto?!” Reagì Dwalin avvicinandosi pericolosamente a Bofur che nel frattempo gli si avvicinava a sua volta impetuoso. “Ci disprezzano, ci augurano solo disgrazie e pretendono la nostra obbedienza come quei cani degli umani!”
Qualcosa in Bofur si ruppe in quel momento e Dwalin lo percepì dal suo sguardo: spento e pieno di tristezza e rimorsi.
Il nano con cappello a punta era pronto ribattere quando un rumore sordo interruppe le sue parole in bocca.

“Per me è molto bella” asserì Ori alzando gli occhi dal suo libro ormai chiuso guardando sorridendo ai due nani ormai a pochi centimetri di distanza l’uno dall’altro. Dori guardò il fratello e sorrise velatamente, nella sua ingenuità, probabilmente, aveva fermato qualcosa di insanabile se portato avanti.

Bofur scollò le spalle e sospirò pesantemente. “Lascia perdere” concluse muovendo la mano e rimettendosi seduto al suo posto.

Dwalin d’altro canto scosse la testa e guardò verso le arcate aperte infondo alla stanza. Da lì un pungo di scale si diramava, portando ai piani inferiori e superiori del palazzo, e da li Dwalin poteva vedere benissimo la porta della sala del consiglio che continuava a rimanere ben sigillata.

Balin sospirò alzandosi dalla sedia e guardando uno per uno i nani di fronte a sé, era sempre suo il compito di aggiustare le cose, e il loro rapporto era tra quelli. “Se Thorin deciderà di sposarla mi aspetto da tutti voi un minimo di tatto verso la ragazza, penso che neanche lei salti dalla gioia all’idea di un matrimonio combinato.”

“Un matrimonio combinato che la renderà regina dei nani!”

“Un matrimonio che la renderà regina dei nani e tua Dwalin, come nostra.”

“Thorin saprà qual è la decisone da prendere fratello” cercò di tranquillizzarlo Balin fissandogli la schiena che rivolgeva alla tavola.
 

Il nano annuì e sospirò girandosi per tornare a sedersi a tavola quando un rumore gli fece rizzare i peli della schiena. Il rumore di una porta che si apriva.

Tutti i nani nella stanza seguirono lo stesso percorso che fece lo sguardo di Dwalin, su per le scale di fronte agli archi.
Telkar era uscito facendo rizzare in piedi tutti i nani del suo clan vicino alla porta, mentre Thorin lo affiancava. Il nano piu’ anziano fece un lungo inchino verso Thorin prima di dargli le spalle e proseguire verso le scale che lo avrebbero portato fuori dalla montagna.
Dwalin cerco lo sguardo di Thorin che fissò la schiena di Telkar, per poi girarsi verso i suoi compagni guardandoli per un’istante. Thorin mosse leggermente la testa per poi girarsi e salire le scale che avrebbero portato lui invece verso le stanze reali.

“La sposerà.”
 








Le ore erano passate lente e agonizzanti, ogni minuto sembrava un’era mentre Ghìda aspettava il ritorno del padre dalla sala del consiglio.
Subito dopo essere stata cacciata dalla stanza era tornata all’accampamento senza fermarsi. La frustrazione che provava e la vergogna che la ricopriva non volevano scomparire.
Sentiva ancora gli occhi di Thorin su di lei, freddi e autoritari, gli occhi del Re Sotto la Montagna che la studiavano dal primo momento in cui era entrata in quella stanza. Sarebbe stata disposta a ricevere da chiunque quello sguardo ma non da lui, dal re dei nani.

Si sciolse l’ultima treccia nella chioma, ma le mani le tremavano cosi tano da non riuscire a sciogliere l’ultimo pendaglio d’oro incastrato tra i capelli.
“Maledizione!” sussurrò dalla frustrazione e immerse il viso nelle mani poggiando i gomiti sul piccolo tavolo dove stava riponendo tutti i ciondoli che fino a poco tempo prima si trovavano tra i suoi capelli.

La luna era sorta da poco e tutti, eccetto suo padre, erano tornati all’accampamento accanto alle pareti della montagna. Per tutto il pomeriggio si era trascinata al suo interno in lungo e in largo, suo padre aveva portato con sé un'altra grande parte dell’esercito dei Monti Gialli, lo sfoggiare le sue ricchezze, lo faceva sentire bene, così come era avvenuto nella sala del consiglio.
Aveva notato come mentre le aveva spostato la ciocca dei capelli si era guardato intorno, voleva che tutti la guardassero, perché anche se tutti la disprezzavano, era comunque sua, lui era riuscito in un qualcosa che non era mai riuscito a nessuno, avere lei.
In tutti i modi aveva provato a dimostrargli di essere di piu’ di valere di piu’ di essere una nana, come tutti avrebbero voluto, ma ogni volta il suo sguardo gli ricordava che non era una nana, lei era il suo gioiello sulla corona.
Il suo mizim.
Con qualunque mezzo aveva cercato di non fissare la montagna, aveva dato una mano ad arrotare le lame delle spade, a spedire messaggi alle famiglie dei caduti, a raccogliere provviste ma niente, piu’ ci provava piu’ il suo sguardo cadeva sulla roccia grigia, sul suo parapetto distrutto, sulle sue porte di pietra.
Alla fine, si era rifugiata nella sua tenda, dove non poteva vederla, ma l’angoscia le attanagliava il cuore, sentiva che c’era qualcosa di profondamente sbagliato, era una sensazione che si portava da quando le porte della stanza si erano chiuse dietro di lei, aggravandosi ogni minuto.

Si passò una mano tra i capelli e si tirò su dal tavolo scuro stanca di essere di quei pensieri che erano padroni della sua mente da diverse ore. Fece un giro su sé stessa e con una lentezza disarmante, quasi come un peso troppo pesante da portare, si tolse il lungo vestito verde facendolo cadere sul pavimento. Mosse la testa in cerchio stiracchiandosi, tentando di allentare la tensione, e portando la mano dietro al suo collo dove un rigonfiamento gliela fece subito togliere, così rapidamente che sembrava avesse toccato una spada in una forgia. Come se potesse sentirne ancora il dolore di quando, invece di una lunga striscia bianca, era un lungo nastro liquido purpureo.
Prese un respiro e lentamente passo l’altra mano intorno al suo fianco toccando con la punta del suo dito la fine. Se ne pentii all’istante tirando via la mano rapidamente, lasciando un respiro amaro, attraversarle le labbra contorte in una smorfia di dolore. Dolore che poteva essere passato, ma che nella sua mente e nel suo corpo erano ancora presenti. Non se lo sarebbe più lasciato fare, mai piu’.
Chiuse gli occhi inspirando e indosso velocemente la lunga sottoveste bianca che usava per dormire, coprendosi, non velando piu’ toccare o vedere la lunga cicatrice dietro la schiena.

“Mia signora” una voce la chiamò e di scatto alzò lo sguardo verso il telo della sua tenda che ea stato tirato leggermente da un soldato di guardia che  si era affacciato a malapena.
“Vostro padre desidera parlare con voi”.

La schiena le si rizzò e il nodo alla gola si fece piu’ prepotente. Era tornato dunque. Annuì leggermente mentre le parole le venivano a mancare, stringendo il leggero pelo bianco sotto le sue mani.

“D-ditegli che sto arrivando” approvò alla guardia arrotolandosi la pelliccia bianca  intorno alle spalle. Quella annuì e chiuse la tenda dietro di sé.

La testa le diceva di cominciare a camminare , ma una forza piu’ interna a lei, che le partiva dalla pancia, le bloccava le gambe. Mosse i primi passi verso l’uscita della tenda, uno piu’ pesante dell’altro, anche il braccio sembrò mancarle di forze mentre mosse le mani per uscire dai drappi rossi della tenda.
L’aria fredda la colpì in pieno viso, l’oscurità la avvolse, la notte era solo illuminata da una flebile luna sopra la sua testa e dalla luce della tenda centrale del campo, quella di suo padre.
La forza che la premeva all’indietro dentro al petto si face sempre piu’ forte, dovette combattere con sé stessa piu’ volte per non tornare nella sua tenda, ma non poteva, non con lui.
Le due guardie la fissarono attenti mentre muoveva gli ultimi passi verso l’entrata, una stretta allo stomaco le prese appena quelli scostarono la tenda per farla passare. Cose le stava succedendo? Quell’orribile sensazione di vomito non era normale, il cuore che le batteva in quella maniera non era normale.
Calmati, ti prego calmati. Si ripeté nella testa oltrepassando l'uscio.
Suo padre era chinato sul tavolo in mezzo alla stanza di fortuna, si era tolto gli eccessivi pendagli d’oro dai capelli e la sua armatura da cerimonia era gettata ad un angolo. Una folata d’ aria le mosse i capelli dietro la nuca leggermente, i lembi dei tendaggi erano stati chiusi, lasciandola sola con lui.
Chinò leggermente il collo in avanti senza staccare gli occhi da lui. Era pronta, o almeno così credeva, per qualsiasi motivo del suo invito notturno.

 “Adad” in quel momento si accorse di lei e alzò gli occhi dalle mappe sorridendole, un sorriso che la parve, di gioia pura, che poche volte aveva visto sul volto di suo padre.

“Figlia mia, ho grandi notizie, notizie che rallegrerebbero anche il piu’ triste dei nani” si mosse verso di lei con le braccia larghe .

“Deduco che le trattazioni con Re Thorin vi abbiano rallegrato” rispose mantenendo il controllo di sé stressa, ma le sue mani, se notate l’avrebbero tradita: intrise nel tessuto della sua sottoveste stringevano e tiravano il tessuto, sfogandosi della pressione che sentiva nel petto.

“Rallegrato è un eufemismo, figlia mia” con il sorriso sempre piu’ grande le si avvicinò e come se le avesse notate le prese una delle mani avvicinandola a sé leggermente. Sostenne tranquillamente il suo sguardo, il volto inespressivo in netto contrasto con quello del nano. “E spero che la notizia rallegri anche te.”

“Se porta vantaggio al nostro clan sarò rallegrata” rispose mantenendo il tono piatto.

“Oh enormemente mia cara, porterà lustro, ricchezza, potere, e infiniti vantaggi.” Il visò gli tremo leggermente, come se una un qualcosa l’avesse trafitto,  trasformando la sua bocca sorridente  alla smorfia simile a un sorriso con cui si era presentato nella sala di fronte a Thorin Scudodiquercia.

“Cosa vi ha donato?” Chiese rimanendo immobile sul posto osservando ogni singolo movimento di suo padre.

Il suo ghigno si allargò sempre di piu’ mentre cominciava a girarle intorno come un cacciatore con una preda. Lo sguardo che le aveva donato le fece gelare il sangue nelle vene. “Lui non mi ha donato niente, io l’ho fatto.”  Interrompendo il giro intorno a lei le si parò di fronte al viso e con una lentezza sconcertato avvicinò la mano alla sua guancia e gliela accarezzò lentamente. Il semplice toccò le fece mordere l’interno della guancia, dandole forza di non allontanarsi dal suo tocco.
“Gli ho offerto la tua mano, piccolo Mizim”.

Gli occhi le si spalancarono del tutto, portando tutto il castello impenetrabile che si era costruita intorno a lei a sgretolarsi. La bocca le si aprì appena indietreggiando dalle dita di suo padre. Quella semplice affermazione  le aveva  trapassato lo sterno, lasciandola senza la forza di parlare o di respirare perfino.
C-cosa avete fatto?” riuscì solamente a dire rimanendo con gli occhi spalancati indietreggiando ancora i piu’ dal nano di fronte a lei che rise in modo meccanico osservandola mentre lei era arrivata quasi con la schiena a toccare i teli della tenda.

Scosse la testa divertito e si avvicinò al tavolo prendendo un boccale e riempiendolo con la caraffa di birra accanto a questo. “Ti unirai in matrimonio a Thorin Scudodiquercia. Non hai bisogno di sapere altro.” Ridacchiò scuotendo la testa  sorseggiando dalla sua coppa “Ha un brutto carattere devo dire, peggio di quello di suo padre, ma ora è un re. Un re con un dominio che cade a pezzi e senza eredi” confermò ignorando il suo sguardo. La verità che aveva agognato per tutto il giorno le si era palesata davanti, il vero motivo per cui era lì, e non li nella sua tenda, lì ad Erebor.

Come premio, come corpo, come oggetto di scambio.

Aveva sperato con tutta sé stessa, dal momento in cui era partita che questa volta, sarebbe stato diverso, che questa volta avrebbe compreso, che si fosse piegato a quel minimo di amore che lei ancora cercava di scorgergli, ma no, lei era il suo gioiellino. E come tale l’aveva esibita di fronte a tutti i nani, illudendola che dopo tutti quegli anni avesse creduto finalmente il lei come sua erede.
Gli occhi le pizzicarono mentre il padre indifferente sorseggiò dalla sua coppa continuando a non guardarla.

Sembrò divertito dalla sua malinconia, tanto da poggiare il suo calice e avvicinarsi di nuovo a lei ridacchiando in modo sommesso, con le mani dietro la schiena . “Oh figlia mia, davvero credevi che ti avessi mandata dall’altra parte della Terra Di Mezzo per una singola battaglia, quando avrei potuto mandare un qualsiasi altro nano a comandare degli uomini a battaglia terminata?”
Non le ci volle molto per collegare i puntini e quando accadde sbarrò gli occhi.

"Da quanto avevate ricevuto il corvo dalla montagna prima di mandarmi qui?"

Lui scrollò le spalle “Ho fatto passare diverse ore prima di dartelo.”

“Qualche ora dove centinaia dei nostri avrebbero potuto morire” lo guardo esterrefatta, lui sapeva, sapeva che c’era un uovo re sotto la montagna, che gli elfi li avrebbero uccisi tutti se non avessero consegnato i tesori della montagna. “Dove sono morti i nipoti del re, gli eredi al trono, padre, e centinaia di nani, uomini e elfi.”

Suo padre alzo un sopracciglio poggiando la coppa sul tavolo e sospirando, come se la conversazione fosse di poco conto per lui, ma per Ghìda aveva conto. Era il suo onore che veniva messo in discussione.
“Se avessi voluto rispondere subito ai messaggi dei corvi, sicuramente non avrei mandato te. Sei una donna Ghìda, la guerra, non è affare di tua competenza. Solo perché quello sciocco stregone ti ha insegnato ad usare una spada, non ti rende un nano, o una guerriera. L’unica cosa a cui servi è mettere al mondo eredi.”


Sentir quelle parole dette da lui, così chiare e vivide le fece scattare qualcosa, la molla che l’aveva fatta scattare dentro la sala del consiglio. Le lacrime smisero di premerle sulla palpebra mentre alzava lo sguardo verso quello divertito di suo padre, carico di delusione, ma anche si qualcosa di piu’ profondo, carico di rabbia, una rabbia violenta e in quel momento indomabile.

“Io non lo sposerò, padre” lo guardò scura in volto, con la faccia contrita e i pugni serrati ormai ferme , ai suoi fianchi. Non seppe come riuscì a far uscire quelle parole seppe solo che una mano grande le prese violentemente il mento stringendoglielo con forza.  Il dolore improvviso le fece crucciare le sopracciglia e gemere, mentre il suo cuore cominciava a battere sempre piu’ violentemente. Gli occhi di suo padre erano conficcati a pochi centimetri con i suoi, l’aveva fatto scattare, la collera e l’oscurità ne erano intrinsechi. 

“Oh sì che lo farai” un tono velenoso gli usci dalle labbra mentre con ancora piu’ forza le strinse la mandibola, questa volta un gemito gutturale risuonò per la stanza. Chiuse gli occhi dalla paura cercando di spostare il viso ma un terzo strattone glieli fece riaprire guardando mentre due braci piene di odio erano fisse sul suo viso. “Giacerai tutti nani di Erebor se te lo comanderò.”
Stringeva i pugni respirando velocemente cercando di controllare le lacrime mentre la stratta sul suo viso si faceva piu’ forte.
“Ti ricordi cosa è successo l’ultima volta che mi hai disubbidito Ghìda?” La sua mano libera lentamente fece il giro del suo bacino e le tocco la schiena.
A quel punto non ce la fece piu’: gli occhi le si inumidirono e una singola lacrima, così tanto repressa le scese sulla guancia . Cominciò a contare i secondi: Uno, due, tre, quattro, li contava per ignorare tutte le immagini che le tornarono in mente, il buio, il freddo, il lento scorrere del tempo nella sua stanza chiusa per giorni.

“Non mi accetteranno mai” riuscì a dire con la voce tremante cercando di riprendere il controllo di sé stessa, non gli avrebbe dato il piacere di vederla disperata a supplicarlo, no. “Mi odiano. Il suo popolo mi odia.”
Un ghigno si distese per il viso di suo padre che tolse lentamente dalla sua schiena e allentava la stretta sul suo viso.

“Si che lo faranno” sussurrò accanto al suo viso lasciandola andare lentamente. “Lo faranno perché tu sarai regina di tutti i nani, madre dei figli di Durin”.
La prese lentamente per le spalle, portandola a un lato della stanza, dove un enorme specchio, con gemme incastonate e rune era posto per terra. La mise davanti, costringendola a guardarsi nello specchio tenendole le spalle. Le gote erano rosse, e gli occhi scuri gonfi per le lacrime che aveva versato, leggere impronte rosse le andavano da orecchio a orecchio. Le salì il disgusto, lei non doveva essere così, non voleva guardarsi così. Suo padre la teneva stretta per le spalle guardando il suo viso oltre lo specchio sorridendole e togliendole con il pollice la guancia.

“Immagina la corona sulla tua testa” le sussurrò vicino all’orecchio “la montagna come casa tua, gli inchini al tuo passaggio, gli sguardi d’amore del tuo popolo. Elcar ed Erebor unite da un’alleanza indissolubile e una regina sul trono piu’ ricco della Terra di Mezzo”. Il tono di su padre era cambiato, piu’ lieve, piu’ delicato.
Per uno sprazzo di secondi riuscì a  farle immaginare il suo riflesso come l’aveva descritta. Ciondoli nei capelli, una corona, seduta sul trono di Erebor, mentre, con Thorin accanto a sé, il popolo di Erebor che la acclamava, che la riconosceva come regina, come nana.  Era davvero disposta a gettare la sua vita su questo, sull’essere moglie, di essere una nana solo perché moglie del re? Abbassò lo sguardo non volendo piu’ immaginarsi, era sbagliato, era tutto sbagliato.  
“Una Regina sotto la montagna, con l’Arkengemma a portata della tua mano. E i tuoi figli con i miei consigli porteranno la linea di Durin ancora piu’ in alto. Dove neanche i Valar potranno raggiungerli tale la loro grandezza.” Le sussurrò le ultime parole vicino all’orecchio, come se anche nominare il gioiello del re fosse di cattivo auspicio, e che se li avessero sentiti li avrebbero condannati a morte.

“Tutto quello che hai sempre voluto a portata della tua mano, dovrai solo essere splendida, sorridere e obbediente e compiacente”.
La fece girare su sé stessa permettendole guardandola in viso e sospirando leggermente lasciandola andare.

Le mani di suo padre scesero verso le sue tenendogliele dolcemente. 

“Vuoi rendermi fiero di te Ghìda, sposa Thorin Scudo di Quercia e diventa regina”.

La paura che provava fino a poco secondi prima svanì lentamente mentre le rivolgeva uno sguardo dolce. Sapeva che stava recitando, lo faceva sempre, ma quella volta aveva ragione, che altre possibilità aveva? Drizzò la testa e la schiena guardando suo padre dritto negli occhi. C’era poco da decidere, e la scelta per Ghìda inesistente.

“Quando?”
 
 
 
 
 
 
 
 

Thorin si passò stancamente una mano sul viso e trasse un profondo sospiro.
Per ore aveva cercato di prendere sonno ma gli incubi, come tutte le notti, non lo volevano lasciare in pace, volti, fiamme, Erebor in macerie, ma quella notte gli si palesò anche la battaglia di pochi giorni prima e il volto di sua sorella che piangeva disperata.
Aveva bisogno di respirare, di schiarire i pensieri, le mura della sua stanza gli sembravano rimpicciolirsi sempre di piu’, cosi si era messo a camminare fino al terrazzo sopra le Sale dei Re, dove fino a pochi giorni prima, osservava Pontelagolungo andare in fiamme, e dove aveva trovato sé stesso di nuovo.

L’aria fresca della notte, lo investì appena mise piede fuori, i capelli scuri gli si muovevano leggermente, mentre la camicia blu gli aderiva al petto, mossa dal vento. Il cielo terso e la luna alta facevano sì che si vedesse tutto perfettamente, permettendogli di arrivare accanto alla balaustra in macerie.
Vi poggiò gli avambracci tenendosi la spalla ferita con una mano, ispirando a pieni polmoni l’aria della notte. Irrazionalmente volse lo sguardo sotto le mura, su un mucchio ti tende rosse sotto le mura della montagna, in molte le candele erano accese ma il suo sguardo era puntata solo su una, un po' più grande delle altre ma lontana da tutti.
Durante la battaglia non era riuscito a vederla, troppo lontano e il suo sguardo era sempre piu’ stanco, mentre si era accasciato sul lato della montagna. 
Dalle immagini sfocate era riuscito a intravedere, lunghi capelli bruni e dai suoni torbidi e confusi nella sua testa, una voce di donna seguita dal suono del corno, lo stesso corno che portava la mezz’elfa annodato sul fianco. Per tutta la riunione il suo sguardo era gravitato verso di lei, non riusciva a spiegarsi il perché ma c’era qualcosa che lo portava a osservare ogni singolo centimetro del suo viso. Non era per le sue orecchie a punta, i suoi portamenti poco da nana, cosi come la forma del suo corpo, troppo minuto per la sua razza. Era altro, era il suo sguardo, gelido come la neve, che si era sciolta appena il signore degli elfi le aveva rivolto la parola. P
oche volte rimaneva colpito da qualcosa, da qualcosa poi di cosi assolutamente normale come una femmina, ma lo sguardo che gli aveva donato prima di andarsene dalla stanza gli aveva fatto tremare le ginocchia. In pochi l’avevano guardato così nella sua vita, solo i suoi compagni. Uno sguardo carico di lealtà.
Suo padre d’altro canto non aveva lo stesso onore negli occhi della figlia e quando gli propose le nozze lo fece con una tale superbia che Thorin dovette resistere all’impulso irrefrenabile di cacciarlo dalla montagna, ma la saggezza e la calma che ora gli imponevano il suo ruolo, lo avevano reso piu' mite, ma per parlare con sicurezza con il signore di Elcar aveva dovuto cacciare tutti i presenti.

“Sapevo di trovarti qui ragazzo.”

“Sono diventato così prevedibile, Balin?” Ghignò leggermente senza stancare gli occhi dalla valle sottostante sereno che  l’avesse raggiunto Balin e non suo cugino. Non aveva il temperamento per discutere in quel momento, e le discussioni con Balin erano assai rare.

“Mi ricordo ancora quando un piccolo principe dei nani, saliva fin quassù sfuggendo dalle mie lezioni per guardare oltre i confini della Montagna Solitaria”. L’anziano nano gli si avvicinò con le  mani nella grande casacca rossa, lo sguardo era vispo, lontano perso nell’orizzonte.

Thorin sorrise fra sé e se, ricordando gli anni di quando non era altro che un bambino che si divertiva a fare il soldato. “Non ero facile da gestire vero?” Chiese sorridendogli.

Rise leggermente e ricambio il suo sguardo scuotendo la testa “No e con gli anni non sei cambiato affatto, piu’ mite, ma testardo come pochi nani che abitano questa montagna. Se non volevi fare qualcosa non c’era possibilità di farti cambiare idea.”
Il velato commento su di lui lo fece ridacchiare facendogli vanire una fitta alla spalla. Non pensava che solo il suo ridere gli avrebbe fattosi male.
Grugnì sotto gli occhi di Balin divertito dalla scena, lui che non rideva mai e quando accadeva si faceva male.
Strinse l’occhio sinistro mentre con uno strattone si tirò giù la spalla della camicia per controllare la fasciatura, ma appena guardò in basso una luce catturò la sua attenzione fino a dove era fisso fino a poco fa, prima dell’arrivo di Balin.
Ma non era la tenda che sperava, era solo un cambio della guardia di due nani delle guardie di Telkar.
Un pizzico di delusione gli si poggio sul petto, neanche lui riusciva a spiegarsi perché volesse vedere accesa proprio la luce della tenda della mezzelfa, forse per essere sicuro che quello che era successo in quella stramaledetta giornata fosse reale.
Sentì lo sguardo di Balin su di lui e poi spostarsi verso il punto in cui aveva lui lo sguardo fisso e sentì sospirarlo, lo conosceva troppo e aveva capito che c’era qualcosa che lo tormentava, e osservando come il suo sguardo era fisso sulla tenda che anche lui stava fissando intuì.

“So cosa sei venuto a chiedermi, e perché.”

Balin scosse la testa lentamente ma non negando, come per cancellare un pensiero. “Il perché sono affari del re, noi appoggeremo la tua decisione, tutti noi.” Asserì l’ultima frase assottigliando lo sguardo, stava mentendo “Non ci devi spiegazioni.”
Thorin scosse la testa e guardo verso la tenda cnora buia. Si che glielo doveva.

“I Monti Gialli, ci daranno il loro appoggio, armi, uomini, e risorse. Apriremo un canale di commercio dal quì fino a sud dell' Illithien, il nostro oro per le loro gemme, la mano di sua figlia, per un unione tra i due piu' ruicchi e potenti clan dei nani,” Si lasciò andare cupo evitando lo sguardi di Balin.
“E un erede che mantenga questa alleanza è l’unica nostra sopravvivenza.” Arreso sospirò e scosse la testa assottigliando gli occhi
"È un matrimonio politico, sono il re…devo" sussurrò l’ultima parola fra sé e se ma Balin notò il suo sguardo, anche se cercava di nasconderglielo, cupo e quasi triste, ma Thorin non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno a sé stesso.

Balin gli si avvicinò ancora di piu’ tanto che Thorin poté sentire i loro bracci sfiorarsi “Sposarsi per amore, non è mai stato un privilegio ottenibile per i Re di questa montagna.”

Scosse la testa verso Balin sorridendo con solo un lato della bocca “Non che fosse un mio desiderio”. Gli disse e si disse, ma in realtà Thorin, lo bramava fortemente, quando era ancora giovane, lo voleva davvero, ma col tempo il suo cuore fu temprato e simili sogni andarono perduti. Il vecchio nano accanto a lui scosse la testa rassegnato muovendo il suo sguardo oltre l’orizzonte.

“Perché mi guardi cosi, neanche tu ti sei mai sposato” gli fece notare Thorin girando il busto verso di lui e ridacchiando leggermente.

“Non che fosse un mio desiderio” gli fece eco Balin ridacchiando. Facendo sorridere Thorin come non faceva da giorni, ciò rese l’anziano nano, così rincuorato, erano stati giorni difficili per tutti loro, ma a Thorin gli era cambiata la vita da un giorno all’altro.
Se per il meglio o per il peggio, questo ancora non lo poteva sapere nessuno.

Balin abbassò lo sguardo verso i guanti vecchi e se li tolse, il gesto non passò inosservato a Thorin. Il suo rabbuiarsi così all'improvviso non era cosa familiare ai suoi occhi.
“Dovevo sposarmi una volta, lei non mi volle” sorrise triste e guardò verso Thorin.
“Successe molto prima che tu nascessi, se tuo padre fosse qui probabilmente te lo racconterebbe ridendo, ma io ero distrutto sai ragazzo? Era la cosa piu’ bella che avessi mai visto nella Terra Di Mezzo. Decisi di non sposarmi mai, se non con lei. Ahimè sono qui con te ora, e sono troppo vecchio.” Disse sorridendogli tristemente.
Per poco non sgranò gli occhi, credeva di sapere tutto di Balin, era  stato come un padre per lui, non credeva che una cosa del genere gli potesse essere nascosta. Rimase scioccato a pensare a questo lato del nano dalla folta barba bianca.

“Perché me lo stai dicendo ora?”

“Perché un matrimonio felice è un dono per pochi, e spero solo che tu lo abbia ragazzo.”








 
Adad=Padre
Mizim=Gioiello
Gunum Mànan=Luce solitaria






 
 ANGOLO AUTRICE
Eccomi qui dunque con un altro capitolo, questa volta un pò piu' lungo e spero un pò piu' intrigante rispetto ai due precedenti. Spero si siano cominciate a capire un pò le situazioni, i vari rapporti e le varie idee di tutti su quello che sta per accadere, sia quella dei nostri due protagonisti che della compagnia. Il rapporto tra Ghìda e suo padre è ambiguo e abusivo, molto in realtà.  Ho cercato di rendere al meglio un rapporto tra un manipolatore e un carattere facilemente manipolabile, e devo dire che le mie idee per questo rrapporto erano molto piu'  estreme, ma alla fine, per avere anche un arco piu' intrigante, ho mantenuto il rapporto piu' "leggero" di quantop in realtà fosse nella mia testa.
Un enorme grazie a Pin per aver recensito in mod così costruttivo i due primi capitoli e infine ringrazio valepassion95 per aver aggiunto la mia storia alle seguite, non potete immaginare quale gioia mi avete dato, sapere che qualcuno apprezza la mia storia per me è molto importante. Grazie :)
SPOILER (Nel prossimo capitolo vedremo finalmente l'incotro tra Thorin e Ghìda, aspettative? Come si comporteranno secondo voi? Fatemelo sapere!)


 
 

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Capitolo 5
*** Casa ***


Casa

 
 
 
 





Con cautela Ghìda si chiuse il piccolo anello d’oro sul lobo dell’orecchio, guardandosi, allo specchio per fare piu’ attenzione ma il suo riflesso diceva piu’ di quanto lei volesse tenere nascosto.
Il rossore intorno agli occhi sottolineava perfettamente che avesse dormito poco insufficientemente, e il suo pallore, che in quel poco che aveva dormito non aveva fatto sogni tranquilli. La notte non era stata delle piu’ tranquille: dopo essere uscita dalla tenda del padre nella notte era corsa diretta nella sua, adagiandosi al letto e lasciandosi andare alla marea di emozioni che si era tenuta dentro tutta il giorno prima.
Per mascherare la situazione, aveva cercato di sistemare i lunghi capelli castani, lasciandoli sciolti, con solo due fine trecce che da dietro la nuca che le ricadevano sulle spalle, invisibili, se non fosse stato per i piccoli anelli a ogni giro di ciocca.
Era sempre stata abituata allo sfarzo, all’esagerazione, all’oro, ai gioielli, anche a indossarli, se doveva, ma non si era ancora abituata al perché lo avesse dovuto fare quel giorno.
Se fosse dipeso da lei quella mattina sarebbe già stata su un destriero verso casa, con i capelli al vento, l’aria sul viso che le faceva arricciare il naso e il cuore che batteva libero da ogni pensiero, da ogni obbligo, da ogni onore.
Per sempre libera, per sempre indipendente, per sempre forte.
Nessuno l'avrebbe più fatta preoccupare, arrabbiare... soffrire.
Ma non dipendeva da lei, nulla piu’ dipendeva da lei.
C’era qualcosa in ballo di piu’ importante di un matrimonio,  qualcosa che per lei era ben piu’ importante di un matrimonio.
Scosse la testa facendo uscire quei pensieri, ma non fu facile; a sostituirli invece il volto di Thorin Scudodiquercia, il volto che le aveva fatto agitare i pensieri per tutta la notte. Quel giorno l’avrebbe dovuto rivedere, in maniera meno ufficiosa, ma non meno importante. Suo padre si era premurato di avanzare la richiesta di un incontro tra i due il giorno prima direttamente a Thorin, mentre quella mattina era venuto a informala sui comportamenti che avrebbe dovuto tenere in presenza del re: cosa dire, come muoversi, se guardarlo negli occhi o meno, tutto doveva essere perfetto.

Si era premurato persino di dirle come camminare: “Con regalità Ghìda, ricordati che sarai regina, mio Mizim.”

Poteva ancora sentire il tono stucchevole con cui glielo aveva detto, il veleno nelle sue parole, e la minaccia al loro interno: se qualcosa fosse andato storto, voleva che lei fosse sicura che ovunque lei sarebbe andata l’avrebbe trovata, lo faceva sempre.
Sospirò profondamente e con le mani si fece forza sul tavolino per alzarsi; in ogni caso era troppo tardi per fuggire ora.
Osservò l’uscita della tenda poggiando le mani sul lungo tessuto per secondi che le sembrarono interminabili, prendendo un lungo respirò uscì e quel che vide la fece rimanere con la bocca spalancata pulendole la mente.
Dalla sua tenda, infondo all’accampamento, poteva vedere  quasi l’interezza dell’enorme vallata tra la Montagna Solitaria e Dale, e lì centinaia di nani erano giunti durante la notte, con pony e carovane. Intere famiglie marciavano verso l’entrata di Erebor.
Mai le era capitato di vedere una cosa del genere, piccole tende erano state montate per tutta la gola: i cavalieri dei Colli Ferrosi, così come quelli dei Monti Gialli, avevano organizzato piccoli gruppi ordinati all’incirca ogni decimo di miglio, dall’inizio della strada che cominciava da Dale e che arrivava fino all’entrata della porta dei nani.
Indirizzati da altre guardie, i gruppi dei nani che arrivavano vi venivano accompagnati. Dai movimenti delle braccia e dalle singole parole in Khuzdul, spesso sconnesse al suo orecchio, riuscì a capire approssimatamene  che li avrebbero scortati nella città palazzo per trovargli riparo.

Un interò popolo che aveva trovato la sua casa, che aveva riconquistato la libertà ma che ancora doveva fare i conti con la realtà: Erebor era in rovina. Un centinaio di anni era stata inabitata e lo scontro di alcuni giorni prima ne aveva danneggiato una gran parte. Quando il giorno prima era entrata all’interno del palazzo, si era subito resa conto della gravità in cui versava; Smaug l’aveva quasi raso al suolo e anche solo in quei pochi metri che aveva camminato nel palazzo, aveva constatato che polvere e macerie coprivano quasi interamente il pavimento.
In quelle condizioni, se non peggio, versava anche la città di Dale, comprendeva benissimo il motivo della richiesta del capo degli uomini verso Thorin. Aveva osservato a lungo la città in cima alla collina, nera dalle ceneri e in rovina quando era arrivata, e ancor piu’ il giorno dopo.
Passò lo sguardo dai gruppi di nani di nuovo verso di questa e  sorridendo fra sé e se , rincuorandosi, notando come anche gli uomini non si erano lasciati il tempo di riposare, e con funi e  ponteggi, stavano riparando le case andate distrutte.
Lasciando scorrere lo sguardo giù per il versante della collina si accorse di un qualcosa che prima non aveva notato. I soldati dei Colli Ferrosi avevano creato delle strutture che costeggiavano l’intero fianco della montagna opposto a quello del suo accampamento, partendo dalle mura di Dale fino a costeggiare la strada di pietra per Erebor. Fucine e piccoli cantieri erano stati allestiti sotto di essi con falegnami, stagnai e fabbri che lavoravano senza sosta. Un via vai di nani entrava e usciva dalla montagna: macerie e legnami venivano spostati, dall’interno all’esterno e viceversa. I soldati erano tornati ciò che erano, nani operosi, il loro orgoglio superava di gran lunga la loro spossatezza o il loro onore, questo lei lo sapeva bene: sarebbero morti di affanno piuttosto che mantenere Erebor in quello stato.

Ma quale stato in realtà?

Delusa pensò a come I suoi occhi non si erano mai poggiati sulla Montagna Solitaria prima di pochi giorni fa, ma aveva udito i canti ai Monti Gialli, canti di un regno oltre ogni immaginazione, scavato nella roccia di una montagna, pareti verdi smeraldo e vene d’oro che fluivano anche sulle immense scalinate, che come alberi in una foresta, si ramificavano per tutta la città.
Alzò come la sera prima lo sguardo verso uno dei due giganti a guardiani della porta e prendendo un ultimo e profondo respiro si strinse nervosamente i lembi del lungo vestito purpureo e, prestando attenzione all’ancora presenti piccole lastre di ghiaccio, cominciò a camminare verso la montagna.
La sua strada fu però sbarrata però quasi immediatamente da due soldati di Elcar, che con passo deciso avanzavano verso di lei. Erano le due guardie che la sera prima sostavano di fronte alla tenda del padre, giovani, molto giovani, se non avessero avuto delle lunghe barbe scure entrambi, li avrebbe scambiati per dei ragazzini
Le si fermarono davanti e si chinarono in avanti come saluto.

“Mia signora, suo padre ci ha chiesto di scortarla all’interno della montagna” uno dei due disse trattandosi l’ascia che portava sul fianco sulla cintura.

Inarcando un sopracciglio confusa scosse la testa. “Non ce n’è bisogno, sono pochi metri, posso andare da sola.”

“Ha insistito.” Insistette l’altro non staccando gli occhi da terra.

“Posso benissimo incamminarmi da sola, senza pericolo alcuno.”

“Mia signora” lo interruppe il soldato sulla destra con umiltà e alzando finalmente lo sguardo verso il suo, implorante. “La prego.”

Il cambio di tono del ragazzo di fronte a lei la confuse ma alzando lo sguardo oltre la sua spalla ne capì la ragione, e condivideva il suo stato d’animo.
Una figura, in lontananza, stava osservando la discussione; in piedi di fronte alla tenda principale dell’accampamento dietro le spalle delle due guardie suo padre fissava la discussione con le mani dietro la schiena. La lunga barba nera non era piu’ decorata con le ricche gemme del loro popolo, era legata rudemente. Le vesti da cerimonia che lo adoravano fino al giorno prima erano sparite, al loro posto, vesti da lavoro, che anche se decorate con piccoli ricami e di pellicce scure, facevano trasparire il suo essere prima di tutto un nano e poi un politico.
Era, se si poteva dire così, l’unico lato che gli invidiava, il suo essere così poliedrico, il suo  saper ingannare non solo con le viscide parole di lusinghe, ma anche con il portamento. In quel momento serviva che dimostrasse la sua forza, la sua identità da nano, e così si era travestito, se gli fosse servito altro il suo atteggiamento sarebbe stato tutt’altro.
Gli occhi ancora titubanti delle due guardie erano ancora puntati su di lei intanto che serravano le mascelle, per non lasciare sfuggirsi una supplica probabilmente.
Per un attimo titubò. Non voleva essere trattata come una umile dama di corte, ma d’altro canto non aveva il cuore di far pesare il suo orgoglio sulle teste di qualcun altro.

“Molto bene allora, fatemi strada.” Confermò e i due giovani soldati rincuorati fecero un sospiro di sollievo e raddrizzando la schiena si girarono cominciarono a marciare di fronte a lei aprendole la strada fra i soldati, intenti loro lavori.

Si incamminarono oltre l’accampamento, verso l’entrata della montagna e un dettaglio la lasciò sbalordita: i continui sguardi lanciati dai soldati e non, verso di lei; con indifferenza, cercò di non badarvi, sapendo perfettamente a cosa fossero dovuti. Molti di loro ,probabilmente, aveva già ricevuto la notizia, era anche pronta sentire delle minacce, ma nessuna di esse arrivò al suo orecchio.
Con suo sommo imbarazzo, si rese conto guardandosi intorno, che per la prima volta, non tutti la osservavano con disprezzo, riluttanza sì, ma non disprezzo.
Dai suoi concittadini era abituata a ricevere qualche sguardo di superiorità ma sempre silenziosa, ma dai restanti nani presenti nella valle non si sarebbe mai aspettata un simile atteggiamento.
Gli stessi nani dei Colli Ferrosi che il giorno prima sputavano sul terreno su cui passava, adesso stavano zitti, e nel suo percorrere il viale, nessuno a differenza di due giorni prima, si era posto fra lei e l’entrata della montagna.
I nani che trasportavano materiali continuavano il loro cammino lanciandole solo occhiate fugaci, mentre gli artigiani e i fabbri nelle fucine improvvisate si fermarono per qualche istante, a osservarla mentre gli passava davanti.
Ma la cosa che piu’ la sconcertò fu Dàin Piediferro. A lavoro a una delle fucine, non alzò neanche lo sguardo verso di lei, i battiti ritmici del suo martello sull’incudine infestavano l’aria, ma non un suono uscì dalla sua bocca. E lei che si era preparata a un ennesimo scontro, rimase allibita di fronte al suo atteggiamento. Qualcosa era cambiato, qualcosa che non riusciva a comprendere appieno.
Ghìda infatti non poteva saperlo ma un tacito accordo era stato fatto quella mattina fra tutti i nani di Erebor e non solo, un accordo che metteva prima l’onore e la fiducia verso il proprio re piuttosto che alle proprie simpatie personali.  Nessuno le avrebbe regalato insulti, o se lo avesse voluto fare lo avrebbe fatto nella sua testa, come stava facendo Dain in quel momento mentre batteva forte il ferro sull’incudine. Se il volere di Thorin figlio di Thròr era quello di sposare la sudicia mezzo sangue, allora lui non avrebbe parlato, ma sarebbe stato il primo a parlare se la mezz’elfa avesse infangato il nome della stirpe Durin.
Ghìda oltrepassò il piccolo ponte di detriti verso l’entrata del dominio sotto la montagna, ma appena ne oltrepassò la soglia e mise piedi nei domini di Durin, ne sentì l’enorme peso sulle spalle. Le enormi pareti di roccia la fecero sentire incredibilmente piccola, incredibilmente misera in un mondo molto piu’ grande di lei. La calma che per pochi secondi le si era annidata nel cuore aveva fatto posto a un’angoscia profonda, sentì come se la montagna le stesse parlando, la stesse guardando giudicatrice. Ogni pietra, ogni muro, ogni scheggia emanava forza, una forza antica come Arda.
Si dovette fermare qualche secondo sotto le arcate, il cuore le batteva all’impazzata e il respiro le era diventato piu’ pesante. Quella sensazione nel petto non ce l’aveva avuta il giorno prima quando era entrata a Erebor, ma neanche quando ne era uscita e la sua confusione aumento quando notò che solo lei ne sembrò colpita dalla montagna.
I due giovani  nani davanti a lei avevano continuato a camminare con passo spedito, così come i nani che intorno a lei, continuavano ad entrare e uscire dalla montagna, o a svolgere i loro compiti senza il minimo sforzo.
Appena mosse un passo per raggiungerli e oltrepasso la soglia, tutta quella sensazione sparì, il batticuore si era improvvisamente fermato.

“Potete fermarvi qui, accompagnerò io la vostra signora. Se non vi dispiace.”

In mezzo a quella confusione non si era accorta, che le due guardie erano state fermate da un nano anziano dalla folta barba bianca divisa a metà: lo aveva già visto, era sicura di averlo già visto. Con un breve cenno della testa le due guardie si allontanarono tornando fuori dalla montagna, lasciandola in mezzo al corridoio con l’anziano nano che le si avvicinò di un passo e allargò le braccia facendo un profondo inchino.

“Balin, figlio di Fundin, mia signora, al vostro servizio.” Si riverì sorridendole in modo affabile. “Mi duole ammettere di essere il consigliere del Re, e ancora di piu’ di essere suo cugino.”

Lei di tutta risposta piegò la testa in avanti mantenendo le mani a reggere il tessuto del vestito, mentre una sensazione di sollievo le si protrasse verso il petto, sapendo che gli uomini di suo padre non erano piu’ lì.

“Ghìda, figlia di Telkar, al vostro.”

“Lo so mia signora.” La fermò con un misero tentativo di rompere il ghiaccio e di metterla a proprio agio, per saltare le formalità, ma lei reagì al modo opposto.

Ghìda infatti si raddrizzò con la schiena mordendosi il labbro. Cero che sapeva chi fosse, tutti lo sapevano.
Le guance le si colorarono leggermente di rosso dall’imbarazzo, come se avesse detto qualcosa di sbagliato al momento sbagliato.

Balin ci riprovò un'altra volta.
“Non che sia un male, mia signora.” Il vecchio nano le sorrise di nuovo cordialmente, ma lei non riuscì a far cadere , l’aria di serietà  che emanava.  Sembrava una sciocca, lo sapeva, ma non si era mai comportata diversamente, mai lasciata andare, soprattutto con altri nani.
Per questo si sentì terribilmente in colpa quando il nano allargò le braccia mettendosi di fianco indicando così un lungo corridoio intagliato nella roccia con sempre un viso estremamente gentile.
“Prego seguitemi.”

Seguì i passi dell’anziano nano, che con passo svelto la scortava per gli enormi spazi della montagna. Il marmo verde la circondava, passarono di fronte a decine di scale, che salivano e scendevano, senza prenderne neanche una, continuando dritti. Ebbe così la possibilità di guardarsi intorno, case erano scavate nella roccia, piccole finestrelle erano già accese, figure che apparivano e scomparivano nell’intricato sistema di scale. Con coraggio si fece forza e guardò sotto di lei, pentendosene all’istante ma rimanendone sbalordita, così tanto da spalancare la bocca e farla bloccare sul posto.
Centinaia di metri di vuoto si estendevano sotto di loro,  vuoto interrotto solo da lunghe piattaforme e balconi che spuntavano dal lato della montagna; l’ultimo corridoio era così remoto nelle profondità della terra che era difficile anche da notare. Balin si accorse del suo stupore e si fermò anche lui a guardare giù.

“E’ uno spettacolo che devo ammettere, ancora mi lascia stupito.”

Sbastendo piu’ volte gli occhi ancora scioccata Ghìda annuì tirandosi leggermente indietro dal bordo continuando a guardare giù.
“Toglie il fiato, non c’è che dire.” Sussurrò e guardò verso la sua guida che di tutta risposta aveva annuito e ripreso a camminare con le mani dietro la schiena.
Il suo atteggiamento era cambiato, per colpa sua, di come si era posta appena entrata.
Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, una parola gentile, un ringraziamento, ma il suo brutto carattere schivo le aveva rifatto un brutto scherzo. Aprì la bocca per parlare , ma la richiuse immediatamente continuando a fissare la schiena del nano. Era stato così cordiale con lei, dannazione.

“Mastro nano” lo chiamò attirando la sua attenzione e fermando il suo camminare “mi duole per il mio comportamento di poco fa. Non sono stata cortese, perdonatemi.”  Ammise scusandosi  guardando verso il basso per nascondere il suo viso leggermente imbarazzato.

Balin d’altro canto le sorrise di nuovo gentilmente scuotendo la testa.
“Non c’è nulla di cui vi dobbiate scusare, capisco la vostra posizione.” ‘Se solo avesse capito veramente’ penso tra sé e sé. “E non dovete accigliarvi per così poco.”

Al sentir quelle parole si sentì rincuorata. Lei, che era rimasta composta e ordinata fino a quel momento, di fronte alla cordialità dimostratele, non poté trattenere un sorriso, mentre i suoi nervi si distendevano. Qualcosa le diceva che si poteva fidare, quel nano, era il primo , che non fosse un suo sottoposto, che le dimostrava una simile gentilezza data tanto tempo.
Velocizzò un po' il passo per camminare affianco al nano trattendosi la gonna.
“In realtà, non c’era motivo per non fare entrare anche le vostre guardie, o le guardie di vostro padre.” Le confessò continuando a camminare, rallentando il passo per farli stare alla stessa distanza. “Mi sembravate così a disagio, ho pensato che, in una situazione come questa, partire di buon umore sarebbe stata la scelta più saggia.”

Ghìda abbassò lo sguardo colpevole e mordendosi l’interno guancia annuì. “Grazie mastro nano, avete un occhio acuto.”

Balin sorrise guardando verso il suo viso imbarazzato “Anni di pratica mia signora solo questo.”
Le disse ricordando come erano davvero gli anni di pratica, soprattutto con suo fratello. Raramente sia lui che Thorin esprimevano ciò che voleva a voce, i loro sentimenti, o anche dei semplici bisogni, così con il tempo aveva imparato a fare a meno delle parole e aveva cominciato a interpretare i loro segnali. Per individuare il malessere della ragazza gli ci volle poco, si stringeva spesso il vestito anche se non ce n’era bisogno e il suo tono cambiava radicalmente quando qualcuno del suo clan le era accanto o poteva ascoltarla.
Girarono a gomito cominciando la lunga scala che li avrebbe portati sopra le Sale dei Re, nella sala del trono. Aveva allungato di molto il giro, erano solo due rampe di scale dall’entrata ma Balin non poté nascondere la curiosità che provava verso quella strana ragazza, voleva rivolgerle qualche parola, voleva capire cosa avesse portato Thorin a fissare la sua tenda nel bel mezzo della notte.

“Siete da molto accanto a Re Thorin?” si lasciò sfuggire Ghìda. Balin decelerò ancora di piu’ il passo salendo sull’enorme scalinata. Sperava di non essere stata troppo indiscreta, forse si era permessa troppo, ma con sua sorpresa Balin annuì senza staccare il passo.

“Da molto tempo, ero un suo insegnate. Da quando era solo un bambino sono al suo fianco.”

Ghìda sorrise fra sé e sé immaginandosi Thorin Scudodiquercia, solo un bambino correre per gli stessi corridoi che stava percorrendo lei in quel momento. Un piccolo nano che non sapeva che sarebbe stato la salvezza del suo popolo.
“Dovete essere fiero di ciò ch’è riuscito a campiere, e di ciò che è diventato allora.”

“Lo sono, molto, è un buon re, sapevo che l’avrei seguito nelle Aule di Mandos e ritorno mia signora.” Le ammise orgoglioso, fermandosi in cima alle scale.

Ghìda volto la testa, osservando l’enorme arcata che apriva la strada a una sola sospesa nel vuoto, con al centro di essa un enorme trono incoronato da una stalattite con venature d’oro.
“Da di qua credo sia meglio proseguiate da sola.” Precisò Balin facendo un passo indietro e un breve inchino allargando di nuovo le braccia. “Re Thorin sarà da voi a momenti”. La osservò attentamene, la ragazza osservava la sala senza muovere un passo, anche se l’aveva invitata ad entrare, poi guardò le sue mani, nocche bianche che stringevano la stoffa e il suo petto muoversi in maniera ritmica. “Non vi angosciate mia signora, andrà tutto per il meglio.” Cercò di rincuorarla e ci riuscì, o almeno lo penso notando le sue mani sciogliersi dal groviglio di tessuti dell’abito purpureo che indossava.

“Grazie, Balin figlio di Fundin” E con questo ultimo saluto della ragazza, Balin si allontanò dalla sala, lasciandola sola, e in balia delle sue preoccupazioni, che per quanto aveva provato l’anziano nano, ancora non erano sparite.

Intimorita osservò l’enorme arcata sopra di lei e lentamente la oltrepassò, facendole tagliare il fiato in gola. Decine di antiche statue dei re dei nani piu’ o meno in buone condizioni, circondavano la stanza, vigilando sulla sala del trono.
Un enorme finestra illuminava da dietro l’immenso trono sospeso a mezz’aria in mezzo alla sala, al culmine di quattro lunghi corridoi che come una croce l’attraversavano.
Sopra di esso un blocco di roccia, come culmine, in cui venature d’oro illuminate, facevano un gioco di luci all’interno della stanza. L’unico rumore che si sentiva in quel momento erano i suoi passi lungo la lastra di pietra, accompagnati dallo strusciare delle sue maniche sul marmo. Gli intarsi dorati arricchivano ogni pilastro, ogni capitello delle colonne, le venne d’istinto chiedersi come fosse stata al suo splendore, illuminata da enormi bracieri, se le ginocchia le tremavano solo per quella visione, immagò cosa avessero dovuto provare i nani che vi si erano recati in visita all’apice della sua bellezza.
Si avvicinò lentamente al trono, Thorin non era ancora lì, era sola, al centro dell’enorme stanza. Osservò le incisioni in Khuzdul che adornavano il trono, quasi come non ci volesse credere, allungo una mano su una di esse. La pietra dura sotto i polpastrelli la fece sobbalzare leggermente; fece il giro, lentamente, studiando ogni ventura del fermo vede, e leggendo ogni runa.
Si accigliò, guardando in alto, sopra lo schienale. La pietra era spaccata a metà lasciando un enorme foro, ma accanto a questo , un elemento le fece aggrottare le sopracciglia confusa. Un foro, poco piu’ grande di un pugno troneggiava seggio. Era vuoto non c'era niente, la sua forma era però troppo perfetta, troppo precisa.

“E l’Arkengemma a portata della tua mano.”

Sgranò gli occhi ritraendo velocemente la mano dal marmo mentre le parole di suo padre le ritornarono alla mente. Il gioiello del re. Lì era dove veniva tenuto. Si diede della stupida, se non sul trono del re, dove poteva essere, il mizim di Durin.

“Verrà riparato anche lui, quando sarà il momento.” Una voce profonda, che rimbombò per l’intera stanza la fece trasalire. Così persa nei suoi pensieri non si era accorta che Thorin Scudodiquercia era entrato nell’enorme sala dal corridoio al lato del trono. La corona non era sul suo capo, e le vesti regali del giorno prima erano sparite, lasciando il posto a un’armatura leggera scura. Ma anche senza di queste riusciva a emanare un’aura di grandezza che faceva sembrare la sala intorno a lei, piccola come una tana.
Indietreggiò velocemente allontanandosi dal trono come se l’avesse colta in fragrante, ma di cosa non lo sapeva neanche lei.

“Re Thorin.”  Omaggiò il nano mentre questo si avvicinava verso di lei, facendo una piccola riverenza.
Come il giorno prima si sentiva come una fanciulla inesperta, cosa le stava succedendo? Lei non era così, era una guerriera, una figlia di principe, non una dama di compagnia, ma allora perché aveva tutto quel timore?

“Perdonatemi.” Si scusò, non seppe neanche lei per cosa, forse piu’ per le sue emozioni che per un qualcosa di realmente accaduto.

“Dovrai solo essere splendida, sorridente, obbediente e compiacente.”

Forse era meglio così, che si sentisse così in quel momento, cosa avrebbe voluto un re dei nani se non una donna compiacente al suo fianco?
Thorin, d’altro canto si crucciò leggermente al tono accondiscendente della ragazza di fronte a lui. Si sarebbe aspettato di tutto, un blocco di ghiaccio come il giorno precedente ad esempio  ma con sua enorme sorpresa, gli occhi della ragazza gli sembrarono gli stessi, pieni di emozioni, che gli aveva rivolto il giorno prima. Aveva aspettato qualche secondo a rivelarsi, l’aveva osservata da lontano per qualche minuto incuriosito dal modo in cui si osserva intorno camminando per il lungo corridoio. Le aveva fatto pensare a una bambina che vedeva un trono per la prima volta totalmente in contrasto con la condottiera che aveva guidato le truppe giù per la valle di Erebor.  
C’era piu’ quello che volesse trasparire in lei e non  che quello che facesse trasparire fosse poco.
Che fosse bella non lo avrebbe potuto negare nemmeno lui ma aveva incontrato decine di elfe, e donne di altre razze, ma era diversa da qualsiasi cosa avesse mai visto. Era una bellezza unica.  Non era eterea come le sue conseguine dei boschi e neanche carnale come le nane.
Sciocchi pensieri infantili, erano solo quelli, non era quello l’importante. Lei era un accordo, solo questo, e tale doveva rimanere. Tali pensieri era meglio che rimanessero nascosti.
Non le rispose avanzando solo verso il  trono osservandolo anche lui dal basso verso l’alto; come lei nella sua testa le sembrava una bambina, tale appariva Thorin, che passava gli occhi malinconici sulle venature scure.

“Avreste dovuto vedere questa sala anni fa.” Le disse con malinconia. Ghìda alzo lo sguardo verso di lui guardandolo il viso contorto in un’espressione quasi malinconica, mentre quello del re rimanevano incollati sull’alto trono.
“La luce del giorno che illuminava il marmo e il rumore delle fucine che riempiva l’aria.” Le raccontò girandosi verso di lei guardandola negli occhi con uno sguardo che non riuscì a decifrare.

Ciò non toglie che Ghìda si senti terribilmente amareggiata, tutti conoscevano la storia, tutti sapevano quello che avevano perso, quello che Thorin Scudodiquercia aveva perso.
“Se un tempo è stata cosi, niente vi nega che possa accadere di nuovo.” Cercò di confortartelo, ma probabilmente al Re Sotto la Montagna non serviva, poiché scosse la testa guardandola come se avesse detto una cosa ovvia, ma sorridendo lo stesso con il lato della bocca. “I nani di Elcar e quelli dei Colli Ferrosi stanno lavorando duramente, centinaia di loro si stanno adoperando in questo momento.”

A Thorin sfuggì un ghigno quasi divertito mentre abbassava lo sguardo quasi per celarlo.
“Mio cugino non gradisce molto la vostra compagnia.” Le disse secco avvicinandosi a lei con le mani dietro la schiena e gli occhi puntati nei suoi. Un brivido dietro la schiena la fece raddrizzare immediatamente. Il suono di quell’affermazione l’aveva fatta saltare come una molla.
Aveva auspicato di non ritrovarsi a parlare di quell’argomento , ma doveva aspettarselo già da quando aveva incontrato Dàin fuori le mura.

“E questo vi disturba?” chiese diretta mandando a marcire ogni raccomandazione di suo padre sul suo essere accondiscendete e mite.
Ci era riuscito, aveva toccato un nervo scoperto, e di nuovo l’aveva guardato con lo sguardo che aveva cercato nei suoi occhi appena entrata nella stanza, freddo come il ghiaccio, ma ardente come il fuoco.

“Dovrebbe, ma no non mi disturba.” Rispose piegando leggermente la testa e camminar e cominciare a studiare le sue reazioni. “I suoi problemi sono solo suoi.”

Visti da fuori sembravano due animali che si stavano studiando lentamente, cercando ognuno di capire le ragioni dell’altro. Thorin doveva capire se potesse fidarsi di una completa sconosciuta. Ghìda se il re dei nani la disprezzasse per ciò che era.
“E a voi non crea problemi?”

Gli occhi scuri di Ghìda erano puntati in quelli di ghiaccio di Thorin, che ancora le erano impossibili da risolvere.
Senza che i due se ne resero conto ora si trovavano di fronte al trono, uno a pochi centimetri dall’altra con i petti che quasi si sfioravano; inconsapevoli di se stessi, attratti l’uno dall’altra. Entrambi percepirono una strana energia, un qualcosa che li fece rimanere in silenzio aspettando una parola dell’altro, non sarebbero crollati, entrambi troppo orgogliosi o troppo codardi da interrompere il silenzio.

Un passo pesante interruppe i battiti accelerati di Ghìda e fece allontanare Thorin da lei di un paio di passi e facendogli voltare il viso verso la figura infondo alla sala. Un nano grosso dalla barba scura era avanzato oltre la fila di archi all’entrata della sala ansimando leggermente . Il volto era coperto di nera fuliggine e la lunga camicia tirata su fino agli avambracci, mostravano una coppia di lunghi guanti da lavoro. Appena entrato rimase qualche attimo fermo, puntando il suo sguardo su di lei, la guardò dall’alto verso il basso alzando un sopracciglio, per poi spostare la sua attenzione su Thorin.

“Thorin, mi duole interromperti ma abbiamo bisogno di te alle fucine. Bifur non riesce a far ripartire le fornaci e i nani di Dàin non sanno dove mettere le mani.”

“Vi raggiungo Dwalin, manda Balin alle Gallerie dei Re.” Rispose autoritario  facendo annuire con la testa il nano tozzo infondo alla sala che prima di voltare la schiena e camminare via le lanciò un’occhiata verso di lei che ai suoi occhi le sembrò per niente amichevole. Nel frattempo, fortuita l’interruzione del nano, aveva perso tuttala rigidità e la compostezza ritornando ad avere, almeno dall’esterno, il portamento di una fanciulla, ma la mancata risposta del re sotto la montagna, non aveva fatto altro che farle salire un’angoscia incontrollata.

Incomprensibile.

La risposta nella testa di Ghìda era chiara, certo che era un problema. Lui era il re dei nani e lei cosa non era se non un essere che non apparteneva a niente e a nessuno.
Per Thorin però la risposta non era così semplice. Il suo sangue per lui era un problema? Renderla sua ignorando ogni pensiero o opinione era possibile? Il confine fra dovere e volere si fece confuso nella sua testa. Se fosse stata una nana gli avrebbe fatto ribrezzo? No a lui non faceva ribrezzo neanche adesso, ma l’astio che correva in lui verso quel popolo che piu’ volte gli aveva voltato le spalle e aveva voltato le spalle alla sua gente, non gli fece dare una risposta, neanche a sé stesso.

Ritornando al mondo reale Ghìda si schiarì la voce facendo alcuni passi indietro con riverenza, non aspettando neanche una risposta da Thorin, avendo anche perso il desiderio di ascoltarla.
“Vi ho trattenuto fin troppo a quanto pare.”

Lui annuì allontanandosi ancora leggermente con la testa, timoroso che la vicinanza tra di loro si azzerasse di nuovo. “Avremo tempo di parlare ancora.” Le rispose ancora leggermente scosso, ma non lo diede a vedere a Ghìda che interpretò le sue parole come un mezzo per defilarsi dalla situazione.

“Delle stanze sono state preparate per voi. Sapete trovare la strada per tornare alle Gallerie de Re? Balin vi aspetterà lì per mostrarvele.”

“Si mio re.” Gli rispose facendo un breve inchino con la testa. Pronta ad andarsene girò il busto, ma un pensiero la trattenne lì dove era, un pensiero che non avrebbe lasciato la sua testa se non lo avesse esposto immediatamente. E non avendo più il controllo di sé stessa lo vomitò, senza riuscire a frenare le parole.

“Re Thorin” Lo chiamò attirando il suo sguardo verso di sé. “Non ho ancora avuto il modo di dirvi quanto mi dispiace per la vostra perdita.”

Thorin rimase sconcertato inizialmente sgranando gli occhi. Non capì il motivo di una simile affermazione alla fine di un incontro che trattava di altro.

“So che le mie parole possono sembrare di circostanza, ma vi ho osservato il giorno dei funerali, e ho ascoltato le vostre parole. Prendere me in moglie per colmare un simile vuoto è un qualcosa di devastante, ne sono consapevole sapete?” Si fermò un attimo mentre Thorin la osservava ascoltandola attentamente. “Una decisione così importante, presa in un momento del genere, vi fa molto onore.” Concluse mentre Thorin rimase in silenzio, non dicendo nulla osservandola solo con i suoi due occhi di ghiaccio senza emettere un fiato. Gli occhi erano lo specchio dell’anima quella del re era impenetrabile come un’armatura, se stesse provando qualcosa, lo celava bene.
Non ricevendo risposta voltò le spalle e cominciò a camminare via oltre le arcate.

“L’onore non attenua la perdita, i morti rimangono tali.” Sentì il re parlare con voce profonda dietro di lei.
Questa volta però quando si voltò non vide un re fiero, senza emozioni, celato dietro un velo di regalità impenetrabile. Ma un nano che aveva visto troppo e perso troppo. Per la prima volta in tuta la conversazione vide negli occhi del nano una tristezza profonda, un nano che aveva sacrificato tutto per essere dove era, per avere indietro la sua casa.

“No ma gli danno uno scopo.” Sentenziò lei allontanandosi dalla sala, lasciando dietro di lei un Thorin che ,incredulo, continuava a osservare da dove era uscita, con la risposta alla sua domanda sulla punta della lingua.

Senza voltarsi indietro Ghìda scese le lunghe rampe di scale, cercando di ricordarsi precisamente dove fosse passata con l’anziano nano poco prima dell’incontro con Thorin. Ma orientarsi non le era mai sembrato così difficile in vita sua. Era frastornata, da tutto quello che era successo nella sala del trono. Dal momento in cui aveva posato gli occhi su di lui, non era riuscita piu’ a staccarglieli di dosso, qualcosa la faceva orbitare intorno alla sua figura. Era il suo re, era normale questo, ma la sensazione che aveva sentito nelle viscere appena si era avvicinata solo di poco, non era timore, non era paura, le sembrava di più una corda che le tirava verso di lui involontariamente.

“E a voi non crea problemi?”

Cosa le era venuto in mente? Che le avrebbe detto di no? Che tutto si sarebbe concluso con un: “Non mi importa ciò che siete non è colpa vostra”?
Idiota, idiota, idiota. Certo che importava! Si fermò di sasso in mezzo a una rampa di scale di botto puntando i piedi e guardando a terra mordendosi talmente forte da farsi male. Lei non era una nana, non lo sarebbe mai stata. Non sarebbe mai stata una moglie o una regina degna di tale nome, suo padre continuava a dire che l’avrebbero amata tutti i nani, ma lui lo avrebbe fatto? E allora perché? Perché aveva accettato? E perché lei continuava a farsi quelle domande sciocche. La testa le girò a tal punto da mettersi le mani sul viso prendendo una profonda boccata d’aria. Non era una bambina, non poteva reagire come tale, era una donna, determinati sentimenti li aveva seppelliti con il suo dolore in una fossa profonda quanto Erebor stessa. Non potevano tornare alla luce neanche quando era da sola, perché farlo accadere avrebbe significato solo una cosa, una caduta inesorabile in una voragine senza uscita. Una voragine fatta di ricordi, di dolori e notte insonni, decadi di vergogna e delusione che doveva tener celati al mondo, ancor di piu’ al Re Sotto la Montagna.

Alzò il petto inspirando l’aria di fronte a sé cercando di calmarsi, di cancellare quei pensieri dalla sua testa, ma un leggero lamento le fece sgranare gli occhi. Nel silenzio piu’ totale, se non fosse stato per un vociare remoto, un pianto flebile e ritmico, rimbombava da una parte indefinita delle enormi sale. Aggrottando le sopracciglia confusa, cominciò a scendere con piu’ lentezza i gradini, scrutando ogni singolo corridoio, ogni singola scala, ma il pianto rimaneva flebile nell’aria, fino a che una piccola figura piegata su sé stessa non attirò la sua attenzione.

Seduta su un gradino, non molto lontano da lei, su una scalinata sulla sua destra, una bambina era rannicchiata su sé stessa singhiozzante. Ghìda si guardò intorno, sconcertata che non ci fosse nessuno e che una bambina così piccola fosse arrivata sin lì, nelle viscere del palazzo, da sola. Una stretta le venne al cuore sentendo un singhiozzo piu’ forte degli altri uscire dalla piccola figura alla quale tremavano le spalle.
Lentamente si avvicinò per non spaventarla, non era mi stata brava con i bambini, se ne vedevano cosi pochi a Elcar, ma non poteva lasciarla lì da sola. Poteva esserle successo di tutto. Piegata leggermente in avanti si avvicinò silenziosa al gradino dove la piccola nana era seduta con il viso nascosto nelle ginocchia.

“Piccola, tutto bene?” Chiese preoccupata Ghìda abbassandosi con i ginocchi all’altezza della bambina. Questa non si era accorta di lei, infatti sobbalzò leggermente alzando lo sguardo dalle proprie ginocchia. Due grandi occhi verdi la fissavano intimorita, lunghe ciocche rosse erano attaccate sul viso bagnato dalle lacrime,che non si fermavano e che silenziose continuavano a scendere. Avrà avuto massimo sei anni.
Le si avvicinò con calma, portando una mano leggermente in avanti come per rassicurarla cercando di non turbarla piu’ di quello che già era.

“Quale è il tuo nome?” Le chiese con gentilezza, tenendosi il vestito con una mano e sedendosi sui gradini di fronte alla piccola creatura che continuava a fissarla intimorita valutando se potesse rivelare il suo nome a una completa sconosciuta.

“N-Nìm.” Le rispose continuando a tenersi le piccole ginocchia al petto.

“Ossequi, Nìm, il mio nome è Ghìda.” Le disse sorridendole gentilmente mentre lei continuava a piangere silenziosa. Chissà da quanto era lì sola e nessuno l’aveva sentita. “Perché piangi? Ti sei persa?” Le chiese cercando di clamarla il piu’ possibile. Questa annuì verso di lei con la testa, muovendola velocemente, facendo oscillare i piccoli pendagli argentati nei suoi capelli.

A-mam era vicino a me, poi mi sono girata e non c’era più.” Le rispose con piu’ sicurezza nella voce, tirando su con il naso rumorosamente, mentre le lacrime silenziose le bagnavano il vestito scuro che portava.

Ghìda sospirò tristemente e anche se titubante si avvicinò ancora di piu’ a lei trascinandosi un gradino piu’ vicina.
“Anche io mi sono persa un mio amico sai?” Le sorrise con gentilezza mentendole per calmarla. “Che ne pensi se andiamo a cercare la tua mamma ti va? Magari troviamo il mio amico.”

La tecnica sembrò funzionare, Nìm infatti alzò gli occhi verso di lei strabuzzandoli e tirando su con il naso un'altra volta mentre le lacrime pian piano finivano.
“D-avvero mia signora?”

“Si, certo.” Annuì Ghìda alzandosi da terra e allungandole la mano come invito a prenderla. “Andiamo. In due ci metteremo sicuramente meno tempo.”

La bambina dai capelli rossi si alzò annuendo e con entrambe le  manine si asciugò gli occhi, prima di afferrare con una di queste la sua mano ancora tesa. “G-grazie mia signora.” Sentì il cuore farle un altro capitombolo quando dopo essersi pulita gli occhi le regalo un sorriso innocente.
Stringendo la piccola mano nella sua cominciò a guidarla per i lunghi corridoi, ringraziò il suo innato senso dell’orientamento che la stava aiutando a ricordare la strada. Non era difficile capire perché la bambina accanto a lei avesse perso la via, Erebor era un vero e proprio labirinto di cunicoli, era stata fin troppo brava a non addentrarsi ancora di piu’ nella montagna.
La piccola compagna di viaggio nel frattempo la osservava, grattandosi gli occhi di tanto in tanto, ma Ghìda non se ne accorgeva cosi assorta nei suoi pensieri ,che quando alla fine la bambina le rivolse la parola fece un piccolo saltello.

“V-voi da dove venite?” Le chiese ormai con tono calmo stringendole ancora di piu’ la mano. “Avete viaggiato tanto?”

La domanda le fece aggrottare un po' le sopracciglia, ma immediatamente capì: doveva essere arrivata insieme alle carovane che aveva visto quella mattina. Le sorrise gentilmente guardandola ma sempre tenendo d’occhio i corridoi che prendevano.

“Io vengo dei Monti Gialli. Un posto molto lontano da qui.”

“La mia famiglia dalle Montagne Blu. Abbiamo camminato tanto, mio fratello Fàrim però mi ha fatto andare sul suo pony per un po'.” Le disse fieramente e sorridendo: era incredibile, come dalla disperazione piu’ pura fosse passata in così poco tempo a saltellarle accanto tenendole la mano.

“Devi essere stata molto brava allora, cavalcare un pony non è semplice.”

“Il mio fratellone mi teneva, a-mam dice che il pony è troppo grande per me da sola.” Appuntò facendo però un’espressione delusa, facendole scuotere la testa divertita.

“Vedrai che un giorno lo cavalcherai da sola un pony.” La rassicurò facendola sorridere di nuovo come prima se non di piu’.

“Davvero mia signora?”

“Certamente, una bambina virtuosa come te perché non dovrebbe?” Le confermò facendole fare un saltello di gioia piu’ in alto rispetto agli altri, ma poi il suo sguardo si scurì di colpo.
E le ci volle un attimo per capire perché. Stavano sotto due grandi nani di pietra che facevano da cornice a una lunga scala che scendeva, erano quasi arrivate alle Sale dei Re. Se i Valar avessero voluto, lì avrebbe lasciato Nìm ai suoi genitori.

“A-dad ha detto che questa era la casa dei suoi padri.” Le disse afferrandole anche con l’altra mano la sua intimorita dai due enormi nani di pietra che le osservavano giudicatrici mentre li oltrepassavano.

“E a te non piace?” Le chiese incuriosita, le ricordò se stessa il giorno del consiglio appena aveva messo piede nella montagna.
Nìm le si avvicinò ancora di piu’ ora cosi vicina alla sua gamba che i capelli le strusciavano sulla gonna del vestito.

“A casa c’era la neve e potevamo bere latte caldo di fronte al camino.” Disse guardandosi intorno intimorita. ”Qui invece è tutto così buio.” Sussurrò intimidita seguendo i suoi passi. Anche se comprendeva il suo sgomento cercò di rassicurarla nel modo migliore che poteva.

“Sono sicura che ti piacerà, devi solo abituarti.”

Questa scosse la testa velocemente aggrappandosi ancora di più al suo vestito lasciandole la mani.
“Ma io non voglio abituarmi, io voglio andare a casa.” Disse quasi sull’orlo delle lacrime ancora una volta. Un respirò triste uscì dalle narici di Ghìda, capiva i suoi sentimenti, anche lei voleva tornare terribilmente a casa. Voleva tornare a vedere le sue amate bianche coste e le immense spiagge nere di Elcar, ma ora il suo posto era lì. La sua vita era lì come quella di Nìm che ora stava guardando triste per terra smettendo di camminare.

Ghìda si abbassò piegandosi sulle ginocchia prendendo entrambi le mani della bimba con gentilezza e stringendole nelle proprie.
“Sai, neanche io volevo venire qui, volevo stare nella mia città, con l’odore del mare che si infiltrava nella rocce della mia stanza, ma ti posso assicurare, Nìm, che la tua casa è dove è la tua famiglia.” Per un attimo esitò mordendo il labbro, poteva sentire il cuore batterle sempre piu’ velocemente “Dove c’è amore. Tu hai amore per la tua famiglia?” Non seppe dire se le parole di incoraggiamento fossero piu’ per Nim o per sé stessa, o se ci credeva davvero a ciò che aveva detto, ma non aveva importanza in quel momento, perché la piccola figura davanti a sé le sorrideva leggermente annuendo.

“Allora prima o poi ti piacerà.” Le disse infine portandole un ciuffo dietro l’orecchio spostandoglielo dalla guancia. “Abbi solo pazienza.” Concluse dolcemente e così facendo la bambina le strinse la mano ancora piu’ forte dirigendosi con lei verso l’immenso salone dorato che ormai era a pochi scalini da loro.

Un groppo in gola le si formò notando quanto era cambiato da quel poco tempo che era passato, ora centinaia di nani camminavano per la sala, dirigendosi nelle diverse parti del palazzo. Carichi di averi e carretti pieni di ogni tipo di oggetto. Tutte le famiglie che erano prima fuori erano entrate nella montagna, rendendola trafficata come una via del commercio dell’ Illithien. Nìm vicino a sé le strinse ancora di piu’ la mano mentre lei cercava con lo sguardo non sapeva neanche cosa: come avrebbe trovato i suoi genitori? Figure su figure si andavano ad alternarsi di fronte a lei creando delle enormi file che non le permettevano nemmeno di vedere la fine della sala.

“A-MAM!” La piccola accanto a lei le scivolò via dalla stretta all’improvviso facendole sgranare gli occhi, stava per inseguirla, quando tra la folla, poco lontano da lei, vide la sua testa rossa correndo per tutta la sala buttandosi tra al braccia di una nana con i capelli di egual colore. Questa si chinò accogliendola tra le sue braccia e stringendola forte.

“Grazie Valar, Nìm stai bene!” Le disse baciandole i capelli piu’ e piu’ volte stringendola a sé. “Mi hai fatto così preoccupare.” Le sussurrò tra i capelli per poi cambiare improvvisamente atteggiamento, e con sguardo duro e serio, le afferrò le spalle guardandola dritta negli occhi “Non provare piu’ ad allontanarti da me, hai capito bene?”

Ghìda nel frattempo si era avvicinata piccoli passi osservando la scena con gli occhi tra il malinconico e il rasserenato. La scena le aveva stretto il cuore, tra la felicità della piccola o la preoccupazione della madre della bambina non seppe quale delle due di piu’. Sentì una leggera fitta al petto quando con leggerezza, anche se con ancora l’aria seria che voleva far trasparire,  la madre le pulì il vestito con una mano, sporco di polvere. Lei tutto quello non l’aveva mai avuto, una a-mam.
Nim annuì velocemente fissando la madre “S-sì a-mam, perdonami. Ma la signora mi ha dato una mano!” Disse girandosi di scatto verso di lei sorridente e muovendo dei piccoli passi, puntandola con la piccola manina. “La mia amica Ghìda, mi ha accompagnata lei!”.

La madre della piccola alzò lo sguardo verso di lei, che nel frattempo era rimasta in silenzio ma sorridente verso Nìm, dapprima confusa, con la fronte aggrottata, e poi spalancando gli occhi appena sentì il suo nome.
“Per Aulë …”  disse fra sé e se alzandosi da terra, da dove era rimasta china con la figlia, velocemente fissandola cercando le parole adatte ancora con gli occhi sbarrati. Ghìda si morse il labbro di fronte a tale comportamento, sembrava avesse visto un fantasma, e d’improvviso la nana di fronte a sé fece un profondo inchino abbassando lo sguardo. Il gesto non passò inosservato, infatti diversi nani intorno a loro fermarono le loro faccende puntando gli occhi su di lei, e anche sul loro volto si dipinse uno sguardo di incredulità.
“M-mia…mia signora sono, sono mortificata Non ci sono parole di scuse per…” Ghìda scosse la testa interrompendola non capendo il perché di tutta quella preoccupazione o di quella riverenza “Vi prego scusate il disturbo arrecatovi da mia figlia.”

“Vi prego no.” Le disse preoccupata avvicinandosi ancor di piu’ mentre la piccola Nim guardava la madre confusa ancora piegata. “La compagnia di vostra figlia mi ha intrattenuto, e in ogni caso non mi ha recato disturbo. Avete una figlia adorabile.” Disse dolcemente guardando verso la bambina che nel frattempo sorrideva fiera verso di lei.

“Grazie mia signora!” Disse la piccola nana afferrando la gonna della madre, mentre questa alzò lo sguardo verso Ghìda, ancora scioccata. Di tutte le persone che le potevano riportare Nìm, proprio la promessa di Re Thorin.

“Mia signora, eccovi, stavo cominciando a preoccuparmi.” Una quarta voce si aggiunse alla conversazione. Balin muoveva passi veloci verso di lei, affannato. Aveva controllato ogni angolo della sala a cercarla, solo quando aveva sentito alcuni nani delle Montagne Blu pronunciare il suo nome sottovoce era riuscita a trovarla.

“Vieni andiamo ci sono tuo padre e i tuoi fratelli che sono in pensiero.” Disse la madre alla bambina che saltellante le tenne la mano stretta annuendo. “Vi ringrazio, m-mia signora.” Le disse di nuovo con sempre un tono di riverenza prima di abbassare lo sguardo e cominciare a camminare via senza neanche darle il tempo di rispondere a lei o salutare la piccola Nìm.

 “Mia signora. Grazie, per avermi aiutata!” Le urlò salutandola ondeggiando il braccio all’insu', voltandosi con il busto mentre sua madre la trascinava via verso le sale interne e bisbigliandole qualcosa puntandole il dito, ma non attirando l’attenzione della figlia che continuava a lanciare occhiate dietro di sé sorridente. Il gesto innocente la fece sorridere tra sé e sé, e anche se leggermente imbarazzata, la salutò a sua volta con la mano, mentre la sua piccola figura spariva dietro file e file di nani.

“Avete fatto amicizia?” Le si affiancò Balin che nel frattempo era rimasto silente accanto a lei.

“Una gradevole compagnia, si era persa ai piani superiori. Era seduta poco lontana dalla sala del trono.” Rispose lei continuando a fissare nella folla, come se dovesse ancora stare attenta che Nim non si perdesse.

Balin raddrizzò il petto appena sentì le parole sala del trono e schiarendosi la voce, guardando il profilo della giovane mezz’elfa che ancora teneva gli occhi fissati nella folla, ebbe il coraggio di porre la fatidica domanda.
“Se posso permettermi, come è andata?” Chiese curioso; il pensiero di saperne di più di tutta quella faccenda lo rendeva nervoso ed irrequieto, Thorin non aveva un bel carattere, soprattutto con gli sconosciuti. Era testardo, arrogante, e perfino rude come un orco quando ci si metteva di impegno.

Ghìda alla domanda sobbalzo mordendosi il labbro non riuscendo a controllare il rossore che gli colorò i goti. Il peso nel suo cuore tornò, facendola deglutire rumorosamente e stringere il tessuto del vestito.
“Poteva andare peggio.” Rispose, guardando verso il nano acanto a lei. “Poteva andare decisamene peggio.”

E con quella risposta della donna Balin ebbe la sua:
era andata bene, decisamente bene.
 
 





A-mam= Madre
 
 





SPAZIO AUTRICE
Ed eccomi qui per voi (con un ritardo madornale) con il capitolo dell’attesissimo incontro. Se siete rimasti un po' a bocca asciutta vi chiedo perdono ma la carne al fuoco sarà tanta nei prossimi capitoli. E soprattutto ve lo immaginate uno come Thorin fare conversazione con the e pasticcini? XD La scena iniziale lo so che è pallosissima, ma mi serve darvi una visione generale di quello che sta succedendo ad Erebor, e soprattutto scusate per essere molto spesso così fredda che nelle descrizioni o prolissa ma credo sia molto importante lanciarvi nella ambientazione. Comunque, Dwalin rimane il best guasta feste, ma un po' di angst ci sta dai, anche perché rimane abbastanza in linea con il personaggio. Il passato di Ghìda voglio che rimanga sempre un po' un mistero, almeno per un altro po' se non dal prossimo, da quello dopo ancora avrete una visione piu’ ampia anche sul rapporto con sua madre, che rimane un po' un mistero devo dire anche per me, non che non lo sappia ma sarà difficile da scrivere credo. Alla fine di questo mio sproloquio ditemi: Quel è stata la vostra parte preferita? Thorin che ne pensate quale è la sua risposta? E vi prego ditemi le vostre teorie sono troppo curiosa. E soprattutto quanto è adorabile Nìm? Ahahahahah e povero Balin fa il pulisci casini sempre.
Ringrazio Yeah Buddy_OneD per le parole gentili e di supporto hahahaha mi hai fatto morire, fammi sapere con una prossima recensione che ne spensi. Comunque grazie davvero.
POSSIBILE SPOILER:  Un po' di scazzotate no?

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Capitolo 6
*** Il dovere di una regina ***


 

Il dovere di una regina

 
 







Nin hûn thel cen i galad

Una voce cantava.

Mín hûn thel na ui

Una voce di donna.

Pada-e, sedh ne oldôr

Una voce cristallina.

Athon na ennas

Era così gentile.

Dartha anim meletheren

Così dolce.

Ci ista naun sí

Cantava per lei.

An urtha-na ci ne elei

Una sagoma brillava.

Ci gar al-bach an groga

Brillava flebilmente.

Bara anor, edledh.

Una goccia

Silif, beria ammen.

Due goccie

El En Menel, cal trî

La voce si spezzava.

Naur en Udûn, gwanna

Piangeva perché piangeva?

Air glim, ring a paran

La luce se ne stava andando.

Rain ero

No, ti prego.

Lorn, ach cuin

Era sempre piu’ lontana.

Iaun ne elei.

No!

Thand o i alagos

Ti prego resta con me!

Mîn sen dôr

Ti prego non lasciarmi!

“Ti amo mia piccola Gadril.”




 
“NO!” un urlo disperato le uscì dal petto nel mezzo del silenzio assoluto della sua stanza, mentre gli occhi le si aprirono di scatto.

“No.” Ripeté trattenendo le coperte sotto di sé ansimante, con gli occhi sbarrati verso il soffitto.

“No.” sussurrò fra sé e se sentendo calde lacrime scenderle lentamente sulle guance verso il collo bagnando i lati del cuscino.

Di nuovo, l’aveva sognata di nuovo. Quella voce, quella luce.

Gadril, così l’aveva chiamata.

Spesso ormai faceva quel sogno, sempre uguale, con la stessa canzone, ma quella era la prima volta che la voce l’avesse mai chiamata.
Gadril, solo a ripensarci, un’ennesima fitta al petto le fece chiudere gli occhi, addolorata, una sensazione di nostalgia le pesava sul petto facendola respirare in modo pesante. Cos’era quella luce? Chi era Gadril?
Frastornata si tirò su a sedere facendo scivolare le coperte scure via da lei e tenendosi il viso fra le mani fece un lungo respiro bloccando le lacrime che, per quanto ci stesse provando, non smettevano di scendere. Il cuore le batteva così forte da farle male, i respiri erano faticosi, e la gola secca, come se avesse urlato a squarciagola per tutta la notte. Alzò lo sguardo appannato dalle sue mani, afferrando le coperte sotto di sé tirando su la schiena e si guardò intorno cercando di distrarre la mente da quel sogno ormai troppo ricorrente.

Era mattina, molto tarda anche, la luce entrava dalla piccola finestra infondo alla sua stanza da letto illuminandola quasi totalmente, facendo risplendere gli intarsi dorati sulle pareti di pietra scura. Si diede una piccola spinta scendendo dal letto poggiando i piedi su uno degli innumerevoli tappeti e pelli che ricoprivano il pavimento. Un brivido di freddo le percorse la schiena, facendole stringere le mani intorno alle braccia scoperte, si voltò e vide le ceneri dell’enorme camino incastrato nella roccia, ormai quasi del tutto spente.

Infreddolita, con passi leggeri si avvicinò ad esso e chinandosi vi lanciò uno dei piccoli ceppi posti accanto al camino, e osservò mentre le piccole fiammelle rimaste lo avvolgevano del tutto ricreando un piccolo fuoco.
Era passata una settimana da quando si era ufficialmente trasferita nelle stanze reali dentro Erebor e da una settimana che non faceva altro che girare all’interno dei grandi corridoi delle sale reali senza una meta precisa. Dopo che Balin l’aveva scortata fino lì, non era passato un momento nel quale avesse vissuto un attimo libera dall’angoscia o dalla presenza continua di un soldato di suo padre accanto a lei giorno e notte.
Non aveva libertà di muovere un passo senza che lui lo sapesse; aveva provato piu’ volte in quei giorni a varcare le porte dell’enorme corridoio per andare nei piani inferiori, ma appena allungava la testa oltre un muro o giù verso una balaustra un soldato di Elcar era lì ad aspettarla.

Suo padre si era ben guardato da non lasciarla mai sola, un gesto amorevole, visto da fuori, ma che lei sapeva bene che esser tutt’altro che gentilezza. Dopo l’incontro con Thorin, l’aveva fatta scortare per ogni suo percorso, ogni suo singolo passo era osservato, e studiato, per poi essere riferito.
Non era per possessione, era per riguardo, non voleva che il carattere ardito della figlia rovinasse un accordo che si era così impegnato a congeniale, in ogni singolo dettaglio. 

Da che Erebor le faceva quasi timore, ora non riusciva a trattenere l’impeto di cominciare a camminare di nuovo tra le enormi scale e i marmi verdi esplorandone ogni sala, rimpianse perfino il non aver rallentato il passo con la piccola Nìm, ora avrebbe pagato oro per passare altri cinque minuti con quella bambina che tanto le aveva rallegrato la giornata.
Ma non poteva, non con due guardie che la seguivano di continuo attirando l’attenzione di chiunque incrociassero nei saloni, facendola osservare già di piu’ di quanto non succedesse già di norma.

Aveva quindi preso la decisione di non uscire piu’ dalle sue stanze se non per esigenze necessarie, e, ad essere sincera con sé stessa erano davvero poche, lei stessa le rendeva poche.
Si era domandata spesso in quelle notti se effettivamente fosse una cosa negativa, l’essere costretta nelle proprie stanza, senza che nessuno la guardasse, senza aver paura di dire o fare qualsiasi cosa, senza l’obbligo di modellare su di se un carattere impassibile, ascoltare le parole che diceva dall’esterno e non riconoscersi in una sillaba, senza lo sguardo di suo padre su di se, senza sentire ancora il dolore su tutto il suo corpo che gli procurava pensando solo a lui e senza il silenzio di Thorin: quel dannato silenzio e quegli occhi, per tutti i Valar quegli occhi.

Le avevano scavato dentro il petto una voragine che ora sentiva come se ci fosse realmente un buco nel suo petto. Per quei pochi istanti di silenzio tra loro due avrebbe voluto solo guardare oltre quell’azzurro e che lui potesse guardare dentro di lei a sua volta. Se fosse rimasta lì avrebbe solo dovuto aspettare sei mesi e tutto si sarebbe sistemato, lei sarebbe stata regina e tutti i suoi problemi sarebbero svaniti… non è così?
Alzò tristemente lo sguardo verso la porta scura della sua stanza rimanendo china davanti al focolare, che nel frattempo aveva ripreso a scoppiettare.
In quei giorni che era stata lì aveva appreso che le stanze di Thorin si trovavano infondo al corridoio dalla parte opposta alla sua. Una grande porta divideva le due alee del corridoio, e al di là di questa una enorme balconata che dava verso la valle; che lei sapesse era l’unico modo, in cui lei potesse raggiungere le stanze di Thorin, senza dover fare il giro fino alla parte opposta della montagna e con cui lui potesse raggiungere le sue.
Per piu’ di una notte era rimasta sveglia fino a tardi e piu’ di una volta aveva sentito l’enorme porta chiudersi e aprirsi piu’ volte durante la notte, ma mai era riuscita a sentirlo o a vederlo, ne lì, ne al di fuori della sua stanza quando si concedeva  di uscire scortata. In verità dopo come si erano lasciati l’ultima volta non era nemmeno sicura di volerlo vedere, ne aveva quasi timore.

Un leggero bussare alla porta le fece distogliere lo sguardo fisso dal legno della porta facendole scuotere la testa e alzare dal tappeto scuro, cancellando i  suoi pensieri
“Mia signora, sono Balin, siete presentabile?”

Ghìda sobbalzò sorpresa da sentire la voce del nano e gli occhi le caddero inevitabilmente , verso la veste da notte chiara che portava. No, non era presentabile, affatto.
Mordendosi il labbro si guardò intorno attentamente scrutando ogni angolo della stanza in cerca di una sopravveste o almeno di un mantello coi cui potesse rendersi piu’ presentabile, non c’era tempo di vestirsi.

“Datemi un secondo mastro Balin.” Rispose velocemente ancora in cerca di qualcosa per coprirsi e il suo sguardo cadde sul suo candido mantello da viaggio posato sul cassettone vicino alla finestra. Sospirò. Non era certo il massimo, ma era sempre meglio che presentarsi in sottoveste da notte.

“Posso passare piu’ tardi se preferite.”

“No, non preoccupatevi, datemi un secondo.” Si affrettò a rispondere.

Camminò velocemente verso il mantello afferrandolo e facendoselo passare intorno al corpo, era ancora sporco di terra, verso il basso e con qualche alone sparso. Roteò gli occhi, ma le doveva andare bene per forza.
“Prego entrate pure.” Diede il permesso stringendosi il mantello a coprirla piu’ che poteva con le mani e camminando verso il camino dove davanti era posto un tavolo con due sedie e sedendosi su quella che le permetteva di guardare la porta.

Balin con incertezza aprì la porta e dapprima si affacciò con la testa guardando sia a destra che a sinistra per poi entrare con tutto il corpo guardando verso di lei che nel frattempo si era seduta, su una delle due sedie, stringendo a sé la pelliccia. Le fece un grande sorriso vedendola sveglia e entrò chiudendosi dietro la porta alle spalle.

“Spero di non avervi disturbata.” Chiese allargando le braccia e facendo il suo solito inchino, sempre troppo esagerato ai suoi occhi, ma che strappava sempre un sorriso. Come il quel caso.

“No, no affatto, mi ero appena svegliata, perdonate le mie vesti.” Imbarazzata si guardò verso il basso e inconsapevolmente si strinse di piu’ nella pelliccia. Balin trovò divertente il tanto imbarazzo per una cosa così di poca importanza come delle vesti logore, ma non glielo fece notare, anzi, chinando la testa si scusò ancora.

“No mia signora, perdonatemi voi, non ho avuto un comportamento consono al ruolo che mi concerne.”

Ghìda scosse la testa, veramente dispiaciuta che si sentisse in colpa in quel modo, se solo avesse saputo la gioia di vedere una faccia che ormai considerava amica nelle sue stanze dopo così tanto tempo.
Sorridendo gli indicò con la mano libera che non tratteneva il suo mantello sul peto la sedia di fronte a sé.
“Prego, sedetevi.”

Balin la ringraziò con un breve sorriso e con un cenno della testa, per poi avvicinarsi verso la sedia e sedendovi lentamente.
Seguì un breve silenzio dove Balin posò entrambe le mani sul tavolo guardandosele come se stesse cercando qualcosa che però lei non riusciva a vedere.

Uno strano silenzio scese tra i due, tanto da farle stringere ancora di piu’ la pelliccia addosso e raddrizzare la schiena sullo schienale della sedia. L’anziano nano sospirando alzò lo sguardo dalle sue mani verso di lei, e con labbra strette la guardò negli occhi.
“E’ da un po' di giorni che non vi si vede all’interno del palazzo.” Esordì lui nel silenzio della stanza portando ancora piu’ gelo di quanto già non ci fosse.
Per quanto si fosse sforzato Balin di far uscire quelle parole nel modo piu’ cordiale possibile notò il cambio di postura della ragazza, piu’ rigido e composto rispetto a prima.

Ghìda infatti sentì un leggero tono di rimprovero nella voce e  di tutta risposta infatti spostò lo sguardo da lui verso il pavimento colpevole.
“È stata notata la mia assenza?” Chiese mordendosi l’interno guancia, non osando guardarlo negli occhi.

Lui ha notato la mia assenza? Avrebbe voluto chiedere ma non avrebbe mai osato aprirsi così tanto, soprattutto riguardo Thorin Scudodiquercia.

“Se vi dicessi di no vi sentireste meglio?”

La confessione del nano non le migliorò affatto l'umore anzi, tutto il contrario.
Balin sapeva che era stata una mossa avventata, per questo aveva cercato le parole adatte sin da quando aveva preso la decisione di recarsi personalmente da lei nelle sue stanze. Ma diverse malelingue stavano cominciando a girare per la montagna e sapeva che la situazione, se fosse continuata, non avrebbe fatto altro che peggiorare.

“Mi dispiace, la situazione è stata piu’ difficile di quello che mi sarei immaginata mastro Balin.” Tentò lei di scusarsi mantenendo però la distanza tra loro due ben netta nascondendosi dietro la sua solita maschera d’orgoglio.

“Perdonate la schiettezza ma chiudervi in voi stessa non permette agli altri di avvicinarsi a voi.”

Ghìda non seppe dire se quelle parole si riferissero piu’ ai nani della montagna o a qualcuno di specifico ma la colpirono nel profondo, sapendo quanto fossero veritiere.
Con tristezza spostò le mani sul tavolo guardando verso le rune che le arrivavano  fino al polso e con lentezza vi ci poggiò la mano come a cercare una sicurezza che non era piu’ sicura di avere.
“Sono gli altri a non volersi avvicinare a me.” Ammise quasi sussurrando continuando a fissare le sue mani.

Nel suo campo visivo però entrò una terza mano, Balin aveva poggiato con delicatezza la mano sulle sue facendole alzare lo sguardo sorpresa.
“Quella bambina però lo ha fatto, perché voi glielo avete permesso.” Ribatté guardandola negli occhi con gentilezza.

Ghìda incapace di sostenere gli occhi del nano distolse di nuovo lo sguardo e sovrastata dai sensi di colpa si morse il labbro. Balin aveva ragione. Ma Nìm era solo una bambina, una bambina che aveva visto in lei nient’altro che una dama gentile. Una signora dei nani con un lungo vestito che le aveva asciugato le lacrime e riportata a casa. Sua madre d’altro canto l’aveva riconosciuta e ricordava ancora bene la sua reazione.

“Non è così semplice mastro Balin.” Confessò guardandolo di nuovo in volto e con la gola che le cominciava a pizzicare e il respiro a farsi irregolare, mentre un frammento di quel muro impenetrabile che si era costruita intorno cominciava a staccarsi.

Per quanto lei continuasse a volerglielo tenere nascosto Balin era ben a conoscenza di cosa potesse star passando. Anche lui era stato nella sala del consiglio, anche lui aveva visto e sentito molto bene cosa molti della sua razza pensavano sulla sua discendenza, su come era nata, ma per quanto potesse capire, non condivideva, affatto.
L’innocenza con cui la bambina di pochi giorni prima si era rivolta e lei, non notando le differenze come facevano gli altri della sua razza, gli aveva fatto capire che forse tutto quell’astio era dovuto solo a una non comprensione, a uno scaricamento di responsabilità di due razze su le spalle di una ragazza che di sbagliato non aveva fatto altro che esistere.

L’anziano nano le strinse la mano e sorridendole tristemente si chinò di poco verso di lei.
“I vostri tatuaggi raccontano la storia di una donna forte, una donna alla quale ho visto sfidare apertamente Dàin dei Colli Ferrosi e che ha guidato un esercito in un momento critico per salvare un gruppo di nani di cui neanche conosceva il nome. Il vostro sangue Ghìda non decide chi siete, solo voi stessa potete farlo.”

“Ma può decidere il destino di molti oltre che il mio.”

Balin scosse la testa sospirando.

“Mi ricordate tanto una persona sapete?” Le rivelò.

Davvero somigliava tanto a una persona, anche il suo sguardo delle volte gli somigliava: due animi carichi di brutte ferite e con la sola voglia di dimenticare. Per questo voleva metterla a suo agio, a farle sentire qualcuno accanto, perché anche se malapena la conosceva, aveva la sensazione che lei avrebbe potuto aiutare Thorin e che Thorin, avrebbe potuto aiutare lei.

“Chi?

“Penso lo conosciate.” Sgranando gli occhi si morse l’interno guancia imbarazzata.

Thorin.

Balin le lasciò le mani alzandosi dalla sedia dirigendosi verso la porta ma a pochi centimetri da questa si bloccò voltandosi di nuovo indietro verso di lei che era rimasta ferma immobile con le mani sul tavolo.

“Ho riferito a vostro padre prima di venire qui che sarei stato al vostro fianco questa mattina, non ha dato il suo consenso subito ma ha accettato. Le guardie sono andate via dal corridoio, e io potrei avere degli affari urgenti da sbrigare.” Le ammiccò alzando un sopracciglio e sorridendole con il volto di chi aveva capito tutto. E davvero aveva capito tutto.

Tale affermazione le fece alzare lo sguardo verso di lui con gli occhi sbarrati.

“Potreste cominciare andando nelle sale inferiori, ho saputo che sapete combattere, l’armeria potrebbe interessarvi mia signora.”

E lieto d'aver compiuto qualcosa di utile Balin, s'inchinò e gli rivolse un leggero sorriso, avviandosi fuori dalla camera.

Una piccola spintarella fuori dalla porta non le avrebbe fatto male. Pensò tra sé e sé.

Rimasta sola Ghìda si tirò su a sedere e senza far passare neanche un secondo di piu’ cominciò a cercare degli abiti per uscire dalla stanza.
Aveva ragione, chiudersi dentro una stanza non l’avrebbe portata a nulla, se non a farla marcire e dare a tutti ciò che si aspettavano da lei. Una mezzo sangue impaurita e tremante nascosta in enormi saloni di pietra in attesa di un matrimonio di convenienza. Non aveva il potere di farsi accettare, ma poteva provarci, poteva provare a essere quelli che gli altri si aspettavano da lei, una regina e una regina che non conosce il suo popolo, che regina era?

Dopo essersi cambiata in fretta e furia nel primo vestito piu’ pratico che avesse trovato, circospetta aprì la porta della sua stanza guardando con attenzione intorno a lei piu’ volte per appurare che effettivamente non ci fosse nessuno, e sempre con passo leggero si diresse verso la fine del corridoio.
In punta di piedi si posizionò dietro a una delle due colonne ad arco che segnavano la fine dell’ala del palazzo delle stanze reali e l’inizio delle scale che l’avrebbero portata verso le Sale Dei Re. Da lì avrebbe cominciato a cercare l’armeria alla quale si era riferito Balin, in ogni caso, se era come a casa, l’armeria avrebbe dovuto comunque essere vicino all’entrata, o comunque nelle sale inferiori di Erebor. E non conoscendo ancora bene ogni singola scala, doveva in ogni caso arrivare fino a lì per avere un minimo di orientamento.

Si osservò intorno guardinga mentre scendeva le scale, niente, non c’era davvero nessuno ad aspettarla, le uniche cose che si muovevano erano le fiamme delle torce sui muri e i suoi passi veloci giù per le scale. Sospirando rasserenata velocizzò il passo destreggiandosi con una certa maestria tra le scale e i corridoi del palazzo, anche se sembrava totalmente un altro posto da quando ci aveva camminato tempo prima.
Ora le pareti erano bel illuminate, ad ogni angolo o a ogni colonna, enormi bracieri bruciavano, facendo notarle tanti particolari che quando era arrivata non aveva colto. La roccia della montagna, non era verde scura come pensava, ma blu, varie sfumature di blu  che si alternavano a venature verdi scure e dorate.

Reggendosi al parapetto della scala che stava scendendo abbassò lo sguardo verso i piani inferiori: il buio che prima faceva da padrone agli abissi della montagna, era stato sostituito da una luce calda, che saliva dal fondo illuminando tutta una serie di lastre e alee che fino ad alcuni giorni prima non era riuscita a notare.
Si tirò leggermente indietro sentendo dei passi  accompagnati da un rumore metallico avanzare dalla fine delle scale verso di lei, trattenne il fiato, sperando che non fossero le guardie venute a sorvegliarla, ma fu subito rasserenata quando notò sì due guardie, ma di Erebor.

Questi appena la videro si bloccarono e lasciandola interdetta, fecero solo un leggero inchino con la testa per poi proseguire, lei non rispose, non per superiorità ma per sorpresa. Si dovette girare a guardare le loro schiene per avere la conferma che non erano tornati a guardarla, o a sussurrare qualcosa. Ebbe bisogno di qualche secondo prima di ricominciare a scendere le scale. Con passo meno deciso rispetto a prima.
Il comportamento che prima aveva notato non fu solo adottato dalle guardie, ma anche d diversi nani che incontrò nel suo percorso che oltre un leggero inchino, non fecero nulla di piu’. Si sentì immediatamente a disagio, non abituata a un simile trattamento.
I corridoi erano particolarmente vuoti, la folla che si accalcava nelle sale fino a pochi giorni prima era quasi del tutto sparita. Con non poca difficoltà, riuscì ad arrivare verso i saloni inferiori sotto le Gallerie dei Re senza essere praticamente vista da nessuno, se non dà qualche guardia che però come era successo prima, non fecero altro che un breve saluto e nulla piu’. Non che avesse timore dei nani della montagna, o almeno non di tutti, ma di uno in particolare sì. Senza contare che non sarebbe dovuta stare lì, da sola, senza scorta.

Nel suo scrutare ogni porta che si apriva dai lunghi corridoi ne vide uno piu’ illuminato degli altri, che attirò la sua attenzione, forse l’aveva trovata. Accarezzando il muro accanto a sé con la mano si avvicinò lentamente verso la luce calda delle lanterne e si affacciò all’interno del locale illuminato.
Una lunga galleria si estendeva di fronte a lei, decine se non centinaia di armature ricoprivano entrambi i lati della sala e sopra di queste centinaia di scudi squadrati, con rune e disegni incisi sui bordi. Decine di bracieri li facevano scintillare creando piccoli coni di luce sul marmo scuro.

Cominciò a camminarvi con lentezza, sconcertata dalla quantità e la varietà di armi di varia forma e dimensioni sui tavoli al centro della stanza, passando gli occhi su ognuna di queste, osservandone la fattura magistrale dei nani di Erebor.
Le sarebbe piaciuto imparare a modellare i metalli, e le gemme, ma le era sempre stato vietato anche solo avvicinarsi ai laboratori o alle fornaci a Elcar, effettivamente erano pochi i posti in cui poteva andare.

Il suo passo si faceva sempre piu’ lento ogni volta che vedeva una lama piu’ curata delle altre o un’ascia piu’ imponente delle altre ma qualcosa infondo alla stanza catalizzò la sua attenzione distogliendola dai lunghi tavoli e rastrelliere:
su un piedistallo di pietra un po' piu’ alto degli altri un’armatura sovrastava l’intera stanza. Se non avesse conosciuto i minerali avrebbe giurato che fosse stata forgiata in oro massiccio tanto era decorata e imponente. Incantata si avvicinò per osservarla meglio: sia le spalle che la cintura erano decorati con effigi di due grandi corvi, andando in abbinamento con del ferro scuro che ricopriva gran parte del petto e della cotta. Era stata usata da poco, anche se pressoché intatta e priva di usure del tempo, cosi come di polvere o di aloni, sembrava emanasse ancora il calore di chi l’aveva portata.

Accanto a questa una schiera di lame di qualsiasi forma e grandezza si ampliava per metri, piu’ regali di quelle sulle rastrelliere, piu’ minuziosamente curate e intagliate con antiche e potenti rune di canti di guerra. Le osservò a una a una, o troppo grandi o troppo massicce per la portata del suo braccio, non erano come Tramonto.
Si morse il labbro accennando un sorriso nostalgico, la sua spada, le era stata regalata da Gandalf, le aveva detto che l’avevano forgiata gli elfi, apposta per lei.
Lei ovviamente non ci aveva mai creduto e non la volle neanche prendere in mano, anche se piccola si ricorda perfettamente la reazione dello stregone , che borbottò andandosene per qualche ora lasciandola li con la spada. Ma la prese in mano si era resa conto che i mesi ad allenarsi con spade non fatte per lei, le avevano solo complicato il suo addestramento da autodidatta. Un giorno suo padre la trovò e irato come non mai la fece fondere davanti ai suoi occhi, per poi gettare quello che rimaneva negli scarti per la forgiatura di utensili da lavoro. Pianse per settimane, da quel giorno non ebbe piu’ una lama fissa, o mai diede piu’ un nome a una sua spada, perché la sua spada era diventata un martello per quanto ne sapeva.
Anche se titubante, allungò la mano verso una di queste e osservò le rune incise sopra. Era una lama insolita per una armeria nanica, la lama era fin troppo fina, e troppo snella. Con un movimento fluido la volteggio accanto al suo fianco, e stupita si rese conto che era incredibilmente leggera. Se la porto vicino al viso, e pose una mano sulla parte piatta della lama accarezzandola con la punta delle dita.

Oh, se l’avesse vista suo padre.

Dovette muoverla piu’ volte con il polso per controllarne il peso prima di prenderci confidenza. Si osservò intorno con attenzione per controllare che non ci fosse nessuno prima di sorridere entusiasta e impugnarla.
Stringendo il manico con entrambe le mani si mise in posizione d’attacco allargando le gambe.  Roteò su sé stessa con la lama come doversi girare per attaccare e poi di nuovo roteò di nuovo su sé stessa librando la spada di fronte a sé. L’unico rumore che si sentiva erano i suoi respiri e il canto della lama che volteggiava nella aria. Si immaginò un nemico immaginario e come se dovesse attaccare fece un respiro profondo e tenendo la lama sempre all’altezza del naso sferrò due fendenti al nulla di fronte a lei ritornando di nuovo alla posizione originale con le gambe large.

Era diventata lenta e i suoi movimenti ancor di piu’. Non andava bene.

Allargando ancora di piu’ le gambe e maledicendo il vestito  che portava, si portò in parata.
Muovendo ancora di piu’ i piedi roteo su sé stessa fendendo di nuovo l’aria davanti a sé ma mentre si girava come a colpire qualcosa alle sue spalle un qualcosa bloccò la lama questa volta. Un tintinnio metallico pervase la stanza mentre i suoi occhi si sgranavano e il respiro si fece piu’ veloce alla vista di chi gli aveva parato il colpo.

Thorin era di fronte a lei, con il volto illuminato dalle torce calde dell’armeria, con la sua spada sguainata a pochi centimetri dal suo viso, che bloccava la sua.
“Lasciate il fianco sinistro scoperto.” Le disse severo guardandola negli occhi mentre lei cercava di calmare il respiro affannato.
Non staccando gli occhi dai suoi ancora sbigottita da quello che era accaduto, era così presa dai suoi movimenti da non accorgersi che qualcuno era entrato nella stanza e quel qualcuno era proprio la persona che aveva sperato di non incontrare. “Ma muovete bene le gambe.” Aggiunse abbassando la sua spada lentamente e portando anche Ghìda a fare lo stesso.

Si morse il labbro per ritrovare un minimo di lucidità.
“Scudo e spada non sono le armi che preferisco, mio re.” Rispose sbrigativa alzando la lama verso il viso e osservandola un’ultima volta prima di avvicinarsi al ripiano posandola con premura.  

“Chi vi ha insegnato?” Le chiese Thorin abbastanza stupito da quello che aveva visto mentre faceva scivolare Orcrist di nuovo nel fodero sul suo fianco attaccata alla tunica blu.

Ghìda dandogli ancora le spalle sorrise malinconicamente alla domanda. Le immagini di lei con un enorme spada due volte piu’ grande di lei le risalirono alla mente insieme ai ricordi di un vecchio stregone dall’aria, che a lei era sempre sembrata buffa, sulla riva del mare, che le dava lezioni.
“Un vecchio amico.” Rispose voltandosi di nuovo verso Thorin che intanto non le aveva staccato gli occhi di dosso neanche per un istante. Di nuovo quello sguardo. Ghìda senti le ginocchia cominciarle a tremare di nuovo e la gola farsi secca all’improvviso. “M-mio padre non approva.” Cercò di non dilungare il dialogo per potersene andare dalla stanza senza troppi convenevoli.

“Se mi permettete…” Cominciò Thorin muovendo qualche passo verso di lei, e per quello che le sembrò un attimo vide il suo sguardo che non faceva sempre trapelare altro che indifferenza, cambiare radicalmente quando si poggiò sull’armatura dietro di lei. Ma durò solo un secondo, poiché riallacciò il suo sguardo a quello die lei. “Da come vi muovete, non mi sembra vi interessi molto.”

“Vi infastidisce?”

“Vi rende singolare.”

Le parole di Thorin furono per lei l’ennesimo bagno gelido,  era la seconda volta che gli rispondeva in modo vago alle sue domande. Eppure, le sembravano molto chiare e  per quanto il cuore le battesse all’impazzata anche solo standogli accanto, ricacciò dentro di sé ogni forviante emozione e gli rivolse uno sguardo che a chiunque sarebbe sembrato sfrontato. Ma se questo era l’unico modo che ava di approcciarsi con il Re Sotto la Montagna senza lasciarsi strattonare come un giocattolo, allora così avrebbe fatto.

“È singolare che una donna sappia combattere?” Gli chiese a bruciapelo spiazzando Thorin che alzò un sopracciglio piegando la testa di lato.

“È singolare che una principessa lo sappia fare.” Le rispose secco avvicinandosi a lei con le mani incrociate al petto, scrutandola dall’alto in basso, come se volesse constatare la sua tesi, già dal suo portamento o dagli abiti che indossava. “Avrete sempre qualcuno a proteggervi.”

Ghìda si morse l’interno guancia mandando nuovamente a benedire ogni proposito di andarsene dalla stanza e di non far controllare le sue emozioni dal nano che le stava davanti.
”E quando quel qualcuno non c’è cosa accade?” Puntualizzò sprezzante stringendo il tessuto pesante della gonna che indossava.

In quell’attimo Thorin cambiò radicalmente comportamento, gonfiò leggermente il petto e si chino con il viso verso di lei.
“Quante battaglie avete combattuto?” Le chiese a bruciapelo, spiazzandola; ora, sì che non riusciva nuovamente a rimanere impassibile. Si morse il labbro pronta a ribattere, ma lo sguardo severo di Thorin, non le permise di aggiungere altro. Ancora una volta quegli occhi le scavavano dentro l’anima non dandole neanche la forza di rispondere. Ma la risposta in ogni caso sapeva che non gli sarebbe piaciuta, l’unica battaglia che aveva guidato e combattuto era stata quella per lui, e per Erebor.

“Poche.” Rispose secca continuando a guardarlo negli occhi.

“Appunto, non conoscete nulla di come si combatte, azbad.” Le mormorò a pochi centimetri dal suo viso.

Sapeva che era merito suo se non era morto sulla cascata ghiacciata, ma per Durin, lei non sapeva, non poteva sapere. Quella ragazza era diventata un chiodo fisso nella sua mente, ancora non si capacitava di come riuscisse a confonderlo, di come potesse passare dalle piu’ potenti emozioni al diventare una statua  una statua senza anima.

Ma a Thorin dava solo fastidio, perché anche se ancora non gli era chiaro, era come se si stesse guardando allo specchio. Quegli occhi scuri celavano segreti che il re di Erebor, voleva scoprire, ma di cui forse si sarebbe anche pentito.
Come il giorno prima si dovette tirare indietro combattendo contro quella spinta invisibile che lo faceva traballare internamente come un mucchio di foglie al vento.
Girò perfino le spalle pronto ad andarsene dalla  stanza ma il rumore metallico di una lama che strusciava su una superfice e tre parole decise lo incollarono al suolo.

“Combattete contro di me.”

Ghìda aveva ripreso in mano la spada che aveva poggiato poco prima e roteò il polso della mano facendola posizionare alla giusta altezza vicino al suo petto. Non si sarebbe un'altra volta fatta trattare come un peso, una mocciosa, lei non lo era, non voleva esserlo e non gli avrebbe permesso di nuovo di voltarle le spalle. Guardami maledizione!

“Non è una decisione saggia, Ghìda figlia di Telkar.”
Le rispose Thorin girandosi di nuovo verso di lei.

“Questo vuol dire che vi tirate indietro Thorin figlio di Thràin?” Disse con quel punto di sfida che intacco l’orgoglio del nano di fronte a lei. Gli vide un guizzò nello sguardo e per qualche istante si chiese sa davvero non fosse una decisione saggia.

“Queste spade sono affilate”

“Lo so.”

E con quell’ultima frase si lanciò verso di lui tendendo la spada con entrambe le mani e tentando di assestargli un colpo al fianco che lui parò con non poca maestria, il braccio all’impatto le tremo al tal punto che si dovette chiedere se la sua lama avesse battuto su del ferro e non su della roccia.

Thorin approfittò del suo sgomento per rovesciargli la spada di lato e tentare un fendente verso lo stomaco che lei riuscì a schivare facendo qualche passo all’indietro.
Entrambi sapevano di non correre rischi, sapevano quando fermarsi e dove colpirsi senza arrecarsi danno, ma l’adrenalina che gli scorreva nelle vene in quel momento li fece avventare l’uno sull’altra come due animali.

Gli spazi erano stretti, Ghìda poteva andare solo avanti o indietro senza andare a sbattere su uno dei due muria fianco o rischiare di far cadere ogni arma o armatura nella stanza.

Thorin la fissava e questa volta fu lui ad attaccarla cercando di assestarle un colpo dall’alto verso il basso che lei parò alzando la lama e reggendola con entrambe le mani trovandosi così di nuovo a pochi centimetri da lui.
“Vi spezzerete il braccio se continuate a parare con il braccio così teso.”

“E chi vi ha detto che io stessi parando il vostro colpo?”

Rispose a pochi centimetri da lui lasciando interdetto Thorin che non si accorse della gamba di Ghìda che si era messa dietro la sua. Con forza spinse la lama di Thorin ancora piu’ verso l’alto e facendosi leva sulla gamba lo premette a sbattere sul muro e permettendo alla sua spada di liberarsi da quella di Thorin, e con un gesto veloce spostò la spada, puntandogliela  alla gola sorreggendola con entrambe le mani.

“Credo mi dobbiate delle scuse.” Ansimò lei a pochi centimetri dal suo volto, ma un sopracciglio alzato del re la fece trasalire così come una sensazione fredda sul fianco sinistro.

“Non credo mia signora.” Le rispose ansimante e con un movimento secco ribaltò le loro posizioni puntandole Orcrist al fianco e anche se la sua lama continuava a essergli vicino alla gola, tanto era la forza che la premeva al muro che era impossibilitata a ogni movimento.

“Tenete il fianco sinistro scoperto.” Mormorò lui a pochi centimetri dal suo viso e ancora una volta Ghìda senti il petto bruciarle e una spinta attirarla ancor piu’ verso di lui. “Vi farete uccidere.”

Il petto di lei sfiorava il suo alzandosi e abbassandosi per il fiatone e per l’adrenalina che si abbassava. Nessuno dei due osò muoversi, anche se ormai il duello era finito, le lame rimanevano al loro posto, il duello ora era piu’ con loro stessi che con l’altro ormai.

Gli occhi di Ghìda cosi come il suo corpo, erano incatenati in quelli di Thorin, celati da piccole ciocche scure che gli cadevano dalla fronte. Nel silenzio poteva sentire il cuore del nano battere a pochi centimetri dal suo, che nel frattempo non riusciva a comprendere se battesse o si fosse fermato del tutto. Sentì le guance avvamparsi leggermente quando anche la sua gamba sfiorò quella di lui.
La lama della sua spada indirizzava la luce delle torce verso il viso di Thorin, facendola rimanere ancora piu’ incantata. Era la prima volta che lo guardava da così vicino: le rughe del viso sottolineavano una maturità che Ghìda non aveva mai notato, dimostrava molti meno anni di quanti ne avesse, leggere ciocche bianche infatti gli scendevano dalla testa andandosi a confondere con i capelli scuri. I residui di una cicatrice recente gli oltrepassava si la fronte che il sopracciglio destro, che dava allo sguardo ancora piu’ imponenza già di quanto Ghìda non avesse notato.

Non seppe con quale forza di volontà ma Ghìda abbasso la spada lascandola cadere verso il fianco interrompendo il loro sguardo e così anche il loro contatto, doveva farlo, tutto quello non doveva succedere, non poteva succedere.
Thorin di tutta risposta si stacco da lei abbassando Orcrist, senza spostare gli occhi dal suo viso, e in quell’istante prese una decisione.

“Venite con me.” Le ordinò secco infilando Orcrist nel fodero. “Se siete stanca di essere chiusa nelle vostre stanze, avrei un compito da affidarvi.”

E senza aspettare neanche una sua risposta cominciò a camminare fuori dall’armeria. Ghìda esterrefatta dal suo comportamento e ancora poggiata al muro lo guardò interdetta e velocemente posò di nuovo la lama con cura prima di seguirlo.
Si passò una ciocca di capelli dietro la testa facendo dondolare il piccolo pendaglio di un'unica treccia nascosta nei capelli e lo seguì fuori velocizzando il passo per stargli accanto.

“Mi sono arrivate voci che vi siete presa cura di una bambina. “ Ghìda strabuzzò gli occhi, camminandogli a fianco per il lungo corridoio. Non era difficile per lei immaginare che in qualche modo avesse saputo della vicenda, con tutti i nani in quella stanza avrebbe dovuto essere stupita che non glielo avesse detto prima. 

“Si, dopo il nostro incontro. L’ho solo riportata dalla madre.” Gli rispose mentendo il passo con quello di lui che esperto si muoveva tra la quantità di gradini di Erebor. Si dirigevano verso le Sale Dei Re. Riconobbe la strada poiché la quantità di nani che si muoveva per le scale era sempre di piu’ ogni passo che facevano. Thorin la guardò con la coda dell’occhio camminandole sempre vicino e abbozzò un sorriso fugace, che lei non notò.

“Vorrei che continuaste a farlo.”

Ghìda girò la testa corrugando leggermente le sopracciglia confusa.

“Non capisco.”

“Piu’ braccia abbiamo a disposizione piu’ questa montagna sarà di nuovo una casa per i nani che vi abitavano e mi servono anche le vostre.” Rispose fermandosi in mezzo a corridoio guardandola dritta negli occhi.

Non era una richiesta.

Era un ordine e come le era già successo, non poté fare a meno di stringere i pugni.

“Mi state ordinando di sorvegliarli?” Lo interrogò diretta. La loro conversazione non era rimasta inosservata, sentiva infatti decine di occhi addosso. Dalla sala dal pavimento dorato sottostante si erano infatti alzati diversi sguardi incuriositi e altrettanti sbigottiti nel vederli girare insieme per la montagna, o parlare perfino.

Dwalin e Nori erano tra questi, che da infondo alla scala, carichi le spalle di sacche pieni di utensili da lavoro da portare verso le miniere interruppero il passo per guardare verso il varco sopra di loro attirati dalla voce profonda di Thorin. Dwalin serrò la mascella e continuò a camminare dopo qualche istante, non riusciva, per quanto ci provasse, a guardarli uno accanto all’altra, lei era così… diversa.
Nori , colto invece da un’improvvisa curiosità appizzò le orecchie per capire il discoro animato dei due, sobbalzò, notando Dwalin diversi metri piu’ in là che continuava a camminare. Lo vide aumentare il passo e caricandosi meglio la sacca in spalla accelerò il passo per raggiungerlo.

A Thorin nel frattempo non interessava se il discorso sarebbe stato sentito da tutti nani della montagna, ma a Ghìda si, infatti si afferrò nervosamente la gonna e cercò di non guardare giù verso gli sguardi insistenti dei nani, che appena Thorin si voltò a guardare cambiarono direzione e ricominciarono con i loro incarichi.

Spostò poi lo sguardo deciso di nuovo su Ghìda avvicinandosi di un paio di passi “Vi sto chiedendo di insegnargli, fino a che tutto non torni alla normalità.”

Ghìda aprì e chiuse la bocca diverse volte, prima di premere le labbra l’una sul altra stringendole e guardando verso il salone sotto di loro scosse la testa. Come poteva anche essergli solo venuto in mente una scelta così sciocca? Nessuno in quella montagna avrebbe accettato che lei si prendesse cura di dei bambini, una come lei. Non poteva però negare a sé stessa che per quanto non facesse parte delle sue mansioni, le sarebbe davvero piaciuto.
“I-io…perché io? Ci sono sicuramente nani piu’ competenti di me.” Gli rispose.

“Conoscete le nostre usanze, siete stata cresciuta come una nana, parlate sia Sindaril che Khuzdul e da quello che ho notato, non lasciate che un no vi fermi, o che abbiate bisogno di protezione.” Le disse schiettamente e posò lo sguardo sulle sue braccia scoperte per l’enorme spacco delle lunghe maniche, scrutando ogni singola runa. “Per quanto mi riguarda siete abbastanza competenti per prendervi cura di un pugno di bambini.”  
Ghìda si sentì totalmente esposta di fronte lui e con una mano andò a toccarsi il bracciò opposto stringendolo leggermente alzando lo sguardo di nuovo verso di lui, la sovrastava di qualche centimetro, questo rese il suo sguardo ancora piu’ autoritario.
“E, se la cosa vi aggrada, non avrete bisogno di nessuna scorta.”

Thorin non ebbe bisogno di una sua risposta affermativa, perché sapeva perfettamente che infatti sotto gli occhi esterrefatti di Ghìda riprese a camminare. Non ebbe bisogno di una risposta probabilmente perché appena aveva sentito le parole di Thorin, le si era illuminato il viso, lei non poté vederlo, ma lui sì. Era diversa, quando sorrideva e per qualche strano motivo gli fece piacere averla fatta sorridere.

Continuarono a camminare veloci, Ghìda teneva il passo del re che la guidò fino a un paio di livelli sotto di loro, gli incontri con altri nani si facevano sempre meno frequenti e la luce sempre piu’ fioca. Si guardò intorno accigliata, cercando di ricordare se per quelle sale ci era già passata, ma no, erano troppo in profondità.  D’un tratto voltarono su un immenso corridoio e davanti a loro un’arcata decorata con fregi dorati e disegni di corvi apriva un passaggio a una sala tre volte piu’ grande di quella del trono, scaffali enormi la riempivano, carichi di enormi tomi e pergamene arrotolate spuntavano da ogni scaffale.

Era un enorme biblioteca scavata nella roccia. Thorin si fermò sotto la colonna dell’arco per poi farle cenno con la testa di proseguire.

“Entrate”

Con lentezza mosse qualche passo verso l’ interno della sala guardandosi intorno, non aveva mai visto così tanti tomi in vita sua, e ringraziando i Valar, anche con la furia del drago erano rimasti intatti, non c’era infatti traccia di carbone fuliggine, solo tanta polvere.

Thorin la seguiva in silenzio ma poteva percepire il suo sguardo alle sue spalle su di lei, cosa che le fece venire piccoli brividi dietro la schiena.

“Thorin, che ci fai qui?” Da dietro la libreria davanti a lei spuntò con la testa un nano con un buffo cappello e due lunghi baffi neri che guardava confuso Thorin dietro di lei, ma spostando lo sguardo invece su di lei, la sua espressione cambiò radicalmente diventando leggermene paonazzo. Poteva perfino sentire delle piccole rotelle che gli si muovevano nella testa per quanto il suo viso appariva confuso ma imbarazzato allo stesso tempo. “Ehm volevo dire…” Si corresse cambiando radicalmente postura, mostrandosi per intero sporgendosi per intero da dietro la libreria e gonfiando leggermente il petto fece un leggero inchino facendo oscillare le due alette del cappello. “Re Thorin, desiderate?” Disse con voce leggermente meno conviviale ma poté notare il modo forzato con cui lo fece, facendola leggermente sorridere.

Un secondo nano, piu’ giovane di tutti i presenti si affacciò a sua volta reggendo tra le braccia, stringendolo al petto, un enorme tomo rosso. Guardò incerto Thorin per poi arrossire immediatamente notandola e facendo un inchino imbarazzato verso di lei avendo a malapena il coraggio di guardarla.

Thorin nel frattempo le si affiancò e finalmente Ghìda notò  con la coda dell’occhio, la sua tarmatura impenetrabile cadere su sé stessa, rivolgendo ai nani davanti a sé un sorriso amichevole e facendogli un breve cenno con la testa.
“Bofur, Ori la affido a voi.” Gli disse autorevole tirandosi su leggermente con la schiena prima di guardarla, in un modo che non riuscì a decifrare, sembrava quasi preoccupato.
“Datele i vecchi libri di Ibun , potrebbero tornale utili.” Aggiunse mentre i due nani di fronte a lui che nel frattempo avevano ascoltato attenti, spostando in continuazione lo sguardo da Thorin alla ragazza di fronte a loro.

“Scusatemi.” Si congedò Thorin  facendo un cenno con la testa indietreggiando di qualche passo all’indietro guardandoli prima di voltarsi e camminare fuori, portando Ghìda a osservargli la schiena… un'altra volta.

Bofur aveva osservato bene la situazione e per Durin tutto si sarebbe immaginato tranne che quell’aria pesante che si portavano dietro. Squadrò Ghìda dall’alto verso il basso, mentre il suo sguardo era ancora fisso sulla schiena di Thorin che, come al suo solito, era stato di molte parole.

Ghìda si voltò da Thorin e notò che Bofur la stava guardando e arrossendo fino alla punta dei capelli scosse la testa come per scusarsi e fece un breve inchino.

“Oh scusatemi, permettete di presentarmi io sono Bofur e lui è…” Cominciò indicando il giovane nano accanto a sé che con timidezza abbassò il capo tentando di mantenere il contatto visivo.

“Ori, Ori mia signora” Balbettò imbarazzato.

“G-Ghìda figlia di Telkar.”

“Mi duole dirvelo ma non avete bisogno di presentazioni” Le sorrise in modo affabile “E non che questo sia un male” Si affrettò a dire sventolando le mani per non farsi fraintendere. Ma ormai Ghìda era abituata a non presentassi piu’ tutti sapevano chi fosse, le dava solo fastidio non sapere chi fossero gli altri.

“Non è un problema, ormai sono abituata mastro nano”

“Oh suvvia con tutte queste formalità, chiamatemi solo Bofur.” Le scappò una risata cristallina annuendo rasserenata dalla semplicità del nano e dalla sua non curanza dell’etichetta.

“Molto bene, se la cosa ti rallegra, Bofur”

Bofur fece un largo sorriso a con un enorme inchino spostandosi di qualche centimetro indico con le braccia oltre la libreria.
“Venite prego.”

La invitò e seguendo la direzione del braccio mosse qualche passo guardando oltre la libreria. Un enorme tavolo di pietra con pile su pile di libri governava il centro della stanza. La confusione regnava sovrana in quel grande e imponente tavolo.

“E cosi bambini eh?” Catturò la sua attenzione Bofur avvinandosi al grande tavolo e cominciando a smuovere diversi alti libri e pergamene cercando qualcosa di particolare, infatti a ogni libro sbagliato che prendeva in mano faceva un piccolo sbuffo.

“B-bambini?” Si ridestò Ori che nel frattempo era rimasto in silenzio osservando lo scambio fra lei e Bofur. 

“C-come avete?” Chiese stupita avvicinandosi leggermente all’enorme tavolo seguendo le mani di Bofur che in modo esperto continuava a cercare con le sopracciglia crucciate.

“Oh, non sono un mago mia signora…” Sollevo un attimo lo sguardo per sorriderle prima di guardare di nuovo giù e continuare la sua ricerca. “I libri di cui parlava prima il nostro re, vengono usati spesso per l’insegnamento dei principi e visto che trovo improbabile che già ci sia un erede alle porte…”

Erede. Al suono di quella parola le mancò il fiato. Ci aveva pensato, ci aveva rimuginato sopra, ma sentirlo ad alta voce ebbe su di lei una reazione che non si sarebbe mai aspettata.

Essere regina pretendeva anche degli oneri e dare alla luce un erede al trono di Durin era tra questi.
Lei era in quella situazione solo per quel motivo, perché lui i suoi eredi li aveva persi, e lei, insieme alle gemme di Elcar, erano le uniche ragioni per il quale probabilmente le rivolgeva la parola, o guardata, per quanto poco lo faceva.

“… l’unica opzione è che vi abbia incaricata di…”

Un peso sul petto le fece fare un profondo respiro e solo in quel momento Bofur guardò verso di lei staccando gli occhi dalle carte, smettendo di parlare e guardandola colpevole. Aveva parlato troppo.

“S-scusatemi, h-ho osato troppo forse, non intendevo…”

“No, Bofur, no…” Lo interruppe scuotendo la testa forzando un sorriso. “Va tutto bene, prego continua a cercare, va tutto bene.” Mentì. Non era colpa del nano, era la realtà, non doveva sentirsi in colpa per aver detto semplicemente la realtà.
Bofur annuì continuando a cercare in silenzio mentre Ori titubante si avvicinava a tutti e due nel silenzio imbarazzante.

“Qui, in questa biblioteca, m-mia signora c’è tutta la conoscenza della nostra razza, d-da come lavorare l’oro, agli annali dai tempi di Durin,  alle leggende sui Aule e la lista di tutte le creazioni uscite da questa montagna.” Strinse di piu’ il libro che aveva al petto, sembrava un bambino. “P-potete venire quando volete.” Disse con gentilezza esitando ancora a guardarla negli occhi. A Ghìda le venne da sorridere notando il suo imbarazzo, molto piu’ marcato rispetto a prima.

“Ve ne state prendendo cura voi?” Gli chiese gentilmente nascondendo i pensieri di prima in fondo alla testa, era ancora presto per pensarci, già c’erano problemi piu’ urgenti da risolvere.

“Eh sì, fino a che non arriverà gente piu’ competente.” Rispose fiero alzando lo sguardo ma come se si fosse ricordato il suo carattere abbassò lo sguardo verso il tavolino.

“Eccoli qui, i libri di Ibun!” E con questa frase con uno sforzo incredibile cominciò a posare sul lato libero del tavolo uno, poi due, poi tre tomi alti quasi come uno scalino e pesanti almeno ugualmente tanto. Bofur ansimante vi poggio il gomito sopra voltandosi verso di lei con un ghigno e ridendo tra i respiri pesanti.

“Oh beh che posso dire mia signora, volete che ve li porti nelle vostre stanze o preferireste un letto qui?”

 








 
LINK NINNA NANNA SINDARIL= https://www.youtube.com/watch?v=X6JyOA4cNnw
Azbad= Principessa
 

 













ANGOLO AUTRICE
Rieccoci per un nuovo capitolo questa volta moooooooooooolto lungo, ah si mi sono resa conto rileggendolo il capitolo precedente che ci sono stati moltissimi errori di battitura, vi chiedo perdono, i n questo non dovrebbero esserci. Ho ricontrollato piu’ volte, ma se ci sono ditemelo per favore, che mi aiutate moltissimo.
Sapete far uscire questo capitolo è stata davvero un’impresa, non sapevo che scrivere, o meglio si sapevo cosa doveva accadere ma non come e soprattutto dovevo farlo accadere in maniera molto naturale. L’incontro con Balin ad esempio non era nei piani, Ghìda nella mia testa doveva avere un confronto finale con suo padre, che per ora non ci sarà ma in seguito ehhhhhh vedrete. Per stuzzicare la vostra curiosità ho buttato anche un piccolo sogno, da cui potrete intuire un po' di cose. Chi è per voi Gadril? E la luce? Eh vabbè Thorin da scrivere è un trauma vi giuro, perché devo farlo impassibile, ma poi ripenso ai film e me lo immagino diverso e poi però e una testa di fava e poi no, insomma un tira e molla continuo. Bofur rimane e sarà sempre il mio nano numero 1, quindi si sarà un comic relief, scusate, ma avrà anche lui il suo bell’arco narrativo, come Dwalin, che sempre burbero deve rimanere hahahaha.
 E’ stato un capitolo anche molto introspettivo e se vi state chiedendo perché i pensieri di Thorin sono cosi vaghi bhe diciamo che il prossimo capitolo potrebbe essere dal punto di vista di una persona in particolare.
 So che sembra brutto chiedervelo, ma davvero, se potete, se avete un account, scrivetemi anche ciao nelle recensioni, fa sempre piacere, siete in così tanti, che bho ogni tanto mi sento sola XD hahahahaha
Un bacio e alla prossima settimana. 😉 <3

 

 

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Capitolo 7
*** Sotto le stelle ***


 

Sotto le stelle








 

 
Le fucine erano semi deserte quel pomeriggio i nani erano riusciti a far funzionare le grandi fornaci, ma i danni causati all’attacco al drago erano stati molti: con i mulini fuori uso e le carrucole di trasporto totalmente distrutte, le officine erano quasi inutilizzabili.
Anche se di seconda importanza rispetto alla ricostruzione delle strutture principali della città, i nani avevano velocemente spostato le incudini, che di solito venivano usati per lavori manuali piu’ pregiati, alle forge, per poter permettere la creazione veloce di oggetti di prima necessità.
E lì accanto a una di quelle, la piu’ lontana dalle altre, un Re dei nani, batteva con forza il suo martello sulla lega sotto di lui.
Il rimbombo del martello sull’incudine rimbombava all’interno della fucina, Thorin assestava colpi ritmati, alzando e abbassando il braccio con forza, piegando il metallo a suo piacimento. I muscoli gli si contraevano a ogni martellata, che aumentavano di forza appena uno dei pensieri che si era ripromesso di cancellare gli tornava alla mente. Chiodi, pinze, martelli, anelli per catene, aveva forgiato di tutto quella mattina, che poi si era protratta fino a diventare pomeriggio.
Lavorare alla forgia  era l’unico modo che conosceva per svuotare la mente, da tutto quello che era successo nelle ultime settimane, ma piu’ le martellate diventavano forti piu’ anche i suoi pensieri aumentavano di intensità.
Neanche dormendo riusciva ad avere pace, gli incubi continuavano, erano sempre formati dalle stesse scene ripetute all’infinito: l’arrivo di Smaug, la morte di suo nonno, la scomparsa di suo padre, sua sorella che piangeva e Fili e Kili che lo guardavano fisso, ma da quel fatidico giorno nella sala del trono, si era aggiunta una nuova scena al teatrino inquietante nella sua testa.
Era disteso sul ghiaccio della cascata, Azog era accanto a lui trucidato, ma quando si affacciava per guardare verso il campo di battaglia, non c’era nessuno, lei non c’era.

Ghìda non c’era.

La martellata che seguì a quel pensiero fu talmente forte da piegare di netto il pezzo di ferro che stava lavorando, mandando in malora il lavoro che aveva compiuto fino a quel momento.
Un sospiro di frustrazione gli uscì dalla bocca osservando il metallo piegato, maledicendosi strinse ancor con piu’ forza il le pinze attorno al pezzo di ferro e snervato le portò alla fornace poggiandola al suo interno per riscaldare la massa informe e ricominciare da capo.

Sospirò pesantemente chiudendo chiudendo gli occhi per qualche istante.

Anche quando non era lì vicino la vedeva, la poteva percepire tanto reale come il calore delle fiamme di fronte a sé e con simil ardore lo faceva bruciare dalla rabbia: lo stava sentendo come un ragazzino sperduto, come un bambino che arrossiva quando una femmina gli rivolgeva uno sguardo di troppo andandosi a nascondere dietro le sottane della madre per la vergogna.
Ma volente nolente, da quello scambio, durato così poco, nella sala del trono, non riusciva piu’ a togliersi dalla testa quello sguardo, così freddo e impassibile e quella bocca che con tanta facilità aveva sputato una frase così ovvia e così scontata, ma anche così inaccettabile alle sue orecchie.

Morire per onore, ma per onore di chi: del suo, di Erebor, dei nani, della famiglia, di Durin, di cosa?

Perché i suoi nipoti erano morti?

Per colpa mia.

Questo si continuava a ripete, ogni notte, sotto le stelle, che erano morti per colpa sua: l’onore, l’onore non c’entrava nulla, tutto perché lui doveva essere con loro, li aveva mandati al macello come due animali.
Lo aveva sentito per giorni dalle persone che gli stavano accanto, erano suoi compagni, cosa gli avrebbero dovuto dire, se non che Fili e Kili erano morti con onore, ma sentirlo dire da una completa sconosciuta, che avrebbe dovuto disprezzarlo piu’ che ammirarlo lo aveva scossò cosi nel profondo che quando arrivò alle fucine raggiungendo Dwalin e Bifur, non aveva neanche rivolto la parola a nessuno dei due, o a nessuno dei presenti.

Si era ritrovato a cercarla con lo sguardo mentre camminava per i saloni, ad appizzare le orecchie a ogni voce femminile; perfino quando era piegato su carte e pergamene la sua mente non faceva altro che viaggiare su’, verso le sue stanze ai piani superiori, chiedendosi perché non uscisse o perché non camminasse piu’ per le incalcolabili scale della montagna strusciando i tessuti dei lunghi vestiti così poco comuni tra le donne nane su ogni gradino.
Piu’ di una volta, quando si svegliava a notte fonda e usciva fuori a osservare le stelle, per schiarire la mente dopo l’ennesimo incubo, aveva osservato la porta che portava alle stanze di lei sperando che si aprissero e che lei ne uscisse. E ogni volta che si ritrovava a fare questi pensieri infantili si malediceva e li ri-sputava dentro sé stesso facendoli però crescere di intensità, che per poco non crollarono su loro stessi durante il loro incontro ravvicinato nell’armeria.
Poteva sentire il suo respiro sul viso, captare ogni singolo movimento del suo corpo attaccato al suo e poteva vedere ogni singolo battito di ciglia. Con un po' piu’ di pressione sul fianco l’avrebbe perfino potuta uccidere; si era sentito terribilmente in potere quella volta, l’aveva fatto così infuriare, così sicura di sé, fredda e orgogliosa, ma allo stesso tempo così fragile sotto le sue dita e sotto il peso del suo corpo.
La voleva distruggere con le proprie dita, era solo un elemento di disturbo nella sua testa, ma allo stesso tempo voleva mantenerla accanto a sé, voleva sentire qual calore, che non si era mai accorto di desiderare ogni momento della sua giornata. E sapendo che sarebbe accaduto in ogni caso, la odiava ancora di piu’ e gli aveva fatto odiare perfino sé stesso e i suoi stessi pensieri.

Lui quello, qualsiasi cosa fosse, non lo capiva, non lo voleva.

Stringendo le pinze ancora con piu’ intensità nell’attesa poggiò l’avambraccio sopra il muro davanti a sé poggiandovi la fonte esausto, l’adrenalina stava scendendo e la fatica del troppo lavoro gli si era presentata stringendogli ogni muscolo delle braccia e delle gambe. Roteò le pinze un paio di volte tra le fiamme e abbassando lo sguardo controllò che il ferro fosse alla temperatura esatta e con cautela, questa volta, ricominciò a lavorare battendo sull’incudine il martello.
Questa volta eclissando ogni tipo di pensiero, puntando solo lo sguardo sotto di sé e sul suo lavoro.

La camicia scura che portava era talmente intrinseca di sudore e attaccata alla sua pelle che non riusciva piu’ a capire se effettivamente stesse sudando o no. I suoi occhi non si staccavano per un istante dal suo compito, salvo quando sentiva entrare qualcuno nell’immensa fucina, infatti diversi nani ora accompagnavano con i loro chiacchiericci e il loro battito di martello, il suo lavoro, aiutandolo ancora di piu’ distraendolo con storie o antiche canzoni intonate per mantenere il tempo.
Solo una figura imponente con una lunga barba rossa riuscì a interrompere il ritmo dei suoi colpi; Dàin, infatti, avanzava all’interno della sala che ribolliva di calore, lanciando sguardi su ogni angolo, come se stesse cercando qualcuno e infatti era così; non si stupì infatti che quando lo notò avanzò verso di lui sorridente facendo suonare i piccoli pendagli dorati attaccati alla casacca rossa che indossava.

“Per la mia barba, guarda chi abbiamo qui, non ti trovo nella sala del trono ma ti scovo qui a sgobbare come un mulo!” Annunciò con voce alta sinceramente sorpreso di vederlo a lavoro in un momento come quello e con un ghigno divertito avanzò verso di lui.

Thorin alzò leggermente la testa per guardarlo e la scosse tornando a guardare giu’ a lavorare.

Avvicinandosi a lui con un ghigno poggiò la schiena sul muro accanto all’incudine su cui stava lavorando da ore.

“Un re non dovrebbe fare altro cugino, tipo, non lo so regnare?” Chiese mentre il braccio di Thorin continuava a sbattere il martello sull’incudine indirizzandogli un’occhiata veloce mentre assestava l’ennesimo colpo sul ferro sotto di sé.

“Potrei farti la stessa domanda.” Replicò lasciando un sorriso appena abbozzato modificargli le labbra.

Dain scrollò le spalle e si poggiò meglio sul muro osservandolo lavorare.  “Beh, io non sono il Re Sotto la Montagna, sono più quello sopra.” Puntò un dito verso l’alto non riuscendo a trattenere una grassa risatina finale.
“Ad ogni modo, io ero venuto a cercare te, ma sai sparire peggio di uno spettro, la sala del trono è vuota sai? Potresti anche andarci e posare il tuo culo su quel pezzo di pietra.” Gli disse in  maniera goliardica  sorridendo con il lato della bocca.

Ma l’affermazione di Dàin, per quanto spensierata, gli fece uscire solo un sospiro pesante in contemporanea con una martellata facendo uscire piccole scintille.

“Non riesco a stare su un trono, non adesso, c’è troppo da fare.”

“In ogni caso tra poco ti ci dovrai risedertici sopra, almeno è comodo? A me sembra di sì.” Ribadì osservando il pessimo lavoro che aveva compiuto Thorin con quel pezzo di ferro sull’incudine.

Era informe, Dàin non riuscì neanche a capire cosa volesse forgiare il cugino. Era strano, molto strano, sapeva cosa fosse in  grado di fare con in mano un martello e delle tenaglie, con tutti i metalli esistenti nelle viscere di Arda, qualcosa gli stava facendo volare la testa altrove e Dàin non piaceva, perché prima o poi quello che affliggeva il Re Sotto la Montagna, avrebbe afflitto tutti i nani.

“Tra poco?” Alzò un sopracciglio guardando il cugino, smettendo di muovere il braccio e fermando il tintinnare sull’ incudine.

“Solo oggi dalle Montagne azzurre sono arrivati altri duecento nani, e per di piu’ la metà non ha ancora un posto in cui stare.” Guardò di nuovo verso il basso verso l’ammasso informe a cui stava ancora cercando di dare un senso, ma no niente, ormai era andata, se avrebbe continuato a lavorarlo avrebbe solo fatto peggio.  

“Le famiglie si sono allargate e i soldati diminuiti e l’inverno sta arrivando” Scosse la testa e con un gesto secco getto sia la pinza che il pezzo di metallo in un secchio pieno di acqua ai suoi piedi interrompendo il lavoro, facendo uscire uno sbuffo di resa.

Dain strinse le sopracciglia squadrandolo mentre gettava via il suo operato e face qualche passo indietro dall’incudine, segno che aveva totalmente ceduto all’idea di fare qualcosa. Poteva vedere il viso di Thorin crucciarsi alla resa e il petto alzarsi e abbassarsi per la fatica sprecata, mentre lunghi capelli scuri gli cadevano via dal gruzzolo di capelli che si era acconciato per lavorare meglio e gli si appiccicavano sul volto contorto.

Thorin si girò su sé stesso scuotendo la testa come per cancellare un pensiero e dandogli la schiena si tolse la camicia impregnata di sudore e la poso sul tavolaccio di legno di fronte a sé. Vedendo le spalle del cugino alzarsi e abbassarsi in un sospiro Dain si crucciò ancora di piu’ e spostò la schiena leggermente da muro mettendosi dritto per osservarlo meglio.

“Se non ti conoscessi direi che sei preoccupato.”

“Piantala.” Gli rispose secco non volendo rivelargli tutte le circostanze che lo stavano appesantendo continuando a dargli la schiena e allungò il braccio verso un pezzo di stoffa logoro posato sul tavolaccio. Il calore lo stava facendo impazzire, o forse un misto di tutto quello che gli stava accadendo intorno lo stava facendo impazzire.

Senza neanche pensarci si passo dietro al collo per asciugare almeno il sudore che colava sulla schiena e poi con un respiro pesante si si girò verso Dàin che ancora lo fissava sospettoso mentre quest’ultimo si passava il pezzo di tela anche intorno al collo.

“Bel taglio.” Gli disse posando lo sguardo sulla lunga cicatrice ancora rossastra che gli attraversava il petto. “Dwalin mi ha raccontato, davvero ti sei fatto affettare come un prosciutto cugino?” Chiese socchiudendo gli occhi osservando meglio il segno.

“Almeno io non ne cavalco uno.” Gli rispose trattenendo a stento un ghigno beffardo.

“Sei un bastardo lo sai?” Ridacchiò Dain avvicinandosi a lui e dandogli un pugno amichevole sulla spalla. Gli sorrise malinconico al gesto, era da tanto che non si trovava a parlare così con Dàin, non che fosse un suo confidente, anzi, ma gli diede per un attimo indietro i suoi anni di gioventù, era adulto e pieno di rimpianti. Stare in quelle sale, gli facevano venire molti ricordi, forse anche troppi, smentiva con sé il giovane nano di cinquant’anni non se ne fosse mai andato e lo avesse aspettato lì.

La gioventù che tu gli hai portato via.

“Ci vorrebbe un bel boccale di birra scura, io te e Dwalin che guardiamo l’orizzonte oltre la montagna, che cantiamo delle gesta di Durin , dopo una lunga giornata di lavoro, come quando eravamo ragazzi, eh cugino?” Gli ammiccò.

“Solo che non lo siamo piu’.” Lo corresse sorridendo tristemente per un attimo  e vedendo il suo viso scurirsi ancora Dàin gli passo gli passò il braccio intorno alle spalle. “Quegli anni sono passati da un pezzo.”

“E con ciò? Lasciati tentare sta sera con un boccale di birra.”

“Ci penserò su.” A quelle parole Dàin gli batté una mano dietro la schiena entusiasta.

“Bene cugino, sono contento, quel musone non si addice a un Re dei Nani.” Alla pacca Thorin fece un sorriso fugace mischiato però a un cruccio di dolore, la spalla stava bene, ma il tatto di Dàin non era mai stato delicato.

 Dàin sospirò malinconico pois spostando lo sguardo  verso l’enorme sala danti a loro semi deserta e coperta ancora di grandi macerie, intrinseca di luce rossa e gialla, con alte fiammate sotto i bracieri e lingotti che scintillavano. “Questo posto è pieno di ricordi.”

“Lo so.” Rispose torvo Thorin e alzandosi staccandosi dalla stretta si avvicinò verso una delle sedie di legno accanto all’incudine e sollevò da questa una blusa blu che per fortuna si era ricordato di portarsi dietro prima di mettersi al lavoro tra le fiamme. Si passò la camicia lungo il corpo coprendosi nuovamente, anche se degli aloni di sudore macchiarono il tessuto pulito sottolineando i muscoli ancora tesi della schiena e del petto.

“Mi ricordo ancora quella volta quando venni qui a prestare giuramento, la festa di quella sera, la birra a fiumi; l’erba pipa piu’ buona che abbia mai fumato Thorin.”

Thorin smosse la mascella sopprimendo un sorriso malinconico. “Mi stupisce che tu ti ricordi qualcosa, ti ho dovuto portare a dormire in braccio.”

Dain annuì sorridendo, come se avesse ricordato il momento piu’ bello della sua vita. “Certo che mi hai riportato tu, eri un musone anche da ragazzo, in questo non sei cambiato cugino.”

L’affermazione gli fece scuotere la testa sospirando e con un gesto netto si sciolse i capelli raccolti facendoli di nuovo ricadere sulla schiena. Ma non poteva contraddire le parole del cugino, era sempre stato piu’ un osservatore durante i grandi banchetti che uno che ne prendeva parte.
Dàin però si ricordo di una figura in particolare che girava per quei banchetti, Dìs. Era totalmente l’opposto di Thorin, insieme a suo fratello Frerin, ne combinavano di tutti i colori, e fu forse quella che soffrì piu’ di tutti dopo la presa di Erebor. Non sarebbe mai diventata regina, ma amava quella montagna piu’ di qualsiasi cosa, ma non quanto i suoi fratelli, o… i suoi figli.

“Tua sorella è tornata?”

Il tono di Dain era decisamente cambiato, piu’ serio, quasi preoccupato, aveva sicuramente capito che non glia andava di trattare determinati argomenti, rivangare il passato era uno tra quelli, ma anche parlando di Dìs non aveva fatto una gran scelta.
Thorin sospirò .

“No, lei no.”

“Verrà?”

L’animo gli si incupì ancora di piu’ a quella domanda, una parte di lui la voleva accanto, la voleva consolare e vederla sorridere di nuovo, ma un'altra parte di lui temeva terribilmente il suo ritorno, L’avrebbe mai perdonato? Lui non riusciva neanche a perdonare sé stesso, come poteva una madre che aveva perso i suoi figli?

“Non lo so.”

Dàin si scostò dal tavolo dandosi una spinta con il bacino tenendo le braccia strette al petto

“Dìs è una nana forte, vedrai che lo supererà, ha sopportato di peggio.”

Un sospiro gli attraversò le labbra, no non aveva sopportato di peggio, cosa c’era di peggio. Quando morì Vìni non ci fu modo di parlarle per mesi, Kili era nato da così poco ma lei non riusciva neanche a tenerlo in braccio senza scoppiare a piangere. Piu’ che loro zio infatti si sentiva un po' come un padre, ci aveva provato, ma guarda dove li aveva condotti.

Sono morti a causa tua.

Strinse gli occhi scuotendo la testa cercando di far uscire quelle parole velenose dalla testa, doveva andarsene di lì. Fece un breve cenno con la testa al cugino e guardando basso cominciò a camminare via veloce.

“E poi tra poco  le dovrai presentare una bella fatina dei Monti Gialli.”

Il passo gli si bloccò a sentir quelle parole e strinse il pugno cercando di mantenere un minimo di lucidità, anche se gli sembrò un’impresa invalicabile.

Ecco perché era venuto a cercarlo.

Si voltò leggermente di nuovo verso Dàin che adesso aveva cambiato totalmente atteggiamento. Il corpo era dritto e lo fissava intensamente giudicatore da infondo alla sala dove era prima. Aveva alzato abbastanza il tono della voce per farsi sentire chiaramente, oltre il rumore di martelli e catene che rimbombava nella fucina, ormai di nuovo affollata di nani.

“E’ politica, nient’altro.” Sostenne sperando, anche se inutilmente di chiudere li quella conversazione che non avrebbe fatto altro che buttare olio sul fuoco di pensieri che lo stava consumando da giorni.

Dain scosse la testa e si avvicinò a lui guardandolo seriamente. I tatuaggi sulla fronte gli si arricciavano insieme al suo sguardo, sempre piu’ austero a ogni passo che faceva.
“Thorin, ti rendi minimamente conto di cosa è?” Chi chiese fissandolo negli occhi ora solo a un passo da lui.

Di tutta risposta serrò la mascella osservandolo a sua volta ora a pochi centimetri l’uno dal altro.
“Pensi che sia ceco?” Si girò guardando Dàin in faccia. “Certo che so cosa è.” Esclamò, i primi sentori della rabbia che gli montava in petto.

Dàin gli si avvicinò ancora di più stringendo gli occhi.

“I nani della montagna parlano Thorin, tutti ne stanno parlando. Stai per mettere sul trono accanto a te un elfo, anzi se fosse un elfo femmina probabilmente sarebbe anche meglio.”

“Quello che dicono non è un mio problema.” Un basso ruggito gli uscì dalla gola mentre stingeva forte i pugni per mantenere il controllo.

“Dovrebbe esserlo invece, cosa diranno i restanti quattro clan? Pensi che l’accetteranno solo perché sarà tua moglie? Ti rideranno in faccia.”

A quel punto non ce la fece piu’ sentiva la rabbia montargli dal petto fino alla gola dove prese possesso della sua voce facendolo avvicinare rabbioso al viso dal nano dai capelli rossi di fronte a sé.
“Dove erano i sette clan sono stati a guardare mentre le nostre città venivano saccheggiate e i nostri luoghi sacri distrutti? Dove erano i sette clan mentre Erebor bruciava tra le fiamme? Dove erano i restanti clan quando Khazad-dûm è stata invasa? Dove erano quando vagavamo come bestie nelle Terre Selvagge? Nessuno ha mosso un passo quando Smaug è stato ucciso, dove…”
Si interruppe all’istante, era esploso dopo una rabbia troppo contenuta nel petto. Le parole erano state rapide e urlate e squarciagola sormontando anche il rumore dei martelli che si era interrotto al suono della sua voce furibonda. La discussione dei due signori dei nani aveva attirato l’attenzione di tutti i presenti, che per quanto avessero provato a non ascoltare, erano rimasti basiti dal ruggito del re contro il signore dei Coli Ferrosi.
Nel silenzio si avvicinò al volto del cugino stringendo i denti e guardandolo negli occhi per fargli capire una volta per tutte  i suoi pensieri.
“No Dàin, irak’nadad,” sibilò ”non guarderò la nostra razza spazzata via per delle tradizioni; se l’unico modo che ho è riunire i due clan di nani piu’ antichi è sposandomi con una mezzosangue, allora lo farò.”

“Anche io ti ho aiutato ma non per questo mi porti a letto.” Rimarcò freddo non facendo trasparire alcuna emozione come se le parole di Thorin non gli fossero neanche arrivate alle orecchie.

A questo punto Thorin senza rispondergli lanciandogli solo un’ultima occhiata adirata, si rigirò su sé stesso uscendo a grandi falcate dalla forgia se fosse rimasto non avrebbe saputo cosa potesse succedere .
“Domani me ne torno a casa Thorin!” Gli urlò dietro ma non facendo voltare il re neanche di qualche centimetro o smettere il suo passo. “Tornerò dopo l’inverno, questo posto diventerà una landa ghiacciata e non voglio rimanervi bloccato e vatti a fare un bagno cugino, puzzi di cane morto.”

Le parole di Dàin erano lontane dalle sue orecchie mentre a grandi falcate usciva fuori dalla vampa delle fucine percependo di nuovo l’aria fresca sul viso dei desolati corridoi della montagna.
Il rancore ancora gli bolliva sottopelle, facendolo sudare ancor piu’ rispetto a prima.  Il cuore gli batteva quasi fuori dal petto, strinse con il pugno la camicia sudicia che teneva in mano, aumentando il passo velocemente per i lunghi corridoi, per lasciarsi alle spalle Dàin e le sue parole buttate al vento.

Lo credeva uno stupido, come se non avesse pensato alle conseguenze delle sue azioni come se non avesse pensato a quello che avrebbe voluto dire o significare sposarsi. Lui neanche lo voleva, non ci aveva mai neanche pensato, era un desiderio morto e sepolto e irraggiungibile dopo la presa di Erebor, e tanto meno aveva desiderato avere un erede. Un erede per cosa? Lui non era un re, era un reietto, così come il suo popolo a vivere nelle Terre Selvagge o in una casa che non era realmente sua.
Bombur, Glòin, loro ci erano o riusciti, ma non lui, non voleva, la sua vita era altro, lui non era piu’ niente. Che vita avrebbe potuto dare a una sua famiglia, una vita che avrebbe disprezzato ogni secondo, ogni attimo, perché lo avrebbe portato un passo piu’ lontano dal suo obbiettivo, riavere la Montagna, riavere casa sua.

Le Montagne Azzurre non erano casa sua, non potevano esserlo. Casa sua era quella dove si trovava ora, tra i marmi verdi, le luce gialla che si splendeva dalle fiaccole, il chiacchiericcio della gente che rimbombava flebile per i corridoi, i grandi banchetti con la musica che risuonava per tutta la montagna, l’aria fredda delle miniere e della notte in cima alla montagna.

Dàin lo dava per scontato, come se fosse stato per lui una decisione facile, ma non lo era stata affatto e paradossalmente l’unica persona oltre a Balin che l’aveva capito era la ragione delle sue pene e della sua collera in quel preciso momento.

Mentre camminava a lunghe falcate, per i corridoi, salendo e scendendo per le scale, nessuno gli rivolse la parola, il suo portamento e la sua espressione probabilmente in quel momento non erano delle piu’ affabili, e sperava davvero di non incontrare nessuno nel tragitto fino alle sue stanze, che venisse lasciato in pace con i suoi pensieri.
Cercò infatti di prendere la via meno affollata, e fu costretto a passare dentro la sala del trono. Si fermo per qualche istante di fronte al trono ancora spaccato a metà, ma con l’Arkengemma che lo dominava, brillando pallida, illuminandone flebilmente lo schienale.
Si morse il labbro fissandola per qualche secondo: era vero di tutte le cose dentro quella montagna era sicuramente la gemma piu’ bella che i Valar avessero mai creato.

Il cuore della montagna.

Il cuore del re.

Il suo cuore.

Strinse i denti, come si poteva amare e odiare una cosa allo stesso tempo, desiderarla, ma volerla vedere distrutta contemporaneamente. Tante pene erano state vissute per quell’oggetto così piccolo, ma ora grazie a quella casa sua era libera, i nani erano liberi, e i sette clan, tutti e sette, lo avrebbero rispettato, perché lui era e sempre lo sarà il re sotto la montagna. E aveva il potere di pretendere quella alleanza.
Tutto grazie a quella pietra.  

Gonfiando il petto si allontanò dal trono non prima di avergli gettato un’ultima occhiata, imboccando un corridoio sulla destra e un ultima rampa, solo delle guardie lo interruppero facendo un lungo inchino, ma nessun’altra si aggirava per i corridoi, ma presto anche quello sarebbe cambiato, tutto sarebbe tornato come prima.
Girò su per un lungo corridoio sospeso che era in mezzo a tanti altri balconi e scale, poteva vedere e sentire tutto, per questo quando senti una voce cristallina si fermò di colpo sul lungo corridoio che stava scendendo.

“Centocinquantasette anni? Davvero mia signora?”

“Sembrate piu’ giovane di nostra madre!”

Le voci erano piu’ di una e venivano da sopra la sua testa, alzò lo sguardo puntandolo sulla scala sopra di lui.

“Fàrim io te l’avevo detto che era mia amica, ma tu non mi credi mai!”

“Perché dici sempre le bugie Nìm!”

“Shhhh, abbassate la voce.”

Fu come se il cuore gli si fermasse per un attimo, incontrollabilmente si tirò indietro celandosi nell’omra sopra di lui.
I rumori si fecero piu’ presenti, seguì il tragitto della scala sopra la sua testa che finiva su una piccola balconata a qualche metro da lui. Doveva andarsene di lì e velocemente, o almeno così gli diceva la testa , ma i piedi rimanevano ben saldi a terra impossibilitandogli qualunque movimento.

“Mia signora ma davvero qui c’era un drago?”

“Si, Smaug il Terribile.”

Lentamente si tirò indietro per non essere notato e nascosto tra le ombre come un ladro continuò ad ascoltare la conversazione poggiando la schiena sulla balaustra dorata.

Che sto facendo?

“Lo ha ucciso Re Thorin, sicuro! A-dad ha detto che è il nano piu’ forte tutti! Anche io diventerò come lui!”

Una voce piu’ squillante si alzò per la ragnatela di scale, e Thorin sorrise leggermente a quelle parole adagiandosi di piu’ sulla ringhiera, poggiandosi sopra gli avambracci continuando ad ascoltare.

“Sicuro Lòni, diventerai un nano forte e coraggioso come Thorin Scudodiquercia”

Ghìda rispose mentre le voci si facevano sempre piu’ lontane, si stavano allontano da lui e per fortuna ancora non era stato notato, perché continuarono a camminare non interrompendo il passo.

“L’ho visto l’altro giorno sapete? Andavo alle fucine con il mio fratellone, e all’improvviso è uscito, e si sono tutti inchinati, e papà mi ha tenuto la testa giù per fare lo stesso.”

“A me Thorin Scudodiquercia mette paura.”

“Come mai?”

“P-perché sembra sempre arrabbiato.”

“A-mam oggi mi ha detto che voi siete la sua ‘ibinê , cosa vuol dire?”

Una voce piu’ piccola parlo, balbettando leggermente.
Il respiro gli si fermò in gola e guardò giù sotto di lui facendo un silenzioso sospiro abbassando lo sguardo verso il pavimento.

Promessa.

Era la sua promessa.

Il silenzio continuava, per pochi secondi ma a Thorin parvero diverse ore, piu’ il silenzio di Ghìda era continuo, piu’ si sentiva a disagio. Non la poteva vedere, ma poteva facilmente immaginarsi il suo viso che con un’espressione aggrottata osservava la bambina con gli occhi spalancati.

Le mani gli sudarono leggermente e il cuore gli si, cominciò a camminare via non volendo sentire una parola di piu’, se fosse rimasto avrebbe ceduto un'altra volta e non lo poteva permettere.

“V-vuol dire che… che, che ci sposeremo Mar.”

Incerta, nelle parole da usare Ghìda rispose alla piccola nana tra le sue braccia facendo comparire un sorriso triste sul viso del re che si allontanava dalla discussione nelle ombre di Erebor senza essere notato.
 
 I rumori del palazzo si faceva piu’ lontani mentre Thorin saliva l’ultima scalinata che l’avrebbe portato nelle sue stanze, si sarebbe fatto un lungo bagno gelido per poi lavorare sulla pila di carte che quella mattina aveva distrattamente lasciato sparse sul tavolo, non ci sarebbe stato riposo quella sera, come tutte le sere, doveva tenere la mente impegnata.

Oltrepassò a lunghe falcate l’entrata del corridoio ma una grossa figura si stanziava di accanto alla sua porta, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo basso verso le grosse mani tatuate. Appena sentì i suoi passi però giro la testa verso di lui, freddo, la bocca sigillata e i muscoli tesi.

Thorin scosse la testa bloccando il passo: una visita di Dwalin avrebbe dovuto aspettarsela, ma non era dell’umore adatto per parlare con lui e da come l’amico rimaneva in silenzio già sospettava che la conversazione non sarebbe stata delle piu’ piacevoli.
Si guardarono per alcuni secondi in silenzio, poi Thorin cominciò a camminare di nuovo verso la sua porta senza dire nulla al nano che rimaneva fermo probabilmente in attesa di una sua parola; ma questa non arrivò, il silenzio era interrotto solo dai suoi passi pesanti in mezzo al corridoio.

“Thorin.”

“Non adesso Dwalin.” Rispose secco appena quest’ultimo cerco di attirare la sua attenzione. Aveva già capito che non era un buon momento, ma al nano accanto a lui non importava granché, infatti lo bloccò a pochi metri con la porta parando il suo braccio di fronte al suo viso.

“Sì adesso.” Dwalin lo scrutò glaciale, con la mascella serrata, Thorin strinse i pugni squadrando trucemente la figura di fronte a sé, che non si sarebbe spostato di là neanche sotto ordine.

Thorin osservo il braccio dell’amico per poi sospirare e lanciare un’occhiata verso la porta.
Dwalin annuì e lo lasciò passare, permettendogli finalmente di entrare nella sua stanza da letto facendo un enorme sospiro e lanciando la camicia sporca su una delle sedie vicino al camino che prepotentemente faceva da padrone nella stanza.

“Chiudi la porta.” Ordinò secco mentre l’altro oltrepassava l’uscio.

Dwalin si chiuse la porta alle spalle, scrutando la stanza da letto del re:sembrava non ci dormisse o vivesse nessuno, tutto sembrava fermo così da giorni, il retto era rifatto, nessun oggetto era spostato, perfino il camino era freddo come il marmo del pavimento. L’unica cosa con cui poteva dire che fossero le stanze di Thorin erano la montagna di libri e pergamene sparse sul lungo tavolo attaccato al muro, accartocciate, strappate, gettate per terra o impilate, che erano solo una conferma di quello che Dwalin sospettava.

“Da quanto è che non dormi?”
Thorin non rispose, non serviva a quanto pare. Si sedette solamente sul bordo del letto in silenzio, fissando il muro di fronte a sé e lanciando un’occhiata nascosta tra i lunghi capelli verso Dwalin che restava fermo vicino alla soglia.

“Stai sulle carte per ore, giorno e notte, ti rintani nella fucina per pomeriggi interi a forgiare Mahal sa solo cosa e poi ti rinchiudi in questa stanza, come un ladro nel suo covo.”

Thorin scoese la testa fulminandolo con lo sguardo. “Quello che faccio Dwalin non sono affari tuoi.”

“Sei più entrato nella sala del tesoro?”

La sola frase lo fece irrigidire di colpo serrandola mascella e senza rendersene conto cominciò a stringere i talmente forte le corte sotto di sé che le nocche gli diventarono bianche.

“Io non ci metto piede là sotto.” Ribatté secco alzandosi dal letto e andando verso il tavolo coperto di fogli dando le spalle al nano che lo osservò vagare come un animale in gabbia. Poteva tentare a capire, ma non avrebbe mai capito fino in fondo l’angoscia che Thorin provava in quel momento, i suoi pensieri ora erano irrimediabilmente di nuovo fissi sull’enorme stracolma di oggetti preziosi, quella sala, quella gemma.

“Quello che è successo a Fili e Kili non è colpa tua.”

 “Si lo è, avrei dovuto proteggerli, avrei dovuto essere con loro.” Mormorò continuando a dare le spalle al nano, osservando verso il basso incapace di darsi delle rispose, di consolarsi, di credere alle parole dell’amico.
Dwalin d’latro canto non poteva accettarlo, non poteva accettare che Thorin vagasse in quelle sale come uno spettro, che onorasse i suoi obblighi ma che la sua testa fosse da un'altra parte, a tormentarsi, ad autoinfliggersi un dolore tale che non si meritava.

“Allora per questo non ti siedi piu’ sul quel trono, per rimorso? Pensi che Fili e Kili vorrebbero che tu ti riduca così?” Gli chiese alzando la voce.

“Quello che vorrebbero loro non ha piu’ importanza”

“Non sei piu’ tu, il principe dei nani che ho seguito non scapperebbe da ciò per cui ha combattuto per tutta una vita!”

“Il nano che ho conosciuto a casa Baggins non si sarebbe mai rimangiato la parola data!”

Come una cascata gli tornò tutto alla mente: gli occhi di Bilbo, la sua furia mentre lo afferra per la giacca sporgendolo verso il parapetto, gli animi scossi dei nani intorno a lui, la sala del trono vuota, il silenzio della montagna e l’oro, montagne di oro e gioielli che gli ottenebravano i pensieri incessantemente. Oro ovunque, scintillio nei suoi occhi, era tutto così nitido di fronte ai suoi occhi, ogni moneta, ogni gioiello, ogni gemma.

No, basta.

L’Arkengemma sopra il trono che lo assillava, era di fronte a lui, poteva prenderla, macchiata di sangue, poteva prenderla, il sangue, il sangue di Kili, No kili, il sangue di Fili.
Basta.

“Un tesoro come questo non può essere valutato in vite perdute.”

Basta.

Una rabbia folle cieca prese possesso del suo corpo, sentì tutto il dolore tramutarsi in odio nelle sue membra facendolo tremare e serrare la mascella ferocemente.

“BASTA!” Un urlo rabbioso gli uscì dalla bocca e con una forza disumana scaraventò con un gesto secco tutte le carte sul tavolo a terra.

Lo scattò d’ira fece irrigidire Dwalin ancora dall’altra parte della stanza: puntò gli occhi sulla schiena del re e sulle sue spalle che si alzavano e si abbassavano freneticamente, mentre Thorin cercava di riprendere il controllo di sé stesso, instabile come non si era mai sentito in vita sua.

Un lungo respiro gli lasciò le labbra arraffando le rughe del viso in una smorfia di dolore ben nascosta dal nano dietro di lui.

“Quando dormo vedo i loro visi Dwalin.” Pausa ”Quando chiudo gli occhi li vedo di fronte a me come se fossero ancora qui.” Mormorò continuando a dare le spalle guardando verso il pavimento con le mani poggiate sul grande tavolo con ancora alcuni fogli sopra; con i palmi ne strinse forte un paio conficcandosi le unghie nella carne incapace di controllare i propri sentimenti. Un bruciore agli occhi glieli fece serrare, immeritamente.

 “Vorrei essere morto io al loro posto.” Sussurrò Thorin ma per l’amico dietro di lui fu come se lo avesse urlato a squarciagola.

Tutto si sarebbe potuto immaginare, ma mai simili parole uscire dalla bocca del suo amico piu’ caro, mai che Thorin Scudodiquercia desiderasse la morte.
Rimase talmente scioccato da non riuscir a dar fiato a delle parole che in tutti modi tentavano di avere un senso nella sua testa, cosa avrebbe potuto dirgli? Che i suoi nipoti erano morti per lui? Che lo avevano fatto perché l’amavano? In ogni caso lui era stata la causa scatenante
.
Si avvicinò a piccoli passi allungando la mano verso la sua spalla.

“Thorin.” tentò di dirgli qualcosa, ma le parole vennero inghiottite da altre con voce piu’ tremante della sua.

“Esci.”

Dwalin si fermo osservando la sua schiena sempre più scossa da tremiti.

“Esci, ora.”
 
 
 
 
 



La notte era silenziosa, calma, neanche un rumore aleggiava nella valle sotto di lui, solo il rumore del vento che si andava a scontrare sul lato della montagna creando dei leggeri fischi.
Le tende nei due enormi accampamenti non emanavano luce, tutti dormivano, ma lui no. Anche quella notte il sonno non lo accoglieva, o se ci riusciva, lo faceva rigettava immediatamente; dopo l’ennesimo incubo, come ogni notte era quindi alla luce della luna sulla balaustra scura, per osservare le stelle come se loro avessero la riposta a tutti i suoi problemi e come ogni notte, la risposta non arrivava, né da loro né da sé stesso.

Le parole di Dwalin ormai erano marchiate a fuoco sotto la sua pelle, la lacrima solitaria che gli aveva solcato la guancia era come se avesse lasciato una lunga cicatrice sul viso, l’ultimo sfogo che si sarebbe concesso, l’ultimo accenno di rabbia che avrebbe lasciato trasparire di fronte a Dwalin e di fronte a chiunque.

Il vento gli muoveva leggermene le due trecce al lato della nuca e la pelliccia sul mantello nero che portava: le notti si facevano piu’ fredde, l’inverno era alle porte ed Erebor ancora non era pronto per sopportarlo, così come lui; notti lanciò un’occhiata alla porta opposta alla sua, per un paio di secondi, ma nulla avvenne, come ogni notte.

Anche quel giorno solo aver sentito la sua voce gli aveva cancellato tutti i pensieri in testa e la pesantezza nel petto, in quegli istanti tutto si era calmato, non era piu’ il re sotto la montagna, il signore delle argentee fonti, l’erede di Durin, era solo, Thorin.
Ma lui non era piu’ solo Thorin da moltissimo tempo, e doveva ricordarselo sempre, lui era il re e un re non può permettersi simili pensieri.
Dovevano andare via dalla sua testa tutto doveva andare via dalla sua testa, compresa lei.

Guardò verso le mani muovendo con un pollice il suo anello con le sue rune sul dito medio abbandonandosi alle riflessioni che gli facevano compagnia tutte le ore insonni, non avendo idea di ciò che sarebbe accaduto da lì a pochi attimi.

Lentamente la porta sul lato della balconata cigolo leggermente e da dietro di essa comparve una chioma scura e un piccolo corpo vestito solo di una bianca vestaglia da notte.

Gli occhi di Ghìda si spalancarono leggermente appena videro il re dei nani anche lui sveglio a guardare giù dal balcone, le mancò il fiato per qualche secondo, rimanendo sull’uscio con una mano che teneva la porta scura di pietra e un'altra a tenerle il vestito chiaro. Thorin la stava guardando, con le mani poggiate sulla balaustra, un guizzò di sorpresa gli attraversò il viso facendogli tirare leggermente su la schiena.

Era proprio la persona che non voleva avere accanto in quel momento, a cui non poteva stare accanto in quel momento.

“Dovreste dormire, è tardi.” Le disse duro Thorin scostando lo sguardo da lei verso il buio di fronte a sé ricoprendosi con una corazza gelida. Ora che lei era lì, lui voleva solo scomparire.

“Anche voi dovreste.” Glie rispose tirando su la schiena e oltrepassando la soglia vigile.

Ghìda si avvicinò lentamente verso il reggipetto dove aveva le mani poggiate sopra, il vento le muoveva leggermente i calli dietro il viso scoprendo le piccole orecchie a punta, da dove spuntano diversi piccoli orecchini dorati. La luna le batteva sul viso leggermente illuminandoglielo, sottolie anche i lineamenti troppo duri per un elfa, ma troppo morbidi per una nana.

La bracci di Ghìda vennero scosse da un leggero brivido di freddo: era stata una stupida, doveva immaginarlo che un gelo del genere si sarebbe alzato prima a poi, soprattutto così in alto, ma aveva troppo bisogno d’aria, dopo quello che era successo quella sera con suo padre non era riuscita chiudere oggi, le sue parole le rimbombavano nella testa, tanto da non riuscire a farla addormentare, così come il dolore sulla guancia che continuava a sentire, così reale e persistente, come il sapore ferroso in bocca.
Thorin e osservò le braccia dove una leggera pelle d’oca si era formata sotto le rune tatuate, lei non aveva detto nulla a riguardo ed era molto sicuro che non l’avrebbe fatto neanche sotto tortura. Sospirando si tolse dalle spalle il pesante mantello scuro  facendo alzare a Ghìda un sopracciglio confusa. Con un gesto veloce lo scrollo via dalle braccia prima di porglielo con una mano.

“Mettetelo.”

“Non ne ho bisogno.” Rispose osservando verso il tessuto e poi verso di lui.

Ma il suo sguardo freddo non ammetteva repliche e neanche la sua mano che rimaneva tesa verso di lei. Ghìda abbasso lo sguardo da lui verso il mantello e annuì leggermente afferrando la stoffa morbida sotto le sue dita.
“Vi ringrazio.” Sussurrò e sotto gli occhi attenti di Thorin lo indossò con cura spostando i lunghi capelli mossi di lato avvolgendosi nel tessuto nero lentamente mordendosi il barro imbarazzata.

Thorin annuì con la testa per poi tornare a guardare l’orizzonte in silenzio cercando in qualsiasi modo di ignorare la figura accanto a sé che ora le stava accanto a pochi centimetri di distanza poggiata con le mani sulla balaustra.

Ghìda si strinse addosso interrompendo i leggeri tremolii sul braccio che stavano scendendo lesti verso la schiena: le parve come essere stretta tra due forti braccia.
Il vento era talmente leggero da non coprire di nessuno dei due i pesanti pensieri, il mondo sembrava immobile, le stelle brillavano sopra di loro, le piccole nubi di prima si erano schiarite lasciando spazio a una enorme luna calante. Lo sguardo sottecchi di Ghìda indugiò un attimo sulla folta barba che copriva l bocca semischiusa del re, e poi sugli occhi azzurri persi nel blu profondo della notte. Gli occhi di Thorin erano puntati sull’orizzonte, persi, come se qualcosa stesse affliggendo l’anima, e guardare lontano, oltre l’orizzonte, fosse l’unica maniera per fuggirne.

“Oggi un bambino, Lòni, vi ha definito come il guerriero piu’ forte che sia mai esistito e che vorrebbe essere come voi un giorno."
Interruppe il silenzio Ghìda distogliendo lo sguardo dal suo profilo per puntarlo verso il lago in lontananza, che rifletteva gli astri sopra le loro teste.

Thorin abbozzò un sorriso continuando a guardare in avanti, per un attimo fu tentato di dirle che lo sapeva ma si morse l’interno del labbro per rimanere in silenzio.

“Un altro vi ha definito spaventoso.” Aggiunse Ghìda abbozzando un sorriso.

“E voi cosa ne pensate?” Le chiese Thorin spostando lo sguardo verso di lei facendola voltare.

“Penso che Thorin figlio di Thràin, sia entrambi.”

“Mi definireste spaventoso?”

“A volte.” Ammiccò sorridendo con il lato della bocca “Incutete timore ,ma…” Il suo sguardo indugiò negli occhi azzurri del re “non vi definirei spaventoso”

Disse velocemente distogliendo di nuovo lo sguardo dal suo, non ce la faceva, in cuor suo non sapeva se ce l’avrebbe mai fatta a guardarlo negli occhi senza provare quella sensazione di calore nelle vene.
Incontrollabilmente sentì il bisogno di guardare verso l’altro, verso gli astri sopra di lei, le stelle quella sera brillavano fiocamente, come se fossero stanche di brillare, troppo osservate, troppo guardate e desiderate, troppo incolpate di dolori di cui non erano colpevoli. Strinse il mantello ancora di piu’ a sé stessa serrando la mascella, sua madre era una di quelle? La guardava da lassù? Aveva mai saputo che esisteva per lo meno?

Lo sguardo le cadde inevitabilemnte sulle tende scure sul lato della montagna, anche se così lontane, le sembrava ancora di trovarsi lì, in quella tenda, riuscì anche a percepire il colpo sulla guancia e lo sguardo di suo padre sul suo viso, trasmutato in rabbia pura.
Quasi a consolarsi da sola si strinse nell’ampio mantello scuro di Thorin, per un attimo fu come sentire un abbraccio invisibile: caldo e che odorava di fumo e pini salvatici.

 “Mio padre se ne andrà alle prime luci, tornerà per… per l’unione.”

Sussurrò lei, dopo lunghi secondi di silenzio: alzò gli occhi, incontrando i suoi; improvvisamente divenne tentennante e insicura, timorosa anche solo di continuare: ma la voce le uscì comunque “Se non prima.”

Concluse con tono quasi alienato, fissando intensamente l’enorme tenda al centro dell’accampamento. Thorin notò il suo sguardo e si morse leggermente l’interno guancia, il senso di colpa gli attanagliò le viscere. Non aveva pensato alla prospettiva che come per lui fosse un obbligo lo era anche per lei, ma la responsabilità cadeva totalmente su di lui. Era lui che aveva decretato la parola finale, probabilmente era perfino lui il motivo per cui si trovava ancora sveglia nel cuore della notte.

“Vi manca, casa vostra?”

Lo sguardo di Ghìda si rabbuiò alla domanda, le spalle prima rilassate si abbassarono leggermente così come il suo viso, fissando in basso.
“Siete mai stato ad Elcar mio re?”

Thorin scosse la testa “No, ho solo sentito storie.”

“E cosa vi hanno raccontato?” Gli chiese mentre l’aria spostava i suoi capelli di lato facendole venire tanti piccoli brividi sul collo.

“Bianche scogliere, spiagge nere che si estendono per miglia prima di arrivare nella baia di Balbala, miniere di zaffiri scavate sotto il mare e… “ Involontariamente il suo sguardo si sposto su Ghìda che ancora guardava in un punto indefinito sotto di lei.

“Di voi.”

Le voleva rispondere, si le storie c’erano e anche così le voci, ma alle orecchie di Thorin erano sempre rimaste solo quello, storie; non l’aveva vista al raduno dei sette clan prima della partenza di Erebor e nessuno ne aveva mai fatto menzione. Trovarla di fronte a sé in quel momento, tutt’altro che un abominio, gliela fece sembrare come un’apparizione di una creatura leggendaria.
Ancora una volta Thorin si maledì per i suoi pensieri, che sfociavano come un fiume in piena ogni volta che la osservava, non poteva, non doveva. Duramente distolse lo sguardo tirandosi su con la schiena.

“E alle ricchezze delle miniere marine.” Tagliò corto .

“Non so se è mai stato casa mia, sapete.” Confessò Ghìda con voce flebile. La voce le si era spezzata un poco in gola, mentre faceva questa ammissione a Thorin. ”Avete mai sentito la sensazione di… di volervi imporre ad appartenere a un luogo ma sapere che, non sarà mai il vostro posto?”

Thorin a quelle parole non poté rimanere indifferente, gli erano così familiari al suono, così familiari nel petto, che, per non rispondere in modo affermativo, dovette conficcare le unghie nella carne delle mani serrando la mascella. Sapeva fin troppo bene cosa volesse dire.

“Quello è Elcar per me, con le sue miniere che si estendono per miglia sotto la costa, l’odore di sale che riempie i polmoni, le gemme blu che dal fondo dell’acqua; il mare si, mi manca, così come il riflesso delle stelle su di esso.” Le parole le uscivano malinconiche dalla bocca, pensava a quante volte avesse voluto attraversare quel mare o immergersi nelle profonde acque per non risalire, cercando di afferrare quei punti di luci lontana e terna.

“Erebor è casa mia adesso.” Rivolse piu’ a sé stessa questa affermazione che al nano che adesso la guardava incuriosito.

“E cosa ve lo fa pensare?” Chiese secco Thorin voltandosi con tutto il busto verso di lei reggendosi con solo una mano sulla pietra della balconata.

“E’ la casa della nostra stirpe.” Rispose meccanicamente come la nenia che le era stata imposta quel pomeriggio.

“Non è una risposta alla mia domanda.”

Thorin faceva sempre piu’ vicino o lei si faceva sempre piu’ vicino non sape dirlo ma in quel momento si stavano lentamente accostando l’un l’altra. Di nuovo.

Di colpo le tornarono in mente le parole che rivolse alla piccola Nim mentre questa le parlava tremante.
“Una casa è dove appartiene il proprio cuore.”

Il re dei nani ora era a pochi centimetri da lei, il laccio che fino a pochi secondi prima era rimasto solo teso adesso li stava rifacendo ricongiungere l’un l’altro.
“E a cosa appartiene il vostro?” Le chiese con voce dura puntando i due pozzi azzurri nei suoi scuri.

A Ghìda mancò il fiato a quella domanda, cogliendola alla sprovvista di nuovo si trovò a pochi centimetri dal re di Erebor, mentre giudicatore la osservava sovrastandola mentre le  mani di entrambi posate sulla nuda pietra; erano a così poca distanza da potersi quasi sfiorare: Thorin dovette munirsi di tutto l’autocontrollo che aveva per non far muovere la sua ancora di piu’ verso quella di Ghìda sulla fredda pietra.
Le sembrava quasi irreale, di nuovo, i pensieri le si annebbiarono, mentre quelli di Thorin scomparirono del tutto, in attesa non seppe neanche lui dire di quale risposta. Ghìda non poteva saperlo ma in quel momento una singola parola lo avrebbe fatto crollare su sé stesso; la verità si era infatti parata davanti a Thorin solo in quel momento, poteva negarlo quanto voleva, ma guardare lei era come guardarsi allo specchio, leggeva nei suoi occhi la stessa malinconia che si portava dietro lui da tutta una vita, sentiva nelle sue parole una sofferenza così familiare che solo il pensiero di un simile dolore in una figura del genere gli fece stringere le viscere: nessuno doveva soffrire come lui, nessuno doveva anche solo avvicinarsi a quello che provava.

Thorin si tirò indietro, no, non era in sé, non era lucido, voltò il viso rompendo il loro sguardo e la piccola bolla che si era creata tra di loro, interrompendo nuovamente il corso dei suoi pensieri.
Un sospiro usci dalle labbra di Ghìda, troppo frastornata da quella pulsione che di nuovo li aveva fatti avvicinare tanto pericolosamente.

“E’ meglio che vada.” Disse Thorin, facendo ridiventare gli occhi, dapprima fluidi come un fiume freddi come il ghiaccio, facendo annuire Ghìda silenziosamente e facendole distogliere lo sguardo dal viso del re contrito in un’espressione distaccata.

“S-sì anche io.” Con attenzione si cominciò a togliere il lungo mantello che portava sulle spalle, iniziando di nuovo a sentire il freddo sulle spalle, ma un movimento della testa di Thorin la fece bloccare su sé stessa ancora una volta.

“Tenetelo.”

Lei annuì abbassando la testa immediatamente, non riusciva a reggere quegli occhi, eppure li voleva su di lei, ancora prepotentemente, voleva che la guardasse ancora, le respirasse vicino ancora, per un oscuro motivo che le parlasse ancora.
Non disse nulla avviandosi veloce verso la porta ignorando la forza che la voleva costringere a rimanere, per avere un po' di pace, anche solo per qualche minuto in piu’. Nemmeno l'altro si aspettava una sua parola: eppure, anche i silenzi come quelli gravavano come non mai, nell’anima di entrambi.

Thorin la osservò andare via, posando lo sguardo sul lungo mantello che la copriva, prima che questo sparisse nell’ombra insiem a lei. Due spiriti che cercavano in quei silenzi l’uno la presenza dell’altro, un consolarsi a vicenda silenzio, dove anche se per pochi secondi, tutto spariva.
Appena la porta si chiuse si passò una mano stancamente sul volto, era stanco, era vecchio, doveva allontanarsi da quelle stelle, doveva allontanarsi da lei.

Se Mahal aveva scelto di porlo di fronte a questa ennesima prova per puro divertimento non se lo seppe spiegare, seppe solo che per quei piccoli istanti, tutti il mondo intorno era scomparso, tutto il dolore era svanito, lasciandoli soli coperti dallo sguardo severo della montagna di Durin.
 
 












 
Angolo Autrice
TA DAAAAAAN! Ed eccolo qui solo per voi un capitolo solo pov Thorin. Ve lo giuro le lacrime che mi sono scese, entrare nella sua testa è devastante davvero, mi è venuta un’angoscia terribile, soprattutto per il taglio che ho voluto dare ai suoi sentimenti dopo quello che è successo, dopo la battaglia delle cinque armate. T.T
 Diciamocelo chiaramente, Thorin non avrebbe reagito come se nulla fosse alla morte dei nipoti/praticamente figli, per un’impresa che ha voluto lui soprattutto, e in un’impresa in cui solo lui della famiglia è sopravvissuto. Per Ghìda beh ci sono un po' di non detti, perché una parte del capitolo manca, la metterò nel prossimo, se no cambiava troppo il tono e spezzava troppo il ritmo, e non mi stava piacendo.
Vi avverto so che sembra strano, che sto facendo un istant-love, ma sto cercando di far capire che non è proprio così insomma, che è piu’ se loro due involontariamente si capiscano l’un l’altra, il concetto di attrazione è piu’ legato a un bisogno di entrambi. Perché non è che loro si amino adesso, cioè c’è solo qualcosa, che nessuno dei due vuole, ma vuole, non so spiegarmi meglio, comunque spero sia passata l’idea giusta.
Come al solito lasciate una recensione un like e iscrevetev… a no scusate, sbagliato sito XD Se volete vedere come mi immagino Ghìda ditemelo, perché volevo crearla, ma non so se possa interessare.

PS= Tutti i miei pensieri su Fili e Kili sono dovuti a questo video=  https://www.youtube.com/watch?v=4SXTYZxt8S0

PPS= Pure io voglio che si bacino infatti tutto ciò mi distrugge davvero tanto non farlo accadere.
 
 
 

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Capitolo 8
*** "E a cosa appartiene il vostro?" ***


Pre angolo autrice
Miei cari lettori, vi devo le mie scuse per ilritardo immane, so che perdonarmi sarà difficile ma in compenso vi mostro un bel capitolone. <3 Questo ne vale per due su.
 


“E a cosa appartiene il vostro?”
 





 
 
“Penso che questa sia l’ultima opportunità per rivolgerti i miei saluti Thorin figlio di Thràin.”

Esordì il nano dai folti capelli brizzolati facendo rimbombare la sua voce all’interno della sala del trono semi deserta se non fosse stato per Thorin in piedi sull’enorme piedistallo occupato dal trono  e i due fratelli Balin e Dwalin ai due fianchi di esso in disparte che osservavano la scena.
Telkar era entrato con una piccola scorta nella sala del trono per un saluto al re prima del suo congedo verso Elcar, per Balin il gesto sembrò estremamente superfluo in tempi come quelli, ma al quale con sua enorme sorpresa Thorin acconsentì senza neanche batter ciglio e fu questo che invece turbò l’animo di Dwalin.

Era diverso piu’ silenzioso di quanto già non fosse negli ultimi giorni, ma i suoi occhi non erano velati da una patina di afflizione, quella non c’era quella mattina negli occhi del suo re, del suo amico, erano degli occhi che non vedeva da tempo, risoluti, uno sguardo che mai si sarebbe aspettato, non dopo quello che aveva visto il giorno prima, quello che aveva sentito il giorno prima.
Sarebbe morto per lui, e Thorin sarebbe morto per Fili e Kili, ma sentire ad alta voce quella sua confessione era tutta un'altra faccenda: era quello che nella vita aveva perso piu’ di tutti, e mai lo aveva dato a vedere, mai lo aveva visto versare neanche una lacrima, neanche quando Frerin gli morì fra le braccia, ma la perdita dei suoi nipoti forse per lui era davvero il limite e, peggio, se ne dava la colpa.
Che dopo la battaglia delle cinque armate Thorin fosse profondamente cambiato nessuno osò mai metterlo in dubbio, nemmeno lui ma, dopo averlo visto talmente inerme e in balia del dolore, scosso dai tremiti la notte precedente, gli diede ancora di piu’ la sicurezza che qualcosa in quel lasso di tempo, nell’arco di una notte, avesse scosso i pensieri del re, a tal punto da trasformare l’angoscia e il dolore in altro.

“I miei saluti fino all’arrivo della primavera, come d’accordo.”

Si corresse immediatamente Telkar  tirandosi su con la schiena dalla sua riverenza, verso Thorin, che rimase impassibile in piedi di fronte al trono, sottolineando e, godendo probabilmente, del suo lignaggio rimanendo a vari scalini sopra il lungo corridoio.

Alle parole del capofamiglia rispose piegando leggermente il capo ma inaspettatamente oltre le folte sopracciglia, Balin riuscì a cogliere uno sguardo che non gli fece presagire nulla di buono e che cancellava la parola “pacifico” dagli aggettivi che si poterono in seguito attribuire a quell’incontro.

“Un manipolo di miei fidati verrà con te fino ai monti Gialli, torneranno a fine inverno come garanzia.”

A quelle parole la bocca di Telkar si inclinò da un lato in un  falso sorriso,  alzando lo sguardo oltre le folte sopracciglia nere, facendo incurvare la profonda cicatrice che gli attraversava l’occhio sinistro.

“Non ti fidi della mia parola Re Sotto la Montagna? È sempre un matrimonio con la mia discendenza che ti ho offerto, non solo delle casse di gioielli: la garanzia è avere lei sotto questa montagna, non ti è sufficiente?”

La mascella di Thorin scattò mentre, con le mani adesso dietro la schiena che stringevano i polsi duramente, scese gli ultimi scalini arrivando alla stessa altezza del signore dei nani di fronte a lui.

“Lealtà, onore, devozione, ho visto venirli infranti per molto meno.”

Alzando un sopracciglio lo sguardo di Telkar mutò un'altra volta, i suoi occhi diventarono due fessure, due braci di fuoco che si andarono a infrangere su Thorin.
Era stato toccato un punto saldo, un punto che per ogni nano era sacro quanto le tombe sotterranee dei loro padri.

L’onore.

Balin lanciò un’occhiata preoccupata verso il fratello, Dwalin capì: la discussione era passata su un altro livello, a meno che non lo fosse sempre stata sin dall’inizio; e lui era consapevole che Thorin lo sapesse fin troppo bene per non farlo di proposito: voleva portarlo al limite, farlo uscire dalla sua tana, perché?

“Ho fatto un giuramento a vostro nonno, Thròr, sotto questo stesso soffitto, come i restanti capifamiglia dei sette clan dei nani, un giuramento che andrà avanti fino al Dagor Dagorat… ma tu questo lo sai bene.”

Gli angoli degli occhi di Thorin si incresparono avvicinandosi di un altro passo. 

“A mio nonno… non a me.” Sottolineò roco.

“Ho giurato a colui che maneggia , il gioiello del re, l’Arkengemma.” Gli occhi di Telkar oltrepassarono come se fosse invisibile la figura del Re di Erebor, e si andarono a incatenare alla gemma incastonata sopra al trono, che lucente, sovrastava la sala, come monito per tutti i nani che vi entravano.

Un guizzo di desiderio si intravide negli occhi del nano, al quale Dwalin rispose portando leggermente la mano sull’ascia legata al suo fianco, ma fu solo per un istante, perché poi il volto del signore dei nani tornò impassibile a osservare quello di Thorin.

“E a quanto mi risulta, ora è nelle tue mani… Thorin Scudodiquercia.”

Aggiunse facendo diventare l’aria nella stanza improvvisamente pesante, il nome gli era uscito dalla bocca come una delle maledizioni piu’ indicibile in nanico, scivolose e velenose come quelle di un serpente.

“Il mio giuramento a te è la mano di mia figlia, la mia unica figlia ed erede al regno di Elcar, credo che valga piu’ di qualsiasi patto di sangue già stretto in tempi passati.”

Dwalin capì che Thorin aveva raggiunto il suo obbiettivo poiché non disse nulla: le mani, che poteva ben vedere del trono, allentarono la stretta ai polsi.

“Giuramento, per promessa.”

Definì Thorin con voce roca dando le spalle al capo dei Nerachiave e tornando a passi lenti indietro verso il trono salendo un paio di scale; i suoi erano fissi sul pavimento, pensierosi, qualcosa gli scavava profondamente nella testa: una domanda.
Alzò lo sguardo verso Dwalin che nel frattempo aveva osservato la scena in silenzio, continuava a non capire, ma quando Thorin abbassò di nuovo lo sguardo e poi si voltò lentamente per guardare il signore dei nani dietro di lui, la risposta ai quesiti di quest’ultimo arrivò e non fu tanto la domanda, ma il tono che Thorin usò a fargli sgranare gli occhi: ruggente…possessivo.

“C’è una cosa che voglio sapere” Esordì  “Hai messo delle guardie alla sua porta, perché?”

Non servì specificare il soggetto, infatti alla domanda la sala parve diventare piu’ silenziosa di quanto già non fosse, la bocca di Balin rimase leggermente aperta mentre le sopracciglia di Dwalin si inarcarono leggermente facendo scorrere lo sguardo sulla schiena di Thorin e poi verso il capo dei Nerachiave:  Si tratta di lei.

Telkar d’ altra parte rimase in silenzio, passando lo sguardo sul re di Erebor, che in attesa di una sua risposta si girò del tutto di nuovo verso di lui, fino a che anche su Thorin si dipinse un cipiglio di confusione quando il lato della bocca del nano dei Monti Gialli si trasmutò in un ghigno.

“Temo di aver fatto passare il messaggio sbagliato, credo che tu abbia capito che la mia fiducia non sia riposta in te.” Precisò marcando bene l’ultima parola. “Ti devo le mie scuse Re Sotto la Montagna.”

Si avvicinò poi di un paio di passi assottigliando lo sguardo portando questa volta lui le mani dietro la schiena tirandola leggermente piu’ su.

“Devi conoscere un particolare su mia figlia, Thorin, figlio di Thràin... un errore di esecuzione, se così si può definire, un qualcosa che si è portata dietro da… dall’altro sangue che ha nelle vene.” Cominciò a spiegare Telkar sotto ancora lo sguardo vigile del re di Erebor che osservava ogni singolo movimento, e ascoltava ogni singola parola con attenzione.

“Hai mai provato a forgiare ferro e oro insieme?” Chiese guardandosi intorno verso le statue dei nani che facevano da guardia sui lati dell’androne per poi cominciare lentamente a camminare avanti e indietro facendo vagare lo sguardo per la stanza come a cercare le metafore giuste per quello che stava spiegando. “Si amalgamano, si fondono, si incastrano l’uno con l’latro, risultando anche incantevoli agli occhi… ma ogni martellata troppo forte per temprare il ferro distrugge l’oro, e ogni martellata delicata per affinare l’oro piega a malapena il ferro. Si può provare per ore, giorni, cambiando fucina, martello, allentando il soffietto, ma anche nelle fucine del grande Mahal, questo rimarrebbe solo un bello, ma inutile oggetto: una decorazione da esporre, unico, ma che non può essere usato né per combattere, né per adornare una stanza.”

Thorin rimase in silenzio, aumentando la forza della stretta nel suo pugno ben nascoso dietro la schiena  mentre Balin invece passò lo sguardo su entrambi mandando giù un groppo che gli si era creato in gola.

“Tratta mia figlia come tale.” Aggiunse sprezzante Telkar osservandolo dritto negli occhi.

Un sottile gelo si diffuse per la stanza, penetrando nelle ossa dei presenti facendo addirittura aprire leggermente la bocca a Dwalin che non riusciva a credere alle parole che aveva appena sentito, allo sprezzo con cui erano state dette.
Nessuno riuscì a vederlo, celato da uno sguardo freddo e impassibile, ma l’animo di Thorin bruciò a quelle parole, trasformando la stretta del suo pugno in un mezzo con cui sfogare l’ira che gli montava dalla pancia, conficcandosi le unghie nella carne quasi a farsi male.

“Lei non è una nana, e non lo sarà mai, lasciale credere che sposandoti le cose cambieranno, ma sappiamo entrambi che non sarà così, se glielo lascerai immaginare renderà le cose piu’ facili per entrambe le parti.”

 “Ti stai rivolgendo a tua figlia come se fosse un gioiello.” Lo interruppe Thorin con voce bassa e lacerante, ma così controllata che Dwalin dietro di lui rimase scioccato sgranando ancora di piu’ gli occhi indirizzandoli sulle sue spalle e fu in quell’istane che notò le nocche bianche e un leggero fremito attraversargli la schiena.

“Perché non lo è?”
Non fu neanche in questo caso la cosa che disse ma il tono con cui lo disse a far stringere, dall’altra parte del trono, il cuore a Balin: freddo, non c’era amore in quelle parole, solo possessione e quello sguardo lui lo aveva già visto, lo aveva visto sul viso di Thròr, sul viso di Thorin, pura possessione fisica: non avrebbe mai creduto nella sua vita  poterlo vedere in funzione di un essere vivente.
Questa volta, al silenzio controllato del re, fu Telkar ad avvicinarsi al trono posando addirittura un piede sul gradino che portava verso di lui e verso il trono.

“Lei è unica, è una gemma unica nel suo genere, è la mia gemma sul trono: lei non appartiene ai fondi delle miniere, o agli alberi delle foreste silvane, lei appartiene a me.” Si fermò assottigliando ancora lo sguardo.  “Guardati bene dal dire che non ti fidi della mia parola perché io ti ho donato la mia Arkengemma, Re Sotto la Montagna.“
Sibilò prima di scendere di nuovo il gradino senza però scostare la vista dal volto rigido del re di Erebor.

Non una parola fu aggiunta da Thorin, che osservò il profondo inchino finale del signore dei nani prima che questi gli rivolse un’ ultima occhiata sprezzante e si voltò su sé stesso senza aggiungere altro e camminare via verso l’uscita facendo rimbombare i suoi pasi pesanti per tutta la sala del trono che invece di rompere il la tensione di quella discussione ormai conclusa, non fecero altro che aumentare il gelo nella stanza così come il silenzio, che aumentava ogni attimo.

“Povera ragazza.”
Si lasciò sfuggire mormorando Balin seguendo il capofamiglia uscire dalla sala del trono senza però prestare attenzione al re: con un enorme sospiro si girò su se stesso, guardando di nuovo verso il trono, ma questa volta piu’ in alto, verso l’Arkengemma che risplendeva sopra di esso, la fissò per alcuni attimi, prima di abbassare lo sguardo poggiando entrambe i pugni sui corrimani guardando verso la seduta.

Dwalin abbassò leggermente lo sguardo verso Thorin tanto da poter vedere la sua espressione celata parzialmente dei lunghi ciuffi neri e grigi che gli ricadevano sulla fronte: le fucine di Mahal gli splendevano negli occhi mentre un singolo rivolo di sangue scuro gli oltrepassò il pungo chiuso che era rimasto, fino a quel momento, sigillato.

Solo quando ormai i passi del capoclan diventarono solo un rimbombo in lontananza Balin abbassò finalmente lo sguardo notando anche lui la profonda irrequietudine di Thorin, che non diceva nulla, dalla sua bocca uscivano solo pesanti respiri, che celavano ben altro che una semplice turbamento: Thorin si sentiva bruciare vivo.

 “Tutto bene ragazzo?”

 Gli chiese infine , ma al re sotto la montagna bastò quella semplice domanda per calmare i respiri, e far distendere i pugni ancora serrati sul freddo marmo facendo tornare la schiena da prima curva a dritta e tesa.

“Balin vai da Bofur alla biblioteca, digli di portare i progetti per i mulini, tutti quella che trova, entro oggi dobbiamo far ripartire le carrucole delle fucine.” Ordinò sbrigativo a Balin continuando a guardare giù verso il sedile.

“Ragaz…”

“Abbiamo altro a cui pensare.” Lo interruppe secco impedendogli di dire altro rivolgendogli solo uno sguardo di sbieco, arrestando ulteriori domande che in quel momento non dovevano essergli poste: non potevano essergli poste.

Balin annuì e lanciò un’occhiata verso Dwalin, rimasto al lato del trono, prima di oltrepassare Thorin e uscire dalla sala, lasciando i due amici di infanzia immersi in un silenzio, pieno di domande e di risposte che non sarebbero state date.

“Dwalin tu vieni con me alle forge.“
Aggiunse Thorin infine tirandosi su dal trono e tornando lentamente a essere il re che Dwalin che aveva imparato a conoscere in questi giorni, distaccato, freddo, e pieno di oneri sulle spalle.
Thorin permise solo a un sospiro di attraversargli le labbra prima di lanciare un’occhiata verso il trono e senza aggiungere altro che non fosse un breve cenno con la testa verso il nano accanto a lui, scavalcò le scale a grandi passi scrutato da Dwalin per alcuni attimi prima di essere seguito senza ulteriori domande.

Saluti e riverenze si diffusero da ogni nano che incrociava il loro cammino da quando avevano messo piedi fuori dall’uscio, ogni guardia rizzava la schiena, ogni chiacchiericcio diventava sommesso o si interrompeva al suo passaggio. Thorin a tutto ciò rispondeva con un breve movimento della testa o abbassando leggermente gli occhi: era nato per questo, e non perché era stato o l’erede al trono, no lui era nato per essere re, il suo re, ma che ormai sembrava piu’ l’ombra del Thorin con cui era cresciuto.

Dwalin lo seguì in silenzio, accanto a lui, lanciandogli ogni tanto qualche occhiata, verso la fronte ancora leggermente corrugata e gli occhi spenti, fissi chissà in quali pensieri, in quel emozioni; per confermare i suoi turbamenti osservò di nuovo la mano di Thorin, e anche se ormai secco, riuscì a intravedere tra le dita il rivolo di sangue secco che gli oltrepassa il palmo fino alla punta del dito medio, macchiando l’enorme anello argentato.
Distolse velocemente lo sguardo, prima che potesse accorgersi dei suoi occhi che indugiavano, forse anche troppo, sulla sua mano.
“Stai bene?”

“Non dovrei?” Gli rispose neanche guardandolo continuando a camminare tra la roccia verde e i corrimani dorati.

“Sai a cosa mi riferisco, Thorin.”

Il suo passo si fermò per un istante, sembrò quasi che stesse per rispondergli, allargo lentamente la bocca per parlare acciglio lo sguardo, ma le sue speranze furono vane perché riprese a camminare, questa volta anche piu’ velocemente di prima.
“Avevo bisogno di capire i suoi scopi, nulla di più’.”  Gli rispose infine, ma chiunque avrebbe capito che era solo un modo per tagliare il discorso, anche se un fondo di verità in quelle parole c’era in ogni caso

“Se non ti fidi di lui perché hai accettato un simile accordo? Un simile patto? Thorin, è della tua vita che stiamo parlando, del trono, della discendenza della nostra casata, della tua discendenza.”

“Non ti ho chiesto io di presenziare e neanche di farmi la morale, non ne ho bisogno.” Replicò a quelle parole con un ringhio sommesso continuando ad evitare il suo sguardo mente i suoi passi si facevano sempre piu’ pesanti.

“Quando sento che stai compiendo una sciocchezza rientra nei miei compiti anche farti la morale.” Stufo Dwalin bloccò il passo, osservando la schiena del re di fronte a lui, mentre questo lentamente si fermava in mezzo alla scala che stavano scendendo notando il suo passo interrotto.

Dwalin prese un profondo respiro, prima di parlare ancora, per farsi coraggio.
“Sono solo preoccupato per te.”
Ammise e forse fu proprio il tono che uscì dalla sua bocca a far tentennare Thorin bloccandone del tutto il passo a pochi scalini sotto di lui. Passarono diversi secondi di silenzio nel quale Dwalin era sempre piu’ irrequieto, nel quale diverse possibilità gli si paravano davanti agli occhi, ma continuava a rifiutare quella piu’ probabile, perché in quel caso lui non avrebbe potuto fare niente.

Thorin si voltò verso di lui ricambiando il suo sguardo insistente sulla sua schiena.

“Ho bisogno di sapere che tu ti fidi di me.” Dwalin si irrigidì a quella domanda, e gonfiò leggermente il petto guardando il suo re con determinazione, come il giorno del suo giuramento, tanti anni fa, quando lui era solo una semplice guardia e lui un semplice principe dei nani, quando tutto era piu’ semplice.

“Sempre.”

“Allora non chiedere oltre.”









“Lasciateci.” Ordinò secco Telkar alle due guardie che lanciandole un’ultima occhiata colpevole, chiusero le sete rosse e si allontanarono dalla tenda. Le mani le cominciarono leggermente a tremare, quello sguardo, quel tono, la paura prese pieno possesso di lei facendole stringere con forza i lembi del vestito.

A ogni passo che compiva suo padre verso di lei i respiri diventavano piu’ veloci e sconnessi; prima che avesse il tempo di aprire bocca per parlare un colpo la guancia così  violentemente da farle perdere l’equilibrio e farla cadere a terra. 
Un gemito di dolore le uscì dalla bocca  quando si parò con le mani dalla caduta afferrando il vello sotto di lei mentre all’interno di essa si andava a plasmare un sapore metallico.  Alzò terrorizzata gli occhi verso suo padre fuori di se dalla collera; non ebbe il tempo di dire nulla poiché con violenza il nano di fronte a lei le si avvicinò ancora di più.

“Tu brutta piccola insolente.” Le ruggì addosso e con un movimento rapido le afferrò i capelli da dietro la nuca tirandola su costringendola a guardarlo negli occhi. “Cosa ti avevo detto? Dovevi fare una sola cosa, stare zitta ed essere compiacente e non sei riuscita a fare nessuna delle due cose!”

“L-lasciatemi.” Sussurrò quasi implorante.

Si era ripromessa di non implorarlo mai, di non supplicarlo mai piu’, ma il terrore aveva preso possesso di lei, dei suoi pensieri e del suo corpo. Il lamento però non fece altro che far adirare Telkar ancora di piu’ che ù tutta risposta le tirò i capelli da dietro la nuca ancora di piu’ facendola alzare e portarla di nuovo alla sua altezza.
“Sei rimasta chiusa in quella stanza per cinque giorni.” Aggiunse a pochi centimetri da lei, la cute le faceva male, la stretta decisa le tirava la lunga chioma scura che adesso era intrecciata tra le dita del nano con la folta barba nera, mentre lei non riusciva a fare altro che guardarlo inerme, paralizzata.

“Tu dovevi solo girare, sorridere e fare qualche inchino aggraziato.” Ruggì ancora tirandole di piu’ i capelli facendole uscire un gemito acuto di dolore e forzandola a portare le mani sulla sua stretta. “Ma devi sempre comportarti come una ragazzina, come il sangue sporco che ti scorre nelle vene!”  Le lacrime cominciavano a spingerle  sulle palpebre, ma no non avrebbe pianto, non piu’ di fronte a lui, mai piu’.
“Hai idea di quello che ho fatto per pianificare questo matrimonio Ghìda? Di quello che c’è a rischio?” Aggiunse e con uno strattone la lasciò andare facendola traballare leggermente all’indietro e mandandola a urtare con la schiena il piccolo tavolino dietro di lei.
Tremante strinse le dita intorno al legno sotto i suoi ancora scossa dalla spinta di suo padre e frastornata dallo schiaffo che ancora sentiva reale sulla sua pelle; si portò una mano sul labbro sgranando leggermente gli occhi alla vista del liquido rosso che le macchiava la punta delle dita mentre la guancia le continuava a pulsare.

Inaspettatamente però riuscì a parlare a esporle la verità che entrambi sapevano, ma che suo padre continuava a negare.
“Girare scortata per un palazzo non rende i nani di Erebor piu’ affabili, padre.” Riuscì con anche sua sorpresa a mormorare guardando il suo volto trasmutato dalla furia.

Con dito giudicatore avanzò vero di lei minaccioso e si fermò a pochi centimetri dal suo viso. 
“Ringrazia Mahal che non ti ho messo un esercito di fronte alla porta, guarda infatti da sola cosa sei riuscita a fare, ti sei fatta gettare per la montagna come una balia!” Le rinfacciò tuonando.

Con un piccolo movimento si tirò su ricacciando indietro le lacrime che continuavano a cercare di farle sfogare la sua paura, che però già era visibile dal suo tremolio leggero alle mani sul legno.

“È stato il re a darmi questo compito io l’ho accettato, come volevate voi, avrei dovuto rifiutare?”

“Tu avresti dovuto fare quello che ti avevo ordinato, invece di pensare ai giudizi di un popolo che se non fosse per una sorte favorevole adesso brucerebbe tra le fiamme.” Fece una pausa afferrandole il braccio con forza e portandoselo vicino al viso così da farlo vedere chiaramente a entrambi a entrambi. Le rune sul suo braccio erano ben visibili, esposti dalla manica che era caduta oltre il suo avambraccio.
“Vuoi essere una nana? Comportati come tale! Dimostralo, e fai quello che il tuo sovrano ti comanda: tu ora tornerai dentro quella montagna, non farai adirare Thorin Scudodiquercia, sarai raggiante e docile e tra cinque mesi da oggi, tu lo sposerai senza dare fiato alla bocca, mi hai capito bene?” Ringhio selvaggiamente a pochi centimetri da lei, poté sentire il suo respiro sul viso, così come i suoi occhi penetrarle nella carne.
Lo sguardo di suo padre si spostò poi  verso il labbro spaccato e, lasciandole andare lentamente il braccio, inarcò le sopracciglia e sospirò allungando invece l’altra mano verso di lei.


D’istinto si ritrasse spingendo la schiena ancora di piu’ sul tavolino dietro di lei, ma la mano piena di tatuaggi di suo padre non si fermò andandole ad asciugare col pollice il rivolo di sangue che continuava a formarsi sul suo labbro: mandò giù il groppo che aveva in gola disgustata da quel tocco così pesante e infido. Con una lentezza estrema poi passo la mano sotto il suo mento costringendola a guardarlo negli occhi ancora una volta.

“Fai quello che ti ho ordinato e tutto andrà divinamente va bene mio mizim?” Mormorò osservando per l’ultima volta il segno che le aveva lasciato sul labbro per poi lasciarla andare e in quel momento il corpo di il corpo le smise di tremare lasciando un lungo respiro uscirle dal petto, scaricando tutta la paura che aveva provato in quei pochi minuti, una paura che mai nella vita sarebbe riuscita a scrollarsi da dosso, che la faceva nauseare e desiderare di fuggire ad ovest: via da tutto, via da lui.
“Vuoi vedere cosa ti asetta quando diventerai regina? Vai nelle sale piu’ basse del palazzo, le antiche stanze del trono, le sale di Thròr e renditi conto di cosa avrai tra non molto nelle tue mani figlia mia.”

Ghìda abbassò il capo stringendo il vestito tra le dita e senza aggiungere altro si voltò andando verso l’uscita, ma prima che potesse uscire dalla tenda la voce del nano dietro di lei la bloccò nuovamente.

“Ghìda…” Fece una lunga pausa aspettando che lei girasse lo sguardo di nuovo verso di lui. “Ricordati sempre a chi devi la tua lealtà.”
 
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 
 
 
 
 




 “Mia signora, state bene?”

Una piccola voce la ridestò di colpo dai suoi pensieri, facendole sbatte piu’ volte le palpebre aiutandola a riprendersi dalla scena della sera prima che prepotentemente le aveva invaso la testa.
Di fronte a lei sette piccoli nani la guardavo confusi e in attesa, tutti seduti intorno all’enorme tavolo in mezzo alla biblioteca; chi piu’ chi meno l’avevano ascoltata leggere da tutta la mattina le storie della gente di Durin e delle sette famiglie dei nani, della loro nascita e dei vari ruoli che rappresentavano per la Terra di Mezzo.
Ma lei per un lasso di tempo aveva lasciato la sua mente vagare, rimembrando ricordi che in quel momento non erano altro che nocivi.
Gli occhi continuavano a fissarla aspettando una sua risposta, in particolar il modo il paio scuri di chi le aveva posto la domanda, a un paio di sedie lontano da lei; fu costretta ad annuire velocemente con la testa, per non destare sospetti e nascondendo la tensione con un leggero sorriso.

“S-si Trel, non ti preoccupare, ero solo persa nei miei pensieri, dove eravamo rimasti?” Chiese tirandosi leggermente su’ con la schiena e osservando di nuovo verso il basso l’enorme tomo rosso pieno di disegni e mappe e folto di antichi racconti scritti in nanico antico.

“Alla corona di Durin.” Nìm si era inginocchiata sulla sedia accanto a lei tenendo i palmi delle mani sul tavolo entusiasta.

“E dove è?” Una mano minuta si avvicinò al libro puntando le mani sul tavolo per guardare il tomo da piu’ vicino; con un leggero sorriso prese il piccolo dito di Màr ancora puntato sul tavolo e con gentilezza lo spostò nel punto corretto verso un disegno abbozzato di un cielo.

“Qui.”
Un silenzio si creò intanto che tutte e sei le piccole teste si avvicinavano di piu’ al libro per guardare meglio dove aveva spostato il dito della piccola nana seduta accanto a sé; sorridendo con gentilezza, roteò il libro permettendo a tutti di vedere la mappa dalla giusta prospettiva e spostandolo leggermente piu’ al centro del tavolo.

 “E la corona dov’è?” Esordì Lòni, il piu’ grande tra i sei, guardando con attenzione ogni angolo delle pagine di fronte a sé non trovando però quello che cercava.

“Quale corona?” Domandò Drel, che fino a poco fa era rimasto in silenzio infondo al tavolo, sporgendosi ancora di più verso il libro cercando con attenzione una corona disegnata sulla pagina.

“La corona di Durin l’immortale, come dice la canzone, giace con lui negli abissi

“È fatta d’oro, no no meglio, di gemme? Vero?”

“Come può essere una corna fatta di gemme?”

“E perché non potrebbero esserci Fàrim? A-mad ha un bracciale di gemme, perché non potrebbe esistere una corona fatta di gemme?”

“Una corona di Durin può essere fatta solo d’oro come quella di Re Thorin!” Alzò leggermente la voce Lòni tirandosi su’ sulla sedia mettendosi in piedi su di essa facendo cominciare un battibecco che mai  lei si sarebbe aspettata: se i nani erano testardi da grandi come pretendeva che da piccoli fossero da meno.

Da infondo la sala Bofur osservava la scena dietro una grande libreria sistemando alcuni vecchi volumi al loro posto, trattenendo a stendo una risata alla confusione che si stava creando in quel momento.
Osservò Ghìda che spostava velocemente lo sguardo tra i vari interlocutori senza però prendere la parola: e come poteva, i piccoli nani l’aveva circondata di domande e ormai sovrastavano quasi l’intero tomo sotto di lei.
Notò che il suo sguardo si era alzato su di lui oltrepassando la cortina di teste e trecce che le facevano da muro davanti al viso: con uno sguardo quasi implorante mimò con una bocca un leggero Aiuto, e lui scosse la testa sorridendo puntando di nuovo lo sguardo verso il suo compito.

“È fatta di stelle.” Urlò Bofur correndo in suo soccorso facendo cessare immediatamente il vociare, tutti e sei i piccoli nani che fino a poco prima si urlavano l’un altro lo osservarono con gli occhi sbarrati.
Un sospiro di sollievo le uscì dalle labbra, mentre questi ultimi, intimoriti dalle parole del nano a loro quasi sconosciuto, si voltarono verso di lei di nuovo, permettendole finalmente di parlare.
“Come ha detto Bofur, sì, è fatta di stelle.” Rispose gettando un’occhiata al nano dai lunghi baffi neri capendo che aveva compreso in quale difficoltà si era trovata, di tutta risposta le fece un breve inchino con la testa, prima di girarsi di nuovo verso i suoi libri e continuare con cura a rimetterli apposto.
Ghìda si sporse quindi leggermente di piu’ verso il tavolo e girò la pagina del grande tomo, mostrando agli occhi increduli, una grande porta, incisa nella roccia della montagna, un disegno su cui lei era stata per giorni. Voltarla infatti le fece venire un breve sussulto, e come se la pagina avesse preso fuoco sotto le sue dita ne tirò via la mano permettendo ai piccoli nani di avvicinarsi ad essa.

“L-le stelle sulla porta di Durin, incise con ithildin rappresentano le sette stelle, che vide affacciandosi nel Kheled-zâram, e che incoronarono il suo riflesso, per questo si chiama corona di Durin.”
Aggiunse cercando di non far trasparire il disagio che quel linguaggio inciso sulla porta le provocava e come il suo significato le scavasse una voragine nel petto tutte le volte che lo leggeva.
Per sua fortuna nessuno, neanche Nìm, che di solito passava piu’ tempo ad osservarla che ad ascoltare le sue brevi lezioni, si accorse del suo cambio di umore, o dell sue mani che si stringevano in due pugni sotto il tavolo; ma la domanda che però seguì fu proprio quella a cui lei sperava di non rispondere.

 “Cosa c’è scritto? È elfico vero?” Chiese Fàrim crucciando le sopracciglia osservando le scritte, provando molto probabilmente a decifrarle, ma senza successo: anche se la sua testa cambiava inclinazione le scritte per lui rimanevano incomprensibili.

"Ennyn Durin Aran Moria. Pedo Mellon a Minno. Im Narvi hain echant. Celebrimbor o Eregion teithant i thiw hin.”

Mellon.

La lesse nella sua testa non riuscendo però a farle uscire dalla sua bocca, né in elfico né nella lingua comune; le parole le si erano fermate come un groppo nella gola, leggerle avrebbe significato renderle reali e lei non voleva pensare che fossero reali, voleva continuare a pensare che appartenessero alla leggenda, come quella di Durin l’Immortale.

“Perché è scritto in elfico se è la porta del nostro popolo?”

Anche a quella domanda lei rimase in silenzio aprendo solo leggermente la bocca senza riuscire a far uscire nulla, che non fosse un leggero suono gutturale.

Perché erano alleati.

Erano … compagni.

Nani ed elfi, elfi e nani che aveva costruito insieme qualcosa, che avevano creato qualcosa; serrò la mascella incapace di parlare, continuando ad osservare l’enorme porta disegnata al centro della pagina ingiallita dal tempo. Tempo che sarebbe stato diverso se si fosse arrivati a un accordo, due ere fa: se gli elfi fossero stati piu’ accondiscendenti e i nani piu’ saggi molte cose sarebbero andate diversamente, molte vite sarebbero diverse, perfino la sua.

Bofur nel frattempo, che aveva finito di sistemare i pochi libri rimasti passando alle pergamene dall’altro lato della libreria: rimase in silenzio di fronte alle domande dei piccoli nani, intuendo la causa del mutismo di Ghìda che si era venuto a creare alle domande dei bambini. 
Alzò lo sguardo da terra e osservò il suo viso di spegnersi in un lampo e prontamente prese una decisione: si sistemò il cappello con un paio di movimenti meccanici e si schiarì la voce affacciandosi sorridente da dietro la libreria guardando il tavolo dove tutti erano seduti.

“Mia signora mi duole interrompervi ma è passato mezzo-dì.”

La frase ebbe il potere di far scomparire i battiti sempre piu’ accelerati del cuore di Ghìda, scostandola da quei pensieri e da quelle immagini e ,oltretutto, di far saltare leggermente Lòni che si drizzò sulla sedia facendo smuovere la lunga treccia bionda che portava al lato del viso facendogliela ondeggiare di fronte agli occhi.

“Mezzo dì? Fàrim dobbiamo correre alle fucine abbiamo l’addestramento in forgiatura, oggi è il turno delle spade! Andiamo, ne voglio una tutta mia!”
Urlò saltando giù dalla sedia facendo sbuffare il nano dai capelli rossi di fronte a lui che con lentezza si alzò anche lui dalla sedia mettendosi le mani nelle tasche della giacca. “Arrivo, arrivo, tanto non cominciano ancora, è troppo presto, Lòni.”

“Drèl, Trèl, Mar anche voi dovete venire veloci su!” Urlò saltellando leggermente su e giù eccitato, facendo sbuffare Drèl che invece rimase seduto osservando l’eccitazione del nano piu’ grande prima di annuire sconfitto e alzarsi così come il fratello accanto a se, che però anche lui sovraeccitato dalle parole di Lòni si era quasi lanciato giù dalla sedia.

Un lungo sospiro le uscì dalle labbra puntando uno sguardo fuggevole verso Bofur che nel frattempo era tornato alle sue faccende non accorgendosi come lo stessi ringraziando con lo sguardo e di come fosse grata che avesse compreso il suo silenzio.
Nìm invece rimase seduta guardando il fratello saltare giù dalla sedia, seguendolo con lo sguardo nel frattempo che questo appena si avvicinava a Fàrim che gli mise un braccio intorno alle spalle amichevolmente appena fu abbastanza vicino. Ghìda poté addirittura dire di averla vista arrossire quando spostò lo sguardo sul nano piu’ grande dei due gonfiando leggermente le guance e crucciando le sopracciglia.

“Io pure voglio venire con voi!”  Urlò saltando giù dalla sedia e andando verso il fratello che la fulminò con lo sguardo appena si frappose fra i due amici e la loro stretta.

“Sei piccola, non puoi venire con noi.” Le rispose apposta il fratello nascondendo a stento una risata quando sua sorella batté un piede a terra.

“Non sono piccola, e poi anche a-dad ha detto che posso provare se voglio!”

Lo sguardo le si spostò da Nìm verso Lòni che nel frattempo osserva giù verso la piccola nana anche lui arrossendo un minimo, mentre quest’ultima che gli teneva la camicia stretta in un pugno, distogliendo velocemente lo sguardo arrossendo ancora di piu’ di come aveva fatto la piccola nana poco prima.

Dovette premere forte le labbra insieme per sogghignare rimanendo seria alla scena che per molti sarebbe stata ridicola ma lei la trovava in qualche modo adorabile. Ringraziò i Valar che anche con delle piccole parole, i due fratelli fossero riusciti a dilatare quella nebbia che le stava cominciando a pesare  sul petto. Si alzò dalla sedia intanto che il piccolo battibecco tra i cinque piccoli nani continuava ma lo sguardo le cadde inevitabilmente sulla pagina sotto di lei, di nuovo sulla porta di Durin, e come per dimenticarsela, velocemente chiuse il tomo cancellando ogni pensiero che le si era formato nella testa, provocando un tonfo che si espanse per tutta la biblioteca, per poi alzarlo con entrambe le braccia e avvicinarsi verso la libreria dove prima era riposto l’enorme tomo.
 
“Non vieni con noi?”

Le chiese una voce piccola percependo anche una leggera tensione alla gonna del vestito e guardò giù, Màr la guardava con gli occhi spalancati.

“Metto apposto questo e vengo con voi.” Le rispose sorridendo gentilmente guardando giù verso di lei un attimo prima di tirarsi un po' meglio su con le punte dei piedi e con forza, incastrò il tomo nel mezzo di altri due libri grandi almeno il doppio.

“Mi unisco anche io alla compagnia.” Esordì Bofur mostrandosi di nuovo alla luce da dietro la libreria con decine di pergamene tra le braccia facendole inclinare curiosamente la testa da un lato mentre la piccola mano di Màr si andava sempre dio piu’ a insediare tra i tessuti del vestito.

“Sono tutti i progetti originali delle macchinari nelle fucine.” Le tolse il cipiglio Bofur alzando leggermente le spalle e stringendoli meglio. “Dai mulini alle carrucole: oggi vogliono provare a farle funzionare, il lavoro alle miniere diventerà molto piu’ faticoso senza, ma senza questi l’impresa diventa quasi impossibile.”

E con questa ultima tirò su tutti i rotoli leggermente piu’ verso le spalle ma l’ idea non fu delle piu’ acute in quanto appena mosse un passò quelle nel mezzo della stanza cominciarono a scivolare verso il basso o perfino a cadere.

“Fermo Bofur…” Cercò di fermarlo Ghìda afferrando le due carte arrotolate che già stavano cadendo e ne raccolse una terza da terra. “Lascia che ti dia una mano.” Aggiunse trattenendo le carte al petto per poi sfilarne altre due dà in mezzo le braccia del nano dal cappello singolare facendolo arrossire lievemente e scuotere la testa sfilandone con accortezza una terza dalle sue braccia.

“Mia signora non preoccupatevi, ce la posso fare.” Disse orgoglioso, ma la sua difficoltà nel portare così tanti rotoli sarebbe stata evidente a chiunque, poiché pendevano un po' a destra e un po' a sinistra, e non erano certamente stabili.
Scosse la testa alla testardaggine del nano e gliene prese una quarta dalle braccia, notando il viso sempre piu’ contrariato del nano di fronte a lei, ma che ignorò volutamente issandosi i fogli arrotolati poggiandoli su una spalla.
Bofur tentò nuovamente di opporsi ma una voce insistente fece capolino prima che potesse ribattere.

“Mia signora non possiamo tardare!” Disse ad alta voce Lòni che insieme ai restanti quattro nani si erano fermati ad aspettarla sotto la grande arcata della biblioteca.

“Non essere scortese!” Lo rimproverò Trel tirandogli una gomitata giocosa sul fianco, facendo indispettire Nìm che prontamente si mise come una barriera davanti al fianco colpito evidentemente seccata, da quel semplice segno d’affetto.
Ghìda sospirò leggermente e con un movimento secco si issò in un braccio le pergamene e con l’altra prese la mano a Màr che ancora rimaneva attaccata al lato della sua gonna, lanciando poi un’occhiata vittoriosa a Bofur che sbuffò sorridendo.

“Molto bene, non credo di potermi opporre.”

“Se non vuoi far scatenare una battaglia in questa biblioteca non credo proprio mastro nano.” Ammicco riferendosi al gruppetto che insofferente li aspettava alla soglia della porta.

E con questo facendosi da parte lasciò che Bofur la sorpassasse, illuminando i visi del gruppetto, facendoli irrimediabilmente scattare dritti e uscire fuori correndo dalla biblioteca, a differenza di Màr che le teneva ancor ben stretta la mano mentre, con cautela, seguiva Bofur oltre la soglia verso gli immensi corridoi aperti del palazzo.
I vari piani  di scale adesso risplendevano di luce calda, e decine di nani vi passavano sopra per svolgere le loro commissioni, il silenzio che si portava dietro in quel ricordo era stato stravolto, lasciando spazio a rimbombi di passi e parole che come un eco si propagavano nella montagna. Le scale dapprima vuote erano passaggio di nani e qualche volta anche nane, che zelanti ancora non si erano abituati alla situazione , al fatto che Erebor stava per rinascere e tutta la dinamicità presto si sarebbe riversata solo in banchetti e feste.


“Siete brava con i bambini ; avete fatto incuriosire perfino me: improvvisamente voglio tornare un piccolo nano.” Le confessò Bofur camminandole di fianco.

“Senza il tuo aiuto di prima, probabilmente starei ancora cercando di farmi strada tra le loro urla.” Lo corresse abbassando la voce il piu’ possibile per non farsi notare dalla nana accanto a se che le stringeva forte la mano. “Mi spiace solo non poter fare di più .” Ammise mordendosi l’interno guancia.

“Oh ma voi già fate abbastanza, non tutti avrebbero il coraggio di portare avanti la vostra missione, nessuno vi biasimerebbe se voleste abbandonarla.” Rispose sempre con voce bassa Bofur ma inarcando le labbra in un sorriso divertito.

“Sono solo piccoli.” Ridacchiò di rimando scuotendo la testa.
Bofur di tutta risosta alzò le spalle “Sarà ma io preferisco sei orchi a sei bambini: in quell’età soprattutto!”

“Tu non hai figli Bofur?”

“Ho dodici nipoti, credo che di mocciosi io ne abbia fin troppi in giro per averne anche dei miei, e poi mi sento piu’ uno spirito libero mia signora, la vita matrimoniale non farebbe per me.”

L’affermazione le strappo un sorriso e puntò nuovamente lo sguardo sulle schiene dei cinque nani che camminavano di fronte a loro, in particolar modo su quella di Lòni, che sovrastava sia in chiasso che in altezza tutti e cinque: se ci fosse stato un capitano all’interno di quella compagnia di bambini probabilmente sarebbe stato lui, non era difficile infatti capire perché Nìm lo guardasse in quel modo o perché anche in quel momento le tenesse la camicia stretta nella mano.
Involontariamente il pensiero le ritorno nuovamente alla sera prima, a come per la prima volta aveva visto sorridere il re sotto la montagna, quando aveva sentito cosa gli avesse raccontato Lòni, di come sarebbe voluto essere come lui.

“Lo stimano molto sai?” Esordì senza pensarci o riuscire a controllare i suoi pensieri, infatti Bofur inarcò un attimo le sopracciglia confuso da quella dichiarazione

“Chi intendete?”

“Thorin, Re Thorin” Si corresse velocemente mordendosi l’interno guancia e a quel punto Bofur comprese e sorrise malinconicamente con il lato della bocca spostando lo sguardo in avanti verso i cinque bambini che li antecedevano, mentre piccoli frammenti di ricordi di un’avventura ormai lontana gli si paravano di fronte alla vista.

“In molti lo fanno, compreso il sottoscritto.”

Di nuovo sentì il cuore stringersi leggermente, la situazione le ricordò il primo giorno che era entrata così in profondità nella montagna: si era sentita così piccola e insignificante circondata dalle enormi mura verdi e blu, e anche in quel momento la sensazione fu piu’ o meno la stessa anche se il contorno e la ragione erano nettamente diversi. Quel giorno era Balin che la scortava verso la sala del trono, ma la sensazione che provò a quelle parole del nano di fianco a lei, fu la stessa che provò quando Balin  il tono della voce di Bofur era lo stesso quando si riferì a Thorin.

“E’ il re, non hai bisogno di spiegarti oltre, comprendo.”

Alle sue parole però Bofur scosse la testa mentre baffi gli si arricciarono brevemente a causa di un fugace sorriso, sposando il suo sguardo da di fronte a lui verso di lei.

“E’ più di questo.” Cominciò stringendo lievemente le labbra, spiegarsi sarebbe stato piu’ complicato del previsto, soprattutto dopo quello che era successo, dopo come la battaglia era finita.

Ghìda lo guardo, sentendo che c’era dell’altro e infatti Bofur prese un respiro e rizzò leggermente la schiena.

“E’ sempre stato il nostro re, da quando avevamo poco o nulla.” Confessò facendo aprire leggermente la bocca a Ghìda che spostò lo sguardo verso Bofur che ora fissava piccoli nani, annuendo fra se e se come per confermare un pensiero, o un ricordo.  “Ci ha costruito una nuova vita, nell’ Ered Luin, ha lottato per riprendere casa nostra, quando ormai ci eravamo abituati a non averla piu’ a non immaginarla neanche più’. Non avevamo nulla a cui appartenere, lui ce lo ha ridato, ci ha donato la speranza di poterlo riavere e…” Si bloccò per un secondo, Bofur dovette per la prima volta dopo giorni controllare il suo viso, e le sue emozioni. “Ha sacrificato tanto per ottenerlo.” Terminò frettolosamente, come se parlare ora facesse quasi male.

Ghìda era rimasta in silenzio ascolando il nano parlare trattenendo con meno fermezza la mano della piccola nana accanto a lei, mentre faceva suo il turbamento di Bofur e seguì poi il suo sguardo che adesso era puntato verso i piccoli nani di fronte a loro, che si spintonavano e ridevano spensieratamente.

“Capite adesso? Quei bambini gli devono tutto, come tutti noi.”

Finì dicendo le ultime parole non con tristezza, abbozzando invece un sorriso leggero.
  

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

La voce di Thorin le rimbombò nuovamente nella testa, e il suo viso le si parò davanti come un’illusione: sotto quel cielo, guardata da quegli occhi le parole le si erano fermate, così come i pensieri, o tutto il mondo intorno a lei se è per questo.
La domanda l’aveva talmente scossa che in quel momento sarebbe solo voluta fuggire, ma come ormai era abituata, invece che voltarsi dall’altra parte, si ritrovava sempre piu’ vicino a Thorin Scudodiquercia. Cosa gli avrebbe dovuto rispondere, che risposta si aspettava da lei? E poi di nuovo quella forza, quella corda al ventre che la tirava facendola satellitare verso di lui, quel calore, quel bisogno di essergli accanto, era una brama che mai aveva provato prima di allora.
In quell’attimo capii cosa volesse intendere Thorin, da come ne parlava Bofur, dal dolore con cui ne parlava, con la malinconia, Thorin probabilmente quella sera aveva compreso appieno la sua domanda, cosa volesse dire non appartenere a nulla.
Per un secondo le parve di risentire il freddo della notte attenuato solo dal calore del suo mantello scuro, e il suo profumo che le se insinuava nelle narici, mentre il re sotto la montagna sorrideva sommesso ignorando il suo sguardo.

Senza rendersene conto si ritrovo a sorridere guardando verso il basso e la cosa non sfuggì al nano accanto a lei, che seguito del suo eccessivo mutismo si era girato nella sua direzione, notando il sorriso sommesso, quasi sognate.
“Perché sorridete?”

Alla domanda il sorriso le si ampliò ancora un po' ma venne irrimediabilmente calato da un sospiro e uno movimento della testa.

“Solo un pensiero.”

Gli rispose abbassando nuovamente lo sguardo colta in flagrante e lui non ebbe bisogno di chiedere oltre, gli lanciò una breve occhiata e continuò a camminare spedito lasciandola ai suoi pensieri; cominciarono a percorrere un corridoio rialzato senza ringhiere, facendo diventare il passo sempre meno sicuro e sempre piu’ attento. Lo sguardo le si spostò repentino sui cinque piccoli nani e istintivamente portò piu’ vicino a se Mar che invece così come Bofur sembravano trovarsi completamente a loro agio in quella situazione.

“State pronta.” La mise in guardai Bofur continuando a camminare oltre il lungo corridoio.

L’osservazione la fece accigliare leggermente ma quando ripresero il passo imboccando questa volta un enorme scala che scendeva verso il basso riuscì perfettamente a capire la constatazione che le aveva rivolto: una vampata di calore cominciò ad alzarsi dal fondo, facendole inspirare profondamente, quando misero piede in un lungo corridoio illuminato da una luce calda.
Diverse porte che si aprivano da tutti i lati: sale con utensili, materiali, casse star colme di oro e carbone che riempivano ogni angolo, e infondo al lungo corridoio un’arcata piu’ grande delle altre da dove fuoriusciva un vociare molto alto e diversi stridii e rumori di martelli che battevano sui metalli.

Appena il piccolo gruppo scorse la gigantesca porta lei non ebbe neanche il tempo di digli qualcosa che questi sfrecciarono, guidati da Fàrim e Lòni che si lanciarono al lor interno saltellando, seguiti repentinamente d Nìm, Drel e Trel, Così come la piccola Màr che appena notò i compagni correre le lascio la mano rincorrendoli oltre la soglia.

Vemu’ Ghìda.”

Le urlò salutandola oltre la soglia sorridente prima di immergersi nel calore che emanava la sala illuminata dal fuoco; anche Bofur oltrepassò l’uscio lasciandola dietro di alcuni passi, perché i suoi si erano fermati al confine della sala e del corridoio; osservo il suo interno da di fuori, un ennesimo brivido le attraversò la schiena, mentre il cuore le si chiuse improvvisamente in una morsa.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”

 

Inspirò profondamente e drizzando la schiena e trattenendo le carte ora con entrambe le mani strette al petto, entrò con passo cauto seguendo il nano di fronte a lei rimanendo indietro di pochi passi continuando a sorreggere le carte strette al suo petto; questo si alzò e si abbassò in un enorme sospiro di stupore appena poté osservare all’interno l’immensità della fucina scavata nelle pareti grezze della montagna: sei immense forge erano allineate al centro del salone, il fuoco sbuffava e ruggiva dalla loro parte bassa illuminando la sala di una luce calda e di un calore soffocante che da subito le creò piccole gocce di sudore dietro la schiena.

Gli enormi mulini ad acqua incisi nella roccia, che dovevano servire al funzionamento delle catene di montaggio, erano spaccati in due, ma diverse carrucole di legno permettevano all’acqua di affluire in dei secchi di emergenza per spegnere eventuali fuochi o raffreddare il ferro e i metalli preziosi che invece decine e decine di nani stavano lavorando al meglio delle loro possibilità in delle piccole postazioni che fungevano da officine improvvisate intorno alla sala e in mezzo alle enormi fornaci naniche.

Ma gli occhi di Ghìda non furono gli unici che si spalancarono nella sala, quando infatti varcò la soglia della fonderia, alcuni battiti sulle incudini rallentarono, diversi occhi si puntarono sulla figura fasciata di rosso che entrava nella sala con la schiena dritta e posata tenendo ,rigida, carte su carte tra le sue braccia.  Diversi capi si abbassarono tremanti in segno di rispetto, altri rimanevano ben dritti studiandone il passo, o a osservare le orecchie a punta che spuntavano, come un marchio indelebile sul suo corpo, da dietro i capelli decorati con diversi piccoli pendagli dorati quasi su ogni ciocca, che nascondevano delle trecce sporadiche  piu’ o meno grandi.
Ghìda manteneva lo sguardo fisso in avanti ripercorrendo precisamente i passi del nano di fronte a lei, percependo gli occhi su di lei come aghi le si infilavano nella carne, sentendoli quasi come se fossero reali, facendole rizzare ancora di piu’ la schiena per mascherare il pesante peso che stava cominciando a sentire addosso.

“Finalmente Bofur dove ti eri ca-…”

La voce profonda di Dwalin, si levò da infondo alla sala sovrastando i rumori di martelli e rimbombi, facendo alzare lo sguardo a Ghìda e puntarlo dietro le forge vicino ai mulini in frantumi.
Lì infatti, intorno a un grande tavolaccio di legno, il massiccio nano che si era rivolto a Bofur, si alzò con la schiena poggiandola puntando gli occhi su di lei, accanto a lui, altri due nani: uno imponente quanto lui con la barba bianca e nera e una lunga cicatrice sulla testa e un altro che aveva già avuto il piacere di incontrare, Balin, che incrociando il suo sguardo le indirizzò un breve segno con la testa.
Una quarta figura però si mostrò lentamente, ca ogni passo che compiva, la penombra la celava, fino a da questa non uscirono però due occhi azzurri che si incatenarono ai suoi bloccandole il passo.

“Scusate ragazzi, ho dovuto chiedere una mano.” Urlò Bofur verso il tavolo non prestando attenzione agli occhi dei tre ancora puntati dietro di lui.

“Sapete nessuno di voi è venuto quindi…” Ma quando si voltò verso Ghìda le parole le gli morirono in bocca notando come il suo viso era puntato verso Thorin che era chinato sul tavolo di legno accanto a Dwalin, così come quello di Thorin era puntato verso di lei.
 
A Ghìda manco il fiato quando il suo sguardo incrociò quello del re a diversi metri da lei, piegato con gli avambracci sul tavolaccio con la camicia blu macchiata di sudore e i capelli tirati indietro, che la osservava con la bocca socchiusa, come se dovesse dirle qualcosa, ma nulla uscì dalla sua bocca: Thorin non riuscì a dire nulla. Come era successo la notte precedente,  tutto il mondo intorno a lei si sbriciolò, rimanendo soli nel caldo cocente della forgia solo lei e il Re Sotto la Montagna che non distoglieva lo sguardo da lei. Qualcosa però era cambiato, la guardava così intensamente che senti come se l’anima le si fosse spezzata nel petto.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

Al risentire quella frase riprese possesso di sé e prontamente piegò la testa in avanti a che lui ricambiò con un breve cenno del capo prima di distogliere te lo sguardo re- indirizzandolo verso i progetti che stava studiando fino a poco prima.
Nessuno l’aveva mai guardata così, era per questo che non riusciva a reggere mai i suoi occhi nei propri, in cuor suo aveva una paura profonda che il la sua espressione mutasse in altro, in un’espressione che sarebbe stata capace di reggere da tutti i nani della montagna, ma che sapeva perfettamente non sarebbe stata capace di reggere da lui.

Lo scambio di occhiate però non era passato inosservato, Dwalin infatti ne aveva approfittato per scrutare Thorin, il modo in cui l’aveva guardata, come si era rizzato appena la piccola voce della ragazzina aveva chiamato il nome della mezz’elfa per salutarla al bordo dell’ entrata, voce che a lui arrivò poco chiara ma a Thorin molto bene: tutto comincio a uniformarsi nella sua testa, i vari tasselli cominciavano a prendere il loro posto.
Quella mattina, si trattava davvero di lei.

“Ho avuto bisogno di una mano.”
Continuò Bofur sorridente verso i suoi compagni poggiando finalmente le carte che aveva in mano sul tavolo dove erano tutti raccolti e voltandosi di nuovo verso di lei che ancora leggermente scossa avanzava verso il tavolo.

Balin era rimasto in silenzio, studiando i movimenti di Thorin, il modo in cui l’aveva osservata quando era entrata nella stanza, o come si era tirato su appena l’aveva sentita, il piu’ completo eclissarsi dalla situazione, riconcentrandosi di nuovo verso le mappe sotto di lui,  era un comportamento che non era solito al Thorin che conosceva, come quello che aveva avuto poche ore prima, di fronte al padre della giovane che ora si stava avvicinando a loro. Lanciò un’occhiata verso suo fratello che ora aveva lo sguardo basso verso il viso di Thorin piegato sulle pergamene, probabilmente pensando quello che già immaginava, se non aveva capito addirittura di piu’.
Dovette sbattere gli occhi prima di guardare la ragazza di fronte a lui di nuovo e rivolgerle un caldo sorriso seguito da un inchino che cercò di far sembrare il piu’ naturale possibile, non riuscendo però a far sparire dalla sua testa le parole che aveva sentito quella mattina, infatti il suo nervosismo si notò probabilmente dalla poca naturalezza nella sua voce.

“Mia signora è sempre un piacere incontrarvi, anche in situazioni insolite come questa.”

“Anche per me signor Balin.” Gli sorrise nervosamente sentendo gli aghi nella pelle, provocati dagli sguardi esistenti sempre piu’ flebili, neanche la presenza di Thorin riuscì a fermarla, anzi forse li resero anche piu’ dolorosi.

“Oh non penso vi siate mai incontrati, lasciate che vi presenti mia cara ragazza, mio fratello, Dwalin.”

Si voltò verso il nano che poco prima aveva chiamato Bofur ad alta voce: lei quel nano già lo aveva visto, era quello che era venuto a chiamare Thorin nella sala del trono, era ancora piu’ imponente da vicino e anche più minaccioso.
Titubante gli rivolse breve cenno con la testa al quale lui rispose scrutandola e la salutò di risposta con un leggero movimento della testa serrando la mascella, suscitando un respiro nervosamente al fratello e poi spostò lo sguardo verso il secondo nano con il ciuffo bianco accanto a lui.

“Bifur, mia signora.” Lo anticipò invece il nano accanto a lui facendo un breve inchino anche lui però abbassando lo sguardo verso il basso.

“Mio cugino!” Esordì Bofur nella situazione alquanto pesante che si era venuta a creare, cercando di alleggerire un po' la tensione che correva per la fucina, sentendosi tremendamente in colpa, notando come dalla spensieratezza con cui si era comportata fino a pochi minuti prima, era passata a tornare il blocco di pietra che era entrata nella sala del consiglio dopo la battaglia e non fu difficile intuire il perché visto come le martellate si fecero meno frequenti.

“Datemi adesso.” Allungò le braccia gentilmente per prendere le pergamene che teneva ancora tra le braccia, cercando nuovamente di metterla a proprio agio. “Vi devo ancora ringraziare.“

Lei scosse la testa leggermente verso Bofur, forzando un sorriso per tentare di nascondere, per quanto possibile ciò che provava in quel momento: era un gioco a cui aveva imparato a  giocare da molto tempo.
“Come ti ho già detto prima mi spiace solo non aver fatto di piu’.”

Ripeté compiendo un breve inchino con la testa verso Bofur che la guardò crucciando le sopracciglia, ma che non poté nascondere un lampo di tristezza negli occhi a cui lei non batte ciglio.
 
Notò però il nano piu’ grosso dei tre, Dwalin, tenere gli occhi fissi dietro di se, studiando con oggi gravosi, qualcosa dietro le sue spalle: d’un tratto un brivido freddo le attraversò la schiena e tese ancora di piu’ le orecchie, i battiti sulle incudini erano diminuiti sempre di piu’ quasi a diventare un tenue sottofondo al contrario dei mormorii  che erano diventati sempre piu’ alti, e sentì il suo nome sussurrato in alcuni meandri indecifrabili delle fucine.  La tensione che era riuscita a controllare sino a quel momento le se riversò addosso, non riuscì neanche ad abbozzare un sorriso, solo ad abbassare lo sguardo confusa prima che senti chiaramente il suo nome pronunciato dietro di lei.

In pochi riuscirono a captare il cambio di portamento, ma quello a cui non sfuggì fu Thorin che strinse con forza i bordi del tavolo sotto di lui serrando la mascella e Balin che notò le mani della futura regina strette fermamente al lato della gonna: un gesto che l’avrebbe sempre tradita.

Le mani  le andarono nuovamente verso il tessuto del vestito mentre buttava giù il groppo che le si era formato nella gola e facendo un respiro profondo rizzò nuovamente la schiena sorridendo nervosamente verso il gruppo di nani di fronte a lei

“Non credo io possa attardarmi oltre credo, scusatemi.”

Mormorò cercando di abbozzare un misero sorriso, che fu però tradito dagli occhi di nuovo freddi come il ghiaccio, fece un  breve inchino con la testa e , verso Thorin che era ancora con il capo chino verso le carte, non la degno neanche di uno sguardo, portandola ad abbassare ulteriormente lo sguardo, incapace di poter nascondere in quel momento il senso di vergogna per se stessa. Balin le sorrise tristemente provando a dirle qualcosa , ma lei scosse la testa per fermarlo, non sarebbe servito a nulla.

Dwalin lanciò un’occhiata alla mano di Thorin, chiusa a pungo sul bordo del tavolo come quella mattina, mentre il viso continuava a indugiare verso il basso no alzandosi neanche quando la mezz’elfa si girò su se stessa per andarsene e lasciare la sala, ma un movimento improvviso di Thorin gli catturo di nuovo lo sguardo: aveva alzato la testa e la stava guardando ancora in quel modo.

“Al calar del sole, aspettatemi nella sala del trono.”

La voce che si alzò piu’ alta delle altre bloccò il fiato a tutti i presenti alla tavola e fece voltare i loro sguardi tutti verso di Thorin, compreso quello di Ghìda che fermò i suoi passi voltandosi verso il re.

“Non tardate.” Aggiunse abbassando di nuovo lo sguardo

A Ghìda non gli uscì neanche una parola chino solo leggermente il capo annuendo, prima di continuare per la sua strada, senza voltarsi indietro, neanche quando i mormorii si alzarono ancora di piu’ e gli sguardi le pesavano sulle spalle ancora piu’ prepotentemente mentre varcava la soglia della fucina, seguita dallo sguardo dei presenti.

“Se avete finito di perdere tempo abbiamo un lavoro da svolgere.” Ruggì ad alta voce Thorin, così che tutti nelle fornaci lo potessero sentire, infatti alle sue parole tutti nani tornarono operosi e fecero cessare il loro mormorio. “Bofur apri le carte, Bifur tu vai a chiamare gli altri e tu pensa agli attrezzi, e Balin… tu vieni darmi una mano, dobbiamo muoverci” Ordinò secco tirandosi su dal tavolo serrando la mascella e camminando  a grandi passi  oltre le macerie dei mulini, verso una delle celle ai lati della stanza.

Balin annuì con un cenno del capo, prima di lanciare un occhiata verso suo fratello che ancora con le braccia incrociate al petto seguiva la mezz’elfa che usciva dalla fucina, ma appena venne notato, con la coda dell’occhio, ricevette di risposta da Dwalin un’occhiata colpevole: già colpevole, perché lui poche ore prima, così come il fratello, capii che per quanto i nani di Erebor potessero disprezzare la futura regina sotto la montagna, lei nella sua vita aveva imparato a disprezzare se stessa tanto quanto loro, se non di piu’, però di una cosa era sicuro piu’ di ogni altro, era sicuro in quel momento che Thorin gli aveva celato la verità e stata continuando a celarla, distogliendo lo sguardo quando notato, o evitando le domande che gli venivano poste: in quei pochi istanti in cui lui l’aveva guardata, aveva rivisto il Thorin che conosceva, da tutta una vita, aveva rivisto uno scintillio che mai si sarebbe immaginato di poter rivedere risplendere nei suoi occhi.
Tutte le risposte che tanto aveva agognato quella mattina gli si palesò davanti e, come aveva pensato lui non poteva piu’ far nulla.









I minuti passavano e le luce arancio-rossastra che entrava dall’enorme finestra in fondo alla sala del trono illuminava sempre in modo piu’ flebile la stanza, facendo scintillare i piccoli pendagli nei capelli e illuminandole il lato del viso mentre camminava su e giù a piccoli passi davanti al trono vuoto, ma che per lei era già abbastanza per renderla irrequieta di quanto si sarebbe mai aspettata.

Le ultime ore erano passate talmente tanto lentamente che ogni minuto le sembrò un’era.
La richiesta di Thorin le era sembrata così assurda, non l’aveva mai convocata, non in modo così ufficiale, mai lì in quella stanza, dove si erano rivolti l’uno all’altra per la prima volta, dove per la prima volta si sentì, dopo tanto tempo, fragile come il vetro… come la notte precedente.
Il ricordo di quella sera tornò prepotentemente a farle visita: l’odore di pini e fumo le tornò alle narici, come il calore di quel mantello scuro che ora giaceva sul tavolo in camera sua, ripenso al suo sguardo, al naso acuto, ai lineamenti duri e i capelli scuri che andavano in contrasto con gli occhi tanto chiari.
Nella sua testa il confine tra dovere e volere si era fatto sempre piu’ confuso: non sapeva piu’ se quello che faceva lo faceva perché doveva o perché voleva. Se ogni suo gesto fosse dettato dall’onore e da quello che si aspettavano tutti da lei o dalla sua volontà. Lei era una guerriera, lo era sempre stata, e lo era tutt’ora, ma ora la sua guerra non era con qualcuno, non era contro le voci che la circondavano, contro la presenza inquisitoria di suo padre, contro la sua vera natura,  ma contro se stessa, con le sue emozioni che in quei giorni si erano andate a confondere con i suoi obblighi.
Guidate di vita propria la sua mano si diresse verso il braccio, stringendolo, come se quel piccolo gesto, verso le rune tatuate, le potesse dare un po' di forza che mancava, a ricordarle chi fosse, cosa era.
 

“E a cosa appartiene il vostro?”
 

Fece un grande respiro per cancellare di nuovo quella domanda dalla testa, passando lo sguardo altrove, ma che poi finì irrimediabilmente verso il trono e poi ancora piu’ su, sopra di esso: l’Arkengemma era al suo posto.

Il gioiello del re.

Il cuore della montagna.

Un brivido le attraversò la schiena allo scintillare della gemma bianca, c’era qualcosa che l’attirava profondamente, il suo bagliore, la sua superfice liscia, non se lo seppe spiegare, ma così tanta era la bramosia, tanta era il terrore che le si instaurò nel petto quando la fisso troppo a lungo. Un dolore così reale che si dovette portare una mano verso il petto per la fitta che al attraverso, per un attimo vide, oltre quello scintillio, un reame scuro, pieno di dolore e rimorsi e di desiderio, quello che aveva sentito lei fino a poco fa.

Un rumore di passi dietro di lei la fece voltare  verso il lungo corridoio che portava fuori dalla sala del trono: Thorin era al limite della stanza, non avanzando oltre: la camicia, sporca e tirata su fino alle maniche, così come qualche macchia di fuliggine sulle braccia e il viso leggermente arrossato, lo avrebbero fatto passare per un qualsiasi nano, se non fosse stato per il suo portamento, temprato dal tempo e irrigidito dalle responsabilità verso il suo popolo e verso se stesso.
Come un rito Ghìda sui abbassò lievemente per chinarsi cercando in tutti i modi di evitare lo sguardo del re, ma fu interrotta da un tono autoritario che le fece rizzare di nuovo la schiena.

“Seguitemi.”
Le ordinò secco e con un gesto netto della testa le indicò l’uscita della sala indugiando  però per un istante, prima su di lei e poi su un qualcosa dietro di lei, molto piu’ in alto e molto piu’ lucente.

Non aggiunse altro, si voltò  su sé stesso cominciando a camminare verso dove era arrivato lei si morse leggermente il labbro e cominciò a seguirlo, a passi lenti, e incerti; sembrò quasi che Thorin se ne accorse, infatti si girò nuovamente, questa volta solo con il capo continuando a grandi falcate giù per la prima rampa di scale che si trovarono di fronte.

“Voglio mostrarvi una cosa.” Mormorò guardandola nello stesso modo indecifrabile con cui l’aveva guardata dentro le fucine, che nuovamente le fece mordere l’interno della guancia e piegare la testa in avanti annuendo.

“Molto bene.” Mormorò cercando di rimanere di nuovo il piu’ distaccata possibile, anche se di nuovo, di fronte a lui, la sfida le parve estremamente ardua.
 Il passo di Thorin era veloce tra la sale e i corridoi di Erebor dava l’impressione, di conoscerne ogni roccia, ogni scala, ogni stanza ogni angolo nascosto dall’ombra: e così era. Avrebbe potuto percorrere quella vaste sale ad occhi chiusi e non perdersi, avrebbe potuti perfino scolpirla di nuovo nella roccia se glielo avessero chiesto.

Lei lo seguì attentamente, incapace di rivolgergli la parola, incapace di chiedere o di aggiungere altro, mentre le scale e i corridoi si facevano sempre meno affollati e ripidi , scendendo sempre di piu’ nella profondità della montagna.

“Dove stiamo andando?”

Non le rispose, continuando con passo deciso a scendere ancora di piu’ nella profondità della montagna, ad immergersi in quell’abisso che si era tante volte si era fermata ad osservare da quando era nero come la pece fino a quando cominciò di nuovo a scintillare di luce dorata.
La roccia si faceva meno levigata, le pareti sempre piu’ grezze, le sembrò di essere scesa nelle profondità della terra, anche le torce scarseggiavano, solo piccole fiaccole illuminavano la via. Thorin svoltò verso un corridoio piu’ ampio degli altri, dopo aver sceso un enorme scala, questa volta non sospesa, ma scavata su al lato della  parete della montagna, senza corrimani o barriere di futile oro.
Ghìda la portò giù lentamente, guardandosi intorno pretendendo la compostezza che aveva mantenuto faticosamente fino a quel momento.
Oltre la fine delle scale, di fronte lei, Thorin si fermò di colpo: un enorme arcata si apriva nella nuda roccia, la pietra irregolare, non aveva decorazioni, ne fregi dorati che ne sottolineavano l’importanza, oltre questa un tunnel buoi e da dove proveniva un’aria leggermente piu’ fredda di quella che c’era al di fuori. 
A incorniciare l’entrata solo sette stelle poste su tutta la lunghezza dell’arco su cui erano incise delle antiche rune, ormai quasi cancellate dal susseguirsi del tempo:

“Kashelkel mainsisî zurumka sullu khuzdu Azsâlul'abad ai Sigin-tarâg”

Si fermò sotto di esse, guardando vero l’alto, cercando di decifrarle meglio che poteva, ma erano antiche, molto antiche, le rune erano incise rudemente e si andavo a confondere l’una con l’altra. Strinse gli occhi, tentando di riuscire almeno a distinguerle ma non ebbe il tempo di decifrarne neanche metà che Thorin si bloccò oltre la porta guardandola in attesa che muovesse qualche passo.

“Non abbiamo molto tempo.” Sottolineò  con un tono che non ammetteva repliche, ma anche questa volta  prima di proseguire da solo nell’oscurità non aspettandola, almeno così credeva, perché Thorin rallentò il passo appena lei velocizzare il suo per raggiungerlo.
Ghìda lo seguì cautamente senza obbiettare, grata della poca luce che ancora le permetteva di vedere la sua schiena larga, ma durò poco perché il buio scendeva prepotentemente su di loro: l’oscurità aumentava sempre di piu’, così come l’aria che diventava sempre piu’ pesante, mentre scendevano per il lungo corridoio a lei sconosciuto, ma che per Thorin era tanto familiare tanto da percorrerlo senza luce o impegno alcuno.
Il pavimento sotto i suoi pedi divenne improvvisamente piu’ irregolare e scosceso, l’aria piu’ fredda e umida, mentre in alternanza ai passi suoi e del re si andavano a sentire in lontananza piccole gocce che si infrangevano sulla roccia o che cadeva a vuoto e facevano dei rumori sordi in lontananza.  

“Ferma.” Le ordinò secco, la sua voce si propagò come un eco, tutto intorno a lei mentre l’oscurità li circondava era cosi densa da renderla incapace di vederlo, l’unica cosa che la rendeva certa che fosse ancora lì con lei era il suo respiro lento e profondo e il tenue calore che riusciva a percepire di fronte a lei.
Un leggero sussulto le uscì dalle labbra infatti quando la presenza di Thorin, che prima era così vicina a lei, si allontanò di colpo, lasciandola sola nel buio sconosciuto in cui l’aveva portata; si resse alla parete umida accanto a lei, assottigliando lo sguardo sperando di scorgere  qualcosa, ma non ne fu capace. Riuscì solo a ditinguere un rumore sordo poco lontano da lei, seguiti da uno strusciare d lo strusciare dei suoi passi ne luogo angusto dove si trovavano. Piccoli rumori acuti susseguirono facendole aguzzare gli occhi gli occhi cercando di capire cosa stesse succedendo, ma la figura di Thorin rimaneva celata nell’ ombra, fino a che dopo un paio di battiti secchi, una luce calda di una torcia illuminò l’ambiente,  e rivelò quello che la circondava facendola sussultare lievemente incredula a ciò che le si mostrava davanti.
Si trovavano in una caverna, sotto la Montagna Solitaria, le pareti scure come la roccia della montagna la circondavano e anche se illuminati flebilmente dalla luce della torcia, le varie sfumature di verde si alternarono piu’ scintillanti che mai, inumidite dall’acqua che bagnava la roccia.

Pochi metri sotto di loro, un enorme lago sotterraneo si estendeva per centinaia di metri, tanto oscuro da sembrare quasi nero così come l’oscurità oltre questo: anche con la flebile luce della torcia, riusciva  solo a distinguere nella penombra l’inizio delle acque scure ma non la loro fine, così come l’inizio ma non la fine di centinaia di stalattiti che ,come lame ,puntavano verso l’acqua.

“Che posto è questo?” Riuscì solo a sussurrare distogliendo brevemente lo sguardo e puntandolo verso Thorin che  le dava le spalle mentre incastrava nella roccia la loro unica fonte di luce, prima di voltarsi verso il bacino scuro sotto di loro.

“La fonte da cui arriva l’acqua della montagna.”

Ghìda lo guardò ancora piu’ confusa incaricando le sopracciglia.
“Perché vi avete portata qui?”

Alla domanda Thorin si spostò indietro di qualche passo e con un gesto della testa la invitò a seguirlo di nuovo: infatti inaspettatamente, intagliata nella roccia, c’era un’ennesima scala che scendeva dal lato dell’altura su cui si trovavano, che li avrebbe portati alla stessa altezza specchio d’acqua.
Si lasciò precedere nella discesa, la mano del  re mentre scendeva le scale ripide accarezzava leggermente con la punta delle dita la nuda roccia accanto a sé, come per ripercorrere un ricordo, per sentirlo il piu’ reale possibile.
Arrivati all’ultimo gradino uno spiazzo si manifesto di fronte ai suoi occhi:  il pavimento lavorato come quello delle sale superiori, appiattiva la roccia dapprima scoscesa, si immergeva nell’acqua scura scomparendo sotto di essa scura creando una piccola insenatura simile a un golfo.
Il re si fermo di fronte a lei allungando il braccio leggermente per farla fermare, prima dell’ultimo gradino della scala, interrompendo anche i suoi passi, che se non fosse stato per l’interruzione brusca del re avrebbero continuato verso lo specchio d’acqua.

“Guardate.”
Le mormorò questa volta Thorin, il suo tono si era addolcito leggermente mentre puntava lo sguardo verso la fine della grotta, lei seguì il suo sguardo verso il punto indefinito e come per incanto, l’ultimo raggio di sole del tramonto, attraversò un piccolo foro nella roccia infondo al buio infinito di fronte a loro, filtrando la luce all’interno della grotta, che come per un incanto, si illuminò improvvisamente.
Il bagliore andò a rimbalzare su tutte le vene d’oro che arricchivano le pareti  della profondità della caverna e che cingevano come serpenti le stalattiti sopra le loro teste. Lo spettacolo che le si parò davanti fu una delle cose che non dimenticò mai nella vita: le vene d’oro, adesso illuminate e lucenti riesplodevano sul pelo dell’acqua limpida, creando uno specchio preciso di quello che succedeva sopra di lei, illuminando con piccole chiazze e scintilli lo specchio d’acqua che da nera era diventata blu come notte.

Come il riflesso delle stelle sul mare.

La bocca le rimase spalancata mentre muoveva dei passi incerti verso l’acqua, superando Thorin ancora fermo sulle scale, non preoccupandosi neanche di alzare il vestito tanto che si bagno leggermente a causa della pietra umida sotto di sé.

“È bellissimo.” Sussurrò incantata passando velocemente lo sguardo sui coni di luce che guizzanti si andavano a infrangere sulla superficie limpida dell’acqua, era sicura che se si fosse sporta un altro po' ci si sarebbe persa, inseguendo le piccole pagliuzze dorate.

Di fronte a un tale spettacolo però  ma il suo animo a differenza di quelle acque era agitata, un tumulto di domande e di incertezze. Il cuore le cominciò a galoppare nel petto, mentre un altro tassello della sua corazza andava a infrangersi nell’oblio dei sentimenti contrastanti che provava in quel momento.

No, non poteva aver ricordato, non poteva davvero pensare che lui avesse potuto ricordare una frase, una confessione alla luce delle stelle, nel pieno della notte, il desiderio infantile di una reietta verso un bisogno che mai aveva colmato, che aveva sempre agognato ma mai stretto tra le mani.  Eppure, le sembrò davvero l’oceano, se non qualcosa di piu’ bello, qualcosa di piu’ puro e prezioso, qualcosa che, in quel momento le sembrò la cosa piu’ bella che le fosse mai capitata davanti nella vita.

Scosse la testa confusa guardando verso il basso crucciando lo sguardo lo alzò verso il profilo del re ancora puntato verso la fine della caverna.
“Perché?” Riuscì solamente a chiedere mettendo da parte tutto l’orgoglio, tutto il dolore, tutti i dubbi e le incertezze, dando posto a un qualcosa che mai aveva provato, alla speranza.

“Perché avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto per me… tanto tempo fa.” Ammise addolcendo la voce Thorin e  incrociando le braccia al petto, e camminò piu’ vicino a lei, avvicinandosi lentamente, lottando contro se stesso per non guardarla, per non dare retta a quella sensazione nel petto, per non ritrovarsi come quella mattina in balia delle sue emozioni.

Lo sguardo di Ghìda rimaneva ben fisso sul profilo del re di Erebor ancora confusa da quello che stava succedendo.

“Non ho il diritto di pretendere che voi mi rispondiate che la vostra casa sia Erebor, ne posso pretendere che lo diventi ma vorrei che la sentiate tale, per quanto sia in mio potere.” Confessò Thorin spostando lo sguardo sull’acqua ancora illuminata dei piccoli scintillì.

A quelle parole il cuore le si fermò nel petto, e le mani che prima stringevano il vestito in modo ferreo si sciolsero, come neve al sole, così come tutte le sue viscere, che fino a poco prima erano ingarbugliati di domande e dolore. Tutta la disperazione, le angosce si andarono a distendere sotto i raggi flebili dell’roro che andavano a scomparire facendo ritornare l’oscurità.

Tra gli occhi che gli bruciavano e quelli di Thorin che evitavano il suo sguardo, un altro blocco del muro che aveva creato per anni, che si era ripromessa di non far mai cedere, era crollato, insieme a tutte le vane speranze che si era creata per seppellire la dura verità  che nascondeva  e ricopriva da quando lo aveva visto la prima volta nella sala del consiglio.
Per quanto assurdo e fuori da ogni ragione, la forza invisibile che le aveva stretto le viscere per quelle settimane le suggerì la risposta alla domanda della sera prima: confessarlo a sé stessa sarebbe stato ancora piu’ complesso e ammetterlo ad alta voce, un vago sogno.

“Potete venire qui quando volete.” Sentenziò ancora non guardandola, incapace di guardarla, incapace di fermare il desiderio di starle piu’ vicino, di dirle altro, di toccarla.

“Io…”

“Non donatemi il beneficio dei vostri ringraziamenti, non ne ho il d-“

“Grazie.” Lo interruppe prima che potesse finire la frase la voce piu’ dolce ma spezzata che Thorin avesse mai sentito. Thorin sobbalzò e lentamente voltò lo sguardo verso Ghìda che lo guardava con gli occhi leggermente lucidi, mentre un sorriso tanto lucente quanto le stelle gli fece sussultare il petto, mandando in malora tutti i suoi buoni propositi.
“Grazie Thorin.”
 


“E a cosa appartiene il vostro?”
“A voi.”










La flebile luce dell’alba appena sorta fece capolino dalla finestra, sbattendogli dolcemente sugli occhi, ridestandolo lentamente dal suo sonno, seguito da un profumo da lui sconosciuto ma sempre piu’ vicino.
Un improvviso peso leggero intoro ai fianchi e sul petto lo destò, facendogli aprire lentamente gli occhi che fino a quel momento si beavano della luce del mattino: distesa sopra di lui, infilata sotto le coperte, si trovava Ghìda. Il petto poggiato sul suo, con i goti rosse e i capelli che le incorniciavano il viso, che si reggeva con le mani poggiate sul suo petto mente il peso del suo corpo era ben percepibile su di lui cosi come le sue gambe strette intorno ai suoi fianchi.

“Buongiorno.” Gli sussurrò a pochi centimetri dal viso, disegnando piccoli cerchi con il dito sulla sua scapola per poi risalire fino al collo lentamente, accarezzandogli la barba per poi spostarsi verso la mascella. Non riusciva a muovere un muscolo, osservandola come se fosse una visione: perché quello doveva essere, per forza lo doveva essere.
Con lentezza Ghìda adagiò la fronte sulla sua indugiando qualche secondo guardandolo negli occhi prima far sfiorare i loro nasi e avviarsi ancora di piu’ alle sue labbra.

“Tu non sei reale.” Mormorò Thorin quando le sue labbra stavano per sfiorare le proprie e tirandosi indietro velocemente impedendoglielo.

Lei di tutta risposta si fece ancora più’ forza sulle mani guardandolo piu’ intensamente mordendo leggermente il labbro, e gli scostò un ciuffo di capelli via dalla fronte, accarezzandogli poi il viso dolcemente senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Si che lo sono” Gli sussurrò di nuovo vicino alle labbra, avvicinandole di nuovo alle sue questa volta non le permise neanche di sfiorarle: tutto quello non era reale, doveva finire.

Un lieve ruggito si fece largo nella sua gola quando le sue mani scesero giù verso il petto spostandosi di nuovo e afferrandole i polsi prima che potesse toccarlo un'altra volta o che potesse scendere ancora di piu’ con le sue dita rendendo la situazione irrecuperabile. Non avrebbe ceduto, non così, almeno nei suoi sogni, voleva il controllo, almeno lì non voleva vederla, non voleva che il suo viso infestasse la sua mente, perché poi, a suo malgrado, si sarebbe dovuto svegliare e tutto sarebbe ricominciato daccapo.
Con forza strinse i suoi polsi e ribaltò le posizioni trovandosi ora lui sopra di lei bloccandole le braccia  saldamente ai lati della testa sul cuscino accanto al suo e inaspettatamente un sorriso malizioso le si dispense sulle labbra mentre il suo corpo la premeva ancora piu’ sul materasso, cercando di non farla muovere, cercando di uscire da quello scherzo nella sua testa.

“No, no non lo sei.” Ruggì, come un ordine, un ordine al quale lei doveva rispondere , alla quale la sua testa doveva rispondere.

“Se non fossi reale, sarebbe comunque così terribile?”

Sussurrò maliziosamente tirandosi ancora piu’ su con il busto e con il viso, facendo sfiorare i loro nasi l’uno sull’altro ma la bloccò un'altra volta tirando di nuovo via il viso e spingendo ancora di piu’ i suoi polsi verso il cuscino, averla lì così, sotto di lui… no, no.
Le osservò il viso quasi furente, ma poi uno scintillio vibrante catturò il suo sguardo piu’ in basso: in mezzo al petto, nascosta sotto la pelle, l’Arkengemma brillava di luce propria, di quelle centinaia di raggi di ogni colore e lucentezza, custodita tra i suoi due seni nudi, sotto la pelle immacolata di Ghìda. Il suo bagliore, la sua forza era talmente inebriante che ormai i suoi occhi non aerano piu’ puntati verso Ghìda ma verso quello che le risplenda nel petto, estasiandolo da tutto quello che gli stava accadendo intorno.
Non si accorse neanche che le si era di nuovo avvicinata tirandosi su verso di lui, e ora la sua bocca era vicino al suo collo, dove lasciò una scia infuocata strusciandoci leggermente le labbra facendole risalire  verso l’orecchio con una lentezza disarmante.

“Non la vorresti?” 

Gli sussurrò all’orecchio scandendo ogni parola, ogni lettera, facendogliela entrare in testa come un eco. Dovette resistere a non guardarla mentre la sentiva ancora piu’ vicina, mente la sua bocca ripercorreva il percorso che aveva fatto prima al contrario, sfiorandogli la barba, per poi ritrovarsi di nuovo a pochi millimetri dalle sue labbra mentre la stretta di Thorin intorno ai suoi polsi si faceva sempre piu’ lenta, così come il suo respiro sempre piu’ irregolare.

“Non mi vorresti?”

Gli mormorò  facendo sfiorare le loro labbra lentamente di nuovo prima di far incontrare le loro labbra, con un bacio leggero, quasi infantile, leggero come una carezza, ma ben presto Thorin si rese conto che quello non gli sarebbe bastato, ne voleva ancora: un desiderio gli si fece largo nel petto che non riuscì piu’ a controllare, lo stava bruciando vivo.
Lei sembrò accorgersene perché con  voracità poggiò di nuovo le labbra sulle sue baciandolo con un’intensità tale da fargli chiudere gli occhi.
In quel momento Thorin si dimenticò tutto, ogni dolore ogni afflizione, ogni peso che si portava sul petto, ogni responsabilità:  se era un sogno, allora avrebbe goduto di ogni secondo mandando a marcire ogni cosa, mandando a bruciare il mondo.
Desideroso schiuse le labbra lasciando i loro respiri incontrarsi e fondersi l’uno con l’altro.
Il bacio si face piu’ profondo, piu’ intenso, le mani prima ben salde sui suoi polsi si lasciarono andare a un viaggio sul suo corpo, verso i seni, fino scendere verso i fianchi nudi per poi andare ad afferrarle saldamente le cosce tese ai lati dei suoi fianchi.
A quella stretta, che si faceva sempre piu’ decisa, sentì un leggero gemito uscirle dalla gola mentre ora le mani di lei erano affondate nei suoi capelli tirandolo ancora di piu’ verso il suo corpo nudo, verso il freddo della pietra nel suo petto.
Leggeri mormorii si cominciarono ad alzare nella sua testa, sibili nei meandri della sua mente, sussurri di un folle desiderio che aumentava bacio dopo bacio, tocco, dopo tocco, gemito dopo gemito.
 
“Quel tesoro portò tuo nonno alla pazzia.”
 
Thorin non capì piu’ nulla, il suo profumo i suoi leggeri fremiti gli fecero perdere il controllo portando le sue gambe a cingersi ancora meglio intorno al suo ventre rendendo il bacio quasi violento, famelico, un bisogno profondo e terribile che cominciava a formarsi dentro di lui che non riusciva ad essere colmato.
 
“Qualcuno di loro l’ha presa, qualcuno di loro è un ingannatore.”
 
La voleva.

Era sua.

Lei apparteneva solo a lui.
 
“E’ il gioiello del re, non sono io il re!?”
 
Le passo le mani sulla pelle nuda, assaporando ogni singolo istante: dalle cosce fino, ai fianchi e alla vita, che afferrò con decisione e con un movimento secco si mise a sedere sul letto portandola sopra di lui facendo combaciare perfettamente i loro due corpi senza mai far staccare le loro labbra: anche respirare era diventato superfluo, non gli serviva piu’, sarebbe morto piu’ che interrompere tutto ciò.
Le mani di Ghìda si sciolsero dai suoi capelli scendendo verso le spalle e gli accarezzarono il petto scendendo sempre piu’ giù fino ad alzare i lembi della camicia che portava, insinuandosi sotto di essa, aggrappandosi ai muscoli della schiena, segnata da cicatrici e segni indelebili di un tempo passato nelle forge.
A sentirla così vicina, a sentire le sue mani sfiorare la sua pelle gli fece uscire lamento dalla gola, un gemito sommesso, non di piacere ma di rabbia, rabbia perché improvvisamente i suoi indumenti erano diventati troppo stretti e futili.
 
“E a cosa appartiene il vostro?”
 
“A me tu appartieni a me.”
 
Rispose alla voce che sentiva nella testa ruggendo tra i baci e tra gli ansimi  di entrambi che rimbombavano nella stanza; sulle labbra percepì un sorriso vittorioso di Ghìda mentre le sue mani si adoperavano graffiargli la schiena provocandogli un dolore talmente piacevole che lo fece gemere nella sua bocca. Con forza le afferrò con una mano i capelli stringendola ancora di più  a se mentre con l’altra la passo sotto le cosce alzandola di qualche centimetro e tirandola su ancora di più se fosse possibile verso di sé.
 
 “Non puoi vedere cosa sei diventato.”
 
Al suono di quella frase questa volta però la presa che fino a poco tempo fa era stratta intorno a quel corpo su di lui mancò, così come quel piacevole peso sul suo corpo, riaprì gli occhi di colpo guardandosi intorno: non era nemmeno piu’ nel suo letto.

Decine e decine di monete, di monili d’oro di gemme erano intorno a lui, montagne di oro che si estendevano per tutta la sala, nelle sale del tesoro di Thròr e lui era ora inginocchiato tra quelle monete, ma quelle che ora gli sentiva umido sui palmi non era oro, non erano gemme, era un liquido viscoso, denso, rosso. Si osservò i palmi e poi una strana sensazione gli fece alzare ancora di piu’ lo sguardo e quello che vide gli bloccò il respiro in gola, di fronte a lui, immersi nelle monete, i corpi di Fili e Kili giacevano senza vita, posti l’uno accanto all’altro, con gli occhi sbarrati, come li aveva visti l’ultima volta. Con le loro armi sul petto, i visi pallidi e gli occhi chiusi, ma le ferite erano aperte, e pulsavano ancora sangue, facendo diventare le monete sotto di loro purpuree.

“No.” Sussurrò scosso dai tremiti, mentre un dolore atroce si faceva avanti nel suo petto. “No.” Sussurrò di nuovo mentre le mani cominciarono a tremargli e a tentoni si avvicinava di piu’ a loro. Il respiro gli mancò mentre con lentezza avvicinava le mani imbrattate del loro sangue verso i loro visi mentre la fitta al cuore divenne quasi insopportabile tanto da fargli uscire un enorme respiro interrotto da un fremito. Lentamente si avvicinò verso i loro corpi stringendoli a sé poggiando la fronte sue quella di Fili.
Da dietro di lui ruggito roco risuonò per la sala, uno strusciare sulle monete, un sibilo di fondo così familiare terribile che non ebbe nemmeno la forza di guardarsi indietro rimanendo a fissare i volti dei due ragazzi sotto di lui.

“Sssssarei quasi tentato di lasciartela prendere, solo per vedere come ti distrugge, come corrompe il tuo cuore.”
Ruggì nell’ombra Smaug alle sue spalle, mentre lui non riusciva a staccare gli occhi dai volti di Fili e Kili sotto di lui.
Non ne la sua testa, lui era lì in quella sala, era sempre stato lì, in quella sala, nel suo petto, nel suo cuore che lo mordeva e bruciava e gli ricordava ogni ora come fosse colpa sua, come tutto quello che aveva sotto gli occhi fosse solo colpa sua.
D’un tratto due braccia poi lo avvolsero con delicatezza  da dietro cingendogli la vita dolcemente e poggiare il mento sulla sua spalla avvicinandosi con lentezza al suo orecchio.

“Thorin.”
 
Un sussultò gli uscì dal petto aprendo repentinamente gli occhi svegliandosi violentemente, mentre ansimi pesanti gli venivano fuori dalla bocca. Si girò di scatto verso il cuscino accanto a lui, e come ben sapeva, era perfetto, ancora soffice, non c’era nessuno lì con lui era stato tutto un…incubo.

Si portò entrambe le mani sul viso prendendo un profondo respiro, ma i tremiti questa volta non si fermavano, aumentavano ogni secondo che passava, così come l’angoscia e il terrore che gli attanagliano il petto.
Sì, tirò su a sedere andando ad afferrare saldamente le coperte sotto di lui: poteva sentire ancora le labbra di Ghìda sulle proprie, i suoi gemiti, i suoi tocchi, le dita morbide sulla schiena, il suo sorriso rivolto verso di lui accanto all’acqua, la bramosia che l’aveva colto in quel sogno, la bramosia che gli contorceva lo stomaco ogni volta che lei entrava in una stanza, quella stessa bramosia che lo aveva portato alla pazzia, che lo aveva portato nell’oblio e ritorno.

Si guardò la mano, che quella mattina aveva stretto fino a farla sanguinare, dove i segni nella carne erano ancora rossi e ben visibili, i segni di una furia ceca e terribile che gli erano montati nel petto quella mattina rivolte alle parole fredde e sprezzanti che riguardavano lei. Sentir qualcun altro, suo padre, accentuarla come sua, come un oggetto da poter donare, come una gemma, come l’Arkengemma.

Quello era diventato lei per lui? Una gemma sulla cima della sua ira, una gemma sulla sommità di quel tesoro?

No, non lo avrebbe permesso, non un'altra volta, non di nuovo.
Puntò gli occhi sulla porta, doveva vedere, doveva vederlo, doveva sapere, se quello che aveva sognato fosse reale, se quel tesoro avesse ancora quel potere su di lui, il potere di distruggere, il potere di uccidere per esso.
Si alzò mettendosi velocemente gli stivali e neanche preoccupandosi di indossare un qualcosa per coprirsi:  un uscì così, con le brache e la camicia con cui aveva dormito, ancora imbrattata di sudore, sotto la quale poteva ancora sentire le sue mani sul suo corpo.
Se non lo avesse visto in quel momento, se non fosse rientrato la dentro, la smania lo avrebbe consumato dall’interno, lo avrebbe inchiodato in quella paura che non gli apparteneva,, lui era il re, era il re, se non poteva controllare quello che provava come avrebbe mai potuto controllare Erebor.

A grandi falcate uscì dal corridoio delle sue stanze, per poi avviarsi lungo le scale che scendevano ripide all’interno del palazzo. La notte era silenziosa, non  un’anima girava nelle grandi sale, l’unico suono che rimbombava tra queste erano gli ansimi di Thorin e i suoi passi sempre piu’ veloci che si alternavo tra le alte arcate e le infinite scale che si addentravano sempre di piu’ nelle profondità del palazzo.
Il peso dentro al petto gli divenne sempre piu’ pesante ogni passo che compiva, ogni scalino che scendeva, ogni raggio di luce gialla che vedeva sorgere dal fondo dei corridoi, tre le gigantesche colonne di pietra. Non si rese neanche conto di quanto ci mise, stava correndo di questo era sicuro, la sua testa era altrove, se ne rese solo conto quando due guardie si rizzarono improvvisamente dalle loro postazioni accanto alla porta principale della sala. Non si curò neanche dei loro saluti e ansimante oltrepassò la soglia affacciandosi dalla balconata che sovrastava le montagne di monete nella sala.

L’oro scintillava, metri e metri di montagne di oro che brillavano sotto di lui illuminate dalla luce gialla dei bracieri sparsi tra il tesoro e attaccate ai muri. Senza staccare gli occhi cominciò a scendere lentamente le scale, passando lo sguardo su ogni scintillio piu’ forte degli altri, fino a che non arrivò al limite tra le scale e le monete. Lì si fermò, un terrore cieco lo invase, chiuse gli occhi ricordandosi lì, per giorni, a dormire  a malapena poggiato su una colonna fredda mentre si beava dello strusciare leggero delle monete e del loro suono a ogni suo movimento.
Riaprì poi gli occhi e stringendo i pugni vi poggiò il piede sopra e poi un altro  muovendo i passi sempre piu’ in profondità nella sala circondandosi delle migliaia di monete lucenti, ma quello che provò fu tutto il contrario di quello che si sarebbe aspettato, il profondo malanimo si fece spazio nelle viscere, seguito da un senso di nausea e disgusto verso tutta quella ricchezza. La sua paura si dimostrò infondata, tutto quello che sentiva pe quell’oro era ribrezzo e astio, niente di piu’ solo un grande vuoto.

Un tintinnio in lontananza gli fece appizzare le orecchie, leggeri passi si muovevano fra le monete, mettendolo la guardia, mentre queste si facevano sempre piu’ vicini e da dietro un blocco di marmo verde venne fuori Ghìda camminava indecisa, tra le monete, scrutando l’oro sotto di se attentamente, con la schiena curva e ole mani che reggevano la lunga gonna della veste da notte chiara.
Lo scintillare delle monete gli si infranse addosso, illuminandola di piu’ colori, come la gemma che fino a poco tempo fa l’aveva incastrata nel petto, e il desiderio, la stretta allo stomaco in quel momento fu reale piu’ reale che mai in quei giorni: in quel momento si chiese effettivamente se fosse ancora bloccato nei suoi incubi.












Kashelkel mainsisî zurumka sullu khuzdu Azsâlul'abad ai Sigin-tarâg = Possano queste acque dissetare i nani di Erebor e i discendenti di Durin
Vemu’= Salute
 
 
 








 
 
 
Angolo Autrice
Saaaaaaalve, in ritardo, di nuovo ma questa volta sono senza scusanti :/ Il capitolo è stato riscritto tre volte se vi interessa ed è lungo il doppio di quando sarebbe dovuto essere in realtà hahahaha però così vi ho dato una minima gioia no? E non solo quella spero ;D Di gioia nel capitolo ce ne stanno un paio in piu’ anche hahahahahah  peccato fosse un sogno, che è sarà molto funzionale per il capitolo successivo, giuro non è stato buttato a caso. Vi ho lasciato anche con un bell cliffanger, qualcuno vuole indovinare cosa accadrà? Perché lei è li? Eh eh.
Qua vediamo Throin che ormai è sempre piu’ insicuro di quello che sente, mentre Ghìda lo è sempre di piu’ ma entrambi chi per un modo chi per un altro ne soffrono e Thorin ad sta scambiando quel desiderio per il desiderio che provava per l’Arkengemma, e quindi ne ha pura, lo teme e qua cominciano i problemi veri. Lei invece deve ancora ben capire, o meglio un po' ha capito, ma per adesso è piu’ una stima che un ammmmore vero e proprio.
Ditemi ditemi, vi sta intrigando di piu'? A me i capitoli come sono usciti questi ultimi due mi soddisfano enormemente, anche perchè la sotia sta prendendo sempre piu' una piega verso il vero fulcro della storia.

Vorrei inoltre ringraziare Nekonlonde,Thorin78 e Valepassion95 per aver aggiunto la storia alle seguite, Aralinn per averla ggiunta alle ricordate e di nuovo *.* Thorin78 per averla messa anche tra le Da ricordare, non sapete quanto mi rendete contetna con questi piccoli gesti <3
Neekoblonde hahahahahah non so se questa conclusione ti sia bastata per ora ma si la frustrazione c'è è iun vero e proprio desiderio, in qualunque forma, spero di aver reso bene l'dea ;)

 

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Capitolo 9
*** Donami uno sguardo ***


Donami uno sguardo









 

 
 
 
Ghìda fissò il cuscino vuoto accanto al suo lasciando lo sguardo vagare per la superficie chiara illuminata solo dai raggi dalle luci della notte che flebili entravano dalla piccola finestra, vi ci poggio lentamente la mano che prima era nascosta ben sotto le coperte, quasi a tastare che non ci fosse nessuno, quasi come a scacciare la ragione della sua insonnia, ma questa rimaneva lì ben percepibile. E quando puntò lo sguardo oltre la sua mano, la situazione non migliorò affatto: ben nascosto dalla penombra su una sedia accanto al letto, il mantello di Thorin era ancora ben adagiato sullo schienale arrivando fino a terra, ma così ben sistemato che per un attimo le parve che ci fosse davvero seduto lui accanto al suo letto.
 
Strinse le labbra l’una sull’altra nervosamente ma una leggera fitta gliele fece ammorbidire un'altra volta: anche se richiusa, la piccola ferita all’interno del labbro era ancora sensibile, così come le parole di suo padre ancora ben marchiate nel suo petto.
 
A chi doveva la sua lealtà?
 
Fino a poche ore prima era sicura di saperlo, ma dopo quello che era successo, dopo quello che era capitato in quella caverna, non ne era piu’ sicura, non era neanche piu’ sicura di sapere che cosa provasse, che cosa fosse quella attrazione estranea che le montava nel petto ogni volta che gli stava vicino, ogni volta che incrociava i suoi occhi, o ogni volta che sentiva la sua voce.  Aveva davvero pensato quelle parole nella grotta? Davvero era disposta a mandare tutta la sua vita in malora in quel momento, tutto ciò che conosceva, tutto ciò che era riuscita a diventare, per lui… per Thorin Scudodiquercia, per il suo re… per… No!
 
Non poteva aggiungere altro, non poteva essere altro per lei, se non il suo re.
 
Scosse la testa velocemente e ritirò la mano dal cuscino vuoto accanto a se per poi nascondere il viso premendola tra le piume soffici del cuscino, nascondendo alla vista tutto ciò che potesse anche solo ricordarle quello che aveva sentito poche ore prima, che aveva provato fino a poche ore prima: lui aveva capito, lui aveva compreso, gli era davvero bastato così poco, solo una frase, un suo gesto, per capirla talmente affondo, per donarle una cosa così di poco conto, un momento di gioia, un momento in cui si era sentita appartenere alla montagna, in cui aveva desiderato di appartenere al cuore delle montagna, di appartenere al suo re.
 
Aveva così tanto desiderato far parte di un luogo, di una razza, di qualcuno, che le parole di Thorin le erano suonate all’orecchio come uno scherzo di pessimo gusto, come un’ennesima beffa a cui i Valar volevano sottoporla. Ma quelle parole non  erano state pronunciate nella sua testa, lui le aveva dette davvero, lui l’aveva davvero riportata in uno di quei pochi luoghi dove si era sentita a casa, sul mare dell’ovest illuminato dalle stelle, dove aveva perso e dove si era perduta.
 
Thorin per la prima volta l’aveva fatta sentire viva, l’aveva fatta sentire degna di essere viva.
 
Girò di nuovo la testa sul cuscino puntando lo sguardo verso il soffitto questa volta, ma come fu per prima il suo viso le si ripresentò davanti, risentì quella immensa sensazione di pace e portandosi entrambe le mani al petto fece un enorme respiro cercando nuovamente di cancellare quello sguardo dalla sua testa, di desiderare quegli occhi su di lei, quelle mani su di lei…le sue labbra.
Alzò la mano e vi poggiò le dita sopra le socchiudendo gli occhi, lasciare un sospiro farle alzare e abbassare il petto:  poteva sentire ancora la lama sul suo fianco, il suo respiro sul viso, e la stretta che le continuava a imporre di chiudere quella distanza, di lasciarsi andare a lui e lei lo desirava, quello lo desiderava, ma cos’era? Era impossibile, sbagliato, terribilmente sbagliato, ma terribilmente giusto.
 
Si tirò su velocemente dal letto e scosse la testa cancellando quei pensieri prima di lanciare uno sguardo sulla porta e con velocità scostò le coperte con un movimento secco e si lanciò verso porta: doveva uscire, prendere aria, doveva schiarirsi le idee, e cercare di ignorare quella stratta allo stomaco che continuava a non lasciarla in pace, che continuava a farle immaginare Thorin seduto su quella sedia, che portava i suoi pensieri verso di lui, verso le sue parole, verso i suoi occhio, verso quella caverna ma al col tempo li desiderava così ardentemente da bloccarle il respiro.
 
Aprì con cautela la porta cercando di fare il meno rumore possibile, e a piccoli passi, uscì dalla stanza, ma l’incontro con l’aria fredda del palazzo le fece chiudere leggermente gli occhi e scostare dalla soglia della porta. Chiuse gli occhi e adagiò la mano sorreggendosi al muro accanto alla porta, sospirando pesantemente e si lasciò andare con la schiena sulla pietra fredda dietro di lei stringendosi le mani intorno alle braccia e osservando il muro di fronte a se: la tentazione di tornare in camera fu talmente forte da farla quasi crollare su se stessa. Ma lei resistette puntando i piedi a terra e lanciando un’occhiata verso la porta per la balconata stringendosi con forza le braccia.
 
Lui era lì fuori? Come quella notte a guardare oltre la montagna? Anche lui era insonne come lei anche quella notte?
 
No, no, doveva parlargli, doveva rivederlo, voleva risentire quel calore, anche se per un attimo, anche se per un secondo, ne aveva bisogno come l’aria che respirava, aveva bisogno di sapere se tutto quello che stava sentendo fosse reale, se la sua bramosia fosse solo il desiderio di una sciocca o qualcosa di piu’ profondo e terribile cenoni screbbe stata mai in grado di affrontare.
 
Cominciò a muovere i primi passi verso la porta che conduceva verso la balconata ma una frase le tornò in mente, una frase che in quel momento le sembrò talmente fuori luogo da farle bloccare il passo immediatamente facendole venire un brivido dietro la schiena. Un oscuro gorgoglio le risuonò nella mente, due ogni neri puntati nei suoi
 
“Vai nelle sale piu’ basse e renditi conto di cosa avrai tra non molto nelle tue mani.”
 
Una orribile sensazione le attanagliò le viscere e lentamente voltò la testa verso le sue spalle dove si trovava la porta che portava nelle altre sale del palazzo, e come questa ora fosse ben sigillata, cosa intendeva con quelle parole? E perché in quel preciso istante le tornarono in mente?
 
Scosse la testa e si voltò di nuovo verso la porta che conduceva alla grande balconata ma ancora una volta una corda non le permise di fare neanche quattro passi, si ritrovò inchiodata a terra e la sua mente ormai incatenata alla porta dietro di se, altro brivido le attraversò la schiena, e un ruggito le risuonò nella testa, ma invece che spaventarla le partì dal basso ventre salendo e facendo aumentare ancora di piu’ quella curiosità quel bisogno.
 
Come una spinta si ritrovò a camminare verso di essa, c’era qualcosa che le diceva di dover continuare a camminare, di vedere cosa intendesse suo padre con quella frase.
 
Quasi come guidata da un timore sempre piu’ crescente si ritrovò a scendere nelle immense sale del palazzo, sempre piu’ infondo: qualcosa la stava tardando giù nelle profondità della montagna, guidava i suoi passi verso l’oscurità del palazzo vuoto nella notte. Le parve di trovarsi in un sogno, non sapeva perché ma sapeva esattamente che scale prendere, in quali corridoi girare, quanti gradini scendere, una voce interna che le diceva di non far rumore, di muoversi con premura all’interno delle sale, di non indugiare, di stare attenta, continuando a scendere, puntando sempre gli occhi sotto di lei nell’oscurità.
Il palazzo era silenzioso vuoto, spento, non un nano girava, non una luce era accesa se non i grandi bracieri che scoppiettavano creando giochi d’ombre tra le scale che salivano e scendevano, ogni passo che faceva rimbombava come un eco, e ogni respiro che compiva le sembrava pesante dall’affanno.
 
D’un tratto una luce gialla e calda cominciò a farsi ben visibile sotto di lei, celata a male pena da enormi colonne di marmo e dagli intrighi di scale, una luce che emanava un’empia forza che mai aveva avvertito in quei giorni, la stessa forza che l’aveva terrorizzata nella sala del trono quel pomeriggio, la stessa aura che emanava l’Arkengemma, lo stesso desiderio che le aveva instillato nel petto e che l’aveva terrorizzata. Si poggiò al reggipetto, guardando giù e un brivido le attraverso improvvisamente la schiena facendola irrigidire: un ruggito. Un ruggito profondo e gutturale risuonò nell’aria tanto reale che scostò impaurita le mani dalla balaustra della scala su cui stava scendendo, guardandosi intorno, con il cuore che le cominciò a battere violentemente nel petto, ma lì non c’era nessuno.
 
L’unico rumore reale, erano i suoi respiri diventati veloci e lo scoppiettare in lontananza delle torce, non se lo poteva essere immaginato, lo aveva sentito, era sicura di averlo sentito.
Alzò lo sguardo accanto al muro vicino a se, e su di esso, un’impronta scavata con le unghie di due enormi artigli che la attraversava da parte a parte, come carne sventrata: Smaug, erano i suoi artigli. Alzò la mano tremante verso quelle striature poggiando tremante sul segno lasciato dall’enorme artiglio, accarezzandone il bordo, e un secondo ruggito rimbombò nell’aria, questa volta piu’ vicino, ma mille volte piu’ reale e veniva proprio da diversi piani inferiori, dal bagliore sotto i suoi piedi.
Con le mani che le stringevano la gonna puntò di nuovo lo sguardo sotto di lei, e la spinta si fece sempre piu’ insistente portandola a scendere ancora piu’ in profondità, sempre piu’ vicina alla luce calda, sempre piu’ invitante sempre piu’ che la chiamava a proseguire. Le alte colonne ben presto si diramarono, lasciando spazio alla luce gialla di diventare sempre piu’ imponente, sempre piu’ ammaliante: reggendosi al corrimano fece gli ultimi passi, fino a che dal verde dei muri, e senza che dovesse scendere ulteriormente, pochi piani di scale sotto di lei, si palesò di fronte a lei una vista che le fece sgranare gli occhi e bloccare il passo, tanto devastante da farle tremare le ginocchia.
 
Il tesoro della montagna, il tesoro di Thròr.
 
Un immensa sala si estendeva sotto i suoi piedi, sotto il piccolo balcone su cui si trovava, milioni pezzi di oro, cimeli, monete creavano, montagne, fiumi, pianure, salendo e scendendo ripidi da altri balconi come quello su cui si trovava, fino a ricoprire l’intera superfice di una sala che sarà stata grande tanto quando la base della montagna stessa non si riusciva neanche a vedere il fondo della sala, gemme colorate illuminavano ogni lato della sala, cimeli d’ro grandi come la sua testa sorgevano prepotenti dalle monete. Diademi, coppe, statue scudi cerimoniali, diamanti lavorati, tutte le ricchezze piu’ inguaiabili della Terra di Mezzo giacevano a pochi piedi sotto di lei.
Nel petto le montò una fame insaziabile, una smania talmente grande che non si rese neanche conto di ora star scendendo le scale che la dividevano da esso, non curandosi neanche che potesse essere vista, continuando a scendere lentamente le rampe di scale che la dividevano da quella ricchezza: non riusciva a straccare lo sguardo, non voleva staccarne lo sguardo.
 
Lo voleva toccare, lo voleva sotto le sue mani, voleva immergersi in tutta quella ricchezza in tutto quell’oro.
 
Era bellissimo.
 
Scese l’ultimo scalino con una lentezza disarmante, poggiando il piede sull’oro lasciandosi andare a un profondo sospiro quasi di piacere appena vi ci mise il piede sopra, che aumentò quando comincio a camminare sopra i milioni di monete sotto di lei, facendo strusciare il vestito sulla loro superfice creando un tintinnio cristallino fra le monete. Si mosse lentamente, beandosi del tintinnio delle monete sotto i suoi piedi, sapendo perfettamente in quel momento di avere la bocca spalancata nel frattempo che i suoi occhi non riuscivano a staccarsi da terra. Quella cupidigia che montava nel suo petto non le era mai appartenuta ma improvvisamente tutto quello che l’aveva assillata quei giorni scomparì, lei stessa si sentì scomparire, inghiottita da tutta quella ricchezza, tutto le sembrò futile e inutile, quello che aveva sotto gli occhi, solo quello era importante, nient’altro e sarebbe stato suo.
 
Solo suo.
 
Cominciò a camminare tra le monete studiando ogni cimelio, ogni gemma, ogni collana, ogni pezzo di oro. lo voleva tutto, le ginocchia le tremarono e si ritrovo inginocchiata su di esso e con una lentezza disarmante lasciò che le sue mani si immergessero in quello che aveva sotto di lei chiudendo leggermente gli occhi, godendone di ogni istante.
 
“Non mi staccherò da un singolo pezzo.”
 
Una voce le rimbombò nella testa, un sibilo, lo stesso sibilo mischiato a un ruggito sommesso che aveva percepito prima delle sale del palazzo, e come svegliata bruscamente da un sogno, tirò via le mani da sotto le monete e scattò in piedi. Una fitta le attraversò il petto, rendendola di nuovo conscia di quello che era successo, di quello che stava provando, di quello che aveva desiderato di quello che tutt’ora bramava.
 
 Che stava facendo?
 
“Oro, oltre ogni afflizione e dispiacere.”
 
Un’altra volta quella voce le arrivò in testa, piu’ calda, piu’ familiare, facendola leggermente chiudere gli occhi e indietreggiare ancora di piu’ fino a che non incontrò però dietro di se un'altra montagna di monete ,dove andò a sbattere con la schiena ma appena la toccò con il palmo delle mani un'altra fitta al petto la fece violentemente scostare, tutto intorno a lei divento leggermente sbiadito, i colori divennero meno vibranti, l’aria stessa diventò marcia e pesante, malata.
 
Non era in lei, non era davvero in lei, quella voce, no non poteva essere, quella era la voce di…
 
Alzò lo sguardo dove adesso la penombra grigiastra regnava dove l’unico colore ancora ben visibile era il giallo delle monete, e Thorin era lì, di fronte a lei, con lo sguardo basso, la lunga pelliccia nera che adesso era sopra in camera sua strusciava sulle monete, mentre il volto del re rimaneva basso coperto dai lunghi ciuffi neri. Un rumore di passi attirò la sua attenzione, sopra le scale da dove lei era scesa: un gruppo di nani , fra cui anche Bofur e un mezz’uomo, la stava fissando , no, non lei, stavano fissando Thorin, due ragazzi stavano fissando Thorin, uno aveva i suoi stessi occhi e l’altro gli stessi tratti.
 
“Benvenuti, figli di mia sorella, nel regno …di Erebor.”
 
Da quella stessa frase, un sibilo le si formò nella testa, il desiderio che prima cresceva ora entra incontrollabile, e la attanagliava, e pensieri su pensieri le andarono a scavare nella mente. Lei non avrebbe lasciato quel luogo, ci avrebbe dormito mangiato, era suo, era finalmente suo, nulla l’avrebbe tolta da lì, ogni moneta era sua, la sua montagna, il suo tesoro. La sua pietra, dov’era la sua pietra, la sua unica pietra, era persa, non si trovava, perché non si trovava? Qualcuno l’aveva presa, lo scassinatore non l’aveva presa, che si sia persa, che l’abbiano rubata. Mi stanno ingannando tutti.
 
Quelli non erano pensieri suoi, no non suoi erano quelli di Thorin.
 
“Nessuno dormirà finché non sarà trovata!”
 
Urlò di nuovo la voce di Thorin ma questa volta non era piu’ accanto a lei, era piu’ in alto, guardava la sala, osservava ogni moneta, ogni passo che i nani che pian piano comparivano intorno a lei nell’ombra compivano. Mia solo mia, loro non l’avranno, noi lo difenderemo, io lo devo difendere, la  casa di mio padre, di mio nonno, di tutti noi, di Fili e Kili, casa nostra, il mio tesoro il nostro tesoro ,dove sono, non sono qui, perché non sono qui, anche loro, me l’hanno rubata, me l’hanno tolta, gli elfi, gli uomini, moriranno, li ammazzerò tutti, uno per uno, mi hanno tradito, io mi vendicherò.
 
“Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per loro.”
 
Un'altra fitta lancinante le attraversò il petto facendola gemere di dolore e piegare leggermente su se stessa facendole strizzare gli occhi dal dolore e quando questa finì li riapri e tutto l’oro era sparito; lo scintillio della ricchezza era stato sostituito dal luccicare della neve e del ghiaccio sotto di lei. Celata da un ombra da una foschia, su una lastra di ghiaccio semidistrutta, ora lei era lì, inginocchiata sul ghiaccio e le fitte al petto si facevano talmente presenti che non riusciva a respirare, alzò lo sguardo e Thorin era disteso lontano da lei tra le macerie e la neve, molto lontano, ma era tutta colpa sua, tutto questo era colpa sua, no, no loro no, è tutta colpa mia, loro sono morti per causa mia, perdonatemi, vi prego perdonatemi se potete, vi prego mi dispiace, mi dispiace così tanto, Fili, Kili, no vi supplico no, lasciami morire e riportali qui Mahal ti prego!
 
Con velocità si stacco dalla montagna d’oro alle sue spalle prendendo una lunga esalazione, inspirando l’aria come se avesse trattenuto il fiato durante tutto quello che aveva visto, che aveva provato: che lui aveva provato, in quei giorni, in quelle ore, sempre uguali, sempre identiche, con solo un pensiero nella testa, quell’oro.
Si portò una mano verso la bocca: un senso di nausea le partì dallo stomaco unito a un misto di terrore: no, quello sguardo, non era lui, non poteva essere lui, no… .
 
Indietreggiò tremante stringendo i denti, mentre ora con disgusto e odio guardava le monete sotto di lei, ripensando a quella sofferenza, a quell’ira negli occhi di Thorin, il viso trasmutato dalla collera, dalla gelosia, dal terribile bisogno.
E poi quel dolore lancinante, al petto, tutti i pezzi, tutte le storie, tutte le scene che aveva provato, che aveva sentito, le frasi lanciate… Kili, Fili… lui… se ne dava la colpa. Non era in se, non era lui, non era Thorin.
 
“Cosa ci fai qui?”
 
Quella voce.
Alzò lo sguardo e a pochi passi da lei lui la stava osservando, rigido con i pugni serrati giù verso i fianchi, anche lui con i piedi poggiati sulle enormi ricchezze della sala, la camicia sgualcita, e i capelli in disordine, come se si fosse fiondato lì in fretta e furia: possibile che l’avesse sentita? Che sapesse che lei si trovava lì sotto?
Indietreggiò di qualche passo impaurita, facendo smuovere le monete sotto di lei, come un vago avvertimento: per un istante il viso che le si parava davanti le sembrò quello che aveva visto fino a pochi istanti prima.
 
“T-Thorin… io… non…” Riuscì solo a dire prima di bloccarsi quando Thorin abbassò lo sguardo smuovendo leggermente la mascella e dandole le spalle.
 
“Torna nelle tue stanze.” Le rispose freddo lanciandole un’ultima occhiata prima di cominciare a camminare verso le scale che prima lei aveva percorso.
 
Lei mosse qualche passo verso di lui incapace di parlare, con la bocca spalancata, intanto che il moto di terrore che aveva provato prima e  il dolore che aveva provato prima, si rifaceva piu’ presente nel suo petto, prese un grande respiro bloccando il passo trattandosi la gonna tra le mani.
 
“Thorin…” Mormorò con la bocca ancora leggermente spalancata. “Quello che è successo, non è colpa tua.” Riuscì a dire, anche se la voce le si spezzò, incapace di aggiungere altro: lui doveva sapere, lui doveva sapere che non era colpa sua, tutto quello che era successo non era colpa sua.
 
Thorin si bloccò di colpo con la mano ben salda sul regimano della scala, la schiena che era rivolta verso di lei si irrigidì a quelle parole: la presa sulla sbarra d’oro divenne piu’ forte facendo propagare un leggero stridulo dei suoi anelli sul metallo.
 
“Cosa ti hanno detto?” Voltò solo di poco il viso, lanciandole oltre la spalla uno sguardo talmente freddo da farle bloccare il respiro.
 
Come poteva spiegarglielo, come poteva dirglielo se neanche lei riusciva a comprendere cosa fosse accaduto in quella stramaledetta stanza.
 
“Chi te ne ha parlato?”  Chiese ancora glaciale voltandosi ancora di piu’ col viso permettendole di guardarlo negli occhi, che ora stavano bruciando.
 
Ghìda scosse la testa e si avvicinò con lentezza ancora di piu’ a lui guardandolo negli occhi, ora alla base della scala sopra la quale la sua figura regnava nella stanza.
“T-tu…” Cominciò cercando di ignorare il suo sguardo sempre piu’ austero. “Tu non eri in te.” Gli mormorò ma la sua voce la tradì, uscendole come una supplica. “Non potevi sapere, non potevi immaginare quello che sarebbe accaduto, tu non hai colpe per quello che gli è accaduto.”
 
A quell’ultima frase la presa sulla ringhiera aumento e la schiena del re si irrigidì ancor di piu’, stette in silenzio per alcuni istanti, facendo diventare le nocche bianche e dopo lunghi istanti, finalmente lasciò la sbarra dorata nel frattempo che piccoli tremiti la facevano scuotere, costringendo il re a chiudere le mani in due pugni.
 
“Non venirmi a parlare come se sapessi veramente cosa sia successo.” Sibilò Thorin voltandosi gradualmente verso di lei con gli occhi che ogni attimo che passava  si riempivano di dolore e rabbia, ritornando quegli occhi che l’avevano terrorizzata. “Non provare neanche solo a avanzare la pretesa di poter capire cosa sia realmente successo qui, in quei giorni, cosa ho fatto, cosa ho detto.” Si fermo avanzando di un passo verso di lei strizzando gli occhi.
 
“Non azzardarti a mai a compatirmi.” Le ordinò roco puntando il suo dito verso se stesso, scandendo ogni sillaba, con voce sempre piu’ graffiante, tanto da farle spalancare gli occhi incredula.
 
“Compa… Io non ti sto compatendo.” Scosse la testa e anche se il suo istinto le diceva di allontanarsi da lui, si avvicinò ancora di più ora solo a un gradino da lui, la voce le diventava sempre piu’ fioca. “Thorin, questo posto, questo oro…” Mormorò osservando per un attimo intorno a se la quantità di ricchezze che li circondavano.  “non… non er…”
 
“FAI SILENZIO!” Le urlò Thorin furibondo bloccandole le parole ma così tanta fu la sua collera che Ghìda si avvicinò ancora verso di lui scuotendo la testa ignorando ogni logica, ogni istinto di sopravvivenza, ogni maledetta vocina nella testa che le diceva di allontanarsi da lui, di lascia perdere, di andarsene via da lì.
 
“Loro sono morti perché credevano in te, perché tu eri il loro re, perché …” Si bloccò un attimo fissandolo negli occhi, a pochi centimetri da lui con il petto le si abbassava e alzava velocemente. “Perché ti amavano.”
 
Le parole però le andarono a morire in bocca, capendo d'aver superato un confine che non avrebbe dovuto superare:  sul volto di Thorin si formò un’espressione talmente furente da farle paura; era fuori di sé, ed era colpa sua se, ora, negli occhi azzurri leggeva soltanto un dolore irreparabile e  un'ira profonda e struggente, che presto sarebbe esplosa contro di lei. Lo vide stringere i pugni ancora di piu’ e serrare la mascella: il volto trasmutò in un qualcosa di…bestiale.
 
“Amore?!” Sibilo infuriato facendosi ancora piu’ vicino a lei nel frattempo che un sorriso adirato al lato della bocca gli trasformò il viso.
 
Ora aveva paura di lui, di Thorin.
 
 “Cosa ne può sapere una miserabile mezzo sangue di cosa sia l’amore?!” Urlò tanto da far rimbombare la sua voce per tutto il palazzo. “Tu, non puoi comprendere cosa voglia dire perdere tutto, vedertelo portato via, vagare anni senza sapere cosa ti aspetta l’indomani, i giorni che ti passano tra le dita senza che tu possa arrestarli, gli anni che ti si sgretolano davanti. Agognare di  riconquistare casa tua con il sangue delle persone a cui sei devoto, guardando i loro volti intrisi nel sangue perché non sei stato capace di fermarti… perché non sei stato capace di onorare la tua parola!” Ogni parola era urlata ma ben scandita e  lui si sempre piu’ vicino al suo viso “Non puoi saperlo perché tu non sei mai appartenuta a nulla.” Si fermò e sembrò quasi assaporare l’ultima frase che le rivolse, scandendone ogni sillaba, mormorandogliela guardandola negli occhi.
 
“Tu non sei nulla.”
 
Le parole del Thorin le trapassarono il petto come una lama rovente, oltrepassandola da parte a parte bloccandole il respiro. In quel preciso istante le parve di morire, lo sguardo che lei aveva agognato di non vedere mai sul suo voltò gli bruciava sul viso, piu’ terribile e piu’ doloroso di qualsiasi altra cosa avesse mai visto.
 
Ma quelle parole furono uno schiaffo sull’anima di entrambi, quanto poteva una frase lacerare un animo? E invece due animi?
 
Ghìda tirò su la schiena mordendosi il labbro e annuendo velocemente guardando verso il basso stringendo talmente forte i pugni da farsi male; alzò poi lo sguardo verso di lui, ormai talmente vicini da far sfiorare i loro nasi e serrò la mascella violentemente allontanandosi di un passo.
 
 “Molto bene.” Lo disse con tono freddo e distaccato, ma i suoi occhi la tradirono, le mani strette in due pugni la traudirono. Distolse lo sguardo da quello di Thorin e lo sorpassò passandogli accanto, non degnandolo neanche di una parola in piu’, non lo avrebbe degnato di un'altra singola sillaba.
 
Cominciò a salire gli scalini, andando via, lontano da quel posto, lontano da lui. Per ogni passo che compiva il petto le faceva piu’ male, ogni respiro le lacerava lo sterno, ogni passo era un pugnale infilzato nei tendini: lui alla fine lo aveva detto, dopo settimane, l’unica persona che non voleva che in quella maledetta montagna la guardasse in quel modo lo aveva fatto, le aveva sputato addosso e adesso quello che stava provando era tutta colpa sua, perché era stata una stupida, una sciocca, aveva davvero pensato che sarebbe cambiato qualcosa, che lui avrebbe cambiato qualcosa, lui.
Ben presto si rese conto di star correndo tra le scale desolate di Erebor, avvolta dalle tenebre, non sapendo neanche se avesse preso la direzione giusta, le sembrava di star scappando da una belva, e lei stava effettivamente scappando da qualcosa di molto piu’ terribile: stava sfuggendo da quella dura realtà da quel dolore che le stringeva il petto rendendole difficile anche respirare. Delle calde gocce le cominciarono a scendere dagli occhi, le senti aumentare di numero ogni scalino che saliva, rallentando sempre di piu’ il passo, sentiva fatica anche solo muoversi e si dovette trattenere per non lasciarsi cadere. Si portò l’altra mano sugli occhi tentando di fermare le lacrime che però non cessavano, aumentavano sempre di piu’, tanto da farle portare una mano alla bocca con cui coprì un singhiozzo sommesso lasciandosi infine cadere in ginocchio sulle fredde scale. Lei che per tutta la sua vita non si era mai lasciata andare, che aveva imparato a non lasciarsi mai andare, lo aveva fatto, lo stava facendo, il muro che non aveva mai abbattuto per nessuno era andato in frantumi, al suon di una parola che non avrebbe piu’ dovuto farle male, che non doveva piu’ farle male, allora perché le faceva così male?
 
Lui non avrebbe mai visto nient’altro in lei, solo un abominio… ed era tutta colpa sua.
 
Diversi piani sotto di lei, solo un suono fu piu’ potente della sua anima spezzata : il suono sordo di un pugno che si andava a scontrare contro un muro verde.
 
 
 
 





La Montagna quella mattina era in fervore, quella stessa sera si sarebbe tenuto il primo banchetto da quando Erebor era stata ripresa, grandi sarebbero stati festeggiamenti in onore del completamento di un’opera talmente importante che nessuno l’avrebbe mai ritenuta possibile in così poco tempo: le fucine funzionavano, le grandi fornaci della montagna erano state riaccese e le miniere con i loro ingranaggi e meccanismi erano pronte a far fuoriuscire oggetti di immensa bellezza e valore.
 
La città fortezza era diventata un subbuglio di via vai, di provviste, casse di erba pipa e botti su botti di birra dalle zone circostanti Esgarot ed Erebor. Tutta la montagna era stata invitata ai festeggiamenti e tutta la montagna vi avrebbe partecipato; tutti ne parlavano, tutta la montagna, fino all’ultimo nano era in fermento, canzoni sarebbero state cantate, storie sarebbero state raccontate, per tutti, i vivi e i caduti.
 
La sala dei banchetti così come gli immensi corridoi e scale, era ghermita di nani che si muovevano fuori e dentro, spostando e riordinando ogni tavolo, aggiungendo sedie, aggiungendo tavolate su tavolate, portando legni per avere l’immenso camino acceso per tutta la notte, se non anche per il giorno successivo e le cucine del palazzo non avevano mai lavorato così duramente come in quel giorno e durante il giorno precedente a quello. Per molte cose era famosa Erebor tra gli uomini e gli elfi , per i suoi gioielli, le sue fucine e la sua ricchezza, ma solo i nani potevano sapere i festeggiamenti che vi potevano avvenire, i banchetti che vi venivano consumati, le notti insonni che si susseguivano, tra birra e tabacco e canzoni. Quella sera sarebbe stata come una scintilla che avrebbe fatto riaccendere un fuoco spento da troppo, troppo tempo. Ed era forse stata la troppa attesa a rendere quel giorno così agognato a tutti, così a lungo desiderato, che sembrava solo un sogno lontano.
 
Thorin si strinse leggermente l’avambraccio osservando, con le braccia incrociate al petto, l’immenso atrio sotto di lui, che dall’entrata della montagna si apriva verso l’entrata del regno della montagna; l’androne era talmente illuminato, talmente vivo che per un secondo gli sembrò di essere ritornato un ragazzo, a piu’ di cento anni prima, tra stoffe gialle e blu che svelte si muovevano ai piedi delle grandi statue che sorvegliavano il lungo corridoio. A quando tutto era piu’ facile, a quando aveva cominciato ad andare ai primi consigli, a quando sua sorella e suo fratello cercavano in tutti i modi di rendergli la vita piu’ complessa già di quanto non fosse, a quando era solo un giovane principe che non riusciva a malapena a immaginarsi re e che voleva solo rendere orgoglioso suo padre, suo nonno… prima della malattia, prima del drago, prima dell’esilio, prima di lei.
 
Per lui, i giorni che portarono a quel pomeriggio furono come sospesi fuori dal tempo, un susseguirsi di momenti in cui la vita nella montagna andava avanti ma la sua rimaneva bloccata a quella notte; all’odio incontrollato che era stato capace di sprigionare solo in pochi attimi, alla furia che lo aveva colto nel vederla lì sotto, tra quelle monete, dove tutto aveva avuto un inizio e una fine: il suo sogno piu’ dolce nel suo incubo piu’ terribile. Per quanto si volesse autoconvincere che quelle parole lei le avesse meritate, sapeva benissimo che non fosse così, sapeva benissimo che si era solo trovata nel luogo sbagliato nell’attimo sbagliato, nell’unico attimo in cui lui non sarebbe stato in grado di sopportare la sua vista e a parlare dell’unico argomento che lui non era in grado di tollerare.
 
Era riuscita a farlo diventare ciò che si era ripromesso di non essere piu’, aveva gettato su di lei quel dolore che in tutti i modi aveva cercato di evitarle.
 
Ogni momento in cui la sua testa non era impegnata in altro, o appena era solo in una stanza, la sua mente ritornava in quella sala: al disprezzo che le aveva riversato addosso, alle parole che le aveva sputato in modo talmente violento da farsi paura, al dolore che quelle stesse parole gli avevano inflitto, ai suoi occhi divenuti due pozzi scuri e al dolore che si autoinflisse quella notte rompendosi quasi la mano sulla pietra dura della sala del tesoro rendendosi conto di ciò che aveva appena fatto, di come avesse rovinato tutto. Ogni notte aspettava, aspettava consumato dai sensi di colpa, ma incatenato a un orgoglio che lo aveva portato a maledirsi, a osservare la porta dall’altro capo della balconata rimanere chiusa, sperando di trovarla già lì, per rivolgerle una parola, o almeno poterla guardare in viso. Ma anche questo gli fu negato: lui, il re sotto la montagna si stava facendo negare una delle cose piu’ banali e futili che potessero servirgli, che potessero servire a Thorin Scudodiquercia, uno sguardo.
 
Gli negò perfino quei piccoli momenti  in cui, durante le poche settimane che erano passate dal suo arrivo, lui poteva avere un po' di pace da quel dolore che lei con solo la sua sola presenza riusciva ad alleviare. Ora era lei stessa a provocarlo, con il suo cambiare scala quando passava, il suo evitare i suoi sguardi tra le colonne di marmo, non rivolgendogli neanche la parola. Quei gesti futili lo stavano portando al limite e quasi come a torturarlo, lei appariva nei suoi incubi, tutte le notti, sempre accanto a lui e sempre finiva nello stesso modo, tra baci e gemiti, sommessi tra le lenzuola del suo letto. Alla fine, aveva perfino finito per bearsene, era finito per accontentarsi di quei momenti nella sua testa, ma ogni volta si svegliava scosso dal terrore: dopo il dolce piacere di lei arrivavano i sensi di colpa, e il sangue e le lacrime e l’oro sotto di lui. Se fosse stato possibile, la bramava piu’ di prima, ma era proprio quella bramosia che lo bloccava ogni volta che passava davanti alla sua porta, dal bussare, o dal bloccarla per i corridoi, rivolgerle lui per primo la parola: era meglio che lei lo odiasse, lo respingesse, e che lui si sforzasse a odiarla, a respingerla via, riducendola solo a ombra.
 
E ora intanto che la montagna risorgeva, lui si lasciava sprofondare sempre piu’ in basso, non facendolo notare mai, non permettendo che gli altri lo notassero, non poteva permettere che gli altri lo notassero, le sue emozioni lo avevano già tradito abbastanza, già gli avevano fatto perdere abbastanza, tanto da far passare il suo odio verso il tesoro, verso se stesso.
 
Il leggero vento freddo dell’inverno dietro di lui che gli mosse leggermente i capelli, mentre la luce calda del tardo pomeriggio si insediava tra le colonne ricostruite, lasciando che l’aria fredda dell’inverno facesse volare via i suoi pensieri, spostandoli sul suo popolo, suoi doveri e non piu’ sui suoi desideri egoistici.
 
A piccoli passi un nano si avvicinò accanto a lui, verso la balaustra dove era poggiato, non dovette neanche girarsi per capire chi fosse, continuando a mantenere lo sguardo sotto di lui, verso il via vai della montagna; una mano gli si poggio sul braccio e glielo strinse con dolcezza. Balin guardò di sotto insieme a lui, condividendo i suoi stessi sentimenti, la sua stessa nostalgia, e un leggero sorriso malinconico gli si dipinse sul viso rimanendo così in silenzio per qualche istante, come se sapesse che il silenzio in quel momento era l’unica cosa che gli servisse da parte sua: un’amara consolazione.
 
La sua presa sul suo braccio si fece meno salda e lì capì che era il momento di finire di perdersi tra i ricordi.
 
“Ho mandato un corvo a Dale, come avevi ordinato, gli uomini della città cominceranno a breve a riempire i fori al lato nord della collina, chiedono piu’ braccia.” Gli riferì Balin portando entrambe le mani dietro la schiena continuando a tenere gli occhi fissati sotto di lui.
 
“Quanti?”
 
“Una trentina, nano piu’ nano meno.” Gli rispose Balin guardandolo di sottecchi, indugiando sul suo profilo austero, reso ancora piu’ tale dalla sua compostezza e dalle vesti color blu scuro, che anche se modeste, non si staccavano mai da quelle di un principe, o da un guerriero delle Montagne Azzurre, come se una parte di lui ancora non riuscisse a staccarsi da ciò che era stato per tutti quegli anni.
 
Thorin parve pensarci per qualche secondo per poi annuire spostando lo sguardo dai nani sotto di lui verso di lui che ancora aspettava una sua risposta.
 
“Accordaglieli, basta che comincino, le tormente di neve arriveranno presto.”
 
“Sta appena cominciando a nevicare.”
Thorin girò lievemente la testa di lato, verso la terza voce che si era unita alla conversazione: Dwalin che fino a quel momento era rimasto in silenzio, era poggiato a braccia conserte su una colonna poco lontana da Balin osservando di sottecchi la conversazione.

“Allora mandateli prima che la neve aumenti.” Gli rispose, poggiando poi entrambe le mani sul reggipetto continuando ad osservare il via vai di nani, che pian piano diventavano sempre piu’ numerosi e rumorosi.

“E’ tutto pronto per sta sera?”
Alla domanda Dwalin gli fissò le spalle prima di puntare gli occhi su suo fratello che palesemente nervoso si strinse le mani l’una nell’altra, sapeva cosa stesse pensando perché la stava pensando anche lui: perfino un cieco avrebbe potuto vedere ormai.

“Si ragazzo, e questa volta il posto del re appartiene a te, sarà una serata che passerà alle leggende.”
Thorin non rispose, fece solo un breve cenno con la testa di ringraziamento, stringendo leggermente gli occhi quando un piccolo gruppo di giovani nani gli passo oltre le lunghe colonne, con le braccia volte l’uno sulle spalle degli altri: erano solo dei ragazzi ma portarono la mente di Thorin a un gruppo di tredici nani che sedeva intorno a un fuoco di fortuna in mezzo alle intemperie, sotto la pioggia e la neve.

“Tutti i membri della compagnia siederanno al tavolo reale, sarà il loro posto da adesso in poi, glielo riferirai tu?” Chiese spostando lo sguardo verso Balin a cui scappò un sorriso sollevato.

 “Non penso che tu possa renderli più felici di cosi ragazzo.” Gli rispose guardandolo di sottecchi: forse le sue preoccupazioni erano solo infondate.

Thorin annuì con un sorriso tirato e  sospirando fissò nuovamente il gruppo di giovani nani che oltrepassavano la grande porta per poi scendere giù nelle profondità della montagna e alla loro scomparsa il suo viso passò di nuovo in rassegna ogni  con una leggera spinta delle mani si allontanò dalla balaustra come per scacciare un pensiero.
 
“Il posto accanto a te suppongo lo debba lasciare libero, per la rag-“
 
“Lei non verrà.”
 
Lo interruppe violentemente non distogliendo lo sguardo da sotto di lui facendo assottigliare lo sguardo di Dwalin e invece sobbalzare Balin che confuso strinse le labbra abbozzando un sorriso che avrebbe dovuto rincuorarlo, ma
 
“Questo non lo puoi sapere.”
 
“Te l’ho già detto, lei non verrà.”
 
“Quello che è successo nelle fucine è stato solo un evento isolato, è una ragazza saggia da non farsi svilire da un evento del genere, e poi c’è quel gruppo di ragazzini che la seguono ovunque, si sono affezionati a lei, cosa ti dice che non possa accadere lo stesso con gli altri?”
Gli occhi del re divennero due fessure, ormai perse oltre le scale, oltre il corridoio, nei suoi ricordi, nei suoi pensieri. “Non è per quello, io so che non verrà, e non ne voglio parlare oltre.” Cercò di bloccare l’argomento, non riuscendo a contrastare l’angoscia che pian piano saliva dal ventre fino ai muscoli tesi delle spalle.
 
“Almeno glielo hai detto?” Gli chiese di nuovo Dwalin, questa volta il tono che usò gli fece alzare dei leggeri brividi sulla schiena, e incontrollabilmente strinse la mascella girando lo sguardo nuovamente verso di lui e con suo stupore Dwalin adesso lo fissava, diretto, impassibile con le mani ben stretti intorno alle braccia. Bastarono
 
“Diglielo tu se vuoi.” Gli rispose lanciandogli un’occhiata che avrebbe fermato chiunque a continuare l’argomento per poi spostare nuovamente lo sguardo verso il basso. “Io ho altro a cui pensare al momento.” Continuò attenuando la voce ancora però roca, e anche se non riuscì a vederlo, poté giurare che Dwalin stesse alzando gli occhi al cielo.
 
Dwalin lanciò un’ennesima occhiata a Balin che lasciò un sospiro uscirgli dalla bocca annullando  le distanze con Thorin poggiandogli una mano sulla schiena dove ora i suoi muscoli guizzavano tirati come non mai in quei giorni: il solo avere Ghìda come argomento delle conversazione aveva reso il re ancora piu’ oscuro, ancora piu’ intrattabile di quanto non fosse nelle ultime settimane, e come accadde nella sala del trono a Dwalin non servì altro, sapeva benissimo a chi dare la colpa.
 
 “Tutti i nani della montagna saranno qui, averla accanto sarebbe stata un idea saggia ragazzo.” Gli disse con fare paterno Balin, ma a quella affermazione seguirono anche gli stessi pensieri che tormentavano Thorin da giorni e la stretta al petto ricomparirono, piu’ violenti, il viso di Ghìda ricompari ancora piu’ violento.
 
“Tu non sei nulla.”
 
Strinse leggermente i pugni puntando lo sguardo verso il nano accanto a se, cercando di controllare il suo tono di voce il piu’ che poté, ma al sentore del primo guizzo sui suoi muscoli della schiena Balin scostò la mano.
 
“Quello che deciderà…”
 
Cominciò a parlare, ma le parole gli morirono in bocca quando con la coda dell’occhio la sua vista fu catturata da un elemento fuori posto, che in quel momento, stava attraversando l’androne passando accanto una delle statue dei grandi guerrieri che sorvegliavano l’entrata: lesta e attenta a dove passava, tenendo intrecciate le mani nella stoffa dell’abito che indossava, spostando il viso di parte a parte ma senza mai girarlo verso di lui, riuscì solo a intravedere l’ombra dei due pozzi scuri che tanto bramava; e come accadeva piu’ spesso in quei giorni, si senti scomparire.
 
La seguì con lo sguardo fedelmente fino a che non oltrepassò l’enorme porta del palazzo infondo al corridoio, non riuscì neanche a vederla in viso, solo i lunghi capelli indomabili che le ricadevano lunghi sulla schiena, ma basto tanto quello a creare un silenzio profondo, e a fargli digrignare la mascella.
 
“Quello che deciderà rimarrà una sua scelta, non mia.” Ribatté roco distogliendo lo sguardo dalla schiena di Ghìda e puntandolo verso Balin ancora accanto a lui: il discorso stava prendendo una piega che non poteva lasciar accadere, non ancora.
 
Scosse la testa e con un movimento veloce si diede forza con le mani sulla balaustra e senza indugiare oltre passò accanto a Balin, oltrepassandolo, sfiorandogli leggermente la spalla con la sua schivandolo e lanciandogli di sfuggita un ultima occhiata  prima di lasciare il terrazzo a grandi passi e a scendere le scale lasciando i due fratelli immersi in un’ondata di gelo a osservando schiena dal loro re, che li lasciava accompagnato dal rumore metallico degli scudi dell guardi che si alzavano al suo passaggio.
 
Dwalin scosse la testa dandosi una spinta con il piede alzando la schiena dalla colonna e puntò uno sguardo trucido verso il fratello mentre quest’ultimo osservava Thorin andarsene sospirando pesantemente: guardarlo come si guarda un cane bastonato non avrebbe cambiato nulla, anzi avrebbe solo peggiorato le cose.
 
“Hai parlato con lui fratello?” Gli chiese Balin con voce preoccupata girandosi verso di lui e Dwalin di tutta risposta scosse la testa avvicinandosi alla balaustra, al posto che prima era occupato da Thorin, o meglio dall’ombra di ciò che era un tempo Thorin.
 
“Sai come è fatto…” Cominciò poggiando una mano sulla schiena di Balin, quasi a rincuorarlo, vederlo così faceva piu’ male a lui probabilmente, che a se stesso. “Potrei dirti che io ho parlato con lui, ma che lui non ha parlato con me. Discutere con lui è inutile.” Ammise facendo alzare le spalle al fratello che ancora seguiva il passo di Thorin.
 
“Con te forse parlerebbe, sei stato per lui un padre tanto quanto lo è stato Thràin… per entrambi.”
 
“ Ne dubito fratello, ha molti pregi, ne ha sempre avuti, ma la trasparenza, non è mai stata una tra questi. Sa governare piu’ un popolo che se stesso: piuttosto che darmi una preoccupazione mi risponderà che sta bene.”
 
Balin sospirò e scosse la testa rassegnato riallacciando le mani dietro la schiena.
 
“Speravo che dopo un paio di mesi, il lutto gli sarebbe scivolato addosso, come è successo con il tempo, con suo nonno, con Frerin, con suo padre.”
 
Dwalin strinse gli occhi tristemente e abbassò il capo tristemente sentendo come se fossero ancora lì, circondati dal ghiaccio le urla struggenti di Fili, e il corpo di Kili protetto selvaggiamente dall’elfa di Bosco Atro, coperto dalle sue lacrime, trattenuto gelosamente, tra le sue braccia, mente lo cullava. Dwalin chiuse gli occhi a ripensare a come aveva dovuto caricarsi in braccio entrambi i loro corpi e portarli giù da quell’inferno, e a alle lacrime silenziose che aveva versato quando li dovettero posare su quelle lastre di pietra fredda, con gli occhi chiusi, che non si sarebbero più aperti. Ma la reazione di Thorin in quei giorni non era di dolore, non, non quello che gli aveva visto sfogare piegato su un tavolo scosso dalle lacrime, era qualcosa di diverso.
 
 “Non sono Fili e Kili la causa del suo comportamento, è ben altro.” Un  grugnito gli uscì dalla bocca puntando severamente lo sguardo sotto di lui verso la figura di Thorin che si allontanava e poi verso la discesa nella quale era scomparsa la ragazza facendo chiaramente intendere a chi si riferisse.
 
Suo fratello capì quando osservò verso cui era indirizzato il viso del fratello. “Sei sicuro che si tratti della ragazza?”
 
“Così sicuro da farmi tagliare un braccio, nel nome di Durin, se ho torto.”
 
Balin sospirò pesantemente, ripensando a come Thorin l’aveva guardata quel giorno nelle fucine, e come invece la guardava ora, suo fratello lo aveva capito, come lui. “Ho notato anche io come la guarda, non avrei mai creduto possibile una cosa del genere, non dopo tutto quello che è successo per lo meno.”
 
“Tu speri che lei lo possa aiutare non è così?”
 
“Perché tu no?
 
“Io spero piu’ che si possano aiutare a l’un l’altra. Non pretendo che si…” Al solo pensiero si bloccò immediatamente, no quello non sarebbe mai successo, sarebbe stata una mera fantasia, Thorin non si sarebbe mai concesso a tal punto: la sua unica  e il suo unico sarebbe stata Erebor e solo questa, no lui sperava solo che potessero accettarsi l’un l’altra.
 
 “E’ un dovere per loro sposarsi e lui lo manterrà a qualunque costo lo manterrà, ma… sono così simili, tu con lei non ci hai parlato, io si. Non ho mai visto un essere piu’ afflitto di così, così fiera nel suo dolore, se quello che ha detto suo padre è vero, non oso neanche immaginare cosa copra quella fierezza.” Finì con voce flebile, rabbuiandosi improvvisamente, e Dwalin aumento la stretta sulla sua spalla facendo poggiare a Balin una mano su di essa: sapeva di cosa stesse parlando.
 
“Per Thorin è come guardarsi attraverso.”
 
Balin annuì  tristemente sapendo forse piu’ del fratello quando quell’affermazione fosse veritiera, lui se ne era reso conto appena aveva visto Ghìda, dopo la battaglia a parlare con Gandalf fuori le mura, con la cotta e il viso macchiato di sangue scuro che le avevano resi i tratti incredibilmente piu’ oscuri, aiutandola a nascondersi ancor meglio, un celarsi dietro una lastra impenetrabile che Balin conosceva fin troppo bene.
 
“Hanno lo stesso sguardo quando parlano, lo stesso fardello e… si guardano anche nello stesso modo, Durin solo sa cosa gli passa per la testa.”
 
“Lo so bene.” Borbottò Dwalin di tutta risposta, ma una frustrazione gli si cominciò a creare nella pancia salendo sempre piu’ su non riuscendo a controllare i suoi pensieri che senza riserva alcuna si indirizzarono rabbiosi sulla mezz-elfa. “Ma lei non lo guarda più così.” Appuntò duro come la roccia.
 
La bocca del piu’ grande dei due fratelli si aprì leggermente, non riuscendo a credere alle parole così dirette che uscirono dalla bocca di Dwalin: i suoi muscoli orano erano tesi a solo pensare alla ragazza e gli occhi ridotti a due fessure.
 
“Lui non ti dirà mai se è successo qualcosa Dwalin, lo sai bene.” Sottolineò Balin severo.
 
“Allora rimane solo un alternativa.” Commentò duro allentandosi dalla balaustra lanciando un’occhiata verso Balin prima di voltargli le spalle e cominciare a camminare via.
 
“Dove stai andando?” Lo chiamò Balin ma lui non si voltò accelerando ancora di piu’ il passo.
 
“A tagliare la testa al serpente.” Mormorò non essendo neanche realmente sicuro se Balin lo avesse sentito e non gli importava neanche era determinato a porre la parola fine su quella storia, non avrebbe permesso a nessuno di ridurlo così e se non ci voleva pensare Thorin, ci avrebbe pensato lui.
 
Balin lo osservò allontanarsi dalla parte opposta rispetto a quella in cui si era diretto Thorin, verso la porta per il palazzo: avendo sentito precisamente le ultime parole di suo fratello e quando Dwalin si metteva in testa qualcosa, avrebbe anche potuto supplicarlo, ma l’avrebbe fatta comunque, soprattutto che era per il suo re, o in quel caso, per il suo amico, il suo migliore amico.
 
Dwalin infatti fu inarrestabile, anche nel suo camminare: scese dalla balconata a grandi falcate, muovendosi rapido tra la quantità di gente che continuava ad aumentare nelle sale, schivando e oltrepassando ogni nano che incrociava la sua strada verso l’entrata delle alee del palazzo, si beccò anche degli sguardi severi da alcune guardie, ma che smisero subito appena lui li ricambiò sapendo precisamente chi lui fosse e cosa potesse essere capace di fare se stuzzicato.
Si fermò per un istante riprendendo fiato all’entrata del palazzo: passò velocemente lo sguardo su ogni scala, su ogni corridoio o gradino; se la mezz-elfa si muoveva così lenta non sarebbe salita così in alto da non permettergli di raggiungerla. Infatti, passati a setaccio una decina di corridoi e di scale verdi, il profilo così riconoscibile della ragazza gli si palesò davanti, a un paio di piani sopra di lui e serrò la mascella mentre una frustrazione terribile gli cominciò a montare nel petto ogni gradino che la mezz’elfa saliva. Con uno scatto cominciò a salire velocemente le scale per raggiungerla, molti probabilmente lo avrebbero ritenuto pazzo e forse in quel momento era proprio quello che sembrava, ma ormai aveva deciso, neanche Thorin stesso sarebbe stato capace di fermarlo, anzi se lo avesse avuto avanti in quel momento avrebbe mandato a marcire lui e il suo caratteraccio. Il suo maledetto orgoglio sarebbe stata la sua rovina.
Pan piano che si avvicinava il suo passo diminuiva e solo quando si trovò a una rampa di scale da lei, vicino alla sala del consiglio, decise di rallentare, di prendere fiato, di ritrovare quella calma che stava cominciando a perdere ogni secondo che passava; lanciò un occhiata verso la sua sinitra, dove una seconda rampa di scale di diramava su fino a finire, dopo lo spiazzo della sala del consiglio, in un unica scala, quella per i piani reali: invece di correrle dietro, inboccò la via opposta che inevitabilmente li avrebbe fatti incontrare, uno di fronte all’altra, senza lasciarle modo di ignorarlo, di passargli oltre.
La presa aumento sulla balaustra quando lei si accorse della sua presenza e del suo sguardo insistente e anche probabilmente della sua aria poco amichevole, salendo i gradini per raggiungere lo spiazzo sospeso su cui lei si era già fermata a osservarlo dapprima confusa ma poi forse notò la sua mano ben stretta . Non un saluto gli rivolse o un breve inchino
 
Tutto si poteva dire di lei, tranne che fosse una sciocca, le ci volle meno di un attimo a capire cose volesse da lei, perché infatti il suo viso cambiò radicalmente, diventando una lastra impenetrabile, che non lasciò trasparire nessuna emozione , lo stesso viso con il quale era entrata nella sala del consiglio la prima volta che l’aveva vista la prima volta. Ora comprese le parole Balin quando gli disse che lei e Thorin si somigliavano: mettere su una maschera di indifferenza pura era una cosa che ma vedere la stessa espressione , lo stesso portamento su entrambi gli sembrò quasi inquietante. Oltrepassò l’ultimo gradino avvicinandosi di qualche passo, solo l’enorme porta verso la sala del consiglio li divideva da una parte e invece dall’altra la rampa di scale per le stanze reali; lo sguardo della mezz’elfa rimaneva inespressivo, aspettando che lui parlasse.
 
“Questa sera verrete?” Le chiese diretto, e pungente, senza stare a pensare all’etichetta, se si somigliavano davvero così tanto l’etichetta sarebbe solo stata l’ennesima facciata in cui lei si potesse celare, infatti lei di tutta risposta gli indirizzò uno sguardo glaciale tirando la schiena.
 
“Non credo che il re gradisca la mia compagnia.” Disse quasi monocorde, tanto da farlo sorridere ironicamente e incrociare le braccia al petto non riuscendo a contenere un sorriso forzato.
 
“E io mi domando, cosa ve lo possa far pensare?”
 
“Ho le mie ragioni signor Dwalin.” Rispose dura all’affermazione, lanciandogli un’occhiata prima di continuare a camminare e a voltarsi pronta a salire la lunga scala.
 
“Le vostra ragioni sono ridicole.”  Lei si bloccò all’istante e gli lanciò uno sguardo gelido.
 
“E la vostra fedeltà verso il re sotto la montagna è ammirevole ma io non mi debbo giustificare con nessuno, tantomeno con voi e con lui.” Rispose Ghìda lasciando che un briciolo della sua frustrazione si manifestasse con l’ultima parola pronunciata, sottolineando chiaramente la parola lui. Scosse la testa e si girò pronta ad andarsene, non era in grado di gestire quella conversazione, soprattutto con qualcuno che sarebbe morto per il re sotto la montagna, si aggrappò al corrimano e cominciò a salire.
 
“Vi state comportando come una ragazzina.” Le disse freddo sputando quelle parole volutamente per farla bloccare e così fu: a quelle parole lei si fermò sul primo gradino delle scale degnandolo di nuovo della sua attenzione con un’aria scioccata, ma lui non aveva finito, oh no che non aveva finito. E per quanto seppe che le parole che stava per pronunciare sarebbero devastanti per lei, doveva farla crollare, perché continuare così non sarebbe servito a nulla.
 
“Dite di voler essere una nana, di voler far parte di questa montagna, ma lo siete meno ora di quanto voi non lo siate mai stata dal primo mento in cui vi ho visto!” Mormorò cercando il piu’ possibile di mantenere la calma, ma aver vomitato quelle parole lo fece sentire terribilmente in colpa, anche se infondo le pensava sul serio.
 
Come successe nelle fucine, l’aria di indifferenza finì per essere la sua condanna, perché da come si morse il labbro capì che aveva raggiunto il suo obiettivo: Ghìda assottigliò lo sguardo nero, incredula delle sue parole;  il tono con cui le si era rivolto, la fece irrigidire così minaccioso e brusco. Un vago sentore di rabbia che fino a quel momento era riuscita a controllare iniziò a sprigionarsi dallo stomaco, ma più piu’ che salire le si bloccò all’altezza del petto, facendole ripatire quella sofferenza che cercava di ignorare da giorni.
 
“Voi..” Cominciò puntandogli il dito addosso e scendendo nuovamente lo scalino su cui era, tornando alla stessa altezza del nano di fronte a lei, ma la voce le diventò sempre piu’ esile.  “Non avete alcun diritto di venirmi a rinfacciare il mio comportamento, e neanche Th…” Si bloccò di colpo:  anche solo pronunciare il suo nome le fece venire una stretta al petto talmente fitta da farle  serrare i pugni.  “Il re sotto la montagna, i suoi problemi sono suoi soltanto, come i miei mi appartengono.”
 
L’imponenza del nano di fronte a lei le parve improvvisamente piu’ grande, le si avvicinò scuotendo la testa con ancora le braccia incrociate al petto.
 
“Io non vengo da parte di nessuno, mia signora, io sono venuto qui da voi per mia scelta, mia soltanto. E credetemi quando vi dico che dirvi queste parole è più difficile per me che per voi.” Puntualizzò freddo.
 
“Non credete mia signora che il vostro dolore valga piu’ di quello di qualcun altro.”
 
Concluse il nano e per lei fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso, come se non lo sapesse, come se non avesse visto o sentito. Strinse le labbra  l’una sull’altra abbassando lo sguardo lentamente:un sorriso amaro le si dipinse sulle labbra, intanto che l’orgoglio lottava contro le lacrime che non facevano altro che spingere per uscire, riportandola a diverse notti prima. Il viso di Thorin a pochi centimetri dal suo sfigurato dall’ira, le sue parole che la trafiggevano come frecce, il suo cuore spezzarsi in due lasciandola singhiozzare silenziosa su una fredda scala di pietre. Si morse il labbro tanto poter sentire la pelle spezzarsi sotto i suoi denti prima di alzare lo sguardo verso il nano che ancora la guardava giudicatrice.
 
“Vi ha raccontato cosa è successo?” Mormorò puntando di nuovo lo sguardo verso il nano di fronte a lei.
 
Non furono le parole della mezz’elfa a far chiudere la bocca a Dwalin, ma la punta di dolore con cui gliele sputò addosso: le sopracciglia crucciate, la corazza ormai in frantumi a terra, le mani attorcigliate talmente tanto nel tessuto dell’abito da sgualcirlo. Ogni momento di silenzio face trasfigurare il volto della mezz-elfa fino a far coprire i suoi occhi con un velo di afflizione, che solo una volta vide: durante una battaglia, da parte di un re impazzito, accanto a un trono in frantumi.
 
“Cosa vi ha fatto?”
 
 
 
 





L’unico rumore che rimbombava per l’enorme salone vuoto era quello di lame che si incrociavano l’una sull’altra, che si abbattevano vigorose senza sosta da piu’ tempo del dovuto considerando la luce arancione del tramonto che era rimbalzata fino a lì o dal vociare sempre piu' basso per le sale del palazzo. Il silenzio quasi tombale invadeva l’enorme Salone del Ferro: speculare a quella del trono ma decine di piani sotto, era una sala circolare quasi del tutto chiusa, tranne per le file di finestre con vetri azzurri e i parapetti vicino al soffitto che potevano permettere a chiunque di guardare all’interno della sala d’addestramento e grande abbastanza da poter permettere  ai due nani boccheggianti di potersi muovere liberamente, senza andare a scontrarsi con la quantità infinita di armi e scudi, archi e  frecce e statue di antiche guerrieri che costeggiavano le pareti verdi. 
 
Il silenzio quasi tombale era spezzato solo dagli ansimi dei due nani che freneticamente e senza tregua riprendevano possesso di gesti e movimenti che in altre circostanze gli sarebbero serviti in battaglia e solo in battaglia, ma che per loro era diventata un’abitudine diventata piu’ che rara negli ultimi tempi . Un vizio da cui non si poterono mai distaccare,  da quando erano ragazzi inesperti e solo volenterosi di imparare fino a quando arrivarono ai Monti Azzurri: passavano le ultime ore della giornata così, ad allenarsi, a saltare perfino la cena,  a scaraventare l’uno sull’altro le proprie afflizioni, i propri istinti e desideri.
Per entrambi era sempre stato un modo per non dirsi nulla e dirsi tutto, ogni colpo, ogni parata, ogni fendente mal assestato; potevano far capire a uno quello che provava l’altro e fu proprio questa consapevolezza il motivo per il quale Thorin dovette sforzarsi di rimanere lucido, piu’ lucido di quanto non lo fosse mai stato, ma piu’ l’ora della cerimonia si faceva vicina, piu’ i suoi colpi diventavano piu’ lenti, le sue parate piu’ fiacche e il petto sempre piu’ pesante. E i pensieri sempre piu’ annebbiati da un unico viso, le orecchie sempre attrappate da un ansimo fuso col suo, ma non era quello di Dwalin, no lui era freddo, come il ghiaccio, non gli aveva detto nulla da quando era entrato e si era tolto la pesante casacca, rimanendo con lui in camicia, con ormai gli aloni di sudore macchiavano i petti e le schieni di entrambi
 
La sua testa era altrove, stava compiendo errori su errori e lui glieli stava facendo passare tutti.
 
Dwalin lo osservò greve quando riuscì a malapena a bloccare il suo ultimo colpo con lo scudo che teneva nella mano destra, non facendogli questa volta passare l’errore e  pronto a sferrargli un colpo con la seconda ascia che teneva nella mano opposta all’altezza della spalla , costringendolo a pararlo con la spada che aveva nelle mani, facendogli stringere i denti talmente forte il contraccolpo.
 
Ansimante lo guardò negli occhi. “Cosa stai cercando di fare, uccidermi?”
 
“Se fosse una battaglia vera ti avrei già ammazzato una decina di volte.” Gli rispose Dwalin secco ansimando e annullando la forza delle asce che bloccavano Orcrist e che premevano sullo scudo sull’altro braccio permettendo di muovere il braccio, asce che lasciò cadere lungo i fianchi guardandolo greve.
 
Mentre entrambi riprendevano fiato piegati leggermente sulle ginocchia, Dwalin si tirò leggermente su puntando severo una delle due armi verso il petto del re cercando di riprendere fiato stufo della situazione, nel frattempo che Thorin aumentava la presa sullo scudo ansimante pronto a pararsi da qualsiasi suo movimento improvviso, anche dalle sue insistenti domande.
 
“Te lo chiedo un ultima volta, cosa ti prende.” Ripeté osservandolo dritto negli occhi mente ora la punta dell’ascia toccava il suo petto, ma Thorin rimase in silenzio:  guardò prima giù verso di lui e poi verso la lama scostandola con un movimento della spada per poi bloccargliela verso il basso e dargli uno spintone con lo scudo pronto a portargli la spada sul fianco, ma il suo silenzio insistente fece solo adirare di piu’ Dwalin che prontamente si spostò di lato e vibrò in aria l’ascia libera.
 
 “Non sei mai stato bravo a mentire e ti chiedo almeno di non farlo con me.” Gli disse serioso bloccando il fendente diretto verso il suo fianco con entrambe le asce, ansimante.  Le sue parole parvero toccare una ferita aperta e ancora sanguinante, e fu così, perché infatti Thorin strinse la mascella e un ringhio sommesso dal petto gli uscì tra gli ansimi.
 
L’insistenza di Dwalin fu come una ennesima goccia che lo avrebbe portato a esplodergli addosso, e così fu: con rabbia strinse il manico di Orcrist, lasciando il rancore di quei giorni prendere pieno possesso del suo corpo.
 
“Non ho nulla da nascondere.”
 
Ribatte controllato lasciando cadere lo scudo al lato afferrando Orcrist con entrambe le mani e  con grande sorpresa di Dwalin riuscì a discapito delle due lame che lo bloccavano la sua a fare talmente forza da ribaltare la situazione muovendo le asce dalla parte opposta  e ad assestargli un colpo alla testa talmente forte che lo fece gemere di dolore. La frustrazione, mischiata all’adrenalina, lo fece diventare improvvisamente piu’ aggressivo,  la rabbia che gli montava nel petto stava fuoriuscendo, lo percepiva sempre piu’ reale, non ridotta dai suoi ansimi di fatica.
 
Dwalin lo guardò furente intanto che da in mezzo alla fronte un piccolo rivolo di sangue gli scendeva giù per il viso, fino al naso, spaccandogli il viso precisamente in due:  collerico strinse così fermamente le asce nelle sue mani che i tatuaggi sbiaditi sulle mani gli diventarono bianchi.
 Thorin dall’altra parte delle sala, con la stessa ferita sulla fronte che lo guardava ostile, mentre il sangue dalla fronte gli ricadeva copioso per terra, macchiando la pietra verde sotto i piedi del re.
 
L’aria diventò improvvisamente ostile, da entrambe le parti, Thorin si porto sulla difensiva in qualsiasi modo quella parola potesse avere un significato, parandosi con la spada elfica stringendola con entrambe le mani improvvisamente piu’ pesante, così come il suo petto: era deciso a non dirgli nulla, lui non poteva sapere nulla, non di quello, non di lei, non di quello che le aveva fatto. Dwalin d’altro canto era piu’ deciso che mai, lo avrebbe fatto parlare, doveva sentirlo uscire dalle sue labbra, non gli bastavano le parole di una mezz’elfa, no, non piu’. Con foga lo carico librando in aria un’ascia pronto a colpirlo.
 
“Mi hai chiesto se mi fidassi di te!” Gli urlò tentando di assestarli un colpo dal basso verso l’alto con al quale Thorin schivò di lato tenendo la spada tra le mani: la violenza nei colpi di Dwalin aumentava sempre di piu’, per un attimo desiderò conficcargli l’ascia dritta nel petto per vedere quello che conteneva.
 
“Non ho mai dubitato della mia risposta!” Cercò di colpirlo un'altra volta ma nuovamente lui schivo il colpo di lato continuando a rimanere in silenzio
 
“Non ho mai dubitato del mio giuramento verso il mio re.”  Dwalin stesse per assestare un altro colpo ma bloccò l’ascia a mezz’aria osservando dritto negli occhi Thorin prendendo dei grossi respiri guardnadolo ansimante quanto lui.
 
“Ma mi devi dire cosa è successo Thorin”.
 
 Lui però non parve fermarsi e a quella affermazione, infatti Thorin non riuscì piu’ a controllarsi: con un movimento rapido gli diede un colpo con l’ascia facendolo sbilanciare e ne approfittò per portarsi di nuovo in situazione di vantaggio, con gli occhi azzurri carichi di rancore e frustrazione, con forza lo spinse per terra ancor di piu’ e si lasciò cadere su di lui, bloccandogli qualsiasi movimento e puntandogli ansimante la lama della spada verso il petto,  sempre piu’ vicino alla gola cercando di regolarizzare il suo respiro ormai con la lama di Orcrist così vicino alla gola di Dwalin, così vicino che Thorin poté vedere il suo riflesso nella lama, e poté vedere come lo stava guardando.
 
Dwalin lo fissò greve, non curandosi minimamente della lama puntata alla sua gola  oltre i ciuffi attaccati alla fronte dal sudore e gli occhi di Thorin trasformati dalla collera che era riuscito a fargli fuoriuscire e dalla stanchezza.
 
“Si tratta di lei non è vero?” Gli disse sempre piu’ sicuro e capì di aver fatto breccia quando, così a poca distanza dal suo viso riuscì a cogliere un guizzò nel suo sguardo ma durò solo un attimo quella affermazione strinse gli occhi e bloccò il suo respiro ansimante, e senza rispondergli e si alzo dal corpo da  ‘con un movimento veloce.
 
“Abbiamo finito per oggi.” Asserì lanciandogli un’ultima occhiata che avrebbe fatto zittire chiunque ma non Dwalin: non piu’. Thorin però non gli diede modo di parlare, si comportò come se tutto quello che avesse detto fosse niente per lui, avvicinandosi verso uno dei tavoli di marmo affianco a loro dove vi erano accatastati le vesti troppo scomode da poter indossare e le else delle loro armi.
 
Il nano infatti si alzò lentamente da terra ansimante e con il dorso della mano si asciugò la ferita e osservò il sangue sulla mano, cosa fosse riuscito a scaturire solo con una domanda in piu’ sulla mezz’elfa, ora il suo obbiettivo era cambiato, non voleva parlare per lei, i loro problemi erano solo loro, il problema adesso era Thorin, si sarebbe autodistrutto e lui questo non poteva permetterlo.  
Osservò il profilo di Thorin che si passo il lembo della camicia sulla fronte per fermare il sangue che continuava a scendere e a macchiargli i capelli, trattenendo con l’altra teneva la spada ben poggiata sul tavolo, come se fosse pronto a combattere di nuovo, ma adesso la battaglia tra di loro due sarebbe stata combattuta ad armi pari.
 
 Dwalin serrò la mascella e con rabbia, scaraventò la sua ascia per terra di proposito sfogando la frustrazione e facendo rimbombare il rumore del metallo per tutta la stanza, rizzare la schiena a Thorin.
 
“Cosa è successo l’altra notte?! Me en frau’hak!”
 
Thorin a quella affermazione strinse il pugno di Orcrist, facendo diventare le nocche bianche ma rimanendo in silenzio con lo sguardo impassibile, come se le urla di Dwalin non fossero rivolte verso di lui, come se il discorso non lo riguardasse affatto e questo lo fece infuriare ancora di piu’ e si avvicinò a lui a grandi falcate.
 
“Cosa le hai detto?!”
Gli urlò diretto e questa volta Thorin non riuscì a rimanere impassibile, abbassò lo sguardo  colpevole smise di passarsi il panno sulla fronte e lasciò andare il pomo della spada poggiandosi con entrambi i pugni sul tavolo ormai macchiato dalle gocce di sangue purpuree.
 
“Hai parlato con lei?”
 
“Tu rispondi alla mia domanda.”
 
“Se la conosci già la risposta non vedo perché dovrei ripeterla.” Rispose secco Thorin e abbassò ancora di piu’ lo sguardo.
 
“Te lo chiedo perché voglio sentirlo uscire dalla tua stramaledetta bocca.”
 
Thorin strinse con forza i pugni poggiati sulla fredda roccia del tavolo quasi a volersi spaccare nuovamente le mani,  puntando lo sguardo su Orcrist ancora non infoderata sotto di lui, sulla lama specchiata, osservando il riflesso dei suoi occhi azzurri ormai quasi del tutto irriconoscibili.
Disgustato da se stesso, spostò lo sguardo altrove, sul manico per poi salire leggermente verso le  scritte in elfico che come una pianti si arrampicavano fino a metà della lama. Con delicatezza aprì una mano e poggiò il pollice su una delle lettere incise, accareddnandole gentilmente come se attraverso il piccolo gesto potesse cancellare ciò che era accaduto, potesse accarezzare altro che non una lama fredda.
 
Dwalin lo osservò in silenzio notando il leggero movimento e la cosa lo mando ancora piu’ in bestia.
 
“Nel nome di Durin, non penso di dover essere io a ricordarti le tue responsabilità verso d-“
 
Inaspettatamente il pugno di Thorin di scaraventò sul tavolo facendo tremare la spada e portando ancora poi’ silenzio se fosse possibile nell’immessa stanza.
“Non osare ricordarmi quali saranno i miei obblighi verso di lei, li conosco meglio di qualunque altro!” Urlò  girandosi verso di lui furibondo puntando prima il dito contro Dwalin e poi  contro se stesso.
 
La collera che fino a quel momento aveva tentato di celare esplose, tutto poteva sentirsi rinfacciare, era pronto a sentire qualsiasi cosa, ma non che non avesse provato, come se lui potesse conoscere cosa sentiva. Si avvicinò verso Dwalin a grandi passi con sguardo truce.
 
“Ho imparato i miei giuramenti tempo fa, molto tempo fa e me ne ricordo ogni singola parola come se ce li avessi tatuati addosso.” Sibilò guardandolo negli occhi “Sia come re che come marito.” Appuntò volendo rendere chiaro il concetto una volta per tutte.
 
“E quindi è così? Lei è un obbligo per te?” Replicò adirato Dwalin mentre una risata amara gli fuoriuscì dalla bocca. “Un obbligo che ti porta a fissarle la schiena quando cammina fuori da una sala? O un obbligo che ti impone di abbassare lo sguardo quando lascia la stanza?” Alla sua affermazione Thorin serrò la mascella, ma a lui non bastava, si avvicinò di un altro passo ormai faccia a faccia con il re dei nani. “O a dubitare apertamente un signore dei nani?” Mormorò truce e a quel punto Thorin scosse la testa voltandosi non avendo intenzione di procedere con quella conversazione.
 
“Quello che faccio Dwalin non ti concerne.”
 
Gli rispose autorevole impartendogli quelle parole come se fosse un ordine, ma questa volta fu l’unica volta in cui non obbedì, in cui non obbedì a Thorin in tutta la sua vita. Lo osservò mentre lui, certo che la discussione fosse chiusa, tornò a grandi passi verso il tavolo e lì infilò con un movimento secco la spada nell’elsa, che fino a poco fa aveva visto accarezzare come fosse una persona, e già sapeva chi, lo sapeva troppo bene ma Thorin lo sapeva?
 
“Non ti rendi neanche conto di come la guardi, vero?” Questa volta il tono di Dwalin cambiò radicalmente, trasformandosi in un tono comprensivo afflitto, ma che a Thorin arrivo come un pugno in pieno stomaco: sussultò e continuando a dargli la schiena incatenando i suoi occhi al pavimento, lasciando le parole di Dwalin scavargli una voragine nel petto, riportando alla luce la luce gialla del lago, il sorriso che gli aveva rivolto, il suo nome pronunciato con voce spezzata, il suo viso a pochi centimetri dal suo ogni maledetta notte da quel giorno, come la volesse portare a casa  sua  perché quella montagna non era casa sua, no, non lo era e forse ora era diventato il suo personale esilio che lui stesso aveva reso tale. I muscoli delle braccia gli si sciolsero immediatamente, facendogli abbassare le spalle e deglutire rumorosamente.
 
“Me ne rendo conto” Riuscì a mormorare: la collera a cui aveva dato sfogo adesso lasciava spazio solo a un’immensa malinconia che gli fece chiudere gli occhi, come per provare a trattenere il suo pensiero, ma farlo significò riaverla davanti a se, distesa sul suo petto, che glia accarezzava la barba e che lo guardava: di nuovo.
 
“Ed è questo che mi tormenta.”
Esiliò Thorin alzando lo sguardo verso Dwalin, guardandolo con tale angoscia che a l’amico, strinse le labbra come sull’altro, in quel istante, si pentì amaramente di ogni sua azione: le difese di Thorin erano crollate sotto il peso del rimorso.
 
“Non c’è un secondo da quella notte in cui non mi pento di ciò che ho detto, di ciò che ho sentito.” Thorin si interruppe un attimo fissando oltre le sue spalle e poi giù di nuovo verso il pavimento, come se quello che stesse per dire gli fosse costato una fatica indicibile.
 
“Di cosa sento.” Ammise vergognandosi di se stesso e crucciò le sopracciglia aspettandosi di sentir dire qualunque cosa da Dwalin, pronto anche a un’ennesima sfuriata, ma questa non arrivo: alla fine, invece arrivò la domanda che lo affliggeva da giorni, da settimane, nella notte nel giorno, ora non era lui a porsela da solo, ma il suo migliore amico, suo fratello, forse la persona che piu’ lo conosceva sulla faccia della terra.  Non riuscì a mentirgli, non poté mentirgli.
 
“E cosa senti?”
 
“Non lo so.”
 
 
 
 
 




“Bombur piantala! Ti sei spazzolato metà del montone che c’era sul tavolo.” Bombur riprese severamente il fratello che gli stava accanto dandogli una botta sulla mano che era già pronta ad afferrare l’ennesimo pezzo tra una delle centinaia di stoviglie vuote e ancora semi piene che riempivano tutto al centro della tavola e non solo, visto la quantità di boccali di birra vuoti e piatti rotti che estendevano per tutta la sala.
 
Bofur infatti, stringendo ancor meglio il lungo fazzoletto intorno al collo, gli lanciò solo un’occhiataccia stizzito e passo la sua attenzione su altro piatto al centro della tavola: come se mangiare altro avesse fatto differenza.
 
“Tu invece cugino ti sei bevuto metà dell’ultima botte di birra.” Ribatté ad alta voce Bifur tentando in ogni modo di far arrivare la voce al cugino, sovrastando il trambusto della sala e i battiti di mani e musiche che si andavano a confondere l’una con l’altra.
 
“Mai quanto Balin.” Ridacchiò Glòin portandosi l’enorme bicchiere alla bocca, quasi a sottolineare l’argomento della conversazione, facendo ridacchiare Balin e alzare verso di lui il boccale semi vuoto che teneva in mano.
 
“Se avete qualche cosa da ridire sul mio comportamento ragazzi, non mi interessa, sono vecchio ma certe gioie lasciatemele godere.”
 
“Cadere? Chi è caduto?”
 
Interruppe Òin portandosi la tromba vicino all’orecchio non avendo capito il tema del discorso sia a causa delle parole spesso sbiascicate o rese quasi impossibili se non urlate tale la confusione della musica e delle risate di sottofondo che si espandevano per tutta l’imponente sala, talmente tanto grande da rendere difficile anche vederne la fine da dove si trovava ila tavolo reale, totalmente dalla parte opposta all’entrata, segnata da una fila di colonne che si aprivano sull’immensità di Erebor, che mostrava a chiunque si trovasse al suo interno la maestria dei nani, la simmetria di scale e pareti dorate della montagna. Il camino dietro il tavolo reale invece era grande abbastanza da far entrare al suo interno almeno un tredicesimo dei nani all’interno della stanza, illuminando con luce dorata le pareti adornate con stendardi ricchi di storie del popolo della montagna. Sembrò davvero un cuore pulsante quella sera, battiti di mani, pedate per terra, musiche che si alternavano tra schiamazzi e risate e la birra che continuava a scorrere a fiumi, compresa nella bocca di Balin, che per pura sfida alla frase precedente ne bevve ancora prima di alzare un sopracciglio divertito verso il resto della compagnia.
 
“E poi la reggo sempre meglio di voi.”
 
Glòin a quelle parole si tirò leggermente su a sedere sbattendo rumorosamente il boccale sul tavolo. “Sei pronto a scommetterci cugino?” Gli chiese affacciandosi oltre la spalla del fratello entusiasta facendo rizzare Bofur in piedi che batté le mani piu’ volte tenendo fra le dite la pipa scura fumante.
 
“Scommesse! Scommesse aperte!” Urlò Bofur e dalla tasca della giacca cominciò a tirare fuori un sacchetto pieno di monete che lanciò per sfida in mezzo a uno dei pochi spazi vuoti del tavolo del tavolo, seguiti a ruota da Òin che non manco di dar corda al fratello e Bifur che ne mise una grande il doppio.
 
“Siete incorreggibili.” Ruotò gli occhi Dori osservando lo spazio riempiersi sempre piu’ di sacchetti, scuotendo la testa, bloccando preventivamente la mano del giovane Ori che si appropinquava a gettare un piccolo gruzzolo.
 
“Oh avanti!” Arrivò in aiuto del fratello piu’ piccolo Nori che allungò la mano oltre il tavolo arraffando il minuscolo sacchetto di monete dalla mano del fratello minore, che incurante delle parole del maggiore, glielo porse volentieri, e Nori sorridente lo gettò nella mischia provocando un’ occhiataccia da Dori ma un sorriso gentile da Ori. “Glòin prendi la mia” Urlò tirando fuori a sua volta un sacchetto di monete ridendo divertito. “Dieci monete che riporteremo Balin in braccio in camera prima dell’alba.” E così lo lanciò in mezzo al tavolo, facendo diventare un piccolo gruzzolo di sacchetti, un minuscolo tesoro, portando così a  ridacchiare Balin che di tuta risposta alzò le mani in segno di resa osservando tutte le scommesse al centro del tavolo.
 
“Io non scommetto mai su me stesso, giovani, dovreste saperlo”
 
“Segnane venti per me Glòin.” Richiamò l’attenzione Thorin sorridendo oltre il boccale di birra che ora aveva vicino alla bocca, attirando l’attenzione di tutti i presenti, che fino a quel momento non avevano sentito non una parola uscire dalla sua bocca dall’inizio della serata, imprimendo sul nano dalla lunga barba rosse un sorriso compiaciuto.
 
“Come ordinate mio re.” Annuì in modo teatrale ridendo di gusto scatenano delle risate divertite per tutta la tavolata e con un movimento unico, allargando le braccia, avvicinò il tesoro verso di se cominciando a contare i vari sacchetti.
 
Balin spostò il suo sguardo su Thorin seduto accanto a se, a capo dell’immensa tavola reale che dominava l’immensa sala intanto che quest’ultimo scuoteva la testa divertito prendendo un sorso dal suo boccale. Si sentì leggermente rincuorato da quel comportamento anche se non poteva dire di non aver notato gli sguardi che di tanto in tanto, anche se ben celati, dirigeva verso l’alta sedia vuota accanto alla sua, l’unica sedia che li divideva. Simile nella forma a quella del re, decorata con antiche rune riportanti i nomi delle sette casate e due corvi come poggia mani, ma leggermente piu’ snella, di un legno poco piu’ chiaro di quella su cui era seduto Thorin, quasi nero.
 
 Non era riuscito a parlar con il fratello fino a che non lo incontrò per puro caso di ritorno poco dopo la loro conversazione, verso casa, scuro in volto, e così preso dai suoi pensieri che non gli aveva fatto altro che un cenno col capo prima di entrare sbattendo violentemente la porta nelle sue stanze e solo con quel gesto, le sue speranze di un arrivo della ragazza alla tavola erano quasi totalmente svanite, ma si era appurato che quel posto rimanesse vuoto, ma ora a vedere Thorin così si sentì quasi in colpa.
 
La mente del re d’altro canto era persa nelle musiche e negli schiamazzi della sala, che ormai erano diventati solo una nenia nella testa, cosi come il via vai di nani da un tavolo all’altro, o gli schiamazzi alla tavola che di rado attiravano la sua attenzione, diventando un leggero rumore di fondo che accompagnava le sue riflessioni, interrotte solo dal bere dal suo boccale, e che forse peggiorava annebbiandogli ancora di piu’ la mente e ovattandogli i suoni. La corona sulla testa, che non indossava da settimane, non gli pesò tanto quanto quella sera: la discussione con Dwalin, l’ammissione che gli aveva fatto invece di aiutarlo, gli aveva solo fatto prendere piu’ consapevolezza di quanto ciò che avesse fatto fosse sbagliato, di quanto molto probabilmente le sue parole sarebbero state irrimediabili e di quanto quel vortice in cui si era ritrovato lo stesse facendo impazzire.
 
Il solo ammettere di provare qualcosa per lei o il solo pensare che una cosa del genere potesse essere la ragione delle sue pene, lo aveva fatto rimanere con la schiena della pietra fredda della vasca per talmente tanto tempo che  ne uscì solo quando cominciò a sentire i primi suoni del banchetto che, talmente alti, erano rimbombati fin sopra le sale piu’ alte del palazzo. Ma anche se vestito da re, con il lungo mantello nero sulle spalle e la corona della sua stirpe sulla testa ,quella sera si sentì il re piu’ vulnerabile e senza difese  che ci fosse mai esistito sotto quella montagna: sarebbe dovuto essere il primo a saltare dalla gioia a ubriacarsi fino a non capire piu’ nulla, a fumare fino a che la lingua non gli fosse diventata nera, ma non ci riusciva e la causa era accanto a se. La sedia vuota alla sua sinistra infatti non aiutava a fargli voltare i suoi pensieri altrove, spesso il suo sguardo vi si poggiava, se avesse potuto l’avrebbe scaraventata a terra, perché quel posto vuoto sottolineava ancora di piu’ il suo fallimento, e il suo rimorso. Lei non sarebbe scesa, e neanche se lo sarebbe aspettato, neanche ci aveva sperato e, per quanto continuasse a bere, da quella porta lei non sarebbe entrata, ma se Mahal gli avesse voluto donare un minimo di gioia prima del dolore dei suoi incubi, l’avrebbe vista solo quella notte.
 
Sospirò pesantemente e accompagnato da quel pensiero in un solo sorso buttò giù il restante che rimaneva nel boccale per poi lasciarlo andare sul tavolo e distendere la schiena sull’immenso schienale dietro di se.
 
“Chi vuole un'altra birra?” Chiese Nori che con una spinta smosse la sedia facendola ruotare su se stessa dalla parte opposta verso i barili impilati al centro della sala, la domanda non fu una delle piu’ acute, perché tutti i presenti sei nani su dieci senza aggiungere una parola gli porsero i boccali vuoti facendogli alzare un sopracciglio infastidito.
 
“A questo punto ne prendo una per tutti!” Aggiunse ironico afferrando tutti i boccali che si tendevano verso di lui con non poca difficolta incastrandoli tra le dita.
 
“Porta direttamente il barile.”
 
“Se uno di voi gentil nani mi venisse a dare una man tipo Dwa… Dov’è Dwalin?” Si interruppe poggiando lo sguardo sulla sedia vuota per poi passarlo velocemente per tutta la lunghezza del tavolo.
 
Quella domanda fece ridestare di nuovo Thorin che strinse gli occhi poggiando gli occhi sulla seconda sedia vuota accanto a se, notando effettivamente l’assenza di Dwalin a tavola, si era davvero lasciato così andare da non notare che se ne fosse andato?
 
“Che c’è? Sei preoccupato che si sia perso?” Gli domandò Bombur con la bocca semipiena ingozzandosi del montone che precedentemente gli era stato vietato, finendo la metà rimasta in mezzo al tavolo.
 
“Sarà nella sala e tu non lo vedi.” Puntualizzo Dori verso il fratello, alzando la testa leggermente aiutando in qualche modo, controllando ogni singolo tavolo, per quanto possibile.
 
Nori però inarcò leggermente le sopracciglia passando a setaccio, tutta la sala intorno, voltandosi in varie direzioni, non vedendo neanche l’ombra del diretto interessato, come se non fosse riconoscibile, lo avrebbero visto anche a leghe di distanza.
 
“E infatti eccolo lì.” Puntò con il bocchino della pipa Glòin sistemando in file ordinate le monete che era riuscito a racimolare, dividendole in modo orinato così da non perdere neanche una facendo alzare lo sguardo oltre la folla della sala a Balin, che così come tutti gli altri non si era reso conto che il fratello avesse lasciato la sala.
 
Effettivamente Dwalin era appena rientrato nella sala: oltrepassò a grandi falcate le immense colonne alla fine della sala con entrambe le mani che gli tenevano la cinta dei pantaloni, facendosi spazio abilmente tra le fila di nani e riuscendo nell’intento a rubare un boccale da uno che gli passo accanto che così ubriaco non si rese neanche conto della sua mancanza.
 
“Dove sei stato?” Gli chiese Nori accigliato appena questo si avvicinò abbastanza al tavolo da poterlo sentire e Dwalin di tutta risposta portò il boccale che era riuscito a rubare verso la bocca e bevendone un sorso macchiandosi di schiuma gli enormi baffi neri.
 
“A distruggere il tuo bagno.” Gli rispose sogghignando avvicinandosi verso la sua sedia accanto a Thorin e poggiandoci ,sopra lo schienale, entrambi  gli avambracci lanciando un’ultima occhiata da dove era arrivato, oltre le arcate, in modo fisso, come se aspettasse che qualcosa potesse giungere da lì, bevendo tutto di un sorso il contenuto del boccale senza però mai staccare lo sguardo oltre l’entrata. Il suo sguardo non passò inosservato a Balin, che conoscendo troppo bene il fratello sapeva che c’era qualcosa che gli nascondeva, il motivo della sua sparizione probabilmente, ma di colò una consapevolezza si fece largo nella sua testa, facendogli lasciare il boccale tutto di un colpo. Non poteva averlo fatto.
 
 “Oh oh questo mi ha ricordato una canzone.” Fece Bofur pronto a cantare e a dare sfogo alla sua gioia per  poi alzarsi battendo entrambi le mani sul tavolo, mandando in allerta tutti i nani facendoli sbuffare ma ridere sotto i baffi , mandando in allarme perfino anche On che alzo lo sguardo scuotendo la testa.
 
“Nel nome di Durin, no ti prego.”
 
Bofur sogghignò di tutta risposta e si tolse con un gesto secco la pipa dalla bocca lasciandola cadere sul tavolo per poi schiarirsi la voce  e inebriato sia dall’alcool che dalla situazione si cominciò ad alzare ma appena compì questo movimento, il chiacchiericcio di fondo della sala si fece lentamente piu’ flebile, facendolo crucciare e puntare lo sguardo curioso verso il fondo alla sala lasciandolo di sasso.
 
“Oh Mahal salvaci...” Mormorò tenendo ancora gli occhi fissi verso la fine della sala rizzando la schiena dalla sedia e facendo così voltare tutti i presenti al tavolo dapprima confusi e poi esterrefatti, bloccando ogni commento e ogni gesto che stavano compiendo: paralizzando la tavola all’istante.
 
La melodia di rumori che accompagnava i pensieri di Thorin tutta d’un colpo si fece piu’ flebile fino a interrompersi distogliendolo dai suoi pensieri e portando finalmente anche lui ad alzare lo sguardo verso l’entrata, staccandolo da quello del boccale di birra di fronte a lui e fu proprio  in quell’istante che  sentì il cuore sprofondargli nel petto.
La musica arrivava ovattata alle sue orecchie, non sapeva nemmeno se fosse davvero finita del tutto o  fosse solo nella sua testa: il tempo sembrò essersi fermato in quell’istante, lasciandolo esiliato da  solo in una sala vuota, con la cosa piu’ bella su cui avesse mai posato lo sguardo.
 
Ghìda era lì all’entrata della sala, anche se lontana sapeva benissimo fosse lei, la mano titubante poggiata una delle colonne verdi e un’altra era ben distesa lungo il corpo: bastò che si fosse affacciata per far gravitare tutta l’attenzione su di se, verso i colori e agli stemmi che portava intorno al collo con una fierezza tale che non portò nessun a domandarsi se li meritasse, se ne fosse degna, nessuno osò dire neanche una parola.
 
A Thorin, illuminata dalla luce calda dei bracieri, sembrò come se brillasse come una stella nella notte, fasciata da un sontuoso vestito blu e dorato stretto sotto il seno diverse fasce degli stessi colori. Le lunghe maniche aperte lasciavano scoperte le braccia, dove il suo sguardo indugiò salendo su fino alla spalla, e poi verso il suo collo, dove vi era allacciata una un enorme collana con una singola gemma blu sorvegliata da due corvi zecchini, come gli anelli tra le piccole trecce confuse nei capelli castani che le ricadevano fin sotto il seno.
Il tempo sembro andare a rilento, quando lei mosse i primi passi nella sala, rendendolo improvvisamente incapace di fare qualsiasi, incapace di dire qualsiasi cosa, incapace di guardare qualsiasi altra cosa, rendendolo cieco a qualsiasi altra cosa gli stesse succedendo intorno e poi accadde. Per un attimo che a lui parve un’era, lei alzò lo sguardo da terra, e attraverso le luci dorate della sala, Ghìda incatenò lo sguardo al suo facendogli spalancare leggermente la bocca e alzare di scattò dalla sedia dalla sedia
Quello che a tutti i nani presenti sembrò solo una mera tradizione , per lui fu un gesto incontrollato, solo per guardarla meglio, per essere sicuro di non star già dormendo e per preparassi quindi già alle urla che sarebbero seguite, ma niente di tutto ciò accadde.
Appena Thorin si alzò tutti i presenti nella sala fecero lo stesso, facendole bloccare il passo di colpo, al loro movimento repentino costringendola ad abbassare lo sguardo lievemente, e a lottare con tutta se stessa  abbassare nuovamente lo sguardo ma sempre con la testa alza, che poi mosse leggermente a mo’ di ringraziamento, facendo quindi sedere tutti i nani nella sla, tranne il re sotto la montagna che ancora incredulo non si rese conto di quello che successe, solo quando ormai sentì insistentemente gli sguardi di tutti su di lui, incerti di cosa dovessero fare si ridestò.
 
Thorin sì maledi distogliendo lo sguardo da lei,  e puntandolo di nuovo verso terra e serrando la mascella si sedette,  e anche lui si sedette, per ultimo, ma alla fine si sedette, troppo scioccato, con la testa troppo in subbuglio per dire qualcosa, si lascio di abbracciare dalla lunga pelliccia nera stringendo i due braccioli della sedia, cercando fatica di rientrare in quello stato di tepore ringraziando il chiacchiericcio della sala che era ricominciato ed era diventato piu’ alto di prima. Ma mai come in quel momento l’impresa gli sembrò impossibile, perché la ragione dei suoi pensieri era nella stessa stanza e si ritrovò a desiderare, per qualche vago secondo che quella sedia rimanesse vuota.
 
Dwalin nel frattempo era rimasto non a guardare la mezz’elfa, ma Thorin, a studiare la sua reazione, che fu esattamente quella che si sarebbe aspettato:  appena lo vide alzarsi sorrise fra se e se rizzandosi anche lui a sua volta, prima di lanciare uno sguardo alla figura fasciata di blu che si avvicinava sempre di piu’, sguardo alla quale lei rispose con un leggero guizzo negli occhi, e a Dwalin non servì altro.
 
“Temo di dovermi scusare per il ritardo.” Esordì Ghìda rompendo il silenzio che a differenza degli altri tavoli rimaneva immutato nel tavolo reale, sorridendo verso Balin che era rimasto scioccato, tanto quanto Thorin dal vederla li, infatti si ritrovò in difficoltà quando Ghìda scostò la sedia vicino a Thorin sedendoci e riuscì a malapena a balbettare qualcosa.
 
“N-no non dovete, mia signora.”
 
Ghìda sorrise imbarazzata mordendosi leggermente il labbro guardando giù verso il tavolo ma percependo la presenza di Thorin accanto a se talmente  vicina da farle alzare il petto in un enorme sospiro, rendendole quasi difficile perfino respirare.
 
“Beh credo fratello, le tue canzoni posano aspettare qualche ora.” Borbottò con una vena di ironia Bombur guardando il fratello.
 
“Per causa mia?” Le parole di Ghìda ebbero il potere di ammutolire l’intero tavolo e di far arrossire Bombur già di piu’ di quanto non fosse la sua lunga barba.
 
Ghìda sorrise verso Bofur che la guardò confuso e lei di tutta risposta scrollò le spalle e si allungò verso il centro del tavolo leggermente dove Nori aveva appena poggiato le pinte di birra piene fino all‘ orlo, prendendone una, forse anche la piu’ colma.
 
 “Mi devi ancora un favore mi pare.” Puntualizzò scrollando le spalle a Bofur guardandolo “Puoi ritenerlo onorato se ti rende la cosa piu’ facile.”
 
Ammiccò Ghìda bevendo un sorso dal boccale che teneva tra le mani, riuscendo con un gesto così futile a far rompere il ghiaccio all’intera tavola e a far sorridere lievemente Balin che si voltò verso di lei lievemente sorpreso, da un atteggiamento della ragazza, così disinvolto che non l’aveva mai visto. Ma Balin non fu l’unico perché sotto le sopracciglia scure due occhi azzurri, fugaci si pararono di nuovo su di lei, scossi da quello che stava accadendo proprio di fronte a loro.
 
La sua affermazione entusiasmò invece talmente tanto Bofur che dopo aver ringraziato con un cenno della testa, si  tolse il cappello e salì dapprima sulla sedia e poi sul tavolo facendo un inchino profondo verso di lei per poi rimettersi il cappello in testa.
 
“Allora mia signora, permettetemi di deliziarvi con una impareggiabile composizione direttamente dalla regione dell’ Ered Luin.” Aggiunse Bofur entusiasta facendosi un po' di spazio tra le stoviglie con i piedi prima di schiarirsi la voce, ma prima che potesse dar fiato alla bocca, Bifur si intromise guardandolo austero incrociando le braccia al petto.
 
“Evita quella sui bagni di Nogrod cugino.”
 
“E anche quella delle miniere profonde.” Puntualizzò invece Glòin accendendosi la pipa guardando il nano dai lunghi baffi, ormai già in piedi sul tavolo in modo greve.
 
“Anche “L’allegro martello”.”
 
Bofur sospirò turbato e guardò Ghìda in cerca di approvazione, esaminando nella sua testa, tutte le canzoni e anche le piu’ consone da intonare in una situazione come questa, certo non si era mai trovato in una situazione come questa, ma Ghìda alzo le spalle poggiando il boccale sul tavolo e poggiando il viso nel palmo della mano con i gomiti ben saldi sul tavolo.
 
“Hai libera scelta, quella che piu’ ti aggrada.” Puntualizzò entusiasta regalando un sorriso rassicurante quanto spontaneo a Bofur, che di tutta risposta cominciò a battere le mani e i piedi sul tavolo ignorando totalmente gli avvertimenti dei compagni e cantando alla fine una canzone che decantava ironicamente le grandezze e la bellezza dei grandi bagni della città dei nani dei Monti Blu, alla quale Ghìda rise tutto il tempo trasportata da una tale allegria da incantare tutti i presenti, e far addirittura sorridere sotti i baffi Dwalin e ancora più sconvolgere Balin che si ritrovò addirittura a intonarla insieme a tutti i compagni.
 
Thorin la guardò di sottocchio, notando quello sguardo, quel sorriso, troppo simile a quello che gli aveva donate piani e piani sotto di loro, sembrava… felice, davvero felice.  Se voleva torturarlo lo stava facendo bene: quel sorriso, lo aveva visto solo una volta sul suo viso, nella penombra in una grotta diversi piani sotto di loro, e lo aveva donato solo a lui, e voleva che lo donasse solo a lui e questo pensiero gli fece stringere i pugni distogliendo ancora piu’ lo sguardo di lato al lato opposto rispetto a lei. Non aveva piu’ il diritto di poter pretenderla, di poter giudicare i suoi sorrisi o i suoi gesti, quando lui per primo era l ’unico a sentirsi non piu’ in diritto di meritarli. Sentì una leggera fitta al petto, lui la risposta la sapeva: non era con gli altri che aveva cambiato atteggiamento ma con lui, solo con lui.
Quella sera avrebbe bevuto così tanto da dimenticare che lei fosse lì, da dimenticare che quella serata fosse accaduta e che lei fosse mai scesa che avesse mai indossato quel vestito, che si fosse adornata con i segni della sua casata, che fosse in quella montagna, che lei esistesse. Lui invece voleva tornare a essere ciò che era, ciò che era nato per essere, e a dimenticare quella sensazione di calore nel petto e quel desiderio che aumentava a ogni sorriso a ogni risata, a ogni volta che poggiava le sue labbra sul collo di un boccale o tirava leggermente su il petto adornato di gemme, lui voleva essere Thorin Scudodiquercia, di nuovo quello che era stato in tutti quegli anni, e voleva continuarlo a d esserlo, per tutti gli anni che gli rimanevano in vita, lei non avrebbe cambiato nulla, non doveva cambiare nulla.
 
Non si ricordo quanto bevve in silenzio , le pinte gli passavo sotto mano senza mai fermarsi,  ma piu’ che riportarlo indietro o annebbiargli i sensi, lo portavano ancor di piu’ a seguire ogni gesto che lei compiva, ogni parola, ogni movimento involontario su cui riusciva a posare lo sguardo ch per quanto volesse tenere basso si alzava, e la cercava, cercava il suo sguardo, ma non ce ne fu nessuno, oltre quello che gli aveva donato appena entrata.
 
 
E fu così per tutta la notte, tra gli schiamazzi, la musica, e i canti che si susseguivano veloci e il tempo inesorabile:  le voci pian piano si fecero piu’ fioche il grande camino illuminava la luce sempre piu’ in modo flebile. Piccole candele erano state accese per tutti i tavoli e la loro luce fioca, insieme al l velo del fumo delle pipe creava un ambiente quasi pittoresco. I mormorii erano diventati bassi e grevi, la musica si era fermata, la Montagna sembrò come non mai in quel momento un luogo sacro, come le aule dei Valar cui erano stati creati, una grotta nebbiosa e calda, calda come le fucine del grande Mahal e accoglienti come le braccia di Yavanna. I canti e le risate nella sala divennero ben presto piu’ radi o mormorati, dei grandi tavoli stracolmi di cibo ed erba pipa ormai c’erano solo avanzi e le migliaia di nani nella sala adesso si erano dimezzati, ma al tavolo del re, anche se ormai l’ora era tarda, nessuno osò alzarsi, neanche quando i pochi vinsero la scommessa su Balin, che infatti non era stato riportato nelle sue stanze ancora da nessuno.
 
“Sarebbe proprio un momento di una bella storia.” Mormorò Bofur portando l’ennesimo giro di birre: i restanti boccali ormai vuoti da un pezzo giacevano per terra o sparsi sul tavolo in modo confuso. Si sedette questa volta di fronte a Ghìda occupando il posto di Dwalin che si trovava qualche passo piu’ indietro poggiato sulla schiena di una grande colonna a fumare osservando la tavola da lontano.
 
 “Il signor Balin ne potrebbe raccontare una.” Propose Ori voltandosi verso Balin che seduto accanto a Ghìda scosse la testa allargando leggermente le mani, quando tutti i nani della tavola si voltarono verso di lui, compresa Ghìda che con il viso arrossato poggiato tra le mani lo osservò incuriosita.
 
“Siete un abile oratore?”
 
Alla domanda Thorin alzo lievemente lo sguardo oltre le sopracciglia scure, sorreggendo la testa resa pesante dall’alcool con la mano sul bracciolo fissando l’anziano amico e nano, che alla domanda alzò le sopracciglia non ben sicuro di sapere cosa rispondere .
 
“Molti direbbero di si, ma le storie che ho da raccontare le conoscete già tutti.”
 
“Beh, non tutti.” Volle puntualizzare Nori che adesso si trovava dalla parte opposta del tavolo con i piedi ben piazzati sul tavolo sbuffando un leggero fumo bianco dalla bocca e dal naso.
 
A quella frase Bofur si  scosse leggermente tirandosi un po' su dalla sedia e puntando un dito verso Ghìda assottigliando leggermente lo sguardo e tirandosi in avanti.
 
 “Avete mia visto tre troll di montagna cucinare tredici nani piu’ un hobbit?”
 
A quella domanda si alzarono leggeri sospiri e piccole risatine, compresa quella di Thorin, che celò facilmente con il pugno che aveva ben chiuso su cui aveva poggiato il le labbra e scuotendo la testa posando poi velocemente lo sguardo su Ghìda che mordendosi il labbro scosse la testa in negazione ridacchiando leggermente.
“Devo dire che mi hai colto impreparata, no, mai assistito a una scena del genere.”
 
Bofur annuì contendo e la puntò con entrambe le mani guardando Balin soddisfatto.  “Balin, trovata la storia, procedi dunque!” Aggiunse poggiando la schiena sullo schienale della sedia ancora meglio e Balin si vide costretto a tirare su leggermente la schiena e a mettere le mani l’una nell’altra ma prontamente Glòin seduto accanto a Bofur di fronte a lei, alzò una mano in segno di protesta.
 
“Ci penso io, cugino perdonami, ma potresti farla addormentare.” Borbottò tirandosi leggermente su con la schiena e bere un sorso dal boccale di birra di fronte a se prima di schiarissi la voce portandosi in avanti verso il tavolo come si fa per i bambini per farli ascoltare meglio, e così fece Ghìda chinandosi leggermente in avanti sul tavolo.
 
“Era una sera come tante altre…” Cominciò mormorando compiendo con un gesto teatrale delle mani sul pelo del tavolo accentuato dal fumo della pipa che teneva in una dell mani. “In un viaggio, un’impresa, per riconquistare una montagna. Ci accampammo vicino a una casa in rovina: legati i pony, fatta la zuppa e all’improvviso, delle urla! Lo hobbit…”
 
“Bilbo.” Lo interruppe Balin alzando un sopracciglio.
 
“Mastro Baggins.” Precisò Òin allungandosi ancora meglio sul tavolo per ascoltare meglio la storia che riguardava anche lui, riguardava tutti loro, compreso Thorin, che ascoltava sorridendo malinconicamente nel frattempo che Ghìda incuriosita che si era portata cnora piu’ in avanti chinata sul tavolo stringendosi leggermente gli avambracci.
 
Alle varie precisazioni il nano dalla folta barba rosse roteo gli occhi e annuì “Insomma Bilbo, lo hobbit, Baggins, era andato a salvare dei pony, quattro pony da tre troll, e cosa dovevamo fare noi? Nasconderci?! Siamo partiti alla carica! Spade e scudi sguainati pronta alla carica e…”
 
“Alla fine, ci siamo trovati per metà su una pira a girare come briciolette e l’altra metà infilata in dei sacchi pronti ad essere schiacciati come dei salami!” Interruppe Bofur battendo le mani sul tavolo Glòin che a quel punto aveva perso le speranze e si raggomitolò su se stesso incrociando le braccia al petto facendo continuare Bofur.
 
 “E così ci siamo dovuti sentir dire a un certo punto? Che avevamo i parassiti? Per non farci finire come degli arrosti abbiamo dovuto ammettere di avere dei parassiti!”
 
All’intera tavola partì un sospiro divertiti e diversi mormorii divertiti di approvazioni.
 
“Grandi come le nostre braccia.” Annuì Òin verso la tavola facendola annuire tutti i diretti interessati, ma interrotto subito da Bombur che invece scosse la testa.
 
“Improvvisamente per salvarci la pellaccia eravamo diventati noi dei parassiti!”
 
“Tu già lo sei Bombur.” Commentò Bifur facendo partire una risata di gruppo a cui si unì anche Ghìda che si portò entrambi le mani sul viso scuotendo la testa, mentre Bombur lanciò un’occhiataccia al cugino.
 
“E come vi siete salvati alla fine?” Chiese Ghìda
 
“Ci misero così tanto a discutere, o meglio, li facemmo così tanto discutere , che il sole apparve e…”
 
“Li fece diventare tre incantevoli statuette.” Interruppe Glòin invece questa volta Bofur ricambiando col la stessa moneta il compagno che sospiro alzando le spalle colpevole sapendo di meritarlo.
 
Un altro giro di risate partì e questa volta Balin non si unì al coro, facendo comparire sul volto di Ghìda un sorriso sognante, immaginando la loro l’avventur: se quella era stata solo una parte, si chiese, come potesse essere stato il resto, come sarebbe stato partire all’avventura con loro.
 
“Ora è il vostro turno però mia signora.”
 
Ghìda arrossì di colpo alla richiesta  scuotendo la testa imbarazzata dalla richiesta tirandosi su leggermente dal tavolo ma attirando però ora l’attenzione di tutto il tavolo di nuovo su di lei, in realtà sapere piu’ su di lei era un desiderio di tutti.
 
“No signor Balin non credo di averne una così avventurosa, non me ne vogliate.”
 
“Andiamo deve esserci qualcosa!” Insistette invece Bofur di fronte a lei accendendosi la pipa che teneva fra le mani usando una delle candele, ormai tutta l’attenzione della tavola era su di lei in ogni caso, perfino quella che non avrebbe voluto, ma che però sentì addosso, gli occhi di Thorin erano su di lei. Sospirò ammettendo di fronte alla sconfitta e annuì verso Bofur.
 
“Molto bene, solo se però… me ne passi un'altra.” Sorrise allungando leggermente la mano e puntando gli occhi sui pochi boccali al centro della tavolata ancora pieni.
 
“Questo sì che è parlare!” Esordì Bofur dando un pugno sul tavolo e senza farselo ripetere due volte le allungò una delle ultime pinte che erano rimaste in mezzo al tavolo e sospirando lei la afferrò e ne bevve un po': forse stava esagerando, la testa le cominciava a fare leggermente male, e le mani le fremevano leggermente, ma non le interessò, infatti annui poggiandola e si tirò su con la schiena sulla sedia attirando l’attenzione di tutti.
 
Gli occhi le si spostarono verso il basso, verso il liquido dorato sotto di lei, facendola sorridere tra se e se quando le venne in mente la vicenda adatta da raccontare; prese un bel respiro e guardò dritta verso i nani.
 
“Ero solo una ragazzina.. era notte, di nascosto scesi via dalle mie stanze, mi dovetti arrampicare fuori dalla finestra per evitare le guardie…” Cominciò a raccontare sorridendo in modo fuggevole tra le parole.
 
A quel punto l’interesse di Thorin era palese: si tirò i su dalla posizione quasi prostrata da un lato con cui era stato seduto tuta la sera, donandole tutta la sua attenzione che fino a quel momento aveva deciso di negarle.
 
“Volevo una spada, la volevo davvero sapete, e quindi decisi di andare nelle fucine, ma non mi era mai stato permesso di toccare un martello da fabbro o un’incudine neanche per errore!”
 
Un velo di risate leggere si levò dal gruppo di nani : molti scossero la testa avviliti da quell’idea, ma allo stesso tempo divertiti, così come Thorin che si ritrovò a sorridere leggermente immaginandosi il guaio che avrebbe potuto seguire a una frase del genere.
 
“Posso immaginare come sei andata a finire!” Esternò il pensiero di tutti Dwalin ancora poggiato sulla colonna ridendo sommesso con le braccia al petto.
 
Lei scosse la testa velocemente arrossendo e alzò leggermente le mani in segno di resa.
 
“Oh, molto peggio! Per poco non diedi fuoco a un regno quella notte! Arrivai alle fucine, presi gli utensili ma improvvisamente mi resi conto di non sapere se volessi, una spada o un’ascia perché le spade erano sempre troppo lunghe e le asce troppo pesanti, così.. “ Si fermò un attimo trattenendo a stento una risata che fu piu’ bloccata dall’imbarazzo che da altro, ma l’alcool ormai aveva ferrato quasi del tutto i suoi freni inibitori, in altre circostanze una storia del genere non sarebbe mai venuta fuori. ”Ne fusi due insieme, che erano su uno dei tavoli.” Ammise imbarazzata ma ridendo facendo partire dei versi esasperati da tutti i nani, alcuni si portarono le mani al viso altri scosserò la testa e altri ancora, compreso Thorin, dovettero sopprimere una risata, guardando altrove.  “Venne fuori una cosa abominevole, e ovviamente non resse e cadde sul tavolo che prese fuoco…” A quel punto l’imbarazzo di tutti si trasformò in una grassa risata che si propagò per tutta la sala rimbombando, facendo sprofondare il suo viso tra le mani imbarazzata piu’ che mai, e visto che lui non la poté vedere, Thorin ne approfitto per osservarla gentilmente: delle immagini di una sua versione piu’ piccola cercavano di spegnere un fuoco dato da un metallo rovente gli si crearono nella testa.  Sospirò facendo saettare immediatamente gli occhi di Dwalin su di lui che sorrise fra se e se scuotendo la testa.
 
“Tornai in camera totalmente coperta di fuliggine, probabilmente se mi metto a cercare anche dopo tutto questo tempo me ne trovo ancora un po' tra i capelli.” Mormorò imbarazzata  ancora con il viso tra le mani prima di alzarlo nuovamente ma le risatine non erano ancora finite quindi sospirò rumorosamente annuendo.
“E da quel giorno non ho forgiato piu’ nulla in vita mia!” Terminò e bevve un altro sorso della sua birra per nascondere in qualsiasi modo il suo viso dai nani che continuavano a sghignazzare, difatti Bofur si asciugò una lacrima dovuta alle risate scuotendo la testa.
 
“Potreste sempre imparare” Appurò ancora ridacchiando leggermente, tentando in tutti i modi di tornare serio prima di prendere uno sbuffo dalla sua pipa.
 
“E rischiare di dare fuoco a Erebor?”
 
 “Se avete un buon insegnate credo che sarebbe difficile…” Si intromise Balin guardando verso la ragazza che gli era seduta a fianco, facendo chiaramente riferimento a Thorin ma lui serrò la mascella allontanando ancora di piu’ lo sguardo e allora Balin si corresse subito, probabilmente la questione era piu’ complessa di quello che immaginava e Dwalin per tutta la sera aveva evitato di dargli delle risposte che non fossero delle occhiate veloci.  “Basta che non vogliate forgiare un ascia e una spada insieme.”
 
Lei di tutta risposta sorrise e scosse la testa accasciatosi sul tavolo tendendo la testa sul palmo della mano del braccio teso, sospirando leggermente, lasciando che la stanchezza la prendesse un minimo, ma durò davvero poco, perché Ori si affacciò oltre la spalla di Dori osservandola con attenzione.
 
“Come sono le scogliere dei Monti Gialli?” Chiese innocentemente ma la frase ebbe il potere di fale rizzare la schiena e di far scendere il silenzio sulla tavola, un silenzio pesante e pieno di domande che ancora non avevano ricevuto una risposta, di momenti rubati e di non detti.  Si fermarono tutti, le espressioni tristi e meste; guardarono Ghìda, che teneva gli occhi bassi. Vi lessero un immenso dolore, che cercava di sopire ogni minuto ma che, al contrario, riemergeva più potente ogni volta.
 
“Ori!”
 
Dori fulminò il fratello minore con lo sguardo dandogli una leggera gomitata e Ori di tuta risposta abbassò lo sguardo imbarazzato rendendo il silenzio talmente greve che sembrò che anche i respiri si fossero fermati. Nessuno provò a dire nulla neanche a cambiare argomento, sapevano tutti chi era, da dove veniva, e cosa l’aveva portata ad Erebor. Ori abbassò lo sguardo, troppo ingenuo e di buon cuore per poter capire cosa avesse chiesto si sporse in avanti leggermente.
“M-mi dispiace non volevo dire n-…”
 
“Bianche…” Cominciò Ghìda rompendo la tensione e sorridendo tristemente guardando prima verso Ori per tranquillizarlo e poi verso il tavolo, rendendo chiare alle orecchie dei nani le sue intenzioni, volendoli rassicurare in qualche modo ma Ghìda era persa in ricordi ben piu’ lontani delle scogliere dell’est, ben piu’ terribili e alle volte ben piu’ dolci.
 
“Siete mai stato a Elcar mio re?”  
 
Thorin assottigliò lo sguardo e lo puntò verso il pavimento, non riuscendo e non volendo incrociare lo sguardo di nessuno: quelle parole gli si conficcarono nel petto così come quei ricordi, e quella malinconia nella voce di Ghìda che gli suonarono ancora tanto familiari come quando le aveva sentire per la prima volta attraversarle le labbra.
 
 “Alte, estese per leghe, circondate da sabbia nera che si affaccia su un mare blu, piccole gocce d’acqua che scendono dai muri quando la marea è alta, il rumore delle onde che si infrangono sulla roccia e  che rimbombano per tutta la città, creando un leggero cullare.” Concluse deglutendo e putando gli occhi verso le sue braccia, verso le rune ben visibili a tutti i presenti stringendosi leggermente gli avambracci, per poi salire leggermente verso i gomiti.
 
“Non è molto simile a qui.” Precisò con una punta di tristezza Ori sentendosi terribilmente in colpa, non pensando che una sua piccola curiosità avrebbe potuto creare una simile situazione, tanto da spingere Thorin a osservarlo, ma non poté attribuirgli nessuna colpa, non poteva sapere.
 
Ghìda sorrise tristemente e scosse la testa “No, ma va bene così.” Mormorò ma fu come se l’avesse urlato perché tutti la riuscirono a sentire come le parole a seguire che ebbero su Thorin l’effetto di un bagno ghiacciato.
 
“Lo è sempre di piu’… simile a…” E fu in quell’istante che entrambi ebbero il coraggio di guardarsi nello stesso istante, entrambi consapevoli quale sarebbe stata la parola che sarebbe seguita. Infatti, Thorin si voltò verso di lei e Ghìda alzò lo sguardo verso di lui riportandoli in quella bolla che in altri momenti li aveva salvati dai loro incubi ma che in quel momento facevano parte stesso dell’incubo.
 
 “A casa.”
 
 Mormorò guardandolo dritto negli occhi e quella semplice ammissione  che parve solo la fine di un pensiero ai presenti fu in realtà un’ammissione di Ghìda al Thorin, lui lo sapeva e lei lo sapeva: un loro segreto, una loro promessa infranta dal dolore e dalle sofferenze di entrambi.
Quello che lui aveva provato a darle ma che poi le aveva strappato via, tutto nell’arco di una sola giornata.
 
Un desiderio negato per lei e un’eterna afflizione per lui.
 
Gli occhi le diventarono improvvisamente lucidi, e Thorin lo rivide, quello sguardo, l’ultimo che glia aveva rivolto, prima di andarsene, prima di correre via mentre lui era rimasto lì immobile tra l’oro e gli ansimi dovuti alla collera.
Aprì la bocca pronto a dire qualcosa, ma lei abbassò velocemente lo sguardo scuotendo la testa e poi alzò lo sguardo sui nani che in silenzio avevano assistito a quegli infinti istanti, ora rendendo palese a tutti che molte cose erano state celate e che il susseguirsi di eventi di quelle ultime settimane facevano parte di un qualcosa di molto piu’ grande che un semplice malumore.
 
“C-credo sia arrivato il moneto di andare, è quasi l’alba.” Si affrettò a dire Ghìda prima di alzarsi dalla sedia e crucciando leggermente le sopracciglia prendendo un respiro profondo e sorridere di nuovo facendo un breve inchino con la testa alla quale nessuno a tavola ebbe il coraggio di rispondere, o anche solo l’ardire di dire qualcosa, solo Dwalin abbassò lo sguardo da lei verso il pavimento in segno di saluto.
 
“Scusatemi.” Mormorò e così come se era arrivata, se ne andò dalla sala, lasciando dietro di se un vuoto e un silenzio che parve quasi tombale.
 
Thorin la osservò in silenzio, ancora con la bocca semiaperta, sapeva che probabilmente ora tutti lo stavano osservando e si stavano facendo delle domande ma a lui non importò, digrignando i denti si tolse la corona dalla testa e la poggiò sul tavolo cercando di togliersi quella pesantezza da dosso che lo stava schiacciando sempre di piu’ cercando un minimo di sostegno lasciandosi andare sullo schienale.
 
Balin lo osservò e i restanti dei nani capirono che era meglio non incrociare il suo sguardo e continuarono a mormorare tentando di cambiare argomento; studiò come gli occhi di Thorin, ardendo come il fuoco studiavano i due uccelli due uccelli neri. L’oro della corona che scintillava tra le piccole fiammelle delle candele riflettendosi sul volto duro del re, che imperterrito osservava quel suo segno di regalità, come se gli potesse dare delle risposte, una sicurezza che ormai aveva perso, per ricordarsi chi fosse e cosa volesse. Balin rimase in silenzio, non sapendo se parlargli fosse la scelta piu’ saggia e infatti fu meglio così perché non ebbe bisogno di dirgli nulla, nessuno ne ebbe bisogno: come quelle un guizzo attraversò gli occhi azzurri di Thorin che si spostarono dalla corona alla sedia di nuovo vuota accanto a lui prendendo un respiro profondo e tremante per poi  puntare poi gli occhi da dove era uscita la ragazza e senza aggiungere niente si alzò di scattò e si incamminò verso l’uscita a grandi passi, lasciando tutti di stucco tranne Dwalin che a differenza di tutti i nani preoccupati sorrise e si  avvicinò di nuovo alla tavola  ignorando la sua seduta libera e mettendosi seduto sulla sedia reale, trionfante e con un ghigno stampato sulle labbra.
 
Balin crucciò le sopracciglia, quando il fratello con fierezza incrociò le braccia a letto e portò le gambe sul tavolo incrociandole e, chiudendo gli occhi si beò della seduta reale, fiero di qualcosa, glielo poteva leggere in faccia. Osservò prima lui, poi la porta e poi la sedia vuota accanto a se: a Balin non gli ci volle molto per capire cosa fosse successo, dove lui fosse sparito per quel tempo e dove adesso fosse andato Thorin fuori di se. Spalancò leggermente le bocca osservando il profilo di Dwalin che nel frattempo aveva aperto un occhio per osservarlo, sapendo si essere guardato e sapendo già cosa gli avrebbe chiesto.
 
“Perché?
 
 

“Il banchetto di sotto è iniziato da un pezzo.”

Affermò rude poggiandosi col la schiena sul muro freddo accanto alla porta sigillata non ricevendo risposta dall’altra parte, ma la luce che filtrava da sotto la porta non mentiva, lei era lì dentro e lui sarebbe rimasto lì tutto il tempo necessario, anche tutta la notte. Non riusciva a sopportarlo, quello sguardo perso a quella tavola, le parole di cortesia tirate alla tavolata come se Thorin avesse una scadenza, il suo sguardo che agli altri ben celato, si spostava insistentemente sulla sedia vuota, lui poteva anche non spere cosa provasse, e neanche lui lo sapeva, sembrava uscito di senno,

“Mio fratello è piu’ bravo con questi discorsi, io non sono il nano da parole, piu’ da fatti, non ho intenzione di convincervi, anche perché saprei già che non lascereste che io lo faccia.” Parlò di nuovo al silenzio allungando leggermente il collo verso la porta ancora chiusa accanto a se, lasciandosi andare ancora di piu’ al freddo muro. Non ricevendo nuovamente risposta roteò gli occhi e spazientito si tirò nuovamente su facendo un passo piu’ vicino alla porta.

“Mettiamola in questo modo mia signora, ho salito un centinaio di gradini, ho lasciato la mia cena e la mia birra, e probabilmente quando scenderò saranno già sparite…” Cominciò duro ma poi si bloccò arreso all’evidenza e lasciò la nuca sbattere all’indietro verso la fredda pietra ricordandosi cosa avesse detto Thorin, come lo aveva detto, e lasciò da parte tutta la sua rabbia per qualcosa di molto piu’ nobile.

“Se l’ho fatto vuol dire che ho le mie buone ragioni per credere che quello che è successo non era reale o almeno che non ricapiterà… soprattutto non questa sera.” Mormorò e fisso nuovamente la porta da cui non proveniva altro che silenzio, e la luce sotto di essa continuava ad essere ben fissa: niente si era mosso e niente si sarebbe mosso. Chiuse gli occhi adagiandosi ancora meglio al muro, sarebbe stata una notte lunga notte, e probabilmente l’unica compagnia che avrebbe avuto sarebbe stata quella dei suoi del banchetto che rimbombanti arrivavano fino alle stanze reali.

Uno scricchiolio però attirò a sua attenzione facendogli aprire un occhio verso la porta si era aperta rivelando la mezz’elfa che lentamente uscì dalla stanza affacciandosi verso di lui e illuminata dal fuoco dei bracieri notò come fosse vestita, come era già vestita, pronta a scendere per le lunghe scale, ma spaventata dalla realtà incapace di varcare la soia della porta e compiere quel gesto. 

Potete promettermelo?” Mormorò rimanendo tra la porta e il corridoio, sottolineando ancora di piu’ la sua posizione.

Dwalin scosse la testa aprendo però entrambi gli occhi fissandola.

Ma sarebbe così difficile per voi tentare?”

 


“Perché  si meritano di essere felici…entrambi.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Con pesantezza si lasciò cadere seduta sul letto, sgualcendo malamente il lungo vestito che ancora le fasciava il corpo, la testa le girava vorticosamente, poteva sentire la testa pulsarle al ristimo del cuore nel petto e in sintono con lo scoppiettare del camino infondo alla stanza. Si passò una mano tra i capelli, dove ancora vi erano annodati i piccoli anellini sulle trecce e cercando di distrarre i suoi pensieri, da quello che era accaduto, anche se assuefatta dalla birra che aveva bevuto a fiumi, cominciò a sfilarseli poggiandoli sul piccolo tavolino accanto al letto su cui era seduta, ma non bastò distrarsi con così poco, non bastava mai. Infatti, poco lontano da dove stava poggiando il fermargli, un altro oggetto era illuminato dalla flebile luce della candela: lì, poggiata con cura, sul legno scuro giaceva anche la collana con i corvi di Erebor che si era già tolta, senza neanche guardarla, non riusciva a guardarla, ma alla fine, inevitabilmente , vi aveva poggiato lo sguardo. Con lentezza avvicinò la mano verso il becco dell’uccello e prima di toccarlo ritrasse la mano dandosi della stupida: lo era stata per tutta la sera, una povera stupida.
 
 
Cosa le era passato per la testa?
 
 
Era adulta, e Dwalin aveva ragione, si stava comportando come una ragazzina viziata, si stava rivelando tutto ciò che odiava di se, aveva dato sfogo alla sua debolezza; quando era arrivata a da Erebor, niente di tutto ciò le avrebbe fatto male, le sarebbe andata a sbattere addosso come l’acqua su una scogliera, ma ora non piu’, si odiava perché si era ripromessa di non lasciare piu’ che gli altri la potessero ferire.
Dopo tutti quegli anni, di punizioni, di umiliazioni, di offese, del dolore ancora percepibile delle cicatrici che le erano state inflitte, sia sotto la pelle che sopra la pelle, da colui che avrebbe dovuto amarla, difenderla, proteggerla, pensava di essere finalmente riuscita a nascondere tutto a nascondere se stessa: ma quella sera aveva capito di non esserci riuscita, non ci sarebbe mai riuscita, soprattutto con i suoi occhi addosso.
 
Che cosa voleva da lei? Umiliarla? No, non glielo avrebbe permesso! Si era lasciata andare, di fronte a tutti, lasciata andare alle gioie, ai canti, come mai aveva fatto e per una volta si era sentita felice, ma con lui no, non glielo avrebbe permesso, pensava di risolvere tutto alzandosi, salutandola, facendo chinare i nani al suo cospetto come se fosse un premio, una gemma da far ammirare da tutti, un gioiello sulla sua corona, il suo mizim.
 
Aveva sentito il suo sguardo su di lei per tutta la sera, così come tutti i giorni da quella notte, lo sentiva prepotente su di lei e nel nome di Mahal, quanto le costava non ricambiarlo; quanto le era costato quelle settimane, non fermarsi accanto a lui, quanto le era costato quella sera non rivolgergli la parola, non urlargli adesso, non lasciare che le sue emozioni prendessero il sopravvento sul suo buon senso, che però era stato messo a dura prova: ma ogni brivido che le percorreva la schiena quando lo percepiva addosso, la mandavi in estasi ma le faceva ricordare, quello che aveva detto, che aveva fatto.
 
In quei giorni era passata dalla piu’ totale disperazione all’ira piu’ incontrollabile a un indifferenza totale: il non guardarlo, non parlargli, non era una punizione per lui, no perché a lui non interessava, era una punizione per se stessa, perché era stato tanto sciocca da darsi a lui, totalmente, era stato così ingenua da lasciarsi andare a quelle fantasie infantili, e ora il filo che prima la tirava sempre piu’ verso di lui le pareva essersi attorcigliato intorno alla gola, rendendola incapace di espirare se lui era nella stessa stanza, o anche a qualche piano di distanza.
 
Ogni risata dal petto che le era uscita dalla bocca quella sera, per lei fu una liberazione, una gioia che lottava con l’angoscia che invece non faceva altro che spingere prepotentemente per uscire, facendola alzare e andare via, anche il solo stargli accanto le faceva male. Si sarebbe dovuta sentire felice, mai altri nani erano stati così con lei, affabili, a bere, a cantare con lei, tutto si era dissolto ma a lei non bastò: perché non le bastava, non era quello che voleva? Che i nani l’accettassero e quella sera per la prima volta nella sua vita si era sentita accettata, venne trattata come una nana, come un essere degno di vivere, ma per qualche strano motivo, a lei non bastava. Voleva che lui la guardasse così che fosse lui a ridere con lei, a sorridere con lei, ad ascoltare le sue storie, a stringerle la mano sotto il tavolo staccandogliele dal tessuto della gonna, ma no, non le meritava, non piu’, non gli avrebbe dato neanche uno sguardo, non piu’ non sarebbe crollata, mai piu’.
 
Due colpi sordi la ridestarono dai suoi pensieri e sospirando si alzò dal letto e  andò verso la porta, non chiedendo neanche ci fosse, no le importava neanche minimamente, niente sarebbe stato piu’ angosciante della solitudine di quella stanza, dei pensieri che le infestavano la testa.  
 
Con lentezza aprì leggermente solo di uno spiraglio ma tanto le bastò da pentirsi amaramente di averlo fatto: Thorin la guardava austero dall’altra parte della sala e tutta la decisione che aveva mantenuto fino a quel momento vacillò ma non crollò, infatti rizzò leggermente la schiena fieramente e aprì ancora di piu’ la porta.
 
“Cosa volete?”
 
“Devo parlarti. ”Rispose Thorin controllato.
 
“Non ho intenzione di parlare con voi.” Rispose tanto secca quanto il suo ordine e ,quasi come se avesse ascoltato i suoi pensieri, Thorin ne approfittò per allungare il braccio poggiandolo sullo stipite, rendendole qualsiasi modo di potergli sbattere la porta in faccia, e fece diventare il suo sguardo ancora piu’ duro.
 
“Perché sei venuta?” La penombra della sua stanza e le torce fuori dalla porta diedero a Thorin un’espressione ancora piu’ severa di quella che in realtà avrebbe voluto mostrarle. E’ vero, avrebbe voluto ordinarle di parlare, obbligarla, ma non poteva, non sarebbe servito a nulla, forse ad allargare ancora di piu’ la spaccatura che si era venuta a creare, che lo stava portando giù verso quell’oblio senza via d’uscita.
 
“Il motivo per cui questa sera sono venuta non vi concerne re sotto la montagna.”
“Finché sei sotto questa montagna tutto quello che ti concerne è un mio problema”
 
“No, i miei problemi mi appartengono, non fatevene un peso, e un pensiero, ne avete già a sufficienza, non aumentateli con i miei.” Replicò  fredda stringendo con forza la maniglia della porta tentando con tutte le sue forze di reggere lo sguardo del re su di lei, che malgrado tutto quello che avesse detto o fatto, gli faceva ancora stringere il cuore in una morsa.
 
Se c’era una cosa che Thorin odiava di piu’ della sua indifferenza era quella freddezza in cui si rintanava, odiava non poterla vedere, non vedere oltre il suo orgoglio, che non obbedisse ai suoi ordini. Dovette ricorrere a tutto il suo buon senso per rimanere lucido, per controllare l’irritazione che gli stava provocando, e peggio a ignorare il forte desiderio, complice l’alcool che aveva bevuto, di urlarle addosso tutto quello che aveva sentito, o peggio che sentiva in quel momento.
 
“Dammi una risposta, perché questa sera sei venuta?”
 
Lei inarcò un sopracciglio e alzo ancora di piu’ il mento affrontando il suo sguardo in modo ancora piu’ audace. “Se vi ha infastidito così tanto la mia presenza potevate anche dirlo direttamente lì, sarei risalita senza obbiettare.”
 
Thorin strinse gli occhi adagiandosi di piu’ sullo stipite della porta con l’avambraccio fulminandola con lo sguardo. “Il fatto che ti abbia chiesto perché sei venuta questa sera non implica il fatto che io non ti voles…” Si bloccò all’istante, mordendosi la lingua per quello che stava per rivelarle: no, doveva rimanere lucido anche in una situazione del genere anche con tutta la frustrazione.
 
“Non implica il fatto che avresti potuto anche rifiutare l’onere di presenziare.”
 
“Ditemi cosa volete che vi risponda così posso andare a riposare.” Rispose senza giri di parole sempre piu’ decisa a chiudere la porta incurante di chi avesse davanti o del sbracciò del re ancora ben poggiato sullo stipite.
 
“Quello che voglio io non ha importanza, io voglio la verità”
 
Verità? Come osava anche solo parlare di verità, tutto quello che le aveva detto, tutti i gesti, tutto quello che le aveva fatto credere, dopo tutte le fantasie e le speranze in cui l’aveva fatta cadere, per poi frantumargliele davanti agli occhi. Il briciolo di clama che ancora la faceva rimanere integra si sgretolò sotto quelle parole, rendendola furiosa.
 
“Voi non avete l’autorità di pretendere qualcosa da me, Thorin Scudodiquercia, sono ancora una mezzo sangue di Elcar no?! Io non vi appartengo Re Sotto la montagna, io non appartengo a niente, io…”
 
Il rancore e la rabbia sorda che provava nei suoi confronti superava di gran lunga ogni altro sentimento avesse provato per lui: la ferita non si era ancora rimarginata, bruciava ancora. E quel bruciore al petto non la fece piu’ ragionare, strinse talmente forte la maniglia della porta che ancora reggeva da quasi piegarla; tutto il suo mondo era iniziato e finito quando era entrata in quella stramaledetta montagna, e quando lui le aveva rivolto la parola: lo odiava così tanto da farle male e si era ritrovata a desiderarlo accanto così tanto da odiarlo ancora di piu’.
 
“Io non sono niente!” Sputò lasciandosi andare a quel dolore che troppo aveva celato, non riuscì a fermare quelle parole, che le uscirono dalla bocca in modo così sprezzante da non riconoscersi; ma quel suo momento di debolezza le costò caro, quelle parole, quel ricordo, avevano aperto un foro e ora tutte le emozioni che era riuscita a controllare presero pieno possesso di lei.
 
 
Se ne pentì subito, spalancando gli occhi, incapace di rendersi conto di quello che aveva appena detto. La mano lasciò la maniglia come se avesse preso inaspettatamente fuoco e se la portò al petto, abbassando lo sguardo allentandosi da lui di un paio di passi e dandogli la schiena facendo calare un silenzio che pesava piu’ di mille altre parole che avrebbe potuto sputargli addosso.
 
A Thorin invece sembrò un'altra pugnalata dritta nel petto, così come la schiena che Ghìda gli rivolse per un’ennesima volta e camminare via da lui ancora. Entrò nella stanza lasciando che la porta si chiudesse alle sue spalle facendo un leggero rumore che fece fremere la schiena di Ghìda e farle abbassare ancora di piu’ la testa, come se un suo movimento potesse spezzarla, avanzò a piccoli passi, il senso di colpa lo mangiava vivo, era arrivato dunque, il momento del giudizio. Non disse nulla, la verità è che non aveva il coraggio di dire nulla, lui Thorin Scudodiquercia, aveva paura a parlare, per la prima volta nella sua vita si vergognò perfino di respirare.
 
“Voi mi avete rinfacciato di non poter capire, di non sapere cosa sia l’amore.” Cominciò rabbiosa con lo sguardo basso.
 
“Ghìda…”
 
“No.” Lo interruppe secca continuando a dargli le spalle
 leggeri fremiti le cominciarono ad attraversare il petto, sapeva di essere arrivata al limite, che non sarebbe stata piu’ in grado di trattenersi. Era la prima volta che sentiva il suo nome pronunciato dalla sua bocca, eppure invece che renderla felice le fece risalire tutto il dolore che le aveva provocato, tutta la rabbia, tutta la delusione e decise in quel momento di smetterla di smettere tutto quanto
 
Si girò verso di lui collerica e gli puntò un dito addosso, tornando di nuovo verso di lui di un paio di passi. “Ed è qui che vi sbagliate, lo so benissimo, lo vedo tutti i giorni, dai gesti piu’ piccoli dei nani in questa montagna, da una bambina che arrossisce, un abbraccio affettuoso tra soldati, il darsi una mano a vicenda anche nei momenti piu’ disperati, nella tristezza e nella disperazione comune, dagli sguardi diretti verso di voi…” Urlò intanto che gli occhi le cominciarono a pizzicare, orgogliosa come non mai però strinse i pugni, ma il petto le si abbassava ed alzava con foga, e gli occhi divennero lucidi dalla furia.
 
“Come vi guardano tutti, come vi acclamano, come parlano di voi, come vi sono fedeli fino a diventare ridicoli, come cercano il vostro riconoscimento nelle piu’ piccole cose, tutti in questa montagna morirebbero per voi!  Tutti vi amano!”
 
Doveva fermarsi, sapeva di doverlo fare, una parola in piu’ avrebbe cambiato tutto irrimediabilmente, ma era stufa, era stanza di essere forte, non ce la faceva piu’. Si morse il labbro ferocemente tanto da farlo sanguinare, tentando un’ultima volta di reprimere quello che sentiva, di mantenere quel briciolo di lucidità che le aveva permesso per tutta la sua vita di rimanere integra, di rimanere se stessa, ma quando fissò negli occhi Thorin, accadde, complice l’alcool che aveva ingerito non lo sapeva dire, ma alla fine accadde: crollò e con lei crollò tutto il muro che aveva costruito tutta la sua vita.
 
“Lo sapete cosa fare io per essere guardata così da qualcuno, per essere guardata così da… voi?” La voce le divenne piu’ flebile: una simile rivelazione al re le costò tutto il suo autocontrollo, perché infatti, non riuscì neanche piu’ a reggere il suo sguardo abbassandolo trattenendo a stento le lacrime che ora si facevano piu’ reali che mai.
 
Thorin percepii chiaramente il suo cuore fermarsi, spalancò la bocca, sentendo uscire quelle parole che mai in altri momenti lei gli avrebbe rivolto e ora per la prima volta la vedeva, chiaramente:  lei si era appena messa totalmente a nudo per lui, le barriere erano crollate, le aveva fatte crollare e si sentì un mostro per averlo fatto accadere.
 
Ghìda scosse la testa stringendo gli occhi ancora guardando vero il basso trattenendo a stento i fremiti che le scorrevano nel corpo e le parole le uscirono cariche di dolore. “Non volevo che i nani di Erebor mi guardassero come la loro regina, non lo volevo piu’, mi bastavate voi!” Mormorò con la voce che le si spezzava pronunciando quelle parole piene di sofferenza sfogate delle calde gocce che, ormai impossibili da controllare, le cominciarono a solcare il viso, e solo in quel momento quando orami non aveva piu’ nulla da perdere lo guardò di nuovo in viso sorridendo tristemente tra le lacrime. “E la cosa che mi fa piu’ male è che io mi sia illusa che il grande Thorin Scudodiquercia potesse …vedere altro in me!” Urlò invece questa volta verso di lui stringendo i pugni. “E io mi odio ancora di piu’ me stessa perché ho creduto che potesse essere possibile!”
 
La sua furia però non fece altro che far aumentare le lacrime che ora scendevano copiose, sulla bocca, fino al collo per poi infilarsi verso il petto che si alzava e si abbassava convulsivamente. Riversò su di lui, ogni dolore che le era stato inflitto per tutta la vita, come se lui fosse stato il giudice e carnefice, quando in realtà era l’unico in tutta la sua vita che le aveva fatto sentire qualcosa che non fosse vergogna per se stessa.
 
Thorin la osservò attonito, incapace di dire nulla, non ne aveva il diritto, non aveva piu’ il diritto neanche di avere la pretesa di poterle rivolgere qualche parola: niente avrebbe potuto fermarla, o giustificare lui per condannare lei.
 
Il petto di Ghìda venne scosso dai primi singhiozzi che cercava di calmare respirando piu’ velocemente ma ogni respiro le sembrò una sofferenza, ogni respiro era un’esalazione velenosa che le faceva male al petto.
 
“Avete ragione io non sono niente!” Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, liberandosi totalmente, lasciando che la furia svuotasse il suo animo, che la riportasse a credere di essere un essere vivente e non una vergogna per il suo popolo.
 
Ma dopo l’urlo agghiacciante che lanciò si senti svuotata, la rabbia si tramutò in disperazione, i singhiozzi divennero meno forti ma piu’ frequenti, le gambe le cominciarono a cedere e la voce le uscì come un flebile sussurro.
 
“I-io non o mai avuto un posto a cui appartenere un qualcuno a cui appartenere, io non posso comprendere, e-e non potrò mai, perché io sono quello che sono, so solo quello che non sono: non sono un elfa, non sono una nana… io sono… io sono io… e mi dispiace, mi dispiace tanto.” Mormorò e abbasso nuovamente lo sguardo e improvvisamente si vergognò di se stessa, di ciò che era, e come al solito si portò le mani sulle braccia dandosi un abbraccio che mai aveva avuto, per ricordarsi che forse poteva essere qualcosa di piu’ e invece non poteva, non lo sarebbe mai stata, mai. E di fronte a quella consapevolezza cominciò a piangere come mai aveva fatto in vita sua: il petto, scosso da  singhiozzi ormai inarrestabili. 
 
“Mi dispiace, mi dispiace essere così, mi dispiace tanto.”  Singhiozzò portandosi le mani sul viso, nascondendosi da lui, da tutto, volendo scomparire, voleva scomparire da lì.
 
Non se ne rese neanche conto, ma il freddo della stanza da letto semivuota che la circondava ad un certo punto sparì, trovandosi imprigionata tra due grandi braccia che le si avvolsero gentilmente ma con fermezza. Le braccia di Thorin le girarono intorno al fianco e intorno alle spalle il petto portandola a poggiare il suo viso nell’incavo tra il collo e la spalla, premendola sul suo corpo caldo con le lacrime continuavano a solcarle il viso copiose.
Voleva spingerlo via, urlare ancora, ma invece si abbandonò totalmente a lui muovendo le mani dal suo viso verso la sua camicia celata in parte dal lungo mantello scuro, stringendola con forza tra le dita, tirandolo piu’ vicino a se, invece che allontanarlo: con i singhiozzi che non parvero fermarsi, si lasciò andare su di a lui, ma questo non fece altro che farla piangere ancora piu’ disperatamente.  
 
Senti le dita della mano  di Thorin infiltrarsi tra i suoi capelli, e la presa si fece piu’ forte quando un altro singhiozzo le oltrepasso le labbra e percependo ora il suo respiro tra i ciuffi e le trecce dei suoi capelli, la sua guancia poggiata sulla tempia intanto che i battiti del suo cuore andavano a unisono con le lacrime che continuavano a scendere.
 
Ogni lacrima che versava sul suo petto per lei era una sconfitta, una vergogna, per Thorin invece un taglio sul petto lento e doloroso, e tutto per colpa sua, solo sua: di nuovo, la colpa della sofferenza di qualcun altro era solo sua.
 
“Perdonami.” Le mormorò tra i capelli.
 
Lei non rispose, lo stinse ancora di più a se, abbandonandosi totalmente a lui e alle sue braccia che la sostenevano, sembrava un corpo svuotato, una lama battuta troppo a lungo che alla fine si era spezzata sotto le sue dita sentendo le sue lacrime ancora bagnargli i vestiti: fino a che non si fosse colmata e fino a che lui non avesse espiato ogni colpa, non l’avrebbe lasciata andare fino a che non avrebbe smesso di tremare sotto le sue dita, anzi ogni minuto che passava, al stringeva sempre di piu’
 
Passarono alcuni minuti così o forse ore, lui non seppe dirlo con esattezza, ma pian piano i singhiozzi si fecero meno frequenti e i fremiti cessarono del tutto, così come le lacrime di Ghìda che il re aveva smesso di percepire sul collo scoperto da parecchio tempo, ma non ebbe la forza di lasciarla andare, non così.
 
Solo un mormorio ruppe il silenzio che se no sarebbe durato in eterno.
 
“Rimani con me.”
 
Alle orecchie di Thorin arrivò come una supplica, lei non credeva nemmeno di averlo detta davvero, non ne era sicura, tanto ormai le sue orecchie ormai si beavano del battito del cuore del re, Si rese solo conto di averle dette davvero quando la mano di Thorin che prima era ben fissa intorno al suo busto si abbassò e le passò sotto le gambe tirandola su, trattenendo invece con l’altra mano ancora il suo viso contro la sua spalla. Al gesto lei spalancò leggermente gli occhi incredula alzando finalmente alzò leggermente lo sguardo verso del re, osservando il suo profilo netto, oltre la barba crespa e brizzolata: la stava davvero accontentando?
 
A piccoli passi Thorin si avvicinò al letto e puntò il ginocchio sul materasso prima di adagiarci Ghìda che anche se riluttante, sciolse le dita dal tessuto scuro dalla camicia che ormai era diventato per l’unico appiglio possibile alla realtà. Thorin le adagiò gentilmente la testa sul cuscino, facendo scorrere il braccio sotto la sua nuca, ma prima che potesse togliere anche la mano da  dietro la sua testa e da sopra il cuscino, che lei vi adagiò la guancia sopra socchiudendo leggermente gli occhi, e muovendo la mano per afferrargliela per farlo rimanere in quella posizione: ancora per qualche attimo.
 
Thorin sorrise malinconicamente, lei aveva capito le sue intenzioni : non sarebbe rimasto con lei, non poteva, non ne era in grado.
 
“Dormi ora.”
 
Mormorò e lei di tutta risposta chiuse gli occhi stringendo  la sua mano accanto al cuscino, aggrappandosi come una bambina; si beò di quel piccolo gesto, e sospirando lasciò il suo inocchio crollare lievemente sedendosi sul bordo del letto, osservandola  come per la prima volta, obbediva a una cosa che le veniva detta senza opporre resistenza, abbandonandosi al sonno e alla sua mano.
 
Thorin non riuscì a non osservarla, a non rimanere lì ancora per qualche attimo e , mentre  le sopracciglia di Ghìda  si distendevano, il respiro si faceva piu’ regolare e la presa sulla sua mano si faceva meno decisa, studiò il suo viso: le goti erano ancora arrossate dal pianto, i lunghi capelli simili a una corteggia che disordinati si sparpagliavano sul cuscino, e la piccola orecchia a punta che sempre ben coperta ora era ben visibile, adornato da piccoli anelli runici per tutta la sua lunghezza: la causa di tutto quel dolore, di tutto quel male, la sua maledizione.
 
Con lentezza, vi ci avvicinò la mano spostandole leggermente un ciuffo di capelli che le ricadeva sul viso dietro l’orecchio e ne sfiorò inavvertitamente la punta con la punta delle dita, provocandole dei piccoli brividi sul collo che attirarono immediatamente il suo sguardo, facendolo sospirare: se avesse continuato così sarebbe davvero rimasto lì accanto a lei ad osservarla dormire fino a che non si fosse svegliata, ma in quel momento doveva rimanere solo, doveva dormire e lasciare che quelle settimane se ne andassero via dalla sua testa, doveva stare senza di lei…per qualche ora.
 
Appena la mano di Ghìda lasciò un minimo la stretta ebbe la possibilità di ritirarla senza svegliarla, ma ciò non fermò il suo viso a contrarsi in una piccola smorfia di disappunto che lo fece sorridere amaramente: quante vote aveva desiderato averla lì,  distesa accanto a se, quante volte l’aveva sognata in quelle notti che sarebbero rimaste segrete a chiunque oltre se stesso: illuminata dalla luce dell’alba che filtrava dalla piccola finestra i suoi sogni sembrarono reali, e come guidati da quei ricordi fittizi i suoi occhi le accarezzarono il petto, poi il collo per poi arrivare fino alle labbra semi socchiuse che lo avevano torturato in quelle notti in qualsiasi modo un nano potesse essere torturato dalle labbra di una donna.
 
“Non mi vorresti?”
 
Si, lui la voleva, in tutte le sfumature della parola: non era un mero desiderio materiale, no quello lo conosceva bene, era un sentimento carico di lussuria, di tenerezza, di appartenenza, di responsabilità, di gelosia, di leggerezza, un sentimento a cui non riuscì a dare nome, a cui non volle dare un nome; ma ormai era chiaro che per quanto si sarebbe sforzato, non avrebbe cambiato nulla: lui non sarebbe cambiato, quello che lo logorava non sarebbe cambiato, neanche il suo passato o le sue colpe, o tutto il male che era riuscito a infliggere agli altri, a se stesso, a tutto il rancore covato nei suoi anni di vita. Ma a non poté neanche rimuovere il senso di pace lo accolse in quel momento, in quella situazione, dolce, quasi sdolcinata e così lontano da quello che lui era sempre stato e che gli altri si aspettavano che lui sarebbe sempre stato.
 
Le domande ora gli apparvero cristalline di fronte agli occhi:
 
Poteva essere felice? Sì.
 
Voleva essere felice? Sì.
 
Si meritava di essere felice? No.
 
Voleva essere felice con lei? Irrimediabilmente sì.
 
 
 
 
 




L’oscurità era tetra, l’unico suono tra gli alberi densi e macabri era il vento tra le foglie secche e un ruggito sommesso tra i cespugli, ma ai due interlocutori non serviva vedersi, serviva solo sapere che fossero soli.
 
“Tutto sta procedendo secondo i piani, manda a dire al tuo padrone che presto avrà ciò che desidera.”
 
“La feccia Durin sospetta qualcosa? Il mio padrone dubita della fedeltà della tua prole.”
 
Il nano si irrigidì di colpo puntando severamente lo sguardo verso l’ombra sotto cui era ben nascosto il suo interlocutore.
 
“Mia figlia farà quello che le ho ordinato, lei deve fedeltà solo a me.” Rispose secco ma la sua aggressività non fece altro che far alzare ringhio profondo da sotto l’ombra, ma questo non lo smosse, neanche quando altri ringhi si unirono a questo e uno scricchiolare di foglie secche si fece sempre piu’ vicino.
“Sarà meglio, nano”
 
Telkar assottiglio lo sguardo truce, appena percepì un rumore di zampe farsi sempre piu’ presente e poi un tonfo, segno che l’altro non aveva niente da aggiungere e se ne stava per andare, permettendogli di tornare all’accampamento e a ripercorre il suo viaggio verso casa, ma il nano voleva sapere altro.
 
“Il tuo padrone quando onorerà la sua parte?”
 
Seguì il silenzio seguito da uno scricchiolare di foglio e il muso della bestia si fece presentealla luce della luna mostrando intimidatorio i caniini, ringhiando in avvertimento verso il nano, ma lui non si mosse neanche con la bestia così vicina a lui, anzi alzò ancora piu’ lo sguardo verso la figura imponenete, ancora nascosta nell’ombra che montava il mannaro catturando un guizzo giallo.
 
“Quando la testa della feccia di Scudodiquercia rotolerà per terra.”
 
 

 
 








Me en frau’hak= Tu stupido idiota.
 
 




 
Angolo autrice

Eh eh ancora ritardo, ma penso che alla fine i capitoli avranno questa cadenza qui :/ ho molto da studiare per l’uni quindi mi ci vorrà un po' di tempo per ingranare bene, però dai alla fine mi escono dei capitoli abbastanza lunghi, come questo hahahahahah succede un botto di roba lo so, ma è giusto così perché sono cattiva e il capitolo prima volevo finirlo con un cliffhanger, Ma pure questo non è che finisce tanto meglio eh, Ah Thorin non so se è troppo OOC ho sempre cercato di tenerlo nei canoni dei film, e Ghìda poveraccia ci deve fare i conti, mi sono appena resa conto che essere legata al re dei nani non deve essere semplice XD Comunque cosa ne pensate? Vi ho fatto venire un po' di curiosità? La scena della cena è stat la mia preferita, mi sono messa in loop di sottofondo quando arrivano da Bilbo e vi chiedo nuovamente scusa per le introspezioni, nel prossimo saranno molte di meno, nel prossimo diciamo che succederà un po' di roba, però molto chiara <3 Cosa ne pensate? Cosa starà atramando Telkar? E Ghìda e Throin si comporteranno da perosne civili?  Che poi la scena nella stanza del tesoro mi ha spezzato il cuore, sopratutto in base a quello che ha sognato Throin e poi come lui si relaziona alla cosa sopratutto, lo capisco da un certo punto di vista, e si Ghìda si stava comportando da ragazzina ma l'ho voluto far notare, però ha anche sofferto molto, la sua storia verrà approfondita piu' avantio, anche nel prossimo capitolo, voi ditemi le vostre teorie intanto che sono curiosa *.* 
#salviamoilpoveroori #dwalinbestpsicologo #dwalinamicodellanno

Come al solito un ringraziamento speciale a chi ha recensito e a Perla_16 e Star_of_vespers per aver messo la storia tra le preferite, spero che questo capitolo vi sia piaciuto <3

 

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Capitolo 10
*** Fuoco e elfi ***


Fuoco ed elfi








 
 
“Guardami Fàrim sono Thorin Scudodiquercia!”
 
Urlò Lòni salendo su una delle panche di pietra mettendosi in una posa trionfante in pizzo con la spada d’addestramento alta trattenuta solo con una mano tenendo l’altra era ben fissa dietro la schiena, venendo poi imitato dagli altri tre che salirono a loro volta su una delle panchine adiacenti facendola sorridere esausta.
 
Quel pomeriggio i suoi buoni propositi di continuare a insegnare a tutti e sei a leggere correttamente le antiche rune  erano andati in frantumi: appena era scesa nella biblioteca era stat quasi rapita da tutti e quattro i ragazzi, che l’avevano appositamente aspettata all’entrata dritti in piedi ed entusiasti, solo per mostrargli le armi che erano riusciti a forgiare e che trattenevano con entrambe le mani come fossero degli oggetti di immenso valore.
 
D’altronde era una cosa che si sarebbe dovuta aspettare:  gli ultimi giorni non avevano fatto altro che parlare di come stesse procedendo il lavoro alle fucine, di come pian piano le loro prime spade stessero diventando, parole di Drèl ‘Grandi e possenti come quelle di Mahal’. Già da quello avrebbe dovuto intuire a cosa sarebbe eventualmente andata incontro, ovvero a quattro piccoli nani, seguiti entusiasti da due piccole nane, che non facevano altro che parlare di storie di eroi, di armi e asce leggendarie per la loro imponenza. Gli schiamazzi sulle loro armi diventavano sempre piu’ alti, sempre piu’ vivaci e anche se poneva una domanda le veniva riposto a malapena oppure non le veniva risposto affatto, l’unica cosa importante quel giorno erano le loro spade, non riuscivano a staccarne gli occhi di dosso. Alla fine, era stata lei stessa ad arrendersi e ad acconsentirgli di prendersi un giorno libero per giocare o come le avevano fatto passare alle orecchie allenarsi.
Anche se le avevano giurato che sarebbe stato solo per quel giorno, era abbastanza sicura che la situazione si sarebbe protratta fino a che non avrebbero avuto una nuova arma da forgiare o peggio, fino a che non sarebbero stati in grado di usare delle spade vere. Le aveva detto addirittura di aver trovato un posto segretissimo dove poter stare senza dare fastidio a nessuno, cosa alla fine vera almeno in parte: non davano fastidio era vero, ma segreto era davvero esagerato come termine, per non dire inappropriato.
 
L’avevano condotta per i lunghi corridoi della montagna, avevano salito e sceso così tante scale e imboccato così tanti corridoi che aveva creduto davvero che il posto fosse segretissimo e irraggiungibile, ma alla fine avevano solo allungato di molto  la strada che conduceva alle fucine. Un paio di rampe di scale sopra di queste infatti, vi era una piazzola semi circolare, sospesa nel vuoto se non fosse stato per i quattro corridoi che da quattro direzioni opposte si incrociavano su di esso: delimitata da grate dorate e da piccole panche di pietra che facendo il giro circondavano la piazzola adornata nel mezzo da un immenso corvo scolpito nella roccia.
Sarebbe dovuto essere uno slargo tra i veri corridoi sopra le fucine, probabilmente anche un luogo di riposo per chi ne faceva ritorno ma in quel momento era diventato un vero e proprio campo di battaglia invaso, se non peggio di un esercito, da quattro piccoli nani che ne avevano preso pieno possesso, girando intorno alla stalattite scolpita a forma di corvo che scendeva dal soffitto, o usando spesso quest’ultima come barriera per degli eventuali attacchi nemici che non consistevano in altro se non a degli agguati di uno dei quattro verso gli altri.
 
Ghìda era sicura che in realtà loro non fossero stati i primi ad aver avuto un’idea del genere e ad aver scoperto questo posto, a detta loro, segretissimo, in cima alle scale: sia sulla pietra nel mezzo che su alcuni bordi delle panchine, vi erano incise iniziali, o piccole asce e spade intagliate da mani poco esperte ma decise come quelle che in quelle ore le stavano torturando i capelli, incrociando e sciogliendo tutte le trecce che aveva nei capelli.
 
Non ci volle in realtà molto a convincerla a lasciare la biblioteca, la sua mente era altrove: era rimasta bloccata alla notte prima, a quelle parole, a quei momenti. Thorin aveva cambiato tutto, inevitabilmente lei si era distrutta e ricostruita nel giro dei lunghi minuti nei quali era stat tra quelle braccia, nelle sue braccia, immersa tra le lacrime e i suoi vestiti: dove tutto era scomparso, dove lei si era sentita scomparire.
 
Perdonami.
 
Non le era servito altro, in realtà lo aveva perdonato nello stesso momento in cui l’aveva accolta tra le sue braccia, ma sentire uscire quelle parole dalle sue labbra le diedero solo la conferma che probabilmente quei giorni, erano stati duri per lui tanto quanto lei. Lei il suo dolore lo aveva sentito come una lama rovente sfregata sulla pelle, immersa in quella ricchezza che giaceva sotto i suoi piedi, e forse come lei, lui bramava solo avere un po' di quiete, solo per qualche secondo, e lei in quei lunghi minuti immersa nel suo petto l’aveva avuta, e si era ritrovata perfino a supplicarlo di non smettere, di non lasciarla lì.
 
Si tirò leggermente indietro mentre Nìm dietro di lei in piedi sulla panca le intrecciava i capelli, tirandoglieli e smuovendoglieli tutti da una parte all’altra: le mani le spostavano le trecce già nascoste nei capelli e poi si adoperavano a intrecciargliene altre dove trovava una ciocca libera. Puntualmente però non essendo fissate queste ultime si districavano facilmente ed era quindi da parecchio tempo che si impuntava sulla stessa zona della nuca.
 
“Ghìda perché tu non hai una corona?”
 
“Perché questa domanda?” Le chiese sorridendo alla sua ingenuità mordendosi il labbro a una stretta ben piu’ ponderosa su una delle ciocche che probabilmente non riusciva a intrecciare con le altre due.
 
“P-Perché ieri il re indossava una corona, e tu no, pensavo te ne fossi scordata.”
 
“Le corone sono solo per le regine e io Mar ancora non lo sono.” Cercò di spiegarle in maniera piu’ semplice possibile distendendo leggermente il collo all’indietro rendendole piu’ facile il lavoro e sentendola sempre piu’ chinata in avanti.
 
“E lo diventerai quando sposerai Re Thorin vero?”
 
“Si esatto.”
 
“Quindi vi amate come a-mad ama a-dad!” Affermò decisa con un sorriso enorme guardandola in viso che a lei appariva al contrario vista la posizione con il collo all’indentro, ma forse era meglio così perché la piccola non poté notare le sue mani strette nel tessuto della gonna o notare al meglio la sua espressione attonita di fronte a quella realtà così naturale. Agli occhi di una bambina cosa poteva essere un matrimonio, già raro tra nani, se non un segno d’amore incrollato, invadente, puro semplice, naturale. Un bisogno come l’aria di uno e dell’altro, un dipendere l’uno dall’altro come un fuoco con le fiamme e un possedersi l’un l’altro come il tesoro piu’ prezioso dei tesori.
 
Cosa avrebbe dovuto risponderle?

Tirò su la testa e si girò lentamente verso la bambina dietro di lei ancora in piedi sulla panca “E’ più complicato di così Mar, è un matrimonio diverso da quelli normali.” Sussurrò e  probabilmente Mar riuscì a percepire dal suo tono di voce che in qualche modo l’aveva ferita: non poteva sapere come e non poteva sapere che nemmeno che non fosse colpa sua.
 
“Quindi non vi amate?”
 
La piccola la guardò spaesata non riuscendo a capire quale fosse il problema o perché lei avesse definito un matrimonio diverso, e in effetti particolare non era certo l’aggettivo piu’ consono, ma non ne seppe trovare altri, o almeno che lei potesse comprendere. La verità e che neanche lei comprendeva molte cose: quella notte, tra le sue braccia erano cambiate molte cose, ma doveva far ben attenzione su quale fosse il suo reale posto in quella montagna e quale quello lei avesse voluto che fosse.
 
Sospirò passando una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio della piccola nana e tentò un’ultima volta di farle capire ciò che intendeva.
 
“I-il nostro è un amore diverso dagli altri, deve crescere, deve formarsi ed essere saldo per il bene della Montagna, è un amore su cui gravano molte responsabilità e molti oneri Mar. Quando ci sposeremo sarà per gli altri, non per noi stessi.”
 
L’ultima frase da pronunciare fu quasi una lama nel petto che spingeva fino a farle morire le parole in bocca: già, sarebbe stato per gli altri, perché lo volevano gli altri, non perché lo volevano loro, non perché lei lo volesse, o perché lui lo volesse, ma la dura verità era che lei ormai non sapeva piu’ se non lo volesse.
 
Rimani con me.
 
Quello che era successo la notte prima le aveva solo dato la conferma che lei non potesse piu’ stare senza di lui;  inevitabilmente sentiva di appartenergli, di appartenere solo a lui, di aver trovato la pace solo con lui, solo tra le sue braccia e quella consapevolezza la dilaniava dall’interno, perché non sapeva cos’era, non voleva sapere cos’era ma desiderava provarlo sempre, ancora, ogni momento: con la sua mano sotto il suo viso che la cullava dolcemente prima di addormentarsi, o il suo respiro tra i capelli.
 
“Ma se non vi sposate perché vi volete bene perché lo fate per gli altri? Non potete sceglierlo voi?”
 
“Quando si è un re, o una regina, molte cose non vengono piu’ scelte da soli, compreso chi amare.”
 
Mar però non sembrò convinta dalla risposta perché strinse le labbra l’una sull’altra pensierosa inclinando lievemente la testa di lato e quindi Ghìda si trovò costretta a mentirle.
 
“Sì come a-mad e a-dad.” Le confesso infine sorridendole con il lato della bocca e alla risposta finalmente sorrise entusiasta della risposta che riuscì a comprendere, anche se ben lontana dalla realtà.
 
“Avevo ragione allora, come a-mad e a-dad!” Saltellò su se stessa facendole scappare una risata sommessa che però si spense immediatamente quando con la coda dell’occhio notò qualcosa , o meglio notò che qualcosa non c’era.
 
Si girò verso il posto vuoto accanto a lei convinta di trovarci Nìm ma con sua enorme sorpresa lei non si trovava lì, il posto era vuoto, eppure era sicura che fosse seduta lì fino a pochi istanti prima, poteva vedere il vestito azzurro e i piccoli ricci rossi con la coda dell’occhio, ma ora lei lì non c’era.
Si alzò preoccupata e poi la vide, dall’altra parte dello spiazzo, seduta su una delle panche di pietra dall’altra parte, con le ginocchia al petto e le mani che reggevano le piccole gambe mentre i suoi occhi fissavano dapprima il gruppo dei quattro maschi e poi di nuovo giù verso le sue ginocchia: era successo qualcosa.
 
“Aspetta qui.” Disse verso Mar che la guardò confusa per un attimo per poi annuire triandosi su a sedere nuovamente sulla panca nel frattempo che lei mosse i primi passi oltre la pietra scolpita.
 
“Nìm.”
 
La chiamò dall’altra parte della sala e la piccola nana alzò di scatto lo sguardo verso di lei per poi abbassarlo di nuovo, stringendosi al suo richiamo ancora di piu’ le ginocchia al petto sgualcendo il piccolo vestito.
 
Aveva l’aria sconvolta.
 
Camminò piu’ velocemente verso la piccola nana che aveva il volto coperto dei riccioli rossi, continuava a guardare verso le proprie ginocchia. Ghìda si spostò leggermente il vestito permettendole di mettersi in ginocchio di fronte alla piccola nana che ancora guardava verso il basso con le ginocchia al petto, come il primo giorno che l’aveva incontrata.
 
“Come mai se qui da sola?”
 
Lei non rispose si strinse solo di piu’ le gambe al petto evitando ancora il suo sguardo puntandolo verso il basso e adagiandosi ancora di piu’ al freddo marmo sotto di lei, gesto che la fece preoccupare e spense il sorriso che aveva sul viso sostituendolo con un cruccio.
 
“C’è qualcosa che non va?” Le chiese di nuovo ma lei di tutta risposta rimase in silenzio sua scuotendo la testa e continuando ad evitare il suo sguardo: ora era preoccupata davvero, qualcosa non andava, non era da lei comportarsi così.
 
“Voglio solo stare sola .” Le rispose secca evitando di rispondere alla sua prima domanda che le aveva posto, voltando leggermente lo sguardo mentre il ciondolare dei riccioli rossi le permise di notare le piccole macchie di cenere che le macchiavano il viso coperto di lentiggini.
 
Si avvicinò ancora di piu’ a lei abbassando la testa per cercare di guardare oltre i ricci rossi e le due trecce al lato del viso che le ricadevano sulle ginocchia, ma Nìm si premurò di non lasciare che ciò accadesse,
abbassando sempre di piu’ lo sguardo o stringendosi sempre di piu’ le ginocchia.
 
“Nìm cosa succede?”
 
Alla domanda alzò finalmente lo sguardo verso di lei, e aprì la bocca per parlare ma poi la richiuse subito scuotendo la testa e riabbassare lo sguardo. “Niente.” Mormorò monocorde tanto da far scuotere l’animo di Ghìda e farla avvicinare un po' di piu’ sapendo perfettamente che fosse una bugia: si alzò da terra e si mise seduta accanto a lei sulla panca verde scrutandola attentamente, mentre lo sguardo di Nìm adesso era fisso verso un punto indefinito della sala. Seguendolo notò dove stesse osservando, non verso il vuoto ma verso un qualcosa di ben preciso, anzi qualcuno di ben preciso.
 
Lòni si muoveva veloce con davanti Fàrim assestando dei colpi veloci con la spada d’addestramento che aveva tra le mani, parando e scivolando per terra cercando di schivare i colpi scherzosi dell’amico a cui se ne aggiunsero altri di Trèl e Drèl, cominciando uno scontro tre contro uno.
A un certo punto Lòni si trovò contro Trel ma dietro di lui si mise in ginocchio il fratello che con un abile astuzia lo fece cadere per terra di schiena provocando un leggero tonfo, seguito dalle risate dei tre avversari divertiti dal modo rovinoso in cui era inciampato.
Nìm d’altro canto alla caduta lasciò le ginocchia, rissando la schiena preoccupata, con gli occhi sgranati, fissando intensamente il nano biondo mentre questo invece di infuriarsi e tornare all’ attacco si distesa ancora meglio a pancia all’aria ridendo divertito portandosi una mano dietro la nuca dove aveva sbattuto.
Anche se si era rivelato tutto un gioco l’espressione terrorizzata di Nìm non cambiava, anzi, anche se gli altri ridevano lei era ancora tremante, con la schiena dritta e in allerta; Ghìda si avvicinò di nuovo a e sospirando si chinò di nuovo in ginocchio di fronte al suo viso, che imperterrito rimaneva fisso verso il gruppetto di nani. Solo quando le prese una delle mani che teneva ben strette in un pugno sulla gonna del vestito, Nìm spostò lo sguardo verso di lei, con il piccolo labbro che cominciò a tremare leggermente e con ancora il respiro irregolare dallo spavento avuto poco prima.
 
“Nìm cosa succede?” Le chiese nuovamente ma lei scosse nuovamente la testa mordendo il labbro per far fermare il tremolio, ma la stretta sempre piu’ stretta intorno alla sua mano fece capire a Ghìda che lei non era calma: non lo era affatto.
 
Piu’ preoccupata di prima le prese entrambe le mani tra le sue stringendogliele dolcemente, per rincuorarla, per farla parlare e infatti così accadde: il leggero tremolio al labbro rallentò e tirò su con il naso.
 
“Tu sei una guerriera vero?” Le chiese in maniera talmente inaspettata da farle spalancare la bocca sconcertata.
 
“Perché mi chiedi questo?”
 
Nìm guardò di nuovo oltre la sua spalla. “Lòni vuole diventare un guerriero, lo dice sempre.” Mormorò abbassando lentamente lo sguardo verso le sue mani  trattenute in mezzo alle sue. “Dice che vuole difendere la montagna che vuole uccidere un sacco di orchi.” La voce le divenne sempre piu’ bassa e tremante mentre per qualche strana ragione i suoi occhi indugiavano su una parte dell’ultima runa che aveva tatuata sul polso, e tirando fuori una mano dalle sue ve la poggiò sopra mentre il tremolio dapprima flebile delle sue mani divenne piu’ irruento.
“Ma se diventa un guerriero lui morirà vero?” Le chiese alzando di nuovo lo sguardo mentre gli occhi cominciavano a diventare sempre piu’ lucidi.
 
A quella domanda a Ghìda manco il fiato: una bambina non avrebbe dovuto pensare certe cose, no, non così piccola eppure, chi era lei per biasimarla? La guardò tristemente non sapendo cosa risponderle; sfilò una mano dalle sue, e con lentezza le accarezzò la guancia arrossata  dallo sforzo del trattenere le lacrime che poteva vederle formarsi negli occhi: ma che lei non avrebbe pianto, no di questo era sicura.
 
“Nìm…” Sospirò e con il pollice le accarezzo leggermente lo zigomo scuotendo leggermente la testa  “Non è così semplice da spiegare.” Le mormorò, lei però scosse la testa guardandola con una piccola lacrima che cominciava a scendere dall’occhio.
 
“Io non voglio che lui muoia, non voglio che mi lasci da sola. Io io…” La voce cominciò a diventarle spezzata e scostandosi dal tocco della sua mano sulla guancia si portò una delle manine verso il viso asciugandosi la lacrima che lenta le percorreva il viso.
 
Le si spezzò il cuore a vederla così: sapeva bene quanto era affezionata a Lòni, da come lo guardava, da come lo inseguiva o da come si contrapponeva tra lui e suo fratello Fàrim al loro minimo screzio difendendolo, ma mai si sarebbe aspettata qualcosa del genere.
 
Fieramente tirò su con il naso e la guardò determinata, sembrando anche piu’ grande rispetto a quello che era. “Io voglio salvarlo!” Affermò risoluta guardandola dritta negli occhi con la voce lievemente alta, ma abbastanza da far voltare un paio di fabbri che camminando per il corridoio lanciarono degli sguardi curiosi verso il lato del corridoio dove si erano fermate.
 
Ghìda rimase in silenzio, sapeva cosa le voleva chiedere a adesso comprendeva perché non gliene avesse parlato prima e perché invece di aprirsi con lei si fosse rintanata lontano da tutto e da tutti: raramente delle nane diventavano delle guerriere e se lo diventavano, poi finivano per essere solo quelle: anche se spesso per loro scelta, così come gli uomini, dovevano rinunciare a tutto, a tutti, a una vita normale, a una famiglia, al legarsi, perché la perdita sarebbe stata troppo grande e la morte troppo dolorosa. Se lei avesse voluto davvero diventare una guerriera, avrebbe dovuto rinunciare a lui, e lui d’altro canto lui avrebbe dovuto rinunciare a lei perché se fossero morti, il dolore sarebbe stato troppo grande.
 
Al suo silenzio Nìm abbassò nuovamente lo sguardo sapendo che la richiesta che le aveva avanzato forse fosse chiedere troppo, ma questo non fermò un suo ultimo tentativo, richiesto con voce spezzata e speranzosa.
 
“Insegnami, per piacere.” Le disse quasi supplicando nel frattempo che il viso diveniva via via sempre piu’ scuro.
 
Non le servì chiederle se fosse sicura, lei già sapeva che in qualunque caso Nìm se non per spada, sarebbe morta per lui, poteva leggerglielo negli occhi. Annuendo le sorrise malinconicamente con il lato della bocca.
 
“Molto bene” A quell’affermazione Nìm alzò lo sguardo verso di lei sbarrando gli occhi incredula a quello che le aveva risposto, ma prima che le potesse rispondere Ghìda si affrettò a prenderle in viso tra le mani guardandola decisa, per poi poggiare la sua fronte sulla sua con premura continuando a guardarla fissa e a passare i pollici sulle sue goti arrossate.
 
“Però promettimi, che non penserai mai piu’ a delle cose del genere, su nessuno. Nessuno morirà.” Si assicurò e Nìm annuì guardandola negli occhi e poggiando le mani sulle sue che le sorreggevano il viso.
 
“Te lo prometto.” Le disse sorridendo come faceva sempre, mostrando i piccoli denti e facendo ammucchiare le piccole lentiggini che aveva sul naso arricciandolo e facendo scomparire il viso torvo che aveva avuto fino a quel momento.
 
“Non vale però così non è onorevole!” Rise a voce alta Fàrim che si ritrovò bloccato in piedi su una delle panche di pietra poste ai lati dell spiazzo, con addosso puntate le lame di tutti e quattro gli amici mentre lo punzecchiavano ridacchiando.
 
“Arrenditi o sarà la tua fine!”
 
“Chiedi pietà!” Aggiunse alle parole di Lòni, Drel che diede una leggera botta con la spada smussata alla gamba dell’amico ancora bloccato in piedi sul sedile di pietra.
 
Impugnando però la spada con due mani li guardò tutti e tre e si piego in avanti allargando le gambe pronto all’attacco. “Un vero nano non chiede mai pieta Lòni! Yanâd Durinul!” Urlò e saltò giù’ lanciandosi su di Lòni che riuscì ad afferrarlo al volo senza però cadere di nuovo rovinosamente a terra portando Fàrim con lui attenuandogli la caduta.
 
“Finirete per farvi male se continuate così.” Li avvertì non riuscendo a trattenere un sorriso che tradì il suo tono austero.
 
“No mia signora non preoccupatevi, abbiamo tutto sotto controllo!” Ribatté Lòni che era riuscito a liberarsi dal peso dell’amico ma prima che potesse finire la frase, gli occhi azzurri furono catturate da altre due figure che gli si lanciarono nuovamente addosso lasciando cadere le proprie  lame e che ora lo sovrastavano cominciando un’ennesima baruffa, questa volta alla vecchia maniera, senza uso di spade, non ne avevano bisogno: riuscivano benissimo ad azzuffarsi anche senza di quelle.
 
“Per Erebor!” Si riuscì a distinguere tra la miriade di calci e spintoni dei quattro nani che si rotolavano a terra sprigionando delle risate spensierate e divertite alternate con leggeri gemiti di dolore che non fecero altro che farli ridere ancora di piu’.
 
Nìm  sorrise senza mai staccare lo sguardo da Lòni, sempre attenta, sempre cauta che niente gli facesse male o che lo mettesse in pericolo, le strinse una delle mani mettendosi seduta accanto a lei riuscendo a malapena a trattenere una risata quando uno dei quattro provava a rialzarsi ma veniva prontamente riportato giù.
 
La scena era diventata probabilmente uno degli spettacoli piu’ spassosi dell'intera Erebor in quel momento, infatti tutti nani che passavano per i corridoi sopra di loro o anche sotto di loro, osservavano la scena, trattenendo a stento qualche risata e lasciandosi scappare qualche sorriso compiaciuto, se fosse per la loro furia in battaglia o per la spensieratezza del momento, poca era la differenza: annuivano e si fermavano per alcuni secondi, sia se impegnati con delle faccende, sia se stavano tornando nelle proprie case dopo il pomeriggio pieno.
Uno in particolare aveva fermato il suo passo: poggiato con gli avambracci nudi e la camicia sporca dal lavoro nelle fucine, Thorin, riuscendo a passare quasi del tutto inosservato, osservava la scena sorridendo divertito seguendo la piccola baruffa a diversi piedi da lui, abbastanza lontano da non essere notato da nessuno, ma abbastanza vicino da poter distinguere i loro volti. Inevitabilmente però, i suoi occhi gravitavano verso una figura ben piu’ celata dei quattro nani a pochi piedi da lui.
 
Su un'altra persona.
 
Come successe la sera prima quando si addormentò sotto di se, si ritrovò a fissarla, come un folle fissava l’oggetto della sua follia. No, tutt’altro, il modo in cui la fissava era tutt’altro, e lo sapeva, lo sapeva troppo bene.
 
Quella notte l’aveva sognata, ancora, ma a differenza della notte precedenti, il sogno fu diverso: lui era già sveglio seduto sul bordo del letto pronto ad andarsene, poi era arrivata lei  gattonando sul materasso per poi stringerlo con delicatezza da dietro baciandogli il collo e sussurrandogli di rimanere e lui arrendendosi, rimaneva lì con lei, ancora, prima delle fiamme, prima del ghiaccio carico di sangue.
Si era lasciato andare a quello che si era imposto quella notte di non fare, non rimanendo, andandosene incapace di abbandonarsi a lei, impossibilitato; in cuor suo non sapeva se ne sarebbe mai stato capace a rimanere o a lasciare che lei lo convincesse a rimanere.
 
Si strinse gli avambracci osservando la scena che gli si parava davanti agli occhi il freddo dell’oro sotto la sua pelle gli raggelava il corpo marcato dal sudore del duro lavoro a cui si era dedicato quel pomeriggio, come ormai tutti i pomeriggi, fino a che le forze o i pensieri non lo abbandonavano del tutto, ma il suo lo aveva continuato a logorare, attimo dopo attimo; la voglia di mollare tutto e bussare alla su porta era diventata quasi insopportabile tanto da doverlo far fermare per diverso tempo riprendendo fiato oppure guardando gli altri lavorare intorno a lui. Abbassò lo sguardo pronto ad andarsene, non volendo esitare oltre ma una sua risata cristallina e leggera lo fece bloccare nuovamente sul posto, puntando di nuovo gli occhi su di lei: l’altra ragazzina accanto a lei con i capelli rossi urlava contro i due piccoli nani di smetterla di azzuffarsi o si sarebbero fatti solo del male.
 
Sembrava che tutto quello che fosse successo la notte prima non fosse mai accaduto, come se tutto il dolore che le aveva pianto sul petto non fosse mai esistito.
Era felice, e tanto gli bastava a per non logorarsi ancora, con domande o ricordi e la sua gioia, senza ragione apparente, lo rese felice a sua volta, anche se lui stesso non ne era il fautore in quel momento e quella consapevolezza gli fece abbassare lo sguardo imbarazzandosi di se stesso, ma anche beandosene, beandosi di un suo singolo sorriso.
 
“Fàrim! Basta. Fermi.” Nim ripete frapponendosi tra i membri del gruppo tentando con le mani di allontanarli l’uno dall’altro ma senza successo, i quattro continuavano a rotolarsi e a darsi continue botte, solo quando Lòni alzò lo sguardo verso di lei notando la sua aria preoccupata quest’ultimo smise di rispondere ai colpi osservandola mentre questa sbatteva i piedi per terra con le braccia incrociate al petto e tirandosi leggermente indietro comprendendo che fosse preoccupata ma Ghìda notò altro passargli negli occhi azzurri dal piccolo nano che incrociò ancora a terra quello di Nìm ancora con le braccia al petto facendo arrossire entrambi e fargli voltare lo sguardo a entrambi.
 
“Facciamo un combattimento leale adesso, solo io contro te Lòni all’ultimo sangue, chi perde dovrà baciare gli stivali all’altro.” Urlò Fàrim smettendo di azzuffarsi e trovando una maniera per alzarsi anche seppur Drel e Trel non mollarono facilmente la presa tentando in tutti i modi di ributtarlo giù per terra ma gattonando riuscì’ a svicolarsi lanciando uno sguardo verso l’amico.
 
La proposta fin troppo allettante scosse Lòni a tal punto da fargli scuotere la testa come se stesse scacciando un pensiero e in meno di un attimo ritornò ad essere un possente guerriero dei nani e  seppur ancora con i goti rosse dall’imbarazzo si alzò a carponi da terra facendo indietreggiare Drel e Trel che ancora erano distesi per terra  guardando con aria di sfida Fàrim che senza aspettare neanche una sua risposta era già in posizione con la spada tra le mani.
 
“Ci sto riccioli rossi.” Ruggì di rimando e ghignando afferrò la spada che aveva lasciato atterra poco prima rotolandosi di lato esasperando il movimento come fossero in una battaglia leggendaria, mettendosi nella stessa posizione di Fàrim che lo guardava a diversi piedi di distanza con un ghigno trionfante trattenendo la spada con entrambe le mani, ma Lòni stava con le gambe fin troppo strette e le spalle basse; Ghìda stette per correggerlo ma con su grande sorpresa una voce la precedette.
 
“La schiena piu’ dritta, il braccio rigido.”
 
Una voce profonda interruppe lo scambio di sguardi tra i due nani, facendolo spostare verso dove fosse arrivata e all’inizio di uno dei corridoi che si andavano a incrociare sullo spiazzo Thorin aveva parlato attirando non solo l’attenzione dei piccoli nani, ma anche di alcuni che passeggiavano tra i corridoi che fecero vagare il loro sguardo curioso vero la piazzola;  e quando tutti e sei si resero conto di chi avesse parlato si bloccarono di colpo abbandonando le posizioni o sgranando gli occhi: solo Drel e Trel ebbero l’accortezza di abbassare il capo in riverenza, Lòni e Fàrim invece non mossero un muscolo.
 
A lei quasi mancò fiato quando sentì la sua voce e quando notò che era effettivamente la voce di Thorin tutte le sensazioni della notte precedente le artigliarono il petto facendole aprire leggermente la bocca: di tutti i modi in cui avrebbe voluto rivederlo, quello era forse uno degli ultimi che avrebbe desiderato. Si alzò con cautela da dove era seduta osservandolo camminare verso i due con aria autoritaria con le braccia incrociate al petto avanzando verso il gruppetto che nel frattempo era rimasto immobile e con le bocche spalancate osservando il re avanzare verso di loro. 
 
“La spada piu’ alta.” Lo corresse ancora e Lòni fece quello che gli venne ordinato senza porre una parola, non spostando la treccia bionda gli ricadeva sugli occhi neanche di un millimetro anche se poteva coprirgli la visuale, tanto era in agitazione.
Thorin si mise di lato a lui, studiandone il profilo e alzò il lato della bocca in una smorfia simile a un sorriso che andò in netto contrasto con il tono autoritario.
 
“Ginocchia larghe.” Appuntò ancora osservandogli le gambe e queste obbedirono o all’ordine immediatamente.
Un piccolo strattone alla gonna richiamò la sua attenzione: Mar la stava tirando verso di se tentando di farla abbassare per dirle qualcosa. Distogliendo lo sguardo da Thorin si chinò leggermente permettendo alla piccola nana si spostarle una ciocca di capelli oltre la spalla per poterle parlare all’orecchio, senza però mai staccare gli occhi dalla figura imponente figura di Thorin.
 
“A me continua a fare paura.” Gli sussurrò nell’orecchio trattandole la gonna.

Probabilmente Thorin l’aveva sentita perché abbozzo un sorriso guardando verso il basso mentre continuava a dare indicazioni piu’ fisiche che verbali a Lòni facendola sorridere tra se e se all’innocenza di entrambi e a come Thorin avesse fatto finta di nulla.
Di tutta risposta si avvicinò tanto all’orecchio di Mar per far sembrare un sussurro ma la voce era abbastanza alta da poter far sentire a Thorin la usa risposta.
 
“Prometto che è meno burbero di quanto sembra.”
 
“Sei sicura di volerlo sposare?”
 
La domanda la fece gelare, non per la domanda in se ma perché lui l’aveva sentita, era sicura che lui l’avesse sentita: gli osservo il profilo che ora era leggermente voltato verso di loro, anche se con lo sguardo ancora guardava i quattro piccoli nani. Un groppo le si formò in gola seguito da qualche secondo di silenzio in cui Thorin abbassò lo sguardo e le diede la schiena come per darle un minimo di intimità nella risposta, come se non volesse sentirla perfino.
Lo guardò un’ultima volta, passando lo sguardo dai capelli corvini fino alle spalle larghe e alle braccia tirate in avanti mentre tratteneva la spada a Lòni, aiutandolo a sistemarsi.  
Le parole le uscirono da sole, senza che lei ne avesse il controllo, flebili, quasi impercettibili.
 
“P-penso proprio di sì.”
Sussurrò piu’ a se stessa che alla sua interlocutrice senza mai staccare gli occhi da Thorin ritrovandosi  a sorridere tra se e se incapace di controllare i suoi sentimenti o perfino il suo sguardo.
 
“C-così va bene?”
 
Il piccolo nano teneva la spada ben stretta tra le mani nel frattempo che Thorin allontanava le mani dalla lama lasciando che rimanesse in quella posizione da solo mentre i restanti tre lo osservavano attenti studiando ogni accorgimento che il Re sotto la montagna impartiva al loro amico.
 
Thorin annuì sorridendogli con il lato della bocca, passando lo sguardo sulla lama e poi su di lui. “Molto bene, quale è il tuo nome?”
 
“L-Lòni figlio di Flòni, mio Re” Gli rispose tentando in tutti i modi di sostenere il suo sguardo.
 
“Sarai un ottimo guerriero Lòni figlio di Flòni.” Gli disse e si chinò poggiandogli affettuosamente una mano sulla testa con un fare talmente paterno ma allo stesso tempo autorevole che le fece sorridere ancora di piu’, sapendo quanto una sua approvazione fosse importante, per tutti loro.
Il gesto che per Thorin non era stato di molto conto, fece nascere infatti sul viso del nano biondo un sorriso spontaneo ampio e tremante dall’entusiasmo annuì velocemente lasciando la posizione e impossibilitato a trattenere la gioia che il re, il suo re, glia avesse appena detto una cosa del genere.
 
“S-si mio re.” Gli rispose mentre Thorin annuì tirandosi nuovamente su e lasciandogli andare la testa, e come non poterci credere Lòni si porto una mano sulla chioma bionda rimanendo in silenzio qualche attimo prima di spostare lo sguardo su di lei: nel suo viso non si poteva leggere nient’altro che una gioia immensa.
 
“P-possiamo rimanere un altro po' così possiamo gio-…” Lanciò un’occhiata verso Thorin nel frattempo che questo sia andava sempre piu’ allontanano di un paio di passi mentendo però il contatto visivo con il piccolo nano, che accorgendosi come il re sotto la montagna lo guardasse ancora rizzò la schiena fieramente. “Per allenarci.” Si corresse con voce piu’ profonda piu’ seria tenendo il pugno della spada con entrambe le mani poggiando la punta della spada a terra cercando nuovamente di impressionare Thorin con il suo portamento da vero soldato: le sembrò una scena talmente dolce che non ebbe il cuore di interrompere il suo entusiasmo, che in realtà si era andato anche propagare per i restanti cinque nani, eccitati per le parole del re verso il loro amico.
 
“Va bene, poi però dritti a casa che è tardi.” Alla risposta i quattro ragazzi si guardarono entusiasti tra di loro e annuirono tutti in contemporanea e senza aggiungere altre corse dall’altra parte dello spiazzo dove c’era piu’ spazio per giocare anche se loro avrebbero detto in ogni caso che si stavano allenando per essere dei veri guerrieri.
 
“Vengo anche io!” Urlò la piccola nana dai capelli neri che le tratteneva il vestito prima di lasciarla e inseguire il gruppetto che rumorosamente già stavano parlucchiando tra di loro eccitati.
Anche Nìm cominciò a rincorrerli ma prima di poter anche solo allontanarsi di un paio di passi si bloccò di colpo a metà della sala, voltandosi e lanciandole un ultimo sguardo incerto.


“Te la ricordi la promsessa?” Le chiese  con voce flebile, sicura che forse quello che le aveva detto fosse stata una bugia, ma si rincuorò quando Ghìda annuì sorridendole facendola scattare come una molla e riprendendo il suo passo al doppio della velocità di prima facendo unire la sua voce al coro degli schiamazzi degli altri che guardavano le proprie spade entusiasti e che cominciavano a provare la posizione di difesa che Thorin aveva corretto a Lòni.
 
“Sei sciolta da questo compito ne sei consapevole?”
 
Richiamò Thorin la sua attenzione e facendola sorridere tra se e se annuendo verso il basso  per poi voltarsi verso di lui, che, nel frattempo che lei aveva osservato Nìm andarsene, si era poggiato con la schiena sul lungo corrimano dorato che dava verso l’abisso sotto di loro tenendo sempre le braccia incrociate al petto.
 
“Non penso di avere piu’ scelta ormai” Gli rispose avvicinandosi a lui a sua volta e portandosi al suo fianco. “Poi devo mantenere una promessa.” Precisò spostando nuovamente lo sguardo verso il mucchio  di ricci rossi che imitava con le mani le posizioni dei quattro ragazzi, per imprimerle meglio nella sua testa.
 
Thorin strinse leggermente gli occhi guardandola mentre si lasciava andare come lui sulla balaustra. “E quale se posso chiedere?”
 
Ghìda sorrise tristemente prima di guardarlo in viso, oltre le piccole macchie nere che gli solcavano la fronte le guance.  
“E’ una cosa a cui tiene molto.”
Gli confidò indicandogli con lo sguardo Nìm che raggiungeva il gruppetto vivace dall’altra parte della piazzola, avvicinandosi poi verso Lòni guardandolo con gli occhi incantati e felici.
“Non vuole vederlo morire.” Ammise infine con la voce piu’ flebile di prima. “Mi ha confidato che ha paura che quando cresceranno, lui muoia in battaglia, vuole imparare a combattere per salvarlo.”
 
Thorin assottiglio lo sguardo puntandolo verso il ragazzino con i capelli biondi e la piccola nana dai capelli rossi che parlottavano tra di loro entusiasti. Per un attimo gli tornarono in mente quando uno di quei nani era lui, in quello stesso spiazzo a giocare e a rincorrersi con suo fratello provando le stesse pose, lanciandosi l’uno sull’altro nello stesso modo…prima di crescere, prima della malattia, prima di Smaug.
Sospirò tirando su schiena “Se il fato è dalla nostra parte, poche battaglie verranno combattute.” Le rispose netto forse anche troppo, infatti Ghìda abbassò lo sguardo guardandosi le mani da cui si potevano vedere la fine delle rune nascoste dalle maniche dell’abito.
 
“Ci sarà sempre una battaglia da combattere, con o senza spada poca è la differenza.” Mormorò e lanciando un ultimo sguardo verso Nìm mentre questa anche se ben nascosta imitava le posizioni di Lòni senza mai staccare lo sguardo e lei quello sguardo le sembrò così familiare da farle male: lei sapeva chi lei guardasse così.
“Perché non può lottare per qualcuno a cui tiene?” Chiese piu’ a se stessa che a un interlocutore ben preciso, non pensando neppure che il soggetto della frase era proprio il suo interlocutore, ma lui quello non poteva saperlo mantenendo gli occhi ben fissi in avanti, ma per Thorin fu chiaro che la domanda non fosse rivolta a lui, ma a un qualcosa di molto piu’ grande e difficile da comprendere.
 
Passò lo sguardo sul profilo studiando le labbra premute l’una sul altra in una linea dritta, vi lesse quel tanto di decisione che lo fece sorridere con il lato della bocca annuendo. “Sei decisa a formare una guerriera dei nani.”
 
L’affermazione riuscì a strapparle un sorriso al lato della bocca distogliendo i suoi pensieri dalle sue domande e incertezze.  “Le voglio solo insegnare a usare una spada e a tenere su un arco, non propriamente la descrizione di una guerriera, ma tanto basta per onorare la promessa con se stessa.”
 
“E la tua.”
 
“E la mia.” Confermò ricambiando il suo sguardo, osservando le due pozze azzurre che tanto aveva agognato sentendosi improvvisamente di nuovo vulnerabile, riuscendo perfino a sentire ancora il suo odore, quello con cui si era svegliata intrisa quella mattina, con il suo mantello addosso, o gli strani brividi dietro al collo che le erano venuto quando notò che la sua mano era sparita.
 
Sentì il cuore cominciarli a galoppare nel petto e abbassò lo sguardo imbarazzata, ma al contempo, qualcosa lo fece fermare prima che questo ricadesse sul pavimento, un’elsa particolare, quella che portava Thorin legata alla cintura, un’impugnatura di una spada familiare, troppo familiare.
 
“Questa è elfica, era stata forgiata apposta per te.”
 
“Non è vero, signor Gandalf non mi dite le bugie.”
 
“Uno stregone non dice mai delle bugie: è elfica, non si può desiderare una lama piu’ bella.”
 
“Quindi è mia?”
 
“Solamente tua.”
 
 
Thorin notò il suo sguardo fisso sulla sua cintura e alzò un sopracciglio seguendo gli occhi fermi sul pomo di Orcrist: sembrava avesse visto un fantasma.
 
“Mi permetti?”
 
Thorin la guardò dapprima assottigliando lo sguardo e poi annuì sciogliendo le braccia dal petto sfilando la lama dall’elsa facendo riecheggiare tra di loro un tintinnio di metallo e appena Ghìda vi posò lo sguardo sgranò gli occhi incredula e ancor di piu’,  passando lo sguardo dalla punta della lama fino all’impugnatura. Quando gliela porse con cautela la prese con entrambe le mani, sorreggendola per la lama e il pungo dell’elsa, inarcando le sopracciglia come se stesse studiando la lama, o ricordando qualcosa e che con ogni momento che passava rendesse piu’ vivido il suo ricordo.
 
“Questa non è una lama forgiata nelle fucine dei nani.”  Sussurrò Ghìda e anche se il ronzio del quieto camminare nella sala di altri nani e il loro leggero parlottio avevano reso ancora piu’ leggere le parole, lui le sentì chiare come se dette a voce alta.
Ghìda non staccò gli occhi dalla lama tenendola con cura: aveva come la sensazione di poterla rompere tanto era sottile, tanto fosse leggera: la somiglianza era incredibile, l’aveva posseduta per così poco eppure ne ricordava ogni curva, ne ricordava le rune incise sopra, ma troppo lontane nei suoi ricordi per riuscire a ricordare cosa ci fosse scritto.
 
“Mi è stata donata.” Precisò Thorin osservando la lama lucida tenuta per il maniaco con una mano passando l’altra attenta sopra sfiorando metallo con la punta delle dita.
 
Anche lui si era ritrovato a fissarla così la prima volta che l’aveva presa in mano, ma c’era qualcosa nel modo in cui lei stava guardando la lama che non era stupore, quella che chiunque avrebbe provato di fronte a una lama del genere: la teneva fra le mani come se fosse un qualcosa di piu’ di una spada, con una delicatezza che gli fece venire dei piccoli brividi dietro al collo, per un attimo percepì il suo tocco sulla lama come se fosse su di lui, sul suo collo, come quei baci, quelle carezze che lo consolavano e lo uccidevano nello stesso momento.
 
“E’ stupenda.”
 
La osservò attento stringendo gli occhi a malapena quando il passo un dito sul lato della lama fin verso la fine, accarezzando con il dito piccolo decoro inciso e poi le rune l’elfico antico che si annodavano su questa: provò l’impulso di bloccarle la mano prima che arrivasse alla lama, per evitare che si tagliasse, ma non ne ebbe bisogno, non arrivo verso la lama, le sue dita salirono piu’ su verso il ghirigoro inciso e sulle rune intorno ad esso. Come se potesse sentirle ci passo il dito una per una assottigliando gli occhi e tutto d’un tratto arrivata alla fine un sorriso le si stampò sulle labbra, così inatteso da farlo sussultare.
 
 “Sembra che questa spada sia stata destinata a te molto prima che ti arrivasse in dono.”
 
Affermò Ghìda alzando lo sguardo verso di lui che aggrottò ancora di piu’ la fronte non riuscendo a cogliere ciò che intendeva, osservò le rune, ma per lui erano incomprensibili, lo erano sempre state.
Intuendo la sua confusione lei gli accenno un sorriso  e si avvicinò frapponendo tra loro la lama che tratteneva con entrambe le mani così che potesse osservarne tutta la lama, e rialzandola di poco così che la luce delle lanterne potessero illuminare ancora meglio il ferro specchiato.
 
“Le scritte sulla lama…” Mormorò poggiando il dito sulla base della spada ripercorrendo con le dita lo stesso percorso che aveva compiuto poco prima sottolineandogli quali fossero le incisioni a cui stesse facendo riferimento: Elrond non ne aveva accennato, rivelandogli solo il nome della spada inciso sul manico, ma non il significato delle rune sul ferro argentato.
 
lhûg nagol” Gli lesse alzando lo sguardo nuovamente verso di lui ma quelle parole elfiche per lui non ebbero alcun significato, ma dal modo in cui le aveva lette gli sembrarono familiari, una parola in particolare. Dente di drago.” Gli tradusse infine e Thorin sciolse le braccia dal petto portandone una dietro di lui sulla balaustra pertenersi, avvicinando l’altra verso la lama.
 
Sorrise appena: pensando all’ironia della scritta, e ancor piu’ al motivo probabile del perché Elrond di Granburrone non gliene avesse parlato. Con lentezza poggiò anche lui il suo indice sulle rune, studiandola piu’ da vicino riscrivendole.
 
“Chi te l’ha donata probabilmente si fidava molto della tua impresa.” Gli disse voltando la testa leggermente, ma abbastanza da  poter probabilmente notare il suo sorriso quasi ironico.
 
“Ti stupirebbe sapere che non è stato così.”
 
“In qualsiasi caso, ti ha servito bene.” Gli rispose alzando lo sguardo verso di lui, e fu in quel momento che ebbe la certezza che erano vicini, troppo vicini,. Avendo poggiato una mano sulla lama, altra era andata a scivolare dietro verso la balaustra oltre la schiena di Ghìda, e talmente era preso da quel momento che non si era reso conto che la sua schiena era praticamente poggiata quasi sul suo avambraccio. Gli sarebbe bastano piegare il braccio per attirarla di nuovo a se come la notte prima, stringerla cnora sul suo petto accettare di rimanere per ricominciare tutto da capo, per risentire ciò che aveva sentito. Le osservò la guancia e poi il suo sguardo le sfiorò le labbra con lo sguardo, sentendo il suo sguardo su di lui, e mentre questo aumentava anche la voglia di avvicinarsi di piu’ aumentava, ogni attimo che teneva il viso attaccato al suo.
 
Ringraziarono Mahal che uno schiamazzo piu’ forte degli altri dal gruppo di ragazzi sembrò rompere la situazione, perché in quel momento nessuno dei due sarebbe stato in grado di interromperlo volontariamente, no, se non fosse successo, probabilmente sarebbero rimasti coì in eterno, lacerandosi, facendosi mangiare vivi dalla situazione incapaci di toccarsi, incapaci di dire o chiedere oltre. Entrambi troppo codardi o troppo orgogliosi per ammettere quello che volevano.
 
Ghìda si morse il labbro e gli porse nuovamente la spada evitando il suo sguardo mentre le sensazioni che aveva provato nuovamente la logoravano attimo dopo attimo: questo era il suo dilemma e la sua afflizione, una parola lei sarebbe crollata.
 
La lasciò andare quando ormai le mani di Thorin erano ben fisse intorno alla lama e sentendo il suo braccio scivolare via si girò su se stessa, poggiando gli avambracci sulla ringhiera come se girarsi dall’altra parte potesse servire a qualcosa, come se non sentisse ancora il braccio di Thorin dietro la sua schiena, come se per un attimo non avesse voluto che la stringesse ancora, la toccasse ancora. Era successo, un'altra volta.
 
Si strinse il polso irrequieta e cercando in tutti i modi di fermare il cuore che ormai era totalmente chiuso in una morsa.
 
“Il racconto di ieri sera, era la verità?” Le chiese Thorin che seguendo il suo esempio si poggiò sulla balaustra incrociando gli avambracci su di essa puntando gli occhi verso i corridoi affollati di nani sotto di loro.
 
Alla domanda sorrise  guardando verso il basso. “Ogni singola parola.” Confermò ricordando le risate che si erano levate quando l’aveva raccontata, come aveva notato il suo riso anche se ben nascosto si era unito a quello degli altri.
 
Thorin rimase in silenzio guardando verso il basso spostando lo sguardo dalle sue braccia verso l’entrata dell forge ben visibile da dove erano, qualcosa lo tormentava, cercava delle parole o dei pensieri, stette per chiederglielo ma lui la precedette spostando lo sguardo dai suoi anelli verso di lei. “Quello che ti ha detto Balin non è errato, non è mai troppo tardi per imparare… vorresti?”
 
La domanda le fece sgranare gli occhi che si incurvarono velocemente quando una leggera risata le uscì dalle labbra scuotendo la testa divertita. Le parole di Balin gli erano sembrate solo un appunto, niente di piu’ non le aveva neanche prese sul serio, chi le avrebbe potuto insegnare, nessuno avrebbe voluto per lo meno o ne era in grado viso la mole di lavoro che c’era ancora da svolgere per la montagna.
 
Si ritrovò infatti a ridacchiare alla sua proposta, non riuscendo a prenderla sul serio.
 
“Penso che la parte sul aver quasi dato alle fiamme un intera fucina non sia stata chiara.” Appurò alzando lo sguardo verso di lui. “E poi chi dovrebbe essere il mio insegnate?”
 
Thorin non rispose, non ne ebbe bisogno, il suo corpo, la sua postura risposero per lui: con le braccia incrociate sulla ringhiera e le spalle larghe la stava osservando in silenzio, ritenendo superfluo precisare la sua risposta.
 
Per un attimo Ghìda pensò che il suo silenzio si riferisse a tutt’altro, accennando un piccolo sorriso ma aveva imparato a conoscerlo abbastanza da capire immediatamente quanto la sua proposta fosse veritiera, ed ebbe la conferma quando Thorin alzò leggermente un sopracciglio scuro guardandola fissa: incredula spalancò leggermente la bocca pronta ribattere ma prontamente interrotta.
 
“Se ci riescono dei bambini non vedo perché dovresti essere da meno.”
 
Lo guardò ancora piu’ interdetta da una simile proposta, tanto da lasciarla senza parole alcuna, studiando i suoi occhi blu che la fissavano cercando un appiglio di ironia ma niente oltre un’estrema risolutezza . Si morse il labbro imbarazzata e sbatte un paio di volte chi occhi.
 
“Non è esattamente la stessa cosa.” Tentò di precisare ma ricevette per risposta una scrollata di spalle.
 
“E perché non dovrebbe essere la stessa cosa?”
 
Lo guardo ancora piu’ scioccata tirandosi su dalla balaustra afferrandola adesso con entrambe le mani: possibile che non capisse che non poteva essere la stessa cosa, no non per lei, chiunque ma non lui.
 
“Perc- perché avrai sicuramente altro da fare piuttosto che preoccuparti per me, forgiare non è una cosa indispensabile, h-ho da fare anche io in qualunque caso.” Gli rispose spostando il viso verso l’altro capo della sala dove nel frattempo tutti e sei i piccoli nani si erano seduti sulle panchine chiacchierando tranquillamente con le spade posate a terra.
“Thorin… non…” Si bloccò all’istante, prima di dargli una risposta netta, abbassando lo sguardo, variando ogni singola possibilità di quel gesto: se stesse cercando di rimediare ancora quello che era accaduto tra di loro non riuscì a dirlo. Abbassò di piu’ lo sguardo non riuscendo a reggere i suoi occhi azzurri, che la voleva spingere a una riposta affermativa e che lei avrebbe dato se non avesse avuto perfettamente in mente cosa questo avrebbe comportato, per lei, per quello che provava.
 
Il pensiero di passare del tempo con lui, si fece largo nella sua mente, sarebbe stato capace a sopportarlo? Controllare ciò che sentiva, i battiti che le martellavano nel petto: sarebbe riuscita a non lasciarsi andare piu’, oppure era ciò che voleva, lasciarsi andare, con lui, solo con lui.
Lanciò uno sguardo verso la lama e Una folle idea si fece largo nella sua mente, così folle da non sapere neanche da dove fosse uscita, ma guardò prima la spada al fianco di Thorin e poi alzò lo sguardo verso di lui che ancora spettava una sua risposta: non era la migliore delle idee ma almeno non si sarebbe sentita in dovere verso di lui, avrebbe ripagato il suo debito.
 
Si avvicinò di nuovo a lui di un paio di passi alzando la testa e portandosi alla stessa postura che aveva lui in quel momento: rigida, determinata, tanto abbastanza da fare alzare a Thorin un sopracciglio incuriosito. I suoi cambi repentini di atteggiamento non gli erano nuovi, quando pensava di aver capito cosa potesse passarle per la testa si ritrovava sempre piu’ sbalordito scoprendo che quasi mai era ciò che pensava.
 
“Ho un accordo da proporti Thorin Scudodiquercia.” Gli disse portando le mani dietro la schiena.

Lui abbassò lo sguardo facendo nascere un breve ghigno al lato della bocca. “Ti ascolto.” Mormorò serio voltandosi ancora di piu’ verso di lei staccando le mani dalla ringhiera.
 
“Io seguirò le lezioni nelle fucine, a patto che tu mi permetta che io ti insegni a leggere, a scrivere e a parlare la lingua elfica.”
 
La sua probabilmente  era stat un’idea stupida, anzi lo era stat di sicuro, ma la stretta al petto aveva prevaricato sulla ragione, sempre così era stato, ma per la prima volta si sentì leggera ad aver lasciato che questo accadesse.  Era già pronta a una sfuriata o a un ‘no’ secco ma questo non arrivò anzi, Thorin abbozzò un sorriso divertito sciogliendo le braccia dal petto e la guardò di sottecchi scuotendo la testa divertito, alzando dapprima gli occhi al cielo e poi di nuovo verso di lei.
 
“Non vedo quale sia la parte dell’accordo che dovrebbe beneficiarmi.”
 
“Parlare la lingua di un altro popolo potrebbe sempre essere di aiuto, in situazioni complesse.”
 
“La lingua comune non è abbastanza?” Insistette alzando un sopracciglio per niente intimorito dal suo tono o dal suo portamento.
 
 “Se per te è opportuno che io impari a forgiare, lascia che diventi opportuno per me insegnarti qualcosa che non sai fare.”
 
“Le so riconoscere le rune elfiche.”
 
“Ma non le hai sapute leggere.” Questa volta era sicura di aver assestato un colpo perfetto perché a differenza delle risposte che gli aveva dato prima, lui aprì piu’ volte la bocca tentando di dire qualcosa ma poi la richiuse immediatamente lasciandosi anche scappare una risata sommessa sotto la barba scura.
 
“Non ci sono libri in elfico in questa Montagna.” Appuntò l’ovvio Thorin avvicinandosi ancora un po' continuando a fissarla negli occhi, aspettando che si arrendesse, ma la sua frase ebbe l’effetto opposto, le fece alzare un sopracciglio divertita continuando a mantenere il contatto visivo.
 
“Non ce ne sono? “ Gli rispose alzando un lato della bocca in un sorriso scaltro prima di puntare lo sguardo verso l’alto verso le scale sopra di loro. “Oltre arrampicarmi fuori dalle finestre come avrei potuto passare il mio tempo?”
 
Thorin aprì la bocca per ribattere nuovamente ma si blocco sospirando sconfitto abbassando lo sguardo mentre un’espressione simile a un sorriso gli curvò le labbra.  “Sei molto brava a parole.” Ammise guardandola di nuovo.
 
“Posso prendere queste tue ultime parole come una risposta affermativa Re sotto la montagna?”
 
Thorin poté percepire una leggera ironia nelle parole che gli aveva rivolto, come aveva sottolineato il suo rango, ma inaspettatamente non gli diede fastidio: quelle parole dette dalla sua bocca, con quel sorriso appena abbozzato sulle labbra, gli sembrarono prive di qualsia altro significato che non fosse un titolo come un altro.
 
Si sentì improvvisamente leggero come non lo era da tempo: si dovette arrender all’evidenza che era nelle sue mani, e non gli dispiacque, affatto.
 
“Ho la tua parola?” Le chiese infine e di tutta risposta fece un leggero movimento di lato con la testa avvicinandosi ancora di più ora col le braccia che potevano quasi sfiorargli il petto, talmente tanto che poteva sentire il respiro sfiorargli il viso, e per l’ennesima volta dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo quando si ritrovo a fissarle le labbra che morse sorridendogli scaltra.
 
“Io ho la tua?”
 







 
“Devi aspettare fino a che il metallo non diventa cremisi, se lo tiri fuori troppo presto poi dovrai aspettare un'altra volta.”
 
Le spiegò Thorin girando e rigirando nel fuoco, con la mano ben salda verso la parte fredde, una lunga asta già battuta di metallo: il calore della fornace non sembrava intaccarlo o provocargli fastidio alcuno, a differenza sua, che già poteva sentire la pelle scottarle stando a pochi piedi, girava e rigirava il metallo a mani nude, o quasi: l’unica cosa che lo divideva con la parte piu’ fredda, era un panno di pelle, macchiato quanto la sua camicia di fuliggine e polvere. 
Con cautela gli si avvinò ancora di piu’ piegando la testa verso la fornace accesa per guardare al meglio dentro e notare con precisione a cosa si riferisse: per aiutarla Thorin infatti lui le fece un po' di spazio accanto a lui di fronte alle braci scoppiettanti
 
“Se però lo tiri fuori troppo caldo poi c’è il rischio che ti si fonda e ti cada per terra.” Le appuntò ancora fissando con lei il metallo che ora, secondo quanto era riuscita a capire, avrebbe dovuto essere alla temperatura adatta dato il colore, infatti il nano accanto a lei con maestria rigirò un paio di volte nella mano la lastra e poi le lanciò un’occhiata .
 
“Fatti piu’ in là.”
Le ordinò e così fece, rimanendo sempre in scrupoloso silenzio cercando in tutti i modi di imprimere tutto quello che gli diceva nella mente, anche se il calore asfissiante delle fucine non rendeva la cosa facile, così come lo sbattere continuo di martelli sulle incudini che si propagava da ogni nano che stava lavorando nelle fucine in quel momento. L’aria pesante per il caldo era carica di un odore continuo di carbone e  pece che, anche se vi era entrata piu’ volte, non aveva mai percepito, o almeno non così tanto da poterla sentire intrinseca anche sulla sua pelle. La camicia rossa da lavoro che portava le si era attaccata su tutta la schiena e anche se fino a quel momento era stata solo un osservatrice del lavoro di Thorin, aveva il viso e la mani macchiate quanto le sue, l’unica differenza era che lui a differenza sua sembrasse non provare alcun fastidio, si asciugava il sudore ogni tanto solo con il dorso della mano e poi continuava come se nulla fosse, lasciando delle macchie nere ben visibili sul viso che gli illuminavano ancora di piu’ gli occhi azzurri.
 
Avrebbe mentito se avesse osato dire che non si era persa ad osservarlo alcune volte, ignorando totalmente le parole che diceva, osservando solo i movimenti esperti con cui compiva ogni gesto o l’attenzione in cui si muoveva nella piccola zona dell’officina.  I muscoli della schiena gli guizzavano di continuo e la camicia blu attaccata al petto non faceva altro che sottolinearli ancora di più portandola spesso a mordersi il labbro  nervosamente, sentendo una stretta allo stomaco quasi continua. Le sembrava tutto terribilmente intimo, forse fin troppo, anche se di intimo non c’era niente, visto che anche se abbastanza spostati di lato, la piccola fucina dove si trovavano era circondata da altre decine di postazioni piu’ o meno occupate da nani che svolgevano le loro mansioni, che troppo occupati, molto probabilmente non si erano neanche accorti della sua presenza, e a lei andò bene così.
 
La scosse dai sui pensieri Thorin che dopo che l’aveva fatta spostare si mosse con cautela dalla forgia verso l’incudine tenendo ben alto tirato in su la parte fredda della stecca poggiandola con un movimento secco su di questo trattenendolo con una mano, prima di voltare gli occhi su di lei che era rimasta ferma accanto al fuoco ardente.
 
“Le vedi quelle pinze?” Gli indicò con la mano libera dietro di lei il banco da lavoro carico di utensili, di cui metà delle quali lei non sapeva neanche il nome. “Prendile e vieni qui.” Aggiunse e lei passando a setaccio il punto che aveva indicato annuì e prese lo strumento esatto che aveva indicato avvicinandosi di nuovo a lui, che appena la vide avvicinarsi sciolse la presa dal manico portandosi via anche il panno che fino a poco prima tratteneva ben rigido nella mano come barriera tra lui e il metallo bollente, segui il movimento increspando le sopracciglia improvvisamente dubbiosa.
 
“Perché non posso farlo come hai fatto tu? A mani nude, è sicuramente piu’ comodo.” Gli chiese voltandosi verso di lui che ora si era poggiato con la schiena su un muro freddo dietro di lei, in mezzo a due grate su cui erano appesi decine e decine di martelli di grandezze e spessori diversi.  
 
Thorin si passò il panno che fino a poco prima teneva il ferro sulle mani e in mezzo alle dita. “Perché non puoi.” Le rispose asciutto alzando lo sguardo verso di lei arricciando leggermente il lato della bocca con un sorriso ironico passandosi poi il panno dietro al collo, chinandosi leggermente all’indietro, ma la risposta secca non le era andata giù: se avesse voluto insegnarle, le avrebbe dovuto dare delle risposte, per lo meno in quello che le spiegava.
 
“Hai deciso tu che non posso o non posso perché non posso?”
 
Thorin alzo leggermente gli occhi al cielo scuotendo la testa e le fece segno di avvinarci con la mano lasciando andare dietro di se il panno poggiandolo sul tavolaccio accanto a se.
 
“Mostrami la mano.” Le ordinò avvicinandosi a sua volta di fronte a lei confondendola ancora di piu’ di quanto già non fosse, ma fece come disse: alzo l’unica mano libera che aveva all’altezza del viso, mostrandogli il dorso sicura che si riferisse
 
“Aprila.” Ribatté di nuovo e così fece. Thorin assottigliò lo sguardo osservandole la mano e poi mosse la sua andandole ad afferrale il polso e con un movimento unico alzò anche l’atra con il palmo rivolto verso di lei e vi poggiò la propria facendo scontrare i due palmi l’uno sull’altro.
 
Ghìda si immobilizzò all’istante quando il cuore le saltò un battito all’incontro della sua mano contro quella di Thorin; fissò il suo palmo rigido su quella del re: la sua mano era grande almeno il doppio della sua.
 
“Ecco perché.” Le disse lasciandole andare lentamente il polso, convinto probabilmente che lei avrebbe lasciato cadere la mano da sola, ma non ci riuscì, anzi la fece rimanere lì dov’era, ammorbidendone lentamente i muscoli, lasciandosi andare al palmo ruvido, e come quella notte la stretta al petto divenne quasi insopportabile.
 
 Fissò la sua mano in quella di Thorin, talmente piccola che se solo lui avesse piegato un minimo le dita le avrebbe bloccato la mano li dov’era, ma questa scenda giù verso il palmo del re andando a chiudersi lentamente, lasciandola scivolare via, avvertendo tutti i calli e le cicatrici. Togliere quella mano fu probabilmente una delle cose piu’ difficile che avesse mai fatto, ma lo fece, lo dovette fare: tornando lenente alla realtà annuì e fin’ il movimento dapprima lento con uno gesto rapido e repentino distogliendo velocemente lo sguardo e ricacciando i suoi pensieri nella testa e distogliendo lo guardo dalla mano di Thorin ancora a mezz’aria.
 
“H-ho capito.” Affermò  e lui le fece solo un breve cenno con la testa prima di puntare di nuovo lo sguardo verso l’incudine dietro di lei dove ancora aspettava la lastra bollente di metallo e lasciando la mano cadergli sul fianco.
 
“Comincia o dovrai ricominciare tutto da capo.” Le disse asciutto, troppo asciutto: aveva indugiato troppo, si era lasciata andare troppo, ed era questo che temeva, che temeva da quando era scesa in quella fucina, dal momento stesso in cui l’aveva viso, o peggio da quando le aveva proposto l’accordo e se questo era quello che sentiva solo standogli accanto, poteva solo andare a peggiorare.
 
Sentì un senso di delusione, ma una delusione inutile, perché non c’era nulla di cui essere delusa, ormai stava trasformando ogni suo gesto in un qualcosa che non doveva essere, che non poteva essere.
 
Si girò su se stessa e afferrò con piu’ decisione le pinze nelle mani distogliendo i suoi pensieri da quelle fantasie e si  camminò verso l’incudine con lo sguardo basso continuando a darsi della stupida.
 
Thorin invece la guardò di sottecchi poggiandosi nuovamente al muro dietro di lui lanciando uno sguardo verso la sua mano ormai libera dal suo tocco che aveva lasciato cadere sul fianco, la sentì bruciare e formicolare come mai gli era capitato, la stessa sensazione che provò quella notte quando la strinse sulla sua guancia.
Alzò poi lo sguardo verso la sua schiena che era rivolta verso di lui: aveva poggiato con un movimento secco le pinze sull’incudine accanto al ferro caldo, e si era alzata i capelli per legarseli preparandosi al meglio, prima di cominciare a lavorare sul pezzo di ferro che aveva tentato in tutti i modi di renderle il piu’ malleabile possibile. Ne  seguì tutti i movimenti, da una parte preoccupato che potesse fare qualche sciocchezza, ma dall’altra perché l’unico modo in cui riusciva a osservarla senza farsi ribrezzo era quando lei non poteva guardarlo.
 
Alzo le ciocche castane afferrandosi tutti i capelli insieme e con i denti slegò il nastro di pelle che portava ben legato al polso da quando era entrata e con suo grande stupore, non lascio neanche un capello in avanti, niente che potesse coprirle le orecchie, non le copriva, non di fronte a lui per lo meno, e il gesto gli fece spuntare un sorriso appena accennato al lato della bocca . Ne percorse la punta, seguendo tutti gli anelli runici su di esso, e lasciò il suo sguardo vagare e ancora piu’ giù, verso la camicia rossa sgualcita e macchiata che le aderiva perfettamente alla schiena e al petto, fino alle braccia scoperte dalla camicia tirata su fino a meta braccio risalendo su fino alla spalla dove la manica era calata mostrando l’inizio dei tatuaggi e la spalla nuda. Vi ci incatenò gli occhi e la pulsione di fargliela scendere ancora di piu’ lo fece quasi vergognare di se stesso, e ancora di piu’ lo fece la voglia immensa che gli incateno lo stomaco di baciargliela fino a salire le sue labbra fino al collo e sentirla sussultare sotto le sue labbra, sotto le sue mani.
 
Si passò una mano sul viso, rasserenato che lei non lo potesse vedere in quel momento, troppo impegnata a posizionarsi in modo corretto per cominciare a lavorare: doveva rimanere lucido, la differenza tra quello che poteva permettersi quando dormiva era una cosa, quello che doveva fare nel presente era altro.
Per quanto una parte di se avesse accettato quelle sensazioni che lo dilaniavano, un'altra parte di se continuava a dirgli che il tempo di concedersi quelle libertà era finito, da anni, da molti anni, che sentire quello che sentiva quando le stava accanto era sbagliato. Ma mai come ora la prima voce nella testa prevaricava sulla seconda continuando a ripetergli che poteva, che ne aveva il diritto, come tutti gli altri, ma furiosamente le visioni di un qualcosa che poteva a malapena sembrare un futuro diverso da quel presente venivano cambiate dai sensi di colpa.
 
Lanciò un’altra volta uno sguardo sulla mano ancora aperta e ciondolante sul suo fianco e, repentinamente, la chiuse a pungo celandola a se stesso e portando entrambe le mani incrociate al petto. Uno sbattere sull’incudine gli fece alzare lo sguardo nuovamente verso Ghìda, che tratteneva fermamente il metallo con la mano sinistra e sbatteva il martello sull’incudine con una furia che mai si sarebbe aspettato da lei: le piccole scintille del ferro bollente si sparsero di fonte a lei sempre piu’ alte ogni colpo che assestava. Spostò poi lo sguardo verso l’altro braccio, che però a differenza dell’altro che si muoveva e sbatteva creando un ritmo rigido di impatti sul ferro, rimaneva fermo, troppo fermo.
 
Sospirò e sciolse le braccia dal petto dandosi una spinta con la schiena staccandosi dal muro freddo.
 
“Impiegherai due volte il tempo necessario se colpisci sempre dallo stesso verso della lama e poi ti concentri sull’altro.” Il tono autoritario di Thorin le fece interrompere il movimento del martello a mezz’aria e voltare verso di lui confusa.
 
“Sei stato tu a dirmi di battere fino a che non arrivavo allo spessore giusto.”
 
“Io ti ho detto di battere fino a che non arrivi allo spessore giusto, ma se continui ad assestare dei colpi del genere ti affaticherai tu e appiattirai troppo la lama.”  Ribatté immediatamente e le si avvicinò lanciando uno sguardo prima sul ferro sull’incudine ancora caldo e poi verso di lei, aprì la bocca per ribattere che non era esattamente ciò che le aveva detto, ma si fermò immediatamente notando lo sguardo di Thorin autorevole che la fissava, probabilmente in attesa di una sua parola di troppo.
 
Arrendendosi lasciò che un sospiro esausto le uscisse dalle labbra. “Allora come devo fare?”  Gli chiese sospirando e leggermente delusa: era convinta di sta facendo un buon lavoro, era sempre la sua prima volta, ma d’altra parte il suo insegnate .
 
Thorin non rispose fece solo un movimento con la testa indicandole di voltasi ancora verso l’incudine e seguendo ancora le sue indicazioni senza obiettare lo fece, rigirandosi il martello nella mano e posizionando di nuovo le pinze in maniera piu’ sicura sul ferro rovente.
 
Sussultò quando senti una sua mano decisa sul fianco che la tratteneva sul posto verso di lui facendola rimanere ferma dov’ era, mentre l’altra le afferrò con decisione la mano artigliata alle pinze intorno al ferro bollente, così come i suoi goti che  bruciarono ancora di piu’ sentendo il volto del re poggiarsi sul lato della testa , per osservare al meglio l’incudine sotto di se.
Una miriade di brividi le partirono dal basso ventre fino a sprigionarsi sul collo nudo così a poca distanza con la bocca di Thorin che poteva sentire la barba ispida tra i capelli… come due notti prima., e il suo odore entrarle nelle narici, lo stesso di cui era impregnato il mantello ancora in camera sua
 
“Devi girarlo su se stesso, prima da una parte e poi dall’altra, colpo per colpo.” Le disse autoritario facendola socchiudere gli occhi per un attimo: si senti totalmente impotente quando dei piccoli brividi le oltrepassavano il corpo, che aumentarono solamente di piu’ quando il petto di Thorin si andò a scontrare sulla sua schiena e le sue dita andarono a stringersi in modo ancora piu’ deciso intro alla sua guidando il suo polso a rigirare il pezzo di metallo bollente.
 
Riprendendo un minimo il controllo di se stessa annuì di rimando e strinse le pinze nella mano tanto quanto lui stringeva la mano intorno alla sua e senza aspettar neanche che gli dicesse alzo il braccio e sbatte con violenza il martello sulla lama facendo aumentare la stretta di Thorin intorno alla sua mano, sentendolo annuire con la testa.
 
“Ora di nuovo, dove hai battuto prima.” Le disse ancora aiutarla però a girare il polso verso l’alto e di conseguenza anche la parte non battuta del ferro, che non essendo ancora stat toccata mostrava diverse discrepanze, che facevano ondeggiare il ferro.
 
“Ancora.” Mormorò tra i suoi capelli facendole venire migliaia di brividi dall’inizio del collo fino alla fine della schiena, passando per il collo che quasi in automatico si inarcò leggermente di lato come per permettere a Thorin di farsi più vicino: e lei lo voleva, piu’ vicino.
 
Non poté dirlo con certezza ma ogni movimento che faceva poteva avvertire la stretta di Thorin sul suo fianco farsi sempre piu’ solida e rigida, così tanto che le sembrò che la sua mano avesse attraversato il tessuto e le toccasse la pelle nuda: dovette a un certo punto mordersi il labbro per non far salire un sospiro che le si stava formando in gola e che era già pronto a uscirle dalla bocca.
Nel saperlo così vicino le si strinse lo stomaco in una morsa che le permise a malapena di ragionare: se si fosse voltata e avesse alzato il viso avrebbe trovato il suo viso talmente vicino al suo che le loro labbra si sarebbero sfiorate. La malsana idea di lasciare che questo accadesse le si fece largo nella testa: non aveva più avuto controllo di nulla, specie delle sue emozioni, che le fecero dimenticare tutto.
 
 “Quando crei una lama devi calibrare bene i colpi, deve essere bilanciata allo stesso modo da entrambe le parti o…”
 
“Appesantirà solo il braccio e devierà i colpi.” Lo interruppe dando un ultimo colpo e si ritrovò ansimante e sempre piu’ con il petto che le si alzava e si abbassava cercando di reprimere la sensazione che le attanagliava il ventre, mascherato facilmente dall’ansimare della fatica che le era costata assestare dei colpi del genere con quel ritmo.  
 
Non commise neanche l’errore di voltarsi verso di lui, di alzare lo sguardo in cerca della sua approvazione, perché per come era turbata in quel momento, non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare. Abbassò solo lo sguardo e portò leggermente la testa in avanti allentando pian piano il volto da quello di Thorin dietro di lei socchiudendo gli occhi sentendo i pendagli freddi delle trecce del re allontanarsi dalla sua spalla. La stretta del re si fece piu’ leggere intorno alla sua mano, un preludio per quello che stava per accadere, infatti anche la mano sul fianco si slegò dalla sua camicia e con un movimento unico il suo petto smise di premerle sulla schiena: in meno di un attimo tutto quello che aveva sentito si tramutò in un brivido di freddo.


“Prova da sola.” Le disse allontanandosi e senza aspettare oltre tenne strette le pinze fra le mani rigirando
Il ferro sotto le sue martellate si fece estremamente meno malleabile, piu’ lo batteva, piu’ sentiva di star dando colpi a vuoto, senza che avesse bisogno di altre indicazioni alzò con le pinze il ferro dall’incudine e lo portò verso la fornace, riscaldandolo nuovamente: sentiva lo sguardo di Thorin su di se, ma lei non riuscì a guardarlo, non poteva guardarlo, non dopo quello che aveva sentito.
Piu’ tentava di reprimere quelle emozioni piu’ queste ritornavano piu’ forti, piu’ violente, piu’ dolci e piu’ delicate e piu’ tentava di non guardarlo piu’ si sentiva mancare l’aria, piu’ lo cercava con lo sguardo, e piu’ il suo si andava a poggiare sulla sua figura durante le martellate piu’ desiderava che fosse piu’ vicino, estremamente vicino. A discapito del rumore intorno a loro, dei soffietti che sbuffavano, dei martelli impetuosi, del gorgoglio dell’oro nelle immense fornaci al centro della sala, lei lo sentiva muoversi intorno a lei, percepiva gli spostamenti d’aria quando le si avvicinava e ogni volta che accadeva aumentava la forza con cui assestava i colpi o l’irruenza con cui girava la lama: come se sfogare quello che sentisse su un pezzo di metallo avrebbe cancellato tutto. Ma no, i suoi occhi ricadevano sempre su di lui, rischiando alcune volte di farle dare dei colpi a vuoto o peggio di allentare l’impugnatura sulle pinze così da far rimbombare il tintinnio dell’acciaio.
 
D’un tratto sembrò come se la sua testa si fosse estraniata, lei si volle estraniare, concentrando tutto quello che sentiva sul rimbombo dei colpi, lasciando che le scintille rossastre catturassero il suo sguardo, che il suo cuore battesse all’unisono con il martello, che l’unico tocco sul suo corpo fosse quello delle gocce di sudore che le attraversavano il collo andando a scivolare in mezzo al petto, e così fu. 
 
Non seppe per quanto rimase in silenzio, per quanto fosse riuscita a non farsi distrarre, ma era riuscita a battere talmente tanto la lama da essere riuscita a darle una forma per lo meno simile a quella di una spada: lunga quanto il suo braccio, con gli angoli ancora alti, non affilati, la punta arrotondata per lo meno simmetrica al punto tale da non compromettere un qualsiasi movimento.
 
Boccheggiante fermò il battito del martello, che continuava però nella sua testa, ormai diventato un rimbombare ritmato che le attrappava le orecchie e le faceva sibilare le tempie; allentò la presa sulle pinze poggiandole sull’incudine così come il martello che invece fu piu’ difficile da levarsi dalle mani e poggiarlo sul tavolaccio che sorreggeva l’incudine: lo aveva stretto talmente tanto da rendere quasi doloroso aprire il pugno. Si chinò in avanti per osservare meglio la lama sempre attenta a non toccarla a mani nude, e si morse il labbro, riconoscendo che forse non era il lavoro migliore uscito dalle fucine dei nani, ma neanche il piu’ terribile dopotutto.
Ma improvvisamente un particolare attirò la sua attenzione, la presenza di qualcosa, o meglio la non presenza di un suono: i rumori delle fucine erano cessati, neanche piu’ un martello batteva su un’incudine, perfino il calore era diminuito anche se non sparito del tutto.


Alzò lo sguardo dalla lama spostandolo oltre i piccoli muretti bassi che delimitavano la zona che apparteneva alla fucina dove stava lavorando da tutto il pomeriggio, ma che con tutta probabilità adesso si era trasformata in sera: la sala era deserta, non c’era rimasto neanche un nano a lavorare, tutte le postazioni erano vuote e i bracieri al loro interno spenti;  la luce calda delle  si era pian piano andata a spegnere, lasciando come fonte di luce solo le fornaci piu’ grandi in mezzo alla sla e sui lati piu’ alti della roccia che sbuffavano e scoppiettavano, rendendo comunque l’enorme sala.
 
Si voltò di scatto verso la forgia convinta di vedere Thorin maneggiare con i carboni ardenti, ma lui non c’era, anzi non c’era piu’ niente: l’intera postazione era stat pulita da cima a fondo. Gli atrezzi dapprima sparsi sui tavoli erano stati ben appesi ai ganci sul muro, i tavoli erano stat ripuliti e riordinati e l’acqua nei catini per terra era limpida.
 
“Devi bere.”
 
Si lasciò scappare un mezzo strillo, spaventata a morte dalla voce che la colse di sorpresa alle spalle; si girò repentinamente per avere conferma dell'identità di colui che aveva parlato con tanta autorità: la figura di Thorin si stagliava alta dietro di lei, con una borraccia di pelle scura in mano.
 
La fisso per qualche istante prima di prenderla tra le mani e piegando leggermente la testa in avanti. “Grazie.” Mormorò a malapena, ma che lui sentì benissimo perché di rimando piegò la testa in avanti sorridendole con il lato della bocca, prima di superarla e dirigersi oltre di lei andando verso l’ultimo tavolo che risultava ancora in disordine alla sua sinistra, che segnava i limiti dell’officina e che dava sulle immense fucine di Erebor.
 
Avvicinò la borraccia tenendola con entrambe le mani la bocca e cominciò a bere: oltre all’immesso benessere comincio però a farsi sentire anche poteva sentire l’adrenalina scendere e i primi segni della stanchezza farsi piu’ presenti. Dovette lasciarsi andare con la testa sul muro dietro di lei chiudendo leggermente gli occhi riprendendo leggermente controllo di se, e cercando di placare l’eco dei colpi che aveva in testa: non aveva mai faticato tanto, si sentiva svuotata, e pensare che lui questo lo facesse tutti i giorni.
Aprì leggermente gli occhi puntandoli verso la causa dei suoi pensieri che subito dopo averle offerto da bere aveva cominciato a sistemare gli ultimi oggetti ancora sparsi per la fucina: qualche attrezzo lasciato in disparte, qualche panno lurido, e un tavolo che dava verso l’esterno, dove c’erano veri pezzi di pelle puliti, sacchetti d’oro e di gemme accatastati l’uno sull’altro e diversi manici già pronti dove poter infoderare le lame preparate. Lo osservò ruotando leggermente la testa lasciandosi ancora piu’ andare alla fredda roccia, sembrava fosse nato in una fucina, neanch guardava dove metteva le mani, sembrano dei gesti automatici come respirare per lui,
 
“In quanto hai imparato?” Gli chiese osservando il profilo marcato ancora di piu’ dai capelli tirati indietro mentre questo si alzò un minimo poggiando un piede su uno sgabello per attaccare a un gancio più alto degli alti sul muro un martello che era due volte piu’ grande rispetto a sullo che aveva usato lei.
 
“Il difficile non è imparare, il difficile è la perseveranza.” Puntualizzo spostando lo sguardo verso di lei abbozzando un sorriso puntando gli occhi in modo sarcastico sull’incudine dove ancora giaceva quella che sarebbe dovuta essere una spada, prima di tirandosi nuovamente su e incastrare un paio di pinze a un gancio sopra la sua testa.  
 
Si strinse leggermente le spalle sulla pietra fredda dietro di lei sentendo le guance colorarsi di rosso osservando la lama ormai fredda sull’incudine, che piu’ guardava piu’ gli sembrava sempre meno una spada. “E’ così terribile?” Mormorò timidamente e Thorin sentendola si bloccò e scese dallo sgabello e lanciò uno sguardo alla lama a pochi passi da lui piegando la bocca in una smorfia poco convinta avvicinandosi continuando a tenere gli occhi verso di questa, ma l’espressione non cambio anzi peggiorò sempre di piu’: aveva davvero buttato il suo tempo allora.
 
“Considerando che è la prima volta che prendi in mano un martello?” Chiese piu’ a se stesso che a lei e con cautela avvicinò la mano alla lama studiandola passandoci sopra uno sguardo attento, ma poi l’avvicinò alla parte che lei fino a poco prima teneva con le spinse ora poggiate sul tavolo accanto all’incudine: aprì la bocca allungando la mano pronta a bloccarlo spaventata ma con suo stupore strinse la mano intorno al ferro senza batter ciglio, come avesse tirato su la lama di una spada qualsiasi.
 
La studiò da vicino, facendo guizzare gli occhi azzurri attentamente sulla lama, portandola perfino in avanti tendola dritta per controllare se fosse maneggevole, ruotandola lievemente nel polso, e quando lo fece gli si stampò un lieve sorriso sulle labbra prima di spostare lo sguardo su di lei. Aveva l’aria di qualcuno che aveva capito qualcosa, ma non seppe dire cosa in quel momento.
Thorin infatti aveva notato il modo in cui l’aveva forgiata, o almeno cosa volesse andare a fare: la lama era  leggera, estremamente leggera e sottile, non un’arma dell sua gente, no quella sembrava piu’ adatta al suo braccio, che per quanto fosse sottile e fine, ma non per questo era meno abile.
 
Ghìda non seppe se il sorriso che le rivolse quando spostò lo sguardo dalla lama verso di lei fosse sincero, ma tanto le bastò da darle un minimo di fiducia in ciò che aveva fatto. 
“Puoi ancora lavorarci.” Le  confermo e con tanta cura come l’aveva impugnata la poggiò nuovamente sull’includi di fronte a lei, trattandola con una riverenza simile a come si tratterebbe una spada completa.
 
Le scappò un sorriso appena accennato guardando la lama e pensando che appare tutto, anche se pessima l’aveva realizzata lei e che anche se non sarebbe mai stat usate per combattere era comunque al di la di questo rimaneva un suo piccolo successo.
 
Alzò poi nuovamente lo sguardo verso Thorin che con un sospiro esausto si mise seduto sul tavolo che aveva appena finito di sistemare, lasciando le gambe cadere oltre il tavolo, verso le fucine, passandosi le mani sul viso esausto: con un gesto veloce si sciolse i capelli ormai legati da ore, macchiati di sudore e di cenere che appena vennero sciolti gli caddero pesanti sulle spalle. Se ne accorse solo dopo, si era cambiato: la camicia da lavoro che portava con un'altra piu’ chiara di quella che indossava : quanto aveva lavorato effettivamente?
Lo sguardo le ricadde sul suo collo ancora macchiato di nero, così come il viso che veniva attraversato da un lato da due enormi strisce che si potevano ben notare fossero dovute a una mano passata sul viso piu’ e piu’ volte. Le venne quasi da ridacchiare mordendosi il labbro, sembrava un ragazzino che si er rotolato su un pavimento sporco e che non aveva neanche avuto la premura di controllarsi.
 
“Aspetta.” Lo bloccò e sbrigativa cominciò a far vagare lo sguardo intorno a se, studiando con attenzione ogni tavolo della fucina ogni mensola e ogni oggetto cercando l’oggetto che le serviva in quel momento e poi accanto all’incudine lo vide. Sotto gli occhi vigili di Thorin, che ancora aspettavano come le aveva detto, prese il panno, che certamente non era nelle migliori condizioni ma era certamente piu’ pulito di come era il viso del re, o il suo anche. Versò il contenuto dell borraccia che ancora aveva in mano sul panno vecchio di pelle poggiando poi quest’ultima accanto all’incudine e si avvicinò attenta a lui che passava insieme lo sguardo sul panno e poi su di lei ancora in modo piu’ attento quando si mise di fronte a lui e si posizionò in mezzo alle sue gambe.
 
“Che st-“
 
“Sta fermo.” Mormorò strizzando un minimo il panno nel pungo mentre la vicinanza ancora le attorciglio la pancia facendole mordere l’interno guancia nervosamente. Si mise in punta di piedi per arrivare piu’ vicino al suo viso che poté e con cautela tirò su la mano trattenendo il panno con cura arrotolato tra le dita, girato dalla parte meno sudicia. Lo avvicinò verso il viso del re che con la bocca socchiusa osservava guardingo la sua mano, tirandosi indietro lievemente quando fu troppo vicina, facendole fermare la mano a mezz’aria ma poi capendo le sue intenzioni rimase fermo e allungo nuovamente il collo in avanti lasciando che poggiasse il panno umido sulla sua fronte, dove cominciava la lunga striscia nera che gli attraversava metà viso.
 
Thorin rimase, immobile, sembrava una statua, solo gli occhi azzurri guizzavano da terra fino alla sua mano che lei cercava di muovere con piu’ delicatezza possibile, nel frattempo che scendeva oltre la tempia e la guancia levando lo strato di fuliggine, sempre cauta di non aver lasciato neanch una parte indietro. Si sarebbe aspettata un commento acido, probabilmente sul fatto che la sua faccia non era certamente in condizioni migliori, ma con suo stupore non arrivò rendendole il compito però ancora piu’ arduo. Stargli così vicino, le fece passar le stesse sensazioni di prima, non indugiò mai infatti, passo sempre il panno sulla chiazza successiva, non incrociando mai i suoi occhi, o le sue labbra e appena le vedeva con la coda dell’occhio faceva guizzare lo sguardo altrove pur sentendo il suo respiro sempre piu’ vicino, perché le sembrava di esserci sempre piu’ vicino, tanto da farle poggiare i piedi di nuovo totalmente a terra.
 
Gli passò il panno sulla parte piu’ bassa della guancia, vicino al limite della barba, togliendogli l’ultima macchia che persistente gli macchiava la pelle, e annuì. “Ora riesco a prenderti piu’ sul serio, re sotto la montagna.”
 
Gli occhi di Thorin si illuminarono per un attimo, la fronte sempre segnata dal cruccio in mezzo alle sopracciglia si distese del tutto, sembrò addirittura piu’ giovane di ciò che fosse in realtà: le abbozzò un sorriso non rispondendole e chinò il capo in segno di ringraziamento prima di afferrare dalle sue mani il panno umido e portarselo verso il dietro del collo premendolo su di esso.
 
Ghìda si spostò dà in mezzo alle sue gambe e con una spinta delle mani ormai libere gli si mise a sedere accanto tentando di non scontrarsi con nessun oggetto su di esso che nel migliore dei casi le avrebbe lacerato la camicia o ustionato le dita, aggrappandosi al bordo del tavolo con entrambe le mani per sorreggere la schiena e così come fece lui si passò una mano dietro la nuca per sciogliersi i capelli.
Passò lo sguardo sul suo profilo, ne studiò ogni dettaglio, dagli occhi chiari, alla barba scura ai capelli neri intarsiati con piccoli anelli dietro la nuca e alla fine delle trecce che gli ricadevano fino al petto, e studiandone il volto stanco, troppo stanco, il volto di un re che sentiva di conoscere e allo stesso tempo di non conoscere affatto.. D’latro canto, quello che sapeva su di lui erano solo storie, racconti, di un eroe, di una leggenda quasi, ma ormai quello che sentiva non era legato a una leggenda, no, era legato a qualcosa di piu’, a lui, solo a lui, il dolore che aveva sentito nella sala del tono, aver visto e sentito attraverso di lui, non era di Thorin figlio di Thràin, figlio di Thròr, il re sotto la montagna, non era solo di Thorin, come tutti, come ogni altro nano, come ogni altra persona. E ne conosceva così poco: era possibile provare quello che provava lei per una persona che conosceva a malapena ma che le dava la sensazione di conoscerlo da tutta una vita, da sempre, molto prima che lei nascesse, molto prima che Arda nascesse.
Si strinse gli avambracci in attesa che le parole le uscissero da sole,  fissando le fornaci di fronte a se, il lungo pavimento verde  o le grate dorate, ma ben presto si rese conto che doveva essere lei a parlare: nessuno l’avrebbe fatto per lei.  “Si raccontano molte storie su Thorin Scudodiquercia…” Iniziò continuando a osservare in avanti, insicura se continuare, ma ormai aveva parlato, qualsiasi cosa avrebbe detto non l’avrebbe fatta tornare indietro.
 
“Ma non su Thorin.” Concluse girando la testa verso di lui che manteneva ancora gli occhi fissi in avanti, non potendo nascondere un sorriso mesto e come per proteggersi da quello che poteva continuare a dirgli, si portò le braccia al petto incrociandole, facendo vagare il suo sguardo da una parte all’altra delle fucine assottigliando lo sguardo all’ultima parte della frase.


“Lontano è il tempo in cui le due cose erano divise.”
 
“Ne parli come se non potessero convivere l’ uno con l’altro.”
 
La domanda però parve quasi divertirlo perché dalla bocca gli uscì un piccolo sbuffo seguito da un sorriso mesto al la to della bocca. “Non sempre i desideri di entrami coincidono.”
 
“E sono così diversi i desideri di un re da quelli di un nano?”
 
“Non sono mai stato un nano e mai l’ho mai desiderato se è questo che stai cercando di chiedermi.” Ribatté sibilando severo guardandola con il lato dell’occhio aumentando la stretta sugli avambracci, provocandole un brivido dietro la schiena e far chiudere la bocca immediatamente.
 
Si vergognò incredibilmente, ma certe ferite certamente non si sarebbero rimarginate con le sue parole, per quanto innocenti possano essere state: ebbe l’impressione di aver voluto scavare troppo a fondo risvegliando un qualcosa che era meglio lasciare addormentato. “N-non intendevo questo, perdonami sono… sono stata una sciocca.” Mormorò perdendo tutta la sicurezza che aveva dimostrato sino a quel momento: non aveva paura di lui, no quello mai, aveva paura per lui, che lei fosse la causa di un rinnovo di quel dolore che lei aveva percepito come suo nella sala del tesoro.
 
Le sue parole però ebbero esattamente l’effetto opposto di quelle che si aspettava: le mani di Thorin si strinsero intorno alla camicia scura e negli occhi azzurri riuscì a catturare un guizzo di rabbia repressa che si mostro dalla schiena sempre piu’ tesa.
 
“Il giorno in cui divenni Scudodiquercia fu il giorno in cui persi quasi tutto quello che avevo di piu’ caro.” Sputò facendo diventare la voce piu’ roca, molto roca, come una lama che grattava sulla roccia, riuscendo a farla tacere immediatamente, di nuovo e a spostare lo sguardo verso le sue mani.
 
Sentendo come le aveva risposto senza pensarci, Thorin si bloccò all’istante, una scena come quella l’aveva già vissuta, con lei, la stessa furia verso se stesso, la stava nuovamente rigettando su di lei, di nuovo senza donarle il beneficio della parola, stava di nuovo per esplodere.
Lanciò uno sguardo verso di lei che adesso non lo guardava piu’ aveva lo sguardo basso, verso le mani, che ora senza la gonna che le faceva da scudo si torturavano tra di loro, torcendo leggermente le piccole dita e massaggiando le nocche. Non poteva commettere lo stesso errore, non un'altra volta: inspiro profondamene lasciando che gli spasmi nel petto tentando di reprimere l’astio che continuava in tutti i modi di distorcere le sue parole e a fargli commettere l’ennesimo sbaglio.
 
“Quando il drago prese Erebor ero soltanto un ragazzo…” Cominciò a spiegarle tentando in qualcuno modo conoscesse di non far trasparire l’irrequietudine che gli montava nel petto, rendendo la sua voce quasi monocorde, difatti lei alzò lo sguardo verso di lui nuovamente, tirando su la schiena e smettendo nello stesso istante di torturarsi le mani spalancando leggermente la bocca.
 
“Mio padre con mio nonno diressero il popolo a ovest, verso Dunland: una radura semideserta dove non ci sono altro che sterpaglie e sassi.” Al solo pronunciarlo i ricordi vivi di quegli anni gli passarono nelle mente, ogni giorno un esilio, ogni giorno un nuovo posto, ogni giorno un nuovo letto. Strinse la mascella e forse fu quel gesto a mandare in allerta Ghìda accanto a lui che si girò col busto osservandolo con gli occhi interessati, ma tristi, molto tristi: odiava essere guardato così.
Dovette abbassarlo nuovamente da lei puntandolo verso il pavimento verde per tentare di raccontarle ancora, senza perdere la clama, senza lasciarsi andare anche se ogni parola lo stava portando al limite.
“Dopo anni, Thràin decise di riprendere Khazad-dûm ma… Dopo Azanulbizar tutto cambiò, per me, per mia sorella, per tutti noi: mio nonno morì lì, mio fratello morì lì e mio padre fu come se fosse morto lì, ma fu anche il giorno in cui Scudodiquercia nacque.”
 
Le scene di quel massacro tornarono repentine nella testa, frotte di cadaveri accatastati l’uno sull’altro per leghe, gli scudi spaccati a metà che non potevano essere usati neanche pe trasportare i corpi, il suo fissare ogni cadavere sperando di non vedere suo padre o Frerin e se per il primo non accadde il secondo lo devastò. L’essere acclamato, l’essere guardato come un salvatore non gli avrebbe dato indietro suo fratello, i suoi compagni, suo nonno suo padre.
Strinse selvaggiamente i pugni  ben nascosti dalle braccia incrociate sul suo petto, incapace di controllarsi e puntò ancora con piu’ ferocia lo sguardo a terra.


“E divenni re.”  Sputò l’ultima frase quasi rigettandola, rigettando ciò che era successo, tutti gli anni nelle Montagne azzurre, tutti gli anni in cui aveva rimandato, tutti gli anni che aveva atteso invano che qualcuno o qualcosa gli desse una spinta, gli desse fiducia. Re, ma re di cosa? Di chi?
Le braccia cominciarono a fremergli , senti bruciargli il petto come quel giorno, l’inizio di tutto, quando permise che tutto accadesse, quando cominciò il suo personale esilio, dove tentò di ridare al suo popolo ciò che meritava, mettendo da parte tutto, se stesso e tutto ciò che conosceva. Avrebbe voluto continuare, dirle tutto, delle Montagne Azzurre, di Bilbo, del viaggio, di Fili, di Kili, ma sentì come se il peso di tutti quegli anni gli fosse tornato a fargli visita appesantendogli il petto e impedendogli di continuare.
 
D’un tratto un tocco gentile gli si posò sul braccio facendogli sgranare gli occhi: la mano di Ghìda si era poggiata sul suo avambraccio bloccando inaspettatamente i piccoli spasmi, e andò alla ricerca della sua mano sfiorandone leggermente il dorso e muoversi verso le nocche. Ormai molli le dita si andarono ad aprire immediatamente lasciando passare le dita di Ghìda tra le sue, incrociandole  e stringendogli la mano: un piccolo fremito gli attraverso il petto e ancora con gli occhi sbarrati puntati verso il basso.  Alzò lo sguardo verso Ghìda che ora gli era seduta accanto e cercava il suo sguardo
 
“Mi dispiace.” Sussurrò stringendogli la mano che lui però non riuscì a ricambiare, fissandola incapace di dire o far nulla: il gesto lo aveva lasciato sorpreso piu’ di quanto avrebbe mai ammesso a parole.
 
 “Per cosa?” Le chiese quasi mormorando studiando il suo sguardo mentre lentamente ogni pensiero che lo aveva tormentato fino a quel momento andava scomparendo in quei due pozzi scuri come la pece, in cui si stava andando a perdere
 
Il sorriso triste le si dipinse sulle labbra, facendogli venire una fitta al petto. “Per tutto quanto.” Mormorò e si avvicinò ancora di piu’ tanto da lasciarlo con il fiato sospeso mentre con lentezza lasciò andare la sua fronte sulla sua spalla e  stringendogli ancora di piu’ le dita, aggrappandosi a lui come se potesse scomparire da un momento all’altro. Le sue scuse insensate ebbero il potere di lasciarlo senza parole, perché si scusava, non doveva, no non lei, non era colpa sua, quello che era successo nella sua vita non era colpa sua, no, eppure er dispiaciuta come quella notte quando lo supplico di crederle quando diceva che i suoi nipoti lo amavano. Lo aveva detto con la stessa certezza, la stessa voce spezzata.
 
Le guardò la nuca con gli occhi sbarrati: la testa gli diceva di rimanere lucido, di non lasciare che tutto ciò accadesse ma il cuore ebbe la meglio; si lasciò andare  a quella sensazione di pace sciogliendo ogni fibra del suo corpo, facendo crollare ogni barriera che la teneva lontano come lei aveva fatto con lui. Abbasso la testa incerto e poggio la fronte sulla sua nuca, immergendo il naso  nei suoi capelli inspirando l’odore intrinseco di fumo , socchiudendo perfino gli occhi un quel simil abbraccio che riuscì a fargli diventare il petto leggero come l’aria e facendo chiudere le sue dita andando a sfiorare con i polpastrelli la punta delle sue e in automatico se le avvicino al petto stringendola ancora di piu’ a se sentendo l’altra mano di Ghìda andarsi ad aggrappare fermamente alla sua schiena. Quello era il massimo che poteva permettersi che doveva permettersi, non gli serviva piangere, non sapeva piu’ farlo, se solo lei avesse saputo tutto se si fosse lasciato davvero andare quante cose sarebbero cambiate.
 
Per la prima volta da quando era un bambino si lasciò consolare, si lasciò nelle mani di qualcuno che non fosse se stesso, si lasciò andare a lei, in qualsiasi modo potesse fare. Se un paio di settimane prima gli avessero raccontato che sarebbe stato protagonista di un momento del genere probabilmente lo avrebbe ritenuto uno scherzo di pessimo gusto, se glielo avessero raccontato  mesi addietro nel suo vagare per le Terre Selvagge lo avrebbe ritenuto un pazzo: adesso a lui sembrò invece il gesto piu’ naturale che avesse mai compiuto.
 
Era così che si era sentita lei quella notte? Si, e ora capiva, capiva perché lo avesse supplicato.
 
Ora era lui che voleva dirle di non andarsene, di rimanere lì con lui per tutto il tempo che lei avesse desiderato, ma desiderò con tutto se stesso che quel momento non finisse mai, che per qualche strana ragione rimanessero bloccati così che lei riuscisse a tirargli fuori tutto il marcio che si sentiva addosso e dentro. Il rimorso che scavava e gli ghermiva la carne ogni momento, ogni istante dei suoi giorni.
 
Le strinse la mano portandosela all’altezza del cuore e senti le sue dita fremere leggermente quando aumento la presa facendolo sorridere malinconicamente tra i suoi capelli comincio a sentire l’irrefrenabile voglia di poggiare le labbra sulla sua tempia, di chiederle di rimanere lì con lui sempre, per sempre, così mandato in malora tutto ciò che era, tutto ciò che era sempre stato, tutto ciò che voleva essere, ma questo avrebbe significato dimenticare e lui non voleva farlo. Rimase con gli occhi chiusi ancora per qualche istante, per imprimersi nella testa quella sensazione, per tentare di imprimere su se stesso quel calore ma alla fine comico a lasciare la presa sulle sue dita e ad allontanare il suo viso dai suoi capelli, sentendola sobbalzare leggermente. Lo fece piu’ per se tesso, che per altro: cominciò ad allentare la presa sulla sua mano sciogliendo lentante le dita dalle sue, fu facile, piu’ facile di quanto avesse creduto. Le dita di Ghìda rimasero molli ma lasciò comunque la mano sul suo petto, talmente vicino al suo cuore che se avesse premuto ancora di piu’ la mano avrebbe sentito il suo cuore fermarsi in quel momento.
 
“E’ tardi.” Le mormorò sentendo la presa sulla sua schiena farsi sempre piu’ flebile.
 
Un sospiro le lasciò le labbra lasciando finalmente cader la mano ancora fissa sul suo petto ritirandola verso di se e alzando la testa annuendo. “Lo so.” Riuscì a cogliere un velo di delusione nella sua voce o forse fu solo una sua impressione, quello che lui voleva. Non era abbastanza lucido da poter permettersi di indugiare oltre, dovette distogliere lo sguardo da lei e per mettere ancora piu’ distanza tra di loro, scese dal tavolo e si diresse verso l’interno della fucina: sentì un gelo dietro la schiena ogni passo che compiva e come un piacere troppo alto questo si andò a scemare facendo tornare tutto come prima, il suo mondo di nuovo come prima.
 
Si avvicinò verso il tavolo dove in un angolo aveva rilegato Orcrist insieme alla sua camicia sudicia, posta sopra il fodero della lama ma si stupì di quello che sentì o meglio di quello che non sentì: le fornaci ribollivano ma fu la mancanza di un suono che lo incuriosì; alzò lo sguardo verso il tavolo su cui era seduto fino a poco prima e Ghìda era rimasta seduta li e se per questo non accennava nemmeno a muoversi. Aveva lo sguardò fisso al suo lato, verso l’incudine con sopra ancora la spada ormai fredda.
 
Thorin rimase interdetto da un simile atteggiamento, rispetto a come stava prima, solcata dal sudore e alla fatica, si sarebbe aspettato che sarebbe scesa subito ma le nocche che pian piano si andavano a piegare intorno al bordo del tavolo sotto di lei gli confermarono il contrario.
 
“Io rimango un altro po' se me lo concedi.” Gli confermò la sua idea spostando lo sguardo nuovamente verso di lui. “V-vorrei continuare a lavorare e finirla.”
 
“Sei sicura? Dovresti riposare.”
 
Lei scosse la testa facendo ciondolare i ciuffi mori sugli occhi. “Non sono stanca, posso ancora continuare per qualche ora.” Cercò di rassicurarlo ma in ogni caso sapeva che non era tutta la verità: spostò lo sguardo sulle braccia che ancora le fremevano per la fatica e la camicia macchiata di nero.
 
“Vuoi che rimanga qui con te?”
 
Il cuore di entrambi si fermò in quel momento, Thorin non era neanche sicuro di aver detto davvero quelle parole, forse era stato il senso di colpa o la speranza che lei gli rispondesse di si, o peggio la speranza che lei gli rispondesse di no e lo lasciasse andare lontano da lì prima che non riuscisse piu’ ad andarsene. Era così difficile per lui sopprimere qualcosa del genere, soprattutto quando premeva sul petto per riemergere in continuazione.
 
Ghìda sgranò gli occhi incapace di credere che lui le avesse davvero posto quella domanda, il cuore le si spaccò in due non dal dolore , ma dalla lotta che i suoi sentimenti si facevano nel suo petto, si avrebbe voluto rispondergli, si ti prego rimani con me, ma il suo dovere ebbe la meglio suoi sentimenti che provava in quel momento e forse era meglio così.
Thorin Vide i tratti di Ghìda diventare improvvisamente piu’ fini già di quanto non fossero, le guance colorarsi di rosso aprendo la bocca per rispondergli facendosi forza in avanti con le mani sul tavolo dove ancora era seduta, ma come aprì la bocca la richiuse subito abbassando lo sguardo e un sorriso malinconico le si formò sulle labbra quando scosse la testa.
 
“E’ una cosa che voglio fare da sola.”
 
Thorin le rivolse un sorriso stanco annuendo e afferrò con una mano Orcrist e la camicia arrotolata su di essa. “Molto bene.”
 
Ghìda gli fece un cenno con la testa di ringraziamento e con cautela scese dal tavolo facendo poi il giro del tavolo trovandosi sulla soglia con Throin che nel frattempo che lei entrava nella fucina lui ne usciva con la spada tra le mani.
 
Thorin spostò lo sguardo su di lei un’ultima volta prima di cominciare a camminare via: si slacciò il laccetto intorno al polso avanzando verso la fornace per riaccenderla e cominciare di nuovo a lavorare, non le disse nulla, non serviva, quello che si dicevano con quei silenzi gli andava bene. Arrivò quasi oltre le fornaci ma poi la sua voce lo richiamò un’ultima volta.
 
“Prima hai detto che Thorin e Thorin Scudodiquercia non possono coesistere, ma io li ho visti entrambi e sono ottimi nani, entrambi.”
 
Thorin abbassò lo sguardo mentre un sorriso sincero gli si stampò sulle labbra, ma lei non riuscì a vederlo, le continuava a dare la schiena, Ghìda capì solo che lui l’avesse sentita dal fatto che bloccò il passo e dalla sua schiena che si alzò e si abbassò in un sospiro prima di cominciare a camminare oltre la soglia della fucina.
 
La tentazione di entrambi di non lasciare che l’altro se ne andasse fu talmente grande da farli bloccare in quello che facevano, da farli ritornare l’uno dall’altra, incapaci di parlare, non ancora troppo sciri di quello che provavano per supplicarsi a vicenda, anche se non ci sarebbe voluto poi così tanto, entrambi ormai sapevano cosa provavano, ma il nome di quel sentimento era troppo fugace, troppo lontano dalle loro vite per essere reale ma nei loro cuori non lo era mai stato tanto.
 







 
“Le sale traboccano d’oro, le miniere hanno ricominciato a lavorare, non ho mai visto le fucine così operose neanche cento anni fa, perché preoccuparcene.”
 
La voce di Glòin si fece avanti sovrastando quelle dei restanti seduti intorno al tavolo di pietra illuminato dalla luce delle enormi torce sostenute dai quattro guerrieri nanici posti ai quattro angoli della sala del consiglio e dalle erbe nelle pipe che scoppiettavano nella bocca di quasi tutti e nove i nani presenti, sostituite solo da qualche sporadica bevuta dai boccali in mezzo al tavolo. Non propriamente un comportamento consono per degli incontri politici ma quando Thorin acconsentì alla loro presenza assoluta ai consigli aveva preso in considerazione tutti i fattori che questa scelta avrebbe comportato ovvero in dialoghi non sempre consoni, o anche in colloqui che non erano dei piu’ ortodossi: per quanto gli argomenti di una certa importanza venissero sempre trattati come tali, er quasi impossibile immaginare uno di quegli incontri senza una battuta di troppo o con uno screzio a fine seduta che si risolveva con un giro dei boccali.
 
Tutti i presenti con il beneplacito di tutti nani della montagna avevano acconsentito a ricoprire ruoli che risultavano vacanti e che a Thorin serviva che venissero occupati: Dwalin e Balin erano gli unici che avevano ripreso i ruoli che gli competevano uno come suo consigliere e l’altro come capo della guardia, e a tutti gli altri furono conferiti i da Glòin che ora si occupava delle ricchezedella montagna, a Bofur che amministrava il lavoro nelle miniere a Ori che invece era rimasto ben contento di poter occuparsi dei messaggi da inviare con i corvi. Ma tutti e nove risultavano indispensabili a Thorin, sotto qualsiasi punto di vista: che appartenessero o no alla famiglia reale aveva poca importanza.  Erano i nove nani di cui si fidava di piu’ in assoluto: dopotutto il sangue non era che un mero dono di Mahal, per quanto gli riguardava sangue di Durin scorreva in loro quanto scorreva in lui, anche se non lo avrebbe mai ammesso a nessuno dei presenti.
 
“I mercati di Dale sono a malapena  aperti, funzionanti ma a malapena aperti. Ieri ho appizzato le orecchie mentre ero lì, stanno riaprendo una via commerciale con il regno di Gondor, me per ora stanno solo accumulando provviste.” Esordì Nori sbuffando dalla pipa guardando Glòin dall’altra parte del tavolo.
 
L’affermazione passò in sordina a tutti, tranne a Dori che repentinamente non si fece scappare una parte della frase che aveva appena pronunciato. “Perché eri a Dale?”
 
Alla domanda per poco a Nori non cadde la pipa di mano, dovette trattenerla con entrambe le mani.
“D-dovevo fare una cosa e poi non impicciarti fratello.” Glu puntualizzo tirandosi indietro sulla sedia. “Sono cose che sapete già tutti che le abbiate viste o meno.” Cercò di svincolarsi dalla domanda ma Nori non ne fu convinto, e in realtà non ne fu convinto quasi nessuno al resto del tavolo, ma la curiosità passo in secondo piano quando si sentì un sospiro profondo sospiro provenire dalla sinistra del re.
 
“Dovremo aspettare  dunque che arrivino con le navi dal regno Gondor ma ci vorrà almeno un'altra settimana.”
 
“Se il lago non ghiaccia prima.” Volle puntualizzare Oìn portandosi meglio la tromba verso l’orecchio e puntandola la testa di lato verso il tavolo per ascoltare eventuali risposte dei presenti al tavolo.
 
“Potrebbe sempre caricarsele Bombur in testa e fare avanti e indietro.”
 
A Glòin venne da ridere, immaginando la scena di Bombur con decine di sacchi e botti poggiate in qualsiasi modo in testa e sulle braccia, facendo uscire dalla sua bocca vari sbuffi bianchi trattenendo la pipa nella mano.  “Sì così richiamo che ne arrivi la metà.”
 
“O niente.” Ammiccò Bifur verso il cugino dandogli una pacca sulla spalla quando questo per poco non gli mandò la birra che stava bevendo di traverso guadagnandosi un’occhiataccia dal cugino che borbottò qualcosa all’interno del boccale, ma che nessuno riuscì a capire. Si innalzò una risata di gusto mentre tutti i potevano immaginare Bombur così come se l’era immaginato prima Glòin ma arroccato in una grotta a mangiare tutte le scorte per Erebor. Parti una baraonda, una serie di risate e di ammicchi verso Bombur che lo fecero sprofondare ancora di piu’ verso la sedia e coprirsi con in boccale tentando anche lui di sopprimere le risate che ormai erano diventato così contagiose alternate solo da altrettante battute verso gli alti membri del tavolo, siccome effettivamente ognuno di loro avrebbe in fin dei conti commesso gli stessi gesti di Bombur se posti alle strette.
 
Una schiarita di voce fece fermare la schermaglia riportando a fatica l’ordine. “Se volete la mia opinione e noto che nessuno l’ha chiesta, direi che stiamo girando intorno al problema.” Affermò Bofur infondo al tavolo trattenendo metà della pipa in bocca facendosi piu’ avanti verso il centro così da poter vedere tutti e che tutti lo potessero vedere.
 
Prese un profondo respiro, consapevole che l’idea non sarebbe piaciuta a nessuno, ma se la situazione era davvero così critica probabilmente lo avrebbero ascoltato, almeno per quella singola volta, anche se la reazione che piu’ lo preoccupava era quella di Thorin, che come tutte le volte ascoltava ogni singola opinione e finiva poi per decidere: sparava fermamente la prendesse in considerazione.  Prese un respiro e tolse la pipa dalla bocca arricciando leggermente i baffi. “Chiediamo agli elfi di Bosco Atro, hanno provviste per tutto l’anno se non per i prossimi cento.”
 
Difatti come aveva sospettato la sua proposta fece partire una serie di grugniti e sospiri esasperati, perfino qualche parola poco gentile mormorata attraverso le pipe da tutti i presenti, ma non in quelle del re che non scosse neanche la testa, risme solo in silenzio con le mani fissate sul tavolo. Ma come a colmare la calma inusuale del re ci penso Dwalin che fece schioccar la lingua in disapprovazione accompagnato da uno scuotere esasperato della testa.
 
“Di tutte le idee sciocche che ti potevano saltare in mente Bofur questa è la peggiore.“
 
Bofur allargò le braccia sul tavolo. “Perché no? Nel peggiore dei casi potremo dire di averci provato.” Tentò di dissuaderlo ma l’occhiataccia che gli lanciò incrociando le braccia al petto gli fece subito capire di non esserci riuscito.
 
“Provare sarebbe una perdita di fiato, a quelli interessa poco o nulla di ciò che succede fuori da quella foresta.”
 
“Non è che però tu Dwalin sia di grande aiuto.” Si intromise Dori affacciandosi oltre la testa di Nori che divideva seguito da un segno di approvazione di Bofur che ancora tentava dissuaderlo.
 
 “Il mio essere d’aiuto si limiterà comunque a dirvi che è una pessima idea.”
 
“Thranduil ha chiuso la via elfica, niente esce o entra da quel bosco.“ Ammise a voce alta Balin facendo zittire nuovamente presenti che spostarono repentini il volto verso di lui. “Gli unici scambi o contatti sono attraverso Dale, via fiume, ma nulla di piu’.” Concluse abbassando lentamente il capo puntandolo verso la mappa della regione di Esgarot in mezzo al tavolo.
 
Seguì un silenzio “Quando?” Chiese Dori assottigliando lo sguardo preoccupato spostando anche lo sguardo verso Ori che accanto a se stava ascoltando la discussione in silenzio, non sentendosi all’altezza di intervenire.
 
“Da un mese, ma abbiamo ricevuto notizie solo un paio di giorni fa.”  Rispose Thorin interrompendo Balin che stava per riprendere la parola spostando lo  sguardo verso Dori mentre tutti i restanti seduti al tavolo, escluso Balin, che come lui era già a conoscenza della notizia lo fissavano con le bocche semi spalancate o con le pipe accese bloccate a mezz’aria.
 
Una risata sommessa si fece largo alla sua destra: Dwalin si era tirato indietro sul sedile della sedia incrociando le braccia al petto esasperato. “E il benevolente re Thranduil ha esposto una ragione valida?” Chiese ironico alzando un sopracciglio verso di lui.
 
“Quando mai l’ha fatto.” Dovette trattenere un sorriso al lato della bocca, ma la situazione era piu’ seria di quello che in realtà potesse sembrare: quella strada era l’unica via che li poteva collegare in modo sicuro all’est, il suo non essere aperta costituiva un enorme problema.
 
Lanciò uno sguardo sulla sua mano poggiata sul tavolo, studiando il piccolo foglietto di carta che continuava a rigirarsi da ore tra le dita, cercando una risposta a quelle azioni o quanto meno una giustificazione valida, ma dopo la riunione e a consegna delle gemme Thranduil era svanito. La strada elfica era chiusa dalla fine della battaglia per quanto avesse cercato di mettersi in contatto con gli elfi di Bosco Atro le loro porte rimanevano sigillate, i corvi neanche per quante volte li avesse mandati tra le fronde degli alberi avevano visto o sentito nulla, solo che il sentiero era stato reso impraticabile, gli dissero che gli elfi sembravano spariti nel nulla. L’unica sua certezza che Thranduil fosse ancora a Bosco Atro erano gli scambi con il popolo di Dale e le continue provviste che facevano avanti e indietro tra il polo di Esgarot e quello della Foresta.
 
Passarono dei secondi che agli altri membri del tavolo parvero infiniti, nessuno avrebbe fatto nulla senza che Thorin avesse dato il suo consenso, avevano smesso di bere, di fumare, sembrò come se la sala si fosse fermata nel tempo: Balin osservò lo sguardo basso di Thorin fare avanti e indietro sulla superficie del tavolo, notando come assiduamente roteava un piccolo pezzo di pergamena tra le dita, un singolare comportamento per lui. Di cosa fosse non ne ebbe idea, però anche se indugiava sul tavolo i suoi occhi finivano sempre per tornare verso la sua mano.
 
Chiuse il pugno su se stesso nascondendo il pezzetto di pergamena perfino alla sua vista e si tirò in avanti sulla sedia poggiando entrambi gli avambracci sul tavolo.
 
“Glòin” Richiamò Thorin il nano accanto a Balin facendolo sporgere in avanti. “Trova un accordo con Bard di Dale, offrigli di piu’ se devi, cerca di procurarti tutto quello che può darci. Balin… “Spostò lo sguardo su Balin accanto a se. “Manda un corvo ai colli ferrosi, se Glòin non avrà successo chiederemo a Dain di darci il necessario per i prossimi mesi, fino a che Esgarot non avrà cominciato a ricevere di nuovo navi al porto.”
 
Ordinò Thorin passando lo sguardo serio da Glòin a Balin: cerco di essere il piu’ chiaro possibile e anche di far trasparire dal suo tono una certa urgenza.
“Abbiamo finito?”
 
“A meno che tu non abbia altro da aggiungere.” 
 
Thorin scosse la testa in segno di negazione e appena lo fece si innalzarono vari sospiri di sollievo seguiti da uno strusciare di sedie e di battiti di boccali di birra sul tavolo che venivano finiti in fretta e furia prima di lasciare la stanza. Cominciò ad alzarsi anche lui ma notò come sia Dwalin che Balin erano rimasti immobili: Dwalin con gli occhi persi nel vuoto del tavolo e le braccia incrociate al petto, Balin con le mani chiuse l’una nell’altra non dando nessun segno di volersi muovere. Questo gli basto per capire che non avevano finito, affatto, e il loro indugiare non avrebbe significato niente di piacevole come notizia. Con cautela Thorin si sedette di nuovo serrando la mascella sentendo già le parole di Balin: se volevano rimanere soli con lui, uno solo poteva essere l’argomento e sperò con tutto se stesso che non fosse così, fu la prima volta che sperò che gli chiedessero di Ghìda.
 
Gli altri lanciarono uno sguardo verso Balin e Dwalin e intuirono senza ulteriori indugi che c’erano degli affari che andavano sbrigati senza la loro presenza e pochi potevano essere degli argomenti talmente importanti da far rabbuiare Dwalin a tal punto da lasciarlo con la bocca semiaperta a fissare il vuoto tra il marmo verde del tavolo sotto di lui.
 
Senza indugi lasciarono la sostanza senza le ordinarie battute di comodo, senza parlare, in un silenzio che preannunciava la fine della serenità che aveva invaso la stanza per tutta la durata del consiglio m Bofur si bloccò sulla porta lanciando un’occhiata a Balin, sperando che di qualsiasi cosa si trattasse non rendesse per Thorin tutto ancora piu’ difficile, e con questo pensiero si chiuse la porta alle spalle.
 
Balin rimase in silenzio con lo sguardo basso non sapendo come iniziare a parlare, rimase in silenzio anche quando nella sala erano rimasti solo loro tre, lui, Dwalin e Thorin, ed era proprio quest’ultimo a rendergli difficile anche solo dargli la notizia. Prese un respiro lanciando un’occhiata verso Dwalin che non accennava una singola espressione, sembrava stesse da un'altra parte e in un certo senso lo voleva, essere da un'altra parte.
 
“E’ arrivata notizia dai corvi sopra Bosco Atro questa mattina. Dìs ha superato l’Anduin, si trova con un gruppo di nani a sud ovest della foresta.” Balin si fermò per un attimo studiando l’espressione di Thorin accanto a se che nel frattempo diventava sempre piu’ scura, con la bocca che pian piano si apriva aspettando le sue ultime parole, per avere una conferma di ciò che Balin stesse tentando di dirgli. “Sta tornando.” Concluse e appena lo disse Thorin distolse lo sguardo da lui puntandolo verso il basso del tavolino stringendo forte il pungo poggiato sul tavolo.
 
La notizia lo colpì in pieno viso e  fu capace di far scivolare via quella sensazione di serenità che gli si era formata nel petto, e tutto d’un colpo venne scaraventato nuovamente nell’oblio di dubbi e paure che era riuscito per così poco tempo, per pochi giorni ad accantonare nell’angolo piu’ remoto della sua testa. Strinse i pugni sul tavolo rigettando  indietro ogni pensiero che potesse portarlo di nuovo da loro, no era il momento, non ora, non di nuovo. Alzò lo sguardo verso Balin che non aveva smesso di guardarlo neanche per un attimo, poteva leggere nel suo sguardo la apprensione verso di lui .  
 
“Avranno saputo della strada elfica?” Chiese mantenendo il tono piu’ neutro possibile.
 
Balin non si finse neanche stupito della sua freddezza, non ne aveva bisogno: sapeva che Thorin era turbato piu’ di quanto volesse dar a vedere. “Molto probabile, molti degli ultimi nani arrivati hanno aggirato Bosco Atro passando da sud.”
 
Dwalin che fino a quel momento era rimasto in silenzio lancio un’occhiata di sott’occhio a Thorin seduto accanto a se. “Attraverseranno le terre Brune, sicuro come la morte. Sarà qui in meno di due settimane.”
Cercò di tranquillizzarlo, ma non servì, anzi l’espressione mutò ancora, facendolo sembrare una statua di indifferenza.
 
“Quanti sono partiti con lei?” Chiese secco Thorin a Balin senza staccare gli occhi dal tavolo, sembrava che stesse parlando di un ennesimo problema politico, che non si trattasse di sua sorella o di cosa sarebbe dovuto significare per lui incontrarla di nuovo, a cosa avrebbe significato anche per Dwalin incontrarla di nuovo.
 
Dìs.
 
Al solo ripensare il suo nome ebbe una fitta al petto, e al solo pensare a lei di nuovo tr quelle sale gli fece stringere talmente forte il pungo da poter sentire le unghie conficcarsi nei palmi, e invece di provare dolore, provo piacere, un profondo piacere. Perché così i suoi pensieri potevano spostarsi su altro e non su di lei, sul viso di una principessa dei nani che danzava in quelle sale e rincorreva i due fratelli maggiori, a come quel viso possa essere stato trasmutato in una maschera di dolore alla notizia di quello che era successo a Fili e a Kili. Contrasse la mascella quando i loro volti gli si presentarono davanti agli occhi il giorno che partirono insieme a lui, il modo in cui li strinse un’ultima volta e le parole che aveva pronunciato a Thorin prima di partire che il suo re non era riuscito a mantenere, così come lui.
 
 “Un centinaio, quelli che non sono partiti subito hanno dovuto fare il giro per miglia così come lei.”
 
Thorin annuì rimanendo in silenzio lascandosi andare allo schienale della sedia, e le mani ancora ferme sul tavolo. “Continua a far tenere degli occhi puntati verso quella foresta, voglio sapere perché Thranduil ha reso impossibile usare quel passaggio.” Rispose piu’ duro rispetto al tono che aveva usato prima, talmente che Balin si chiese se almeno avesse capito la situazione spostando lo sguardo verso Dwalin che scosse lievemente la testa, segno di non preoccuparsi, ma questo fece preoccupare il fratello canora di piu’ probabilmente. “Quando arriverà voglio essere il primo a saperlo.”
 
Gli occhi tormentati del re si spostarono verso il pugno chiuso e lentamente lo aprì nuovamente e il solo farlo gli fece uscire dal petto un respiro pesante, incatenando i suoi occhi al palmo: Dwalin poté giurare trattenessero un pezzetto di carta stropicciato.
 
Il silenzio del re fece a intuire a entrambi che la discussione fosse finita, che non avrebbe aggiunto altro ne come ordini né come confidenze, ma a tutti e due non servivano in realtà, non gli erano mai serviti per capirlo e in ogni caso i suoi silenzi erano il massimo che potevano aspettarsi come spiegazione.
 
Balin infatti annuì di rimando e si alzo dalla sedia seguito da Dwalin che però non riuscì a staccare gli occhi da Thorin neanche per un momento, ma che ancora imperterrito osservava il tavolo.
Lo osservò poggiandosi con entrambe le mani sulla sedia, notando come di tanto in tanto spostava lo sguardo verso la sua mano verso il pezzetto di carta che gli tratteneva lo sguardo da ore e che gli era servito come sfogo da ore .  “Ti aspetto?”
 
Thorin scosse la testa rimanendo seduto e  spostando lo sguardo verso la porta indicandogliela con il mento. “No, va.” La risposta lo lasciò di sasso bloccando qualsiasi movimento che stesse compiendo e poggiò le mani sullo schienale della sedia osservando con un cipiglio: la notizia poteva averlo scioccato a tal punto?
 
Si chinò ancora di piu’ sulla sedia osservandolo confuso. “Non vieni alle fucine?” Gli chiese di nuovo sicuro che lui magari avesse compreso male: lo conosceva abbastanza bene da spere che era un comportamento inusuale, che poteva anche passarci le giornate quando era irrequieto, e fu la sua ennesima negazione a fargli caprie che Dìs in quel comportamento centrava poco o nulla.
 
“Non oggi.” Gli rispose secco prima di alzarsi dalla sedia e con un sospiro si mise all’interno  della giacca il piccolo foglietto che aveva torturato per tutte quel tempo, e non alzò neanche lo sguardo verso uno dei due cominciando a camminare via oltre la sala, facendo incuriosire così anche Balin che si portò le mani dietro la schiena inarcando le sopracciglia. Thorin molto probabilmente percepì i loro sguardi sulla sua schiena e si fermò poco prima di arrivare alla porta lanciando uno sguardo oltre le sue spalla.
 
“Se avrete bisogno sono in biblioteca con la figlia di Telkar… con Ghìda” Mormorò il suo nome facendo diventare pian piano la voce flebile quando lo pronunciò facendo nascere sul viso di Balin un sorriso  appena accennato ma che riuscì a far trasparire un’immensa sensazione di benessere nel sentire quel nome uscire dalla sua bocca, con quella delicatezza quasi infantile.
 
 
Il viso di Dwalin allora divento pallido come la neve quando ricevette quest’ultima informazione osservandolo andarsene a passi lenti e a chiudersi la porta alle spalle: ci mise poco a unire i puntini, il foglietto, lo sguardo perso, le notizie che erano girate gli ultimi giorni della mezz’elfa nelle fucine… Un groppo gli si formò in gola e anche lui si trovò a scuotere la testa sorridendo verso la porta che si chiuse con un tonfo.
 
“Direi che alla fine hai svolto un ottimo lavoro fratello.”
 
 
 
 
 




Thorin sospirò lasciando la porta chiudersi dietro di se, e appena lo fece sentì il petto farsi carico di tutti quei pensieri che era riuscito ad evitare sotto gli occhi di Balin e di Dwalin e il cominciare a camminare via verso la biblioteca non li arresto, anzi li fece aumentare di intensità ogni passo che compiva, ogni scalino che saliva o scendeva.
Per quelli che erano stati un paio di giorni era riuscito addirittura ad abituarsi a non averne piu’ a credere che potesse lasciarli andare dietro di se, ma la notizia di quel giorno lo aveva scaraventato di nuovo in quel buco senza fondo da cui aveva tentato di uscire.
 
Dìs, quindi sarebbe tornata.
 
In meno di una settimana l’avrebbe rivista e avrebbe dovuto viere tutto di nuovo, avrebbe dovuto guardarla in faccia e ammettere le sue colpe a voce alta, a lei, a sua sorella, la colpa di un re, di un fratello, di uno zio che non era riuscito a proteggere i suoi figli, le sue uniche ragioni di gioia che la vita era riuscita a donarle dopo tutta la polvere in cui erano stati gettati.
 
Anche se Dìs sarebbe mai stata capace di perdonarlo lui ormai era consapevole che non sarebbe mai stato capace di perdonare se stesso, non sarebbe mai riuscito a espirare le sue colpe e lo stare sotto in quella grotta, lontano da tutti, dove aveva realizzato di non poter piu’ tornare indietro da quello che sentiva per Ghìda, gli dava ancora piu’ la conferma che neanche lei sarebbe mai bastata. Per quanti abbracci sarebbe stato capace di rubarle lei non ci sarebbe mai riuscita, lui non sarebbe cambiato in alcun caso.
 
Avrebbe dovuto affrontare il suo dolore di suo sorella e lui avrebbe dovuto affrontare i sensi di colpa che gli grattavano e scavano nel petto ogni attimo, ogni giorno ogni notte: il senso di colpa che gli faceva sognare i loro visi tutte le notti, le sue mani impregnate del loro sangue, i loro corpi senza vita nella neve, tutto dopo di lei, dopo Ghìda, come a ricordargli che per quanto lui avesse provato a essere felice ma che la sua felicità aveva avuto un costo, un costo troppo alto, un costo che non era stato solo lui a pagare.
 
Si ricordava bene quando partirono dagli Ered Luin, il suo viso quando guardò Kili l’ultima volta, come strinse a se Fili  che ormai la sovrastavano entrambi in altezza, ma che lei continuava a trattare come bambini, perché quello per lei erano sempre stati dei bambini, i suoi bambini. L’aveva rimproverata così tante volte, per la sua apprensione per tutti e due, in particolar modo verso Kili, che a detta sua ‘somigliava tutto a tuo zio’ e non a lui, a Frerin ed era vero, delle volte gli sembrava di rivederlo come quando erano piccoli. Fili invece somigliava tutto a suo padre, il nano piu’ avventato ma onorevole che avesse mai incontrato.
 
Si ricordava anche le lacrime che seguirono il loro saluto, silenziose, orgogliose, che riuscì a vederle anche se da lontano solcarle il viso quando li osservò andare via, alle porte della città sicura di non essere vista, guardata, ma lui l’aveva vista, voltando la testa prima di immergersi nella neve delle Montagne Azzurre con i suoi figli, i suoi nipoti, così simili a lei che solo guardarli in volto lo portava a anni indietro.
Alla sorellina con cui era cresciuto, che danzava tutta la notte creando piu’ problemi nel regno che solo Durin poteva immaginare e di come da un momento all’altro fosse cresciuta sotto i suoi occhi, temprata come tutti dal tempo e dal dolore, e dalla perdita dell’uomo che aveva amato, che lei aveva davvero amato, con tutta se stessa. Dopo tutti quegli anni non aveva creduto di averla mai potuta vedere così felice di nuovo, quando conobbe Vini aveva cominciato a risplendere di nuovo, l’aveva ritrovata a cantare da sola a saltellare come una ragazzina per casa fino a che poi non si sposarono ed ebbero Fili e poi Kili.
 
Per questo l’idea di perderli la devastava a tal punto, sapeva di non poterlo reggere ancora, di passarci ancora dopo Vili, non voleva perdere anche loro, non poteva. 
 
“Riportali da me, ti prego.”
 
Lui non aveva risposto, non poteva prometterglielo e sua sorella sapeva che non prometterglielo avrebbe significato mentirle, lo sapeva fin troppo bene.
 
Arrivò di fronte all’entrata della biblioteca: i due immensi archi che segnavano l’ingresso aperto a chiunque avesse voluto accedervi senza porte che potessero intralciare gli permisero di guardare all’interno senza fatica alcuna, assottigliando lo sguardo quando notò un vestito blu fare avanti e indietro tra le librerie, e un leggero mormorare di una canzone cantata a bocca chiusa. Poggiò una mano sulla pietra fredda della colonna accanto a se avanzando lentamente per non essere sentito e si affacciò oltre la coltre di legno e fogli, notando come si era adesso seduta su una delle sedie che circondavano l’enorme tavolo, con sotto di se decine di libri ammassati l’uno sull’alto, ma solo uno aperto sotto di lei, che sfogliava velocemente e ne mormorava le parole in elfico.
 
Quella mattina era sceso nelle fucine, era raro che vi si recasse la mattina ma la sua preoccupazione quel giorno non era legata a un lavoro incompiuto o  a un lavoro da svolgere. Per un attimo, vista l’ora,  pensò addirittura di trovarla ancora lì, probabilmente sporca dalla testa ai piedi, o addormentata in un angolo sfinita dal lavoro, ma non fu così.
Quando arrivò all’officina, questa era vuota, immacolata, sembrava non ci avesse passato la notte nessuno; per un attimo aveva perfino pensato anche che fosse così: aveva passato lo sguardo su ogni tavolo, ogni gancio in cerca di un segno che lei fosse stat lì ma nulla.
Entrò quindi all’interno superando il muretto basso e lanciò un’occhiata verso l’incudine: lì infatti, una spada, o meglio quello che doveva sembrare una spada, era poggiata di sbieco. Era smussata in alcuni punti, il piatto di metallo era irregolare , e l’elsa era basilare, in ferro, senza decorazioni alcuna, l’unica cosa degna di nota era che la lama era così leggera da essere maneggevole per chiunque.
Accanto a questa riposta sotto l’elsa c‘era nascosto  un pezzo di pergamena strappato, piena di impronte di dita scure che rendeva a malapena leggibile la scritta sopra di questo.
 
 
Domani è il tuo turno.
 
 
Gli scappò un sorriso ripensandoci e entrò nella sala, facendo appositamente rumore con i passi sorpassando le librerie e schiarendosi anche la gola mentre avanzava per la soglia e infatti lei lo sentì chiaramente: alzò gli occhi dal libro con le guance rosse e un ciuffo che le era scappato dai capelli che le ricadeva sul viso in modo disordinato.
Ghìda si alzò puntando entrambe le mani sul tavolo guardandolo severa all’inizio con le labbra strette ma che lentamente si andarono ad aprire in un sorriso  appena accennato.
 
“Sei in ritardo.”
 
E per quanto i suoi pensieri potessero essere funesti in quel momento sentire la sua voce, vedere il suo viso, riaccesero quel briciolo di serenità nel petto che tanto agognava: se fosse un bene o un male lo avrebbe saputo solo piu’ avanti, ma in quel momento gli sembrò la cosa piu’ giusta che avesse mai provato e l’unica cosa che avrebbe mai voluto provare per il resto della vita.
 





 





 
Angolo Autrice
Lo sooooooo sono sempre piu’ in ritardo, vi prego perdonatemiiiiiiii. Questo capitolo l’ho riscritto di sana pianta daccapo un apio di volte, non mi piaceva, non mi convinceva e se devo essere sincera tutt’ora non mi convince per nulla. :/ Alla fine, è un capitolo abbastanza di transizione perché comunque volevo far capire come effettivamente da entrambe le parti stia nascendo qualcosa che non è un qualcosa solo di fisico o campato per aria. Le due cose vanno a braccetto insomma infatti ho cercato il piu’ possibile di mantenere questa dualità per tutto il capitolo, anche qui Thorin può essere sembra OOC, ma come mi ha detto la mia adorata Nekoblonde, è solo una prospettiva diversa, cioè poi per quanto musone possa essere soprattutto nel primo film si nota questa sua parte un po' piu’ paterna o comunque ironica, anche lui è umano dopotutto e soprattutto con i sentimenti che sta covando per Ghìda la situazione si fa anche molto piu’ intima sotto tutti i punti di vista. Ghìda invece poveraccia sta la a sperarsi ma capite bene che non si può buttare, ancora si sa poco del suo passato e sono anche consapevole che magari vi stiate chiedendo “si ma questa ha gli sbalzi d’umore” o “e si ma questa che due coglioni” è un po' piu’ complicato di così, cioè neanche tanto ma la parte della sua infanzia io ve la sto servendo a tozzi e a bocconi apposta, nel prossimo ci saranno anche delle delucidazioni su di lei. Calcolate che li volevo far baciare, ma alla fine ci ho ripensato e se appizzate un po' lo sguardo potete anche capire dove >.> <.<. HAHAHAHAHAH ma no dovete soffrire ancora per un capitolo e mezzo dai, manco troppo, se tutto va bene.
E insomma sta tornando Dìs, devo dire che ogni volta è devastante da scrivere, e ho voluto lasciare un po' aperta la questione Dwalin/Dìs, perché raga cioè io li shippo greve, ma non so se farlo rimanere un amore che potrebbe essere stato (anche perché come sapete i nani sono molto fedeli, quindi sarebbe un po' fuori canon un ship con Dwalin) o renderli canonici nella fan fiction. Che dite è fattibile? Poi volete piu’ info sui nani, ovvero piu’ descrizioni della loro cultura inventata di sana pianta? E soprattutto vi prego aiutatemi e datemi delle idee possibili per delle location possibili nel palazzo perché io so fissata con ste cazzo di locations! Hahahahahah
Il lato guerriero di Ghìda sta anche per uscire fuori, che va a fare il culo agli orchi oh si! Finalmente, così come quello un po' piu’ impacciato di Thorin perché ricordatevi che vi devo regalare una scena nella biblioteca, mica vi lascio a bocca asciutta.
Ps: La parte con i bambini è quella che ho riscritto 3 volte hahahahahah
Un enorme Grazie sempre a Nekoblone e Perla_16 per commentare sempre e seguire , un grazie enorme anche a coloro che seguono  Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95 coloro che l’hanno messa tra le preferite Mariasole e tra le ricordate Aralinn. E un grazie a tutti quelli che leggono o leggeranno in seguito e quelli che non leggono ma non danno segni di vita … so che ci siete >.> XD
Come al solito fatemi sapere cosa ne pensate e ci vediamo al prossimo capitolo tra una decina di giorni <3
 
 
SPOILER
“Non puoi lasciarmi qui da sola!”
“No tu rimarrai qui!”
 
 

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Capitolo 11
*** Fuori Erebor ***



Fuori Erebor










Le voci ormai erano tante: voci di un cambiamento così veloce e repentino che sembrò quasi non potesse essere avvenuto, ma talmente tangibile che nessuno osò piu’ negarlo, anche se non si sapeva ancora bene come definirlo, o capire da cosa fosse dovuto.  Tutti i nani della montagna ne parlavano come se fossero passati dei mesi quando in realtà non erano passati neanche pochi giorni, eppure in quel poco tempo tutti avevano notato come il re sparisse per interi pomeriggi e di come il giorno successivo a una sua sparizione arrivasse con lui alle fucine o giungesse subito dopo la mezz’elfa o, come alcuni la chiamavo anche se sottovoce, la futura regina. Titolo che per quasi la metà della montagna era ancora difficile da digerire e perfino da pronunciare; diversi speravano ancora che fosse questione di tempo prima che l’alleanza con Elcar venisse spezzata, eppure quella presenza quasi ormai fissa nelle fucine e il suo passare la maggior parte del tempo accanto a Thorin Scudodiquercia, che si premurava di insegnarle anche le cose piu’ sciocche, aveva fatto sorgere in molti il dubbio che tale speranza ormai fosse vana.
Qualsiasi nano della montagna era certo che quei comportamenti fossero, dettati da un profondo senso dell’onore del loro re , dagli oneri verso quella straniera che si aggirava per il palazzo: verso colei che anche se lui non lo avesse voluto, sarebbe stata la sua regina e sua moglie, fino alla morte …se non oltre.
 
Quelli invece vicino a lui avevano ormai capito che l’onore c’entrava ben poco: per motivi ancora oscuri a quasi tutti, Thorin si era affezionato a lei e ringraziando Durin, Ghìda si era affezionata a lui, nel giro di così poco tempo e in modo così celato ma allo stesso tempo così visibile che a volte che a stento poterono crederci. Il comportamento di Thorin non era cambiato in modo palese, ma, soprattutto nell’ultima manciata di giorni, piu’ le ore tarde del pomeriggio si facevano vicine piu’ il suo carattere sempre temprato e rigido, si andava ad ammorbidire: qualche volta lo trovavano a guardare l’uscita in qualsiasi posto si trovasse, altre volte se pur molto piu’ rare, a sorridere con il lato della bocca verso di essa.
Vani furono i tentativi di Bofur e di Nori di chiedere informazioni a Dwalin, quelle poche volte che riuscivano a trovarlo senza il re, che o rispondeva grugniti o non rispondeva affatto quando iniziavano l’argomento.
 
La verità era che neanche Dwalin riusciva fino in fondo a capire cosa stesse succedendo: da quando avevano ricevuto la notizia di Dìs, era sicuro di vedere Thorin peggiorare di giorno in giorno, fino a che lei non fosse arrivata ad Erebor, e invece in quei cinque giorni, si era dovuto ricredere. Pensava di non poterlo vedere così da tempo, da troppo tempo e il solo pensare che quello sguardo potesse scomparire di nuovo da lì a pochi giorni lo deteriorava: avrebbe voluto che lui rimanesse così che il tempo si fermasse.
Se la mezz’elfa era l’unico modo per far scomparire l’angoscia che affliggeva il suo re, allora così sarebbe stato, qualunque cosa gli facesse.
Quando organizzava le guardie per i vari turni all’interno del palazzo e nelle vale zone di Erebor, gli giungevano spesso notizie di dove si fermasse il re e ormai erano state confermate le voci della sua presenza quasi ossessiva in quella biblioteca: gli avevano raccontato che ci stava per ore insieme a lei. Gli era stato perfino chiesto se fosse il caso di aumentare i soldati in quelle ore verso quelle alee, ma era riuscito a lascargli tutta la riservatezza che potesse essere concedergli, piazzando solo due guardie all’inizio delle rampe delle scale.
Suo fratello d’altro canto, seppur passando la maggior parte della mattinata con Thorin, non pareva preoccuparsene, o meglio, pareva non porsi particolari interrogativi sul suo atteggiamento, ne era solamente rasserenato e in quei momenti di debolezza a cui assistevano entrambi quando erano nella stessa stanza con Thorin, gli rivolgeva solo un sorriso appena abbozzato: una cosa era certa, nessuno dei due osò chiedergli nulla, perché come avevano già appurato entrambi, non ne avrebbe parlato… mai. 
Dopo quella sera, in cui lui se n’era andato in fretta e furia dal banchetto per seguirla, Dwalin non era stato piu’ in grado di chiedergli nulla: ma la situazione era trasmutata con una piega che lui non si sarebbe mai spettato, quella sera era successo qualcosa, qualcosa che li aveva fatti portare a guardarsi di nuovo come sperava.
 
Quello che però Dwalin non sapeva era che non si guardavano piu’ allo stesso modo, se quello che provavano prima erano solo delle mere intuizioni, un qualcosa che non riuscivano a spiegarsi e che rigettavano via come una malattia indesiderata, adesso entrambi lo andavano a cercare.
 
Ghìda cercava Thorin in continuazione con lo sguardo, aspettava di sentire la sua voce per i corridoi e ironicamente durante le sue giornate si era ritrovata contar le ore che l’avrebbero separata da quella fatica immane che era il lavoro nelle fucine. Lui la aspettava già lì, e già a metà di un lavoro, che veniva abbandonato su un tavolo appena arrivava, e che veniva finito poi nell’arco di tempo in cui lei riusciva a malapena a fondere il metallo; in quei tre giorni, avevano lavorato sempre su oggetti diversi e metalli diversi: l’importante, secondo lui, era che prendesse dimestichezza con tutto quello che poteva capitarle sottomano, ma ogni giorno a lei sembra sempre di rimanere a un punto morto. Lo invidiava, tantissimo, era talmente veloce ed abile nel rimediare ai suoi errori che spesso avrebbe voluto abbandonare quella strampalata situazione e tornare in camera sua, quando poi però vi ritornava la sera tardi, e si immergeva nell’acqua ghiacciata desiderava ricominciare daccapo ancora una volta. Ogni giorno che passava ormai era sempre piu’ sicura di cosa provasse e per quanto ogni giorno tentasse di darle un nome, volesse dargli un nome, questo le sfuggiva tra le dita, lasciava che le sfuggisse tra le dita. Thorin era paziente, estremamente paziente, un tratto che invece non avrebbe mai azzardato neanche ad attribuirgli se non l’avesse vissuto lei stessa, tratto che invece andava a scomparire nella biblioteca, quando invece ruoli si trovavano invertiti.
 
Thorin, d’altro canto, ancora stentava a credere di essere riuscito a farsi convincere a seguire quelle lezioni, eppure ora a pomeriggi alterni, passava le sue ore libere dagli impegni, fino a che gli era concesso, circondato da vecchie librerie e mura ghermite di libri e pergamene. In quella sala lui vi aveva passato gran parte dell sue mattine quando era bambino e una gran parte delle notti insonni da ragazzo: quando si mise seduto accanto a lei il primo giorno, gli parve quasi di essere tornato tale, ma seduto accanto a lui non c’era Balin e si ritrovò con sua sorpresa a seguire con molta piu’ attenzione di quanto si sarebbe mai aspettato da se stesso.
Ghìda sembrava non stancarsi mai, e delle rare volte lasciava i suoi occhi vagare oltre il libro per fissarle il profilo fisso sulle pagine del libro ingiallito dal tempo: non sarebbe mai stato in grado di confidarglielo, ma sarebbe stato lì per tutta la notte a sentirla leggere, a mugugnare quelle parole di cui non riusciva a capire il significato ma di cui non gli importava nulla neanche saperlo. Si sentiva talmente libero da ogni pensiero in quelle situazioni che per quelle poche ore tutto quello che succedeva fuori da quella porta poteva andare in malora, solo per quei pochi istanti, perché poi sapeva che non appena vi avrebbe messo piede fuori tutti i suoi oneri gli sarebbero ricaduti sulle spalle, compreso il pensiero di Dìs che non lo abbandonava neanche un secondo. Troppi in quella montagna  i luoghi che ricordavano lei, troppi i momenti della giornata dove riviveva le stesse sensazioni di piu’ di cento anni prima, ma per quella manciata di momenti con Ghìda, poteva permettersi di non ricordare piu’ nulla, di diventare un foglio bianco, di tentare di mostrare quella parte di lui che ormai aveva sepolto via da se stesso.
 
Era da diverso tempo che ascoltava Ghìda leggere dal grande libro in mezzo a loro passando lentamente il dito su ogni riga per fargli imprimere in testa ogni runa a cui lei stesse facendo riferimento. La seguiva poggiato con entrambi gli avambracci sul tavolo, ne ascoltava ogni parola e ogni movimento del dito sulle pagine ingiallite di cui capiva a malapena il significato delle poche parole che in quei giorni lei continuava a ripetergli: dopo diversi giorni i suoni gli cominciarono a sembrare sempre uguali ed è proprio per questo che appena ne pronunciava una un minimo diversa dalle altre, questa gli si imprimeva in testa a fuoco, riuscendo quindi a riconoscerla appena veniva pronunciata ridestandolo dal tiepido tepore a cui si lasciava andare.
 
“Leggi tu per me.” Gli disse voltandosi verso di lui interrompendo a leggere metà pagina facendolo sobbalzare leggermente alla richiesta totalmente inaspettata che lo colse alla sprovvista.
 
“A malapena riesco a capire i caratteri elfici, pretendi che io li legga?” Commentò con una punta di ironia facendola sospirare  arresa di fronte alla sua testardaggine: aveva scoperto in quei giorni tanti pregi del re dei nani, ma come tale, il suo non essere accondiscendente era il peggiore difetto che si portava dietro, il che rendeva difficile anche parlargli a volte.
 
“Ieri a quanto mi ricordo le hai sapute pronunciare.” Appuntò battendo due volte il dito sulla runa dove si era fermata e, cercando di invogliarlo un’ultima volta, fece scivolare con la mano il libro verso di lui, ma i suoi occhi non cambiarono, anzi li mantenne lo mantenne fisso su di lei, ignorando totalmente il libro sotto di lui o il suo dito che tentava in ogni modo di invogliarlo a guardare giù.
“Non ti sto chiedendo di leggere un intero libro, ti sto chiedendo di leggere una frase.” Appuntò  Ghìda ancora  una volta osservandolo con gli occhi scuri prima di indicare con gli occhi la pagina un'altra volta, sottolineando ancora di piu’ la sua richiesta.
 
Thorin per quanto sapesse già quanto fosse una pessima idea, annuì con la testa e, con un gesto netto, spostò la sedia verso di lei e osservò la pagina dove lei manteneva ancora il dito poggiato aveva la mano facendosi piu’ vicino con la testa tentando di capire a quale carattere stesse facendo riferimento: la maggior parte delle volte gli sembravano tutte uguali.
 
Incerto la guardo un’ultima volta sperando che avesse cambiato intenzione, ma gli occhi scuri rimanevano a guardarlo in attesa e quindi si dovette arrendere all’idea: si schiarì la voce e si fece piu’ vicino con la testa per capire quale fosse la prima runa a inizio della riga prima di cominciare a leggere.  
 
“Êl síla erim, no, eris…, no, erin…” Si bloccò di colpò non riuscendo a cogliere un segno in mezzo alle parole. Velocemente osservo quelle prima, ma il suo cercare una risposta tra la moltitudine di segni non diede l’effetto sperato. Lasciò un sospiro di rassegnazione uscirgli dalla bocca: non stava capendo nulla di quello che stesse leggendo e il dito di lei che rimaneva bloccato a ogni lettera che sbagliava non aiutava di certo la sua calma.
 
“Sembro ridicolo.” Commento netto lasciandosi andare di nuovo allo schienale della sedia.
 
“Non è vero, stai proseguendo bene, continua.” Tentò di dissuaderlo, sicura già di un suo fallimento notando come si era repentinamente tirato su dal libro, ma Thorin sembrò ancora piu’ deciso di prima e si tirò su dalla sedia e questa volta si fece piu’ vicino a lei, talmente tanto da far toccare le loro gambe sotto il tavolo, rendendola estremamente vulnerabile già di quanto già non fosse in quei giorni.
 
Thorin sciolse le braccia dal petto e spostò un dito verso la riga dove si era fermato e ricominciò a leggere: la sua voce era diventata piu’ profonda, piu’ risoluta e il suo sguardo rimaneva fisso sulla pagina, facendole capire che lei poteva anche togliere la mano dal foglio e così fece portandosi entrambe le mani sul ventre.
 
“lû e-govaded ‘wîn”
 
“Vin” Lo corresse.
 
“Win”
 
“Vin” Sottolineò ancora una volta ma il suo farlo gli fece contrarre la mascella e assottigliare ancora di piu’ gli occhi verso il basso: così non sarebbero andati avanti, proprio per nulla. Era sicura dal primo giorno che Thorin sta trovando tutto quello una perdita di tempo, ma allo stesso tempo notava quanto si impegnasse, come, anche se rimanendo quasi sempre in silenzio, ascoltasse ogni sua parola.
 
Si portò ancora piu’ vicina a lui, chinandosi sul libro con il busto affiancandosi alla sua spalla con la propria e puntò di nuovo il dito sul libro, accanto a quello di Thorin, ma leggermente piu’ sopra indicando i tre caratteri elfici che non riusciva a pronunciare.
 
“V-I-N” Li scandì uno alla volta indicandoli singolarmente per facilitarlo voltando gli occhi dalla pagina verso di lui e si morse la lingua immediatamente quando notò che i suoi occhi non indugiavano sulla pagina sotto di loro, ma erano voltati di lato verso di lei, guizzando sulle sue labbra. Per un attimo si aggrottarono come confusi, oltrepassati da un luccichio che le fece attorcigliare lo stomaco e far venire i brividi sulla spalla che toccava il suo braccio. Durò così poco che non era neanche sicura fosse stato reale, perché Thorin mormorò qualcosa tra le labbra, ma nessuna parola uscì dalla sua bocca, prima di abbassare gli occhi azzurri sulla pagina distogliendoli dalle sue labbra.
 
“Vin” Mormorò Thorin in modo corretto e con piu’ decisione rispetto a prima e  lei ancora lievemente scossa annuì serrando le labbra in una linea dritta scostando il dito dalla pagina ma rimanendo ancora con la spalla poggiata al suo braccio, incapace di muoversi
 
“O-ora rileggilo daccapo.”
 
Thorin e socchiuse leggermente gli occhi, tentando di tornare lucido prima di cominciare di nuovo a leggere. “Êl síla erin lû e-govaned vîn.”
 
Mormorò senza errori questa volta e le scappò un sorriso cancellando inaspettatamente la stretta allo stomaco di poco prima. “Molto bene, era così difficile?” Gli chiese alzando un sopracciglio facendo finta di non essere minimante scossa da quello che era appena accaduto riuscendo per quanto assurdo a ingannare il re.
 
Il lato della bocca di Thorin si inarcò in un sorriso ironico. “Ti stai prendendo gioco di me?” Le  chiese tirandosi su dalla pagina e il sorriso di Ghìda che aveva a malapena abbozzato al lato della bocca si allargò ammiccante per tutto il viso facendogli rivenire la bramosia che l’aveva colto fino a pochi istanti prima.
 
“Ripeto solo le parole che mi riferisci tu tutti i giorni, mentre io annaspo tra la cenere.”
 
“Se non lo facessi non miglioreresti, anzi finiresti per peggiorare.”
 
“E se io non lo facessi con te accadrebbe la stessa cosa.” Ribatté tentando di rimanere serie e ispida fino alla fine ma non riuscì a controllare una risata che incrinò la frase a metà: una risata che alleggerì l’aria della stanza, facendole stringere l’avambraccio al calore che le si irradiò nello stomaco.
 
Thorin portò le braccia di nuovo a chiudersi su se stesse sul tavolo alzando lievemente gli occhi al cielo. “Se questo è il tuo modo di insegnare, capisco perché tutte le mattine vedo scorrazzare quei ragazzini sopra le fucine e non qui dentro.” Gli appuntò ironico.
 
Ghìda spalancò gli occhi a quella affermazione distorcendo il suo sorriso in un’espressione teatralmente ironica, piu’ scioccata dalla sua affermazione che altro ma allo stesso tempo divertita, perché di tutte le cose che poteva appuntarle quella era l’unica di cui lei non si riteneva responsabile.
Incrociò imitandolo le braccia al petto e si fece leggermente piu’ vicino a lui piegandosi con il busto in avanti sul tavolo. “Lo sai che dopo quello che hai detto a Lòni ho dovuto chiedere a Fàrim di nascondergli la spada tutte le mattine?”
 
“Ora la loro mancanza di disciplina è una mia colpa?”
 
“Sto dicendo, Re sotto la montagna, e che per quanto io sia affezionata a loro, da quando hanno forgiato quelle spade non riescono a poggiarle neanche per un secondo e che il tuo intervento non è stato d’aiuto.”
 
“Avresti preferito che non gli avessi detto nulla?” Appuntò guardandola con un sopracciglio alzato sicuro già orma della risposta che gli avrebbe dato, ma semplicemente perché Ghìda trovava la domanda ridicola: se Thorin non gli avesse fatto quell’appunto le sue mattine sarebbero state sicuramente piu’ gestibili, ma sapeva quanto contava per Lòni sentirsi accettato, soprattutto da parte di Thorin.
 
Non rispose e Thorin capì di aver vinto quella breva battibecco appena la vide mordersi il labbro nervosa e spostare gli occhi verso terra alzandosi nuovamente dalla posizione leggermente inclinata sul tavolo, smettendo di tenergli testa.
 
“La ragazzina come sta procedendo?”
 
Alla semplice curiosità Ghìda si rizzò su se stessa, facendo saettare lo sguardo nel suo visibilmente turbata. “Chi te lo ha raccontato?”
 
La domanda lo lasciò leggermente basito, ma poi vide la sua espressione farsi sempre piu’ cupa e capì che c’era qualcosa che gli era stato taciuto. “Dovrei sapere qualcosa?” Le chiese tirandosi su dalla sedia osservandola severamente.
 
Ghìda avrebbe dovuto immaginarlo che in un modo o nell’altro lo sarebbe venuto a sapere, sperava solo di tenerglielo nascosto abbastanza da non sentirsi in dovere di interrompere ciò che stava facendo con Nìm tutte le mattine, in fin dei conti era stato un incidente.
Già, un incidente avvenuto però per una sua colpa non per quella della piccola nana.
 
Guardò verso il suo braccio sinistro ancora incrociato al petto, coperto dalla manica del vestito subendo ancora su di se gli occhi di Thorin che non si staccavano da lei e non l’avrebbero fatto finché lui non avesse avuto una risposta: ormai non aveva piu’ scelta, avrebbe dovuto rispondere con altro alla domanda di prima, facendo finta di nulla, ma ormai non poteva piu’ tornare indietro.
Sciolse le braccia dal petto e poggiò il braccio sul libro in mezzo a loro e, seguita attentamente dallo sguardo austero di Thorin, si alzò lievemente la manica del vestito fino a metà dell’avambraccio dove una fasciatura bianca compiva il giro coprendole una piccola porzione di pelle celando una runa sotto di essa e anche il taglio che le oltrepassava metta dell’avambraccio. Trattenendosi la manica tra le dita alzò lo gli occhi verso di lui: la ruga al centro della fronte era molto piu’ marcata e della spensieratezza a cui si era abbandonato poco prima rimase solo l’ombra, ecco perché non glielo aveva detto.
 
“Non è stata colpa sua.” Disse velocemente prima che potesse dirle qualsiasi cosa, ma il suo indugiare sulla fasciatura sul braccio le fece capire di non esserci riuscita, facendola pentire amaramente di avergliene parlato.
 
“Quando è successo?” Le chiese quasi monocorde.
 
Si alzò di nuovo la manica coprendo la fasciatura tentando di svicolarsi dalla domanda. “Ieri, stavamo tirando con l’arco, ha mirato troppo in basso.”
 
Tentò di evitare la sua vista ma la figura di Thorin di fronte a se sembrò farsi improvvisamente piu’ imponente già di quanto già non fosse: si tirò via dal tavolo poggiando la schiena sullo schienale di legno dietro di lui lanciandole un’ultima occhiata sul braccio che lei ritirò anche via dal tavolo tentando di nasconderlo al suo sguardo. “Avresti dovuto dirmelo, ieri non ti avrei fatto lavorare nelle fucine.”
 
“Non te l’ho detto perché è superficiale e si è rimarginata quasi subito.” Gli rispose con una punta di acidità che riuscì a fargli vibrare un nervo dietro al collo: il suo impuntarsi in quel momento non era dovuto a una ferita di addestramento. Troppe ne aveva lui, era il fatto che non si rendesse conto che avesse sbagliato, peggio che se ne rendesse conto perfettamente ma non riuscisse ad ammetterlo di fronte a lui.  
 
“E il fatto che sia solo una taglio superficiale non è una giustificazione per il vostro comportamento.”
 
Ghìda sgranò gli occhi al sentire sottolineato la parola vostro e incrociò le braccia al petto poggiando la schiena sulla sedia. “E’ solo una bambina! Si era già spaventata abbastanza: ha pianto quasi tutta la mattina, il divulgare una cosa così sciocca mi sembrava di poco conto, perché è di poco conto.”
 
“Se era di poco conto non c’era motivo alcuno per il quale tu non avresti dovuto dirmelo.”
 
“E’ un taglio di striscio compiuto con una freccia smussata tirata da una bambina di otto anni che non voleva latro che provare a tirare per la prima volta, nel peggiore dei casi avrebbe solo fatto un taglio piu’ profondo di questo.
 
“Avresti dovuto procurarti delle frecce addestramento.” Le soffiò severo.
 
“Non trattarmi come se fossi un stupida, ti ho già detto che è stata colpa mia, e come puoi vedere va tutto bene.” Sottolineò, impertinente; non le importò del fuoco che brillò negli occhi azzurri. Se si ostinava a trattarla in quel modo brusco, allora avrebbe seguito il suo esempio, non era una ragazzina alle prime armi, sapeva cosa stesse facendo quella mattina.
 
Thorin rimase in silenzio, guardandola attentamente: aveva già visto quello sguardo, carico di autorevolezza, la schiena dritta, le spalle ampie e rigide, le stava impartendo un ordine muto di non proseguire oltre nel suo ribattere e per qualche istante ebbe la voglia di ribellarsi ancora ma fu una delle poche volte che decise di rimanere in silenzio e subire quegli occhi in maniera passiva, abbassando il viso sconfitta e portandosi una mano sulla manica che celava la fasciatura.
 
Thorin serrò la mascella notando come seppur controvoglia avesse ritenuto saggio rimanere in silenzio: era l’unica in quella montagna che avesse voluto controllare a vista d’occhio ed era anche l’unica cosa che non era in grado di controllare. Le osservò la mano artigliata sull’avambraccio coperto e lasciò un sospiro uscirgli dalle labbra interrompendo la sua postura rigida volutamente autorevole  e lasciandosi andare a un singolo momento di debolezza.
 
“Voglio solo che tu stia attenta.”
 
Ghìda alzò gli occhi spalancando lievemente la bocca al cambio di atteggiamento che aveva lasciato posto a un mormorio a mezza bocca così delicato che le sembrò quasi una carezza sulla pelle. Il tono anche se celato fece trasparire quel velo di preoccupazione che la portò ad arrossire come una ragazzina. “Lo so” Mormorò sorridendo nervosamente con il lato della bocca attirando l’attenzione di Thorin che spostò lo sguardo dal suo braccio verso di lei ricambiando con un sorriso stanco che si apri pian piano fino a scoprirgli lievemente i denti.
 
Un ansimare convulsivo gli fece però ritirare immediatamente il sorriso che era riuscita a strappargli, facendoli voltare entrambi immediatamente verso l’arcata aperta della biblioteca che seppur celata da due librerie folte di pergamene, poteva ancora essere vista attraverso le mensole semivuote e tra lo spazio tra queste.
 
Fu una questione di pochi attimi: gli ansimi provenienti da fuori la biblioteca cominciarono a rimbombare in maniera ancora piu’ acuta, alternati da dei passi pesanti e netti, che dalla loro cadenza sembravano in preda di una corsa disperata.
 
 “Thorin!” Si riuscì a distinguere in lontananza e al suono del suo nome richiamato Thorin ancora seduto accanto a se si alzò di colpo dalla sedia riconoscendo fin troppo bene la voce che lo aveva chiamato; non passò neanche il tempo dello strusciare della sedia sul pavimento che infatti Dwalin entrò correndo attraversò la porta muovendosi a grandi falcate.
 
“Thorin.” Espirò ancora Dwalin lasciandosi andare appena arrivato di fronte al tavolo con il braccio piegato verso il lato di una delle due librerie e un altro sul ginocchio tentando di riprendere fiato: l’adrenalina era scesa e la fatica dello scatto immane e disperato che aveva compiuto per arrivare sino a lì cominciava a farsi sentire.
 
“Thorin…”  Mormorò ancora e alzò infine lo sguardo su di lui seppur e probabilmente Thorin intuì tutto appena lo guardò in volto, perché la sua espressione cambiò drasticamente, diventando simile alla sua quando aveva appreso la notizia di cui lui.
“Sono tornati i corvi…” Ansimò aumentando la presa sul ginocchio tentando di tirarsi su ma inutilmente tentando di calmare il suo respiro. “Branchi di…” Cominciò ma un altro rumore di passi lo interruppe di nuovo seguiti da un richiamo disperato.
 
“Dwalin no…”
 
“Sta zitto Balin deve saperlo!” Lo richiamò colto da un improvviso moto di rabbia sentendolo avvicinarsi oltre le librerie dove era poggiato stringendo la toga rossa ansimante come lui, con un viso talmente sconvolto che Ghìda spalancò la bocca e una sensazione di panico cominciò a farsi pressante nel petto portandola a stringersi gli avambracci
 
“Non adesso e non così!” Ribatté Balin affiancandosi a Dwalin e lanciandole un’occhiata: che il motivo fosse lei?
 
“E quando? Quando tornerà un altro corvo?!”
 
“Cosa sta succedendo?” Un ringhio basso avanzo tra i due litiganti: Thorin si era poggiato con entrambi i pugni sul tavolo guardando i die fratelli che al suono monocorde e ostile della sua voce si bloccarono di colpo facendo calare il silenzio.
 
Balin poggiò una mano sulla spalla del fratello guardandolo implorante ma quest’ultimo si scrollò la sua mano di dosso rudemente e lanciandogli un’occhiata infuocata; per Dwalin in quel momento la calma che suo fratello tanto decantava non serviva, la politica non serviva: una terribile paura aveva preso possesso del suo corpo, no non lei, non di nuovo. Thorin doveva sapere e doveva saperlo subito.
 
Dwalin avanzò di un paio di passi verso il tavolo tirando su il petto riuscendo finalmente ad aver calmato gli ansimi. “Branchi di orchi sono stati visti radunarsi al confine sud di Bosco Atro.” Gli disse serimente non riuscendo a far traspare l’apprensione che ormai scuoteva ogni muscolo del suo corpo. “Thorin, se Dìs passasse per quella strada rimarrà bloccata.”
 
Quell’ultimo appunto a Thorin non servì gli bastò sentire la parola orchi affiancata a quelle di Dìs che gli occhi gli diventarono due fessure: il suo viso diventò una maschera di terrore puro, mentre Dwalin poteva leggere la stessa apprensione che provava lui sui suoi occhi accigliati verso il tavolo.
La mezz’elfa invece lo guardava spaesata, rimanendo seduta al suo posto, studiando ogni suo movimento non riuscendo a capire cosa stesse succedendo, non riuscendo a capire la gravità di quello che gli aveva appena riferito.
 
“Thorin cosa vuol dire?” Gli chiese con voce flebile non staccando gli occhi dal suo profilo che continuava a essere rimanere fisso verso il basso, domanda che però non trovo risposta; nel frattempo che l’aria diventò improvvisamente pesante, intrinseca di un’angoscia che Ghìda riuscì sempre piu’ a percepire quando, il viso semi coperto di Thorin si ombrò di colpo, come se avesse capito solo in quell’istante cosa gli avesse appena detto Dwalin.
 
“Hanno raggiunto il lago?” Chiese monocorde non staccando gli occhi da sotto di lui.
 
“Nessuno li ha visti.”
 
A quella affermazione le mani di Thorin dapprima poggiate sul tavolo si andarono a chiudere sul legno diventando due pugni rigidi che cominciarono a fare forza sotto di lui e le sue labbra d ben chiuse si andarono ad aprire, facendo capire a Ghìda la gravità della situazione quando il nome prima pronunciato le scavò nei ricordi, riuscendo a dargli un ruolo. Dìs… era sua sorella.
 
“Raduna quanti piu’ soldati riesci a trovare, partiremo prima che cali il sole.”
 
Ordinò guardando Dwalin facendolo annuire deciso ma notò anche come Balin invece spalancò gli occhi e  così come successe a lui, successe anche a Ghìda che probabilmente aveva capito di cosa stessero parlando, e di cosa sarebbe successo  da lì a poche ore.
 
Ecco il perché Balin non aveva desiderio di dirglielo, o almeno di farlo prima ragionare sulle sue azioni, tutto ciò, dopo quello che gli era accaduto, sarebbe stat la sua fine: lo avrebbe fatto agire in modo avventato e incosciente e infatti era proprio quello che stava per accadere.
 
Si mosse in avanti verso il tavolo di fronte a lui poggiandovi sopra entrambe le mani fronteggiandolo apertamente, tentando di farlo risanere da quella folle idea.
 
“Nessuno ti permetterà di partire, anche se si tratta di Dìs e io non te lo lascerò fare proprio perché si tratta di Dìs.”
Mormorò mentre le parole gli andavano a morire in bocca, sapendo che quella verità non gli sarebbe piaciuta affatto, ma era pur sempre la verità, per quanto difficile possa essere stata da affrontare: lui non poteva piu’ permettersi determinate scelte.
 
L’occhiata che gli lanciò quando alzò il viso dal tavolo gli fece capire che non sarebbe servito a nulla.
 
“Io andrò, quello che sono ora non cambia i miei doveri.”
 
“Tu sei re adesso, pensi che buttandoti in un’impresa del genere ti faccia onore.” Sottolineò cercando di farlo tornare in se puntandogli un dito addosso giudicatore: per una volta lo avrebbe dovuto ascoltare, c’erano troppi rischi, troppe questioni in sospeso. Prima di essere suo amico, gli era fedele come re e per quanto comprendesse il suo dolore, quello che era intenzionato a fare era fuori discussione.
 
 
“E’ mia sorella!”
 
“E tu sei il nostro re, e non hai…” Un figlio. Balin avrebbe voluto aggiungere ma si bloccò prima di farlo, lasciando la frase a metà ma Thorin aveva ben capito cosa intendesse, lo capì nel momento stesso in cui fece saettare lo sguardo dapprima fisso su di lui verso la ragazza accanto a se. Essendo comunque consapevole che quelle parole non avrebbero dovuto intaccare in alcun modo nessuno dei presenti, si morse la lingua, e trattenne per se l’ultimo pensiero cominciando la frase daccapo.
 
“Se dovesse accaderti qualcosa sarebbe la catastrofe. Non devi farlo, non puoi farlo ragazzo.” Mormorò spostando gli occhi su Thorin che di fronte anche a quella realtà contrasse ancora di piu’ la mascella, perché sapeva che Balin aveva ragione, sapeva di non poter partire, sapeva che tutto ciò era un azzardo, ma non sarebbe rimasto a guardare, no, non per lui, non per Erebor, né per il suo rango. Se fosse successo qualcosa a Dìs, non solo sarebbe mai perdonato, mai.
 
“Appunto perché sono il re devo farlo.”
 
“Manda un manipolo di uomini, la tua presenza lì non cambierebbe le sorti in alcun caso, ti esporrebbe solo a un inutile rischio.”
 
“Dovresti conoscermi abbastanza da sapere che quello che mi stai dicendo non mi fermerà dal mio intento, Balin.” Sputò il suo nome in maniera marcata rimproverandolo e Balin cercò di non far caso ai pugni contratti, né alle spalle scosse da leggeri tremiti; lo guardò con un'occhiata dura e furiosa, che mai gli aveva rivolto in tutti quegli anni.
 
“Ed è proprio per questo che sto continuando a ripetertelo, ragazzo, io so quello che provi, posso comprenderlo piu’ di quanto immagini, ma non è comportandoti così che…”
 
“Balin…” Lo interruppe di colpo e lo guardò dritto negli occhi, l’unico modo che aveva Thorin per dire in qualche modo ciò che non riusciva a dire a parole, e Balin dentro di essi vi ci lesse una profonda afflizione, una supplica di non continuare a parlare, di come lui sapesse perfettamente di cosa stesse parlando, di cosa lui potesse andare in contro. Poche volte gli aveva rivolto quell’espressione e tutte le volte il ventre gli si contorceva dal dolore.
 
Abbassò gli occhi passandoli sul legno scuro del tavolo sotto di lui, cercando una risposta, trovandosi di fronte alla scelta che avrebbe dovuto compiere un padre perfino: in quel momento doveva aiutare il suo re, che per lui era sempre stato un figlio, quel figlio che mai aveva avuto, ma dall’latra parte doveva impedire che si autodistruggesse nel suo dolore insensato
 
 “Andrò io con lui.” Una voce si unì alla discussione, Dwalin li aveva osservati per tutto il tempo, senza smettere di ascoltare le assurdità di suo fratello.
 
Balin si girò dietro di lui puntando gli occhi verso il fratello che sino a quel momento aveva osservato in silenzio la discussione emettendo solo qualche respiro pesante o sbuffo, ma con il volto devastato come quello di Thorin, con un’unica persona nella testa di entrambi un'unica nana, che in un modo o nell’altro e anche in modi diversi, faceva parte della vita di entrambi e perderla per entrambi sarebbe stato la fine.
Balin annuì in direzione del fratello come ringraziamento ma Dwalin voltò gli occhi scuri furioso, ancora con le spalle contrite dal peso della discussione e della fretta di partire.
 
L’unica reazione che li fece unire a entrami fu quella scaturita da uno strusciare di una sedia per terra e il successivo alzarsi di una figura che fino a quel momento er rimasta fuori dalla discussione e le sue
successive parole.
 
“Verrò anche io.”
 
Thorin credette per un attimo di non aver sentito bene ma l’eccessivo mutismo nella stanza gli fece invece capire che aveva sentito perfettamente: le parole pronunciate da Ghìda e in quel momento erano le uniche parole che non avrebbe voluto sentire. Digrignò la mascella tentando di mantenere l’autocontrollo, pur percependo tutti gli sguardi su di lui e quello che gli gravava piu’ di tutti sul petto si trovava alla sua destra, lo sentiva implorante, fisso, gli trafiggeva lo sterno, e fu proprio quella sensazione a renderlo ancora piu’ certo della sua decisione.
 
“Uscite.” Riuscì solo a dire ancora piegato su se stesso e per assicurarsi che avessero sentito alzò il mento verso di loro puntando con la fronte nuovamente l’uscita “Balin, Dwalin aspettatemi fuori.” Ripeté di nuovo monocorde ricevendo da loro solo degli sguardi accigliati e poi un profondo sospiro da Balin che si staccò dal tavolo annuendo per poi voltarsi su se stesso camminando oltre l’uscita, intuendo il motivo  del suo ordine.
L’unico che indugiò fu Dwalin che anche dopo che il fratello gli diede una pacca sulla spalla per suggerirgli di uscire rimase  con le braccia incrociate al petto: lo guardò greve sapendo cosa sarebbe potuto succedere, cosa le avrebbe potuto dire, sapendo a cosa lui sarebbe andato in contro se lei avesse insistito. Lo rimproverò solo con gli occhi ma a Thorin non interessava: lo avrebbe odiato, avrebbe pianto ma quando sarebbe tornato lei sarebbe stata ancora lì.
 
Ghìda spostò il viso  confusa verso le due figure che senza aggiungere una parola si allontanarono, facendo cadere nella stanza ancora piu’ nel silenzio: l’unico rumore il respiro lento e controllato del re accanto a lei e il rimbombo del suo cuore agitato nelle orecchie.
Le sue spalle di Thorin si alzavano e si abbassavano mentre quel silenzio ormai opprimente si faceva largo nella biblioteca: gli occhi bassi che studiavano il legno sotto di lui e i pugni chiusi che facevano sempre piu’ pressione sul tavolo, facendo passare un silenzio assordante, un mutismo che le fece torcere lo stomaco.
“Tu rimarrai qui” Disse glaciale non degnandola neanche di uno sguardo mantenendolo basso verso il tavolo, come se non fosse neanche piu’ degna di essere guardata: la verità era che Thorin in quel momento non era in grado di guardarla, se lo avesse fatto sarebbe esploso.
 
“C-cosa?” Chiese spalancando gli occhi incredula “ No!” Ribatté decisa scuotendo la testa. “Tu sai che posso combattere, io non rimarrò qui!” Tentò di controbattere ma uno scrocchio di una nocca sempre piu’ pressata sul tavolo le fece velocemente capire la risposta che sarebbe seguita.
 
“Questo non cambia la mia risposta.” Aggiunse con ancora piu’ decisione lasciandola senza parola alcuna, se non un turbinio di domande e una fossa che continuava a scavarle nel petto: credeva davvero che lei sarebbe rimasta lì a corrodersi l’anima ogni minuto, ogni secondo, chiedendosi dove lui fosse, se stesse bene, o se fosse ancora vivo perfino?
 
“E’ per quello che è successo? E’ stato un incidente!”
 
“No, è perché non è la tua battaglia, tu rimarrai ad Erebor.”
 
Si scostò dal bordo del tavolo avanzando verso di lui, che seppur si faceva vicina non si mosse, mantenendo gli occhi bassi anche quanto ormai gli era così vicina da poter perfino percepire i suoi muscoli in tensione neanche toccandoli. “E aspettarti? Cosa pretendi che io per tutta la mia vita ti guardi combattere senza che tu mi permetta di stare al tuo fianco?” La voce esasperata le uscì come un grido che lo implorava di farlo ragionare, di darle quella possibilità di stare con lui, di dimostrare di essere pronta a stare con lui, di servirlo, come tutti.
 
 
“Esatto è quello che devi fare, aspettare e rimanere al sicuro.” Controbatté monocorde impartendola un ordine velato, alzando finalmente il viso dal tavolo e puntato gli occhi freddi come il ghiaccio su di lei trapassandola come una lama.
 
 “Ho vissuto la mia intera vita fuori dai pericoli, ora che posso… ora che posso fare qualcosa di giusto tu vuoi impedirmelo?” L’auto controllo che Ghìda era riuscita a mantenere fino a quel momento si andò pian piano a sbriciolare, a differenza di Thorin che continuava a non voler sentir ragione e continuava a guardarla come se quello che stesse dicendo fossero assurdità.
 
“Io non ti sto impedendo di fare nulla, tu questa volta non verrai.”
 
“Questa volta?” Gli chiese mentre un sorriso mesto le si dipingeva sulle labbra “So già come andrà a finire, ce ne sarà sempre un'altra di volta e un'altra ancora, fino a che ogni desidero scomparirà da me, fino a che non diventerò ciò che tu voglia che io sia!” L’ultima parte le uscì di getto non seppe neanche perché lo disse, forse perché quella discussione le sembrava troppo familiare, forse anche perché il solo pensare che lui la reputasse ancora debole, dopo tutto quello che era successo le faceva dolore il petto: lei non era debole.
 
“Non venirmi a parlare come se tu sapessi cosa io voglia da te, l’unica cosa che voglio che tu faccia è che tu sia fuori pericolo… non posso pensare anche a te.” Mormorò tentando di controllare il tono di voce che andava sempre piu’ lentamente a mutare verso un ruggito sommesso.
 
“Io non ti ho chiesto di farlo, so badare a me stessa”
 
“Tu…” Sputò assottigliando gli occhi e raddrizzando la schiena sovrastandola di nuovo con la sua altezza, facendole venire un brivido dietro la schiena. “Tu non sai nulla del mondo, non osare dire che sai badare a te stessa.”
 
“Io ho guidato un esercito fino a qui, ho marciato per giorni, ho cambiato bende, ho combattuto per te! Posso combattere ancora per te!”
 
Quello era il problema lui non voleva che lei combattesse per lui.
 
“Tutti possono morire al tuo fianco, tutti i nani di Erebor hanno la possibilità di morire per te, e gli dai la possibilità di morire per questa Montagna, perché io dovrei essere diversa? Non sono meno degna di quanto lo siano loro, non sono meno forte o meno abile di quanto lo siano loro, non sono debole e indifesa quanto lo siano loro, perché il mio desiderio di seguirti dovrebbe essere diverso dal loro?”
 
A quelle parole la calma del re andò però vacillando, ogni parola che veniva aggiunta, ogni sguardo che le lanciava implorante lo stavano portando all’esasperazione: no, non lo avrebbe permesso, a ogni costo, lei sarebbe rimasta al sicuro.
 
“Ricordati quale è il tuo posto.” Mormorò rabbioso e abbassò un attimo il capo come a voler cercare la calma ormai perduta, ma lo rialzò subito, fronteggiandola di nuovo.
 
Ghìda schiuse le labbra fremente di collera, incredula alle parole di Thorin che le sembravano così assurde: credeva davvero che lei non lo sapesse? Non sapesse quale era il posto che le era stato già designato? Come se non lo avesse saputo da quando suo padre aveva proposto quell’infame accordo e ancor peggio da
quando lei non si sentiva piu’ legata al suo ruolo da un simile accordo?
 
“So benissimo quale è il mio posto, mi viene ricordato ogni giorno da quando sono qui dentro, chi sono, chi dovei essere, mai nessuno che mi abbia interpellato su cosa voglia io!” Urlò puntandosi contro il dito “Io sarò regina, e questo lo so bene, e come tale avrò delle responsabilità che non sono diverse rispetto a quelle che ho adesso, tu… tu non puoi chiedermi di restare a guardare mentre sei lì fuori e non sapendo neanche se tu stia bene o no!” Senza pensare, senza avere il controllo di se stessa, urlò, urlò quelle ultime parole come se potessero essere le ultime parole che avrebbe mai piu’ detto a Thorin, lui doveva sapere, doveva capir il perché lo stesse facendo, non per se stessa, no non piu’ per se stessa soltanto. Sentì gli la gola secca e il petto le si alzò ed abbasso in uno spasmo. “Se tornerai da me o no!”
 
Il movimento di Thorin fu così veloce che non se ne rese nemmeno conto: con la mano le strinse il mento con decisione costringendola a guardarlo negli occhi, portandola talmente vicino da sentire il suo respiro sul viso. “Non parlare a me di responsabilità!” sibilò adirato, totalmente fuori controllo. “Io le ho su di te da quando ho accettato di sposarti, e una di queste è che tu rimanga fuori da ogni pericolo e, che tu lo voglia o no tu resterai qui!” Thorin scandì ogni parola come se gliele dovesse imprimere nella pelle nel frattempo che le si avvicinava così tanto che i suoi occhi blu sembrarono due specchi di acqua ghiacciata in cui non si rifletteva altro che sofferenza e rabbia.
 
Thorin socchiuse gli occhi serrando la mascella per mantenere un minimo di lucidità e poi le lasciò il mento con uno strattone e le diede le spalle cominciando a camminare via oltre la porta: come se lei non esistesse, come se non avesse il diritto di essere ascoltata oltre, come se tutto quello che avesse fatto per lui non contasse nulla , come se quello che provasse per lui non contasse nulla!
 
“Io non sono un oggetto che puoi abbandonare quando non ne hai piu’ bisogno, un qualcosa da rinchiudere in una cassa fino a che ritieni giusto che venga rispolverata e usata di nuovo, un mero essere che può essere rilegato in un angolo buoi di questa maledetta montagna ad attendere che… che il proprio re torni a casa incapace di uscire! Non lo sono oggi per te Thorin Scudodiquercia e non lo sarò mai per nessuno! Non sono un tuo contratto!”
 
“Eppure è proprio quello che sei: un contratto.”
 
Otto parole, otto parole erano bastate per distruggerla definitivamente, otto parole dette senza sentimento, senza indugio, con una naturalezza tale da farle sembrare una menzogna, perché doveva essere una menzogna.  Ecco, era finita, lei si sentì finita, devastata, percepì chiaramente il suo cuore spaccarsi a metà al suono di quella frase, di quella affermazione, al vedere la schiena di Thorin che ancora gli donava rigida verso di se. Se non l’avesse sentita chiaramente probabilmente si sarebbe ritrovata a sperare di sognare, di essere in un incubo, ma quello non era un incubo e lei non stava dormendo.
La disperazione che la colse in un primo momento lasciò posto a una collera profonda, a un sentimento cha andò totalmente in contrasto con tutto quello che aveva mai pensato di provare per lui, che sapeva di provare per lui e quei sentimenti in quel momento furono l’unica ragione che la bloccò da non autodistruggersi.
 
“Quindi sono rimasta questo per te? Un contratto?!” Il solo porgli questa domanda la fece tremare dalla cima della testa fino ai piedi, mai come in quel momento voleva che lui la guardasse ancora, che le dicesse che quello che aveva sentito era solo un gioco della sua testa, che si era inventata tutto, che non era vero, che lei era di piu’ di quello, che quello che lui aveva fatto per lei in quei giorni, che lei aveva fatto per lui in quei giorni, quelle ore, quei minuti, che quella felicità che mai aveva provato nella sua vita fosse reale. “E guardami!” Urlò esasperata con la voce che cominciava a incrinarsi: ma le sue suppliche non ebbero risposta, anzi Thorin continuò a darle la schiena portandosi le mani a intrecciarsi dietro di lui.
 
“Rimani ad Erebor Ghìda… è un ordine.” Concluse Thorin talmente glaciale che il petto sembrò farle ancora piu’ male di quanto già non facesse; non aggiunse altro e senza neanche provare a guardarla uscì dalla biblioteca, lasciandola lì al bordo del tavolo, con gli occhi che cominciavano di nuovo a pizzicarle, in un silenzio talmente gravoso da farle male. Graffiò con le unghie il tavolo sotto di lei chiudendo la mano in un pugno attraverso il quale sfogò tutte le lacrime che lei non avrebbe fatto uscire, no non piu’, non per lui, non per quelle parole, non per tutti i giorni in cui sperava di essere diventata altro per lui, non per quelle due parole che premevano di uscirle tutti i giorni, tutto il giorno e  che ora in quel momento gli avrebbe voluto urlare a squarciagola.
 
“Tu invece mi stai facendo innamorare di te.”
 
 
 
 
 
 
 


Scrosci di lame e tintinnii di metallo si andarono a confondere con i nitriti e il rumore degli zoccoli sulla pietra coperta dal sottile strato di neve fresca mentre le ultime sacche di provviste venivano caricate sui pony sotto lo sguardo vigile delle porte esterne di Erebor. Appena giunto l’ordine, i nani si era adoperati: cinquanta soldati erano stati riusciti a radunare, un numero esiguo, ma che per ciò che andava fatto sarebbe stato sufficiente, cinquanta nani che non avrebbero destato particolari sospetti se avessero camminato insieme passando, come tutti speravano, inosservati nelle Terre Selvagge, celando chi fosse con loro e da dove provenissero.
 
Il sole ormai andava tramontando e il freddo dell’inverno, che già si sarebbe preannunciato rigido, entrava nelle ossa di tutti i nani nella valle che diligentemente sistemavano i pony che gli erano stati assegnati, caricandovi sopra tutto il necessario, dalle armi alle provviste, bagnati dal nevischio che piu’ andava calando il sole piu’ aumentava, andando a scomparire in direzione della strada che avrebbero dovuto percorrere.
C’era un  motivo per il quale durante tutti quei secoli gli abitanti della Montagna avessero usato la strada elfica attraverso accordi, patti di vario genere, e scambi, e non era per i giorni o le settimane in piu’ di viaggio: le Terre Selvagge a sud di Esgarot erano inospitali piu’ delle pareti rocciose delle Montagne Nebbiose. Quest’ultime infatti per quanto ripide e impervie offrivano spesso dei ripari per la notte invece, superato il territorio elfico, tutto ciò che andava dal fiume Celduin sino all’inizio delle Terre Brune era un susseguirsi di terreni disabitati e desolati, un’alternanza di biomi uno piu’ inospitale dell’altro, passando da immense zone boschive e ricche di promotori piu’ o meno alti fino a distese di pianure ispide abitate a malapena dalla cacciagione. Non una sorgente, non un bosco, non un villaggio, una terra di nessuno e nella quale nessuno si avventurava mai.
 
Secondo ordini, il viaggio sarebbe stato breve, una questione di giorni, se non piu’ di una settimana, ma erano tutti ben consapevoli che in un modo o nell’altro sarebbero tornati a casa: in un modo o nell’altro tutti i nani tornavano sempre a casa.
 
E tutti sarebbero tornati a casa.
 
Questa era la promessa che si era fatto Thorin appena aveva indossato la casacca blu e subito dopo essersi stretto intorno agli avambracci e ai polsi i para braccia di cuoi che non avrebbe mai pensato di indossare di nuovo così presto. Il solo indossarli lo aveva fatto sentire di nuovo in quel modo: pur non essendo gli stessi ma solo delle mere copie i ricordi che si annidavano tra le figure geometriche non cambiavano, lo portavano indietro di mesi e non seppe dire se la cosa lo rallegrasse o meno, ma aggiunsero piu’ pensieri a una mente che di pensieri ne aveva fin troppi.
Di una cosa però si ritrovò grato, di non dover rispondere a nessuno dei presenti delle sue azioni o della sua presenza nella colonna di uomini pronti a partire, consapevoli di dove stessero andando e da chi stessero andando.
 
Thorin sistemò le cinghie tirandole e stringendole in modo che Orcrist e la sua ascia rimanessero ben salde sulla sella mettendole di sbieco una accanto all’altra, facendolo nitrire lievemente il pony di fronte a se che calmò con un semplice tocco al lato del collo e uno strattone leggero al montante sul muso.
Con una spinta secca poi incastrò il piede e gli salì in groppa aggrappandosi con decisione alle redini , passandosele piu’ volte intorno ai palmi prima di lanciare un’occhiata dietro di se e passando in rassegna tutti i nani che chi piu’ chi meno erano già pronti a partire così come lui.
Osservò la sua sinistra  verso un piccolo gruppo a parte di soldati, tra cui anche Bofur e Nori che parlucchiavano tra di loro dandosi una mano a vicenda nell’inacastrare le provviste sulle cinghie o intorno la sella: gli unici della compagnia rimasti che avevano la possibilità di muoversi. Anche se era consapevole che tutti e nove sarebbero voluti partire, solo a loro fu concesso a causa della sua assenza nella Montagna : Balin infatti sarebbe rimasto ad Erebor, prendendo il suo posto e il lavoro dei rimanenti sarebbe raddoppiato dovendo sostituirlo in tutto e per tutto ma il lasciare pochi giorni Erebor custodita da qualcun altro che non fosse lui era l’ultimo dei suoi pensieri sapendo di aver compiuto la scelta giusta.
 
Lasciò vagare lo sguardo dietro Bofur, studiando ogni nano ancora una volta per imprimere al meglio i loro volti o le loro fattezze nella sua testa, assicurandosi di riconoscer in caso di pericolo ogni faccia e come guidato si andò a posare sotto le porte dorate dell montagna rimaste spalancate: lì una piccola folla si era riunita così come al bastione sopra di questi, osservando i soldati prepararsi, donandogli un silenzioso saluto, interrotto solo da qualche voce piu’ acuta delle altre appartenute a dei ragazzini che si facevano promettere dai propri padri che sarebbero tornati. Di questi che ogni tanto riusciva a vedere quando guizzavano tra le zampe dei pony ne riuscì a riconoscere solo due, due teste coperte di ricci rossi che salutavano infondo alla colonna un soldato massiccio dai capelli dell stessa tonalità, richiamati piu’ volte all’ordine da una nana che li invitava a lasciare in pace il padre, anche se quest’ultimo probabilmente era che non li faceva andare via, accarezzandogli la testa o facendo ridere l femmina facendo sciocche raccomandazioni sul fratello.
Un sospiro gli lasciò le labbra quando fu il suo turno invece di dire addio: alzò lui lo sguardo piu’ in alto sulla montagna, verso la balaustra delle stanze reali passandoci piu’ volte gli occhi da destra a sinistra, concentrandosi piu’ verso, porta sigillata che si affacciava sulla sinistra, sperando che questa si muovesse, ma rimase chiusa, così come da quella balaustra.
 
Abbassò violentemente gli occhi da sopra di lui e strinse la mascella sistemandosi ancor meglio sulla sella cercando l’approvazione a partire da Dwalin accanto a lui, che al contrario non si era lasciato incastrare dai ricordi, ma manteneva gli occhi puntati sull’orizzonte, già pronto a muoversi
 
“Viaggeremo tutta la notte, state pronti.” Ordinò ad alta voce facendo voltare tutti gli sguardi verso di lui, prima di tirare leggermente la cinghia e, senza aggiungere altro, che non fosse un breve cenno con la testa verso Dwalin di proseguire, cominciò a guidare la colonna di nani che lo seguì senza aggiungere una parola che non dei bofonchi di approvazione cavalcando nella neve verso il sole che ormai era quasi totalmente scomparso dietro l’orizzonte.
 
Per quanto viaggiare la notte non fosse saggio, la luna era abbastanza alta quella notte da rendere ogni sagoma nel buio riconoscibile e i mormorii silenziosi tra le file rendevano semplice individuare qualsiasi rumore che non fosse una delle voci profonde o lo sbattere degli zoccoli sul terreno innevato.
Inosservati anche dalle guardie di Dale quando vi passarono sotto e tenuti svegli e vigili dal vento freddo, che non faceva altro che farsi piu’ rigido ogni ora dopo il calar della notte, riuscirono a raggiungere le rovine di Pontelagolungo prima della mezzanotte, passandoci intorno ed evitando ogni contatto on l’acqua ormai ghiacciata del lago, e senza interruzioni riuscirono prima dell’alba a raggiungere l’inizio della foresta. Con il sorgere dell sole cominciò già anche a cambiare il panorama: il terreno intrinseco di neve infatti lasciò spazio a l’ erba secca dell’autunno, adornata da piccoli fiori selvatici sempreverdi che aumentarono sempre piu’ di numero ogni passo verso la porta elfica dove l’inverno sembrò non essere mai arrivato.
 La colonna non poté fare a meno di frenarsi quando vi passarono di fronte ad imitazione di Thorin che seppur continuando a marciare aveva rallentato il passo accertandosi così di come la voci fossero vere: la strada era chiusa.
Tronchi erano stati buttati giù, i cespugli sembrarono essersi fatti piu’ folti e e i colori primaverili avevano lasciato spazio a una moltitudine di sfumature di giallo e arancio, che si alternavano però con ronte scure e grigie che lasciavano spazio agli alberi di seccarsi e di appassire su loro stessi,: non un suono d’uccello si udì, non un animale che si intravide tra le fronde, ne il quasi perenne canto, Bosco Atro sembrava morto.
E così sembrò il lato della foresta per miglia: impenetrabile anche per il piu’ abile, anche per l’essere piu’ piccolo:  rami chiusi  in una fitta rete decorata da foglie gialle e arancioni che al loro passaggio si staccavano volteggiandogli intorno, e mostrando a tutti i rovi nascosti e aguzzi.
 
Dopo aver visto la situazione della strada elfica l’intera colonna diventò piu’ muta già di quanto non fosse, ogni nano unito da un'unica domanda e da parole poco gentili per il popolo elfico che li aveva messi in quella situazione, che aveva messo tutti quei mesi la loro gente in pericolo; per quanto infatti Bofur tentasse di tanto in tanto di parlottare un canzone sottovoce questa non trovava mai filo, ritrovandosi spesso a mormorare nella sua bocca da solo diventando l’unica armonia nel silenzio della strada.
 Proseguirono vicino al limitare della foresta per miglia, senza fermarsi mai neanche per una pausa, nessuno l’aveva richiesta e nessuno l’avrebbe richiesta in ogni caso, anche se le schiene di tutti i nani dolevano e le gambe chiedevano riposo dal continuo cavalcare dalla notte precedente.
Dwalin seppur tenendo sempre un occhio puntato verso l’orizzonte non riuscì a non lanciare degli sguardi su Thorin accanto a lui che continuava a cavalcare in totale silenzio e a lanciare qualche spasmodico guizzo sempre dietro di se: dapprima pensò per assicurarsi che ci fossero sempre tutti, ma poi tra questi apprensivi ne notava altri, ben piu’ lontani e puntati ben piu’ in alto che su dei nani che cavalcavano nelle steppe.
Non doveva neanche chiedere il perché il suo sguardo vagasse apprensivo verso l’orizzonte scrutandolo, per poi tornare con uguale apprensione dietro di lui: sembrava essere spaccato a metà e il suo rimuginare in silenzio non avrebbe certamente aiutato, ma come poteva lui biasimarlo.
Quello che era riuscito a sentire uscire dalla sua bocca, quella bugia che era risuonata per le sale, lo aveva colpito ben piu’ di quanto avrebbe dovuto, e per quanto avesse tentato di metterlo in guardia verso ciò che avrebbe dovuto dirle, capì troppo bene il perché lo avesse fatto e non si sentì di biasimarlo.
Se Dìs avesse insistito così con lui,  supplicandolo di poterlo seguire, avrebbe reagito nella stessa maniera, e Dìs era anche l’unico motivo per il quale non aveva spostato gli occhi dieto di se, ma solo in avanti: come Thorin aveva giurato di riportarla a casa, lui aveva fatto lo stesso, non era riuscito a difendere i suoi figli, ma lei sarebbe tornata con lui e con suo fratello, ad ogni costo.
 
Per tutti quegli anni era riuscito a tenersi tutto dentro a nascondersi come un cane dietro il suo continuo vagare, dietro le sue battaglie, dietro Thorin e dietro il fatto che lei non avesse scelto lui, e la dura verità è che lei non avrebbe mai potuto sceglierlo, no non era possibile, come per lui non era possibile scegliere qualcun altro che non fosse lei.
 
Quando da bambino Balin si metteva accanto al suo letto, illuminati solo dalla flebile luce di una candela, a raccontargli quelle strampalate storie su un destino che Mahal aveva intagliato per ogni singolo nano, spesso doveva trattenersi da non alzare gli occhi al cielo, l’idea di avere un destino già scritto lo faceva impazzire.
Non aveva senso per lui, perché renderli liberi di scegliere se poi non sarebbero piu’ stati in grado di farlo? Ma spesso a molti quando accadeva non importava nemmeno piu’ di poter scegliere, non lo volevano piu’.
 
L’unico, amrâb.
 
Tutti i nani conoscevano la storia e in pochi avevano la possibilità di trovarlo, anche se piu’ di una volta si era mostrato a tutti in modi piu’ o meno palesi. Molti lo definivano come il tesoro piu’ grande che un nano potesse mai trovare, altri come il fodero perfetto per la propria ascia, suo fratello invece amava definirlo come la metà perfetta della propria anima.
Due pezzi uniti per sempre, la quale saldatura era talmente forte e legate da un metallo talmente temprato che niente era mai strato capace di dividerlo, un’unione che andava fino alla morte e non solo, la superava: si diceva che nelle Aule di Mandos fossi destinato a sedertici a fianco per l’eternità.
Quando poi lo accettavi e lo facevi tuo si diceva perfino che si potesse sentire nella roccia sotto i piedi, come una forte martellata su un’incudine che spaccava la superfice della terra.
Per molto tempo aveva sempre creduto che per lui fosse Thorin, da quando era bambino si era impresso nella testa, così come era già successo a molti prima di lui, che il suo amrâb sarebbe stato il suo principe, l’unico per cui avrebbe voluto morire, l’unico con cui avrebbe voluto passare l’eternità, l’unico che avrebbe voluto servire per l’eternità. Agli occhi di un giovane guerriero cosa poteva essere la metà della sua anima se non il proprio principe a cui sarebbe rimasto sempre fedele in ogni battaglia? Ma come tutti i ragazzini ormai cresciuti, capì ben presto che con metà della propria anima, si intendesse qualcosa che andasse oltre la fedeltà verso un sovrano.
Anche le storie piu’ felici avevano sempre un doppio risvolto e a lui  capitò quello piu’ crudele di tutti: la metà della sua anima, non sarebbe mai stat sua, perché la sua apparteneva già a un altro.
Fu destinato a legarsi all’unica persona che non avrebbe mai fatto scuotere la terra sotto di se, a una principessa, alla figlia del re Thràin, alla sorella del suo capitano, a Dìs.
Da bambini non era stato in grado di capire, ma anno dopo anno, allenamento dopo allenamento, giorno dopo giorno nelle file lontano da Erebor, lei era sempre l’unico pensiero che lo manteneva in vita, che lo faceva continuare a lottare, ma il suo orgoglio, il suo non potersi staccare dalla sua vita, lo avevano portato a ignorare tutto ciò che pensava di poter provare per lei, fino a che quando se ne rese conto era troppo tardi.
 
Lei la sua metà l’aveva trovata, e lui non lo sarebbe mai stato.
 
Quando Vili morì non ci furono parole per descrivere il dolore fisico che lui stesso provò nel guardarla settimane chiusa in una stanza, incapace di parlare per mesi, come se le avessero strappato il cuore dal petto e gettato ai cani, perché era così che lui si sentiva: a ogni singhiozzo che lei lasciava uscire dietro la porta sigillata che riusciva a sentire quando andava da Thorin ad aiutarlo con Fili e Kili ancora bambini, senza un padre e senza una madre, lui si sentiva morire. Troppo piccoli i due fratelli  per capire cose le fosse successo pensavano stesse male, le portavano da mangiare in camera e lei li faceva entrare sorridendo trattenendo le lacrime affacciandosi dalla porta e ogni volta che seduto davanti al caminetto la vedeva con le guance rigate dalle lacrime, il dolore al petto aumentava portandolo spesso a doversene andare per non entrare in camera sua e mandare tutto in malora.
Forse era meglio così, era meglio che fosse andata così, perché per quanto potessero somigliare al loro padre, in ogni sorriso di Kili e in ogni occhiata di Fili poteva vederla, sempre, uguale a come era ad Erebor: felice e leggera come un soffio di vento primaverile, con gli occhi chiari che lo fissavano allenarsi divertita insieme a suo fratello o i lunghi capelli neri che teneva sempre legati in un infinita treccia sulla spalla, che dondolava a ogni piroetta che involontariamente compiva quando girava un angolo.
Per quanto non fossero figli suoi, erano i figli della donna che amava e lui l’amava, in una maniera così profonda che non era neanche capace di descrivere a parole, solo a gesti, come quello che le promise di fronte alle porte di della citta negli Ered Luin, una promessa silenziosa: lui glieli avrebbe riportati.
Eppure, non era riuscito a mantenere neanche quella promessa, non era riuscito a mantenere nulla di ciò che aveva giurato di fare, e il solo poterla guardare di nuovo in viso, riprovare quello stesso dolore che lei stessa provava, sentire i suoi pensieri attraverso i suoi occhi solcati dalle lacrime, gli faceva venire voglia di non vederla affatto, di saperla viva e di abbandonare tutto, di scappare di nuovo come aveva sempre fatto.
 
Un grugnito dietro le sue spalle lo scosse e stacco gli occhi dal profilo di Thorin per poi puntarli dietro di se: Nori si era stiracchiato potando un braccio dietro la schiena e socchiudendo lievemente gli occhi dolorante, questo lo portò a passare gli occhi anche sul resto della compagnia che chi piu’ chi meno erano piegati su se stessi tentando di mantenere una postura composta seppur indolenziti e con le goti rosse dal freddo o le bocche lievemente spalancate dalla fatica, ma lo si poteva leggere negli occhi che erano stremati e in realtà lo era anche lui: dovevano riposare.
Non ebbe il tempo di girarsi che Thorin aveva preceduto la sua decisione rallentando il passo del suo pony e inevitabilmente anche quello del gruppo, quasi certamente sentendo anche lui il gemito di dolore dal compagno e il fato fu benevolo con loro.
 
Erano arrivati al confine con le terre selvagge.
 
I terreni boschivi e lievemente scoscesi si andarono a diramare e davanti a loro si aprirono i campi brulli e inabitati delle terre di nessuno, un confine netto segnato da una parete di roccia che scoscesa scenda giù, verso terreni che quel giorno non avrebbero percorso: Poco lontano dopo una breve salita poco piu’ ripida di una collina, uno sperone di roccia coperto da un tetto roccioso creava un’insenatura nella pietra sul dirupo, perfetto per poter riposare alcune ore.
 
Thorin si portò poco piu’ in avanti e poi diede un lieve strattone al pony girandolo verso la compagnia stremata.
 
“Ci accamperemo qui sta notte , si parte alle prime luci, Nori, lega i pony qui sotto, Dwalin organizza i turni di guardia, Bofur occupati dei pasti.”
 
All’ordine si sentirono tutti piu’ confortati e molti non riuscirono a trattenere un sospiro di sollievo quando scesero dalle loro cavalcature cominciando a smontare dalle selle, grati di poter riposar per qualche ora, forse anche di piu’ di quanto avessero sperato, visto il sole ancora alto nel cielo.
Fu la stessa speranza e la stessa voglia di voler riposare che li fece accelerare come se avessero ripreso le forze perduta a montare l’accampamento: non ci volle molto che l’intera sporgenza venne coperta da pellicce, teli e armi nascoste sotto sacche di provviste smontate dai pony, e ci volle ancora meno ad accendere un fuoco in mezzo ad essa facendo migrare tutti i soldati verso di l’unica fonte di calore.
Il rifocillarsi e il mettersi a terra seduti sgranchendo le schiene riuscì a far scaturire quel tanto di benessere tra tutti quanti da annullar il malumore che era stato loro compagno dalla vista della foresta: piatti cominciarono a girare intorno al fuoco appena fu pronto da mangiare, creando piccoli gruppi intorno ad esso che cominciarono a chiacchierare e finalmente qualcuno si unì al canticchiare di Bofur che per tutto il viaggio era rimasto sommesso, alleggerendo ancora di piu’ gli animi e facendo unire perfino Dwalin intorno al fuoco, con Nori che piu’ di una volta aveva cercato di dissuaderlo a lasciarlo dormire al suo posto, sulla parete della roccia o almeno di dargli il primo turno di guardia, ma solo perché glielo chiese, Dwalin gliene diede uno in mezzo alla notte.
Il fumo del fuoco e delle pipe presto impregnò l’aria che si rabbuiò con l’arrivo della notte dopo quel crepuscolo che sembrò a tutti troppo breve ma del quale nessuno di rattristò:
i corpi sazi, scaldati dal fuoco, ben presto si abbandonarono alla fatica, andando ad occupare i teli incustoditi per terra e molti ancora con il proprio piatto in mano si addormentarono stremati al primo attimo di silenzio.
Uno ad uno, nano dopo nano, tutti caddero in un sonno profondo, nelle ore sempre piu’ oscure della notte, sotto il cielo terso di una notte senza stelle, in netto contrasto con i pensieri del Re sotto la montagna che continuavano insistentemente a premergli nella testa, senza lasciargli opzione alcuna che rimanere sveglio.
Thorin sapeva che seppur avesse provato a coricarsi, si sarebbe continuato a svegliare, in preda all’angoscia, a tutto quello che era successo in quella giornata, lasciandosi andare a tutti quei pensieri che, complice il mormorio di fondo della compagnia dietro di se e il rumore degli zoccoli sul terreno, era riuscito a rilegare in un profondo silenzio.
 
Portò la pipa verso la bocca  inspirò profondamente prima di espirare e osservare il fumo andarsi a fondere con il blu del cielo sopra di lui e abbandonando la testa verso la roccia nuda dietro di se lasciò andare una delle gambe piegate verso il petto, giù verso il vuoto sotto di lui  che si estendeva per leghe, nella notte tanto scura quanto fredda. L’unica cosa che la illuminava era il fuoco in mezzo all’accampamento che anche se flebile continuava scoppiettare: l’unico rumore insieme a quello del vento freddo che gli faceva compagnia, era il russare leggero che si ergeva dal gruppo, e a lui andava bene così.
L’orizzonte per coperto dall’oscurità lasciava benissimo trasparire in lontananza la cima della Montagna Solitaria che si innalzava come una lama al di sopra delle nuvole che la circondavano, illuminata solo dalla luce della luna sopra di lui. Per quanto tentasse di non guardarla e di spostare i suoi occhi verso un altro punto dell’orizzonte, questi vi tornavano e la discussione con Ghìda gli tornava in mente: pronunciare quelle parole, anche solo pensarle fu la cosa piu’ difficile che avesse mai fatto in vita sua; aveva percepito il suo sguardo seguirlo fin fuori la sala, e aveva udito il respiro pesante che esalò appena la lasciò lì da sola, con come compagna solo una menzogna.
 
Aveva dovuto mentirle per proteggerla, per tenerla lontana da tutto ciò che c’era fuori quella montagna: sapeva che se no l’avrebbe seguito, si sarebbe gettata nel fuoco piuttosto che sottostare a un suo ordine; era l’unica scelta che gli era rimasta, spingerla via, distruggere il suo desiderio di rischiare la sua vita per un’impresa che era sua, solo sua.
Un suo fardello, di cui lei non doveva fare parte.
 
Ancora con la pipa tra la bocca socchiusa , se la passò tra le labbra, riscrivendo il pollice sulle rune incise sul lato, non ne prese neanche un respiro, ripercorrendo ogni stante di quegli ultimi giorni: le volte in cui involontariamente lei lo mandava al limite della ragione, in cui lo aveva portato al limite della sopportazione nel bene e nel male, in cui aveva desiderato prenderle con ferocia il viso e baciarla tra il calore della fucina o tra le pagine ingiallite dei libri della biblioteca azzittendo il suo farneticare o il suo controbattere per ogni dannatissima cosa, in cui lo aveva potato a desiderare che tutti i suoi giorni diventassero così come qui pomeriggi o in cui aveva desiderato che lei gi scaldasse il letto tutte le notti.
Se l’avesse conosciuta in altri tempi, se fosse giunta a Erebor quando era principe, si sarebbe comportato differentemente: era un nano differente, giovane, impulsivo, meno saggio, e meno rigido di quanto non fosse stato costretto a diventare in quegli anni… si, si sarebbe sicuramente comportato in modo differente.  Forse l’avrebbe persino reclamata come sua quando ne avrebbe avuto diritto, di fronte a suo padre, a suo nonno, a Mahal in persona se fosse stato necessario; si sarebbero nascosti tra le colonne continuando i soliti battibecchi, eclissandosi come ladri nelle sale scure, lontani da tutto e da tutti rubandosi momenti che non sarebbero stati in grado di gestire o di fare pubblicamente, ma prima o poi si sarebbe lasciato andare, come desiderava in quel momento, lasciarsi andare a lei, a tutto quanto, lasciarsi trascinare quel fiume, sciogliendo le mani sanguinanti che si appendevano con tutta la forza ai suoi doveri, ai suoi rammarichi, ma ora reclamarla non serviva piu’, lui non era piu’ così e lei a suo malgrado lei era  già sua, e lui… lui era suo?  
No, lui apparteneva solo a se stesso, lui era sempre esistito solo per se stesso, quello che provava lo doveva portare solo lui, lui non voleva cambiare, lui non sarebbe mai cambiato. Quei giorni erano stati solo un sogno, un lungo sogno, una realtà in cui si era rintanato e dalla quale si doveva svegliare e a svegliarlo quel pomeriggio era giunta prepotente la realtà, la realtà che aveva tentato in tutti i modi di nascondere in quei giorni, di ignorare, ma alla fine era arrivata e ci sarebbe sempre stata.
 
“E’ da ore che fissi in direzione della Montagna.” Una voce ben conosciuta dietro di lui lo destò bruscamente dai pensieri. “Anche tu dovresti riposare come tutti.” Ribatté ancora, ma lui non si girò a guardare, non ne ebbe ananche bisogno: a giudicare dai passi sempre piu’ vicini, per quanto avesse sperato non succedesse, sarebbe arrivato al suo fianco.
 
“Ho preso il turno di guardia.” Gli rispose secco neanche guardarlo, mentre lui con cautela attraversò e girò intorno a i vari giacigli tentando di non destare nessuno, raggiungendo Thorin sul bordo del dirupo dove si era seduto lontano da tutti, talmente lontano al fuoco che a malapena riusciva a distinguere la sua figura nell’oscurità.
 
Dwalin lo osservò senza batter ciglio mentre Thorin non lo degnava di una risposta , avvicinandosi verso il bordo del dirupo dove era seduto ormai da quelle che aveva visto lui, ore: ormai così abituato al dormiveglia ogni notte, da una vita passata tra turni di guardia e sonni tra i sassi, non aveva neanche dovuto aprire gli occhi per sapere a chi potesse appartenere il rumore sordo di passi che si alzava dal giaciglio di teli poco lontano da lui sul muro dell’insenatura, e che poi felini si erano mossi oltre la distesa di nani dormienti e sacche gettate per terra.
Aveva aspettato per diverso tempo, osservandogli, anche se in celata in gran parte dal masso su cui era poggiato, la schiena aspettando che tornasse a distendersi nuovamente, ma i pensieri che lo avevano assillato durante tutto il tragitto, facendolo comunicare solo a versi o ordini secchi non lo lasciarono stare. La notte, come ben sapeva, tornavano a galla, e per quanta potesse essere l’apprensione che provava per non aver ancora trovato Dìs, Dwalin sapeva anche che i pensieri che covava dentro Erebor non erano rimasti lì e lo avevano seguito per tutte quelle leghe; dopo quello che era riuscito a sentire al di fuori di quella biblioteca era consapevole che piu’ ne sarebbe stato lontano, piu’ questi sarebbero stati strazianti.
Arrivato al suo fianco, si lasciò andare accanto a lui sul bordo della rupe posando le gambe tra il terreno freddo e l’oscurità sotto di lui: non riuscì a catturare la sua espressione, ma non gli servì per sapere a cosa stesse pensando, o alla maschera che avrebbe indossato da lì a poco. Infatti, non ebbe neanche il tempo di poggiare la schiena sulla roccia, che Thorin tirò su il mento e prese uno sbuffo dalla pipa come per interrompere la debolezza a cui si era lasciato andare.
Lasciò che tra di loro si formasse un silenzio che per quanto tutti dicessero non servisse, lui con gli anni aveva imparato a capire che piu’ lo si lasciava rimuginare sulle cose, piu’ poi sarebbe stato facile parlargli: non avevano una sala di addestramento, tutti dormivano, pendersi a sciabolate nella notte sarebbe stato stupido e poi aveva capito che quando l’argomento era una donna e in particolare quella donna, sarebbero finiti solo per ammazzarsi a vicenda.
 
Si portò le ginocchia verso il petto circondandole con le braccia tenendosi ai guanti corazzati dei polsi. “Sei stato troppo duro con lei.”
 
“Non ne voglio parlare.”
 
“Non ne vuoi mai parlare, io ormai per questo ho smesso di chiedertelo.” Appuntò guardandolo inspirare profondamente e poggiare la mano con la pipa sul ginocchio piegato di fronte a lui tenendo ancora gli occhi puntati verso la Montagna Solitaria che coperta dalle nubi era a malapena visibile.
 
“E fa che rimanga così.” Constatò lui e gli lanciò un’occhiata oltre la pelliccia chiara che gli copriva le spalle, tentando di farlo tacere, ma a Dwalin quella situazione stava cominciando a dare sui nervi.
 
“Cosa fate in quel biblioteca me lo spieghi?” Gli chiese esasperato voltando il volto verso quello di Thorin che venne attraversato da una scarica che lo fece fremere stupito.
 
Thorin guardò giù serrando la mascella. “Potresti ammazzarmi se te lo dicessi.”
 
“Mettimi alla prova allora.”
 
Thorin sposto lo sguardo verso la Montagna rimanendo in silenzio ripercorrendo i ricordi infine un sorridendo velato gli si formò al lato della bocca “Mi sta insegnando l’elfico… ho…ho perfino imparato a leggerlo, o almeno a capire i significati dei caratteri elfici.” Gli confessò tenendo lo sguardo basso come se ne vergognasse pronto a una sua battuta piccata ma invece Dwalin lo guardo sorridendo e poi scosse la testa lasciandosi andare ancora di piu’ alla roccia dietro di lui.
 
“E tu le sta insegnando a forgiare.” Appuntò alzando un sopracciglio verso di lui come per confermargli una sua supposizione. “Ormai non si parla d’altro nelle fucine prima che tu arrivi, o meglio prima che arrivi lei; e a dire tutta la verità non se ne parla solo nelle fucine”
 
Thorin a quella considerazione si bloccò: già lo sapeva, li aveva sentiti, per quanto i martelli battessero sulle incudini lui riusciva sempre a sentire tutto. Era lui che aveva aumentato quelle dicerie, il suo comportamento nella sala dei banchetti quella sera aveva smosso troppo: per quanto ogni suo atteggiamento era stato ponderato per tutta la notte, per quanto avesse tentato in tutti i modi di far trasparire solo che indifferenza, il suo essere scattato in piedi appena era entrata nella sala lo aveva certamente tradito e il suo rimanere a fissarla per quello che lui era sembrata un’eternità aveva solo confermato le opinioni di molti.
 
Non era riuscito a trattenersi quella notte, e questo era un male, il suo non riuscire piu’ a ragionare quando lei entrava in una sala lo mandava su tutte le furie: avrebbe distrutto tutto ciò che aveva costruito, e lo sapeva perché era già successo.
Schiuse le labbra, mentre una domanda gli invase la mente come un fulmine a ciel sereno: non riuscendo a fermarla, salì alle labbra, mormorandola alla notte. “Sei stato tu a farla scendere quella sera.”
 
“Se sai già la risposta non vedo perché dovrei ripetertela.”
 
La sua risposta non fece altro che confermar i suoi sospetti ma spontaneamente gli fece sorgere un'altra domanda, che si sentì perfino stupido chiedere. “Perché?”
 
“Perché tu la volevi lì.”
 
“Non intendevo quello.” Il tono di Thorin uscì come un ordine, talmente deciso e diretto che gli fece voltare la testa verso di lui che lo osservava con il peso poggiato sul braccio sul ginocchio. La scusante che aveva usato non era stata abbastanza esplicativa, seppur veritiera, lui non voleva sapere il perché fosse stato fedele verso di lui, voleva sapere il perché lui avesse deciso che fosse la cosa giusta al di là di ciò che lui volesse.
 
“Perché ho visto quello sguardo su di te una sola volta: quando vedesti la montagna di nuovo, quando la porta venne aperta e tu vi entrasti dentro. Se quello che provi per lei è anche un decimo quello che provi per Erebor, per Durin non lascerò che te lo porti via da solo.”
 
E Thorin ebbe la sua risposta, una risposta che lui già conosceva ma che lo colpii comunque, perché Dwalin aveva capito: quello che lui aveva impiegato settimane a capire, lui lo aveva capito solo guardandolo una sera, ma lui non conosceva una parte e rivelargliela gli costò tutto il suo controllo.
 
. “Ti sei mai sentito di desiderare talmente qualcosa da non pensare neanche di meritarla e improvvisamente di trovartela davanti e non essere capace di toccarla?” Sussurrò abbassando gli occhi verso terra.
 
“No ho sempre saputo quello che volevo e l’ho sempre preso ed anche tu.” Il sentire quelle parole uscire dalla bocca di Dwalin ebbero il potere di scuoterlo dall’interno, di spezzare l’ultimo argine che ancora lo tratteneva.
 
 “Tu appartieni a me.”
 
Quella frase la diceva sempre tutte le notti, e tutte le notti la prendeva, la prendeva perché la voleva, tutte le notti in cui l’aveva reclamata dimenticandosi ogni cosa, lasciando che i suoi baci cancellassero quello che era venuto prima di lei e che sarebbe venuto dopo di lei, prendendo ciò che sentiva che fosse suo, solo loro due, senza nient’altro. In altri tempi, lo avrebbe fatto: avrebbe preso ciò che desiderava, e Ghìda non avrebbe fatto eccezione, Dwalin aveva ragione.
 
“La sogno, tutte le stramaledette notti. Sempre nello stesso posto, sempre le stesse parole, sempre gli stessi gesti, che mutano solo lievemente giorno dopo giorno, ma il risultato rimane sempre lo stesso.” Esalò puntando gli occhi verso la montagna una altra volta. “Prima degli incubi c’è sempre lei, e quando mi sveglio la sento ancora premuta sulla mia carne come un ferro rovente.” Finì osservando la pipa nella sua mano stringendola con un po' piu’ di forza cercando di riprendersi dal momento di debolezza che si era concesso: ma gli risultò quasi impossibile, il solo dire ad alta voce quelle parole, le resero ancora piu’ reali.
 
Dwalin si accigliò osservando il profilo di Thorin diventare sempre meno marcato: stava crollando e raramente accadeva che si lasciasse andare, doveva essere arrivato al limite sul serio.  “Non tutti i sogni sono un male, per quanto possano essere dolorosi, per quanto possano essere profondi e pieni di angoscia o solo il mero riflesso di ciò che desideriamo, ci danno sempre un idea di quello che è stato o che sarà.”
 
Dwalin notò il palese scetticismo di Thorin, confermato dalle parole che uscirono dalla sua bocca.
“I miei sogni sono sempre stati veritieri, sin troppo…ma quelli che la riguardano mi sembrano piu’ una punizione, un monito che Durin mi sta mandando per non dimenticare…per non dimenticare mai.”
 
“Dimenticare non è una cosa che ci è stata concessa credo, e neanche una cosa che entrambi abbiamo mai desiderato. Il non aver mai dimenticato ci ha reso ciò che siamo, nel bene e… nel male.”
 
“Non sai quanto io desideri dimenticare, anche solo per qualche giorno, dimenticare tutto.”
 
Dwalin capì cosa intendesse, rimuginare su ciò che già Thorin gli aveva raccontato, su ciò che sognava tutte le notti e richiederglielo per una conferma non sarebbe servito, ma il fatto che Ghìda fosse la sua custode anche in quei momenti sì.
 
“Almeno la parte in cui c’è lei è un bel sogno?” Gli chiese abbozzando un sorriso tra il malizioso e l’amichevole.
 
“Non verrò a raccontarteli se è quello che vuoi da me.” Gli rispose secco toccando un punto vivo facendolo sogghignare Dwalin compiaciuto della reazione.
 
“Allora è proprio un bel sogno.” Concluse sporgendosi di lato e dandogli una pacca con la propria spalla tentando di scuotere Thorin e per un attimo gli parve di esserci riuscito: facendogli abbassare il volto ancora di piu’ notando un sorriso spuntargli sulle labbra, un vero sorriso, non come quelli che ostinava a presentare di fronte a tutti, un sorriso che non vedeva da tempo.
 
Gli pose una mano sulle spalle staccandola da intorno le sue ginocchia e con un gesto della testa gli indicò dietro di lui. “Va a dormire, fai finta che ti abbia dato il cambio.”
 
Thorin non gli rispose, mise solo la sua mano sulla sua stringendo la pipa ormai spenta nella mano prima di tirarsi su da terra facendosi leva con la mano libera e oltrepassargli le gambe ancora accucciate verso il petto che si disterò oltre il burrone appena Thorin lo ebbe sorpassato per tornare verso il centro dell’ accampamento di fortuna.
 
“E sognala finché puoi.” Mormorò tra se e se, ma fu ben contento di sapere che Thorin lo avesse sentito perché gli lanciò un’occhiata oltre la pelliccia chiara sulle spalle prima di proseguire oltre i corpi dormienti tra teli e sacche illuminati dalla sempre piu’ flebile luce del focolare al loro centro. Lo seguii con lo sguardo sottecchi fino a che non lo vide finalmente distendersi ,dandogli le spalle, nella piccola insenatura nella roccia.
“Fin che puoi Thorin, finche puoi.” Mormorò ancora e questa volta fu il suo turno di abbandonarsi ai ricordi e al dolore di una vita ormai passata che aspettava solo di essere sepolta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ghìda gli passo la mano sulla guancia, facendo scivolare le dita delicatamente verso la barba folta mantenendo le gambe ancora ben tese ai lati dei suoi fianchi, tenendo l’altra poggiata sopra il tatuaggio sul petto, coperto da rivoli di sudore, ricalcando ogni segno con la punta del dito nel frattempo che entrambi  si riprendevano dai gemiti che li avevano percorsi fino a poco prima.
 
Thorin strofinò lievemente il naso contro il suo tenendosi sul materasso con un braccio poggiato sul cucino accanto alla sua testa e con l’altra mano che posata sulla sua la guancia arrossata e calda, accarezzandole la gota con il pollice, imprimendo nella sua testa quella sensazione prima che potesse sparire del tutto.
 
Si chinò su di lei  afferrandole con piu’ decisione il viso per strapparle un ultimo bacio a cui lei non si sottrasse, socchiudendo gli occhi e portandosi con il viso ancora piu’ vicino al suo facendo scorrere la mano dapprima sul suo petto su risalendo per il collo fino a poggiarsi sull’altra sua guancia.  A quel contatto Thorin schiuse le labbra portandola ancora piu’ disperatamente verso di se, rubandole un ultimo bacio e la disperazione crebbe ancor di piu’ quando si stacco da lei e, poggiando nuovamente la fronte sulla sua, chiuse gli occhi in attesa che lei scomparisse.
 
“Rimango se vuoi.”
 
A quelle parole aprì gli occhi puntandoli nei suoi che lo stavano osservando intensamente: così scuri lo stavano trascinandolo giù in un basso, facendolo perdere in lei.
 
“Non puoi, non ho il potere di farti rimanere.” Mormorò lasciando che la sua voce si incrinasse di poco e Ghìda di tutta risposta gli donò un sorriso dolce, uno che quasi mai gli era stato concesso di sognare in quelle notti e fece scorresse le dita dal suo viso, verso il suo petto, andando a posare entrambe le mani all’altezza del suo cuore.
 
“Basta chiedermelo.”
 
Con lentezza Thorin fece scivolare la mano ancora piu’ in basso vero il mento e le sfiorò il lato delle labbra facendole socchiudere leggermente gli occhi e lasciando una flebile speranza montargli nel petto che ormai era di nuovo premuto contro i suoi seni, separati solo dalle sue mani che ancora poggiate sul suo torace chi impedivano di sentire il freddo dell’Arkengemma.
 
“Resta con me sta notte.” Sussurrò a un respiro dalle sue labbra: una richiesta piu’ a se stesso che a lei, perché era se stesso che doveva supplicare.
 
La risposta arrivò immediatamente sotto forma di un nuovo incontro delle loro labbra, così inaspettato che ci mise qualche istante a rendersene conto; ci mise ancor meno però ad abbandonarsi ancora a quel bacio, sempre piu’ famelico e intenso stringendola a se possessivo, assaporandola ancor di piu’ quando le sue mani si andarono a cingere intorno alle sue spalle afferrandole e spingendolo verso il materasso ribaltando le loro posizioni.
Portò le sue mani a cingersi introno a i suoi fianchi stringendoli con forza senza mai staccarsi l’uno dall’altra, in un ansimare che ormai conosceva troppo bene.
La prese, ancora e ancora, fino a che il mattino non lo ridestò feroce svegliandolo dalla prima notte dopo anni passata senza incubi,  e anche se aveva preso calore da un mero corpo finto a lui quella notte bastò: per quella notte a Thorin bastò solo quello.
 
 
 





 
I paesaggi si andarono ad alternare velocemente, da che il bosco custodito sempre dagli elfi di Bosco Atro rendeva quelli intorno a questo floridi e rigogliosi anche durante l’inverno, allontanandosi di qualche lega la magia elfica andava scemando: avvicinandosi sempre di piu’ verso le aride terre brune, si passò da una steppa inospitale a una distesa di roccia ed erba secca, che si stendeva per leghe e leghe fino a confondersi con l’orizzonte.
Colline rocciose, coperte di sterpaglia e neve ghiacciata alta fino a metà delle gambe dei pony, che si ondulavano l’una sull’altra infilzate da picchi affilate come rasoi che rendevano anche solo attraversarle con delle cavalcature un’impresa ardua per chiunque.
Dovettero percorrere diverse leghe a piedi, trattenendo le cavalcature tra le redini, uno dietro l’latro, con Thorin e Dwalin davanti che tastavano il terreno con i bastoni delle lunghe asce in cerca di un qualsiasi punto fragile della roccia che avrebbe potuto farli scivolare sotto di loro. Le ombre delle nuvole nel cielo che diventavano sempre piu’ scure furono un preludio a ciò che sarebbe stato il proseguire in quella direzione: da queste cominciarono a scendere flebili fiocchi di neve che imbiancarono il suolo, ma non abbastanza da coprirlo di neve, rendendo il terreno ghiacciato e fangoso infreddolendo fino all’ultimo osso i corpi dei pony che iniziarono a muoversi piu’ lentamente di quanto tutti avessero sperato tra il paesaggio collinare.
Seppur avevano cavalcato tutto il giorno senza sosta, non avevano ancora incontrato nessuno, neanche l’ombra degli auspici che si era augurato Thorin e ogni ora che passava il suo cuore diventava sempre piu’ pesante; quando il sole passò mezzo dì, si trovò a sperare di udire anche ululato di una bestia, un segno che non fossero soli in quella stramaledetta radura congelata, ma piu’ il sole continuava a scendere, piu’ le vaghe speranze che lo avevano accompagnato durante il viaggio cominciarono a svanire.
Per quanto piccolo potesse essere stato il gruppo di nani che Dìs stava guidando, lo avrebbero notato seppur celato dalle colline bianche, o perlomeno sarebbero dovuti essere in grado di sentirlo in qualche modo, ma nel percorso che stavano percorrendo non vi era nessuna traccia o voce: il suo osservare anche per terra in attesa di qualche traccia sulla neve fresca era diventato da ore un ossessione che lo portò solo a  torturarsi ancora di piu’ immaginandosi già il peggio.
 
Dopo ore di cammino Thorin alzò  gli occhi verso l’ennesima altura che ripida si stagliava di fronte a lui  e diede uno scossone alle staccandosi dal gruppo e dirigendo il pony nero sopra di questa per avere una visuale migliore della valle, eppure seppur piu’ in alto di prima, il paesaggio rimaneva invariato e seppure la neve si fosse fermata nel suo calare sul terreno, l’orizzonte rimaneva una distesa di cespugli aridi, neve e rocce.
Del loro obiettivo, non c’era traccia, sembrava stessero seguendo dei fantasmi, auspicandosi che non fosse così, ma ormai quel tarlo gli era entrato in testa e scavava giù nel suo corpo fino allo stomaco: se alla fine li avrebbero trovati uccisi cosa avrebbe fatto? Se alla fine quello che avebbero trovato fosse stato solo un ammasso di vesti insanguinate o un branco di orchi e mannari tra le loro ossa, cosa avrebbe detto?
 
Prese una decisione che non avrebbe mai preso se non fosse stat strettamente necessaria, sia per lui che per la riuscita della spedizione: scelse che sarebbe stato meglio e piu’ saggio se si fossero divisi in quattro direzioni diverse, Nori si sarebbe inoltrato verso est, in direzione le fiume, Bofur a ovest andando verso il bosco, Dwalin sarebbe tornato indietro a ripercorrere i loro passi e lui invece avrebbe continuato in avanti.  con l’ordine di incontrarsi di nuovo lì al calare del sole: chiunque avesse trovato qualcosa sarebbe dovuto tornare indietro a ogni costo, non avrebbero dovuto agire da soli per alcun motivo.
Avevano poche ore, prima del tramonto e Thorin era ben consapevole che appena questo fosse calato si sarebbero dovuti trovare un rifugio per la notte, perché per quanto di stomaco avrebbe deciso di proseguire, sapeva anche che avventurarsi di notte in quelle terre sarebbe stato uguale a dichiarare la propria disfatta già prima di cominciare a cavalcare.
Sapeva che che se fosse però dipeso da lui avrebbe continuato a viaggiar per tutta la notte, avrebbe finito per radere al suolo quelle terre fino a che non avrebbe avuto una risposta, perché il dubbio era la cos che piu’ lo stava uccidendo, il dubbio di non sapere se fossero vivi o se fossero arrivati tropo tardi. Ma riusciva ancora a mantenere quel briciolo di lucidità da agire nel modo piu’ giusto per i suoi uomini e spingerli nella notte divisi e senza una direzione ben precisa da seguire sarebbe stato troppo, anche per loro che probabilmente provavano le sue stesse angosce.
In quel gruppo di nani infatti non vi era solo Dìs, vi erano padri, madri, figli di qualcuno, intere famiglie che così come sua sorella si meritavano un futuro ad Erebor, la sua Erebor, Erebor che ora gli mancava piu’ di quanto non avesse mai ammesso ad alta voce.
Come se la meritava lui, se la meritavano anche loro, casa.
 
Le spedizioni ebbero però tutte la stessa sorte, per quanto ogni  gruppo si fosse spinto in avanti il piu’ possibile, tardando anche all’incontro, nessuno era riuscito a trovare tracce o indizi verso dove proseguire e ciò non fece che aumentare le paure di tutti: erano persi dunque, tutto era perso.  
Fu proprio la perdita di uno dei gruppi che li fece attardare piu’ del dovuto: Nori con la sua compagnia, non era tornato e più’ la luce arancione del tramonto andava a confondersi con i buoi della notte dietro le vette innevate in lontananza, piu’ le possibilità che sarebbero tornati o li avrebbero ritrovati in quel paesaggio sempre uguale divennero così esigue da essere quasi nulle.
 
Bofur continuò a fissare verso est tentando per quanto ci provasse a far rimanere fermo il proprio pony che però, percependo l’irrequietezza del nano stesso, non riusciva a  non compiere piccoli passi di lato o a nitrire in disapprovazione a ogni tirata di cinghia, ma piu’ le colline di fronte ai suoi occhi diventarono un ammasso blu informe piu’ un’angoscia incontrollabile gli saliva fino alla gola.
Si strinse su se stesso lasciando andare un respiro preoccupato che divenne una piccolo sbuffo bianco nell’aria gelata unendosi con gli altri degli altri della compagnia che  si erano stretti sempre di piu’ uno all’altro che ancora lo circondava in attesa di istruzioni da Thorin che però imperterrito rimaneva in silenzio in attesa da ore lontano da tutti, in cima all’altura innevata: non avrebbe rischiato tutto per inseguire Nori, si fidava troppo di lui per ritenerlo uno scellerato, per quanto infondo potesse esserlo, eppure era anche consapevole che avrebbe rischiato la vita piuttosto che mandare a  monte una simile impresa.
Bofur però non si sentì tranquillo neanche pensando a quella verità e si affiancò a Dwalin portando il suo pony accanto al suo, che dietro Thorin, si girava e rigirava le cinghie della sella tra le mani in un movimento nervoso.
 
“Dove sono Nori con gli altri?”
 
“Dagli del tempo.” Gli rispose monocorde continuando a passarsi le cinghie intorno alla mano e intorno al guanto metallico.
 
“Tempo per cosa? E’ notte fonda, sarebbero dovuti essere qui ore fa, dovremo andare a cercarli”
 
Dwalin fece uscire uno sbruffo dalle labbra e ,scuro in volto, alzò lo sguardo dalle cinghie verso di lui interrompendo il movimento con le mani. “Se li andassimo a cercare ci perderemmo anche noi, se non sono ancora tornati avranno i loro buoni motivi, conoscono la strada.”
 
“Non ti preoccupa nemmeno un po' la loro assenza qui?” Insistette Bofur non riuscendo a credere che fosse l’unico lì in mezzo a non riuscire a darsi pace.
 
Passò un momento di silenzio in cui Dwalin dovette ponderare la risposta che sarebbe seguita, perché lui era spaventato a morte.
 
“Preoccuparsi li riporterebbe piu’ in fretta qui? Attenderemmo tutto il tempo necessario.” Gli rispose Dwalin ancora piu’ duramente lanciandogli un’occhiata di sbieco intimandogli di fare silenzio ma a lui quella spiegazione non piacque, non poteva accettarla.  Cercò con occhi Thorin dalla parte opposta rispetto alla sua issato sul pony in attesa come tutti, sperando in un suo ordine, in una sua parola , ma il re non si voltò neanche rimanendo chiuso nel suo mutismo trattenendo il viso rivolto verso la neve davanti a loro ormai illuminata solo dalla luce della luna.
 
Stette per richiamarlo facendo avanzando lentamente con  il pony ma la mano rigida di Dwalin gli afferrò le redini invitandolo a non continuare, credendo di essere stato chiaro poco prima con le sue parole:  con attenderemmo non intendeva solo loro due.
Alla sua silente ammonizione  Bofur si fermò sentendosi terribilmente egoista da pensare che le sue preoccupazioni fossero solo sue e lasciò che la mano di Dwalin spostasse la sua cinghia facendolo indietreggiare ancora di piu’ portandolo al suo fianco.
Dwalin d’altro canto per quanto fosse stato austero, non poteva non condividere le angosce di Bofur;  la schiena di Thorin rimaneva immobile sul pony nero, diversi piedi sopra di lui: I capelli corvini coperti dai fiocchi di neve  si muovevano smostai dal vento freddo studiando con un movimento lento da parte a parte l’orizzonte rimanendo in silenzio quel tanto che lo fece preoccupare già piu’ di quanto non fosse da ore.
 
E poi accadde.
 
Un silenzio improvviso innaturale di distese intorno a loro circondando la valle: non piu’ un fiocco di neve che scendeva, non piu’ un canto d’uccelli sporadico, o il rumore del vento che fu come se si interruppe di colpo; tutti si erano accorti, con le orecchie rizzate e il cuore in gola rimasero con la bocca chiusa sottomettendo anche dei respiri, comprendendo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in quel silenzio.
Thorin passò un’altra volta lo sguardo sull’orizzonte scuro pizzando le orecchie verso qualsiasi rumore fuori posto che potesse essere a malapena ascoltato, ma piu’ stava attento, piu’ sentiva la valle intorno a loro farsi sempre piu’ scura, l’aria farsi sempre piu’ densa mentre le colline sembrarono chiudersi intorno a loro in una morsa gelida come la neve sotto di loro.
Una delle mani si mosse lentamente verso il fianco del pony dove il pomo di Orcrist si tendeva alto, tenendo ancora gli occhi ben puntati intorno a lui, assottigliando sempre di piu’ gli occhi tentando di distinguere dalle rocce appuntite e le curve dell’erba una forma fuori posto.
 
E poi un ululato trafisse l’aria  e a questo vi ci aggiunsero altri e altri ancora, dal silenzio piu’ profondo la piu’ grande paura di tutti si fece reale e lo diventò ancora di piu’ quando a questo altri a cadenza ritmata si andarono ad aggiungere grugniti e parole oscure e viscide urlate a squarciagola, sovrapponendosi in un lamento spaventoso che gelò il sangue nelle vene a tutti.
A questi però si unì un qualcosa di ancora piu’ terribile e di ancora piu’ devastante, delle urla: decine e decine di urla di paura che risuonarono negli animi di tutti.
 
“Correte andate verso la foresta! Thorin!” La voce di Nori risuonò nell’aria sovrastando tutte le urla sempre piu’ vicine e da dietro una collina una massa apparve, un insieme  di figure illuminate solo flebilmente dalla luna ma le sagome dei pony rimasti furono ben visibili, come quelli del gruppo che aveva mandato insieme a Nori, ma era piu’ grande molto piu’ grande.
Però come furono visibili questi lo furono anche decine e decine di mannari che nel buio cominciarono rabbiosi a salire e scendere tra la neve e alla loro guida altrettanti orchi che incitavano le bestie a continuare la caccia e a ucciderli, uno a uno… fino all’ultimo.
 
Dìs.
 
“No! Thorin…” Dwalin non ebbe neanche il tempo di finire la frase che Thorin diede una botta ai fianchi del pony per farlo avanzare in fretta e furia verso le urla che continuava a sentire, ai versi strozzati e gemiti dei mannari che continuavano a susseguirsi nella notte. Completò il movimento che prima aveva interrotto andando ad afferrare Orcrist al lato del pony  trattando con una mano le redini e l’altra la lama correndo piu’ che poté bloccando il respiro, diviso in due dalla sua paura e dalla furia che lo fece agire in maniera così assurda.
Salì e scese paio di colline aguzzando lo sguardo guidato solo dai flebili raggi della luna e dalle urla che sembrarono circondarlo, così come i rumori delle zampate sul terreno e dei ringhi che spesso venivano interrotti dai mugugni di dolore delle bestie che venivano abbattute.
Un ringhio piu’ vicino lo fece voltare di scatto assestando la sua corsa desto e gli fece afferrare le redini voltandosi di scatto e riuscendo a trafiggere il collo del mannaro che era scattato oltre il pony per addentarlo saltando da una sporgenza accanto alla sua: sapevano che erano lì allora.
 
Nel respingerlo però cadde dalla sella  ritrovandosi con la carcassa dell’animale sopra di lui con gli occhi che da scintillanti come si spensero velocemente appena la lama gli trafisse con piu’ profondità il collo abbandonando l’idea di tentare un ultimo morso. Gettando la carcassa di lato si alzò velocemente estraendo la lamella spada dalla sua gola , notando ora come tutti lo avevano seguito e intorno o lui ora imperversava una battaglia tra i nani e diversi branchi di orchi e mannari che li circondavano spuntando feroci da dietro ogni pendenza su cui poteva spostare gli occhi.
 
Erano circondati, ammassati dentro una conca che li avrebbe certamente portati al massacro, dai colli intorno a loro infatti cominciarono a riversarsi decine di mannari con altrettanti orchi su di questi, e per quanto riuscisse a schivarli e ad abbatterli il piu’ possibile la sua mente rimaneva distratta in cerca della carovana.
 
Ithrikî!” Ordinò urlando con tutto il fiato che avesse in gola verso i nani che combattevano tentando tra i morsi e i ringhi di tenersi pronti; si giro e rigirò intorno tentando di individuare le origini delle urla che così come le aveva sentite in lontananza erano sempre piu’ presenti.
 
No, non poteva finire così! Li avrebbe portati tutti a casa, quel che sarebbe costato non gli importava, Dìs sarebbe tornata a casa con lui.
 
Tagliò lo stomaco di netto a un orco che caduto da un mannaro , abbattuto velocemente da Dwalin poco lontano da lui, gli si era gettato addosso tentando di colpirlo, ma era stato troppo lento e lui troppo veloce a comprendere i suoi movimenti: sangue nero gli schizzo sul viso macchiandolo e mischiandosi con quello cremisi di mannari che sembravano non finire mai.
Appena staccò la spada dal cadavere di fronte a lui, lasciando ruzzolare per terra il cadavere putrido, vide finalmente la carovana, sopra un altura poco lontana da loro, troppo poco lontana da quell’inferno e seppur nell’ombra vide Dìs:  i capelli neri lasciati sciolti che fiancheggiava il gruppo incitando e aspettando che tutti fossero passati prima di lei prima di proseguire e accanto a lei, Nori tentava insieme al gruppo di nani al suo seguito di abbattere i warg che separatesi dal gruppo principale.
 
No quello non era un unico branco.
“Nori portali via di qua!” Gli urlò sovrastando gli ululati e i gemiti intorno a lui, attirando anche l’attenzione di su sorella, che lo osservò per quello che fu un istante per poi ricominciare a correre seguendo Nori e i pochi guerrieri che erano rimasti ancora sui pony e quelli che erano rimasti senza chiudevano le file abbattendo le grosse bestie che riuscivano a sfuggire dai restanti guerrieri che si avventavano sopra le bestie tentando di dare una possibilità agli altri di fuggire.
 
Voltò la testa dall’altro lato sentendo un ringhio sommesso e trattenne Orcrist con ancora piu’ decisione voltandosi di scatto quando il mannaro tentò di morderlo, ma spostandosi di lato ebbe la possibilità di tagliargli la gola con un movimento unico scampando alla presa che se no sarebbe stat fatale. Non si rese però conto che  dietro di lui ce n’era un altro che invece gli saltò addosso non riuscendo a morderlo nel salto, ma riuscendo ad assestargli una zampata sul viso talmente violenta da scaraventarlo verso terra facendogli sbattere la testa sulla neve e sbalzando via la spada dalla sua mano che gli cadde accanto.
Un gemito di dolore sommesso gli usci dalla bocca alzando la testa verso il warg che lo aveva atterrato, la testa gli rimbombava, percepiva del sangue colargli dalla fronte verso il viso appannandogli la vista; con uno spasmo di dolore si fece forza con i gomiti e mosse rapidamente la mano verso Orcrist accanto a lui, puntandolo a terra facendosi forza sulla punta per portarsi in ginocchio non staccando mai gli occhi dal mannaro.
 
Questo gli ringhiava addosso, scoprendo le lunghe zanne e rizzando il pelo scuro verso di lui alzando la coda alla stessa altezza: si fece forza con la mano nella neve tentando di alzare le ginocchia mantenendo lo sguardo fisso seppur questo continuava a muoversi e ad appannarsi per la botta della zampata sul viso.
 
No, non ora non cosi!
 
Si urlò a se stesso alzandosi di scatto quando l’urlo del mannaro divenne piu’ gutturale e con un balzo si lanciò di nuovo verso di lui, questa volta pronto a finire il lavoro che aveva cominciato.
Thorin non ebbe neanche il tempo di alzarsi e di muovere la lama in qualche modo che una freccia trafisse il cranio del mannaro da parte a parte, sbalzando la sua carcassa lontano da lui abbattendolo con una singola freccia.
Si girò di scatto verso la direzione da dove era partita, ancora con un ginocchio puntato nel terreno e Orcrist che lo sorreggeva puntata nella terra, e ciò che vide gli fece sprofondare il cuore nel petto.
 
Ghìda.
 
Con arco e una faretra dietro alla schiena vestita solo di abiti maschili spiccava dall’altura dietro di lui, quasi irriconoscibile se non fosse stato per la luce della luna a illuminarla per intero: gli gettò solo uno sguardo veloce prima di incoccare un'altra freccia e abbattere un altro mannaro dalla parte opposta a quella dove si trovava lui, incoccandone subito una seconda abbattendo l’orco che era alla guida del mannaro, sopravvissuto alla caduta.
 
Ghìda si mosse lesta, correndo di fianco per osservare nella penombra tutta la scena sotto di lei e godere del piccolo posto di vantaggio che era riuscita a procurarsi cavalcando per ultime delle file. Sicché tutti avevano raggiunto Thorin quasi immediatamente, lei era riuscita a scampare al trambusto, riuscendo ad avere il tempo di collocarsi sulla cima piu’ alta che fosse riuscita a trovare e a coprire gran parte della conca dove erano rimasti incastrati.
 
Thorin fu la prima persona che cercò appena mise piede a terra dopo aver fatto allontanare il suo pony: per quei pochi i che lo aveva perso di vista si era sentita annientata, immaginando già il peggio quando lo vide scomparire e gettato via dal suo pony.
 
In quell’istante si era sentita morire a sua volta, aveva aumentato il passo correndo a una tale velocità da farle male il petto correndo verso dove lo aveva visto l’ultima volta, schivando e fu sol quando la sua voce sovrastò gli ululati che riuscì a respirare di nuovo e che il cuore riuscì a ripartirle nel petto ma non per questo a far smettere la sua corsa disperata. Quando lo vide lì per terra piegato a metà fu come se il corpo le si fosse mosso da solo, mai le fu così facile togliere una vita, seppur di un mostro, sempre una vita, la freccia era stata veloce pulita e appena vide la carcassa volare via; il pensiero che lui coprisse che fosse li non gli interessava affatto. Quando i suoi occhi incrociarono i suoi ancora a terra ansimante e coperto di sangue nero e solcato da due tagli sulla fronte non osò neanche dirgli qualcosa, avrebbe solo voluto corrergli incontro urlargli che era stato un incosciente che sarebbe potuto morie, che lo odiava a morte, ma i solo colore dei suoi occhi la bloccarono aggrovigliandole lo stomaco lasciando solo una immensa sensazione di gioia.  
 
Lui non sarebbe andato via da lei, non finché lei avesse esalato il suo ultimo respiro lui non l’avrebbe lasciata, non l’avrebbe permesso, mai.
La sola idea di lasciarlo morire senza che lei potesse far nulla, che lui pensasse a che lei lo avrebbe fatto morire senza far nulla era stato il pensiero che l’aveva fatta muovere da sotto quella montagna, che l’aveva fatta cavalcare infondo le file in silenzio, che l’aveva fatta dormire sulla nuda roca, incapace di rivelarsi a lui, incapace di parlargli pura sapendo che lui stesse lì vicino a lei.
 
No lei non sarebbe diventata solo la regina, no lei doveva essere una regina e una regina non lascia mai da
solo il suo re, una regina non abbandona il suo popolo, una regina doveva essere fedele, ma non fedele al suo re, fedele a se stessa, e lei non sarebbe stata Fedela a se stressa se fosse rimasta ad Erebor.
No,  lei non era un gioiello, lei non era un mizim, non piu’.
 
Lanciò un ultimo sguardo a Thorin che si stava cominciando a rialzare e per quanto il cuore le dicesse di rimanere a coprirgli le spalle, le urla degli altri intorno a lei la chiamarono in una maniera feroce che superò perfino le sue preoccupazioni per lui.
Dopo aver controllato dietro di lui che non ci fosse niente che potesse metterlo in pericolo accelerò il passo incoccando un'altra freccia nell’arco che riuscì repentinamente a trapassare lo sterno di un orco su un mannaro gettandolo a terra .
Per quanto l’oscurità fosse buia, lei riusciva sempre a vedere, era sempre stata capace di vedere nel piu’ profondo dei bui se illuminati anche flebilmente dalla luce degli astri sopra di lei: ogni colpo che tirava andava sempre a segno come se ci fosse la piena luce del giorno a illuminarle la mira, e forse fu proprio il suo non mancarla mai che la fece notare,  facendo guizzare gli sguardi dei nani su verso le sommità delle alture che la circondavano cercandola con gli occhi non riuscendo a capire come fosse possibile, come lei potesse essere arrivata fin lì e quei pochi che l’avevano capito si domandarono perché fosse lì e come fossero stati così ciechi da non riuscire a notarla tra di loro.
 
Il loro sbigottimento negli occhi si andò presto a confondere di nuovo con la furia che sprigionò ogni nano verso i gli attacchi continui dei mannari intorno a loro, che furiosi e coperti dall’oscurità ringhiavano e si azzuffavano per ghermirli nella notte massacrandoli
 Continuò a correre avanti e indietro, stando sempre alta cercando di mantenere la mira sempre piu’ precisa di quanto riuscisse, grata di passare inosservata ai mannari che non riuscivano neanche ad avvicinarsi a lei o anche solo vicino al promontorio dove si trovava.
Incoccò l’ennesima freccia, quando in lontananza disteso per terra un nano dai folti capelli rossi tentò di liberarsi dal peso di un warg sopra di lui, che lo aveva atterrato con le enormi zampe e cercava di morderlo, impedito solo dall’impugnatura dell’ascia che il nano manteneva tesa dentro le sue fauci spingendogli il muso in avanti: tese il filo dell’arco portandoselo vicino all‘ occhio ma la sua vista venne però bloccata da Dwalin che con forza cercava di attaccare un mannara che però agile si muoveva da una parte all’altra, fu infatti costretto a saltargli addosso quando questo tentò un ennesima volta di attaccarlo e ora attaccato alla sua groppa trattenendogli il pelo tra le dita, gli copriva la visuale di tiro. Se avesse scoccato la freccia  nel momento sbagliato lo avrebbe finito per uccidere.
 
“Dwalin sta giù!” Gli urlò piu’ forte che poté tanto da far spostare l’attenzione dell’nano verso di se, l’unico che preso della battaglia non si era ancora accorto della sua presenza, spalancando gli occhi leggente ma e capendo ciò che volesse fare si chinò verso il basso e conficco l’ascia che portava dietro la schiena con un movimento repentino nella testa del mannaro, portando così entrambi ad abbassarsi. Appena la visuale fu di nuovo libera scossò la freccia che attraverso il cranio del mannaro abbattendolo e liberando l’ascia del nano dalla sua morsa.
Appena ebbe la certezza che il mannaro fosse effettivamente morto si spostò correndo velocemente ancora piu’ al lato, ripercorrendo il giro che già aveva compiuto una volta e asciò un sospiro di sollievo uscirle dalla bocca osservando come il numero degli orchi stesse sempre piu’ diminuendo, ma durò poco perché un urlò piu’ acuto degli altri le fece alzare la testa oltre la conca che teneva sotto controllo. Girò la testa puntando lo sguardo piu’ lontano dalla battaglia, verso nord dove Nori e il gruppo di nani stava cercando di far scappare la spedizione e quello che vide le fece spalancare gli occhi dal terrore: un manipolo di mannari si era staccato dalla linea principale e li aveva oltrepassati, nascosti dalle alture e coperti dai ringhi e dagli ululati era riuscito a scappare oltre le difese che erano riusciti a trattener spantanando verso i nani in fuga.
 
Si portò la mano dietro la schiena in cerca di una freccia nel feretro ma pur passandoci la mano piu’ volte finì sempre per afferrare l’aria e nient’altro… no!
 
Il respiro le cominciò ad accelerare bruscamente e ogni istante che lasciava passare, guardò dietro di se, nella valle cercando l’unico che in quel momento avrebbe potuto aiutarla, a dare l’ordine, e infine lo vide dove lo aveva lasciato a fronteggiare l’ennesimo mannaro dal pelo nero e l’orco su di esso.
 
“Thorin! Zimrith bekan!” Urlò con tutto il fiato che aveva in gola ma era troppo lontano per poterla sentire, che chiunque la potesse sentire.
 
Un secondo strillo seguito da un ennesimo ululato le arrivò alle orecchie e puntò di nuovo lo sguardo oltre la collina, il branco si allontana sempre di piu’ da loro e invece avanzava sempre piu’ vicino alla colonna che continuava a correre via scortata: erano in troppi, sarebbero stati massacrati.
 
Lanciò un’ultima occhiata alla ricerca di una risposta, ma nessuno si era accorto di lei e la scelta che compì fu facile come respirare perché lo aveva promesso, lo aveva giurato.
Scattò voltandosi su se stessa correndo sempre piu’ veloce, con il passo che allungava le falcate a ogni movimento ma senza mai fermarsi, neanche quando, avendola notata spuntare da un cadavere, afferrò al volo il pomo di una spada rimasta incastrata in uno dei cadaveri degli orchi che le si paravano di fronte.
 
Scattava agile tra la neve, saltando le distanze tra Il freddo della neve le arrivava fino alle caviglie bruciandola sempre di piu’ a ogni falcata disperata che compiva rimanendo con gli occhi puntati verso il punto dove li aveva visti correre via e quando vi arrivò ansimante si rese conto che er arrivata troppo tardi per poter fare qualcosa che non fosse osservare.
Il branco li aveva raggiunti,  spingendoli nella stessa situazione dei soldati ormai lontani: incastrati in una conca circondata da una serie di rocce, il gruppo era stato diviso, troppi i warg che saltavano da una parte all’altra tentando di attaccare volutamente i può’ deboli della colonna, cercando di ingaggiare i nani disarmati che con difficoltà venivano difesi da Nori e i suoi compagnia. Pianti di bambini e urla sempre piu’ acute di terrore si andarono a unire ai ringhi sommessi dei mannari e agli inciti in lingua nera, ma ogni mannaro che abbattevano faceva solamente rendere piu’ feroci gli alti.
 
Una tremenda angoscia le aprì il petto a metà, passando gli occhi su ogni gruppo e si maledì : se avesse usato meno frecce, se la sua mira fosse andata a segno in un unico colpo piu’ di una volta avrebbe potuto salvarli tutti, avrebbe potuto aiutarli, ma invece lei ora poteva solo stare a guardare dall’alto inerme il branco di orchi e i loro mannari lottare selvaggiamente contro il gruppo.
Un ringhiò piu’ vicino degli altri attirò la sua attenzione portandola a piegarsi su se stessa e voltarsi intorno a lei in cerca del suo avversario, pronta ad essere attaccata, ma intorno a lei non c’era nulla; un secondo ringhio arrivo seguito da un ordine in lingua nera, gutturale e velenoso le fece invece abbassare il viso sotto di lei, comprendendo infine da dove provenissero quei rumori spaventosi.
 
Una nana dai capelli neri sotto di lei passava nervosamente lo sguardo a terra cercando una qualsiasi cosa che potesse usare come arma per contrapporsi al mannaro grigio di fronte a lei che guidava un altro gruppo di quattro con due orchi su di essi; rimasero a fissarla mormorando parole in lingua nera che Ghìda non riuscì a comprendere, ma sputate con talmente tanto ribrezzo che non servì capirle per sapere che stavano godendo di una facile preda per l’animale.
Questa ormai in preda agli spasmi teneva le mani basse e la schiena piegata quasi sfiorando la neve sotto i suoi palmi camminando all’indietro, fino a incontrare la pietra della roccia fredda dietro di lei: non riuscì a vederla in volto ma poté chiaramente sentire le lievi preghiere che mormorò aggrappandosi alla roccia.  
 
E fu solo quando il mannaro di fronte a lei digrignò i denti avvicinandosi al di sotto della sporgenza sotto di lei che il suo corpo cominciò a muoversi da solo: incurante dell’altezza sotto di lei si chinò e saltò giù dall’altura rocciosa atterrando con un gemito di dolore sulla schiena del mannaro  che all’aver ricevuto tutto il suo peso sulla schiena  ringhiò piu’ forte tentato piu’ volte di morderla girando il collo, riuscendo ad afferrale un pezzo dell’armatura e strappandogliela con i canini giallastri.
Tenendo strette le gambe intorno ai muscoli dei fianchi del mannaro riuscì ad alzare entrambe le braccia e a conficcargli la lama nella folta pelliccia lasciando un urlò di stento oltrepassarle la gola quando questo cercò di scaraventarla via dalla sua groppa agitandosi ancora, ma facendo forza con entrambe le mani riuscì a trapassargli la schiena da parte a parte, continuando a spingere fino a che non senti la cartilagine stridere sulla lama.
La bestia tentò di morderla con un ultimo spasmo ma infine questa cadde su se stessa portando a terra anche lei e  prima che la carcassa le potesse cadere su una gamba ed irrimediabilmente bloccarla si trascinò via lanciandosi nella neve fresca.
 
Non si diede neanche in tempo di prendere fiato che provò ad alzarsi da terra facendosi forza con le mani, ma una terribile fitta al braccio la fece ricadere di nuovo su se stessa: un dolore pulsante e lancinante che sentiva penetrarle in ogni cellula di se stessa.
Lanciò un’occhiata al braccio nella neve e questa cominciò a macchiarsi di rosso intorno a lei: il mannaro non le aveva solo strappato la camicia lasciandole il braccio scoperto… no… lo strattone che aveva percepito era dovuto all’enorme squarcio che le avevano fatto i denti della bestia per tutto l’avambraccio. 
Un’ennesima risatina le fece alzare lo sguardo da terra, incontrando i volti deformati dalle cicatrici autoinflitte e dalle mutilazioni dei due orchi che ora non ridevano piu’ solo della nana dietro di se ma anche di lei, della sua debolezza, di come stesse annaspando nella neve incapace perfino di tirarsi su, di come lei sarebbe morta  e di come avrebbero goduto vederle entrambe morire.
Uno di questi portò un dito in avanti raggrinzito e viscido indicandola gonfiando il petto per poi allargare le braccia e fu lì che lei lo vide, quel segno: due pugni orchesi incrociati l’uno sull’altro, lei lo aveva già visto, mesi prima… non era possibile.
La lingua tagliente e rocce stridevano come il metallo su un muro freddo, portandola digrignare la mascella dal disgusto  mentre queste diventavano sempre piu’ alte e piu’ ripugnanti ogni parola che sentiva che per quanto incomprensibili facevano trasparire perfettamente le loro intensioni.

No, lei non sarebbe morta così.
 
Si fece forza con il braccio ancora sano e facendosi leva con le ginocchia riuscì ad alzarsi barcollante, ma le forze cominciavano ad abbandonarla, stava perdendo troppo sangue, troppo: il terreno su cui lei ora camminava ne era imbrattato. Benché con gli occhi si appannarono sempre di piu’ si mosse verso la carcassa del mannaro ancora accanto a lei e strappò dalla sua schiena la spada che gli era rimasta conficcata nella carne gemendo dal dolore: doveva rimanere lucida, doveva resistere, non poteva andarsene così, non potevano prenderla così!
 
I due orchi aumentarono i loro sghignazzi appena si frappose tra loro e la nana dietro di lei rimasta bloccata sulla parete della roccia tenendo la spada con il braccio sano piegandosi sulle ginocchia affrontando apertamente i quattro mannari e gli orchi alla loro guida
Avanzarono lentamente verso di lei, muovendosi con i mannari al loro seguito parlando con una voce talmente gracchiante e stridula da farle stringere il pomo della lama con ancora piu’ decisione, che aumentò solo quando uno di questi si rivolse totalmente a lei e passando gli occhi rossi sul suo braccio lingua con il volto distorto da un ghigno e sputandole addosso l’ennesima frase in lingua nera ma da questa riuscì a capire due parole: il suo nome e il nome di suo padre.
Furono talmente chiare da annullare il dolore al braccio e a schiarirle la mente per alcuni attimi ma non ebbe neanche il tempo di porsi alcuna domanda che l’orco alzo il braccio accanto a se dando un ordine roco e gutturale verso il mannaro che gli stava accanto ruggente e con il pelo fosco rizzato già pronto a partire.
Tentò di mettersi in posizione anche se gli occhi le si  andavo sempre di piu’ a chiudersi su se stessi tenendo la spada ochesca ancora piu’ saldamente pronta a ciò che sarebbe seguito ma il tutto fu talmente veloce che e improvviso che anche se fosse stat in grado di tenere gli occhi attenti la sua sorte sarebbe rimasta la stessa: il mannaro balzò verso di lei e purché fosse riuscita a schivare il suo balzo questo voltò la testa repentinamente e fu come se decine di spade le fossero penetrate nella carne scavandole fino alle ossa.
 
Un urlo di dolore le uscì dalla bocca rimbombando per l’intera valle quando il mannaro chiuse la mascella intorno al suo fianco atterrandola ma tenendola ancora fermamente nelle fauci, mentre il dolore che provava andava solo ad aumentare bruciandola dall’interno fino ad invadere ogni cellula del suo corpo. Invano cerco di muoversi, di alzare la spada che ancora pendeva dalla sua mano, ma  ogni movimento che tentava era solo un intensificarsi di quel dolore che la stava dilaniando.
 
Gridò di dolore ancora quando le fauci si fecero piu’ strette sentendo i denti del mannaro penetrare con ancora piu’ vigore la sua carne, fino a che uno strappo e poi l’aria nei capelli e un dolore acuto alla testa e alla schiena le fecero spalancare gli occhi e la bocca: l’aveva scaraventata verso la parete della roccia dietro di lei con tale forza da aver percepito chiaramente le sue ossa scricchiolare e spezzarsi.
 
Il respiro le si bloccò e il suo corpo dalla roccia cadde nella neve a pancia in giù: la neve intorno a lei che la ghermiva e raffreddava quel supplizio nel quale ora tutto il suo corpo era in balia reso ancora piu’ straziante dal suo essere incapace di muoversi.
La sua mano adesso non stringeva piu’ la spada. Era lontana, troppo lontana, tutto era così lontano, il dolore non lo percepiva neanche piu’, solo freddo, tanto freddo, e gli occhi erano diventati pesanti, così pesanti.
 
Tutto cominciò a muoversi a rilento, come un sogno, o un incubo; attraverso la neve bianca che le copriva la visuale il mannaro si faceva sempre piu’ vicino ma sempre piu’ irreale, sempre piu’ lontano ma vicino, sfocato ma rigido deciso nel suo avanzare verso di lei: allora era così, sarebbe morta.
Un mormorio lontano le arrivò alle orecchie lento e ripetitivo, un gemito di angoscia della nana accanto a se che sentì farsi sempre piu’ vicina a lei, ma lei non riusciva a muoversi, non riusciva a piu’ a muovere nulla, neanche la bocca per gridare, o gli occhi per guardare qualcosa per l’ultima volta che non fossero due enormi bulbi neri.
 
Riuscì solo a concentrarsi sulle stelle ancora visibili dietro le spalle del mannaro, e il cielo blu che le cullava, le avvolgeva, le proteggeva, le stesse stelle che splendevano su Erebor, le stesse stelle che risplendevo sul mare… le loro stelle. Le stelle cha l’avevano guidata e fatta diventare vincolata in eterno a quello stesso blu, a quella stessa sfumatura di blu.
 
Come avrebbe voluto vederlo, un’ultima volta.
 
Una lacrima solitaria riuscì a uscirle dall’occhio che si andava sempre piu’ chiudendo e anche se i due occhi gialli di fronte a lei improvvisamente sparirono seguiti da una voce che la chiamava, ma fu anche tutto il resto che scomparve, lentamente, come se si stesse addormentando.
 
Thorin…perdonami.
 
Riuscì solo a pensare e infine il buio la colse inghiottendola, portandola nell’unico posto in cui non sarebbe mai voluta scendere: l’oblio.
 
 







 
Zimrith bekan: Suonate l’allarme
Ithrikî: Fermi!
 












Angolo Autrice
 
E sono tornata dopo questa lunga attesa con un capitolo diverso dal solito, molto meno introspettivo rispetto ai soliti ma in cui succede molta piu’ roba, e devo dire che la stangata finale è devastante sotto ogni punto di vista, quindi vi prego perdonatemi. Per ,e è stato un po' un esperimento come capitolo, sia per i dialoghi così botta e risposta, sia per l’ultima scena di battaglia che posso capire possa sembrare confusionaria: non ne avevo mai scritta una e immaginarsela è molto difficile.
Come avete potuto vedere ho introdotto la spiegazione di Unico per i nani, che in realtà era già stato accennato nei capitoli prima in una o due frasi, ma non volevo renderlo palese perché se no diventava brutto e controproducente. Se volete spiegherò meglio nel testo la mia versione di unico, se no se volete velo scrivo in msg (io vi rispondo sempre alle recensioni, quindi controllate la posta 😉) Dwalin infatti è uno dei pochi a cui è andata male purtroppo, ma se si calcola che solo 1/3 di nane sono donne, deve accadere prima o poi. E poi c’è Thorin che non l’ha mai saputo e potrebbe creare delle situazioni interessanti, anche perché come vedete Dwalin non glielo vuole proprio dire. Tra lui e Ghìda eh eh, solo all’inizio e alla fine vi ho dato qualche soddisfazione, ve lo aspettavate che lei lo avrebbe seguito? Avreste voluto la descrizione di lei che lo seguiva o vi è andato bene così il capitolo? Poi poveraccia, cioè lei ha capito che Thorin avesse mentito ma comunque non è che le ha fatto meno male rispetto al solito, spero di averlo fatto capire e poi ti pare che un personaggio del genere si fa bloccare ad Erebor, assolutamente no!  però SI STANNO MUOVENDO FINALMENTE! Vi ho buttato anche un sogno che in realtà oltre una mia piccola ispirazione momentanea sarebbe anche una similitudine per quello che gli ha detto Dwalin e in quella discussione, seriamente mi è venuta voglia di scrivere una one shot su loro che si incontrano ad Erebor prima di Smaug, a voi no 😉 Poi Thorin qui si apre molto e mi sono sentita giustificata solo perché ne parla con Dwalin, con altri penso non l’avrebbe mai fatto, forse si è sciolto troppo in alcune parti. a proposito non sento mai parole carine su di lei, ora vi piace di piu’? non volevo renderla troppo bad girl e infallibile, è comunque “”””umana””””” e si ancora della madre non si sa nulla, ma ogni volta che ne voglio parlare non trovo mai il modo, nel prossimo cercherò di accontentarvi :*)
Nel prossimo capitolo poi preparate le bacinelle, perché potreste sbavare o piangere, o entrambe. La parte della litigata mi è piaciuta tantissimo così come quando Ghìda alla fine spera di vedere Thorin, ma che… arriva o non arriva? Ah bho, e si, quella accanto a lei è Dìs. Zan zan zaaaaaaan. (troppo fan service che dite? Ho esagerato?) E poi sto cercando di montare anche la sotto tram di Telkar piano piano… chissa chissa.
Spero di riuscire a caricare in tempo, se no fino a fine luglio l’andazzo rimarrà sempre un capitolo ogni 10/14 giorni.
Un enorme Grazie sempre a Nekoblone e Perla_16 per commentare e seguire e non vi preoccupate se non recensite subito, io vi risponderò e vedrò e prenderò atto (Perla spero che qua troverai meno errori rispetto al capitolo precedente)  , un grazie enorme anche a coloro che seguono  Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95 coloro che l’hanno messa tra le preferite Mariasole e tra le ricordate Aralinn. E un grazie sempre a tutti quelli che anche non recensendo o seguendo leggono la mia storia, ma fatemi comunque sapere chene pensate perché forse si è notato dal mio stile di scrittura negli ultimi due capitoli che sto un po' nel caos delle volte. XD
Come al solito fatemi sapere cosa ne pensate e ci vediamo al prossimo capitolo.
PPS: Niente spoiler questa volta ma una bella copertina creata con le mie manine, così come quelle che seguiranno, così da immergervi ancora di piu’ negli occhioni blu del nostro scorbutico re. Le vorrei fare per ogni apitolo che ho scritto e che scriverò, ovvero delle immagini che racchiudano lui in una scena precisa del capitolo (anche Ghìda delle volte) idee o proposte per quelli prima?

 

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Capitolo 12
*** Preghiere inascoltate (parte 1) ***


Preghiere inascoltate


 






 

Una voce in lontananza comparve leggera.
 
Cantava.
 
Una voce cristallina come l’acqua sulla sabbia e triste come l’appassire degli alberi.
 
La voce si spezzava tra una parola e l’altra: martelli e onde gli si sovrapponevano.
 
Una luce accecante la investì.
 
Delle mani le accarezzano il viso: così dolci.
 
Dei ciuffi argentati le solleticarono il naso facendola ridere di gusto.
 
“Gadril.”
 
Due labbra gentili le si poggiarono sulla fronte e lacrime calde le caddero sulle guance.
 
No, non piangere, ti prego.
 
“Mamma ti ama, mamma ti ama tanto.”
 
La luce cominciò a spegnersi.
 
No non te ne andare via.
 
“Aule a Yavanna lothron tegi- cin, nin dilthen tinu… Amin mela lle.”
 
Il buio poi arrivò.
 
Era di nuovo sola.
 
No basta ti prego non voglio piu’ rimanere sola.
 
Dimmi chi sei.
 
Dimmi cosa vuoi.
 
Dimmi chi sono io.
 
Non voglio piu’ combattere.
 
“Ti prego Durin, ti prego…”
 
Un sussurro, roco e familiare, così lontano da lei, ma così vicino al suo orecchio da farla voltare nel buio: ma non c’era nulla.
 
 “…ienile il …cio.”
 
Delle voci cominciarono a interrompere il silenzio che saldo tentava di rimanere tale, tanto pressante da farla quasi soffocare: una miriade di voci, una diversa dall’altra che sembravano sia urlare che bisbigliare allo stesso tempo.
 
“Pass… quelle bende.”
 
“Come… arrivata fi… ui?”
 
“E’ stata una sciocca, il come non cambia il risultato.”
 
“Spostati lascia fare a me: è congelata”
 
Una finalmente le arrivò chiara: una voce femminile, profonda e ferma che le risuonò nella testa deformando le parole che aveva appena detto rendendole simili ad una preghiera, a un’invocazione. Era sicura di non averla mai sentita prima ma nei suoi pensieri si formò chiaramente un viso di una nana con una lunga treccia nera e gli occhi azzurri impauriti con la schiena poggiata sulla fredda roccia.
 
 “Thorin, devi farti vedere quella ferita sul volto.”
 
Quel nome ebbe la forza di scuoterla facendo agitare il buio pesto che la circondava rendendolo ancora piu’ freddo, avvertendo quella mancanza costante che le era appena stata fatta notare.
 
No, non poteva essere lì, lui era così lontano da lei, ma lei dov’era, via lei era via, la neve, il freddo, il sangue, tanto sangue e quel dolore, no, no lei non sentiva piu’ nulla, no, lei non c’era piu’, eppure sentiva, riusciva a sentire.
 
Frammenti le si cominciarono a presentare davanti, infrangendo l’abisso; alla neve e al freddo si andarono ad aggiungere nuovi tasselli: i mannari, la sua corsa disperata, la schiena che batté contro la dura roccia, le urla e gli ululati e poi il suo nome, urlato a squarciagola e un mantello blu che le coprì la vista.
Era morta vero?
 
“Sto bene, pensate a lei.”
 
Questa volta lo sentì chiaramente, era lui, era davvero lui, ma se lui era lì, perché non lo vedeva? Perché non riusciva a vederlo?
 
Urlò con tutta la forza che aveva in corpo era qui che era lì che lo sentiva, lei era lì, lo cominciò a supplicare al vuoto sotto di lei, all’immensa oscurità che la celava e che la sormontava immensa opprimendola e schiacciandola.
Provò a urlare il suo nome, un’altra volta, squarciando l’aria in un urlo silenzioso: se ci fosse stato avrebbe dovuto sentirla, doveva vederla, lei lo sentiva.
 
Il nulla continuava a inghiottirla.
 
Forse era morta veramente.
 
Non sentiva piu’ nulla, non un’emozione, non un battito del suo cuore, non un filo di vento, solo quelle voci, la sua voce.
Lo aveva promesso, aveva promesso che sarebbe tornata con lui, che sarebbe stat a Erebor con lui, che gli avrebbe detto tutto, tutto su chi era, su cosa sarebbe stata, di come l’avesse fatta sentire in ogni momento, di come volesse stare al suo fianco, di come avrebbe finalmente forgiato una spada come le aveva insegnato, di come non sarebbe piu’ stata petulante nelle loro lezioni, di come d’ora in poi sarebbe sempre uscita su quel balcone, di come casa sua era lui, e sarebbe sempre stato lui, che l’aveva fatta sentire degna di essere viva facendo crollare tutti i muri che si era costruita per difendersi.
 
Ti prego, ti prego so che ci sei ti prego non lasciarmi… non di nuovo… ti prego ti prego.
 
 Urlò nell’oscurità con tutto il fiato che aveva in corpo, lasciando che si svuotasse del tutto, ma tutto quello che le uscirono dalla bocca furono poche sillabe, ma che per la prima volta le arrivarono alle orecchie stracciando l’oscurità che la tratteneva lì.
 
“T-thorin.”
 
Un gemito sommesso le uscì tra le labbra esalando un breve respiro e subito le fece male il petto: lo sentiva schiacciato su di se come se un macigno le ci fosse posato; l’oscurità che l’aveva trattenuta cominciò a dilatarsi ma con il diminuire di questa comparirono anche i suoi sensi: cominciò a sentire caldo, tanto caldo, un odore opprimente di legno bruciato, sangue ed erbe le entrò nelle narici disgustandola nel frattempo che gli occhi si aprirono lentamente, che provavano a chiudersi ogni volta che tentava di guardare oltre le ciglia nere.
Fu abbastanza però da intravedere i primi colori sopra di lei: una luce rosa e arancio arrivava dalla sua destra illuminando la roccia grigia che riusciva a intravedere seppur offuscata; non era piu’ sotto il cielo stellato e quasi sicuramente non era piu’ notte nemmeno.
 
“Si sta svegliando, avrò bisogno che qualcuno la tenga ferma.” Una voce dura risuonò profonda nella penombra rimbalzando da una parte all’altra delle pareti rocciose che solo flebilmente era riuscita a distinguere facendole male alle orecchie tanto da stringere sotto di se lievemente i palmi dal dolore percependo una pelliccia calda sotto le sue mani.
 
“Dis… va. Rimango io qui.”
 
La sua voce ancora, profonda e roca le giunse alle orecchie, un richiamo che non avrebbe mai scordato, che le cominciò a scavare nel petto facendole mancare il respiro che continuava a sentire debole e piu’ tentava di prendere aria piu’ questo le diventava lieve.
Inaspettatamente arrivò l’aria di nuovo: sentì la sua testa essere sollevata e poggiata su qualcosa di soffice e poi una mano poggiarsi sulla sua fronte delicatamente; un palmo ruvido e irregolare le accarezzò leggermente la fronte prima di premersi su questa con fermezza.
Era già stat toccata così, si era aggrappata tra le lacrime in una mano così, ne aveva solcato ogni cicatrice e ogni callo ruvido, ne aveva desiderato il tocco, aveva sognato quel tocco tante volte.
 
“T-thorin.” Come guidato il pensiero prese forma e la accompagno nell’aprire finalmente gli occhi lasciando una flebile luce accompagnarla a mettere a fuoco ciò che aveva davanti: dapprima vide come prima solo macchie scolorite, sovrapposte l’un’latra, un misto di blu, grigio e nero poi i contorni si fecero piu’ nitidi e come un disegno che si completò riuscì finalmente a guardare sopra di lei.
Seguì il tessuto scuro della manica della cotta che avvolgeva il braccio sopra la sua testa, oltrepassò una pelliccia chiara macchiata di sangue e neve, salì ancora piu’ su’ dove ciocche di capelli neri e grigi si andavano a intrecciare l’un l’altra a concludersi in una treccia fina; spostò ancora di piu’ lo gli occhi e un rivolo di sangue rappreso solcava la lunga barba scura formatosi dal un taglio che spaccava a metà il labbro dal quale risalì studiando i tratti duri fino a incontrare quegli occhi.
Thorin le teneva la testa sulle sue ginocchia con la mano ferma tra l’attaccatura dei suoi capelli e la fronte, studiandola con lo sguardo trasmutato in un misto di rabbia e apprensione, che aumentò  solamente nell’istante stesso che si accorse che lo stava guardando.
 
“Non ti muovere, sta ferma.”
 
Non ebbe neanche la forza di annuire, quando ci provò la testa le cadde nuovamente piu’ giù, verso il tessuto delle sue brache: la testa le girava vorticosamente e nel suo girare la portava sentirsi sempre piu’ stanca e farle formicolare ancora di piu’ il corpo che sembrava essere totalmente straccato dalla sua coscienza ma il cui dolore era vivido e pulsante.
 
“T-thorin.” Mormorò ancora sentendosi cadere nuovamente nell’oscurità, voleva dormire, aveva tanto sonno, le faceva male il petto, le faceva male il braccio, doleva tutto; poggio di più’ la guancia verso i suoi pantaloni andando a cercare quel calore, cullata come quella notte dai battiti impercettibili del suo cuore, dalla mano che ora invece che sotto la sua guancia le teneva la fronte.
 
“No, no, devi aprire gli occhi mi hai capito, Ghìda guardami.”
 
Guardami maledizione!
 
La sentì urlate nell’aria, si rivide in quella biblioteca con le lacrime che spingevano per uscirle dagli occhi, ma questa volta si era voltato, perché si era voltato? Il viso era solcato da un profondo taglio e le sue mani erano sotto il suo mento la tenevano su, la invitavano a guardarlo.
 
La realtà con i ricordi si andarono o nuovamente a sovrapporre in una tortura talmente piacevole che volle non finisse mai.
 
“Tieni la testa alta e guarda me.”
 
E così fece: lo guardò, tentando con tutta la forza che aveva tentò di mantenere gli occhi aperti il più’ che riuscisse, lottando con quel desiderio di lasciarsi andare un'altra volta. Passò gli occhi oltre i ciuffi neri dei capelli che si alternavano con quelle simile a cenere attaccati al volto sudato e macchiato di sangue.
Le sembrò di risentire i martelli in lontananza, i battiti del suo cuore che si andavano a fondere con gli svapi delle fucine e la fuliggine che gli macchiava il volto come la polvere e i grumi di sangue lo macchiavano in quel momento.
 
“Ora riesco a prenderti piu’ sul serio re sotto la montagna.”
 
Tentò di alzare la mano che riusciva a muovere, quella che ancora riusciva a percepire come reale e viva, distesa accanto al suo corpo: l’unica barriera che ancora divideva lei e Thorin dal potersi toccare. Un lieve gemito di dolore le uscì dalle labbra quando, con cautela e lottando con le fitte, alzava sempre di piu’ il braccio incapace di staccare i suoi occhi dai suoi.
Come era già successo  il mondo cominciò a scomparire frantumandosi, lasciandola sola con lui in un’infinità di nulla che non fossero i due pozzi blu che non fecero altro che far comparire di nuovo quella forza nel ventre che aveva pensato si sarebbe attenuata con il tempo, che aveva percepito attenuarsi giorno dopo giorno, ma in quel preciso istante capì di essersi sbagliata.
 
Si era sempre sbagliata.
 
Lei era una guerriera e lui era la battaglia che mai sarebbe stata in grado di vincere.
 
Le sembrò per qualche attimo la cosa piu’ bella che il mondo avrebbe mai potuto regalarle, un dono che non sentì di meritare ma che sentiva di aver cercato per tutta una vita non sapendo neanche che cosa fosse, come un cieco che cercava la luce non conoscendone neanche la provenienza.
Thorin tentò di dire qualcosa ma si bloccò immediatamente quando riuscì a poggiare le sue dita sulla sua guancia: il solo muoverle le provocò un dolore lancinante.
Anche se non era il braccio ferito lo percepì come bruciare a contatto con l’aria fredda e le dita sgretolarsi l’una sull’latra mentre accarezzavano con la loro punta la mandibola spalancata;
la collera scomparve all’istante dal suo viso e lo vide socchiudere lievemente gli occhi mormorando silenzioso qualcosa tra le labbra ma non riuscì a sentirlo, riusciva malapena a sentire ciò che le accadeva intorno, come il mormorio burbero che seguì accompagnato dall’odore di erbe, che prima era solo leggero nell’aria, farsi sempre più acuto misto improvvisamente a un odore di bruciato.
 
Lo sguardo di Thorin saettò via dal suo ridestandola da quel tepore in cui stava di nuovo cadendo e lo puntò di lato verso la fine del suo corpo dove il freddo pungente le premeva sulla pelle e dove sentiva quel macigno spingerla giu’,rendendole impossibile anche solo pensare di muoversi; lo vide annuire con il mento e poi la guardò di nuovo in un modo strano: la bocca era lievemente aperta e il viso sembrò essere spaccato a metà tra la tristezza piu’ profonda e una decisione inevitabile.
 
Sentì la mascella scattare sotto le sue dita e con un movimento lento ma inesorabile le lasciò la fronte e spostò la mano verso la sua poggiata sulla sua guancia insinuando le dita sotto di esse e portandola giù verso la parte della sua coscia libera imprigionandole la mano: il calore del suo viso aveva fatto spazio al freddo del cuoio e dei lacci di pelle dei paranocche che sembrarono diventare piu’ rigidi quando chiuse il pugno intorno al suo palmo.
 
“Stringimi la mano e non lasciarla sono stato chiaro, non lasciarla per alcuna ragione.” Le ordinò dapprima rigido ma la sua voce andò a modificarsi, a metà frase suonandola alle orecchie come una supplica mal celata dalla sua autorevolezza.
Avrebbe voluto rispondergli ma la gola si chiuse su se stessa rendendola incapace anche di mormorare una sillaba; per tutta risposta quindi fece l’unica cosa che riuscì senza problemi, forse l’unica se sarebbe stata sempre di compiere senza problemi.
Staccò gli occhi dai suoi abbassandoli vero le loro mani l’una nell’ altra: seppur la forza che stava impiegando Thorin a stringerle il palmo era notevole, questa diminuì quando comincio a muovere le dita in mezzo alle sue che si aprirono alla sua minima forza permettendole di congiungerle in una morza che con suo enorme stupore lui ricambiò stringendole le dita con egual ardore quasi a farle male.
 
Thorin probabilmente se ne accorse perché diminuì leggermente la presa permettendo però alle sue dita di insinuarsi ancora di piu’ la tre sue nel frattempo che queste venivano tirate sempre piu’ verso la cotta blu del re vendo poggiate tra la pelliccia candida e calda e il freddo delle zecche di ferro che costellavano l’armatura.
 
Una leggera pressione sull’addome le fece socchiudere gli occhi  di nuovo portandola a mordersi il labbro impaurita, non riusciva a vedere cosa le stava succedendo, ma sentiva chiaramente delle dita poggiate sul suo fianco che le provocarono un sordo formicolio che si espanse per tutta la schiena.
E poi un rumore secco, come uno schiocco e una seconda mano poggiata ben piu’ sotto all’altezza del suo ventre che con forza la comincio a tenere giù’ e una paura incontrollata la fece scattare rendendola nuovamente lucida.
L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e con tutta la forza che le rimase aprì ancora di piu’ gli occhi tentano di tirarsi su o di voltare la testa verso il basso e quello che vide la fece irrigidire: Dwalin era inginocchiato accanto a Thorin ed era la sua mano quella che le teneva il ventre, mente l’altra era all’interno della sua bocca da dove tirò fuori un composto verde e viscido nel frattempo che manteneva il viso fisso sul suo ventre che lei però non riusciva a vedere.
Il respirò le accelerò e appena questo accadde la mano libera di Thorin le si andò a poggiare sul petto in mezzo allo sterno facendo pressione tenendola ferma come faceva l’altra mano, impedendole di alzare ancora di piu’ il petto.
Terrorizzata cercò il suo sguardo per una risposta ma questo era fermo, di ghiaccio, scavato da uno sguardo che le chiedeva silenziosamente perdono.
 
E poi accadde: un dolore lancinante la fece irrigidire e urlare con tutto il fiato che avesse in corpo, dilaniata da un fuoco che dal ventre arrivò fino alla mano stretta a quella di Thorin che strinse con tutta la forza che possedeva.
 
BASTA!
 
Avrebbe voluto urlare ma quello che le uscì dalla gola fu solo un ennesimo urlò che dilaniò l’aria; inarcò la schiena tentando di divincolarsi dalle mani dei due guerrieri  che glielo impedirono trattenendola giù ferma e rigida: l’unico modo che ebbe per sfogare quella tortura fu attraverso delle lacrime che cominciarono a solcarle il viso.
Tentò di trattenere un terzo urlo che però fu il piu’ alto di tutti, che fece irrigidire tutto l’accampamento che li circondava e anche Thorin: se avesse potuto fermare tutto l’avrebbe fatto, in quel momento se avesse potuto farsi carico di quello che stava patendo l’avrebbe fatto, lui lo aveva già sopportato e troppe volte e il solo pensiero che ora lo stesse patendo Ghìda lo uccise; allargò le dita permettendole di stringersi con ancora piu’ forza alla sua mano e aumentò la forza sul suo petto chinandosi con tutto il peso su di lei.
 
“Sta ferma e respira!” Ruggì in un dilaniante ordine a chiunque negli astri stesse guardando quella scena e a lei, che imperterrita sembrava ignorare i suoi ordini:  infatti sembrò non ascoltarlo perché un ennesimo spasmo del suo corpo gli fece aumentare così tanto la forza che ebbe paura di spaccarla in due.
 
Dwalin inginocchiato accanto a se la spinse un alta volta giù insinuando le dita nelle ferite aperte sul suo corpo, passando piu’ volte l’impasto di matricale e saliva sulla sua superfice delle ferite infette, ma per quanto tentasse di procurarle meno dolore possibile, questo era inevitabile: le ferite erano troppo gravi, talmente gravi che si chiese piu’ volte se ne valesse la pena, se avesse senso farla soffrire in questo modo, ma la disperazione negli occhi di Thorin quando l’aveva portata tra le braccia all’accampamento di fortuna grondante di sangue e neve gli era stata troppo familiare, e nel nome di Durin non lo avrebbe fatto soffrire così un'altra volta, non ora che quell’orgoglioso idiota sembrava dare segni di vita di nuovo.
Non dopo tutto quello oche avevano passato insieme, non dopo quel sorriso sciocco e infantile che aveva donato al terreno sotto di lui mentre parlava di lei.
L’avrebbe salvata, avrebbe salvato una mezz’elfa, un essere che avrebbe dovuto odiare e che avvolte si ritrovava a disprezzare con tutto se stesso, ma se lei era l’unico modo di salvare Thorin allora l’avrebbe tenuta in vita a costo di far sentire le sue grida fino all’altro capo del mondo.
 
Thorin all’ennesimo urlo socchiuse gli occhi e le fissò il viso solcato dalle lacrime e compì un gesto che mai si sarebbe aspettato di compiere, dettato da una paura incalzante che aumentava ogni minuto: le poggiò la fronte sulla sua insinuando il naso nei suoi capelli e poggiandole le labbra sulla tempia.
Che lo avessero perfettamente visto tutti non gli importò, non gli importò neanche delle conseguenze di quel gesto, di tutto quello che avrebbe significato farsi vedere così debole dagli altri intorno a lui che lo avrebbero visto senza armatura alcuna, delle domande che avrebbero ricevuto una risposta dopo quel gesto o alle allusioni che sarebbero state fatte.
 Le sussurrò nell’orecchio delle parole che non seppe neanche lui da dove uscirono se dalla paura o dal dolore che quella situazione gli riportava alla mente, ma alla fine la bocca sulla sua pelle fredda e sporca di sudore freddo mosse quelle parole che in quei giorni gli erano sembrate impossibili, ma che ora gli sembravano l’unica cosa importante da dirle.
 
“Ghìda… rimani con me…ascoltami e rimani con me.”
 
Rimani con me.
 
Quelle parole risuonarono nella testa di Ghìda svegliandola e dandole quel minimo di forza che le mancava per trattenere l’ennesimo urlo che questa volta non uscì, rimanendo bloccato nella sua gola; le lacrime varcarono per l’ultima volta le sue palpebre andando a insulari nel collo, fondendo il dolore e il piacere che dal suo ventre si fermava sulla su fronte dove una pressione calda e gentile andò ad annullare tutte le fitte.
Ma appena questo sparì, sentì anche se stessa sparire: l’ oscurità che si faceva sempre piu’ reale, sempre piu’ vicina e infida, si frappose tra le sue dita e quelle di Thorin, fra quella sensazione di colore e la sua fronte e si sentì cadere di nuovo.
Le dita scivolarono inesorabili via dalle sue, il viso cominciò ad abbassarsi di nuovo verso i suoi pantaloni poggiandosi su questi lasciando che la stanchezza prendesse il sopravvento, lasciando che venisse cullata via da lì, che quella sensazione irradiasse tutto il suo corpo: non sentì piu’ nulla, né Thorin, ne Dwalin, né le pellicce sotto di lei, né il calore dell’alba, solo una parola segnò il suo scivolare di nuovo via dalla realtà.
 
Erebor.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
“Aprite le porte, fatelo subito.”
 
La voce di Balin risuonò come un monito per tutto il bastione facendo irrigidire immediatamente le guardie poggiate sulle immense colonne verdi che all’ordine fecero partire un eco di voci che dal balcone arrivò fin sotto le scale riecheggiando da guardia a guardia, da muro a muro mettendo tutto l’atrio del regno in allerta.
 
Il vecchio nano strinse con forza la pietra del pinnacolo sotto le sue mani affacciandosi ancora meglio facendosi forza con le mani, sempre piu’ angosciato dalla scena che si ergeva tra la distesa di neve e pietra sotto le mura di Erebor: tre erano i pony, ma quattro i cavalieri.
Dovette piu’ volte sbattere gli occhi prima di distinguere le forme del fagotto trattenuto tra i teli che Thorin stringeva al petto tra le redini del pony e se stesso: era da giorni che sperava che quello non sarebbe accaduto e invece era proprio quello che era successo.
Se l’era auspicato dal primo istante in cui la sua mancanza era stata notata, da quando le guardie reali gli avevano riportato che il cibo non veniva toccato e lasciato fuori l porta e da quando un gruppo di bambini era rimasto per ore fuori dalle sale del palazzo in attesa.
Fu proprio quello a mandarlo in allarme, eppure era una cosa che si sarebbe dovuto aspettare e si sentì uno sciocco a non averlo previsto, al non aver neanche lontanamente immaginato, dopo quella discussione urlata a pieni polmoni dalla biblioteca, che la ragazza non avrebbe ignorato gli ordini di Thorin: era metà nana dopotutto;  se c’era una cosa che accumunava tutte le nane legate dal sangue dei sette padri era la loro lealtà e la loro insubordinazione anche al minimo ordine se questo le avesse intralciate nei loro obbiettivi.
 
Lo scricchiolio degli ingranaggi e il successivo strusciare delle travi dorate della porta principale gli fecero voltare lo sguardo dietro di se e frettolosamente si incamminò oltre colonne di pietra seguito dal manipolo soldati rimasti al suo fianco imboccando a passi veloci le imponenti scale che si aprivano sull’atrio dorato dell’ ingresso.
 
L’ordine del fidato consigliere del re e l’agitazione delle guardie nell’eseguirlo aveva bloccato il via vai di nani nel colossale corridoio ammutolendoli all’istante e rendendoli degli spettatori increduli alla visione di ciò, o meglio di chi entrò dall’entrata dorata che si spalanco con un basso cigolio ; ma lo stupore generale si trasformò ben presto in un’angoscia silenziosa, quando a tutti fu palese chi il re stesse trattenendo tra le braccia mentre il sui pony, seguito dai due guerrieri di scorta, varcò la soglia.
Avvolta in una pelliccia chiara, sulla sella del pony del re e sporca di sangue, la futura regina era provata e priva di sensi con il viso poggiato nell’incavo del collo di Thorin Scudodiquercia: questo al teneva stretta a se con un braccio a se mentre con l’altra mano tratteneva le redini; il manto del pony attraversato da sporadiche macchie di sangue nero, così come le sue vesti e il viso, mischiato però anche a quello del re che, rappreso, gli macchiava il taglio sulla bocca e la fronte.
 
Le guardie dietro Balin furono repentine: accelerarono il passo e andarono a bloccare le redini, liberandogli la mano dai lacci di cuoio e permettendogli di portare la mano sotto le gambe del corpo debole che ancora teneva tra le  braccia.  Lo sguardo autoritario si poggiò sulle guardie accanto a lui e gli fece un cenno con il mento ad avvicinarsi nel frattempo che faceva scivolare le gambe di Ghìda oltre il collo del pony.
 
“Portatela nelle sue stanze, ha bisogno di cure urgenti, e fatelo ora.” L’ordine di Thorin fu diretto e preciso abbastanza da non far indugiare nessuna delle guardie intorno a lui che si avvicinarono abbandonando le picche ad altri compagni allungando le mani verso quelle del re prendendola tra le braccia e tirandola giù dalla cavalcatura.
 A sorpresa delle due guardie, a sorreggerla ancor di più e a rendere quella operazione piu’ semplice, si intromise uno dei due nani , dai folti capelli rossi, che avevano accompagnato il re che silenziosamente si avvicinò dietro di loro e li aiutò a tenerla dritta nel processo ricevendo un gesto  con la testa di ringraziamento.
 
Balin si affrettò giù dagli ultimi gradini della scala correndo verso Thorin e l’insieme di guardie che gli si era formato intorno, non riuscendo a controllare gli occhi che saettarono sulla ragazza avvolta nel mantello sorretta dalle guardie e poi verso di lui che ne seguiva attentamente ogni movimento.
 
“Thorin, cosa è successo?” Gli chiese avanzando verso il fianco del suo passando lo sguardo attento tra le sue ferite sul viso voltato di lato che non osava staccarsi da lei neanche per un istante, neanche quando gli pose quella domanda, sembrò totalmente estraniato da ciò che gli stava accadendo intorno.
 
Thorin scostò lo sguardo dalla ragazza e lo puntò verso di lui rimanendo in sella al pony. “Quello che ci eravamo aspettati.” L’affermazione lasciò poco a l’immaginazione, specialmente quando sapevano entrambi cosa avesse smosso Thorin al di fuori del palazzo dunque i corvi avevano detto il vero. Questa sua constatazione sbrigativa però non rispose all’assenza dei restanti membri della compagnia o ancor peggio, del gruppo di nani e soprattutto, di Dìs.
 
“Tutti gli altri dove sono?” A quella domanda lo vidi incupirsi sempre di piu’, distogliendo lo sguardo esitando nel rispondergli prima di essere scosso da un brivido e cominciare a scendere dal pony muovendo le gambe di lato alla sella.
 
“Sono a due giorni da qui, Dwalin, Nori e Bofur sono rimasti con la carovana.”
 
“Dìs…”
 
“E’ viva.” Rispose netto il re poggiando i piedi sul pavimento di pietra verde socchiudendo gli occhi  di scatto come se una fitta improvvisa lo avesse attraversato dalla testa ai piedi schiacciandolo.
 
“Thorin...”
 
“No.” Sputò talmente rabbioso da far voltare verso di lui ogni capo nell’androne, per lo meno quelli che già non lo fissavano da quando era entrato nella Montagna, non dandogli neanche la possibilità di dibattere, ma lasciando trasparire una fitta di dolore negli occhi seguito da un suo appigliarsi alle redini del pony accanto a se quasi perdendo l’equilibrio.
 
Balin lo notò solo ora: il mantello in cui era avvolta la ragazza era il suo, aveva cavalcato con quel gelo senza protezione alcuna e solo grazie a questo riuscì a notare gli strappi sull’armatura o come questa fosse coperta di sangue purpureo e fresco, molto fresco, troppo, quel sangue non era solo della  ragazza, era anche il suo; la bocca gli si aprì osservando il profilo ansimante che seppur contrito non riusciva a non voltarsi verso il corpo di Ghìda steso su una lettiga di fortuna, usata per i soldati feriti rientrati dalle brevi spedizioni fuori da Erebor, scosso dai respiri irregolari e dai brevi vagiti di dolori tra questi.
 
Cosa le era successo per essersi ridotta così?
 
E quella domanda parve non porsela solo lui: diversi furono gli sguardi apprensivi dei nani che avevano fermato il passo, che a dire la verità non si sarebbero mai immaginato, non per lei. Mai da parte del popolo di Durin che invece avevano i volti tutti voltati verso di lei: chi aveva la bocca spalancata oltre le barbe ispide e decorate o chi respirava affannosamente che facevano tremare i lunghi pendagli nei capelli delle nane.
 
Solo un rumore fu piu’ alto dei respiri pesanti: un correre veloce di piccoli passi alternati uno all’altro rimbombante per le colonne che divenne sempre piu’ netto e deciso, fino a che non si interruppe di botto, seguito solo da un respiro profondo e da uno strillo.
 
“Ghìda!” La voce fu altra, acuta…infantile: spezzò il silenzio tra le colonne di marmo facendo voltare gli sguardi o ancora piu’ sul corpo dilaniato o verso la provenienza della piccola vocina che aveva urlato quasi sul punto delle lacrime.
 
Le braccia forti di Lòni trattennero la piccola Nìm che dopo l’urlo aveva cominciato a correre, ma prontamente era stata bloccata dalle sue braccia che la stringevano da dietro impedendole di muoversi oltre l’norme braciere dove si erano affiancati insieme a tutti gli altri.
Suo fratello aveva la bocca spalancata, Drel e Trel invece tenevano stretta alle loro gambe la piccola Mar risparmiandole quella vista che per tutti e sei fu atroce: è morta vero?
Questa la paura che attanagliò le viscere della piccola nana puntando gli occhi verso la mano di Ghìda che pendeva giù dalla lettiga e prontamente tirata su dà una mano che conosceva: lo guardò in viso cercando una certezza che però gli occhi di suo padre, nascosti dalla paura e dalle trecce rosse che gli scesero sul viso, non riuscì a darle, facendola stringere tra le braccia di Lòni ancor di piu’.
 
Balin si affiancò velocemente a Thorin trattenendogli il braccio repentinamente quando lo vide  tentare di muovere qualche passo, reprimendo un lamento, dandosi un ennesimo slancio per cominciare a camminare verso l’entrata del palazzo: ridotto in quel modo sarebbe stato perfino difficile per lui arrivare perfino oltre le alte colonne della volta.
 
“Thorin sta fermo.”
 
“No, sto bene.” Si allontanò ansimante lasciando andare le redini del pony e compiendo un paio di passi in avanti forzandolo a lasciare la presa. “Manda un corvo agli Ered Luin, fallo subito, la strada sud non è sicura.” Ordinò sbrigativo ma autorevole il re muovendo qualche passo in avanti facendo rimbombare le sue parole nel silenzio che si era venuto a formare, e appena fu notato da tutti i presenti quanto fosse in realtà inopportuno, ripresero i loro passi e le loro strade, non riuscendo però a trattenere qualche occhiata lanciata dietro di loro.
 
Tranne quei bambini, loro rimasero fermi, osservando il re solo di sottecchi, vegliando da lontano sul corpo della ragazza, ricevendo da un rapida occhiata, che no riuscì a vedere, ma fu sicuro che non fu delle piu’ rassicuranti, perché il piu’ grande di loro che fino a quel momento aveva mantenuto gli occhi azzurri seri si lascio andare a un sospiro sommesso, simile a quello che esalò Thorin quando si dovette fermare per un ennesima fitta.
 
 
“No tu non stai bene, dobbiamo portarti nelle tue stanze.” Insistette tentando un'altra volta di afferrargli il braccio con la mano ma questa nuovamente venne spinta via da un suo scossone e da un’occhiata infuocata che mai gli era stata rivolta, specialmente da lui: non, Thorin Scudodiquercia non era in se, quello che aveva davanti era un altro nano.
 
“Posso farlo da solo.” Sputò e cominciò a camminare sopprimendo nella gola i gemiti che però rimbombarono nel silenzio piu’ assoluto dell’androne facendo aprire le guardie a ventaglio quando passava e alcune tra queste aprirono anche la bocca per offrirgli il loro aiuto, ma con tutta probabilità il loro parlare era stato bloccato dalle fiamme che sembravano divampare dal corpo del re di Erebor.
 
Avanzò dritto per diversi piedi trascinandosi con passi pesanti e sofferti a stento con una mano sul fianco e l’altra dritta verso il basso, attraverso le due enormi statue rappresentanti antichi guerrieri, illuminato dalle torce calde che rendevano a tutti palese la vera gravità delle sue ferite, ma nessuno, rispettando i suoi voleri lo interruppe, neanche quando si piego su se stesso cadendo in ginocchio gemendo di dolore afferrandosi con ancora piu’ forza il fianco.
 
Ma a Balin del suo dannatissimo orgoglio da re in quel momento non interessava affatto: si mosse veloce e si chinò su di lui afferrandogli il braccio per aiutarlo a tirarsi su e far smettere quella sciocchezza.
 
“Vieni ragazzo, vieni, ti accompagno io. Devi stenderti.”
 
Lo guardò severamente, ma ben presto le sopracciglia contrite fecero spazio a un’espressione carica di gratitudine; non si scostò lasciando che gli potesse passare il braccio sotto le spalle e trattenergli con l’altro che adagiò debolmente sulla sua spalla permettendogli di alzarsi con calma da terra e di rimettersi in piedi con il minimo sforzo.
 
Balin cominciò a muoversi in avanti ma i piedi del re rimasero bloccati e il suo sguardo estraniato al suo fianco, verso la barella che veniva alzata con delicatezza da terra sorretta da quattro guardie sulle spalle: con il viso pallido, i capelli macchiati di sangue e sciolti lungo il bordo della barella, sembrava quasi un talamo funerario. Un pensiero che annebbiò anche i pensieri di Thorin facendolo scattare.
 
Sentì i muscoli del re irrigidirsi di colpo e un respiro tremolante oltrepassargli le labbra. “Che nessuno lasci la sua stanza, controllatela a vista.”  Sibilò glaciale, un misto di autorevolezza e furia che non gli era mai appartenuta, ma che adesso sprigionava con ogni parola e ogni gesto. “E mandate a chiamre Òin, che presieda ogni singolo momento.” Mormorò piu’ basso cercando una calma ormai perduta e distogliendo lo sguardo dal viso pallido di Ghìda per poi muovere i primi passi seguendo l’esempio di Balin.
 
Con il braccio cinto sotto le sue spalle, Balin si fece largo tra la folla di nani che senza neanche un ordine si dilatò all’istante lasciandogli lo spazio per poter proseguire verso le sale del palazzo, ma l’essersi fatto spazio tra loro, non volle dire far smettere anche i loro sguardi preoccupati verso la figura del re che zoppicante continuava a camminare imperterrito con il busto alto ma con il volto perennemente abbassato celando i guizzi di dolore sotto i capelli neri.
 
A ogni passo che compivano per le scale di marmo verde poté sentire chiaramente dei sussulti strozzati attraversare la gola del re al suo fianco che tentava in tutti i modi di trattenere  cingendolo ancora di piu’ con il braccio ma per Balin fu facile sentire invece i suoi spasmi dei  muscoli della schiena.
Non si sarebbe mai mostrato debole, in difficoltà forse, ma il suo orgoglio gli aveva sempre proibito e vietato di mostrarsi debilitato a compiere i suoi doveri, sin da quando era un principe e non saltava un consiglio accanto a suo padre pur essendosi allenato il giorno prima tanto da far sanguinari palmi delle mani, o nelle Montagne Azzurre, dove della disperazione dei primi tempi lui era sempre stato l’unico a mostrarsi forte per dare forza a tutti quanti, mese dopo mese, anno dopo anno.
 
Gli sguardi preoccupati delle guardie e dei nani a ogni scalino che salivano non facevano altro che rendere Thorin ancora piu’ rigido a fargli alzare ancora di piu’ la schiena costringendolo a stringere il braccio intorno alle sue spalle ancora piu’ fermamente, vedendosi costretto anche a fulminare con lo sguardo qualsiasi guardia tentò di avvicinarsi vedendolo in quello stato. In ogni caso però i mugugni sommessi rimbombavano per il silenzio creatosi al loro passaggio facendo rizzare le spalle a ogni donna, uomo e bambini che incontrassero e che scavalcassero, fino a che questi cominciarono a scomparire a ogni rampa di scale giungendo sui piani del palazzo, diventando solo un  mormorio di fondo.
 
Arrivarono all’entrata delle sue stanze, sorvegliate da due corvi incoronati da stelle e fu lì che il passo di Thorin si fermò : puntò gli occhi verso la ragnatela di gradini, oltre le grate dorate e il baratro solcato da immense colonne che divideva la sua scala da quella per l’ala delle stanze dei principi e delle regine. Su di queste infatti si poterono vedere già, guaritori e guardie, che rumorosamente facevano avanti e indietro per portando bende, erbe e barili colmi di acqua, preannunciando l’arrivo imminente della ragazza.  Thorin passò gli occhi attentamente su ogni nano che nastrava e usciva dalla porta non pronunciando una parola, serrando solo la mascella quando riuscì a intravedere il manipolo di guardie che trattenevano la lettiga.
 
“Devi convocare in assemblea tutti entro domani all’alba, dobbiamo discutere di ciò che è successo, li voglio tutti.” Interruppe il silenzio Thorin con tono monocorde slegandosi dalla sua stretta e con un movimento netto si poggiò con il peso sulla ringhiera dorata trattenendo un ennesimo gemito, prima di digrignare la mascella e con una spinta muoversi nuovamente oltre la soia del corridoio delle sue stanze.
 
“Ora l’unica cosa che devo fare è aiutarti a rimetterti in sesto e poi invierò io corvi verso la carovana così che possano seguirli e domani penserai al resto.”
 
A quel sottolineare la parola Io, Thorin lo fulminò con lo sguardo oltre la spalla, si andò ad addolcire in un silenzioso ringraziamento seguito da un gesto della testa che lo invitava a seguirlo verso le sue stanze ma ancora mantenendo con lui una distanza netta, piu’ che fisica, emotiva: aveva tirato su tutte le sue difese, un'altra volta.
 
Non disse nulla quando gli aprì la porta della sua camera, tenendo solo gli occhi bassi a ogni passo che compiva trattenendosi il fianco con la mano e trascinandosi a stenti verso la stanza illuminata solo dalla luce del giorno che filtrava dalla finestra, con il camino mantenuto acceso, seppur il re non avesse dormito in quelle stanze da giorni: decisone dovuta al freddo gelido che filtrava tra le pareti della montagna, aumentando solo di piu’ notte dopo notte.
 
Arrancando Thorin si avvicinò verso il letto al centro della stanza, coperto di pellicce e coperte nere e dorate così come i tessuti che arredavano le pareti, arricchendo ancora di piu’ lo sfarzo delel venature d’oro che scendevano tra le pareti e il soffitto.
 
Balin rimaneva in silenzio scrutandolo attento che non lo perse di vista neanche un secondo quando chiuse la porta delle stanze del re dietro di se, rendendo ancora piu’ confidenziale la situazione, sicuro che Thorin al rumore dello sbattere della porta si sarebbe lasciato andare ma questo non accadde: neanche un sospiro di sollievo uscì dalle sue labbra.
 
Continuando ancora a dargli le spalle armeggio con  i lacci della cotta sul fianco, mentre una fitta gli attraversò la schiena quando mosse le braccia all’indietro per sfilarsela e la stessa cosa accadde quando si slacciò i para braccia gettandoli sulla sedia canto al letto: ogni movimento gli sembrava una pugnalata inflitta con estrema violenza, l’adrenalina era scesa, e il freddo che gli aveva almeno in parte addormentato il dolore era svanito, facendolo bruciare dal tormento.
 
All’ennesimo gemito, quando Thorin tentò di togliersi la camicia da solo scoprendo anche solo per metà l’enorme segno violaceo sulla schiena,  Balin dovette trattenersi dal roteare gli occhi al cielo e avanzò deciso  verso di lui tentando di reprimere la frustrazione che gli montava tutte le volte che lo si vedeva autodistruggersi.
 
Non dandogli neanche la possibilità di ribattere o anche di vederlo in volto si avvicinò al lato del letto e gli alzò i lembi della camicia scura macchiata di sangue rappreso tanto da potergli permettere di afferrarla con le mani che insistentemente tentavano di scendere oltre le spalle ma senza successo.
“Se vuoi soffrire come una bestia sei sulla strada giusta ragazzo.” Commento piccato non giustificando il suo comportamento infantile e scellerato, ma lo disse con abbastanza calma da fargli rendere conto che il suo era solo un gesto di gentilezza, di fatti annuì con la testa in ringraziamento e mosse nuovamente le mani per sfilarsela del tutto.
 
Avrebbe dato qualunque cosa in quel momento per entrare nella sua testa, sapendo che non avrebbe mai messo a nudo tutta la verità, anche se non ce n’era bisogno.
Eppure gli mancavano dei frammenti, il frammento fondamentale è perché Thorin fosse così fuori di se, avrebbe compreso se fosse stato silenzioso, freddo, perfino amareggiato, ma l’ira incontrollabile che sprigionava da quando era arrivato non riusciva a spiegarsela.
 
“Cosa è accaduto laggiù?” Gli chiese infine senza troppi giri di parole facendo qualche passo indietro e sorreggendosi con la mano alla colonna del letto continuando  a fissargli la schiena segnata da tagli freschi mal rimarginati e svariati ematomi che uniti ne formavano uno sempre piu’ grande che gli attraversava la schiena da parte a parte.
 
“Erano braccati, a sentire le poche parole che sono riuscito a scambiare, già da un paio di giorni: li abbiamo raggiunti al confine con le Terre Brune.” Spiegò serio passando la testa oltre il collo della camicia blu trattando un ennesimo facendo schizzare i muscoli della schiena “Erano troppi, non un branco solo…no…” Per un attimo gli sembrò stesse parlando piu’ con se stesso che con lui, poteva perfino immaginare gli occhi chiari schizzare da una parte all’altra del pavimento. “Quegli orchi erano troppi per essere un branco solo. Tra le carcasse Dwalin ha contato una decina di orchi e il triplo di mannari.”
 
La notizia lo confuse e non poco, così come e fargli salire un terribile presentimento. “Perché dovrebbero piu’ brachi di orchi unirsi insieme?“
 
“E’ questo che non riesco a spiegarmi e che ho bisogno di comprendere al piu’ presto.” E con un ruggito sommesso si tolse finalmente la camicia scura mostrandogli tutte le ferite di striscio sovrapposte a vecchie cicatrici e bruciature che gli attraversavano la schiena, fino alle spalle e al petto mostrate solo quando Thorin si mise seduto sul bordo del letto esalando un sospiro tremante.
 
“Sei riuscito a ridurti peggio di quanto mi sarei mai aspettato ragazzo.” Mormorò preoccupato Balin e scuotendo la testa si diede una spinta sulla colonna del letto e avanzò verso di lui superandolo parendo il primo cassetto della cassettiera accanto al letto, cercando in fondo ad esso ed agguantando con i guanti scuri un rotolo di garze pulite e un sacchettino di velluto rosso, che sapeva che Thorin tenesse sempre a portata di mano, specialmente quando rientrava dagli allenamenti con suo fratello, oppure ancor peggio, quando si presentava con delle ferite autoinflitte a causa della rabbia, come la mano quasi rotta di alcune settimane prima.
 
“Almeno ragazzo fatti pulire quei tagli sulla schiena e sulle spalle.” Thorin lo guardo strappare alcuni frammenti di garze senza ribattere, capendo forse la gravità della situazione in cui riversava anche lui e rimane in silenzio incurvando solo la schiena poggiando entrambe le mani sulle ginocchia in attesa.
 
Balin portò il sacchetto con se verso il letto e gli stralci di bende che aveva creato, sedendosi al suo fianco; con attenzione si sfilò i guanti e li poggiò dietro di se, prima di aprire il piccolo sacchetto e estrarre piccole foglie essiccate tenendole nel palmo della mano, contando poi la quantità in modo accurato, prima di inserirne un pizzico nella bocca studiando prudentemente il taglio da quale cominciare.
“Tu lo sapevi?” Gli chiese nel piu’ completo silenzio spostando gli occhi di lato per guardarlo attentamente nella sua risposta: non servi specificare il soggetto, sapevano entrambi a chi si riferissero quelle parole.
 
“L’ho saputo il giorno dopo che siete partiti ma anche se avessi mandato un corvo sarebbe arrivato troppo tardi.”
Gli rispose tirando fuori dalla bocca la mistura scura e viscida e premere le dita sula schiena di Thorin che non disse nulla  chiudendosi come sempre ancora di piu’ sulla difensiva appena la ragazza venisse nominata, e ai suoi occhi sembrò come se quell’ultima settimana si fosse totalmente annullata.
Aveva compiuto qualcosa di così grave da annullare quel suo scintillio negli occhi quando parlava di lei.
Eppure quando l’aveva visto con lei tra le braccia, il modo in cui l’aveva guardata prima di darla alle guardie subito dopo, la tenerezza con cui l’aveva cercata lo fece subito ricredere.
Ma quello sguardo, non lo vedeva da tempo e aveva pregato Durin di non vederlo piu’ sul suo volto.
 
“Cosa le è accaduto?”
 
“Le è accaduto che è un incosciente, una sciocca ragazzina inco… AH!” Un gemito di dolore acuto interruppe la frase a metà quando premette con decisione l’erba nel bel mezzo di una ferita rimasta aperta all’altezza della spalla, spostando una mano sulla schiena per bloccarlo nel caso si fosse mosso, continuando a spalmare i grumi di foglie per tutto il taglio.
 
“Avresti dovuto prevederlo, dopo quello che le hai detto le hai solo acceso la scintilla che l’ha infiammata: è una guerriera non meno di quanto lo sia tu e forse proprio per quello che è, lo è anche piu’ di te.”
 
Gli occhi azzurri si appannarono immediatamente, perso nei ricordi che quella affermazione aveva richiamato, ricordi che per Thorin erano dolci quando devastanti, un insieme di desideri di una donna e le parole di un signore dei nani sputate come veleno su una figlia; ma durò un attimo perché le iridi blu bruciarono ancora. “Quello che le ho detto era la verità, lei doveva rimanere a Erebor è insubordinata e non pronta quello che c’è la fuori, il suo sangue non attenua i suoi sbagli, nemmeno… nemmeno ciò che era prima di venire qui”
 
“La donna che è entrata qui quel giorno è la stessa che ne è entrata oggi.”
 
“Come non era pronta allora non è pronta neanche adesso!”
 
“Se fosse stato un qualsiasi altro nano ora ne staresti tessendo le lodi e ne avresti ammirato l’onore e la lealtà che ha dimostrato.” Constatò severo.
 
“Ma lei non è solo un nano, lei stava per morire maledizione!” L’inizio della frase gli fece bloccare le mani, sicuro di aver sentito male, sicuro di aver udito una parola per un l’altra, ma quando Thorin serrò la mascella furioso non fece altro che confermargli di aver sentito. “Ha disobbedito a un mio ordine, non c’è onore in questo, non c’è fiducia che io possa donarle se non è non grado di obbedirmi.”
 
Balin ci mise qualche attimo prima di ricominciar a curargli le gli ultimi tagli che gli rimanevano: a facendo sua quella piccola informazione, unendola alle parole di Ghìda nella biblioteca, la rabbia di Thorin quando la lasciò lì e quella che provava in quel momento mal celata dal viso piegato in avanti : allora era così.
Un misto di gioia e malinconia gli si andò a mischiare nel petto, sovrapponendosi l’una all’altra non riuscendo a fargli formulare un pensiero logico che fosse in linea con quello che avrebbe dovuto provare per il re, per quello che gli era sfuggito dalle labbra: per come gli fosse sfuggito forse anche da se stesso.
 
Era lei, sarebbe sempre e per sempre stata lei dunque.
 
Dovette modellare il tono di voce in modo da non far trasparire nulla, anche se un sorriso triste gli comparì al lato della bocca. Anche nell’amore doveva soffrire, anche in quello sarebbe stato destinato a soffrire. 
 
“E’ proprio il fatto che ti abbia disobbedito ignorando ogni logica pur di seguirti che dovrebbe darti la prova che ti obbedirebbe piu’ di qualsiasi altro nano nella Terra di Mezzo, così come il fatto che sia quasi morta per farlo.”
 
Si fermò lasciando quelle parole scavare un buco nell’anima di quello che poteva chiamare un figlio, tentando di fargli capire ciò che intendesse e fu sicuro di aver colpito nel segno quando seppur toccando l’ennesima ferita aperta lui non mosse un muscolo o emise un gemito celandosi in un profondo silenzio, fatto di segreti che mai avrebbe svelato a lui o a chiunque se per questo, segreti che neanche suo fratello avrebbe mai conosciuto.
 
Balin cercò di osservarlo triandosi indietro dalle ferite ora pulite sulla schiena,  oltre le ciocche nere e grigie ma gli occhi azzurri non si spostarono dal pavimento, anzi appena staccò le mani allontanatosi da lui alzandosi dal bordo del letto, la schiena di Thorin si andò a chiudere ancora su se stessa ma libera dalla rabbia guizzante che ne tendeva i muscoli.
 
Si alzò dal letto per buttare le bende usate nel caminetto e fu lì, mentre lanciava una ad auna le bende tra le fiamme che un bussare alla porta lo destò dai suoi pensieri facendogli alzare il viso verso l’entrata e farlo camminare verso la porta che aprì vilmente riuscendo a riconoscere il profilo di Òin dietro lo spiraglio di questa e aprendola quindi del tutto.
 
“Òin.” Lo invitò a entrare ma il nano non ebbe neanche il tempo di attraversare la soglia che due parole rigide e dirette tagliarono l’aria come una lama, portando il gelo.
 
“Come sta?” Chiese Thorin osservandolo rimanendo curvo su se stesso, muovendo solo gli occhi verso il nano dalla folta barba grigia nel frattempo che questo non ebbe neanche il tempo di sistemarsi la tromba nell’orecchio sentendo chiaramente le parole del re.
 
Il vecchio nano avanzò dentro la porta all’ennesimo gesto di Balin che lo invitò nuovamente a entrare con un gesto della testa dentro la stanza: non erano argomenti da discutere con le porte aperte, Ghìda non era un discorso da affrontare con le porte aperte, specialmente in quel momento.
 
Le vesti grigie erano coperte da sangue secco, le maniche tirate fino agli avambracci, macchiate di sangue rappreso, e l’odore di bruciato che si portava dietro fecero capire immediatamente dove fosse stato sino a quel momento e la sua presenza lì non era un buon presagio.
Oìn studiò con attenzione le parole da dire, cercando con lo sguardo il supporto di Balin che però non riuscì a dargliene alcuno guardandolo con apprensione e sbigottimento pronto alla notizia.
 
“Ha perso molto sangue.” Cominciò guardando Thorin seduto sul letto, il suo profilo farsi sempre piu’ marcato quando non gli arrivò una risposta netta. “Ha la febbre alta e le ferite sono profonde e saranno dolorose da far richiudere: le stanno cambiando le fasciature e suturando le ferite rimaste aperte.”
 
“Sopravvivrà?”
 
Alla domanda si bloccò facendo calare un profondo mutismo nella stanza, guardando dapprima il pavimento insicuro e poi Thorin che lo scrutava con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta: la risposta che voleva era solo una e se avesse ricevuto quella opposta, non sapeva cosa avrebbe potuto fare, non voleva neanche immaginarlo, non poteva.
Le treccine nella barba e nei baffi si mossero in assenso lievemente lasciando un enorme respiro oltrepassargli le labbra inqueto evitando gli occhi di Thorin se non per brevi occhiate fugaci. “Se supererà la notte, tutto quello che accadrà dopo sarà certo, ma… ha delle brutte ferite… se non fossi arrivato in tempo ne sarebbe morta in poche ore.”
 
Il silenzio che cadde alla fine della frase fu devastante sotto qualsiasi punto di vista per i due nani in piedi uno vicino all’altro che incapaci non erano riusciti staccare gli occhi dal re, e quello che accadde in quei pochi attimi rimase nei ricordi di entrambi per sempre.
 
Thorin strinse con forza il tessuto dei pantaloni cercando di controllare la paura che quel se era riuscito ad instillargli nel petto che non fece altro che appesantire ancora di piu’ il rancore che si portava dietro, diventando una furia violenta.
Si alzò di scatto e senza aggiungere una parola scaravento la prima cosa che si trovò a tiro sul muro opposto ella stanza, e in quel caso, fu una brocca d’acqua poggiata sul tavolo accanto al letto, che si andò a frantumare in mille pezzi sul pavimento, facendo rimbombare un rumore carico di dolore, invadendo il pavimento di scintilli dorati, riflesso del soffitto.
 
Thorin ne osservò i cocci in mille pezzi sul pavimento rimanendo in silenzio mentre il petto si alzava e si abbassava irrefrenabile, e i pugni rimanevano chiusi frementi e il profilo rimaneva trasmutato in un misto di collera e disperazione, non provò neanche a controllarsi come avrebbe sempre fatto, ne celò solo gli effetti abbassando la testa e prendendo un respiro scosso da tremiti.
 
“Balin, Òin… non mandate nessuno sta notte, mi prenderò cura io di lei.”
 
Òin stette per intervenire come il suo dovere gli imponeva di fare: la decisione non sarebbe stata saggia, il re aveva lo stesso bisogno di riposare quanto la ragazza e soprattutto, se la peggiore delle sorti sarebbe giunta, capì da quella semplice reazione che Thorin non sarebbe stato capace di superarla, ma Balin fu veloce a stringergli il braccio con una mano invitandolo a non pronunciare alcuna parola oltre, non staccando gli occhi dalla schiena del re scossa dai fremiti non sarebbe servita e in qualsiasi caso Thorin non l’avrebbe ascoltato.
 
Il re dei nani aveva trovato la sua regina e per quanto devastante la stava già per perdere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Thorin si lasciò andare ancora di piu’ al freddo marmo della vasca socchiudendo gli occhi al dolore che dalla schiena si andava a intensificare fino al collo e a riversarsi pesante sulle spalle, il fruscio leggero dell’acqua calda si andò a sovrapporre al rumore delle urla che non riuscivano ad abbandonargli la testa, ripetendosi all’infinto in un amaro lamento.
 
Cose le era saltato in mente? Perché non lo aveva ascoltato? Pensava di essere stato chiaro, avrebbe voluto essere stato chiaro, aveva provato di tutto, si era odiato tutto quel viaggio per farla rimanere al sicuro ad Erebor: l’aveva insultata, umiliata, spezzata in due sapendo dove andare a colpire e in vece niente era bastato, lei lo aveva seguito. Si era nascosta per giorni e lui era rimasto cieco, così cieco e diviso nei suoi pensieri che non era stato capace neanche di riconoscerla nella miriade di nani, non era stato capace di fermarla e mandarla indietro, e per la sua sventatezza lei ora giaceva tra le coperte di un letto del palazzo coperta di cicatrici che mai sarebbe riuscita a togliersi.
 
Tristemente  scostò l’avambraccio dal bordo della vasca dietro di lui portando la mano portandosela leggermente sulla fronte e premendo le dita sulla cicatrice ancora ben percepibile sull’attaccatura dei capelli, percorrendola fino alla sua fine, sfiorandosi il sopracciglio  ripercorrendo e rivivendo quegli ultimi momenti che la memoria gli permetteva di ricordare, di quel giorno che si era sforzato di dimenticare, ma che prepotentemente gli ghermiva i pensieri ogni giorno.
 
Sapeva di non poterci passare ancora, sapeva che se quel minimo di felicità che era riuscito a trovare gli fosse stato strappato via sarebbe crollato su se stesso, non lo avrebbe sopportato, non poteva piu’ sopportarlo. Tutti quei giorni gli erano passati davanti in quegli infiniti attimi di terrore: dal primo momento sulla cima del colle innevato, al suo fissare le stelle sopra di loro e i raggi dorati sull’acqua sotto di lei, la sua bocca piegata in un sorriso da togliere il fiato a tutto l’universo mentre raccontava la sua infanzia nascondendone la malinconia, il suo viso piangente premuto sul suo petto, il proprio viso perso tra i suoi capelli tra le fiamme della fucina, il suo volteggiare tra i corridoi divisa a metà tra l’essere una dama e i movimenti attenti di una guerriera, sino a quel pomeriggio come ricordo solo i suoi occhi a pochi millimetri dai suoi, colmi di disprezzo e di odio. Anche lui si era odiato, e non era riuscito a biasimarla, non l’avrebbe biasimata neanche se lei ritornato non le avrebbe piu’ rivolto la parola, se si fosse ritirata ancora nell’armatura ghiacciata in cui l’aveva vista incastrata per quelle settimane, avrebbe sopportato tutto: di nuovo, i silenzi gli sguardi negati, il poterla avere solo di notte ma non il perderla del tutto, il farla diventare un altro fantasma, a trasformarla da un sogno a un incubo.
 
Quando era riuscito a liberarsi dell’ultimo mannaro si era messo a correre verso di lei fuori di se, non volendo crederci, non potendo crederci, aveva gettato la spada a terra ignorando tutto ciò che gli stava succedendo intorno stringendole il viso tra le mani scosso dalla paura e fu solo quando riuscì a sentire il suo cuore battere sul collo o la sua carne ancora calda, che si lasciò andare a un sospiro disperato.
 Le aveva preso la testa portandola su alla sua altezza tirandola su dalla neve fredda cullandola dolcemente ritrovandosi a ringraziar tutti i Valar che poterono sentirlo per averla fatti rimanere lì, per no avergliela portata via; doveva sentirla su di se, vicina, doveva essere sicuro che fosse reale, che lei non fosse in realtà morta tra le sue braccia.
 
Eppure quella terribile sensazione di tristezza si era andata ad accavallare un sentimento molto piu’ terribile, un’ira che mai aveva provato in vita sua, e il vederla contorcersi dal dolore sotto le sue dita scossa dalle urla che per lui fu come l’ennesima pugnalata al petto che lo porto a odiarsi e a odiarla.
 
Un misto di collera e angoscia si era andato a insidiare nel suo corpo e tutt’ora lo stava uccidendo lacerandolo a poco a poco, e sentire ancora il suo rantolare sommesso seguito da spasmi di dolore ogni volta lo faceva aumentare ancora di piu’, fino a portarlo a bollire dalla collera come l’acqua in cui era immerso.
 
Lanciò un’occhiata alla tenda blu che divideva la sala da bagno dalla camera da letto, e fu il poter intravedere tra i drappi aperti di questo la porta a farlo scattare: risalì dall’acqua tutto di un colpo alzandosi velocemente dall’immensa vasca facendosi forza con le braccia lasciando un gemito di dolore uscirgli dalla gola per il movimento improvviso.
I quattro immensi corvi scolpiti  ai lati della stanza lo osservavano mentre  come una furia mosse  i primi passi fuori verso il suo letto, incurante del gocciolare dei suoi capelli bagnati per terra o del freddo che lo colpì in piedi il suo corpo bagnato mentre frettolosamente indossava i primi abiti che gli passarono davanti agli occhi: non gli importò minimamente se fossero sporchi, o perfino quelli luridi di sangue che si era tolto poco prima.
 
No, in quel momento non era se stesso, perché non lo era piu’ se stesso, da quel giorno lui non sarebbe piu’ stato lo stesso, e questo lo fece infuriare ancora di piu’.
Un fuoco cominciò ad ardergli nel petto che nemmeno i capelli umidi che gli si appiccicarono sulla camicia scura riuscirono ad attenuare e nemmeno le fitte di dolore che quei movimenti repentini mentre si vestiva gli causavano.
 
Non si sentiva piu’ disperato, non si sentiva piu’ dilaniato come lo era stato in quei momenti con lei tra le braccia: la paura a l’angoscia erano trasmutate in un odio per se stesso che superava qualsiasi sentimento avesse mai provato per lei o per chiunque altro.
 E’ vero non era piu’ capace di piangere, ma di soffrire come un dannato nel suo inferno personale, si quello era ancora in grado di farlo e il suo inferno personale quella notte era disteso a combattere a qualche muro da lui.
Lo aveva promesso se l’era promesso lo aveva giurato di fronte a Mahal che non sarebbe finita così che lui non si sarebbe piu’ sentito così che sarebbe morto piu’ che sentirsi così di nuovo di fronte al corpo di qualcuno che am…
 
No!
 
Un ruggito incontrollabile gli uscì dalla gola e senza rimuginare oltre si scagliò verso la porta della stanza aprendola e chiudendosela violentemente dietro le spalle e gettando dietro di se ogni briciolo di lucidità che gli permetteva ancora di fare dei pensieri coerenti e logici e di non affogare nell’ira che gli risaliva dal petto.
 
Il vederla in quello stato era la cosa piu’ dolorosa che potesse fare, la cosa che lo avrebbe fatto impazzire del tutto, che lo avrebbe potuto rigettare di nuovo nell’oblio … o forse era proprio quello che cercava, la pace, la certezza che lei fosse ancora lì, con lui, che potesse ancora fargli provare quello che provava per lei, che potesse ancora vederla sorridere, di sentire le sue parole buttate al vento risuonare per le pareti di Erebor, che potesse fissarla ancora come un ladro dietro delle balaustre dorate, che avesse potuto ancora tenerla tra le sue braccia tra il caldo delle fucine o che potessero ancora le sue labbra toccare la sua pelle e le sue mani sfiorarle i capelli.
 
Cominciò a percorrere illuminato solo le luci gialle delle torce il  grande corridoio a grandi falcate: i passi così pesanti che rimborsarono per l’intero androne del palazzo e talmente rapidi che per poco non sembrarono una corsa disperata quando giunse sull’immesso balcone che come un confine lo divideva ogni notte dalla spina che si sentiva continuamente conficcata nel collo. 
Il freddo della notte d’inverno lo investì appena mise piede, che perdurò perfino quando entrò nella sua ala delle stanze, imprecando verso se stesso quando la porta non si chiuse immediatamente dietro le sue spalle.
 
Se l’incertezza di non vederla mai piu’ dopo quella notte, se non fosse stata incosciente e ferita, se avesse avuto la certezza che non avrebbe provato niente e che lui non avrebbe provato niente, l’avrebbe urlato addosso, l’avrebbe sgridata e rinchiusa nelle sue stanze fino al matrimonio, l’avrebbe spinta via da se, gettata in un angolo, come gli aveva rinfacciato. Come un oggetto che non serviva piu’, come l’oggetto che era stata sempre costretta ad essere e che lui aveva tentato in tutti i modi di farle smettere di essere.
 
I pensieri gli si andarono a confondere in testa, così come le motivazioni che adesso lo avevano portato a stringere con forza la maniglia della sua porta, incapace di entrare, incapace di controllarsi o di sapere cosa avrebbe potuto fare, cosa avrebbe potuto farle.
Aveva paura di se stesso, una terribile paura di se stesso, ma quest’ultima si andò a confondere con l’ira e il dolore che avrebbe provocato il rimorso di non esserle accanto.
 
Le nocche gli diventarono bianche mentre la presa sulla sua maniglia aumentava e stracci di un vecchio sentimento riaffioravano violentemente annebbiandogli i pensieri: lui si era già sentito così, e pensava di non sentircisi piu’, non voleva sentircisi piu’. La stessa rabbia che aveva riversato su di lei nella sala del tesoro, la stessa rabbia di quando, la perse, di quando gli presero l’Arkengemma, di quando si era rinchiuso in quelle sale, in quella pietra, tra quelle monete, quella che lei era stato in grado di far scomparire.
Ma non poteva essere così, no, ormai lo sapeva, lei non era il gioiello del re, non faceva parte di quella avarizia, di quella follia, perché invece di ferirlo come aveva fatto quella smania di potere, lei lo faceva sentire bene, troppo bene. Ma come l’Arkengemma lei era quasi scappata via dalle sue dita, l’aveva perduta, per quei pochi istanti l’aveva perduta per sempre e il sapere che ora era solo dietro una porta di legno gemente dal dolore lo fece disprezzare, perché come in quei giorni, lui non aveva prestato attenzione e non era riuscito a fare nulla di giusto.
 
Serrò la mascella e con un movimento secco si decise e entrò nella sua stanza spalcando la porta: il fuoco del camino e delle piccole candele sparse per la stanza illuminavano di una luce calda l’intera stanza, andandosi a confondere con i raggi freddi della luna che sbattevano sulle coperte tirate del letto. Era rimasta come se la ricordava, profumava ancora  di lei come se la ricordava, imbrattato però da un odore acre di sangue fresco e erbe disinfettanti.
Fissò per qualche attimo sulla soglia il letto a baldacchino che regnava al centro della stanza e su un lato di questo nascosto dalla penombra un respiro ritmato e frenetico smuoveva le coperte.
 
Con gli ansimi pesanti che tentavano di controllare gli spasmi di rabbia chiuse la porta dietro di se non facendo il benché minimo rumore e poi cominciò a muoversi silenzioso tra i contorni dei mobili scuri della stanza che conosceva a menadito: i mobili disposti specularmente a quelli della sua, ma di un colore levante piu’ chiaro e piu’ slanciati. Oltrepassò la stanza non staccando mai gli occhi dal rigonfiamento di pellicce e lenzuola nel letto che diventava sempre piu’ nitido ogni passo che compiva, fino a riuscire a distinguere i capelli scuri scompigliati sul cuscino e il profilo a malapena accennato: avanzo a piccoli passi silenziosi, che con la mano poggiata sulle coperte fino a vedere finalmente il suo viso illuminato dalla luce della luna.
 
La rabbia accumulata svanì di colpo lasciando spazio solo a un’estrema dolcezza e malinconia che gli dilaniò in due lo sterno; si sentì come svuotato quando giunse al bordo del suo letto affianco al suo cuscino e riuscendo chiaramente a osservarne i tratti: era coperta fino al petto stretto da una serie di bende pulite che le scendevano lunghe verso le braccia tatuate poggiate in modo rigido ai bordi del suo corpo per far rimanere le suture ferme.
Le labbra erano dischiuse e il viso aggrottato in una espressione dolorante che con piccoli fremiti peggiorava e migliorava, alternandosi a dei respiri piu’ profondi, i cerchi sulle orecchie appuntite gli erano stati tolti, così come i fermagli sui capelli, lasciandoli liberi a incorniciarne il volto.
 
Con calma si mise seduto sul bordo del letto accanto a lei avvertendo il peso sul petto svanire per ogni istante che passava: sempre piu’ lenti, sempre piu’ dolci, nel quale ad osservarle il petto che continuava interrotto a muoversi su e giù donava a lui respiro.  
Un sospiro di sollievo gli lasciò le labbra rilasciando tutta la rabbia e i pensieri oscuri che aveva trattenuto fino a quel momento:  non sarebbero svaniti, in un modo o nell’altro sarebbero tornati, come tutte le volte sarebbero tornati e il fatto che ora fossero unicamente diretti verso di lei non cambiava le cose.
Sarebbero tornati piu’ irruenti e terribili, ma per quei piccoli istanti si beò nel vederli cancellati dal suo petto; non riusciva a credere che solo il vederla dormire, il vederla respirare, lo avesse calmato in quel modo, il saperla ancora viva e di come lei riuscisse sempre a calmarlo in quel modo anche solo stando solo nella stessa stanza.
 
Seguì le piccole gocce di sudore che dalla fronte accaldata le scendevano dritte fino al collo per poi insinuarsi nel petto e l’ultimo frammento di rabbia che ancora gli era conficcata nel cuore svanì del tutto lasciandolo svuotato lì con lei, con Ghìda solo come pensiero, l’unica cosa di cui si doveva prendere cura e l’unica cosa a cui avrebbe pensato e guardato quella notte. Si allungò con il braccio e con lentezza poggiò la mano sulla sua fronte distendo le dita sulla sua fronte, ritraendole subito appena sentì il calore della sua pelle sotto i polpastrelli.
Lanciò un’occhiata verso il tavolo accanto al letto e muovendosi lievemente allungo la mano verso il catino su di esso e ne prese la pezza immersa nell’acqua fredda, strizzandola con forza nella mano;  con l’altra mano le liberò la fronte e il collo scostandole i capelli mori, attaccati dal sudore, dietro al collo, sentendola fremere sotto il suo tocco: non c’era niente di inebriante in quel fremito, niente che lo avrebbe portato ad altri tipi di pensieri, solo tanta dolcezza e innocenza, e sopra di questi un immenso senso di colpa per ciò che le era accaduto e per ciò che poteva ancora accaderle.
Senza neanche pensarci le tenne il viso con una mano bloccandoglielo con gentilezza ed estrasse del tutto il panno dal catino passandoglielo sul collo, sulle guance e, infine, gliela sulla fronte calda.
Al contatto, il rantolo affannato di Ghìda divenne quasi un respiro tranquillo e il movimento del petto cominciò a diminuire per ogni movimento del panno bagnato sul suo viso. Glielo passò sulle labbra, sul e sotto gli occhi chiusi tentando per quanto fosse in suo potere di alleviare quel dolore che anche se taciuto poteva perfino sentire su se stesso.
 
Quando la vide abbastanza calma, a fatica, sfilò la mano dalla sua guancia lasciando che posasse il viso di lato sul cuscino e si alzò dal bordo del letto per poggiare il panno di nuovo nella bacinella sul tavolo accanto al letto, colmo di bendaggi puliti,  piccole fiale di vetro e sacchetti con erbe e polveri per disinfettarle le ferite. Si piegò su di esso con entrambe le mani poggiate sul bordo del tavolo lanciandole un occhiata di sottecchi assottigliando le labbra indeciso: una parte di lui gli continuava a ripetere di andarsene, una parte che temeva quella situazione, che odiava anche solo vederla così, la parte che non avrebbe retto se durante la notte avesse respirato un ultima volta; sarebbe stat in ottime mani anche se non fossero state le sue, ma una voce nella testa e nel petto continuava a dirgli che erano tutte menzogne, tutto quello che si diceva era una menzogna, nessuno poteva difenderla meglio di quanto potesse fare lui, nessuno poteva starle accanto che non fosse lui, lui non voleva che nessuno le stesse accanto che non fosse lui.
 

Un sorriso triste gli si dipinse sulle labbra riflettendo ancor di piu’ su quanto fosse ironica la situazione, su quanto quelle domande e incertezze gli si ripresentassero anche per le decisioni piu’ sciocche che la riguardavano, di come fosse tutt’ora diviso tra il re e Thorin.

“Hai detto che Thorin e Thorin Scudodiquercia non possono coesistere, ma io li ho visti entrambi e sono ottimi nani, entrambi.”

 
Esatto, non potevano coesistere, era una stupida se pensava davvero che potesse essere possibile che convivessero uno senza ferire l’altro, perché er così che si sentiva ogni stramaledetto giorno, diviso a metà, lei lo aveva diviso a metà.
 
Prese una decisione nel momento stesso in cui il viso di Ghìda contorse in una smorfia di dolore e silenziosamente afferrò con decisione la sedia accanto al suo letto portandola ancora piu’ vicino al bordo accanto al cuscino, per poi sedersi sopra lasciando andare la schiena ancora dolorante alle pellicce sullo schienale nel frattempo che il respiro ricominciò di nuovo ad accelerare:  quella notte sarebbe stato peggio degli inferi stessi, forse lo avrebbe preferito, andare nell’oblio piuttosto che risparmiarle tutto quello che avrebbe passato.
 
Un respiro piu’ pesante degli alti le attraverso la bocca seguito da un guizzò delle mani che strinsero con forza il lenzuolo sotto di se dolorante e scossa dalla febbre: un groppo gli si formò in gola osservando le nocche diventarle bianche.
Senza neanche volerci rimuginare oltre si chinò in avanti con il busto e allungò la mano insinuandola sotto la sua accaldata, creando una barriera tra la sua mano e le coperte che sarebbe finita per strappare se avesse continuato così. Fu difficile ma infine riuscì a insediare la mano sotto la sua, permettendole di aggrapparsi alla sua con la stessa forza che aveva impiegato in quella landa ghiacciata, scossa dal dolore che lui non era stato in grado di risparmiarle, così come adesso. Smosse il pollice sul dorso della mano accarezzandole la pelle morbida attraversando le nocche tirate studiandone una per una, per poi salire fino al polso dove la punta dell’ultima runa sulla sua pelle si assottigliava.
 
Sospirò pesantemente quando i brividi non cessarono e le dita intorno alla sua mano si fecero sempre piu’ strette facendogli capire come il solo starle vicino non l’avrebbe in alcun modo aiutata, era stato stupido e infantile pensare che quel semplice gesto le sarebbe servito, a qualcosa: era un re eppure in quell’istante si sentì inutile, il suo potere era inutile.
Osservò incerto dapprima le dite strette intorno al suo palmo e poi  compì lo stesso movimento che aveva svolto lei il giorno prima: infilò le dita in mezzo alle sue una per volta spaventato che si potesse svegliare per colpa di quel piccolo gesto, ma le dita presero un percorso tutto loro andandosi a insinuare ancora di piu’ chiudendole la mano in un intreccio straziante. 
A quel così futile e semplice contatto i suoi tratti si assottigliarono un'altra volta, come se sapessero che la mano fosse la sua e a quel semplice ma prezioso gesto sentì anche il suo viso distendersi in un sorriso abbandonandosi in quella veglia notturna come un silenzioso guardiano, che ci sarebbe sempre stato.
 
 
 









 Aule a Yavanna lothron tegi- cin, nin dilthen tinu… Amin mela lle: Che Aule e Yavanna possano proteggerti sempre figlia mia, ti amo.
 





Angolo Autrice
 

Bhe bhe bhe vi concedo la prima parte perché la seconda è in lavorazione e almeno così avete tempo per sentire anche il tempo che scorre un minimo senza che vi scaraventi addosso troppi avvenimenti. Da qui la storia comincia ad essere piu’ intricata, e molto piu’ dolce per i nostri amori che finalmente cominciano a scoprirsi a vicenda e ad ammettere a modo loro (vero Thorin? >.>) i loro sentimenti.
Se ve lo state chiedendo i sogni di Ghìda per ora non sono sogni, sono solo ricordi misti a visioni, per questo non sono impostati come quelli di Thorin, quelli di Ghìda per ora sono solo dei piccoli indizi di un qualcosa che crescerà e crescerà ve lo prometto e metterà anche un po' di pepe a tutta la situazione … come se già non ce ne fosse abbastanza hahahahah Si sente che è una parte 1 perché ho così poche cose da chiedervi, e poi è molto introspettivo, quindi bhe c’è poco da chiedervi. Sono stata troppo cattiva con Thorin? Con Ghìda una cifra poraccia, che poi delle volte sembra una sottona ma lei lo ama veramente sapete, cioè non solo perché sono uno l’unico dell’altra ma perché alla fine è davvero l’unico che per tutta la sua vita le ha dato fiducia…ed è bono. No vabbe a parte gli scherzi mi avete capito hahahahah Il prossimo capitolo arriverà sempre con la solita cadenza, spero anche prima in realtà :/ Ho odiato l’idea di farvi aspettare così tanto quindi prendetelo questo capitolo come un regalo.
Ho potuto anche conoscere anche altri lettori così, che non avevo mai sentito solo nominato nei ringraziamento, quindi è stat una cosa positiva alla fine <3 <3 <3
Ribes Roger , marisole e Alcalime91 grazie per aver risposto al sondaggio e invece di rispondervi in privato vi rispondo qui: avete visto come sono stat veloce? Ahahahah e sono così contenta che vi piaccia la trama, è piu’ complessa di quello che mi sarei aspettata, almeno scriverla, poi sto tentando di rendere tutti i personaggi il piu’ simili possibili agli originali, anche gli OG compresa Ghìda che noto stia piacendo (ho molta paura a scrivere di lei se devo essere sincera) che è molto complesso come personaggio da gestire, appunto perche non esiste hahahahah
Ora i ringraziamenti a NekoBlonde che recensisce sempre, e che mi fa sempre un po' arrossire devo dire, ma cerco sempre di risponderti in privato se posso <3
Invece i ringraziamenti a tutti quelli che seguono, pref ecc ecc, compresa la new entry Alcalime91,  Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn.
E un ringraziamento sempre anche a tutti quelli che vedono ma non si fanno sentire <3 e a tutti quelli che leggeranno in seguito.
Al prossimo capitolo che arriverà presto. <3
 

 
SPOILER:
 
“Se tu fossi rimasta qui questo non sarebbe successo.”
“Se io fossi rimasta ad Erebor tu saresti morto adesso!”

 

 

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Capitolo 13
*** Preghiere inascoltate (parte 2) ***


Preghiere inascoltate




 
 







Una luna era passata dell’arrivo dei restanti della famiglia di Durin alla montagna ma tre da quando il re era tornato nella pietra scolpita e dal quale la notizia si era sparsa dalla roccia piu’ alta della montagna alle gemme piu’ oscure sotto di essa: il racconto di ciò che era accaduto nelle terre selvagge e tutto ciò che ne era scaturito al ritorno da esse.
 
La salute dell’erede al regno di Elcar.
 
La vita salvata alla sorella del re.
 
Le storie su come quello fosse stato possibile e su come fosse avvenuto erano ormai diventati racconti che inondavano ogni angolo di Erebor: l’essersi travestita della futura regina per partire con la compagnia faceva sospirare le nane e allargare il petto dei nani. Mai era successa una cosa del genere e mai sarebbe dovuta succedere, non secondo le tradizioni, non secondo ciò che era da sempre stato legge nel regno di Durin e la devozione con cui la sua discendenza seguiva queste regole.
Dalle storie e dagli annali, mai nessuno era venuto a conoscenza di un simile gesto da parte di una ‘ibinê, un gesto che pendeva sulla lama della scelleratezza e della nobiltà ed è anche per questo che brillò ancora di piu’ sotto gli occhi e che ravvivò gli animi di preoccupazione di fronte a quello che aveav portato quel gesto così divisorio. Ma il reale motivo delle intenzioni della futura regina rimaneva oscuro a tutti; non un nano osava pensare alla benché minima possibilità che potesse essere legata  qualcosa ben piu’ saldo di una alleanza tra due regni e dalla lealtà che univa quindi indissolubilmente Ghìda, figlia di Telkar a Thorin, figlio di Thràin.
 
Già prima dell’arrivo della carovana le prima storie erano cominciate a diffondersi: prima dalle caserme delle guardie, poi alle fucine, poi giù fino alle miniere tra i piccoli seggi sospesi, per poi salire per le immense scalinate e spargersi a macchia d’olio tra i vicoli dei mercati impregnando ogni pietra di Erebor; un passaparola che raccontava la verità solo a metà e chiunque conosceva solo la metà di quello che fosse realmente accaduto e di chi riversasse in quella situazione: non una regina, non una signora dei nani, non una mezz’elfa… solo una donna che aveva desiderato tutto e troppo.
 
Parlavano di come il re l’avesse portata quasi morta, dopo la fine dello scontro contro i branchi di orchi verso il piccolo accampamento che le due compagnie erano state in grado di allestire per curare i feriti, delle urla mentre il re con il capo delle guardie la tenevano ferma per bloccarle le emorragie, della situazione disperata in cui riversava subito dopo, della decisione di Thorin figlio di Thràin di abbandonare la carovana per tornare al piu’ presto alla Montagna: lanciandosi in quella che era stata una corsa disperata contro il tempo.
 
Così Tàrim aveva raccontato a sua figlia Nìm e a suo figlio Fàrim la vicenda, tentando di consolarli quanto piu’ gli fosse possibile: dopo quello che gli avevano visto fare e a come  lo avessero visto tornare a fianco del re e la loro dama.
Si erano talmente legati a lei che gli chiedevano di riportargli qualsiasi notizia da palazzo e dai turni di guardia, ma in realtà le notizie erano poche. Solo una cosa era riuscito a dire a entrambi, che era ben sorvegliata e così era: era ormai risaputo a tutte le guardie che il re da quando fosse tornato passasse le sue giornate diviso tra le sale del consiglio e quelle del trono, instancabile e ligio ai suoi doveri, ma che poi si ritirasse tutte le notti nelle stanze della futura regina. Era anche ormai risaputo tra le guardie reali l’ordine imposto per il quale ogni notizia riguardante Ghìda, anche che fosse di minimo conto, gli venisse riportata immediatamente, che fosse un risveglio lieve o qualsiasi cambiamento della sua situazione.
Ma le sue condizioni erano rimaste invariate, l’unica cosa che le guardie riuscivano a riportare al re erano lievi parole prive di significato che mormorava nel delirio della febbre, che per un elfo sarebbero state facili da comprendere; un insieme di supplice e di ricordi e di un nome: Gadril.
 
Nìm e Fàrim pur sapendo le mattine insieme ai restanti della compagnia si sedevano in attesa lungo il bordo di un immensa colonna che confinava tra l’entrata del palazzo e l’uscita verso il regno, subendo spesso delle occhiate tristi e empatiche di tutti i passanti: la sua mancanza si sentiva, le loro mattinate sembravano così vuote adesso, e la possibilità che lo sarebbero continuate ad essere irreversibilmente li faceva stringere l’uno all’altro, ripassando insieme tutto quello che avevano imparato in quell’ultimo mese con Ghìda come insegnate.
 
“Così sarà contenta quando si sveglierà e ci lascerà giocare di piu’ con le spade, magari ci insegna pure qualche trucchetto da usare contro gli orchi!”
 
Aveva tentato di tirare su il morale Lòni un giorno, motivandoli un minimo, ma la sua euforia nascondeva un’immensa preoccupazione come quella di tutti gli altri, se non maggiore: si era trovato a doverli consolare tutti, compresa la sorella del suo migliore amico, che silenziosa si raggomitolava su di lui mentre leggevano cercando un minimo di conforto quando giacevano su quel pavimento freddo.
 
Fu però quando il gruppo dei nani degli Ered Luin, con i restanti soldati della schiera di Erebor tornarono che tutte le domande dei nani della Montagna ebbero una risposta definitiva, completata dal pezzo mancante che era sfuggito a tutti sino a quel momento: per quale ragione la figlia di Telkar fosse ridota così, e a causa di chi.
Molti se ne presero la responsabilità alle prime: nelle taverne mentre si festeggiava il loro rientro, i guerrieri raccontarono, tra una pinta e l’altra, di branchi di orchi che avevano inseguito la carovana per giorni, di come li avessero avvistati nel mezzo della notte, o per chi faceva parte del gruppo con Nori, di come dopo aver cavalcato per ore avessero incontrato il gruppo in preda alla stanchezza e alla paura braccati come bestie.
Raccontarono alla luce delle candele, fissati da bocche spalancate o colme di birra, di come fossero rimasti in una conca innevata bloccati e senza possibilità di fuga e di come le frecce cominciarono a cadere dal cielo come una visione abbattendo i mannari che dalla parte opposta alla valle correvano verso di loro nella neve; infine rivelarono anche chi fosse il misterioso arciere che ne aveva uccisi a decine salvano molti di loro da morte certa.
Per molti fu difficile ammettere quella realtà, ammettere da chi fossero stati salvati, ma fu un merito che non riuscirono a toglierle in alcun modo; seppur limando alcuni dettagli non riuscirono a non ammettere che per quanto insignificante, il suo gesto aveva salvato la vita di molti nani.
 
Appena però oltre le storie dei soldati nei mercati vennero raccontate anche le vicende dai nani della carovana delle Montagne Azzurre, la vera responsabilità cadde solo sulla principessa Dìs; la futura regina si era lanciata senza protezione alcuna per salvare la sorella del re, della quale non conosceva neanche il viso: aveva rischiato di morire per una nana qualsiasi, per una nana che sarebbe potuta essere la moglie di un minatore, la sorella di un fabbro o la figlia di droghiere per quanto ne poteva essere a conoscenza.
 
E da quando la storia divenne completa ogni giorno che passava sempre piu’ occhi venivano  puntati verso il picco della montagna, schivando con lo sguardo la pietra scolpita e l’intrecciarsi frenetico delle scale e per la prima volta il popolo di Durin si ritrovò unito per alcuni attimi da un pensiero comune incentrato da una parola che non veniva piu’ pronunciata: mezz’elfa.
 
Ma ora tra le strade di Erebor regnava il silenzio: una quiete calma e sonnolenta prima dell’imminente arrivo dei primi raggi del giorno che filtrando dalle grandi finestre sulla parete della montagna, rimbalzando per il marmo lucido, avrebbero annunciato ad Erebor l’inizio di un nuovo giorno che timido tardava ad arrivare quella notte.
 
Le miniere parevano la cosa piu’ oscura e antica che fosse mai state plasmata dai Valar: il richiamo al cercare al loro interno scavando e battendo era solo un silenzioso sospiro non abbastanza forte da spingere alcun nano nell’oscurità della notte in quei fori infiniti, da dove, se richiamato a sufficienza, non ne sarebbe piu’ uscito.
I mercati nei fondi della Montagna erano addormentati: le porte chiuse a doppia mandata, le oreficerie non esponevano niente di prezioso, gelose, esibendo solo travi di legno che sbarravano le finestre; i lunghi tessuti non volteggiavano rapidi tra i vicoli scavati nella dura roccia e il lieto cantare nelle taverne avvicendato da antichi urli di battaglia non accompagnavano i piu’ fortunati nelle ore di riposo dalle consuetudini.
Nelle forge non batteva niente che non fossero le pale dei mulini e lo scorrere dell’acqua tra le loro travi che schizzando con il suo gocciolare riusciva spesso a raggiungere le fornaci perennemente accese e i fiumi d’oro che ne scorrevano accanto, frizzando e scomparendo all’istante in un fremito debole, come quelli che attraversano i petti delle guardie appollaiate come rapaci tra i terrazzi e le scale dei piani superiori.
Queste guardavano e osservavano ogni singolo movimento tra i corridoi che vista l’ora erano deserti, sperando e sognando il momento in cui sarebbero potuti tornare alle loro case  abbandonando la ronda e accogliendo invece il meritato riposo, dovuto agli ardui turni a cui erano sottoposti negli ultimi giorni.
Negli ultimi piani della montagna i silenti guardiani si alternavano ad ogni scala dall’entrata del palazzo, sotto ogni colonna e stretti nei propri mantelli trattenuti in piedi dalle immense picche che sovrastavano gli elmi squadrati, lanciando brevi occhiate attente verso l’entrata delle stanze reali dalle quali, per buona sorte, non usciva un suono: non un richiamo, non una richiesta di aiuto che erano pronti a udire ad ogni attimo.
Osservavano attenti le porte sigillate, non potendosi mai immaginare cosa stesse succedendo al loro interno, ipotizzando un sonno tranquillo per il re ormai chiuso dal tramonto nelle silenziose stanze non sue, non riuscendo però a immaginare la cruda realtà: un re stanco, abbandonato in una sedia di legno rivestita di pellicce in un lieve dormiveglia nel quale non si concedeva alto che brevi attimi di torpore, vegliando su due occhi che come le porte del palazzo, rimanevano serrati.
 
Una veglia silenziosa condivisa anche da un altro nano i cui passi risuonavano pesanti tra i passaggi sotto il palazzo, riservati ai fidati del re, oltrepassando porte sbarrate e finestre oscure dalle quali non proveniva alcuna luce se non piccole luminescenze labili delle fiamme dei camini.
Dopo la notte insonne era arrivato il suo turno di coricarsi, beandosi di qualche ora di sonno che, se Durin avesse voluto, sarebbe riuscito a protrarre fino alle ore inoltrate dell mattinata, quando quei corridoi sarebbero diventati irrimediabilmente il palco degli urli di Dori verso il fratello o la riservata stanza di addestramento nella quale Glòin esasperava l’audace figlio Gimli all’uso di asce della sua portata, che spesso si traduceva nell’uso delle proprie pulite e affilate.
 
Contò una per una, tutte le porte che segnavano sempre di piu’ l’arrivo verso la propria di casa, appartamenti alternati da immensi archi o corridoi che conducevano a molti altri, inoltrandosi ancora piu’ intricati nella roccia, girando spesso piu’ volte su se stessi creando o vicoli ciechi o percorsi fittizi che non facevano altro che delineare ancora meglio la fine di un appartamento dall‘altro. 
Mure verdi e lisce staccate l’una dall’altra solo da immensi arazzi e stendardi impennati sugli alti muri che narravano e rappresentavano la storia e i volti di chi avesse occupato prima di loro quei corridoi, e tra tutti solo lui e suo fratello poterono confermare di esserci cresciuti tra quelle gallerie.
 
Svoltò in tutto tre volte girando prima a destra e poi due volte a sinistra, prima di giungere dinnanzi alle rune che intagliavano l’arco difensore della porta scura che aveva desiderato oltrepassare ormai da diverse ore: si lasciò trasportare fino ad essa trascinandosi come un moribondo lasciandosi cadere la giornata pesante e tutta la tensione che gli si era accumulata addosso nelle ultime ore, frastagliate tra i suoi nuovi doveri, dei quali spesso non riusciva neanche capacitarsi, e gli occhi sempre piu’ buoi del Re Sotto la Montagna, che preso dalle domande su quello che fosse accaduto, non si arrestavano neanche un attimo: studiava mappe e carte, mandava messaggi, infoltiva le guardie per il palazzo, organizzava riunioni e consigli, gestendo tutti i dubbi che gli si erano presentati in quella mangiata di giorni.
 
Per quanto avessero tentato di venire a capo della vicenda di quella che poteva essere una disgrazia niente era saltato fuori: sul perché diversi branchi di orchi fossero lì, sul perché li stessero braccando, sul perché se ne fossero accorti solo in quel momento e sul perché nessuno prima di loro ne fosse stato a conoscenza.
Decine di corvi furono rinviati alle sette famiglie, ma infine, chini sulle mappe, tutti avevano raggiunto una conclusione: era stata un’infausta coincidenza. Nessuno dei sette clan, avrebbe fatto nulla al proposito, tranne i  Monti Gialli: dalle bianche scogliere di Elcar, non arrivò risposta alcuna.
 
Si chiuse la porta alle spalle lasciando un sospiro stanco oltrepassargli il petto e senza attendere oltre si lasciò andare alla porta dietro di lui con la base della schiena e si sfilò dalla testa la pesante cotta di pelle incisa lanciandola sulla sedia accanto al focolare che si trovava di fronte a lui, facendo, seppur attutito dalle pellicce sul legno, un rumore assordante del quale si pentì amaramente subito dopo; ma così come una martellata durò così poco che non ebbe neanche il tempo di pensarci a quel suo pentimento.
 
Chiuse gli occhi beandosi della porta dietro di se che gli sorreggeva la schiena, slacciando con gesti automatici le fibbie di cuoio che tenevano fermi i guanti metallici  intorno ai polsi e alle mani, per poi con strattoni veloci togliersi ogni singolo anello che tratteneva i tirapugni ancora allacciati; mantenne gli occhi chiusi anche per sbottonarsi i primi lacci della cotta di maglia prima di aprirli verso l’alloggio illuminato della flebile luce delle candele quasi del tutto consumate, la cui cera discendeva dalle lumiere inondando i muri si cui erano appese.
Con una spinta che gli costò l’ultima forza che potesse essere in grado di sprigionare, si allontanò dalla porta e avanzò verso il focolare al centro della stanza nel quale i tizzoni ormai erano diventanti altro che flebili fiammelle sepolte dalla cenere e dopo aver abbandonato sulla sedia di fronte questo i tirapugni ancora stretti nella mano, su cui già era stato gettato il gilet di pelle, si chinò per terra afferrando due ceppi da terra lanciandoli al suo interno osservando come le fiamme cominciarono di nuovo a bruciare riscaldando la stanza.
 
La tentazione di fumare o bere qualcosa divenne terribilmente allettante, ma il suo corpo non avrebbe retto oltre e sarebbe crollato prima essere riuscito a raggiungere una delle credenze o perfino il mobile infondo alla stanza per afferrare la pipa sopra di esso; si sfilò quindi la cotta di maglia che ancora teneva addosso e fece la stessa fine dei guanti e del gilet, venendo poggiata al suo fianco.
 
La stanchezza non impedì però a Dwalin di seguire le forme nelle fiamme che come un lugubre teatrino si alternavano da scene di guerra passate e i capelli fluidi e il profilo morbido e triste che infestava perennemente suoi pensieri e verso il quale non era riuscito a rivolgere neanche una parola d’affetto durante il viaggio di ritorno.
A parte qualche espressione in monosillabi Dìs neanche gli aveva rivolto la parola, conoscendolo, sapeva benissimo cosa le avrebbe chiesto, cosa avrebbe voluto dirle e come avrebbe finito per consolarla, anche se non le era mai servito.
Le sue apprensioni sarebbero state tardive, troppo: due mesi di dolore sopportato da sola, di cui lui stesso si sentiva responsabile non sarebbero state cancellate dalle sue parole per quanto lo desiderasse, per quanto bramasse di far suo quel suo dolore celato da orgogliosa e regale quale era, in un silenzio che piu’ volte lo aveva fomentato a cercarla per le sale superiori del palazzo e a stringerla a se.
Infine però ma si era ben guardato dal farlo o a pensarlo perfino rispettando la sua volontà, così come Thorin che per quello che sapeva, così come lui, aveva accettato la sua decisone, rimanendo in attesa: una attesa che sarebbe durata secoli anche, ma il dolore provato sarebbe stato per tutti molto piu’ lungo di qualche maledetto secolo.
 
Temeva il giorno in cui Fili e Kili sarebbero diventati solo un ricordo, riducendoli solo a degli eroi caduti e sgretolando davanti agli occhi di tutti cosa erano davvero stati: figli, nipoti, amici, perché la loro presenza purtroppo era sempre troppo presente negli animi di tutti.
Ori delle volte si girava per parlare dietro di se, convito di trovare Fili pronto a cercare l’approvazione dell’amico, suo fratello bloccava le frasi a metà quando parlava di loro, Glòin aveva impiegato giorni a spiegare a Gimli cosa gli fosse accaduto e lui stesso stentava a ricordare quasi i suoi visi.
 
Poggiò entrambi gli avambracci sulle ginocchia piegate e socchiuse gli occhi per immaginarseli tra le fiamme e ci riuscì e quando lo fece se ne pentì amaramente: li rivide entrambi, a casa di Bilbo, seduti un accanto all’altro a tirarsi occhiate e ginocchiate sotto il tavolo incoraggiando gli altri a partire, piu’ entusiasti di tutti i presenti messi insieme, guardando Thorin in una maniera che non sarebbe mai riuscito a togliersi dalla testa.
Lo avevano sempre guardato così: pieni di orgoglio per essere suoi nipoti, pieni di onore e rispetto per il sangue che gli scorreva nelle vene, pronti a tutti pur di dimostrargli di essere degni di questo; tenevano a lui in una maniera a cui solo un padre poteva aspirare.
 
Abbassò lo sguardo verso il tappeto lasciandosi sfuggire dalle labbra un un’esalazione angosciante quando un misto di parole e gesti gli tornarono alla mente.
 
 
“Signor Dwalin, la prossima volta che voi e lo zio andate ai Colli Ferrosi ci portate con voi?”
 
“Si si, per favore come dice il fratellone, vi prego, vi prego ,vi prego.”
 
“Dovete chiederlo a vostra madre”
 
“A-mad, a-mad, possiamo, possiamo?”
 
“Solo se filate dritti a coricarvi nei prossimi due minuti, e attenti che conto.”
 
“Chi arriva per ultimo puzza di troll!”
 
“Non vale Fili aspettami! Ricominciamo!”
 
“Li lascerai davvero venire con noi? So che non è un’idea che ti aggrada, ti conosco da troppo.”
 
“Se ci sarai tu sono ben sicura che ritorneranno a casa senza un graffio o perfino un capello sporco, e sai anche che se succedesse tu saresti il primo a incappare nella mia collera Dwalin figlio di Fundin.
 
“Incapperei anche nell’ira di tuo fratello mia signora.”
 
“Temi piu’ me o il Thorin Scudodiquercia?”
 
“Se la metti in questo modo credo che la risposta sia ovvia, principessa.”
 
 
Scosse la testa per scacciare quei momenti dalla sua mente: doveva smetterla di crogiolarsi nei ricordi, non sarebbe servito a niente, solo ad aprire una ferita che in verità non si era mai richiusa, ma che con il suo arrivo Dìs aveva reso ancora piu’ sanguinante e dolorosa.
 
Si alzò da terra dandosi una spinta con le mani e decise che era meglio lasciar perdere tutto e abbandonarsi alle soffici pellicce sul letto che da quando era entrato lo richiamavano incessabilmente offrendogli una buona motivazione per seppellire il dolore nella vaga possibilità di un sonno sereno.
 
Avvicinandosi verso grandi passi verso il letto infondo alla stanza portò le mani dietro le spalle pronto a togliersi la  camicia lurida indossata per tutto il giorno, ma un bussare lieve alla porta lo paralizzò a metà dell’ opera con la schiena scoperta che si irrigidì al rumore che a malapena era sicuro di aver udito.
Lasciò il tessuto verde cadere di nuovo giù sulla su schiena girandosi su se stesso per osservare la porta di casa appizzando le orecchie; forse aveva sentito male, ma il rumore si ripresentò leggermente piu’ alto di prima: tre battiti netti contro il legno scuro della porta così flebili comunque che gli fecero subito scartare l’idea che ci fosse un’emergenza o che inavvertitamente avesse osservato così a lungo le fiamme che era già giunto il mattino.
Confuso osservò la porta per qualche istante prima di incamminarsi verso di essa cominciando a scartare come prima tutte le possibilità remote che potevano aver spinto chiunque fosse a bussare alla sua porta a quell’ora; e quando finalmente abbassò la maniglia della porta e guardò fuori capì che non sarebbe mai riuscito ad arrivare alla risposta neanche se avesse usato tutta la sua piu’ fervida immaginazione.
Spalancò la bocca stringendo la maniglia con una tale forza da far formicolare la mano e sentire le giunture scattare contro il ferro battuto, mentre il freddo proveniente dal corridoio non gli sembrò nulla rispetto al calore che dalla pancia si irradiò fino ai battiti sempre piu’ velocizzati nel suo petto di fronte a chi vide.
 
“Dìs…”
 
Se ne stava lì, davanti alla sua porta con la lunga treccia nera poggiata sulla spalla lunga fino al ventre, i primi ciuffi grigi che si intrecciavano tra le catenelle dorate nei capelli che ripide le scendevano fino alla fronte a terminare con una piccola gemma blu: blu come gli occhi che lo scrutavano inespressivi, se non fosse stato per le sopracciglia lievemente inclinate e la bocca spalancata per parlare, ma dalla quale non uscì un suono.
Lo osservò in silenzio per quelli che parvero dei secoli, chiudendo leggermente la bocca forse rendendosi conto di quanto poteva parer confusa in quel momento o forse dettato dai suoi occhi di Dwalin che indugiavano sul suo viso scioccato dalla visita, scioccato di vederla, o peggio, scioccato che lei lo fosse venuto a cercare.
 
Ma il suo sguardo pareva piu’ quello di una nana che si era appena pentita di essere lì e questo, anche se ben celato, lo ferì profondamente, ma il suo essere ferito non cambiava il fatto che lei fosse davanti a lui. Perché era lì?
 
Dwalin stesse per dare voce ai suoi pensieri ma venne interrotto bruscamente da Dìs che prese la parola per prima e serrò le labbra di scatto sbattendo le palpebre distogliendo dapprima lo sguardo da lui come per ritrovare il senno perso.
 
“Stavi dormendo?” Chiese alzando lo sguardo da terra.
 
A Dwalin le parole gli sembrarono essersi bloccate in bocca ma infine scosse la testa non riuscendo a distogliere lo sguardo da lei.
 
“No, non ancora, ero appena tornato dalla caserma del palazzo.” Dovette ammettere avanzando di un paio di passi trattenendo sempre la porta con una mano e lanciando un paio di sguardi dietro di lei e di fianco, cercando la presenza di qualcun altro ma in quel corridoio c’erano solo loro due. “Sei sola?”
 
“Si, sono venuta sola, le guardie non hanno insistito.” Rispose decisa senza aggiungere altro con lo sguardo che lottava per rimanere fisso nel suo e le labbra che sforzava di far rimanere ferme e questo lo confuse ancor di piu’ di quanto non fosse; forse l’irrequietezza di un momento di debolezza notturna, forse un pensiero fuggevole che era scomparso appena scesa dalle scale del palazzo, forse un desiderio pentito appena la porta era stat aperta, era titubante, ora ne era sicuro: lei non voleva essere lì, affatto.
 
Il petto gli saltò un battito quando studiò lo sguardo perso nel vuoto, si lo stava guardando, ma sembrava come se gli occhi azzurri gli passassero attraverso, fissando qualcosa che lui non poteva vedere.
 
Non era piu’ la sua Dìs, e non lo sarebbe piu’ stata, ma infondo poteva dire che fosse mai stat sua? No, ma il desiderio che lei fosse felice non era cambiato e il mandarla via in quel momento era l’unica cosa che forse poteva renderla tale
 
Lasciò la maniglia della porta e si poggiò sullo stipite della porta incrociando entrambe le braccia al petto: un gesto che come un muro verso l’esterno spesso lo proteggeva  da qualsiasi cosa avesse davanti e gli sembrava assurdo che ora si dovesse difendere da Dìs.
 
“E’ l’alba. Dovresti essere a letto, cosa ci fai qui?”
 
“E’ l’unica ora in cui sapevo che ti avrei trovato qui da solo.”
 
“Se me lo avessi chiesto sai che mi sarei fatto trovare quando tu avresti voluto e dove avessi voluto.”
 
“Posso entrare?” Chiese e senza aspettare una risposta, impulsivamente avanzò verso di lui pronta a varcare la soglia ma prontamente le parò un braccio davanti impedendole di entrare in casa: si era già preparata a quel gesto perché non sobbalzò neanche un po' rimase con gli occhi fermi osservando all’interno, con il viso che era seppur impassibile era diventato ancora piu’ inespressivo.
 
“Prima dimmi cosa succede.” Insistette triandosi su’ dallo stipite e poggiando ora tutto il peso sul braccio teso tentando di guardarla in viso, ma lei non si mosse stringendo le mani che teneva fisse all’altezza del ventre l’una nell’altra con forza.
 
“Voglio parlare con te.”
 
“Di cosa?”
 
La sua insistenza non ebbe l’effetto sperato, se ne pentì appena Dìs mosse il viso per guardarlo di nuovo: dagli occhi freddi cominciò a scendere una lacrima silenziosa, e poi un’altra, e un'altra ancora, senza sosta ma il suo viso non trasmutava rimanendo impassibile non venendo scalfito neanche da quelle gocce salate che le cominciarono a scavare il viso e ad ammazzare, per ogni lacrima che le scendeva dalla guancia, lui.
 
“Dei miei figli.”
 
 
 
 
 
 
 


Con una lentezza quasi irreale le tenebre cominciarono a dilatarsi e a fare spazio alla luce che percepiva sugli occhi e al calore che questa le donò immediatamente ridestandola da quello che le era sembrato un lungo sonno senza sogni; la schiena era poggiata su qualcosa di soffice, sentiva le sue mani essere avvolte in un tessuto morbido e fresco che si insinuò tra le sue dita appena le mosse.
 
Aprì lentamente gli occhi e la flebile luce la avvolse, le ci vollero dei lunghi momenti per comprendere cosa stesse accadendo o dove fosse. La penombra, o almeno quella  che le sembrava tale ai suoi occhi offuscati, continuava a regnare e un odore acre di sangue rappreso gli arrivò alle narici, smorzato solo da quello fresco dei lenzuoli e delle vesti pulite; i contorni cominciarono a prendere lentamente forma ma infine un soffitto familiare le si formò davanti agli occhi illuminato dalla luce del giorno inoltrato che filtrava dalla finestra: un intarsio di marmo verde e venature dorate si incrociavano sopra la sua testa, di cui conosceva ogni percorso.
 
Era nella sua stanza.
 
Era ad Erebor.
 
Si abituò ai contorni che la circondavano, ruotando la testa sul cuscino, osservando le mura della sua stanza che erano rimaste così come le aveva lasciate l’ultima volta; ne studiò ogni angolo facendo guizzare lo sguardo da una parte all’altra: le tende che conducevano alla sala da bagno erano serrate coperte dal paravento scuro sul quale era poggiato malamente il vestito che prima di partire in fretta e furia si era sfilata accatastandoci sopra collane e ciondoli, il caminetto scoppiettante illuminava i piedi del letto e la pelliccia sotto di esso fondendosi con la luce del giorno che filtrava dalla finestra, i libri accatastati sul tavolo aperti da giorni sulla stessa pagina da giorni: sembrava come se non se ne fosse mai andata.
Le uniche cose le fecero capire che il tempo inesorabile era passato riportandola alla dolorosa realtà, furono le decine e decine di fiale posto accanto sul tavolo basso accanto al suo letto, così come scatole su scatole piene di bendaggi e panni umidi dentro una singola bacinella colma d’acqua, ma accanto a questa una cosa  in particolare le fece bloccare il respiro sorpresa, e artigliare le coperte con foga: oltre la superficie del cuscino, accanto alla testata del letto se ne stava una sedia infoderata di pellicce smosse l’una sulla altra in modo da creare un piccolo giaciglio; tra i vari manti di animale adagiati su di esso per renderla piu’ confortevole, una peluria nera e folta incatenò il suo sguardo bloccandolo su di esso, era quella pelliccia.
 
Thorin, allora era vivo, era ad Erebor ed…era stato lì.
 
Lo stomaco le si aggrovigliò su se stesso rendendola incapace di ragionare per qualche attimo nel frattempo che la sensazione di calore nel petto e della sua mano ancora stretta nella sua si andarono ad affievolire, facendole  tornare alla mente tutto quello che l’aveva condotta fin lì: i giorni a cavallo, la neve, i vestiti pesanti che le coprivano metà del viso, gli ululati, le grida, il corpo di Thorin a terra e poi la corsa, il dolore ed infine il buio e due labbra posatele sulla tempia.
 
Inconsciamente si portò le dita della mano dove sentiva imperterrita quella sensazione di calore: no, se l’era sognato, era in preda ai deliri e al dolore, non era reale, eppure le era sembrato tutto così lucido in quel momento, così vero da parole contratte il petto in un respiro tremante; le sue labbra nei capelli, la sua mano stretta nella propria, le parole sussurrate sulla pelle, quella rabbia nei suoi occhi spenta sotto il suo tocco.
Solo di quello era sicura in quel momento, che gli avesse accarezzato il viso: si ricordava la barba ispida, la pelle ruvida del collo e della mascella sotto le sue dita, il sangue che gli macchiava il viso e quel calore, tanto calore.
 
Inaspettatamente i suoi ricordi si spensero appena volle andare un po' piu’ su con il braccio verso i capelli, allontanandolo di colpo quando riuscì finalmente a notare la causa di quel dolore: il suo braccio era bendato e rigido, coperto da varie bende bianche che dal polso salivano su fino al gomito e pii sulla spalla andandosi a confondere dietro le ciocche castane dei capelli, ma permettendole di vedere chiaramente che la fasciatura le arrivava fino alla scapola.
 
Girò il collo per osservare meglio effettivamente fin dove arrivasse, se tutto il suo corpo fosse ridotto il quello stato, pregando che non fosse così, ma una seconda fitta ben piu’ in basso le diede la conferma alle sue preoccupazioni facendole crollare la mano di nuovo tra le pellicce sul letto e sbarrare gli occhi dal dolore.
Un’angoscia incontrollabile prese pieno possesso del suo petto e la domanda che non si voleva porre le si inchiodò in testa mandando a morire ogni altra certezza: da quanto era in quello stato? Quanto tempo aveva passato ignorante di quello che era successo distesa in quel letto?
 
Spostò lo sguardo dal braccio piu’ in basso ancora, verso le coperte blu, ricamate con piccoli disegni geometrici dorati che le continuavano a nascondere la gravità della situazione in cui si era cacciata: fu la paura sempre piu’ crescente e il dubbio che le diedero la forza di stringere i denti e puntare le mani dapprima solo poggiate sul letto, per farsi forza e tirarsi su dal cuscino che le sembrò improvvisamente solo una comoda prigione.
 
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro tentando di darsi un minimo di coraggio e infine si diede una botta con i fianchi per tirarsi su’ stringendo tra le dita le lenzuola: mai fu piu’ difficile trattener un gemito di dolore tra i denti, tanto da far imprecare selvaggiamente a bocca chiusa e accasciare con il respiro pesante alla tastiera del letto facendo scivolare dal corpo ciò che le copriva la vista, mostrandole finalmente cosa le provocasse una simile agonia.
 
Un enorme garza le fasciava il busto, stringendola da fin sopra il seno interrompendsoi sotto di esso, da dove poi ne cominciava un secondo piu’ stretto macchiato da piccole auree rossastre e verdi che invece la fasciava fino alla vita dalla quale cominciava la gonna di una sottana bianca che spaccata ai lati le permetteva di muovere le gambe facilmente. Cauta si tirò ancora piu’ su e vi ci avvicinò la mano opposta sfiorando le garze con le dita: sentiva ancora i canini del mannaro nella carne, una sensazione fantasma che la fece subito ritrarre le dite e trattenere un gemito che però continuo nella sua testa rimbombando e facendole sentire la testa pesante come un macigno.
Prese un profondo respiro e lasciò cadere la testa all’indietro sullo schienale del letto tirando di nuovo su le lenzuola blu incapace anche solo di guardare le fasciature senza che un ennesima fitta le attraversasse il busto, cercando di fermare la testa che non smetteva di girarle, ma questa sembrava aver deciso di non lasciarla in pace, confondendole i sensi ancora di piu’ e costringendola ad aprire gli occhi cercando un  punto fisso sopra il soffitto da fissare ma le figure cominciarono ad apparsi di nuovo: no, no doveva rimanere sveglia.
 
Rimani con me Ghìda
 
I rumori cominciarono a farsi piu’ chiari pian piano che il dolore al testa passava e la mancanza che l’aveva colpita andò a svanire permettendole di sentire, sovrastato dal flebile canto di uccelli fuori dalla finestra, un mormorio basso e scandito di cui non riusciva a capire le parole; puntò lo sguardo verso la porta e con sua grande sorpresa questa era socchiusa, lasciando un raggio di luce attraversare l’intera stanza e permettendole di vedere sotto di essa: delle ombre si muovevano fugaci nel corridoio.
Cercò di appizzare le orecchie tirando su la testa per sentire qualcosa mossa da una incertezza sempre piu’ crescente, ma non ci riuscì a sentire nulla di quel mormorio, fino a che un rumore di piastre metallico non lo interruppe seguito da un passo pesante che si allontanava: una guardia.
 
E appena i passi cessarono la porta si aprì del tutto svelandole l’identità di uno degli interlocutori schiarendole immediatamente i pensieri e il petto: Thorin si stagliava alto e rigido sulla soglia della porta, una pelliccia scura che gli copriva le spalle e la cotta nera, che scendava rigida come il modo in cui la stava osservando; anche dalla penombra che creava la luce alle sue spalle riuscì chiaramente a vedere il suo viso, e il sorriso che avrebbe tanto voluto mostrargli si andò a spegnere ancor prima di nascere: la bocca definita in una linea dritta incorniciata dalla barba scura, il naso dritto e gli occhi azzurri ridotti a due fessure che le scavarono una voragine nel petto dolorosa e profonda.
 
Lo sguardo austero le si appicciò addosso studiandola da cima a fondo spaventandola terribilmente mentre la mano si andò ad artigliare ancora di piu’ alla maniglia della porta creando uno stritolio sul metallo.
 
Non lo aveva mai visto così. 
 
E il motivo non fu difficile da capire, anzi si diede della stupida a pensare che avrebbe reagito in maniera differente solo perché era ferita, anzi forse proprio il fatto che fosse in quelle condizioni era il motivo della sua collera: si vergognò terribilmente investita dai sensi di colpa e dal suo ordine che le rimbombava nella testa.
 
“Sei sveglia.” Fu glaciale, non un’emozione uscì da quelle parole, portandola a distogliere lo sguardo verso il basso.
Rimase zitta decidendo di non rispondere alla sua affermazione annuendo, cercando di calmare il petto che comincia a dare i primi segno di cedimento sotto quello sguardo giudicatore che a suo malgrado sapeva perfettamente di meritare, ma non immaginando che potessero farle così male.
 
Era già pronta al seguito, alle sue urla e rimproveri, perfino ad essere percossa, ma niente di questo accadde, il solo rumore che si sentì furono i suoi passi pesanti e il chiudersi della porta dietro di se; lo sentì avvicinarsi al letto, il passo scandito dal vibrare degli anelli della cotta di maglia rimanendo in silenzio, portandola a stringere il lenzuolo ancora piu’ fermamente sul petto.
 
“Mi dispiace.”
 
Avrebbe voluto dirgli, ma le parole le si bloccarono di colpo scaraventate giù da un orgoglio per se stessa che superava, o in qualche modo eguagliava, il senso di vergogna che la inghiottiva ogni passo che Thorin compiva verso di lei.
 
Con la coda dell’occhio lo vide avvicinarsi accanto a sé dandole la schiena, voltandosi verso il tavolo vicino al suo letto non donandole una parola o uno sguardo, solo tanto freddo  che le fece rabbrividire la base del collo.
 
Aveva paura? Aveva davvero paura di Thorin in quel momento?
 
Un rumore si innalzò oltre le sue spalle dovuto da qualsiasi cosa con la quale fosse indaffarato: un tintinnare di vetro e uno strappo netto di un tessuto che tagliò l’aria a metà per quanto violento.
Quel rumore dilaniò anche quella tensione che si andava sempre piu’ ad accumulare, facendo diventare la stanza oscura seppur fosse giorno; fu proprio quel senso di angoscia che non riusciva piu’ a tollerare che le diede la forza di aprire la bocca parlando veloce ma flebile, come un respiro trattenuto troppo a lungo.
 
“Quanto sono rimasta incosciente?” Gli chiese puntando lo sguardo all’altezza della sua nuca sperando che si voltasse per guardarla o almeno si degnasse di risponderle ma quello che accadde le fece gelare il sangue nelle vene: voltò solo il capo oltre la sua spalla uccidendola con lo sguardo.
 
“Mettiti di fianco.”
 
“Thorin…”
 
“Ho detto mettiti di fianco.” Sibilò graffiante, scandendo ogni sillaba, con voce sempre piu’ roca, tanto da farle spalancare gli occhi incredula e da bloccarle qualsiasi intenzione di poter chiedere ancora spiegazioni o di rivolgergli la parola perfino: ora l’unica cosa di cui era certa era solo che non l’avrebbe uccisa, ma non tutte le morti sono fisiche dopotutto e quella che gli stava infliggendo con il suo sguardo non curante era la peggiore.
 
Rimase zitta obbedendo al suo ordine, incapace di dibattere, e con cautela si lasciò scivolare nuovamente giù, rimanendo cauta nel non ferirsi come aveva fatto prima e, voltando la testa di lato, si adagiò sul fianco portando il braccio sano a farle da rialzo per il collo e la nuca nel quale velocemente vi nascose metà del viso: incapace di guardarlo combattendo con tutta se stessa dal non cominciare un pianto silenzioso.
Troppe le emozioni contrastanti, troppa la delusione nella sua reazione e troppa la voglia di stringerlo tra le braccia immergendosi nel suo petto avendo però la consapevolezza che non sarebbe accaduto.
 
Solo quando la vide distesa voltò di nuovo lo sguardo studiandola con la coda dell’occhio e  infine si girò  su se stesso; le ci volle qualche istante, riuscendo a vedere solo un parte della sua figura da quella posizione, ma capì che tratteneva qualcosa tra le mani: seppur sapendone che se ne sarebbe pentita alzò un minimo la testa per osservargli le mani e tra queste spiccava un panno bagnato e le sue intenzioni finalmente le furono chiare portandola a calmare i battiti del cuore che le stavano distruggendo lo sterno.
 
Avanzò di un paio di passi avvicinandosi a lei e puntò dapprima il ginocchio sul materasso inclinandolo e poi vi ci sedette sopra affiancandola rimanendo nel suo devastante mutismo; si posò la pezza con cautela sulle gambe prima di  lanciarle un ultimo sguardo che però lei questa volta non riuscì ad interpretare: dal suo viso contrito scaturì un occhiata angosciata e forse non si aspettava che lei lo stesse osservando perché appena i loro sguardi si incrociarono, il suo viso tornò imperscrutabile e si spostò di nuovo verso il suo fianco.
 
Non riuscì a vederla bene ma la su mano si avvicinò al suo busto e con lentezza fece scivolare il lenzuolo via da lei scoprendole il fianco fasciato; un brivido le attraversò la pelle appena questo scivolò via portandola a distogliere di nuovo lo sguardo, incapace di dire se la pelle d’oca che sentiva rizzarsi fosse dovuta al freddo o all’angoscia di quello che sarebbe seguito.
 
Thorin passò al setaccio dapprima le bende con lo sguardo ignorando quello di Ghìda che sentiva ancora fisso sui suoi movimenti, rendendogli quello che doveva fare ancora piu’ difficili e rendendolo ancora piu’ furioso di quanto già non si sentisse da quando l’aveva vista sveglia, da quando non l’avesse guardata negli occhi risvegliando quei sentimenti che fino a che era rimasta addormentata era riuscito a celare, ma che ora riusciva a malapena a controllare.
 
Socchiuse gli occhi tentando di controllarsi si eclissò, per quanto gli risultasse arduo, dalla situazione compiendo quel gesto che in quelle lunghe giornate aveva adempiuto senza esitare, cercando di sovrapporre alla sua immagine quella di un soldato qualsiasi in battaglia: se voleva essere tale lui l’avrebbe trattata come tale.
 
Ghìda percepii le mani calde spostarsi verso la fasciatura e snodare il nodo che le tratteneva fisse e poi il lieve scivolare di queste oltre il suo corpo facendola rabbrividire appena la pelle incontro il freddo della stanza che la circondava e la pelle raggrinzirsi su se stessa dove sentiva la tensione delle ferite, sostituita ben presto dalla pressione delle dita di Thorin che le accarezzarono la pelle studiandola.
A quel contatto chiuse involontariamente gli occhi mordendosi il labbro con forza mentre una serie di brividi cominciarono a percorrerle il corpo appena le sue dita sfiorarono la pelle nuda: rudi ma al contempo così dolci che per un attimo sperò con tutta se stessa che quello fosse l’unico contatto che avrebbe sentito ma non fu così, non poteva essere così.
 
Fu un attimo, dita di Thorin dapprima leggere premettero intorno alla ferita con decisione tale da farle sbarrare la bocca incredula, esponendola alla luce del giorno e insieme a queste un qualcosa di bagnato e freddo le si andò a poggiare sulle ferite facendole sgranare gli occhi: un bruciore violento e improvviso la fece gemere di dolore al solo tocco; strinse forte gli occhi cercando di focalizzarsi solo sulle dita di Thorin sulla sua pelle e sul loro percorso, cercando di far ricomparire quella sensazione di piacere che l’aveva invasa fino a poco prima ma fu tutto inutile: la carne stessa del fianco le sembrò come se fosse tirata e premuta su un ferro bollente.
 
Con forza strinse i pugni e seppellì il viso nel cuscino soffocando un altro piccolo strillò che le stava per uscire dalla bocca ma il bruciore fu talmente forte da farle spostare a suo malgrado il fianco di lato e costringendo Thorin questa volta ad afferralo con piu’ decisione tanto da bloccarla premendo un’altra volta sulle ferite pulendole, ma provocandole un dolore tale che uno spasmo le attraverso il corpo facendola ritrarre dal suo tocco improvvisamente gemendo ancor di più a causa della fitta che il movimento per sfuggirli aveva scaturito.
 
“Sta ferma!” Sibilò adirato pulendole le ferite e trattandole il fianco con piu’ forza premendole ancora il panno bagnato sulla ferita e con tutta se stessa tentò di rimanere ferma chiudendo sempre di piu’ gli occhi a ogni fitta di dolore o a ogni movimento brusco di Thorin che compiva per farla stare al suo posto.
 
Ci vollero dei lunghi minuti, fatti di sospiri e gemiti da parte di entrambi, che tentavo di controllarsi, di non superare il limite  ma alla fine gli spasmi che le attraversarono il corpo cessarono e lo strusciare del panno divenne solo un sensazione di fresco piacevole così come le gocce d’acqua che sentiva scenderle dal fianco verso la pancia bagnando il materasso sotto di lei, così come le dita calde di Thorin che tornarono delicate sulla sua pelle clamandola: si lasciò andare al suo tocco un'altra volta, ma durò poco, troppo poco, la realtà torno veloce e dolorosa.
 
Appena notò che il dolore era scomparso, Thorin si allontanò da lei e guardando verso il basso ritrasse sia le mani che la pezza fredda e si alzò deciso dal fianco del letto, smuovendo il materasso e le coperte , riportando il gelo intorno a lei.
Il buio calò nella stanza, neanche il camino acceso riuscì a scaldarla o darle quel minimo di conforto che le dita di Thorin erano riuscite a donarle per quei momenti, portandola a credere infantilmente che sarebbe crollato, ma lo sguardo di ghiaccio che manteneva avvicinandosi al tavolo accanto a sé disintegrarono ogni speranza che ciò potesse avvenire.
 
Tirò su il collo dal braccio titubante, spostando lo sguardo dal cuscino a Thorin, che si puliva le dita con uno straccio in silenzio, rendendola ancora piu’ insicura su quello che dovesse fare: indecisa se parlare o meno e la sua espressione celata malamente dai capelli scuri e dalle sopracciglia nere la fecero piu’ optare per la seconda scelta. Ma infine si tirò su dal cuscino senza mai staccare gli occhi dal suo profilo basso e con calma si mise seduta così come l’aveva trovata portandosi il lenzuolo a coprirsi il petto e il fianco scoperti stringendolo tra le mani come una barriera invisibile che in quel momento avrebbe dovuto difenderla da quello che sarebbe successo.
 
Il dolore del corpo era niente in confronto a quello che sentiva nel petto, dovuta a quel muro invalicabile che ora li divideva, fatto di paure e urla che da lì a poco avrebbero preso controllo della stanza e di parole che non avrebbero mai dovuto pronunciare ma che alla fine entrambi pronunciarono, ferendosi  piu’ di quanto avessero voluto e il paradosso era che era lei che era lei la causa, e Thorin le stava solo dando la conferma di questo.
 
“M-mi dispiace.” Riuscì a sussurrare alzando gli occhi su di lui, e appena lo fece notò Thorin serrare la mascella e il suo corpo essere oltrepassato da un fremito che finì per sfogarsi sul panno tra le mani che strinse con forza, prima di poggiare entrambe i pungi serrati sulla superfice del tavolo, facendola pentire di aver parlato.
 
“Fai silenzio…” Un ringhio gutturale prese possesso della sua voce voltandosi gradualmente verso di lei con gli occhi che attimo dopo attimo divennero due braci ardenti e lasciando oltrepassare un guizzo che fu come la scintilla che lo fece esplodere: la guardò negli occhi assottigliando lo sguardo furente. “Pensavo di essere stato chiaro, pensavo di essere stato estremamente chiaro in quello che tu avresti dovuto fare, in quello che ti avevo ordinato di fare.”
 
“E lo sei stato, ma questo non…”
 
“No!” Rabbioso si lasciò andare a un urlo che la fece azzittire all’istante: il petto di Thorin si muoveva frenetico dal basso verso l’alto come se cercasse di controllarsi in qualche modo, come se quella non fosse l’unica rabbia che avrebbe voluto riversarle adesso; quello che però lei non poteva immaginare è che non era rabbia era dolore, che ormai aveva lasciato dietro di se solo l’ombra di ciò che era Thorin, un ombra che mai lasciava trasparire, quella che lo rendeva un nano come tutti.
 
“Hai la benché minima idea di quello che ho dovuto fare per portarti fino a qui?” Chiese non richiedendo una risposta premendo con ancora piu’ forza i pugni sul tavolo che cigolò lievemente. “Stavi per mandare a monte tutta la spedizione con i tuoi comportamenti da ragazzina!”
 
Un fremito le oltrepassò la schiena a quelle parole, a come era stata denominata dalla sua bocca ancora una volta: per lui era comportarsi da ragazzina quello che aveva fatto? Per lui era stato un comportamento da ragazzina l’aver rischiato la vita per salvare qualcun, altro? Per salvare lui e la sua gente?
 
Per salvare la propria gente.
 
Tutto era pronta sentirsi dire, che fosse stat una stupida, una egoista, che non meritasse piu’ a sua fiducia, cha la rinnegasse perfino, si era preparata a tutto durante quel viaggio se fosse stat scoperta, ma non poteva rinfacciarle di aver salvato delle vite, le loro vite.
 
“Io non sono una ragazzina, sapevo benissimo quello che stavo facendo!”
 
Una smorfia simile a un sorriso gli si formò sul viso, staccando le mani dal legno per poi avvicinarsi verso di lei sovrastandola con la sua altezza e scuotendo la testa volendo negarle qualsiasi possibilità di dibattere un'altra volta. “No, tu non lo sapevi, tu non sai nulla. Ti sei lanciata in campo aperto contro quattro mannari ignorando qualsiasi ragione: dovevi rimanere con la compagnia e chiamare aiuto invece che gettarti da sola mettendo a rischio non solo la tua vita ma quella di tutti quanti!”
 
Il buon senso le diceva di stare zitta, ancora, zitta... Ancora.
 
Di lasciare che si sfogasse contro di lei ora che aveva cominciato, di lasciare che gli urlasse addosso, non ribattendo neanche una volta, che lui avesse ragione o no. Il buon senso le diceva di dargli ragione, che era stata una sciocca, che rischiare la vita in quel modo era stato da sciocchi  ma lui aveva sbagliato, sì, aveva sbagliato di grosso, le aveva fatto tutto quello che era stato in suo potere e oltre, e non avrebbe ascoltato oltre di quelle sciocchezze.
 
Drizzò la schiena verso di lui affrontandolo faccia a faccia mentre una rabbia sorda cominciò a prendere possesso del suo corpo annullando anche il dolore che le costò quel movimento e il successivo staccarsi dalla tastiera del letto e mettersi seduta dritta.
 
“Io ti ho chiamato, ho urlato il tuo nome. Ho chiamato ma nessuno mi ha risposto, tu non mi hai risposto!” Sottolineo il tu quasi urlando afferrando con decisione le lenzuola sotto di lei per rimanere dritta sfidandolo. “Ho fatto quello che il mio istinto mi ha detto di fare ciò che andava fatto e non me ne pento.”
 
Thorin sgranò gli occhi a quell’affermazione che lo ferì piu’ di quanto avesse mai potuto immaginare: come osava non pentirsi per ciò che le era capitato, a incolpare lui di quello che le era capitato? Come se non bastassero i suoi sensi di colpa a torturarlo, come se lui non sapesse che sarebbe dovuto essere con lei in quel momento, che era solo per una sua dannatissima distrazione che tutto ciò era accaduto, che era colpa sua? 
 
Fuori di se le afferrò la mascella e la costrinse a guardarlo in faccia, facendole patire ogni istante che aveva patito lui, ogni momento che era stato costretto a guardare senza poter fare niente, a vederla contorcersi giorno e notte senza poter fare niente.
 
“E il tuo istinto ti ha suggerito di farti ammazzare? Di questo non ti penti? Di essere quasi morta? Perché è quello sei stata per alcuni attimi.” Ricordò studiandole lo sguardo scuro che lo stava incenerendo incurante di ciò che le stesse dicendo: il non aumentare la presa facendole male gli costò tutta la forza che avesse in corpo. ”Se vuoi finire trucidata per il tuo stupido orgoglio fallo senza che io sia costretto a guardare!”
 
A quel puntò lei si tirò via con uno strattone dalla sua stretta muovendo il viso all’indietro inarcando le sopracciglia in un misto di ira e dolore puro, un dolore che scaturiva da parole non dette, da una verità troppo difficile da pronunciare, ma che Ghìda aveva provato in tutti i modi di fargli capire ma che lui non riusciva a capire, non avrebbe mai capito.
 
“Pensi che sia davvero per orgoglio che io ti abbia seguito?” Gli chiese con una punta di ironia puntandosi il dito addosso lasciando che le lenzuola scivolassero via da lei rizzandosi sempre piu’ alta. “Per dimostrare di avere ragione su dite? Per avere ragione su Thorin Scudodiquercia? Pensi davvero che quello che io abbia fatto sia stato dettato da un desiderio egoistico?”
 
“Il motivo per cui lo hai fatto non mi concerne, e neanche mi interessa, l’unica cosa che mi importa è il risultato e ciò che hai ottenuto seguendoci è stata quasi la morte.”
 
“Però non lo sono, non sono morta. Sto bene.” Sputò Ghìda allargando le braccia  per poi abbassarle serrando le mani in due pugni, mostrandosi a lui come se fosse normale la situazione in cui riversava, come se tutto quello che avesse passato fosse normale, come se tutto quello che gli aveva fatto patire fosse normale.
 
“Bene?!” Sputò portandosi al bordo del letto toccandolo con le gambe tanto che Ghìda poteva sentire il respiro instabile di Thorin sul viso. “Bene?!“ Ripete sottolineandone ogni singola lettera. “Non hai aperto occhio per giorni interi, ho dovuto anteporre ad altri doveri la tua incolumità e la tua sicurezza, ho dovuto mobilitare le guardie e sorvegliarti giorno e notte e per questi giorni l‘unica cosa che sei stata è un maledetto peso per questa Montagna e per ogni nano al suo interno.”
 
La furia che l’aveva annebbiata si trasformò in un buco nel petto che le rese difficile perfino respirare o di compiere qualsiasi azione che non fosse fissarlo negli occhi incredula passandogli gli occhi da una parte all’altra dei due pozzi blu, che la guardavo furenti : davvero si era convinta che quei piccoli gesti avessero cambiato qualcosa, che l’averle tenuto la mano o averle pulito le ferite avessero cambiato ciò che lei significasse per lui?
Eppure glielo aveva detto esplicitamente, lei era un contratto, e lei come una bambina si era illusa che fosse una bugia per farla rimanere rinchiusa in quelle mura per tenerla al sicuro da un pericolo ridicolo, e lei… e lei che invece lo aveva inseguito perché si era innamorata di un nano, di un re, che non l’avrebbe mai considerata tale.
 
“Se tu mi avessi fatto venire con te dal principio questo non sarebbe successo.” Disse monocorde controllando le lacrime che le pizzicavano gli occhi, ma che non avrebbe versato: oh no se lo poteva scordare.
 
“Se tu fossi rimasta qui questo non sarebbe successo.”
 
“Se io fossi rimasta ad Erebor tu saresti morto adesso!”
 
Urlò dandosi una spinta tale da riuscire perfino ad alzarsi in ginocchio sul letto fronteggiandolo faccia a faccia, petto contro petto, sotto il suo sguardo sorpreso, se non per la reazione quasi violenta, per il movimento che quella rabbia era stata in grado di farle compiere, ignorando ogni ragione e ogni dolore che cominciò a farsi sempre piu’ nitido sul suo fianco.
Ma quello che sentiva dal suo cuore ormai sanguinate non era niente a confronto al dolore che le stava provocando in quel momento quel gesto.
 
Non pretendeva che l’amasse, non le importava, ma almeno chiedeva la benedizione che lui comprendesse che tutto ciò che aveva fatto lo avesse fatto solo e unicamente per lui. Per dimostrare di essere pronta a morire per lui, per dimostrargli di essere pronta ad essere la regina che lui si meritava al suo fianco, per essere la nana che non era mai riuscita ad essere, perché lui l’aveva fatta sentire tale, una nana e nient’altro.
 
Le mani strette in due pugni al lato del corpo, e lo sguardo fisso nei suoi occhi blu, la stavano mangiando viva portandola oltre il confine che non avrebbe mai dovuto superare ma che in quel momento si ritrovò a scavalcare incurante di quello che sarebbe successo in seguito, incurante della rivelazione che le uscì con voce spezzata quanto decisa dalla bocca.
 
“Ti avrebbero portato su una lettiga e io sarei stata forzata ad osservare mentre ti ponevano su una lastra di pietra fredda consumata dai sensi di colpa perché avevo deciso di accettare un tuo maledetto ordine invece di seguirti come sarebbe stato giusto fare!”
 
“Il mio fato Ghìda non è affar tuo.” Sibilò tra i denti autorevole tentando farla zittire, ma questo non fece altro che distruggere la poca lucidità che le era rimasta.
 
“E’ l’unica cosa che ti riguarda che è affar mio!”
 
Urlò con tutto il fiato che avesse in gola, liberandosi del pensiero che l’affliggeva dal primo momento in cui aveva messo piede in quella radura, dal momento in cui lo aveva visto cadere a terra, da ogni momento perfino nella sua incoscienza quello era l’unico pensiero che l’assillava e la dilaniava: l’idea di perderlo per sempre.
Le lacrime furono difficili da gestire, la sola opzione la struggeva ogni volta, il solo dover ricordare quei momenti la uccideva ancora e ancora.
 
E fu solo quell’urlo a pieni polmoni che finalmente scaturì una reazione di Thorin che ammutolì attonito mentre tremava su se stessa osservandolo in un modo che mai si sarebbe aspettato da lei; Ghìda era sul punto di piangere, glielo poteva leggere dai goti arrossate o dal lieve tremolio del labbro inferiore, e dalla ruga in mezzo alla fronte che si assottigliava e si irrigidiva ogni volta che tentava di reprimere una lacrima.
Era pronto a vederla esplodere tra le sue braccia a vederla prendergli a pugni il petto con furia a sottolineare come lei fosse una nana come tutti, ma quello che seguì non se lo sarebbe mai aspettato neanche se glielo avessero giurato.
 
 “Lo sai cosa ho provato a vederti a terra?” Sibilò, anche se la voce, però, tremò, così come i suoi occhi che luccicarono bagnati nel frattempo che si puntava il dito addosso collerica. “A non sapere se quella freccia sarebbe arrivata a segno?  Mi sono sentita disintegrata, distrutta dalla consapevolezza che se avessi mancato il bersaglio tu mi avresti lasciato sola!” Sottolineò e infine una singola e lenta lacrima le attraversò la guancia, dritta come la schiena che fieramente teneva su per contrastarlo ma che non riuscì a rendere la sua voce piu’ autorevole, che inevitabilmente si spezzò. “Tu… tu saresti scomparso e non ti avrei rivisto piu’, sarebbe tornato tutto come prima che ti incontrassi, come prima che mettessi piede in questa montagna e avrei compianto ogni giorno della mia vita perché…” Ghìda si bloccò di colpo quando si rese conto che le sue parole stava prendendo una piega inevitabile.
 
“Perché io ti amo.”
 
Glielo voleva urlare a squarciagola in faccia ma non ci riuscì, sotto quegli occhi azzurri furenti, così vicini al suo viso, non riuscì piu’ a dire una parola: la foga era scomparsa man mano facendola diventare un guscio vuoto e debole, quello che si era sempre sentita di essere e così si lasciò andare di nuovo seduta sul letto, tirandosi via da vicino al suo volto e lasciandosi andare al materasso ormai gelato come la pietra sotto di lei abbassando lo sguardo vergognandosi come non mai, incapace di sostenere i suoi occhi.
 
“Perché tu non c’eri piu’… il mio re non c’era piu’.”
 
Sussurrò senza freni e abbassò il capo fissandosi le gambe nude  prima di nascondere il viso tra le mani respirando a scatti, trattendo la testa con le mani sulle ginocchia passandosele poi nei capelli lasciandosi andare su se stessa, stanca, incredibilmente stanca: quelle parole l’avevano svuotata, e l’incapacità di non riuscire a pronunciarle successive sformandole in una semi verità la fece sentire una bugiarda.
 
Non alzò neanche lo sguardo di lato quando sentì un peso piegare il materasso, sapendo che ora Thorin gli si era seduto accanto percependo anche la sua gamba accanto alla propria; non lo alzò neanche quando sentì la sua mano sfiorarle i capelli  oltrepassandoli e muovendoglieli di lato nel tentavo di guardarla in volto: decisone alla quale si antepose spostando la testa di lato verso la candela accanto al letto.
Riuscì perfino a sopprimere i brividi che le attraversarono il collo appena le sue dita furono abbastanza vicine a questo da sfiorarle la guancia e poi poggiarsi sotto il mento, afferrandolo, costringendola a guardarlo di nuovo. Le sue dita le alzarono il viso verso il suo mandando in malora ogni suo desiderio che la discussione finisse lì, pronta a sentire quella stretta aumentare un'altra volta, ma non fu così.
 
Appena posò gli occhi sul suo volto notò come il viso contorto dalla rabbia era scomparso, le labbra prima serrate in una linea dritta erano leggermente dischiuse e gli azzurri la guardavano ovunque sul viso tranne che negli occhi, studiandola attentamente prima di incatenare gli occhi blu nei suoi; una scintilla glieli attraverso facendoli brillare di luce propria: la stava guardando in una maniera che le fece fremere il petto.
 
“Giurami…” Mormorò seriamente nel frattempo che le sue dita si fecero piu’ leggere sul suo mento fino solo a sorreggerlo solamente rendendola indifesa di fronte a ogni occhiata o parola.
“…che non farai mai piu’ una cosa del genere.”
 
Sentì la gola seccarsi improvvisamente e le si andarono a sciogliere ricadneo pesanti sulle sue gambe al contrario del suo cuore che andò a stringersi ferocemente e poi cominciare a batterle perfino nelle orecchie rendendo tutto ovattato.
 
Come poteva chiederle questo? Non ne sarebbe mai stati in grado anche se l’avesse obbligata non poteva chiederle una cosa del genere.
 
Al suo silenzio le alzò ancora di piu’ il mento e la calma che aveva mostrato per quei pochi momenti svanì di nuovo : assottigliò lo sguardo cominciando a spazientirsi, le strinse ancora di piu’ il mento rudemente interrompendo quel tocco dolce che aveva guidato il suo viso a così poca distanza dal suo..
 
“Ghìda dammi la tua parola.” Ripete autorevole, come se fosse un ordine a cui si potesse obbedire, come se lei potesse davvero obbedire: forse era l’unico ordine a cui non sarebbe mai stato in grado di accettare.
 
“Non posso.” Riuscì a mormorare mentre la voce cominciava di nuovo a incrinarsi.
 
“Tu devi.” Sottolineò, ringhiando.
 
“Thorin…” Ripeté mentre la testa cominciava a ciondolarle e gli occhi a farsi di nuovo pesanti, fissandogli il labbro spaccato rimembrandole quei momenti che avrebbe voluto solo cancellare: resistette all’impulso di togliersi dalla sua presa e prendergli il viso tra le mani ripetendo quelle parole una per una, ma compì un gesto piu’ intimo, talmente intimo e dolce che perfino il re dei nani, non poté fermare il suo cuore dallo spezzarsi a metà.
 
Gli poggiò una mano sul petto abbassando lo sguardo su questo, insicura che la sua mano potesse andarsi a poggiare lì dove tutto era cominciato per lei e dove tutto sarebbe finito per lei: un ultimo gesto per fargli capire cosa intendesse, perché non potesse giurare fedeltà al suo re.
 
“Io non posso.” Mormorò ancora alzando lo sguardo di nuovo verso il suo, ora tanto vicini da isolarli da qualsiasi altra cosa che non fossero i reciproci respiri sulla pelle.
Lo vide avvicinarsi sempre di piu’ mentre l’indice che le tratteneva il mento si andò a inarcare portandola ad alzare verso il suo: sentì il suo respiro sul suo viso, il profumo di cenere che le si andò a insidiare nel naso annebbiandole la testa e rendendola malleabile come il metallo fuso.
 
La fronte di Thorin si andò a poggiare con delicatezza sulla sua portandola talmente vicino da sentire i loro nasi sfiorarsi l’uno sull’ altro mentre le loro bocche si avvicinavano incontrollate e incontrastate, perché nessuno dei due sarebbe stato capace di fermarsi in quel momento e nessuno dei due lo voleva. Fece scivolare lentamente il pollice oltre il suo mento prendendole con dolcezza la guancia con la mano osservandole gli occhi neri socchiusi e lo scintillio che emanarono oltre le lunghe ciglia nere, per lui, solo per lui.
Le mani di Ghìda si andarono a muovere sul suo petto poggiandole entrambe su di esso, per un attimo sembro quasi volerlo allontanare, fermarlo in qualche modo diventando capace di bloccare quell’enorme sbaglio, quell’immenso e dolce sbaglio nel quale si stavano per lasciar andare.
 
Ghìda strinse lentamente le dita vicino al collo della camicia  sentendo il suo respiro sempre piu’ vicino e la barba scura sfiorarle lievemente la pelle: il cuore le sobbalzò nel petto desiderando quel momento come un’assetata, eppure qualcosa le diceva che non ne sarebbe piu’ riuscita a tornare indietro se fosse accaduto; anche se quasi socchiusi riuscì a vedere gli occhi di Thorin scintillar dal desiderio, un desiderio che in quel momento lo stava bruciando vivo.


Durin ti prego fermami.
 
Mahal ti prego fermalo.
 


Ma le preghiere di entrambi non furono ascoltate e in quel piccolo angolo di infinito, fatto di stelle e fiamme, le loro bocche si incontrarono scuotendo le radici stesse della montagna e slacciando quel filo che non aveva fatto alto che tirarli l’uno all’altra giorno dopo giorno e fu come se respirassero per la prima volta.
 
Tutte le stelle dell’universo di bloccarono e rallentarono il loro giro frantumando il velo del giorno solo per osservare quel momento marchiato a fuoco sotto il nome di entrambi prima che avessero emesso il loro primo vagito.
 
No, Ghìda aveva ragione, non potevano tornare indietro, non piu’, saldati insieme da un legame indissolubile ed eterno come Arda stessa.
 
Il sentimento che provavano entrambi finalmente prese un nome, struggente e spaventoso che per poco non li divise ancora facendoli scappare da quella stanza a gambe levate, ma fu la paura stessa di non poter provarlo mai piu’ se non in quel momento che invece di allontanarli gli fece premere nuovamente le loro bocche l’ una sull’altra.
 
Il loro solo sfiorarsi incerti non fece altro che saldarli ancora di piu’ e ben presto entrambi si lasciarono andare a quella sensazione che li colmò all’istante, riempitoli di un desiderio  che superava di gran lunga qualsiasi brama mai provata finora da un nano: superava l’amore per l’oro, per le gemme, per l’argento, per la gemma delle gemme sotto di loro.

Le labbra di Ghìda erano tremanti e incerte, scosse da dei leggeri tremoli quando si baciarono una seconda volta con piu’ decisione, facendo chiudere gli occhi a Thorin che fino a quel momento li aveva tenuti socchiusi per osservarla, per essere sicuro di quello che fosse appena accaduto e di quello che stava per accadere di nuovo fosse reale e non fosse frutto di un sonno mancato.
Thorin aveva bramato quel bacio così tanto e così ardentemente, rilegandolo nelle ore segrete notturne, che vi si abbandonò diventando roccia fusa sotto le sue mani ancora poggiate sul suo petto che se fossero state un po’ piu’ a sinistra avrebbero sentito il suo cuore esplodergli nel petto.
 
Troppa la disperazione, troppa la paura di essersi persi che le armature di entrambi caddero a terra dopo un estenuante battaglia combattuta con se stessi e contro tutto ciò che erano sempre stati costretti ad essere, due corpi che non fecero altro che fondersi l’uno con l’altra in un bacio che divise le loro anime a metà donandola inconsapevolmente l’altra metà all’altro
 
Ghìda lo trattene tirandolo ancora di piu’ verso di se schiudendo la bocca appena senti un po' piu’ di pressione sulle labbra lasciando il respiro di Thorin intrecciarsi con il suo perdendo ogni briciolo di autocontrollo e trasformando quel bacio dapprima incerto e dolce in quello che era da sempre stato per entrambi, un bisogno, che ogni movimento delle loro bocche invece di diminuire aumentava a dismisura bruciandoli vivi.
 
Thorin le passò la mano dietro i capelli incrociando le dita tra le ciocche castane e l’altra a stringerle con decisione la vita tirandola ancora di piu’ verso di se insinuando la lingua nella sua bocca con ancora piu’ prepotenza ardendolo vivo ogni volta che sentiva ritirarsi incerta; sorpresa Ghìda si lasciò scappare un gemito nella sua bocca portando le sue braccia a cingergli il collo e le spalle ricambiando con simil ardore ogni suo gesto, ogni suo bacio.
 
Quello per lui fu il punto di non ritorno: senza staccarsi dalle sue labbra la spinse di nuovo giù’ verso il cuscino incoraggiato dalla schiena di lei che si tirava sempre piu’ indietro portandolo con se; le bloccò il viso con smania con la mano mentre quella libero scivolò lentamente verso la sua spalla, sfiorandole il seno, fino ad attraversarle la pancia per poi afferrale il fianco scoperto facendola rabbrividire portandola a premere il suo corpo ancora piu’ sul suo
 
L’eccitazione li saldò in una bolla fatta di respiri pesanti e fremiti che si facevano sempre piu’ rumorosi e incontrollabili, come il calore che Ghìda cominciava a sentire nel basso ventre che la portò ad afferrargli i capelli della nuca con forza. e ad allargare le gambe per farlo adagiare ancora meglio sopra il suo corpo che non sentiva piu’ neanche suo, che non voleva neanche piu’ che fosse suo. Si lascio andare a un sospiro quando sentì il calore della sua mano scendere ancora piu’ giù verso la coscia nuda portandole la gamba intorno al suo ventre che lei intrecciò senza indugi facendo incontrare loro bacini.
 
Thorin non aveva più’ il controllo di se stesso e in quella situazione non era neppure sicuro di volerlo piu’: si lasciò andare ancora di piu' se fosse possibile a quel bacio che lo stava torturando. Si tirò su con il ginocchio puntato sul letto adagiandosi su di lei lasciando che la gamba allacciata sul suo fianco lo portasse sempre piu’ a perdersi in lei senza possibilità di tornare indietro stringedola con forza a se.
 
Ma un secondo gemito lo fece destare, non di piacere, ma di dolore che interruppe tutto violentemente,  frantumando come il vetro la campana di respiri e baci in cui si era trovato intrappolato, e come un bagno ghiacciato la consapevolezza e la ragione lo investirono spaccandogli il cuore a metà: uno sbaglio tutto quello che era successo era stato un enorme sbaglio.
 
Aprì di scatto gli occhi ansimante e le sentì il suo petto muoversi affannato sotto il suo, come il cuore di entrambi che si scontrarono in quei respiri pesanti: gli occhi di lei a malapena socchiusi e le goti arrosate e le labbra gonfie che per un attimo lo tentarono un'altra volta ma la realizzazione che si era fatta largo in lui era un qualcosa di talmente struggente che superò ogni suo desiderio.
 
Si allontanò da lei facendo scivolare via la mano dalle sue gambe nude tirandosi indietro dalle sue labbra, e direttamente su in piedi  e serrando le mani in due pugni conficcandosi le unghie nella carne la vide ferita, profondamente ma anche profondamente consapevole di quello che era successo e di quello che stava per succedere, che entrambi volevano che succedesse.
Thorin non avrebbe retto un attimo di piu’ di quello sguardo, perché o si sarebbe messo a urlare ancora o l’avrebbe presa, pentendosene amaramente subito dopo: senza guardarla oltre mise piu’ distanza che poté tra lui e quel letto, lui e l’unica cosa che non avrebbe voluto abbandonare dietro di se.
 
“No…” Riuscì a sentirle sussurrare mentre usciva dalla porta sbattendosela violentemente alle spalle e per la prima volta in vita sua fuggì come un codardo: da quella stanza, da quell’odore, da quegli occhi ,da quelle labbra.
 
La devastante verità lo aveva schiacciato rendendolo cieco a qualsiasi altra cosa gli stesse capitando intorno, un forte dolore al petto lo investi facendolo piegare su se stesso poggiandosi sul muro accanto alla porta con la mano piegato in due dal dolore: no, lo aveva saputo lo aveva sempre saputo, avrebbe dovuto prevederlo, evitarlo, eppure tutto gli fu improvvisamente e terribilmente chiaro.
 
Lui non sarebbe stato capace di affrontare un simile dolore a subire quel calore per poi vederselo portato via come era quasi successo; rabbrividì a quel pensiero sentendosi sprofondare ancora di piu’ graffiando la pietra fredda sotto le sue dita: non poteva piu’ patire quel dolore, non ora che aveva capito che la sua anima non gli apparteneva più’, non ora che sapeva che sarebbe rimasto legato a lei in eterno, non ora che il re di Erebor che tutti si aspettavano che fosse era diventato un puro e semplice nano, non ora che non c’era piu’ scelta, non ora che per quanto lui non lo volesse, non potesse accettarlo, avrebbe amato lei e solo lei fino alla fine dei suoi giorni. E ne avrebbe sofferto fino alla fine dei suoi giorni.
 
 
 
 





Le onde si infrangevano velate sulle sabbia nere, i granelli di sabbia si muovevano l’uno sull’altro flebilmente, ma lo sbattere sulle scogliere rimaneva comunque così tumultuoso da rendere l’aria della grotta terribilmente pesante e forniva il lamento che avrebbe permesso che le parole pronunciate al suo interno rimanessero un maligno segreto ben custodito.
 
Due mannari si ruggivano a vicenda andando a sbattere le schiene contro la parete umida della roccia, coperti dall’oscurità spezzata solo dalla luce della luna che netta spargeva i suoi raggi dall’entrata della caverna. Dal profondo di questa dei passi pensati riecheggiarono feroci, come gli occhi del nano a cui appartenevano che stringeva tra le mani prepotentemente un foglio di pergamena che venne brutalmente lanciato sul suolo umido a di fronte ai piedi macabri e rancidi del suo interlocutore.
 
“Cosa significa?”
 
“Il mio padrone desidera che tu lo dica a noi. Non ha gradito che la tua prole si trovasse lì. Non hai piu’ il controllo Telkar, figlio di Tolkur.”
 
Il capoclan avanzò furente verso gli occhi gialli e raccapriccianti, che avevano osato mettere in discussione la sua autorità: la puzza disgustosa di cadavere marcio che emanava  invase l’aria umida intorno al signore dei nani  rendendogli la cicatrice sull’occhio ancora piu’ marcata.
 
“Non osare Snaga, lerciume, ad attribuire le vostre disfatte a me! E’ solo una piccola marcia ragazzina, quello che fatto quello è stato per puro piacere nel crogiolarsi nel suo orgoglio.”
 
Al termine usato i due mannari smisero di lottare tra di loro e indirizzarono la loro attenzione verso il nano che rimase fermo osservando la bocca dell’orco nero continuare a produrre bava verde e viscida che gli deformò il riso lugubre che gli si dipinse sulle labbra e a quel gesto Telkar continuando a guardarlo compì solo un passo indietro dal viso dell’orco ma questo non interruppe i due mannari: avanzarono intimidatori con la bava alla bocca affiancando l’orco in piedi di fronte a lui.
 
“Assicurati, che sia in grado di fare ciò che andrà fatto o sarà il tuo corpo a essere eviscerato sulle mura di quella montagna nano.”
 
“Lei è mia, farà ciò che io le ordinerò. Per Thorin Scudodiquercia e la sua stirpe non ci sarà un’alba, Angmar sarà vostra e l’obbedienza dei sette clan mia e l’ombra della guerra si spargerà da essa, che lo vogliano o no.”
 
L’orco nero avventò una delle sue mani nel pelo di uno dei mannari accanto a se agguantandogli il collo prepotentemente  e conficcandogli le unghie nere nella carne facendolo guaire dal dolore e spingendolo verso il basso in una lenta tortura che fece sedere la bestia accanto a lui obbediente, facendolo smettere di sbavare e ringhiare.
 
“E se non avrai la loro obbedienza?”
 
“Bruceranno tutti.”
 
 
 
 
 
 
 
 





Angolo Autrice
 
Per la prima volta posso addirittura dire di essere in anticipo!!!!!
ALLLLLLLORAAAA DAJE UN PO’, DITEMI DITEMI, QUANTA SODDIFAZIONE VI HO DATO? EH? EH? <3 <3 <3
Un po' gne però sempre una soddisfazione c’è stata dai, una piccola gioia per tutti e due da un certo punto di vista, però così doveva andare, come già mi era stato detto, non sono tipi da facilitarsi la vita e in realtà sarebbe stato anche ooc che Thorin se la semplificasse.
Mi si è spezzato il cuore eh, cioè in realtà per tutto il capitolo ce l’ho avuto spezzato, ma proprio tanto, sia per lui che per lei e so che avrei dovuto farla vedere ma fare un piccolo riassunto anche per far percepire il tempo che passa la trovo una cosa piu’ semplice.
Dìs e Dwalin mi hanno fatto stringere un po' il cuore anche loro, non vi preoccupate come ho già detto sarà una cosa accennata, saranno poche le parti così.
Telkar invece spero che abbiate capito un po' di cose, anche se mi va di rivelarle un po' alla volta >.>
Come dite ch si evolverà la situazione tra i nostri due amori? Cosa farà Thorin a questo punto? E Ghìda sarà capace di affrontare un rifiuto del genere pur essendo consapevole di ciò che sono l’una per l’altra? (Quanta tensione sessuale si portano dietro? XD) Cosa deve fare Ghìda per suo padre e come reagirà Erebor al risveglio di Ghìda? La riusciranno davvero ad accettare, questo cambierà qualcosa con Thorin? Ditemi ,ditemi, secondo voi come si evolve, perché mi rendo conto che vi sto strappando il lieto fine dalle mani ogni volta. E sopratutto una domandona, state notando dei cambiamenti nel mio stile di scrittura? Lo trovate migliorato peggiorato, rispetto dal capitolo 5 in poi (escludo gli altri perchè erano molto piu' semplici e sintetici infatti verranno revisionati).
PS: ve piace la copertina? Sta volta mi ci sono impegnata yeeeee.
Nekoblonde ti ho dato alla fine uan scansione temporale hai visto? Ahahahhaah
Non ho ricevuto recensioni per il capitolo prima GIUSTAMENTE quindi non ringrazierò nessuno :3 lol però ringrazio preventivamente tutti quelli che commenteranno ma come al solito farò le menzioni onorevoli per tutti quelli che seguono la storia: Alcalime91,  Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, NekoBlonde, Perla_16, Ribes Roger , marisole, e Nekoblonde
 
Grazie in anticipo a tutti quelli che vedranno questa parte in seguito e commentereanno <3

 
 





 



SPOILER:



“Vorrei non averti mai incontrato.”

 

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Capitolo 14
*** I Valar ti odiano quanto io ti amo. ***


Pre angolo autrice:
Possibile ooc Thorin e possibile pianto a singhiozzi.
E leggete anche l’angolo autrice che vi devo fare un ennesimo sondaggio.
E preparate i catini sia per le lacrime che per la bava.

 
 
 
 
 
 

I Valar ti odiano quanto io ti amo.

 



 
 
 





 

“Per la barba di Durin ma qua dentro si gela.”
 
Furono queste le prime parole che uscirono dalla bocca di Bofur quando varcò la soglia della stanza stringendosi le spalle l’una all’altra con il corpo attraversato da un brivido freddo; le ali del cappello tremarono così come si agitò il contenuto del boccale che teneva nella mano creando un leggero gorgoglio che si andò a unire allo scoppiettare del camino accesso scavato nel muro.
 
Ghìda alzò lo sguardo dal libro che teneva sul ventre verso il nano che era appena entrato nella stanza e a stento  riuscì a trattenere una risata quando continuò a muoversi dondolando su se stesso come se fosse appena entrato in una landa ghiacciata: cosa che la sua camera era ben lontana dall’essere. La luce del primo pomeriggio entrava dai vetri trasparenti della finestra, alternata a tratti da leggere ombre dovute alla neve che placida continuava a cadere ormai da già due giorni inoltrati. Ma il freddo che avrebbe dovuto portare, accentuato anche da dei piccoli fiocchi di neve, che di tanto in tanto riuscivano ad oltrepassare lo spiffero della finestra, a lei non davano alcun fastidio visto il come si trovava costretta a letto.
 
“Posso assicurarti mio caro Bofur che la parola freddo non mi scalfisce minimamente sotto tutte queste pellicce.” Appuntò sorridendogli nel frattempo che Bofur si chiuse la porta alle spalle con un leggero calcio trattenendo ora il boccale con entrambe le mani per farlo mettere di tremare: con scarsi risultati.
 
Alzò incuriosito lo sguardo studiando sia  la quantità di pellicce che la ricoprivano e le altrettante candele accese sui piccoli tavolini accanto al suo giaciglio, sia la quantità di cuscini che le sostenevano la schiena e le circondava quasi tutto il corpo per sorreggerla: poteva sembrare una piccola prigione vista da lontano ma certamente una prigione accogliente, almeno per quei cinque giorni
 
“Sarà ma per chi non è lì sotto non è certamente piacevole.” Ridacchio Bofur sotto i baffi e si diede un’ultima scrollata prima di avanzare a piccoli passi guardandola gentilmente per poi spostare lo sguardo verso le pile di libri sparsi al suo fianco, che ormai riempivano quasi metà del letto andando ad occupare perfino le pieghe delle coperte.
 
“Ve li ha portati Ori non è vero?” Le chiese Bofur probabilmente conoscendo già la risposta sedendosi sul piccolo sgabello accanto al suo letto spostandolo con un paio di movimenti di bacino per farsi piu’ vicino.
 
“Ieri mattina, me ne voleva portare altri, ho dovuto pregarlo di non farlo. Sono un abile lettrice ma non  abbastanza da terminarne così tanti in così poco tempo.”
 
Tenne ad appuntare vista la quantità di libri e pergamene ancora ben chiusi accanto a se di cui non si era minimamente preoccupata, troppo impegnata a leggere quello che aveva tra le mani  che chiuse  con un piccolo tonfo posandoselo sopra il ventre coperto da una leggera pelliccia bianca e nera che si andava ad aggiungere alle tante altre sparse su ogni superfice del letto.
 
Bofur dovette trattenersi dal dirle che già lo sapeva, anzi che lo aveva perfino visto la mattina prima accatastare decine e decine di libri inondando tutti i tavoli della biblioteca di antichi volumi in khuzdul:  quanto timido non si sarebbe fermato, forse trovando volumi sempre piu’ interessanti da portarle avrebbe continuato così per giorni.
 
“Io invece vi ho portato qualcosa di ben piu’ interessante.” Sottolineò alzando il boccale di legno scuro che tratteneva nella mano, oscillandolo cercando di farglielo notare il piu’ possibile, il che non fu difficile vista la grandezza della pinta dalla quale si poteva vedere la schiuma bianca uscire di lato.
 
Lo osservò dapprima incerta spostando lo sguardo da lui verso il bicchiere che tratteneva tra le mani e poi alzò un sopracciglio divertita arricciando il naso.
 
“Della birra?” Gli chiese confusa trattenendo a stento una risata tra le labbra.
 
“La vera medicina per il corpo e per lo spirito e…. anche per sentire meno dolore.” Le fece un piccolo occhiolino d’intesa guardandole verso il fianco nascosto dalle coperte e divertito dalle sue stesse parole le allungò fieramente il bicchiere colmo.
 
Non sarebbe stata un’idea saggia bere, soprattutto a quell’ora ma al susseguirsi di un’ennesima complice a cui fu costretta a cedere annuendo con la testa a mo’ di ringraziamento prima di portarselo alle labbra e prenderne un lungo sorso.
 
Era fredda e amara e la dissetò immediatamente, anche se non le avesse fatto passare in alcun modo il perenne fastidio al fianco le avrebbe comunque dato una piccola soddisfazione che in quei giorni erano diventate sempre piu’ rare, se non inesistenti o impossibili anche solo da immaginare.
 
Bofur rimase in silenzio guardandola prendere un lungo sorso nel frattempo che un sorriso sornione ed aperto gli illuminò gli occhi scuri, probabilmente fiero che lei avesse gradito il piccolo gesto, a cui aveva cercato di opporsi ma alla fine non sarebbe stat qualche sorso di birra a farle del male piu’ di quanto non fosse già.
 
 “Come vi sentite?”
 
 Le chiese con una punta di preoccupazione tanto leggera quando pressante facendole rizzare la schiena e abbassare il boccale di birra giù fino al ventre: era una domanda lecita e che in quei giorni in molti le avevano rivolto ma per qualche strano motivo  il modo in cui gli pose quella domanda la colpì piu’ del dovuto. Possibile che sapesse?
 
No, non poteva, ma gli occhi scuri che la osservavano in attesa di una risposta le fecero capire che la domanda non si riferisse solamente alle sue condizioni fisiche.
 
Ghìda d’istinto si portò una mano sulla vita: anche attraverso le coperte poteva percepire il rigonfiamento della fasciatura e un calore che non riusciva a togliersi da dosso da giorni; trattenne il groppo in gola che si stava formando di nuovo e cerò di controllare il tono di voce che sapeva si sarebbe interrotto a metà della frase se non fosse stat attenta.
 
 “Le ferite si sono quasi rimarginate.” Disse in fretta prendendo un breve respiro e per la prima volta dopo settimane forzò un sorriso finto, che fece distendere di un minimo i tratti di Bofur, ingannandolo. “Riesco ad alzarmi da letto e a camminare per qualche passo, le fasciatura ora riesco a cambiarmele perfettamente anche da sola.” Aggiunse sbrigativa socchiudendo gli occhi tentando di reprimere quei momenti che si sforzavano a ritornare a galla. “Ti ringrazio Bofur.”
 
Il nano dai lunghi baffi si sentì in colpa ad aver posto quella domanda, non che la potesse porre ad altri in realtà perché non era neanche sicuro che fosse accaduto qualcosa, ma il comportamento di Thorin in quegli ultimi giorni da quando si era svegliata avevano fatto sorgere in lui questo dubbio che non era riuscito a condividere con nessuno.
Dopo quello a cui aveva assistito nelle terre Selvagge era sicuro che, per quanto assurdo fosse pensarlo, Thorin sarebbe stato il primo a starle accanto nella sua veglia, così come lo era stato prima che si svegliasse, invece dopo i consigli la mattina a cui presenziavano dava un ordine netto di salire a controllare come stesse, non accennando neanche il suo nome e questo lo aveva spinto a pensare che fosse successo qualcosa ma cosa di preciso non poteva immaginarlo nelle sue fervide immaginazioni, come nessuno all’interno di quella montagna.
 
“Sono felice di sentirvelo dire. Ci avete fatto prendere un bello spavento sapete? Non potevamo fare nulla viste le vostre condizioni.”
 
”Se vuoi finire trucidata per il tuo stupido orgoglio fallo senza che io sia costretto a guardare!”


Forse la ferita che si era riaperta quando aveva poggiato la mano sul suo fianco, forse la presenza di un’altra persona che metteva a dura prova la sua corazza, ma la frase di Bofur venne trasformata nella sua testa portandola a ricordare ciò che non voleva ricordare.
 
Quelle parole la investirono un’altra volta andando a conficcarsi come l’ennesima lama all’ interno del suo petto, un dolore che non aveva smesso di provare da giorni, da quando le labbra di Thorin avevano lasciato le proprie, da quando lui l’aveva guardata come se tutto quello che era accaduto fosse stato un terribile sbaglio. Che averla baciata fosse un errore che quei sospiri, quella voglia di averlo su di lei , di sentirlo addosso, dentro di lei, fuori da lei, fosse un peccato che non sarebbe mai dovuto accadere, fosse un qualcosa che non avrebbe mai voluto desiderare: eppure ne voleva ancora, voleva soffrire ancora così.
 
Era impossibile anche solo da pensare alle parole per descrivere  quello che aveva provato, ma di una cosa era certa quello che lui era per lei, non era quello che lei era per lui.
 
Quella consapevolezza l’aveva fatta piangere dal momento in cui Thorin era uscito dalla sua stanza sbattendo la porta dietro di se, fino a che gli occhi pesanti e stanchi non l’avevano portata ad addormentarsi tra i singhiozzi. Non riusciva neanche a respirare e quando ci riusciva, il dolore era pari a quello dei canini del mannaro nella carne: avrebbe voluto urlare tra i cuscini, ci aveva anche provato nella notte quando nessuno l’avrebbe potuta sentire, ma quella che le erano uscite non erano state altro che altre lacrime silenziosi.
 
La sua anima apparteneva a lui e inevitabilmente ne aveva ogni potere, anche quello di distruggerla e così era stato e così sarebbe stato per sempre, il suo amrâb, la metà che le era sempre mancata e che aveva sempre cercato non si trovava nel suo sangue: era in un’ altra persona e faceva male, terribilmente.
 
Lei lo amava e lui no, questa era la verità e per quanto se ne volesse fare una ragione, non ci riusciva, perfino il suo corpo sembrava punirla facendole dolere il braccio fasciato o il fianco ancora di piu’
 
Durante il giorno la sue abitudini erano cambiate: a malapena poteva alzarsi dal letto, passava le sue mattine a fissare il camino, a evitare di spostare lo sguardo accanto a se dove salda giaceva ancora la pelliccia di Thorin sulla sedia che lui aveva occupato; dopo i primi due giorni però aveva cominciato ad alzarsi dal letto, e tra un gemito di dolore e l’alto era perfino riuscita a farsi un bagno e nelle ore pomeridiane, come era accaduto ora, non erano mai mancate delle fugaci visite: Bofur era stato solo il piu’ frequente ma anche Balin si era premurato di controllare come stesse,  Òin entrava per controllarle le ferite, Ori per portarle qualcosa con cui passare il tempo, l’unica visita che la sorprese fu quella di Dwalin. Non si fidava di lei, lo sapeva, a malapena nella sua fugace visita le aveva rivolto la parola, solo deboli monosillabi, come se cercasse di dirle qualcosa non riuscendo a pronunciarla.
Una cosa sola la stupì facendola incuriosire ma anche preoccupare: un grazie, a malapena sussurrato prima di uscire, senza contesto alcuno e a cui non riuscì a dare contesto alcuno.
 
Sapeva sicuro per chi non fosse e per cosa non fosse.
 
Aveva sperato che la porta si aprisse e fosse lui ad entrare, ma in quella manciata di giorni non era piu’ tornato: non una volta aveva sentito la sua voce fuori dalla sua porta, non una volta aveva sentito le porte della balconata aprirsi e sbattere nella notte come aveva fatto i primi giorni ad Erebor  e mai aveva avuto suo notizie e benché meno ne aveva chieste. Alla fine si era abituata all’dea che non sarebbe tornato.
 
No, non più.
 
“Lo so…” Mormorò piu’ a se stessa che a Bofur accanto a lei che inarcò la bocca in un sorriso tra il malinconico e il consapevole.
 
Seguì un breve silenzio in cui Ghìda fisso la birra dorata sul fondo del bicchiere e in cui Bofur dovette studiare bene le parole da dire: gli affari tra lei e Thorin erano solo loro e impossibili da comprendere, erano troppo chiusi per lasciarli trasparire ma seppur non aveva il diritto di consolarla su quello poteva confortarla in altro modo.
 
“Avete dimostrato grande coraggio, se fossi in voi non mi struggerei oltre, e poi con la benedizione di Durin siete ancora qui e questo aiuta molto a vedere la faccenda da un'altra prospettiva.”
La vide sussultare un minimo e accennare un sorriso verso il fondo del bicchiere, gesto che lo incitò a continuare, con piu’ entusiasmo rispetto a prima e ad avvicinarsi ancora di piu’ al giaciglio. ”Se mai dovrò cimentarmi un qualche impresa di nascosto da occhi indiscreti, penserò certamente a voi come mia complice.” Concluse rivolgendole un occhiolino fugace.
 
Il sorriso si trasformò ben presto in una risata divertita; Ghìda alzò la testa dal boccale scuotendo la testa che le sembrò improvvisamente piu’ leggera di quanto non lo fosse mai stata in quei giorni, e la birra che aveva ingerito non era l’unica complice. “Penso che la mia riuscita sia solo stata dovuta a un colpo di fortuna, nient’altro, e una piccola dose di distrazione immagino.”
 
“Mia signora se siete così fortunata e non abile dovrete suggerirmi su chi puntare nelle prossime scommesse! Se vi interessa ne ho una pronta pronta per il prossimo intoppo ai mulini o un'altra sulla prossima carrucola che andrà affondo.” Bofur allargò le braccia sorridente come per puntare l’ovvietà della frase ridacchiando sotto i lunghi baffi.
 
“Ti hanno mai detto Bofur che hai la strana capacità al rendere tutto piu’ leggero?”
 
“E a voi hanno detto che avrete l’imbarazzo dell scelta su chi incontrare quando uscirete da quella porta?” Appuntò per distrarla da cattivi pensieri lanciando uno sguardo verso la porta chiusa tirandosi indietro sullo sgabello e facendo ciondolare le ali del cappello da una parte all’latra quando gliela indicò con la fronte prima di incrociare le braccia al petto. “Siete parecchio richiesta.”
 
Ghìda lo guardò confusa, aggrottando le sopracciglia scure e inclinando leggermente la testa di lato. “Cosa intendi dire?”
 
“Che ci potrebbero essere dei piccoli nani accampati con spade e scudi sporchi di fuliggine e pece in una sala del palazzo pronti ad aggredirvi mia signora”
 
Il sorriso che aveva sul volto si spense del tutto a quella frase e le mani intorno al boccale di birra tremarono leggermente scosse dalla realizzazione di quello che aveva appena sentito: Drel, Trel, Mar, Fàrim, Lòni, Mar, Nìm… Con fatica si impose di porre la domanda  che le fece saltare un battito appena pensata. “Loro sanno cosa è accaduto?”
 
Il tono allarmato con cui le pose quella domanda lo scosse e non poco, avrebbe voluto dirle quello che si diceva in giro, forse anche che per giorni il gruppo di piccoli nani non avevano lasciato le entrate del palazzo per vederla uscire, non trovando mai il coraggio di chiedere alle guardie di poter salire verso le stanze della regina, ma buttarle un ennesimo peso addosso sarebbe stato inconcludente e decise di dire una mezza verità tentando di alleggerirle il petto.
 
“Tutti nella montagna sanno cosa è accaduto, non si è fatto alto che parlare di quello che è successo in questi ultimi giorni.”
 
“Non è un bene vero?”
 
“Si sta organizzando un banchetto per la riuscita dell spedizione e per il nostro rientro, credo che anche se fosse un male, non lo sia così tanto da interrompere i festeggiamenti e se conosco i nani di questa Montagna saranno piu’ grandi dei precedenti e no…” Si bloccò Bofur sospirando e socchiudendo gli occhi come per pregustarsi già le ore notturne o la birra e il fumo che avrebbero imbrattato le tavolate di legno. “Sotto questo punto di vista non è  assolutamente un male.”
 
Le scappò un leggero sorriso, annullando qualsiasi preoccupazione, che sapeva già le si sarebbe stata posta che se la risposta sarebbe stata opposta rispetto a quella che le aveva rivolto; era facile parlare con Bofur, sembrava non avere peli sulla lingua e anche nella situazione piu’ assurda, riusciva sempre a strapparle un sorriso: gliene fu grata, tremendamente.
Se non fosse dovuta rimanere nascosta per tutti quei giorni a cavallo nelle retrovie con molta probabilità si sarebbe unita ai leggeri canti che riusciva a sentire in cima alla colonna, che Bofur continuava a mormorare tentando in una reazione positiva, ma che non ebbe mai.
 
Gli lanciò uno sguardo complice e di sfida alzando un sopracciglio e tirandosi ancora piu’ su sui cuscini dietro di lei. “Vi parteciperò solo se mi permetterai di cantare con te questa volta.”
 
La frase dapprima lo scosse facendo sobbalzare sulla sedia e sciogliere leggermente le braccia al petto, ma poi notò il suo sguardo compiaciuto e ridacchiò arrossendo leggermente prima di alzarsi dallo sgabello con fare teatrale togliendosi il colbacco e rivolgendole un inchino enfatizzato e volutamente ridicolo. “Oh mia signora…” Cominciò con un accento esasperato delle montagne dell’Ovest. ”Se la ponete su questo piano potrei anche spingere a far velocizzare i preparativi a questa sera.”
 
Ghìda sospirò divertita scuotendo la testa, e lo sguardo le cadde inevitabilemnte verso la porta dietro di Bofur: liberata dalle quattro mura che l’avevano ghermita e imprigionata, in quei giorni in i suoi pensieri avevano viaggiato ovunque, perdendosi tra le stelle sopra di lei o insediandosi nelle miniere sotto di lei. Si erano persi nei momenti che avrebbe vissuto quando sarebbe uscita da lì, tentando di scappare da quei ricordi che la laceravano ogni momento che passava distesa in quel letto, rimembrando quegli attimi che l’avevano fatta affogare tra le lacrime.
 
Sentiva sempre in ogni momento il peso sul suo corpo, le mani di Thorin che scendevano sempre di piu’ infuocandola, le labbra sulle sue sua calde come una fornace e il cuore che unito al suo avevano cominciato a battere allo stesso ritmo, alternati dai loro respiri e gemiti: forse era stata lei a baciarlo, forse non c’era mai neanche stato un vero bacio, forse era stata preda della febbre eppure lui l’aveva voluto tanto quanto lo aveva voluto lei ma desiderò non fosse mai successo.
 
Nell’ironia della sorte avrebbe voluto cancellarlo e far tornare tutto a come era prima di quel momento.
 
Se non fosse accaduto con molta probabilità l’avrebbe lasciata lì nella sua stanza ammonendola con gli occhi prima di andarsene e le loro giornate sarebbero ricominciate daccapo, quei pomeriggi sarebbero ricominciati come se non fosse mai accaduto nulla: avrebbe ricominciato ad osservarlo in silenzio nella fucina tentando di accontentarlo per quanto le sarebbe stato possibile rubandogli quei sorrisi fugaci ogni volta che completava una forgiatura in modo corretto e avrebbe continuato a sentire i suoi sbuffi accanto alla sua spalla ogni volta che non riusciva a comprendere le parole che lei stessa gli leggeva tra le librerie colme e silenziose della biblioteca.
 
Avrebbe ridato indietro quel bacio solo per avere di nuovo uno di quei momenti con lui, dove lui era solo Thorin e lei era solo Ghìda. Dove lei poteva godere di lui in silenzio, poteva fantasticare in silenzio e poter immaginare un futuro diverso rispetto a quello che le era stato disteso davanti: un futuro in cui non sarebbe stata solo un contratto, uno stupido accordo, in cui, come aveva detto a Màr, si sarebbero sposati perché lo volevano entrambi.
 
Con un sospiro netto si tirò su a sedere scostando le pellicce che la imprigionavano e i libri accanto a se, attenta a non rovinarli, sotto gli occhi preoccupati di Bofur che, in seguito al suo silenzio e a dove avesse incatenato lo sguardo, aveva già capito le sue intenzioni. Vi si oppose alzandosi in piedi dallo sgabello su cui era seduto allargando allarmato le braccia pronto ad afferrarla se fosse caduta sotto il peso delle fitte.
 
“Dovreste rimanere a letto, non è una buona idea.” Tentò di dissuaderla ma anche se con difficoltà Ghìda si mise seduta sul bordo del materasso e poggiò il boccale di birra ancora mezzo pieno che finora aveva tenuto  in mano sul tavolo accanto al letto ghermito di bende ed erbe secche lanciandogli uno sguardo esausto.
 
“Bofur se continuo a fissare i mobili di questa stanza ti posso assicurare per certo che finirò io stessa per diventare un mobile.”
 
“Thorin non sarà lieto di questa scelta.” Una fitta improvvisa le attraversò lo sterno e che dal petto le arrivò ai pugni facendoli chiudere sul tessuto delle pellicce sotto di lei; scossa nel sentire anche solo sentire come solo il suo nome le provocasse una simile reazione; strinse i denti e guardò verso il basso, osservando i tappetti blu e dorati.
 
“Il re non è mai lieto di nulla.” Mormorò tra se e se e fissando i ricami dorati.
 
Strinse gli occhi cancellandoli dalla sua mente, non volendo ricordare e senza aggiungere altro, forse anche con troppa velocità, si tirò su dal letto; Bofur la seguì cauto procedendo sempre le braccia in avanti pronto a sorreggerla ma ben presto gli dimostrò di poter stare in piedi e di camminare muovendosi, a cauti passi sul pavimento di pietra fredda, verso il lato opposto della stanza.
 
Avanzando sempre di piu’ si rese finalmente conto del freddo di cui le aveva parlato Bofur: i piccoli fiocchi di neve che entravano dalla finestra arrivarono addirittura a toccarle le braccia scoperte del vestito di raso blu, talmente leggero da permetterle di muoversi senza problemi, ma invece di rabbrividire, si senti rinvigorita fuori da quel calore opprimente e troppo consueto in cui si era crogiolata troppo a lungo in se stessa.
 
Camminò attenta, tenendo le mani ben larghe a qualsiasi movimento brusco che avesse potuto compiere e come a confermar la sua tesi, poggiò il piede in maniera errata e un dolore lancinante la fece piegar su se stessa poggiandosi al mobile affianco a lei trattenendo a stento un gemito di dolore.
 
In meno di un istante sentì le mani di Bofur  arrivarono da dietro a sorreggerla, e percepì anche un’occhiata severa trafiggerle la nuca, ma alzò lo sguardo determinata verso il nano dai lunghi baffi, che appena venne incenerito da quello sguardo sospirò arreso annuendo verso di lei aiutandola a tirarsi su anche se scettico, molto scettico: tutto ciò non sarebbe piaciuto a nessuno ed era probabilmente stato proprio lui a peggiorare la situazione.
 
“Almeno permettetemi di accompagnarvi per un tratto, fino alle Sala del Consiglio.” Tentò per lo meno di persuaderla in qualche modo a non lasciare che la sua ostinazione potesse metterla in guai ben piu’ seri di quelli in cui si trovava, e ringraziando Durin, non obiettò distendo i tratti del viso che da contrariati si distesero in un sorriso arreso.
Ghìda allungò il braccio verso quello di Bofur che indirizzato dalla mano del nano si andò a incrociare al suo premettendole di trovare un sostegno sia nel suo avambraccio che nel suo fianco, se camminando si sarebbe sentita cedere come prima; sapeva di starsi comportando da viziata, da inetta e senza concezione logica alcuna, ma non poteva davvero rimanere lì, sarebbe finita per impazzire e i primi sentori si cominciarono a sentire quando dal profondo del cuore desiderò che il braccio a cui era aggrappata quel momento quando oltrepassò la soglia della porta della sua stanza fosse di qualcun altro.
 
Patetica.
 
Uscita dalla porta, non seppe dire con certezza cosa la fece sospirare profondamente liberandosi dal macigno che le pesava sul petto, se l’aria fredda dei corridoi o le mura verdi che la circondavano e si ramificavano imponenti tutto intorno a lei.
 
Ma allontanarsi da quella stanza imboccando il corridoio illuminato dalle torce calde non diede l’effetto che aveva sperato, si, i ricordi sbiadivano, ma i sentimenti quelli rimanevano e sarebbero rimasti lì per sempre: dopo tutto voleva davvero che se ne andassero?
 
Mosse i primi passi verso la porta dorata stringendosi al braccio di Bofur che si tirò leggermente piu’ vicino a lei seguendola passo passo, rallentando per non farla affaticare e aiutandola a varcare il lungo corridoio, che l’avrebbe portata alle altre stanze del palazzo di Erebor, riportandola a una quotidianità che, rispetto a quella che aveva vissuto, poteva quasi sembrare normale.
 
“Con calma un passo alla volta, o finirete per peggiorare solo la vostra situazione.” Le disse apprensivo Bofur sorreggendola con ancora più’ fermezza.
 
Ghìda scosse la testa tirandosi ancora piu’ su per non pesargli troppo. “Ammettilo che sei solo preoccupato che se le mie condizioni non migliorano io non possa festeggiare con te o suggerirti nelle scommesse.”
 
“In quel caso mi vedrei costretto a portarvi la medicina direttamente in camera vostra o a trasportare voi con tutto il letto nella sala dei banchetti, mi dovete solo dire quale delle due preferite.” Rispose Bofur ridacchiando sotto i baffi.
 
“Mangiare e bere a letto mi ha sempre entusiasmato ma credo che passerò in quel caso.” Ammiccò sorridendo ma nascondendo un leggero fastidio al fianco fasciato.
 
Oltrepassata la soglia le guardie al lato dell’arcata la seguirono con lo sguardo passandolo poi su Bofur in cerca di una conferma su quello che stava compiendo, ma smisero di preoccuparsi appena dimostrò a tutti e tre i nani, che continuavano a scambiarsi occhiate fugaci, di essere in grado di camminare da sola. Lasciò il braccio di Bofur che anche se restio la lasciò scivolare via e muovendo un paio di passi giù’ dalle scale si resse al corrimano dorato della scala e alzando la schiena dritta seppur il fastidio al lato sinistro continuava a persistere.
 
Si portò la mano libera a sorreggersi il fianco posandola sul raso blu scuro del vestito che ripido e fluido le avvolgeva leggero il corpo non costringendola in tessuti stretti e rigidi che sarebbe stat solito indossare, o avvolgendola nelle folte pellicce nelle quali era stata costretta in quegli ultimi giorni; rendendola piu’ libera di quanto probabilmente avrebbe gradito Òin o anche Bofur che poteva ancora sentire dietro di lei, attento a qualsiasi suo movimento.
 
“Siete sicura? Posso sempre riaccompagnarvi indietro e provare domani al mattino, non siete costretta a proseguire.” Bofur le chiese di nuovo avvicinandosi al suo fianco scendendo un paio di scalini in piu’ di lei per sicurezza vedendola indugiare sulla ringhiera che stringeva con decisione con il braccio ancora fasciato.
 
Ghìda sospirò alla seconda ricerca di Bofur di fermarla e per un attimo fu tentata di tornare indietro, la stava guardando con gli occhi provati e davvero preoccupato ma scosse la testa con vigore abituandosi a stare in piedi da sola.
 
“Ho bisogno solo di qualche attimo per abituarmi, va tutto bene.”
 
“Ne avete di decisione e forza d’animo.” Commentò Bofur indugiando sulla sua mano stretta al fianco e poi sul braccio. “Ma se mi permettete siete anche una delle persone piu’ testarde che io abbia mai conosciuto.” Le sottolineò facendo impallidire le due guardie dietro di lei che lo guardarono sorpresi e ancor di piu’ a una risata affermativa di Ghìda.
 
“Non sempre è un difetto a quanto so.” Rispose piccata facendo sospirare il povero Bofur che capì definitivamente che sarebbe stata una causa persa continuare a insistere e quindi si fece solo due passi indietro sui gradini per permetterle di proseguire.
 
Ghìda rimase ferma per qualche attimo inspirando l’aria di Erebor che prontamente le invase le narici: l’odore di cenere e pietra umida che si andava a confondere con quella del malto che ormai era intrinseco nella pietra della montagna e le sembro di vederla per la prima volta, un paesaggio che ormai le doveva sembrare familiare sembrava…diverso.
Non si seppe spiegare il motivo ma finì per incantarsene: alzò lo sguardo verso l’alto e seguendo le venature dorate che si diramavano sopra di lei e finivano per districarsi tr la pietra nuda e le colonne e le scale intagliate in questa ed ebbe quasi timore ad andar avanti.
 
Prese un profondo respiro lanciando un occhiata a Bofur che con l mano la invitò a proseguire e cominciò a scendere le scale della fortezza i quai giochi di luci e ombre la trascinavano sempre di piu’ verso i piani piu’ bassi del palazzo, era stato tutto un gioco della sua mente, nulla era cambiato: il via vai rado per il palazzo era rimasto simile, il brusio che dal profondo della montagna si innalzava fino ai piani piu’ alti, e ogni scalino che scendeva aveva sempre la stessa altezza, così come i guerrieri di pietra su ogni colonna che sembravano sempre seguirla con gli occhi di pietra. Scese diverse rampe di scale trattenendosi alla balaustra dorata ne sorpassò diversi slarghi, quasi sempre vuoti, eppure si sentiva perennemente osservata. Nella sua confusione alzò gli occhi vero una delle colonne, accanto a se ma no, le statue non avevano pupille per seguirla, eppure quella sensazione perdurò, per tutto il tragitto.
 
Bofur la guardava sempre di sottecchi, rallentando quando la vedeva in difficoltà o quando per qualche strano motivo fissasse il soffitto in cerca di qualcosa che sembrò visibile solo a lei, scrutando con gli occhi scuri ogni colonna che la circondava, sembrava una bambina, eppure era assolutamente il contrario. Lo doveva ammettere, seppur non era mai riuscito a provare quell’astio che invece tutti in quella montagna sembravano rivolgerle: era una piacevole compagnia, diversa dall’idea che si era fatto alle prime; Aveva tutte le caratteristiche che di solito si potevano attribuire alla sua razza, ormai perfino famose tra la gente comune degli altri popoli: era orgogliosa, testarda, fiera e gelida quando voleva ma, ne era riuscito a vedere una parte per niente nanica in quelle settimane. E non gli fu difficile intuire motivo per il quale Thorin, ne fosse, anche se mai lo avrebbe ammesso, così affascinato.
 
Scesero un’immessa scala, arrivando a uno spiazzo abbastanza grande da avere tre diramazioni dovere, due file di gradini che salivano e uno che scendeva e un portone dorato sorvegliato da due guardie ben rizzate al lato che si rizzarono ancora di piu’ quando li videro scendere. Bofur appena intravide la porta lasciò uscire un profondo sospiro e accelerando di poco il passo scese velocemente le ultime scale e si fermò, attirando la sua attenzione che si spostò dal soffitto sopra di lei verso di lui e verso il suo passo improvvisamente interrotto.
 
Mi duole dirvi che la mia parte del viaggio finisce qui.” Sospirò Bofur portandosi al centro del piazzale e indicando con la testa la sala ben conosciuta e che folgorante le fece stringere la ringhiera sotto le mani e bloccarle il passo: una ventata di ricordi le invasero la testa e le annebbiarono per un attimo i pensieri già confusi. Aprì e richiuse piu’ volte la bocca studiando le due porte sigillata l’una accanto all’altra evitando di entrarvi con la testa e immaginare cosa potesse succedere al suo interno.
 
Gli sorrise in maniera nervosa continuando a scendere gli ultimi gradini con il passo irrazionalmente piu’’ tremante. “Non dovresti essere già dentro? La porta è sigillata.” Gli appuntò sorridergli forzatamente lanciando un’ennesima occhiata anche se bassa e nascosta verso la porta.
 
“Esattamente.” Sospirò Bofur portandosi le mani in tasca e ridacchio sotto i lunghi baffi. “Ero venuto a farvi una breve visita che alla fine breve non è stata affatto.” Le appunto sorridendo affabile, ma il nano capì che qualcosa non andava: gli occhi scuri continuavano a indugiare sulla porta chiusa e tremarono leggermente quando da dietro di questa si sentirono le prima voci, tra cui anche quella profonda di Thorin che risuonò fino a loro.
 
Con un groppo in gola che cresceva sempre di piu’ Ghìda spostò lo sguardo verso quello di Bofur che aveva certamente notato il suo cambio di atteggiamento, ma non aveva detto nulla, aveva capito già tutto. Gli occhi timorosi di Bofur la studiarono per qualche attimo per poi spostarsi sulla porta: si aveva certamente capito tutto, ma non era un buon momento, doveva allontanarsi da lì.
 
“Non ti trattengo oltre dunque.” Si sbrigò a dire chinando la testa in avanti a mo’ di saluto prima di voltarsi non aspettando neanche un suo cenno, appena la voce di Thorin le arrivò nuovamente alle orecchie, stava fuggendo come lui, e lei lo biasimava, era diventata perfino ipocrita.
 
“Mia signora…” La richiamò però Bofur bloccandole il passo  sui gradini ormai già avviato verso le scale piu’ basse; si voltò verso di lui che la fissava con la mano già pronta a spingere la porta dorata per entrare. “Ricordatevi che la testardaggine può essere anche un pregio ma la scelleratezza no.” Appuntò sorridendole affabile in un gesto che Ghìda tradusse nella sua testa con un “Vi prego state attenta”.
 
Ghìda chinò la testa ringraziandolo e interpretando le sue parole prima di riprendere il suo percorso verso le sale piu’ basse ignorando i tremolii dietro la schiena che si fecero sempre piu’ insopportabili piu’ si allontanava da lì.
 
Appena oltrepassò le scale che l’avrebbero portata fuori dal palazzo, lasciò un immenso sospiro uscirle dalla bocca, lasciandosi andare verso la ringhiera dorata alla sua sinistra, stanca e scossa: non poteva andare avanti così.
Si portò una mano sul petto stringendo il tessuto blu fra le dita percependo il suo cuore effettivamente rallentare ogni attimo che dava le spalle verso quella porta e metteva spazio fra lei e Thorin  e così doveva essere. Non poteva dnare avanti così in eterno vero? Doveva finire prima o poi, il dolore e l’abitudine ne avrebbe preso il posto non è vero?
Cominciò di nuovo a camminare, seppur scossa verso l’uscita del palazzo sotto di lei: passò lo sguardo sotto la grande arcata La luce dorata era sempre piu’ intensa, il silenzio andava sempre piu’ scomparendo a ogni scalino che scendeva e cominciò fiorire quel leggero mormorio che era solito accompagnare la quotidianità di Erebor, fatte di schiamazzi parole urlate di tanto in tanto in lingua antica.
Ma infine dei mormorii e delle voci  divennero sempre piu’ fino anche confondere i suoi pensieri e le sue emozioni contrastanti che lo divennero ancora di piu’ si focalizzò su delle voci acute e scherzose provenienti da sotto di lei, uno schiamazzo sempre piu’ alto fatto di leggere risate e prese in giro che conosceva bene.
 
Un moto incontrollabile le dipinse un sorriso sul volto e le scaldò il petto come non lo sentiva da giorni e si lasciò il fianco con la mano tirandosi però su la gonna per aumentare il passo scendendo le ultime scale oltrepassando l’uscio del limite del palazzo e Erebor finalmente la investì: di fronte a lei si sprigionarono con immensità le enormi Gallerie dei Re: le loro enormi sale sotto di lei e i lunghi stendardi appesi alle pareti e alle terrazze brillavano della luce che sul pavimento dorato. Centinaia di teste che sotto di lei camminavano indaffarate tra le colonne avvicendandosi  nella quotidianità che le diede un conforto inimmaginabile, come il susseguirsi ipnotico del turbinio indaffarato e chiassoso di tessuti, scintilli ed elmi argentati.
 
Avanzò a passi veloci verso il parapetto in pietra del terrazzo studiando ogni figura che passava cercando di individuare la fonte delle risate tanto familiari, passando al setaccio ogni riflesso sull’oro sotto di se e ogni navata sorretta dalle gigantesche colonne; infine ai piedi di una di queste un piccolo gruppo di sei piccoli nani girava in tondo rincorrendosi o dandosi dei piccoli buffi che cominciando le già familiari baruffe.
 
Senza pensarci oltre si diede uno strattone da sola pronta a correre giù per le scale per raggiungere la sala sotto di lei, ma una fitta improvvisa al fianco la bloccò sul posto facendola piegare in due dal dolore seguita da un respiro pesante: forse aveva esagerato.
Socchiuse gli occhi e si portò una mano di nuovo verso le fasciature e calmò l’entusiasmo che l’avrebbe portata a farsi piu’ male che bene:  rialzò la schiena e si avviò verso le scale scendendone una a una con cautela facendo saettare uno sguardo per avere sempre un occhio attento sul gruppo che così lontano da lei, dall’altra parte dell’atrio non poteva vederla, coperta dal popolo di Erebor che preso dalla quotidianità attraversava quello slargo fondamentale passando  da una parte all’altra.
 
Il non essere notata dai piccoli nani non volle dire però che appena scese l’ultimo gradino gli altri nani non notarono la sua presenza, anzi, diverse teste si girarono verso di lei e la fissarono portandola a bloccare il passo: sentì nuovamente gli aghi che le premevano alla base del collo portandola a rizzarsi su se stessa e a far scender le mani verso la gonna stringendola tra le dita.
Si era abituata all’essere osservata, anche se di sottecchi, si era abituata in quelle settimane a sentire il suo nome sussurrato, a percepire quel peso sul petto, al non essere accettata mai del tutto, mai da tutti, per tuttala vita si era abituata a quello, ma ormai credeva che non potesse piu’ provocarle un simile effetto.
Bofur glielo aveva detto che tutti sapevano, e se conosceva abbastanza il popolo dei nani, quello che aveva fatto era stato inammissibile : Bofur aveva torto, che tutti sapessero era un male un terribile male.
 
Abbassò lo sguardo per terra incerta ma un brivido le percorse la schiena, una strana sensazione data dal silenzio che si propagava sempre di piu’ per il salone: alzò lo sguardo da terra e notò gli sguardi non giudicatori ma di riguardo.
Le dita tremanti si sciolsero dal tessuto blu e passò gli occhi guardinga gli occhi sulle figure che  per ogni passo che compiva si voltavano verso di lei sempre piu’.
Alcune nane tra la folle si fermarono perfino ponendole una leggera riverenza, alcuni nani invece rallentavano solo di poco il passo piegando la testa in avanti in segno di rispetto o si portavano la mano verso il petto, seppur con le braccia cariche di utensili o pepite d’oro da portare nelle fucine.
Un tumulto di domande  incertezze si fece largo nel petto: non si sarebbe mai immaginata di trovarsi in quella situazione.
 
Molti percepirono la sua incertezza e alcuni nani si lanciarono delle occhiate complici riprendendo il passo e interrompendo quel momento in cui sembrò che tutta la Montagna stesse guardando solo Ghìda, riportando tutto alla sua normale velocità compreso il parlottare nella sala che risuonò anche piu’ alto rispetto a prima mentre alcuni occhi nella folla non poterono fare a meno di continuare a fissare colei che aveva animato le storie di tutte le locande di Erebor.
 
Lasciando scorrere su di se gli sguardi, Ghìda avanzò decisa spostando la testa a destra e a sinistra dalle figure che spesso le bloccavano la vista e infine si ritrovò a ridere sommessamente rendendosi conto che non serviva che controllasse sempre dove fosse il piccolo gruppo: le loro voci erano talmente alte da rimbombare per tutto il salone rendo impossibile non sapere dove fossero. 
 
Questi ultimi saltellavano da una parte all’altra della colonna macchiata d’oro ancora ignari della sua presenza e ignari anche dell occhiate giudicatrici che gli venivano lanciate quando alzavano troppo la voce: fu quasi tentata di fermarsi in mezzo al corridoio per vedere quando l’avrebbero notata.
 
Fàrim si avventò su Lòni passandogli una mano intorno al collo mentre con l’altra gli arruffava i capelli biondi disfacendogli le lunghe trecce che portava al lato della testa, al loro fianco invece Drel e Trel erano seduti per terra con la schiena poggiata sulla base della colonna parlottando tra di loro a bassa voce, lanciando qualche occhiataccia ai due amici appena finivano spesso per colpirli inavvertitamente o inciampargli addosso. Tra i due gruppetti ben divisi c’era invece Màr che a differenza dei quattro maschi era ben silenziosa, impegnata a intrecciare i capelli di una bambola che teneva tra le gambe, aiutata accanto a se da Nìm che le indicava con il dito cosa fare e come acconciare, bloccandola con la mano ogni volta che compiva un errore.
 
Qualcosa poteva essere cambiato, ma non loro, no quello sarebbe stato impossibile.
 
In attesa, portandosi le mani verso il ventre una sull’altra, abbracciò la folle idea che l’aveva colta poco prima mentre i nani della galleria la sorpassavano aggirandola lanciando degli sguardi divertiti alle sue intenzioni ormai palesi; osservarono passando sia lei che rimaneva in silenzio e in attesa, sia al gruppo di nani ormai famoso ad Erebor, piu’ che altro per i loro continui battibecchi o per l’essere tremendamente rumorosi: no, non erano cambiati affatto.
 
Non ci volle in realtà prima di essere intravista, meno di quanto si sarebbe aspettata: appena la piu’ piccola del gruppo posò lo sguardo azzurro su di lei sobbalzò ma non ci volle molto prima che sorridesse raggiante. Mar incredula lasciò cadere accanto a se a bambola che teneva tra le mani rizzandosi in piedi e allargando le braccia le cominciò a correre incontro confondendo i quattro restanti che la guardarono confusa prima di spalancare a loro volta la bocca smettendo qualsiasi movimento che non fosse  quello di seguire la piu’ piccola con lo sguardo.
 
“Ghìda!” Urlò entusiasta facendo rimbombare il suo nome per tutto il corridoio lanciandosi tra le braccia talmente velocemente che Ghìda ebbe a malapena in tempo di  chinarsi e aprire le braccia per accoglierla che le buttò le braccia al collo stringendola forte facendola ridere al gesto. Con delicatezza le passò una mano nei capelli tenendola stretta mentre Màr aumentava la sua presa sul collo sempre di piu’ stringendola forte a se. “Mi sei mancata tanto!” Le mormorò sulla sua spalla prima di prenderle  il viso con le piccole mani sorridendole con un sorriso che avrebbe potuto irradiare un’intera stanza.
 
“Mi sei mancata anche tu.” Le sorrise poggiando la fronte sulla sua gentilmente spostandole un ciuffo dietro l’orecchio ma non ebbe il tempo di completare il gesto che dovette alzare lo sguardo notando altre figure correre verso di lei e sorpresa si lasciò scappare una risata irrefrenabile quando si ritrovò stretta in una serie di braccia così irruente che le fecero perdere l’equilibrio facendole sbattere le natiche a terra. “Mi siete mancati tutti.” Mormorò a fatica stretta tra quella quantità di braccia, quasi commossa trattenendo tra i denti un’ennesima fitta al fianco non volendo dargli preoccupazioni inutili.
 
Osservò le piccole teste tutte raggruppate l’uno sull’altra che le si stringevano sempre piu’ addosso mormorando parole incomprensibili nel tessuto spezzate dalle gomitate che si davano per farsi piu’ spazio.
 
“Drel, togli quel gomito dalla pancia non respiro.”
 
“Mar ho i tuoi capelli nel naso.”
 
“No Fàrim c’ero prima io con Ghìda”
 
Dovette ammettere a se stessa che le erano davvero mancati, forse anche piu’ di quanto fosse opportuno, probabilmente si sarebbe perfino pentita di quei pensieri quando l’avrebbero fatta nuovamente impazzire ma in quel momento ma non riuscì a contenersi stringendoli per quanto le fosse possibili tutte e cinque a se… cinque.
 
Passò lo sguardo confusa su tutti contandoli uno a uno e infine lo puntò nuovamente dove prima erano seduti e Nìm se ne stava ancora lì in piedi e immobile: le gambe dritte , i capelli rossi che le coprivano metà del viso, le piccole mani che si torturavano l’un latra mentre il petto le si muoveva su e giù tremante e delle silenziose lacrime le cadevano copiose bagnandole il vestito giallo.
 
“Nìm…” Sussurrò preoccupata richiamandola e appena le lacrime  della piccola nana cominciarono a cadere sempre piu’ copiose e con uno scatto corse verso di lei avvinghiandosi al suo collo nell’unico punto libero obbligando tutti gli altri a lasciarla andare, catalizzando quel piccolo momento solo su di lei.
La strinse con una tale apprensione da farle chiudere gli occhi e tentando di rassicurarla le poggiò le labbra sulla tempia cullandola gentilmente sentendo le calde lacrime bagnare anche i suoi di capelli.

 “S-stai bene?” Mormorò incerta Nìm tra i suoi capelli con voce spezzata nel frattempo che tirava su con il naso tentando di bloccare le lacrime che lei però percepiva comunque bagnarle il collo scoperto.

Ghìda annuì con la testa scioccandole un piccolo bacio sull’attaccatura dei capelli stringendola ancora piu’ a se e passandole la mano tra i ricci rossi accarezzandole la testa.  “Si sto bene, è stato solo un lungo sonno, tutto qui.”
Cercò di confortarla ma forse peggiorò solo la situazione perché dal petto premuto contro il suo gli usci un live fremito dovuto a un singhiozzo represso.


“Sei sicura? Hai le fasciature sul braccio sei sicura di s-stare bene?”

“Te lo prometto sto bene, servono solo a coprire le ferite, ma è passato tutto, lo prometto.”

“H-ho avuto tanta paura, pensavo che morissi… .” La voce le si spezzò irrimediabilmente facendola sospirare tra le lacrime. “Che n-non ci fossi piu’. Q-quando a-dad è tornato c’eri anche tu, Re Thorin ti ha portata qui e  tu non ti muovevi piu’ e lui ti guardava come se… come se…” Nìm si bloccò e un secondo singhiozzò le oltrepasso le labbra seguita da un fremito che le scosse le spalle spezzandole il cuore. “Poi ti hanno portata via, e-e sapevamo solo che c’era sempre qualcuno con te, m-ma non sapevamo altro, non ci hanno detto altro.”
 
“…l‘unica cosa che sei stata è un maledetto peso per questa Montagna e per ogni nano al suo interno.”
 
Un terribile senso di colpa le fece ricordare quelle parole, che l’avevano fatta scattare portandola a urlare addosso a Thorin e a riversarsi su di lui colma di furia e delusione per quelle parole che lei le aveva prese come un’offesa terribile, una stilettata al suo orgoglio ferito, ma erano la verità, una terribile verità che aveva continuato a negare: non era piu’ sola, se lei se ne fosse andata, avrebbe inevitabilmente ferito qualcuno e Nìm ne era solo la prova..
Le prese le spalle lasciandole i capelli e con gentilezza la allontanò da lei per poterla guardare in volto: le lentiggini rosse si erano andate a confondere con il rossore delle guance dovute alle lacrime che continuavano a scenderle dagli occhi. Abbassò le mani dalle sue spalle verso le sue mani stringendogliele entrambe con premura tra le sue.
 
“Cosa ti ho detto riguardo alla morte?”
 
Nìm dapprima la guardò confusa  inarcando le sopracciglia ma  poi capì e cercò di calmare i singhiozzi facendo dei piccoli respiri o tirando su con il naso. “Che non ci devo pensare, che nessuno morirà.” Mormorò veloce ma decisa sciogliendo una piccola manina dalla sua per asciugarsi con la manica le solitarie lacrime che continuavano a scenderle dagli occhi.
 
Annuì sollevata che si ricordasse le sue parole, anche se frutto di una bugia bianca, ma alla quale avrebbe desiderato che ne rimanesse attaccata il piu’ possibile, non poteva soffrire così, non avrebbe dovuto neanche pensare.
 
“Esatto, sono qui sto bene, non piangere per me.” La rincuorò un'altra volta e le asciugò con una delle sue mani una delle lacrime che le era sfuggita nell’altra guancia sorridendole con il lato della bocca e questo sembrò calmarla, per quanto potesse essere difficile perché annuì togliendo anche l’altra mano dalla sua strofinandosi gli occhi con vigore.
 
“Quando ricominciano le lezioni?” Una voce squillante interruppe il momento di debolezza che si era concessa la piccola nana che al riconoscere la voce si strofinò velocemente gli occhi per far smettere piu’ velocemente alle lacrime di scindere e abbassò lo sguardo imbarazzata.
 
“Lòni!” Lo sgridò Trel accanto a lui tirandogli una gomitata nella pancia facendogli uscire dalla bocca un gemito sommesso seguito da una risata piegandosi su se stesso non smettendo di ridacchiare anche se il respiro gli mancava di continuo.
 
“Perché lo hai fatto?”
 
“Perché sei sempre il solito, mai che riesci a tenere chiusa quella boccaccia!” Sottolineò di nuovo Trel dandogli un'altra pacca questa volta sulla spalla mentre Lòni si tirava su lanciandogli un’occhiata divertita.
 
“Che ho detto?” Mugugnò in maniera fittizia sapendo esattamente cosa avesse detto e Ghìda ci mise poco a capire perché lo avesse detto interrompendole: seppur ancora piegato su se stesso dolorante lanciò un’occhiata verso la piccola nana dai capelli rossi di fronte a lui, un sorriso dolce e innocente, che si allargò ancora di piu’ quando notò che aveva smesso di piangere e gli sorrideva in maniera complice.
 
Ghìda decise di star al gioco e incrociò le braccia al petto in maniera teatrale alzando un sopracciglio altezzosa non riuscendo però a controllare una risata che tradì le parole che dovevano dare una minima parvenza di serietà
 
“Ah vedo che però qualcosa è cambiato, Lòni figlio di Flòni ora le mie lezioni ti rallegrano?”
 
Appuntò osservandolo facendolo arrossire fino alla punta dei capelli  interrompendo le sue piccole risate e suscitando invece quelle dei due fratelli Drel e Trel che si dovettero coprire la bocca per interromperle capendo che l’amico si era cacciato in un bel guaio adesso.
 
In suo soccorso arrivò Fàrim che gli passò un braccio intorno al collo affettuosamente tirandolo verso di se guardandolo ”E’ solo perché negli ultimi giorni ha imparato a memoria una ventina di pagine del primo manoscritto di Ibun.”
 
L’appunto fece solo arrossire ancora di piu’ il nano dai capelli biondi che abbassò lo sguardo scrollandosi il braccio di dosso dell’amico mugugnando qualcosa di incomprensibile seguito da un’occhiataccia di sbieco verso l’amico
 
“St zitto Fàrim!” Mugugno ancora piu’ imbarazzato e  incrociò le braccia al petto per rimanere composto ma le occhiate eloquenti di Fàrim e il suo punzecchiarlo con il dito libero non aiutarono e quindi lo spinse via con un colpo della spalla per farlo smettere e infine la guardò con le trecce bionde che gli coprivano metà del viso ancora paonazzo.
 
“H-Ho… abbiamo rivisto quello che abbiamo fatto nelle ultime settimane, così…”
 
“Così non ti affaticherai, ho studiato tutto tutto, anche tutto quello che c’è da sapere sui sette clan e lo sapevi che abbiamo letto anche del tuo clan!” Urlò Mar interrompendo Lòni lanciandosi su di lei eccitata sbattendo le mani sulle sue gambe ancora a terra e saltellando su se stessa a ogni parola che pronunciava guardandola esaltata. “Davvero vivevi vicino al mare? Io non ho mai visto il mare! Perché non ce l’hai mai detto?!” Chiese senza mai prendere fiato arrotolando perfino le parole una sull’altra dall’euforia.
 
“Perché non me lo avete mai chiesto.”
 
Di tutta risposta tutte le domande che non le erano state poste fino a quel punto le furono fatte tutte insieme sovrastandosi l’un sull’altra in un ronzio confuso ma pieno di strilli e sguardi curiosi seguiti da piccoli spintoni per poterla guardare direttamente in viso.
 
“E’ vero che ci sono i mostri tra le onde dell’oceano e che le miniere arrivano fino sotto acqua? E che dovete immergervi per estrarre gli zaffiri?”
 
“Le miniere son-…”
 
“E’ vero che nelle fucine lavora tutti con l’acqua che arriva fino alle caviglie per non sentire caldo?”
 
“Beh non è…”
 
“C’è una sala del trono vero e come è? E’ sott’acqua anche quella?”
 
“Il tr-“
 
“Ma vi fate il bagno nell’acqua dell’oceano o avete un fiume come qui ad Erebor?”
 
“C’è anche lì-“
 
“E’ come una vasca!”
 
Le domande la tartassarono stordendola per un attimo, così veloci e repentine che dovette sbattere piu’ volte gli occhi e bloccare le sue parole per comprendere l’ultima affermazione urlata pieni polmoni da Mar con le braccia alzate verso il soffitto in maniera vittoriosa e per esaltare la grandezza della parola vasca.
 
Si dovette trattenere dal non ridere per l’ennesima volta, nell’immaginarsi i volti dei bottegai nei mercati sotterranei di Elcar o perfino quello degli orefici e intagliatori di diamanti, sformati e offesi dall’aver sentito l’oceano essere paragonato a una vasca da bagno.
 
“Sì come una enorme vasca, un enorme lago blu.”
 
Fàrim sembrò il piu’ eccitato all’idea del racconto delle storie della sua gente perché le si avvicinò con gli occhi sgranati e sorridente affiancandosi a Drèl che come lui la guardava curioso. ”Allora la prossima lezione è solo sui Nerachiave vero e su Elcar? Ti prego!”
“Se volete questo sarete accontentati, per me possiamo iniziare anche subito, non ho un granché di cui occuparmi questa mattina.”
Drèl sgranò eccitato gli occhi scuri osservandola dal basso cercando qualche segno che gli stesse mentendo, spalancando lievemente la bocca quando si rese conto che non vi era traccia di menzogna nelle sue parole. “D-davvero?” Chiese per sicurezza e Fàrim che non aveva avuto bisogno di una conferma successiva gli diede uno scappellotto dietro la testa muovendogli i ricci in avanti.
 
“Se te lo ha detto zucca vuota vuol dire di sì.”
 
“Non mi chiamare zucca vuota, tu sei il primo ad esserlo riccioli rossi.”
 
“Nel frattempo ho piu’ barba di te.” Appuntò Fàrim toccandosi la leggera peluria che gli si era già cominciata a formare all’altezza delle basette.
 
“Ma oggi dobbiamo andare nelle fucine pe… fuschre la cosronamhmm… “La bocca di Lòni fu velocemente tappata dalla mano di Nìm che alle prime parole del nano si era allontanata repentinamente dal fianco di Ghìda e si era avventata su di lui in punta di piedi pe mettergli una mano sulla bocca e schiacciandogli anche un piede per far interrompere il mugugno che continuava sul suo palmo.
 
“Non possiamo oggi.” Si affrettò a dire a voce alta, sovrastando i borbottii di Lòni, la piccola nana dai capelli rossi lanciando dapprima un’occhiataccia gonfiando le guance al nano che continuava a tenere fermo. Spostò poi lo sguardo verso di lei sorridendole rassicurante: ma quel sorriso non la rassicurò affatto, anzi peggiorò ancora di piu’ le sue sensazione, complice Lòni che la guardò dapprima confuso inarcando le sopracciglia e poi sgranò gli occhi come se gli fosse arrivata una rivelazione improvvisa.
 
Trèl repentino si mise di fronte a lei bloccandole la vista di Loni arrossendo violnetmente.“S-si è vero dobbiamo andare alle fucine per lavorare sui sigilli e le incisioni per le spade e le asce.”  Si affrettò a dire con un sorriso nervoso notando il suo sguardo che li guardava indagatrice: le stavano nascondendo qualcosa e qualsiasi cosa fosse se lo facevano da soli spesso risultava nella catastrofe.
 
“Solo quello dovete fare? Siete sicuri? ” Domandò avvicinandosi scrutando gli occhi neri del nano passandoli da una parte all’altra tentando di metterlo in soggezione, spendo che forse sarebbe stato l’unico lì in mezzo a non mentirle troppo dedito al dovere per farlo.
 
”S-si dobbiamo saperli incidere sulle lame, i marchi reali di Erebor e del popolo di Durin.” Una goccia di sudore freddo gli attraversò la fronte e si portò le mani dietro la schiena per sostenersi nel confermare nuovamente la sua tesi.
 
“Davvero fratello pensavo che avessimo finit-ah!” Questa volta fu Lòni quello a intervenire su Drèl che stava insinuando il dito nella piaga, dandogli una pacca nello stomaco come lui aveva fatto poco prima.
 
“No non abbiamo finito dobbiamo lavorarci anche oggi!” Gli lanciò un’occhiata eloquente sgranando gli occhi e puntandogli con la testa l’entrata delle fucine che si poteva ammirare da infondo il corridoio dietro di loro.
 
“Ma io la mia l’ho finita ier-ah! Smettetela!” La seconda botta gli arrivo da Fàrim dietro di lui  dritta sulla nuca facendolo piegar di nuovo su se stesso portandosi le mani a capire la testa dolorante. “Va bene va bene continuiamo anche oggi.” Fu costretto a dire massaggiandosi la testa riccioluta scura.
 
“Io non ho ancora capito a cosa servono in realtà.” Si intromise Mar nel piccolo discorso alzando lo sguardo verso di lei curiosa con le mani ancora sul suo vestito, che strinse flebilmente per attirare la sua attenzione e ricevere una risposta. “Perché marchiamo le cose che forgiamo Ghìda?”
 
Ghìda si morse il labbro quando dei ricordi indesiderati, di cui fino a pochi giorni prima ne avrebbe sorriso, di uno di quei pomeriggi, delle sue mani su un piccolo scudo d’addestramento e un altro paio che la guidavano passo passo tenendole la mano ferma. La stretta sulla gonna aumentò e dovette sbattere un paio di volte gli occhi prima di dare le attenzioni della piccola nana che continuava ad aspettare una sua risposta.
 
“Servono Mar per riconoscere se una spada appartiene ad Erebor, i Colli Ferrosi o alle Montagne Grigie insomma a quale clan appartiene il fabbro che l’ha forgiata, durante quale Era, se ha un nome particolare indicato a un nano in particolare e da dove provien-“ Le parole le si bloccarono in gola e il sorriso che rivolse a Mar si spense del tutto trasmutando la bocca in una linea netta mentre quella parola non finita la colpì come e un lampo facendole sgranare gli occhi.
 
Da dove proviene.
 
Come lastre di un armatura incompleta una parte mancante degli ultimi momenti della battaglia nelle Terre Selvagge riaffiorò violenta, un dettaglio mancante nei suoi ricordi così importante che la fece irrigidire : sentì il cuore cominciare a battere forte e una sensazione di panico farsi largo dentro di lei, quando nitido come vedeva i nani di fronte a lei le apparve l’orco sopra il mannaro e quello che portava sul petto, il marchio che sfoggiava dipinto col sangue fresco sull’armatura rancida.
 
Se la mente non le aveva giocato un brutto scherzo tutto quello che stava accadendo, tutto quello che era accaduto non era frutto di una mera coincidenza e avrebbe risposto a troppe domande a troppi quesiti compreso… Thranduil.
 
La gola le divenne improvvisamente secca e il fiato corto quando quell’ultimo pezzo che le mancava si andò a incastrare alla perfezione in uno schema che era perfetto, troppo perfetto, terribilmente perfetto e se quella paura fosse risultata vera Thorin, doveva saperlo e doveva saperlo subito.
 
“Ghìda stai male?” Sussultò quando sentì la piccola manina di Nìm afferrarle con gentilezza il polso per destarla dai pensieri e dalle rivelazioni che avevano prepotentemente preso posto nella sua mente isolandola da tutto quello che le stava succedendo intorno. Nìm sembrò quasi turbata dal suo sussulto perché inclinò la testa di lato confusa e continuando ad aspettare una risposta, così come le altre cinque paia di occhi che la osservavo preoccupati.
 
“I-io si, devo… ho bisogno di parlare con il re.” Rispose sbrigativa non volendoli turbare e gli rivolse un sorriso forzato annuendo e si alzò da terra, non riuscendo però ad ingannare come avrebbe voluto i sei piccoli nani che continuavano a fisarli preoccupata.
Si chinò quindi nuovamente guardando Lòni dritto negli occhi, ormai libero dalla stretta di Nìm: se lui avesse fatto qualcosa lo avrebbero sicuramente seguito tutti gli altri. “Se entro domani mi sapete ripetere tutta la discendenza della casata di Durin prometto che vi insegno qualche posizione con le spade, va bene? E poi vi parlo del mio clan.”
 
Ringraziando Mahal non ebbe neanche il tempo di finire la parola spade che Lòni si girò saltellando verso i compagni distraendoli da lei che senza attendere oltre, sentendosi tranquilla di potersene andare data la loro distrazione, cominciò a percorre la strada che aveva intrapreso prima al ritroso, ma invece che camminare attenta a non compiere movimenti bruschi, si ritrovò a compiere grandi e ampie falcate, spinta da quella paura sempre piu’ reale.
 
Schivo e oltrepassò rapida ogni figura che le si parò davanti, sentendo su di lei anche degli sguardi preoccupati, forse vedendo i suoi movimenti non consoni per la situazione in cui riversava, ma non le dissero neanche una parola sapendo probabilmente che anche se le avessero avanzato le loro preoccupazioni, non si sarebbe fermata.
Salì la prima rampa di scale entrando dentro le alee del palazzo da cui era uscita e cominciò a studiare con attenzione ogni scala, ogni gradino, ogni balcone sporgendosi in avanti per riuscire a vedere la porta che le interessava, ma era troppo in basso. Con uno scatto, tenendosi solo il vestito con le mani comincio a salire velocemente le scale continuando a guardare verso l’alto e a voltarsi su stessa cercando di catturare con lo sguardo la porta dorata delle Sala del Consiglio, che però continuava a sfuggirle alla vista, venendo intralciata solo da colonne e corridoi.
Mossa dal moto angosciante che continuava a ghermirle lo stomaco i suoi passi divennero sempre piu’ svelti fino a che non si fecero piu’ lenti, e pesanti come se le gambe le comandassero di fermarsi e di tornare. Con un tuffo al cuore, le si fermarono del tutto sul corridoi della Sala dei Banchetti, quando alzando lo sguardo, vide finalmente la porta dorata e come si era augurata era chiusa: Thorin era ancora lì dentro.
 
Osservò, stringendosi il vestito angosciata, ogni scalino che avrebbe dovuto percorrere per arrivare fino a lì cercando tra questi la spinta che l’aveva fatta muovere ma che improvvisamente l’aveva abbandonata portandola a dubitare della sua scelta. Entrare in quella sala, avrebbe comportato piu’ di un avvenimento e uno di questi sarebbe stata vederlo di nuovo, dopo tutti quei giorni.
 
Socchiuse lentamente gli occhi quando riuscì a percepire come se le stessero ancora scorrendo sul viso quelle lacrime, il dolore al petto, le sue labbra sulle sue; il cuore che le chiedeva perdono, la implorava di rimanere lì dove fosse, allungando un’ultima mano verso la sua coscienza tentando di farle capire che non avrebbe retto i suoi occhi.
 
No, non li avrebbe retti di nuovo eppure avrebbe dovuto farci i conti per tutta la vita , ma guardarlo ora o tra un paio di giorni non avrebbe cambiato nulla: lui avrebbe anche potuto continuare ad ignorarla per mesi, per tutti gli anni che sarebbero stati costretti condividere, ma quel peso non poteva fermarla nel suo essere regina e non l’avrebbe fermata neanche adesso dove c’era molto di piu’ in gioco oltre l’egoismo verso quello che provava per lui.
 
Thorin Scudodiquercia poteva andare a marcire.
 
Le nocche le diventarono bianche e il fianco cominciò a rifarle male nel frattempo che prese un ultimo respiro per farsi coraggio intraprendendo quell’ultima rampa di scale; a ogni passo che compiva si sentiva sempre di piu’ come il primo giorno in cui aveva varcato la soglia di quella sala, come il primo giorno in cui l’aveva visto.
 
Le due guardie i lati della porta si scosserò appena la videro salire dal fondo delle scale tirando su le picche dai loro fianchi e allineandole con la propria schiena e con il muro verde dietro di loro, sorvegliati dai loro gesti da due guardie simili che intagliate nella roccia sorvegliavano l’entrata.
 
Si scambiarono un’occhiata confusa quando Ghìda, figlia di Telkar, non cambiò strada intraprendendo una delle due scale accanto alla porta ma avanzò decisa e con la testa alta senza mai staccare gli occhi dalla porta dietro di loro e non gli ci volle molto a entrambi a capire le sue intenzioni. Una di queste infatti timorosa si riscosse scuotendosi dalla sua rigidità a voltò il viso seguendola e muovendo le picca come per bloccarla me questo neanche la fermò.
 
“Mia signora il re è in consiglio.”
 
“Lo so.” Rispose decisa Ghìda, talmente autoritaria che la guardi di fronte a lei sbatte piu’ volte le palpebre incredula non riuscendo neanche a muovere un muscolo quando la futura regina poggiò una mano sulla porta  dorata e interzinata spingendo con forza una delle ante,  e stupendola, si aprì con una facilità che non credette possibile in base alla sua imponenza.
 
L’oro gracchiò sul pavimento di marmo portando le parole all’interno della sala a interrompersi del tutto, così come i respiri che sembrarono tagliarsi a metà nella sala sostituiti da sussulti sbigottiti e occhiate confuse, lasciando andare sotto di loro i boccali di birra, come Dwalin che ne stava per prendere un ennesimo sorso o facendo sventolare i fogli e le pergamene sul tavolo che al movimento d’aria si alzarono e si abbassarono.
Ghìda, trascinò con se un silenzio istantaneo bloccando le parole di Glòin a metà, che chinandosi sul tavolo con le braccia incrociate, si voltò immediatamente verso l’entrata della sala del consiglio e come tutti gli unici nani intorno a questo ammutolì vedendo chi avesse oltrepassato la porta a grandi falcate interrompendo le discussioni che si erano protratte fino alla tarda mattinata.
 
Bofur fu il più stupito e anche sconcertato da quell’arrivo irruento, soprattutto ricordandosi come l’aveva lasciata e sapendo che non sarebbe mai voluta entrare in quella sala; fu veloce, abbassò la pipa dalla bocca tremante e si alzò dalla sedia senza neanch darle il modo di parlare o di aspettare un ordine di Thorin di non farlo o di farlo, osservandola avanzare con gli occhi sgranati. “Mia signor…”
 
“Devo parlare con te.” Esordì lei interrompendo sia le parole di Bofur che il silenzio puntando gli occhi diretti verso la figura piu’ lontana da lei.
Torreggiante e regale dalla parte opposta della sala, a differenza di tutti gli altri quando lei era entrata aveva abbassato lo sguardo verso un punto indefinito sul tavolo colmo di pergamene e boccali di birra vuoti stringendo con forza i braccioli della sedia non dando segni di voler rispondere.
 
Il silenzio si propagò un'altra volta per la sala, talmente pesante che solo Balin e Dwalin ebbero la forza di spostare lo sguardo verso Thorin che continuava imperterrito nel suo mutismo, interrotto solo dai passi sempre piu’ veloci di Ghìda che avanzò senza mai staccare gli occhi dal volto basso del re, che continuava ad ignorarla.
 
Strinse gli occhi al fastidio sul fianco salendo le prime scale che portavano al pavimento rialzato dove era poggiato al di sopra di tutto il tavolo del consiglio: lo aveva detto, Thorin poteva anche marcire, ma doveva ascoltarla, almeno questa volta doveva guardarla.
 
“Thorin mi devi ascol-ah!” La voce le si interruppe di colpo quando la fatica e l’irruenza la punirono per aver corso per tutto quel tragitto: una fitta di dolore piu’ alta delle altre la fece piegare su se stessa gemendo di dolore in un lamento talmente alto che tutta la tavolata a quel punto non poté fare in meno di alzarsi, tutti escluso Thorin, che le lanciò solo un’occhiata fredda.
 
Bofur ancora in piedi sobbalzò di colpo scostando la sedia cominciando a camminare verso di lei nel suo sbigottimento, così come Òin che ,nell’obbligò del dovere, si alzò di scatto a sua volta dalla sedia avvicinandosi verso di lei a grandi passi. Nori accanto a questo trasalì allontanando la pipa dalla bocca passando lo sguardo ormai fisso verso l’anziano nano che osservava le fasciature sul braccio incurvandosi preoccupato e puntando lo sguardo verso il fianco della ragazza.
 
“Mia signora dovreste essere a riposare, non siete ancora in grado di uscire.”
 
Ghìda alzò la mano per bloccarlo, ma il passo di Òin e di Bofur e quello di Balin, che sbigottito aveva cominciato ad avanzare verso di lei, furono interrotti da un secondo rumore profondo del legno che crepitò sotto una stretta poderosa e fu solo in quel momento che due occhi che trafissero l’intrusa.
 
“Torna nelle tue stanze.” Fu glaciale, un ordine che fece ammutolire tutti i nani, perfino Dwalin che seduto accanto a lui tirò su la schiena sbigottito, incapace di comprendere cosa stesse accadendo: gesti e parole che erano sconosciuti a chiunque tranne ai diretti interessati alla conversazione e che turbarono tutti i nani della compagnia; ma non Ghìda, no, non questa volta.
 
Lo sguardo che continuava a negarle faceva piu’ male di qualsia dolore fisico potesse provare, ma non si parlava piu’ di lei, e dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per compiere quegli ultimi passi  verso il tavolo, orgogliosamente tirando via la mano con cui si stringeva il fianco per poi poggiarla sul tavolo con forza scioccando ancora di piu’ tutti i presenti.
 
“Devi inviare un corvo a Bosco Atro e devi farlo subito.”
 
Le fiamme delle candele sul tavolo traballarono al gesto improvviso  ma non il viso di Thorin ancora basso e duro, coperto dalla leggera penombra che creava l’alto schienale dell sedia su cui era seduto celandolo ancora maggiormente nell’ombra che rese il secondo ordine che emanò verso di lei ancora piu’ cupo.
 
“Ghìda vattene, ora.”
 
Balin accanto a lui raggelò, aveva già sentito quel tono, era anche pronto a intervenire allungando una mano verso di lui per interrompere qualsiasi altra parola gli potesse uscirgli dalla bocca, ma non ne ebbe il tempo perché un secondo tonfo taglio in due l’aria: Ghìda si impuntò con l’altra mano sul tavolo sporgendosi in avanti, gli occhi decisi e fieri.
 
“So da dove provenivano gli orchi che ci hanno attaccato.”
 
Queste ultime parole furono piu’ forti di qualsiasi ordine che Thorin avesse dato in quegli ultimi momenti, incatenando l’attenzione del tavolo totalmente su di lei, non per compassione verso le sue ferite o mossi dalla paura di quello che Thorin avesse potuto dire. Il contenuto contenuto delle sue parole,  erano stati i dilemmi  discussi in quella sala negli ultimi giorni; ma a cui ormai avevano già dato una risposta che però era totalmente l’opposto di quella che scavava nel petto di Ghìda.
 
Al Re Sotto la Montagna però quelle parole scivolarono addosso come se non fossero delle sue preoccupazioni, non si mosse neanche di fronte a quella rivelazione, a quello che aveva detto: serrò la mascella e abbassò ancora piu’ lo sguardo verso il basso e verso la mappa che giaceva sul tavolo a poca distanza da dove era seduto.
 
“Da Moria, ne siamo già a conoscenza.” Sottolineò gelido.
 
“Non quello che ha attaccato me, non quello che comandava i mannari del branco che ha inseguito la carovana!”
 
Balin si chinò in avanti sul tavolo per poterla guardare in volto: era sicura delle sue parole, fin troppo, ma la questione era già risolta, e nel suo sonno lei non era potuta venire a conoscenza di molte cose, compresa la risposta dei sette clan in merito, e la loro.
 
Lanciò un’ultima occhiata a Thorin che non avanzò altre parole, piegato ancora su se stesso, impassibile, reagendo come se l’interlocutore dall’altra parte del tavolo neanche esistesse, non avanzando una spiegazione.
 
I suoi pensieri vennero interrotti voce di Dwalin che di fronte a lui incrociò le braccia al petto che cercò dapprima un’approvazione di Thorin nel rispondere alla ragazza, ma tutto quello che ebbe  fu solo un profilo basso, privo di qualsiasi emozione: qualcosa non andava affatto, non era così prima che entrasse lei.
Dwalin contrasse la mascella e scosse la testa osservando la mezz’elfa, passando lo sguardo dapprima sul suo braccio fasciato e poi verso il suo viso che continuava a fissare il re accanto a se, aspettando che lui le rispondesse: illusa.
 
“Sono arrivati dei corvi giorni addietro per confermarcelo, non possono essere strisciati fuori da ness…”
 
“Avete guardato le loro carcasse? Prima di andarvene di lì gli avete controllato le armature?” Chiese Ghìda senza aspettare che Dwalin potesse finire la frase, sapendo già come avrebbe concluso la discussione.
 
Non ricevendo risposta passò gli occhi su tutti i nani, Bofur spalancò la bocca di fronte a quella domanda, cercando lo sguardo di Dwalin per una risposta ma lei si affrettò a puntare gli occhi su un nano in particolare, uno che doveva aver visto.
 
“Nori, tu gli hai guardato il torace a quelli che vi hanno raggiunto?” Il nano la guardò dapprima corrugando la fronte confuso e poi abbassò ancora di piu’ la pipa che teneva in mano verso il basso studiandone l’erba che al suo interno continuava a bruciare e la risposta negativa le arrivò come se gliel’avesse detta a voce alta.
 
Dallo sguardo del nano dai capelli grigi, fece vagare il suo oltrepassando il tavolo, cercando quello di Thorin, ancora una volta, e ancora una volta non si degnava neanche di guardarla: sentì l’ennesima fitta al petto e la tentazione di affrontarlo lì difronte a tutti divenne quasi insopportabile tanto da farle graffiare il tavolo sotto la mano chiudendo la mano in un pugno tentando di controllare quel dolore al petto che non faceva altro che aumentare, attimo dopo attimo.
 
“L’orco che mi ha attaccata portava un segno, un segno che ho visto solo una volta quando sono venuta qui, ne ho accatastati di decine di cadaveri uguali…” Si affettò a dire controllando il tono di voce e facendosi carico di tutta la sua calma che possedeva si staccò dal tavolo con una leggera spinta e puntò lo sguardo verso il tavolo, studiandolo e trovando ciò che le interessava: di fronte a Thorin. “Portavano un marchio, segnato con sangue sulle armature, l’ho visto prima di perdere i sensi. Me ne sono ricordata solo ora, parlando dei sigilli delle sette casate e di come si usino per riconoscere la provenienza di un oggetto, di qualsiasi oggetto forgiato nei Sette Regni o per riconoscersi in battaglia alla fazione di appartenenza.”
 
Si diede una spinta con la mano e fece il giro del tavolo, passando dietro le schiene di tutti i nani sul lato destro, facendoli voltare leggermente ogni volta che sorpassava le loro schiena, sempre piu’ confusi dai suoi gesti, fino a che a tutti non fu chiaro cosa volesse quando puntò lo sguardo in mezzo al tavolo.
Thorin appena cominciò ad avvicinarsi iniziò ad irrigidirsi sempre di piu’ fin ola culminare in una stratta talmente poderosa sul bracciolo della sedia che si sentì l’anello del dito medio stridere contro il legno graffiandolo.
 
Se fosse stato una bestia le avrebbe le probabilmente ringhiato addosso, come avvertimento di non avanzare oltre.
 
Il rumore la fece arrestare di colpo dal suo intento, e fermò il passo rimanendo dietro lo schienale della sedia di Balin, mentre quel semplice gesto la fece rabbrividire: era così dunque, non aveva neanche piu’ il diritto di avvicinarsi a lui… lui provava disgusto per lei.
 
Quella semplice supposizione le fece abbandonare ogni freno inibitore, e come se il suo avvertimento non fosse mai esistito continuò verso di lui frapponendosi tra lui e il vecchio nano allungando la mano verso il centro del tavolo.
Non si curò ne degli sguardi allarmati di Balin accanto a se, ne dello spasmo che attraverso il collo di Thorin appena poggiò la mano sulla mappa della Terra di Mezzo o dei suoi muscoli che si tesero non appena la portò piu’ vicino  se, ma abbastanza inclinata da dare la possibilità al tutto il tavolo se avessero voluto, di poter osservare i suoi movimenti, spostando due candele al suo per illuminarla al meglio.
 
Poggiò un dito sull carta ingiallita passandolo sul suo pelo studiandola dal baso verso l’alto passando da sud di Elcar, fino a salire per Bosco Atro e poi voltare lo sguardo verso le Montagne Nebbiose e lì poggiò il dito indicando la piccola runa di Durin nella Montagne vicino la foresta di Lorien.
 
“Azanulbizar è qui giusto?” A quelle parole metà della tavola si irrigidì e l’altra metà cadde in un profondo silenzio fatte di teste basse e sussurri tristi, l’unico che mantenne la testa alta fu Dwalin che assottiglio gli occhi puntandoli verso la punta del suo dito e un secondo paio di occhi azzurri che si destarono dal nulla che stava fissando serrando la mascella a quel nome. Cercò in una conferma in Balin accanto a lei che annuì chinandosi ancora di piu’ verso la mappa: sentir nominare quel nome ad alta voce, faceva male, questo nessuno di loro lo poteva negare.
 
“L’entrata est delle miniere.” Sottolineò osservando la piccola runa rossa.
 
“Anche l’unica non sigillata.” Confermò ancor di piu’ Bofur che con i pugni serrati ancora non si era ripreso di come l’atteggiamento di Ghìda fosse cambiato in così pochi minuti.
 
“L’unica dalla q-quale si può accedere senza sapere la parola incantata della porta di Durin.” Sottolineò Ori prendendo la parola anche se flebile infondo al tavolo ricevendo una mano sulla spalla da Dori seduto acanto a lui.
 
Nori di fronte a loro annuì verso il fratello poggiando una mano sul tavolo per poi indicare la pipa fumante la mappa sotto le mani di Ghìda capendo a ciò che in realtà lei intendesse, e si allungò verso di lei strofinando l’estremità del bocchino da parte a parte delle due entrate di Moria “E da cui si possa uscire anche.”
 
“Se fossero degli orchi di Moria avrebbero dovuto attraversare l’Anduin avrebbero trovato la carovana molto prima delle Terra Brune, non vi è altro modo per passare se non attraversando quel fiume.” Sottolineò Ghìda facendo vagare il dito su tutta la lunghezza del lungo fiume assottigliando lo sguardo e facendo salire il dito sempre piu’ su.
 
Glòin osservò attento chinandosi ancora di piu’ in avanti, la barba rossa che ormai toccava il tavolo, studiando attentamente il dito che si muoveva sulla mappa salendo fin oltre il bosco, accarezzando le Montagne Nebbiose “Ragazza cosa state cercando di re.”
 
“Che venivano da molto piu’ in alto.” Fermò il dito sul lato piu’ alto dell mappa, puntandolo su una cima solitaria ad Ovest, la vetta, la fortezza, che aveva come simbolo quel marchio. 
 
“Gundabad.” Un mormorio che non seppe identificare disse ad alta voce il nome che lei stessa non aveva avuto il coraggio di pronunciare.
 
Dwalin dall’altro capo del tavolo inarcò le sopracciglia osservando la mappa confuso: le nocche ferrate delle mani che si poggiarono con lentezza sul tavolo mentre le folte sopracciglia nere insieme alla sua cicatrice sulla fonte si andarono ad incurvare incredule di fronte al punto indicato. “Quella fortezza è stata svuotata, alla fine della battaglia gli orchi si sono dispersi, non c’è nulla tra quelle montagne.” Affermò come se volesse piu’ convincere se stesso di quelle parole, ma con una sicurezza tale che trovò l’approvazione da suo fratello di fronte a lui.
 
“Sarebbero stati avvistati molto prima di arrivare al confine su di Bosco Atro.” Si rivolse a lei Balin questa volta alzando lo sguardo dalla mappa verso di lei: gli occhi che la interrogarono. “Quello che stai dicendo ragazza va contro ciò che sappiamo.”
 
“Li avremmo visti anche noi molto prima di giungere alle Terre Brune.” Concluse Dwalin confermando le parole del fratello e confermando anche la sua posizione sul fatto che lei si fosse sbagliata, eppure non era così.
 
Lei sapeva ciò che aveva visto, sapeva chi erano quegli orchi e sapeva anche che la conoscevano ma, quel particolare non lo rivelò, neanche per confermare che avesse ragione: sarebbe stato rischioso troppo rischioso e in piu’ era stato solo il suo nome mormorato, ma quello che la spinse a non dire nulla non fu il fatto che conoscessero il suo nome, ma quello di suo padre.
 
Ghìda scosse velocemente la testa e portò la mappa ancora più al centro del tavolo spostando il dito verso la foresta indicatone tutta l’ampiezza disegnando un enorme ovale invisibile. “No se fossero passati dentro un luogo talmente fitto da rendere impossibile anche solo vederli dall’alto, i corvi hanno visto ciò che ne è uscito non hanno visto se sono entrati in Bosco Atro.”
Dwalin sgranò gli occhi, i lunghi baffi gli tremarono sotto un piccolo sobbalzo di sgomento: aveva capito cosa stesse cercando di dire, e la situazione se era così come pensava, era grave, molto grave. Spostò il guardo verso Thorin, che sembrò estraniato totalmente da quello che gli stava succedendo sotto gli occhi e anche da quello che poteva significare.
 
 “Thorin…” Lo richiamò girandosi alla sua sinistra, per scuoterlo ma la voce della mezz’elfa sovrastò nuovamente la sua confermando le sue supposizioni.
 
“Se è come credo, Thranduil è per questo ha chiuso la strada elfica, la foresta è infestata.” Ora per quanto non lo sopportasse, rivolse tutta la sua attenzione verso di Thorin, guardandolo ancora seduto accanto a se.
 
Thorin che fino a quel momento era rimasto immobile, non curante, con lo sguardo basso si alzò attirando l’attenzione di tutti, ma invece di prendere parola lanciò un’occhiata verso tutti i membri seduti al tavolo: uno sguardo severo, evitandola di proposito prima di dare a tutti la schiena e procedere a grandi falcate verso il baratro di pietra e oro, alle spalle del tavolo portandosi le mani dietro la schiena e invitando tutti al silenzio.
 
Ghìda lo guardo incredula di fronte a un tale comportamento: se lo sarebbe aspettato da chiunque, ma non da lui, sembrava non avesse neanche ascoltato quello che avesse detto.
Strinse i denti e si scostò dal tavolo vicino Balin e oltrepassò l’angolo del tavolo per avere piena visione della schiena del re, che incurante continuava a mostrare a tutti i presenti.
 
“Thorin…” Lo richiamò facendo trasparire volutamente la preoccupazione che era riuscita a gestire fino a quel momento “Devi inviare un corvo a Thranduil, ad Esgarot, e a…” Si bloccò un attimo lasciando scivolare via il groppo che le si era formato improvvisamente in gola. “A mio padre. Devi interrompere qualsiasi cosa passi vicino a quella foresta.”
 
Il suo continuo silenzio il suo prendere le sue parole come una cosa che potesse essere ignorata la portò al limite; sentì un'improvvisa voglia di gridare a pieni polmoni la sua frustrazione, il suo dolore, ma stupendola la sua voce le arrivò alle orecchie definita e gelata.
 
“L’unica cosa che deve fare Thranduil è aprire la strada elfica, ha già portato abbastanza disgrazie su questo popolo.” Sibilò gelido muovendo a malapena le spalle quando parlò: l’unica cosa che infatti le diede la certezza che fosse stato lui a parlare fu il tono profondo e autoritario che nessuno mai avrebbe usato. Ma la sua autorevolezza non gli dava assolutamente il diritto di comportarsi a questo modo, sembrava non avesse neanche preso in conto le conseguenze o l’avesse ascoltata.
 
“Se passassero dentro il Bosco saranno massacrati tutti!” Disse tentando di contenere il tono di voce che le uscì comunque piu’ alto del previsto. “Devi sapere perché l’ha fatto, accantona i tuoi irrisori rancori verso gli Elfi di Bosco Atro, parla con lui.”
 
“Non è rancore.” Si intromise la voce dura di Dwalin interrompendola.
 
Confusa da tale affermazione si voltò verso di lui, spostando lo sguardo dalla tunica blu scura di Thorin verso il viso tatuato del nano. Dwalin la guardò alzando un sopracciglio studiando la sua espressione sconcertata e fu veloce a spiegare il motivo delle sue parole che a lei continuavano a sembrare assurde. “E’ da mesi non riusciamo a discutere con il Bosco, le porte del regno sono sigillate, come la strada Elfica, niente entra o esce da lì.”
 
“Mandate…” Cominciò incerta verso il tavolo che ormai la guardavano tutti in silenzio, spostando di volta in volta gli occhi da lei verso Thorin appena sentirono il plurale: non avrebbero ascoltato lei, solo con un ordine di Thorin avrebbero agito, anche se fosse nel torto la loro lealtà era troppo grande. Spostò gli occhi verso Bofur che scosse la testa in segno di non continuare oltre e poi verso Balin che invece la guardò affrante sospirando arreso e spostando anche lui lo sguardo verso Thorin portandola a fare lo stesso.

Se non avrebbero ascoltato lei, doveva convincere il diretto interessato.
 
“Manda…” Si corresse velocemente avanzando di un paio di passi verso la figura oscura che appena la sentì avvicinarsi si irrigidì ancora di più stringendo i pugni. “Manda un emissario, manda qualcuno a parlare con lui.” Insistette osservandogli la schiena che non dava segni di cedimento, se non le sue spalle che si alzarono e si abbassarono in un respiro profondo.
 
“E’ infruttuoso discutere con lui.” Sostenne ancora quasi ringhiandole.
 
“E’ infruttuoso anche non fare nulla, se non peggio!” Thorin rimase in totale silenzio, mandandola, oltre un limite che nessun nano avrebbe mai dovuto superare, lei per prima, ma ormai i suoi limiti Thorin li aveva abbattuti rendendoli cenere. Avanzò verso di lui oltrepassando l’ampia sedia che li separava, il fianco che chiedeva pietà di non muoversi in quella maniera irruenta, ma la furia l’acceco.
 
“La tua caparbietà sarà la tua rovina!” Scattò rabbiosa, non riuscendo a controllarsi: era stanca, troppo stanca per farlo, e a quelle parole l’aria divenne pesante, tutti trattennero il respiro, pronti a una reazione del re che operò non arrivò.
 
Nessuno aveva mai osato tanto, non con quel tono, non con quella rabbia, con quella disperazione che non fece altro che dare la conferma alla sala che qualcosa  si era rotto irrimediabilmente e il silenzio forzato di Thorin fu solo un tassello in più in quello schema oscuro che venne completato dalle parole supplicati che seguirono.
 
Ghìda prese un profondo respiro avanzando a piccoli passi verso di lui le mani strette nel tessuto della gonna, tremanti, cariche di un sentimento troppo devastante da controllare sotto la sua indifferenza. La voce dapprima sprezzante e carica di rabbia divenne un flebile sussurro spezzato e incerto.
 
Maikridî… ti prego.”
 
Capì d'aver compiuto un'enorme sciocchezza quando, per tutta risposta, ricevette una gelida occhiata oltre la spalla, che le fece drizzare la schiena così come le parole sibilate a cariche di rabbia che seguirono.
 
“Non venirmi a parlare di fiducia, non tu.”
 
A quelle parole sgranò gli occhi incredula, le mani le scivolarono via dal tessuto, morenti; il dubbio che l’aveva accompagnata fino a quel momento la distrusse, dandole la certezza che cercava: la conversazione che era avvenuta nella sua stanza, per lui era come non fosse mai avvenuta, aveva cancellato tutto, le stava facendo ripagare tutti i suoi sbagli di nuovo uno alla volta, come se già non li stesse pagando abbastanza, come se amare lui non fosse già abbastanza per farla soffrire.
 
A tutti i nani nella sala, compresi Balin e Dwalin che non avevano staccato neanche un attimo lo sguardo increduli di quello che stava accadendo di fronte a tutti, fu chiaro che la discussione era passata su un altro livello, in cui loro non rientravano, in realtà non lo era mai stata: non si trattava di un consiglio rifiutato, di una preoccupazione del re per la salute della futura regina, era stat frutto di gesti nascosti alla loro vista e di parole che nessuno dei due interessati avrebbe mai pronunciato di fronte a loro.
 
Un pensiero comune silente così come la decisione che seguì che li fece alzare per lasciare una solitudine quasi sacra a quella conversazione, tutti uniti dalla certezza che se fossero rimasti avrebbero solo intralciato una battaglia che  i due diretti interessati sembravano già stessero combattendo con il loro silenzio: l’espressione indurita del re verso le colonne immense che calavano nell’abisso della montagna e lo sguardo scossò della donna che lo osservava senza muovere un muscolo.
 
Balin si allontanò dal tavolo, trascinandosi con lentezza verso la porta dorata, seguendo gli altri: le mani che sorreggevano la vecchia schiena che già aveva una vaga idea di quello che sarebbe successo e la ragione gli sfuggì tra le dita.
 
 Lanciò un occhiata dietro di lui verso la ragazza, di cui riusciva solo a vedere il profilo e i ciondoli dorati tra i capelli scuri che si illuminavano della luce he oltrepassava le spalle di Thorin: doveva impedirlo, la sua testa gli diceva di impedire che qualcosa avvenisse, ma Dwalin intuendo cosa avrebbe fatto gli afferrò il braccio intimandogli un’ ultima volta di seguirlo e di andarsene, il volto del fratello specchio della sua stessa consapevolezza.
 
Se avessero dovuto distruggersi a vicenda, lo avrebbero fatto, con o senza il loro intervento.
 
Il rumore netto della porta che si chiuse e il suo rimbombo rotto solo dai loro respiri e Ghìda che si abbandonò in un sospiro profondo, incapace di non guardare altro che non fossero i capelli crespi neri e i due anelli argentati tra questi.
 
Aspettò in silenzio che lui aggiungesse altro, ma non disse nulla, e nella solitudine della sala lasciò andare quel pensiero che aveva trattenuto troppo a lungo e non le chiedeva altro di uscire.
 
“Allora è così che sarà, non avrò neanche piu’ diritto di parlarti?”
 
Seguirono diversi istanti di silenzio, che le parvero infinti, un’ attesa straniante in un silenzio profondo che voleva già dire tutto, già così le voleva dare una risposta così probabilmente, ma infine la voce di Thorin arrivò come un pugno in pieno stomaco, senza emozione alcuna.
 
“Non mi servono consigli e non mi servono da te e voglio sempre ricordarti che il tuo posto non è qui, in questa sala.” Si premurò di sottolineare ogni parola truce, senza darle il minimo riscatto, ricordandole ancora una volta cosa dovesse fare e la cosa cominciò a farle risalire i primi sentori della rabbia che fino a poco prima era scomparsa, spigionandogli adesso tututte le cose che non avrebbe mai osato dire di fronte alla sua compagnia.
 
 “Io sono venuta qua per avvertirti di un pericolo che tu non hai neanche ascoltato, un pericolo che hai visto con i tuoi stessi occhi. Sai che quello che ho detto è la verità!” Sottolie fredda.
 
“Se non ho detto una parola non vuol dire che io non ti abbia ascoltato.” Rispose piccato continuando a non guardarla come per dare ancora piu’ conferma alle sue parole, come faceva sempre, rendendola invisibile.
 
“Non hai alzato lo sguardo verso di me neanche per un attimo da quando sono entrata, puoi aver ascoltato le mie parole ma non aver visto la mia bocca mentre le pronunciava.”
 
“Non ho bisogno di guardarti per comprendere le tue parole, e neanche di starti accanto.”
 
Il cuore le saltò un battito a quelle parole, sapeva che si stava riferendo a ben altro che non a quello che era accaduto, o per lo meno lei ci sentì solo quello: se fosse vero o no era futile e non avrebbe cambiato il dolore che continuava a sentire allargarsi nel suo petto. “Per questo non sei piu’ venuto nelle mie stanze, per non guardarmi?” In quel momento si sentì disperata: pensare quelle parole era un conto, dirgliele ad alta voce la fece fremere dalla testa fino ai piedi a portare le mani a stringersi in due pugni, già pronta a un’ennesima riposta verso il muro che ora rappresentava la schiena di Thorin, ma non accadde.
 
Il desiderio che aveva espresso da quando era entrata in quella sala venne esaudito: Thorin voltò dapprima lo sguardo e poi si girò completamente con una lentezza che le fece patire ogni attimo prima che la guardasse negli occhi: fu quello che le fece piu’ male guardarlo in viso.
I suoi occhi le rifecero vivere ogni istante a rilento nella sua testa: le sue mani strette al collo della camicia,  le labbra intrinseche delle sue, la sua lingua nella sua bocca, quel bisogno esposto tra i loro respiri, le sue mani sulle sue gambe che salivano sempre piu’ in alto e poi il vuoto.
 
Le si cominciò a formare un groppo in gola terribile anche da buttare giù: ora che la guardava desiderava solo che si voltasse di nuovo.
 
“La mia presenza nelle tue stanze non era piu’ richiesta, stavi bene, ti sei svegliata, sono state le tue parole.” Le sottolineo duro. “ Il mio essere lì non avrebbe fatto nessuna differenza.”
 
“Avrebbe fatto per me la differenza.”
 
“Non mi sembra che ti sia servita per alzarti e camminare fino a qui.”
 
Il volto di Thorin non cambiò mentre pronunciava quelle parole, rimanendo freddo, la bocca che si mosse malapena a differenza della propria che si spalancò esasperata, esausta di lui, esausta di continuare così.
 
“Se mi disprezzi a tal punto perché continui ad onorare il patto con mio padre? Mandami via.” Solo a quella parole il volto di Thorin vacillò, durò solo un attimo quindi non fu sicura di quello che successe ma una scintilla gli attraverso gli occhi; era troppo distrutta per accorgersene e le parole che le uscirono di bocca, così assurde se ci chiese se fosse impazzita, una richiesta dolorosa e disonorevole. “Da quando sono qui ho disobbedito ai tuoi ordini, ho rischiato la vita e la tua discendenza, ti ho disonorato piu’ volte anche solo con la mia presenza in questa sala in questo momento.” Sputò dolorante, una sofferenza fisica che aumentava ogni parola perché sapeva fosse la verità: chiunque altro signore dei nani con un'altra qualsiasi nana avrebbe avuto qualsiasi diritto a ripudiarla. “Fa tornare tutto come prima che… prima che venissi qui.”
 
“Tu vuoi questo?” Le chiese freddo a bruciapelo spiazzandola. “Vuoi che l’accordo venga rotto?” Continuò serio ponendole quella domanda che la fece irrigidire: sentì il vuoto intorno a se, e la risposta era chiara nella mente, ma non riuscì a pronunciarla fissandolo in silenzio.
 
 
Thorin assottigliò lo sguardo avanzando verso di lei di un passo, ma appena stette per compiere il secondo si bloccò di colpo, come se un enorme peso lo tenesse fermo dove si trovava.
 
“Ti sbagli, io non ti disprezzo.” Fu fugace ma lei lo sentì, vide la sua bocca muoversi nel dirla, ma scaturì dentro di lei l’emozione opposta  a quella che doveva sentire: non era felice, non era neanche rasserenata era ancora piu’ esasperata e incredula alla sua continua cotraddizione al suo continuo avvicinarsi a lei e poi strapparsi via in un perverso gioco di potere.
 
Avanzò verso di lui colmando i passi che Thorin non era riuscito a compiere: lo studiò puntando gli occhi nei suoi, in cerca di quella scintilla che aveva notato, ma c’era il buio, il freddo. Sconcertata ed esausta sciolse le mani dalla gonna, talmente esausta che la sua bocca prese fiato, facendo ciò che sarebbe stata incapace di compiere da sola.
 
“Allora cosa sono io per te? Se non mi disprezzi cosa provi per me?” Un sussurrò così leggero che dubitò anche di averlo chiesto, lei doveva sapere aveva ogni diritto di sapere, non sarebbe stat il suo giocatolo, non piu’.
 
Thorin non disse nulla, e sentì la frustrazione serrarle lo stomaco pronta a urlargli quella parole un'altra volta ma e poi la rivide quella scintilla che prima non era sicura di aver notato, la vide, così come la gola di Thorin che si mosse nervosamente: un pezzo di un’armatura impenetrabile che lei, inconsapevole era riuscita a far cadere.
 
Le mancò il respiro a quella reazione ma le diede la spinta per compiere una seconda domanda, piu’ incisa della prima e molto piu’ devastante, avanzò di un passo, talmente vicino che Thorin la torreggiava, alzò ancora di piu’ il viso per guardarlo meglio, tanto lontano da non poterlo sfiorare, ma talmente vicino da annebbiarle la testa.
 
“Quel bacio non ha significato nulla?”
 
La incenerì con un’occhiata, la scintilla divennero fiamme che divennero sempre piu’ ruggenti come i contorni del suo viso che si distorsero mentre si avvicinava sempre di piu’ vicino al suo tanto da farle socchiudere lievemente gli occhi e percepire il fuoco che amava anche sulla pelle del suo viso.
 
“Quel bacio è stato un errore ecco cosa è stato, dimenticalo.” Ribatté secco e così diretto come l’aveva detto allontanò il viso dal suo ponendo di nuovo un passo tra loro due che nel suo petto sembrò un burrone.
 
“Dimenticare?” Chiese affranta, tentando di controllare la voce che si andava a incrinare, ma quella maledetta lacrime, che si era ritrovare a versare solo per lui , tornarono rendendole il tutto ancora piu’ difficile: un segno di un cuore che stava per cedere.
Nessuno dei due sarebbe mai stato in grado di dimenticare, ma dalla bocca di Thorin non uscì altro che un soffio e da quella di Ghìda un lamento incredulo. “Tu mi chiedi di comportarmi come se non fosse mai accaduto, di andare avanti facendo finta di nulla?” Chiese di conferma intanto che la sua voce dava già i primi segni di cedimento.
 
“Si.”
 
“Non posso.” Fu diretta senza giri di parole, e calcò quelle parole, un per una, tanto da scuotere Thorin di fronte a lei che sussultò a una sua negazione così diretta: le mani dietro la schiena che si chiusero in una morsa ferrea, che aumentò di forza quando lei si riavvicinò di nuovo a lui. “ Non posso farlo, non piu’. Ci ho provato e provato…” Thorin vide i suoi gli occhi brillare ogni centimetro che si avvicinava verso di lui, e la sua compostezza andò a vacillare. “Ho provato tutte le notti, provato a dimenticare quello che è successo, ma io non posso, non ci riesco.”
 
“Non hai provato abbastanza.” Bisbigliò roco Thorin, quasi parlando a se stesso e non a lei.
 
Ghìda schiuse le labbra, schiumante di collera: strinse gli occhi finché non divennero due fessure, ed aggrottò la fronte esplodendo definitivamente. “Credi davvero che non abbia tentato con tutte le mie forze a cancellare quei momenti!?” Sibilò non staccando mai gli occhi dai suoi che ancora le donavano solo ira e indifferenza. “Credi davvero che non desideri altro che dimenticare? Piu’ ci provo e piu’ mi torna alla mente, e piu’ mi torna alla mente piu’ ricordo tutto il resto.”
 
“Se tu volessi dimenticare non mi avresti posto un domanda così sciocca!”
 
“Te l’ho posta perché ho il diritto di avere delle risposte!” Sbraitò ormai fuori di se.
 
Thorin perse la pazienza, il corpo gli fremette e in quello che durò un attimo avvicinò sempre di piu’ a lei, furente: gli occhi scuri, i pugni della mani che da dietro la schiena erano serrati suoi fianchi, un sorriso mesto che gli si dipinse sul volto, che si andò a spegnere lasciando il posto a una furia pure e limpida, talmente distruttiva che la portò a indietreggiare sempre di piu’ spaventata.
Le mani dietro di se in cerca di un appiglio la trovarono sul tavolo di pietra, sul quale si ritrovò bloccata incapace di andar oltre ma questo non fermò Thorin che con un colpo secco batte i pugni sul tavolo lungo i suoi fianchi sfiorandole le mani che tremarono dalla paura: dai suoi occhi cominciarono a sgorgare quelle lacrime di rabbia che aveva cercato in tutti i modi di trattenere specchiandosi in quelli di Thorin lividi dalla furia.
 
“Tu non hai il diritto di avere risposte dove di risposte non ce ne sono…” sibilò adirato “E’ stato un errore, niente di piu’, una sudicia debolezza che non sarebbe mai dovuta accadere…” Calcò con piu’ rabbia: le mani che premevano con forza sul tavolo, un vano tentativo per controllare quel dolore trasformato in rabbia.  “Una cosa che va dimenticata come tutto quello che ne è conseguito, come tutto quello che ha portato a quel momento e tutto quello che ne cons-”
 
“Io ti amo.”
 
Furono tre parole, semplici, troppo semplici, troppo assurde da sentire , troppo dolorose da sentir uscire dalla sua bocca, ma così taglienti da rompere qualcosa nel petto di Thorin, un qualcosa che si era ripromesso quei giorni di non far uscire per alcun motivo.
 
Il petto gli sussultò, la patina di rabbia che gli aveva annebbiato la vista si dilatò, e cominciò a vedere di nuovo, iniziando a scorgere i dettagli del suo viso, di nuovo così dannatamente vicino al suo: gli occhi marroni sgranati, due lacrime silenziose che le erano scese dagli occhi scuri, il viso trasmutato in una espressione di rassegnazione, la bocca ancora spalancata alla fine della parola amore.
 
No, non poteva averlo detto.
 
Si allontanò di colpo, spaventato da se stesso, di ciò che sarebbe potuto succedere, di ciò che avrebbe potuto fare, paura di ciò che continuava a risuonargli nella testa, di quella sensazione fatta di sussurri tenebrosi che cigolarono sotto i suoi occhi imploranti che non smisero di seguirlo, le mani ben artigliate al tavolo dietro di lei, il petto che si muoveva in respiri veloci uno piu’ tremante dell’altro.
 
“Non farlo.”
 
“Non puoi impormelo…” Sussurrò di rimando tra i denti rimanendo ferma dove stava, i suoi respiri a malapena percepibili dal movimento del tessuto leggero blu del vestito, le spalle basse: sembrava svuotata, lui l’aveva svuotata. Una fitta gli attraversò il cuore e lo fece infuriare ancora di piu’; basta non lo voleva, tutto quello non lo voleva più.
Si avvicinò nuovamente a lei scuotendo la testa e si ritrovò di nuovo a fronteggiarla ma era abbastanza lucido da poter patire ogni parola, ogni bugia, ogni desiderio nascosto che fu costretto a tirare fuori.
 
“Finché sei sotto questa Montagna io posso importi ciò che voglio!”
 
“Non quello che provo!” Gli urlò addosso di rimando le lacrime ormai solo dei flebili ricordi, un momento di debolezza spazzato via dalla realtà che piangere per lui non sarebbe servito a nulla: lui non sarebbe cambiato e lei neanche, avrebbero continuato a urlarsi addosso fino a distruggersi a vicenda. E ogni urlo che lui compiva la stava distruggendo, come quei suo maledetti ordini,: credeva di poter controllare il mondo, ma non poteva controllare a chi appartenesse il suo.  “Non mi chiedermi questo, perché io non posso obbedire al tuo ordine, come non puoi chiedermi di non morire per te o di cancellare quello che sia successo! Non puoi chiedermi di non amarti!”
 
“La mia non era una richiesta, era un ordine.”
 
“Ed è l’unico ordine che non puoi imporre a nessuno, e me lo stai imponendo a me! Come se fosse una cosa che io voglia, che io desideri provare!”
 
Thorin assottigliò lo sguardo scrutandola furente e poi serrando la mascella spostò lo sguardo verso il suo petto, scosso da un tremito, e vi avvicinò la mano osservandolo con la mascella serrata; le puntò un dito sul petto in mezzo allo sterno all’altezza del cuore sfiorandole la pelle scoperta per poi riaffondare gli occhi nei suoi, le mani che ormai le facevano male per quanto stringeva bordi del tavolo dietro di se.
“Quello che provi per me non è altro che una tua illusione, una richiesta che tu mi chiedi che io non posso accontentare: io ti onorerò come regina, come moglie, come madre, ma non ti aspettare altro da me, io non sono obbligato a darti altro che non sia questo. Perché io non ti darò altro che questo.”
 
Una bugia che devastò piu’ Thorin che Ghìda che quando la sentì sputata contro di se non reagì neanche rimanendo immobile: fu come se tutte le stelle intorno a lei si spegnessero a la montagna crollarle addosso schiacciandola sotto un peso delle parole che si era già preparata a sentire ogni giorno.
 
“Io non ti ho chiesto di darmi altro che non sia questo…non ho mai neanche avanzato la pretesa che tu mi possa dare altro… io non voglio altro da te.” Sussurrò così flebilmente da fondersi con l’aria che la circondava.
 
“Allora la conversazione è chiusa.” Concluse Thorin freddamente e tolse il dito dal suo petto allontano il viso dal suo con una velocità tale che Ghìda chiuse gli occhi per un istante; quando li riaprì lo vede lontano da lei di nuovo vero il baratro infondo alla sala. camminava all’indietro osservandola e infine si voltò pronto a voltarle le spalle ancora, per congedarla.
 
I Valar dovevano odiarla davvero, farla nascere, darle la vita e poi per puro loro piacimento legarla a l’unico nano a cui non avrebbe mai potuto donarsi, alla personificazione stessa di tutto ciò che lei avrebbe voluto essere e che non sarebbe mai stata.
 
Ogni parte di lei le continuava a dirle di andarsene, di lasciare quella stanza, di scappare via e di diventare ciò che sarebbe sempre dovuta essere, tornare alla realtà di ciò che era, interrompendo quel sogno che si era costruita intorno, in cui aveva rigettato tutta se stessa, in cui ancora poteva vedere quei momenti tra loro due: la grotta, il suo volto che la scrutava quando scendeva la scalinata della stanza dei banchetti, la sua mano sulla sua guancia prima di addormentarsi, le sue labbra sulla sua testa e le loro dita incrociate nella fucina, la sua voce spezzata nel suo dolore e poi le sue labbra sulle sue che non aveva fatto altro che suggellare quello che lei già sapeva fin troppo bene.
 
Non seppe cosa la spinse, forse la certezza di non poter perdere nulla, la certezza che qualsiasi sarebbe stata la sua risposta non poteva soffrirne piu’ di così: si avvicinò a lui prima che potesse darle le spalle, lasciando il tavolo dietro di lei e velocemente si posizionò davanti al suo petto fronteggiandolo dal basso verso l’alto prendendogli il viso tra le mani osservandolo dritto nelle iridi blu, con le parole che uscirono come un fiume in piena.

“Guardami negli occhi e dimmi che è stato tutta una mia illusione” Cominciò con la voce che fu un misto di determinazione che però andò a vacillare sotto il peso dei sentimenti troppo trattenuti in una maschera di regalità e onore. “Dimmi ti prego che sono rimasta una ragazzina chiusa in una fucina che ancora spera nel nulla, dimmi che sono una mezzosangue e nient’altro, dimmi che la montagna ha tremato solo per me e non per te…”

“Ghìda…”

“Dimmi che è stato un momento di debolezza che non si ripeterà mai piu’, dimmi che tutto tornerà come prima, dimmi che passerò la mia vita a stare al tuo fianco senza avere nulla in cambio che non siano dei pomeriggi buttati in una sala di questa Montagna…”
 
La parte razionale continuava ad urlarle di fermarsi, poiché stava compromettendo tutto quello che sarebbe potuto ancora essere; ma era diventata sorda a qualsiasi richiesta, a qualsiasi invocazione.
 
Invece doveva sfogarsi, espellere quel dolore e riversarlo su di lui.
Non avrebbe voluto, ma non riusciva più a fermarsi.
 
Thorin abbassò il capo, l’orgoglio e il dolore che lo bloccavano da qualsiasi suo richiesta, che gli sembrarono assurde ma così lecite e così terribili anche da pronunciare che non riuscì a mentirle, riuscì solo a supplicarle di fermarsi, perché non avrebbe retto una frase di piu’.
 
“Basta…” Le ringhiò Thorin con gli occhi che divennero ogni parola sempre piu’ furenti e il suo viso sempre più rigido sotto le sue mani.
 
“Dimmi che tu non hai sentito nulla, dimmi che non mi vuoi neanche piu’ guardare in volto, che non mi rivolgerai più la parola, dimmi che mi sposerai solo perché devi farlo.”
 
“Sta zitta!”
 
“Dimmelo e la conversazione sarà chiusa!” Lo supplicò non riuscendo ad arrendersi a non sopportare piu’ tutto quel peso quel dolore nell’anche solo stargli vicino, l’avrebbe consumata.
 
Non ebbe neanche il tempo di rendersi conto di quello che aveva detto che si sentì presa per i capelli della nuca ferocemente e patì le labbra di Thorin avventarsi sulle sue in un bacio furioso e famelico che le face sgranare gli occhi incredula; le silenziose lacrime che per troppo aveva trattenuto si insediarono tra le loro labbra rendendo il bacio salato e ancora piu’ violento di quanto sarebbe dovuto essere.
 
Il buonsenso le diceva di spingerlo via: tentò perfino di allontanare le labbra dalle sue ma appena ci provò Thorin passò l’altro braccio intorno alla vita bloccandola e tirandola ancora piu’ verso di se.
 
No, non doveva succedere, non piu’, eppure vi si aggrappò con ancora piu’ ardore rispetto alla prima volta che le loro labbra si erano incontrate, e non riuscì a far altro che a riversare tutto il suo dolore, la sua rabbia, il suo amore in quel bacio sempre piu’ irruento.
 
Ghìda spostò le mani dalla sua mandibola fino verso il suo collo e poi nei suoi capelli incrociandoci le dita con forza attirandolo verso di se quando Thorin invase prepotentemente la sua bocca stringendole così forte i capelli da farle male e farla gemere in un misto di dolore e piacere.
 
Perché quello stava sentendo: un terribile e dolce dolore che le fracassò il cuore.
 
Si sentì spinta all’indietro fino a che non incontrò la superfice del tavolo di pietra sbattendoci la parte bassa della schiena: inaspettatamente la mano di Thorin le lasciò i capelli, e accompagnata da quella sul bacino, senza staccarsi dalle sue labbra, irruentemente la alzò da terra prendendola per le gambe facendola sedere sul tavolo e posizionandosi in mezzo alle sue cosce tese.
 
I respiri diventarono piu’ veloci, i rumori degli ansimi e l’inseguirsi del loro lingue  non fece altro far scontrare il dolore di entrambi con la dura realtà di non potersi separare da ciò che erano da ciò che provavano che per quanto fosse terribile li aveva fatti desiderare l’un l’altra un'altra volta.
 
Le labbra bollenti di Thorin si staccarono dalle sue scendendo piu’ un basso verso la mandibola per poi andare a baciarla vicino all’orecchio e poi verso il collo mordendoglielo e torturandolo facendo crescere sempre di piu’ dentro di lei il desiderio di sentirlo piu’ vicino a se che non fece altro che aumentare quando percepii le mani insinuarsi sotto il suo vestito accarezzandole la pelle delle gambe salendo sempre piu’ in alto.
 Non riuscì a trattenere un gemito quando sentì i denti morderle la pelle alla base del collo, inarcandolo di lato in un silenzioso invito a proseguire, cosa che Thorin non esitò a fare torturandola con piccoli morsi che si andarono ad alternare a lenti movimenti della sua lingua sulla pelle che aveva già segnato.
 Lo attirò sempre di piu’ a se intrecciando le mani nei suoi capelli e  non ebbe neanche bisogno che Thorin la guidasse le gambe questa volta: queste si strinsero intorno alla sua vita in una presa salda e languida facendo aderire la pelle nude del suo interno coscia sulla fondina della spada e il freddo della cintura metallica.
Appena fu abbastanza vicina allargò le gambe fece  aderire i loro bacini scatenando un ruggito basso di Thorin che le si propagò per tutto il collo fino alla spalla portandola a gemere a sua volta inarcando la schiena all’indietro.
Mentre le mani bollenti salivano sempre di più le labbra di Thorin scesero ancora piu’ in basso lasciandole una scia di baci addentando la carne alla base del collo: la barba scura le graffiava la pelle e i denti gliela dilaniarono in un doloroso piacere che non riuscì a trattenere nella sua bocca sfogandosi in un lamento acuto. Era imprigionata sul suo corpo, in balia delle sue mani e della sua bocca e di quel calore al basso ventre che si espanse fino alle sue mani: incontrollate si sciolsero da dietro dai suoi capelli, sfiorando le trecce al lato del viso, scendo sempre piu’ in basso verso la il bordo della cotta che comincio a slacciare bottone per bottone
 
Lo voleva, disperatamente.
 
Eppure anche se lo desiderava a tal punto le lacrime continuavano a non fermarsi infilandosi nella sua bocca e poi piu’ giù scendo dalle guance verso il suo collo raggiungendo le labbra bollenti ormai avventate alla base del suo collo; Thorin fu veloce a raccoglierle baciandola a ritroso dal suo collo, alla sua guancia, ai suoi zigomi prima di suggellare di nuovo il tutto con un bacio talmente carico di passione che fece chiudere gli occhi a entrambi e bloccare le mani di Ghìda a metà dell’opera riuscendo solo sfiorare con la punta delle dita il petto costellato di cicatrici.
 
In un istante, un ringhiò furioso all’interno della sua bocca anticipò quello che sarebbe successo: la mano di Thorin da sotto il suo vestito scattò afferrandole il viso e allontanandolo con foga dal suo interrompendo violentemente quel bacio, che se fosse continuato avrebbe decretato la loro rovina.
 
Eppure lo aveva già fatto, erano già rovinati.
 
Il petto del re si alzava e si abbassava velocemente, scosso dai gemiti interrotti e dai respiri negati in quei minuti: gli occhi azzurri la stavano mangiando viva in un misto di bramosia e furia.
Ma poi si addolcirono di colpo e la scintilla che le aveva negato per tutta quella discussione si riaccese: la guardò con una tale sofferenze che le si strinse il cuore, facendo solo aumentare quelle silenziose lacrime che continuavano a fluirle dagli occhi. Tremante, alzò la sua mano dal suo petto verso la sua guancia poggiandola sopra di essa, sfiorandogli la barba e la pelle bollente della mandibola, accarezzandogli il viso lentamente: per quanto avesse voluto vedere quello sguardo, lo odiava, odiava vederlo così.
 
Thorin aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito e infine incapace di dire quello che doveva a parole con delicatezza poggiò la fronte sulla sua socchiudendo lentamente gli occhi allentando la presa sul suo viso che da una stretta ferrea divenne ben presto una lieve carezza a cui lei si abbandono. Ghìda socchiuse gli occhi adagiandosi sulla sua mano la sciando cadere le ultime lacrime che a quel semplice gesto si fermarono.
 
In fine quella passione prese un nome nella sua testa: un momento di rabbia e lussuria, un momento in cui il desiderio li aveva colti incrollabile, un’ira profonda verso di lei che Thorin non era stato capace a gestire accecato come lei dalla bramosia del suo corpo, ma ora era altro, quelle carezze non erano violente o possessive, niente di tutto ciò lo era: solo estremamente dolce e straziante.
 
Era un addio.
 
Thorin le accarezzò la guancia con le dita della mano e poi abbassò lo sguardo verso le sue labbra portandoci anche la punta delle dita strofinandone il lato con il pollice facendolo scorrere per ogni singola piega arrossata di cui fino a poco prima si era beato preso dall’irruenza, dal dolore, dal suo farla smettere di pronunciare quelle richieste assurde.
Faceva male, troppo.
Alzò di nuovo lo sguardo verso i due pozzi scuri: dovette imporsi di non avvicinarsi di nuovo e baciarla ancora, asciugandole con le labbra tutte le lacrime che avrebbe cominciato di nuovo a versare, riassaporandole nella sua bocca come era successo poco prima, fuse con al loro saliva e i loro respiri.
 
Quello che però andava fatto, non era ciò che desiderava, quello che desiderava era di fronte a lui, con le gambe intorno alla sua vita, le mani sul suo viso, un'altra ancora sul petto, a un soffio dalle sue labbra, a un battito dal suo cuore, ma quello che andava fatto era invece allontanarla da lui, e lui doveva allontanarsi da lei.
 
“Vattene.” Mormorò a stento allottandosi da lei quel tanto che bastava da farle sciogliere le gambe via dai suoi fianchi ma non abbastanza da non poterne ancora sentito l’odore nelle narici: il cuore gli diceva di tornare lì, di continuare, di reclamarla, li su quel tavolo, di perdersi in lei, di accettare ogni singola conseguenza, di donarle tutto ciò che non le era mai stato donato, ma gli era bastato poggiare di nuovo le labbra sule sue  per sapere che non sarebbe piu’ accaduto che non avrebbe piu’ lasciato che accadesse.
 
Abbassò lo sguardo serrando la mascella incapace di reggere ancora il suo sguardo, incapace di guardarla in viso: è vero, su quello aveva avuto ragione, non ne sarebbe stato piu’ in grado. “Va via.” Ripete putandole con la testa la porta ancora una volta alzando gli occhi severamente su di lei.
 
Ghìda consapevole chiuse le gambe lentamente appena si allontanò da lei e poi cominciò ad abbassare lo sguardo mentre piccoli fremiti cominciavano di nuovo ad oltrepassarle il corpo. Le sue mani dapprima strette intorno al suo collo e perse nei suoi capelli si strinsero ai bordi del tavolo facendole diventare le nocche bianche serrò la mascella guardandolo, alzando quell’armatura e quel ghiaccio che non  lui non aveva piu’ visto da settimane:, la bocca si aprì e si richiuse piu’ volte tentando di dire qualcosa ma poi scosse la testa arresa: gli occhi privi di vita, spezzati.
 
Lei aveva capito, con il cuore spezzato, lei aveva capito e questo non fece altro che farlo odiare ancora di piu’.
 
“Vorrei non averti mai incontrato.” Sussurrò con la voce spezzata guardandolo per la prima volta con disprezzo, un profondo disprezzo di un anima che non si sarebbe mai rimarginata.  Strinse i denti dal dolore prima di scendere giù dal tavolo abbassandosi il vestito che era ancora rimasto alzato e coprendosi il lato del collo con il palmo della mano, segnato da svariati segni rossi, prima di voltarsi senza dire altro e uscire dalla sala battendo la porta dietro di se.
 
Thorin alzò lo sguardo da terra verso il tavolo dove prima era seduta, dove si era quasi lasciato andare, dove per un attimo aveva fatto crollare tutto, dove se si sforzava poteva ancora vederla: le unghie della mano si andarono a conficcare nella carne, una rabbia cieca prese possesso di se, una rabbia talmente grande verso se stesso che lo annebbiò come era successo poco prima.
 
Si avvicinò al tavolo premendoci le mani e prendendo un respiro tentando di controllarsi, ma non servì a nulla, il viso di Ghìda, il viso di Kili, il viso di Fili, il viso di Dìs, quello di suo padre di suo nonno, di suo fratello, gli apparvero in testa appena poggiò le mani sull lastra di pietra, ancora era calda per il suo corpo e l’ira infine ebbe la meglio.
 
Sbatte entrambe i pungi sul tavolo trattenendo a stento un urlo che si riversò in un suono gutturale e violentemente gettò a terra tutte le carte che erano di fronte a lui, come se quell’inutile gesto, potesse liberargli la testa, invasa da voci, da momenti, da sorrisi, troppi sorrisi.
 
Annaspando si lasciò andare all’indietro lasciandosi cadere di nuovo sul trono di legno che controllava l’intera stanza: chiuse gli occhi e per la prima volta dopo mesi gli occhi gli tornarono pizzicare, a far male a voler fare quello che non erano più’ stati in grado di fare da troppo tempo.
 
Li serrò per non permettere che accadesse e lasciò andare la testa all’indietro verso il legno dietro di lui immergendo la schiena nella pesante pelliccia e il collo nel suo pelo; le mani si strinsero con foga sui braccioli, spingendo quei sentimenti  ancora piu’ in profondità isolandosi da qualsiasi cosa oltre se stesso.
 
Facendosi forza li riaprì gli occhi spostando lo sguardo sulla mano artigliata al bracciolo che con lentezza aprì allentando la presa e poi girò verso di lui aprendola del tutto: i segni indelebili delle cicatrici che l’attraversavano erano segnati da alcune ben piu’ piccole e ben piu’ nuove, una serie mezzelune che si era autoinflitto per pura rabbia ed erano state anche il motivo che lo avevano portato a essere prigioniero di quel sorriso, di quel dannatissimo sorriso che aveva visto, anche se tirato, dentro quella stessa sala la prima volta che la vide.
 
Quella bocca era anche il motivo per cui da giorni non riusciva a lasciarsi andare al sonno: quella bocca sulla sua era il motivo per cui non riusciva , e non voleva, chiudere occhio, il motivo per cui non voleva neanche guardarla in viso, per il quale non riusciva neanche a passare vicino alle sue stanze desiderando che il suo passato non esistesse e di pretendere ciò che era suo.
 
Era diventato un nettare proibito di cui non aveva mai abbastanza, una dolce dolore continuo e gratificante: avere di nuovo le sue mani addosso, il potere di averla sotto di lui,  di poter scegliere cosa fare di lei, di sentire i suoi respiri nella sua bocca, i suoi gemiti il suo odore, la sua pelle, il suo cuore a portata della mano, che avrebbe battuto piu’ forte solo a una sua parola in piu’ o che avrebbe potuto fermare solo baciandola con piu’ ardore.
 
Durin doveva odiarlo, era l’unica risposta che riusciva a darsi da quando si era trascinato via dalle sue stanze non riuscendo neanche a respirare: Durin lo stava punendo, era una dannatissima punizione, un supplizio continuo che Mahal gli aveva forgiato addosso. Stava ridendo di lui probabilmente, di come l’erede di Durin, il re di Erebor riconquistata, il discendente di uno dei suoi figli, il re della sua razza, avesse paura di amare.
 
Avesse paura ad amare e di essere amato, perché lui la amava, lo aveva capito infine, o forse lo aveva sempre saputo, forse perfino gli altri intorno a lui lo avevano saputo sin dapprima che lui ne avesse la conferma, prima che lui lo volesse ammettere a se stesso; quel desiderio che lo consumava non era possessione, non era compassione verso qualcuno che era simile a lui, non era lealtà verso una donna che gliene dimostrava sin troppa, non era un…contratto. Non lo era mai stata, forse anche la scelta di sposarla non era stata presa da lui, ma dalla consapevolezza di cosa fosse lei, di chi fosse lei; forse non era stato neanche il rumore del suo corno a salvarlo, forse si era salvato da solo con la consapevolezza che l’avrebbe incontrata. Con la consapevolezza che lui non era piu’ libero di scegliere nulla, niente di niente!
 
No, non poteva nessuno dei due poteva piu’ scegliere nulla, non avevano piu’ la capacità di fermarsi, di lasciarsi andare: entrambi non avevano piu’ la capacità di fare niente che non fosse farsi soffrire a vicenda ogni volta che si guardavano.
 
Entrambi.
 
Perché la cosa che lo stava uccidendo adesso era la consapevolezza che lei lo amasse a sua volta, con la stessa disperazione, con lo stesso bisogno.
 
“Io ti amo.”
 
La mano di Ghìda in mezzo al sul petto sembrò farsi piu’ reale che mai e pur di farla smettere chiuse con forza il pungo osservando le cicatrici scomparire sotto le sue dita mentre le sue unghie premevano sulla carne per farle riaprire, tentando di provocarsi un dolore lancinante per fermare il suo viso da comparirle di fronte l’ennesima volta come tutte le notti, in cui sapeva che se avesse chiuso occhio l’avrebbe sognata, rendendo la decisione che aveva preso ancora piu’ difficile da affrontare o da accettare.
 
Non poteva smettere di amarla, non ne sarebbe mai stato in grado, ma poteva scegliere di non essere costretto a sopportare ogni giorno il suo viso e di non essere costretto ad essere felice, a darle la possibilità di dargli la felicità: se non poteva provarla di nuovo niente gliela poteva portare via, se l’avesse perduta non potevano distruggerla, se non possedeva non poteva perdere.
 
Non avrebbe permesso che lei, come tutto quello che aveva amato nella vita, gli fosse portata via quando l’abitudine e la gioia lo avrebbero logorato dandogli la certezza che non sarebbe mai stato possibile togliergli qualcosa di così puro, gettandolo infine tra le grinfie di un dolore che non voleva piu’ vivere.
Quella notte, dopo che l’ebbe baciata, non era riuscito a chiudere occhio e nella sua insonnia aveva trovato la forza di prendere quella decisione che adesso gli sembrava l’unica opzione possibile, che se non avesse compiuto subito non sarebbe stato piu’ capace di compiere: era uscito dalla sua stanza, deciso, scendendo verso le parti piu’ basse del palazzo, verso quella grotta cercando un minimo di conforto, un qualcosa che lo portasse a dare un ordine quella notte stessa. Per cinque giorni però era rimasto in silenzio, non era riuscito a darlo, rintanandosi nei consigli, nella sala del trono e nelle fucine, dove per ogni martellata che dava contro il ferro vedeva il suo futuro sfumare davanti ai suoi occhi inghiottito dal ferro bollente.
 
Alzò gli occhi e li puntò verso il posto su cui Ghìda si era seduta la prima volta che aveva messo piede in quella sala: fiera sotto quegli insulti per i quali non aveva neanche fatto un cenno, e quella donna era la stessa che aveva visto piangere piu’ e piu’ volte, che aveva lasciato andare tutto il suo dolore solo per lui.
 
Si voltò di scatto e pur di liberare la testa si alzò camminando verso il baratro infinto su cui si affacciava la Sala del Consiglio, interrotto solo da una file di colonne che sorreggeva parte dei corridoi sopra la sua testa; si avvicinò a piccoli passi senza staccare mai gli occhi dal vuoto sperando di vederci cadere anche i suoi sentimenti e inghiottire anche quella stanza se avesse potuto, dove poteva vederla ancora, e dove l’avrebbe vista un’ultima volta infine.
Dove le aveva dato un silenzioso addio e dove gliene stava per dare un altro, assaporando quel momento che avrebbe custodito gelosamente: quando aveva incrociato il suo sguardo per la prima volta.
 
Il rumore della porta che si aprì’ dietro di lui lo fece tornare lucido: lanciò un’occhiata oltre le sue spalle prima che chiunque potesse oltrepassare la soglia, non volendo neanch vedere chi fosse entrato per primo.
 
“Solo Balin.”
 
Abbassò ancora lo sguardo verso l’oscurità interrotta da vene d’oro e i primi corridoi sotto la sala a malapena visibili cancellando anche la vaga idea che gli stava formicando nella testa di non compiere piu’ quella scelta. Ringraziando chiunque lo stesse guardando, da dietro di se cominciarono a comparire i primi echi di dei passi: ora non poteva piu’ tornare indietro.
Si portò le mani dietro la schiena per non farsi trovare in quella situazione penosa e attesa mentre questi ultimi, fino a che non socchiuse gli occhi sentendosi richiamato decretando la parola fine.
 
“Thorin, ragazzo, cosa è accaduto?” La voce di Balin risuonò preoccupata all’interno della sala ormai vuota riecheggiando piu’ e piu’ volte. “Quando è uscita aveva l’aria sconvolta, non ha alzato neanche il viso da terra ed è salita su per le scale senza dire nulla.” Sottolineò Balin osservandogli la schiena che continuava a mostrargli, le mani strette l’una nell’ altra e lo guardo perso nell’immensità di fronte a lui.
 
Thorin non gli rispose rimanendo in silenzio, strinse solo con piu’ forza il polso della mano abbassando leggermente il capo in avanti: Balin socchiuse gli occhi avanzando con cautela, osservando lo stato su cui riversava il pavimento intorno al tavolo: piu’ della metà delle pergamene e delle carte era in terra, compresa la mappa che fino a poco prima stavano osservando, gettata sotto una sedia.
 
“Ragazzo…”
 
Si avvicinò a piccoli passi, alzando la toga rossa pestare i fogli intorno a lui, oltrepassandoli e allungò la mano per poggiargliela sulla spalla ma fu in quel momento, appena lo stette per toccare, che le sue spalle furono scosse da un fremito allontanandosi di poco impedendogli di toccarlo o anche di vederlo in viso: celandosi nell’oscurità e irrigidendosi ancora di piu’ rispetto a quanto era prima.
 
“Manda un corvo ad Elcar.” Gli ordinò monocorde continuando a tenere lo sguardo puntato verso il basso sotto di loro non dando segno di volerlo spostare.
 
La richiesta lo fece irrigidire e abbassare immediatamente la mano che ancora era bloccata a mezz’aria, confuso da un simile ordine e turbandolo profondamente visto il modo in cui si era approcciato alla cosa e alle richieste della ragazza, piu’ che sensate, ma che per qualche motivo Thorin pareva aver ignorato.
 
“Quindi sei d’accordo con lei? Credi anche tu che la strada a sud non si-“
 
“Scrivi a Telkar che l’accordo è rotto: sua figlia verrà riportata a sud appena la neve lo permetterà.”
 
Parlò veloce, non cambiando mai tono, non facendo fuoriuscire nessuna emozione che potesse tradirlo ma non servirono delle emozioni per far sgranare gli occhi a Balin, neanche per fargli fare quei passi decisivi per poterlo vedere il volto affiancandolo accanto al limite dell’abisso scioccato dalle parole che erano appena uscite dalla sua bocca confermando le sue paure e le sue preoccupazioni.
 
“Cosa hai detto?” Riuscì ad esalare passando gli occhi ormai vecchi e stanchi sul profilo di Thorin, che non diede segni di cedimento neanche alla sua domanda, anzi se era possibile divenne ancora piu’ freddo di prima serrando la mascella.
 
“Non ho altro da aggiungere.” Mormorò tra se e se controllando il suo tono di voce: sentiva lo sguardo di Balin addosso e se lo fece scivolare via, non cedendo neanche ai suoi occhi che continuavano a fissarlo passando dall’incredulità a una forte consapevolezza di ciò che avesse detto.
 
Si portò di fronte a lui con il volto scioccato solcato dalle rughe profonde e giudicatrici. “Tu hai dato la tua parola a un capofamiglia e al suo popolo, al nostro popolo e ora te ne tiri indietro? Ti rendi conto di questo cosa comporterà? Di cosa scatenerà la tua decisione, una decisione che intaccherà il tuo onore, il nostro onore, quello di un’intera famiglia. Il Thorin che conosco io non avrebbe mai preso una decisione così avventata.”
 
“Io non sono…”
 
“Cosa? Fuori di te?!” Una risata amara gli uscì dalle labbra puntandogli un'altra volta il dito addosso assottigliando lo sguardo. “Sembra che tu non ti renda conto di cosa mi abbia appena chiesto.”
 
E invece lo sapeva toppo bene, fin troppo. Continuò a non guardarlo fissando sotto di lui cercando di rimanere lucido e distaccato seppur le parole di Balin lo portarono al limite della sopportazione, rimembrandogli che la sua fosse una scelta incommutabile.
 
“Erebor si è ripresa…” Cominciò  netto e alzò lentamente lo sguardo verso di Balin che lo guardava con la bocca aperta che si spalancò sempre di piu’ ogni parola che aggiunse.  “Non c’è bisogno di essere legati a un accordo matrimoniale che non porterebbe a nulla, nessuno andrà contro la mia decisione, nessuna delle sette famiglie metterà in dubbio una mia decisione che nessuno voleva che io prendessi, Telkar ben che meno.” Sputò spostando di nuovo lo sguardo verso l’acqua rendendosi conto di essere incapace di guardare in faccia Balin e mentirgli. “Sto rimandando tutto al proprio ordine prestabilito, il trono andrà a Dain come sarebbe sempre dovuto essere.”
 
Balin si portò le mani suoi fianchi, incapace di comprendere tale scelta, incapace di capire che cosa volesse ottenere con una simile richiesta che non avrebbe portato altro che il caos nei sette regni: ed era del tutto sicuro che Dàin centrasse poco, le sue motivazioni erano fuori da ogni ragione, non era uno stupido sapeva quello che stava facendo.
 
No, c’entrava la ragazza, glielo poteva leggere in viso, era successo qualcosa: in quei pochi minuti che erano stati rinchiusi fuori dalla sala, era successo qualcosa che lo aveva devastato, che li aveva devastati entrambi, ma arrivare a tal punto, rinnegandola... Era abbastanza vecchio e saggio da aver capito cosa provasse nel momento stesso in cui lo aveva visto reagire a una sua probabile morte, dal momento stesso in cui era venuto a sapere che passava tutte le notti con lei, o di come mormorasse il suo nome tra le labbra: poteva ingannare tutta la Montagna, ma non lui.
 
“Quindi tu sei pronto a giurarmi che sia solo una decisone politica?”
 
Thorin lo fulminò con lo sguardo guardandolo di nuovo, incenerendolo di fronte a una sua ennesima opposizione nel fare quello che gli aveva ordinato: quella conversazione doveva finire in fretta, non doveva andare così. “Ci dovrebbe essere un'altra ragione?”
 
“Dimmi che la ragazza non ha influito sulla tu decisione, che quello che le è successo non ti ha portato a questa decisione.”
 
“Lei non c’entra, non ha influito su nessuna decisione e non ne influirà, quello che le è successo non è una mia responsabilità.”
 
“Fino a pochi giorni fa sembrava che però la responsabilità fosse solo e unicamente tua, hai passato le notti nelle sue stanze. Ti ho visto martoriarti  per giorni salendo e scendendo per quelle scale, perdendoti un onere che non era neanche tuo.
 
“Hai detto bene, un onere, lei è un onere e nulla piu’ e non mene farò ulteriore carico.”
 
“E per un onere distruggi una sala?” Appuntò Balin allargando le braccia e puntano dietro di loro con la testa il trambusto che riversava sul pavimento sapendo ora precisamente a cosa fosse dovuto.
 
Thorin non rispose assottigliando lo sguardo e a lui non bastò altro per capire che le sue parole, così razionali, così prive anche di tono o di rimorso per quello che avrebbe significato l’allontanarla da Erebor, erano solo frutto del sentimento piu’ irrazionale che i Valar avessero mai creato e lui lo sapevo, lo aveva visto. Quel pomeriggio, quell’espressione vuota verso i cocci vuoti, l’arrendersi al dolore e alla furia.
 
“Quella pietra è il cuore della montagna, il cuore del re, un amore spietato e geloso.”
 
“Nel nome di Durin, tu…” Si fermò un attimo guardandolo in volto studiando una sua possibile reazione a quelle parole che sapeva fossero reali tanto da sbattergliela in faccia. “Tu sei innamorato di lei.”
 
Thorin sgranò gli occhi incapace di mantenere il controllo come si era promesso, quando quelle parole gli aprirono una voragine nel petto talmente profonda da riportare alla luce i ricordi di quella mattina, gli occhi nei suoi, le sue labbra sulle sue, la sensazione di calore nel petto, quel senso di completezza.
 
Non era una domanda, era un’affermazione: lui sapeva.
 
Digrignò la mascella: quello non doveva accadere, doveva rimanere fermo e lucido.
 
“No, io-non-lo-sono.” Scandì ogni parola e per ogni parola sentì il cuore nel petto spaccarsi a metà, sempre piu’ in profondità, per ogni negazione come se anche il suo corpo gli impedisse di dire quelle parole.
 
“Voi siete…”
 
“No Balin fai silenzio.”
 
“Lei ti ama.”
 
A quella prole il suo senso del controllo crollò spaccato a metà dalla veridicità di quelle parole e si voltò verso Balin furente d’ira: nessuno doveva dirglielo non ne aveva bisogno di saperlo, non voleva saperlo e lei non doveva farlo.
 
“No, non può e non lo farà, non lo permetterò.” Sputò collerico riuscendo ancora a controllare il tono di voce dal non urlare .
 
 “Non è una cosa che puoi decidere tu, non è una cosa che nessun nano è in grado di scegliere e non mi capacito sul perché tu voglia questo!”
 
“Te l’ho già detto io non… Lei non è mia e io non appartengo a nulla che non sia questa Montagna… perché dovrei unirmi a qualcuno che non desidero, a una…” Thorin si bloccò di colpo muovendosi verso di lui ora stando uno di fronte all’altro mentre pronunciava quelle parole che furono difficili anche da pensare disgustandosi di se stesso. “A una…mezzosangue. Non mi legherò a qualcuno a causa di una maledizione”
 
Balin incredulo sgranò gli occhi di fonte a una simile reazione: cercò di non far caso ai pugni contratti, né alle spalle scosse da leggeri tremiti; lo guardò con un'occhiata dura e furiosa, dovuta all’aver colpito in un punto sensibile, troppo sensibile: Thorin lo sapeva dunque, allora perché lo stava facendo? Era proprio vero quello che dicevano, l'amore ti cambiava. Sapeva renderti felice come non mai, ma sapeva anche distruggerti tanto in profondità da lasciarti un solco profondo e cambiarti facendoti fare delle scelte delle quali ti saresti pentito per sempre.
 
Non riusciva neanche a pronunciare il suo nome.
 
 “Amare in quel modo, essere la metà di qualcuno, appartener così a qualcuno è una maledizione, ma è anche la conferma che l'avresti amata in ogni caso anche se non lo fosse stata.”
 
Thorin parve non sentire ragione, non volle sentire una sola parola in piu’ da quella conversazione che non faceva altro che metterlo di fronte ai propri sentimenti che non poteva affrontare, non doveva affrontare per alcuna ragione: abbassò lo sguardo verso terra e calmando il respiro spostò nuovamente lo sguardo verso il profondo della sala,sperando di potervi scomparire.
 
“Balin fai come ti ho ordinato.”
 
Ordinò secco un’ultima volta supplicandolo interiormente che lo ascoltasse e che non lo spingesse a farlo di persona: aspettò di sentire i suoi passi andare via a risalire le scale che lo avevano portato fin laggiù invece sentì un paio di fruscii e la mano di Balin andarsi a posare gentilmente sulla sua spalla a poi sul suo braccio stringendoglielo con fare paterno.
Thorin sussultò a quel tocco socchiudendo gli occhi, come quando si tocca una bestia ferita, per finirla o per curarla ed era quello che stava cercando di fare Balin: dargli un minimo di conforto, capendo che per lui quella decisione era stata straziante quando per lui ricevere quell’ordine e vederlo così, ridotto a un’ombra di se stesso.
 
Era da anni che non lo vedeva così e se la decisione ormai era presa, doveva essere a conoscenza delle conseguenze, di quello che avrebbe affrontato.
 
“Se tu la manderai via distruggerai la vita di entrambi.”
 
Thorin prese un respiro profondo: era sicuro che in altri momenti avrebbe cominciato ad urlare, ma ormai la realizzazione lo aveva colto, la consapevolezza che non vi era uscita da quella situazione se non accettarla. “No, distruggerò solo la mia.”
 
“No…” Mormorò Balin scosse la testa aumentando la presa sul suo braccio “Di tutti e due, credi che lei ne sia immune a un simile decisione o che soffrirà di meno perché sei stato tu a prenderla?”
 
“E’ la cosa giusta da fare, piu’ è lontana da qui, piu’ è lontana da me, piu’ è lontana da questo posto meglio sarà per lei.”
 
“Sarà come se la uccidessi con le tua mani lo sai vero?”
 
Thorin abbassò ancora piu’ la testa verso l’abisso sotto di lui, incassando il colpo che quelle parole gli assestarono nello stomaco, e strinse la mano la mano di Balin con piu’ forza osservando il suo riflesso a malapena visibile in una vena d’oro sotto di lui. Tra i piccoli scintilli questo cambiò presto facendo spazio a dei raggi dorati che gli mostrarono Ghìda:  il suo viso levigato sul cuscino accanto a se, lo guardava sorridendo tenendosi il ventre gonfio mentre la sua mano e i suoi anelli si andavano a poggiare sulla sua intrecciando le loro dita sul gonfiore; una seconda piccola testa uscì da sotto le coperte in mezzo a loro, gli occhi azzurri e i capelli scuri, si intromise poggiando il piccolo orecchio vicino alle loro mani incrociate sorridendo a un piccolo movimento e poi lo guardò e delle parole per lui impossibili anche da pensare gli uscirono dalla bocca, un nome con il quale non aveva mai neanche sognato di essere chiamato.
 
 
Era quello il suo addio, il suo futuro che gli svanì di fronte agli occhi: era pronto.
 
 
“Preferisco muoia per mano mia che per causa mia.”
 
 
 
 
 
 

 
 
 
Loro sono morti per te perché  ti amavano.
 
Passo.
 
Cosa ne può sapere una miserabile mezzo sangue di cosa sia l’amore?!
 
Passo.
 
Tu, non puoi comprendere cosa voglia dire perdere tutto, vedertelo portato via.
 
Passo.
 
Io non ho mai avuto un posto a cui appartenere un qualcuno a cui appartenere, io non posso comprendere.
 
Passo.
 
Una casa è dove appartiene il proprio cuore.
 
Passo.
 
E a cosa appartiene il vostro?
 
Passo.
 
Io ti amo.
 
 
Ogni passo che compiva i piedi diventavano sempre piu’ pesanti, ogni scalino che scendeva una prova di coraggio che non era ancora riuscito ad affrontare neanche una volta, ogni pensiero che compiva era un ennesimo pugno sullo sterno che riusciva malapena a incassare rimanendo rigido su se stesso e alle sue scelte.
 
Il suo trascinarsi fin là sotto era forse la scelta piu’ errata che avesse mai compiuto, una delle piu’ difficili: pensava davvero di poterne scappare, di avere il diritto di poter ricominciare? Quando ci aveva provato era tutto caduto di nuovo, quando si era illuso di poter fuggire da ciò che aveva fatto, dalle sue colpe e dai rimorsi, era stato costretto a riviverle tutte daccapo, ma questa volta era pronto, come era pronto a rivedere i loro visi.
 
Cercava probabilmente un conforto, o la sicurezza che ciò che avesse scelto fosse la scelta piu’ giusta e non guidata dalla sua irrazionalità che sempre di piu’ in quei mesi aveva fatto da padrona: poteva essere un re, poteva rimanere lucido davanti a tutti, ma quando il buio cadeva e il silenzio compariva che stesse dormendo o no, la sua parte piu’ debole riaffiorava, dilaniandolo dall’interno.
Un urlo silenzioso che non era mai stato capace di emettere, stringendo i denti e andando avanti non volendo neanche tentare di espiare il sangue che gli macchiava le mani; ma infine ci aveva provato adagiandosi in quella rassicurazione che quel piccolo corpo di donna era capace di donargli: si era adagiato su di lei, in cerca di quel maledetto calore, di quell’aiuto che lei poteva sentire anche solo stringendole la mano, ma quello che provava ora, lei non poteva toglierglielo, solo i morti ne erano in grado.
 
Tutto aveva un costo e lui li aveva pagati tutti.
O gli altri lo avevano sempre pagato per lui: morire per qualcuno, possedere un animo di qualcuno fino a spingerlo a morire.
 
Sarebbe stato un ipocrita dire che non lo avrebbe fatto anche lui: sarebbe morto per Ghìda, sarebbe morto per Dwalin, sarebbe morto per Dìs, sarebbe morto e si sarebbe ucciso seduta stante per non essere costretto a trascinarsi nelle cripte per rivederli, per essere lui disteso su quelle pietra gelida, coperto dal ferro scuro che non gli avrebbe dato solo la parvenza di ciò che erano stati.
 
Kili, Fili.
 
Il tramonto arancione trapassava le piccole fessure era diventato quasi opprimente creando un angosciante penombra , il silenzio che regnava nelle radici della montagna non era interrotto da nulla, un sacro e in vincolabile lutto che si doveva sentire appena si metteva piede in quelle sale, la luca delle candele sparse al lato di ogni scala era flebile, piccoli lumi che accomapgnavano la discesa nella cripta scolpita nella roccia.
 
Lo strusciare del mantello che portava che accompagnava i suoi respiri, le mani dietro la schiena tentavano di dargli un minimo di sostegno, la corona che gli pesava sempre di piu’ in testa facendogliela piegare in avanti, facendogli osservare tutte le luci che lo speravano dalla fine della sala. L’odore di erbe profumate cominciò a salire aggravato dal freddo pungente che si incontrava appena ci si incanalava nell’ipogeo sotterraneo.
 
Era come se la ricordava, come l’aveva vista l’ultima volta: la scalinata si arrotolava su tutto il lato della camera, scendendo in un lugubre anfiteatro dove si potevano osservare e onorare le due tombe sullo spiazzo sospeso nel vuoto, osservati dallo stesso numero di guerrieri scolpiti nella pietra che silenziosi vegliavano sui loro corpi ormai resi neri dal nero del ferro raffermo con cui erano stati ricoperti.
 
Costruita dai padri della montagna per la morte di un re antico o per Durin, non era mai stata usata, nessuno aveva avuto il diritto di giacere lì, eppure fu lui stesso a pretenderlo, convinto che una posizione di rilievo nella morte lo aiutasse ad affrontare  come se n’erano andati, da guerrieri, ma li averli onorati come meglio conosceva non aveva cancellato nulla.
 
I loro corpi si fecero sempre piu’ nitidi ogni passo così come i loro visi: pensava di averli dimenticati, ma in cuor suo sapeva non sarebbe mai successo, lui non dimenticava nulla, mai.
Se era riuscito a dire addio a Ghìda, doveva essere però pronoto anche a entrare lì sotto e a dire anche a loro addio: non lo aveva a mai fatto, neanche quando sognava, li vedeva, piangeva urlava, ma non gli aveva mai detto addio.
 
 
Per quello che fu un attimo gli sembrò di vedere tre tombe, una alternativa che sarebbe stata reale, molto reale: se non fosse sopravvissuto ora giacerebbe in mezzo a loro, anche lui con Orcrist sul petto, li avrebbe accompagnati come quando erano bambini tenendoli per mano con Kili che gli avrebbe chiesto se potevano rimanere, e lui gli avrebbe risposto che non sarebbe stato possibile.
 
Invece quelle due canaglie ci erano riusciti, a rimanere lì con tutti loro.
 
Entrambi infatti erano rimasti, non se n’erano mai andati, avevano infestato i suoi pensieri, la montagna stessa era infestata di loro, quella stessa cripta sembrava solo il loro ennesimo scherzo in cui si sarebbero nascosti per un breve tempo prima di uscire fuori ridendo a crepapelle.
 
In mezzo ad essi però non c’era un sarcofago scuro coperto da antiche rune, c’era qualcun altro che doveva immaginarsi di trovare lì: nel vederla anche solo di schiena fu solo l’ennesima martellata sullo sterno, ma sapeva che doveva incontrarla e lì tutti e quattro insieme ancora era forse l’unico modo in cui  sarebbe stato capace a lasciarsi andare, di guardarla in volto e ad affrontare almeno lei, evitando di scappare almeno da lei.
 
Glielo doveva e lei doveva dargli la sua sentenza: troppo a lungo aveva atteso, se doveva finire tutto sarebbe finito tutto insieme quel giorno.
I lunghi capelli neri erano poggiati su una spalla, il vestito azzurro e giallo, risaltato dalle pietre blu della stirpe di Durin che le ricadevano nei capelli sorrette da leggere catenine dorate, le mani poste entrambe ai piedi delle tombe sorreggendosi su esse, con la testa piegati in avanti che lentamente spostava da Fili a Kili.
 
Sapeva che lo l'aveva sentita arrivare, probabilmente già da quando aveva sceso i primi gradini, ma non aveva detto una sola parola, né spostato il capo verso di lui.
E non lo pretendeva neppure.
 
Thorin alzò la schiena e percorse gli ultimi scalini avanzando senza dire una parola verso di lei riuscendo a malapena a voltare la testa verso le due lastre di pietra al centro della pedana, illuminate da una serie di candele che circondavano i loro corpi così come quando era stato costretto ad adagiarli lì lui stesso e chiudergli gli occhi con la mano.
 
Non pensavo che saresti mai venuto.” La voce di Dìs rimbombò ferma ma talmente delicata che si chiese se stesse parlando con lui.
 
Bloccò il passo rimanendo dietro di lei, anche parlare o confermare la sua presenza lo fece sentire indegno. “Non sono mai sceso oltre le scale superiori.”
 
Non poteva ancora guardarla in viso, non glielo avrebbe permesso, lo sapeva fin troppo bene , ma riusciva ad immaginare la sua espressione: le folte sopracciglia nere inarcate all’insù , gli occhi piu’ chiari dei suoi, come quelli di loro madre, coperti di una patina di lacrime che non avrebbe mai versato in sua presenza.
 
Le sentì sbuffare come un riso sommesso: una risatina carica di un amaro dolore senza un briciolo d'allegria, solo tanta sofferenza. “Io invece le scendo tutti i giorni, prima di ritirarmi nelle mie stanze.”
 
 
Gli donò il suo profilo, basso, mentre la mano, tatuata con piccoli cerchi sulle dita, si andò a staccare dalla tomba di Fili lasciando una carezza sulla pietra fredda.
 
“Me li ricordavo diversi sai?” Sussurrò a malapena, posando lo sguardo sulla tomba di Kili, studiandolo e passando la sua mano dal lato della roccia a sopra le sue poggiate sul petto. “Aveva i capelli piu’ corti, Fili invece in un anno sembra diventato piu’ vecchio di una decina. Dwalin mi ha raccontato che si comportava anche se fosse piu’ vecchio di una decina, mi ha detto che si è preso cura di suo fratello, ne ha sempre avuto bisogno.” Rise ancora, ironica, come se potessero sentirla e rinfacciarle quelle parole, come se fosse pronta a sentirli negare ogni frase: non riuscì reggere la situazione, non in quel momento, non così.
 
Avrebbe dovuto sentirsi ferito che lei avesse preferito parlare prima con Dwalin che con lui, ma non poté fargliene una colpa, come non poté giudicare lui per non averglielo rivelato: un segreto che avrebbe mantenuto anche lui, Dwalin lo conosceva abbastanza da sapere che se gli avesse rivelato di delle conversazioni tra loro due sarebbe corso da lei forzandola parlare.
 
Rimase in silenzio non volendo aggiungere nulla, ma fece un passo in avanti mettendo il piede sul primo scalino dopo posavano le loro tombe e lì fu finalmente in gradi di vederli entrambi e un fremito nel petto lo portò a serrare gli occhi.
 
Maledizione.
 
Sentì l’occhio azzurro di sua sorella saettare dal viso impietrito e freddo di Kili di lato, osservandolo di sbieco aumentando solo in lui la sempre piu’ prorompente vergogna e senso di colpa, ma che non avrebbe mai lasciato trasparire, lei lo sapeva, non poteva farlo, sperava solo che se ne ricordasse. Ma il suo carattere non avrebbe mai giustificato un suo simile dolore, sperava sapesse anche questo.
 
Thorin alzò lo sguardo incontrando il suo consapevole e freddo: il labbro le tremò a malapena tradendo il carattere freddo e distaccato che non le era mai appartenuto, non a sua sorella. E vederla così faceva piu’ male di non averla visa affatto, vederla fingere per mostrarsi forte, vederla dritta e rigida di fronte a lui, imitandolo, come se lui fosse una persona da imitare.
 
“Dimmi solo una cosa…” Cominciò con la voce  dura ma che per quanto si fosse sforzata si inclinò. “Ne è valsa la pena?”
 
“Cosa vuoi che io ti risponda?” Si limitò a risponderle.
 
La bocca di Dìs le tremò così come la presa nella mano di ferro di Kili che si fece piu’ forte: lentamente ancora ruotò la testa girandolo dritto in faccia. ”Voglio che tu mi dica la verità nient’altro, dimmi se le loro vite per avere indietro Erebor sono state un equo scambio.”
 
 
Si avvicinò alle tombe salendo l’ultimo gradino che lo divideva da loro, stando in mezzo riuscendo a vederli entrambi in viso, dopo troppo tempo; una fitta lancinante gli oltrepassò il petto da parte a parte così devastante rispetto a quello che sognava ogni notte che quei momenti gli sembrarono solo dei sogni gioiosi rispetto al dolore che sentiva in quel momento.
 
Tremante accostò una mano sulla lastra fredda poggiandocela sopra riuscendo a malapena a toccarla da quanto timore gli incutesse: i volti nella neve coperti di sangue avevano lasciato posto a delle maschere nere che non gli davano giustizia affatto, le spade strette al petto e i teli reali dei principi reggenti sotto di loro. Niente in quella stanza rappresentava ciò che erano stati in vita e quello che sarebbero stati nella morte.
 
Gli occhi gli vagarono leggeri sul corpo di Fili, sulla mano strette al petto che impugnavano la spada, sulla cotta di maglia  senza mai soffermarsi su nessun dettaglio se non sulla scritta che circondava l’intero blocco.
 
“Qui giace Fili, figlio di Vili, erede di Thorin Scudodiquercia, principe di Durin, salvatore di Erebor e del suo popolo.”
 
La mano sulla pietra gli si strinse con forza in un pungo rigido ripassando piu’ volte con lo sguardo quelle lettere scintillanti dalla luce delle candele intorno a Fili, che traballarono a un suo fremito mentre tutte le parole che aveva letto gli scavarono nel petto.
 
“No.” Mormorò tra se e se incontrollato: era disonorato dalle sue stessa ammissione, ma sapeva, che se prima di essere partito il prezzo da pagare sarebbe stato quello, non lo avrebbe mai permesso, mai e poi mai, neanche per tutti e sette i Regni, neanche per tutto l’oro celato sotto Arda.
 
Dìs a quella sua sussurrata parola fece una cosa che lo lasciò ancora piu’ di sasso, incollandolo al pavimento di pietra rendendolo incapace perfino di respirare: sorrise, tremante ma sorrise verso di lui, era fiera, fiera della sua risposta.
 
Come poteva?
 
Sua sorella passò lo sguardo prima verso la sua mano sulla tomba di Fili e poi lo alzò verso la corona che portava in testa e che ogni volta che la indossava, anche se raramente, gli pesava come un macigno: tutte le sue responsabilità erano rinchiuse in quell’oggetto sulla sua testa e tutte le sue decisioni erano legate a quella e tale doveva sempre essere.
 
“Nostro padre non l’avrebbe fatto, neanche nostro nonno, questo almeno mi dimostra che sei rimasto il re che sei nato per essere.” Affermò decisa.
 
Errato, non lo era.
 
Schifato da quelle parole e dal suo continuo osservare la corona della loro stirpe che portava sentì il bisogno di togliersela, sembrava avesse un pezzo di ferro bollente premuto sulla carne viva; la vergogna gli fece abbassare il capo e  dovette combattere con tutte le sue forze pere non  sfilandosela dai capelli e  gettarla via, lanciandola nel baratro sotto di lui.
 
Scosse la testa velocemente negandole di continuare  a parlare o di aggiungere altro che avrebbe reso quei suoi pensieri reali e alzò la mano libera per farle capire ancora di piu’ il concetto che non dovesse interromperlo e quanto fosse difficile per lui quella ammissione.
 
“Non lo sono stato” Ammise lasciando un respiro sofferto uscirgli dalla bocca accompagnando quella confessione, la confessione della perversione malata che era riuscito a compiere decretando la morte del suo popolo e dei suoi nipoti . “Non sono stato il re che sarei dovuto essere. Nel momento del bisogno non ne sono piu’ stato in grado.” Mormorò confessandolo ad alta voce, per quanto facesse male, non era stato meno re di quando lo era diventato e ogni giorno sentiva di dover fare ammenda per quello che era accaduto.
 
Abbassò lo sguardo verso la sua mano ancora tirata sulla pietra tombale di Fili non accorgendosi quindi di Dìs che aveva lasciato la mano a Kili accanto a lui e che si era avvicinata di qualche passo; prima che potesse rendersene conto aveva avvicinato la mano vicino alla sua e tremante vi aveva poggiato sopra la propria stringendogli il palmo sul freddo marmo verde.
 
Thorin non osò alzare lo sguardo verso di lei, fissando solo la sua mano sulla sua, vecchia e stanca quanto la sua: le che ricordava sempre quelle di una fanciulla seppure le pietre che le adornavano le dita tatuate gli ricordassero sempre che non lo era piu’.
 
“Ti ricordi come dicevano quando mi mettevo nei pasticci e provavi a tirarmene fuori prendendo la decisone di prenderti le mie colpe? O quando Frerin tornava così ubriaco dai banchetti insieme a Dàin che dovevi trascinarlo in camera sua prima che cominciasse una rissa per l’ennesima parola di troppo verso il nano sbagliato o nel peggiore dei casi ne prendevi tu i pugni per lui?” Gli chiese con un velo di malinconia.
 
A Thorin scappò una smorfia simile a un sorriso a quelle parole e rimembrando i ricordi legati a quella frase: lo ricordava fin troppo bene, erano solo dei ragazzini. Alzo e abbassò la testa annuendo trovando finalmente la forza di alzare lo sguardo verso gli occhi ghiaccio che non avevano smesso di guardarlo neanche quando aveva abbassato lo sguardo.
 
“Un erede di Durin è prima un re e poi un nano, comportati di conseguenza.” Lo ripeté come una filastrocca ma lentamente prendendo atto di ogni parola e fino a quel momento ne aveva sempre seguito ogni parola.
 
Dìs annuì sorridendo tristemente con gli occhi che le si persero nei ricordi specchiandosi nei suoi,  rimembrando le stesse situazioni del fratello e ripetendo a mente anche lei quella filastrocca. “Te lo rinfacciavano come se fosse una lezione che dovesse imparare ma l’aveva già imparata e neanche se n’erano resi conto.”
 
“Facevo solo quello che serviva per non farvi finire nei guai già più di quanto non lo sareste stati.”
 
Di nuovo sulle labbra di Dìs comparve quel sorriso mesto e scosse in dissenso, avvicinando la mano libera verso la sua guancia stronfiandogli, come faceva sempre da quando erano bambini, lo zigomo con la punta dell’indice fino a spostargli un ciuffo di capelli via dalla fronte: un gesto che non aveva smesso di far neanche con i suoi figli.
 
“No fratello, lo facevi perché ti caricavi delle nostre responsabilità, ci proteggevi anche quando eravamo in torto, ci hai sempre protetto tutti perché sei sempre stato un buon re.”
 
Thorin sgranò gli occhi a quell’affermazione scioccato e ancora piu’ devastato di come si sarebbe dovuto sentire: non era venuto lì per sentirsi dire che era un buon re, non lo era, non lo era stato, non li aveva protetti, non ne era stato in grado. E allora perché Dìs si stava comportando come se lo fosse stato?
 
No, lui voleva il contrario, quello non era giusto, mesi a distruggersi pronto a qualsiasi cosa sarebbe stata pronta a rinfacciargli, pronto a perdere anche lei e ora invece si sentiva dire che tutto quello che aveva fatto fosse giusto. Questo non lo poteva accettare, una simile menzogna per lui era inammissibile e straziante.
 
Le fermò la mano con la sua artigliandogliela prima che potesse portare il ciuffo mosso dietro la sua spalla guardandola interrogativo, con il petto che gli comincia a pulsare scosso dai respiri pesanti.
 
”Perché dici questo?”
 
Sua sorella alla presa sussultò leggermente rimanendo però silenziosa: lanciò solo un occhiata alla sua mano che fermamente le tratteneva il polso e senza che aggiungesse nulla la sfilò dalla sua ritirandola verso di se e poi spostò lo sguardo verso la corona sulla sua testa un'altra volta: la studiò come aveva fatto prima, gli occhi che tutto d’un tratto le diventarono lucidi e la mano dapprima ferma sulla sua cominciò a tremare forzandola a toglierla e a portarsela verso il grembo.
Dìs lanciò un’occhiata dietro di se, verso la tomba di Fili e un sospiro profondo le uscì dalle labbra carico di dolore, come se le avessero trafitto lo sterno; chiuse gli occhi prepotentemente per tranerei le lacrime e fece calare il silenzio.
 
C’erano cose che a Thorin erano state negate, parole che lei non voleva rivelargli, momenti che stava rivivendo nella sua testa che la stavano facendo tremare dalla testa ai piedi e che le facevano alzare ed abbassare il ventre in maniera frenetica, non clamati neanche dalle sue mani che si andarono a portare sul ventre.
 
Passarono dei lunghi minuti dolorosi, in cui Thorin attese, in un religioso silenzio in cui l’unico rumore erano i pensieri di Dìs che parevano riflettersi attorno all’intera stanza: un paio di candele infatti si spensero su se stesse e il freddo dal fondo della cripta divenne percepibile anche sotto gli strati di vesti pesanti.
 
Una singola lacrima le attraversò la guancia, spostando lo sguardo da lui fino al volto di metallo nero di Kili dietro di se e poi di nuovo verso quello di Fili. Seguì un lungo respiro tremante e poi si voltò su se stessa camminando in mezzo alle due tombe dandogli la schiena: anche se voltata però poté vedere le sue mani poggiarsi sotto il petto in cerca di conforto e di sostegno.
 
Le spalle di Dìs si alzarono e si abbassarono in un fremito. “Spesso mi sono chiesta in queste settimane come sarebbe stato se fossero susseguiti a te.” Cominciò dapprima ferma continuando a volergli dare la schiena ma poi si girò nuovamente mostrandogli  di nuovo il volto e ciò che lo attraversava: stava piangendo silenziosamente, distaccando il tono di voce da quello che provava.
 “Conoscevi Kili, avrebbe iniziato a dare ordini in tutte le direzioni  facendo impazzire il palazzo e avrebbe sicuramente cominciato a dire che la corona era pensate o che il trono gli era scomodo per poi addormentarcisi sopra.” La voce le tremò spostandosi verso la tomba di Kili sorridendo tra le lacrime che si andarono a insinuare sul petto adornato da collane dorate. Gli poggiò una mano tremante sulla fronte senza smettere di piangere di guardare l’effige sotto di lei.  “Fili invece era diverso da lui.” Concluse lanciando un’occhiata da dov’era lei verso dove era lui ancora accanto alla tomba di suo nipote piu’ grande.  “P-prima di partire, quando partisti per Dunland, aveva anche cominciato a parlare come te, e a pochi giorni della partenza mi si mise accanto svegliandomi, non lo aveva piu’ fatto da quando era bambino e mi chiese se tu fossi mai stato fiero di lui, se arrivato qui, sarebbe stato in grado di essere come te.” Un singhiozzo interruppe le parole di Dìs parole e il suo sguardo fisso sul volto di Fili chiudendo gli occhi in un istante mentre combatteva per non far uscire quei sentimenti di fronte a suo fratello, di fronte a lui, che avrebbe dovuto evitarglieli, che avrebbe dovuto proteggerla, lui che avrebbe dovuto proteggere tutti e tre.
 
Quel dolore quei tormenti, e ciò non fece che accrescergli il senso di colpa che lo opprimeva.
 
“Perché non me lo raccontasti allora?”
 
“Perché mi chiese di non farlo e di non dirlo nemmeno a suo fratello, il motivo adesso mi è molto piu’ chiaro…se... se…” Un singhiozzo le bloccò le parole già tremanti facendo serrare la bocca in una linea dritta: prese un respiro che riuscì a sentire perfino Thorin nel suo petto, che invece di calmarlo gli fecero fischiare le orecchie, sapendo già quello che sarebbe seguito e non voleva sentirlo.
 
“Ti amavano come un padre Thorin, morire per te, era l’unica morte che avrebbero accettato o l’unica in cui avrebbero sperato.”
 
Loro sono morti per te perché ti amavano.
 
Ritornò su tutto, ogni singolo maledetto istante ogni singola maledetta parola che gli infestava la testa riuscì risuonandogli nella testa e disintegrando ogni suo senso di calma: quella frase ebbe l’effetto di farlo tremare, di rabbia, di dolore, d’angoscia ormai non lo sapeva piu’. Quella frase gli provocava solo disgusto.
 
La sentiva ogni notte, vedeva Ghìda che lo amava e poi li vedeva entrambi morti tra le sue braccia e quella frase gli rimbombava nella testa come una tortura, un monito di quello che sarebbe successo, un appunto di quello che sarebbe successo a chi lo amava, a chi si fidava di lui, a chi lui si donava, alle persone a cui lui teneva e che avrebbero fatto quella fine lasciando dietro di se un dolore che aveva sopportato troppe volte.
 
Staccò la mano tremante dalla lapide di Fili e avanzo verso Dìs, una rabbia cieca prese controllo di se stesso, accorciando a grandi passi la distanza che serviva solo da muro per far per tentar di filtrare il dolore di entrambi.
 
“Vuoi che ti dico cosa vedo ogni volta che chiudo gli occhi sorella?” Sottolineò duramente: tutte le sue barriere che tentavano di rimanere alzate inutilmente. “Tutte le volte che mi dicono che sono morti per me, per questa impresa, pensi mi consoli? Pensi che mi ricopra d’onore? No rende tutto ancora piu’ reale e rende la colpa ingestibile, perché e come se la lama che li ha trafitti ce l’avessi ancora io tra le mani!” Dìs non disse una parola sgranò solo gli occhi, forse immaginando anche solo lentamente li immagini che Thorin si era ritrovato ad affrontare, ma anche solo il pensiero per lei fu insostenibile facendo so aumentare le lacrime.  “Li rivedo bambini, li vedo crescere tra la neve e gli abeti fuori dalle porte di Nogrod, e poi c’è il buio e le scene dell’ultima volta che li ho guardati in viso prima di vederli scomparire di fronte ai miei occhi…” Le parole furono basse un ringhio di dolore che venne sostituito da un sospiro sofferto, da una rabbia che era andata scemando lasciando dietro di se solo i resti di se stesso e facendo crollare il suo muro impenetrabile.
Avanzò verso di, la testa bassa, il lato degli occhi che gli cominciava a tremare, le spalle che erano cedute sotto il peso ci ciò che le aveva rivelato. “Disprezzami, te ne prego.”
 
A quella supplica  Dìs lo guardò sconsolata scuotendo a testa abbassandola verso il pavimento arresa, sapendo che sarebbe dovuto essere così, lo sapevano entrambi: lei avrebbe dovuto odiarlo, glieli aveva portati via lui dalle braccia, lui li aveva convinti, e loro l’avevano seguito e lei non era riuscita a fermarli, ma il tempo aveva cambiato molte cose, la mancanza di tutte le persone che amava aveva cambiato troppe cose.
“ Odiare te, non me li ridarà, distruggerebbe solo l’ultima famiglia che mi è rimasta.” Thorin ammutolì osservandola alzare la testa di nuovo, la bocca spalancata che cercava di prendere aria tentando di rimanere ferma. ”E sei tu… loro non ci sono piu’ sei rimasto solo tu.” Mormorò e mentre lo disse un gemito gutturale le uscì dalla bocca  e velocemente si portò una mano sulla bocca per soffocare i signhiozzi stringendo gli occhi per fermare le lacrime.
 
A quel punto Thorin non ce la fece piu’, tutto il dolore, tutto il senso di colpa, tutto ciò che aveva provato in tutti quei mesi lo piegò di fronte a ciò che sua sorella alla sua unica famiglia rimasta all’unica cosa che lo tratteneva ancora al suo passato che non avrebbe mai lasciato andare, la sua sorellina. Avanzò verso di lei, volendo consolarla. Volendo abbracciarla. Le si portò vicino, ad un passo di distanza: cercò di avvolgerla tra le braccia forti ma Dìs si fece indietro tramando scuotendo la testa.
 
Thorin si bloccò di colpo osservandola con gli occhi sbarrati il dolore al petto che non finiva che non era mai finito lo distrusse riducendolo a uno spettatore ignaro dei suoi sentimenti: qualcosa di caldo gli colò sulle guance.
 
Portò le mani agli occhi, riconoscendo numerose lacrime che fuoriuscivano, e che non si fermavano non ci riusciva, la mano gli tremò a quella vista e a quella sensazione. Alzò lo sguardo verso il viso sconvolto di sua sorella e  senza che nessuno dei due dicesse nulla si corsero incontro stringendosi l’uno all’altra.
 
Dìs si lasciò andare a un pianto disperato scossa dai tremiti e dai singhiozzi sempre piu’ alti stringendolo con forza a se affondando la sua testa nella sua spalla; lui invece rimaneva fermo immobile incapace di fare un rumore: già troppo che delle silenziose lacrime gli scendessero dalle guance. Le cinse i fianchi con un braccio, mentre l'altro glielo avvolse dietro le spalle tendnmola attaccata su di lui.
 
“Ridammeli, ti prego, ridammeli.” La sentì supplicare nel tessuto della su cotta  piangendo disperata supplicante ma a quella implorazione lui non rispose: la strinse solo ancora di piu’ a se, fissando il vuoto di fronte a lui.
 
Il battito del cuore non riuscì piu’ a percepirlo, c’era solo un vuoto che li aveva inghiottiti entrambi, un dolore che invece di separarli li aveva uniti in una maniera che mai si sarebbero aspettati.
Quelle poche lacrime che riuscì a versare, contate anche nelle dita di una mano non erano niente a confronto di quelle della nana tra le sue braccia, della principessa tra le sue braccia che continuava a singhiozzare ininterrotta, riversando su di lui tutto ciò che era riuscita a tenersi dentro per mesi, non potendo parlarne con nessuno, non potendo mostrarlo a nessuno.
 
Thorin chiuse gli occhi cullandola e poggiando il mento sulla sua fronte chiudendo gli occhi, mentre le gocce salate sulle sue guance diventavano un flebile ricordo e il tempo passò inesorabile su di loro; il re sotto la montagna ne scontò ogni secondo: lasciò che Dìs si sfogasse su di lui, aggrappandosi al suo mantello e affogando tra le sue braccia e il suo dolore.
Non seppe dire quanto rimasero così ma infine le lacrime cessarono e Thorin si ritrovò a stringere su di se un corpo che sembrava essersi vuotato di ogni briciolo di vita: Dìs era pesante e fredda, le sue dita a malapena si reggevano lui adesso
Dei respiri profondi la scossero e si rigirò tra le sue braccia, voltando il viso dapprima premuto contro la sua spalla verso la pietra scura della tomba di Fili e un ultimo e definito singhiozzo decretò la fine di quel momento.
 
Con sua sorpresa Dìs cominciò a parlare di nuovo, il tono di voce privo di qualsiasi dolore, come una storia raccontata a dei bambini a letto, materna, affabile: della traccia del dolore che fino a qualche istante prima non vi era piu’ traccia.
 
“Quando sono morti, anche quando Vili morì, nessun corvo ha dovuto dirmelo nessun messaggero, ho sentito solo un enorme vuoto, un enorme foro come se qualcuno mi avesse strappato il cuore dal petto  gettandolo in pasto a delle bestie, il buoi inghiottirmi e corrodermi  lasciando dietro di se solo un ombra di ciò che poteva essere, un infinto nulla in cui c’era solo un flebile rimpianto di ciò che non sarebbe piu’ avvenuto, la mancanza di un pezzo che non sarebbe piu’ stato saldato.” Thorin non disse nulla poggiò solo ancora meglio il mento sulla cima della sua testa e la tenne ferma dov’era poggiato sul suo petto seguendo attentamente ogni dolorosa parola. ”Ho desiderato morire io, così sono rimasta sveglia in attesa, ma non è successo nulla. Li vedevo, di continuo per casa, i loro fantasmi mi tormentavano.” Si interruppe aumentando lievemente la stretta sulla sua camicia che venne tirata verso il basso come il suo sguardo che ora era piantato sulle gemme che le infestavano la nuca. “Se potessi, tornerei indietro, anche solo per un attimo, solo per riabbracciarli un ultima volta, per un attimo, lo farei.”
 
“Soffriresti ancora.” Thorin fu duro  con quell’affermazione, troppo diretto, quelle parole lo aveva colpito troppo nel profondo per poterlo far agire in maniera meno aggressiva, il tutto gli sembrava così assurdo, il poter tornare indietro, il voler conoscere e amare così tanto pur sapendo cosa sarebbe successo, era una scelta sbagliata folle. Come poteva volere una cosa simile?
 
Dìs però non si scompose: scosse semplicemente la testa sulla sua spalla e continuò a fissare a fianco a lei gli occhi persi nel vuoto un sorriso velato verso delle figure che Thorin non poteva vedere ma che a Dìs parvero così reali che le parole che seguirono fu molto sicuro non fossero dirette a lui, ma ebbero il potere di cambiare tutto, ancora.
 
“No, li amerei ancora piu’ di prima.”
 
 


 

 
 
Tum.

Tum.

Tum.

Tre colpi secchi, uno piu’ forte dell’altro si andarono a susseguire sulla porta di legno così netti che fu impossibile per Balin non sentirli interrompendo la lettura delle carte sopra il tavolo in mezzo alla sua stanza.
Alzò lo sguardo verso la porta studiandola accigliato; si tolse il piccolo dorato monocolo dall’occhio poggiandolo accanto alla candela accesa vicino alla pila di pagine fitte di scritte ancora da leggere e da firmare confuso da una visita quel simile orario e alzando la toga per camminare piu’ velocemente si porto alla porta aprendola stringendo il pomello dorato, ammutolendo di fronte a chi era accasciato ansimante al lato della sua porta.
 
I ciuffi neri scompigliati che gli coprivano in parte gli occhi azzurri sgranati, provati, il petto che si alzava e si abbassava a seguito di una furiosa e violenta corsa disperata verso i corridoi sotto il palazzo; in quei cunicoli che il re aveva percorso gli parvero stringersi intorno alla gola impedendogli di respirare, come se gli volessero impedire di arrivare fino alla porta degli appartamenti di Balin.
 
Thorin si reggeva con un avambraccio allo stipite della porta, il portamento regale era sparito, la corona sulla sua tesa inclinata leggermente in avanti gli fermava i capelli scompigliati, la bocca semiaperta che inspirava piu’ aria di quanta ne avesse avuto bisogno. Gli occhi, che a differenza del suo corpo scosso dagli spasmi della fatica erano immobili fissi su di lui, in cerca di un qualcosa: le iridi blu lo studiavano da parte a parte cercando di leggere nei suoi una risposta silenziosa.
Un velo di preoccupazione nello sguardo che aumentava per ogni attimo di silenzio che passava tra loro: Thorin tentò di interrompere aprendo e chiudendo la bocca ma senza far uscire altro che non fossero leggeri respiri.
 
E lì Balin capì.
 
“No, non l’ho inviato.”
 
 
 
 
 
 
 
 






Angolo autrice
Vi prego non odiatemi, anche io ho avuto una martellata sulle gengive a scrivere questo capitolo, mi sono messa tutta un Playlist triste, ma dovevo sciogliere un po' di nodi quindi ho raggruppato tutto e fa MALEEEE, MALE DA MORIRE!
E’ stato davvero devastante, voglio essere sincera, sia scriverla che finirla così in ritardo poi è lunghissimo, penso sia il capitolo piu’ lungo che io abbia mai scritto. Ho anche versato un paio di lacrime quando Throin le “””dice””” addio, perché è straziante, per fortuna che non sa del corvo.
Comunque cosa ne pensate oltre il “il ti odio sei perfida falli mette insieme?” hahahahah? La scena con Dìs anche è stat molto difficile, anche perché era un peso proprio in senso positivo, spero di averla descritta realisticamente, Thorin che piange poi doveva succedere, penso che nessuno con un’anima riesca a reggere. A proposito di Thorin, qua vediamo proprio un capitolo che si incentra su di lui e su come la sua parte instabile possa prendere il sopravvento, e di come alla fine Balin, comprenda che sia un momento di debolezza e non abbia eseguito i suoi ordini. Che ordine del cazzo poi Thorin mamma mia, e fatti amare! E piantala hahahahha  <3 Ora i punti i nodi vengono al pettine, entrambi sanno entrambi vogliono ma devono cicciare in qualche modo, cicciare in tutti i sensi. Ghìda adesso osa pensate che farà, si abbandonerà a lui di nuovo? Sarà Thorin a fare qualcosa? La montagna la sta davvero accettando? Può farlo anche quando saprà che la sua lealtà per il loro re è anche altro? Poi cosa pensate stiamo facendo i sei piccoli diavoletti? E Dwalin e Dìs che sono così vicini?
Ringrazio Alcalime91 per la recensione, e se trovavi struggente la parte prima immagina quella di adesso hahahahahha  e ringrazio  inoltre tutti voi ch seguite: Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, NekoBlonde, Perla_16, Ribes Roger , marisole, e Nekoblonde, Alcalime91,  e GiadaHP (LA NEW ENTRY <3)
 
Comunicazioni:
  1. Il 1 vado in ferie, mi porterò la tastiera con l’ipad per scrivere ma non so dirvi per certo quando pubblicherò qualcosa cercherò comunque di rimanere nel limite dei quattordici giorni, anche se il prossimo capitolo sarà un po' particolare e abbastanza corto rispetto ai miei standard, prendetelo come un tuono prima della tempesta o una piccola tempesta <3 >.> Per ogni comunicazione scrivetemi o comunque per problemi farò un capitolo a parte per spiegare a che punto sono se supero i 14 giorni.
  2. Spero che i personaggi non risultino troppo OOC e soprattutto troppo mosci in alcune parti, così come le descrizioni molto accurate, come vi ho detto sono questi capitoli che sono un po' pesanti ma poi passerà tutto lo prometto.
  3. Vi prego ditemi se ci sono dell cose poco chiare anche a livello di trama o spiegate male si per messaggio che per commenti, perché io ho tutto nella mia tesa e anche per i prossimi lettori se i aiutate a fare un po' di chiarezza è meglio <3
 
 


Maikridî: Fidati di me.
 
 
 







SPOILER
“Mio fratello tiene molto a voi.”
 
 

 

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Capitolo 15
*** Il fabbro ***


Il fabbro



 
 







 
 
 
 
Nella notte oscura un fabbro silenzioso coperto dalle tenebre si dirigeva verso la sua fucina; la calma che lo circondava era in contrasto con i nefasti pensieri che gli adombravano la mente già prima dell’inizio del suo lavoro al chiaro di una luna calante del freddo inverno.
 
Si sentiva stanco e vecchio, terribilmente, ma il sonno non l’avrebbe ghermito quella notte né nelle notti che sarebbero seguite, o quelle ancora a venire, fino a che nell’oscurità delle forge non avrebbe completato l’arduo lavoro che si era preposto.
Scalando montagne di roccia, imboccando gallerie, restando in equilibrio su fili di marmo, arrivò a quella che poteva esser definita una modesta bottega nelle quasi profondità della terra.
 
Il cuore infestato da dolci ricordi sanguinanti gli mossero le mani che accesero con pochi colpi esperti il fuoco nella forgia facendola ben presto ravvivare come le fiamme che bruciandolo da dentro aumentavano solo la sua determinazione.
Le mani divennero presto nere, come il carbone che usò per tracciare su un frammento di pergamena dei disegni fugaci che lo avrebbero aiutato a tenere in testa le forme che avrebbe dovuto riprodurre; il tozzo strideva sulla carta mentre le  dita nei suoi ripercorrevano un profilo ben più delicato e vivo di quello che avrebbe dovuto lavorare.
 
Si spogliò della sue vesti appendendole ai ganci affiliati che gli pendevano sulla testa colmi di ricchi utensili da lavoro, nel frattempo che le fiamme cominciarono a la scaldare l’aria rendendola pesante; avanzò verso le carrucole colme alla fine del muro e le studiò una aduna ripassando ogni pepita, ogni lastra, gettandole e cambiandole più volte non trovandone mai una adatta, fino a che uno scintillio non gli illuminò gli occhi e decreto l’inizio di quella lunga notte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Non le fu facile togliersi di dosso il pensate vestito e la pelliccia calda che lo ricopriva lasciandoli cadere entrambi a terra, nel frattempo che il freddo intorno a lei le fece venire una leggera pelle d’oca e gli occhi lentamente le si abituavano all’oscurità che la circondava; non le fu facile così come non era stato facile scomparire tra le alte colonne del palazzo evitando di essere notata scendendo le ripide scale che l’avevano portata di nuovo dentro quella caverna.
 
Ormai anche in assenza di luce ne conosceva ogni singolo tratto, l’avrebbe potuta disegnare ad occhi chiusi se glielo avessero chiesto: sapeva quali gradini scendere, quali evitare, quando aggrapparsi alla roccia per non scivolare, quante stalattiti le pendevano sopra la testa quando raggiungeva il piazzale liscio e scivoloso infondo ad essa o quanto l’acqua potesse essere gelata sulla pelle e quanto potesse spingersi a largo senza avere la sensazione di esserne inghiottita.
Un luogo così familiare e cosi proprio che odio sentirsene così estranea in quel momento: ci si era rintanata così tante volte in quei mesi, a rimuginare, a schiarire i pensieri o anche a guardare quello spettacolo di luci che dopo tutti quei mesi riusciva ancora a toglierle il fiato, riportandola a leghe di distanza da quella montagna.
 
Si srotolò l’ultima treccia e con cautela posò l’ennesimo pendaglio argentato in cima al mucchio formato dal vestito e dal mantello adagiati accanto al muro roccioso lontani dall’acqua; rabbrividendo di un poco al contatto della pietra umida sotto i suoi pedi, avanzò a piccoli e incerti passi verso lo specchio d’acqua scura. Vi ci immerse dapprima la punta del piede rabbrividendo alla sensazione fredda e infine, stringendo i pugni fianchi e socchiudendo gli occhi, e cominciò lentamente a camminare: l’acqua le lambì velocemente i fianchi e lo stomaco salendo sempre di più’ fino alle spalle. La bocca le si trasmutò in una smorfia non appena l’acqua le bagnò la base del collo e chiudendo gli occhi gettò la testa all’indietro lasciandosi andare del tutto nell’acqua fredda della fonte di Erebor.
 
Il silenzio che la circondava divenne ancora più’ percettibile; riusciva a sentire solo il rumore dei suoi movimenti nell’acqua sempre più’ ovattati, così come il battito del cuore nelle orecchie sempre più’ lento; trattenne il fiato sott’acqua rimanendo immobile per un tempo esternamente lungo per qualunque altro nano ma non per lei: un tempo che negli anni in cui si era gettata tra le onde del oceano anche per ore, era riuscita ad  allungare sempre di più sulle rive o nelle grotte sotterranee delle miniere.
Ghìda aprì gli occhi osservando la cima della grotta da sotto l’acqua a malapena visibile e appena sentì l’aria mancarle riemerse con un piccolo saltello coprendosi il viso con le mani e allargando la bocca riprendendo rumorosamente aria di nuovo.
Si portò indietro i capelli con entrambe le mani e socchiudendo gli occhi si beò del silenzio che la circondava scandito solo delle singole gocce d’acqua che cadendo dalle stalattiti sopra di lei andavo increspavano la superficie  e lasciandosi cullare dall’acqua nella quale era immersa, tirandosi su sulle punte dei piedi che a malapena riuscivano a toccare la roccia sotto di lei.
 
Passò lo sguardo  maniera sfuggevole sul pelo dell’acqua fino a che non guardò sotto di se osservando il suo riflesso, illuminato solo dalla luce dell’unica torcia accesa nella caverna:  i capelli ora portati all’indietro le diedero la perfetta visione di ciò che indelebile le infestava la pelle del collo.
Con stizza mosse la mano alzandola da sotto l’acqua e andò a coprire il cerchio violaceo che dal giorno prima le marchiava, vergognandosi come una ladra, lasciando un’imprecazione sfuggirle dalle labbra, intimorita qualcuno l’avesse potuto vedere oltre lei.
Non era in grado di vederlo chiaramente ma dopo che si era ritrovata per lunghi minuti a osservarlo scioccata allo specchio la mattina ne conosceva il punto esatto e il colore, la forma, i denti che avevano lasciato piccoli segni rossi intorno ad esso. Lasciò scorrere la punta delle dita sul marchio scuro sentendolo bruciare e le passarono davanti delle emozioni così reali che le mozzarono il respiro: delle labbra che le baciavano il collo, una lingua che leccava la pelle, dei denti che la mordevano e la marchiavano, lacrime calde che le scendevano sul collo, un odore che aveva invaso le narici inebriandola; poi un bacio tanto appassionato da strapparle quel minimo di lucidità che le era rimasta e infine quello sguardo, la fronte del re sulla sua e un silenzio fatto di due parole non dette che l’avevano uccisa.
 
Thorin le aveva fatto ben capire che, lei non avrebbe avuto altro da lui se non quello e solo quello, un bacio e basta niente di più; lui non era capace a darle niente di più. Eppure quel marchio indelebile sul collo che da due giorni portava sulla propria la pelle riusciva attorcigliarle lo stomaco e renderla più sua di quanto non lo sia mai stata.
Socchiuse gli occhi al sol pensiero e lasciò un sospiro attraversarle le labbra vergognandosi  a morte per ciò che aveva detto. Lo aveva odiato ferocemente, era vero e questo non poteva negarlo, lo aveva disprezzato a tal punto in quel momento che le parole le erano uscite dalla bocca senza che ne avesse il controllo, era successo tutto troppo in fretta, e quelle parole le avevan ustionato la bocca non appena le aveva pronunciate.
Non era vero che non avrebbe mai voluto incontrarlo: lui, l’aveva resa libera, si sentiva libera seppur imprigionata in un patto, eppure lui le aveva dato la possibilità di scegliere, glielo aveva chiesto e lei non era stata in grado di rispondere, come non lo era adesso. La libertà che aveva sempre agognato, il poter fuggire, l’erba sotto i piedi, i bagni nei ruscelli cristallini, l’osservare la lune scendere e salire nel mezzo delle foreste silvane era stata solo un illusione: lei era stata resa libera di scegliere. Scegliere chi essere, cosa essere, lui le aveva fatto capire che aveva una scelta. In tutti quei mesi, lui le aveva dato una cosa che mai nessuno le aveva dato: una possibilità o le aveva dato così tanta sicurezza da poter crearsela la possibilità. E quella menzogna spinta dall’ira non aveva fatto altro che far crescere il suo senso di colpa. In pochi minuti era passata da urlargli addosso a supplicarlo di dirle la verità, di dimostrarle che lui non provasse nulla per lei, a desiderare di avere la pace e di mettere un pietra sopra ai suoi sogni, ma alla fine aveva solo avuto la certezza che Thorin era stato un bugiardo quanto lo era stata lei.
Quando si era chiesta se ci potesse essere di peggio rispetto al non essere amata a sua volta dal re di Erebor, la risposta gli era arrivata dolorosamente addosso: si c’era, c’era molto di peggio, sapere che quel sentimento appartenesse anche a lui, ma che non sarebbe mai riuscito a ricambiarla.
 
Alle sue spalle cominciarono a spuntare i primi raggi del tramonto che oltrepassando il piccolo foro sulla parete della grotta si infransero sulla superficie dell’acqua ripetendo lo stesso gioco di luci che accadeva ad ogni tramonto: centinaia di piccoli rivoli d’oro si illuminarono tutto intorno a lei, riflettendosi l’uno sull’altro e sul pelo dell’acqua rendendolo un meraviglioso universo stellato.
 
“Non ho il diritto di pretendere che voi mi rispondiate che la vostra casa sia Erebor, ne posso pretendere che lo diventi ma vorrei che la sentiate tale, per quanto sia in mio potere.”
 
 
Profonda come l’acqua in cui si trovava la voce di Thorin le tornò alle orecchie facendole mordere il labbro dal dolore che il solo ricordo le provocò e deturpando il suo riflesso con un’espressione talmente misera e dolorante che provò ribrezzò per se stessa e per ciò che provava.
 
“Maledetto.” Sussurrò sommessamente con voce spezzata sotto il peso di quei momenti.
 
Due piccoli cerchi concentrici tramutarono il suo riflesso e incresparono l’acqua ferma sotto il suo volto: disgustata da quelle lacrime con foga le raccolse strisciando i palmi sugli occhi e cercando di rimanere in se, anche se le risultò particolarmente difficile, soprattutto in quel posto e dopo aver sentito quelle parole nella testa.
 
Doveva andarsene, non poteva abbandonarsi di nuovo ai ricordi, e l’unico posto nella montagna che poteva portarla lontano da lui ora era diventato l’ennesimo posto che infestava: lui era la montagna stessa ormai e per quanto avesse provato a sfuggirgli, lui era ovunque, anche nel suo petto.
 
Ebbe bisogno di cancellare il proprio riflesso con un movimento rapido della mano prima che potesse ricomparirle davanti e fermarla nei suoi intendi e spinta da una paura irrazionale cominciò a nuotare di nuovo verso la riva; mosse le braccia di poco dandosi una leggera spinta con i piedi per allontanarsi da quel cielo stellato, ma appena ci provò accadde una cosa che non era mai successa, a cui lei non aveva ai fatto caso, oppure volutamente non vi aveva ai fatto caso: il suo sguardo venne attratto da un fascio di luce rossastra che singolarmente andò a illuminare un punto talmente remoto della caverna che sembrò trovarsi a leghe da lei.
Un breve luccichio più’ lontano degli altri, così immerso nel profondo della grotta e nell’oscurità della caverna che dovette assottigliare lo sguardo e muoversi di un paio di bracciate in avanti per rendersi conto che non era lo scintillio di una vena d’oro, o di una stalattite: le parve una lastra, così ben nascosta e così ben posta in profondità che seppur assottigliando lo sguardo più che potè riuscì  a malapena a scorgere i contorni illuminati.
Confusa e incuriosita mosse le gambe nella direzione opposta rispetto alla meta che si era prefissata dandosi una spinta per poter essere certa di ciò che aveva notato; si avvicinò di poco scostandosi sempre più’ il centro della fonte e muovendosi in avanti, ma appena lo fece il brillare svanì facendola bloccar in mezzo all’acqua interdetta.
 
Non poteva essersi volatilizzata così nel nulla, il fascio c’era, come tutti brillavano ancora, ma quello scintillio era svanito in un attimo.
Succedeva così anche a Elcar: appena vedeva qualcosa brillare sotto il pelo dell’acqua ne veniva irrimediabilmente  attirata spingendosi così in profondità da non avere quasi più fiato, e infine tutta la sua fatica si vanificava in un nonnulla o nel migliore dei casi in una conchiglia più grande delle altre.
 
Per un attimo l’idea che avesse preso un abbaglio, che si fosse confusa a causa del freddo la fece dubitare della veridicità di ciò che aveva visto e indietreggiò nuovamente nell’acqua ma un secondo scintillio la bloccò di nuovo e presa da un moto di curiosità sempre più’ crescente cominciò a nuotare in avanti tenendolo sguardo sempre fisso sulla lastra dorata: non voleva piu’ perderla di vista.
L’oscurità di fronte a lei cominciò pian piano a dilatarsi grazie ai raggi dorati che ormai al pieno del loro picco illuminavano la fonte e tutto d’un tratto dal profondo dell’oscurità nacque un enorme colonna di pietra, che come il tronco di un albero si innalzava verso il soffitto della grotta sorreggendo la montagna stessa, aprendosi poi verso il basso creando un piccolo isolotto informe in mezzo all’acqua.
 
Un’improvvisa stretta al petto la fece sobbalzare così come i piedi sotto di lei che non trovarono nulla a cui appoggiarsi seppur li mosse più che poté verso il basso; si voltò ed era come sospettava: si era allontanata e di molto, non avrebbe dovuto. Di poco riusciva a vedere la torcia in fondo alla parete e a malapena i vestiti ammucchiati sulla riva, se l’oscurità fosse a alta di nuovo sarebbe stato difficile e tremendamente faticoso tonare indietro. Si girò nuovamente nell’acqua fredda e lo scintillò sempre più nitido brillò più forte di prima invitandola proseguire ancora; sospirò profondamente, ormai anche il freddo pungente dell’acqua le rendeva diffide nuotare e, seppur avendo la sensazione che sarebbe stat un’idea che l’avrebbe fatta pentire amaramente, si mosse di un paio di bracciate continuando ad avanzare cauta nelle profondità della caverna.
Nuotò mantenendo la testa alta e fuori dall’acqua ma tenendo lo sguardo fisso di fronte a lei, fino a che non riuscì a dare una forma a quel luccichio e con suo stupore si accorse che quella che aveva davanti non era affatto una colonna.
 
Spalancò gli occhi incredula, le labbra seppur secche come la una gola diventarono bollenti tanto da farle diminuire il ritmo delle gambe che la tenevano a galla: un’immensa scultura nella roccia rappresentante un fabbro all’opera si mostrò davanti ai suoi occhi. Una mano alzata che tratteneva un gigantesco martello dorato pronto a colpire, l’altra mano che stringeva, sull’incudine di fronte a lui, una lastra d’oro grande almeno sei volte un nano adulto.
Dalle sue spalle nasceva la roccia stessa che sosteneva l’intera montagna, e così come quella di cui era fatta Erebor era di un verde quasi simile al blu: piccole linee dorate e bianche lo attraversavano da cima a fondo andando a fondersi un venature più ampie verso i muscoli delle braccia.
Di fronte a lui sette forme rocciose informi si alzavano dalla roccia, tutte rivolte verso a scultura del possente dio, verso il padre, verso il fabbro, verso Mahal, che con i suoi occhi di pietra le scrutava in maniera talmente austera che fremette quando passò lo sguardo sul suo viso scolpito con una tale precisione che le sembrò vivo.
Mai aveva visto una cosa del genere e mai si sarebbe aspettata di poterla vedere li, non dopo tutte le volte che vi aveva trovato rifugio e mai l’aveva notata. L’abilità dei nani aveva davvero superato qualsiasi cosa mai creata, eppure era stat posta là sotto, nascosta da qualsiasi occhio.
Anche se intimorita e sempre più’ infreddolita dall’acqua ghiacciata  si mosse ancora più vicino non riuscendo a staccare gli occhi dalla scultura imponente che la sovrastava almeno duecento volte; alzò le mani da sotto l’acqua e si avvinghiò con le dita alla roccia.
 
 
Con uno sforzò immane, si diede una spinta vero l’alto con le mani sulla pietra fredda e con un unico movimento riuscì a poggiare un ginocchio e da lì le fu facile fare leva e uscire dall’acqua salendo sul piccolo isolotto di roccia; si tenne in piedi riuscendo a mantenersi a malapena in equilibrio sulla pietra liscia e umida sotto di lei ciondolando per pochi attimi da una parte all’altra prima di riuscire a stare in piedi correttamente.
Per sorreggersi fu obbligata ad avvinghiarsi con entrambe le mani a una delle rocce che aveva visto da lontano; strinse i denti guardando verso il basso e seppur dopo i primi passi il terreno le sembrò essere piu’ stabile e si sentì abbastanza sicura da lasciarsi andare e cominciare a camminare tenendo le braccia larghe o a sfiorare le rocce intorno a lei con le dita già pronta se l’equilibrio l’avesse lasciata.
Alzò lo sguardo verso l’alto puntandolo di nuovo verso il fabbro che immenso non si era mosso; avanzò silenziosa sorpassando e girando intorno alle numerose rocce alte quanto lei avanzando verso l’immenso incudine scolpito infondo al piccolo isolotto e più camminava più lo stomaco le si attorcigliava su se stesso: il tutto era così strano.
Si mosse silenziosa verso l’incudine che la sovrastava: diverse rune vi ci giravano nutrono e le più importanti furono sette nomi ben distinti; non essendo neanche abbastanza alta da poterne toccare la sommità avanzò arrivata sotto di essa salendo pochi gradini scivolosi, in religioso silenzio, poggiò una mano sulla pietra fredda guardando Mahal dritto in volto.
Gli occhi di pietra che parevano scrutarle l’animo, tanto da farla rabbrividire di timore e abbassare ancora più il capo in riverenza decidendo di rimanere in silenzio non riuscendo neanche da far uscire dalla sua bocca una singola preghiera che in altri momenti le sarebbero uscite fuori a frotte.
Che senso avrebbe avuto, ne aveva gettate coì tanto che ormai se alcuno l’ avesse mai ascoltata ne poteva conoscere a memoria ogni frase: non erano mai cambiate, erano sempre le stesse, e anche se in quei mesi si era ritrovata ad aggiungerne altre e per altri oltre che per se stessa.
 
Aprì gli occhi e sfiorò a poco a poco la roccia fredda accarezzandola fino ad arrivare alla sua altezza dove alzando di poco lo sguardo poté riconoscere le rune del proprio clan: nervosamente si morse il labbro sfiorando le rune intrise di muschio viscido una ad una, e sussurrando tra le labbra il motto in nanico poggiò la mano sopra di esse coprendole del tutto prima di poggiarci la fronte in un gesto di riverenza che spesso. Troppo spesso le era stato negato, se non in modo esplicito a parole, suo padre le sottolineava sempre in ogni festa, in ogni occasione che quello non era il suo posto, con occhiate o sbuffi netti.
 
Sospirò profondamente facendo  un passo indietro aprendo di nuovo gli occhi allontanandosi e si voltò nuovamente verso la direzione verso cui era venuta e, nel voltasi, riuscì’ a vedere la parte esposta verso Mahal di tutte le rocce a cui si era aggrappata per arrivare fin lì e si rese conto che anche quelle non erano affatto delle rocce singole: incise nella pietra ruvida, i volti e i corpi di diversi nani nascevano dalla roccia grezza, i volti piegati i avanti in riverenza o tirati su in ammirazione, chi inchinato con l ginocchio, chi coperto di gemme scolpite o di armature da guerra
Scossa passò lo sguardo su tutte le sette sculture di fronte a se,, tutti volti diversi ma tutti estremamente simili l’uno all’altro, con al loro fianco scolpita e sfuggente nella roccia sempre una seconda figura femminile: chi la teneva sotto il proprio braccio, chi veniva invece sorretto da dietro, chi invece l’aveva addirittura stretta tra le braccia. Ma sempre ricavate da uno stesso pezzo di pietra: le madri era fuse con il nano a cui appartenevano, con cui erano state create, tutti risvegliati dopo che Mahal li aveva messi a dormire in attesa, ridestai ma mai separati.
Da sopra i pochi scalini riusciva a vederli tutti, riuscendo a scrutare i loro visi così come quelli delle sette madri uno per uno, tredici in tutto e di tutti e di dodici i nomi erano stati dimenticati, ma non di quello che in attesa era di fronte a tutti: guardava Mahal dritto in volto, i pugni stretti ai fianchi un ginocchio a malapena piegato in riverenza. Non dovette neanche pensare a chi appartenesse la scultura tanto spavalda da fronteggiare così Mahal, solo uno ne aveva diritto o il coraggio.
 
Il cuore le sprofondò nel petto appena posò lo guardo sul viso finemente intagliato, toppo preciso perfino per i nani, e il cuore cominciò a batterle così velocemente che trattenne il fiato; schiuse la bocca incredula avvicinandosi con lentezza verso la statua che avrebbe dovuto rappresentare il signore Durin, ma nella quale lei riuscì solo a vedere il volto del suo successore. Così simili nell’aspetto e nell’espressione che le medesime sensazioni che le avevano ghermito  la mente tornarono prepotenti verso i suoi occhi annebbiandogli.
I tratti austeri e rigidi come il suo sguardo puntato sempre verso l’alto, la barba ispida e quasi incolta che era raccolta al centro del mento che poi si fondeva con le trecce al lato della testa e del viso che si diramavano dai capelli lunghi e ribelli.
Avvicinò la mano al viso di pietra e le lacrime che per tanto aveva cercato di trattenere sembrarono ritornarle agli occhi piu’ violente di prima; sfiorò dapprima le labbra fredde e inespressive con la punta delle dita, impaurita che la statua potesse quasi muoversi o parlarle perfino, e poi eppur l’irrequietudine non l’abbandonava neanche per un attimo passò le dita sul viso, sfiorandogli la mascella, poi il naso e infine la poggio sulla sua guancia in un gesto che ormai le era diventato quasi naturale come respirare.
 
Come la storia voleva, lui non aveva nessuna nana accanto a e nessuna scultura che lo sosteneva o che lui steso sosteneva, era solo, e sarebbe sempre stato solo non era così?
 
Il cuore le sì gonfiò di tutte le parole che non era riuscita dire, dell’unica preghiera di cui pretendeva una risposta, gliela dovevano, tutti i Valar gliela dovevano, Thorin gliela doveva, una risposta la pretendeva anche se l’ultima che aveva avuto
L’intero corpo nudo le fremette dalla rabbia: se ne avesse avuto la forza avrebbe spaccato quella stessa roccia con e sue mani, frantumandola sotto le sue dita.
 
E infine la preghiera che non era riuscita a formulare guardando la scultura di Mahal o giacendo sotto di lui le investì la bocca e le labbra che si mossero da sole, non riuscendo a staccare gli occhi o la mano dal viso di Durin di fronte a se in cui non riuscì a vedere altro che non fosse Thorin: non seppe neanche a chi dei tre rivolse la sua preghiera ma uno dei tre doveva sentirla.
 
“Ci hai dato le gambe per camminare, la bocca per parlare, le mani per creare, gli occhi per vedere, e ci hai dato un cuore per amare, ma dimmi Mahal… perché fa così male?” La voce le vacillò e strette nella sua mano il volto di pietra gelata mordendosi il labbro tanto da sentire il sangue nella sua bocca.
“Perché hai lasciato che ci facesse così male?” Ripeté ancora alla  figura imponente a cui dava la schiena spostando le mani dalla mandibola verso il petto scoperto della statua all’altezza del cuore.
“Mi hai dato la vita, hai permesso che vivessi, hai instillato il sangue dei tuoi figli in me. Io sono stata zitta, ho aspettato anni, centinaia di anni in attesa che diventassi degna, degna di essere come tutti, è sempre stato il mio unico desiderio, la mia unica preghiera, che fossi guardata come una dei tuoi figli, che diventassi il capoclan che tutti volevano, che diventassi la nana che il mio clan voleva, e infine mi hai voluto dare la prova ed essere la loro regina, la regina del mio stesso popolo che mi guarda come un estranea, che diventassi la regina che loro volevano, che io volevo… e invece mi hai dato questo!” Scossa dalla rabbia batté il palmo che prima era fisso sul petto della statua con tale furia sulla roccia da farsi male e lasciare un gemito spezzato uscirle dalle labbra.
“Perché lui? Perché proprio lui?!” Urlò questa volta a pieni polmoni sbattendo nuovamente la mano sul petto di pietra fredda non versando alcuna lacrima ma riversando tutta la rabbia e l’angoscia che aveva trattenuto troppo a lungo.
“Perché? Perché? Perché?!” Ripete ancora e ancora sbattendo con sempre più’ forza la mano sulla pietra ferendosi i palmi tanto da farli sanguinare, aggiungendo a colpi ben scanditi anche l’altra mano ferendosela in egual misura stringendo gli occhi non volendo neanche vedere cosa stesse colpendo, non lo sapeva: nella sua testa stava colpendo il petto del nano che l’aveva portata in quell’oblio, in quello schifosissimo oblio.
 
Un colpo una domanda, un colpo un gemito di dolore, un colpo, una domanda, un colpo più forte un gemito ridondante nella grotta.
 
Sentì il tempo scorrere intorno a lei, e solo dopo lungo tempo si sentì stanca, incredibilmente e la frequenza dei suoi colpi andò irrimediabilmente a scemare, fino a che non li bloccò del tutto: sentì le mani bruciarle e farle improvvisamente male, sentì rivoli di sangue scenderle dai palmi macchiando la roccia di fronte a se e le rune all’inizio dei suoi polsi. Stremata fermò entrambe le mani doloranti e si lasciò andare svuotata con la fronte su quella della statua riaprendo lentamente gli occhi puntandoli in quelli di Durin che privi di vita continuavano a guardar Mahal dietro di lei.  
 
“Ti prego, padre… se me l’hai dato tu, ti prego, strappamelo, cavamelo dal petto o se proprio non puoi, ti prego… donamelo.” Supplicò con voce rotta dal dolore, inerme di fronte alla realtà che lei non poteva accettare, lei la decisione di Thorin non riusciva Ad accettarla , eppure doveva, doveva sottostare a quell’ordine, al suo volere, al suo re, perché prima di tutto Thorin era quello, il suo solo e unico, re.
 
Chiuse gli occhi, le mani scosse da spasmi dopo le ripetute botte che aveva assestato, eppure, ora che aveva bisogno di piangere, nessuna lacrima sembrò uscirle: erano finite. Si sforzò chiudendo gli occhi, strizzandoli, ma non uscì nulla, non riusciva neanche a versare una singola lacrima salata, benedetto il cielo, ora piangere era l’unica cosa che voleva fare, e ora che era sola e nessuno poteva sentirla non usciva neanche una goccia salata. Lo guardò negli occhi tentando un’ultima volta di lasciarsi andare, ma sentì solo un enorme vuoto: lui non era Thorin
 
I tratti della scultura di fronte a se cominciarono a diventare piu’ scuri: il suo tempo era scaduto, il tempo di lasciarsi andare a quelle emozioni contrastanti che avrebbe di nuovo seppellito, era finito: il tramonto stava calando e le stelle dorate che prima infestavano la grotta stavano diventando ben presto di nuovo semplici venature chiare nella pietra spegnendo la luce intorno a se facendo ricadere la grotta nel buio.
Seppur con riluttanza allontanò il viso dalla roccia, e le mani insanguinate dal suo petto, sfiorandolo ancora una volta lo sguardo prima di lanciare un’ultima occhiata dietro di lei carica di rammarico verso Mahal che ancora in silenzio la osservava, non donandole alcuna risposta.
 
Così infatti come ogni volta nessuno aveva risposto alle sue preghiere, nessun Valar vi avrebbe mai risposto probabilmente, nessuno la sentiva, perché sapeva che sempre e per sempre avrebbe occupato quel posto vuoto di fronte a Durin, lei sarebbe sempre stata quella forza invisibile che lo sorreggeva, ne nana ne elfa, una mezzosangue e questo Thorin era riuscito a farglielo dimenticare ma lo era sempre stata, lo sarebbe sempre stata. E come poteva una mezzosangue ambire a essere la regina dei nani, come aveva potuto un niente voler essere l’anima del figlio di Durin, come aveva potuto anche solo sperare di essere il capo del secondo clan più potente dei nani e regina della gente di Durin, come poteva avere la pretesa che Thorin potesse donare la metà di sé se già lei era a metà.
 
 
 
 
 
 
 


I colpi cadevano ritmati a una potenza sempre crescente, le piccole scintille rosse si andavano a infrangere sull’incudine e sulla pelle tirata delle mani; niente in quella forgia risuonava di piu’ del rumore del martello sull’incudine neanche i grugniti di fatica del fabbro che maneggiava con tale abilità quegli strumenti.
La lastra di ferro prima priva di vita cominciava ad averne una propria, venendo lavorata con una tale maestria che il grande Mahal nelle sue fucine sarebbe impallidito se avesse guardato nel fondo di quella montagna. Il ferro bollente venne rigirato piu’ volte tra le braci e altrettante volte immerso nel catino di acqua gelida per temprare l’acciaio sempre troppo delicato ma rigido come la costanza del nano che lo lavorava.
 
Le ore si susseguirono ininterrotte nel giallo calore delle forge, non prese neanche un attimo di riposo in quel lavoro meticoloso e preciso, ricco di forza, ricco di significato; gemette diverse volte di dolore a causa dei palmi feriti aperti per il troppo lavoro, o a causa delle nuove bruciature sulle braccia o sul petto scoperto.
I ganci degli attrezzi tintinnavano al suo passo rapido, il fuoco ardeva tutta l’aria intorno rendendola irrespirabile mentre i polmoni si tiravano sempre piu’ su in cerca d’aria al contrario degli occhi  che si abbassavano sempre di più verso il ferro argentato nelle sue mani.
Dalla forza sul metallo passò velocemente alla delicatezza del legno: ne ripassò tutte le rifiniture, il nero che si andava a intarsiare con le venature dorate; piccoli ricci e fiocchi invasero il pavimento e il tavolo da lavoro venendo poi gettati tra le fiamme della forgia pronta ad accogliere di nuovo in mezzo nel suo calore il lavoro ancora incompleto.
 
Il respiro del fabbro scemò ma la sua forza non diminuì: aumentò ogni istante dedito a quell’opera che gli sarebbe costato piu’ di quanto avesse mai immaginato e che gli avrebbe donato più di quanto si sarebbe mai immaginato.
 
 
 
 
 



“Lascia, me ne occupo io.”
 
La mano tatuata di Dìs fu veloce a interrompere il movimento di Dwalin che già pronto aveva afferrato le due tazze ormai vuote poste sul tavolo di fronte a loro iniziando già ad alzarsi per riporle a lavare: non era riuscito neanche a spostare la sedia indietro che la nana accanto a lui si era già prontamente alzata dalla sua anticipandolo ponendo le mani sulle sue già strette al bordo delle due stoviglie di legno e ferro.
 
Alzò un sopracciglio poco convinto ma un’occhiataccia severa e irremovibile proveniente da due pozzi azzurri e una stretta ferrea sulle sue dita artigliate alla coppia d’ oggetti gli spiegarono silenziosi che se avesse provato anche solo a dibattere gliele avrebbe strappate di mano: azione che sapevano entrambi sarebbe stata impossibile, ma che lei cocciuta avrebbe tentato comunque piuttosto che lasciar correre.
 
“Come volete principessa.” Sottolineo ironico sospirando.
 
Arrendendosi fu costretto ad annuire e a lasciare entrambe le tazze sfilando le dita da sotto le sue portandosi entrambe le braccia al petto sotto uno sguardo vincitore della nana che gli sorrise con il lato della bocca chinando la testa in avanti in un ringraziamento ironico.
 
“Meglio per te Dwalin figlio di Fundin.” Ribatté decisa sulla sua stessa scia di ironia utilizzando ironicamente quei titoli così abusati negli anni che ormai erano diventati solamente dei soprannomi ironici che usavano per il puro piacere di infastidirsi a vicenda.
 
Dwalin le fissò la schiena dritta e impostata mentre si allontanava dal tavolo e da lui facendo il giro del tavolo e dirigendosi verso il lavello della cucina incassato all’interno del muro di cui, da dove era seduto, ne aveva una perfetta visione; Dìs ruotò il piccolo rubinetto riempiendo la catinella sotto di sé prima di portare la treccia con un gesto della mano dalla spalla alla schiena e immergere quindi le due stoviglie che ancora teneva a penzoloni dai manici tra i tendini delle dita.
 
Un piccolo sospiro gli attraversò le labbra ripensando a quanto quei piccoli momenti con lei in quella manciata di giorni gli avessero dato una parvenza di normalità e un piccolo assaggio della quotidianità che in un'altra vita avrebbero potuto avere insieme. Non aveva mai preteso altro e non ne avrebbe mai preteso di piu’, quelle poche ore la mattina, in cui parlavano o si godevano il silenzio l’uno dell’latra seduti sul tavolaccio di legno della su cucina gli bastavano per colmare ogni anno nel quale non era riuscito a vivere in quel modo e quasi annullare l’anno in cui non l’aveva vista.
 
Da quella mattina, quando se l’era trovata sull’uscio della porta, l’inizio delle sue giornate era sempre quello: lei dava due botte sulla porta, lui si alzava dal letto e la lasciava entrare e poi passavo tutto il tempo che li divideva dagli obblighi del giorno a parlare di qualsiasi cosa, dal rimembrare vecchi momenti fino ad immaginarne dei nuovi. Alcune mattine Dìs aveva finito per piangergli sulla spalla lasciandosi andare a momenti che troppo vividi le tornavano alla mente e passavano lente come le lacrime che finivano per bagnargli tutta la cotta. Altre, come quella mattina, passavano in un battito di ciglia: entrava e prendeva pieno possesso della cucina, facendo a entrambi un thè caldo, senza neanche aspettare un suo assenso o un suo declino, neanche gli piaceva il thè, e poi finiva per discutere di tutto e di nulla, di quello che accadeva nel palazzo, di quello che scopriva ancora intatto dopo la venuta si Smaug, dei piccoli oggetti nella sua stanza che ritrovava e che era sicura di aver perduto.
 
Il colmo era stato per lui quando glia aveva confidato appena arrivata nei suoi appartamenti quella mattina di come avrebbe voluto partecipare ai preparativi per il banchetto della sera stessa, ma ormai era già tutto deciso: gli era sembrata perfino delusa.
Era da un paio di giorni che si comportava in quel modo, da quando da quello che gli aveva raccontato aveva discusso con Thorin evitando però di raccontagli i dettagli di ciò che fosse accaduto, così come il Re che però a differenza di sua sorella non aveva neanche minimamente accennato all’avvenimento: capì subito che quello che era accaduto era stato difficile da affrontare. Conosceva bene il carattere di entrambi e ciò che avevano passato tutti e due da sapere che sarebbe stato un segreto ben custodito che non gli sarebbe mai stato rivelato. Ma non gli interessava, non se il risultato era aver di aver riavuto, per quanto Durin gli avesse permesso, la parvenza della nana che amava liberandosi di quel involucro di distacco.
 
C’era infondo chi copriva il proprio dolore con un muro gelido, lei invece lo nascondeva con un sorriso e spesso si trovava a pensare quale fosse tra le due l’opzione peggiore.
 
Anche se i suoi sorrisi erano coperti da quella patina di tristezza perenne e venivano spesso deformati spegnandosi all’improvviso persa nei ricordi, e lui bastava che sapesse che ci sarebbe stato, sempre, nel suo dolore e nella sua gioia e che qualsiasi cosa la vita le avrebbe rivelato ancora, lui sarebbe rimasto lì ad aspettarla bussare alla sua porta.
 
Un tonfo nella bacinella gli fece alzare un sopracciglio incuriosito sporgendosi dallo schienale per osservare cosa lo avesse provocato e non riuscì a roteare gli occhi appena notò che oltre le due tazze Dìs aveva immerso dentro il catino anche le stoviglie abbandonate a se stesse sul ripiano accanto al lavello ancora sporche della cena che aveva consumato il giorno prima.
 
“Lo sai che posso farlo io piu’ tardi, non ho bisogno che tu lo faccia per me.” Appuntò con tono severo stringendo ancora di più le braccia al petto. “Non sono un ragazzino sperduto.”
 
Lei fu veloce ad azzittirlo alzando una delle mani dalla bacinella colma d’acqua calda.
 
 “Dwalin figlio di Fundin taci, sono stata servita abbastanza da quando sono qui sono ancora in grado di lavare qualche stoviglia.” Sottolineò con una punta d’acidità continuando imperterrita a lavare con cura il piatto sotto di se, per poi poggiarlo sul piccolo ripiano libero accanto ad asciugare.
 
Dwalin non riuscì a non trattenere una piccola risatina sicuro che se si fosse anche solo avvicinato per darle una mano gli avrebbe con molta probabilità rotto il piatto sulla nuca. “Decenni di abitudini sono difficili da cancellare.”
 
“Un secolo lo è ancor di piu’, non sono in grado di stare con le mani in mano, mi reca troppo malessere.” Specificò poggiando l’ultima stoviglia a scolare accanto a se per poi allungarsi verso l’alto in punta di piedi per afferrare uno dei vari tracci che pendeva dalla mensola sopra la sua testa.  “Soprattutto quando sono io ad arrecare disturbo in casa di qualcun’ altro.” Aggiunse con voce strozzata tirandosi con l’addome e allungando il braccio per afferrare il panno troppo in alto per lei ma che con un piccolo saltello riuscì ad afferrare immediatamente
 
“Non lo fai… non l’hai mai fatto.” Si lasciò sfuggire tra le labbra addolcendo lo sguardo non riuscendo a non imporsi di osservare ogni suo piccolo gesto: con gli anni aveva imparato che era del tutto inutile, per quanto ci provasse, i suoi occhi cercavano sempre i suoi e quando accadeva che si incontrassero si dimenticava di tutto e il corpo finiva sempre per agire per conto suo.
 
Dìs si girò so se stessa passandoci lo straccio tra le dita e intorno ai palmi e alzando un sopracciglio divertita dalla sua affermazione gli puntò un dito addosso. “Questo lo dici solo perché sei sempre stato tu l’ospite a casa nostra.” Tenne a sottolineargli prima di portarsi le mani ai fianchi. “Quale disturbo potevo arrecare nella mia stessa cucina o seduta di fronte al mio stesso camino.”
 
“O anche addormentandoti sul tuo stesso tappeto.” Le resse il gioco ridacchiando a sua volta verso la piega che stava prendo la discussione.
 
“Certamente anche quello!” Alzò gli occhi al cielo Dìs teatralmente sorpresa e battendosi una mano sulla fronte come se si fosse appena ricordata un’informazione di vitale importanza. “Perché dormire in un soffice letto in una stanza libera quando mi posso addormentare tra un boccale di birra e un re dei nani.”
 
Scosse la testa anche solo al ricordo di quell’avvenimento alquanto bizzarro abbassando poi lo sguardo quasi imbarazzato di fronte al ricordo che era riuscita a tirare fuori. “Ero riuscito a trasportare tuo fratello in una taverna e siamo tornati all’alba con Thorin che non riusciva neanche a mettere un piede di fronte all’altro imprecando contro se stesso per avere esagerato e io a malapena mi ero reso conto di aver rubato quel boccale e di essermelo trasportato fino a casa vostra.” La corresse portando una gamba sopra il tavolo e incrociandosi sopra l’altra lasciandosi andare ancora meglio allo schienale della sedia. “Ed è successo solo una volta.”
 
Dìs gli si avvinò con ancora le braccia sui fianchi lanciandogli un’occhiata omicida verso le gambe.
 
“Però è successo.” Appuntò e con la punta del dito gli spinse giù le gambe dal tavolo: piu’ che una spinta fu un leggero invito a cui dovette sottostare anche se lievemente spazientito.  Non aveva mai avuto nessuno che lo controllasse, soprattutto a casa sua, e soprattutto per cose di così poco conto ma l’accortezza di quel gesto gli scaldò il petto e distendere i muscoli delle braccia.
 
“E abbi un minimo di rispetto per i mobili, soprattutto quelli di casa tua dove mangi.” Gli sottolineò ancora passando velocemente lo straccio ancora tra le sua mani verso il tavolo ormai sgombro se non per la candela in mezzo a questo e passando il panno umido perfino sotto dove aveva poggiato i piedi lui sino a poco prima facendolo sbuffare irrequieto: era un principessa, aveva vissuto nel lusso per tutta la sua gioventù eppure delle volte non sembrava ricordarselo, forse perché più di tutti era consapevole che molte cose facevano parte di una vita che non le apparteneva più.
 
“A proposito…” Mormorò Dìs tra se e se continuando a fissare il tavolino finendo di passare lo straccio su tutta la superficie. “Ti devo ringraziare per non aver rivelato a Thorin delle mie visite qui.” Ammise bloccando per un istante le mani alzando il volto verso il suo riconoscente: le labbra rosate inclinate in un fugace sorriso. “Gli ho riferito che ho… parlato con te, ma non ha reagito come mi sarei immaginata.”
 
Dwalin scosse la testa per non farla preoccupare ulteriormente. ”Non c’era motivo di riferirglielo e sei comunque protetta in queste stanze e le tue decisioni vanno rispettate per quanto sia re…” La osservò di sottecchi.  “Ti ha detto qualcosa?” Le chiese non riuscendo a far trasparire un filo di preoccupazione nel tono della voce.
 
Non che Dwalin avesse paura di un suo rimprovero o che lei potesse essere in qualche modo rimproverata da Thorin ma la discussione tra loro due era capitata lo stesso giorno di quella assurda situazione all’interno della sala del consiglio in cui lo aveva visto comportarsi in quella maniera che ancora gli ottenebrava i pensieri.
Mai gli era capitato di vederlo in quello stato e mai si sarebbe immaginato che si sarebbe rivolto alla mezz’elfa in quel modo, non dopo quello che era riuscito a farsi rivelare, non dopo che aveva visto come le aveva baciato la fronte tenendola stretta sul suo ventre per alleviarle il dolore, e neanche dopo che aveva appreso che aveva passato tutte le notti a vegliare su di lei ancora priva di sensi. Da un giorno all’altro però tutto era finito, non la nominava piu’, non si recava piu’ da lei, la minima informazione che chiedeva erano mormorate a mezza bocca e non parevano interessarlo minimamente. E infine il giorno prima era avvenuta quella discussione e la cosa a turbarlo profondamente non fu il suo tono sprezzante, le sue risposte a malapena pronunciate, fu che di fronte a un evidenza palese che lei gli aveva sottoposto, lui fosse rimasto impassibile: sapeva che l’aveva ascoltata, sapeva che Thorin aveva capito ciò che gli aveva detto e sapeva che avrebbe reagito a quelle sue supposizioni, ma non l’aveva neanche mai una volta guardata in viso.
Ma infine quando tutti vi erano rientrati prendendo di nuovo i loro posti l’ordine era stato chiaro e netto, a dire la verità una serie di ordini arrivarono chiari e netti: Esgarot, i Colli Ferrosi, i restanti clan, Elcar, sarebbero tutti stati avvertiti della possibilità più che certa che gli orchi non erano venuti da Moria e Thorin pretese un ennesimo corvo sopra la foresta, e che ogni confine intorno ad essa fosse controllato a vista. Quello che accade lo stupì e non poco, così come il dubbio su ciò che fosse accaduto a porte chiuse  da far cambiare idea a Thorin così repentinamente, se mai avesse davvero cambiato idea.
 
La mezz’elfa era uscita tenendo lo sguardo basso ignorando perfino Bofur che assurdamente aveva tentato di fermarla, ma lei infine era schizzata su verso le stanze reali: i ciuffi e le trecce castane che le avevano coperto in maniera approssimativa il viso arrossato e scosso che fu però ben visibile a tutti, perfino a lui e in maniera incontrollabile quella volta se ne rattristò, più di quando avesse dovuto.
Quando Balin era uscito dalla stanza e aveva fatto a tutti cenno ad entrare di nuovo nella sala del consiglio, pareva che tutto fosse tornato alla normalità, Thorin era rimasto silenzioso ma era come se quello che fosse accaduto pochi minuti prima non fosse mai successo, eppure lo sguardo che suo fratello aveva lanciato di piu’ volte fino alla fine del consiglio verso Thorin, gli fece capire che Balin sapeva e quello che sapeva era talmente grave che non ne fece parole neanche con lui.
 
E se era quindi talmente grave, non avrebbe influito solo su Thorin stesso, ma anche su tutto quello che gli era intorno e sua sorella faceva inevitabilmente parte di quel tutto.
 
Dìs scosse la testa velocemente facendo oscillare il piccolo cristallo blu sulla sua fronte, bloccando qualsiasi supposizione alleggerendogli di poco il petto; la nana sospirò profondamente prima di sedersi di nuovo accanto a lui passandosi nervosamente il panno ancora umido tra le mani, mostrandosi profondamente irrequieta e questo però non fece che aumentare di nuovo le preoccupazioni da poco svanite.
 
“E’ quello che non mi ha detto che mi ha sorpreso.” Mormorò fissandosi le mani che non riuscivano a fermarsi, sempre più nervose.
 
Spiazzato dall’uso di quelle parole Dwalin tirò su leggermente la testa dalla sedia capendo di aver assunto un’aria confusa di fronte agli occhi di Dìs non appena quest’ultima quando sospirò pronta a spiegarsi in modo più specifico bloccando entrambe le mani.
 
“In altri tempi la prima cosa che mi avrebbe rinfacciato sarebbe stato il perché non ne avessi parlato prima con lui, sul perché ora sono qui e non nella sala del trono con lui.”
 
Dwalin annuì discostando lo sguardo da Dìs posandolo verso la fiamma della candela che li divideva, sapendo quanto fosse vero ciò che avesse detto: fin troppo vero e lei forse neanche ne era a conoscenza. “E’ cambiato, molto.”
 
La nana di fronte a lui scosse la testa sorridendo verso il basso con il lato della bocca, bloccando finalmente le mani che ora erano bagnate quanto il passo stretto nei suoi palmi. “No, non molto, siamo solo noi che lo conosciamo troppo bene. E’ quando nessuno lo guarda che è diverso.”
 
Dwalin si adombrò di colpo di fronte a una simile verità.  “Lo siamo tutti cambiati in qualche modo, dopo tutto quello che è successo, nessun nano sarebbe rimasto lo stesso, benché meno lui.” Le parole gli faticarono a uscire bloccandosi all’altezza della sua gola, fermate dalla paura di aver inavvertitamente riaperto una ferita sanguinante.
 
Alzò per conferma lo sguardo verso Dìs che invece continuava a tenere lo sguardo basso, sembrò essersi spenta di colpo. Il senso di colpa lo inghiottì, il cuor comincio a martellargli nel petto e avendo la certezza che fosse solo colpa sua aprì la bocca, ma alcune parole furono più’ veloci delle sue.
 
“Come è lei?” Mormorò la nana alzando lo sguardo verso il suo bloccandolo sul posto prima che potesse alzarsi.
 
Dwalin credette di aver capito male, infatti i suoi occhi in quelli cristallini di Dìs, che però non azzardavano neanche a una piega, anzi lo guardavano con un tale sicurezza che lo spaventò quasi: quella semplice domanda lo scosse profondamente facendolo rizzare involontariamente sulla sedia. La principessa non ebbe bisogno di specificare a chi si riferisse, lo sapevano bene entrambi eppur per un attimo Dwalin si ritrovò a sperare di aver seriamente compreso male le sue parole.
 
Dalla bocca di Dìs uscì un sospiro divertito di fronte al suo silenzio .“Sembri stupito dalla domanda.” Commentò con una punta di ironia osservandolo quasi divertita di fronte al suo viso crucciato.
 
Dwalin dovette ponderare le parole da usare, ma tutte le parole che non poté dirle si riversarono sul suo corpo, facendolo diventare più rigido di quanto già non fosse: scrollò le spalle scaricando la tensione che cominciava a percepire nei muscoli di fronte a quell’argomento ormai diventato spinoso da trattare per fino con altri che non fossero Thorin.
 
“Non mi hai mai chiesto della mezz’elfa, mai, neanche una volta.” Si morse interno della bocca nervoso quando pronuncio quel nomignolo: anche per lui infine era diventato difficile da proferire. “Sono solo incuriosito dalla domanda.”
 
“Vorrei che mi raccontassi di lei.” Ribatte asciutta, fin troppo forse.
 
“Non credo di dover essere io a raccontarti di lei, dovresti chiedere a tuo fratello.” Ribatté a sua volta, non riuscendo però a nascondere un leggero dubbio di fronte a quelle domande insistenti, difatti a quel punto accadde una cosa che Dwalin non si seppe spiegare: Dìs alzò le spalle noncurante, come se improvvisamente quel discorso non la riguardasse minimamente tirando su la schiena sulla sedia e alzando il mento regalmente.
 
 
“E’ la futura regina, non che futura moglie del Re Sotto la Montagna, dovrò pur essere informata su qualcosa sul suo conto.” Rispose con distacco celando per quanto più poté la verità su quella domanda è sul perché glie l’avesse posta, ma fu più arduo del previsto: Dwalin non le rendeva mai nulla semplice, la sapeva leggere come un libro aperto di cui conosceva a memoria ogni pagina.
 
Difatti i due occhi verdi la scrutarono attenti: le spalle di Dwalin si strinsero e seppur adagiato non curante sullo schienale della sedia, sapeva che aveva intuito qualcosa.
 
“Perché lo stai chiedendo a me?” Le chiese assottigliando leggermente lo sguardo oltre le sopracciglia nere.
 
“Lo sto chiedendo a te perché tu li hai visti entrambi per mesi, conosci Thorin, e non sei solo una voce in mezzo a un mercato nelle profondità della montagna o un canzone fuori da un taverna.” Rispose tentando di rimanere netta così come aveva cominciato il discorso, ma ancora una volta non fu facile.
 
Dwalin scosse la testa avvicinandosi verso il tavolo sciogliendo le braccia al petto e posandole entrambe sul tavolo chinandosi verso di lei cercando il suo sguardo giudicatore: si sentì quasi offesa da quello sguardo che solo lui dopo tutti quegli anni osava lanciarle ancora.
 
“No, tu lo stai chiedendo a me perché non ne hai parlato con Thorin e non hai parlato ancora con lei non è così?” Dìs poté percepire un leggero rimprovero nascosto sotto quelle parole e in parte senti di meritarlo, cento e cento volte; si sentì avvampare dalla vergogna e facendo cadere quella farsa abbassò lo sguardo verso le sue mani, incapace di reggere lo sguardo freddo del nano di fronte a lei venendo così maldestramente colta in flagrante.
 
Sentì un sospiro pesante e poi una mano tatuata due volte più’ grande della sua le si posò sul dorso della mano inghiottendola e fermando così il suo movimento nevoso intorno allo straccio lurido e umido. Si insinuò con le dita sotto il suo palmo calmando i battiti nervosi nel suo petto all’istante, ma non le sue domande che come tarli ormai le avevano scavato nella testa infestandola.
 
“Dìs?” Insistette il nano di fronte al suo silenzio e al suo sguardo schivo, stringendole  con ancora più’ decisione la mano tentando di spingere a parlare.
 
Arresa alzò di nuovo lo sguardo verso il suo ricambiando di poco la stratta poderosa, facendosi forza su di essa decise di dar sono ai suoi dubbi e alle sue incertezze. “Lei prova qualcosa per lui oltre la lealtà che si deve a un re?” Gli chiese senza indugio.
 
Dwalin sembrò scosso da quella domanda; gli occhi verdi sussultarono, distolse lo sguardo posandolo nuovamente verso il tavolo di legno sotto di loro.
 
Era il turno di Dwalin del sentirsi colpevole.
 
Come aveva poggiato la mano sopra quella fredda di Dìs la ritirò verso di se ormai incerto e deciso a non rivelare oltre, cosa gli avesse rivelato Thorin ormai fermamente convinto che Dìs fosse arrivata a quella conclusione per causa sua.
“Perché me lo chiedi?” Chiese portandosi sulla difensiva incrociando di nuovo le braccia al petto mentre le mani di Dìs si andarono a stringere di nuovo nervosamente verso il panno nelle sue mani.
 
“Perché lui tiene a lei, non è vero?”
 
“E’ la sua futura moglie e regina è normale che lui te-“
 
“Dwalin…” Lo bloccò velocemente rimproverandolo con lo sguardo “Sai a cosa mi riferisco, sai cosa intendo con le mie parole, sarò anche stata via per mesi da voi ma non sono una sciocca, non trattarmi come se lo fossi.” La bocca del nano di fronte a lei si chiuse in una linea dritta distogliendo lo sguardo severo dal suo verso il lato della cucina colpevole.
 
“Lui tiene veramente a lei?” Gli chiese ancora Dìs addolcendo il tono della voce tanto da far crollar tutte le sue difese e con esse anche la corazza che lei abile era capace di attraverso con uno sguardo più dolce del solito distruggendola.
 
Le lanciò un’occhiata fugace distogliendo lo sguardo dalla dispensa di legno scuro accanto a loro. “E’ attaccato a lei, questo è un fatto ormai conosciuto, non sto violando nessun giuramento a dirti questo, né da capitano, né da amico.” Replico velocemente osservandola di sfuggita non appena un sorriso triste le comparve sul viso e annuì con la testa rassegnata.
 
“Non lo avevo mai visto così, è stata la prima volta dopo decenni che l’ho sentito pregare a voce alta. L’ho visto tenere tra le braccia così tanti soldati, l’ho visto tornare a Dunland con Frerin tra le braccia, l’ho visto mentre…” Le parole le si bloccarono nella bocca ripensando a quei momenti sotto le cripte e una morsa ferrea le strinse il petto rendendole incapace perfino di continuare a parlare. Butto giù il groppo in gola e ricaccio indietro le lacrime che come tutte le volte minacciavano di uscirle, cercando per quanto più le fu possibile di continuare i suoi pensieri che ormai avevano preso pieno sfogo.
 
“Quello sguardo…non avrei mai creduto di poterlo vedere sul suo viso Dwalin, e non avrei  mai voluto vederlo sul suo viso.” Si libero infine da quel peso con un leggero mormorio sussurrato tra le labbra, osservandosi le mani tatuate, e infine con un gesto ormai involontario portò con lentezza una mano verso la collana che non si toglieva mai, stingendo il piccolo pendaglio che pesante le ricadeva in mezzo ai seni cercando un appiglio. “Ma quello che ha fatto lei, mi ha lasciato incredula. Lui si è aggrappato a lei per farla rimanere lei si è aggrappata a lui per non andarsene ma lo ha fatto con una tale devozione che…”
 
“Ti ha spaventato.” La anticipò Dwalin sospirando arreso: il suo sguardo fisso verso il suo petto e sulla sua mano appesa alla collana che distolse puntandolo di nuovo vero il tavolo  non appena una fitta gli oltrepasso lo stomaco incapace di reggere quel gesto verso quell’oggetto che Dìs teneva sempre addosso.
 
Dìs annuì abbassando lo sguardo verso la mano ben salda intorno al piccolo getto cilindrico inciso di rune quasi impercettibili alla vista. “Ho avuto paura, una paura tale che mai avrei voluto sentire ancora Dwalin, e la cosa assurda è che l’ho sentita io per lui. Dovrebbero esser i fratelli maggiori a raccogliere i pezzi, ma infine sono sempre io che lo faccio.”
 
Dwalin sgranò gli occhi non appena la voce le si incrinò di colpo in mezzo alla frase e lì capì davvero che c’era qualcosa che stava cercando di dirgli da lunghi minuti in quella discussione, ma ci stava girando intorno indugiando. Decise quindi di porle per l’ennesima volta quella domanda, in un ultimo disperato tentativo di tirarle fuori tutto quello che ancora tratteneva e non poté fare la scelta piu’ giusta perché la nana non aspettava altro che quello.
 
“Dìs” La richiamò facendole alzare lo sguardo dal tavolo ma non facendola muovere di un centimetro. “Perché non hai ancora parlato con lei?”
 
“Sai come ho scoperto del matrimonio?” Gli chiese spiazzandolo abbassando di nuovo lo sguardo verso il piccolo oggetto che si girò a rigirò tra le mani accarezzandone con le dita le incisioni. “Il corvo da Balin non ha fatto in tempo ad arrivare che già tutta Nogrod ne stava parlando: quando poi si sente la stessa voce da un centinaio di nani, diventa più’ di una voce, diventa verità io ho dubitato perfino che lo fosse, ho sperato fino all’ultimo che non fosse vero.” Esalò continuando a non guardarlo.
 
Colpevole Dwalin di fronte a quelle parole abbassò lo sguardo ancor di più’: i sentimenti di Dìs non erano diversi da quelli che aveva provato lui, e anzi lui lo aveva vissuto, lui era lì in quei giorni, durante quella decisione e per settimane aveva sperato che Thorin cambiasse idea, ciò che lei era, era sbagliato, tutte quelle sue assurde decisioni erano sbagliate. Ma dopo quello che aveva sentito nella Sala del Trono dalla bocca di Telkar e quello che aveva visto fare a Thorin, avevano cambiato tutto: perfino la stirpe della mezz’elfa era per lui passata in secondo piano.  
 
“Quello che lei è, quello che le scorre nelle vene, quando l’ho vist-“
 
“Non era per il suo sangue o per la sua discendenza, non è mai stato per quello.” Lo interruppe velocemente:  forse era l’unica nella Terra di Mezzo a non curarsene minimamente, seppur lo scandalo fosse ormai diventato palese. Molti nani non avevano neanche tentato di nascondere il loro malcontento e il loro disprezzo, perfino quelli più fedeli e più vicini a Thorin, ma non lei, a lei non interessava della su futura moglie. “Io non ho disprezzato lei, io ho disprezzato Thorin profondamente, come mai mi era capitato in vita mia.” Ammise interrompendo le sue mani intorno alla collana e prendendo un enorme respiro tremante alzando gli occhi verso Dwalin colpevole. “Lui stava per avere tutto quello che io avevo perso: un regno, una moglie, dei…” Si interruppe di colpo e gli occhi si cominciarono a inumidire di nuovo  di fronte a quella visione. “Dei figli, tutto con il sacrificio dei miei, tutto quando ancora il sangue di Fili e Kili bagnava il terreno, non riuscivo ad accettare la su decisione, neanche sapendo che sarebbe stata una cosa inevitabile, un suo dovere: non mi importava.” La voce consumata dalla vergogna le divenne via via sempre più’ flebile, ma Dwalin continuava ad ascoltarla con la bocca semi spalancata: mai si era mostrata a lui così, mai avrebbe voluto mostrargli quella parte di se che aveva scoperto di possedere in quei pochi mesi eppure, come aveva detto, tutti erano cambiati, anche lei.
 
“Mi chiedi perché non ho parlato con lei? Perché alla fine l’ho odiata, li ho odiati in una maniera che mi ha fatto vergognare di me stessa, ho perfino desiderato che lui perdesse tutto, tutto ciò che aveva ottenuto, l’Arkengemma,, il trono, la montagna… compresa lei.” Sussurrò le ultime parole, ma Dwalin le sentì comunque stringendo i denti in un misto di collera di fronte quelle frasi riversate verso il suo migliore amico, ma di profonda comprensione verso la donna che amava: una silenziosa battaglia che lo fece rimanere in silenzio ad ascoltare. “Ma poi li ho visti tra la neve intrinsechi di sangue, mi è bastato vedere Thorin che stringesse al petto una completa sconosciuta, come la cullasse tra le braccia, per sapere di chi si trattasse e mi ci è voluto ancora meno per sentirmi putrida e avvizzita.” Si fermò raccogliendo finalmente con la mano una singola lacrima che stava per sfuggirle dalle ciglia nere riprendendo fiato da quella terribile confessione. “Avevo così desiderato quel momento, che lui soffrisse in quel modo al mio stesso modo, che quando l’ho visto accadere di fronte ai miei occhi, avrei dato la vita per non fargli rivivere il mio stesso dolore. Quindi sì ho avuto paura.”
 
Quando, dopo giorni di fuga, aveva visto arrivare quella ragazza, come l’aveva vista agguerrita rischiare la vita per lei e quando poi aveva visto come suo fratello l’aveva raccolta dalla neve, come l’aveva guardata, come l’aveva tenuta tra le braccia, come l’aveva stretta al suo petto supplicando Durin come una nenia e come poi lei lo aveva stretto a se trasformò velocemente l’odio in una muta tristezza. Il vedere Thorin riverso in una corsa disperata e il sentire le voci su entrambi appena arrivata ad Erebor, l’avevano ancora più bloccata impedendole di voler sapere più di lei, perché per quanto sarebbe stato inevitabile, per quanto poi sarebbe stat costretta a guardarla in volto un’altra volta, lei ora aveva tra le mani lo spirito di Thorin e le era bastato guardarlo in volto per capirlo, un volto così diverso da come lo ricordava.  
 
“Lei lo ama non è vero?” Sussurrò infine.
 
Dwalin ancora scosso per le parole che aveva sentito aprì e chiuse la bocca più volte, non avendo la capacità di risponderle, non avendo mai avuto ulteriori conferme, ma la mezz’elfa a differenza di Thorin sembrava brillare quando era accanto a lui, non aveva occhi o gesti che non fossero per lui e anche se incerta la risposta gli parve palese.  
 
“Se hai osservato lui, hai osservato anche lei, non ti serve una mia risposta ce l’hai già.” Rispose arreso.
 
Dìs annuì verso il basso non avendo bisogno di ulteriori conferme, ma ora le serviva quella più’ importante, quella che in realtà più la spaventava e più voleva sapere.
 
“Thorin invece è innamorato di lei?” Sussurrò ma alle orecchie di Dwalin arrivò come un urlo.
 
Lui a quella domanda non aveva una risposta: immaginare che Thorin provasse un simile sentimento per la mezz’elfa era per lui quasi inconcepibile, eppure, nel modo in cui la guardava, nel modo in cui ne parlava, nel modo in cui vedeva come annebbiava i suoi pensieri quando Ghìda entrava nella stanza, gli sembrava di potersi vedere all’esterno. Gli passò sulla schiena un brivido freddo  al solo pensiero stringendo tra le mani il tavolo di legno e le immagini di Dìs e Vili gli tornarono alla mente, così come tutto quello che aveva sopportato lui, tutto quello che ancora stava sopportando lui e pensò a quello che quei pensieri gli riportavano alla mente riversato su Thorin e tutto cominciò ad avere un senso.
 
Spostò lo sguardo verso Dìs, ancora in attesa di una sua risposta: era febbrile ma anche preoccupata allo stesso tempo, gli occhi azzurri non riuscivano neanche a rimanere fermi sul suo viso studiando irrequieta tutto il suo volto. Il viso come quello che lo fissava quando era una ragazzina, ormai solcato dalle rughe, dagli anni passati, le ciocche bianche che le scendevano sulla fronte e sulla peluria della mandibola, il pendaglio che ormai slegato da anni dai capelli portava sul petto che ancora stringeva nella mano, gli anni che le avevano scavato il corpo e l’anima, dei quali lui non aveva fatto parte.
 
Socchiuse gli occhi quando sentì il suo cuore spezzarsi un’ennesima volta.
 
“Non lo so…”
 
A interrompere quella pesante situazione furono due battiti netti sulla porta e, a suo malgrado, Dwalin si ritrovò ad espirare sollevato: mai come in quel momento fu grato di essere interrotto e che quindi anche i suoi pensieri poco piacevoli venissero interrotti.
 
Dìs, come ridestata da un momento di debolezza, si tirò su a sedere sciogliendo le mani dal ciondolo e si strofinò con le mani le guance arrossate ricomponendosi da quel momento condividendo i pensieri di Dwalin: certi discorsi seppur dovessero venir affrontati, aprivano ferite che dovevano rimanere chiuse e che di fronte al nano avrebbero solo fatto uscire più sangue di quanto lei potesse permettersi.
 
Gli lanciò un’occhiata di assenso annuendo nervosa e il nano si diede una spinta con le mani sul bordo del tavolo facendo strusciare la sedia per terra in un suono sordo alzandosi e cominciando a camminare a passi sofferti e pesanti verso la porta di legno massiccio al margine opposto della stanza.
 
Appena Dwalin abbassò la maniglia non ebbe neanche in tempo di aprire un piccolo spiraglio che riuscì a intravedere e a  riconoscere immediatamente la figura seppur seminascosta di fronte alla sua porta; con la consueta toga rossa e la lunga barba bianca biforcuta di Balin si fece largo nello spiraglio che aveva aperto, così come il suo volto che si affacciò verso la porta socchiusa guardandolo con un sorriso nervoso. Un sospiro attraversò le labbra di Dwalin ben sicuro che non sarebbe stata una chiacchierata di qualche attimo e lanciò una breve e fugace occhiata dietro di se verso la cucina a malapena visibile e verso Dìs che si era alzata cominciando a sistemarsi l’abito e la lunga treccia di nuovo sulla spalla.
 
Voltò di nuovo lo guardo verso suo fratello abbassando di poco la testa. “Balin.” Lo salutò sbrigativo poggiandosi allo stipite della porta con l’avambraccio e tenendo la porta con la mano libera cercando di celare agli occhi di suo fratello la figura che si aggirava dentro casa sua, sapendo benissimo che tipo di domande sarebbero seguite e non volendo sopportare le sue occhiate rattristate che  sempre gli lanciava non appena lui e Dìs si trovavano da soli in una stanza.
 
“Fratello… ho, ho bisogno parlare con te.” Il tono calmo andò in netto contrasto con i suoi occhi che si spostavano irrequieti abbassando poi la testa verso il pavimento: solo in quel momento Dwalin notò un movimento nervoso delle sue mani dietro la schiena di Balin seguito da un breve silenzio pensieroso. “Riguarda…Oh principessa Dìs, non sapevo ti trovassi qui!” Esclamò suo fratello alzando lo sguardo oltre la sua spalla cancellando immediatamente dal suo viso quello sguardo cupo e sostituendolo con il suo solito sorriso cordiale e un profondo inchino.
 
Dwalin girò a malapena la testa di lato, scorgendo Dìs dietro di se, affacciata a sua volta dallo spiraglio libero dalla quale lui stesso era affacciato.   “Balin è sempre un piacere vederti.” Annuì sorridendo di rimando a suo fratello e facendogli un breve inchino con la testa . “Temo però che sia tempo per me di andarmene in ogni caso e di lasciarvi ai vostri affari, sedete al tavolo del consiglio ora dopotutto.” Gli sorrise affabile, e con quelle poche parole Dwalin intuì che in un modo o nell’altro il loro discorso sarebbe continuato, ma molto lontano nel tempo.
 
“Ragazza, sai che non devi andartene per causa mia.”
 
Dìs bloccò le sue parole con una scollata di testa e un movimento fugace della mano seguito da uno sbuffo divertito. “Ero passata solo per uno scambio di parole, niente che non possa essere trattato in seguito.” Mentì nascondendo abilmente tutto quello che si erano scambiati lei e Dwalin scoccandogli un’occhiata di intesa che Dwalin comprendendola ricambiò annuendo verso il basso. A piccoli passi si mise di fianco oltrepassando il piccolo spazio che le spalle larghe di Dwalin le concedevano per poter attraversare la soglia senza spostarlo in alcun modo ma osandogli una mano sulla parte bassa della schiena per farsi leggermente da leva.
 
“E poi è  tardi ho delle faccende da sbrigare, mi ero quasi dimenticata che la vita palazzo fosse così costellata di impegni!” Oltrepassò l’uscito e lasciandogli andare la camicia si affiancò a Balin alzandosi il vestito blu con le mani. “Come avete fatto ad andare avanti senza di me è un mistero! Questa montagna è quasi alla rovina!” Esclamò scrollando di poco le spalle e acuendo la voce sottolineando quelle parole.
 
Dwalin riuscì a percepire la risata forzata che e uscì dalle labbra a quella piccola frase, e con molta probabilità anche suo fratello che abbassò la testa annuendo tristemente.
 
“Se lo stanno chiedendo in molti principessa.” Mormorò Balin posandole , grato di veder scomparire qual sorriso forzato e di farlo diventare per qualche attimo uno di quelli luminosi che inondavano quei saloni molti anni addietro.
 
“Non ne ho alcun dubbio mastro Balin.” Rispose stringendo con la mano il braccio piegato dietro la schiena  di Balin in una stretta affettuosa e abbassandosi alla sua stessa altezza schioccandogli un bacio filiale sul lato della tempia, facendo arrossire suo fratello dalla fronte fino al naso acumino.
 
Dwalin si ritrovò a sorridere tra se e se abbassando lo sguardo di fronte a quella piccola scena familiare che gli liberò il petto dalle cattive sensazioni di pochi attimi prima; Dìs parve accorgersene perché gli donò uno sguardo talmente amorevole che per poco non sentì le ginocchia tremare e cedere, uno sguardo che mai era riuscito a cogliere, non da lei.
 
Li salutò entrambi piegando in avanti la testa e sfilando la mano dalla stretta di Balin si allontanò di un paio di passi proseguendo dritta verso i corridoi da cui solo a molte ore da lì l’avrebbe rivista ricomparire.
 
“A stasera principessa.” Si disse nella testa osservandole la schiena.
 
Ogni passo che lei compì allontanandosi da lui, come ogni volta fu un pugno nel petto, una tortura alla quale dovette sottostare inerme come ogni mattina,  ma di cui se ne beò totalmente non staccando mai lo sguardo da lei fino a che anche l’ultimo lembo della gonna scura non spari oltre il marmo verde del muro.
 
Balin non poté non notare lo scambio di sguardi che si lanciarono suo fratello e la principessa e ancora di più’ non poté non notare lo sguardo di  Dwalin indugiare sulla sua figura mentre questa scompariva  lontano oltre gli altri appartamenti dei membri del consiglio. Non riuscì a non reprimere un sorriso triste: quanti anni aveva visto suo fratello così e quante volte gli aveva retto il gioco ignorandolo o facendo finta che non sapesse, ma dopo che erano cresciuti sotto i loro occhi, era difficile non sapere cosa legasse suo fratello alla nana ed era anche difficile non sapere che questa non avrebbe mai potuto dargli ciò che lui cercava. Si domandò infatti se quelle visite non fossero piu’ un male che un bene, e il vedere le condizioni fisiche in cui riversava Dwalin in quel momento avrebbero potuto creare un enorme malinteso, e la camicia sbottonata di suo fratello gliene diede ancora più la conferma.
 
Dwalin abbassò lo sguardo verso Balin non appena Dìs svoltò l’angolo del corridoio, imbroccando la strada verso le stanze superiori del palazzo, e riuscì a notare i suoi occhi  squadrarlo dalla testa ai piedi indugiando sulla comincia scura arrotolata fino agli avambracci e trasandata, e riuscì anche a catturare quello sguardo che aveva sperato di non incrociare.
 
Suo fratello non mancava mai di dimostrargli che lui spesse e rimproverarlo anche per questo.
 
“Non guardarmi così.” Lo ammonì seriamente, non riuscendo a non nascondere il disagio che gli procurava quell’espressione di pena misto a tristezza che gli annebbiava il viso.
 
Balin scrollò le spalle volutamente non curante. “Oh se pensi ti stia guardando in maniera differente allora deve essere proprio così fratello.”
 
Dwalin non riuscì a trattenere un grugnito parecchio infastidito, piu’ dalle parole di suo fratello e dal suo tono volutamente ingenuo. “È così.” Asserì serio e sbuffando, ormai senza alcun motivo di lascarlo indugiar al di fuori della sua porta, si scostò dallo stipite  per lasciarlo entrare ed entrò nuovamente in casa prevedendolo e dandogli le spalle lasciandolo agli oneri di servirsi da solo.
 
Un silenzioso invito che però Balin non si lasciò ripetere due volte, seguendo il fratello dentro gli appartamenti che negli anni di Erebor Dwalin aveva a Malpensa occupato,  e non riuscì a non dire di essere stato stupito nel notare l’ordine in cui riversavano e i suoi pensieri volarono verso la nana che aveva lasciato alle prima luci dell’alba quel posto, e continuò ancora a pensare che tutto ciò avrebbe creato un grosso malinteso.
 
“Cosa è accaduto? Ci sono stati problemi all’interno o all’esterno del palazzo?” Gli chiese Dwalin sbrigativo avvicinandosi verso il focolare al centro della stanza ancora ben accesso e alla sedia accanto a questo afferrando la cotta di maglia poggiata sullo schienale.
 
Sentì suo fratello sospirare alle sue spalle nel frattempo che si passo la cotta oltre le spalle facendola ricadere pesante sol petto , prima di allungarsi e di cominciare ad indossare anche la cotta in pelle e ferro grezzo.
 
“Nessuno dei due.” Negò, Balin, il tono preoccupato  facendolo un attimo bloccare nell’allacciare le cinghie e tendere le orecchie mentre i passi di Balin si fecero piu’ vicini alla sua schiena. “Devi leggere questa.” Mormorò e prima che potesse chiedere a cosa si riferisse da dietro le sue spalle comparì la mano di Balin che gli sventò al lato della testa un messaggio dei corvi ripiegato su se stesso con il sigillo reale del clan dei Nerachiave in mezzo ad esso già spaccato a metà.
 
Serrò la mascella nervosamente non appena riconobbe il sigillo, mentre una miriade di momenti si susseguirono nella sua testa, nessuno dei quali piacevoli; squadrò il quadrato piegato di pergamena per qualche attimo prima di afferrarlo con una mano interrompendo di allacciarsi il gilet verde scuro e passandoselo tra le mani senza aprirla.
 
“Quando è arrivata? Sia il sigillo che la carta sono recenti.” Chiese sussurrando a mezza bocca facendo trasparir nel tremolio della voce la sua irrequietudine: non era sicuro di voler sapere.
 
Balin si schiarì la voce lasciandosi andare a sedere sulla sdia di fronte al fuoco ormai libera da qualsiasi oggetto sospirando pesantemente sia di piacere di poter poggiare la vecchia schiena sia per tentare di calmare i respiri sempre più’ irrequieti. “Poche ore fa, nel cuore della notte, è la prima dopo mesi. Non che mi sarei aspettato altrimenti, di tutti i messaggi questo è il primo a cui ha risposto e non so se rallegrarmene fratello.” Mormorò a sua volta di riposta spostando lo sguardo dalle fiamme dietro di Dwalin.
 
Suo fratello annuì guardando interdetto la lettera tra le mani e poi  cominciò a tirare ogni piega aprendo la lettera e cominciò  a leggere il figlio colmo di rune, talmente calcate di inchiostro nero che speravano il foglio rendendole pienamente leggibili anche da dietro e dalla sedia coperta di pellicce su cui era seduto.
 
Gli occhi sempre più’ confusi si muovevano su ogni parola e su ogni linea di testo, sgranandoli sempre di più in confusione ogni qual volta risaliva a delle righe piu’ in alto: aveva avuto la stessa espressione quando ne aveva letto il contenuto, anzi lui si era piegato su se stesso invocando il perdono verso qualsiasi entità si divertisse a giocare con il dolore celato dentro Thorin o se è per questo, anche verso la ragazza.
 
“Thorin non l’ha letta?” Gli chiese a bruciapelo, senza staccare gli occhi dalla pergamena giallastra, mentre i suoi occhi schizzavano su ogni parola studiandola piu’ volte.
 
Balin scosse la testa abbassando lo sguardo verso i guanti di pelle, tirandosene le dita nervosamente. “No fratello, tu sei il primo dopo di me.”
 
“E perché la stai facendo leggere prima a me e poi a lui?” Gli chiese ancora, questa volta serio, terribilmente serio, la voce dura ce mai lo aveva rimproverato del fratello minore che lo fece vergognare di se stesso.
 
L’unica domanda a cui non poteva rispondergli gli fu posta infine: quello sguardo, quella paura, quella rabbia e quella decisione scellerata che si era ritrovato a bloccare di sua spontanea volontà rischiando tutto solo per salvare Thorin da se stesso gli si stava rivoltando contro. Tutto si stava rivoltando contro quello che il ragazzo provava, e quelle poche parole avrebbero decretato la parola fine a tutti i suoi dubbi e le sue paure, oppure ne avrebbero solamente alimentato di nuovo le fiamme rendendo perfino per Dwalin impossibile da bloccare la decisione che avrebbe probabilmente preso.
 
“Perché ho bisogno che sia tu a dargliela o almeno che sia tu a dirgli ciò che c’è scritto.” Esalò, la voce intrinseca di angoscia che si andò sempre più’ a spegnere in un sussurro a malapena udibile.
 
Con un movimento del mento di indicò nuovamente la lettera tra le mani facendo oscillare la lunga barba bianca  tenendo sempre lo sguardo puntato verso terra. “Presta attenzione all’ultima parte, infondo, dopo la parte sugli accordi sugli zaffiri e sugli smeraldi.”
 
Dwalin abbassò nuovamente lo sguardo ancora più’ confuso  verso il paragrafo staccato del testo, talmente vicino al sigillo del clan e alla firma del signore dei nani che non vi ci era ancora arrivato, talmente però scritta scandita e calcata che fu impossibile per lui non incollarci gli occhi e poi spalancare gli occhi esterrefatto.
Strinse il foglio tra le mani, la carta si piego su se stessa dando sfogo a quel misto di confusione e angoscia che gli invase il petto: di tutte le cose che potevano accadere quella doveva essere per forza stata architettata, l’ultima domanda di Dìs gli risuonò in testa prepotentemente, così come la mancanza di una parte fondamentale in quella lettera, un informazione che non era stata data al signore dei nani dei Monti Gialli, un dettaglio di cui sarebbe dovuto essere a conoscenza ma che avrebbe cambiato tutto, e difatti quel dettaglio non c’era.
 
Per Durin Thorin, stupido bastardo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L’acqua nera friccicò appena il metallo incandescente ne colpì la sua superfice: centinaia di schizzi si sparsero tutto intorno al secchio, i muscoli tesi e guizzanti del braccio si sciolsero e si freddarono con la stessa lentezza dell’acciaio ancora caldo nella tinozza.
Le ore passavano lente e inesorabili per il fabbro, piu’ la notte diventava profonda piu’ la lama che gli pendeva sopra la testa diventava sempre piu’ pericolosa  piu’ il ferro ormai pronto ci avrebbe messo a freddarsi per l’ultima volta meno tempo avrebbe avuto per completare il lavoro.
 
Quando l’ultimo schizzo tocco terra fu il momento di tirare fuori l’acciaio e con un gesto netto ne osservò ancora le linee che era riuscito a dargli, ne seguì ogni curva: seppur non ancora lucido sembrava splendere come una gemma già così, bagnato solo dall’acqua e sporco di cenere. Oltrepassò la fucina e avanzò verso il tavolo scuro al limitare di questa e con sicurezza poggiò il suo lavoro su di esso e poi spostò la sua attenzione verso l’oggetto di legno accanto a lui, passandoselo piu’ volte nel palmo e stringendolo piu’ e piu’ volte prima di far combaciare le due parti l’una nell’altra.
Osservandolo dall’alto mille e mille più pensieri gli vennero alla mente ma non diede filo a nessuno di questi, seguendo solo la sua vista e la mano che accarezzò l’operato dall’inizio alla fine con la punta delle dita.
 
Altri piccoli ciuffi di metallo presto si andarono a unire a quelli di legno che dalla notte prima giacevano ancora sul tavolaccio: un intaglio, un respiro, un intaglio, un respiro, un intaglio, un ennesimo respiro piu’ lungo degli altri, così come un intaglio più lungo e più fino degli altri che attraversò tutta la lunghezza del frutto delle sue ore insonni. Ne seguirono altri, sempre più piccoli, sempre più fini e intrinseci di significato, alcuni duri come la pietra, altri fini come i rami di un albero primaverile, me ognuno di loro andò a scavargli anche nel petto.
 
A lavoro finito studiò ogni piccolo disegno con la punta delle dita prima di far splendere l’acciaio nell’aria densa delle fornaci sopra la sua testa, muovendolo a destra e a sinistra, ruotano il polso su se stesso; e così come arrivò l’ultima alba arrivo anche il tempo di fare ciò che andava fatto.
 
 
 
 
 
 
 


Il corpo di Thorin veniva scosso dagli spasmi dei muscoli ancora tesi , i capelli seppur raccolti alti gli cadevano disordinati sul viso bagnato così come tutto il suo corpo: poteva benissimo sentire delle gocce di sudore oltrepassargli il collo fino a scendergli in mezzo al petto nudo, prima di svanire a loro volta. Lo sbuffare delle forge intorno a lui ormai andava a ritmo con i suoi respiri, il rossore delle fornaci incandescenti e dei bracieri incastonati nella roccia illuminava le fucine ma inevitabilmente sprigionava un calore insopportabile nel quale ormai era rinchiuso da ore. Si passò l’avambraccio sulla fronte per arrestare il sudore e pulirsi un minimo ma fece peggio sporcandosi ancora di piu’ e non riuscendo neanche così ad arrestare le contrazioni dei muscoli, si lasciò andare con la schiena nuda sul muro gelato dietro di lui sciogliendo con un movimento secco i capelli dal laccio di cuoio che ancora li teneva legati.
 
Chiuse gli occhi lasciando un sospiro di sollievo attraversargli le labbra appena la roccia fredda gli creò un brivido freddo che gli attraversò tutta la schiena insediandosi fino al collo e sulla nuca. Come il ferro che aveva battuto fino a poco prima anche lui si indurì di nuovo e il battito nel petto cominciò a decelerare: inevitabilmente cominciò a sentire il peso della due notti passate lì sotto e delle poche ore di sonno che si donava da due giorni a quella parte. Ma avrebbe patito anche piu’ di due notti in quello stato se questo avesse significato fare ammenda per tutto ciò che aveva fatto: avrebbe passato tutta la vita insonne se avesse potuto cancellare quel suo ennesimo errore, quella sua ennesima debolezza.
Se quel corvo fosse partito, se quando fosse arrivato a quella porta Balin gli avesse detto che ormai era troppo tardi, non era riusciva neanche a immaginare cosa sarebbe stato capace di fare e il peggio è che sarebbe derivato tutto da una sua scelta: dalla sua piu’ totale sicurezza di voler abbandonare il suo futuro alla cenere, nel quale si era ritrovato ad annaspare per recuperarlo, per rendere quella piccola visione che era riuscito ad intravedere di nuovo una realtà nella sua vita.
Le ultime parole che Ghìda gli aveva rivolto erano state molto chiare e definitive: per quanto i suoi sentimenti verso di lui potessero essere ugualmente brucianti ai propri, sapeva che lo pensava sul serio, perché anche lui si era ritrovato pensarlo. Se non si fossero mai incontrati, tutto ciò non sarebbe mai accaduto, ma se lui non l’avesse mai incontrata, forse ora, non sarebbe neanche dentro quella Montagna o se lo fosse stato sarebbe incatenato in una sala oscura a logorarsi attimo dopo attimo in un oblio dal quale non sarebbe più voluto uscire.
Ma come erano veritiere le parole di Ghìda lo erano state anche quelle di sua sorella: se l’avesse lasciata andare, se ne sarebbe pentito per sempre, se lei fosse morta prima del tempo l’avrebbe pianta per sempre, ma era arrivato alla conclusione che era meglio vivere sapendo di aver dato tutto che perdere sapendo di non aver voluto neanche tentare. Nel suo futuro c’era morte e dolore come nel suo passato, ma c’era anche la vita, la sua vita, la loro vita e per quanto potesse poi essere lunga o breve l’avrebbe vissuta, ogni singolo attimo.
 
Il primo vociare della mattina cominciava a farsi sentire e i primi fabbri cominciarono a varcare le grandi arcate infondo alle fucine, seguiti dai minatori che con carrucole di legno e grandi casse che prima di discendere nelle profondità della terra, riempivano di nuovo le innumerevoli casse e cisterne di legno, le quali da piene il giorno prima di qualsiasi tipo di minerale e gemma, si erano ridotte un fondo vuoto ma dubitava che quel giorno sarebbero state svuotate. L’intera montagna era occupata in ben altri preparativi e il solo pensarci gli fece tornare in mente una sedia vuota e tutto ciò che avrebbe comportato vederla di nuovo vuota e che cosa avrebbe comportato se questa volta  Durin non gli avesse concesso la grazia di vederla oltrepassare quelle colonne.
 
Riaprì lentamente gli occhi incatenando lo sguardo sul tavolaccio ruvido di fronte a lui nella fucina, verso l’ oggetto avvolto totalmente nel telo blu grezzo: se avesse snodato il nodo dorato che tratteneva quel telo e guardato il suo lavoro ormai compiuto, avrebbe certamente  finito per dubitare di se stesso e di ciò che aveva fatto. Ne avrebbe controllato ancora ogni singolo centimetro, passandoci sopra il dito, valutando, ponderando, soppesandone i difetti a malapena percepibili da chiunque.
 
Ma era stupenda, forse la cosa piu’ bella che avesse mai forgiato in vita sua.
 
Accanto ad essa c’era invece una spada, malandata, storta e mai completata, talmente piccola per il suo braccio che sarebbe potuta essere per lui solo un pugnale molto lungo: un sospiro di nostalgia gli attraversò le labbra ripensando alla prima volta che l’aveva vista giacere sull’incudine accanto a lui e il biglietto allegata a questa.
Si staccò dal muro avvicinandosi verso il tavolo e poggiò i pugni su questo, osservandole entrambi i lavori, uno accanto all’altro; studio di nuovo la spada che Ghìda aveva forgiato il primo giorno in cui era scesa con lui in quelle fucine: era così personale, così sua, che per quanto avessero poi il giorno dopo concordato che fosse un completo disastro non era riuscito a disfarsene.
Non era perfetta, affatto, ma infine l’aveva tenuta in un angolo al sicuro, un gesto talmente stucchevole che aveva finito per celarla dietro la sua postazione da lavoro, tra i vari lavori da finire, in maniera che potesse essere l’unico a poterlo guardare non osservato da altri occhi nelle fucine. Ne era diventato quasi geloso, ma in quelle ore notturne l’aveva tirata fuori puntandoci spesso gli occhi, come se fosse una silenziosa compagnia.
Alzò lo sguardo dal tavolo quando  si rese conto che il vociare a malapena scandito delle prime ore della mattina nelle fucine era diventato un parlottare ininterrotto sempre più’ alto e che il rumore dei martelli sulle incudini raro ormai avevano preso un ritmo scandito e le piccole forge intorno alla sua erano ormai quasi tutte occupate da nani indaffarati che a differenza sua avevano appena cominciato a lavorare.
Le fucine che prendevano vita divennero in quelle mattine un segno per lui che era arrivato il momento di doversene andare e che con molta probabilità: vista la quantità sempre più’ crescente di nani che arrivava a passi pesanti, arrivò alla conclusione che quella mattina si era forse attardato sin troppo.
 
Con quello che negli anni era ormai un movimento automatico afferrò la prima pezza pulita che gli capito a tiro, una poggiata malamente sul piccolo muretto della fucina, e la passò sul retro del collo e la base del petto asciugando gli ultimi residui di sudore che scendevano ripidi sui muscoli. Se lo passò poi tra le mani strofinandole vigorosamente tentando di togliere per quanto piu’ possibile  i residui di pece ancora attaccati alla carne delle sue mani: anche se la sua idea era quella di buttarsi nell’acqua gelata appena salito nelle sue stanze, voleva evitare in qualsiasi modo di poter rovinare il fagotto blu che si sarebbe portato dietro. Fu quindi meticoloso passandola anche sugli avambracci e infine la poggiò nuovamente sul tavolo prima di allungare una mano sopra la sua testa afferrando da uno dei vari ganci che pendevano sul soffitto di pietra la camicia scura che si era tolto appena sceso a lavorare la notte precedente. Se la infilò non preoccupandosi neanche di allacciarla fino alla fine del colletto smuovendosi di un poco i capelli umidi e attaccati alla fronte con una mano afferrando poi saldamente il fagotto lungo e rigido nella propria mano prima di uscire dalla sua postazione segando di lasciarsi dieto anche tutti i pesi neri che lo affliggevano, almeno fino alla sera.
 
Thorin oltrepassò con grandi falcate l’intera lunghezza delle fucine, passando sotto lo sguardo incuriosito di diversi nani che al suo passaggio chinarono la testa in avanti o si facevano da parte abbassando lo sguardo, seppur poi questo si spostava seguendolo curiosi: non era la prima volta che il re si attardava nelle fucine, e non sarebbe stata neanche l’ultima, ma non per questo, la sua presenza lì in quelle ore mattutine destava sempre diverse domande soprattutto da quando la presenza femminile che spesso ormai lo accompagnava era scomparsa.
Insieme alle domande infatti nacquero anche numerose silenziose preoccupazioni.
 
Come gli sguardi non smisero di seguire Thorin nelle fucine, non smisero neanche quando ne uscì, nemmeno quando ne oltrepassò la porta andando contro il fiume di barbe che si riversava nelle calde sale: in particolare modo due occhi verdi, vispi lo osservarono di sottecchi, e il nano a cui appartenevano sembrò l’unico stupito nel vederlo uscire da quelle sale sorridendo sommessamente sotto i lunghi baffi neri.
Dwalin se ne stava poggiato sul muro accanto sull’uscio dell’entrata, le braccia incrociate, un piede attaccato al muro, osservando chi entrasse nelle fucine ma con ancora piu’ apprensione chi ne usciva: apreì un occhio ancor socchiuso non appena notò che Thorin stesso ne era uscito, non muovendo però un muscolo aspettando che lui gli dicesse qualcosa.
 
Thorin tentò di ignorarlo e passargli oltre affrettando il passo e tenendo la testa bassa: non era in vena di chiacchere complice la stanchezza che cominciava a farsi sentire e il sapere perfettamente quale fosse la probabile ragione per la quale Dwalin si trovasse si trovasse lì sotto ad aspettarlo. Sapeva che in ogni caso non lo avrebbe lasciato in pace, infatti la sua voce risuonò dura per tutto il corridoio arrivandogli alle orecchie ben scandita facendolo bloccare.
 
 “Assicurami che non hai passato la notte lì dentro.”
 
Gli lanciò un’occhiata gelida bloccando il passo invitandolo a rimanere in silenzio e  senza aggiungere nulla di più gli passò oltre ricominciando a camminare con passo stanco e trascinato: sentì gli occhi gli occhi dell’amico scrutarlo mentre gli passava di fronte ma ciò non interruppe il suo passo, ma fece partire quello di Dwalin che in pochi attimi si andò ad aggiungere al rumore del suo che alternandosi rimbombarono per tutto l’atrio.
 
Dwalin non accennava a una parola lo seguiva solo attentamente forse aspettando o un suo ordine o una sua sfuriata o che di colpo cominciasse a parlare, ma piu’ rimaneva in silenzio piu’ la situazione lo fece irritare ancora di piu’.
 
“Credo che la domanda sul come tu mi abbia trovato sia del tutto inutile” Commentò ironico continuando a camminare lungo l’immenso corridoio d’entrata ormai colmo di nuovo di nani:  il fiume di stagnai, fabbri e orafi non fece che aumentare ogni minuto che passava così come le occhiate curiose o di riverenza, che si fecero solo più frequenti quando superò l’arco squadrato uscendo finalmente dall’area delle forge e delle miniere entrando all’interno del regno e verso il gioco di scale e corridoi ormai colmi dai lavori della mattina, risuonati di voci e grida pulsanti.
 
Dwalin accelerò il passo affiancandosi a Thorin che imperterrito continuava per la sua strada schivando a sua volta i nani che incontrarono di fronte a loro appena si avviarono lungo le ampie gradinate che risalivano dal basso delle fucine verso le sale più alte della montagna e inevitabilmente che si sarebbero sciolte nei corridoi del palazzo.
 
“Dopo la seconda volta che non ti rechi nelle tue stanze a dormire è un obbligo delle guardie reali avvertirmi su dove tu ti trovi, soprattutto se ti vedono tornare la mattina tarda sporco di cenere e catrame.” Volle specificare lanciando un’occhiata di sbieco accanto a lui: il viso di Thorin era solcato da lunghe strisce di cenere, gli occhi azzurri sottolineati da lievi occhiaie scure erano puntati di fronte a lui inespressivi. “Ma tu questo lo sai e sai che sarei arrivato prima o poi.”
 
Thorin lo guardò di sbieco mormorando qualcosa che non fu capace di comprendere ma poi scosse la testa come a cancellare ciò che avesse sussurrato tra se e se. “Non riesco a dormire la notte e se vengo qui lo faccio solo per tenere la mente occupata.” Gli rispose secco accelerando il passo per le scale, sperando di chiudere lì la conversazione anticipando una probabile domanda sul perché lo facesse ma non fu come aveva sperato: Dwalin accelerò il passo a sua volta portandosi ancora al suo fianco allungando perfino le falcate a due a due per raggiungerlo.
 
“E’ il fatto che tu abbia tenuto a sottolineare che sia solo per quello che mi fa sempre piu’ credere che non sia affatto per quello.” Replicò Dwalin insistente sapendo perfettamente che gli stesse mentendo, sapendo perfino ormai ciò che sognava e Thorin si maledì interiormente per ciò che era riuscito a far trasparire: odiava essere giudicato controllato per delle sue scelte. “Sempre gli stessi incubi?”
 
Thorin non rispose nulla contraendo la mascella, i suoi occhi i rimanevano fermi di fronte a se studiando velocemente ogni espressione che si parava di fronte al loro cammino, risalendo i corridoi ormai affollati: ormai i suoi incubi avevano invaso anche la realtà, ma questo non glielo avrebbe mai rivelato, così come i suoi sogni, che così reali per pochi attimi lo erano diventati sul serio.
 
Dwalin lo seguì senza batter ciglio, non pretendeva che gli rispondesse, non aveva mai avuto bisogno che lo facesse, le sue erano domande di circostanza, perché Thorin sapeva bene quanto fosse un libro aperto per lui: da quando lo conosceva poteva sapere cosa pensava solo da uno sguardo, ma la situazione, come aveva detto Dìs, era diversa, ora non aveva idea di cosa stesse passando e il suo mutismo non aiutava.
Varcarono insieme le scale che da lì a poco si sarebbero snodate verso le Gallerie dei Re; per quelli che furono dei brevi momenti Dwalin fu costretto per la quantità di nani che incrociavano la loro strada a stargli dietro costeggiando insieme a lui la lunga ringhiera dorata sulla loro destra e fu solo in quel momento che ebbe modo di guardargli la schiena e le mani, soprattutto quella destra che era rimasta coperta alla sua vista.
Nel suo palmo stringeva un oggetto insolito, racchiuso da un telo blu scuro, chiuso con attenzione da un laccio di cuoio nero: dalla forma e da come lo tratteneva nel palmo non gli ci volle molto a capire cosa celasse l’involucro ma ciò non fece che far aggiungere altre questi nella sua testa.
 
“Cos’è quello?” Gli chiese puntando con il mento lo strano involucro di continuando a camminare dietro di lui: la nuca di Thorin si spostò in basso osservando a cosa si riferisse.
 
“Un qualcosa che mi ero ripromesso di finire entro questa sera.” Mormorò asciutto di risposta, quasi tra se e se, facendolo inevitabilmente incuriosire ancora di piu’: Thorin la strinse ancora piu’ a se portandosela vicino al fianco quasi protettivo e possessivo, celandogliene una parte alla vista.
 
“Uno svago?”
 
“Se sei venuto a cercarmi fin laggiù a quest’ora suppongo che il tuo motivo non sia solo accertarti se io abbia dormito nelle mie stanze o cosa tenga nelle mie mani.” Replicò interrompendo il discorso toccato sul punto vivo. Bloccò il passo in mezzo al percorso dei gradini spazientito e puntò i piedi per terra lanciando un’occhiata ghiacciata oltre la sua spalla verso Dwalin ancora dietro di se.
 
“No infatti.” A quella semplice negazione Thorin annuì deciso con un movimento della testa e cominciò di nuovo a camminare spedito tra le luci arancioni e il verde delle pareti della montagna facendogli segno di continuare a seguirlo verso le stanze reali.
”Volevo dirti prima delle riunioni di questa mattina che Bard di Esgarot aumenterà le ronde al sud del Lago e che Dàin ha voluto sottolineare di come l’idea sia completamente folle ma che accetterà gli ordini imposti, così come dagli Ered Luin taglieranno tutte le tratte fino a che la situazione non sarà più tranquilla.” Dwalin sospirò continuando a camminare dietro di lui a grandi falcate.
 
“E cosa c’era in tutto ciò che non potevo conoscere piu’ tardi?” Intervenne Thorin interrompendolo rendendo per Dwalin il tutto ancora piu’ complesso già di quanto non sarebbe stato.
 
Dwalin rallentò il passo lentamente fino a che non si bloccò sul piazzale di passaggio oltrepassato da ben tre scale diverse che si diramavano in tre direzioni diverse del regno: gli osservò la schiena rimanendo in silenzio giostrando con maestria nella sua testa le parole che gli avrebbe  dovuto riferire e la vera ragione che lo aveva spinto personalmente quella mattina a prendere la situazione in mano. Ma ormai tutto quello che riguardava la mezz’elfa era un argomento delicato e che piu’ di una volta aveva fatto scattare in lui delle reazioni che mai si sarebbe aspettato e le parole di Dìs rispetto quella situazione, non lo aiutavano affatto.
 
 “Ha risposto anche suo padre.” Sputò Dwalin tutto di un colpo.
 
A quella affermazione il passo di Thorin si fermò sui primi gradini della scala e un brivido freddo gli oltrepassò la schiena facendolo irrigidire: decine di domande gli invasero la testa e tutta la preoccupazione che pensava di aver cancellato o di essere riuscito a rilegare nell’oggetto che stringeva nella mano ritorno su, facendogli uscire un ringhio sommesso che nascose con un respiro un po' piu’ pesante degli altri.
 
“Cosa ha risposto?” Chiese monocorde volando solo di poco il capo per poter osservare le espressioni di Dwalin con la coda dell’occhio nel frattempo chiudendo in pungo intorno al panno scuro in una morsa ferrea.
 
“Che accetta le condizioni, che nulla passerà da quella foresta o vicino ad essa, i primi carichi di gemme arriveranno dalla primavera come d’accordo, ma che aspetterà una tua parola prima di procedere, così come per rimandare i guerrieri che sono andati con lui di nuovo qui ad Erebor.”
 
Thorin annuì vero il basso spostando lo sguardo irrequieto da lui verso il pavimento verde scuro. “C’è dell’altro che ha aggiunto?”
 
Dwalin esitò rimanendo in silenzio incrociando le braccia al petto tentando di riassumere tutto quello che c’era scritto nella missiva arrivata durante la notte nella maniera piu’ semplice possibile, mentre quello che invece non c’era lo consumava. Passò lo sguardo dal pugno chiuso di Thorin fino allo sguardo che titubante ancora teneva voltato verso di lui, il profilo netto che si storpiava in ogni suo attimo di silenzio, arricciando la fronte sottolineando le rughe che gli attraversavano il viso.
 
“Dwalin?” Lo richiamò Thori; ora la preoccupazione incontrollata che era riuscito a nascondere era esplosa rendendosi evidente, e non tentò neanch di mascherarla ulteriormente.
 
Anche se con la coda dell’occhio lo vide avanzare verso di se a passi incerti bloccandosi proprio all’inizio delle scale dietro di lui permettendo alle parole che seguirono di essere uditi solo da entrambi senza le orecchie indiscrete dei nani che continuavano a camminare lungo il corridoio e incrociandosi sul piazzale in cui si erano fermati.
 
“Chiede sua figlia in questi mesi ti abbia fatto dubitare del suo giuramento verso di te o del tuo verso di lui, e se questo fosse accaduto…” Si interruppe per un attimo cercando nella sua testa di ponderare le parole utilizzate nella lettera. “Se hai dei ripensamenti riguardo l’accordo preso.” Mormorò osservando come a quella semplice frase lo fece scattare come aveva previsto; la mascella di Thorin si contrasse in uno spasmo di rabbia, lo sguardo perso in dei momenti che fecero sempre diventare gli occhi due fessure.
 
Giuramento.
 
Quanti giuramenti stava per spezzare giorni addietro? Quale accordo stava per mandare in fumo solo con l’invio di un corvo? Quale promessa stava per infangare?
 
Eppure sentirselo ricordare dall’altra parte era una cosa che non riusciva a tollerare, il sentirsi ricordare che in fin dei conti Ghìda era legata a lui in da un giuramento preso da altri e non da lei. Il concetto stesso che la sua stessa vita potesse essere spartita da un messaggio tra due regni lo faceva disgustare,  che fosse stata per lui una merce di scambio lo faceva odiare, che lui avesse avuto il potere di interrompere la vita di entrambi con un messaggio lo faceva impazzire, che se avesse voluto suo padre l’avrebbe potuta allontanare da lì , da lui, con una frase in più gli fece salire una rabbia sorda e incontrollabile.
 
“Lei è unica, è una gemma unica nel suo genere, è la mia gemma sul trono: lei non appartiene ai fondi delle miniere, o agli alberi delle foreste silvane, lei appartiene a me.
 
No, questo non era più vero.
 
Distolse lo sguardo dal pavimento socchiudendo gli occhi tentando di ritrovare la calma persa e annuì con la testa verso Dwalin dietro di lui serrando la mascella. “Mi occuperò della faccenda personalmente prima di questa sera.” Sottolineò glaciale mascherando per quanto potesse riuscire ciò che avesse scaturito quelle parole e cominciò di nuovo a camminare: ora aveva davvero bisogno di rimanere solo, doveva assolutamente rimanere solo, prima che tutto ciò che stava cominciando a bollire dentro di lui gli facesse compiere un’ immensa sciocchezza ancora una volta.
Quei momenti ora li aveva fusi addosso: le sue dita, sulle sue labbra, le sue gambe nude intorno a lui che lo attiravano in un mare di lussuria e desiderio, gli occhi intrinseci di lacrime che lo fissavano implorante di non fare quello che stava per fare, le parole che gli erano rimaste incatenate nella bocca che non era stato capace di rivelarle, che non sarebbe mai stato capace di rivelarle ad alta voce.
 
“Non ne è a conoscenza vero?” Un’ennesima domanda di Dwalin lo fece irrigidire di colpo bloccandogli nuovamente il passo  facendolo fermare sugli scalini e voltare la testa solo di poco verso di lui.
 
“Credo che dovrai spiegarti meglio.”
 
“Sai a cosa mi riferisco.” Cercò di fargli capire ma Thorin continuò a fissarlo rimanendo in silenzio non dandogli la soddisfazione di ammettere ciò che entrambi stavano pensando: non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno a lui. “Quello che è accaduto nelle Terre Brune, se ti ha risposto in questo modo vuol dire che non ne è al corrente e che non è stato informato in alcun modo che lei fosse lì… la voce si spargerà oltre Erebor lo sai.”
 
“Non impiegheranno mesi prima che si possa venire a sapere.” Ribatté secco.
“Telkar lo saprà molto prima, certo come la morte.” Ripeté deciso Dwalin, sapendo perfettamente cosa sarebbe accaduto.
 
“Le condizioni di sua figlia sono intatte glielo riferirò personalmente quando i tempi saranno maturi e se lo verrà a sapere la colpa ricadrà su di me, era una mia responsabilità che ciò non accadesse.” Ruggì di rimando Thorin tagliando corto la conversazione, sottolineando con rabbia la parola sua, sibilandola tra i denti come un insulto velato vero il signore dei nani.
 
“O ne verrà a conoscenza quando ormai sarete sposati e non potrà piu’ ritrattare l’accordo dico bene?” Sputò Dwalin decidendo di togliersi quel peso dal petto che ormai lo stava dilaniando dall’interno: ci aveva pensato per tutto il tragitto fino alle fucine e sin dal momento che aveva riletto per la terza volta la lettera del capoclan e il fatto che Telkar non ne avesse fatto nemmeno menzione.
 
Capì di aver centrato il punto quando finalmente Thorin si voltò verso di lui guardandolo in faccia con gli occhi che lo incenerirono seduta stante ma nel quale vi poté leggere una profonda sofferenza che si fece solo più nitida ogni passo che compiva verso di lui portandosi di nuovo alla sua stessa altezza.
 
“Cosa ti ha raccontato Balin?” Gli chiese glaciale spiazzandolo guardandolo dritto negli occhi.
 
La domanda gli fece sciogliere le braccia al petto incredulo: allora era come temeva, come aveva sospettato, suo fratello sapeva piu’ di quello che avrebbe dovuto e sapeva anche quindi la verità su Thorin e sulla mezz’elfa. Non lo aveva negato, non lo aveva neanche confermato.
 
Intorno a loro il camminare dei nani della montagna continuava ininterrotto, non prestando a entrambi minimamente attenzione se non fosse per qualche piccola occhiata di sfuggita e quindi non ebbero neanche il modo di capire quanto importante fosse quella conversazione, ma tutti potevano ben intuire che il re non volesse affrontarla. A pochi passi dal capitano delle guardie lo guardava in una maniera che avrebbe intimorito anche il piu’ forte dei nani della stirpe di Durin facendolo zittire all’instate e scappare con la coda tra le gambe, ma Dwalin rimasse a fissarlo, anche quando strinse con forza il pungo e i muscoli delle spalle fremettero tirandosi.
 
“Dwalin cosa ti ha detto Balin riguardo lei?!” Insistette Thorin percependo una collera, mista a una profonda vergogna salirgli come nausea dallo stomaco.
 
Dwalin gli studiò gli occhi azzurri passando lo sguardo tra essi, mentre lo sguardo diventava sempre piu’ austero e per quanto la loro altezza fosse la stessa sembrava dominarlo in quell’istante; stette per riaprire la bocca per porgli nuovamente quella assurda domanda ma lo interruppe scuotendo la testa. “Nulla, Balin non mi ha raccontato nulla.” Sentenziò e a quella semplice negazione il viso di Thorin si distese un briciolo ma non gli diede il tempo di far altro perché si avvicinò ancora di un passo lentamente guardandolo giudicatore.
 
“Allora per quale ragione sei arrivato a questa conclusione?” Gli chiese insistente assottigliando lo sguardo severo.
 
“E’ la verità quindi, tu non gli hai detto nulla per questa ragione?” Lo incalzò, non rispondendo volutamente alla sua domanda.
 
“Sei già a conoscenza di tutto quello che devi sapere, non hai bisogno di conoscere altro.” Sputò Thorin da una parte sollevato che non sapesse nulla e cominciò di nuovo a risalire le scale non volendo trattare di quell’argomento, ne ora ne mai.
 
Dwalin però fu irremovibile nel suo intento e rima che potesse voltargli di nuovo le spalle nascondendogli dietro un muro di menzogne ancora le sue intenzioni, slegò le due braccia dal petto afferrandogli il braccio prima che potesse cominciare di nuovo a risalire le scale e scappare dentro le sue stanze.
Quel gesto gli costò un fremito nei muscoli del braccio di Thorin e un’occhiata che avrebbe fatto mettere da parte qualsiasi altro nano, ma lui era stufo: era stufo di vederlo in quello stato, di vederlo passare da momenti di estrema gioia al non dormire per giorni, al non riuscire a capire cosa gli passasse per la testa. Non riusciva più a comprenderlo, e lui non lasciava più che lo potesse comprendere e se davvero era come aveva detto Dìs, se davvero lui ne fosse innamorato, il suo comportamento sarebbe stata la sua rovina.
 
“Ti ho già detto perché non ti chiedo mai di lei, ma dopo quello che ho visto nell’ultima settimana e dopo quello che ho visto giorni fa, non mi puoi chiedere di lasciar perdere.”
 
“No Dwalin, non c’è nulla da dire.” Replicò netto il re contraendo la mascella.
 
“Nel nome di Durin Thorin!” Esclamò Dwalin esasperato stringendogli ancora di più’ il braccio facendosi piu’ vicino. “Non dormi, a malapena riesci a stare dietro ai consigli e da quando si è svegliata non fai altro che aggirarti per il palazzo come un animale ferito.”
 
L’altro non rispose nulla, gli lanciò solo un’occhiata verso la mano agguantata ancora contro il suo braccio e con uno strattone se ne liberò: i pugni contratti e gli occhi che lo trafissero gli fecero presto credere che i suoi sforzi furono vani, ma il suo corpo diceva altro dalla sua bocca di Thorin fuoriuscì un sospiro di rassegnazione.
 
Con lentezza Thorin si mosse verso la balaustra accanto a loro fissando dapprima incerto le piccole finestre accese incastonate nella roccia verde, e poi giù verso i fondi dorati della montagna, verso le casse, le botti e gli stendardi che avrebbero da lì a poche ore inondato la sala dei banchetti, portati in testa o sotto le braccia che si affollavano verso l’entrata della sala sotto il suo sguardo. Incrociò le braccia sulla sbarra dorata, tentando di formulare dentro di se un pensiero che potesse interrompere l’interrogatorio ma che al contempo gli liberasse la mente: Dwalin aveva ragione, il tenere tutto dentro di se non lo avrebbe aiutato affatto, eppur era così difficile per lui anche solo pensare.
 
“Thorin dimmi cosa sta succedendo.” Gli ripete di nuovo alle spalle facendogli socchiudere gli occhi.
 
“Ho compiuto un errore e ne sto ponendo rimedio.” Esalò infine senza spostare lo sguardo da sotto di se, spostandolo dall’oggetto fin verso di nuovo le alte colonne della Sala dei Banchetti dalla quale già si cominciava a serie il trambusto e a intravedere la luce dorata del camino.
 
“Quale errore?” Gli chiese ancora affiancandolo poggiandosi a sua volta canto a lui incrociando i polsi tatuati l’ uno sull’altro.
 
Thorin strinse i denti a quella domanda e incontrollabile e guardò in mezzo alle sue braccia, verso il panno blu che ancora stringeva fermamente nella mano e lo oltrepassò con il pensiero immaginandosi cosa racchiudesse, ma gli fu quasi impossibile e spinto dalla smania portò la mano verso il piccolo nodo slacciandolo quel poco che gli bastava per osservare ciò che racchiudesse. Ne mosse leggermente il tessuto ormai libero con le dita riuscendo a scorgere il piccolo scintillio argentato che irrimediabilmente lo portarono alle lacrime salate che ancora poteva sentire nella sua bocca o vedere scendere dal suo viso.
 
“Ho tentato di mandarla via, ho chiesto a Balin di inviare un corvo ad Elcar, per rompere l’accordo e riportarla a sud non appena la neve lo avrebbe permesso. Non è mai partito, il corvo, Balin non l’ha mai inviato.” Ammise coprendo velocemente lo scintillio sotto di se, ma talmente carico di vergogna che non riuscì a spostare gli occhi dal pavimento.
 
Sentì gli occhi di Dwalin trafiggerlo mentre con un avambraccio si avvicinò ancor più’ vicino osservandolo incredulo con gli occhi sgranati: i lunghi baffi che si arricciarono su loro stessi, il pugno ferrato che si andò a stringere sulla balaustra.
 
“Lei lo sa?”
 
“No e non dovrà mai venirne a conoscenza.”
 
“Per Durin, perch-”
 
“Perché…” Lo interruppe prima che potesse finire la frase, sicuro di potergli spiegare cosa fosse accaduto, ma le parole gli si bloccarono nella bocca appena presero forma.
 
Gli era così difficile ammetterlo a voce alta, eppure non c’era nulla di errato, per gli altri non era errato, ma per lui, per Thorin Scudodiquercia, lo poteva essere. Lui stava amando, di nuovo, stava amando però in una maniera che mai gli era capitata, un amore profondo e sconvolgente e ne stava pagando tutte le conseguenze. Lui il re sotto la montagna, aveva una metà di se nascosto in un corpo non suo, nel corpo dell’essere più inaspettato che Mahal avesse potuto scegliere, che lui avesse potuto scegliere, e invece che allontanarlo, ora lo voleva, la voleva disperatamente.
 
“La montagna… si è spaccata a metà.” Ammise infine abbandonando ogni suo freno, alzando finalmente lo sguardo verso Dwalin che a quella semplice frase che entrambi, dalle storie di Balin, conoscevano troppo bene, aprì lievemente la bocca incredulo. “L’ho sentita sbriciolarsi sotto di me, sotto di noi, e ne ho avuto paura, tutt’ora ne ho paura.”
 
Alla fine era come aveva sospettato dunque, Dìs lo aveva capito e lui lo aveva scambiata per lussuria, per un affetto profondo ma mai si sarebbe immaginato una simile situazione, una simile ammissione, eppure non c’era gioia in quelle parole, nessun entusiasmo o briciolo di dolcezza: lui l’ amava davvero allora, Thorin Scudodiquercia stava amando e in una maniera che Dwalin non si sarebbe neanch aspettato se glielo avessero giurato sulla propria tomba.
 
No di più, lui non l’amava solo, lui…
 
“Voi…”
 
“Muoviti Fàrim o la neve si scioglierà se continui così lentamente!” Una voce squillante risuonò per le scale che ripide si diramavano di fianco a loro interrompendo immediatamente le parole che  con talmente tanto sforzo gli stavano per uscire dalla bocca: forse per il meglio.
 
“La neve non si scioglierà in meno di due cinque minuti avrai tutto il tempo per scorrazzarci dentro Trèl”
 
“E io avrò tutto il tempo di distruggerti a palle di neve!”
 
“Ve l’ho già detto: usciremo solo dopo che avremmo completato la storia di Re Azaghal che non avete completato ieri, mi avevate dato la vostra parola, soprattutto tu Trèl e tu Lòni non sei da meno.” Una voce ben  conosciuta si andò a unire al piccolo coro facendo voltare perfino Dwalin verso la scala alla loro destra che scadeva ripida verso il piazzale condividendo lo sbigottimento di Thorin. 
 
Il destino aveva agito per conto proprio rendendo totalmente inutile la conversazione accesa che i due nani avevano intrapreso, mettendo il re dei nani di fronte a una situazione dalla quale non poteva scappare, che non voleva affrontare prima del tempo ma che infine, seppur con riluttanza si trovò a vivere.
 
“Ma ci avevi dato la tua parola.” Piagnucolò Nìm di fronte a Ghìda tirandole di poco il mantello per bloccarla e attirare la sua attenzione, trattenendo nell’altra la camicia consunta del nano biondo, gonfiando le guance rosee facendo arricciare la costellazione di lentiggini in mezzo alla fronte e al naso.
 
“Già, avevi anche detto che avresti giocato con noi oggi, e che ci avresti insegnato qualche trucco con la spada ” Confermò Fàrim ponendosi di fronte a lei camminando all’indietro e scendendo ogni scalino senza difficoltà alcuna continuando ad osservarla spalleggiando la sorella accanto a se con un’occhiata complice.
 
Ghìda scosse la testa e puntò il dito in avanti con fare giudicatore mentre con l’altra mano tratteneva la piccola Mar che a differenza degli altri non riusciva a scendere le scale in maniera tanto abile costretta a poggiare entrambi i piedi su uno stesso scalino piu’ volte rallentando i sovraeccitati nani che la circondavano . “E infatti la manterrò ma solo dopo che avrete completato i vostri doveri e io avrò completato i miei.” Appuntò facendo desistere il piccolo nano dai capelli rossi di fronte a lei che alla risposta si voltò cominciano a scendere le scale correttamente infilando arreso le mani dentro le piccole tasche della giacca a testa bassa.
“Come ho già detto, finirete le poche pagine rimaste e poi andrete a gettarvi nei cumuli di neve fuori le mura, fino a quando non sarete voi stessi a chiedermi di rientrare.” Ripeté poggiando una mano dietro la nuca di Fàrim cercando di motivarlo.
 
“Allora mai!” Ridacchio allegra la piccola nana che le teneva la mano appuntando i pensieri che già aveva paura si sarebbero avverati: erano le prima luci eppure già tutti e sei i nani erano ben riusciti a dimostrale che non era importante l’orario, loro sarebbero riusciti a continuare così giorno e notte, tardi o presto, l’orario era un qualcosa di prettamente relativo per quella compagnia scalmanata, di cui anche lei faceva parte ormai. Ben presto l’avrebbero etichettata anche a lei come ‘disturbatrice della quiete’.
 
Fu però Lòni a prendere il suo posto schizzando dal suo fianco e portandosi questa volta lui di fronte a lei, impuntando i piedi a terra e bloccandole irrimediabilmente il passo facendole uscire un sospiro esausto dalla bocca: già si stava pregustando l’ennesima trovata, seppur come al solito doveva sempre cercare di sommettere diversi sorrisi. Come volevasi dimostrare alzò un sopracciglio biondo pregustandosi il lampo di genio che gli era appena passato per la mente attirando totalmente l’attenzione del piccolo gruppo. “E se prima uscissimo e poi andassimo nella biblioteca? L’ordine non cambia giusto?” Replicò salendo uno scalino per farsi piu’ alto e gonfiando il petto fieramente portandosi le mani suoi fianchi su cui era perennemente allacciata la piccola spada.
 
Divertita gli diede un piccolo buffo sulla fronte con la punta delle dita facendogli arricciare il naso interrompendo la postura fiera che aveva con tanta fatica mantenuto facendolo ridacchiare e piegare su se stesso con una mano sulla fronte. “Ma se finite prima di studiare poi potete rimanere piu’ a lungo, se studiate dopo, prima o poi sarete costretti a rientrare e anche a prendervi un gran bel raffreddore se non correte subito a casa a cambiarvi. Vuoi perderti le canzoni sui grandi guerrieri della stirpe di Durin di questa sera?” Gli rispose eloquentemente tentando di farlo desistere facendogli anche un fugace occhiolino che però non servì affatto, anzi altre voi si alzarono a sostegno dell’idea .
 
Una piccola testa riccioluta scura si affacciò da dietro di lei facendosi forza con le mani sulla ringhiera dorata per osservarla dal basso verso l’alto con un piccolo ghigno. ”Allora prima arriviamo in biblioteca prima cominciamo e prima usciamo a giocare?” Trèl appuntò in difesa dell’amico lanciando un’occhiata verso Lòni che spalancò gli occhi azzurri lasciando cadere la mano che dalla fronte sia andò ad allacciare eccitata al pomo della spada, incredulo di fonte a quella affermazione, così come Fàrim che già cominciava saltellare su se stesso puntando lo sguardo sempre più’ ampio verso di lei.
 
“No, non è quello che ho detto…” Cercò di fermarli ma ormai era davvero troppo tardi: non fece neanche in tempo a finire la frase che diversi movimenti d’aria seguiti da leggeri strilli di gioia la sorpassarono da dietro riversandosi veloci giù per le scale verdi, schivando e saltellando via oltre tutti i nani che salivano nella direzione opposta ricevendo diverse occhiate divertite o scrolli di teste delle guardie agli angoli di ogni scala.
 
“Chi arriva per ultimo questa sera mangia sotto il tavolo!” Urlò Fàrim dando una botta con la spalla a Lòni accanto a se incitandolo a correre. “Vale anche per te Ghìda!” Le urlò voltandosi leggermente verso di lei prima che sia lui che Lòni schizzassero giù inseguendo i due gemelli ormai già a diversi scalini di distanza correndo dalla rampa di scale svoltando immediatamente a quella successiva senza neanche aspettare Nìm che dovette alzarsi il vestito fin troppo pesante per poter correre.
 
“Non vale nessuno ha dato il via! Fermi! Fàrim lo dico ad a-dad! Lòni fermo! Trel, Drel siete due imbroglioni!” Urlò di rimando Nìm inseguendo i quattro amici: i piccoli boccoli rossi che rimbalzavano e che si mossero veloci oltre le rampe di scale scomparendo ben presto tra la moltitudine di nani sulla scala e tra le grate.
Alzò lievemente gli occhi al cielo non potendo però  “Non correte, o finirete per farvi male, se non peggio.” Li avvertì sicura che nessuno l’avrebbe sentita, troppo lontani o con la testa troppo tra le nubi per poter perfino prestare attenzione alle sue parole, non che in altre circostanze le sue parole venissero ascoltate, soprattutto quando si trattava di quelle piccole competizioni.
 
“Non preoccupatevi mia signora e tutto sotto controllo!” La voce di Lòni le arrivò ben scandita alle orecchie, rimbombante e ansimante per i corridoi a causa dalla rincorsa che gli costò per raggiungere Drèl e Trèl ormai a diversi gradini di distanza.
 
“Tanto perdi e mangerai proprio sotto i miei piedi!”
 
“Stai zitto riccioli rossi!”
 
“Se vuoi mangio io sotto il tavolo con te.” La piccola voce di Màr la richiamò sotto di se mentre con riluttanza continuava a scendere con lei gli scalini, il viso basso e crucciato mentre con costanza cercava di allungare di più’ il passo per poter percorrere le scale più’ velocemente e inseguire il gruppo di amici tendendole comunque fermamente la mano.
 
Le si strinse  il cuore a vederla così concentrata e quasi dispiaciuta nell’essere così piccola da non poter accelerare di piu’ il passo, quindi si fermò tutto di un colpo e chinandosi leggermente la prese tra le braccia incollandola a un suo fianco con entrambe le braccia a sorreggerla. “E chi lo ha deciso che saremo noi a perdere?” Le ammiccò di tutta risposta questa strinse le mani piu’ fermamente al collo del suo vestito facendole accelerare ancora di più’ il passo La piccola nana la guardò dapprima confusa quando venne sollevata puntando gli occhi chiari stupiti verso i sui piedi e poi verso di lei e di tutta risposta cominciò a scendere gli scalini più’ velocemente rispetto a prima.
 
Nel frattempo sotto di loro la gara era stata presa come una questione di vitale importanza, e la scommessa da vincere aveva già mietuto due vittime: la piccola Nìm che non riusciva a stare dietro a suo fratello e Trèl ormai lontani e il fratello di quest’ultimo che infine era arrivato alla conclusione che non sarebbe stato comunque l’ultimo e aveva rallentato il passo, ma l’orgoglio dei nani per molti era piu’ forte perfino del buonsenso e il piu’ grande dei sei lo incarnava tutto.   
Lòni infatti non aveva decelerato il passo, anzi era piu’ deciso ad arrivare primo, superò perfino Trèl che gli lancio un occhiataccia appena saltò un paio di gradini superandolo e svoltando verso l’ultima scala; così preso dal rincorrere l’amico che svoltando non si rese conto che questo si era fermato nel mezzo del piazzale fermandosi precisamente alla fine delle scale rimanendo fermo e con la schiena ben raddrizzata, e così senza riuscir a fermarsi ci andò a sbattere contrò cadendo rovinosamente all’indietro sbattendo il didietro sullo scalino che aveva saltato.
 
“Ah, Nel nome di Durin Fàrim ma cosa…” Le parole gli si bloccarono nella bocca non appena massaggiandosi la schiena ancora a terra riuscì a guardare oltre le gambe dell’amico sgranando gli occhi e rizzandosi immediatamente in piedi seppur il dolore alla schiena lo fece dondolare lievemente. Trèl arrivò a sua volta ansimante con il volto rivolto verso i due nani, confuso dapprima  ma poi alzò lo sguardo e vide il motivo per cui si erano entrambi bloccati, chiudendo immediatamente la bocca e rizzando a sua volta la schiena
 
Ghìda strizzo gli occhi bloccando il passo non appena sentì un tonfo infondo alle scale seguito poi da un lamento gutturale, riaprí le palpebre lentamente spaventata già immaginandosi il peggio, e il peggio nella sua testa era una visione talmente catastrofica da sembrare quasi comica. Accelerò il passo sospirando pesantemente: almeno non stavano urlando dal dolore e già questo era un punto a favore.  Màr accanto a se notando il suo sguardo ridacchio sommessamente nascondendosi nell’ incavo della sua spalla facendola sorridere.
 
“Visto, cosa vi avevo det-…” Riuscì a dire ma le parole così come il passo le si bloccarono  appena riuscì a guardare sotto la rampa delle scale e a scorgere le cinque piccole teste chinate tutte rivolte in una sola direzione; ben raggruppati lo sguardo le si incatenò inevitabilmente verso ciò che stavano fissando con tale riverenza, bloccandole il passo. e il cuore in un unico momento.
 
Alla fine della scalinata, al limite del piazzale di passaggio, poggiato con gli avambracci sulla ringhiera dorata Thorin le dava la schiena ma gli occhi azzurri e freddi erano puntati verso di lei, il volto leggermente voltato oltre la spalla, solcato da intense linee nere e macchie di fuliggine che sottolineavano ancora di piu’ i tratti duri. La continuava a fissare di rimanendo in silenzio, uno sguardo indecifrabile ma che nella sua freddezza, e nella sua intensità le fece rivivere ogni momento e la fece ripiombare violentemente tra le sue braccia, tra la loro carezze: le labbra che le formicolarono incontrollate le piccole ferite sui palmi delle mani pulsare di nuovo e i ricordi che viaggiarono verso i gemiti sommessi che le erano uscita dalla bocca.
 
Non ci fece nemmeno caso ma  Dwalin la osservò dapprima di sottecchi indugiando per alcuni attimi, lanciando poi un’occhiata verso Thorin prima di abbassare di nuovo lo sguardo sospirando loro  puntandolo nuovamente verso il barato dietro di loro.
La tensione si poteva tagliare con un dito, chiunque li stesse guardando in quel momento ormai era in grado di poter dire che ci fosse qualcosa in quello sguardo, un intero discorso scambiato con una ‘occhiata fugace, un’intera vita racchiusa in quello sguardo, che Ghìda sapere di poter avere solo da lui quello, uno sguardo e un bacio ormai che non la lascia in pace neanche un secondo
Perfino i piccoli nani ancora ben rigidi al centro della sala che non riuscirono a non far vagare i loro visi dal re a Ghìda, rigida sopra le scale che non disse nulla al re, rimanendo immobile, il viso che mai avevano visto così scioccato e sofferente che Fàrim si dovette trattenere a non potte una domanda inappropriata, così come la piccola Mar che nella sua testa si chiedeva se avesse compiuto lei stessa qualcosa di sbagliato o se Ghìda si fosse sentita male di nuovo.
Tanto da far avvicinare addirittura confusa la piccola Nìm al braccio di Loni stringendoglielo debolmente cercando il suo sguardo in cerca di una risposta, ma lui rimase fermo e in silenzio prendendo solo la mano nella sua stringendogliela forte tentando di farle capire che non c’era nulla da temere, o almeno così sperava.
 
Thorin fu il primo ad abbassare lo sguardo voltando di nuovo la testa e donandole di nuovo quelle spalle che aveva finito per disgustare per quanto le aveva osservate, per quanto si era ritrovata piu’ volte a pregare la sua schiena che il suo viso. Ghìda distolse lo sguardo dalle sue spalle tese, tentando di colmar quella sensazione che la stava facendo sussultare e stringere a se Mar con ancora più’ decisione, provando una forte fitta al petto mentre tutto le ritornava su, compresa la rabbia che aveva sprigionato il giorno prima.
Sentì una piccola mano toccarle la spalla e quasi immediatamente la ridestò puntando lo sguardo dapprima basso verso il volto di Màr che la fissava con gli occhi preoccupati e sgranati, senza però dire nulla; le si avvicinò e le diede un piccolo buffo con la fronte sulla testa forzando un sorriso per tranquillizzarla.
 
“Andiamo su, si è fatto tardi.” Le disse e la poggiò gentilmente a terra forzando una calma apparente che tentava di celare l’angoscia che l’aveva invasa, sentendosi pietosa e allo stesso tempo terribilmente frustrata.
 
Alzò lo sguardo scendendo le scale  lanciando un’occhiata verso i piccoli nani che ancora la attendevano alla fine della scalinata forzando un ennesimo sorriso che la fece tremare dalla testa ai piedi e gli indicò la scala dietro di loro incitandoli a proseguire, seppur ancora molti di loro osservavano l’unico punto in cui lei non avrebbe di nuovo posato lo sguardo “Coraggio sennò  faremo tardi e non potrete mantenere la vostra parola e davvero dovrò tirarvi fuori io dalla neve.” Gli disse ridestandoli totalmente un'altra volta , dando a Nìm di fronte a lei una piccola pacca dietro la schiena per farla muovere oltre le scale lanciando una breve occhiava a tutti gli altri cinque piccoli nani che le sorrisero fugacemente annuendo con la testa bassa prima di proseguire in silenzio anticipandola verso le scale che scendevano verso la biblioteca.
 
La testa di Thorin si sforzava di rimanere bassa, il senso di colpa che lo mangiava vivo, la vista ormai appannata dal via vai sotto si lui che era diventato ormai  solo piccole macchie colorate a cui non prestava neanche più attenzione, poiché tutta la sua attenzione pregava di essere rivolta verso la figura che sentiva viva dietro la sua schiena, e che infine andava via a causa del suo maledettissimo silenzio e del suo orgoglio che anche in quella situazione gli impediva perfino di parlare.
 
Fermala.
 
“Ho lasciato detto di lasciare il posto reale libero per te.” Il tono quasi monocorde, talmente rigido da tagliare l’aria in due; gli occhi che schizzarono di lato di lato ad osservarle la schiena, incapace di  muovere nessun muscolo, se non quello della mano che strinse il panno blu con talmente tanta forza che sentì l’oggetto al suo interno premergli sulla pelle della mano.
Ghìda raggelò a quella frase che la incollo al pavimento bloccandone il passo all’inizio delle scale, talmente fredda che  fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso; sentì un'improvvisa voglia di gridare a pieni polmoni la sua frustrazione, ma non riuscì a fare niente di tutto ciò riparandosi dietro una barriera impenetrabile.
Si portò una mano a stringere la gonna del vestito, voltando di poco la testa di lato incapace di guardarlo ancora direttamente negli occhi, ma abbastanza da poter vedere che anche lui non la stava guardando mantenendo il volto rigido rivolto nelle sale inferiori del palazzo.
 
“Molto bene.” Mormorò annuendo, non volendo aggiungere oltre: non c’era bisogno di aggiungere oltre a quello che si erano detti, lei non aveva bisogno di dirgli altro.
 
Ma non fece a malapena in tempo a girarsi del tutto che venne richiamata un’altra volta: una seconda fitta che le bloccò il respiro.
 
“Verrai quindi.” Affermò Thorin tagliente alle sue spalle.
 
Alle sue orecchie risuonò come un discorso assurdo, voleva o non voleva che andasse, se preferiva che rimanesse nelle sue stanze era meglio che glielo dicesse facendo finire quella farsa e che la lasciasse proseguire senza torturarla oltre.
Il lato del collo le comincio a bruciare, anche se ben nascosto dai capelli sentiva un punto in particolare arderle sulla pelle, un marchio che da giorni portava indelebile, che tentava di nascondere ma che lei sapeva comunque ci fosse.
Seppur decretando la sua rovina sì girò del tutto osservandolo dritto in faccia, gli occhi blu che anche se questa volta voltati solo di poco verso di lei la guardavo profondi facendola vacillare. Decise comunque di non dare retta alla sua parte piu’ fragile, quella che era stata preda delle sue mani e delle sue parole e dei suoi baci.
 
 ”Credevo fosse un mio obbligo.” Gli si rivolse glaciale con lo stesso tono che aveva usato con lei.
 
Thorin strinse ancora di piu’ l’oggetto nella sua mano dalla rabbia: lo detestava, quel muro che lei era capace di alzare, dove si barricava. Lo aveva detestato dal primo istante in cui l’aveva visto e in quel momento si dovette munire di tutto il suo autocontrollo per pronunciare quelle parole che in un altro contesto le avrebbe risparmiato interrompendo lì quella conversazione e invitandola di nuovo a proseguire.
 
“No non lo è, non lo è mai stato.” Rispose composto.
 
Ghìda raddrizzò la schiena a sua volta: il muro che ormai alto tentava di ripararla da ogni sua parola, da ogni gesto , ma un muro in macerie, una armatura a brandelli, cosa poteva difendere, soprattutto da chi era in grado di distruggerla con una carezza.
 
“E’ un ordine quello che mi stai ponendo quindi?” Chiese insistente, il cuor che le cominciò una corsa dentro il petto, che riuscì a malapena a controllare.
“Nemmeno…”
 
“C’è altro?” Lo interruppe violentemente  prima che potesse aggiungere una ennesima frase a quello spettacolo che ormai non apparteneva solo a loro ma che aveva attirato diversi sguardi curiosi, compresi quelli dei nani dietro di lei che tornarono addirittura indietro di qualche scalino osservandoli.
Thorin abbassò dapprima lo sguardo verso terra, passando irrequietamente lo sguardo sotto di lui e poi verso la sua mano; Ghìda che poté giurare di dire che tratteneva qualcosa nel palmo destro, seppur coperto dal braccio teso sulla ringhiera.
Sospirò pesantemente prima di guardarla di nuovo. “C’è qualcosa che desideri, che vorresti richiedere?”
 
Il petto le fremette, sapeva essere una domanda di mera circostanza eppure entrambi sapeva cosa volessero dire quelle parole cariche di significato solo a loro due, allora perché gliele aveva chiesto, poteva mandarla via e basta, perché voleva risentirle dire quelle parole di nuovo, lì di fronte a tutti.
 
Le mani le artigliarono con ferocia il vestito, la voglia di urlare sempre piu’ crescente e devastate. “Ciò che io voglio mio signore non ha importanza.” Sputò non riuscendo a controllare il tono di voce sprezzante con cui gli si rivolse.
 
Erano ora uno di fronte all’altra, talmente vicini che rimase scioccata:  Thorin non si era mosso da dov’era rimanendo saldo con le braccia sulla balaustra, allora era stat lei a muoversi così pericolosamente, così dolorosamente che il corpo ormai agiva per conto proprio ignorando qualsiasi suo volere di stargli lontano attirato come lo era sempre stato verso il suo corpo… verso il suo pezzo mancante.
 
“Quello che io desidero non ha importanza.” Ripeté questa quasi sussurrandolo, ammonendosi da sola e ripetendo quelle parole che lui stesso le aveva detto.
 
Thorin relegò l’orgoglio che lo contraddistingueva per quei pochi attimi, nei quali sotto quegli occhi feriti, non riuscì a controllare la propria bocca che si mosse in modo autonomo. “E’ l’unica cosa che ha importanza.” Mormorò in maniera talmente flebile che stentò a malapena a sentire le sue stesse parole.
 
Gli scuri di Ghìda tremarono spalancandosi  leggermente in ruoli così come lui a quella frase, ma ben presto si inarcarono tristemente così come la sua bocca su cui si formò un sorriso triste, e abbattuto: il petto che le si abbassò in un esalazione tremante e velenosa che sentì arrivargli perfino addosso ferendolo a sua volta.
 
“No, non è vero, lo sappiamo entrambi” Gli rispose con voce spezzata, assestandogli un colpo che gli fu difficile da incassare e facendo crollare qualsiasi parola avrebbe potuto utilizzare per cancellare ciò che era accaduto.
 
Gli occhi di Ghìda  dapprima puntati nei suoi si spostarono leggermente assottigliandosi studiando il suo viso, distratti da un qualcosa che lui non era in grado di vedere ma che aveva attirato la sua attenzione facendola sorridere tristemente. La vide stringere il pungo della mano abbassando di poco lo sguardo verso il suo fianco e poi alzarla titubante verso di lui: le tremava leggermente e si ritirava sempre di piu’ come se anche il solo sfiorarlo l’avrebbe bruciata mentre con gli occhi guardava tutto tranne che nei suoi occhi rincorrendo un punto fisso sulla sua pelle.
La mosse incerta verso il suo viso e quando notò che non l’avrebbe fermata in alcun modo posò la mano sulla sua guancia e gli sfiorò la barba con le piccole dita: si morse il labbro incerta fino a che non mosse il pollice fin verso sotto il suo zigomo tirando con il polpastrello la sua pelle ripulendolo con delicatezza da una macchia che con molta probabilità gli attraversava il viso che non era riuscito a togliere.
 
La montagna intorno a lui sembrò fermarsi, non c’era piu’ altro se non lei, se non quel momento così dolce e vezzoso che si chiese se ne fosse davvero lui il protagonista, se fosse davvero lui ad aver diritto a un simile ritaglio di infinito. Sapeva che diversi occhi erano puntati su di loro, li sentiva fissi come spettatori ignari di ciò che significava quel piccolo gesto: da sopra di lui, da sotto di lui, dagli occhi di Dwalin che gli premevano sulla nuca, delle piccole teste che da dietro la scala li fissavano con gli occhi sgranati sussurrando tra di loro, ma non gliene importo affatto, sarebbe potuta bruciare la Montagna in quel momento e non se ne sarebbe accorto minimamente.
 
“Sai già qual è l’unica cosa che volevo e io so già di non poterla avere, ma ciò non mi fa dimenticare dov’è il mio posto, mai…me lo hai insegnato tu.” Gli sussurrò guardandolo dritto negli occhi e interrompendo il piccolo momento con il pollice lasciando solo la mano sul suo viso per qualche istante, scossa da piccoli fremiti incerti. Ripeté quelle parole che si era già impressa da giorni, che lui stesso le aveva chiesto di imprimersi bene in mente e mai come in quel momento volle cancellare ogni su azione che avesse portato a questo: sarebbe stato così facile, sarebbe stato tutto così facile.
 
Thorin dovette fare appello a tutto il suo buon senso per non chiudere gli occhi o afferrarle la mano tenendola ancora premuta sul suo viso quando questa si scostò in lunghi attimi: oltrepassando la guancia, la mandibola e infine sfiorandogli con delicatezza perfino la camicia all’altezza del petto: gesti che non fecero altro che ricordargli ciò che aveva fatto e di come quell’assurdo teatrino di frasi di circostanza nascondessero ben altro.
Alla fine infine si staccò del tutto da lui ma per ultima e agognate tortura che volle infliggergli , gli posò la mano sull’avambraccio sfiorandoglielo lievemente attraverso la camicia, ma la sentì chiaramente come se gli tesse toccando la pelle nuda: l’impulso di allungare la mano opposta e bloccarla lì fu irrefrenabile, ma non fece neanche in tempo ad alzar la mano che la mano di Ghìda scivolò via. La piccola utopia svanì di colpo facendolo tornare alla realtà non appena  gli diede di nuovo la schiena lanciandogli oltre la spalla un ultimo sguardo incerto: la sua mano strinse con fermezza il nulla e il calore sul suo viso svanì di colpo facendolo respirare come se avesse trattenuto il fiato per tutto quel tempo e a fargli distendere ogni singolo muscolo del corpo.
Sentì Dwalin avvicinarsi dietro di lui, mentre Ghìda spariva di nuovo di fronte ai suoi occhi venendo inghiottita dalla fredda roccia della montagna, così come tutti i non detti che continuava ad inghiottire e soffocare; lo vide con la coda dell’occhio mettersi al suo fianco osservando lo stesso punto in cui i suoi occhi erano ormai incatenati rimanendo in silenzio condividendo ciò che sentiva, e non se ne vergognò questa volta, affatto.
“Ti ricordi quando ti ho detto di prendere ciò che volevi? Penso che sia arrivato il momento di farlo.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il fabbro osservò con attenzione il lavoro finito ben rinchiuso in un drappo blu, costudito tra due cuscini in mezzo al suo giaciglio: il momento a lungo agognato si stava avvicinando sempre di piu’ e sempre di piu’ cresceva la voglia di aprire il piccolo fagotto o di donarle il suo lavoro prima del tempo. Il sudore sul corpo si era andato a sostituire a brividi freddi, la camicia macchiata di cenere era stata sostituita da una pulita e ben piu’ ricca e nobile di quella che indossava per il lavoro, il rumore del martello sull’incudine era stato invece sostituito vociare sotto di lui e dalla musica che sempre piu’ alta arrivava fino alla sua porta.
 
I muscoli tesi e laboriosi era distesi e rilassati sotto il lungo mantello che adesso lo avvolgeva fin oltre la fine delle sue gambe poggiate sul soffice materasso del suo letto in una lenta attesa che non faceva altro che tentarlo nel farlo rinchiudere di nuovo nella sua fucina, al sicuro, cullato dai rumori di una ninna nanna antica come il dio che aveva guidato la sua mano nell’ impeccabile lavoro.
Ma il fabbro non si lasciò tentare, troppo salda la sua decisione, troppo federe al suo lavoro e alle ore nelle quali le sue mani erano diventato altro che un ammasso di ferite e di bruciature, troppo fedele a colei che come il fumo nelle narici lo aveva spinto troppe volte a chiudere gli occhi al suo solo percepirlo vicino a se e  contro di se, come il rumore dello scudo che un tempo gli si spaccò sul braccio.
La verità è che un tempo lontano il fabbro era stato un guerriero, il più grande dei guerrieri: canzoni erano state cantate su di lui, racconti erano stati narrati, e da umile fabbro era diventato leggenda e dall’essere uno dei tanti era diventato l’unico. Ma le guerre erano finite, nessuno piu’ aveva bisogno della sua spada, nessuno piu’ aveva bisogno del suo scudo per essere difeso, così era tornato a fare ciò che sapeva fare meglio, creare.
 
Il legno del letto scricchiolò quando a passi lenti si diresse verso un oggetto di altrettanta precisa fattura posto alla luce del camino: neri e dorati erano i suoi intarsi, generazioni addietro era stato fuso e tirato fuori dalle fiamme incandescenti incoronando un’intera stirpe; lo portò in alto con le mani prima di lasciar cadere il suo peso sulla sua testa e sul suo petto.
 
E nel tempo di un profondo sospiro il fabbro, divenne re.
 
 
 
 
 
 
 
 

Ghìda si lasciò andare ancora di piu’ allo schienale della sedia su cui era seduta ormai da diversi minuti; le mani con cura percorrevano sempre lo stesso percorso nei suoi capelli districando i piccoli nodi e smuovendo i ciuffi sperando che  così le sarebbe stato più facile finire il minuzioso lavoro di intrecciare ogni singola treccia che si era snodata prima di cominciare a prepararsi. Anche se era seduta di fronte al camino da diverso tempo sembrava quasi che il calore che sprigionasse non bastasse neanche per riscaldarle il corpo coperto solo da una leggera sottana chiara, tanto da portarla a raggomitolarsi su se stessa premendo i piedi sul legno liscio della sedia .
Seppur la finestra era chiusa le mani non la smettevano di tremar e ogni piccolo gesto le sembrava un’impresa insormontabile, mai si era sentita così, così divisa, così lontana da voler scappare dalla sua stanza e non tornarvi mai più’, oppure chiudercisi dentro come aveva già fatto settimane addietro: mai aveva desiderato come in quel momento di scomparire e di lasciare tutto così intatto, di lasciar che quella notte passasse.
 
La musica dalla sala dei banchetti ormai arrivava ben scandita alle sue orecchie da quando il sole era tramontato dietro la montagna, così come lo schiamazzo di cui in quella giornata aveva avuto un assaggio passando al ritorno nelle sue stanze di lato alla sala, sfiorando con lo sguardo le immense colonne in fila che ne scandivano l’entrata: il grande camino già a metà pomeriggio era stato acceso, le tavolate erano già state predisposte su in tutta la sala, ricolme di altrettante sedie e sgabelli ,centinaia di barili colmi di birra erano già stati portati e posizionati al centro e intorno alle pareti e le tavole erano già state imbandite di tutto punto, anche quella al centro della sala; seppur da lontano era riuscita scorgere l’immensa sedia scura adornata d’oro e gli intarsi sopra di essa dei due immensi corvi neri ai lati dello schienale che vigili servavano chi vi ci sarebbe seduto sopra, e accanto ad essa una piu’ piccola, identica, le ali erano però chiuse e i corvi solo appollaiati in riposo, il legno più’ chiaro, ma li adorni dorati ne coprivano quasi tutto lo schienale… la sua sedia.
 
Quella sedia che si era premurato di lasciare, per la quella addirittura l’aveva fermata, come se una sedia o un posto potesse cancellare tutto il resto.
 
Il sentire i canti sempre più’ scanditi e ritmati provenire da sotto di lei non la stava aiutando minimamente a distogliere i suoi pensieri da quello che aveva sentito quella mattina, da ciò che si era spinta a fare quella mattina: non era riuscita a controllarsi, aveva tentato di camminare via, di evitare anche solo di poggiare lo sguardo su di lui, aveva già voltato la schiena per andarsene ma poi il solo sentire la sua voce l’aveva fatta bloccare come un obbediente soldatino e lei incosciente aveva compiuto il grave errore di voltarsi e guardarlo negli occhi. Quei maledetti occhi.
Cosa avrebbe dovuto fare, cosa doveva fare, cosa voleva Thorin da lei, non gli bastava già così, che lei gli avesse ubbidito? Che avesse mantenuto la parola data e dimenticato?  Che avrebbe mantenuto la sua parola è che avrebbe tentato di fare come se nulla fosse successo, come sei lei non provasse nulla, come se tutto ciò che era successo non fosse mai accaduto.
Eppure quello sguardo, quello stesso sguardo che le aveva rivolto prima di cacciarla via dalla sala del consiglio, l l’aveva fatta vacillare e compiere quel gesto scellerato di fronte all’intera Erebor, ma lui non l’aveva fermata, perché non l’aveva fermata? Era stato lui a decidere, perché ora invece sembrava che quella decisione l’avesse presa un altro re. Non era così debole o indeciso, o non privo di onore da rimangiarsi la propria parola, non lo era con il suo regno, non lo sarebbe stato per lei, allora cosa, perchè? Un mero senso di colpa probabilmente, ma la decisione era stata lui a prenderla, era tanto lui a scegliere , e lei doveva smetterla di crearsi false speranze, le avrebbe solo fatto più male già di quanto non le facesse adesso. Ogni gesto che lui avrebbe compiuto, ogni parola, ogni gesto sarebbe stato dettato solo dai suoi obblighi, lui non poteva amarla e se lo avrebbe fatto non glielo avrebbe mai detto.
 
Forse infine era vero, abitavano davvero il corpo di Thorin due nani diversi, il re e il nano e lei era finita nel fuoco incrociato di entrambi e suo malgrado lei amava entrambi.
 
Al solo ripesarci portò le gambe ancora più’ vicino al petto cingendole con la mano libera e strinse la base del collo lasciando ciondolare la testa di lato verso di questa, cercando un appoggio di una mano che non fosse la sua mentre il calore del camino di fronte a lei le pareva sempre più’ flebile e la luce della luna ormai alta che filtrava nella finestra le pareva sempre fredda. Alzò di poco la testa puntando lo sguardo di poco dietro di se, puntandolo verso il letto intatto, su cui vi era poggiato il vestito vermiglio che lungo ricadeva dalle pellicce del letto fin sui tappeti sotto di questo, un’immensa cascata rossa adornata sul petto e sugli spacchi sulle braccia di fini ricami dorati.
Le era stato così facile tirarlo fuori dall’armadio, sceglierlo, osservarlo, ma ora il solo pensare di indossarlo le faceva stringere il petto, la spaventava a morte, quella notte, seppur dovuta a un loro ritorno alla montagna sani e salvi, al coraggio dei nani che erano partiti e avevano salvato i propri familiari in cui lei stessa era partita per salvare la propria gente, la stava spaventando a morte piu’ di quanto ne aveva provata quando aveva abbattuto quegli orchi.
 
Un bussare lieve alla porta della sua stanza  la riportò violentemente alla realtà e i suoi occhi schizzarono velocemente via dal vestito e quasi come fosse stat colta in flagrante di un crimine si tolse la mano dal collo e coprì il segno violaceo con il collo della sottana e qualche ciuffo di capelli ancora acconciati a metà che si portò sulla spalla senza indugiare.  Spostò confusa lo sguardo verso la porta e non sentendo nessuno parlare e qualcosa le scattò dentro al petto: una vaga speranza che la fece rizzar su se stessa e afferrare i lembi della sottana con tale forza che si graffiò perfino la pelle sotto di essa.
 
Schizzò in piedi presa da una frenesia sempre crescente rischiando perfino di inciampare sulla pelliccia sotto il tavolo di fronte al camino e avanzò a passi veloci dalla parte verso l’entrata della sua stanza: mai si ricordo di essersi mossa così velocemente ad aprire una porta. Mosse le mani verso la maniglia facendola scattare e la aprì ma appena scorse chi vi era dietro  dovette premere le labbra insieme per non spalancarle: di tutte le persone che si era immaginata di poter vedere spuntare da dietro l’uscio , mai si sarebbe immaginata di scorgere quei tratti.
 
Due occhi blu gelati.
 
Il naso dritto ma incredibilmente femminile.
 
Le catenelle d’ oro e gemme blu che si intersecavano nei capelli neri e nella lunga traccia.
 
Dís.
 

 





 
 
 
 
 





ANGOLO AUTRICE
Scusate per il ritardo, anzi per l’immane ritardo ma al mare non sono praticamente riuscita a scrivere nulla dall’iPad, era piu’ arduo scrivere che leggere e infine mi sono scritta tutto su un foglio e ho ricopiato tutto daccapo appena sono tornata a Roma e ricomincia con la solita tabella di marcia, seppur un esame mi reclama hahahahahhah
Sono un po' anche una merdaccia lo so, ho fatto un capitolo di spiegazione ma che racchiude tante piccole perle, tra cui un messaggio che volevo dare su Ghìda sul perché ami Thorin in quel modo: pernso che la libertà di poter scegliere soprattutto per lei sia stat molto piu’ importante di qualsiasi gesto e poi Thorin bheeeeee ha fatto il cretino e mo ne paga le conseguenze: QUALCUNO CHE VUOLE INDOVINARE COSA HA FORGIATO IL NOSTRO FABBRO? Cosa mai vorrà poi Dìs? E soprattutto… quanto è devastante la scena DwalinxDìs, anche per lei volevo creare un quadro un po' piu’ completo perché se no sembra solo molto orgogliosa ma c’è ben altro sotto.
Questo capitolo è un esperimento, sto leggendo il Silmarillion se non ve ne siete accorti e mi sono lasciata trasportare, ma spero che questa storia nella storia vi possa aver entusiasmato. Vi prego non odiatemi per questo capitolo, è il primo dopo un paio di cui sono davvero soddisfatta, forse perché ci ho lavorato quasi per un mese hahahahahhaha
E per il prossimo cosa vi aspettate? Mhmmmmm io so che voi sapete che io so che voi sapete >-> E poi accadrà una cosa, anzi piu' di una cosa molto importante <3 <3 <3 Delle gioie finalmente.
 

Ringrazio Alcalime91 e Perla16 per le recensioni che ormai sono tutte e due un appuntmaneto fisso e vi chiedo ancora scusa   e ringrazio tutti quelli che seguono: Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, , marisole, NekoBlonde, e GiadaHP, Perla_16, Ribes Roger e Nekoblonde, Alcalime91 e un new entry ancora… Fib23!
E un grazie a tutti quelli che leggeranno in seguito <3
 







SPOILER
"Resta con me."

 

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Capitolo 16
*** Zabd-ê ***


PreNote dell'autrice:
PERDONATEMI ç.ç!
Non ci sono giustificazioni per l'immenso ritardo di questo capitolo, ma sappiate che mi sto odiando dal più profondo del cuore:
ma almeno è arrivato e con arrivato volgio anche sottolineare che è il capitolo piu’ lungo che io abbia mai scritto.
31.000 caratteri porca paletta! Quindi dai vale come due capitoli.
Non ho nienta aggiungere se non per dirvi…bhe… che l’attesa ne sarà valsa la pena?
Che dovete preparare dei secchi? Ehm…Possibile cambio di rating, ma sono rimasta molto soft, quindi …

Preparate due secchi, uno per le lacrime e uno per... bho decidete voi XD
 

Zabd-ê





 






«Permettete?» La domandò la nana allungando di poco il collo verso l’interno della sua stanza indicandola sorridendole affabile con il lato della bocca.
 
La bocca di Ghìda ancora leggermente aperta si mosse più’ volte prima che riuscisse ad elaborare un pensiero logico che andasse in contrasto con il turbamento che non le permise per alcuni lunghi istanti di esprimere una singola parola.  Chiuse velocemente la bocca ancora leggermente schiusa in un misto di sorpresa, mischiata però anche alla profonda delusione che l’aveva adombrata appena aveva visto la nana alla sua porta. La mano che artigliava con forza la maniglia della porta, tanto sorpresa quanto scossa rispetto a chi ora le chiedeva di poter entrare nella sua stanza; ancora una volta era stata guidata dalle sue stupide speranze, ma al contempo si sentì quasi risollevata che non ci fosse Thorin alla sua porta: l’adrenalina e l’eccitazione l’avrebbero poi probabilmente fatta crollare, o peggio le avrebbero fatto compiere una sciocchezza come quella che aveva compiuto ore addietro, non riuscendo a controllarsi neanche per quei pochi attimi.
 
Si rese conto di essere rimasta in silenzio forse troppo a lungo quando la nana ancora in attesa di una sua risposta inarcò un sopracciglio nero mascherandole a stento un sorriso nervoso che ebbe il potere di riscuoterla in meno di un attimo e dandole la possibilità di lanciarsi da sola una maledizione nella testa riversa verso i suoi pensieri
 
«S-si certo.» Si ritrovò a balbettare talmente nervosa che si ritrovò ad abbassare ancora di piu’ lo sguardo verso il pavimento di marmo.
 
Con un singolo passo si spostò leggermente di lato alla porta spalancandola ancor di piu’ per farla passare tenendo il pomello dorato fra le dita ancora con tale forza da far diventare le nocche bianche, abbassando la testa in una piccola riverenza silenziosa alla quale la principessa rispose con un piccolo cenno del collo verso il basso prima di sorpassarla ed entrare nella sua stanza.
Lanciò uno sguardo verso il corridoio delle stanze reali, al vivace muoversi delle fiammelle delle torce a ritmo ormai delle grida e delle risate ovattate dal fondo del palazzo e in un gesto involontario controllò che non ci fosse nessun altro e come volevasi dimostrare sia alla sua sinistra, verso il portone dorato che alla sua destra, verso la balconata non c’era nessuno: era sola dunque, perché?
 
Si voltò nuovamente verso la nana che osservandosi intorno camminava a piccoli passi nella sua stanza, partendo dalla sua porta fino al confine con il suo letto al centro della stanza, strusciando la gonna del vestito blu sulle pellicce e tappeti che sovrapposti ricoprivano gran parte del pavimento; si muoveva con a testa alta, regale, austera: erano così dannatamente simili, fin troppo.
 
Nella Terre Brune, per quel poco che era riuscita a scrutarla in volto nella notte neanche se n’era accorta, troppo presa dalla brama di salvare una nana che disperatamente accettava la sua fine, attaccata a un muro di una roccia acuminata; nel palazzo, non era riuscita a vederla neanche una volta, seppur fosse un suo grande desiderio poterla incontrare, anche per caso, eppure adesso che la poteva guardare alla luce se ne rendeva pienamente conto. I capelli corvini come la pece erano intrecciati in una lunga treccia che dal lato della spalla le arrivava fino sotto i fianchi, adornata di singoli anelli e catenine dorate che le finivano in mezzo alal  alla fronte con una singola gemma blu, i tratti rigidi ma dolci, forse l’unica cosa che li distingueva, a parte gli occhi, quelli di Thorin erano un mare in tempesta, i suoi erano freddi come la neve.
 
Chiuse la porta dietro la sua schiena indietreggiando e lasciandosi andare con entrambe le mani sul pomello dietro di sé osservandola camminare dentro la propria stanza, non separandone mai lo sguardo benché meno quando con lentezza si avvicinò al letto che torreggiava in mezzo voltando la testa verso vari punti della stanza  facendo tintinnare la miriade di catenelle nei capelli; la osservò mentre voltava con calma  il collo da una parte all’altra seguendo dei percorsi invisibili con gli occhi nel frattempo che con un piccolo sorriso che le si dipinse mano a mano al lato della bocca.
 
La incuriosì e molto, ma i piccoli battiti veloci che continuava a sentire nel petto non smisero di tormentarla facendo scioglierle le mani dal pomello dorato dietro la sua schiena e a calare verso la leggera sottana bianca di raso finendo per torturane le pieghe con le sue dita. Il perché si sentisse in quel modo le sfuggì: i pensieri che l’avevano portata al re erano totalmente scomparsi ma forse la somiglianza con il suo tormento personale, il fatto che fosse sua sorella o anche che questo fosse il loro primo incontro dopo tutti quello che era successo in quei giorni avevano sostituito la sua inquietudine con una profonda titubanza.
 
Decise di parlare interrompendo quel pesante silenzio che non faceva altro che aumentare solo il suo innaturale timore. «Dovete perdonarmi, non ero pronta a ricevere visite, men che meno da voi se mi permettete.» Ammise cercando di mantenere il tono del piu’ calmo possibile spostando lo sguardo sul profilo della nana che ora si trovava di fronte al camino acceso : il vestito da cerimonia blu reale che alla luce rossastra divenne quasi verde scuro, così come la pelliccia grigia intorno alle sue spalle, quasi bianca.
La nana si fermò dal suo vagare silenzioso voltandosi leggermente di nuovo verso di lei bloccando qualsiasi altra parola avesse potuto dire alzando una mano dal suo ventre sul quale aveva tenuto le mani poggiate l’una sull’altra da quando era entrata.
 
«No, sono io che vi devo le mie scuse, mi rendo conto che non è un buon momento e mi rendo anche conto che sarei dovuta venire da voi molto prima.» Le interruppe un’ ennesima scusa formale che già stava formulando nella testa, sorridendole amabilmente con il lato della bocca, spiazzandola ancor di piu’ di quando già non fosse.
 
Non rispose abbassando nervosamente solo di poco lo sguardo verso la sedia di fronte al caminetto dove prima era raggomitolata su se stessa; non sapeva come comportarsi, cosa dire, cosa non dire, non era un incontro politico, non era niente che le era mai capitato prima e che le sarebbe mai capitato ancora: la confondeva, tutto ciò la confondeva.
Era una principessa come lo era lei, forse piu’ di quanto lo fosse lei, era la sorella del re di Erebor, una figlia di Durin, ma dall’altra parte era sarebbe stata anche… legata a lei, da molto di piu’ di un titolo. Non si sarebbe mai aspettata quella visita, benché nel profondo sapesse fin troppo bene che, prima o poi, sarebbe giunta; se ne sentì improvvisamente in colpa: forse era lei che doveva andare a presentarsi, ma da quel giorno non l’aveva piu’ vista ma non si sarebbe mai aspettata una sua visita, non lì, non così, non in quel momento.
 
«Non è un incontro idoneo alla situazione oserei dire.» Riuscì a commentare a stento aumentando la presa sul tessuto bianco guardandola di nuovo.
 
Per risposta ricevette un breve sbuffo simile a una risata sommessa accompagnata da un piccolo movimento della testa in segno di negazione. «No, non lo è ma gli incontri ufficiali in questi casi li ritengo quasi futili, possono far uscire fuori ben altro di quello che dovrebbero  e… “Fece una breve pausa incerta. “Avrei voluto conoscervi prima di questa sera.» Il tono della voce le si andò a piegare in una scusa velata, che accettò in silenzio ma lei non alleggerì le sue di torti.
 
«Ho anche io la mia dose di colpe, sarei dovuta essere io a presentarmi, vi sarò dovuta sembrare estremamente scorretta.» Le fece notare dando libero sfogo ai suoi pensieri.
 
La nana di fronte a lei sospirò leggermente quasi facendole pensare di poter aver accettato la sua versione dei fatti e le sue scuse, ma poi alzò un sopracciglio nero seguito da un piccolo ghigno dal lato della bocca che le fece stringere i denti per controllare il respiro: troppo dolorosamente simili.
 
«Allora credo che per arrivare a un accordo possiamo dire che la colpa è di entrambe… che ci siamo dovute ambientare entrambe, suppongo.» Sottolineò entrambe ammiccandole con una piccola strizzata di occhio e una fuggevole risata sommessa tra le labbra a malapena aperte.
 
Ghìda si ritrovò a sorridere sinceramente a un tale gesto che se da una parte la scioccò ancora di piu’ dall’altra si sentì sollevata che il discorso stesse diventando meno rigido e fittizio di quanto si sarebbe mai immaginata o anche sperato, aiutandola anche a rilegare i pensieri nefasti di poco prima in un angolo nella sua testa.
 
«Penso di poter accettare questo compromesso.» Ammise infine di fronte alla sua ennesima prova testardaggine della stirpe di Durin ma non ebbe nemmeno il temo di dire altro che la parola le venne rubata.
 
«Potete anche accettare che non è solo per le presentazioni che mi trovo qui?»
 
Ghìda sgranò leggermente gli occhi, colta alla sprovvista da una simile domanda e tutte le preoccupazioni che per pochi istanti la nana era stata capace di esiliare ritornarono, forse piu’ pressanti di prima così come una miriade di domande, tra cui una che le formò un nodo alla gola: possibile che sapesse?
 
No, non  poteva, anche se ormai era sicura che tutti nella montagna sapessero, o che l’avessero vista quella mattina: miriadi di altre possibilità le si pararono di fronte agli occhi ma forse a causa del suo mero desiderio egoistico di non rispondere o peggio di prepararsi a una risposta che potesse giustificarla, l’unica opzione possibile le ridondò nella testa rendendola muta.
 
La fissò in silenzio, non volvendo aggiungere altro, in attesa che fosse lei stessa a dirle qualcosa, già pronta mettersi sulla difensiva ma la nana non ci mise molto a mettere un freno alle sue domande nella testa, rispondendole perfino con lo sguardo. Spostò gli occhi ghiaccio dal suo viso verso il suo fianco dove steso stava il braccio scoperto, la cicatrice ancora rosa accesso che le attraversava l’avambraccio in una linea curva dal basso verso l’alto tagliando a metà una delle rune, così come quella sul suo fianco che seppur rimarginata sentiva ancora formicolare, soprattutto quando Dìs vi puntò lo sguardo corrugando le sopracciglia.
 
Annuì come per darsi una risposta da sola prima di guardarla di nuovo in viso, prendendo un piccolo respiro tremante. 
«Io sono venuta qui per ringraziarvi.» Cominciò veloce facendola sobbalzare leggermente dalla sorpresa e mordere l’interno della guancia. «Vi sarò per sempre grata per quello che avete fatto e per il rischio che avete corso per salvarmi e quello che avete fatto per molta della mia gente in realtà.»
 
Dalla bocca di Ghìda  non uscì altro che un respiro sommesso trattenuto troppo a lungo, nel frattempo che quelle parole le entravano nello sterno: nessuno l’aveva ringraziata, mai da quando si era svegliata, non c’era mai stato un ringraziamento, non ne sentiva il bisogno, non lo aveva richiesto neanche una volta, i suoi gesti non erano stati diversi da quelli di un qualsiasi altro guerriero, chiunque lo avrebbe fatto, chiunque altro guerriero sarebbe corso in aiuto dai suoi compagni, sarebbe corso in aiuto di una nana in difficoltà o di un qualsiasi essere in quella situazione. Che la nana che avesse salvato con quel suo gesto fosse Dìs, figlia di Thràin era stato un mero caso: sarebbe stato così terribile rivelarle che non lo sapeva chi fosse, o ancora che era venuta a conoscenza della sua identità solo pochi giorni prima da una piccola nana curiosa?
 
Potevano dei ringraziamenti pesarle così tanto?
 
Ghìda abbassò gli occhi verso terra, in un breve inchino accennato imponendosi di comportarsi come avrebbe fatto in qualsiasi altra circostanza  «E’ stato un dovere, con tutto il rispetto non sapevo neanche quale fosse il vostro viso.»
 
Sulla nana di fronte a lei si dipinse un ennesimo sorriso gentile. «E non rende il vostro atto ancora piu’ degno d’onore forse, Ghìda figlia di Telkar?» La interrogò diretta ancora con una domanda meramente di circostanza, che non pretendeva risposta.
 
Gli occhi da terra le scattarono repentinamente verso il volto della nana: rimase basita, incapace di ribattere qualsiasi cosa, quando quella verità le venne sbattuta in faccia come se fosse per la principessa una delle cose piu’ naturali del mondo, ma sentirselo dire a voce alta le fece gonfiare il cuore in un profondo orgoglio per ciò che aveva fatto, un sentirsi fiera dei suoi gesti che sempre le era stato negato.
 
La verità è che quando dai una cosa troppo per scontata e poi ti viene posta davanti, te ne stupisci, anche troppo e per Ghìda furono quei ringraziamenti, così sinceri e puri che silenzio aveva ricevuto da tutti i visi che aveva incrociato nei corridoi o per le scale, che aveva ricevuto perfino da Thorin in quelle notti in cui lei non sapeva aveva vegliato su di lei quasi sempre sveglio, o dal severo capitano delle guardie che le aveva rivelato quel leggero grazie a malapena sussurrato andandosene per aver salvato la nana che amava, o perfino dei piccoli nani che diversi piani di distanza da lei in quel momento erano disposti piu’ che mai a dimostrarlo.
 
Ma lei non lo sapeva, non l’aveva mai saputo.
 
Dìs non ebbe bisogno di una sua risposta, in realtà neanche la voleva, non ve n’era risposta alal alla sua domanda, ma non riuscì a celare un sorriso leggero di fronte alal alla sua reazione, che divenne sempre più grande quando la vide sorridere con il lato della bocca verso terra lasciando finalmente andare la sottana chiara in un gesto che le valse piu’ di mille parole.
Alzò lo sguardo di nuovo verso la stanza intorno a lei, sfiorandone ogni angolo con gli occhi come se fosse la prima volta che vi entrasse, indugiò nei punti in cui prima non si era soffermata, tutto era come se lo ricordava e si ritenne una sciocca: appena era entrata non era riuscita a controllarsi e a non fare quello che si era imposta di fare, il lasciarsi andare.
Fu il suo turno dare voce ai suoi pensieri e ai suoi gesti; ruotò su se stessa e fece un paio di passi in vanti e di lato per osservare meglio ogni piccolo anfratto della camera.
 
«Queste stanze appartenevano a mia madre e a sua madre prima di lei, sono sempre sta invidiosa che non sarebbero mai state mie sapete?» Le disse attirando la sua attenzione e voltando di poco il capo verso di lei, tornado a osservare poi il muro, il letto, le piccole sedie e il tavolino di fronte al camino, l’armadio infondo alla stanza, le tende blu dei bagni coperte dal parasole intarsiato, i tappeti sovrapposti e poi verso l’immensa cassettiera info alla stanza. «Da piccola ero spericolata, una vera furia, non sapevano come tenermi ferma e  mi nascondevo dentro quella cassettiera per sfuggire alle balie o mastro Balin appena si accorgevano di una mia malefatta, ci rimasi perfino incastrata una volta.»
 
Ghìda non riuscì a trattenere un sorriso compiendo dei piccoli passi verso di lei per sporsi meglio nel vedere verso il punto che stesse indicando: seguì i suoi occhi che scrutavano infondo alla sua stanza, vicino alle tende per il bagno dove una cassettiera scura ad ante governava gran parte della parete, abbastanza grande da farci entrare un nano adulto. Nella sua testa si immagino una piccola nana nasconderci dentro. Inevitabilmente però al sol pensiero la sua mente si spostò su ricordi ben piu’ personali, ben piu’ propri: una bambina che immersa con la testa in dei libri pesanti si nascondeva sotto il letto e poi una giovane ragazza che si muoveva sulle lastre bianche del pavimento muovendo i piedi in battaglie nella sua testa, con dei tatuaggi rossastri freschi che le pizzicavano a ogni parata o in attacco.
 
Si portò una mano a sfiorare  le rune sull’avambraccio a quel semplice ricordo, ricordandosi chi era perché le aveva sulla pelle e ciò che ne conseguì a quel gesto, fino a quel momento. «Ne portate dei ricordi lieti.» Si ritrovò a mormorare riuscendo però a mascherare con un sorriso fuggevole i pensieri che vertiginosi le erano saliti alla mente.
 
«Ogni cosa porta dei ricordi lieti e dei ricordi nefasti, ma questa stanza… è uno dei pochi posti in cui ho solo ricordi piacevoli…» Sussurrò la nana di rimando continuando tenere lo sguardo fisso sulla cassettiera e a portare di nuovo le mani sul ventre chiudendola l’una sull’latra in una morsa. «E spero che altri ne abbiano quanti ne ho avuti io.»
 
Non seppe ad un primo momento a chi stesse parlando se a lei o a un qualcosa che non era in grado di vedere, visto il suo sguardo ancora fisso verso il fondo della stanza, ma in qualsiasi caso gli occhi le saettarono sul letto, verso il suo cuscino e verso la sedia ancora ferma attaccata a muro vicino ad esso, rispondendo silenziosa nella sua testa a quella affermazione : si, avrebbe voluto risponderle,  il piu’ piacevole, il piu’ bello che avesse mai avuto, ma non era in grado di rivelarglielo,
 
Come Dìs non sarebbe mai stata in grado di dirle cosa era in grado di vedere in quella stanza: si rivedeva in tra quelle mura dorate e verdi, viva come lo era in quel momento, ma aveva mentito, il piu’ della volte non era Balin a venirla a prendere, colui che la veniva a ripescare era anche colui dalla quale spesso si nascondeva, due occhi verdi e vispi, le nocche le sue già tatuate e coperte di piccole cicatrici che avanzano in un breve invito a seguirlo. Dwalin.
 
Ma era tanto, troppo tempo prima, quando tutto era diverso.
 
Si forzò a cancellare quei ricordi infantili lasciando scomparire i fantasmi di un passato che ormai sapeva troppo ben essere passato, per quanto doloroso, tutto passava, tutto.
 
Voltò il capo verso la figura dietro di se che osservava sorridendo un punto indefinito sul letto rifatto, sulle lenzuola blu e dorate e la pelliccia candida che le ricopriva.
 
«Ve ne ha portati a voi? Questo palazzo, questo regno, da quando siete arrivata qui mia signora?» Le chiese cauta osservandone il profilo, e solo ossecrando con attenzione si rese effettivamente conto che non era una nana, affatto non era la mancanza di barba sulla mandibola, o la punta dell’orecchio che seppur coperta si poteva notare uscirle dai capelli,…erano le sue espressioni. Erano marcate cento volte di piu’: dallo stupore quando era entrata, fino alla guardia su cui si era portata fieramente appena le aveva cominciato a parlare, come il sorriso che per lei poteva sembrare a malapena accennato ma che per una nana era fin troppo accesso. O quel gesto, quella carezza malinconica che era stata in grado di cogliere così come le decine di nani che attaccati alle ringhiere dorate erano rimasti spettatori basiti di quel piccolo gesto verso Thorin, quel piccolo ma prezioso gesto che era stata la goccia definitiva a portarla nella stanza della ragazza in quel momento: se prima Dwalin non sapeva dare una risposta alal alla sua domanda, ora lei la sapeva benissimo e sapeva troppo bene cosa dovesse fare.
 
La bocca di Ghìda infatti si deformò, mossa da dei ricordi dai quali non era ancora riuscita ad uscire, sebbene sentisse lo sguardo della nana ghiacciato su die lei. «Ne ho molti, forse… anche dei piu’ preziosi che abbia mai avuto oserei dire.» Seppur titubante confermò annuendo con la testa ricambiando di nuovo il suo sguardo
 
Dìs le si affiancò a piccoli passi per poter osservare ancora meglio dove stesse guardando ma non notò niente di particolare, per un attimo la sua curiosità di chiederle cosa la facesse sorridere in quel modo la tentò ma poi osservò cosa era adagiato proprio di fronte a lei, sopra il letto,  un oggetto che prima aveva solo sfiorato con lo sguardo ma che ora dovette schivare con i piedi per non toccarne lo strascico che lungo arrivava dal materasso fin a toccare il pavimento; le scappò un sorriso malinconico avvicinandocisi passando lo sguardo su ogni piccola ventura dorata.
 
«Anche questa sera mi auguro ne abbiate dei nuovi…» Le disse  senza staccare mai lo sguardo dal sontuoso abito allungando la mano verso i ricami dorati sul corpetto sfiorandoli leggermente e poi verso sulle maniche spaccate sistemandone una che si era piegata su se stessa distendendola sulle lenzuola. «I banchetti in questo palazzo possono essere alquanto…»
 
«Estremi?»
 
«Imprevedibili.» La corresse ridendo sommessamente quando ricordi ben vividi le si pararono di fronte. «Molti o sono finiti dopo giorni o sono terminati in minacce di guerra tra clan che poi la mattina dopo si concludevano in un nulla di fatto, tutti troppo ubriachi anche per ricordarsi le offese arrecate o con la lingua troppo pungente di tabacco per parlarne.»
 
Ghìda annuì ricordandosi del breve assaggio che aveva avuto settimane addietro, rendendosi perfettamente conto di come quella affermazione potesse essere veritiera, non riuscendo neanche a immaginare, ora che la montagna era di nuovo totalmente funzionate, cosa sarebbe potuto accadere.
 
«Voi amate i banchetti?» Le chiese sinceramente curiosa.
 
Dìs incrociò le labbra pensate per qualche attimo scrollando poi le spalle divertita. «Diciamo che… anche io tornavo nelle mie stanze con la mia dose di dolore alle ginocchia e alle caviglie e di solito anche con la testa così ovattata e con dei i dolori alle tempie così lancinanti la mattina dopo che avrei dichiarato io guerra a un clan se mi avessero svegliato la mattina presto.» Commentò in maniera alquanto esasperata posandosi un dito sulla tempia al solo pensiero lanciando un ultimo occhiata al vestito rosso prima di spostare nuovamente l’attenzione di fronte a se.  «Voi no?»
 
Ghìda si concesse un lieve sorriso mesto. «Nei mari  dell'est tendono ad essere rari e se avvengono si concludono in breve tempo, niente di come ho visto accadere qui.»
 
L’altra annuì, forse conoscendo già quel dettaglio «Ho sentito molte storie sulla vostra terra natia, ma credo che ormai sitate colma delle continue domande, ma è un luogo talmente a sud che credo che pochi in questa montagna l’abbiano visto con i propri occhi.»
 
«Credo di aver potuto dire lo stesso quando sono giunta qui mia signora, se non fosse stato per le canzoni e i racconti avrei anche dubitato che fosse reale, Erebor toglie il respiro.»
 
 «Non vi siete mai spinta così a nord?» 
 
Ghìda sobbalzò lievemente di fronte a quella domanda, ripensando al giorno di quando posò per la prima volta lo sguardo su Erebor vergognandosi della risposta perfino della reazione che avrebbe potuto suscitare, in quegli occhi azzurri che continuavano a fissarla curiosa.
 
«In verità non sono mai uscita oltre i confini dell’Harondor se non per venire qui dopo l’arrivo del corvo a palazzo, è stato il mio primo viaggio oltre i confini del regno.»
 
L’altra annuì formando con le labbra una linea dritta, spingendo le labbra una sull’altra prendendo atto delle parole che aveva sentito e conoscendone già la ragione.
 
«Ho conosciuto vostro padre, ai Colli Ferrosi quando prendemmo Moria, ci fu in incontro con tutti i capi clan, è un signore dei nani che non si dimentica facilmente. Ma voi probabilmente neanche eravate nata, non potete ricordare» Le spiegò con un tono che sia andò ad affievolire a ogni parola, sempre piu’ gentile, sempre piu’ cauta e dalle sue parole, ma quel suo essere cauta non impedì a Ghìda di serrare i denti.
 
Il volto di suo padre le si parò davanti: no, non era un nano che si dimenticava facilmente, così come lei non riuscì a dimenticar quel giorno. anche se flebilmente ricordava anche quello, ricordava la partenza di suo padre, e anche il suo ritorno e anche le sue piccole mani, all’epoca solo di una ragazzina, premute contro la roccia bianca della sua finestra chiedendosi cosa potesse esserci al di là delle scogliere bianche.
 
Gesto che aveva compiuti per tutti quegli anni.
 
«Potrei stupirvi… l’aspetto trae in inganno, il mio lo ha fatto molte volte.» Ammise controllando i ricordi e aspettandosi già la reazione che già aveva imparato a intuire che infatti non tardò ad arrivare.
 
Gli occhi azzurri le fremettero a quella affermazione, inclinando la testa di lato e facendo un ultimo e decisivo passo che le portò a pochi centimetri l’un dall’latra: la studiò dalla testa ai piedi, passando lo sguardo prima alle sue braccia, poi piu’ su verso il collo, in cerca dei segni indelebili del tempo, poi ancora piu’ in alto verso il viso e infine verso i capelli mori alla ricerca di qualche ciocca bianca che ne potesse tradire l’età, ma non ne trovò alcuna e ne rimase quasi senza parole.
 
«Quanti anni avete? Non potete averne piu’ di cento.» Le chiese sicura dell’ultima parte della frase, anche se la sicurezza della ragazza che la osservava con gli occhi scuri quasi divertita le fecero capire che era totalmente fuori strada.
 
«Temo dovrete salire di qualche anno.»
 
«Centoventi?» Le chiese ancora curiosa facendosi ancora più’ vicino, gli occhi azzurri vispi e attenti che le studiavano il viso.
 
Le scappò una piccola risata quando il viso le si contorse in un’espressione accigliata avvicinandosi ancor di piu’ studiando dapprima le sue radici dei capelli, o passando le iridi blu veloci sotto i suoi occhi o sulla sua bocca.
 
«Centocinquantotto fra cinque mesi.»  Rispose infine mordendosi il labbro inferiore lievemente divertita.
 
La bocca della nana si aprì e si chiuse piu’ volte mentre il suo viso si allontanò lentamente di nuovo continuandolo a scrutare forse con ancora piu’ attenzione di prima i suoi lineamenti, soffermandosi ancora di piu’ su dei punti precisi.
 
«Avete la mia stessa età qualche anno in meno eppure…» Sussurrò incredula di fronte a una tale rivelazione, non riuscendosi a spiegare come questo fosse possibile, se l’avesse vista in qualsiasi altro posto: ma la interruppe prima che potesse continuare la frase in una maniera che già conosceva e che già troppe volte aveva sentito.
 
“Sembrate una ragazza.”
 
«La mia vecchiaia secondo i guaritori è solo rallentata nell’aspetto, i miei anni li sento tutti sotto la mia pelle, dovete credermi su questo.»
 
Ed era vero, per quanto il suo aspetto fosse ormai rimasto lo stesso da quasi un secolo: dentro di se era cambiato tutto troppo e, soprattutto in quel momento, osservando le rughe della nana di sfuggita, si ritrovò a desiderarle, così come i ciuffi bianchi che spesso cercava di fronte allo specchio, non trovandoli mai.
 
La parte del sangue di Ghìda che creava sempre più dubbi e incertezze.  I guaritori ad Elcar non sapevano come comportarsi non l’avevano mai saputo fare, da quando era nata, ma infine mentirono al loro signore, che in cuor suo sperava ricevere un'unica risposta ma che loro non gli diedero: era solo uno stadio passeggero. Ghìda figlia di Telkar sarebbe cresciuta e sarebbe invecchiata, se anche avesse vissuto fino alla veneranda età di cinquecento anni, alla fine sarebbe morta, come i nani, come tutti loro, perché la seconda opzione era così terribile che non riuscirono a dirla a nessuno e Ghìda non aveva mai neanche osato pensarci, mai, neanche una volta.
 
«Molte nane sarebbero invidiose di questo dono.» Commentò Dìs sapendo quanto potesse essere vero sorridendole con lato della bocca.
 
«Molte nane non sanno che essere trattata come una ragazzina dopo tutti questi anni alla fine diventi fastidioso.»
 
L’altra alzò un sopracciglio nero divertita. «Ne ho conosciute di molte che preferirebbero cento e cento volte ancora farsi trattare come delle bambine che invecchiare.»
 
Ridacchiarono entrambe, poi l'altra annuì «Allora dovrete presentarmele appena ne avrete l’occasione.»
 
Dìs di fronte a lei annuì con un breve cenno del capo prima di spostare nuovamente lo sguardo verso i suoi capelli, ma questa volta non si soffermò toppo sulla radice, ma guizzarono su e giù in un movimento veloce mente una piccola smorfia divertita le arriccio le sopracciglia; si avvicinò di un paio di passi e allungò dapprima la mano verso il suo viso cautamente facendola irrigidire, ma le labbra incrociate tra di loro e lo sguardo pensieroso non la fecero muovere, solo seguire la mano che con un gesto caute le scostò un ciuffo ribelle dietro le spalla.
Le scostò dal viso un ciuffo che le era scappato dalla presa delle trecce ancora incompiute e pettinandoglielo di nuovo con un movimento del dito dietro la spalla.
 
«Sì, credo di aver trovato una maniera per farvi perdonare la mia intrusione.» Appuntò fieramente e senza che avesse il tempo di domandare a cosa si riferisse allontanò la mano dal suo viso e si girò su se stessa camminando verso il tavolo di fronte al caminetto; solo quando la vide spostare lo specchio che vi era posato sopra  indirizzandolo di lato o contare con il dito tutti gli anelli runici dorati su questo capì a cosa si riferisse e incredula aprì la bocca per dibattere ma non ne ebbe il tempo neanche di fare questo.
 
«Non dov-…»
 
La nana con un movimento cauto scostò con entrambe le mani la sedia facendola gracchiare sul pavimento e fermandole le parole in gola, voltandola da verso il camino che scoppiettava verso lo specchio dorato e le lanciò un’occhiata di incoraggiamento.
 
«Sedetevi.» Le disse lanciandole un’ occhiata di incoraggiamento allungando perfino la mano sulla sedia per invitarla ancora una volta notando il suo scetticismo probabilmente.  «Non mordo ve lo posso giurare» Si pulì le mani l’una sull’altra prima di portarle entrambe sui fianchi con un piccolo ansimo.
 
Ghìda si sentì arrossire passando lo sguardo veloce verso la sedia che le porgeva, colpita, forse anche troppo colpita da un simile gesto e infine sotto gli occhi giudicatori della nana non trovò altra alternativa che annuire, abbassando la testa in un piccolo ringraziamento, prima di muoversi a piccoli passi verso la sedia che occupava fino poco prima.
Vi ci sedette sentendo un piccolo sospiro soddisfatto dietro di lei e in un gesto automatico drizzò la schiena sulla sedia ma il collo in avanti aiutandola a muovere i capelli dalle sue spalle dietro verso il sedile della sedia; si lasciò andare alle folte pellicce su questa, il calore del camino accanto a se cominciava a entrarle nelle ossa di nuovo, così come il leggero calore che dà dentro la scaldava di fronte a quel gesto che anche se così fuori luogo, così fuori da ogni etichetta conosciuta in qualsiasi razza della terra di mezzo.
 
 Ma non le dispiacque affatto.
 
Lascio andare leggermente la testa all’indietro mentre le dita abili della nana si muovevano e si districavano tra i ciuffi, dividendoli e poi unendoli: poteva notare la sua espressione concertata attraverso il piccolo specchio rialzato sul tavolo, o quella accigliata ogni qual volta non riusciva ad aprire un fermaglio al primo tentativo prima di chiudere una treccia.
Si ritrovò piu’ volte a sopprimere un piccolo gemito di dolore o un soffio che invece sfogava stringendo la gonna della sottana ogni qual colta con un po' piu’ di ardore la nana andava a prenderle i ciuffi piu’ nascosti e a tirarglieli il più del dovuto acconciandole le trecce, con una precisione impeccabile, quasi fosse un lavoro minuzioso di oreficeria. E si sentì quasi una bambina, anche se non lo era più da parecchio troppo tempo: seppure fosse un piccolo gioco nel quale Màr si divertiva spesso, a frugarle tra le ciocche e le trecce, a smuovergliele aggiungendone delle nuove e districandogliene altre, in quel momento era diverso, ma non per questo non riuscì a non sopprimere un sorriso.
 
Dìs le prese una ciocca dal lato della testa, passandosela tra le dita più’ volte prima di prender quella accanto e per unirla insieme ma le si bloccò il respiro appena mosse il ciuffo scoprendo il piccolo orecchio appunta impallidendo: grande come quello di un umano era ricoperto di piccoli anelli dorati, quasi uguali a quelli che gli stava impilando nei capelli.
La sua indole, il suo passato, il suo stesso sangue le imponeva di provare un briciolo di repulsione, di disgusto, ma non ci riuscì affatto, ringraziando Durin non provò niente di tutto ciò, seppure ora potesse osservare così bene cosa lei fosse, il marchio indelebile di ciò che lei fosse in realtà, ma non le importò. Ne rimase quasi incantata, non aveva mai visto nulla del genere e mai forse sarebbe mai riuscita a vedere nulla del genere: essere ciò che era, non era colpa sua.
 
Flebili ricordi si fecero strada nella testa, così tanto lontani nel tempo che le sembrarono una flebile carezza, una dolorosa ma flebile carezza.
 
 
“Zio tu hai mai visto un elfo? Loro sono come noi?»
 
«Kili fai mangiare lo zio così puoi andare con lui e tuo fratello a provar-»
 
«No Kili non sono come noi.»
 
«Thorin…»
 
«Ma perché…»
 
«Perché siamo diversi, loro hanno il loro mondo, noi il nostro. E il loro mondo ci ha traditi molto tempo fa.»
 
«Thorin bast-»
 
«Ma hanno, piedi, mani, occhi, non hanno la barba però, ma sono comunque come noi non è così? Anche noi abbiamo queste cose, quindi non siamo tanto diversi non è vero?»
 
 
Il suo soldatino aveva ragione, l’aveva sempre avuta.
 
In quel piccolo frangete forse era rimasta ferma troppo al lungo e il suo riflesso nello specchio sul tavolo l’aveva tradita, rivelando come si era fermata a metà dell’opera con l’occhio puntato sulla punta affusolata che usciva dalle ciocche scure; la mano di Ghìda infatti saettò tremante verso i suoi capelli, pronta ad afferrare una ciocca in avanti per coprirsi.
 
«No.» La bloccò prima che potesse avvicinare la mano, bloccandola a mezz’aria con la sua. «Non fatelo, sono…uniche.» Mormorò stupendosi perfino di se stessa al suono di quelle parole e forse non fu l’unica perché la mano di Ghìda ancora ferma a mezz’aria si chiuse in un pugno lentamente, il palmo che tremava quasi spaventato di fronte alle sue parole.
 
«Siete la prima a definirle così.» Sussurrò guardando verso terra.
 
Spalancò ancora di piu’ gli occhi incredula a quella reazione, soprattutto quando con lentezza cominciò ad abbassare di nuovo la mano e a rimanere ferma e immobile, come una statua: la sentiva rigida sotto il suo tocco, stava tirando la testa in avanti come se volesse sfuggirle, come se avesse perfino paura ad essere toccata di nuovo.
 
Erano solo orecchie, eppure ne provava davvero una simile vergogna.
 
Dìs parve accorgersi di qualcosa, non che potesse del tutto in realtà ma il suo tono l’aveva tradita con molta probabilità perché sentì la presa sui suoi capelli farsi piu’ gentile, tanto da alleviarle la tensione che dalle orecchie le tirava fino al collo; gli occhi azzurri della nana si specchiarono ben presto nello specchio di fronte a se, accostandosi al lato della sua testa sorridendole gentilmente.
 
«Sono orecchie, offendere delle orecchie mi pare quantomeno eccessivo, soprattutto quando sono così a malapena visibili e …» Le fece notare dolcemente prima di spostare di nuovo lo sguardo verso la sua nuca arricciando il naso, puntandolo verso un punto ben definito: qualcosa le sembrò dare fastidio, molto fastidio. «E soprattutto sotto questa montagna di capelli!» Poté perfino giurare di sentirla sbuffare quando con stizza fiondò di nuovo le mani tra i capelli; Dìs cominciò a scostarle le ciocche scure ponendogliele ancora di piu’ alto della spalla per agguantare quelle dietro la nuca con foga: le si erano intrecciate tutte, di nuovo, l’una sull’altra in un insieme di rovi e di nodi che per un attimo le fecero perdere la pazienza.
 
«Nel nome di Durin poi mi chiedono perché li porto sempre legati insieme!» Esclamò fra se e se ma Ghìda riuscì a sentirla benissimo così come un ennesimo sbuffo dalla sua bocca che le smosse con il fiato un ciuffo in avanti solleticandole il naso e facendole scappare un piccolo sbuffo divertito.
 
L’aria intorno a loro era diventata leggera, una mera speranza che entrambe si erano auspicate, e entrambe ne furono grate in un certo senso, Dìs piu’ di Ghìda, che sentiva ancora il senso di colpa ghermirle lo stomaco ogni istante che passava di più in sua compagnia, così come la vera regione della sua visita che le tamburellava nella testa.
Un silenzio privo di imbarazzo si espanse tra di loro, rotto solo dalla musica sempre piu’ alta e da un urlo di battaglia ben più acuto degli altri seguito da diversi battiti di mani che alto giunse fin sopra le stanze reali rimbombando rumoroso, seguito da delle grasse risate che fecero voltare Ghìda verso la porta che non riuscì a controllare una risata ripensando alle parole della principessa.
 
Imprevedibili.
 
Ma fu anche per Dìs un ennesimo segnale che non poteva piu’ permettersi di indugiare: piu’ il tempo passava e piu’ i pendagli sul tavolo andavano a finire e piu’ così anche la sua possibilità di parlare. Fermò la treccia appena completata osservandole il profilo attraverso lo specchio e ora con le mani libere portò una mano all’altezza del petto stringendo il cerchio runico tra le dita socchiudendo lievemente gli occhi appena oltrepasso la piccola runa a forma di V, deglutendo rumorosamente quando rivide di fronte a lei un paio di occhi scuri, dei ciuffi biondi, quando risenti una mana calda sul viso, un paio di labbra sulla sua tempia e un paio di braccia che la stringevano a se, finendo però tutto inevitabilmente a sfumare un paio di mani ferrate e tatuate fino ai polsi intorno alle sue.
 
No, lei quello non lo aveva piu’, non poteva averlo piu’ ma non voleva che suo fratello se ne privasse così, non era giusto e lei, Dìs, figlia di Thràin, non lo avrebbe permesso, non poteva permetterlo.
 
Slacciò le mani dal pendaglio intorno al collo, focalizzando la sua attenzione di nuovo verso la matassa di capelli scuri: ne afferrò una ciocca dietro la nuca, passandosela tra le dita, dividendola lentamente in tre ciocche ben definite dando poi parola ai suoi pensieri.
 
«Vi siete innamorata di lui non è vero?»
 
Gli occhi scuri dapprima fissi sulla porta schizzarono nello specchio osservando il proprio riflesso: la bocca le si aprì e si chiuse ancora una volta, una silenziosa risposta alla sua domanda che inconsapevole la ragazza si era lasciata sfuggire.
 
«Perché Thorin tiene a voi.» Sottolineò sicura delle sue parole.
 
La vide sussultare ancora una volta, ma distolse lo sguardo dal riflesso nello specchio contraendo la mascella in uno spasmo; con quello che fu un gesto netto allontanò la testa in avanti facendole togliere le mani dai capelli e  fece così ricadere di nuovo le ciocche sulla schiena. «Vi assicuro mia signora che il re mi vede solo per ciò che sono e anche io…» Cominciò rigida, ferma ma Dìs non voleva sentire altro, non da un muro, non così.
 
«Di conseguenza» La interruppe bruscamente riuscendo a crepare quel muro di indifferenza che vacillò.
 
«C-cosa?»
 
«Di conseguenza.» Ripeté ancora.
 
Ghìda alzò nuovamente lo sguardo verso di lei. «Non credo di comprendere.» Tentò di sviare il discorso, in qualunque modo conoscesse: sapeva cosa intendesse in realtà, lo sapeva perfettamente ma non era in grado di dirlo a voce alta e nemmeno a pensarlo, non poteva neanch pensarlo per errore.
 
«Io credo che abbiate compreso bene invece.» Ribatté  la nana sicura  facendole stringere il petto in una morsa. «Siete una dama onorevole, leale e siete ciò che il vostro ruolo vi impone, voi sarete ciò che lui vorrà che voi siate indipendentemente da ciò che voi desideriate.»
 
Al suono di quelle parole Ghìda cercò di rimanere calma, fredda, come lo era in quel momento ma il suo corpo la tradì come faceva sempre: si irrigidì e la mani dapprima solo poggiate sulla sottana si mossero andando a cercare un appiglio verso il suo braccio; spostò la mano verso il braccio ferito, posandola sulla cicatrice in rilievo stringendola, ma la nana non aveva finito e disse altre parole ben piu’ devastanti.
 
«Avete cercato il suo sguardo, nessuno mentre patisce un simile dolore cerca il tocco di un'altra persona se non ha la paura che questa gli possa scomparire davanti agli occhi da un momento all’altro.»
 
Non dovette nemmeno chiedere a cosa si riferisse, la cicatrice sotto i suoi polpastrelli riscaldata dal calore sempre piu’ asfissiante del camino era già una risposta, una dolorosa e devastante risposta. Strinse gli occhi gettando lo sguardo basso verso di questa.
 
 «Vedere il proprio re prima di morire credo che sia l’ onore a cui tutti aspirino e anche io l’ho desiderato, se questo rende i miei sentimenti diversi rispetto all’essergli fedele, dovreste porre la stessa domanda a tutti i nani della Montagna.» Ribatté decisa, non lasciando trasparire nulla, mentendo spudoratamente alla nana dietro di se, nascondendosi dietro una menzogna.
 
Dìs scosse la testa di fronte a: non riusciva a vedere il suo riflesso, il viso troppo in alto, ma non fu difficile immaginarsi il viso inespressivo così come la sua voce.  «Voi non avete ancora proclamato nessun giuramento verso il Re Sotto la Montagna, la vostra lealtà dovrebbe essere rivolta verso vostro padre e la vostra gente, il vostro unico desiderio dovrebbe essere quello, mio fratello dovrebbe essere solo il vostro mezzo per onorare un patto, un giuramento e un accordo tra due signori dei nani.»
 
«Dubitate della mia lealtà verso il Re Sotto la Montagna o la mia gente?» Un moto di avversione le proruppe nel petto facendola quasi ruggire di fronte a quella parola, portandosi sulla difensiva: la mano che le strinse il braccio, una rabbia incontrollata e che non riuscì a spiegare.
 
«E’ proprio perché ho visto quella lealtà e quello sguardo che sono sicura delle mie parole e proprio perché so che la vostra fedeltà non è rivolta a un re ma ciò che vi è sotto che rende l’amore verso il vostro popolo ancora piu’ solido e vero. Essere leale a un re, lo sanno fare tutti, essere leali a un semplice nano, è un dono raro.»
 
«Thorin non è un semplice nano.»
 
«No.» Ribatte la nana subito, aggressiva quasi, sembrò ruggirle a sua volta ma il suo tono andò a scemare come se quel no avesse affievolito anche i suoi pensieri.  «Non lo è mai stato e mai lo sarà, e questo lo sappiamo entrambe…» Continuò flebile e calma «Sin da quando era principe tutti, compreso lui, sapevano che non sarebbe mai stato un semplice nano, non voleva neanche esserlo e sapeva anche che non sarebbe mai stato amato come un semplice nano, da… da nessuno.» La voce calma le vacillò quando seppur involontariamente quelle parole la portarono e ricordare una sua stessa frase, che mai come da adesso descriveva ciò che aveva detto alla perfezione.
 
“Ti amavano come un padre Thorin, morire per te, era l’unica morte che avrebbero accettato o l’unica in cui avrebbero sperato.”
 
Dìs dovette aggrapparsi allo schienale della schiena di fronte a lei con entrambe le mani, per incassare il colpo, rimanendo ferma a se stessa ma quel piccolo gesto le fece però ciondolare giù dal collo, in mezzo i seni il ciondolo argentato che ripido le catturò lo sguardo: socchiuse gli occhi rilasciando un respiro tremante. «E sapeva cosa volesse dire, essere amati in quel modo dal proprio popolo: molti sono morti per amore suo anche se per alcuni amarlo è sempre stato un dovere, piu’ che un volere.»
 
Ghìda riuscì a sentire la voce della nana dietro di lei tremare, così come le mani stringersi sul legno dietro la sua schiena; alzò di poco lo sguardo e riuscì a malapena a vedere il suo riflesso: gli occhi azzurri puntati verso un fermaglio runico  legato al collo che le scendeva giù sul petto.
Non stava parlando con lei o almeno non solo di questo era certa: gli occhi azzurri che malinconici seguivano ogni suo piccolo movimento e come un fulmine a ciel sereno dei ricordi non suoi le si pararono nuovamente di fronte agli occhi: due ragazzi, due ragazzi che nei colori grigiastri fissavano una pila d’oro, montagne di monete e poi quel dolore, quella fitta lancinante al petto, quelle grida tra le macerie, il dolore, il dolore di Thorin il dolore di… di Dìs.
 
Riuscì a dare un senso alla frase che le aveva rivolto e con tutta la forza che ebbe in corpo si strinse con fermezza il braccio, tentando di rimanere lucida, tentando di non dare peso alle parole che aveva appena detto, tentando di non dare retta alle fitte al petto che le stavano imponendo di lasciarsi andare. Nel silenzio che passò il volto della nana si fece mano tirato, e lentamente afferrò nel palmo della mano il fermaglio matrimoniale interrompendo il suo ciondolare e nascondendolo di nuovo sul suo petto.
 
«Cosa volete voi?» Le chiese Dìs ancora, ferma.
 
«Rispettare l’accordo stretto da mio padre, riverire l’unione tra Erebor e Elcar, essere la protettrice della stirpe di Durin e della nostra gente e essere la regina che onori il nostro popolo, non desidero altro… non ho mai desiderato altro.» La risposta arrivò chiara definitiva, come se qualcun altro avesse preso possesso del suo corpo e stesse parlando per lei e forse era proprio questo le successe, perché per la prima volta in vita sua quelle parole le uscirono come un’immensa menzogna.
 
Essere una nana, questo voleva, per questo aveva accettato tutto ciò, per essere riconosciuta come tale, per essere degna di essere tale, per essere adorata come tale, per essere vista come tale, per essere quello che voleva essere, ma sbiaditi erano ormai i suoi desideri, tutto si era sbiadito. La sua lealtà era sbiadita, tutto intorno a lei sembrava sbiadito: allora era davvero così, lei non sapeva piu’ quale fosse il suo volere e il suo dovere, o forse adesso era il suo valore il suo stesso dovere.
 
«Essere la sua regina non è così?»  Le chiese a bruciapelo, spiazzandola; alzando lo sguardo di nuovo verso lo specchio, scrutandola così intensamente e disperatamente che sembrò trafiggerle l'anima e così conscia che lei gli stesse mentendo che le rese impossibile per fino esprimere una singola sillaba.
 
Quelle parole la colpirono come una freccia dritta nel cuore, fracassandoglielo e la mano dapprima solo stretta al suo braccio si chiuse ancora di piu’, talmente con tanta forza che ebbe il timore di riaprirsi la cicatrice con le unghie nella carne.
 
La sua regina.
 
Il suo stesso essere regina era legato a lui, lui stesso ne era giudice e carnefice e esecutore, lei sarebbe diventata regina, regina perché lo avrebbe sposato, regina perché lui era re, avrebbe avuto quello che voleva, tutti l’avrebbero amata se sarebbe diventata regina, tutti alla fine lo avrebbero fatto.
Se ora in quel momento, avesse potuto avere la scelta di poter essere regina, di essere tutto quello che nel piccolo cuscino aveva sognato di essere, di essere regina cosi che tutti l’avrebbero accettata, di diventare quello che sempre sarebbe voluta essere, una nana, ma senza di Thorin, senza che lui fosse lì, senza che lei avesse la possibilità di averlo accanto a se, senza che fosse lui stesso accanto a lei, lo avrebbe fatto? Avrebbe rinunciato alla sua via per lui, avrebbe rinunciato ai suoi desideri, per lui? Avrebbe accettato di essere un mostro per sempre, fino a che Mahal non l’avesse reclamata, avrebbe vissuto nel dolore e nella vergogna, per lui, se avesse potuto scegliere, avrebbe scelto se stessa o lui? Perché lo voleva, perché ne aveva bisogno, perché lo amava con tutta se stessa?
 
Non poteva averli entrambi e Thorin aveva scelto per lei: lei sarebbe stata regina, ma lui non sarebbe stato suo, e allora se voleva solo essere regina, perché non riusciva ad accettarlo, perché lo doveva amare a tal punto?
 
Gli occhi le si riempierono di lacrime, la mano ormai stretta al braccio finì per farle quasi male, le unghie le graffiarono la pelle, un enorme groppo in gola le rese impossibile perfino respirare se non a respiri spezzati che sembravano iniettarle veleno a ogni movimento del petto.
 
«Perché siete venuta qui?» Sussurrò con la voce spezzata, le difese ormai abbattute, non ne sentiva neanche un briciolo della sicurezza, sembrava essersi volatilizzata svuotandola e rendendola nuda di fronte a quella verità.
 
Sentì un leggero spostamento d’aria la mano della nana accorta aggrappata alla sedia dietro di lei che cigolando si staccò e poi un vestito blu entrò nel suo campo visivo, così come il volto della principessa che si era inginocchiata di fronte a lei. Lo sguardo dritto nel suo, serio ma talmente triste che neanche la sua compostezza riuscì a celarlo.  «Perché io non ho bisogno di sapere se Thorin Scudodiquercia avrà onore, obbedienza, lealtà da voi, io ho bisogno di sapere, se lo amerete, se amerete il nano che si cela sotto quella corona, voglio sapere se voi, amate Thorin.»
 
Ghìda si morse il labbro mentre quell’ultimo briciolo di lucidità andava scemando e nascose il viso abbassandolo verso le rune deformate dalla stretta sulla sua pelle. «I miei sentimenti verso di lui qualunque cosa accada, rimarranno ciò che il mio ruolo ne richiede, nulla di piu’. Non posso e non saranno piu’ di questo, lealtà, onore, non gli darò piu’ di questo, io non avrò piu’ di questo.» Strinse gli occhi e serrò le labbra in una linea dritta mentre il formicolio sulle labbra aumentava e il calore delle braccia del nano sembrò come riavvolgersi intorno al suo corpo fece piu’ presente che mai: ogni singola parola una bugia, una bugia che la portò a dire la piu’ devastante delle verità. «L’amore di un re è un privilegio che non ho mai preteso e l’amore di Thorin è un dono che non ho mai preteso.» Ammise fatica lasciandosi andare del tutto, rompendo gli argini che la circondavano, liberandola.
 
Dìs la guardò attonita, lo sguardo verso il volto basso che si andò a posare sulla mano rigida intorno al suo braccio, ormai rosso quanto lo stava stringendo celandosi dietro un muro che lei conosceva bene, conosceva fin troppo bene. Cautamente avvicinò la mano alla sua, poggiandola sopra le dita tese della mano che non smisero di stringere neanche quando vi poggiò sopra il palmo circondandogliele in una presa lieve.  «L’amore non lo si chiede, avviene e basta, che sia per destino o per il passare del tempo, arriva che lo si voglia a no. Io non conosco i vostri sentimenti, come non sono in grado di conoscere quelli di mio fratello, lo sapete solo voi, e mi riterrete una sciocca a dirvi queste parole ma se avrete l’amore di un re, lui vi amerà come nessun nano avrà mai amato, come solo un re può amare. Come un re può amare la cosa piu’ preziosa che possiede.»
 
«E quando un re non vuole amarvi?» Sussurrò alzando finalmente lo sguardo verso il suo: gli occhi lucidi, la mano che si sciolse dalla presa, come se quelle poche parole l’avessero svuotata, e in parte era vero, le aveva dato l’ultima definitiva , cosa le ie lei e suo fratello celassero all’intera Erebor.
 
Si amavano, entrambi si amavano, ma la paura di perdere, la paura di scomparire, la paura di se stessi, tutto questo li aveva infine consumati.
 
«Vi amerà il nano dietro il re, e quando questo lo farà non c’è corona o regno che glielo impedirà… mai.»
 
 
 
 
 
 
Il vento freddo gli si scontrava sulla barba scura smuovendogliela a ritmo dei soffi congelati, il fumo bianco che usciva dalla pipa si andava a confondere con i fiocchi bianchi che leggeri si andavano a poggiare sui mucchietti di neve formati tra i pinnacoli del bastione e sul tappeto di neve che ricopriva tutta la vallata. Il silenzio della notte interrotto solo dalle urla e dalla musica dietro di se così radiosa che perfino le finestre di Dale in lontananza sembravano solo luci di piccole flebili candele pronte a spegnersi a contrasto con i sentimenti di Thorin che lo ardevano talmente intensamente che era dovuto andare cercare il freddo della notte e dell’inverno
 
Non era ancora entrato nel salone e già vedeva il suo viso, già sentiva la sua voce e mai nella sua vita si sentì spaventato, non così non a quella maniera, spaventato di ciò che avrebbe potuto fare appena l’avrebbe rivista: la mano sul petto che si fece reale come se lo stesse toccando oltre la cotta in pelle, le parole che gli aveva rivolto un flebile sussurro del vento nella notte che lo abbracciava. Doveva cancellare il suo viso, doveva cancellare quel gesto prima di mettere piede lì dentro, doveva cancellare le sue labbra sopra le sue prima di impazzire: per tutto il giorno non era riuscito a tenere la testa fuori da quei pensieri, l’acqua gelata dopo il loro incontro, il caricarsi di lavoro inutile, costringersi in un lavoro estenuante su inchiostro, carte e lettere.
 
La mano intorno alla pipa gli tremò e si ritrovò a stringerne il bocchino con la punta dei denti: no, lui non aveva ripensamenti e non li avrebbe avuti, il suo giuramento era suo e solo suo.
 
Ma lei, lei dopo quello che aveva fatto ne avrebbe avuti, forse non era solo la paura di rivederla la paura di non sapere cosa avrebbe fatto quando l’avrebbe rivista, forse la sua paura era che dopo aver visto di cosa era capace, Ghìda sarebbe stato in grado di fare quello che lui non era piu’ in grado di fare. E se fosse successo, sarebbe stato in grado di accettarlo?
 
Ma quei pensieri si andarono a spegnere, si andarono a rinchiudere in un angolo remoto del cuore dove li avrebbe sigillati per sempre, e poi li lasciò volare via, traportati dal vento invernale con la cenere della pipa dopo lunghi minuti finalmente spenta.
 
 


 
 
 
 
 
La musica risuonava alta, rimbombando per tutto il salone riuscendo a malapena a sovrastare le alte risate o gli schiamazzi profondi che provenivano da ogni singolo tavolo, un mare di tessuti colorati che si muovevano da lato a lato, trasportando barili ricolmi di birra, vassoi su vassoi con qualsiasi tipo di cibo ci si potesse immaginare.
Pedate per terra, rumore di posate metalliche che sbattevano l’una sull’altra, le urla allegre di alcuni piccoli nani che si rincorrevano intorno ai tavoli nascondendocisi sotto per qualche istante prima di essere scoperti e ricominciando  quindi il giro d’accapo, come Nìm con suo fratello che al primo inciampo su una colonna di marmo furono repentinamente sgridati: ma neanche le urla della loro povera madre riuscirono a fermare quello schiamazzo a cui si aggiunse ben presto il resto della compagnia; altri nani ben piu’ piccoli invece si affacciavano da dietro o da sotto le gonne delle nane sedute, per osservare meravigliati lo spettacolo che molti di loro non avevano mai avuto la possibilità di vedere nelle montagne dell’ovest.
Il calore e la luce delle torce e del camino infondo alla sala riuscivano ad illuminare anche le infinte scale che, dall’entrata scandita da piu’ e piu’ colonne, si potevano osservare in tutta la loro magnificenza, scaldando non solo i corpi ma anche gli spiriti, di quella che molti urlando dai tavoli descrivevano come una notte che “sarebbe passata alla leggenda”.
 
Se qualcuno avesse mai dovuto usare un aggettivo per quella notte? Viva.
 
La montagna era ricolma di una vita e di un calore che le fucine sotto i loro piedi a confronto sarebbero state aggettivate come una landa ghiacciata e inospitale. Centinaia se non quasi migliaia di cuori battevano a ritmo di battiti di mani nella stessa stanza, scanditi dallo sbattere dei piedi o dalle imprecazioni che ogni tanto si sentivano dai droghieri che ormai avevano le dispense svuotate o dei cuochi che con piatti impilati l’uno sull’altro non facevano altro che uscire ed entrare nel salone, schivando per pura fortuna bocconi o pezzi di cibo che volavano da un tavolo all’altro creando delle trincee letali per chiunque avesse problemi di equilibrio.
Intorno a i tavoli decine e decine di nani si stringevano l’uno all’altro in lunghi abbracci mentre decantavano storie, urlavano antichi nomi e leggende oppure raccontavano dell’impresa che sarebbe dovuta essere onorata con quella serata che per molti non era dedicata solo ai soldati che per quel viaggio erano riusciti a riportare l’ultima carovana sana e salva, no era di piu’ : non era solo l’essere riusciti a portare a casa sani e salvi i loro parenti, era l’essere di nuovo tutti insieme, di nuovo a casa tutti insieme, e il merito era solo di un gruppo di nani seduti solo a pochi tavoli di distanza. Il nome di Thorin Scudodiquercia e dei membri dalla compagnia infatti risuonò e uscì ben piu’ di una volta dalla bocca di diversi nani, urlato, cantato, così come il nome di Gandalf Il Grigio e di un coraggioso Hobbit. Molti però in realtà si chiesero cosa fosse un hobbit e vane furono le domande, così come le ricerche che si scambiarono da sedia a sedia: molti se lo immaginarono come un nano molto alto, alti come un elfo molto baso, altri ancora come un animaletto, ma quelli che avevano conosciuto lo scassinatore, ancora ne riportavano dei ricordi felici e potevano confermare che non fosse nessuna delle tre cose.
 
«Oh dateci un taglio vi prego, ho la testa che mi sembra che Mahal mi ci abbia dato una martellata! Per non parlare del piede, mi sembra sia rimasto incastrato sotto una pressa per ore.» Mugugnò Nori portandosi il boccale freddo sull’occhio nero emettendo un gemito dolorante.
 
«Il piede? Ti ha anche pestato un piede Nori? Ti rendi conto che queste cose nella nostra famiglia accadono solo a te?» Si lamentò Dori posandosi un dito sulla tempia studiando il fratello che lo guardò dal basso verso l’alto gemendo dal dolore un'altra volta quando tentò di muovere la mascella.
 
«Oh avanti fratello abbi cuore, se non riuscirò piu’ a camminare chi te le va a fare le commissioni nei mercati a sud della montagna o chi porta i libri a Ori fino a casa?»
 
Bofur che ancora stat stava ridendo sotto i baffi da quando lo avevano visto tornare con il volto basso, scosse la testa avvilito togliendosi la pipa dalla bocca indicandolo con la punta del bocchino. «Si può sapere che le hai detto nel nome di Durin?»
 
«Ha davvero importanza? Non mi sembra che il risultato cambi Bofur.» Mugugnò il nano premendosi ancora con piu’ forza il boccale gelato sulla palpebra sibilando tra i denti.
 
Uno schiocco di una lingua e una risata profonda subito dopo attirarono l’attenzione del tavolo: Dwalin che per tutto quel tempo era rimasto in silenzio aveva puntato un piede sul tavolo indicando il povero Nori con la mano impegnata dalla pinta. «Quando dicono che le donne della nostra razza non sanno assestare dei bei ganci potranno sempre chiedere a Nori, se è la verità. Sicuro racconterai la verità.» Ammiccò lanciandogli un’occhiata oltre le sopracciglia nere bevendo tutto di un sorso il contenuto del bicchiere tra le mani prima di farlo ondeggiare verso il passo puntando l’avambraccio sul ginocchio.
 
Nori borbottò qualcosa stizzito di rimando, imprimendo ancora di piu’ la pinta sull’occhio lasciando andare la testa all’indietro sulla sedia per osservare Dwalin da dietro le spalle di Bofur.  «Ho sempre avuto successo con le nane, questo è stato un caso isolato!»
 
«Infatti vedo che hai un anello runico di fidanzamento nei capelli, fratello.» Ribatté Dori colpendolo sul punto facendolo mugugnare ancora una volta verso il basso.

Bofur si avvicinò a Nori tenendo la pipa solo con le labbra avvicinandosi le mani l’una nella altra in maniera teatralmente sognante e poggiò la testa sulla sua spalla. «Tu sai che la nana che entrerà nella vostra famiglia verrà a conoscenza di tutti i tuoi pregi vero: l’amore per l’arte, per il vino invecchiato, le lunghe cavalcate al chiaro di luna…» Gli mimò in maniera drammatica un piccolo bacio oltre i baffi che inavvertitamente fece cadere un po' di cenere dalla pipa. «E il tuo grande amore anche per tutto ciò che non è tuo.» Concluse facendo partire una risata contagiosa per tutta la tavolata.
 
«Molto divertente Bofur davvero molto.» Appuntò facendogli una smorfia ma appena ci provò gemette un un’ennesima volta piegandosi su se stesso e lasciandosi andare con la fronte sul tavolo.
 
«E russi e anche in maniera piuttosto rumorosa se posso dire» Si intromise Ghìda portandosi il boccale verso la bocca e prendendo un sorso di birra scura facendo scattare lo sguardo di Nori di nuovo su dal tavolo, pallido come un lenzuolo: il panico lo aveva colto facendogli addirittura abbassare il boccale scioccato.
 
«V-voi come fate a sapere che russo?»
 
Ghìda si morse leggermente il labbro facendo spallucce, colpevole. «Diciamo che…quella notte all’accampamento, potrei avere avuto il giaciglio vicino al tuo, o abbastanza vicino, da sentirti chiaramente e da sapere che fossi effettivamente tu.»
 
A quella parola la mascella dolorante di Nori si aprì in una botta sola e il suo pallore si trasformò in un rosso purpureo come il vestito che indossava Ghìda.
 
«Io- io- io no, basta, è troppo bizzarro, vi prego ditemi che non ho fatto altro, che non ho…Oh par la barba di tutti i padri…» Balbettò imbarazzato gettando di nuovo il volto sul tavolo nascondendosi con il braccio e lasciando andare esasperato la pinta sul tavolo borbottando tra le pieghe della manica.
 
Inutile dire che di fronte a tale reazione si levò una risata collettiva, e  una serie di risate e di ammicchi verso Nori che ben presto si andarono a intersecare una serie di battute su vecchi ricordi o vicende che molti cercarono di sottolineare come molto piu’ imbarazzanti rispetto a quello che era appena successo andando perfino a sdrammatizzare
 
L’unico nella tavola che non si unì alla risata era l’unico nano che al contrario di tutti gli altri, faticava a rimanere tranquillo e sereno mentre i pensieri riguardanti Ghìda non l'abbandonavano così come il suo sguardo schivo non riusciva a non spostarsi verso di lei, lottando con la superfice del tavolo per rimanere fermo.
 
Piu’ sorrideva, piu’ sentiva una lotta con se stesso, piu’ rispondeva agli altri nel tavolo, piu’ voleva dare fiato alla bocca, piu’ ne ricambiava i gesti e le attenzioni, piu’ le voleva bloccare la mano nella sua, piu’ partecipava in piccoli giochi tra forchette ammaccate e piatti quasi rotti piu’ voleva tornare ad essere un principe e buttarsi in quelle situazioni troppo lontane da lui da troppi anni.
Come ci riusciva? Come faceva ad essere così? A controllarsi, a celarsi in quel modo? Lui per farlo doveva rimanere in silenzio, chiudersi in una armatura spessa come il ferro grezzo, in cui si stava imponendo di non lasciare che quello che aveva detto a Dwalin, né quello che nella sua debolezza le aveva lasciato compiere di fronte a tutta Erebor, uscisse ancora, mascherandosi dietro il suo orgoglio ancora una volta.
 
Questo lei intendeva con dovere? Ormai il per lei sorridere era un dovere perfino?
 
Era come aveva sospettato prima di entrare in quel maledetto salone, piu’ la guardava e piu’ la desiderava, piu’ voleva solo che gli dicesse che era sua e piu’ la tentazione di smettere con quella farsa di fare ammenda per i suoi peccati proprio lì in quella  diventava troppo da gestire. La sua mente volava ogni manciata di minuti nei piani piu’ alti del palazzo verso l’oggetto che giaceva intonso tra le coperte del suo letto, in quello stesso letto in cui si era ritrovato sudato e preda dei suoi stessi incubi e dei suoi stessi sogni, del suo corpo, delle sue parole e delle sue mani colme di desiderio, lo stesso desiderio che lo bruciava in quel momento.
 
Un mano gli si andò a poggiare su quella stretta sulla fine del bracciolo della sedia, delle dita coperte di tatuaggi e anelli dorati gli strinsero con delicatezza intorno alle sue dita tese; riscosso dai suoi pensieri Thorin si girò verso la sua destra, il volto di Dìs era scostato verso il resto della tavolata, ma la stretta intorno alle sua mano si fece sempre piu’ sicura fino a che non girò leggermente le pupille donandogli un piccolo sorriso con il lato della bocca, nascosto a tutti tranne che a lui.
 
Tu sai sempre tutto non è così sorella?
 
Si lasciò uscire un sospiro e ricambiò la sua stretta portandosi la sua mano verso la bocca e lasciandole un fugace baso sul dorso e poi sulla punta delle dite a cui lei rispose con una stratta leggermente piu’ forte prima di lasciar scivolare via le sue dita dalla mano che, di nuovo libera, andò ad afferrare la pinta di fronte a lui bevendone tutto il contenuto in un sorso diventando di nuovo lo spettatore silenzioso che era sempre stato, uno spettatore silenzioso di quella sua personale tortura.
 
Ghìda invece non era tranquilla, affatto, si stava sforzando di sorridere piu’ del dovuto, di urlare piu’ del dovuto e di non guardare assolutamente alla sua destra, mai neanche una volta. Mahal solo sa quante volte aveva dovuto mantenere lo sguardo basso per non osservare di nuovo la seduta reale, o di quanto si sia dovuta alienare nelle grida e nella musica sempre piu’ alta tutto intorno alla sala. Entrambe quelle cose  erano riuscita un minimo a cullarla, così come la birra che pian piano le cominciava a salire alla testa, facendogliela ondeggiare dolcemente di tanto in tanto, ma le parole di Dìs, quelle parole non la lasciavano in pace neanche un attimo.
Da una parte voleva andarsene e aspettare, dall’altra parte avrebbe solo voluto prendergli il viso tra le mani e rischiare tutto, ma il poter sentire il suo odore di cenere mischiato al pino, percepire perfino il suo calore che sovrastava quello del camino nel fondo della sala o il rumore del suo respiro pesante che inghiottiva le urla le rendeva il tutto ancora piu’ difficile.
E da quando era entrata non poteva farci assolutamente nulla, sentiva il suo sguardo addosso, sentiva Thorin: sulla sua fronte, sulla sua bocca, sotto le sue mani, sul suo collo; il non poterlo vedere la logorava, e piu’ tentava di far finta che non esistesse, piu’ le sembrava di ferirsi da sola.
Come in quel momento: piu’ osservava Glòin muovere le mani per aria raccontando di suo figlio Gimli, piu’ lo sentiva come una lama dietro la schiena, piu’ la mano che aveva sul grembo afferrava il tessuto del vestito, piu’ questa voleva muoversi dietro di lei ad afferrare la sua.
 
Accanto a lei Balin non era riuscito a non notare le mani strette nel tessuto ed era abbastanza saggio e vecchio ormai da sapere a chi fosse dovuto quel comportamento, così come lo poteva intuire da Thorin dietro di lei che non le staccava gli occhi di dosso neanche per un attimo. Per quanto avesse sperato che la situazione si risolvesse in poco tempo, quel comportamento gli fece capire che non era stato affatto così e suo fratello era stato ben muto su quello che era accaduto quella mattina, anche se l’avvenimento si era venuto a sapere a macchia d’olio nel giro di un paio d’ore.
 
Incredibile come si possa amare e come al contempo si possa odiare la stessa persona, o quanto l’orgoglio riesca ad annullare entrambe le cose rendendole nulle.
 
« State bene, ragazza? » Le urlò Balin, sporgendosi verso di lei e facendola sobbalzare sulla sedia, impegnata com'era ad osservare gli altri.
Ghìda batté un paio di volte gli occhi scombussolata sorridendogli con il lato della bocca. « S-si sono solo molto stanca.» Gli rispose, cercando di alzare quanto più possibile il volume di voce per farsi sentire.
 
Òin accanto a Balin che l’aveva sentita fece un'espressione preoccupata, aggrottando la fronte e si fece in avanti verso di loro «Hai male all'anca?»
 
Ghìda lo guardò confusa, per poi scuotere la testa e sorridere; portò le mani a coppa e gliele poggiò sull'orecchio, ripetendogli la frase. Il nano, allora, annuì e le indicò il braccio destro con la mano libera, puntando il dito.
 
«Posso mia signora?» Le chiese allungando il lato della testa con la tromba di bronzo per sentire una risposta sotto lo sguardo curioso come quello di Balin in mezzo al loro.
 
«Si certo.» Annuì sorridendo nervosamente e si lanciò una mano verso il braccio sul ventre e con uno scossone fece scivolare i lembi della manica biforcuta dall’avambraccio scoprendo tutto il braccio e la cicatrice su di esso.
 
Portando il braccio verso il tavolo, lo distese attentamente, mostrando al vecchio nano per tutta la lunghezza l’avambraccio e la cicatrice perlacea che, seppur al centro ancora rosa accesso, stava guarendo totalmente: attentamente si tenne la manica girando e rigirando il braccio per mostragli tutto e due i tagli dei canini.
 
«Mhmm bene bene.» Borbottò Òin tra se e se afferrandole gentilmente il polso e aiutandola con i movimenti bloccandola quando notava qualcosa di sospetto. «Quella sul fianco come va?» Chiese passando il pollice sopra una delle cicatrici studiandola con attenzione.
 
«Allo stesso modo, non mi fanno male, sono guarite del tutto.»
 
Balin accanto a lei annuì entusiasta avvicinandosi a sua volta verso il braccio tirato di fronte a lui passando gli occhi su entrambe le lacerazioni, che si ricordava ben peggiori di quelle che adesso aveva di fronte agli occhi e se ne rallegrò.
 
«Si è già cicatrizzata così bene ragazza? Beh dovete avere dei poteri magici per far guarire una ferita del genere in così poco tempo»
 
«Nessun potere magico, ho avuto un ottimo curatore, davvero mastro Òin, grazie» Ringraziò il vecchio facendogli un piccolo inchino con la testa ritraendo poi con attenzione il braccio oltre Balin che continuava ad osservarlo e cautamente così come Òin che le sorrise scuotendo la testa prima di prendere la parola.
 
«Non dovete ringraziare me ragazza, non posso prendermi tutto il merito e non siete stata se ve lo posso dire una paziente facile, ma dopo la prima notte è stato tutto un viaggio in pianura. » Ridacchiò annuendo un’ultima volta verso il suo braccio e di punto in bianco si adombrò rendendosi conto solo in quel momento di ciò che aveva detto
Thorin che stava ascoltando la conversazione con attenzione fremette a quelle ultime parole facendo saettare gli occhi verso il nano stringendo la mascella e come la vide chinare il capo assottigliò lo sguardo puntandolo verso il tavolo, non reggendo il peso di quelle parole, non riuscendo raggere il peso di quei giorni o anche solo il ricordo di ciò che aveva visto, e di come l’aveva vista.
 
Ghìda abbassò lo sguardo annuendo distogliendolo dai due nani che si lanciarono delle brevi occhiate rammaricati, nel frattempo Òin dentro la sua testa si maledì maledisse da solo per la sua lingua lunga; Ghìda d’altro canto sfiorò per tutta la lunghezza la cicatrice e il suo spessore socchiudendo gli occhi mentre i suoi pensieri a differenza di quelli di Thorin si andarono a posare su quando si era risvegliata e cosa aveva provato nel vederlo lì al sapere che lui era sempre rimasto lì.
 
Bofur dall’altra parte del tavolo aveva seguito il breve scambio di battute e captò quel piccolo segno, quel suo ennesimo adombrarsi su se stessa e di una cosa era sicuro in quel momento, quella sera non voleva vederla così, non quella notte;  senza indugiare oltre posò la pipa sul tavolo ed esasperatamente si indicò scuotendo le alette del colbacco intromettendosi nella discussione.
 
 «Sappiamo tutti di chi è il merito qui in mezzo, chi le portava le vere medicine tra voi, erbe e unguenti non sono nulla in confronto alle vere medicine!» Esclamò tirando su il boccale di birra che teneva tra le mani, facendola sorridere di fronte a quel piccolo ricordo, ma a Bofur non bastò affatto.
Con un gesto ancora piu’ teatrale si alzò in piedi facendo strusciare la sedia sul marmo verde e si tolse il cappello facendo un regale e ironico inchino. «E poi mia signora concedetemelo ma non vi ho ancora fatto i complimenti per il vostro aspetto questa sera, di tutte le gemme della montagna voi dovete essere in assoluto la piu’ lucente e la piu’ rara, bella come una collana in mithril e rubini e mi ritrovo a dire e ben piu’ preziosa!»
 
Partì un giro di risate e di alcuni sospiri, compreso quello di Bifur che scosse la testa lanciandogli un’occhiataccia. «Ora ti arriva a te un pugno se non la pianti cugino.»
 
Ghìda invece stette al gioco, mentre un largo e sincero sorriso si fece spazio, riuscendo a malapena trattenere una risata. «Oh quale onore mi fate mastro Bofur e cosa devo tutti questi poetici complimenti da parte vostra?» Rispose teatralmente posandosi una mano all’altezza del petto portando a ridacchiare l’intera tavolata, ma a rivolgere verso il nano un’occhiata grata.
 
Si Bofur, non sai quanto rendi l’aria piu’ leggera.
 
Bofur notando la sua reazione lasciò il boccale e si portò il cappello con entrambe le mani sul petto e puntò perfino un piede sul lato del tavolo in posa trionfante con un braccio verso il soffitto ma non ebbe il tempo di dire nulla che una piccola voce incerta lo anticipò.
 
«Al fatto che lo siete davvero.» Ghìda sulle prime ammutolì facendo schizzare lo sguardo verso il giovane nano raggomitolato sul tavolo con la bocca stretta e i goti arrossate dall’imbarazzo,  ma poi pian piano si ritrovò ad arrossire di fronte a un complimento talmente sincero che fece sorridere tutto il tavolo, compreso il Re Sotto la Montagna, che lo coprì velocemente con un pugno sulla bocca.
 
«Ti ringrazio, Ori.»
 
Mormorò sorridendogli gentilmente facendogli abbassare ancora piu’ la testa verso il libro, quando  Nori gli posò una mano sulla testa  del fratello affettuosamente seguito dal piu’ grande dei tre che lo guardò fiero  e dandogli una piccola palla sulla spalla.
 
D’un tratto una botta sul tavolo fece ridestare tutto la tavolata facendo saettare tutti gli sguardi verso il Bofur che sorridente e con la schiuma della birra tra i baffi aveva sbattuto il bicchiere sul tavolo drizzando la schiena ancora con un piede sul tavolo. «Bene ragazzi, ho bevuto abbastanza birra e ho sentito abbastanza delle vostre sciocchezze da sapere che è il momento!» Urlò alzandosi in una botta sola con entrambe le mani salendo sul tavolo, facendo ben capire a tutti i nani seduti le sue intenzioni facendone sbuffare o lamentare la maggior parte.
 
«Nel nome di Durin non di nuovo, per tutti i padri ve ne prego…» Si lamentò Dwalin tirandosi ancora piu’ indietro sulla sedia con il collo chiudendo gli occhi già pronto a quella tortura,  non si preoccupò neanche di spostare il suo piatto che Bofur gli tolse da sotto il naso. Prese una boccata di pipa ma di tutta risposta ricevette una gomitata sulle costole da Dìs che invece sembrava davvero pronta a sentire quel supplizio, facendogli sputare tutto il fumo bianco dalla pipa.  Gli lanciò un’occhiataccia mimandogli con la bocca uno “Fai silenzio” prima di spostare di nuovo lo sguardo verso Bofur che insistentemente spostava i boccali di lato o e puliva il tavolo con le maniche dai residui di cibo gettandoli per terra.
 
Aprì un occhio osservando la nana che invece spostò  le stoviglie ancora piu’ lontano dal posto di Bofur creando una piccola torre di piatti di fronte a lei. «Non hai idea di cosa accadrà vero principessa?» Le sussurrò attraverso la pipa ma di tutta risposta ricevette un’altra occhiataccia e un'altra botta sul costato che gli strappò questa volta un leggero lamento sommesso.
 
Bofur d’altra parte non demorse, anzi forse continuò con ancora piu’ entusiasmo di prima, cominciando a spostare i piatti di fronte a se con grandi movimenti delle braccia, a muovere le piccole candele o a spegnerle con un soffio lanciando un’occhiata di incoraggimanto verso il tavolo che rimaneva attonito.
 
«Ragazzi sposte le stoviglie, datemi una mano, questa notte perfino i Valar vorranno sentire le nostre canzoni e Durin ce ne scampi che non ne arrivi uno veramente!» Disse a voce ancora piu’ alta che si andò a piegare in un leggero lamento allungando un piede fece cadere apposta un boccale vuoto a terra liberando quasi del tutto il tavolo se non fosse stato per qualche rimasuglio di cenere.
 
«Bene fratello, credo che si arrivato il momento di andare a dormire.» Annunciò Bombur accanto a Bofur alzandosi quasi barcollando con una mano sulla pancia a una intorno a un boccale di birra cominciando a camminare via ma venne repentinamente trattenuto dalla mano del fratello che da sopra il tavolo gli agguantò il colletto della cotta tirandolo di nuovo indietro.
 
«Stai fermo tu! Non sarò io a deliziarvi questa notte, o non del tutto almeno…» Continuò facendo accigliare il povero Bombur che si massaggiò il collo confuso dopo quella stretta passando lo sguardo su ogni membro della tavola che aveva la sua stessa espressione accigliata, compreso Thorin che infondo ad essa che osservò il nano in piedi sul tavolo ancora piu’ confuso quando si pulì le mani sulla giacca e si schiarì la voce teatralmente.
 
Per un attimo il pensiero che Bofur fosse troppo ubriaco perfino per rendersi conto di ciò che stesse dicendo fu l’unico pensiero che passò nella mente di tutti, fino a che non fece un leggero inchino verso una figura precisa della tavolata, che invece si portò una mano sulla fronte quasi a celarsi da tutti gli sguardi, ma durò poco, il suo desiderio che ciò non accadesse durò troppo poco, per quanto potesse continuare a coprirsi con la mano o a guardare verso il basso la mano del nano si andò presto a distendersi di fronte al suo viso in un gentile invito.
 
«Mia signora è arrivata l’ora di rendere reale il vostro desiderio.» Esordì Bofur facendo calare il silenzio  per la tavola, tagliando di netto i lamenti e attirare ancora di piu’ lo sguardo sorpreso di Thorin verso la mano tesa, bloccando il sorso che stava per ingurgitare inchiodando di netto il volto verso Ghìda, accanto a se ora senza possibilità di scampo alcuno.
 
«Abbiamo fatto un accordo e visto che la vostra parte è stata rispettata e siete qui questasera questa sera è il momento di onorare la mia.» Ripeté ancora cercando di chiarire il pensiero a tutti e di incoraggiare Ghìda che osservava titubante l sua mano ancora tesa.
 
«Non era questo quello che intendevo Bofur.» Tentò di svincolarsi ma il nano non le diede possibilità di continuare a ribattere sbuffando con il lato della bocca e allungando ancora piu’ la mano verso il suo viso nell’incredulità collettiva.
 
«E come intendevate? Cantare in una stanza buia senza nessuno che possa sentirvi a parte me o quando tutti ormai sono così ubriachi da non sentire una parola? Se bisogna intrattenere uno spettacolo bisogna farlo nella maniera corretta e c’è solo una maniera per farlo durante i banchetti in questa Montagna.»
 
«Avete accettato una cosa del genere? O siete folle o Bofur è piu’ incantevole di quanto pensavamo.» Chiese incredulo Dori osservandola con gli occhi sbarrati e puntandoli poi verso Bofur ancora disteso in un profondo inchino
 
«Una vera bellezza piu’ unica che rara» Rispose alla piccola provocazione ondeggiando il cappello e le falde scostandosi con una mano un delle trecce spettinate.
 
«Togligli la birra!» Sussurrò Bifur verso Nori avvicinandosi scostando di poco il piatto che aveva di fronte, incenerendo il nano che incredulo stava lasciando l’erba nella pipa consumarsi.
 
«L’ho già fatto, tre volte.» Sussurrò di risposta Nori accigliato chinandosi in avanti  indicando il fondo del tavolo con Ori che seppur non avendo bevuto quasi niente era circondato da pinte piene e intonse che Nori durante la serata era riuscito a far sparire sotto gli occhi di Bofur sostituendole con alcune già vuote.
 
«Non è abbastanza, sai cosa fa quando beve troppo!» Sussurrò di nuovo il nano con il ciuffo bianco non conoscendo in realtà le buone intenzioni del cugino che non era affatto ubriaco, anzi, forse era una delle poche volte che era totalmente lucido.
 
Bofur infatti si schiarì la voce ancora una volta prima di ripete gli stessi gesti che aveva compiuto poco prima con molta piu’ enfasi: si tirò su, allargò le braccia in una linea diritta e poi fece un profondo inchino portandosi una mano al capello per non farlo cadere.
 
«Mia signora, mi fareste l’onore di salire su questo sontuoso tavolo ed essere al mio fianco in questa gloriosa notte?» Le chiese nuovamente e di nuovo le porse la mano libera alzando di poco lo sguardo verso di lei.
 
Ghìda osservò dapprima la mano incerta, tutti gli sguardi erano puntati su  di lei, entusiasti e altri stupiti di quello che Bofur le stava proponendo sorridente, avvicinando la mano ancor piu’ verso di lei: dovette ammettere la sconfitta non appena le fece un breve occhiolino che le chiarì subito le sue intenzioni.
Infine sospirando annuì verso Bofur allungando la sua mano da sotto il tavolo verso quella del nano afferrandogli il palmo coperto dal piccolo guanto di lana.
 
«Molto bene» Proclamò infine alzandosi dalla sedia tenendosi con l’altra mano il vestito pronta a seguire il nano in questa folle e assurda scelta.
 
«Siete ancora in tempo per tirarvene indietro.» Borbottò con la mano di lato alla bocca Glòin tirandosi indietro con la sedia per osservarla mentre tirandosi su il vestito saliva sopra la sedia  e poi sul tavolo facendola ridere sommessamente anche se infondo quel piccolo momento, seppur la terrorizzasse, le scaldò lo stomaco rendendole impossibile smettere di sorridere.
 
E questo fu notato, eccome se fu notato, da ogni singolo nano.
 
«Bene ora che è tutto pronto… » Bofur non dovette neanche finire la frase perché si portò talmente vicino alla testa di Ghìda, con una mano vicino al suo orecchio, che anche se avesse detto altro non sarebbe stato comprensibile da nessuno tranne che alla diretta interessata
 
Ghìda annuì con la testa mentre le varie scelte le venivano proposte nell’orecchio: Ori curioso si tirò in avanti per ascoltarle sovrastando con il petto il libro sotto di se, Òin d’altro canto si portò piu’ vicino all’orecchio la tromba ma nessuno riuscì a captare nulla che non fosse una risata allegra di Bofur non appena Ghìda si girò per parlargli a sua volta all’orecchio.
 
«Molto bene…»
 
Tutti capirono che la scelta era stata compiuta quando Bofur con un gesto ampio le passo un braccio intorno alle spalle stringendola al suo fianco e cominciò a tenere il tempo con il piede osservandola di sottecchi aspettando che lei facesse lo stesso. Sorridendo Ghìda cominciò a battere le mani in alto verso la sua testa lasciando le maniche del vestito aprirsi del tutto mostrando entrambe le braccia nude.
 
«Al mio tre: uno, due… »




Oh! Oh! Oh! Ho bisogno del liquore dal bel colore
Per guarire il mio cuore e ed annegare il mio dolore.
La pioggia può cadere ed il vento soffiare,
E' lunghissima la strada che mi resta da fare,


 
 
Bofur cominciò a cantare urlando squarciagola  la melodia ben conosciuta a tutta la tavola se non piu’ conosciuta dall’intera Erebor, se non piu’ conosciuta da tutti i nani della Terra di Mezzo, seguito ben presto dalla voce soprana di Ghìda affianco a lui che continuava guardarlo con un’espressione che da incerta si distese sempre di piu’ trasformandosi ben presto in un coinvolgente sorriso che venne ampliato ancora di piu’ quando alzò la voce tanto quanto quella Bofur, e ben presto la tavolata dapprima stupita e senza parole, le ritrovò tutte, se non piu’ di prima. Cominciarono dapprima a muovere le teste, poi a battere le mani e ben presto ogni singolo nano o nana sul tavolo cominciò a cantare a squarciagola unendosi ai due cantanti in piedi sul tavolo.
 
 

Dolce è della pioggia che cade intorno il suono,
E del ruscel che scorre dal colle al pianoro;



 
 
In meno di due strofe, si scatenò una baraonda che riuscì a coinvolgere tutti i tavoli intorno a quello reale che a loro volta cominciarono a battere le mani sui tavoli a lanciare avanti di cibo a stringersi l’uno all’altro cadendo spesso anche l’uno sull’altro, a gettarsi sopra le sedie cantando a loro volta o salendo sui tavoli improvvisando danze o piccole scenette che rappresentavano la storia raccontata tra le strofe.
Bofur preso dalla canzone afferrò il braccio di Ghìda e cominciò a danzare tenendole le braccia e facendola piroettare piu’ di una volta su se stessa e facendola strillare fragorosamente quando la portò giù con un movimento rapido e poi di nuovo su  facendola ridere e cantare allo stesso tempo così intensamente e senza pensieri che Ghìda si ritrovò con le lacrime agli occhi incapace spesso di finire una strofa.
 
Dwalin che fino a quel momento stava solo tendo il ritmo con i piedi sotto il tavolo sentì due braccia afferrarlo da dietro e stupito si voltò di scatto ritrovandosi il viso di Dìs a un centimetro dalla sua faccia raggiante come non pensava di averla mai vista da quando era tornata ad Erebor.
 
«Avanti musone figlio di Fundin! Balla con me, come ai vecchi tempi!» Gli urlò nell’ orecchio per sovrastare tutte le voci e con un movimento repentino gli tolse il boccale dalla mano e senza che ebbe modo neanche di rendersi conto di ciò che stava succedendo, lo tirò via dalla sedia prendendogli entrambe le mani.
 
Si ritrovò trascinato in mezzo alla sala, con le mani nelle sue che ben preso si postarono una sulla sua spalla e una si andò a intrecciare prepotentemente con la sua, trascinandolo in una danza esuberante che lo lasciò senza fiato.
Dwalin non ebbe neanche piu’ la forza di controbattere, e in quel momento non lo avrebbe fatto neanche se Durin, se Mahal, se Yavanna, se chiunque altro Valar glielo avesse ordinato e per la prima volta in vita sua si ritrovò a danzare con lei tra le braccia in mezzo tutta la sala di Erebor, sotto gli occhi di tutti, sotto anche gli occhi sgranati di Balin che cominciò a cantare ancora piu’ forte rispetto a prima e a battere le mani sorridendo verso il fratello che impacciato seguiva i movimenti di Dìs, voltandosi poi verso tutti i tavoli ridendo verso tutta l’atmosfera che per un piccolo capriccio di Bofur si era venuta creare intorno a loro.
 
Solo un nano, solo un viso non era disteso, solo un animo era incatenato in un incantesimo che lo stava facendo bruciare.
 
 

 
Ma meglio della pioggia e dell'impetuoso torrente
D'acqua fredda il bisogno noi risentiamo a volte
Per cavare la sete e procurar sollievo;
Ma in questi casi è meglio di Birra una botte
E giù per la tua schiena Acqua Calda a dirotto.

 
 

 
Thorin la guardò danzare, il vestito rosso che si mosse in ogni folle movimento nel quale Bofur la spingeva, mentre ruotava in mezzo al tavolo tra piroette o piccoli saltelli a ogni suono acuto che doveva emettere, il lasciava andare con il collo indietro cantando; strinse con forza i poggia braccia della sedia facendola cigolare non appena nel muovere i capelli per fare una piccola piroetta, le vide un segno rossastro e violaceo alla base del collo ben esposto verso di lui, ricordandogli come un monito a cosa si era lasciato andare per quei pochi secondi che aveva spento ogni sua inibizione, come l’aveva voluta rendere sua.
Un fremito gli partì dal basso salendogli su fino al petto, fino alla gola: lei era immune a tutto ciò, e lui invece sentiva la ragione venirgli meno, e i desideri che erano solo rilegati nei suoi sogni ora stavano diventando estremamente reali, troppo reali, avrebbe dato qualsiasi cosa per reclamarla lì adesso anche sul tavolo, ma il tutto stava diventando troppo e la birra che stava ingurgitando da ore non lo aiutava affatto.
Si ritrovò a stringere la mascella furiosamente non appena Bofur le mise una mano sul fianco per farla inclinare all’indietro cantando: la stava desiderando a tal punto che per Durin stava perdendo perfino il senso della ragione e del controllo.
 
Espirò profondamente fece scivolare lo sguardo azzurro sul suo corpo, e sul vestito che indossava, ai piccoli ma preziosi lembi di pelle che mostrava a ogni movimento, al sorriso, che le marcava il viso : non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era bellissima, troppo bella.
 
Ori aveva ragione.
 
Bofur aveva ragione.
 
Era la cosa piu’ preziosa che ci fosse in quella montagna.
 
Lanciò un’occhiata verso il boccale di birra che aveva davanti: invece di una doccia fredda avrebbe funzionato, o almeno avrebbe funzionato per metterlo al tappeto quel poco che bastava per far passare quella serata.
Si allungò verso di questa sportandosela alla bocca e buttandone giù piu’ della metà in una botta sola, ma neanche mentre beveva riusciva staccarle gli occhi di dosso, neanch quando a canzone finita l’intero tavolo e i tavoli che li circondavano si alzarono in piedi applaudendo rumorosi, sbattendo i piedi e le mani e urlando a squarciagola facendo partire dei fischi alti che tintinnarono per tutta la sala.
 
La osservò da dietro il boccale di birra, il sorriso ampio che rivolse a tutta la sala ansimante mentre Bofur la fece piroettare un’ultima volta e rimanere con le braccia in alto per dei lunghi istanti prima di essere trascinata in un profondo inchino che per poco non le fece perdere ancora l’equilibrio facendola ridere a squarciagola nel frattempo che gli applausi e le urla di incoraggiamento divennero ancora piu’ alti.
 
«E’ strato così disonorevole mia signora?» Le urlò Bofur nell’orecchio sovrastando tutte le urla e i battiti di mani e schivando un pezzo di pane che lanciato gli sfiorò il cappello.
 
Senza riuscire a smettere di ridere Ghìda lo guardò scuotendo la testa, scossa dagli ansimi e dalle risate che dal petto sembrarono non finirle mai, entusiasta come non lo era mai stata in vita sua. «No, no affatto» Gli urlò a sua volta nell’orecchio portandosi una mano vicino alla bocca facendolo sorridere grato, sapendo probabilmente o almeno avendo intuito ciò che sentiva in quel momento e le strinse con ancora piu’ forza la mano ancora nella sua.
 
«Ne sono felice, ne sono davvero felice mia signora.» Le rispose e con un piccolo cipiglio smosse i baffi osservandole la nuca e con la punta delle dita le tolse qualcosa, mostrandole poi una foglia di insalata che le si era incastrata tra i capelli.
 
«Chiamami solo Ghìda, Bofur.» Gli mormorò sorridendogli.
 
«Ne sarò felice, Ghìda.» Le annuì ancora sorridendo prima di rivolgerle un piccolo inchino con la testa cui lei rispose teatralmente con uno ancora piu’ profondo portandosi indietro la gonna, ma appena lo fece sentì di nuovo sotto di se il tavolo muoversi e si drizzò su se stessa scossa. Non seppe se per la birra o il tavolo scivoloso, non lo voleva neanche sapere, ma era piu’ che certa che si sarebbe rotta l’osso del collo prima o poi.
«Ora chiedo perdono, ma pima che perdo di nuovo l’equilibrio è meglio che scenda.» Ammiccò verso Bofur prima di lasciargli cautamente la mano sotto lo scroscio di urla e applausi che non sembrava fermarsi, ma che si andò solo a confondere con altri balli e canzoni che erano ricominciate dal fondo della sala fino a loro.
 
Con cautela si alzò il lato del vestito di nuovo, che strusciava di fronte ai suoi pedi e inondando la gran parte del tavolo di tessuto rosso; fece attenzione a non toccare nessuna stoviglia avanzando a piccoli passi verso la sedia sulla quale era seduta fino a poco prima.
Cercò di allungare la mano verso lo schienale per crearsi una leva per poter scendere dal tavolo ma prima che potesse tentare di poggiarsi sullo schienale di legno, fin troppo lontano, una presa venne in suo aiuto sorreggendola repentinamente e sostituendo il freddo del legno con un calore talmente familiare che le bloccò il respiro e il passo.
 
Alzò lo sguardo scioccata verso l’alto e in quello che fu un istante incontrò gli occhi di Thorin e il mondo si spaccò di nuovo a metà: aveva cercato di evitare quello sguardo tutto la sera, aveva lottato contro se stessa per non guardarlo e ora invece ne era obbligata. Qualcosa però era cambiato, la guardava così intensamente che senti come se l’anima le si fosse spezzata nel petto: era desiderio, no era quello sguardo, quello che l’aveva incatenata sul tavolo quel pomeriggio.
Qualsiasi parola le manco dalla bocca, le stese parole che lui non le aveva rivolto sembrarono come se gliele stesse rivolgendo con quello sguardo, ma lei non voleva vederlo, lei voleva che glielo dicesse, voleva che le dicesse qualcosa, qualunque cosa: avrebbe voluto lasciarlo andare ma il corpo le agì per conto proprio, facendole stringere la mano di Thorin come se potesse cadere da un dirupo, incrociando lievemente le loro dita.
 
Come se potesse sentire i suoi pensieri Thorin le poggiò lentamente una mano sul fianco e senza chiederle il permesso o dirle nulla la sorresse con tutto il peso, accompagnandola nella piccola discesa dal tavolo, posandola poi con cautela a terra con una lentezza tale che stette quasi per pensare che la stesse trattenendo in alto di proposito e mai volle di piu’ che non la lasciasse andare, fino a che disperata sentì di nuovo il pavimento sotto di se a l’altezza di Thorin la sovrastò di nuovo.
 
«Grazie.» Mormorò tra gli ansimi e in un movimento che le costò tutto il suo coraggio sciolse le dita dalle sue ma Thorin non fu della stessa idea, seppure le lasciò la mano le tenne la mano sul fianco. La trattenne lì ferma immobile in quel limbo di niente, in quel limbo odioso in cui si ritrovava sempre eppure quella volta quel limbo le bastò, quella mano sul suo fianco che sentì sempre piu’ salire le bastò, eppure non doveva andarle bene, neanche quando Thorin le osservò il collo e puntò l o sguardo proprio in quel punto.
La mano libera che prima le teneva la mano si allungò verso il suo viso e in quello che fu il gesto piu’ delicato che sentì mai in vita sua, le andò a prendere una ciocca di capelli e passandosela tra le dita gliela, senza però rimuoverne mai lo sguardo da sopra il segno sul collo, se non per guardarla di nuovo dritta negli occhi quando ve la poggiò sopra.
Fremette girando la testa dalla parte opposta alla sua mano fino a che non sentì le sue dita sul collo spostarle i ciuffi di capelli verso il petto e sembrò quasi accarezzarle la  pelle nuda, indugiando sul suo collo: si morse l’interno del  labbro seguendo le sue dita, venendo catapultata di nuovo nelle sue fantasie mente il cuore le comincio a sanguinare. Sapeva che sarebbe finito tutto di nuovo e lei avrebbe sofferto, ma non voleva che smettesse. Alzò gli occhi verso quelli azzurri una silenziosa supplica se non di smettere, di continuare, ma la risposta fu quella che odiò di piu’ in assoluto: Thorin aprì la bocca, per dirle qualcosa ma la richiuse immediatamente

 
Dimmi qualcosa, ti prego, dimmi qualsiasi cosa tu debba dirmi ma dimmela.

 
Se non fosse stato per l’ormai palese tensione e silenzio che l’aveva circondava , sapeva che sarebbe potuta rimanere lì in silenzio, in piedi, lasciando che il tempo scorresse tra di loro per ore, i quei silenzi Thorin era sempre stato capace e di dirle piu’ di quanto ci fosse mai riuscito a parole, ma ora tutto quello che vedeva era incertezza, la sessa che sentiva da quando era uscita dalla sua stanza, dopo che Dìs le aveva rivolto quelle parole definitive, la stessa che la guidava nelle notti in quella grotta, la stessa che le aveva fatto muovere la sua mano sul suo viso lasciandosi andare, la stessa che ora le faceva stringere i pugni in una piccola e finale preghiera.
 
La sala parve essere partecipe in quel momento, un enorme respiro interrotto che si andava a passare da nano a nano, un sommo e quasi religioso silenzio nel quale Dwalin osservò la scena muto passando gli occhi da Thorin verso la mezz’elfa, tornando indietro in silenzio insieme a Dìs che così come lui li guardò esterrefatta, chiusi in quel mutismo che aveva visto solo poche ore prima e che Dwalin non riusciva a tollerare.
 
Thorin abbassò lievemente la testa di nuovo interrompendo i loro sguardi e così come si era creata quell’ennesima bolla, scoppiò nel tempo di un istante, sotto un sospiro che le attraversò il petto, mentre le sue dita si allontanavano da lei, così come lui.
 

Vi amerà il nano dietro il re, e quando questo lo farà non c’è corona o regno che glielo impedirà… mai.

 
Quella era una bugia una sudicia menzogna.
 
Stringendo la mascella abbassò lo sguardo a sua volta seguendolo con la coda dell’occhio fino a che non si sedette alla sua destra prima di lasciarsi andare sulla propria a sua volta, ripiombando nello schienale di legno e come se quel silenzio fosse appartenuto solamente a loro l’intera tavolata cominciò di nuovo il bivacco, tra pinte di birra che vennero passata da mano a mano fino alle parole interrotte a metà che vennero proseguite. La musica se possibile divenne ancora piu’ alta così come il vociare, rendendole piu’ facile ignorare la presenza al suo fianco, ad eliminarla del tutto, a far finta che seduto accanto a lei non ci fosse nessuno che l’aria.
 
Balin d’altro canto passò lo sguardo dalla ragazza seduta accanto a se, con lo sguardo basso e poi verso Thorin a capotavola che, appena si era seduto, si era lasciato andare con la pelliccia a coprirgli le spalle sull’immensa sedia, lo sguardo combattuto, che non riusciva a stare fermo su un punto se non quando lo passava sul tavolo, agguantando come un animale con le mani ai braccioli della sedia.
Si strinse le mani nei guanti l’una nell’ altra, girando leggermente i pollici cercando poi risposte in suo fratello, ma non en trovò alcuna, anzi il suo sguardo era puntato verso Thorin, rigido e fisso che solo dopo lunghi istanti ininterrotti il ragazzo ricambiò: si scambiarono un intero discorso con quello sguardo di cui lui non venne reso partecipe.
 
In realtà Dwalin stava bollendo dalla rabbia, ogni sua cellula del corpo gli stava dicendo di avventarsi su di lui, di chiedergli se fosse impazzito, se quello che aveva appena vissuto non fosse abbastanza un conferma per trascinare la mezz’elfa fuori da quella sala ma gli occhi freddi che gli rivolse gli fecero ben capire che non l’avrebbe fatto così come il suo girarsi di scatto verso la pinta di fronte dissetandosi come un assetato in un deserto.
 
Idiota.
 
Ricolmo d’ira, che ormai non capiva piu’ se scaturisse dalle azioni di Thorin o da quelle che lui invece a differenza sua non poteva compiere, seguì la sua stessa iniziativa, spostò lo sguardo furioso verso la pinta semivuota e ne bevve l’ultimo sorso. La batté rumorosamente sul tavolo non appena la finì sfacendo scrocchiare la lingua del palato ormai asciutto del quale sentiva il bisogno incontrollabile di rendere di nuovo umido: si alzò tentando di non guardare i piccoli fermagli accanto a lui o la nana che li indossava, o i capelli neri che gli coccolavano le notti, cercando di non guardare nulla in realtà che non fosse il profilo rigido di Thorin fisso davanti a se.
 
«Mi vado a prendere una pinta.» Borbottò tra se e se.
 
«Altre due.» Mormorò Thorin di risposa sostando lo sguardo alla sua destra osservando Dwalin già in piedi e pronto a incamminarsi accanto a se che di tutta risposta ruotò gli occhi al cielo, prima di incamminarsi verso il centro della sala, dove litri e litri di birra erano ammassati in botti che venivano di continuo riportate.
 
«No no vai tu per primo, sai che non sono bravo con queste cose.»
 
«Ma c’è il re lì!»
 
«Sei un fifone Trèl!»
 
«Tu non sei meglio fratello!»
 
Al nome familiare Ghìda si riscosse e spostò lo sguardo in alto in mezzo alla sala dal quale lo schiamazzo divenne sempre piu’ alto e poco lontano dal tavolo reale, illuminati dal focolare in mezzo al salone, un gruppo di piccoli nani tanto familiari avanzava a piccoli passi incerti nella sua direzione continuando a battibeccare, scuotendosi l’uno verso l’altro, o triandosi l’uno verso l’altro, indugiando ad ogni passo lanciando breve fugaci occhiate verso di lei e verso il tavolo.
 
«Suppongo che ci sia qualcuno che desideri parlare con voi.» Commentò Balin sorridendole tirato con il lato della bocca dando voce a un pensiero comune, sovrastando con la sua voce il mormorare della tavola spostando lo sguardo dal profilo di Ghìda verso i bambini poco distanti.
 
Glòin si alzò di poco oltre la fine del tavolo per studiare la situazione e appena vide uno dei tanti piccoli nani schiacciare il piede di un altro battibeccando sogghignò. «Mhmm quello mi sembra piu’ un consiglio a cui presiedere più che un semplice chiacchierata.» Commentò sotto la barba rossa e sbuffando il fumo bianco della pipa dalle narici che venne fuori a piccole nuvolette mentre ridacchiava.
 
«E non è meglio se lo facciamo ora, magari dopo va a dormire e non glielo abbiamo dato! Anche a-dad l’ha detto!»  Ribatte Nìm tirando con entrambe le mani la camicia del fratello spingendolo a fare qualche passo in avanti mentre quest’ultimo continuava a tenere ancora i piedi fermi non volendo avanzare di un passo, impuntando i talloni sul marmo verde.
 
«No!» Ribatte tirandosi a sua volta la camicia e lanciando un’occhiata dietro di se, diversi tavoli indietro, dove dietro boccali di birra alzati e  tra torri di piatti poté vedere i capelli rossi di suo padre e immediatamente il suo sguardo severo nel frattempo che con il mento continuava a indicargli il tavolo reale. «Io non ci vado… adesso…così sembra che l’abbiamo fatto apposta! Non…non è onorevole.»
 
«Ma Farìm!» Piagnucolò Nìm con gli occhi verdi che le tremarono e inclinando il piccolo labbro inferiore a inclinare verso il basso mentre la  stretta intorno alla sua camicia si fece sempre piu’ salda.
 
«E’ stata una pessima idea… noi… non dovremmo. Lo faremo domani.» Ribatté sul punto vivo non riuscendo a compiere un passo. Osservò il re seduto, con lo sguardo austero e un improvviso panico gli afferrò lo stomaco rendendolo ancora piu’ sicuro della sua idea, soprattutto dopo quello che era successo la mattina e quello che era successo pochi minuti prima.
 
«L’idea è stata tua!» Ribatté di tutto punto sua sorella, tirandogli ancora la camicia.
 
«Sì ma lì c’è…lì c’è anche Thorin Scudodiquercia noi…»
 
«Appuntò perché c’è lui dobbiamo andare! E quando saremo  guardie reali cosa farai non gli parlerai riccioli rossi! E c’è anche il capitano della guardia, Dwalin, figlio di Fundin, dobbiamo andare, cos-»
 
«Lòni chiudi quella bocca ci stanno guardando tutti!» Lo rimproverò Drèl dandogli uno schiaffo dietro la testa, alla base del collo, per farlo stare zitto o almeno per fargli abbassare la voce, visto che ormai quasi tutta la tavolata era girata verso di loro: ogni singolo volto della tavola reale li osservava, chi ridendo chi dandosi delle gomitate sornione o parlottando.
 
A Fàrim  salì ancora di piu’ il panico quando vide perfino il re osservarli oltre le sopracciglia scure, così regale e severo che trasformò il panico in rabbia verso l’amico dietro di lui che non sapeva mai tenere la bocca chiusa. «Sei tu che hai cominciato e se sei tanto coraggioso vai tu per primo, vai tu a chiamare Ghìda! Io non mi muovo di qui!» Ribatté Fàrim ancora con le mani artigliate nel tessuto che sua sorella continuava a tirare imperterrita anche in quella situazione facendogli salire il sangue al cervello ormai totalmente annebbiato.
 
«Dobbiamo farlo tutti insieme!»
 
«Non era questo l’accordo!»
 
«Non c’è stato alcun accordo!»
 
«Sei un bugiardo»
 
«E tu un piagnucolone!»
 
«E se venissi io da voi?» Una voce interruppe il piccolo battibecco facendo alzare lo sguardo esterrefatti a tutti e sei i nani verso l’alto.
 
 Ghìda teneva le braccia incrociate al petto e un sopracciglio alzato avanzando a lenti e piccoli passi verso di loro che tanto presi dal loro imperterrito e continuo ma alle volte estremante dolce battibeccare non si erano neanche resi conto che aveva sentito gran parte della conversazione e che in tutto quel tempo era riuscita a fare il giro del tavolo e avvicinarsi senza essere notata.
 
Si ammutolirono all’istante vedendola, girandosi tutti dritti nella sua direzione: Nìm lasciò la camicia a l fratello diventando da un gruppo disordinato un gruppo  ordinato e rigido, mettendosi un accanto all’altro in una linea dritta, perfino la piccola Mar che di solito le correva sempre incontro si guardò verso i piedi imbarazzata, muovendole le punte dei piedi e pigiandole sul pavimento nervosa.
 
« M-mia signora, non volevamo, noi…interromperti.» Mormorò Trèl facendo un piccolo inchino con la testa nervosamente e voltando la testa verso tutti i nani intorno a lui che chi piu’ e chi meno compirono lo stesso gesto.
 
Di fronte a quel comportamento Ghìda non poté fare a meno di accigliarsi, osservandoli con ancora piu’ attenzione mentre si faceva piu’ vicina. «Da quando in qua mi chiamate mia signora? E inoltre non avete interrotto nulla.» Tentò di rassicurarli chinandosi di fronte a loro, ma questi rimanevano fermi e immobili, terribilmente seri.
 
Fàrim però non si lasciò scappare l’occasione per fulminare Lòni accanto a se avvicinandosi vicino al suo orecchio. «Vedi potevamo aspettare per darglielo.» Lo rimproverò tra i denti dandogli una gomitata.
 
«Sta zitto Fàrim.» Questa volta sia la sorella più’ piccola che il migliore amico si girarono verso di lui rimproverandolo nello stesso istante.
 
«Cosa mi dovete dare? Qualcosa di importante immagino se siete tutti così seri.» Li prese in giro, ma a quella frase si irrigidirono ancora di piu’ lanciandosi delle fugaci occhiate e voltandosi dietro di loro, o affacciandosi nervosi verso il tavolo reale alle loro spalle, incerti, troppo incerti per i suoi gusti.
 
Nìm si voltò verso di lei addolcendo immediatamente il volto dapprima adombrato dal comportamento del fratello mordendosi il labbro nervosamente facendo saettare lo sguardo verso di lei e verso Lòni al suo fianco cercando un supporto che la fece preoccupare.
 
«Ecco sì cioè è un… una cosa…» Cominciò incerta alzando lo sguardo verso quella del nano biondo che scrollò le spalle non sapendo come aiutarla ma infine gettò un‘ occhiata dietro la sua spalla e tirò su la schiena puntando il dito.
 
«Ce l’ha Trèl.» Concluse Lòni andandole in aiuto ma scaricando indirettamente l’arduo compito sul nano dai capelli corti che si rizzò dritto arrosando.
 
«Si si ce l’ho io» Annuì il piccolo nano sbattendo piu’ volte gli occhi scuri nervosamente, teso come una corda d’arco mosse le spalle e fu solo in quel momento Ghìda che ebbe la possibilità di capire che per tutto il tempo aveva trattenuto dietro la sua schiena, ma non ebbe neanche il tempo di potersi affacciare oltre le piccole spalle per vedere che il viso di Nìm le si parò davanti coprendole la vista.
 
Gonfiò le guance arricciando le piccole lentiggini sul naso seriamente. «Chiudi gli occhi!» Le ordinò aprendo le piccole mani davanti ai suoi occhi rendendole impossibile vedere oltre la punta del proprio naso.
 
Seppur ancora non del tutto tranquilla annuì accomodandosi ancora meglio con le ginocchia sul pavimento freddo.  «Molto bene chiudo gli occhi.» Confermò facendo ciò che le era stato detto sospirando cercando di aprire un occhio ma le fu subito coperto da una piccola mano.
 
«Metti le mani avanti e aprile.» Le ordinò di nuovo la piccola voce candida e ubbidì anche a quell’ordine seppur il tono autorevole ma infantile le fece scappare una risata così le mani premute con ancora piu’ fermezza sui suoi occhi.
 
«Non guardare, aspetta ancora un attimo, Trèl veloce!»
 
«Ecco, ecco ho quasi fatto aspetta, per la barba di Durin, no, aspettate!»
 
Non riuscì a trattenere questa volta una risata quando sentì delle piccole imprecazioni e uno strusciare di tessuto seguito da un leggero tintinnare metallico e tante piccole voci sussurrare l’una all’latra, che però con la musica ancora alta non riuscì a capire affatto, sembrò piu’ un mormorio lontano e impercettibile: cosa potevano essersi inventati?
 
Irrigidì le mani quando sentì qualcosa di liscio e freddo poggiarcisi sopra, talmente grande che riuscì ad occuparle entrambi i palmi delle mani: non riusciva a vederlo ancora, ma sapeva che era qualcosa di metallico. Delle piccole punte le premettero sulla carne, ma altre parti erano invece lisce, traballava appena muoveva le mani ma era abbastanza leggero da non cadere. Neanche quando le mani che lo trattenevano a lei al suo posto si staccarono. Inarcò le sopracciglia e si sforzo sondando la memoria di qualsiasi cosa potesse essere ma non arrivò a nessuna conclusione
 
«Apri!» Le urlò Nìm entusiasta staccando le mani dai suoi occhi e così fece puntando immediatamente lo sguardo verso le sue mani e raggelò spalancando la bocca: le mani le cominciarono a tremare, il cuore sembrò uscirle dal petto mentre osservava la scia dorata che era poggiata sui suoi palmi con gli occhi sgranati.
 
Sette gemme blu incastonate in una fascia dorata, diversi rombi che le trattenevano e che scendevano squadrati verso il basso e salivano verso l’alto alterandosi, finendo in una gemma piu’ grande nel mezzo, accavallata in un intreccio di fascette squadrate nere e dorate che scendevano giù ripide anche nel retro.
 
«Mar ci ha detto che non ne avevi una perciò…»
 
Ghìda sobbalzò stringendo lentamente le dita intorno all’oro delle sue mani quando improvvisamente il comportamento di pochi giorni prima le tornò in mente, il loro essere schivi, il loro non rispondere alle sue domande, il loro coprirsi le spalle a vicenda o riprendersi, lo scomparire nelle forge appena finivano le lezioni.
 
«E-era questo che mi nascondevate l’altro giorno?» Riuscì a chiedere alzando lo sguardo dalla corona nelle sue mani passando lo sguardo scioccato su tutti e sei i bambini di fronte a lei.
 
«Quando dormivi ci abbiamo pensato, ma non sapevamo se potesse andare, è la prima che abbiamo mai forgiato, cioè, da soli…» Appuntò Fàrim grattandosi il dietro della nuca e alzando le spalle imbarazzato con le guance totalmente rosse «L’abbiamo fatta con quello che rimaneva nelle carrucole a fine giornata, non so se avessimo il permesso di prenderle in realtà ma nessuno ci ha detto nulla, o almeno nessuno ci ha visto.»
 
«Non dirlo al re! Per favore, non pensavamo di… le avremmo ripagate, i-in qualche modo!» Si sbrigò a dire Lòni guardando dapprima l’amico e poi la tiara che teneva ancora tra le mani deglutendo rumorosamente «A-avevamo qualche moneta da parte a-avremmo usato quelle.»
 
Nìm spostò lo sguardo verso il nano dai capelli biondi e vi ci avvicinò allungando la mano verso la manica della cotta stringendogliela gentilmente, annuendo poi a sua volta verso di lei  «Drel e Trel l’hanno disegnata, L-Loni e Fàrim hanno fatto a turno alle forge e …»
 
«Io e Nìm abbiamo preso le gemme!» Esultò Mar interrompendo le parole dell’amica e avvicinandosi saltellando verso Nìm prendendole la mano con foga e trascinandola via dalla stretta di Lòni facendolo sorridere tristemente ma lasciandola comunque andare alla foga della piu’ piccola.
 
Il piccolo dito della nana si andò a poggiare sopra la gemma al centro della corona, la più grande, blu come il mare. «Questa… questa qui, l’ho scelta io, e questa, questa l’ha scelta Nìm!» Fece indicando quella accanto piu’ piccola. «Questa invece l’ho scelta di nuovo io e questa Nìm ancora!» Le indicò una per una entusiasta sotto gli occhi dell’amica che annuì a ogni sua parola.
 
Drèl guardò suo fratello sorridendo nervosamente spostando poi lo sguardo verso la piccola nana che con gli occhi che le brillavano ancora puntava ogni gemma saltellando su se stessa. «Siamo dovuti andare nella biblioteca, non è stato facile, il signor Bofur ci ha preso dei vecchi libri, ma potevamo leggerli solo quando tu non c’eri, se no l’avresti vista, è… è anche per questo che non ti siamo venuti a trovare, la stavamo… la stavamo finendo.»
 
Mentre ascoltava quelle parole Ghìda non era riuscita a dire nulla, aveva solo spostato lo sguardo su ognuno di loro ma ogni parola che usciva dalla loro bocca fu per lei una pugnalata in pieno petto che le fece stringere con ancora piu’ forza la corona nelle sue mani e le rese ancora piu’ difficile sostare di nuovo lo sguardo sulla tiara e a buttare giù il groppo in gola.
 
Era bellissima, preziosa oltre ogni dire, così infantile ma aggraziata che avrebbero potuta crearla anche con un ramo di un ginepro e sarebbe stata preziosa allo stesso modo, ma il solo guardarla, le fece pensare che fosse tutto uno scherzo del destino che tirava i fili per sottolineare ancora quello che era, per toglierle tutto ancora una volta, il suo amore e il suo stesso onore e dovere e ricordarle ancora una volta cosa volesse ma che non poteva avere.
 
Nìm notò il suo sguardo, fisso sotto a corona e gli occhi di Ghìda assottigliarsi quasi come se si stesse facendo male. «Non ti piace?»
 
Ghìda sussultò a quelle parole ma le sue ancora forzavano a uscirle: cosa avrebbe dovuto dirgli a tutti loro? Da una parte li voleva stringere tra le braccia, da un'altra parte sapeva di non poterlo fare, di non poter neanche stringere tra le dita l’oggetto che adesso le premeva tra le dita e i palmi.
 
Sospirò osservando tutti e scosse la testa cercando le parole adatte, ma ognuna di esse gli sembrò sbagliata, tutto ciò era sbagliato. «No è stupenda Nìm è….meravigliosa ma io…» Sospirò profondamente e si lasciò ancora piu’ andare con le ginocchia verso terra  e allungò le mani di nuovo verso di loro per porgliela di nuovo. «Io non posso indossarla.» Esalò infine.
 
«Si che puoi, l’abbiamo fatta noi!» Esclamò sorridente Mar lasciando la mano di Nìm e portandola verso il suo polso per incoraggiarla, ma non c’era nulla da incoraggiare e questo le spezzò il cuore, così come il vedere la piccola nana entusiasta.
 
Scosse ancora la testa. «No Mar non posso, te l’ho già spiegato perché non ne ho una e non è solo un fermaglio, io… io non posso metterla.»
 
Cercò ancora di spiegarle tentando di non guardare sotto di lei, verso la corona che nessuno dei sei nani aveva intenzione di riprendere, anche se vi ci lanciarono delle occhiate affrante: avevano capito, avevano capito tutti, tranne la piccola nana che ancora le teneva il polso sorridendole affabile, provando a convincerla a riprenderla.
 
«T-tu mi hai detto che ne avrai una quando sposerai il re vero? Ma mi hai detto che voi vi volete ben come a-mad e a-dad, quindi non lo siete già in realtà sposati?» Le chiese insistentemente ancora piu’ confusa di prima,  inclinando la testa di lato, come anche i nani dietro di lei quando videro Ghìda stringere gli occhi a quell’ ultima frase e tremare leggermente.
 
«Non è così che funziona lui non… noi non…» Le parole le faticavano a uscire fino a che non lasciò andare la testa in avanti arresa con sospiro pesante, talmente pesante che risuonò per tutta la sala.
 
Nel frattempo nessuno dei compresi nella conversazione si era reso conto del silenzio che era sceso nella sala, un silenzio non rotto neanche da un respiro, che parecchi nani stavano trattenendo nelle bocche spalancate; altri si dovettero alzare dalle loro sedia per osservare la scena dietro il focolare in mezzo alla sala e essere sicuri di cosa fosse il piccolo oggetto che veniva fissato così intensamente dalla futura regina in ginocchio sul pavimento e verso i piccoli nani di fronte a lei.
 
Al tavolo reale non c’era mai strato così tanto silenzio da ere, così come un tale sbigottimento che saliva attimo dopo attimo, perfino le candele sul tavolo sembravano aver smesso di tremare, fino a che quella domanda talmente infantile della piccola nana non le spense del tutto: si fermarono tutti, le espressioni tristi e meste; guardarono Ghìda, che teneva ancora gli occhi chiusi e Bofur, quello piu’ vicinò poté anche notare un particolare sfuggito a molti: una singola lacrima oltre le ciglia nere, che brillo alla luce del focolare, evaporando nel momento stesso in cui si era creata.
 
L’unico a non fissare la scena era Dwalin, troppo preso a guardare Thorin, pronto ad assicurarsi che non facesse sciocchezze, ma la sua reazione alle parole della ragazzina lo sbalordì anche se avrebbe dovuto aspettarsela: teneva il viso fermo e rigido, le mani strette sui braccioli della sedia, il volto ricolmo di colpa gettato verso la mezz'elfa, i muri verso i suoi pensieri e il suo cuore alti come non mai.
 
Una verità infantile di una bambina, quanto vera, un futuro possibile che il Re Sotto la Montagna ora voleva solo riprendersi.
 
«I-io diventerò regina solo dopo, fra alcuni mesi, fino ad allora io… le regine diventano tali solo quando… solo quando sposano un re.»
 
Lòni scosse la testa e coraggiosamente face un passo in avanti con la testa alta la mano ben stretta sull’impugnatura della piccola spada al suo fianco: questa volta era lui che non voleva sentire ragioni. «No non è vero tu lo sei già! Tu già sei regina!» Affermò con il petto che si gonfiò, in una frase sicura.
 
«No Lòni non lo sono.» Negò ancora, la voglia di chiudere lì quella conversazione era tanta, troppe cose, troppi sentimenti che andavano in contrasto l’uno con l’altro: possibile non riuscissero a capire?
 
Un battito secco per terra attirò l’attenzioni l’attenzione di tutti, interrompendo Lòni che stava per ribattere.
 
«Si tu lo sei!» Ribatté Nìm sovrastando la voce di tutti, sovrastando i pensieri di tutti i nani nella sala che sbigottiti continuavano a fissare la scena di fronte ai loro occhi.
 
La piccola nana aveva i pugni contratti, un fuoco negli occhi che mai le aveva visto, sembrò piu’ grande di quanto non fosse, aveva sbattuto il piede con tale forza da far quasi tremare il pavimento sotto di lei. Lòni la guardo con gli occhi sbarrati, mentre il piccolo corpo cominciò a tremare dalla frustrazione e gli occhi verdi cominciarono ad arrossarsi e riempiersi di lacrime.
 
«Tu… tu hai salvato a-dad, hai salvato la carovana, hai…hai salvato la principessa e hai salvato il re, tu! Tu sei una regina! Perché dici di no!?» Urlò colma di rabbia, con le prima lacrime che cominciarono a scendere una alla volta, bagnandole il vestito verde. « Quando ci racconti quelle storie, sui re, su tutte le ere, ci racconti sempre di come i sette padri e le loro famiglie si sono susseguite, come ci hanno dato le nostre case, come in un modo o nell’altro anche da morti vegliano su di noi, sia i sette padri che le sei madri, di come vegliano sempre su di noi attraverso il Kheled-zâram, di come ci guardano sempre dalle sacre aule, e non è quello che… tu lo hai fatto! Tu hai vegliato su di noi!»
 
«N-nìm..» Tentò di interromperla, ma le parole vennero inghiottite da altre, spezzate da diversi singhiozzi e una frustrazione repressa, piena di risentimento, piena di un pensiero che tormentava la piccola nana da quando l’aveva vista priva di sensi all’entrata del palazzo.
 
«Come una guardia, o… o una madre, loro… loro proteggono!»
 
«Io ho fatto solo quello che dovevo, non…»
 
«No! Tu non dovevi, Tu lo hai fatto, tu li hai protetti, hai protetto tutti e poi stavi… quando sei tornata…Tu stavi per morire per questo, tu… tu ci… Non è quello che fanno le regine dei nani, le sei madri, proteggere? E-e  tu lo hai fatto, quindi tu sei come loro…» La voce le traballò nuovamente e infine crollò la rabbia si affievolì e i singhiozzi divennero un silenzio talmente colmo di dolore e di resa che Nìm lascio andare la testa in avanti piangendo silenziosamente, i pugni stretti che cercavano di far smettere le lacrime ormai incessabili. «Non…non è giusto!»
 
Ghìda si sentì sprofondare in un baratro gelido e freddo; non percepì il battito del cuore, certa di non possederlo più. Rimase attonita a fissarla, costantemente in silenzio: avrebbe voluto stringerla a se, dirle che aveva ragione, che le regine proteggono, ma come le parole di Dìs ore prima, quelle di Nìm la distrussero dall’interno.
Si morse il labbro per trattenere quelle lacrime che continuavano a supplicarle di uscire, di sopprimere ogni suo sentimento, e tuti i suoi desideri, mettendoli da parte per il suo dovere e il suo dovere, non era quello che voleva, purtroppo se n’era resa conto, e le faceva male, troppo male.
 
«Nìm io non… io non sono una…io sono…» La voce le si spezzò, mentre le parole le andavano a morire in bocca, ma non ebbe neanche il tempo di pensarla che venne interrotta.
 
«L-lo sappiamo già.» La interruppe Fàrim alzando lo sguardo da terra verso di lei sorridendole tristemente con il lato della bocca,  sconvolgendola piu’ già di quanto non fosse. «Lo abbiamo sempre saputo in.. in realtà, ce… a me lo ha detto a-mad, e poi, ne hanno parlato spesso per la Montagna e non fa niente, n-non credo faccia niente.» Mormorò stringendo il braccio con la mano verso il suo fianco osservando la sorella ancora piegata su se stessa che non alzava lo sguardo tremante.
 
Nìm si passò vigorosamente le maniche del vestito sugli occhi, asciugandosi gli ultimi residui delle lacrime che aveva versato e le scappò un ultimo singhiozzo che le smosse tutti i ricci rossi in avanti, quando però puntò lo sguardo verso di lei sembrò quasi come se la piccola nana non avesse mai pianto, come se non avesse appena urlato a squarciagola. Una piccola guerriera che veramente abbassò le mani verso i fianchi guardandola.
 
«T-tu tieni a noi, non è vero, anche se non siamo come te?» Le chiese guardandola dritta negli occhi, ponendole una domanda che la lasciò senza fiato.
 
Così tante volte avrebbe voluto che qualcuno le ponesse quella domanda, o quante altre volte avrebbe voluto porla lei, quante volte se la poneva da sola, il potersi amare anche se non era come loro, o che loro la potessero amare a loro volta. Li avrebbe dovuti odiare, tutti loro, tutta la loro razza, sarebbe stato meglio, non le avevano mai dato nulla, fino a pochi mesi fa lei non aveva avuto nulla da loro, dalla sua gente, lei per loro era una nana quanto un esce potesse appartenere al cielo.
 
Ma ora, ora era diverso, ora sapeva cosa volesse dire amare un popolo, non solo appartenergli.
 
Con le lacrime agli occhi poggiò la corona tremante sulle sue gambe e le prese il viso tra le mani, continuando a ricambiare il suo sguardo senza mai staccarlo, neanch per un istante: con delicatezza poggiò la fronte su quella della piccola nana, le sue piccole mani che si andarono a poggiare  sulle proprie stringendole con fermezza.
 
«Certo, certo che tengo a voi, piu’ di quanto puoi immaginare. Non ne avete nemmeno idea di quanto.» Mormorò con voce spezzata continuano a ricambiare il suo sguardo fisso. «Tengo a tutti voi in un maniera che neanche Mahal sa.»
 
«Tutti noi?»
 
Annuì accarezzandole con i pollici sotto gli occhi per trasportarle via gli ultimi residui delle lacrime che aveva versato. «Ogni singolo nano in questa montagna, ogni singolo nano nella Terra di Mezzo.»
 
I suoi occhi si illuminarono a quella semplice frase e sorrise tristemente. «Allora accettala, ti prego…P-per piacere.» La supplicò ancora con gli occhi verdi che le si riempirono ancora di lacrime e le piccole mani che si strinsero con ancora piu’ forza intorno alle due, allungandosi verso i propri polsi toccandole la prima runa sul polso scoperto.
 
Ma in qualsiasi caso non poteva accettare, anche se era solo un piccolo oggetto, anche se era meramente un simbolo, un dono, sarebbe significato molto di piu’ e lei non era in grado, non era in grado di poterlo neanch vedere, di osservarlo, perfino averlo sulle gambe in quel momento le bruciava, le lacerò l’anima attimo dopo attimo: lo sarebbe stata, regina, ma non poteva, non così.
 
Aprì la bocca nuovamente per ribattere ma poi un gracchiare si innalzò per tutta la sala, un gracchiare alto e ridondante che le fece alzare gli occhi in alto verso il soffitto da dove proveniva quel rumore intenso, ripetuto da piu’ becchi. Nessuno si era reso conto di ciò che era successo in pochi attimi, lei per ultima. Tra le fiaccole accese in cima alla montagna, tra i fasci di luce verde che si scontravano nei fregi dorati, decine di corvi, passando tra le piccole celle o i colonnati della sala, erano accorsi dai piani piu’ alti della montagna, alcuni svolazzavano vicino al tetto, altri si poggiavano tra i capitelli delle colonne squadrate, sulle asce dei giganteschi guerrieri ai lati della stanza, altri che giunsero si posarono sulle stecche dorate degli stendardi o le picche delle guardie incredule.
 
Il becco e la testa di ogni singolo corvo  erano puntati verso il basso, verso un unico punto, verso la figura inginocchiata in mezzo alla sala, verso la dama che di fronte al gruppo di piccoli nani teneva lo sguardo scuro in alto verso il soffitto esterrefatta e confusa, passando in rassegna ogni corvo di Erebor che volava nella sala e infine si appollaiava come degli spettatori pronti a uno spettacolo che da quella notte in poi sarebbe stata raccontata da regno a regno.
 
Al gracchiare sommesso si aggiunse ben presto un altro rumore, basso e graffiante, uno strusciare del legno sul pavimento marmoreo che si propagò in un altro e poi un altro e un altro ancora, un rumore sordo che fece rizzare la schiena di Ghìda e spostare gli occhi di fronte a lei. Uno ad uno i nani della sala avevano cominciato ad alzarsi dalle loro sedie, in un totale e completo silenzio. Centinaia di teste che una alla volta si drizzarono insieme alle loro le schiene osservando lo stesso punto, verso di lei, non staccando mai lo sguardo e rimanendo in silenzio mentre il rumore dei corvi e del loro battito d’ali divenne quasi insopportabile.
 
Ma poi accadde.
 
Un rumore, basso e ripetitivo si fece largo da infondo alla sala: un battito, due battiti, tre battiti, che si alternarono rigidi e sordi, un singolo suono ripetuto che le fece aguzzare la vista per cercarne la fonte, ma poi se ne aggiunge un altro, e un altro ancora e fu questione di pochi attimi ma ben presto fu in grado di capire:  tutti i nani nella sala si portarono le mani sul petto lentamente e nel piu’ completo e totale silenzio, cominciarono a battere i pugni chiusi all’altezza del cuore, continuando ad osservarla, scandendo dei suoni netti che riuscirono a sovrastare il gracchiare sempre piu’ alto sopra di lei.
 
Le mancò il respiro il cuore le cominciò a battere al ritmo dei pugni sulle cotte, sui petti: i tatuaggi sulle braccia cominciarono a bruciarle come la prima volta che se li era fatti addosso, senti il petto tremarle in un fremito che ben presto le arrivò fino agli occhi, bloccando qualsia lacrima.
 
Non poteva accadere, tutto ciò non poteva essere vero.
 
Lasciò andare il volto della piccola Nìm e con una insopportabile lentezza si voltò in cerca di certezza verso il tavolo reale dietro di lei e con gli occhi spalancati li osservò uno ad uno: erano tutti in piedi, tutti con la mano sul petto che batteva, osservandola sorridendole o con il capo in riverenza. Dìs le fece un cenno con la testa verso il basso in un breve inchino e Bofur invece si tolse perfino il capello aumentando il ritmo continuando con foga.
 
I suoi occhi però si puntarono verso l’ultima figura a capotavola che piu’ di tutti gli altri lei cercò disperatamente e quando la trovò il cuore che dapprima le palpitava nel petto le si fermò all’istante: Thorin era in piedi come tutti gli altri, dritto e fermo, le mani chiuse in due pugni poggiate sul tavolo un’espressione indecifrabile, gli occhi azzurri fissi su di lei in attesa, una lunga ed estenuante attesa accompagnata dai battiti infinti e dal gracchiare sempre piu’ alto sopra di lei.
 
Lui non aveva intenzione di fermarli, lui non l’avrebbe fermati, nessuno li avrebbe fermati
 
«Cosa vuol dire?» Chiese la piccola voce di Mar osservando interno con le mani ferme sul tessuto della gonna, i piccoli occhi vispi che si spostarono scioccati da una parte all’altra fissando poi un corvo che si appollaiò quasi accanto a loro vicino al focolare.
 
Senza fiato alcuno Ghìda si voltò di nuovo verso i sei nani in piedi di fronte a lei che così come la piu’ piccola passarono irrequieti lo sguardo intorno a loro e lasciò scendere la prima lacrima, rendendosi pienamente conto della risposta che avrebbe dato.
 
«Che posso indossarla.» Le rispose sorridendo mentre le lacrime che per troppo aveva trattenuto le cominciarono a scendere copiose oltre le guance, finendo tra le labbra, e sul collo, una dopo l’altra che aumentarono solo quando posò di nuovo lo sguardo sotto di se dove tutti e sei le piccole paia di occhi la guardarono scioccati.
 
«D-davvero?» Le chiese esterrefatta Nìm di fronte a se.
 
Lei si ritrovò ad annuire mentre il peto le si abbassava velocemente sopraffatta dalle emozioni incapace di parlare
 
Lòni stette per gioire, facendo un piccolo saltello ma poi sembrò come bloccarsi, come se una consapevolezza lo avesse attraversato e di fronte a fece un respiro profondo portandosi lunga treccia bionda sul lato della testa con un movimento secco dietro la spalla. In una minuziosa cerimonia in silenzio si tolse la spada sul suo fianco e la posò a terra di fronte a lei, dritto e rigida e con cautela si chinò con il capo prendendo la corona dalle sue gambe con le mani tremanti che tradirono la sua serietà.
 
La osservò nervoso aprendo la bocca alzando di poco la tiara dorata, chiudendola però immediatamente, e poi riaprirla un'altra volta prima di richiuderla incerto.
 
«N-non so cosa dire, c-cosa si dice?» Le chiese incerto osservando dapprima la tiara tra le sue mani e poi la sua testa tendo la corona sempre piu’ in alto.
 
Le scappò una piccola risata e scosse la testa senza riuscire a smettere di sorridere. «Non dire nulla, va bene così.» Lo rassicurò strappandogli un sorriso nervoso prima che alzasse le braccia del tutto, ben presto sorretto da tutte le altre dieci mani del piccolo gruppo di nani.
 
Ghìda osservò il pavimento e vi poggiò un ginocchio e poi l’altro abbassando il capo in una sorda riverenza che non fece altro che far aumentare il ritmo dei pugni sul petto per tutta la sala, o il rumore il gracchiare dei corvi sopra di essa, un inchino che non era rivolto verso solo un gruppo di nani ma verso un intero popolo, un’intera razza.
 
Non era capace di guardare cosa stesse succedendo, non aveva piu’ le forza di fare nulla, la pura che si instillò in lei non svanì, la paura profonda che fosse solo uno stupido scherzo, un illusione che un Valar aveva appositamente creato per lei: chiuse le mani in due pugni stretti, fissi che non si rilassarono, mai abbassando il capo sempre di piu’ fino a che i ciuffi non le toccarono terra o i piccoli cerchi nei tintinnarono sul marmo.
Esalò pesantemente non appena la pressione dell’oro si andò a poggiarle sulla testa,: le ,mani dapprima chiuse si aprirono dando il via alle lacrime direttamente dal centro del suo cuore cominciarono a rigarle il volto, e a cadere per terra bagnando con piccoli cerchi il pavimento o la gonna del vestito. Alzò il capo lentamente mente il petto le si alzava e le si abbassava in respiri sempre piu’ veloci; i piccoli nani di fronte a lei la guardarono preoccupati, notando ormai le numerose lacrime che rigandole il viso non smisero neanche quando  ma che aumentarono solo quando la bocca le si distese in un sorriso travolgente, un mero riflesso di ciò che sentiva in quel momento, un mero riflesso di ciò che le infiammava il petto.
 
E sotto gli occhi esterrefatti di tutti e sei, come se fosse sorretta da una forza invasile Ghìda si alzò come se si stesse alzando per la prima volta in vita sua: un passo lento, e poi un altro, il petto che si alzava e si abbassava al suono dei battiti, le lacrime che ormai le solcavano il viso alto osservando tutta la sala di fronte a lei, ascoltando i pugni la ritmo nel suo petto.
 
Nel mezzo di uno scroscio di pugni, accadde una cosa che non accadeva da ere si presentò sotto la montagna, un gesto che segnò quella notte indelebilmente, una regina, diventata tale già prima di esserlo, un’incoronazione che fu piu’ di questo, fu la nascita in un popolo dell’essere piu’ disgustoso che avesse mai messo piede nelle aule di Durin. I nani della montagna non accettarono semplicemente una regina, accettarono lei come regina, accettarono una mezz’elfo, una sangue sporco, una maledizione non vista piu’ come tale.
 
Ghìda si era sbagliata si era sempre sbagliata, le regine non vengono amate perché sono regine, no, le regine diventano tali perché sono amate, perché il loro popolo le amava, e lei già prima di esserlo, era diventata degna di essere regina di quel popolo: la ritennero degna, degna di essere nana, degna di essere nata, degna di essere viva.
 
E il re, che da lontano osservava quello spettacolo che mai si sarebbe aspettato di vedere in quella vita, non amava la regina perché era nata tale, non perché lo era diventata nei cuori del proprio popolo, no, perché dal primo momento che l’aveva vista, lo era sempre stata.
 
La sua regina.
 
 
 
 
 
 
 


 
Si sentì un animale in gabbia.
 
Camminava avanti e indietro da lunghi minuti, la bocca che ancora era intrinseca di quel nettare dorato di cui aveva goduto fino a poco prima e che ora era terribilmente secca, secca di parole non dette, di pensieri che consumavano ogni briciolo di lucidità che gli era rimasta; la testa annebbiata da qualsiasi tipo di pensiero, da quello che aveva visto quella notte, da quello che aveva sentito quella notte, fino alla presenza che dalla parte opposta della balconata chiamava silenziosamente il suo nome in un canto che era in grado di udire solo nella sua testa.
 
Non aveva piu’ niente da perdere, non aveva più niente da vincere, era una decisone semplice, eppure la paura di compire un gesto errato bloccava ogni movimento verso la porta chiusa o anche solo afferrare il pomello dorato e girarlo. Una parola errata dell’altro era l’unica cosa che gli dilaniava il cuore, l’unica opzione che le dilaniava il cuore, il non sapere, il non conoscere.
 
L’umiliazione, il disonore, non erano piu’ concetti che circondavano l’aria che ispirava o gesti che poteva osservare o che poteva sentire propri, un’ammenda per i propri errori e una silenziosa richiesta di poter sentire ancora, sentire tutto, ancora di nuovo, sulle sue labbra, nei suoi occhi, nel suo petto.
 
Lo voleva.
 
La voleva.
 
Aveva preso una decisione, doveva, doveva andare, anche se questo avrebbe decretato la parola fine a tutto.
 
A passi veloci si mosse verso la porta, i piedi che ormai agivano per conto proprio, ogni sua decisione lucida era scomparsa, non voleva piu’ agire in maniera lucida, doveva sapere , in quel momento, quella notte.
 
Abbassò il pomello.
 
Portò il pugno alto verso la porta.
 
Il gelo negli occhi da entrambe le parti del legno, un respiro mancato tra le labbra socchiuse di entrambi fino a che la porta non si aprì e non ebbero entrambi la visione della persona dall’altro lato.
 
Ghìda fissò con gli occhi sbarrati la figura che le si parava davanti, la mano poggiata sullo stipite della porta, la ragione dei suoi pensieri, ora lì di fronte a lei, gli occhi azzurri che esterrefatti quanto i suoi la guardavano fissa, attraverso i capelli neri e grigi disordinati di fronte al viso illuminati dalla luce dorata del corridoio vuoto alle sue spalle.
 
Tutta la sua decisione, tutta la scurezza che si era sentita addosso fino a pochi istanti prima era svanita in una nuvola di fumo: l’ultima volta che si era ritrovata in una situazione del genere, l’ultima volta che lui era rimasto fermo di fronte alla sua porta, gliela avrebbe voluta solo sbattere in faccia; quella notte d’altro canto, l’unica cosa che desiderava era farlo entrare , ma la mano artigliava ancora con fermezza la maniglia della porta rendendola incapace perfino di muoverla oltre quel piccolo spiraglio.
 
Thorin batté un paio di volte le palpebre distolse subito lo sguardo puntandolo dapprima sul braccio sulla porta e poi verso il pavimento contraendo la mascella, cercando la calma perduta che in quel momento gli scivolò tra le dita, come tutta la fermezza che lo aveva condotto lì, arrancando tra il suono della festa sotto di loro ancora viva da quando se n’erano andati entrambi e la birra che gli annebbiava lo sguardo. Eppure, non si era sentito piu’ lucido in vita sua.
 
Alzò lo sguardo oltre le sopracciglia nere scrutandola oltre di esse. «Posso entrare?» Le chiese lo sguardo che da sotto di se si impuntò di nuovo sul suo viso.
 
Ghìda non riuscì a rispondere neanche a emettere un singolo suono, abbassò solo lo sguardo a sua volta e annuì in silenzio scostandosi dall’uscio della porta lasciando cadere lo sguardo verso la fine della camicia da notte di raso che strusciò sul pavimento freddo sotto i suoi pedi nudi.
 
Anche se incapace di guardarlo, con la coda dell’occhio lo vide oltrepassare la soglia e appena, l’ultimo pelo della pelliccia del mantello scuro passò l’uscio, trovò la forza di alzare lo sguardo inspirando profondamente e a chiudere la porta dietro di se.
 
Sussultò  appena sentì la cerniera scattare e come un comando secco alzò lo sguardo verso di Thorin stringendo i denti: avanzava a lunghi ma lenti passi nella sua stanza, dirigendosi verso il mite del letto, le mani rigide sui fianchi, una libera e l’altra occupata da un oggetto che prima non era stata in gradi di vedere, un oggetto che lei aveva già visto. Stretto in un pugno teneva un fagotto blu e portato, lo stesso che quella mattina aveva  tra le mani, lo stringeva sempre di piu’ ogni passo che faceva in avanti, fino a che non si fermò di fronte al suo letto e con una lentezza disarmante alzò di poco lo sguardo di lato puntandolo sguardo sul tavolo accanto al suo letto, verso il piccolo oggetto incastonato di gemme.
 
Il mantello regale lo rendeva piu’ grosso di quello che sembrava, un lupo enorme e infatti anche la sensazione che le attanagliò lo stomaco fu la stessa: le sembrò come se avesse appena fatto entrare un lupo in un gregge di agnelli dove lei era l’unico anello di cui poteva cibarsi. Ma cosa succede quando l’agnello vuole farsi mangiare. E quando voleva lo stesso agnello gettarsi tra le fauci del lupo?
 
Niente le stava dando forza, Assolutamente nulla, né le rune marchiate sulle sue braccia ne’ l’oggetto che Thorin di spalle osservava l’oggetto illuminato dalla piccola candela traballante sul tavolino ricolmo anche dei gioielli e che si era sfilata poco prima: quella corona blu e dorata in quel momento non serviva a nulla, non sarebbe servita a nulla. Era un potere che ancora non aveva ma che sapeva che in quel caso non le sarebbe servito a molto.
 
«Perché sei qui?» Gli chiese diretta, cercando di non far trasparire tutto quello che sentiva in quel momento e piu’ importante di tutti cosa l’aveva quasi spinta ad essere lei al posto suo, ad essere lei ora a vagare in quel modo nella su stanza.
 
«Perché tu stavi per uscire da qui?» Le rispose diretto quanto lei gli si era rivolta, non voltando neanche di poco le spalle
 
E a quella domanda il fiato le si bloccò: era una risposta alla sua oppure una stoccata ben assestata?
 
Di tutto il discorso che aveva preparato, di tutte le cose che avrebbe voluto urlargli fino a poco prima non era rimasto altro che cenere: aprì e chiuse la bocca piu’ volte ma non uscì nulla, neanche quando si strinse le braccia nude addosso l’una sull’altro, diventando la donna determinata che era, che voleva essere, ma la sola presenza del nano riusciva sempre a ridurla a quello.
 
Piccola, vulnerabile.
 
Uno sbuffò simile a una risata sommessa gli smosse le spalle larghe probabilmente sapendo perfettamente che quel silenzio era solo frutto di una sua indecisione o ancor peggio aveva capito la sua risposta, la sua vera risposta, non quella che gli avrebbe rifilato se avesse avuto un minimo di coraggio in piu’.
 
Passarono dei lunghi momenti di silenzio nel quale l’unica cosa che faceva rumore era il camino acceso, gli unici estranei nella sua stanza i fiocchi di neve che entravano dalla finestra socchiusa, accarezzando il fascio di luce chiara che si infrangeva al centro del letto ; nessuno dei due osò dire una parola, troppe le cose da dire, troppe le cose che non volevano dire, troppe le parole che Thorin cominciò a moderare nella testa.
 
Di tutte le parole che si era preparato , di tutte le cose che si era ripetuto per tutto il corridoio fino al balcone fino ad arrivare alal alla sua porta non era rimasto altro che polvere: strinse la mascella, cercando e cercando, poi abbassò lo sguardo verso il tessuto blu che stringeva nella mano, tastando la compattezza di quello che vi era nascosto sotto e le parole che tanto cercava si andarono a racchiudere in una singola frase.
 
Piccola, vulnerabile.
 
«Ho un cosa che ti appartiene.» Le rispose alla fine alla domanda, con voce roca non riuscendo a staccare gli occhi dal ritmo geometrico dorato sul tessuto.
 
Ghìda Inarcò un sopracciglio studiandolo, studiandogli il profilo a malapena illuminato dalla luce dietro di loro del camino e un altro sbuffo gli uscì dalle labbra.
 
«Cosa?»
 
Non le rispose ancora, lo sentì inspirare profondamente facendo passare un altro lungo silenzio e poi infine si voltò su se stesso oltrepassandola con lo sguardo serio.
 
«Questo.» Disse solamente, monocorde, allungandogli con un braccio l’oggetto che prima aveva tra le mani tendono in obliqui verso di lei.
 
Ghìda lo guardò confusa dapprima rimanendo davanti alal alla porta, allungando quel baratro che li divideva e fu solo quando, allungò il braccio un'altra volta invitandola ad avvicinarsi che mosse i primi passi verso di lui: si sentì terribilmente irrequieta, passo lo sguardo dal fagotto verso di lui, ma lo sguardo non cambiava, non dare segni di cedimento di alcun tipo.
 
Si fermò di fronte a lui e ora che poteva vedere l’insolito fagotto da vicino era grande almeno quanto il suo braccio, forse anche poco di piu’, si allargava e si stringeva, ma il panno era troppo largo per poterle anche solo dare una vaga idea di quello che ci fosse al suo interno.
 
Non seppe  neanche perché ma appena Thorin gliela porse allungando la mano verso di se, tenne l’insolita cosa tra entrambi i palmi delle mani con una delicatezza che neanche si sarebbe aspettata di utilizzare verso quell’oggetto del quale non sapeva neanche l’esistenza, eppure lui aveva detto che era suo, che le apparteneva.
 
«Cos’è?» Gli chiese senza staccare gli occhi dal panno, studiandolo attentamente, con gli occhi scuri che si mossero da una parte all’altra confusi, tastando il tessuto grezzo ma estremante raffinato sotto i suoi polpastrelli, cercando di intuire attraverso solo il suo tocco cosa potesse celare, stringendolo di più o spostando solo di poco le dita.
 
Thorin inghiotti il grippo che improvvisamente gli si era formato a quella domanda: incapace di risponderle le indicò con un movimento del mento il tavolo di legno rotondo di fronte al caminetto dietro di lei totalmente sgombro se non fosse stato per le decine di libri accatasti l’ uno sull’altro e un piccolo specchio dorato vicino al bordo della curvatura del legno.
 
«Sciogli il laccio.» Le ordinò diretto quel sfuggiremo che a lui parve palese ma le ine rimase piu’ scioccata di quanto si sarebbe aspettato: chiuse e aprì più volte le labbra rosate. Sapeva che voleva ribattere o chiedergli ancora di essere piu’ chiaro, o peggio, la conosceva abbastanza da sapere che gli avrebbe chiesto di farlo lui stesso ma non fece nulla di tutto ciò.
 
Incerta osservò dietro di lei verso il punto che le aveva indicato e cominciò a camminare verso il tavolo di fronte al caminetto lanciandogli un’occhiata incerta, le sopracciglia sempre piu’ aggrottate l’una sull’altra, che si spostavano dall’oggetto che aveva tra le mani e verso di lui, in cerca di una risposta. La seguì attentamente muovendo un paio di passi, tanto da poterla affiancare mantenendo quella devastante distanza tra loro, ma abbastanza vicino da poter vedere, ogni suo singolo gesto e abbastanza, da poter inclinare anche solo di poco la testa per vedere le sue espressioni.
 
La posò con una delicatezza, distendendolo sotto la luce tremante del camino e poi avvicinò la mano verso il laccetto di pelle e le piccole cominciarono a tirare entrambi i lembi, scegliendo il piccolo nodo, e piu’ questo si faceva  sempre meno saldo piu’ la sicurezza che lo aveva spinto fino a quel momento cominciò a svanire, come il panno blu che dopo lunghi istanti finalmente Ghìda scostò con la punta delle dita rivelando il suo lavoro, il fantasma che lo aveva trattenuto per quelle notti.
 
Appena Ghìda scostò l’ultimo lembo di  tessuto uno scintillio improvviso la investi, un riflesso del fuoco che le fece socchiudere occhi prima che a sua volta potesse cominciare a vedere il proprio riflesso nel ferro specchiato sotto di se, e questo prese forma e riuscì a caprie cosa aveva sotto le mani, il cuore le si strinse in una morsa facendole spalancare la bocca incredula.
 
Una spada, a non era una spada nanica, non era…non… non poteva essere.
 
Decine di riflessi si alternavano sulla la lama curva che sinuosa si incurvava leggermente ad un lato, il manico finiva in un’impugnatura di legno laccato nero, flebili venature dorate che si ramificavano tutto intorno ad essa, piccoli ghirigori che finivano verso la guardia e la oltrepassavano facendo il giro di un’insenatura che trapassava un terzo della lama.
 
Le sembrò di vedere tramonto o il fantasma di quella che era stata tramonto, una gemella di una spada che Thorin portava sempre al fianco, una spada che era leggenda ormai che era solo un mero riflesso di quello che si ricordava della sua unica e sola spada, e l’unica cosa che gliela ricordava, oltre a quella che adesso aveva sotto di lei.
 
«E ’-è… Thorin…» Riuscì a malapena a sussurrare mentre le parole le morirono poco a poco.
 
Lo  sentì sospirare leggermente accanto a se, l’ombra sul tavolo che si fece piu’ grande e piu’ vicina a se, così come il suo corpo, di cui riuscì a sentire il calore e l’odore.
 
«La tua non l’hai mai finita, ho cercato di mantenere la stessa leggerezza nella lama, e la stessa lunghezza per adattarsi al tuo braccio, anche se quello su cui basarmi era davvero poco.» La fermò osservando a sua volta la lama sotto i suoi occhi, prima che potesse dire qualcos’altro, prima che potesse aggiungere qualsia altra parola che potesse farlo cedere.
 
Ghìda in verità sapeva cosa dire, una miriade di domande e incertezze le affollarono la mente: quindi era questo che si stava trasportando dietro quella mattina quando lo aveva incontrato? Quando ci aveva lavorato, da quanto ci lavorava? Cosa voleva dire?
 
Ancora scioccata portò la mano che cominciò a tremarle verso la lama: aveva quasi paura a sfiorarla, paura che si potesse spezzare sotto il suo tocco o volatilizzare; con cautela vi ci poggiò sopra i polpastrelli, sfiorandola con la punta delle dita.
 
«E’ affilata, stai attenta.» La avvertì mormorando quelle parole tra le labbra.
 
Gli annuì con la testa continuando a fissare la lama sotto di lei: passò il dito cauto sul piatto risalendo dall’ impugnatura verso la guardia, seguendo i piccoli ghirigori simili a venature nel marmo, andando poi ad addolcirsi sula guardia e a concludersi in tre ramificazioni che dritte finivano in un unico ghirigoro inciso che arrivava fino alla punta della lama.
 
Lo seguì tutto tornando poi indietro verso l‘impugnatura e lì, al limitare del filo della lama, vicino alla guardia ricurva una sottile incisione: poche rune ma marchiate con tale forza da renderle leggibili anche allontanandosi di qualche passo, ma talmente piccole che sembravano solo la fine della venatura incisa.
La bocca le si spalancò di colpo quando le lesse e fu come se qualcuno le avesse appena strappato il cuore e glielo avesse rimesso nel petto a forza facendolo battere a una velocità innaturale: le orecchie le si ovattarono, le dita tra le insenature delle rune le fremettero e perfino respirare le divenne difficile, così come tradurre quei pochi e semplici simboli.

 
Thatru undu 'urdel.
 
Stella sotto la Montagna.

 
Si sentì devastata, triste, disperata, in conflitto con se stessa, erano solo delle stupide e semplici parole, non potevano cancellare nulla, il nome di quella spada non voleva dire nulla, ma sapeva che volevano dire piu’ di quello che c’era scritto, eppure faceva male, la possibilità che non fosse così le faceva male, l’incertezza le faceva male.
 
«Perché?» Le chiese diretta, alzando lo sguardo serio verso di lui, osservandolo dritto in volto, che però era puntato come il suo fino a poco prima verso la lama sul tavolo
 
Thorin socchiuse gli occhi, e deformò la bocca in una smorfia facendo scattare la lingua, ma il suo viso rimaneva una maschera indecifrabile.
 
«Il mio giuramento verso di te l’ho fatto a tuo padre, ma non li ho mai rivolti guardandoti dritto in volto, come avrei dovuto fare sin dall’inizio. » Cominciò dritto definito no guardandola neanche in faccia, corrugando la fronte sempre di piu’ fino a quando anche le sue dita non si affiancarono alle sue sopra la lama accarezzando con delicatezza le rune libere. «Uno di questi, come ben sai è il mio giuramento di proteggerti, di prendermi cura di te, e non ci sono riuscito, ne dall’esterno ne… » Si fermò per un attimo nel quale come se si fosse bruciato stacco le dita  da me stesso.»
 
E fu in quel momento che alzò gli occhi verso di lei e la maschera di nulla era diventata una tempesta in un mare blu, che imperversava violenta tra le piccole pagliuzze verdi.
 
«Tu però non hai mai avuto bisogno di me che ti proteggessi, lo hai sempre fatto benissimo da sola e di conseguenza il mio giuramento verso di te è cambiato il mio giuramento solo verso di te, unicamente verso di te, non verso tuo padre, non verso Elcar o Erebor verso di te.»
 
Mentre pronunciava quelle parole lo vide avvicinarsi, in realtà non seppe chi dei due si stesse accostando sempre di piu’, sapeva solo che ogni parola che gli usciva dalla bocca le risuonava sorda dentro la testa, le orecchie le fischiavano e il cuore cominciò batterle nel petto sempre piu’ velocemente, rendendola incapace compiere un gesto.
Le guardò dapprima il braccio poggiandoci sopra le dita, lo sentì fremere, o forse era stata lei, ma in qualsiasi dei due casi il dito cominciò a salire accarezzandole la pelle, oltrepassandole ogni singola runa, la cicatrice sul suo braccio, la spalla e infine ad arrivare fino al suo collo.
 
«Il mio nuovo giuramento verso di te è che se questa spada dovesse mai fallire nel proteggerti prenderei il suo posto, cento e cento volte.» Sussurrò senza mai staccare gli occhi dai suoi.
 
Le scostò dolcemente capelli dal viso e le accarezzò una guancia, mentre nella sua anima imperversava una tempesta di commozione e malinconia: era talmente sopraffatta da sentire la testa ronzarle, e gli occhi inumidirsi al suo tocco delicato.  Lentamente Thorin poggiò la fronte sulla propria premendola con delicatezza senza mai staccare lo sguardo dal suo: la guardava in una maniera che conosceva benissimo, lo aveva visto con così tanta chiarezza quello sguardo che lo seppe riconoscere all’istante, profonda e triste, estremamente triste, tanto da spezzarle il cuore nel petto.
 
No ti prego non ancora no ti prego non ancora.
 
Si cominciò a ripete nella testa mentre poteva sempre di piu’ lo vide avvicinare il volto al suo, lento e inesorabile: percepì il cuore fare un balzo e, d'istinto, iniziò a socchiudere gli occhi, in un'attesa lacerante. Sentì la gola secca, ed un desiderio tale da bruciarla viva. Si morse il labbro quando la mano di Thorin le si andò a poggiare sul viso facendole perdere sempre di piu’ il lume della ragione. Le dita scesero dalla sua guancia accarezzandogliela, andando sempre piu’ giù verso la mandibola ridisegnandone la forma, la pelle ruvida che la sfiorò delicatamente fino a che non sentì le sue dita sfioragli l’angolo  delle labbra soffermandocisi. Passò il pollice sul suo labbro superiore e inferiore con una delicatezza tale da farle venire centinaia di brividi dietro la schiena e un terribile groppo in gola.
 
«Come ti ho già detto è un cosa che ti appartiene, che ti è sempre appartenuta.» Mormorò stancamente talmente vicino alle sue labbra che riuscì per un attimo a sfiorarle, bramandole piu’ di ogni latra cosa, agognando un bacio che gli era stato negato da troppo, ma con un gesto inaspettato, queste salirono e si andarono a poggiare sulla sua fronte, dolcemente, facendole serrare immediatamente gli occhi.
 
Avrebbe voluto allontanarsi, avrebbe dovuto spingerlo via sapendo che si sarebbe ritrovata ferita un'altra volta, ma rimase lì immobile la mano sul tavolo che si andò a stringere in una morsa, gli occhi chiusi che si riempirono di lacrime sempre di piu’ ogni istante che le sue labbra erano ferme all’attaccatura dei suoi capelli  o che la barba scura e ispida  si fondeva con i capelli smossi dal suo respiro bollente.
 
«Zabd-ê.» Le sussurrò sulla sua pelle facendole spalancare la bocca solo socchiusa e le lacrime si fecero piu’ vere che mai.
 
Lo sentì ispirare profondamente le labbra farsi sempre più leggere mentre con lentezza cominciavano a scendere facendole mancare il fiato, ma appena ebbe il coraggio di aprire gli occhi per guardarlo le sue labbra si staccarono dalla sua pelle, così come la mano avida sul tavolo a ricerca della sua si strinse nel nulla. Le forze l'avevano abbandonata, lasciandola stremata e distrutta mentre il suo calore, il suo odore, il suo stesso cuore cominciarono ad allontanarsi.
 
Thorin la vide ferita dal suo distacco, un'immensa tristezza che le  fece ciondolare la testa in avanti: i lunghi capelli scuri arricchiti dai piccoli cerchi runici dorati e indomabile, com'era lei, le coprirono qualsiasi espressione, ma il nano poté immaginarla. Decise perciò di andarsene, la superò sfiorandogli la spalla con la propria, avanzando verso la porta che aveva varcato fino a poco prima. Era incapace di fare altro, il rimanere lì gli sarebbe costato caro, il solo sentirla così vicina lo stava riportando sull’ombra del precipizio e ciò non doveva accadere, il suo dannatissimo senso di colpa lo mangiava vivo: no, non ci riusciva.
 
Ghìda lo vide muoversi verso la porta, aumentando la distanza tra loro, facendola diventare un immenso e profondo precipizio; le scuse e le parole dette continuavano a riempirle, la mente e il cuore, devastandola.; nella nube di incertezza di lacrime che le stavano già annebbiando gli occhi di una cosa era certa, profondamente sicura: non voleva varcasse quella soglia, non voleva piu’ vedere quelle spalle. Grattò con la mano sul tavolo la superfice del legno portandola giù dritta come la sua gemella.
 
Un moto incontrollabile le prese pieno possesso del suo corpo e la sua voce portandola quasi a distruggersi: strinse i pugni per controllarsi ma ogni passo lontano da lei fu una tortura che non fu piu’ in grado di reggere.
 
«Non era vero!» Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, come  che se glielo avesse detto con a bassa voce non sarebbe stato in grado di sentirla: le mani strette giù verso i suoi fianchi, gli occhi che combattivi tentavano di rimanere fissi su di lui seppur annebbiati dalle lacrime sempre piu’ acide negli occhi.
 
Thorin fermò il passo improvvisamente, incollandosi al pavimento, le mani dieto la schiena che si andarono a stringere in una morsa ferrea, la testa che si volto solo di poco, ma quel tanto da farle capire che la stava ascoltando.
 
«Quello che ti ho detto, quello che ti ho detto nella sala del consiglio, non era vero!» Gridò ancora.
 
Si infilò le unghie nella carne, preda di una crisi di panico; chiuse gli occhi per alcuni brevi secondi ricacciando indietro le gocce salate e poi li puntò di nuovo verso il nano, in attesa. Prese un profondo respiro prima di riuscire a parlare ancora.
 
«Non… non avrei dovuto.» Esalò infine fissandogli la schiena, fissandogli le spalle impostate e i piccoli anelli argentati dietro i capelli, spigolosi come il suo carattere, spigolosi come lo sguardo che le donò da dietro la spalla.
 
«No infatti, non avresti dovuto, eppure avevi ragione.» Replicò duramente; talmente glaciale che Ghìda alzò lo sguardo, scioccata che le stesse parlando in quel modo.
 
Ma infondo cose le doveva dire? Era stata lei a mentirgli, presa dal dolore, presa dalla consapevolezza che non l’avrebbe mai resa sua, dalla consapevolezza che amarla non era abbasta per un re, che un re, non poteva amare, l’erede di Durin, non poteva amare una come lei. Ma allora perché l’aveva chiamata in quel modo, perché?
 
Con lentezza Thorin si voltò di nuovo verso di lei, le mani ancora fisse dietro la schiena, lo sguardo dapprima dolce e mesto che le aveva rivolto era di nuovo trasmutato in una maschera di ghiaccio, i lineamenti dritti sembravano ancora piu’ oscuri, alla luce arancione del camino. Non c’era niente in quello sguardo che le fece sperare nel perdono, che le fece sperare che potesse accettare il suo perdono, che potesse accettare il suo rassegnarsi a rimanere senza di lui per tutta la vita.
 
Thorin strinse le spalle abbassandole di nuovo in un sospiro contraendo le braccia che si trasformò in una stretta ferrea dei propri polsi dietro la schiena. «Avevo dato l’ordine di rimandarti a casa dopo l’inverno, appena sei uscita da quella sala, vorrei poter dire solo per un mero desiderio personale, ma non è stato così, non è tutt’ora così.»
 
Il cuore le sprofondò nel petto: fu come se un immenso abisso nero l’avesse inghiottita tuto d’un tratto, la sua piu’ grande paura prese possesso di se e deformò nella sua testa le parole che Thorin le aveva appena rivolto, dandogli un senso piu’ profondo di quello che avrebbe dovuto.
 
Le mani dapprima chiuse decise si snodarono in un doloroso movimento, abbandonata di fronte a quella consapevolezza, di fronte a quella realtà che le era stata appena sbattuta in faccia: tutto finito era, tutto quanto, tutto quanto solo perché lei stessa non era stata capace di rispondere a una stupidissima domanda, tutto perché non era stata capace di fare di dirgli tutta la verità. Non era stata capace a fargli capire, a fargli capire nulla e alla fine lui aveva scelto per lei, perché lei non era stata capace di scegliere.
 
Sarebbe tornata a sud, e non l’avrebbe piu’ rivisto, mai piu’.
 
Thorin strinse i denti e abbassò lo sguardo, un fremito gli attraverso le spalle, un fremito di una rabbia che gì cominciò a salire dallo stomaco, un disgusto che gli fece salire la nausea. «Alla fine il corvo non è mai partito, non ne ho avuto la forza, e credo che sia stato il gesto piu’ egoistico che abbia mai compiuto in vita mia.» Sputò per terra , gli occhi azzurri che si deformarono in due pozzi neri, un gracchiare di metallo si espanse per tutta la stanza, di piu’ anelli che si chiudevano l’uno sull’altro.
 
«Tu avevi ragione, se tu non fossi mai venuta qui, tutto questo non sarebbe successo, io sono stato l’artefice del tuo destino. Io ho scelto cosa fare della tua vita, io ti ho usata, tu saresti stata libera, libera di scegliere e non ti avrei dato tutto questo, non ti avrei costretta in tutto questo.» Mormorò infine affranto, così affranto che per la prima volta non alzò lo sguardo di sfida verso di lei, neanche una volta: non ne ebbe il coraggio, non meritava neanche di guardarla in volto o che lei lo guardasse in volto. «Volevo darti la libertà.»
 
Al suono di quell’ultima parola, un brivido le percosse la schiena e un moto di rabbia le montò dal petto, una rabbia sorda e incontrollabile: libertà, come poteva dire di volerle dare la libertà lui non aveva capito niente, niente assolutamente nulla!
 
Come una furia si avvinò a lui a passi veloci, violenti, si portò di fronte al suo petto osservandolo dal basso verso l’alto, le mani che le tremavano dalla rabbia dalla frustrazione che si andarono a poggiare sulla sua pelle calda forzandolo a guardarla dritta in viso.
 
«Ponimela, la domanda che mi hai fatto in quella sala, fammela di nuovo!» Gli ordinò decisa, non avrebbe sentito ragione, non sarebbe andato via da lei ancora: non ancora non di nuovo, non piu’.
 
Thorin sgranò gli occhi di fronte a quel tono e di fronte a quel gesto improvviso, agli occhi che dapprima pieni di tristezza avevano lascito posto a una profonda sicurezza che lo fece sobbalzare: aveva la bocca semiaperta, respirava a fatica, ma mai lo aveva guardato così combattiva.
 
«Fammela ancora.» Ripeté ancora piu’ decisa, ma lo assurdo freddo si andò a deformare così come il suo tono di voce in una supplica. «Ti prego.»
 
Alzò ed abbassò il petto con foga, in febbrile attesa: Thorin se ne stava immobile come una statua guardandola solamente, la bocca di poco dischiusa; lo vide distendere i muscoli guizzanti, ma non si staccò dalla posizione neanche quando contrasse la mascella.
 
«Vuoi che l’accordo venga rotto?»
 
«No.» Affermò piu’ decisa che mai.
 
Se potesse essere possibile gli tenne il viso con ancora più’ decisione, si fece ancora piu’ vicina, la stessa scena della Sala del Consiglio solo che ora non stava piangendo, non doveva obbligarla di smettere, no, Thorin voleva solo che continuasse a parlare. Gli occhi le bruciavano, il petto le si alzava e le si abbassava dalla foga dall’adrenalina che riuscì a captare dalla voce che le uscì come quello di un ululato di una lupa.
 
«Vuoi sapere tu cosa mi hai dato? Dolore, un mare incontrollabile di dolore, lacrime e sangue, ma tu… tu mi hai dato la vita. Tu mi hai donato la vita. Tu mi hai donato una casa. Tu mi hai fatto motivo per vivere, non per sopravvivere, tu mi hai dato un motivo per vivere, vivere ogni stante, ogni momento… tu…» Si fermò per un istante che la parve infinto, il tono che si andò a modificare in un lamento gracchiato.«… solo tu.» Il volto non piu’ serio ma ricolmo di tristezza, di una malinconia che lo raggelò cosi come le sue parole.
 
Thorin non riusciva a creder alle sue parole, non riusciva neanche a continuare guardarla in volto senza sentire quel terribile senza di colpa mangiarlo vivo, come riusciva lei invece a rimanere così, a guardarlo in quel modo a stringergli il viso tra le mani.
 
Le osservò il viso, attentamente ma non c’era un segno in quel viso, in quei due pozzi neri che stesse mentendo, lei quelle parole le pensava veramente; incredulo alzò lentamente una mano e gliela poggiò sul viso, accarezzandole la pelle calda della guancia con il dorso della mano,  la vide socchiudere gli occhi al suo tocco quasi in adorazione: nessun amore terreno poteva arrivare a quel punto, a negare la realtà, perché questo le aveva appena rivelato, la realtà.
 
«Come puoi dire tutto questo?» Mormorò osservandole le labbra che esalarono un ultimo e tremante respiro, mentre una singola lacrima le scese dagli occhi andandosi a infrangere sulle dita, prima che lo guardasse di nuovo, pronunciando quelle fatidiche che Thorin non avrebbe mai dimenticato.
 
«Preferirei patire ogni istante di umiliazione, patire ogni dolore, ogni sputo, ogni maledizione sulla Terra di Mezzo in ogni lingua conosciuta, se questo…» Mormorò Ghìda con voce spezzata guardandolo direttamente negli occhi, sentendo la gola incredibilmente chiusa e gli occhi diventare sempre più’ umidi impedendole di parlare.
 
Compì infine di nuovo quel gesto, ormai diventato una silenziosa ammissione di ciò che provava, che Thorin sentiva sul petto ogni dannato momento: gli guardò il petto per solo un attimo prima di spostare di nuovo lo sguardo nei suoi occhi facendo lentamente scivolare la mano sulla sua barba, sulla mandibola, sul collo, posandogliela infine dove poteva sentire il suo cuore pulsare sotto le sue dita. «Se questo volesse dire incontrarti di nuovo anche solo per un istante.»
 
Non ebbe nemmeno il tempo di finire l’ultima lettera che le labbra di Thorin si avventarono sulle sue in un bacio che si era resa conto che aveva agognato da quando lo aveva visto sulla soglia della porta. Non le servirono risposte, non le servì che lui le dicesse niente solo che la stringesse ancora a se fino a che non le mancasse l’aria e così fu: Thorin le passò la mano dapprima sulla sua guancia dietro la nuca intrecciandola dietro i suoi capelli, premendo le labbra e i loro corpi l’uno sull’altro.
 
 
Thorin sentì la piccola mano sul petto chiudersi stretta intorno alla sua cotta attirandolo ancora piu’ verso di lei mentre le sue labbra lo reclamavano, disperate, desiderose quanto le sue in un bacio che era stato rimandato troppo a lungo: tutto divenne futile perfino respirare o prendere aria, gli ansimi tra le loro labbra erano l’unica cosa che li rendeva capaci ancora di sopravvivere.
 
L’aria divenne calda, elettrica, sembrava di essere dentro una fornace bollente  Le loro lingue si cercavano e si scontravano e tra gli ansimi e lo scoccare delle loro labbra, tra i quali Thorin fu capace di cogliere il suo nome richiamato sussurrato da quella bocca su cui continuava ad avventarsi con foga fino a che non lo sentì pronunciato un'altra volta e  in un gesto che Durin solo sa quanto gli costò si staccò dalle sue labbra.  Vi ci allontanò quel poco da poterle sentire fremere ancora leggere sulle sue, le loro fronti che ancora si sfioravano così come i loro nasi, gli occhi incatenati l’uno nell’latro, mentre i loro petti si alzavo a ei abbassavano con foga riprendendo il fiato che si erano negati.
 
«Thorin…» Ripeté una terza volta guardandolo dritto negli occhi, i due pozzi scuri che erano sciolti dal desiderio, arrossati cosi come le sue labbra: dovette combattere con tutto se stesso per non avventarsi di nuovo su di lei, ma si mossero ancora.
 
 «Resta con me.» Sussurrò a filo con le sue labbra, facendole scontrare l’una sull’altra in una lieve carezza per ogni lettera che pronunciava nel frattempo che  gli occhi scuri che gli chiedevano ben altro. Le studiò gli occhi in cerca di un suo consenso a quello che vide fu il suo stesso desiderio la stessa bramosia che lo mangiava vivo. «Thorin resta qui con me» Ripeté ancora e a Thorin non servì altro non volle sentire altro che quello.
 
In meno di un attimo la strinse di nuovo a se  e in quello che fu un battito di ciglia le sue labbra si avventarono di nuovo sulle sue, avide, desiderose, appagate dalle uniche parole che il re dei Nani avrebbe mai accettato in quel momento; la baciò con una tal passione che con un semplice movimento la bocca di Ghìda si schiuse per accoglierlo un'altra volta e quel semplice gesto decretò il punto di non ritorno, facendogli perdere ogni contatto con la realtà.
 
Il desiderio che aveva celato, rilegato, odiato, quella brama di volerla ad ogni costo i qualsiasi maniera, non doveva piu’ controllarlo, non voleva piu’ controllarlo, lei era sua e solo sua e sarebbe stata solo sua, ma Ghìda lo era già, Ghìda lo era sempre stata e ora voleva che anche lui fosse suo, sempre e per sempre, lo bramava come mai aveva agognato nulla nella sua vita.
 
Ghìda si sentì spostata all’indietro, fino a che la schiena non le andò a sbattere contro la colonna di legno del letto facendola gemere involontariamente nella bocca del nano che a quel semplice suono perse ogni briciolo di autocontrollo che aveva avuto fino a quel momento: il mondo poteva bruciare, l’intera montagna poteva bruciare quella notte. Thorin fece scivolare le mani giù, verso la camicia da notte che gli avrebbe creato solo problemi e che presto sarebbe stata ridotta a uno straccio buttato in un angolo di quella stanza,  e continuando a baciarla premette il corpo control il suo impedendole di muoversi , impedendole di andare via da lui.
 
Ghìda mosse le mani desiderosa dal suo petto fino al collo della sua camicia e poi aprendo solo di poco gli occhi salì fino alle sue spalle infilandole sotto i ricami del mantello abbassandoglielo oltre le scapole in un invito che Thorin accolse facendo cadere il pesante indumento per terra con uno scossone delle braccia. Appena ne fu libero con un ruggito che gli crebbe dal petto le alzò i lembi della caccia da notte con foga rendigli molto piu’ facile l’alzarla da terra artigliandole le cosce calde con tale forza che la sentì irrigidirsi non appena accompagnò le sue cosce a stringersi intorno alla sua vita.
 
Sottomettendo un gemito allargò le gambe per lasciare che Thorin si insinuasse meglio tra di esse annodando le braccia intorno al collo del re spingendoli ancora piu’ vicini in quella estenuante tortura a cui li stavano sottoponendo ancora i loro indumenti,  ormai talmente stretti che Ghìda voleva solo che glieli strappasse di dosso lasciando incontrare la propria pelle con quella del re.
 
Si lasciò scappare un mugugno di delusione non appena le labbra di Thorin si staccarono dalle sue ma ne dovette sopprimere uno di piacere quando queste si avventarono fameliche sul suo collo baciando e leccando il punto sul quale aveva già passato lunghi minuti, marchiandola ancor di piu’ rispetto a quanto era già, torturandole il punto ancora sensibile.
Inclinò la testa di lato per farlo continuare: un desiderio che non sarebbe mai riuscita a esprimere a parole ma a Thorin non servì:  morse con vigore il punto già segnato assaporando ogni centimetro della sua pelle godendo dei fremiti che riusciva a procurarle e beandosi dei gemiti sempre piu’ alti che le uscivano dalla bocca, ogni volta che saliva ancora di piu’ verso il suo mento o giù’ verso i suoi seni, lasciandole piccoli aloni e segni sempre piu’ evidenti e grugnendo ogni volta che le piccole dita gli tiravano le ciocche dei capelli stingendo sempre piu’ vicino.
 
Ghìda si sentì bruciare viva un lento fuoco che dal basso ventre la stava infiammando in ogni parte del corpo rendendola incapace perfino di pesare lucidamente: mente le mani di Thorin le artigliarono le cosce con forza le sue si sciolsero dai suoi capelli abbassandosi verso il suo ventre andando a lottare con la fibbia della cintura premuta sulla parte bussa del ventre facendola cadere con un rumore sordo ai loro piedi. Ma le sue mani scesero ancora più in basso inebriata e colma di una audacia inaspettata andando alla ricerca dei lacci delle braghe, tirandone uno e con le mani che fremettero fu finalmente in grado di slacciarglieli ricevano un ruggito di piacere dalla bocca il suo mento.
 
Preso dalla foga di quel gesto Thorin si staccò dalla sua pelle e si avvento famelico di nuovo sulle sue labbra  rosse e stringendole le natiche le fece scivolare la schiena sulla colonna del letto spingendola poi giù sul letto dietro di lei che da fin troppo  lo stava richiamando come una terra promessa nel quale voleva perdersi intriso di sudore e con i gemiti di Ghìda che sovrastavano qualsiasi altro rumore nel mondo.
 
Appena sentì il materasso dietro la sua schiena Ghìda divaricò istintivamente le gambe e scivolò all'indietro, facendosi leva con le braccia per permettergli di salire a sua volta e di sistemarsi meglio; le sembrò quasi che le labbra di Thorin si staccassero dalle sue ma le morsero il labbro inferiore della bocca per aprirgliele ancora di piu’ famelico e voluttuoso.
 
Il letto scricchiolò rumorosamente tra i loro ansimi quando con le punta delle ginocchia Thorin si fece forza sovrastandola seguito da un mugugno infastidito all’interno della bocca carnosa quando si rese conto di da doversi scostare da lei; tirando su la schiena lasciò cadere rumorosamente la cotta dietro di se, seguita dai sui stivali che calciò giù’ prima di farsi forza con le mani sovrastandola con il suo peso ancora una volta.  Percepì le piccole mani andarsi ad amalgamare nel tessuto della camicia slacciandone bottone per bottone, coì frementi da farlo sorridere malizioso contro le sue labbra. I polpastrelli freddi indugiarono fino a risalire verso le spalle indurite e tese, tirando giù il tessuto scuro. Alzando prima un braccio e poi l’altro la aiutò a sfilare l’indumento, ma Ghìda non riusciva a trattenersi, non voleva piu’ farlo, lo voleva, lo voleva sentire attaccato alla sua pelle, ogni singolo angolo di lui, su di lei, dentro di lei.
 
Lasciò vagare le sue mani sulle sue braccia, sui muscoli tesi, sul petto grande e rigido, sfiorandogli ogni cicatrice che poteva sentire, ogni lembo di pelle, beandosi del suo inspirare rumoroso, di come seppur ancora con le bocche attaccate, a quel gesto, Thorin non avesse neanche la forza di farle incontrare di nuovo, di come socchiudesse gli occhi azzurri non appena attraversò con la mano il tatuaggio del corvo al centro del suo petto. I suoi fremiti non fecero altro che aumentare il fuoco che le divorava il petto e con estrema lentezza scese ancora ancora di piu’ verso gli addominali tesi, oltrepassandoli uno ad uno fino ad arrivare al tessuto delle brache che sfiorò imprudentemente, ma appena ci provò, vede gli occhi di Thorin farsi neri e un ringhio montargli nel petto.
 
Riprese il controllo e le afferrò il polso bloccandoglielo prima che potesse scendere ancora di piu’, portandogliela al lato della sua testa prima che fosse il suo turno a farla impazzire del tutto: con un ringhio basso e uno strattone le tirò su ancora di piu’ la veste obbligandola ad alzare le braccia per togliergliela del tutto mostrandola infine nuda sotto i suoi occhi. Ghìda si morse il labbro lasciando sfuggire un sospiro di piacere ogni istante, ogni brivido che Thorin le stava infliggendo semplicemente accarezzandole con le mani ogni centimetro del corpo che riusciva a percorre, indugiando sui fianchi, sui seni facendole inarcare la schiena all’indietro, non appena sentì il petto aderire contro il proprio, aumentando il calore in mezzo a loro e aumentando il desiderio insopportabile immerso tra i loro bacini.
 
Quando l’indumento fu finalmente in un angolo lontano del letto fu il turno di  Thorin di togliersi il fastidioso tessuto delle braghe , con cui prima lei aveva giocato, ma ora non ce la faceva piu’: li scalciò giù dal letto prima di aggredire di nuovo quei due petali che lo reclamavano ancora una volta.
 
Sapevano di doversi fermare, di smettere, almeno di tentare, ma nessuno dei due osò o trovò la forza per farlo: troppo il tempo a cercarsi, troppe le emozioni, troppo il dolore sofferto da entrambi che se i Valar li avessero voluti punire in qualche modo era meglio che lo facessero subito, perché dopo quella notte, dopo essersi donati l’uno all’altra fuori da ogni ragione, ogni onore, ogni patto stretto, il loro non aversi più sarebbe stata al la loro punizione.
 
Se avessero dovuto essere dannati, allora sarebbero stati dannati insieme.
 
Ghìda lo attirò di nuovo a se lasciandosi andare totalmente con la schiena contro il materasso allargò le gambe per accoglierlo: rabbrividì appena i due fermagli runici alla fine delle due trecce nere le sfiorarono il seno prima di;  prendergli il viso tra le mani e baciarlo disperatamente dandogli un’ultima e definitiva conferma. Thorin si posizionò in mezzo alle sue gambe facendosi da perno sulla spalliera del letto, che divenne anche l’unico appiglio che lo teneva aggrappato al fatto che tutto ciò fosse reale, che quella sotto di lui era davvero lei, era davvero finalmente lei. La voleva, lei lo voleva, lui l’avrebbe reclamata, da qui fino alla fine dei tempi, ogni notte se avesse dovuto e avrebbe trucidato chiunque, chiunque gliel’avrebbe voluta portare via, perfino se stesso.
 
La condusse verso di se con una mano appigliata alla carne della sua gamba e lei lo attirò ancora piu’ verso di e in quello che fu un attimo i loro bacini si scontrarono facendoli gemere in sintonia uno nella bocca dell’altro, inebriandosi di un piacere che non sarebbe mai stato seguitabile da nessun altro piacere terreno, in quella vita o nell’altra, abbandonandosi a un bisogno che questa volta non fece tremare solo una montagna ma l’intera Terra di Mezzo.
 
Tra gli ansimi, le spinte divennero sempre piu’ impetuose  e sempre di piu’ i loro corpi si riempivano di goccioline di sudore; le loro bocche si scontravano in baci, in morsi o in parole rotte dai gemiti e dai respiri pesanti che circondavano la loro passione. Le mani di Ghìda che dapprima erano solo poggiate sul petto disorni sfiorandone le nitratrici evidenti si andarono ben presto a cingere dietro la sua schiena aggrappandosi al piacere che provava in quel momento; gemendo piegò ancora di piu' la gmaba che Thorin teneva ferma intorno al suo fianco e ad alzare perfino l'altra incrocidole poi entrambe intorno al suo vnentre, seguendone i movimenti.
 
Con la mano libera Thorin strinse con talmente tanta violenza la spalliera del letto che se avesse impiegato ancora un po' piu’ di forza l’avrebbe potuta sbriciolare nelle sue mani; le dita di Ghìda gli graffiarono la schiena incontrollate, imprimendo le sue unghie nella carne con tanta forza che si lasciò andare in un gemito sommesso tra le spinte sempre piu’ passionali che stavano prendendo pieno possesso dei loro corpi.
 
E in quello che fu un gesto rapido le passo il braccio dapprima fermo accanto alla sua testa  dietro la schiena e repentinamente  si inginocchiò sul materasso portandola a sedere su di se e con una spinta incontenibile la portò a sovrastarlo, guidandola con le mani ben fisse sui fianchi lisci e candidi.
 
Ghìda strinse le dita intorno alle su spalle non riuscendo piu’ a sottomettere dei lamenti acuti, che le invasero la bocca e appena provava o tentava di socchiudere gli occhi, in balia di quel piacere che la stava consumando, un ennesimo movimento netto le faceva sgranare gli occhi e la bocca fissa a un pelo da quella di Thorin, bloccandole il fiato e venendo punita con un agogniate piacere ogni volta osava distogliere lo sguardo dagli occhi colmi di desiderio del re.
 
Thorin si inebriò di quel potere, del potere che in altri casi gli avrebbe negato, dell’obbedienza senza mezze misure che in altre situazioni glia avrebbe contestato:  in quel momento lei era docile sopra di lui, scossa dai gemiti, obbediente in una maniera che neanche nelle sue notti piu’ oscure gli era stato concesso, e Ghìda gli concesse quel potere che in quel momento la eccitava piu’ di qualsiasi cosa, il lasciarsi andare a lui totalmente. La voleva guardare in viso, voleva guardarla arrossire, aprire e chiudere la bocca per lui, solo per lui, lottare con tutta se stessa per sottostare ai suoi ordini sapendo perfettamente quanto le era difficile, lo sentiva da come gli stringeva le spalle con le unghie da come seppur così vicino alle sue labbra non riuscisse a baciarlo tra i gemiti, o di come i suoi occhi luccicavano a ogni suo movimento. Piu’ il piacere aumentava piu’ le era difficile mantenere il contatto visivo così come lo era per Thorin l’imporglielo. 
 
«Th-thorin…» Cigolò in un supplizio talmente piacevole che inarcò la schiena all’indietro ma appena ci provò i movimenti verso l’alto diventarono sempre piu’ irruenti, così come la presa sui suoi fianchi: gli anelli sulle dita del nano immense nella sua carne che le graffiarono i fianchi.
 
Infine in uno spasmo violento Thorin si lasciò andare non riuscendo a trattenere un lamento rogo, così come non riuscì a non stringerle i fianchi portandola ancora piu su di lui e imprimerla nel suo corpo, come una lastra bollente; Ghìda sottomise un gemito che riuscì però a trattenere afferrando con la bocca la carne della spalla del nano fino però a che anche lei non si sentì talmente tesa da doversi lasciare andare poco dopo in un lamento acuto. Lo strinse forte a se e mordendogli la spalla con tale forza per sottomettere un secondo strillo che sentì da subito il sangue confluirle lieve all'interno della bocca.  Affogò il naso nella sua pelle, nel suo profumo, le spinte dapprima violente diventarono languide, fino al fermarsi del tutto, lasciandoli nell’immobilità di quel momento, i loro respiri affannati e l’odore inteso di sudore e passione a cui si erano lasciati andare senza ripensamento alcuno.
 
Gli ansimi di Thorin le smuovevano i capelli al lato della testa e il suo sudore l’attaccò ancora di piu’ contro il suo petto: con lentezza slegò le mani da intorno al suo collo e alle sue spalle sentendosi totalmente svuotata lasciandole cadere contro il suo petto.
Anche se con gli occhi socchiusi vide i rivi di sangue cadergli dal morso che incontrollabile gli aveva lasciato poco prima, marchiandolo come lui aveva fatto con lei: vi ci avvicinò la bocca e cominciò a raccogliere con le labbra ogni rivolo, lasciando dei flebili e piccoli baci su ogni segno, mentre il sapere metallico e quello dolciastro della pelle di Thorin le si imprimevano sulle labbra.
Lo sentì fremere inarcando ancora di piu’ il collo di lato, lasciandola continuare a porre riparo ai suoi danni, con le mani ancora ben fisse sul suo petto dove sentiva il suo cuore battere a un ritmo frenetico, che per ogni suo gesto si calmava sempre di piu’, come lei che a ogni sua piccola carezza sui fianchi si sentiva sempre di più di nuovo languida come l’acqua.
 
Quando ebbe finito nascose il viso nell’incavo della sua spalla, sentendosi tutto d’un tratto incredibilmente stanca, ma così felice che non si rese neanche conto del tenue bagliore che la pelle stava cominciando a emanare, a malapena percettibile anche per dal piu’ abile degli occhi; tra rivoli di sudore che le appicciavano i capelli alla fronte e gli occhi socchiusi poteva vedere la mandibola del nano, che la teneva ancora tra le braccia, e il suo collo muoversi a respiri pesanti. Lasciò cadere lo sguardo verso il tatuaggio sul suo petto, poggiando la mano sull’ala sinistra del volatile. Thorin lasciò andare la fronte sulla sua scossò dai fremiti e la cinse con le braccia a se socchiudendo gli occhi, perdendosi ancora di piu’ in lei, piu’ di quanto avesse fatto prima.
 
Nel nome di Durin, cosa mi hai fatto.
 
Si ritrovò a pensare spostando lo sguardo verso il viso accoccolato sulla sua spalla, le labbra dolcemente premute sul suo collo, il leggero respiro che affannato gli sbatteva sulla barba, le mani dapprima taglienti e avide su di lui ormai ridotte a due piccole piume sul suo petto e sul suo collo: piccole dita che percorrevano ogni angolo della sua pelle. Le posò un bacio tra i capelli socchiudendo gli occhi e lasciandosi andare in quella massa di  piccole trecce ormai ridotte solo a dei ciuffi disordinati, lasciandosi andare in quel suo piccolo angolo di pace
 
«Ti amo.» Un piccolo soffio a malapena percepibile gli accarezzò il collo, facendogli chiudere gli occhi.  
 
Ghìda bloccò la mano tra la sua leggera peluria sul petto appena sentì Thorin stringerla ancora di piu’ a se, premendola contro il suo petto ancora di più rispetto a quanto era prima;  sospirò profondamente appena sentì una delle sue mani dapprima fissa dietro la sua schiena, scivolarle sulla colonna vertebrale, oltrepassando la lunga cicatrice che era solo la regina di tante altre piu’ piccole e bianche sulla sua pelle. Le sfiorò il fianco seguendone tutta la linea con le punta delle dita prima di saliere ancora piu’ su a sfiorarle il seno e poi il braccio fin dove cominciavano le sue rune sulla spalla, un infinito e dolce percorso che terminò sotto il suo mento con una leggera pressione delle dita. 
Thorin la costrinse a guardarlo in volto: gli occhi languidi, azzurri come il cielo la guardarono con un estremo bisogno. «Dimmelo ancora.» Mormorò simile a un ordine, ma che nascose malamente un’esigenza impellente che le fece stringere lo stomaco in una morsa; Thorin voleva sentirlo ancora aveva bisogno di sentirlo ancora un'altra volta.
 
Si avvicinò di poco seguendo la spinta sotto il mento che la portò ancora piu’ vicina al suo viso: adagiò con lentezza la fronte sulla sua e tenendo la mano ferma sul suo petto.
 
«Ti amo.» Mormorò ancora guardandolo dritto negli occhi e quelle parole vennero suggellate da un bacio, un bacio talmente dolce e delicato rispetto a quelli che si erano scambiati fino a poco prima che la fece rimanere con gli occhi socchiusi per rendersi conto se fosse davvero reale.
 
Thorin tentò di dirle quella parole che a fatica gli uscivano dal petto in quel bacio, ma che avrebbe urlato fin in capo alle montagne piu’ alte se glielo avessero chiesto ma che in quel momento non aveva bisogno di dire, perché lui lo sapeva e soprattutto lei lo sapeva.
 
La sua regina lo sapeva.
 
E quella notte in centinaia di anni, Thorin non sognò nulla, né lei, né le fucine, né il sangue, né le battaglie, ne cadaveri, spettri che lo avevano tormentato per tutta la vita, non aveva bisogno di sognare nulla, perché tutto ciò che temeva di perdere e tutto ciò che voleva si trovava nelle sue braccia. Non c’era nessun sogno o nessun incubo che avrebbe potuto fargli provare le medesime sensazioni che sentiva in quel momento, nel frattempo che quella creature gli dormiva con la testa poggiata sul petto, raggomitolata sopra di se, addormentata in un mondo in cui finalmente le stelle li osservano e la roccia della montagna proteggeva vegliando sul figlio di Durin aveva trovato l’amore che per tanto gli era stato negato.

 
 
 
 
 
 
Zabd-ê: Mia regina
 
 












Zabd-ê: Mia regina













Angolo autrice:
FINALMENTE PORCA LA MISERIA! NON SAPETE CHE LIBERAZIONE HAHAHAHAHHAA
Oh oh oh oh, c'è ancora qualcunooo ;)??? Ve l'avevo detto che sarebbe servito un secchio per la bava o per le lacrime, io direi per entrambe. Spero che non abbai deluso le vostre aspettative XD Ci ho messo tanto perchè volevo ch questo capitolo uscisse bene e spero che sia uscito abbastanza decentemente da piacervi quanto piaccia a me in questo momento. So che succede un botto di roba ma volevo che fosse tutto collegato, come se effettivamente fosse una specie di matrimonio o cerimonia matrimoniale a tutti gli effetti.
Io li amo, basta cioè dopo sto capitolo voglio solo augurargli un modo di bene hahahahah
Per tutti i dwalinxdìs shipper poi ho messo un paio di scenette che spero vi abbiano incuriosito. Muahahaha
E la canzone è la canzone che Marry e Pipino cantono all'inzio del signore degli anelli nel libro, mi era piaciuta quidnbi l'ho adattata.
ORA PEROì MI ASPETTO UNA RECENSIONE ANCHE DA QUELLI CHE NON RECENSISCONO EH! AO! ME RACCOMANDO EH! DEVO SAPERE COSA NE PENSATE, soprattutto in vista delel rivelazioni celate (chissa se avete capito).
Per qualsiasi cosa scrivetemi o recensite, insomma.
Ringrazio Perla16 per la recensioni e i messaggi <3 <3 e ringrazio tutti quelli che seguono: Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn, , marisole, NekoBlonde, e GiadaHP, Perla_16, Ribes Roger e Nekoblonde, Alcalime91 e Fib23!
E un grazie a tutti quelli che leggeranno in seguito o che recensiranno in seguito.














Spoiler:



Chi te l’ha insegnata questa canzone?
Credo mia madre.



 

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Capitolo 17
*** Sentimenti celati ***


 
Sentimenti celati







 
 
 
 
Il mattino arrivò silenzioso posandosi ai lati della montagna come una dolce carezza, i candidi fiocchi che avevano imperversato per tutta la notte precedente avevano smesso di cadere così come le nuvole grigie che le portavano, lasciando libero il cielo ad un azzurro celestiale. Illuminata dai raggi del sole la neve brillava sulla parete rocciosa della montagna che faticava a svegliarsi, il canto degli uccelli risuonava delicato tra i pini che costeggiavano la valle rimbombando tra le piccole finestre e rimbalzando nel grande atrio d’entrata dove già alcuni assonnati piccoli manipoli di guardie cominciavano a darsi il cambio dopo la lunga notte.
La sala dei banchetti ormai era vuota e con calma cominciava ad essere ripulita dal putiferio che era riverso sia per terra che sui tavoli: sulle sedie giaceva ancora addormentato profondamente qualche nano abbracciato a dei boccali vuoti o altri con le schiene premute contro le pareti fredde della sala cercando di cullarsi l’un l’atro e ripararsi dalla pietra fredda che li circondava. Il fuoco delle torce quasi del tutto spente o quello piu’ intenso delle braci a malapena vive nell’immenso camino dietro al tavolo reale, illuminavano foscamente la sala nel frattempo che la luce dorata che si spargeva vivace tra i blocchi dorati nelle pareti arrivava a dare l’inizio a una nuova giornata.
 
Fu proprio una luce leggera che entrò dalla finestra di pietra a svegliare anche Ghìda dal sonno sereno in cui era immersa. Un piccolo brivido le attraversò la spalla scoperta scendendole giù fino la schiena nuda, ancora avvolta in un leggero e morbido tepore, destandola dolcemente e accompagnandola a prendere di nuovo possesso di tutti i suoi sensi. Debolmente aprì gli occhi abituandosi piano alla penombra presente nella stanza, mettendo lentamente a fuoco ogni singolo contorno dei mobili che riusciva a vedere; il camino era spento, ma la luce lieve che filtrava delicata dalla finestra le fece capire da subito che era ancora presto. Si raggomitolò leggermente su se stessa e con un movimento inconscio spostò indietro la schiena incontrando un qualcosa di caldo e di incredibilmente familiare che sembrò inghiottirla non appena la sfiorò; si ritrovò a sorridere sul tessuto del cuscino e con cautela si voltò dalla parte opposta del letto e il sorriso prima a malapena accennato le si distese su tutto il viso mentre un dolce calore le salì dal petto fino alle goti colorandole.
 
Accanto a lei Thorin era ancora addormentato adagiato sul fianco girato verso la sua direzione: il petto gli si alzava e si abbassava lentamente, così come la sua mano poggiata adagiata su di esso che tratteneva il lenzuolo che a malapena gli copriva lo stomaco; i capelli neri ricoprivano la maggior parte del cuscino e anche una buona porzione del suo viso. Aveva le labbra socchiuse e la piccola ruga in mezzo agli occhi austeri era distesa così come il resto del suo viso, trasmutato in una delle espressioni piu’ serene che gli avesse mai visto.
 
Prudentemente alzò la mano dal materasso e la avvicinò verso il suo viso e, prendendolo con la punta delle dita, gli spostò da davanti gli occhi un ciuffo cinereo che maldestramente gli era andato a coprire il viso fino alla bocca intersecandosi nella barba disordinata e glielo portò dietro la spalla posandolo tra gli altri ciuffi neri. Dalla bocca socchiusa di Thorin d’un tratto uscì un respiro piu’ pesante degli altri e le piccole rughe sotto gli occhi si formarono un’alta volta: mordendosi il labbro spaventata di averlo svegliato tolse la mano dai suoi capelli e a poco a poco il respiro tornò regolare, così come i suoi lineamenti, che da netti tornarono a malapena accennati.
Sospirando, e non riuscendo a resistere all’impulso di non farsi almeno piu’ vicina, si fece forza con il bacino e si mosse silenziosamente verso il re e con una piccola spinta delle braccia si riposizionò nella stessa posizione in cui aveva preso sonno la notte precedente. Con attenzione spostò la mano ancor ferma sul fianco verso l’alto adagiandola al centro del suo petto, poco sopra dove aveva lui poggiata la sua, lasciandosi andare al cullare dei suoi respiri, aggrappandosi con una gamba alla sua artigliandolo.
Posò la testa sopra il braccio disteso sui cuscini e insinuò il suo viso sulla sua spalla annegandoci poco a poco, cullata dal suono profondo del cuore di Thorin che, in sintonia con il respiro profondo e scandito, creò una calma ninna nana che riuscì a darle pace al petto immediatamente; attraverso i muscoli tirati e le cicatrici evidenti spostò lo sguardo su ogni linea sguardata e bluastra del tatuaggio che gli attraversava i pettorali, dal becco del volatile in mezzo al suo sterno fino alla fine delle ali, una delle quali terminava proprio dove aveva il viso poggiato.
 
D’un tratto sentì delle dita sfiorarle la schiena nuda che cominciarono a poco a poco a disegnare piccole curve che dal basso salirono sempre di più fino ad arrivarle alla spalla: sopprimete un ennesimo sorriso contro la pelle bollente sotto di lei lasciandosi andare alla meravigliosa sensazione che la mano di Thorin le stava regalando, decisa a non aprire gli occhi avendo una terribile paura che tutto ciò potesse scomparire. Tutto quello che le era successo quella notte, dal suo inizio alla sua fine, le era sembrato così irreale che tuttora aveva paura di stare ancora sognando. Anche se era abbastanza sicura di essere sveglia dubitò che tutto quello che stesse vedendo in quel momento potesse essere reale, per questo non osò muovere neanche un muscolo, lasciando andare ancora di piu’ la testa sulla scapola di Thorin tenendo gli occhi chiusi, volendo vivere ogni singolo attimo che le potesse essere concesso.
A suo malgrado non poté non aprirli di nuovo quando sentì una pressione gentile sopra la sua testa: due labbra bollenti le si poggiarono gentilmente di sopra della sua nuca intanto che le dita continuavano il loro giro, ridisegnandole ogni bozzo delle ossa della colonna vertebrale o ogni cicatrice sulla schiena fino infine a salire insinuandosi sotto i suoi capelli, incrociandosi con delicatezza tra le ciocche.
 
«Sto ancora dormendo?» La voce roca risuonò all’interno della sua cassa toracica diventando ancora piu’ profonda e impastata dal sonno di quanto già non fosse, smuovendole i ciuffi in cima alla testa.
 
Le scappò un piccolo sbuffo divertito, incapace di dirgli che anche lei aveva pura che stesse ancora dormendo, che tutto ciò non fosse reale: chiuse di nuovo gli occhi premendo le labbra al di sopra del suo petto in un piccolo bacio al quale lo senti fremere.
 
«No, non credo, suppongo di no.» Gli rispose adagiando di nuovo la testa nell’incavo del suo collo osservando la mano di Thorin che ancora poggiata sul suo stomaco si strinse lievemente intorno al tessuto blu scuro del lenzuolo aggrappandocisi.
 
«Sei sicura di ciò che dici?» Le chiese ancora serio, terribilmente serio.
 
Non riuscì a trattener una risata leggera di fronte al tono che Thorin aveva usato: terribilmente autorevole e severo che oltre che incredibilmente dolce le sembrò incredibilmente esagerato e conoscendolo non si sarebbe mai lasciato andare in quel modo se non per poterci poi sogghignare sopra.
 
Gli baciò un'altra volta il petto ruotando gli occhi cominciando ad alzare lo sguardo verso il suo viso per ribattere a tono. «Beh posso sempre controllare che io non sia…» Le parole le si bloccarono in bocca così come la sua ironia si trasformò in silenzio non appena incrociò lo sguardo di Thorin sopra di lei.
 
La stava osservando in un modo che le fece saltare un battito al petto: non aveva quasi espressione, la stava solo guardando direttamente, come se la volesse trafiggere con lo sguardo o strapparle la carne dal petto e guardarla dentro, come potesse svanirgli tra le braccia da un momento all’altro, perché Thorin quello stava temendo con tutto se stesso, che da lì a poco lei sarebbe scomparsa che, come ogni notte da quattro mesi, gli sarebbe svanita tra le dita o peggio che il suo viso si sarebbe tramutato in qualcosa di peggio rispetto al nulla.
 
Ghìda aprì e chiuse la bocca piu’ volte sbarrando gli occhi di fronte a quella reazione che mai si sarebbe aspettata, di fronte a quella fragilità ben celata che Thorin stava facendo troppo trasparire e che mai le aveva dato l’opportunità di vedere: mai, neanche una volta, si era ritrovata così vicina al nano che si celava dietro la corona, neanche la notte precedente.
La paura di Thorin le passò addosso e quando alzò la mano per toccarlo questa le tremò leggermente come se solo sfiorandolo si sarebbe potuto ritrarre come un animale nella sua tana, ma non lo fece rimase invece immobile e lasciò la sua mano traballante posarsi sulla sua mascella, sulla barba ispida e scura sulla guancia che al minimo tocco si tese così come il suo viso: un ultimo spasmo, prima di socchiudere gli occhi e lasciare la rabbia defluire in un sospiro pesante che le smosse le ciglia.
 
Con cautela si avvicinò ancora di piu’ tanto da poter sfiorare il suo naso contro quello spigoloso di Thorin, tanto da poter sentirgli il sangue fluirgli nelle vene perfino o i nervi distendersi lentamente uno ad uno. «Sì, sì sono sicura Thorin, non stai dormendo.» Lo rassicurò cauta continuando ad osservarlo, sentendo il cuore contorcersi in una morsa quando si sentì tirata  possessivamente ancora piu’ sul suo corpo dalla mano grande e ruvida ancora sulla sua schiena.
 
Thorin la guardò in silenzio, passando gli occhi azzurri velocemente da un occhio all’altro, prima di  guardarle il petto, sotto il collo, studiandolo con attenzione: un’azione che non riuscì a spiegarsi e che riuscì a spiegarsi ancor meno quando sciolse la mano dal lenzuolo e lo avvicinò contro il suo petto sfiorando con la punta delle dita il punto che attirava il suo sguardo. Lo sentì serrare la mascella un'altra volta sotto le proprie dita e poi in quello che fu un attimo la mano schizzo via dal suo petto afferrandole gentilmente la mano premendola ancora di più sul proprio viso lasciando un altro sospiro uscirgli dalla bocca annuendo.
 
«Thorin cosa è successo?» Gli chiese con un tono che fece fuoriuscire tutta la preoccupazione che non smetteva di abbandonarla, neppure in quale momento nel quale sembrava essere ritornato in quello stato di pace in cui aveva dormito.
 
Il nano scosse la testa conducendole la mano con la propria verso le sue labbra, baciandole la punta delle dita e sorridendo debolmente su di esse e stringendola ancora di più a se facendo combaciare del tutto i loro corpi nudi, portando le loro mani ancora unite in mezzo ai loro petti.
 
Con gentilezza adagiò la fronte sulla sua. «Non ascoltare le parole di un vecchio sciocco re dei nani.» Mormorò sorridendo con il lato della bocca tentando di rassicurarla ma sapeva che c’era qualcosa che le stava nascondendo e la cosa non la rassicurò, affatto anzi se poteva essere possibile le diede solo la conferma che le stava nascondendo qualcosa.
 
«Ho quasi la tua stessa età, quindi mi daresti anche a me della vecchia nana sciocca se non ti rivelassi i miei pensieri?» Rispose alzando un sopracciglio stringendosi ancora di piu’ al corpo caldo e possente del nano assottigliando lo sguardo.
 
Sospirando arreso Thorin scosse la testa e sciogliendo solo l’indice dalle loro mani usandolo come leva per alzarle ancora di piu’ il viso verso il suo per poterla guardare ghignate negli occhi. «Quasi, quando avrai la mia età ti dirò che sei una vecchia sciocca regina dei nani, ora ti ordinerei solo di dirmeli.»
 
In altre circostanze avrebbe continuato il battibecco, anzi aveva già la risposta pronta prima che lui parlasse, su come lui non potesse ordinargli un bel niente rispetto ciò che sentiva ma quando Thorin pronunciò quelle parole tutti i suoi pensieri si annebbiarono di colpo: un frase di una semplicità inaudita ma che alle sue orecchi risuonò come una preziosa promessa che dovette elaborare a rilento, rimanendo in un profondo silenzio, nel frattempo che il suo corpo non faceva altro che fremere e il suo respiro accelerare poco a poco.
Si sarebbero sposati questo lo aveva sempre saputo, una vita insieme era naturale in quella circostanza, ma sentirlo in quella situazione, sapendo ciò che provavano l’uno per l’altra, la scosse profondamente, un qualcosa che non si era mai neanche immaginata di poter sentire.
 
Si morse lievemente l’interno guancia cercando di calmare il mare che le si era creato dentro e che specchiandosi negli occhi chiari che aumentavano solo di intensità come delle onde violente contro la costa bianca dalla quale proveniva. «Sei pronto ad aspettare così tanto?»
 
Thorin la guardò dritta negli occhi, passando solo leggetemene le pupille su ogni tratto del suo viso scioccato ma incredibilmente felice di quella domanda, anche se la risposta gli sembrava abbastanza chiara, ricordandosi quel piccolo scorcio di vita che Mahal gli aveva donato la possibilità di vedere prima di lasciarla andare, forse per sempre, e la risposta gli arrivò chiara e non ebbe paura alcuna di rivelargliela.
 
«Tutta una vita.» Mormorò strofinando i loro nasi l’uno sull’altro, a un soffio dalle sue labbra prima di annullare la distanza tra di loro con un bacio a fior di labbra che in meno di un attimo mutò.
 
Quello che era nato come un piccolo e innocente bacio montò ben presto come una marea trascinandoli entrambi in altri cento e cento ancora, in cui si persero totalmente in meno di un attimo: Ghìda chiuse gli occhi portando le sue mani a intrecciarsi nei capelli neri attirando ancora di piu’ verso di se mentre Thorin la avvolse con entrambe le braccia stringendola a sé tentando di ignorare, per quanto potesse, la luce del giorno diventare sempre piu’ intensa oltre le sue palpebre semi socchiuse o il fatto che gli stava cominciando a mancare il fiato, ma per Durin avrebbe retto fino a che i polmoni non gli si sarebbero svuotati del tutto.
 
L’idea di lasciarla in quel letto da sola quella mattina era una delle prospettive piu’ insopportabili che si era mai trovato ad affrontare in tutta la sua vita: se ne avesse avuto il potere avrebbe bloccato il tempo in quell’istante, in un ritorno infinito  di quegli ultimi minuti e avrebbe mandato a marcire i suoi doveri. Anni addietro probabilmente lo avrebbe fatto continuando ad assaporare quella lingua nella sua bocca che lo cercava sempre piu’ disperatamente o a lambire quel corpo di cui si era beato nelle notti piu’ oscure lasciando che quella voglia dietro la sua testa si potesse fare avanti anche nel suo corpo. Fu la prospettiva che non sarebbe stato il suo ultimo momento in quello stato a fargli staccare le labbra dalle quelle languide di Ghìda; un sospiro arreso gli oltrepassò le labbra non appena puntò lo sguardo verso i suoi occhi scuri socchiusi e seppur odiandosi a poco a poco lasciò le sue mani scivolare sia dalla sua schiena e dai suoi fianchi, accarezzando la cicatrice su uno di questi, puntandole con la fronte la finestra aperta, facendo chiaro riferimento a come la penombra cominciava a diventare una luce aranciata.
 
«Devo andare.» Mormorò a un soffio dalle sue labbra ricevendo un piccolo sorriso come riposta insieme alle sue mani che si andarono a sua volta a sciogliere da dietro il suo collo dandogli l’autorizzazione ad alzarsi, seppure l’autorizzazione in quel caso se la dovesse ancora dare da solo.
 
Si diede una botta con i reni mettendosi su a sedere sul letto strofinandosi le mani sul viso cercando di mascherare la frustrazione che gli stava cominciando a montare nel petto: senza aspettare oltre sapendo che se ne sarebbe pentito passò lo sguardo attentamente sul pavimento di fronte a lui per cercare le brache che nella foga non ricordava neanche dove aveva gettato. Ringraziando Durin li riuscì a notare quasi subito, sopra la cassettiera accanto al letto che si tenevano ancora sul mobile quasi per miracolo, come entrambe le gambe scure a penzoloni nel vuoto.
Allungò il braccio per afferrarli e, grazie al suo ultimo briciolo di autocontrollo e senso del dovere, riuscì ad alzarsi dal letto e infilarseli con talmente decisione che per un attimo penso addirittura che stesse per strapparli, prima di lasciarsi a sedere un’altra volta sul letto per allacciarsi i laccetti incrociati che ora gli parevano solo una terribile tortura per farlo rimanere ancora piu’ a lungo.
 
Le dava la schiena mentre si allacciava i pantaloni in silenzio, tirando e stringendo i lacci tentando di fare il meno rumore possibile: Ghìda si morse il labbro pensando a quale fatica stesso compiendo in quel momento o alla sua espressione accigliata mentre tentava almeno. Si lasciò andare totalmente di fianco voltandosi verso di lui affondando la testa tra i due cuscini e distendono il braccio verso la porzione vuota di letto che aveva lasciato: lo osservò in silenzio per qualche istante passando lo sguardo sulla schiena nuda coperta per la metà dai capelli corvini; seguì i sui segni rossi di unghie che gli attraversavano la schiena da parte a parte in entrambe le direzioni marchiandogli la pelle già colma di piccole e grandi cicatrici perlacee e si morse un labbro quando le immagini di come Thorin si era procurato quei segni le tornarono di fronte agli occhi.
 
Alzandosi con cautela dal letto, Thorin si chinò lievemente in avanti afferrando qualcosa da terra che  Ghìda riconobbe subito come la camicia che indossava la notte precedente; con un sospiro si sedette poi di nuovo sul bordo del letto e la incuriosì abbastanza quando invece di indossare l’ indumento se lo passò tra le mani piu’ volte , posando poi gli avambracci sulle ginocchia e facendo uscire un breve sbuffo smuovendo le ampie spalle.
 
«Torna a dormire.» La intimò volando di poco lo sguardo oltre la spalla prima di spostare di nuovo la sua attenzione verso il tessuto nero fermo nelle sue mani e cominciare di nuovo ad allargarlo con le dita.
 
Arrotolò con attenzione i lembi della camicia incontro ai palmi per indossarla, ma appena cominciò a infilare una mano si dovette bloccare immediatamente quando due braccia delicate gli avvolsero il collo e un peso soffice gli si poggiò sui muscoli tesi della schiena nuda; socchiuse gli occhi esalando un sospiro esasperato appena sentì la pressione dei seni sulla pelle e le labbra di Ghìda avvicinarsi oltre la sua spalla e lasciargli un bacio sotto l’orecchio.
«Potrei rivolgerti le stesse parole lo sai vero?» Commentò dolcemente allontanandosi di poco dal suo viso e abbandonandosi al limitare della sua spalla con la guancia per poterlo guardare in viso.
 
Voltò leggermente lo sguardo alla sua destra incontrando un paio di occhi scuri che brillavano di luce propria coperti da dei piccoli ciuffi disordinati che le scendevano lunghi fin a coprirle gran parte del braccio teso mentre le labbra erano arrosate e piegate in un piccolo sorriso facendo vacillare anche la sua lucidità.
 
Strinse il tessuto della camicia nella mano e rimase ritto a se stesso. «Sei tu che mi hai svegliato.» Commentò severo o almeno quello che dovette sembra un tono severo ma che si andò a sgretolare sotto quello sguardo così sereno che mai le aveva visto sul viso.
 
Maledizione.
 
Sospirando e lasciando crollare per quello che fu un attimo i suoi buoni propositi; avvicinò il viso al suo e lasciò delicatamente andare la fronte sulla sua inspirando profondamente l’odore che amava, lo stesso che aveva sentito tutta la notte nelle narici.
 
«Riposa, ancora per qualche ora.» La intimò nel frattempo che la voglia di prenderle il viso e baciarla si fece sempre troppo reale, ma sapeva che se l’avesse baciata avrebbe mandato in malora ogni suo impegno quella mattina.
 
«Ma io non sono…» Ghìda non riuscì neanche a finire la frase che si dovette tirare indietro dalla fronte di Thorin nascondendosi di nuovo dietro la sua spalla per trattenere uno sbadiglio che inevitabilmente però le trasmutò le parole. «Io non sono stanza stanca.» Riuscì finalmente a completare la frase celandosi imbarazzata sulla pelle del nano, tradita perfino dal suo stesso corpo.
 
La sua fronte venne smossa da dei piccoli movimenti e poi per quello che fu un attimo senti Thorin ridere: non una delle risate che sentiva di solito, un piccolo sbuffo o un grugnito, no, lo sentì ridere per davvero, una risata che in tutti quei mesi non era mai riuscita a sentire. Percepì una piccola stretta al petto di fronte a quel suono profondo ma terribilmente dolce che aleggiò per la stanza soprattutto quando abbassò il viso imbarazzato per nasconderla.
 
Alzò lo sguardo di nuovo oltre la sua spalla sorridendogli. «Dovresti ridere più spesso, hai una risata splendida.»
 
Thorin la osservò oltre la sua spalla e alzò un sopracciglio con ancora un piccolo sorriso stampato sulle labbra. «Non è con le lusinghe che mi distrarrai da ciò che ti ho detto.»

«Con te le lusinghe servono poco e non avevo intenzione di farlo, era solo la verità.» Commentò di rimando baciandogli l’incavo del collo, oltre la barba ispida lasciandosi poi di nuovo andare con la guancia sulla spalla bollente osservandolo.
 
Una piccola scintilla gli illuminò gli occhi azzurri e spalancando leggermente la bocca scosse la testa: le sembrava quasi incredulo alle sue parole, perfino scioccato; un piccolo sorriso gli si formò al lato della bocca e  sospirando con un gesto veloce si liberò della camicia che teneva ancora tra le mani poggiandola di fianco a lui.
 
«Vieni qui.» La intimò osservandosi dapprima le gambe e poi spostando gli occhi di nuovo verso di lei allargando le braccia dietro il suo busto in un soffice invito che Ghìda non si fece ripetere due volte.
 
Accompagnata dal braccio di Thorin gattonò sul materasso e sporse prima una gamba e poi l’altra mettendosi seduta sul suo ventre lasciando dietro di se il lenzuolo e con cautela poggiò le mani sul petto per farsi un minimo di forza. Due calde e possenti braccia la cinsero con possessione, con un estremo bisogno portando il suo corpo a premersi contro il suo, facendo aderire i loro corpi e le loro fronti ancora una volta e portandola di nuovo a perdersi ancora in quei due pozzi blu che la guardarono in una maniera tale che le fece attorcigliare le membra.
 
Non c’era niente di voluttuoso in quell’abbraccio, solo un’estrema dolcezza alla quale entrambi ancora dovevano abituarsi come alla concezione che quella non sarebbe stata l’ultima di quelle mattine passate così, dove perfino Thorin, anche se non l’avrebbe mai detto, tentennava a lasciarla andare impaurito che non fosse reale.
Gli sembrava di avere tra le braccia la cosa piu’ preziosa e fragile della Terra di Mezzo, anche se sapeva che tutto si poteva dire di lei tranne che fosse fragile, ma piu’ la guardava e piu’ si sentiva di avere il potere di romperla anche solo sfiorandola; la osservò attentamente, voleva imprimersi ogni singolo tratto del suo viso o del suo corpo su di se: alzò la mano da dietro la sua schiena accarezzandole le braccia le gambe intorno alla sua vita fino a risalire fino alle sue spalle e ad arrivare al suo viso passandoci sopra il dorso delle dita delicatamente.
 
Ghìda chiuse gli occhi sorridendo a quel semplice gesto lo osservò con attenzione mentre le spostò i capelli di lato e  sussultò quando sentì le sue dita avvicinarsi al collo, verso il punto che ancora sentiva bruciante e livido dallo notte precedente; lo sfiorò lievemente con la punta delle dita, facendole socchiudere gli occhi e inclinare al testa di lato mentre dal basso ventre  le risalì di nuovo quel calore bruciante ma al contempo a questo salì  anche una terribile sensazione di nausea che le strinse lo stomaco, e alzando lo sguardo verso il viso di Thorin ne capì il motivo. Aveva lo sguardo accigliato, le sopracciglia nere corrugate incorniciavano gli occhi azzurri passavano lo sguardo piu’ e piu’ volte sullo stesso punto sul suo collo, adombrandosi sempre di piu’. Istintivamente spostò lo sguardo sulla spalla muscolosa e a malapena coperta dai ciuffi cinerei e si morse l’interno guancia alla vista del marchio violaceo e alle piccole crosticine a forma di mezzelune lasciate dai propri denti: sapeva cosa stava pensando Thorin, perché era la stessa cosa che stava pensando lei in quel momento.
 
Non avrebbero dovuto, non dovevano farlo per alcuna ragione, se si fosse venuto a sapere, se fosse nato anche solo il dubbio nel palazzo, sarebbe stato lo scandalo ma se questa notizia fosse uscita fuori dalle mura della Montagna Solitaria avrebbe significato la fine di tutto.
 
Ricorda a chi devi la tua lealtà Ghìda.
 
Socchiuse gli occhi ripensando a quelli occhi scuri di suo padre, viscidi, languidi e opprimenti che la osservavano giudicatori l’ultima volta che l’aveva visto e al modo in cui l’aveva guardata: non lo avrebbe accettato, per alcuna ragione, se lo avesse saputo non poteva neanche immaginare cosa avrebbe potuto fare. Nella sua assurdità forse sarebbe stato anche lieto, era un passo piu’ vicino a ciò che voleva, ciò che voleva fosse il suo posto per lei, ma piuttosto che sopportare il disonore si sarebbe tagliato la barba e avrebbe riversato su di lei tutte le ire la Terra di Mezzo, e peggio lo avrebbe fatto con Thorin e ne avrebbe avuto tutto il diritto.
Aveva disobbedito un'altra volta ma nella sua disobbedienza aveva compiuto la scelta piu’ sbagliata che avrebbe potuto fare, eppure in quel momento non gliene importava, avrebbe rifatto quella scelta sbagliata cento e cento notti ancora, e ne avrebbe pagato le conseguenze cento e cento volte ancora, avrebbe sopportato le ire di suo padre cento e cento volte ancora.
 
Suo padre controllava la sua vita, lo aveva sempre fatto, controllava il suo corpo e le sue decisioni, ma non avrebbe piu’ potuto governarla, non quello che sentiva, non quello che voleva: quello non era mai stato in grado di farlo; dietro un inchino e all’obbedienza che gli doveva c’era anche quella che doveva a se stessa e quella che doveva al suo re, l’amore che provava per il suo che andava oltre qualsiasi obbligo le avrebbe imposto suo padre. Ebbe la sicurezza che se fosse stata obbligata, al di là dell’esilio, lei sarebbe tornata da Thorin e lui sarebbe andato a prenderla, oppure no?
 
Si morse il labbro e per un attimo ebbe paura di parlare, paura di sentire una risposta affermativa alla domanda che le bagnava le labbra, ma infine forse fu proprio quella paura a farla dare fiato alla bocca. «Lo rimpiangi, quello che è successo questa notte?» Si ritrovò a dare sfogo alle sue parole senza rendersene conto.
 
Thorin si riscosse immediatamente, distogliendo lo sguardo dalla sua spalla e facendolo saettare verso il suo viso e l’espressione dapprima cupa divenne incredibilmente seria, tanto da metterle paura.
 
Serrò la mascella e con decisione le prese il mento facendola voltare il viso verso il suo osservandola severamente. «L’ultima cosa che provo dopo questa notte è il rimorso, quello che è stato è stato e non devi rendere conto delle tue decisioni a nessuno, non qui, non sotto questa montagna, come io delle mie Ghìda.» Scandì ogni parola guardandola dritta negli occhi e non riuscì a notare un singolo cipiglio di una menzogna in quelle parole che le scaldarono il cuore e ciondolare la testa al suo tocco.
 
Annuì di rimando posandogli la mano sul viso contorno dalla rabbia che a quel suo piccolo gesto cominciò di nuovo a distendersi; lentamente si avvicinò alle sue labbra vi posò un bacio così leggero che senti a malapena le labbra sotto le proprie, sfiorandole.
Thorin rimase immobile non respirando neanche a quel contatto, non facendo nulla osservandola solo in attesa, una lunga ed estenuante in cui dovette lottare con tutto se stesso per rimanere impassibile, di fronte ai suoi occhi semi socchiusi e alla mano sul suo viso che lo attirò un'altra volta così pericolosamente vicino al suo viso
Si sforzò a resistere anche quando lo baciò una seconda volta con leggerezza, ma quando lo baciò una terza volta premendo con passione le labbra sulle sue anche non ne fu piu’ in grado e si lasciò andare a quel bacio, assecondandola; si ritrovò a schiudere immediatamente le labbra non appena gli passò le mani dietro al collo tirandosi sopra di se sovrastandolo in altezza.
Percepì il sangue pulsargli nelle vene di tutto il corpo; incontrollato; la strinse a se possessivo afferrandole i fianchi e poi portare le sue mani sulle cosce tese godendo della sua pelle d’oca e del suo corpo nudo premuto contro il suo e quella smania incontrollata e la stessa lussuria di cui era stato vittima la notte presente lo ghermì ancora.La sentì fremere quando passandole le dita verso l’interno coscia le diede un leggero scossone che la portò ad aprire ancora di piu’ le gambe; strinse le dita vogliosa nei suoi capelli attirandolo ancora di piu’ verso di se premendo i loro corpi l’uno sull’altro. Scocciato percepì la costrizione dei pantaloni farsi tremendamente fastidiosa specie quando i loro lombi si contrarono ancora una volta  languidi e la sentì gemere nella sua bocca.
 
Era combattuto, terribilmente esitante, diviso tra la mente e il corpo: la prima non faceva che ripetergli di alzarsi da lì e varcare quella soglia, o sarebbe venuto meno ai suoi obblighi,  il secondo, invece, lo implorava di mandare tutto in malora e continuare a baciarla e consumare ancora la passione ardente che non aveva intenzione di abbandonarlo e che era sicuro non l’avrebbe abbandonato per tutto il resto della giornata. Ma, alla fine, prevalse il buonsenso: spostò una delle mani che le artigliavano ancora le gambe verso il suo mento e, seppur gli costò tutta la sua ragione, si scostò dalle sue labbra scuotendo la testa.
 
«Non adesso, non ora.» Esalò fermo, anche se la voce roca lo tradì ,a pochi centimetri dal suo viso, accarezzandole il lato della bocca con il pollice; lei abbassò le palpebre assaporandolo appieno e sospirò lievemente mentre prendeva di nuovo possesso di se.
 
«Lo so.» Annuì velocemente seppur nei suoi occhi lucidi e nelle guance rosse poteva percepire la stessa battaglia che imperversava dentro di lui, irrimediabilmente sentì le e le braccia da dietro il suo collo sciogliersi e diventare di nuovo un leggero tocco sul suo petto.
 
Le si avvicinò un’ultima volta posandole un bacio leggero sulla fronte e anche se a malavoglia la scostò da se e si alzò definitivamente da quel letto e dal suo corpo, lasciandola andare e lasciando come un bagno freddo che quel momento gli passasse addosso, o meglio si impose di farsi passare quel momento addosso.
 
Ghìda sospirò osservandolo strisciare via di nuovo dal letto portandosi il lenzuolo verso il petto coprendosi il corpo ancora totalmente nudo e cercando di placare quel senso di smania che l’aveva colta fino a poco prima; si mise seduta al centro del materasso trascinandosi dietro il lembo del lenzuolo arrotolato verso il lato del letto e se lo strinse con entrambe le mani mettendosi seduta.
 
Rimase in silenzio osservando il nano infilarsi la camicia nera, ormai ridotta a uno straccio  vicino al bordo del letto, passandosela oltre le braccia e cominciando a chiudere ogni singolo bottone mentre con lo sguardo si cominciò a guardare intorno non prestando la minima attenzione alle sue mani. Lo osservò corrugare la fronte guardandosi intorno, facendo saettare lo sguardo verso il vimano e le pellicce che lo ricoprivano , assottigliando sempre piu’ lo sguardo verso degli angoli remoti della stanza in cerca di qualcosa.
Dovette sopprimere una piccola risata contro il ginocchio teso che aveva vicino al viso e ne dovette sopprimere un'altra quando una cotta in pelle raggomitolata per terra proprio di fronte alla sua vista attirò la sua attenzione.
 
Alzò il dito tenendosi il lenzuolo solo con una mano indicando l’indumento sotto il tavolo di fronte al camino ormai spento. «Lì, vicino alle gambe della sedia» Gli indicò mordendosi il labbro incapace quasi di ricordarsi come potesse essere arrivato fino a lì.
 
Thorin smise di guardarsi intorno e puntò lo sguardo verso il lato opposto della stanza seguendo il punto che le indicava lasciando un sospiro pesante notando fin dove era arrivato e notò anche il sorriso malizioso che si dipinse sul volto di Ghìda non appena le fece notare dove era si trovava la sua cotta: lui però si ricordava come era successo, eccome se lo ricordava e quel ricordo era l’unica cosa che in quel momento gli impediva di raccogliere solo i vestiti e andarsene da lì.
Si tirò giù un'altra volta afferrando da sotto la sedia la cotta nera sospirando verso le braci spente del camino di fronte a se e continuando ad osservare le ceneri sotto di se passò un braccio dentro una manica, stiracchiandosi la schiena per quel che poté: un misero tentativo di risvegliarsi totalmente
 
 «Dove vi condurranno i vostri doveri quest’oggi mio signore?» La voce ironica rimbalzò dolce verso le sue orecchie facendolo sbuffare divertito e spostare lo sguardo verso il viso arrossato che continuava a seguirlo in ogni suo movimento adagiato tra due piccole ginocchia coperte
 
«Ho delle riunioni da sbrigare e pile di pergamene da firmare e ci sono stati dei problemi alle fucine ieri, quindi credo che starò lì tutto il pomeriggio.» Le rispose spostando di nuovo di poco lo sguardo verso di lei e verso il suo corpo raggomitolato nelle lenzuola blu, rendendole di nuovo terribilmente invitanti.
 
«E’ accaduto qualcosa di grave?»
 
«Niente che non si possa risolvere nel giro di una giornata: si sono inceppati i mulini che azionavano le carrucole dalle miniere.»
 
«E tu questo non lo ritieni grave?» Ribatté facendo diventare il suo tono improvvisamente piu’ acuto.
 
Sbuffò divertito cominciando ad abbonare i bottoni triangolari della cotta ancora aperta. «Ho detto che non è nulla che non si possa risolvere nel giro di una giornata.» Appuntò alzando un sopracciglio. «E i tuoi doveri dove ti porteranno?»
 
«Oh non credo che tu avrai bisogno di saperlo, ti basterà appizzare un po' di piu’ l’orecchio per sapere dove io mi trovi e con chi mi trovi.» Gli rispose lanciandogli un’occhiata divertita sopprimendo una risata ripensando a quello a cui inevitabilmente sarebbe corsa questa mattina, compreso anche l’euforia che certamente non sarebbe mancata e nessuno dei sei piccoli nani, perfino dopo una festa come quella della notte precedente.
 
Probabilmente fu anche il pensiero di Thorin perché sorrise verso il basso con il lato della bocca allacciando una ad uno le piccole placche triangolari sul petto. «Credo che dopo ieri sera possano avere la grazia reale e la mia autorizzazione a scorrazzare in giro per il palazzo quanto desiderino.» Ammiccò alzando di poco lo sguardo puntandolo di nuovo verso di lei e poi di nuovo verso l’ultimo allaccio facendolo scattare.
 
«Non dire cose delle quali potresti pentirti, potresti ritrovarti ad avere delle guardie del corpo giorno e notte che ti aspettano fuori dalle porte d’entrata e che finirebbero per seguirti come ombre a ogni tuo passo.» Lo avverti ironica, ma da una parte sapeva che anche se era una piccola battuta sarebbe potuta essere benissimo una realtà molto plausibile.
 
Thorin con un paio di falcate pesanti si avvicinò di nuovo al letto chinandosi per raccogliere la cintura ancora a terra vicino alla colonna di legno all’angolo sinistro espirando profondamente mentre si chinava verso il basso.
«Con dedizione potrebbero sempre imparare e diventarle un giorno.» Le rispose duro, ma riuscì a captare una profonda tenerezza in quelle parole che si andarono ad addolcire a poco a poco, lasciando fuoriuscire un lato di lui che mai si sarebbe aspettata.
 
Paterno.
 
Sorrise tra se e se quando una piacevole sensazione al petto le fece saltare un battito al cuore, e portarla ad osservare con ancora piu’ attenzione di prima i tratti rigidi di Thorin che bassi si accigliavano sempre di più mentre snodava i lacci di cuoi e si sistemava la cintura nera intorno al busto.
 
«Potresti venire tu stesso a dirglielo quest’oggi, li renderesti davvero felici sai?» Gli propose stringendosi ancora di piu’ le gambe al petto. «Ti ammirano, molto ma questo penso che tu già lo sappia.»
 
«Ero dell’idea che mi trovassero spaventoso.» Commentò Thorin facendo passare la prima cinghia verso il passante alzando un sopracciglio divertito, pensando poi a quella dalla parte opposta dello stemma reale.
 
Ghìda si morse il labbro alzando dolcemente le spalle ripensando alle parole della piccola Màr e dovette sopprimere un piccolo riso, ripensando a come piu’ di una volta aveva usato quelle esatte parole nei confronti del re, ma di come con il tempo avesse cambiato idea: spesso infatti si ritrovava a dover rispondere delle domande alquanto inopportune o spesso delle quali non sapeva neanche la risposta, era diventata curiosa verso di lui.
 
«Ora ti definisce piu’ come un orso in realtà…»  Ammise nel frattempo ci si allacciava l’ultimo laccio della cintura. «Io invece ho sempre sostenuto che tu assomigliassi molto di piu’ un lupo.»
 
«E la tua scelta è stata fatta in base a quale criterio?» Gli chiese ancora curioso allungando la mano verso il dorso della sedia afferrando il mantello poggiato lungo sullo schienale e cominciando a infilarci le braccia una alla volta. 
 
«In base tue zanne affilate e la tua pelliccia folta ovviamente.» Ribatté divertita alzando un sopracciglio passandogli gli occhi addosso indugiando sulle spalle larghe coperte da quella soffice pelliccia marrone scura e verso i capelli che ribelli neri e grigi gli ricadevano sulle spalle e sulla schiena intrecciandosi con i folti ciuffi del vello. 
 
Sì, un enorme e solitario lupo, non c’era assolutamente nessun’animale che lo avrebbe mai potuto identificare meglio, nel bene e nel male.
 
«Hai un fervida immaginazione.» Le rispose scrollando le spalle sistemandosi con un movimento il mantello sulla schiena
 
Si dovette trattenere all’alzare gli occhi al cielo, quindi sbuffo solo pesantemente incrociando le braccia al petto. «Se avessi una fervida immaginazione ti avrei descritto come una bestia molto meno comune di un lupo.» Appuntò decidendo, guardandolo ormai vestito, che forse era anche il tempo per lei di alzarsi e di cominciare a prepararsi.
 
Seppur l’idea di rimanere a letto ancora per qualche ora la tentò si trascinò al bodo del letto trattenendo ancora il lenzuolo tra le mani raggelando appena posò i piedi sul marmo freddo e facendosi coraggio espirò profondamente e si alzò in piedi portando con se anche il lenzuolo ancora stretto la petto; si strinse il tessuto blu scuro ancora di piu’ addosso quando cominciò a camminare a piccoli passi verso la cassettiera poggiata contro il muro infondo alla stanza, mordendosi il labbro dalla concertazione  cercando di poggiare i piedi sulle pellicce soffici e non sul pavimento gelido. Arrivata di fronte ad essa ne aprì il primo cassetto triandosi su in punta di piedi per guardarne al meglio l’interno passando al setaccio tutti gli abiti piegati che vi erano o dentro cercandone uno adatto a quella giornata così rigida. Passò la mano libera delicamenti su ogni bustino o merletto che vedeva, indugiando sui vestiti con una folta pelliccia, alzando e arrogando i tessuti cercandone uno cha la convincesse, ma piu’ guardava piu’ sembrava stesse guardando sempre lo stesso abito. Sospirò esausta danna ancora piu’ affondo con la mano e stringendosi ancora di piu’ il lenzuolo al petto fino a che non sentì dei passi pesanti farsi sempre piu’ vicino a lei.
 
Le scappò un sorriso quando due braccia la avvolsero da dietro intrecciando le mani sul suo ventre e una schiera di ciuffi neri le si parò accanto al suo viso, seguito ben presto da una sensazione di calore sulla tempia, bloccandole immediatamente la sensazione di freddo sulla pelle e la mano all’interno del cassetto, ancora intento ad alzare un corpetto di un vestito verde scuro.
 
«Credevo che avessi dai compiti da svolgere.» Appuntò lasciando andare ancora di piu’ la schiena verso il suo petto, spostando la mano dentro al cassetto aperto verso il basso poggiandola mano sopra quelle calde e grandi di Thorin sul suo ventre.
 
Sentì un piccolo sbuffo attraversarle i capelli e poi la barba crespa scendere dal lato della testa verso l’orecchio sfiorandolo a malapena, permettendole di sentire così il respiro del nano dietro di lei, caldo e pesante, che solo a sentirlo sulla pelle le fece venire piccoli brividi dietro la schiena e il collo.
 
«Non lo stai rendendo per niente facile.» La voce calda e roca le entrò nelle ossa facendola adagiare ancora di piu’ verso l’immenso petto dietro di lei.
 
«Ma io non sto facendo nulla.» Appuntò voltando di poco gli occhi verso il viso poggiato al lato della sua testa, scorgendone i tratti rigidi che con una estenuante lentezza si mossero sempre piu’ verso il basso facendole socchiudere gli occhi.
 
«Non ne hai bisogno» Sussurrò roco di rimando baciandole l’inizio della spalla un'altra volta facendole inarcare la testa contro la sua spalla, lasciandogli libero accesso su tutta la linea curva del collo.
 
Sentì le labbra di Thorin abbassarsi sempre di piu’ dal suo orecchio verso il suo collo fino ad arrivare alla spalla, che sfiorò con la punta delle labbra: in un piccolo sobbalzo chiuse le dita dapprima solo poggiate sul dorso della mano portandole a premersi ancora di piu’ contro il suo ventre.
 
Thorin alzò gli occhi azzurri verso i suoi che non l’avevano mai abbandonato e prima che se ne potesse accorgere il suo viso si fece ancora piu’ vicino al suo e la stretta sul suo ventre si fece ancora piu’ salda, fino a far sfiorare i loro nasi e a fondere i loro respiri.
 
Si guardarono intensamente negli occhi facendo sfiorare le loro labbra e facendole infine incontrare in un bacio passionale che le tolse il fiato; ruotò la testa all’indietro contro la sua spalla chiudendo gli occhi mentre la lingua di Thorin si intrecciò possessivo con la sua facendole serrare gli occhi e il petto. Intrecciò la mano nella sua premendosi ancora di piu’ indietro contro il suo petto sentendo un piccolo ringhio montare nella gola del nano quando i loro corpi si allacciarono l’uno all’altro approfondendo il bacio e facendole tremare le dita che trattenevano il lenzuolo che in quel momento voleva solo che cadesse.
 
Con il fiato corto e la testa annebbiata fu il suo turno di interrompere tutto ciò prima che entrambi potessero perdere l’autocontrollo un'altra volta. «Va.» Gli sussurrò a fior di labbra sorridendogli cauta e puntandogli con lo sguardo l’uscio della porta alle sue spalle. «Prima che sia io a non lasciarti piu’ andare.» Gli confessò sorridendogli seppur dentro di se sapeva che se già le era difficile lasciarlo andare in quel momento cosa avrebbe provato se l’avesse baciata ancora in quel modo, rendendo la situazione irrecuperabile.
 
Gli era talmente vicina che i respiri brevi e impazienti si confondevano tra loro ma, benché entrambi si fossero avvicinati ancora pericolosamente, Thorin riuscì a riprendere il controllo di sé, spostandosi di poco dal suo viso; le sorrise ancora, lasciandola col cuore traboccante di felicità che come un tamburo le e posandole un ultimo bacio a fior di labbra.
 
«Non ti prometto nulla, cercherò di liberarmi per qualche minuto se lo desideri.»
 
Le scappò un sorriso sulle sue labbra sincero lasciando andare la fronte contro la sua annuendo con la testa. «Gli faresti una bella sorpresa, grazie.»
 
Le sorrise di risposta e prima che se ne potesse rendere conto sentì le mani di Thorin scivolare via dal suo bacino e irrimediabilmente la sua mano prima intrecciata a quella del nano trovò la freddezza del tessuto del lenzuolo, così come il freddo della stanza che le artigliò la schiena non appena il re si allontanò da lei; riuscì a voltarsi un ultima volta  osservandogli la schiena ampia prima di vederlo scomparire oltre l’uscio della porta, seguendolo con lo sguardo.
 
Appena la porta fece un rumore sordo e si ritrovò totalmente sola si strinse contro di se il lenzuolo nel frattempo che il cuore che le cominciò a battere all’impazzata come se da quando si fosse risvegliata dovesse riprendere tutti i batti che Thorin era riuscito a bloccarle; espirò cominciando a sorridere come una sciocca tra se e se incapace di smettere e, come una ragazzina, si avvicinò di nuovo verso il letto lasciandosi andare con la schiena di nuovo contro di esso espirando profondamente. Chiuse gli occhi godendosi il calore che ancora emanava il materasso, testimone di ciò che era accaduto e intrinseco degli odori della notte precedente e si dei quali si trovò il corpo impregnato così come la sua mente, ormai totalmente sicura che quei dolci pensieri che non l’avrebbero abbandonata per tutta la giornata.
 
 
 
 
 
 
 
 
«Le navi da Gondor sono attraccate al porto sulle rive di Pontelagolungo?» Chiese Thorin voltando di poco lo sguardo verso il nano anziano accanto a se, trattenendo le mani dietro la schiena stringendosi i polsi l’uno nell’altro in una presa ferrea scendendo.
 
Balin scosse la testa seguendo i passi lenti e rigidi di Thorin affiancandolo mentre camminavano attraverso l’ala sospesa oltrepassando un piazzale dalle quale dalle quale si formavano due scale che ripide discendevano entrambe verso le parti piu’ basse del palazzo e verso l’entrata del regno sotto la Montagna.
 
«Ancora no, ma i corvi sono tornati con la notizia che Ecthelion ha già preparato le scorte di viveri e birra in giusta quantità, compresa un parte che sarebbe dovuta arrivare verso la fine della primavera per i mesi caldi.» Lo informò stringendosi al petto una quantità infinita di pergamene e carte di lettera arrotolate e stropicciate dando un’occhiata al di sotto di un paio di queste alzandone i bordi con il dito consultando i fogli arrivati dalla cittadella.
 
I documenti stretti tra le due maniche della toga rossa scura finivano sempre  di piu’ in bilico ogni volta che imbucavano una scalinata o quando per forza di cose si ritrovavano sia lui che Thorin a fare dei piccoli cenni di riverenza a ogni saluto e a ogni nano che incrociavano. La situazione peggiorava a dismisura quando, spesso quella mattina, Balin si ritrovava a schivare a piccole falcate piccoli gruppi di nani che si dirigevano nella parte opposta alla loro, salendo verso la cima della montagna e piu’ di una volta gli venne alla mente il fatto che il suo rigore sarebbe stata la sua rovina, se non per la sua vita, per la sua vecchia schiena.
 
I piani del palazzo era ricolmi di nani da ogni parte della Montagna quella mattina, da fabbri, muratori, sarti, orafi, stagnai, pareva quasi che la festa della notte precedente si fosse solamente spostata di qualche scalino al di sopra della Sala dei Banchetti o che i mercati alle radici della montagna avessero preso il sopravvento arrivando perfino alle alee del palazzo. E piu’ le ore tarde della mattinata si facevano vicine, piu’ anche la quantità di nani all’opera aumentava e l’essere sopiti di molti nelle prime ore della mattina prima del primo consiglio della giornata, aveva lasciato spazio alla quotidianità e alle faccende che erano state abbandonate al giorno prima al primo servizio del primo piatto di cinghiale.
Un leggero e piacevole mormorio si spargeva dalle piccole finestre e dall’intreccio di scale e corridoi riscaldati dalla luce dorata e viva del palazzo, tra le quali le usuali casse di diamanti gioielli e oro venivano trasportati nei mercati al di sotto della città, le dame e le nane passeggiavano lentamente per le scale strusciando i lunghi vestiti e le guardie che a ogni incrocio rimanevano ferme e immobili scrutando attentamente ogni singolo nano che passava di fronte alle loro ronde.
Seppure infatti gli avvenimenti della notte precedente avessero cambiato la realtà all’interno della Montagna in una maniera che molti ancora non riuscivano del tutto a cogliere, questa sembrava essere tornata alla sua solita continuità: i nani non cambiano, ci provano, ma non cambiano mai, sono testardi come la roccia e ineluttabili come le radici delle montagne di Arda. Possono essere scalfiti o levigati ma mai cambiati eppure Erebor sembrava essere profondamente cambiata in quelle poche ore della notte, specialmente agli occhi piu’ attenti di un nano in particolare che conosceva fin troppo bene come un regno era spesso solo il riflesso del re che lo governava.
 
Dwalin seguiva da dietro rimanendo in silenzio il fratello e Thorin ormai da diversi minuti, ascoltando ogni singola parola che usciva dalle loro bocche anche se visto dall’esterno, probabilmente non pareva neanche molto interessato agli affari di stato e in parte era proprio così. Quella mattina non stava prestando minimamente attenzione alle chiacchiere ormai ripetute fino alla nausea, era interessato a ben altro e quel ben altro era anche lo stesso motivo per il quale stava trascinando i piedi verso le fucine per sistemare quell’odioso problema ai mulini prima del tempo invece che organizzare le ronde di guardia per il prossimo mese, e quella sua decisione era stata presa non appena Thorin aveva messo piede nella sala del consiglio quella mattina.
 
La riunione si era svolta nel quasi piu’ totale dormiveglia dell’intero consiglio, Nori aveva ancora un occhio nero, Bofur a malapena riusciva a mantenere quel cappello biforcuto dritto, così come la sua testa, Glòin neanche un occhio riusciva a tenere spalancato, Dori,  seppure era il piu’ in forma tra i presenti, aveva più’ volte dovuto trattenersi il viso tra le mani per non crollare sul tavolo e il giovane Ori invece aveva lasciato vagare la piuma con l’inchiostro sempre veloci e abili in piccoli ghirigori distratti.
D’altra parte lui non poteva essere il buon esempio per nessuno di loro, aveva la testa che gli pulsava da quando si era alzato dal letto: aveva passato la notte uno schifo, neanche se si concentrava riusciva a ricordarsi come fosse arrivato nei suoi appartamenti; era però solo che sicuro non ci era arrivato unicamente con le sue gambe perché quando si era svegliato i vestiti, di solito ammassati a un lato del letto, erano piegati sulle sedie intorno al focolare ed era assolutamente sicuro che la notte precedente non sarebbe mai stato in grado di compiere un gesto del genere.
 
Ma non Thorin, lui era attento quella mattina, vispo, interessato a ogni parola che usciva dalle bocche dei ragazzi intorno al tavolo rispondendo con semplici monosillabi invece che occhiate gelide o semplici grugniti come era successo nell’ultima settimana. Era diverso, molto diverso, non era né stanco né assorto, era totalmente in se, troppo in se, ed era quello che lo aveva lasciato di stucco: non era cupo o raccolto in pensieri lontani da se, in un passato, in un presente o in un futuro, no era se stesso, solo ed esclusivamente un Thorin che non vedeva da quasi un decennio.
Seppur per poche volte, era riuscito a spostare lo sguardo verso di lui appena in tempo per vedere dei piccoli sorrisi deformargli la bocca nel frattempo che fissava dei punti vuoti sul tavolo, e questo voleva dire una sola cosa e, nel nome di Durin, doveva essere così, non c’era altra spiegazione logica, o meglio non c’era un'altra spiegazione che dopo la serata precedente volesse sentire uscire da quella regale bocca.
La causa era una era sempre e solo una e sapeva che nell’assurdità della situazione, dovesse essere successo qualcosa e, per una maledettissima volta, un qualcosa che invece che farlo mugugnare come una bestia selvaggia ferita lo avesse rimesso in sesto.
 
Possibile che Balin non riuscisse a vederlo, o era lui che indagava troppo e nella sua speranza si era fatto dei castelli immaginari? O perfino che i suoi desideri personali gli avessero offuscato la mente spostandoli e fondendoli con la faccenda di Thorin con la mezz’elfa? No, non era così e la ragione per cui non era così erano un fatto, un singolo avvenimento che gli era stato riportato dalle ronde notturne al cambio della guardia quella mattina appena si era svegliato: Thorin non aveva dormito nella sua stanza, era entrato nelle sale reali, ma non era tornato a dormire lì ne lo avevano visto uscire le guardie di fronte alla sua porta quella mattina.
 
La sua speranza in quel momento, seguendolo, non era che gliene parlasse, ormai non osava piu’ neanche pretendere che gliene parlasse, ma per lo meno in quel lasso di tempo regnava in lui la vaga speranza che si potesse tradire in qualche modo o ancor meglio che la mezz’elfa si presentasse davanti a loro come era successo il giorno precedente e gli togliesse quel dubbio, quella assurda opzione nella testa. Il Thorin che conosceva lui non avrebbe mai osato tanto, nel suo senso d’onore non avrebbe mai fatto tanto, ma dopo che gli aveva rivelato la vera ragione dei suoi sentimenti per la figlia di Telkar, la vaga possibilità che fosse accaduto divenne molto piu’ di una possibilità e da come la guardava la sera prima, con quel estremo bisogno che lui poteva comprendere troppo bene, diventò quasi una certezza.
 
«Le provviste dalla città di Minas Tirith non arriveranno a Dale in tempo quindi, vista la condizione del fiume e del lago.» Chiese conferma Thorin scendendo una a uno a uno gli scalini senza mai staccare gli occhi da davanti a se o dal suo fianco verso Balin.
 
Suo fratello sospirò pesantemente scuotendo la testa di rimando e schioccò la lingua in una secca negazione. «Manca ancora un mese all’equinozio di primavera e anche se la neve si sciogliesse in tempo dubito che riusciremo ad avere quei rifornimenti in tempo o noi a inviargli l’oro che ci hanno richiesto.» Non riuscì a non far trasparire un velo di preoccupazione che si andò a riflettere sullo sguardo mesto che lanciò a Thorin dal basso della sua statura verso il profilo rigido del re che invece non si scompose scuotendo solo la testa con un movimento secco.
 
«Glòin è riuscito ad avere da Bard di Esgarot quello che ci serviva, Dain ci darà il resto dai Colli Ferrosi.»
 
Balin si accigliò tutto di un colpo continuando a seguire i passi pensati che Thorin continuava a compire, rendendo palese la sua confusione, sia per la risposta di Dàin che sia per la sicurezza con la quale gliela aveva data.
 
«Anche con gli ordini di non passare nei territori di Esgarot?»
 
«Passeranno da Nord, è il massimo in cui possiamo sperare così come il poterle ricevere prima di quattro lune. Ci sono notizie dal Bosco?»
 
Balin a suo malgrado dovette scuotere nuovamente la testa , provando anche un briciolo di vergogna, stingendo le labbra nervosamente. «Niente di rilevante ragazzo, ancora non è arrivata una risposta mi duole dirti, neppure dopo l’ultimo messaggio.»
 
Gli passò velocemente gli occhi sul profilo duro che non si scompose neanche a quella notizia, rimanendo cauto e autorevole, seppure la notizia non fosse solo che un’ennesima porta sbattuta in faccia;  nella sua saggezza sapeva che se la cosa fosse continuata la calma che adesso Thorin esternava sarebbe diventata furia pura e in quel caso, gli orchi nella valle e la strada elfica, sarebbero stati il minore dei problemi. Sapeva che voleva la pace, la voleva disperatamente, ma rischiare di portare il popolo alla miseria e all’insicurezza era una scelta che non poteva avere, che non voleva far rivivere a nessuno.
 
D’un tratto però Balin si sentì in obbligo di rallentare il passo, neanche si era reso conto in realtà che già aveva cominciato da una rampa di scale, almeno fino a che non spostò lo sguardo da di fronte a se, di nuovo verso Thorin, notando il suo corpo muoversi piu’ lentamente di prima e di come tutto d’un tratto fosse diventato nervoso, terribilmente nervoso: forse aveva parlato troppo presto. I passi di Thorin divennero sempre piu’ pesanti a  ogni scalino sceso, quasi sofferto: gli occhi gli saettarono irrequieti verso terra evitando questa volta lo sguardo sempre piu’ accigliato di Balin. Dwalin dietro di loro dovette a sua volta rallentare il passo per non andare a sbattere contro la schiena del fratello e non riuscì a non lanciare uno sguardo verso le mani dietro la schiena del re, capendo immediatamente che qualcosa non andava.
Queste si strinsero l’una nell’altra sempre di piu’ ogni passo che compiva, fino a far stridere gli anelli argenti tra le dita scaricando la tensione in un gesto che ormai entrambi i fratelli sapevano interpretare troppo bene.
 
Un sospiro pesante gli scosse le spalle prima che potesse dare voce a ciò che lo aveva reso irrequieto in quel modo in un battito di ciglia, confermando solo l’ipotesi che pensavano sia Balin, ma soprattutto di cui era certo Dwalin. «Le lettere che ho firmato ieri sera invece, sono state inviate tutte quante?» Chiese rigido, quasi fermandosi i passi, spostando lo sguardo di nuovo verso Balin.
 
Dwalin alzò un sopracciglio capendo perfettamente a cosa si riferisse con la parola tutte, e di come in quel tutte facesse riferimento solo ad una in particolare, ma di questo anche Balin ne era a conoscenza: il vecchio nano si strinse le carte al petto pensando a quando quella mattina si era passato e ripassato tra le mani il fogliettino piegato e laccato dal sigillo blu scuro e di quanto la curiosità lo avesse quasi mangiato vivo volendo sapere la sua reazione a quel messaggio che lo aveva tenuto teso per giorni, ma dopo la notte precedente sapeva già quale fosse la risposta che racchiudesse, per questo si sentì quasi sollevato della risposta che gli diede.
 
Annuii alzando gli occhi verso il profilo di Thorin, ancora austero e indecifrabile. «Sì questa mattina presto, avevo bussato alla tua porta per avvertirti che avevo fatto volare i corvi ma non ho ricevuto risposta…».
 
Thorin non rispose e cominciò a camminare di nuovo in maniera sostenuta, volutamente ignorando la domanda di Balin, imboccando un piazzale sospeso, passando in mezzo ai due bracieri che segnavano la fine dell’ultimo piano del palazzo. Affrontare in quel momento quell’argomento non era proprio ciò che voleva, se da una parte anche lui stentava a crederci,  parlarne al parente avrebbe significato solo sentirsi fare il quarto grado, un quarto grado che non avrebbe ascoltato in ogni caso e che non aveva senso di essere fatto, non era un ragazzino, sapeva quello che aveva fatto e sapeva cosa significava e cosa avrebbe comportato. Entrambi lo sapevano e da come sentiva lo sguardo di Dwalin su di lui, probabilmente anche lui sapeva.
 
 «Hai dormito vero ragazzo? Non hai un bell’aspetto.» Insistette Balin raggiungendolo di nuovo non mollando la presa sull’argomento.
 
Eccola la domanda che Dwalin aspettava, lì posta di fronte a lui, apparecchiata e pronta a essere servita su piatti dorati: incrociò le braccia al petto in attesa e fisso la nuca di Thorin continuando a seguirlo passo dopo passo.
 
Un suo sospiro pesante gli fece quasi che avrebbe vuotato il sacco o che avrebbe per lo meno dato una giustificazione plausibile, ma come quel minimo sentore di sincerità fosse apparso, sparì di nuovo sostituito dal suo profilo austero che si abbassò verso il fratello.
«Ero sceso nelle fucine per controllare i progetti prima di oggi pomeriggio, avere un po' di tranquillità e riflettere su quello che andava fatto.»
 
Non riuscì a trattenere uno sbuffò divertito sentendo la risposta istintiva e lui anche solo grazie quella ebbe la sua di risposta: era successo.
 
«Sembra che ti abbiano infilato la testa sotto un incudine e poi vi ci abbiano cominciato a battere sopra con un martello.» Commentò  ironico infine, dopo i suoi lunghi minuti di silenzio, volendolo stuzzicare e volendo fargli intuire che lui sapeva, ma per qualche strano motivo immaginava che Thorin già avesse quest’informazione.
 
Vide i muscoli delle spalle tendersi un'altra volta e un ennesimo guizzo attraversargli la schiena Thorin impiegò qualche lungo palpito, indeciso sulla risposta: infine optò per una parte di verità . «Dopo ieri sera la sensazione che provo alle tempie è certamente quella.» Mormorò ancora facendo riferimento a ben altro rispetto a quello che si aspettava il vecchio nano accanto a lui o a Dwalin dietro di lui che però a differenza del fratello fu in grado di capire che si stesse riferendo a tutt’altro che al banchetto o alla birra scura bevuta.
 
Dwalin infatti roteò gli occhi di fronte a quella ennesima negazione e strinse ancora di più le braccia al petto scuotendo la testa arreso. «Già dopo ieri sera… » Commentò  di nuovo ironicamente continuando a seguirlo.
 
Thorin si fermò e voltò la testa fulminandolo con lo sguardo, intimandolo con un’occhiata autorevole a non continuare a parlare ma non gli importò minimamente e lo continuò a guardare alzando un sopracciglio  per invitarlo a ribattere un’ennesima volta e stuzzicandolo a vuotare il sacco un’ultima volta. Gli occhi azzurri si assottigliarono per un attimo prima di roteare e di nuovo senza dire nulla cominciò a camminare di nuovo superando il fratello che spostò lo sguardo confuso verso di lui e Thorin, avendo notato con molta probabilità lo scambio di squadri.
 
Balin osservò attentamente il fratello con attenzione ancora sogghignate con gli occhi piantati di fronte a se e si ritrovò ancora una volta a chiedersi cosi gli passasse per la testa, seppure le piccole frecciatine gli avessero lasciato ben poche opzioni e mentre queste si assottigliavano sempre di piu’ il ghignò trionfante sul viso del fratello verso Thorin divenne sempre piu’ grande.
 
D’altro canto Dwalin aveva notato lo sguardo di Balin ma non rispose impegnato troppo a guardare cosa stesse accadendo alle sue spalle da quando Thorin aveva accelerato il passo superandoli; al fratello sarebbe bastato salire un paio di scalini, trovarsi dove si trovava lui e guardare dietro di se,  per avere la visione di ciò che vedeva lui in quel momento, sia di Thorin sì di quello che c’era sotto di fronte a Thorin.
Si lasciò scappare un ennesimo sospiro e con un movimento secco della testa gli puntò dietro di lui, alla fine della scalinata che stavano scendendo; Balin non capendo corrugò di nuovo la fronte ma infine si voltò seguendo il gesto e fu finalmente in grado di vedere almeno in parte ciò che vedeva lui: Thorin, aveva fermato il suo camminare e si era avvicinato alla ringhiera dello spiazzo fissando un punto indefinito di fronte a se, poggiato con le braccia sulla balaustra dorata delle scale senza muovere un muscolo.
 
Il vecchio nano confuso si avvicinò verso la ringhiera dorata scendendo le ultime tre scale e cautamente camminò verso la schiena del re, totalmente voltata verso l’abisso e l’intersecarsi delle scale sotto di loro. A passi incerti si accostò alla sua schiena trattenendo i fogli ancora impilati stretti al suo petto, osservandolo di sottecchi quando arrivò al suo fianco, si affacciò poco a poco con la testa e notò come avesse gli occhi persi nel vuoto, verso un punto fisso. Seguì attentamente la linea dritta che disegnavano i suoi occhi azzurri e gli scappò un sorriso, capendo perfettamente perché gli occhi  gli stessero brillando in quella maniera.
 
A tre rampe di scale, poco sotto di loro, la soglia della Sala del Ferro era ben visibile, così come tutto quello che accadeva nell’atrio ottagonale che in altre ore sarebbe stato o vuoto o sarebbe stata il piccolo antro in cui Thorin avrebbe sfogato i propri problemi sulle asce di Dwalin o dove Dwalin avrebbe scaraventato le sue frustrazioni cozzando le proprie asce sulla quasi inscalfibile lama elfica di Thorin. E anche se in quel momento la situazione sotto di loro era quasi simile, tutto si poteva dire a meno che i colpi assestati fossero forti o pericolosi come i loro: tra le immense colonne che circondavano la sala, la luce dorata entrava ribalzando sulle asce e solle armature appesa ai muri illuminano di vari strascichi di luce le piccole figure che avevano invaso il salone che volteggiavano le proprie armi d’addestramento guidati dalla piu’ improbabile dei maestri.
Ghìda al centro della stanza alzava e abbassava la lama muovendosi agile e leggera parando con facilità i piccoli colpi incerti e traballanti del piccolo nano di fronte a lei, colpendolo delicatamente con il piatto della lama non appena commetteva un errore, prima di riposizionarlo correttamente e continuare un'altra volta, muovendosi sempre nello stesso modo sperando che imparasse o riconoscesse i suoi movimenti, facilitati dagli abiti per niente da dama che indossava, sostituiti infatti da una camicia da lavoro e pantaloni.
 
Balin l’aveva già vista allenarsi, o l’aveva vista allenare in alcune sporadiche mattine il gruppo di piccoli nani, o in una delle Sali inferiori del regno sullo stesso piano delle fucine o appena fuori le porte del palazzo, ma il fatto che fosse lì  con loro era una cosa totalmente inaspettata e forse anche per Thorin, visto il modo in cui la stava guardando.
 
Ridacchiò leggermente e si voltò al suo fianco stupendosi di fronte al sorriso aperto che Thorin stava rivolgendo verso quella piccola scena e fu in quel momento che diede fiato ai suoi pensieri che la notte prima non era stato in grado di esprimere. «E’ brava con i bambini e quello che hanno fatto quei ragazzini è davvero straordinario, in piu’ di duecento anni non ho mai visto nulla del genere accadere sotto questa montagna, è stato un evento quasi senza precedenti.»
 
Non ricevette risposta, solo un piccolo cenno della testa verso il basso in approvazione e il suo silenzio gli diede solo la possibilità di finire il suo pensiero.
 
«Hai fatto bene a non intervenire ragazzo è stato un gesto che tutto il regno ha approvato, soprattutto conoscendo le sue origini. Andrà interpretato come un buon auspicio alla sua incoronazione.»
Questa volta invece uno sbuffo divertito gli uscì dalle labbra di Thorin e voltò lo sguardo vedendolo sorridere con il lato della bocca e annuire, mentre continuava a tenere lo sguardo in avanti puntato oltre le alte colonne che non permettevano una visione completa di quello che succedeva ma abbastanza da incantarlo totalmente.
 
«Non c’è ancora nulla di ufficiale, mancano ancora piu’ di  due mesi, la mia speranza è che i buoni presagi continuino fino a quel momento.» Rispose stringendo ancora di piu’ le braccia l’una nell’altra sulla lastra dorata.
 
«Il gesto di ieri sera ti dovrebbe aver dato la conferma che hai compiuto una buona scelta, sono sicuro che quello che accadrà in seguito te ne darà solo ulteriori di conferme.»
 
Inaspettatamente scosse la testa e le spalle gli si rilassarono di colpo cosi come il sorriso a malapena accennato divenne un sorriso quasi timido, puntato dapprima verso il basso e poi di nuovo verso la Sala del Ferro. «Non ne ho bisogno Balin.» Mormorò tra se e se, in una silenziosa ammissione, al quale alle prime rimase sconcertato non essendo sicuro di aver capito bene, ma che poi si trasformò in certezza quando Thorin si girò verso di lui dandogli la conferma di ciò che aveva detto.
 
Con il cuore colmo di gioia artigliò ancor meglio con il braccio sinistro le carte sul suo petto e slegò quello opposto, alzandone la mano e posandogliela gentilmente sull’avambraccio piegato stringendolo con fermezza quando in realtà dentro di se avrebbe solo voluto abbracciare il re accanto a se dalla gioia.
 
«No, infatti, non credo che tu ne abbia piu’ bisogno.» Gli appuntò facendogli capire i suoi pensieri e solo la gioia che provava al solo pronunciare quelle parole.
 
Thorin annuì di nuovo con la testa ringraziandolo e poi spostò di nuovo lo sguardo sbrigativo oltre le scale le scale che ripide continuavano a scender rispetto dove si trovavano loro in quel momento. «Continuate, vi raggiungo tra pochi minuti.» Gli ordinò e lanciò un’ultima occhiata sotto di se rendendo chiare a Balin le sue intenzioni facendo spuntare sulla bocca del vecchio nano un sorriso affettuoso e complice.
 
«Se non ti vediamo ragazzo cominceremo senza di te… prendi il tempo che ti serve.» Gli appuntò e Thorin non poté fare a meno di sorridergli grato e annuire verso il pavimento prima di stringerli con ancora piu’ fermezza l’avambraccio vecchio e stanco in un silenzioso ringraziamento.
 
Lo seguì con lo sguardo mentre voltandosi di nuovo dietro di se cominciò di nuovo a salire le scale dalle quali erano appena scesi, per andare a prendere un corridoio che lo potesse riportare su e di nuovo giù, di nuovo verso le sale piu’ esterne del palazzo…verso di lei .
Spostò lo sguardo verso Dwalin, ancora fermo sulla rampa di scale dove si erano fermati poco prima, vedendolo alzare un sopracciglio non appena Thorin gli si affiancò e un sorriso sornione dipingersi sulle labbra non appena quest’ultimo gli lanciò un’occhiata di sbieco mugugnando qualcosa; non riuscì a sentire ciò che si dissero ma non ne ebbe bisogno per sapere che fosse un’imprecazione: lo capì piu’ dal sorriso del fratello che si trasformò in una risata abbozzata.
 
Dwalin sospirò lanciando ancora uno sguardo veloce dietro di se notando come Thorin avesse accelerato improvvisamente il passo e di come spedito imboccò il primo corridoio sulla destra salendo a grandi falcate le scale a due a due preso da una fretta che raramente gli aveva visto. E come ogni volta non aveva neanche bisogno di chiedersi il perché di quella fretta.  Abbassò lo sguardo verso suo fratello che lo guardava con un sorriso stampato in faccia, in attesa che probabilmente gli dicesse qualcosa e decise di accontentarlo dando libero sfogo ai suoi pensieri, che con molta probabilità in quel momento erano gli stessi di Balin.
 
«E’ un pessimo bugiardo, lo è sempre stato.» Disse duro spostando di nuovo lo sguardo dietro di se, verso Thorin ormai lontano che imboccava lo spiazzo sul quale erano appena passati dalla parte opposta, prima di scomparire tra le colonne verdi e tra il via vai di nani tra i corridoi.
 
Cominciò di nuovo a passi pesanti e ridondanti a scendere le scale una alla volta portandosi verso la balaustra dove suo fratello era poggiato con il petto con  tra le mani ancora la pila di fogli giallastri. «Non era nelle sue stanze questa notte, ne n’è uscito questa mattina presto.» Disse al fratello avvicinandosi a sua volta verso la ringhiera e lasciando andare le braccia a ciondoloni su questa, distendendole in avanti lasciando i muscoli rilassarsi.
 
Balin scosse la testa ridacchiando sommessamente e si girò a sua volta poggiando entrambi gli avambracci carichi sulla ringhiera dorata delle scale.« Pensi che non lo sappia? Quando sono entrato il letto era intonso e non c’erano neanche i suoi vestiti.» Ammise Balin ghignando con il lato della bocca.
 
Dwalin si scosse un minimo di fronte alla reazione del fratello, triando su la testa di scatto e puntando di nuovo lo sguardo verso il viso paffuto e arrossato: rimase scioccato ma non perché lo sapesse ma perché ne stava ridendo. Per un attimo si dovette chiedere se stesse pensando entrambi la stessa cosa o se entrambi fossero sulla stessa linea di pensiero rispetto a ciò che quel gesto poteva significare. Interdetto si lasciò andare con gli avambracci ancora di piu’ contro la ringhiera, e capì esattamente che il pensiero era lo stesso quando gli occhi di suo fratello si posarono verso di lui e un'altra risatina gli fuoriuscì dalla bocca di fronte alla sua espressione accigliata.
 
Con gli occhi sgranati agguantò con forza i propri avambracci cercando di trovare le parole adatte ma che di fronte al comportamento così insolito di Balin gli sfuggirono. «Proprio tu ne stai ridendo? Nel nome di Durin, dovrei essere io dirgli che è stata un’ottima idea e tu dovresti essere tu quello a ricordargli di quanto sia stata una pessima idea »
 
Balin sorridendo alzò le spalle in un piccolo movimento. «Lo è stata ma ha importanza fratello?» Gli replicò ancora un’altra volta continuando ad osservare dritto di fronte a se, verso il gruppetto di ragazzini che seppure non si potesse sentire, si poteva benissimo vedere, così come la mezz’elfa che in mezzo a loro alzava e abbassava la spada tra le mani.
 
«Quindi approvi il suo strappo alle tradizioni e alle regole? Proprio tu?!»
 
«Le tradizioni non sono mai state scritte e le regole cambiano, se dovessimo seguirle alla lettera neanche dovrebbe amarla. Vuoi essere tu quello a ricordargli questo particolare…proprio tu?» Gli sottolineò questa volta con un tono piu’ severo lanciandogli un’occhiata di sbieco, uno sguardo giudicatore che ormai si vedeva rivolta un giorno sì e anche il successivo, soprattutto da quando Dìs era tornata.
 
Strinse la mascella di fronte a quel colpo ben assestato, e sentì i muscoli delle spalle guizzargli in uno spasmo quando i momenti della sera prima, quelli che non aveva annebbiati, gli provocarono dei leggeri brividi dietro al collo o nelle mani con le quali l’aveva strinta a se danzano in mezzo alla sala ricolma, e poi un particolare di due labbra poggiate al lato della sua bocca.
 
No, no, quello doveva esserselo immaginato, per forza.
 
Balin aveva ragione, se lui stesso avesse dovuto seguire le tradizioni a quest’ora sarebbe dovuto scappare dalla Montagna o non avrebbe dovuto neanche guardare piu’ Dìs  in viso o cercarla in tutte quelle mattinate, ma lui era lui, le conseguenze dei suoi gesti avrebbero intaccato solo lui. Thorin d’altra parte non si era mai lasciato andare così, non con quello che c’era in gioco, non lasciandosi andare ai propri istinti, ai propri sentimenti, troppo calmo, troppo freddo, temprato da troppo.
 
Tutto troppo.
 
Spostò lo sguardo verso il punto che suo fratello continuava imperterrito osservando o meglio ciò che Thorin poco prima stava osservando, riuscendo dentro di se a capire perché avesse accelerato in quel modo il passo.  Non poté biasimarlo affatto, ma per quanto avesse voluto che quel momento tra di lui e la mezz’elfa accadesse ora ne aveva paura, la stessa paura che gli aveva rivelato Dìs: che potesse finire nel peggiore dei modi.
E il peggiore dei modi era un signore dei nani lontano da loro che era all’oscuro di molte cose, un signore dei nani che aveva il potere di interrompere perfino la decisione del re di Erebor, un signore dei nani che lo aveva disgustato dal primo momento che era entrato dalla porta principale e che da quando lo aveva sentito parlare lo terrorizzava a tal punto da temere per la scelta che aveva compiuto Thorin.
 
«Le loro azioni avranno delle conseguenze, le hanno sempre.» Mormorò rigido come la roccia dando sfogo alle sue preoccupazioni.
 
Balin sospirò pesantemente. «Finché le loro azioni non verranno alla luce, possiamo continuare a dargli tempo… anche se non è una scelta saggia.» Ammise infine seppur con riluttanza, ma non aveva il cuore di portare via a Thorin quel momento: la politica c’entrava poco, era rischioso ma la possibilità che l’accordo fosse rotto erano pari al nulla e mancava così poco tempo al matrimonio che qualunque azione irrecuperabile sarebbe passata inosservata. «Come ha detto prima mancano due mesi e saranno marito e moglie, pensavo ne saresti stato felice.»
 
«Lo sono ma non mi sarei mai aspettato una cosa del genere.» Borbottò Dwalin, senza rendersene conto: stupito dalla frase si sentì rabbuiarsi tutto di un colpo, schioccando la lingua. «Non da lui.»
 
Il fratello annuì comprensivo verso il basso continuando a tenere gli occhi puntati verso le scale sotto di loro, riuscendo tra le fiamme delle torce e io gruppi di guardie e artigiani a vedere i capelli neri di Thorin farsi spazio verso le colonne immense che segnavano l’entrata del salone.
 
«Thorin, in fin dei conti, è solo un nano. Per quanto possa essere arrivato in alto resta sempre tale. Ama e odia nella stessa misura di chiunque altro e, anzi, proprio per quello che gli è accaduto durante la sua intera vita, probabilmente lo fa con maggiore intensità di qualunque altro nano e paradossalmente, fratello, il suo comportamento è la prova che la ama più di se stesso.»
 
Dwalin rimase in silenzio ascoltando ogni singola parola di suo fratello, non avendo possibilità di ribattere neanche una volta essendo un discorso che si era fatto anche da solo diverse volte, che aveva intrapreso con lui, nei loro silenzi, nelle loro battaglie nella stessa stanza d’addestramento sotto di loro in quel momento.
 
«In questo momento mi auguro solo di non avere un moccioso con la sua faccia irritante che mi scorrazza tra i piedi prima del tempo.» Ammise piu’ a se stesso che al nano accanto a se che alle parole del fratello non poté fare in meno di sorridere.
 
«Ma ne saresti felice.» Gli appuntò Balin divertito, osservando i tratti persi del suo fratello minore verso il basso.
 
Annuì di rimando sforzando un sorriso quando puntò di nuovo lo sguardo verso la mezz’elfa e alla figura austera di Thorin che si avvicinava sempre di piu’ vicino al colonnato della sala, senza entrarvi, osservandoli solamente e osservandola senza staccarle gli occhi di dosso mentre questa era inginocchiata sistemando un moccioso in una posizione di difesa.
Sospirò avendo a sua volta una piccola visione di un futuro che non era poi così lontano, annuendo con la testa con il cuore che gli si scaldò alla possibilità di fronte ai suoi occhi.
 
«Immensamente fratello.» Mormorò infine e a suo malgrado si ritrovò a sorridere spontaneamente.
 
 
 
 
 
 
 
 
Thorin rimase accanto a una delle colonne osservandola incantato rimanendo nella penombra delle due colonne di marmo non volendo interrompere alcun modo quello che stava succedendo di fronte a lui e non riuscendo a staccarle gli occhi da dosso, dal suo corpo, dal suo sorriso, o dai capelli legati che adoranti dai piccoli aneli aveva adagiati su una spalla. Riuscì però a lanciare un’occhiata veloce verso il resto del gruppo di ragazzini seduti uno accanto all’altro con le schiene attaccate al muro della sala  incredibilmente silenzioso mentre osservavano Ghìda o il figlio di Flòni in mezzo alla sala o mentre spostavano lo sguardo incantati per i fregi dorati o gli scudi e le armi attaccate ai muri. Per quanto avesse voluto dire che fosse sceso fino a lì solo per mantenere la sua parola, la verità era che voleva guardarla; per quanto assurdo da qualunque concezione razionale, voleva guardarla di nuovo da vicino seppur per pochi minuti prima di tornare al lavoro, prima di tornare ai suoi doveri che l’avrebbero allontanato da Ghìda ancora per ore. La cosa che gli pareva piu’ ironica di tutto ciò era che non gli era servito per trovarla seguire gli schiamazzi delle piccole voci acute tra le scale, gli era bastato sentire, anche se flebile sotto di esse, la sua, ma questo sarebbe stato un segreto che avrebbe custodito gelosamente e che avrebbe omesso di dirle semmai glielo avesse chiesto.
Forse quella poteva essere la prima volta da mesi nella quale avrebbe potuto dire che erano davvero silenziosi e attenti, incantati quasi quanto si sentiva lui in quel momento nell’osservala mentre Ghìda sistemava con dei piccoli movimenti dei piedi le gambe del piccolo nano dai capelli biondi, dandogli delle veloci indicazioni che a fatica riusciva a seguire.
 
Si sentiva uno sciocco, tutto ciò gli sembrava ridicolo, un sogno, come quello che pensava quella mattina, un sogno ad occhi aperti nel quale tutt’ora stentava a trovare il suo posto, a trovare realmente un suo posto o a sapere quanto potesse lasciarsi andare; era stato troppi anni così, troppo tempo rintanato dentro se stesso, a rivedersi, a sentirsi spaccato a metà tra ciò che era e ciò che doveva essere, ma ora le due cose sembravano di andar a pari passo. Ghìda era riuscita a farle andare di pari passo. E gliene era grato, immensamente per amarlo accettando questa possibilità, per avergli dimostrato di poterlo amare seppure fosse il nano che era, seppure fosse diviso a metà tanto quanto lei, se non nel sangue nello spirito.
Da quando aveva accettato di sposarla sapeva già che non sarebbe stato un padre perfetto, un amante perfetto, un marito perfetto, non lo sarebbe mai stato, ci poteva provare, ma non era nato per questo, per avere una famiglia sua, e mai aveva pensato di averla, e questa realtà la conoscevano entrambi. Ghìda neanche lo pretendeva, sapeva che sarebbe rimasto sempre lo stesso ma, nel nome di Durin, questo non sarebbe significato che non avrebbe provato a farla sorridere ogni maledetto giorno sotto quella Montagna, e si, avrebbe aspettato di nuovo tutta una vita se avesse dovuto, se questo avesse voluto dire sentirsi in pace come in quel momento.
 
Una maledizione? Un destino predestinato da Mahal? Una benedizione dopo secoli da parte di Durin? Una ricompensa del destino?
 
Neanche gli importava più’ saperlo, e gli andava bene così, il saperlo reale gli bastava, il sapere che avrebbe potuto baciare quelle labbra che sorridevano verso il piccolo nano di fronte a lei per il resto della vita gli bastava  e gli bastava sapere ogni mattina si sarebbe svegliato e l’avrebbe trovata al suo fianco, così bella, così luminosa e piena di vita; ma anche così lontana e schiva che se lui era un lupo come aveva detto lei era in assoluto la luna a cui avrebbe ululato ogni notte.
 
Si lasciò andare lentamente con la spalla verso la pietra fredda della colonna accanto a se lasciando una risata scappargli dalle labbra quando, il piccolo nano di fronte a Ghìda tremò su se stesso non appena quest’ultima gli sistemò gentilmente le mani sull’impugnatura della spada d’addestramento; gli fu chiaro che non si trovasse nella pozione piu’ comoda, ma si ritrovò a sorridere di fronte alla sua espressione accigliata non appena gli intrecciò le dita con le sue per posizionargli una mano infondo all’impugnatura.
 
«Tieni la spada con entrambe le mani, stringi forte e piegala di lato, piu’ su le mani, così Lòni, se no finirai per farti male da solo.»
 
«Ghìda ma così non ci riesco!» Mugugnò Lòni sforzandosi il piu’ che riuscisse a mantenere la spada ferma e rigida di fronte a se con entrambe le mani che a poco a poco gli si cominciarono a torcere così come le braccia.
 
Un sospiro divertito le uscì dalla bocca  difronte all’espressione concertata e alla postura instabile  che il piccolo nano continuava a mantenere seppure gli avesse posizionato le braccia in maniera corretta: con attenzione fece un paio di passi indietro e sfoderò la lama che portava la suo fianco portandosela di fronte agli occhi tenendola con entrambe le mani.
 
Quella spada.
 
Thorin sorrise con il lato della bocca facendosi un paio di passi in avanti muovendosi verso il fascio dorato di luce che segnava la soglia della stanza ottagonale osservandola attento mentre la mosse con tale maestria che sembrò facesse parte del proprio braccio. Non poteva non ammettere che la sensazione che voleva donarle quando la usasse fosse proprio quello, anche il renderla piu’ possibile simile a quella che aveva cercato di creare, per renderla il piu’ sua possibile. Vedergliela però maneggiare fu totalmente un'altra sensazione, che gli stinse il petto in una morsa gentile e abbassare quasi lo sguardo imbarazzato.
 
«Lo so che è difficile ma allarga le gambe e tieni il peso sulla spalla, non sul polso, così dovresti riuscirci.» Lo corresse ancora sorridendogli e allargando di poco le gambe muovendo il proprio piede tra le sue caviglie aiutandolo a posizionarle in maniera tale che i colpi che gli avrebbe inferto non rimbalzassero sulla lama.
 
«In quanto sei riuscita ad imparare a stare così, in questa posizione?»
 
«Dei mesi, anche se la cosa difficile non è mai stata per me posizionarmi in questa maniera, ma ritornarci ogni volta a fine di ogni movimento.»
 
Lòni guardandosi i piedi e poi le mani seguì le indicazioni che gli aveva dato, mettendosi precisamente nella posizione in cui si trovava lei, annuendo poi con la testa dandole il segno che fosse pronoto mentre con lentezza allargò di poco le spalle e assottigliò lo sguardo. Ghìda annuì a sua volta con il capo, facendo cadere i ciuffi della pettinatura prima inclinare di poco la spada e di assestargli il primo colpo sul piatto della spada cominciando a contare a voce alta ogni singolo movimento che compivano entrambi.
Il ragazzino riusciva a tenere testa ai suoi movimenti agili, parandoli con dei movimenti rigidi delle braccia, tentando di muovere i piedi il piu’ che poteva: fu in grado di vedere come Ghìda si stesse trattenendo, puntando sempre allo stesso punto, muovendosi a malapena, alzando e abbassando la lama in maniera ritmica dandogli modo di capire i suoi movimenti attraverso quegli esercizi semplici e basilari.
 
«Wo fratello guada qui! Sono stupende! E guarda questi scudi, sembrano quelli che sono appesi ai muri vicino alle fucine. Non ci credo che siamo nella Sala del Ferro! Solo i principi posso stare qui!» Trèl urlò a voce alta trascinando la propria spada al lato del suo corpo facendo strusciare la punta per terra, continuando a guardare verso l’alto, verso la quantità di armi e armature intorno a lui appese al muro, o verso ai fregi dorati che ne adornavano le pareti. «Ghìda sei sicura che il re ha detto che possiamo stare qui?» Le chiese continuando a guardare verso l’alto in ammirazione, gli occhi verdi che scintillavano mentre muoveva lo sguardo sgranato da muro a muro stringendo sempre di piu’ la piccola ascia tra le sue gambe
 
«Sono sicura, ha usato un altro termine, ma sono sicura che anche se ci vedesse, non verrete puniti e gettati nelle segrete, vi do la mia parola.» Ansimò Ghìda ridacchiando di rimando aumentando il ritmo dei colpi verso Lòni facendo aumentare la sua concentrazione.
 
Thorin sorrise con il lato della bocca di fronte a quella risposta scuotendo la testa rispondendo internamente alla domanda del piccolo nano: indirettamente sì.
 
Infatti non era esattamente quello che aveva detto, ma lo scorrazzare per il palazzo sotto la sua supervisione sarebbe stato piu’ che utile, sia per evitare delle scorribande per i piani piu’ alti mandando in esasperazione le guardie a ogni piano, sia per non farli rimanere e poi come le aveva detto, quei ragazzini, se lo erano meritato, non sapeva come poterli ringraziare di piu’ ma la reazione di del figlio di Tàrim gli fece ben intendere che a loro bastava quello, forse neanche una sua parola sarebbe valsa di piu’ per quando Ghìda ne potesse dire.
 
«Troppo forte!» Aggiunse Trèl eccitato facendosi strada muovendosi sulle punte delle ginocchia tra le gambe distese per terra di Drèl e Fàrim che lo fulminarono con lo sguardo non appena, talmente entusiasta, non si accorse, inciampando tra le loro gambe, di star quasi per calpestarla piccola Mar che seduta in mezzo a loro, non stava prestando attenzione acconciando con cautela i capelli di una bambola di pezza.
 
«Fratello mettiti seduto! Stai attento per la barba di Durin!» Lo rimproverò Drèl dandogli un colpo sul polpaccio con la piccola ascia che teneva tra le mani in mezzo alle gambe, ma il fratello sembrò non ascoltarlo affatto continuando a guardare incantato le pareti ricolme di fregi beccandosi un’ennesima occhiata poco amichevole da entrambi gli amici.
 
«Guarda, guardate quella è un effige di Gròr e quello è Thràin I dopo la guerra dei draghi di ghiaccio!»
 
Lòni sbuffò pesantemente bloccando il colpo che stava per infliggere sulla lama di Ghìda a mezz’aria e batté i piedi per terra voltandosi verso il muro e verso la schiena di Trèl ancora rivolta verso di lui. «Trèl abbassa la voce per la barba di Duri-ehi!»
 
Le parole gli vennero bloccate in bocca quando alle spalle gli arrivò un colpo di piatto che fece un rumore sordo sulla piccola schiena, ne tanto forte da potergli fare male ma abbastanza da fargli capire di come avesse appena compiuto un essere a dir poco grave. Ghìda alzò un sopracciglio divertita e si lasciò scappare una risata di fronte all’espressione dolorante del piccolo nano, e di come si piegò su se stesso  sfregandosi il dietro della spalla con la mano libera.
 
«Guarda sempre davanti a te, o finirai per ricevere dal tuo avversario piu’ di una pacca dietro la schiena, Lòni, figlio di Flòni.» Lo rimproverò sorridendogli comprensiva con il lato della bocca.
 
Di risposta Lòni annuì verso il basso lanciando un'altra occhiataccia verso Trèl che come se non fosse appena successo nulla non staccava gli occhi dai fregi anzi se era possibile si era avvicinato ancora di piu’ al muro osservandoli da vicino, non notandolo neanche o ne notando la piccola figura che spaventata gli sfrecciò dietro abbandonando la bambola sul pavimento. Si voltò di nuovo verso Ghìda, rosso in volto e mugugnò appena stringendosi il retro della camicia all’altezza di dove era stato colpito e abbassando la spada di poco facendola toccare per terra con la punta imbarazzato.
 
«Lo so mia signora, mi dispiace, stavo solo -»
 
«Il mio turno sarebbe già arrivato se non ti muovessi come un goblin senza una gamba!» Gli urlò dall’altro capo della stanza Fàrim già pronto in piedi e già con la spada d’addestramento rinfoderata nell’elsa portandosi entrambe le mani a coppa per potersi far sentire non solo dall’amico ma probabilmente dall’intera Erebor.
 
Sbuffando Lòni scostò lo sguardo dal suo diventando ancora piu’ rosso rispetto a prima e lo puntò verso l’amico alzando la punta della spada da terra e puntandola giudicatore verso l’amico. «E tu che ne sai di come si muovono i goblin riccioli rossi? Soprattutto dei goblin senza una gamba!?»
 
«Scuramente meglio di te!» Ribatté il nano dai capelli rossi sprezzante incrociando severamente le braccia al petto.
 
«Mi muoverò anche male ma almeno non ho quella brutta faccia che ti ritrovi tu!» Sputò di risposta facendo un passo avanti contro l’amico digrignando i denti in maniera quasi animalesca, mentre la singola treccia al lato della testa gli ricadde in avanti tagliandogli il viso in due.
 
I due nani si fissarono intensamente per dei lunghi istanti, entrambi cominciavano a piegarsi pericolosamente in avanti, le mani di Fàrim che si sciolsero dal suo petto andando con cautela a sfiorare il fodero della spada legato al suo fianco, nel frattempo che Lòni strinse con ancora piu’ fermezza il manico squadrato della propria.
Li osservò attentamente, attenta a ogni singolo movimento che entrambi stavano compiendo, chiudendo la mano in una morsa nervosa intorno alla propria spada ancora rigida sul suo fianco: era da giorni che si punzecchiavano in quel modo, era successo la notte prima ed era successo anche adesso, era sicura che non si sarebbero fatti del male, non con le loro spade ma ciò non la tranquillizzò soprattutto quando Fàrim cominciò a muoversi felpato verso il centro della sala.
 
«Fàrim…» Lo richiamò spaventata Nìm alzandosi da dove era seduta per terra abbandonando la piccola spada a terra e alzandosi il bordo del vestito tremante pronta a correre. Lo sguardo le divenne sempre piu’ preoccupato ogni passo che il fratello compiva verso Lòni, così come la stretta intorno ai lembi del vestito sempre piu’ salda che aumentava a ogni attimo di silenzio tra i due. «Fàrim pianta finiscila! O lo dico ad a-dad! Lòni basta!» Ripeté un’altra volta urlando battendo un piede per terra e  furiosa cominciò a camminare vero il centro della sala nel frattempo che invece il fratello imperterrito continuava ad avanzare verso l’amico con il viso simile a una lastra di pietra.
 
Durò pochissimo ma appena Fàrim fu abbastanza vicino a Lòni le guance di questo divennero via via sempre piu’ gonfie così come il suo petto, e dopo un lungo momento in cui gli cominciarono a tremare le labbra, queste finirono per esplodere del tutto in una grassa risata facendo scoppiare a ridere anche Lòni tutto di un colpo facendo ben intendere a tutti che quello che era appena successo non era nient’altro che una recita ben orchestrata.
 
«Vieni qui brutta zucca vuota!» Urlò Fàrim ridendo e prendendo il nano biondo per il collo portandoselo sotto il braccio e, sghignazzando lo sottomise scompigliandogli tutti i capelli con una mano ridendo e facendo ridere a crepapelle Lòni incastrato nella sua presa.
 
Nìm invece era livida dalla rabbia , ormai era così vicina a entrambi, che era pronta apprenderli entrambi a pugni se avesse potuto, ma lo scherzo era finito troppo presto perfino per lasciarle quella possibilità. «Siete degli stupidi! Tutti e due! Non fate mai piu’ una cosa del genere!»
 
Ghìda sospirò di sollievo e chiuse gli occhi lasciando il filo di tensione scivolarle addosso così come allentò la stretta intorno all’elsa sotto il peso delle risate e gli urli alterati di Nìm rossa in viso che lontana da loro sbatteva i piedi per terra facendo invece sghignazzare Drèl e Trèl che in meno di un attimo si gettarono nella mischia unendosi al baccano e prendendo in giro i due nani.   
 
«G-Ghìda.» Un piccolo strattone al lato della camicia vicino alla coscia richiamò la sua attenzione compresa una piccola voce spezzata che le fece abbassare immediatamente lo sguardo: Mar al suo fianco con gli occhi azzurri sgranati e le sopracciglia attagliate sulla fronte con aria angosciata nel frattempo che le tirava sempre di piu’ la camicia logora.
 
Preoccupata si abbassò verso di lei lasciando cadere la spada di lato a se, posandola al suo fianco, inginocchiandosi con cautela sul marmo verde senza essere abbandonata neanche per un secondo dagli occhi preoccupati di Mar così come dalle sue piccole mani che si attorcigliarono ancora di piu’ nel tessuto rossastro tirandola giù.
 
«Cosa è accaduto Mar?» Inclinò appena la testa in avanti posando la mano sulla stretta rigida sulla camicia, cercando di calmarla, ma sentì le sue dita stringersi solo con piu’ fermezza tanto quasi da abbassargliela oltre la spalla raggomitolandosi sul suo fianco e allarmandola.
 
«C-credo che abbiamo fatto troppo rumore.» Mormorò insicura con le labbra che le tremarono prima di spostare lo sguardo da lei verso un punto indefinito oltre l’entrata della sala indietreggiando di poco dieto le sue gambe come per nascondersi da qualcuno.
 
Confusa da quel comportamento alzò gli occhi verso dove la piccola nana stava continuando a fissare e tra le ombre delle colonne verdi: fece vagare attentamente lo sguardo tra i fasci di luci in mezzo a uno di questi e, accostata a una colonna, una figura austera catturò la sua attenzione facendole saltare un battito dalla sorpresa e in meno di un attimo comprese la reazione della piccola nana che attimo dopo attimo la stringeva ancora di piu’ nascondendosi.
 
Era venuto alla fine quindi.
 
Thorin se ne stava con una spalla poggiato a un lato della colonna intagliata, le braccia dietro la schiena, fissando in un silenzio autoritario dentro la sala: le lanciò un'occhiata, le iridi azzurre brillarono così intensamente da farle salire un calore inaudito dal basso ventre al petto e farle salire un moto d’orgoglio che mai pensava di poter sentire, che neanche quella mattina aveva sentito.
 
Ricambiò il suo sguardo per dei lunghi istanti non avendo idea di cosa fare, cosa dire: la parte piu’ istintiva di se le urlava di  corrergli tra le braccia, e se entrambi fossero stati diversi fossero stato altro rispetto a ciò che il loro ruolo gli imponeva, con molta probabilità lo avrebbe fatto, ma la sua parte piu’ retta invece le ricordò prepotentemente di non poterlo fare, che determinate cose dovessero rimanere nascoste; si sarebbero comportati come se nulla fosse accaduto, anche se sapeva già che le sarebbe difficile, se non impossibile, soprattutto se la guardava in quella maniera.
 
Fu Thorin a rispondere ai suoi quesiti confermando la sua risposta scuotendo di poco la testa sorridendole flebilmente con il lato della bocca; di tutta risposta abbassò di poco il capo in riverenza abbassando di poco lo sguardo verso terra prima di guardare di nuovo la piccola nana che continuava a guardare Thorin con gli occhi sgranati.
 
«No, non credo sia per quello.» Le mormorò vicino all’orecchio passandole delicatamente un braccio dietro il busto  incitandola di poco a farsi piu’ vicino o a smettersi di nascondersi dietro la sua schiena, ma questa la strinse ancora di piu’ nascondendosi ancora di piu’ dietro il suo fianco.
 
«S-sei sicura? Magari abbiamo fatto qualcosa di sbagliato.» Le chiese ancora puntando di nuovo lo sguardo insicuro in alto verso di lei.
 
Le scappò una risata di fronte a tanto smarrimento e di fronte al fatto che imperterrita la piccola nana la stringesse ancora nascondendosi sempre di più dietro di lei; scosse la testa accarezzandole leggermente il retro della schiena con la mano. «No non avete fatto niente di sbagliato ti do la mia parola.» Tentò ancora di tranquillizzarla ma Mar continuò a fissarla arricciando ancora di piu’ le sopracciglia scure, ancora di piu’ quando la vide sorridere verso quella figura che seppure non dovesse continuava a incuterle paura.
 
Si era un orso, soprattutto con quella pelliccia nera, si assolutamente.
 
Nel frattempo nessuno dei presenti oltre la piu’ piccola si era reso conto di chi si trovasse all’entrata della sala, troppo presi a continuare il piccolo battibecco iniziato troppo prima, e a punzecchiarsi l’un’latro con una serie di battute e buffetti schierandosi a cerchio  e in parti opposte in maniera tale che potessero guardarsi tutti in faccia tra le battute.
Avevano appena finito di sghignazzare a una quando Drèl si poggiò leggermente con il braccio alla spalla di Trèl  arricciando il naso tutto di un colpo con un’espressione disgustata prima di avvicinarsi un'altra volta e annusarlo all’altezza del collo ripetendo di nuovo quell’espressione assottigliando le labbra.
 
«Lòni può anche muoversi come un goblin ma certamente tu puzzi come uno di loro, ti sei fatto un bagno sta mattina fratello? A-mad lo aveva preparato per entrambi.» Ripeté esponendo di poco la lingua con un’espressione disgustata allentandosi immediatamente
 
«Ne vuoi un altro po'?» Trèl ridacchiò alzando poi il braccio del lato dalla quale il fratello si era allontanato alzando l’ascella mostrando l’alone di sudore della camicia verde.
 
«Che schifo!» Mugugnò infastidito avvicinandosi al lato opposto rispetto al fratello verso Fàrim che sghignazzò tra i denti.
 
«Pensate che i guerrieri in viaggio si facciano il bagno?»
 
Drèl annuì accostandosi sempre di piu’ al nano dai capelli rossi per allontanarsi dal fetore di suo fratello continuando a guardarlo ancora piu’ disgustato quando gli si avvicinò ancora. «Ovviamente si fanno il bagno, con tutto quel sangue e quella terra, useranno gli stagni o i fiumi e Trèl non è un guerriero potrebbe anche lavarsi.»
 
«Non ho bisogno di lavarmi se mi devo allenare e poi sporcare di nuovo ed è ovvio che non se lo fanno Fàrim, non perdono il loro tempo così! Il bagno è una cosa inutile»
 
Convinto dalla risposta Lòni indico con un dito l’amico annuendo con la testa. «Io sono d’accordo con Trèl. Credete che Thorin Scudodiquercia  quando sia arrivato alla Montagna profumasse di rose?» Chiese alzando un sopracciglio no riuscendo a trattenere una risata e non rendendosi neanche conto di come i tre nani di fronte a lui non stessero piu’ prestando attenzione a lui o al discorso, di come ora stessero prestando solo attenzione a una figura rigida che avanzava verso di loro, o di come si fossero allontanati l’uno dall’altro di poco e diventando bianchi come dei lenzuoli.
 
«Nossignore, i veri guerrieri non profumano di rose devono puzzare come i piedi di un troll e come un na-Ah!» Fàrim di fronte a lui gli assestò un calciò leggero sullo stinco senza mai staccare gli occhi da sopra di sé facendolo gemere di dolore e chinare lievemente in avanti andando a sfiorarsi il punto colpito.
 
«Lòni fai silenzio!» Sibilò lanciandogli solo un’occhiata veloce prima di portare entrambe le braccia dietro la schiena a sorreggersi continuando a guardare in alto
 
«Stai tu zitto Fàrim ma che ti è…»
 
«Lòni, figlio di Flòni dico bene?» Proruppe alle sue spalle una voce fin troppo conosciuta al piccolo nano risuonando dura nella sala facendolo raggelare su se stesso.
 
Socchiudendo gli occhi totalmente nel panico bloccò la frase a metà girandosi dietro di se e irrigidendosi tutto di un colpo quando ebbe la conferma di chi avesse parlato, sbiancando immediatamente, prima di diventare rosso quasi come i capelli di Fàrim che seppur rigido dietro di lui sopprimeva le risate assottigliando le labbra. Thorin lo guardò squadrandolo dall’alto al basso mentre Lòni non riusciva a fare altro che non balbettare suoni maledicendosi nella sua testa per riuscirsi a ficcar sempre in quelle situazioni: in quel momento desiderava solo essere inghiottito dal pavimento sotto di se e scomparire.
 
«R-re…S-sì, io -io -io… non..» Cominciò a mormorare cercando con tutte le forze di non agitarsi ma ormai era inutile.
 
Drel notò gli occhi sbarrati di Lòni e il suo rimanere immobile e incapace di fare altro che non fosse fissare il re: gli si affiancò velocemente allungando la mano verso al nuca bionda e abbassandogliela facendolo chinare, strappando un sorriso sommesso a Thorin che rispose con un breve cenno della tesa prima di guardare verso gli altri tre nani accanto al nano biondo che nel frattempo erano rimasti zitti e in silenzio aspettando che aggiungesse un'altra parola, o che sbottasse in faccia all’amico… o entrambe le cose anche.
 
Ghìda sentì Mar stringerla ancora di piu’, accoccolandosi al suo fianco e nello stesso istante sentì un'altra piccola mano allacciarsi dietro la sua gamba, stringendola debolmente e una serie di boccoli rossi poggiarsi al lato della sua spalla: Nìm a sua volta aveva seguito l’esempio di Mar facendosi vicina a lei, osservando con gli occhi sbarrati il re arrossendo a poco a poco. Aveva il volto voltato verso Lòni, lo osservava in silenzio, stringendosi sempre di più’ a lei, preoccupata, nel frattempo che il nano biondo diventava sempre piu’ rigido. Tutti e quattro i nani infatti stavano sudando freddo a tutti stringendosi sempre di piu’ le spalle nervosamente, compreso Fàrim che riusciva a malapena a mentene il contatto visivo, seppure fosse quello che difronte ai suoi occhi sembrava quasi sempre il meno nervoso.
 
Cautamente Thorin si fece infatti piu’ vicino a quest’ultimo inclinando di poco la testa verso il basso per poterlo guardare al meglio che poté negli occhi. «Tu invece sei il primogenito di Tàrim non è così?»
 
Lòni lanciò un’occhiata verso l’amico al  suo fianco che allargando i poco il petto, facendosi coraggio, prese un piccolo respiro incerto prima di annuire velocemente con la testa. «S-si mio re.»
 
Thorin annuì con la testa con un movimento secco e poi spostò lo sguardo verso i due fratelli che si fecero leggermente piu’ vicini tenendo il mento in alto e mettendosi addirittura in punta di piedi mantenendo le mani ben ferme sulle armi legate ai loro fianchi. « E voi siete i figli di Orel…» Commentò osservano prima uno e poi l’altro che non risposero a parole, annuirono solamente sempre piu’ in angoscia, tanto che Trèl cercò la mano del fratello inutilmente perché questo lo scacciò con una manata veloce continuando a guardare verso il re.
 
Ghìda strinse piu’ vicino Mar a se sedendosi meglio per terra, incapace di spostare gli occhi dal profilo autoritario di Thorin o dagli occhi quasi terrorizzati di tutti e quattro i nani: e lei che gli aveva detto che non ne erano spaventati, e non lo erano affatto di questo era certa, intimoriti forse ma mai spaventati. Thorin si tirò di poco su con la schiena studiandoli come se stesse guardando dei nani adulti, cominciando con cautela a girare intorno al gruppo che invece rimase fermo seguendolo solo con lo sguardo non voltando neanche la testa, cosa che la fece sorridere con il lato della bocca: le fecero quasi tenerezza, poiché da un lato poteva comprenderli perfettamente. Si era trovata nelle loro posizioni piu’ e piu’ volte, essere scrutata da quegli occhi in quel modo era difficile per lei, pensare che dovessero farlo loro in quel momento ma sapeva che non avevano nulla da temere.
 
«Spada o ascia?» Gli chiese tutti e quattro inaspettatamente scuotendoli e facendoli rizzare ancora di piu’ tutti e quattro in una botta sola sorridendo ironico con il lato della bocca di fronte alla reazione.
 
Drèl guardò il fratello dandogli una piccola botta con la punta del piede cercando un suggerimento alla risposta, convinti che ci fosse una risposta giusta o una sbagliata, ma Trèl alzò le spalle non capendo e lanciando uno sguardo veloce verso i fianchi di tutti e quattro voltando la testa.
 
Prendendo coraggio Fàrim voltò di poco la testa osservando il re incrociare le braccia l’una sull’altra continuando il suo giro studiandoli. «C-cosa… Cosa intendete?»
 
«L’arma che preferite, ascia o spada.» Chiese ancora fermandosi di nuovo di fronte a loro.
 
«S-spada.» Mormorò di risposta Fàrim lanciando uno sguardo incerto verso il resto degli amici che non ci misero molto a rispondere a turno, portandosi le mani verso le piccole cinture.
 
«Ascia.»
 
«Spada.»
 
«Spada.»
 
«Le guardie reali usano delle picche per le ronde, voi sareste in grado di imparare a usarle?» Gli chiese seriamente guardandoli tutti e quattro attraverso le sopracciglia scure. «Mi sono giunte notizie che avete questo desiderio.»
 
Ghìda si morse il labbro dovendo sopprimere un sorriso quando lo sguardo serio di Thorin si spostò dai quattro piccoli nani verso di lei lanciandole uno sguardo complice di sottecchi: essere venuto a parlare con loro le bastava, ma non poté negare a se stessa che quel gesto avrebbe fatto tanto per loro. Lanciò uno sguardo verso i quattro bambini che rimasero ancora imbambolati  non sapendo cosa dire e lanciando solo delle occhiate confuse al re e verso di lei aprendo e chiudendo la bocca piu’ volte confusi. Alle prime non capirono diventando solo piu’ nervosi: Drèl si strinse a suo fratello non sapendo cosa rispondere così come Fàrim guardò Lòni il quale invece stava osservando lei in cerca di una risposta.
La stava guardando con gli occhi sbarrati la bocca aperta, capendo probabilmente a cosa Thorin si riferisse e si ritrovò costretta a confermare abbassando la testa: la bocca semiaperta si trasmutò in un sorriso che le mostrò tutti i denti, compreso quello mancante al lato della bocca in preda all’entusiasmo che in altre circostanze, era molto sicura, avrebbe riversato sulla piccola Nìm attaccata a se.
 
Lo vide trattenere un piccolo saltello dondolandosi solo impercettibilmente sui talloni, cercando di rimanere composto, o cercando per lo meno di calmare l’entusiasmo.« C-credo di sì beh cioè non ci abbiamo mai provato. Prima credo che dobbiamo cominciare a sapere usare  queste, suppongo, credo… mio re.»
 
Thorin abbassò lo sguardo verso il basso piacevolmente sorpreso della risposta alzando impercettibilmente un angolo della bocca. «E avete imparato a maneggiarle meglio quest’oggi di quanto eravate in grado di fare ieri?»
 
«S-si Ghìda…» Cominciò di nuovo Lòni ma scosse la testa correggendo le sue parole allargando ancora di piu’ il petto autorevolmente e rendendo la voce ancora piu’ profonda. «V-volevo dire, la nostra signora ci stava facendo vedere come parare senza uno scudo.»
 
Notò gli occhi azzurri di Thorin schizzare ancora verso di lei rimanendo però con la testa ferma voltata sempre verso il piccolo gruppo. «E cosa ne avete imparato?» Gli chiese ancora abbassando di poco la testa.
 
Il nano biondo stette per rispondere ma Drèl accanto a lui buttò giù un groppo che gli si ea formato in gola e lo anticipò posando nervosamente la mano sul bordo dell’ascia al suo fianco. «C-che anche se non abbiamo uno scudo possiamo usare la lama per ribaltare le posizioni per contrattaccare, non ce n’è bisogno… di uno scudo…p-possiamo anche non averlo. » Continuò intimorito lanciando un’occhiata di supporto dal fratello che annuì di rimando sorridendogli con il lato della bocca dandogli il supporto per continuare.
 
«Si è così, che quando, che dobbiamo metterci in questa posizione…» Cominciò Trèl dandogli supporto: indietreggiò di un paio di passi spostando lo sguardo da Thorin verso il pavimento tirando fuori con cautela la piccola spada e mostrando a Thorin la posizione iniziale, con la spada tra i palmi e le ginocchia piegate, continuando a cercare il supporto dei tre amici che spostarono lo sguardo verso di lui annuendo. «E poi…»
 
«Le gambe.» Gli sussurrò all’orecchio il fratello lanciando un’occhiataccia verso i piedi troppo vicino l’uno all’altro.
 
«Ma io piu’ larghe di così non so tenerle.» Gli sussurrò di rimando Lòni cercando di trovare di nuovo l’equilibrio che era riuscito a mantenere prima, inclinando il braccio o abbassando di poco le ginocchia, ma in ogni caso il piccolo polso gli si cominciò di nuovo a contorcere su se stesso  «G-ghì…mia signora, com’era quella cosa ci avete fatto vedere prima, quella cosa con le gambe e il gomito…» Le chiese incerto spostando lo sguardo dalla lama verso di lei, terribilmente imbarazzato, soprattutto quando si rese conto che il re non aveva mosso un muscolo continuando ad osservarlo dall’alto verso il basso. «…n-non ci riesco piu’.» Mormorò con il labbro che gli tremò debolmente.
 
Le scappò un piccolo sospiro osservandolo. «Dovresti ricordartelo a questo punto dopo tutta questa mattinata a provarlo.» Cercò di ribattere autorevole, ma gli occhi sempre piu’ grandi del nano la cominciarono a guardare ancora piu’ supplicanti, così come quelli dei restanti che gli si affacciarono oltre la spalla o dietro la schiena dell’amico supplicandola silenziosamente.
 
Non ebbe il cuore di dire a nessuno di loro di no e lasciò un sospiro arreso uscirle dalla bocca, e già da quello dei piccoli sorrisi si formarono sui visi preoccupati, essendo tutti riusciti nel loro obbiettivo: piccole canaglie. 
 
Si sforzò di trattenere un sorriso ma l’ironia della situazione ebbe le meglio e così lasciò lentamente andare la mano di Mar e a Nìm tirandosi su da terra facendosi forza sulle ginocchia. «Molto bene ma avrò bisogno che uno di voi piccoli soldati mi dia una mano.» Mormorò infine arrendendosi  sotto quegli sguardi che prima o poi l’avrebbero sicuramente fatta finire nei guai.
 
Con cautela abbassò la mano prendendo di nuovo in mano dal marmo verde la spada le quali venature intagliate scintillarono non appena cominciò ad alzarsi sentendo dietro di se le due piccole nane indietreggiare.
 
«Se è un soldato un po' piu’ grande ad aiutarvi vi creerebbe imbarazzo mia signora?» Una voce profonda interruppe il piccolo Trèl che già era pronto ad avvicinarsi  facendo sgranare gli occhi a tutto il gruppo di nani, e non solo a loro: Ghìda per poco non sobbalzò trattando la lama tra le mani ancora con piu’ fermezza.
 
Alzò lo sguardo verso quello di Thorin, interdetta da una simile proposta, tanto da lasciarla senza parole alcuna, studiando i suoi occhi blu che la fissavano cercando un appiglio di ironia ma niente oltre un’estrema risolutezza . Si morse il labbro imbarazzata e sbatte un paio di volte chi occhi prima di lasciarle un sorriso incresparle le labbra mentre sentiva le goti diventarle rosse a poco a poco.
 
«Credevo aveste dei compiti da svolgere mio signore» Affermò mordendosi il labbro inferiore debolmente spostando lo sguardo di nuovo verso gli occhi azzurri che guizzarono lievemente di fronte a quella chiara provocazione, che non era stata capace di trattenere.
 
Thorin abbozzò un sorriso divertito sciogliendo le braccia dal petto e  dandosi uno scossone con le spalle facendo cadere il mantello oltre le sue braccia facendo toccare quasi del tutto terra al pesante tessuto nero;  prima che potesse toccare del tutto terra si passò una mano dietro la parte bassa della schiena afferrandolo con una mano e, senza smettere di guardarla lo a terra lo posò accanto per terra al suo fianco .
 
«Credo di essermi liberato per qualche minuto mia signora.» Ribatté di rimando muovendosi di un paio di passi piu’ in mezzo alla sala sguainando Orcrist dalla al lato della sua cintura strappandole un sorriso complice, rendendole sempre piu’ chiare le sue intenzioni e il suo desiderio di vederla combattere insieme a lui.
 
Non era riuscito a non lasciarsi andare, anche se di lasciarsi andare non poteva proprio parlare: sarebbe stato così ormai lo sapevano entrambi, una recita che avrebbero dovuto portare avanti per due mesi, in cui quel parlare per enigmi li avrebbe coperti e messi in ombra rispetto a ciò che potevano mostrare alla Montagna, ai sette clan: Durin solo sapeva quanto volesse che quei mesi passassero nel minor tempo possibile.
Ghìda si mosse a sua volta al centro della sala, seguendo attenta i passi felpati di Thorin nel frattempo che teneva Orcrist dritta sul suo fianco tendo il braccio teso facendone quasi strusciare la punta per terra. Le venne in mente quando quella scena fosse già accaduta mesi addietro, a come si era sentita e a come invece si sentiva in quel momento: un’evoluzione di quello che in cuor suo sapeva già di provare dentro l’armeria dorata. La decisone con quale l’aveva guardata, lo stesso fuoco con la quale la stava guardando adesso che così come allora non la fece tentennare, ma le diede una sicurezza che mai sarebbe mai riuscita a provare in altro modo.
 
Con un gesto netto roteò la lama sul suo polso portandola nella posizione giusta con l’affilatura della lama verso il basso. «Mi permettete mio signore?»
 
Thorin non rispose, sorrise solo con il lato della bocca e strinse l’elsa di Orcrist con ancora piu’ irruenza alzandola di poco da terra e abbassando di poco il capo decretando una silenziosa approvazione a iniziare; Ghìda strinse il manico della spada e in un attimo si ritrovò viso a viso con Thorin roteando su se stessa per colpirlo al petto. Venne repentinamente bloccata dalla lama rigida di Thorin e non riuscì a non trattenere un gemito sommesso tra i denti non appena le due lame cozzarono l’una sull’altra: le sembrò di aver scontrato il braccio su un muro di marmo, talmente duro da farle tremare il polso.
Vide le sopracciglia scure di Thorin inclinarsi l’una sull’altra ma non gli diede modo di potersi preoccupare oltre: non voleva che lui si preoccupasse per lei, non in quella situazione. Si girò di nuovo cercando di colpirlo dall’altra parte ma nuovamente Thorin la bloccò allungando la lama alta oltre la sua spalla con entrambe le mani, ma questa volta poté sentire la differenza dal suono che fecero le due lame quando si scontrarono: aveva diminuito la forza che stava impiegando nel braccio.
Alzò lo sguardo un’altra volta oltre la lama e Thorin la stava guardando autorevole oltre le sopracciglia trafiggendola con lo sguardo: un unico messaggio che passò severamente e che parve urlarle quando con irruenza cercò di aumentare la pressione per far aumentare la forza nel  suo,  ma di tutta risposta il re lasciò il braccio andare indietro rendendole la possibilità di colpirlo troppo facile. Se fosse stato un combattimento vero lo avrebbe potuto uccidere solo ondeggiando di piu’ la lama e lasciandola scivolare oltre il suo viso.
 
«Se continui a spingere finirai per lussarti il polso.» Mormorò severo lacerandola con lo sguardo.
 
«Allora non trattenerti, non con me…ti prego.» Sussurrò supplicandolo con lo sguardo osservandolo dritto negli occhi.
 
I tratti duri di Thorin si assottigliarono di poco seppure la forza opposta alla sua di lama non aumentò lasciando la propria spada avvinarsi ancora di piu’ verso il suo collo, quel tanto da far cadere i ciuffi neri sul suo viso dritti in mezzo all’incrocio delle due lame.
 
 
«Ti prego non dubitare di me, ti prego.» Gli ripeté ancora e fu solo in quel momento che vide il fiato appannare la lama sotto la sua gorgia con un sospiro: non voleva farlo, questo lo sapeva, ma quelle sue preoccupazioni dovevano finire, se poteva essere una sua pari, lo voleva essere in tutto e per tutto.
 
D’un tratto sentì finalmente il braccio di Thorin fare forza facendo scintillare lievemente le lame di entrambe le spade e con uno scossone violento della spada la respinse via come se fosse aria indietreggiando di nuovo di alcuni passi prendendo di nuovo il controllo della situazione: ora stavano combattendo ad armi pari, ora era il vero inizio.
 
In meno di un minuto l'aria divenne satura del cozzare di lame potenti e resistenti, scintille sprizzavano quando si baciavano; lo stile di combattimento totalmente uno diverso dall’altro: Thorin era brutale, netto rigido, Ghìda invece lasciata libera di muoversi senza un peso ingombrate di una arma non sua era veloce e leggiadra. Quando Thorin alzava la lama ripiombava giurì con una tale forza da tagliare l’aria intorno a lui con un suono netto, nel frattempo che Ghìda non provava neanche a pararli, preferendoli schivare di lato. Più di una volta si misero in difficoltà, ma trovarono sempre il modo di venirne fuori e rispondere agli attacchi dell'avversario: con maestria, senza risparmiare le forze, schivando, parando, affondando e attaccando, mettendo in pratica ogni tecnica che conoscevano, ogni trucco imparato.
 
Con forza Thorin si portò verso il basso putando alla gamba ma con suo stupore Ghìda fu in grado di bloccargli il colpo allungando la lama verso la propria coscia chinandosi: la osservò dal basso verso l’alto mentre ansimante tentava di ribaltare a suo vantaggio la situazione, alzando la spada snella ma resistente tenuta ferma con tale forza che si sentì costretto ad aumentare anche la propria.
«E’ un ottima lama.» Mormorò ansimante facendo ancora piu’ forza.
 
«Me l’ha forgiata un buon fabbro.» Rispose ansimante di rimando facendo strusciare la sua spada via dalla sua.
 
Gli scappò un piccolo ghigno guardandola ansimare mentre pronunciava quelle parole indietreggiando di poco. «Deve averci lavorato a lungo.» Rispose cercando di colpirla un’ altra volta verso il petto ma prima che riuscisse a sfiorarla  si abbassò chinandosi per evitare il colpo.
 
«Non sapete neanche quanto mio re.» Gli rispose gemendo per la fatica che il movimento le aveva provocato, ma prima che se ne potesse accorgere o anche rendere conto la vide scivolare sula pavimento portandosi alle sue spalle; in quello che fu un attimo sentì il seno premuto contro la sua schiena e le labbra vicine al suo orecchio mentre la lama gli arrivò alla gola di piatto costringendolo ad alzare il mento verso l’alto.
 
«Non avete neanche idea.» Gli sussurrò spezzata dal fiatone vicino all’orecchio con una voce talmente suadente che dovette deglutire per rimanere lucido, ma quella punta di superbia nel suo tono, gli toccò un nervo scoperto intaccandone l’orgoglio, facendo nascere un desiderio di possessione, di dominazione verso di lei che non riuscì a controllare.
 
«Oh ne ho una vaga idea, zabd-ê.» Mormorò togliendo una mano dall’impugnatura di Orcrist e allungandola dietro di se afferrandole il fianco con irruenza.
 
Con forza le strinse possessivamente la vita e puntò un piede dietro di se: aumentò la stretta facendole perdere l’equilibrio e facendo perno si girò tra le braccia delicate che lo circondavano, liberandosi dalla presa e ribaltando la situazione guardandola dritta in volto. Ansimante, le portò Orcrist all’altezza del fianco trattenendola con la mano libera a mezz’aria all’indietro in maniera tale che non potesse tirarsi in vanti o indietro e allo stesso tempo non potesse caderle dalle braccia.
 
«Lasci ancora il fianco sinistro scoperto.» Mormorò avvicinandosi sempre di piu’ al suo viso tanto che lei tentava di tirarsi ancora di piu’ su con dei colpi dei reni cercando di liberarsi non accettando la sconfitta: ecco la sua guerriera.
 
La mano di Ghìda si ritrovò bloccata dietro la nuca di Thorin, ma era fin troppo tirata indietro per poterla muovere, e il suo equilibrio era fin troppo instabile per potersi muovere liberamente dalle sue braccia: era in trappola; guardò Thorin dritto in volto con gli occhi sgranati colpita da quella mossa che mai si sarebbe aspettata e che mai avrebbe preso in considerazione. Il petto le  sfiorava il suo alzandosi e abbassandosi per il fiatone e per l’adrenalina che si abbassava a poco a poco. Nessuno dei due osò muoversi, anche se ormai il duello era finito facendo rimanere  le lame al loro posto.
 
Si sentì avvampare dall’interno non riuscendo a staccare gli occhi dai suoi,  cercando di sopprimere quella voglia immensa di alzare solo di poco il viso verso l’alto, già talmente vicino che non posare le labbra sulle sue fu una prova terribile per il suo autocontrollo. Non riuscendo ad alzarsi di piu’ si lasciò andare ancora di piu’ alla presa sul fianco di Thorin che sentì ben presto trasformati in un piccolo rialzo dietro la schiena; non potendo fare altro che non fosse guardarlo andò a sfogare quello che non poteva dirgli a parole con un gesto che apparteneva solo a lui, che avrebbe donato solo a lui: alzò la mano libera a mezz’aria verso l’alto poggiandola delicatamente in mezzo al petto oltrepassando la cotta di pelle poggiandosi a sfiorargli la camicia in un silenzio giuramento che entrambi sapevano cosa volesse dire.
 
«Lo so.» Lo sentì sussurrare di rimando nel frattempo che il pollice dietro la sua schiena le disegnò un piccolo cerchio accarezzandola.
 
Due mesi e mezzo, solo due mesi e mezzo.
 
Nel frattempo sei piccoli nani li stavano osservando con gli occhi sgranati, increduli rispetto ciò che avevano appena visto, uno accanto all’altra con gli occhi scintillanti e le bocche aperte, non essendo capaci di poter staccare gli occhi dai due combattenti, neanche in quel momento che stavano fermi uno tra le braccia dell’altro: non avevano mai visto niente del genere; nemmeno Nìm nelle lezioni mattutine, che rimase senza fiato così come la piccola Mar vicino a se che le teneva la mano, mentre l’altra era ben artigliata alla camicia di Lòni accanto a se. Non aveva mai visto Ghìda in così tante volte che le aveva insegnato a maneggiare  non aveva mai visto come fosse in grado di muoversi, e come si fosse mossa in quella maniera contro il re.
 
«Non diventeremo mai delle guardie reali non è vero?» Riuscì a dire infine Lòni dando fiato a un pensiero comune dei piccoli nani facendo voltare il viso di Ghìda rubandole un sorriso.
 
 
 
 
 
 
 
 
«Oh non essere sciocco Dwalin, queste insinuazioni sono assurde e tieni qui visto che stai con le mani in mano e stai attento a non farli cadere!»
 
Lo rimproverò lanciandogli un’occhiata rapida Dìs dall’alto della scala di legno scorrevole agganciata al bordo superiore della libreria di legno, allungandogli un tomo vecchio e logoro con una mano incitandolo con un movimento del polso ad afferrarlo.
 
Lasciando fuoriuscire un sospiro esausto slegò le braccia dal petto e si allungò con un braccio afferrandolo e lasciando la nana tornare al suo lavoro minuzioso; Dìs si voltò un'altra volta verso la libreria passando in rassegna il ripiano sopra di lei e, tenendo tre tomi attaccati sul petto formoso, con una mano ne cominciò a sfilare un quarto impuntandosi con un piede oltre il limite della scala allungandosi con tutto il corpo per raggiungere il suo obiettivo come meglio poteva.
 
«Non sono mie supposizioni io so che è accaduto e accadrà di nuovo, sicuro come la luce del giorno.» Ribatté un’ennesima volta poggiando sul tavolo dietro di se su cui era poggiato, il registro che gli aveva appena passato congiungendo poi di nuovo le braccia al petto ancora sporche di polvere e pece dal lavoro spossante che lo aveva messo a dura prova quel pomeriggio nelle fucine.
 
Dopo che Thorin era tornato avevano cominciato lavorare come delle bestie da soma, era abbastanza sicuro di non aver mosso così tante pietre e massi come quel giorno; aveva dovuto sopportare la voce di Bofur che urlava da una parte all’altra delle indicazioni scritte sui progetti logori, camminandogli accanto con quella matassa di fogli urlandogli nell’orecchio ogni cosa che dovesse fare. Aveva dovuto piu’ volte desistere dal dargli un pugno in pieno viso e forse l’unica cosa che lo aveva fermato, anche quando si erano dovuti immergere lui e Thorin in mezzo ai bulloni e agli ingranaggi oliati delle carrucole sotto suo suggerimento, era il fatto che piu’ sarebbe andato veloce piu’ si sarebbe potuto togliere da quell’impiccio in cui l’aveva buttato la sua curiosità.
 
Dopo un intero pomeriggio passato lì sotto ne era finalmente uscito quasi all’ora di cena, con tutti i muscoli del corpo doloranti e diverse nuove bruciatore che sapeva lo avrebbero fatto dannare come una bestia nelle ore successive. Appena aveva messo piede fuori dalla soia delle forge già si era già cominciato a pregustar l’idea di ciò che lo aspettava arrivato nei suoi appartamenti, un boccale di birra, qualcosa di cucinato portato dalle cucine del palazzo e un bagno gelato, ma si era dovuto ricredere appena dopo che aveva salito una decina di rampe di scale mettendo piede nelle alee del palazzo.
Gli unici frammenti che gli tornavano in testa in quel momento erano quelli in cui Dìs gli era corsa incontro appena lo aveva visto spuntare da dietro un corridoio chiuso, e quelli in cui, senza neanche chiedergli qualsiasi cosa a parole, lo aveva solo preso di peso agguantandogli un avambraccio e trascinandolo tra la muffa, libri e pergamene. Il tutto era successo con una tale velocità che ancora faceva una fatica immane a ricordarsi come e arrivato fin lì, con il di dietro poggiato su un tavolo di pietra vecchio nella libreria del palazzo e con gli occhi sempre attenti alla nana che continuava ad arrampicarsi e a raccogliere volumi ricolmi di appunti e liste e inventari degli ultimi centosettanta anni neanche fossero mele su un albero.
Come in quel momento che seppur in punta di piedi con la schiena tirata, il braccio teso come una corda d’arco e con libri su libri tra le braccia che orgogliosa non gli avrebbe mai dato, riuscì finalmente con un piccolo saltello a sfilare del tutto il tomo e a posarlo in cima a quelli tra le sue braccia.
 
«Allora vuol dire che in realtà durante il giorno c’è il buio Dwalin figlio di Fundin, Thorin non oserebbe mai fare una cosa del genere, non in queste circostanze.» Affermò piu’ sicura che mai lanciandogli un’occhiata risoluta e alzando un sopracciglio totalmente sicura delle proprie parole e al contempo totalmente scettica delle sue.
 
Guardandosi di tanto in tanto indietro Dìs cominciò a scendere le scalette di legno tenendosi solo con una mano alla ringhiera e trattenendo invece con l’altra la montagna di documenti sempre piu’ instabile fissi sopra il seno: la seguì con attenzione a ogni piccolo passo incerto che compiva all’indietro, sciogliendo poco le braccia al petto ogni volta che compiva un passo tremante, mentre una preoccupazione incontrollabile gli lambiva le membra. Sobbalzò scaricando tutta la tensione accumulata a due gradini verso la fine quando le vide un piede scivolarle all’indietro, ma come se lo fosse immaginato Dìs continuò a scendere non curante aggrappandosi solo con piu’ forza al lato della scala mettendo infine i piedi a terra.
 
Strinse la mascella infastidito dalla paura insensata che aveva provato poco prima e ancora piu’ infastidito dalla sua testardaggine al dover sempre fare tutto da sola. «Non riesco a capire perché tu stia facendo tutto questo a quest’ora e perché lo stia svolgendo tu.» Le ricordò non riuscendo a non usare un tono severo, che con la sua piu’ totale certezza lei non avrebbe ascoltato,  infatti gli rispose solo con un movimento fugace con la mano  per zittirlo prima di avvicinarsi verso il tavolo dove era poggiato con la parte basse della schiena posando accanto a lui i libri che aveva tra le braccia. 
 
«Perché all’ora di cena non c’è nessuno qui e perché finché non salirà al trono la regina reggente è compito della madre o della sorella del re occuparsi delle spese piu’ frivole che vengono compiute in questo regno e della loro organizzazione se serve.» Gli ricordò cominciando ad accatastare uno a uno i registri che aveva appena preso su quelli che già aveva tirato giù dagli scaffali. « Come ti ho già detto non capisco come abbiate fatto senza di me tutti questi mesi.»
 
«Ti continuo a ripetere Dìs che la mezz’elfa è già piu’ regina di quanto tu creda.» Ribatté un’ennesima volta lanciandola uno sguardo di sbieco oltre la spalla.
 
Arricciando le sopracciglia nere sospirò esasperata scuotendo la testa continuando a controllare i libri uno a uno osservandone il dorso prima di impilarli sulla piccola torre già formata. «E io ti continuo a ripetere che è impossibile, Thorin non lo farebbe mai no… » Ribatté con decisione u’ altra volta, ma infine sentì anche il suo tono vacillare parola dopo parola. Alzò un sopracciglio quando si fermò per un piccolo attimo bloccando anche le sue mani dal porre l’ennesimo libro sulla pila che stava preparando; gli occhi azzurri che si fissarono nel vuoto sotto di lei, pensierosi e velati dall’insicurezza: forse gli stava dando ragione o lo stava ascoltando per lo meno.
 
Invece scosse la testa distogliendo lo sguardo dai libri sotto di lei e con decisone mise sulla pila il libro fermo a mezz’aria scuotendo la testa ancora piu’ decisa di prima. « No, no è assurdo, non in una situazione come questa, no è impossibile non credo a una sola parola.» Ribatté ancora sicura iniziando a contare uno ad uno ogni tomo e le poche pergamene celate tra questo puntando il dito ad una a una rendendo ben palese come il discorso da parte sua fosse chiuso.
 
Dwalin dovette tenere la bocca chiusa: la sua stramaledetta lingua stava per ribattere un’altra volta, ripetendo di nuovo il concetto che ormai gli stava ripendo da un’ora buona. Non riusciva a ricordarsi neanche come era stato aperto il discorso, forse parlando di come erano andate le reciproche mattinate, o discutendo di quello che era successo la notte precedente, di cosa tutta la Montagna aveva lasciato che accadesse, di cosa anche lui aveva lasciato che accadesse, di cosa Thorin aveva lasciato che accadesse e di conseguenza di cosa era per forza di cose accaduto quella notte, di cosa anche suo fratello sapesse fosse accaduto dopo quella notte. Ma Dìs anche solo all’idea aveva chiuso ogni tipo di opzione possibile, per lei non era accaduto e non poteva accadere non con Ghìda e non in quel modo e se non lui ne avesse avuto la certezza con molta probabilità non avrebbe neanche osato pensare tanto.
 
La principessa infatti non riusciva neanche ad osare a pensare che una cosa del genere potesse essere accaduta, neanche complice la birra, il tabacco, il loro desiderio; quello che continuava a ripeterle Dwalin era inconcepibile, era al di fuori di ogni ragione e da qualsiasi cosa era sempre stato Thorin: onore, devozione, rispetto, erano solo tre delle parole che la portavano a pensare a suo fratello, e giacere con lei, con Ghìda, prima del matrimonio era un cosa che Thorin non avrebbe mai fatto. L’amore che provava per lei poteva averlo cambiato, lo sapeva, lo aveva visto e aveva visto come l’aveva guardata tutta la sera prima, ma sapeva quando fermarsi, lo aveva sempre saputo. Giacere con lei prima di sposarla era fuori questione, non solo perché non era ancora regina, ma perché le conseguenze sarebbero state irreversibili, se si fosse venuto a sapere, se fossero stati dei semplici amanti a nessuno sarebbe importato, se fosse accaduto con una nana qualsiasi tra i Monti Azzurri, nessuno avrebbe fatto obiezione, ma se si fosse venuto a sapere, se Telkar lo fosse venuto a sapere sarebbe stata la fine. Avrebbe avuto tutto il diritto di strappargliela via, di rivendicare un’onta sull’onore della figlia e nessun capo clan avrebbe appoggiato la scelta di Thorin, nessuno: l’amava troppo per correre questo rischio ed era troppo razionale per correre questo rischio.
 
Ma lei di razionalità non poteva davvero parlare dopo quello che aveva fatto, dopo quella sensazione che anche in quel momento stava provando standogli così vicino: lei doveva essere l’ultima a poter parlare di razionalità e dei sentimenti legati a questa. Strinse leggermente la mascella per forzare quei momenti, quella sua spinta la notte precedente dalla sua testa, la folle scelta che aveva compiuto poggiando le mani su quel maledetto materasso, approfittando che Dwalin non la potesse vedere, approfittando nella sua debolezza di sperare di poter sentire ancora quello che aveva sentito, ma quello che aveva provato la notte precedente non poteva essere reale, dopo quegli anni non era piu’ possibile e non sarebbe accaduto ancora.
Sentì lo sguardo di Dwalin ancora su di lei e il ricacciare indietro quei pensieri le divenne ancora piu’ difficile di prima se non quasi impossibile e, così come non sentire sulla pelle il fermaglio runico attaccato al collo che cominciava abbruciarle in mezzo al seno:  fece quindi l’unica che era in grado di fare in quei momenti, per proteggersi, per dimenticare, per non lasciare che la consumassero.
 
Far finta che non esistessero, che il dolore intorno a lei non esistesse piu’.
 
Sistemò con un paio di botte date con i palmi rigidi il piccolo mucchio ordinato e impilato di libri e con cautela li fece scivolare sul tavolo fino al bordo per poi prenderli da sotto e portarseli sul petto in modo tale che non sarebbero potuti cadere per la strada verso le proprie stanze.
 
Alzò un sopracciglio verso il guerriero che la stava guardando di sottecchi dandosi una spinta per poggiare meglio sullo sterno i vecchi tomi facendogli ben intendere che ce l’avrebbe benissimo fatta da sola: come sempre, ce l’avrebbe fatta da sola.
 
«Avanti accompagnami Dwalin figlio di Fundin che mi annoio a camminare da sola.» Gli disse sbrigativa e tagliando corto i suoi pensieri, comportandosi come se nulla le fosse passato per la testa, come se quei ricordi non le appartenesse neppure e quel bacio a fior di labbra fosse solo frutto di un suo delirio.
 
A Dwalin scappò una risata sommessa osservandola mentre senza neanche aspettare una sua risposta aveva già attraversato il tavolo facendo tutto il giro di esso e aveva cominciato a passo spedito sul marmo verde camminando diretta verso l’arcata di entrata della biblioteca.
 
«Con tutta questa cortesia come posso rifiutare principessa.» Commentò ironico dandosi una botta con la schiena per tirarsi su dal bordo del tavolo osservandole la treccia nera e grigia chiara muoversi sulla schiena da una parte all’altra mentre dei passi verso la porta e oltrepassarla.
 
«Ieri notte non sei stato di molto piu’ garbo quando ti ho riaccompagnato a dormire nel tuo letto e neanche quando ti ci ho lasciato.» Commentò piccata attraversando l’uscio della porta attraversandolo e scomparendo dalla sua vista, ma forse era meglio così, in quel modo non avrebbe visto la sua faccia che con molta probabilità in quel momento era pallida come la neve.
 
Spalancò gli occhi incredulo per un secondo così come la bocca di fronte a quella informazione, ricollegando i vari pezzi che confusi aveva nella testa: aveva immaginato che qualcuno lo avesse riaccompagnato anzi ne era sicuro, ma mai si sarebbe immaginato che potesse essere stata lei, neanche se glielo avesse detto il suo stesso letto che era stata lei a adagiarlo tra le coperte. Ma sapendo quell’ultima informazione, se il suo letto avesse potuto parlare certamente la domanda che gli avrebbe posto sarebbe stata un'altra: se quelle labbra posate al lato delle sue erano state reali o frutto di un suo desiderio recondito, ma lui la risposta la sapeva già l’aveva sempre saputa e per Durin non se la voleva porre un'altra volta quella domanda.
 
Riprese il controllo di se stesso sbattendo le palpebre piu’ volte e bloccando l’aria fredda che gli oltrepassava le labbra chiudendo la bocca fissò l’uscio vuoto che Dìs aveva attraversato senza voltarsi indietro, cosa che non avrebbe mai fatto neanch sotto tortura, aspettare qualcuno o fermarsi per qualcuno. Con uno scatto che cercò di far passare inosservato si mosse vero la porta a sua volta e raggiunse a grandi falcate l’arcata di entrata oltrepassandola riuscendo a vedere solo da lontano la figura di Dìs che già aveva preso le scale sulla sinistra per salire verso le proprie stanze. Già pronta a vederla più’ simile a un pallino tra le scale verdi. E invece lo stava aspettando all’inizio di esse.
 
Ancora piu’ sconvolto, fu difficile mantenere un tono neutro, dovette stringersi gli avambracci l’uno sull’alto e rallentare il respiro prima di cominciare a camminare verso di lei che appena lo vide muoversi cominciò a salire gli scalini uno alla volta.
 
«Ho capito di non esserci arrivato dai vestiti piegati sulle sedia.,» Disse neutro come se la rivelazione di poco prima non avesse avuto importanza aumentando di poco il passo affiancandosi di nuovo a lei, seguendola tra i corridoi a malapena illuminati dalle torce notturne.
 
«Quelli te li sei strappati di dosso appena sei entrato dalla porta, sembravi quasi di nuovo sobrio, te li sei tolti e li hai lanciati sul pavimento. Sei incorreggibile, quella stanza è immersa nel subbuglio ogni mattina.» La vide alzare il lato della bocca girando a destra verso il primo tratto di scale che li avrebbe condotti verso le stanze reali inferiori che in ogni caso avrebbe dovuto percorrere anche lui per arrivare gli appartamenti del consiglio.
 
«Per fortuna che ho qualcuno che mi aiuta a ripulirla ogni mattina.» Rispose ironico guardandola di sottecchi e alzando un sopracciglio ironico vedendola alzare gli occhi al cielo irritata ma sapeva anche che non avrebbe resistito alla piccola provocazione.
 
Dìs infatti si lasciò scappare una risata sommessa e gli diede una piccola spallata dondolando con i piedi stando sempre attenta a tenere tutti i libri fermi sul suo petto trattenendoli con entrambe le braccia. «Un giorno potrebbe anche stufarsi di mettere mano tra le tue cose e ti ritroveresti sommerso di panni sporchi e il tuo catino ricolmo di acqua e piatti luridi.»
 
«Piu’ che il disordine nella mia stanza mi irriterebbe il non sentire piu’ una parlantina continua dalle prime luci dell’alba fino a mattina quasi inoltrata.» Ammise, celando quanto in realtà fossero veritiere le sue parole grugnendo verso la fine.
 
«Tu a me parli di parlantina?» Gli chiese scioccata aumentando di poco il tono della voce e alzando un sopracciglio dandosi uno scossone alle spalle tirandosi ancora più sui libri tra le braccia. «Dimmi Dwalin figlio di Fundin, da quando in qua sei diventato piu’ linguacciuto di una dama di corte dei Colli Ferrosi?» Appuntò ironica rendendo ben chiaro il soggetto della frase e a cosa si riferisse.
 
Alzò le spalle incurante cerando di mascherare le sue vere ragioni sentendosi quasi ferito nell’orgoglio nel sentirsi definito una dama di corte, come se le sue domande su Thorin fossero dettate solo dal pettegolezzo di cui ormai erano sature anche le guardie delle ronde, quando forse era l’unico in quella montagna che sapeva che dietro quel pettegolezzo c’era ben altro.
 
Lui era preoccupato, rinchiuso in una costante preoccupazione da mesi, già piu’ di quanto non lo fosse da anni: lo aveva visto arrivare e toccare nel il punto piu’ basso che avrebbe mai potuto toccare un nano, il punto piu’ basso che avrebbe potuto toccare Thorin e aveva visto mentre lo celava a chiunque chiudendosi nelle sue stanze e rimanendoci neanche dormendo, solo a fissare il vuoto o le carte sulle tavole, mettendosi da parte come aveva sempre fatto, mettendo il suo regno prima di se.
 
Era troppo desiderare che ci fosse qualcuno che potesse mettere lui al primo posto, visto che non era in grado di farlo da solo? E che ora volesse solo che questa rimanesse?
 
Serrò la mascella dandole una mezza verità, sperando da una parte che le bastasse. «Da quando tuo fratello da mesi non mi ha dato altra scelta che diventare la sua di dama di corte.»
 
«Non ti è mai interessata la vita di Thorin, non sotto quel punto di vista. » Ribatté Dìs accanto a se ancora una volta: dal suo tono di voce scettico riuscì facilmente a capire che non fosse per niente soddisfatta dalla risposta e neanche lui ne era uscito soddisfatto.
 
Era vero, non gli era mai interessata, non che Thorin gli avesse mai dato la possibilità di interessarsi a quella parte della sua vita, che dopo Erebor era stata cancellata del tutto e che in realtà anche quando erano ragazzi era stata quasi del tutto inesistente. I suoi rapporti con le nane si erano fermati a un paio di evasioni tra le colonne di Erebor, a fine banchetti, un qualcosa di puramente istintivo alla quale anche lui stesso si era lasciato andare, piu’ di Thorin e anche molto piu’ recentemente, ma non c’era mai stato niente di piu’. Non c’erano sentimenti, non c’era una ricerca dello sguardo dell’altro, era solo un corpo contro un altro corpo che dopo alcuni minuti si lasciava andare e si continuava la propria vita come se non fosse mai accaduto nulla.
 
E la verità era che ora invece gli interessava, perché anche se mesi addietro aveva creduto che quello che provasse per la mezz’elfa fosse solo puro desiderio aumentato dagli anni senza un corpo caldo accanto al proprio o che fosse una brama alimentata solo dal fatto che sarebbe stata sua moglie; infine però aveva capito che era ben altro, e quel ben altro avrebbe salvato suo fratello, il suo capitano, il suo re. Quindi sì, gli interessava, perché lui avrebbe avuto la possibilità di vincere dove lui aveva fallito, aveva avuto la possibilità di vedere il volto dell’amata sotto di se o sentire il suo corpo contro il proprio, non immaginarselo mentre stringeva il vuoto il corpo di un’estranea.
 
Abbassò lo sguardo colpevole e sentendo una rabbia cieca montargli nel petto, non riuscendo  neanche a riuscire ad osservare il profilo di Dìs con la coda nell’occhio, tenne il viso verso il basso osservando i gradini che continuavano a salire. «Le cose cambiano avevo capito che tu fossi la prima pensarlo» Mormorò tra se e se non riuscendo a guardarla e stringendosi le maniche arrotolate sugli avambracci ancora rigidi sul proprio petto sentendosi sempre piu’ nervoso: stava detestando la direzione che stava prendono quella discussione, stava scavando troppo affondo.
 
Ancora una volta il suo istinto non aveva fallito: se c’era qualcosa che sapeva fare Dìs, che era anche il suo piu’ grande difetto era l’inventare storie dove storie non c’erano, infinite trame per spiegare il piu’ semplice degli enigmi e dal ghigno storto che gli regalò capì subito che quello che gli stava per dire era certamente era una di queste e nel nome di Durin quello fu l’inizio della fine
Dìs gli si avvicinò di poco affiancandosi a lui tanto da sentire il tessuto del vestito scuro sfiorargli la pelle nuda dei gomiti e degli avambracci, tanto da poter serie il suo calore entrargli nella pelle: guardò di sbieco sotto di lui mentre continuavano a camminare sovrastandola in altezza, e un ghigno le comparve sulla bocca, gli occhi azzurri che schizzarono dalle sue braccia sempre piu’ rigide al suo viso studiandogli ogni singolo tratto del suo viso mentre quell’espressione sulla bocca diventava sempre piu’ grande.
 
«E’ successo qualcosa che non so? Una nana ha fatto breccia sotto la spessa armatura di Dwalin, figlio di Fundin e non ne sono stata messa a conoscenza?» Gli chiese e tutto di un colpò sgranò gli occhi  e sentì una morsa stringerli le viscere tirandole e legandole su loro stesse, mentre il cuore gli saltò un battito colto totalmente alla sprovvista da quella domanda.
 
Il sorriso sornione di Dìs andò sempre di piu’ ad allargarsi quando lo vide irrigidirsi e gli diede un'altra botta con la sua spalla sulla propria divertita e ormai sicura delle sue parole per incoraggiarlo, ma quello che fece fu solo aprirgli una voragine nel petto. Troppe emozioni celate tornarono a galla emozioni che non voleva piu’ sentire, una rabbia sorda che aveva rilegato da tempo.
Strinse il pungo nascosto tra le sue braccia serrando la mascella distogliendo lo sguardo il piu’ lontano che poté dagli occhi azzurri sforzandosi a parlare nel frattempo che i passi sui gradini diventarono sempre piu’ pesanti quando le gambe gli diventarono due macigni impossibili da muovere arrivando all’ultima rampa di scale prima delle stazze reali
 
 «No, non voglio solo che butti la sua vita in pasto ai cani.» Rispose quasi ruggendo, non riuscendo a controllarsi, sputando quelle parole per terra con tanta furia che faticò a riconoscersi, in un moto di rabbia che non avrebbe mai voluto mostrarle, una frustrazione che non le aveva mai mostrato.
 
Percepì un flebile sussulto di fianco a sé, il tessuto del vestito che sfiorò la sua manica con un movimento veloce prima che il flebile calore del suo corpo si allontanasse inevitabilmente da lui; non riuscì neanche a guardare in volto, perché era sicuro che se lo avesse fatto le avrebbe sputato addosso un dolore che lei non si meritava, un dolore che non le apparteneva e del quale lei non era l’artefice.
 
La sentì sospirare arresa e poté giurare che mormorò qualcosa tra le labbra di cui riuscì solo a distinguere il suo nome, ma tanto gli bastò per mandarlo ancora piu’ in difensiva facendogli serrare la mascella , tentando di controllare ogni sua reazione.  
«Le tue parole suonano piu’ come un rubino abbandonato in mezzo a un prato verde.» Mormorò solamente schietta.
 
«Un illusione?»
 
«Una menzogna.» Ribatté secca, acuto e superba tanto da toccargli la ferita aperta facendola sanguinare e far uscire tutto il veleno che racchiudeva.
 
Sentì dei fremiti attraversargli tutto il corpo fino a scaricarsi sulla mascella e farla tremare: i piedi gli si bloccarono sugli scalini, fermando a metà un movimento della gamba poggiandola saldamente sullo scalino dietro di se, bloccandosi del tutto per riprendere il controllo di se stesso, e far sue le parole che aveva appena sentito, prima che potesse davvero compiere qualcosa di cui si sarebbe pentito o prima che le rivelasse la verità, prima di dirle tutta la verità. Ma ogni tremolio che dal collo gli stava partendo fino ad arrivare dietro la sua schiena gli stava dando la spinta sempre piu’ definita a parlare a dare sfogo a quella domanda, al non mentirle piu’, perché quella menzogna in quel momento gli si stava rivoltando contro in tutte le maniere che si era premurato di non far mai accadere
 
Si, sei sei tu.
 
Le parole gli si formarono in testa ancora e ancora, ripetuta all’infinito. In diverse maniere ripetute in diverse sfumature, ma il significato rimaneva sempre lo stesso: sì e quella nana sei tu sei sempre stata tu ogni singolo maledetto giorno negli ultimi centosettant’anni.
 
Alzò lo sguardo dal vuoto in cui era immerso sul pavimento verso Dìs al di sopra delle scale, ormai arrivata allo spiazzo con la porta dorata dietro di lei che segnava a fine inevitabile di quel loro vagabondaggio notturno tra i corridoi, ma che segnava anche la fine del tempo che aveva per dirle la verità prima che ne perdesse il coraggio o l’occasione.
Si ritrovò ad osservarla, dal basso verso l’alto, per Durin, era bella piu’ di quanto lo fosse mai stata quando erano ragazzi, era una bellezza cosi terribilmente triste e diversa da come era sempre stata. Ancora si sentiva un ragazzino che la spiava durante le ronde e ancora sentiva tutto come la prima volta che aveva capito di amarla e che aveva accettato di amarla.
 
Era stanco terribilmente stanco di tenersi tutto dentro, non era in grado di accettare più tutto questo: gli bastava che lei fosse felice? Che fosse in grado di guardare avanti e invece che indietro, o almeno tentasse?  Sì, gli era bastato per tutta una vita, che lei avesse un sorriso stampato sul volto con lui o senza di lui, ma ora che era solo un’ombra di se stessa non gli bastava piu’ voleva che sorridesse per lui, nel suo egoismo voleva renderla felice, ma in quella felicità per una volta voleva esserci lui. Nel suo egoismo voleva che gli desse la possibilità di farla sorridere ancora, anche se per poco tempo, anche se solo frutto di un amore che lei non avrebbe mai potuto ricambiare: lui non poteva essere Vili, non poteva ridarle Kili o Fili, non poteva darle ciò che lei desiderava ma voleva tentare dargliene anche una millesima parte se avesse potuto.
 
Serrò la mascella osservandole gli occhi azzurri ancora in attesa e febbrili e la bocca agì per conto proprio senza aspettare una reazione dal suo cervello o peggio dal suo cuore che crollò su se stesso come le braccia legate al petto che si slegarono l’una dall’latra cadendo come due massi al lato dei suoi fianchi.
 
«Dìs c’è una cosa che… io…» Cominciò a dire ma come se il destino gli stesse dando un segno si interruppe bruscamente osservando dietro le spalle della nana e la figura che comparve sulla rampa di scale sopra le loro teste celata dall’ombra, interrompendogli le parole che gli stavano per uscire dalla bocca vennero spazzate via, risvegliandolo dal flebile sogno che si era creato.
 
Incrociò di nuovo le braccia al petto e indicò con il mento la figura vestita solo con una veste da notte  chiara e un mantello scuro che furtiva saliva le scale delle stanze reali per l’ala del re durante il cambio della guardia, sicura che nessuno l’avrebbe vista, sicura di essere coperta dall’oscurità della notte e dal silenzio di essa illuminata flebilmente dalla luce dei bracieri caldi.

« Quella però non lo è… una menzogna.» Affermò di nuovo con sicurezza, celando ancora una volta tutta la verità e tutta la sua sicurezza e facendo voltare il volto della nana verso l’alto riuscendo a farle distogliere gli occhi da lui prima che fosse troppo tardi.

Vide Dìs sgranare gli occhi osservando verso l’alto, sull’incrocio speculare delle scale dove si trovavano loro sussultando quando la mezz’elfa oltrepassò la porta dorata per le stanze del re guardandosi intorno mostrando chiaramente un segno violaceo sul collo prima di scomparire dietro l’uscio e chiudersi la porta alle spalle, rendendo anche palese a chiunque, anche a un nano cieco, cosa sarebbe successo e dove lei stesse andando.

«No, no quella non lo è.» Riuscì a sussurrare Dìs lasciandolo per un attimo espirare e ringraziare Durin per non averlo fatto parlare e pregandolo di non farlo mai parlare.
 
 
 
 










Angolo Autrice
 
Vi ringrazio e ringrazio ancora per la pazienza che state portando, e soprattutto per perdonarmi sempre questi miei immensi ritardi. Come già vi avevo detto ho perso tutti i file della ff, compreso questo capitolo che ho dovuto riscrivere daccapo, sappiate che non ne sono pienamente convinta perché l’ho dovuto appunto scrivere di nuovo ma spero solo di avervi dato dei piccoli momenti di gioia, anche se piccoli, è stato molto di passaggio mami è servito piu’ che altro per sistemare delle questioni tra Thorin e Ghìda, anche per vedere che rapporto avranno in seguito ora che si trovati nell’ammmmmmore e quali sono le reazioni degli altri a ciò insomma. <3 <3 <3 E poi oh! Big scoop Dìs Dwalin che mi ha strappato il cuore dal petto devo essere sincera. Oltretutto anche se non me lo merito ditemi cosa ne pensate di questo capitolo, perché sto passando un blocco dello scrittore terribile e lo so al capitolo precedente mi avete riempito di complimenti ma comincio a risentirne quando scrivo, delle volte fisso lo schermo e non riesco a fare nulla hahahahahha
Alllllora, so che non c’è molto ma qualche domanda ve la faccio. Cosa ne pensate delle dinamiche tra Thlrin e Ghìda, vi piacciono anche se non smielose? Scusate per Dwalin e Dìs ma va giostrata bene la cosa. Mamma mia calcolate che devo troppo scrivere una scena tra Mar e Thorin perché che lei è tipo spaventatissima mi spezza il cuore hahahahah Papà Thorin è quotato ormai da tutta Erebor praticamente. Poi in realtà c’è un piccolo incipit per qualcosa che succederà in seguito in questo capitolo, mh mh e si non c’è la part spoiler che vi avevo messo nel capitolo prima perché c’è stato un cambio di programma. E ragazze vi prego ditemi se questo capitolo è sottotono perché ho la sensazione che la mia scritta sia peggiorata una marea questo ultimo periodo. Non è per farmi leccare il sedere , la mia è una domanda seria perché sto scrivendo un botto di roba in inglese hahahahah
E ora i ringraziamenti dappriama per le recensioni ovvero: Perla 16, Alcalime91 e Giada Hp, grazie grazi grazie per le belle parole e il supportone, e poi NekoBlonde che anche se in ritardo c’è sempre anche lei  <3 <3 In piu’ un grazie a tutti voi miei seguaci in questa avventura Star_of_vespers ,Thorin78 , valepassion95, Aralinn , marisole, Ribes Roger e Fib23!
 
 
 
 



 
Spoiler.

Arrivi inaspettati…di un re inaspettato.
 

 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** AVVISO ***


Avviso


Buonasera a tutti, signori e signore sono viva, non vi preoccupate non vi sto abbandonando, ma vi dovevo avvertire per essere il piu’ trasparente possibile i motivi dei miei ritardi.
In questo momento sto avendo un po' di problemi nella realizzazione della mia tesi di laurea (che sarà sullo Hobbit tanto per cambiare ahhahaha) , quindi sto mettendo apposto idee e concetti e a fine giornata ho il cervello che mi fuma, quindi non sono in vena di scrivere, ma ci sto lavorando a poco a poco. Vorrei oltretutto chiedervi un favore, o meglio porvi una domanda, anzi meglio una proposta: non ho un beta reader, o meglio non piu’, e volevo chiedervi se ci fosse qualcuno tra di voi disposto ad aiutarmi, piu’ che aiutarmi a controllare che non faccia baggianate con i capitoli prima di pubblicarli o che mi dia dei suggerimenti in via di scrittura. Se vi va eh, non vi sto obbligando. Comunque davvero sto cercando di scrivere e voglio finire il capitolo il prima possibile ma questo mese è andato un po' così e mi rendo conto che è frustrante, lo è anche per me fidatevi ahahahahhah
Un bacio e ci sentiamo al prossimo capitolo <3 che spero di pubblicare prima dello scadere del mese. <3
Vi voglio bene, grazie di seguirmi ancora anche se sono diventata fallace con la pubblicazione dei capitoli, ma continuerò giuro.

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