Tutte le ferite inferteci dal passato

di Hoshi_10000
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un mondo ridotto in cenere ***
Capitolo 2: *** Crollo delle certezze ***
Capitolo 3: *** Nobiltà d'animo ***
Capitolo 4: *** Forte come il mare ***
Capitolo 5: *** La fine ha diverse forme ***
Capitolo 6: *** L'immortale solitudine ***
Capitolo 7: *** Il peso delle responsabilità ***



Capitolo 1
*** Un mondo ridotto in cenere ***


Un mondo ridotto in cenere

Una delle sue prime consapevolezze è che il mondo è infiammabile, perché in una sola notte, tutto ciò che possedeva aveva iniziato a bruciare.
Dormiva sereno, quando l’acre odore di fumo gli aveva sfiorato le narici. Credeva fosse un sogno, perché non era possibile che una cosa del genere accadesse davvero, non a loro, che non avevano mai fatto nulla di male per meritarselo. Ne era stato davvero convinto, ma poi l’odore era diventato più forte, il crepitio delle fiamme aveva raggiunto le sue orecchie e il caldo lo aveva svegliato. Ci aveva messo qualche secondo a realizzare che non fosse solo un brutto incubo, e non era stato nemmeno capace di piangere: camera sua iniziava appena ad essere lambita dalle fiamme, ma fuori il fuoco divampava.
Forse qualcuno aveva schermato la sua camera dalle fiamme, forse non gli sarebbe successo nulla. Riusciva solo a guardare le fiamme ricoprire la sua porta, con il fuoco che si rifletteva nei suoi occhi, senza fare nulla. Non aveva paura, no, lui era terrorizzato. Sperava solo di svegliarsi, scoprire che fosse tutto un sogno, e correre in camera di sua madre per abbracciarla e piangere finché non si fosse riaddormentato. Ma non era un sogno, e lo capì quando una piccola brace si staccò dal soffitto e gli cadde sulla mano.
Urlò di dolore, tuffandosi già dal letto e implorando aiuto. La voce di suo fratello gli giunse come nulla più che un lontano eco.
Quando la porta di camera sua si aprì e comparvero Hakuyuu e Hakuren pensò per un secondo, in mezzo al terrore, che ne sarebbero usciti. I suoi fratelli erano grandi, erano forti, erano eroi: non avrebbero mai permesso che gli capitasse qualcosa di male.
Ma la realtà non era così felice, anche i suoi fratelli stavano scappando, e a lui non restava altro da fare che seguirli.
Il palazzo in cui era sempre vissuto era irriconoscibile: il fuoco aveva cambiato tutto, le porte di legno erano ridotte al semplice telaio, le colonne intagliate erano neri pilastri e dal tetto cadevano braci e travi. La polvere era ovunque, rendeva difficile respirare, mentre perfino correre semplicemente al fianco di Hakuren pareva impossibile, ma non poteva fare altrimenti, e pure continuava a non capire: chi aveva fatto una cosa simile, e perché?
Fu costretto ad arrestarsi, notando come degli uomini terrificanti li avevano circondati. Portavano delle tuniche nere lunghissime, che non risentivano in alcun modo del fuoco, e i loro volti erano coperti da delle maschere. Sembravano messaggeri della morte in tutto e per tutto.
Suo fratello lo spinse dietro di sé, estraendo la spada come anche Hakuren e dando battaglia. Sapeva che i suoi fratelli erano eroi di guerra, aveva sempre sentito i loro racconti rapito, ma in quel momento più che valorosi guerrieri gli parvero solo dei ragazzi che combattevano per la loro vita. Loro non attaccavano quegli individui, come avrebbero fatto degli eroi, a stento riuscivano a respingerli e difendere lui. Quando Hakuyuu riuscì ad abbattere il primo uomo quello mutò forma, trasformandosi in una minuscola bambola di legno, simile ad una matrioska, e subito altri si fecero avanti.
Perfino le parole dei suoi fratelli non erano quelle di degli eroi, un eroe avrebbe detto senz’altro “ce la caveremo vedrai”, magari ridendo, e invece la sola cosa che disse suo fratello abbattendo quegli ambasciatori di morte fu “non posso permettermi di morire ancora”. Non parlava del suo futuro come una cosa certa, Hakuyuu pareva dubitare di vincere, ma in quello scontro non era come quando il suo maestro lo allenava, lì non si combatteva per il piacere di farlo, con la certezza che dopo l’allenamento una cameriera ti avrebbe portato qualche biscotto e dato un bacio per l’impegno, lì si combatteva per il proprio diritto di vivere. Perfino un bambino come lui riusciva a comprenderlo, ma non poteva fare niente, non era in grado di fare niente
Lo scontro era impari, venti uomini o forse di più contro solo due ragazzi. Infine i suoi fratelli caddero, uno dopo l’altro, e l’unica cosa che seppe fare fu piangere, di dolore e paura, mentre una fiammata raggiungeva il suo viso. Se morire lì era il suo destino perché era uscito da camera sua? Perché aveva dovuto veder morire i suoi fratelli, perché non poteva semplicemente continuare a dormire?
Udì la voce di Hakuyuu, carica di dolore e sofferenza, e le lacrime si fermarono, mentre il maggiore dei suoi fratelli si avvicinò a lui e gli appoggiò le mani sulle spalle.
Il suo volto era bruciato e gli occhi iniettati di sangue, era un miracolo che fosse vivo.
-Giuramelo! Giurami che combatterai fino alla fine!-
-Hakuyuu-
-Cerca vendetta per il nostro paese! Ascolta attentamente, Hakuryuu.-
Aveva sempre visto suo fratello essere serio e pragmatico con i soldati e l’esercito, ma con lui era sempre stato dolce, e il cambiamento gli faceva paura: Hakuyuu non gli stava dicendo di andare avanti, lui voleva vendetta.
-Colui che ci ha strappato l’Impero Kou, che ha provato ad ucciderti è-
Spalancò gli occhi, guardando la nuca di suo fratello mentre gli bisbigliava il nome all’orecchio. Non era possibile, non poteva avere ragione, c’era senz’altro un errore, c’era…
-Va Hakuryuu- Hakuyuu rantolava, non riusciva più a reggersi in ginocchio, nemmeno appoggiandosi a lui. -Corri fuori di qui, non fermarti, e vendicaci.-
Cadde a terra, e quando la mano dopo un primo rimbalzo si riabbatté a terra fu come un se qualcuno lo avesse finalmente svegliato.  Diede le spalle ai suoi fratelli, correndo verso l’uscita del palazzo, mentre tutto alle sue spalle bruciava.
L’illusione di una famiglia felice e una vita serena ormai non era altro che cenere.
 







 
 
Note: Buongiorno a tutti. Dunque, Magi è un ricettacolo di personaggi che hanno un passato durissimo alle loro spalle, così ho pensato di fare una raccolta in cui parlerò di alcune di queste storie. Parto da Hakuryuu perché lo amo, e perché è uno di quelli che mi fa più tristezza, e ovviamente parlo del momento in cui tutto per lui è cambiato. Non sono molto abile a scrivere cose tristi, di solito finisco sempre per creare climi comunque troppo allegri, quindi userò questi racconti anche come una specie di palestra di scrittura, e se voleste lasciarmi una recensione, anche solo due parole, ne sarei ben felice.

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Capitolo 2
*** Crollo delle certezze ***


Crollo delle certezze


Se ci riflette non è certo che sua madre lo abbia mai abbracciato. Non che ciò sia un problema in effetti, se è per quello non è nemmeno certo di averla mai abbracciata lui. Perché avrebbe dovuto d’altronde?
Sono madre e figlio, e per il popolo questo vuol dire che lui ha l’obbligo di esserle grato in quanto gli ha dato la vita e cose del genere, ma la cosa non è così banale. Anche suo padre gli ha dato la vita se per quello, ma nemmeno lui si è mai mostrato molto affettuoso. Per come la vede i suoi genitori sono solo due persone che a seguito di un rapporto sessuale hanno messo al mondo un figlio, perché dovevano farlo, al regno prima o poi servirà un nuovo re.
È solo un ragazzino, non sa cosa sia l’amore, probabilmente non lo saprà mai, e nemmeno crede alla sua esistenza. Non ha mai provato a cercarlo, per quanto lo riguarda è solo una cosa delle favole che gli raccontava la balia quand’era piccolo, non sa nemmeno bene per che motivo, probabilmente solo per sentirsi importante, per poter dire di aver insegnato qualcosa ad un principe. Ovunque guardi, vede solo interessi o obiettivi comuni: i nobili cercano d’ingraziarsi i favori del re, le loro mogli stanno loro vicine perché giovano dei loro soldi e del loro prestigio, e i figli si azzuffano da mattina a sera per garantirsi una buona posizione. Tutti ambiscono solo al potere, perché non ne hanno o ne vogliono di più. Ma almeno i nobili hanno qualcosa, pensa, loro stanno bene, tutti i loro sforzi sono ricompensati, si dice. Poi guarda le cameriere e i valletti: loro lavorano, ma perlopiù si tengono a distanza dal re e da chi ha potere, preferendo sparlare e ridere fra loro, negli angoli bui dei corridoi. Provano quelli che alcuni chiamano “sentimenti” e si dicono felici delle loro vite, ma se (soggetto) ?decidesse di licenziare uno di loro quello appena varcate le porte del palazzo, in capo ad al massimo un paio di mesi morirebbe di fame.
Tutto perché non hanno potere.
In fondo lui è questo, non è mai stato un bambino, o un figlio, lui è un principe, solo un principe, ossia “la prossima incarnazione del potere”. Non è tenuto a preoccuparsi degli altri, o a provare affetto per suo padre o chiunque altro. Il solo compito di un re è regnare, e lui quando sarà morto suo padre sarà quello, un re.
Cresce con queste incrollabili convinzioni, perché nessuno si è mai impegnato a spiegargli nulla.
Sua madre passa tutta la propria giornata nella sua camera, non ne esce quasi mai. Quando sta male o quando riesce particolarmente bene in qualcosa, non è mai lì ad assistere, non va mai da lui, al massimo la balia o i tutori o qualche cameriera le riferisce la cosa, e lei lo convoca nelle sue stanze.
“Mi è stato riferito che sei stato bravo, hai adempiuto ai tuoi doveri, ottimo lavoro”, oppure a malattia finita “Ho sentito che sei stato poco bene, ti sei ripreso adesso?”. Ha sempre gli occhi vacui, la voce piatta: non c’è bisogno d’impegnarsi per capire che tutto ciò che dice lo fa solo perché è parte del suo ruolo. In un palazzo, come nel mondo, ne è certo, ognuno ha il suo ruolo: ci sono i contadini e i pescatori, che devono produrre cibo, che verrà preso dai mercanti, che devono vendere, ma senza esagerare, o i nobili si arrabbieranno; i servi, che devono accontentare chi è più forte di loro, perché hanno bisogno di protezione; i nobili che hanno del potere, ma non abbastanza, e che quindi devono fungere da raccordo fra il re e il popolo, e poi c’è il re, che non ha dei veri doveri in realtà, i suoi sono diritti. Ecco, il re non ha il dovere di regnare, ha il diritto di farlo.
Può esserci un solo re alla volta, perché è il ruolo più importante, per cui ci sono i principi, che sono i successori del re, e il loro ruolo è fra i più ambiti, ma è irraggiungibile: un contadino se si impegna e ha fortuna può riuscire a diventare mercante, o magari perfino nobile, ma non può essere re, perché per quello occorre essere prima principi, e avere nelle vene il sangue di un re.
Il ruolo di re gli è stato promesso da che è nato: il semplice fatto di essere arrivato per primo lo rende più meritevole di Sahbmad, che ha ben chiara la cosa, sa di essere solo un suo eventuale rimpiazzo, e infatti non ha mai agito in alcun modo per minacciarlo. Ha lo stesso atteggiamento che i nobili hanno con il re, lo vezzeggia da mattina a sera, perché così in futuro forse lui si dimostrerà clemente e lo terrà al suo fianco, magari gli darà pure una qualche carica, giusto come contentino.
E poi, di botto a 13 anni scopre che sbagliava: lui era sempre stato certo che eventualmente per scalare la scala sociale occorre porre un piede su ogni gradino, per forza, perché se si provasse a farne due in un sol passo si ruzzolerebbe alla base delle scale, al punto di partenza, o anche peggio. Ma Alibaba non ha fatto le scale, non le ha neanche viste, lui ha preso una rampa ed è passato da essere un comune ladruncolo, un pendaglio di forca, qualcuno che avrebbe dovuto marcire nelle prigioni, a essere un principe.
Ed ecco che suo padre si comporta in modo nuovo: non ha mai perso tempo a insegnargli nulla, c’erano i tutori per quello, e invece a Alibaba insegna le regole di mercato. I suoi occhi sono sempre stati freddi e indifferenti quando parlava con lui, perché lo vedeva come il prossimo re, come una minaccia, e ora invece gli piace quel piccolo randagio, e se sarà bravo intende farne un re.
Non lo abbraccia, non gli fa i complimenti, ma si comporta in modo diverso con lui. Ahbmad non riesce a comprendere: ogni tanto quando cenano tutti assieme, cosa rara, lo sbircia da sopra tutti gli alti calici, attraverso lo scintillio delle posate, e non vede delle grosse differenze. Capelli biondi contro neri, fisico magro rispetto a una sana struttura robusta. Anche Sahbmad è magro, ma non per questo loro padre gli ha mai promesso il trono.
Nella sua mente da bambino che non conosce l’affetto nemmeno il carisma o l’abilità di regnare hanno importanza, l’unica cosa che riesce a pensare e che quel ragazzino, Alibaba, presentatogli come un suo fratello, è un usurpatore.  

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Capitolo 3
*** Nobiltà d'animo ***


Nobiltà d’animo


La prima volta che suo padre decide di portarlo con sé ha sette anni, e ancora non sa molto del mondo. Ha sempre vissuto in casa con solo suo padre, sua madre, e i domestici, e ogni volta che arrivava un ospite lui veniva dispensato, mandato in camera sua.
Gli piacciono i palazzi, ogni arazzo, quadro, bassorilievo, è dove lo vede per un preciso motivo, anche se non sempre è possibile capirlo. Gli è stato insegnato ad apprezzare le cose raffinate, perché un nobile deve avere tale capacità, ma nonostante la villa in cui vive sia piena di storia e d’arte, lui continua a preferire il cortile, in cui può correre libero, o le cucine, dove la cuoca gli allunga sempre volentieri uno o due biscotti sotto banco. Da che ha memoria non è mai uscito da casa, e nemmeno sua madre lo fa mai. Una volta ha provato a chiedere a suo padre come mai lui non esca mai per andare a cena con la madre, come invece ogni tanto faceva il giardiniere, ma l’uomo si era arrabbiato, urlandogli contro e rimandandolo in camera sua.
Il viaggio in carrozza è già di per sé un esperienza, non ci è mai salito, se non in un paio d’occasioni nel giocare a nascondino per nascondersi dalla balia, ma è diverso, in quelli casi la vettura era ferma, ora si muove, e ogni sobbalzo sulla strada lastricata è motivo di sorpresa per lui.
-Stai seduto al tuo posto, staccati da quel finestrino.-
Esegue a malincuore, allontanandosi dal vetro e raddrizzando la schiena contro lo schienale del sedile ricoperto di velluto, e suo padre annuisce, burbero, ma soddisfatto del suo contegno.
Non ha mai parole di apprezzamento da parte di suo padre o gesti d’affetto, e ciò nonostante tutta la servitù non fa che parlargliene bene, così che quasi per riflesso è portato a tenere molto all’uomo.
-Siamo arrivati, signore.-
Suo padre annuisce, facendo cenno d’attendere al figlio finché la porticina della carrozza non si apre e un uomo li invita a scendere.
Il piccolo Muu guarda l’immenso palazzo di fronte a sé, e si sente piccolo. Cerca istintivamente di aggrapparsi alla tunica del padre, come fa con la balia quando ha voglia di qualcuno che gli dia la mano, ma il padre la stacca brutalmente, rivolgendosi al cocchiere per qualche dato tecnico.
Anche Muu guarda il domestico, intimidito dall’immane costruzione, dalle luci, dalla musica, da tutto, ma l’uomo può solo sorridergli, nascondendo poi la cosa appena il padre fissa lo sguardo su di lui.
-Muoviti, non abbiamo tutto il giorno.-
Il bambino annuisce, affiancando il padre nel salire le scale, rallentando il passo per adattarlo a quello dell’anziano genitore.
Quando entrano nella grossa dimora e finalmente raggiungono la sala, Muu continua a restare al fianco del padre, muto, senza toccarlo o osare guardarsi in giro, concentrato solo sui propri passi.
-Alza lo sguardo, sei un Alexius.-
Esegue senza una parola, e il padre annuisce compiaciuto, raggiungendo un gruppetto di uomini.
-Alexius, sei arrivato.-
-L’imperatore non si è ancora visto?-
-No, fortunatamente, molti invitati devono ancora arrivare.-
Suo padre annuisce, e Muu non riesce a smettere di pensare alle lezioni di galateo impartitegli dalla sua balia circa la necessità di abolire i segni corporei in favore dell’espressione verbale.
-Il bambino con te è il figlio di cui ci hai tanto parlato?-
-Sì.-
-Possiamo vederlo?-
Suo padre assente, ma quando vede gli uomini avvicinarsi Muu si tira indietro.
-Muu, torna qui immediatamente!- latra, e Muu obbediente esegue, ritornando al suo posto.
Se mai dovessi incontrare una ragazza molto carina, un uomo molto brutto, qualcuno senza un arto o se in qualsiasi modo dovessi trovarti in condizione di voler osservare bene qualcosa, fallo sempre con discrezione, senza dare nell’occhio.
Le parole della sua balia gli risuonano nelle orecchie, mentre un uomo si piega appena, infilandogli le mani sotto le ascelle e sollevandolo di fronte al gruppo. Non ha mai incontrato degli altri nobili, ne ha solo sentito parlare da alcuni dei domestici, e non sa come agire. Si aspettano che dica qualcosa? Che li guardi in faccia magari? Non lo sa dire, e la cosa lo fa sentire terribilmente sbagliato. Perché insegnargli a leggere se poi non sa come comportarsi in un contesto del genere, avrebbe dovuto dare la precedenza a questo piuttosto che alla matematica.
-Sembra in tutto e per tutto uno di loro.- commenta un uomo storcendo il naso, e gli altri gli vanno subito dietro.
-Come puoi permettere che vada in giro con dei capelli così lunghi?-
-Sembrano gli occhi di un predatore, io non mi fiderei a tenerlo in casa.-
Non mostrare mai troppo apertamente la tua opinione di una persona. Se è buona puoi farglielo intuire, senza allargarti troppo, ma se è cattiva devi comunque comportarti con galanteria, sii sempre educato, e non darlo mai a vedere.
Vorrebbe dire loro che i suoi occhi sono semplicemente identici a quelli di sua madre, e che i capelli lunghi gli piacciono, d’inverno lo riparano dal freddo, ma non trova il coraggio, non è certo di poter scandire chiaramente le parole, e non vuole far sfigurare suo padre, balbettando o parlando con voce incrinata.
-Credevo che i Fanalis avessero più muscoli.- valuta un uomo tastandogli un braccio, mentre un altro solleva una ciocca di capelli.
-È anche piuttosto leggero, mi immaginavo pesassero un quintale.
Un suono di trombe richiama l’attenzione di tutti i presenti, e l’uomo che lo ha sollevato lo riappoggia a terra, girandosi, senza dargli più attenzione. Un’alta figura fa il suo ingresso nella sala, a giudicare dalla pregiatezza delle vesti dev’essere qualcuno d’importante, ma non riesce a vederlo bene, con gli occhi rigati di lacrime. Un singhiozzo sfugge al suo controllo, inudibile a cause delle trombe, ma suo padre lo nota, e gli molla una sberla fra capo e collo.
-Non farmi sfigurare.-
Non resiste più, non ce la fa. Non sa perché, ma vuole piangere, lui che non lo ha mai fatto, vuole solo tornare a casa buttarsi sul suo letto, o magari andare nell’ala dei domestici, e farsi preparare qualcosa di caldo. Si sente umiliato, ferito, incompreso.
Per la prima volta nella sua vita ha scoperto cosa siano i pregiudizi e la discriminazione, e capisce che la nobilità d’animo non è data dai titoli che tutti i presenti amano ostentare.

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Capitolo 4
*** Forte come il mare ***


Forte come il mare
 
La sua infanzia, fino a quel momento, era stata incredibilmente felice. La sua famiglia lo amava, la vita in caserma era semplice, e pareva non avere un solo problema al mondo.
Sasan è un paese piuttosto austero, certo, ma forse perché ci era nato la cosa non gli era mai pesata. La gente era gentile, sebbene un po’ chiusa, e vivevano tutti tranquilli, seguendo regole e precetti di una religione che forse non aveva alcuna base reale, ma fungeva loro da guida. In definitiva, se avesse dovuto dirlo, gli piaceva, ma lo stesso non si era mai potuto dire di Mystras: lui voleva viaggiare, vedere il mondo, incontrare persone vivaci ed espansive, vivere.
Forse a lui Sasan piaceva perché non aveva mai riflettuto su cosa voleva, si era sempre accontentato di ciò che aveva, e forse non era nemmeno il solo. Quanti abitanti di Sasan si erano mai allontanati da casa? Erano davvero tutti così innamorati della propria nazione, oppure non avevano mai pensato all’alternativa?
Fino a quel momento non aveva mai avuto dubbi, ma ora, tutto gli pareva buio.
Si gira e rigira nel letto della sua camerata, senza disturbare i compagni, ma non riesce a trarre conforto in alcun modo. Dalla finestra entra la fioca luce della luna, la sola luce che vede, e come una falena decide di seguirla, per cui strattona le coperte di lana, ponendosele sulle spalle e salendo sul tetto dell’alto palazzo.
Il cielo è terso, potrebbe mettersi a contare le stelle se volesse, ma preferisce guardare la città sotto di lui, mentre il vento gli spettina i capelli.
Tutti gli edifici sono in pietra, regolari, solidi, e in buone condizioni, assomigliano molto alle persone che vi abitano o li frequentano. In effetti, tutta Sasan pare identica alle volte, tutto è riconducibile alla loro religione che predica purezza, semplicità, e nobiltà d’animo. Gli piace questo, trova che siano tre grandi virtù, ottime basi per costruire qualunque cosa.
Se ci pensa, in effetti è quasi ridicolo che il loro paese sia governato da una casta guerriera: a Sasan praticamente nessuno ruba, e non conducono guerre, sebbene, pur essendo uno stato piccolo, siano forti, quindi perché? Non riesce a spiegarselo, e nella sua mente quello rimane sempre un grosso interrogativo.
Intreccia le braccia sul bordo della terrazza, poggiando il mento sul dorso della mano: per quando guardi lontano, non riesce mai a scorgere il mare, ma al massimo dei monti.
Mystras ha sempre voluto vedere il mare, non si è mai accontentato dei racconti altrui, e scopre che anche a lui piacerebbe vederlo.
“Il mare? È una distesa d’acqua immensa, in cui nuotano i pesci, navigano le navi e galleggiano le isole.”
“Come un lago dunque?”
“No! Ma dico, sei pazzo? Il mare è molto, molto più grande di un lago! L’acqua è salata, e non ha delle sponde, come i laghi. Un lago è limitato, piccolo, chiuso, il mare è grande, privo di un inizio o una fine, ed indomabile. Quando scoppia una tempesta su un lago basta tornare a riva, ma sul mare non puoi farlo, devi combattere contro il vento e le onde.”
“Ma è una follia, perché rischiare la vita in questo modo?”
“Perché il mare offre delle possibilità. Su un lago hai un obiettivo massimo, quando raggiungi l’altra riva non puoi più andare oltre, mentre come ti ho già detto il mare non ha limiti, c’è sempre una meta più lontana, qualcosa di più bello da raggiungere. Navigare per mare è un’avventura.”
Nella sua mente ha sempre avuto l’idea che mentre lui è un lago, Mystras è il mare, avventuroso, forte e indomabile. Alle volte pensa che vuole diventare come il fratello, ma poi alla fine ha sempre troppa paura.
-Spartos, prenderai freddo, che ci fai qui?-
Il bambino solleva il mento dalle braccia, girandosi verso il padre e accennando una riverenza, per pura abitudine.
-Non riuscivo a dormire.-
Il cavaliere lo guarda, serio e silenzioso, senza allontanarsi dalla porta.
-Ti manca Mystras?-
Annuisce. Suo padre è sempre rigido e un po’ distante, e a volte sembra non tenere ai suoi figli, ma lui sa bene che è solo incapace di mostrare i suoi sentimenti.
Darius gli si affianca, sedendosi sulla spessa balaustra e appoggiando la schiena contro il muro, mentre Spartos riappoggia il mento sulla fredda pietra, arrivandoci giusto giusto, riportando lo sguardo sull’orizzonte, mentre il cielo inizia a schiarirsi nelle prime luci dell’alba.
-Vuoi salire anche tu?-
Guarda il padre e annuisce, mentre l’uomo lo solleva senza sforzo, poggiandolo contro la sua armatura e avvolgendolo nelle coperte perché non abbia freddo.
Vagano con lo sguardo sull’orizzonte, identici nell’espressione ben più della mera somiglianza fisica.
-Padre?-
Darius emette un basso mugugno, incitandolo a continuare, e Spartos esegue titubante. -Hai mai visto il mare?-
C’è un attimo di silenzio, in cui il bambino gira il viso a guardare il padre, intento a fissare l’orizzonte.
-Una volta, sì, dalla cima di un monte.-
-Non ci sei mai stato?-
-No.-
C’è un attimo di silenzio, in cui Spartos non sa cosa dire, ma è Darius a prendere la parola.
-Vorresti vederlo un giorno?-
Non lo sa. Vorrebbe vedere il mare? Lasciare casa, la sua gente, per qualcosa d’incerto e pericoloso?
-Forse. Ne ho sentito parlare bene, ma temo che possa essere pericoloso.-
-Lo è, come ogni cosa.- conferma Darius, senza alcuna particolare inflessione, e Spartos  annuisce, accucciandosi più comodamente contro il petto del padre, mentre nonostante la coperta sente il freddo dell’armatura congelargli la schiena.
-Papà?-
-Dimmi.-
-Pensi anche tu che Mystras sia come il mare?-
Darius lo guarda, vedendo solo il profilo assorto del figlio, e sorride debolmente, accarezzandogli le spalle per cercare di scaldarlo.
-Lo sei anche tu.-

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Capitolo 5
*** La fine ha diverse forme ***


 La fine ha diverse forme

-Sei certo di volerli vendere oggi? Le uniche messe bene erano le due femmine di due giorni fa, quelli che abbiamo ora non hanno un bel colore, ce li pagheranno poco o nulla.-
Passi lungo il corridoio, e lamenti di prigionieri: le guardie stanno tornando, e a giudicare dalle loro parole sono lì per qualcuno di loro.
-Ho sentito che oggi verrà un inviato del Colosseo, pagherà qualsiasi cifra per un Fanalis.-
Cigolio di chiavi, e la porta si apre, rivelando il solito secondino grasso accompagnato da una giovane guardia: se solo riuscisse a strapparsi le catene dai polsi potrebbe ammazzarli entrambi a mani nude, nonostante non abbia neppure cinque anni.
-A tutti piacerebbe acquistare un bambino, potranno gestirlo e educarlo come meglio credono.- commenta sarcastico, e suo padre snuda i denti, strattonando invano le catene, mentre suo fratello si rannicchia contro il muro e trema.
-Il direttore ha detto quale prendere?-
-Dobbiamo valutare noi. Vieni, occupati di quello vicino alla femmina, io mi occupo di quello che ringhia.-
Il secondino grasso, il capo fra i due, gli si avvicina, e lui tenta di saltargli alla gola, ma fallisce come al solito, soffocandosi con il collare di ferro, e l’uomo ne approfitta per prendergli il mento e esaminarlo: ha una guancia distrutta, tutta la pelle si è strappata, ed il suo viso è incrostato di sangue e paglia, i suoi capelli sono più selvaggi che mai e i suoi occhi lanciano fiamme.
-Com’è messo quello?-
-Non lo so, non lo riesco a capire, è stretto su se stesso, se solo…- la guardia fa un passo in avanti, e sua madre scatta, afferrandolo per una spalla e buttandolo a terra. Non fa in tempo ad urlare che è morto, con un braccio piegato sotto il corpo in modo innaturale e il cranio frantumato contro il pavimento di pietra.
Lo’lo sorride diabolico, fiero di lei, e prova a mordere l’uomo che ancora lo tiene, ma proprio non ci riesce.
-È forte la tua mamma, eh demonio?- gli chiede, e Lo’lo tenta d’urlare nella speranza di fargli esplodere il cranio, ma non ci riesce, non c’è aria a sufficienza lì dentro, e tutto il viso gli fa ancora male per la ferita e la violenta infezione in corso, contro cui la sua sola saliva non ha mai potuto nulla.
-Quegli imbecilli dei nuovi secondini li hanno messi troppo vicini, lo dicevo io che era pericoloso.- scuote il capo, gli occhi per nulla dispiaciuti dalla morte del collega.
-Avvicinati anche tu, e vedrai quanto può essere pericoloso.- lo invita Lo’lo, e l’uomo ride.
-Allora sai pure parlare, non ti facevo così intelligente. Andrai benone, e questa guancia ti sta a pennello, se solo la puliremo darai l’idea di un animale forte e selvaggio, proprio ciò che la gente vuole comprare.-
-Fallo, e ti strapperò un dito.-
La guardia ride, e lui pensa che smetterà presto di farlo quando metterà in pratica le sue minacce, specie perché se vuole portarlo via da lì deve staccare le sue catene dal muro, ma l’uomo estrae un coltello dalla cintola e glielo avvicina alla gola.
-Provaci, e ti giuro che raderò al suolo questa città, a costo di farlo da solo.- minaccia suo padre, vanamente.
L’uomo passa la lama di piatto sulla guancia, provocandogli un dolore immane e quasi si aspetta che voglia slabbrare ulteriormente lo strappo, e invece dopo un attimo quello si alza e va a staccare le sue catene dal muro. Vorrebbe saltargli addosso, vorrebbe atterrarlo, e ammazzarlo lentamente, non come sua madre, ma non ci riesce, si sente intorpidito, i muscoli non gli rispondono.
-Temo che non morderai nessuno cucciolo.- gli dice scompigliandogli i capelli, con la voce carica di disprezzo, mollandogli poi un pugno allo stomaco che gli fa vomitare bile, la sola cosa che contiene da giorni.
-Fossi in te non rifarei mai più uno scherzetto come quello- dice alla sua seconda madre, indicandole la guardia riversa a terra -o la prossima volta potrei fare di peggio, a nessuno importerà se a quello lì che ti stringi al petto manca un orecchio o la lingua.-
Strattona la sua catena, e lui cade in avanti, i capelli che s’impregnano di vomito.
Ricorda la steppa, in cui correva libero e felice, azzuffandosi coi suoi fratelli e cacciando al fianco dei suoi genitori, il giorno in cui hanno iniziato a correre non più per l’ebbrezza del vento che soffia nei capelli ma per fuggire. Ricorda i pasti magri, le notti passate al freddo nelle grotte, accoccolato con i suoi fratelli per scaldarsi, e il volto dei mercanti di schiavi che li avevano presi grazie a dei corvi.
Mentre quell’uomo lo trascina per i corridoi, la testa sollevata da terra grazie alla catena tenuta corta, sente le urla di suo fratello, che chiama il suo nome disperato, e quasi vede le lacrime della sua matrigna mentre infierisce sul cadavere della guardia per sfogare la frustrazione. È semi-cosciente quando la guardia gli butta addosso un secchio d’acqua e gli passa rudemente una mano sulla guancia per ripulirlo, ma non vorrebbe, se sarà sveglio durante l’asta se ne ricorderà per tutta la vita, e non potrà mai smettere di pensare alla sua famiglia che piangeva per lui, ma anche per sé stessa.
L’uomo lo lega ad un palo, mentre l’effetto di quella sconosciuta droga inizia a svanire e gli acquirenti a radunarsi sotto il pulpito. Non vede la luce da settimane, ha desiderato rivedere il sole a lungo, e ora finalmente eccolo.
-… e ora finalmente il Fanalis che potete vedere. È stato catturato a Katargo un mese fa, insieme alle due Fanalis che abbiamo venduto l’altro ieri e il resto della sua famiglia. Sua madre ha ucciso una guardia pur essendo incatenata e lui ha quasi stappato una mano ai mercanti che li hanno catturati. Come prezzo base proponiamo dieci mila falci.-
“Non era sua madre” vorrebbe dire amaramente, mentre le mani scattano in aria e i numeri si susseguono incessanti. Ripensa alle giornate passate senza un pensiero, alla serenità della sua vita passata e alla felicità: la parola “venduto” segna per lui la fine di tutto.

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Capitolo 6
*** L'immortale solitudine ***


L’immortale solitudine

Ci sono cose a cui non ci si abitua mai, come la vita e la morte, e pure a 200 anni ancora ne risente.
Guarda il volto scavato dell’imperatore, i capelli bianchi, tutte le cicatrici di guerra. È vecchio, questo lo capisce, e forse la cosa dovrebbe aiutarla a non pensarci troppo, a non dar peso alla cosa, ma come può lei definire vecchio un uomo di soli 70 anni?
Il re s’impegna a sorriderle, tendendo una mano scheletrica verso di lei, che la afferra senza esitazione, cercando di trasmettere calore a quell’uomo con cui ha lavorato per anni per costruire un posto migliore.
-È già nato mio nipote?-
Scuote il capo, e il sorriso del vecchio uomo si spegne un poco, ma s’impegna a non darlo a vedere.
-Mi dispiace che non lo vedrò.-
Non risponde, perché non sa cosa dire: vorrebbe potergli dire che si sbaglia, che supererà il momento e vedrà la nascita del proprio nipote, ma sa che non supererà la notte, lei lo vede, e lo sa anche lui, quindi è inutile mentire. L’imperatore sta morendo, come fanno tutti, salvo lei.
Lo sguardo dell’uomo si fa improvvisamente serio, la sua stretta più salda e prima ancora che lui parli lei sa già cosa gli dirà, perché dopo aver visto morire tanti re, imperatori e nobili di ogni sorta li conosce, e sa che in fondo sono tutti uguali.
-Prenditi cura di loro. Bada alla mia famiglia, al mio regno, al mio popolo.-
-Lo prometto.- Assicura, aiutando l’anziano sovrano a raddrizzarsi sui cuscini, uscendo dalla stanza in silenzio e con compostezza, come si confà a qualunque membro della corte.
Guarda l’anziana moglie dell’imperatore e abbassa gli occhi, comunicandole mutamente che manca poco. Delle lacrime solitarie rigano le guance della donna, lacrime di tristezza, rassegnazione, solitudine, e lei sa di non poterla consolare, ma comunque le stringe lievemente il braccio in segno di supporto, prima di lasciare il corridoio per dirigersi sulla cupola del palazzo.
È inverno inoltrato, senza neve né ghiaccio, solo con un forte vento, e lei si stringe nel mantello, mormorando un incantesimo di calore. Guarda le vie della città, i palazzi dei nobili, le piazze spoglie e quelle dove invece sono riuniti i devoti cittadini della capitale, tutti impegnati a pregare per la sorte del loro sovrano. Per l’ennesima volta lei li guarda dall’alto, e la sola cosa che prova è solitudine.
L’imperatore ha sua moglie, i suoi figli, il suo popolo, i contadini hanno la loro famiglia, i loro amici, i loro animali, lei non ha nulla.
-Wow, che figata, credevo che i Magi fossero solo uomini!-
Un sorriso triste le increspa le labbra. Aveva un amico, tanti anni prima, ma è morto da più di un secolo, tanto che lei ha perso la capacità di piangerlo ormai. Guarda le nuvole, i prati, i tramonti, e a volte si chiede se a Pernadius sarebbero piaciuti, ma non riesce più a piangere la morte dell’amico, al massimo al contrario piange la sua vita.
Si siede con le spalle contro la cupola, osservando la città attraverso le sbarre della ringhiera, e inizia a piangere, come ogni volta che vede qualcuno morire.
Muoiono loro, ma mai lei, e d’altronde è normale, perché lei ha scelto di non morire, di non invecchiare.
L’ha fatto sapendo cosa l’aspettava, almeno a parole, il prezzo della vita, ma ha scoperto solo dopo aver intrapreso quella via quanto in realtà fosse difficile: la gente nasce, vive e muore attorno a lei, e lei resta immutabile, una donna di duecento anni nel corpo di una di venti, per sempre. Cambiano le stagioni, passano gli anni, la sua coscienza si sposta in un altro clone, ma non muore.
Il flusso dei rukh continua a scorrere davanti ai suoi occhi, a sua disposizione, e vede quelli dell’imperatore aggiungersi alla corrente. Sorride triste, guardando i minuscoli uccelli di luce allontanarsi da palazzo, una singola lacrima che abbandona il suo occhio.
-Bada alla mia famiglia, al mio regno, al mio popolo.- Le fanno sempre tutti la stessa richiesta, danno tutti in qualche modo per scontata la sua presenza e viene loro naturale affidarsi a lei, consapevoli che non se andrà mai.
-Prenditi cura di te.-
In duecento anni una sola persona ha pensato a lei in punto di morte, forse immaginando cosa le sarebbe successo, e quello è il motivo per cui non ha mai voluto un altro candidato re: dopo Pernadius nessuno ha più pensato a lei, erano tutti più concentrati su cosa potevano ottenere da lei che non su cosa potevano offrirle.
Guarda le stelle che sorgono, il cielo senza luna, senza più lacrime, e ripensa a tutti i neonati che ha preso in braccio, tutti i vecchi a cui ha stretto la mano; non le importa essere uno strumento, è per lui che lo fa, è per amore di un uomo, di un popolo, di un sogno, che ha scelto quella vita, e non può accusare i sovrani se non la vedono come una persona ma solo come un mezzo, al loro posto farebbe lo stesso probabilmente, e ha imparato ad amarli tutti nonostante questo, restando al loro fianco come guida, consigliera, maga.
Reim sta crescendo, ogni giorno è un po’ più grande e un po’ più prospero grazie a lei, e ogni giorno lei un po’ più sola. Guarda le luci della città spegnersi, i capannelli di persone disperdersi e si alza in piedi: la città ha saputo della morte dell’imperatore, e smette di sperare, tornando alla vita di tutti i giorni, mentre lei li osserva dall’alto vegliando su di loro affinché superino il momento e tornino a sorridere più felici di prima.
Reim è grande e potente, e per esserlo ha richiesto un solo vero sacrificio: il suo.

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Capitolo 7
*** Il peso delle responsabilità ***


Il peso delle responsabilità

China lievemente il capo al passaggio di un paio di ministri, sforzandosi di non mostrare troppa deferenza mentre ascolta i boati della folla e osserva il pulpito costruito fuori dal palazzo per annunciare al pubblico la nuova incoronazione.
-Figli miei- suo padre ha sempre avuto una voce rauca, sgradevole, ma con gli anni ci ha fatto l’abitudine -ho un annuncio da farvi.-
Kouen guarda il soffitto con gli occhi semichiusi, non particolarmente interessato: ogni tanto suo padre lo fa, li convoca tutti a raccolta, più per darsi un tono e ricordare loro che “è il fratello dell’imperatore” che non per dire davvero qualcosa, e di sicuro Kouen era certo che fosse solo l’ennesima scemenza, come lo era Koumei e tutte le loro sorelle.
-L’imperatore Hakutoku Ren, mio unico fratello, è morto ieri sera in un incendio che ha distrutto il palazzo di Rakushou. I principi Hakuyuu e Hakuren sono morti nell’incendio.-
Guarda il padre sconvolto forse più dalla calma e dal distacco con cui riferisce le cose che non dalla notizia in sé.
-Che ne è stato della principessa Hakuei e del principe Hakuryuu?- chiede con un groppo alla gola, attirando lo sguardo del padre.
Ha barba e capelli neri lunghi e cespugliosi, ben diversi da quelli cremisi dei figli, e un’espressione a dir poco inquietante. Non ci ha mai davvero prestato attenzione, ma in quel momento nota che i piccoli occhi infossati sono freddi come il ghiaccio, se non di più.
-Sono vivi, sebbene pare che il principe Hakuryuu sia rimasto coinvolto nell’incendio.-
Il groppo alla gola si allenta appena, ma continua a essere in ansia.
-Che ne è di Hakuei? Voglio dire, della principessa-
Koumei gli appoggia una mano sulla spalla nel tentativo di tranquillizzarlo, senza alcun successo: vuole solo sentire che lei sta bene, e il resto non gli importa. Probabilmente Hakuryuu erediterà il trono appartenuto al padre, sebbene fino ai 18 anni sarà sotto la reggenza della madre, o magari dello zio. A lui interessa solo che la cugina non sia coinvolta.
-È illesa, per fortuna.-
Lo rassicura il padre, togliendogli un peso immane dal petto: gli piace Hakuei, non è come le sue sorelle che pensano solo a truccarsi, farsi belle e mettersi in mostra, lei è una ventata d’aria fresca, una persona semplice, una principessa che divenuta maggiorenne riceverà senz’altro più proposte di matrimonio di quante sia possibile contarne, e le augura tutto il meglio.
-Sarò io a diventare imperatore.- annuncia poi l’uomo, di punto in bianco, ottenendo la totale attenzione di tutti.
-Non dovrebbe toccare ad Hakuryuu?- domanda Koumei con noncuranza, la stessa con cui il padre gli risponde.
-È troppo piccolo. Sarò io a diventare imperatore, e voi diventerete principi e principesse. Sposerò Gyokuen, così che i due principi mantengano il titolo.-
Li tiene tutti lì ancora per qualche tempo, spiegando loro quali saranno i principali cambiamenti, ma Kouen ha da tempo smesso di ascoltarlo.
 
Sale sul pulpito, guardando tutte le prime file di copricapi nobiliari, elmi e armature: ce ne sono talmente tanti che la folla di persone comuni a malapena riesce a scorgere il pulpito.
La cerimonia è piatta, il Gran Sacerdote pone delle domande al padre e lui risponde.
-Siete pronto ad assumervi la responsabilità di guidare il popolo dell’impero?-
-Sì.-
-Siete pronto a dedicare la vostra vita a questo regno, impegnandovi per il benessere delle persone più che per la vostra ricchezza?-
-Sì.-
Ascolta fino ad un certo punto, poi si limita ad osservare attorno a sé.
Gyokuen è in ginocchio in segno di deferenza, come Hakuei e Hakuryuu: gli pare ridicolo che siano loro a doversi inchinare, fino a non più di un mese prima era il padre a doversi chinare al loro passaggio, anche se a conti fatto sono solo bambini.
La voce del Gran Sacerdote gli buca i timpani, riguadagnandosi la sua attenzione.
-Inchinatevi tutti a Koutoku Ren, nuovo imperatore dell’impero di Kou!-
Sia la famiglia reale che il popolo s’inginocchiano, creando un’atmosfera che credeva non potesse esistere, e d’improvviso la consapevolezza sembra pugnalarlo: lui è il primo principe.
Pensa ad Hakuryuu ed Hakuren, alle battaglie che hanno combattuto, al sostanziale aiuto che hanno dato allo sviluppo dell’impero e si rifugia in camera sua, stringendosi le gambe al petto. Emanavano autorità, potere e carisma, lui ha solo paura. Non sarà mai coraggioso quanto loro, né altrettanto amato o rispettato, non sarà mai all’altezza.
Non ha mai pensato di poter essere re un giorno, perché a differenza di molti lui ha avuto occasione di conoscere davvero l’imperatore, ha parlato con i suoi figli, ha discusso con loro di politica, strategia militare, donne perfino, e li ha ammirati infinitamente. Era certo che Hakuyuu sarebbe diventato imperatore, o nel peggiore dei casi Hakuren, e ora è lui il prossimo candidato al trono.
Ripensa a Hakuryuu, alla sua testolina fasciata per coprire delle ustioni che gli rimarranno a vita, e vorrebbe solo tirarsi indietro, ridargli quel titolo che non sente suo, e invece si limita a cadere sul materasso, dando le spalle alla porta, piangendo silenzioso.
Ha pura, anzi no, è terrorizzato.
I ministri, i generali, i soldati, tutti lo guardano con una deferenza minore di quella che dimostrano al giovane cugino, e perfino lui guardandosi allo specchio vede solo un imbroglione, un ragazzo di 17 anni infilato in una cosa più grande di lui, e desidera soltanto sfilarsi la corona, scusarsi e tirarsi indietro.
Hakuryuu è un principe, ci è nato, e sebbene sia un po’ pauroso e timido crescerà e diventerà forte e carismatico come i suoi fratelli, guiderà eserciti, parlerà con i ministri, scherzerà con i soldati.
Non vuol dire che “se nasci contadino resti contadino, se nasci principe resti principe”, solo che lui non è pronto a essere un principe, e mentre piange la morte dei cugini stringendo le lenzuola fra le mani per non farsi fuggire alcun lamento desidera solo poter buttare via quella corona e tornare ad essere nessuno: le responsabilità sono per chi è disposto a prendersele, e lui non lo era

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