Sangue Freddo

di Elenis9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 -fine ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Sangue freddo

Il freddo era da sempre un grosso problema. Il suo corpo non era in grado di scaldarsi da solo, aveva bisogno di assorbire calore da fonti esterne e quando lo faceva stava bene per un po’. Si raffreddava poi gradualmente fino ad avere bisogno di nuovo di alzare la propria temperatura. Purtroppo, esattamente come per la fame e la sete, era possibile che non riuscisse a saziarsi o che per qualche ragione si raffreddasse più in fretta del previsto e in quei casi aveva bisogno di rifornimento extra. Non aveva mai pensato che racimolare calore fosse difficile: le bastava abbracciare qualcuno, farsi bagnare per un po’ dal sole estivo o stare attaccata a un termosifone. Era cresciuta in un paese molto piccolo, perciò a scuola tutti conoscevano i suoi bisogni e non solo non le creavano problemi, ma spesso erano pronti a darle una mano. Non si era resa conto dei privilegi che aveva finché non si era trasferita per studiare all’università. In un solo anno aveva cambiato coinquilini uno dopo l’altro perché nessuno riusciva a sopportare il riscaldamento sparato a tutta, le lezioni la costringevano a stare fuori casa per gran parte della giornata e le aule non avevano neanche lontanamente il calore che le sarebbe stato necessario. Era problematico anche il fatto che ogni lezione si svolgeva in posti diversi e gli spostamenti all’esterno facevano calare molto la sua temperatura. Era un vero e proprio incubo. Doveva continuamente portarsi dietro dei piccoli scaldamani e, quando non bastavano, era costretta a usare minuscole stufette che attaccava a una power bank. Spesso riusciva a mantenersi a malapena sull’orlo dell’ipotermia.
Quel giorno in particolare non se la stava cavando bene. Le temperature erano scese all’improvviso, si era vestita troppo poco e soprattutto la lezione si svolgeva nel laboratorio di chimica: un enorme stanzone in cui faceva sempre freddo.
“Senti, ti ho già detto che non puoi usare quell’aggeggio qui dentro. È pericoloso.” Il suo compagno di cappa, poi, era sempre dedito a far rispettare qualsiasi regola o istruzione e sembrava aver preso come un’offesa personale la sua stufetta.
“Devo, se non voglio morire,” replicò in un grugnito cercando di scrollarselo di dosso. Il che non era facile: quel ragazzo sembrava avere occhi anche dietro la testa.
“Ci sono venticinque gradi, Amelia! È importante, stiamo usando sostanze fortemente infiammabili, se per caso… mi stai ascoltando?” No, ovviamente. Detestava le ramanzine, soprattutto quando era debole per il freddo. 
“Senti, coso. Com’è che ti chiami?”
“Erik. Siamo compagni di laboratorio da mesi.”
Sì, e lei sapeva perfettamente il suo nome dal momento che avevano passato quei mesi litigando per i dispositivi elettronici che portava in laboratorio, ma voleva comunque irritarlo.
“Senti, Erik, che ne pensi di lasciarmi in pace una volta ogni tanto? Dio, sei proprio fastidioso.” Oh, bene. Gli aveva fatto perdere la calma. Era stato soltanto un minuscolo istante, ma aveva chiaramente visto la rabbia balenare nel suo sguardo rendendo gelidi i suoi occhi azzurri. La soddisfazione di essere finalmente riuscita a farlo arrabbiare non durò molto: per qualche motivo la sua stufa si era spenta e non pareva intenzionata a ripartire. Aveva assorbito abbastanza calore per funzionare ancora un’oretta, ma probabilmente avrebbe fatto meglio a tornare a casa.
Fece per sgattaiolare via dal laboratorio ma, prima ancora di arrivare alla porta, venne intercettata dal professore. Non aveva una grande simpatia per lei per lo stesso motivo per cui non l’aveva Erik.
“Le ricordo che queste lezioni hanno la frequenza obbligatoria.”
Una sola frase aveva distrutto i suoi sogni di gloria. Poteva saltare ancora un’ora o due, forse, ma avrebbe rischiato seriamente di dover rifare il corso.
Finse di voler solo andare in bagno e poi tornò alla sua cappa, obbediente come un cucciolo. Verso la fine della lezione stava tremando e le sue ginocchia erano così deboli che le sembrava di stare in piedi sulla gelatina. Erik aveva continuato l’esperimento praticamente da solo e non l’aveva quasi mai degnata di uno sguardo, d’altro canto lei era stata tutto il tempo a fissare il vuoto senza tentare di dargli una mano. Aveva pensato di cercare una scusa per toccargli un braccio e assorbire un po’ di calore da lui, ma non aveva trovato il coraggio di farlo e il tempo si era trascinato fino a che finalmente non furono liberi di andarsene.
Sarebbe bastato arrivare alla macchina e accendere l’aria calda. Era troppo debole per correre, le si piegavano le gambe anche solo camminando lentamente. Sbandò verso il muro e cercò di utilizzarlo come appoggio per continuare a camminare. Aveva bisogno di calore. Non sarebbe arrivata alla macchina in tempo, era chiaro come il sole, e non faceva ancora abbastanza freddo perché i termosifoni fossero accesi.
Arrancò per un po’ prima di crollare. Tremava così forte che era quasi impossibile persino cercare di aprire lo zaino nella speranza disperata di trovare uno scaldamani ancora utilizzabile.
“Amelia?”
Alzò lo sguardo al suono del suo nome solo per incontrare gli occhi azzurri e gelidi di Erik. Oh, fantastico. Ci mancava soltanto lui.
“Che cos’hai? Ti senti male?” Le si avvicinò lentamente, come se avesse paura di spaventarla, e si accucciò accanto a lei. “Ho notato che qualcosa non andava mentre uscivi, così ti ho cercata. Hai la febbre?” Avvicinò una mano alla sua fronte e quando la sua pelle calda entrò in contatto con lei, Amelia sospirò dal sollievo.
“Merda, sei gelida! Hai le labbra viola!”
“Quindi persino tu imprechi a volte,” commentò, il tremito nella sua voce non le impediva più di parlare e aveva ripreso un po’ di sensibilità alle dita. Forse sarebbe riuscita ad arrivare alla macchina, dopotutto. Erik le avvolse una felpa intorno alle spalle. “Ti porto in infermeria e chiamo un’ambulanza,” le comunicò asciutto, senza un minimo di esitazione nella voce. Amelia allungò una mano per fermarlo e lo afferrò per il braccio. Di nuovo, il contatto col suo calore fu una vera e propria benedizione. “Starò bene. Se vuoi aiutarmi puoi lasciarmi tenere le tue mani.” Lui sembrava scettico, ma si abbassò di nuovo e fece come gli aveva chiesto. All’improvviso le rivolse persino una sorta di sorrisetto.
“Sai, avresti potuto prendermi per mano anche senza tutta questa fatica,” la canzonò.
“In realtà sto per approfittarmene del tutto e chiederti persino di abbracciarmi,” rispose lei allegramente, scrollando appena le spalle. Se l’avesse abbracciata per qualche istante avrebbe riportato il suo corpo a una situazione quasi normale, sicuramente le avrebbe ceduto abbastanza calore da permetterle di arrivare alla macchina e poi a casa senza rischiare. Erik sembrò indeciso per un attimo, timido persino, poi scivolò a sedere accanto a lei e se la tirò addosso abbracciandola fin quasi a inglobarla. Non disse niente, quasi fosse troppo imbarazzato per parlare, ma la tenne stretta finché i tremiti non cessarono del tutto e anche un po’ oltre.
“Puoi lasciarmi adesso.”
Erik sembrò imbarazzato mentre la lasciava andare, ma poi la sua espressione cambiò fino a diventare sorpresa. “Stai meglio sul serio.” Commentò, quasi incredulo e persino un po’ sospettoso. “Sei un’Evoluta?”
Evoluto era il termine che usavano per quelle persone che presentavano mutamenti genetici che portavano allo sviluppo di caratteristiche fuori dal comune. Non c’erano molte persone così, le mutazioni genetiche di quel tipo erano spesso incompatibili con la vita, ma sembrava proprio che negli ultimi anni la specie avesse cominciato a favorire il cambiamento e il numero di individui Evoluti stava crescendo.
“No, niente del genere. Ho una malattia per cui il mio corpo non riesce a scaldarsi da solo, tutto qui. Basta che abbia qualcosa o qualcuno da cui trarre calore per stare bene.” Amelia scrollò le spalle. Il suo corpo era di nuovo normale, caldo e attivo. Erik l’aveva abbracciata per un tempo abbastanza lungo da permetterle di saziarsi col suo calore, anche se lui probabilmente sarebbe rimasto infreddolito per un po’.
“Non ho mai sentito di una malattia del genere.” Non sembrava ancora del tutto convinto, ma lasciò cadere l’argomento accennando un sorriso. “Prometto che, se la smetterai di cercare di darmi fuoco con quei congegni diabolici che ti porti dietro, ti terrò per mano ogni volta che lo vorrai.”
“Mh, non saprei. Farti arrabbiare è divertente.” Lo era perché lui non sembrava arrabbiarsi mai. Una volta aveva visto un tizio rovesciargli addosso per sbaglio del caffè bollente e lui non si era lasciato sfuggire neanche il più piccolo segno di irritazione. A quel punto si era incuriosita e aveva cominciato a osservarlo. Non aveva mai visto nessuno altrettanto rigido, pareva che seguisse ogni regola alla lettera e l’unica cosa che lo infastidiva era… beh, lei. Lei e la sua fonte di calore accanto a liquidi la cui scheda di sicurezza recitava: tenere lontano da fonti di calore.
“Ti prego di non farlo.”
Amelia sorrise.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Successivamente lei ed Erik non ebbero particolari interazioni. Le vacanze incombenti rendevano più vuote le giornate scolastiche e il professore di chimica si era ammalato rimandando gran parte delle lezioni al mese successivo.
Amelia passava quasi tutto il suo tempo a crogiolarsi nel calore del suo appartamento vuoto, studiando e annoiandosi, talvolta cercando di reclutare un nuovo coinquilino senza grande successo. L’inverno lì era più rigido che a casa, ma non abbastanza perché la gente normale volesse tenere il riscaldamento acceso.
Aveva da poco salutato la sua ultima speranza di trovare qualcuno con cui dividere le spese e stava per dedicarsi a un qualche film deprimente per passare la serata, quando qualcosa sbatacchiò contro la sua porta. Non poteva dire che qualcuno aveva bussato perché fu un solo grosso tonfo e poi nient’altro.
Incuriosita, Amelia cercò di guardare dallo spioncino. Tutto quello che vide fu la punta di un paio di scarpe come se qualcuno si fosse seduto con la schiena alla porta. Che diavolo?
Aprì l’uscio senza alcuna delicatezza, spalancandolo di botto così che chiunque ci fosse appoggiato non avesse il tempo di realizzare. Quando, come previsto, cadde sdraiato all’interno, lei…
“Erik?” Alto, massiccio, capelli biondi tagliati a spazzola… sì. Decisamente quello era Erik. Amelia rimase interdetta per un attimo aspettandosi che succedesse qualcosa, invece lui rimase sdraiato lì, mezzo dentro e mezzo fuori da casa sua. “Erik, mi senti?” Lui non reagì. Era pallido come un morto, ma aveva gli occhi socchiusi e non sembrava del tutto privo di conoscenza. “Che ti prende, ti sei drogato?” Domandò nascondendo il moto di panico dietro un tono stizzito. Lo prese per le braccia per tirarlo dentro, ma nel farlo la felpa gli si aprì rivelando che sotto era coperto di sangue. Non ci aveva fatto caso perché era vestito di nero, ma una volta notato riusciva a scorgerne le tracce sulle mani e addirittura fuori sul pianerottolo. Iniziò a sollevargli la maglietta e allo stesso tempo arraffò a tutta velocità il cellulare per chiamare l’ambulanza.
“Buonas-” il telefono si spese all’improvviso ed Erik si sollevò a metà per bloccarla in modo che non scoprisse la ferita.
“Chi stai chiamando?” Ringhiò con il tono più duro e cattivo che gli avesse mai sentito.
“L’ambulanza, idiota. Ti serve. Che diavolo è preso al mio telefono, io non…”
“Niente ambulanza. Chiudi la porta,” esitò un attimo, strisciando completamente all’interno con un grugnito di dolore. “Per favore.”
Ah, beh, l’educazione prima di tutto.
“Che sta succedendo? Che ci fai qui?” Il tono spazientito che le uscì fu una grande vittoria: era riuscita con successo a non far trasparire neanche un minimo di paura o preoccupazione.
“Ho visto il tuo indirizzo fra gli annunci del campus, qualche giorno fa. Non… non sapevo dove andare.” La fissò per un attimo, poi distolse lo sguardo. “Lo so, è stata una pessima idea.” Fece per alzarsi e le luci cominciarono a sfarfallare per poi stabilizzarsi quando tornò cautamente a sedersi. “Merda.”
“Quanto gravemente sei ferito?” Amelia si decise a chiudere la porta. Una rapida occhiata all’esterno le disse che effettivamente non sembrava ci fosse in giro nessuno, ma, se non voleva che i vicini si facessero strane idee, avrebbe fatto bene a pulire le macchie di sangue alla svelta. Non subito, però: prima doveva convincere Erik che morire sul suo pavimento non sarebbe stato di buon gusto. Gli si inginocchiò accanto e allungò la mano verso la maglietta con intenzione, quasi sfidandolo a bloccarla di nuovo. Non lo fece. Strinse le labbra in una linea sottile e distolse lo sguardo da lei, ma non la fermò quando staccò delicatamente la stoffa, appiccicaticcia e rigida per il sangue rappreso, scoprendo una ferita circolare sul fianco sinistro. Era piccola ma profonda, sembrava che qualcosa avesse scavato attraverso la carne.
“Ti hanno sparato,” realizzò all’improvviso. Anni e anni di serie tv poliziesche guardate con sua madre non l’avevano affatto preparata a vedere una vera ferita da arma da fuoco e per un istante si trovò a deglutire freneticamente sull’orlo del vomito. Non che sangue e dolore le avessero mai fatto impressione, ma la lesione di un proiettile non era la stessa cosa. La spaventava. Deglutì per l’ennesima volta, poi si impose di calmarsi: se lei era spaventata non riusciva neanche a immaginare che cosa provasse lui con un buco in pancia.
“Non voglio dirti cosa è successo, è meglio se non sai nulla,” si decise a borbottare Erik dopo quello che era sembrato un tempo infinito.
“Allora vattene.” Amelia lasciò ricadere la maglietta a coprire la ferita. Quando fu ragionevolmente certa di non mostrare esitazioni alzò lo sguardo a incontrare quello di lui. Fu difficile tenere duro di fronte all’espressione profondamente disperata che gli balenò in faccia, ma si impose di non vacillare. Sperava solo che lui non decidesse di andarsene sul serio, non sarebbe riuscita a buttarlo fuori in quelle condizioni.
“Non voglio coinvolgerti, lo faccio per proteggerti?” Erik balbettò nel dirlo e suonò più come una domanda che come una vera e propria affermazione.
“Sono già coinvolta, sei a casa mia. Ho il diritto di sapere in cosa mi sto cacciando se decido di aiutarti,” tentò di ammorbidire la voce per suonare persuasiva e conciliante, ma lei non era nessuna delle due cose e finì solo per sembrare burbera.
“Ero in macchina, stavo tornando dalla pizzeria con la cena quando sono stato fermato a un posto di blocco.” Le parole eruppero fuori dalla sua bocca come se non avesse aspettato altro che il momento di pronunciarle, ma allo stesso tempo chiuse gli occhi come per non vedere la sua reazione. “Ero in regola, quindi non avevo niente di cui preoccuparmi. Durante il controllo della patente, però, il poliziotto ha visto che sono un Evoluto e sulla mia scheda c’è scritto che le mie capacità influenzano gli oggetti elettronici. Ha cominciato ad accusarmi di aver falsificato il test alcolemico e mi sono agitato. Non mi controllo bene quando non sono calmo, perciò ho involontariamente fatto impazzire il computer di bordo di entrambe le macchine. Lui si è spaventato e ha cominciato a minacciarmi, solo che io mi sono agitato ancora di più e la mia capacità ha influenzato anche un lampione. Lo pregavo di lasciarmi calmare un attimo, ho cercato di spiegargli che non gli avrei fatto del male, ma lui mi ha puntato contro la pistola e io ho avuto paura. Ho mandato in corto sia le macchine che la luce. Lui mi ha sparato. Non sapevo che fare, sono scappato e sono andato in una direzione a caso per un po’, non avevo idea di dove andare, ma avevo il tuo indirizzo. Non sarei dovuto venire qui. Mi dispiace.”
Amelia sospirò. Non sapeva cosa pensare del racconto, ma non aveva poi molta importanza, non l’avrebbe mandato via in ogni caso. “Quindi sei stato tu a farmi saltare la stufetta e il telefono.”
“Mi dispiace. Il telefono dovrebbe potersi riaccendere. Credo.” La maschera di calma che aveva indossato fino a quel momento si era incrinata da qualche parte durante la conversazione e Amelia non sapeva bene come reagire a tutte quelle scuse. Di solito era lei a doversi scusare, era strano riceverle.
“Dimmi la verità, Erik, come ti senti? Potresti essere sotto shock, hai freddo?” Cambiare argomento era una buona strategia, in più aveva bisogno di capire quanto profondamente stavano sprofondando nella merda. Non sapeva quasi nulla di ferite, shock e quant’altro, aveva giusto imparato le due cose necessarie a passare il test per la patente. L’unica cosa che sembrava sensata era chiamare un’ambulanza e portarlo da un medico. Non poteva, però. Gli aveva sparato un poliziotto, che cosa gli sarebbe successo se lo avesse portato in ospedale? Magari tutto sarebbe andato per il meglio, ma più probabilmente lui sarebbe stato talmente spaventato da mandare in tilt altra roba e la situazione sarebbe precipitata.
“Sto bene…,” attaccò per poi notare lo sguardo di lei. “Okay, fa male. Parecchio, mi sembra di avere un ferro rovente nel fianco che brucia come l’inferno. Oltre a questo, però, penso di stare abbastanza bene. Mi sento un po’ debole, ma non ho freddo.”
Amelia si mordicchiò un labbro per qualche secondo, cercando di decidersi: doveva fare qualcosa. “Va bene, vediamo di pulire e disinfettare la ferita, la bendiamo e preghiamo che tu non muoia per non aver voluto chiamare un’ambulanza. Che ne pensi?”
“Vorrei che la smettessi di parlare della mia probabile morte imminente.”
Per quanto il momento fosse serio e lui probabilmente fosse davvero a disagio per la sua insistenza sul tema, Amelia non riuscì comunque a fare a meno di sorridere. Lo aiutò a tirarsi in piedi e lo guidò fino al bagno osservandolo senza farsi notare. Camminava da solo ed era lucido, anche se quando le era caduto in casa non le era parso del tutto in sé. Probabilmente fargli sbattere la testa sul pavimento non era stato il benvenuto migliore per uno nelle sue condizioni. In ogni caso, era piuttosto certa che assecondarlo ancora per un po’ nell’attesa che si calmasse e decidesse che andare in ospedale era la scelta migliore non l’avrebbe ucciso. Se non altro lo sperava davvero, davvero tanto.
Si lavò le mani fino quasi a scorticarle, poi deterse gentilmente la zona intorno alla ferita.
“Non mi aspettavo che fossi così grosso,” buttò lì, afferrando il disinfettante.
“Intendi che sono grasso o tentavi di farmi un complimento?” Erik aveva la tensione nella voce e la luce del bagno aveva già fatto strani scherzi un paio di volte, ma era rimasto immobile e docile mentre lei cercava di medicarlo.
“Non dirmi che esiste davvero qualcuno che ti ha lisciato l’ego dicendoti quanto sono belle le tue spalle larghe o scolpiti i tuoi addominali.” Si finse scandalizzata all’idea e fu soddisfatta di sentirlo ridacchiare.
“Lisciarmi l’ego? Perché no. Ogni ragazza che incontro non vede l’ora di farlo. Persino alcuni ragazzi, sai.” L’ironia era evidente nella sua voce e Amelia gli lanciò uno sguardo divertito.
“Mi spiace, ragazzone, i complimenti non sono il mio campo. Ora tieniti forte, non so quanto faccia male il disinfettante su una ferita del genere.” Se gli fece male, fu bravo a nasconderlo. Tutto quello che gli uscì dalle labbra fu un sibilo acuto, ma Amelia non era certa che non fosse più per la paura o per la sensazione del liquido nella ferita che per altro. Il foro non sanguinava molto, probabilmente avrebbe anche smesso del tutto una volta finito di medicare. Probabilmente. Non averne la certezza la rendeva nervosa, ma per fortuna l’ospedale era vicino ed era certa che in caso di necessità sarebbero riusciti ad arrivarci in fretta, perciò voleva lasciare che si calmasse un po’; aveva paura che insistere sulle preoccupazioni per la ferita lo avrebbe innervosito tanto da spingerlo ad andarsene.
“Ecco fatto. Spostiamoci in camera, dovrei avere una felpa che potrebbe starti.” Erik si alzò da solo. Senza tutto il sangue sul torace e il foro nascosto sotto la garza aveva un aspetto molto migliore, ma non le sfuggì che fosse ancora pallido e stravolto. Sotto gli occhi aveva occhiaie scure che non avevano nulla a che fare con la mancanza di sonno.
“Una felpa da uomo? Ti farò passare dei guai col tuo ragazzo per questo?”
Amelia rise. “Ragazzo? Divertente, ma no. È di mio fratello, quando mi sono trasferita qui volevo qualcosa che mi facesse sentire meno la sua mancanza e gli ho rubato questa. È uno scimmione gigantesco quasi quanto te e gli piacciono le cose larghe, quindi dovrebbe andarti.”
“Hai mai pensato che sei tu a essere piccola e non gli altri a essere grossi?” Domandò Erik infilandosi con un po’ di fatica la felpa pulita. Gli stava per davvero, anche se forse tirava un po’ sulle spalle. Checché ne dicesse lui erano davvero grosse.
Non che non fosse vero che lei era piccola. Diede un’occhiata allo specchio che li rifletteva entrambi. Lei era una ragazzina minuta che arrivava a malapena al metro e cinquanta con un caschetto di capelli neri, grandi occhi verdi e la pelle pallidissima; lui un ragazzo di un metro e ottanta, atletico e dai lineamenti gentili. Accanto sembravano una bambina delle elementari e suo fratello maggiore.
“È l’ora della nanna, ragazzone. Riposati un po’, d’accordo?” Erik fissò il letto per un attimo, come se non fosse convinto che non avrebbe cercato di morderlo, poi alzò di nuovo gli occhi su di lei.
“Non chiamerai la polizia mentre dormo, vero?”
Amelia sentì immediatamente una vampata di stizza, ma la risposta acida e offesa che le era salita alle labbra morì quando notò l’espressione spaurita e vulnerabile sul viso di Erik. Di solito era così calmo e stoico che sembrava impossibile potesse apparire fragile. A quel pensiero un po’ della rabbia che si era accesa dentro di lei tornò ad ardere, ma non più contro di lui bensì verso l’uomo che l’aveva spaventato e ferito fino a quel punto. “Non lo farò. Per la cronaca, non sono così subdola e sottile da tenderti un tranello del genere. Se avessi voluto consegnarti alla polizia lo avresti saputo.”
“Scusa,” borbottò lui, togliendosi di nuovo la felpa prima di stendersi sotto le coperte. In casa c’erano circa trentasei gradi, era una scelta saggia.
“Senti, se vuoi sto qui finché non ti addormenti. Chiacchieriamo un po’, ti tengo compagnia.” Offrì, notando che lui era a disagio e cercava di nasconderlo. Gli lesse in faccia la gratitudine per quell’offerta e, fingendo di non essersene accorta, si buttò accanto a lui sul letto a due piazze. “Mi sento come a un pigiama party. Parliamo di cose da ragazze?”
“Non ti facevo una da pigiama party.”
“No, vero?” Ridacchiò, prendendogli la mano e giocherellando con le sue dita. Sperava di farlo stare meglio con la vicinanza. “Però a casa avevo delle amiche, quindi era più facile. Qui la gente è molto più difficile da avvicinare e ho sempre problemi col freddo, non riesco a trovare un modo per gestirlo al meglio quando sono fuori.” Cercò di mantenere un tono allegro e cambiò rapidamente argomento cominciando a parlargli delle sue amiche, di suo fratello, del cane del vicino che aveva trovato il modo di passare nel loro giardino. Lasciò che le parole uscissero senza preoccuparsi troppo di fare un discorso sensato, voleva solo che Erik la ascoltasse chiacchierare mentre si addormentava così da avere qualcosa con cui tenere occupata la mente. Solo quando fu assolutamente sicura che lui fosse profondamente immerso nel sonno si alzò dal letto. Doveva pulire il sangue sul pianerottolo e in cucina, per non parlare del fatto che era troppo agitata per addormentarsi.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 -fine ***


A svegliarla fu un grido.
Era sul divano, la televisione accesa col volume al minimo. Si alzò di scatto e corse verso la camera da letto, preoccupata e impaurita. Qualcuno aveva scoperto che Erik era lì ed era entrato mentre dormivano? Si rendeva conto da sola dell’assurdità dell’idea, ma il suono terrorizzato che l’aveva svegliata non era certo nato dal niente.
Il letto era vuoto. Amelia fece il giro piano, il cuore che le batteva nel petto all’impazzata e… lui era lì. Grazie al cielo, era lì, solo, seduto sullo scendiletto, rannicchiato come un bambino impaurito.
“Non ho fatto niente, non ho fatto niente, nonhofattoniente…” ripeteva quelle parole come un mantra. Quando la vide arrivare spalancò le braccia e lei non esitò ad accettare l’invito, ritrovandosi stretta a lui. Le nascose il viso nell’incavo del collo, continuando a mormorare la stessa frase, ma questa volta con più intensità, come se volesse pregarla di credergli.
“Lo so. Va tutto bene. Beh, no, ma andrà tutto bene fra poco. Vedrai…” si bloccò un istante allontanandosi appena per saggiargli la fronte con le labbra. “Erik, ma tu scotti. Sei bollente.”
“Sto bene se resti qui.”
“Dove dovrei andare?” Lui non rispose, improvvisamente silenzioso. “Smetto di abbracciarti un attimo. Devo controllare la ferita, però accendo la luce così puoi vedermi e sapere che va tutto bene. D’accordo?”
Pur non sembrando convinto allentò la presa quel tanto che bastava perché lei sgusciasse fuori e accendesse la luce, poi si inginocchiò di nuovo davanti a lui.
Poteva già vedere che la ferita aveva sanguinato un po’ e quando la scoprì trovò quello che aveva temuto: la pelle era rossa e gonfia, una specie di fluido giallognolo maleodorante rendeva ancora peggiore quella che poche ore prima era stata una lesione pulita. “Non va bene per niente. Erik, adesso ci serve davvero quell’ambulanza.” Lui biascicò appena una risposta incomprensibile e Amelia sentì prepotentemente l’urgenza di fare qualcosa. Ma cosa? L’ambulanza, sì. Per forza. Lui però non l’avrebbe perdonata, l’avrebbe preso come un tradimento. L’avrebbe odiata, ma almeno l’avrebbe fatto da vivo.
Lo abbracciò forte forzandosi ad assorbire il suo calore anche se la casa aveva la temperatura giusta per tenerla sazia. Non prendeva mai più di quanto le servisse, di solito era già difficile arrivare ad averne abbastanza, ma non per quello era impossibile farlo. Rubandogli il calore avrebbe fatto scendere un po’ la sua temperatura, forse l’avrebbe fatto stare un po’ meglio.
Mentre ancora lo teneva stretto prese il telefono. Era riuscita a riaccenderlo. Compose un numero, un numero che non era quello dell’ambulanza.
“Tesoro, stai bene?” La voce di sua madre ruppe il silenzio dopo pochi squilli, era preoccupata perché l’aveva chiamata a notte fonda. Forse era già mattina presto? Difficile dirlo.
“Io sì, ma mi serve aiuto.” Sentiva il panico nella propria voce ma per quanto avesse tentato non era riuscita a sopprimerlo in nessun modo.
“Ti sei messa nei guai?” Sua madre suonò gentile. Non accusatoria, non ostile. Gentile.
“Che cosa faccio se una persona ha una ferita da arma da fuoco rossa, gonfia e piena di pus? Cosa faccio se ha la febbre alta? Se non posso chiamare un’ambulanza?”
“Oh, mio Dio, tesoro!” L’allarme nella voce della donna fu evidente, ma un attimo dopo il suo tono era di nuovo dolce e rassicurante. “Ho sentito al telegiornale del ragazzo della tua scuola che ha aggredito un poliziotto ieri sera. Sei con lui, vero? Ti minaccia? Puoi dirmelo, io e tuo padre…”
“No!” Amelia sentì di essere sull’orlo del pianto, ma trattenne testardamente le lacrime. “Non so cosa hanno detto di lui, ma non ha aggredito nessuno. Ha spaventato il poliziotto e si è preso un proiettile. Sta male, mamma, non so che fare. Tu sei un medico, che cosa faccio? Aiutami. Se lo portassi in ospedale potrebbero fargli ancora del male, io…”
“Va bene, va bene. Calmati. Per prima cosa devi calmarti.” Sua madre sospirò attraverso la linea, poi la sentì aprire e chiudere il frigo.
“Sono calma.” Mentì, accarezzando nervosamente i corti capelli di Erik. Sembrava che fosse un po’ meno caldo, ma poteva sentire sul collo il suo respiro accelerato e bollente.
“Se quello che dici è vero gli serve un medico, tesoro. Delle medicine.” Quello lo sapeva anche lei.
“Mamma…”
“Lo so, cara, ma un’infezione non è qualcosa con cui puoi scherzare. Rischia di morire.”
“E se lo uccidessero? Se lo portassi lì e gli facessero del male?”
“… mi pentirò molto di quello che sto per dire.” La voce di sua madre si abbassò di colpo, poi la sentì sospirare di nuovo. “Lava la ferita, puliscila meglio che puoi, disinfettala, poi mettigli addosso tutti i vestiti e le coperte che hai e portalo qui. Sono più di tre ore di macchina, perciò potrebbe peggiorare parecchio nel frattempo. Cercherò di venirti incontro a metà strada.”
“Grazie, mamma.”
“Aspetta che finiamo tutti in carcere prima di ringraziarmi…”
“Amy… Non fa troppo freddo per te? Stai bene?” La voce di Erik zittì sia lei che sua madre per un attimo.
“Mamma, si è svegliato! Mi hai spaventato a morte, zuccone. Non fa freddo, ci sono trentasei gradi, è che hai la febbre alta.”
“Bene, cara, ora riaggancia e fai come ti ho detto. Sbrigati, d’accordo?”
 
Erik era cosciente e aveva più o meno smesso di delirare, ma non era del tutto in sé. Non si era spaventato o arrabbiato perché aveva chiamato sua madre o per l’idea di portarlo da lei, aveva accettato la cosa passivamente. Era sembrato molto più presente a se stesso dopo che gli aveva lavato la ferita, pareva che il dolore avesse aiutato la sua mente a schiarirsi. Per fortuna si era anche reso conto che non c’erano molte alternative e così non aveva fatto resistenza a salire in macchina.
C’era polizia ovunque.
Il cielo era di quel buio pallido delle ore che precedono l’alba e le strade erano totalmente vuote, fatta eccezione che per loro due e una marea di auto della polizia.
“Non riusciremo mai ad andarcene” Erik sembrava spaventato e la radio si spense sull’onda delle sue emozioni.
“Ce la faremo. Dobbiamo solo…”
Un posto di blocco le fece cenno di accostare. Amelia sentì il cuore accelerare e fece la prima cosa che le saltò in mente: tirò dritto senza fermarsi.
Un attimo dopo un’altra auto le si accostò e il momento in cui l’uomo al volante vide Erik fu evidente perché sgranò gli occhi e la sua guida cambiò, facendosi aggressiva.
Amelia cercò di evitarlo o di superarlo, ma lui continuava a stringerla sempre di più verso un lato della strada.
“Accosta, Amy, accosta!” Erik aveva gli occhi sgranati, lei scosse testardamente il capo e lui le sorrise, addolcendo il tono: “senti, va tutto bene. Sapevo che prima o poi mi avrebbero trovato. Ora va bene, davvero. Se continui così rischi che…”
L’auto della polizia la spintonò di lato andandole addosso volontariamente e facendola finire fuori strada, dritta contro un albero. L’impatto fu violento e i vetri del parabrezza le graffiarono volto e braccia. Rimase stordita per un po’, poi sentì Erik lamentarsi accanto a lei. Scese dalla macchina arrancando, praticamente strisciando fuori. Era ancora talmente confusa da non pensare alla polizia che si stava mettendo in formazione, ma la ignorarono. Non era lei che volevano, anzi, era quasi come se lei neanche esistesse. Stavano agendo come se Erik fosse armato e pericoloso, ma per quanto ne sapeva lei non era nessuna delle due cose. Entrambi gli sportelli erano integri, per fortuna, e lei strisciò verso il lato del passeggero tenendosi il più possibile al riparo, poi aiutò anche Erik a uscire dal veicolo. Che fare? Tre auto della polizia erano sul ciglio della strada, i poliziotti erano vicino alle vetture con le pistole spianate. Sembravano spaventati quanto lo erano loro.
Erik alzò le braccia facendo qualche passo nella loro direzione, i lampioni più vicini sfarfallavano come non mai. “Non sparate, mi ar…”
Un colpo partì.
Amelia vide chiaramente lo sguardo terrorizzato di chi aveva fatto fuoco. Sia lei che Erik si trovarono a terra, il sangue fresco era schizzato e sporcava il viso di lui come una scia di lacrime cremisi.
Avevano sparato su un ragazzo disarmato che si stava arrendendo. La paura verso il suo essere un Evoluto non poteva giustificarli, non aveva alcun senso. Sapeva che la gente tende a voler eliminare ciò che non comprende, ma questo andava oltre. Si predicava tanto perché gli Evoluti ricevessero un trattamento uguale agli altri e poi…
Amelia si alzò e posò la mano sul cofano accartocciato della macchina. Il calore del motore era lì e lei lo assorbì completamente, aprendosi come non aveva mai fatto prima, riempiendosi più di quanto avesse mai pensato di poter fare. Quando aveva freddo era debole e stanca, incapace di trascinare il suo stesso peso, quando era sazia, invece, era piuttosto forte e molto resistente per una ragazzina della sua stazza. In quel momento si sentiva in grado di sollevare una montagna.
Afferrò l’auto con entrambe le mani senza sapere davvero che cosa farne, aveva sperato di usarla come scudo, forse, ma si sentiva forte, fortissima e con una spinta la lanciò verso i poliziotti. Rimase a guardare mentre si cappottava un paio di volte volando dritta sui loro cofani, poi Erik l’afferrò per un braccio e la tirò via. I poliziotti gridavano dietro di loro, non sapeva che danni avesse fatto con la macchina, forse aveva preso qualcuno di loro. Non era certa che le importasse.
Si inoltrarono nel parco cercando di confondersi con le ombre degli alberi, rese più scure dall’alba imminente. L’energia che le scorreva dentro grazie all’adrenalina e al calore che aveva assorbita stava scemando, facendo sì che cominciasse a sentire le ferite che aveva addosso e il dolore che ne derivava.
Amelia abbassò lo sguardo su di sé. Il lato destro della sua felpa era inzuppato di sangue e una curiosa debolezza cominciava a rendere difficile impedire alle sue ginocchia di piegarsi e cedere.
“Mi hanno colpita.” Notò, senza particolari inflessioni nella voce. Erik continuava a camminare, arrancando e trascinandosela dietro. Sembrava pazzo, gli occhi stralunati e il viso pallido imperlato di sudore. Amelia pensava che stesse lottando con tutto se stesso per non cedere alla febbre e al dolore. “Almeno non ha preso di nuovo te.” Stranamente, quella consapevolezza alleviò un po’ la sofferenza che sentiva. Era stata accecata dalla rabbia al solo pensiero che gli avessero fatto male per la seconda volta, talmente accecata da aver lanciato una macchina. L’aveva fatto davvero? Sembrava impossibile. Comunque, non avevano colpito lui. Per fortuna.
La forza che l’aveva sostenuta venne meno all’improvviso.
“No, no, Amy! Non mollare. Ci siamo quasi!”
Il corpo di Erik era caldo fino a sembrare in fiamme quando la sollevò fra le braccia. Cercò di prendere un po’ del suo calore, di prendere un po’ della sua febbre.
“Dimmi qualcosa, per favore.”
“Puoi… chiamarmi… Amy. Solo perché… sei tu.” Parlare era faticoso. Non sentiva dolore, il mondo si riduceva al calore cocente della pelle di Erik e ai suoi occhi azzurri freddi come il ghiaccio, terrorizzati.
“Come, non ti piace? Io trovo che sia molto dolce.” Il fiatone gli rendeva la voce più profonda, come se dovesse sforzarsi per farla uscire direttamente dalla gola. Teneva lo sguardo puntato su qualcosa in lontananza e avanzava testardamente in quella direzione. Nonostante fosse stordita e confusa, Amelia riusciva a sentire quanto lentamente e faticosamente costringeva il suo corpo a fare un passo dopo l’altro. La teneva in braccio come una principessa, stringendola contro il petto come se avesse paura che potesse scivolargli via dalle mani da un momento all’altro e forse era proprio così. Le sue braccia si indebolivano a ogni passo, ma lui non sembrava intenzionato ad arrendersi. “Ci siamo quasi, capito? Non lascerò che ti succeda nulla.”
C’erano quasi davvero. Amelia riconobbe il pronto soccorso mentre passavano dal parcheggio. Erano esposti, ma per fortuna la distesa di cemento era vuota e silenziosa. Ci volle qualche manovra perché Erik riuscisse finalmente ad aprire le porte, erano pesanti e lui aveva le mani occupate. Amelia poteva vedere il suo viso, affaticato e frenetico mentre si faceva strada all’interno. Fece qualche passo verso l’accettazione ondeggiando come un ubriaco.
“Aiuto…” mormorò con un filo di voce, poi perse i sensi. Lei cadde con lui, rotolando via dalle sue braccia. Rimase immobile per un attimo, troppo stordita e confusa per muoversi, poi si costrinse a strisciare fino a raggiungerlo e se lo strinse addosso come per nasconderlo.
“Svegliati.” Lo pregò a voce bassa. Tutta quella che le rimaneva.
Intorno a loro si stava formando un assembramento di persone, Amelia riconobbe dei camici e delle divise da infermiera fra coloro che si inginocchiarono al suo fianco.
“Non fategli del male,” supplicò, rendendosi conto che avrebbe dovuto lasciarlo andare perché loro potessero aiutarlo. Incontrò lo sguardo gentile di una ragazza che doveva essere un’infermiera. Aveva il viso a forma di cuore e le accarezzò i capelli con delicatezza. “Non lo faremo, siamo qui per aiutarvi,” assicurò.
Li trasferirono su due lettini diversi e Amelia non riuscì ad afferrargli la mano prima che l’equipe che l’aveva assistito sfrecciasse via lontano dalla sua vista.
 
Ricordava poco dei momenti successivi. Aveva perso conoscenza e poi si era risvegliata un paio di volte, stremata e infreddolita. A un certo punto era arrivata sua madre e aveva una vaga immagine del suo viso mentre le chiedeva qualcosa, poi nulla fino al momento in cui si era svegliata in una delle stanze dell’ospedale.
Nonostante gli antidolorifici, che di sicuro le avevano già somministrato, si sentiva come se fosse passata in un tritacarne e probabilmente era proprio così, anche se sul momento non si era resa conto di quanto gravemente si fosse ferita coi vetri durante l’incidente.
Sua madre era accanto a lei, ma non era sua la mano fasciata che la stringeva. “Erik,” mormorò, sorridendo. Era coperto di fasciature e cerotti, ma aveva un bel colorito sano sulle guance. “Stai bene.”
Lui rispose allegramente al sorriso allungando l’altra mano per accarezzarle i capelli. “Anche tu adesso. Ci hai fatto prendere paura, però.”
“Perché? Cosa…?” Non ricordava abbastanza da capire.
“Sei finita in ipotermia, i medici non sapevano della tua condizione e inizialmente non capivano perché la temperatura continuasse a calare anche se ti avevano coperta. Sei andata in arresto cardiaco e solo dopo hanno cominciato il riscaldamento rapido tramite dispositivi da cui hai potuto assorbire calore. Fra quello e la perdita massiccia di sangue sei rimasta priva di sensi per tre giorni. Stanno anche facendo degli esami perché la Commissione per la Protezione degli Evoluti pensa che tu possa essere una di loro visto che hai letteralmente lanciato una macchina.” Si decise a spiegare sua madre, con dovizia di particolari per non farle mancare quel brivido di terrore in più che ogni ricoverato vorrebbe. Oltretutto, lei un’Evoluta? Doveva essere la più sfortunata del mondo visto che quello che credevano essere il suo potere era anche ciò che la portava a rischiare il congelamento ogni poche ore.
Erik attirò la sua attenzione con un ghigno e, indicando che si portava dietro una flebo attaccata a un’asta: “io me la sono cavata meglio. Hanno dovuto rimuovere il proiettile perché era rimasto dentro, ma poi la febbre è scesa e ora sono come nuovo. Più o meno.”
Il proiettile era ancora dentro. Amelia ripercorse mentalmente i momenti in cui gli aveva pulito la ferita rendendosi conto solo in quel momento che quello di cui si era occupata era il foro d’entrata, ma non c’era mai stato nessun foro di uscita. Sarebbe stato importante notarlo.
“E la polizia?” Domandò, notando che né lei né Erik erano ammanettati a qualcosa come invece si sarebbe aspettata.
A rispondere fu di nuovo sua madre: “Tuo padre e tuo fratello si sono occupati di quello.” Amy alzò un sopracciglio per chiedere qualche dettaglio in più. D’accordo che erano entrambi avvocati in gamba, ma quello non sembrava qualcosa che potesse risolversi così facilmente. Che lei ed Erik avessero drammatizzato un po’ troppo? Il foro nella sua spalla diceva di no. “C’erano testimoni che avevano assistito alla scena la sera in cui Erik è stato fermato dal poliziotto al posto di blocco. Siamo riusciti a dimostrare sia che l’agente era da solo -cosa già illegale di per sé- e che quindi la testimonianza a suo favore del collega era falsa, sia che Erik non aveva fatto niente per minacciarlo. Meglio ancora, è venuto fuori che l’uomo è un razzista convinto e aveva già maltrattato degli Evoluti in passato, la stampa ci è andata a nozze. Insomma, alla fine l’unica cosa di cui siete accusati è non esservi fermati al posto di blocco.” Concluse sua madre, assecondando l’implicita richiesta di spiegazioni.
“Quindi è tutto finito? Papà e David hanno messo tutto a posto?” Domandò per sicurezza, non era sicura di poterci credere davvero.
“Sì, va tutto bene. Probabilmente ci saranno dei processi e dovrete testimoniare, ma non è il caso di preoccuparsene adesso.” La donna si abbassò a baciarla sulla fronte, poi si stiracchiò annunciando di aver bisogno di un caffè. Uscendo dalla stanza le lanciò un sorrisetto scaltro e persino un occhiolino, Amelia si lasciò sfuggire una risatina in risposta.
“Grazie, Amy.” Quando rimasero soli, Erik tornò improvvisamente serio.
“Per averti fatto schiantare contro un albero?” Buttò lì cercando di farlo ridere, funzionò ma solo per un istante.
“Per avermi creduto.” Si chinò su di lei fino a sfiorarle le labbra con le sue. Fu un contatto breve, ruvido per il taglio che le segnava il labbro inferiore, dolce come nessun bacio prima di allora.
Amy esitò un istante, poi un sorriso timido le si affacciò sulle labbra. “Non c’è di che.”

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