A New Generation

di wanderingheath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali (I) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali (II) ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.



Un fulmine lacerò il cielo nel momento stesso in cui mise piede fuori dal motel.
Allo strappo di luce si aggiunse, un istante dopo, il roboante tumulto di tuoni.
Caleb Jacobs si congratulò con se stesso per la propria previdenza, mentre apriva l’ombrello color limone, unico baluardo contro il muro d’acqua che lo attendeva.
Fortunatamente, l’automobile era vicina.
L’aveva lasciata nel parcheggio riservato ai clienti, se così si poteva definire lo spiazzo deserto davanti a quell’ostello di infima categoria.
Detestava il maltempo.
Nella sua vita la pioggia non aveva mai portato nulla di buono e lo stesso si poteva dire per la città di Los Angeles, da cui si teneva quanto più possibile distante; ma la pioggia a Los Angeles, in quella stagione poi, costituiva una duplice, spiacevolissima, coincidenza, una stonatura impossibile da ignorare. Lui che nei segni del destino credeva fin troppo – e da fin troppo tempo – per archiviarli con scetticismo, percepiva l’intera situazione come l’acutissima, stridente, nota di un violino non accordato.
Il desiderio di rincasare suonava tuttavia più forte di qualunque altro richiamo.
Fattosi coraggio, si avviò sotto l’acquazzone, lasciandosi alle spalle l’insegna al neon ronzante, in procinto di dare forfait.
La ventiquattr’ore in similpelle sbatacchiava di tanto in tanto contro la gamba, fasciata dallo strato di pantaloni che costituivano più un velo che altro. Un velo umido e fastidiosamente aderente.
L’unico pensiero che riusciva a consolarlo si trovava a duecento miglia da lì, ad attenderlo nella villetta a due piani di sua proprietà: il calore della camera da letto, silenzio bianco, stanco, in cui muoversi come un essere fatato, ultraterreno, depositando i panni bagnati sulla sedia nell’angolo. Lì, rannicchiata nella coltre di lenzuola, la figura snella di Naomi con il costante respiro otturato nell’apnea notturna.
Chissà se aveva chiamato il giardiniere per sistemare il cortile sul retro. Conoscendo la precisione di sua moglie, il forte selfcontrol che la portava a voler tenere tutto sotto il proprio controllo, non solo lo aveva contattato, ma ingaggiato per la mattina seguente.
Jacobs lanciò un’occhiata al proprio Rolex, recente regalo dei colleghi per il suo compleanno, realizzando con stupore che la “mattina seguente” era iniziata da almeno un paio d’ore.
Aveva trascorso molto più del previsto in quel posto dimenticato da Dio, senza rendersene conto.
Fortunatamente Naomi aveva un sonno pesantissimo: toccato il cuscino, veniva risucchiata in un fortino inespugnabile, che neppure una detonazione avrebbe potuto turbare. Era di sua figlia che si preoccupava. Superata da un pezzo la fase in cui si alzava ogni cinque minuti per tirarlo giù dal letto, in preda agli incubi o annoiata dalla propria insonnia, adesso rincasava tardi, con le scarpe in mano e il viso strizzato in una smorfia, pregando il cielo di non trovarlo ancora sveglio.
Caleb Jacobs non era però uomo da prediche; sapeva come girava il mondo e sospettava che lei, ormai adolescente, lo sapesse anche meglio.
Quella notte, comunque, i ruoli si erano ridicolmente invertiti.
Raggiunta la Subaru di ultima generazione, Jacobs appoggiò la valigetta sul tetto dell’auto, frugandosi le tasche in cerca delle chiavi.
Le scambiava sempre di posto tra giacca, pantaloni, camicie e qualunque indumento munito di taschini, perdendo anche dieci minuti a cercarle: l’unica occasione in cui la sua onnipresente meticolosità cedeva.   
Ma dove diamine le aveva messe?
Qualcosa di freddo e metallico cozzò contro le nocche.
Ah, eccole lì. Erano al sicuro nella fodera della giacca.
L’ombrello, che nello sforzo della ricerca aveva incastrato nell’incavo del collo, venne spostato da una folata di vento. Si affrettò a stringerne impugnatura e manico bagnato con entrambe le mani, mentre un secco tintinnio denunciava la caduta del mazzo di chiavi.
Un sibilo d’imprecazione, trattenuta a malapena, lasciò le labbra di Jacobs.
Dovette mettersi carponi accanto alle ruote, un braccio allungato sotto l’automobile, la guancia graffiata dall’asfalto ruvido. Quella che si era prospettata come una nottata impegnativa ma breve, si stava rivelando più lunga e complicata del suo disegno.
«Trovate.»
La sua voce si disperse nel parcheggio vuoto, cimitero che ospitava al massimo un paio di vetture sgangherate. Il Java Twin Juction Motel non costituiva la prima scelta di nessun viaggiatore, per quanto disperato o a corto di benzina. «Dove credevate di scappare?»
Jacobs strinse nel pugno il suo tesoro, rimettendosi in piedi a fatica. Iniziava ad avvertire il peso di una vecchiaia precoce che si approssimava. Avrebbe chiamato il medico per quel problema alla schiena, ma in un secondo momento. Adesso voleva solo entrare nell’abitacolo della Subaru e dirigersi verso casa.
Quanto prima si fosse allontanato da Los Angeles, tanto prima si sarebbe sentito meglio.
Stava trafficando con la serratura, appoggiato alla portiera, rivoli di pioggia che scorrevano lungo i finestrini ad inzuppargli le maniche, quando una fitta gli lacerò il fianco.
Fu come sentirsi stracciare l’anca. Le crepature di dolore iniziarono a diffondersi tutt’intorno la ferita solo qualche secondo dopo la sua presa di coscienza: qualcuno lo aveva assalito.
Jacobs tentò di divincolarsi dalla morsa che gli attanagliava il braccio, voltandosi fulmineamente verso il proprio aggressore. Una testata lo destabilizzò, rompendogli il naso.
Accessi di sofferenza, acuti e simili a mucchi di spilli, gli torturarono la carne fin quando non si accasciò a terra. Il mazzetto di chiavi giaceva immobile accanto all’ombrello spruzzato di sangue, un rivolo carmino abbracciava le gomme della Subaru. Teneva gli occhi chiusi, Caleb Jacobs, con dei respiri pesanti provava ad isolare i centri di dolore, concentrandosi sul rumore di passi in allontanamento.
Uno... due… tre… quattro… decrescevano anche gli spasimi, si indeboliva il bruciore che lo corrodeva da dentro.
Cinque… sei… sette...
La mente si rivolse involontariamente alla figlia. Ma non era l’immagine che gli appariva davanti gli occhi ogni mattina, di una ragazza assonnata e pronta per recarsi controvoglia a scuola; no, adesso vedeva una bambina di appena quattro anni, con la scamiciata rossa e i capelli raccolti in un paio di treccine scure, che gli tendeva un mazzolino di fiori strappati dal giardino.
Era la Caroline con i pugni e il viso pieni di terriccio a venirgli incontro mentre la vita scivolava via in un ultimo battito.
In meno di trenta secondi era finita.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali (I) ***


Capitolo 1. – Nessuno ride ai funerali

 
(I)


 
Sunsets on the evil eye
invisible to the Hollywood shrine
always on the hunt for a little more time
Just another LA devotee






«È stato rinvenuto nella notte il corpo privo di vita dell’ispettore Caleb Jacobs, nei pressi dell’interstatale I-5, periferia nord-ovest di Los Angeles. A dare l’allarme, verso le cinque del mattino, il proprietario del Java Twin Junction Motel, luogo del ritrovamento. Sul cadavere numerose ferite da arma da taglio, ma resta sconosciuta l’identità dell’assassino. Ancora nessuna dichiarazione da parte della polizia di Los Angeles, incaricata delle indag…»
Il televisore fu spento di colpo.
Al posto dell’espressione corrucciata della giornalista bionda, una schermata neutra e silenziosa.
Rosemary Woods, piena padrona dell’abitazione e della scelta dei programmi televisivi, depositò il telecomando sul tavolo, già apparecchiato per la colazione.
Il bricco di caffè che teneva in una mano oscillò pericolosamente, mentre la donna cercava di sorreggersi al ripiano in noce con la sinistra. Se non lasciò la presa sul manico, fu per un soffio.
D’un tratto, le mancava il respiro.
Aveva cominciato quella giornata come ogni lunedì d’autunno: aprire le imposte, arieggiare le stanze, svegliare Owen, stendere la tovaglia pulita sulla tavola, preparare caffè e qualcosa da sgranocchiare, accendere la televisione. Le teneva compagnia, la voce dei presentatori, il tappeto di informazioni e sigle che si rincorrevano, mentre attendeva che il caffè bollisse.     
Cercò lo sguardo del marito dall’altro capo della stanza, sicura di trovarlo accovacciato sulla sua poltrona preferita. Immerso nella lettura mattutina, stava, infatti, sfogliando il suo quotidiano, la tazza di caffè lungo adagiata su un bracciolo.
Owen era ormai anestetizzato alle brutalità che il notiziario delle sette vomitava, ma dire che un annuncio simile fosse giunto inaspettato sarebbe stato riduttivo. Era semplicemente impossibile.  
Impossibile: ecco cosa continuava a ripetersi mentalmente, nel tentativo di rimettere insieme i pezzi del proprio animo e della vicenda. Il suo unico augurio – che la nipote non fosse ancora scesa al pianterreno – venne infranto da uno scricchiolio proveniente dall’ingresso. Rosemary si voltò lentamente.
Come evocata con la sola forza del pensiero, Honey Robinson si era materializzata in salotto.
Per un attimo, calò un telo di silenzio e stasi ad avvolgere l’intero ambiente.
Come se qualcuno avesse messo in pausa le nostre vite, pensò Rosemary Woods con un groppo alla gola.
Poi, suo marito ripiegò il giornale e si accostò al televisore.
Un’occhiata indirizzata alla giovane, che tentennava, appoggiata allo stipite della porta.
Le pose un’unica domanda, giudicandola sufficiente a prendere una decisione risolutiva.
Chiese soltanto: «Hai sentito?»
La ragazzina annuì in un tempo che apparve a tutti eccessivamente dilatato; sembrava muoversi al rallentatore. Owen Woods premette il pulsante d’accensione e rimase in attesa, braccia incrociate al petto, accanto al pesante tendaggio della finestra. Lo sguardo di rimprovero scoccato dalla signora Woods cadde nel vuoto.
Il notiziario era terminato, ma, a seguito dell’ennesimo spot che pubblicizzava una crema da giorno, apparve un’edizione straordinaria. In evidenza, al centro della striscia rossa, una trafila di news impilate le une sulle altre, mentre la voce concitata di un presentatore, meno noto alle telecamere dei suoi colleghi, annunciava una svolta sul caso Jacobs.
«Nuova svolta sul caso Jacobs, il celebre ispettore – un tempo eccellenza nel campo della lotta alla criminalità organizzata – assassinato nella notte in un motel sull’interstatale I-5. La testimonianza di Wade Fentren, intervistato per noi dal nostro inviato speciale…»
Honey ricercò all’istante il sostegno dello stipite, come ad accertarsi che si trovasse ancora lì, che l’abitazione intera non fosse prossima ad un crollo; gli occhi incollati allo schermo azzurro.
Il giovane, che si beava della definizione di “inviato speciale”, altri non era che un giornalista fresco di college con la pelle bitorzoluta, segnata dall’acne, e un paio di occhiali da sole che, anziché conferirgli un tono più adulto, ne accrescevano l’aria da pivello, alla disperata ricerca di uno scoop.
Una iena, non migliore delle altre, a racimolare briciole di notizie, carcasse di prove, sulla scena di un omicidio. Honey sentì lo stomaco contorcersi.
Tobias - così l’avevano presentato – stringeva il microfono e reclamava gli obbiettivi delle telecamere con la presunzione di una soubrette affermata. Accanto a lui, un omaccione completamente calvo scrutava diffidente la scena.
«È qui con noi Wade Fentren, proprietario dell’autocarro parcheggiato a pochi metri dalla scena del crimine», indicò con un pollice il proprio ospite, «Wade, lei ha dato l’allarme, dopo aver visto il cadavere. Cosa può dirci al riguardo?»
L’uomo si limitò ad una scrollata di spalle.
«Era steso a terra. C’era una marea di sangue, una pozza larga così», spiegò completo di mimica. 
Il giornalista si ritrasse appena, cercando approvazione, oltre le telecamere, da parte di qualche superiore o collega.
«Ma guardalo,» stava osservando Owen Woods, «contento come un bambino durante la sua prima volta a Disneyland.»
Fentren, intanto, pareva disgelarsi, mano a mano che esprimeva concetti maturati in anni di esperienza, ma senza mai l’opportunità di condividerli con un pubblico più ampio di quello del bar. «Che ci vuoi fare? La vita dei notturni è così: un rischio. E chi gira, la notte, di questi tempi? Noi ci siamo abituati, fai avanti e indietro più volte, senza fermarti mai. Alla fine, se decidi di fermarti in un posto, per la stanchezza magari, che ne sai chi ti ritrovi, intorno? Guarda quel poveraccio, ci ha rimesso le penne. Los Angeles non è più sicura.»
Il corrispondente riprese le redini della situazione: «Bene, da qui è tutto. Linea allo studio.»
Apparve, in sostituzione, il solito giornalista del notiziario delle sette, intento a trafficare con un plico di fogli, quasi ansimando nel tentativo di rimettersi in pari con i tempi del programma. «A quanto ci dicono,» bofonchiò, «il caso sarebbe stato affidato ad una delle migliori agenti del…»
Un fischio. Il tempo di un battito di ciglia e lo scenario era mutato. Adesso le sagome di un cartone animato per bambini si rincorrevano su di un prato, con uno scoppio di trombe a fare da sfondo. Nessuno, però, stava prestando attenzione alle avventure della protagonista dello show.
I tre si osservavano a vicenda, cercando da un lato conferma della veridicità dell’accaduto, dall’altro tracce di un possibile cedimento. Rosemary Woods era convinta che la nipote sarebbe svenuta da un momento all’altro; tuttavia, erano le sue, di gambe, a non dare gran prova di resistenza. Lo schienale della sedia l’accolse non appena vi si adagiò, distrutta.
La domanda che aleggiava sul loro capo, il pendolo che tagliava a metà quel silenzio di tomba, il gigantesco elefante nella stanza che nessuno sarebbe riuscito a tollerare ancora per molto: si trattava proprio di lui? Avevano sentito bene? Era proprio lui?
Sì, era lui, proprio lui. Quello stesso Caleb Jacobs che avevano richiuso nel dimenticatoio, insieme ad altre verità scomode e ricordi ustionanti; la loro incredibile, amara pillola, impossibile da mandar giù.
Si trattava di lui ed era morto.
Rosemary Woods si sforzò, in quel momento, di concentrarsi solo sulla colazione.
Se avessero finto che tutto ciò non fosse reale, non lo sarebbe più stato davvero. Giusto?
Si sarebbe volatilizzato il nodo alla gola, così come il senso d’angoscia, la premonizione che qualcosa di più grave, d’incombente, li stesse minacciando alle spalle, da lontano.
Sarebbe sparito tutto, cancellato con un colpo di spugna. Giusto?
Indicando il vassoio di toast, caffè ed omelette preparato per la nipote, azzardò un timido: «Vuoi… vuoi qualcosa da mangiare, tesoro?»
Nonostante lo sguardo d’indignato ribrezzo, tentò una seconda volta di offrirle qualcosa da mettere sotto ai denti. Honey si limitò a sollevare la mano destra; indice e medio, incollati, si richiusero sul pollice, secchi, sbattendo contro il polpastrello. L’assurdità dell’intera situazione le faceva ribollire il sangue.
Uno dei migliori detective in circolazione, ucciso in circostanze ignote, nella notte. No, anzi, non uno qualsiasi, ma Caleb Jacobs.
Lo stesso individuo che le apriva la portiera dell’auto, assicurandole la cintura sul seggiolino. Era l’uomo che, riposta l’abituale aria da severo giustiziere insieme alla divisa della polizia, si sedeva a tavola e cominciava ad imitare la moglie, esibendosi in boccacce che la facevano piangere dalle risate.
Caleb Jacobs – quel cadavere che si era spento in una pozza del proprio sangue, sotto l’acquazzone, per poi essere ritrovato accidentalmente da un camionista di passaggio – era la stessa persona che le aveva regalato splendide conchiglie, in passato. Se, durante qualche ricognizione, si trovava a costeggiare la spiaggia, intascava i gusci screziati, oppure quelli che la marea aveva levigato maggiormente, cosicché lei potesse aggiungerli alla collezione.
Caleb Jacobs era morto, adesso.
Nella notte, alla periferia di Los Angeles.
Era diventato una delle fotografie in bianco e nero del necrologio locale, un’immagine memoriale del telegiornale, il riassunto di una biografia – di una vita intera, passata al servizio della giustizia e della propria famiglia – nelle mani di un inviato speciale o di un nastro rosso, nelle news.
Morto, morto, senza alcun ritorno, senza possibilità di riscatto, senza alcun viso familiare accanto. E lei non sapeva come sentirsi.
Morto. Semplicemente morto.
«Cosa ci faceva a Los Angeles?»
Era stato Owen Woods a parlare. Interrogava entrambe, ma né sua moglie, né sua nipote possedevano una risposta – o anche solo l’ombra di una risposta – che fosse plausibile. I Jacobs non vivevano lì da anni, ormai; il trasferimento a San Francisco risaliva a circa dieci o undici anni prima. Appariva strano che la morte avesse colto il detective proprio in quel punto remoto della sua esistenza, relegato ad un passato sigillato e di cui era stata eliminata la chiave. Quasi uno scherzo crudele del destino.
Nella mente di Rosemary, però, si agitava un pensiero di tutt’altro tipo.
Vi rimuginò per alcuni minuti, prima di dichiarare: «Dovremo andare al funerale».
«Dobbiamo?», domandò l’altro.
Per un attimo, ritenendo il quesito retorico, la donna lo ignorò. Resasi conto che il marito non stava scherzando – e perché mai avrebbe dovuto, d’altronde? – si raddrizzò sulla sedia, impettita. Non partecipare al funerale di Caleb Jacobs? Come diamine poteva anche solo pensare un affronto del genere?
«Certo che dobbiamo andare, Owen.» Le uscì un acuto stridulo, da far invidia ad un soprano.
«Dopo tutti questi anni?»
Aveva preso ad agitare il bricco del caffè, ora, sfogando su di esso la propria indignazione. «Non conta il tempo trascorso! Possono essere passati secoli, ma nulla conta, davanti a una cosa del genere.»
Si lanciò in una filippica su come il loro supporto sarebbe stato fondamentale, su quanto avrebbe fatto piacere alla povera, neo-vedova la presenza della famiglia Woods al completo. A giudicare dalla sua visione, sarebbero apparsi alla funzione come dei redentori, portatori di serenità e speranza.
Owen, dal canto proprio, continuava a mostrarsi scettico. 
«E che conforto possiamo dare, noi, a Naomi?»
«Un supporto emotivo! Ma, diamine, devo spiegarti tutto io, Owen?»
Honey era rimasta in un angolo, spettatrice passiva allo scambio fra i due coniugi. Non sapevano ancora nulla sulle esequie di Jacobs – ammesso che un funerale si prospettasse nell’immediato futuro – e loro già pontificavano su come si sarebbe svolta la cerimonia, su cosa avrebbero indossato e quale tipo di corona di fiori sarebbe stato più opportuno inviare.
Alla tv, un piccolo coniglio saltellava spensierato verso il tronco di un albero, facendo ritorno alla propria tana. Honey rimase ipnotizzata, spegnendo momentaneamente il cervello, che continuava ad urlarle, implacabile: MORTO, MORTO, MORTO.
«Le servirà un volto amico, un sorriso», proseguì Rosemary con enfasi.
«Rose», Owen stava scuotendo il capo. «Nessuno ride ai funerali.»
Calò un lungo silenzio, riempito esclusivamente dalla sigla squillante del cartone. Ne stava per iniziare un altro, tutto fiori e filastrocche, mentre sul primo canale si discuteva di armi del delitto, sicurezza e copiose quantità di sangue.
L’autobus sarebbe passato in una mezz’ora, ma Honey non riusciva a trovare la forza di muoversi, di compiere la più banale delle azioni. Fissava senza emozione la propria tazza, nel centro esatto del sottobicchiere di stoffa. Di mangiare non se ne parlava, ma neppure di avvicinarsi al tavolo, di fare un passo verso il televisore.
Alla fine, si costrinse ad uscire dal proprio cilindro d’immobilità e ad abbandonare la stanza, ritirandosi nella propria stanza. 
Rosemary, che ne aveva seguito di sottecchi il percorso strascicato, si lasciò sfuggire un gesto di stizza, per poi soffocare definitivamente l’apparecchio elettronico. Sbatté il telecomando sulla tavola.
«Maledetti televisori. Ci hanno solo rovinato la vita.»
Owen Woods era tornato al proprio posto, placido come sempre. Ignorò il giornale, ma decise di non rinunciare alla tazza di caffè fumante che si era versato prima dell’annuncio.
«Fosse quello il problema, Rose», commentò sorseggiando la bevanda. «La verità, l’ha detta quel camionista al notiziario: Los Angeles non è più sicura.»
 
 
 
 
*  *  *



 
Il suono della chitarra elettrica grattava le finestre, raschiando contro i vetri. L’hard rock aveva lunghe unghie laccate, che stridevano lungo le pareti, facevano tintinnare il lampadario a gocce, grattavano cuscini e fodera verde del divano. La canzone esplodeva al massimo volume dalle casse, infestando tutti gli ambienti dal pian terreno.
Il ritmo si era impossessato prima del suo piede, per poi attaccare le gambe, fino a contagiare il corpo intero, ora libero di agitarsi in giro per le varie stanze, su e giù per la casa.
La scala che conduceva al primo piano era il suo palcoscenico, ogni gradino corrispondeva ad una nota.
Saltellava da un punto all’altro senza controllo, scuotendo braccia, ginocchia, anche, capo.
Non aveva potuto fare a meno di accordarsi alla voce del cantante, gridando al vuoto: «Hey, mama, look at me. I’m on the way to the promised land.»
Adorava la potenza vocalica della band, l’irriverenza della canzone, lo strappo nella quiete del suo quartiere, patinato di giusta compostezza. Ogni volta che tornava dalle lezioni e aveva la casa tutta per sé, completamente libera, accendeva il nuovo stereo, accanto alle piante grasse, e lasciava che la musica accompagnasse ogni gesto – anche il più banale – realizzando la colonna sonora della sua vita.
Adesso, ad esempio, si accordava benissimo con l’immagine che le rimandava lo specchio.
Era tutto un volteggio, un insieme di spirali e rotazioni sul posto tra una passata di mascara, un colpo di spazzola e qualche strato di fondotinta. Il suo riflesso cacciò un urletto gutturale e, con uno scatto del capo, si riportò la chioma fiammeggiante – un attimo prima a nascondere il viso – sulle spalle.
«I’m on the highway to hell!»
Che non avrebbe dovuto mettere tutto quell’impegno nel sistemarsi per l’uscita, lo sapeva benissimo, ma non poteva evitarlo. Era una di quelle esigenze, un impulso inarrestabile, che doveva assecondare.
Le possibilità di trovarlo lì, quella sera, erano terribilmente vicine, se non pari, allo zero; eppure la pulce nell’orecchio le suggeriva di non trascurare neppure una goccia di probabilità. Se poteva incontrarlo – anche in mezzo a quel marasma di calore ed umidità, incollati addosso a corpi di sconosciuti, anche se sapeva già come sarebbe andata a finire – voleva essere irresistibile.
Purtroppo, era fin troppo consapevole del fatto che discoteche e night club non fossero le sue mete preferite. Lei, invece, riusciva già a pregustare il dolce sapore fruttato del suo cocktail preferito, corroborante sul palato; il pulsare dei brani direttamente nel corpo, lungo le braccia e attraverso il costato, come se le avessero appena fatto un’endovena musicale. E la parte migliore: essere abbracciata da onde di pelle, da altri esseri umani che si scatenavano come lei e capivano la bellezza trionfante della libertà.
Adorava tutto ciò. 
Lanciò l’ennesima occhiata al proprio riflesso. Nel complesso poteva andare, mancava soltanto...
Ma dove diamine l’aveva messo?
Si accucciò davanti al cassetto in cui sua madre teneva i trucchi. Non sarebbe stata la fine del mondo, se avesse preso in prestito un semplice rossetto.
Continuava a canticchiare tra sé e sé il ritornello della canzone, mentre si colorava le labbra con una precisione chirurgica. Un urlo ruppe la sua bolla di serenità.
«Cosa diavolo è tutto questo chiasso?»
La porta d’ingresso venne richiusa in un tonfo.
Un istante dopo, Highway to Hell morì, lasciando il posto all’eco delle note, blando fantasma di ciò che le rimbombava ancora nella cassa toracica.
Sua madre si affacciò dalla porta del bagno.
«Quante volte ti ho detto di non tenere la musica così alta? Disturbi i vicini.»
«Mh», mugugnò l’altra, con le labbra ancora protese. «Il rock deve disturbare. Altrimenti significa che non sta funzionando.»
La donna si spinse un po’ più avanti, fino ad aggiungere il proprio riflesso a quello della figlia, nella specchiera. Aveva cambiato tono ora: «Pensi di uscire, stasera?»
Un altro mugugno in risposta, nel tentativo di non sbavare la linea tracciata.
«D’accordo. Ma ti voglio a casa per le dieci.»
«Cosa?» Si decise a guardarla per la prima volta dal suo ingresso.
Delle borse appesantivano gli occhi, già profondamente cerchiati di nero, mentre il viso presentava una colorazione quasi esangue. Portava ancora l’uniforme indosso, con il distintivo a riflettere le luci accecanti dello specchio, spezzandone i contorni in briciole di colore. «Giornata pesante?»
«Sono dovuta andare in un’altra centrale.» Una pausa di silenzio. «Non hai sentito il notiziario?»
Davanti al diniego della figlia, la donna tirò un sospiro di sollievo. «Forse è meglio così.»
L’altra aggrottò la fronte, abbandonando definitivamente l’operazione di maquillage. «È successo qualcosa di grave?»
Il silenzio fu eloquente per entrambe.
«Mamma? Cos’è successo?»
«Una sparatoria. Ordinaria amministrazione», replicò quella, evasiva. «Però non voglio che resti fuori dopo il coprifuoco. Chiaro? Domattina hai lezione.»
«Da quando ho un coprifuoco?»
La donna le indirizzò un’occhiata tagliente: «Da adesso».
Detto ciò, le voltò le spalle e si trascinò in cucina.
L’aveva lasciata impalata nel centro esatto della toilette, con il rossetto ancora tra le dita.
Non poteva crederci: un coprifuoco? Lei?
Erano anni ormai che rincasava agli orari più disparati, senza che la madre si preoccupasse oltre il necessario. Si poteva dire che fosse perfino meno rigida, al riguardo, rispetto ad altri genitori.
Ma ora? Cos’era cambiato?
Non gliel’avrebbe data a bere così facilmente. La seguì nell’altra stanza.
La trovò a trafficare davanti al frigorifero aperto; stava frugando fra bottiglie di succhi di frutta e vasetti di yogurt magro, che nessuna delle due si decideva a consumare, ma entrambe continuavano ad acquistare in maniera distratta, automatica, da tempo immemore. Era divenuta una specie di tradizione, una battuta fra di loro.
«Non capisco il perché di questo ripensamento.»
«Con chi ti vedi stasera?»
«Non cambiare discorso.»
Meredith King alzò gli occhi al cielo, incapace di trovare un’altra obiezione. «Il coprifuoco è per il tuo bene, Roxy. Smettila di fare la bambina capricciosa.»
Era una risposta fragile, una filastrocca posticcia che non significava un bel niente. Il suo bene? Cos’era esattamente il suo bene?
Se avesse saputo quanti e quali ostacoli si frapponevano, nel quotidiano, tra lei e il “suo bene”, concetto astratto e irrilevante, avrebbe rabbrividito. E le avrebbe probabilmente impedito di uscire di casa per il resto dei suoi giorni.
La stava invitando a rispondere con un cenno del mento. «Ora tu.»
Roxy King sbuffò. «Con Derek.»
Sua madre aveva alzato un sopracciglio, affatto convinta. Le era stato sufficiente uno sguardo, per far traballare quella risposta. «Sei sicura?»
«Sì, ovviamente.» La ragazza arricciò il naso, ma non riuscì a trovare la forza di aggiungere ulteriori repliche. Iniziava ad esasperarla con tutte quelle regole ed inquisizioni, estratte, all’improvviso, dal cilindro.
«Io non ho segreti, al contrario di te», aggiunse, prima di ritirarsi nella propria stanza, in cerca della borsa.
Vi fece scivolare il pacchetto di Chesterfield già iniziato, le chiavi di casa e il rossetto in prestito.
Fu il rumore di un clacson, sotto la sua finestra, a richiamarla all’ingresso, ma si ritrovò il passaggio ostruito dalla sedia di Meredith.
Sua madre la stava scrutando intensamente. Un unico sguardo, che le lasciò la sensazione di un morbido schiaffo sulla guancia, mentre tenerezza ed umiliazione le scombinavano, in una centrifuga disordinata, le viscere.
«Niente segreti», ripeté Meredith King. «D’accordo. Devi sapere una cosa, allora.»
Alcuni minuti dopo, era fuori.
Il tramonto si scioglieva oltre le palme all’orizzonte, sui lontani declivi di Hollywood, in modo lento, placido; gettava ombre sul prato ben potato, sulla rampa d’accesso alla loro abitazione – l’avevano fatta installare subito dopo l’incidente, non appena il dottore le aveva guardate strizzando le labbra e scuotendo la testa, demolendo qualunque possibilità di recupero per la signora King. 
La macchina di Derek Anderson l’attendeva, parcheggiata davanti al vialetto d’entrata. Fu accolta dal familiare smalto grigio metallizzato, assieme all’intenso profumo di sandalo e miele che impregnava le fodere, avvolgendo l’abitacolo.
La ragazza si tirò dietro lo sportello, abbandonandosi al sedile, prosciugata ed incapace di guardare il guidatore o anche solo di spiccicare parola.
«Sei in ritardo, Roxy.»
Derek indossava il solito giacchetto in pelle, con il colletto per metà rialzato, la maglietta verde petrolio delle occasioni informali e i polsini rivoltati a lasciare più libere le braccia vigorose.
Davanti all’espressione indecifrabile di lei, aggiunse un: «Va tutto bene?»
Lentamente, si voltò verso l’amico. Gli occhi turchesi erano svuotati di ogni emozione.
Concentrato su un ciuffo ribelle che ricadeva sulla fronte di Roxy, Derek si era perso l’ultima affermazione.
«Cosa?»
«Jacobs», ripeté lei, lapidaria. «È morto.»
Un momento di spaesamento e terrore, mentre cercava di capire di chi stesse parlando. Poi, riconnesse i pezzi del mosaico a loro ben noto.
Il ragazzo si bagnò le labbra. «Caleb Jacobs? Quel Caleb Jacobs?»
L’altra stava annuendo, le iridi risucchiate da una spirale incomprensibile, dalla personale proiezione in corso nella sua mente. «Dobbiamo parlare con Ryder.»
 

 
 *  *  *
 


 
Erano le nove di sera.
Le nove e quarantacinque minuti, per la precisione.
Lo sapeva sempre, ma non di certo grazie alla sveglia o all’orologio a muro che ticchettava nella penombra, in cucina.
Conosceva il quartiere, semplicemente.
Lo squittio del bollitore sul fornello, con cui la signora Melton, nell’abitazione accanto, faceva bollire le sue tisane, prima di coricarsi, era inequivocabile; così come il quiz a premi che i dirimpettai si dilettavano a seguire, scatenando le rabbiose proteste del loro basset hound.
In genere, a quell’ora, lei se ne stava comodamente distesa sul proprio materasso, avvolta dalle ombre della camera. Non lasciava neanche una luce accesa, salvo quella sul tavolino accanto al televisore, se suo padre era in casa a seguire qualche partita di football, repliche o dirette che fossero.
Anche quella sera, si godeva la beatitudine di un rassicurante silenzio.
Supina, le spalle conficcate nel materasso comprato al discount vicino, un lenzuolo a coprirle appena le gambe nude. Si rigirava un laccio per capelli tra le dita, osservando il soffitto con interesse.
Galassie di macchioline d’unto occupavano la maggior parte dello spazio, raggrumate soprattutto attorno al lampadario. Come vi fossero finite, sarebbe rimasto un mistero per lei.
Ignorava volutamente il rigurgito di appunti e fogli stropicciati che traboccava dallo zaino. Da quando era rincasata, l’aveva gettato in un angolo, assestandogli un calcio solo per accertarsi di non ritrovarselo intorno prima della mattina seguente. Non l’aveva aperto, né aveva intenzione di farlo.
Un’unica materia catturava il suo interesse: la matematica.
Le lezioni in classe, tuttavia, erano terribilmente pesanti, noiose; s’incagliavano su elementi basilari, ovvi, che apparentemente i suoi coetanei non riuscivano ad afferrare e la docente a sbrogliare.
In simili momenti, avrebbe desiderato alzarsi, scansare l’insegnante e appropriarsi del gesso. Le sarebbero stati sufficienti due minuti per spiegare quegli stessi concetti, senza interruzioni o dubbi, certa che gli altri studenti avrebbero in tal modo compreso. Ma non lo faceva, ovviamente. Non nutriva alcun tipo di interesse per quelle stronzate.
Sì, per lei tutto si riconduceva ad un unico comun denominatore: stronzate.
Leah Scott si rigirò su di un fianco, facendo scivolare il laccetto scuro lungo il polso.
Era una di quelle serate troppo serene per potersi rilassare.
Come volevasi dimostrare, un urlo del padre fece vibrare le pareti.
Prima che Leah potesse intuire di cosa si trattasse, cosa stesse avvenendo al piano inferiore, la sagoma paterna si stagliò nel buio della sua camera, incombendo come un gigante tra le due montagne laterali: libreria ed armadio.
Leah si tirò a sedere, incartando attorno al piede il lenzuolo fresco di bucato.
Non aveva affatto un bell’aspetto. Dagli occhi di lince, così diversi da quelli della figlia, sprizzavano baluginii folgoranti, che non preannunciavano alcunché di buono. Neanche la bava che, dalla bocca, gocciolava lungo il collo della maglietta.  
Leah sentì le viscere aggrovigliate in un nodo stretto, da marinaio.
«Che fine ha fatto?» 
Sollevò entrambe le sopracciglia, spaesata: «Come…?»
«Ho detto», ringhiò l’uomo, «che fine ha fatto?»
Anticipando qualunque tipo di replica, aggiunse: «Non fingere di non sapere di cosa sto parlando, perché lo sai perfettamente.»
«I-io…»
«Ah, non lo sai? Eh?»
Thomas Scott scattò sul materasso, afferrò la figlia per un braccio – come a volerglielo staccare lì per lì – e la trascinò fino al pianterreno, tirandola per un orecchio, determinato a non farsela sfuggire.
Solo quando furono davanti al televisore, si decise a lasciarla andare, gettandola con uno spintone sul pavimento. Leah sentì lo spigolo del tavolino pungere contro il cranio.
«Lo sai, almeno, cos’è questo?»
L’uomo stava indicando il piccolo schermo della tv analogica, picchiettando ripetutamente contro il vetro, simile ad un automa programmato per quell’unico, sciocco gesto.
«Rispondi!»
Granelli di saliva si depositarono sul suo viso. Leah arricciò il naso e, ad occhi chiusi, annuì.
L’altro abbassò il tono, per scandire meglio le frasi, trattandola come una bambina di tre anni. «È la cazzo di finale. Tu sai quanto amo guardare le finali in santa pace.» In un crescendo, aggiunse: «Con un cazzo di fottutissimo, meritatissimo whiskey
La mano destra, chiusa a pugno, colpì l’elettrodomestico, causando una momentanea perdita del segnale.
Thomas Scott non chiedeva altro, d’altronde, per la serata. Sano relax in poltrona, con la sua squadra del cuore a disputare la finale, una bottiglia di whiskey in grembo e il rassicurante suono del nulla cosmico in testa, mentre galleggiava lentamente verso la deriva dei sensi.
E quella ragazzina gliel’aveva negato.
«Dov’è finito il mio whiskey, Leah?»
L’altra, che si stava lentamente rialzando, gli rispose che non ne aveva la minima idea: doveva averlo terminato lui, perché le sue scorte personali erano off-limits e lei non si sarebbe mai permessa di toccarle.
Quella sottile insinuazione lo fece corrucciare. «Pensi che non mi accorga di aver finito il mio whiskey
«Mh?»
La suola della scarpa batteva sul pavimento, scandendo il ritmo dei suoi pensieri, quello del treno di rabbia che si snodava nelle gallerie del suo cervello; cunicoli e cunicoli di nero, cieco, odio.
Riacciuffò la figlia, stavolta tenendola per una spalla, e le compresse la testa contro lo schermo.
Leah, con la guancia sinistra spalmata sul vetro, la luce blu piantata negli occhi e le urla della tifoseria a ferirle le orecchie, lottò con tutta se stessa per reprimere le lacrime.
«Pensi che sia così stupido?»
Continuava a gridare, Thomas Scott, senza pietà, senza requie. E ad ogni interrogativa – che di fatto restava sempre la stessa – aggiungeva un nuovo colpo contro la scatola grigia, come se non stesse tenendo il capo di sua figlia, tra le mani, ma una pallina di gomma.
Infine, la sete bruciante d’astinenza prevalse su quella di vendetta. Mollò il corpo della ragazza a terra. Doveva uscire a procurarsi una bottiglia per la serata e qualcuna per rifornire la sacra scorta violata.
Leah sentì la porta d’ingresso richiudersi e tirò un sospiro.
Con estrema lentezza, fu in grado di rimettersi in piedi senza che il mondo attorno a sé prendesse a vorticare. Le sembrava di essere appena scesa da un carosello troppo veloce. Un carosello di nome Thomas Scott.
Ritornò al proprio nascondiglio, senza neppure curarsi del taglio che si era aperto lungo una tempia; voleva solo gettarsi a peso morto sul materassino e smettere di pensare.
Il cane dei vicini aveva cessato di abbaiare, si era spento anche il fischio continuo della signora Melton. Nel quartiere si ripristinava l’ordine, avvicinandosi la notte.
Un buffo, fugace pensiero attraversò la mente di Leah; qualcosa che a volte le capitava di domandare a se stessa, da quando, bambina, aveva appreso dell’esistenza di una Los Angeles “bene”: chissà cosa stava accadendo ad Hollywood.
Chissà se anche là, non nel cuore pulsante di LA – ferita da cui la carne viva emergeva rossa e liquefatta – ma nella parte incartapecorita e restaurata dal lusso – quella con gli after-hours al sapore di vino bianco e salmone – qualcuno passeggiava per la strada con il cuore in gola o si addormentava, posando sul cuscino la testa sgonfia di aspettative e sogni.
Probabilmente no.
Un colpo alla porta. Leah sussultò.
Doveva essere suo padre: che avesse dimenticato il portafogli?
Si rifiutava di credere che la sua gita al supermarket in fondo alla strada, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, fosse già terminata.
Attese qualche istante, nella penombra della stanza, fredda ma rassicurante.
Il colpo si ripropose. Stavolta avevano bussato per due volte consecutive.
Leah si alzò in fretta, recuperando da sotto il materasso la mazza da baseball, trovata alcuni mesi prima nella spazzatura. La teneva con sé, augurandosi di non dovervi ricorrere più frequentemente di quanto si aspettasse, in fondo al materassino. Suo padre non lo sapeva.
Mentre scendeva, gradino dopo gradino, la lunga scala che conduceva dabbasso, Leah Scott ripercorse mentalmente la scena di pochi minuti prima, quando lo stesso tragitto l’aveva fatto di schiena. Gradino dopo gradino.
La porta dell’ingresso scoppiettava sotto la raffica di colpi che le venivano assestati.
«Eccomi, sto arrivando», assicurò Leah.
Una volta davanti al pomello, però, ebbe difficoltà ad aprire. Voleva davvero riammetterlo in casa?
Non farlo avrebbe significato prenderne il doppio, o il triplo, il giorno seguente.
Ma, il giorno seguente, magari sarebbe stato sobrio...
All’ennesimo colpo, Leah Scott – mazza da baseball stretta in mano, nascosta dietro la gamba – si vide costretta ad aprire. Davanti a sé, però, non riconobbe le rughe paterne.
«Leah Scott?»
La ragazza indietreggiò di qualche passo, riparando il proprio corpo dietro l’uscio. Le unghie stritolavano la superficie. «Chi la cerca?»
Lo sconosciuto si sistemò il cappello sulla fronte, ghignando.
«Un amico», rispose evasivo.
Dal momento che la proprietaria stava per sbattergli la porta in faccia, inserì un piede tra stipite e battente, bloccandone la chiusura. «Non sto aspettando alcun amico», replicò lei, dura e a denti stretti.
«Ho delle notizie che potrebbero interessarti.»
«Cioè?»
L’ospite inatteso estrasse dal taschino un minuscolo quadrangolo; lo porse alla ragazza. Un lato del foglietto era completamente bianco, plasticizzato. Sull’altro, invece, spiccava l’immagine color seppia di un giovanotto dai capelli avvoltolati in boccoli. Sorrideva alla macchina, solare, genuino, naturale nei suoi vent’anni. Leah era rimasta senza parole.
Sollevò lo sguardo sul proprio ospite e bisbigliò:« Ma questo è… come hai fatto ad averlo?»
«Te l’ho detto: sono un amico. Posso entrare ora?»
«No», gli bloccò nuovamente il passaggio. Adesso la mazza da baseball era bene in vista, impugnata con entrambe le mani e sollevata a mezz’asta, come la bandiera davanti alla sua scuola.
«Prima spiegami cosa vuoi e perché sei qui.»
L’altro tirò un lungo sospiro. Tutta quell’impalcatura, le cerimoniose presentazioni, lo annoiavano.
«Ho notizie di tuo fratello.»
Leah fece vibrare il bastone, mordendosi un labbro. Le lacrime che poco prima aveva riassorbito, adesso premevano con prepotenza per essere rilasciate.
«Se mi stai prendendo per il culo, io giuro che…»
«No. Mi ha mandato lui qui.»
Lo sconosciuto si sfilò il cappello, posizionandosi sotto il fascio di luce del lampione stradale.
Teneva entrambe le mani in vista, in segno di resa.
«Sono qui perché lui mi ha chiesto di portarti un messaggio.»
«Quale messaggio?»
«Vuole vendetta, Leah, ma non può farlo da solo. Ha bisogno del tuo aiuto, per questo.»
Leah abbassò lentamente la mazza.
Era tramortita.
Suo fratello? Suo fratello che le chiedeva aiuto per un disegno di vendetta.
Non capiva, non riusciva a capire.
«Vogliamo entrambi il suo bene, Leah. Puoi fidarti di me. Anzi, devi fidarti, se vuoi aiutarlo. Fallo per lui.»
L’ospite avanzò di nuovo di un paio di passi, tentando di entrare nell’abitazione.
«Fallo per William.»
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali (II) ***


Capitolo 1. - Nessuno ride ai funerali

(II)
 
 

Don't try to sleep
through the end of the world
and bury me alive,
'cause I won't give up without a fight.

 

Il sommesso chiacchiericcio di cui il salotto brulicava era in un certo senso profanante.
Caroline Jacobs si era accomodata su di una sedia in legno, lo sguardo rivolto a terra e l’incapacità di aprire bocca.
Avevano provato più volte a rifilarle qualche biscotto o dei salatini, ma sentiva che, se solo avesse provato a socchiudere le labbra e a rilasciare la tensione che le serrava la mandibola, si sarebbe sciolta in una pozza di lacrime: non un bello spettacolo.
Con la coda dell’occhio distingueva un paio di signore in completi grigio perla, tacchini autocompiaciuti che avevano preso in ostaggio sua madre nel tentativo di riversarle addosso una caterva di condoglianze.
Neppure si accorgeva delle mani che languidamente le venivano posate sulle spalle, sfiorandola in soffici carezze della durata di un battito d’ali.  Per lei rappresentavano solo sagome di cartone, elegantemente impilate tra l’ingresso e il salotto, ammassate attorno al tavolo del rinfresco, intente a spazzare via le briciole dei fenomenali biscotti firmati Jacobs.
Li aveva realizzati personalmente, infilzando stampino dopo stampino nella pasta, fino a quando non si era ritrovata sul divano – venti? Trenta minuti dopo? – senza ricordare come ci fosse arrivata.
Però erano buoni, aveva assicurato in un sussurro qualche ospite di passaggio.
Tuo padre è morto, ma su con il morale! Sai fare degli ottimi biscotti.
Più li osservava e più Caroline si chiedeva quanti dei presenti avrebbe ritrovato alla funzione.
C’erano un mucchio di poliziotti, attuali o precedenti compagni del padre, ma nessuno aveva trovato il coraggio di rivolgerle più di un paio di parole d’incoraggiamento. Tempo tre minuti ed erano volati da sua madre, la buona Naomi Jacobs, che agli occhi di tutti era distrutta dall’avvenimento, ma nei fatti se la cavava discretamente.
Avevano discusso l’argomento la sera prima, lei e la mamma.
“Devastata” la definivano i giornali oppure “traumatizzata dalla scomparsa prematura del coniuge”.
In allegato alcune fotografie che la ritraevano in un’impeccabile tailleur scuro, mentre entrava nella stazione di polizia o dopo il colloquio con il medico legale.
«Scomparsa prematura», aveva bisbigliato. «Come se fosse morto per cause naturali, per qualche malattia o che so io. Sembrano dimenticare che mio marito è stato assassinato
Poi si era riscossa, le iridi che vagavano nel vuoto avevano incontrato quelle della figlia.
Caroline ricordava le mani – grandi e calde, sicure – strette nelle sue. Senza neppure l’ombra di un’inclinazione nella voce, le aveva intimato: «Dobbiamo essere forti, per non darla vinta a quel branco di sciacalli».
E così era stato.
Naomi Jacobs annuiva, ringraziava, accennava dei sorrisi cortesi, invitava a prendere qualcosa dal buffet, indirizzava gli ospiti verso la toilette, scambiava segni di saluto con chiunque la approcciasse.
Senza un cedimento.
Caroline era certa che i suoi nervi non avrebbero avuto una pari tenuta.
Si chiese se e quante volte gli adulti dovessero resistere a ripetuti colpi, senza poter scoprire il fianco, senza permettersi di mostrarsi deboli.
Lei non si sentiva altrettanto forte. Nei suoi diciassette anni, il mondo adulto dell’impassibilità e della finzione la spaventava. 
Qualcuno le aveva posato una mano sul polso. Scattò all’istante, allarmata da quella confidenza eccessiva.
Inginocchiato davanti a lei, in un elegante abito scuro, il detective Powell desiderava parlarle.
Dawson R. Powell in persona.
La barba spruzzata di grigio e la pelle del viso incartapecorita lo appesantivano di qualche anno in più, ma la verità era che Caroline non ricordava il loro ultimo incontro. Avrebbero rimediato gli aneddoti raccontati dal padre, se solo il detective Powell avesse avuto bisogno di una presentazione. La sua fama lo precedeva.
«Caroline,» abbozzò un sorriso, «ma guardati. Sei diventata una splendida ragazza».
Di fronte ad un’eloquente alzata di sopracciglia, si sentì in dovere di aggiungere: «Mi sorprendo sempre di quanto passi in fretta il tempo. L’ultima volta eri appena una bambina e adesso… adesso, eccoti qui».
Caroline si sforzò di mettere su un’espressione garbata. Voleva solo essere gentile, il detective Powell; doveva soffrire molto per la perdita del suo vecchio collega. In fin dei conti, avevano già qualcosa in comune.
«Ha preso qualcosa da bere, detective Powell?»
«Oh, ti prego, chiamami Dawson. Soltanto Dawson.»
Lei annuì appena. «Dovrebbe provare la limonata, Dawson, o i biscotti, se preferisce. Sono il nostro cavallo di battaglia.»
Il detective parve riflettere per qualche istante, raccolto in un luogo o momento certamente distante anni luce dalla veglia funebre. Quando tornò a guardare la ragazzina, aveva assunto un’aria più grave.
«Scusami, ma detesto i convenevoli; penso che possiamo risparmiarceli, data la situazione. Forse non dovrei dirti certe cose, ma… tutto questo mi sembra innaturale.»
Un sospiro.
«Ho sentito Caleb qualche settimana fa, per telefono, e non mi era parso preoccupato da alcunché. Era sereno, il solito Caleb di sempre.»
Caroline sapeva a cosa si stesse riferendo. Neanche in famiglia erano stati notati atteggiamenti insoliti, misteriosi. Un fulmine a ciel sereno davvero per tutti.
«Caroline,» le parlò con fermezza, «voglio che tu sappia che, per qualunque evenienza, sia tu che Naomi potete contare sul mio aiuto».
«La ringrazio, detective Pow…» Si corresse immediatamente. «La ringrazio, Dawson.»
«Dico sul serio, Caroline. Sono al vostro servizio.»
Dawson R. Powell si era rimesso in piedi. Le stava tendendo una mano, che la ragazzina strinse più per educazione, per un riflesso involontario, che per reale convinzione.
«E ti assicuro che lo troverò. Chiunque abbia fatto questo a tuo padre, la pagherà cara.»
L’altra annuì, stordita. Rimase ad osservare lo strano movimento oscillatorio della loro saldatura. L’orologio del detective assomigliava a quello che portava suo padre. Quando era stata l’ultima volta che lo aveva abbracciato?
Un pugno acido di dolore le rimescolò le viscere e Caroline spazzò via quel pensiero dal vetro della propria coscienza. Powell continuava a fissarla, ma ebbe il sospetto che il suo sguardo si perdesse altrove, oltre il viso che aveva di fronte. Chissà se nei lineamenti freschi di quel viso rileggeva i tratti dell’amico scomparso.
Qualcosa brillò sulla palpebra e il detective lasciò la presa, impaziente di allontanarsi.
«È una promessa.»
 
 
*  *  *
 
 
 
“Il tuo è un atteggiamento antisociale. Ed egoista.”
Antisociale ed egoista, ecco cosa le aveva detto sua nonna, mentre sbatteva la portiera dell’auto dietro di sé.
Gliel’aveva comunicato almeno sei volte, che non aveva la minima intenzione di presenziare al funerale, e per quanto insistenti potessero divenire le richieste di Rosemary Woods, non avrebbe cambiato idea.
Alla fine era stata trascinata fin davanti al cancello d’ingresso del cimitero.
«Beh, che fai? Non vieni?»
Lei era rimasta impassibile, limitandosi a scuotere il capo da una parte e poi dall’altra, con lentezza.
Quell’atteggiamento di pacifica opposizione, da non violenta, doveva aver irritato Rosemary Woods più di ogni altra cosa.
Eppure, le carte della vergogna, del rimorso, del senso del dovere scagliate contro di lei non avevano sortito effetto. Honey non si sarebbe schiodata dal sedile posteriore della familiare di suo nonno.
«È stata la tua amica del cuore.»
L’aveva detto in un sibilo, mentre scendeva dall’auto, minacciandola con uno degli svariati bouquet che avevano acquistato, in aggiunta alla corona di fiori già fatta recapitare al vecchio indirizzo di casa Jacobs.
Aveva agitato a tal punto le rose bianche da sciuparle.
«Lo rimpiangerai, Honey. Un giorno rimpiangerai amaramente di non esserci stata.»
Ma lei aveva tenuto le labbra ben serrate, anche davanti allo scroscio di borbottii.
Ingrata, antisociale, egoista. Sembrava aver tirato la catena dell’onestà quel pomeriggio.
Prima di lasciarla al proprio silenzio, suo nonno si era affacciato dal finestrino. Fingendo di aver dimenticato altri fiori sul sedile, le aveva strizzato un occhio. «Fai la brava. Ci vediamo tra un po’.»
Il silenzio, tuttavia, non le era pesato affatto.
Si rigirava nervosamente qualche ciocca di capelli attorno alle dita, ma era abituata a se stessa, a rimanere da sola con i propri pensieri.
Infiltrarsi ad un funerale, dopo anni di lontananza, dopo tutto quello che era successo, solo perché Caleb Jacobs era stato assassinato, le sembrava fuori luogo. Terribilmente fuori luogo.
Sarebbero bastati un telegramma e quella pomposissima corona funebre che avevano ordinato, ma imporre la propria presenza… no, quella era tutta un’altra storia.
Forse sua nonna aveva ragione. Forse, in fondo, lei era davvero un’egoista.
Alcuni petali candidi erano rimasti attaccati al sedile, qualcuno riposava sulle sue calze. Ne afferrò un paio, pinzandoli con le unghie per soffiarli fuori dall’abitacolo.
Stava per cominciare uno dei più bei tramonti della stagione.
Da quella posizione rialzata, appena fuori Los Angeles, era possibile abbracciare con lo sguardo l’intera città, incastrata in una valle di palme e cemento.
In un attimo uscì dall’auto e si bloccò davanti al panorama albicocca.
Un macigno, sporgente dal terreno come un iceberg, divenne il suo nuovo sedile; non impiegò molto a trovare il solito bloc-notes, affondato nella borsa a tracolla che portava con sé.
Ricordava la prima volta che gliene avevano comprato uno, perché potesse farsi capire dal mondo circostante.
All’inizio ci scriveva appena due parole, rassegnata all’idea di non essere compresa. Preferiva riempirlo di disegnini, scarabocchi con cui ammazzare il tempo.
L’analista da cui era in cura lo aveva descritto ai suoi tutori legali come una “bolla di sapone personale”; il suo meccanismo di difesa.
Era stanca, così stanca di gente che provava ad aprirle il cervello, a sintetizzare la sua storia familiare, a riesumare la grande Tragedia, nel tentativo di scovare il trauma, il fondamentale trauma della sua esistenza.
Poi aveva imparato a collaborare. Se si era mostrata più comprensiva, l’aveva fatto per i nonni, accettando l’idea che di quel taccuino gli adulti attorno a lei avessero un gran bisogno.
Da allora ne aveva cambiati parecchi di quaderni.  
Ne studiò la copertina un po’ sgualcita, passando pollice e indice sul dorso.
In corrispondenza dell’ultima pagina segnata, timide linee di matita solcavano il foglio, creando arabeschi privi di senso.
I partecipanti alla funzione avevano smesso di arrivare; la maggior parte delle vetture occupava il parcheggio attiguo al cimitero e lì non si muoveva una foglia.
Honey chiuse gli occhi, il suo corpo cassa di risonanza per i rumori circostanti: passerotti, fruscii di vento e lontanissimi clacson.
Avrebbe dovuto produrre qualcosa entro le successive ventiquattr’ore.
La professoressa Marlowe aveva sollecitato – quasi ordinato –  la sua partecipazione al concorso, ma l’ispirazione sembrava averla abbandonata.
Chiusa nella propria stanza, aveva creato e stracciato chissà quante bozze. Ogni volta che terminava un lavoro, lo guardava con occhi diversi, del tutto straniata; non era mai, mai, ciò che la sua mente partoriva. Sembrava solo l’opera di un dilettante, lei non vi riconosceva neppure un briciolo delle proprie idee.  Il processo la lasciava sfinita, a tal punto nauseata, da scoraggiare ulteriori prove. Abbandonava i pennelli, le matite, qualunque strumento responsabile di quell’orrore, e si ritirava.
Stavolta era diverso. Su questo lavoro gravava l’attesa, l’aspettativa febbrile della professoressa Marlowe, che per qualche ragione ravvisava in lei una reincarnazione di Van Gogh e portava in palmo di mano il suo talento nascosto.
Honey si picchiettò la matita sul mento, cercando attorno a sé un qualunque soggetto su cui fermare lo sguardo.
Niente, non le veniva in mente nulla.
Forse, poteva illudersi di rintracciare qualcosa nelle pagine precedenti, un’idea rimasta incompiuta.
Sfogliò il bloc-notes a ritroso, catturando baleni di ritratti – uno sconosciuto sull’autobus, un bambino tra l’erba del parco, uno scoiattolo avvinghiato ad un tronco – ma niente che le infiammasse le vene.
Odiò se stessa per aver accettato di prestarsi a quella sciocca competizione, lei che detestava le sfide.
Le immagini si susseguivano in scatti rapidi, rabbiosi, accavallandosi le une alle altre insieme alle voci che vi erano contenute, destinate per sempre a rimanere silenti.
Poi, un segnale.
Il segnale che le intimava di fermarsi e tornare indietro. Honey ubbidì all’istinto e recuperò un foglio staccato, esule dalla struttura del quadernetto. Raffigurava una conchiglia, una di quelle conchiglie che conosceva molto bene: la collezione che teneva in camera, proprio sulla scrivania.
Un pomeriggio di noia, si era impegnata nel riprodurne una, utilizzandola anche come forma per tracciarne i contorni il più verosimilmente possibile.
Una di quelle conchiglie che conservava fin da bambina.
Fu come se le avessero strizzato il miocardio. Spiegò la carta sulla propria gamba, sfiorando la sagoma del guscio come se fosse stata un’antica pergamena.
Tra la nebbia di lacrime, riusciva a scorgere il punto esatto in cui aveva sfumato la matita, per rendere l’increspatura della luce e l’ombra proiettata sul tavolo.
Chiuse di nuovo gli occhi per qualche istante, inspirando a fondo; quando li riaprì, fu come vedere il mondo per la prima volta.
Il mare. Avrebbe raccontato l’oceano: come doveva essere apparso interminabile, spumeggiante e stranamente silenzioso quel giorno in cui Caleb Jacobs vi aveva trovato i relitti dei molluschi. 
Magari sarebbe tornata in spiaggia, l’indomani, per lasciarsi guidare. Una sensazione di vuoto la aggredì alla bocca dello stomaco e la realizzazione di essere viva, di poter essere viva insieme a quelle onde che nemmeno la conoscevano, la sommerse.
Un crepito accanto a lei.
C’era un’altra presenza, all’entrata del cimitero, ma non intenta a contemplare il panorama.
Premeva convulsamente il pulsante dell’accendino, tra un’imprecazione e l’altra, per poi scuoterlo o sfregarlo contro la coscia.
«Oh, andiamo, andiamo. Non abbandonarmi proprio ora.»
Teneva la sigaretta stretta fra le labbra, determinata a non rinunciare alla sua dose cancerogena giornaliera.
«Ehi,» si avvicinò a Honey in poche falcate, «per caso fumi?»
Quella scosse il capo, ancora disorientata.
«Fantastico. È che non funziona più, questo dannato aggeggio.»
Era una ragazza vestita di nero ad averle parlato, quasi certamente partecipante alla cerimonia funebre.
Doveva avere pressappoco la sua età, ma l’atteggiamento disinvolto e lo strato di eyeliner che illanguidiva lo sguardo, le aggiungevano qualche anno.
«Scommetto che se me l’avessero lasciata accendere dentro, non avrebbe dato problemi», commentò amareggiata. «Ma no, non si fa, è sconveniente. È una mancanza di rispetto
Stava facendo l’imitazione di qualcuno, ma a Honey sfuggì il riferimento.
«Come se gliene importasse qualcosa, a Jacobs. Tanto è morto ormai.»
Dopo altri cinque o sei tentativi, riuscì a resuscitare una fiammella tenue, subito protetta dallo schermo della mano. La ragazza mugugnò qualcosa, in segno d’approvazione. Quando tornò a guardarla, teneva la sigaretta accesa fra le dita, sventolandola come una bandiera vittoriosa.
«Grazie, mi hai portato fortuna», scherzò. Parve accorgersi solo in quell’istante del vestito a lutto della sua interlocutrice. «Oh, spero di non averti offesa con la storia del funerale…»
Honey rimase impassibile. Era libera di pensare quello che preferiva sul conto di Jacobs, sulle sepolture e sulla nicotina; non era certamente suo un problema.
«Sei qui per lui? Caleb Jacobs?»
Le rispose con un’alzata di spalle, nella speranza che la loquace sconosciuta levasse le tende prima possibile. Aveva scelto di non partecipare alla veglia per evitare quel genere di interrogatori imbarazzanti e paparazzi che si aspettava avrebbero inzozzato la cerimonia. In realtà, non ne aveva visto neppure uno finora.
L’altra si sedette accanto a lei, le gambe incrociate e l’abito in pizzo mescolato al terriccio.
«È stato un bel colpo per il mondo intero», commentò.  «Anche per chi non lo conosceva. Un grand’uomo, non si è mai tirato indietro davanti al pericolo.»  Proseguiva con il suo monologo, intervallando una riflessione a diverse boccate di fumo. Gli occhi turchesi bevevano il paesaggio di una L.A. morente.
«Un peccato, dovervi rinunciare così presto», fu la sua ultima osservazione. «Davvero un gran peccato.»
Scorse il bloc-notes zeppo di scarabocchi, la matita e l’espressione persa della ragazza che aveva davanti.
«Ma tu non partecipi alla sepoltura?»
Honey trovò uno spazio bianco e vi scrisse sopra qualcosa, prima di mostrarlo all’altra.
“No. I funerali mi deprimono.”
Lette con incredulità quelle poche parole, Roxy King quasi si strozzò con una boccata di fumo. Non poté impedire ad una risata di risalirle la gola e scoppiare, nonostante il dorso della mano premuto sulla bocca, come uno sghignazzo, corto e gorgogliante.
«Beh, sarebbe strano il contrario», asserì. «Nessuno ride ai funerali
Honey impallidì. Prima suo nonno e adesso quella sconosciuta. Una stessa frase, ripetuta nel giro di così poco tempo, la turbava. Le ritornarono alla mente lo schermo di un blu soffocante, il ritornello del cartone animato, la sensazione di sprofondare sotto terra. Lì, insieme a Caleb Jacobs.
«Honey!»
Voltandosi di scatto, vide proprio suo nonno avanzare nella loro direzione. Non poteva essere già finito tutto.
Si avvicinò con la solita andatura un po’ vacillante, sbilanciandosi ora su una gamba ora sull’altra, evitando le sporgenze più infide del terreno. «Un umile messaggero», si schermì con i palmi alzati. Un sorriso buono, compiacente. «La nonna voleva accertarsi che non ci fosse stato un ripensamento.»
Lasciò che i suoi occhi, appesantiti dall’ombra di una cataratta, parlassero al suo posto. Contro ad ogni aspettativa, Honey scattò in piedi e lo seguì docilmente fin oltre la cancellata d’ingresso.
Lasciò Roxy alle proprie spalle, dimenticandosene pochi istanti dopo.
La giovane erede di Meredith King, invece, attendeva che il sole venisse ingurgitato dall’orizzonte, che il lumicino del mozzicone morisse nella sua mano. Rimasticava il filtro e il nome di quella ragazza senza voce.
Honey, proprio come quella Honey. La stessa Honey di cui i giornali avevano strombazzato per mesi e mesi, anni addirittura, nonostante la continua richiesta di privacy.
Che si trattasse solo di una coincidenza?
Spense la cicca sotto il tacco della scarpa, impastandola con la polvere.
No, le coincidenze non esistevano. Doveva essere proprio lei, la sola ed unica.
La figlia di Janet Robinson.

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