Norwall

di wanderingheath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10.* (I) ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10* (II) ***
Capitolo 13: *** Capitolo 10.* (III) ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.
 
 
 
Le luci al neon dello spogliatoio ronzavano con prepotenza.
Da quando le precedenti lampadine erano state rimpiazzate, era impossibile accedere a quell’ala della palestra senza rimanere accecati da un bagliore trafiggente.
Davano all’ambiente un’aria di assoluta impersonalità e, per qualche inspiegabile motivo, di poca igiene. Una sensazione di disagio assaliva i visitatori – in prevalenza allievi che frequentavano le attività sportive pomeridiane – non appena vi mettevano piede.
Quello che veniva spacciato per spogliatoio femminile stonava con il profilo alto che la Arcadian Ginger High School,  una delle scuole più prestigiose del quartiere, cercava di mantenere.
Fin dalla cancellata d’ingresso gli studenti venivano risucchiati in un’atmosfera di sontuosità che aveva un qualcosa di pretenzioso: il giardino rigoglioso, la facciata di un bianco marmoreo su cui capeggiava a grandi lettere il nome dell’istituto, i lunghi corridoi lindi e ordinati, le innumerevoli targhe di cui la preside poteva vantarsi.
Qualunque ospite, dall’esterno, sarebbe rimasto affascinato da un simile biglietto da visita. E pensare che una breve visita in quegli spogliatoi avrebbe potuto ribaltare le carte in tavola. Radicalmente.
«Ottimo lavoro oggi, ragazze.»
La coach Britts fece capolino dal corridoio.
Era trascorso meno di un mese dall’inizio degli allenamenti, ma l’istruttrice si era già fatta riconoscere per i suoi modi decisi ed asciutti, che non escludevano del tutto un lato umano, pur favorendo fermezza e severità.
«La prossima volta esigo il doppio di quello che avete dato stasera.»
Con un’occhiata eloquente abbracciò l’intero spogliatoio, per poi ritirarsi nel proprio ufficio.
Le piaceva, quella donna. Finalmente la loro squadra aveva qualche possibilità di entrare in uno dei tornei cittadini e non essere squalificata all’istante. Il mister che le aveva seguite lo scorso anno aveva fatto un lavoro disastroso, riuscendo soltanto ad alimentare faide interne e a perdere iscritti.
Melanie finì di cambiarsi e prese ad allacciarsi le scarpe, appoggiata alla panca di legno.  
Le voci lamentose, monotone e cantilenanti, delle sue compagne di squadra la raggiunsero.
Erano in sei o sette, se ne stavano raccolte in un angolo, all’altro capo della stanza, a confabulare con un tono volutamente chiaro ed alto.
Ormai le conosceva da un paio d’anni, con alcune di loro aveva un trascorso ben più lungo, e nel corso del tempo aveva imparato ad ignorare qualunque occasione di socializzazione le si presentasse: loro non volevano avere niente a che fare con lei e viceversa; il loro rapporto consisteva in una convivenza forzata dalle circostanze, nulla di più.     
Stavano sparlando della coach, di nuovo.
«Mi richiama ad ogni bagher. Ce l’ha con me, per qualche motivo.»
«No, Ronnie, stai tranquilla. È così di natura.»
Una terza voce si unì al coro di lamentele: «Una stronza perfezionista, ecco che cos’è.»
Ronnie Marbles, una cascata di onde scure ad incorniciarle il viso, si portò una mano alla tempia, teatralmente.
Melanie avrebbe potuto giurare di non averla mai vista sudare, in ben tre anni di conoscenza. Sempre perfetta nella sua uniforme bianca e blu, con il numero fortunato stampato sulla schiena, doveva aver venduto l’anima al diavolo per non farsi colare il trucco durante gli allenamenti.
Stava riprendendo il discorso del bagher, come se sapesse davvero eseguirne uno. Rimaneva tutto il tempo in panchina perfino l’anno scorso, quando era la preferita di Mister Lee, eppure si sentiva in diritto di predicare la vera arte della pallavolo.
«Perfezionista? A me sembra un’incompetente. Mi ha colpito la testa due volte oggi!»
Continuava a massaggiarsi la tempia con un’aria grave. «E poi, ha i suoi favoritismi.»
«Su questo puoi giurarci.»
Era stata Cindy Butler a parlare.
«C’è troppa parzialità, in questo gruppo. L’ho detto a papà e mi ha assicurato che farà il possibile perché entri nella squadra di cheerleading.»
Una delle ragazze si produsse in un’esclamazione di stupore. «Ma ti fanno cambiare ora? Pensavo potessi farlo solo ad inizio anno.»
«Per me faranno un’eccezione», replicò l’altra con un sorrisetto. «Sono stanca di stare con certa gente
Melanie scosse appena il capo,  nel silenzio che l’avvolgeva. Allacciate le scarpe, fece per recuperare il borsone e lasciare lo spogliatoio, quando una frase la bloccò sul posto.
«Avete notato che Prescott non viene mai ripresa?»
Da quando si erano conosciute, non l’aveva mai chiamata solo per nome. Era sempre stata “Melanie Prescott” - o semplicemente “Prescott”- per lei.
Le altre assentirono, un gruppo di liceali soggiogate al potere del leader di turno.
Chissà quando e come era divenuta il loro capo, Cindy. Probabilmente fin dalla sua entrata alla Arcadian.
Era nata con un marchio di fabbrica d’eccellenza, quello dei Butler, e chi non avrebbe desiderato entrare nelle grazie della figlia di un politico?
Cresciuta sotto la stella di leader, quel futuro ce l’aveva cucito addosso.
«Beh, è chiaro che sia una privilegiata», concordò Ronnie Marbles. «Lo è sempre stata.»
Melanie ruppe la propria immobilità e, resistendo al desiderio di voltarsi nella loro direzione, si diresse verso l’uscita dagli spogliatoi. Attraversò a grandi falcate il corridoio, fino ad imboccare il grande portone che conduceva all’esterno, nel cortile semibuio. Scese in fretta le scalinate di granito, notando quanto le giornate si stessero accorciando.
Non si era accorta di avere compagnia. Alle sue spalle, la gaia comitiva l’aveva inseguita e proseguiva con le frecciatine a lei dirette, in un elegantissimo passivo-aggressivo.
«Non capisco perché deve sempre ricevere un trattamento diverso.»
«Ma Ronnie, perché lei è diversa. Povera stellina.»
Una delle tante voci si sentì in dovere di assurgere a paladina dei più deboli. «Ragazze, bisogna avere compassione delle persone disadattate.»
Fu Cindy Butler, però, a scagliare la stoccata finale: «Oh, ma io sono compassionevole. La gente come Prescott mi fa solo una gran pietà.»
Melanie fece dietrofront, risalendo due a due i gradoni. Si piazzò davanti a Cindy, lei contro sei o sette persone, sovrastandola in altezza di almeno un paio di spanne.
L’altra si mantenne impassibile, sollevando appena un sopracciglio.
«Hai qualche problema, Prescott?»
Per quanto cercasse di mantenersi calma, Melanie non poté fare a meno di digrignare i denti.
«Mi stavo domandando cosa in me ti ispiri pietà.»
Un fascio di luce proveniente dalla palestra spezzava il buio che le avvolgeva, accentuando la spigolosità dei lineamenti di Cindy. Non era una bella ragazza, ma per qualche motivo riscuoteva grande successo tra la popolazione maschile.
«Beh, dico soltanto che non deve essere facile vivere come te.»
«Come me
Cindy si strinse nelle spalle, scambiandosi un’occhiata d’intesa con le proprie amiche.
«Non c’è bisogno di vergognarsi, Prescott.»
L’altra teneva le braccia attaccate al corpo, respingendo l’idea di sferrare un pugno alla propria collega.
«Continuo a non seguirti.»
Ronnie Marbles giunse in soccorso del leader, determinata a rendere più chiaro il quadro in cui avevano inserito e catalogato “quella strana”.
«Vieni da Lowhood…la gente senza un soldo bucato non entra nelle scuole del nostro quartiere. Se ti permettono ancora di frequentare questa è perché tuo padre sta in marina e…beh, per tutta la storia di tua madre.»
A Melanie sfuggì un sorrisetto amareggiato.
«È questo che pensate di me?»
Cindy le restituì un sorriso, sprezzante e altera. «Che sei una privilegiata? Che ti viene riservato un trattamento speciale rispetto agli altri?»
Si sistemò qualche invisibile piega del maglioncino, per poi aggiungere: «Proprio così».
Desiderava colpirla, in quel momento; sferrarle un destro in pieno viso, sfigurarle quel naso appuntito e gustare la reazione di completa sorpresa e spaesamento che avrebbe ottenuto. La stavano apertamente provocando, facendo leva su di un tasto molto più che dolente: il fatto che tutti a scuola conoscessero la sua situazione familiare, non dava loro il diritto di parlarne – o sparlarne.
«Cos’è, hai finito le parole?»
A parlare era stata una delle ragazze che faceva da spalla a Cindy. La stava osservando con aria di sfida, come a dosare ogni attimo che l’avrebbe portata ad una definitiva rottura. La verità era che attendevano tutte un cedimento da parte sua, avvoltoi di soli sedici anni con i maglioncini lindi e le converse ai piedi. 
Melanie aveva involontariamente accorciato le distanze e adesso si trovava ad un palmo dal volto aguzzo della compagna di squadra, che la scrutava con sguardo celestiale.
Oh, ne aveva eccome di parole.
Si morse un labbro, stringendo ancora più forte i pugni finché le nocche non si scolorirono quasi del tutto.
Ma non poteva. Non lì, in ambiente scolastico. Non poteva permettere che si ripetessero eventi passati.
«Va tutto bene?»
La coach Britts si frappose fra le due giovani. Una mano posata sulla spalla di Melanie, con l’altra allontanava le opponenti, mettendo un’accurata distanza di sicurezza fra le sue allieve.
«Certo, coach.»
Cindy Butler mise su il miglior sorriso infiocchettato della sua breve vita. «Stavamo solo chiacchierando.»
«Bene, allora vi do una nuova notizia di cui potrete discutere.»
Con un cenno del braccio fece avvicinare un’altra ragazza al gruppo.
«Alexandra sarà il vostro nuovo capitano.»
Le altre rimasero interdette per qualche istante, poi fu Ronnie a parlare: «Ma, coach, pensavo che il ruolo sarebbe stato mio.»
«Non mi sono mai espressa in merito.»
Il volto dell’adulta restava freddo e distaccato, lei inamovibile sulle proprie posizioni.
«Per una questione di anzianità!», rincarò un’altra allieva.
Alexandra non spiccicò una parola per tutto il corso della lunga discussione.
Se ne stette immobile accanto alla trainer, le braccia allacciate al petto, gli occhi castani svegli e attenti a seguire ogni replica come davanti ad una partita di tennis.
Dopo dieci minuti, la conversazione era terminata con una sentenza incontrovertibile: la scelta del nuovo capitano si basava su una valutazione che andava al di à di questioni di anzianità o preferenze individuali; era stata presa e non sarebbe mutata.
«Ci rivediamo giovedì», le liquidò sbrigativamente. «Vi voglio tutte puntuali e già in posizione sul campo.»
Melanie si raddrizzò il borsone sulla spalla e  si avviò verso il cancello d’uscita.
Finalmente poté sciogliere i pugni e rilassare le braccia. Osservandosi i palmi delle mani, si rese conto solo allora delle piccole gocce rosse che li solcavano, quasi vi fossero cadute per caso.
Anche le unghie erano di un color carminio.
Almeno era riuscita a resistere alla voce nella testa che le ripeteva di finire quella stronza.
Per un’ultima volta, si bloccò sul posto.
 «Melanie, aspetta.»
La coach Britts la raggiunse rapidamente, piantandole entrambe le mani sulle spalle. «Prima…hai avuto qualche problema con le altre?»
Il silenzio si insinuò fra le due, lasciando spazio solo al suono del vento che sussurrava distante fra qualche arbusto. Il cigolio della cancellata accompagnò quella quiete precaria.
«Sai che puoi parlare liberamente con me.»
Melanie, con il suo sguardo sfuggente e le cuffie sempre calcate sopra le orecchie, per qualche motivo la preoccupava. Ne aveva visti tanti di allievi che sprofondavano nel buio, senza che lei potesse afferrarli prima della caduta.
Quando tornò a guardarla, Melanie non mostrava alcun segno di cedimento.
«Va tutto bene. Grazie, coach. »
E si allontanò a passo sostenuto, le mani affondate nelle tasche, il capo chino, fino a quando non svoltò l’angolo e l’oscurità la risucchiò del tutto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. ***


Capitolo 1.
 
The Outsider
 
 
 
«People are connecting, don’t know what to say
I’m good at protecting what they wanna take.
Spilt the milk at breakfast, hit me double hard
and I grinned at you softly ‘cause
 I’m a fucking wild card.»
 
 
 
 
 
6:45 a.m. – Lowhood
 
 
 
 
 
La colonnina di fumo all’orizzonte aveva assunto un colorito bluastro, segno che il sole era ormai ben oltre l’orizzonte. La giornata prometteva pioggia a vista d’occhio, a giudicare dall’incoraggiante mole di nubi avvoltolate attorno alle antenne dei grattacieli.
A quell’ora del mattino c’era poca gente per strada, nella zona di Lowhood.
Il quartiere si risvegliava con decrescente lentezza: lo sgranchirsi di qualche serranda, il cigolio di una saracinesca, il fermento di un paio di autobus alla fermata vicina.
Oltre la fila di lampioni che andava spegnendosi, la sopraelevata proseguiva il proprio giro: la terza o quarta corsa della mattinata.  
Tra negozi abusivi, industrie chimiche in ebollizione e palazzine abusive, Lowhood non spiccava tra le attrazioni preferite dai turisti in visita a Norwall, eppure per lei era sinonimo di casa.
Nata e cresciuta tra le ampie vie di scorrimento, percorreva quel ponte almeno una decina di volte al giorno, a piedi o con i mezzi. L’ora perfetta per attraversare l’area indisturbati – senza rischiare di incappare in qualche conoscente – era quella: alle sette aveva tempo per se stessa, per affogare in pensieri transitori e ritrovare un pezzo di solitudine, che in casa veniva asfaltata.
Non che amasse la sveglia delle sei.
Sarebbe tranquillamente potuta restare tra le coperte ancora per un’altra ora, non fosse stato per quel maledetto cane che nel corso degli anni aveva assunto una routine precisa quanto un orologio svizzero.
La cosa più irritante era che l’incombenza di portarlo a spasso piombava immancabilmente sulle sue spalle, quando lei nemmeno l’aveva voluto, un animale.
Era stata sua madre a prenderlo all’improvviso, raccattando dal canile locale un cucciolo abbandonato, un bastardino senza medaglietta o identità. Desiderava prendersi cura di qualcosa, aveva detto, dimostrare a tutti che stava benissimo e poteva perfino occuparsi di un altro essere vivente.
Le cure e le attenzioni si erano esaurite in meno di una settimana.
Eppure, lei non riusciva ad odiarlo. No, non dopo che era stato un’inaspettata ancora di salvezza durante gli ultimi anni della sua vita, mentre tutto minacciava di crollare e rimanere lucidi era divenuta una scalata contro il tempo ed il destino.
Lo guardò attentamente, tirando appena il guinzaglio.
«Cookie, smettila.»
Si era andato di nuovo ad infilare tra degli scatoloni di cartone abbandonati sul marciapiede.
La spazzatura dei residenti sembrava molto più allettante ai suoi occhi dei ricercatissimi croccantini prescritti dal veterinario, che oltretutto erano introvabili. Si dovevano girare almeno quattro o cinque negozi, spesso fuori zona, e quello era il motivo per cui lo scorso mese era finito a dieta: sua madre e sua zia non facevano altro che rimpinzarlo di cibo ipercalorico.
Lo allontanò con decisione dal nuovo bottino, imboccando la strada di casa.
L’attendeva una giornata piuttosto pesante, completa di allenamenti con Mister Buckner.
In realtà avrebbe potuto risparmiarsi quell’ora di Educazione Fisica, facendo lei già parte della squadra di pallavolo dell’istituto, ma preferiva riempire con della sana attività sportiva il tempo che avrebbe altrimenti passato incollata ad una sedia. Detestava stare in classe.
Nei primi tempi, quando aveva appena effettuato il passaggio alle superiori, era impossibile bloccarla in un’aula per più di trenta minuti consecutivi.
Odiava il retrogusto di disinfettante che impregnava pavimenti e pareti, la polvere di gesso depositata ovunque, le occhiate oblique di alcuni suoi compagni. Ancora due anni e sarebbe stata libera.   
Si richiuse la porta di casa alle spalle, sciogliendo Cookie dal guinzaglio.
«Com’è andata la passeggiata?»
Sua zia aveva fatto capolino dalla cucina, ancora in pigiama e con delle livide borse a marcarle gli occhi, segno dell’ennesima nottata passata davanti al televisore.
Con i suoi abituali completi grigio topo, i capelli stretti in una crocchia alta e le convinzioni ortodosse riguardo la religione, Lydia Blanton dimostrava molto più dei suoi sessant’anni.
I manifesti di Gesù con cui aveva tappezzato la camera degli ospiti, crocifissi e rosari sparsi un po’ ovunque per la casa, i proverbi caduti in disuso da quasi un secolo e lo stile di vestiario austero: tutto faceva pensare che appartenesse ad un’altra epoca.
«Come al solito, zia.»
Una pausa compiaciuta. «Tua madre ancora dorme.»
Chissà perché, se lo aspettava.
La sera prima, non aveva fatto altro che saltellare per il salotto, ripetendo il nuovo mantra del mese: l’indomani sarebbe uscita presto a trovare lavoro.
A trovarlo, quasi che si trattasse di qualche spicciolo dimenticato per strada o un vecchio amico che non vedeva da anni.
Sì, perché era una questione di fortuna - così si difendeva davanti allo scetticismo della figlia - bastava un’attitudine positiva e le cose sarebbero andate per il verso giusto.
L’attitudine positiva apparentemente avrebbe dovuto attendere un’altra giornata.
«A che ora hai lezione?»
Gettò il guinzaglio in un angolo, raccattando al contempo lo zaino da terra.
«Alla solita.»
«Potresti sforzarti di essere più comunicativa?»
Lydia Blanton lanciò un’occhiata contrariata alla cartella della nipote.
«Non penserai di andartene senza aver prima fatto colazione.»
L’altra alzò un sopracciglio, sistemandosi in spalla il borsone per gli allenamenti.
«Prenderò qualcosa per strada.»
Ma Lydia Blanton non si faceva liquidare alla svelta. Iniziò a seguirla fino all’ingresso, le braccia allacciate al petto, scoppiettante come una pentola a pressione.
«Signorina, stai prendendo delle pessime abitudini.»
«Davvero, zia. Non preoccuparti.»
La donna le artigliò un braccio, tirandola per la manica.
I piccoli occhi chiari, così diversi da quelli a mandorla della sorella, la scrutavano ad un palmo dal viso.
Aveva appena notato che sua nipote non esibiva un aspetto salutare. Anzi, a guardarla meglio, non stava bene per nulla. Il declino doveva essere iniziato quando aveva lasciato crescere i capelli senza più curarli minimamente; allora erano iniziate anche le felpe sformate, le ore passate al computer, un’indolenza generale nei confronti della vita, le colazioni abolite, il cibo spazzatura ad ogni ora del giorno e gli spuntini di mezzanotte. No, non stava affatto andando nella direzione giusta.
«Melanie, ti vedo pallida. Non fa bene saltare i pasti, sai?»
«Sarà la sveglia delle sei, zia», sibilò l’altra.
Liberatasi dalla presa, riuscì a tirarsi dietro la porta, lasciandosi alle spalle il volto sbigottito della parente.
Dopo aver messo una distanza di almeno dieci minuti fra se stessa e casa propria, Melanie sentì di poter respirare. Ultimamente era come se andasse in apnea ogni volta che varcava la soglia d’entrata.
Si trattava di un meccanismo involontario, quasi un riflesso che il suo corpo aveva assunto da un tempo non quantificabile. Era difficile da spiegare – ma fortunatamente non aveva nessuno a cui raccontarlo.
A volte, essere soli si rivelava un idillio. Si viveva con più semplicità e una dimenticanza volontaria.
L’ultimo autobus doveva aver saltato una corsa, considerato il piccolo sciame di gente che si era accalcata alla fermata. Una donna con un paio di buste della spesa si stava lamentando in Swahili, accanto ad un anziano puntellatosi sul proprio bastone, che le rispondeva rigorosamente in inglese.
Melanie estrasse il lettore mp3 dalla giacca e si rifugiò nella propria bolla di sapone.
Si dimenticava ogni volta di scaricare le canzoni sul cellulare e per pigrizia rifiutava un semplice trasferimento di dati.
La spaventava notare quante abitudini materne stesse acquisendo.
Scorse con svogliatezza una delle vecchie playlist, sicura di non trovare nulla di adatto nella marea di possibilità che venivano offerte.
Un paio di giorni fa, era passata al ‘Been and GoneStore , il minimarket indiano a venti minuti da casa sua in cui aveva lavorato sporadicamente negli ultimi anni; Amit, il proprietario, l’aveva vista crescere.
Era riuscita a rimediare un contratto part-time, per sostenere le spese familiari a cui sua zia non riusciva più a far fronte: da quando la sartoria aveva chiuso i battenti, si era ritrovata a dover alzare i prezzi per le commissioni private e di conseguenza aveva perso metà della clientela.
Melanie lanciò un’occhiata in fondo alla strada, sicura che il bus avrebbe tardato ancora di molto. Il governo municipale di Norwall non investiva fondi nei trasporti pubblici di zone come Lowhood; il sud della città era abbandonato a se stesso.
Sullo schermo del lettore digitale, continuava a scavallare autori su autori.
Poi, il suo dito si bloccò su di un titolo.
Stretta fra una canzone degli AC/DC e i cinque minuti sublimi di Take Me Home dei Black Sabbath, se ne stava una hit del 2010 che stonava con tutto il resto.
Il piccolo nome che appariva sullo schermo quasi soffocava sotto al peso di colossi musicali che lei aveva scoperto all’età di undici anni.
Mandò in esecuzione il brano, dopo una lunga esitazione.
La voce della cantante e l’attacco che aveva sentito numerose volte  in passato le graffiarono i timpani.
Si sorprese di ricordare ancora l’intero testo, tanto da mimare qualche parola a fior di labbra.
“I was a flight risk with the fear of falling, wondering why we bother with love if it never lasts.
Alla lenta melodia iniziale si sostituì l’esplosione del ritornello, accattivante quanto quello di qualunque canzone pop di breve vita. Un senso di irritazione e di irrequietezza le risalì il corpo, la scia di tanti spilli le pizzicava braccia e torace. Le si era stretto l’esofago in una contrazione involontaria.
Il pollice trascinò l’icona verso la fine del pezzo, freneticamente.
Braced myself for the goodbye, ‘cause that is all I ever known. Then you took me by surprise. You said: I’ll never leave you alone.”
Non le sopportava, le canzoni commerciali.
Ricordava ancora come Taylor Swift fosse stata stipata a forza nel suo lettore mp3, mentre lei storceva il naso contrariata.
Le immagini di un lungo viaggio in macchina, le urla sguaiate, la sua imitazione della cantante che considerava una lagna, una brezza primaverile che s’infiltrava nell’abitacolo, lei che metteva in loop quel pezzo smielato, le loro mani intrecciate sul sedile posteriore…
Eccola, la stilettata mattutina che avrebbe benissimo potuto evitare.
Interruppe la riproduzione, reprimendo l’istinto di scagliare lontano l’intero dispositivo.
Avrebbe dovuto cancellarla, prima o poi, quella stupidissima canzonetta. Non le apparteneva.
L’autobus la salvò da una spirale di immagini indesiderate, sgommando appena davanti al marciapiede.
Lasciò che il silenzio la accompagnasse fino al primo sedile libero.
Mentre le portiere venivano richiuse e il mezzo muoveva i primi passi verso la sua lontana destinazione, il cuore di Norwall, Melanie si abbandonò ad un profondo sospiro.
 
 
 
*    *    *
 
 

La mensa dell’Arcadian brulicava di studenti.
Le grandi vetrate istoriate proiettavano direttamente nell’illusione di trovarsi in una cattedrale europea – illusione subito infranta dall’odore di cipolle fritte, burro e bastoncini di pesce.
Rannicchiata al tavolo addossato alla finestra, fissava il proprio surrogato di purè e petto di pollo. Continuava a rigirare il cucchiaio nel piatto, svogliata.
Forse avrebbe dovuto riconsiderare l’idea di portarsi del cibo da casa, non fosse stato per il timore di essere scambiata per una del primo anno con il pranzo al sacco preparato da mamma.
Certo, era difficile considerare quella schifezza un pasto, ma il menù non offriva nient’altro che si avvicinasse lontanamente alla sua idea di dieta.
Ad irrompere nelle sue riflessioni pomeridiane furono un paio di figure munite di bibite svaporate e vassoi in plastica. James lanciò il proprio sulla tavolata, facendolo slittare fino in fondo, a collidere con il suo.
Logan aveva preso posto accanto a lei, mentre Travis e Jason le sedevano di fronte.
Fu James a dominare la conversazione, come al solito.
«E questa la chiamano Diet Coke? »
Stava agitando la lattina tiepida che teneva in mano, sovraccaricandola di gas.
«È praticamente un tè. Freddo, oltretutto.»
Calò la bevanda sul tavolo, dopo esservisi issato sopra con agilità.
La strana abitudine di accomodarsi su qualunque superficie, ripudiando sedie e poltrone, non l’aveva abbandonata. Piazzò le scarpe sportive sulla seggiola di plastica davanti a sé.
«Come va oggi, Dee-Dee
«Odio quello stupido soprannome, Logan.»
Il ragazzo prese ad armeggiare con il sacchetto di plastica contenente le posate.
«Lo so. Per questo lo uso.»
Gli altri tre gli fecero eco con una risata idiota. A volte le sembravano dotati di una maturità pari a quella di uno scopino da bagno.
«Qual “buon” vento vi porta?», ironizzò lei.
Logan le passò un braccio attorno alle spalle, scambiandosi un’occhiata di intesa con James.
Quest’ultimo dichiarò che avevano un annuncio da fare. Travis e Jason presero a picchiettare le mani sul tavolo, imitando un pessimo rullo di tamburi.
«No, dai, basta ragazzi. Ci guardano tutti.»
James le puntò una forchetta contro con un’aria da spadaccino esperto. «Non temete, o dolce fanciulla, vi proteggerò io dalla spietata Alyssa.»
La ragazza sospirò, scuotendo il capo. Quante volte ancora avrebbe dovuto ripeterlo?
«Non ho paura di lei.»
Gli altri, però, non erano dello stesso avviso.
Travis diede saggio delle sue pessime doti di attore fallito. «Sì, padrona Alyssa. No, padrona Alyssa.»
Il gruppo trovò stranamente divertente l’imitazione. Logan si riprese all’istante, capendo che non tirava una buona aria. «E dai, Dee-Dee, un po’ ti controlla.»
La risata sguaiata di James esplose in uno spruzzo di saliva.
«Un po’?! È praticamente la sua schiava.»
Daphne lo fulminò sul posto.
«È mia amica, che vi piaccia o no.»
Travis e Jason si strinsero nelle spalle, indifferenti alla faccenda.
«Comunque,» riprese Logan, «la notizia spettacolare riguarda il mio compleanno.»
Oddio. Il compleanno di Logan.
Quasi se l’era scordato del tutto, tra il rientro scolastico e le altre sciocchezze. Non le capitava mai di dimenticare gli eventi, specialmente se riguardavano i suoi amici più stretti, ma quell’anno era passato in secondo piano. Doveva trovargli un regalo il prima possibile.
Annuì, sfoderando un sorriso disinvolto.
«Giusto. Il tuo compleanno.»
«Volevo fare una cosa diversa, quest’anno, così ho deciso di festeggiare venerdì pomeriggio al Silver Park
Logan sembrava parlarne con nonchalance, ma lei sapeva che ci teneva, in fondo in fondo. Sosteneva sempre che le ricorrenze fossero inutili e adatte solo ai bambini; superati i dieci anni, tutta l’atmosfera illusoria delle festività diveniva inutile, quasi insapore.
Lei, che era convinta del contrario, credeva che ci fosse qualcos’altro sotto. Dietro a montagne di indifferenza, l’ego di Logan esigeva un festeggiamento.
«Ci andiamo a piedi dopo scuola, tanto sta qui dietro», terminò. «Allora, ci stai?»
James tese a fare una precisazione. «L’invito non include Alyssa, ovviamente.»
L’altra stava per replicare qualcosa, ma preferì mordersi il labbro.
D’altronde, non ce la vedeva proprio, Alyssa, sbracata sull’erba in compagnia dei suoi vecchi compagni di classe, a mangiare schifezze e ad accordarsi all’umorismo del gruppo. Non era mai andata d’accordo con i suoi amici, che tanto differivano dalla stretta cerchia di confidenti di cui lei si circondava.
«Certo che ci sono», disse infine.
James si distese supino sul tavolo, incurante del suo pasto. Le stava tendendo entrambe le mani, in attesa che gli battesse il cinque. Daphne lo assecondò, domandandosi quando mai sarebbe cresciuto.
La quiete fu spezzata da un trambusto nei corridoi. Davanti all’entrata della mensa si era raccolto un denso nucleo di studenti allertati. Qualcuno stava facendo girare la voce tra i propri amici, altri si sporgevano sulla soglia cercando di cogliere brandelli di pettegolezzi o di migliorare la propria visuale.
All’improvviso, James scattò a sedere, dando l’allarme al resto della comitiva.
«Ragazzi, arriva. Evacuare la zona, presto.»
Daphne gli indirizzò l’ennesima occhiataccia, mentre gli altri si affrettavano a sgomberare il tavolo per spostarsi da qualche altra parte. Logan raccolse il proprio pranzo, lasciando un’ultima informazione.
«Ah, ho invitato anche Ethan.»
L’altra alzò il capo, un’espressione di sorpresa sul volto.
«Ethan? Ethan Sallinger?»
Il giovane annuì. «Facciamo Fisica insieme quest’anno. Mi sembrava sgarbato non dirgli nulla.»
Intanto il fermento aveva coinvolto l’intera mensa, inservienti compresi, ritardando le normali procedure di distribuzione. Di fronte al reparto della frutta e dei dessert si era venuta a formare una coda esorbitante.
Una figura si fece largo a forza tra la folla. Le schiere di studenti si dividevano al suo passaggio quasi fosse stata un’apparizione divina, una presenza santifica o una star del cinema.
Alyssa Russmith, con al seguito un paio di ragazze in tuta da ginnastica, procedeva a piccoli ma determinati passi, facendo risuonare i tacchi sul pavimento lucido. Era diretta al loro tavolo e, a giudicare dall’espressione indignata, non portava buone notizie.
«Bene, questa è la nostra uscita», sghignazzò James.
Logan, però, continuava a guardare Daphne con aria interrogativa. «Per te va bene?»
Lei annuì con un sorriso incerto: «Certo. Perché non dovrebbe?»
«Non lo so», una scrollata di spalle, «sei sempre così…taciturna, quando chiamo gente nuova.»
La sua replica fu silenziata dall’ingresso di Alyssa.
«Daffie, non puoi capire cosa è successo di là.»
E prima che l’altra formulasse un pensiero, proseguì in fibrillazione: «Una rissa. Cindy è in infermeria.»
  
 
*   *   *
 
 
Ripose l’asciugamano nello zaino alla bell’e meglio, cacciandoci dentro anche il cambio di vestiti.
La lezione di Educazione Fisica non era poi stata così tremenda, l’insegnante aveva ceduto alle loro richieste disperate e proposto degli esercizi più leggeri.
Quell’anno la sua classe divideva la palestra con altre sezioni, prevalentemente juniors come lei.
Gli occhi puntati addosso ormai non costituivano un problema - in quello la sua passione per la pallavolo l’aveva aiutata a fare considerevoli progressi – anche se detestava ogni singolo volto che si trovava ad incrociare in campo.
Si trascinò in corridoio con indolenza, ripensando alle ore di Calcolo che l’attendevano. Nemmeno aveva terminato gli esercizi assegnati, quel giorno. L’interesse per la propria media scolastica era diminuito esponenzialmente negli ultimi anni e la sua voglia di terminare gli studi superiori si assottigliava di mese in mese, inversamente proporzionale alle pressioni e aspettative che covava sua zia, mai andata oltre la terza media, che per lei aveva grandi progetti.
Si accostò ad uno dei pochi distributori automatici di cui la scuola disponeva. La preside era schierata contro ogni forma di snack e cibo spazzatura a cui gli adolescenti potessero arrivare, ma a suo parere si trattava di semplice ipocrisia, considerate le ordinarie portate della mensa.
Chissà se esisteva qualcosa, in quell’istituto, che non rappresentasse il parossismo della contraddittorietà.   
Poggiato lo zaino sul pavimento, esaminò meticolosamente le merendine offerte in vetrina. Aveva bisogno di qualcosa di dolce.
Con la coda dell’occhio captò un movimento al proprio fianco: appoggiato al distributore di bevande, nell’intramontabile giacca di jeans che portava dall’età di undici anni, Isaac Barnett stava trafficando con delle monetine.
La stretta all’esofago si ripropose con impeto.
Melanie provò ad ignorarla – ad ignorarli tutti e due – mentre frugava nelle tasche in cerca di qualche spicciolo. Chiudere fuori spezzoni di immagini, come frammenti di uno specchio in frantumi, non era un’operazione così facile come credeva e a nulla valevano le continue esercitazioni attraverso cui provava a controllare la propria mente. Le restava impossibile a volte resistere agli impulsi, ai sentimenti che si presentavano in ondate crescenti con una forza ed un’irruenza tale da rovesciarla a terra.
Era bastato il colore del giacchetto di Isaac a farla scattare.
Subito dopo quello, la raggiunse l’intenso odore del ragazzo, un profumo maschile di marca che aveva sentito ovunque negli ultimi tempi. Le faceva uno strano effetto pensarlo un teenager, conciliare la sagoma di un bambino che gattonava sul pavimento o spruzzava bollicine di saliva sul pigiama, con quella del giovane che le stava accanto adesso.
Qualcuno, alle sue spalle, fece il suo nome, riportandola alla realtà.
«Prescott, piuttosto mogia stamattina?»
Si voltò, riconoscendo all’istante la voce. Non aveva alcuna risposta da rifilare a Cindy Butler, né tantomeno l’energia adatta per contrastare le bordate con cui voleva irritarla.
Tornò alla propria scelta, vuotando la tasca dei pantaloni. Ma dove aveva messo le monete?
«Oh, forse ha finito i soldi», osservò l’altra ragazza accanto a Cindy. «A Lowhood mica crescono sugli alberi.»
Cindy mise mano alla propria borsetta, mentre attorno a loro alcuni studenti di passaggio rallentavano per guardare la scena. Qualunque cosa facesse Cindy Butler era degna di nota.
Trovò subito il borsellino di pelle con uno strano pendente di piume.
«Tranquilla, Prescott, te la offro io quella robaccia.»
Melanie tornò a guardarla, stavolta con un’espressione eloquente disegnata sul volto.
«Non mi devi offrire proprio niente, Cindy.»
«Oh, ma no invece!»
Le lunghe dita laccate di fucsia racchiudevano una manciata di monetine. Gli occhi di tutti erano puntati su di loro, nuove attrazioni nell’arena scolastica. Melanie si sforzò di mantenere la calma. Un’inspirazione, un’espirazione. Bastava poco per attenuare il flusso che le ribolliva nelle vene.
«Non vogliamo che tu muoia di fame. Non ce lo perdoneremmo mai», disse. Con un ampio gesto del braccio incluse nel discorso anche la propria amica, che adesso annuiva con un sorrisetto compiaciuto.
«E io non ho bisogno della tua paghetta.»
Melanie si accovacciò accanto al proprio zaino, proseguendo la ricerca prima nelle tasche esterne, poi in quelle più interne. I battiti le pulsavano fin nelle orecchie, ovattandole il resto dei suoni circostanti.
La replica di Cindy le giunse distante anni luce.
«Sei fortunata, Prescott. Mi hanno insegnato a fare la carità fin da piccola.»
E una cascata tintinnante, mescolandosi alle risate cristalline delle presenti, le si riversò su capo e schiena, qualche cent le colpì la tempia. Adesso, le risa si erano centuplicate; rimbombavano tutt’intorno a lei, amplificate dalle mura, stringevano i pensieri come se una corona di spine le fosse stata calcata sulla testa.
Cindy, però, non aveva terminato il proprio teatrino.
«Ecco la mia buona azione giornaliera. Magari ci paghi anche la clinica per tua mamma.»    
Ronnie Marbles, in piedi sulla soglia della palestra, trillò soddisfatta: «Magari trovano una cura efficace, questa volta.»
«Sì,» concordò Cindy Butler, «una lobotomia.»
Poi, qualcosa scattò.
In un attimo, Melanie era in piedi, le mani serrate attorno al collo della propria compagna, sollevata a qualche metro dal pavimento. L’aveva spinta contro una bacheca, quella in cui spiccavano gli annunci per il club di teatro e le attività musicali pomeridiane. C’era sponsorizzato anche il loro corso di pallavolo.
La testa di Cindy si schiantò contro il vetro una, due, tre, quattro volte, prima che la giovane trovasse la forza di reagire e respingere l’opponente con un calcio nello stomaco. Intanto, un altro paio di ragazze erano corse in suo aiuto, strattonando Melanie per le spalle e allontanandola dalla loro amica.
Mel si trovò costretta a lasciare la presa. Qualcuno l’aveva spinta a terra e si era tuffato su di lei come un vampiro, mentre delle sconosciute le bloccavano i polsi.
Le urla attorno a loro si riproducevano in una serie di scatole cinesi. Nel gran trambusto, nessuno osava intervenire, nessuno osava interrompere, nessuno osava denunciare.
Un tonfo.
Era riuscita a ribaltare Cindy, piazzatasi in fretta sul suo sterno, le gambe allacciate ai fianchi.
Un moto di rabbia, uno schizzo di bile, odio cieco oscurava lo sguardo di Melanie mentre tirava un pugno sul naso della ragazza. Lo aveva desiderato da tanto, ma stranamente non fu liberatorio.
Nel suo animo non si aprì uno spiraglio di serenità o soddisfazione; al contrario, Melanie sentì quel moto crescere, inarrestabile, inoppugnabile, pervaderle le membra, risalirle la gabbia toracica, elettrizzarle i capelli, scorrerle nelle braccia, martellare i polsi. Un’energia nuova, ma non sconosciuta, le caricava le dita.
Ne voleva ancora.
A quel pugno ne seguirono altri, una mitragliata di colpi indirizzati a viso, stomaco, addome. Ed ogni volta che le sue nocche cozzavano contro quei denti perfetti, ogni volta che Cindy gridava, implorandola di smetterla – perché le faceva male, Melanie, basta, per favore, basta – per ogni spacco che apriva sulle labbra di petali, per ogni zampillo di sangue che creava – chi era la sfigata, ora? La poveraccia? La pazza? – Melanie provava piacere.
Era un amplesso di brutalità, un turbine di cieco odio e lucida beatitudine.
Lo vedeva solo di sfuggita, il suo braccio che meccanicamente si alzava ed abbassava, in un gesto ormai regolare, mentre i suoi vestiti si imbrattavano di gocce di sangue.  
Infine, qualcuno le calò una mano sulla spalla, allontanandola di peso dalla sua vittima.
La voce di Mister Buckner la trapassò da parte a parte.
«Prescott, ma cosa credi di fare?»
Era in piedi, adesso, ansimante come un toro prima della corrida. I contorni sfocati dei corridoi scolastici si materializzarono, tornando ad acquisire a poco a poco consistenza, nitidezza.
Il suo sguardo incrociò quello di Isaac, che la teneva saldamente per una spalla.
Appariva allibito. La scrutava come in cerca di un briciolo di umanità residua, come ad accertarsi che dentro, da qualche parte, ci fosse ancora la Melanie che conosceva.
Una ragazza si fece avanti, puntandole il dito contro: «Mister Buckner, ha iniziato lei. Ha quasi massacrato Cindy di botte.»
L’altra non aveva nemmeno la forza di difendersi, come ipnotizzata in uno stato di irrealtà, lontana mille miglia da quel luogo, da quella situazione. Cindy giaceva sul pavimento, entrambe le mani raccolte a coppa davanti al naso, si rigirava tra gemiti di dolore.
Era stata lei? Era stata proprio lei a farlo?
Melanie non riusciva a crederci.
«Coraggio, in infermeria. Tutte e due», ordinò l’istruttore, tirandola per il braccio.
In breve il corridoio fu sgomberato, il nugolo di studenti sciolto nelle altre alee dell’edificio, a far circolare la voce, la nuova succulenta notizia di cui si sarebbe discusso per settimane.    
Sulla vetrina della bacheca rimaneva solo un vortice di crepe.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.
 
Coming Home
 
 
 
 
«But if you close your eyes,
does it almost feel like
 you’ve been here before?

How am I gonna be
an optimist about this?»

 

 
    
Casa Barnett -  7:15 p.m.
 
 
 
 
 
 
«Potresti passarmi il purè, tesoro?»
Emma Barnett tese le mani verso la figlia e accolse la ciotola di purea con un sorriso da prima pagina.
Riservava il suo lato migliore a tutti, dai clienti ai vicini di casa, fino alla sua adorata famiglia. Quel sorriso, sembrava che gliel’avessero impresso sul viso con uno stampino per biscotti.
Niente di forzato, niente di innaturale. Semplicemente, il suo animo di miele era perfetto per il lavoro nello studio dentistico, così come lo era per il ruolo di madre.
Aveva investito tutta la propria realizzazione personale in quello, nel costruire un nucleo familiare – le piaceva pensare alla loro casa come ad un nido -  e crescere due splendidi giovani. 
Un po’ lo doveva alla fortuna, al Caso o Destino che le aveva permesso di conoscere un uomo splendido, acuto e tenero, con cui costruire tutto ciò. E non si stancava mai di ripeterlo, celebrava ogni volta il loro primo incontro; Emma e  Hugh Barnett raccontavano la loro storia d’amore come sposi novizi.
Secondo Isaac, era un rituale di redenzione, la ricerca a tentoni di una certezza, di un pilastro a cui appoggiarsi.
Lui vedeva quello che agli occhi degli altri, degli esterni – parenti inclusi – veniva annebbiato: la coppia perfetta, l’idillio che tutti invidiavano, era solo fumo.
La televisione, rigorosamente spenta, era un servo muto in sottofondo.
Hugh Barnett stava affettando la propria carne.
«Allora,» iniziò sollevando il viso dal piatto, «com’è andata oggi?»
Daphne rimirava nauseata il proprio purè. Sua madre lo cuoceva sempre poco e non sapeva regolarsi con il burro. Risultato: una sostanza cremosa ed eccessivamente grassa.
Emma intercettò i suoi pensieri: «Non ti piace?»
«No! Solo che l’ho già mangiato a pranzo. A mensa non fanno altro.»
Tutta quell’attenzione nei confronti del cibo, la preoccupava. Ultimamente Daphne sembrava concentrata sul proprio aspetto fisico in un modo che rasentava l’ossessione.
Da quando Alyssa l’aveva accolta nel proprio giro d’amicizie, sua figlia era andata incontro ad un cambiamento inevitabile, quasi naturale ai suoi occhi. Ma adesso, in quegli ultimi mesi, tutto pareva appeso ad un filo sottile.
Emma Barnett ricercò lo sguardo del marito, protetto dal paio spesso di occhiali. Erano quelli che preferiva, quelli che meglio ricalcavano lo stereotipo di professore di matematica, facendolo apparire ancora più impacciato e goffo nei movimenti.
Dall’altro capo della tavolata, però, non trovò alcun segno di supporto.
Si schiarì appena la voce, appigliandosi a tutto ciò che le rimaneva: Isaac.
«A te com’è andata la giornata, tesoro?»
Di nuovo quel sorriso buono, quella sviolinata che Isaac detestava.
«Tutto nella norma.»
Evasivo. Era freddo, distaccato, terribilmente evasivo.
Per Emma Barnett fu un tuffo al cuore.
«Niente…di nuovo?»
Daphne si strinse nelle spalle, scomoda sulla sedia dell’Inquisizione.
Al piano di sopra, sulla scrivania, l’attendeva l’ultimo libro preso in biblioteca. Ne aveva già letto un pezzetto, appena qualche pagina per passare il tempo in metro, ma era stato come pizzicare la corda della curiosità: doveva andare avanti.
Con un gesto impercettibile, microscopico, allontanò il piatto.
«No, sai cosa? Ora che ci penso, qualcosa c’è.»
Sicuramente Isaac si sarebbe inventato qualche stupidaggine per far contenta sua madre. A lei poco importava quale trovata geniale avrebbe sfoderato. Tutta la sua attenzione era stata risucchiata dai ghirigori che disegnava sulla tovaglia.
«Che cosa, tesoro? Raccontaci.»
Emma pareva aver abboccato volentieri all’amo – o al salvagente? – che le era stato gettato.
«Una rissa.»
Isaac si gustò per qualche istante la sorpresa sulle labbra materne. «Nei corridoi.»
La notizia catturò perfino l’interesse di Hugh Barnett: «Una rissa? All’Arcadian? Non si è mai sentita una cosa del genere. È uno dei migliori istituti del centro città.»
«Per questo li abbiamo iscritti lì», confermò la moglie, come se si dovesse giustificare con qualcuno.
Isaac apparve irritato da tutto quello scetticismo.
«Eppure c’è stata. Violenta, anche.»
Osservava la lama di luce riflessa dal coltello, quasi indifferente alla questione, ma aveva ben in mente dove orientare quel discorso. Un nervo scoperto che gli premeva toccare da diverso tempo, ma che solo adesso poteva lasciare esplodere senza alcun avvertimento, lì su quella tavola ben apparecchiata.  Lui era al timone.
Ciò che maggiormente lo irritava era l’atteggiamento di sua sorella.
Daphne con la sua sciocca aria di superiorità, con i suoi stupidi classici stipati in camera, lo ignorava.
«Sono intervenuto anch’io, altrimenti l’avrebbe fatta a pezzi.»
Ogni informazione aggiuntiva instillava altre gocce di curiosità nei genitori.
Il timer ticchettava verso lo zero, preparandosi alla detonazione finale.
«Cindy Butler», rivelò a sua madre. «È stata aggredita davanti alla palestra. Questa è la versione ufficiale, quella che hanno fatto girare per la scuola. Se l’è cercata: ecco la verità.»
Emma Barnett era incredula, quasi stravolta: la figlia dei Butler invischiata in una rissa?
Non riusciva, non poteva crederci. Senza accorgersene, aveva preso a scuotere ripetutamente il capo.
«Ma è una ragazza così a modo…»
Daphne, senza staccare lo sguardo dal ricamo del centrotavola, liquidò la faccenda.
«Sta bene. Solo un po’ di sangue dal naso e molta scena. Non c’era nemmeno la preside, in sede, quindi la faccenda se l’è sbrigata l’allenatore.»
Un “tutti felici e contenti” le stava per scappare di bocca, ma riuscì a trattenersi. Scalpitava, adesso, per abbandonare la tavola e rifugiarsi in camera propria. Era stanca; stanca di sentire i patetici tentativi di comunicazione messi in scena per quella mezz’oretta scarsa, stanca dell’aria svampita del padre che a tratti c’era a tratti vagava chissà dove nel suo adorato mondo fatto di equazioni e domande filosofiche; stanca delle portate strabordanti e dei discorsi senza senso di Isaac. Semplicemente stanca.
«Deve esserci stato un malinteso, ne sono sicura», commentò Emma con tono bonario. «Cindy non mi sembra il tipo da provocazioni…»
Ad Isaac bastò un’occhiata per inchiodarla sul posto. «L’ha fatto, ti dico. Ero presente.»
«Beh,» suo padre si sistemò gli occhiali sul naso, «sicuramente c’è dell’altro sotto.»
«No, papà. Non c’è altro
Buonisti del cazzo. Non poteva far a meno di detestare l’attitudine di clemenza che entrambi somministravano a chiunque non lo meritasse; forse era l’unica cosa che avevano in comune, i suoi genitori.
«Melanie è stata provocata. E questa non è nemmeno la prima volta che avviene, ma oggi ha deciso di non subire più, semplicemente.»
Qualcosa si era incrinato.
Emma Barnett restò folgorata, l’ultima forchettata di hamburger sollevata a mezz’aria.
Il resto del discorso era andato perduto chissà dove, nel dimenticatoio aeriforme del silenzio, come quando coglievano solo ciò che conveniva loro. Isaac capì all’istante e provò a dirottare la conversazione da quella deriva pericolosa, ma ormai aveva perso il controllo.
Non il tipo di reazione che si aspettava.
«Hai detto Melanie?»
Sua madre stava per avere un infarto. «Melanie Prescott? Quella Melanie?»
Ogni aggancio all’attenzione paterna era crollato.
Isaac si agitò a disagio sulla sedia. «Sì – ma non è questo il punto.»
«Oh, santo cielo! Ancora le permettono di frequentare l’Arcadian
Hugh Barnett si sentì in dovere di buttare lì un commento, giusto per stare a posto con la coscienza: «Pensavo che avessero fatto quella petizione, no?»
La moglie annuiva spasmodicamente, tutti i suoi campanelli d’allarme messi in funzione.
«Sì, sì infatti! Tutte noi mamme,» si corresse subito, «tutti noi genitori abbiamo fatto il possibile. Evidentemente non è stato abbastanza.»
Isaac impugnò una posata, bellicoso. «Abbastanza? Per sbattere fuori una ragazzina che non ha fatto niente di male? Paga la retta, il padre e il fratello lavorano in marina, per il nostro Paese. No, mamma, non mi sembra abbastanza per espellere una normale studentessa.»
«Normale? È una pazza e una violenta, proprio come sua madre.»
Hugh Barnett diede manforte, sostenendo che i “casi difficili” nelle scuole andrebbero trattati con le pinze, con minuziosa attenzione, assicurandosi che non arrechino disturbo al resto dell’istituto. Istigare una rissa era certamente un comportamento a rischio, che avrebbe potuto costarle l’espulsione.
«Sarebbe ora!», esclamò Emma con un sospiro liberatorio. «Così la smette di rappresentare un pericolo.»
«Mamma, non ha mai fatto--»
Sua madre gli posò un dito sulle labbra, severa e determinata. «Tesoro, sua madre è pazza. Certi tipi di…malattia,» ricercava le parole con cura, con la solita condiscendente aria di bontà, «si trasmettono geneticamente. Capisci?»
Isaac si sentì frustrato. La parte peggiore della questione riguardava, come sempre, Daphne. Si era alzata di scatto da tavola, isolandosi in camera da letto. In certi momenti la sentiva talmente distante, talmente lontana dall’immagine che di lei conservava nella memoria, da fargli dimenticare perché la adorasse, o anche solo apprezzasse.
La raggiunse di corsa, nonostante il sangue gli ribollisse nelle vene.
Ai colpi sulla porta socchiusa, però, non ottenne risposta.
«Daph?»
Fece forza sulla maniglia e si decise ad entrare.
«Vattene, Isaac.»
Se ne stava distesa sul letto, prona, gli occhiali da vista calcati sul naso e Madame Bovary fra le mani.
La luce soffusa delle abat-jour disegnava un arabesco di ombre sulla coperta. Così, baciati da quella luce aranciata e avvoltolati in residui di boccoli sfatti, i capelli di Daphne sembravano quasi principeschi. 
«Non te ne importa nulla?»
Lei continuava a sfogliare il romanzo, estranea all’intera situazione; la voce un colore monocorde: «Di che cosa?»
Isaac abbracciò l’intera stanza con ampio gesto delle braccia.
«Di tutto, di niente! Non lo so, Daphne, non ti riconosco più.»
«Perché dovrebbe interessarmi?»
«Lo sai. Lo sappiamo entrambi.»
Un segnalibro calò tra le pagine. Daphne si tirò a sedere e prese a giocherellare con la montatura scura degli occhiali, rigirandosela con nervosismo tra le dita.
«Cosa vuoi che faccia? Vuoi sentirmi dire che mi dispiace?», lo fissava con aria di sfida. «Okay, mi dispiace. Mi dispiace, ma nessuno si è fatto male e, grazie al cielo, hanno scampato la sospensione.»
Isaac scosse il capo, appoggiandosi allo stipite della porta.
Conosceva quella camera come le proprie tasche. Ogni angolo, ogni anta in cui nascondersi, ogni briciolo di pavimento, lui li aveva studiati e appresi nei primi mesi di vita, quando la culla si trovava accanto alla finestra e lo studio del padre non era ancora stato trasformato nella stanza che ora portava il suo nome.
Aveva gattonato nella camera di Daphne come se fosse stato un campo di battaglia, il suo primo confronto con la realtà.
Da qualche anno aveva cambiato aspetto, ma ai suoi occhi non sfuggivano piccole crepe nel muro, i graffi inspiegabili alla base della libreria, qualche schizzo di colore che aveva impresso sulla parete con i gessetti.
«Sai cosa mi fa davvero incazzare?», le domandò con un sorriso sottile.
Daphne lo osservò in silenzio.
«Che lei c’è sempre stata per te, mentre tu adesso non muovi un dito.»
«Questo non è vero. Sappiamo tutti e due che non lo è», scattò l’altra. «Melanie ha fatto le sue scelte e sa cavarsela da sola.»
Era calato il silenzio.
Un silenzio secolare, una distanza millenaria li separava, rimarcando la differenza d’età che li divideva. Passava solo un anno fra lui e la sorella, ma Daphne si comportava spesso come “La Maggiore” per eccellenza, elevandosi anche al ruolo di madre qualche volta.
Lui la fissava senza aggiungere nulla. Sentiva, sapeva, che stava a lei la prossima mossa.
Aveva ricercato una reazione da parte sua, ma si rendeva conto solo in quel momento di quanto a fondo si trovassero le radici della “questione Melanie”.
Alla fine, Daphne spezzò il silenzio.    
«E non dire che c’è sempre stata, perché è una menzogna. Non sai nemmeno cosa ho passato», aveva abbassato il tono e la pellicola di indifferenza avvolgeva di nuovo il suo volto. Inforcò gli occhiali e si dedicò alla lettura in attesa.
«Chiudi la porta quando esci, Isaac.»
Il fratello rimase ad osservarla per un altro minuto buono, prima di gettare la spugna.
Non importava quanto graffiasse la superficie – poteva pure scorticarsi le unghie e ferire la carne – non sarebbe mai arrivato al cuore della questione.
E il fatto che lei fosse così sicura che Melanie se la sarebbe cavata da sola, lo sconcertava. Lo sguardo offuscato dall’odio, le nocche tinte di rosso, la violenza cieca con scaricava una raffica di pugni su una sua coetanea: lei non aveva visto nulla di tutto ciò e non poteva pertanto capire.
Ma le ubbidì, lasciandola sola.
 
 
*   *   *
  
 
Quando Isaac si fu richiuso la porta alle spalle, Daphne tirò un sospiro di sollievo.
Richiuse il libro, osservando la copertina di un blu fiordaliso, facendo scorrere i polpastrelli sulle preziose decorazioni dorate che incorniciavano il titolo. Doveva essere un’edizione piuttosto vecchia.
In un impeto di insofferenza, scagliò il volume lontano da sé, lasciando che precipitasse oltre il letto, sul parquet di legno.
Le capitava spesso di passare in biblioteca, quella dell’Arcadian era fornitissima, e prendere in prestito dei libri, per risparmiare sugli acquisti. Non che ad una famiglia come la loro, residente nel Westside, mancassero le risorse per comprare libri; anzi, era certa che sua madre sarebbe stata contentissima di ricoprirla di diari, saggi, romanzi ed autobiografie, se solo l’avesse chiesto.
Era proprio quell’eccessiva disponibilità di affetto ed attenzioni che la spingeva a chiudersi in biblioteca o nella propria camera e affondare nella lettura.
Aveva scoperto l’arcano fascino dei libri all’età di cinque anni e da quel momento non aveva più spesso di divorare qualunque cosa le capitasse sotto mano.
E poi, le piaceva spendere il proprio tempo nella biblioteca dell’Arcadian - forse l’unico angolo della scuola che non odiasse con tutto il cuore – e scampare alle temute attività pomeridiane o alle amiche di Alyssa.
Scese dal letto, accostandosi alla finestra.
Le tende profumavano di pulito, come ogni centimetro dell’intera abitazione.
Da lì si poteva vedere casa di Logan, in fondo alla strada, con le luci ancora accese e gli arbusti ben potati nel giardino che oscillavano sotto il vento.
C’era stata un milione di volte dai Woods, da quando il suo destino e quello di Logan si erano incrociati curiosamente una mattina di settembre. Non andavano ancora alle superiori e Logan portava l’apparecchio ai denti, sputacchiando un po’ ovunque nel quartiere durante i suoi lunghi vagabondaggi in compagnia di James.
Le mancavano quei giorni.
Da quando frequentava Alyssa, le visite presso i Woods si erano ridotte notevolmente e le poche volte che sentiva la voce del signor Woods era alla radio, durante il suo programma mattutino.
Daphne recuperò il libro da terra, avvertendo una punta di rimorso. Se avesse danneggiato il dorso del volume, non se lo sarebbe mai perdonato – e probabilmente nemmeno la bibliotecaria sarebbe stata indulgente.
Raccogliendo il romanzo, si avvicinò alla scrivania piena di quaderni, appunti e oggetti mescolati alla rinfusa. L’ordine e la precisione, sempre presenti nel suo mondo interiore, non si proiettavano con altrettanta efficienza nel mondo reale. Scansò una matita, annotando mentalmente di doverla mettere nell’astuccio.
Flaubert era uno di quegli autori che aveva sempre ammirato a distanza, senza sapere perché; provava un’attrazione avita per lui e tutte le opere che non aveva neppure aperto.
Schiudendo le pagine, qualcosa precipitò sul pavimento in un volteggio.
Raccolse il biglietto piegato in quattro con un velo di perplessità. Probabilmente si trattava di una nota della bibliotecaria, lasciata lì per distrazione.
La carta giallastra, carta da lettera, la incuriosì.
Posato il romanzo, si dedicò completamente al bigliettino. Sul retro era segnato uno strano numero ed una lettera dell’alfabeto – 10A – che non significava proprio niente; dall’altra parte, però, spiccava in una calligrafia sottilissima e all’apparenza elegante, nonostante l’incertezza del tratto e alcune parole incrinate, una scritta in corsivo.
“Il futuro era un corridoio oscuro e la porta in fondo era sbarrata.”
Comprese all’istante che si trattava di una citazione. Oltre quelle virgolette in cui era stata rinchiusa, quasi un cesto o un contenitore necessario, c’era un’altra frase, tratteggiata in modo frettoloso e incurante.
E tu? Perché non hai il coraggio di aprirla?
Daphne si sentì schiaffeggiata nell’intimo da quelle scarne parole. Sembrava quasi uno spot pubblicitario, uno di quegli slogan fatti per invogliare il consumatore a rivoluzionare la propria vita, a dare un taglio alle cattive abitudini e convertirsi al consumismo.
Ma c’era dell’altro.
Una domanda, una innocua, innocentissima domanda, che arrivava a toccare delle corde sconosciute.
O meglio, represse, soppresse, dimenticate. Sì, perché quei dubbi si trovavano sempre lì, giacevano sotto la pelle come un morbo silente in incubazione, pronti a scatenarsi senza avvertimenti.
Bastava così poco per mandarla in tilt?
Forse era colpa di Isaac e di tutti quegli sciocchi discorsi a tavola.
Sì, sicuramente era colpa di Isaac e del finto moralismo con cui la scudisciava, indicandole il punto preciso del sentiero in cui era inciampata.
Perché non aveva il coraggio di aprirla?
Perché faceva troppo comodo.
Era così facile vivere nell’indifferenza, dimenticarsi di ciò che faceva male, seppellire risentimenti e indecisioni, procrastinare nell’indolenza e lasciarsi trascinare dalla corrente, dagli eventi, dai desideri di sua madre, di suo padre, dell’insegnante di letteratura, di Alyssa. Non era mai chiamata a prendere posizione.
Perfino nei romanzi in cui si tuffava, nelle tragiche avventure di eroine e antieroi, non doveva pensare, ma solo lasciarsi guidare dalla voce narrante.
Il confronto con se stessa – o con gli altri – la terrorizzava.
Impugnò la penna, si sedette alla scrivania, dispiegò il foglietto davanti a sé.
Non sapeva cosa stesse facendo, agiva senza uno scopo, più per sfogo che per altro, senza aspettarsi nulla in cambio, consapevole che il messaggio sarebbe stato cestinato.
Sotto alla domanda scrisse poche frasi.
Mi assicuro che qualcuno la tenga ben chiusa. Auto-sabotaggio.
Poi, d’impulso, ne aggiunse un’ultima.
La tua è aperta?
 
 
 
*   *   *
 
  
 
Rincasare dopo le sette di sera non era una buona idea, se si abitava a Lowhood.
Purtroppo non le era rimasta molta scelta, considerata l’imprevista scazzottata e la punizione che era seguita.
Mister Buckner era stato inaspettatamente comprensivo, cercando di ammansire entrambe le parti e fare un lavoro di coesione che in vent’anni di insegnamento non era mai riuscito a raggiungere.
Temeva per il proprio ruolo, ecco tutto.
L’assenza della preside era stata una mano santa per uno come lui, che in campo ci stava appena dieci minuti e a lezione ancora di meno. La rissa si era svolta durante la parte finale della sua lezione, di cui aveva anticipato il termine per liberarsi degli allievi e pensare ad altro nel proprio studio.
In infermeria c’era stata poche volte.
Ne rammentava distintamente solo una, nella scuola precedente, quando aveva dieci o undici anni e le era salita una febbre allucinante. Aveva iniziato a delirare, a pronunciare frasi sconnesse e l’insegnante l’aveva sospinta fuori dall’aula per paura di un contagio.
Il sapore metallico del termometro che teneva in bocca, il profumo di naftalina che tappezzava la stanza, il leccalecca che un’infermiera gentile le aveva promesso, erano ricordi ben fissati nella propria mente.
Come anche la telefonata concitata a sua madre e la risposta affannata – non posso venire, no, sono al lavoro al momento, non posso proprio, non saprei come fare – che l’avrebbero abbandonata su quel lettino di ferro con bottiglie di alcool ed altri disinfettanti, tra siringhe e aspirine, con più di trentotto di febbre.
Melanie si arrestò davanti al semaforo rosso, stringendosi nell’impermeabile.
In strada giravano alcune automobili, pochi passanti e tutti impegnati a parlare rumorosamente al telefono.
I fanali di qualche motorino la accecarono per un istante, prima che la vista si riabituasse all’oscurità.
Iniziava a fare freddo, più freddo dello scorso autunno. Chissà se sua zia si era ricordata di fare il cambio di stagione. Probabilmente, anzi quasi sicuramente, no.
Sarebbe stata pronta a scommetterci la testa.
Infilò le mani nelle tasche del cappotto, rabbrividendo appena.
Chissà cosa avrebbe detto zia Lydia nel vederla tornare a casa con una mano bendata. Chissà se la notizia della rissa l’aveva già raggiunta o se il cielo aveva deciso di graziarla, almeno per quella volta.
Lei si era beccata una mano bendata, Cindy un naso quasi fratturato. Erano pari o quasi.
Anni prima, dall’infermeria era uscita con una coperta leggera posata sulle spalle, un permesso scritto e l’agognato leccalecca. La sua mano sinistra era stretta in quella di Emma Barnett; l’altra, quella attualmente fasciata, si ancorava al cappottino rosso di Daphne Barnett.
Finalmente scattò il verde e Melanie attraversò a grandi falcate la strada.
Poco più avanti sul marciapiede, una porta pesantissima venne spalancata, riversando un fascio di luce ambrata e una miriade di risate ed urla.
Una figura infagottata in un impermeabile beige ne uscì barcollando, spintonata sulla via principale da un paio di energumeni. Stava biascicando qualcosa, nel tipico vaneggiamento di chi abbia bevuto troppo.
Agitava mollemente un braccio in direzione del locale, boccheggiando.
«Ve aaa fffarò vedere,» sputacchiava, «nnnnh sapete ccchi sss…»
La sconosciuta non doveva avere più di una ventina d’anni, i capelli chiarissimi raccolti in una coda bassa scomposta e gli occhi azzurri stralunati, contornati da delle vere e proprie fosse violacee, la facevano sembrare più grande.
Melanie avrebbe preferito ignorarla, lasciarla alle sue urla sconclusionate contro il proprietario del pub e i due buttafuori che l’avevano cacciata di peso. Quando le passò accanto, tuttavia, fu la donna a bloccarla.
«Heyyyyy…»
Provò a scivolare di lato, riparandosi dietro il tronco esile di qualche albero che costellava il marciapiede.
La sconosciuta non desistette. Cominciò a trotterellarle dietro a passo veloce, bloccandosi solo a tratti, senza smettere mai di urlarle addosso.
«Hey dico a te! Non ti faccio niente.»
Melanie si bloccò, mantenendo una ragionevole distanza di sicurezza.
Il segnale fu recepito al volo dall’altra, che adesso le veniva incontro con entrambi i palmi in mostra.
«Visto?», aveva ridotto anche i biascichi, sforzandosi di parlare una lingua comprensibile.
«Dio, che ingresso. Sono arrivata qui ‘sssstamattina,» osservò ridacchiando, «e già BEM! Mani in alto.»
La ragazza indietreggiò con perplessità, sussultando appena. Il tutto risultava terribilmente divertente alla sconosciuta.
«Sì, sì, capito? Hey, dico, ce l’hai da accendere?»
Sotto la luce dei lampioni sembrava molto più adulta. Piccoli segni dell’età le segmentavano il viso, indurendo un po’ l’espressione infantile.
«No, spiacente. Non fumo.»
La donna intanto si era messa a rivoltare le tasche del cappotto, quelle dei jeans e della camicia bianca abbottonata fino al naso. Sembrava irritata non solo per la piega che aveva preso la serata, ma per l’intero corso della vita, per come il destino le giocasse degli scherzi piuttosto crudeli.
«Prima di accenderla, dovrei avercela, una sigaretta», ironizzò scuotendo il capo.
Melanie le indicò un punto in fondo alla strada. «C’è una tabaccheria dietro l’angolo. Dovrebbe essere ancora aperta, ma farebbe meglio a sbrigarsi.»
«Graaaazie, cara. Ah, a proposito, per qualunque evenienza,» le stava tendendo un biglietto da visita ammiccando vistosamente, «Detective Ellen Ward al suo servissshio

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.
 
Modern Sunsets
 

«Someone like you and all you know
and how you speak.
Countless lovers under cover of the street
You know that I could use somebody
You know that I could use somebody
someone like you.»

 
 
 
 
 
   10:09 a.m. – Marlow Lane
 
 
 
 
 
Riaprì gli occhi a fatica.
Il peso della sbornia iniziava a farsi sentire: il mucchietto di mattoni accatastati sulla testa, la fronte pulsante, mentre con la coda dell’occhio intravedeva le pareti che sfrecciavano, provando inutilmente ad arginare la stanza.
Le era sufficiente tentare di mettersi a sedere per ritrovarsi su di un mare in piena, e tutto quell’ondeggiare la annientava, schiacciandola di nuovo sul cuscino di pietra e sul materasso ancora più scomodo.
Non ricordava come ci fosse tornata, a casa.
Casa, poi. Come se potesse considerare quel posto casa sua.
Accostò i palmi delle mani al capo, massaggiandosi lentamente le tempie.
Un bilocale di pochi metri quadri, mobili di una di quelle grandi aziende d’arredamento svedesi, angolo cottura dotato di forno a microonde, moquette e una libreria miniaturizzata.
Sintetico, funzionale, minimale: così le era stato presentato al momento del trasferimento. 
Sul funzionale non avevano mentito, per il resto le pareva solo molto freddo ed anonimo.
Era certa che Mia le avrebbe proposto almeno venti modi diversi per renderlo più accogliente  e confortevole – o chic, secondo le stupidissime espressioni francesi che adorava utilizzare – non appena vi avesse messo piede. Ma tutta quella roba – i quadri, i tappeti ricamati, centrini e tendaggi – non era per lei.
L’avrebbe lasciato così, esattamente come l’aveva trovato. Alla fine, costituiva solo un guscio, un luogo in cui appoggiarsi momentaneamente, poi avrebbe cercato una nuova sistemazione.
L’unico aspetto positivo era la vista sulla spiaggia, anche se già sapeva che non sarebbe mai andata a tuffarsi  in mare; no, non lì a Norwall, dove le acque sembravano cariche di nevischio perfino in estate.
Il trillo di una chiamata in arrivo le trapanò il cervello.
Sperava di poter lasciar squillare a vuoto, ma chiunque la stesse cercando si rivelò piuttosto ostinato.
Mugugnò qualcosa, passandosi le mani sul volto. Avrebbe cambiato quella dannata suoneria, prima o poi, le dava ai nervi ogni volta che la sentiva.
Scalciò le lenzuola sul fondo, rigirandosi a fatica nel letto.
Fortunatamente la Ellen della sera precedente aveva pensato di lasciare il telefono a portata, sul comodino.
«Pronto?»
Non aveva controllato il nome del mittente, ma rimase doppiamente sorpresa nel riconoscere una voce al tempo stesso familiare e persa nel tempo. Il suo stomaco si avvoltolò su se stesso in un triplo salto mortale.
Cos’era quello stupido nodo alla gola?
«Parlo con Ellen Ward?»
«S-sono io.»
Si umettò le labbra, passando in rassegna in una frazione di secondo i motivi che potevano nascondersi dietro quell’insolita chiamata.
«Dio, da quanto tempo! Non sapevo nemmeno se questo numero fosse ancora valido.»
Era frizzante, spumeggiante, fresco e disinvolto. Insomma, non era cambiato di una virgola.
«Nat?»
«C’est moi!», esclamò divertito. «Incredibile, Ellen Ward di nuovo a Norwall – o  forse dovrei chiamarti detective ora?»
Un caleidoscopio di suoni, immagini e ricordi si accatastò nella sua memoria, costringendola ad abbassare le palpebre e chiudere fuori il resto.
La brezza estiva, granelli dorati che sfuggivano fra le dita, l’applauso scrosciante il giorno del diploma, la stretta di mano del sergente Judd Horne, la targhetta sulla scrivania che riportava il suo nome, la voce della madre che la richiamava in casa dal giardino.
L’aveva sognata di nuovo, quella notte.
Assurdo, quasi paradossale, che ricordasse nitidamente il suo sogno da ubriaca, ma non riuscisse a ricomporre gli spostamenti che l’avevano riportata nel suo quartiere da Lowhood.
«Ellen può bastare», esalò in un sospiro.
Una pausa. Nat stava riflettendo.
Riusciva a immaginarselo, impacchettato in qualche polo firmata, nei suoi pantaloni di marca, seduto da qualche parte con quegli occhiali da sole che lo facevano sentire più attraente di quanto già non fosse.
Quella, però, era l’immagine che si era costruita controllando il suo profilo su Instagram, scorrendo fra le innumerevoli foto che lo ritraevano sullo yacht di famiglia, solo o in compagnia, con pregiati bicchieri di vino bianco, i lunghi capelli sparsi al vento che rimandavano riflessi ambrati nella luce serale.
Chissà adesso dove si trovava, cosa stava facendo.
«Stai bene? Ti sento devastata.»
«Mh?»
Nat ridacchiò nel microfono.
«Non dirmi che ti ho svegliata.»
Ellen si spostò all’altro capo del matrimoniale, sollevando la sveglia squadrata dal mobile.
Erano già le dieci del mattino: la sua prima mattinata a Norwall, l’aveva annegata nei postumi della sbornia.
«N-no! Tranquillo, ho la sveglia presto. È solo che stamattina faccio fatica a carburare.»
«Capisco», soffiò l’altro. «Anch’io mi annoio parecchio nel nuovo ufficio.»
Ad Ellen tutto ciò suonava stonante: Nathaniel era stato uno stakanovista fin da bambino, il sogno di divenire avvocato l’aveva partorito all’età di sette anni e perseguito con una costanza esemplare. Immaginarlo stanco, anzi annoiato, a Norwall le sembrava impossibile.
Si limitò a replicare con un poco convinto: «Ah sì?»
«Già.»
La conversazione, apparentemente destinata ad arenarsi nelle loro riflessioni mute, fu risollevata da una proposta inaspettata. «Allora, Det. Ward, posso portarti a bere qualcosa, una di queste sere?»
Al solo pensiero di altro alcool, Ellen avvertì un rigurgito nell’esofago.
«O sei troppo presa da rapine e terribili assassini?», Nat terminò sulla solita nota ironica.
«A dire il vero, mi devo ancora sistemare», ammise lei. «Però possiamo organizzare qualcosa. Anche Mia sicuramente vorrà incontrarmi…»
Nat si ravvivò ulteriormente.
«Perfetto! Allora ci sentiamo presto, Detective Ward.»
La donna riagganciò con un sospiro.
Ellen andava più che bene; già in troppi la chiamavano con quell’ufficioso “Detective”, tanto che era arrivata a perdere il significato della parola, considerandolo un semplice suono.
Norwall l’avrebbe distrutta, se lo sentiva.
 


 
*   *   *
 
 
 
Il Silver Park era rimasto identico dalla loro ultima visita.
L’estate sembrava essere rimasta impigliata lì, tra i rami di qualche albero, all’ombra fresca e riposante.
Mentre a Norwall regnava l’autunno, piccole gocce di mesi dimenticati si trovavano racchiuse oltre le mura di cinta del parco, uno dei polmoni verdi più ampi del quartiere.
Come ogni spazio pubblico a Ginger Blooms, il Silver era curatissimo centimetro per centimetro.
L’area da picnic si stendeva lungo un declivio soleggiato e abbracciava l’unico laghetto presente, un bacino idrico artificiale costruito nel 1993.
A quell’ora del pomeriggio la fauna era costituita perlopiù da bambini usciti da scuola in compagnia dei genitori, passeggiatori solitari, cani senza guinzaglio e anziani ritrovatisi per giocare nell’angolo degli scacchi. Vi era un’insolita quiete, un’atmosfera calda da serra.
«Dovevamo portare un pallone.»
Jason si lamentava per qualunque sciocchezza gli passasse per la testa. Travis gli indirizzò un’occhiata di rimprovero, prendendo una manciata di patatine dal sacchetto, per poi schiaffarle in faccia all’amico.
«Mangiati questa roba e non scocciare.»
James, che se ne stava supino sul telone rattoppato procurato da Logan, le scarpe gettate in un angolo e piedi all’aria, scoppiò in una fragorosa risata.
Il sole stava quasi tramontando dietro il profilo del lago, i raggi scivolavano sulla superficie disegnandovi sopra delle piccole chiazze argentate. Daphne inspirò a pieni polmoni l’aria, godendosi il debole venticello autunnale che le avvolgeva i capelli sulle spalle.
Se ne rimaneva seduta ad un angolo del telo, le braccia adagiate oltre la schiena, il capo reclinato all’indietro.
Il pomeriggio le era sembrato estremamente lungo all’inizio, quando non riusciva a spiccicare parola e si nutriva con famelica disperazione delle conversazioni altrui; adesso però rimpiangeva che stesse per terminare, sospingendola verso la normalità della propria vita.
La sua porzione di torta era rimasta nel piattino di plastica, gli sbuffi di panna ancora intatti.
Cercava di ignorare a tutti i costi il fastidioso martellare nella gabbia toracica e i suoni ovattati delle pulsazioni. Le si era stretto lo stomaco da quando Ethan Sallinger si era unito al gruppo, il solito paio di jeans sdruciti, la maglietta celestina con qualche stampa sopra, le scarpe consunte per metà slacciate.
C’era un filo di trascuratezza che lo avvolgeva; niente che lo facesse apparire sciatto, ma quanto bastava per accompagnare quell’aria malinconica che si trascinava negli occhi. Quanto bastava perché il suo cuore, da un paio di anni, accelerasse i battiti non appena ne individuava il profilo tra la folla – e sarebbe stata in grado di riconoscerlo ovunque.
«Hey, dico,» osservò James, tirandosi a sedere d’improvviso, «sentite anche voi che manca qualcosa a questa serata?»
«Per niente», replicò Logan. «Abbiamo perfino la torta grazie a Daphne.»
Travis diede il cinque alla ragazza, bofonchiando qualcosa su quanto fosse santa e meritasse una statua.
«No, no,» James non lasciò che il suo entusiasmo venisse minimizzato, «intendo un’altra cosa.»
Jason indicò Austin, il nuovo arrivato. «Austin qua è astemio, per cui niente birra.»
La ragione per cui Austin fosse tra loro, al compleanno di un ragazzo che conosceva a malapena, era da ricercare nelle pratiche di buon vicinato eseguite dalla madre di Logan.
La signora Woods si era preoccupata per l’infelice sorte del loro vicino di casa, di cui la mamma tesseva le lodi, commiserandolo. Talentuoso, acuto, studente modello: sembrava che Austin fosse da invidiare sotto ogni aspetto e non ci si capacitava del perché non avesse amici.
Adesso, quel perché era chiaro a tutti.
Un infante intrappolato nel corpo da sedicenne: questo era Austin Grayben.
Li aveva seguiti dall’uscita dell’Arcadian sgambettando dietro a Logan come un animale da compagnia o una scimmia ammaestrata, tutto profumato e infiocchettato nel completo scelto dalla mamma.
Parlava in continuazione, senza curarsi di interrompere gli altri, emetteva improvvise e immotivate urla, era manesco ed egoista, affatto interessato ai festeggiamenti o ad altri esseri umani all’infuori di sè.
I suoi unici desideri, da quando erano arrivati al parco, erano stati di mangiare la torta e tuffarsi nel laghetto, possibilmente in quest’ordine. Logan aveva sospirato, spiegando agli amici che la sua compagnia era in via del tutto eccezionale; accoglierlo per un pomeriggio nel gruppo restituiva a lui e a sua madre un senso di umana filantropia. Provava quasi commiserazione per quell’essere isolato dal resto del mondo.
«No, nemmeno la birra», proseguì James. Agguantato il proprio smartphone, lo sventolò sotto gli occhi dei presenti, un sorrisetto soddisfatto a incurvargli le labbra. «Musica!»
Gli altri tre si esibirono in una smorfia insofferente, lamentandosi dei gusti musicali del ragazzo.
«Hey, io ascolto roba forte, grandi classici!», si difese l’altro.
«Sì, ma sul telefono conservi il peggio del trash», ridacchiò Logan.
Il giovane, però, si era già lanciato in un’appassionata ricerca nei meandri della memoria interna.
Austin intanto se ne stava a spulciare una margheritina selvatica in solitudine, raccolto in meditazioni troppo profonde per essere condivise. Travis e Jason si accaparrarono un’altra fetta di torta ciascuno.
«Ma l’hai fatta tu, Dee-Dee?», domandò il secondo con interesse.
Daphne, rannicchiata in una posizione comoda con le gambe acciambellate, avvampò inspiegabilmente e si coprì il viso con una mano, scuotendo piano il capo.
«Logan,» sibilò, «l’hai attaccato anche a loro?!»
«E dai, è un soprannome carino», si difese quello con una scrollata di spalle.
Daphne non sembrava affatto del suo stesso parere.
Gliel’aveva affibbiato anni prima, quando frequentavano le medie e lei passava nei corridoi strisciando lungo i muri con lo sguardo basso. Per quanto le orribili camicette a scacchi con pizzo fossero state ormai incenerite, Logan non se le sarebbe mai scordate.
«Ma poi, da dove è nato?», s’informò Jason.
Logan si strinse nuovamente nelle spalle. «Non so, così per caso. Daffy mi ricordava troppo Daffy Duck e quindi era da escludere: avrei riso ogni volta che la vedevo.»
Gli altri si unirono alla sua risata, annuendo a loro volta.
Daphne appallottolò l’involucro con cui avevano coperto biscotti e tartine e lo tirò addosso al compagno, centrando in pieno una spalla.
Ethan scoppiò a ridere ancora più fragorosamente. «Bel colpo!»
La conferma da parte della vittima fu immediata: «Già, bel colpo, Dee-Dee
Si meritò una linguaccia in risposta.
Fu James a irrompere nella conversazione, riproducendo la canzone a tutto volume.
Si era alzato in piedi e stava improvvisando un balletto, scuotendo le anche al ritmo del coro.
La melodia fu captata e riconosciuta all’istante dall’intero gruppo.
«No, James, ti prego!», implorò Jason.
Quello era già partito e non lo stava più ascoltando.
Nuova Brigitte Bardot, James si comportava come se il Silver Park fosse il suo palcoscenico e gli occhi degli amici i riflettori pronti a caricare ulteriormente la sua energia.
Si impossessò di un legnetto a terra, usandolo come microfono.
Gli altri scattarono in piedi non appena il ragazzo intonò l’attacco della canzone.
«This hit, that ice cold, Michelle Pfeiffer, that white gold.»
La voce angelica di James era perfettamente intonata con quella di Bruno Mars; nessuna novità per il cantante dei Wild Spirits of the Seventh Splendor.
Il nome, l’avevano ricostruito tassello dopo tassello come in un mosaico, fino ad ottenere una proposta pomposa, allitterata e nonsense che aveva conquistato i loro cuori.
Durante le esibizioni ristrette della band, James, che era il front-man, rubava sempre la scena a tutti gli altri, non solo con i suoi movimenti eccessivamente teatrali, ma anche grazie ad un ottimo senso del ritmo e ad un dono vocalico spettacolare. Tutti coloro che l’avevano sentito cantare almeno una volta concordavano nel ritenerlo un giovane prodigio non ancora scoperto da qualche talent scout.
Il particolare più straordinario era quanto risultasse accattivante al suo piccolo pubblico, senza una vera motivazione. James semplicemente teneva gli sguardi fissi su di sé.
Adesso gli altri avevano preso a fargli da coro, accompagnando gli assoli di Bruno Mars.
L’atmosfera era cambiata nel giro di pochi istanti e anche i passanti in lontananza si fermavano a osservare la scena con curiosità e un briciolo di perplessità.
Quasi traesse carburante da quelle attenzioni aggiuntive, James alzò ulteriormente il tono.
L’unica rimasta seduta sul telone era Daphne; il viso affondato nei palmi delle mani, avrebbe preferito sprofondare al centro della terra piuttosto che essere così terribilmente cosciente di ciò che avveniva intorno.
«Girls hit your hallelujah, girls hit your halleluljah, ‘cause uptown funk gon’ give it to you
Logan le si avvicinò tendendo una mano, mentre la ragazza scuoteva il capo convulsamente, come seduta su di una sedia elettrica. Il teatrino di James diveniva più intenso di secondo in secondo, in un’escalation di trovate pirotecniche supportate dal resto del gruppo: ora si arrampicava sul tronco di un albero, sperando di trovare uno spazio da cui arringare ai suoi fans, ora saltellava sul posto sollecitando gli altri ad imitarlo.
Daphne si lasciò sfuggire una risatina di imbarazzo, mentre la compagnia abbozzava un balletto.
Logan non voleva mollare la presa: «Dai, Dee-Dee. Balla con noi.»
«No, davvero, Logan, sono una frana. E poi ci guardano tutti.»
Ethan si accostò ai due, una mano sprofondata nella tasca dei jeans, l’altra speculare a quella dell’amico. Le stava facendo cenno di alzarsi.
James gridava a squarciagola: «Don’t believe me just watch!»
«No, dai ragazzi. Non mi va», Daphne iniziava a spazientirsi. Non si sarebbe messa a ballare davanti a loro e agli sconosciuti che attraversavano indisturbati il parco. Odiava il modo in cui il suo corpo ondeggiava al ritmo della musica, la sensazione di cinquanta paia d’occhi incollati su di sé, la maniera impacciata con cui provava ad arrangiare le mani non sapendo assolutamente cosa farvi.
«Daphne, è il mio compleanno», le ricordò l’altro. «Non puoi tirarti indietro.»
«Non so ballare e lo sai.»
Ethan le rivolse uno sguardo d’incoraggiamento. «Che ti importa? Nessuno sa cosa fa quando balla. Dai, ci stiamo solo divertendo.»
Prima che la ragazza potesse replicare, l’avevano afferrata per entrambe le braccia e tirata in piedi, ignorando deliberatamente le proteste che si indebolivano mano a mano che raggiungevano il resto del gruppo.
James saltò perfino giù dal proprio tronco di legno, muovendosi a tempo e fomentando la combriccola.
«Un mito, cazzo!», sbottò Austin entusiasta. «Sei senza dubbi il mio nuovo mito.»
L’altro gli rivolse un occhiolino, per poi avvicinarsi a Daphne e afferrarla per la vita, tirandola a sé. Avvicinava alternativamente il finto microfono a sé e alle labbra dell’amica, attendendo risposta al suo: «I’m too hot! Called a police and a fireman.»
Il viso di Daphne era in procinto di esplodere, infiammato fin sulla punta del naso. Nonostante tutto, si lasciò trascinare dal giovane che continuava a urlare anche agli sconosciuti sullo sfondo del parco.
Il cellulare adesso giaceva sul telone, mera base musicale alle corde vocali dell’intera combriccola.
«Come on, dance, jump on it. If you sexy then flaunt it, if you’re freaky then own it
«James, sei un caso perso», ridacchiò Daphne.
L’altro si limitò a gettare via il legnetto-microfono e ad intrecciare la propria mano a quella della compagna, senza mai smettere di canticchiare il ritornello, imponendole intanto di ondeggiare avanti e indietro insieme a lui.
Volta al termine la canzone, qualche passante proruppe in un applauso a cui Travis e Jason risposero in lontananza con un piccolo inchino. La traccia musicale fu interrotta e il gruppo si riaccomodò sul telone a riprendere fiato.
L’esclamazione di Jason richiamò l’attenzione di tutti. «Ragazzi, guardate che tramonto!»
Il cielo aveva assunto delle tonalità delicate, rabbuiandosi negli angoli più distanti, regalando un tramonto appena nuvoloso alla giornata trascorsa.
Mentre Travis e Austin discutevano sulle sfumature cromatiche, Daphne accostò il mento alle ginocchia allacciate al petto. Osservava l’intera scena senza fasi notare. Sbirciava timidamente, quasi con remissività, nel timore di avvicinarsi troppo e rovinare quella strana sintonia che si era venuta a creare.
Rubava frammenti di tempo, pezzetti di immagine da conservare per le ore insonni che avrebbe trascorso tra le coperte, a rianalizzare le mosse sbagliate compiute durante la giornata.
Era nel cuore della notte che diveniva difficile, quasi insostenibile, tutto. Si ammassava, pesava, mutava forma e le ricordava il prezzo di qualche momento di spensieratezza.
Adesso però, quel tutto era racchiuso in uno strano equilibrio, come all’interno di una bolla di sapone o sotto una campana di vetro in cui si sentiva protetta, accolta, coinvolta. Non le capitava mai di provare simili sensazioni in compagnia di Alyssa.
James, afferrata la custodia scura, ne estrasse una chitarra classica e si accovacciò sul tappeto di tessuto. Proponeva di suonare qualcosa di acustico, idea accolta dal resto dei presenti.
I capannelli di gente all’orizzonte si erano dissolti nel nulla.
«Cosa possiamo suonare?»
Austin si picchiettò l’indice sul mento, in una posa di finta riflessione. Fu Ethan però ad avanzare la migliore alternativa: la decisione doveva ricadere sul festeggiato.
«Assolutamente,» concordò Travis, «anzi, prendi anche la chitarra. Tanto sei tu il nostro musicista preferito.»
Logan la accolse tra le braccia con la delicatezza di chi trattava con gli strumenti da tempo immemore, come se stesse sollevando per la prima volta dalla culla un bambino appena nato.
Le lunghe falangi assunsero una posizione neutrale, accarezzando appena le corde.
«Cosa vi suono?», ripropose con un sorrisetto accennato.
Daphne lo guardò intensamente. «I Kings of Leon
La protesta di Jason fu immediata e sonora: «Ma che roba ti ascolti, Daphne?»
«Dai,» si aggiunse Travis, «dopo Uptown Funk va bene qualunque cosa.»
Logan accettò, estraendo dalla tasca posteriore dei jeans un plettro arancione.
Ne portava sempre uno dietro, per qualunque esigenza musicale si potesse presentare.
«D’accordo, e Kings of Leon sia!»
La scelta si orientò verso uno dei pezzi più conosciuti della band, di cui tutti conoscevano il testo a furia di sentirlo alla radio e nei negozi in giro per la città.
Al festeggiato venne affidato l’onere, nonché l’onore, dell’assolo iniziale. Il ragazzo si schiarì la voce ed accordò lo strumento, per poi iniziare sotto lo sguardo attento di tutti. Logan non soleva cantare, se non come coro o  durante le prove della band in accompagnamento a James; faceva uno strano effetto sentirlo esibirsi da solista.
La sua voce differiva del tutto da quella dell’amico: meno cristallina e angelicata, possedeva una venatura rauca, quasi dolceamara, eppure risultava piacevolissima all’ascolto.
Inoltre, mentre James era consapevole del proprio talento, Logan pareva del tutto all’oscuro del potenziale che nascondeva sottocoperta, rivelando una piccola dose di imbarazzo nell’attacco. Al di là di ogni incertezza, tuttavia, si affacciava tutta la passione che racchiudeva in un semplice hobby.      
«I’ve been roaming around, always looking down at all I see. Painted faces fill the places I can’t reach.»
Gli altri tenevano il ritmo in maniera tribale, battendo mani e piedi ora sulle ginocchia ora sul telone o contro il terriccio.
«You know that I can use somebody.»
Piegato com’era sulla chitarra, la fronte aggrottata e l’espressione concentrata, dalla scollatura della maglietta nera emerse il ciondolo a forma di dente di lupo, solo un vezzo estetico che il giovane si permetteva per una questione allacciata al passato. Il suo vegetarianismo doveva affondare le radici in qualche casella della propria infanzia. 
«Someone like you and all you know and how you speak
Il suo sguardo incrociò quello di Daphne, che gli restituì un sorriso spontaneo.
Nel secondo successivo, si aggiunsero le voci di James, Travis e Jason.
Daphne si concesse un’occhiata obliqua, che incapsulava l’infrangersi degli ultimi bagliori sulla fronte di Ethan; il modo in cui la luce giocava con il colore dei suoi capelli, mescolando oro, nocciola, cenere e grano, le mozzava il fiato. Appariva coinvolto dall’intera situazione, ma al tempo stesso la sua attenzione era risucchiata in chissà quale pensiero distante.
Avvertì una stretta alle viscere. Sospirò appena e si aggregò al resto dei coristi, tenendo per sé un accenno di sorriso. «You know that I could use somebody. Someone like you.»
 
 
*   *   *
 
 
 
Melanie abbandonò il proprio panino nel piatto, nauseata.
Se c’era una cosa che non poteva soffrire della mensa scolastica, quella era senza dubbio il sapore di plastica che ogni alimento conservava. Solamente i budini si salvavano da quella strage di omologazione sensoriale.
Mangiare una frittata o della carne o un trancio di pizza, lì era la stessa cosa.
Se soltanto avesse avuto più tempo per se stessa la mattina, si sarebbe portata il pranzo nella cartella. Farselo preparare dalla zia era fuori discussione, ammesso poi che sapesse cucinare qualcos’altro che esulasse dal solito menù di zuppe e passati di verdura.
A volte, aveva l’impressione che non vi fosse un vero legame di parentela con la zia Lydia. Si chiedeva come fosse possibile per due sorelle essere educate in modo così divergente, indirizzando l’una verso un sentiero di instabilità e aggrovigliamento, l’altra verso certezze ferme e abitudini perenni.
Non sembravano neppure cresciute sotto lo stesso tetto.
Si guardò attorno, gustando gli ultimi attimi di libertà prima del termine della pausa pranzo.
Le piaceva mangiare da sola. Certo, a volte avvertiva un lumicino, come una puntura d’insetto, nel fondo del petto che le dipingeva scenari di condivisione e socialità; ma poi si ricordava che avrebbe dovuto parlare in continuazione – o peggio, farsi sommergere da valanghe di chiacchiere altrui – e la consapevolezza di non poterlo tollerare l’angosciava.
L’arte dei rapporti sociali, non la coltivava da tempo ed era certa di aver perso la mano, di non riuscire a stare con altre persone per più di dieci minuti. La relazione con sua madre e con zia Lydia le erano sufficienti, prosciugando già metà della propria carica giornaliera.
Quasi ad averle letto nel pensiero, un gruppo di cinque ragazze si avvicinò al suo tavolo.
Tutte sintonizzate su di una stessa andatura, vestite in maniera identica, apparivano come copie di una copia di un brutto modello. Melanie le squadrò con diffidenza.
Cindy Butler fece un passo verso di lei, le mani sui fianchi, un’aria di finta contrizione sul volto.
Un cerotto color carne le solcava la sella del naso, un paio di bottoncini d’ovatta ad ostruirle le narici.
Doveva sanguinarle ancora, evidentemente.
«Ciao, Prescott.»
«Cindy», rispose con un cenno del mento.
«Volevo…», tossicchiò appena con lo sguardo che spaziava altrove, «volevo chiederti scusa per l’altro giorno. Mi sono comportata da sciocca.»
Melanie passò in rassegna una serie di aggettivi che sarebbero stati più adatti, ma preferì mordersi un labbro e rimanere in ascolto. Si rendeva conto perfettamente che era tutta una pagliacciata, una pantomima a cui la ragazza era stata costretta – magari dall’istruttore o dai genitori – per salvaguardare la reputazione virtuosa.
Avrebbe fatto il suo gioco, giusto per vedere fin dove era disposta a spingersi. Impostò la voce, conformandola a quella dell’interlocutrice, com’era abituata a fare nel trattare con sua madre.
«Oh, non preoccuparti,» minimizzò, «è stata solo un’incomprensione.»
Una sincera manifestazione di sorpresa. Forse, Cindy non si aspettava una simile arrendevolezza.
«Ah..bene,» si voltò a cercare il supporto delle sue amiche, «tutto risolto allora?»
Melanie pensò perfino di sorriderle, ma la repulsione che provava glielo impedì.  «Tutto risolto.»
Tra le arruolate nell’esercito Butler, un’unica ragazza si distingueva. A differenza degli altri doppioni, portava una semplice gonnellina al ginocchio, di un color rosa antico e dal sapore vintage; le spalle minute erano raccolte in un maglioncino azzurro polvere, da cui spuntava il colletto di una camicia linda.
Melanie si sforzò di spostare lo sguardo altrove, per non risultare più inquietante di quanto già non fosse considerata.
«Senti,» riprese Cindy con poca convinzione, «ti andrebbe di…ehm…venire alla mia festa?»
Un invito? Aveva appena ricevuto un invito ad una festa dei Butler?
La osservò allibita, senza saper cosa rispondere. Il suo cervello pareva aver collassato, nessun segnale di reattività da parte del sistema centrale.
Era uno scherzo? L’ennesima occasione per umiliarla?
Melanie allontanò il pensiero intrusivo di ricalcare le vesti della protagonista di un romanzo di Stephen King, Carrie. Nessuno aveva tempo o interesse nell’architettare un piano diabolico contro di lei. Doveva smetterla con tutte quelle paranoie – e con i libri dell’orrore.
«Tra una settimana è il mio compleanno,» proseguì la giovane, «do un party al Galaxy. Ti va di venire?»
Il Galaxy. Beh, non si sarebbe aspettata nulla di meno dalla giovane rampolla dei Butler. Di sicuro i genitori non avrebbero badato a spese per assicurarle la festa più spettacolare del secolo.
Nemmeno nei suoi più remoti sogni avrebbe mai potuto sognare di entrare nell’hotel lussuoso per eccellenza a Ginger Blooms. In definitiva, voleva rifiutare con tutta se stessa.
Poi, Cindy aggiunse la parolina magica: «Mia madre ci tiene così tanto.»
Ed ecco spiegata la profusione di gentilezza e scuse. Proprio come s’immaginava, dietro quella tela di affabilità si celavano i progetti megalomani materni, troppo preoccupati di mantenere alto il nome della famiglia.
Sua figlia in una rissa? Ma no, certo che no. Doveva esserci stato un errore. Anzi, Cindy era talmente buona da dispensare inviti anche ai più bisognosi.
Intuito il muro dell’interlocutrice, Cindy si affrettò a dire: «Non accetto un no come risposta.»
Melanie si prese il suo tempo. Non le rimanevano molte scelte, d’altronde.
Come un magnete, la sua attenzione fu attirata di nuovo dalla giovane che se ne stava in silenzio, alle spalle di Cindy. I capelli dorati erano raccolti in una coda alta che le lasciava scoperto il viso pulito, poco truccato, evidenziando la sagoma affusolata degli occhi.
L’aveva già notata un paio di volte nei corridoi, sempre al seguito del suo capetto, rimanendone puntualmente affascinata. Aveva dei modi così discordi dall’armata Butler, un’eleganza e raffinatezza uniche nel loro genere. Melanie si rivolse direttamente a lei.
«Tu ci sarai?»
La sconosciuta trasalì appena. Non si aspettava di dover partecipare alla discussione.
«Certo,» Cindy appariva turbata, «certo che ci sarà. »
«Tutte noi ci saremo», confermò Ronnie Marbles con una malcelata aria di sfida.
Melanie ignorò le loro risposte. Le sue iridi erano incatenate a quelle chiare della giovane; le pareva impossibile adesso contemplare altro al di fuori delle screziature verdi che cingevano quel celeste intenso. Le ricordavano corolle di fiori.
«Quindi…», si intromise Cindy, «posso confermare la tua presenza?»
Dopo un lungo silenzio, l’altra annuì. «Sì. Sì, contami pure.»
 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. ***


Capitolo 4.

Safe Places



 

«I know you claim that you’re alright
but fix your eyes on me,
I guess I’m all you have
and I swear you’ll see the dawn again.

Well, I know I had it all on the line
But don’t just sit with folded hands
and become blind.
 ‘Cause even when there is no star in sight,
 you’ll always be my only guiding light.»

 
 
 
 
9:41 a.m. – Lowhood

 
 

«Ma’, aspettami.»
Sua madre aveva preferito raggiungere il centro di Lowhood a piedi. Sosteneva che gli autobus puzzassero di chiuso e non poteva farcela a passare un’ora imbottigliata nel traffico del sabato mattina con l’aria stantia compressa tra i finestrini. Avrebbe finito per soffocare.
Abituata a vederla reclusa in casa, Melanie aveva dimenticato quanto la madre camminasse spedita. Adesso che la inseguiva fra strade, stradine e vicoletti, le restava tenere il passo. 
Finalmente riuscì a raggiungerla. Sophie Prescott si era bloccata davanti ad un negozio d’abbigliamento che in vetrina esponeva una nuova collezione per l’autunno-inverno. I modelli, realizzati rigorosamente a mano dai fratelli Vondrasek, erano alcuni dei più pregiati a Norwall. Nessuna marca poteva competere con la loro e se i proprietari non avevano ancora trasferito l’attività dalla periferia ad uno dei quartieri rinomati del centro città, si doveva esclusivamente alla devozione verso il suburbio in cui avevano iniziato.
Gli ormai anziani Vondrasek erano attaccati anima e corpo a Lowhood; né Rudy né Magnus avevano dimenticato gli albori dell’esercizio, quando le loro creazioni venivano sprezzate da chi aveva il portafogli gonfio e gli unici fedeli acquirenti abitavano nella zona. Era stato proprio grazie a quella piccola cerchia di clienti, residenti nelle vie parallele, se il negozio aveva potuto decollare.
Melanie si irrigidì, scrutando con diffidenza i vestiti da sera con spacco laterale.
«Non vorrai davvero entrare qui dentro?»
La madre aveva già posato la mano sul pomello della porta.
«Perché no?», replicò stupita.
«Mamma…»
Cercava le parole giuste, la fila di lettere corrette per evitare di ferirla in qualche modo. Infine, si decise a dirle la verità, seppure una parziale. «Non mi sembra una buona idea.»
L’altra le rispose con un occhiolino, socchiudendo la porta in un tintinnio di campanelli.
La ragazza sbuffò, seguendola suo malgrado. «Ah, fa come ti pare.»
All’interno si respirava un’atmosfera d’incanto. Le lampade pendenti dal soffitto restituivano una luce bruciata al negozio, regalando l’impressione di trovarsi in una gemma d’ambra.
Il suono costante di una macchina da cucire era un morbido tappeto in sottofondo.
In un attimo il proprietario si materializzò dietro il bancone, un elegante completo a righe indosso e una nuvola di capelli bianchissimi attorno al volto incavato.
«Buongiorno. Come posso esservi d’aiuto?»
Sophie Prescott si guardava attorno come se fosse appena atterrata nel Paese dei Balocchi. Le brillavano gli occhi, avidi di contemplare tutti i modelli esistenti, di risucchiare il profumo di lacca.
«Vorremmo un vestito da sera, qualcosa di elegante adatto per una festa.»
Quando tornò a rivolgersi al sarto, di fronte ad un prolungato silenzio, corrucciò appena la fronte.
Magnus Vondrasek appariva in evidente imbarazzo ora.
«Qualcosa non va?»
L’uomo si agitò sul posto, stropicciando i palmi delle mani, come un ragazzino colto impreparato all’interrogazione. I suoi sessantasette anni si dissolsero in un minuto.
«Ecco…siamo in chiusura», sibilò infine.
«Ma come? Avete appena aperto.»
L’altro annuì piano, prendendo a trafficare con il registratore di cassa. Di sabato mattina facevano un orario ridotto, così sosteneva tra un colpetto di tosse e l’altro. Avrebbero dovuto cambiare il cartello, mettere un avviso o qualcosa di simile; si trattava di un cambiamento recente.
«Oh, capisco…»
Sophie Prescott non riuscì a nascondere la propria delusione: tutto quel viaggio a vuoto. Non si fece tuttavia scoraggiare nel proprio intento: sarebbero ripassate lunedì o martedì mattina. Stava spiegando al signor Magnus quanto tenesse a comprare un vestito di qualità eccelsa per un evento così speciale: un party al Galaxy Hotel non capitava tutti i giorni, dopotutto.
Il proprietario dal canto proprio annuiva, ma con un sorriso di circostanza a tirargli i lineamenti decadenti.
«Temo che sarà impossibile acquistarlo qui, madame. Lunedì e martedì non saremo operanti.»
Melanie lanciò un’occhiata in tralice prima a sua madre, poi al negoziante.
Sapeva che la conversazione avrebbe preso quella piega; era proprio ciò che voleva evitare.
«Non importa,» s’intromise d’impulso, «ci arrangeremo in un altro modo. Grazie per l’attenzione e…»
Aveva già afferrato la madre per la manica del cappotto, tirandola verso l’uscita, quando la signora Prescott le oppose resistenza. Dio, perché doveva essere così cocciuta?
«Mamma, lascia stare.»
«Ma no!», protestò l’altra. «Allora possiamo ordinarlo? Le lascio un anticipo, se desidera.»
A quel punto, la figura rinsecchita di Rusty Vondrasek fece capolino dalla stanza attigua, le mani piantate sui fianchi esili. Doveva essere il maggiore tra i due, considerato come prese in mano la situazione all’istante.
«Cosa sta succedendo?»
Il fratello gli indirizzò un’occhiata d’intesa. «La signora qui…vorrebbe una commissione.»
Furono sufficienti due secondi di esaminazione attraverso le lenti a mezzaluna perché Rusty si convincesse a declinare l’offerta senza la melliflua gentilezza del suo socio.
Si limitò ad osservare che: «I nostri prezzi sono molto elevati.»
«Lo so, lo sappiamo», concordò Sophie. «Non sarà un problema. Voglio che mia figlia faccia un figurone.»
Magnus balbettò qualcosa su come fossero già stracarichi di lavoro e non potessero accettare altre commissioni almeno per una settimana. L’età e la scelta di mantenere un personale limitato li costringeva a restringere il numero di ordini.
«In tal caso,» proseguì Sophie Prescott con determinazione, «ci faccia vedere qualcosa che è in negozio.»
La tensione nell’aria, carica come una lampadina al massimo voltaggio, minacciava di esplodere da un momento all’altro, senza che la cliente si rendesse conto di nulla. Melanie rifletteva su quanto il comportamento dei due fratelli fosse rivoltante. Non era necessaria tutta quell’umiliazione.
E ciò che la feriva maggiormente era il sincero entusiasmo di sua madre, ancora intenta a trascinarsi di attrazione in attrazione nel luna-park della vita mondana. Viveva in una campana di vetro.
«Signora,» tagliò corto Rusty senza mezzi termini, «non le venderemo un bel niente.»
L’affermazione destabilizzò completamente l’aria serena di Sophie Prescott.
Sulle labbra arricciate a formare un cerchietto quasi comico, morirono le parole.
«Vede, noi abbiamo un pubblico di un certo calibro oramai e dobbiamo premurarci di mantenerlo. Cosa direbbero le mie clienti, se sapessero che Sophie Prescott acquista i nostri prodotti? Sarebbe tragico per gli affari.»
Spiegava concetti paradossali con una scioltezza disarmante, come un insegnante al tramonto della propria carriera che tramandi i segreti della disciplina ai suoi allievi. Era un anziano quasi affettuoso e bonario nello sbattere fuori madre e figlia. Magnus intanto se ne stava rannicchiato dietro il bancone, appollaiato sullo sgabello, a contare delle banconote con meticolosa attenzione: avrebbe contato perfino i granelli di polvere della stanza, pur di evitare lo sguardo mortificato della signora Prescott.
«Lei capisce, non è vero?», terminò Rusty.
Melanie afferrò di nuovo sua madre per un braccio; stavolta non incontrò resistenza alcuna.
«Certo,» commentò amareggiata, «se li tenga pure, i suoi vestiti di merda. Tanto non li vuole nessuno.»
Mezz’ora più tardi scivolavano tra i passanti, confondendosi con la folla mattutina diretta al mercato alimentare di Lowhood. Stavano attraversando il cavalcavia per rincasare, quando Melanie si accorse che la madre non era più al suo fianco.
Aveva camminato con il capo chino, strascicando i piedi sull’asfalto, per tutto il tempo, procedendo solo su insistenza della figlia che la sospingeva con una delicatezza decisa.
Adesso però si era arrestata in mezzo al marasma di passanti e ragazzini urlanti.
«Ma’?»
Non le dava alcun segno di risposta.
La ragazza tornò indietro, facendosi largo a spallate.
«Mamma, che stai facendo?»
Si era appoggiata alla ringhiera che cingeva il ponte pedonale, lo sguardo perso nel vuoto, le dita tamburellavano sul metallo in una melodia sconosciuta. Sotto il sole, i riflessi caramellati dei capelli risaltavano ancora di più, semplice accessorio che Melanie non aveva ricevuto in eredità.
Dopo un silenzio interminabile in cui la ragazza temette di perdere qualunque appiglio sull’animo materno, Sophie Prescott parlò con voce limpida e serena. «Ti ricordi quella volta in cui siamo andate a fare shopping insieme? Quando ci siamo beccate Dio sa solo quanta acqua.»
Il nodo allo stomaco si sciolse.
Melanie riprodusse la sua posa, annuendo piano. Alle loro spalle il flusso continuava indisturbato.
«Ti avevo comprato quel vestitino per Carnevale – cos’era? La Bella Addormentata? – con la coroncina e tutto il resto.» Un sospiro. Sophie abbassò le palpebre. «Non volevo passassi come stracciona agli occhi dei tuoi amichetti.»
Se lo ricordava bene quel pomeriggio. Doveva avere avuto poco più di sette anni; minacciava pioggia da giorni, ma sua madre si era intestardita e avrebbe sfidato perfino il bollettino meteo pur di trovare un costume adatto per lei. Nessuna proposta dei commercianti andava bene, tentativo dopo tentativo erano infine giunte ad un compromesso su un completo di un violetto sgargiante, residuo dell’ultimo film su Barbie uscito nelle sale.
Il diluvio si era riversato sulle loro teste non appena avevano messo piede fuori dal negozio.
Melanie poteva ancora sentire lo scroscio di grandine che le infradiciava la mantellina, mentre correva insieme alla madre verso l’automobile, unico riparo contro la bolla d’acqua.
Richiuse le portiere, entrambe erano scoppiate a ridere.
E avevano trascorso la serata così, con i tergicristalli a pulire uno spicchio di vetro, il calore dell’abitacolo, un paio di ciambelle acquistate al bar di fronte, Don’t Stop Believin’ alla radio. Sua mamma adorava i Journey e il volume era stato sparato al massimo appena riconosciuta la canzone.
Era il ricordo più bello che conservasse, di loro due insieme che cantavano a squarciagola: «People living just to find emotion, hiding somewhere in the night.»
Si chiedeva dove fosse finita tutta quell’energia, se magari era possibile – anche solo per un secondo – riportare il presente a quello stato primordiale di serenità e spensieratezza. A giudicare dalle rughe d’espressione che incidevano il volto della madre, la risposta era negativa. Ne avevano passate troppe, per poter dimenticare.
«Sono svanita, Mel. E questo non me lo perdonerò mai.»
Melanie prese un respiro profondo, riempiendo i polmoni alla massima capienza, pensando che ci voleva coraggio, che essere gentili richiedeva uno sforzo esorbitante. Incastrò il proprio braccio sotto quello di Sophie Prescott, poggiandole il capo su una spalla. Subito, sua madre si strinse a lei, cercando supporto.
«Non è giusto che tu paghi per i miei errori», mormorò.
«Ho solo ricevuto un’eredità più consistente di altre», replicò Melanie con una risatina soffocata.
In un gesto del tutto innocente, Sophie le scostò alcune ciocche di capelli dal viso.
«Ti prometto che piano piano rimetterò tutto a posto, Mel.»
Quanto avrebbe desiderato crederle.
Si era lanciata nella proclamazione delle prossime mosse che avrebbero “aggiustato tutto”, secondo le sue considerazioni, a partire dal trovare un lavoro stabile, occuparsi dell’arredamento della casa,  rimettersi al volante, imbiancare la facciata che cadeva a pezzi, rinnovare il guardaroba di tutti, compreso quello della zia Lydia.
«A proposito,» esclamò con enfasi, «per favore non riferirle quello che è successo stamattina.»
«Tranquilla, mamma, non le dirò nulla.»
Quello che la zia Lydia attendeva era conferma del buco nell’acqua che avrebbero fatto: da quando le aveva raccontato dell’invito alla festa dei Butler, la sua prima occupazione era stata disegnare un modello che lei stessa avrebbe cucito in pochi giorni. Se era stata salvata da abiti con merletti e sbuffi, lo doveva all’eccitamento di sua madre, tutta soddisfatta di potersi dimostrare utile.
«Finirà che ti realizzerà lei qualcosa.»
«No, mai», Melanie scosse la testa, «piuttosto mi presento con il pigiama, la tuta o che so io.»
Sua madre ridacchiò, cristallina, limpida, spensierata.
Le lasciò un bacio sulla fronte, tenendola sempre a braccetto.
«Dai, andiamo a prenderci una brioche.»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
Daphne spalancò la finestra e cacciò fuori il capo, guardando in alto.
L’opzione di arrampicarsi non la convinceva affatto, ma non sarebbe stata la prima volta e come sempre si trattava di una questione di ordine superiore. Si chiedeva solo perché suo fratello non potesse scegliere un luogo meno rischioso in cui rifugiarsi. D’altra parte, non poteva dargli torto: da lì non si udivano le urla del pianterreno.
«Lo stiamo facendo?»
Daphne sospirò, piantando una scarpa sul davanzale, affatto convinta.
«Devo rispettare i miei doveri di sorella maggiore», disse più a se stessa che all’amico. «No?»
Logan si strinse nelle spalle, bofonchiando qualcosa su come avrebbe volentieri lasciato suo fratello a marcire sul tetto, se solo si fosse azzardato ad arrampicarvisi. Le tese una mano per sorreggerla mentre  si issava sulla superficie di marmo. «Speriamo che tenga, Dee-Dee
Lei si voltò di scatto, piccata. «Cosa vuoi insinuare?»
«Che non sei esattamente una piuma», ridacchiò lui.
«Vaffanculo, Logan.»
Ormai era in ballo e avrebbe completato la sua missione da agente 007.
Sollevatasi sulle punte, afferrò saldamente con entrambe le mani il tubo della grondaia, ricercando il solito appoggio nella sporgenza della finestra accanto alla propria. Ringraziò il cielo che si trovassero al primo piano.
«I tuoi lo sanno che vi improvvisate Tarzan nel tempo libero?»
Daphne fece forza sulle braccia e sollevò il proprio corpo, per poi abbandonarsi sul tetto sgraziatamente, il viso schiacciato contro le tegole e le gambe a croce.
Logan la raggiunse pochi secondi più tardi, rialzandosi subito in piedi.
«Dovresti fare un po’ più di attività fisica.»
«Vuoi morire, Logan?»
L’altro mostrò entrambi i palmi delle mani in segno di resa. La aiutò a rialzarsi a propria volta.
Isaac li stava osservando accanto all’apertura del camino, perplesso.
A fatica riuscirono a piazzarsi accanto a lui, circondandolo su entrambi i lati. Al ragazzo non sarebbe comunque passato per la testa di scappare. In quei momenti voleva isolarsi dal resto dell’universo, ma l’idea di rimanere completamente solo con i propri pensieri, con tutto quel casino che gli affollava la testa – quel groviglio nero di scarabocchi – lo terrorizzava.
«Che ci fate qui?»
«Veniamo in tuo soccorso.»
Daphne l’aveva detto con una voce contraffatta, accompagnando il tutto con un gesto buffo delle braccia, ma si trattava proprio di quello: aveva scoperchiato la realtà e sotto non c’era altro che un vuoto vertiginoso. Rischiavano di perdercisi, di finirci dentro entrambi, ciascuno a modo proprio, ma proprio perché si rendevano conto della gravità di quel pericolo, improvvisavano delle missioni impossibili di intervento: perché nessuno scivolasse nel baratro.
Fu lo sguardo da cane bastonato del fratello a convincerla ad abbandonare quella pantomima. In un tono più vero, quasi sussurrato, gli domandò come stesse.
Isaac abbracciò con maggiore forza le ginocchia, tirandole al petto come a volerle riassorbire nello scheletro.
«Così», bisbigliò senza emozione.
Un rumore ovattato, come di stoviglie che andavano in frantumi, li toccò.
Si era sbagliata: arrivavano anche lì.
Nessuno dei tre aveva il coraggio di spiccicare parola. Guardavano in direzioni opposte, si raccoglievano in capsule di pensieri opposti, ciascuno solo nella propria solitudine, ingombrante in quella degli altri.
Infine, fu Logan a spezzare il silenzio.
«Hey, sapete che hanno vinto i Red Lions?»
In qualunque altra occasione, Daphne l’avrebbe fulminato sul posto.
A nessuno dei tre importava davvero del baseball, né tantomeno dei tornei minori che vedevano sfidarsi squadre amatoriali provenienti dai diversi quartieri di Norwall. Era inutile perfino seguirlo, quello sport, in città: tanto lo sapevano tutti che avrebbero trionfato i Violet Runners, di Ginger Blooms, come al solito.
Quella volta però, fu un galleggiante a cui aggrapparsi.
«Davvero?»
Isaac sollevò il capo. «Non ci avrei scommesso nemmeno un soldo.»
L’altro confermò la versione, mostrando ai due Bennett la notizia sul proprio cellulare. La partita si era conclusa poche ore prima e purtroppo si sarebbero persi anche la semifinale, che era prevista per la settimana seguente. «Coincide con il compleanno di Cindy Butler,» commentò Logan, «mio padre mi ha praticamente obbligato ad accettare.»
«Che bello», ironizzò Isaac ridacchiando. «Non vorrei essere nei vostri panni.»
«Puoi sempre assistere tu, alla semifinale. O magari ce la registri.»
Il ragazzo scosse la testa. Doveva lavorare, il prossimo weekend.
Purtroppo, i genitori si erano messi in testa che era una specie di genio e dall’estate scorsa avevano decantato il suo talento a conoscenti ed amici. Dopo aver dato ripetizioni di matematica ad un ragazzino delle elementari, si era apparentemente sparsa la voce e adesso era stato richiesto da una collega di sua madre, per la figlia quattordicenne che si spaccava la testa sui libri.
«Inizio lunedì», terminò. «Devo andare fino allo Zenzer Bazaar.»
Daphne scattò sull’attenti. «Cosa? Ma è dove sta il Black Market!»
Suo fratello si limitò a scrollare le spalle. C’era già stato un paio di volte, al Black Market, senza mai attraversarlo. Se doveva essere sincero, l’idea di potersi addentrare in una delle zone più pericolose e malfamate della città, lo eccitava terribilmente.
«Sì,» minimizzò, «c’è anche il Black Market. L’appartamento però è in una parallela, quindi no problem.»
L’altra però non appariva persuasa. «Mamma e papà cosa ne dicono?»
Isaac sorrise. Un sorriso serafico e al tempo stesso velato di malinconia.
«Cosa vuoi che dicano? Mi sembrano abbastanza impegnati a pensare ad altro.»
Come a sottolineare il concetto, un insulto poco elegante si levò dalla finestra della cucina, ottenendo in risposta l’abbaiata di un cane in fondo alla strada. Iniziava a fare buio.
Daphne non poté fare a meno di pensare che, se Alyssa fosse venuta a conoscenza di come passava i suoi sabato sera, l’avrebbe trovato desolante. Lei che era impegnata in chissà quale uscita fra ragazze con le sue adorabili amiche, probabilmente avrebbe rinnegato Daphne e la sua intera famiglia.
«Ordiniamo una pizza?», propose Logan.
«Possiamo portarla qui?»
Daphne incrociò lo sguardo di suo fratello. L’immagine di quello stesso ragazzino scosso dai singulti, tremolante e incapace di prendere aria, la trafisse all’istante. Quante volte aveva assistito ad una scena simile? Non sapeva mai quando il prossimo attacco si sarebbe presentato, ma le sembrava che Isaac fosse sempre sull’orlo di una crisi.
Cenare sul tetto non avrebbe fatto male a nessuno e i suoi genitori non se ne sarebbero neppure accorti.
«D’accordo. Vado a chiamare», concesse alzandosi.
«Vengo con te.»
Logan si era a propria volta messo in piedi. In un attimo erano atterrati di nuovo sul pavimento della camera di Daphne. Nella penombra della sera, le fotografie di famiglia, incorniciate sulla scrivania, mandavano riflessi quasi diabolici.
La ragazza indugiò al centro della stanza, strusciando le scarpe da ginnastica sul tappeto. Avrebbe dovuto scendere in salotto e sentire che pizza volessero i suoi? Respinse il pensiero di intromettersi nella lite.
«Logan,» bisbigliò voltandosi verso di lui, «mi dispiace.»
Lui abbozzò un sorrisetto incerto. «Per cosa?»
«Beh, che tu debba assistere a tutto questo casino. Non si vergognano nemmeno di fare figuracce davanti ad estranei. È terrificante e capisco perfino Isaac, quando perde il controllo.»
Il ragazzo le posò le mani sulle spalle, stringendogliele appena. «Non è colpa tua.»
«Lo so,» sospirò lei, «è quello che ripeto sempre ad Isaac. Ma è difficile crederci, quando è qualcun altro a dirtelo.»
Prima, queste cose non era costretta ad affrontarle da sola. Poteva parlarne liberamente, aprire lo strappo e mostrare tutta la carne maciullata che pulsava sotto, senza paura di vergognarsene. Ma era cambiato tutto. 
Un'altra sfilza di pensieri le attraversò la mente, ma non diede loro spazio o voce. Si trattava di un treno di passaggio, su cui erano state stipate memorie che preferiva seppellire. Non era quello il momento per la notte dei morti viventi del suo passato.
«Daphne.»
Sollevò il mento, ripulendo qualche fronda di inquietudine.
«Non è colpa tua.»
Glielo ripeté, stavolta con maggiore decisione, sperando di incidere il rivestimento dei suoi dubbi.
«E non devi vergognartene. Anche la mia famiglia è un casino, fidati.»
Lei incurvò le labbra, scettica al riguardo. Conosceva entrambi i signori Woods e il fratello minore, Ryan, che aveva la stessa età di Isaac: sembravano appena usciti da qualche spot pubblicitario.
«E io non sono un estraneo, comunque», aggiunse risentito.
L’altra si sciolse dalla presa, ridacchiando. Logan capì al volo di non aver ottenuto niente.
Riusciva a leggere Daphne con estrema facilità, ma solo superficialmente. A volte, gli pareva di conoscerla a memoria, a menadito, ma in altre occasioni lei gli sbatteva la porta in faccia e risultava indecifrabile. Detestava il modo in cui per lei era naturale metterlo a proprio agio o capirlo, mentre a lui serviva uno sforzo titanico per trovare anche solo uno dei tasselli, figuriamoci per farne combaciare due o tre.
E detestava anche il modo in cui lei non glielo permetteva; non gli permetteva di entrare, di recuperare qualche indizio o di vedere l’intero puzzle.
«Okay, chiamo la pizzeria.»
Al contrario, gli voltava le spalle, proprio come stava facendo in quel momento.
«Tu che cosa prendi?»
 
 
*   *   *
 
 
 
Il lunedì mattina si era aperto con una lezione di letteratura piuttosto lenta.
L’insegnante, certo Professor Ranster, si occupava di un po’ tutto, fuorché la letteratura.
Era al tempo stesso un filosofo, un cinefilo, un amante della fotografia e dell’alta cucina, ma oltre a dispensare notizie sui prelibati piatti serviti all’epoca di Henry James – per poi divagare e passare ai migliori vini di cui si dichiarava raffinato intenditore – non accennava minimamente alla storia letteraria o al panorama culturale degli autori. Lasciava che la campanella lo cogliesse sempre di sorpresa, spezzando a metà un discorso sulle pellicole polacche degli anni sessanta o un dipinto orientale trafugato e perduto.
Quella mattina, ebbe una rivelazione: assegnare dei compiti.
«Ah, ragazzi! Voglio un elaborato su Henry James per giovedì. Chiaro?»
Nessuna spiegazione, nessun avvertimento, nessuna delucidazione.
James raccolse la cartella, trascinandola accanto alla gamba come un peso morto.
«Che palle. Ci mancava solo questo.»
Logan sghignazzò, approvando in pieno. Probabilmente avrebbero cercato qualche informazione su Internet e tanti saluti. Ranster non li avrebbe neppure letti, quegli elaborati.
«Meritereste di essere beccati», osservò Alyssa sorpassandoli nei corridoi.
James tirò un sorriso di circostanza, salutandola con la mano prima di accartocciare la mano a pugno e farne spuntare fuori un dito medio. «Come se lei facesse diversamente.»
«Lei se li fa scrivere da Daphne», commentò Jason.
Arrivati ai rispettivi armadietti, i ragazzi presero ad armeggiare con i lucchetti. Quello di Travor era rimasto bloccato, casualità particolarmente divertente agli occhi degli altri.
«A proposito,» Jason ancora cavalcava l’idea di poco prima, «Logan, non puoi chiedere a Daphne di scriverne un paio in più anche per noi?»
L’altro si esibì in una smorfia mortificata. «Jason, non mi sembra carino sfruttare così gli amici.»
«Hey, ma anche tu la sfrutti!», protestò quello. «L’ultimo tema non era decisamente opera tua.»
«Per lui è diverso,» spiegò Travor ironico, «trattamento speciale da migliore amico – o qualcosa del genere.»
Logan provò a protestare, ma infine si arrese all’evidenza: ogni tanto gli capitava di chiedere a Daphne qualche favore in ambito scolastico, soprattutto se in campo letterario, ma sfruttarla era un termine eccessivo. Favori. Sì, favori gli piaceva di più come definizione.
James, che intanto stava controllando l’aula per l’ora successiva, colpì l’armadietto con il capo.
«Fisica. Perché diamine abbiamo scelto Fisica? A me fa proprio schifo Fisica.»
Il corso, tenuto quell’anno da un supplente, veniva proposto come alternativa all’insegnamento della Chimica. All’inizio era sembrata un’ottima idea quella di saltare le lezioni di Reed con i suoi calcoli allucinanti e gli elementi che non entravano in testa a nessuno dei due, ma ora sia Logan che James si videro costretti a rimodulare le aspettative.
Accomodatisi in fondo all’aula, scrutavano con diffidenza le pareti tappezzate da grafici e progetti realizzati da studenti degli anni precedenti. Le formule intricate spaventavano entrambi.
Mr Jeggins contava un numero poco nutrito di iscritti, ma non ne sembrava turbato, potendo in tal modo tenere l’attenzione dei presenti alta – spesso attraverso richiami, domande e correzioni.
Quel giorno era entrato in classe con un’aria elettrizzata e trafficava con delle scartoffie adagiate sulla cattedra. Anziché spingersi verso la lavagna e dare inizio alla lezione, si prese del tempo per far entrare una ragazza, che timidamente avanzava verso di lui al centro della stanza.
Era una sedicenne dall’aspetto alternativo, con i capelli scuri tagliati corti a caschetto, un paio di anfibi ai piedi in cui aveva infilato delle calze sottili ed un semplice giacchetto di jeans a coprire la maglietta petrolio.
A Logan ricordava una delle tante ragazzine hipster che giravano nei corridoi – specialmente del secondo anno – con il suo zainetto verde oliva e una cascata di braccialetti da bohémienne che grondava dai polsi.
«Ragazzi, lei è Frances Hurst. Si è appena trasferita nel nostro istituto, quindi mi aspetto da parte vostra un comportamento caloroso ed accogliente nei suoi confronti. Ciò significa,» proseguì rivolgendosi direttamente alla nuova arrivata, «che se hai bisogno di qualunque cosa, Frances, puoi chiedere senza timore. Sono certo che ci sarà qualcuno disposto a darti una mano con la Fisica.»
Logan si voltò verso il proprio amico, cercando in lui una reazione. James però appariva trasfigurato.
«Oh, tutto bene Jay?»
L’altro non lo ascoltava, non lo vedeva, non si accorgeva neppure della sua presenza. Raccolto in flashbacks che lo riportavano alcuni mesi indietro, davanti a sé scorgeva solamente una spiaggia al tramonto, il cielo tinteggiato di viola ed arancio, un paio di drink fruttati e la discoteca in riva al mare strabordante di gente, impregnata dall’odore di erba.
James si riebbe d’improvviso, aspirando aria come riprendendosi da un incubo.
«Jay, sicuro di stare bene?»
Tornò ad osservare Logan, stralunato. «Amico, io la conosco.»
«Cosa? Com’è possibile?»    
Gli occhi chiari della nuova allieva si spostarono tutt’intorno, posandosi di tanto in tanto sui banchi lucidi, sui volti di sconosciuti o sugli zaini abbandonati a terra. Aveva uno sguardo ipnotico e una bellezza unica nel suo genere.
«Ti senti di aggiungere qualcosa, Frances?»
«No, professore. Credo che abbia già detto tutto Lei.»
 
 
 
*   *   *



Stava uscendo dalla lezione di Storia, quando decise di appoggiarsi in biblioteca per qualche ora.
Anziché attendere gli allenamenti come al suo solito raggomitolata nel cortile scolastico, decise di provare a recuperare un paio di materie di cui aveva accumulato arretrati.
Non studiava: eccola la verità.
Si ritagliava scuse che le permettessero di evadere dalla prigionia di numeri o nozioni che defluivano nel suo cervello senza stazionarvi per molto tempo. Non odiava l’apprendimento di per sé, a volte la aiutava a staccare la spina e togliere corrente al flusso di pensieri che la angustiava. Altre volte però, lo trovava di una noia mortale e allora preferiva rinchiudersi nel paradiso della musica, dove si sentiva a proprio agio tra cantautori e band del passato che considerava dei veri amici.
In una fase adolescenziale di euforia, aveva perfino acquistato qualche magliettone con nomi o simboli dei suoi idoli; di certo non avevano contribuito a migliorare la reputazione di pazza che le era stata cucita addosso. Adesso non li indossava più, non all’interno dell’Arcadian almeno, non per via delle dicerie che circolavano, ma per una sensazione di passato che le stava stretta. Appartenevano ad un periodo superato, in cui riconoscersi diveniva difficile.
La biblioteca scolastica era diversa rispetto a come se la ricordava: arcate imponenti, maestose librerie, scaffali stracolmi di volumi ordinati per epoca, autore o collana. C’era tutto e di più, a disposizione.
Melanie si diresse senza esitazione nell’area dotata di Wi-Fi e computer.
Non che le servissero davvero, ma preferiva tenerli a portata di mano…e poi quell’area della biblioteca sembrava meno affollata; si configurava come un cantuccio per veri appassionati o studenti annoiati come lei.
Si piazzò ad una postazione libera, disseminando il tavolo di astucci e quaderni che non avrebbe utilizzato.
Nella prima mezz’ora di permanenza, qualunque scusa diveniva ottima per distrarsi e mollare le vicende della Guerra di Secessione Americana. A partire da soggetti che passavano accanto al suo tavolo, alla pioggia che prendeva a tamburellare debolmente contro il vetro, fino al puntatore luminoso del mouse.
Davvero qualunque cosa.
Poi però, riuscì a trovare un angolo di serenità e a dimenticarsi dell’ambiente circostante. La quiete fu interrotta all’improvviso da un tonfo alle sue spalle.
Melanie si voltò di scatto, imitata dagli altri presenti, gli sguardi catturati da uno studente del primo anno che si profondeva in una serie di scuse, mentre la bibliotecaria gli spiegava che non poteva prendere in prestito più di un certo numero di libri. Quello si difendeva mettendo avanti il professore che gli aveva commissionato il lavoro, ma qualunque replica non faceva altro che sottolineare la sua ingenuità.
Infine abbandonò l’ambiente rosso fino alla punta delle orecchie.
La bibliotecaria, una donna abbastanza paziente e molto pacata, si lasciò sfuggire un’imprecazione nel raccogliere da terra i volumi. Terminato il siparietto comico, Melanie tornò al proprio libro di storia.
Nemmeno si era accorta del sorrisetto divertito che le sporgeva ad un angolo delle labbra. Sorriso immediatamente incrinato da una coincidenza.
Per qualche istante rimase immobile, il viso paralizzato in quella che ormai era divenuta una smorfia.
Seduta di fronte a lei, con un paio di tavoli deserti a dividerle, riparata dietro lo schermo luminoso del portatile, la solita montatura scura sul naso, Daphne Barnett incrociò il suo sguardo.
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. ***


Capitolo 5.

Lights Out
 

 
«Come on baby, we can hit the lights
make the wrongs turn right
we can smash the club, make the pop go raw
With a  love this deep, we don’t need no sleep
and it feels like we could do this all night.»

 
 
9:25 – Galaxy Hotel
 
Le avevano detto che stava divinamente, quella sera.
A sostenerlo, sua madre, che l’aveva ricoperta di complimenti,  rivoltandola sul posto davanti alla specchiera come una bambola di pezza. Non le credeva, ovviamente, ma apprezzava il tentativo di tirarle un po’ su il morale. Dopotutto, quello era l’incoraggiamento che le serviva per convincersi ad uscire di casa e partecipare alla festa.
Si era pentita della decisione non appena la maestosa facciata in stile neoclassico del Galaxy Hotel le si era delineata davanti agli occhi. Sette piani di marmo bianco, sfavillii dalle imponenti finestre a bovindo, diversi chauffeur impalati come sentinelle accanto all’ingresso, porte girevoli e lampadari a gocce: questo era ciò che prospettava la serata.
Fin dal momento in cui era scesa dal taxi, Melanie si era sentita inadeguata, sensazione acuitasi una volta tra la folla di invitati; strano, allucinante, vedere i suoi compagni di classe e semisconosciuti agghindati in smoking o in lungo. Il paragone tra il suo vestito a malapena stirato e i pomposi modelli realizzati con tessuti pregiati, sfavillanti di pailettes o dai colori intensi fu inevitabile.
Nonostante le proteste di zia Lydia, preoccupata dell’orlo troppo corto che le copriva appena le ginocchia, alla fine aveva dato ascolto a sua madre, accettando un vecchio tubino nero che indossava in gioventù; per completare il look avevano attinto al guardaroba del fratello e Melanie era sconvolta dal fatto che la giacca extralarge fosse l’unico capo in cui si sentisse a proprio agio.
Adesso vi si stringeva in modo ossessivo, osservando da un angolo i suoi coetanei che occupavano la maestosa pista da ballo, tra cascate di Champagne e tartine che non saziavano affatto, chiedendosi cosa diamine ci facesse lì in mezzo.
Al suo ingresso, Cindy l’aveva accolta con il solito corteo, sfilandole all’istante dalle mani il pacchetto regalo, per poi volatilizzarsi per il resto dei festeggiamenti. Un problema in meno: non avrebbe dovuto fingere di essere socievole.
I signori Butler avevano affittato soltanto un’ala dell’edificio, ma assicuravano drink gratuiti al bar dell’hotel e disponibilità massima del personale, che sfrecciava di continuo da una parte all’altra.
Un urletto tagliò all’improvviso la stanza, raggiungendo perfino lei, nel suo angolino di isolamento.
Alyssa Russmith stava ridendo sguaiatamente, in compagnia di una nutrita cerchia di giovani. Qualcuno le sfiorava con ammirazione gli orecchini a goccia, qualcun altro complimentava la borsetta dorata. Tra di loro Melanie scorse anche Daphne, la fronte corrucciata, un broncio inesplicabile ad incresparle le labbra. La notò, la riconobbe, ma come un altro migliaio di volte - come il lunedì precedente in biblioteca - spostò lo sguardo altrove, quasi fosse rimasta scottata.
Mel sentì di aver raggiunto l’apice della sopportazione. Agguantato l’ennesimo calice di spumante, si diresse sul balcone, lontana dal frastuono di luci, bicchieri e risate.
La visuale sui giardini dell’hotel era spettacolare. Lampioncini in stile francese rompevano il buio, lunghe scalinate di un bianco marmoreo si snodavano tra le aiuole e i tavolini, fino alla piscina, creando un labirinto raffinato.
L’aria fredda la investì, restituendole libertà.
Sollevò il mento, lasciandosi cullare. Finalmente le pareva di tornare a respirare.
Sulla balconata semideserta, un’altra presenza catturò la sua attenzione.
I capelli chiari raccolti in un’acconciatura elaborata, il vestito di un rosa cipria a sagomarle il corpo esile, la pelle quasi diafana…avrebbe saputo riconoscerla ovunque.
Mentre le si avvicinava, il suo sguardo sostò un istante di troppo su qualche boccolo, sfuggito al pettine, che le scivolava lungo il collo, insinuandosi nel decolleté non generoso. Spense repentinamente il desiderio di scostargliene uno dalla spalla nuda, sentendo le viscere ribollire d’impazienza.
La sigaretta accesa entrò nel suo campo visivo solo in un secondo momento, quando ormai si trovava ad un passo da lei. Il modo in cui la maneggiava, scrollando via la cenere, stringendo il filtro fra le unghie fresche di manicure, semplicemente la incantava.
Pensò che non aveva mai visto un essere più aggraziato compiere un atto così devastante. 
Con la musica ovattata a pulsare contro le vetrate, Melanie si pose di fianco alla ragazza. Realizzò di non conoscere ancora il suo nome.
Quando la sconosciuta si accorse di non essere più sola, un velo di stupore le schiuse le labbra: «Sei venuta anche tu, alla fine».
Una sottile nota di ironia e sorpresa trapelò dalla voce.
«Obblighi sociali», replicò Mel.
Si appoggiò a propria volta alla balconata, combattuta su cosa fare, cosa dire per non apparire l’ennesima volta quella strana. In genere non le importava nulla dei giudizi che gli altri formulavano nelle loro piccole menti, ma questa volta sì: sembrava diventato della massima importanza il modo in cui portava il soprabito – aperto o abbottonato? – e i minimi dettagli la mandavano in crisi.
«Ti invidio», osservò l’altra ragazza in una boccata di fumo. «Almeno tu, dopo questa serata, sarai libera.»
«Se ci arrivo, a fine serata», ironizzò Melanie.
La sconosciuta si unì alla risata smorzata, scuotendo appena il capo. «Intendo dire,» riprese con serietà, «che tu non hai vincoli di alcun tipo.»
«Perché, tu cos’hai fatto di tanto orribile? Sottoscritto qualche patto con il diavolo?»
Melanie trovò il coraggio di guardarla in volto. «Sei libera anche tu di andartene.»
L’altra, però, stava di nuovo scuotendo la testa, assorta in riflessioni che serpeggiavano nei giardini rigogliosi.
«Non funziona esattamente così.»
Inspirò a fondo un’altra boccata di fumo, prima di rilasciare un soffio grigio nel vento.
«Cindy è mia cugina.»
A Melanie per poco non sfuggì il calice dalle mani. Lo adagiò sulla balaustra, per sicurezza.
«Tua—tua cugina?»
La giovane annuì, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Lo so, non ci assomigliamo molto.»
«Su questo non ci piove.»
Le strappò un’altra risatina. Non pensava di risultare divertente. Forse la sua interlocutrice stava solo fingendo di essere gentile, mascherando il disagio che provava– lo stesso che provocava in tutti coloro che conoscessero Melanie Prescott. Si mordicchiò un labbro, sempre più tesa.
Le vetrate vennero spalancate e richiuse in un istante, mentre un cameriere si accostava loro con un vassoio carico di antipasti. Entrambe declinarono l’offerta.
Rimaste di nuovo sole, la ragazza le si avvicinò con aria confidenziale, abbassando la voce: «Odio questo spreco di cibo; puro esibizionismo. Nessuno è davvero in grado di finire tutte quelle tartine, che poi sono anche nauseanti».
«Hai provato il caviale?», replicò Mel.
«Disgustoso», decretò l’altra arricciando il naso.
La prima sollevò entrambe le braccia in uno slancio di entusiasmo, approvando il verdetto.
«Oh, finalmente! Vogliamo smetterla di fingere che il caviale sia buono?»
«Mai sopportato. Ha un sapore troppo intenso.»
Mel bevve un sorso di spumante, senza distogliere lo sguardo da quello della sconosciuta. D’altra parte, le pareva impossibile: come durante il loro primo incontro, trovava quegli occhi ipnotici e ricchi di talmente tante sfaccettature da far sembrare sprecato ogni secondo non passato a studiarli.
«Comunque, io sono Lisa.»
«Melanie.»
Iniziò a ripeterselo mentalmente nel tentativo di memorizzarlo il prima possibile. Quell’informazione che a lungo aveva cercato di carpire, magari in una conversazione distratta per i corridoi, infine era giunta con estrema facilità a lei.
«Sei dell’ultimo anno?»
Melanie ingollò un’altra sorsata di Champagne, rabbrividendo nel sentire esplodere le bollicine nell’esofago.
«No,» tossicchiò, «no, sono al penultimo. Anche tu, giusto?»
Lisa le rivolse un cenno di assenso, prima di inspirare altra nicotina, mente rivolta altrove. Mel non poteva fare altro che restare ad osservarla in un misto di adorazione e perplessità. «Sai, non avrei mai detto che fumassi», le sfuggì infine. 
Si meritò un’occhiata risentita. «Come mai?»
«Non sembri esattamente il tipo.»
«Ah,» Lisa allacciò le braccia al petto, analizzandola attentamente, «e che tipo sembro?»
Nella mente di Melanie sfrecciarono una serie di immagini, di quei pochi, fugaci incontri all’Arcadian, in cui l’aveva sempre vista tutta presa dai propri quaderni, ad aggiustarsi la coda alta davanti all’armadietto oppure a strisciare dietro Cindy Butler.
Alzò un sopracciglio. «Una che tiene molto al proprio aspetto e alla buona reputazione che si è forgiata.»
«Fumare è di moda.»
Melanie si fece sfuggire una risatina carica d’amarezza: «Certo. Se vivi nel duemila e rispondi a qualche stereotipo punk».
L’altra rise di pancia, reclinando appena il busto in avanti. Quando tornò a guardarla, sembrava serena.
«Hai ragione. La nicotina è demodé , ma volevo vedere come avresti reagito.»
Le mani di Melanie sprofondarono nella giacca, mentre dissimulava in modo penoso il proprio imbarazzo. Lì per lì, aveva temuto che il commento potesse averla indispettita o offesa– a volte dimenticava che non tutti amavano essere diretti e che le conversazioni con se stessa non valevano come buon metro di paragone per testare la sensibilità altrui – ma poi le aveva strappato una risata e quella volta ogni dubbio genuinità di Lisa era stato fugato. Aveva rotto il ghiaccio.
«Comunque, devi avermi esaminata poco o male.»
Le stava sorridendo con una punta di malizia. «Sono il tipo che fa qualche tiro, anche se di nascosto.»
Melanie si strinse nelle spalle: «Errare è umano. Dovrei farti la ramanzina su come ti stai bruciando i polmoni e tutto il resto?»
Lisa scacciò quel pensiero con un gesto della mano, come se si trattasse di altro fumo.
«No, ti prego, risparmiatela. Lo so, lo so che mi distruggo la salute e tutto, ma è l’unico sfogo che mi resta, l’unico momento che ho per me stessa, per restare con i miei problemi senza nessuno che mi ronzi attorno. Ingerisco nicotina, esalo tensione. È catartico.»
Qualche minuto di silenzio, un brindisi dall’interno, una coppia straniera di passeggiatori solitari che attraversavano il giardino. Sembrava irrealistico pensare di poter incontrare persone non agghindate, al Galaxy; immaginare ospiti in pigiama, rintanati nelle loro suite, lontani anni luce dalla festa, dai bagliori e dall’opulenza del rinfresco.
«Qual è il tuo?»
Melanie fu risucchiata nel presente.
 «Mh?»
«Qual è il tuo modo per sfogare la tensione?»
Gli oggetti in frantumi, foto e pagine strappate, pezzi di carta volteggianti ovunque insieme alle piume, tavoli rovesciati, vetrine incrinate, muscoli stretti, rivoli di sangue.
«Il cane», sputò di getto. «Le passeggiate con il mio cane.»
Lisa accennò un sorriso, interessata.
Senza che se ne accorgesse o fosse in grado di fermarsi, Melanie si ritrovò a sciorinare una serie di sciocchezze sul nome del meticcio, su come l’avessero adottato, sulle spese veterinarie, su qualunque cosa le passasse per la testa – tutto purché quei pensieri rimanessero bloccati dentro, stipati in un angolo.
Poi, un rumore distinto fece scattare la sua interlocutrice.
«Oh, cazzo.»
Lisa si affrettò a far sparire nella pochette accendino e portasigarette. Il mozzicone di poco prima, ormai terminato e ridotto ad una chiazza scura sul pavimento, era stato sostituito da una Camel nuova, che la ragazza già stringeva fra i denti. Con la coda dell’occhio, Melanie captò una figura familiare in avvicinamento.
Senza riflettere troppo, sfilò la sigaretta ancora spenta dalle labbra di Lisa e la trasferì tra le proprie.
Cindy Butler si materializzò accanto a loro. Squadrò entrambe con diffidenza e, confusa, si rivolse solo alla cugina: «Lisa, che caspita stai facendo tutta sola qua fuori?»
L’altra provò a giustificarsi con un ampio gesto del braccio.
«Mi godevo…il panorama. I giardini sono stupendi.»
Cindy storse il naso: «Hai fumato?»
Quella tossicchiò, una mano chiusa a pugno davanti alla bocca. «No! Scherzi? Fumare, io?»
«Non è il tipo», intervenne Melanie. «Colpa mia, stasera ne ho proprio bisogno.»
L’ospite la osservò strabiliata per il candore con cui ammetteva quella che, ai suoi occhi, era un’imperdonabile colpa, trastullandosi con l’oggetto incriminante.
Ignorata del tutto la risposta, afferrò la cugina per un polso, trascinandola all’interno.
«Beh, vieni, Lisa. Hanno messo Rihanna. Tu la adori, no?»
Lisa fece appena in tempo a bofonchiare un “no” poco convinto, per poi impuntarsi sul posto e interpellare Melanie: «Tu non vieni?»
Quella trasecolò, sforzandosi di ignorare il sapore di lucidalabbra che si scioglieva sul palato.
Ciliegia. Lisa doveva avere gusti delicati. 
«Io…credo che farò un salto all’open bar», rispose evasiva. «Odio ballare.»
La biondina arricciò il labbro.
Tutto ciò che riuscì a dire, prima di essere risucchiata dal caos della festa, fu: «Peccato».
 
 
 
*   *   *
 
 
 
La musica iniziava a stordirla.
Tutto quel pulsare – nelle tempie, nella gabbia toracica, perfino negli occhi – le provocava dolore.
Per l’intera festa, le sale erano state riempite da musica house, che si propagava per i corridoi dell’albergo, insinuandosi nell’atrio, nelle camere degli ospiti, perfino nelle toilette.
Lei, attaccata ad una parete di uno dei tanti corridoi deserti, osservava il riflesso che il grande specchio a muro rimandava indietro. Si stava domandando in che modo apparire un po’ più piacevole.
Risucchiò l’addome, si sforzò di mantenere una postura eretta – come le aveva ripetuto chissà quante volte Alyssa – e di sorridere, mento alto e capelli avvolti nello chignon.
Cazzo, quanto le stava stretto quel vestito.
Si lisciò un paio di pieghe, tirando la stoffa verso il basso, a coprire quelle – grasse, grosse, nerborute – gambe che i tacchi non alleggerivano affatto. Lasciò andare un sospiro e insieme ad esso qualunque tentativo di tenere in dentro la pancia. Ma chi voleva prendere in giro?
L’aveva visto il buffet, soprattutto quando le avevano indicato con cupidigia la fontana di cioccolato che troneggiava nel suo centro esatto, ma se ne era tenuta a distanza. Magari dopo. Sì, magari più tardi.
Era tentata di sfilarsi le scarpe e chiudersi nel bagno, sparire fino al termine della serata, ma l’avrebbero trovata, prima o poi. Non c’era via di fuga da quella gabbia di cristallo.
Tutto ciò in cui poteva sperare erano attimi di tranquillità come quello, per riprendersi un po’.
La Lei nello specchio la analizzava con una specie di broncio.
Avrebbe voluto sfasciarlo.
Mille pezzi, mille crepe, mille frammenti di un’immagine che forse, scomposta, sarebbe apparsa meno ingombrante. Rimpiangeva amaramente di aver lasciato il soprabito nel guardaroba all’ingresso: come poteva coprire quel cazzo di bacino?
Che poi nessuno in famiglia vantava un’ossatura così spessa o dei fianchi larghi.
Tutto merito suo: nemmeno con la genetica poteva prendersela.
Vaffanculo. Vaffanculo, Daphne.
Un sonoro urlo la agguantò per le spalle: «Daffie!»
Prima ancora che potesse replicare, si ritrovò circondata dal gruppo di amiche di Alyssa. Quest’ultima aveva estratto il proprio I-Phone, un sorriso a trentadue denti sul volto spruzzato di lentiggini.
Il braccio abbandonato mollemente attorno al suo collo le sembrò all’improvviso un cappio.
«Non ci siamo fatte nemmeno una foto! Dai, venite. Selfie di gruppo davanti allo specchio.»
Le proteste di Daphne vennero tacitate nell’immediato.
«Daffie, non fare la guastafeste. Dobbiamo averla per forza, una foto della serata.»
«No, dai, Alyssa…sto malissimo.»
L’altra la spintonò appena, ridacchiando. «Sciocchezze! Stiamo tutte divinamente.»
Daphne fece per allontanarsi, ma Felicity la ripescò nel mucchio, stringendola in mezzo a corpi formosi ma mai inadeguati. «E dai, solo un paio.»
Negli infiniti minuti trascorsi con labbra tirate e denti serrati, mentre le altre cambiavano di continuo posa, cercando quella più adatta per gonfiare la loro autostima, Daphne sentì montare un’ondata di sconforto.
Le afferrò le caviglie, trascinandola sempre più giù, verso il pavimento.
Il sorriso si spense a poco a poco, fino a scoppiare del tutto terminato il servizio fotografico.
Alyssa mostrò fiera le immagini alle proprie amiche e lei colse l’occasione per scivolare altrove.
Camminava come un automa, spettrale e dissociata da tutto ciò che la circondava. Nella sua mente, martellava solo il meraviglioso corpo di Alyssa,  le lunghe gambe sinuose e il fisico slanciato. Si sentiva un fucile caricato a bile ed odio.
Non si accorse neppure di essere finita nel salone principale, fino a quando il bancone del rinfresco non si dipinse sotto al suo naso.
Qualcuno la strattonò con entusiasmo.
«Daphne, non puoi capire! Mettono Rihanna
Come accecata dai riflettori, Daphne si portò una mano davanti agli occhi, provando ad ancorarsi di nuovo al presente, focalizzarsi sul “qui ed ora”. Piano piano, la nube che l’aveva intossicata si diradò.
Qui? James.
Ora? Festa.
«Pensavo che Rihanna fosse morta da un pezzo,» commentò, «artisticamente parlando.»
Travor si avvicinò con un piattino di mini hamburger in mano: «Non insultare la regina indiscussa».
«È intramontabile», confermò Jason.
«Ma voi da dove sbucate?»
Logan si accostò al quartetto, le mani sprofondate nelle tasche del completo scuro: «Siamo sempre stati qui, Dee-Dee. Solo che tu non ci hai visti».
«È troppo presa dalle sue amichette snob. Non può permettersi di calcolarci in un’occasione del genere», rincarò Jason con un ghigno.
Daphne lo ignorò, massaggiandosi appena le tempie.
Nell’ambiente regnava un insolito silenzio, che lasciava spazio solo ad un debole accenno di acufene e alle conversazioni sguaiate fra gli ospiti, per metà obnubilati dall’alcool. La richiesta di una canzone ben precisa, da parte della festeggiata o qualcun altro per lei, sarebbe stata esaudita di lì a poco; intanto, l’attesa che si era creata fermentava di secondo in secondo.
«Hai assaggiato i mini hamburger?»
Travor le tendeva il piattino, facendole cenno con il mento di servirsi.
«Sono a posto così, grazie.»
«Almeno un goccio di Champagne?», le domandò Logan.
«Mi chiedo cosa ripescheranno dal dimenticatoio», riprese James. «La balliamo, ovviamente.»
Daphne era incredula: «Avete intenzione di ballare?»
Gli altri annuirono con un sorrisetto idiota, mentre Jason posava il proprio calice di spumante e decideva di  inseguire un cameriere di passaggio per ottenerne dell’altro.
«Dio, che imbarazzo», soffiò lei.
«Solo perché  tu sei negata, non vuol dire che lo siamo tutti», fu la lesta replica di Logan.
La ragazza rimase in silenzio, allibita. E così, lo pensavano anche loro.
Avrebbe voluto sputargli dal profondo del cuore che era uno stronzo, ma conoscevano entrambi la verità e, per quanto amaro, fu costretta ad ingoiare il rospo.
Mentre Travor e Logan discutevano di alcune invitate, comuni conoscenti, pacchetti di dimensioni esorbitanti notati nel guardaroba, della scontrosità del concierge e di come volessero provare i drink della casa, una sagoma in smoking si unì alla conversazione.
«Ethan! Che dici, fratello?»
James gli assestò una pacca sulla spalla, prendendosi forse più confidenza del dovuto.
Era elettrico, quella sera, accordato alla bevanda che stringeva in mano.
«Tutto bene. È una festa un po’…sui generis», osservò mascherando un sorriso.
«Eh?»
Travor lo osservava confuso.
«Particolare», si corresse subito Ethan. «Però, mi sto divertendo.»
Daphne era entrata involontariamente in apnea non appena il giovane si era avvicinato. Le spalle così vicine da sfiorarsi, il completo aderente che lo fasciava, l’atteggiamento serioso che gli conferiva la cravatta troppo stretta. Il nero gli donava.
Divenuta terribilmente consapevole della propria presenza, del modo in cui stringeva le braccia al petto, nascondendo la scollatura abbondante, non poté fare a meno di arrossire.
«Non so voi, ma lo smoking mi soffoca», aggiunse il ragazzo, trovando l’approvazione immediata degli altri.
Il dj annunciò la prossima canzone: direttamente dal 2008, su suggerimento di uno spasimante di Cindy, Don’t Stop The Music iniziò a rimbombare tra le mura.
Le luci, concentrate prima su tonalità calde tra il perlaceo e il dorato, avvolgendo i presenti in un tessuto di grazia e limpidezza, adesso vennero abbassate a colori più freddi, volti a creare un’atmosfera intima ed unita: sotto le stroboscopiche, tutti i corpi apparivano identici, un’unica massa di sudore.
Dagli altoparlanti si invitava Cindy Butler ad aprire le danze con il suo spasimante, un tipo tarchiato e lentigginoso.
La voce della cantante strappò urla di assenso.  
Cindy, sorridente e catturata nella catena di flash di fotografi professionisti, si posizionò al centro della sala, in uno scrosciante applauso. Incitò anche altre coppie ad imitare lei e il suo partner, desiderio subito esaudito.
Gli invitati riempirono la pista, mentre Jason faceva ritorno con quattro o cinque bicchieri di spumante.
«Cosa mi sono perso?»
Logan si sforzò di sovrastare le pulsazioni. «Hanno davvero messo Rihanna
«Okay,» annuì l’altro, «grazie alcool, per aiutarmi a digerire tutto questo.»
E detto ciò, scambiato un brindisi con James, entrambi i ragazzi mandarono giù un paio di bicchieri a testa.
Daphne indietreggiò, decisa a mantenersi a bordopista, possibilmente distante dal buffet troppo invitante.
I piedi le bruciavano nelle scarpe, mentre un gorgoglio da parte dello stomaco le comunicò che forse doveva mettere qualcosa sotto i denti.
«Dee-Dee, tu vieni?»
Logan la stava sfidando.
In un tremendo déjà-vu, rivide la scena al parco e represse le lacrime, mandibola contratta, muscoli stretti. 
Gli spiegò che “aveva già dato al suo compleanno”.
«Come immaginavo», replicò lui asciutto, prima di buttarsi nella mischia con gli altri.
L’unico rimasto accanto a lei, a scrutarla con diffidenza, era James. Non l’aveva convinto affatto, quella facciata imperturbabile. C’era qualcosa dietro – sotto, in fondo, ma quanto in fondo? – che ribolliva e minacciava di uscire.
Le sussurrò nell’orecchio, sopra il frastuono che li circondava: «Guarda che non frega niente a nessuno, se sbagli dei passi. Devi solo divertirti.»
Lei non si spostò di una virgola, assorta e riflessiva come al solito. Scandagliava angoli di pensiero accantonati, in cerca di chissà quale risposta ad una questione semplice ed infantile.
Si ricordò di quando ballare era naturale; le veniva spontaneo, quasi le scorressero nel sangue la musica, il ritmo, l’energia che adesso non sfruttava.
«Può farlo chiunque, Daphne. Lo faccio io, che sono negato in tutto.»
Daphne abbassò lo sguardo, mortificata. Non riusciva, non era così facile lasciarsi andare, ignorare lo sguardo di conoscenti e sconosciuti, l’analisi dei suoi stessi amici, il giudizio di Ethan che tanto temeva. James era fatto in modo diverso. Lui provava, si lanciava, si rotolava anche nel peggiore dei fanghi, ma ne usciva sempre in piedi.
«Logan ha detto che sei incapace.»
«Ha ragione.»
«No!»
Lei sussultò. Strano, quasi impossibile, far arrabbiare James.
Il giovane le afferrò un polso con determinazione. «Dimostriamogli che ha torto.»
Ma prima che potesse replicare, la stava trascinando in pista, scontrandosi con i corpi madidi di sudore.
Lei tirò l’amico per un braccio, scuotendo il capo.
«Fallo per Rihanna, Daphne.»
James intercettò lo sguardo rivolto verso la vetrata, ma vide solo Ethan Sallinger che, liberatosi della giacca, ondeggiava a ritmo, abbarbicato a Logan e Jason.
Decise di afferrare Daphne per entrambe le mani, costringendola a voltarsi di spalle.
Do you know what you started? I just came here to party, but now we’re rocking on the dance floor.
Lei abbassò le palpebre, immaginando di essere altrove, ignorando con ogni sforzo quelle – orribili cazzo di gambe – stroboscopiche, ripetendosi che nessuno – tutti gli occhi addosso, mille bocche affilate, morsi profondi –si era accorto di loro.
James aveva preso anche a cantare, mentre tentava di farla sciogliere un pochino.
I wanna take you away, let’s escape into the music, dj let it play.
Con dei piccoli saltelli sul posto, allacciò le braccia attorno alle spalle dell’amica, che però stava perdendo controllo sul proprio corpo. Strattonata, rimbalzava di qua e di là, mentre copiosi rivoli di sudore le inondavano fronte e collo. Riaprire gli occhi non migliorò la situazione. Era come se stesse vivendo a scatti, - please don’t stop the, please don’t stop the, please don’t stop the music  - un momento prima si trovava lì, quello successivo blackout completo. Le girava la testa.
«James. Devo sedermi.»
«Cosa?!»
Provò a ripeterlo con un tono più alto, ma fu inutile.
Si sottrasse alla presa e annaspò verso l’uscita, trascinandosi a fatica verso il bar.
Aveva bisogno di mangiare qualcosa e subito.


 
*   *   *
 
 
 
Libero.
Finalmente era fuori da quel circo degli orrori.
Il miglior modo per trascorrere un piacevole sabato sera doveva di certo essere imbottigliato nell’appartamento disordinato di sconosciuti, a dare ripetizioni.
Unica consolazione a cui attaccarsi: l’idea che, in fondo, non solo la sua, di famiglia, fosse complicata.
La casa dei Krimston, al quarto piano di una palazzina fatiscente, contava quanta più polvere e sudiciume sua madre potesse tollerare, ma per la signora Krimston quello costituiva l’ultimo dei problemi. La preoccupazione per una figlia svogliata, che si applicava allo studio lo stretto indispensabile, contava maggiormente. 
Le aveva ripetuto i concetti una dozzina di volte, arrivando quasi all’esasperazione. Non era un tipo paziente, lui, e di certo il meno indicato per un’occupazione del genere: spiegare nozioni elementari ad un’adolescente, come fosse una bambina, era frustrante.
E, ad aggiungere l’ennesimo mattoncino di stress, era stato costretto a fermarsi a cena presso degli estranei.  Ci aveva provato, a declinare, ma le lezioni gli avevano sottratto una fetta di tempo non indifferente e le sue ospiti si erano rifiutate di lasciarlo andare via senza aver assaggiato lo stufato.
Gli si era piazzato sullo stomaco, quello stupido stufato, e adesso per smaltirlo girovagava per il quartiere deserto alle undici di sera, rassicurando il padre che sarebbe rincasato presto.
A dire la verità, non ne aveva proprio voglia, di tornare a casa.
No, non era il massimo starsene da solo a fissare vetrine di negozi ormai chiusi, sentendosi osservato da quei pochi passanti che attraversavano la via principale, ma preferiva indugiare ancora per un po’, quel che bastava per prolungare la sensazione di totale libertà. Sciolto, slegato da tutti e tutto.
Sarebbe potuto divenire chiunque, in quella finestra di libertà.
Isaac inspirò a fondo: smog e gelo nelle narici, spazi infiniti e distese di cielo tra gli alti palazzi. Chissà cosa c’era, in quella strada lì in fondo.
Nei recessi del suo cervello, lo sapeva cosa lo teneva ancorato in quel posto, cosa gli impediva di saltare su un notturno o scendere nella metro: il richiamo dell’ignoto.
Anzi, no. Perché di cosa lo attendesse in una parallela, il famoso e proibito Black Market, ne era a conoscenza. Probabilmente a quell’ora avrebbe trovato solo uno spiazzo vuoto, magari tendoni scuciti e un paio di banchi di legno, ma desiderava ugualmente andarvi. Ne sentiva già l’odore, di spezie lontane, copertoni bruciati e ferro arrugginito.
Se si concentrava a sufficienza, gli giungeva persino qualche suono – suole di scarpe sull’asfalto, uno stridore gommoso – lontano, lontano…
Non così lontano, in realtà. Gli pareva infatti un rumore troppo reale per essere partorito dalla sua fantasia.
Riaprì gli occhi, sempre davanti al negozio di arredamento di prima. Ed eccolo, il rumore di passi in avvicinamento, così concitati da ricalcare una corsa.
Isaac si guardò attorno, perplesso. Alcuni isolati più in là, il fascio di luce di un minimarket si riverberava sul marciapiede; una coppia di anziani con delle buste da spesa, un fumatore solitario e pedoni anonimi circolavano nella zona.
Quando il calpestio si fece indubbio, Isaac si voltò verso un angolo della strada da cui apparve una figura incappucciata ed intenta a sfilarsi una felpa. Una volta liberatosene, il ragazzo in fuga la gettò dietro alcuni cassonetti e, insieme ad essa, si disfece di un oggetto circolare che ad Isaac – spettatore muto – ricordò un uovo. 
La nuova comparsa continuava a correre con il fiato corto, controllando ossessivamente la via alle proprie spalle, e non si accorse di Isaac, ancora impietrito davanti alla vetrina illuminata, finché non lo travolse in pieno.
In quell’istante, un paio di poliziotti svoltarono l’angolo, perlustrando il quartiere con sguardo affilato.
«Scusami.»
Il ragazzo, rimessosi in piedi, gli stava tendendo una mano. Isaac l’accettò titubante.
Non fece in tempo a rialzarsi, che la coppia di agenti si tuffò sullo sconosciuto, immobilizzandolo.
Quello prese a divincolarsi e a proclamarsi innocente.
«Ah, sì? Pensi di darcela a bere così facilmente?»
Isaac captò l’espressione sofferente dello sconosciuto. Qualche strano particolare nei lineamenti duri, squadrati, e nei riccioli scompigliati attaccati al collo lo fece scattare, come se qualcuno gli avesse girato un cacciavite nel centro esatto della fronte: era giovane, troppo giovane per finire dentro a causa di un piccolo furto. Valutò che doveva essere più o meno suo coetaneo. 
«È andato di là.»
Isaac si sentì parlare dall’esterno, qualcun altro aveva preso il comando delle sue proprietà cognitive.
Seguì la direzione che adesso stava indicando con il braccio, puntando un dito sul fondo della strada, oltre il minimarket, oltre la fila di lampioni, oltre l’orizzonte di cemento armato.
Gli agenti lo squadrarono con un’aria ferale.
«Ne sei sicuro, ragazzo?», gli domandò il primo.
Isaac annuì lentamente, deglutendo con difficoltà. Mantenne il contatto visivo con il fuggiasco a cui una frangia biondastra copriva metà volto.
«Com’era fatto?»
Era stato il secondo poliziotto a intervenire. Isaac si portò una mano dietro la testa, mimando un cappuccio.
«Alto, magro, un paio di jeans sdruciti…»
L’altro lo interruppe, assestando un calcio al sospettato: «Come questi, eh?»
«Molto simili», Isaac parlava a rilento, tenendo a freno la propria insicurezza, «ma portava anche una felpa extralarge, grigia, con il cappuccio. Il cappuccio gli copriva il volto.»
Si concesse una pausa, accelerando il discorso.
«Stava scappando. Aveva un oggetto in mano…circolare. Qualcosa di brillante.»
Aveva ottenuto l’attenzione del più anziano. «Ragazzo, ne sei assolutamente certo?»
Isaac annuì, accennando con il mento al giovane immobilizzato: «Lui era qui, con me».
«Vi conoscete?»
Annuì di nuovo, senza provare neanche un’ombra di rimorso.
«Sì. Stavamo rincasando, quando il tipo in fuga ci ha quasi travolti.»
«Non ci starai raccontando cazzate, eh?», intervenne il secondo agente. 
Il quindicenne si morse un labbro, scuotendo il capo. «È la verità.»
Riluttanti, allentarono la presa sulla loro preda. L’agente più giovane, però, doveva essere un osso duro – o semplicemente qualcuno che vuole far colpo sul proprio capo, pensò Isaac.
Gli rivolse uno sguardo truce: «Sarà meglio per te, ragazzino».
E detto ciò, sparirono di nuovo dietro l’angolo, comunicando ad un’altra pattuglia che il sospetto si aggirava in una zona limitrofa.
Lo stridio di ruote sull’asfalto accompagnò i pensieri di entrambi i ragazzi che, rimasti soli, non osavano rompere la pantomima o il silenzio. Poi, fu il nuovo arrivato a prendere la parola.
«Com’è che ti chiami?»
«Isaac.»
Quello assentì, riflettendoci un momento su. S’incamminò verso i cassonetti, a recuperare i propri effetti.
«Beh,» commentò dandogli le spalle, «non so cosa ti abbia spinto a coprirmi, ma ti ringrazio.»
Inginocchiato sul bordo del marciapiede, gli inviò un’occhiata eloquente. «Adesso, però, è meglio se sparisci.»
Quando il giovane fu di nuovo davanti a lui, la felpa stretta nell’avambraccio e un sorrisetto soddisfatto sulle labbra, Isaac poté distinguere chiaramente l’oggetto che stringeva in mano: un portagioie.
Osservando come ipnotizzato la corona di rubini che ne impreziosiva il coperchio, Isaac non riuscì a trattenere una semplice domanda: «A chi l’hai rubato?»
L’altro non gli fornì alcuna spiegazione. Come risposta, preferì assestare al ragazzino una gomitata sulla spalla, bisbigliando: «Torna a casa, Isaac
E si allontanò in una camminata molle, rilassata, oltre il minimarket.


 
*  *  *
 



«Il tuo succo e…un sandwich al formaggio. Ecco a te.»
Il barista le posò davanti il piattino, prima di tornare alle altre ordinazioni. Daphne lo seguì con la coda dell’occhio mentre abbandonava il bancone e si dirigeva ai giardini.
L’odore di formaggio grigliato la inebriò per qualche istante, con l’effetto di dilatarle ulteriormente lo stomaco. Non aveva solo fame; no, c’era un’enorme buco nero a risucchiare il ventre.
Si passò le mani sul viso, incurante del trucco su cui aveva speso ore e ore del proprio tempo.
«Mh, succo di pesca. Non sapevo fossi un’alcolista.»
Quella voce inconfondibile. Daphne si voltò di scatto, minacciando l’equilibrio raggiunto sullo sgabello.
Accanto a lei, Ethan Sallinger la squadrava con un sorriso divertito.
Decise di stare al gioco, bloccando fuori i pensieri che iniziavano a centrifugarle in testa sul perché proprio lui fosse lì in quel momento, se avesse abbandonato la festa per qualche motivo o se magari…
«Ci sono molte cose che non sai su di me, Ethan Sallinger.»
Si pentì all’istante della voce contraffatta con cui aveva storpiato il suo nome. Dio, perché finiva sempre per fare figure del genere? Doveva smetterla di rendersi ridicola.
«Ad esempio?»
Ethan si accovacciò sullo sgabello di fianco, gomiti sul bancone.
Sembrava genuinamente interessato alla conversazione.
Ecco, si era impantanata in un vicolo cieco. E adesso? Quale balla avrebbe dovuto sfoderare?
«Beh, per esempio…»
Pensa. Pensa in fretta, Daphne.
Uno sbuffo. Ma perché doveva sforzarsi di impressionarlo? A cosa sarebbe servito?
«No, in effetti sono un libro aperto», sospirò. «Non ho molti aneddoti.»
Ethan agguantò un cestino di noccioline, giocherellando con i salatini.
«Mh. Io sono convinto che chiunque abbia una bella storia da raccontare. Basta solo saper scavare a fondo.»
Un’occhiata scaltra. «Quando dai alla gente la possibilità di esprimersi, diventa perfino ossessiva. L’altro giorno, alla fermata dell’autobus, ho attaccato bottone con una signora – settantina, occhialoni spessi, sola come un cane…»
Daphne annuì, riuscendo a delineare un ritratto della signora in questione. Colse l’occasione per assaggiare il succo ordinato. Pesca e cannella si mescolarono lentamente sulla punta della lingua; un retrogusto acre le pizzicò il palato. Finalmente un po’ di zuccheri.
«…e lei ha finito per narrarmi la storia della sua vita. Vedova – prevedibile – vive da sola in una casetta a due piani che vorrebbe dare in vendita, tanto i figli la vanno a trovare di rado; avrebbe preferito affittare, ma il quartiere non è dei migliori e la città negli ultimi anni si è popolata di forestieri; mica come ai suoi tempi, quando Norwall era solo un piccolo centro abitato.»
Ethan le sorrise. «Nulla di nuovo o strabiliante, ma a lei serviva sfogarsi con qualcuno.»
«Ti è andata di lusso», commentò Daphne. «Tutto ciò che trovo, sui mezzi, sono persone fuori di testa.»
«Oh, ma quella è la creme-de-la-creme», replicò l’altro. «Non sai mai…», sgranocchiò una nocciolina soprappensiero, «cosa faranno. È l’imprevedibilità che ci riscatta.»
Daphne aveva corrucciato la fronte. Senza accorgersene, si era sorbita metà della bibita.
«Che intendi?»
Il ragazzo accavallò le gambe, improvvisamente cupo. «Intendo dire…che i folli sono quelli che si divertono di più. Niente limiti, niente divieti, nessuna porta sbarrata.»
Quella frase la fece sussultare. Qualche campanello d’allarme interiore era stato attivato. La sensazione di déjà-vu la offuscò, impedendole di concentrarsi su altro se non sulle ultime tre parole.
Nessuna porta sbarrata.
Ethan si stiracchiò appena, allontanando la coppetta di snack. Indicò il sandwich con un cenno del mento.
«E quello? Non lo mangi?»
Daphne scansò il piattino con un’innocente scrollata di spalle. Se lo teneva per dopo. Alzatasi in piedi, gli annunciò che andava un attimo alla toilette. Lo stomaco improvvisò un triplo salto mortale, stavolta non per la fame: con quella luce abbronzata, i capelli di Ethan sembravano seta pura. Sperò che il profumo di pulito che portava con sé, le restasse impresso, indosso o a mente.
«D’accordo,» disse lui con un occhiolino, «ma sbrigati o me lo finisco io.»
Sarebbe morta, se lo sentiva.
Il tempo di circumnavigare il bancone e…
Melanie. Di nuovo. Stava uscendo dal bagno delle donne, quasi irriconoscibile nel completo scuro. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui l’aveva vista portare un capo così elegante.
Trafitta. Una pugnalata al cuore.
Impossibile non incrociarne lo sguardo, mentre decideva nel panico come comportarsi: ignorarla? Salutarla?
Talmente immersa in simili riflessioni, non avvertì lo scoppio secco alle proprie spalle fino a quando schegge di vetro non le sfiorarono la pelle.
Qualcuno urlò, distante, mentre Daphne cadeva a terra, dietro al bancone, senza opporre resistenza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 6. ***


Capitolo 6.

Sunday Afternoon






 
«Well, hold me against the floor
Find something to bind my hands
'cause I don't know where I have been

And I don't know what I have seen
But the puzzle is carved into me
And I know that I miss you
But I don't even know your name.»

 
4:20 p.m. – Casa Woods
 




 «Cosa significa che anche tu lasci?»
James strabuzzò gli occhi dall’alto della pediera su cui si era appollaiato.
Non poteva credere che le disgrazie venissero tutte in un colpo solo.
«Non ho molta scelta», replicò Jason in uno sbuffo.
Sua madre era stata ben chiara al riguardo: niente band finché non miglioravano i voti. L’anno scorso aveva rischiato la bocciatura e, secondo lei, la colpa andava imputata all’infinità di tempo che buttava sui videogiochi e a strimpellare note insensate.
Logan lo osservava con aria grave: «Hai provato a farla ragionare?»
«Tutto inutile, amico.»
Travor, intento a giocherellare con un vecchio trenino elettrico, scuoteva appena la testa. «Non sei mai stato una cima a scuola, Jas. La band non c’entra nulla con questo.»
Si meritò un’occhiataccia dal diretto interessato. «Sempre di conforto, Travor.»
Mentre gli altri sembravano rassegnarsi alla notizia, James scattò in piedi e prese a gironzolare per la stanza.
No, non la riusciva proprio a mandare giù quella storia. Il terzo abbandono della stagione: prima Gale, poi Travor, adesso Jason.  I Wild Spirits of the Seventh Splendor si stavano lentamente disgregando. Forse, nemmeno così lentamente.
Si bloccò al centro della camera, con una piroetta si rivolse all’amico, puntandogli un dito contro.
«Tu non lasci», decretò. «Ci penso io a farle cambiare idea.»
«E come?»
Un’occhiata scivolò lungo le pareti tappezzate da fotografie fino alla poltrona su cui si era isolata Daphne.
«Daphne cara, tu sarai la nostra carta vincente.»
Tutti in attesa di una risposta, di qualunque cenno di assenso, pendevano dalle sue labbra.
La ragazza, però, non pareva affatto connessa. Sintonizzata su un’altra stazione, su di un canale tutto suo, Daphne si era persa in qualche antro del proprio cervello; la fronte schiacciata contro il vetro della finestra, fingeva da ore di osservare il paesaggio, tradita dalle iridi spente.
«Daphne? Daph?»
Logan le schioccò due dita davanti al viso, strappandole un sussulto.
«Sei tra noi?»
L’altra annuì, spaesata e frastornata, come chi riemerge da un tunnel infinito.
 «Sei sicura?»
Jason la scrutava con preoccupazione. «Ti sei… disconnessa da più di un’ora ormai.»
Sconnessa. Così si sentiva in quel momento. Distante anni luce da tutto ciò che avveniva attorno a lei, a pochi metri di distanza, nella camera di Logan che non visitava da secoli; una bussola priva di magneti.
Percepiva al piano di sotto qualcuno che parlava al telefono in modo concitato e altre voci che si accalcavano le une sulle altre, contorcendosi in discussioni di poco conto.  
Vetri.
Schegge sparse ovunque che le precipitavano intorno. Lei solo un uccellino in gabbia, sotto una campana di vetro che esplodeva davanti al suo sguardo perplesso.
Il cielo crollava sopra.
Ricordava che inizialmente non aveva avvertito nulla.
C’era il corpo di qualcuno premuto contro il suo, l’intenso odore di ibisco che si diffondeva dalla giacca. Non riusciva a concentrarsi su altro. Destabilizzata, aveva abbassato le palpebre, strizzando forte gli occhi, i pugni serrati e le urla lontane che si disperdevano fin nella hall.
Iniziava a farle male il collo, compressa per più di un’ora in quella posizione scomodissima. Le membra, ormai narcotizzate, non le restituivano stimoli di alcun tipo.
«Sì,» una schiarita di voce, «certo che ci sono. Cosa dicevate?»
«Piano emergenziale per la band», ricapitolò Logan. «James ha pensato a te come nostra salvezza… davvero, Jay?»
Il biondo annuì, compiaciuto. «Dobbiamo risollevare la media di Jason. Per la band, ovviamente.»
Daphne parve rifletterci su per qualche istante, prima di bocciare qualunque proposta: «Io opterei per delle audizioni».
«Cosa?!»
Logan scuoteva il capo con risentimento, mentre Jason – genuinamente ferito dal possibile rimpiazzo – la osservava sbigottito. Si lanciarono in una cascata di proteste, sostenendo che la band non poteva essere smembrata e che esisteva un codice d’onore; non avrebbero abbandonato il loro amico alla deriva.
«Non mi pare che per Gale vi siate fatti tanti scrupoli.»
«Quella era un’altra storia, Daphne», ribatté Logan punto nel vivo. «Gale si era praticamente volatilizzato. Lasciare il gruppo è stato l’ultimo dei problemi.»
Lei preferì non replicare, richiudendosi in un ovale di silenzio.
Fu James a intervenire con un’aria del tutto nuova ad animargli lo sguardo.
«Sapete che però non è una cattiva idea?»
Gli altri due lo fulminarono sul posto. Trovare dei sostituti per Travor e Jason rimaneva un’onta.
«No, ma… momentanei», proseguì il giovane, «fino a quando non avremo risolto l’altra questione.»
Un’immagine gli aveva attraversato la mente in un lampo, mentre Daphne avanzava la proposta. Si trattava più di un’idea bizzarra, irrealizzabile, che dall’estate continuava a percorrere i binari del suo cervello, finendo inevitabilmente ad un punto morto. Non la voleva archiviare, però. No, perché rappresentava la possibilità di trasformare un semplice progetto, nato per divertimento, in qualcosa di più grande e gli si stringevano cuore, esofago e arterie al pensiero di gettare la spugna senza neppure un tentativo.
«A scuola stanno reclutando musicisti per la festa di Halloween.»
«E questo cosa c’entra, Jay?»
James agguantò un vecchio bloc-notes dalla scrivania, sventolandolo davanti al proprietario.
«C’entra eccome, caro Logan. Potremmo candidarci, se solo avessimo una band.»
«Per suonare davanti all’intero istituto?»
Travor lo guardava come se avesse appena proposto di tuffarsi in un cratere ricolmo di magma incandescente. «Dai, amico, lo sai che facciamo pena.»
«Non è vero!», protestò l’altro. «Facciamo pena adesso, ma abbiamo un intero mese per esercitarci.»
Jason si alzò dal pavimento, ripulendosi i pantaloni della tuta. Adorava la domenica proprio perché era l’unico giorno della settimana in cui gli era concesso vestirsi liberamente, senza badare al look che i suoi coetanei dell’Arcadian sorvegliavano. «La trovo una cazzata, Jay.»
«Tanto tu stai mollando, no?»
Era stata Daphne ad intervenire, meno pacata e comprensiva del solito. Nelle iridi castane pareva obliata ogni forma di condiscendenza, sostituita da un sentimento più fosco.
«Che t’importa? Lascia che tentino. Si tratta di un paio di audizioni, nulla di più.»
«Avreste appena un mese per reclutare perfetti sconosciuti, creare armonia e preparare dei pezzi soddisfacenti», osservò Travor con scetticismo. «Non siamo riusciti a farlo noi in tre anni.»
James puntava tutto su Logan, che ancora non si era espresso. Certo, significava lavorare il doppio – anzi il quadruplo – perseguire un obiettivo fisso, ammettere un eventuale fallimento, ma sarebbe stata la prima volta in cui impegnarsi davvero in qualche cosa, qualcosa che ne valesse la pena.
Logan incrociò il suo sguardo, il viso imperturbabile. Poi annuì, facendo tintinnare il ciondolo attorno al collo. «Sì, va bene. Ci sto.»
L’altro lo raggiunse sul materasso con un salto quasi acrobatico, per poi passargli un braccio attorno alle spalle e stringerlo a sé. E così, erano sempre loro due contro il mondo.
«Non avete nemmeno un posto in cui provare», disse Jason.
Ma James era già partito per la tangente e riversava idee su idee addosso al suo migliore amico, che intanto strappava un foglio dal bloc-notes, cercando inutilmente di stargli dietro.
«Allora, ci serviranno dei volantini, dei foglietti, qualunque cosa per sponsorizzare le audizioni. Dobbiamo attaccarle su ogni bacheca che troviamo, dentro e fuori l’Arcadian. Poi, abbiamo bisogno di un posto in cui tenerle, queste audizioni, e… di biscotti.»
La penna rimase ferma a mezz’aria, mentre Logan lo scrutava con la fronte aggrottata. «Biscotti?»
«Sì, da offrire alla gente che si presenterà! I candidati, insomma.»
Gli assestò una gomitata decisa, incitandolo a continuare a scrivere.
Daphne si massaggiò le tempie, stiracchiandosi appena sulla poltroncina. Concentrarsi su altro le avrebbe impedito di ricordare la nottata trascorsa, tenendo fuori quei – schegge di vetro tutt’intorno, stoviglie in frantumi, una pioggia d’argento sul suo capo, la giacca di Melanie – pensieri intrusivi.  
Interruppe l’elenco disordinato di James e gli scarabocchi confusi di Logan.
«Ragazzi, le uniche cose che vi occorrono sono: un batterista, un bassista e un tastierista. Al resto penseremo dopo.»
James prese a saltellare sul letto; un calderone scoppiettante che si caricava con l’entusiasmo e l’energia degli altri. Aveva bisogno di sentirsi supportato, viveva per quello.
Un paio di timidi colpi alla porta interruppero le sue acrobazie.
Il viso gentile della signora Woods fece capolino da dietro l’uscio, fulminato all’istante da un’occhiata di Logan. Detestava essere disturbato nella sua camera, nel luogo che da sempre considerava un personale fortino.
«Cosa c’è, ma’?»
«Scusate l’interruzione,» un sorriso compiaciuto, «vi rubo solo un minutino. Ho promesso ai colleghi di mio marito una torta alle ciliegie, così oggi ho voluto farne una di prova. Qualcuno si offre come cavia per assaggiarla?»
Con un salto perfetto James abbandonò il letto, atterrando in piedi di fronte alla padrona di casa. «Signora,» dichiarò in un serissimo tono da cadetto, «aveva già tutta la mia attenzione a “ torta”.»
Lui e Travor si precipitarono giù per le scale come segugi da caccia. Jason li raggiunse insieme alla signora Woods qualche secondo più tardi, preoccupato di doversi accontentare solo delle briciole.
Era incredibile, pensò Daphne, il modo in quei tre riuscivano ad illuminare qualunque ambiente in cui sostassero per più di dieci minuti. Si trattava di un vortice, un uragano di vivacità, composto da mille ali svolazzanti di farfalle: da quando aveva conosciuto lo strampalato trio, un pizzico di invidia si era impossessato di lei. Lei che non riusciva a costruire niente di solido, nessuna certezza, nessun rapporto a lungo termine.
Tutto ciò a cui si attaccava con disperazione era il bagliore di Alyssa, senza nemmeno crederci fino in fondo.
Provava ribrezzo per se stessa, per l’incapacità di trasmettere luce o anche solo di crearne di propria. Rimaneva una specie di vampiro; un pallido vampiro che si nutriva delle vite altrui.
Nemmeno si accorse dello sguardo penetrante di Logan, fermo sula sua figura da due minuti ormai.
Lo incrociò casualmente, sentendo uno strappo al petto nel momento in cui le loro iridi si trovarono. Giunse una domanda che non le aveva mai posto in tutti quegli anni.
«A che pensi?»
“Ai campi magnetici. A come non so crearli, ma solo sfruttarli.”
Daphne scrollò le spalle, evitando il confronto diretto.
«Nulla di specifico. Sono solo stanca.»
«Tua madre è ancora di sotto», rimarcò lui.
L’altra annuì piano, consapevole di quanto fosse inutile sottolinearlo.
Dell’irruzione a casa Woods, del cortocircuito di telefonate, dell’apprensione con cui sua madre contagiava chiunque capitasse a tiro, preferiva non parlare. La situazione appariva talmente assurda da destabilizzarla. Almeno le aveva dato la possibilità di rintanarsi lì, nella stanza di Logan, senza dover assistere al teatrino degli orrori che si stava svolgendo al pianoterra.
Notò che l’amico faceva per avvicinarsi, magari accovacciarsi a terra, ma glielo impedì. Schizzata in piedi a propria volta, lo superò in un paio di falcate.
«Dai, raggiungiamo gli altri.»

*  *  *
 
 
 
La camera appariva più buia del solito.
Valeva a poco o a nulla l’unica lampada accesa, sulla scrivania, con una campana d’orzo bruciato intorno.
Ethan si lasciò scivolare sul pavimento, sul tappeto persiano che avevano comprato secoli fa, durante un viaggio in India. Quel tappeto era entrato in casa anni prima della sua nascita e rimaneva più padrone del luogo di quanto lui sarebbe mai potuto essere. Diritto di primogenitura o qualcosa di simile.
Tapparelle abbassate, porta chiusa, si concesse di abbassare anche le palpebre, per un istante o due. 
La superficie del persiano era terribilmente scomoda. A differenza degli altri normali tappeti, quello era l’unico con dei villi ispidi che raschiavano guance, mani, polsi, caviglie, ogni centimetro di pelle scoperta.
Non gli piaceva proprio. In netto contrasto con l’arredamento spoglio, con il poster di Che Guevara - che lo scrutava con rimprovero dalla parete di fronte – e con quelli incorniciati dei The Clash; in netto contrasto con l’intera sfera di valori che si proponeva di mantenere intatta, quel tappeto arabescato aderiva al resto della stanza come un occhio nero, tumefatto al centro di un viso candido.
Lo disturbava terribilmente un pensiero simile.
Il suono della televisione, dalla cucina, fu l’interferenza finale.
Lo scroscio di applausi e risate in un quiz a premi di pessima qualità teneva incollata Yvonne, la cui risata risaliva il corridoio fino a lì. L’accendeva sempre, quando aveva finito di preparare la cena.
Alla sua compagnia Ethan si era ormai abituato. Non lo infastidivano più le dita grassocce, i modi sbrigativi con cui accumulava oggetti sparsi per rimuoverli da un tavolino, creando un’accozzaglia indistricabile di cianfrusaglie.
Non si poteva dire lo stesso di sua madre: non c’era stato verso di farle andar giù l’intera storia del trasferimento in casa loro.
Troppo buona, Yvonne, a tollerarla nei momenti in cui si imbizzarriva e s’impuntava su questioni di poco conto, come il ritrovamento delle chiavi di casa – assurdo davvero – in un luogo diverso dal solito.
Spostava le cose, e allora? Spostava anche suo padre, se era per quello, mentre Mrs Sallinger si voltava da un’altra parte e faceva finta di niente.
Ethan accostò l’uscio, evitando di fare rumore.
Quella sera, però, era toccato a lui sollevarlo, il padre; aveva dovuto prenderlo di peso, con entrambe le braccia, rischiando di farsi spuntare qualche ernia precoce alla schiena. Non era mai stato un tipo forzuto, lui.
Per la prima volta aveva apprezzato il fisico nerboruto di Yvonne e la dedizione che metteva nella fatica, nel dolore, pensando che si doveva nascere così devoti al prossimo, con una sorta di particolare empatia, per svolgere un simile lavoro.
O quello oppure le ristrettezze economiche; ma a lui piaceva credere nell’idea di un’umanità solidale.
Si avvicinò alla scrivania, sfogliando in modo svogliato il libro scolastico, per poi aprire un cofanetto che teneva su una delle mensole più alte, a cui nemmeno sua madre arrivava senza tacchi o in punta di piedi.
In mezzo a qualche regalo d’infanzia miniaturizzato, trovò la bustina che cercava, quasi del tutto vuota ormai.
Si rollò l’ennesima della settimana, la prima ed unica della giornata. Aveva preso a fumare più spesso, negli ultimi mesi, un po’ su consiglio di alcuni vecchi amici – o piuttosto conoscenti – e un po’ perché gli avevano concesso uno sconto sul recente acquisto.
Di nuovo supino sul pavimento, Ethan si concesse una boccata profonda, lasciando che il sapore acidulo dell’erba gli riempisse le guance, penetrando fin negli alveoli. Riaprì gli occhi solo per espirare, per osservare il fumo che si rivoltava nell’aria in spirali come un cavatappi.
Accese lo stereo poco distante e l’ultimo disco che vi aveva abbandonato riprese a suonare.
Il volume doveva tenerlo basso, ma a lui bastava un accompagnamento lieve ai propri pensieri, forse per foderarli, forse per anestetizzarli; la voce di John Lennon prese ad accarezzarlo soavemente.
Un momento di completo relax, alla fine di quella giornata allucinante, se l’era meritato.
Avrebbe dovuto ricordarsi di aprire la finestra e far arieggiare dopo, ma il tempo non gli mancava: sua madre era andata a ballare quella sera, non sarebbe tornata prima delle tre di notte.
Yvonne lo sapeva che fumava di nascosto. Forse era anche per quello che tra loro si era venuta a creare una reciproca tolleranza, un telo di condiscendenza: a lei i suoi drink occasionali davanti alla tv, a lui una canna ogni tanto in camera propria.
Si voltò su di un fianco, per raccattare l’ultimo libro che aveva preso in prestito dalla libreria scolastica. A dire il vero, quella doveva essere la terza o quarta volta che rileggeva Madame Bovary, ma al di là del fascino che esercitava su di lui, doveva consegnare il saggio entro lunedì ed era rimasto terribilmente indietro sulla tabella di marcia.
Stringendo il filtro fra i denti, Ethan recuperò dal letto anche quaderno e matita, per poi sistemarsi meglio sul tappeto. Aprì il libro a pagina trentadue, ma qualcosa gli atterrò sul petto come un missile.
Un semplice pezzetto di carta. Lo dispiegò perplesso, leggendo le brevi righe impresse sopra.
E tu? Perché non hai il coraggio di aprirla?
Riconobbe la propria calligrafia, ma il ricordo della citazione che vi aveva impresso lo colpì soltanto in un secondo momento, lasciandolo senza fiato. L’aveva del tutto rimosso.
Si sentì uno sciocco per aver scritto frasi insensate, per aver trascritto una citazione che risuonava fin troppo in basso nella propria gabbia toracica per poter essere condivisa. Non pensava che qualcuno l’avrebbe mai trovato o preso sul serio.
E invece, appena qualche rigo sotto, c’era una risposta.
Mi assicuro che qualcuno la tenga ben chiusa. Auto-sabotaggio.
La tua è aperta?

Ad Ethan si incresparono le labbra, un sorriso sgretolato. Gli restava difficile definire come si sentiva in quel momento; non era sorpresa a corrucciargli la fronte, ma curiosità.
Per qualche secondo rimase del tutto immobile, la matita a picchiettare sul foglio bianco, ma poi, dato un ultimo tiro allo spinello, si tirò a sedere, meditando su una possibile replica.
La porta in fondo al corridoio. Un corridoio buio, un futuro tetro.
Ci aveva riflettuto più volte, su quella banalissima citazione, chiedendolo più a se stesso che ad un ipotetico interlocutore, se avesse il coraggio di aprirla. Ogni volta che la rileggeva, gli pareva ripetesse sempre lo stesso concetto.
Infine, prese a scrivere. Sarebbe finito nel vuoto, nel nulla, quel messaggio; già pareva incredibile che fosse riuscito a raggiungere qualcuno per poi tornare direttamente a lui. Non avrebbe vissuto un secondo giro di danze, tanto valeva essere onesti.
Credo che lasciarla chiusa sia inevitabile.
Flaubert, secondo me, non parlava davvero di un corridoio, ma di una specie di tunnel. Il futuro è come un tunnel: oscuro, freddo, senza luce in fondo; lo prosegui dritto per dritto, ma una volta che arrivi in fondo quel che trovi è solo una porta sbarrata, che concede poco spazio all’illusione di scovare un’uscita.
La mia porta sul futuro è chiusa, ma in fondo è meglio così. Consiglio sempre agli altri di tenerla aperta, di non precludersi la libertà di vivere, ma il mio caso è diverso. È come se ci fosse qualcosa ad ostruirla, qualcosa di più forte a riassorbire ogni luce, ogni fessura d’aria.
La cosa davvero divertente, però, è che appare ineluttabile: lo devi percorrere, quel tunnel; lo devi per forza attraversare, il futuro. Perché l’alternativa è comunque il buio e allora tanto vale allungare la strada.
Però, caro Anonimo, ti confido che preferirei non avere la certezza di trovarlo così oscuro.
Abbandonò la matita a terra e, riposto il biglietto nel libro, andò a sollevare le persiane e a spalancare le finestre. Le tende profumate, sollevate da un vento notturno, gli avvolsero il corpo, schiacciandogli il viso.
Ethan chiuse gli occhi di nuovo, affidandosi a quello strano abbraccio.
Non avrebbe capito. Ammesso che potesse ricevere il messaggio criptato, non avrebbe capito, l’Anonimo, di che cosa diamine stava parlando. Si rendeva conto da solo che era un ammasso di frasi insignificanti, di riflessioni che lasciavano il tempo che trovavano, eppure quel pensiero non lo consolava.
L’idea che giungessero a qualcuno, le sue parole , gli regalava l’illusione di essere meno solo.
E forse, in fondo, nemmeno voleva essere capito, perché come avrebbe potuto spiegare – con quali vere parole, con quali espressioni pregne di significato – quello che aveva provato quel pomeriggio?
Gli lacerava il cuore, gli faceva stridere le budella, svuotava i sacchi lacrimali l’immagine che martellava dietro le palpebre.
Di suo padre, suo padre, riverso sul pavimento.
Lì, proprio lì l’aveva trovato. Sul pavimento dell’ingresso, il viso affondato nelle mani a coppa, squassato dai singulti. Suo padre che lo sollevava dalle ascelle o per la vita, suo padre che lo faceva roteare in aria come fosse stato lui il padrone del cielo; suo padre che lo teneva saldamente con un solo braccio, indicandogli un punto in fondo all’orizzonte, sopra il mare.
Suo padre che non tratteneva le lacrime, umiliato e debole come un verme.
Si era pisciato addosso.
Non trovava il bagno, imboccava stanze come in un labirinto – vi entrava e ne usciva in un secondo, disperato, anche se la loro casa si stendeva tutta su di un piano e contava al massimo cinque locali.
Era successo altre volte, un’infinità di volte a dire il vero, che scambiasse un luogo per un altro e ribaltasse la pianta dell’abitazione, fermo davanti al frigorifero convinto che fosse l’armadio e viceversa.
Sollevarlo era stata un’impresa, perché nemmeno ricordava come ci si alzasse.
Lui ci aveva provato, ma senza collaborazione diveniva impossibile.
«Coraggio, coraggio pa’,» gli aveva ripetuto trascinandolo sul pavimento come uno straccio, «un piccolo sforzo. Arriviamo al tavolo, d’accordo? Almeno alla sedia.»
Inutile. Tutto inutile.
E lì per lì, concentrato com’era su quella meccanica essenziale – puntare un piede, fare forza su una gamba, piegare l’altra – a malapena aveva registrato l’idea che avrebbe dovuto cambiarlo.
Fortunatamente Yvonne era rincasata in quel momento e ci aveva pensato lei ad accudirlo, mentre Ethan rimaneva a guardare apatico.
Si era sentito un verme. Chissà quanti pannolini gli aveva sostituito il padre, nel corso degli anni, e adesso lui non raccoglieva una briciola di coraggio per pulirlo.
Si faceva schifo.
Per lui, il futuro aveva la forma di una porta bianca, in legno, che si chiudeva su una stanza illuminata da cui uscivano cinque parole in una voce preoccupata, tinta d’imbarazzo: «Yvonne, chi è quel ragazzo?»
 
 

*   *   *
 



La partita terminò con un inaspettato pareggio.
Il fischio dell’arbitro decretò anche la fine degli allenamenti. La coach Britts, però, sembrava aver ancora qualcosa da aggiungere.
Si accostò loro a braccia incrociate.
«Siete troppo spompate oggi, ragazze. Cosa vi è successo?»
Ronnie fece un passo avanti, un sorriso malevolo sulle labbra. «Sarà l’assenza di Cindy, coach.»
All’unisono rapide occhiate furono scoccate a convergere sulla maglia numero sette.
«L’importante è che stia bene. Si unirà di nuovo a noi non appena le sarà possibile», decretò l’istruttrice. «Per oggi è tutto, ma voglio che cambiate questa attitudine. Chiaro? Meno mogie, più grinta, che ci servirà.»
Prese a battere le mani, l’abituale gesto per indirizzarle agli spogliatoi.
Melanie raccolse la borraccia d’acqua, asciugandosi il sudore dal viso.
Preferì indugiare in campo, fingendosi indaffarata a raccogliere i propri effetti. Il confronto con le sue compagne, nello spogliatoio, era proprio ciò che desiderava evitare quel giorno.
Da quando aveva messo piede all’Arcadian quella mattina, si era meritata una carrellata di sguardi di rimprovero, qualcuno perfino minaccioso. Non che la intimorissero, ma sentiva che erano legati all’incidente di sabato sera e non voleva ripensare alla festa di Cindy.
Avevano archiviato la questione con leggerezza: qualche teppista aveva scavalcato la sicurezza e si era divertito a scaricare la pistola sui presenti. La polizia si stava già occupando del caso, le telecamere avevano registrato tutto. Cosa c’entrava lei con tutto questo? O con il fatto che Cindy Butler fosse rimasta a casa, traumatizzata dagli avvenimenti quanto i genitori?
Che se la cavassero per conto loro.
La coach si era ritirata nel proprio studio, chiudendo un occhio sulla sua presenza prolungata in campo.
Avrebbe atteso che fossero uscite tutte per entrare. Odiava quelle limitazioni, il fatto che un mucchietto di ragazzine di sedici anni potesse condizionarla in quel modo, ma non aveva proprio voglia di litigare stavolta.
Nessuno le avrebbe scampato una sospensione, se si fosse azzuffata di nuovo.
«Melanie?»
Sollevò il capo, ancora accucciata a terra.
Nessuno la chiamava più per nome, tra i suoi coetanei. Se avveniva, era una rarità assoluta.
Riconobbe la figura slanciata di Alexandra Foster davanti a sé. Da quella posizione, appariva ancora più alta.
«Sì?»
«Credo che questa sia tua.»
Le stava tendendo una fascia per capelli di un blu elettrico.
Melanie si mise in piedi, annullando l’irrazionale senso di soggezione che provava.
«Non ci posso credere! L’avevo data per dispersa ormai. È da più di una settimana che la cerco.»
Se la rigirò fra le dita; il tessuto liscio scivolava piacevolmente sui polpastrelli. Ci teneva molto, a quella fascia. Non l’avrebbe mai ammesso davanti a degli estranei, ma era un regalo del fratello e capitava di rado di riceverne. Gliel’aveva comprata proprio in vista degli allenamenti, suscitando nella zia Lydia una crisi di coscienza: cosa sarebbe stato peggio? Vedere sua nipote con quell’orribile coso antiestetico spiaccicato sulla fronte oppure pensarla con i capelli fradici di sudore?
«Dovresti tagliarli», aveva decretato, come se la decisione spettasse a lei.
Melanie guardò la propria compagna con ammirazione. «Dove l’hai trovata?»
«Era nell’ufficio della coach, dietro un armadio. L’abbiamo scoperta per caso, a dire il vero.»
Senza accorgersene, si ritrovò ipnotizzata dalla voce cristallina di Alexandra. C’era qualcosa, in quella ragazza, che suscitava l’invidia di qualunque coetanea, ma definire con esattezza un motivo sarebbe stato impossibile. Si aveva l’imbarazzo della scelta: media altissima, portamento aggraziato, fisico asciutto, capitano della squadra di pallavolo femminile, pacata e sempre composta. E nonostante tutto, risultava anche popolare con i suoi modi di fare spontanei e aperti al mondo. Le restava impossibile immaginare sentimenti negativi depositarsi sul viso buono, gentile, di Alexandra Foster.
Così, le credette al volo.
«Beh, grazie.»
«La porti sempre, durante gli allenamenti», spiegò l’altra. Si sentiva come in dovere di proseguire la conversazione, ma Melanie non necessitava di altre delucidazioni.
«Ci tengo molto», tagliò corto.
Datele le spalle, ritornò al proprio minuzioso lavoro di raccolta di oggetti inesistenti. Alexandra, però, non dava segno di volersi allontanare. Piantata dietro di lei, le mani conserte e la chioma d’ebano raccolta in una coda, poteva percepirne lo sguardo indagatore sulla schiena.
Non poteva continuare quella pantomima. D’accordo, avrebbe affrontato gli spogliatoi.
Prima, però, che potesse allontanarsi, una notazione la pietrificò sul posto.
«Ho saputo della festa di Cindy Butler.»
Bingo.
Pareva destinata a sostenerla, quella dannata conversazione.
Senza il coraggio di fronteggiarla direttamente, Mel si mordicchiò un labbro. «Ah sì?»
«Ne parlano tutti a scuola», proseguì Alexandra con tono enigmatico. «Ma girano anche molte sciocchezze.»
Per quanto le doti di discernimento della compagna la rallegrassero, a Melanie non importava niente delle voci che circolavano. Sperò di liquidare la faccenda in fretta. «Una sparatoria fa notizia.»
«Già, ma vuoi sapere cosa penso?»
In realtà non lo voleva sapere, ma sentiva che si trattava di una domanda retorica.
Come previsto, Alexandra proseguì sul proprio binario.
«Penso che ci vuole coraggio, a fare quello che hai fatto.»
Silenzio.
Nella palestra solo il ronzio della corrente elettrica, di un paio di lampadine giunte ai minimi termini, e più distante il fruscio di docce e conversazioni tra ragazze.
Melanie sentì dilatarsi il cuore, ma contrarsi i polmoni.
Cercava un accenno, uno sputo, di ironia o rimprovero nel tono di voce, ma non lo trovò.
Era sincera?
Alexandra parve cogliere quel senso di diffidenza e lo ammorbidì, manovrandolo con delicatezza.
Provava, in punta di piedi, a scrutare il viso della compagna di squadra, di indovinare cosa le stesse passando per la testa in quel momento, ma Melanie era eclissata.
«Non è da tutti, mettere a repentaglio la propria vita in quel modo. Ti ammiro. Io non sarei stata capace.»
“Ti ammiro”.
Funzionò come un cacciavite, sbloccando qualche ingranaggio contorto. Melanie si voltò verso di lei.
«Dovevo farlo», replicò semplicemente.
«Ti sei lanciata senza esitazione, hai rischiato di prenderti un proiettile in pieno petto», Alexandra era concitata adesso, agitata al solo pensiero. «Credimi, non è da tutti,» ripeté scandendo le parole, «sfidare la morte per una persona qualunque.»
Melanie la guardò con le labbra serrate.
Era bastato un attimo. Un attimo, nell’uscire dalla toilette, per notare un uomo armato che puntava la pistola nella loro direzione; un attimo per agire e spingere Daphne dietro al bancone mentre il colpo partiva e fendeva l’aria, sfrecciava sulla specchiera, frantumava il cristallo che trovava in un fragore stridulo.
Ricordava solo di aver pensato che sembrava un fiore. Tutti quei vetri dispiegati sopra di loro come la corolla di un fiore, di una ninfea che sbocciava. Che ci potesse essere così tanta grazia nella distruzione, non l’avrebbe mai immaginato.
Una smorfia amara le piegò le labbra, mentre scuoteva il capo.
«Beh, non era esattamente “una persona qualunque”.»
Alex sollevò un sopracciglio. «Ah no? Vi conoscevate?»
«Sì…», riusciva appena a strascicare le parole. «Diciamo che… ci conoscevamo.»
«Comunque ti fa davvero molto onore, un gesto simile.»
«Grazie. Sei la prima a dirmelo.»
“E probabilmente anche l’unica”, pensò con una tinta più aspra, ma preferì tenerselo per sé.


 
*   *   *
 
 
 
«Non ci posso credere. Lo state facendo per davvero.»
Travor era rimasto sbalordito davanti alla bacheca, davanti l’aula di fisica, ricoperta di volantini gialli.
Jason, accanto a lui, ne staccò uno con disgusto. «Ma poi… cos’è questa roba? Giallo canarino? E dai, sul serio?»
Li avevano fatti stampare la sera prima in una copisteria del quartiere e sparsi per l’istituto da quella mattina.
«Hey, non criticare l’estetica», protestò James, riafferrando il volantino. «Saltano all’occhio.»
Logan si accostò loro estraendo un’altra pila di locandine e puntine da disegno. «Otterremo un successone.»
Travor mugugnò qualcosa come “contenti voi”.
La comparsa del professore di Fisica catturò l’attenzione di tutti, facendo scivolare il discorso sulla gita imminente.
«Si è fissato con questa stronzata», spiegò James. «Vallo a capire.»
«Lui e uno di biologia si sono messi d’accordo», disse Logan. «Vogliono fare quest’escursione, non ho capito nemmeno bene dove.»
La gita in questione, prevista per quella stessa settimana, avrebbe dovuto ampliare gli orizzonti degli studenti – a detta del Professor Jeggins – e permettere loro di riconnettersi con il mondo vegetale e il paesaggio.
Una riserva naturale, situata ad un paio di ore di pullman da Norwall, immersa nel verde: il luogo perfetto per annoiare una scolaresca sulle caratteristiche geomorfologiche del territorio.
Jason domandò cosa c’entrasse la Fisica con altre scienze coinvolte più direttamente.
«Jeggins ha detto che è un progetto multilaterale», rispose James con uno sbuffo.
«Multidisciplinare», lo corresse Logan. «Amico, credevo nemmeno conoscessi il significato di “multilaterale”.»
«Anch’io», confermò l’altro in una scrollata di spalle.
Daphne li raggiunse alcuni minuti più tardi, trovandoli intenti a tappezzare i corridoi di plastica gialla.
«Di nuovo all’opera, eh?»
James fece battere i tacchi delle scarpe, portandosi una mano alla tempia: «Sempre, Generale Barnett.»
«Ne ho distribuiti un paio anch’io, a lezione.»
Logan si scambiò un’occhiata complice con gli altri due: «A chi? Ad Alyssa?»
«Se lo sapesse, la tua reputazione sarebbe morta. Caput.»
L’altra gli restituì una smorfia e con essa i manifesti restanti, prima di assestargli una gomitata allo stomaco.
«Vieni anche tu in gita?», le domandò James.
«Se intendi quella alla Turtle Rill Reserve, sì. Ci sarò purtroppo.»
Travor, appoggiato ad un armadietto, ridacchiò ironico. «L’unica riserva sulle tartarughe che non presenta gli omonimi esemplari.»
Alle occhiate inquisitorie di tutti, rispose con un semplice: «Mi ci hanno portato da bambino.»
«Eviterei volentieri le ore di pullman e la levataccia», sospirò Daphne.
«Sempre così pigra», la rimbrottò Logan e, strappata una delle tante locandine per attività formative pomeridiane, la rifilò all’amica quasi fosse stata una cura miracolosa. «Dovresti provare questo.»
Daphne la spianò con estrema pazienza. Su uno sfondo carminio spiccava un logo fin troppo ambizioso, costellato da un paio di maschere e delle stelle cadenti. Un proiettore illuminava una fetta di palcoscenico dal quale un giovane di esile costituzione si atteggiava in una posa plateale davanti ad una fila di poltrone oscurate.
“Divertiti per divertire, commuovi per commuovere! Un atto di puro piacere, in cui scegli tu che parte avere. Vieni nell’Aula Rossa per una prova senza impegno.”
Sollevò lo sguardo basita, un’espressione di puro disgusto.
«Il club di teatro?»
«Perché no? Ti ci vedo a fare Giulietta», ironizzò l’altro.
Daphne l’accartocciò in uno sbuffo, facendola scivolare nello zaino.
In quel momento, Logan assestò una gomitata all’amico, accennando con il capo ad una figura in disparte intenta a trafficare con il proprio armadietto. «Hey, Jay, ma non è quella la tua fiamma?»
Jason si mise sull’attenti come un segugio che abbia fiutato una pista e Travor gli diede manforte.
«Come, come, come?»
«La tua fiamma?»
Daphne gli assicurò un lieve pizzicotto al braccio: «Non ci starai nascondendo qualcosa, Jay?»
Il diretto interessato si limitò a fulminare il proprio storico amico con un’occhiata particolarmente truce. Logan sollevò le mani, decidendo di togliersi d’impaccio. «Non guardare me, amico. Sei tu quello cotto.»
Alla fine James fu costretto a cedere.
Sosteneva di aver conosciuto Frances Hurst, la nuova arrivata, l’estate scorsa, durante la permanenza in Florida. Si erano incontrati casualmente ad una serata in spiaggia, lui l’aveva puntata da qualche giorno ormai, ma lei trascorreva i pomeriggi in isolamento a leggere e la sera diventava impossibile separarla dal gruppo di coetanee con cui ballava.
«Jay, non dirmi che questa è quella storia», lo interruppe Jason.
«No, è tutto vero, ragazzi.»
La debole protesta strappò a Travor una risata sarcastica. «Certo, come no. Soprattutto se è quella storia.»
«Quale storia?», s’informò Daphne.
 «La storia di come James ha perso la sua verginità», spiegò Jason ridacchiando. «Ovvero, del suo buco nell’acqua, questa estate.»
James parve risentirsi. Era il primo a scherzare, naturalmente portato alle buffonate, ma quell’argomento era fin troppo serio per poter essere ridicolizzato.
Non ricordava il suo nome, d’accordo; quella notte era totalmente sballato, d’accordo, e la nuova studentessa portava i capelli molto più corti rispetto alla ragazza con cui si era scatenato in pista, ma non aveva dubbi che fossero la stessa persona. In pista erano rimasti per la maggior parte della nottata, almeno fino alle due, e quando lui aveva tirato fuori dell’erba, lei aveva semplicemente fatto un paio di tiri, prima di chiudere le sue labbra tra le proprie: difficile scordare una così. Per non parlare poi, del bagno notturno…
«Intanto non è stata la prima,» si sentì in dovere di puntualizzare, «e poi quale buco nell’acqua? È stata una cosa da niente, una fiamma estiva. Pensavo che non ci saremmo più incontrati, dopo quella volta.»
«Talmente da niente che nemmeno ricordi il suo nome», osservò Logan.
Daphne continuava ad essere perplessa. «Fatemi capire meglio: Jay ha incontrato questa ragazza, storia breve ma intensa, e adesso lei riappare nella nostra scuola?»
«Improbabile, vero?», terminò Travor.
«Certo che è improbabile, perché non è vera!», esclamò Jason.
I due ricominciarono a discutere, senza preoccuparsi di alzare la voce e dare spettacolo nei corridoi.
Fu Daphne a provare a districare la faccenda.
«D’accordo, Jay, ma non ti sembra un po’ strano? Dalla Florida fino a qui?»
«Che c’entra? Era in vacanza. Anch’io ero in vacanza a Miami, eppure vivo qua. Adesso sono proibite le vacanze in un altro Stato? Cos’è questa stronzata?»
A furia di agitare braccia e gambe, una notevole porzione di volantini gli era sfuggita di mano e planata a terra, disseminando piume di canarino sul pavimento.
«Ecco vedi? Questo è il Karma, James. Smettila di raccontare cazzate», lo sfotté Jason.
Mentre i due ragazzi riprendevano a spintonarsi, la sagoma che prima era per metà nascosta dagli armadietti si era avvicinata e adesso, piegatasi a raccogliere il mazzetto di volantini, li porgeva a Logan.
«Vi siete persi questi.»
«Oh… oh, grazie», Logan accettò ancora frastornato. «S-sei.. per caso interessata ad un’audizione?»
Frances Hurst posò le lunghe unghie laccate sul bordo di un annuncio, rigirandolo per leggerne la scritta.
«Cercasi tastierista, batterista e bassista… wow, siete musicisti?»
James si voltò di scatto, quasi traballando e incespicando sulle proprie scarpe. «Noi? Sì! Suoniamo da un po’. Abbiamo una band.»
Un’unica alzata di sopracciglio. Negli occhi grandi di Frances sembrava incastrarsi una sorta di furbizia latente. «Beh, a giudicare dall’annuncio, ancora non ce l’avete. Vi mancano i tre quarti.»
Nessuno dei presenti fu in grado di trovare una replica adatta.
«Comunque,» riprese con serenità, «io a malapena so suonare il triangolo. Mi spiace, ma sono una frana con gli strumenti. Buona fortuna!»
Si era già distanziata di alcuni metri da loro, allontanandosi con una camminata decisa ma rallentata, quando Logan e Daphne spintonarono James, cercando di convincerlo a seguirla.
«Nemmeno tra un millennio una tizia del genere si interesserà a uno come James», decretò Jason.
«James, non starlo a sentire», s’intromise Daphne. «Vai a parlarle!»
Quello parve indugiare qualche istante – improvvisamente immobile in un prosciugamento dell’abituale energia, come se qualcuno gli avesse staccato la spina, tolto la corrente – ma poi si riscosse.
«Che dite? Ci provo?»
Un coro silenzioso e che non ammetteva ulteriori indugi. Logan lo spinse a svoltare l’angolo, chiamandolo “campione”.
«Frances!»
La ragazza si bloccò sul posto, una pila di libri incastonata nell’avambraccio.
C’era qualcosa di particolare – di elfico, pensava James – che circondava quella sconosciuta. Il taglio così corto che le lasciava scoperto il collo esile come lo stelo di una violetta, la carnagione con strane tinte di albicocca e olivastro, e gli strani piercing colorati che le attanagliavano l’orecchio destro che gli ricordavano una stecca di medicinali in pillola.
Lo osservava appena sorpresa, il solito sopracciglio inarcato.
«Senti, so che ti sembrerà un po’… diretto, ma devo sapere. Tu… ti ricordi di me?»
«Certo,» sorrise l’altra, «ci siamo visti prima a lezione di Mr Jeggins. Segui anche tu Fisica, giusto?»
«No, no, no. Intendevo… prima.»
Una lastra di silenzio troppo spessa. Per James fu come slittare lentamente verso la deriva, trasportato da qualche iceberg: gli occhi gelidi di Frannie.
Notò che arricciava il naso, mentre era pensierosa, e quella caratteristica gli avvitò lo stomaco un po’ di più, facendogli realizzare solo adesso quanto fosse nervoso. Lui, lo showman per eccellenza, spaventato da una performance così banale?
Alla fine, Frannie sciolse ogni dubbio. «No, scusami. Non mi ricordo. Dove ci saremmo incontrati?»
Stava bluffando.
Lo capì al volo, perché era assurdo, inaccettabile, che lei avesse rimosso tutto, riverniciato la parete della mente come se non vi fosse rimasto davvero nulla. No, mentiva.
Ridusse la distanza avvicinandosi di un passo.
Sapeva che i suoi amici lo stavano scrutando, da dietro l’angolo, appollaiati accanto agli armadietti come avvoltoi. Aspettavano un risultato e non voleva deluderli.
«Frances,» riprese a bassa voce, nel miglior tono seducente che possedeva, «dai, non c’è motivo di vergognarsi.»
«Vergognarsi? E di che cosa?»
«E dai, di quest’estate… »
Un gesto allusivo, un’ammiccata. «Dai, perché fingere?»
«Ma di che diamine stai parlando?»
«Noi due, questa estate, bagno notturno, completamente nudi… »
Il sopracciglio sinistro si degnò di fare compagnia all’altro, finalmente. Aveva provocato una reazione.
«Credo che mi abbia scambiata per qualcun’altra.»
«Frances,» insistette lui, «siamo nel ventunesimo secolo. Ormai non devi avere paura di certe etichette. Sai quante, tra le ragazze che ho avuto, non si sono fatte scrupoli?»
La giovane allacciò le braccia al petto, stringendo ancora di più i libri a sé.
«Certe etichette
«Ma sì, praticamente… hai capito, dai.»
«No, non ho capito.»
James si guardò intorno, cercando di guadagnare tempo. Notato qualche professore che sfilava per il corridoio, diretto alla mensa, preferì abbassare ulteriormente la voce, piegandosi sull’interlocutrice.
Fu sufficiente un bisbiglio, un sussurro nell’orecchio, per farla scattare.
«Ah, è questo che pensi?»
Un sorriso compiaciuto gli distese le labbra. «Lo pensano tutti, ma non fa più scandalo.»
«Beh, tu e i tuoi “tutti”, potete anche andare a farvi fottere», terminò lei accompagnando il tutto con un elegante gesto della mano. «Retrogradi del cazzo.»
Si allontanò a passo spedito stavolta, lasciandolo impalato nel mezzo del corridoio.
Quando raggiunse il resto della compagnia, si limitò a scrollare le spalle.
Jason non stava più nella pelle.
«Beh, come è andata?»
«Alla grande. Penso che mi adori.»
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7. ***


Capitolo 7.
 
 
Closer
 
 

 
«Oh, I’m scared to see the ending
why are pretending this is nothing?
I’d tell you I miss you but I don’t know how

I’ve never heard silence quite this loud.

(…) And I’m dying to know
is it killing you like it’s killing me?»


 
 
 
10:14 a.m. - Turtle Rill Reserve
 
 
 
 
La Turtle Rill Reserve si mostrava esattamente come l’aveva descritta il professor Jeggins, assieme al suo collega di biologia, nel tragitto in pullman dall’Arcadian fino alla loro destinazione.
Avevano anticipato la storia del luogo, la leggenda sulla liberazione delle tartarughe e la fuga che svuotava di significato il nome della riserva. L’insegnante di biologia aveva definito il posto un tempio scoperchiato, un vero gioiello di Madre Natura, emozionandosi ancor prima di arrivare.
Sembrava fin troppo entusiasta per lasciar credere di non aver preso parte alla manifestazione dell’86, quando un gruppo di ecologisti, provenienti da tutto il Connecticut, si era riunito davanti alla riserva per impedirne la chiusura.
Daphne aveva seguito in dormiveglia, accuratamente nascosta dalla pesante tenda del finestrino, mentre attraversavano le strade semideserte che conducevano a Nord-Ovest dello Stato.
Si era talmente unita al veicolo da non saper distinguere dove finisse la propria pelle e dove iniziasse il vetro. A malapena aveva chiuso occhio, la notte precedente.
Insieme al fratello si era dedicata alle parole crociate, fingendo che il mondo al di fuori della stanza di Isaac non esistesse. Nel loro piccolo castello di carte le lenzuola assorbivano ogni rumore, il calore annullava brividi agghiaccianti, mentre i lemmi del cruciverba erano l’unica preoccupazione ad occupare il cervello, a tenere ancorati gli occhi sulle pagine in bianco e nero; parole che ne scacciavano altre, molto più forti e grondanti rancore, a rincorrersi e sovrapporsi nelle loro menti.
La mattina aveva tagliato quell’illusione a metà.
Rapida, decisa, indolore. La lama che recideva ogni posticipazione.
Volenti o nolenti, oltre la porta chiusa a chiave un mondo c’era e avrebbero dovuto confrontarlo, affrontarlo.
Quando Daphne era entrata in cucina, ricordava vagamente un pensiero che l’aveva attraversata – una coincidenza quasi ironica – proprio nel momento in cui schiacciava sotto al piede i resti del servizio di bicchieri preferito da Emma Barnett: quello scricchiolio, la percezione di collasso, il vuoto abissale all’altezza dello stomaco, li aveva avvertiti anche durante la sparatoria al Galaxy Hotel.
Le faceva strano ritrovarsele lì, emozioni che aveva pensato – e sperato – di non dover rincontrare a breve.
Per la durata della visita, il professor Jeggins li aveva condotti lungo dei sentieri abbastanza impervi, a tratti fagocitati da piante e arbusti, oppure sconnessi per le radici imponenti di alberi storici che si snodavano tutt’intorno. Il cielo, da qualunque punto di osservazione, sembrava scomparso, chiuso dietro la coltre di fronde.
A seguito di richieste pressanti, aveva concesso alla scolaresca un break, raccomandandosi di non allontanarsi troppo e, soprattutto, di non infrangere la quiete del “tempio sacro di Madre Natura”.
«Ci rivediamo al punto di raccolta tra una mezz’oretta», aveva dichiarato con tono grave. «Puntuali, perché il pullman non attende.»
Alyssa si era eclissata con il gruppo di ragazze che aveva viaggiato insieme a loro all’andata. Voleva comprare qualcosa da mangiare al chiosco sul piazzale, fuori dalla riserva.
Anche lei, in realtà, avrebbe voluto aggiungersi alla spedizione, ma l’idea dell’ennesima merendina o di street food la nauseava. E poi, non sarebbe riuscita a mandare giù niente comunque, con quel gruppo di sconosciute attorno, a commentare e scrutare ogni sua mossa.
«Daffie, vieni con noi?»
Logan la stava osservando insieme a Jason, aspettandola per incamminarsi.
Di fronte ad un suo tentennamento, James le avvolse le spalle e la trascinò con sé davanti alla comitiva.
«Certo che viene con noi! Che altro deve fare? Catalogare le erbacce?»
«Conoscendola, ne sarebbe capace», ironizzò l’altro.
Daphne gli lanciò un’occhiata da sopra una spalla: «La recensione te la scrivi da solo, Logan. Ti ho visto con le cuffiette, prima».
Quello si difese con una smorfia da infante, rifacendole il verso. «Mi scusi tanto, prof
Fu Ethan a interrompere la discussione, dando voce ad un dubbio condiviso: «Dove siamo diretti?»
James parve rifletterci qualche istante sopra, per poi scrollare le spalle e riprendere il cammino a passo ancora più spedito. «Non lo di preciso, ma ho visto un fiumiciattolo prima, che sembrava carino.»
«Il fiume della Liberazione?»
«Credo di sì. Come lo conosci?»
Ethan allargò appena le braccia con l’ombra di un sorriso: «Ho solo ascoltato la spiegazione di Jeggins».
Una decina di minuti dopo, guidati dall’istinto e dal fiuto di James – che sosteneva di essere certo di sentire l’odore del fiume nella direzione in cui si muoveva – erano finiti nel cuore della radura, senza cartelli, senza piantine, senza neppure più un sentiero da seguire. L’ultima stradina l’avevano abbandonata per inerpicarsi tra tronchi rasi al suolo e terreno fangoso.
James inchiodò infine tra un paio di querce, tastando la corteccia di entrambe con aria da esperto. Voltatosi verso il resto del gruppo, decretò: «Direi che non è qui, il fiume».
L’affermazione mandò in agitazione Daphne. «Significa che ci siamo completamente persi?»
«No,» un dito alzato per rettificare, «non completamente. Solo un pochino.»
«James!»
«Se ci fosse stato Travor, avrebbe saputo come orientarsi», osservò Jason.
Logan sembrò illuminarsi. «Provo a chiamarlo.»
Aveva già estratto il cellulare, quando un urlo lo fece sobbalzare.
«Non c’è campo nella riserva, Logan!» esplose Daphne. «Se avessi seguito, lo sapresti anche tu.»
A propria volta, Ethan, nella disperazione generale, stava smanettando con il telefono, provando ad avviare la geolocalizzazione, mentre gli altri attendevano in fibrillazione. Il ragazzo scosse la testa, affranto. «Confermato. Nessun segnale.»
A Daphne sfuggì un grugnito esasperato.
«Dato che hai ascoltato tutto, perché non ci guidi tu all’uscita, studentessa modello?»
«Ti torna utile, però, la studentessa modello, eh? Opportunista del cazzo.»
Ethan si frappose fra i due, che si stavano avvicinando quali cani rabbiosi pronti a sgozzarsi. Con una mano premuta sul petto dell’amico, sospinse Logan, sperando anche nel sostegno dei presenti, che invece rimanevano immobili a valutare il territorio. «Ragazzi, non c’è bisogno di scaldarsi in questo modo.»
«Ha cominciato lui», ringhiò Daphne.
«È lei quella sempre incazzata!»
Ethan sospirò con pazienza. «D’accordo, ma rimandate a dopo la questione. Ora dobbiamo uscire da qui.»
I due ignorarono apertamente qualunque tentativo di pacificazione.
«Io sarei quella incazzata? Sono giorni che mi provochi.»
«Sì, incazzata,» Logan stava annuendo convulsamente, «non si capisce mai cosa diamine hai, cosa ti passa per la testa, e all’improvviso sbotti, diventi aggressiva. Riversi odio addosso agli altri, senza motivo.»
L’eco delle loro voci si amplificava di angolo in angolo, riflesso dai tronchi, spezzato dai massi, ingabbiandoli in una pesantezza disarmante.
Daphne sentiva scricchiolare le nocche, le dita sprofondate in pugni ferrei.
Nella mente scorrevano solo immagini spezzate, ritagli di memoria reclusi in un cantuccio, che qualcuno adesso riversava tutt’insieme, in un calderone di emozioni singhiozzanti.
Lasciò che le ribollisse il sangue, senza cedere al sottobosco di sensazioni incatenate. 
«Un motivo c’è, evidentemente.»
«Sì, ma dovresti esternarlo! Almeno le persone normali si comportano così.»
Lei spalancò la bocca.
«Normale?» Amareggiata, una risatina le raschiò la gola. «Cos’è? Il manuale dell’esistenza ideale?»
Logan era impassibile, di una serietà disarmante, impiegata poche volte nella propria vita. Lo sguardo freddo, la fronte distesa, il tono incolore. «No. È quel che significa essere amici.»
«Bene.»
L’altra raccolse il proprio zainetto da terra, infilando in fretta un solo spallaccio.
Asciutta, meccanica, tagliente.
«Mi spiace non essere un’amica, o anche solo una persona, normale
S’incamminò in una direzione casuale, la prima salita ripida che le si parava davanti, avanzando ad ampie falcate tra l’erba alta che lambiva gambe e fianchi, simile ad una pianta rampicante.
«Daphne! E dai, Daphne, non fare l’immatura», le urlò dietro Jason.
James sbuffò, pestando i piedi in terra. «Fantastico. Tanti saluti alla “sacra quiete” del tempio di Jeggins.»
Intanto, la figura della ragazza si defilava sempre di più, risucchiata dal luogo come se ne avesse da sempre fatto parte e fosse semplicemente tornata al proprio habitat originario.
«Qualcuno dovrebbe seguirla», osservò Ethan, meditabondo.
Gli sguardi di tutti i presenti collimarono su Logan, che se ne stava in disparte con le mani affondate nelle tasche della felpa. Lasciare che si perdesse ulteriormente nella radura sarebbe stata una punizione adeguata, un risarcimento più che lecito che avrebbe esatto e sfruttato, in un’altra circostanza.
«Non ci penso proprio», replicò con astio. «Così magari la smetterà di recitare la parte dell’incompresa.»
 
 
*    *    *
 
 

Durante la pausa pranzo, nei corridoi dell’Arcadian si era scatenato uno sciame di studenti.
Sembravano confluire tutti nel grande ingresso, davanti al portone principale, sagome in controluce sulle ampie vetrate azzurro polvere.
Piuttosto singolare, considerata la corsa all’oro che si verificava a quell’ora, con la mensa come meta fissa.
Melanie scrutava circospetta i flussi di coetanei febbrilmente presi dalla notizia degli ultimi istanti, senza riuscire a definirne il contenuto. Cos’era avvenuto, questa volta?
Richiuse l’armadietto inserendo il codice della serratura. Non le erano mai capitati furti o tentativi di scassinamento, ma considerato il clima di quell’ultimo periodo, non si sentiva del tutto al sicuro.
Quasi rimpiangeva gli anni trascorsi in completo isolamento, quando camminare per i corridoi non significava altro che raccogliere qualche sguardo di disprezzo o un paio di commenti sottovoce. In fin dei conti, nella solitudine aveva trovato una propria stabilità. Malsana, forse più preoccupante di quanto gli sguardi di zia Lydia segnalassero, ma era il suo equilibrio di anonimità. L’unico prezzo da pagare era il
vuoto attorno a sé.  
Invece, dall’episodio del pestaggio di Cindy – e poi dell’inspiegabile sparatoria al suo compleanno – era come tornata sotto ai riflettori. Proprio come durante i primi tempi all’Arcadian.
Gli studenti, perfetti sconosciuti, per tutta la settimana avevano disprezzato apertamente il suo modo di acconciarsi, di camminare, la media bassa, la squadra sportiva di cui faceva parte, riconducendo anche solo il suo nome alla disgrazia della Butler.
Fu quando riconobbe la figura minuta, ben proporzionata, di Cindy, avvolta da un seguito di coetanei adoranti, che realizzò cosa stesse avvenendo.
Il suo rientro doveva aver destato scalpore e spiegava perfettamente le stesse voci che circolavano sul suo possibile coinvolgimento. D’altronde, era stata Melanie ad aver sperimentato in prima persona la raffica di proiettili e ad aver salvato ben due vite per un soffio. I riflessi pronto talvolta tornavano utili.
Accanto alla tanto traumatizzata protagonista della scena, individuò anche Lisa.
Sembrava turbata. Non certo a disagio per la calca, a cui probabilmente era abituata fin da piccola, ma la fronte appena aggrottata, quella strana virgola espressiva che le incrinava lo sguardo, evidenziava un’inquietudine più profonda.
Il desiderio di raggiungerla, tirarla da parte e parlarle in completa serenità, come quella sera, quando le si era rivelata fragile e autentica, la lacerava. Fu qualche breve secondo, il tempo di sentir scoppiettare le viscere e reprimere l’istinto di scavarsi un tunnel tra gli astanti, fin nell’atrio; poi, tornò al proprio libro di storia.
Una “C-” aveva macchiato il suo ultimo test. Forse, avrebbe fatto meglio a preoccuparsi di quello, piuttosto che di gossip.
«Come mai tutta questa baraonda?»
Melanie comprese con un leggero ritardo che qualcuno la stava interpellando.
Sollevò il capo, perplessa.
Davanti a sé, una giovane dalla chioma sbarazzina e lo sguardo altrettanto vivaci; gli occhi, con giochi di azzurro e screziature più intense, la interrogavano con una punta di divertimento.
«Oh, è solo… tornata Cindy Butler.»
«Chi?»
Melanie pensò all’istante che fosse uno scherzo. Voltata la schiena, si indirizzò alla mensa.
Era certa di averla seminata, ma la voce squillante le si ripresentò poco dopo accanto.
L’estranea le camminava vicino, saltellando appena per mantenersi al passo.
«E dov’era finita, questa Cindy?»
«A casa», replicò asciutta l’altra. «Sconvolta.»
«Da…?»
Non riusciva a credere che l’ingenuità delle domande e la rapidità con cui ne assommava altre potesse essere reale. Melanie la scrutò di sottecchi.
D’accordo, sarebbe stata al gioco, per vedere fin dove si sarebbe spinta quella pagliacciata.
«Dalle revolverate al suo compleanno.»
La ragazza si morse un labbro, preoccupata. «Beh, comprensibile. È rimasta ferita?»
«No. Nessuno l’ha sfiorata. Si sono limitati a creare del panico nell’hotel.»
Il discorso sembrava terminato, quando l’altra osservò spontaneamente: «Forse era solo un’ammonizione».
Melanie iniziava ad innervosirsi. Perché non voleva smetterla?
«No», ripeté asciutta. «Si dice fosse solo una ragazzata. Qualche idiota voleva divertirsi a seminare scompiglio.»
«Improbabile. Hai parlato di hotel», ribatté la sconosciuta. «Ragazzini che eludono la sicurezza? Molto improbabile.»
Soltanto ora che qualcuno l’aveva menzionata, quell’ipotesi cominciava a prendere forma nella sua testa.
In realtà, anche a lei stonava la spiegazione proposta, ma… perché utilizzare una copertura? Soprattutto quando i filmati del Galaxy avrebbero sanato ogni dubbio.
Restava il fatto che la scusa della “ragazzata” traballava.
«Cosa ne pensa la polizia?»
«Quello che ti ho appena detto.»
La ragazza stava già aprendo bocca per innescare un’altra serie di quesiti, ma Melanie la precedette. Si bloccò davanti al carrello con i vassoi in plastica, guardando dritta negli occhi la sua interlocutrice.
«Senti, perché non diamo un taglio a questa pantomima? Lo sanno tutti cos’è avvenuto.»
L’altra scrollò le spalle. Con quel semplice, insignificante gesto, le ricordò una bambina.
«Io no. Altrimenti, non te l’avrei chiesto.»
Melanie afferrò un vassoio, diffidente. Sentiva di dover procedere con cautela, come un animale braccato, nel categorizzare la sconosciuta. Era limpida, sincera? O stava cercando di estrapolare qualche informazione per conto della Butler, attendendo solo che si incastrasse da sola?
«Sei nuova?»
Quella, per tutta risposta, le tese la mano con un sorriso: «Frances Hurst, piacere mio».
Anche senza l’ingombro del portavivande, Melanie non gliel’avrebbe stretta.
«Puoi chiamarmi Frannie», precisò subito. «È più carino.»
L’unico aspetto positivo nella combinazione giornaliera di gita scolastica e ritorno in grande stile, risiedeva nello svuotamento della mensa. Mel si piazzò davanti alla cuoca senza alcuna fila.
Frannie la imitò, piegandosi sulla vetrina per esaminare le vivande.
«Non offrite molto in questo istituto.»
Aveva un accento appena diverso, ma difficile da identificare con chiarezza.
La domanda sulla città di provenienza quasi le scappò dalle labbra, ma riuscì a serrarla e a rimangiarsela. Non avrebbe provato a legare con lei. Sapeva come sarebbe andata a finire: nel giro di un paio di settimane, una volta ambientatasi, l’avrebbe evitata o denigrata come tutti gli altri.
«A parte le frittate», proseguì Frannie. «Ne ho provata una, martedì, che non era davvero niente male.»
Melanie sbatté il vassoio sul ripiano metallico, facendo sussultare l’altra.
«Se sei veramente nuova, dovresti evitare di rivolgermi la parola.»
«Oh,» appariva mortificata, «perché mai?»
Già… perché? Forse Cindy, il suo gruppetto o tutto il resto dell’istituto sarebbe stato ben contento di darle delucidazioni in merito. Optò infine per la risposta più fresca e facile, che sperava avrebbe esaurito i dubbi: «Perché credono che sia legata alla sparatoria».
Frannie la squadrò contrariata. «Ed è vero?»
«Non ha importanza», liquidò l’altra. «La gente è convinta che io sia una mezza pazza. E forse hanno ragione.»
L’occhiataccia dell’inserviente, che le stava porgendo un piatto fumante di poltiglia non meglio identificata, sembrò confermare le sue parole.
«Non ho mai creduto alle voci di corridoio», replicò Frannie. «Mi sembri una persona normalissima.»
«Normale, eh?», ridacchiò Mel. «Ma, in fondo, chi è che stabilisce i criteri di normalità?»
La riposta le uscì in automatico: la maggioranza. Ormai era partita per la tangente.
«E tu come giudicheresti qualcuno che picchia a sangue una povera vittima?»
Non diede all’altra possibilità di replica. Recuperò il vassoio e si diresse verso un angolo vuoto della sala, ad un tavolo singolo. «Fidati, Frances, stammi alla larga, se vuoi costruirti una vita sociale, qui dentro.»
 
 
 
 
*   *   *
 

 
I richiami di specie a lei sconosciute costruiva un manto sopra il suo capo.
Gli unici rumori a fare da contrappeso erano il fruscio di un vento crescente, che si caricava di potenza ed elettricità di secondo in secondo, portando con sé stormi di foglie variopinte.
Da lì era impossibile definire se si stesse preparando un temporale, ma le previsioni davano pioggia per il primo pomeriggio. Aveva sperato in una gita più breve, ma i due colleghi si erano dilungati oltre il dovuto, nella speranza di trasmettere loro almeno un frammento dello stesso entusiasmo che li animava.
A lei era pervenuto solo un senso di insofferenza. Insofferenza alla situazione presente, ma anche al passato – più recente e remoto – e al futuro immediato.
Seduta tra l’erba umidiccia, ne strappava alcuni fili con indifferenza, falciatrice automatizzata, robotica.
Forse avrebbe fatto meglio a seguire Alyssa.
Era una vita, ormai, che seguiva Alyssa, in un modo o in un altro.
Perché abbandonare vecchie abitudini, certezze dal sapore stantio?
La abbattevano, ma al tempo stesso costituivano la sua comfort zone: niente quesiti, niente provocazioni, solo il paludoso ribollire di emozioni anestetizzate.
Un rumore di passi, felpato, quasi accompagnato dal prato, la raggiunse alle spalle.
«Vattene, James. Non sono dell’umore.»
Il secco cedimento di un ramoscello, accanto a sé, la fece scattare. C’era solo un paio di jeans scuri, aderenti, per metà coperti da una giacca a vento verde. Trattenne il respiro, incredula.
«Posso?»
Daphne annuì piano, spostando lo sguardo altrove.
Ethan si accomodò accanto a lei, stringendosi nell’impermeabile con un brivido: «Fa freddino da queste parti, eh?»
Scrutava il profilo della ragazza, cercando di carpire un accenno di sorriso o anche solo un’increspatura delle labbra. Non ottenne alcuna risposta.
Reclusa nel fagotto azzurro che spacciava come giacca, Daphne Barnett pareva concentrata esclusivamente sul contorno di alcune querce, sulla pioggia amaranto che un acero riversava a terra.
«Lo so che sei arrabbiata», iniziò misurando le parole. Era come se fosse lui il diretto interessato. Si sentiva responsabile, nel vestire i panni di Logan, di una sorta di risarcimento emotivo.
Per qualche strana ragione, che non riusciva a spiegarsi, poteva percepire quel flusso di malessere. No, si trattava di qualcosa di più: gli sembrava di assumere su di sé il misto di rabbia, insoddisfazione, rancore.
Conosceva poco Daphne, eppure un’idea di lei se l’era fatta; sicuramente un tipo riservato, serio, e fino a quel momento avrebbe detto non reattivo.
Non si sarebbe mai aspettato una separazione così categorica dal resto del gruppo.
Trattare con lei era come incuneare spilli in una parete rocciosa. Dove avrebbe trovato un nervo scoperto?
«Logan ha un po’ esagerato prima, ma era in panne come tutti.»
«Logan non possiede tatto», obiettò lei. «Pretende di avere ragione, come se avesse trovato la formula magica per ogni problema, come se io gli dovessi qualcosa.»
Ethan trattenne un sorriso, per evitare di offenderla. Lo divertiva quel tono infantile, scorbutico e capriccioso. Contrastava così tanto con l’idea di timorosa riservatezza che esibiva di solito.
«Beh, però ha ragione,» riprese lui, «sul fatto della comunicazione. È la base di qualunque rapporto.»
Daphne strappò un altro ciuffo d’erba con vigore: «Allora forse io non sono fatta per i rapporti umani».
«Dai, sii realistica.»
Lei si passò una manica sul viso, tirando su col naso. Non le importava un accidente di quel che supponeva di sapere Ethan Sallinger. Neppure lei riusciva a leggere con chiarezza dentro di sé, a comprendere tutte le sezioni della propria anima, figurarsi provare a spiegarle a qualcun altro.
«Sono complicati, i legami.»
Ethan ebbe la sensazione che non stesse più parlando con lui, ma con se stessa. Il mento piegato sul petto e lo sguardo inquinato inchiodato sugli steli bagnati: Daphne sembrava impegnata in una proiezione tutta interna, inscenata oltre le iridi, racchiusa nella scatola cranica; sviluppava dei fotogrammi a cui nessun altro aveva accesso.
L’intera faccenda lo incuriosiva.
Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, si sentì osservare: «Eh sì, complicati. In realtà, le forme inscritte sono piuttosto semplici, ma noi ce le complichiamo, perché siamo esseri umani e ci piace avviluppare, intricare.»
Daphne assentì. Lo trovava sensato.
Irrazionale e connaturato, ma per questo sensato.
Il problema era che, da quella mattina, non aveva fatto altro che pensare a un centinaio di cose insieme, permettendo ai ricordi di spodestare il presente, che a propria volta si ricongiungeva agli anni trascorsi, alle scelte sbagliate, affogandole in un’onda anomala.
Avrebbe voluto invertire rotta, proprio adesso, senza rimandare per chissà quanto ancora, ma l’idea stessa di affrontare l’ostacolo la prosciugava. Si chiedeva come fosse possibile riprendere in mano un legame sbiadito, il frammento di un’immagine che non possedeva più nella sua interezza; certo, riviveva nella memoria, ma erano due persone diverse quelle che si confrontavano sul ring attuale, non più due bambine dalle mani avvinghiate.
E Daphne non capiva, proprio non comprendeva, come fosse possibile perdere tutto, come se mai fosse esistito, rifiutando, rinnegando il carico di tenerezza e complicità che non significava più nulla.
Tutte quelle stoviglie distrutte, le guance di Emma Barnett impiastrate di mascara, la sedia del padre vuota, a colazione… per lei diveniva solo l’ennesima sedia vuota. Come quella lasciata da Melanie.  
Sul palato sentiva il retrogusto salato di lacrime non destinate ad affiorare.
Non ce la faceva, a piangere; non davanti ad Ethan. Avrebbe preferito una completa solitudine a cui abbandonarsi.
«A cosa pensi?»
Daphne lo guardò con un velo di sorpresa. La stessa, identica, domanda di Logan.
Nulla in Ethan Sallinger gridava perfezione. Forse un bel paio di occhi castani, la mandibola appuntita, spigolosa, un’altezza e un fisico nella media; ma, a parte questo, non era un tipo da calamitare attenzioni.
Quel che stonava più di tutto, e che le piaceva immensamente, era l’attrito fra l’energia positiva che emanava di solito e la strana, pacata malinconia incastonata, adesso, nel viso, tra gli angoli della bocca.
L’intera malia che la soggiogava era nel sorriso quasi stoico, eppure adombrato, che le stava rivolgendo.
«Mi chiedo…» biascicò. Una schiarita di voce, poi: «Credi sia possibile non provare più nulla per qualcuno, restare del tutto indifferenti, dopo avergli donato una quantità incommensurabile di amore?»
Ethan prese in considerazione la domanda, se la rigirò tra i denti, macinando le possibili risposte.
Gli occorse del tempo prima di rispondere.
«Sì», ammise infine. «È terribile, ma credo di sì.»
Daphne sentì affondare il groppo incastrato in gola.
«E…» non riusciva a proseguire e a trattenere al contempo le lacrime. Fece uno sforzo ulteriore, aiutandosi con un lungo sospiro. «Dove pensi che finisca?»
«Non lo so.»
Notò che non sarebbe stato sufficiente. L’idea che fosse possibile rompere ogni laccio annodato a due estremità pareva ingrigire ancora di più Daphne.
Non poteva lasciarla con quell’ultima considerazione.
«Però,» continuò con più entusiasmo, «so che, ovunque finisca, tutto quell’amore di cui parli c’è stato. È esistito davvero, anche se non puoi più testarlo. Puoi imparare a prenderti cura degli stupendi tasselli che restano. Per trasformarli in qualcosa di completamente tuo, per riassorbirli.»
Daphne annuì, di poco sollevata.
Le assestò una spallatina d’incoraggiamento. «Dai, adesso raggiungiamo gli altri. Dobbiamo trovare l’uscita. Non voglio passare la notte nella riserva delle tartarughe.»
Si rialzarono in piedi, scrollandosi dai jeans terriccio, erba e qualche insetto avventuroso.
Stavano per percorrere a ritroso la strada, quando si accorsero di una terza presenza.
«Da quanto tempo è arrivato?» bisbigliò Daphne.
Ethan si strinse nelle spalle. «Fossi in te, andrei a parlargli.»
In un paio di falcate l’aveva raggiunto. Logan se ne stava appoggiato al tronco di un acero, ad attendere.
Daphne si rimangiò il filo di stizza che ancora le serpeggiava in gola.
Dondolava il busto da una parte all’altra, come una bambina castigata. «Scusa.»
L’aveva mormorato, augurandosi che potesse bastare. Sentì però il bisogno di aggiungere: «Per essermi arrabbiata con te. Non c’entri nulla, sono solo molto stanca, in questo periodo.»
Logan attese qualche secondo, imperscrutabile. Poi, scosse il capo.
«Vieni qui, Miss Perfettina.» L’avvolse in un abbraccio.
Allora le lacrime perforarono la superficie, rigando la felpa del ragazzo.
Dapprima resistente, Daphne lo strinse a sé.
«Non mi importa niente delle convenzioni e della “normalità”. Mi dispiace solo vederti soffrire da sola.»
Fu Daphne a sciogliersi e ad esortarlo a trovare gli altri. Jeggins li avrebbe uccisi, se avessero tardato.
Prima che potessero incamminarsi, Logan la trattenne per un braccio. «E, comunque, l’amore offerto non finisce da nessuna parte. Ethan è un coglione.»
«Come?»
«Resta sempre, se conservi la speranza.» Una pausa, poi asserì con decisione: «Quindi smettila di frignare e prova a parlare con Melanie».
«Cosa», balbettò l’altra. Assunse un’espressione indispettita.
Come si permetteva?
«Cosa c’entra Melanie con tutto que--»
Logan sbuffò. «Va bene, non c’entra niente. Ma ti manca, e non negare», la zittì puntandole un indice contro. «Lo sappiamo entrambi che è vero.»
La sospinse verso il declivio su cui si erano inerpicati prima. «Un sentimento si spegne, non sparisce. Può morire, finire sepolto sotto strati di accettazione, o trasformarsi, ma mai dissolversi. Quindi, parlale.»
 
 
 
 
Trovarono James e Jason intenti a scrutare delle coccinelle sopra ad un masso, in pieno dibattito su habitat e alimentazione delle stesse.
Non appena li videro arrivare, si raddrizzarono, nervosi. A giudicare dall’espressione del trio, doveva essersi verificata un’evoluzione positiva.
Il primo dei due strillò, in fibrillazione: «Ho trovato il fiume!»
«Stai scherzando, spero», lo freddò Logan. «Torniamo al piazzale dei pullman.»
«Dopo tutto questo casino, rinunciamo al fiume?»
Jason gli diede manforte, affermando di aver sentito anche lui il rumore di acqua corrente, lì vicino. Dovevano essere pochi metri.
Dieci minuti più tardi, il fiume l’avevano trovato, o più precisamente il piccolo ponte che lo sovrastava. Era uno di quelli classici, in legno, dalla forma arcuata, sospeso ad un’altezza non indifferente.
James vi si precipitò sopra, saltando con una rapidità leporina sulle travi.
«È bellissimo, ragazzi! Venite a dare un’occhiata.»
Perfino Ethan sembrava aver recuperato l’abituale vigore. La malinconia era sparita in un soffio, lasciando posto solo ad un entusiasmo che faceva da cassa di risonanza all’amico.
James !!!sorrise, beffardo, a Daphne. «Ti sfido ad oltrepassare la ringhiera. Secondo me, non avresti mai il coraggio di farlo.»
Gli altri motteggiavano, condividendo l’osservazione.
«Perché mai?»
«Perché sei troppo controllata, Daffie! Un po’ di rischio, ogni tanto, ti farebbe bene.»
«Soltanto perché non sono irresponsabile quanto te, non significa che sia controllata.»
Logan la tirò per una manica: «Dai, lascia stare. Lo sappiamo che hai paura.»
Lei si guardò attorno, certa che non vi fosse nessun altro nei paraggi. Poi, prese a sfilarsi le scarpe e, liberatasi anche della giacca, bofonchiò: «Controllata, io... adesso vedremo.»
Con estrema lentezza saldò entrambe le mani alla ringhiera di legno, facendo forza sulle braccia. Un ampio movimento ed era già cavalcioni sulla balaustra. «Lo faccio solo se scavalcate con me. O forse ve la fate sotto?»
Ethan non se lo fece ripetere due volte. In pochi istanti, erano l’uno accanto all’altra, con le piante dei piedi ben incollate al poco spazio che rimaneva, prima del vuoto.
I seguenti furono James e Logan, mentre Jason estraeva il cellulare per scattare una foto.
«Che ne dici, Barnett?»
Ethan le assestò una gomitata: «Ci tuffiamo?»
L’altra sgranò gli occhi. Il cuore iniziò ad accelerare la propria corsa, comprendendo solo sul momento in quale guaio era andata a cacciarsi. Tuffarsi? Sarebbe stato contro ogni raccomandazione – e contro ogni briciolo di coscienziosità – non poteva… o poteva?
Gettò un’occhiata alla corrente sotto di sé, lasciandosi inebriare dagli spruzzi d’acqua che arrivavano fin lì. La voce del fiume esondava dagli argini, raggiungeva le concavità degli alberi, s’infiltrava tra le chiome più alte. Un brivido.
«Al mio tre», replicò con un sorrisetto. «Uno…»
Logan li scrutava entrambi con incredulità. «Non vorrete farlo davvero…»
«Due…»
Un urlo allarmato. Sobbalzarono tutti e quattro.
Jason stava strattonando Logan per un braccio: «Ragazzi, c’è Jeggins».
La sagoma dell’insegnante avanzava con difficoltà sul sentiero dissestato, liberandosi di rampicanti e inciampando di tanto in tanto sulle radici sporgenti. Li stava chiamando per nome, in cerca degli studenti mancanti all’appello.
«Cazzo, cazzo, cazzo. Cosa facciamo?»
James mollò tutti i capi sparsi nelle braccia dell’amico, spingendolo verso l’altra estremità del ponte. «Presto, nascondi i nostri vestiti dietro la roccia.»
Mentre il ragazzo ubbidiva, gli altri quattro si scambiarono un rapido cenno di assenso. Non restavano molte alternative, arrivati a quel punto.
«Tre!»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
 
Si erano gettati tutti insieme.
L’impatto con l’acqua gelida aveva lacerato le ossa, così come la ridotta profondità del fiume.
Per fortuna, nessuno era riemerso con fratture o contusioni varie, ma lo schiaffo ricevuto dalla superficie e dal fondale dissestato era stato sufficiente.
Soltanto Jason aveva dovuto pagare il prezzo della scampagnata con un rimprovero amaro da parte del professore, per coprire loro le spalle.
Gli era stato assegnato un saggio aggiuntivo da Jeggins, mentre gli altri se l’erano cavata con un semplice rimbrotto. Di fatto, avevano raggiunto il piazzale dei pullman prima del professore. Motivo per il quale erano fradici da capo a piedi? L’improvviso acquazzone scatenatosi pochi istanti dopo la bravata.
James si era convinto della protezione di un santo, o qualcosa di affine.
Se non erano stati scoperti, lo si doveva davvero ad un miracolo.
Per tutto il tragitto di ritorno, la mente di Daphne pulsava attorno ad un’unica immagine: la mano fredda di Ethan premuta sulle labbra, mentre le intimava di non fare rumore. Si erano nascosti dietro ad un mucchio di sterpaglie, in un punto più profondo del fiume, rimanendo immobili sul pelo dell’acqua, ghiacciati nelle posizioni e simili a sculture.
E ci ripensava anche adesso, che era stipata sull’autobus ripartito dall’Arcadian, al profumo della pelle di Ethan, alla morbidezza di quelle mani che chiedevano silenzio, promettevano protezione.
Daphne sospirò, abbandonandosi allo schienale del bus.
Doveva recarsi allo Zenzer Bazaar, per riprendere Isaac e rincasare assieme. L’avviso, l’aveva ricevuto nel pomeriggio, da parte di un’Emma Barnett allarmatissima.
Né lei, né tantomeno il marito, avrebbero potuto dare uno strappo al figlio. Che ci pensasse lei, comportandosi da sorella maggiore, una volta tanto. E che si occupasse anche della cena; loro non avevano tempo per dedicarsi a sciocchezze del genere.
Li detestava quando facevano così. Non sapeva neppure se avessero chiarito tra di loro, né cosa avrebbe atteso lei ed Isaac, una volta rientrati in casa. L’ennesima notte insonne? Forse, avrebbe fatto meglio a comprare un cruciverba di scorta.
Scese alla fermata indicata dal gps, dietro ad un’anziana signora carica di buste della spesa.
Il vento autunnale s’insinuò nel colletto della giacca, strappandole numerosi brividi. Portava ancora indosso gli stessi vestiti umidi della mattina, i capelli scompigliati attaccati al volto. Pregò di non essersi beccata un raffreddore. Maledetto James e le sue sfide infantili.
Un messaggio. Il cellulare vibrò nella tasca, mentre scendeva i gradini del bus.
“Mi danno un passaggio i Krimston. Non venire, faccio tardi. Ci vediamo a casa.”
Daphne rimase a fissare lo schermo per una manciata di secondi.
Il clacson dell’autista la riscosse, costringendola ad approdare in fretta al marciapiede.
Fantastico. Si era fatta l’intera traversata per nulla.
Ricacciò il telefono, ad un pericoloso nove percento, nel giubbotto. Doveva solo attraversare la strada e prendere la corriera nella direzione opposta.
Certo che Isaac avrebbe potuto comunicarle un po’ prima il cambio di programmi, anziché farla finire a…a… ma dove diamine era?
Daphne si guardò attorno con un senso di vuoto alla bocca dello stomaco.
Aveva sbagliato fermata?
Un passante stava indicando la palina dai nominativi sbiaditi. La vecchina davanti a lei gli spiegava placidamente che c’erano dei lavori in corso, lì a Lowhood, per cui molte linee erano deviate.
Lowhood?
Dannazione. Come aveva fatto a capitare a Lowhood?
La giornata si stava concludendo proprio come era cominciata: uno schifo.
«Per fortuna questa signorina mi ha avvertita,» stava seguitando l’anziana, «altrimenti sarei rimasta disorientata.»
«Sì, hanno spostato la fermata», si aggiunse un altro astante.
Daphne si voltò, nella speranza di ottenere qualche informazione anche sul proprio tragitto.
«Scusate,» si intromise, «si prende qui il bus 114?»
L’anziana dissentì e lentamente picchiettò sullo zaino di una ragazza con il volto coperto per metà dai capelli scuri e ribelli.
«La signorina qui può darti una mano.»
Chiamata in causa, Melanie Prescott si mostrò spaesata.
Ancor di più, nel ritrovarsi davanti Daphne Barnett.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8. ***


Capitolo 8.

Take me back



 
 
«Tell me how to feel about you now
Oh, let me know
do I suffocate or let go?»
 
6:30 p.m. - Lowhood
 
 
 

La fermata della linea 114 era stata spostata sul vicino cavalcavia, dove i binari del tram segnavano la strada, simili a bisce color catrame.
C’era sempre un gran vento, lì sopra, e di sera la zona pedonale era poco trafficata; gli abitanti a Lowhood preferivano girare in macchina o sui mezzi, quasi fossero affezionati alle matasse di smog che soffocavano il cielo.
Daphne Barnett controllava il segnale dello smartphone con crescente apprensione.
Sullo schermo oscurato, l’icona della batteria prosciugata e l’avviso della modalità di risparmio energetico le annodavano la gola.
Lo lasciò scivolare nella tasca del giubbotto. Ormai non poteva farci molto.
Un brivido le serpeggiò lungo la schiena, mentre il vento le asciugava le ultime ciocche umide della giornata, infiltrandosi nei lembi di tessuto più nascosti.
Melanie procedeva accanto a lei, con la solita andatura oscillante, le spalle ricurve e lo sguardo incollato al marciapiede. Non aveva aperto bocca, né sembrava avere il coraggio di guardarla in volto.
Si chiedeva se stesse aspettando un’iniziativa da parte sua, se Mel si aspettasse che fosse lei la prima a parlare, o semplicemente si chiudesse nel suo scrigno di pensieri e silenzi solo per sfuggire alla realtà.
Dal canto proprio, Daphne non riusciva a smettere di rimuginare su pretesti per avviare la conversazione.
Ma poi, in fin dei conti, voleva davvero parlare con Melanie? E di cosa?
Di sottecchi riusciva a scorgerne il profilo devastato dal viaggio in autobus: la felpa scura extralarge che le abbracciava i fianchi, la chioma disordinata, lo zaino scolastico con una minuscola zip aperta che la stava mandando ai pazzi.
Continuavano a camminare nei colori smorti della sera, fasciate da una luce decadente; le automobili strombazzavano impietose accanto a loro, rendendo il compito di Daphne Barnett ancora più arduo.
Erano anni che non si trovavano così vicine, le braccia quasi a sfiorarsi, e sembravano aver perso la capacità di essere semplicemente… loro stesse. Nel loro autentico, genuino spazio di complicità.
Daphne intese solo allora, con un forte avvolgimento di viscere, che non esisteva più.
Non esisteva più un “loro” spazio, un “loro” silenzio, da tanto, troppo tempo.
L’amore offerto non finisce da nessuna parte”, le aveva detto Logan.
Avrebbe desiderato crederci, ora più che mai. Se avesse avuto quell’unica, striminzita certezza, allora non sarebbe sussistita alcuna esitazione; niente più bugie, niente più pianti strozzati in gola – smettila di frignare e prova a parlare con Melanie – niente più fortini da elevare per tenersi una scusante, una ridicola scusante, pur di non agire. Perché temeva così tanto il rischio?
Il profilo della pensilina cominciava a delinearsi all’orizzonte. Ancora pochi metri e poi sarebbe sfumato… tutto.
Daphne avvertì l’agitazione sconquassarle il petto.
Non voleva che finisse.
Le sembrava di vivere in una dimensione ultraterrena, oppure onirica, come a galleggiare in una viscosa teca per insetti; eppure, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di allungare la giornata di qualche minuto.
Si guardò attorno, frettolosa, ansiosa, un filo ansimante, non badando agli abbaglianti delle auto, alle urla di qualche passante al telefono, né alle cime dei palazzi di fronte a loro.
Ma nella ricerca disperata – qualcosa, una qualsiasi cosa, Dio, cosa, cosa, cosa – il pavimento era di sabbie mobili e un calore improvviso le inghiottiva lo sterno.
Alla fine, il cielo accolse il suo sguardo. Ci leggeva carta da zucchero e intrichi di fumo, misto a cirri.
Sentì di poter respirare di nuovo.
«Ma questo è il Cotton Bridge», disse. Un piccolo sorriso a scioglierle le labbra. «Me lo ricordo.»
Melanie si voltò verso di lei. Indecifrabile.
L’avevano battezzato loro così, quasi una decade prima; tuttora il ponte conservava un soffitto di nuvole cotonate, simili allo zucchero filato che un carretto ambulante, dall’altro lato della strada, vendeva.
Quella sera non faceva eccezione.
Daphne riuscì ad incrociarne lo sguardo sfuggente, in attesa di una conferma. Lo sapevano entrambe che una conferma non sarebbe stata necessaria, eppure, a loro, in quel momento, serviva.
Melanie tentennò. Troppi cavi si stavano intrecciando nel suo animo, troppi segnali contrastanti a creare cortocircuito.
Il volto della ragazza accanto a sé adesso svaniva, si frammentava come per effetto di un glitch, di un’interferenza con il passato.
Le due figure sul ponte si rimpicciolirono, perdendo notevoli centimetri d’altezza. In realtà, l’illusione si rifletteva solo su di lei, perché la statura di Daphne Barnett negli anni non era poi cambiata così tanto; sarebbe sempre rimasta la stessa bambina minuta e paffutella.
Lampioni accesi irradiavano campane aranciate sul percorso, in contrasto con gli alberi, inframezzati ai grattacieli spogli, che sembravano risucchiare l’intera oscurità della sera.
Melanie poteva sentire la voce di Daphne, mentre lanciava un acuto e le faceva segno di affrettarsi a raggiungerla. Attaccata alla ringhiera del sovrapassaggio, si dimenava per riuscire a guardare le automobili che scorrevano di sotto, entusiasta come se fosse stata l’attrazione migliore al luna-park.
Forse, loro due erano state le uniche a vedere in Lowhood un caleidoscopico mondo di divertimenti, trasformando il cielo in zucchero filato, le macchine in cavalli imbizzarriti, lo smog nella cenere lasciata da una pioggia di comete. Si sentivano le prescelte, una specie di osservatrici privilegiate dell’universo.
«Melanie, guarda! Ci stanno attaccando!»
«Daphne, scendi immediatamente da lì.»
L’ordine di Emma Barnett era stato eseguito non senza dissenso e delusione. Sophie Prescott intanto faceva strada all’amica, sorridendo compiaciuta, mentre sua figlia allungava il passo e si riuniva a Daphne.
«Sono proprio due scimmiette», aveva sospirato Emma.
Melanie avvertì una fitta all’altezza delle costole.
Alla fine, annuì.
Sì, era proprio quello, il Cotton Bridge.
Nello sguardo di Daphne fiorì speranza.
«C’era un punto,» riprese con maggiore sicurezza, «in cui viveva il Mandriano Rosso e, dall’altra parte della carreggiata, la stalla del Mandriano Blu.» Ripercorse mentalmente la distanza che separava il semaforo, perennemente bloccato sul rosso, dall’insegna al neon blu del benzinaio: circa due corsie, se non errava.
Poi, senza ulteriori esitazioni e ripensamenti, si aggrappò alla ringhiera di metallo e, sporgendo il busto, in punta di piedi, provò a individuare l’obiettivo che cercava. Aguzzò la vista.
All’orizzonte, solo una tavolozza mista di azzurri. I mozziconi di sole erano ormai oltre i palazzi di Lowhood.
Melanie l’aveva imitata, rigorosamente in silenzio, incapace di spiegarsi cosa diamine stesse avvenendo.
Ed eccolo, un unico braccio disteso davanti a loro, l’indice puntato come una lancetta svizzera o una balestra ad alta precisione.
«Eccolo lì.»
L’altra ne seguì la traiettoria, sempre più confusa.
«L’autogrill de lo infierno.»
Era un puntino insignificante, nascosto tra alcuni tigli e spezzato dalla processione di automobili che lo sorpassavano, incuranti. Melanie riconobbe il cancello. In realtà, il vecchio autogrill non esisteva più. Non era stato ancora demolito o trasformato in qualcos’altro; se ne stava lì, dimenticato dal mondo, carcassa un tantino lugubre. 
«L’hanno chiuso, purtroppo», dichiarò asciutta. «Diversi anni fa.»
Daphne parve rimanervi davvero male.
«No…»
L’altra annuì di nuovo, incapace di aggiungere altro.
«E cosa vogliono mettere, al suo posto?»
«Credo che non ci siano progetti in corso. Se lo sono semplicemente scordato.»
«Beh, meglio così,» considerò Daphne, «almeno evitano di mandare al pronto-soccorso altri clienti.»
Melanie abbozzò un primo sorriso, costretta a convenire con lei. Daphne Barnett la scrutava di filato, mentre il suo, di sorriso, cresceva spontaneo. «Ti ricordi quella volta che ci avevi preso un cheeseburger? Cos’era? Chili e cipolle?»
«Oh Dio, sì», ridacchiò l’altra. «Non sono più riuscita a sentire sapori, per una settimana intera.»
«Anche il bottiglione di latte che ti hanno dato era stato inutile!»
«La cameriera era spaventatissima», concordò Melanie. «Mi aveva ustionato il palato.»
Si guardarono per un attimo. Il tempo di far smorzare le risate ed erano di nuovo diciassettenni, spaesate e sferzate dal presente, ignare di come avrebbero dovuto comportarsi.
Chi avevano davanti?
Daphne si domandava se la compagna dormisse con il capo ingolfato dalle coperte. Era ancora freddolosa e intimorita dal buio?
Cancellò in fretta il sospetto, provando a trattenere gli ultimi granelli di complicità che avevano ricreato.
«Grazie», disse soltanto. «Per quella sera, alla festa di Cindy. L’ho fatto solo ora, ma avrei voluto ringraziarti da diversi giorni.»
«Nessun problema.»
Melanie abbassò il mento, spegnendosi d’improvviso. «Tu avresti fatto lo stesso per me.»
Buio.
Fu come precipitare all’indietro, inaspettatamente, di quattro piani. O di quattro anni.
Crepe nere e brucianti si impossessarono del suo ventre.
Certo. Certo, che lei avrebbe fatto lo stesso. Se non altro, si trattava di un riflesso naturale, uno spontaneo istinto alla conservazione, o come volevano definirlo.
O forse no.
Ebbe la sensazione che Melanie conoscesse bene la risposta. Quel giudizio muto, non ebbe bisogno di esternarlo. Spesso, Mel sembrava dire molto più nel proprio silenzio che a voce.
E fu proprio Melanie a spezzarlo, quel silenzio, mostrandole la pensilina del 114.
«La fermata è lì.»
Era un invito implicito.
Daphne lo colse con sofferenza, senza però smuoversi di un centimetro dalla posizione attuale.
«In genere, passano ogni venti minuti. A quest’ora non dovresti trovarlo neanche pieno.»
La gente di Lowhood non andava in centro, se non per esigenze lavorative o personali. Ma quel pensiero lo tenne per sé.
Melanie si raddrizzò lo zaino in spalla, esitando appena.
Poteva proseguire da sola, da lì in poi.
«Tu…» Una schiarita di voce. «Tu stai andando a casa?»
«Sì. Mia zia inizia a preoccuparsi, se rientro tardi.»
Un campanello si accese nel cervello di Daphne Barnett. «Come sta, tua zia?»
«Se la cava», mormorò l’altra. «Sempre a recriminare su qualcosa.»
La ragazza assentì. Era impegnata a ricomporre mosaici scompaginati, come a voler fermare un flusso di dettagli, un’emorragia di ricordi, che le scivolavano tra le dita senza il tempo di trattenerli.
Un clacson fece sobbalzare entrambe.
Poi, la luce dei fanali scivolò sull’asfalto e il bus 114 fece la propria apparizione dalla fine del ponte.
Con un cenno del capo, Mel le disse: «Meglio se vai. Rischi di perderlo».
L’altra s’incamminò a passo indeciso, strusciando i piedi l’uno contro l’altro.
Si fermò. Voltatasi: «Una cerniera dello zaino è aperta».
Melanie lo fece scivolare lungo il busto, tastando la tasca anteriore. Le sorrise debolmente.
«Grazie.»



 
*     *     *
 
 
 
 
Isaac Barnett se l’era sbrigata in fretta, quella sera.
La signora Krimston lo aveva liquidato, una volta effettuato il pagamento, senza troppe cerimonie. Attendevano ospiti per cena, gli aveva confidato la figlia; non che ad Isaac facesse la minima differenza.
Al contrario, il pensiero di un po’ di tempo tutto per sé, della possibilità di girovagare per il quartiere quando il Black Market era ancora attivo, lo scombussolava ed eccitava al tempo stesso.
Non era ancora sceso il buio, quando si ritrovò nei pressi del famigerato Black Market.
Stavolta, non vi era capitato per caso. Costeggiate le vie laterali, buttato un occhio alle spalle per assicurarsi che nessun conoscente lo individuasse tra i passanti, aveva finalmente imboccato la principale.
Ed eccoli, i tendoni gonfi, gli odori di antiquariato e spezie in una miscela talmente contraddittoria da risultare reale e seducente. Tutto, in quel posto, gridava realtà.
Realtà era percorrere i vicoli saturi di urina e cibo marcio, infilarsi tra le schiene sudaticce dei residenti impegnati a mercanteggiare con i venditori; realtà era sentire perle del suo stesso sudore insidiarsi nel colletto, mentre un estraneo lo scrutava diffidente da sotto il cappotto scuro, pesantissimo, che indossava.
«Ehi, ragazzino», lo chiamava. Dispiegò un lembo dell’indumento, simile all’ala di un condor. «La vuoi della roba forte?»
Isaac aveva proseguito, affamato di ogni singolo oggetto che scintillava sulle bancarelle.
Più di un bancone esponeva armi da taglio, bellissime e letali, in un ventaglio di tipologie e prezzi. L’idea di acquistare una baionetta lo stuzzicava terribilmente; magari un’antica sciabola che aveva bevuto chissà quanto – e quale – sangue.
Ciò che lo tratteneva era la mancanza di una scusa adatta da rifilare ai genitori. Non sarebbe stato un oggetto gradito, in casa Barnett; introdurlo senza che la madre se ne accorgesse? Impossibile. Emma Barnett sembrava avere un fiuto straordinario per gli elementi pericolosi, con la sua protettiva ossessione.
Un paio di commercianti avevano provato ad agganciare la sua attenzione, ma la maggior parte lo teneva a distanza: era pur sempre un estraneo – e soprattutto un adolescente – stonante con il resto della clientela abituale. Forse temevano si trattasse di un infiltrato, di un’esca utilizzata dalla polizia per monitorarli.
Il fatto era che Isaac stesso cominciava ad avvertire una forma di inadeguatezza e, mano a mano che il tempo scorreva ed avanzavano le ore più scure del tramonto, quelle occhiate da gufi lo turbavano.
Ormai lo sfizio di vedere il famoso Black Market, se l’era tolto. Poteva anche rincasare ora.
Come scusandosi della propria esistenza, Isaac scivolò tra la massa di acquirenti, stavolta nella direzione opposta, percependo una resistenza maggiore nei corpi con cui entrava in contatto.
«Ehi, tesoro», una donna dall’angolo della strada lo appellò. «Ti sei perso, per caso?»
Isaac scantonò lateralmente, evitandone l’alito pestilenziale e le lunghe dita rachitiche.
Quando fu certo di essere di nuovo solo, riuscì a lasciar defluire un po’ di tensione.
Per quanto attraente, l’idea del Black Market non si era rivelata così entusiasmante; anzi, l’aveva lasciato un filo deluso, sebbene vi si fosse addentrato senza un preciso scopo.
Adesso, coperto dalle alte mura di un vicolo cieco, si sentiva stanco e sicuro insieme.
C’era un unico elemento a turbare la ritrovata quiete: un paio di figure appoggiate ad una parete, accanto alla retrobottega di un locale. Entrambe in controluce, entrambe con indosso degli abiti spenti.
Isaac si accorse, un istante più tardi, della posizione svantaggiata di uno dei due: schiacciato contro il muro, pareva in ostaggio del suo opponente. Poi, giunsero alcune parole smorzate.
«Che significa che non li hai? È passata una settimana.»
«Non… li… ancora.»
«E la tua ultima bravata? Eh? Vuoi dirmi che sono spariti anche quelli
Il ragazzo alle strette aveva un’aria familiare. Seppure più alto del proprio aguzzino, era in chiara difficoltà; la voce faticava ad uscire, mentre l’altro sconosciuto gli teneva le mani ben premute sul collo.
Lo stava supplicando.
«Qualche… giorno…»
«No, no, Oliver. Non me ne faccio niente delle tue promesse.»
Isaac si portò d’istinto una mano ai jeans. In una delle tasche posteriori, riconobbe il profilo del portafoglio.
Camminò come un automa verso la coppia di sconosciuti, guadagnandone l’attenzione solo quando si trovò ad un passo da loro.
«Che vuoi, moccioso? Non vedi che siamo occupati?»
Isaac lo ignorò, concentrandosi esclusivamente sul ragazzo in svantaggio.
I capelli lunghi, biondastri, gli zigomi definiti e l’aria trafelata: si erano già incontrati.
Mentre nella nebbia della sua memoria prendeva forma il volto del tipo in fuga, incrociato la settimana precedente, Isaac estrasse il portafoglio con cautela, tendendo delle banconote all’estraneo.
«Ce li ho io», disse soltanto. «Me li aveva prestati, stamattina. Quant’era?»
L’uomo guardò prima lui, poi la propria vittima, in confusione. «Lo conosci?»
L’altro annuì piano, cercando lo sguardo del più giovane.
Comunicato il prezzo dovuto ed esatto il denaro, lo sconosciuto mollò la presa su Oliver. Teneva d’occhio entrambi, alternativamente, come aspettandosi che uno dei due gli tirasse un rovescio. Per uscire dal vicolo, indietreggiò in una corsetta accelerata. «Ci becchiamo in giro, Oliver.»
Rimasero soli.
Oliver si piegò in due, tossendo vigorosamente. Alcuni schizzi di sangue bagnarono l’asfalto.
«Stai bene?»
Quando fu in grado di rialzarsi, squadrò il ragazzino che lo aveva salvato. Di nuovo.
«Perché l’hai fatto?»
Isaac si strinse nelle spalle. «Quello ti stava stritolando.»
«Non era affare tuo.»
«Potresti anche solo ringraziarmi.»
«È la seconda volta che mi pari il culo», osservò sospettoso. «Curioso, no?»
Isaac sospirò, esasperato. «Senti, non voglio niente in cambio. È successo e basta, non ti sto pedinando.»
L’altro continuava a studiarlo con crescente interesse. Prese a girargli intorno, mani in tasca, mento alzato.
«Mi sto solo chiedendo...» un sorrisetto gli increspò le labbra, «cosa ci fa un rampollo come te da queste parti? Non sembri di qui.»
«Affari miei.»
Oliver si lasciò sfuggire una risata strozzata; più uno sbuffo, a dire il vero. «Ti ha mandato qualcuno?»
«Scherzi?» Ora era decisamente indignato. Anziché mostrare riconoscenza, gli si rivoltava contro?
Dopo essere fuggito la prima volta, senza alcuna spiegazione, adesso gli faceva il terzo grado.
Si rimise sulla propria strada, liquidando la storia con un’alzata di mano. «Lascia stare.»
«Aspetta.»
Oliver stava riflettendo. Era chiaro che il ragazzino non abitasse allo Zenzer Bazaar, quindi rimanevano solo due ipotesi: un frequentatore assiduo del Black Market o un ingenuo malcapitato.
Non sapeva quale delle due lo affascinasse maggiormente.
«Vieni», si decise infine. «Ti voglio offrire qualcosa per sdebitarmi.»
«Davvero, non ce n’è bisogno. Devo tornare a casa.»
«Che c’è? Mamma e papà stanno in pensiero?»
Quel tono e l’espressione provocatoria, lo fecero vacillare. Certo, non doveva dare spiegazioni ad uno sconosciuto che gli era, per di più, debitore. Eppure…
C’era qualcos’altro.
Gli stava dando del bambino e quello non riusciva a mandarlo giù. Ricambiò l’aria di sfida.
«D’accordo. Tanto non avevo niente di meglio da fare.»
Oliver apparve soddisfatto. «Seguimi. Ti assicuro che non te ne pentirai.»
 
 
 
*     *     *
 
 
 
 
In macchina regnava un’atmosfera soffocante.
Quel lunedì mattina, per qualche strano motivo, Emma Barnett aveva insistito per accompagnarli a scuola.
Di solito, era talmente sbrigativa e presa dai propri pensieri, da dimenticare di salutarli, ma a differenza degli altri giorni ora si era imputata su quello sciocco passaggio in auto; come se scarrozzare i figli all’Arcadian potesse assolverla da ogni altra mancanza. Acquasantiera della sua esistenza era diventata la Porche blu.
Daphne lo trovava irritante.
Le era impossibile leggere dell’autentica affettuosità in qualunque comportamento materno, specialmente in momenti simili, quando la situazione era appesa ad un filo.
Per ogni domanda su quanto avessero dormito, quali lezioni li aspettassero in giornata, che cosa preferissero mangiare per cena – questione onnipresente e di vitale importanza, apparentemente, nell’universo di Emma – Daphne avrebbe voluto attaccarsi al sedile anteriore e urlarle addosso.
Perché non si occupavano delle problematiche vere e importanti? Perché passava tutto in secondo piano, a scapito della loro salute mentale?
Ad esempio, le sarebbe piaciuto sapere che fine avesse fatto suo padre, dato che il weekend li aveva scaricati nelle braccia dei nonni materni e ancora non era riapparso nelle loro vite, se non con un paio di telefonate di rassicurazione. Stava bene. Ma sì, non dovevano preoccuparsi per lui. Sarebbe tornato il prima possibile, aveva delle faccende da sbrigare fuori città.
«Magari deve ricomprare i piatti e i bicchieri che hanno distrutto», aveva ironizzato Isaac.
Non l’aveva alleggerita neppure la battuta.
L’unica cosa che desiderava era di scendere dall’auto, sbattersi dietro la portiera, e buttarsi a capofitto tra le pagine dei libri, anestetizzando il tutto con le lezioni soporifere.
«Aspettate un secondo.»
Emma Barnett aveva fermato il veicolo ad un incrocio, lasciandoli soli senza alcuna spiegazione.
Sembrava una specie di vizio famigliare quello di scomparire ingiustificatamente.
Il silenzio gravava sulle loro teste. Per quanto potesse sentire il braccio del fratello incollato addosso, Daphne lo percepiva distante anni luce. Era un pianeta isolato, a gravitare nella propria piccola orbita.
Dovette rompere la quiete, perché intollerabile.
«Dove è andata?»
Isaac si sollevò appena dal proprio posto, spiando il circondario. Sembrava essere entrata nel vicino McDonald.
«Qui al Mc, credo.»
L’altra sbuffò, assestando un calcio al sedile anteriore. «Guarda come facciamo tardi, per questa stronzata
Il fratello si strinse nelle spalle con un sospiro.
Probabilmente aveva avuto un rigurgito di pentimento, sua madre, e voleva farsi perdonare negli svariati modi che riteneva risolutivi. Sciocco, ma umano.
«Come è andata, poi, da Alyssa?»
Sperava, in tal modo, di tergiversare l’attenzione di Daphne altrove. D’altronde, non ne avevano affatto discusso ancora, del pigiama party organizzato da Alyssa Russmith.
Quando la sorella gliel’aveva comunicato, lui aveva preso la notizia come doppiamente stonante, perché avevano passato da un pezzo l’età per certe cose e perché pensava che l’influenza della Russmith non fosse affatto benefica.
«Bene, immagino.»
«Oh-oh.»
«Cosa?»
«Evasiva», decretò Isaac. «Non preannuncia mai niente di buono.»
Daphne si voltò dall’altra parte, abbracciando la cartella. «Beh, tu non mi hai detto dove sei finito, quando sei rincasato all’una di notte.»
«Ti prego, risparmiami la ramanzina. Ha già dato mamma.»
«Sei scomparso, Isaac.»
«Non devo rendervi conto di tutti i miei spostamenti», replicò l’altro. «Comunque, immagino che la risposta sia: “male”.»
La ragazza si scostò alcune ciocche dal volto, stringendosi nelle spalle. «Siamo state bene. Abbiamo chiacchierato, visto un film, fatto le ore piccole. Le solite scemenze.»
«Immagino che gran divertimento», sghignazzò lui. «C’erano anche le sue amichette speciali?»
Un singolo sopracciglio inarcato. «Che intendi?»
«Dai, hai capito. La combriccola al completo.»
«Non capisco perché le detesti così tanto. Sono ragazze tranquille.»
Isaac sollevò i palmi, ridacchiando. «Come vuoi. A me sembrano persone terribili e non so come faccia tu a sopportarle. Ti fai sempre mettere i piedi in testa, Daphne.»
La conversazione venne troncata dal rientro di Emma Barnett.
Si abbandonò al posto del guidatore con un sospiro di piena soddisfazione.
Aveva comprato delle buste di dolci e alcuni sandwich, che adesso sventolava sotto il naso dei figli come preziosissime reliquie. Forse, era davvero il tentativo di deporre l’ascia di guerra. O di rabbonirli.
Per il tutto tragitto verso l’Arcadian, Daphne si chiuse nella propria prigione mentale.
La notte passata da Alyssa era stata, nel complesso, tollerabile; non l’avrebbe definita emozionante, ma neppure impossibile. Nel suo pigiama oversize, si era sentita fuori posto, tra lunghe gambe e braccia affusolate, con unghie curate e capelli voluminosi; tutte impeccabili, perfino in procinto di andare a dormire.
Un turbamento più forte, però, l’aveva avvertito prima di scendere nel seminterrato che i signori Russmith avevano arredato come sala per gli ospiti. Fiore all’occhiello, accanto ai poster di Marylin Monroe e ai quadri astrattisti – opere originali – illuminati dalle candele profumate, era il gigantesco schermo al plasma incastrato nella parete principale. L’avevano coperto con dei tendaggi carmino, per spettacolarizzare il tutto.
Nel complesso, tuttavia, Daphne ne era rimasta stregata.
Il mare di coperte e cuscini colorati che tappezzava il pavimento di legno, la luce soffusa delle candele, l’idea di appartenere a qualcosa – anche se per poco, anche se per finta – le avevano riscaldato il cuore.
Si lasciava scivolare addosso l’illusione dell’amore, di sentirsi accolta tra le braccia di Alyssa come se davvero le bastasse solo lei nell’universo e non le importava niente – niente, niente, niente – di tutti quei pensieri intrusivi, di quelle bocche traboccanti liquido nero e rabbioso, che parlavano dentro di lei.
Eppure, eccola la nota stonante.
Avrebbe dovuto aspettarsela, prevederla.
«Ragazze,» aveva cominciato Alyssa, mentre se ne stavano sedute sul letto, in camera sua, «dobbiamo fare qualcosa per quella nuova arrivata».
Tutte avevano assentito al volo, complici e ben informate sulla discussione intavolata.
Solo lei, stretta nel cerchio di braccia e gambe – braccia e gambe perfette, perfette, perfette – e pigiamini lindi, graziosi, era stata il pesce fuor d’acqua.
«Chi?»
«Ma, Daffie, la nuova. Devi averla vista per forza.»
Ronnie Marbles le aveva dato man forte. «Sì, quella con i capelli corti», aveva detto strascicando le vocali. «Porta sempre roba cortissima, anche se fa un freddo boia. Occhi azzurri, lentiggini – mi sembra – una specie di elfo. Ha pure un nome strano», aveva concluso addentando del pop-corn.
«Frances» era stato suggerito da un’altra ragazza.
Daphne aveva finto di comprendere, quando in realtà non l’aveva mai vista prima. «Beh, che ha fatto?»
«Questo è il punto, Daffie. Non sa cosa sta facendo, poverina.»
Alyssa aveva ripreso la parola, con un sorriso blando. «Si sta appiccicando a Prescott.»
Un colpo. Affondata.
Qualche strano vortice interno le aveva risucchiato tutta l’aria dai polmoni, lasciandola senza respiro.
«Sì,» la conferma di un’altra voce, «sono già un paio di volte che le vediamo insieme. L’altro giorno, le abbiamo parlato, durante la pausa pranzo.»
E così, Daphne aveva appreso di come tale Frances passasse il proprio tempo a fumare in cortile, dove l’avevano trovata, placidamente seduta su un muretto. Del loro ammonimento, rispetto alla proibizione sulle sigarette, se ne era infischiata e altrettanto sorpresa, se non infastidita, era apparsa davanti alle raccomandazioni su Melanie Prescott.
Le avevano detto di tenersene alla larga, che era un tipo pericoloso e violento, che portava soltanto guai, e un mucchio di malignità gratuite. Come risposta, quella si era permessa di scrollare le spalle.
«Ci ha risposto: “E allora?”»
Ronnie aveva scosso il capo, sbigottita e delusa insieme. «Capisci?»
La rassicurazione di Alyssa era stata: «Quando realizzerà con chi ha a che fare, cambierà idea».
«Cosa volete fare?»
Tutte l’avevano squadrata con un certo sdegno. Il piano, gliel’avevano esposto in modo sintetico.
Prima di spostarsi per vedere il film, Daphne aveva indugiato un istante.
«Daffie, andiamo?»
«Sì… sì, do la buonanotte ai miei.»
Era rimasta impalata davanti alla finestra che dava sul balconcino privato. Sola, nella stanza, quella casa le era sembrata improvvisamente troppo grande.
Aveva tenuto il cellulare in mano, con una tachicardia improvvisa, scorrendo i nomi in rubrica convulsivamente. Quante volte si era fermata su quello di Melanie Prescott?
Conservava ancora il suo numero.
La voce materna la riportò al presente.
«Siamo arrivati. Buona giornata, piccolotti.»
Stava strizzando una guancia ad Isaac, mollando nelle sue mani il pranzo rimediato al fastfood.
L’ultima frase venne smorzata dal vetro, mentre Daphne si richiudeva lo sportello dietro: «Ci vediamo stasera!»
Aspettò di arrivare al portone principale, di uscire dal campo visivo della madre, per poi svuotare le buste in un cestino dei rifiuti.
Sarebbe dovuta passare in biblioteca, nel pomeriggio. Almeno quello l’avrebbe tenuta lontana dal “nido Barnett” un po’ più a lungo.
Quella notte, da Alyssa, le si erano strizzate le viscere al solo pensiero di premere il tasto per la chiamata.
Un messaggio? Sarebbe stato sufficiente un breve, conciso, messaggio.
Nella scatola mentale in cui si era auto-intrappolata, Daphne aveva sentito rimbombare una sola parola: debole.
 
 
 
 
*    *    *
 
 
 
 
 «Mia!»
Il tonfo venne amplificato dalle mura della palestra.
Un secondo dopo, il corpo di Alexandra era disteso sul pavimento.
Era atterrata con un movimento da acrobata, con l’eleganza che solo una ballerina avrebbe potuto esibire.
Il pallone schizzò in aria, rilanciando un’azione che era apparsa conclusa.
Un palleggio, poi la schiacciata di Melanie a rompere il muro delle avversarie. Dritto nel campo, nessun salvataggio, punto decisivo: partita terminata.
La coach Britts chiamò la fine dell’allenamento.
«Ricordate che le vostre avversarie non saranno altrettanto distratte, durante il gioco.»
La frecciatina diretta a Ronnie Marbles, che era rimasta in squadra, nonostante i propositi espressi poco tempo prima, colse nel segno.
«Dovete rimanere sempre attente. Vigili. Presenti.»
L’allenatrice scandì le parole con determinazione, accompagnando ciascun aggettivo con un pugno contro il palmo libero. «Si gioca per vincere.»
Doveva essere il suo motto, perché l’aveva ripetuto dall’inizio delle lezioni, senza tregua, ad ogni occasione favorevole. «E gli sbadati non vincono mai,» concluse, «sono troppo persi nelle loro elucubrazioni, per concentrarsi sulla vittoria.»
Ricevuto un segno di generale assenso, mandò la squadra negli spogliatoi. L’unica trattenuta in palestra fu Alexandra, con cui aveva da sbrigare alcuni atti d’ufficio.
Melanie lasciò che le altre si cambiassero per prime, attendendo come sempre il proprio turno seduta sulla panca, fuori dalle docce.
Le sentiva ridacchiare su qualcosa. Non se ne diede particolare cura.
La sua mente, al momento, era occupata da un pensiero fisso: la C- in storia.
Aveva dovuto parlare in privato con l’insegnante, accampare scuse, assicurare di poter recuperare in fretta per risollevare la media. Ma in verità, lo sapeva benissimo che da sola non sarebbe riuscita a combinare un bel niente.
Una volta terminato il turno e svuotate le docce, si alzò dalla panca. Come al solito, preferiva spogliarsi lontano da sguardi indiscreti. I panni, li accantonò accanto al borsone e ricevette il getto bollente come acqua santa. Le ristorò le membra, pulendole di dosso sudore e tensione accumulata.
Quando uscì dalla cabina, cercò l’asciugamano, di solito adagiato sul vetro.
La mano scivolò nel vuoto.
Lo trovò fuori, insudiciato sulle mattonelle, accanto alla pila di vestiti sporchi.
Sopra, nel suo centro esatto, c’erano delle chiazze di vernice scura. Grandi lettere vi campeggiavano: pazza.
Anche sul retro, colavano schizzi nerastri.
Gettò il panno in un angolo, andando a recuperare gli abiti ammassati.
«Ma che diamine…» sussurrò.
Guardandoli sotto il fascio delle luci elettriche, poteva distinguere dei netti tagli trasversali, che correvano come cicatrici per tutta la lunghezza di maniche e pantaloni; la tela della maglietta, così come i lacci delle scarpe, erano stati mozzati. La fascia, la sua fascia, distrutta.
Si mise indosso quel che restava dei propri indumenti ed uscì fuori, in cortile.
Un gruppo, quello delle sue compagne di squadra miste ad altre studentesse, se ne stava impalato davanti alla cancellata principale, per metà avvolto dalle ombre.
Ignorò il freddo, la scarsa illuminazione, le ciance strombazzanti tutt’intorno. Melanie si diresse, decisa e impietosa, all’inferriata.
Qualcuno assestò una spallata a Cindy Butler, che sorrideva accanto ad Alyssa Russmith. La prima si voltò subito, accogliendo la nuova arrivata come se l’avesse appositamente attesa.
«Ti è piaciuta la ripulitura, Prescott?»
«Quale. Cazzo. Di. Problema. Hai?» ringhiò Melanie.
La ragazza rimase impassibile. Fu proprio Alyssa a sottolineare, candidamente: «È tempo di fare il cambio stagionale».
Cindy annuì. «Occhio per occhio. Giusto?»
«Ancora con la storia della tua festa. Io non c’entro nulla, smettila di diffondere voci.»
«Quali voci? Lo sanno tutti che sei una pazza, dopotutto. Tale e quale a tua madre.»
L’altra sollevò una mano stretta a pugno in aria, strappando al resto del gruppo un urletto di scandalo. Cindy, però, si manteneva salda nei propri propostiti. «Fallo, coraggio. So che muori dalla voglia di colpirmi.»
Detto ciò, le assestò una lieve spinta, il tanto che bastava a far indietreggiare Melanie, nonostante fosse ben più robusta della propria avversaria.
«Colpiscimi, Prescott. Hai già provato ad ammazzarmi, eppure sono ancora qui. Non ho paura.»
Alyssa la spalleggiò, affiancata da un altro paio di ragazze, compresa Ronnie Marbles. La stavano stringendo in cerchio.
«Avrebbero dovuto rinchiuderti in un istituto, insieme a tua mamma. La cara Sophie Prescott e la figlia», proseguiva Cindy. Il colpo di grazia giunse dalla Russmith: «Le avresti tenuto un’ottima compagnia».
Mentre accanto al cancello il capannello si trasformava in aggressione, da un’uscita secondaria emergeva Daphne Barnett.
Stava rientrando dalla gita in biblioteca, forte dei nuovi volumi che aveva preso in prestito. Li aveva deposti accuratamente in una busta bianca, che teneva in mano con soddisfazione.
Precipitarono tutti a terra, accanto alle scarpe vernaccia, quando vide da lontano la scena.
Cindy Butler affibbiò un’ultima spinta all’altra giovane, sbilanciandola all’indietro. Stava urlando come un’ossessa: «COLPISCIMI, PRESCOTT».
«O forse sei tu ad avere paura di me
Il pugno fendette l’aria. Giunse a destinazione con un sonoro scricchiolio.
La mandibola della ragazza schizzò di lato, mentre il resto del gruppo si avventava su Melanie.
Cindy rimase per un attimo paralizzata, a massaggiare il punto offeso, mentre un rivolo di saliva rossiccia si snodava dal labbro inferiore. Se lo ripulì con soddisfazione estrema. «Te la sei cercata.»
La loro vittima giaceva a terra. Si difendeva, per quanto possibile, a morsi; ma la scena svoltasi nei corridoi, quasi un mese prima, si riponeva adesso con maggiore crudeltà.
Alyssa e un’altra coetanea le bloccavano gli arti, ancorandola al suolo, mentre le altre la ingiuriavano con sputi, calci, offese. La chiamavano assassina, mentre Cindy le scaricava addosso una raffica di percosse.
Daphne parve riscuotersi d’improvviso, inciampando nella pozza di libri ai propri piedi.
Nei corridoi scolastici rientrò come in preda ad un sogno, aggirandosi simile ad un fantasma tra un armadietto e l’altro. Il cuore martellava incessantemente, offuscando ogni decisione razionale al suono della familiare parola: debole.
Non voleva più esserlo.
Non voleva più essere una vittima delle proprie inazioni.
Dallo studio privato della coach emersero le figure di due sconosciute, di pari altezza e fasciate da una tuta sportiva. Conversavano fra di loro, mentre la più anziana indicava con la penna una serie di cifre su di una cartellina plastificata che portava con sé.
L’allieva, dal canto proprio, annuiva con aria assorta.
Daphne prese un profondo respiro.
E poi urlò.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9. ***


Capitolo 9.
 

Broken Glass.



 
 
«The same tricks that
that once fooled me
they won’t get you anywhere
I’m not the same kid

from your memory.»
 
 
Arcadian – 9:23 a.m.
 
 
 
 
Due colpi sordi sulla porta.
«Avanti.»
La voce limpida e posata aveva fatto da contrappeso all’altra che poco prima, storpiando lievemente il suo nome davanti alla classe, l’aveva pregata – una volta individuatala all’ultimo banco – di alzarsi e di uscire.
E di recarsi all’istante in presidenza.
Un ottimo modo per iniziare la giornata.
Melanie aveva percorso la distanza che la separava dall’ufficio della preside, nell’ampio ingresso bagnato da una strana luce autunnale, sentendo scorrere i propri pensieri lungo un nastro trasportatore, ma senza trattenerne o registrarne alcuno.
Forse un tempo una simile notizia le avrebbe tagliato le gambe, attorcigliato il cuore in una morsa da pitone, svuotato la mente di qualunque altra preoccupazione. Forse, un tempo, rischiare l’espulsione dall’Arcadian avrebbe avuto un significato per lei, ma ormai non era più così.
Lo ricordava, quel tempo, come un fioco, sgualcito lume in fondo al varco della memoria.
Lo ricordava, ma non lo sentiva più addosso; lo trascinava con sé come qualunque altro indumento che le gravava sulle membra.
Mentre camminava lungo quel corridoio infinito, Purgatorio incrostato di dipinti, marmi e bacheche di trofei, oltrepassando aule, porte, finestre e qualche anima in pena che vagava per l’edificio, Mel ragionava sul fatto che la sua convocazione non fosse giunta poi come una sorpresa: dopo gli avvenimenti del giorno prima, si era aspettata un provvedimento disciplinare.
Ciò che veramente la sorprendeva era la totale apatia al riguardo, l’assurda lucidità con cui considerava l’idea dell’espulsione, data ormai quasi per assodata, analizzandola, vivisezionandola senza che un muscolo del viso si contraesse. Possibile che lei fosse fatta così?
Una parte del suo carattere, adattatosi come un elastico al tiraggio della crescita; un piccolo, ma comprensibile difetto: tutto lì.
O c’era qualcosa di più profondo, di meno idillico e compassionevole, sotto?
Melanie non avrebbe saputo dirlo.
L’unica certezza che possedeva era il gran sospiro di sollievo con cui aveva accolto l’opzione di essere espulsa, ormai non così remota.
Aprì l’uscio con disinvoltura, sebbene fosse rimasta per più di un minuto impalata nell’ingresso a chiedersi quale scusa inventare per giustificare un’aggressione fisica. Davanti a lei, la scrivania in mogano della preside ingombrava un terzo della stanza, per il resto affrescata da stampe antiche di planisferi e carte astronomiche. Una pianta a cui non avrebbe saputo dare un nome, troneggiava in un ampio vaso dallo smalto bianco. Gli elementi dell’arredamento, in un’oscillazione forse involontaria tra passato e presente, sembravano cozzare gli uni con gli altri.
Rosamund Packwood sedeva dietro una barriera di lampade, fotografie e attestati incorniciati, con in mano una stilografica rossa e una montatura dello stesso colore adagiata sulla punta del naso.
«Melanie, dico bene? Prego, accomodati pure.»
La studentessa esitò per un istante.
La sedia riservatole era collocata fra due volti familiari: alla sinistra Cindy Butler e alla destra sua zia.
Lo sguardo con cui Lydia Blanton la trapassò, mentre prendeva lentamente posto, fu un duro schiaffo al suo orgoglio: non sarebbe mai uscita illesa da quello scontro. Poteva pure mettersi l’anima in pace e prepararsi ad emigrare. 
«Bene,» la preside esibiva un’aria gioviale, «credo che intuiate da voi il motivo della convocazione».
La signora Butler scattò con un indignato colpo di tacco: «Finalmente, oserei dire. Mia figlia sta subendo le angherie di questa teppista da almeno un mese. Davvero non comprendo tale astio nei confronti di Cindy. Abbiamo tentato di tutto per appianare eventuali tensioni con i Prescott.»
Le dita di Melanie si contrassero attorno al bracciolo, mentre forzava su di sé un silenzio composto. Chiuse gli occhi e pregò solo che l’umiliazione fosse il più breve ed indolore possibile, mentre Lydia Blanton si preparava a controbattere.
«Come si permette di definire mia nipote una teppista?»
Melanie li riaprì di scatto.
Sua zia… la stava difendendo?
Zia Lydia, che non spendeva mai una parola di conforto o di carità nei suoi confronti; Zia Lydia che non aveva mai spezzato una lancia a suo favore, adesso prendeva le sue parti?
Dal modo in cui teneva le caviglie avvoltolate attorno alla gamba della sedia e strizzava il fazzoletto da giorno, era evidente che si stesse caricando, ma lei non aveva la minima intenzione di fermarla.
«Mia nipote ha sempre tenuto un comportamento ottimale, in classe e all’esterno. Mi è impossibile credere ad un’aggressione da parte sua davanti alla palestra.»
La signora Butler rimase più allibita di Melanie. «Beh,» balbettò indignandosi, «ci creda, perché è esattamente quello che è accaduto ieri. Diglielo, ciccina».
Sua figlia, come reagendo ad un comando automatico, azionato dal colpetto sulla schiena, s’impettì e rinforzò la versione della madre. Due ruoli rovesciati; come si era figurata dall’invito alla festa di compleanno, Cindy era una marionetta nelle mani esperte della moglie di un uomo politico.
Melanie sogghignò: voleva vedere fin dove sarebbe stata capace di spingersi, pur di ingarbugliare le fila.
«Sì, è vero. Ero in cortile con le altre ragazze, quando mi ha colpita. Un pugno,» precisò massaggiandosi la mandibola, «proprio qui, vede? È uscito un livido».
La preside si sporse appena, per accordare un briciolo di soddisfazione alla signora Butler, che stava facendo prostrare la figlia sulla scrivania. Dovette convenire che si trattava di un terribile ematoma.
«Questo non dimostra affatto la responsabilità di mia nipote.»
«Signora Blanton,» Arabella Butler sorrideva comprensiva, come se stesse parlando con una persona dura di comprendonio, «c’è un’intera schiera di ragazzine pronte a confermare la versione di Cindy».
L’intera armata Butler, pensò automaticamente Melanie. Che faccia tosta.
«Le ripeto che mia nipote non alzerebbe mai le mani su animale o essere vivente che sia.»
La parola “demordere” era chiaramente scomparsa dal dizionario di Lydia Blanton.
«Vuole forse insinuare che mia figlia è un animale?»
«Sto insinuando che sua figlia sta mentendo.»
«Vi invito a mantenere la calma», le interruppe la preside. «Ci sono degli aspetti della questione che, evidentemente, risultano poco chiari. Cindy, Melanie, potreste scusarci qualche minuto? Dobbiamo discutere tra adulte.»
Le due ragazze lasciarono la stanza senza fiatare e senza poter evitare di chiedersi in che modo le suddette “adulte” avrebbero sbrogliato un conflitto di cui avevano una conoscenza superficiale e nebulosa.  
Appena fuori dalla presidenza, Melanie imboccò la strada per il bagno femminile, decisa a non trascorrere un secondo di più in compagnia della Butler Junior. Se erano finite in quel guaio, era soltanto colpa sua e delle sciocche ragazzine che non sapevano fare altro che obbedire all’onnipotente capobranco.
L’adolescenza era un grande squallore.
Trovò la toilette delle ragazze fortunatamente vuota, a differenza del solito.
Un buon quantitativo di acqua gelata avrebbe sostituito la doccia fredda di cui sentiva il bisogno.
Sapeva perfettamente cosa stavano raccontando a sua zia: una caterva di informazioni che lei aveva accuratamente provveduto a tenere nascoste – a zia Lyida, alla madre, all’intero nucleo familiare – una scatola di Pandora che veniva ora fatta scattare.
S’immaginava il volto della parente storpiato in una smorfia d’orrore, mentre apprendeva della media in ribasso, della scarsa partecipazione alle lezioni, della scarica di pugni che aveva assestato a Cindy prima della festa di compleanno e infine della lite del giorno precedente, al termine degli allenamenti.
Osservava un pezzo del proprio sé, un frammento d’identità, senza essere in grado di riconoscerlo: era proprio lei la ragazza che stavano descrivendo come una teppista nell’ufficio della presidenza?
Quel senso di appartenenza, il bisogno di possedere almeno un indizio di chi era stata prima di divenire la sé del presente, la trafiggeva, identico ad una lama nel costato.
Le sembrava di essere scivolata da una condizione serena, stabile, a quel declino in un attimo, ma era ben consapevole che non si trattava affatto di un attimo: quanto era durato in realtà? Mesi? Anni? Un’intera fase della sua vita?
Melanie strinse il bordo marmoreo del lavandino, aggrappandovisi con forza.
Sollevò lentamente il capo finché il suo sguardo non incrociò quello dell’adolescente nello specchio.
Non vi lesse lo smarrimento che si sarebbe aspettata, ma una distaccata pace dei sensi.
Melanie si vide da fuori e capì solo in quell’istante che ad un osservatore esterno sarebbe sempre apparsa identica. Identica ad alcuni anni prima, quando una telefonata a scuola aveva annunciato il tracollo della sua vita privata; identica al volto che aveva incontrato la madre, prima di finire in clinica; identica alla ragazza che aveva spento le proprie quindici candeline nell’immobilità del salotto.
Sollevò un braccio e… un colpo.
Lo specchio inglobò la forma delle sue nocche, mentre un centrino di pieghe concentriche si era allargato tutt’intorno, come se avesse appena spezzato la superficie di uno specchio d’acqua.
Melanie si accorse solo adesso di avere il fiato corto. Guardò stralunata la propria mano, poi di nuovo quella crepatura troppo simile ad un ghigno.
Le luci al neon, uno dei punti forti dell’istituto, ronzavano ritmicamente nel silenzio di lavabi e portasapone.
Il portone antincendio del bagno fu spalancato e si richiuse con un tonfo ovattato, annunciando una nuova presenza.
Camicia stirata, scarpe lucide, boccoli voluminosi: non impiegò più di un istante a riconoscere Daphne Barnett.
«Ti stavo cercando», fu tutto ciò che le disse con naturalezza disarmante.
Melanie avvertì crescere dentro di sé uno strano impeto, un bruciante desiderio, ma le labbra rimasero strette in una linea infinitesimale, mentre il suo respiro tornava regolare. Si sentiva come un animale morente.
Avrebbe voluto confessarle cosa le brulicava in testa, magari anche urlarglielo addosso con la stessa disperazione che la allarmava, scuoteva, essiccava.
Tacque.
«Sei stata convocata in presidenza, vero?»
Daphne non attese una risposta e, come se avesse provato quel monologo almeno una decina di volte, annuì tra sé e sé, aggiungendo: «Anche io».
La tentazione di strascicare il silenzio fino ad otturare, ferire, far esplodere le orecchie di entrambe, fino a che la propria compagna non avesse deciso di riprendere la parola – e il coraggio una volta tanto – le serpeggiava nelle vene, ma Melanie non si fece corrompere. No, quella volta di cose da dire ne aveva in abbondanza, forse un fiume intero.
Non avrebbe permesso all’altra di continuare il discorso preconfezionato.
«Tu? E com’è possibile?»
«La preside mi ha chiamata perché voleva una…»
«Per un premio, sicuramente. Giusto? La studentessa modello. Per quale altro motivo dovresti finire in presidenza?»
Daphne tentò una seconda volta: «No, è stato per via della…»
«Insomma,» la interruppe l’altra, «tu non ti trovi mai in difficoltà. Troppo intelligente, sempre una spanna più avanti degli altri».
Fu allora che la ragazza sollevò gli occhi dalla punta delle scarpe, richiamata dal rumore d’acqua corrente.
Melanie la scrutava con un sorrisetto obliquo, corrosivo.
«Perché dici queste cose?»
Si detestò per la voce lievemente incrinata: era come se avessero scavato a fondo nel suo petto e grattato via lo strato superficiale che teneva insieme un’identità compatta.
Melanie, strofinando le mani con nonchalance sotto al getto gelido, controllava di non essersi guadagnata qualche scheggia nella carne. «Non sono forse vere?»
«No, certo che no.»
Si detestò anche per il balbettio che le era uscito, incapace di tenere testa ad una discussione di così poco spessore. Erano accuse infondate – neppure vere accuse, a dir la verità –  ma Daphne continuava a sentirsi raschiare via pezzi di resistenza e non poteva credere – non voleva accettare – che la propria difesa fosse così debole.
La compagna non fornì altre spiegazioni. Si limitò a sghignazzare malignamente e a scuotere il capo.
«Puoi stare tranquilla, non sei nei guai. Sei troppo maledettamente innocente per finirci.»
Strappata con foga della carta assorbente, si asciugò i palmi, martoriandoseli. Era pronta per il secondo round contro le due Butler congiunte. Poi avrebbe dovuto affrontare sua zia, ma quella era un’altra storia.  
«L’hai fatto tu?»
Daphne sfiorò appena la crepatura del vetro, incredula.
«Tu che ne pensi?»
«Non so cosa pensare», replicò asciutta. «Secondo me non faresti mai una cosa del genere.»
Un altro risolino gorgogliò nella gola della ragazza. «Ne sembri molto sicura.»
«Credo di conoscerti abbastanza bene.»
Melanie gettò via la carta stracciata, per poi mostrarle la fila di nocche rossastre.
«Forse non più così bene.»
E superatala, fece per uscire, ma Daphne la bloccò: «Ma perché ti comporti così? Sto cercando solo aiutarti».
«Ti ho già detto che non sei in debito con me. Vai a giocare alla buona samaritana con qualcun altro.»
«Lo faccio perché voglio aiutarti, non per un dovere.»
Melanie si voltò di scatto e ruggì: «È un po’ troppo tardi per questo, non credi?»
Poi, senza attendere alcuna replica, tornò in presidenza, chiudendo Daphne ed il portone alle proprie spalle.
 
 
 
Trovò la situazione un po’ diversa da come l’aveva lasciata.
Zia Lydia era livida in volto, ma si sforzava di mantenere un contegno, mentre Arabella Butler sembrava sul punto di trucidare la figlia prediletta e la preside Packwood sorseggiava un tè caldo.
«Prima di giungere ad una conclusione in merito alla faccenda della rissa di ieri pomeriggio, vorrei sentire il parere di una testimone.»
La signora Butler scattò subito: «Le ho detto che c’è una schiera di testimoni che potrebbero…»
«Si calmi, signora Butler. Sto parlando della persona che ha denunciato il fatto. La sua versione diverge lievemente da quella riportata da sua figlia e dalle amiche.» La preside proseguì il discorso sulla necessità di una fonte imparziale, ma la mente di Melanie vagava altrove.
Si immaginava già fuori da quel posto infido e, senza preoccuparsi eccessivamente del futuro, sentiva una soddisfazione rigogliosa avvilupparla.
Non registrò neppure il dialogo che portò all’entrata in scena di Daphne Barnett.
Aveva gli occhi appena lucidi, ma il volto di sempre, da scolaretta modello.
Un pensiero, freccia veloce che la trapassò con leggerezza, le comunicò che forse anche Daphne appariva e sarebbe apparsa identica a se stessa per tutti gli anni che si trascinava dietro e per quelli a venire.
Lo scacciò con noncuranza.
«Daphne, puoi gentilmente riferire alle presenti quello che hai raccontato alla coach Britts?»
La ragazza annuì e iniziò a narrare, nello stupore immenso di Cindy e quello disgustato di sua madre, di come, di ritorno dalla biblioteca, avesse assistito ad un’aggressione nel cortile. Cinque o sei contro una, schiacciata a terra e percossa. Le avevano causato dei danni ben più profondi e nascosti del livido della Butler. Passato il turbamento iniziale, lei era corsa in palestra dove aveva trovato la coach Britts in compagnia della caposquadra, Alexandra Foster, immediatamente accorse per prestare soccorso e separare le opponenti.
«La coach Britts e Foster hanno già confermato questa versione», decretò la preside, umettandosi le labbra. «Daphne, hai visto chi ha provocato lo scontro?»
Un rapido sguardo in direzione di Melanie. Si stava imponendo un autocontrollo ferreo, torturando un elastico che portava al polso. Sugli zigomi nessun indizio di commozione o gentilezza.
Melanie avrebbe giurato che non si trattava di Daphne Barnett, ma di una specie di clone meccanicizzato.
«No», rivleò infine, «non ero presente. Melanie, comunque, era la persona atterrata. Le altre l’avevano circondata.»
Cindy schizzò in piedi: «Ho dovuto, preside, per autodifesa. Prescott mi stava picchiando».
Rosamund Packwood chiese conferma alle altre due giovani. Se Melanie preferì rimanere in silenzio, Daphne annuì piano: «Melanie stava reagendo».
Davanti a una simile rivelazione, Lydia Blanton dovette intervenire, rimproverando la nipote: un buon cristiano porgeva sempre l’altra guancia. A nessuno dei presenti fu chiaro se vi fosse o meno dell’ironia.
Per fugare qualunque dubbio, la preside proseguì il colloquio ponendo una serie di quesiti a Melanie, sul perché avesse aggredito anche in precedenza la studentessa, su un eventuale trascorso fra le due, sulla consapevolezza della gravità di un simile gesto.
Una mezz’ora dopo, rese nota la propria decisione: sospensione di entrambe le allieve per cinque giorni.
«Vi esenterò dall’inserire questa sospensione nel vostro report annuale, ma vi invito a riflettere, durante questo lasso di tempo, sul peso delle vostre azioni e sulle conseguenze che esse possono avere, anche sul vostro futuro.» Con un’occhiata eloquente ad entrambe, congedò le studentesse, non prima di assicurare loro che la sospensione sarebbe stata accompagnata da qualche lavoro supplementare, in via di definizione.
«Un’ultima cosa», le richiamò indietro. «La sospensione ha validità immediata.»
Osservando Cindy e sua madre allontanarsi a passo spedito verso l’androne dell’istituto, a Melanie sfuggì un sorrisetto di divertimento.
In fin dei conti, una sospensione – condivisa – era molto meglio di quanto avesse potuto immaginare.
Si sentì afferrare per un braccio e il volto ossuto della zia gravitò pericolosamente vicino al suo. Gli occhi erano sul punto di schizzarle fuori dalle orbite, mentre attraverso una gabbia di denti sibilava: «Faremo i conti a casa».
Daphne stava tornando a lezione.
Avrebbe voluto possedere la stessa noncuranza con cui approcciava un miliardo di aspetti della propria esistenza, ma quella volta il rancore le bruciava troppo vivido nelle vene per poterlo spegnere, per ignorare la bocca dello stomaco che reclamava vendetta e desiderava vomitarle addosso bile, bile, bile.
La scolaretta modello, ma certo: avrebbe dovuto capirlo. Una canaglia.
«Certo, zia. Aspettami in macchina, devo raccogliere un paio di cose. Ti raggiungo subito.»
Le si avvicinò in poche falcate e, incurante ormai di chi la sentisse, le gridò dietro: «Ehi, Barnett! Ti hanno dato una medaglia al valore per questo?»
Quella si voltò lentamente, giurando che non avrebbe ceduto, non avrebbe permesso a nessuno, nemmeno a lei, di abbattere il proprio fortino. Serrò i denti più forte che poté.
«Oppure un trofeo per migliore studentessa dell’Arcadian? Brava, studiosa e adesso anche onesta», Melanie sputava ciascuna parola come la peggiore offesa che potesse immaginare, pesanti più di una scarica di pietre.  Il disgusto sgocciolava dalla lingua, ormai libera da qualunque freno, quasi disarticolando la mandibola. «Ma quanto sei perfetta, eh?»
«Se vuoi prendertela con me solo per aver detto la verità, fai pure», fu la replica secca. «Ho fatto quello che credevo giusto: denunciare un’aggressione.»
Melanie parve esplodere: «E da quando sei la paladina dei più deboli? Eh? Solo quando ti conviene fare una bella figura, se c’è un pubblico davanti a cui recitare. Ma lo sai che sei un’attrice nata? Complimenti. Imbrogli tutti.»
Qualche studente ignaro si era fermato ad osservare, aspettando una replica a simili accuse, ma Daphne rimase di ferro, un pezzo di marmo. Se fosse stato un manufatto, prigioniero di una delle tante teche di vetro alle sue spalle, avrebbe forse mostrato maggiore emotività. L’unico pensiero che gravitava nella sua orbita, mitragliandola da ogni lato, provocandole contrazioni all’addome, era la valanga di sguardi che le grondavano addosso.
Occhi di gufo, occhi rapaci nel buio. Mi sorvegliano. Stupida, stupida, stupi…
«Non inganni me, però. Io lo so che resti solo una vigliacca, una debole».
Con quello, Mel ritenne chiusa la discussione e si spostò in cortile, lanciando una distratta occhiata al punto in cui l’avevano atterrata e umiliata.
A casa, i panni stracciati del giorno prima raccontavano una loro storia di cui forse la preside si sarebbe meravigliata.
Vaffanculo. Fanculo tu e il tuo stupido tè e questo istituto di merda.”
Se aveva fatto anche solo un sforzo, in passato, per rimanervi era stato per i genitori, per la vita che suo padre dedicava allo schifosissimo Paese e per quella che sua madre avrebbe molto volentieri terminato, pochi anni prima.
«Mi hai chiesto cosa pensassi, prima, nel bagno.»
La voce di Daphne la raggiunse e pietrificò, simile ad un dardo avvelenato.
«Beh, sai cosa penso, Melanie? Penso che tu sia ancora più debole; neppure in grado di difenderti da accuse ingiuste, né di essere riconoscente a chi, invece, è disposto a farlo.»
Fu il momento in cui perse la pazienza, il punto di non ritorno. Si era imbarcata su una corsa da cui sarebbe stato impossibile scendere. «Davvero? Ti ritieni così illuminata sul mondo, sulla vita, sulle persone?»
Le si avvicinò, fino a trovarsela ad un palmo dal naso. Anche così, uno o due scalini più in basso, Melanie riusciva a sovrastarla, come da sempre l’aveva dominata in altezza. Poteva giurare che gli occhi dell’altra fossero molto più gonfi e rossi, adesso, ma quel dettaglio non smosse la minima compassione nelle sue viscere; fu anzi il carburante di cui aveva bisogno. «Ti rivelo una cosa, Daphne» le bisbigliò. «Le persone non hanno anime di carta. Non viviamo o muoriamo come accade nei libri.»
Melanie dovette bloccare le mani frementi nelle tasche della giacca, puntando le unghie nella carne.
Sarebbe bastato un gesto, appena un battito, per chiuderle le mani attorno al collo, per spingerla contro il muro dell’Arcadian e vederla smaniare per un goccio d’aria. La studentessa modello che la implorava di lasciarla vivere. «Mi dispiace dover essere io a spiegartelo, ma la bontà d’animo, la riconoscenza e queste altre stronzate cavalleresche esistono solo nei racconti che ingurgiti. Svegliati, perché la vita reale è ben lontana dalla perfezione.»
L’altra era rimasta senza parole. Percepiva le lacrime bruciarle in gola, bloccarle la mascella, ma le trattenne, lasciando che fluissero solo nel sottosuolo, sottopelle.
Tutte le cose che avrebbe voluto dirle per ricominciare daccapo… e quel filo telegrafico era già reciso.
L’unica, flebile affermazione che riuscì a balbettare, dopo un lungo silenzio, fu: «Non sei più la persona che credevo fossi».
Non si dissero più nulla.
Una figura snella emerse dall’entrata dell’Arcadian con una sigaretta accuratamente riposta nella manica della camicetta. Superò Daphne, angustiata. «Melanie, ho sentito della sospensione.»
L’altra si strinse nelle spalle, avviandosi verso la macchina della zia, subito seguita dalla nuova arrivata, che scese la gradinata con degli agili balzi, aggraziata nella gonna a pieghe.
«Ma cos’è successo?»
«Secondo la versione della preside, ho assalito Cindy Butler. Scusa, ma devo andare.»
«Aspetta, possiamo parlare più tardi?»
Melanie ci rifletté un secondo, poi le lasciò il proprio numero, assicurandole che le avrebbe mandato un messaggio nel pomeriggio. «Sei fortunata, Lisa. Si dà il caso che proprio in questi giorni io sia liberissima.»
 
 
 
 

 

*   *   *
 
 


Gli esercizi di algebra erano lo scoglio peggiore che dovesse affrontare.
A differenza degli altri giorni, però, aveva trovato l’ispirazione quantomeno per provare a risolverne qualcuno, consapevole che avrebbe copiato il resto dal suo compagno di banco.
La professoressa aveva ormai rinunciato a coinvolgerlo nelle lezioni, a chiamarlo per qualche dimostrazione, perché comprendeva meglio di lui che nel futuro di Isaac Barnett la matematica non sarebbe rientrata.
Picchiettava la matita sul foglio a quadretti da almeno mezz’ora, ma per il momento aveva tenuto a bada la tentazione di cercare la soluzione online. Osservava le equazioni, certo che quelle gli restituissero un ghigno malefico, beandosi della propria assoluta ignoranza.
Per quanto potesse sentirsi ispirato, gli eventi legati ad Oliver ancora ondeggiavano nella sua mente, procurandogli un mal di mare non indifferente. Ogni tanto gettava un’occhiata al monitor spento, in attesa di qualunque messaggio dal suo nuovo conoscente.
Dopo il salvataggio miracoloso al Black Market, Oliver lo aveva portato in un pub di sua conoscenza, non troppo distante dal vicolo in cui lui lo aveva sottratto al creditore, per sdebitarsi della duplice generosità.
Isaac non credeva nel destino e tutto ciò che orbitava nella sfera del caso, ma a quanto pareva Oliver era di tutt’altra opinione. L’insistenza, aveva poi scoperto, derivava da pura scaramanzia.
La combriccola riunita attorno al tavolo abituale, lo aveva accolto con diffidenza, fiutando lontano un miglio che era un pesce fuor d’acqua. Qualcuno aveva assestato una spallata ad Oliver, chiedendogli dove avesse trovato un pivellino da spennare, ma la reazione del giovane aveva tacitato qualunque protesta.
Gli aveva offerto più di un giro, incurante di età, documenti e legalità.
La realizzazione di essere seduto ad un tavolo di criminali colpì Isaac come una sciabola tra capo e collo, lasciandolo momentaneamente senza fiato. Al terrore era subentrata l’eccitazione, il terribile brivido di poter forse entrare a far parte di qualcosa di grosso, sebbene losco. Forse, si era detto, tacitando la trepidante impazienza dei suoi sedici anni. Forse un giorno, chissà.
Attendeva un messaggio da quello sconosciuto, perché in fondo alla banda era risultato divertente nelle rare battute che si era concesso oppure era stato giudicato talmente innocuo da considerare tollerabile.
Oliver lo aveva riaccompagnato fin nel proprio quartiere, fischiando di fronte al nome della fermata a cui sarebbe dovuto scendere. «Roba forte», era stato il suo commento. Con la stessa ironia gli aveva strizzato l’occhio, dicendogli: «Sei un tipo strano, Isaac. Eppure sono in duplice debito con te per la mia vita. Almeno un’altra birra dovremo offrirtela».
Da quella serata, però, non si era più fatto vivo.
E più ci ripensava, bloccato a quello stupido tavolino del salotto, ingabbiato in una casa vuota e glaciale – il nido di colomba abbandonato dai coniugi Barnett – più ad Isaac quella storia sembrava assurda; talmente assurda, da non aver trovato il coraggio di confidarla a nessun altro. La teneva per sé, temendo che potesse smaterializzarsi, annullarsi come per incantesimo, nel momento in cui l’avesse profanata nell’atto della confessione.
Che stesse divenendo superstizioso anche lui?
Tornò agli esercizi algebrici, prendendo un sorso di spremuta.
Ad infrangere la sua quiete, il colpo della porta d’ingresso.
Un tonfo sordo accompagnò il tutto, mentre uno zaino, barbaramente gettato in un angolo, frusciava sul pavimento fino a collidere con il muro.
Isaac si sporse appena dalla propria postazione, cercando di sbloccare la vista sull’ingresso. «Daph?»
Altri due tonfi sordi, stavolta direttamente contro la parete.
«Daph, che succede?»
L’urlo inconfondibile della sorella.
«Non ne voglio parlare!»
La sentì salire pesantemente le scale, gradino dopo gradino, come se avesse voluto sfondarle, per poi correre in camera propria. Isaac seguì i passi sopra il proprio capo, fino a quando non udì l’uscio richiudersi violentemente. Qualche istante dopo, a completare la costellazione di cattivi segni, la musica a tutto volume di uno dei peggiori dischi che Daphne avesse nel proprio repertorio musicale: pop e Taylor Swift.
«Oh, no, no, ti prego. Questo no.»
Isaac si stropicciò le meningi, mentre la cantante lanciava degli acuti di un album meno recente. Riusciva a distinguere anche la voce di Daphne, più incrinata e stridula, pronta a rompere la barriera del suono.
Gettò via la matita e si alzò dal tavolo, richiudendo il libro. «D’accordo, ci ho provato.»
Raggiunse il primo piano giusto in tempo per l’inizio di un altro brano. Non riusciva a capacitarsi di quell’ossessione per la musica pop, nonostante avesse provato a convertirla più volte ad altri generi di gran lunga migliori.
«I’m really gonna miss you picking fights and me falling for screaming that I’m right.»
Rinunciando ai convenevoli, spalancò direttamente la porta su uno scenario desolante.
L’armadio, con entrambe le ante aperte, sembrava aver vomitato tutti gli indumenti che conservava, spargendoli alla rinfusa su letto, sedie, poltrone, mobili vari. Contro la finestra andavano a schiantarsi oggetti non meglio definiti – calzini? Libri? Penne? – mentre il vero criminale, lo stereo, strepitava al massimo volume dalla scrivania.
Isaac si affrettò ad abbassare, tappandosi le orecchie. «Vuoi assordarci tutti?»
Si accorse in un secondo momento del corpo di sua sorella, disteso sul tappeto ed intento a stracciare teli, lacerare pagine, strappare fotografie. «Ma che diamine fai?»
«Vuoi lasciarmi in pace?» strepitò l’altra, voltandosi in uno scatto.
Isaac indietreggiò. Gli parve di rivivere una scena da esorcismo: Daphne aveva gli occhi gonfi di rossore, il viso pallido inondato di lacrime.
«You go talk to your friends, talk to my friends, talk to me
Ad ogni micro-pausa, la ragazza distruggeva una fotografia e teatralmente la scagliava in un angolo o sotto il letto. Isaac riconobbe un vecchio peluche, ora eviscerato, che spargeva il resto delle interiora piumate per la camera; una gli atterrò sulla spalla.
«S-sicura di non volerne discutere? Perché questo è chiaramente qualcosa», riprovò. «E di grosso, aggiungerei.»
L’altra esplose in uno scoppio di rabbia, pestando i piedi e percuotendo il pavimento con le braccia, identica ad un’infante. «Lasciami stare!»
«Okay, non ne vuoi parlare.»
Isaac si tirò la porta dietro, docilmente.
Sobbalzò nel ritrovarsi davanti suo padre in carne ed ossa con un borsone da viaggio ancora allacciato in spalla. «Dio, mi hai tolto dieci anni di vita.»
«Che cos’è tutto questo?»
Il ragazzo lanciò un’occhiata dabbasso, dove Hugh aveva abbandonato un mini-trolley beige.
«Questo», spiegò con il pollice rivolto verso la stanza della sorella, «è un perfetto esempio di crisi adolescenziale, che io non ho la più pallida idea di come gestire.»
Poi, indicando direttamente il padre, concluse: «Questo sei tu che torni dopo un weekend di latitanza da un luogo sconosciuto, senza avvertire o preoccuparti di spiegarci che cosa sia avvenuto».
Hugh si pizzicò la fronte tra pollice e indice, sollevando appena gli occhialetti da filosofo fallito.
«D’accordo. Mi aspettavo un rientro più… tranquillo, ecco. Vostra madre?»
Isaac non lo degnò neppure di una risposta. Sapeva benissimo dove si trovasse la moglie, eppure si sentiva in dovere di recitare la parte del genitore impensierito. Davvero, non aveva tempo per quella pantomima.
Rimasero entrambi a fissare il mogano, ma il coraggio di trovare una risoluzione li abbandonò presto.
Forse Emma sarebbe stata più adatta alla situazione, o così voleva sperare Hugh Barnett. Il rapporto con i figli si era sempre basato su un’aperta comunicazione, in cui però di rado rientravano esternazioni sentimentali. Lui si teneva nel suo piccolo mondo delle idee, mentre Isaac e Daphne orbitavano nel loro, fatto di problemi adolescenziali che lui aveva rimosso da un pezzo. Emma aveva una tolleranza più bassa per i capricci e le sfuriate, eppure riusciva in qualche modo a calmarli, almeno a capirli.
Diverse volte era capitato che si mettesse accucciata vicino ad Isaac e gli carezzasse il volto, quei capelli nocciola che lei adorava, nel tentativo di trasmettergli serenità.
Con Daphne era diverso, ma Hugh si augurava che quella volta potesse bastare.
Estratto il cellulare, era sul punto di comporre il numero di Emma, quando Isaac lo bloccò.
«No, ho avuto un’idea migliore.»
 
 
 
*   *   *
 
 
 
Quando Lisa May apparve sulla banchina, scendendo dal tram con un balzo e atterrando sul posto in una piroetta per non perdere l’equilibrio, a Melanie ricordò un canarino. Si era cambiata l’uniforme e adesso, in un vestito ocra con delle calze color castagna, risucchiava le gradazioni autunnali di cui Lowhood, attorno a lei, scarseggiava. Le venne incontro con un sorriso che Melanie fu sicura avrebbe ricordato anche tra vent’anni: una piccola fossetta, come una virgola, le incrinava l’angolo sinistro delle labbra, innescando al contempo negli occhi un guizzo d’entusiasmo.
Brillante.
Ovunque fosse andata, Lisa May sarebbe sempre apparsa brillante e di una rara eleganza, perfino in un luogo come Lowhood, distante anni luce dalla realtà a cui era abituata.
«Primo pomeriggio di sospensione», osservò, mentre il sorrisetto si ampliava, «come ci si sente a vestire i panni di una criminale?»
Melanie ringraziò il cielo per quell’ondata di frizzante ironia. Non la considerava responsabile dell’accaduto, Lisa, e questo le bastava a sentirsi più leggera. «Incredibilmente bene, devo ammettere.»
S’incamminarono insieme verso il centro pulsante del quartiere, a pochi passi da casa sua. Rivelarle dove abitasse non rientrava nei suoi piani, né credeva che Lisa avrebbe fatto domande al riguardo: era troppo beneducata per permettersi un simile rischio.
Vederle accendere una sigaretta, nell’aria industriale del tardo pomeriggio, le fece uno strano effetto. A volte dimenticava fosse una fumatrice: talmente abituata ad associarla al gruppo di Cindy Butler e delle altre salutiste, rimuoveva del tutto la possibilità che Lisa di tanto in tanto raccogliesse la cascata di capelli in una coda, tenendoli ben lontani dal viso, e si fumasse placidamente una Lucky Strike. A giudicare dal pacchetto vuoto, forse più di tanto in tanto.
«Non c’è bisogno che mi rimproveri ogni volta che ne accendo una», sospirò armeggiando con l’accendino.
«Ma se non ho detto niente!»
«Il tuo sguardo parla da sé.»
Mel voltò appena il capo, per trattenere una risatina nella stoffa della felpa.
«Mi preoccupo per i tuoi bronchi.»
Lisa le scoccò un’occhiata ermetica, prima di scuotere il capo. Le raccontò di come sua madre l’avrebbe uccisa, se avesse scoperto quel piccolo segreto. Era una salutista più accanita dei Butler, che rimanevano il modello di riferimento per l’intera famiglia; obbligava chiunque a praticare dell’attività fisica, volente o nolente.
«A me è toccata la ginnastica ritmica. Sarebbe potuta andare peggio, in fin dei conti.»
Melanie passeggiava con la fronte aggrottata, gli occhi infilzati nell’asfalto. «Se fossi libera di scegliere,» continuò Lisa con aria sognante, «credo che proverei diversi tipi di danza. Così, per togliermi lo sfizio».
«Ma tu sei libera di scegliere.»
Uno sguardo sconcertato: «Come?»
«Hai diciassette anni, sei abbastanza matura per compiere delle scelte», ripeté l’altra. «Soprattutto se riguardano il modo in cui vivi.»
Lisa mugugnò qualcosa tra sé e sé, simile ad un “non lo so”.
«A volte,» riprese dopo un silenzio, «vorrei non sentire il peso delle aspettative».
«Aspettative?»
Lei annuì. «Siamo un branco di conformisti, noi May.»
Melanie ebbe la sensazione che vi fosse dell’altro sotto, ma si chiese se indagare oltre il limite che Lisa aveva deciso di valicare. Da un lato parlare con lei le veniva naturale, come se l’avessero fatto da sempre e quello non fosse il primo autentico scambio fra di loro, ma dall’altro non la conosceva quasi per nulla.
Che il suo alone di mistero si esaurisse tutto lì, dietro allo schermo da brava ragazza intrappolata in una famiglia benestante ed eccessivamente preoccupata con le apparenze?
Per qualche motivo, stentava a convincersene.
«Tu ti distingui.»
Glielo disse in un modo che penetrò l’animo di Lisa May. Se le avesse confessato che la trovava “speciale”, “diversa” o qualunque altro complimento sulla stessa linea di quelli che diversi ragazzi in passato le avevano rivolto, non sarebbe valso ugualmente. Le credette.
«C’è una piccola ribelle, lì sotto.»
«Forse», commentò. «Mai alla tua altezza, genio del crimine.»
«Ah, per quello ci vogliono anni e anni di allenamento. Non sperare di raggiungermi così facilmente», concordò Melanie. Ridacchiarono entrambe. «Serve un talento naturale, della creatività, per beccarsi la sospensione.»
Lisa pareva riflettere sulla delicatezza con cui porre la domanda che serpeggiava tra loro.
Vagando senza una meta, erano giunte al Been and Gone Store. Decisero di entrare per acquistare un paio bibite ghiacciate e dei salatini. Un ragazzo della loro età, smilzo e bassino, faceva lo slalom tra gli scaffali, sorreggendo con difficoltà le casse di rifornimenti. Le braccia scheletriche sembravano sul punto di cedere.
Mentre cercavano un pacchetto di patatine, Melanie, senza neppure guardarla, disse: «Stai per chiedermi se l’ho fatto veramente?»
I grandi occhi cristallini scattarono in alto, recuperando la poca differenza d’altezza che le divideva.
Lisa si addolcì, sentendosi sollevata da un gran carico. «Solo se vuoi.»
A Melanie balenò un’idea malsana, ma la azzardò ugualmente. Lasciata trascorrere una pausa ad effetto, le si accostò e in un sussurro: «Hai mai commesso un furto?»
«Cosa?!»
«Oh, andiamo, conformista. Devi tenerla allenata, quella vocina da ribelle.»
Le stava tendendo un pacchetto di dimensioni moderate, incoraggiandola a nasconderlo sotto il vestito.
Lisa si rigirò il prodotto tra le mani, ma le mancava la determinazione sufficiente per portare ad effetto il furto. Da dietro l’angolo, il giovane commesso aveva occupato la loro corsia e adesso stava trafficando con le scorte di salatini al formaggio.
Melanie le si parò davanti per schermarla, incitandola nuovamente con un’alzata di sopracciglia.
Alla fine, lentamente, la ragazza lasciò scivolare la busta nel proprio decolleté, stringendosi nella giacca pesante che portava sopra, a rinforzare la copertura.
Comportati naturalmente, si ripeteva mentre scivolavano accanto alla cassa.
Le membra, corde di violino, si arricciarono davanti all’offerta di aiuto del commesso, che aveva domandato loro se andasse tutto bene. «Benissimo, grazie» sputò d’istinto tra i denti. Non riusciva a respirare.
Con la coda dell’occhio catturò un risolino di Melanie, che teneva la porta aperta per lei.
Tre metri dopo, la assalirono i sensi di colpa e Lisa propose un dietrofront, per restituire o almeno pagare la merce. La compagna, però, afferratala per le spalle, la costrinse a tenere il viso rivolto verso il Cotton Bridge, che si stagliava all’orizzonte. «Non si torna indietro», le intimò in un sussurro, incerta se parlasse a se stessa o alla sua complice. «Sempre avanti, Lisa May.»
«Ma adesso cosa facciamo? Mi sento terribilmente colpevole, ho una quantità di adrenalina in corpo…»
«Accelera il passo, allora.»
Con una mano premuta sul petto e l’altra pesantissima lungo il fianco, a scandire il ritmo dei suoi passetti, Lisa sembrava una majorette. Percepiva il proprio battito, sotto gli strati di stoffa e pelle, scoppiettare nella gabbia toracica. Il pacchetto rispondeva ad ogni suo movimento, strofinandosi contro la maglia.
Nella mente di Melanie si era incagliato un unico pensiero, che non voleva essere scacciato.
Inutile farsi distrarre dalla folla che passeggiava sul marciapiede, dai fanali delle automobili, dal rumore di binari del tram, distanti. Ciò che le martellava nelle tempie era il bordo ricamato della gonna di Lisa, quel vestito che le lambiva le ginocchia ossute. Aveva delle caviglie perfette, levigate, da danzatrice. 
Smise di opporre resistenza e la diga della sua immaginazione finalmente si sciolse: bruciava d’invidia per quella busta di plastica, ignara del privilegio accordatole.
Chissà di che colore era il reggiseno che indossava quel giorno. Avrebbe detto pesca, conforme all’incarnato leggero, ma sarebbe stata ben contenta di ricredersi.
Le riusciva facile figurarsela a contorcersi nella ginnastica artistica, magari con uno di quei body plissettati, talmente aderenti al corpo da lasciare poco alla fantasia, e le gambe libere di spaziare e spalancarsi ad angolo piatto.
Intanto, Lisa aveva davvero aumentato il passo ed automaticamente avvenne ciò che le era successo molti anni prima, in settimana bianca, quando artigliava lo slittino che scivolava lungo il pendio innevato, incapace di guardare la discesa: aveva lasciato che succedesse e se ne era dimenticata. Un piede davanti all’altro, Lisa prese a camminare a ritmo sostenuto, qualche metro più avanti a saltellare; arrivata al Cotton Bridge stava correndo.
Melanie riuscì a stento a starle dietro. «Lisa! Puoi fermarti ora», le gridò.
L’altra, però, non la sentiva. Correva a perdifiato per il Cotton Bridge, come inseguita da un branco di animali inferociti, avvertendone il latrato sul collo, il respiro alle calcagna.  Lo attraversò in un lampo e, una volta giunta al termine, concluse la prova con una piroetta acrobatica.
Quando Melanie la raggiunse, era intenta a sgranocchiare un salatino. Le tese la busta aperta.
«Non mi avevi detto del tuo passato da maratoneta», la schernì Mel.
Il traffico sotto di loro non accennava a defluire. Lo spazio fra il Mandriano Rosso e quello Blu, la cosiddetta Terra di nessuno, era intasato di automobili. Melanie si aggrappò al parapetto, sospirando.
Sapeva che Lisa la stava studiando, provando ad indovinare cosa le passasse per la testa, ma nel suo Paese delle Meraviglie arrugginito non avrebbe potuto farla entrare. Ripensava a Daphne, al modo in cui l’aveva guardata, quando le aveva dato della vigliacca.
Sapevano entrambe che era la verità, ma non avrebbe dovuto dirlo comunque: così l’aveva concretizzata, coagulando tutti i rimpianti che forse la sua vecchia amica teneva per sé.
A mente fredda, con la lucidità che anche sua zia aveva rinforzato con una sfuriata tempestosa – Melanie aveva temuto che la stesse per cogliere un infarto, le partisse un embolo e tanti saluti zia Lydia – prendeva atto della realtà: Daphne l’aveva difesa.
E con ciò? Lei le aveva salvato la vita al Galaxy Hotel: un pareggio.
Era divenuta così cinica, così calcolatrice, da ragionare in termini di vantaggio e svantaggio? Ma poi chi teneva i punti in quel conflitto infinito?
Infinito… si chiedeva se si sarebbe mai vista una luce alla fine del tunnel o se loro due fossero destinate a rimanere in quel modo, talmente simili da non potersi avvicinare?
Melanie sentì che si era formata una crepa proprio lì, attorno al miocardio.
«Sì,» bisbigliò, «ho picchiato Cindy, ma se lo meritava e non riesco a provare il minimo rimorso per ciò che ho fatto. Mi hanno derisa, umiliata, vessata».
E hanno tirato in ballo mia madre.
Lisa annuì, scegliendo fra un ventaglio di opzioni il silenzio.
Mel si morse un labbro: «Se lo meritavano, tutte».
«E comunque l’ho pagato quello», concluse accennando alle patatine.
«Che cosa?!»
Sul volto di Lisa si condensò del genuino sbalordimento. L’altra si strinse nelle spalle.
«Ci lavoro lì dentro. Ho un conto aperto.»
 
 
*     *     *
 
 
L’eco del campanello rimbombò per tutta l’abitazione.
La casa a due piani dei Barnett si presentava identica alle altre file di villette bianche, modeste, che pullulavano nel quartiere. Continuavano a spuntare come funghi le famiglie standard che vi dimoravano: ogni anno almeno due nuovi nuclei composti da genitori modello con due, tre ragazzini - al massimo un adolescente – rimuovevano il cartello di vendita e vi si insediavano comodamente.
«Avremmo dovuto comprare dei fiori», ribadì James.
Automaticamente si sollevò un coro di sospiri.
Per tutto il tragitto fino a casa Barnett non aveva fatto altro che esasperarli con la storia del bouquet. Ad ogni minima sosta, al semaforo più vicino, al successivo svincolo ripeteva che gli sembrava la soluzione più opportuna, nel caso in cui si fosse trattato di un lutto familiare, presentarsi muniti di fiori.
«Così, di scorta», insisteva.
«James, non è morto nessuno», lo rassicurò Logan.
«Come fai ad esserne certo? Si parla di “emergenza” per le situazioni gravi e un morto è piuttosto grave.»
A venire in soccorso del gruppo giunse Emma Barnett, che spalancò la porta d’ingresso con un sorriso smagliante. Jason e Travor avevano frequentato poco l’ambiente dei Barnett, eppure non ricordavano una singola volta in cui la padrona di casa non si fosse mostrata cortesissima, affabile.
Li accolse dentro, ringraziandoli di essere venuti così tempestivamente.
«Si figuri, signora Barnett,» fece James, «quando dice “emergenza”, uno non ci pensa due volte».
Si guadagnò un’occhiata glaciale dal resto del gruppo.
Emma li stava scortando al piano superiore, banalizzando la chiamata come una sciocchezza – perché di certo di quello si trattava – ma al tempo stesso ammettendo di essersi trovata con le mani legate nel confrontare sua figlia. «Con noi si rifiuta di aprirsi,» sospirò debolmente, «magari voi avrete più fortuna».
Una risatina amareggiata raspò nella gola di Logan, risuonando fra le pareti.
«Oh, mi creda, lo so
«Faremo del nostro meglio», le assicurò Jason.
Emma Barnett si bloccò sull’ultimo gradino, gesticolando mollemente. «Mi dispiace avervi scomodati, ma vorrei solo assicurarmi che si tratti di un fatto non grave. Insomma, niente di cui debba preoccuparmi. Ho talmente tanti…» Le parole le morirono sulle labbra, mentre la mente vagava altrove. Logan capì all’istante.
Aveva intravisto, in salotto, Isaac in compagnia del padre.
«Ho alcune questioni da risolvere», terminò la signora.
Li accompagnò fin davanti all’uscio, poi vi picchiettò e rimase in attesa di una risposta.
«Daphne? Hai visite.»
Agli altri risultò il tono di chi si sforza di mostrarsi gioviale, sebbene abbia solo una gran voglia di sprofondare in un morbido oblio dei sensi. Mantenne intatto il sorriso di rossetto e socchiuse la porta.
«Entrate pure. Ah, se potete», stava consegnando una manciata di cioccolatini nelle mani di Trevor, «fatele mangiare qualcosa.»
Con le labbra mimò l’ennesima formula di ringraziamento, prima di lasciarli al silenzio della cameretta.
La prima cosa che catturò l’attenzione dell’intera combriccola fu la nevicata di carta lacerata e fotogrammi che aveva seppellito il letto; di questo, solo una minuscola parte era occupata dalla legittima proprietaria, rannicchiata su un fianco, viso al comodino.
Travor rimase ipnotizzato dalle stoffe strappate che ingombravano il pavimento e da alcuni nastri di raso ridotti in stracci. Dalla finestra, ora aperta, deboli folate di vento gonfiavano le tende e facevano volteggiare i brandelli di carta, sospendendoli in un’atmosfera rarefatta.
I quattro ospiti si scambiarono un’occhiata di allarme.
Il primo a reagire, con una specie di scatto a molla, fu James.
Gettatosi sul letto, si sdraiò accanto alla ragazza, scuotendola con delicatezza per un braccio. Mentre Jason circuiva i mobili, attratto da un paio di fotografie d’infanzia, Travor rifletté su una scusa valida per giustificare quell’irruzione. Logan, discosto dagli altri, si accovacciò accanto all’armadio, cercando di ignorare Daphne e i piccoli dettagli – gli occhi ridotti a due fessure, il naso chiuso ed arrossato, un impiastro di muco sulle guance a gravare sul labbro superiore – che rischiavano di distrarlo, comprimendogli il cuore.
In terra frammenti di quelle che erano state fotografie a colori, impossibili ormai da ricostruire, giacevano accanto a pagine di un vecchio diario appallottolate.
Travor si decise a rompere il ghiaccio: «Daffie, che stai ascoltando?»
James le aveva sottratto un auricolare, controllando sul display del telefono il titolo della canzone. «No, no, no», decretò. «Non ci siamo. Questa manda pessime vibrazioni. Cambiamo musica.»
La voce di Isaac li sorprese dalla soglia. «È da oggi pomeriggio che fa così. Non vuole dirci cosa le sia capitato.»
«Ve l’ho detto», mugugnò la ragazza. «Ma voi non ascoltate.»
Si sistemò meglio sul materasso, abbracciando il cuscino. «Non ascoltate mai», aggiunse con la bocca impastata. Tirò su con il naso, reprimendo un singhiozzo.
«Una sciocchezza, d’accordo», acconsentì suo fratello. «Ovviamente non lo è, altrimenti non ti troveresti in questo stato. Iniziamo a preoccupaci, Daph.»
Tra le pagine che provava a spiegare sul pavimento, Logan trovò un disegno: al centro, la stilizzazione di un paio di bambine su di un prato, circondate da margherite e con le mani intrecciate. Alle loro spalle recinti e cartelli con indicati solo due colori, Rosso e Blu. Seguendo le frecce che le sovrastavano, un paio di etichette recitavano: Mel & Daph.
Logan cercò lo sguardo di Daphne, che lo stava già osservando, rosicchiandosi le unghie.
«Okay, un brano più movimentato. Ragazzi, suggerimenti?»
«Sì, roba upbeat.»
«Sono anni che le dico che deve smetterla di sentirsi quei cantanti piagnucoloni, ma lei non mi dà retta.»
«Bravo, Isaac, fai benissimo. Siamo con te in questa crociata.»
Logan si rimise in piedi, riponendo il foglio di carta sul davanzale. Sorpassati gli altri amici, si avviò all’uscita. «Andiamo», disse solo.
Fu Jason a domandargli dove diamine pensava di andare.
«Fuori, a fare un giro. Ho parcheggiato la macchina qui sotto.»
 
 
Tre quarti d’ora e diversi chilometri più tardi, si erano tutti e sei spostati nel campetto di basket dimesso, dietro casa di Travor. Ci andavano a giocare da piccoli, specialmente in estate, con il quartiere deserto, le scuole chiuse e troppo tempo libero da occupare, senza rischiare di evaporare sotto il sole bollente.
La schermatura di querce che ne costeggiava il perimetro, lo rendeva il posto adatto per una partita con ridotte emissioni di sudore.
Adesso vi si rifugiavano per i più svariati motivi, principalmente quando troppo svogliati per inventarsi qualcosa di più articolato; ci andavano per fare due tiri a canestro, in maniera disimpegnata, perché nessuno di loro era una cima nel basket.
Travor distribuì l’ultima lattina di birra e si lasciò cadere sul campo da gioco, accanto a Jason.
«Quella non dovresti berla» osservò Daphne.
Stava fissando suo fratello, intento a stappare la propria bibita.
Nella macchina di Logan c’era finito anche lui, che pur di sfuggire alla seratina con i coniugi Barnett avrebbe fatto carte false. Gli amici della maggiore gli sembravano tipi a posto, tutto sommato, e se doveva rinunciare alla compagnia di Oliver e degli altri, avrebbe accettato quell’unica occasione per sfuggire dalla tempesta che si preparava in salotto.
«Come se fosse la prima che bevo.»
«Ma io dovrei essere quella che ti impedisce di fare scemenze, non che ti incoraggia.»
Daphne si passò entrambe le mani tra i capelli, poi sul volto, esasperata. Al contrario, i suoi amici sembravano in pace con l’universo: ottenuti un paio di panini e delle patatine d’asporto, si stavano cimentando in una prova di abilità. La sfida, lanciata da James, consisteva nel tenere in equilibrio le patatine sul naso per il maggior tempo possibile.
Se la stavano cavando tutti piuttosto male.
E in quella miriade di risate, gomitate, pacchetti di cibo d’asporto, Daphne ebbe solo voglia di abbassare le palpebre, inspirare a fondo il freddo pungente ed espirare lentamente il fuoco che le chiudeva i polmoni.
«Qualcosa non va, Dee-Dee?»
Lei scosse il capo, gli occhi ancora serrati. «È solo…»
Risucchiò quell’effimero sussurro che le era uscito.
Una schiarita di voce.
«È che non capisco perché vogliate essere amici di una come me.»
Travor si tirò a sedere di scatto, imitato da Jason.
«Una come te?»
«Sì, una piagnucolona. Una debole, vigliacca.»
Ecco, lo aveva ammesso. Finalmente aveva vivificato e realizzato la profezia di Melanie.
E si sentiva più leggera. Molto, molto più leggera.
Come se metà del suo peso corporeo fosse stato scaricato e trasportato altrove, gettato in un fossato e ormai ricoperto sotto strati di terriccio. Poteva essere dimenticato, adesso.
«Non faccio altro che mettervi in imbarazzo, qualunque cosa decidiate di fare. E poi mi compiango. Sto a piangermi addosso nella speranza di…di…»
«Di essere capita?»
Lo sguardo di Logan, con un singolo sopracciglio inarcato, fu eloquente. L’altra annuì, rilasciando un sospiro che le parve durare un secolo. Era come se le avessero bucato lo stomaco e si stesse lentamente sgonfiando. Tra qualche secondo, avrebbe preso il volo.
«Beh, la buona notizia,» le comunicò suo fratello, «è che sei umana.»
Jason gli diede man forte: «Iniziavamo a dubitarne».
Una risata scrosciante accompagnò quell’affermazione. Volò qualche patatina in direzione del responsabile, colpendolo in fronte. Travor concordò sul fatto che fosse normale sentirsi così, di tanto in tanto: arrabbiati con il mondo intero, tanto da volerlo infiammare.
«No, quella si chiama piromania, Travor», lo interruppe James, ancora sghignazzando. «Ne abbiamo già parlato.»
Isaac riprese il filo del proprio discorso: «La cattiva notizia... è che nessuno ci capisce mai del tutto».
«Ma non importa. Non è un requisito fondamentale per adorarti, Daffie.»
Era stato proprio James a pronunciare quella frase. Aggiunse che le sarebbero stati grati se avesse delucidato tutti sulla questione che la stava affliggendo, così da mettere termine alla sua sfuriata da teenager angustiata e potersi godere le stelle – che si cominciavano ad intravedere tra i comignoli – insieme al cibo spazzatura.
Quella, però era decisa a non sbottonarsi sulla questione.
«D’accordo,» fece Logan, «ho una proposta.»
Ciascuno, a turno, avrebbe confessato un segreto - non necessariamente un fatto scabroso, ma qualcosa di cui provavano troppa vergogna oppure che portavano dentro da parecchio, per mancanza di coraggio, di occasione, di ascoltatore a cui confidarla. La proposta fu accolta con una serie di fischi d’approvazione, mentre tutti i presenti formavano un cerchio, gambe acciambellate e birra alla mano. La chitarra che Logan portava sempre nel portabagagli giaceva nella propria custodia, sotto ad un canestro.
«D’accordo, inizio io.»
Jason si sfregò le mani come un roditore, pronto a sorprenderli con la propria storia. Già la premessa suscitò un’onda di disapprovazione: «Non è una cosa di cui vado fiero, ragazzi».
Qualcuno lo rassicurò con un ghigno sul fatto che sua madre ne sarebbe rimasta all’oscuro.
La storia riguardava sia lui che Travor. Lontana giornata invernale del loro ultimo anno di scuola media. Un freddo glaciale, probabilmente era poco prima delle vacanze natalizie. Se ne stavano entrambi annoiati al secondo piano a fingere di studiare nel corridoio, durante l’ora di musica.
Un ragazzino, che non doveva avere più di dieci o undici anni, aveva chiesto indicazioni per il bagno, perché il solito era guasto. I due, senza un attimo di esitazione, lo avevano spedito alla toilette dei professori, all’ultimo piano, dove sapevano per certo che avrebbe trovato l’unica docente che se ne serviva: la Rackett.
Poi, si erano rinchiusi nell’aula di musica, sparendo dalla circolazione. Qualche giorno dopo, la notizia di un primino che sorprendeva la Rackett sulla tazza del gabinetto e veniva sospeso, aveva fatto il giro della scuola.
Daphne scuoteva la testa: «Che bastardi».
«Geniali, davvero geniali», si complimentò James, stringendo la mano ad entrambi.
Travor, dal canto suo, si stava lamentando per essere stato coinvolto contro la propria volontà. Quell’episodio copriva automaticamente anche il suo turno, per quanto si sentiva in colpa.
«D’accordo, chi è il prossimo?» domandò Logan.
Subito, la mano di James scattò in aria e poco dopo il ragazzo si era alzato in piedi, per rendere meglio la scena. Il grande segreto consisteva nel suo semi-arresto, la scorsa estate, quando, completamente ubriaco, aveva deciso di liberare la vescica contro un muro, in un luogo pubblico poco distante dalla spiaggia. Era sicurissimo che il delatore fosse stato qualche anziano, che l’aveva spiato e probabilmente invidiato.
«Perché, voglio dire», ammiccò. «Chi non sarebbe invidioso?»
Ignorati gli sbuffi del suo pubblico, proseguì il siparietto. «Insomma, stavo con il mio gingillo in bella vista, quando sono arrivati due poliziotti…»
Era scappato. Semplicemente aveva preso a correre, nella speranza di seminarli. Alla fine, avevano desistito.
«Mi sa tanto di cazzata, Jay», bofonchiò Logan.
«E hai ragione, perché la verità è che mi sono gettato dietro un groviglio di rovi, nel primo parchetto che ho trovato, e loro hanno creduto che fossi sparito.»
L’amico obiettò che probabilmente avevano solo provato pena per un adolescente ubriaco, che, esclusi gli atti osceni in luogo pubblico, appariva inoffensivo. James si portò le mani sui fianchi, irritato.
«Va bene, sentiamo che hai in serbo tu, Logster.» Detto ciò, andò a recuperare la chitarra, così da suonare qualcosa intanto, per ingannare il tempo.
Logan si concesse qualche minuto di riflessione. Scandagliando nella memoria, ne avrebbe avute di storie imbarazzanti da raccontare o di strane avventure che nessuno, a parte suo nonno che ne era stato coprotagonista, conosceva. Addentò il filo della collanina che portava sempre con sé: un gesto abituale, nei momenti di concentrazione.
Alla fine, scelse qualcosa di completamente differente.
«Qualche giorno fa, mentre stavo cercando delle canzoni da far suonare alle audizioni per la band, mi sono messo a provarne qualcuna sulla chitarra.» Era un po’ che non suonava in camera, con tutta la casa a disposizione per sé, e sentirsi da solo nel cuore di un quartiere quieto, con solo un latrato in lontananza, gli aveva smosso qualcosa. Anzi, di più: aveva permesso ad un pensiero nello scantinato della sua infanzia di riaffiorare. Da quando era riapparso, non riusciva a liberarsene.
«È solo un’ipotesi, non parlo seriamente», avvertì gli altri. «Ma mi piacerebbe suonare anche in futuro.»  
Il gruppo accolse quell’informazione in silenzio. Sentì il bisogno di specificare che intendeva un futuro vicino ed uno distante: avrebbe voluto continuare a suonare per tutta la vita.
«Non me l’hai mai detto», bisbigliò Daphne.
L’altro scrollò le spalle. «Ripeto, è un’ipotesi.»
«No, si tratta di più. È un sogno.»
Dal momento che nessuno osava aggiungere altro e James aveva iniziato a pizzicare lo strumento a corda, Travor effettuò un ultimo tentativo: «Tanto per capire, Daffie, il tuo segreto è qualcosa di illegale?»
Lei scosse il capo, stropicciandosi di nuovo gli occhi. Sentiva due palle da biliardo al posto delle orbite oculari. No, gli disse che non aveva commesso alcuna azione riprovevole.
«E allora cos’è?»
Era…
Era sentire una parte di sé che si staccava da tutto il resto; una scheggia del proprio io che prendeva una strada separata, schizzava via come impazzita, provocando però un gigantesco crollo. Un tracollo effettivo ed affettivo. Era la certezza di non aver fatto abbastanza per impedire che una persona a cui teneva più di ogni altra cosa al mondo, forse perfino più del sangue del suo sangue, andasse alla deriva.
Era il rovello che la svegliava ogni mattina, da troppi anni, per instillarle un unico dubbio, due paroline fatali: “e”, “se”.
E se avesse reagito diversamente, il giorno del ricovero di Sophie Prescott?
E se avesse trovato il coraggio di credere a Melanie piuttosto che al resto del mondo?
E se fosse stata più tempestiva, più decisa, nel prendere le sue difese e scagliarsi contro la valanga di insulti che le avevano vomitato addosso?
«È che sento di aver compiuto una giusta azione, ma al momento sbagliato.»
Le corde della chitarra, tornata in braccio al suo legittimo proprietario, risposero al tocco soffice di dita incallitesi con anni di pratica autodidattica.
«Abbiamo fatto tutti qualche cazzata e chissà quante ne compiremo ancora», le disse Isaac. «Se ci incastrassimo nella retina del passato, non andremmo mai avanti. No?»
Le mancarono parole adatte a controbattere. La meravigliò solo che quel lato di Isaac emergesse di rado, celando agli altri un bacio di saggezza niente male. «E la corrente ci spinge sempre avanti.»
James la invitò ad unirsi al loro canto: era una canzone che avrebbe messo d’accordo i gusti di tutti, perfino quello snob del fratellino. Il folk pop degli OneRepublic venne generato come d’incanto, mentre Jason e Travor ricreavano delle percussioni amatoriali, battendo le mani o scuotendo il cartoccio del panino.
«Ti sentirai meglio» le assicurò. «Una bella cantatina può fare miracoli.»
Le voci dei due amici si levarono all’unisono, alta e cristallina quella di James, di qualche tono più in basso quella calda di Logan.
«I’ll find the places where you hide, I’ll be the dawn on your worst night.»
Daphne si rannicchiò contro il corpo di Isaac, posandogli il mento sulla spalla; cominciarono ad ondeggiare sul posto, l’una propaggine dell’altro.
Come al solito, non sarebbe stata una performance se James non si fosse messo a dare spettacolo e, scattato in piedi, aveva preso a interagire con un paio di anziani affacciati alla finestra di fronte. Attratti dalla chitarra e dalle risate, risposero con un timido cenno di saluto.
Logan, invece, rimase inginocchiato sul campetto, un mezzo sorriso ad incrinargli le labbra in una smorfia scaltra, nell’incontrare lo sguardo di Daphne.
 «Yeah, I would kill for you, that’s right.»
Lei affondò il viso nel giubbino di Isaac.
«È per via di Melanie…»
«Lo so.» Isaac le soffiò un bacio sulla tempia. «Adesso lo so.»
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10.* (I) ***



CAPITOLO 10.* (I)

Mousetrap


*Il capitolo presenta delle scene più forti
 
 
«I feel the adrenaline
moving through my veins
spotlight on me and
I’m ready to break.»

 
 
8:35 a.m. - Lowhood
 
 

I libri di storia accatastati gli uni sugli altri la minacciavano dalla scrivania.
Avrebbe fallito anche l’ennesimo test, ne era sicura. Le lacune che si portava dietro da almeno due anni aprivano voragini sempre più ampie, che promettevano di farla sprofondare nel totale oblio.
Se solo si fosse impegnata, adesso che aveva tutto quel tempo a disposizione, il pericolo della bocciatura avrebbe cominciato a scemare – non a svanire definitivamente, ma almeno a rimarginare quei crateri.
Stava torturando i lacci della felpa, intrappolata nell’indecisione.
Non riusciva a demolire quel vetro, un’abitudine in cui sedeva comoda.
Un risolino richiamò la sua attenzione.
Per un attimo pensò che si trattasse di uno di quei giocattoli a fischietto del cane, che spesso s’intrufolava in camera di soppiatto rimasticandone uno, ma la sua ipotesi si rivelò presto errata.
Il suono proveniva dall’angolo in cui si trovava il comodino. Proprio lì, sul tappeto che scorreva sotto al suo letto, qualcuno aveva montato una tenda con un paio di coperte, dei cuscini e quella che ricordava la tovaglia a scacchi della colazione.
Melanie aggirò la tenda a passi lenti, domandandosi a cosa diamine stesse assistendo.
Aveva un sapore nostalgico, quell’immagine, ma al tempo stesso errato, fuori posto, come se fosse stata strappata ad una fotografia scattata tanti anni prima.
La somiglianza con quella che realizzava da piccola, quando si arrabattava per ricreare le scene di cartoni animati che la tenevano incollata per ore allo schermo del televisore, era impressionante. Ricordava distintamente i pomeriggi trascorsi tra i cuscini, anche nell’afa di agosto, in compagnia di suo fratello o di Daphne.
La risatina si ripropose con maggiore vigore.
Melanie si accucciò sul tappeto, incapace di dare una spiegazione razionale a tutto quello.
Una mano minuta spuntò da una fessura tra i due tendaggi, seguita dal viso di Daphne Barnett.
«Vieni, Mel.»
Le faceva cenno di seguirla dentro il finto accampamento.
«Vieni con noi.»
Carponi e a capo chino, Melanie riuscì a farsi spazio all’interno, scostando il cuscino che di solito sonnecchiava sul sofà, in salotto.
«Che cosa sta…»
Dentro, un altro paio di ragazze la stavano attendendo. Attraverso la matassa cotonata di un biondo sabbia, riconobbe Alyssa in persona, nell’altra ragazza una sua vecchia amica d’infanzia: Josie.
«Sorpresa!» gridarono all’unisono, uno scampanellio cristallino.
Le stavano porgendo un volume storiografico assieme ad una monografia sulla guerra civile americana.
Josie le mostrava un album di fotografie vuoto con sopra iscritte cinque lettere in un corsivo svolazzante, incatenate a formare un arabesco: M, D, A, J, S.
«Stella ha la polmonite. Ti fa gli auguri, però.»
Daphne la scrutava con un sorriso compiaciuto: «Pensavi che ci fossimo dimenticate?»
«Ma, a dire il vero…» balbettò l’altra.
«Guarda cosa ho portato», la interruppe Alyssa. Teneva in mano dei cioccolatini imballati in una scatola trasparente, la cui coccarda rossa pendeva miseramente da un lato. «Josie l’ha già aperta», puntualizzò.
«Non ho resistito…»
«Sono gli Hershey’s Kisses» aggiunse Daphne. «I tuoi preferiti, giusto?»
Melanie era rimasta senza parole.
Non vi era un accordo che non suonasse stonato in quel quadretto.
Alyssa in camera sua? Insieme a Daphne e a… Josie?
Come era possibile che si fossero riunite lì, dopo tutto ciò che le aveva divise?
Ma poi, che diamine di fine aveva fatto Josie?
Da quel che vedeva, se ne stava a gambe incrociate sul pavimento; indosso la vecchia maglietta azzurro pastello con il logo di Kirby.
Un giramento di testa la spinse a ricercare una posizione più comoda, in mezzo ai peluche invitati a quello strano party. Un cono di luce calda, di fine estate, penetrava attraverso la stoffa delle coperte.
Quel dettaglio fu la definitiva secchiata d’acqua fredda.
«Ma voi che ci fate qui? Come siete entrate?»
Alyssa si scambiò un’occhiata divertita con Daphne. «Come sarebbe a dire come siamo entrate? Ci ha aperto tua madre.»
«Tutto questo è a dir poco… strano.»
«Strano?»
Era stata Josie a ripetere la domanda. Gli occhi color nocciola la scrutavano in un misto di interrogazione e offesa. Possibile che avesse conservato quello strano taglio di capelli per – quanti? – cinque anni?
«Dove sei stata per tutto questo tempo?»
Alyssa non trattenne una risata nervosa. «Tieni, mangia un po’ di cioccolata, Mel. Devi aver preso un’insolazione.»
Mentre lei accettava con estrema lentezza la scatola, Josie si alzò in piedi, rovesciando la tenda improvvisata. Il coro di proteste raggiunse il soffitto, mentre Daphne sbottava in una risata di pancia e si abbandonava al pavimento, stringendo un cuscino sotto al mento.
«Sai cosa possiamo fare adesso? Un tuffo in piscina!»
Josie si lamentava del fatto che non potesse immergersi con la digestione in corso, mentre Alyssa la accusava di essere un’ingorda.
«Che dici, Mel? Ti va un tuffo?»
Daphne attendeva entusiasta la sua approvazione.
«Oh, certo che le va», esclamò Alyssa, schizzando in piedi. «Qualunque occasione è buona per vederti in costume
Melanie sussultò.
Le due o tre parole che riuscì a spiccicare si srotolarono con estrema lentezza, poiché la lingua le era rimasta incastrata nel palato, ora completamente secco.
«C-c», si schiarì la voce. «Come hai detto, scusa?»
L’altra le sorrise con un velo di compassione: «Avanti, Mel, lo sanno tutti, a scuola. Tutti
Sentì il proprio cuore scivolare nei talloni. Lo sapevano tutti?
«Dai, prendi un altro Hereshey’s Kiss. O forse preferisci quelli firmati Barnett
Poi, uno strappo: il grido raggelante di Josie, che puntava con un dito, terrorizzata, il suo sterno.
Mel fece appena in tempo ad abbassare lo sguardo per ritrovarsi, disciolto sul petto, quello che sembrava il residuo di uno dei baci al cioccolato. Con l’unica differenza che lo strano dolcetto aveva assunto una forma oblunga e le stava scavando un foro nella carne.
Una sanguisuga.
 
 
Melanie riaprì di scatto gli occhi.
Era schizzata a sedere sul letto con il fiato corto e la sensazione di un macigno a gravarle sullo sterno.
Abbassò le coperte, per verificare di non avere qualche strano animale incollato addosso.
Si sentì una sciocca, proprio mentre tirava un sospiro di sollievo, nell’essersi fatta suggestionare.
Riabbandonatasi al proprio cuscino, controllò l’orario riportato dalla sveglia: le otto e mezza passate. Probabilmente tutti gli altri studenti erano già alle loro postazioni, nelle comode classi dell’Arcadian. Si sarebbe persa qualche lezione di Storia, quella settimana, ma non lo rimpiangeva.
Decise di trascinarsi in cucina, sebbene sapesse già il desolante scenario che l’attendeva.
Alcuni frammenti del proprio incubo le volteggiavano attorno, legati al polso come i numerosi laccetti per capelli che vi agganciava. Si stropicciò un occhio con vigore.
La luce dorata, di una tipica giornata d'ottobre sgombra da nubi, bagnava le superfici dei mobili di castagno nel corridoio. Regnava una calma piatta, garanzia della zona suburbana in cui abitava: Lowhood si stiracchiava e animava ad orari molto più mattinieri.
Ricordava perfettamente cosa aveva sognato, prima della sanguisuga: uno scenario del tutto diverso, in cui stava terminando di asciugarsi le mani.
Nel disegno originale di chi aveva progettato quella gigantesca toilette per donne, tutti gli stucchi dorati, i ghirigori delle cornici, le saponette a forma di rosa che odoravano di sintetico dovevano essere stati assenti.
Chiunque invece avesse realizzato l’arredamento dell’ambiente si era probabilmente ispirato ad una casa per bambole o a qualche desiderio irrealizzato della propria infanzia. Tutto ciò che di maestoso, sovrabbondante - in definitiva, stucchevole – l’immaginazione avesse il potere di creare, era stato condensato in quello spazio.
Sebbene il sapone fosse inodore, un altro profumo permeava l’atmosfera claustrofobica: vaniglia? Fragola? Non avrebbe saputo dirlo con certezza, ma era sicura che se avesse passato un minuto in più dentro quel gabinetto, avrebbe finito per rimettere la cena.
Il suo alter-ego onirico si era dato una sistemata con dei gesti sbrigativi, intolleranti, ai capelli, sentendosi sempre più sbagliata in quel tubino nero.
Stava varcando la soglia del bagno, quando l’immagine di Daphne che veniva nella sua direzione l’aveva colpita in pieno stomaco. Neppure una minima frana granitica nel viso di roccia. Neppure una piega del labbro a scomporre i lineamenti.
Le erano bastati pochi secondi, un flash fotografico, per capire che la ragazza in quel vestito si sentiva fuori posto tanto quanto lei nel proprio. L’aveva tradita il modo in cui si graffiava le gambe, tirando la stoffa verso le ginocchia ed illudendosi di allungarla di almeno qualche millimetro, il tanto che bastava a ridurre il campo di pelle scoperto.
Quelle riflessioni si erano svolte in meno di dieci secondi, anche nel sogno, poco prima che una raffica di colpi si abbattesse sul fondo della stanza.
Una scarica di adrenalina. Lo slancio verso Daphne.
L’aveva atterrata e mentre slittavano sul pavimento con gli occhi serrati ogni cosa si era cristallizzata in un ridicolo slow-motion. Anestetizzato qualunque suono attorno a loro.  
Poi, gli schiocchi sordi dei proiettili, la pesante valanga di vetri dalla vetrina in frantumi, il tintinnio con cui i bicchieri si dissolvevano sopra ai loro corpi. Aveva portato le mani alla testa, sperando di ripararsi almeno dagli spuntoni più aguzzi.
Le urla d’orrore, quelle delle guardie, l’irruzione della security del Galaxy, il respiro affannoso di Daphne sotto di sé, l’acquazzone di schegge raccolto in pozze accanto alle loro mani. Le ferite apertesi sul dorso e tra le dita.
Le era parso che qualcuno avesse interrotto la loro esistenza per una frazione di secondo, derubandole di attimi vitali.
Daphne aveva cominciato a piangere in silenzio.
Avrebbe voluto abbracciarla, farle capire in qualche modo che si trovava al sicuro, che erano vive, che qualunque assurdità le avesse travolte, era finita. E poteva finire anche quella sciocca sfida all’indifferenza.
Si era sentita afferrare per una spalla e rialzare a forza.
E in quel punto era morto anche il sogno.
Evidentemente, il ricordo del party al Galaxy Hotel le era rimasto incavato sottopelle più di quanto sospettasse. O forse era stato il turbinio di eventi recenti a resuscitare quegli inutili spettri.
In cucina trovò zia Lydia a ruminare accanto al frigorifero, in un atteggiamento che rendeva il suo profilo, costretto fra la finestra e la penombra, ancora più arcigno.
Con simili spigoli duri avrebbe potuto spezzare del piombo, se solo vi avesse provato.
Appena avvertì la presenza della nipote, ritornò ai bricchi mezzi vuoti e alla pila di piatti che soffocava il lavabo, fingendosi indaffarata. Melanie mugolò un buongiorno che venne annacquato dal getto del rubinetto.
«Allora… soldi, chiavi, telefono… credo di aver preso tutto.»
Sua madre fece irruzione dal salotto, un uragano elettrizzato pronto a travolgere chiunque. Si sarebbe portata dietro anche l’appendiabiti e la scarpiera, se le avesse trovate sulla strada.
«Sì, non ho dimenticato niente», commentò assestando tre colpetti alla tasca della giacca. «Chiavi… chiavi…»
«In salotto», fece zia Lydia, lapidaria.
Fu allora che Sophie Prescott intercettò la sagoma della figlia, accoccolata sulla sedia a sgranocchiare un biscotto al cioccolato. «Mel? Che fai ancora qui? Sei in super ritardo.»
L’allarme aveva spazzato via ogni accenno di frizzante euforia. Lo sfavillio si era spento, il tornado arrestato.
«Un po’ di febbre.»
Stava per chiederle dove fosse diretta, quando le sovvenne l’impegno che da una decina di giorni Sophie Prescott millantava: il colloquio di lavoro. La prima volta che l’aveva annunciato, né lei né la sorella le avevano prestato fede – il che l’aveva non poco mortificata – ma alla terza o quarta reiterazione si erano convinte a guardare l’annuncio che aveva raccolto dalla strada, dove si consigliava di contattare un numero per un lavoro in un negozio di toeletta per cani.
«Certo, c’è un baratro tra l’agenzia e questo,» aveva ammesso in un tentennamento, «ma per il momento può bastare. E poi noi abbiamo già un cane!»
Melanie le aveva spiegato che le cose funzionavano un po’ diversamente, che i cani li portavano i clienti, non i candidati o i dipendenti, ma alla fine aveva deciso di lasciarla fare quel che preferiva.
Anche suo padre le aveva detto che bisognava incoraggiarla, supportarla nei progetti più realistici, su indicazione medica. E quel tentativo di irrealistico non presentava nulla all’infuori dell’assunzione di una cinquantenne, uscita da un ospedale psichiatrico a seguito di un esaurimento nervoso e senza esperienza nel settore.
«Il colloquio», soffiò Mel. «È stamattina.»
«Sì!»
Sua madre piroettò sul posto, reggendosi allo schienale della seggiola. «Come sto? Troppo informale?»
Il completo nuovo che aveva acquistato in un negozio di abbigliamento - una traversa più distante da quello dei fratelli Vondrasek – le stava a pennello.
«Stai benissimo, ma’. Non preoccuparti.»
Fu la spintarella che le serviva.
Dieci minuti più tardi, Sophie Prescott era uscita in strada; sulla principale via di scorrimento avrebbe fermato un taxi al volo. Melanie l’aveva guardata sfumare all’orizzonte dalla finestra della cucina, l’animo in subbuglio.
Avrebbe tanto voluto vederla felice, serena, completamente in pace con se stessa: con chi era stata, con chi era diventata ora, con chi l’avrebbero sempre identificata gli altri.
Sua madre, purtroppo, aveva ricevuto il dono e la maledizione dell’accettazione.
Il consenso ricercato ad ogni costo era l’altra faccia di una stessa medaglia: l’approvazione altrui, agognata come una bevanda miracolosa, capace da sola di sorreggere una persona –non un mero fantoccio – e di spingerla avanti nell’esistenza. Come se davvero avesse avuto bisogno di sentire il cuore traboccante di gioia nel vedere una cliente soddisfatta stringerle la mano e ringraziarla, commossa, per il lavoro svolto; come se Sophie Prescott non bastasse a se stessa, per sentirsi accolta dall’umanità.
E Daphne non era forse lo stesso?
Entrambe fragili, talmente fragili da non sostenere da sole la propria corolla; gambi sottili che mai avevano imparato a sollevare il capo, dritti e solenni, nella loro piccola, ordinaria bellezza.
«Dovrai dirglielo.»
La voce tagliente di zia Lydia la strappò a simili riflessioni.
«Sto già pagando il mio fio, zia. Non c’è bisogno di coinvolgere anche lei.»
«È tua madre. Ha il diritto di sapere cosa avviene nella tua vita.»
Una pausa. Zia Lydia esitava davanti al lavabo. «A meno che…»
Si mosse verso la minuscola, instabile libreria che pendeva da un angolo della stanza, dove i ricettari venivano mescolati a manuali sul giardinaggio e a vecchie favole di quando Melanie e Jeremy erano stati piccoli.
Ne trasse un volume che esibiva segni del tempo, pur conservando una rilegatura preziosa; lo depositò sul tavolo, panacea di tutti i mali.
«A meno che non ritrovi la tua strada. Ti vedo molto persa ultimamente.»
Melanie buttò un occhio alla copertina della Bibbia, rabbrividendo al pensiero di farsi indottrinare.
Se fosse stata solo questione di una veloce lettura, si sarebbe prestata, ma quel minuscolo compromesso equivaleva a sottoscrivere un patto con sua zia, dalle condizioni invisibili e clausole pesanti.
La conosceva bene, la strada verso cui avrebbe desiderato spintonarla senza alcun riserbo.
«La strada della fede, Melanie. È una cosa molto importante, avere fede.»
«Prima che sia troppo tardi», aggiunse dopo una pausa riflessiva.
«Va bene. Ci penserò, zia.»
Una vibrazione fece cozzare il suo cellulare contro la tazza acquamarina del latte.
Una nuova mail in arrivo. Mittente: la direttrice dell’Arcadian.
Registrò solo la parte finale del testo, su cui si costrinse a tornare più e più volte, per evitare qualunque fraintendimento.
 
“… per espletare il vostro compito, cui avevo accennato di persona in sede di convocazione, siete pregate di prendere parte al team di volontari che lavoreranno all’allestimento dell’Arcadian Halloween Party, previsto per venerdì p.v.
Vi allego di seguito i referenti del progetto, a cui potrete fare capo per maggiori informazioni circa luogo e orario della…”

 
Appurato che non si trattava di una svista, la prima reazione di Melanie fu quella di inoltrare il messaggio al numero tanto agognato, che da alcuni giorni conservava in rubrica.
Lisa le rispose dopo una ventina di minuti.
Probabilmente stava seguendo la lezione di letteratura. Più volte aveva elogiato la sua insegnante, una donna sulla quarantina delicata e sensibile, in cui – secondo Melanie - per Lisa era facile riconoscersi. 
«Guarda che quegli affari finiranno per succhiarvi il cervello», l’ammonì sua zia, sbirciando da sopra la sua spalla. «Se apri la Bibbia nel passaggio in cui…»
«Sì, sì, tutto chiaro, zia. Dio non approverebbe la mia scelta.»
Probabilmente anche lei avrebbe concordato con Dio sul fatto che presentarsi al Webling Manor non fosse un’ottima idea, ma qualunque baluardo sarebbe crollato di fronte al messaggio di Lisa May, corredato da una faccina inviante un bacio: “Certo che ci sarò anche io! Altrimenti chi la sente mia cugina? A venerdì, genio del crimine”.
 
 
*   *   *
 
 
 
«Ferma, ferma, ferma!»
Stava gridando a squarciagola, ruzzolando dietro al veicolo. L’ultimo autobus che l’avrebbe portata a destinazione in perfetto orario, forse giusto un filo in ritardo sul trillo della campanella.
L’aveva appena perso.
«Cazzo», imprecò con un calcio al vuoto.
Erano stati registrati ben due ritardi dall’inizio dell’anno scolastico e in meno di un mese: un record perfino per una ritardataria cronica come lei.
Quella mattina avvenne l’impensabile. Il bus rallentò fino a fermarsi al semaforo poco distante.
Frances Hurst s’impegnò nello scatto più atletico che avesse improvvisato nella propria – scarsa – carriera da sportiva. Le gambe le tremavano quando raggiunse il mezzo.
Assestò tre colpi decisi sulla porta automatica e rimase in attesa.
Per qualche secondo non successe nulla; poi, il conducente spalancò tutti gli accessi e i passeggeri si riversarono in strada, sbuffando e sgomitando nell’ammasso di zaini, cappotti, ventiquattr’ore.
Frannie si ritrovò travolta dal marasma e, spingendosi controcorrente, provò a salire di un paio di gradini.
«Rotto», le annunciò l’autista. Fatta salva quest’unica notizia, non le dedicò più attenzioni, interamente assorbito dalle comunicazioni del ricetrasmettitore.
La ragazza se ne tornò alla fermata, consolandosi con una sigaretta. L’accendino, però, non voleva saperne di funzionare; quasi si consumò il pollice nel tentativo di farlo scattare.
A coronamento di una mattinata già cominciata di merda, si ritrovava adesso anche quell’affare scarico: non le era concesso accendersi neppure una sigaretta.
Una voce, alle sue spalle, la costrinse a voltarsi.
«Serve una mano?»
La presenza di un ragazzo della sua età alla fermata del bus era passata del tutto inosservata. Teneva l’accendino blu elettrico in una mano, nell’altra un libro dalle pagine spiegazzate con una prima di copertina dal sapore vintage. Accettò lo scambio equo: una sigaretta per una fiammella.
«Pensavo che in questa zona i servizi fossero di un certo livello.»
Lo sconosciuto abbozzò un sorriso. «Se pensi che Baywick sia un posto di classe, sei fuori strada. Fammi indovinare: nuova?»
«Che acume. Lo Sherlock Holmes di cui Norwall non credeva di avere bisogno.»
L’altro scosse il capo, ridacchiando.
«Scusa,» si riprese subito, «non volevo essere acida. È una giornataccia.»
«Sei diretta in centro?»
Annuì, espirando una boccata di fumo. Se chiudeva gli occhi, poteva già sentire la stizza di poco prima placarsi. «Ginger Blooms.»
«Non dirmi che anche tu studi all’Arcadian
Frannie confermò, notando come fosse l’unica scuola privata, in centro, a non richiedere di indossare l’uniforme quotidianamente.
«Fino ad un paio di anni fa c’era l’obbligo della divisa, in effetti», commentò l’altro. «Poi l’etichetta è stata modificata, ci hanno permesso di respirare. Dobbiamo tutto ai rappresentanti d’istituto, che hanno perorato la causa davanti alla preside e hanno vinto.»
«Potenti, questi rappresentanti», ironizzò lei. «Poche private approvano jeans e felpe.»
In verità, la sua esperienza nel settore era esigua, dal momento che prima dell’Arcadian non aveva frequentato una privata in vita sua. Sapeva, però, che altrove il dress code era molto più rigido.
«Sono previste a breve le nuove elezioni. Qui da noi funziona con il ricambio annuale.»
Dopo una pausa, in cui entrambi cercarono disperati tracce di mezzi pubblici in lontananza, il giovane le tese la mano per presentarsi. «Mi chiamo Ethan, comunque.»
«Frances, ma ormai tutti mi chiamano Frannie.»
«Da quanto sei in città, Frannie? Non ti ho mai visto in giro.»
Gli raccontò di come fosse approdata a Norwall per pura casualità, assieme a sua madre, grazie ad un’intercessione da parte di un amico di famiglia e con la benedizione di sua nonna – che viveva in un altro Stato, ma desiderava saperle felici entrambe.
In quei due mesi che aveva trascorso a Baywick e nell’istituto dell’Arcadian si era fatta un’idea abbastanza precisa della città e dei suoi abitanti. Con il sangue da nomade che si ritrovava – espressione coniata da lei stessa e di cui andava fiera - vagabondare per i quartieri agli orari più disparati era divenuta un’abitudine e ormai poteva affermare di conoscere Norwall come le proprie tasche.
«Un verdetto per niente positivo.»
«Ah no?»
Ethan tentava con ogni fibra del proprio corpo di metterla a proprio agio, ma la verità era che quella sconosciuta con la chioma corta e gli occhi brillanti pizzicava corde remote della sua curiosità: forse era il fascino della nuova arrivata o di una donna già vissuta ad avvolgere Frannie, o forse il modo in cui impugnava la sigaretta, pizzicandola fra le unghie variopinte come se si fosse trattato del bastoncino di un lecca-lecca. Gli pareva racchiuso in lei tutto ciò che di misterioso ed occulto la vita avesse da offrire e a cui lui non si sforzava di arrivare.
«C’è del marcio nell’Arcadian», ironizzò lei.
Però lo intendeva sul serio, Shakespeare a parte.
Tutta la storia inquinata della impopolarità di Melanie, la ragazza incontrata a mensa, gli sguardi diffidenti di perfetti estranei pronti a restringerla in una categoria, pur di sentirsi al sicuro nel preservare le gerarchie; l’assoluta impertinenza con cui quel gruppo di ragazzine le si era avvicinato per metterla in guardia su Melanie Prescott... certamente uno specchietto per allodole, ma cos’altro celava?
«Perché non provi a candidarti?»
«Come rappresentante di un istituto in cui mi sono appena iscritta.»
L’altro assentì: «Potresti provare a scombinare qualche carta in tavola».
«Sarebbe divertente, in effetti.»
Frannie si mordicchiò un labbro, prendendo in seria considerazione la proposta.
Un tentativo non avrebbe nuociuto a nessuno. «Vedremo», si limitò a dire. «Farò le mie ricerche.»
Spense il mozzicone contro il vetro della pensilina, terminato l’ultimo tiro.
«Beh, direi che ci conviene incamminarci, se vogliamo arrivare entro mezzogiorno», scherzò Ethan.
Fosse stata il tipo di persona da lasciare ammutolita, Frannie avrebbe sgranato gli occhi, ma l’unica scorta che non esauriva mai era proprio quella: le parole.
«Intendi a piedi? Ma sei pazzo?»
«Realistico. E poi, non so te, ma non ho alcuna lezione di educazione fisica oggi.»
Arrivarono a destinazione una mezz’ora dopo, costeggiando l’esigua spiaggia che si diramava in arterie granellate, disciolte dal moto dell’Atlantico.
Frannie, approfittando di un silenzio, gli aveva chiesto del volumetto che pizzicava tra pollice e indice.
Era in difetto sulla riconsegna di almeno qualche giorno. Apparentemente lei non era la sola ritardataria cronica dell’Arcadian.
Quando furono di fronte alla cancellata monumentale, una voce chiamò la ragazza dal cortile interno.
«Frannie! Ehi, Frannie!»
Un ragazzo trafelato, con un ciuffo di capelli dorati a gravargli sull’occhio, li raggiunse in fretta, scortato da quello che doveva essere un suo amico stretto.
Oh, no. Non di nuovo lui. Il ragazzo della spiaggia.
«Ricordi ancora il mio nome?»
James annuì. «Tu hai già scordato il mio?»
«Dimentico tante cose. Jaiden? Jared?»
«James.»
Frannie fece schioccare le dita. «James, giusto. Ricordo tutto il resto, però.»
Resosi conto solo in quel momento della presenza di Sallinger, il giovane amico di James lo squadrò contrariato. «Ethan, voi vi conoscete?»
Il diretto interessato spiegò come si fossero incontrati per caso alla fermata e delle peripezie mattutine. Un’altra casualità, quella di frequentare lo stesso istituto, li aveva uniti nella lotta contro il tempo.
«Abbiamo tentato il tutto per tutto», concluse con semplicità. «Per fortuna ce l’abbiamo fatta.»
«Che avventura», commentò James senza il minimo entusiasmo. Tornò a guardare la ragazza, stavolta impaziente. A tradirlo, il tremolio della gamba e lo strano modo in cui accalcava frasi su frasi a velocità doppia.
«Senti, mi dispiace per la brutta figura della volta scorsa. Sono stato davvero un deficiente per quello che ti ho detto…»
«Perché?» lo interruppe lei. «Cos’hai detto?»
Rimase interdetto a fissarla, svoltolando della propria mente le possibilità che gli si presentavano: approfittare della sua dimenticanza e riavvolgere il nastro, come se nulla fosse successo, oppure decodificare, lettera per lettera, le sue espressioni poco felici davanti ad Ethan Sallinger. Uno sguardo di sbieco all’amico.
Non accennava proprio ad andarsene, quel ficcanaso.
«Okay, ehm… era qualcosa tipo…»
«Sbaglio o hai detto che ricordavi tutto il resto?»
Era stato l’altro ragazzo a parlare, quello mingherlino con la frangia laterale, segno di una chiara fase emo non del tutto superata. Frannie si stupì: «Il tuo amico è sveglio. Saresti?»
«Logan. Ci siamo visti nei corridoi.»
«Beh, Logan, hai ragione. Il suo commento, me lo ricordo bene purtroppo. Qualcosa sulle ragazze che non temono certe etichette.» Inarcò un sopracciglio, abbozzando un sorriso di strafottenza. «Da quando la vita sessuale è divenuta un’etichetta?»
James scosse la testa, risoluto. «Mi hai frainteso. Intendevo il contrario, cioè che le ragazze non dovrebbero temere di essere etichettate in un certo modo, di rientrare in una categoria. Ognuna è libera di fare quel che vuole…»
«Ah beh, grazie davvero, a nome di tutto il genere femminile. Adesso che abbiamo ricevuto il tuo beneplacito, dormiremo sonni tranquilli.»
Raddrizzatasi lo spallaccio, avvoltosi su se stesso, Frannie fece per congedarsi. A trattenerla fu un’affermazione di Logan. «Ehi, puoi anche continuare a fare l’acida, ma ti sta chiedendo scusa.»
Una delle lezioni che Frances Hurst aveva imparato nel suo essere donna era l’inevitabilità d’incontrare muri di ignoranza e il dovere che lei aveva, ogni volta, di provare a sfondarli.
Nessuno, però, l’aveva avvertita che avrebbe dovuto farlo di prima mattina.
Sua madre era una strenua sostenitrice dell’educazione; non parlava di educazione sui libri, ma di educazione alla civiltà, all’umanità e per l’umanità. Frannie seguiva i suoi gesti, il suo impegno, fin da bambina, quando “emancipazione” e “discriminazione di genere” erano ancora lontani dal suo comprendonio.
Prese un respiro profondo. «E quindi? Devo essergli grata per questo?»
«No, assolutamente.» Logan manteneva la propria posizione con sguardo duro. «Però non travisare il suo discorso. Voleva dire che vengono spesso applicate delle etichette, non che siano giuste. È una realtà triste, che va cambiata, non alimentata.»
«D’accordo. Gli concedo il beneficio del dubbio», assentì lei. «Ma non sta a voi decidere cosa una donna, o un qualunque individuo, possa fare o meno nella propria vita privata.»
James annuì con vigore. «Assolutamente d’accordo. Possiamo ricominciare con il piede giusto?»
Lo esaminò a lungo, gli occhi a fessura e il naso arricciato in una smorfia. Alla fine, si decise a dargli una seconda possibilità. Se non altro, sarebbe stata l’occasione per farsi qualche amico a Norwall e per illuminare le loro menti foderate di stereotipi deleteri.
«Va bene. Devo scappare a lezione adesso. Vi lascio alle vostre disquisizioni sulla libertà sessuale.»
«Vieni alla festa di Halloween?» le gridò dietro James. «Al Webling Manor. Ci sarà da divertirsi.»
Lei si fermò sulla scalinata d’ingresso con una scrollatina di spalle.
«Forse sì. Prova a cercarmi.»
 
 
*   *   *



Non aveva mai sentito parlare del Webling Manor prima di allora.
Attraverso delle ricerche su Internet, aveva appreso che si trattava di una costruzione non recente – risaliva alla fine del diciannovesimo secolo – in una località al confine con Norwall. Da Lowhood erano una cinquantina di minuti in macchina, considerata l’aumentata viabilità delle strade una volta usciti dal centro.
Dal sito web si evinceva che i gestori andavano fieri di tre cose: l’architettura georgiana, la nobiltà della famiglia che ne aveva commissionato l’edificazione, l’assoluta pace che avvolgeva il complesso.
Quando era giunta a destinazione, Melanie aveva compreso a cosa si riferissero.
La serenità ed il silenzio erano assicurati dal fatto che intorno non vi fosse nulla, assolutamente nulla.
Il maniero, riadattato ad occasionale bed and breakfast, più spesso affittato a grandi gruppi per eventi speciali – alla voce “portfolio” vi erano decine e decine di foto di matrimoni – sorgeva in una distesa verdeggiante, ma del tutto isolata.
Melanie aveva cominciato ad intuire il tipo di location verso cui si stava dirigendo nel momento in cui aveva visto gli alberi rimpiazzare cavi ed elettrodotti, nello scenario che la accompagnava fuori dal finestrino.
Superata una cancellata automatica, completa di merletti da film horror, e percorsa una strada sterrata che sembrava non finire più, aveva trovato ad attenderla un ampio spiazzo dove parcheggiare l’automobile.
Prima di entrare, si era trattenuta qualche istante nel cortile, per averne una visione d’insieme.
Le divenne chiaro il perché i rappresentanti d’istituto avessero selezionato proprio quel sito fuori mano, per l’allestimento del party: statue in pietra simili a gargoyle, pareti divorate dall’edera, un pesante color antracite e inglobare ogni millimetro della facciata.
«Melanie, sei qui!»
Lisa emerse in una corsetta dal buio dell’ingresso. Sventolava una mano con entusiasmo.
Doveva essere un’abitudine, questa di correre anche per brevi distanze e condire il tutto con un saltarello finale. Melanie non poté trattenere un sorriso.
«Gli altri sono già dentro. Ci siamo messi all’opera subito, anche se il grosso del lavoro l’hanno fatto nei giorni scorsi. Vuoi una mano con quelle?»
Il rappresentante che aveva dovuto contattare via messaggio l’aveva incaricata di portare delle candele elettriche, altre di cera autentiche con candelabri annessi, un borsone di ovatta grigiastra per costruire delle finte ragnatele.
«No, tranquilla, ce la faccio», replicò Mel sollevando le buste da terra. «Vai avanti tu.»
Lisa la guidò dentro l’edificio, oltre l’ingresso e la reception, nel salone principale. In quanto a disponibilità di spazio, il maniero superava di gran lunga la sala da ballo e del rinfresco del Galaxy Hotel.
Come anticipato dalla ragazza, i lavori più impegnativi erano stati svolti: i tavoli rimossi, sostituiti da divanetti a tre posti, poltrone e poltroncine, sotto cui erano stesi vecchi tappeti acquistati al mercatino delle pulci; luci e attrezzatura stereofonica erano state già predisposte, così come i grappoli di ragni e pipistrelli ad ogni angolo, zucche intagliate sulla mobilia. Il settore dedicato al rinfresco risultava ancora in allestimento, ma laddove gli organizzatori erano stati più lenti, l’arredamento del maniero aveva sopperito da sé.
La boiserie color onice dell’ingresso e quella più tenue, verde, nella sala da biliardo le procuravano un senso d’inquietudine maggiore di dolcetti a forma di teschio.
«Da brividi, eh?»
Lisa sembrava una bambina a Disneyland. Le esibiva ogni angolo come se si trattasse di una reliquia sacra e la trascinava di qua e di là, per farle cogliere da una prospettiva inedita una sfumatura di quel lampadario o di una finestra istoriata.
«Mi sembra di essere finita dentro una specie di Cluedo», fece Mel sarcastica. «Manca solo il cadavere.»
L’altra trasalì: «Non dirlo nemmeno per scherzo».
Il tour del maniero si arrestò davanti ad un dipinto della famiglia Webling. Il ritratto scuro, ad olio, sfumava grigi e ocra sullo sfondo, da cui emergeva prepotente il profilo acuminato di un settantenne col panciotto; l’orologio da taschino emetteva riflessi tenui, mentre gli occhi arcigni del vecchio giudicavano gli astanti.
«Che sguardo cattivo», bisbigliò Lisa.
Melanie le assestò una debole gomitata. «Come ti permetti di insultarlo? Il grande Benedict Balthazar Webling, il capostipite della famiglia.»
«Come fai a saperlo?»
«È scritto lì.»
Melanie indicava un minuscolo angolo della cornice: la targhetta riportava il nome di autore e soggetto dell’opera. Un ritratto con tutti i crismi.
«Secondo me è morto in qualche congiura dinastica», azzardò Mel. «Magari il suo spirito aleggia ancora tra le mura del maniero, per assicurarsi che sia frequentato solo da nobili. Fuori gli indegni.»
Lisa sussultò. «Smettila di dire queste cose. Mi mettono i brividi.»
La scrutò con circospezione. «Non crederai davvero ai fantasmi, Lisa?»
«Ah, Lisa, eccoti qua. Tua cugina ti reclama.»
Ad interromperle un ragazzo alto, con una strana capigliatura a spazzola e un fisico da atleta, munito di cartellina in legno. «Tu, invece, devi essere Melanie. David,» si annunciò, «ci siamo sentiti per le decorazioni».
Lei gli mostrò le buste all’ingresso. «È tutto lì.»
«Perfetto. So che ai ragazzi del buffet serve una mano.» Un invito cortese a rimboccarsi le maniche e a supportare il resto del team.
D’altronde, quello non era un soggiorno di piacere… le restava una punizione da scontare.
David si congedò nell’immediato. «Ora scusatemi, ma devo lasciarvi. C’è ancora molto a cui pensare. Per qualunque cosa mi trovate sul retro, accanto alla piscina.»
Lisa, dal canto proprio, prese un profondo respiro e con un’occhiata mesta: «Sarà meglio che vada da Cindy. Oggi è particolarmente agitata».
«Non sei la sua serva», le fece notare l’altra.
Quella annuì, poco convinta. Poi, in un tono completamente diverso, gioviale: «Da cosa ti travesti?»
Davanti alla sua assoluta indifferenza, parve rimanere delusa: «Non hai un costume».
«Dovrei?»
«Beh, sì, dal momento che è una festa di Halloween in maschera. Ci penseremo dopo,» sorrise con un filo di malizia, «per tua fortuna, sono conosciuta come la maga del make-up».
 
 
*   *   *
 

Erano partite alle 7:20 esatte dall’abitazione dei Russmith.
L’idea era di presentarsi né troppo in anticipo né troppo in ritardo rispetto all’orario riportato sui volantini. La festa di Halloween rappresentava un’istituzione per gli studenti dell’Arcadian, forse l’unica vera circostanza in cui fosse concesso di svincolarsi dalle direttive scolastiche, ambientare il party fuori dall’istituto e divertirsi senza freni.
Conoscevano bene l’etichetta, loro che erano state abituate fin da piccole a figurare nell’alta società e a sfoggiare i migliori prodotti firmati sul mercato.
Ronnie e Felicity avevano preteso, per l’occasione, di accordarsi preventivamente sui personaggi da interpretare, così da studiare qualche costume abbinato e magari vincere anche il premio per il travestimento più originale. Poco importava che non vi fosse alcuna competizione attiva. Avevano stabilito di prendere due macchine e d’incontrarsi direttamente all’interno del maniero.
Daphne, ospite dell’amica, aveva aspettato, seduta sul letto, che Alyssa finisse di prepararsi. Nell’attesa, aveva ingollato del succo di frutta – offerto dai coniugi Russmith e corretto dall’adorata figlia – un bicchiere di spumante per brindare e un sorso di aperitivo.
All’uscita dalla villetta aveva cominciato a traballare sulla scalinata d’accesso.
«Non dirmi che sei già ubriaca», l’aveva istigata Alyssa.
L’allarme sbornia era rientrato una ventina di minuti dopo, con suo grande rammarico. La verità era che non trovava un altro salvagente.
Di soffocare dentro l’ennesimo party da ricconi annoiati proprio non aveva voglia, eppure si era prestata a qualche foto pre-party, aveva indossato la stupidissima parrucca bionda ordinata online - che odorava di gatto morto – e ora se ne stava rovesciata nella Mercedes bianca guidata da Alyssa, ad ascoltare qualche canzone che passavano alla radio.
Credeva di aver sfiorato il limite nel confrontare Melanie, ma si era sbagliata: quell’episodio di infamante deprivazione emotiva l’aveva svuotata e poi, come per effetto di risacca, gonfiata più di prima.
E adesso era un colpo in canna, un sicario silente che si apposta per un obiettivo ancora da definire.
In una parola, sentiva di poter strabordare.
Per tenere a bada il rigurgito emozionale, giocherellava con l’aureola di plastica, indossando e sfilando di continuo la parrucca dorata. Alyssa gliel’aveva presa per l’occasione, così da creare l’impressione di un gemellaggio: Aly il diavolo, lei l’angelo.
Il presentatore su una delle stazioni principali lasciò sfumare la propria voce in apertura della nuova canzone. Daphne bloccò il gesto meccanico con cui la guidatrice saltava di stazione in stazione.
«Oh, lascia, lascia», le disse alzando il volume.
L’intro di I Feel It Coming era stata ritagliata dalla trasmissione, ma l’inequivocabile melodia le raggiunse subito, trasportandole indietro di qualche anno.
Daphne ripensò al confronto con suo padre, due giorni prima, presentatosi all’uscita da scuola: evento insolito, talmente assurdo da aver messo lui stesso a disagio.
Voleva riaccompagnarla a casa, banale pretesto per confrontarsi su varie questioni in serenità.
E ciò che Daphne proprio non riusciva a spiegarsi risiedeva lì, in quel nodo spinoso: com’era possibile che con lei suo padre comunicasse liberamente, ma che tra lui e Emma – sposati da chissà quanto – apparisse impensabile una conversazione lineare, diretta? Erano o no degli adulti?
Le aveva narrato dove fosse finito il week-end, come avesse trascorso ogni minuto speso nella camera d’albergo a pensare a loro, a come volesse tornare, ma anche a quanto insostenibile, invivibile, fosse divenuta l’atmosfera in casa.
Nessuna menzione all’elefante nella stanza: il divorzio.
Daphne lo sospettava da tempo, sebbene nessuno avesse il coraggio di evocarlo, come se pronunciarne anche solo nome lo vivificasse. Aveva osservato suo padre muta, impotente, con i ventricoli stretti in un pugno.
Il naufragio della loro storia. Della loro storia insieme, non solo come coniugi Barnett, ma come famiglia.
Alyssa le stava dicendo qualcosa.
Sollevò lo sguardo dal portaoggetti, sbalordita, frastornata. Non si era neppure accorta che avesse spento la radio e che a tener loro compagnia fosse rimasto solo il ticchettio del portachiavi ad orsetto contro il cruscotto. Erano arrivate al Webling Manor.
Aveva già impugnato la maniglia, quando l’amica la bloccò.
«Daffie, so che qualcosa non va. Non sono scema.»
Silenzio profondo.
«Pensavi non mi fossi accorta?»
La realtà era molto più triste e acerba di così.
«Ho rispettato i tuoi spazi», spiegò raddrizzandosi contro lo schienale. «Però non voglio che mi ritenga una superficiale.»
Accennò al maniero dalle cui finestre si spandevano luci multicolore e la pulsazione di musica ad alto volume. C’erano vita, gioia e spensieratezza lì dentro. E loro fuori, in un’altra scatola, più piccola e meno affollata.
«Le altre non chiederanno nulla», disse soltanto. «Ma io lo so, le vedo queste stonature.»
Daphne era una marionetta al termine dello show: vuota, spenta, non reattiva agli stimoli. Se ne stava solo lì, ad esistere, bloccata nella sua posa, come se qualcuno l’avesse impressa o scolpita nel mondo così, con una gamba già pronta a scendere.
No, aveva smesso di piangersi addosso.
Guardò Alyssa, abbozzando il migliore sorriso che poteva. «Non roviniamoci la serata.»
Temeva che la faccenda non potesse risolversi con una simile facilità, invece rappresentò il capolinea.
La guidatrice annuì e, slacciata la cintura, si piegò a ripescare un oggetto dal sedile posteriore. Prestigiatrice improvvisata, estrasse dalla pochette il rossetto che aveva abbinato al proprio costume infuocato.
«Ti serve il tocco finale. Per ravvivare un po’.»
«Ma non sono un angelo?»
L’altra si strinse nelle spalle con noncuranza. «Anche gli angeli portano il rossetto.»
Mentre ne passava un abbondante strato sulle labbra dell’amica, le fece una confidenza. Alla festa, con ogni probabilità, avrebbero incontrato anche Tom e la sua comitiva.
«Tom? Ma non va al college?»
L’ex di Alyssa, il primo ragazzo con cui avesse avuto una storia seria, durata un paio d’anni, frequentava un college sconosciuto in un altro Stato, di cui Daphne non aveva neppure registrato il nome. Per il modo in cui si era interrotta la loro relazione idillica, avrebbe dovuto bloccare qualunque forma di comunicazione: classico, nauseante tradimento. Alyssa c’era stata male per mesi, prima di mettersi in testa che Tom non valeva il suo tempo, né la sua salute fisica o mentale.
«Conosce qualcuno dei rappresentanti, credo.»
«E non ha niente di meglio da fare che imbucarsi ad un party di halloween per adolescenti?»
Alyssa scrollò le spalle. Le intimò di rimanere ferma, specialmente con il busto, per evitare di sbavare i contorni. La trattava come un’operazione chirurgica, al termine della quale emise un trillo di compiacimento.
Arrivò perfino a battere le mani, estasiata. Il riflesso che vedeva nello specchietto prometteva davvero miracoli per quella sera.
«Ho solo bisogno di un escamotage per farlo ingelosire. Non voglio mi veda da sola.»
«Che male ci sarebbe? Sei single e contenta, Aly.»
Quella scacciò la classificazione come se si fosse trattato di un insetto pericolosissimo. «Non scherziamo, Daffie. Piuttosto, il tuo amico biondo, quello un po’esaltato, è ancora libero?»
Avrebbe potuto stilarle un elenco delle ragioni per cui James non sarebbe stato un buon partito, ma quando Alyssa si metteva in testa qualcosa, era difficile – per non dire impossibile – scardinarle un’idea.
«Perfetto», decretò. «Troveremo un cavaliere anche per te. C’è sempre qualcuno in cerca di una benedizione.»
L’altra si era sganciata dalla cintura e finalmente anche dal veicolo, sebbene contrastata dalla proposta. «Non so cosa intendi, ma mi sono rimaste solo bestemmie stasera.»
Un lampeggiamento e lo squittio dell’antifurto. «Tanto meglio. Bella e dannata. Farai colpo, Daffie.»
Alyssa la scortò fino all’entrata, sfilando sul brecciolino come sulla passerella più ambita dall’intera nazione.
E dentro di sé portava davvero il sogno della passerella, delle stoffe aderenti al corpo e di riflettori più potenti, più bollenti, più accecanti del sole stesso, puntati addosso. Era tutta questione di atteggiamento. Parenti, amici, conoscenti l’avevano imbevuta in quella nozione fin dalla culla: il suo battesimo di fama.
Se per adesso doveva limitarsi a zucche, pipistrelli e musica macabra da Halloween, non avrebbe tuttavia rinunciato al portamento aggraziato, alla fila di spilli che sembrava sostenerle la colonna.
A Daphne ricordò un cigno, mentre planava davanti al portone. Un coro di candele accese tremolava sul selciato, ad indicare loro la strada; all’ingresso le accolse l’uscio chiuso dall’interno e un ululato registrato.
Alyssa suonò il campanello. Prese nella propria la mano di Daphne, pallida e sudata.
«Andrà bene», le assicurò. «Ci sarà da divertirsi.»
 



 

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Capitolo 12
*** Capitolo 10* (II) ***


CAPITOLO 10.* (II)

Mousetrap

Il capitolo presenta delle scene più forti
 

 
 
 
«Delicate in every way but one
(the swordplay)
God knows we like archaic kinds of fun
(the old way)
Chance is the only game I play with, baby.»
 
7:06 p.m. – Westside
 
 
 
 
Isaac raccolse il cellulare dalla scrivania e lo lasciò scivolare nella tasca dei jeans.
Aveva appuntamento con Oliver in una ventina di minuti, davanti a un distributore del gas. La notifica tanto attesa alla fine era lampeggiata sullo schermo in un momento di distrazione, durante la lezione di Biologia. Credeva si trattasse di un messaggio di spam, ma il suo cuore aveva fatto una tripla capriola davanti al numero dello sconosciuto, firmato semplicemente “O”.
Al messaggio era stata acclusa la geolocalizzazione.
Mentre attraversava il salotto, diretto verso l’uscita, Isaac scorse in controluce la sagoma del padre, seduta ricurva sul divano.
Sembrava attratto da una custodia per dvd vuota, la rimirava, rigirandola tra le mani come una sacra reliquia di un passato che Isaac non conosceva.
«Papà? Che combini?»
Hugh Barnett sobbalzò, lasciando cadere la scatola di plastica sul tappeto. Aveva gli occhi lievemente arrossati, gli occhiali sollevati sulla fronte e una strana espressione di fastidio depositata a cavallo degli zigomi. «Niente, niente. Guardavo solo un vecchio disco.»
Si ostinava a chiamare “dischi” i dvd, per qualche motivo, ma non gli sfuggiva mai il nome di registi o attori di un determinato film; conosceva la grande collezione di classici cinematografici forse meglio di quanto conoscesse sua moglie. A loro era dedicato l’ultimo ripiano della libreria, libero dagli ammennicoli di Emma o dai romanzi della figlia, e perimetrato da una vetrina, rigorosamente sigillata a chiave.
Gli rivolse un sorriso sbilenco, riposizionandosi gli occhiali sul naso.
«Esci stasera?»
Aveva notato la tenuta libera del figlio e le chiavi di casa ben strette nel pugno.
Isaac annuì.
«Ah, ti sei fatto dei nuovi amici.»
Qualcosa in quella naturalissima osservazione, nel modo in cui aveva strascicato la “a”, come se sapesse cosa stava succedendo, strappò ad Isaac un brivido di disgusto, peggiore del suono di denti sulla lavagna.
Hugh Barnett non si interessava quasi mai dei suoi affari; quella era una prerogativa materna.
Che Isaac non frequentasse più la vecchia compagnia delle elementari, l’avevano capito tutti in casa, ma sentirselo esplicitato in quel modo lo metteva terribilmente a disagio.
«Una specie», glissò. «Credo che tornerò tardi. Non aspettatemi alzati.»
«Magari incrocerai la mamma.»
Isaac tentennò sulla soglia del salotto. «Come mai?»
«Cena fuori con dei colleghi. Non penso rientri prima di mezzanotte.»
Assentì di nuovo, sforzandosi di mantenere intatta l’espressione impassibile.
Una cena. Ecco il perché di tutta quell’eccitazione nei giorni precedenti, rifletté una volta solo, in strada.
Sua madre era stata attaccata al cordless per ore a fare su e giù per le scale, contornando le risatine entusiaste con dei nomignoli affettuosi. Dovevano esserci di sicuro il Gran Doc – come lo chiamava lei –  insieme alla collega di cui Isaac continuava a dimenticare il nome e i nuovi tirocinanti che trafficavano nello studio medico.   
Fuori l’aria era frizzantina, scoppiettante di candele, zucche rossicce e lanterne cinesi.
Una schiera di bambini mascherati lo sorpassò in fretta, seguita dal gruppo di adulti che scuoteva la testa, stringendo i secchielli del “dolcetto o scherzetto”. Tra i vari mostri, eroi e antieroi che incontrò lungo il tragitto, un costume in particolare attirò la sua attenzione: un bambino di cinque anni, una corona di capelli biondo cenere e un paio di occhi vispi, animatissimi, sotto la mascherina da Batman.
Batman non riposa neppure ad Halloween, pensò con una risatina ironica.
A sorprenderlo fu il fatto che il ragazzino stesse piangendo sul bordo del marciapiede, mentre i genitori, giovani e chiaramente inesperti, provavano a consolarlo.
Isaac si morse l’interno della guancia, scansando un ricordo doloroso che premeva per riaffiorare.
Trovò Oliver nel punto indicatogli, intento a ripulirsi la dentatura con uno stuzzicadenti. I pantaloni aderenti e la camicia non meno ristretta gli fasciavano il corpo. Bicipiti scolpiti, venature in rilievo, fianchi asciutti: avrebbe potuto posare per qualche famosa azienda di costumi.
«Finalmente», disse con un sorriso impertinente. «Vieni, gli altri ci aspettano qui dietro.»
Il resto del gruppo se ne stava appollaiato attorno ad un paio di veicoli. Isaac riconobbe due dei ragazzi incontrati in precedenza al pub, ora sdraiati sul cofano dell’auto fiammeggiante.
Anche loro lo identificarono all’istante, eppure Oliver sentì il bisogno di replicare qualche presentazione: «Vi ho riportato il Messia del weekend».
Gli posò pesantemente una mano sulla spalla.
«Il rampollo del Westside», lo apostrofò uno del gruppo. Sulla ventina, con il capo talmente rasato da ricordare una palla da bowling, le sopracciglia inesistenti e uno strano mantello indosso, che doveva aver rubato al conte Dracula. «Ha proprio la faccia da bravo ragazzo. È insospettabile.»
«Insospettabile?» ripeté Isaac perplesso.
Un’ombra emerse dall’interno della Toyota azzurra metallizzata, sbattendosi dietro lo sportello.
Era un ragazzo tarchiato, con le mani affondate nel giubbotto imbottito da motociclista e quantitativi esorbitanti di brillantina nei capelli scuri.
Isaac si sentì girare la testa: davanti a lui c’era nient’altri che Ryan Woods.


 

*   *    *
 
 
Le luci calde della specchiera ricordavano perle lungo il filo di una collana.
Il bagliore caldo, accogliente, si posava sui loro visi con la calma e la sicurezza di una carezza materna.  
Solamente un’ombra accompagnava i movimenti della mano di Lisa, mentre spandeva la noce di ombretto violaceo lungo tutta la palpebra. Distesa sul lavandino a esibire il proprio contenuto, la pochette di trucchi faceva un figurone; ricordava vagamente la bocca di una marionetta, con la dentatura di cerniera e il tessuto roseo che fuoriusciva – simile ad una lingua – rigurgitando pennellini, fard e matite.
Erano chiuse in quel bagno da più di mezz’ora ormai. Il maniero si era intanto affollato con rapidità e in ogni sala pulsavano le musiche della band ingaggiata per la serata. Potevano percepire i rintocchi della batteria da dietro l’uscio socchiuso.
Per Melanie il tempo si era fermato in quell’esatto punto: uno sgabuzzino fuori dal mondo, fuori dalle leggi spazio-temporali. Non le importava più niente della festività, del maniero decorato, della sospensione, di sua madre, della Bibbia o di altri problemi che affollavano la mente nei momenti di quiete, quando si ritrovava a confrontare se stessa e la voce che conservava dentro.
Adesso c’erano solo lei e Lisa. Non solo in quel bagno, ma in tutto l’edificio, nella bolla che racchiudeva Norwall, nello Stato del Connecticut, nell’intero universo esistevano solo loro due.
E almeno nel suo, di piccolo insignificante universo, era davvero così.
Le nocche di Lisa le sfioravano il viso e le dita sinuose vi si posavano di tanto in tanto, per distendere i lembi di pelle su cui stava realizzando il proprio capolavoro.
«Resta ferma, ferma.»
Melanie si era irrigidita. Lo trovava un ordine del tutto controproducente, un po’ come focalizzare l’attenzione sul proprio respiro, salvo poi entrare nel panico nel tentativo di controllarlo.
«Ferma», le aveva ripetuto Lisa, stavolta in tono più comprensivo. «Altrimenti rovinerai questa piccola opera d’arte.»
Ultimato il suo progetto, l’aveva rigirata davanti alla specchiera, cingendole le spalle con soddisfazione.
La figura che la osservava nel riflesso appariva irriconoscibile; Melanie quasi si spaventò.
Il trucco richiamava quello di una strega con le labbra marchiate dal rossetto color prugna, una pesantezza a cerchiarle gli occhi, la base cadaverica ad asfaltare i lineamenti. Non era mai stata sistemata con così tanta cura in vita propria.
«Wow.»
«Ti piace?»
Lisa le scansò una ciocca dal volto. «Credo che ci voglia un altro ritocchino qui.»
Si spostava nella stanza come una specie di fata, folletto o creatura fantastica dotata di ali, nonostante il travestimento che aveva scelto per la serata fosse di tutt’altra natura.
Era tornata all’opera, china con la corona di boccoli a incorniciare l’ovale del viso. Melanie si sforzava di trovarvi qualche stonatura, una minima imperfezione, ma sulla pelle setosa di Lisa May non spiccavano difetti. E altrettanto chiari, puliti, apparivano i suoi occhi, ora assottigliati nello sforzo di riprodurre il disegno mentale.
Prima le aveva sfiorato la guancia dove spiccava la riproduzione di una ragnatela, percorrendo con i polpastrelli i filamenti che vi si intrecciavano.
La prossima volta, aveva detto, scegli un costume in anticipo e ti stupirò.
Ma ci sarebbe stata una prossima volta o lo stava solo dicendo per cortesia?
Melanie ebbe l’urgenza di rompere quel silenzio.
L’impellenza di riprendere o proseguire una conversazione le era capitato di frequente solo con Daphne, anche se spesso era proprio lei a colmare le pause di lunga sospensione, traendo Mel d’impaccio.
Semplicemente capiva. Capiva soprattutto i suoi time-out dal dialogo, i momenti in cui voleva solo osservare il soffitto, senza dover aggiungere altro. Allora voleva esistere e basta, ma con una figura al proprio fianco a cui fare spazio nei propri pensieri, così da condividere il suono del nulla.
I piedi di Daphne accanto ai suoi, premuti contro il muro; il ritmo regolare dei loro respiri.
C’era il poster de “Le Cronache di Narnia” e il calore di un pomeriggio di prima estate a tener loro compagnia.
Si era voltata e aveva colto Daphne già intenta a scrutarla, distesa sul copriletto accanto a lei.
Un sorriso accennato, che le accendeva gli occhi e arricciava la punta del naso.

Melanie respinse lo schiaffo di ricordi dal sottosuolo.
In quello stesso momento, qualcuno bussò alla porta del bagno.
«Abbiamo finito!»
Lisa rincappucciò il mascara e si affrettò a sgomberare la postazione da trucco improvvisata.
Fuori, le altre stanze del maniero erano invase da un buio che sarebbe stato difficile definire “penombra”, come riportato nelle indicazioni dei rappresentanti d’istituto. Era un vero mare di nebbia e catrame, occasionalmente ferito da raggi bluette, in cui le uniche stelle erano punti luminosi in corrispondenza delle candele.
Melanie procedeva a tentoni con Lisa stretta al fianco, quando si sentì comprimere un piede.
«Oddio scusami,» la voce mortificata di Frances Hurst la raggiunse oltre il muro di musica e pulsazioni, «me lo dicono sempre che sono maldestra… forse hanno ragione».
L’altra scosse il capo, provando a bofonchiare qualche frase di conforto, ma si interruppe davanti al costume scelto dalla ragazza. L’abituale ventaglio di colori che avvolgeva Frannie era stato soffocato sotto una tunica color panna, strizzata in vita da una corda che fissava anche un corpetto nocciola ed un piccolo pugnale; l’acconciatura sbarazzina spariva completamente sotto la cuffia di stoffa.
Anche Lisa la stava squadrando. Alla fine la curiosità prevalse: «Da cosa sei vestita?»
Frannie emise un grugnito, spalancando le braccia. «Sapevo che non si sarebbe capito. Sei la ventunesima a chiedermelo, da quando ho messo piede qui.»
«Sembri una specie di dama», azzardò Mel.
«Strega», la corresse subito lei. «Mamma mi aveva suggerito di portare una scopa, ma io le ho detto che le donne bruciate sul rogo non se ne andavano in giro con le scope per la città.»
Lisa parve illuminarsi all’istante: «Anche Mel è una strega!»
Le fece mostrare il profilo sotto l’unico fascio di luci verdastre agganciate alla parete della sala, ripercorrendo con soddisfazione il gioco di intrecci che aveva creato sulla guancia.
Frannie non sprizzò gioia.
«Ah, tu hai scelto di ricalcare lo stereotipo. Ti manca il cappello però.»
«Non avevo in programma di travestirmi stasera. O anche solo di restare», ammise Mel grattandosi il capo. «Lisa ha fatto un ottimo lavoro, direi che basta e avanza.»
La ragazza, sentendosi chiamata in causa, protestò: «No, no, no. Ha ragione lei, il cappello ti serve».
L’aveva presa a braccetto e ripassava tra sé e sé l’inventario delle decorazioni. «Forse riusciamo a rimediarti qualcosa tra le cianfrusaglie di sopra.»
«Beh,» Frannie le tese un salatino dalla forma oblunga, «intanto usa questo come bacchetta».
Mel le sorrise in un mescolio di gratitudine, imbarazzo e incertezza. Non sapeva se poteva fidarsi di Frances, ma il fatto che si fosse ostinata a cercarla a distanza di tempo, la portava a rivalutarla. Eppure, la gentilezza non era il pane quotidiano con cui ci si confrontasse all’Arcadian.
«Frances Hurst, proprio te cercavamo.»
James scivolò nello spazio tra le tre giovani con la destrezza di una ballerina provetta, arrestandosi ad un palmo dal naso della diretta interessata. Che poi ne avesse pronunciato il nome allungando eccessivamente le vocali, era tutta un’altra storia.
«Grandi notizie.»
Gli altri tre membri del gruppo si aggiunsero al capannello con una certa curiosità. Jason e Travor in particolare non riuscivano a nascondere la trepidazione sbocciata nel momento in cui James aveva scommesso con loro che avrebbe fatto cadere la ragazza ai suoi piedi.
«Halloween è l’occasione perfetta, ragazzi», aveva assicurato un’ora prima in macchina. Mentre Logan guidava con attenzione sull’asfalto imperlato da un sottile strato di nebbia, James si contendeva con lui lo specchietto retrovisore per sistemarsi la dentiera da Dracula. Per tutto il tragitto non aveva fatto altro che sputacchiare – applicando e sfilando i finti incisivi – di come Frannie sarebbe rimasta stregata dalla sua idea geniale. «Si spaventerà a tal punto da sciogliersi e cercare la mia protezione. Fidatevi, queste cose funzionano.»
«Ma dove l’hai letta questa stronzata, James? Su qualche giornaletto per adolescenti?»
Jason aveva sghignazzato con il suo amico dai sedili posteriori. E Travor non aveva perso occasione di rincarare: «Per caso hai fatto anche il quiz: “Amici, Amanti o Fidanzati”?»
James li aveva ignorati del tutto, focalizzato solo sul suo piano d’attacco e sulla tenuta della dentiera.
«Sì, sfottete pure. Intanto Frannie me la sono fatta io, non voi.»
«Non ci crede nessuno a questa cazzata, neppure tu. Giusto, Logan?»
Logan si era riappropriato dello specchietto interno con uno strattone. A volte aveva l’impressione di confrontarsi con delle bestie.
Era forse eccessivo chiedere di poter guidare come un normale essere umano?
«Io mi astengo, vedremo stasera cosa combinerà. E tu James, smettila con questo specchietto. Ci farai finire fuori strada, porca miseria.»
«Un cimitero?», chiese Frannie, una volta trasferitisi nell’ingresso principale. La musica lì giungeva sfumata e il flusso di studenti meno denso, coagulandosi nelle sale più spaziose.
James annuiva soddisfatto. «Proprio un cimitero. Un cimitero vero, in carne…»
«Oh, ti prego», tentò di interromperlo Jason.
«…ed ossa. A una ventina di chilometri da qui. Possiamo prendere la macchina di Logan.»
Il piano poteva essere riassunto in pochi passaggi: guidare fino al cimitero che aveva trovato su Google qualche ora prima, fare irruzione senza essere beccati… e la sua immaginazione si arrestava lì.
«Ma non temete di incontrare… sì, insomma, qualche presenza?»
Per quanto tremasse al pensiero di fantasmi che infestavano la zona, Lisa preferiva sapere cosa si annidava nei dintorni del Webling Manor e accettarne l’esistenza, piuttosto che finire in poco piacevoli incontri.
James rimase interdetto, poi, schiarendosi la gola, commentò: «C’è la tomba di Matilde Richardson. Potremmo andare lì».
Dal momento che non ricevette alcun segno di assenso, James assunse l’atteggiamento del suo professore durante le lezioni di Fisica, busto dritto e mani allacciate dietro la schiena. «Matilde Richardson era una ricchissima ereditiera, trovata morta nella sua abitazione – nientepopodimeno che un palazzo a tre piani – in circostanze misteriose. Il giardiniere pensava si fosse addormentata sul prato, fin quando non ha visto il coltello piantato nella schiena.»
Nel ribrezzo generale e alla vista di Lisa, divenuta dello stesso colore del lenzuolo che indossava, Logan diede un taglio alla descrizione. «Okay, ci siamo fatti un’idea. E perché mai vorreste andare a rompere le scatole alla povera Matilde, con la mia auto oltretutto?»
Sul volto di James guizzò un lampo, mentre ammiccava. «Si dice sia stata sepolta con una collana preziosissima, ricevuta in regalo dal marito. La servitù aveva provato a strappargliela, ma lei li ha… ecco, li convinti a lasciargliela.»
Frannie si spalmò una mano sul viso. «Vuoi profanare il sarcofago di una sconosciuta, durante la notte dei morti viventi?»
Lui le indicò la finestra, frizzante: «E con la luna piena!»
Trascorsero alcuni momenti di silenzio, durante i quali Melanie lasciò una carezza sulla spalla di Lisa – chiedendosi come potesse essere così suscettibile – e Logan scoccò un’occhiata all’interno della sala da ballo.
«Va bene.»
Tutti si rivolsero basiti verso Frannie. Perfino l’ideatore del piano rimase allibito nel constatarne il successo.
«Davvero?»
Fu un commento quasi all’unisono, a cui la ragazza rispose con placidità. «Certo. Si vive una volta sola.  Prendo giusto un paio di cose e vi raggiungo.»
Non appena si fu mescolata al marasma di corpi, James piroettò sul posto e, afferrato Jason per il colletto, sussurrò: «Che vi avevo detto? Il miglior piano di sempre».
Di tutt’altro genere erano invece pensieri di Logan, che domandò se si avessero notizie di Daphne. I messaggi che le aveva inviato erano fermi su una sola spunta e dall’inizio della festa non l’aveva ancora incontrata.
Lisa scosse il capo: «Mi pare di averla vista ballare insieme ad Alyssa, ma è stato più di mezz’ora fa.»
L’immagine di Daphne Barnett che si scatenava sulla pista da ballo turbò per un istante i presenti, ma nel cervello di James imboccò presto la porta sul retro, lasciando spazio a preoccupazioni impellenti.
«Chi guida? Io ho bevuto. Travor, guida tu, amico.»
Cominciarono a battibeccare su chi dovesse prendere la macchina di Logan e quanto affidabile potesse essere. Melanie si concentrò su Lisa, rubandole in una fotografia mentale il sorriso che la illuminava. Una fossetta si era scavata un piccolo spazio nell’angolo sinistro, creando una strana introflessione nella guancia pallida di cerone.
«Che c’è? Non dirmi che sono spo…»
La frase fu frantumata dalla lama di un pugnale premuta contro la gola, già stretta nella morsa di un braccio avvinghiato al suo collo. Lisa si sentì risucchiare all’indietro da una forza sconosciuta e per poco non le cedettero le ginocchia. Nell’orecchio, solo una voce melliflua: «Dolcetto o scherzetto?»
 
 
*   *   *
 



Iniziava ad annoiarsi.
Era stato divertente finché aveva potuto dimenticare le proprie inibizioni, cancellare qualche tabù dalla propria lista e nascondersi fra la massa di costumi horror. Molti di questi si ripetevano – lei stessa aveva individuato almeno altre sei diavolette – ma il travestimento angelico non andava per la maggiore, anzi risultava decisamente fuori posto. Se non altro, l’originalità le aveva permesso di guadagnare più di uno sguardo dagli studenti dell’ultimo anno.
La parte più interessante era stata quando avevano messo Scream and Shout, di Will.I.AM. e Britney Spears, ripescato da Felicity dai meandri dell’inconscio collettivo e proposto ai rappresentanti.
Nessuna di loro aveva davvero creduto che la richiesta sarebbe stata accontentata, invece le note della canzone avevano d’improvviso sommerso i presenti. Felicity aveva emesso un gridolino, saltellando sul posto, mentre Ronnie e Alyssa, assieme ad un’altra giovane che avevano reclutato – tale Willa Hess –  avevano impedito a Daphne di abbandonare la nave, bloccandola in un abbraccio che assomigliava ad una rete da pescatori, fitta e resistente.
«Coraggio, Daffie» le aveva gridato Alyssa in un orecchio, stringendola a sé. «Che abbiamo detto prima? Stasera ci divertiamo e basta.»
Le grida si erano alzate in un inno dalla pista dove gli studenti si spingevano, strusciavano, sdraiavano gli uni addosso agli altri, alcuni visibilmente più ubriachi.
Daphne si era ritrovata immersa in un oceano di corpi che si alzavano e si riabbassavano, in cui tutto attorno a lei sembrava andare a velocità quadrupla, ma anche rallentata; le altre avevano cominciato a saltellare e a trascinarla in un ritmo convulso e nel gorgo di oscurità tanto intensa da non permetterle di capire più dove atterrassero le piante dei suoi piedi. Poi aveva perso ogni punto di orientamento, la sua bussola interna demagnetizzatasi, il sudore le era colato lungo il collo, inumidendo la veste da angelo.
C’erano stroboscopiche che ferivano gli occhi come saette, la pulsazione prepotente della musica nella gabbia toracica, che pareva gareggiare con il suo cuore e premere affinché continuasse a saltare. Le uniche volte che aveva avuto il fiato corto era stato durante gli allenamenti di educazione fisica, ma in quel momento aveva rimpianto di non essersi mai dedicata ad uno sport, di non avere abbastanza aria nei polmoni per stare al passo con le sue amiche, di vergognarsi di se stessa nel sentirsi un’ottantenne.
E infine c’era stata la schicchera dell’alcool, scattata dal suo esofago, avvertita fin nel cervello. Il volto di Alyssa usciva e rientrava nella penombra, come in una serie di fotogrammi con degli stacchi molto nitidi e prolungati.
Con il capo le aveva fatto un cenno, indicando qualcuno dietro di lei, ma Daphne non aveva capito assolutamente nulla dal suo labiale. Poco importava, perché era stata questione di istanti: un ragazzo alto il doppio di lei, con un paio di spalle da pallanuotista, si era incollato alla sua schiena.
Lì per lì l’idea che qualcuno fosse attratto da lei l’aveva accesa di imbarazzo, subito soppiantato da entusiasmo. La faccenda del tutto inusuale l’aveva intrigata.
Alyssa le aveva strizzato l’occhio, indicando i propri fianchi: doveva imitarla e scuotersi un po’.
Prima che Daphne avesse potuto replicare o prendere la via della fuga, l’amica le si era parata davanti e l’aveva incastrata tra il proprio corpo e quello dell’atleta, che già le stava sfiorando un braccio.
«Aly, che diamine fai?»
«Poche domande, tesoro. Seguimi.»
Le aveva allacciato un braccio attorno alle spalle, mentre le avvicinava un bicchiere alle labbra. «Piega la testa!»
Daphne aveva ubbidito e l’altra le aveva versato del punch a fontanella direttamente in gola.
Hear the beat, now let’s hit the floor. Drink it up and then drink some more.
Il bruciore dell’alcool le era esploso in corpo come una miriade di fuochi artificiali, provocandole una risata.
Si era sentita esattamente come tutti gli altri, nel centro del ciclone, sgombra dai soliti pensieri che la tenevano ancorata al suolo. Ciocche dei capelli di Alyssa le schiaffeggiavano il volto, si insinuavano tra le labbra insieme a quelli sintetici della parrucca; sotto la veste, i suoi fianchi avevano risposto, liberi di farsi modellare dalle anche del pallanuotista.
Alyssa aveva fatto di nuovo collidere i loro corpi e con le mani stavolta libere le aveva scompigliato un po’ la chioma da angelo. «Gli piaci parecchio», aveva urlato nel suo orecchio.
Così si erano ritrovati all’aperto, la sua amica allontanatasi con la scusa di riempire i bicchieri per tutti e il ragazzo di nome Chase che cercava in tutti i modi un contatto visivo e fisico con il “suo angioletto preferito”.
«Per essere un angelo, sei abbastanza cattiva», era stata la sua frase d’apertura, ma anziché rompere il ghiaccio aveva ottenuto l’effetto inverso.
A bordo piscina le cose apparivano un filo più nitide e Daphne cominciava a rimpiangere le proprie scelte. Essere desiderata la riempiva fino all’orlo, la faceva traboccare di gioia, dotandola di una potenza di cui altrimenti si considerava priva per legge naturale, come se alla nascita i suoi genitori si fossero dimenticati di donarle un minimo di autodeterminazione.
Adesso però era stanca. L’effetto dell’alcool svaniva e l’atletico pallanuotista, con il suo travestimento appena uscito da Arancia Meccanica, non esibiva alcuna armatura scintillante.
O rinforzi di alcol o te la svigni con una bugia.
Le parevano le uniche due opzioni dotate di senso.
«Non mi hai detto come ti chiami, angelo
Daphne si ripromise di fuggire a gambe levate, nel caso in cui avesse tirato fuori qualche flirt sugli angeli e le cadute dal cielo. «Angel.»
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, brillo ma elettrizzato dalla rivelazione. «Dici sul serio? Ma è… assurdo.»
«Eh, già.»
Rinforzo di alcol.
Daphne si impossessò di un bicchiere lasciato incustodito a bordo piscina e tracannò il contenuto tutto d’un fiato, gettando il capo all’indietro come aveva visto fare tante volte nelle serie tv. L’intera esperienza le ricordava un’assurda serie tv per adolescenti. Forse quel pensiero contribuì a calmarla e a rincuorarla, chiudendo in uno sgabuzzino i ripensamenti e sensi di colpa.
Decise che si sarebbe mostrata amabile, che avrebbe sedotto Chase, perché Ethan Sallinger quella sera non era lì, perché non sarebbe cambiato nulla neppure se ci fosse stato e perché voleva dimostrare a se stessa – e ai propri amici – di non essere una noiosa codarda.
«Quindi, Chase, cosa studi?»
L’argomento perfetto per attaccare bottone.
Diamine, ma come se ne usciva? Possibile che non riuscisse mai a staccare la spina?
«No, aspetta. Cambio domanda.»
Per qualche motivo lui trovò la sua retromarcia divertente. Sebbene fossero seduti a bordo piscina, nessuno dei due aveva imitato gli ospiti che si erano tuffati in acqua, né quelli che, ancora vestiti, vi rinfrescavano i piedi.
Chase si accostò a lei e con la scusa di rimuoverle i residui della parrucca dalla bocca, ne approfittò per disegnare con il pollice il contorno del labbro superiore. Indugiò sull’arco di Cupido. «Te la faccio io, una domanda. Ti va di andare di sopra?»
Come un missile, il primo pensiero che colpì Daphne fu la serie di stanze matrimoniali che il maniero affittava per chi si volesse trattenere dopo i ricevimenti. «Di sopra dove?»
«Nella sala da biliardo. Ti insegno a giocare.»
Si rilassò appena, controbilanciando l’ansia con la disinibizione donatale dal drink. Qualunque cosa avesse ingollato, stava facendo faville.
Al piano di sopra, radunati nella sala da biliardo, c’erano due gruppi di ragazzi – presumibilmente dell’ultimo anno – che disputavano una partita. L’odore acre di erba s’insinuò nelle narici appena socchiusero la porta. I giocatori si affrettarono a liberare il tavolo e si catapultarono fuori dalla stanza, come conigli spaventati. Solo uno strano trio vi si trattenne: il primo, un tipo massiccio sulla ventina, consumava la propria canna in una rientranza del muro, affacciato alla finestra; il suo compagno, tarchiato e accovacciato sul bordo del tavolo, dava loro le spalle e parlava con il terzo. Daphne si sentì ancor più disorientata nel rivedere Tom, l’ex di Alyssa, intento a sorseggiare qualcosa, ben piantato a gambe divaricate.
Quest’ultimo la riconobbe all’istante e, cerimonioso come non mai, le tese il proprio bicchiere di vodka, offerta che Daphne declinò con garbatezza.
«Io e Angel volevamo fare una partita», spiegò Chase recuperando tutto l’occorrente.
«Ah, Angel.» Tom le ripropose il drink, stavolta con decisione, nonostante l’occhiolino complice. «Meglio se ci bevi su, Angel. Che dici?»
Il ragazzo di spalle si voltò. Nel volto cosparso di lentiggini, nei lineamenti di pietra e nel carico di anni che indossava, pur non rispecchiando la sua vera età, Daphne lesse lo stesso giovane che stava frequentando Cindy Butler. Avevano aperto le danze al compleanno al Galaxy, ma in altre occasioni lo aveva notato, distante anni luce da ciò che lei trovava attraente nel sesso opposto.
Dei tre, solo Tom era venuto mascherato, scegliendo il Joker come proprio alter-ego.
«Sai giocare, Angel?» la punzecchiò il partner di Cindy – Sean, se ricordava bene.
«Le insegniamo le basi.»
Mentre lei sorbiva a sorsi da uccellino la vodka liscia, Sean costeggiò il tavolo e si congedò, richiudendosi la porta alle spalle.
«Vi conoscete?»
La domanda le era uscita confusa, replicandosi nella sua mente come onde sonore dopo una percussione. Si stiracchiava e ritirava quale una fisarmonica, attorno alla quale giravano le pareti.
«Andiamo allo stesso college», le spiegò Tom. «Mi sono trasferito a Providence da un anno.»
«Providence? Wow.»
Ora la testa le vorticava ancora di più e il mondo si era rovesciato sottosopra.
Tom e quel Chase a Providence? Come, quando era successo?
Chase la invitò a concentrarsi sul gioco. Si sarebbero limitati ad una dimostrazione, per farle mandare qualche colpo in buca. Il ragazzo con la canna era entrato nel proprio mondo onirico, mentre Tom aveva perso interesse per la situazione e rispondeva a dei messaggi sul cellulare.
Daphne avvertì di nuovo la fisicità del giovane alle proprie spalle, ma stavolta in un modo spiacevole, ingombrante e quasi soffocante: era due volte più alto di lei, andava al college e con ogni probabilità era iscritto a qualche squadra sportiva per agonisti. E la stava bloccando al bordo del tavolo.
Si ritrovò in mano la stecca da gioco, che per un attimo si sdoppiò, quintuplicò, ma per fortuna tornò alla propria unità. «Che ci devo fare?»
Le istruzioni galleggiarono attorno alla sua coscienza senza esserne veramente attratte, men che meno recepite. Daphne si limitò ad annuire, tenendo a bada i rigurgiti di vodka in agguato.
Aveva capito di dover colpire con la biglia bianca che aveva davanti tutte le altre colorate che erano ordinate in una piramide. Riuscì ad effettuare il tiro senza accecare Chase, ma poi fu di nuovo persa.
«Allora, prova a mandare questa biglia qui», le mostrò lui, «in quella buca laggiù. No, no, Angel ascolta. Con più delicatezza. E devi piegarti un po’.»
Il cuore le correva a duemila, mentre Chase aumentava la pressione sul suo corpo, direzionando la mira e avvicinando le labbra al suo orecchio.
Daphne scattò. Svincolatasi da lui, gettò sul feltro verde la stecca, passandosi una mano sugli occhi.
«Qualcosa non va?»
«Io… ehm, Chase non sto…»
La porta. Il tizio – Sam, Simon, Sean – l’aveva chiusa dall’esterno. Ma non bloccata, giusto? La serratura doveva essere rimasta libera, non aveva visto chiavi in giro.
«Forse dovrei… insomma tornare da…d-di… devo andare di sotto.»
«Perché? Non ti stai divertendo? Possiamo fare altro, se vuoi.»
Tom drizzò il capo, di nuovo interessato al discorso. Le domandò dove potesse trovare Alyssa, se fossero venute insieme, da cosa si era travestita.
«N-non lo so.»
Quella non era la prima volta che beveva più del solito, ma in genere la confusione si presentava come una nebbia che premeva contro le pareti della scatola cranica; stavolta era più una tavolozza di colori che si amalgamava, colava a tratti nelle sagome delle persone. L’arredamento si spostava di qualche centimetro, gli oggetti trillavano sotto il suo sguardo.
«È fidanzata.»
Era stato il ragazzo accanto alla finestra a parlare, ma Daphne impiegò alcuni minuti per capire che si riferiva a lei, non ad Alyssa. L’entusiasmo di Chase si sgonfiò come un palloncino, trascinando spalle e mento in avanti: «È così? Hai un ragazzo?»
Daphne deglutì, provando a riflettere sulla situazione.
La porta, quella benedetta porta la mandava ai pazzi. Doveva accertarsi che fosse aperta, che il passaggio per scendere di sotto fosse libero, che Alyssa potesse entrare e portarla via quando voleva.
Doveva assicurarsi di non essere un topo finito in trappola.
«S-sì. È vero.»
A Chase sfuggì un’imprecazione, mentre le nocche colpivano il muro. Il suo amico provò a rassicurarlo con qualche pacca sulla spalla e il mozzicone di canna rimasto.
«Non si fa così, Angel», la rimproverò con fare bonario.
Quell’atteggiamento placido la allarmò più della frustrazione di Chase.
«Peccato che non si chiami Angel,» intervenne Tom dalla sua poltrona, «ma Daphne».
«Oh, che bello. Come la ninfa del mito.»
Chase lo spintonò, offeso più dall’assenza di tatto che da tutto il resto.
«Daphne, io se fossi in te darei ascolto al mito», le suggerì Tom.
Si voltò lentamente ad incontrare lo sguardo terrorizzato della ragazza.
A piccoli passi era riuscita ad allontanarsi dal tavolo da biliardo fino alla credenza in cui i proprietari del maniero tenevano i liquori e adesso premeva la schiena contro la vetrina, come se quel gesto le assicurasse qualche vantaggio.
«E comincerei a correre.»
 

 

*    *    *
 



«Cindy, ma sei impazzita?»
Lisa si liberò dalla presa, facendo attenzione alla lama affilata. Ma da dove l’aveva tirata fuori? Non si trattava certo di un’imitazione o di un giocattolo.
Al posto della cugina, nell’ingresso si era materializzata una specie di bambola assassina, con i capelli raccolti in boccoli morbidissimi, l’illusione di cera sulla pelle e un campo minato di fiocchetti rossi tra capo, vestito e punta delle scarpe. Il color pesca dell’abitino la emaciava, portando in rilievo clavicole e mandibola.
Cindy Butler emise una specie di raglio, quasi piegata in due dalle risate.
«Sei proprio una fifona. Oddio, mi lacrimano gli occhi.»
Si accorse di Melanie trenta secondi dopo.
Doveva aspettarselo. Il suo sguardo saettò sulla spalla di Lisa, che sfiorava pericolosamente quella di Prescott senza timore. Perfino le loro mani erano tanto vicine da potersi facilmente avviluppare l’una all’altra.
«Lisa, accompagnami di sopra. Non voglio trovarmi da sola con Ronnie.»
«Perché mai? Siete così amiche.»
Cindy squadrò con disgusto Melanie, cassando il suo intervento con un cenno della mano.
«Non mi va molto», rincarò Lisa. «Credo che nell’altra stanza stiano preparando qualche gioco… Possiamo rimandare a dopo la festa?»
Se le avesse detto di bruciare all’inferno sarebbe stato più gradito. L’onta di un rifiuto non era ciò che Cindy Butler aveva ricevuto nel corso della propria breve vita. «Come scusa? Abbiamo avuto un litigio orribile», squittì. «Non la voglio confrontare da sola.»
«E allora evitala.»
Allo sguardo carico di veleno, Melanie rispose con un sorriso accennato.
«Prescott, ti sconsiglio di immischiarti. Hai dimenticato la sospensione?»
Mel accentuò il proprio ghigno: «Per fortuna ci sei tu a ricordarmelo. Mal comune mezzo gaudio».
James e il resto del gruppo si stava godendo lo spettacolo, preferendo tuttavia mantenersi ai bordi del ring, lasciando che i due gladiatori si affrontassero senza trascinare anche loro nella mischia.
«Beh?» Cindy scrollò la cugina per una spalla. «Andiamo?»
«Cindy, non possiamo evit…»
«No. Direi che degli stupidi giochini di Halloween possono aspettare.»
L’aveva già avvinghiata per un polso, leone che traina con sé la propria preda, quando Melanie fu scossa da un fremito. Le afferrò l’altra mano, costringendola a bloccarsi sul posto.
«Cosa stai facendo, Prescott?»
«Ti ha detto che non vuole salire. Lisa è abbastanza grande da decidere per sé.»
«Mia cugina non è un tiro alla fune.»
Mel sollevò un sopracciglio, serafica. «E allora perché stai ancora tirando?»
L’altra abbassò lo sguardo sul braccio sinistro di Lisa, libero dalle grinfie di Prescott. Mollò a propria volta la presa, sconcertata dall’opposizione di quella che considerava più una sorella che una cugina; sangue del proprio sangue. Attese ancora immobile, nella speranza che rinsavisse, che il corso delle cose riprendesse a scorrere, limpido e istintivo, nella direzione di sempre.
«Te ne pentirai, Lisa. Amaramente», sibilò, inarcandosi come un cobra. «E tu, Prescott, avrei dovuto farti fuori quando ne ho avuta l’occasione.»
James, Logan, Travor e Jason si pararono davanti alle due ragazze.
«Forse è meglio se vai a farti un giro al piano di sopra», suggerì l’ultimo.
Proprio dal piano superiore si catapultò nell’ingresso uno sconosciuto in una salopette bianca e bretelle scure, che a James ricordò un lattaio.
Fece un rapido confronto con i costumi del suo gruppo d’amici: niente da rimproverare ai baffetti e al gessato da Gomez Addams che aveva ispirato Jason o alla maschera da Ghostface, affittata da Travor da un appassionato di Scream trovato online; impeccabile perfino il Tate Langdon ricreato da Logan, sebbene negasse di essersi fatto aiutare dalla madre.
James gonfiò il petto ripensando alle loro scelte, soprattutto la propria. Il vampiro per eccellenza costituiva un classico del genere horror, ma lui teneva pronto un tocco di classe. Poco prima, mentre razziavano il buffet, si era lasciato ispirare dal condimento per hot-dog – ovvero una comunissima bottiglietta di ketchup, arricchita da fili di ragnatela – di cui avrebbe desiderato un campioncino, da conservare fino al momento giusto.
Essendosi però dovuto adattare alle circostanze, aveva seguito la prima idea che gli era passata per la mente e in un attimo la bottiglietta intera era sparita dal tavolo.
La conservava gelosamente al fianco, saldata dall’elastico dei pantaloni.
Il ventenne-lattaio intanto barcollava verso di loro, puntando il dito verso James. Aveva un bagliore avvilito, per non dire disperato, nelle pupille iniettate di sangue.
«Chi è di loro? Non dirmi quell’idiota travestito da Dracula.»
«Ehi, amico, Dracula è un classico. Tu che sei vestito da lattaio, devi solo stare zitto.»
Logan lo trattenne. Si evitò la spiegazione su Arancia Meccanica, vedendolo così infervorato. C’era un dettaglio più rilevante ad attrarre la sua attenzione: dietro lo sconosciuto, una Daphne in sembianze angeliche rimbalzava dal muro alla balaustra, bloccandosi scalino dopo scalino come se fosse stata sul ponte di una nave in mezzo alla tempesta.
«Dee-Dee? Va tutto bene?»
Lei saltò a piedi uniti gli ultimi due gradini e si gettò esausta tra le braccia di Travor, già pronto ad accoglierla. Quella mossa fu carburante per la rabbia di Chase Gaines.
«Angel,» un urletto stridulo, «qual è? Lui deve sapere».
Il caos generale si tramutò in pantomima, quando una ragazza del penultimo anno sfrecciò loro davanti, per poi prostrarsi a terra, abbracciare il vaso di una pianta e rovesciarvi ciò che il suo stomaco si era rifiutato di digerire. A farle da corteo, un paio di amiche e il compagno, che provarono a sollevarla e a convincerla a spostarsi in bagno.
«Oh, Dio», gorgogliò Daphne, premendosi una mano sul proprio, di stomaco.
«No, no, no. Ehi Daphne, perché non andiamo fuori?»
Logan le passò una mano attorno alla vita, quasi caricandosela in spalla, con il supporto di James sull’altro lato. Chase, dal canto proprio, non trovava pace. Si piantò davanti all’uscita, a braccia conserte e con la mandibola serrata. «Chi di voi è il suo ragazzo?»
James si indicò: «Puoi dire a me, sono il fratello. Le è successo qualcosa?»
Ma Chase non pareva un tipo paziente e dal modo in cui scrocchiava le nocche quali noci, fu facile immaginare il suono che avrebbe fatto il proprio collo, tra quelle mani.
«Lui.» James spostò l’indice in direzione di Logan, senza esitazione. «Il fidanzato è lui. C-ci sono problemi?»
«La tua ragazza si veste da angelo, ma è una grandissima stronza. Dovresti insegnarle il rispetto.»
Logan aggrottò la fronte, scambiandosi uno sguardo perplesso con l’amico. Il capo di Daphne ciondolava sul petto in maniera spettrale, da spaventapasseri. Le assestò una serie di schiaffetti, provando a tenerla sveglia.
«Chiamo un’ambulanza?» chiese in un sussurro.
Daphne gli fece segno di diniego, ma lo supplicò di assecondare i deliri di quel pazzo, per evitare ulteriori complicazioni. Si erano spostati all’aperto, intanto, ed erano riusciti a farla sedere sulla scalinata principale, mentre Travor e Jason cercavano una bottiglietta d’acqua.
James aspettava un’occasione del genere da anni, senza nemmeno saperlo.
«Senti, hai ragione. Glielo ricordiamo sempre a casa che non può fare come le pare, che è fidanzata. Insomma, questo povero ragazzo darebbe il mondo per lei», esasperò, additando Logan.
«E lei, invece, che fa? Va a ballare. Capisci, amico? A ballare. Roba da pazzi», concluse scuotendo il capo.
Mai mente più illuminata capitò al cospetto di Chase Gaines, che si rincuorò nell’incrociare sulla propria strada un animo nobile, gentile, capace di riconoscere i veri valori del mondo. E quasi si commosse.
«Tu mi sembri uno a posto. Mi dispiace che ti sia capitata una sgualdrina simile per sorella. Non ci sono più le ragazze di una volta.»
Osservava il suo nuovo protetto fare avanti e indietro per lo spiazzo di ghiaia, strapparsi i capelli e assestare calci ad un nemico invisibile, lamentando la propria sciagura.
«Io ho dovuto dirvelo, per darle una raddrizzata… Si è strusciata addosso a me. Sai cosa significa questo?»
«Oh, no!» strillò James. Si era gettato carponi e sollevava mucchi di ghiaia, per poi lasciarla ricadere o scagliarla contro il cielo. «Dio, sei ingiusto! Come faremo? Ci ha rovinati. Daphne, sei un’ingrata!»
Logan, che si era seduto accanto alla ragazza nel tentativo di farla riprendere, lo fulminò: «James, può bastare. Credo si sia fatto un’idea».
«Un’egoista…» proseguì strappandosi i denti finti per sbatterli a terra.
«James, smettila.»
«…il disonore della famiglia!»
«Basta, James!»
Daphne stava sussultando. Teneva coperto il volto con le mani chiuse a coppa.
«Ecco,» concluse Chase, «brava. Vergognati di insultare così il tuo ragazzo.»
Detto ciò, ritenne di potersi ritirare, ma solo dopo aver assestato un pugno d’incoraggiamento a James, assicurandogli che ne sarebbero usciti puliti. Gli lasciò perfino il proprio biglietto da visita, con il ghirigoro della Providence e tutto, mettendosi a sua disposizione per qualunque esigenza.
«Grazie, amico», gli urlò dietro James. «Come te se ne trova uno su un milione.»
Solo una volta che si fu ritirato oltre la porta del maniero, James si rimise in piedi, scrollandosi via la ghiaia dai pantaloni. «Grazie al cielo», aggiunse.
Daphne rialzò il volto dalle mani, guardandosi circospetta intorno. Aveva gli occhi lucidi di lacrime, ma tratteneva a stento le risate. «Se ne è andato?»
«Sì», sospirò Logan. «Ma dove diamine lo hai trovato?»
«Ti è piaciuta l’interpretazione?» si pavoneggiò James.
A Logan l’intera faccenda non faceva affatto ridere: «Poteva finire male, Dee-Dee».
«Lo so.» Ne incrociò lo sguardo, seria e sgombra da qualunque accenno di divertimento. «Di sopra ho avuto veramente paura. Erano in quattro e molto più grandi di me.»
«Non avresti dovuto seguirlo da sola. Dov’era Alyssa?»
«Sola? Il maniero è pieno di gente, ma quando siamo entrati nella sala da biliardo se ne sono andati via tutti. Avrebbero potuto…» si passò i palmi sul viso, distrutta. «Non lo so. Stavamo ballando, l’ho persa nella mischia. Gesù, mi gira tutto.»
La quiete proveniente dal parcheggio creava un forte contrasto con il resto del baccano che si erano lasciati dietro. Era come sprofondare nelle gole di un canyon, appena usciti da Babele.
Alcuni grilli accompagnavano le loro riflessioni, mescolandosi ai gemiti di una coppietta che amoreggiava sul cofano di una macchina, a poca distanza dal viale principale.
Daphne si concentrò sulle stelle, cercando di intravederne qualcuna dietro il velo di nubi. Le ricordavano un groviglio di tulle grigio.
«Tieni,» Lisa May spuntò da dietro il corrimano, porgendole un bicchiere colmo d’acqua, «ho aggiunto del limone. Dovrebbe fare effetto più velocemente».
«Grazie, davvero. Non so perché siate così gentili con me», mormorò.
Il sapore asperrimo della bevanda le pizzicò la lingua, strappandole una smorfia comica. Giurò a se stessa che non avrebbe mai più toccato una goccia d’alcool in vita propria, consapevole di come il fioretto non avrebbe resistito a lungo.
«Bene, il nostro lavoro qui è finito.»
Ripuliti i canini di plastica, James se li riapplicò con soddisfazione, per poi chiudersi il mantello scuro su una spalla, come un illusionista pronto a svanire in una nuvola di fumo. Era assurdo sentirlo parlare di sé in terza persona, ma non troppo inusuale per Logan, abituato ad assorbirne i deliri da tempi immemori.
«Vado a cercare quei due idioti e poi… dritti al cimitero!»
Picchiettò sulla spalla dell’amico, impaziente e un velo scaramantico: «Fammi gli auguri».
«Buona fortuna, James. Non combinare troppe sciocchezze.»
«Ed evita commenti misogini», rincarò Daphne.
Quello si congedò con un saluto da marine, fingendo di sbilanciarsi all’indietro e di affondare sulla sua nave immaginaria. Il familiare suono di tacco dodici annunciò l’aggiunta di Alyssa alla strana combriccola.
I gradini che avevano fatto penare Daphne furono per lei un gioco da ragazzi. Planò come una colomba sui due amici accovacciati alla base della scalinata. Neppure una goccia del punch raccolto nei bicchieri di carta andò versato.
«Daffie, finalmente! Ormai ti davo per dispersa. Credevo te ne fossi andata.»
«Con quel tipo?»
Alyssa si strinse nelle spalle, offrendole la coppa liquorosa come segno di pace. Ignorò il gesto di diniego, così come la bevanda al limone che stringeva al petto, perché fremeva per parlarle in privato, senza quel guastafeste di Logan Woods.
Aveva molto da raccontarle: fossero state sole, il monologo non avrebbe potuto vertere su nient’altri che David Blunt. Il rappresentante d’istituto aveva ripreso a frequentare il nuovo capitano della squadra di pallavolo – l’odiosa e irreprensibile Alexandra – ma la memoria dell’estate trascorsa in compagnia di Alyssa bruciava ancora indelebile nella sua memoria.
Lo aveva incontrato nello spazio riservato alla cucina, mentre riempiva alcuni calici.
Avrebbe confessato a Daphne quanto fosse rimasto identico, a distanza di mesi, con la sua aria sexy, perennemente stanca, i capelli scarmigliati e la barbetta bionda appena incolta. Poteva immaginare quale effetto avrebbe sortito su Tom, se solo avesse potuto baciarlo lì – o in pista – creando un scandalo con la “s” maiuscola. Peccato che David si dichiarasse assolutamente fedele ad Alexandra adesso, con cui voleva fare sul serio.
Fu costretta a mordersi la lingua e a rimandare il tutto a circostanze migliori, soprattutto dopo essersi accorta di Lisa e Melanie, ancora appoggiate al corrimano. I suoi occhi schizzarono da loro a Daphne e viceversa.
Calma.
Doveva mostrarsi calma e sorridente, come le avevano insegnato fin da bambina. Il migliore sorriso di Norwall: se avessero bandito un concorso, l’avrebbe vinto lei senz’ombra di dubbio.
Con un cenno secco del capo, si portò i capelli in avanti, a farli ricadere sinuosamente nel decolleté, come fossero stati un ghirigoro dell’abito. «Mi sono persa qualcosa?»
Logan non si premurò di celare il proprio fastidio. «Solamente la sbornia di Daphne».
«Sto meglio ora.»
«Oh», la bocca a cuore di Alyssa si piegò all’ingiù.  Soppesò il punch: «Allora questo lo evitiamo».
Non le sfuggì l’espressione corrucciata di Melanie, né l’ostentata indifferenza di Daphne.
L’avevano colta di sorpresa, ma la partita non era ancora terminata.
Almeno sapeva di essere lei ad impugnare le redini della situazione. Si vide sfilare davanti tutti i differenti film che avrebbe avuto modo di realizzare: sapeva che, se soltanto avesse voluto, avrebbe potuto convincere Daphne a scacciare l’attuale sbornia con altri fiumi di alcool, così come rimetterla in piedi e spingerla in pista oppure farla aspettare una mezz’ora e riaccompagnarla a casa; sapeva che Melanie non avrebbe alzato un dito per opporsi, così come sapeva che quelle due non avevano scambiato neppure mezza parola.
Ma ignorare l’ipotesi remota di un riavvicinamento avrebbe fatto di lei una sciocca.
C’era un’ultima cosa che sapeva, infatti, e che sbilanciava la decisione inequivocabilmente da un lato: non importava quanto si tentasse di separarle, quelle due avrebbero sempre teso a ritrovarsi, l’una perfetta calamita per l’altra. Daphne e Melanie costituivano forse l’unica, irrazionale rottura delle leggi naturali: due perfette identità che, anziché respingersi, finivano per attrarsi.
Alyssa si morse un labbro, imponendosi di non intaccare la perfetta illusione creata finché non fosse rimasta da sola nella sicurezza della propria abitazione.
Forse stava esagerando. O forse no.
In entrambi i casi, meglio prevenire l’irrimediabile finché ancora in tempo.
Melanie si ritrovò un assaggio di punch in mano e nell’istante successivo il viso di Alyssa, ravvicinato, che le sorrideva placida, dedicandole un brindisi in nome del fantastico trucco da strega.
«Davvero un capolavoro, Melanie. L’hai fatto tu?»
«Merito di Lisa.»
Alyssa sollevò il bicchiere proprio verso di lei, condendo la bevuta con alcuni complimenti preconfezionati. Dopodiché, fece scattare la seconda fase del suo piano: «Sapete che dentro stanno giocando ad Obbligo o Verità? Sarebbe carino se ci unissimo anche noi».
Il tentativo di fuga da parte di Melanie, che provò a defilarsi verso il parcheggio, venne intercettato.
«No, no. Intendo tutti
 
 
 
*    *    *
 



«Devi massaggiare la schiena della persona di fronte per il resto del gioco.»
Lisa tentennò, guardandosi attorno. La vittima del verdetto era un ragazzo del penultimo anno mascherato da lupo mannaro. Degli strani basettoni gli avvolgevano il mento, abbrutendo i lineamenti dolci, quasi infantili.
Uno degli altri giocatori lo aveva chiamato Brandon, congratulandosi per la fortuna capitatagli.
Per quanto dispiaciuta, Lisa rinunciò al cuscino accanto a Melanie e andò a sedersi vicino a tale Brandon, con una rapida presentazione che sapeva di imbarazzo.
Il gruppo di studenti prestatisi al gioco sedeva in cerchio sui tappeti della Camera Blu, che poteva fregiarsi di vista e accesso diretto all’area piscina. Le uniche candele accese si trovavano ai quattro angoli della stanza e gettavano una luce tremolante sui partecipanti, i cui volti erano altrimenti risucchiati dalla penombra.
Melanie attraverso i vetri colse la sagoma di qualche avventuroso che si gettava vestito nella vasca della piscina, sollevando spruzzi fino al secondo piano; qualcun altro ondeggiava sul posto, svogliato o intossicato dall’alcool. La canzone This Is Halloween, emessa da un piccolo stereo camuffato da zucca, cominciava a ferirle le orecchie.
La bottiglia di Pepsi vuota venne fatta vorticare di nuovo e si fermò, come l’ago di una bussola fuori controllo, ad indicare Brandon e Willa Hess. Tra le risate d’eccitamento dei presenti, Willa scelse di dire “la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”.
Melanie avrebbe voluto andarsene all’istante. Sapeva che rimanere a quella sciocca festa sarebbe stato un errore. Detestava l’ambiente, il modo in cui tutti si comportavano da amiconi – pur non essendosi mai incontrati prima – nella stessa misura in cui odiava le voci da gladiatori nella stanza accanto, il caldo soffocante dell’intero maniero, i colpi che venivano assestati alla parete. Maledetta forza di persuasione di Lisa May.
Si sentì scrollare debolmente per una spalla.
«Obbligo o verità?»
Il fondo della bottiglia indicava proprio lei, mentre il tappo puntava Alyssa.
Rimase frastornata ancora per qualche istante, prima di umettarsi le labbra e rispondere: «Obbligo».
«Melanie, ti obbligo a lanciare delle uova contro la casa abbandonata qui vicino.»
«Ma di che parli?»
«Ce n’è una a dieci minuti di macchina da qui. Ti mando la posizione esatta, se vuoi.»
Mel aggrottò la fronte. «E come farai a sapere che ho davvero lanciato delle uova?»
La ragazza le accennò la cucina Stava già cercando il nome della via sul proprio telefono. «Ne ho viste almeno due scatole in frigo. Non so cosa pensassero di farci, ma credo che ai rappresentanti non servano più.»
Lisa scattò: «Non farlo, Mel. È buio a quest’ora e quella zona è deserta».
«Mio Dio, Lisa, stai esagerando. La strada è illuminata e Melanie sa guidare. Per qualunque cosa, noi siamo praticamente dietro l’angolo.»  
Alyssa fece girare il telefono, per mostrare a tutti la street view dell’abitazione prescelta. Si sollevarono dei grugniti di approvazione, qualche commento su come fosse poco nitida e più di un’osservazione sulla scelta delle uova.
«Qualcuno deve riprenderla», s’intromise uno studente con un cappellino da clown. «Potrebbe bluffare, no? Fidarsi è bene…»
«Daphne, perché non vai tu con lei?»
Era stato Logan a parlare, indirizzando un mezzo sorriso di strafottenza ad Alyssa Russmith. «Così ci mandi il video appena terminato. Sempre che Alyssa non abbia niente in contrario…»
Quella rinforzò la presa sul proprio bicchiere, accartocciando la plastica. Quando riuscì a parlare, le uscì una voce gracchiante, che redense con una schiarita. «Certo. Va benissimo.»
Non tutto era perduto. Melanie non avrebbe mai e poi mai accettato di prestarsi a quelle condizioni. Ci si sarebbe giocata tutto il denaro depositato da suo padre sul proprio conto.
Si rivolse alla diretta interessata: «Melanie, che fai? Accetti?»
 

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Capitolo 13
*** Capitolo 10.* (III) ***


 CAPITOLO 10. (III)*

Mousetrap
«Did you think we’d been fine?
Still got scars on my back from your knife
So don’t think it’s in the past,
These kind of wounds they last
and they last now.
(...)
And time can heal
but this won’t.»
 
 
 
10: 47 p.m. – 12, Redham Road
 
 
 
 


Le foglie scricchiolavano sotto alle ballerine.
Era buio, di un buio meno fitto rispetto a prima – quando avevano percorso in auto, con i lameggianti a fendere l’ignoto, i famosi dieci minuti per arrivare sul posto – ma pur sempre un’oscurità che la turbava.
Avrebbe voluto uccidere Alyssa, per averla spinta in un luogo simile, facendo passare la bravata per “una storia da raccontare”. Dello stesso parere Logan, che l’aveva incoraggiata a cogliere l’occasione.
«Ti lamenti che non accade mai nulla di interessante nella tua vita», le aveva ricordato con una dose di cattiveria. «Questo sembra interessante.»
Certo, scagliare uova contro una casa abbandonata la notte di Halloween era proprio il genere di storia che avrebbe voluto raccontare alla sua progenie. Già poteva immaginarsi, con un balzo avanti negli anni, raggomitolata sulla poltrona a narrare ai suoi nipotini quanto stridulo le fosse giunto il grido di qualche gufo.
Perché era tutto ciò su cui riusciva a concentrarsi, al momento: quello e lo sfrigolio delle chiome degli alberi insidiati dal vento.
Ogni tanto incontrava dei mucchi di foglie secche e ci affondava con uno scroscio, mettendo a dura prova l’equilibrio. Una traversata interminabile: aveva contato i passi dal punto in cui avevano abbandonato l’auto – praticamente sul ciglio della strada – ma arrivata a duecento aveva rinunciato. Dovevano aver camminato per più di cinque minuti, ad ogni modo.
Daphne allacciò le mani alle spalle seminude con un brivido. L’alcool aveva obnubilato quel minimo senso di logica che le avrebbe suggerito di portarsi dietro il giaccone; soltanto ora gli effetti cominciavano a svanire, lasciandola più lucida e più incazzata. La temperatura era scesa a 12 gradi e in quel punto in cui arrivava appena il riverbero della luna il freddo le mordeva la pelle.
Adorava i chiari di luna, le peripezie, l’imprevedibile avventura, ma solo nei libri. Nei romanzi era facile: se un ingranaggio s’inceppava, bastava scorrere le pagine e saltare alla conclusione, a scoprire nel finale come si sbrogliasse la matassa. Ma lì, in quel posto inghiottito dal buio e dimenticato da Dio, non si poteva saltare ad alcuna conclusione.
Doveva viverla, goccia dopo goccia, minuto dopo minuto, con il cuore sballottato nel petto.
Il luogo che cercavano sorgeva al centro di uno spiazzo aperto, eppure stavano affondando sempre più nella boscaglia e non accennava a diradarsi. Non un’anima viva a cui chiedere indicazioni – e chi si sarebbe avventurato su quella strada chiusa dagli alberi in piena notte? – né una maledetta segnaletica che le potesse guidare.
Daphne schivò delle sterpaglie che tentavano di intrappolarle la veste.
Dei corvi gracchiarono sopra la sua testa, facendola sussultare. Tra il gomitolo di rami cercò con lo sguardo gli indiziati, ma non riuscì a scorgere nulla.
Ma quanto mancava ancora?
Vedeva le spalle di Melanie, qualche metro più avanti, ondeggiare, la testa bassa e incassata, in balìa del navigatore.
Non poté fare a meno di pensare che era sempre stato così, da quando ne aveva memoria: Mel avanti e lei qualche spanna più indietro, ad arrancare, ad affannarsi come una disperata.
Non avevano scambiato neppure mezza parola da quando era montata in auto con lei.
Forse, si era detta, era meglio così. La carica esplosiva di alcune ore prima ribolliva ancora sottopelle.
Daphne si rimise in moto, ma qualche metro dopo si presentò un rumore di tutt’altra natura che le congelò il sangue nelle vene.
Un ululato.
Stridulo, aspro e raschiante come artigli su una parete rocciosa.
Daphne si bloccò. L’abbandonò la forza di parlare, di spostarsi o anche solo di muovere un muscolo facciale.  
Si fece forza e in un bisbiglio: «Hai sentito?»
Vide la nuvola di condensa prodotta dal suo respiro fluttuarle davanti.
Anche Melanie si era voltata e scrutava il cuore del boschetto alle loro spalle. Annuì, piano.
«Cosa può essere? Un lupo?»
«Non ci sono lupi nel Connecticut.»
Poi, di nuovo quel richiamo. Questa volta trovò risposta in altri tre latrati, provenienti da un punto indefinito alla loro sinistra. A Daphne venne la pelle d’oca, ma stavolta non per il freddo.
«Quella era un’abbaiata.»
«Sono coyote», disse Melanie. «Credo.»
«Coyote?!»
La ragazza assentì con estrema serietà. «Meglio che ci muoviamo. Vorrei evitare di incontrarli.»


*    *    *


Correva.
Correva in mezzo a tutti gli altri, un agnellino in mezzo ad un branco di lupi. Con i muscoli in fiamme, i tendini che tiravano e la vista annebbiata dal vento.
Isaac continuò a correre per altri duecento metri, poi svoltò in una strada a senso unico, individuò la Toyota metallizzata ad attenderlo con gli sportelli spalancati e saltò sul sedile del passeggero.
I battiti continuavano a incalzarlo, simili alla raffica di una mitragliatrice. Si premette una mano sul petto, in alto a sinistra, all’altezza del cuore, per assicurarsi di essere ancora intero.
La Toyota era già ripartita e divorava metri d’asfalto come un bulldozer, lanciata sulle strade del Westside. Unica destinazione: Lowhood.
Isaac tirò rumorosamente su con il naso e si schiarì la gola.
Il tipo con la boccia, presentatosi come Felix, sbracato sui sedili posteriori, piantò entrambe le mani sugli anteriori e vi sporse il mento esibendo un ghigno soddisfatto. Una risata gorgogliò dalla gola.
Oliver gli chiese come fosse andata, mantenendo lo sguardo sulla guida.
«Benone. Il rampollo del Westside è una vera chicca.»
Smokes, il ragazzotto schiacciato contro il finestrino, concordò con lui, accendendosi una sigaretta.
Oliver se ne inorgoglì: «Ve l’ho detto che sarebbe tornato utile».
«Ci fidiamo di te, Ol. Il fatto è che, a vederlo così, tutto striminzito e slavato,» Felix gli strizzò una spalla, raggrinzando la stoffa della felpa, «non gli daresti uno sputo d’incoraggiamento.»
Cosa significasse, Isaac non lo sapeva. Quel che sapeva con certezza, invece, era che il sangue pulsava con troppo vigore nelle vene e il busto si stava irrigidendo.
Frugò nella tasca alla ricerca dell’inalatore. L’aveva preso, era certo di averlo preso. Ma allora dove l’aveva messo?
Felix si stava congratulando con Oliver. Il piano era andato secondo il previsto.
Si erano diretti alla casa dove abitava una delle innumerevoli coppie facoltose del quartiere; non avevano incontrato alcuna resistenza da parte della serratura principale e, una volta scattata quella, erano riusciti facilmente ad aprire le altre due, come si aspettavano. Merito di Two Fingers, il loro scassinatore di fiducia.
Poi, si erano introdotti nell’abitazione, muniti di passamontagna. Le telecamere frontali erano state già manomesse da Verano, che dal retro aveva fatto saltare il circuito.
Se avevano potuto lavorare con quella sicurezza e tutto il tempo del mondo a loro disposizione, dovevano ringraziare Isaac e altri due scagnozzi: Ryan – “Hawk” per i membri del gruppo – e Slimmer.
Mentre gli altri due stavano di guardia su retro e ingresso principale, Isaac aveva fatto da palo all’entrata del giardino, nel punto in cui la staccionata di legno bianco s’interrompeva, lasciando spazio al cancellino.
Felix e gli altri impegnati all’interno avevano faticato più di quanto avessero immaginato nello scovare il diadema.
Il momento cruciale era stato alla comparsa di una coppia d’anziani, probabilmente dei vicini di casa, che si erano fermati sul marciapiede a guardare i ragazzini del circondario fare dolcetto o scherzetto.
«Lo scricciolo gli si è parato davanti», raccontò Felix con foga, «e ha finto di conoscerli. Ha bloccato la visuale sulla casa e quelli ci sono cascati con tutte le scarpe.»
Oliver si concesse un mezzo sorriso.
«Fregati come dei bambini», concordò Smokes.
Era riuscito a distogliere completamente l’attenzione dall’abitazione scassinata, impegnandoli in discorsi su Halloween, i bambini e le vacanze, richiamando ad una memoria già precaria l’incontro di diversi anni prima, durante una crociera nell’Atlantico.
«E il diadema dov’era?»
«Ol, non ci crederai mai» Felix sistemò ancor meglio il didietro sul proprio sedile. «Nella cuccia del cane.»
«Assurdo.»
Smokes rilasciò una boccata di fumo, scuotendo il capo: «Già. Scommetto che glielo fanno pure mettere».
«In tal caso, si sono meritati la rapina», decretò il biondo. «Isaac, va tutto bene?»
Isaac aveva rivoltato tutte le tasche degli indumenti, affannandosi in cerca dell’inalatore. La tosse secca si era presentata puntuale all’appuntamento con il Caso. Lo stesso Caso che aveva voluto far scivolare l’inalatore sul pavimento dell’automobile, tra il sedile e lo sportello.
Il ragazzo aveva afferrato il sedile da entrambi i lati adesso e lo stringeva come se si fosse trattato dell’ultimo scoglio a cui aggrapparsi durante una tempesta. E lui si sentiva un po’ come un naufrago, in effetti, senza punti di riferimento su come procedere di fronte all’ineluttabile.
Sarebbe morto, lo sentiva. Lo sentiva.
Le vie aeree si restringevano sempre più e respirare era impossibile. Una scalata, altro che naufragio: era esattamente come una scalata e mano a mano che si avvicinava alla cima della montagna, l’aria diveniva sempre più rarefatta e la scorta nei polmoni meno consistente.
Isaac si raggomitolò su se stesso, in preda agli spasmi.
«Ehi, ma che sta succedendo?»
«Ti senti bene, scricciolo?»
Oliver gli lanciò un’occhiata rapida, allarmata, mentre l’automobile rallentava sotto i suoi comandi, fermandosi al semaforo rosso. Si sporse verso il più giovane, nonostante i movimenti ristretti dalla cintura, e riuscì a scorgere il profilo familiare dell’inalatore. «Sta lì! Prendi quell’affare, Felix.»
«Cosa? Ma cosa?»
«L’inalatore! Dagli il cazzo di inalatore!»
Oliver indicava in modo spasmodico lo sportello. Il suo compagno impiegò una manciata di secondi ad individuarlo. Lo recuperò con la mano grassoccia, schiacciando una guancia contro il coprisedile.
«Sbrigati, cazzo!»
«Eccolo, eccolo!»
Isaac si ritrovò il salvavita tra le mani come un portafortuna. Se lo portò alla bocca e premette il pulsante di rilascio, risucchiando aria con disperazione. Lasciò trascorrere trenta secondi, prima di riattaccarvisi.
«Ecco, così», Felix gli assestò una pacca. «Respira, scricciolo.»
Anche Smokes si era sporto tra i due sedili, sistemandosi sul naso gli occhialetti a mezzaluna dalle lenti scure. «Va meglio?»
Dal momento che Isaac stava annuendo, sebbene ancora sentisse la gola arida e i polmoni come raschiati dall’interno, si rilassarono tutti.
Prima di ripartire, Oliver abbassò il finestrino e, sottratta a Smokes la sua adorata sigaretta, la gettò in strada.
«E butta ‘sta cazzo di sigaretta.»
 
 
 
*      *      *
 

L’abitazione sorgeva al centro di uno spiazzo erboso, dove le uniche sentinelle erano un albero da frutto alla sinistra e il garage sul lato destro.
Classica, strutturata su due piani, tetto spiovente in ardesia, piccolo porticato frontale, l’abitazione sembrava tenuta in condizioni persino decenti. O forse era il chiaro di luna, da lì perfettamente visibile, a romanticizzare il quadretto.
Vi erano approdate per miracolo, con il navigatore che aveva ricalcolato il percorso un paio di volte e la certezza di essersi perse ormai tra gli alberi. Finalmente era apparsa la luce in fondo al tunnel: un punto in cui le chiome pesantissime si sfoltivano e dai tronchi più scheletrici si passava ad un campo aperto.
Melanie, deposta sul prato la borsa a tracolla, aprì la confezione che le avevano dato.
C’erano dodici uova intatte.
Sciuparle in quel modo le faceva montare una rabbia incandescente; magari per tutti gli altri studenti dell’Arcadian sarebbe stata una perdita da niente, ma lo spreco di cibo in casa sua assumeva tutt’altro sapore. Qualcosa, un lumicino di irrazionalità proveniente dal fondo dello stomaco, le suggeriva che il disegno di Alyssa non era stato così casuale come voleva far credere.
No, stava volando con la fantasia. Alyssa non sapeva un bel niente di lei.
Magari l’aveva conosciuta superficialmente in passato, ma in così pochi anni le carte in tavola erano state rovesciate.
Alyssa non poteva sapere con quanta considerazione trattassero il cibo i Prescott, né immaginava il senso di colpa e rabbia introflessa che provava nel sollevare il coperchio di quella sciocca confezione.
Afferrò il primo uovo, rivolgendosi verso la compagna. «Allora? Facciamo questa stronzata, così rendiamo felici i tuoi amichetti e torniamo ciascuna alla propria vita?»
A Daphne non sfuggì il tono prepotente con cui aveva pronunciato quelle poche parole, ma finse di ignorarlo. Estrasse il cellulare dalla borsetta e si posizionò ad alcuni metri di distanza dall’altra, sistemando l’inquadratura così da riprendere sia Melanie che la casa.
«Vai», e premette il pulsante rosso.
Melanie si era messa in posa come una lanciatrice incallita del baseball. Portò l’uovo accanto alla tempia, chiuse un occhio, mentre con l’altro calcolava con precisione la distanza da coprire; poi, flesse il braccio all’indietro e scagliò la sua pallottola d’un bianco ovatta contro la facciata. Vi si spalmò con un suono liquido, gocciolando lungo il cornicione di una finestra.
Daphne rimase ad osservare il misto di albume e tuorlo che andava a dipingere un unico occhio giallastro sul rivestimento in mattoni.
Le ricordò un occhio piangente, quello di un animale morente – una vacca al macello fu l’immagine che la colpì all’istante – e avvertì un accartocciamento a livello addominale.
Prima che potesse aprire bocca, però, un altro uovo colpì la casa, stavolta in basso a destra, proprio accanto all’entrata del garage. E poi un altro e un altro e un altro ancora.
In breve una raffica di tuorli si riversò sulla casa senza vita, schegge di gusci infilzarono il prato.
Nessuna delle due stava ridendo o anche solo sorridendo, davanti all’insudiciamento immotivato.
Melanie era divenuta una catapulta: tirava uova rispondendo ad una logica esterna incomprensibile, come seguendo dei comandi preimpostati, fino ad esaurimento scorte.
Daphne si voltò a guardarla con un senso di compassione.
«Melanie, penso sia sufficiente.»
«No.»
Quella la invitò a risollevare lo schermo del telefono. «Finiamo la dozzina.»
Daphne preferì spostare lo sguardo altrove.
Non si spiegava come Melanie potesse assolvere al suo obbligo in maniera automatica, davvero meccanica.
In qualità di unica difesa trovò il profilo della luna – piena come annunciato da James – e si sforzò di concentrarsi solo su quello. I contorni vacillarono, sfumarono nel tempo e rivide se stessa, bambina di appena otto anni, seduta sul portico in legno di casa Prescott.
La prima luna piena a cui avesse assistito.
Ricordava il profumo nauseabondo del chewing-gum alla fragola, con cui lei e Mel erano entrate in fissa – a dire il vero, era la fissa dei trequarti della scuola – tenendone sempre due pacchetti di scorta in tasca. Rimaneva attaccato ai vestiti per giorni, facendo disperare Emma Barnett ogni volta che doveva lavare la biancheria della figlia. Quella sera, però, il chewing-gum era stato surclassato.
Un odore più forte, quello di mele e zucchero a velo, le aveva impregnato le narici. Proveniva dalla cucina, dal forno dei Prescott in cui stava lievitando qualcosa di speziato.
Melanie l’aveva raggiunta in veranda, sedendosi accanto a lei con le gambe acciambellate. Con la massima serietà le aveva consegnato un quaderno simile ad un block-notes, tempestato di sticker luccicanti. Lei l’aveva aperto alla pagina indicata, passando oltre i vari schizzi a pastello; tutto lo spazio disponibile era stato occupato dal disegno di un cassettone a più scomparti, munito di specchietti laterali e con un sedile retrattile. Un bozzetto innocuo, o almeno questo avrebbero pensato gli adulti, se fosse finito nelle mani sbagliate.
In realtà era il progetto di un macchinario potentissimo, il mezzo che avrebbe permesso loro di scivolare in un universo parallelo. Lo sapevano entrambe che era un gioco, ma solo per metà; l’altra metà voleva convincersi dell’impossibile e verificarlo.
Daphne ricordava di aver pensato con orgoglio che quella era la sua migliore amica, che proprio il suo cervello aveva partorito un piano geniale. E lei l’’avrebbe seguita ovunque, anche in un altro mondo.
Un colpo.
Qualcosa l’aveva colpita alle spalle, tra collo e scapola.
Un liquido tiepido iniziò a sgocciolare lungo l’avambraccio, in parte assorbito dalla spallina del vestito.
Daphne si voltò lentamente, ancora frastornata dal suo viaggio temporale, ma giusto in tempo per cogliere la smorfia di finta contrizione sul volto dell’altra.
«Ops, bersaglio mancato.»
Provò a liberarsi dal pastrocchio alla bell’e meglio. Che fosse un errore di distrazione o meno, mancavano solo due oggetti da tirare, dopodiché ognuna sarebbe andata per la propria strada. Tanto valeva resistere per qualche minuto ancora.
«Riprova.» Si sistemò di nuovo in posizione. «E vedi di prendere meglio la mira, stavolta.»
«Certo.»
Melanie ripeté meticolosamente i gesti di prima, roteando però il busto verso la compagna.
Te la do io la mira, Barnett.
Caricò il lancio e scagliò la penultima munizione, centrando il suo obiettivo. Dritto su una guancia, questa volta. Assaporare l’esatto momento in cui il guscio esplodeva e il fluido inondava la parrucca angelica di Daphne non ebbe prezzo. Chi diceva che la vendetta andava servita fredda?
Probabilmente qualcuno che non l’aveva ancora sperimentata.
E l’urletto di sorpresa fu ancora più appagante.
«Ma lo fai apposta?»
Mentre Daphne asciugava via i residui di albume, aiutandosi con la veste carnevalesca, Melanie le si avvicinò di qualche passo. «E se così fosse?»
L’altra rimase interdetta, poi la stanchezza ebbe la meglio e la invitò a terminare il suo compitino. Faceva un freddo cane e non aveva la minima intenzione di beccarsi un raffreddore a causa delle sue sbruffonate.
«Vorrei vedere te al mio posto. Ah, no, aspetta,» Melanie indicò se stessa, «tocca a me, come sempre. Tu non ci saresti mai finita in una situazione del genere, giusto? Va contro i tuoi valori.»
Daphne le lanciò un’occhiata dardeggiante. «Io non avrei mai accettato un obbligo simile.»
«Stronzate.»
Melanie sembrava in vena di grandi performance attoriali, quella sera; adesso faceva avanti e indietro, disegnando dei cerchi immaginari sul prato, come se finita in un loop. O come un cane che scavi la buca.
«Stronzate?» ripeté Daphne, accigliandosi.
«Fai tutto ciò che ti dice Alyssa. Se ti avesse ordinato di risalire a nuoto il Niagara, di mangiare merda o… Che ne so? Di spararmi, avresti ubbidito senza fiatare.»
Il telefono venne abbassato, la registrazione interrotta. Aveva ottenuto la sua piena attenzione.
Eppure Daphne appariva davvero provata, con delle fosse al posto delle occhiaie e una colata di trucco misto a uovo crudo sul viso. «Okay, chiaramente hai un problema con me. Pensavo ne avessimo già discusso a sufficienza.»
«Quale problema? Tutto nella norma. Sei tu a gridare al lupo, perché ti metto davanti ai fatti», disse assestandosi uno schiaffo sul palmo opposto.
Daphne sgranò gli occhi, allargando le braccia: «Questo non è un problema, per te?»
L’altra scosse il capo, impassibile, mimando un “no” con le labbra.
«Allora hai solo una mira di merda
Melanie finse di scandalizzarsi, spalancando la bocca in una comica imitazione di se stessa – o più probabilmente di Alyssa. Si strizzò le guance tra le mani.
«Oh, Gesù. Daphne Barnett ha detto una parolaccia! Santo cielo.»
«Sì, sì, sfogati pure», replicò lei raccogliendo l’ultimo uovo rimasto. «Almeno con questo abbiamo finito.»
«Com’è stato possibile? La nostra figlioletta perfetta… Oh, ma guardati. Non riesci nemmeno a colpire una stupida finestra. Sei proprio una brava ragazza.»
In effetti, il lancio non era andato a buon fine. Dopo aver disegnato una parabola ascendente, l’uovo era precipitato a terra, per attaccarsi alla ghiaia del viale d’ingresso.
Melanie superò l’altra di qualche falcata, per raccogliere da terra un sasso di modeste dimensioni. Lo soppesò qualche istante, sfidando la ragazza. «Vuoi vedere qualcosa di davvero forte?»
«No, non mi interessa niente del tuo rancore. Voglio solo tornarmene a casa.»
«Che c’è? Mamma e papà stanno in pensiero?»
Daphne ricontrollò di aver salvato il video nella galleria. Scorse le foto pre-party insieme ad Alyssa e qualche scatto alle decorazioni del maniero, fino al file di dimensioni più grandi.
L’anteprima, su cui lampeggiava il bottone di riproduzione, era un quadrato nero.
Avevano contato sul fatto che il lampioncino – a pochi metri dall’abitazione – supplisse alla scarsa illuminazione della scena, ma si erano sbagliate. Sperò che si vedesse quantomeno l’essenziale.
Il rumore del vetro della finestra che andava in frantumi le strappò appena un sussulto. Daphne trasse un respiro profondo, mentre cercava di inviare il file al numero di Logan.
«Senti, ho capito. Hai diciassette anni, sei un sacco incazzata con il mondo. Ti senti alternativa perché prendi a pugni la gente, sfondi specchi e finestre. Scaricando negatività su di me, non risolverai comunque i tuoi problemi.»
Melanie aggrottò la fronte.
Il tono di superiorità con cui osava parlarle. Quell’aria di disinteresse che le corrucciava il viso, mentre controllava il suo stupido I-Phone di ultima generazione. Era diventata come Alyssa.
Lei era Alyssa.
Fu questione di attimi. In poche mosse le aveva strappato il telefono dalle mani, scaraventato a terra e schiacciato sotto la suola della scarpa. Non emise neppure un ultimo “bip” morente.
«Ma ti ha dato di volta il cervello?»
Daphne la spintonò. All’inizio lo fece piano, sfiorando appena la felpa marrone che indossava; poi, fu un crescendo. Melanie replicò la spinta, senza applicare eccessiva pressione.
«Spiegami,» scandì la prima, «cosa diamine vuoi.»
«Lo vuoi sapere?»
Daphne arretrò di qualche passo davanti al grido animalesco con cui l’aveva investita.
«Il problema è che sei un buco nero, Daphne. Risucchi tutti nelle tue fauci, li fagociti e te ne liberi come se niente fosse», sputò. «Sei un buco nero!»
«Detto da una disonesta come te, c’è da crederti sulla parola.»
Stavano urlando entrambe, ormai. Alle spinte, Melanie sostituì una manciata di terriccio e fili d’erba, da riversarle addosso, spalmandolo sul vestito non più lindo. L’altra rispose con un vortice di graffi, fino ad avventarsi direttamente sull’opponente.
Per Melanie fu uno scherzetto scaraventarla sul prato. La schiena impattò con il suolo, strappandole un colpo di tosse secco, mentre l’altra la inchiodava a terra. Le sembrava di essere tornata all’Arcadian, al giorno in cui sotto al peso del proprio corpo aveva schiacciato Cindy Butler.
Il corpo di Daphne era più robusto, ma non per questo difficile da bloccare. Con le ginocchia piantate nei fianchi, le impediva di liberarsi dalla presa; riusciva anche a fermarle un polso, mentre con l’altra mano premeva all’altezza dello sterno.
«Cosa farai quando Alyssa non ti servirà più, eh? La scaricherai nel cesso? O forse questa è la sorte che toccherà a Logan? O a James?»
«Dipende.» Fu un suono strozzato. «Credo che nessuno di loro abbia fatto del cyberbullismo.»
«E nemmeno un outing forzato se è per questo», abbaiò Mel.
Incassò una ginocchiata al ventre da parte dell’altra. Daphne, raccogliendo a propria volta una manciata di terriccio, lo spalmò sul viso della ragazza. «Non ti ho mai fatto alcun outing.»
«Eri l’unica a saperlo.»
«E tu eri l’unica ad avere quelle cose su Elijah!»
Alla fine, arrivò.
Sentendosi mordere il polso della mano destra, Mel le assestò un pugno dritto al labbro. Un piccolo fiore di sangue sbocciò dove le nocche avevano lasciato il segno. Daphne incurvò la schiena e reclinò il capo, in un gemito dolorante.
«Oh, cazzo. Scusami…»
In quel momento, un urlo colse di sorpresa entrambe, paralizzandole nella strana forma plastica cui avevano dato vita.
La porta principale era spalancata. Una luce di un bianco caldo rischiarava una fetta del porticato. A gridare un uomo sulla settantina, in ciabatte e con una vestaglia a scacchi per metà aperta sul pigiama azzurro. Il suo sguardo saettava da loro due alla meravigliosa tavolozza in cui era stata trasformata la sua abitazione; si posò sulla fessura aperta nel vetro della camera da letto, dove lui e sua moglie erano stati svegliati.
Pronunciò solo tre parole, ma furono sufficienti: «Io vi ammazzo».
Schizzate in piedi, le due ragazze iniziarono ad arretrare. Mentre Mel recuperava le borse e l’I-Phone a pezzi, Daphne provò a patteggiare, mostrandosi disarmata.
«Ci scusi, non sapevamo che la casa fosse abitata.»
«Ma quali scuse, io vi ammazzo», gracchiò quello.
Un’altra voce si aggiunse dall’interno, a cui il proprietario diede ordine di slegare il cane.
«Davvero, la risarciremo. Le pagheremo i danni», continuava Daphne. «Credevamo fosse abbandonata da un ventennio.»
«Daphne, corri.»
Lei si voltò verso la compagna con spaesamento e terrore al tempo stesso. «Cosa?»
Come cassa di risonanza vi fu un ringhio. La bestia fece capolino dalla soglia di casa solo con il muso e le zampe anteriori. La padrona lo teneva al guinzaglio, incerta sul da farsi: era legale sciogliergli la museruola e lanciarlo contro due intruse?
Per il marito, legale o meno, era divenuta una priorità, a giudicare dal modo in cui le sbraitava di liberarlo.
Daphne indietreggiò di qualche centimetro ancora, gli occhi spalancati conficcati sulla scena di fronte. Melanie la riscosse, tirandola per un gomito. «Ha un Rottweiler. Corri!»
Il ringhio crebbe come il rombo di un motore in accensione. Fu allora che Daphne riuscì a voltare le spalle alla casa illuminata e a correre, non senza inciampare nei suoi stessi piedi.
«Blitz, attacca!»
Il Rottweiler, schizzato fuori dal portico come un elastico, prese ad abbaiare contro di loro.
Melanie la precedeva di diversi metri, proiettata verso un punto indefinito all’orizzonte, oltre il melo. Lei la stava seguendo per inerzia, incapace di ragionare lucidamente. Sentiva l’adrenalina infiammarle gambe, braccia, torace, collo. Si stavano allontanando dal bosco.
«Melanie! La macchina è dall’altra parte!»
Ottenne in risposta solo silenzio.
Non aveva la più pallida idea di dove fosse diretta, né se ci fosse un piano, ma era certa che fosse la direzione sbagliata. Daphne, deglutendo a fatica, si ripeté nella mente il vecchio mantra: seguirla ovunque, anche in un altro mondo. Adesso le avrebbe fatto comodo una goccia di quella cieca fiducia.
Davanti a loro si srotolava un interminabile tappeto di erba e sterpaglie. Melanie notò il proprio battito accelerare, ma non schizzare alle stelle: sapeva fino a che punto si poteva spingere.
Se c’era una cosa che aveva appreso in quegli anni di allenamenti, tra lividi su polsi e ginocchia, maglie impregnate di sudore, tendini al benzene e addominali inossidabili, era stato come calibrare il proprio corpo. Lo trattava con rispetto, con la stessa reverenza di un monaco buddista davanti alla statua nel tempio. Magari non le importava curarsi sotto altri profili, ma resistenza e controllo rimanevano delle priorità.
«Mel, ci sta raggiungendo.»
Con uno scatto leprino, Melanie aumentò la velocità.
Dovevano trovare un riparo il prima possibile.
Sulla sinistra, il paesaggio cominciava a mutare. I pali della luce si confondevano di nuovo a mucchi di alberi e foglie appassite.
Daphne non sentiva più le gambe ed era ancora in piedi per un miracolo. Se fossero uscite fuori sane e salve da quella storia, avrebbe bandito le ballerine dal proprio guardaroba per il resto della vita.
Riusciva a sentire il ringhio di Blitz farsi sempre più vicino, corredato da quegli occhi famelici e dalla bava che gli spumeggiava tra le fauci.
«Lì!»
Il braccio di Melanie si distese come una stanga verso sinistra.
Subito dopo, le ragazze fecero una deviazione, uscendo dal sentiero tracciato nell’erba. Gli sterpi graffiarono le ginocchia, un ramoscello secco riuscì perfino a squarciarle la veste e ad aprirle una ferita lungo la coscia. Daphne trattenne un lamento, mordendosi il labbro già sanguinante.
Una recinzione.
Dritta, maestosa, copriva tutta l’altezza dell’elettrodotto. Una rete metallica a maglie strette divideva il sentiero da un pendio ripido, ricoperto da rovi e boscaglia.
Mel vi si issò, facendo leva con il piede sul palo in legno. Non era elettrificata. Una volta arrivata in cima, scavalcò e si calò dall’altra parte con agilità. Con un ultimo salto, atterrò sul prato.
«Che diamine aspetti? Scavalca!»
Daphne scosse il capo con gli occhi brillanti di lacrime. «Non posso.»
«Questa è la più grande cazzata che hai detto finora.»
Ma la ragazza scuoteva ancora la testa vigorosamente, gettando occhiate affannose alle proprie spalle.
«Daphne, Daphne. Stammi a sentire.»
Non c’era tempo per indugi.
Melanie aveva appoggiato mani e fronte alla rete. Le parlava con tono comprensivo, ma fermo.
L’aveva ereditato dal padre, quel modo di fare risoluto. 
«Ho appena scavalcato. Puoi farlo anche tu, okay? Aiutati con il tronco dell’albero.»
«No, no, no. Melanie, io non ce la faccio
Stava piangendo adesso.
I muscoli delle braccia non l’avrebbero mai retta durante la scalata; il suo fisico non era temprato come quello di Mel. Lei era un batuffolo d’ovatta intriso di catrame. Anzi, un buco nero. Il cuore le premeva nel petto, i singulti si comprimevano nella gola, impossibilitati ad uscire.
«Okay, allora corri. Non ti fermare, forza. Corri, corri, corri!»
E detto ciò, fu Melanie a ricominciare la propria corsa per la vita, come se il cane ce l’avesse lei alle calcagna. Fece cenno all’altra di seguirla. Daphne la imitò e al limite della disperazione si trascinò lungo il perimetro tracciato dalla rete. Ulteriori rami tentarono di appropriarsi delle sue caviglie.
«Più veloce, Daphne. Più veloce.»
Daphne scacciò le lacrime. Ci sarebbe stata una fine a quell’incubo ad occhi aperti? Avrebbe tanto voluto essere un personaggio in un libro, che, per quanto tempestato dalle avversità, già sappia che alla fine approderà alla salvezza.
Lanciò un’occhiata al cielo stellato. Nessun deus ex machina in suo soccorso.
Radici. Braccia spettrali di alberi. Radici più spesse.
Il sangue le martellava nelle orecchie. L’aria gelida le sferzava il viso, le scalfiva brutalmente le guance, mentre avanzava a grandi falcate. Il cuore traballava nella cassa toracica, un grumo di mosche impazzite ad agitarsi tra le sue ossa. Cercava con tutta se stessa di non fermarsi, di non pensare, e il corpo parve assecondarla in quella scarica d’adrenalina che scottava le gambe, pizzicava i polsi.
Arbusti. Erba alta. Una buca.
Ancora rami che la avvinghiavano.
Melanie teneva un palmo premuto contro la rete, a metri di distanza da lei. 
«Qui! Coraggio, ci sei quasi.»
Concentrò tutte le proprie energie in quell’ultimo sforzo.
Nel punto in cui Melanie l’attendeva, la rete era accartocciata su se stessa; un passaggio, che l’altra ragazza stava provando ad allargare ulteriormente. Daphne si accovacciò a terra e spinse le maglie metalliche all’insù, facendosi strada dall’altra parte. Era come attraversare un tunnel claustrofobico, di cui il soffitto gravava sulla nuca e le pareti scorticavano le braccia.
Rimessasi in piedi, fece appena in tempo ad udire il latrato del Rottweiler e si precipitò assieme a Melanie verso il pendio, stavolta davvero ingurgitate dal buio totale.
Dieci, undici passi e il terreno si dematerializzò da sotto le loro scarpe. Un acuto spaccatimpani accompagnò la caduta nel vuoto.
 

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