Seven Deadly Semidei

di NonLoSo_18
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1: Non tutti i figli di Ade sono cattivi ***
Capitolo 2: *** Un giorno ti farò mia ***
Capitolo 3: *** 3: Ciò che voglio dirti ***
Capitolo 4: *** Il semidio non riconosciuto ***



Capitolo 1
*** 1: Non tutti i figli di Ade sono cattivi ***


Salve a tutti!

Questa è una storia che mi è venuta in mente un po' per caso, un po' per noia (Effettivamente, non faccio nulla dalla mattina alla sera XD) pensando a quanto i nostri personaggi somiglino agli stereotipi dei semidei di Percy Jackson, e quanto io ami quel mondo. E penso che ne approfitterò per trattare anche tematiche serie, come proprio la tendenza a stereotipare i semidei.
 

Non tutti i figli di Ade sono cattivi


Meliodas: Figlio di Ade
Elizabeth: semidea non riconosciuta




Il suono delle spade che venivano cozzate le une contro le altre svegliò Meliodas dal sonno, costringendolo a sedersi sulle lenzuola, ancora senza maglietta.

Gli autori di quei suoni erano quelli che tendevano ad approfittare delle prime ore del mattino per allenarsi.

Dall'interno, invece, la cabina di Ade appariva buia, smorta, con teschi che fungevano da candelabri e rune sulle pareti.

Nella stanza si sentiva solo un leggero russare: suo fratello Zeldris stava ancora dormendo, ma lui, sinceramente, non ne aveva più molta voglia

Fuori, il campo Mezzosangue era immerso nella luce del sole.

Lui amava visceralmente quella luce, quel calore. Perché nessuno sembrava averlo capito?

Mentre guardava da lontano, tristemente, l'arena illuminata dalla luce, quasi andò a sbattere contro un novellino dai capelli castano chiaro. Quando lo fissò nei suoi occhi verdi, il novellino improvvisamente parve preda del terrore, cominciando a balbettare scuse con voce tremante, implorando di risparmiarlo, Meliodas lo fermò con un cenno della mano.

Era questo che lo seccava: tutti credevano che i figli di Ade fossero cattivi, oscuri, malefici, ma lui non lo era.

E nemmeno suo padre, se era per quello! L'unico Ade cattivo era quello del film "Hercules". Maledetta Disney!

E adesso tutti lo trattavano come se fosse il peggior demone sceso sulla terra!

Nemmeno a Clarisse La Rue, capogruppo dei figli di Ares, riservavano un trattamento del genere.

Certe volte Meliodas avrebbe solo voluto urlare.

Anche l'allenamento doveva farlo da solo, visto che tutti si spaventavano della sua forza, altra cosa che Meliodas non riusciva a sopportare, visto che era certo ci fossero, lì fuori, migliaia di ragazzi molto forti, forse anche più di lui.

Se lui fosse stato anche solo un pochino come suo fratello Zeldris, che per onorare la reputazione dei figli di Ade si comportava in modo freddo e distaccato per la maggior parte del tempo, forse sarebbe stato più facile.

Ma lui, al contrario, amava sorridere sempre e mostrarsi amichevole, eppure ciò non sortiva alcun effetto.

Continuando a camminare, era arrivato in una zona del bosco vicino al "Pugno di Zeus" dall'angolazione che, però, non ricordava esattamente un pugno, più cacca di cervo.

Afferrando la spada nella mano sinistra, cominciò a menare fendenti con forza –e con rabbia- sempre maggiori, prima colpendo l'aria, poi, alla fine, con tutte le sue forze centrò un albero, dividendolo di netto in due.

«Ehi, cosa stai facendo?» Sentì gridare improvvisamente, e si girò di scatto: una ragazza dai lunghi capelli color argento e dai luminosi occhi azzurri lo stava osservando, accompagnata da un fauno... no, non si capiva esattamente cosa fosse. Certo era che aveva la forma di un maiale.
Meliodas sulle prime non capì, effettivamente non conoscendo la ragazza, poi si ricordò che giravano voci su una nuova ragazza in cabina di Ermes.

Aveva sentito Ban -il suo unico amico, in quella situazione- lamentarsi che così c'era ancora meno spazio, solo che non aveva prestato molta attenzione alle sue parole.
«C-chiedo scusa» Balbettò lei, improvvisamente timida «ma mi è dispiaciuto troppo per quell'albero. Non dovresti distruggere così la natura» lo rimproverò. Meliodas notò subito la sua capacità di passare dall'essere una ragazzina impacciata a prendere improvvisamente coraggio, e si disse che la ragazza gli piaceva.

Oltretutto, visto il suo fisico... prosperoso, lei gli piaceva ancora di più.

«Scusami, allora» Ribatté, calmo, alzando le spalle «Vedrò di non farlo più. Il mio nome è Meliodas, comunque»
«E-Elizabeth » Fu la risposta. Suonava bene, quel nome «Sono arrivata qui da poco, ed è tutto così nuovo. Lui è Hawk, comunque. Lo spirito che mi ha guidata qui» Aggiunse, vedendo che il maiale fremeva per essere presentato.
«E vedi di non dimenticartelo, porco» Strillò improvvisamente il maiale stesso, tuttavia Meliodas aveva visto troppe cose strane per essere sorpreso da un maiale parlante.

«Sei già stata riconosciuta?» Gli chiese, domandandosi di quale divinità potesse essere figlia.
«Beh, vedi, ancora no, ma conto di esserlo a breve. Tu, invece?»
Meliodas non voleva dirglielo, temeva che lei si sarebbe spaventata, o che avrebbe fatto come tutti gli altri...

Non voleva perdere l'unica possibilità che aveva di fare amicizia, con una ragazza così carina, poi!

Eppure, si disse che mentire sarebbe stato sbagliato, e che non avrebbe mai potuto farlo, non era corretto, e non era da lui.
Presto o tardi avrebbe comunque scoperto la verità, e a quel punto sarebbe stato perfino peggio: non solo si sarebbe spaventata, si sarebbe anche arrabbiata per avergli nascosto una cosa del genere.

Infine, lui stesso sapeva, da qualche parte dentro di sé, che tutti avevano ragione a dirglielo, al di là di quanto diceva a sé stesso, al di là di quanto potesse essere arrabbiato di ciò. Lui stesso sapeva di essere un pericolo, e di poter ferire qualcuno. Era instabile, subito preda dell'ira. E quando succedeva, faceva del male a tutti quelli che aveva intorno.
In sostanza, meno persone ci fossero state intorno a lui, meglio sarebbe stato.

Così si decise «Io sono figlio di Ade. Dovresti sapere che tipo è mio padre...»
«No, non lo so. Che tipo è?» La risposta lo spiazzò più di quanto potesse mai immaginare. La ragazza evidentemente non aveva capito il pericolo che rappresentava coi suoi poteri.

Decise di mostrarglielo. A quel punto, meglio giocare a carte scoperte.
Stese una mano avanti al volto, e immediatamente si sentì la terra tremare, tanto che Elizabeth stessa saltò via spaventata.

Sul suolo si era aperto un lungo crepaccio, nero e profondo, pronto a inghiottire chiunque, incauto, ci si avvicinasse troppo.
Era quello che significava il suo potere, era quello che significava essere figli di Ade.

—Ecco la verità, Elizabeth. Il mio potere è l'oscurità, tutti la temono e tutti la evitano. Anche tu dovresti.— Disse, incisivo.

Eppure, lei lo guardava inespressivamente. Non sembrava né spaventata, né altro.

Poi, quello che disse lo spiazzò completamente.
—Ma, anche se il tuo potere è l'oscurità... non significa che tu sia una persona cattiva. Tu lo sei?—
Era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa del genere, e solo in quel momento Meliodas si rese conto di quanto volesse davvero sentirla.

—Sì, cioè, no, cioè... non lo so— Si ritrovò a risponderle. Alla fine, nemmeno lui lo sapeva più veramente.
—Allora— Lei gli tese la mano —Scopriamolo insieme, che ne dici?— Davvero Elizabeth lo stava trattando... come se non avesse paura?

—Ora sei nostro amico, brutto porco— Aggiunse Hawk.

Meliodas, senza rendersene conto, si ritrovò a sorridere. Non solo aveva trovato qualcuno che lo accettava per quello che era, aveva anche trovato due nuovi amici.
E uno di quelli era pure una ragazza veramente carina.

La giornata aveva preso una piega inaspettatamente positiva.



Ehilà.
Sono abbastanza sicura che la storia faccia schifo, ma sinceramente era molto tempo che ci pensavo.
Sinceramente ho cercato di unire il momento in cui King dice a Meliodas "Tu sei un demone, quindi sei cattivo" e il trattamento riservato a Nico durante il suo soggiorno al campo.
Bye,
Elly

 

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Capitolo 2
*** Un giorno ti farò mia ***


Un giorno ti farò mia
 


Ban: Figlio di Hermes
Elaine: Figlia di Demetra


Se C’era qualcuno che Elaine, della casa di Demetra, mal sopportava in tutto il campo, quello era Ban, figlio di Hermes.
Era uno di quelli sempre lì, pronto a fare scherzi di cattivo gusto e, certe volte, a far anche sparire i portafogli –lei lo sapeva perché suo fratello King c’era andato di mezzo, e più di qualche volta-
 
Soprattutto, di Ban odiava visceralmente il suo “se vedo qualcosa e mi piace, è mio”, e spesso se lo prendeva, senza nemmeno pensare a quanto facesse soffrire la persona a cui l’aveva tolto.
 
Non aveva un cuore, quel Ban. O, se ce l’aveva, era fatto solo di puro egoismo. E di uno smisurato amore per l’alcool, visto che l’aveva visto veramente poche volte da sobrio. E dire che il Signor D aveva vietato gli alcolici al campo! Ma a lui non sembrava nemmeno importare più di tanto, come quasi di tutte le leggi del campo.
Del resto, era un figlio di Hermes, e tutti i figli di Hermes erano così: ladri, imbroglioni, e più di tutto egoisti. Come Ban.
 
Quel giorno, Elaine stava innaffiando un cespuglio di rose direttamente fuori dalla sua stanza, come le aveva chiesto Miranda Cosgrove, capogruppo e sua sorellastra, quando lo vide: la maglietta del campo che gli andava piccola, vista la statura, i jeans strappati sul ginocchio, quell’andatura dinoccolata… non ci credeva, era davvero lui!
Che cosa voleva da lei?!
Finse di ignorarlo, prima o poi se ne sarebbe andato, no?
 
Peccato che quello si girò verso di lei, con quel suo sorriso sghembo «Oh, Elaine» Le disse, con quella sua voce fastidiosamente cantilenante.
«Che vuoi?» Rispose lei, lottando per reprimere il fastidio –e la voglia che aveva di sollevarlo sfruttando le radici delle fragole-
«Niente, fatina, volevo solo salutarti»
«Bene, ora vattene» Non vedeva il motivo di fingere cortesia, meno lo avesse avuto tra i piedi meglio sarebbe stata.
«Perché fai così, fatina, io non ti ho fatto niente!» Anche nelle sue lamentele era finto, lo vedeva in quello stupidissimo tono canzonatorio.
«Perché tu non hai un cuore» Disse, facendo per rientrare.
 
«E smettila di chiamarmi fatina!» Gli urlò, prima di sparire dietro la porta della cabina.
Poco dopo, sdraiata sul suo letto, si raggomitolò in preda alla rabbia: come si era permesso?!
Pregò di non rivederlo mai più.
 
Verso il pomeriggio, si fermò a chiacchierare con Deldry, della casa di Afrodite. Più che altro lei che si lamentava di quello stupido di Arden, arciere di Apollo, e qualche altro pettegolezzo che sinceramente Elaine non aveva molta voglia di ascoltare.
Chiacchierando di questo e di quello, erano alla fine arrivate nel bosco dietro il campo.
Le era sempre piaciuto, quel posto, da figlia di Demetra, il contatto con la natura risultava sempre essere rilassante.
«Dico sul serio» Stava dicendo Deldry «Alle volte si comporta come un tale idiota, e certe altre si diverte a mettersi in pericolo. Chi l’ha mai detto che i figli di Apollo sono intelligenti?»
Ad Elaine, sembrava soltanto che lei si preoccupasse perché provava qualcosa per lui.
 
Di colpo, però, la loro chiacchierata fu interrotta da un fruscio improvviso, tanto che le due semidee si girarono in simultanea verso il cespuglio da dove era arrivato il suono, la cui causa non si fece attendere: un’arpia.
 
Ma perché? Le arpie non erano tipo le spazzine del campo? Non erano amiche?
Quella però era strana: denti aguzzi e capelli neri scarmigliati, con tanto di occhi iniettati di sangue. Faceva veramente paura.
 
Prima ancora di formulare il pensiero, quella le fu addosso. Sentì Deldry gridare, terrorizzata, prima che l’arpia, con un colpo d’ala ben assestato, la mandasse a sbattere contro un albero, facendole perdere i sensi.
 
E così lei si ritrovò da sola, tra gli artigli di quel mostro. Usare i suoi poteri fu la cosa più logica: comandò alle liane di stringersi intorno al mostro, trattenendolo. Quella cosa mostruosa si dibatteva, emettendo stridii fortissimi e spaventosi.
E soprattutto dava strattoni sempre più violenti alle liane, fino a quando queste non cedettero sotto la violenza degli strappi, e l’arpia, emettendo un ultimo, lacerante, stridio, si liberò, precipitandosi verso di lei a piena velocità.
Elaine in quel momento si diede per spacciata.
 
Ma fu solo un secondo: Una spada luccicò davanti a lei, e qualcuno si frappose, ponendosi di fronte al mostro.
 
Ban.
 
Ma che ci faceva lì?
Prima di darle il tempo di capire cosa stesse succedendo, il ragazzo albino si girò verso di lei, con lo sguardo cupo. «Fatina, vattene, e prendi la tua amica»
In altre circostanze, Elaine si sarebbe offesa a morte per quel nomignolo, ma non era quello il momento di pensarci su e di offendersi.
Raccolse Deldry e cercò di trascinarla in un luogo più sicuro. Forse sarebbe scappata mettendosi in salvo, ma udì un urlo: Ban era stato ferito dagli artigli dell’arpia, e ora la sua maglia arancione faceva vedere tre graffi, profondi e sanguinanti.
 
Urlò «Ban!» Prima di gettarsi irriflessivamente sul ragazzo, facendogli da scudo. Stavolta fu lei a gridare di dolore, quando il mostro le scavò dei segni profondi sulla spalla. Ruzzolò sul fianco, tenendosi il braccio ferito, mentre il ragazzo si alzava, con la spada sguainata, e si lanciò all’attacco contro la bestia.
«QUESTA ME LA PAGHI, BASTARDA!» Disse, menando un fendente che le staccò di netto la testa, lasciando solo una polverina gialla a vorticare nell’aria.
 
Subito dopo, Ban corse da lei.
«Ehi, Elaine, resisti, ora noi…» Perse i sensi prima di poter sentire il resto della frase, e tutto divenne un buio indistinto.
 
 
Si svegliò in infermeria, con il braccio bendato e un gran mal di testa.
Della serata precedente ricordava ben poco: la chiacchierata con Deldry, l’attacco dell’arpia e…
«BAN!» Gridò, alzandosi di scatto a sedere, gesto che le fece sentire fitte dappertutto.
Il ragazzo era lì, aveva la mano fasciata ma stava bene, appoggiato ad una sedia e con il pugno a reggersi la fronte. Come la udì si girò verso di lei.
«Oh, fatina, tutto bene?» Anche stavolta, lei era troppo preoccupata per arrabbiarsi con lui.
«Oddei, Ban, ma che è successo?» Chiese lei, confusa.
«L’abbiamo sconfitta, non ti ricordi?» Fu la risposta, data con quel lieve tono canzonatorio che tanto la faceva infuriare. Ma non in quel momento.
In quel momento lei era solo troppo occupata a ricordarsi di come Ban avesse freddato quell’arpia.
 
E tutto per difendere lei, che aveva dei pregiudizi su quello stupido figlio di Hermes.
Forse era il caso di chiedergli scusa.
 
«Senti, Ban…» Incominciò, venendo subito zittita da quest’ultimo «La tua amica sta bene, è uscita un paio d’ore fa»
Fu sollevata nell’apprendere che Deldry se l’era cavata, ma non era quello il punto.
«Senti… ti ho trattato male… e tu non te lo meritavi. Non sei… come gli altri figli di Hermes… ti chiedo scusa»
«Keh. Sono abituato ad essere trattato così. Vedessi come mi guarda tuo fratello certe volte… e non solo lui.» Era la verità, Elaine gliela vide dipinta negli occhi «Tu però mi sei sembrata più simpatica, più… alla mano, per così dire. Non eri arrogante o brusca, e speravo… che potessimo diventare amici. Ma poi tu mi hai respinto in quel modo… forse non c’è posto in questo mondo per quelli come me…» Il tono stavolta non era canzonatorio, solo… deluso. Spento. Elaine sentì una stretta al cuore verso di lui. Così, incurante delle fitte si alzò, si diresse verso di lui, e gli prese la mano.
«Tu non sei assolutamente come loro, sei migliore. Sarai anche avido, ma sai essere generoso»
E per la prima volta, sul viso di Ban si dipinse un sorriso sincero.
«Sarà ma… Avido lo sono comunque. E un giorno ti farò mia» Dichiarò.
 
Elaine sorrise.



Angoletto di Elly
Ritorno in grande stile con una delle coppie più amate sul fandom. Devo dire, la Banlaine mi ha preso il cuore, e volevo condividere con voi... e inoltre sta diventando semre più una campagna contro la discriminazione e gli stereotipi sui semidei, devo dire.
Ci risentiamo prossimamente (Se il 21 non finisce il mondo) nel prossimo capitolo, vediamo se indovinati di chi parlerò la prossima volta. Unico indizio... sono una delle coppie più sottovalutate del manga. 
Baci,
Elly.

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Capitolo 3
*** 3: Ciò che voglio dirti ***


Ciò che voglio dirti

 
Monspeet… sapeva di non essere popolare al campo Mezzosangue.
Per carità, non che fosse oggetto di bullismo o cose simili, e nemmeno emarginato, solo… parlava poco, in giro, e in generale erano pochi quelli con cui se la faceva.
Gli amici stretti, poi, ancora meno.
 
Anche le ragazze preferivano andare dietro a ragazzi molto più attraenti, tipo Gilthunder della casa di Zeus, sebbene lui avesse un certo fascino –quei baffetti facevano senza dubbio charme, mica come quelli di Deathpierce-
E, da figlio di Atena qual era, aveva anche ricevuto il dono di una discreta intelligenza. Avrebbe potuto parlare con chiunque volesse… se solo avesse potuto.
 
Il fatto era che Monspeet, a dispetto dell’apparenza, era una persona davvero, ma davvero timida, una di quelle che si sentono a disagio ad avere a che fare con gli sconosciuti, e che preferiscono starsene nella loro zona comfort.
Soprattutto, si sentiva a disagio nell’esprimere sentimenti.
Certe volte, avrebbe solo voluto essere più estroverso.
 
Sospirò e si appoggiò al famoso Pino di Thalia, bevendo un the freddo, viste le alte temperature. Quel giorno, Monspeet stava aspettando una delle poche persone in grado di farlo uscire dalla sua zona comfort, e sarebbe arrivata a breve.
 
Poco dopo, sentì dei passi di corsa.
Gli si fermò il cuore nel petto: anni di frequentazione gli avevano insegnato che non poteva essere altri che lei. Quanto stava male, ormai la riconosceva dal rumore dei passi.
 
Poco dopo gli si palesò davanti, i capelli biondi perennemente scarmigliati e l’espressione dura: Derieri, della casa di Ares.
Quel giorno, aveva la maglietta tutta spiegazzata, un vistoso livido sulla guancia sinistra e l’aria ancora più inferocita del solito.
«Clarisse?» Le chiese lui.
«Clarisse» Fu la risposta.
 
Certe volte, Monspeet si chiedeva come facessero quelle due a volersi ancora bene, nonostante tutto, e per quanto ci provasse non riusciva a darsi una risposta.
Anzi, forse una risposta ce l’aveva: le due avevano molto legato dopo la sua morte…
«Tu, piuttosto, stanno guarendo i graffi sulla guancia?»
«Vanno meglio, sì… Gli artigli di quel pazzo hanno scavato in profondità…»
Subito dopo, la ragazza scosse la testa, con aria seccata, mentre si avvicinava a lui.
«Il centro di addestramento è libero, andiamo?»
 
Lo comandava a bacchetta lei, ma l’amava lo stesso.
Era questo il suo problema: essere follemente e totalmente innamorato di lei.
E, a causa del suo essere introverso, non riuscire a trovare un modo per dirglielo.
 
Era la sua migliore amica, come poteva anche solo pensare che lei volesse una relazione? Dichiarandosi, l’avrebbe solo messa in imbarazzo, ed era una cosa che non avrebbe mai potuto accettare.
Del resto, era anche la prima persona che lui aveva incontrato anni prima, al campo…
 
Era arrivato che aveva… quanto? Dieci anni, forse, anche meno.
I mostri avevano sterminato la sua famiglia, i suoi fratelli.
Grazie alla sua natura semidivina, era sopravvissuto solo lui. Era arrivato al campo contando solo sulle sue forze, ma era solo. E muto.
Il trauma l’aveva reso incapace di parlare.
Era rimasto lì, in completo silenzio, con i capelli spettinati, ignorato da tutti, sperando di non farsi notare da quelli che gli sembravano così tanto spaventosi.
 
Poi, era arrivata. Accompagnata da una ragazza più grande, forse sua sorella, e con dei corti capelli color oro, gli si era avvicinata sorridendo.
Monspeet, in realtà, nemmeno l’aveva notata, all’inizio, fin quando la bimba, porgendogli la mano, non gli aveva detto «Che ci fai qui tutto solo? Non ti senti triste?»
Colto di sorpresa, si accorse di lei. E la guardò: ad occhio, non poteva avere più di otto, nove anni al massimo. Sorridente e con la maglia del campo tre taglie più grande di lei, l’aveva avvicinato, senza paura.
«Ti hanno tagliato la ligua?» Proseguì lei, incurante del suo silenzio «Perché non parli?»
«Derieri» La ragazza con lei, che sembrava invece avere la sua età, la rimproverò «Non dargli fastidio. Ti chiedo scusa, la mia sorellina a volte tende ad essere iperattiva»
In realtà, Monspeet non la stava nemmeno più ascoltando, continuava solo a fissare la bambina. Era stata l’unica ad avvicinarglisi, nonostante l’avesse visto così.
Ed ecco com’era cominciata la loro amicizia, insieme avevano affrontato gioie e dolori –come la morte della sorella di Derieri, partita in missione e mai più tornata- , insieme avevano ricevuto la loro prima missione, insieme la loro prima corsa con le bighe, la loro prima caccia alla bandiera.
Erano una squadra, da sempre.
E, poco alla volta, quel sentimento di cameratismo era diventato qualcosa di più profondo… Almeno da parte sua.
 
«Devi stare più attenta, Derieri» Le disse, mentre la trascinava in infermeria «Prima o poi, a furia di fare così riporterai danni gravi.»
La pelle della ragazza era infatti costellata di chiazze scure, lividi e tagli.
In arena, tendeva a scatenarsi e a perdere il controllo: spesso non usava neanche spade per combattere, no: si gettava direttamente addosso ai nemici, in feroci corpo a corpo.
Spesso lui le aveva rimproverato di essere troppo irriflessiva ed impulsiva, di agire senza pensare, insomma… Motivo in più per avere un figlio di Atena sempre pronto a darle aiuto e razionalità, o almeno così gli aveva risposto lei.
 
«E allora? Che ci vuole? Un giretto in infermeria, un po’ di ambrosia e passa tutto» Gli rispose con semplicità. Era anche per questo che l’amava.
Certo, dire che aveva una mente semplice poteva suonare offensivo, ma lei era oltre avere una mente semplice.
 
Lei era pura, come acqua di fonte.
 
Poco dopo, fu lei stessa ad applicarsi il disinfettante sulle ferite, sdraiata sul letto in infermeria, insieme ad una della casa di Apollo, Elizabeth, riconosciuta da poco ma con cui aveva fatto subito amicizia. Monspeet spesso si stupiva di come due caratteri così diversi avessero potuto legare, ma poi si era ricordato che anche loro due non potevano essere più diversi, e aveva accettato la cosa.
 
La guardò da lontano, i capelli biondi spettinati, i lividi, gli occhi furbi, il sorriso… E l’amò con tutto sé stesso.
 
 
Verso sera, la ragazza lo portò a vedere le stelle.
«Okay» Disse lui «Ma non violiamo il coprifuoco» Forse era troppo responsabile.
 
La volta celeste era uno spettacolo: un blu scuro punteggiato da una miriade di puntini color argento. Più stelle di quanto fosse possibile contarle.
Ma il vero spettacolo era la figlia di Ares di fianco a lui: i capelli biondi in disordine, le braccia incrociate dietro la testa, la muscolatura definita, Derieri era uno spettacolo, e Monspeet l’amava più della sua stessa vita.
E in quel momento realizzò il vero motivo per cui non le si era mai confessato: era un semidio.
Lo sapevano tutti che loro morivano presto, troppo presto. La maggior parte di loro non arrivava a vent’anni.
Relazioni, manco a parlarne. Non avrebbe mai potuto farle una cosa del genere, darle un barlume di felicità, poi magari morire e abbandonarla, rendendola infelice.
Sposarsi, fare figli, poi? Come avrebbe potuto lasciarla a crescerli da sola?
 
No, non avrebbe potuto. Derieri, lei… Meritava di meglio di qualcuno come lui, qualcuno che potesse essere al suo fianco e renderla felice per sempre.
Magari qualcuno umano, qualcuno che non dovesse rischiare la vita ogni giorno. Qualcuno magari… Anche più popolare di lui.
 
Lui si sarebbe limitato a proteggerla, sempre e comunque, anche a costo della sua vita, custodendo gelosamente per sé le parole che avrebbe voluto dirle.
 
Amandola in silenzio.


Angoletto di Elly
Buonsalve, gentaglia. So di essere stata assente a lungo, ma il mio computer si era crashato e ci ho messo un po' per recuperare il tutto. Spero di farmi perdonare con questa coppia così bella ma così sottovalutata (Ho visto poche fanfiction su di loro)
Non potendo usare gli effetti del Comandamento della Reticenza (Non esiste) ho pensato di riciclare un mio vecchio pensiero: ma i semidei come fanno ad amarsi, pensando di avere poco da vivere. La mia risposta è stata: proprio perché hanno poco da vivere.
Ma questo Monspeet non l'ha capito.
Anyway, di chi volete che parli prossima volta?
Baci,
Elly

 

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Capitolo 4
*** Il semidio non riconosciuto ***


Il semidio non riconosciuto

 
LIEVE SPOILER PER CHI NON HA LETTO I CAPITOLI DA 336 IN POI

Arthur: lo scoprirete a fine capitolo.


Il sole tramontava sul campo Mezzosangue, sancendo la fine di un’altra giornata di duro lavoro addestramenti, e cose varie.
Tuttavia Arthur Pendragon lo odiava.
Cioè, non il sole, odiava il campo. E tutto ciò che esso rappresentava.
Tre perle si erano accumulate sulla sua collana, tre lunghi anni erano passati da quando era arrivato lì.
E ancora non era stato riconosciuto.
Era legale che potesse passare così tanto tempo prima che ciò accadesse? Faceva così tanto schifo al proprio genitore divino?!
 
Oltretutto, Arthur nemmeno conosceva il suo genitore umano, essendo vissuto per anni in orfanotrofio, quindi non aveva nemmeno il più piccolo indizio sul suo lato divino.
E, a voler essere precisi, spesso gli dei facevano figli con gente dello stesso sesso, quindi nemmeno conoscere padre e madre umani avrebbe aiutato granché…
 
Perfino Elizabeth era stata riconosciuta tra i figli di Apollo dopo appena un paio di mesi.
 
E nemmeno poteva avercela con lei, dopotutto, insieme a Meliodas, aveva fatto di tutto per aiutarlo a farsi riconoscere, in special modo facendogli provare tutte le attività del campo, dal tiro con l’arco al giardinaggio, per vedere in quale riuscisse meglio.
Niente di tutto questo aveva funzionato: con alcune attività, come il tiro con l’arco, era stato una frana totale, con altre, come musica o giardinaggio, se l’era cavata, ma in nessuno di quei casi era scoccata una qualche scintilla.
 
La verità però nessuno l’ammetteva, e cioè che era un fallito inutile. Un semidio così insignificante da non meritarsi nemmeno il riconoscimento, così sacrificabile che nemmeno suo padre o sua madre pensavano a lui.
Demoralizzato, s’incamminò verso l’arena.
Già, l’arena. Nemmeno lì riusciva ad eccellere. Come spadaccino se la cavava, ma tutti sapevano che era stato Luke lo spadaccino più forte del campo.
E nemmeno nel corpo a corpo: la settimana precedente Derieri l’aveva fatto ritirare pieno di lividi.
 
Alla fine, era vero: uno stupido, inutile, semidio.
Nemmeno i mostri s’interessavano a lui.
 
Ripensò a com’era arrivato al campo: scappato dall’orfanotrofio, dove a nessuno, realmente, importava di lui, e stanco dei soprusi che subiva dai ragazzi più grandi, era capitato per caso di fronte al cancello d’ingresso, ed era semplicemente entrato.
 
Tutto qui. Per niente eccezionale, nessun satiro che lo teneva d’occhio, nessun nemico che voleva la sua testa, persino peggio considerato dei figli di Afrodite e di Demetra.
Poi, smistato nella cabina di Hermes, era rimasto lì da allora.
 
Non aveva neanche un potere degno di nota: gli altri semidei avevano tutti abilità potentissime, chi più chi meno, e soprattutto utili in battaglia.
Lui, Arthur, era solo un peso morto. Senza potere, senza abilità combattive particolari, uno adatto solo nella retroguardia.
Forse sbagliava ad essere così depresso e demoralizzato, ma, diamine, forse importava solo ad Elizabeth.
 
Poi ci ripensò: no, non solo per Elizabeth.
Anche per Merlin. Soprattutto per Merlin.
Per ragioni che non riusciva a spiegarsi, la figlia di Ecate l’aveva preso subito in simpatia, in modo talaltro piuttosto inquietante.
 
Sembrava vedere in lui più una cavia, che non effettivamente una persona. Ma Merlin era così con tutti, con la sua costante voglia di scoprire cose e persone. Vedeva un po’ tutti come cavie, insomma.
 
Però lei continuava a ripetergli che in lui vedeva potenziale.
 
Tutte bugie! Pensò di colpo Arthur, bugie stupide e inutili! Lui sarebbe stato per sempre un semidio non riconosciuto, uno scarto inutile.
Di colpo, prese la sua decisione.
 
Avrebbe lasciato il campo, dove non c’era posto per quelli come lui
Dove non si era mai sentito a casa.
Certo, gli dispiaceva di perdere Meliodas, Elizabeth, Merlin e gli altri, ma confidava che sarebbero stati bene anche senza di lui.
 
-E poi, quel figlio di Apollo di nome Escanor, sempre appiccicato a Merlin, lo faceva sentire a disagio…-
 
Avrebbe parlato con Chirone ed il Signor D quel giorno stesso per comunicare loro la sua decisione.
 
 
«Signor Chirone, è permesso?» Chiese, entrando nello studio, timidamente.
Il centauro era intento a parlare con un tipo basso e calvo che beveva Diet Coke.
«Mi sorprende che tu non lo chieda a me, Arvon, visto che sono il direttore» Disse quest’ultimo.
Arthur fece finta di non aver sentito che ne sbagliava il nome.
«Buon pomeriggio, Signor D, la vedo bene»
«È ovvio che tu mi veda bene, sono un dio, posso avere l’aspetto che voglio!» Rispose piuttosto sgarbatamente, roteando gli occhi con aria di sufficienza.
 
Chirone stesso lo ignorò, preferendo rivolgersi al giovane «Ciao, Arthur, a cosa dobbiamo la tua visita?» Gli domandò, con un sorriso gentile. Chirone era uno di quelli che gli sarebbe dispiaciuto lasciare.
 
Disse il motivo della sua visita senza troppi giri di parole.
«Voglio lasciare il campo»
«Finalmente!» Fu la risposta soddisfatta del dio con la lattina.
 
«E come mai vorresti lasciarlo?» Continuò a chiedere Chirone, con voce dolce.
«È perché io qui sono inutile»
«Caro ragazzo! Finalmente qualcuno che ha neuroni funzionanti in testa!» Esclamò il dio, con gioia.
«Insomma»     Proseguì Arthur «Nemmeno il mio genitore divino vuole saperne qualcosa di me, non ho talenti o poteri particolari, i mostri non mi filano, forse perché il mio odore è troppo debole. Che ci sto a fare qui, sono solo d’intralcio!»
 
Terminato lo sfogo, si accorse che stava per piangere, mentre la stanza era scesa nel silenzio.
Strano, si sarebbe aspettato quantomeno la solita risata sarcastica del Signor D, ma niente. Nessuno rispondeva.
 
«Ascoltami» La sua voce sembrava provenire dal fondo di una caverna, e lui stesso mentre parlava dimostrava tutti i suoi anni, e visto che era insegnante da tremila, probabilmente era piuttosto vecchio.
«Arthur Pendragon, tu sei molto meno inutile di quello che pensi»
«Eh?»
«Il tuo vero potenziale non si è ancora espresso, e non lo dico per farti rimanere o crearti illusioni, ma perché è vero. Molto spesso un’abilità si manifesta tardi perché ha bisogno di tempo per crescere e rafforzarsi. E tuo padre può non averti ancora riconosciuto, semplicemente perché può, nel frattempo… Avere altro da fare»
«O essersi dimenticato di me?» Arthur non si faceva illusioni.
 
«Anche essere stato dimenticato lui stesso. Il punto è, che tutti noi siamo importanti, magari alcuni potrebbero esserlo più di altri, ma tutti noi siamo come ingranaggi di un’unica, grande macchina, dove ognuno serve a qualcosa. Ovviamente tu sei libero di andare via quando vuoi, ma sappi che il campo Mezzosangue sarà come una seconda casa, per te»
«Sempre che tu non finisca ammazzato prima» S’intromise, calmo e scocciato, il Signor D.
 
Arthur adesso era confuso, e Chirone, affettuosamente, gli scompigliò i capelli.
«Ora sei stanco e confuso, perché non ti prendi un momento per riflettere, e magari ne approfitti per legare con gli altri?»
 
Arthur annuì soltanto, mentre il Signor D diceva, «Bene, Arnold Pennington, ci si vede quando deciderai di non rompere più le scatole»
 
Ignorando di nuovo come ne avesse sbagliato il nome, il ragazzo scivolò via allegramente trotterellando, il che era ironico, visto che si lasciava dietro un cavallo.
 
«Non glielo hai detto, non è vero?» Chiese il dio Dioniso al centauro non appena il ragazzo si fu allontanato.
«No, semplicemente non ne ho avuto il coraggio»
Chirone non poteva ancora dirgli che il motivo per cui i mostri lo scansavano non era il fatto che il suo odore fosse debole o insignificante, ma il fatto che, al contrario, era un odore così forte e spaventoso che nessun mostro aveva così tanto spirito suicida da attaccarlo.
 
Non poteva nemmeno dirgli che in realtà lui era figlio di Chaos, la divinità più potente esistente, colei che aveva creato i mondi. Colei che poteva distruggerli. Come Arthur. Il suo potere era pericoloso oltre ogni limite.
 
E che il ragazzo era legato ad un destino che nemmeno lui immaginava.
 
Ma tutto questo avrebbe potuto aspettare.



Angoletto di Elly
Stavolta nessuna coppia, ho preferito piuttosto concentrarmi sull'insicurezza di Arthur, già evidente per chi legge il manga o vede l'anime, e la sua sofferenza per essere senza poteri particolari, ma, come vedremo questi si manifesteranno più avanti.
Alla prossima,

Elly

 

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