In Between

di Akainatsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Keeping an Eye ***
Capitolo 2: *** A Bunch of Bad Apples ***
Capitolo 3: *** Flash Forward - and Rewind ***
Capitolo 4: *** Freaking creep, creepy Freak ***
Capitolo 5: *** Strike before they Blink ***
Capitolo 6: *** Congratulations, she's a Fox ***
Capitolo 7: *** Play your Card ***
Capitolo 8: *** Money and Soul ***
Capitolo 9: *** One silver Bullet with your Name on it ***
Capitolo 10: *** Good for you, her Father is the Dead one ***
Capitolo 11: *** Bet your Life ***
Capitolo 12: *** Happy Birthday, Stri~pes ***
Capitolo 13: *** Claws, Bullets and Knives ***
Capitolo 14: *** Head or Tails ***



Capitolo 1
*** Keeping an Eye ***


Ada Kisaragi aveva appena ricevuto il compito di tenere la piccola Aki Ross sott’occhio, senza dare troppo nell’occhio ed essere pronta a dare un occhio per lei.

Si lasciò andare ad un sospiro pesante: proprio delle volpi le venivano a raccontare di occhi, che tenevano sempre strizzati nei loro discorsi, come se fossero al contempo impegnate a osservare qualcosa di cui gli altri non avevano la minima idea e di cui non avrebbero proferito parola.

Chinò il capo di lato, giocherellando nervosa con le ciocche riottose dei corti capelli scuri, per poi rivolgere di nuovo l’attenzione all’altra presenza che si rifletteva con lei, impettita nel suo camice bianco.

“La bambina ha perso entrambi i genitori, ma è così come vanno le cose” commentò laconico l'ometto che le stava accanto, lisciandosi i dritti baffetti argentei tra le dita, mentre guardava dall’altra parte del vetro dove l’oggetto della loro conversazione dormiva, circondata da altri appena nati.

“Ho già un bimbo piccolo.” 

Cercò di replicare, distogliendo lo sguardo, stringendosi nel soprabito primaverile che aveva indossato in fretta e furia nella corsa verso l’ospedale. “Non voglio mancare di rispetto, ma mio marito non sta bene. Abbiamo un’attività da mandare avanti e una bocca in più da sfamare potrebbe rendere la situazione complicata.”

Le rivolse un’occhiata silenziosa, dietro gli occhialini sottili.

“Non gliela stiamo affidando, Kisaragi-san. Vogliamo solo che la tenga sotto osservazione, specialmente tra qualche annetto quando si avvicinerà il momento.” Tamburellò sulla cerniera di metallo del finestrone. “Ha dei parenti qui a Hillside, ma nessuno di loro sarà in grado di gestirla tra qualche tempo: per questo ho pensato a lei.”

Aggrottò la fronte, trincerandosi: “Nella mia famiglia facciamo udon.”

“Siete un punto d’incontro, esattamente a pochi isolati dalle persone a cui l’affideremo. Inoltre fate degli ottimi kitsune” ribatté, abbozzando un sorrisetto. “A tempo debito le daremo tutte le informazioni che le serviranno e l’aiuteremo a non perderla di vista: suo figlio é di poco più grande, corretto?”

Stirò le labbra in una linea sottile, annuendo appena mentre la voce si induriva: “Preferirei non-”

Si interruppe, stringendosi nelle spalle e cercando far arrivare le parole sulla lingua, improvvisamente così difficili da pronunciare. Ada conosceva la verità che si celava oltre quel vetro che rifletteva la sua immagine in quella piovosa notte di primavera: la piccola Aki non era una bambina qualsiasi - o almeno, sarebbe presto diventata diversa da chiunque attorno a lei.

“Non vogliamo coinvolgerlo, per adesso; ma sarebbe saggio fare in modo che la nuova kitsune sia già parte della sua famiglia prima che arrivi il momento” sospirò, sistemandosi le lenti che gli erano scivolate sul naso appuntito. “Non ci importa come, troverà di sicuro un’idea.”

Chinò il capo cercando di contenere il tremito nella voce: “Io e sua madre eravamo amiche. I suoi familiari verranno a cercare me, come hanno fatto altri prima di loro, quando non sapranno più cosa fare.” 

“Che piacevole coincidenza” sorrise di rimando, stiracchiando una linea appena visibile. “O destino.”

Scosse la testa, stringendo le dita sottili che spuntavano appena dalle maniche del soprabito. Quelli come lui amavano quei discorsi su fili, ruote e coincidenze del tutto poco casuali: erano sempre pronti a mettere uno davanti all’altro i pezzetti del loro domino personale, a cui sarebbe bastato un tocco di dita per dare inizio a una rovinosa caduta o a un disegno di una bellezza incomparabile.

“Siamo Kin, esistiamo per questo. Nulla accade per caso” mormorò senza guardarlo negli occhi e tornando a rivolgere lo sguardo al suo riflesso. “Farò quello che volete, come sempre, ma vi chiedo di tenere la mia famiglia fuori da questa faccenda, almeno per qualche tempo.”

Strinse le palpebre, saggiando i baffetti e restando in silenzio per qualche lungo secondo. 

Il corridoio dell’ospedale era misteriosamente vuoto e privo di rumori in quelle ore della notte, nonostante le nuove nascite e la frenesia che quegli eventi portavano con sé nel mondo, umano o spirituale che fosse. Ada non doveva fare uno sforzo di immaginazione per capire come quella situazione non fosse che una delle loro ennesime macchinazioni, in uno scenario perfettamente preparato per l’occasione. 

“La bambina non la disturberà fino a quando non si avvicinerà il suo tempo, Kisaragi-san, non si preoccupi. Le chiedo solo di interessarsene, ogni tanto: come ha detto, verrà il momento in cui i suoi familiari avranno bisogno di lei e dovrà essere la prima persona a cui riusciranno pensare” sentenziò lentamente, come se qualcosa nelle sue parole avesse inaspettatamente appena cambiato un piano già ben congegnato. “In fondo, è una bambina sola, senza nessun altro.”

Si morse le labbra, cercando di farsi rimbalzare addosso quell’affermazione: aveva perso un’amica quella notte, un’amica alla quale non aveva mai avuto il coraggio di raccontare che cosa c’era davvero nel suo sangue sempre agitato. L’aveva vista crescere e innamorarsi, inconsapevole della volpe che le correva sotto la pelle, pronta a rinascere: una possibilità su poche che ora si trovava viva e reale davanti a lei.

Da generazioni la famiglia Kisaragi raccoglieva a sé le volpi in guisa umana che nascevano nel mondo degli uomini: da quando ormai cinquant’anni prima alcuni di loro avevano lasciato il loro paese natio per il nuovo continente, avevano iniziato anche ad occuparsi dei lupi che vagavano tra le strade delle città. Era un dono che veniva tramandato da genitore a figlio quella capacità di vedere oltre la forma della realtà quotidiana, di trovare e aiutare quei mutaforma spaventati e rabbiosi del loro stesso essere.

In quella notte, anche Ada provava i medesimi sentimenti di rabbia e paura: essere un Kin era un onore che la rendeva diversa dalle persone che incrociava nelle sue giornate, ma al tempo stesso era la sua maledizione di una vita diversamente normale che avrebbe tramandato al suo bambino, come sua madre aveva fatto prima di lei.

Poteva barricarsi dietro al suo bancone tirato a lucido fingendosi impegnata nel tagliare o mescolare, ma ci sarebbe stato qualcosa che l'avrebbe smossa e costretta ad agire, come un istinto che l'accomunava a quegli esseri sospesi tra mondi in cui lei stessa si trovava suo malgrado.

"Quando verrà il momento ci sarò per la nuova kitsune." Accennó un inchino, voltandosi verso l'ometto che continuava a fissarla sotto le palpebre socchiuse. "Lo devo a sua madre. Lo devo a Yoko."

Questi annuì con fare soddisfatto aggiustandosi il camice, per poi imitarla a sua volta e congedarsi, scomparendo nella penombra del corridoio.

Ada rimase da sola nel silenzio, fissando lo spazio vuoto davanti a sè, alle spalle il vetro che la separava da quella minuscola esistenza nata dalla morte. Si lasciò sfuggire un nuovo sospiro, asciugandosi col dorso della mano gli occhi che avevano iniziato a pizzicarle: forse era la stanchezza, forse quel miscuglio di emozioni che le cozzavano dentro, insieme al vuoto che la perdita della sua amica aveva lasciato.

Fece un respiro profondo, lanciando un’ultima occhiata alla neonata addormentata: sarebbero stati anni veloci quelli che l’avrebbero separata dal momento in cui si sarebbero incontrate di nuovo.


*** Small Talk ***
Benvenuti/e/* a questa storia e grazie per aver letto fino a qui!

"In Between" è un progetto nato qualche tempo fa inizialmente come semplice backstory personaggio per un GdR e poi ha iniziato a frullarmi in testa come qualcosa di più complesso di dadi e statistiche. Quindi, tolta la parte nerd, ho provato a renderlo in grado di camminare sulle sue "zampe". 

Spero vi possa piacere! - Aka

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Capitolo 2
*** A Bunch of Bad Apples ***


Tampopo era il nome del piccolo locale di udon dove la famiglia Kisaragi aveva concentrato i suoi sforzi dopo l’approdo nel nuovo continente e quindi a Hillside. La pasta spessa e morbida servita in grosse ciotole fumanti lo aveva reso nel tempo il punto d'incontro di molti degli abitanti del periferico quartiere in cui era stato incastrato dai suoi fondatori, tra i condomini e i negozietti che si affastellavano verso il centro della città e i suoi palazzoni.

Ada Kisaragi era la rappresentante dell'ultima generazione che si era affaccendata tra i tavoli del Tampopo, cucinando e servendo dietro al suo bancone: affiancata da suo marito, Tadao, e dal loro unico figlio, Alan, aveva portato avanti l'attività di famiglia giorno dopo giorno, efficiente e instancabile.

Erano ormai trascorsi quindici anni dalla notte in cui aveva lasciato frettolosamente il locale per salire sul taxi in attesa fuori dalla vetrina ancora illuminata e correre all'ospedale dove la sua migliore amica, Yōko, era morta dando alla luce la sua bambina. 

“Mia sorella forse l’avrebbe cresciuta ancora peggio” borbottò l’uomo seduto dall’altra parte del tavolino stretto, lanciando un’occhiata alle sue spalle, in direzione del trio che si era radunato attorno al bancone durante la chiusura pomeridiana. 

“Era sempre stata selvatica rispetto alle altre ragazze, ma quella lì ha preso la parte marcia di tutti e due i genitori. Non so molto del padre, quel Ross - lo avrò incontrato un paio di volte all’epoca, ma non credo fosse proprio del genere topo di biblioteca, non so se mi spiego.”

Ada scosse il capo, incontrando lo sguardo scuro di Yōji, il fratello maggiore di Yōko, comparso improvvisamente all’ingresso del Tampopo in quel pomeriggio di primavera: “Stai parlando di tua nipote, non di un’estranea. L’hai avuta sotto il tuo tetto per abbastanza tempo e non penso sia così-”

“Molto peggio di quanto tu possa immaginare, Kisaragi. Molto peggio. Non hai idea del numero di sospensioni, richiami e disastri che sia stata in grado di collezionare da quando ha iniziato a mettere piede fuori casa.” 

L’uomo si strinse la radice del naso tra le dita, sospirando stizzito. “Dalle medie la situazione è diventata intollerabile, è un miracolo che le abbiamo trovato un posto alle superiori e non ci abbiano rifiutato a calci: la scuola è tra le più di serie B sulla piazza, ma forse troverà pane per i suoi denti se vuole ficcarsi nella prossima rissa.”

Si morse un labbro, volgendo il collo verso le risate che risuonavano nell’aria: Tadao stava raccontando qualcosa di imbarazzante ai due ragazzi seduti a poca distanza da loro, poteva affermarlo con certezza dalla faccia paonazza di suo figlio e dalle lacrime di ilarità che il soggetto della sua conversazione stava cercando di asciugarsi dalle guance.

Probabilmente si trattava una delle sue oyaji gyagu, quelle battute di una scontatezza e scurrilità così di basso livello che nonostante tutte le preghiere suo marito sembrava averne un repertorio pressoché infinito da sciorinare anche in presenza dei suoi giovani spettatori.

Ada tornò al suo interlocutore, che si era preso cura della bambina dopo il primo affidamento ai nonni ormai troppo anziani: poteva ben immaginare cosa significasse avere a che fare con l’avvicinarsi del momento, soprattutto se non si aveva la minima idea di che cosa stesse correndo in quel sangue sempre agitato, pronto a fare a botte con il primo malcapitato. 

“Non è tutto, inizia pure a dare di matto con queste storie di voci nella testa, visioni, incubi e quant’altro: almeno mia sorella aveva avuto la creanza a evitare certe uscite al limite dell’assurdo all’ora di cena.” Yōji si tormentò nervoso il pizzetto corto, lanciando un’occhiata storta oltre le sue spalle. “Spaventa Laura ogni giorno di più. Se non fosse per i miei genitori, l’avrebbe già sbattuta fuori di casa, al riformatorio.” 

Tamburellò con le dita sul bordo di legno, conteggiando i mesi che potevano mancare al giorno fatidico in cui tutto sarebbe cambiato e la ragazzina seduta al bancone non sarebbe più stata solo il papabile ospite di un riformatorio.

Drizzò le spalle e si guardò attorno: il Tampopo era piccolo, ma riuscivano a tirare avanti grazie anche alle ultime trovate della tecnologia. Alan inoltre stava finendo le superiori e di tanto in tanto dava una mano dividendosi tra consegne e cucina per lasciare a suo padre un po’ di quel respiro che ormai troppo spesso si mozzava e lo costringeva a fermarsi suo malgrado.

“Le abbiamo provate tutte: tranquillanti, farmaci-” continuò l’altro, rompendo il silenzio in cui si era arenata la conversazione. “Pure lo sport, ma si è messa a far casini addirittura lì e l’hanno cacciata alla prima occasione buona - tutte le maledette volte.”

Ada sapeva che si sarebbe pentita di quello che stava per dire, ma decise di aprire comunque la bocca, soppesando ogni parola: “Un lavoretto. Non ci avete mai pensato?”

Lo rivolse una smorfia di scherno, incrociando le braccia e lasciando andare un sospiro sconfitto: “È ancora minorenne e non voglio vedermi richiamato dal primo fast food perché ha lanciato un panino in faccia a un cliente solo perché l’ha guardata male.”

Si lasciò sfuggire un risolino, cercando di evitare qualsiasi commento: se temeva un panino lanciato in faccia era addirittura ottimista. 

“Può iniziare qui. Non abbiamo panini per cui nessun cliente se lo ritroverà spalmato sulla fronte. Anshin shite ne, stai tranquillo” azzardò, incrociando le mani sul tavolo. 

Avrebbe voluto mordersi la lingua alle sue stesse parole, ma quello che stava accadendo in quella manciata di secondi era l’occasione per realizzare quanto gli era stato chiesto una notte di tanti anni prima.

Far entrare la nuova kitsune nella famiglia.

Ignorare la lucina di sollievo che si accese negli occhi di Yōji non le sarebbe stato possibile, mentre un sorriso imbarazzato e al contempo grato gli si allargava sul viso, addolcendo quei lineamenti che gli anni avevano indurito come li avesse scolpiti nel legno. 

“Grazie, Kisaragi.” Rilassò le spalle, appoggiandosi alla seggiola. “Non pretendo che la paghi, ma se riuscissi a stancarla di cose da fare forse avrebbe meno voglia di mettersi nei guai e filerebbe a letto subito, senza incubi e tutto il resto. Credo che anche Yōko sarebbe d’accordo.”

Annuì appena, stringendo le dita e prendendo un respiro profondo: “Possiamo dirglielo anche ora. Potrebbe iniziare nei prossimi giorni, magari con le pulizie.”

Con un cenno del capo Yōji si alzò dal suo posto: Ada lo vide avvicinarsi al gruppetto, mormorando qualcosa all’orecchio di Aki che rispose con un guizzo sullo sgabello su cui era seduta, per poi ruzzolare a terra e fiondarsi con un salto al suo tavolino.

“MI DAI UN LAVORO?!” esclamò in uno strillo gioioso, afferrandole i polsi e scuotendole le braccia, la bocca spalancata in un’espressione incredula. “MAGARI PURE DEI SOLDI?! LORO NON MI DANNO MAI DEI SOLDI DECENTI NEANCHE PER UNA LATTINA DI SUCCO!”

Rimase per un attimo imbambolata davanti a quella ragazzina saltellante, rivedendo in quell’entusiasmo fin troppo di quanto era stata sua madre in passato: ormai non aveva più dubbi su cosa le avrebbe aspettate di lì a pochi mesi.

“Regole, prima di tutto” sentenziò, riuscendo a sfuggire alla presa e nascondendo una smorfia di dolore, massaggiandosi le giunture. “Questo è un lavoretto part time, dovrai andare a scuola - senza storie, senza risse.”

Storse le labbra, lanciando un’occhiata in tralice a Yōji: “Ci posso provare. Ma se quelli alzano le mani e vogliono la guerra io non posso farci niente.”

“Scappare a gambe levate come fanno tutti?” propose Alan, pensieroso. 

Si voltò di scatto verso di lui, digrignando i denti: “Non sono mai così tanti da non poterli abbattere uno ad uno.”

Ada tossicchiò, riportando l’attenzione su di lei e mettendo a tacere di nuovo quel sangue così facilmente infiammabile: “Avrai un periodo di prova, diciamo un mese, poi vedremo per aggiungere qualche dollaro al tuo lavoro. Per adesso ti possiamo offrire la cena.”

Kitsune con doppio tofu dolce. Tagliato grosso. Con poca erba cipollina” replicò l’altra a raffica, non appena chiuse le labbra.

Alle sue spalle, Ada sentì suo marito ridacchiare, mentre Alan mugugnava qualcosa sul fatto che ora che glielo si faceva notare, non aveva mai ricevuto mezza banconota per il suo aiuto al locale.

“Affare fatto?” Tese la mano verso Aki, che l'afferrò senza troppi ripensamenti.

“E se qualcuno vi dà noie-” aggiunse, un sorrisetto sghembo che le si allargava da un orecchio all’altro, gli occhi brillanti. “Ci sono io a dargliene così tante che non ci penseranno due volte a starsene alla larga da qui.”


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fino a qui!

Iniziamo a introdurre un po' di ambientazione (Hillside - ma non chiedetemi dove sia per non dovervi rispondere un generalissimo "mah, America del Nord, quei posti da serie Netflix" - e il localino del Tampopo - ispirato all'omonimo film) e personaggi - alcuni inutili, altri utili, altri che si vedrà. 

L'idea è di avere a che fare con un gruppo di luoghi e persone davvero "nel mezzo" come è un po' quando si vive in un altro Paese diverso dal proprio per parecchie generazioni. Poi che in tutto questo ci stiano anche delle kitsune mutaforma, è un'altra storia.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 3
*** Flash Forward - and Rewind ***


"Irasshaimase. Benvenuti!"

La giornata a Hillside era stata fredda e coperta, intervallata da acquazzoni e raffiche di vento. Alan Kisaragi stava in piedi dietro al bancone del Tampopo, ormai prossimo all'orario di chiusura serale, pulendo distrattamente le ciotole dell'ultimo cliente: le basse temperature e il tempo inclemente avevano scoraggiato le visite, portando pochi avventori quel sabato sera. Tuttavia, non gli dispiaceva l’occasione di godersi un po’ di silenzio al locale, lo aiutava a pensare senza farsi distrarre troppo dalle voci attorno.

Erano trascorsi tre anni da quando suo padre era morto, proprio poco dopo l’ingresso di Aki nella famiglia, e da allora aveva iniziato a cucinare spalla a spalla con sua madre. Tuttosommato, aver barattato la sua vita di adolescente allampanato con quella di cuoco di una bettola qualsiasi della città non era malaccio: certo, aveva una visione più moderna e ampia delle cose che superava pochi piatti di udon e spesso lo portava a battibeccare con Ada, ma poteva contare nell’avere qualche soldo in più in tasca.

Inoltre, alle ragazze piacevano i cuochi, grazie a tutti quei programmi televisivi su cucine e affini. Approcciare la conversazione con un ciao, sono un cuoco gli aveva spesso fatto guadagnare parecchi punti agli occhi di certe tipine carine e annoiate intente a rigirare il loro drink in un bar. Inoltre, come commentavano ridacchiando sottovoce le tante comari che si avvicendavano al locale per il loro udon settimanale, era anche discretamente un bel ragazzo - e a detta loro, ne avevano visti di giovanotti in tutti quegli anni a Hillside.

Scosse divertito il capo a quei pensieri, tornando a rimuginare sulla possibilità di chiudere un po' in anticipo, giusto cinque minuti, quando la porta d'ingresso si aprí accompagnata dal consueto tintinnio di benvenuto delle campanelle all'entrata.

"Siete aperti?" rispose una voce al suo saluto d’ordinanza, mentre la porta si chiudeva con uno schiocco sordo, lasciando fuori l'aria fredda della notte.

Alzò lo sguardo per incontrare la figura di un ragazzo circa della sua età, i lineamenti allungati e gli zigomi alti che tradivano origini molto comuni alle sue. Non era raro quel genere di clienti, figli di matrimoni misti o semplici studenti di passaggio nei loro studi all'estero. Tampopo offriva cibo buono, economico ma soprattutto di casa - e sua madre portava con sé quell'appellativo come una medaglia d'orgoglio.

Alan annuì alla domanda, facendo cenno di accomodarsi al bancone e poggiando il bicchiere d'acqua sul legno lucido. Afferrò il menu spostato poco più distante e lo avvicinò con un sorriso al nuovo arrivato.

"É la prima volta qui da noi?" azzardò, gettandosi alle spalle le formalità che gli erano state inculcate. Osservò il ragazzo sistemarsi mollemente allo sgabello, chinando la testa di lato, come soppesando la domanda. 

"Prima che te lo chieda, abbiamo solo udon, e se posso consigliarti..."

Si interruppe al gesto della mano dell’altro, che la fece sventolare con fare annoiato davanti a sé. 

"Kitsune. Uno" sentenziò secco, senza nemmeno rivolgergli uno sguardo.

Diede un cenno, facendo un passo indietro e mettendosi al lavoro: non era la prima volta che gli capitava qualcuno della sua età, con probabilmente parecchie cose in comune di cui chiacchierare ma per sua sfortuna maledettamente snob.

Cucinó in silenzio, lanciando qualche occhiata furtiva verso quello che sperava essere davvero l'ultimo cliente della serata. Continuava a fissare un punto davanti a sé, come dimentico della sua esistenza: quando poggió la ciotola fumante sul legno, ebbe un sobbalzo che camuffó in uno scrollare di spalle.

"Sei da solo?"

La domanda improvvisa scosse Alan dai suoi pensieri, lasciandolo per attimo senza parole per poi cercare di farle ritornare sulla punta della lingua: "Io e mia madre. Ma è uscita per andare a buttare il primo giro di spazzatura dato che oggi non abbiamo avuto molta gente per colpa del tempo-"

Di nuovo scosse la mano davanti a sé, interrompendo il suo discorso con uno sbuffo annoiato.

"Scusa, a volte parlo troppo. Goditi la cena" sospirò Alan, tornando mestamente ad ordinare i bicchieri. Quel cliente era diverso dalle comari che chiocciavano sulle loro ciotole fumanti e lo costringevano a lunghe disquisizioni su qualsiasi fosse l’argomento in voga della giornata.

Mentre era intento a cancellare le ditate sul cristallo, lo sentì sorseggiare il brodo con uno schiocco.

"Fate consegne?" 

Il nuovo risuonare della sua voce gli fece perdere la concentrazione sui vetri tintinnanti. Indicó il cartello alle sue spalle, mentre sentiva le labbra arricciarsi in un sorriso fin troppo entusiasta.

"Certamente! Tutti i giorni tranne il lunedì! Puoi telefonare, mandare una mail oppure-" cercò di contenersi per evitare una nuova interruzione. "Una telefonata o una mail. Non usiamo i servizi espresso, non riusciremmo a starci dietro."

Lo vide appoggiare un gomito al bancone, osservando guardingo attorno a sé: "Le consegne le fai tu?"

Ridacchiò nervoso a quel tono fattosi indagatorio, grattandosi una guancia. Scosse la testa, cercando di ignorare quello strano senso di inadeguatezza che sentiva appiccicarglisi addosso.

"Abbiamo una bravissima fattorina" abbozzó, gli occhi che correvano istintivamente alle scale oltre le quali Aki dormiva ancora raffreddata e febbricitante dopo un giro di consegne da cui era tornata fradicia fino all'alluce. Per questo motivo, per una sera, avevano deciso di fare a meno del servizio di consegna a domicilio.

Quando tornò con lo sguardo sul ragazzo seduto al bancone, non potè non notare la sua espressione annoiata cambiata all'improvviso, una luce famelica accesa negli occhi scuri. Lo vide giocherellare con una ciocca di quei capelli grossi tinti di un marrone rossiccio, mentre una linea si allungava sul viso appuntito.

"Stri~ipes" cantilenó mellifluo, socchiudendo le palpebre e lasciando che un ghigno osceno gli si allargasse da un orecchio all'altro. Schioccò la lingua, rivolgendogli un'occhiata e sporgendosi verso di lui.

"Sei il suo Kin, adesso?" sussurrò a fior di labbra, senza perdere quel sorriso spaventoso. "Quello a cui ha promesso, nell'ordine, amore eterno, sesso bollente e pure qualche cucciolo scodinzolante non appena avrà capito come non farti morire stecchito?"

Istintivamente arretró di un passo, lo strofinaccio in mano, mentre sentiva il sangue rifluirgli dal viso. 

"Forse sei solo arrivato al sesso bollente" ridacchió amaro l’altro, lasciando andare un lungo respiro. "Ce l'hai sempre appiccicata addosso, vero?"

Cercò di far arrivare le parole alla gola, facendo solo uscire un fischio, come di un uccellino davanti alle fauci della volpe.

"Chi sei" soffió a mezza voce, annaspando. "Chi cazzo sei."

Ada lo aveva avvertito tante volte come amare una volpe, una kitsune,  non fosse un affare da esseri umani, ma loro erano diversi, erano Kin, alcuni dei prescelti destinati a incrociare il loro destino con gli esseri soprannaturali con cui condividevano la stessa Terra. Questo fardello la sua famiglia lo aveva accettato generazioni prima di lui e così sua madre: in quel momento avrebbe voluto averla accanto, lei che di quel genere di dettami nascosti aveva ancora molto da insegnargli.

"Allora? Ti ho fatto una domanda" continuó, stringendo la stoffa umida fino a farsi sbiancare le nocche.

L’altro si portò una mano alla bocca, dissimulando una risata: "Il suo grande amore" dichiaró piatto, alzando un sopracciglio e squadrandolo. "Il suo ex grande amore, a quanto pare."

Sentì i denti scricchiolare, ma non osó muoversi dalla sua posizione: c'era qualcosa in quel suo fin troppo simile che andava oltre il semplice essere umano. 

"Quegli altri hanno sbagliato" sbottó improvviso nel silenzio pesante che si era creato. "Solo perché allora eravate i più vicini in linea d'aria: ci avete preso il posto e sai cosa è successo?"

Scosse lentamente la testa, senza abbassare lo sguardo, sforzandosi di respirare.

"É stata lei a venire da me. Per caso potresti dire, solo perché le ho offerto una spalla su cui piangere e qualche cerotto, ma è stato destino. Ero destinato a Stripes e voi ce l'avete portata via - me l'avete portata via - disonorandoci."

Si morse le labbra sbattendo i pugni chiusi sul bancone: "Noi non abbiamo tutti quei problemi di maledizioni e batsu vari se non ci annacquiamo con voialtri" ringhiò cupo, i lineamenti che lentamente mutavano sotto i suoi occhi assumendo i tratti della volpe che aveva imparato ad amare. Mentre Aki era bellissima e buffa con quel naso a bottone e le orecchie a punta, il ragazzo davanti a lui incuteva tutt'altro.

"Abbiamo una guerra da vincere e lei si scopa un cuoco umano" abbaió a denti stretti, serrando la mascella. Si alzò dallo sgabello, sporgendosi ancora di più verso di lui, un rantolo di rabbia che gli usciva dalla gola.

Un istinto inconscio gli fece prendere tra le mani il coltello con cui aveva finito di tagliare le fette di tofu dolce dell’ordine che aveva servito poco prima: senza chiedersi come avesse avuto la forza di sollevarlo tra le dita, si ritrovò a puntarlo contro l’essere davanti a sé.

“Cosa sta succedendo qui?”

La voce di Aki risuonò roca nella saletta, facendoli voltare nella sua direzione, infagottata in una delle vecchie - ma perfettamente conservate - casacche imbottite di Ada. 

Con quei i capelli color castagna appiccicati alla fronte per la febbre e il volto chiazzato di rosso, Alan avrebbe solo voluto lasciar perdere la lama e correre da lei. Sapeva come potesse essere di gran lunga più forte e combattiva di un cuoco umano armato di coltello da cucina, ma quando la sua umanità tornava ad emergere pensava a come l’unico modo per esserle davvero accanto fosse prendersi cura di lei, in qualsiasi forma gli potesse comparire davanti.

Stri~ipes” uggiolò in risposta l’altro, mutando di nuovo e tornando alle sue fattezze. “La mia adorata Stripes.”

Uno spasmo di terrore le distorse per un attimo i lineamenti, il rossore sbiancato. Rimase immobilizzata sul suo gradino, come incapace di fare un solo passo, per poi aggrapparsi al corrimano.

“Vai via. Non sei più-” sillabò con un filo di voce. 

La interruppe con una risata sguaiata, che fece rabbrividire Alan fino all’osso, asciugandosi le lacrimucce di ilarità.

“Non sono più niente per te?” ribattè secco completando le sue parole, incrociando le braccia al petto. “Sei un’ingrata, Stripes. Dopo tutto quello che abbiamo passato, dopo tutto quello che abbiamo fatto insieme.” 

Si volse verso il bancone, passandosi di nuovo oscenamente la lingua sulle labbra. 

“I Kisaragi si occupano di me, è stato deciso così” sentenziò lentamente Aki, mordendosi le labbra e continuando a reggersi al legno. “È stato un errore. Sei stato un errore.”

Una smorfia lo scosse, facendolo scattare ai piedi delle scale, di nuovo trasformato in quella volpe che si celava oltre la sua facciata. 

UN ERRORE?!” esclamò paonazzo, la voce isterica, mentre le vene sul collo si ingrossavano per la rabbia. “Chi ti ha salvato dall’argento, dagli umani, dalla tua famiglia?! Chi ti ha raccontato chi sei davvero?! Chi se non io?!”

Strinse i pugni artigliati, colpendo la parete accanto a lui e salendo sul primo gradino: “Sei stata tu a venire da me. E sei stata tu-” Sbuffò col naso, allargando le labbra strette in quel sorriso spaventoso “A giurarmi amore eterno.”

“Siete volpi, fattene una ragione. Cambiate idea e pure spesso.”

Si fermò, muovendo di scatto il collo verso l’ingresso del locale, dove la porta si era aperta con il suo consueto tintinnio di campanelle. Ada si stagliava nella sua bassa statura nella luce della sala, l’ombrello gocciolante.

“Rispetta le regole, volpe” continuò, fissando davanti a sé, il volto senza espressione. “Tu e la tua famiglia avete già sbraitato abbastanza sul suo conto: era già stato deciso, c’è stata una deviazione e poi le cose sono tornate come pattuito. Se vuoi causare problemi, non sei gradito qui.”

Un nuovo colpo alla parete accompagnò il ringhiare sordo che si levò in risposta. Ritornò sui suoi passi, mentre riacquistava forma umana. Si portò a pochi centimetri dalla donna, il mento alto in sfida, fissandola negli occhi: “La mia famiglia ricorda” sibilò lentamente. “Ci ha disonorati - ci avete disonorati - e noi non ammettiamo i traditori, specie se Kin come voialtri, Kisaragi. Siete solo miseri esseri umani-”

“Ci sono io con loro.” Aki scese un gradino, lo sguardo lucido per la febbre. Rimase in quella posizione, senza smettere di guardare verso il ragazzo che torreggiava su Ada.

“Vai via.”

Il ragazzo abbassò il capo con un cenno, infilando mollemente la porta. Si voltò per un’ultima volta, prima di scomparire nella notte, volgendosi verso il bancone: “Hai sentito, Kin? Siamo volpi” ghignò, digrignando i denti. “Goditela finché non muori.”
 



Sedevano attorno al tavolino basso che occupava una delle stanzette al piano superiore, le gambe infilate sotto la coperta riscaldata. Ada teneva tra le mani il tè fumante che aveva preparato, corredato di medicinali per Aki e corretto con qualcosa di abbastanza alcolico per suo figlio.

“Ti servirà” aveva commentato, mentre appoggiava le tazze davanti a loro e allungava le pastiglie con la punta delle dita. “Tu devi imparare a curarti, ojousan, altrimenti la prossima volta ci troviamo il locale distrutto.”

Si strinsero entrambi nelle spalle, annuendo all’unisono. Alan sentiva qualcosa acido e amaro gorgogliargli nello stomaco, ma cercò di zittirlo ingollando un sorso di tè bollente, facendo arrivare nei polmoni il sentore di alcol.

“Credevo gli avessero caldamente consigliato di tenersi alla larga da te” continuò Ada, rivolgendo un’occhiata alla ragazza intenta a giocherellare con le pillole, lo sguardo assente. “Per il tuo - e nostro - bene.”

Lasciò andare un sospiro pesante: “Grazie per essere intervenuta” abbozzò un sorriso stanco sul volto tornato a chiazzarsi di rosso. “Avrei potuto mandarlo via a modo mio, ma avreste avuto più problemi di un muro fracassato.”

“Chi è quello?” 

Alan drizzò le spalle, stringendo i denti cercando di controllare il senso di rabbia e impotenza che provava: c’era un pezzo che gli mancava di conoscere della vita di Aki, forse prima del suo arrivo al Tampopo o proprio nel bel mezzo. 

Mandò giù un nuovo sorso, liberando una smorfia: “Entra qui, si finge un cliente e poi inizia a sproloquiare-” borbottò lanciando un’occhiata interrogativa. “Che sia il tuo ex non è un problema per me, siamo esseri - quasi - umani dopotutto!”

“Non è un ex fidanzato qualsiasi” lo corresse sua madre, tamburellando sulla superficie liscia e appoggiando la tazza con un tintinnio. “È una volpe. Una kitsune.”

“Di questo me ne sono reso perfettamente conto, grazie” borbottò sarcastico finendo il suo tè e indicando il gruppetto radunato nella stanzetta. “Cosa vuole da noi, da Aki, dal mondo intero con cui sembra avere parecchi conti in sospeso?”

Aki si raggomitolò su se stessa. Rimase in silenzio per qualche lungo secondo, per poi rivolgere lo sguardo prima su Ada e poi verso di lui: “È imbarazzante” sancì, coprendosi un po’ di più con la casacca imbottita che teneva addosso. 

“È stato un errore di giovinezza” commentò seria la donna accanto a lei. “Ma avremmo dovuto aspettarcelo da una volpe che non sapeva chi fosse davvero e soprattutto da una testa calda come te - e lui. Abbiamo sbagliato anche noi.”

Alan alzò un sopracciglio dietro alla tazza vuota che ancora teneva in mano: “Ha un nome questo lui?”

Aki annuì lentamente, mordendosi le labbra. A quel gesto, Alan si mosse dal suo posto, avvicinandosi e allungando una mano sulla sua spalla, traendola a sé: ignorò l’occhiata sdegnata di sua madre, accarezzando l’imbottitura che la copriva. 

“Kozaki” mormorò a mezza voce. “Nida Kozaki.”

Chinò il capo di lato con fare pensieroso: “Nomen omen. Kozaki.” 

"Kitsune da generazioni" lo redaguí Ada lanciandogli uno sguardo storto in cui probabilmente aveva condensato tutto quello che pensava davvero in merito a quella situazionei. "La famiglia Kozaki è tra le più importanti e antiche famiglie kitsune che esistano. Sono guerrieri e stregoni con il fine ultimo di eradicare il Male celato nell’essere umano."

"L'ego non gli manca" aggiunse sottovoce Aki, celando un brivido. "Follia neppure."

"Per perseguire il loro obiettivo, servono i numeri. Servono delle volpi proprio come loro" continuó, tamburellando sul tavolino e abbassando lo sguardo sulle dita. "Gli servono dei discendenti a cui affiancarsi, senza morire."

"Avevo sedici anni, non che fosse la mia priorità nella vita-”

“Ascoltare pazientemente quello che ti veniva detto da me e Kinuta hakase?” la interruppe, fissadola con sguardo duro. 

Sollevò la testa, digrignando i denti e stringendosi nella casacca: “Probabilmente sì, dato che nessuno aveva mai avuto la bella idea di darmi davvero un paio di spiegazioni su qualche cosuccia insignificante. Voi vecchi e i vostri misteri del vattelapesca.”

Ada annuì appena, stringendo il bordo del legno alla stoccata a cui replicò con uno smorfia: “Mancava ancora del tempo, parlartene troppo tempo prima avrebbe potuto avere conseguenze-”

“Ne ha avute raccontarmi le cose in ritardo” ribatté secca, cercando di trattenere il rantolo ringhioso che aveva in gola. “Qualcuno è arrivato prima e ne ha approfittato alla grande a riempirmi la testa della sua versione di tutta la storia.”


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fino a qui!

Io amo i cattivi. E anche i flashback, specie se parecchio lunghi. Siete avvisati, ma spero non si rivelerà noioso. Poi torneremo nel presente, promessa di lupetto / volpe / essere umano.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 4
*** Freaking creep, creepy Freak ***


Aki sedeva sui gradini poco fuori l’ingresso della scuola, il labbro gonfio e un cerotto a cucirle il sopracciglio sinistro. Teneva in mano il foglio stropicciato che comunicava senza mezzi termini i suoi giorni di espulsione, dichiarati con voce scocciata dal preside nel suo studio, non appena l’infermeria l’aveva rattoppata a dovere.

Lasciò andare un sospiro sconsolato: aveva combinato un’enorme idiozia e quel pezzo di carta ne era la prova definitiva. Ada glielo aveva fatto promettere solo una manciata di mesi prima, niente risse e niente storie, ma a quanto pareva la sua capacità di mantenere la parola data era più breve di quanto potesse aspettare da se stessa.

“Li hai stesi tutti, complimenti.”

Ignorò il lento scalpiccio alle sue spalle accompagnato da un lento e svogliato applauso di scherno, raggomitolandosi e tornando a fissare torva il foglio: le ricordava fin troppo quello che avevano appeso alla porta del Tampopo alla morte di Tadao-san, dello stesso colore bianco sporco e le sue lettere severe vergate con forza. 

“Sei contro uno. Non so chi sia il più stupido tra te o loro.”

Alzò il capo mentre la voce che si era annunciata come un fastidioso ronzio nelle orecchie si palesava in uno dei tanti ripetenti che ciondolavano tra un corridoio vuoto e un corso seguito a metà. Di mezzi asiatici coi capelli colorati ce ne erano a bizzeffe in giro, ma quello che ora sedeva accanto a lei, osservandola sottecchi, era tra i più ricorrenti nomi delle chiacchiere in aula.

“Kozaki” borbottò, toccandosi la garza che aveva sulla fronte. “Buon pomeriggio anche a te.”

Si erano incrociati spesso dal suo ingresso alla Hillside High School, ora davanti allo studio del preside per l’ennesima ramanzina, ora a farsi sistemare il naso in infermeria. Non si erano mai davvero parlati, qualche occhiata derisoria o sbuffo di stizza esclusi, dato che non avevano mai nemmeno avuto nulla da dirsi.

Inoltre, parlare con un ragazzo significava che c’era qualcosa sotto, e Aki voleva evitare di avere altri problemi oltre ai suoi casini quotidiani. La sua famiglia adottiva era passata da odiarla-a-morte a malsopportarla-a-vista, continuava a dormire poco per gli incessanti incubi notturni e la voglia di distruggere tutto a pugni era spesso e malvolentieri impossibile da frenare. 

Specialmente con l’adolescenza le cose si erano ulteriormente complicate e mentre il resto del mondo - Kisaragi compresi - liquidava il tutto come ormoni in movimento ma vedrai che ti passa, per lei non era proprio così semplice mettere i problemi in un angolo del cervello e spegnere la luce.

“Sei. Quattro. Quattro di nuovo. Due. Poi qualche tizio a caso. I miei complimenti, siamo solo a dicembre e questo è il risultato degli ultimi due mesi” continuò sedendosi accanto a lei, tamburellando con le dita sul palmo della mano. “Sei proprio la persona che sto cercando.”

Gli rivolse un sorriso gelido: “Ti sbagli. E se non muovi il culo da qui entro tre secondi fai la stessa fine degli altri.”

“Quindi rifiuti la mia proposta ad uscire?” sospirò l’altro, schioccando le dita scocciato. “Preferisci tornare da quelli là con la tua letterina e startene nella tua cameretta a prendere a testate la parete per i prossimi giorni?”

Fece le spallucce, rigirando il foglio tra le mani: "E così mi proponi piuttosto di uscire con te. Immagino per mostrarmi la tua collezione di farfalle e discutere dei massimi sistemi" lo prese in giro. "Hai di meglio da offrire?"

Alzò un sopracciglio, appoggiandosi sulle ginocchia. Restò in silenzio per qualche minuto, osservando la strada davanti a loro, le persone indaffarate e le auto che sfrecciavano, per poi finalmente rivolgersi verso di lei, che stava sobbollendo a quelle pause ad effetto da pessimo attore consumato.

"Non riesci a dormire da parecchio. Hai gli incubi, ma quello sarebbe il meno peggio: senti pure le voci nella testa e a volte ti sembra addirittura di capirle. Sei nervosa, lunatica, perennemente girata e non é il ciclo, come potrebbero commentare i più con qualche tristissima battuta a riguardo" inizió a elencare senza staccarle gli occhi di dosso. "Spaccare qualche faccia sembra essere l'unica cosa che sai fare. E ti riesce piuttosto bene, se devo essere sincero."

Rimase immobile a guardarlo, un'espressione ammutolita dipinta sul volto rovinato. 

"Posso offrirti delle risposte, Ross. Ma è un discorso lungo e qui c'è qualche orecchio di troppo all'ascolto" aggiunse, guardandosi di nuovo attorno con fare circospetto. "Ti piacciono i dolci?"

Non attese una sua reazione, alzandosi in piedi con un colpo di talloni e tendendole la mano: “Offro io.”

Rifiutò, scuotendo il capo e scattando sui talloni: “So benissimo camminare da sola.”

***

Era un diner frivolo e chiassoso, bianco e arancione, infarcito di studenti chini su laptop e appunti, da soli o in piccoli gruppi, con una tazza di caffè e qualcosa da sgranocchiare accanto.

Rigida nel suo angolino accanto al finestrone appannato che dava sulla strada, Aki osservava di traverso Nida, seduto accanto a lei e intento a infilzare la forchetta nei pancake che aveva innaffiato di troppo sciroppo d’acero. 

"La morte per diabete non l'hai mai considerata?" commentò piatta, indicando il dolce gocciolante.

Infilò un boccone, masticando lentamente per poi rivolgersi a lei con quello che pareva il suo navigato tono sputasentenze: "Anche a te servirebbe un po' di dolcezza."

Ignorò la frecciatina con uno sbuffo, appoggiandosi al tavolo. Rimase ancora a guardarlo mentre ingollava altre forchettate, fino a quando non riuscì a contenere l'impazienza: "Quindi? Ti ho seguito, Kozaki, e pensi di restare tutto il pomeriggio in silenzio a mangiare?"

Fece una smorfia, appoggiando la forchetta al piatto e voltandosi verso di lei.

"Quanta fretta. Sei rimasta per anni senza saperne nulla: qualche minuto in più non fa certo la differenza" sospirò pulendosi la bocca e mandando giù un sorso di caffè al latte in cui aveva aggiunto un discreto quantitativo di zucchero.

I denti di Aki scricchiolarono a quell'ennesima uscita saccente. Strinse le dita nella mano e senza troppe remore indirizzó un gancio al suo vicino di posto.

Di solito avrebbe mandato gambe all'aria qualsiasi studentello, magari dando inizio a una buona rissa tra tazze e piatti volanti. Tuttavia, quel pomeriggio, non ne ebbe la soddisfazione.

Nida intercettó il pugno, fermandolo a pochi centimetri dalla guancia, solo un fremito sul viso - quasi divertito - nel vedersi corrispondere un'espressione di pura sorpresa. 

"É la prima volta?" ghignò beffardo. "Con me ne avrai di prime volte."

Ritiró il colpo, dissimulando un brivido. Restò senza parole per qualche lungo secondo, per poi riuscire a farle tornare sulla lingua.

"Allora illuminami" bluffó con finta noncuranza, cercando di nascondere l'urgenza di sapere che aveva iniziato a mangiarle lo stomaco. Probabilmente era più scoperta di quanto non credesse, ma tentò di raddrizzare la schiena e guardarlo negli occhi, pronta a sentire ogni parola - e tirargli davvero un altro gancio, se avesse provato a prenderla in giro.

Si abbassò su di lei, un sorrisetto saputello che gli si allungava da un orecchio all'altro: "Hai mai sentito parlare del lupo cattivo? Della volpe ingannatrice?"

Arricciò il naso, cercando di rimettere distanza tra di loro. 

"Accadono cose strane, vai allo zoo con la tua famigliola e ci sono quelle volpine arancioni che sembrano impazzire di gioia alla tua vista. O i cani del vicinato, sembra che tu sia la loro migliore amica, giusto? E non mi sembri persona da croccantini nelle tasche."

Strinse le labbra, frenandosi dall'annuire a quelle parole.

"Nello specchio, a volte, vedi qualcosa di diverso. Una luce negli occhi oppure-" lasció per un attimo il discorso spegnersi nell'aria, socchiudendo le palpebre. Allungò una mano sui capelli che portava sciolti, facendola trasalire, scoprendo quella ciocca di un assurdo color arancione che teneva nascosta. Sorrise. 

"Cosa cazzo dici" deglutì rumorosamente, sottraendosi al suo tocco, tentennando. "Cosa accidenti sai."

Scosse il capo, muovendo in segno di diniego l'indice davanti a sé: "Hai dimenticato la domanda più importante" sussurrò quasi inudibile, premendole inaspettato il dito sulle labbra doloranti. "Chi sono. Ecco cosa dovresti chiedermi."

Lo spinse indietro, trattenendosi dal mordergli la mano per intero. Batté un pugno sul tavolo, scoprendo i denti: "Allora dillo, Kozaki!" soffió, rabbiosa. "Piantala con i giochetti!"

Si ricompose, ravvivandosi vanesio i capelli e socchiudendo ancor di più gli occhi. Una linea si schiuse sul viso allungato, mentre pronunciava con lentezza esasperante le sue battute.

"Sono come te, come anche tu sarai a breve" annunció. "Sono una volpe - una kitsune a essere precisi - e posso aiutarti a imparare, capire e combattere senza più essere la stramba della tua famigliola."

Non riuscì a trattenere una risata incredula e sarcastica al tempo stesso, a pochi centimetri dalla sua faccia.

"Nessuno mi ha mai così palesemente presa per il culo" soffocò tra i singhiozzi di ilarità. Prese fiato, cercando di regolare di nuovo il respiro, asciugandosi le lacrime. "Nemmeno mi ha mai fatto perdere tanto tempo ad ascoltare la più lunga sequela di cazzate infilata a raffica."

Le scoccó un'occhiata offesa, alzando un angolo della bocca: "Non vuoi che mi trasformi, vero?"

Si portò una mano alla fronte, scuotendo la testa sconsolata: "Trasformarti, dici? Prego. Quando vuoi. Se davvero ne sei in grado."

"Lo sono" continuó, una nota secca nella voce. "Ma non sono stupido, a differenza di altri idioti di mia conoscenza."

Aki si appoggiò al tavolo, guardandolo con fare sornione: "Sto aspettando."

"Non qui."

"Non mi trascinerai in un posto buio e appartato con la scusa di mostrarmi com'è fatto un vero uomo. O volpe che sia."

Un ringhiare sordo le arrivó alle orecchie, ma prima che potesse reagire una presa d'acciaio si strinse su di lei, il viso di Nida vicinissimo al suo.

In quel momento li vide. I suoi occhi erano cambiati in un marrone lucido di terra smossa, mentre sotto i capelli arruffati le orecchie avevano mutato forma, allungandosi e coprendosi di peluria arancione, la stessa che lei nascondeva. 

"Forza, ora puoi dire che denti grandi che hai" sogghignó a fior di labbra, mostrando i canini acuminati.

Lasciò andare un gemito soffocato, sentendo qualcosa di diverso da semplici unghie affondarle nei vestiti. Deglutì a fatica, cercando di allontanarlo da lei, la lingua impastata e le ginocchia tremanti da quella rivelazione.

"Non voglio farti del male" si scosto di rimando, scattando al suo gesto, l'aspetto tornato quello di poco prima. "Sei importante per me, Ross."

Si sforzó di respirare, spostando lo sguardo attorno a loro, ma sembrava che nessuno si fosse accorto di cosa fosse successo. Sospirò pesantemente, massaggiandosi una spalla senza trattenere una smorfia.

"Tempo, Kozaki. Prima voglio capire che cosa significhi essere come te, poi puoi ricamarci sopra quello che vuoi - sempre che io sia d'accordo."

Nonostante le parole che cercava di mettere in fila con il maggior distacco possibile, dentro di sé sentiva il cuore allargarsi in una contentezza indescrivibile, un tepore che non aveva mai creduto di poter provare. Forse non era solo la stramba che aveva sempre creduto di essere - che l'avevano convinta di essere - ma qualcuno di diverso, la versione migliore di se stessa.

“É una storia lunga?” prese fiato, tamburellando sul menù e alzando distrattamente una mano verso la cameriera. “Perché hai detto che offri tu e a me le storie mettono fame.”


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fino a qui!

Io amo i cattivi #2. Perchè lo abbiamo capito tutti (eccetto la protagonista) chi sembra avere parecchi secondi fini. Ma anche terzi e quarti.

Ognuno dei personaggi che incontrerete ha una sua fissazione per cibo e bevande (potrei anche aggiungere musica e serie TV ma l'elenco sarebbe troppo lungo), spero possa aiutare a rendere un poco più chiara la loro personalità. O semplicemente a farci venire una gran fame.

A questo proposito, ora vado a farmi dei pancakes con un sacco di sciroppo d'acero.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 5
*** Strike before they Blink ***


“Ci sono diverse differenze tra un lupo mannaro e una kitsune. Penserai che siano entrambi dei mannari mutaforma, ma è come comparare una melanzana - grossa, brutta e amara - a una mela. E a me le mele piacciono perché sono piccole, carine e dolci.”

Nida aveva iniziato così il suo discorso, facendo dondolare distrattamente la forchetta tra le dita, arricciando il naso quasi schifato al pronunciare quelle parole.

“Noi kitsune abbiamo un compito in questo mondo: liberare gli esseri umani dal loro Male. Non ti sei mai chiesta come mai le persone continuino a perpetrare sempre le stesse identiche crudeltà? Secondo i lupi c’è qualcosa di malvagio dietro a tutto l’Universo, ma secondo noi dipende solo dall’umanità stessa: li purifichiamo della loro parte peggiore e facciamo in modo che non si ripetano.”

Lo aveva guardato stranita, senza riuscire bene a capire cosa intendesse, tamburellando impaziente sul tavolo. 

“Ognuno di noi ha un suo ruolo - una tradizione di famiglia, diciamo - e abbiamo ben chiari i nostri obiettivi, gli esseri umani che dobbiamo liberare-"
 


Aki stava rimuginando sulle parole di Nida quando l’improvviso colpo alla nuca lee fece sbattere la fronte contro il vetro che aveva appena finito di pulire, facendo risuonare il tonfo sordo nel locale vuoto. 

Ada stava alle sue spalle senza alcuna intenzione di nascondere il sottile mattarello con cui l’aveva colpita, gli occhi ridotti a una fessura e le labbra strette in una linea dritta. 

Incredula, aprì più volte la bocca, a vuoto, come uno sfortunato pesce rosso fuori dalla sua boccia.

“MI HAI FATTO MALE!” riuscì finalmente ad esclamare, toccandosi la nuca dolorante per poi muoversi di scatto dalla parte opposta e mettendosi sulla difensiva, spalle al muro, restituendole lo sguardo rabbioso che le stava elargendo. “E IO NON HO FATTO NIENTE!”

Incrociò le braccia, senza smettere di agitare minacciosamente il cilindro di legno: “Espulsa. Per la terza volta in due mesi. Credevo avessimo un patto” sbuffò secca. 

"Contenta che ti sia arrivata la notizia ora. Da lunedì torno a scuola come promesso, senza storie" mugugnò di rimando, massaggiandosi la fronte. “Non è stata colpa mia. Te l’ho detto, io mi ci tengo alla larga - ci provo, almeno - ma poi c’è sempre il gruppo di imbecilli che non vede l’ora di far guerra nel bel mezzo dei corridoi: cosa faccio? Dico di no?”

Alzò il mento, battendo sul braccio il mattarello ancora pronto all’azione: “Potresti usare certi potenziali per altro.”

Ridacchiò amara, spostando lo sguardo alla finestra dove la sua impronta era bellamente visibile alla luce dei lampioni che illuminavano la strada buia: “Dammi un esempio. Salvare l’umanità?”

L’espressione appena mutata della donna confermò quello che Nida le aveva raccontato nei giorni precedenti dopo l’incontro al diner, ora smozzicando le spiegazioni tra il tragitto dalla sua casa adottiva al Tampopo, ora sussurrando tra una lezione all’altra in quei corridoi dove sembrava che tutti fossero sempre alla ricerca di qualche pessimo motivo per tirare a pugni. Dopo l’ennesima sospensione, i suoi parenti l’avevano privata di qualsiasi connessione il resto del mondo, per cui nei pochi momenti fuori da loro controllo cercava di riassumere tutto quello che c’era da sapere sul cosa, come e perché di quella storia: senza quei racconti frammentati, avrebbe dovuto altrimenti dedicarsi allo scambio di piccioni viaggiatori - con il timore che Nida se li sarebbe mangiati, magari innaffiati di sciroppo d’acero.

Aki fece un respiro profondo, cercando di ignorare il dolore sottopelle che sentiva ancora alla testa. 

"O hai di meglio da proporre?" continuò, sentendo un moto di soddisfazione nell'essere lei a fare le domande.

Ada strinse le dita sul mattarello, lasciandosi cadere su una sedia: "Cosa sai."

A differenza della ragazza davanti a lei, la sua non era una domanda, come se fosse in grado di annusare nell'aria qualcosa che parole e immagini non erano in grado di trasmettere.

"Sei brava a parlare. Tutti quelli come te lo sono" continuò lasciando andare un sospiro.

Aki alzò un sopracciglio, rigida nella sua posizione, il cuore che sentiva accelerare sotto la maglia: voleva che fosse lei a dirglielo, a confermare quello che uno sconosciuto come Nida le aveva rivelato e mostrato. 

"Hai incontrato qualcuno e hai saputo qualcosa: hai la bocca per parlare e smettere di essere così-"

"Vaga?" la interruppe. "Sei tu che non vieni al punto, che non mi dici quello che sai su di me."

Rimase in silenzio, guardandola negli occhi, mordendosi un labbro: anche a Yōko allora non aveva avuto il coraggio di dire la verità sul suo stesso sangue ed era successo l'irreparabile una notte di tanti anni prima. Tuttavia c’erano modi e tempi che aveva imparato, che le erano stati insegnati e non sarebbe stata una ragazzina troppo focosa a mettere in discussione secoli di rituali: a volte, il silenzio era una scelta più che saggia.

"Verrà il momento di raccontartelo" sancì perentoria dalla sua seggiola. "E gradirei che questo chiacchierone ti stia a distanza e con la lingua a freno fino ad allora."

Sbatté lo strofinaccio sul tavolo accanto, digrignando i denti e pestando un piede a terra: “Per te non sarà mai l’occasione giusta. Anzi, fosse per te vorresti proprio evitare-”

Scosse il capo, interrompendola, cercando di contenere il fremito che aveva sentito a una guancia e non voleva ammettere nemmeno a se stessa: aveva fatto una richiesta quella stessa notte di primavera e il momento in cui avrebbe dovuto coinvolgere un’altra persona a lei cara si stava avvicinando inesorabile.

Fu quel pensiero a far accorgere Ada di come, invece che preoccuparsi di quel misterioso qualcuno con la parlantina sciolta, avrebbe dovuto prestare attenzione a un certo qualcosa attorno a loro: c’era un sovraffollamento invisibile e innaturale tra le piccole mura del Tampopo quella sera, e il gesto rabbioso di Aki sembrava averlo agitato più del dovuto. 

“Devo fare una telefonata” scattò in piedi, fissando gli occhi nei suoi. “Resta qui per favore, non andare da nessuna parte.”

Detto questo si alzò senza aggiungere altro, scomparendo oltre le scalette che conducevano al piano superiore, lasciando Aki da sola. Rimase per qualche secondo immobile, impalata con lo sguardo vuoto fisso davanti a sè, per poi decidere di averne abbastanza di quelle mezze parole e uscire sulla strada, la maglia e il grembiule del locale ancora addosso.

Era arrabbiata. Delusa. Adirata. Sconfortata.

Conosceva Ada fin da bambina; zio Yōji l’aveva portata al Tampopo da quando ne aveva memoria per scambiare quattro chiacchiere tra una ciotola di udon fumante e l’altra, ridendo alle barzellette malriuscite di Tadao-san e ascoltando gli impossibili castelli in aria di Alan. Forse per questo aveva covato la speranza di riuscire a farle dire quelle stesse parole che Nida le aveva rivolto, mentre le svelava la verità di quel suo sangue agitato e di come Ada avesse sempre saputo, restando in silenzio. Non capiva il motivo di quel suo stare zitta a osservare, accompagnandosi a poche frasi sconnesse e criptiche, come avesse dovuto essere in grado di leggerle la mente per scoprire il significato che celavano: non era nè umana né volpe, tantomeno un dio onnisciente, per fare quello che si aspettava da lei.

Camminava a testa bassa, le mani infilate nel grembiule annodato alla vita, immersa in quei pensieri quando si rese conto di non essere sola lungo quella strada poco trafficata nelle ore della notte.

Continuò a procedere, accelerando il passo, cercando di orientarsi guardando la strada da sotto il suo naso: non riusciva a conteggiare quanti fossero alle sue calcagna - chissà da quanto poi - ma aveva gironzolato abbastanza nei dintorni per ricordarsi un cantiere perennemente aperto in quella zona, così malandato e probabilmente nato dal riciclaggio di qualche sporca somma da non essere nemmeno piantonato. 

Per schiarirsi le idee dalle chiacchiere di Nida o dopo l’ennesima litigata tra le mura di casa, ci si era intrufolata più di qualche volta, per cui lo conosceva abbastanza bene da sapere come entrarci, perdersi tra i suoi labirinti di cemento e ferro arrugginito e uscirne da una delle parecchie scappatoie della recinzione.

Avanzò infilandosi in un’apertura, scivolando all’interno sulle scarpe da ginnastica e guadagnando un minimo vantaggio sui passi che alle sue spalle non avevano smesso di seguirla, velocizzando come lei aveva fatto. Non le piaceva scappare, ma trovarsi ad atterrare più che un ragazzino esagitato tra i corridoi scolastici le avrebbe potuto costare davvero il riformatorio.

Prese riparo dietro a una grossa colonna, incompleta e scrostata come tutto il resto, cercando di capire la sua posizione rispetto al resto del cantiere che la circondava: fu in quel momento di pausa che finalmente lo scalpicciare alle sue spalle prese forma e la mutò sotto i suoi occhi.

Erano quattro, di cui un paio appena tornati a muoversi su due gambe come il resto del gruppetto. Dal suo nascondiglio, Aki inizialmente credette di non riuscire a vederli bene in volto, i tratti deformati per uno strano effetto luce dei pochi lampioni attorno, quando notò come quelle non fossero facce, ma maschere. 

Si portò una mano alla fronte, incredula: si era fatta seguire da dei buffoni probabilmente con l’unica orribile intenzione di rubarle il portafoglio. E farla sentire particolarmente stupida, oltre che aumentare il nervosismo che sentiva bruciarle nelle vene.

“Sono qui, se state cercando qualcuno” sbottò, uscendo senza troppe remore allo scoperto, un tubo metallico di fortuna stretto in mano fatto sbattere sul terreno. “Non ho soldi, non ho un accidenti a dire il vero, per cui se avete finito di giocare ai cattivi potete anche girare i tacchi e ognuno per la sua strada.”

Restarono per un lungo attimo in silenzio, immobili davanti a lei, come se stessero riflettendo sul da farsi. All’improvviso, quello che portava una maschera rossa dal naso lungo si rivolse all’altro accanto, il volto coperto da una maschera da donna grassa: solo a quel gesto Aki si accorse di come si trattassero dei personaggi di Tengu e Okame, che spesso aveva visto da piccola in qualche foto di Tadao-san dal ritorno dai suoi viaggi al suo paese natale.

“Si è fatta proprio kawaii. Che ne pensi?” sentenziò con una risatina, dando un colpetto alla spalla dell’altro. 

Aki strinse le labbra in una smorfia: non solo l'avevano inseguita ma anche la prendevano per il culo. Batté nervosa il tubo contro il polpaccio: "Oltre a dirmi che sono carina, avete altro?"

Non fece tempo a battere ciglio che si ritrovò faccia a faccia con quell’ Okame, che la fissava dietro l'espressione sorniona dipinta sul volto bianco e lucido.

"Uhn. Kawaii ne" rispose senza riuscire ad aggiungere altro, scaraventata di lato da un calcio poderoso.

Aki si voltò di scatto, Nida era comparso dal nulla accanto a lei, i lineamenti mutati nelle sue sembianze di volpe. Le rivolse un'occhiata veloce per tornare con l'attenzione al trio immobile davanti a loro.

Una risata sguaiata si levò da dove l’Okame era ruzzolato a terra, mentre si rialzava e ripuliva alla bell'e meglio la polvere di dosso.

"Zuru-i yo. Mi hai colto di sorpresa, Kozaki: che ci fai qui in giro? Stavi alle calcagna della signorina?" commentò scuotendo il capo. "Non si segue di nascosto una signorina carina nel cuore della notte: qualcuno potrebbe farsi strane idee."

Gli altri ridacchiarono a quella battuta, dandosi gomitate e annuendo. 

“Voi stavate facendo lo stesso” ribattè, digrignando i denti e preparando gli artigli. 

La maschera rossa di Tengu allargò le braccia, come a sottolineare l’ovvio: “Ci sono spiriti ovunque stanotte, per il suo compleanno. Non sta bene andarsene in giro facendo finta di niente, specie se ti hanno chiesto gentilmente di non muoverti dal tuo strofinaccio preferito” alzò il naso in direzione di Aki. “Kisaragi-san vuole che ti riportiamo a casa, intera, senza storie e senza risse.

“E senza infiltrati alla festa” concluse un altro, il volto coperto dalla caricatura di un vecchietto smorfioso, che Aki riconobbe come Hyottoko. 

Il fulmine lanciato da Nida colpì questo in pieno petto, facendolo rotolare contro un muretto alle sue spalle. Il gruppo si compattò, mentre uno di loro si staccava per soccorrere il compagno a terra.

“Piantala con il periodo da adolescente ribelle, Kozaki” ringhiò l’Okame, stringendo i pugni e allargando le gambe. “Tornatene a casa, questo non è affar tuo: se lei muta qui, saranno guai per te. Rispetta le regole, stattene zitto e fuori dalla mia vista.”

Aki deglutì rumorosamente, facendo un passo indietro: all’improvviso aveva paura, la rabbia che provava inglobata da quella sensazione grumosa che le attanagliava lo stomaco. Chi fosse quella manica di disadattati mutaforma dal volto coperto non riusciva a spiegarselo, così come se le loro parole - il menzionare Ada - fossero vero o meno. Come le era stato raccontato, loro erano kitsune e cos’era una volpe se non il maestro dell’inganno?

“Vieni con noi e nessuno si farà male” proseguì il Tengu, toccandosi il naso e distogliendola dai suoi pensieri, piegando le ginocchia. “Non abbiamo tempo da perdere con i giochetti.”

Il duo scattò verso di loro all’unisono, gli artigli sfoderati, pronti ad affondare. Erano veloci e precisi nei colpi che indirizzavano, calci e pugni in una piroetta di azioni fluide e fulminee. Aki si armò del tubo che aveva recuperato, ma un colpo ben assestato glielo fece volare di mano, rotolando con clangore lontano e lasciandola scoperta. Tuttavia quel combattimento non la coinvolgeva affatto, facendola sentire più misera e inutile che mai: ogni mossa era diretta unicamente contro Nida, in una frenesia che non aveva mai sperimentato nelle sue risse tra i corridoi della scuola.

Cercò di avvicinarsi allo scontro, testa bassa e pugni chiusi, ma invano: una stretta d’acciaio sulla spalla la bloccò nella sua posizione, mentre Nida cadeva a terra con un tonfo sordo, colpito alla schiena da una sequela degli stessi fulmini che aveva indirizzato poco prima a uno di loro.

“Un bel respirone e filiamo a casa” mormorò l’ultima maschera comparsa accanto a lei, una volpe candida a coprire il volto, stringendole tra le zampe le sue dita, trasformate in artigli acuminati senza che se ne fosse resa conto. 

Spalancò la bocca dalla sorpresa, facendo uscire tutt’altro che un grido umano, mentre i suoi occhi si spostavano sulla figura ancora accasciata sul cemento, l’Okame e il Tengu del tutto poco intenzionati ad allontanarsene. Sentiva il cuore batterle all’impazzata sotto la maglietta, le gambe pesanti, incapace di controllare il tremore che aveva iniziato a farle battere i denti.

“Dov’è Yōcchan?” sbottò lo Hyottoko, abbassandosi, imitando l’altra maschera e alzando il mento verso il duo intento a dare poco onorevoli calcetti negli stinchi scoperti della loro preda. “Per gli sacrosanti spiriti, Makoto, yamete. Piantala. E chiama Yōcchan, subito: la ragazzina sta per mutare e non deve farlo qui, intesi?”

Le sue parole vennero inghiottite dal rumore assordante che precedette la comparsa di quello che sembrava a tutti gli effetti uno sgangherato food truck odoroso di qualcosa andato pericolosamente a fuoco: il mezzo sterzò e inchiodò con uno stridere di freni, mentre il clacson veniva suonato a più riprese dal suo autista.

“Pronti a partire” replicò l’Okame, alzando la voce per farsi sentire sul frastuono e indicando poi Nida. “Lo lasciamo qui?”

Le due maschere annuirono all’unisono, rimettendo lentamente Aki in piedi e cercando di farla avanzare di qualche passo nonostante il tremore che la sconquassava, mozzandole il fiato. Improvvisamente, sentì il terreno mancarle da sotto le suole, sollevata in aria come un gattino, a faccia a faccia con lo sguardo pacifico dell’Okame chiacchierona.

“Non abbiamo tempo da perdere, ojousan” la salutò, iniziando a correre verso il trabiccolo in attesa. “Oggi finalmente diventerai una bellissima volpina, proprio come il tuo papà.”


***Small Talk***
Grazie per aver letto fino a qui!

Finalmente iniziamo a trattare di "faccende serie" - ovvero di gente con problemi di pubertà che vanno oltre i brufoli. Per esempio lo scoprirsi volpi mannare, il che non è esattamente da manuale.

Per quanto riguarda le quattro kitsune mascherate, saprete qualcosa di più in futuro. Per darvi qualche idea sul loro aspetto, ecco le quattro maschere.


E magari intanto vi state chiedendo         


E magari intanto vi state chiedendo "quando ci saranno dei licantropi veri invece che i loro cugini kitsune?" (because la sezione ovviamente si chiama Licantropi / Lupi Mannari e mica Mutacosi). Arriveranno, abbiate solo - molta - pazienza.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 6
*** Congratulations, she's a Fox ***


“Sei sicura, ma proprio sicurissima che servirà tutto il tofu fritto che abbiamo?” mormorò incredulo Alan, alzando lo sguardo verso sua madre, intenta a mescolare tutto il brodo che avevano su tutti i fuochi a loro disposizione. Con una smorfia si massaggiò il polso, che fino a quel momento aveva accompagnato ogni movimento della lama infilata nei panetti dorati che avevano recuperato da ogni scorta immaginabile. 

Dalla sua parte del piano di lavoro, Ada annuì senza dire una parola, indicando con un gesto del mento la volpe che sedeva compita a uno sgabello del bancone, intenta a dar loro le spalle, le cinque code che ondeggiavano lentamente a mezz’aria mentre sembrava attendere qualcosa oltre la vetrina.

Alan deglutì rumorosamente, ripensando a quello che era accaduto solo qualche decina di minuti prima, proprio quando stava per togliersi di dosso la casacca di lavoro e farsi una meritata doccia dopo la giornata al locale. Se avesse dovuto risolvere in maniera stringata - come era stato d’altronde - tutta la faccenda che gli aveva appena rivoltato l’esistenza come un calzino, gli bastava guardare quella creatura per riassumere la questione.

Siamo Kin, Legami Umani, mettila come vuoi. Dobbiamo prenderci cura delle kitsune che vivono attorno a noi - e no, non chiamarle VOLPI MANNARE ad alta voce, si offendono, per gli spiriti! - e quando intendo prendercene cura, significa che tu ora fili in cucina e inizi a tagliare tutto l’aburaage che trovi: non lasciarne nemmeno un panetto. Questa sera ci sarà un po’ di affollamento e dopo avranno tutti una gran fame. Più tardi ti spiegherò meglio, ora al lavoro e senza fiatare.

Sua madre era stata pratica, infilandogli in mano il coltello e spingendolo oltre il bancone, permettendogli solo con la coda nell’occhio di vedere quel vecchietto in camice diventare esattamente la volpe sinuosa che ora muoveva nervosa le orecchie sullo sgabello.

Mentre era perso in quei pensieri, una ciotola enorme piena di impasto di udon fattagli scivolare davanti al naso, la tranquillità in cui sembrava sprofondato il Tampopo venne spezzata da uno stridere di freni e la porta d’ingresso fatta sbattere rumorosamente di lato.

Erano quattro, gigantesche volpi ritte sulle zampe posteriori e una di loro portava Aki con sè, stretta a peso morto tra gli artigli. Prima che potesse solo fare un passo, Alan vide quell’adorabile massa di pelo arancione diventare della medesima grandezza del quartetto comparso all’interno del locale, incitandole verso le scale e scomparendo in un batter d’occhio oltre la porticina che conduceva al piano superiore.

“Non ti distrarre.”

La voce di Ada lo fece sobbalzare dalla sua posizione, boccheggiando. Strinse le dita attorno alla ciotola metallica, dove la sua faccia riflessa, pallida e segnata da quell’orario della notte, gli rimandava un’orribile immagine di se stesso, proprio come l'improvviso terrore che gli aveva iniziato a mangiare lo stomaco.

“Aki è una volpe. O meglio, lo sarà da stasera” commentò piatta, infilando le mani nella pasta. 

Lasciò andare un fischio dal fondo della gola, rivolgendole un’occhiata disperata: “E quando accidenti aspettavi a dirmelo?!” esclamò, afferrando i bordi del tavolo di lavoro. “E lei? Lo sa?!”

"."

Ada strinse le labbra in una linea dritta a quelle sue stesse parole, continuando a impastare, lo sguardo fisso davanti a sé, senza aggiungere altro. Andò avanti nelle operazioni che ripeteva ogni giorno, tagliando e separando gli spessi vermicelli pronti a essere lessati, allungando ad Alan i mazzi di erba cipollina da ridurre in rondelle.

Un nuovo frastuono la costrinse tuttavia a interrompere il lavoro, alzando la testa verso le scalette, da cui le stesse volpi entrate poco prima erano comparse tra rimbrotti e passi pesanti, confabulando fra di loro.

Dekka-” esclamò a mezza voce Alan, le verdure penzolanti in mano. “Sono enormi, anche Aki sarà così? Non riesco proprio a immaginarla...”

Prima che Ada potesse rispondere, una di queste si staccò dal gruppo, la maschera di un’Okame legata dietro alla nuca, infilando il muso oltre la porta che portava alla stretta cucina: “Prendiamo da asporto. Per cinque.”

“Siete in quattro” lo corresse Alan, senza pensarci troppo, mordicchiando distrattamente un gambo per poi rendersi improvvisamente conto di cosa avesse appena detto e sentire il sangue rifluirgli dal viso. Incontrò gli occhi brillanti della volpe che lo fissavano, mentre un ghigno divertito si allungava scoprendo le zanne. Alle sue spalle, si levò una sequela di commenti imbarazzanti, accompagnata da un nutrito coro di risate.

“So contare, booyah” scosse l’enorme testa, rivolgendosi ad Ada. “Cinque. Due kitsune, un stamina e due chikara. Gra~zie.”

Mentre pronunciava quelle parole, ridusse pian piano le sue dimensioni, tornando a coprire quello che fino a poco prima era un muso appuntito con la maschera che portava con sè, gli abiti magicamente ricuciti addosso. Si sedette sullo sgabello di fronte, le gambe incrociate, osservandoli lavorare e ignorando i nuovi ingressi che facevano risuonare le campanelle all’entrata del locale per poi scomparire, mutati a loro volta in volpi, oltre le scale. 

“I Lin del negozio di alimentari… i Jeon delle gioielleria…”  annunciavano gli altri tra applausi e ululati sguaiati. “Questa faccenda sta richiamando mezzo quartiere! Potremmo entrargli in casa e svaligiare tutto!”

“Io ci sto!” esclamò uno di loro, alzando un’enorme zampa in aria. “Sarebbe una giusta vendetta per non farci partecipare alla festa!”

“Certo, facciamoci odiare ancora di più…” commentò un altro, agitando nervoso le tre grosse code. “Così ci mandano a nuotare nella Fossa delle Marianne, la prossima volta.”

Seguirono nuove risate, sempre meno animalesche e quasi amare mano a mano che il resto del gruppo tornava nelle sue dimensioni umane, ciascuno una maschera grottesca a coprirlo in volto. 

Alan non ebbe tempo tuttavia di guardare meglio quell’assurdo assembramento che rumoreggiava all’interno del locale: sua madre raccolse in fretta gli ordini, li preparò così abbondanti quasi da far traboccare le ciotole e li consegnò con un sorriso freddo stampato sulle labbra.

“Grazie per esserci venuti a trovare e arrivederci” li salutò, una gomitata al fianco di suo figlio nell’imitarla nel fare lo stesso. 

Si affrettò ad accennare un inchino sgraziato, osservando sottecchi mentre prendevano le buste e iniziavano ad allontanarsi uscendo uno dopo l’altro dalla porta, come se fossero - quasi - normali avventori. Fuori, li aspettava quello che sembrava uno scassato food truck andato a fuoco, o almeno l’odore di bruciato fu quello che arrivò alle narici di entrambi, facendogli arricciare il naso in una smorfia.

“Chi sono?” piegò interrogativo il collo verso sua madre, senza staccare gli occhi dal vetro che rifletteva lo loro immagine.

“Non ne ho idea” idea” rispose quella di rimando, imperturbabile.

Sollevò il sopracciglio, dubbioso, ma non riuscì ad aggiungere un commento a quella battuta che una delle tante volpi che si erano radunate sopra le loro teste si precipitò con un balzo dalle scale, entrando improvvisamente nel cucinino.

Kitsune. Dieci” abbaiò, abbassando appena il capo in un saluto e rivolgendosi di nuovo ad Ada, aggiustandosi il colletto dello changshan blu scuro. “Avete altri asciugamani puliti? Non vogliamo imbrattarvi troppo la casa, Kisaragi-nǚshì…”

Ada indicò ad Alan di proseguire i preparativi, mentre si allontanava e scompariva a sua volta ai piani superiori. Rimase da solo, l’ordine di continuare a cucinare che lo faceva muovere come un automa, mentre i pensieri gli si affastellavano nella testa dandogli la spiacevole sensazione di stare perdendo qualcosa di importante in quei lunghi minuti, a cui non riusciva a dare parole o forma.

“Aiutaci con il cibo, ragazzo.”

Alzò il capo, la volpe e sua madre carica di asciugamani ricomparse sulla soglia. Finì di aggiungere le ultime rondelle di erba cipollina e impilò le ciotole su due vassoi che sperava fossero in grado di reggerne il peso.

Si ritrovò a seguire quella strana e silenziosa processione, cercando di non inciampare sui suoi stessi piedi e smettere di fissare troppo le quattro code scodinzonanti che gli ondeggiavano sotto il naso. 

Quando superò la porticina che conduceva all’appartamentino di quattro stanze sopra il locale, iniziò a mettere assieme i pezzi di quella sensazione che aveva provato nella cucina, mentre osservava i sigilli e gli amuleti che tappezzavano ogni parete e porta attorno a lui. O meglio, quelli che restavano appesi a ciò che era rimasto ancora integro: alcune porte erano state divelte e quasi fatte a pezzi, i brandelli di legno e stoffa lasciati a terra, e i muri erano sfigurati da artigli e graffi per quasi la loro lunghezza, macchie scure e vischiose a imbrattarli.

L’espressione preoccupata di Ada gli fece torcere lo stomaco e tremare le mani in quell’avanzare: il pensiero che Aki fosse stata là per tutto quel tempo cominciò a trasformarsi in qualcosa di più oscuro e spaventoso di quello che le altre volpi avevano soprannominato come festa.

In quel momento, un lampo arancione schizzò fuori da quello che aveva imparato a considerare il salotto buono, dove lui e sua madre si ritrovavano a mangiare, le gambe sotto il tavolino basso, nei giorni di chiusura del locale. Si diresse senza cambiare direzione verso di loro, arrampicandosi e saltando su qualsiasi mobile trovasse nella sua traiettoria per poi sbattere malamente contro la porta del bagno e iniziare a grattare come un animale in gabbia.

“Datemi le ciotole” cantilenò una nuova volpe in hangbok grigio, l’alto cappello di paglia nero calato di traverso, per poi passarle a un’altra arrivata alle sue spalle, il fiocco slacciato che dondolava sul vestito giallo crema. Nessuno di loro sembrava far caso alla creatura che era tornata alla carica, sfrecciando da un lato all’altro del corridoio, facendo spandere a terra brodo e udon finchè non venne afferrata senza troppe cerimonie per la collottola e sollevata in aria, facendola dondolare come un pupazzo di pezza.

Ochitsukete. Calmati” borbottò la volpe in camice che Alan aveva osservato trascorrere gran parte della serata su uno degli sgabelli del bancone. Alzò il muso verso di loro, allargando le fauci in quello che avrebbe dovuto essere considerato un sorriso, facendo ondeggiare la volpina che era esplosa in una serie di mugugni e strilli rabbiosi. “Ora le facciamo un bagno e dopo mangerà, se solo la smettesse di distruggerle la casa, Kisaragi-san.”

A quelle parole, la massa di pelo arancione smise improvvisamente i suoi lamenti, spalancando gli occhi e fissandoli con un’espressione sorpresa, iniziando lentamente a mutare davanti a loro in una forma più umana.

Ada schiaffò il dorso della mano sulla faccia di suo figlio, allargando le dita per impedirgli la visuale e causando uno scoppio di risatine sommesse sotto i baffi degli altri occupanti del corridoio.

“Si abituerà a vederla così” commentò una di loro, portandosi una zampa al muso e lasciandsi sfuggire un ghigno divertito. “È un bel ragazzo, in fondo.”

Alan sentì le guance prendergli fuoco, ma lo stesso stava probabilmente accadendo a Aki a pochi passi da lui, seduta a terra a massaggiarsi le giunture e borbottare ad alta voce come fosse maledettamente e fottutamente mezza nuda in mezzo a una manica di depravati.

“Imparerai a mutare con i vestiti addosso” uscì dalla stanza l’ultima volpe, un lungo cheongsam verde smeraldo a fasciarla, dietro cui svolazzavano le sue cinque code vaporose. Calò un camicione bianco sulla ragazza ancora intenta a lamentarsi e cercare di schiacciare il naso a punta al suo posto, toccandosi con fare sospetto le orecchie frementi e togliendosi uno spaghetto viscido dalla guancia.

Il gruppo fece un passo indietro, osservandola in un curioso silenzio, inframmezzato dai rimbrotti che sembravano non voler cessare, poi un timido applauso si levò da ciascuno, costringendo Ada a togliere finalmente la mano dagli occhi di Alan.

“Congratulazioni” annuirono, rivolgendosi agli unici due davvero umani in quei pochi metri quadrati, accennando un inchino. “Avete una kitsune in famiglia."


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fino a qui!

Qualche spiegazione mi sembra fondamentale, specie se non siamo tutti nerd di piatti giapponesi e vestiti dell'area asiatica.

Le tipologie di piatto servite al Tampopo sono abbastanza ridotte e quelle citate in questo capitolo sono la top 3 (sotto avete un esempio del menu che avevo creato just for fun parecchio tempo fa):

Kitsune Udon sono udon bolliti serviti con tofu fritto ed erba cipollina.

Chikara Udon si tratta di udon bolliti accompagnati da tortine di riso (kirimochi) , spinaci, kamaboko e cipollotto.

Stamina Udon sono udon bolliti e serviti con carne, verdura e un uovo crudo sopra.


Ho pensato che solo avere a che fare con volpi immigrate dal Giappone sarebbe stato troppo facile e dato che l'America è un grande paese ci ha infilato anche cinesi e coreani, con i loro abiti tradizionali (un sacco di ringraziamenti sentiti a tut...        


Ho pensato che solo avere a che fare con volpi immigrate dal Giappone sarebbe stato troppo facile e dato che l'America è un grande paese ci ha infilato anche cinesi e coreani, con i loro abiti tradizionali (un sacco di ringraziamenti sentiti a tutte le mie compagne di corsi tra Italia e Sol Levante per tutto l'acculturamento a questo proposito):

Changshan (detto anche Changpao o Dagua) è il tipico abito cinese per gli uomini, composto di una casacca lunga o corta a cui si accompagna un paio di pantaloni. In pratica è l'abito usato da IP Man o Neo in Matrix.

Cheongsam (detto anche Qipao) è il tipico abito cinese per le donne, lungo o corto a collo alto e spacco laterale. Penso che sia uno dei vestiti "orientali" più inflazionati per il resto del mondo "occidentale".

Hanbok è l'abito tradizionale coreano per donne e uomini. Gli uomini possono anche portare un cappello di paglia nera chiamato gat.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 7
*** Play your Card ***


Avere una kitsune in famiglia, aveva portato ad alcuni cambiamenti nella vita del Tampopo. 

Punto primo, Aki occupava la stanzetta che era stata di Alan da piccolo. Adibita a ripostiglio fino ad allora, avevano trasferito tutto quello che era stato ordinatamente impilato al suo interno in una serie di scaffali fatti arrivare tempestivamente all’ingresso del locale, insieme a un manica di tuttofare che si erano occupati di sistemare ciò che nella notte era stato fatto saltare in aria o distrutto ad artigliate. 

All’ovvia domanda in merito a come dalla cucina nessuno avesse sentito un solo rumore di quello scardinare di porte e crollare di mobili, l’ometto in camice aveva semplicemente sorriso sotto i baffetti argentati, sistemandosi gli occhiali sottili sulla punta del naso.

Punto secondo, il Tampopo apriva solo a cena. C’erano altre cose da fare durante il giorno, sia per i suoi Kin sia per la nuova arrivata, e quell’improvvisa chiusura del mezzogiorno era l’unico modo per portare avanti gli apprendistati dei due giovani iniziati a quel mondo. 

I Lin del negozio di alimentari non vendevano solo pacchi di riso e soia fermentata, e si erano proposti di prendere quel bel ragazzo di un cuoco sotto la loro ala, indirizzandolo a un loro Kin poco fuori città, a sua volta proprietario di un piccolo locale vegetariano famoso nella comunità di hipster-hippie-esotico-alternativi di Hillside. Ada aveva lasciato andare un borbottio su come non voleva vedere ramen o gyoza nel suo Tampopo ed era stata rassicurata a proposito.

“E tu, Aki?” 

Finì con un gorgoglio il frullato che aveva ordinato, giocherellando con la cannuccia e alzando gli occhi verso Nida, seduto dall’altra parte del tavolino del diner bianco e arancione.

Sospirò, scuotendo il capo. “Qualcosa sto imparando da quella vecchia volpe di Kinuta-sensei, ma sembra sempre non volermi dire tutto per intero - come se dovessi avere un’illuminazione o qualcosa del genere.”

Storse la bocca al pensiero di quell’ometto in occhialini, fin troppo parco di parole, che era diventato una presenza quasi costante nella sua vita quotidiana prima e dopo la scuola, fino al suo ritornare in sella alla motocicletta scassata del Tampopo, che aveva pian piano imparato a usare per le consegne serali a cui si erano aggiunte le sue incombenze, oltre alle consuete pulizie.

Nida era rimasto in silenzio, il capo piegato di lato e le braccia conserte, come se stesse rimuginando su qualcosa. Dopo averlo lasciato - suo malgrado - svenuto nel bel mezzo del cantiere, Aki aveva tirato un sospiro di sollievo nel vederlo ricomparire tra i corridoi di scuola.

“Qualche trucchetto te lo posso insegnare - e parlare non mi dispiace: non siamo molti qui e senza la giusta preparazione anche la migliore delle kitsune non avrebbe molte speranze quando le si affida una missione” abbassò la voce, guardandosi intorno. "Ci sono quelli che credono che bastino un paio di code per uscirne vittoriosi, ma sono sempre quelli che fanno la fine meno onorevole."

Aki lo imitò appiattendosi sul tavolo e sporgendosi verso di lui, invitandolo a continuare. 

“Penso sia successo prima che tu nascessi. C’era questo gruppo di kitsune famoso per avere un paio di teste parecchio calde al suo interno che ha improvvisamente dato di matto dopo una serie di missioni: il Male li ha corrotti come non se ne vedeva un bel pezzo tra di noi.” Si mordicchiò una guancia, tamburellando sul bordo di formica. “Di solito sono i lupi a farsi spezzare dalle loro emozioni, noi siamo - almeno spiritualmente - più resistenti di qualsiasi ookami in circolazione. Grandi e grossi - e gradassi - che siano.”

Arricciò le labbra in un sorriso sghembo: “Non ti piacciono proprio i lupi.”

Rispose facendo spallucce, tornando a sorbire il caffè che aveva riempito di latte e zucchero: “Mi piacciono le volpine.” 

Appoggiò la tazza vuota sul tavolino, imitando la sua espressione di poco prima. Si alzò con un colpo di talloni, ignorando il rossore che aveva colorato le guance di Aki, incamminandosi fuori dal locale.

“Una volta ci sarebbe stata una vera e propria guerra per te.” Nida infilò le mani nelle tasche della giacca primaverile, trotterellando lungo il marciapiede. “I lupi si combattono e contendono ogni nuovo della loro specie, ma per noi è diverso: siamo agenti in solitaria e sappiamo qual è il nostro obiettivo e come raggiungerlo - senza perderci in inutili lotte contro l’imbattibile.”

Lasciò che continuasse, affiancandolo. Quel pomeriggio poteva lasciar perdere di vista l’orologio, essendo il giorno di chiusura del locale e benedetta dall’incredibile assenza di Kinuta-sensei.

“Distruggere il Male dall’interno: così come quel maledetto fa entrando nelle pieghe di questo mondo, possiamo fronteggiarlo allo stesso modo. Che i lupi continuino pure a combatterlo muso a muso, ma è da stupidi pensare di poterlo sconfiggere in campo aperto.”

Si grattò il naso, pensierosa: “Da quello che so siamo in minoranza numerica e - qualunque cosa sia questo Male - è grande come l’Universo.”

“C’è un vecchio detto, lo conosci?” incalzò, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lei. “Un solo chicco di riso può fare la differenza tra vittoria e sconfitta.”

“E sarebbe?”

Alzò un sopracciglio, dondolando sui talloni: “Proprio te. L’hai detto tu stessa, siamo in pochi e ogni nuovo numero è importante per-” 

Si interruppe, in quello scomodo equilibrio di punta e tacco, rivolgendole quel sorrisetto saputello che Aki aveva imparato a malsopportare. Incrociò le braccia, restituendogli lo sguardo e invitandolo a completare la frase.

“Ne ho abbastanza di discorsi a metà: sia prima di scoprire quella che sono e soprattutto adesso” sbuffò, pestando un piede sul cemento. “Nida, piantala con le cazzate e finisci quello che hai da dire.”

Ridacchiò, per poi tornare serio: “Per le kitsune. Specialmente qui a Hillside.” La invitò a prestargli orecchio, abbassando nuovamente la voce. “Forse non te ne sei accorta, ma proprio quel cantiere in cui sei finita qualche notte fa non è un posto normale. Un comune essere umano non sarebbe in grado di capirne la differenza dai tanti luoghi abbandonati della città, ma quelli come noi possono avvertirla, anche inconsciamente - anche se non ancora davvero completi.”

In quel momento le sovvenne il suo inaspettato comparire tra le macerie e il calcestruzzo, fronteggiando il gruppo mascherato che era mutato sotto i suoi occhi.

“Chi erano quegli gli altri?” domandò a quel ricordo, sperando che almeno lui fosse in grado di darle la risposta che tutti, da Ada a Kinuta-sensei, le avevano negato e ignorato.

L’espressione di Nida si indurì, stringendo le labbra in una linea sottile. Borbottò qualcosa a mezza bocca prima di prendere la parola, trattenendo a malapena il ringhio che gli si era formato in gola.

Norotta kusoyarou” sbottò, inghiottendo la rabbia. “Degli psicopatici corrotti a cui permettono ancora di camminare sulla terra. Da quello che ne so, sono dei poveri derelitti a cui affidano le missioni peggiori, ma non sono che pedine nelle mani degli altri: se non fanno quello che gli ordinano, non avrebbero pietà a liberarsi definitivamente di loro.”

Aki rabbrividì al ricordo del ragazzo a terra e quegli esseri mascherati che si avvicinavano a lei. Si sfiorò la spalla in un gesto istintivo, asciugandosi il sudore freddo che sentiva improvvisamente invischiato al collo.

“Si trasmette, la corruzione?” abbozzò, rivolgendogli un’occhiata preoccupata. “Come il raffreddore?”

Scosse la testa, sfiorandole le dita con cui si tormentava: “Ci vuole molto peggio.”

“Hai detto di potermi insegnare qualcosa in più, giusto?” continuò, aggrottando le sopracciglia e cercando di ricomporsi. “Quando cominciamo? Oggi ho la serata libera, niente consegne e niente pulizie.”

Soppesò la sua domanda per poi sorriderle e chinarsi verso di lei: “Vuoi fare a botte o preferisci qualcosa di più- mistico?” 

Arricciò il naso, scoprendo i denti in un ghigno divertito, sentendo il sangue tornare a infiammarsi di quell’andrenalina che poche volte aveva sperimentato nell’atterrare uno studentello attaccabrighe nel cortile della scuola. 

Indovina, Kozaki.”

Non c’erano boschi o vallate abbastanza vicine dove poter liberare quella bestia che ciascuno portava nel cuore, scorreva nel sangue e pompava nei muscoli: come lei, anche Nida sembrava essersi abituato a quel mondo di cemento e giardinetti curati, buoni per fare jogging, scavandosi la sua tana.

"Sei fottutamente ricco. Rivoglio indietro i miei scarsi risparmi per averti offerto il caffè" esclamó Aki, facendo il suo ingresso oltre la porta che si richiuse alle sue spalle. 

Era un enorme open space attrezzato a palestra, comunicante con un altro altrettanto ampio spazio proprio sopra la loro testa. Si staccò da Nida guardandosi attorno estasiata, le armi appese alle pareti, i finestroni che davano sulla cittá sottostante. 

"Possiamo avere un po' di privacy." Nida attirò la sua attenzione, sostituendo alle vetrate altrettanti pannelli, dipinti con lo stesso motivo delle carte hanafuda che campeggiavano incorniciate alle pareti. 

Aki saltellò sul suo posto, battendo le mani, eccitata: “Iniziamo? Non mi azzuffo seriamente da quando sono diventata kitsune. Mi hanno fatto promettere - di nuovo - di andare a scuola senza storie e senza risse e inizio a sentire male dappertutto a stare quasi sempre così.” Si indicò, piegando le labbra verso il basso. “Ada mi ha vietato di trasformarmi al locale, nemmeno per fare la mascotte: io ci entrerei in un posto che ha una bellissima volpe arancione da coccolare-”

Si interruppe, arrossendo e dissimulando un colpetto di tosse: “Posso farti vedere?”

Non aspettò la sua risposta, trasformandosi lentamente davanti ai suoi occhi come lui aveva fatto in quel chiassoso diner solo qualche tempo prima. Orecchie e naso a punta, baffi vibranti e un'enorme coda voluminosa: lo fissava divertita in quell’aspetto, quasi pretendendo un applauso.

Nida fece mollemente un passo indietro, osservandola con fare indagatore: "Forma completa.”

La sua bocca si stirò in una smorfia di disappunto. Annuì, restando per un attimo pensierosa nella sua posizione, raccogliendo le energie necessarie al nuovo cambiamento per poi mutare in quella forma da battaglia di cui stava pian piano prendendo confidenza - vestiti compresi. 

Non ebbe tempo di sbattere le palpebre appena la trasformazione si concluse che si ritrovò ad evitare il calcio assestato diretto al suo sterno: balzò all’indietro, parando la sequela di colpi che si avventarono su di lei da parte dell’enorme volpe che aveva sostituito la forma umana di Nida.

Tre code: lui era quello che veniva detto sanbi. Aki scioccamente pensò alla sua unica, singola coda, che la contraddistingueva come ichibi, ovvero la - patetica - novellina delle kitsune

Fu quell’arrovellarsi sulla sua maledetta condizione di ultima arrivata a farle perdere l’equilibrio all’ennesimo calcio mirato, ruzzolando sul pavimento dove rimase a terra, dolorante. 

“Non credere che provi ad avvicinarmi a te: sei una volpe anche tu e so benissimo cosa stai macchinando di fare” commentò Nida, sollevando un angolo del muso in un ghigno e incontrando lo sguardo corrucciato che gli venne rivolto mentre tornava umano. “Riprendi la tua forma, è meglio che riposi. Oppure, vediamo questa mascotte di cui parlavi, immagino sarai bellissima.”

Dal suo pezzo di pavimento, Aki ringhiò divertita, diminuendo la sua stazza fino a raggiungere le dimensioni di una piccola volpina dal manto folto. 

Nida si abbassò sulle ginocchia invitandola a sè. La sentì mugolare di gioia, impettita sulle zampette marroni, la grossa coda fatta ondeggiare sotto il suo naso. Indulgette nell’accarezzarle la testa e grattarle le orecchie, finché quell’ammasso di pelo arancione non gli provocò uno starnuto.

“Ti preparo dell’acqua. Le prime volte non è mai facile e a me veniva sempre una gran sete.” Si rizzò sui talloni, allontanandosi verso il piccolo frigo che riluceva contro una delle pareti. “Riprendi pure la tua forma umana, sei stata bravissima.”

Osservò sottecchi Aki ritornare alla normalità, lasciandosi cadere con un tonfo sordo sul pavimento per poi massaggiarsi le giunture e sistemarsi gli abiti. A un primo sguardo, non era cambiata dalla teppistella petulante e sboccata che aveva incrociato a rimuginare su una lettera di sospensione sui gradini all’ingresso della scuola, tuttavia, a differenza di quei miseri Kin della sua bettola o degli altri vegliardi psicotici che l’avevano presa in custodia, lui poteva vedere quel qualcosa che brillava sotto la sua pelle umana, che combatteva per uscire alla luce. 

Era una rabbia grezza la sua, sprecata contro i ragazzini contro cui si accapigliava nei corridoi, che doveva imparare a plasmare e usare contro il loro nemico comune: sarebbe stato lui a insegnarle, a farle da maestro e renderla davvero forte come la sentiva voler diventare. 

Non riuscì a trattenersi dal distendere le labbra in un sorriso soddisfatto, che la superficie del frigorifero gli restituì in una smorfia distorta: le aveva detto chiaramente come un chicco di riso poteva fare la differenza. E due ancora di più.

Sentì la bocca seccarsi a quel pensiero. Scosse la testa, cercando di riprendere il controllo sul sangue che gli si era infiammato nelle vene: poteva - doveva - aspettare, giocare una schermaglia ben misurata fino al momento giusto, senza fretta. Era consapevole di avere un compito nella sua famiglia e lei - l’unica kitsune nel raggio di migliaia di chilometri e dopo decine di anni - ne era il mezzo più che ottimale. 

Inoltre, era carina.

Aprì la porta del frigorifero, affrettandosi a spegnere quel ribollire che sentiva dentro, in un sorso d’acqua ghiacciata. 


*** Small Talk ***
Grazie per aver letto fin qui!

Spero che l'assenza di intrecci romantici - (coff coff) per ora - non vi stia annoiando troppo, ma non preoccupatevi, siamo circa a metà! Per cui qualcosa potrebbe accedere - più avanti.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 8
*** Money and Soul ***


Il Kami-Inari Building si stagliava nella sera di Hillside, la superficie di vetro e acciaio che riluceva al chiarore della luna. L'edificio ospitava ai piani più bassi ciò che negli ultimi cento anni aveva reso la famiglia Kozaki una delle storie da copertina più chiacchierate del Paese e oltreoceano: l'impero del Red Moon Parlor.

Agli esseri umani piaceva giocare e lo stesso valeva per le volpi che li osservavano e li accompagnavano; dopo tanti secoli al loro fianco, queste ultime avevano compreso come quel divertimento potesse diventare una malattia invisibile, veicolo del Male contro cui la loro specie combatteva una lotta millenaria.

Maestre dell'inganno e del gioco, le kitsune della famiglia Kozaki decisero di sfruttare a vantaggio della loro battaglia lo stesso mezzo che il Male usava per distruggere e schiavizzare silenziosamente uomini e donne: venne costruito così il primo Red Moon, dove radunare e scovare gli ammaliati dalla Fortuna, per purificarli liberandoli dal Male.

Erano in tanti a cadere nel tranello di soldi e speranze facili, per cui sarebbe bastato il giusto dado o la giusta carta per stravolgere in meglio la propria esistenza. Che fossero miseri relitti umani o ricconi annoiati, per ciascuno di loro l'ebbrezza era la medesima, giocando con il rischio che li faceva accorrere come falene alla luce.

"Gli affari vanno bene. In questi tempi si fanno abbindolare persino di più: sono sempre più spiritualmente deboli, é un bene che abbiamo deciso di fare a meno di annacquarci con loro."

La donna che aveva pronunciato quelle parole si portò la tazza fumante alla bocca sottile, sorseggiando il suo caffé e mettendo una pausa al discorso. Accanto a lei era appoggiato un voluminoso rotolo preziosamente sigillato, che contrastava con la modernità della stanza in cui si trovava.

"Per questo mi é convenuto aspettare" ghignó Nida dall'altra parte del tavolino, sprofondando sul divanetto basso. Incrociò le braccia dietro alla nuca, rivolgendo una smorfia soddisfatta alla sua interlocutrice.

"Hai aspettato fin troppo, fratellino" commentó piatta, aggiustandosi una ciocca dietro all'orecchio e lisciandosi i capelli stretti nella coda. "Ormai sono trascorsi sedici anni."

"Non siamo in molti, sorella, e c'è sempre qualche umano o Kin di mezzo in queste faccende: il vecchio Kinuta é sempre pronto a combinare qualcosa con loro per portare avanti le sue stupide convinzioni."

Un sorrisetto canzonatorio le increspó le labbra: "Ti fai problemi a rubacchiare l'uva d'altri? Sei diventato sentimentale."

Scosse il capo, sbattendo le mani sulle ginocchia e ringhiando a quella battuta: "Mangia tu gli avanzi, se proprio ti piacciono; io ne sono stufo."

La donna non ebbe tempo di reagire: l’ampia porta d’ingresso si aprì con uno scatto e una voce ben conosciuta li ammutolì entrambi, tuonando nella stanza tappezzata di cimeli e oggetti misteriosi raccolti nel corso dei secoli.

"Yamete, futaritomo. Smettetela, tutti e due."

Kakeru Kozaki era da cinque decenni il capofamiglia della sua stirpe, l’uomo che aveva portato il Red Moon Parlor da oltreoceano al nuovo continente. Incedette a larghe falcate sul pavimento lucido per poi prendere posto a sua volta al tavolino. Si sistemò con un gesto secco le pieghe del completo grigio su cui brillava lo stemma di famiglia per poi scoccare un'occhiata di disapprovazione all’indirizzo di entrambi.

Intrecció le dita scure e nodose tra loro, lasciando andare un sospiro stizzito: "Nae ha ragione, ti abbiamo dato abbastanza tempo per la nuova arrivata, e ora che il passaggio è stato completato é necessario capire la sua utilità alla nostra causa" sentenziò, alzando gli occhi verso Nida che per tutta risposta sbuffò tra le narici.

"Lo so. Ma come ho già detto ci sono i suoi Kin di mezzo e fin dal principio quella vecchia volpe di Kinuta ha macchinato qualcosa con la proprietaria del Tampopo."

"Kisaragi-san ha un figlio di qualche anno più grande" aggiunse Nae tamburellando con le unghie sul rotolo. "É il solito piano, fratellino: li fanno vivere sotto lo stesso tetto finché non si innamorano. Il classico cliché melenso da dorama che piace tanto ai nostri vecchietti."

Nida si morse un labbro, livido: "Lo so. Ma la nuova kitsune è affar mio e ora che la sua trasformazione è stata completata posso-"

"Farla innamorare di te?" sorrise di rimando Nae, completando la frase.

Schioccó la lingua al ricordo della visita di Aki di qualche giorno prima, mentre un ghigno si tagliava sul suo volto.

"È carina” commentò. “E poi anche io ho un piano."

Kakeru annuì dalla sua posizione: “Il tempo non è dalla nostra parte e una nuova presenza tra le nostre fila è necessaria. Abbiamo perso fin troppe kitsune nelle stupide alleanze con i lupi o nelle missioni su questo piano; dobbiamo tornare alle nostre origini e far proseguire la nostra linea.”

“Non bastiamo per tutte quelle purificazioni” sospirò Nae dal suo divanetto, dondolando pigramente le gambe accavallate. “Inoltre le kitsune del giorno d’oggi non sono più così spiritualmente forti: sembra che per loro sia più facile far fuori un vero e proprio mostro di facciata che quello che si cela negli animi dei loro adorati umani. Sono troppo abituate a viverci assieme per vedere oltre.”

“Per questo ci sto impiegando un po’ di tempo.” Nida si raddrizzò al suo posto, scoprendo eccitato i denti. “Finirà per odiarli tutti i suoi adorati umani. É sempre stata arrabbiata con loro, le serve solo la giusta spintarella e poi sarà lei a implorare di restare per sempre con me - con noi.”

"Kinuta e i suoi si sono incaponiti con questa storia. Una volta ci faceva giocoforza unirci a loro, ma allo stato attuale non ha più senso" continuò la donna, seguendo il profilo intagliato del rotolo e spostando lo sguardo alla grande vetrata che si apriva sulla stanza, mostrando la città immersa nella notte appena iniziata. "Inoltre, é triste."

"Sei diventata sentimentale" le fece eco il ragazzo con una risatina di scherno. Ignorò la scoccata che gli venne rivolta per allungarsi sul tavolino e prendere uno dei dolcetti che facevano bella mostra di sé sul piattino ornamentale, mangiucchiandolo con gusto.

"Innamorandosi di un'umana, Akira Ross é morto proprio per le idee di Kinuta: e lo stesso vale per la madre della nuova kitsune.” Kakeru prese la parola, picchiettando il bracciolo con la punta delle dita. “La bambina ancora non ha idea di cosa significhi la sua convivenza con un umano: la stessa Kisaragi-san non credo sia troppo contenta delle macchinazioni che sono state messe in atto dal Concilio fin dalla sua nascita."

"Per questo abbiamo il Rito" sentenziò Nida, ingollando un biscotto a cui fece seguire un sorso dalla sua tazza. "Perché anche noi rischiamo di crepare male come succede tra uomini e volpi quando ci sta di mezzo la nascita di una nuova volpe. E gli effetti collaterali non sono per nulla male, a mio avviso."

Si passò la lingua sulla punta delle labbra, lasciando andare un ringhio basso dalle profondità della gola.

"Sei disgustoso" sospirò Nae, lanciando un'occhiata verso il capofamiglia che rimase chiuso nel suo silenzio.

Appoggiò la ceramica, facendo spallucce: “Non dire che ti dispiace avere una bella volpina scodinzolante tutta per te. O una macchina da guerra pronta a farti da scudo all’occasione.” Rimase a fissarla per un lungo attimo, sottolineando le sue parole con un ghigno orribile che gli si allargò in volto. "Sfortunatamente, le mie ex fidanzatine sono tutte perite in nome della causa - dopo averci dato quello che ci serviva, ovviamente."

Norotte shimatta yo. Sono impazzite, fratellino. L’ho già detto come questo continuo mescolarsi tra noi e gli umani non sta che diluendo la nostra forza spirituale.”

Alzò un sopracciglio, rivolgendole uno sguardo annoiato: “Non mi va di farmi l’ennesima cugina di quinto grado. Inoltre ho conosciuto entrambi i genitori e nonostante un po’ di annacquamento credo abbiano fatto un buon lavoro, peccato che i soliti vecchi non mi abbiano lasciato prendermi cura di lei fin dal principio.”

“Avrai tutto il tempo quando concluderai ciò che devi” sentenziò Kakeru, alzandosi in piedi e attirando su di sè la loro attenzione. “Abbiamo bisogno di numeri per portare avanti la nostra missione; servono kitsune forti per purificare gli umani che entrano tra le nostre mura.”

Annuirono all’unisono, lasciando che il silenzio tornasse a calare ancora una volta nella grande sala.

“Nell’attesa, abbiamo del lavoro da fare stasera.” Si aggiustò la spilla che portava al bavero, socchiudendo gli occhi in un sorriso appena accennato per poi iniziare ad incamminarsi verso la porta. “Ci sono dei nostri gentili ospiti che vi aspettano.”

Nida si stiracchiò, balzando dal divanetto con un colpo di tallone, subito imitato da Nae con il suo rotolo stretto tra le dita.

“Qualcuno stasera ha fatto jackpot” commentò la donna a labbra strette, mentre uscivano accompagnati solo dal rumore dei biscotti mangiucchiati.


*** Small Talk ***

Iniziamo a parlare di cose serie #2. O #3. Ormai ho perso il conto.

Io adoro le famigliole unite da pessimi intenti, mi stanno particolarmente simpatiche e l'allegra compagnia Kozaki non fa eccezione. Spero possano rivelarsi interessanti anche per voi - ma per adesso concentriamoci su una certa volpina di nostra conoscenza.

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Capitolo 9
*** One silver Bullet with your Name on it ***


"Ti sei presa una cotta."

A quelle parole, il caffè dolce che Aki stava bevendo le andò di traverso, nei polmoni, nel naso e pure nel cervello. Rivolse ad Alan un'occhiata storta, ignorando il sorrisetto che gli si era allargato in volto.

"E tu ti porti le tipe al locale quando credi non ci sia nessuno. Sei rumoroso" ribattè di rimando.

Arrossì, piegando la bocca in una smorfia: "Si chiama giorno di riposo. Giovinezza. Ormoni. Tipine carine a cui piacciono i cuochi" replicò a sua volta, strizzando gli occhi. "Scusa tanto per il disturbo: pagami un motel la prossima volta."

"Sei squallido."

Ridacchiò alla sua espressione vuota: "Sto scherzando. Forse."

Tornarono a camminare affiancati lungo il marciapiede, nel pomeriggio inoltrato che iniziava a scurirsi verso la sera.

"Riprendendo il discorso: lui o lei lo sa?" Alan le diede una gomitata, rischiando di nuovo di farle rovesciare la lattina di bibita. "Se ti serve qualche tecnica, chiedi a me: come hai potuto sentire ho parecchia esperienza - con le ragazze. Con i ragazzi no, mi spiace, devi trovarti qualcun altro a cui chiedere consiglio."

Fu il suo turno di diventare color pomodoro e fingere indifferenza, continuando a bere.

"Ho sentito dire dai Lin che quando voi kitsune vi prendete una cotta è proprio una cosa seria: fammi sapere come chiamerai la tua volpina visto che sarò il suo bellissimo zietto!"

Aki annaspò, ingollando un ultimo sorso e cercando di portare quella conversazione su altri argomenti che non includessero la sua situazione sentimentale, più che mai volpine scodinzolanti: aveva sedici anni e mezzo, per gli spiriti, il suo unico pensiero in quel momento era a cosa sarebbe successo da lì a poche ore, quando con Nida sarebbero entrati nel cantiere abbandonato per investigare.

Si sentiva pronta e forte come non mai: aveva imparato qualche trucchetto in quei mesi dopo il suo cambiamento, prendendo una discreta dose di mazzate - prontamente restituite - e aveva addirittura smesso di ficcarsi in troppe risse da essere nuovamente espulsa da scuola.

"Come stanno le tue piantine? Ho saputo che sono diventata zia e ancora non le ho conosciute" lo imitò, sogghignando.

Alan accettò la frecciatina, chinando il capo in sconfitta e facendosi serio. Da quando era stato affidato ai Lin nel suo apprendistato aveva iniziato a conoscere una branca del suo lavoro di cuoco che andava oltre il semplice coltello: erbe e piante, che in quel ristorantino fuori mano erano alla base di quel menù tanto in voga tra gli hipster-hippie-esotico-alternativi della città.

"Genki jane-e. Non bene" strinse le labbra, mordicchiandosi una guancia.

"Già prima che arrivassi dal signor Deng si stavano ingiallendo, la situazione sembra star andando per la peggiore: se continua così, rischia di perdere un bel po' di clienti. Sembra esserci qualcosa di strano nell'acqua, o così ho sentito dei tuoi parenti dire. Sono venuti a confabulare qualcosa e fare dei riti, ma mi hanno gentilmente cacciato a fare commissioni inutili in città."

Annuì, restando un attimo pensierosa, mentre il sole calava all'orizzonte e si avvicinavano alla fermata della metropolitana che l'avrebbe portata da Nida.

"Non chiamarli parenti, per favore" sbuffò. "Trovarsi improvvisamente con una famiglia allargata che non mi considera la stramba della situazione è qualcosa a cui mi devo ancora abituare."

Le rivolse un sorriso, salutandola mentre si separavano sui treni in direzione opposta per poi sparire oltre le porte.

Aki trascorse il viaggio in piedi, muovendo le dita dentro alle scarpe per l'eccitazione di quello che stava aspettandola alla fermata, e che avrebbe forse anche aiutato le piantine moribonde di Alan. Nida le aveva infatti raccontato come il cantiere in cui si era rifugiata la notte del suo cambiamento non fosse un posto normale, ma odorasse ferocemente di corruzione - il Male che Aki aveva imparato a conoscere dagli insegnamenti (noiosi) di Kinuta-sensei. Tuttavia, non era un male visibile a occhio nudo: dovevano scendere oltre i calcinacci e il cemento, nelle fogne che scorrevano al di sotto.

"E magari spezzare il collo a qualche cattivo."

Nida continuò a camminare al suo fianco, lo sguardo scuro, allontanandosi dal punto in cui avevano lasciato la sua moto - che era stata commentata come l'ennesima dimostrazione di quanto fosse maledettamente ricco e come anche lei, povera fattorina in miseria, un destriero del genere lo avrebbe voluto per velocizzare le consegne e scappare verso l'orizzonte.

Si fermarono all'ingresso del cantiere, nessuna anima viva nel cuore della notte fresca in cui si muovevano, poche stelle in cielo a illuminare la loro presenza.

"Chi era quello...?"

Aki chinò il capo, soppesando la domanda improvvisa, cercando di tirare le fila del discorso che probabilmente il suo interlocutore aveva iniziato nella sua mente parecchi passi prima.

"Quello con cui eri oggi pomeriggio" incalzò, lasciando andare un sospiro stizzito. "L'umano."

Schioccò le dita, annuendo: "Kisaragi. Lavora al Tampopo, fa il cuoco. Ci conosciamo fin da bambini perchè mio zio-"

La interruppe scuotendo la testa, rivolgendole per un attimo un'occhiata gelida che la fece trasalire. Si ricompose, abbassando la voce e tornando a stirare il suo consueto sorrisetto sulle labbra: "È un tuo Kin?"

"Tutta la famiglia Kisaragi è Kin da generazioni." Fece le spallucce, non capendo a cosa volesse puntare quella discussione nata dal nulla. "Non mi hanno mai detto la verità fino al mio cambiamento, a dire il vero mi sarebbe piaciuto saperne di più prima di tutto questo."

"Che siano Kin o meno, sono pur sempre umani: sono invidiosi di noi" sentenziò secco l'altro, tornando a incrociare il suo sguardo.

Si toccò il naso, ragionando a quella affermazione, per poi rivolgergli un sorriso: "Per fortuna che ho incontrato te, Kozaki."

Non rispose, infilandosi nel cantiere e invitandola a seguirlo. Avanzarono in silenzio, oltrepassando lo spiazzo dove il ricordo di quella notte di qualche tempo prima era vivido nella mente di Aki, ma preferì non dire nulla, i sensi in allerta: la pelle d'oca che sentiva sollevarsi sotto i vestiti era la sua personalissima dimostrazione di come, dopo la sua trasformazione in kitsune, il mondo fosse cambiato a sua volta.

"Io dico che è sospetto che non ci sia nessuno a far guardia a questo posto" sussurrò, avvicinandosi a Nida e guardandosi attorno. "O altri oltre a noi."

La zittì con un gesto della mano, indicando un tombino poco davanti a loro: "È l'ingresso. Andiamo dentro."

Alzò un sopracciglio, squadrandolo sottecchi: "Tutto questo è troppo facile. Ci sei già stato qui."

Annuì appena, spostando il pesante pezzo di metallo e stirando la bocca in una linea stretta: "So dove sta l'ingresso ma non sono mai andato troppo avanti. Scendere da soli e uscirne non è una passeggiata, ma in due possiamo proseguire abbastanza da vedere qualcosa. E combattere, se necessario."

Aki non riuscì a nascondere un ghigno di soddisfazione a quelle parole, di quella fiducia che sembrava avere in lei: in quei mesi aveva atterrato qualche malintenzionato interessato a togliere al Tampopo l'incasso della giornata, ma fino ad allora erano sempre stati semplici persone - niente argento, niente poteri soprannaturali, niente mostri.

Quella discesa sotto la città era il momento che aspettava da quando aveva scoperto se stessa, non più come Aki la stramba, ma come Stripes la volpe: era stato Alan a darle quel soprannome, notando tra la confusione generale come invece che un'unica chiazza bianca finale, la sua coda fosse striata sulla punta.

(L'osservazione per cui le stesse guardando poco cavallerescamente il culo - a cui venne ribattuto un "Ma cosa posso farci, ci sta una coda enorme proprio lì?!" - aveva provocato un coro di risate alle kitsune presenti e un ceffone sonoro da parte di una irritatissima Ada)

Aki si intrufolò oltre l'apertura dopo Nida, premurandosi di ritornare la copertura del tombino sopra le loro teste.

"Chiunque sia qui non deve sentirci" l'ammonì, mentre il suo odore scompariva al naso e iniziava a incamminarsi lungo lo scorrere del cunicolo malamente illuminato, i tratti di volpe che tornavano a mostrarsi a ogni nuovo passo.

***

"Il piano è semplice. Entriamo e scendiamo nelle fogne che stanno sotto quel cantiere. Vediamo cosa c'è, eventualmente muoviamo un po' le mani e poi ne usciamo, intesi? Non siamo qui per risolvere il problema stanotte."

"E se ritroviamo quel Kozaki in giro?"

"L'altra volta sono bastati un paio di fulmini a tirarlo giù: spero abbia capito di chi sia questo posto e la pianti di farsi trovare dove non è gradito."

"E poi abbiamo chiesto il permesso ai topi. Non é tipo da usare cortesia, anzi credo che sia l'ultima cosa che insegnano in quella famiglia."

Il gruppetto mascherato annuì all'unisono, i musi volpini incapaci di tradire un ghigno sardonico.

"Se me lo trovo tra i piedi, gli pianto un bell'argento in testa a quel rompicoglioni" sputò a terra la donna dai capelli scuri frettolosamente raccolti, in piedi accanto al furgoncino, controllando il caricatore e infilando la pistola nella fondina. A differenza degli altri non portava nessuna maschera colorata a coprirle il volto, gli occhi allungati che brillavano di rabbia.

Una risatina nervosa si levò dalla volpe in maschera di Kitsune vicina a lei, che si allontanó impercettibilmente poco più in là, apostrofandola: "Ricorda che potrebbe non essere solo, Yōcchan."

"È questo che mi fa incazzare!" esclamò l'altra, pestando i piedi a terra e portandosi le mani alle tempie. "È un maledetto manipolatore codardo e la bambina ancora non se ne è resa conto: credevo che voi Kitsune foste volpi, non polli."

A quelle parole, il silenzio calò su di loro, nella serata inoltrata. Il quartiere sembrava deserto attorno, solo l'enorme cantiere incompiuto a ergersi tra i palazzi svuotati. Senza aggiungere altro a quel rimbrotto, iniziarono a muoversi lentamente, seguendo una mappa che sembravano aver mandato a memoria, scendendo oltre il tombino divelto che quel loro strampalato mezzo di trasporto provvedeva a nascondere alla vista.

Sotto il cemento, le fogne si estendevano in una miriade di cunicoli e canali gocciolanti e viscidi, mentre l'odore di decomposizione e marciume entrava nelle narici a ogni respiro, facendo storcere il naso delle volpi e dell'umana che li accompagnava, in mezzo al gruppo, la pistola caricata stretta in mano e pronta a colpire.

"Quindi questi stronzi stanno scaricando roba parecchio malata, ai piani alti ci stanno dentro fino al collo in mezzo a tutta questa merda... e ci sguazzano alla grande" sbottò, la voce soffocata dalla mascherina di stoffa che cercava di attutire almeno un poco il fetore dei bassifondi. "E ci sta gente che li vota."

"Mostri da tutte le parti. Usciranno dalle fottute pareti e noi saremo pronti a prenderli a calci in culo" le fece eco la volpe dalla maschera di Okame, ghignando per la sua pessima citazione.

Un sospiro si levò dall'aprifila, mentre sollevava gli occhi al soffitto: "Linguaggio, per favore."

Tuttavia, appena le fauci si chiusero su quelle parole, un'esplosione accompagnata da una sequela di turpiloquio ben peggiore di quanto era riuscito a zittire si levò qualche metro più avanti.

Una sola occhiata preoccupata fece scattare l'intero gruppo in una corsa verso l'origine del frastuono, dove le grida inumane delle mostruositá sotto il cemento avevano iniziato a riempire l'aria.

Aki era ruzzolata malamente a terra nel suo lanciarsi contro il primo essere che le era capitato a tiro, riuscendo a staccarne la testa con un colpo ben assestato per poi venire scaraventata dalla parte opposta da un altro fin troppo simile e orripilante, viscido e melmoso come solo chi aveva preso dimora di quei bassifondi poteva essere.

Mentre cercava di rialzarsi, ripulendosi il muso dalla sporcizia che le si era riversata addosso, si ritrovò davanti quello scalcagnato insieme di pelo arancione e maschere da fumetto. Non ebbe il tempo di poter dire qualcosa che in un battito di ciglia il mondo attorno a lei tornò un campo di battaglia dove i fulmini rimbalzavano sulle pareti, elettrizzando e carbonizzando all'istante, mentre gli artigli fendevano squame e muscoli senza pietà, gli strilli di dolore e rabbia che rimbombavano tra gli stretti cunicoli.

Si ritrovò a sua volta a imitare quegli strani esseri, così simili a lei ma al tempo stesso così spaventosi dietro i loro musi senza espressione: Nida glielo aveva detto, erano il gruppo di volpi corrotto dal Male che-

Improvvisamente si rese conto di come avesse lo avesse perso di vista nella foga del combattimento, tra i miserabili che avevano incrociatoi poco dopo una curva oltre l'ingresso delle fognature. Si guardò attorno, il fiato corto e lo scalpicciare della ritirata che risuonava nelle orecchie, ignorando i cenni curiosi delle altre volpi comparse improvvisamente accanto a lei.

"K-Kozaki?" mormorò appena, cercandolo con lo sguardo.

Prima che potesse aggiungere altro tuttavia un boato rispose alla sua domanda, facendola fare un balzo e lasciando sfuggire una risatina sommessa da sotto le maschere immobili.

"NIDA KOZAKI SEI UN MALEDETTO STRONZO!!!"

Una donna entrò nella sua visuale, la pistola in pugno puntata su Nida, che camminava all'indietro, le mani appena sollevate, infilando un passo dopo l'altro come se stesse avanzando su una corda stesa, dandole le spalle.

"Che ci fai qui sotto? Che ci fai qui sotto con la bambina?!" incalzò quella, digrignando i denti e facendo temere a Aki che si sarebbe trasformata anche lei, di lì a poco. "Non me ne frega un cazzo se hai i permessi dei topi o no, sei sceso qui e te la sei portata dietro in uno schifoso covo di bakemono!"

Lo vide fare le spallucce, voltando per un attimo la testa verso di lei e rivolgendole quel sorrisetto di sufficienza che aveva imparato a conoscere, per poi tornare all'arma che lo stava minacciando a poca distanza.

"Sta benissimo, come puoi constatare anche tu: siete così sentimentali voialtri Kin" la rimbeccò con un sospiro, lasciando cadere le braccia. "Non è bello andarsene in giro con tutto quell'argento addosso e puntarlo contro uno di noi: che succederebbe se sbagliassi mira?"

Allargò le narici, aggrottando la fronte, saldando la presa, mentre le altre volpi avevano iniziato a muoversi nervosamente, avvicinandosi lentamente alla donna che non le degnava di uno sguardo.

"Io non sbaglio mai mira, Kozaki."

Ridacchiò appena, senza staccare gli occhi dalla canna rivolta contro di lui: "Scommetto che non vedi l'ora di sparare, Yōcchan."

"Non farmi innervosire più di quanto non sia."

"Ti sto solo dando un buon consiglio" la rimbeccò. "Sarebbe un vero peccato se-"

"Stattene zitto" lo interruppe a sua volta, stringendo le dita sul grilletto. "Altrimenti ti metto a tacere definitivamente."

"Allora fai quello che vuoi, Yōcchan..." sbuffò in un risolino di scherno, gesticolando con noncuranza. "Chi sono io per fermarti?"

Accadde in un battito di ciglia. Il colpo lasciò l'arma con uno scoppio sordo, fendendo l'aria stantia, mancando Nida e continuando la sua corsa, centrando l'improbabile bersaglio fuori da ogni linea di fuoco di quei sotterranei.

La pallottola prese Aki alla spalla, sbalzandola all'indietro contro la parete marcita e vischiosa. Non riuscì a trattenere un grido di sorpresa a quel bruciore insopportabile che improvvisamente si irradiò in una fibra del suo essere, il calore dell'argento come un fuoco che le bruciava addosso, spezzandole il fiato.

Nessuno le aveva mai sparato in tutta la sua breve esistenza, lo aveva visto solo fare nei polizieschi alla televisione - era roba da gang e sbirri - e in quel momento si accorse come facesse davvero maledettamente male.

Si portò incredula una mano alla ferita sanguinante, dove il bossolo si era fermato, cercando inutilmente di strapparselo dalla carne.

Alzò il capo sporco e bagnato, ammutolita dal dolore, verso la donna che a sua volta era esplosa in urla isteriche, la canna fumante fatta cadere a terra e le volpi attorno, nel tentativo di fermarla dalla furia che cercava di scatenare contro il Kitsune che continuava a restare immobile a pochi passi da lei.

"MI HAI FATTO COLPIRE LA BAMBINA!!!" strillò, cercando di divincolarsi dalla stretta in cui l'avevano bloccata, il volto paonazzo e le lacrime di rabbia agli occhi. "LA VUOI AMMAZZARE, SCHIFOSO BASTARDO!!!"

"Te l'avevo detto che dovevi abbassare la pistola" commentò piatto, voltandole le spalle per poi rivolgersi al gruppo in un saluto minaccioso. "Se questa storia si venisse a sapere fuori da queste fogne avreste qualche problemino voialtri."

Le maschere annuirono appena, mormorando tra di loro qualcosa di intelligibile, ignorando i lamenti e le proteste che si levarono a quelle parole. Lentamente iniziarono a defilarsi, confondendosi con le ombre che regnavano in quei cunicoli maleodoranti, lasciando Aki e Nida soli.

"Spero che per un po' la smettano di intralciarci" sbuffò, lanciando un'occhiata dietro di lui per poi avvicinarsi a dove Aki era rimasta a guardare quello scambio senza riuscire a muovere un muscolo, ammutolita e intorpidita dal dolore.

Deglutì rumorosamente quando si abbassò su di lei, un sopracciglio alzato e le labbra strette in una linea.

"Fa malissimo" sussurrò a mezza voce, indicando la pallottola. "Non riesco a toglierla da sola e credo di star seriamente per morire, Kozaki."

Quella frase parve smuovere qualcosa dentro, facendogli scuotere la testa mentre un sorrisetto divertito gli si allungava sul volto imbrattato di sudore e sporcizia: "Non morirai e probabilmente in futuro ne beccherai altre di queste. Ma possiamo togliere la tua prima pallottola d'argento, e magari tenerla sul comodino: ci sono tizi fuori di testa che le collezionano, lo sai?"

Accettò di prendere la mano che Nida le tendeva, rialzandosi a fatica e appoggiandosi a lui senza riuscire a trattenere una smorfia di dolore.

"Voglio buttarla il più lontano possibile da me" mugugnò a denti stretti, mentre guadagnavano l'uscita.


*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

Non vedevo l'ora di poter riportare sulla carta il quartetto di volpi (più uno). Posso dire che il personaggio di Yōcchan è il mio preferito? Di solito si dovrebbe propendere per il / la protagonista, ma nel mio caso mi diverto tantissimo a scriverla. 

Scusate per la caterva di parolacce, ma come avrete capito non è esattamente un personaggio silenzioso :D

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 10
*** Good for you, her Father is the Dead one ***


"E poi l'ho baciato. Gli ho dichiarato amore eterno e mi sono fregata con le mie mani. Perché avevo sedici anni ed ero profondamente idiota" concluse Aki, stringendosi nella stoffa imbottita e soffocando uno starnuto.

"Seriamente? Amore eterno?"

Lanciò un'occhiata storta sopra la sua spalla in direzione di Alan, ringhiando sommessamente all'espressione quasi divertita che si era dipinta sulla faccia di quello che da qualche tempo a quella parte era diventato il suo Kin, il suo umanissimo cavaliere in guisa di cuoco armato di coltello da verdure.

"Non avrai i particolari. È imbarazzante, stucchevole e sono affaracci miei."

Soffiò col naso alle sue stesse parole, mordendosi rabbiosa le labbra. Rimase in silenzio per qualche lungo secondo, fissando un punto sul tavolo sotto cui aveva infilato le gambe, finché le parole di Alan non la scossero di nuovo.

"Chi erano quei quattro? Le kitsune mascherate: ora che ci penso non lo ho più viste da allora in giro, nemmeno al locale" mormorò pensieroso, lasciando cadere il discorso su Nida, tamburellando con le dita sulla casacca morbida che la copriva. "La donna poi, questa Yōcchan che ti ha infilato un proiettile nelle spalla è davvero pericolosa."

"Fa un male fottuto l'argento" borbottò Aki, ignorando la domanda per poi sfiorarsi la spalla colpita in un gesto automatico. Alzò gli occhi verso Ada, immobile nella sua posizione, la tazza di tè vuota tra le mani e un'espressione indecifrabile in volto.

Questa raddrizzò la schiena nel scoprirsi osservata, nascondendo un colpetto di tosse mentre si distoglieva dai suoi pensieri e tornava ai due ragazzi seduti accanto a lei, forse fingendo nuovamente di non notare come sua figlio fosse praticamente avviluppato alla volpe di famiglia.

"Allora eri impegnato con l'apprendistato al ristorante del signor Deng, abbiamo preferito non coinvolgerti troppo nei-" si interruppe, cercando la parola che sembrava sfuggirle e che Aki non ebbe remore di aggiungere al posto suo.

"Casini."

Alan lasciò andare un fischio, prendendo un respiro e voltandosi lentamente in direzione di sua madre: "Posso avere un riassunto?"

"Oh, te lo posso dare io il riassunto, rubacuori. E via quelle manacce dalla mia bambina se non vuoi che ti ficco un bell'argento in corpo anche a te. Di mia volontà e senza trucchetti, stavolta."

Quella battuta lo fece saltare sul suo posto, battendo le ginocchia contro il legno e strappandogli un gemito di dolore.

Sollevò lo sguardo verso la donna dai capelli corvini malamente raccolti che, spalancando la porta all'improvviso alle sue spalle, si sedette dall'altro lato del tavolino, non senza aver arruffato la testa di Aki e aver mugugnato qualcosa in direzione di sua madre.

"E quindi sei tu il suo nuovo Kin" strizzò questa gli occhi in una smorfia, ripetendo le parole che erano risuonate poco prima al piano inferiore, mentre un sorriso gelido le si allargava sul volto smagrito. "Quel Kozaki non vedrà l'ora di ammazzarti con le sue zampe, buona fortuna."

L'occhiata confusa che Alan le rivolse le strappò un'inaspettata risata, gettando indietro la testa per poi rivolgere un cenno alla ragazza che teneva ancora stretta a sé, sistemandosi i capelli dietro alle orecchie.

"Direi che ti serve un riassunto" annuì, appoggiandosi al bordo. "Cominciamo dalle presentazioni - spicce - così ti rispondo velocemente a un paio di cosette in cui una certa volpina non c'entra nulla."

Allungò le dita verso la tazza di Aki, ingollando un sorso del tè ormai raffreddato e storcendo il naso a quella spiacevole scoperta. Incrociò le gambe, drizzò la schiena ed estrasse la pistola dalla fondina.

"Yōko Inari, Polizia di Hillside. Dipartimento Crimine Organizzato, Unità Investigativa Generale" ghignò, rivolgendo un'occhiata ad Ada che alzò gli occhi al soffitto. "Mamma di Aki."

Rimase a fissarlo, le labbra che si stiravano in una linea divertita mentre quella rivelazione si dipanava nei pensieri del ragazzo di fronte a lei. Poteva quasi vedere le lampadine accendersi lentamente nella sua testa.

"MAMMA...?!" balbettò, strabuzzando gli occhi e puntandole un indice addosso. "MA TU SEI MORTA!"

Alzò un sopracciglio, appoggiandosi al tavolino e spostando per un attimo lo sguardo su Ada.

"Sei fortunato, il padre é quello crepato e non ritengo l'essere considerata tale un'offesa personale." Tamburellò sul cane della pistola, arricciando il naso e tornando poi a parlare. "Dunque, sei arrivato al punto in cui quel pollo-di-mia-figlia decide di dichiarare amore eterno a quel bastardo di Kozaki-"

Aki borbottò qualcosa tra i denti, facendole rivolgere un'occhiata in tralice dalla donna davanti a lei.

"Che aveva in serbo una bella sorpresina per il suo primo anno come Kitsune, con i complimenti di tutta la sua famigliola completamente fuori di testa."

Rimase in silenzio per un attimo, quasi soppesando le parole che sarebbero seguite.

"Lo sai, caro il mio rubacuori, che se decidi fare il tuo dovere con la mia bambina sarai proprio tu a rimetterci le penne? E non perché ti ho piantato una pallottola in fronte."

Alan avvampó a quella battuta inaspettata, allentando appena la presa dalla casacca in cui Aki era avvolta. Boccheggió in direzione di sua madre, sperando in un aiuto, ma ottenne solo uno sguardo di assenso.

"Lo sa" affermó Ada lasciando andare un sospiro. "Siamo Kin, viviamo per questo."

Yōko ghignò senza ritegno, annuendo a sua volta e tornando a fissare i due ragazzi dall'altra parte del tavolino.

"E questo vale anche per certe volpine, specie se quello che ha deciso di fare una bella kitsune con lei ha un buon centinaio di anni in più e nove su dieci non sarà lui a crepare malissimo" prese fiato, piegando le labbra verso il basso. "Vivete e moltiplicatevi per il bene della Madre Terra, che stronzata assurda."

"Yōko." La voce di Ada la interruppe, mentre le rivolgeva uno sguardo duro. "É così che funziona."

Per tutta risposta tornò a giocherellare con la pistola, facendola ruotare sul legno.

"La roulette russa, ecco cos'é: altro che Fato o Fortuna, é tutto un gran azzardo e le volpi ci vanno a nozze con questo genere di cose" sbuffò, sollevando una ciocca corvina che iniziava a striarsi d'argento. "Anche suo padre é morto così."

"Credevo che le kitsune sopravvivessero sempre" mormorò Alan dal suo angolino, arrossendo all'occhiata che gli venne rivolta.

"Eravamo usciti da un bel casino io, Akira e i bakamon del suo sentai: li hai conosciuti anche tu, quattro kitsune mascherate da cartone animato" continuò, mordicchiandosi una guancia e spostando gli occhi oltre la finestra. "Non chiedetemi quale casino, non è affaraccio vostro, vi basti sapere che anche se ce ne tirammo fuori non eravamo proprio puliti."

"Corruzione."

L'affermazione di Aki le fece distogliere l'attenzione dal vetro, fissandola in silenzio per un lungo attimo.

"Grazie per dire ad alta voce certe cose: ed ecco perché Kozaki deve tenere la sua boccaccia chiusa invece di spiattellare la sua versione dei fatti e riempire la gente di informazioni a metà" sorrise freddamente, ficcando un'unghia nel legno levigato e trattenendo un gemito di dolore. "Comunque è corretto, almeno questo: eravamo ridotti così male che neanche una lunga serie di rituali e purificazioni ci sarebbero bastati per vomitare quello che avevamo dentro."

Strinse le dita nel palmo, sbattendo i denti tra loro al ricordo.

"Kinuta-sensei sapeva che allora ero incinta di Aki e si portò dietro un certo suo giovane apprendista per aiutarmi mentre le altre Kitsune cercavano di salvare il resto del gruppo: ci nascosero in piena vista, nel più grosso ospedale della città, dove una volpe poteva ricevere tutte le cure umane di cui aveva bisogno e al contempo quello che sarebbe servito sul piano spirituale."

Si fermò per un lungo istante, soffiando col naso per poi ricominciare. "Era un piano perfetto; finché non arrivò la notte in cui nacque la mia bambina."
 


*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

no, non scriverò quella scena. Come detto, è "stucchevole, imbarazzante e un sacco di altro bla bla bla". Per cui lascio all'immaginazione ;)

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 11
*** Bet your Life ***


Il caffè del distributore automatico mancava di zucchero nonostante avesse selezionato l'opzione più abbondante. Persino il latte condensato sembrava essere agli sgoccioli, lasciandogli un disgustoso retrogusto amaro sulla lingua.

Mentre rimuginava sulla possibilità di rovesciare il bicchierino nel lavandino accanto a lui, un gemito flebile si levò dal letto che gli era stato ordinato di piantonare a vista.

"Ehi, Yōcchan come sta?"

Akira Ross gli dava sui nervi più del caffè amaro e bruciato che teneva in mano.

La considerazione che Nida Kozaki aveva di lui si poteva infatti riassumere in poche e semplici parole: un rompicoglioni patentato e maledettamente fortunato.

Lanciò un'occhiata oltre le sue spalle, dove dietro alla porta chiusa si trovava Yōko Inari, la Kin sboccata e armata di argento a pallettoni probabilmente anche sotto il cuscino d'ospedale.

"Non ne ho idea" commentò piatto, rigirando il fondo nel bicchierino. "Kinuta-hakase é con lei."

Sul volto affilato e pallido di Akira si taglió un sorriso sbilenco e beffardo mentre lasciava andare un sospiro pesante: "Sei un pessimo medico, Kozaki, non te l'ha mai detto nessuno?" sentenziò socchiudendo per un attimo le palpebre. "Di là sta per nascere la mia bambina e tutto quello che sai dire é che non ne hai idea. Grazie tante."

Fece le spallucce, sistemandosi il camice intonso e tornando a rivolgere l'attenzione al caffè.

"É per lei che sei qui?"

La domanda gli arrivò come un soffio alle orecchie, costringendolo a sollevare gli occhi verso l'uomo smagrito dai capelli arruffati, infagottato tra le lenzuola anonime dell'ospedale. Rimase in silenzio senza rispondere, aspettando le sue prossime parole.

"Per gli spiriti, sto morendo, non farmi sprecare più fiato di quello che mi resta" borbottò Akira, alzando gli occhi al soffitto per poi tornare su di lui. "Anche se mi dirai di sí, saró morto stecchito prima di spifferarlo a qualcuno."

Nida volse per un attimo di nuovo il capo alla porta chiusa, aggrottando la fronte.

"Avevo una fidanzata kitsune che era un gran pezzo di figliola, prima di trovare Yōcchan" continuò l'altro, ignorando il suo mutismo. "Stavamo pensando di fare una bella volpina da lì a qualche anno - o un umano carino. Lo sai meglio di me, il Fato ama giocare ai dadi."

Incrociò le braccia al petto, invitandolo a continuare: "Non ti facevo tipo da purosangue."

"Certi lupi si fanno un sacco di problemi per queste questioni, noi al massimo-" si indicò con un gesto di scherno "Crepiamo malissimo, proprio come il sottoscritto."

Scosse appena il capo, fissandolo: "Sarà la tua umana a morire, funziona così. Muore il più debole."

Akira allungò la linea delle labbra da orecchio a orecchio: "Tra i due adesso, sono io il più debole. Ho fatto un patto con il vecchio Kinuta" schioccó la lingua. "E non chiamare Yōcchan umana. É una Kin: se ti sentisse ti impallinerebbe anche dal suo letto."

"Non puoi decidere tu chi morirà tra voi: é il Fato a stabilirlo" borbottò, ignorando la frecciatina che confermava la sua personalissima idea su quella tizia boriosa rimpinzata d'argento.

"Siamo kitsune, Fato o Destino che sia possiamo pur sempre truccare i dadi - e la tua famiglia ne sa qualcosa, no?" sentenziò con una risatina sommessa, che si trasformò in un gemito di dolore. "Comunque, come ti dicevo, avevo questa fidanzatina molto foxy con qualche coda niente male e avevamo due - tre progettini tra cui fare quelle cose divertenti da conigli. No pare, yes party."

Nida sbuffò, alzando un sopracciglio e cercando di tenere a freno la lingua.

"Guarda che é colpa della tua famiglia se la storia ti é noiosa!" esclamò in un colpo di tosse. "Proprio come puoi immaginare, è arrivato un Kozaki belloccio e me l'ha soffiata da sotto il naso. Non ero abbastanza per lei, ci doveva pensare sopra e intanto quel tizio me l'ha portata via. Finisce sempre così con voialtri."

Strinse le labbra in una linea senza espressione, mordicchiandosi una guancia: "Cosa vorresti dire?"

"Le volpine, Kozaki. Alle poche che ci sono in giro - fammi trovare la parola giusta - vi mettete alle calcagna non appena diventano abbastanza grandi per-" soppesò le parole, arricciando il naso. "Quello che sta facendo Yōcchan oltre quella porta. E quello che fa di solito quando se ne va in giro con il grilletto pronto."

Cercò di nascondere il fremito che gli aveva smosso la fronte, continuando a fissarlo negli occhi: "Non capisco di cosa parli" replicò basso.

"Vuoi la storia breve?" sospirò lasciando andare un fischio, come se ogni nuova parola gli stesse risucchiando i polmoni.

Annuì appena, tamburellando sulle braccia conserte: "Sì. Fammi la pietà di evitarmi le tue solite spacconate, Ross."

Akira ricambió il suo sguardo, mentre la sua espressione cambiava da quella beffarda che aveva perennemente stampata in volto, anche sul suo letto di morte.

"Avete un piano voi Kozaki. Siete tutti purosangue dal primo all'ultimo: non può essere una coincidenza" sentenziò lentamente, un'ombra scura sugli occhi. "Che i purosangue abbiano parecchie marce in più contro il Male lo sappiamo tutti, ma mettersi a fare apposta-"

"Che problema c'é? Warui na no?" lo interruppe con uno sbotto, la mascella contratta e i denti che scricchiolavano. "Eravamo esattamente così una volta: niente umani di mezzo. E allora stavamo vincendo alla grande, poi qualcuno si é messo a pensare troppo e abbiamo iniziato ad annacquarci con loro. Proprio come fanno certi lupi, che aborriscono l'idea di mantenere la loro linea pura: se ci sta qualcosa di sbagliato, non siamo noi."

Aprí la bocca come per dire qualcosa ma si fermò, restando per un lungo momento a guardare il giovane kitsune che aveva appena finito di parlare.

"Non ce la farai. Potrai starle alle costole per mille anni ma la mia bambina ti sfuggirá sempre" sentenziò infine, sollevando le labbra in un sorrisetto divertito. "Non sarà come le altre volpine con cui avete avuto a che fare voialtri: sarà tosta, proprio come sua madre."

"È la tua ultima scommessa?"

Annuì appena, mentre uno spasmo gli attraversava le ossa e attorcigliava per un attimo la lingua: "E io vinco sempre, Kozaki."

Queste furono le ultime parole di Akira Ross, il fondatore della cricca degli Urusai Yatsura, scapestrato compagno della Kin Yōko Inari e da qualche secondo a quella parte, padre di una scalciante kitsune.

Nida camminava in silenzio lungo il corridoio, alle spalle di Kinuta-hakase che teneva la bambina appena nata tra le braccia, mormorando qualcosa a bassa voce.

Sentiva ancora nelle orecchie le grida e strilli della combriccola che si era radunata, saltando fuori dai propri letti, attorno all'ormai defunto caposquadra: aveva preso l'occasione per potersi liberare di quel caffè orribilmente amaro e intrufolarsi nella stanza a dirimpetto, dove aveva potuto finalmente vedere l'oggetto del suo viaggio fino alla città.

"Posso tenerla anch'io?" allungò il collo verso l'ometto dai baffetti argentati che lo precedeva, intento ad adagiarla in uno dei tanti anonimi lettini della nursery. "Per suo padre. Lo avrebbe voluto anche lui."

Lo squadrò senza dire nulla, porgendogliela con un gesto lento, continuando a osservarlo dietro gli occhialini.

"Ho convocato la sua Kin. Per adesso le diremo che entrambi i genitori non ce l'hanno fatta: Yōcchan ha bisogno di riposare, riprendersi e soprattutto guarire - per quanto possibile" esordì, sistemandosi la montatura sul naso. "Arriverà il momento in cui si ritroveranno, ma fino ad allora la bambina starà con i suoi parenti più stretti e poi cercheremo di combinare con i Kisaragi per prendersi cura di lei quando arriverà il momento."

Non riuscì a trattenere una smorfia, l'angolo delle labbra che si storceva: "Tanto meglio essere noi a crescerla" azzardò a denti stretti. "Certi Kin sono dei buoni a nulla, peggio che peggio i cosiddetti parenti stretti: sono umani, la rovinerebbero."

Gli rivolse uno sguardo duro, assottigliando le palpebre: "Non ho chiesto la tua opinione, nipote. È stato deciso così."

Abbassò lo sguardo sulla neonata che teneva tra le mani: "Spero che nelle vostre decisioni non ci sia anche quella di combinare anche altro-"

"Non è cosa che ti riguarda: se cerchi una fidanzata puoi benissimo guardarti in giro" lo interruppe secco, indicando la culla.

Stirò la bocca in un taglio dritto, cercando di contenere la rabbia che sembrava mangiargli il cuore mentre adagiava Aki sul materassino: nella sua famiglia non cercavano fidanzate qualsiasi e quella piccola kitsune era la prima dopo decine di anni e migliaia di chilometri.

Si allontanò lentamente lungo il corridoio vuoto, mentre alle sue spalle risuonava lo scalpiccio affannato della Kin che Kinuta-hakase aveva richiamato per spiattellare la sua ennesima bugia. Nida rimase per un attimo a osservare la donnetta che si affrettava sulle gambe magre, un'umana banale e debole come tante altre della sue specie che avrebbe reso quella bambina proprio come lei, magari cercando addirittura di farla innamorare di uno scialbo ragazzino qualunque.

In quel momento, un pensiero gli solleticò il naso, strappandogli un ghigno divertito che il finestrone davanti a lui rifletté sinistro nelle luci della sera: Akira Ross amava giocare e lo aveva sfidato.

Prova a prendere mia figlia, ecco cosa gli aveva voluto dire con le sue ultime parole, mentre rivelava parte di quel piccolo segretuccio di famiglia che fino ad allora nessun'altra kitsune era stata abbastanza intelligente da azzeccare e avere la stupidità di declamare ad alta voce.

Ridacchiò a denti stretti, l'adrenalina che aveva improvvisamente iniziato a pompare nelle vene: aveva abbastanza tempo per godersi tutto il gioco fino al giorno in cui avrebbe vinto la sua scommessa e onorato la sua famiglia. Sarebbe stato divertente vederla crescere e riuscire ad avvicinarsi a lei, passo dopo passo, sotto gli stessi sguardi dei suoi miserabili umani.

"Speriamo sia anche carina" sospirò, schioccando la lingua. "Anche l'occhio vuole la sua parte."


*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

In questa storia ci sono troppi flashback. Ma volevo assolutamente scrivere almeno un capitoletto con questo povero personaggio di cui se ne parla spesso (e pure male) e non lo si vede mai in faccia. 

Spero di essere riuscita a spiegare un poco meglio la "questione Kozaki", tuttavia devo ammettere che anche non essendo proprio complessa non è facile da mettere nero su bianco senza lasciarsi andare allo spiegone - e io odio gli spiegoni.

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 12
*** Happy Birthday, Stri~pes ***


"Chi è. O chi sono. Voglio una risposta."

Ada sedeva dall'altro lato del tavolino, sorbendo il tè che aveva nella tazza. Guardava Aki oltre il bordo, gli occhi scuri contornati di rughette fissi su di lei, quasi a non volersi perdere un fremito, una bugia nascosta in un battito di ciglia.

"Cosa" ribatté laconica, tamburellando con le dita sul bordo. "Sei vaga, come sempre."

Appoggiò la ceramica sul piattino, drizzando la schiena e lasciando andare un sospiro. Stava diventando sempre più difficile stare al passo con quelli come lei, lupi o volpi che fossero: pensò a come probabilmente fosse l'età, oppure l'averne viste troppe in quegli anni, con un piede tra i due mondi in cui la sua famiglia si muoveva da generazioni.

"Qualche mese prima del tuo cambiamento hai incontrato qualcuno e so per certo come non sia solo un amico, ma soprattutto non sia solo un comune essere umano" abbozzò, la voce che si mescolava al brusio della caffetteria in cui l'aveva portata apposta, lontano da un certo paio di orecchie indiscrete. "Shitte'ru dake desu yo. Lo so. Punto. Sono una tua Kin e sono parecchio più vecchia di te, qualche cosetta l'ho imparata."

Aki strinse le labbra alle sue parole, a sentirsi quasi leggere nella testa e nel cuore dalla persona davanti a lei. Arricciò il naso, sollevando l'angolo della bocca in una smorfia.

"Sono affaracci miei" commentò seccamente, proprio come aveva fatto solo una manciata di mesi prima alla medesima domanda.

"Sono anche miei" sospirò, alzando gli occhi al soffitto per un breve attimo, stringendo la tazza tra le dita. "Fai parte della nostra famiglia, e hai delle responsabilità. Niente storie, niente risse e niente segreti, intese?"

Incrociò le braccia al petto, rivolgendole uno sguardo beffardo: "Dovresti fare lo stesso, specie per l'ultima parte."

"Prima del tuo cambiamento era diverso, avrei potuto spaventarti, e come ho detto le cose hanno sempre funzionato così. Quindi te lo chiedo di nuovo, per l'ultima volta, chi è."

Scosse la testa, risoluta: "Nessuno. Vedi cose che non esistono."

Lasciò andare un risolino amaro: "Questo lo so benissimo, ma stiamo parlando di qualcuno di reale. In carne ed ossa. Di cui-" soppesò le parole, prendendo un respiro profondo "ti sei innamorata?"

Sobbalzò sul divanetto, scoprendosi ad arrossire violentemente a quella domanda inaspettata, mentre i ricordi le affollavano all'improvviso la mente facendola annaspare.

In fondo, non c'era niente di cui vergognarsi se aveva baciato Nida Kozaki dopo che questo l'aveva liberata da quel proiettile d'argento maledetto che le faceva urlare ogni muscolo: che poi le cose si fossero parecchio evolute era - per quanto possibile ammetterlo in quel mondo di mutaforma - normale.

"Che problema ci sarebbe?" borbottò senza rispondere e fissando torva Ada dal suo lato del tavolino. "Anche tuo figlio esce con una tipa diversa ogni giorno libero ma non credo che nessuno gli abbia mai fatto il terzo grado per-"

"Farsela con qualcuno?" completò la frase, tossicchiando d'imbarazzo e abbassando appena la voce. "Certamente. Ma stiamo parlando di te, Aki, la tua situazione è più complicata. O meglio, per voi kitsune in generale."

"Io non-" si interruppe, la lingua incapace di trovare le parole. "Sono affari miei. Punto."

"No. Ci sono delle regole in questo gioco, ojousan, e non sei tu a deciderle. Lo sai cosa significa innamorarsi per qualcuno come te di qualcuno come te? Non è proibito, di questo non devi preoccuparti - per fortuna - ma le conseguenze sono forse peggiori e tu ne sei una prova vivente, Aki."

Rimase in silenzio a guardarla senza aggiungere altro, mordendosi le labbra che sentiva tremarle per la rabbia.

"Si muore. Shinu yo." sentenziò in un soffio, abbassando le spalle. "Che sia Kin o sia kitsune, il più debole dei due morirà quando arriverà il momento di mettere al mondo una bella volpina."

Sbattè le mani sul legno lucido, saltando in piedi e sporgendosi in direzione di Ada, che a sua volta si ritrasse sullo schienale. Ignorò le numerose paia d'occhi che si rivolsero nella loro direzione, ricacciando a forza le lacrime e cercando di trattenere il fremito che sentiva in gola.

"Non dare la colpa a me. Non è stata colpa mia se i miei sono morti" rantolò, deglutendo a fatica. "Mi sono innamorata, te lo concedo, e so benissimo badare a me stessa a differenza di voi umani."

"Kozaki. Nida Kozaki" sillabò lentamente la donna senza lasciare il suo sguardo. "Gli Urusai Yatsura allora non mentivano. Dobbiamo parlare, Aki."

Non le prestò attenzione e si staccò dal tavolino, voltandole la schiena e incamminandosi a larghe falcate fuori dal locale, indifferente al richiamo che le arrivava alle orecchie. Iniziò a camminare in direzione della metropolitana più vicina, incurante della pioggia che punteggiava il cemento a ogni passo.

Era trascorso esattamente un anno da quanto era diventata una kitsune e il suo mondo sembrava aver pian piano recuperato senso. C'erano gli uomini e gli spiriti, c'erano i mostri annidati nelle fognature - con i quali aveva un conto in sospeso - e c'era il Tampopo.

Aveva sperato che quell'invito fosse l'occasione buona per finire i tanti discorsi che aveva lasciato a metà con Ada, ma si era sbagliata. Inoltre, sembrava che tutti si fossero dimenticati di che giorno fosse quello, che Aki aveva appuntato in un angolino del suo cuore come forse il momento più spaventoso e imbarazzante della sua corta esistenza, ma anche il suo personalissimo compleanno.

Alla fine doveva ammetterlo a se stessa: probabilmente lei non era per nulla speciale come si era immaginata di essere, almeno per la maggior parte delle Kitsune di sua conoscenza.

"E invece sei importante per me, Stripes."

La voce di Nida la distolse dai suoi pensieri, accoccolata alla finestra dell'open space dove viveva, proprio sopra la palestra di mattoni rossi all'ultima stazione della metropolitana. Le piaceva sgattaiolare e rintanarsi lì ogni tanto, quando riusciva finalmente a liberarsi della presenza di Kinuta-sensei o delle consegne per il locale. Non era esattamente qualcosa di definibile come familiare, ma c'era un pezzetto di lei appeso a una parete: il primo proiettile che le si era infilato nella carne e che aveva sputato fuori.

Sospirò, appannando il vetro con un soffio e riempendolo di ditate dispettose, raggomitolandosi ancora di più.

"Io non me lo sono dimenticato, sai?" si avvicinò a lei, sedendosi accanto e avvolgendole un braccio attorno alle spalle, traendola a sè. "O-tanjoubi. Il tuo compleanno."

Soffiò con il naso, storcendo gli angoli della bocca in una smorfia triste: "Credevo che anche loro se lo ricordassero. Insomma, c'erano anche loro con me."

"Sono umani, Kin che siano, restano pur sempre umani e limitati in quello che sono in grado di fare" commentò piatto, cercando di dissimulare il moto di soddisfazione che gli si stava allargando nel petto, un gongolare sordo che bloccò in gola.

Nida affondò il capo tra i capelli scompigliati e ancora odorosi di pioggia e umidità della ragazzina che teneva stretta a lui, sorridendo tra i denti, invisibile al riflesso che la finestra ritornava.

Non era solo la soddisfazione di pomiciare un po' e poi rotolarsi tra le lenzuola, di quello non se ne erano mai fatti un problema - anzi, aveva ancora il suo sapore sulla punta della lingua - quanto di come tutti i tasselli che aveva preparato si fossero incastrati alla perfezione.

Respirò a fondo contro l'incavo morbido del suo collo, lasciando andare un sospiro: tanto tempo prima aveva sperato che fosse almeno carina e nonostante quella presenza umana nel suo sangue, aveva superato le sue più rosee aspettative. Era pure combattiva, sinceramente testarda, e questo non poteva che dare ulteriore adito alla sua attesa.

Per essere l'unica kitsune in migliaia di chilometri e decine d'anni, era perfetta per quello che avrebbe dovuto fare.

"Perché ce l'hanno tutti con te, Nida?"

La domanda di Aki lo distrasse, costringendolo a staccarsi da lei e ritrovare il suo sguardo pensieroso ancora fisso alla finestra.

"Il gruppo che prima mi ha portata via al cantiere e poi abbiamo ritrovato nelle fogne. Quella Yōcchan" continuò, un borbottio basso appena udibile. "Anche Ada."

"Non mi interessa cosa pensa un umano di me - o della mia famiglia" replicò accigliato, stringendo le labbra in una linea. "Non starli ad ascoltare. Non hanno capito un accidenti."

Chinò il capo sul collo, mormorando a mezza voce: "Ho paura che se tornassi al Tampopo potrebbero impedirmi di vederti ancora."

Nida si irrigidì nella sua posizione a quelle parole, mentre un sentore di bile gli attanaglió inaspettatamente lo stomaco: non aveva mai davvero pensato a una simile possibilità; specialmente in quel momento, quando era così vicino a vincere la sua scommessa e tenere fede al suo dovere.

Akira Ross non aveva avuto il tempo materiale di spiattellare le sue teorie, ma se l'onnipresente Ada sospettava qualcosa di più del fidanzatino misterioso, quello avrebbe potuto rivelarsi un improvviso e poco gradito problema.

Cercò di nascondere l'ombra livida che era calata su di lui, squadrando Aki in silenzio, studiandone quel miscuglio di rabbia e sconforto che il vetro rifletteva, proprio come l'aveva spesso incrociata tra i corridoi di quella scuola di serie B: fiera e spaventata della sua stessa solitudine, si era rivelata la sua debolezza che l'aveva portata a fidarsi di lui, ma soprattutto, a innamorarsi di lui.

Aki si stringeva tra le sue braccia, nonostante la maledizione che quello spaccone di suo padre aveva impartito dal suo letto di morte e le minacce che quella bulla di sua madre aveva gridato ai quattro venti.

"Mi ami?" sussurrò contro il suo orecchio, accarezzandole i capelli che le spiovevano sulle spalle, invitandola a sè. Sfregò il naso contro il suo, avvicinando le labbra e sfiorandola dolcemente, beandosi del cuore che sentiva fluttuare sotto l'ingombrante maglia che la copriva. Sorrise in quel bacio, indugiando su quella bocca morbida, la lingua ruvida che lambiva languida la sua.

Ora era finalmente il momento di agire, prendersi la vittoria ai dadi che avevano rotolato per troppo tempo. Un po' gli dispiaceva interrompere quel gioco, ma il dovere chiamava.

"Ho aspettato da quando sei nata, Stri~pes."

Le parole gli corsero nella gola in un soffio, mentre gli artigli si infilavano nella stoffa, perforando e affondando nella carne.

Il morso che le ruppe il labbro impedì a Aki di gridare al dolore rugginoso e caldo che improvviso e inaspettato si diffuse in ogni fibra del suo essere, mentre incontrava lo sguardo indecifrabile di Nida su di lei, il volto distorto in un ghigno sornione costellato di zanne.

"O-tanjoubi omedetou. Buon compleanno, amore mio."

*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

Fissa il rate di EFP. Ho dovuto mettere in "per adulti" solo per questa scena (e la prossima / e forse altre in futuro). Oppure semplicemente per colpa del linguaggio da camionista della protagonista e di Yōko. 

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 13
*** Claws, Bullets and Knives ***


"Togliti quell'espressione del cazzo e ragiona, Kisaragi. Le spiegazioni a dopo."

Yōko strinse il volante di pelle sdrucita sotto le dita, continuando a fissare la strada davanti a lei, borbottando a bassa voce e riuscendo al tempo stesso a notare come Ada non avesse smesso di guardarla come se fosse un fantasma.

"Ti credevo contenta che fossi viva, però non stai facendo salti di gioia. Ma preferisco che tu non ti metta effettivamente a saltare qui dentro, ti faresti un bernoccolo e mi servi lucida, pensante e soprattutto piantala - se apri ancora un po' di più gli occhi te li faccio schizzare fuori dalle orbite con un dito e me li mangio, intese?!" esclamò stizzita, tornando con l'attenzione alle figure mascherate che sfrecciavano ai loro lati, naso e sensi all'erta.

La donna accanto a lei deglutì rumorosamente, mordendosi le labbra sottili e sforzandosi di far arrivare le parole alla lingua: "Non riuscite a trovarla? Nemmeno con i loro soliti trucchetti?" azzardò flebilmente. "Non ho idea di dove sia, abbiamo avuto poche occasioni per parlare-"

"Quella bambina di mia figlia è un pollo idiota, non fartene una colpa" la interruppe, cambiando la marcia. "Mio fratello l'ha tirata su di merda, in poco tempo non posso certo pretendere che fossi in grado di entrare in quel cervello bacato e farla addirittura ragionare: ha preso tutto dal padre, credimi. Io di certo non mi sarei gettata tra le braccia del primo stronzo che viene a raccontarmi la storiella delle kitsune magiche-"

"L'hai fatto" commentò piatta, causando all'altra una smorfia di disappunto che la costrinse a ingollare la sequela di insulti che avrebbe voluto liberare nello stretto spazio dell'abitacolo.

"Non mi sono gettata tra le braccia di una volpe con il fine ultimo di farmi lavare il cervello con un lurido rituale da corrotto e poi lasciarmi morire agonizzante alla prima occasione" ribattè sbuffando dalle narici. "Era da qualche tempo che gli altri ci stavano indagando sopra a questa fortuna dei Kozaki di far gran purosangue al primo colpo e a qualcuno si è accesa una lampadina."

Ada spostò gli occhi sulla strada, reggendosi al finestrino all'ennesima curva presa alla massima velocità consentita per non finire schiantate: "Osoi yo. Troppo tardi."

"Non portarmi sfiga, Kisaragi. Ne ho avuta abbastanza in questi anni e gradirei un po' di culo, per una volta."

In quel momento qualcosa si intrufolò all'interno del food truck scassato su cui stavano viaggiando tra le strade svuotate della città, sotto la pioggia battente. La maschera bianca dell'Okame si frappose tra loro, il faccione sorridente riflesso nel vetro.

"Sempre dritto, segui la metropolitana. L'abbiamo trovata, nonostante gli spiriti pareva avessero altro da fare che dirci dove si trova la nostra ojousan" bofonchiò indicando oltre il parabrezza. "Hanno anche aggiunto come sia ancora viva e in sè, se può servire."

Le mani di Yōko afferrarono con forza cambio e volante, facendo stridere le ruote contro l'asfalto sdruccioloso, seguendo la guida della volpe incastrata tra lei e Ada, fino ad arrivare alle spalle dell'edificio che qualche spiritello in vena di chiacchiere aveva indicato. Dietro di loro, il gruppo degli Urusai Yatsura si era radunato, enormi kitsune mascherate armate di denti, artigli e armamenti esotici con tanta voglia di spaccare tutto e fare un casino, come era il loro marchio di fabbrica.

"Lasciamoli giocare ai Super Sentai Power Rangers" abbaiò la donna, scostando una ciocca che le era caduta sul volto tirato, estraendo poi la pistola e togliendo la sicura. "La nostra priorità è la bambina-"

Si interruppe al frastuono che rimbombò dal piano superiore, facendo scattare le volpi in quella direzione, arrampicandosi sui muri con la stessa agilità di un ragno. Sfondarono le finestre con un calcio e si infilarono all'interno in una pioggia di vetri rotti.

Le due umane si gettarono sulle scalette esterne, traballanti e scivolose, fino alla porta che Yōko non ebbe remore a sfondare a potenti calci per poi rotolare sulla schiena, schivando appena in tempo un fulmine che si infranse in un crepitare di scintille. Alzò la testa di scatto, inghiottendo gli improperi, mentre davanti a lei si rivelava il campo di battaglia che quel pollo di sua figlia aveva scatenato.

Le dava le spalle, il respiro pesante, la trasformazione incompleta e quasi grottesca di una ragazzina infilata in una pelliccia di volpe troppo grande per lei. Vide il sangue che lordava quell'accozzaglia di pelo animale e pelle umana, gli artigli sfoderati e le zanne che rilucevano nella penombra dell'enorme stanzone.

Attorno a loro, le quattro maschere degli Urusai Yatsura giacevano a terra, in un silenzio innaturale, ma la zaffata di argento che le arrivò alle narici rispose alla sua domanda muta.

"Avresti avuto ancora qualche tempo per godertela ancora, Yōcchan. Mottainai ne, che spreco."

La voce di Nida le arrivò fastidiosa alle orecchie, facendola rizzare in piedi con un colpo di talloni, la pistola puntata davanti a sè: "Fatti vedere, bastardo schifoso."

Aki indietreggiò verso la donna che aveva appena parlato alle sue spalle, forse temendo meno i suoi proiettili d'argento di trovarsi a faccia a faccia con quello che in una manciata di secondi aveva di nuovo ribaltato il suo mondo.

"Al cantiere lo avevano atterrato con un paio di fulmini, invece stavolta-" sussurrò appena, affiancandosi a lei.

"Stavolta lo stronzo ha tutta la voglia di fotterti a sangue, signorinella mia."

Yōko si portò spalla a spalla con lei, coprendosi a vicenda, il grilletto pronto ad affondare, guardandosi nervosamente attorno nella semioscurità: conosceva quel dono che rendeva le volpi in grado di annullare la loro presenza alla vista. Schioccò la lingua, stizzita da quell'attesa che non faceva che aumentare il vantaggio di quell'essere nascosto nell'ombra.

"DOKE!" esclamò all'improvviso, abbassandosi sulle ginocchia imitata da quel pupazzo peloso che l'affiancava, mentre la figura sinuosa di Nida scattava contro di loro, pronto a colpire, la lama sguainata e le tre code danzanti.

Cadde con un tonfo a poca distanza, inseguito da Aki, che si staccò incurante delle ferite che bruciavano a ogni movimento: Yōko vide le due ombre scattare e rotolare da una parte all'altra dello stanzone, gli strilli rabbiosi dell'una contro le risate isteriche dell'altro.

Stava per reagire a sua volta, quando venne scaraventata sul pavimento di legno: il peso che le fece perdere l'equilibrio avrebbe potuto spezzarle qualche costola se non si fosse trattata della forma semi umana di sua figlia, coda spelacchiata e orecchie strappate comprese. Non riusciva a reggere la trasformazione, il che significava solo una cosa: erano nei guai.

"Ecco, quello dovrebbe essere il vostro posto" cantilenò nuovamente Nida, comparendo per un attimo in una pozza di rara luce e rivolgendole un ghigno beffardo dall'alto. Si avvicinò a loro con passo molle, i segni di bruciatura e le ferite aperte dagli artigli che lo rendevano ancora più spaventoso nella penombra.

Si abbassò su Aki, afferrandola per la collottola come un animaletto, il sangue che colava in rivoli sulla pelle gonfia e ammaccata. Cercò di resistere, divincolandosi e scalciando con le forze rimaste, ma un colpo all'addome la annullò, facendole crollare la testa sul collo con uno spasmo.

"Ops. Dopo dovrò starci attento" ridacchiò sommessamente, sporgendosi verso Yōko e stringendo il polso che teneva la pistola tra le mani artigliate, strappandole un grido di dolore mentre lo sentiva spezzarsi con uno scricchiolare sinistro e l'arma veniva allontanata da lei con un calcio. "Hai una pessima mira, metti che colpissi me invece che tua figlia."

"Lasciala andare, porco" ringhiò bassa, cercando di rimettersi in piedi e venendo di nuovo gettata a terra da un suo gesto, facendola gemere contro le assi.

Nida la fissava senza espressione, rinsaldando la presa artigliata sulla ragazzina che giaceva incosciente al suo fianco: "Sai, ero stufo di farmi l'ennesima cugina di quinto grado" sospirò con un fischio annoiato. "E voi mi avete messo la bambina su un piatto d'argento - pessima battuta, perdonami. È proprio carina: di solito non complimento voialtri umani, ma devo ammettere che avete fatto un bel lavoro tu e Akira."

Scosse la testa, cercando di ignorare il dolore ma invano, un nuovo colpo la lanciò contro la parete facendole sputare lo stramaledetto sangue che quello stava trascinandosi dietro di sè lungo il pavimento. Non riusciva a muoversi, solo guardarlo impotente allontanarsi.

Tuttavia, quella forma semiumana fece solo pochi passi in avanti prima di piegarsi improvvisamente e lanciare un urlo rabbioso che squarciò il silenzio pesante della notte, mentre il peso di Aki cadeva con un tonfo sordo a terra.

Nida si voltò verso Yōko, sfoderando l'arma che brillò nella semioscurità e si lanciò nella sua direzione con un grido disumano, costringendola ad abbassarsi tenendosi il capo tra le mani senza riuscire a capire cosa stesse succedendo, finché non sentì un frusciare muoversi e pararsi davanti alla sua figura inginocchiata.

"Ho tutto l'argento che vuoi, volpe."

Ada lo fronteggiava, i coltelli sguainati e puntati contro la sagoma che si avvicinava. Quando Nida riemerse alla luce Yōko vide la lama che lo aveva colpito alla spalla, mentre il volto era una maschera di odio e ira schiumante.

"E noi siamo gli Urusai Yatsura!" sbraitarono in coro le quattro volpi emerse a loro volta dall'oscurità dei quattro angoli della stanza. "E siamo qui per punirti nel nome delli mortacci tua!"

Scattarono all'unisono, accapigliandosi su di lui come un'unica furia, la rabbia che sosteneva ogni colpo e magia senza risparmio di forze, gli ululati di battaglia che rimbombavano nelle orecchie delle due donne immobili davanti allo scontro che infuriava.

Fu Ada a muoversi per prima, le lame in mano, verso il corpo esanime di Aki che Nida aveva lasciato sul pavimento come un giocattolo rotto.

"NON TOCCARLA, DANNATA PUT-" strillò, le vene del collo pulsanti. Un pugno ben assestato alla mascella lo scaraventò al muro, facendogli inghiottire le parole in un rantolo di sangue e bile.

C'erano molte cose di cui Ada Kisaragi non aveva parlato con la piccola kitsune scomposta a terra, tra cui l'omissione di alcuni minuscoli particolari relativi al suo uso dei coltelli anche al di fuori della cucina del Tampopo. Le tramandavano di generazione in generazione quelle lame d'argento pronte a saettare in aria e affondare con un colpo deciso del polso in qualunque essere avesse potuto rivelarsi un pericolo anche per loro, Kin da centinaia di anni.

Si inginocchiò accanto a lei, tormentandosi le dita sottili. Era da molto tempo che non si trovava sul campo di battaglia, mentre gli incantesimi e i colpi si susseguivano sopra la sua testa: cercò di ignorare le grida rabbiose che le arrivavano alle orecchie, raccogliendo le energie ma il terrore di trovarsi quegli artigli piantati nella schiena le rendeva le cose difficili.

"Non si avvicina a te, Kisaragi" borbottò la voce di Yōko, la pistola fatta scattare dalle mani tremanti. "Gli ficco così tanto argento addosso che nella prossima vita farà il centrotavola."

"Dobbiamo portarla via di qui, non lo faccio da troppi anni" mormorò a fior di labbra.

"Non deve crepare, mi basta questo" la incalzò, senza perdere di vista lo scontro che infuriava. "Senza un po' dei tuoi trucchetti, non esce di qui viva. E avete un sacco da dirvi."

Annuì appena, sondando con lo sguardo le ferite che si aprivano sulla ragazzina distesa: "Lo stesso vale per te."

Ada strinse le labbra allo sbuffo sordo che si levò dalla donna accanto a lei, concentrandosi oltre lo schizzare del sangue e dell'intonaco tutto attorno. Non era in grado di fare miracoli, ma poteva provare a uscire da quella notte orribile viva - e assieme a lei, la sua migliore amica e la sua piccola volpina.
 


*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

In pratica gli Urusai Yatsura non sono che il classico sentai da serie tv giapponese per ragazzini. Solo che non hanno le tutine, ma un sacco di mosse fighissime e coreografate sì (e probabilmente pure il motivetto alla Power Rangers meet Sailor Moon meet Mutant Ninja Turtles).

 Solo che non hanno le tutine, ma un sacco di mosse fighissime e coreografate sì (e probabilmente pure il motivetto alla Power Rangers meet Sailor Moon meet Mutant Ninja Turtles)

Alla prossima! - Aka

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Capitolo 14
*** Head or Tails ***


Aki e Alan si girarono lentamente verso la figura di Ada, composta e immobile, solo un lieve rossore imbarazzato a confermare il racconto di Yōko.

"Quindi non l'ha tirata sotto un autobus!" strillò il ragazzo, strabuzzando gli occhi incredulo verso la ragazza ancora avvolta nella casacca imbottita. "E mia madre spacca il culo alle volpi?! Io credevo che non facessimo altro che inchinarci a novanta!!!"

"Era una situazione d'emergenza" tossicchiò Ada, lanciandogli uno sguardo cupo. "Dobbiamo molto alle kitsune."

"Voglio anche io tirare coltelli!" incalzò mentre un sorriso furbetto gli si allargava in volto. "Li eredito con tutta la baracca?!"

Yōko si lasciò sfuggire una risata bassa, appoggiandosi sul tavolo: "Ti hanno incastrato a far crescere piantine e fiorellini, rubacuori, concentrati su quelli che ci serviranno." Spostò l'attenzione su Aki. "Specialmente a una come lei. Anche se certi intrugli curativi sono schifosamente amari."

"Le kitsune non si rigenerano: se un pasto caldo basta a un umano per ritrovare le forze, a loro serve altro" sospirò la donna, tamburellando sul legno. "Noi due serviamo a questo."

Alan arricció il naso a quelle parole: "Dimenticavo la magia."

"Non é magia" lo rimbeccò seccamente. "Ma sei ancora troppo stupido e giovane per capirlo."

Lo starnuto di Aki impedí qualsiasi altro rimbrotto, costringendola a soffiarsi rumorosamente il naso.

"Penso che Kozaki mi stia lanciando qualche maledizione" mugugnò da dietro il fazzoletto, giustificandosi. "Non gli é bastato essere mandato via a calci, famigliola compresa."

"Avevo sentito che alcuni di loro erano stati ricacciati dall'altra parte dell'oceano e messi sotto stretta sorveglianza per riflettere sulla loro deviazione" commentò Ada, abbassando le spalle. "Se é tornato ed é riuscito addirittura a rintracciarti-"

"É perché vuole riprovare a fotterti a sangue, bambina."

Aki deglutì rumorosamente: "Detto così sembra proprio che il suo passatempo nella sua lunga esistenza sia questo" sospirò, malcelando un brivido. "Ce ne stanno altre lá fuori - é un mondo grande - magari pure contente di fare certe cose lui e vedere alla fine chi dei due crepa."

"Ne ha fatta una questione personale, lo hai sentito tu stessa." Ada chinò il capo alle sue stesse parole, stringendo le labbra. "Come una scommessa."

"Quindi tornerà?" si intromise Alan, mordendosi pensieroso una guancia. "Non sono esattamente d'accordo che una volpe maniaca creda Stripes il suo passatempo."

"Aggiungici il farmi morire male" borbottò. "Finché resto così debole, con una sola coda, non ho molte speranze."

"Sei ancora in punizione, ojousan. Niente missioni" aggiunse Ada, guardandola sottecchi. "Se avessi parlato allora avremmo potuto-"

"Lo stesso vale per te" la interruppe con un ringhio. "Se qualcuno mi avesse raccontato un paio di cosucce prima, questo non sarebbe successo."

Il mugugno di Yōko zittì entrambe: "Forse sarebbe la volta buona di piantarla con le stramaledette regole e darle l'occasione buona di mettere su un paio di code. Che te pensi, rubacuori? E non arrossire come se non aveste mai combinato un accidente voi due, te lo si legge in faccia che sei il tipo da volpine sexy e tutto quello che viene col pacchetto."

"Il pacchetto-" incalzò Aki a bassa voce, cercando di contenere l'imbarazzo "comprende anche il fatto che certe cose sexy lo ammazzeranno.-"

"Lo sa" sentenziò nuovamente Ada. "A suo - vostro - rischio e pericolo."

"IO NON HO INTENZIONE DI METTERMI A FARE VOLPINE!" esclamò Alan, ritrovando il comando delle sue corde vocali e venendo zittito da una serie di occhiatacce tra il divertito, l'inorridito e il palese ma tu sei completamente scemo.

"Cioè non adesso. Neanche Aki" prese un respiro profondo, rivolgendole uno sguardo triste. "Inoltre le possibilità non sono tante, giusto? A meno di non usare trucchetti potremmo vivere felici e contenti."

"Le kitsune guadagnano anni con le nuove code, per cui la mia bambina ti seppellirà, non dimenticartelo" commentò piatta Yōko. "Il bello é che intanto restano dei pezzi di figliolo che ti raccomand-"

Fu quello il suo turno di arrossire violentemente al ghigno divertito del ragazzo seduto davanti a lei.

"Quindi. Ricapitolando" prese la parola Aki, tossicchiando a quei commenti su presente e futuro che l'attendeva. "Kozaki é tornato."

"Con tutta l'intenzione di divertirsi fino a farti morire" incalzò sua madre.

"Ha già unito i puntini su di te" continuò la ragazza, spostando gli occhi su Alan che per tutta risposta annuì appena, stringendole la mano tra le pieghe della casacca imbottita.

"Quindi probabilmente cercherá di ammazzarti, in quanto suo rivale nella corsa alla volpina" aggiunse ancora l'altra, tamburellando sul legno e rivolgendo ad Ada una smorfia. "E vorrà pure tirare giù questo posto solo per dimostrare di essere meglio di noialtri miseri esseri umani."

"Per cui devo diventare più forte" concluse. "Non voglio più essere salvata da voi."

"Ottima occasione per agghindarsi con qualche coda" tornò alla ribalta Yōko. "Ci pensiamo noi a mettere due paroline cortesi con i pezzi grossi, non é vero, Kisaragi?"

Ada lasciò andare un sospiro, messa alle strette dal doppio pericolo di vedere il Tampopo distrutto e il suo stesso figlio tra gli artigli di una volpe assetata di vendetta.

I suoi pensieri vennero interrotti da un nuovo starnuto di Aki, che si rizzò lentamente in piedi arricciando il naso arrossato.

"Quindi potrò tornare a spaccare culi?" abbozzó un sorriso. "Intanto torno a dormire: quel Kozaki mi ha svegliata - e pure malissimo."

Alan la imitò, seguendola oltre la porta e ignorando i commenti imbarazzanti al grido di deve dormire, rubacuori, da sola possibilmente che vennero rivolti al suo indirizzo.

***

"Quindi non era un autobus" mormorò Alan, accoccolato al muro, voltandosi verso Aki finalmente tornata tra le sue coperte. "E tua madre é viva."

"Mi hanno raccontato un po' tutta la storia mentre ero in ospedale, dopo quella notte. Ascoltai con metà cervello, l'altra era troppo impegnata a insultarmi per non essermi accorta prima di quello che Nida voleva davvero da me."

"Eri innamorata" ammise in un soffio, mordendosi un labbro. "A volte essere innamorati vuol dire cacciarsi nei guai."

Alzò la testa dal cuscino con uno scatto, senza riuscire a trattenere un ringhio: "Sono solo un guaio per te?"

Scosse il capo, aggrottando la fronte e facendosi serio nella penombra della stanzetta: "No. Sei il mio bellissimo guaio che sono felice di aver incontrato. Sarebbe stata noiosa la vita da cuoco senza di te."

Distolse lo sguardo, mangiucchiandosi una guancia arrossata: "Ne morirai."

"Quelle due ti hanno fatto pensare troppo" le accarezzó i capelli scompigliati. "Te l'ho detto anche la prima volta che ti ho baciata, no? Non mi importa."

Sospirò, soffiando col naso a quelle parole: "Che destino di merda però."

"Diventerai fortissima e io ti pareró le spalle con le mie piantine e i miei - perché 'kaasan verrà convinta a insegnarmi - coltelli" sorrise, giocherellando con le ciocche. "Come dici tu, spaccheremo culi."

Aki si lasciò sfuggire una risata, appoggiando la testa alla sua, chiudendo gli occhi.

"E avró un sacco di code, te lo prometto."

*** Small Talk ***

Grazie per aver letto fin qui!

Ci sono un sacco di capitoli di mezzo che avrei voluto inserire in tutta questa faccenda. Sfortunatamente sono una persona pigra.

Alla prossima! - Aka

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