Alla Fine di Tutto

di Michele Milia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Guardo l'orologio e mi accorgo che sono già le cinque del mattino, questa notte non sono riuscita a chiudere occhio, ho passato tutto il tempo a leggere e rileggere i documenti di un caso che dovrò affrontare a breve. 

Una bottiglia di whisky ha aiutato la mia concentrazione durante la lettura e il silenzio, all'interno delle mura di casa mia, mi ha tenuto compagnia. 

Mi alzo dalla poltrona e sistemo i documenti sulla scrivania, questo caso mi sta consumando, mi avvicino alla finestra e mi accorgo che il sole sta per sorgere, la strada inizia ad animarsi. Inizio ad intravedere i primi camion della nettezza urbana ed i primi ragazzi che per racimolare qualche soldo girano porta a porta a lasciare volantini pubblicitari, che pena mi fanno, anche io ho iniziato come loro a lavorar da giovane pur di mettere via qualche soldo, per mantenere i miei studi. 

Quanto ero ingenua, di mio durante i miei studi avrò pagato solamente lo 0,5% il resto lo ha sempre messo mio padre. 

Non passa giorno in cui non venga cercata per far arrestare qualcuno per i crimini che ha commesso. Forse il titolo "Magistrato Guastafeste" me lo sono proprio meritata. 

E pensare che fino a due anni fa non era cosi, iniziai ad essere qualcuno solo dopo aver fatto arrestare uno dei più importanti boss della malavita, da allora passo le mie giornate tra alcool per tenermi sveglia e tribunale. 

Non ho mai bevuto sul lavoro, o meglio, non più di un bicchiere. 

È quando arrivo a casa stremata al punto di non farcela più che la mia mente cede alla tentazione del caro e buon vecchio whisky. 

Un rumore proveniente dal piano di sopra interrompe i miei pensieri, stacco gli occhi dalla finestra e mi volto per guardare l'orologio che si trova sopra la libreria. Il pensare mi ha fatto perdere la cognizione del tempo, sono già le sei e mio figlio Alexander si è appena chiuso nel bagno della sua camera per sistemarsi ed andare a lavorare. 

Povero il mio bambino, da quando sono diventata magistrato non gli ho più dato le attenzioni che si meritava, e lui riesce anche a non farmelo pesare. In questa casa siamo come due ombre, Alexander si alza alle sei per poi uscire mezz'ora dopo, ha un pub che fa orario continuato, smette di lavorare alle tre del mattino, a volte fa anche le quattro ma l'indomani alle sei è di nuovo in piedi.

«Ciao mamma, vado al lavoro. Ci vediamo domani mattina».

«Ciao Alex».

Mi dà un bacio sulla guancia e corre fuori, lo guardo dalla finestra mentre sale sulla sua Peugeot grigia che è riuscito a permettersi solo dopo mesi di duro lavoro, mi saluta con la mano mentre piano piano si allontana dal vialetto. 

Forza Frederica, è il momento di darsi una lavata, sistemarsi ed uscire per svolgere delle commissioni. 

Mi allontano dalla finestra, sistemo la poltrona vicino alla scrivania e mi dirigo verso il bagno. 

Mi salta all'occhio la foto appesa all'ingresso di mio figlio che a cinque anni giocava insieme a me e mio marito. Sono passati anni da quando se n'è andato senza farsi più sentire e non nego che non mi manca affatto. La tengo lì solo perché Alexander non vuole che io la tolga, ma se fosse per me la butterei dritta nella spazzatura. Arrivo in bagno e prima di spogliarmi mi guardo allo specchio, si vede che non dormo da diverse notti, le occhiaie sul mio volto fanno da padrone, nulla che non si possa coprire con un po' di correttore ad alta coprenza. Mi accorgo anche dei capelli bianchi che stanno iniziando a spuntare sulla mia testa, al più presto dovrò chiamare Max, il mio parrucchiere di fiducia, per farmi la tinta.

Mi sfilo i vestiti mentre apro l'acqua per darle il tempo di riscaldarsi, guardo il mio corpo nudo allo specchio, il seno sta iniziando a cedere ed i fianchi sono più larghi rispetto ad un mese fa, oramai sono già due anni che non ho più tempo per passare anche solo un'ora in palestra. 

Oggi è il mio giorno di riposo e posso andare a fare la spesa, sarebbe bello avere più tempo per me. 

Mi infilo lentamente sotto l'acqua che è calda al punto giusto, né troppo né troppo poco. Mentre sto per farmi lo shampoo mi sembra di sentire un rumore ma probabilmente è solamente il motore dell'acqua, devo ricordarmi di chiamare l'idraulico per farlo controllare. 

Non ho tempo per pensarci ora, mi passo il bagnoschiuma su tutto il corpo e continuo a lavarmi.

Una volta finito resto qualche minuto sotto l'acqua per riprendermi del tutto dalla nottata passata sveglia e per approfittarne e spegnere un po' la mente. Dopo dieci minuti esco e indosso l'accappatoio, attacco l'asciugacapelli e senza essermi ancora vestita inizio a farmi la piega. 

Mi metto l'intimo e salgo in camera da letto per scegliere i vestiti da mettermi, scelgo una camicetta elegante ma non troppo, la accompagno con un pantalone skinny ed uno stivaletto in pelle nera. Una volta vestita torno in bagno e mi trucco, controllo di aver sistemato la casa prima di uscire, salgo nel piano sopra per aprire la finestra della camera di Alexander in modo da far girare l'aria e dopo ciò prendo la borsa, indosso il cappotto ed esco.

«Buongiorno signora Thompson».

«Buongiorno signor Williams».

«Ha sentito anche lei un rumore qualche minuto fa?».

«Sinceramente sì, ma pensavo fosse il mio motore dell'acqua».

«Fosse stato il motore dell'acqua avrebbe fatto un altro rumore e, soprattutto, non l'avrebbe sentito tutto il vicinato».

«Non Saprei dirle, in questo momento non è il primo pensiero che mi passa per la testa».

Mi allontano augurando una buona giornata al mio vicino, devo dire che i suoi capelli nell'ultimo periodo sono diventati sempre più bianchi.

Salgo sulla mia Citroen blu e mi dirigo verso il supermercato.

Per fortuna, proprio vicino l'ingresso, una macchina se ne sta andando liberando un posto abbastanza comodo per caricare la spesa. Parcheggio e scendo dalla macchina. 

Devo comprare tutto il necessario per la settimana, a casa oramai mangio solamente io dato gli orari di lavoro di mio figlio. 

Mi avvicino alla cassa e quando è il mio turno pago, penso che per oggi un'insalatina possa andare bene.

Esco e mi avvicino alla macchina notando però una chiazza d'olio sotto di essa. Forse era già lì e me ne sto accorgendo solo ora... buongiorno Frederica sono le undici svegliati. 

Carico la spesa in macchina e salgo, metto le chiavi nel quadro ed accendo. Metto la retromarcia per fare manovra e dopo aver ingranato la prima mi dirigo nuovamente verso casa. 

Rimango imbottigliata nel traffico, accendo la radio per farmi compagnia. Finalmente ci si muove, a quanto pare c'è stato un incidente, la strada era bloccata da un'ambulanza, dai carabinieri e da un carroattrezzi. 

Hanno sgomberato l'area, speriamo niente di grave. 

Parcheggio nel vialetto di casa mia ed entro, nel frattempo si sono fatte le tredici, cavolo due ore del mio tempo libero perse rimanendo imbottigliata nel traffico. 

Metto l'insalata nel lavello della cucina per lavarla, la lascio un po' a mollo mentre vado a cambiarmi e mettermi dei vestiti più comodi per stare a casa, penso che una tuta possa andare bene. 

Mentre aspetto che il riso si cuocia mi leggo i documenti che ho cercato di leggere fino a questa mattina presto. È un caso che continua da ben quattro anni, non si è ancora riusciti ad arrestare per omicidio Gideon Parker, eppure tutti gli indizi portano a lui. 

Tutti i magistrati prima di me hanno rimandato a giudizio il caso per paura di ritorsioni. 

Ma io, Frederica Thompson, ho fatto un giuramento e farò di tutto per farlo andare in galera. Impossibile che si abbia paura di chi va contro la legge, dovrebbe essere il contrario. Si deve avere paura della legge perché la legge deve vincere sempre! 

Sento il mio cellulare squillare, l'ho lasciato nella borsa. 

Corro subito all'ingresso e dall'appendi abiti afferro la borsa che avevo indossato questa mattina. Cerco il telefono fra le varie tasche e finalmente lo trovo.

«Pronto?».

«Pronto mamma, scusa se ti chiamo con un altro numero, volevo solo dirti che ho dimenticato di mettere il telefono in carica e adesso si è spento. Se devi dirmi qualcosa chiama pure in questo numero. È il numero di Sophia».

Sento che il suo modo di parlare cambia nel nominare il nome della ragazza che lavora al pub con lui, e bravo Alexander che si è innamorato.

«Va bene Alex, grazie per avermelo detto senza farmi stare in pensiero».

Stacchiamo la chiamata e porto con me il telefono mettendolo accanto a quello di servizio. Metto una tovaglietta sul tavolo e mi apparecchio, con un mestolo verso il riso nel piatto. Mentre inizio a mangiare consulto ancora i documenti. Il campanello suona, solitamente il postino passa più tardi, avrà anticipato?

«Signora Thompson, sono il Signor Williams».

Apro la porta.

«Mi dica».

«Penso le si siano rotti i freni, c'è tutto il liquido sul vialetto».

«Allora anche al supermercato era il mio».

«Non penso proprio Signora Thompson, non hanno tutto questo liquido le macchine».

Il Signor Williams si fa una grassa risata prendendomi in giro.

«Piuttosto, la ringrazio per avermi avvertita. Ha il numero di un meccanico?».

«Se vuole posso sistemarglielo io, non ho niente da fare oggi».

«La ringrazio, se non le è di disturbo».

«Ma si figuri, anzi. Almeno movimento un po' la mia giornata».

Guarda te se giusto giusto nella mia giornata libera devono accadermi queste cose. 

«Le servono attrezzi o pezze?».

«No grazie, ho il mio materiale».

Va in garage ed esce portando con sé due cassette degli attrezzi.

«Lei torni a pranzare che in meno di mezz'ora glielo sostituisco, menomale che ha un meccanico in pensione come vicino».

«Già... che fortuna. Allora grazie e buon lavoro».

Chiudo la porta alle mie spalle, torno in cucina e mi verso l'insalata nel piatto continuando a guardare i documenti. 

Ma la giornata è iniziata nel modo più sbagliato che ci potesse essere, meglio accompagnare il pranzo con un bicchiere di whisky, facciamo due.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Finito di pranzare passo l'intero pomeriggio tra telefono aziendale e i, oramai maledetti, documenti del caso. 

Alla fin fine la giornata è stata tutto men che di riposo, sono abituata a ciò ma non sarebbe male avere più tempo da dedicare alla mia persona. 

Finalmente ho finito di esaminare tutti i documenti completando anche la stesura del fascicolo contenente le domande da porre all'imputato. 

La mia giornata di riposo è già finita ed anche oggi non sono riuscita a poggiarmi nemmeno un secondo sul letto, però in compenso sono riuscita a finire un'altra bottiglia di whisky, oramai è proprio diventato un problema, Alexander vorrebbe tanto che io smettessi, ma è più forte di me, il whisky per me è come se fosse caffè, mi tiene sveglia oltre che compagnia. 

Benché io non abbia chiuso occhio il sole è sorto, da bambina la mamma mi diceva sempre che se non mi fossi addormentata il sole non sarebbe mai spuntato, com'era bella l'infanzia con le sue sfaccettature.
Oggi è il grande giorno, il giorno in cui sentirò la testimonianza di Gideon Parker e lo dichiarerò colpevole. 

Vado in bagno in modo tale che possa darmi una sistemata, non penso che il trucco possa essere sufficiente, qui ci vogliono proprio delle mani esperte, oramai è già da un paio di giorni che passo la notte sveglia dietro ai vari casi... ho proprio bisogno di una settimana di riposo. 

Prometto a me stessa che alla fine di tutto mi regalerò un viaggio in Europa e mi riposerò. 

Davanti allo specchio ho paura ad alzare lo sguardo, avrò sicuramente una faccia in condizioni pietose, ripeto la routine del giorno precedente, mi faccio la doccia ed una volta uscita con un po' del mio caro amico correttore ad alta coprenza faccio sparire le borse dal mio viso, salgo in camera da letto ed indosso il tailleur blu. 

Questa mattina esco prima di Alexander da casa quindi devo fare il massimo silenzio per evitare di svegliarlo prima del dovuto. 

Mi dirigo verso l'ingresso, prendo la borsa ed esco chiudendomi la porta alle spalle, cammino verso la macchina che, ringraziando il Signor Williams, adesso è perfettamente funzionate.

Apro la portiera, salgo, inserisco le chiavi nel blocchetto d'avviamento della macchina e accendo il quadro. 

Una volta inserita la retromarcia, esco dal vialetto.

Per strada non c'è nessuno e riesco ad arrivare in tribunale prima dell'udienza. 

Parcheggio sotto l'albero di fronte al tribunale, per evitare di mettere la macchina sotto al sole e quindi rischiare l'asfissia una volta risalitaci, scendo dalla macchina dirigendomi verso l'ingresso. 

«Buongiorno Signora Thompson».

«Buongiorno».

Le guardie poste all'ingresso del tribunale mi fanno togliere tutti gli oggetti metallici che ho indosso e mi fanno posare la borsa per poterla controllare, passata sotto al metal detector mi ridanno i miei effetti personali e mi augurano un buon lavoro. 

Mi dirigo in ufficio per sistemare tutto ciò che non mi serve al suo interno. Salendo le scale è tutto un continuo salutare persone e colleghi. 

Finalmente davanti l'ufficio, cerco nella borsa le chiavi per aprirlo.

«Cavolo!».

«Signora Thompson ci sono problemi?».

«Ho dimenticato le chiavi del mio ufficio a casa».

«Non si preoccupi, ne teniamo sempre una copia per poterli pulire quando voi non ci siete».

«La ringrazio, mi ha salvato la giornata».

Il signore che si occupa delle pulizie è qui da più di dieci anni ed ancora non mi sono interessata a chiedergli quale sia il suo nome... non lo faccio per male è che solitamente ho le chiavi e quindi al di fuori del buongiorno non scambiamo parola. 

Mi apre l'ufficio e, dopo averlo nuovamente ringraziato, mi infilo dentro chiudendomi la porta alle spalle.

Devo prepararmi psicologicamente per affrontare questo caso...le domande che gli farò devono fargli confessare tutto involontariamente.

Torno a controllare i documenti, in essi, oltre ai dati della vittima e di Gideon Parker, ci sono le foto del deceduto e la foto dell'arma del delitto, un coltello. 

È arrivato il momento di scendere in campo. 

Arrivo nella sala del tribunale in cui si svolge il processo, Gideon è già seduto ed il giudice da inizio all'udienza.

«Buongiorno signor Giudice, se permette vorrei mostrare delle foto al signor Gideon Parker».

«Faccia pure».

Prendo i documenti letti fino a qualche minuto fa ed estraggo solo le foto della vittima e dell'arma.

«Lo riconosce? È Thomas Bennet, ucciso, con dodici pugnalate».

Gideon risulta ostile alla mia domanda, non vuole parlare così decido di usare un tono più minaccioso.

«Non vuole parlare? Devo rammendarle che abbiamo abbastanza prove per incastrarla anche senza continuare questo processo? Lei sa cosa vuol dire risultare colpevole per omicidio no?».

Gideon continua a non parlare è tenace, ma so come farlo parlare.

«Signor Parker, non sembra capire la situazione, ha ucciso un essere umano proprio come lei. Le daranno la pena di morte se non prova almeno a difendersi».

Non capisco perché provare a farlo difendere, è colpevole, lo sappiamo tutti. Ma il giudice mi ha costretta a spronarlo a difendersi o per lo meno a raccontare come sono avvenuti i fatti per maggiori prove. 

Gideon inizia a cedere, lo si vede dagli occhi lucidi. 

«Cosa... Cosa mi faranno? Mi uccideranno vero?».

«Se decide di non difendersi verrà accusato per omicidio e verrà ucciso mediante iniezioni letali».

«Non voglio morire».

«Allora parlami».

«Io... non posso».

Cosa vuol dire che non può... che forse stia difendendo qualcun altro? Devo farlo cadere in trappola, se non è stato veramente lui sbaglierà qualcosa mettendolo sotto pressione.

«Signor Parker dodici pugnalate inferte! Voleva essere sicuro che morisse? Ha provato rabbia? Odio? Rancore?

Il signor Bennet sanguinava! Implorava pietà! Ma lo ha pugnalato ancora e ancora e ancora!».

«La prego, la smetta non voglio rivivere quella scena».

Sta cedendo, meglio aumentare il tono della voce.

«Sappiamo che l'ha ucciso lei, perché non vuole ammetterlo?».

«Mi torturava ogni giorno, l'ho sempre aiutato quando mi chiedeva una mano ma si divertiva a farmi del male, delle volte mi faceva lo sgambetto mentre trasportavo materiali pesanti, a volte mi buttava le chiavi della macchina nel tombino e quel giorno ha preso un bastone ed ha cominciato a colpirmi, inizialmente dava dei colpetti leggeri ma piano piano mi ha colpito sempre più forte. 

Mi ha buttato a terra ed ha iniziato a colpirmi con rabbia, come se gli avessi fatto qualcosa. Poi quando ha smesso ha detto che stava scherzando. 

A quel punto non ce l'ho fatta più e non appena si è voltato distraendosi ho preso il pugnale che lui teneva sempre sulla scrivania come tagliacarte e l'ho colpito in pancia ogni colpo che gli davo mi faceva sentire meglio e così lo pugnalavo ancora e ancora! 

Poi, quando mi sono sentito meglio, ho smesso e lui era morto... c'era sangue ovunque».

Guardo Gideon stupita, non potevo immaginare che la causa di questo omicidio fosse una rabbia repressa nei confronti di chi lo ha torturato.

Però perché nessuno voleva prendersi il caso? Non mi sembra così tanto pericoloso, lo era di più quello che feci arrestare due anni fa. 

Il giudice mi guarda e mi fa segnale di sedermi, per lui basta così.

«Signor Gideon Parker, lei è accusato per omicidio e per questo la dichiaro colpevole e la condanno a morte».

«No! No!».

Gideon urla e piange allo stesso momento, tutto questo mi colpisce. Lo avrebbe potuto denunciare, lo avrebbe potuto aggredire nel momento dell'attacco e portarlo in tribunale con l'accusa di violenza... ma lo ha ucciso, in un momento in cui lui era distratto... non è classificabile come autodifesa. 

Mi dispiace. 

Continua ad urlare e poi mi guarda.

«Me lo aveva promesso. Mi aveva promesso che se avessi collaborato non mi sarebbe successo nulla».

Non so cosa rispondere, non so come comportarmi. 

Tutto ad un tratto Gideon si divincola e si libera dalla presa delle guardie. 

Si scaglia contro di me, istintivamente rimango ferma. Più che istinto forse è la paura che fa si che io non riesca a muovermi.

Di colpo uno sparo e Gideon cade a terra.

La guardia per difendermi lo ha sparato. Mi dispiace Gideon, non si sfugge alla legge. 

Tutto è finito, il corpo di Gideon è stato portato via ed io dopo essere passata dall'ufficio per prendere i miei effetti personali vado verso la macchina. 

Salgo in auto ma un foglietto sul parabrezza attira la mia attenzione. Scendo nuovamente dalla macchina e afferro quel pezzo di carta.

"I miei occhi sono sempre puntati su di te".

Sembrerebbe una frase romantica, al dir poco sdolcinata per i miei gusti. 

Stropiccio il foglio e salendo in macchina lo butto sul sedile del passeggero. 

Giro la chiave e parto, direzione casa, direzione letto.

Non c'è traffico stranamente, sono l'una del pomeriggio, dovrebbe essere l'ora di punta. 

Arrivata a casa parcheggio nel vialetto ed entro, un altro foglietto, questa volta sotto la porta d'ingresso, attira la mia attenzione.

"Tutti coloro che ti circondano alla fine di tutto non ci saranno più".

Inizio ad avere paura, mi guardo intorno prima di entrare in casa ed una volta dentro chiudo la porta mettendo anche il blocco, abbasso tutte le finestre e chiudo tutte le tende. 

Ho paura che qualcuno stia osservando i miei movimenti. 

Vado in bagno cercando di rilassarmi, mi butto un po' d'acqua fredda in faccia per riprendermi dallo shock avuto in tribunale e, dopo aver pensato al biglietto, corro in camera da letto dove nel cassetto del comodino tengo una pistola che mi è stata assegnata dopo il mio caso più importante.

Controllo che l'arma sia ancora lì e mi corico nel letto cercando di non pensare a nulla provando, finalmente, a riposarmi. 

Un rumore mi fa svegliare di soprassalto, guardo la sveglia, sono le due del mattino, è solamente il telefono che squilla, allungo la mano sul comodino e lo afferro. 

«Sconosciuto?».

Rispondo al telefono.

«Pronto?».

Silenzio... stacco la chiamata, ho troppo sonno per stare dietro a queste persone.

Il telefono squilla nuovamente. Di nuovo sconosciuto.

«Pronto? Chi sei?».

Silenzio... non è divertente, non dormo da due notti.

Se qualcuno vuole farmi uno scherzo ha sbagliato persona.

Stacco nuovamente la chiamata e poso il telefono sul comodino. Squilla nuovamente e rispondo senza vedere chi sia.

«E' la terza volta che chiami, chi sei?».

«Mamma, sono Alexander... e ti sto chiamando solo adesso...».

«Scusami Alex, ho avuto una giornataccia, ma cos'è questo baccano».

«Immagino mamma, scusa se ti chiamo a quest'ora, sono al locale e c'è una serata penso di non tornare a casa stasera, c'è troppo afflusso di gente, e penso di fare orario continuato».

«Devi riposare almeno un pochino Alex».

«Tranquilla mamma, con tutta la gente a cui devo dar conto manco ci penserò al fatto che sia stanco».

«Mi raccomando Alex, prima di rimetterti in viaggio per tornare a casa riposati un pochino».

«Certo mamma, tranquilla. Buona notte».

Stacco il telefono e lo poso sul comodino, aver sentito la voce di Alex mi ha tranquillizzata. Il telefono squilla nuovamente.

«Alex?».

Silenzio... poi tutto ad un tratto sento in sottofondo lo stesso baccano che sentivo al telefono con Alexander. Guardo il telefono.

«Sconosciuto... chi sei? Cosa vuoi da me?».

Il baccano si sente sempre più forte, poi una voce lontana mi è familiare.

«Salve, cosa desidera?».

È la voce di Alexander.

«Alexander Scappa!».

Prima che potessi parlare la linea cade. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


«Alexander!!»

Devo correre a controllare che stia bene, devo sbrigarmi. 

Mi alzo dal letto, apro il cassetto del comodino e prendo la pistola, scendo all'ingresso. Davanti la porta, c'è l'attaccapanni dove la mia borsa è appesa, infilo l'arma all'interno di essa e, dopo essermi messa le scarpe, esco di corsa da casa.

Salgo in macchina, non c'è tempo da perdere. Accendo le luci e senza essermi messa la cintura parto, per un attimo mi sento osservata, fisso la casa del mio vicino... strano pensavo ci fosse qualcuno alla finestra. 

«No! Frederica, non perdere tempo!»

Spingo il piede sull'acceleratore, per strada non c'è nessuno, non dovrei correre alcun rischio. 

È tardi, per fortuna il pub di mio figlio ancora non è chiuso. Arrivo al pub, parcheggio al volo, scendo dall'auto e corro verso l'ingresso. Una volta dentro noto che c'è molta folla, sono stata talmente impegnata che non mi sono mai preoccupata di venire a vedere com'era il posto di lavoro di mio figlio, non lo vedevo dall'inaugurazione.

Cerco di infilarmi in mezzo alla folla per arrivare al bancone. Il telefono inizia a vibrare, sconosciuto. Rispondo.

«Pronto?».

Sento la stessa musica del pub, lui o lei è qui!

«So che sei al pub di mio figlio... se provi solo a toccarlo io giuro che...».

Cade la linea. Mi incammino con passo più veloce verso il bancone, do, per sbaglio, un colpo di spalla ad un uomo.

«Le chiedo scusa».

L'uomo mi sorride.

«Non si preoccupi».

Arrivo al bancone, Alexander sta parlando con una ragazza, le sta sorridendo nel frattempo sta pulendo un bicchiere, lo mette sul bancone e lo riempie con della vodka liscia. Tutto ad un tratto si accorge di me.

«Mamma?! Cosa ci fai qui?».

«Nulla... mi ero solo accorta che era da tanto tempo che non venivo a vedere il tuo pub. È sempre così pieno?».

«Anzi oggi, rispetto al fine settimana, è vuoto».

Non posso dirgli quello che sta succedendo, si preoccuperebbe... accenno un sorriso per mostrar lui quanto io sia fiera.

«Posso offrirti qualcosa da bere mamma?».

"Grazie Alexander, puoi versami un bicchiere di Whisky per favore?».

«Arriva subito».

Mi siedo al bancone continuando a guardarmi intorno mentre Alexander si allontana per andare a prendere la bottiglia di Whisky, mi accorgo che quando passa dietro a Sophia la spintona sorridendole. Quando torna, lo guardo maliziosamente. Afferro il mio bicchiere di Whisky ed inizio a sorseggiarlo.

«Ti piace proprio quella ragazza».

«Ma di che stai parlando mamma?».

Alexander arrossisce.

«Sei diventato rosso come un pomodoro, ti sto forse mettendo in imbarazzo? Forse dovrei presentarmici».

«Bevi il tuo bicchiere di Whisky dai».

«Si caro, cambia discorso».

Ci guardiamo sorridendo, poi nel suo volto si intravede uno sguardo preoccupato. Ecco che arriva la ramanzina.

«Mamma...».

«Si Alex?».

«Non pensi di star lavorando troppo? Ti vedo stanca, sono parecchi giorni che non dormi...».

«Penso di lavorare il giusto, piuttosto, sei tu quello che lavora di più fra i due. Torni sempre stanco a casa e non dormi abbastanza».

«Io sono ancora giovane, posso permetterlo».

«Stai per caso insinuando che la tua cara mamma sia una vecchia? Potresti stupirti di quello che sarei in grado di combinare in questo pub stasera».

Scoppiamo entrambi in una grassa risata. Poi il suo stato d'animo torna nuovamente preoccupato, non riesce proprio a non pensare a me.

«Mamma...».

«Che c'è Alex?».

«Sono realmente preoccupato per la tua salute, come ti ho già detto in quest'ultimo periodo stai passando le notti insonni e, come se non bastasse, stai bevendo più Whisky che acqua».

Se è riuscito a notarlo lui che mi vede solo cinque minuti al giorno, direi che ha proprio ragione.

«Si Alex... hai ragione però...».

«No mamma, non voglio sentire alcun "però". Domani hai il giorno libero, non leggere più alcun fascicolo. È libero. Goditelo».

«Sarebbe bello se potessimo godercelo insieme».

«Farò in modo di farlo accadere il più presto possibile».

Mi sorride e poi mi chiede di tornare a casa, dice che tutta quella confusione non fa più per me.

«Ci vediamo GIOVANOTTO».

«Ciao mamma».

Alexander mi sorride, poi riprende a servire i clienti, dando una mano a Sophia. Una volta notata la bellezza e la simpatia di Sophia, sorrido ed esco quasi dimenticandomi lo scopo principale della mia visita al pub. 

Salgo in macchina ed inizio a pensare che le telefonate siano da parte di qualcuno che vuole solamente spaventarmi, niente di serio.

Inserisco la prima e parto, direzione letto. Una volta arrivata parcheggio nel vialetto, mi accorgo che la luce del Signor Williams è accesa, chissà cosa ci farà ancora sveglio. 

Una volta entrata a casa, chiudo la porta alle mie spalle. Mi tolgo la borsa di dosso, prelevo la pistola da essa ed una volta toltami le scarpe salgo sopra per andare nella mia camera da letto. 

Poso la pistola sul comodino e mi butto sul letto. Sono stanca, penso che mi addormenterò subito.

Apro gli occhi, mi ritrovo in spiaggia, al mio fianco James, il padre di Alexander. Mi guarda negli occhi.

«Se fosse una femminuccia vorrei chiamarla Alison».

«Io non penso sia una femminuccia James, la pancia è grossa. È sicuramente un maschietto».

«Se dovesse essere un maschietto allora vorrei chiamarlo come mio padre, Alexander».

«E' un bel nome James, e penso piaccia anche a lui».

Tutto ad un tratto James si alza e mi sprona ad entrare in acqua, ma io non voglio, voglio prendermi il sole. James entra in acqua e sparisce. 

Mi ritrovo con Alexander in braccio, sta succhiando il latte dal mio seno, James è ancora al mio fianco, sta guardando la televisione. 

«Quando sarà grande vorrei insegnargli a giocare a baseball».

«Si James, secondo me saresti un bravo insegnante».

Lo guardo mentre è intento a spiegarmi come lanciare una palla e come si dovrebbe tenere la mazza, poi si gira verso di noi e ci guarda sorridendo.

«Siete due angeli».

Sorrido e nel frattempo lui va verso la cucina per prendersi una birra, non appena arriva davanti al frigo, però, sparisce nuovamente.

Alexander è grande, sta giocando a baseball con il papà, sono veramente bellissimi e decido di scattargli una foto.

All'improvviso James si avvicina a me e mi bacia.

«Io devo andare, mi dispiace abbandonarvi... ma non sono più in grado di mantenervi...mi... mi hanno licenziato».

«Non preoccuparti James, io sto finendo gli studi ed a breve comincerò a guadagnare abbastanza per mantenerci tutti e tre».

«Non posso permettere ciò Frederica, non voglio esserti di peso».

James si allontana, sparisce nuovamente. Vorrei corrergli dietro ma non ci riesco, non riesco a muovermi. 

Un rumore, un qualcosa che si rompe. Mi sveglio di colpo, il rumore non era nel sogno, qualcosa in casa mia si è rotto. Afferro la pistola e mi alzo di scatto dal letto. 

Ho paura e cammino lentamente. Scendo le scale guardandomi intorno senza mai lasciare un angolo scoperto. Tengo la pistola puntata davanti a me, arrivo nel mio studio e trovo una finestra rotta, non abbastanza da far passare qualcuno ma abbastanza per far passare qualcosa.

Mi guardo intorno, trovo un mattone per terra, c'è qualcosa legato attorno ad esso. Mi chino lentamente per prenderlo continuando a puntare la pistola davanti a me. C'è un bigliettino, lo apro e lo leggo.

«Inizia ad aver paura!».

La porta si apre di botto e punto la pistola spaventata, entra Alexander che vedendosi la pistola puntata alza le mani.

«Mamma! che sta succedendo?!».

Alexander ha paura, abbasso la pistola e cado sulle ginocchia iniziando a piangere. 

Chiude la porta e si precipita verso di me. Si china pure lui sulle ginocchia e mi abbraccia.

«Cosa sta succedendo mamma?».

«Ho paura Alex».

«Paura di cosa?».

Mostro lui il bigliettino e gli racconto tutto, anche il vero motivo per cui mi sono precipitata al pub. 

Lui mi abbraccia, mi asciuga le lacrime e mi toglie la pistola dalle mani. 

«Tranquilla mamma, torna a dormire, ci sono io qui. Domani non mi muovo da casa, chiedo a Sophia di fare da sola garantendole un aumento per quella giornata, lei capirà».

«Non voglio recarti fastidio».

«Mamma, non dire stupidaggini! Non posso permettere che ti venga fatto del male. Torna a dormire e domani denunciamo l'accaduto alla polizia. Poi passiamo una giornata insieme in modo da farti tranquillizzare. Non ti lascio sola».

«No! La polizia no... potrebbe prendersela con te!»

Alexander mi accompagna in stanza, si avvicina alla finestra e si controlla intorno per vedere se ci sia qualcuno. Poi chiude la porta e lo sento scendere nuovamente giù. Vuole rassicurarmi ma io ho paura, paura che tutto possa riversarsi su di lui. Chiudo gli occhi ed anche se spaventata riesco ad addormentarmi.

Siamo io ed Alexander, mano nella mano. Lui cammina a testa alta e mi guarda sorridendo. Camminiamo in giro per la città e guardiamo le vetrine dei negozi. Mi fa sentire al sicuro, sarà un grande uomo ed un ottimo marito, ne sono certa. 

Entriamo in un negozio, tutto ad un tratto uno sparo e delle urla. Alexander molla lentamente la presa della mia mano, lo guardo e noto che ha lo sguardo sofferente, è stato colpito mi guarda con gli occhi colmi di lacrime, poi cade a terra. 

Mi sveglio all'improvviso, per fortuna era solo un incubo, tutto in casa è silenzioso. 

Mi alzo e vado a controllare la camera di Alexander, lui non è lì. Scendo le scale velocemente e lo trovo sul divano del soggiorno coricato con la pistola in mano, si è addormentato mentre cercava di fare la guardia. 

Gli sfilo la pistola dalle mani e lo copro, vado nel mio ufficio, mi riempio un bicchiere di Whisky e mi siedo dietro la scrivania poggiando la pisola su di essa. Prendo il bigliettino che avevano legato al mattone e lo rileggo, continuo a non crederci. 

Qualcuno sta cercando di spaventarmi, o peggio, uccidermi!

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Sono rimasta tutta la notte sveglia con la paura che potessero fare del male a me o a mio figlio Alexander.

Ho pensato più volte a sporgere denuncia, per circondarmi di agenti fidati ed essere tenuta tutto il giorno sotto controllo ma non voglio fare questo a mio figlio, mi sono sempre ripromessa che non avrei mai accettato la scorta né tanto meno di andare a vivere in qualche posto sperduto solo per starmene al sicuro, Alexander è ancora giovane, non posso negargli una vita per puro egoismo, dovrò stringere i denti finché posso, senza cedere ad alcuna minaccia. Magari prima o poi si stancheranno e smetteranno. 

Alexander è ancora coricato sul divano, si è preso un giorno di riposo solo per stare con me, per proteggermi. È quasi ora di colazione, ma non voglio svegliarlo, non dorme mai così tanto penso che, per quanto lui possa ritenersi giovane, una bella dormita più lunga delle solite 4 ore non gli guasterebbe.

Vado in cucina e, per la prima volta dopo quindici anni, preparo una colazione sostanziosa, dopo aver fatto i pancake e mentre sono ancora belli caldi metto sopra di essi un po' di sciroppo d'acero, da piccolo ne andava matto, era la sua colazione preferita. 

In un piatto a parte sistemo un po' di bacon e due uova fritte. Proprio come facevo quando doveva andare a scuola, mi manca vedere Alexander con lo zaino, che pur essendo più grande di lui, si affretta ad uscire dalla porta per salire sullo scuolabus. Ricordo ancora come se fosse ieri quando con la sua piccola manina continuava a salutarmi fino a prima di salire.

Tutto ad un tratto una voce rompe i miei pensieri.

«Mamma, che buon odore, hai fatto i pancake?».

Alexander si sta stropicciando gli occhi e con il naso continua ad odorare l'aria.

«Ben svegliato Alex, ho preparato la colazione, proprio come facevo tanto tempo fa».

«Nonostante tutto quello che ti sta accadendo ti sei preoccupata di farmi trovare la colazione?».

«Sai bene che ti metterei davanti a tutto e tutti se ne avessi il potere».

Alexander si siede a tavola e si prende il pancake in cima, è sempre stato il suo preferito, diceva che era quello che veniva cotto meglio e che assorbiva la maggior parte di sciroppo d'acero. Come dargli torto.

«Alex, cosa ne diresti se oggi andassimo a farci una passeggiata?».

«Non penso proprio sia il caso Mamma».

«Alex non preoccuparti, magari è solo qualcuno che si sta divertendo a prendermi in giro».

«Se fosse così penso stia esagerando un pochino».

«Noi oggi usciamo insieme. Passeremo una giornata madre e figlio, una giornata che rimarrà nella storia, è tanto che non stiamo insieme, fallo per la tua mamma».

Alexander ride ancora quando mi vede fare la stupida ed io amo vederlo ridere. È sempre stato più grande rispetto ai suoi coetanei, la mancanza del padre in famiglia si è sentita e lui ne ha risentito più di me. Nonostante quello stupido siamo riusciti lo stesso ad andare avanti, ed è proprio questo quello che conta!

«Dove vuoi andare Mamma?».

«Non so, giriamo per il centro commerciale, oppure andiamo in un parco e ci facciamo una passeggiata. C'è pure una bella giornata oggi».

«Tutto quello che vuoi, Mamma».

«Intanto pensiamo a fare colazione, sennò si raffredda».

Entrambi seduti a tavola a mangiare, un'immagine rara, un'immagine che mi manca. 

Da quando lavora sono abituata a vederlo per un massimo di una mezz'ora a casa ma oggi, finalmente, potrò godermelo di più. 

Questa situazione ha i suoi lati positivi.

«Vado a lavarmi. Andiamo con la mia macchina?».

«Va bene Alex, io intanto sparecchio e, non appena avrai finito, andrò a darmi una lavata anche io».

Alexander va verso il bagno ed io inizio a mettere i piatti nel lavandino. 

Apro l'acqua ed incomincio a lavare i primi piatti, mentre nella mia testa sto già pensando alla fantastica giornata che passerò con mio figlio. 

Il pensiero viene però interrotto da un grande boato proveniente da fuori, un rumore talmente forte da far tremare le pareti. Poi un forte odore di bruciato inizia ad entrare dalla finestra. Non vorrei che la caldaia abbia ceduto e che sia esplosa. 

«Cosa è stato questo rumore?».

Alexander sta scendendo le scale di corsa con una tovaglia avvolta intorno alla vita.

«Non lo so Alex, proveniva da fuori, non vorrei sia esplosa la caldaia".

Ci avviamo verso la porta ed Alexander mi fa cenno di rimanere dentro, apre la porta e ce ne accorgiamo subito, non si tratta della caldaia, la mia macchina è saltata in aria. 

Usciamo, la facciata di casa mia si è annerita, il prato ha preso fuoco e in esso è possibile trovare anche pezzi di auto, la cassetta delle lettere, i cassonetti della spazzatura, entrambi sono volati nel giardino del Signor Williams. 

«Signora Thompson, tutto bene?».

«Per fortuna ero in casa signor Williams... Per caso lei ha visto cos'è successo?».

«Io stavo per uscire da casa, quando la sua macchina è saltata in aria».

Alexander corre in casa per chiamare i vigili del fuoco, io continuo a guardare la mia macchina avvolta dalle fiamme. 

Arrivano i vigili del fuoco che riescono a spegnere quel che resta dell'incendio, chiedo loro quale possa essere stata la causa dello scoppio e loro iniziano a controllare la macchina, fino a quando trovano i pezzi di un ordigno comandato a distanza. 

«Signora, qualcuno ha cercato di ucciderla, per fortuna non era in macchina».

«In realtà, questo solitamente è l'orario in cui salgo in macchina per dirigermi a lavoro».

Il vigile del fuoco rimane impietrito, forse ha capito che sono in pericolo, mi rivela che in quell'esplosione avrei dovuto essere coinvolta anche io e che tutto era premeditato. 

Mi chiedono di fare denuncia e di non aspettare altro tempo. 

Loro hanno ragione, ma io ho i miei buoni motivi per evitare di avvertire le forze dell'ordine. 

Una volta spiegato loro il perché io non voglia fare denuncia loro decidono di segnalare di loro iniziativa il tutto alla polizia che però fa passare il caso come un'incidente, niente di serio. 

«Stia attenta signora, come vede, oggi giorno non ci si può fidare nemmeno delle forze dell'ordine».

«Vi ringrazio».

I vigili del fuoco si allontanano insieme ad un carroattrezzi che porta via quel che resta della mia macchina.

Entro in casa e trovo Alexander seduto sul divano ancora con l'asciugamano avvolto in vita. 

Quando mi vede avvicinare si alza e viene ad abbracciarmi.

«Mamma, ho paura per te. Dobbiamo denunciare tutto quello che ti sta accadendo».

«Lo faremo Alex, lo faremo. Intanto, non facciamoci spaventare, vatti a vestire che ora vado a lavarmi ed usciamo».

«Mamma... sei sicura di voler uscire?».

«Ovunque sono vengo colpita, tanto vale andarmi a divertire con te. Nulla potrà fermare la nostra uscita mamma e figlio».

Alexander va a vestirsi ed io mi chiudo in bagno per lavarmi, mi spoglio e mi infilo sotto la doccia, stanno succedendo troppe cose ed ancora non ne ho capito il motivo. 

Cosa avrò fatto mai a questa persona? 

Finisco di lavarmi e una volta vestita mi dirigo verso la macchina di mio figlio. 

Dopo essersi vestito è uscito per andare a controllare la sua macchina per evitare qualche altro problema.

«Tutto in ordine mamma, puoi salire».

«Come sei premuroso».

In sua presenza cerco di comportarmi il più naturale possibile, come se in realtà non stesse accadendo nulla.

Si, è vero, sono spaventatissima ma non posso trasmettere le mie paure anche a lui, deve pensare ai suoi problemi, non ai miei.

«Però domani vai al lavoro».

«Mamma, c'è Sophia al pub, posso stare con te, stai tranquilla».

«Non m'interessa, non devi preoccuparti per me, domani vai al pub. Sophia ha bisogno di te».

Non riesco a trattenere un sorriso e Alexander notandolo diventa rosso come un peperone. 

Il viaggio continua in silenzio fino al centro commerciale.

«Alex che ne dici di guardarci un film?».

«Certo, è da molto che non vado al cinema».

Entriamo nel centro commerciale e ci dirigiamo verso la zona cinema che si trova al suo interno. 

Scegliamo il film ed entriamo in sala, Alexander ha comprato i popcorn sia per me che per lui. Ci sediamo e nell'attesa che il film inizi decido di chiedergli come si trovasse con questa Sophia.

«Mamma, Sophia è solo una mia collega».

«Si, certo ed io sono Sua Maestà la Regina».

«Vostra Maestà».

Fa finta di togliersi il cappello e iniziamo a ridere.

«Mi trovo bene, è una brava ragazza, divertente e solare. Non l'ho mai vista con il broncio».

«Ti piace?».

«Si, ma ho paura di non essere il suo tipo».

«Non puoi esserne sicuro finché non ci provi».

Alexander si sta iniziando ad imbarazzare, mi guarda, mi sorride e mi indica che il film è iniziato. 

È un bel film, c'è del romantico adatto a me e c'è dell'azione adatta ad Alexander. Il film perfetto. 

Una volta finito Alexander si alza e mi fa passare, mi prende per mano come se fosse il mio fidanzato e mi sorride.

«Dove andiamo adesso?».

«Ti va un gelato?».

«Si, mi va moltissimo».

Usciamo dal centro commerciale e ci avviamo nel parco che si trova lì vicino dove c'è un chioschetto che fa dei gelati buonissimi. Entrambi ci prendiamo un bicchiere di granita alla fragola e ci sediamo nei tavoli che il chioschetto ha messo a disposizione. 

Mentre mangiamo il gelato parliamo dei vecchi tempi, di quando da piccolo lo portavo spesso al parco a mangiare la granita e di quanto gli piacesse il gusto fragola. 

«Mamma, posso farti una domanda?».

«Si, certo».

«Ma papà com'era? Prima di andarsene ovvio».

«Devo essere sincera, con lui stavo bene.

Non mi ha mai fatto mancare attenzioni, aveva sempre un occhio di riguardo per me e non sai quanta voglia avesse di stringerti tra le braccia quando rimasi incinta... poi non so cosa successe, forse ha avuto paura di non essere in grado di fare il padre e se n'è andato. La paura è una brutta cosa».

«Ma quando se n'è andato non l'hai più sentito?».

«No, mai più».

«Ti ha sempre trattato bene?».

«Si, mi faceva sentire amata... devo ammettere che mi mancano le sue attenzioni».

Si alza e mi viene a dare un bacio sulla guancia.

«Rimedierò io allo sbaglio di papà, non ti abbandonerò mai».

«Tranquillo Alex, io sono felice se tu sei felice».

Si risiede e riprende a mangiare la granita sorridendo. 

«È stato un pranzo alternativo mamma».

«Ti è piaciuto?».

«Si, molto».

Tutto ad un tratto riceve una chiamata, è Sophia.

«Mamma, Sophia mi ha detto che si è sentita male».

«Vai Alex, tranquillo».

«Non voglio lasciarti sola, le dico di chiudere il locale».

«Tranquillo Alex, vai».

Mi guarda, il suo sguardo lascia trasparire quanto lui sia dispiaciuto, lo guardo e gli sorrido.

Saliamo in macchina e mi porta a casa.

«Mi raccomando mamma, chiuditi dentro».

«Non ti preoccupare, vai da Sophia e fai attenzione».

«Ti voglio bene mamma».

«Te ne voglio anche io Alex».

Chiudo la porta e dalla finestra lo spio fino a quando sale in macchina e se ne va. 

Sono stata veramente bene con lui oggi. 


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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


La casa senza Alexander inizia a farmi paura, ho sempre amato la solitudine, il silenzio, solo io ed il mio lavoro… ma in questo periodo, in questi ultimi giorni, ho veramente paura che possa succedermi qualcosa. 
Cerco di non pensarci, non si può vivere con la paura che si possa morire da un giorno all’altro, non sarebbe vivere, ho sempre pensato che vivere avendo paura di morire sia come essere dal medico ed aspettare il proprio turno nonostante davanti a te ci siano quindici persone e lo studio chiuda tra cinque minuti… inutile.
Non voglio pensarci, non voglio dare soddisfazioni a nessuno, non si merita tutto questo, non merita le mie attenzioni, finirà per stancarsi, finirà per dimenticarsi di me ed io continuerò a vivere la mia vita come ho sempre fatto.
Mi dirigo in bagno, mi avvicino al lavandino poggio le mani sul bordo e mi guardo allo specchio.
 
«Sono forte! Posso sopportare tutto questo!».
 
Apro il rubinetto, faccio scorrere l’acqua in modo che diventi né troppo calda né troppo fredda, mi sciacquo la faccia e sorrido.
 
«Non mi distruggerai! Non così facilmente».
 
Mi trucco, salgo in camera e mi cambio, ho deciso di andarmi a fare una passeggiata, non mi rinchiuderò a casa rischiando la follia.
Indosso una canottiera grigia, oggi non sembra far freddo ma porterò con me una felpa nel caso in cui il tempo decidesse di cambiare, un paio di leggings, anch’essi grigi, e indosso le scarpette per la corsa. Vado a sfogare un po’ correndo. 
Esco da casa e chiudo la porta a chiave.
 
«Signora Thompson, il postino ha sbagliato a recapitare questa lettera. Penso sia per lei».
 
«La ringrazio Signor Williams».
 
Afferro la lettera, apro casa e la metto nella borsa attaccata all’attaccapanni, non ho tempo per metterla sul tavolo. Una volta fatto chiudo nuovamente casa e, dopo aver indossato un paio di cuffiette, mi allontano facendo una corsetta lenta.
I vialetti vicini a casa mia sono sprizzanti di gioia, i bambini approfittano di questo pomeriggio soleggiato per giocare tra di loro, è proprio questo il bello di avere delle villette separate da una semplice staccionata, i bambini hanno contatti con i figli dei vicini, non sono mai soli e possono giocare senza allontanarsi troppo da casa, riescono a trasformare quella staccionata in una vera e propria rete da pallavolo.
Continuo la mia corsetta verso la zona dei negozi, mi ero proprio dimenticata quanto fosse sano un po’ di movimento, sicuramente più sano che bere whisky ogni giorno. 
Durante la corsa controllo le vetrine per vedere se c’è qualcosa che mi attiri, solitamente non spendo molti soldi per me, preferisco spenderli per Alexander, da quando ha iniziato a lavorare non ha avuto nemmeno un secondo per spendere il frutto del suo sudore.
Si sta facendo buio, penso sia meglio tornare a casa, mi sono pure allontanata troppo dalla città, non penso sia salutare correre così tanto il primo giorno, per tornare a casa preferisco camminare, indosso la felpa che fino ad ora avevo tenuto ai fianchi e mi incammino.
Le strade sono desolate eppure non è così tardi, per oggi la mia mente si è riposata, dovrei prendermi più spesso giorni per me, io l’ho detto, alla fine di tutto questo, non appena tutto sarà finito, mi prenderò un mese di riposo. 
È veramente rilassante non avere problemi per la testa, non ho pensato nemmeno per un secondo alle minacce di quell’uomo…
 se così si può chiamare una persona che ama distruggere la vita degli altri. 
Lo squillo del telefono interrompe il silenzio della cittadina e con esso anche i miei pensieri, è Alexander.
 
«Alex tesoro, dimmi».
 
«Tutto bene mamma?».
 
«Si, grazie. Dopo una bella corsetta sto tornando a casa».
 
«Sei uscita?! Sei pazza per caso?».
 
«Alex, non si può vivere nella paura e poi, avevo proprio bisogno di un po’ d’aria».
 
«Non dico che devi vivere nella paura… ma per lo meno non dargli la possibilità di trovarti da sola».
 
Cerca di avere un tono rassicurante, ma si sente che ha paura.
 
«Alex, ti ringrazio. Ma non devi avere paura per me».
 
«Fai attenzione, non voglio perdere anche te».
 
«Deve ancora nascere qualcuno che riesca a togliere di mezzo tua madre».
 
Accenna una risata, ma il suo tono torna subito ad essere preoccupato.
 
«Ti voglio bene mamma, ci vediamo domani mattina a casa».
 
«Ti voglio bene anche io Alexander, a domani».
Chiudo la chiamata e poso il telefono nella tasca della felpa, neanche il tempo di posarlo che mi squilla nuovamente. 
Senza nemmeno controllare chi sia rispondo.
 
«Pronto?».
 
Dall’altro lato silenzio, nessuno risponde.
 
«Sei di nuovo tu? Sappi che non ho paura di te».
 
Sento un rumore, è in macchina, nello stesso momento vedo una macchina venirmi incontro. La chiamata continua e la macchina punta verso di me, non riesco a vedere chi sia alla guida ha gli abbaglianti accesi. 
Stacco la chiamata, mi giro ed inizio a correre più che posso nel senso opposto alla macchina che punta proprio verso di me. Corro, corro, corro, non sento nemmeno fatica, l’adrenalina è salita alle stelle. Non mi accorgo di una buca nella strada, prendo una storta e cadendo sbatto la testa.
Apro gli occhi, sono a terra distesa sul prato, provo ad alzarmi ma non ci riesco, mi gira troppo la testa, il mio telefono è distrutto, provo a chiamare aiuto ma la voce non esce, mi fa male lo sterno. Non sembra io abbia qualcosa di rotto, riesco a muovere qualsiasi parte del corpo. La botta non sarà stata forte ma è stata abbastanza per farmi perdere i sensi. 
Mi porto una mano alla testa, fa male, controllo la mano ed effettivamente perdo sangue.
Finalmente riesco ad alzarmi, raccolgo quel che resta del mio telefono da terra e, pur zoppicando leggermente, torno a casa. 
Pensare che ero a nemmeno un isolato di distanza da casa mia. Arrivata a casa apro la porta e la chiudo subito dopo dietro di me, poggio la schiena ad essa e scivolo lentamente verso il pavimento, poggio le braccia sulle gambe ed inizio a piangere, ho avuto paura, paura di morire, paura di lasciare Alexander solo e quindi farlo soffrire. Perché tutto questo? Perché?
Tra una lacrima ed un’altra trovo la forza di rialzarmi, mi dirigo in bagno e vado a guardarmi allo specchio, ho proprio una brutta ferita sulla fronte, la medico come posso, domani in caso passo in ospedale e vedo se c’è bisogno di mettere punti, per oggi sono stata abbastanza fuori.
Uscita dal bagno vado verso la camera da letto e prendo il mio vecchio telefono in cui inserisco la sim di quello che oramai è un rottame.
Nessuno ha sentito niente, come se sapesse pure gli orari in cui poteva agire indisturbato. 
Non è da prendere alla leggera, questa persona è astuta, controlla ogni particolare.
Tutto ad un tratto mi ricordo della lettera che mi aveva dato il signor Williams quando sono uscita di casa, scendo all’ingresso e dall’appendiabiti prendo la borsa, la apro e predo la lettera.
La apro e tiro fuori il biglietto:
 
 “Alla fine di tutto qualcuno morirà”.
 
Fa sul serio, forse dovrei proprio fare qualcosa prima che metta in mezzo Alexander…si, ho deciso, chiamerò la polizia.
Proprio nello stesso momento in cui afferro il telefono per chiamare la polizia esso squilla, è Alexander.
 
«Alex? Tranquillo sono arrivata a casa».
 
Dall’altro lato silenzio.
 
«Alexander… ci sei?».
 
Dall’altro lato del telefono ancora silenzio, non si sente nemmeno il frastuono della musica, quindi non è al pub. 
Guardo l’orologio e mi ricordo che oggi è il giorno in cui solitamente va a fare rifornimento per il pub, magari è in macchina e gli è partita la chiamata. 
Stacco ma il telefono squilla nuovamente, è di nuovo Alexander.
 
«Alex?».
 
«Mamma!».
 
Il tono di Alexander è spaventato, lo sento ansimare… piange.
 
«Alexander, che succede?».
 
«Mamma ti prego, stai attenta!».
 
«Di cosa stai parlando?».
 
«Mamma, mi ha preso… è qui davanti a me».
 
«Chi è?».
 
«Sono bendato, non posso vedere il suo volto, mamma ti prego. Non preoccuparti per me, pensa a te. Chiama la polizia».
 
Un rumore, uno schiaffo.
 
«Niente polizia o tuo figlio muore».
 
Non riesco a capire di chi sia la voce, non l’ho mai sentita. Però ora sono sicura, è un uomo!
 
«Non toccare mio figlio, lurido verme».
 
«Niente polizia!».
 
Stacca la chiamata, ha preso Alexander. Inizio a piangere, inizio ad urlare. 
Non posso rischiare che uccida Alexander, lui è l’unica cosa che mi è rimasta… io ho bisogno di lui nella mia vita! 
Me la devo sbrigare io, non chiamerò la polizia ma non me ne starò nemmeno con le mani in mano.
Corro in camera da letto e tiro fuori la pistola dal comodino, da oggi lei sarà la mia nuova amica. Metto la pistola nella borsa. Non posso andare a coricarmi sapendo che mio figlio è nei guai per colpa mia. Ho sempre fatto tutto per evitare che gli succedesse qualcosa ed ora, per colpa mia, lui rischia la morte. 
Non riuscirà nel suo intento, non può averla vinta, non così facilmente.

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