Cane da guardia

di LeanhaunSidhe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Piccola e grande ***
Capitolo 2: *** L’eco della magia antica ***



Capitolo 1
*** Piccola e grande ***


Un cenno ed ascolterà, una parola ed arriverà: un comando e sbranerà.

Una farfalla dai colori sgargianti le era volata davanti, sfuggendo alle dita paffute, di bambina.

Sbattendo lentamente le ali, si era posata su un fiore che, timido, si affacciava sulla neve fresca. I petali, di un tenue rosa, si confondevano nel bianco, proteggendo i pistilli dorati.

Lei piccola si era tuffata tra i cristalli bianchi per afferrarla prima che sparisse. Emise un piccolo grido di gioia: c'era riuscita! La neve fresca, attorno a lei, era ricaduta con uno sbuffo. Tirandosi a sedere, persa nel cappotto rosso, aveva fatto calare indietro il cappuccio con uno scatto della testa, soffiando su una ciocca di capelli biondi che le impediva la visuale.

Poi, sorridente, aveva aperto le mani trovandole, con sommo disappunto, del tutto vuote.

La farfalla che rincorreva volava a zig zag nell'aria pungente, le ali azzurre dai riflessi dorati che si allontanavano, mentre i cristalli di neve ci passavano attraverso.

La bambina l'aveva seguita senza riflettere, perdendosi nella fitta boscaglia di rami nodosi e scuri, che impedivano al sole di filtrare. La farfalla si era spenta velocemente, lasciandola sola, tra i versi di animali che non conosceva e alberi le cui radici erano molto più alte di lei.

Se fosse tornata indietro, forse non sarebbe accaduto nulla. Fuori c'era il sole, le braccia di suo padre. Invece, spinta da un richiamo che non capiva, avanzò, penetrando ancora nel fitto di quel luogo strano e privo di luce. Non aveva paura. Camminò e camminò ancora. All'improvviso, sul suo viso si dipinse la meraviglia. Ne aveva trovate tantissime: tutte simili alla farfalla che cercava, quella che suo padre non vedeva... o fingeva di non vedere, per prenderla in giro.

Si avvicinò lentamente ad una, per intrappolarla tra le dita a coppa. Non riuscì però a terminare l'opera. Una mano grandissima aveva bloccato la sua. Spostò lo sguardo oltre, a seguire la linea del gomito, poi il braccio fino alla spalla ed infine lo vide. C'era un uomo grandissimo, più alto e massiccio di suo padre, avvolto in una corazza bianca. Aveva un viso pallido come il metallo di cui era vestito e luminoso, calmo, senza espressione. I suoi occhi erano magnifici ed azzurri come le ali delle farfalle che gli volavano intorno. La piccola li guardò a lungo. Indicò quelle iridi e poi le ali delle farfalle.

"Perchè sono dello stesso colore?"

Il cavaliere aveva una voce profonda, più di quella di suo padre. Sembrava fosse uscita dall'acqua e dalle caverne.

"Perchè siamo creature composte della stessa magia."

Si era chinato lentamente, a ghermirla con le sue braccia troppo grandi e robuste, a prenderla in braccio, sollevarla, portarla via. La piccola sentì il profumo del suo mantello. C'era la tormenta, e l'acqua, e l'eco delle maree.

"Perchè mi porti via?"

Pigolò piano, dispiaciuta per essere stata sottratta a quel posto così bello. In due passi, erano all'esterno della foresta.

"Perchè le anime dell'aria sono pericolose per i cuccioli dell'uomo."

Si girò tra le sue spalle possenti, cingendogli per quanto poteva il collo ed indicando le farfalle. Gli chiese se fossero quelle le anime dell'aria. Poggiandola a terra, il gigante disse sì.

"Devi stare attenta alle anime che quelli della tua famiglia non possono vedere."

La bambina aveva sbattuto le palpebre. Aveva ancora le iridi di suo padre. Presto, le avrebbe avute come le sue. Maledì quel giorno, quando sarebbe arrivato. Era un cucciolo d'uomo curioso, che non aveva paura. Era come lui da giovane, eoni fa, ed era un problema.

"Ma tu le vedi come me?"

Stava per andarsene, quando quella domanda lo trattenne. Annuì, le aveva già dato le spalle.

Dopotutto, la metà di sangue che non apparteneva alla dinastia era la sua possibilità di liberarsi.

Si bloccò, la guardò ancora, piccola e fragile ma troppo simile a lui. Si sedette nella neve, a gambe incrociate, mettendosela sopra, perchè non soffrisse a causa del freddo.

"Tu le vedi perchè io e la tua dinastia condividiamo un patto da generazioni. Le vedrai sempre di più."

La bambina s'era accoccolata di più al metallo della sua corazza, abbracciandolo stretto.

"E' qualcosa che ci rende uguali?"

Avrebbe dovuto dire che no, non erano affatto uguali. Erano separati dalla corruttibilità del tempo, dalla potenza delle armi, del sangue e della natura. Invece, lesse nella sua anima e ne fu placato, l'ennesima volta, folle, come da ogni primogenito di quella maledetta dinastia, come la prima che lo aveva ingannato, obbligandolo. La strinse con una mano anche lui, per quanto potesse senza farle male. Lei era diversa da quella strega. Era luminosa, piccola e fragile. Pure con le zanne, andava protetta.

"Sì: è qualcosa che ci rende uguali."

Poche ciocche pallide sfuggirono al suo elmo, che gli copriva tutta la fronte ed il naso fino alla punta. Se ne privò, mostrando il viso perfetto. Quella era l'ultima possibilità che aveva di sciogliere quel legame e tornare libero. Gli sarebbe bastato schioccare le dita e prendersi quella vita. Ne morivano tanti di cuccioli scappati alle cure dei genitori. La guardò meglio. Era troppo luminosa, piccola e fragile. Non era come quella strega. In lontananza, sentiva l'odore del padre che, agitato, la cercava. Aveva poco tempo. La scosse appena. I cuccioli si addormentavano presto, se stavano troppo fermi.

"Ascolta, tornerò presto a farti visita ma tu, ora, devi tornare tra i tuoi simili."

La rimise per terra, indicandole la via di casa. La vide stropicciarsi gli occhi col pugno chiuso, assonnata.

"Come mi troverai?"

Ne udì la voce bassa, pacata, il pigolio di un uccellino. Il gigante bianco sospirò, stanco. Dopotutto, da solo aveva deciso di prolungare quella condanna di un'altra generazione.

"Fammi un cenno: ti troverò. Chiamami e verrò da te."

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Capitolo 2
*** L’eco della magia antica ***


Il potere, per una donna, deve passare per le mani di un uomo

❄️❄️❄️

Le avevano ripetuto così tante volte quali che fossero i suoi obblighi e doveri, da chiedersi che senso avesse essere parte di una famiglia nobiliare. Ormai era cresciuta e doveva scegliere: sacerdotessa o moglie. Altro non le poteva essere concesso. Al contrario, doveva ritenersi fortunata: a quante donne, nelle sue condizioni, sarebbe stato possibile decidere come vivere? Serrò le labbra sottili, incrociando la propria immagine riflessa nello specchio ovale sopra la toletta di legno intarsiato. Il proprio volto, livido di rabbia, occultava la sua reale bellezza. I lunghi capelli corvini scendevano in onde morbide lungo le spalle. Si mossero in fretta mentre afferrava lo specchio per la cornice, scardinandolo dal resto del mobile. Lo gettò sul pavimento di cotto con stizza. Fissò altera i frammenti di vetro dove la sua immagine, più piccola ed ancora perfetta, si ripeteva decine di volte in un intarsio caotico e frastagliato. In ogni tessera di quel mosaico scomposto alzava e riabbassava il petto ancora fasciato dal corsetto, fino a normalizzare il respiro. Una volta calma, ci passò i piedi sopra, frantumandoli ancora. Desiderava ridurre tutto in polvere. Come quel destino imposto che le stava stretto e le aveva bloccato in gola il boccone durante il pranzo, quando suo padre le aveva comunicato che presto la sua vita sarebbe cambiata per davvero. Rimasta sola nelle proprie stanze, quel pomeriggio, aveva raggiunto come una bambola vuota le finestre dove, oltre il giardino, lo sguardo poteva perdersi dopo la città, fino alle foreste e poi ancora sui picchi delle montagne. C’era il verde delle conifere ed il bianco del gelo. La neve era caduta solo al mattino ed il sole, in certi punti, la faceva scintillare come un manto di polvere di cristallo.

 

Se fosse nata maschio, come primogenito, avrebbe potuto scegliere se e chi, quando e come sposarsi. Avrebbe potuto guidare un esercito, stringere alleanze; oppure istruirsi, in modo che nessuno si prendesse la briga di ricordarle che, come donna, la sua intelligenza era inferiore. Su quello, soprattutto, era decisa a mettere a tacere. Non erano bastate le bacchettate sulle dita del precettore a convincerla del contrario. Semplicemente, lei confondeva il latino perché, a volte, caratteri e parole si mescolavano nella sua mente con quelli dell’altra lingua, quella perduta, che la sua balia e alcune delle serve originarie delle regioni più remote le avevano insegnato di nascosto, a servirsene per comunicare solo con loro. Presto, le avrebbero mostrato anche come usarla per i veri scopi per cui era stata creata. Tra quelle donne, nessuno l’aveva mai chiamata inferiore. Al contrario, sostenevano che era portata, uno scempio sprecare il suo potenziale.

Aveva messo la pesante mantella di pelliccia sulle spalle. C’erano passaggi segreti che partivano poco dopo i corridoi della sua stanza e conducevano all’esterno. Solo lei li conosceva, neppure suo padre, tanto meno le guardie. Si affacciò alla porta della camera e si guardò attorno. I passi del soldato di ronda si avvicinavano. Richiuse la porta in fretta, contando i secondi nell’attesa che la guardia si allontanasse. Quando tutto fu silenzio, aprì e si sporse di nuovo, controllando di essere davvero sola. Allora, si mosse in fretta, silenziosa come un’ombra, di corsa. Tastò i mattoni sulla parete di pietra viva che sapeva avrebbero azionato il meccanismo e rivelato l’apertura che cercava. In un attimo, fu inghiottita dal buio rassicurante di quel vicolo scavato e silenzioso. Percorse di fretta il corridoio che costeggiava la sala del trono per poi collegarsi all’esterno. Conosceva a menadito anche il numero, la lunghezza e la direzione dei passi. Li aveva imparati presto, per non essere scoperta. La sua balia ne aveva segnato la sequenza esatta nei messaggi nascosti che le passava e lei doveva memorizzare e poi bruciare. Li ripeteva sicura, mentre la carta bruciava nelle fiamme alte del camino, sempre acceso in quelle giornate invernali. Non le mancava il chiarore della luce mentre si addentrava in quel cunicolo. Attraversarlo, era come morire per poi rinascere all’esterno. Non appena poté oltrepassare l’uscita del passaggio, l’odore della neve appena caduta le carezzò le narici. Respirò sollevata, muovendo celere i passi che l’avrebbero condotta prima al sentiero e da li nella foresta. Per quelle poche ore, aveva voglia di dimenticare ogni suo compito, senza decidere cosa diventare: se sacerdotessa o moglie. Era troppo giovane. Bramava solo essere libera.

Si guardò indietro più volte mentre il piede percorreva ora esitante il tracciato ove la neve era più bassa. Evidentemente, contadini e mercanti, quanti cioè avevano bisogno del sentiero, avevano provveduto almeno in parte a ripulirlo, almeno per i primi tratti. Si strinse appena nel mantello ma indietro, così presto, non sarebbe tornata. Ogni posto, in quel momento, sarebbe stato meglio della prigione dei suoi appartamenti privati a palazzo. Sapeva che, dopo mezzo chilometro, la strada si sarebbe insinuata nella foresta, alla compagnia ombrosa di pini e conifere secolari. Più avanti, la vegetazione fitta spariva per far posto ad un piccolo lago circondato nella stagione estiva da fiori dai toni pastello. In quel periodo in cui l’inverno spadroneggiava ancora, al massimo, avrebbe potuto incontrare qualche passero che zampettava nella neve, alla ricerca di uno sparuto seme o minima fonte di nutrimento. Diventava sempre più freddo quando ci si avvicinava a quel posto ed i versi di uccelli, il frusciare di animali, arrivava più ovattato. C’era una pace silenziosa ed inquieta che, non sapeva ben definire come, riusciva sempre a tranquillizzarla. Era come uno specchio per la sua anima. Solo, quello non avrebbe mai avuto il coraggio di romperlo. Percorso il bosco, emerse dai rami nodosi come una apparizione divina, con la pelle lattea e le labbra rosse atteggiate ad una infantile meraviglia. I suoi passi scricchiolarono leggeri sui ciottoli sepolti solo in parte dalla neve che era quasi del tutto assente in prossimità della riva. Si chinò e tuffò le dita esili nell’acqua gelida, ritirandole poi di scatto, nell’accorgersi delle striature rosse dove era stata colpita dalla verga implacabile del suo insegnante. In un moto di pudore che non seppe spiegare, aveva nascosto una mano nell’altra, al petto, sotto la mantella. Il suo sguardo atterrito rivolto verso una decina di metri più in la, dove un grosso animale dalla pelliccia chiara sonnecchiava uggioso, dopo aver alzato il muso nella sua direzione. Nei nervi tesi per quell’uscita che non poteva permettersi, le era sicuramente parso di avere di fronte un essere senziente, che avesse scrutato con interesse i suoi lividi e tentasse di carpire i suoi segreti. Doveva averlo fissato spaventata. Per tutta risposta, invece, il lupo si era girato. Aveva spalancato si le fauci mostrando zanne affilate ma solo per uno sbadiglio. Si era stirato sulle zampe davanti ed accucciato di nuovo davanti all’acqua, chiaramente interessato più al lago ed al suo moto placido che a lei. Evidentemente, la carestia di quel periodo poteva spingere animali che di solito non se ne cibavano a cercare prede perfino in uno specchio d’acqua. Doveva essere così. Quando ha fame, probabilmente, un lupo si arrende a mangiare persino pesce.

Tranquillizzata dalla sua analisi sull’operato di quella creatura, la principessa aveva smesso di occuparsi dell’animale, per riprendere a gustarsi la sua agognata ora di libertà. Si era seduta tra i ciottoli grigi e bianchi, rilassata dalle placide onde. Sul fondo scuro del lago, le sembrava di vedere le sagome nere ed affusolate di qualche grosso pesce che tentava di affiorare verso la superficie. Eppure, quella volta non riusciva ad essere del tutto serena. Da una parte, era quasi un fastidio condividere quel posto con quell’animale. Lo controllò ancora, incrociando di nuovo il suo sguardo, stavolta non di sfuggita. Il lupo la fissava davvero, con quelle iridi talmente azzurre e scure che non sembrava quasi un semplice animale. Senza riflettere, la giovane afferrò un sasso al proprio fianco e lo lanciò nella sua direzione. Non voleva colpirlo ma solo spaventarlo. Debole com’era, la pietra cadde molto prima di dove lei sperava. Ottenne però di restare sola, come sperava. Il lupo aveva seguito indifferente la traiettoria della pietra fino a che questa cadde con un piccolo tonfo. Poi, si era alzato mollemente per incamminarsi nella boscaglia. Alla giovane donna, più che un nemico minaccioso, era parso uno che si alzasse sbuffando per assecondare il capriccio di un bambino. Per una frazione di secondo, addirittura, si era sentita in colpa, prima di ricordare il perché del proprio malumore e tutti i suoi guai. Rimase in quel luogo fino a che le dita aranciate del sole non iniziarono ad annunciare il prossimo tramonto. Sospirando, che presto sarebbero andati a chiamarla nelle sue stanze per il pasto serale, si risolse a prendere la via del ritorno. Di nuovo, percepiva l’attenzione di quell’animale alle proprie spalle. Crucciata, aveva eseguito un mezzo giro su se stessa, prima di proseguire. Davvero, però, oltre il verde delle foglie, il bianco e grigio dei sassi e della neve, il proprio riflesso nell’acqua non c’era nulla. Del resto, era ancora presto perché potesse accorgersi che, effettivamente, lui la studiava. Eppure, già da allora, era consapevole del suo sguardo sulla schiena, che la accompagnava.
 

❄️❄️❄️

Poche ore dopo, quella sera, impegnata in un fregio più grazioso col cerchio del ricamo in grembo insieme alla sua balia, che le teneva compagnia, raccontava della sua personalissima gita, sollevata dalle risate dell’altra donna. Le fiamme arrossavano lievemente gote e mani nel freddo più pungente della sera, mentre la più anziana, ad un certo punto, s’era fatta più coinvolta e pensierosa, mano a mano che lei aggiungeva particolari al suo resoconto. Poi, l’anziana donna aveva steso le labbra in una piega strana. Aveva posato il suo ricamo su una sedia accanto a loro, dove matasse dei colori più vivi e disparati troneggiavano alla rinfusa.

“Principessa, voi, in quel posto, è meglio che non ci torniate.”

Aveva pregato e scongiurato la ragazza, perché ascoltasse la sua preghiera, fino a serrarle la mano priva dell’ago nelle proprie, grezze ed indurite dai lavori manuali.

“Perché mi dici questo? Sai che è l’unico posto dove ho un po’ di respiro.”

L’anziana, però, aveva negato. Si era guardata attorno, come a cercare conferma che, in quella stanza dove c’erano solo loro due, potessero essere sole veramente.

“Quel posto non da pace solo a voi ma anche a loro. Con tutta probabilità, dotata come siete, li attirate anche. Siete ancora troppo inesperta per averci a che fare.”

Sapeva di aver parlato troppo ma ormai era un po’ che le promettevano di spiegarle qualcosa in più. Non avrebbero trattenuto a lungo la curiosità della principessa, tanto più che avrebbe potuto essere utile una persona così capace e di quel rango, esperta nelle loro arti, dalla loro parte. Allora, le accennò di raggiungerla vicino alle finestre. Quando la principessa l’assecondò e le fu a pochi passi, indicò la foresta che costeggiava il lago. Le precisò che, da quelle parti, ne passavano sempre tanti, di loro. Alcuni, ci dimoravano per brevi periodi per rinfrancarsi dal loro solito peregrinare. Almeno quelli meno pericolosi. Si pose il dito davanti all’indice, a mostrare che erano segreti che avrebbero per sempre dovuto restare tali. Poi, aveva iniziato a raccontare.

❄️❄️❄️

Tra le cose strane che il padre degli dei ha abbandonato alla fine della creazione ci sono certe creature, troppo cattive per il paradiso e troppo buone per l’inferno che, onestamente, non sapeva dove collocare. Allora, le abbandonò sulla terra. Esse camminano silenziose: sfuggono furtive lo sguardo degli uomini e non amano intromissioni nei loro affari. Si occultano sotto molteplici forme: alcuni sono esseri impalpabili, altri hanno diverse sembianze agli occhi umani. In ogni caso, sempre, sono fonte di grande potere.

❄️❄️❄️

La principessa, allora, s’era fatta più attenta. Un tarlo fastidioso le si era appena insinuato nel cuore.

“In che senso: potere?”

Si era protesa maggiormente verso la serva fedele: pendeva dalle sue labbra, dalle sue parole.

La sua balia, allora, aveva inarcato le sopracciglia, incerta se, per la prima volta, avesse sbagliato a fidarsi di quella piccola nobile, curiosa in un modo che non aveva mai dimostrato.

“Il potere di dominare gli elementi: acqua ed aria, fuoco e terra. Scatenarli in modo tale da poter rovesciare troni ed eserciti.”

Aveva trattenuto fiato e parole strette sulla punta della lingua, serrate tra i denti.

“Per proteggersi, per proteggere.”

Aveva esalato infine, per chiarire per cosa tutte loro si muovevano.

La principessa aveva annuito, accomodante. Aveva modi raffinati, di nobile e di bambina. La balia la guardò ancora, in cuor suo sperò che non fosse l’egoista che mai, prima d’allora, aveva ipotizzato. Per quella sera, non avrebbe raggiunto altri particolari. Era tornata al caminetto, attizzando il fuoco dove le fiamme si erano abbassate, a smuovere le braci nere e rosse che avrebbero colorito quella nottata di fine inverno.

“A cosa pensate, principessa?”

Le aveva allora domandato, avendola scoperta taciturna e meditabonda alle sue rivelazioni, come non si aspettava. La principessa pareva aver occhi solo per il suo cucito, dove ricami rosso porpora serpeggiavano spigolosi sullo sfondo avorio. D’un tratto, una parola di troppo era sfuggita alle sue labbra sottili, mentre si portava il dito punto dall’ago alle labbra, a tamponare una stilla di sangue prima che imbrattasse il suo lavoro. Era troppo impetuosa per mansioni delicate come quelle. Aveva poi gettato il ricamo sulla sedia, stizzita. In quei frangenti era del tutto diversa dalla persona posata che doveva apparire alla corte. Aveva alzato lo sguardo verso la donna che la accompagnava e la osservava come se, ancora, non la riconoscesse veramente.

“Dimmi, quando la libertà smette di essere un desiderio legittimo e diventa un capriccio?”

La balia aveva aperto e chiuso la bocca senza risponderle, probabilmente, non avendo a pieno compreso il senso della sua domanda. O, forse, aveva capito troppo bene: che lei agognava così tanto essere libera che avrebbe usato ogni mezzo concesso, anche quel potere che spettava per altri scopi, sicuramente, perché la sua libertà non valeva meno di quella delle altre persone e sottostare non era per lei. Lei voleva essere libera, senza passare per le mani di un uomo. Ciò che la fanciulla ancora non sapeva era che, per lei, il potere sarebbe passato per le mani di qualcosa d’altro.

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